Nessun Alibi

di Soul of Paper
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bloccati ***
Capitolo 2: *** Udienza Preliminare ***
Capitolo 3: *** Rinvio a Giudizio ***
Capitolo 4: *** Risvegli ***
Capitolo 5: *** Rischi del Mestiere ***
Capitolo 6: *** La Colpa ***
Capitolo 7: *** La Quotidianità - Parte Prima ***
Capitolo 8: *** La Quotidianità - Parte Seconda ***
Capitolo 9: *** Dipendenza ***
Capitolo 10: *** Un Dono Inatteso ***
Capitolo 11: *** La Realtà ***
Capitolo 12: *** Una Vita a Metà ***
Capitolo 13: *** Un Giocattolo ***
Capitolo 14: *** Cocci ***
Capitolo 15: *** Il Sangue ***
Capitolo 16: *** La Vittoria di Pirro ***
Capitolo 17: *** Lasciarsi Andare ***
Capitolo 18: *** Dirsi Addio ***
Capitolo 19: *** La Verità ***
Capitolo 20: *** Venirsi Incontro ***
Capitolo 21: *** Una Vita Nuova ***
Capitolo 22: *** La Fedeltà ***
Capitolo 23: *** Bugie ***
Capitolo 24: *** Squadra ***
Capitolo 25: *** Ricercata ***
Capitolo 26: *** La Gelosia ***
Capitolo 27: *** L'Occhio ***
Capitolo 28: *** Avvicinamenti ***
Capitolo 29: *** Il Limite ***
Capitolo 30: *** La Fiducia ***
Capitolo 31: *** Opprimente ***
Capitolo 32: *** Senza Via D'Uscita ***
Capitolo 33: *** Allo Scoperto ***
Capitolo 34: *** Sotto Processo ***
Capitolo 35: *** Il Giudizio ***
Capitolo 36: *** L'Opinione Pubblica ***
Capitolo 37: *** La Passione ***
Capitolo 38: *** Chiaroscuro ***
Capitolo 39: *** A Nudo ***
Capitolo 40: *** Vite Parallele ***
Capitolo 41: *** Tensione ***
Capitolo 42: *** Partenze e Ritorni ***
Capitolo 43: *** Eredità ***
Capitolo 44: *** Confidenze ***
Capitolo 45: *** Contatti ***
Capitolo 46: *** La Pantera, il Pitbull ed il Toyboy ***
Capitolo 47: *** La Dignità ***
Capitolo 48: *** Pali e Paletti ***
Capitolo 49: *** La Famiglia - Parte Prima ***
Capitolo 50: *** La Famiglia - Parte Seconda ***
Capitolo 51: *** La Famiglia - Terza ed Ultima Parte ***
Capitolo 52: *** La Costruzione di Un Amore ***
Capitolo 53: *** La Paura ***
Capitolo 54: *** Il Coraggio ***
Capitolo 55: *** Il Ghiaccio ***
Capitolo 56: *** Figlia del Demonio ***
Capitolo 57: *** Le Frecce ***
Capitolo 58: *** La Vecchia Imma ***
Capitolo 59: *** Lividi ***
Capitolo 60: *** Ossa ***
Capitolo 61: *** Pelle ***
Capitolo 62: *** L'Assalto ***
Capitolo 63: *** La Rabbia ***
Capitolo 64: *** Amore e Psiche ***
Capitolo 65: *** In Azione ***
Capitolo 66: *** Il Peccato Originale ***
Capitolo 67: *** Contrappasso ***
Capitolo 68: *** La Giustizia ***
Capitolo 69: *** L'Ultima Parola ***
Capitolo 70: *** Calore ***
Capitolo 71: *** I Calogiuri ***
Capitolo 72: *** Senza Fiato ***
Capitolo 73: *** Inquilini ***
Capitolo 74: *** Crescere ***
Capitolo 75: *** Cuccioli ***
Capitolo 76: *** Breccia ***
Capitolo 77: *** Morti e Feriti ***
Capitolo 78: *** Sentenze ***
Capitolo 79: *** La Resa dei Conti ***
Capitolo 80: *** La Vocazione ***
Capitolo 81: *** Il Parto ***
Capitolo 82: *** La Fame ***
Capitolo 83: *** Fratelli e Sorelle ***
Capitolo 84: *** Rinascita ***



Capitolo 1
*** Bloccati ***


Nessun Alibi

 

Capitolo 1 - Bloccati

 

Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

 

“Me la sta mettendo contro, capisci? Contro! Per carità, è sempre stata una cocca di papà -  e ci credo! Comodo quando tocca sempre a te fare la stronza, mentre lui le concede tutto quello che vuole! - ma ora l’ha convinta che se ci separiamo è per colpa mia, che io l’ho tradito, anche se non ha prove in mano. E io scema che quando ho scoperto il suo di tradimento l’ho coperto e non ho detto niente per non farla soffrire. E mo che faccio, eh?”

 

Te lo direi pure che fare, magari, se mi lasciassi parlare - pensò Imma con un sospiro, mentre passava l’ennesimo fazzoletto a Diana, che ci si soffiò il naso rumorosamente, allungando la mano per depositarglielo sulla scrivania e bloccandosi all’ultimo secondo, dopo essere stata fulminata da un’occhiataccia tra le migliori del suo repertorio.

 

Ultimamente Diana sembrava averla scambiata per la sua psicologa personale e approfittava di ogni momento morto per sfogarsi. E, visto che Imma nella sua vita era sempre stata un po’ sfigata, di momenti morti ce n’erano stati parecchi, essendo ormai l’ultima settimana di luglio: la procura si stava inesorabilmente svuotando per le vacanze estive e tutta Matera sembrava aver preso quel ritmo molle e sonnolento tipico del periodo.

 

Il rintocco di nocche sulla porta le suonò come una benedizione.

 

“Avanti!”

 

“Dottoressa!”

 

La voce concitata di Calogiuri la riscosse immediatamente dal torpore e, quasi automaticamente, si ritrovò in piedi accanto alla scrivania, mentre lui la raggiungeva con rapide falcate ed uno sguardo negli occhi talmente intenso, quasi febbrile, da provocarle un brivido lungo la schiena ed una scossa elettrica - meglio non specificare dove.

 

Per un attimo si dimenticò di tutto - la procura, Diana e le sue mille beghe, la logica e il buon senso - e sentì, come se fosse successo il giorno prima, il sapore di due labbra sulle sue, il peso di braccia forti che la stringevano a sé, spalle vigorose, giovani, che si flettevano sotto le sue dita.

 

Ma Calogiuri si bloccò repentinamente a un passo da lei e allungando il collo, quasi in un sussurro, come se dovesse farle un’altra confessione d’amore, sganciò la bomba.

 

“Hanno trovato dei resti umani. In uno dei cantieri di Scaglione. Erano cementati nelle fondamenta. E indovinate chi è l’architetto che ha firmato il progetto...”

 

Ogni fantasia volò fuori dalla finestra, mentre un altro tipo di scarica elettrica la colpì dritta in petto e benedisse il suo puntiglio, che Vitali aveva definito come eccesso di zelo, con un tono che le faceva intuire la ritenesse paranoica. Puntiglio che l’aveva portata a richiedere di scavare in tutti i cantieri ancora aperti facenti capo all’impresa di Scaglione, dando priorità a quelli dove il progetto era dello studio di Bruno.

 

“Il cantiere è aperto da un paio d’anni, ma hanno dovuto bloccare tutto poco prima dello scorso natale, per accuse di violazione paesaggistica. Di recente hanno avuto i permessi dalla regione e hanno ripreso i lavori.”

 

“Dopo l’elezione di Lombardi, scommetto.”

 

“Ma non vi ho ancora detto il meglio,” le sussurrò con un sorrisetto, facendo una pausa quasi a voler incrementare la suspense.

 

Se lo avesse fatto chiunque altro, Imma si sarebbe innervosita, gli avrebbe intimato di tagliare corto e darsi una mossa, che non avevano tempo da perdere, pagato dalle tasche dei contribuenti, peraltro.

 

Invece si ritrovò a sorridergli in modo praticamente speculare, godendosi quel gioco del gatto e del topo che andava avanti ormai da mesi, anche se non avrebbe più saputo dire chi fosse il cacciatore e chi la preda.

 

“Il cantiere si trova a Marina di Ginosa.”

 

Non le avrebbe potuto fare regalo più bello, nemmeno se si fosse presentato con due dozzine di rose rosse a stelo lungo, e dovette trattenere a fatica l’impulso di abbracciarlo.

 

“Pensate anche voi a quello che penso io?” le domandò con gli occhi che brillavano e un sorriso da denuncia per detenzione di arma impropria.

 

“Vaccaro,” pronunciò, secca, esplicitando l’unico di quei pensieri comuni che fosse lecito esplicitare, soprattutto davanti a Diana.

 

Tanto a loro era sempre bastato uno sguardo per capirsi, e questo non era mai cambiato, neppure ora che...

 

“Diana, cancellami tutti gli appuntamenti per oggi pomeriggio,” esclamò perentoria, scacciando dalla mente i pensieri pericolosi, per poi puntargli un dito a due centimetri dal petto, prima di avviarsi verso la porta, “prepara la macchina, tra cinque minuti ti voglio pronto al volante. Veloce, Calogiuri!”

 

Non le serviva vederlo per percepire il sorriso dietro quel “Agli ordini, dottoressa!” che la raggiunse fino al corridoio.

 

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“Si tratta sicuramente di un maschio, parrebbe caucasico ma ci vorrà il DNA per stabilirlo con certezza. Difficile risalire alla data precisa di morte, sia perché alcune parti sono state conservate nel cemento, sia perché il corpo presenta diverse lesioni corrosive. Per il tipo di acido usato, di nuovo bisognerà attendere le analisi.”

 

“Quindi hanno provato a scioglierlo nell’acido?” chiese Calogiuri, che faceva luce con una torcia nella cavità aperta dalla gru nelle fondamenta, dove si trovava un insieme di membra umane che era difficile pensare fossero state un tempo una persona.

 

“Presumibilmente, ma devono aver rinunciato, perché solo alcune parti del corpo mancano all’appello. La testa, le mani, i piedi e vi saprò dire meglio che altro una volta effettuata la ricostruzione.”

 

“Forse qualcosa li ha portati a doverlo seppellire in fretta e furia. Qualcosa tipo l’arresto di Romaniello, magari,” pronunciò Imma, quasi tra sé e sé, pur sapendo che non c’era alcuna certezza che si trattasse davvero di Vaccaro, che fare congetture era pericoloso. Ma il suo istinto le diceva che aveva ragione, che avevano finalmente trovato la benedetta pistola fumante.

 

“Voglio un’analisi del DNA e un confronto con quello di Vaccaro prima di subito, Taccardi. E non mi può proprio azzardare alcuna ipotesi sulla data del decesso? Anche con un ordine di grandezza molto indicativo.”

 

“Dottoressa, le ho già detto che c’è da aspettare l’autopsia. Ma, visto che altrimenti non mi lascerà in pace, le posso dire che probabilmente il cadavere potrebbe essere qui da un periodo che va tra sei mesi e un anno, a giudicare sia dallo stato delle ossa, sia dall’avanzamento della decomposizione delle parti non cementate. Ma in casi come questo azzardare ipotesi è come cercare di azzeccare un terno al lotto.”

 

Rassegnata a non ottenere altro, almeno per il momento, Imma si congedò da Taccardi e si avviò con Calogiuri verso la vettura di servizio.

 

“Hai ancora un po’ di tempo, Calogiuri? Lo so che si sta facendo tardi ma vorrei interrogare i vicini, capire se hanno notato qualche movimento strano nel cantiere in quest’ultimo anno...”

 

Calogiuri si bloccò, incrociando il suo sguardo, e Imma sentì l’ennesimo brivido percorrerle la spina dorsale, che non fece che acuirsi quando lui si avvicinò quasi impercettibilmente e le rispose, con un altro sorriso, dritto negli occhi.

 

“Non vi preoccupate, dottoressa, lo sapete che non ho fretta.”

 

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“Ah, e quando torniamo a Matera voglio che rintracci tutti i responsabili del cantiere e ti fai dare l’elenco completo di chi ci ha lavorato fino alla chiusura, anche se difficilmente questo bel lavoretto l’avrà fatto qualcuno che è a libro paga. E ti fai dare i tabulati telefonici di tutti e ricontrolli le telefonate intercorse tra Bruno, Scaglione e Romaniello nel periodo tra l’omicidio di Aida e l’arresto di Romaniello.”

 

“Va bene. C’è altro?”

 

Il tono di Calogiuri le pareva uno strano ibrido tra il divertito e il nervoso. Imma fece segno di no col capo e nella vettura calò un silenzio quasi assordante, mentre una corrente densa e spessa di qualcosa di pericoloso si insinuava, riempiendo ogni spazio.

 

I silenzi tra loro non erano mai stati un problema, anzi. Da quando si conoscevano avevano passato interminabili minuti, per non dire ore, in silenzio, l’uno accanto all’altra, su quella macchina e in procura. Una delle cose che inizialmente l’aveva colpita di più dell’appuntato, ora maresciallo, era proprio la sua timidezza, il suo essere così schivo, di poche parole - almeno fino a qualche tempo fa - il suo non tentare di riempire i silenzi con dialoghi senza senso, tanto per fare conversazione, il suo non sgomitare o cercare di farsi notare.

 

In un mondo fatto di rumore, di gente che parla tanto senza dire in realtà niente, rifugiarsi per qualche ora in auto con Calogiuri era stato per lungo tempo una specie di oasi di pace, lambita da quel silenzio che era stranamente confortante, carico di una familiarità e di un’intesa in gran parte inspiegabili, ma proprio per questo preziose.

 

Eppure ora quello stesso silenzio le pareva quasi opprimente, tanto da aver cercato in ogni modo di riempirlo parlando di qualsiasi cosa le passasse per la testa, dal meteo ai casi ancora aperti, fino ad aver esaurito gli argomenti che non fossero in qualche modo pericolosi.

 

Dopo quella… quella confessione impossibile da definire con qualsiasi aggettivo che le rendesse giustizia, per non parlare di quello che era successo subito dopo, coronamento di mesi di sogni e desideri repressi a fatica, tra loro era tornata una strana serenità, uno strano senso di pace, d’intesa.

 

Era come se entrambi custodissero un segreto, come se fossero finalmente di nuovo complici, come li aveva definiti una volta la Matarazzo, solo che ora erano veramente complici, ma di un delitto. Un delitto per il quale però, almeno lei, non riusciva stranamente a provare alcun senso di colpa, pur sapendo che fosse sbagliato e che non potevano e dovevano permettersi di andare oltre.

 

Per settimane erano andati avanti così, senza bisogno di dire nient’altro, tra sguardi e sorrisi e piccoli gesti, sembrando quasi essere tornati, almeno in apparenza, a com’erano prima della grotta dei pipistrelli, anzi, forse addirittura prima di Lolita.

 

Ma era solo una calma apparente, questo Imma lo sapeva. C’era dentro di lei la netta sensazione di trovarsi su una spiaggia poco prima che venisse travolta dalla tempesta, quando il vento si ferma, i rumori si annullano e tutto tace, in un momento di silenzio perfetto prima che si scateni il finimondo e-

 

I suoi pensieri vennero interrotti bruscamente dallo stridio dei freni e si trovò proiettata contro le cinture di sicurezza.

 

“State bene, dottoressa?” le chiese con tono preoccupato Calogiuri, incrociando il suo sguardo, “scusatemi per la frenata brusca, ma la vettura davanti ha inchiodato.”

 

Imma si limitò ad annuire, massaggiandosi una spalla ed osservando la fila di macchine davanti alla loro che, se già prima procedevano con lentezza, ora erano proprio completamente ferme.

 

Minuti interminabili trascorsero senza che la fila si muovesse di un solo millimetro. Troppi anche per il traffico di rientro dal mare di venerdì sera.

 

“Ma che succede?”

 

“Provo a chiamare i colleghi, magari hanno notizie, deve esserci stato un incidente,” propose Calogiuri, afferrando il cellulare.

 

Imma riuscì solo a cogliere parole come camion ribaltato, corsie bloccate e almeno cinque chilometri di coda, prima che uno strano senso di agitazione si impossessasse di lei, accompagnato dalla sensazione di avere dell’ovatta nella gola.

 

“A quanto pare è tutto bloccato su entrambe le corsie di marcia, temo che ne avremo per un po’,” proclamò Calogiuri terminata la telefonata, confermando i suoi sospetti, prima di fissarla con preoccupazione, “dottoressa, che avete? Tutto bene?”

 

“Ho… credo di avere bisogno di un po’ d’acqua, Calogiuri,” riuscì a pronunciare con voce ancora più roca del solito.

 

“Dovrei avere una bottiglietta per le emergenze, aspettate,” la rassicurò, sganciandosi la cintura di sicurezza e sporgendosi verso il sedile posteriore. Nel farlo, le loro braccia nude si sfiorarono e Imma sentì un formicolio salirle dal polso sinistro fino alla scapola, talmente forte da farle dubitare di stare avendo un infarto.

 

Se Calogiuri avesse sentito qualcosa o meno, non disse niente e si limitò a passarle una bottiglietta d’acqua, ancora fresca, grazie alla borsa termica nella quale era stata conservata. Sempre previdente e premuroso, Calogiuri, fin troppo.

 

“Grazie,” sospirò, aprendo la bottiglia e bevendone avidamente un paio di sorsate, incrociando lo sguardo di Calogiuri che deglutì visibilmente, “ne vuoi un po’?”

 

Calogiuri deglutì nuovamente e non disse niente, ma afferrò la bottiglietta che lei gli stava porgendo, sfiorandole le dita e scatenando l’ennesima scossa elettrica, per poi portarsela alle labbra in un gesto che le sembrò improvvisamente terribilmente intimo.

 

Una specie di gorgoglio interruppe il momento e il silenzio della vettura, gorgoglio che Imma realizzò con imbarazzo provenire dal suo stomaco.

 

“Avete fame? In effetti si sta facendo tardi,” commentò Calogiuri con un sorriso, prima di sporgersi nuovamente verso il sedile posteriore, “dovrei avere anche dei cracker, non è molto ma meglio di niente.”

 

Glieli porse, incurante delle proteste, e le ci volle parecchia insistenza e un “non farmi arrabbiare, Calogiuri”, per convincerlo a dividerli e non lasciarli tutti a lei.

 

Per qualche attimo mangiarono in perfetto silenzio ma i cracker, pur calmando momentaneamente il senso di fame, non facevano che peggiorarle l’arsura in gola. Con un sincronismo perfetto e quasi spaventoso, due mani si sporsero per afferrare la bottiglietta d’acqua, riposta nell’apposito vano vicino al cambio.

 

Si ritrovò con la sua mano intrappolata tra il fresco della bottiglia e il calore del palmo di Calogiuri. Deglutì saliva che non aveva più, mentre sentiva dita grandi e forti intrecciarsi nelle sue, come se fosse la cosa più naturale del mondo. E forse, in fondo, lo era davvero.

 

I loro sguardi si incrociarono nuovamente e sorrisero, fissandosi per un tempo che le parve infinito, mentre le loro mani intrecciate si stringevano, e le dita si accarezzavano in una specie di tacita promessa di un qualcosa di più.

 

Il suono di un clacson ruppe il momento: le dita di Calogiuri mollarono bruscamente la presa sulle sue e afferrarono il cambio, per ingranare la prima e percorrere il breve tratto di strada che si era finalmente liberato davanti a loro.

 

Pochi metri e poi la vettura dovette di nuovo fermarsi.

 

Attimi di silenzio e sguardi che si incrociavano imbarazzati.

 

“Allora… allora che farai per le vacanze?” le chiese, abbassando lo sguardo quasi quanto il tono di voce, tanto che per un secondo Imma dubitò di aver colto correttamente la coniugazione verbale. Non che l’avrebbe corretto in ogni caso.

 

“Vado a Metaponto, come al solito, anche se mi sa che potrebbe essere l’ultimo anno. Ormai mia figlia Valentina sgomita per andarci da sola in vacanza e mi-” si bloccò appena in tempo prima di pronunciare le parole mio marito che, per qualche strana ragione, le sembravano improvvisamente tabù, correggendosi in corsa, “e mi annoio al mare dopo un po’. E tu che pensi di fare, invece?”

 

“Beh, visto che praticamente tutta la procura sarà in trasferta a Metaponto, ci stavo quasi quasi facendo un pensiero pure io…”

 

Il tono e lo sguardo di Calogiuri erano palesemente ironici, ma la visione di lui in costume da bagno, anzi, di loro due insieme, magari su una bella spiaggetta nascosta, le invase la mente e le provocò un improvviso senso di calore. Almeno finché si ricordò che a Metaponto non ci sarebbe certo stata da sola.

 

“In realtà credo che me ne resterò a Matera.”

 

“Ma come? Ma dai, Calogiuri, già le scorse vacanze estive te le sei fatte lavorando, alla tua età dovresti svagarti, divertirti, viaggiare! Non fare come me che fino ai trent’anni il massimo che ho visto sono state Matera e provincia.”

 

“Non è che io abbia tutti questi soldi da spendere in viaggi e poi-”

 

“Ma non torni nemmeno a Grottaminarda?” lo interruppe, stupita, notando lo sguardo di lui farsi improvvisamente cupo, “che c’è?”

 

“Diciamo che i miei genitori non hanno preso molto bene la fine della mia storia con Maria Luisa...” chiarì Calogiuri e Imma si sorprese a pensare che quasi si era dimenticata dello scampato matrimonio, visto che pareva ormai appartenere ad un’altra vita, sebbene fosse trascorso meno di un anno, “e non voglio passare le mie vacanze ad evitare i loro tentativi di convincermi a rimettermi con lei, lasciare l’arma e tornare a vivere a Grottaminarda.”

 

“E allora che pensi di fare? E non dirmi lavorare tutto il tempo, se no è la volta buona che ti faccio rapporto, Calogiuri,” scherzò, forse nel tentativo di scacciare le immagini mentali che tale scenario le provocava e di nascondere cosa ne pensasse esattamente delle brillanti idee dei genitori di Calogiuri.

 

“In realtà… in realtà sto pensando di traslocare.”


“Traslocare?” squittì Imma, a causa di un nodo che sembrava serrarle definitivamente la gola al solo pensiero di un trasferimento di Calogiuri - ma perché non le aveva detto niente?!

 

Forse perché magari è per colpa tua se si vuole allontanare? Stupida che non sei altro! - le ricordò la vocina della coscienza e Imma odiò dover ammettere che non riusciva a darle torto.

 

“Sì, ho appena preso in affitto un appartamento e voglio usare le vacanze per sistemarlo. In caserma mi trovo bene, per carità, ma cominciava a starmi un po’... stretta.”

 

Imma non avrebbe saputo dire se fosse stato il sollievo nell’apprendere che Calogiuri, almeno ancora per un po’, non se ne sarebbe andato da nessuna parte - e non solo per le vacanze -  o il modo in cui aveva pronunciato quella parola, “stretta”, abbassando la voce fino a un sussurro e guardandola dritta negli occhi, ma, improvvisamente, cominciò a sentire un gran caldo.

 

Proprio in quel momento, il telefono prese a squillare. Imma si affrettò ad afferrarlo, il cuore che le finiva nello stomaco nel vedere la scritta “Amò” sul display.

 

L’innominabile.

 

“Pronto?” pronunciò, con una voce talmente roca da farsi spavento.

 

“Amò, tutto bene? Ma dove sei?!”

 

Fu solo in quel momento che Imma guardò l’orologio e realizzò che erano quasi le 21 e si era completamente scordata di avvisare a casa. Calogiuri era davvero pericoloso, troppo.

 

“Sono… sono in macchina con un… collega. Stiamo tornando dalla zona di Metaponto, ma c’è un incidente sulla provinciale ed è tutto bloccato. Non so quanto ci vorrà ancora, ma temo ne avremo per un po’. Tu e Valentina cenate pure, se non lo avete già fatto.”

 

“In realtà.. in realtà ti chiamavo per avvertirti che mi tocca andare a calcetto.”

 

“A calcetto? Ma non avevi smesso?!” gli chiese Imma, ricacciando a fatica quel senso di sospetto che ormai albergava in lei dopo la famosa cena con Ridolfi, alias Cinzia Sax. Anche perché, dopo quello che aveva combinato lei in questo ultimo periodo, chi è senza peccato…

 

“Sì, ma mi ha chiamato il Prefetto in persona per chiedermi di giocare. Uno dei difensori si è infortunato stamattina al lavoro e ora manca uno per fare numero.”

 

“Ma sarà proprio il caso che fai uno sforzo del genere, dopo tutto quello che ti è successo? Hai appena finito il mese di convalescenza! E, per quanto mi riguarda, il prefetto può pure arrangiarsi, o chiamare la moglie che tanto, per come non lavora, sarà bella che riposata.”

 

“E dai, amò, non ti preoccupare, vedrai che starò attento e starò benissimo.”

 

“Lo spero! Altrimenti ti arrangi: io mi rifiuto di farti di nuovo da crocerossina, intesi?”

 

“Sì, amò,” le sussurrò con un tono esasperato ma carico di affetto.

 

“E a che ora penseresti di tornare, tanto per capirci?”

 

“Mah… dopo la partita di solito ci mangiamo qualcosa - starò leggero, non ti preoccupare - immagino dopo mezzanotte.”

 

“Mezzanotte? Ah, però, complimenti! E Valentina dove la metti? Ha già cenato?”

 

“In realtà sta da Bea per la notte.”

 

“Da Bea?! E quando è che me l’avresti detto?”

 

“Ma no, è che.. quando ha saputo che avevo la partita ha tanto insistito e non mi sono sentito di dirle di no.”

 

“Che novità!” sospirò Imma, pensando che, fosse stato per Pietro, sua figlia sarebbe stata la ragazza più viziata sulla faccia della Terra. Felice sicuramente, per carità, ma viziata da far schifo. Le tornò improvvisamente in mente lo sfogo di Diana di quella mattina, su quanto fosse facile farsi benvolere, dicendo sempre di sì.

 

“Se non riesci a cenare prima, ti ho lasciato l’arrosto con le patate in frigo. A dopo, amò, fammi sapere se hai problemi a rientrare.”

 

“A dopo! E riguardati, mi raccomando!”

 

“Ti amo!” le sussurrò dall’altra parte della cornetta e Imma non poté fare a meno di lanciare una rapida occhiata in direzione di Calogiuri, che pareva fissare la strada con una concentrazione assolutamente encomiabile, non fosse stato per il piccolo particolare che erano completamente fermi.

 

Un istinto improvviso la spinse a chiudere di netto la chiamata, confidando che Pietro pensasse che lei avesse già riattaccato da prima che lui pronunciasse quelle due paroline che, in presenza di Calogiuri, la sua lingua si rifiutava categoricamente di ripetere. Non dopo quella confessione nel suo ufficio.

 

Il maledetto silenzio calò di nuovo come una cappa su di loro, per qualche istante che le parve interminabile. Poi, d’improvviso, si voltarono con quel sincronismo perfetto che ormai non la sorprendeva nemmeno più.

 

Gli occhi di Imma incrociarono quelli di Calogiuri e quello che ci vide le provocò una specie di dolore dolce al petto, che ultimamente associava solo a lui, misto ad un nodo in gola, che non voleva andare né su, né giù.

 

Non avrebbe saputo definirlo esattamente quello sguardo… un mix letale di affetto, dolore e rassegnazione che era peggio di una pugnalata.

 

Calogiuri era innegabilmente bello. Fin troppo bello per una come lei, già a vent’anni, figuriamoci adesso che ne aveva più di quaranta. Ma la cosa che l’aveva colpita e conquistata di più in assoluto erano proprio i suoi occhi. Occhi buoni, puliti, limpidi ed incredibilmente senza filtri. Almeno non con lei.

 

E, ogni volta che la fissava in quel modo, cosa che sembrava accadere sempre più spesso nell’ultimo periodo, si era sempre dovuta trattenere a stento dall’abbracciarlo o dal-

 

Una sensazione di calore sotto le dita la ridestò dai suoi pensieri e si accorse che, senza rendersene nemmeno conto, la sua mano destra, spinta da un impulso incontrollabile, si era sollevata fino ad appoggiarsi alla guancia di Calogiuri. Come ipnotizzata, tracciò quella pelle morbida, priva di rughe, dallo zigomo fino alla linea della mandibola, dove un lieve accenno di barba, vista l’ora tarda, cominciava a pizzicarle i polpastrelli.

 

Calogiuri chiuse gli occhi e lo sentì reclinare il viso verso la sua mano.

 

E poi, d’improvviso, li riaprì e si ritrovarono di nuovo occhi negli occhi, per attimi che parvero interminabili.

 

Non avrebbe saputo dire chi si fosse mosso per primo ma, nel giro di qualche istante, si ritrovò schiacciata tra il sedile e la portiera, le mani di Calogiuri tra i capelli, le labbra incollate in quello che definire bacio sarebbe stato come definire la Gioconda un quadretto.

 

Non si era mai sentita così come la faceva sentire lui, mai: il cuore a mille, la testa leggera, il sangue che le rimbombava nel petto e nelle orecchie, ogni singola terminazione nervosa che pareva in fiamme, ogni sensazione che sembrava centuplicata, fino a farle perdere completamente il senno e-

 

Lo strombazzare di un clacson la fece sobbalzare e la riportò bruscamente alla realtà. Calogiuri, paonazzo, si staccò da lei e, con l’aria di chi stava compiendo uno sforzo sovrumano, sciolse le dita dai suoi ricci e poggiò nuovamente le mani sul cambio e sul volante, guidando la vettura per i pochi metri di strada che si era liberata davanti a loro.

 

Annaspando per riprendere fiato, lanciò un’occhiata di sottecchi verso di lui, che ricambiò con uno sguardo altrettanto fugace, quasi imbarazzato.

 

Imma lo sapeva benissimo che secondo l’etica, la morale, ma anche solo secondo il buon senso, ci sarebbe stata un’unica cosa giusta da fare: dirgli che quello che era successo tra loro nell’ultimo periodo era stato uno sbaglio, un momento di follia, di debolezza, che non poteva più accadere, che non doveva più succedere. Che lei amava suo marito e non voleva tradirlo. Che, anche se era terribilmente attratta da lui e gli voleva un bene dell’anima, tra loro non c’era futuro ed era meglio per tutti troncarla ora, sul nascere.

 

Prese fiato più volte, sforzandosi di aprire la bocca, ma le parole semplicemente non ne vollero sapere di uscire.

 

Perché la verità era che non ci credeva nemmeno lei. Era inutile giurare che non sarebbe mai più capitato, quando ogni fibra del suo corpo non desiderava altro che succedesse ancora e ancora, e ancora. Quando, a costo di sembrare una stronza senza cuore, non poteva fingere un pentimento che, almeno al momento, si rendeva conto di non riuscire a provare.

 

Il vaso di Pandora ormai era stato aperto e…

 

“E i cocci, saranno i suoi, Tataranni,” le ricordò all’improvviso la voce di Vitali, presa temporaneamente in prestito da quel che restava della sua coscienza.

 

Imma aveva tanti difetti, tantissimi difetti, ma di una cosa era sempre andata fiera: della sua incapacità di raccontarsi stronzate e di raccontarle al prossimo.

 

E, sebbene la via su cui si stava incamminando fosse lastricata non solo di buone intenzioni, ma anche di inevitabili bugie e di omissioni, almeno con se stessa aveva il dovere di essere il più possibile sincera.

 

Intercettò lo sguardo di lui, vivido e quasi febbrile, pure nella penombra di quel residuo di luce lasciata dal sole ormai tramontato. Uno sguardo a lei ben familiare: quello dell’imputato che attende di conoscere la sentenza.

 

E, nonostante non sapesse se quella che stava per infliggergli ed infliggersi fosse una condanna o una benedizione, con un clic metallico sganciò la cintura di sicurezza, poco prima di afferrargli il viso con ambo le mani e ricambiargli la cortesia, mentre un’esclamazione di sorpresa gli morì sulle labbra.

 

Imma sentì due mani afferrarla con forza per la vita e trascinarla fino a ritrovarsi in equilibrio precario tra il bracciolo e le gambe di Calogiuri, praticamente spalmata su di lui, a baciarsi come due adolescenti.

 

O meglio, come si immaginava si baciassero due adolescenti, visto che lei quel periodo l’aveva trascorso tra i libri e l’isolamento sociale. Niente fidanzati, niente grilli per la testa, e non sempre per sua scelta, anzi. Non aveva mai provato l’ebbrezza delle serate passate a pomiciare, come si diceva allora, sui divanetti alle feste.

 

Si accorgeva solo ora di aver sempre sottovalutato quanto potesse essere bello anche solo baciarsi, così, senza un altro fine, e aveva la sensazione che lei Calogiuri se lo sarebbe potuta limonare - come avrebbe detto Valentina - pure per ore, ore ed ore, fino a consumarsi le labbra.

 

Il suono di un clacson per poco non le provocò un mezzo infarto e si ritrovarono a ridere, labbra su labbra, mentre lei lanciava epiteti irripetibili al cretino che riteneva fosse il caso di strombazzare in questo modo per guadagnare dieci metri di strada, a dire tanto.

 

Almeno finché Calogiuri, non appena raggiunta la vettura che li precedeva, non la zittì con un altro bacio. Ma questo era uno di quei casi eccezionali in cui poteva pure accettare di non avere l’ultima parola.

 

Andarono avanti così per non avrebbe saputo definire quanto tempo, in una specie di strano rituale tra baci, clacson, baci, clacson, baci, clacson, mentre ormai intorno a loro e dentro l’abitacolo c’era buio pesto.

 

E, mano a mano che calavano le tenebre, anche le loro mani iniziavano a muoversi e a vagare con sempre minore controllo, a spingersi sempre più in basso, fino a insinuarsi sotto i vestiti.

 

Percorreva con le dita quei muscoli che aveva sempre potuto solo immaginare sotto le magliette e i pullover, mentre Calogiuri le tracciava scie di fuoco sulla pelle, costringendola ad ammettere che i sogni, pure quelli più spinti, impallidivano di fronte alla realtà.

 

Si sentiva come in una bolla, travolta da un delirio di sensazioni che non riusciva a riordinare, a controllare, a gestire, a-

 

La sensazione inconfondibile del reggiseno che si sganciava la riportò bruscamente alla realtà, giusto il tempo di sfilare le mani dalla t-shirt di Calogiuri e bloccargli le sue prima che fosse troppo tardi.

 

“Forse è il caso che ci diamo una calmata, mo,” esalò a fatica, il fiato corto, incrociando due occhi azzurri in mezzo ad un viso color pomodoro maturo, che precipitarono a terra, imbarazzati, “prima che ci arrestino per atti osceni in luogo pubblico.”

 

“Scusami... non so che mi è preso,” sussurrò, guardandola giusto un secondo ed arrossendo, se possibile, ancora di più.

 

“Non serve che ti scusi, Calogiuri… diciamo che pure io ci ho messo del mio,” ammise, staccandosi da lui a forza e quasi accasciandosi sul posto del passeggero, affrettandosi a riagganciare reggiseno e cintura di sicurezza, nemmeno fosse una cintura di castità.

 

Il silenzio riempì nuovamente gli spazi tra loro, insieme a quella corrente elettrica che ormai si poteva tagliare con un coltello, tanto era densa. L’unico rumore era quello dei loro respiri affannosi, accelerati. La verità è che stare così, l’uno accanto all’altra, senza potersi nemmeno sfiorare, era una tortura che avrebbe fatto confessare perfino il criminale più incallito. E per chissà ancora quanto tempo sarebbero rimasti bloccati lì.

 

Forse era il karma, si disse Imma, il karma e la dimostrazione di come quello che sembra il paradiso possa trasformarsi rapidamente nel peggiore dei purgatori possibili.

 

E se il buongiorno si vede dal mattino…

 

*********************************************************************************************************

 

Era quasi mezzanotte quando finalmente arrivarono a Matera.

 

Calogiuri guidava in silenzio, concentrato sulla strada, le mani che stringevano il volante con fin troppa forza.

 

Ma Imma lo capiva, eccome se lo capiva, perché aveva la netta sensazione che sarebbe bastato un contatto anche minimo per perdere completamente il controllo e condurli al disastro definitivo.

 

Fu con immenso sollievo che riconobbe la via di casa, sollievo che venne però prontamente sostituito da un senso di malinconia all’idea che quella serata, forse irripetibile, stava giungendo ormai al termine.

 

Non poté trattenere un’esclamazione di sorpresa quando Calogiuri arrestò bruscamente la macchina di fronte ad un’abitazione a lei sconosciuta.

 

“Guarda che questa non è mica casa mia,” gli ricordò, sorpresa, pensando che magari gli eventi della serata lo avessero confuso del tutto - e come non capirlo!

 

“Lo so,” le sussurrò, incontrando i suoi occhi per la prima volta da quando erano riusciti finalmente a imboccare la deviazione e uscire dalla provinciale, “è che-”

 

Per un attimo Imma si aspettò che le parole “questa è casa mia” gli uscissero dalla bocca. Davanti ai suoi occhi scorsero, come in un film, una sfilza di scenari vietati ai minori. E pure ai maggiori deboli di cuore.

 

Persa nelle sue fantasie non si accorse, fino all’ultimo istante, delle dita che le afferrarono con dolcezza il viso, trascinandola in un bacio delicato, tenero, quasi evanescente, che finì prima ancora che se ne potesse rendere conto.

 

Si sentì sfiorare le guance ancora per qualche istante, prima che Calogiuri si staccasse del tutto e si rimettesse alla guida.

 

“Davanti a casa tua non avrei potuto salutarti così,” le sorrise, riavviando la macchina, con quello sguardo timido e imbarazzato che lo faceva sembrare di nuovo il ragazzo ingenuo di Grottaminarda.

 

E forse era proprio questo che rendeva così pericoloso Calogiuri. Questo cocktail imprevedibile di ingenuità ed intelligenza, passione e tenerezza, timidezza e carattere, gioventù e maturità. Questo essere contemporaneamente ragazzo ed uomo, questo saperla sempre prendere alla sprovvista e sorprenderla, cosa che ormai non riusciva più praticamente a nessuno.

 

“Allora… buonanotte…”

 

Si ritrovò di fronte a casa, chiedendosi come ci fossero arrivati.

 

“Buonanotte, Calogiuri. Ci vediamo domani in procura.”

 

“Veramente domani è sabato, dottoressa,” le ricordò con un sorriso ed un tono che avevano una nota sorniona e compiaciuta che era meglio non esplorare o rischiava di combinare un macello proprio davanti casa.

 

“Lo so,” mentì spudoratamente, visto che era talmente scombussolata da non essere certa di ricordare nemmeno data e anno, “ma se quello che abbiamo trovato è davvero Vaccaro, io domani in procura ci vengo, sabato o non sabato.”

 

“E allora a domani. Dormite bene, dottoressa,” le sussurrò, ritornando al voi come se fosse la cosa più naturale del mondo ed Imma si chiese per un secondo se non la stesse prendendo per il culo, perché dormire bene, per come si sentiva ora, le pareva assolutamente impossibile.

 

Chiuse la portiera dell’auto con fin troppa forza, prima di fare qualche gesto inconsulto di cui si sarebbe sicuramente pentita - o forse no, il pentimento non era il suo forte ultimamente - e si avviò a rapide falcate verso l’ingresso.

 

Constatò con sollievo che Pietro non era ancora rientrato. Sollievo che divenne un ringraziamento a qualsiasi divinità fosse in ascolto quando, accendendo la luce, si vide nello specchio della camera da letto.

 

Aveva i capelli che parevano un rovo, talmente erano spettinati e arruffati. Il trucco mezzo cancellato e mezzo colato, i vestiti completamente spiegazzati.

 

Se Pietro l’avesse intercettata così, sarebbe stato impossibile nascondergli quanto era successo.

 

Si strappò quasi via i vestiti che avevano ancora addosso il profumo di Calogiuri e, dopo un attimo di esitazione, li buttò in lavatrice e la avviò, nonostante l’ora tarda.

 

Si infilò in doccia e si lavò il più accuratamente possibile, ma la verità è che sentiva ancora quei baci, quelle dita sulla pelle, come marchiati a fuoco, e non c’era sapone che potesse cancellarli.

 

Si era appena infilata l’accappatoio, i capelli raccolti in un turbante, quando Pietro rientrò in casa, annunciandole con orgoglio che avevano miracolosamente vinto e salutandola con un bacio. Un bacio dolce, delicato, appena uno sfiorarsi le labbra, ma che fu come gettare ulteriore benzina sull’incendio che le ribolliva dentro.

 

“Amò, mi sa che mi butto pure io in doccia, che ho sudato da far schifo,” proclamò, gettando il borsone in corridoio ed avviandosi verso il bagno.

 

Imma esitò per qualche secondo, poi decise che, in fondo, ciò che stava per fare sarebbe stato il minore dei reati commessi quella sera.

 

Con passo deciso, nonostante fosse scalza, raggiunse il marito, che si stava ancora spogliando, e lo spinse a forza nella doccia, vestiti e tutto.

 

“Amò, ma che fai?!” le domandò sorpreso Pietro, giusto nel tempo che le ci volle a levarsi turbante ed accappatoio e raggiungerlo sotto il getto d’acqua, zittendolo con un bacio da mozzare il fiato.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma che c’hai stasera? A sapere che il calcetto ti faceva questo effetto, mi sarei allenato più spesso di un giocatore di serie A.”

 

Imma si limitò a sorridere alla battuta del marito, esalata tra un’espirazione e l’altra, il fiato di entrambi ancora troppo corto: per certe evoluzioni non avevano più l’età.

 

In effetti avevano fatto non solo il bis, ma pure il tris. Imma per un attimo era stata tentata di ricordargli che non c’è tre senza quattro, ma poi il buon senso aveva prevalso, suggerendole che non era il caso che Pietro facesse ulteriori sforzi fisici. A parte il fatto che pure lei si sentiva stremata.

 

La verità era che ci aveva provato in ogni modo a spegnerlo l’incendio ma, ogni volta che sembrava essersi attenuato, dopo qualche istante di appagamento ritornava prepotentemente. La prima, la seconda e perfino la terza volta.

 

Tuttora, che sentiva dolere muscoli che non aveva nemmeno mai saputo di avere, quella fiamma era ancora lì che bruciava, appena appena nascosta sotto una lieve coltre di cenere, endorfine ed acido lattico.

 

Si chiedeva se le sarebbe mai riuscito di spegnerla o se avrebbe dovuto imparare a conviverci d’ora in poi, quasi fosse un tacito e segreto presagio dell’inferno nel quale, secondo la maggior parte delle religioni monoteiste, sarebbe stata ormai condannata a bruciare.

 

Il problema principale, in realtà, era che, in cuor suo, Imma lo sapeva benissimo qual era, con ogni probabilità, l’unico sistema antincendio che avrebbe potuto funzionare in questo caso.

 

E non avrebbe saputo dire se questa consapevolezza la eccitasse o la terrorizzasse di più.

 

Forse entrambe le cose in egual misura.

 

Nota dell’autrice: 

In questa storia cercherò di raccontare come, almeno secondo me, il rapporto tra Imma Tataranni e Calogiuri si potrebbe evolvere a partire dal finale della prima stagione.

Cercherò di essere il più realistica possibile e, per questo motivo, questa fanfiction parlerà necessariamente di una relazione extraconiugale. Non voglio dare giudizi di nessun genere su questo tipo di relazioni che accadono spessissimo nella realtà, ma vorrei semplicemente cercare di tratteggiare nel modo più onesto possibile quali siano le conseguenze, negative e positive, per tutte le persone coinvolte.

Trattandosi di una fanfiction, in cui è lecito che possa accadere pure l’impossibile o quasi, vi prometto che alla fine del viaggio ci sarà un happy ending, ma il viaggio sarà abbastanza lungo e con un bel po’ di alti e bassi.

Nei limiti del possibile, compatibilmente con gli impegni di lavoro, cercherò di postare un capitolo a settimana, sempre nel weekend.

Prometto infine che cercherò di rispettare sempre le personalità dei personaggi, pur facendoli gradualmente evolvere. Non ci saranno personaggi solo buoni o solo cattivi ed, in particolare, nessun marito subirà un trapianto di personalità in negativo per giustificare un eventuale tradimento della moglie ;).

Se avete dedicato qualche minuto a leggere questo capitolo vi ringrazio fin da ora ed ogni commento, positivo o negativo, è sempre ben accetto ed utilissimo per spronarmi a migliorare.

Grazie ancora!

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Capitolo 2
*** Udienza Preliminare ***


Nessun Alibi

 

Capitolo 2 - Udienza Preliminare

 

Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

 

“E dai, Valentina! Stiamo aspettando tutti te!”

 

“Un attimo, Bea!” esclamò Valentina, fissando con sguardo e sorriso ebeti il cellulare.

 

“L’attimo è passato cinque minuti fa! Ti vuoi staccare da quel telefono? Ho capito che ora sei fidanzata, ma mi sembri rincoglionita. E se mi fai perdere Mattia che gioca a beach volley non-”

 

“Arrivo, arrivo! Che palle!” sbuffò la figlia, buttando il cellulare nella sacca da spiaggia e raggiungendo Bea e il resto del gruppetto che stazionava a poca distanza dall’ombrellone.

 

“Ma hai sentito che linguaggio usano? E tu non dici niente?” la rimproverò sua suocera, prevedibile ed implacabile come il mal di testa dopo una sbronza. Dovette mordersi la lingua per non risponderle di dirlo a suo figlio, che stava disteso sul lettino proprio accanto al suo, immerso nell’ennesimo fumetto di Tex Willer, invece di rompere l’anima a lei.

 

“Bisogna sapersi scegliere le proprie battaglie, signora,” proclamò ironicamente invece, non riferendosi affatto solo alla figlia, mettendosi a sedere e cominciando a rovistare nella borsa per il necessario per farsi un bagno il più lontano possibile da tutto e tutti.

 

“E da quando è che sei così accomodante, eh?”

 

“Ma come? Non siete felice che ho deciso di seguire l’esempio vostro e di vostro figlio?” le domandò sarcastica e con un sorriso volutamente fintissimo - accomodante sì, ma a tutto c’era un limite - prima di afferrare il materassino e troncare ogni risposta sul nascere, allontanandosi rapidamente verso la battigia.

 

Si buttò in acqua incurante dello shock termico che, per un attimo, la colpì con una miriade di spilli, fece qualche bracciata e si distese sul materassino, chiedendosi, non per la prima volta negli ultimi giorni, se ci avrebbe potuto passare pure la notte in mare, senza rischiare l’ipotermia.

 

Metaponto e la casa dei suoi suoceri non le erano mai stati stretti come quest’anno.

 

Tra sua suocera che si ostinava a trattare Pietro come se fosse ancora malato, sottolineando quanto la sua cucina fosse leggera e genuina - non come le schifezze che gli preparava la nuora - mentre di fatto lo rimpinzava come un cinghiale. Tra Pietro che, come al solito, non prendeva una posizione nemmeno a pagarlo oro e avrebbe potuto guadagnarsi un posto di diritto nel girone degli ignavi, anzi diventarne proprio il nuovo portavoce, se un moderno Dante avesse deciso di farci un altro giretto.

 

Tu invece con Paolo e Francesca ci andresti proprio a nozze, no, Imma? - le ricordò la voce della sua coscienza che, chissà perché, stavolta prese in prestito il timbro di Diana.

 

E la sua coscienza la riportò all’ultimo ma niente affatto ultimo dei suoi problemi e dei suoi pensieri.

 

Calogiuri.

 

La verità era che se era così accomodante con Valentina, nonostante gli struggimenti di cuore la rendessero una vera piaga, era perché, in fondo in fondo, la capiva eccome, purtroppo.

 

Ma, se sua figlia Samuel se lo poteva sentire quando e come le pareva - pure troppo, visto che aveva il cellulare ormai termosaldato alla mano destra - lei invece doveva resistere a questo senso invadente di mancanza e nostalgia senza né una chiamata, né un messaggio.

 

Era una regola che aveva imposto lei stessa, quando si erano salutati prima della sua partenza, in una pausa pranzo allungata di una mezz’ora - poi recuperata ovviamente con gli interessi in serata, si intende - con una piccola deviazione per mangiarsi un panino in tranquillità in uno spiazzo deserto di una stradina a picco sul mare che non avrebbe saputo dire come Calogiuri avesse scovato, ma forse in fondo non lo voleva nemmeno sapere.

 

Tra un morso al panino, un bacio e un sorso d’acqua, gli aveva detto chiaramente che era meglio evitare qualsiasi messaggio non di lavoro - rimanevano negli archivi delle compagnie telefoniche per anni e anni, quelli sui social non ne parliamo - e pure le telefonate che, se ripetute in un periodo di vacanza, avrebbero potuto dare nell’occhio - e non solo ad eventuali agenti incaricati di intercettazioni ambientali, ma anche banalmente a Pietro, che scemo sicuramente non era.

 

Se qualcuno avesse scoperto di loro, non c’era in gioco solo il suo matrimonio, ma anche le carriere di entrambi. Calogiuri poteva perfino rischiare l’espulsione dall’arma, se avesse trovato a giudicarlo qualche superiore un po’ troppo tradizionalista e zelante.

 

Calogiuri era stato, come sempre, estremamente comprensivo, trafiggendola con uno dei suoi “va bene” che parevano contenere un mondo in tre sillabe.

 

Ora un po’ malediceva la sua prudenza che rasentava forse la paranoia, perché si ritrovava a pensarlo costantemente, a desiderare non solo il contatto fisico, ma anche semplicemente di sapere cosa stesse facendo, sentire la sua voce, di scherzare con lui, vederlo arrossire, sorriderle e guardarla come se fosse la madonna e non una over quarantenne che, quando faceva girare qualche testa, di solito era a causa dei look da tutti definiti come stravaganti, per non dire altro.

 

Non sapeva se quella che stava vivendo fosse una regressione adolescenziale, una crisi di mezza età. Perché il problema era che queste sensazioni strane che non la lasciavano in pace le erano proprio del tutto sconosciute, non avendole mai provate prima.

 

Con Pietro era stato tutto così semplice, nell’accezione migliore del termine. L’aveva cercata tramite uno degli annunci che metteva sulle bacheche dell’università, per guadagnare qualche soldo extra da chi aveva bisogno di ripetizioni. Dopo un po’ di lezioni lui, praticamente dal niente, le aveva chiesto di uscire, facendole prendere un colpo, perché ormai non ci sperava nemmeno più di poter piacere a qualcuno. Il giorno dopo la laurea avevano avuto il primo appuntamento, tempo qualche uscita e le aveva detto che l’amava, tempo qualche altra e avevano fatto l’amore per la prima volta - e lui era stato dolcissimo nel metterla a suo agio ed insegnarle tutto ciò che c’era da sapere. Poi, da brava secchiona quale era, si era fatta le sue ricerche ed un paio di cosette pure lei gliele aveva insegnate nel corso degli anni. Dopo un anno che si frequentavano le aveva chiesto di sposarla, per la disperazione di sua suocera. L’anno successivo erano diventati marito e moglie e da lì a pochi mesi era arrivata Valentina.

 

Non c’era stato né tempo né modo per patemi e struggimenti: era stato tutto naturale, liscio come l’olio, quasi inevitabile. E, da quando si conoscevano, non si erano mai separati per più di qualche giorno, salvo il periodo in cui lei aveva dovuto trasferirsi a Messina dopo aver vinto il concorso da sostituto procuratore e si vedevano solo nei weekend.

 

Ma anche allora, sarà che era stata letteralmente sommersa di lavoro e dall’entusiasmo per quel ruolo tanto ambito, non ricordava di aver provato nulla del genere. Era felicissima di rivederlo ogni fine settimana, per carità, ma resisteva comunque senza troppi problemi anche senza di lui.

 

Mentre ora, dopo solo qualche giorno di ferie, questo qualcosa la rosicchiava da dentro come un tarlo e si ritrovò, per l’ennesima volta, a rivivere con la mente il suo saluto a Calogiuri, se così si poteva definire. Si erano baciati come se letteralmente non ci fosse un domani, come se dovessero farne scorta per i giorni in cui sarebbero stati separati. Almeno fino a quando aveva di nuovo dovuto ristabilire le distanze, onde evitare di rischiare di lasciare sull’auto di servizio prove ben più compromettenti di un paio di telefonate fuori orario.

 

Forse perché distratta da quei ricordi, ci mise un po’ a percepire un “amò!!” gridato al vento e a notare Pietro che si sbracciava sulla riva, brandendo il cellulare di lei.

 

“Che succede?!” gli domandò, raggiungendolo il più rapidamente possibile, il materassino sottobraccio e la pelle d’oca su tutto il corpo.

 

“Non lo so, ma continua a squillare da un bel po’. Credo sia dalla procura…”

 

Calogiuri! - fu il primo pensiero, avventandosi ad afferrare il telefono.

 

Vitali?!

 

Il cognome del procuratore capo sul display fu un’ulteriore secchiata d’acqua gelida ed ebbe la netta sensazione che, qualsiasi cosa lo avesse spinto a scomodarsi e scomodarla durante le ferie, non le sarebbe affatto piaciuta.

 

“Pronto!” pronunciò, preparandosi psicologicamente al peggio, per poi scoprire, a mano a mano che la voce di Vitali si spiegava concitatamente dall’altro capo del telefono, che al peggio davvero non c’è mai fine.

 

Le parole Romaniello, motivi di salute, udienza anticipata al 13 di agosto, la bombardarono, lasciandola stordita e furente.

 

“Ma il 13 di agosto è dopodomani!! Lei si rende conto di cosa significa?!” urlò nel telefono, incurante dei bagnanti e dell’udito del procuratore capo.

 

“Ma certo che me ne rendo conto, dottoressa! Certo che me ne rendo conto e, mi creda, comprendo la sua indignazione, ma le regole sono le regole e non ci posso fare niente. C’è una perizia medica che stabilisce che Romaniello necessiti di un intervento chirurgico da effettuarsi a settembre, seguito da una lunga convalescenza. In base a questi elementi, il GUP ha ritenuto opportuno anticipare l’udienza, onde evitare ulteriori rinvii.”

 

“Ma è chiaro che Romaniello e… il suo avvocato devono aver scoperto del ritrovamento di Vaccaro, dottore. E stanno cercando di segarci le gambe dandoci il minor tempo possibile per raccogliere prove in proposito prima di presentarci davanti al giudice.”

 

“Questo mi è ben chiaro, dottoressa, ma il GUP ha ritenuto lei sarebbe stata favorevole ad anticipare l’udienza, piuttosto che rinviarla, vista la sua reazione indignata al rinvio dell’anno scorso,” chiarì Vitali, con un tono che esplicitava, meglio di mille parole, cosa intendesse dirle davvero.

 

Che per il suo caratteraccio, per la sua impazienza, per la sua totale assenza di diplomazia, il GUP aveva deciso di darle una bella lezioncina, come amano fare gli uomini alle donne che osano rompere troppo le scatole e tentare di prendersi un po’ di potere. Rimetterle al loro posto. Quante volte se lo era sentito dire.

 

E ora aveva solo due giorni per raccogliere elementi sufficienti per far cambiare idea ad una persona che, evidentemente, non sarebbe stata esattamente ben disposta ad accogliere le sue tesi, se non fossero state a prova di bomba.

 

Non appena si congedò dal procuratore, le dita in automatico scorsero sul display la lista delle ultime chiamate fino a quella di Calogiuri. Stava per premere il pulsante di invio chiamata, quando, in un ennesimo esempio di telepatia, il cognome del maresciallo iniziò a lampeggiare sul display, segnalando una chiamata in arrivo.

 

“Calogiuri!”

 

“Dottoressa, scusate se vi disturbo…” esordì, in apparenza formalissimo, ma in quello che ormai era una specie di codice, che diceva più o meno non sto trasgredendo alle regole, ti chiamo per motivi di lavoro.

 

Le sembrò ironico che, dopo aver tanto desiderato di ascoltare la voce del maresciallo, si ritrovasse a doversi pentire amaramente di averlo anche solo pensato, viste le circostanze.

 

Come si suol dire… attenta a ciò che desideri, perché potrebbe avverarsi.

 

“Tranquillo, Calogiuri, so già tutto. Mi ha appena informata Vitali,” si limitò a chiarire, allontanandosi, quasi inconsciamente, qualche passo da Pietro che stava ad osservarla preoccupato sulla spiaggia.

 

“E mo che facciamo?” le domandò e riusciva a percepirne la preoccupazione anche attraverso il telefono, “volete che vi vengo a prendere?”

 

“No!” esclamò con fin troppa foga, pentendosene subito e chiarendo, con più calma, “no, Calogiuri, abbiamo troppo poco tempo e mi servi in procura. Vatti a ripescare tutti i tabulati telefonici e spulciateli un’altra volta, fai passare anche le date intorno al periodo della chiusura e della riapertura del cantiere in cui hanno ritrovato Vaccaro. Prenditi chiunque trovi in PG che non sta ancora in ferie, e lavorateci stasera, finché potete. Senti Taccardi e digli che entro sera devi avere ogni singolo elemento utile su quanto emerso dall’autopsia e dalla ricostruzione dei resti di Vaccaro. Ormai è tardi, quindi a questo punto arriverò col primo bus domattina, mi pare arrivi a Matera alle otto. Se puoi venire ti aspetto lì, se no ci vediamo in procura.”

 

“Non avete nemmeno bisogno di chiederlo dottoressa. A domani, allora.”

 

Mille cose le passarono per la testa da un “mi sei mancato” ad un “è bello sentirti, nonostante tutto” ma si limitò a rispondere con un altrettanto neutro “a domani”.

 

“Devi tornare a Matera?” la voce di Pietro la raggiunse non appena ebbe terminato la chiamata, e si voltò a incrociare i suoi occhi che esprimevano tanto disappunto quanta preoccupazione.

 

“Mi hanno anticipato l’udienza Romaniello a dopodomani. Domattina presto devo partire, starò via un paio di giorni e poi torno.”

 

“Oh, ma che peccato! Speriamo almeno che tu ci possa raggiungere per Ferragosto, se no mi toccherà cucinare tutto da sola,” commentò sua suocera che aveva evidentemente origliato tutta la conversazione.

 

“State tranquilla, per Ferragosto sarò di ritorno e vi preparerò tutti i piatti che vostro marito gradisce tanto,” ribatté con un tono altrettanto sarcastico, prima di gettarsi addosso l’asciugamano, preparandosi a rientrare a casa.

 

*********************************************************************************************************

 

“Sei sicura che non vuoi che ti accompagni con la macchina?”

 

“No!” si ritrovò di nuovo ad esclamare prima di riuscire a trattenersi - doveva imparare a modulare il tono di voce, doveva assolutamente imparare a modulare il tono di voce.

 

“No, Pietro, goditi la vacanza con Valentina, è inutile che rientriamo in due,” corresse il tiro, mentre continuava a preparare il borsone con lo stretto necessario per il viaggio, tanto la maggior parte dei vestiti stava nel suo armadio a Matera.

 

“Ma Valentina è grande e può stare qui con mia madre. So quanto è importante questo processo per te, Imma, so da quanto ci lavori e quanto ci tieni. Mi spiace lasciarti sola,” proclamò, mettendole le mani sulle spalle, con un tono ed uno sguardo che le fecero venire gli occhi lucidi e la fecero sentire tremendamente in colpa.

 

Perché lei sola non lo sarebbe stata in ogni caso. E perché, nonostante tutto il senso di colpa, la sola idea di Pietro a Matera invece di calmarla le provocava ancora più ansia. Ansia che, nei prossimi due giorni, non si poteva proprio permettere.

 

“Pietro, dovrò lavorare tutto il tempo. Domani finirò sicuramente tardissimo, visto che ho un solo giorno a disposizione per trovare la quadratura del cerchio. E quando tornerò a casa sarà solo per dormire quelle poche ore. Stai tranquillo, va bene? Tornerò prima che tu ti accorga che me ne sono andata.”

 

“Questo è impossibile: me ne accorgo sempre quando ti allontani, Imma, anche se per poco,” le sussurrò, guardandola negli occhi e Imma si chiese, il groppo in gola e le lacrime che non riusciva più a trattenere, se ci fosse un avvertimento ben preciso in quelle parole.

 

Ma l’abbraccio di Pietro soffocò sul nascere ogni domanda o protesta e ci si lasciò sprofondare, accantonando per un attimo i sensi di colpa e le paranoie, per i quali ci sarebbe stato ancora tanto, tantissimo tempo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa!”

 

“Calogiuri!” gli sorrise, saltando giù dall’ultimo gradino del bus e reprimendo l’istinto di abbracciarlo: Matera pur essendo una città è piccola, la gente si conosce e mormora, eccome se mormora.

 

Il maresciallo ricambiò il sorriso e Imma si chiese se fosse ammattita del tutto, perché lo trovava, se possibile, ancora più bello.

 

“Lasciate che vi aiuti con il borsone,” si offrì, premuroso come sempre, caricando tutto sull’auto di servizio, aprendole la portiera ed avviando la macchina con la solita impeccabile efficienza.

 

Stettero in silenzio per un attimo ma, al primo semaforo, Calogiuri si voltò e le chiese semplicemente, dritto negli occhi, “come stai?”

 

“Hai una domanda di riserva, Calogiuri?” sospirò con un sorriso affettuoso, facendolo sorridere a sua volta, per poi aggiungere, toccandogli leggermente l’avambraccio, “senti, ora non è importante come sto io. L’importante è che domani Romaniello non la faccia di nuovo franca, quindi dimmi tutto quello che hai scoperto finora e che cosa ti manca da verificare, così organizziamo il lavoro di oggi.”

 

“Agli ordini, dottoressa,” le rispose con un altro sorriso ed uno sguardo di intesa, appoggiando lievemente una mano su quella di lei, prima di rimetterla sul volante ed iniziare a fare rapporto.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa, ascoltatemi. Per me rimaniamo qui fino a quando lo volete voi, ma non penso che troveremo ancora qualcosa. Perlomeno  non stasera.”

 

La voce stanca di Calogiuri la ridestò dalle carte in cui era immersa letteralmente fino ai capelli e incrociò due occhi arrossati, lucidi e gonfi.

 

Guardò l’orologio e si accorse con sorpresa che erano quasi le ventitrè.

 

“Forse hai ragione, Calogiuri, ma io sento che ci manca qualcosa, lo sento. Se Romaniello ha anticipato l’udienza è perché c’è qualcosa che lo inchioda che avremmo potuto scoprire col ritrovamento di Vaccaro ma che, secondo me, non abbiamo ancora individuato.”

 

“Può essere, ma è da stamattina che rivoltiamo queste carte come calzini. Se qualcosa d’altro di utile ci fosse stato qui dentro, quasi sicuramente l’avremmo già trovato. Se proseguiamo rischiate solo di arrivare esausta all’udienza di domani.”

 

Con un sospiro si massaggiò le tempie e dovette ammettere che Calogiuri aveva ragione. Quello che stava facendo era l’equivalente di passare la notte in bianco prima di un esame a ripassare: una cosa che non aveva mai portato a niente di buono.

 

“Va bene, va bene, hai vinto,” concesse, alzandosi a fatica dalla sedia, i muscoli intorpiditi e le giunture che scricchiolavano dopo tante ore ferma, “mi riporteresti a casa?”

 

“E che vi lascio in mezzo alla strada a quest’ora?” ironizzò lui con un sorriso.

 

“Fai meno lo spiritoso, Calogiuri,” gli intimò, non riuscendo però a trattenersi dal sorridergli di rimando, “e comunque, perché mi dai del voi?”

 

“Perché siamo in procura,” rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

 

“Sì, noi e il fantasma della procura di Matera che sicuramente ci può ascoltare.”

 

“È che almeno non perdo l’abitudine quando si parla di lavoro. Non vorrei rischiare di confondermi al momento sbagliato.”

 

Imma dovette, per l’ennesima volta in quella giornata, trattenere l’impulso di abbracciarlo. Non sapeva cosa avesse fatto per meritarsi qualcuno come Calogiuri ma, in una vita precedente, doveva essere stata evidentemente una persona molto più buona, conciliante e a modo di quanto fosse ora.

 

Non che non avrebbe potuto abbracciarlo, ma ogni contatto fisico con lui era molto pericoloso e non erano questi né il momento né il luogo adatti. Il tempo stringeva e non poteva permettersi distrazioni di alcun tipo.

 

In perfetto silenzio si avviarono all’auto e, con il sincronismo che li aveva sempre contraddistinti, entrarono nell’abitacolo e si avviarono verso casa di lei.

 

Si sentiva in una specie di mezzo dormiveglia, cullata dal motore e, prima che se ne rendesse conto, Calogiuri arrestò l’auto di fronte all’ingresso del suo condominio.

 

Aprirono, di nuovo all’unisono, le porte per scendere, quando Calogiuri, di scatto, le bloccò il braccio e le intimò di rimanere sulla vettura e di chiudersi dentro, l’altra mano che scendeva fino alla fondina dove teneva la pistola di servizio.

 

Senza capirci più niente, Imma lo vide scendere e perlustrare la zona di fronte all’auto e l’ingresso dell’appartamento per minuti che le sembrarono eterni, per poi tornare alla vettura.

 

“Ma che succede?!” gli chiese preoccupata e lui, cautamente, le aprì la portiera e le fece segno di scendere, tenendola però bloccata tra il suo corpo e il lato del passeggero della macchina.

 

Imma guardò per terra e capì.

 

Scritte, scritte color rosso sangue che le davano della troia, della zoccola e le auguravano la morte ed altre cose irripetibili.

 

“Non è la prima volta che succede, Calogiuri, tranquillo,” lo rassicurò, cercando di superarlo, ma lui non ne voleva sapere di spostarsi.

 

“C’è anche un… qualcosa vicino alla porta di casa, un animale morto in un sacchetto. Non ho controllato bene, ma presumo sia un gatto.” 

 

“Va bene, questa invece è… una novità ma sono le solite intimidazioni. Non ti preoccupare, non è niente.”

 

“Non è vero che non è niente. Domani c’è l’udienza più importante che ci sia stata qui a Matera almeno da dieci anni a questa parte e succede questo. Non è una cosa da prendere sottogamba, dottoressa. Per favore, risalite in auto, non posso lasciarvi qui da sola, non è prudente.”

 

“Non essere assurdo, Calogiuri, ti ho detto che non c’è niente da preoccuparsi e-”

 

“Ne vogliamo discutere qui in mezzo alla piazza o risalite in macchina che ne parliamo con più calma?” la interruppe, secco e deciso, fulminandola con lo sguardo.

 

Ci fosse stato chiunque altro al posto di Calogiuri, lo avrebbe spintonato, minacciato di fargli rapporto e mandato a quel paese, e lei ora starebbe già in casa a pensare a qualche altra forma creativa di punizione per l’insolenza e per averle fatto perdere tempo.

 

Ma Imma Calogiuri lo conosceva fin troppo bene e sapeva benissimo che, sì, sarà stato pure timido, dolce, gentile ed accomodante, ma quelle poche volte nelle quali si impuntava su una cosa era un mulo, quasi peggio di lei. E non era il caso di fare piazzate di fronte a casa, soprattutto non con lui.

 

“Io ci risalgo pure in macchina. Ma se ti azzardi anche solo ad avviare il motore vai a fare compagnia al gatto di fronte alla porta di casa. Intesi?”

 

Calogiuri si limitò ad annuire e sospirare, spostandosi finalmente da di fronte a lei e tornando al posto di guida.

 

Imma attese giusto il tempo che le porte fossero sigillate prima di scoppiare.

 

“Ma sei impazzito?!” gridò, non potendosi trattenere dall’alzare la voce, “ti pare il caso di reagire così per una stronzata sim-”

 

“Non è una stronzata!” urlò lui di rimando, aggiungendo all’occhiata furente ed indignata di lei, “non mi sembra che siamo più in servizio, giusto?”

 

“No, non siamo in servizio, quindi se vuoi svegliare tutti i vicini, prego, continua pure ad alzare la voce finché ti pare.”

 

“Perché invece se i vicini li svegli tu per prima urlando, allora va tutto bene?” le domandò, con tono più basso e calmo, sebbene ancora concitato.

 

E Imma in cuor suo dovette ammettere che non aveva del tutto torto. Odiava quando succedeva.

 

“Senti, Calogiuri, sono stanca e voglio solo andare a dormire. Ti ho già detto che non c’è niente da preoccuparsi e-”

 

“Ma no, certo! Che c’è da preoccuparsi? In fondo l’ultima volta per evitare il processo a Romaniello hanno solo incendiato un deposito di prove con un sistema di allarme e sicurezza, in teoria, quasi impenetrabile. Proprio assurdo preoccuparsi di lasciarti qui da sola a fare compagnia al gatto!” proclamò, sarcastico, sforzandosi evidentemente per non alzare di nuovo i toni.

 

Se qualcun altro si fosse permesso di parlarle così, non sarebbe vissuto per raccontarlo, altro che il gatto. Ma la sincera preoccupazione che gli lesse negli occhi, al di là delle parole taglienti, la calmò improvvisamente.

 

“Ascoltami, lo capisco quello che vuoi dire, va bene? Ma è la prima regola del mestiere: quando si fanno le minacce è perché non si è ancora pronti a passare all’azione. Quando si vuole passare ai fatti, la cosa succede rapidamente, senza proclami, quando uno meno se lo aspetta.”

 

“E tu vuoi davvero mettere a rischio la tua incolumità e un caso su cui stai lavorando da un anno per fare affidamento sulle regole del mestiere? Quelli non aspettano altro, lo vuoi capire?”

 

“E tu lo vuoi capire che se cedo alle intimidazioni è come se avessero già vinto?” sbottò, esasperata, maledicendo la voce che le si spezzava a tradimento.

 

“Ma non ti sto dicendo che devi prenderti una scorta e vivere nel terrore. Sto solo dicendo che per questa notte, visto che domani c’è un’udienza decisiva, è meglio che non resti qui da sola.”

 

“E dove dovrei andare secondo te, eh? A quest’ora dubito di trovare un alloggio, in piena estate poi. E tornare a Metaponto è impensabile, oltre che imprudente per la mia famiglia se ci fosse un pericolo come dici, cosa che non credo.”

 

“Potresti venire a casa mia. Facciamo un giro largo con la macchina prima di arrivarci. L’ho appena presa in affitto, nessuno sa ancora dove si trovi se non il proprietario e chi mi ha consegnato i mobili e, a meno che non ci stiano osservando ora, dubito in ogni caso potrebbero mai pensare che tu ti trovi lì...”

 

“A casa tua?” questa volta fu lei a non riuscire a trattenere il sarcasmo, “Calogiuri, ma ti sembra il momento di-”

 

“Io dormirei sul divano, ovviamente. Non sono un quindicenne con gli ormoni impazziti, anche se a volte mi tratti come se lo fossi! E so benissimo che stanotte devi riposare e che ora ci sono cose più urgenti di cui preoccuparsi che di… dei nostri fatti personali.”

 

Imma provò ad aprire la bocca per protestare nuovamente, ma lui la precedette, “mi offrirei pure di stare qui a sorvegliare la situazione stanotte, ma non credo sia il caso che qualcuno mi veda entrare a casa tua o rimanere appostato qui davanti.”

 

“Per carità, ci manca solo quello!” concordò Imma: se c’era una promessa che si era fatta e che intendeva mantenere, nonostante tutto, era quella di non far mai varcare a Calogiuri la porta della casa che divideva con Pietro. Sapeva che da un lato era assurdo farsi uno scrupolo del genere e non altri, nemmeno Calogiuri fosse stato un vampiro, ma si sarebbe sentita come se stesse violando qualcosa di intoccabile, come se stesse infliggendo a Pietro l’umiliazione e il tradimento definitivi. A parte le possibili prove compromettenti che avrebbe potuto lasciare in giro.

 

“Senti, se non ti fidi di me e di rimanere a casa mia, allora ti posso portare in caserma. Di sicuro hanno stanze libere, la mia ad esempio, per non parlare di quelle di chi è fuori in vacanza. Almeno lì saresti al sicuro,” propose di nuovo, più conciliante, ma con un qualcosa nello sguardo e nel tono di voce che le fece male al cuore. Una specie di rassegnazione mista a delusione.

 

“Per favore, non ricominciamo con questa storia della fiducia, Calogiuri. Ti ho già detto che mi fido di te,” lo rassicurò, toccandogli l’avambraccio, ed era vero. Era di se stessa che non si fidava affatto, ma non erano questi il momento e il luogo per ammetterlo, “se non mi fidassi di te al cento per cento, non avrei mai… non avrei mai permesso che succedesse quello che è successo tra noi.”

 

“Ma e allora qual è il problema?” le sussurrò, stringendole la mano con una disperazione che si rifletté nello sguardo e nel tono di voce, “lo vuoi capire che se ti lascio qui e ti succede qualcosa stanotte non me lo perdonerò mai? Mai.”

 

Sentì gli occhi pizzicarle come se ci avessero spremuto dentro un limone, mentre il silenzio calò pesante come una coltre, carico di non detti. L’ipotesi della morte non era mai così remota per chi faceva il loro mestiere, specialmente quello di Calogiuri. Ci si conviveva, ci si faceva il callo, la si esorcizzava in ogni modo, ma era un qualcosa da mettere in conto sempre. Esprimere apertamente di averne paura era però quasi un tabù, ma Calogiuri, quando si trattava di rompere i tabù, era sempre stato fin troppo coraggioso.

 

“D’accordo,” si sentì pronunciare, senza quasi rendersene conto, “va bene, andiamo. Ma solo perché non ti voglio fare passare una notte insonne, che domani mi servi in forze.”

 

Era una bugia e lo sapevano benissimo entrambi: l’indomani il massimo che Calogiuri avrebbe dovuto fare era accompagnarla in tribunale e presenziare in aula. Ma lui sembrò troppo sollevato per obiettare alcunché, non che l’avrebbe fatto nemmeno in condizioni normali. La conosceva troppo bene per non sapere quando era il caso di restare zitto.

 

“Allora dove ti porto? Vuoi andare in caserma?” le domandò, avviando il motore, guardando dritto davanti a sé.

 

“Come no! Tra poco è mezzanotte, Calogiuri, ci manca solo che ci presentiamo in caserma a quest’ora da soli. Vorrei dormire stanotte e non passarla ad evitare una serie di interrogatori,” ribatté con un sospiro, “dai, portami a casa… a casa tua, prima che cambi idea.”

 

Lui si limitò a deglutire e dedicarle un sorriso stanco ma sollevato, prima di mettersi silenziosamente alla guida.

 

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“Scusami per il disordine e gli scatoloni, ma devo ancora sistemare un po’ di cose e non pensavo che…”

 

“Tranquillo, Calogiuri, il disordine è proprio l’ultimo dei miei pensieri,” lo rassicurò, varcando con una certa trepidazione la soglia dell’appartamento e sentendosi, stavolta, lei nel ruolo del vampiro, anzi, della Succuba. Che di succube non avevano proprio niente, anzi, ma avevano l’aspetto di donne e tanto bastava ad appioppare loro un nome del genere.

 

Era mezzanotte passata. Calogiuri, come promesso, aveva fatto un lungo giro dell’oca nel tentativo di seminare chiunque avesse remotamente potuto seguirli e poi aveva ispezionato le scale per assicurarsi che non ci fossero vicini curiosi ancora in giro, prima di farla salire. In effetti era stato talmente accurato che Imma dubitava seriamente sarebbe stata in grado di ritrovare l’appartamento da sola.

 

“E comunque per essere un uomo sotto i trent’anni sei fin troppo ordinato, Calogiuri,” non poté fare a meno di commentare, guardandosi intorno. Sì, c’era ancora qualche scatolone qua e là, ma il resto era tutto pulito in maniera impeccabile.

 

L’appartamento, un bilocale, era arredato con mobili poco costosi, ma scelti con gusto. La stanza che faceva da salone e da cucina aveva un’aria moderna, semplice, a tratti spartana, ma molto luminosa. Ci si sentì inspiegabilmente ed istintivamente a suo agio, nonostante tutto.

 

“Che c’è?” le domandò Calogiuri, probabilmente avendo notato il suo sguardo curioso, con l’aria di chi si sente sotto esame.

 

“Niente, pensavo che ti si addice,” commentò semplicemente con un sorriso.

 

“Grazie,” ricambiò il sorriso, passandosi una mano tra i capelli, in segno di imbarazzo, per poi distogliere lo sguardo, dirigersi verso una delle due porte ed aprirla, poggiando a terra il borsone che aveva scaricato dal bagagliaio, “questa è la stanza da letto e quello è il bagno. Se vuoi iniziare a… prepararti io nel frattempo cambio le lenzuola.”

 

“Ma figurati! Non ce n’è mica bisogno, per una notte,” lo bloccò, indicando poi verso il salotto, “e comunque ci dormo io sul divano. Io ci sto comodamente, tu non credo proprio.”

 

“Non dirlo nemmeno per scherzo! Stavolta sei tu che non mi devi fare arrabbiare,” le intimò con un sorriso, ritorcendole contro la frase che usava più spesso con lui quando non voleva sentire discussioni, “domani sei tu che non puoi permetterti di essere stanca, non io, e in ogni caso sul divano non ti ci farei mai dormire.”

 

Per l’ennesima volta quella sera, le toccò constatare come, sempre più spesso, i ruoli tra loro sembravano ribaltarsi, sebbene sul lavoro lui si fosse, almeno finora, dimostrato sempre estremamente rispettoso del fatto di essere un suo sottoposto. Per carità, visto il rapporto che si era instaurato tra loro, avrebbe dovuto essere pure prevedibile ed auspicabile, per quanto pericoloso, che fuori servizio i loro equilibri si ribilanciassero un po’. Ma Imma non poteva fare a meno di stupirsi ogni volta al pensiero della metamorfosi che aveva subito in questi ultimi mesi il timido ragazzo di Grottaminarda che, quando si erano conosciuti, nemmeno riusciva a sostenere il suo sguardo e tra un po' le chiedeva il permesso pure per respirare in sua presenza.

 

Ora invece era forse l’unico in grado di tenerle testa. Certo, perché lei glielo permetteva, invece di mandarlo a quel paese per direttissima come avrebbe fatto con chiunque altro. Glielo permetteva per via dell’ascendente che lui aveva, volente o nolente, su di lei. Ma non era solo questo. Calogiuri, di fatto, era l’unico che aveva il coraggio di farlo, senza temerne le conseguenze. 

 

Dalle cose piccole ed insignificanti, come in questo caso, a quelle più serie ed importanti. Era l’unico che aveva il coraggio di dirle sinceramente quando pensava che lei stesse esagerando o sbagliando, anche quando non gli conveniva affatto. Era qualcosa a cui non era per niente abituata, né sul lavoro né, le toccava ammetterlo, nel privato. Pietro ci provava ogni tanto, per carità, ma per sua natura evitava i conflitti il più possibile, salvo in casi estremi. E, sebbene detestasse dover ammettere di aver torto e detestasse ancora di più che qualcuno glielo facesse notare, allo stesso tempo c’era qualcosa di estremamente confortante e rassicurante in tutto questo. La faceva sentire meno sola e soprattutto la sgravava da una parte di quel peso di responsabilità che sentiva portarsi sempre sulle spalle. Quello di dover sempre e comunque fare tutto giusto al primo colpo.

 

Ma non lo avrebbe mai ammesso, ovviamente, nemmeno sotto tortura.

 

Persa nei suoi pensieri, si avvide appena in tempo di Calogiuri che estraeva delle lenzuola pulite dall’armadio.

 

“E dai, Calogiuri, ti ho già detto che non c’è bisogno,” lo bloccò, sedendosi sul letto come a comprovare il punto, “va bene che stasera hai deciso di fare il bastian contrario, ma almeno una cosa puoi concedermela?”

 

Per tutta risposta lui sorrise e ripose il tutto nell’armadio. Poi si avvicinò e si chinò verso di lei ed Imma sentì il cuore a mille fin su nella gola. Tanto da non ricordarsi più perché non sarebbe stata una buona idea baciarlo e chiedersi perché fosse stata così scema da non averlo ancora fatto quel giorno.

 

Socchiuse gli occhi e tese il viso, ma non sentì nulla. Li riaprì e vide che Calogiuri si era semplicemente sporto per prendere il cuscino.

 

“Buonanotte, cerca di riposare,” le raccomandò con un sussurro, prima di chinarsi nuovamente e darle sì un bacio, ma sulla fronte.

 

Per tutta risposta, gli prese il viso, prima che potesse rialzarsi, e gli piantò un bacio sulle labbra, staccandosi appena in tempo prima che la famosa fiammella, mai sopita, riprendesse troppo ossigeno.

 

“Buonanotte, cerca di riposare pure tu,” lo congedò, con un sorriso soddisfatto - sempre se ci riesci, mo.

 

Lo osservò scuotere il capo, l’aspetto un po’ imbambolato, afferrare un paio di indumenti dall’armadio e richiudersi la porta dietro le spalle.

 

Era bello sapere di riuscire ancora ad avere l’ultima parola.

 

Si preparò rapidamente per la notte e si infilò sotto le lenzuola, che avevano ancora il profumo di Calogiuri. Non avrebbe saputo dire se fosse per quello o per la stanchezza, ma precipitò rapidamente in un sonno profondo e senza sogni.

 

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Si ridestò di scatto, con un sobbalzo, la sensazione di aver dormito troppo, il terrore di essere in ritardo per l’udienza.

 

Cercò freneticamente il cellulare e l’orario che vi lesse la tranquillizzò da un lato e la gettò in un altro tipo di sconforto dall’altra.

 

Erano le quattro del mattino, aveva dormito poco più di tre ore, giusto il tempo minimo indispensabile, ma ora il suo cervello si era riattivato e le ricordava ossessivamente che c’era l’udienza e che non aveva elementi sufficienti in mano. Il sonno si era del tutto volatilizzato.

 

Dopo aver passato una decina di minuti buoni cercando di riaddormentarsi, presa dalla frustrazione si alzò e, con cautela, aprì la porta della stanza e si avviò verso la cucina, intenzionata a bere un sorso d’acqua. Le ci sarebbe voluta una camomilla, ma era impossibile anche solo pensare di prepararla senza svegliare Calogiuri, che riposava sul divano.

 

Gli passò vicino evitando di proposito di guardarlo, perché sapeva benissimo che sarebbe stato troppo pericoloso farlo e non era questo il momento di farsi venire certi pensieri.


Fece giusto in tempo ad aprire il frigorifero, quando sentì una voce assonnata chiederle, “dottoressa, tutto bene? Non riuscite a dormire?”, facendola sobbalzare.

 

Poco dopo si accese pure la luce, accecandola momentaneamente.

 

“Brillante deduzione, Calogiuri,” lo prese in giro, annotandosi mentalmente il fatto che, nel suo subconscio, Calogiuri evidentemente le desse ancora del voi. In fondo allora non tutto era ancora cambiato.

 

“Non è che avresti della camomi-” gli chiese, girando il capo verso di lui e bloccandosi completamente una volta che vide com’era vestito. O meglio, come non era vestito.

 

Dalla vita in su tutto bene, una t-shirt come gliene aveva viste indossare un’infinità. Ma sotto aveva solo i boxer.

 

Calogiuri seguì lo sguardo di lei ed arrossì visibilmente.

 

“Mi vado a cambiare e torno,” propose, e fece per voltarsi, ma in quel momento Imma chiuse la porta del frigorifero e lui si bloccò bruscamente, diventando ancora più paonazzo, “certo che magari pure tu…”

 

Imma si guardò e realizzò per la prima volta che le sue camicie da notte estive in generale, e questa leopardata in particolare, tra scollatura e la gonna inguinale non è che fossero esattamente coprenti. Ma non pensava certo di dormire a casa di Calogiuri quando aveva fatto la valigia.

 

Per un secondo pensò di andare ad infilarsi i vestiti, poi però qualcosa le scattò dentro, facendole improvvisamente sembrare assurdo e paradossale tutto quell’imbarazzo. Dopo tutto quello che era successo tra loro, oltretutto.

 

“Senti, come hai detto tu stesso non abbiamo quindici anni, no, Calogiuri? Io poi… figurati! Siamo in estate e fa caldo. Non serve che ti rivesti. Mi dici solo se hai una camomilla, che almeno poi ti lascio dormire?”

 

“E secondo te io mo riesco a tornare a dormire?” le domandò a sua volta, avvicinandosi e superandola per raggiungere un’anta da cui estrasse la confezione di camomilla, “e non per... i quindici anni… ma perché vorrei capire come mai sei già sveglia a quest’ora.”

 

“Non mi sembra una cosa così difficile da capire, Calogiuri,” ribattè, osservandolo mentre prendeva un pentolino e metteva l’acqua a bollire.

 

“No, ma vorrei che mi spiegassi esattamente perché sei in ansia. È per le minacce?"

 

Imma non potè trattenere una risata sarcastica. La verità era che la lista di cose che le mettevano ansia in quel momento era talmente lunga che avrebbe potuto andare avanti fino a Ferragosto ad elencarle.

 

Ma incrociò gli occhi di Calogiuri, che la guardava serissimo, con l’aria di chi non si sarebbe arreso, e decise di esprimere almeno quello che poteva esprimere, anche perchè si sentiva sul punto di scoppiare.

 

“No, le minacce da qui mi entrano e da qui mi escono, Calogiuri. È che... temo di fare l'ennesimo buco nell'acqua. Di vedere per l’ennesima volta un bastardo assassino e criminale della peggior specie farla franca solo perché c’ha i soldi e un fratello giudice e le mani in pasta in mezza regione. O perché ho avuto la bella idea di inimicarmi il giudice l'anno scorso, tanto per non farmi mancare niente.”

 

“Ma perché devi già pensare che andrà male? Abbiamo una marea di prove contro Romaniello e gli altri!” esclamò, mentre metteva i filtri nelle tazze e ci versava sopra l’acqua bollente.

 

“Tutte indiziarie, Calogiuri. Tutte indiziarie, non dimenticarlo!”

 

“Ma abbiamo il corpo di Vaccaro e-”

 

“Corpo sul quale però non è stato rilevato niente di utile. Se non il fatto che, qualsiasi sia stata la causa di morte, i pezzi mancanti e presumibilmente sciolti con l’acido l’hanno fatta sparire insieme a loro e la gru ha fatto il resto. L’unico particolare strano emerso dall’intera autopsia è quella discolorazione circolare all’interno dello stomaco. Strana quanto inutile. Nulla che possa ricollegarlo in alcun modo a Romaniello o ai suoi assassini.”

 

“Forse no, ma già il fatto che sia stato ucciso e non sia fuggito perché colpevole dell’omicidio di Aida, come ha sempre sostenuto Latronico, gioca a nostro vantaggio. Per non parlare del fatto che sia sparito proprio mentre si stava indagando su Romaniello e-”

 

“E il DNA non è più utilizzabile ed era l’unica prova certa che collegava Romaniello ad Aida.”

 

“Ma Vaccaro è collegato ad Aida, perché abbiamo trovato i resti sulla sua barca,” ribatté lui, prendendo le tazze e avviandosi verso il divano, poggiandole sul tavolino. Scostò rapidamente cuscino e lenzuolo per fare spazio e le fece cenno di sedersi accanto a lui, “e Vaccaro è collegato ora con certezza alla cupola di Romaniello, Bruno e Scaglione. Abbiamo pure le telefonate fatte da Romaniello a Bruno e Scaglione sia ad agosto scorso, poco prima dell’arresto, sia quando c’è stato il blocco e poi la riapertura del cantiere.”

 

“Telefonate fatte da un numero intestato ad un prestanome, Calogiuri,” gli ricordò con un sospiro, lasciandosi quasi cadere sul divano, “telefono che noi ipotizziamo essere in uso a Romaniello in quanto individuato durante l’ultima perquisizione a casa sua, ma lui sostiene essere utilizzato invece da una delle sue persone di servizio.”

 

“Ma dalle celle agganciate possiamo dimostrare che il cellulare era in possesso di Romaniello e non del domestico. Certo, ci vorrebbe un po’ di lavoro extra per avere un maggior numero di riscontri, ma abbiamo già un paio di casi nei quali il telefono si trovava dove si trovava anche Romaniello, in occasione di eventi pubblici.”

 

“Bene, ma l’esistenza delle telefonate non ne dimostra il contenuto e le tempistiche potrebbero anche essere una fortuita coincidenza nel corso di un continuativo rapporto d’affari.”

 

“Le coincidenze non esistono e sei stata tu ad insegnarmelo,” le ricordò con un sorriso lievemente esasperato.

 

“Sì, ma ora io non sono io, Calogiuri, sono-”

 

“L’avvocato del diavolo, lo so. E ti riesce pure molto bene, ma ora non sarebbe meglio cercare di riposare, invece che continuare a fare le pulci a tutto quello che abbiamo scoperto?” le chiese con un tono quasi implorante, prendendo una delle tazze e porgendogliela.

 

Ma quelle tre parole “avvocato del diavolo” la bloccarono completamente, portandole alla mente il Diavolo, il suo ex presunto padre, Cenzino Latronico. Il padre dell’avvocato con cui si sarebbe dovuta scontrare l’indomani.

 

“Che c’è?” la voce e lo sguardo preoccupati di Calogiuri la riscossero da quei pensieri.

 

“Niente, niente. E comunque pure tu come magistrato non sei poi così male, Calogiuri,” ammise con un sorriso, afferrando la tazza e deviando il discorso, mentre una parte di sé continuava a maledire e benedire al tempo stesso Calogiuri per non aver voluto continuare a studiare. Se l’avesse fatto probabilmente non si sarebbero mai conosciuti, ma a volte le sembrava sprecato pure come maresciallo, sebbene di strada ne dovesse fare ancora tanta.

 

“In ogni caso,” riprese, approfittando del momentaneo silenzio imbarazzato di lui, “la verità è che, te lo ripeto, non abbiamo una prova schiacciante che sia una. E domani, anzi, oggi rischiamo di andare al massacro.”

 

“Ma abbiamo le foto che dimostrano il rapporto tra gli elementi della cupola e il loro coinvolgimento nello scarico di rifiuti tossici. Abbiamo il cadavere di Vaccaro ed una sfilza di elementi gravi, precisi, circostanziati e concordanti e-”

 

“E il manuale è una cosa, Calogiuri, la realtà pratica è un’altra,” sbottò, anche se ammetterlo ad alta voce faceva male perfino a lei, “una prova schiacciante l’avevamo e non è servita a convincere il giudice a procedere per direttissima, figuriamoci se lo farà mo con prove indiziarie. E col rito ordinario, più i suoi fantomatici problemi di salute, Romaniello se ne starà bello bello ai domiciliari a farsi i comodi suoi e avrà tutto il tempo di riorganizzarsi per sfuggirci definitivamente. La verità è che avremmo dovuto avere il tempo di scavare più a fondo, Calogiuri, ma ci è stato tolto da sotto il naso e ormai è troppo tardi.”

 

“Non è troppo tardi! E se Romaniello e soci non ti temessero e non temessero quello che hai già in mano, non avrebbero fatto tutto quello che hanno fatto. Dall’incendio alle minacce al-”

 

“Al trasferimento…” le uscì in un sussurro, mentre rifletteva tra sé e sé.

 

“Quale trasferimento?”

 

Il tono di Calogiuri la riportò alla realtà e il panico che gli lesse negli occhi le provocò, per l’ennesima volta, quel maledetto dolore al petto e quel pizzicore tremendo agli occhi.

 

“Romaniello ha cercato di convincere Vitali a trasferirmi a Rovereto. Ma Vitali si è rifiutato,” chiarì, toccandogli lievemente una mano, “tranquillo, Calogiuri. Ti toccherà sopportarmi ancora per un po’.”

 

Si sorrisero e rimasero in silenzio a sorseggiare la camomilla.

 

“Va un po’ meglio?” le chiese infine Calogiuri, una volta che lei ebbe poggiato la tazza.

 

“Insomma…” sospirò, stropicciandosi gli occhi come se potesse scacciare i pensieri che la tormentavano.

 

“Me lo vuoi dire per una volta a che pensi davvero? Che ti succede?” le chiese, prendendole delicatamente la mano e scostandogliela dagli occhi, “hai fatto di tutto per arrivare fino a qui, per costruire questo caso, per poter andare fino in fondo. E ora invece-” 

 

“E ora invece mi chiedo se non ho sbagliato tutto, Calogiuri. Se non sono stata troppo frettolosa nello scoprire le carte, se non ho fatto il passo più lungo della gamba,” sbottò, per poi fare un respiro profondo e far uscire finalmente ciò che non avrebbe mai voluto ammettere, nemmeno a se stessa, "vuoi la verità, Calogiuri? La verità è che a volte mi sembra di essermi infilata in una cosa troppo grande per me, superiore alle mie capacità, e da cui ne uscirò con le ossa rotte, si spera non letteralmente."

 

"Ascoltami... lo so che sono solo un maresciallo e non ho nemmeno molta esperienza ma… ma io penso che è normale sentirsi così. Che questa è veramente una cosa troppo grande da affrontare da soli. Ma non sei da sola: lo so che hai la parte del lavoro più difficile e delicata, che ce la metti tu la faccia, ma hai un'intera squadra di persone pronte a lottare insieme a te, non dimenticartelo," proclamò deciso, stringendole più forte la mano, "e, per il resto, sei proprio l'ultima persona che dovrebbe mai dubitare delle sue capacità. Ma, in ogni caso, quando ho iniziato a fare questo mestiere e temevo di non farcela, qualcuno mi ha detto che non vince chi è più abile, ma vince chi sa lottare più a lungo senza stancarsi e senza arrendersi mai. Non mi vorrai mica dire che aveva torto? Perché lo so che odia avere torto."

 

Imma sentì il cuore scoppiare nel petto, le lacrime che le rigavano il viso, mentre non riuscì a trattenere una risata, né l'impulso di abbracciarselo più forte che poteva.

 

"Grazie… grazie..." gli sussurrò, mentre si sentiva stringere con una forza ed una dolcezza che non facevano che aumentare la commozione, per poi aggiungere, ironicamente, "e comunque, con quel taccuino ti stai facendo una memoria fin troppo buona, Calogiuri. Cos’è, da ora in poi ogni cosa che dirò potrà essere usata contro di me?"

 

"E va beh… mi dovrò pure difendere in qualche modo, avendo a che fare tutti i giorni con un casellario giudiziario vivente."

 

Per tutta risposta gli colpì leggermente il petto e poi ci si lasciò sprofondare, chiudendo gli occhi e godendosi quel calore, quel contatto che, non avrebbe saputo spiegare come, ma faceva affievolire ad una ad una tutte le ansie, tutte le preoccupazioni. Fino a non sentire più niente, se non un inspiegabile senso di pace.




 

Nota dell’autrice: Vi voglio ringraziare innanzitutto per tutto il supporto che ho ricevuto dopo la pubblicazione di questa storia: grazie mille davvero, mi date una grande motivazione a proseguire a scrivere, cercando di fare sempre meglio.

 

Ringrazio inoltre chi ha dedicato il suo tempo a leggere questo secondo capitolo, sperando che vi abbia intrattenuto e non abbia deluso le attese. Come sempre, ogni commento, positivo o negativo, mi è utilissimo per capire cosa posso migliorare e come tarare meglio le cose per i prossimi.

 

Vi dico già che il successivo arriverà esattamente tra una settimana, domenica per essere precisi. Mi scuso per l’attesa settimanale, ma col mio lavoro è l’unico modo per garantire una pubblicazione regolare e non rischiare di lasciar poi passare troppo tempo tra un capitolo e l’altro.

 

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 3
*** Rinvio a Giudizio ***


Nessun Alibi

 

Capitolo 3 - Rinvio a Giudizio

 

Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Il trillo martellante di una sveglia la ridestò bruscamente.

 

Intontita, sentendosi la bocca impastata, come se avesse preso dei sonniferi, ed un principio di mal di testa, allungò una mano per cercare a tastoni il cellulare.

 

Solo che, invece del comodino, le sue dita toccarono stoffa e muscoli, troppi muscoli per trattarsi di Pietro.

 

Aprì gli occhi di scatto e, mentre malediceva il dolore lancinante alla base del cranio, realizzò contemporaneamente tre cose.

 

Non era a casa sua ma nell’appartamento di Calogiuri, si erano in qualche modo addormentati sul divano e in questo preciso momento si trovava mezza spalmata su di lui, che pure nel sonno le cingeva la vita in un abbraccio.

 

La quarta cosa che realizzò fu che il maresciallo aveva un sonno di pietra, considerando che nemmeno l’insistenza della sveglia sembrava averlo minimamente turbato - eh, beata gioventù!

 

“Calogiuri… Calogiuri… Calogiù!” lo chiamò, via via con più forza, toccandogli prima il petto e poi il viso, “e dai, svegliati, che dobbiamo andare in procura.”

 

“Dottoressa?” le chiese, intontito e assonnato, aprendo finalmente le palpebre, con un’aria confusa, che presto lasciò spazio ad un sorriso luminoso e a quel modo di guardarla che aveva solo lui, come se fosse una specie di apparizione divina.

 

Dovette fare leva su tutto il suo autocontrollo per bloccare il collo e resistere all’impulso di baciarlo: il tempo stringeva e non poteva permettersi alcuna distrazione. E, nella posizione in cui erano e non vestiti come erano, bastava pochissimo per combinare un macello.

 

Dopo un attimo di indecisione su dove posare le mani, fece leva sul petto di lui, si sollevò e lo scavalcò il più rapidamente possibile, ignorando le scosse elettriche che il contatto tra le loro gambe nude le provocava, atterrando in qualche modo in piedi sul pavimento.

 

“Dai, Calogiuri, muoviti che abbiamo poco tempo. Veloce! E meno male che non mi avresti mai fatta dormire sul divano!”

 

Per tutta risposta, Calogiuri scoppiò a ridere e scosse il capo con uno sguardo tra l’incredulo, l’affettuoso e l’esasperato.

 

“Va bene, va bene,” concesse, mettendosi seduto e passandosi una mano tra i capelli, per poi tirarsi in piedi a fatica, “se vuoi andare per prima in bagno, intanto preparo la colazione. Che cosa prendi di solito?”

 

“La cosa a più alto tasso di caffeina che hai in casa, Calogiuri. Doppia,” replicò, sorridendo tra sé e sé al tono del “agli ordini, dottoressa!”, che la seguì fino in bagno.

 

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“Dottoressa! Che piacere rivederla. Noto che il suo cavalier servente non la abbandona mai!”

 

Quasi in automatico, fece un cenno della mano verso Calogiuri, come a dirgli stai calmo.

 

Signor Romaniello, il piacere di vederla qui oggi è veramente tutto mio,” ribatté con un sorriso sarcastico, “e comunque ride bene chi ride ultimo.”

 

“Infatti, dottoressa, infatti,” proclamò con il tono e il sorriso di chi è già sicuro della vittoria, facendole l’occhiolino ed entrando in aula.

 

Vide con la coda dell’occhio Calogiuri stringere i pugni e, di nuovo, gli fece cenno di calmarsi.

 

Un ultimo sguardo d’intesa, un respiro profondo, ed entrò nella gabbia dei leoni.

 

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“Signor giudice, il castello accusatorio presentato non sta in piedi. Queste foto non comprovano nulla, se non un semplice incontro di affari, a patrocinio di un progetto che il mio cliente riteneva essere utile per la riqualificazione del territorio. Il mio cliente è completamente estraneo alla vicenda dei rifiuti tossici rinvenuti nel cantiere e a qualsiasi evento criminoso ivi avvenuto. I cantieri infatti non erano gestiti dal mio cliente, che non si occupa certo di edilizia, ma dall’architetto Bruno e dal defunto Scaglione. Che si è suicidato proprio per evitarsi il carcere, è evidente.”

 

“Peccato che l’avvocato Latronico sembri dimenticare che le prove in questione mi siano state fornite proprio da Scaglione in persona, che quindi non aveva alcun motivo di suicidarsi per evitarsi l’incarcerazione, né di scaricare le colpe su altre persone, avendo scelto lui stesso di confessare.”

 

“Supposizioni, siamo di nuovo alle supposizioni, signor giudice. La verità è che i veri colpevoli di questa storia non sono qui in aula oggi, ed è a loro che andranno poste queste domande.”

 

“E lo faremo, avvocato, a tempo debito lo faremo. Peraltro, sarebbero stati presenti all’udienza preliminare se proprio voi non aveste chiesto di anticiparla straordinariamente per il vostro cliente. Perché farlo, se avevate tutto questo interesse ad avere un confronto con loro?”

 

“Presidente, chiedo che la dottoressa si attenga all’argomento oggetto del dibattimento ed eviti insinuazioni lesive della dignità del mio cliente, che non ha di certo colpa se si trova ad affrontare gravi problematiche di salute.”

 

“Dottoressa, si attenga agli atti, per favore. E agli elementi di prova in suo possesso, che mi auguro siano più convincenti e rilevanti di qualche fotografia di dubbia provenienza.”

 

“Signor giudice, le garantisco che l’impianto accusatorio si basa su prove solide, numerose, circostanziate e concordanti, di cui le fotografie che lei menziona sono solo uno dei molti elementi a corroborare la tesi da me sostenuta,” articolò, dicendo tutto senza dire niente, per prendere tempo, sforzandosi di mantenere un tono calmo, anche se dentro di lei stava montando il panico, “le chiedo una sospensione di dieci minuti.”

 

Sapeva che fare questo genere di richiesta era un segnale di debolezza, ma aveva assolutamente bisogno di riordinare le idee e, soprattutto, le prove.

 

“Concessa, tuttavia le chiedo di cercare di essere il più chiara e concisa possibile, al rientro dalla pausa, nel presentare gli elementi probatori in suo possesso.”

 

Se me lo consentissi, magari, invece di lasciare che Latronico guidi il dibattimento nella direzione che gli fa più comodo, e prendere per buona ogni sua obiezione - pensò, conficcandosi le unghie nei palmi per non rispondere e non peggiorare la situazione.

 

Si voltò e vide Calogiuri già pronto vicino alle porte, un’espressione preoccupata sul viso. Si avviò a passo rapido verso di lui, almeno fino a quando fu intercettata da Romaniello, che si muoveva per l’aula come se fosse il salotto di casa sua.

 

“Dottoressa, quando tutto questo sarà finito e tutto sarà chiarito, mi auguro avremo l’occasione per una cena. Non serbo rancore e mi pare proprio che abbiamo un discorso in sospeso noi due,” pronunciò con studiata lentezza e sarcasmo, per poi rivolgere un’occhiata a Calogiuri, che si era affrettato a raggiungerli e si era affiancato tra lei e Romaniello, “magari senza la guardia del corpo personale.”

 

“Mi dispiace deluderla, ma il cibo delle mense carcerarie mi è assai indigesto, signor Romaniello. Ma non si preoccupi, sono certa che potrà godere della compagnia di molti commensali a lei sicuramente più affini.”

 

Senza dargli il tempo di ulteriori repliche, guadagnò l’uscita, il suono familiare dei passi di Calogiuri che la seguivano a breve distanza.

 

Spalancò la porta dell’ufficio a lei temporaneamente riservato e, non appena la udì chiudere alle sue spalle, si avventò sulla scrivania e gettò a terra il primo faldone che le capitò tra le mani.

 

“Dottoressa…” un sussurro e una mano sulla spalla, “per favore, cercate di cal-”

 

“Non t’azzardare nemmeno a dirmi di calmarmi, Calogiuri!” sbottò, scostandosi bruscamente e torcendo il collo per fulminarlo con un’occhiataccia che avrebbe incenerito un pezzo di ghiaccio.

 

Lo sguardo da cane bastonato la trafisse insieme ad un momentaneo senso di colpa, ma la furia sovrastava tutto e quando qualcuno le diceva di stare calma o tranquilla, l’unico risultato era, da sempre, quello di farla incazzare mille volte di più. E perfino Calogiuri non faceva eccezione.

 

“Che ti avevo detto, eh?! Che ti avevo detto?! Questo è un copione già scritto, Calogiuri, già scritto da giorni, anzi, da mesi! Il giudice pende dalle labbra di Latronico, forse perché gli conviene, forse perché gli sto sul gozzo io, forse perché avrà paura di Romaniello. Ma-”

 

“Ma siamo appena all’inizio del dibattimento, dottoressa, avete presentato solo le prime prove e c’è ancora da parlare degli omicidi di don Mariano, Aida e soprattutto di Vaccaro e-”

 

“Appunto Calogiuri! Siamo solo all’inizio e mi stanno già mettendo all’angolo. E me lo vedo già, come in uno specchio, il giudice, bello bello, che si beve la versione di Latronico: don Mariano l’ha ucciso Iannuzzi per gelosia nei confronti della moglie; Aida l’ha uccisa il suo protettore, Vaccaro, e quest’ultimo è stato fatto fuori da Scaglione con la complicità di Bruno, magari perché li ricattava per la storia dei rifiuti tossici o chissà che altro. Romaniello una povera anima innocente, ricattato da Vaccaro per le sue frequentazioni con prostitute. E che si è ritrovato coinvolto, suo malgrado, nell’affare edile della cupola di Scaglione e Bruno. Risultato: rito ordinario, arresti domiciliari e arrivederci e tante care cose.”

 

Calogiuri non rispose, limitandosi a raccogliere le carte sparse a terra e rimetterle sulla scrivania, guardandola preoccupato, con l’aria di chi sapeva bene quando era il caso di stare zitto e lasciarla sfogare.

 

“Te l’avevo detto, Calogiuri, che non avevamo abbastanza in mano, che dovevamo avere il tempo di scavare più a fond-”

 

La frase le morì in gola, mentre un lampo passò negli occhi di Calogiuri, che si spalancarono increduli. E non avrebbe saputo dire se l’idea fosse venuta prima a lui o a lei, in uno di quei momenti perfetti, da film, in cui due persone, all’improvviso, si ritrovano a formulare lo stesso identico pensiero e ad esserne del tutto consapevoli.

 

“Calogiuri…”

 

“Penso a tutto io, dottoressa, non vi preoccupate,” la rassicurò, avviandosi verso la porta, “non sarà facile trovare persone disponibili il 13 di agosto, ma ce la faremo. Voi cercate di tirare avanti l’udienza il più a lungo possibile.”

 

“Calogiuri,” lo bloccò, quando aveva già la mano sulla maniglia, “veloci ma accurati, mi raccomando. Seguite alla lettera tutte le procedure, non possiamo permetterci alcun margine di errore, va bene?”

 

“Agli ordini, dottoressa!” la rassicurò, facendole l’occhiolino e richiudendo la porta dietro di sé.

 

Pregando qualsiasi divinità fosse in ascolto - e che non l’avesse già scomunicata - che l’intuizione comune fosse un presagio e non solo un delirio frutto della disperazione, raccolse le carte e le idee e si preparò mentalmente alla battaglia.

 

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“Signor giudice, mi pare evidente che il Vaccaro sia stato ucciso da qualcuno nell’organizzazione che fa capo a Bruno e al defunto Scaglione. Oltre all’attività di sfruttamento della prostituzione, sarà stato coinvolto anche in quella dello smaltimento dei rifiuti tossici, avrà tentato di ricattarli magari, come ha tentato di fare con il mio cliente per la sua frequentazione occasionale con la Bassir e sarà stato messo a tacere.”

 

Latronico era prevedibile come un orologio svizzero, tutto come da copione e il giudice, sempre come da copione, pareva dare, chissà perché, molto più credito alle sue di tesi.

 

“Signor giudice, il fatto che il cadavere di Vaccaro sia stato ritrovato nel cantiere di Bruno e Scaglione non significa automaticamente che questi ultimi siano i fautori del suo omicidio. Abbiamo comprovato i rapporti prolungati diciamo… di affari che intercorrevano tra il signor Romaniello e Scaglione e Bruno. E l’imputato è la persona che più di tutte avrebbe beneficiato della morte di Vaccaro, avvenuta oltretutto proprio in concomitanza con il suo arresto per l’omicidio della Bassir. Non solo perché, come ammesso dal signor Romaniello stesso, Vaccaro lo ricattava e, no, signor giudice, non solo per qualche… indiscrezione con una prostituta, ma per l’omicidio di Aida Bassir. Ma proprio per far ricadere l’omicidio della Bassir sul Vaccaro, inscenandone la fuga. Mentre non mi pare che ci sia alcuna prova che suggerisca un qualche interesse di Bruno e Scaglione nell’omicidio del Vaccaro. Anzi, non esiste alcuna evidenza che comprovi alcun contatto tra Vaccaro, Bruno e Scaglione, nemmeno una telefonata.”

 

Si sentiva esausta: erano le 16 ormai ed erano più di sette ore, considerato le pause, che ribatteva colpo su colpo gli attacchi di Latronico. Era bravo a fare il suo mestiere il suo ex presunto fratello, lo doveva ammettere, probabilmente il migliore a Matera. Peccato che usasse le sue abilità per coprire i criminali della peggior specie.

 

“Signor giudice, non esisterà alcuna evidenza che comprovi i contatti tra il Vaccaro, Bruno e Scaglione, ma non esiste nemmeno alcuna evidenza certa che comprovi che il mio cliente si sia mai recato su quel cantiere, cosa che il mio cliente nega fermamente.”

 

“Gli omicidi si possono effettuare anche su commissione, avvocato Latronico e-”

 

“Tutte ipotesi, dottoressa, solo ipotesi. Lei dipinge il mio cliente come se fosse a capo di una cupola di criminalità organizzata, ma di fatto qui le uniche prove di un’organizzazione di alcun tipo sono proprio quelle che ricollegano Bruno e Scaglione tra loro e all’omicidio del Vaccaro. Tutto il suo castello accusatorio nei confronti del mio cliente si basa su elementi indiziari, dottoressa,” la interruppe Latronico e Imma sapeva già cosa avrebbe detto dopo. Sentì il sapore del panico e della sconfitta montarle il gola. Era finita, aveva esaurito tutte le prove e gli argomenti e non sapeva più come procrastinare l’inevitabile, “se non vi sono elementi probatori che colleghino inequivocabilmente il mio cliente all’omicidio di Vaccaro o di don Mariano o allo smaltimento dei rifiuti tossici, chiedo che venga rigettata la richiesta di procedere per direttissima e di addivenire invece al rito ord-”

 

Proprio in quel momento, sentì il rumore delle porte spalancarsi ed il panico si tramutò in un’assurda, folle speranza.

 

Si voltò ed incrociò gli occhi di Calogiuri che le sorridevano, un’espressione di trionfo sul volto che le sembrò improvvisamente la cosa più bella che avesse mai visto in vita sua.

 

“Dottoressa Tataranni, ci sono ulteriori elementi probatori che vuole sottoporre all’attenzione della corte? In caso contrario non posso che-”

 

“Signor giudice, le chiedo una pausa di dieci minuti.”

 

“Dottoressa, con tutto il rispetto questa è la terza sospensione che richiede e se non ci sono ulteriori elementi-”

 

“Ci sono ulteriori elementi signor giudice, o meglio, ci saranno se mi concede questi dieci minuti di pausa. Le garantisco che se, al rientro dalla sospensione, non avrò un nuovo elemento da sottoporle nell’immediato, accetterò la sua decisione senza ulteriori obiezioni.”

 

Il giudice sembrò esitare per un attimo, poi con un sospiro concesse la pausa.

 

Ignorando l’espressione sorpresa e contrariata di Latronico e i commenti brillanti di Romaniello, si fiondò verso la porta, raggiungendo Calogiuri come fosse un’oasi nel deserto, o forse, più appropriatamente, un miraggio.

 

Non poté trattenersi dal ricambiare il sorriso, afferrandolo per un braccio e trascinandolo, praticamente di corsa, fino all’ufficio.

 

“E allora? Che hai scoperto?” gli domandò d’un fiato, appena la porta venne richiusa alle loro spalle.

 

“Che avevate ragione voi, dottoressa, come sempre,” le rispose Calogiuri con quel tono sinceramente ammirato che non le aveva mai fatto dubitare lui volesse solo ingraziarsela, ogni volta che si sperticava in complimenti, “c’era davvero qualcosa che Romaniello e Latronico non volevano che noi scoprissimo, scavando più a fondo.”

 

“E invece avevi ragione pure tu, Calogiuri: nelle carte non c’era proprio nient’altro da trovare,” ribatté con altrettanto sincera ammirazione. Era incredibile quanto fosse cresciuto in quest’ultimo anno, professionalmente e non solo.

 

“Ma mo se non mi tiri fuori quello che hai trovato entro i prossimi cinque secondi, ti faccio perquisire, Calogiuri,” gli intimò con un sorriso, vedendolo arrossire e poi lanciarle uno sguardo che le fece sentire le gambe tremolanti, nonostante il contesto, l’ansia e l’agitazione.

 

“Non mi tentate, dottoressa,” le sussurrò, prima di estrarre qualcosa dalla tasca dei pantaloni, fare un sorrisetto divertito e proclamare, “e comunque… ho trovato la fede.”

 

“Ah, bene. E a che religione ti saresti convertito, Calogiuri?” gli domandò, strappandogli quasi di mano il sacchetto sigillato.

 

Un anello, un singolo anello che, un po’ ammaccato, luccicava sospeso nella plastica.

 

Non l’avrebbe resa più felice nemmeno se si fosse presentato con un solitario da cinque carati.

 

“Questa non è una fede, Calogiuri,” precisò, infilandosi il guanto che lui le stava porgendo, aprendo il sacchetto ed estraendone il gioiello, sentendosi improvvisamente come quella specie di mostriciattolo dei film del Signore degli Anelli, che tanto piacevano a Valentina qualche anno prima.

 

Quello che teneva in mano era veramente il suo tesoro.

 

“Questo anello è un sigillo. Qui sopra c’è lo stemma dei Romaniello, riconoscibile, pure se un poco rovinato e qui dentro…”

 

Il nome Saverio, inciso nell’oro, le stampò sul viso un sorriso trionfale che nemmeno un mese con sua suocera e la Moliterni messe assieme le avrebbe potuto levare. Sempre sia lodata la pomposa autoreferenzialità delle famiglie di origini nobiliari.

 

“Era incastrato nel cemento, appena un paio di metri sotto a dove abbiamo rinvenuto il cadavere. Deve essere caduto nel cemento ancora fresco. L’altra volta non abbiamo pensato di usare il metal detector, ma solo i cani e gli infrarossi e invece...”

 

“Le foto dell’autopsia, Calogiuri, le dobbiamo recuperare prima di subito,” gli ordinò, proiettandosi verso la scrivania ed iniziando a scartabellare.

 

“Eccole, dottoressa!” esclamò dopo qualche minuto di ricerca, passandole il fascicolo.

 

Lo aprì ed il sorriso trionfale si trasformò in una risata liberatoria.

 

D’istinto, afferrò Calogiuri per il bavero e gli scoccò un bacio sulle labbra, soffocandogli un’esclamazione di sorpresa, incurante del trovarsi in tribunale, l’adrenalina e le endorfine a mille.

 

“Grazie…” gli sussurrò nell’orecchio, abbracciandoselo per qualche secondo, prima di dirigersi di corsa verso l’aula.

 

Ride bene chi ride ultimo.

 

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“Signor giudice, questa prova non è agli atti e chiediamo quindi che non venga valutata nel dibattimento odierno, non avendo avuto la difesa il tempo di analizzarla.”

 

“Signor giudice, la prova è stata rinvenuta in data odierna, alla presenza di agenti della scientifica e di svariati agenti e di un sottufficiale di polizia giudiziaria. Le ricordo che questa udienza avrebbe dovuto svolgersi tra un mese ed è stata anticipata per i problemi di salute del signor Romaniello. Questo al fine di evitare ulteriori rinvii. Ma ciò ha creato un’enorme pressione sulle indagini e sul reperimento di elementi probatori, lasciandoci pochissimo tempo a disposizione, non per nostra volontà o colpa. Chiedo dunque che questa prova, che è risolutiva, venga inserita agli atti odierni, proprio per evitare ulteriori rinvii e lungaggini giudiziarie che, le garantisco, risulteranno assolutamente non necessari dopo averle sottoposto la prova in questione.”

 

“D’accordo, dottoressa, considerato il poco tempo a vostra disposizione per le indagini, concedo che questa prova venga introdotta nel dibattimento. A suo rischio e pericolo, dottoressa.”

 

“La ringrazio signor giudice,” sorrise trionfante, adocchiando lo sguardo spaventato e incerto di Latronico e Romaniello, “l’accusa chiama a testimoniare Romaniello Saverio.”

 

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“Riconosce questo anello, signor Romaniello?”

 

Lo sguardo furente e carico d’odio che ricevette fu la conferma di avere finalmente in mano la vera pistola fumante: l’uomo senza volto aveva infine gettato la maschera.

 

“Si tratta… si tratta del mio sigillo, dottoressa. L’ho perso, o forse mi è stato rubato, svariati mesi orsono.”

 

“Mi saprebbe dire quanti mesi orsono?”

 

Silenzio.

 

“Mi saprebbe dire come questo anello sia finito incastrato nel cemento delle fondamenta del cantiere di Marina di Ginosa?”

 

“Forse… immagino mi sarà caduto durante una mia visita al cantiere…” provò ad articolare Romaniello ed Imma seppe di averlo in pugno.

 

“Ma come, signor Romaniello? Ha dichiarato lei stesso di non aver mai messo piede in quel cantiere. Lo ha confermato perfino il suo avvocato, nemmeno un'ora fa.”

 

“Sa… io visito molti luoghi nel corso di un anno… magari mi sarò confuso. O forse l’anello mi fu rubato proprio da Vaccaro.”

 

“Ma sa che ha proprio ragione, signor Romaniello? Questo anello le fu veramente sottratto dal signor Vaccaro,” replicò Imma con il sorriso del gatto che gioca col topo, vedendo Romaniello, Latronico e il giudice fare un’espressione sorpresa.

 

“La vede questa foto, signor Romaniello? Questa foto ritrae l’interno dello stomaco di Vaccaro, o quello che ne resta. Nota questa strana discolorazione circolare? Signor giudice, le ricordo che questa foto è di dimensioni reali. E ora guardi che succede se sovrappongo l’anello a questa immagine.”

 

Posò foto e anello sul banco del giudice e, sebbene quest’ultimo fosse ammaccato, combaciavano che manco la scarpetta di Cenerentola.

 

“Abbiamo chiesto conferma al dottor Taccardi, che è disponibile telefonicamente se lo ritiene necessario, e ritiene che la discolorazione sia perfettamente compatibile con l’anello in questione e si sia formata quando l’anello è rimasto nello stomaco del Vaccaro post mortem. Signor Romaniello, mi saprebbe dire per caso perché il suo sigillo era nello stomaco di Vaccaro?”

 

Romaniello la trafisse con uno sguardo che avrebbe potuto uccidere ma restò in silenzio.

 

“Non ho altre domande, signor giudice.”

 

“Avvocato Latronico, vuole procedere al controinterrogatorio?”

 

Ma Latronico rimase immobile, l’aspetto di chi non sa più che pesci pigliare, né a cosa aggrapparsi e scosse lentamente il capo.

 

“Signor giudice, se mi permette vorrei formulare la mia ipotesi conclusiva.”

 

“Prego, dottoressa Tataranni,” concesse il giudice, sembrando improvvisamente pendere dalle sue di labbra.

 

“Signor giudice, le ricordo che Vaccaro già in precedenza aveva cercato di ricattare Romaniello e di indirizzarci verso la colpevolezza di quest’ultimo nel caso Bassir. Questo sia nella scelta dei luoghi ove fare ritrovare i pezzi di Bassir Aida, sia facendoci ritrovare il bacino della vittima nella sua barca, con il DNA purtroppo ormai inutilizzabile. Il Vaccaro doveva essersi tenuto un’ultima, estrema assicurazione sulla vita. Probabilmente in occasione dell’omicidio di Aida, aveva sottratto al signor Romaniello il suo anello e lo ha conservato. Quando ha capito che per lui era finita lo ha ingoiato, sperando così di lasciare a chi lo avrebbe ritrovato un indizio decisivo sull’identità del suo assassino, o meglio, di chi lo ha mandato a morte. Ma, forse perché il corpo è stato fatto a pezzi o forse in un atto volontario di chi ha provveduto a liberarsi dei resti di Vaccaro in quel cantiere, nel tentativo di procurarsi un’assicurazione sulla sua di vita, l’anello è fuoriuscito dallo stomaco di Vaccaro ed è rimasto incastrato nel cemento un paio di metri più sotto. Visti tutti gli elementi probatori da me presentati, signor giudice, chiedo che si proceda per direttissima.”

 

“L’avvocato Latronico ha obiezioni?” domandò il giudice, ma venne accolto solo dal silenzio più totale, “in tal caso mi ritiro per formulare una decisione.”

 

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“Visti gli elementi in mio possesso, condanno l’imputato Romaniello Saverio alla pena di anni trenta di reclusione, in quanto mandante dell’omicidio e dell’occultamento di cadavere di Vaccaro Simone. In riferimento ai capi di imputazione dell’omicidio ed occultamento di cadavere di Bassir Aida, dell’associazione per delinquere, finalizzata allo sversamento abusivo ed al traffico di rifiuti tossici e dell’omicidio di don Mariano Andrisani, dispongo che si proceda per rito ordinario. In considerazione del rischio di fuga e di reiterazione del reato, dispongo quindi che l’imputato, Romaniello Saverio, venga immediatamente tradotto in carcere e dispongo altresì ulteriore perizia medica, al fine di accertare l’effettiva necessità dell’intervento chirurgico a cui l’imputato dovrebbe sottoporsi e le tempistiche per fissare le successive udienze dei procedimenti ancora aperti a suo carico.”

 

Non ci credeva, non ci poteva credere: si sentiva allo stesso tempo piena di adrenalina e come un palloncino che improvvisamente si svuota del tutto.

 

Ce l’aveva fatta, ce l’aveva fatta, anzi, ce l’avevano fatta!

 

Si voltò d’istinto verso Calogiuri e trovò uno sguardo commosso ed orgoglioso ed un sorriso luminoso che ne era certa, riflettevano i suoi.

 

Afferrò la borsa e gli si avvicinò, facendosi largo tra la folla, i primi giornalisti che cominciavano ad assediarla per avere una sua dichiarazione. Calogiuri la raggiunse a metà strada, frapponendosi tra lei e la stampa, in quella routine talmente consolidata da sembrare quasi una danza.

 

Dovette inchiodarsi le mani ai fianchi per resistere all’impulso di abbracciarlo. Attese che fossero fuori dall’aula e fuori dalla portata delle orecchie dei giornalisti, per avvicinarsi leggermente e sussurrargli, “grazie! Non dimenticherò mai quello che hai fatto oggi per me, Calogiuri.”

 

Per tutta risposta, lui le regalò un sorriso, se possibile, ancora più ampio, “grazie a voi per la fiducia, dottoressa. E poi avete fatto praticamente tutto voi: siete stata incredibile in aula!"

 

“Ma che quadretto commovente! Certo che siete proprio una bella coppia voi due!”

 

La voce di Romaniello, ammanettato e circondato dalle guardie carcerarie, la ridestò bruscamente dalla bolla in cui si trovava e la fece voltare di scatto verso di lui, allontanandosi quasi inconsciamente di un passo da Calogiuri.

 

“Già, veramente una bella coppia, anche se improbabile,” sibilò Romaniello ed Imma notò che, per la prima volta, sembrava dedicare lo stesso identico tipo di sguardo e di ostilità a lei e al maresciallo, e non a trattarlo solo come una sua appendice, “su di voi Shakespeare avrebbe scritto una bellissima tragedia.”

 

“Per le sue battute da gangster da operetta, invece, nessun autore sano di mente sprecherebbe una riga di carta, signor Romaniello,” sibilò, cercando di non mostrare né la rabbia, né la benché minima traccia di paura, “e, come le ho già detto, ride bene chi ride ultimo. Si goda i suoi nuovi commensali, signor Romaniello.”

 

“Infatti, dottoressa, infatti: siamo solo all’inizio, ci sono ancora due gradi di giudizio e tre processi aperti. Vedremo chi riderà alla fine, dottoressa.”

 

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Socchiuse gli occhi, godendosi la sensazione dell’aria fresca sul viso e sui capelli.

 

Si sentiva euforica, quasi ubriaca, pur non avendo toccato una sola goccia d’alcol, l’adrenalina e le endorfine che le pompavano con il sangue ad un ritmo forsennato.

 

Quella appena ottenuta era, senza ombra di dubbio, la più grande vittoria della sua carriera. Certo, aveva vinto una battaglia e non la guerra. Ma anche solo vincere quella battaglia era più di quanto fosse lecito sperare nel marciume di mondo in cui viveva e che, fin da quando era bambina, aveva in ogni modo lottato per cambiare.


E, forse, nel suo piccolo, ci stava riuscendo.

 

“È veramente una droga, non è vero, dottoressa?”

 

Aprì gli occhi e trovò Calogiuri che la fissava in quel modo tanto assurdo, quanto pericoloso, come solo lui faceva.

 

“Già, solo che è assolutamente legale e fa pure bene ad un sacco di gente,” sospirò soddisfatta, prima di aggiungere, ironica, “insomma, veniamo pagati per farci la nostra dose quotidiana, Calogiuri, e coi soldi dei contribuenti, per giunta.”

 

“Ci siamo scelti un bel mestiere, eh, dottoressa?”

 

“Al netto delle beghe, delle procedure, dei mal di stomaco e di certi colleghi, direi proprio di sì, Calogiuri,” concordò, per poi aggiungere, dopo un attimo di esitazione, “soprattutto quando si ha la fortuna di lavorare con qualcuno su cui si può contare davvero. E non è per niente scontato.”

 

Istintivamente, allungò una mano fino a raggiungere quella di lui sul cambio, intrecciò le loro dita e gli sorrise.

 

La verità era che senza di lui quella vittoria non l’avrebbe ottenuta e non l’avrebbe mai, ma proprio mai, potuto ringraziare abbastanza.

 

“Beh… direi che questa vittoria va festeggiata, no, dottoressa?” le domandò, sembrando leggerle nel pensiero, dopo qualche attimo di silenzio, stringendole di più la mano ed accostando improvvisamente la macchina, in una strada a un paio di chilometri da casa di lei.

 

Imma si guardò intorno, chiedendosi se ci fosse qualcosa nei paraggi, ma vide solo una fila di anonimi caseggiati.

 

“Che… che ne diresti se… ti preparassi qualcosa per cena?”

 

Poche parole, pronunciate a fatica, quasi balbettando, ed Imma sentì il cuore in gola, il viso caldo ed un senso improvviso di panico misto a eccitazione. O forse eccitazione mista a panico.

 

“Intendi dire… cucinare tu… a casa tua?” gli domandò, sia per accertarsi di aver capito bene, sia per prendere tempo.

 

“Ti inviterei a cena fuori ma… immagino che non sia il caso qui a Matera,” chiarì Calogiuri, passandosi una mano tra i capelli, le guance in fiamme.

 

E aveva ragione, per carità, aveva assolutamente ragione, ma Imma sapeva benissimo le implicazioni di accettare un invito simile e le aveva ben chiare anche Calogiuri, a giudicare dal suo imbarazzo. Specie se confrontato con la decisione con cui l’aveva invitata a casa sua la sera precedente, quando l’unico scopo della serata era realmente dormire e non-

 

Consumare ricotta fuori dalle mura domestiche, Tataranni - le ricordò la voce di Vitali, che momentaneamente era di nuovo il suo grillo parlante.

 

“E che cosa prevederebbe il menù, Calogiuri?” chiese, sia per riempire il silenzio che si faceva sempre più carico di tensione, sia per guadagnare ancora un po’ di tempo per riordinare le idee nella sua testa, che in questo momento pareva fatta di uova strapazzate.

 

“Te lo ricordi lo spaghetto dell’appuntato?” le domandò con un sorriso ed Imma non riuscì a trattenere una risata.

 

“Come no!” scosse il capo, sorridendo, mentre sentiva la tensione piano piano evaporare, tanto da non riuscire a resistere al ribattere, “ma dopo un anno di attesa le aspettative potrebbero essere molto alte e molto difficili da soddisfare, Calogiuri.”

 

Calogiuri assunse il colore di un peperone crusco ed Imma si sentì avvampare ancora di più, non appena si avvide del tutto di che cosa avesse appena detto e, soprattutto, insinuato. Altro che gli spaghetti pomodoro e basilico!

 

“È un rischio che sono disposto a correre, dottoressa,” le sussurrò, lanciandole un’occhiata decisa, in totale contrasto con le guance paonazze, con quel misto di coraggio e timidezza che lo rendeva così maledettamente irresistibile.

 

“Va bene...” le parole le uscirono di bocca, quasi senza rendersene conto, le labbra che si tendevano in un sorriso nervoso.

 

Il dado era tratto.

 

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Si guardò allo specchio, aggiustandosi il vestito per l’ennesima volta.

 

Ironia della sorte, dei tre cambi infilati nel borsone, uno era proprio il vestito indossato quella famosa sera in cui Calogiuri le aveva formulato quella specie di mezzo invito, di fronte a casa sua.

 

Se fosse una straordinaria coincidenza o una scelta inconscia non era qualificata per dirlo e, francamente, gliene fregava pure ben poco.

 

La verità era che in quel momento, mentre adocchiava a turno la sua immagine riflessa e il letto alle sue spalle, le tornava in mente Stella, Stella Pisicchio.

 

Imma non era di certo vergine, e pure da mo, tutt’altro: il sesso le piaceva eccome e non se ne era mai vergognata, anzi. Si era sempre ritenuta fortunata della sua vita sessuale e negli anni aveva pure accumulato una discreta esperienza.

 

Il problema era che tutta la sua esperienza si riconduceva ad un’unica persona e si sentiva come un nuotatore provetto ma abituato solo alla piscina di casa, che si trovi improvvisamente a doversi tuffare nell’oceano.

 

Nel cliché delle relazioni tra donne più mature e uomini più giovani, lei avrebbe dovuto essere la cougar che insegnava al giovane sbarbatello tutti i segreti del mestiere. Ma, per quanto Calogiuri fosse timido, aveva, dati alla mano, avuto sicuramente più varietà di frequentazioni di lei, non che ci volesse molto. E lei l’unico mestiere che poteva insegnargli già glielo aveva insegnato e non era di certo una pantera, nonostante tutti i capi animalier stipati nel suo armadio.

 

Il rintocco di nocche sulla porta la bloccò nell’ennesimo tentativo di risistemare la scollatura.

 

“Dottoressa… sarebbe pronto in tavola…”

 

Prendendo un lungo respiro, si fece forza ed abbassò la maniglia, trovandosi davanti Calogiuri che la osservava nervosamente, tenendosi le mani dietro la schiena, tanto che pareva sull’attenti.

 

Spalancò di più la porta e notò che si era cambiato anche lui. Pantaloni neri e camicia bianca, con le maniche leggermente arrotolate verso i gomiti. Le tornò improvvisamente alla mente uno dei numerosi sogni che aveva fatto su di lui, in cui lui tornava da Roma e finivano avvinghiati sulla sua scrivania - un sogno quasi premonitore.

 

Perché, ora come allora, Calogiuri era coraggioso ma non sfrontato e la sua timidezza era sempre lì, pronta a fare capolino quando meno se lo aspettava. E, in fondo, una parte di lei sperava che non la perdesse mai del tutto.

 

Un movimento ed una macchia di colore rosso sovrastò il bianco: Calogiuri le stava porgendo una rosa.

 

L’afferrò con mano tremante e gli sorrise intenerita, un nodo che le si formava in gola e che accrebbe quando Calogiuri le fece strada e notò il tavolino apparecchiato per due in maniera molto semplice, ma con una candela tremolante a centrotavola, nonché la musica jazz che si diffondeva a basso volume da una piccola cassa sul bancone della cucina.

 

“Da quanto è che la progettavi questa cena, Calogiuri?” non potè trattenersi dal chiedere, mentre si domandava quando avesse avuto il tempo di comprare la rosa, che era indubbiamente freschissima. Forse mentre lei era sotto la doccia?

 

“Diciamo che… che un po’ ci speravo, dottoressa, ma… ma poi tra il pensare e il fare…”

 

A chi lo dici, Calogiuri - sospirò tra sé e sé, mentre si lasciava condurre verso la sedia, che lui si affrettò a scostare per aiutarla a sedersi.

 

Questi gesti se fatti da chiunque altro l’avrebbero infastidita, li avrebbe trovati indice di maschilismo e di condiscendenza. Ma nel caso di Calogiuri, lo sapeva, erano semplicemente un segno di rispetto e di quel suo essere davvero un ragazzo di altri tempi, nell’accezione migliore del termine però.

 

Si allontanò un attimo per prepararle il piatto e tornò con una porzione fumante di-

 

“Cacio e pepe?” gli domandò, sorpresa, riconoscendo immediatamente la pietanza che avevano mangiato insieme a Roma, “ma che fine ha fatto lo spaghetto dell’appuntato?”

 

“Beh, dottoressa… nel frattempo è passato un anno, l’appuntato è stato a Roma ed è diventato maresciallo e… e ha pure imparato qualche ricetta nuova,” rispose con un sorriso, prendendo anche il suo di piatto e mettendosi a sedere di fronte a lei, prima di proporre, con uno sguardo speranzoso, “se però proprio ti manca il pomodoro e basilico, possiamo sempre fare per la prossima volta.”

 

Imma si limitò a sorridergli di rimando, anche perché sentiva la gola riarsa peggio della gravina in quella stagione.

 

“Vino? Se non ricordo male, il bianco ti piaceva,” offrì lui, sembrando di nuovo leggerle nel pensiero.

 

Niente calici stavolta, solo due bicchieri trasparenti, semplici ed economici, ma si affrettò a farselo riempire e a bere una sorsata.

 

“Facciamo un brindisi?” le propose con un sorriso, sollevando il bicchiere e guardandola negli occhi, “alla tua vittoria di oggi!”

 

“Alla nostra vittoria, Calogiuri,” precisò, facendo toccare i loro bicchieri, “sperando che ce ne siano ancora molte altre.”

 

Per un tempo indefinibile rimasero in silenzio a mangiare. Gli spaghetti erano molto buoni, dovette ammettere Imma, Calogiuri sapeva proprio fare quasi tutto. Se solo non fosse stato così timido, avrebbe avuto una fila di ragazze - e non solo - davanti alla porta di casa, roba da dover mettere le transenne come ai concerti.

 

Forse non è solo per la timidezza che davanti alla sua porta c’è il deserto dei Tartari, Imma, ma perché sta sempre appresso a te - le ricordò la voce della Moliterni. Certo che la sua coscienza era meglio di Pirandello in questo periodo: uno, nessuno e centomila.

 

“Allora, mo che l’appartamento mi sembra quasi sistemato, non pensi di fare proprio niente nei giorni di vacanza che ti restano?” gli chiese, per stemperare il silenzio e fare conversazione.

 

“Non credo… come ti ho già detto devo risparmiare e poi-”

 

“Ma c’è un mare stupendo qui vicino, Calogiuri. Almeno qualche gita in giornata potresti fartela, no? O non ti piace il mare?”

 

“No, il mare mi piace molto, dottoressa, ma non ho nessuno con cui andarci e da solo è un po’ triste…” commentò, lanciandole un’occhiata penetrante che non era certa se fosse un invito, una recriminazione o semplicemente una constatazione.

 

Per un secondo fu tentata di dirgli che alla sua età non era normale non avere amicizie, che doveva svagarsi con i suoi coetanei. Ma poi le venne in mente cosa era successo l’ultima volta che gli aveva ricordato delle occasioni perse, peraltro in una situazione che le ricordava molto quella nella quale si trovavano, e si morse la lingua prima di rischiare un Lolita gate bis.

 

Non sarà che temi che, se se ne va in spiaggia e conosce gente, poi le transenne bisogna metterle sul serio e te finisci per rimanerne fuori, Imma? - la Moliterni versione coscienza era irritante quasi quanto quella reale.

 

“E invece la tua vacanza? Come sta andando? Il mare di Metaponto deve essere bellissimo.”

 

“Il mare è bellissimo, ci starei a mollo giorno e notte. La compagnia di mia suocera un poco meno,” ironizzò, anche per evitare il rischio di entrare in argomenti che quella sera, e in generale con lui, erano ormai off limits.

 

“Ti piace nuotare?”

 

“Diciamo che galleggio, Calogiuri, più che altro prendo il sole su un materassino. Perché?”

 

“No, così… a me invece nuotare piace moltissimo. In realtà da bambino mi allenavo, me la cavavo pure abbastanza bene, avevo iniziato a fare qualche gara. Ma i miei genitori non si potevano permettere di farmelo fare a livello agonistico, più crescevo più crescevano pure le spese, e così ho smesso.”

 

Gli sorrise intenerita, mentre episodi della sua d’infanzia le riaffiorarono alla mente, facendole pizzicare gli occhi. Era pazzesco quante cose avessero in comune loro due, pur essendo così diversi. Ma, in fondo in fondo, erano molto più simili di quanto lei stessa avrebbe mai potuto immaginare.

 

“Sai… anche a me successe una cosa del genere…” ammise, perdendosi per un attimo nei ricordi.

 

“Col nuoto?”

 

“No, no. Io sono sempre stata negata per lo sport, Calogiuri. Ma… ma una volta la famiglia per cui faceva le pulizie mia madre se la portò dietro in vacanza: avevano bisogno di aiuto con la casa in campagna. E mi portarono con loro, perché mia madre non sapeva a chi lasciarmi. Avevano una figlia che era qualche anno più grande di me ed aveva un cavallo, un bellissimo cavallo nero. Io me ne stavo incantata a guardarla cavalcare, finché un giorno probabilmente le feci compassione e mi ci fece montare insieme a lei. Hai presente quando fai una cosa per la prima volta e pensi che la vorresti fare per il resto della vita? Ecco, io in quel momento mi sentii così… proprio… felice ed era la prima volta che mi succedeva. Andai da mia madre dicendole che avrei voluto fare equitazione, prendere lezioni, ma lei mi fece un sorriso triste e mi spiegò che ci volevano i soldi, tanti soldi e che non ce lo potevamo permettere… scusami, non so nemmeno perché ti annoio con queste stor-”

 

Si sentì stringere con forza la mano sinistra e sollevò lo sguardo, incontrando due occhi tanto lucidi da farle venire un magone tremendo, mentre la vista le si appannava.

 

Due dita le sfiorarono delicatamente la guancia destra. Senza pensarci, ricambiò il gesto e poi si sporse leggermente sopra il tavolino, incontrando le labbra di Calogiuri in un bacio dolce, lieve, che esprimeva tutta la tenerezza, la gratitudine e tutto quell’altro che le scoppiava dentro ma che non riusciva ad esprimere, né a definire a parole.

 

E la ormai famigerata fiammella si ringalluzziva e riprendeva vita, bruciandole dentro, bruciandole... il braccio?

 

Si staccò bruscamente da Calogiuri e sollevò il braccio di scatto: la zona appena sotto al gomito era marchiata di rosso. Presa dal bacio, ci mancava poco che si ustionasse con la candela.

 

Ci mancava solo la lettera scarlatta, mo!

 

Alzò gli occhi e, come i loro sguardi si incontrarono, scoppiarono in una risata nervosa ed imbarazzata

 

“Sei davvero pericoloso, Calogiuri!” ironizzò, rimettendosi a sedere.

 

“Vuoi del ghiaccio?”

 

Una vagonata! - fu il primo pensiero che, una volta filtrato da ciò che restava del suo cervello, si tradusse in un, “ma no, grazie, non serve: è solo un poco arrossato.”

 

E di nuovo il silenzio, accompagnato solo dal sottofondo jazz che però non fece nulla per rilassarla. Ma, ad onor del vero e a discapito dei musicisti, nemmeno una camomilla tripla corretta alla valeriana avrebbe potuto alcunché.

 

“Un altro po’ di vino?” offrì Calogiuri e, per un secondo, le parve davvero di essere tornata a Roma.

 

Ma solo per un secondo.

 

“Vuoi farmi ubriacare, Calogiù?” non riuscì a trattenere la battuta, che a Roma non avrebbe mai osato fare. Ma ora stavano a Matera e, rispetto a Roma, ormai non solo Matera, ma proprio il loro rapporto era tutta un’altra cosa.

 

“Non mi permetterei mai, dottoressa,” rispose, serio, prima di fare un mezzo sorriso e aggiungere, lanciandole un’occhiata intensa, “e poi non mi sembra ce ne sia bisogno.”

 

Il respiro le si mozzò in gola, una scossa elettrica - di nuovo meglio omettere dove - ed un brivido lungo la spina dorsale. Calogiuri abbassò lo sguardo ed arrossì, come spaventato dalla sua stessa audacia e fu, se possibile, pure peggio, il colpo di grazia.

 

Lo squadrò per un attimo, stringendo lievemente gli occhi, poi appoggiò il tovagliolo sul tavolo e con lentezza si alzò in piedi.

 

Lo vide deglutire ed osservarla con apprensione, mentre percorreva i pochi passi che li separavano. Sollevò le mani, cercando di nasconderne il tremore, e gliele appoggiò sulle spalle, continuando a scrutarlo senza fiatare.

 

Abbassò il capo, avvicinandosi sempre di più, talmente vicino da sentire il suo respiro sulle labbra e-

 

Lo squillo di un cellulare la fece sobbalzare, rompendo il momento, la sua determinazione - e le scatole, per dirla tutta!

 

Impiegò qualche secondo a realizzare che si trattava della sua stessa suoneria e quindi del suo telefono, che in questo momento non ricordava manco più dove diamine avesse infilato.

 

Per un istante fu tentata di fregarsene e lasciarlo squillare, ma il buonsenso intervenne - dopo un lungo periodo di latitanza - e le suggerì che, vista l’insistenza, non sarebbe stata una buona idea.

 

Si guardò in giro ed infine notò la borsa che giaceva ancora sul divano, dove l’aveva gettata rientrando dal tribunale.

 

Pochi passi e si riappropriò dell’aggeggio infernale, delizia di stuoli di avvocati divorzisti e croce per chi come lei doveva occuparsi di delitti passionali.

 

Ecco appunto! - sospirò, il cuore che le finiva nello stomaco, di fronte al “Amò” che lampeggiava beffardo sul display.

 

Le balenò il dubbio che Pietro le avesse installato una di quelle applicazioni spia che ormai sempre più spesso ritrovava sui cellulari di qualche indagato o morto ammazzato, perché il tempismo telefonico di suo marito sfiorava ormai la chiaroveggenza - sto diventando veramente paranoica, Vitali forse tutti i torti non ce li ha.

 

Ma no, la spiegazione era molto più banale: sfiga, mista a incapacità. Avrebbe dovuto chiamarlo prima lei, se avesse seguito il manuale per una perfetta relazione extraconiugale. Ma lei non era abituata a dover mentire, non ancora almeno, e sperava per certi versi di non diventarlo mai.

 

“Pronto?”

 

“Amò, sei già a casa? Ho sentito al tg della condanna a Romaniello! Sei stata grande, amò, ma non avevo dubbi.”

 

Beato te! - si ritrovò a pensare, mentre nella sua testa le frullavano le parole da dire e quelle da non pronunciare nemmeno per sbaglio, “grazie mille! in realtà è stata dura, ma ce l’a- ce l’ho fatta.”

 

Si corresse in zona Cesarini, chiedendosi subito dopo perché avesse avvertito la necessità di farlo.

 

Coda di paglia, Imma? Com’è che mi dicevi? Male non fare, paura non avere? - ci mancava solo Diana a prendersi la sua rivincita nel suo subconscio.

 

“Ma che fai mo? Hai già cenato? A che ora torni domani?”

 

“In realtà stavo finendo di cenare e poi… sono un po’ stanca, stanotte praticamente non ho dormito. E per domani non lo so ancora… dipende da a che ora mi sveglio, ti faccio sapere quando sto in corriera.”

 

“D’accordo, amò, riposati, mi raccomando! E sbrigati a tornare che festeggiamo: sono molto orgoglioso di te, Imma!”

 

Gli occhi le si inumidirono nuovamente, mentre una pugnalata di senso di colpa la prese alla bocca dello stomaco. Beato lui che poteva essere ancora orgoglioso di lei, perché lei, in quel momento, non si sentiva per niente orgogliosa, almeno non per quanto riguardasse Pietro e la sua vita privata in generale.

 

“Grazie… buonanotte.”

 

“Buonanotte, ti amo, a domani!”

 

Di nuovo, chiuse la conversazione di scatto, maledicendo il tempismo di Pietro o forse benedicendolo, non avrebbe saputo dirlo con certezza. Esitò per un secondo prima di staccare il telefono, ma decise comunque di farlo, onde evitare altre chiamate che sarebbero state in ogni caso pericolose.

 

Si riavvicinò al tavolo e si avvide di Calogiuri che stava seduto dritto, rigido, che manco a una parata, lo sguardo basso a fissare ciò che rimaneva dei suoi spaghetti, con la stessa concentrazione con cui redigeva i fascicoli processuali.

 

Con un sospiro si sedette, quasi in automatico, e si mise la testa tra le mani: non sapeva che altro fare in quel momento, si sentiva completamente nel pallone.

 

Non avrebbe saputo dire quanti minuti fossero rimasti così, in silenzio, ad occhi bassi, ognuno perso nei suoi pensieri.

 

“Se… se vuoi ti riaccompagno a casa…”

 

La voce di Calogiuri la fece quasi sobbalzare sulla sedia, sebbene fosse poco più di un sussurro. Alzò gli occhi di scatto e l’espressione che gli lesse in viso fu una seconda coltellata, dritta in pancia, insieme a quel dannato nodo in gola e quella specie di dolore indefinibile al petto, come un peso ed un senso di vuoto insieme.

 

Sapeva quanto gli dovevano essere costate quelle parole e questo non faceva che acuire quel groviglio indefinibile di emozioni che minacciava di intrappolarla ogni volta che si trovavano insieme nella stessa stanza.

 

E, di nuovo, vide davanti agli occhi, come in un film, che cosa avrebbe dovuto dire e fare, se fosse stata una persona virtuosa, saggia, o anche solo dotata di un minimo istinto di autoconservazione. Avrebbe dovuto cogliere la palla al balzo, alzarsi, ringraziarlo della cena e dirgli che era meglio per tutti se si fermavano qui, prima di farsi troppo male. Avrebbe dovuto farsi riaccompagnare a casa, prendere la prima corriera del mattino per riabbracciare Pietro, lasciandosi per sempre alle spalle quell’estate di lucida follia.

 

Ma, pure stavolta, la lingua non voleva saperne di collaborare e di staccarsi dal palato e il corpo figuriamoci: rimaneva piantata lì, immobile come una pianta tra i sassi.

 

La verità era che era inchiodata dalla certezza assoluta che, se si fosse tirata indietro ora, l’avrebbe rimpianto per il resto della vita, esattamente come aveva passato gli ultimi mesi a rimpiangere quella sera a Roma, a rivivere quel loro saluto davanti all’albergo, immaginandosi di cambiarne il finale.

 

Meglio avere rimorsi che rimpianti - la voce di sua madre la raggiunse e, dopo tanti anni, per la prima volta capì chiaramente che intendeva, e ora sapeva pure a cosa, anzi, a chi si riferiva.

 

Ma poi, non sarebbe stato in fondo terribilmente ipocrita fermarsi ora? Pensare che bastasse non consumare la ricotta, per ottenere un condono tombale su tutto il pregresso? Fingere che tutto quello che era successo tra loro fino a due minuti prima non fosse già un tradimento, e pure ben peggiore di quello soltanto fisico?

 

E se c’era una cosa che Imma odiava più di quanto odiava se stessa in quel momento, era proprio l’ipocrisia.

 

Prese un lungo respiro, a pieni polmoni, sperando che le bastasse per una traversata oceanica.

 

Nuovamente, si alzò dalla sedia, su gambe tremanti. Capì immediatamente dallo sguardo di Calogiuri, una pozza di dolore, delusione e rassegnazione, che l’aveva fraintesa, e lo bloccò con un gesto della mano, prima che si tirasse in piedi.

 

Circumnavigò il tavolino e ci si appoggiò contro, accanto a lui, posandogli una mano sulla spalla sinistra, mentre lui la osservava confuso.

 

“Che devo fare con te, Calogiuri?” sospirò, scuotendo il capo e sfiorandogli il viso con l'altra mano, prima di aggiungere tra sé e sé, in un sussurro, ”certi sguardi dovrebbero essere illegali.”

 

“Come?”

 

“Certo che c’hai proprio dei gusti strani, Calogiuri,” pronunciò più ad alta voce, con un mezzo sorriso colmo di affetto, scuotendo nuovamente il capo.

 

“La pasta non ti è piaciuta?”

 

Non poté trattenersi dallo scoppiare a ridere: le sembrò per un attimo di essere tornati all’inizio della loro conoscenza, quando Calogiuri inanellava gaffe involontarie che la intenerivano tremendamente, proprio come in quel momento.

 

“No, no, la pasta era squisita. Intendo i tuoi gusti sul… dopocena.”

 

“In che senso?!" esclamò, spalancando gli occhi e diventando paonazzo, "se pensi che… che abbia in mente... cose strane… cioè strane veramente, non-"

 

E di nuovo non riuscì a contenere una risata - mamma mia, quanto le piaceva quando faceva così!

 

"Intendo i tuoi gusti in fatto di donne, Calogiuri," chiarì con un sorriso, prima di infilarsi in una serie di malintesi ancora più imbarazzante.

 

"Perché?" le chiese con sguardo e tono sbigottiti, "che cos’hanno di strano? Guardati: sei bellissima!"

 

Se lo sarebbe abbracciato stretto fino a farsi male perché, almeno per un istante, bellissima ci si era sentita davvero, riflessa nei suoi occhi.

 

"Sì, non esageriamo mo," rispose invece con un sorriso grato ma malinconico, "Calogiuri, mi sa che ti serve un bravo oculista."

 

Potrei sempre presentarti la mia quasi sorella

 

"Guarda che ho dieci decimi, dall'ultima visita fatta prima di diventare maresciallo."

 

"E allora resta l'ipotesi della semi infermità mentale…"

 

"E va beh… per quella, in effetti, a volte quando siamo insieme mi sembra di non capirci più niente!"

 

A chi lo dici, Calogiuri!

 

"Ma non mi piace quando ti butti giù così da sola, anche perché davvero non ne hai motivo," proclamò serio, deciso, dritto negli occhi, sollevando una mano per scostarle i capelli dal viso.

 

"Ti ringrazio e lo so che lo pensi veramente, ma ho più di quarant'anni di buoni motivi, Calogiuri."

 

"E io ne ho quasi trenta di anni di motivi per dire che non è così."

 

"Ma tu sei di parte, Calogiuri. Io invece ho una sfilza di testimonianze concordanti e-"

 

Due mani forti la afferrarono per la vita, facendole morire la frase in bocca in una specie di squittio. Si ritrovò in braccio a Calogiuri, che la guardava divertito, mentre la temperatura nella stanza sembrò alzarsi di almeno 5 gradi - altro che effetto serra!

 

"Te l’hanno mai detto che parli troppo?" le chiese, con un sorriso affettuoso.

 

"Calogiuri, fammi capire, ma per farmi questa domanda, tu in procura ci lavori sul serio o fai solo fin-"

 

Un bacio le tappò la bocca, lo sentì sorriderle sulle labbra e non potè far altro che ricambiare, il sorriso e il bacio, attaccandosi al suo collo, stretti, sempre più stretti, ma non abbastanza.

 

La fiammella si fece fuoco, mentre labbra morbide le percorrevano il collo, sempre più giù, nella scollatura, mozzandole del tutto il fiato. Gli si aggrappò ai capelli, non avrebbe saputo dire se per fermarlo o per impedirgli anche solo di pensare di staccarsi dalla sua pelle.

 

Ma lui lo fece lo stesso, da bravo bastian contrario, proprio quando le sembrava di impazzire, e l’esclamazione di protesta divenne di sorpresa quando si sentì sollevare di peso e trascinare in un altro bacio quasi disperato, il fiato corto e il cervello che iniziava a perdere la connessione.

 

Si mossero alla cieca, barcollando per la stanza come due ubriachi, le sue labbra e le sue mani l’unica certezza rimastale, finché, arretrando, i polpacci colpirono una superficie morbida e si ritrovò schiacciata sul divano, sotto il peso e il calore di un corpo giovane, atletico, mentre il fuoco diventava incendio, bruciando ogni barlume di senno rimasto.

 

Era completamente persa in un delirio di sensazioni nuove, tra mani e labbra che affannose spostavano i vestiti, sotto i vestiti, come se non avessero desiderato fare altro in vita loro, come se avessero vita propria.

 

Gli sganciò la cintura senza nemmeno rendersene conto e continuò così, con il pilota automatico inserito, almeno fino a quando le labbra di Calogiuri si staccarono bruscamente dalle sue, le dita che le stringevano i fianchi, pericolosamente vicine all'orlo degli slip, a quell’ultimo confine rimasto, delle decine che avevano già bellamente infranto.

 

Uno sguardo. Uno sguardo che conosceva fin troppo bene e che le provocò di nuovo quel dolore al petto, più forte perfino dell’incendio che la stava consumando.

 

Una richiesta di permesso, come mille altre gliene aveva fatte da quando si conoscevano: sempre così premuroso e attento il suo Calogiuri, sempre così spaventato all’idea di deluderla o contrariarla.

 

Mai si sarebbe aspettata di ritrovarlo e ritrovarsi in queste circostanze, o forse sì, forse era tutto ciò che desiderava, da talmente tanto tempo da non ricordarsi più come ci si sentisse a non desiderarlo.

 

Gli prese il viso e se lo baciò, soffocandogli un sorriso e poi fu lui a soffocarle un grido ed un altro, ed un altro ancora.

 

Fu come una valanga che la travolgeva di sensazioni sempre più forti, sempre più intense. Tutto velocissimo, disorientante: i polmoni che le bruciavano, il fiato che sembrava non bastarle mai, come le mani e le labbra e la pelle, in una specie di mania che annientava tutto e che era tutto al tempo stesso, fino al grido finale, soppresso a fatica nel collo di lui.

 

Si ritrovò sepolta sotto al suo petto, boccheggiante, alla ricerca di ossigeno, della vista e dell’udito, ogni singolo centimetro del suo corpo che sembrava vibrare, in tilt peggio del computer dell’archivio del tribunale il giorno prima di un maxi processo.

 

Le ci volle un tempo indefinito prima di tornare a vedere un mondo non a pois, prima di smettere di sentire il mare nelle orecchie, prima di incontrare due occhi azzurri che la guardavano con - con preoccupazione e imbarazzo?

 

Calogiuri divenne, se possibile, ancora più paonazzo, abbassò lo sguardo e si staccò da lei, rimettendosi a sedere.

 

Si sentì improvvisamente nuda sebbene, lo realizzò solo in quel momento, fosse in realtà ancora mezza vestita. E pure lui. Nella foga si erano liberati giusto dello stretto indispensabile.

 

Ignorando la testa che ancora le girava vorticosamente, si sollevò sulle braccia, fino ad accasciarsi mollemente sullo schienale del divano, troppo spompata per fare altro.

 

Forse cogliendo il movimento, Calogiuri sollevò il capo e la guardò nuovamente. E no, non si era sbagliata, sembrava realmente ansioso e in imbarazzo.


“Che… che c’è?” le riuscì di pronunciare dopo qualche boccata d’aria, la voce che pareva di cemento.

 

“Scusami…” le sussurrò, mortificato, e Imma strabuzzò gli occhi, incredula, “stai bene?”

 

Mai stata meglio! - fu il primo pensiero che non potè esprimere, seguito di nuovo da quella tenerezza irrefrenabile, che la portò ad accarezzargli il viso con mano tremante.

 

“Ma che dici? Non c’è proprio niente di cui scusarsi, Calogiuri, anzi,” lo rassicurò con un sorriso, continuando a sfiorargli la guancia.

 

“Sì, ma avrei voluto-” balbettò, guardandola negli occhi.

 

“Lo so. Ma qui se c’è qualcuno che rischia di farsi male, sicuramente non sono io, Calogiuri,” ammise con un sospiro, lasciando scendere le dita lungo il collo di lui fino a un - un morso?!

 

“Ecco, appunto!” commentò, sentendosi avvampare, tracciando il segno rosso lasciato dai suoi denti, probabilmente mentre cercava di non far sentire ai vicini del maresciallo quanto le piacesse... nuotare nell’oceano.

 

Calogiuri sorrise e si illuminò in viso, sembrando immensamente sollevato.

 

Mannaggia, quanto sei bello quando sorridi così!

 

“Vieni…” gli sussurrò, prendendogli le mani e tirandosi in piedi su gambe ancora di ricotta - mai metafora onirica fu più azzeccata.

 

Lo trascinò verso la camera da letto e si trovarono a ridere insieme quando, solo per un soffio, Calogiuri evitò di crollarle rovinosamente addosso, inciampando nei suoi stessi pantaloni.

 

“Veloce, Calogiuri!” lo sfottè affettuosamente, mentre lui si affannava a liberarsi anche dal secondo gambale, onde evitare ulteriori incidenti.

 

La guardò divertito, scuotendo il capo, e parve non raccogliere, almeno fino a quando decise di raccogliere direttamente lei, approfittando della posizione accucciata in cui si trovava per afferrarla a tradimento e portarsela a forza di braccia fino al letto.

 

“Ma sei impazzito? Mettimi giù!” esclamò tra le risate, perché la verità era che le sembrava di sognare e non si era mai sentita così leggera come in quel momento, il cuore che pareva sull’orlo di scoppiare dalla felicità.

 

Ma Calogiuri, che sapeva evidentemente ormai bene sia quando obbedirle, sia quando non farlo, ignorò il comando fino a quando non la ebbe depositata sul letto, con una delicatezza inattesa, considerate le circostanze - o forse no.

 

“Almeno per una volta mi posso evitare di doverti inseguire di corsa,” proclamò con un sorriso, rimanendo in ginocchio davanti a lei, seduta sul bordo del letto.

 

“Come se non ti piacesse inseguirmi, Calogiuri,” lo rimbeccò, facendolo ridere e suscitandogli quell’espressione imbarazzata che tanto adorava.

 

Senza parole, gli prese le mani e lo trascinò in piedi, guardandolo per un secondo prima di iniziare a slacciargli gli ultimi bottoni rimasti indenni della camicia.

 

Lo svestì senza fretta, ammirando quel fisico scolpito che finora si era solo potuta immaginare nei suoi sogni, ad occhi aperti e non. E, come aveva già potuto constatare fin troppo bene, con lui, come sempre, la realtà era superiore a qualsiasi immaginazione.

 

E poi venne il suo turno e, trattenendo il fiato, gli permise di liberarla dal suo povero vestito, che aveva decisamente visto tempi migliori, martoriato dall’assalto sul divano.

 

Ma, per quello che aveva appena vissuto, sarebbe stata disposta a giocarsi pure il suo intero guardaroba, anche se molti dei suoi conoscenti - e sicuramente sua suocera - non l’avrebbero definita una perdita ma una benedizione.

 

Sentì la stoffa scivolarle lungo le gambe e continuò a trattenere il respiro, anche quando Calogiuri fece un passo indietro e prese ad osservarla, le guance ormai perennemente rosate.

 

Non si era mai sentita così nuda in vita sua.

 

“Deluso?” gli chiese, sforzandosi di produrre un tono ironico e fallendo miseramente: sapeva benissimo che aveva avuto donne molto più giovani - o meglio, giovani il giusto per lui - e temeva di non reggere il confronto.

 

“Non lo dire nemmeno per scherzo! Sei bellissima, te l’ho già detto,” ribadì, guardandola in un modo che la fece avvampare da capo a piedi e le diede una micidiale botta di autostima, “e poi... guarda che ti avevo già vista in costume.”

 

“Calogiuri!” esclamò, con tono fintamente di rimprovero, “ma non eri tutto timido e imbarazzato, che tenevi gli occhi incollati a terra?”


“Eh va beh, ma non sono mica cieco. Diciamo che l’occhio un po’ è caduto, dottoressa…”

 

Per un attimo Imma lo fissò, poi si guardò, e non riuscì a trattenere una risata.

 

“Che c’è?”

 

“C’è che, magari, in certi momenti è meglio se eviti di chiamarmi dottoressa, Calogiuri. Se no sembriamo veramente usciti da Buonasera, dottore!

 

“Da che cosa?”

 

“A volte mi dimentico quanto sei giovane,” sospirò Imma, nuovamente intenerita di fronte allo sguardo confuso di lui, prendendo un respiro e una decisione.

 

“Imma,” pronunciò semplicemente, guardandolo dritto negli occhi, quasi come se si presentasse per la prima volta. E le sembrò paradossale, nudi com’erano, l’uno di fronte all’altra, che manco Adamo ed Eva - e loro il frutto del peccato da mo che l’avevano mangiato! - ed assurdamente naturale al tempo stesso.

 

“Imma…” ripetè Calogiuri, incerto, dopo un attimo di pausa, quasi come se si sforzasse di parlare una lingua nuova, le sillabe che faticavano a formarsi in gola, per poi ammettere, passandosi una mano tra i capelli, “mi sa che mi ci vorrà un po’ per abituarmici.”

 

“Vedi di non abituartici troppo, Calogiuri,” lo minacciò scherzosa, puntandogli un dito contro il petto, “che, se mi chiami così in procura, ti ci spedisco te a Rovereto.”

 

“Agli ordini, dott-... Imma,” si corresse in corner, facendola sorridere.

 

Almeno per un paio di secondi, perché poi il riso le si trasformò in un grido quando si sentì nuovamente afferrare per la vita e si ritrovò buttata sul materasso, Calogiuri che la zittiva con un altro bacio.

 

E stavolta si presero il tempo, tutto il tempo che non avevano, per conoscersi, per esplorare, tra un bacio, una carezza ed una risata, mentre lottavano per il controllo, rotolando sul materasso - che per poco non cascavano, rischiando un trauma cranico. E fu dolce, dolce e appassionato come l’aveva sempre immaginato, e intenso, e indescrivibile, e nuovo e dannatamente familiare e naturale insieme.

 

Non si era mai sentita tanto appagata ed, allo stesso tempo, sembrava non bastarle mai, il desiderio che continuava a riaccendersi, peggio di una droga - altro che condanne e rinvii a giudizio!

 

Continuarono per ore, come a voler recuperare quei mesi di sogni e fantasie represse, a volerle mettere in pratica per scoprire che non rendevano giustizia alla realtà, pur sapendo che una notte non sarebbe mai bastata.

 

Le prime luci dell'alba estiva filtravano già dalle imposte, quando, esausta e soddisfatta come mai in vita sua, dovette infine arrendersi alla spossatezza, le endorfine che attutivano la dolenza ai muscoli, immersa in uno strano stato di beatitudine, quasi ipnotico.

 

Avvolta da braccia forti ed abbarbicata al suo petto, due occhi azzurri velati di stanchezza ed un sorriso luminoso furono l'ultima cosa che vide, prima di cedere al sonno.



 

Nota dell’autrice: Voglio innanzitutto ringraziare tutte le persone che hanno impiegato un po’ del loro tempo per leggere questa storia. Ringrazio tantissimo chi mi ha lasciato e chi mi lascerà un commento o un parere, che davvero mi sono preziosissimi per capire come sta procedendo la scrittura e in cosa posso fare meglio nei capitoli futuri.

 

Ci tengo inoltre a precisare che il funzionamento del sistema processuale, in particolare del rito per direttissima, contenuto in questo capitolo rispecchia, per coerenza narrativa, quanto visto nella serie in tv e non quanto avviene realmente in Italia, e chiedo venia ai giuristi che dovessero essere eventualmente alla lettura per tutte le approssimazioni ed inesattezze della parte processuale.

 

Il prossimo capitolo arriverà domenica, dovrei essere in viaggio di lavoro ma cercherò comunque di pubblicare puntualmente come sempre.

 

Grazie ancora a tutti!

 

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Capitolo 4
*** Risvegli ***


Nessun Alibi

 

Capitolo 4 - Risvegli

 

Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Scosse leggermente il capo per non cedere al sonno, sforzandosi di mantenere le palpebre spalancate, nonostante gli occhi che bruciavano.

 

Dio, quanto sei bella! - si morse il labbro per rimanere immobile, per non fiatare, per lasciarla riposare come meritava e, soprattutto, per prolungare il più possibile quel momento magico e forse irripetibile. 

 

Già la sera prima era crollato dalla stanchezza senza rendersene nemmeno conto, se l'avesse fatto anche stavolta non se lo sarebbe mai perdonato. 

 

Voleva imprimere nella mente per sempre l'espressione dolce e rilassata che aveva quando dormiva, che sembrava quasi una bambina; il rumore lieve e il calore del fiato che gli solleticava il petto; il tepore e la morbidezza del corpo contro al suo; la sensazione delle dita posate sul suo fianco, che ogni tanto si muovevano leggermente nel sonno, facendogli formicolare la pelle.

 

Magari fosse esistito un taccuino capace di memorizzare i ricordi, lo avrebbe riempito di parole fino all'ultima pagina. E invece doveva accontentarsi della sua scarsa memoria e sperare che gli bastasse per una vita.

 

Perché lo sapeva benissimo che ogni momento accanto alla sua dottoressa poteva essere l'ultimo, che Imma - faticava ancora anche solo a pensare a lei col suo nome di battesimo - non era realmente sua e, molto probabilmente, non lo sarebbe stata mai.

 

E la capiva pure, purtroppo. Perché mai una donna tanto attraente, forte, intelligente e capace avrebbe dovuto rischiare di rovinarsi la carriera e forse la vita, di giocarsi tutto per uno come lui, che evidentemente non era e non sarebbe mai stato alla sua altezza? Che non aveva niente da offrirle, se non quel sentimento che era nato e cresciuto piano piano, quasi senza che se ne accorgesse, ma che ora era talmente intenso da annullare tutto il resto. Non aveva mai provato niente di lontanamente paragonabile in vita sua e non riusciva nemmeno ad immaginare di poterlo provare per qualcuna che non fosse lei.

 

Ma lei già ce lo aveva un marito. Lo aveva incontrato solo una volta e sperava di non rivederlo mai più. Non perché avesse qualcosa contro il signor De Ruggeri, anzi, gli sembrava pure una gran brava persona, ma perché il pensiero di lei con un altro uomo lo faceva stare male, anche se non aveva alcun diritto di essere geloso. Lo sapeva benissimo di essere lui l’intruso. Il titolare invece, pur non essendoci fisicamente durante i suoi momenti con la dottoressa, era sempre presente con quelle telefonate, che ogni volta gli facevano temere di essere sull'orlo di perderla per sempre. E, o prima o dopo sarebbe successo, lo sapeva: lei sarebbe tornata in sé ed avrebbe scelto quel marito a cui si rivolgeva sempre con grande affetto, pur trattenuto, forse per riguardo nei suoi confronti o forse per senso di colpa.

 

Lo sapeva anche lui che quello che stavano facendo era sbagliato, che quello che provavano era sbagliato, ma il senso di colpa spariva ogni volta che ce l'aveva vicino, che le parlava, che la vedeva sorridere, o arrabbiarsi, o aggrottare la fronte, o mostrare quel suo coraggio da leonessa che aveva sempre tanto ammirato. Per non parlare di quei rari momenti nei quali invece gli permetteva di scoprire le sua fragilità, le sue paure. Momenti che per lui erano sempre come un dono prezioso e quasi inspiegabile: faticava ancora a credere che lei riponesse così tanta fiducia in lui.

 

Gli veniva da sorridere se ripensava a quanto la temesse, quando l’aveva conosciuta: gliel’avevano dipinta come una specie di arpia, di tiranno, una che, come facevi il minimo sbaglio, ti ritrovavi con la testa tagliata e ricoperto di insulti. I primi tempi era stato terrorizzato di sbagliare qualcosa, qualsiasi cosa, che lei capisse, come avevano già capito tutti gli altri, quanto lui fosse incapace. Per questo aveva cercato di parlare il meno possibile, ancora meno del solito. Di non disturbarla, di non darle modo di intuire la sua stupidità.

 

Invece… invece non era successo proprio nulla: ogni giorno la testa era rimasta attaccata al suo posto e, non solo non si era preso alcun rimprovero o insulto, ma anzi, la dottoressa aveva preso a complimentarsi con lui. All’inizio per cose banali, che parevano i complimenti che si fanno al ciuccio per tenerselo buono, ma ad un certo punto aveva cominciato a fargli domande sui casi - come se avesse bisogno del suo parere, poi!

 

Era un esame, ovviamente, e a quanto pare, per la prima volta in vita sua, stranamente le risposte che gli uscivano non erano stupide o sbagliate, ma quasi tutte giuste. Lei aveva cominciato a sorridergli sempre più spesso, a sembrare quasi orgogliosa ad ogni intuizione azzeccata, tanto che lui aveva iniziato ad avere il coraggio di parlare senza essere interpellato per primo, ad offrire la sua opinione, a dire la sua, pur continuando a temere di sbagliare. Ma, nonostante ciò, si era accorto di desiderare sempre di più che lei lo scegliesse per ogni nuovo caso, a desiderare la sua approvazione, ma anche solo di passare un po' di tempo in auto con lei. Perché la sua presenza silenziosa per qualche motivo lo faceva stare bene, in pace col mondo, perché gli piaceva tantissimo lavorare con la dottoressa.

 

Ad un certo punto aveva compreso, con grande stupore, di starle simpatico, non fosse altro perché tutti i suoi colleghi continuavano a fare battute su quanto fosse il cocco della Tataranni, sostenendo che fosse tutto per via dell’aspetto fisico, che la dottoressa avesse un debole per lui e volesse portarselo a letto. E lui ogni volta si arrabbiava e la difendeva a spada tratta, perché veramente mai avrebbe potuto pensare di poterle interessare, figuriamoci! La vedeva come una supereroina, come un mito, irraggiungibile.

 

Almeno fino a quando l’aveva vista piangere per il suo trasferimento, fino a quando aveva capito, incredulo, che lei ci teneva a lui, veramente, al di là del lavoro, che la sua presenza per lei era importante, come lo era ormai per lui quella di lei. Perché la dottoressa credeva in lui, come nessuno aveva mai fatto, spingendolo a credere in se stesso, a non accontentarsi di una vita che non desiderava, accanto a qualcuno che invece in lui non ci aveva creduto mai. Perché lo capiva davvero, con solo uno sguardo, senza bisogno di parlare; e anche lui, inspiegabilmente, cominciava a conoscerla e a comprendere ogni suo gesto, ogni sua espressione. Avrebbero potuto conversare per ore senza dirsi una sola parola.

 

E poi… e poi, se gli fosse rimasto il minimo dubbio della predilezione che lei aveva nei suoi confronti, beh, gli aveva perdonato cose che, se le avesse fatte qualcun altro, se le sarebbe sentite rinfacciare in eterno, sempre se fosse sopravvissuto al richiamo disciplinare senza farsi licenziare.

 

Ironia della sorte, alla fine a letto c’erano finiti sul serio, ma non era solo quello, né da parte sua - sebbene nessuna lo avesse mai nemmeno lontanamente attratto quanto la sua dottoressa - ma nemmeno da parte di lei. Non era solo una cosa fisica, di questo almeno ne era certo. Lei ci teneva a lui, molto, gli voleva bene: lo vedeva dai suoi sguardi, lo sentiva da come lo abbracciava, da come gli sfiorava il viso, da come la voce le si addolciva quando gli parlava. Ma l’amore era un’altra cosa e non doveva, non poteva illudersi che lei ricambiasse il suo sentimento, che provasse quello che provava lui per lei, o che l’avrebbe mai potuto fare un giorno.

 

Era perfettamente consapevole che sarebbe finita male, forse malissimo, che tra loro non c’era un futuro. Che certi miracoli succedono solo nei film e lui l'attore, nonostante la bella faccetta e il fisico, non avrebbe mai potuto farlo, perché a fingere non era mai stato capace. Ma avrebbe dato qualsiasi cosa, si sarebbe giocato tutto quel poco che aveva e pure quello che ancora non aveva per un solo istante in più con lei. Per ogni momento in più di cui, ne era sicuro, non si sarebbe mai pentito, mai, nonostante tutto il dolore che gli avrebbe provocato un giorno perderla, senza averla mai realmente avuta.

 

Ma gli sarebbero rimasti quei ricordi bellissimi, di quando, almeno per qualche istante, lei aveva scelto lui, aveva scelto di compiere questa pazzia insieme a lui, nonostante tutti i rischi, contravvenendo persino ai suoi principi. Di essere stato il secondo uomo della sua vita, l’unico, a parte il marito. L’unico a poterla vedere così, senza difese, a poter conoscere la donna che si nascondeva dietro il sostituto procuratore Tataranni. Non la dottoressa ma Imma.

 

E, sebbene non gli sarebbero mai bastati, se li sarebbe fatti bastare, si sarebbe goduto ogni momento come un regalo inatteso, di quelli che non ti spettano, ma che ti rendono felice. Come la notte appena trascorsa: la più bella della sua vita, perfetta, magica, nonostante la partenza un po’ troppo irruenta, di cui ancora un poco si vergognava, ma il desiderio represso era stato troppo da contenere. Sperava con tutto se stesso che ce ne sarebbero state altre ma, se così non fosse stato, quello che aveva provato insieme a lei lo avrebbe accompagnato per il resto della vita e forse pure oltre.

 

Rimase così, ad ammirarla, incantato, finché il suono lento e cadenzato del respiro di lei lo trascinò, suo malgrado, in un sonno profondo.

 

*********************************************************************************************************

 

Un senso di solletico al viso la portò ad aprire gli occhi, confusa, la sensazione di aver dormito per secoli, avvolta da uno strano calore e da un senso di pace indescrivibile.

 

E, dopo qualche istante di disorientamento, ciò che vide le rubò un sorriso e le provocò, per l’ennesima volta, quello strano dolore al petto e quel bruciore agli occhi. Era abbracciata a Calogiuri, che le aveva fatto praticamente da cuscino, i pochi peli sul petto che le pizzicavano il mento. Lui dormiva ancora, profondamente, un’espressione dolce, beata sul viso, che lo faceva sembrare ancora più giovane - e lei ancora più vecchia.

 

Dio, quanto sei bello! - non potè fare a meno di pensare, trattenendosi a forza dall’allungare una mano per accarezzargli una guancia, sia per non disturbarlo e lasciarlo riposare, sia perché voleva prolungare il più possibile quel momento magico e forse irripetibile.

 

Imma non era stupida, né folle, e lo sapeva benissimo che lei e il maresciallo non avevano alcun futuro. E non solo per… per la sua situazione personale, alla quale al momento non voleva nemmeno pensare. Sì, per carità, il coltello dalla parte del manico ce l’aveva lei, era lei a mettere i paletti di quella loro frequentazione o comunque la volessero definire. Ma, anche se fosse stata libera come l’aria, che futuro potevano mai avere loro due insieme?

 

Calogiuri la amava, la amava moltissimo, ben più di quanto lei si meritasse di essere amata. Dopo quella confessione nel suo ufficio, di questo non poteva proprio dubitare. Ma era giovane, bello, intelligente, un ragazzo d’oro; uno che, se avesse continuato a lavorare con lo stesso impegno, di strada ne avrebbe fatta tanta. Per quanto tempo gli sarebbe potuta bastare una come lei, che di anni ne aveva una quindicina in più, non particolarmente avvenente, con una situazione personale incasinata ed un carattere, a detta di tutti, insopportabile, prima di desiderare, giustamente, una persona alla sua altezza, di un’età più vicina alla sua, che potesse dargli tutto ciò che si meritava dalla vita? E già lei a volte sembrava, agli occhi degli estranei, sua madre ora, figuriamoci andando avanti con l’età, quando lui sarebbe diventato un uomo bellissimo ed affascinante e lei sarebbe completamente appassita.

 

E poi c’era… c’era Pietro, anche se il solo pensare al suo nome le torceva lo stomaco dai sensi di colpa. E, sebbene dopo quello che aveva fatto nell'ultimo periodo, forse nessuno le avrebbe creduto, lei Pietro lo amava: era la sua ancora, l’unica costante della sua vita a parte sua madre che, ormai, c’era solo in alcuni sprazzi di lucidità. Pochi, troppi pochi. Pietro era la sua famiglia, nel senso più vero del termine e la sola idea di rinunciare a lui era impensabile per lei, inconcepibile.

 

Ma soprattutto, non sarebbe stato giusto nemmeno nei confronti di Calogiuri. Non sarebbe stato giusto caricarlo di un peso simile, di una responsabilità del genere, costringerlo a sobbarcarsi la sua situazione familiare e personale. Certo, magari ora lui pensava pure di desiderarlo, che una vita con lei fosse ciò che realmente voleva, ma andando avanti con il tempo, si sarebbe reso conto di quanto si era perso per stare appresso a lei, di tutte le occasioni mancate ma, per senso di responsabilità, sarebbe rimasto intrappolato in una situazione nella quale non poteva più essere felice.

 

E, di nuovo, quella sensazione di peso sul petto si acuì, mentre gli occhi le si fecero lucidi, anche se non avrebbe saputo dire perché. Che cosa provava esattamente per il maresciallo non l’avrebbe saputo definire, forse non lo voleva definire, perché sarebbe stato il disastro.

 

La verità era che nessuno le aveva mai fatto bene e male al cuore al tempo stesso quanto lui. Nessuno l’aveva mai resa tanto felice, nessuno le aveva mai provocato il dolore che aveva sentito quando lui si era allontanato, fisicamente nel periodo a Roma e mentalmente dopo… dopo il Lolita gate.  Era come se con lui ogni cosa fosse amplificata, ogni momento con lui scopriva emozioni nuove, che nemmeno pensava potessero esistere, scopriva lati di sé che non aveva mai creduto di possedere.

 

Ma, se tenere a qualcuno voleva dire desiderare il bene dell’altra persona, lei forse a Calogiuri in realtà voleva male, perché non stava facendo il suo bene, e lo sapeva. Un giorno lo avrebbe ferito o si sarebbero feriti a vicenda più di quanto avrebbe forse potuto sopportare, ma non poteva fare altrimenti, non riusciva a fare altrimenti.

 

Presa dai suoi pensieri, quasi non si accorse del fatto che il suo cuscino si fosse mosso leggermente, che il petto a cui era appoggiata si sollevasse e abbassasse con ritmo più frequente, almeno finché si sentì sfiorare il braccio. Alzò la testa e vide due occhi azzurri, aperti e vigili, che la osservavano, tra il curioso e l’apprensivo.

 

“Pentita?” le chiese semplicemente, con un tono quasi rassegnato, sembrando leggerle nel pensiero, come sempre.

 

“No. Tu?” gli chiese di rimando, senza bisogno nemmeno di pensarci.

 

No, non si era pentita, affatto, sebbene ciò probabilmente la rendesse una stronza - e meglio non dire che altro, secondo i benpensanti. Ma, mai come in quel periodo, le era stata chiara la differenza fondamentale tra pentimento e senso di colpa. Perché in colpa lei ci si sentiva eccome, mica era fatta di pietra: sarà stata pure stronza, sì, ma un cuore - sotto, sotto, come avrebbe detto Diana - ce lo aveva pure lei.

 

Ma pentirsi di una cosa significava innanzitutto due cose fondamentali: non solo ripromettersi di non ripeterla più in futuro - e poi mantenerla la promessa - ma anche desiderare sinceramente che non fosse mai successa. E se sulla prima parte già non era certa di avere la forza di volontà necessaria, sulla seconda, beh, era proprio una cosa per lei impossibile anche solo da concepire. Perché quello che aveva provato in quella notte con Calogiuri se lo sarebbe ricordato finché il cervello non avesse smesso di funzionarle e perché gli sarebbe stata per sempre grata di averle fatto scoprire quelle emozioni sconosciute, di averla fatta sentire felice e viva come mai in vita sua, indipendentemente da come sarebbe andata tra loro e nonostante fosse tutto sbagliato.

 

“Ma come faccio ad essere pentito?” proclamò con un sorriso, sembrando sollevato da un peso, “era da così tanto tempo che lo desideravo!”

 

Imma non avrebbe saputo dire cosa di Calogiuri trovasse più adorabile: se il suo candore, la sua schiettezza, la sua totale mancanza di malizia, o il rossore che gli coprì il viso e il collo subito dopo, quando realizzò cosa aveva appena ammesso, nel suo impeto giovanile.

 

“Bene. E da quando, esattamente?” gli domandò con un sorriso, un po’ per punzecchiarlo e godersi ancora per qualche momento quel suo meraviglioso imbarazzo, un po’ perché, sotto sotto, era realmente curiosa di saperlo con certezza, “e non dirmi da quando mi hai vista in costume, perché non ci credo.”

 

“No, no… allora non avrei mai osato nemmeno pensare a te in questi termini, figuriamoci,” ammise, scompigliandosi i capelli, palesemente in difficoltà, “diciamo che forse tutto è cominciato quando dovevo partire per Roma e… e ti sei messa a piangere sul mio petto e… e poi mi hai abbracciato per salutarmi. E lì ho provato qualcosa che non riuscivo molto bene a capire, ma poi mentre ero a Roma e… e mi mancavi, ho capito.”

 

“Ma allora perché mi hai dato il due di picche quella sera a Roma?” gli domandò, sinceramente stupita: quando lui le aveva fatto notare del cellulare che squillava e poi le aveva augurato buona notte, si era convinta di essersi sbagliata a pensare di potergli interessare.

 

“Due di picche?” chiese di rimando, spalancando gli occhi dalla sorpresa, “quindi tu volevi…”

 

“Per un attimo avevo pensato che mi volessi baciare e… diciamo che tra la giornata, il vino e la cena… non ti avrei detto di no.”

 

“Ma io ti volevo baciare. Solo che poi… ero imbranato… e mi sa che un po’ lo sono ancora,” si schernì, con una di quelle smorfie di timidezza che la facevano impazzire, “ho anche pensato di entrare in albergo e fermarti. Ma mi è mancato il coraggio, anche perché non ero sicuro che tu ricambiassi.”

 

“Ma quindi il giro in scooter e la cena erano tutta una tattica, Calogiuri? Altro che imbranato!”

 

“E va beh… diciamo che lo scooter era veramente l’unico mezzo disponibile. Sul raccomandarti di stringerti, però, potrei averci marciato un po’ su, ecco,” ammise con un altro sorriso imbarazzato, per poi aggiungere, più sornione, “non mi sembra però che la cosa ti dispiacesse.”

 

“Ero spaventata all’idea di sfracellarmi sui sanpietrini, Calogiuri, che ti credi!”

 

“Ma se lo hai ammesso tu stessa che andare in moto ti piaceva!”

 

“Mi stai dando della bugiarda, Calogiù?” gli chiese ridendo, sollevandosi leggermente dal suo petto ed assestandogli un pizzicotto al fianco.

 

“Non mi permetterei mai, dott- Imma,” si corresse di nuovo all’ultimo momento, bloccandole la mano con la sua e portandosela alle labbra in uno di quei gesti cavallereschi che, di nuovo, su chiunque altro le sarebbero sembrati da damerino, ma su di lui risultavano incredibilmente spontanei e naturali, “e tu?”

 

“E io cosa?”

 

“E tu… insomma… da quando è che…”

 

Il suo coraggio e la sua timidezza sarebbero stati la sua rovina, se ne rendeva sempre di più conto, perché si ritrovò a sorridergli intenerita e a considerare seriamente di rispondere a quella domanda così pericolosa, invece che cercare di svicolare.

 

“Diciamo più o meno nello stesso periodo tuo, Calogiuri. Quando te ne sei andato a Roma te ne sarai accorto anche tu che stavo male, ma non capivo se fosse per il povero architetto o per la tua partenza. Col senno di poi una combinazione delle due cose. Ma quando eri a Roma… diciamo che alcune cose mi hanno fatto capire che non mi eri indifferente e che il mio interesse nei tuoi confronti non era solo professionale.”

 

Frequentare tanti avvocati doveva averle insegnato qualcosa, perché era riuscita a dire la verità, ma omettendo tutti i dettagli scomodi. Come, per esempio, la natura esatta delle alcune cose che, per dirla più prosaicamente, erano sogni erotici degni di filmetti a luci rosse trasmettibili solo a notte inoltrata. O il fatto che, già da ben prima del corso a Roma, si fosse resa conto di essere terribilmente attratta da lui ogni volta che le si avvicinava troppo. Per non parlare del desiderio irrefrenabile di strozzare quella cretina di Maria Luisa, in ogni occasione in cui lui gliene parlava - e non solo per essere stata tanto stupida dall’avere un ragazzo d’oro accanto e trattarlo come un deficiente. Perfino di Matarazzo era stata gelosa: quando dalla finestra li aveva visti baciarsi, aveva desiderato ardentemente che Miss Sicilia se ne andasse all’inferno per direttissima e senza ritorno, lei e la sua guida da formula uno.

 

Ma erano tutte cose che non doveva e non poteva ammettere. E non per se stessa o per il suo orgoglio personale - ormai sempre più vacillante - ma perché, se avesse lasciato trasparire con Calogiuri quanto l’idea di vederlo con altre ragazze o altre donne la facesse stare male, lui si sarebbe isolato ancora di più. Avrebbe evitato qualsiasi occasione di uscita e non sarebbe stato giusto. Non poteva certo pretendere da lui fedeltà assoluta, quando lei per prima aveva… aveva un marito a casa che l’aspettava.

 

E il pensiero di Pietro la riportò di nuovo alla realtà, rompendo la bolla quasi onirica nella quale era avvolta, figurativamente e letteralmente. Sapeva che lei e il maresciallo avevano un discorso molto serio da fare e sapeva altrettanto bene cosa avrebbe dovuto dirgli, anche se non era affatto sicura di averne la forza.

 

"Calogiuri…" enunciò a fatica, alzando il viso per guardarlo negli occhi. E comprese, dal modo in cui si era rabbuiato, gli occhi, di solito così brillanti e puliti, velati di tristezza, che lui aveva capito perfettamente dove volesse andare a parare.

 

"Non sono stupido," proclamò deciso, bloccandola prima che potesse dire altro e strappandole, nonostante le circostanze, un sorriso affettuoso e malinconico. 

 

"E che ci voleva questo per fartelo ammettere?! A saperlo prima…" ironizzò, per allentare la tensione, stringendo più forte la mano che ancora intrappolava la sua, "è che-"

 

"Lo so come vanno queste cose, va bene? Lo so benissimo. Lo so che… che questo che abbiamo non ha futuro, ma a me basta il presente. Non ti chiedo niente, non pretendo niente. Voglio solo stare con te per quanto possibile, il più possibile, quando avrai un po' di tempo da dedicarmi."

 

"Lo so… ma non è giusto nei tuoi confronti, Calogiuri, non è giusto," affermò, altrettanto decisa, dritto negli occhi, "tu ti meriti molto, ma molto di più."

 

"Ma io non voglio altro e-"

 

"Mo pensi di non volerlo, ma presto o tardi ti mancherà. Io non mi voglio approfittare di te e non voglio che un giorno arrivi… che arrivi ad odiarmi."

 

"Non potrei mai odiarti, e lo sai," le sussurrò, lasciandole la mano per sfiorarle il viso con una delicatezza che fu un’altra fitta al cuore, "e non sono un ragazzino di cui ti puoi approfittare. Lo so benissimo che cosa sto facendo. E sono sempre stato onesto e sincero con te, no?"

 

"Fin troppo, Calogiuri…" sospirò, scuotendo il capo, come se bastasse per fare chiarezza in quella matassa ingarbugliata di idee che lottavano nel suo cervello.

 

"Se non starò più bene, se arriverà il giorno in cui vorrò altro, te lo dirò, come ti ho sempre detto tutto il resto. O non ti fidi ancora di me?

 

"Certo che mi fido di te, Calogiuri. È di me stessa che non mi fido. Per niente,” ammise, infine, con un altro sospiro, abbassando lo sguardo e poi chiudendo gli occhi.

 

Sapeva di essere giunta a un bivio, all’ultima fermata, all’ultima occasione utile che aveva per derubricare quanto successo tra loro come una follia momentanea, un attimo di debolezza, una scappatella da archiviare come un incidente di percorso, di cui non si sarebbe pentita ma che non avrebbe mai più permesso accadesse.

 

Proseguire oltre significava intraprendere una vera e propria relazione clandestina, significava diventare amanti nel senso più profondo del termine, significava tradire la fiducia non solo di Pietro, ma anche dello stesso Calogiuri, significava tradire tutti i principi su cui era stata salda una condotta di vita fino a quel momento tutto sommato esemplare - insopportabile per il prossimo magari, ma pur sempre esemplare.

 

Ma di nuovo, mentre gli occhi le si fecero lucidi, un nodo le si formò in gola, talmente stretto che quasi le sembrò di soffocare e né il fiato né la voce vollero saperne di uscire.

 

Perché fermarsi ora, sopprimere ciò che provava per Calogiuri - qualsiasi cosa fosse -, sopprimere i suoi desideri, metterli sotto chiave, condannandoli al buon senso e alla ragione, sarebbe stato come tradire se stessa. La vera se stessa, la Imma che il mondo non aveva mai visto, sia perché lei non lo aveva mai permesso a nessuno, tranne forse proprio a Calogiuri, sia perché al mondo, in fondo, non gliene era mai fregato particolarmente di scoprirne l’esistenza o di capire come stesse in realtà la Tataranni.

 

La se stessa bambina, ragazza e poi donna, che aveva represso desideri, passioni, sogni - che non fossero quelli lavorativi, ovviamente - sotto una coltre di senso del dovere e di responsabilità. Di riscatto dalla povertà, dalla miseria, dall’ignoranza. Di senso di giustizia e di altruismo verso una società ben poco civile - sebbene tutti la considerassero comunque un’egoista priva di sentimenti.

 

E, tutte queste scelte integerrime, in fondo, dove l’avevano condotta? Sì, ad essere una professionista affermata, ad avere una carriera brillante di cui andava incredibilmente orgogliosa e di cui sarebbe per sempre andata orgogliosa. A fare un lavoro che amava alla follia e che avrebbe sempre amato. Ma anche a struggersi per un ragazzo troppo giovane e troppo bello per lei. Ad avere accanto il marito migliore del mondo, quello che ogni donna sana di mente avrebbe desiderato e si sarebbe tenuta ben stretta, con le unghie e con i denti e…

 

E allora perché siete così infelice?

 

Le parole della Masciara le risuonarono nella mente e non ce l’aveva una risposta, semplicemente non ce l’aveva. Non lo sapeva nemmeno lei.

 

Sapeva solo che non voleva più esserlo e che Calogiuri, quello che c’era con Calogiuri era la cosa più simile alla felicità vera che avesse provato da quando aveva memoria.

 

E, sebbene non sarebbe stato per sempre, sebbene non sapesse nemmeno lei che sperare, - se che Calogiuri ad un certo punto scegliesse per lei, se che, vivendosela, questa passione sarebbe presto scemata per entrambi, o se che, in qualche modo, prima o poi la matassa nel suo cervello si sbrogliasse da sola e le facesse capire esattamente cos’era giusto fare - sebbene fosse sbagliato, sebbene le avrebbe sicuramente pagate care, lei a quelle emozioni, a quella felicità non voleva e non poteva proprio più rinunciare. Non un’altra volta.

 

“Mi… mi prometti veramente che se non sarai più felice, se non starai più bene, me lo dirai subito, Calogiuri?” gli domandò con voce tremante, aprendo gli occhi per incontrare quei fari azzurri che si incresparono lievemente in un sorriso sollevato.

 

“Te lo prometto… Imma,” pronunciò con incredibile decisione, sia la promessa che il suo nome di battesimo. E tanto bastò per farle capire quanto fosse sincero.

 

“E io… lo so che è poco, anzi, è proprio niente, ma l'unica cosa che posso prometterti è di non farti mai promesse che non posso mantenere, Calogiuri," proclamò a sua volta, allungando finalmente le dita per sfiorargli la guancia, quel lieve accenno di barba mattutina che le solleticava le dita.

 

"Qualcuno mi ha sempre detto che le promesse le fanno solo i politici e gli avvocati, che promettono tutto senza promettere niente, quindi non mi stupisce.”

 

“Ma veramente mo tutto quello che ho detto da quando ci conosciamo verrà usato contro di me, Calogiù?” gli domandò scherzosa, pizzicandogli la guancia, “che mi devo preoccupare?”

 

“No… anche perché c’è un rimedio semplice: basta che la smetti di parlare," replicò con un sorrisetto che le venne voglia di levargli a suon di baci.

 

E lo avrebbe pure fatto, se lui non l'avesse preceduta, trascinandola con sé fino a inchiodarla al materasso, in un bacio talmente appassionato da toglierle letteralmente il fiato.

 

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"Calogiù… mi sa che ci dobbiamo proprio alzare mo, o perdo pure l'ultima corriera…"

 

Erano le tre del pomeriggio - quando aveva sbirciato l'orologio al polso di lui tra un po' le prendeva un colpo: con lui il tempo trascorreva davvero troppo in fretta già in generale, figuriamoci quando lo passavano a coccolarsi e a fare l'amore.

 

Lui, per tutta risposta, le rivolse uno di quegli sguardi malinconici e tristi da cucciolo ferito, seguito da uno di quei suoi "va bene…" che erano peggio di una coltellata.

 

Non che non lo capisse fin troppo bene. La verità era che, se fosse dipeso solo da lei e non avesse avuto tutte le responsabilità che aveva, da quel letto non ci si sarebbe schiodata fino alla fine delle ferie, come minimo.

 

Ma era ora di tornare alla realtà, purtroppo.

 

Allungò il collo per posargli un ultimo bacio sulle labbra, forse per cancellargli quell'espressione dal viso, o forse per farsi coraggio a sua volta. Le ci volle tutta la forza di volontà - che ultimamente latitava parecchio - per staccarsi dal suo abbraccio e mettersi a sedere. Sentì freddo, nonostante la calura estiva che filtrava nella stanza.

 

Ma quando Calogiuri, dopo un ultimo sguardo malinconico, le diede le spalle e si alzò dal letto, la vista di tutto quel ben di dio la indusse quasi nella tentazione di inventarsi urgenze improrogabili in procura, mandare a quel paese il pranzo di ferragosto di sua suocera, e chiuderlo in quella stanza gettando via la chiave.

 

Lo vide voltarsi di scatto e fissarla con uno sguardo tra il compiaciuto e l'imbarazzato che la portò a domandarsi, per l'ennesima volta, se fosse veramente in grado di leggerle nel pensiero.

 

Si sentì avvampare e balzò in piedi su gambe che parevano fatte di gelato squagliato al sole, decidendo che fosse giunta l'ora di una bella doccia fredda, letteralmente. Ma, fatti pochi passi, per poco non si ritrovò incastrata nella porta con Calogiuri, che doveva avere avuto la sua stessa idea - maledetto sincronismo!

 

Le loro braccia si sfiorarono e di nuovo venne trapassata da quella benedetta e dannata scossa elettrica, che non ne voleva sapere di affievolirsi, nonostante nelle ultime ore avessero fatto l'equivalente di una maratona - o forse pure due.

 

Si voltarono all'unisono, i visi troppo vicini, come nella Grotta dei Pipistrelli, ma stavolta non c'era nessun carabiniere a rompere le scatole e neppure alcuno strato di stoffa.

 

Presa da un impulso irrefrenabile, gli si aggrappò alle spalle e se lo baciò con una foga inspiegabile, come se dall'ultimo bacio fossero passati anni e non un minuto scarso, ma ogni volta con lui era diversa, e incredibile, e sembrava non bastarle mai.

 

Si sentì per un attimo sollevare di peso ma, non appena i piedi toccarono nuovamente il pavimento, se lo trascinò alla cieca dentro il bagno, finendo spalmata tra il corpo di Calogiuri e la parete in Plexiglas del box doccia.

 

In fondo, chi l'aveva detto che la doccia fredda non potessero farla insieme?

 

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"Maledizione!"

 

Guardò il bus che si allontanava inesorabilmente, mentre arrancava reggendo sua madre sottobraccio, che incespicava tra lei e Calogiuri. Il maresciallo offriva di tanto in tanto l'avambraccio libero dal borsone a sua madre, perché ci si appoggiasse, quando l'equilibrio si faceva più precario e Imma faticava a sostenerne tutto il peso. 

 

E sua madre ci si appoggiava, eccome se ci si appoggiava - mica scema, altro che Bruno Lauzi e Garibaldi! - tanto che Imma si chiese se la sua deambulazione fosse improvvisamente peggiorata o se… tale figlia, tale madre.

 

Tra il tempo perso sotto la doccia - e non solo per lavarsi - e quello impiegato per passare a prendere sua madre e trovare un posto dove accostare la macchina di servizio, anche l'ultima corriera del tardo pomeriggio se ne era andata.

 

"Vi posso accompagnare io a Metaponto. Ci fermiamo a riempire il serbatoio a spese mie, non vi preoccupate," la rassicurò, conoscendola fin troppo bene, o quasi.

 

"Non dirlo nemmeno per scherzo, Calogiuri! La benzina in caso ce la metto io," ribatté in automatico, anche se il non gravare sulle spalle dei contribuenti coi suoi viaggi personali era, in quel momento, l'ultimo dei suoi pensieri.

 

Il che avrebbe dovuto farle capire quanto grave fosse la situazione. 

 

Se già presentarsi con Calogiuri a casa dei suoi suoceri, sebbene fosse successo in più occasioni l'estate precedente, non era in quel momento esattamente la mossa più brillante da fare - per non dire che era proprio da cretina - quando prese il cellulare per avvertire Pietro del contrattempo, si avvide con sgomento che era ancora spento dalla sera prima.

 

Dire che Calogiuri fosse pericoloso, arrivati a quel punto, sarebbe stato come dire che la bomba atomica era un poco rischiosa. Aveva il potere di farle perdere completamente il senno in un modo che la spaventava profondamente, soprattutto perché non poteva rimproverargli assolutamente nulla: era stata lei la causa principale del ritardo ed era sempre stata lei a dimenticarsi completamente del telefono.

 

"Se preferite vedo se Capozza o Matarazzo sono in servizio oggi," propose Calogiuri, che evidentemente aveva ben compreso la sua riluttanza a che lui e la sua famiglia si incrociassero. Peccato che la toppa sarebbe stata ben peggiore del buco.

 

"Ci manca solo questo, Calogiuri! Ascolta, dammi due minuti e poi andiamo…"

 

Accese il telefono con mano tremante e trovò una sfilza di notifiche da fare invidia a Valentina. 

 

Un paio di giornalisti che chissà come avevano il suo numero e volevano intervistarla; un messaggio di congratulazioni da Vitali e uno da Diana, che pure da Londra dove era in vacanza con Cleo aveva ricevuto notizie della condanna di Romaniello; un paio di messaggi di spam di ristoranti per il pranzo di Ferragosto, i cui titolari avrebbe provveduto al rientro dalle ferie a denunciare al Garante della Privacy, per uso improprio di dati personali ottenuti chissà come e infine… e infine cinque chiamate perse da Pietro nelle ultime tre ore.

 

Si allontanò di qualche passo da Calogiuri e dalla madre - che tanto stava in buona compagnia, da come se lo guardava adorante - e si affrettò a richiamare il marito, temendo il peggio e che fosse già a casa a Matera, o che avesse allertato in procura e pure la protezione civile.

 

"Imma!! Ma dov'eri finita?! Son tre ore che ti cerco! Iniziavo a spaventarmi, amò. Stai bene?!"

 

"Sì, sì, sto bene, Pietro. Scusami… è che… non sono riuscita a prendere sonno fino quasi all'alba e mi sono svegliata molto tardi, ed ero così fuori fase che mi sono scordata di avere il cellulare spento."

 

Complimenti, dottoressa! Salvataggio degno di un avvocato: proprio sicura che non siamo fratelli? - la sua coscienza la sfottè con la voce di Latronico.

 

“Tranquilla, amò, lo capisco che sarai distrutta, dopo tutto il lavoro degli ultimi giorni. Ma dove stai ora? Sei in corriera?”

 

“No, Pietro… in realtà… sai, tra le cose del lavoro da sistemare e poi mamma da recuperare… ho perso anche l’ultima corriera.”

 

“Ma non c’è problema! Se mi aspetti a casa, tra un’oretta sono lì da te e-”

 

Per un attimo fu seriamente tentata di accettare quella che era, oggettivamente, la soluzione perfetta. Ma l’idea che Pietro rientrasse a casa e magari realizzasse che pure la casa era troppo perfetta perché ci avesse passato due giorni e due notti - il letto in particolare - la fece desistere e optare per il pericolo minore. Contava sul fatto che, ora della fine della vacanza, se ne sarebbe scordato.

 

“No, Pietro, col traffico di rientro dal mare ci metterai una vita e mamma non è il caso che stia in giro tutto questo tempo, sai com’è quando non c’è Nikolaus. Non ti preoccupare, il maresciallo, che ci ha già portate alla corriera, si è offerto gentilmente di accompagnarci anche fino a Metaponto.”

 

“Ma Imma, domani è ferragosto! Non sarà il caso che gli dai un po’ di tregua a quel povero ragazzo, che pure l’anno scorso gli hai fatto fare più chilometri tra Matera e Metaponto della corriera, tra un po’? Per me non è un problema passarti a prendere.”

 

La solidarietà di Pietro verso Calogiuri era talmente paradossale che Imma non avrebbe saputo dire se fosse maggiore il senso di colpa alla bocca dello stomaco o l’istinto, che tenne a freno a fatica, di esplodere in una risata tra il sarcastico e l’isterico.

 

“Tranquillo, Pietro, veramente, non sarà un ultimo viaggio a Metaponto che mi farà passare da schiavista. Saremo lì per cena.”

 

Si affrettò a chiudere la conversazione prima di ulteriori obiezioni.

 

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“Ma lo sai che sei proprio un bello giovane? E ce l’hai la fidanzata?”

 

Imma si passò una mano sulla fronte, non sapendo se sprofondare nello schienale o scoppiare a ridere per l’espressione imbarazzata di Calogiuri, che spiava dal retrovisore: con sua madre in macchina aveva preferito sedersi nel sedile posteriore, anche per salvare le apparenze all’arrivo a Metaponto.

 

“Grazie, signora, siete troppo gentile,” sì schernì il maresciallo, toccandosi il collo in quel modo che denotava il suo imbarazzo, per poi aggiungere, incrociando gli occhi di Imma nello specchietto, “e… diciamo che ho una... frequentazione.”

 

“Che parole complicate che usate voi giovani, mo!” esclamò sua madre, con il tono di quando pronunciava una delle sue verità universali, “ai miei tempi le cose si dicevano semplici semplici, pane al pane, vino al vino.”

 

“Sì, mamma,” sospirò Imma, lanciando un’occhiata grata a Calogiuri, che voleva dire porta pazienza.

 

“Come con papà tuo… lo sai che mi ricordi il papà di Immarè?” chiese poi, rivolgendosi a Calogiuri e toccandogli una spalla - decisamente sua madre scema proprio non era - ma, al menzionare il padre, Imma pregò chiunque fosse in ascolto e non l’avesse già predestinata a volare senza meta in qualche girone dell’inferno, che sua madre si limitasse solo alle solite sparate su Garibaldi e non aggiungesse altro.

 

“Ve- veramente signora?” balbettò, sembrando ancora più imbarazzato. Imma scosse il capo quando i loro sguardi si incrociarono nuovamente, facendogli capire di non darle retta.

 

“Eh, certo! Era proprio come te: bello, alto... come Garibaldi!” si esibì nella solita filastrocca, per poi aggiungere, sporgendosi in avanti con tono confidenziale, “e poi era ricco, intelligente! Ah, e piaceva alle donne, assai. Eh, se piaceva, il mio Cenzino!”

 

La macchina fece un’accelerata brusca e poi rallentò di botto, come se a Calogiuri fosse scappato il piede sull’acceleratore.

 

Trattenendo il fiato, Imma attese che l’azzurro riapparisse nel retrovisore, insieme alla sentenza che già purtroppo conosceva.


Due occhi spalancati e sbigottiti confermarono che Calogiuri, con quel taccuino, davvero la memoria la stava allenando, fin troppo. Maledisse mentalmente sua madre, se stessa e Diana per averla messa in quella situazione. Fece un altro cenno del capo, un non è come pensi, ne parliamo, che sperò Calogiuri avesse colto correttamente.

 

Ma, di rimando, ricevette solo un’occhiata preoccupata e nella vettura calò il più totale silenzio, almeno fino a che sua madre, dal nulla, saltò su richiedendogli se fosse possibile ascoltare una canzone di Bruno Lauzi.

 

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“Signora, benvenuta!”

 

Sua suocera, puntuale come il mal di denti, li accolse alla porta. Aveva provato ad evitare a Calogiuri di accompagnarle fino in casa, ma sua madre gli si era attaccata al braccio mentre lui scaricava il borsone dal baule e non c’era stato verso di farla staccare.

 

“Imma, e chi è questa, mo?” chiese sua madre, come da copione, e Imma sperò di risparmiarsi tutta la storia sul come la famiglia De Ruggeri fosse arrivata ad avere quel cognome, per quanto vedere sua suocera in difficoltà le facesse sempre correre un brivido di piacere lungo la spina dorsale.

 

“La vostra consuocera, signora,” la accolse con un sorriso fintissimo, prendendole la mano che non stringeva spasmodicamente il braccio del povero Calogiuri.

 

“Ah, quella che-”

 

“Date pure a me il borsone,” la interruppe lesta sua suocera, che sapeva bene sua madre dove volesse andare a parare.

 

“Non c’è bisogno, signora, faccio io,” si oppose, lanciando un’occhiata a Calogiuri che lo portò a metterle immediatamente il mano il borsone, senza fiatare.

 

“Pietro e Valentina?” si azzardò poi a chiedere, non vedendoli uscire.

 

“Valentina è in camera sua a parlare con… con quello di Bra e mio figlio è andato a comprare non ho capito bene che cosa, dovrebbe rientrare tra poco.”

 

Allora qualcuno lassù che non mi odia esiste ancora! - pensò Imma, sentendosi immediatamente sollevata e notando, quasi automaticamente, come le spalle di Calogiuri si fecero meno tese sotto la polo estiva.

 

“Signora, appoggiatevi a me, così lasciamo andare… l’appuntato qui,” fece segno sua suocera, porgendo il braccio a sua madre che lo guardò con lo stesso entusiasmo con cui guardava le pastiglie da prendere mattina e sera.

 

“Dai mamma, il maresciallo adesso deve andare,” concordò per una volta Imma, non resistendo nemmeno in questa circostanza dal correggere sua suocera, porgendo a sua volta il gomito sinistro, che sua madre, seppur con riluttanza, infine si degnò di afferrare.

 

“Maresciallo? Ma non era appuntato?” domandò sua suocera, squadrando Calogiuri con un’occhiata diversa ed indefinibile che inquietò profondamente Imma.

 

“In quest’anno ha avuto una promozione, signora,” chiarì, trovando improvvisamente quella conversazione surreale e notando dalle spalle di Calogiuri che pure lui era di nuovo in tensione.

 

“Ah, bene, tanti complimenti, maresciallo!” esclamò sua suocera, con una gentilezza che fu, se possibile, ancora più inquietante, prima di aggiungere, con perfino più cortesia, “ma perché non vi fermate anche voi a cena? Ormai è tardi, prima che tornate a Matera sarà notte.”

 

Imma vide chiaramente, perfino in tralice, Calogiuri spalancare gli occhi allibito, l’espressione del cervo abbagliato dai fari. Ed era sicura che lei stessa avesse avuto, almeno per un attimo, un'espressione identica.

 

“Signora, guardate, io vi ringrazio moltissimo per l’invito, sono onorato veramente e… e come se avessi accettato ma-” si interruppe, lanciandole un’occhiata come a chiederle aiuto.

 

“Ma il maresciallo deve andare a Grottaminarda dalla famiglia per il ferragosto,” si affrettò a precisare, chiedendosi come fosse diventata tanto abile a raccontare balle in soli due giorni di pratica, “e se aspetta ancora a partire rischia di non arrivare più.”

 

“Ah, in questo caso... ovviamente la famiglia prima di tutto, maresciallo. Bello vedere che ci sono ancora giovani così legati ai propri genitori, al giorno d’oggi!” proclamò sua suocera, con un sorriso che innalzò l’inquietudine ai massimi livelli.

 

“Gra- grazie, signora,” balbettò Calogiuri, passandosi una mano tra i capelli, prima di lanciare un’occhiata verso il cancello, poi verso Imma e congedarsi con un, “allora buon ferragosto signore, buon ferragosto, dottoressa. Se aveste bisogno di me per il caso, resto raggiungibile sul cellulare.”

 

“Mi auguro proprio che non succeda più niente da qui alla fine delle vacanze,” mentì Imma, perché la verità era che quasi pregava che capitasse qualcosa che la costringesse ad anticipare definitivamente il rientro da Metaponto, “buon ferragosto, Calogiuri, e grazie di tutto.”

 

E così, con un ultimo sguardo, lo vide voltarsi e sparire oltre il cancello.

 

Fece per avviarsi verso casa quando sua suocera le lanciò un’altra strana occhiata, che le gelò per un attimo il sangue nelle vene, mentre le montava il panico.

 

“Imma, ma sai che riguardo al maresciallo ho avuto come un’illuminazione?” le chiese e Imma già si vide in tribunale per la causa di separazione con addebito, Pietro con l’affido esclusivo di Valentina, Calogiuri espulso dall’arma e la sua carriera in frantumi.

 

“In che senso?” le domandò, cercando di tenere un tono più neutro possibile.

 

“Beh, è proprio un bel ragazzo, no?”

 

“Signora, a me basta che faccia bene il mestiere suo: stiamo in procura, mica a una sfilata,” le rispose, assumendo, nonostante le circostanze, un tono di sfida.

 

“E lo sa fare bene il mestiere suo?

 

“Sì, se la cava molto bene,” ammise, sforzandosi di celare la nota d’orgoglio dalla voce, “ma che c’entra questo mo?”

 

“C’entra, c’entra. Non pensi che... sarebbe perfetto per Valentina?”

 

Imma inciampò sul gradino e ci mancò poco che finisse schiantata a terra, tirandosi pure dietro sua madre. Per fortuna riuscì appena in tempo a reggersi alla colonna del porticato.

 

“Per Valentina?” ripetè, come in trance, e non seppe se sentirsi più sollevata o più… più umiliata.

 

“Beh, certo, perché no? Bello è bello, fa bene il suo mestiere, sta facendo carriera, è gentile, legato alla famiglia, inspiegabilmente va perfino d'accordo con te. Mi pare un buon partito. Sicuramente migliore di quell’avanzo di galera che sta a Bra, non che ci voglia molto!”

 

Imma si bloccò perché era tutto talmente surreale che non sapeva nemmeno da dove cominciare: se dal difendere Samuel o dal cercare di levare questa idea di testa a sua suocera il prima possibile e definitivamente.

 

Era da quando Valentina le aveva annunciato di lei e Samuel che sua suocera le proponeva, più o meno velatamente, candidati alternativi, ma non pensava sarebbe arrivata a tal punto.

 

“Per caso è anche di buona famiglia?” chiese la signora De Ruggeri, che sognava che Valentina si sposasse con qualche pezzo grosso della Matera bene fin da che era poco più che in fasce, come se fosse un riscatto dalla delusione inflittale del figlio, che aveva scelto una che la Matera bene l’aveva solo incrociata per sbatterne qualche esponente in galera.

 

“A quanto ne so i genitori sono contadini, signora. E comunque il maresciallo ha già una fidanzata al paese suo, qualche mese fa ci ha pure annunciato che si sposeranno,” si affrettò a chiarire, benedicendo per una volta perfino Maria Luisa.

 

“Peccato! Eh, ma del resto le ragazze sveglie i buoni partiti se li prendono al volo. Non come Valentina, che si perde dietro ad un mezzo delinquente!”

 

Imma stava per perdere la pazienza e lanciarsi in una filippica sull’utilità del reinserimento dei giovani da strutture protette e su come certe etichette fossero profondamente ingiuste e frutto di ignoranza, quando due mani sugli occhi le levarono bruscamente la vista.

 

“Sorpresa! Bentornata amò!” sentì la voce di Pietro esclamare alle sue spalle, prima di voltarsi - sua madre nel frattempo se l’era agguantata sua suocera, nonostante le proteste - e trovarsi davanti ad un mazzo di rose rosse persino più enorme di quello dell’ultima volta.

 

Se il senso di colpa avesse avuto un sapore, sarebbe stato quello della bile che sentì improvvisamente risalirle in gola.

 

“Amò, tutto bene?” le domandò, probabilmente vedendola lì come paralizzata, “non mi dai neanche un bacio?”

 

Imma chiuse un attimo gli occhi e scosse il capo, per cercare di riattivare cervello e muscoli e soffocare quel senso di colpa che la faceva sembrare una bella statuina.

 

Con il sorriso migliore che le riuscì di produrre, si sporse a posare un bacio sulle labbra di Pietro, sentendosi, ove possibile, perfino più un'infame quando le loro labbra si sfiorarono.

 

Afferrò le rose con malagrazia, data dalle mani tremanti, e si sforzò di sorridergli nuovamente, esclamando un “ma sei matto! Ti saranno costate una fortuna!" di protesta che risuonò troppo finto perfino ai suoi orecchi.

 

“Ma figurati! Per te questo ed altro! E poi dobbiamo festeggiare la tua vittoria, no? Ho già messo lo spumante in frigo!” annunciò orgoglioso, in apparenza completamente inconsapevole del tono di lei, passandole una mano intorno alle spalle per stringerla a sé di lato ed iniziando ad avviarsi verso l’ingresso.

 

Imma, le braccia piene di rose e lo stomaco pieno di sassi, si lasciò condurre da lui fin dentro casa, verso quella festa che si meritava tanto quanto si meritava l'amore incondizionato di un marito come Pietro.

 

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"Amò…"

 

La voce di Pietro all'orecchio precedette di pochissimo le sue labbra alla base del collo.

 

Imma si era appena seduta sul letto, dopo una rapida doccia e aver indossato l'immancabile camicia da notte, quando suo marito, prevedibile come un orologio svizzero, fece partire l'assalto.

 

Il problema, molto meno prevedibile, era ciò che accadde, o meglio, non accadde dopo: mentre la bocca di Pietro si applicava con impegno encomiabile, Imma non sentì nulla se non un senso improvviso di spossatezza, misto ai morsi residui di colpa che nemmeno l'abbondante cena - che aveva divorato con voracità, una volta che i sassi avevano lasciato spazio alla fame da troppe calorie bruciate - era riuscita del tutto a placare.

 

La verità era che quella famosa fiammella, che l'aveva accompagnata nell'ultimo periodo come una presenza costante, si era finalmente sopita e l'ultima cosa di cui aveva voglia in quel momento erano altre evoluzioni, tra il dolore ai muscoli che iniziava a farsi sentire e l'overdose di endorfine e ormoni ancora in circolo.

 

L'unico desiderio proibito in quel momento era una bella dormita di almeno dieci ore filate, come minimo.

 

"Scusa, Pietro, ma mi sento veramente troppo stanca, ho bisogno di riposare," lo interruppe, scostandosi dalle sue labbra e allungando una mano per trattenergli il viso.

 

Lo sguardo deluso che le lanciò fu un'altra fitta colpevole allo stomaco, che la spinse ad accarezzargli una guancia e dirgli, in quella che era una domanda retorica ma anche una mezza promessa, "ti dispiace se li rimandiamo i festeggiamenti?"

 

Pietro sospirò e scosse il capo, dandole un bacio in fronte, con aria rassegnata. Poi si bloccò improvvisamente e la guardò in modo strano.

 

"C'è qualcosa di diverso in te, oggi," pronunciò, come se fosse una sentenza incontrovertibile, ed Imma sentì un'altra colata d'acido, chiedendosi se ce l'avesse letteralmente scritto in fronte quello che aveva combinato.

 

Era ancora indecisa se fosse meglio chiedere chiarimenti o tacere, quando Pietro proclamò, come colto da un'illuminazione - si sperava migliori di quelle di sua madre -, "hai cambiato profumo? Anzi no, forse lo shampoo?"

 

Imma sentì un macigno sulle spalle, mentre si dava della deficiente. Se fosse esistito un manuale su come non farsi scoprire in una relazione extraconiugale, lei quel giorno aveva inanellato tutte, ma proprio tutte, le cose da non fare.

 

E usare docciaschiuma e shampoo del proprio amante era in cima alla lista.

 

"Ho dimenticato lo shampoo e ho dovuto usare un campioncino che avevo in giro," si affrettò a chiarire, stupendosi di nuovo della prontezza del suo cervello nell'inventare storie tutto sommato credibili.

 

"È un po' maschile…" commentò Pietro, e Imma si chiese se ci fosse un fine inquisitorio dietro quel commento, almeno fino a quando Pietro aggiunse, "ma non mi dispiace, ti si addice."

 

"Mi stai dicendo che sono mascolina?" non poté trattenersi dal domandare, sebbene non fosse proprio nella posizione di polemizzare su alcunché.

 

"Ma che scherzi, amò? No! Solo che sei forte, volitiva e-"

 

"E quindi l'essere forti e volitivi sarebbe una caratteristica maschile?" di nuovo di frenare la lingua non le riuscì proprio.

 

"Ma no, Imma, ma figurati! Ma che c'hai stasera? Stai ancora nella modalità da magistrato? Intendo solo dire che, forte e volitiva come sei, puoi permetterti di indossare tutto ciò che vuoi, e non solo come profumo," cercò di salvare il salvabile. Imma stava per domandargli se si stesse lamentando di come si vestiva, quando Pietro si affrettò ad aggiungere, "e poi penso di averti dimostrato coi fatti negli anni che a me dei ruoli di genere non me frega proprio niente, no?"

 

Imma sospirò e si calmò, dovendo ammettere che era fin troppo vero. Pietro le sorrise sollevato, probabilmente intuendo che la tempesta fosse passata, e la trascinò in un breve abbraccio, prima di scostare il lenzuolo, sembrando improvvisamente ansioso quanto lei di dormire, probabilmente per evitarsi ulteriori discussioni.

 

Non appena si fu coricata accanto a lui, si sentì posare un bacio sul collo ed abbracciare da dietro e, per un attimo, si irrigidì, sforzandosi poi di lasciarsi andare, mentre Pietro le augurava buona notte.

 

Il problema era che quell'abbraccio non la aiutava affatto a rilassarsi, anzi, la faceva sentire ancora di più in colpa nei confronti del marito, tanto che il sonno non ne voleva sapere di venire, sebbene si sentisse mentalmente e fisicamente esausta.

 

Attese finché i respiri di Pietro si fecero più lenti e cadenzati e, con grande delicatezza, gli sollevò il braccio destro, con cui la tratteneva, e glielo poggiò sul materasso, prima di spostarsi verso il bordo del letto e crollare finalmente in un immeritato riposo.

 

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Un brivido di freddo la costrinse a sollevarsi dal materassino su cui stava mollemente adagiata da un tempo lunghissimo quanto indefinibile.

 

Ma a definirlo per lei ci pensavano la pelle d'oca ed i polpastrelli raggrinziti peggio delle prugne secche di cui era ghiotta sua suocera - il che diceva di quest'ultima molto più di quanto fosse necessario esprimere a parole.

 

Era stata in acqua troppo a lungo, lo sapeva, il cielo si stava rannuvolando, come a seguire il suo umore dell'ultima settimana. 

 

A partire da ferragosto, gocciolato via in una noia mortale e letale - aveva addirittura rinunciato alla competizione gastronomica con sua suocera, troppo presa da ben altri pensieri per impegnarsi a cucinare - ai giorni successivi, trascorsi a dribblare l'assedio opprimente dei suoi suoceri e di Pietro che, accorgendosi della sua voglia di starsene per conto suo, per reazione era diventato ancora più premuroso.

 

Cosa che normalmente avrebbe anche apprezzato, ma che ora la faceva sentire soltanto peggio.

 

E poi c'era quel senso di mancanza che, a mano a mano che trascorrevano le ore di distacco da Calogiuri, tornava prepotentemente a martellarle il cervello e il cuore, sempre più forte ed invadente, mentre la famosa fiamma si era riattivata sotto la cenere e crepitava con altrettanta intensità.

 

Ogni giorno era stata sul punto di chiamarlo almeno una volta, ma era sempre riuscita a trattenersi appena in tempo. Era già stata fin troppo imprudente, doveva darsi una regolata. 

 

Ma, dopo una settimana, si sentiva come una pentola a pressione stipata di frustrazione e pronta ad esplodere.

 

Sapendo che ciò non fosse un buon motivo per rischiare di ammalarsi ad agosto, si sforzò di uscire dall'acqua - sua unica oasi di pace - mollare il materassino sotto l'ombrellone ed avviarsi verso le docce e gli spogliatoi.

 

Fresca di doccia, si accingeva ad entrare in cabina per cambiarsi il costume, quando si sentì agguantare per un braccio. Stava per piantare un urlo ed un calcio negli stinchi all'aggressore, quando un "tranquilla, amò, so' io!", sussurratole all'orecchio, la bloccò appena in tempo.

 

Con un sorriso malizioso, Pietro la spinse nella cabina, chiuse la porta alle loro spalle e inizio a baciarle il collo con grande passione, mentre con le mani la accarezzava lungo le braccia, fino ad arrivare alle spalle.

 

Imma per un attimo non reagì, presa completamente in contropiede, ma, quando lo sentì scostarle le spalline del costume, gli fermò le mani, e ritrasse il collo meglio che poteva.

 

"Piè, ma sei impazzito??! Stiamo in mezzo alla gente, e se ci sentono?!" esclamò, completamente esterrefatta dall'iniziativa del marito che, in vent'anni di relazione, mai aveva tentato nulla di simile. 

 

"Non ci sentirà nessuno," le garantì, piantandole un altro bacio appena sotto all'orecchio.

 

Imma avvertì una nuova ondata di senso di colpa risalire fino in gola. Se nei confronti di Pietro - che peraltro mandava in bianco ormai da una settimana -, se nei confronti di Calogiuri, se nei confronti di tutti i bagnanti che da lì all'apocalisse avrebbero tentato di utilizzare quella cabina, più tutti quelli potenzialmente in quel momento all'ascolto, non avrebbe saputo dirlo.

 

"E… in ogni caso… siamo marito e moglie, no? Pure se qualcuno sente che ci amiamo, che male c'è?" aggiunse Pietro, col tono più convincente che possedeva, riprendendo a percorrerle la linea del collo con le labbra, facendole di proposito solletico con i baffi e strappandole una mezza risata.

 

Ed Imma prese un respiro e, tra il senso di colpa verso Pietro per un ennesimo rifiuto, la prospettiva eccitante del proibito e quella fiamma che la consumava senza trovare sfogo, buttò il buonsenso al vento - come sempre più spesso faceva ultimamente - e gli permise di baciarla, di abbassarle le spalline e di prenderla in braccio, finendo quasi per ruzzolare contro la parete ruvida di legno.

 

*********************************************************************************************************

 

“Hai… hai visto che sono stato silenziosissimo?”

 

La voce di Pietro che ansimava nel suo collo la ridestò dai pensieri nei quali era rimasta incastrata.


Realizzò contemporaneamente due cose: che Pietro aveva smesso di muoversi e che pure lei era stata silenziosa, fin troppo.

 

Si sentì depositare a terra, su gambe leggermente dolenti ma fin troppo salde, mentre Pietro fece un passo indietro e le chiese, guardandola negli occhi, “allora, ti è piaciuto?”

 

Imma non potè evitare di spalancare gli occhi, incredula: perché non glielo aveva chiesto mai, nemmeno una volta, nemmeno alla sua primissima volta.

 

Del resto Pietro scemo non era e forse si sarà reso pure conto che lei… che lei...

 

Non che le fosse dispiaciuto, intendiamoci, e all’inizio l’idea era stata anche eccitante, ma da un certo punto in poi era stato… piacevole, per carità, ma… tiepido sarebbe stato il termine esatto.

 

Tanto che i suoi pensieri avevano iniziato a vagare, senza che nemmeno se ne rendesse conto. Prima che la voce di Pietro la interrompesse, stava giusto giusto pensando a che cosa comprare al supermercato per cena.

 

Non le era mai successo in tutti quegli anni di matrimonio e, di nuovo, quella maledetta fitta colpevole la prese allo stomaco, mentre si rese conto che Pietro aspettava ancora una risposta, l’ansia che gli si leggeva chiaramente negli occhi.

 

“Pietro... e che hai 15 anni per farmi una domanda simile?” gli domandò di rimando, suonando più dura di quanto avrebbe voluto, ma improvvisamente sentì un’inspiegabile rabbia montarle dentro che la portò ad aggiungere, “e comunque la prossima volta, prima di farti venire un’idea del genere in un posto pubblico, chiedimi se sono d’accordo, magari.”

 

Approfittò della paralisi di lui, rimasto di stucco, un’espressione addolorata negli occhi, che le scatenò l’ennesima fitta, che generò a sua volta una rabbia ancora maggiore - con se stessa, lo sapeva benissimo, molto più che con lui - per rinfilarsi il costume bagnato e correre a farsi un’altra doccia, di cui sentiva improvvisamente un disperato bisogno.

 

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Resistè due giorni. Due giorni di noia, di silenzi tra il mortificato, l’imbarazzato e il risentito di Pietro e di troppe chiacchiere inutili dei suoi suoceri e della Moliterni, che la signora De Ruggeri, visto che le disgrazie non vengono mai sole, aveva preso in simpatia.

 

Quando ho pensato che la gioia della condanna di Romaniello non me l’avrebbe rovinata nemmeno un mese trascorso con loro, magari potevi non prendermi così in parola! - fu la preghiera che rivolse a non avrebbe saputo bene dire chi.

 

Ma si chiamava karma, ne era sempre più certa.

 

Alla cena del secondo giorno al ristorante, mentre sua suocera ascoltava incantata la Moliterni raccontare storie della Matera bene, mentre Pietro parlava col suo carissimo amico Vitolo di strategie di calcetto a lei incomprensibili - quantomeno a calcetto ci era tornato sul serio a giocare, non che fosse in diritto di sindacare sulla fedeltà altrui, arrivata a questo punto - , mentre Valentina faceva un fugone da tavola degno di una centometrista, non appena le venne dato il permesso di congedarsi e raggiungere i suoi amici in uno stabilimento lì vicino - ed Imma si trovò ad invidiarla smodatamente - mentre tutto intorno a lei era brusio e frastuono, Imma si trovò a ripensare ad una frase de La Grande Bellezza.

 

Film che Pietro l’aveva praticamente costretta a sorbirsi e che aveva odiato profondamente, rubricandolo come il classico mattone pseudo impegnato su e per borghesucci annoiati che un problema vero in vita loro non l’avevano mai visto, nemmeno con il binocolo che lei usava in spiaggia.

 

Ma ora le venne in mente, con spaventosa chiarezza, una delle primissime battute del film: La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare.

 

E, sebbene lei di anni ne avesse una ventina buona in meno, era esattamente così che si sentiva.

 

La mattina dopo si svegliò all’alba, svicolando da Pietro che l’aveva abbracciata nel sonno, e uscì con la scusa di andare a comprare il latte - che manco in una canzone di Gianni Morandi si faceva più.

 

Arrivata a pochi passi dal panettiere, si infilò in una viuzza secondaria e compose un numero che ormai sapeva a memoria.

 

“Pronto?” la raggiunse una voce assonnata.

 

Guardò l’orologio e realizzò che erano le 7.30 del mattino, era periodo di vacanza e Calogiuri aveva ancora il sonno di pietra della gioventù.

 

“Dottoressa?!” le chiese poi preoccupato, avendo probabilmente notato finalmente il nome sul display, “state bene?! È successo qualcosa?!”

 

“No, Calogiuri, non è successo niente, tranquillo!” lo rassicurò, sentendo le labbra tendersi in un sorriso, senza poterlo nemmeno evitare, e rendendosi conto che le era mancato moltissimo.

 

Sorridere E Calogiuri.

 

“Ascolta, oggi hai già degli impegni o avresti un po’ di tempo libero?”

 

“Nessun impegno in particolare, volevo sistemare ancora un poco casa, ma posso farlo un altro giorno. Avete bisogno di qualcosa?” le chiese, il tono che virò verso una nota tra il felice e lo speranzoso che le provocò quella sensazione piacevole al petto.

 

“Mi potresti venire a prendere? Se sì, ti aspetto a Marina di Ginosa, alla fermata dei bus, appena puoi essere lì.”

 

“A Marina di Ginosa? Ma volete fare un altro sopralluogo al cantiere?” le domandò, con un tono confuso che la fece sorridere ancora di più.

 

“No, Calogiuri, voglio che mi porti da qualche parte,” ribadì, non riuscendo a contenere una mezza risata.

 

“E dove?”

 

“Dove ti pare, Calogiuri. Dove ti pare a te.”

 

Le bastava che fosse lontano da lì.


Nota dell’autrice: Questo è stato un capitolo molto complicato da scrivere, perché voglio fare le cose in modo realistico e graduale, soprattutto per Imma, che ovviamente ha una situazione familiare a dir poco complicata, oltre al fattore della differenza d’età. Spero davvero di esserci riuscita, mai come stavolta sono curiosissima e in apprensione di sapere cosa ne pensate del comportamento dei personaggi e cosa vi ha convinto di meno o di più. Quello che vi posso promettere è che, al di là di tutto, alla fine del percorso ci attende il lieto fine, ma il percorso sarà ancora un po’ lungo e con vari ostacoli, oltre ai momenti belli, ma spero la storia possa mantenersi interessante.

Ringrazio moltissimo tutti voi che state leggendo questa storia e un ringraziamento speciale a chi ha speso e a chi spenderà un po’ del suo tempo per lasciarmi una recensione, che veramente sono tutte preziosissime per capire come procede la scrittura e in cosa posso fare meglio.

Il prossimo capitolo arriverà come sempre puntuale di domenica.

 

Grazie ancora!

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Capitolo 5
*** Rischi del Mestiere ***


Nessun Alibi

 

Capitolo 5 - Rischi del Mestiere

 

Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Erano le nove del mattino e già avvertiva il bisogno di una doccia. Il sole ancora non cocente del mattino riverberava sull'asfalto, guadagnando intensità in modo esponenziale e facendola surriscaldare.

 

Ed il pensiero di chi stava attendendo su quella panchina non aiutava certo la situazione. 

 

Si era liberata rapidamente dalle domande di Pietro e di sua suocera, non appena, al suo rientro col cartone del latte ed i cornetti caldi, aveva annunciato che doveva assentarsi per quella giornata per un'incombenza imprevista di lavoro, che non poteva attendere il rientro dalle ferie, pena il rischio di far slittare il processo.

 

Se ne era ben guardata dallo specificare il genere di incombenza e quale processo, o dove sarebbe andata. Meno dettagli si fornivano e meglio era in questi casi.

 

Devo veramente smettere di avere a che fare con avvocati e criminali - si ritrovò a pensare, per l'ennesima volta in quei giorni.

 

Si era congedata annunciando che sarebbe andata a prendere la corriera - di nuovo senza precisare quale - e ora si trovava a Marina di Ginosa, a pochi chilometri dall'ecomostro che per un anno era stato la tomba di Vaccaro, che le era stato decisamente più simpatico in morte che in vita.

 

Il borbottio di un motorino la distolse dai suoi pensieri e si ritrovò di fronte Calogiuri, in sella ad uno scooter ancora più scassato di quello di Roma, che le sorrideva con lieve apprensione, pur mentre la guardava come se fosse stata un'apparizione angelica.

 

Non avrebbe saputo dire come se lo fosse guardato lei, ma nel giro di due secondi gli buttò le braccia al collo e se lo strinse più forte che poteva, tanto che lui rimase paralizzato per qualche istante, prima di ricambiare la stretta con altrettanta intensità.

 

Si staccò a forza dopo un lasso di tempo troppo breve e solo per evitare di dare nell'occhio. Si guardarono e si sorrisero, senza parlare per qualche istante.

 

"Ho pensato fosse meglio evitare l'auto di servizio. Lo so che non è un granché, ma è l'unico mezzo che sono riuscito a recuperare con così poco preavviso."

 

"Tranquillo, Calogiuri, hai fatto bene!" lo rassicurò con un altro sorriso, prima di chiedergli, con malcelata curiosità, "allora, dove mi porti?"

 

"Beh… veramente… visto che stiamo già qui… se ti va, pensavo di andare al mare," le propose, con quella timidezza adorabile quanto ingiustificata, visti gli eventi recenti. Ma ciò la rendeva ancora più preziosa.

 

"Certo che mi va, Calogiuri!" ribatté con un sorriso, avvicinandosi per saltare in sella dietro di lui, ma lui la bloccò con una mano.

 

"Se… insomma, per il costume... ho visto che c'è una bancarella qui vicino...” suggerì, affrettandosi ad aggiungere, all’occhiata di lei, “ovviamente possiamo verificare prima se hanno i permessi e se fanno lo scontrino.”

 

Imma scoppiò a ridere: la conosceva davvero troppo bene, Calogiuri, ma di sicuro, nella posizione in cui erano, l’ultimo suo pensiero era attirare l’attenzione su di sé, rubando il lavoro alla finanza.

 

“Tranquillo, non sarà necessario, tanto il costume non mi serve.”

 

Gli occhi di Calogiuri si spalancarono fino a far concorrenza al gatto con gli stivali dei film di Shrek, mentre il viso e il collo gli si tinsero di rosso a tal punto che Imma temette per un secondo che gli pigliasse un colpo.

 

“Ma che hai capito, Calogiù? C’ho già un costume in borsa!” chiarì, non riuscendo a trattenersi dallo scoppiare a ridere, “che non ti conosco a te?”

 

Calogiuri si toccò il collo, sembrando ancora più in imbarazzo, sebbene un sorriso timido gli spuntò sul volto. Ed Imma, come la stronza che era, decise di metterci il carico da undici, “magari la spiaggia per i nudisti ce la teniamo per la prossima volta, che dici?”

 

Al maresciallo andò di traverso la saliva ed esplose in un attacco di tosse che la fece sentire lievemente in colpa, ma adorava troppo il suo candore ed il suo stupore per non goderselo un po’. Gli diede un paio di colpi sulla schiena - che tra un po’ ci rimetteva lei la mano, con quei muscoli che si ritrovava - e si sentì agguantare stretta per la vita.

 

Sollevò lo sguardo e si ritrovò a pochi centimetri dal viso di Calogiuri, il suo fiato sulle labbra, ed ogni traccia di buonsenso sull’opportunità di baciarlo in pubblico svanì, sostituita da una corrente magnetica che la attraeva in modo irresistibile.

 

Fece per sollevarsi sulla punta dei piedi per colmare la distanza residua, quando sentì un peso sulla testa ed una visiera le calò davanti agli occhi. Non riuscì a trattenere un lieve sospiro di disappunto e sul volto di Calogiuri comparve un sorrisetto compiaciuto, gli occhi che brillavano come a dire “stavolta te l’ho fatta io!” anche mentre premurosamente le allacciava il casco, indugiando, di proposito ne era sicura, con le dita sotto al mento, facendole correre un brivido lungo la schiena.

 

Calogiuri era proprio cresciuto dai tempi di Roma, eccome se era cresciuto. E diventava sempre più pericoloso e più capace di scombussolarla e di tenerle testa, in modo imprevedibile.

 

Gli lanciò un’occhiata di avvertimento, come a fargli intuire che gliel’avrebbe fatta pagare dopo, con gli interessi, e lui, per tutta risposta, le sorrise in un modo che era un non vedo l’ora non verbale.

 

Su gambe improvvisamente tremolanti si arrampicò sul sellino incandescente, che lui aveva provveduto cavallerescamente a coprire con quella che sembrava una giacca di jeans, per evitarle ustioni e spellamenti.

 

E stavolta non ci fu bisogno di raccomandazioni su dove e come mettere le mani, perché Imma se lo strinse, eccome se se lo strinse, senza riserve, le braccia allacciate intorno alla vita, il petto attaccato alla schiena di lui, la testa poggiata su una spalla, mentre ammirava il paesaggio che scorreva loro affianco. Un po’ per vendetta, un po’ per desiderio e necessità.

 

Rimasero così, senza parlare, mentre il traffico intorno a loro si diradava sempre di più: i bar, i caseggiati e gli stabilimenti balneari si fecero meno frequenti e infine giunsero ai margini di una boscaglia.

 

Calogiuri ci si infilò con sicurezza, su una stradina in cemento che aveva visto giorni migliori e che li fece sobbalzare come forsennati - altro che le buche di Roma!

 

Ad un certo punto si arrivò ad uno spiazzo vicino allo sterrato e Calogiuri arrestò il veicolo e spense il motore.

 

“Da qui ci tocca proseguire a piedi, ma non è distante,” la rassicurò con un sorriso, sfilandosi il casco ed, automaticamente, sporgendosi per aiutarla a fare altrettanto, liberandola con rapidità sorprendente.

 

Imma squadrò lo sterrato e poi i suoi zoccoli e pregò di non lasciarci le caviglie. Fossero stati almeno sandali sarebbe già stato meglio, così era un osso duro perfino per lei che poteva vincere le maratone in tacchi a spillo.

 

“Ho portato delle ciabatte da mare,” si offrì Calogiuri con un sorriso, estraendo dal portapacchi, oltre che una borsa termica ed un borsone da spiaggia, un paio di calzature piatte in plastica del suo numero - come faceva a ricordarselo?

 

Il fatto che fossero leopardate le strappò una risata, mentre una specie di nodo le si formò in gola, nonostante fosse assurdo commuoversi per una scemenza simile. Ma il bello di Calogiuri era proprio questo: quei piccoli gesti, quelle piccole premure, come sapere che le sue scarpe non sarebbero mai state adatte ad affrontare uno sterrato e premunirsi di conseguenza.

 

Si liberò degli zoccoli, mollandoli nel portapacchi insieme ai caschi e, ciabatte ai piedi, si avviò con Calogiuri lungo lo sterrato, a braccetto, mentre lui la aiutava a navigare i sassi su quei pezzi di plastica che, pur essendo più comodi, non erano comunque certo l’ideale.

 

Quando cominciò a disperare per l’incolumità di caviglie e piedi, finalmente la boscaglia si diradò, rivelando una spiaggetta minuscola ed isolata, intrappolata tra gli alberi e due file di scogli.

 

Il rifugio perfetto per due amanti.

 

Troppo perfetto. 

 

Un senso di fastidio la prese alla gola e allo stomaco, chiedendosi come Calogiuri conoscesse quel posto - lui non era nemmeno di quelle parti e non aveva certo avuto tempo per fare ricerche in proposito quella mattina - ed immaginandoselo a rotolarsi su quella spiaggetta con una bellissima e giovane ragazza che nel suo cervello era Maria Luisa. O chissà che altra.

 

Era da cretina e da stronza essere gelosa del passato di un uomo quando lei, nel presente, a casa aveva un marito, ma certi sentimenti non sono razionali.

 

“Scusa per la camminata nello sterrato. Mi avevano avvertito che c’era ma pensavo fosse più breve,” pronunciò un po’ mortificato, sicuramente avendo notato qualcosa che non andava nell’espressione di lei.

 

“Ma chi?” gli domandò, incuriosita e sollevata, realizzando che Calogiuri in quel posto non ci era mai stato prima.

 

“Eh… beh… Capozza.”

 

“Ma sei impazzito?! Con tutta la gente che c’era, proprio a Capozza dovevi chiedere dove-”

 

“Ma non oggi, tranquilla! Gliel’ho chiesto un po’ di tempo fa. E poi mo sta pure in servizio, ho controllato,” la rassicurò, diventando nuovamente di un colore fucsiaceo, a quanto aveva dovuto ammettere, “gli avevo detto che mi veniva a trovare la fidanzata dal paese, non ti preoccupare.”

 

“Da quanto è che progettavi pure di portarmi al mare, Calogiù?” gli domandò, mentre rifletteva sulla fine ingloriosa di Maria Luisa, ridotta a scusa perfetta per due amanti, pure dopo essere stata piantata con le bomboniere già comprate - non che non se lo fosse meritato.

 

“E va beh… dottoressa, diciamo che sapevo che era improbabile che potesse capitare ma poi… per ogni evenienza mi preparo.”

 

“Tu ti prepari fin troppo bene, Calogiuri,” sospirò Imma, scuotendo il capo, intenerita.

 

Ma, ben presto, un’altra immagine mentale si fece largo nella sua mente: Capozza e Diana a rotolarsi su quella spiaggia, peggio che in archivio e, non avrebbe saputo dire perchè, ma le venne tremendamente da ridere.

 

"Che c'è?"

 

"No, niente, niente, tranquillo!"

 

Sorridendosi, iniziarono ad estrarre i teli dal borsone. Il sorriso le svanì per un attimo quando Calogiuri, con nonchalance, si levò la maglia e prese ad aprire i pantaloni, per restare in costume.

 

Mamma mia!

 

Sentendosi tremendamente accaldata, iniziò a slacciarsi il vestito, ma realizzò immediatamente che rimaneva il problema di come infilarsi il costume.

 

Calogiuri la guardava in un modo che le fece per un attimo venire la tentazione di spogliarsi completamente e cambiarsi davanti a lui - e poi so' cavoli tuoi, Calogiù - ma il buonsenso le ricordò che erano pur sempre all'aperto. 

 

Leggendole, come sempre, nel pensiero, Calogiuri prese i teli e glieli avvolse e resse intorno, creando a forza di braccia una specie di separé improvvisato.

 

Gli sorrise e gli piantò un lieve bacio sulle labbra, prima di iniziare a cambiarsi, guardandolo negli occhi e vedendolo di nuovo arrossire leggermente. 

 

Con mani tremanti, fece più in fretta che poteva coi lacci del costume e, con un cenno, infine si liberò dai teli.

 

"Ma è…"

 

"Visto che ti era caduto l'occhio, almeno mo puoi guardartelo con più calma, Calogiuri," ironizzò, indicando il costume azzurro, lo stesso del loro incontro in spiaggia un anno prima.

 

Imma aveva una memoria a detta di molti prodigiosa, allenata ed affinata in anni di studio, ma perfino per lei non era affatto normale ricordarsi certi dettagli a distanza di mesi. Ma era come se quasi ogni incontro con Calogiuri, specie quelli un po' fuori dall'ordinario, fosse memorizzato nella sua mente come la pellicola di un film.

 

Calogiuri sorrise imbarazzato, scosse il capo e la guardò in quel modo che la faceva sentire bella, bella veramente, come non si era mai sentita in vita sua.

 

Se lo prese per le spalle e se lo baciò con passione - dio, quanto le era mancato! - e, dopo un solo istante di incertezza, si ritrovò sollevata da terra, schiacciata addosso a lui, che ricambiava con una foga tale da farle capire che non era la sola ad avere patito terribilmente quel distacco forzato.

 

Ben presto le mani iniziarono a vagare, troppo, e, con quel residuo di forza di volontà rimasta, si scollò dalle sue labbra, sussurrandogli, con voce roca e il fiato corto, “Calogiù... è meglio che ci diamo una calmata mo... o facciamo un macello.”

 

Lui annuì, con quello sguardo meravigliosamente imbarazzato, e si staccò definitivamente da lei, dedicandosi con fin troppa cura a sistemare gli asciugamani sulla sabbia, che nemmeno in un resort a cinque stelle lusso ci si sarebbero applicati tanto - non che lei ne avesse mai visitato uno, si intende.

 

Da lì fu tutto quasi come un sogno di quelli che scorrono fin troppo in fretta, una di quelle fantasie che Imma coltivava da ragazzina, quando ascoltava, senza darlo a vedere, i racconti delle sue compagne più popolari e smaliziate, quelle che a settembre, al ritorno dal mare, narravano con dovizia di particolari le loro conquiste estive, mentre per lei il massimo dell’avventura era qualche giorno in colonia dalle suore, in mezzo a poche altre sventurate come lei.

 

Dallo spalmarsi la crema sulla schiena a vicenda. E prima fu lei a indugiare un po’ troppo, godendosi la sensazione di quei muscoli che si flettevano sotto le sue dita, godendosi, da brava stronza qual era, il colorito rosato di cui si tingeva il collo di lui e il modo in cui il fiato sembrava farglisi più corto. Almeno fino a quando Calogiuri le ricambiò la cortesia e si ritrovò con un fuoco che dalla spina dorsale le si irradiava in tutto il corpo, la pelle che formicolava nemmeno la crema fosse stata a base di peperoncino, la voglia prepotente di atterrarlo sulla sabbia e farci l’amore fino a perdere le forze.

 

Si scambiarono uno sguardo che non si sarebbe mai scordata finché avesse avuto vita e nel giro di un secondo, senza nemmeno rendersi conto come, il mondo finì letteralmente sottosopra, un urlo e una risata che le scapparono dalla gola, mentre dondolava appesa sopra ad una spalla incredibilmente forte. Chiuse la bocca appena in tempo per non bere l’acqua salata che la accolse in un abbraccio gelido, mitigato solo in parte dal calore del petto di lui, a cui si ritrovò aggrappata, non si sa bene come.

 

Non appena recuperò l’uso della vista, gli occhi che le bruciavano, stava giusto giusto decidendo se strozzarlo o baciarlo, quando lui la lasciò andare, le lanciò uno sguardo per la serie - prendimi se ci riesci - ed iniziò a nuotare parallelo alla riva. Lei ci provò pure a raggiungerlo, mentre lui si guardava alle spalle di tanto in tanto ma, se sulla terraferma lei gli dava piste pure sui tacchi a spillo, in acqua non c’era proprio gara.

 

“Veloce, dottoressa!” la provocò, voltandosi verso di lei da qualche metro di distanza, con un tono che le causò un rimescolamento fin nelle viscere e la voglia matta di levarglielo a suon di baci.

 

“Calogiuri, se t’acchiappo sei morto!” gli urlò di rimando, in quella che doveva essere una minaccia, ma risultò ben poco credibile per via della risata che non le riuscì di soffocare.

 

Lui, per tutta risposta, fece ancora qualche bracciata e poi, in un battito di ciglia, scomparve sott’acqua. Imma si guardò intorno, chiedendosi dove fosse finito, inizialmente divertita ma cominciando ad andare in apprensione mano a mano che passavano i secondi e non riemergeva.

 

Stava per chiamarlo, quando un’ombra scurì l’acqua cristallina e si sentì prendere per le gambe e sollevare di peso, emergendo dall’acqua, fendendo l’aria con un brivido di freddo, solo per finire nuovamente a mollo pochi secondi dopo, in un tuffo rovinoso quanto fragoroso.

 

Riemerse col fiato corto, prendendo aria a pieni polmoni. Si scostò alla bell’e meglio i capelli dagli occhi e ne incontrò un paio di azzurrissimi che la guardavano divertiti e soddisfatti, sebbene con una lieve traccia di apprensione.

 

“Calogiuri… oggi rischi grosso, molto grosso, ti avverto!” intimò tra un respiro e l’altro, anche se la verità era che non si era mai divertita tanto in vita sua.

 

E lui lo sapeva, eccome se lo sapeva, la conosceva e la capiva troppo bene, pur in fondo sapendo poco o nulla di lei.

 

Lo vide avvicinarsi, sempre di più, e le si mozzò di nuovo il fiato - non di certo per l’apnea. Le prese delicatamente le mani e se le mise sulle spalle. Lei, di istinto, gliele allacciò intorno al collo. Stava per cedere ad un altro bacio - nonostante l’impudenza, o forse proprio per quella - quando lui si immerse leggermente e si voltò, facendola finire spalmata sulla sua schiena.

 

Si era già preparata mentalmente per l’ennesimo tuffo, ma invece si sentì sprofondare delicatamente, insieme a lui, che iniziò a nuotare, trascinandosela con sé, attaccata alle sue spalle.

 

Non era sicura di come fosse possibile che Calogiuri non solo galleggiasse, ma nuotasse pure bene, con lei abbarbicata in quel modo, eppure presero rapidamente una velocità insperata e le sembrò di volare sull’acqua.

 

Inspiegabilmente, un ricordo riemerse da chissà quale anfratto remoto della sua mente: lei bambina, quattro anni, forse poco più, in spalle a suo padre, a nuotare a Metaponto, in una delle pochissime gite in giornata strappate a quegli orari di lavoro impossibili, prima che la malattia lo riducesse all’ombra di se stesso e poi se lo portasse via.

 

Gli occhi le bruciarono e non per il sale, mentre d’istinto strinse Calogiuri più forte, tanto che per un attimo lui sbandò, fermandosi per riprendere l’equilibrio e non affondare.

 

Torse il collo per guardarla, ma lei lo fulminò con un “veloce, Calogiuri!” che lo spinse a scuotere il capo e ad obbedire, riprendendo a nuotare senza una meta precisa.

 

Ad un certo punto, sentì qualcosa toccarle i piedi e realizzò che erano giunti in una secca. Calogiuri si fermò, non riuscendo più a nuotare in quelle condizioni, e si tirò in piedi. Imma gli rimase per un attimo aggrappata, ma si trovò ben presto a perdere la presa e scivolargli sulla schiena, i piedi che toccavano la sabbia, mentre una scossa elettrica la trapassava da parte a parte.

 

Lui si voltò, lo sterno che gli si sollevava ritmicamente appena sopra il pelo dell’acqua, il fiato corto tanto quanto quello di Imma, ma per motivi completamente diversi.

 

Un primo sguardo e si ritrovarono a baciarsi, con voracità, come a voler recuperare i giorni di arretrato. Allacciargli le gambe intorno ai fianchi fu naturale come respirare quell’ossigeno che ormai latitava, le mani che di nuovo facevano ammutinamento e andavano per conto loro, sott’acqua, sulla pelle e sotto i costumi.

 

Un secondo sguardo, una richiesta di permesso tacita di due occhi azzurri scuriti dalle pupille dilatate, nonostante il sole cocente. Un’occhiata furtiva per accertarsi di essere soli. Un cenno del capo e sentì i lacci scivolarle sulle spalle, accarezzandole la pelle insieme alle dita che la percorrevano senza più inibizione, il contrasto tra il calore che sprigionavano ed il freddo dell’acqua che la faceva impazzire.

 

Alla faccia della spiaggia per i nudisti!

 

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“Che… che intendeva tua madre?”

 

Il sussurro all’orecchio la riscosse da quello stato di beatitudine nel quale si sentiva di stare nuotando, pur essendo tornati sulla terraferma. I muscoli indolenziti di quella stanchezza piacevole e molle, la mente leggera e sgombra di pensieri, lo stomaco piacevolmente pieno di vino bianco, bruschette, olive e lupini.

 

Calogiuri cominciava a conoscere i suoi gusti fin troppo bene.

 

“Come?” gli chiese, confusa, sollevandosi leggermente dal petto di lui, appoggiandosi col gomito al telo su cui erano stesi, per guardarlo negli occhi.

 

“Tua madre… che intendeva in macchina, quando…”

 

Un tuffo allo stomaco la riportò bruscamente alla realtà, capendo finalmente dove lui volesse andare a parare.

 

"Calogiuri…" sospirò, il tono e lo sguardo che lo imploravano di rinviare la discussione ad un altro momento. 

 

"Se non ne vuoi parlare, lo capisco. Ma perché dirlo a Diana e non a me?" le domandò, con uno sguardo ferito, "lo so che siete amiche da tanti anni ma non avrei mai detto nulla ad anima viva, e speravo lo sapessi ormai."

 

"Lo so. Ma non ho detto niente a nessuno, Calogiuri, nemmeno a Diana. Le ho solo chiesto di fare una ricerca su Cenzino Latronico, non le ho detto il perché. Tu sei il primo a cui ne parlo, a parte un'amica di mia madre con cui ho dovuto parlarne per forza. Ma comunque non è come pensi."

 

"Che vuoi dire?"

 

"Mia madre ha la demenza senile, Calogiuri, c'è solo a sprazzi e confonde un po' le cose. Ha… ha avuto una relazione con Latronico tanti anni fa, quando era al suo servizio. Ma, a quanto dice l'amica di mia madre, è stata una sbandata di una notte e mia madre, quando era lucida, era certa che fossi figlia di… di mio padre. Ma nella demenza, forse per il senso di colpa, ha confuso un po' le cose."

 

"Ma tu ne sei convinta veramente?" le domandò, con un'occhiata penetrante. Il modo in cui sapeva leggerle dentro, al di là delle sue pose, la inquietava e affascinava al tempo stesso.

 

"Non lo so… ma oramai da mia madre non potrò mai saperlo con certezza. E non posso certo chiederlo ai Latronico, per carità. Posso solo sperare che la mia vita non sia stata tutta una menzogna, Calogiuri. E di non essere la figlia del Demonio di Matera e non aver preso niente da lui."

 

"Ma non lo è stata. I figli sono di chi se li cresce. E tu sei Imma Tataranni e sei la persona più onesta che io conosca."

 

"Talmente onesta che tradisco mio marito con te," esclamò con una mezza risata amara, pentendosene un po' quando vide l'espressione di lui, "ma questo forse l'ho preso da mia madre."

 

"Ma nonostante… questo...” disse, facendo un gesto come ad indicare prima se stesso e poi lei, “resti comunque la persona più onesta che conosco."

 

"Considerato che frequenti l’ambiente della procura, non vuol dire molto, Calogiuri.”

 

“Veramente un po’ di gente al di fuori della procura la frequento pure. E comunque siamo in due in questo, non solo tu.”

 

“Ma chi sta tradendo la fiducia di qualcuno sono io e non tu, Calogiuri, questo non confonderlo mai."

 

"E però lo so che quello che stiamo facendo è sbagliato. Ma, è più disonesto quello che stiamo facendo o fingere di non… di non sentire ciò che sentiamo?"

 

"Che mi sei diventato pure filosofo mo, Calogiuri?” gli chiese, scuotendo il capo, gli occhi che riprendevano a bruciarle, il dannato nodo che si formava in gola. Quanto lo adorava quando tirava fuori, dal nulla, questi momenti di incredibile profondità, che sembravano assurdi da un ragazzo tanto giovane e, per tanti versi, ingenuo.

 

E la verità era che nemmeno lei ce l'aveva una risposta. Forse perché in certe situazioni non c'è una soluzione giusta, o priva di errore, solo una meno peggio delle altre. Che non era affatto convinta fosse quella che aveva deciso di percorrere, peraltro.

 

Il trillo di un cellulare le fece quasi fare un salto. Stava per imprecare contro l'ennesimo scocciatore, quando si rese conto che la suoneria non era la sua.

 

Calogiuri si precipitò ad afferrare il suo telefono dalla tasca dei pantaloni, con tale rapidità che per un istante quel senso di fastidio le si riscosse nel petto - e chi è mo?

 

"Pronto? Mamma, che succede?" pronunciò preoccupato ed Imma si sentì un'idiota nel giro di solo quattro parole "è nata già? Ma sta bene? Quanto pesa?"

 

Imma colse solo poche parole, otto mesi e mezzo, due chili e seicento, tutto bene, prima che Calogiuri chiudesse la telefonata. 

 

"È nata mia nipote," annuncio con un sorriso, "la figlia di mia sorella."

 

Un cinguettio annunciò l'arrivo di un messaggio, Calogiuri l'aprì e le mostrò con orgoglio la foto di uno scricciolo dall'aria arrossata e un po' schiacciata tipica dei neonati, ma che già prometteva di essere assolutamente adorabile - se ha preso dallo zio, sarà bellissima.

 

"Come l'hanno chiamata?" gli domandò, intenerita, aspettandosi un nome tradizionale, ai limiti dell'arcaico, come Ippazio.

 

"Noemi," rispose, chiarendo, forse avendo notato lo stupore di lei, “sai, come la cantante, a mia sorella piace molto.”

 

Imma, che di musica leggera moderna sapeva poco o niente, della cantante in questione aveva solo presente la tonalità di rosso dei capelli, che Porzia una volta si era fatta fare uguale da Marisa. Annuì, sentendosi nuovamente vecchia.

 

“Devi tornare a Grottaminarda, immagino?” gli chiese con un sospiro, conoscendo già la risposta.

 

“Sì. E poi sono in ferie, quindi mi toccherà fermarmi qualche giorno in più, anche se avrei voluto evitarlo, ma così… non ho scuse,” precisò, con aria mogia.

 

“Coraggio, Calogiuri! I tuoi genitori non potranno essere peggio di mia suocera, credimi,” ironizzò, toccandogli una spalla e passandogli una mano tra i capelli ancora umidi, “allora, ci avviamo?”

 

“Ma possiamo restare ancora un attimo se vuoi, non c’è fretta. Ormai è nata, non cambia molto un’ora in più o in meno.”

 

“Non voglio farti passare per uno zio degenere. E poi è meglio se anche io rientro abbastanza presto. A meno che tu abbia una buona scusa da fornire su come, nel corso delle indagini, mi sia dovuta fare un bagno in mare.”

 

“Qualche altro dito vagante, magari?” scherzò Calogiuri, guadagnandosi un colpo sul braccio che, di nuovo, fece sicuramente più male a lei che a lui.

 

“Quante ore passi in palestra alla settimana, Calogiù?” gli chiese ironica, massaggiandosi la mano.

 

“Non abbastanza per starti dietro, dottoressa!”

 

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“Vuoi provare a guidare?”

 

Per un attimo pensò di aver capito male, ma sollevò il capo dalla schiena di Calogiuri e lo vide girato verso di lei, con un sorriso divertito, mentre il motorino rallentava fino a fermarsi.

 

“Come?”

 

“Vuoi provare a guidarlo tu? Mi sembra che ti piaccia andare in motorino, e allora…”

 

Poteva forse dirgli che la cosa che più le piaceva dell’andare in moto era che le forniva una scusa buona per abbracciarselo senza remore, per un numero sempre troppo limitato di minuti?

 

“Ma figurati! Non sono capace! E se ci schiantiamo è la volta buona che andiamo a finire sui giornali, Calogiuri.”

 

“Perché dovremmo fare un incidente? Prima di tutto qui è una zona molto tranquilla, a quest’ora la gente sta tutta in spiaggia e non c’è traffico. E poi… se vedo che sbandi, prendo io il controllo, non ti preoccupare.”

 

“Lo so…” rispose, mentre quella specie di dolenza al petto tornò a farsi sentire: perché era esattamente questo che Calogiuri faceva, e non solo in motorino, se ne rendeva sempre più conto. Le lasciava il comando, la lasciava fare, ma se la vedeva in difficoltà era sempre pronto a prendere le redini e a rimetterla in carreggiata, con un gesto, una parola, uno sguardo, o anche solo ascoltandola e lasciandola sfogare. E non era da tutti, anzi, era forse l’unico a cui riusciva così bene.

 

Forse interpretandolo come un assenso, Calogiuri si sciolse dalla sua stretta e scese dal motorino, mettendole una mano sulla spalle come ad esortarla a scivolare in avanti sul sellino.

 

Imma prese un respiro: era una follia ed era rischioso, ma alla fine se orde di quattordicenni brufolosi ci riuscivano, non vedeva perché non dovesse farcela lei.

 

Si posizionò come le indicò Calogiuri, che le spiegò il funzionamento del motorino in dettaglio, prima di montare in sella dietro di lei.

 

Si sentì abbracciare alla vita con delicatezza - non era affatto sicura di essere una presa salda a sufficienza per Calogiuri in caso di un’accelerata o uno sbandamento improvvisi, era troppo leggera rispetto a lui - e realizzò che concentrarsi alla guida mentre lui la stringeva in quel modo sarebbe stato a dir poco improbo.

 

Ma partì lo stesso, tirando un’accelerata involontaria che per poco finivano entrambi cappottati all’indietro, ma lui le prese le mani e le mostrò come fare.

 

E, sebbene Imma ebbe per un attimo la tentazione di continuare di proposito a sbagliare, per rimanere così il più a lungo possibile, ben presto si trovò sorprendentemente a suo agio alla guida, tanto da iniziare ad andare più veloce e a divertirsi sul serio. A godersi l’aria sul viso e quella sensazione di assoluta libertà.

 

“Ma c’è qualcosa che non ti riesce bene? Se continui così, mi toccherà inseguirti pure in motorino!”

 

Posso dire lo stesso di te, Calogiuri! - pensò, anche se non lo disse, limitandosi a lanciargli una rapida occhiata di sbieco ed un sorriso di sfida.

 

Se ne pentì per un secondo quando lui, per tutta risposta, le baciò la spalla destra, lasciata scoperta dal vestito, e lei prese una mezza sbandata che per fortuna lui le corresse prontamente, prima di rischiare veramente un incidente.

 

Calogiuri era davvero pericoloso, ed il problema era che ne era sempre più consapevole. E non sapeva se la cosa la eccitasse o la spaventasse di più.

 

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Si raccolse i capelli in un turbante, allacciandosi meglio l’accappatoio.

 

Per fortuna era riuscita a rientrare ben prima di Pietro, di Valentina e dei suoi suoceri che stavano ancora sotto l'ombrellone, come aveva verificato con una rapida telefonata per decidere se andare a casa o in spiaggia. Se avesse scoperto che erano già rientrati, infatti, sarebbe andata direttamente in spiaggia a farsi un bagno, fingendo che fosse stato l’unico della giornata.

 

Ma non era stato necessario: gli indumenti che aveva indossato erano già lavati a mano e stesi - prima che sua suocera ci mettesse il naso - e probabilmente le restava ancora un po’ di tempo in solitudine.


Ripensò con un sospiro al momento del saluto da Calogiuri, alla fermata dell’autobus. Se avesse potuto prolungare quell’istante all’infinito lo avrebbe fatto. Si erano abbracciati fin troppo stretti: un paio di persone li avevano pure guardati strani, ma erano turisti stranieri, per fortuna. Doveva resistere senza di lui ancora per quasi un’intera settimana e sarebbe stata una tortura, già lo sapeva. Almeno quando erano al lavoro si potevano vedere tutti i giorni.

 

Si sentiva ridicola a stare così, peggio di un’adolescente o di una cocainomane in astinenza, e non sapeva se sperare che, col tempo, questo genere di sensazioni si sarebbe affievolito o se ne avrebbe sentito la mancanza, qualora fosse successo.

 

Sentire la mancanza del sentire la mancanza, sto messa proprio bene!

 

Udì il rumore di una porta che si chiudeva in lontananza e di ciabattate che si avvicinavano inesorabilmente.

 

“Amò!” la voce la raggiunse, insieme alle braccia di Pietro che la stringevano da dietro, facendola irrigidire, senza volerlo, per qualche istante, “ma stai già a casa?”

 

“Sì, abbiamo finito prima del previsto e-”

 

Le labbra di Pietro sulla nuca la bloccarono, il collo che si tese di riflesso, insieme alla schiena, come una corda di violino.

 

“Amò, che c’hai? Ti voglio solo abbracciare, Imma, non…” le sussurrò Pietro, con un tono addolorato che le provocò una fitta al petto, allentando la stretta e facendola voltare per guardarla negli occhi.

 

“Scusami per… per l’altro giorno. Mi sono comportato come uno stupido e lo so, ma-”

 

“Non serve che ti scusi, Pietro,” lo interruppe, i sensi di colpa che le rimescolavano le viscere peggio di una mareggiata, “ho esagerato anche io. Ma è che-”

 

“Ma che pensi veramente che non l'ho capito perché stai così?” le chiese, deciso, dritto negli occhi e fu come se una morsa le stringesse il cuore e lo stomaco.

 

“Pietro, io non-”

 

“L’ho capito che ti annoi e che non ci stai bene qui, Imma. Tra… tra mia madre e la moglie di Vitolo e tutto il resto. Ma ti prometto che l’anno prossimo ce ne andiamo da qualche altra parte solo io e te, dove vuoi. Tanto Valentina sarà maggiorenne e già scalpita per andare in vacanza da sola e vorrà fare il viaggio della maturità.”

 

“E, prima che glielo faccio fare, dovrà dimostrarmi che la maturità ci sia di fatto, e non solo di nome, e che mi posso fidare, Pietro,” non si potè trattenere dal ribattere, pur mentre il sollievo da un lato ed un ancora maggiore senso di colpa dall'altro lottavano dentro di lei per il controllo.

 

“E allora al massimo vorrà dire che saremo io te e Valentina. Te lo prometto, Imma, niente più vacanze con mia madre,” proclamò, solenne, ed il senso di colpa vinse definitivamente la battaglia, inchiodandola alle sue responsabilità come se una freccia l’avesse trapassata da parte a parte, soprattutto quando Pietro aggiunse, in un sussurro, “io voglio solo che tu stia bene con me, Imma.”

 

Gli occhi che le bruciavano maledettamente, il cuore e lo stomaco in pezzi, si lasciò abbracciare e lo strinse forte, odiandosi come non aveva mai fatto prima, e non solo per il tradimento.

 

Ma perché, da qualche tempo a questa parte, anche per il senso di colpa, con Pietro non riusciva più a stare bene, non riusciva ad essere serena e a godersi i momenti con lui, per quanto lo desiderasse con tutte le sue forze.

 

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Si strinse nello spolverino rosa, cercando un po’ di riparo dall’aria improvvisamente troppo frizzante di quella giornata nuvolosa di metà ottobre.

 

Fino ad un paio di giorni prima, la gente girava in maniche corte e gocciolava coni gelato sulle vie lastricate di Matera. Ora l’atmosfera plumbea annunciava che il gelo dell’inverno era alle porte e che, come sempre, il natale li avrebbe sorpresi prima ancora che potessero rendersene conto.

 

Guardandosi intorno, si accertò che non ci fosse nessuno nei paraggi, prima di fermarsi e suonare ad un campanello ormai abbastanza familiare - forse lo spolverino rosa non è stata una grande idea, dopotutto, se volevo restare in incognito.

 

Un rumore metallico annunciò lo sblocco del portone e si infilò rapidamente in ascensore, accertandosi di nuovo che nessuno la vedesse, fino a raggiungere, con un cicalino, il piano desiderato ed il viso sorridente di Calogiuri, che l’aveva preceduta di una decina di minuti, per una rapida ricognizione, come era ormai d’abitudine in quelle poche volte in cui si erano concessi una pausa pranzo nel suo appartamento.

 

Non appena la porta d’ingresso si chiuse alle sue spalle, tirò un sospiro di sollievo e si accasciò mollemente sul divano, spolverino e tutto.

 

La clandestinità era difficile, molto difficile da gestire e parecchio stressante, a dirla tutta, sebbene avesse anche un certo non so che di eccitante. Ma ne avrebbe fatto molto volentieri a meno, se avesse potuto.

 

La... frequentazione con Calogiuri, comunque la si volesse definire, a parte di brevi momenti e di baci rubati in procura, quando in giro non c’era nessuno e per un attimo la prudenza poteva andare a farsi benedire, era fatta di rare pause pranzo allungate di mezz’ora o un’ora, sempre recuperate con gli interessi, ovviamente. O di qualche ora serale di straordinario, infilata di straforo soprattutto quando Pietro era a calcetto o alle lezioni di sassofono, che si era imposta di non fargli mollare, e non solo per crearsi un alibi. Ma perché, con tutto quello che stava combinando lei, sarebbe stato paradossale costringerlo a rinunciare a qualcosa che amava fare, nonostante la presenza dell’ormai famigerata Cinzia Sax, o Sex o quello che diavolo era.

 

Sentì il cuscino del divano sprofondare ed una presenza accanto a lei, ancora prima che un braccio le si posasse timidamente su una spalla, trasmettendole quel calore di cui aveva sentito terribilmente la mancanza. Se lo abbracciò senza remore, mentre ogni altro pensiero scompariva, sostituito dal bisogno prepotente di colmare quelle due settimane di mancanza.

 

Tredici giorni, per la precisione, li aveva contati, manco fosse in carcere.

 

Ultimamente non c’era stato un attimo di tregua in procura e gli straordinari li avevano dovuti fare sul serio, quasi tutte le sere. E, in quelle due occasioni in cui erano riusciti a ritagliarsi un momento solo per loro, erano stati interrotti sul più bello da una telefonata o al suo cellulare o a quello del maresciallo.

 

Alle indagini per il maxiprocesso alla cupola di Romaniello e soci, si era aggiunto l’omicidio, per percosse, della moglie di uno dei notai più in vista della città. Apparentemente durante una rapina finita male.

 

La testimonianza del marito, che indicava la banda di ladri come di nazionalità nordafricana, aveva scatenato un’ondata di indignazione e di vigilantismo che non ricordava da molto tempo, con due episodi di aggressione a sfondo razziale ad un paio di malcapitati che semplicemente si trovavano nella strada sbagliata all’ora sbagliata o avevano indugiato per più di qualche secondo lo sguardo sulla ragazza sbagliata.

 

E poco importava che, dalle analisi della scientifica, non fossero emersi riscontri della presenza di terze persone in quella casa o il precedente sospetto di una frattura al polso della vittima, un paio di anni prima, rubricato come incidente domestico. Zazza ed i media locali e nazionali avevano montato ed alimentato i sentimenti di paura e rabbia della cittadinanza, salvo poi annunciare l’arresto del marito, avvenuto il giorno precedente, con la stessa enfasi con la quale Valentina le parlava delle sue vicende scolastiche. E quella che fino a ventiquattro ore prima era una martire, una povera vittima, un’eroina moderna, si ritrovava ora con la vita analizzata al microscopio, alla ricerca di qualsiasi dettaglio possibile per screditarla agli occhi dell’opinione pubblica: dalle umili origini, all’età di gran lunga inferiore a quella del marito, all’ipotesi che potesse avere avuto un amante, alle frequentazioni ed amicizie.

 

Opera di Latronico, ovviamente, chi altri se no?

 

“A che pensi?” le sussurrò all’orecchio, portandola a sollevare un attimo il capo, per guardarlo negli occhi.

 

“Che viviamo in un mondo che fa schifo, Calogiuri. Soprattutto se nasci donna o vivi in un paese che non è il tuo,” sospirò, capendo con uno sguardo che lui avesse compreso benissimo a cosa si riferisse, per poi tornare a rifugiarsi nel suo petto.

 

Rimasero così per un po’, semplicemente a godersi quel contatto, dopo giorni e giorni di distanza e di ruoli imposti.

 

“Vuoi… vuoi mangiare qualcosa?” le chiese ad un certo punto, con quella lieve incertezza nella voce che ogni volta le strappava un sorriso ed alimentava quella strana sensazione al petto.

 

“Magari dopo, Calogiuri,” sussurrò, accarezzandogli una guancia, per poi posargli un bacio sulle labbra che, almeno nelle intenzioni, voleva essere delicato.

 

Si trovò invece, nel giro di qualche secondo, a baciarlo quasi con disperazione, a cavalcioni su di lui, le mani che si affannavano a slacciargli il colletto della maglia di flanella.

 

Dio, quanto le era mancato!

 

Lo sentì ricambiare con foga, e cercò di aiutarlo meglio che poteva a liberarla dallo spolverino, ritrovandosi mezza incastrata in quelle dannate maniche che non volevano saperne di levarsi di mezzo.

 

Il rumore metallico della cintura del soprabito, che precipitava a terra con il resto della stoffa rosa, le strappò una mezza esclamazione di trionfo. Era appena riuscita a mettere le mani sotto la flanella e a sentire le dita di lui ricambiare la cortesia, dopo averle estratto faticosamente la camicetta dalla gonna, quando il trillo di un cellulare li bloccò con le mani in pasta, il fiato corto ed un’espressione di frustrazione ed incredulità sul viso di Calogiuri che, ne era sicura, era niente in confronto alla sua.

 

“E chi è che rompe, mo?” ruggì, l’incazzatura che già iniziava a montare, sebbene verso ignoti, “se non è più che urgente, giuro che è la volta buona che faccio una strage. Gli fosse venuto un accidente a chi ha inventato ste macchinette infernali!”

 

Calogiuri, per tutta risposta, scoppiò a ridere, sebbene il suo sguardo non celasse che fosse ormai rassegnato all’inevitabile.

 

“Pronto?!” ringhiò nel telefono, accertato che si trattava del numero della procura e ipotizzando fosse Diana, a cui aveva detto chiaramente che aveva un impegno improrogabile e che non voleva essere disturbata per un paio d’ore almeno.

 

“Pronto, dottoressa.”

 

“Matarazzo…” sibilò Imma, la tentazione prepotente di mandarla a stendere che stava per straripare.

 

“Mi scusi se la chiamo dottoressa, so che non voleva essere disturbata, ma è urgente,” pronunciò trafelata, prima che facesse in tempo a beccarsi la lavata di capo.

 

“Che succede, Matarazzo? Se è veramente urgente, si muova a dirmelo, per cortesia, e senza tanti giri di parole.”

 

“Hanno ritrovato un cadavere sotto ad una delle trivelle della Firex, in Val d’Agri. I colleghi di Potenza hanno ritenuto opportuno avvisarci, con il maxiprocesso in corso. Vogliono sapere se intendiamo andare sul posto per un sopralluogo, prima che rimuovano il cadavere.”

 

Si bloccò come paralizzata, la rabbia evaporata di un botto, sostituita dall’ennesima fitta di senso di colpa - dispiacersi pure per Matarazzo però mo no, Imma!

 

“D’accordo, ha fatto bene ad avvisarmi, Matarazzo,” le toccò ammettere, per compensare i toni di prima, anche se si sarebbe fatta ammazzare piuttosto che scusarsene.

 

“Vuole che la passi a prendere, dottoressa? O preferisce che avvisi il maresciallo? Credo che sia fuori in pausa pranzo anche lui, ma immagino sarà raggiungibile.”

 

Si chiese se si stesse solo immaginando qualcosa di suggestivo nel tono di Miss Sicilia, a causa della sua coda di paglia, o se ci fosse veramente. Ma non erano questo né il momento, né il luogo adatti per scoprirlo.

 

“Non si preoccupi, Matarazzo, avviso io Calogiuri. Se non riuscissi a trovarlo entro breve, non mancherò di richiamarla, quindi si tenga a disposizione almeno per il prossimo quarto d’ora,” ordinò, secca e decisa, chiudendo la chiamata prima che la ragazza potesse ribattere alcunché.

 

“Che succede, dottoressa?”

 

Alzò gli occhi dal telefono ed incontrò uno sguardo preoccupato. Il maresciallo era già perfettamente rivestito e con la giacca di pelle addosso.


“Che ci tocca una bella gita in Val d’Agri, Calogiuri,” sospirò, raccogliendo lo spolverino da terra ed accingendosi a fare lo stesso.

 

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“Maschio, caucasico, età apparente tra i 35 e i 40 anni. Nessun segno esterno evidente di percosse o violenza, né di segni procuratisi nel tentativo di difendersi da un’aggressione, ma potrebbero essere celati dai traumi riportati a seguito della caduta. Saprò dirvi di più dopo l’autopsia, anche sulla causa precisa della morte, sebbene le ipotesi al momento restino lo schiacciamento della cassa toracica o il trauma cranico. In ambo i casi, la morte dovrebbe essere stata praticamente istantanea.”

 

“Quindi sarebbe caduto dalla sommità della trivella, dottoressa…?”

 

“Telese, Valeria Telese,” si presentò il medico legale, una brunetta tutta curve dal caschetto sbarazzino, che sembrava uscita dritta dritta da un manifesto da pin-up, più che da una scuola di medicina, “e sì, l’entità dei traumi riportati è compatibile con una caduta da quell’altezza, ma anche in questo caso vi saprò dare conferma dopo l’autopsia.”

 

“E a che ora risale il decesso?” si inserì Calogiuri, mentre Imma osservava con attenzione quella specie di torre che deturpava il paesaggio, prevedendo perfettamente la domanda successiva che anche lei avrebbe avuto intenzione di fare.

 

“Tra le sei e le dodici ore. Non di più.”

 

“Chi ha ritrovato il corpo?” chiese poi, non appena Imma, con un cenno del capo, gli fece segno che poteva continuare lui con le domande.

 

“Uno degli addetti alla sicurezza delle trivelle, alle dieci di stamattina.”

 

“Ma ora sono le quindici, dottoressa, e ci hanno allertato alle tredici. Che è successo in quelle tre ore?” intervenne Imma, incredula e con la tentazione di dare degli incompetenti ad un po’ di gente.

 

“L’addetto ha chiamato i superiori, che hanno chiamato i superiori, che hanno chiamato i superiori, che alla fine hanno chiamato noi, ma erano già le 11.30 quando la chiamata è arrivata al comando,” rispose il maresciallo di servizio, un certo Domenico Pace, “il tempo di allertare la scientifica ed arrivare sul posto, constatare quanto successo e poi chiamarvi.”

 

“Quell’ora e mezza di ritardo è inaccettabile e spero che tutti questi fantomatici superiori ne vengano ritenuti responsabili,” tuonò Imma, incredula di fronte all’attitudine all’insabbiamento che aveva certa gente.

 

“Purtroppo i grandi capi stanno a Londra, dottoressa, e di sicuro non si scomodano di corsa per una cosa di questo genere,” sospirò Pace, come se fosse un fatto inevitabile.

 

“Per me possono pure stare a Tokyo, maresciallo, ma se c’è un omicidio in uno degli stabilimenti della loro azienda, mi aspetto che venga comunicato subito. L’addetto alla sicurezza stesso avrebbe dovuto chiamarvi, senza nemmeno pensare di dover fare tutta sta trafila. Ora dov’è?”

 

“Si trova nel capannone, dottoressa, lo ha già interrogato uno dei miei uomini ma se volete-”

 

“Voglio, Pace, voglio,” ordinò, seccamente: più la giornata proseguiva, più l’incazzatura montava, “lo faccia venire qui, per favore, che almeno non perdiamo tempo.”

 

E non solo per il tempismo impeccabile del povero cristo sfracellato sulla terra sassosa, ma perché aveva la netta sensazione che questo omicidio o suicidio segnalasse che qualcosa si stava muovendo, qualcosa di grosso, tra i vari indagati del maxiprocesso. E un senso di fastidio, l'odore dell'adrenalina nelle narici le suggerivano che, chiunque fosse a tirare le fila, se Romaniello tramite i suoi scagnozzi o qualcuno degli altri gentiluomini della cupola, alla fine chi se lo sarebbe preso in quel posto sarebbe stata lei.

 

Pace, la cui flemma rispecchiava in pieno il suo cognome - e pure oltre - trasalì e si avviò a passo trafelato - che corrispondeva alla velocità normale di un essere umano medio.

 

“Dottoressa, se non ha più bisogno di me, io andrei e darei ordine di rimuovere il corpo,” la voce della dottoressa Telese la fece nuovamente voltare verso il cadavere.

 

“Per quando potrò avere i risultati dell’autopsia, dottoressa?” chiese, sforzandosi di tornare ad un tono civile.

 

“Direi tra un paio di giorni e-”

 

“Dottoressa, lei si rende conto di cosa c’è in ballo con il processo in corso contro la Firex? Non si può anticipare?” la interruppe, i buoni propositi dimenticati, di fronte all’urgenza di sapere di che morte sarebbe dovuta morire lei, pure senza autopsia.

 

“Domani ho già una giornata piena, dottoressa. Posso provare ad inserirla saltando la pausa pranzo, ma dipende da quanto tempo impiegherò ad effettuare le autopsie di oggi pomeriggio e quelle di domattina. Oltre alla possibilità di dover effettuare altre uscite, in caso avvenissero altre morti sospette tra oggi e domani.”

 

Dimmi qualcosa che non so già! - pensò Imma con un sospiro, ma si trattenne dall'esprimerlo ad alta voce e si limitò ad un, “questo caso ha la massima urgenza, dottoressa, la prego di fare il possibile e anche l’impossibile, perché abbiamo addosso gli occhi non solo di tutta la Basilicata, ma di tutta l’Italia, e forse pure oltre.”

 

La dottoressa sospirò e, con un vago “farò il possibile!”, raccolse gli oggetti del mestiere ed iniziò ad avviarsi verso la cancellata di ingresso.

 

Fece in tempo a fare appena tre passi che tirò una scivolata su un sasso, che per poco non ci si schiantava di faccia.

 

Calogiuri, sempre rapido - fin troppo! - si sporse e riuscì ad afferrarla al volo, agguantandola per la vita con un braccio.

 

Imma avvertì, nettissima, una colata di acido nello stomaco, insieme ad una specie di ruggito nel petto e ad un istinto omicida, assolutamente ingiustificato, completamente ridicolo, ma non per questo meno prepotente.

 

“Gra- grazie, maresciallo,” balbettò la pin-up, rivolgendo a Calogiuri un sorriso ed uno sguardo che le provocarono un secondo ruggito interiore, pure peggiore del primo.

 

“Di nulla, state bene?” si sincerò lui, mollando rapidamente la presa e guardando verso i piedi di lei, infilati in due stivaletti tacco sette al massimo - dilettante!

 

“Sì, credo di essermi presa una piccola distorsione, ma riesco a camminare,” lo rassicurò con un altro di quei sorrisi che incrementavano in Imma la voglia di farci finire lei e il suo caschetto sul tavolo autoptico.

 

“Vi accompagno alla macchina, allora,” si offrì lui, cavallerescamente, come al suo solito, lanciando un’occhiata verso Imma come a chiederle il permesso.

 

Ed Imma dovette fare uno sforzo a dir poco sovrumano per cercare di tornare ad un’espressione neutra, perché manifestare la sua gelosia sarebbe stato non solo ridicolo ed umiliante, ma anche profondamente ingiusto verso Calogiuri. La verità era che era l’ultima persona al mondo ad avere il diritto di essere gelosa.

 

Gli fece un cenno di assenso con il capo e si voltò, alzando gli occhi al cielo, per evitare di scoppiare e per mascherare la sua espressione, quando il bagliore del sole, che si rifletteva sulla cima della trivella, la abbagliò per un istante e allo stesso tempo le fece venire un’idea.

 

“Dottoressa, mi scusi!” la richiamò, bloccandola che aveva appena fatto due passi, reggendosi al braccio teso di Calogiuri in un modo di cui sua madre sarebbe stata orgogliosa - o magari gelosa pure lei.

 

“Sì?”

 

“Qualcuno è già salito là in cima?”

 

“Stanno aspettando che arrivino i colleghi dal comando, specializzati in questo genere di lavori.”

 

“Se, campa cavallo! Che ci vuole a salire una scala? Calogiuri, quando hai… finito con la dottoressa, puoi chiedere al maresciallo e al custode chi si occupa della manutenzione sopra le trivelle e se ci fa avere accesso?”

 

“Cioè… vuole salire lei?” le chiese incredula la Telese, con lo sguardo che palesava chiaramente che la ritenesse una folle.

 

“E il maresciallo, se mi accompagna,” disse con un sorriso, incrociando gli occhi di Calogiuri, che le sorridevano tra l’ammirato e l’esasperato.

 

“Agli ordini, dottoressa, mi attivo subito,” proclamò Calogiuri, offrendo di nuovo il braccio alla pin-up, che continuava a guardarla come se fosse ammattita.

 

Fecero pochi passi e la sentì chiedere al maresciallo, sottovoce ma non abbastanza, “ma fa sempre così?”

 

“Sempre! È veramente straordinaria!” la raggiunsero le parole ammirate di Calogiuri, strappandole un sorriso vittorioso.

 

Uno a zero palla al centro per lei.

 

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Afferrò con mano tremolante il piolo successivo della scala, maledicendo internamente la sua voglia di strafare.

 

La verità era che, arrivata fin quassù, il senso di vertigine cominciava a farsi sentire - guarda in alto, Imma, guarda in alto!

 

“Tutto bene, dottoressa?” le domandò una voce sotto di lei: Calogiuri, ovviamente, che la seguiva protettivo, per pararla in caso di caduta - sempre se non si sfracellavano entrambi.

 

Dopo aver interrogato l’addetto alla sicurezza, che si era limitato a ripetere paro paro quanto già riferito da Pace e aveva tenuto la bocca cucita, nonostante tutti i tentativi di fare poliziotto buono, poliziotto cattivo e pure poliziotto bipolare - chiaramente aveva paura, una paura folle, glielo leggeva in faccia - erano stati raggiunti da uno degli addetti alla manutenzione delle trivelle che, con l’aria di chi li riteneva due incoscienti, aveva fornito loro il materiale necessario per la scalata.

 

Elmetto, guanti, giubbetti e calzature protettive indosso - per le quali aveva dovuto tradire il suo tacco dodici - ed imbragati alla bell’e meglio, salivano a passo lento, mancava ancora un terzo della scalata ed iniziava ad essere esausta.

 

“Tutto bene, Calogiuri, occhio a dove guardi, piuttosto!” gli intimò con tono palesemente ironico, visto che gli stava sopra la testa con la gonna che svolazzava al vento.

 

Lo sentì esplodere in un paio di colpi di tosse e non si sforzò nemmeno di trattenere un sorriso soddisfatto: tanto chi l'avrebbe mai visto?

 

Ricacciò indietro quella sensazione di elettricità in tutto il corpo e guadagnò gli ultimi metri, arrivando finalmente, su gambe di gelatina, alla piattaforma più alta.

 

Fece spazio a Calogiuri perché la raggiungesse e si guardarono intorno, sopraffatti dalla bellezza del panorama che si stagliava ben oltre l’orizzonte.

 

Rimasero uno accanto all’altra, in religioso silenzio, ad ammirare quella terra bellissima e martoriata dalle trivelle, l’odore acre di zolfo che permeava l’aria come una cappa ineluttabile.

 

Era un momento assurdamente romantico, perché completamente fuori contesto e fuori posto. Si trattenne a fatica dall’allungare una mano verso quella di lui e si costrinse a rivolgere lo sguardo alla piattaforma, tornando alla realtà.

 

“Dottoressa, cos’è questo?”

 

Si voltò verso il punto indicato da Calogiuri e vide un segno sulla parte superiore della ringhiera, come se qualcosa avesse completamente graffiato ed abraso il metallo. Guardò sotto ed il segno sulla ringhiera era esattamente perpendicolare al luogo del ritrovamento del corpo.

 

“Che vuol dire, dottoressa?”

 

“Non lo so, Calogiuri, ma qui qualcosa mi puzza, e non si tratta dello zolfo.”

 

*********************************************************************************************************

 

“Che… che ne diresti se ci fermassimo a cena da qualche parte?”

 

Sollevò il capo dalla spalla di Calogiuri, dove si era appoggiata non appena lui aveva ingranato la quinta, intendendo rimanerci finché il traffico lo avesse consentito, e lo guardò negli occhi.

 

Era tentata, eccome se era tentata. Alla fine erano le diciannove passate, ora del rientro a Matera sarebbero state le venti, come minimo. Il margine per una sosta imprevista c’era tutto.

 

“Se no, posso cucinarti qualcosa io. Lo spaghetto dell’appuntato ancora non lo hai assaggiato,” propose con uno sguardo tra l’imbarazzato ed il sornione che era assolutamente adorabile e a cui era impossibile dire di no.

 

Sapeva benissimo che, se fossero finiti a casa di Calogiuri, oltre al pranzo avrebbero saltato pure la cena, probabilmente, ma la voglia di stare con lui dopo i giorni di astinenza e di ricordargli tutto quello che lei poteva dargli e che quella pin-up invece non-

 

Che cosa potresti dargli esattamente tu in più, Imma? Il marito che ti aspetta a casa? Tua figlia adolescente? Dieci anni buoni in più e altrettante rughe? O una storia fatta di momenti rubati di straforo e menzogne, invece che una alla luce del sole? - la voce della Moliterni riprese il microfono della sua coscienza, odiosa come sempre e, purtroppo, clamorosamente non in torto.

 

“Fammi fare una telefonata,” rispose, decidendo di prendere il toro per le corna e commettere anche quella follia: la tentazione era più forte di tutto, di qualsiasi grillo parlante e pure dei sensi di colpa.

 

“Imma? Ma dove sei finita, amò?” la voce di Pietro la raggiunse dall’altro capo del telefono.

 

“Ascolta, Pietro. Sto rientrando dalla Val d’Agri… è una storia lunga, ma ormai è tardi e-”

 

“Non dirmi che sarai in ritardo, lo sai quanto ci tiene mamma a questa cena…”

 

E, come in un flash, le tornò in mente la cena dai suoi suoceri, che avevano invitato loro e Vitolo e la Moliterni - quella vera.

 

Freud avrebbe avuto molto da dire su questa sua dimenticanza, ma la verità era che ne aveva voglia quanto di cavarsi un dente senza anestesia.

 

Ed, allo stesso tempo, sapeva benissimo che disertare sarebbe equivalso alla terza guerra mondiale. Per non parlare del fatto che non era certo il caso che prefetto e consorte notassero la sua assenza ed indagassero su dove fosse quella sera e con chi.

 

“Potrei essere un poco in ritardo, Pietro, manca ancora un’ora buona di strada e… e se non mi passo da casa a cambiare credo che a tua madre piglierà un colpo,” sospirò, notando le condizioni di gonna e camicetta dopo la scalata, “inizia ad andare che vi raggiungo appena posso. Tieni buone tua madre e la Moliterni finché arrivo.”

 

Chiuse la chiamata ed incontrò il disappunto negli occhi di Calogiuri, che si limitò a sospirare e ad un laconico, “ho capito, ti riporto a casa più in fretta che riesco.”

 

“Credimi, dispiace più a me che a te, Calogiuri," sospirò di rimando, prendendogli la mano e stringendogliela con tutta la forza di cui era capace.

 

Trascorsero il resto del viaggio in un silenzio carico di malinconia.

 

*********************************************************************************************************

 

"Dai, alla fine non è andata così male, no, Imma?”

 

“No, Pietro, è andata proprio benissimo, guarda!” proclamò, sarcastica, gettando la borsa ed il soprabito sul divano ed avviandosi verso la camera da letto.

 

Dire che fosse stata una cena un poco noiosa, sarebbe stato come dire che sua suocera ce l’aveva un poco con lei.

 

Una riduzione ai minimissimi termini, insomma.

 

“D’accordo, magari la cena non sarà stata il massimo… ma che ne dici se recuperiamo con... il dopocena?” propose Pietro con tono basso e caldo, abbracciandola e posandole un bacio su una spalla, “Valentina è da Bea e abbiamo la casa tutta per noi.”

 

“Pietro…” sospirò, sentendo i muscoli irrigidirsi involontariamente e cercando mentalmente una via di fuga, sebbene un’ondata di senso di colpa le invadesse lo stomaco.

 

Per carità, era una donna e non una santa - tutt’altro, con tutto quello che aveva combinato ultimamente - ed erano tredici giorni che era in astinenza e la voglia ci sarebbe stata eccome. Semplicemente non con Pietro: il suo desiderio nei confronti del marito era sceso ai minimi storici e peggio che mai subito dopo aver passato tutta la giornata con Calogiuri. Se una volta riusciva in un certo senso a sfogare con Pietro gli istinti che reprimeva col maresciallo, avendo la coscienza ancora tutto sommato pulita, ora che la repressione era finita, si sentiva in colpa a farlo. Nei confronti di entrambi. E poi… e poi dopo aver provato l’oceano, la piscina di casa sembrava improvvisamente ben poco eccitante, purtroppo.

 

Lo sapeva perfettamente che non era giusto nei confronti di Pietro, come praticamente non era giusto quasi tutto del suo comportamento degli ultimi tre mesi, che fosse assurdo pretendere da un rapporto ventennale la stessa passione della novità, che se avesse continuato a mandarlo in bianco - le volte in cui avevano fatto l’amore da agosto in poi si contavano sulle dita di una mano, e di dita ne avanzavano pure - rischiava non solo di ferirlo tremendamente, ma anche di buttarlo tra le braccia di un’altra donna - non che non se lo sarebbe meritato.

 

Quando il maschio non sa dove beccare, poi diventa uccel di bosco! - le ricordò la voce di Vitali, in uno dei suoi momenti di più becero maschilismo.

 

Ma la verità era che, pur ignorando se valesse anche per il maschio, di sicuro, a beccare fuori casa, a lei passava la voglia di farlo dentro le quattro mura domestiche. E non sapeva se sperare in un antidoto o che Pietro ad un certo punto si rassegnasse e la smettesse di insistere, almeno per un po’.

 

Quasi a sbeffeggiarla, sentì le mani di Pietro insinuarsi sotto la gonna ed iniziare a sollevargliela - era talmente sovrappensiero che non si era nemmeno accorta dell’assalto che proseguiva, o quasi. Gliele bloccò rapidamente, udendo chiaramente Pietro sospirare di frustrazione nella sua schiena.

 

“Imma…”

 

“Scusami, Pietro, ma sono veramente troppo stanca,” pronunciò, accogliendo la seconda colata di senso di colpa nella gola, scostandogli del tutto le mani e voltandosi per guardarlo negli occhi, anche se avrebbe preferito evitare, “oggi… oggi è stata una giornata infernale. Mi sono pure dovuta arrampicare su una trivella petrolifera e-”

 

“Hai fatto che cosa??!!” esclamò, sbigottito, strabuzzando gli occhi, “Imma, ma sei impazzita?!”

 

“Hanno rinvenuto un cadavere allo stabilimento della Firex, Pietro. C’è il maxiprocesso in corso e-”

 

“E ovviamente è proprio il sostituto procuratore che deve scalare le trivelle, non tutto il corpo di polizia giudiziaria e non, che al massimo evidentemente sono qualificati per farti d’autista,” proclamò Pietro con un sarcasmo che non era da lui ed Imma per un secondo si gelò, chiedendosi se ci fosse una stilettata ben poco velata verso Calogiuri e se Pietro avesse qualche sospetto su di lui, su di loro.

 

“Certo che sono qualificati per farlo, Pietro, e pure molto bene!” non potè trattenersi dal ribattere, aggiungendo, in un sibilo, “ma è stata una mia scelta e non ti permetto di dirmi come devo o non devo fare il mio lavoro!”

 

“E infatti non mi permetterei mai di dirti come fare o non fare il tuo lavoro, Imma. Ma è proprio questo il problema: scalare trivelle a mani nude non è il tuo lavoro, porca miseria! Già hai i rischi del mestiere tuo, vuoi prenderti pure quelli degli altri?”

 

In anni di matrimonio raramente aveva visto Pietro tanto infervorato. E sapeva benissimo che i motivi di tanta foga, da parte di entrambi, erano solo in minima parte riconducibili alle trivelle, ma a ben altro genere di frustrazione. Pietro era arrabbiato con lei e lei… lei era arrabbiata con se stessa, soprattutto.

 

“E allora meglio non prendersi nessun rischio, no, Pietro? Meglio non prendere rischi, non prendere posizioni, non prendere decisioni, magari non vivere neppure, già che ci siamo, almeno non si rischia mai di sbagliare, no?” le parole le uscirono senza riuscire a trattenerle, e si sentì una stronza, un’infame, la peggiore delle stronze e delle infami, ma era come se una diga si fosse rotta e fosse esondata tutta d’un botto, come se la collera verso se stessa avesse tirato fuori anche le frustrazioni represse nei confronti del marito in tutti questi anni.

 

Pietro rimase fermo immobile, come paralizzato, almeno per qualche istante, e poi gli vide un’espressione sul volto che mai aveva visto in anni di matrimonio: una combinazione devastante di dolore e rabbia. Aprì la bocca ed Imma si aspettò un urlo che non arrivò mai, perché la richiuse subito, scosse il capo e con un’occhiata che non avrebbe mai scordato, le annunciò: “dormo sul divano!”

 

Afferrò un cuscino e si avviò verso il salotto, sbattendo la porta della camera con tanto fragore che il rumore rimbombò nella casa nemmeno ci fosse l’eco.

 

Imma si lasciò sprofondare nel materasso, le lacrime che non volevano saperne di smettere di uscire, la sensazione di avere rotto qualcosa di tremendamente prezioso e che nessuno, neppure Pietro, pur con tutta la sua passione per rimontare gli orologi, avrebbe mai saputo o potuto ricomporre. Sempre se avesse ancora avuto l'intenzione di farlo.


Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo quinto capitolo. Spero davvero che la storia continui ad essere interessante e soprattutto che la psicologia dei personaggi si mantenga credibile ed in personaggio. Ammetto di essere molto in apprensione da questo punto di vista, soprattutto per l’evoluzione del rapporto tra Imma e Pietro, ma come sempre lascio a voi giudicare.
Grazie mille ancora a tutti coloro che hanno letto la mia storia fin qui e un ringraziamento particolare a coloro che hanno speso o spenderanno un po’ del loro tempo per lasciarmi una recensione, che mi sono davvero utilissime per capire cosa vi piace e vi convince, cosa no, e su cosa posso fare meglio.

Il prossimo capitolo arriverà puntuale la prossima domenica, come sempre.

Grazie ancora!

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Capitolo 6
*** La Colpa ***


Nessun Alibi

 

Capitolo 6 - La Colpa

 

Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Imma, ma dove vai così di corsa?”

 

La voce la intercettò che stava salendo le scale a due a due: era dovuta andare ad accompagnare sua madre ad una visita dal medico ed aveva già fatto fin troppo ritardo, nonostante fosse, ovviamente, in regolare permesso.

 

“A fare il mio lavoro, Maria, per quanto il concetto ti sia di difficile comprensione, ne convengo.”

 

“Sempre pungente… come se noi non lavorassimo, poi. A proposito, ho appena lasciato a Diana quei fascicoli che mi avevi chiesto e-”

 

“Due giorni fa, te li avevo chiesti, Maria, due giorni fa. Ma per fortuna ce la siamo cavata lo stesso.”

 

“Plurale majestatis o intendi te e Calogiuri? Che state sempre appiccicati, tanto per cambiare,” proclamò con un sorrisetto malizioso, per poi aggiungere, con un’occhiata divertita e del gatto che sta per mangiarsi il topo, “anzi, quasi sempre, ad onor del vero.”

 

“Che intendi dire?” la sfidò apertamente, l’aria di chi non aveva niente da temere né da nascondere, sebbene fosse esattamente il contrario. Ma con Maria di essere strafottente le riusciva facilissimo.

 

“Che quando il gatto non c’è… i topi ballano, cara Imma. E il povero Calogiuri si gode un po’ di libertà, giustamente. Da un punto di vista strettamente professionale, ovviamente,” sottolineò, con il tono di chi intendeva esattamente l’opposto.

 

“Maria, se hai qualcosa da dire, dilla chiaramente. Se volevo fare i quiz andavo in televisione. Allora?”

 

“Niente, niente. Intendo dire che, visto che tu eri assente, il medico legale del caso in Val d’Agri lo sta… intrattenendo Calogiuri,” chiarì, con un tono che era tutto un programma, “dovrebbero essere in PG.”

 

“Grazie del bollettino di aggiornamento, Maria,” esclamò Imma, sarcastica, imponendosi di non dare minimamente a vedere quanto la notizia la infastidisse in realtà, “se ti applicassi con lo stesso impegno a rintracciare i fascicoli, di come ti aggiorni sugli spostamenti di tutti qui in procura, troveremmo tutte le carte nel giro di cinque minuti.”

 

“Figurati, Imma, dovere. E salutami tanto tua suocera: è davvero una persona squisita e gentilissima, lei,” ironizzò, ritirandosi ma con l’aria soddisfatta di chi una vittoria l’aveva comunque ottenuta: quella di prenderla in contropiede.

 

Rifletté per un secondo sul da farsi: se fosse meglio andare prima nel suo ufficio, per non sembrare di avere abboccato all’amo in modo tanto palese e fingere una certa indifferenza alla notizia della visita della pin-up potentina, o se fregarsene ed andare direttamente in PG.

 

Decise infine che, si fosse trattato pure di Taccardi, si sarebbe precipitata a sentire cosa aveva da dire. Quindi perché avrebbe dovuto fare eccezione?

 

Ridiscese rapidamente le scale e si avviò a passo rapido verso la porta della Polizia Giudiziaria. Si fermò poco prima dell’uscio, esitando un secondo e sbirciando nell’ufficio.

 

E, tanto per gradire, c’erano solo Calogiuri e la Telese - quando Capozza e Matarazzo servono, ovviamente mai! - che osservavano delle carte, seduti uno accanto all’altra su una delle scrivanie. Vicini, troppo vicini per i gusti di Imma.

 

Per i tuoi gusti, tutte le donne dovrebbero stargli a due metri di distanza, come minimo, Imma! - le ricordò la voce della Moliterni, che la sua coscienza, esaurita la fantasia, aveva scelto di adottare.

 

Ma non era solo la vicinanza, era il modo in cui quella se lo guardava mentre lui leggeva l’incartamento, era il modo in cui gli sorrideva, per non parlare della risata eccessiva in cui scoppiò non appena lui le disse qualcosa, scuotendo indietro il capo e toccandosi la chioma corvina. Ma il peggio fu quando pure lui rise di rimando, con fin troppa enfasi, per i suoi gusti.

 

E pure Imma stava scoppiando, ma ridere era proprio l’ultimo dei suoi pensieri.

 

“Buongiorno, dottoressa!” si annunciò con forza, facendo fare alla Telese un lieve salto sulla scrivania dalla sorpresa, “buongiorno, maresciallo!”

 

“Dottoressa!” esclamò Calogiuri, balzando subito in piedi. Per rispetto, lo sapeva benissimo, ma chissà che non ci fosse anche un poco di coda di paglia dietro a tanta rapidità, “mi scusi se mi sono permesso di ricevere io la dottoressa ma, visto che lei non c’era e la dottoressa è arrivata appositamente da Potenza, ho preferito iniziare a domandarle i risultati dell’autopsia.”

 

Normalmente gli avrebbe detto un “non c’è problema, Calogiuri!” o perfino un “hai fatto bene, Calogiuri!” ma in quel momento era troppo irritata per riuscirci, nonostante fosse perfettamente consapevole che questa gelosia fosse ridicola e che non avesse, oltretutto, alcun diritto di esclusiva da poter pretendere. Non solo, si rendeva anche conto, quel residuo di parte razionale di lei che era rimasta, che Calogiuri aveva pure avuto la premura di accogliere la Telese in PG, invece che nell’ufficio di lei, cosa che sì, l’avrebbe fatta incazzare mille volte di più.

 

“Dottoressa, andiamo nel mio ufficio,” proclamò, per poi aggiungere, dopo qualche secondo di esitazione, “vieni pure tu, Calogiuri, così mi riassumete di cosa avete discusso finora.”

 

La tentazione infantile di piantarlo lì, sia come punizione, sia per impedirgli ulteriori contatti con la pin-up, era stata fortissima, almeno fino a quando si era resa conto che Calogiuri non aveva fatto proprio nulla di male e che escluderlo l’avrebbe solo fatta passare per stronza agli occhi di entrambi. Oltre al fatto che gli serviva per le indagini e non era certo il momento di lasciare che la sua gelosia interferisse con il loro lavoro.

 

Sentì i loro passi seguirla ad un ritmo assai più lento del suo, che inforcò le scale a due a due, scaricando con il ritmo martellante dei tacchi la tensione accumulata.

 

“Si accomodi, dottoressa,” offrì, non appena furono nel suo ufficio, guadagnando il posto di comando alla scrivania, per poi costringersi ad un, “accomodati anche tu, Calogiuri, non stare lì impalato.”

 

Perché la verità era che le sedie di fronte alla sua scrivania erano, di nuovo, troppo vicine per i suoi gusti, ma doveva sforzarsi di essere una persona razionale ed ignorare il modo spudorato con cui la Telese flirtava con il suo Calogiuri. Che suo non era realmente, per niente.

 

"Mi stupisce vederla qui, dottoressa. Non si doveva scomodare, con tutti i suoi impegni improrogabili, a fare tutta la strada da Potenza. I risultati poteva anche inviarli per email e fare una telefonata," esordì Imma, con un sorriso fintissimo.

 

"Ma si figuri! Anche io, come lei, preferisco andare di persona, se mi è possibile," replicò la brunetta con un sorriso ampio e che sembrava pure sincero.

 

Se al posto di Calogiuri mi avesse accompagnato Capozza, volevo proprio vedere se preferivi ancora venire di persona, bella mia!

 

"Bene. Allora, che cos'ha scoperto, dottoressa?" andò dritta al punto, ansiosa di concludere questa visita di cortesia il prima possibile.

 

"Ho una notizia buona e una cattiva," esordì, con una di quelle frasi che la mandavano in bestia: detestava questi preamboli e perdite di tempo.

 

Le fece un cenno di tagliare corto e la dottoressa sospirò e si accomodò sullo schienale della sedia, l'aria di chi non aveva alcuna intenzione di darsi una mossa e che ne avrebbe avuto per un po'.

 

"La buona notizia è che non è affatto deceduto in seguito alla caduta, il che esclude molto probabilmente l'ipotesi del suicidio. La cattiva è che mi è impossibile stabilire la reale causa di morte, a causa dell'entità dei danni riportati dal cadavere in seguito all'impatto col suolo sassoso. O è morto di morte naturale o, se trauma c'è stato, è avvenuto in una delle zone danneggiate dalla caduta."

 

"Ma come fa quindi a dire che non è morto per la caduta?"

 

"In realtà già l'assenza o quasi di sangue sul terreno avrebbe dovuto farmi scattare un campanello d'allarme. Ma a volte succede che l'emorragia sia soprattutto interna. Ma non è questo il caso. I tessuti sono molto danneggiati, ma il cuore era già fermo al momento dell'impatto e il sangue già coagulato. E, se questo non bastasse, i tessuti meno danneggiati presentano una degradazione compatibile con il congelamento."

 

"Congelamento?!"

 

"Sì, dottoressa. Il corpo è stato congelato poche ore dopo la morte, non più di sei, visto lo stato di decomposizione e che era già stato scongelato al ritrovamento, e poi trasportato lì e fatto cadere."

 

Il cervello di Imma cominciò a frullare all'impazzata, mentre la sensazione di trovarsi nel bel mezzo di una macchina dagli ingranaggi enormi quanto invisibili, che l'avrebbero schiacciata da lì a breve, tornò prepotente.

 

"Altro che emerge dall'autopsia, dottoressa?"

 

"Sì. La vittima era in un pessimo stato di salute. Aveva un'intossicazione da metalli pesanti in stadio abbastanza avanzato e il fegato fortemente compromesso. Non abbastanza da essere letale, ma difficilmente sarebbe vissuto ancora a lungo senza adeguate cure mediche. E a dirla tutta, anche con cure mediche, c'era una buona probabilità di un esito fatale."

 

"E poi… ci sono quelle abrasioni," intervenne Calogiuri, con tono incerto, indicando il fascicolo che teneva in mano la dottoressa e che stavano studiando sulla sua scrivania.

 

"Sì, esattamente," confermò la Telese, rivolgendogli un sorriso smagliante che provocò in Imma un altro ruggito interiore, porgendo la cartellina verso la scrivania.

 

Imma per poco non gliela strappò di mano e si affannò a cercare la pagina giusta, ma non le riusciva di individuarla, nervosa com’era.

 

Due mani si sporsero in automatico verso il fascicolo, finendo per scontrarsi. Calogiuri ritrasse immediatamente la sua con un “scusatemi, dottoressa!”, guardando a terra dall’imbarazzo, mentre la Telese si limitò a sorridergli soddisfatta, l’aria del gatto che stava per mangiarsi il topo e a rispondere con un, “non si preoccupi, maresciallo!” dal tono che era tutto un programma.

 

Imma vide rosso, quel ruggito che diventava un boato, rendendola sorda e cieca. Se non fossero stati in procura e non si fosse trattato di lavoro, avrebbe già sistemato la pin-up con una battuta di quelle da farle rimpiangere di non essersene rimasta a Potenza. Ma si costrinse a chiudere gli occhi e tirare un respiro prima di rischiare di dire o fare qualcosa di cui si sarebbe pentita amaramente.

 

“La foto è questa, dottoressa. Tutto bene?” la raggiunse la voce sinuosa di quella, che sembrava perfino sinceramente preoccupata.

 

“Sì, certo, stavo soltanto riflettendo,” mentì, riaprendo gli occhi e incontrando lo sguardo perplesso del medico legale. Calogiuri invece la guardava con malcelata apprensione.

 

Se perché avesse notato che qualcosa non andava o se perché, di nuovo, avesse la coda di paglia, non avrebbe saputo dirlo e non era il caso di ragionarci, se non voleva scoppiare del tutto.

 

“Su che cosa?” chiese la dottoressa, incuriosita, ed Imma si scervellò per trovare una scusa plausibile.

 

Per fortuna, un dubbio si era già fatto largo nella sua mente prima che la gelosia la mandasse in cortocircuito e riemerse al momento giusto, salvandola in corner.

 

“Dottoressa, secondo lei, chi si è preso la briga di trasportare lì il cadavere ed inscenare la caduta, poteva realmente sperare che non ce ne saremmo accorti e ci saremmo bevuti la spiegazione più ovvia?”

 

“Se si trattasse di un principiante, di un delinquente occasionale, direi di sì. Ma per mettere in piedi una cosa del genere ci vogliono prontezza, mezzi ed un sangue freddo che difficilmente si trovano in un non professionista. Chiunque sappia il suo in fatto di cadaveri, ma ormai anche gli appassionati di crime della domenica, sanno che un corpo congelato presenta segni evidenti che lo identificano e che è molto difficile non si notino in sede autoptica. Se avessero bruciato il corpo, certo, ma così… al massimo possono aver sperato di coprire le reali cause del decesso, ma non che fosse avvenuto altrove e ben prima del ritrovamento.”

 

“Come supponevo, la ringrazio,” sospirò Imma, evitando per un soffio di ringhiare l’ultima parte della frase.

 

“Comunque, questa foto apre ulteriori scenari,” insistè la dottoressa, indicando l’oggetto del contendere: un’immagine del busto del cadavere che, all’altezza dello sterno, da ascella ad ascella, presentava una zona di pelle abrasa, anche se non arrossata. Semplicemente la pelle pareva sul punto di staccarsi.

 

“Un’abrasione post mortem, immagino,” pronunciò Imma, desiderosa di tagliare corto, rispetto all’esposizione col contagocce della Telese.

 

“Esattamente, dottoressa. Come avrà notato, non ci sono segni di arrossamento o sanguinamento,” confermò, sembrando quasi impressionata.

 

“Dottoressa,” intervenne Calogiuri, seppure con voce esitante, ed Imma notò come la Telese si voltò verso di lui, di scatto, con un sorriso ed un “sì?” che di nuovo erano tutto un programma.

 

“Intendevo la dottoressa Tataranni,” chiarì Calogiuri, con imbarazzo, ed Imma faticò a soffocare un sorrisetto soddisfatto, nonostante l’incazzatura ed il fastidio fossero ancora presenti.

 

“Dimmi, Calogiuri,” pronunciò, un po’ troppo seccamente, guadagnandosi un’altra occhiata preoccupata del maresciallo, che la conosceva veramente bene.

 

“Stavo pensando… ne stavo giustappunto parlando con la dottoressa prima che arrivaste. Vi ricordate quegli strani segni sulla ringhiera in cima alla trivella?”

 

“Certo che me li ricordo, Calogiuri, l’alzheimer grazie al cielo ancora non ce l’ho,” non riuscì a trattenersi dal pronunciare, mentre lo sguardo di Calogiuri virava dal preoccupato al ferito.

 

Perché questo tipo di sarcasmo non era che non fosse da lei, tutt’altro, ma di solito lo riservava a Capozza, a Diana se la faceva arrabbiare, a Matarazzo in dose doppia pure, ma mai a lui.

 

“Co- comunque,” proseguì Calogiuri dopo un sospiro, lanciandole un’occhiata che era un perché fai così? non verbale, “pensavo che magari abbiano imbragato in qualche modo il cadavere, forse proprio con una delle imbragature degli addetti alla manutenzione, come quelle che abbiamo usato noi per salire sulla trivella. Poi l’hanno legata ad un cavo sufficientemente lungo e resistente, che hanno portato fino alla cima della trivella. Hanno fatto passare il cavo dalla ringhiera e, in qualche modo, hanno issato il cadavere fin lassù, immagino con un motore di qualche tipo. O anche a mano, se fosse stato più d’uno a fare il lavoro. Il cadavere pesava novanta chili, impossibile per una persona sola, pure con l’effetto leva. E poi lo hanno lasciato cadere, hanno levato l’imbragatura e lo hanno fatto ritrovare.”

 

Imma rimase ammutolita ed impressionata, nonostante tutto, nonostante l’irritazione, nonostante il modo in cui quella cretina si guardava Calogiuri come se fosse Sherlock Holmes in persona.

 

Perché magari non sarà stato Sherlock Holmes in persona, ma Calogiuri stava diventando sempre più bravo e riusciva ad avere intuizioni sempre più complesse in piena autonomia. A volte su cose che perfino a lei erano sfuggite, sebbene fosse tuttora più frequente il contrario.

 

“Mi sembra… mi sembra un’ipotesi più che plausibile, Calogiuri,” pronunciò infine, costringendosi ad ammetere un “bravo!” che lo fece sorridere e le sembrò tirare un sospiro di sollievo.

 

“C’è altro, dottoressa?” si affrettò a chiedere alla Telese, perché l’arrabbiatura mica le era passata e voleva solo liberarsi di lei e possibilmente non trovarsela più davanti fino alla notte dei tempi.

 

“No, direi che con questo è tutto.”

 

“Allora non la trattengo oltre, con tutti i suoi impegni. Buon rientro a Potenza, dottoressa!” proclamò, alzandosi in piedi, costringendo quindi la donna e Calogiuri a fare altrettanto.

 

“La ringrazio, dottoressa Tataranni. Maresciallo, mi può accompagnare lei?” gli chiese in un modo che lasciava sottintendere che, fosse dipeso da lei, si sarebbe fatta accompagnare fino a Potenza e pure oltre.

 

Calogiuri incrociò lo sguardo di Imma, attendendo ordini sul da farsi.

 

Imma fu tentata, estremamente tentata, di dire alla dottoressa che non si doveva permettere di dare ordini ad un suo sottoposto, di trattenere Calogiuri con una scusa qualsiasi. Ma la verità era che si sentiva ancora troppo irritata e non voleva rischiare di dire o fare cose di cui si sarebbe pentita quasi sicuramente. Di umiliarsi e passare per una povera cretina, oltre che una stronza.

 

E così si limitò ad un cenno del capo e, stringendo i pugni dietro la scrivania, li vide allontanarsi e poi sparire oltre la porta.

 

Si accasciò sulla sedia, afferrò una matita, e la temperò compulsivamente fino a che il motore si ingolfò con uno stridore meccanico che rimbombò per tutto l’ufficio.

 

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“Avanti!”

 

“Dottoressa, tutto bene?”

 

Alzò gli occhi dalle immagini dell’autopsia su cui stava sforzandosi di concentrarsi con maggiore attenzione, visto che prima non ne era stata capace, e incrociò lo sguardo preoccupato di Calogiuri che, evidentemente, aveva notato che qualcosa non andava.

 

“Avevi bisogno di qualcosa?” gli domandò di rimando, perché non voleva dover dare spiegazioni sul motivo del suo malessere, né rischiare di esplodere in una scenata di gelosia che non aveva alcun diritto di fare. E poi ci poteva arrivare pure da solo Calogiuri, se un poco ci si sforzava.

 

Lo vide esitare per un attimo, fare un respiro e poi scuotere il capo e dire, con tono rassegnato, “ci sono novità sull’identità del cadavere della Firex. Le impronte digitali hanno rivelato che si tratta di Andrei Constantinescu, di origine rumena. Aveva regolare permesso di soggiorno fino a un anno fa, ma è scaduto dopo che ha perso il lavoro e da allora si è reso irreperibile. Di mestiere ha sempre fatto l’autotrasportatore.”

 

“Autotrasportatore… evidentemente esposto a sostanze tossiche o comunque nocive… mi sembra un copione già visto, Calogiuri,” sospirò, decidendo di concentrarsi sulle indagini e lasciare da parte tutto il resto.

 

“Sì, sicuramente era uno degli addetti al trasporto clandestino dei rifiuti tossici. Ma perché ucciderlo o comunque conservarlo e poi farlo ritrovare alla Firex?”

 

“Un avvertimento, Calogiuri, questo è un avvertimento bello e buono.”

 

“E verso chi, dottoressa?”

 

“Forse verso Zakary e la Firex? Come a dire loro possiamo mettervi nei guai se non collaborate? O forse un tentativo di spostare la direzione delle indagini verso la Firex, distogliendo l’attenzione da Romaniello? O un avvertimento verso di noi, anche. Non lo so, Calogiuri, ma di sicuro questa storia non mi piace. Gli equilibri nella cupola si stanno spostando, non so bene in quale direzione, ma se non rimangono coalizzati - e Romaniello a questo punto sta cercando di scaricare tutto sugli altri - si rischia una guerra. E se su Bruno e su Lombardi ho poche preoccupazioni, una guerra tra Romaniello da una parte, e Zakary e la Firex dall’altra potrebbe creare danni incalcolabili. E noi rischiamo di rimanerci incastrati in mezzo. Noi e tutta Matera.”

 

Calogiuri sembrò ancora più in apprensione, se per quanto gli aveva appena detto o se per tutto il resto non avrebbe saputo dirlo. Ma si avvicinò lentamente alla scrivania, l’aria cauta del domatore che entra nella gabbia dei leoni - o dei leopardi, visto il vestito animalier che Imma indossava quel giorno.

 

“Sei sicura che vada tutto bene?” ripeté la domanda, in un sussurro, passando di botto al tu, con il coraggio o l’incoscienza che lo contraddistinguevano.

 

Imma era ad un solo millimetro dal tracimare come un fiume in piena e spiegargli esattamente perché no, non andava affatto tutto bene, quando qualcuno bussò alla porta.

 

“Avanti!” gridò, non sapendo se benedire o maledire l’interruzione.

 

“Scusa, Imma, ma mi serve Calogiuri. Deve testimoniare al processo Quaratino e se non ci muoviamo facciamo tardi,” annunciò la D’Antonio, con l’aria scocciata di chi aveva delle rimostranze da fare.

 

Si era quasi dimenticata del processo al padre del povero Stacchiuccio, forse perché ripensare a quel bambino le faceva troppo male. La D’Antonio si era impuntata sul Quaratino, probabilmente per non voler ammettere il granchio preso, e aveva trovato una mezza dozzina di capi d’accusa da imputargli, oltre al traffico di auto rubate - non che non se lo meritasse il Quaratino di stare sulla graticola.

 

“Scusatemi, dottoressa, arrivo subito!” scattò sull'attenti Calogiuri, voltandosi però a rivolgere un’ultima occhiata ad Imma, come a chiederle il permesso di congedarsi.

 

“Vai pure, Calogiuri. Tanto abbiamo finito,” sottolineò volutamente, come a dire che anche la conversazione privata era terminata e che non sarebbe più voluta tornare in argomento.

 

Calogiuri, dopo un ultimo sguardo preoccupato, si avviò di corsa fuori dall’ufficio, annunciando che avrebbe preparato la macchina. La D’Antonio invece rimase fissa vicino alla porta, guardandola con aria di sfida.

 

“C’è altro?”

 

“Sì, c’è altro. Per carità, Imma, lo sappiamo tutti che il maresciallo Calogiuri è in un certo senso una tua creatura. Lo sappiamo tutti della predilezione che hai per lui e che è ricambiata, evidentemente. Ma il maresciallo è bravo, molto bravo, forse l’elemento più valido che abbiamo al momento in PG, oltre a quello superiore in grado. E non è giusto che dedichi tutto il suo tempo quasi esclusivamente ai tuoi casi. Ho intenzione di chiedere a Vitali una ridistribuzione più equa delle risorse della PG tra noi magistrati.”

 

“Bene. E come faremmo a ridistribuire le risorse, di grazia? Chiediamo ai morti ammazzati che ci vengono assegnati di prendere il numeretto e morire una volta quando Calogiuri è di turno insieme a me e una volta quando è di turno insieme a te? O facciamo i turni su quali agenti portarci dietro e quali lasciare a casa, che nemmeno fossimo in una squadra di serie A? O ce li giochiamo a testa e croce quando ci assegnano due casi in contemporanea?”

 

“Non serve che fai tanto la sarcastica, Imma. Basterebbe dividere meglio il tempo, e lo sai. La giornata è fatta di otto ore lavorative.”

 

“Forse per te: la mia è fatta anche di dieci ore lavorative, come minimo. Ma per carità, fai un po’ come ti pare, vai pure a lamentarti con Vitali, se serve, che non abbiamo già abbastanza problemi da risolvere qui dentro. E ti ricordo che ho un maxiprocesso in corso, che di fatto sono praticamente quattro processi insieme, ora cinque, oltre ai processi normali, e che è per questo che il maresciallo dedica tanto tempo alle mie indagini. Ma non ti voglio trattenere oltre, non vorrei che facessi ritardo al tuo dibattimento.”

 

“Vedremo a chi darà ragione Vitali, Imma. Non finisce qui!” intimò la D’Antonio, decisa come l’aveva mai vista e se ne andò sbattendo la porta.

 

Tutte ti vogliono, Calogiuri mio. E come dare loro torto! - pensò con un sospiro, ributtandosi sulla sedia ed afferrando un’altra matita, solo per scoprire che il suo fedele temperino aveva definitivamente tirato gli ultimi.

 

Pure tu mi tradisci!

 

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Aprì la porta di casa con fin troppa irruenza, sbattendo le chiavi sul mobiletto dell’ingresso.

 

L’incazzatura non le era affatto passata, anzi, era pure peggiorata quando aveva beccato Capozza ed uno degli altri agenti fare apprezzamenti da caserma irripetibili sulla Telese e sottolineare la fortuna sfacciata di Calogiuri che, evidentemente, aveva fatto colpo.

 

Imma aveva provato per circa dieci secondi a fingere con se stessa di essere indignata per conto di Diana, della Telese e di tutto il genere femminile, ma non ci credeva nemmeno lei.

 

Calogiuri non si era più visto, rapito dalla D’Antonio e dal suo maledetto processo, e non sapeva se fosse meglio o peggio così.

 

La casa era stranamente silenziosa e in penombra.

 

“Pietro?! Valentina?!” chiamò, avviandosi verso la cucina e trovando Pietro ad aspettarla, in piedi immobile in mezzo alla stanza.

 

Il cuore le finì nello stomaco, ancora prima che lui pronunciasse quelle parole, “Imma, dobbiamo parlare…” che da sempre, in millenni di storie d’amore, preannunciavano il disastro.

 

Svariati scenari le si affollarono nella mente: Pietro aveva capito tutto e la voleva lasciare; Pietro non poteva perdonarla per quanto gli aveva detto qualche sera prima e per gli ultimi mesi in bianco e la voleva lasciare, più altre svariate variazioni sul tema ma con il medesimo finale.

 

Un senso di panico potentissimo la invase, insieme alla nausea.

 

“Pietro, se è per l’altra sera io-”

 

“Fammi parlare, Imma, per favore,” la interruppe, deciso come forse non l’aveva mai sentito, il panico che crebbe in maniera esponenziale, fino a causarle il tremore ad una mano.

 

“Hai ragione.”

 

Due parole sole che fecero cessare repentinamente il tremore e la portarono a guardarlo, strabuzzando gli occhi.

 

“Come?”

 

“Hai… hai ragione. Sul fatto che non sono molto deciso, che tendo ad evitare i problemi e i rischi. Hai ragione su tutto. Ma questo è ciò che sono, Imma, e lo hai sempre saputo e… e non posso cambiare a cinquant’anni suonati,” chiarì Pietro con un sospiro, abbassando gli occhi per un attimo, per poi risollevarli, guardarla in un modo che non si sarebbe mai scordata e proclamare, “ma su una cosa, una cosa sola sono sempre stato disposto a correre qualsiasi rischio, Imma, e lo sarò sempre, ed è per te. Per l’amore che ho per te. Sono andato contro alla mia famiglia per sposarti, e lo sai, e lo rifarei altre mille volte. E ti prometto che cercherò di essere più deciso, per quanto ti riguarda, con mia madre anche. Anzi, soprattutto con mia madre. Lo so che non è giusto come ti tratta e… e mi dispiace che per quieto vivere non gliel’ho mai detto più chiaramente, ma ti prometto che gliene parlerò.”

 

Imma si sentì una merda, non c’era altro modo per definire l’odio e lo schifo che provava verso se stessa in quel momento. Si sentì come la peggiore delle mogli, la peggiore delle donne. Non se lo meritava uno come Pietro, non se l’era mai meritato e lui era ancora lì a scusarsi e a fare ammenda, quando lei… lei lo stava tradendo nel peggiore dei modi possibili.

 

“Non… non serve, Pietro,” le riuscì di pronunciare, con una voce che sembrava uscita da un film horror, tanto era roca, “io non voglio che rischi il rapporto con tua madre per me, non… non ne vale la pena.”

 

“Certo che ne vale la pena, Imma, tu sei la persona più importante della mia vita, a parte Valentina. Lo sai questo, vero?” le domandò, avvicinandosi per prenderle una mano che tremava di nuovo come una foglia, ma per altri motivi.

 

“Lo so. Ma a me basta saperlo, Pietro. Per il resto… a tua madre c’ho fatto il callo e non cambierà mai idea su di me, e lo sappiamo tutti e due. L’altra sera… l’altra sera ero arrabbiata e… sono stata ingiusta nei tuoi confronti e… e mi dispiace, Pietro, non sai quanto,” ammise, gli occhi pieni di lacrime, la voce che le si spezzava, perché non le dispiaceva solo per la sfuriata dell’altra sera ma per… per tutto quanto il resto.

 

Anche se lo sapeva benissimo che quello che stava facendo era imperdonabile e che un mi dispiace non sarebbe mai bastato. Forse nulla sarebbe mai bastato né per perdonarsi, né per farsi perdonare.

 

Si sentì stringere in un abbraccio e non solo glielo permise, ma lo strinse a sua volta, più forte che poteva, il senso di colpa che si mischiava con l’affetto, l’amore, il dispiacere, in un miscuglio di sensazioni che la confondevano e la stordivano.

 

“Hai esagerato un po’ nei modi, ma nei contenuti non avevi torto, Imma, come sempre,” le sussurrò, facendola sentire ancora peggio e meglio allo stesso tempo, “e ti prometto comunque che per te saprò essere più deciso e correre qualche rischio in più. A partire da adesso, pure.”

 

“Come?” gli sussurrò, confusa, non capendo dove volesse andare a parare ma, nel giro di un secondo, si trovò a cacciare un urlo quando si sentì afferrare per la vita e sollevare di peso.

 

“Pietro ma che fai? Sei impazzito?!” esclamò, presa completamente in contropiede, temendo per l’incolumità di entrambi quando Pietro sbandò pericolosamente per qualche istante, prima di ritrovare l’equilibrio e praticamente gettarsi insieme a lei sul tavolo da pranzo.

 

Fece appena in tempo a riprendersi dalla botta al fondoschiena, che Pietro iniziò a baciarla voracemente e lei… lei non solo glielo permise ma, forse per l’astinenza forzata, forse per tutto quello che le covava dentro quel giorno, forse per il senso di colpa nei confronti di Pietro e per l’amore che provava per lui, gli rispose con altrettanta passione, altrettanto desiderio.

 

Come se gli ultimi mesi non fossero mai esistiti, come se non fosse mai cambiato nulla tra loro, anzi.

 

Almeno finché, dopo averla liberata dal soprabito e dalla giacca, le aprì la camicetta con tanta foga da farle saltare i bottoni, le sollevò la gonna con tanto impeto da far cedere la cucitura della fodera in uno strappo tremendo e si ritrovò piegata in una posizione che Pietro mai aveva tentato in vent’anni di conoscenza, prima che lui le zittisse l’esclamazione di sorpresa con un altro bacio appassionato.

 

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“Tutto bene?”

 

La voce di Pietro nel collo la riscosse momentaneamente dai suoi pensieri e dal tentativo di riprendere il fiato.

 

Incrociò i suoi occhi e, dall’apprensione che vi lesse, capì che non si trattava di una variazione del “ti è piaciuto?” che tanto l’aveva fatta incazzare quella volta in spiaggia, quanto un accertarsi effettivamente se stesse bene e, solo secondariamente, se avesse gradito.

 

Il motivo della preoccupazione era evidente: nell’ultima mezz’ora, Pietro aveva testato più posizioni nuove che negli ultimi dieci anni di matrimonio tutti insieme, come minimo, e non avevano più vent’anni, anzi.

 

Richiuse un attimo le palpebre, cercando una risposta che potesse essere rassicurante e non offensiva. Perché, nonostante temesse almeno un paio di piccoli strappi muscolari, non è che stesse male, anzi, le era pure piaciuto, soprattutto all’inizio: era stato tutto nuovo ed eccitante, specialmente vedere Pietro così appassionato e volitivo, al di là del ripasso del kamasutra. Ma… ma era come se mancasse qualcosa, qualcosa che non avrebbe saputo spiegare ma che mancava inesorabilmente, nonostante tutto l’impegno e la passione.

 

Alla fine decise semplicemente di annuire, sperando che Pietro avrebbe attribuito al fiato corto la sua assenza di parole. E infatti così fu, tanto che le sorrise soddisfatto e le stampò un altro bacio, questa volta più dolce, sulle labbra.

 

“E allora… dopo il primo piatto… che ne diresti di passare al secondo?” le sussurrò, alludendo al fatto che fossero ancora spalmati sul tavolino, che iniziava peraltro a torturarle la schiena ed il nervo sciatico.

 

Di un bis non aveva proprio alcuna voglia: l’unica cosa che desiderava in quel momento era mettere qualcosa di vero sotto i denti ed andarsene a dormire. Provò un momento di scoramento al pensiero di come fare ad evitarlo senza ferire Pietro, dopo tutto quello che era successo nell’ultimo periodo.

 

“Pietro…” provò a intervenire, sentendo che lui era nuovamente partito all’assalto del suo collo e stava iniziando una discesa lenta ed inesorabile, “Pietro, Piè.”

 

Ma lui continuò imperterrito, forse interpretandole come invocazioni dettate dal piacere.

 

Stava per prendergli la testa tra le mani per bloccarlo, quando il trillo inconfondibile del cellulare di lei squarciò il silenzio della stanza.

 

Mi rimangio tutti gli accidenti che vi ho mai tirato! - fu il ringraziamento silenzioso che inviò agli inventori di quelli che non erano più aggeggi infernali ma a dir poco provvidenziali.

 

“Pietro, devo rispondere!” esclamò, decisa, bloccandolo.

 

“Amò, ma lascialo squillare, per una volta!” la implorò con uno sguardo che fu un’altra fitta di senso di colpa, ma la ignorò, anche perché il buonsenso imponeva di rispondere.

 

“Pietro, se qualcuno chiama a quest’ora deve essere una cosa importante. Devo rispondere per forza,” si impose, continuando a tenergli la testa fra le mani fino a quando lui, con un sospiro, si sollevò del tutto e le consentì di scendere dal tavolo, le giunture che protestavano tremendamente.

 

Fece una corsa fino alla borsa, abbandonata sul pavimento, ne estrasse il telefono e rispose senza nemmeno leggere il mittente della chiamata.

 

“Pronto?”

 

“Dottoressa?” la voce di Calogiuri le fece precipitare il cuore nello stomaco, “state bene?”

 

Si rese conto di avere ancora il fiatone e, all’idea di cosa Calogiuri potesse stare pensando - che poi corrispondeva pure alla verità, peraltro - si sentì come la moglie fedifraga beccata dal marito con l’amante, pure se in questo caso i ruoli erano invertiti.

 

Per la seconda volta quella sera, si sentì una merda, una stronza, una traditrice ed un’infame. Le sembrò improvvisamente assurdamente ridicola, ipocrita e grottesca la sua gelosia di quel giorno, per due sorrisi ed uno sfiorarsi di mani accidentale, quando Calogiuri doveva sopportare ogni santissimo giorno l’idea che lei quella sera stessa se ne sarebbe tornata bella bella tra le braccia del marito. Come facesse a sopportarlo non lo sapeva, perché lei al posto suo sarebbe uscita di capa, ad immaginarselo con un’altra, questo era poco ma sicuro.

 

“Dottoressa?” ripetè, più esitante, riscuotendola dai suoi pensieri.

 

“Scusa, Calogiuri, sto bene, è solo che ho fatto una corsa per recuperare il telefono,” si affrettò a chiarire, in quella che non era del tutto una bugia, “ma è successo qualcosa?”

 

“Sì, dottoressa… io… io non so come dirvelo in realtà…”

 

Il tono di Calogiuri le provocò un istante di panico, mentre si immaginò che stesse per annunciarle di essersi invaghito della Telese e che, di conseguenza, aveva intenzione di chiudere la loro frequentazione.

 

Ma fu solo un attimo di follia paranoica perché, se ne rendeva conto benissimo, pure se fosse stato colto da una passione travolgente ed improvvisa per la brunetta potentina, Calogiuri non avrebbe infranto la regola delle telefonate per una cosa del genere, non a quell’ora, e avrebbe avuto almeno la buona creanza di comunicarglielo di persona.

 

“Calogiuri, che succede? Dimmelo e basta, anche se non mi piacerà,” lo sollecitò, il cuore che finiva di nuovo nello stomaco mentre attendeva la sentenza definitiva.

 

Pietro scelse proprio quel momento per tentare di abbracciarla da dietro e darle un bacio sulla nuca e lei, di riflesso, lo scostò tanto bruscamente che per poco non gli diede una gomitata.

 

Ma, di lì a poco, fu lei a prendersi una gomitata dritta in pancia, quando la voce di Calogiuri le annunciò, “Giulio Bruno si è impiccato, dottoressa.”

 

Merda! - fu il pensiero inespresso, un misto tra panico, un vago senso di colpa e la sensazione che i famosi ingranaggi fossero ormai a pochi centimetri dalla sua testa, che si davano battaglia nel suo stomaco.

 

“Mo mi devi venire a prendere, Calogiuri. Mo!” gli ordinò, iniziando già ad avviarsi verso il bagno, ignorando l’occhiata tra il rassegnato ed il ferito di Pietro.

 

“Dieci minuti e sono lì, dottoressa,” la rassicurò, e sentì il rumore di un motore che si avviava.

 

Si precipitò in bagno, levandosi i vestiti rovinati più in fretta che riuscì e buttandosi sotto il getto ancora troppo freddo, facendo attenzione a non bagnarsi i capelli, mentre cercava disperatamente di lavare via quel senso di sporco in cui si sentiva immersa.

 

Ma non le sarebbe bastata una doccia di tre ore, figuriamoci una di tre minuti.

 

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“Ma siamo…”

 

“Sì, dottoressa,” confermò Calogiuri con un sospiro ed un’altra di quelle occhiate preoccupate che le aveva rivolto ad intermittenza fin da quando era salita in auto. Avevano fatto praticamente tutto il tragitto in silenzio, lei per i sensi di colpa verso il maresciallo, mentre lui aveva l’aria di chi la stava conducendo al patibolo, più che verso la scena di un crimine.

 

Erano al Vallone della Femmina, illuminato a giorno dai fari della scientifica, nonostante fosse già buio pesto tutto intorno. Appena sopra al crepaccio dove era stato ritrovato il corpo di Santino Bruno.

 

Imma sentì un macigno depositarsi sul petto e capì ancora di più l’apprensione del maresciallo.

 

Scese dall’auto fin troppo rapidamente, ignorando la testa che le girava, ritrovandosi accecata dai fari. Fece un paio di passi e stava per inciampare, quando si sentì afferrare per un braccio, in una presa salda che la mantenne in piedi e le evitò un ruzzolone potenzialmente fatale, con lo strapiombo a pochi metri da loro.

 

“Tranquillo, Calogiuri, tutto a posto,” lo rassicurò, non protestando però, come avrebbe fatto di solito, quando lui continuò a mantenere la presa mentre si avviavano verso il crocchio formato da Taccardi, Capozzo e alcuni agenti della scientifica in tuta bianca. Una specie di macabra rievocazione della scena del crimine di qualche mese prima. Solo che allora almeno era giorno.

 

“Dottor Taccardi, buonasera!” lo salutò decisa, fermandosi ad un passo dal medico legale e dalla grotta, mentre Calogiuri le lasciò infine il braccio.

 

“Dottoressa Tataranni, buonasera a lei! Questa è una scena già vista, non è vero? O quasi. Mi dica, ha intenzione di fare bungee jumping anche stavolta?” domandò con quell’ironia fuori luogo, tipica di chi ha visto talmente tanti cadaveri da aver perso ormai ogni residuo di empatia o di riverenza verso la morte. Per Taccardi un morto valeva l’altro, era come timbrare il cartellino.

 

“Magari stavolta lascio a lei l’onore, dottore,” ribatté, puntuta, sporgendosi leggermente per guardare nel crepaccio e sentendo la mano di Calogiuri prenderle nuovamente un gomito, con discrezione, facendo da barriera tra lei e Taccardi con la sua schiena, in modo che i presenti non notassero il contatto tra loro, né che le gambe di lei fossero tutt’altro che salde.

 

Era per gesti come questo che l’aveva conquistata e la conquistava sempre di più ogni giorno che passava, per fortuna e purtroppo.

 

Gli occhi si aggiustarono al contrasto tra il buio e la luce dei fari e infine lo vide: sembrava un manichino, un fantoccio, di quei Giuda che si usano per le rievocazioni della Passione di Cristo.

 

A Matera poi, ne erano esperti e con fama internazionale, pure.

 

Ma non era Giuda, né un fantoccio, era ciò che restava di Giulio Bruno, delle sue ambizioni sfrenate, del suo odio per il padre e per ciò che rappresentava.

 

Perché scegliere di impiccarsi, proprio come aveva fatto l’ex socio Scaglione? Perché farlo ora, con la prima udienza rimandata per attendere il decorso operatorio di Romaniello? Perché farlo proprio all’albero che per quindici anni era stata la tomba di quello che si pensava essere suo padre, ma in realtà era suo zio?

 

Quella morte era completamente priva di senso. Possibile che la pressione del processo, la paura del carcere, della vergogna, magari i sensi di colpa, pure se a scoppio molto ritardato, potessero averlo spinto a tanto?

 

E perché proprio in una sera di metà ottobre e non a luglio, poco dopo aver ricevuto gli avvisi di garanzia, o ad agosto, dopo la condanna di Romaniello, o perfino a settembre. Che cosa mai poteva essere cambiato, se qualcosa era cambiato?

 

O forse… forse era solo una sua speranza personale, quella che quel suicidio non avesse senso, che ci fosse altro dietro. Per non pensare di essere lei la corresponsabile, seppure in maniera indiretta, dell’ennesimo indagato che quell’anno si toglieva la vita.

 

Non che non capitasse abbastanza frequentemente, e non solo a Matera, che alcune persone non reggessero il peso del trovarsi indagati e giudicati. Ma sapeva già che Zazza e i media ci sarebbero andati a nozze.

 

“Dottoressa…” le sussurrò Calogiuri, distraendola per un attimo dai suoi ragionamenti.

 

Lo guardò e capì che era esattamente questa l’intenzione del maresciallo, di non lasciarla perdere nei suoi pensieri, non troppo almeno.

 

Gli fece un cenno del capo per fargli capire che stava bene - per quanto potesse stare bene, viste le circostanze - e, prendendo un respiro, si fece forza per tornare al presente e all’urgenza delle indagini.

 

“Capozza, chi ha trovato il cadavere?”

 

“Una coppia di turisti, dottoressa. Avevano letto di Santino Bruno e, incuriositi, sono venuti per vedere il posto dove era stato ritrovato e-”


“E hanno trovato un’attrazione turistica ben più recente di quanto speravano. Dove sono ora? Si sono avvicinati al cadavere?”

 

“No, dottoressa, sono rimasti qui sopra, non avevano l’attrezzatura per calarsi nel crepaccio. E ora sono in uno dei van della scientifica, la ragazza era molto scossa. Se vuole può interrogarli anche lei.”

 

Imma lanciò al carabiniere un’occhiata come a dire “che non mi conosci, Capozza?” ma stette zitta, nonostante fosse da quel pomeriggio, ma pure da prima, che aveva la tentazione di dirgliene quattro.

 

“Taccardi, mi scusi, ma lei ha intenzione di calarsi o di rimanere qui impalato? Come pensa di farli i primi rilievi sul cadavere?”

 

“Aspetto che i vostri agenti lo imbraghino e lo portino qui, dottoressa. Anche se io avrei chiamato i vigili del fuoco pure stavolta. Ad ognuno il suo mestiere.”

 

Pietro sarebbe orgoglioso di lei, Taccardi! - pensò ironicamente, prima che un’altra fitta di senso di colpa, non avrebbe più saputo dire verso chi, le fece rapidamente abbandonare quella linea di pensiero.

 

“Volete scendere, dottoressa?” le domandò Calogiuri, che la conosceva fin troppo bene, ormai.

 

“Ovviamente, Calogiuri. Scendi anche tu?”

 

“E che me lo dovete chiedere, dottoressa?” le rispose con un sorriso, anche se un po’ di apprensione residua gli velava lo sguardo.

 

“Fate come vi pare, se vi volete rompere l’osso del collo. Io vi aspetto qui, tanto i morti non scappano,” concluse Taccardi, ritraendosi alle spalle di Capozza, come se temesse di essere costretto a seguirli.

 

“Scendo prima io, dottoressa,” si offrì Calogiuri e lei annuì, sebbene lo vedesse un po’ preoccupato di non essere lì a sostenerla in caso di un altro inciampo.

 

Si costrinse a rimanere il più possibile saldamente ancorata al terreno, fino a che Calogiuri comunicò di essere arrivato sul fondo del crepaccio, sano e salvo, e fu il suo turno di essere imbragata dagli agenti.

 

Come qualche mese prima, scese lentamente molto lentamente, l’imbragatura che le tagliava le cosce, finché si trovò davanti, come in una specie di luna park dell’orrore, due occhi spalancati e vitrei e il volto senza vita dell’architetto.


Fece appello al sangue freddo accumulato in anni di esperienza per non gridare pure questa volta e attese di essere calata ulteriormente, cogliendo l’occasione per osservare tutta la lunghezza del corpo di Bruno.

 

Era vestito elegante, come se stesse andando ad un incontro di lavoro. Nessun segno apparente sulle mani, da quel poco che poteva vedere nella penombra. I vestiti erano in ordine, almeno frontalmente, perfettamente puliti e con l’aria ancora fresca da stiratura.

 

Tutto troppo perfetto e-

 

Il pensiero fu troncato bruscamente quando l’argano fece un sussulto, lo stomaco le finì in gola e si ritrovò a precipitare per gli ultimi due metri, e questa volta l’urlo le uscì senza poterlo trattenere.

 

Chiuse gli occhi, attendendo lo schianto, quando si sentì afferrare da due braccia ormai ben familiari, finendo aggrappata ad un corpo saldo e muscoloso.

 

Calogiuri l’aveva presa praticamente al volo, salvandola per l’ennesima volta dal finire in ospedale, o peggio.

 

I loro occhi si incrociarono nella penombra e l’elettricità statica invase l’aria e li trapassò da parte a parte, nonostante il contesto, nonostante tutto.

 

Dovette fare forza su tutto il suo controllo per resistere all’impulso irrazionale di baciarlo, con tutti gli occhi puntati addosso. Calogiuri scosse il capo, come per riscuotersi e, delicatamente, la appoggiò a terra, staccandosi lentamente da lei, fino a lasciarla completamente andare, una volta che si fu accertato, con un cenno del capo di lei, che riusciva a stare in piedi da sola.

 

“Ma siete impazziti?! Che cosa combinate con quell’argano?! Capozza!!”

 

Imma squadrò Calogiuri, sbigottita, quasi non riconoscendolo: non l’aveva mai visto tanto incazzato da quando si conoscevano, non gli aveva mai sentito quel tono di voce, nemmeno quando era esploso nel suo ufficio, ma soprattutto non l’aveva mai sentito urlare in quel modo. Come decibel batteva perfino lei.

 

Tanto che, sebbene fosse stata ad un passo dal fare una strigliata a Capozza e ai suoi uomini che non se la sarebbero dimenticata fino alla pensione, rimase ammutolita, dato che il maresciallo l’aveva evidentemente preceduta, anzi, ci stava andando giù perfino più pesante di quanto avrebbe fatto lei.

 

“La dottoressa poteva rompersi l’osso del collo!! Ringraziate se non vi faccio rapporto, perché che succeda una cosa del genere è gravissimo!”

 

“Maresciallo, ci scusi, ma l’argano si è inceppato e poi si è sbloccato di colpo e-”

 

“E voi dovreste essere qualificati per gestire anche le emergenze, Capozza!! Ma evidentemente non lo siete e questo argano è da revisionare. Quindi ora chiamate i vigili del fuoco o la forestale, chi è disponibile in tempi più rapidi, perché noi così non risaliamo, che ci manca solo che vi si inceppi di nuovo quando siamo quasi in cima.”

 

“Ma maresciallo…”

 

“Capozza, si muova, è un ordine. O l’ha dimenticato che ora sono un suo superiore?!”

 

“No, maresciallo, cioè, sì, maresciallo, ai comandi!”

 

Alla faccia del timido ragazzo di Grottaminarda! - pensò Imma, paralizzata da un misto di incredulità, di orgoglio e di quel qualcosa che le si agitava nel petto.

 

Perché una parte di lei sapeva benissimo che Calogiuri non se la sarebbe presa tanto nemmeno se fosse stato lui stesso a rischiare quella caduta. Che se reagiva in quel modo era anche e soprattutto perché c’era di mezzo lei.

 

I loro occhi si incrociarono nuovamente e l’intensità dello sguardo di lui, un misto di rabbia e paura, le fece correre un brivido lungo la schiena, anche mentre gli sorrise con gratitudine.

 

Fu con uno sforzo supremo che si costrinse a girarsi sui tacchi ed a tornare ad analizzare il cadavere per il quale aveva quasi rischiato di finire al creatore.

 

“Non noti niente di strano, Calogiuri?” gli domandò, sia per distrarsi, sia per capire se anche il maresciallo condividesse i suoi sospetti.

 

Calogiuri, per tutta risposta, estrasse una torcia elettrica dalla tasca ed iniziò ad analizzare il cadavere.

 

“No… è… è tutto in ordine, troppo. Il cappotto è marrone chiaro ed è perfettamente pulito. Nessuna traccia di terra. Come ha fatto a scendere in questo crepaccio da solo? Come ha fatto a portare quaggiù la corda e quella sedia, usata per impiccarsi? Non ci sono attrezzi da scalata qui in giro. Qualcuno lo deve avere aiutato nella discesa o… o magari come per il morto della trivella...”

 

“Era già morto prima e questa è tutta una messinscena? Ci avevo pensato anche io, Calogiuri, ma dobbiamo attendere il parere di Taccardi per saperlo con certezza,” confermò, la voce che le si tingeva di quell’orgoglio che non riusciva più a nascondere.

 

“Ma poi perché prendersi la briga di venire qui sotto ad impiccarsi, invece di gettarsi direttamente nel burrone? Soprattutto se intendeva emulare la morte di suo zio.”

 

“Bella domanda, Calogiuri, bella domanda,” commentò, quasi più tra sé e sé, avvicinandosi di più al cadavere con l’intenzione di cercargli nelle tasche.

 

Calogiuri, come leggendole nel pensiero, estrasse la macchina fotografica, fece qualche foto al cadavere da varie angolazioni e poi tirò fuori un paio di guanti monouso e glieli porse, prima che a quelli della scientifica venisse un colpo.

 

Le tasche esterne erano vuote, ma nella tasca interna c’era uno spessore.

 

Estrasse con cautela una busta, bianca, anonima, ma la scritta “Per la dottoressa Tataranni” per poco non gliela fece cadere di mano.

 

Incrociò lo sguardo preoccupato di Calogiuri, poi voltò la busta e vide che non era sigillata. Con mani tremanti la aprì e ne cavò un singolo foglio.

 

Mi avete ucciso voi

 

Quattro parole, scritte in grande, a mano, nero su bianco, al centro del foglio. Se intendesse solo lei o in generale la procura, la giustizia, non avrebbe saputo dirlo ma sentì la mano tremarle maledettamente, tanto che Calogiuri le prese la lettera dalle dita e la infilò in una busta di plastica, sigillandola.

 

Se per evitare che le cadesse dalle mani o se per levargliela da davanti, di nuovo, non avrebbe saputo dirlo.


Quello che era certo è che si trovò a tremare come una foglia e non fu affatto convinta che fosse solo per il gelo della murgia di notte.

 

*********************************************************************************************************

 

“Hai freddo?”

 

Sentì l’automobile fermarsi e notò l’occhiata preoccupata di Calogiuri, l’ennesima della serata.

 

“Insomma…” ammise, anche se la verità era che sentiva il gelo fin nelle ossa, i tremori che ancora la scuotevano di tanto in tanto.

 

Erano rimasti una mezz’ora buona là sotto, al freddo, pure di più, in attesa che arrivassero i vigili del fuoco a tirarli fuori, stavolta senza intoppi. Calogiuri si era offerto di darle anche il suo giaccone ma lei si era rifiutata, non volendo farlo surgelare. Non ci fosse stata mezza PG ad osservarli, se lo sarebbe abbracciato per scaldarsi - e non solo per quello - ma ci mancava solo una cosa del genere per scatenare ulteriormente il gossip. Era certa che già di come Calogiuri l’avesse presa al volo e della lavata di capo successiva a Capozza ne avrebbe parlato tutta la procura per settimane.

 

“Aspetta,” pronunciò con un tono rassicurante, slacciandosi la cintura e sporgendosi verso il sedile posteriore, ed Imma ebbe un fortissimo senso di dejavu. Solo che stavolta il braccio che sfregò contro il suo non era nudo ma coperto da un cappotto pesante.

 

La scossa elettrica se ne fregò di questo piccolo dettaglio e la colpì, nonostante tutto quello che era successo tra loro negli ultimi mesi.

 

“Spero che sia ancora calda,” proclamò, passandole un thermos appena aperto, “è camomilla.”

 

Una lieve nuvola di condensa si sollevò, promettente. Calogiuri era davvero sempre pronto per ogni evenienza.

 

Imma chiuse gli occhi, che le pungevano da morire, e bevve una sorsata, sentendo il calore scenderle nella gola e nell’esofago, spezzando il gelo. Qualche altro sorso e riaprì gli occhi e la porse a Calogiuri, in un altro dejavu.

 

“Bevila pure tutta, non ho freddo, tranquilla,” la rassicurò con un sorriso, mettendo la mano sul cambio, evidentemente intenzionato a ripartire.

 

Ma lei vi posò sopra la sua, ancora gelida, bloccandolo - non che quella di Calogiuri fosse molto più calda.

 

“Bevi. È un ordine!” gli intimò con un sorriso, passandogli il thermos e guadagnandosi uno sguardo divertito ed esasperato di rimando.

 

Rimasero per un po’ così, a bere in silenzio, finché l’ultima goccia di camomilla le finì nello stomaco.

 

“Va un po’ meglio?”

 

“Più o meno…” sospirò, posando il thermos e, quasi automaticamente, allungando la mano destra per accarezzargli una guancia, “grazie, Calogiuri. E non solo perché senza di te a quest’ora starei in ospedale ma… ma per tutto il resto.”

 

Lui si limitò ad un sorriso malinconico ma pieno di affetto e, nel giro di pochi secondi, si ritrovò a slacciarsi la cintura e ad abbracciarselo forte, come avrebbe voluto fare da ore.

 

E finalmente il gelo se ne andò del tutto, sostituito da quel calore che trovava solo tra le braccia del maresciallo, che nemmeno cento thermos pieni di camomilla bollente avrebbero potuto eguagliare.

 

Non avrebbe saputo quantificare per quanto tempo durò quell’abbraccio ma, ad un certo punto, lo sentì sussurrare, quasi come se gli fosse sfuggito, “vorrei…”

 

Non le serviva che dicesse altro, per capire cosa intendeva. Perché era quello che desiderava anche lei in quel momento, più di ogni altra cosa: di restare così il più a lungo possibile, anche tutta la notte, di stare con lui fino al mattino, senza doversi staccare. E non solo per fare l’amore, che in quel momento era l’ultimo dei suoi pensieri, nonostante l’elettricità innegabile nell’aria, ma semplicemente per esserci l’uno per l’altra, per quel conforto che si prova ad essere con qualcuno che ti capisce, ti capisce davvero, fino in fondo, senza bisogno di parole.

 

Si staccò lievemente e gli prese il viso tra le mani, attendendo che lui aprisse gli occhi, con uno di quegli sguardi così carichi di malinconia e affetto che un giorno l’avrebbero mandata al creatore, prima di pronunciare, con tono deciso, “lo so, Calogiuri. E lo vorrei anch’io, non sai quanto. Ma… ma ti prometto che troverò un momento tutto per noi, in un modo o nell’altro, presto. Nonostante i cellulari e… e tutto il resto.”

 

Lo sapeva che era una promessa pericolosa da fare, perché non dipendeva solo da lei, ma in quel momento sentì che avrebbe smosso mari e montagne e fatto qualsiasi follia per riuscirci.

 

Calogiuri le sorrise, uno di quei sorrisi pieni, ampi e senza riserve, così rari nel mondo in cui viveva e per questo preziosissimi per lei. Ma poi, quella traccia di preoccupazione gli si fece di nuovo largo negli occhi ed aggiunse, in un sussurro, “a me basta che tu stia bene.”

 

Gli occhi le bruciarono maledettamente e se lo strinse nuovamente, mentre si imponeva di trattenere le lacrime, sia per tutto quell’amore incondizionato e terribilmente immeritato, sia perché quella, purtroppo, era una promessa che proprio non poteva fargli.

 

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Chiuse la porta d’ingresso con tutta la delicatezza di cui non era capace. Levò i tacchi e, in punta di piedi, raggiunse la camera da letto, facendo giusto una sosta per sbirciare nella camera di Valentina ed accertarsi che la figlia fosse rientrata.

 

Scivolò, quatta quatta, fino in bagno per levarsi di dosso i vestiti ed infilarsi la camicia da notte. E lì intravide, nel cestone dei panni sporchi, pure in penombra, il suo completo ormai rovinato e che avrebbe dovuto buttare quanto prima.

 

Sentì un peso sullo stomaco ed una nuova coltellata di senso di colpa. Perché la verità era che se ne era quasi scordata, che le sembrava improvvisamente che fosse passata una vita dalla serata con Pietro.

 

Era assurdo, ma quando stava con Calogiuri era come se si scordasse di tutto, come se tutto il resto del mondo, del suo mondo, sparisse e rimanesse solo lui, solo loro due. E questo già normalmente, figuriamoci dopo quello che era successo al Vallone della Femmina.

 

Con quella cappa opprimente ancora addosso, si infilò a letto, tirando un sospiro di sollievo quando Pietro non diede alcun cenno di risvegliarsi ma continuò a dormire.

 

Il sonno per lei, invece, restò solo un miraggio finché, quando l’orologio sul comodino segnava già le cinque, la stanchezza la costrinse ad una resa forzata, seppur tormentata da incubi che al mattino non seppe ricordare.

 

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“Dottoressa… la aspettavo.”

 

Gli occhi azzurrissimi di Domenico Bruno la guardarono, stanchi ed invecchiati di almeno dieci anni dall’ultima volta che li aveva visti, al processo per direttissima con il quale si era beccato dieci anni di reclusione. Il minimo della pena, come da sua richiesta.

 

Ma, per un uomo di quell’età, potevano significare l’ergastolo, e lo sapevano benissimo entrambi.

 

Non aveva idea di come l’architetto potesse sapere che sarebbe andata a trovarlo in carcere, ma di una cosa era certa: l’ergastolo peggiore lo stava scontando negli ultimi giorni e non era solo per il regime carcerario che appariva tanto invecchiato.

 

Imma si sedette all’altro capo del tavolo della sala per i colloqui riservati, mentre Calogiuri rimase in piedi accanto a lei. Non che Bruno rappresentasse un pericolo, tutt’altro, ma per una questione di rispetto delle formalità.

 

Bruno squadrò il maresciallo con sguardo interrogativo ed Imma si ricordò che Calogiuri era già a Roma quando Bruno venne arrestato.

 

“Il maresciallo Ippazio Calogiuri. Sta seguendo con me le indagini.”

 

Non c’era nemmeno bisogno di specificare quali indagini.

 

“Ci siamo… ci siamo incontrati brevemente a Roma, architetto. All’aeroporto.”

 

“Mi sembrava avesse un viso familiare, maresciallo,” confermò l’anziano, tornando poi a rivolgere tutta la sua attenzione ad Imma.

 

“Come… come mai mi aspettava, architetto?”

 

“Per via di Giulio,” espresse a voce bassa, che si spezzò nel pronunciare il nome del figlio, “immaginavo che sarebbe venuta per farmi qualche domanda. Ma temo non potrò esserle di aiuto, purtroppo, come non lo sono stato a mio figlio, del resto.”

 

“Architetto, io-”

 

“Lo so cosa stanno scrivendo i giornali, dottoressa. Ma non è colpa sua. Se c’è qualcuno responsabile della morte di Giulio, sono io,” ammise, con un sospiro che sembrò contenere in sé tutto il peso del mondo, “che esempio ho dato a mio figlio? Quello di una vita di menzogne e sotterfugi. Di apparenze e inganni. Di una famiglia senza amore, di un padre assente, che preferiva essere ovunque tranne che in casa. Non ci sono stato abbastanza dottoressa, e quando ci sono stato ho fatto solo danni. E poi… e poi la mia ultima lezione è stata quella di fuggire dai problemi, di scappare invece che affrontarli e-”

 

La voce gli si spezzò definitivamente, in un colpo di tosse. Calogiuri produsse un bicchiere d’acqua e glielo porse, rivolgendole poi un’occhiata, come a chiederle se ne volesse anche a lei. Imma scosse il capo, sebbene sentisse la gola secca, oltre che gli occhi lucidi.

 

“Ma l’ambizione… l’ambizione, dottoressa, quella non so proprio da chi l’avesse presa. La voglia di denaro, a qualunque costo, a costo della salute di centinaia di persone. Io non-”

 

Esplose in un altro colpo di tosse ed Imma gli posò una mano sul braccio, come per dirgli di smettere di parlare.

 

“Architetto… voglio che lei sappia che le circostanze della morte di suo figlio non sono tuttora chiare. Quindi, prima di pensare ai sensi di colpa, aspetti che vengano accertate, va bene?”

 

“Lei… lei intende dire che mio figlio potrebbe non essersi suicidato?!” domandò Bruno, con un tono fin troppo alto, un misto di sollievo e di disperazione e poi di rabbia che gli passarono sul volto.

 

“Le sto soltanto dicendo che ci sono dei punti ancora oscuri. Se si tratti di suicidio o meno lo accerteremo. Sicuramente suo figlio non può aver compiuto quel gesto, in quel luogo, senza l’aiuto di qualcuno. Quanto sia stato… incisivo questo aiuto, resta da chiarire, architetto,” spiegò, vedendo l’uomo riprendere vita ed energia davanti ai suoi occhi, come se avesse un nuovo scopo per cui lottare, “e ho bisogno di farle qualche domanda proprio per mettere insieme alcuni elementi importanti. Lei ha visto suo figlio di recente, architetto?”

 

“Sì, dottoressa. Due settimane fa. Era la prima volta che lo vedevo da… da quando sono rientrato in Italia. La prima e l’unica. Forse avrei dovuto capire già da questo che… che qualcosa non andava. Mi disse che… che avevo avuto ragione sul suo progetto del Giardino, che si era messo in qualcosa di più grande di lui ma che ormai era troppo tardi per uscirne. Che gli dispiaceva di aver coinvolto Santino per minacciarmi e che fossi finito in carcere per difendermi da lui. E mi disse che, anche se non mi avrebbe mai potuto perdonare per aver mentito a sua madre per tutti quegli anni, che capiva perché mi ero sentito costretto a farlo. Le sue ultime parole non me le scorderò mai, dottoressa.”

 

“Cioè?” lo incitò, dopo qualche attimo di silenzio.

 

“Mi disse: papà, Matera sembra immobile, piantata a terra, sempre uguale, come i sassi. Ma sotto i sassi è piena di serpenti, invisibili, che si muovono nell’ombra, tra i cunicoli. E tu pensi di conoscerla come le tue tasche, pensi di avere il potere, pensi di avere il controllo, finché non te li ritrovi dentro casa, alla gola, ed è troppo tardi.

 

Imma sentì un brivido: nella sua mente poteva quasi udirli i serpenti, sibilare nell’ombra, agli angoli della stanza, pronti a colpire. Incrociò lo sguardo di Calogiuri e capì di non essere l’unica ad avvertire il bisogno improvviso di una boccata d’aria.

 

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“Dottoressa Tataranni! Dottoressa! Una dichiarazione!!”

 

Rimpianse immediatamente di aver desiderato l’aria aperta perché, non appena riemersero dal cancello dell’istituto penitenziario, si ritrovarono circondati da Zazza e da altri giornalisti.

 

Qualcuno doveva avere fatto una soffiata sulla sua presenza in carcere. Avevano già tentato l’assalto davanti alla procura praticamente ogni giorno da quando era stato ritrovato il cadavere nel Vallone, ma si erano dovuti arrendere di fronte al cordone di polizia che Vitali aveva predisposto per bloccarli.

 

“Dottoressa Tataranni! Si è recata a far visita a Domenico Bruno perché si sente in colpa per la morte del figlio?”

 

“Dottoressa Tataranni! È vero che Giulio Bruno l’ha accusata di averlo spinto al suicidio, in un biglietto che è stato rinvenuto sul suo cadavere?”

 

“Dottoressa Tataranni! Quello di Bruno è il terzo suicidio in un anno di sospettati coinvolti nelle sue indagini. Come risponde a chi l’accusa di essere Il Boia di Matera?”

 

Pure l’upgrade del titolo le avevano fatto nell’ultimo anno. E, ovviamente, chi se non Zazza poteva sbatterglielo in faccia in quel modo?

 

Si sentì soffocare, presa letteralmente d’assalto da tutti i lati, un senso di panico che le montava, stringendole la gola che altro che i serpenti.

 

“La dottoressa non intende rilasciare alcuna dichiarazione! Fateci passare!”

 

La voce di Calogiuri risuonò sopra quelle dei giornalisti, mentre si frapponeva fisicamente tra lei e la folla per farle da scudo meglio che poteva, essendo da solo, tenendo entrambe le braccia tese per mantenerli a distanza.

 

I flash la accecarono comunque e ci volle un tempo che le sembrò infinito per riuscire a divincolarsi da in mezzo alla folla e guadagnare la macchina di servizio. Fece appena in tempo ad allacciare la cintura che Calogiuri partì a razzo, prima che i giornalisti potessero assediare anche l’automobile, con una velocità a cui perfino Matarazzo avrebbe faticato a stare dietro.

 

Rimase attaccata alla portiera, per evitare gli sbandamenti, fino che, dopo parecchi chilometri e svariate deviazioni, Calogiuri finalmente rallentò la corsa, accertatosi definitivamente che non li seguisse nessuno.

 

Imma tirò un sospiro di sollievo ma, non appena finì l’effetto dell’adrenalina, venne assalita a tradimento da un’ondata di tristezza e da una voglia irrefrenabile di piangere.

 

Si affrettò a guardare fuori dal finestrino, sperando che Calogiuri non notasse il suo stato d’animo. Non voleva farlo preoccupare ulteriormente. Non fosse stato quasi novembre, avrebbe estratto gli occhiali da sole, ma con le nuvole a coprire il cielo ed una giornata tanto grigia, era impossibile farlo senza che fosse inequivocabilmente chiaro il motivo.

 

Si avvide appena in tempo dal finestrino che la murgia intorno a loro scorreva sempre meno rapidamente, finché l’auto si fermò del tutto.

 

“Dottoressa…” la voce di Calogiuri la fece sospirare, quel dolore dolce che le premeva sul petto, le prime lacrime bastarde che se ne scivolarono sulle guance, “tutto bene?”

 

Non rispose, perché farlo avrebbe fatto tracimare del tutto la diga e non voleva mostrarsi tanto fragile. Era lei la superiore in grado, doveva essere lei a fargli forza. E invece ultimamente toccava sempre a lui sostenerla e non era giusto.

 

“Imma…”

 

Una parola, due sillabe, una mano sulla spalla e fu la fine: si ritrovò con le guance allagate, il corpo scosso da singhiozzi che le scappavano a tradimento dalla gola.

 

Udì la sua stessa cintura sganciarsi alle sue spalle e si ritrovò avvolta in un abbraccio fortissimo, nel quale si rifugiò senza opporre più alcuna resistenza.

 

E quell’assurdo senso di pace cominciò piano piano ad erodere via il dolore, il senso di colpa, la rabbia, la paura, mentre si lasciava andare tra quelle braccia che le accarezzavano la schiena e i capelli, su quel petto il cui cuore sentiva battere all’impazzata nell’orecchio.

 

“Non è colpa tua, hai capito? Non è colpa tua,” si sentì sussurrare all’orecchio, tra una carezza e l’altra, “e lo dimostreremo, vedrai.”

 

“Vorrei… vorrei crederci, Calogiuri, ma-”

 

“Ma hai sentito cosa ha detto Bruno, no? I sassi, i serpenti…” la interruppe, prendendole il viso per portarla a guardarlo negli occhi, “era di quello che aveva paura. E non siamo noi i serpenti.”

 

“Lo so! Ma saperlo è una cosa, dimostrarlo è un’altra, Calogiuri,” sospirò, ripensando ai pochissimi elementi che avevano in mano fino a quel momento, e che le si confondevano pure nella mente, come in una specie di caleidoscopio.

 

“Ma ce la faremo, ce la farai. Come ce l’hai sempre fatta da quando ti conosco. E ti prometto che, nel mio piccolo, farò tutto quello che posso per aiutarti,” proclamò con una decisione tale che le venne fin troppo facile credergli, per quanto fosse assurdo ed irrazionale farlo.

 

Ma con Calogiuri ormai la razionalità era da mo che se n’era andata a farsi benedire.

 

“Tu fai già fin troppo, Calogiuri. Fin troppo,” ribadì, sorridendogli mentre lui le asciugava le ultime lacrime dalle guance, stringendoselo poi in un altro abbraccio, più forte che poteva.

 

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“Amò...ti ho vista al telegiornale… fuori dal carcere…” esordì Pietro, con uno sguardo carico di apprensione, non appena ebbe messo piede dentro casa, “come stai?”

 

Fu assalita da due sentimenti contrastanti: il senso di colpa da un lato, l’esasperazione dall’altro. Non voleva ripensarci, non voleva tornare in argomento, non proprio ora che si era finalmente calmata. Ma vedeva benissimo la preoccupazione di Pietro e questo alimentava ancora di più il senso di colpa.

 

“Tranquillo, Pietro, sto bene, veramente,” lo rassicurò, ed era pure la verità, sperando che questo bastasse a esaurire l’argomento.

 

“Mamma, mamma, come stai?”

 

Si ritrovò stritolata tra le braccia della figlia, dotate di una forza inattesa - sarà tutto quell’impastare? - e questo le fece tornare una botta di commozione ed un paio di lacrime le rigarono le guance ma, questa volta, di gioia.

 

Per lei ogni dimostrazione spontanea di affetto di Valentina era sempre un mezzo miracolo, specialmente da quando era entrata nell’età dell’adolescenza.

 

“Tranquilla, sto bene. Soprattutto adesso,” le sorrise, abbracciandosela nuovamente, almeno fino a che la figlia iniziò a divincolarsi, proclamando che le si bruciava il sugo d’arrosto per la cena.

 

“Ha cucinato tutto lei,” le spiegò con orgoglio Pietro, avvicinandosi e passandole un braccio intorno alle spalle.

 

Imma si sforzò di sorridergli e di non irrigidirsi di nuovo per via degli stramaledetti sensi di colpa.

 

Cenarono in relativo silenzio, Imma si scoprì ad avere anche un appetito tutto sommato accettabile, considerate le circostanze.

 

Erano all’immancabile caffè, quando Valentina si scambiò uno sguardo complice col padre e sganciò la bomba.

 

“Mamma, Samuel mi ha invitato ad andare a Bra da lui per il ponte del primo novembre,” proclamò Valentina con un sorriso e ad Imma andò di traverso il caffè e pure tutto quello che l’aveva preceduto.

 

“E tu vorresti andare fino in Piemonte da sola? Ci sarà una sfilza di mezzi da cambiare. Sei ancora minorenne, Valentina, scordatelo!”

 

“A parte che tra un mese sarò maggiorenne, mamma, ma-”

 

“Ma Valentina non andrebbe da sola, ovviamente, Imma,” intervenne Pietro con un sorriso, “perché non ci andiamo pure noi? Da quello che ho visto è in una zona bellissima, piena di vigneti, cibo buono, cantine, agriturismi. E siamo pure nella stagione del tartufo. Ci prendiamo quattro giorni di relax e stacchiamo da tutto, che mi sembra che ne abbiamo proprio bisogno, no?”

 

Per la seconda volta quella sera, due sensazioni diametralmente opposte la colpirono dritta in pancia: panico da un lato ed un’inspiegabile eccitazione dall’altra.

 

Il suo cervello ci mise qualche secondo a mettersi a pari col suo istinto e a chiarirle il perché. 

 

Il panico era all’idea di quattro giorni a Bra, sola con Pietro senza distrazioni o quasi - Valentina sarebbe stata sempre appiccicata a Samuel e col cavolo che l’avrebbero vista. In tutto quel tempo, senza interruzioni né fattori esterni, Pietro non avrebbe potuto non accorgersi che qualcosa non andava in lei e, soprattutto, che non aveva affatto a che fare col maxiprocesso o con il suo lavoro.

 

Mentre l’eccitazione…

 

“Pietro,” pronunciò, cercando di mantenere il tono di voce il più calmo e neutro possibile, non che lo fosse mai del tutto, “lo sai che tra poco c’è la prima udienza del maxiprocesso e, con tutto quello che sta succedendo in questi giorni, tra il caso della Val d’Agri e… e quello di Bruno, non mi posso proprio allontanare quattro giorni. Sarebbe da irresponsabili.”

 

Ed era vero, era verissimo e non l’avrebbe mai fatto, nemmeno in circostanze normali. Ma ora…

 

“Mamma, ma io-” iniziò a protestare Valentina, il tono di voce talmente acuto da causarle una fitta in mezzo alla fronte, tanto che si affrettò a bloccarla.

 

“Valentina, non ti ho detto di stare a casa. Andate voi due, no? Così vi godete le vacanze e io… e io mi posso concentrare meglio sul lavoro.”

 

E di nuovo non era una bugia, ma era solo una parte della verità.

 

“Ma amò…” sospirò Pietro, guardandola in un modo tra il deluso e il preoccupato che fu un’altra momentanea coltellata al petto, “ma non voglio lasciarti qui da sola, proprio ora.”

 

“Non ti preoccupare per me, Pietro, veramente, non ce n’è bisogno. E poi non sarò praticamente mai da sola, in ogni caso.”

 

Era la verità, pura e semplice. Sia che non si meritava la preoccupazione di Pietro, affatto, sia che sola non ci sarebbe stata mai, sempre se…

 

Pietro fece un altro sospiro ed annuì, non osando scontentare la figlia, che lo guardava con occhi degni di un cucciolo smarrito. Valentina balzò in piedi e si abbracciò prima lui, ovviamente, ma poi anche Imma, sussurrandole una sfilza di grazie che furono l’ennesima ondata di senso di colpa.

 

Ma ci stava quasi facendo il callo.

 

Quella sera, mentre Pietro suonava ossessivamente la stessa canzone al sassofono e Valentina era in chat con Samuel, per dargli la bella notizia, Imma si chiuse in bagno, aprì al massimo l’acqua della doccia e selezionò il primo numero della lista delle chiamate.

 

“Dottoressa?!” rispose trafelato, dopo appena tre squilli, “è successo qualcosa?! Tutto bene?!”

 

“Tranquillo, tutto bene,” rispose con un tono di voce basso, per non rischiare di farsi sentire sopra al rumore dell’acqua, “ti chiamavo per… per chiederti se hai impegni per il ponte dei santi.”

 

“No… non in particolare, perché?” le domandò, incuriosito.

 

“Perché… avrei bisogno di te per… degli straordinari, se sei disponibile,” rispose con un tono che sperava chiarisse la natura degli straordinari, non volendo dire di più al telefono.

 

“Ma certo, dottoressa! Ve l’ho detto che sono a disposizione. Ma sarà aperta la procura?”

 

A Imma scappò spontanea una mezza risata, che trattenne il più possibile affinché non fosse udibile fuori dal bagno.

 

“Calogiuri, non so se hai capito bene, ma potrei avere bisogno di te tutti e quattro i giorni. E potremmo dover fare anche parecchio tardi. Quindi dovresti tenerti completamente libero. Ti va bene lo stesso?”

 

“Tutti e quattro i giorni?” ripeté Calogiuri dopo un attimo di silenzio, con un tono che le fece capire che, finalmente, il maresciallo aveva capito, eccome se aveva capito.

 

Sembrava il tono di un bimbo a cui hanno appena annunciato che Babbo Natale ha portato dose doppia di regali quell’anno. Ma anche tripla o quadrupla.

 

“Sì,” gli confermò, non potendo trattenersi dal sorridere come una scema.

 

Perché la verità era che pure per Imma questo era un miracolo, un regalo inatteso e quasi sicuramente irripetibile. Che intendeva godersi fino in fondo, senza farselo rovinare né dai sensi di colpa, né da tutti i casini in cui erano immersi.

 

Ingranaggi e serpenti inclusi.

 

Nota dell’autrice: Grazie innanzitutto per aver letto fin qui. Spero che la storia continui ad essere interessante, sono molto in apprensione soprattutto per la gestione del rapporto tra Imma e Pietro, che si sta piano piano sgretolando e spero risulti credibile e non spiacevole da leggere e soprattutto che i personaggi siano in personaggio, ma mi rimetto al vostro parere in proposito.

Visto che il capitolo successivo sta risultando più lungo del previsto inoltre, vi annuncio che almeno per questa settimana, invece della solita pubblicazione settimanale, ci saranno due capitoli. Uno uscirà giovedì e uno domenica, come al solito, e saranno molto rosa, seppur sempre con una componente di giallo (alla fine di questo capitolo c’è un indizio su di cosa tratteranno).

Voglio fare un ringraziamento enorme a tutti coloro che stanno leggendo questa storia e a chi mi ha lasciato o mi lascerà una recensione, che davvero mi sono di super motivazione per continuare a scrivere e, soprattutto, a farlo sempre meglio, correggendo ciò che non va.

Grazie mille ancora e a giovedì col prossimo capitolo!

 

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Capitolo 7
*** La Quotidianità - Parte Prima ***


Nessun Alibi

 

Capitolo 7 - La Quotidianità - Parte Prima


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Imma, se non c’è altro, io andrei, che approfitto del ponte per andare a trovare Cleo a Londra e ho l’aereo stasera.”

 

Diana la squadrava dalla porta tra i loro uffici, con un’espressione che diceva più o meno “azzardati a dirmi che non posso andare e mi lamenterò finché non mi concederai di congedarmi!”. La figlia viveva a Londra ormai da settembre: se ne era innamorata in vacanza e aveva deciso, invece di tornare ed iscriversi all’università in Italia, di fare un corso di lingua lì per poi valutare l’iscrizione ad un’università inglese. Diana ovviamente, legata morbosamente alla figlia com’era, l’aveva presa malissimo ma, forse anche per i sensi di colpa per via della separazione, aveva alla fine acconsentito di buon grado. Ed ora alternava momenti di orgoglio materno, dove dipingeva Cleo come una fine linguista ed una moderna conquistatrice di terre inesplorate - manco fosse stata nella giungla e non in una delle metropoli con più giovani italiani nel mondo - a momenti di scoramento e geremiadi intollerabili.

 

Diana doveva ringraziare che, forse per i sensi di colpa che l’accompagnavano ormai da mesi, Imma si era scoperta un poco più tollerante coi casini del prossimo. Del resto, chi è senza peccato…. E poi, quella sera in particolare, l’idea di uscire dalla procura all’orario giusto, invece che almeno due ore dopo come al suo solito, non dispiaceva nemmeno a lei, affatto.

 

“Va bene, Diana, tanto abbiamo finito per stasera. Salutami tua figlia e fai buon viaggio,” concesse, tornando a concentrarsi sulle carte.

 

Almeno per qualche secondo, perché l’assenza di qualsivoglia rumore la portò a risollevare lo sguardo e ritrovare Diana ancora lì, immobile, che la guardava come se fosse un alieno.

 

“Che c’è ancora? Ti ho detto che puoi andare.”

 

“Appunto, Imma, appunto! Nemmeno una protesta, nemmeno un ultimo fascicolo da riordinare, nemmeno una battuta sui soldi dei contribuenti e sul fatto che manca mezz’ora alla fine del mio orario di lavoro. Niente. Sei sicura di stare bene?”

 

“Diana, se vuoi che ti tenga qui fino all’orario di partenza del volo, non hai che da dirlo. Quindi fai meno la spiritosa e, se vuoi andare, vai, prima che cambi idea,” le intimò, irritata, soprattutto dal fatto che Diana avesse colto benissimo qualcosa che non doveva affatto cogliere. Cioè che non vedesse l’ora di liberarsi di lei, e non solo.

 

“Vado, vado, mamma mia! E fattela una risata ogni tanto, Imma,” sospirò Diana, finendo di chiudere il cappotto ed avviandosi verso la porta d’ingresso dell’ufficio di Imma, dove però si bloccò, sorridendo a Calogiuri, che stava arrivando dalla direzione opposta, “Ippazio, buonasera. Se ha intenzione di andarsene a casa prima, le consiglio di approfittarne ora, che la dottoressa è di animo buono stasera. Pensa di tornare a Grottaminarda?”

 

“No, veramente ho degli impegni qui a Matera,” rispose Calogiuri, con un velo di imbarazzo che Diana sembrò fiutare prontamente, da pettegola innata qual era, spalancando gli occhi e facendo un sorrisetto complice.

 

“Immagino che genere di impegni! Ma fa bene, maresciallo, fa bene: se non vi divertite voi che potete! Buon ponte, Ippazio. Buon ponte, dottoressa, veda di divertirsi anche lei, mi raccomando,” proclamò Diana, girando i tacchi e avviandosi a passo rapido per il corridoio.

 

“Non mancherò, Diana, non mancherò,” le urlò dietro Imma, lanciando uno sguardo eloquente a Calogiuri, che ricambiò con un sorriso imbarazzato.

 

“Dottoressa, andrei anche io, se qui abbiamo finito…” proclamò con un tono in apparenza neutro ma in quello che era di fatto un segnale in codice.

 

“Vai pure, Calogiuri. Tra poco mi avvio anch’io, quindi non ti voglio trattenere oltre dai tuoi impegni. Goditi il ponte, Calogiuri, che te lo sei meritato!” pronunciò di rimando, facendogli l’occhiolino e godendosi il lieve rossore che gli colorò le guance.

 

“Anche voi, dottoressa!” replicò ricambiando l’occhiolino, prima di arrossire ancora di più, voltarsi e sparire nel corridoio.

 

Imma attese precisamente trenta minuti d’orologio, tra i più lunghi della sua vita, poi raccolse tutto e si avviò a passo rapido verso l’uscita.

 

“Imma? Ma vai via puntuale? Una data da segnare sul calendario!” ironizzò la Moliterni, vedendola passare, “ma è vero che spedisci tuo marito e tua figlia a Bra da soli?”

 

“Sì, è vero, Maria, sebbene una convenzione con le poste ancora non ce l’ho, che io sappia, e Pietro e Valentina si muovono tranquillamente sulle loro gambe. Magari potresti farlo presente a mia suocera, la prossima volta che la senti,” ribatté, sarcastica, non perdendo di più la pazienza solo per la prospettiva di cosa la aspettava se si muoveva ad andarsene di lì, “e, sai, a differenza tua, io ho del lavoro da smaltire pure nei prossimi giorni. E l’idea di lavorare in vacanza non mi rattrista, affatto.”

 

“Immagino, Imma. E dimmi, lavorerai da sola o in compagnia?” la punzecchiò Maria ed Imma fece appello su tutto il suo scarso autocontrollo per non mostrare il minimo accenno di panico a quel sottinteso.

 

“Di sicuro non avrò bisogno del REGE nei prossimi quattro giorni, Maria, puoi stare tranquilla,” replicò, prima di aggiungere, volutamente strafottente, “se invece ti riferisci, come sempre del resto, a Calogiuri, se avrò occasione di vederlo non mancherò di portargli i tuoi saluti. Ma credo abbia di meglio da fare che lavorare questo fine settimana.”

 

“Non lo metto in dubbio, Imma, non lo metto in dubbio,” proclamò la Moliterni, con un sorrisetto divertito, prima di aggiungere, con un tono a dir poco malizioso, "allora goditi il weekend da single, Imma, tu che puoi."

 

"Weekend da single?" domandò una voce maschile alle loro spalle ed Imma si girò e si trovò Vitali, che la squadrava incuriosito. 

 

"Semplicemente rimarrò a Matera per portarmi avanti col lavoro, dottor Vitali, invece che andarmene da qualche parte in vacanza."

 

"Dottoressa, si ricordi cosa le ho detto sull'uomo che è uccel di bosco. E mi auguro di non vederla in procura fino a lunedì, non che mi troverebbe qui in ogni caso."

 

"Dottore, direbbe mai lo stesso ad un mio collega uomo? Che la moglie, se non becca in casa…" non poté trattenersi dal ribattere, sebbene l'argomento fosse quantomai pericoloso. Ma, se ai primi incontri tra loro aveva glissato, era arrivata alla saturazione di tollerare queste battute maschiliste.

 

"Dottoressa, ma che c'entra! Voi donne siete meno istintive di noi uomini, siete-"

 

"Dottor Vitali, le rivelo una notizia che la sconvolgerà: anche noi donne abbiamo degli istinti che funzionano perfettamente e ci piace beccare tanto quanto a voi uomini. Solo che non è l'unico nostro pensiero, essendo in grado di fare anche più cose contemporaneamente. Ma le facciamo dottore, le facciamo tutte benissimo. Quindi rimando la sua premura al mittente e la invito ad essere meno altruista nella sua preoccupazione e più egoista. Buon ponte a lei e signora!"

 

Si voltò e scese le scale pestando consapevolmente sui tacchi. Era quasi arrivata in fondo prima di sentire Vitali urlare il suo nome insieme a proclami sul fatto che l'avrebbe fatto uscire pazzo, più un commento rivolto alla Moliterni su quanto il carattere della Tataranni fosse insopportabile.

 

La curiosità di attendere la replica di Maria svanì in cinque secondi netti ed imboccò il portone della procura con un solo pensiero in mente, nonostante la sua innata abilità nel multitasking.

 

Aveva decisamente molto di meglio da fare.

 

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Stiamo per decollare. Ti mandiamo un messaggio quando atterriamo. Ti amo <3

 

Il messaggio di Pietro le fece tirare un sospiro di sollievo e si affretto a rispondere con un più laconico “buon viaggio!”, corredato da un cuore che la fece sentire un po’ ridicola, ma sperava compensasse l’assenza di quelle due paroline che, nel luogo dove si trovava, le sue dita si rifiutavano di comporre, giacché le sarebbero sembrate una presa per il culo.

 

L’ascensore smise di rumoreggiare e si fermò con il solito cicalino. Spiò che il pianerottolo fosse libero e si fiondò verso la porta alla sua destra, dove l’attendeva un sorriso smagliante che, ne era certa, era lo specchio del suo.

 

“Dammi pure il cappotto, il borsone l’ho già messo in camera,” offrì Calogiuri, non appena la porta fu chiusa a chiave alle loro spalle, porgendole entrambe le mani.

 

Gli aveva mollato il bagaglio sull’auto di servizio già quella mattina, per evitare di portarselo in giro a piedi per Matera e rischiare di dare ancora più nell’occhio.

 

Si voltò e gli permise di aiutarla a sfilare il cappotto marrone - l’aria ormai era troppo frizzante anche per il soprabito - e, nell’afferrarlo per il bavero, le dita di Calogiuri le sfiorarono il collo, generando una scossa talmente forte da lasciarla per un attimo col fiato corto.

 

Dopo quasi un mese di rapporto forzatamente platonico, la fiamma era diventata lava incandescente e non poteva essere contenuta un secondo di più.

 

Girò sui tacchi di scatto, incontrando lo sguardo stupito di lui, preso in contropiede, il cappotto ancora in mano, teso tra le dita come fosse un torero pronto alla corrida.


Ed Imma gli si buttò addosso con una foga che nemmeno il toro avrebbe saputo eguagliare, prendendogli il viso tra le mani e baciandoselo famelica. Tanto che Calogiuri caracollò all'indietro fino a trovarsi con le spalle al muro, il cappotto che gli cascò dalle mani e finì a terra, letteralmente tra i piedi, finché Imma lo calciò via senza alcun rimpianto.

 

Gli infilò le mani sotto al maglione e lo sentì tremare e poi riscuotersi di colpo, agguantandola per la vita, sollevandole il pullover rosso - che finalmente dopo mesi vedeva compiuto il suo destino onirico - e tracciandole scie bollenti su pancia e schiena, fino ad avventarsi quasi con disperazione sulla chiusura del reggiseno.

 

E lei poteva forse rimanersene con le mani in mano? Ma certo che no! Gli aprì cintura e pantaloni con una rapidità che manco Arturo Brachetti in un suo spettacolo, proprio mentre Calogiuri con un'esclamazione di frustrazione gettava la spugna e le sollevava sommariamente il reggiseno, le labbra che non si mollavano per un secondo.

 

Si sentì spingere all'indietro e dovette concedere le armi e il controllo. Fu sollevata di peso, le gambe che gli si allacciarono alla vita, poco prima di ritrovarsi inchiodata al muro dell'ingresso, tra una giacca di pelle ed un cappotto, pur mentre con un braccio le proteggeva la testa. Ed il contrasto meraviglioso ed impossibile tra la passione, l'irruenza da un lato e la cura di gesti come quello, le fece perdere definitivamente la poca inibizione rimasta.

 

"Veloce, Calogiuri," gli soffiò in un orecchio, prima di aggiungere con una mezza risata, in un ultimo lampo di lucidità, "ma non troppo!"

 

Calogiuri divenne dello stesso colore del famigerato maglione, o quasi, ma, nel giro di un secondo, sollevò lo sguardo e la squadrò in un modo talmente intenso e viscerale da fulminarla, letteralmente.

 

E poi le obbedì, avventandosi sulle sue labbra a contenere il primo dei tanti gridi soffocati di quella sera. E fu tutto davvero veloce e forte e irruento e folle e travolgente, finché si ritrovò ansimante, la lana blu del collo del maglione tra i denti, nel tentativo estremo di contenere un urlo che avrebbe fatto andare di traverso la cena a mezzo condominio.

 

Almeno stavolta mi sono evitata il vampirismo!

 

Aspettò che pure lui riprendesse fiato - in che modo potesse riuscirci reggendola ancora come se fosse fatta di piume, era un mistero irrisolvibile pure per lei - e che due occhi azzurri, mai tanto scuri, incrociassero i suoi.

 

E quella volta Calogiuri non si scusò - imparava in fretta il ragazzo, come sempre, e la conosceva ormai molto bene - ma le sorrise con quella timidezza adorabile quanto inspiegabile e la baciò con una dolcezza che le provocò nuovamente quel senso di calore al petto e agli occhi.

 

"Portami a letto," gli ordinò con una tenerezza nella voce che stentava a riconoscere, abbracciandoselo stretto, per poi lasciarsi andare completamente tra le sue braccia, sorridendo di quel “agli ordini dottoressa!”, sussurratole all’orecchio.

 

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Un rumore simile ad un ruggito la ridestò dal mezzo dormiveglia in cui si trovava mollemente adagiata. Si rese conto che proveniva da poco più in basso del suo orecchio.

 

Alzò il viso e gli occhi, divertita, e le bastò uno sguardo al malcelato imbarazzo di Calogiuri per avere conferma dei suoi sospetti.

 

“Hai fame, Calogiù?” gli domandò divertita, adocchiando l’orologio sul comodino e prendendosi quasi un colpo, “le ventitrè? Ci credo che hai fame!”

 

Proprio in quel momento, pure il suo stomaco decise che era giunta l’ora di entrare in sciopero, rumoreggiando smodatamente.

 

E fu il turno di Calogiuri di ridere, mettendosi a sedere e proponendo “ti va una spaghettata di quasi mezzanotte?”

 

“Il famoso spaghetto dell’appuntato?” lo punzecchiò, ammirandoselo mentre si infilava una felpa con zip ed un paio di pantaloni coordinati, riposti con fin troppa cura su una sedia vicino al letto.

 

“Non ho il basilico fresco, né pomodori abbastanza maturi,” sospirò lui, divertito, avviandosi verso la porta.

 

“Il destino congiura proprio contro questo piatto, Calogiuri.”

 

“Aglio, olio e peperoncino?” le domandò, giunto sull’uscio, “se non ti dà fastidio l’aglio, ovviamente.”

 

“No, tanto se ce lo mangiamo entrambi non è un problema. A meno che tu abbia in programma di baciare qualcun’altra nelle prossime ore, Calogiù.”

 

“Non dirlo nemmeno per scherzo! E poi fatico già a stare dietro a te!” proclamò con un sorriso, facendole l’occhiolino, arrossendo leggermente e sparendo dietro la porta.

 

Imma si stiracchiò, con un sorriso soddisfatto, abbondantemente soddisfatto dopo la maratona delle ultime ore e si guardò intorno, indugiando prima sul suo borsone ma venendo poi tentata dal maglione blu abbandonato sul pavimento.

 

Se lo infilò come se fosse un vestito - le arrivava giusto giusto a metà coscia - recuperò le sue amate ciabatte leopardate dal bagaglio e si avviò a raggiungere lo chef in cucina.

 

Aveva quasi sorpassato il divano quando si avvide del suo cappotto e, soprattutto, della sua borsa, dimenticati a terra all’ingresso. Quei tre mesi di relazione clandestina almeno una cosa gliel’avevano insegnata e si affrettò a recuperare il cellulare, prima che fosse troppo tardi, se già non lo era.

 

Ed infatti la attendeva una sequela di messaggi che annunciavano l’arrivo a Caselle e poi, appena cinque minuti prima, quello a Bra, con tanto di foto della coppietta felice riunita.

 

Scusami ma ero già a letto e non ho sentito il telefono. Buonanotte e salutatemi Samuel!

 

Non era esattamente una bugia, anzi, ma ciò non attenuò il senso di colpa all’invio del messaggio.

 

Tranquilla, amò, riposati, buonanotte <3

 

Imma ignorò l’ennesima coltellata allo stomaco, chiuse il telefono, anche se non lo spense - dimenticarselo staccato una volta le era bastato - e lanciò un’occhiata colpevole verso Calogiuri, che però sembrava concentrato sulla pasta. Depositò il cellulare sulla tavola, apparecchiata in modo semplice ma con cura. Era ormai a pochi passi da lui quando, improvvisamente, il maresciallo si voltò e la squadrò in un modo che le fece rivalutare seriamente l’ipotesi del digiuno - ma non dell’astinenza.

 

“Sei… sei bellissima,” proclamò in quel modo dannatamente sincero, guardandola come se fosse un miracolo piovuto dal cielo ed Imma si sentì avvampare, le gambe tremolanti, mentre la sicurezza in se stessa raggiungeva i massimi picchi storici, dopo l’incremento costante degli ultimi mesi.

 

“Stupenda, proprio!” si schernì, non potendo però trattenere un sorriso grato, “se io sono bellissima, tu cosa sei?”

 

“Molto fortunato,” rispose semplicemente, con un mezzo sorriso, ed Imma si ritrovò a tradimento con gli occhi lucidi ed una voglia incontenibile di abbracciarlo.

 

Che infatti non contenne.

 

“Sono io ad essere fortunata,” gli sussurrò, pensando che fosse la fortuna più immeritata del mondo, ma di cui sarebbe per sempre stata grata.

 

Che Calogiuri l’avrebbe vista come una disgrazia un giorno, invece, non si sentiva affatto di escluderlo, ma non poteva certo dirglielo.

 

Proprio in quel momento suonò il timer e ne approfittò per un ironico, “veloce, Calogiuri, prima che si scuociano!”, che le valse un pizzicotto ad un fianco ed un sorriso divertito.

 

Lo osservò mentre saltava la pasta con una precisione encomiabile e gli porse i piatti, spostando di proposito sedia, bicchieri e posate per sedergli accanto e non all’altro capo del tavolo, distruggendo senza rimpianti l’armonia perfetta della tavola con il caos che era il suo marchio di fabbrica.

 

Ma a Calogiuri il caos piaceva, in fondo, eccome se piaceva, infatti non fece obiezioni, anzi, dopo un attimo di esitazione si sentì trascinare, insieme alla sedia, ancora più vicina a lui, praticamente fianco a fianco.

 

Mangiarono in silenzio, voracemente, scambiandosi qualche sguardo fugace, che lasciava trasparire l’impazienza di tornare ad altro genere di consumazione, non appena avessero ripreso le energie. Non che la pasta non fosse ottima, ma nemmeno uno chef stellato avrebbe retto il confronto con il tipo di dessert che aveva in mente.

 

Ad un certo punto però lo trovò a fissarla come incantato, quasi fosse perso nei suoi pensieri. Allungò la mano sinistra per toccargli una spalla e gli chiese, “che c’è?”

 

“Niente… è che… quasi non mi pare ancora vero che… che possiamo stare così per quattro giorni,” sussurrò, come se avesse paura che fosse un miraggio che potesse svanire al solo pronunciarlo ad alta voce. Ed Imma lo capiva, eccome se lo capiva, perfettamente, perché anche a lei sembrava ancora un sogno impossibile.

 

Mollò gli ultimi spaghetti e se lo strinse più forte che poteva, finendogli praticamente in braccio. E Calogiuri ricambiò, inizialmente in modo dolce, tenero, finché lo sentì quasi sobbalzare e prendere aria, staccandosi lievemente per guardarla negli occhi, sbigottito, paonazzo come non l’aveva forse mai visto.

 

“Ma sei…” sussurrò, incredulo, ed Imma non potè evitare di scoppiare a ridere, capendo al volo che Calogiuri avesse notato che, oltre al maglione, non si era preoccupata di indossare nient’altro.

 

La risata le si bloccò in gola quando l'espressione di lui mutò improvvisamente, facendosi quasi ferale. In un battito di ciglia si ritrovò trascinata in un bacio disperato, le mani che si insinuavano senza inibizioni sotto il pullover, facendola andare completamente in tilt.

 

Gli ultimi pensieri più o meno coerenti furono una benedizione all’inventore degli elastici quando, con uno strattone, lo liberò dai pantaloni della tuta, insieme ad una preghiera che la sedia - dal nome sicuramente svedese ed assolutamente impronunciabile - fosse sufficientemente resistente.

 

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Un profumo di caffè e due dita che le sfioravano delicatamente il braccio, ricoprendolo di pelle d’oca, la portarono ad aprire gli occhi, intontita - anzi, proprio rincoglionita - come non si era forse mai sentita.

 

Gli occhi azzurri che la guardavano in apprensione la ridestarono del tutto, mentre una fitta di mal di testa la colpì in mezzo alla fronte, insieme alla sensazione di aver dormito troppo.

 

“Ti ho preparato la colazione,” le sussurrò con quella delicatezza toccante, indicando prima il vassoio e poi l’orologio sul comodino, “mi spiaceva svegliarti, ma…”

 

“Ma che ore sono?” bofonchiò, mettendo finalmente a fuoco il display e realizzando, con un moto di imbarazzo, che segnava le tredici.

 

Si erano addormentati verso le quattro del mattino e, complice anche la sua difficoltà a dormire bene delle ultime settimane, ecco il risultato.

 

“Ormai più che la colazione è il pranzo, Calogiuri,” ironizzò, tirandosi a sedere, nonostante la testa che girava, “hai fatto bene a svegliarmi, anzi, potevi farlo pure prima. Hai già mangiato?”

 

Lui, prevedibilmente, scosse il capo e lei si sporse per accarezzargli il viso e passargli una mano tra i capelli, “non ti dovevi affamare per aspettarmi. E grazie per la colazione.”

 

“E va beh… che fa,” le rispose con uno di quei suoi sorrisi timidi, afferrando il vassoio e posandoglielo con delicatezza sulle gambe.

 

Si divorò il bombolone alla crema e, al primo sorso di caffelatte, quel pizzicore agli occhi tornò prepotente, quando si rese conto che era preparato esattamente come lo prendeva di solito: perfino la quantità di zucchero si era ricordato, dopo più di due mesi e due sole colazioni casalinghe insieme.

 

Si sporse per posargli un bacio lieve sulle labbra che sapevano di brioche e marmellata d’arance e continuarono a mangiare in silenzio, sorridendosi di tanto in tanto.

 

“Che vuoi fare oggi?” le domandò, dopo l’ultimo sorso di caffelatte.

 

“Se fosse per me, non mi muoverei da questo letto,” ammise, godendosi il colore rosato che gli risalì il collo, “ma forse, se ti va, dovremmo davvero portarci avanti col lavoro e fare il punto delle indagini, almeno per qualche ora.”

 

Sì, era il giorno dei santi. Ma lei di santi in paradiso non ne aveva e la prima udienza del maxiprocesso era da lì a poco più di una settimana.

 

“Una cosa non esclude l’altra,” ribatté lui con un sorrisetto, liberandola dal vassoio e sparendo dietro la porta con un, “aspettami qui, torno subito.”

 

“Che mi dai pure gli ordini mo, Calogiuri?” gli urlò dietro, divertita, e lo sentì ridere dall’altra stanza.

 

Tornò dopo poco con un laptop dall’aria un po’ scassata ed una shopper di una nota marca di caffè - che tempo addietro il bar della procura aveva appioppato un po’ a tutti i clienti, lei compresa - stipata di faldoni, affrettandosi a precisare che ovviamente erano tutte copie degli originali che stavano in procura.

 

La commozione raggiunse il livello di guardia e rimase ammutolita a guardarselo mentre li disponeva sul piumone, come se fosse la cosa più naturale del mondo, per poi infilarsi sotto le coperte, accanto a lei, e bloccarsi un attimo, sembrando nuovamente in imbarazzo.

 

Imma seguì l’occhiata di lui e si rese conto di essere ancora nuda e che il lenzuolo si era spostato fino a scoprirle quasi il seno.

 

“Ho capito, Calogiù: è meglio che mi rivesto prima che non combiniamo più niente,” lo punzecchiò, non facendo però niente per coprirsi mentre raggiungeva il borsone e ne estraeva una camicia da notte ed un golfino. Un sorriso compiaciuto le si disegnò sulle labbra quando si voltò, dopo averli indossati alla bell’e meglio e lo beccò con quello sguardo carico di desiderio, il collo sempre più arrossato, il petto che gli si sollevava in maniera un po’ troppo pronunciata sotto la felpa, che manco dopo una corsa.

 

Tornò senza fretta sotto le coperte, chiedendosi se i faldoni si sarebbero salvati dal finire a terra di lì a breve, ma Calogiuri dimostrò un autocontrollo considerevole - per fortuna o purtroppo - e si piazzò il computer sulle gambe con un po’ troppa foga, iniziando a digitare rapidamente, aprendo una cartella che conteneva i documenti e gli appunti sul caso.

 

“Da dove vuoi partire?” le chiese, evitando però ancora di guardarla e strappandole un altro sorriso.

 

“Da Bruno. Ieri pomeriggio è finalmente arrivata la perizia calligrafica, Calogiuri. Non ho fatto in tempo a dirtelo, visto che eri in giro con Matarazzo per il caso Quaratino,” chiarì, anche se la verità era che la sera precedente, quando si erano incrociati in procura, era stata talmente ansiosa di iniziare il ponte, che se n’era praticamente scordata.

 

“E quindi? Che dice?”

 

“Dice che la scrittura è effettivamente di Bruno, purtroppo,” ammise con un sospiro, incrociando finalmente quegli occhi azzurri carichi di preoccupazione, “ma biglietto e busta sono stati scritti con due penne diverse. Il primo con una normale penna a sfera, compatibile con quella ritrovata nella tasca della camicia del cadavere, la seconda con una penna più costosa, una stilografica, di quelle con le cartucce d’inchiostro. E di questa penna invece sul cadavere non c’è traccia.”

 

“Quindi Bruno avrebbe preparato prima la busta e scritto poi il biglietto sul posto? O comunque perché prendersi il disturbo di scriverli prima con due penne diverse? Ma non ha senso!”

 

“No, Calogiuri, non ha senso. Ma c’è chi dirà che gli era finito l’inchiostro dell’altra penna, o che si tratta solo di una coincidenza, quindi abbiamo bisogno di più elementi.”

 

“Beh, ci sono le tracce sul bordo del crepaccio, ritrovate dalla scientifica alla luce del giorno: di un argano che non è né quello usato da Capozza,” disse con una nota di rabbia nella voce che le provocò quello strano senso di calore al petto, “né quello dei vigili del fuoco. Quindi qualcuno deve averlo portato là per aiutare Bruno a calarsi nel crepaccio. O per costringerlo a farlo.”

 

“Esattamente. Il problema resta dimostrarlo, Calogiuri.”

 

“E poi ci sono i residui di polvere da sparo sul cappotto di Bruno, ma non sulle sue mani. Qualcuno potrebbe averlo minacciato con la pistola per portarlo al Vallone contro la sua volontà.”

 

“Già. Il problema è che Bruno frequentava il poligono di tiro, sebbene fossero un paio di settimane che non si faceva vedere. Ma la polvere potrebbe essere rimasta sul cappotto da qualche visita precedente, sebbene sembrasse lavato di fresco, ma non ne abbiamo la certezza. Purtroppo la tintoria a cui si rivolge Bruno non tiene un registro della tipologia di capi lavati e la proprietaria, che è anziana, non ha ricordi di quel cappotto.”

 

“E se fosse stato acquistato di recente?” chiese Calogiuri ed Imma si illuminò per un attimo.

 

“E bravo, Calogiuri, bella idea! Era un cappotto costoso, di ottima fattura. Qui a Matera ci sono solo tre negozi che trattano abbigliamento di quel genere da uomo. Quando torniamo dal ponte, che mo saranno tutti chiusi, vai a farci un giro o ci mandi Matarazzo, che magari con lei si aprono di più,” ordinò con un sorriso, prima di aggiungere, “anche perchè sembrava veramente nuovo, ancora perfettamente stirato e-”

 

Si bloccò improvvisamente, un flash che le passò davanti agli occhi: lei in auto con Calogiuri, al telefono con Pietro, che parlava della cena con sua suocera e la Moliterni, guardandosi gli abiti rovinati dalla…

 

“L’imbragatura, Calogiuri, l’imbragatura!” esclamò con un tono talmente alto che il maresciallo fece quasi un salto, guardandola in modo interrogativo, senza capire, “devi recuperarmi le foto del cadavere e dell’autopsia, Calogiù, subito!”

 

Una ricerca frenetica tra i faldoni e, in quattro e quattr’otto, si ritrovò a far passare immagini. Ed ecco Giulio Bruno, col suo cappotto immacolato e perfetto, troppo. Girò un altro paio di foto e arrivò a quelle sul tavolo autoptico: questa volta il cappotto era stato tolto e rimanevano solo i vestiti. Una spiegazzatura inequivocabile sui pantaloni e, soprattutto, una sulla camicia le fecero scappare un’esclamazione di esultazione dalla gola.

 

“Guarda: i segni dell’imbragatura sono solo sui vestiti, ma non sul cappotto. Com’è possibile, Calogiuri?”

 

“Magari gli hanno tolto il cappotto per imbragarlo e poi gliel’hanno rimesso dopo?”

 

“Sì, Calogiuri, ma dopo quando?” gli domandò con un mezzo sorriso e gli occhi del maresciallo si spalancarono, avendo finalmente capito.

 

“Vuoi dire che…”

 

“Sì, che quei gentiluomini - perché che fossero più d’uno è lapalissiano, per via dell’argano - gli hanno levato il cappotto, lo hanno fatto calare nel crepaccio e gli hanno offerto una bella alternativa. Una morte lenta per assideramento o una più rapida per impiccagione, con il set che avevano già predisposto. E Bruno alla fine… ha scelto il minore dei mali, Calogiuri, come avremmo fatto tutti.”

 

“Ma perché il biglietto, allora?”

 

“Non lo so, Calogiuri. Forse lo hanno costretto a scriverlo, forse quella busta doveva contenere una lettera per me, con scritto chissà che cosa e l’hanno trasformata in un biglietto d’addio e di accusa. In questo modo Bruno si leva di mezzo e si porta nella tomba tutte le cose scomode che forse conosce su Romaniello e soci. Il suicidio lo fa apparire colpevole e, allo stesso tempo, lo fa diventare un martire. E col biglietto di addio danno l’ennesima picconata alla mia già pessima reputazione e possono più facilmente dipingere Romaniello e Zakary, o chiunque della cupola ci sia dietro a tutto questo, come dei poveri gentiluomini perseguitati dal Boia di Matera.”

 

“Ma come facciamo a provarlo?”

 

“Dobbiamo analizzare di nuovo tutta le carte e le penne che ci sono nello studio di Bruno. A casa e in ufficio. E poi, se riuscissimo a dimostrare il fatto che il cappotto sia stato rimesso sul cadavere post mortem, noi-” si fermò nuovamente, per tuffarsi tra le pagine dell’autopsia di Taccardi, alla ricerca del referto, scorrendo poi le righe con mano tremante per l’eccitazione, “vedi qui? Il cadavere presenta una dislocazione recente alla spalla destra, forse procurata nella discesa nel crepaccio o a causa degli spasmi provocati dal soffocamento. E se invece...”

 

Balzò giù dal letto, tirando Calogiuri per un braccio, per invitarlo a fare altrettanto. Il maresciallo obbedì, guardandola con quel misto di ammirazione, confusione ed esasperazione che così spesso gli aveva visto sul volto nel corso delle indagini. Gli fece segno di non muoversi e risalì in piedi sul materasso, cercando di mantenere l’equilibrio, pur precario.


“Calogiuri, recupera il mio cappotto e prova ad infilarmelo,” ordinò e Calogiuri, scuotendo per un attimo il capo, incredulo, sorrise e sparì per eseguire, tornando dopo poco con il cappotto marrone, che portava ancora i segni dell’incontro ravvicinato del giorno precedente.

 

Imma si mantenne con le braccia dritte ai fianchi, rigide e Calogiuri provò ad infilarle il cappotto ma, una volta che ebbe fatto passare le maniche fin quasi all’altezza delle spalle, dovette fare forza, fermandosi prima di farle male.

 

Si guardarono e si sorrisero, Calogiuri che ancora la teneva intrappolata per il cappotto, lei che, per una volta, lo sovrastava completamente in altezza.

 

Si sporse per posargli un bacio sulle labbra e sussurrargli ad un orecchio, “direi che una pausa ce la siamo proprio guadagnata, Calogiù!”

 

Nel giro di un secondo, si ritrovò a trattenere un grido mentre si sentì afferrare per la vita e finì buttata sul materasso, sotto il peso di muscoli ormai sempre più familiari.

 

Ed il rumore dei faldoni che cadevano a terra non le aveva mai provocato un brivido di piacere tanto grande.

 

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Si guardò intorno pigramente, ancora spalmata sul letto, nuda, avvolta dal calore delle braccia di Calogiuri che la stringevano da dietro.

 

Sul letto e sul pavimento un tornado di carte, il computer che giaceva dimenticato in un angolo, il cappotto che pareva un tappetino accanto all’armadio. Un caos indescrivibile ma bellissimo, che sapeva di intimità, quella vera, quella che non avrebbero mai avuto.

 

Sentì un nodo formarsi in gola e gli occhi pungerle maledettamente, mentre una parte di sé pensava a quanto sarebbe stato dannatamente bello se fosse stata questa la sua vita, la sua quotidianità, tutti i giorni e non solo per un fine settimana rubato miracolosamente agli impegni della vita vera.

 

Perché no?

 

Una voce interiore la bloccò, facendole accelerare il battito.

 

Perché non potrebbe essere questa la realtà? Lui lo desidera. E lo sai.

 

Chiuse gli occhi quasi a metterla a tacere. Perché stavolta non era Diana, o Vitali o la Moliterni a parlare, ma la sua stessa voce, la voce di una Imma Tataranni che non conosceva e che la spaventava, quella che negli ultimi mesi le aveva fatto prendere le scelte più folli ed irrazionali della sua intera esistenza.

 

Ma non te ne sei mai pentita, mi pare, anzi.

 

Ed era vero, verissimo, ma… ma desiderare altro sarebbe stato non solo una follia ma avrebbe significato fare del male a troppe persone, rovinare la vita per sempre non solo a se stessa, ma anche e soprattutto a Calogiuri. E non poteva permetterselo, né permetterglielo, non poteva trascinarlo con sé in un’esistenza da ultraquarantenne, in responsabilità che non gli competevano e non gli dovevano competere, non così presto, con tutta la vita davanti, oltre a rischiare di compromettere per sempre quella carriera così promettente. E poi c’erano… c’erano Pietro e Valentina e-

 

“A che pensi?”

 

La voce nel collo la fece sobbalzare per un attimo e scuotere il capo, facendo finalmente svanire quei pensieri tanto pericolosi quanto insensati e si voltò per guardarlo negli occhi.

 

“Alla cena,” mentì, ispirata dal display della sveglia che segnava ormai le diciotto. Calogiuri la fissò per un attimo, l’aria dubbiosa di chi non si era bevuto quella risposta, poi sospirò e fece per mettersi seduto. Ma lei lo bloccò.

 

“Dove pensi di andare? Stasera, eccezionalmente, cucino io, Calogiuri. Che tu hai già fatto fin troppo. Che c’hai in dispensa?”

 

“Poco o niente,” ammise con un po’ di imbarazzo, “ma se mi dici che ti serve posso andare al supermercato qui dietro, che dovrebbe essere aperto pure oggi.”

 

“Va bene. Ci andrei io ma è meglio se non mi vedono fare la spesa al tuo supermercato di fiducia proprio durante il mio ponte da single,” replicò sarcastica, ripensando ai commenti di Vitali.

 

“Come?”

 

“Una storia lunga, Calogiuri. Una storia lunga. Hai carta e penna per segnare?”

 

“E che non mi conosci, dottoressa?”

 

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La beccò con le mani, letteralmente, in pasta, mentre si portava avanti con la preparazione dei cavatelli - che almeno la farina, grazie al cielo, Calogiuri in dispensa l’aveva.

 

Lo sentì fermarsi a pochi passi da lei e si voltò proprio mentre posava le borse della spesa sul pavimento accanto alla tavola. E poi sollevò lo sguardo e rimase come incantato, guardandola in quel modo che la fece arrossire e sentire davvero stupenda.

 

“Che c’è?” gli chiese con un sorriso imbarazzato.

 

“Sei… sei bellissima. Cioè, lo sei sempre ma, con i capelli raccolti, ancora più del solito,” proclamò, arrossendo a sua volta, “e poi… vestita così… non ti rendi conto di quanto sei sensuale."

 

Imma si sentì avvampare tremendamente, mentre dalla sua gola sfuggì un risolino imbarazzato che le suonò talmente stupido che arrossì ancora di più. Si guardò: indossava semplicemente una delle sue vestaglie, che sembrava un po’ un mezzo kimono giapponese e che nella sua mente ricollegava ormai al giorno in cui aveva ricevuto un enorme fascio di rose rosse e aveva sperato, per un istante in cui il cuore le era andato a mille, che provenisse da Calogiuri. Invece erano di Pietro, ovviamente, e quello era stato purtroppo l’inizio di un lungo periodo di allontanamento dal maresciallo.

 

Per stemperare l’imbarazzo crescente, che a volte la faceva sentire peggio di una quindicenne - che ci vedeva di tanto sexy Calogiuri in quella vestaglia o in lei lo sapeva solo lui - si avvicinò alle sporte e, quando aprì la prima, si chiese se davvero lui non fosse un veggente, oltre a saperle leggere nel pensiero.

 

“Cos’è questa? Una nuova varietà di carciofi, Calogiù?” gli domandò con un sorriso, estraendo un mazzo contenente tre rose rosse, freschissime.

 

“E va beh.... visto che cucini tu, almeno qualcosa volevo farla anche io per te,” proclamò con semplicità, come se fosse una cosa ovvia, scontata e naturale, anche se non lo era affatto.

 

Imma mollò le rose sul tavolo e se lo abbracciò, incurante dei brividi di freddo a contatto con la sua giacca di pelle, “tu fai già troppo, te l’ho già detto, Calogiuri. Non serve che fai nemmeno una virgola in più.”

 

Dopo qualche istante si staccò a forza - prima di finire per perdere di nuovo la testa e buttare tutto il lavoro fatto - e smistò la spesa, cercando lo scontrino e guardando male Calogiuri quando non lo trovò.

 

“Calogiuri, lo scontrino!”

 

“Ti garantisco che non c’è stata alcuna evasione fiscale.”

 

“Appunto! Dammi lo scontrino che pago io o, come minimo, dividiamo,” gli intimò, porgendogli la mano col palmo aperto verso l’alto.

 

“Ma figurati! Per un poco di spesa!”

 

“Mi vuoi fare arrabbiare?”

 

“E tu mi vuoi offendere?”

 

“Ah, l’orgoglio del maschio del sud? Non dirmi che ne sei vittima pure tu, Calogiù,” ironizzò, guadagnandosi l’ennesima occhiata esasperata.

 

“Facciamo che oggi offro io ma al prossimo giro offri tu?” propose Calogiuri, con l’aria di chi sapeva che altrimenti avrebbero potuto discutere per ore.

 

“Va bene, va bene,“ sospirò Imma, sentendo una sensazione piacevole allo stomaco all’idea che sicuramente ci sarebbe stato un prossimo giro, che avevano ancora tre giorni pieni a disposizione.

 

Si lavò le mani e si rimise all’opera con i cavatelli.

 

“Posso aiutarti?” le domandò Calogiuri, col tono implorante di un bimbo.

 

“Ti ho già detto che fai fin troppo Calogiuri. Lascia fare pure qualcosa a me, no? Rilassati un po’.”

 

“Ma mi piace guardarti…” ammise candidamente, prima di arrossire di botto e affrettarsi ad aggiungere, “cioè... guardarti cucinare. E mi piace lavorare insieme a te, lo sai. E poi almeno imparo qualche piatto nuovo pure io, a parte gli spaghetti.”

 

“Queste sono le ricette segrete di mia madre, Calogiuri,” proclamò con tono giocoso, puntandogli una forchetta al petto, “se le riveli a qualcuno ti dovrò uccidere.”

 

“Correrò questo rischio, dottoressa,” ironizzò lui, alzando le mani in segno di resa.

 

“Va bene, va bene! Vatti a lavare le mani che poi ti insegno qualche trucco del mestiere, Calogiuri.”

 

E così, in silenzio, iniziarono a lavorare l’impasto, trovandosi a ridere delle differenze tra i cavatelli prodotti dalle dita di Imma e quelli modellati da quelle assai più grandi di Calogiuri.

 

Cucinarono il sugo di salsiccia e funghi cardoncelli, mangiandosene quasi metà senza la pasta, con la scusa di assaggiarlo, e poi prepararono fave e cicorie e le strazzate che, pur essendo più natalizie, erano più che adatte alla stagione.

 

Ed Imma si stupì di non sorprendersi del sincronismo perfetto che avevano, perfino in cucina, come se lo facessero da sempre, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

“Qui c’è da mangiare per un reggimento!” commentò Calogiuri alla fine, ammirando il risultato del loro lavoro.

 

“Almeno il cibo non ci mancherà né oggi, né in parte per domani. E poi mi servi in forze, Calogiuri,” lo punzecchiò maliziosa, guadagnandosi due pizzicotti ai fianchi e un sorriso esasperato.

 

“Non mi tentare, o saltiamo la cena pure stasera.”

 

Ed invece mangiarono, seduti di nuovo stretti, quasi appiccicati, ad una tavola più che raffazzonata, ancora mezza sporca di farina, che era finita ovunque quando Calogiuri si era preso lo sghiribizzo di abbracciarla da dietro e baciarle il collo e lei aveva finito per dare una manata al pacco della farina, rovesciandolo.

 

“Non c’è veramente niente che tu non sappia fare,” le sussurrò ammirato, mentre si portava alla bocca un’altra forchettata di pasta.

 

Imma arrossì e si versò il vino - rosso stavolta - e rispedì il complimento al mittente, “posso dire lo stesso di te. E spero proprio che tu te ne renda conto sempre di più.”

 

Calogiuri la guardò come se fosse sull’orlo delle lacrime e lei se lo abbracciò di lato, finendo per mangiare le fave e cicoria praticamente quasi l’uno in braccio all’altra, ma senza quella smania della sera precedente. C’era un tipo diverso di intimità nell’aria, per tanti versi molto più profonda.

 

E poi fu il turno del dolce che si gustarono col vin santo, che Calogiuri aveva procurato su sua richiesta. Mentre l’alcol e lo zucchero andavano in circolo, si sentì stanca ma felice, felice e serena come non era forse mai stata. Era tutto perfetto, troppo perfetto, tanto che sembrava un sogno impossibile. Impossibile che potesse succedere veramente a lei, e a quell’età poi. Gli appoggiò la testa al petto e gli sentì il cuore accelerare dopo pochissimo, al solo contatto.

 

Sollevò il capo per guardarlo e, in quegli occhi dalle pupille tremendamente dilatate, ritrovò lo stesso stupore che provava anche lei ed, allo stesso tempo, quella scintilla di desiderio che si riaccendeva. Si mise a cavalcioni su di lui e se lo baciò, lentamente, senza fretta. Lui le sorrise sulle labbra e le aprì con facilità la vestaglia, deglutendo visibilmente e sussurrandole un “mi vuoi proprio fare prendere un infarto?” quando, di nuovo, la trovò nuda sotto la seta. Imma si sentì sollevare e depositare con una delicatezza inattesa sulla metà libera della tavola, la farina che le solleticava il collo, mentre pregava di non ritrovarsi innaffiata dal vin santo, conoscendo ormai l’irruenza del maresciallo, quando la timidezza svaniva per lasciare il posto alla passione.

 

“E tu vuoi proprio collaudare tutto il mobilio, Calogiù?” lo rimbeccò con un sorrisetto malizioso, afferrandolo però per il maglione, per tirarlo a sé, “perché, in tal caso, domani proporrei un salto all’IKEA, se è ancora aperta, visto che stiamo esaurendo le opzio-”

 

Si trovò zittita nel solo modo di cui non si sarebbe mai lamentata, la lana che le solleticava la pelle e l’ovatta che sembrava avvolgerle il cervello, facendole perdere nuovamente il controllo.

 

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“Che vuoi fare oggi?”

 

Sorrise nella tazza del caffelatte a quella specie di deja vu, anche se stavolta era lui ad essere ancora nudo nel letto - che era meglio non pensarci troppo o da quella stanza non ne usciva più - e lei vestita con le prime cose che aveva recuperato dal borsone, per non svegliarlo mentre andava a comprargli le brioche all’arancia e il suo immancabile bombolone alla crema, che si erano decisamente meritati dopo un’altra maratona fino a notte inoltrata. Andare al bar era stato forse un po’ rischioso, ma alle nove del mattino del due di novembre, non c’era in giro praticamente nessuno.

 

“Mi tocca fare un salto al cimitero con mia madre, Calogiuri, che se no chi la sente,” gli annunciò, sorridendo sia al lampo di delusione che gli passò sul volto, sia alla rapidità con cui poi annuì, comprensivo, “anzi, scusa ancora per la levataccia, considerato a che ora ci siamo addormentati. Ma ti prometto che torno prima di pranzo e dopo sono a tua completa disposizione per il resto della giornata. Quindi, fatti venire qualche idea nel frattempo, perché oggi facciamo tutto quello che vuoi tu.”

 

“Tutto?” le domandò con un sorrisetto ed uno sguardo che per poco il caffelatte non le andò di traverso.

 

“Purché non sia nulla di contrario alle norme imperative, all’ordine pubblico e- no, anzi, sul buon costume posso pure chiudere un occhio, Calogiuri,” concesse, bevendosi l’ultimo sorso di caffelatte, sporgendosi per un rapido bacio al sapore d’arancia - gusto che mai in vita sua aveva trovato tanto afrodisiaco - per poi, con un ultimo sguardo, guadagnare la porta, prima di rischiare di cambiare idea.

 

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“Imma! Ma che tieni oggi?”

 

“In che senso, mà?”

 

“Ti vedo felice! Felice come non t’avevo vista da un sacco di tempo! Forse mai!"

 

Stavano in mezzo al cimitero: avevano appena posato i fiori sulla tomba di Rocchino Tataranni e, alla frase di sua madre, pronunciata a voce fin troppo alta, il gruppetto di visitatori del cimitero intorno a loro sembrò guardarla con disapprovazione.

 

In effetti, mostrare felicità al cimitero, al giorno dei morti, non era esattamente un grande biglietto da visita, perfino per una come lei.

 

“Scusa, mà, non volevo, ma-”

 

“Ma che scherzi, Immarè? Io so’ contenta se tu stai contenta! Tu devi sempre fare quello che ti rende felice a te per prima. La vita è troppo breve, figlia mia. Uno pensa di avere tanto tempo, sempre qualcosa di meglio da che fare. Sempre qualcosa di più importante. E poi ti trovi vecchia, figlia mia, vecchia, senza più tempo e senza più capa. Non fare come mamma tua e goditela sta vita, che una ne teniamo.”

 

Imma rimase per un attimo di sasso, incrociando lo sguardo di sua madre che la squadrava come se le leggesse dentro, come se sapesse esattamente tutto quello che stava succedendo in quei giorni, in quegli ultimi mesi, tutto quello che covava dentro e non poteva dire a nessuno, e non avrebbe mai potuto dire a nessuno, né in quel momento né mai.

 

Stava cercando disperatamente le parole con cui risponderle, quando la voce di sua madre risuonò di nuovo per il cimitero, “e che non lasciamo i fiori a papà tuo?”

 

Imma alzò lo sguardo e si pietrificò, ma per un motivo diverso: erano a pochi passi dalla tomba di Cenzino Latronico e, lì di fronte, c’erano due persone a lei molto familiari. Del resto erano i morti e, anche se la maggior parte della gente al cimitero ormai ci andava al massimo ai santi, loro evidentemente erano più tradizionalisti.

 

Cercò di bloccare sua madre, prima che succedesse il disastro, ma lei si era già avviata a passo spedito e sarebbe stato impossibile fermarla senza causare una sceneggiata. Pregando qualsiasi essere superiore fosse in ascolto che non si facesse sfuggire niente, si avvicinò alle due figure di nero vestite, sentendosi più fuori posto del solito col suo cappotto marrone un po’ sgualcito ed il suo vestito verde bottiglia.

 

“Dottoressa Tataranni…” la salutò l’avvocato Latronico, con un tono basso, sembrando stranamente preoccupato.

 

“Dottoressa! Signora, come state? Spero la vista vada sempre bene,” pronunciò invece la sorella, prendendo le mani di sua madre con un sorriso, sebbene notasse una nota di imbarazzo nella voce e negli occhi, quando incontrò poi lo sguardo di Imma. Se fosse per via dei processi in cui era invischiato suo fratello o per altro, non avrebbe saputo dirlo, “ti ricordi della signora, Angelo? Faceva le pulizie da noi quando eravamo bimbi. Ma forse tu eri troppo piccolo.”

 

“Vagamente…” rispose evasivo ed Imma ragionò che lei e Latronico potevano essere quasi coetanei, quindi doveva essere veramente piccolissimo quando sua madre aveva smesso di lavorare da loro.

 

“Volevo lasciare un fiore sulla tomba di vostro padre,” proclamò sua madre con un sorriso ed Imma ringraziò il cielo che, se pure lei intendesse includerla in quel vostro, i Latronico non se ne sarebbero mai avveduti.

 

“Grazie, signora, siete troppo gentile a ricordarvi ancora di lui!” rispose Chiara, apparendo commossa, stringendo più forte le mani di sua madre e lasciando che deponesse il fiore, mentre era ora il turno di Angelo di sembrare in imbarazzo.

 

“Va beh, mà, ora è meglio che li lasciamo tranquilli. Buona giornata,” si affrettò a tagliare corto Imma, non appena sua madre ebbe posato una rosa sotto alla foto, prendendola per un braccio e ringraziando il cielo quando non oppose resistenza e le permise di allontanarle da orecchie indiscrete.

 

“Sai, era proprio buono papà tuo. Cioè… quando andai a lavorare per lui, tutti malissimo me ne parlarono, ne dicevano di cotte e di crude su di lui. Ma io tenevo bisogno di lavorare. Figurati te che il Diavolo lo chiamavano!” esclamò con un tono di nuovo troppo alto, ma per fortuna erano quasi all’ingresso del cimitero e non c’era più nessuno intorno, “però… però con me era buono, gentile. Mi trattava… mi trattava come una persona. Non come una serva, un oggetto, ma come una persona, con rispetto. Lui mi vedeva, quando nessuno si accorgeva nemmeno che esistevo.”

 

Imma sentì gli occhi farsi lucidi, non avrebbe saputo dire bene il perché ma, proprio in quel momento, sua madre si piantò coi piedi a terra e frenò di botto - che per poco non le finiva addosso - si voltò e le prese le mani, sussurrandole a bassa voce, “ma sapessi le cose che ho sentito e visto, facendo le pulizie, figlia mia, sapessi!”

 

“Che genere di cose, mà?” le sussurrò di rimando, inquietata, non sapendo se sperare o temere che fosse una delle solite fantasie di sua madre, dettate dalla demenza.

 

“I serpenti, Imma, i serpenti! Sempre loro di mezzo ci stavano!”

 

Un macigno le cadde sullo stomaco, il cuore che le andava a mille. Si guardò intorno, accertandosi che non le avesse sentite nessuno, e per poco non si trascinò sua madre di peso fuori dal cimitero. Doveva parlarne a Calogiuri, subito!



 

Nota dell’autrice: Innanzitutto volevo dire un grazie enorme a chiunque abbia letto fin qui e a chi sta seguendo questa storia. Un grazie speciale a chi mi ha lasciato una recensione, che davvero mi sono di enorme motivazione per continuare a scrivere e a cercare di farlo sempre meglio, correggendo ciò che non va. Tutti i vostri pareri, positivi o negativi, mi sono preziosissimi per tarare la scrittura. Spero che la storia continui a mantenersi interessante e non noiosa, stiamo arrivando alla fase finale della prima parte della narrazione. Da dopo il periodo natalizio (nella storia e nella realtà, per una straordinaria casualità), si entrerà nella seconda fase, che sarà più turbolenta, ma per le festività ci attende qualche capitolo più rosa, con sempre però una buona dose di giallo.

Grazie mille ancora di cuore per il vostro supporto e a domenica con il prossimo capitolo!

 

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Capitolo 8
*** La Quotidianità - Parte Seconda ***


Nessun Alibi

 

Capitolo 8 - La Quotidianità - Parte Seconda 

 

Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

 

“Che stai combinando?”

 

Era rientrata in casa con la copia delle chiavi che lui le aveva dato il giorno prima  - che, al solo prenderle in mano, sentiva ancora una scossa elettrica ed un vago senso d’ansia mista a felicità, o forse il contrario - e lo aveva beccato ai fornelli, in jeans e maglione stavolta. Calogiuri si voltò e notò che indossava un grembiule blu scuro e la cosa la intenerì più di quanto avrebbe dovuto.

 

“Preparando il pranzo. E no, non sono gli spaghetti dell’appuntato.”

 

“No, in effetti l’aroma è familiare. C’è qualcosa… di affumicato. Provola?”

 

“Ottima deduzione, dottoressa,” la prese in giro affettuosamente, come si azzardava ormai a fare sempre più spesso, in privato, ed ogni volta arrossiva un poco di meno, lo screanzato, ma lo faceva ancora, “è pasta e patate. Una delle ricette della mia famiglia, diciamo pure una delle poche che so replicare e che soprattutto posso replicare senza dover stare ai fornelli tutto il giorno.”

 

Ed Imma sorrise, conoscendo bene le ricette contadine: ingredienti poveri e di solito sostanziosissimi, cotture lente, lentissime, talvolta infinite.

 

“Ti avviso che è anche uno dei piatti forti della famiglia Tataranni, quindi sarò esigentissima, Calogiuri. E se è buona mi devi poi svelare la ricetta, che io le mie te le ho insegnate. Anche se, con tutta questa cucina tipica, rischiamo di prendere quattro chili in quattro giorni,” ironizzò, per poi aggiungere, dopo un attimo di riflessione, con un sorriso malizioso, “ma forse, con tutta l’attività fisica, ci salviamo giusto giusto in corner.”

 

Calogiuri diede due colpi di tosse e arrossì più marcatamente, voltandosi per concentrarsi sulla pasta, annunciando, “quando vuoi è pronto.”

 

Imma si affrettò a lavarsi le mani e si misero a tavola. Questa volta apparecchiata in modo ordinato ma con i loro due posti affiancati, notò con un sorriso, prendendo posto.

 

“Allora?”

 

“Allora mi devi dare la ricetta, Calogiù,” proclamò dopo qualche cucchiaiata, dovendo ammettere che era perfino migliore della sua - non che glielo avrebbe mai detto, ovviamente.

 

Calogiuri si limitò ad annuire, mentre lei cercava di intuire che cosa ci fosse di diverso, elencando ingredienti, dalla pancetta - che c’era - allo scalogno - che mancava - nemmeno stessero disquisendo degli indizi di un caso e non di un piatto di pasta.

 

Ma quel pensiero la fece bloccare per un istante, il cucchiaio a mezz’aria, perché la riportò alla realtà e a cose ben più serie e preoccupanti.

 

“Che c’è?” le domandò, con sguardo preoccupato, avendo notato il suo silenzio improvviso, mentre le versava un altro po’ di vino rosso.

 

E così gli raccontò del cimitero, di Angelo e Chiara Latronico, mentre beveva per dimenticare - ma non troppo - e Calogiuri ascoltava turbato, gli occhi che gli si spalancarono increduli quando gli menzionò i serpenti.

 

“I serpenti… li ha citati anche Bruno. Non può essere solo una coincidenza,” rifletté lui ad alta voce, mettendosi per un attimo la testa fra le mani, per poi guardarla dritto negli occhi, sembrando sempre più inquieto, “ma che vuol dire? Cosa sono i serpenti?”

 

“O forse… o forse chi sono, Calogiuri,” buttò fuori con un sospiro, esprimendo finalmente ad alta voce il pensiero che l’aveva tormentata per tutto il ritorno dal cimitero.

 

“Che vuoi dire?”

 

“Te lo ricordi lo stemma dei Romaniello, Calogiuri?”

 

E al maresciallo cadde il cucchiaio nel piatto, con un rumore che rimbombò per tutta la stanza, nel silenzio più totale.

 

“C’è… c’è un serpente che lo circonda… che.. si morde la coda?”

 

“Esattamente. Credo si chiami Uroboro, se non ricordo male, dal greco ourobóros. Simboleggia l’infinito, l’immortalità, eccetera eccetera. Capisci bene perché sia un simbolo amato da famiglie con manie di grandezza, come i Romaniello.”

 

“Ma come fai a sapere tutte queste cose?” le domandò, con quel tono ammirato e meravigliato che le faceva sempre una tenerezza immensa e la lusingava al tempo stesso.

 

Un’adolescenza degna del Leopardi - pensò ma non lo disse, limitandosi a un, “reminiscenze dal liceo classico, Calogiuri.”

 

“Ma quindi secondo te i serpenti sono i Romaniello?”

 

“Sì, ma… Bruno diceva che sono ovunque. Va bene che i Romaniello sono potenti. Ma possono davvero, da soli, essere ovunque, Calogiuri?”

 

“Che vuoi dire?”

 

“Ti ricordi il simbolo dei De Nardis? D’accordo, loro non erano di Matera, ma erano una famiglia influente sul territorio,” spiegò, afferrando il cellulare che aveva riposto sulla tavola, accendendo lo schermo e mostrandogli il risultato della ricerca fatta mentre tornava a piedi, “e guarda qui lo stemma dei Latronico, invece.”

 

“Uno scudo, circondato da due serpenti?!” esclamò Calogiuri, un’espressione tra l’eccitato e lo spaventato che rifletteva in pieno anche il suo di stato d’animo, “ma vuoi dire che…”

 

“Che ci dobbiamo fare una bella ricerca sugli stemmi delle famiglie nobiliari di Matera e dintorni, Calogiuri. Magari è solo il risultato di antenati in comune o-”

 

“O magari no. Vado a prendere il computer,” si offrì Calogiuri, finendo l’ultima cucchiaiata di pasta e patate, prima di precipitarsi in stanza.

 

Imma prese i due calici di vino e la bottiglia - che ne avrebbero avuto molto bisogno - e se li portò sul tavolino di fronte al divano, attendendo che lui tornasse col portatile.

 

Calogiuri si sedette accanto a lei e si misero al lavoro. Ed i risultati per poco non le fecero girare la testa - e l’alcol e l’overdose di carboidrati non c’entravano niente. Praticamente quasi tutte le famiglie più influenti di Matera, tranne quelle arricchitesi di recente, avevano uno o più serpentelli da qualche parte nello stemma. Incluso quel gentiluomo del notaio che aveva ammazzato la moglie giusto qualche settimana prima.

 

“Un rettilario, Calogiù, un vero rettilario. Qui ci manca solo il tizio senza naso e il sosia di Renato Zero e poi facciamo un bel film di Harry Potter,” ironizzò, strappandogli una risata.

 

“Tu hai visto i film di Harry Potter?” le domandò con lo stesso tono che se gli avesse appena rivelato di essere diventata una groupie di Achille Lauro dopo aver assistito al suo concerto.

 

“Piacevano a mia figlia, Calogiuri. Ma ho visto di peggio,” ammise, in quello che per lei era già un gran complimento, non essendo mai stata molto appassionata di film. Quasi tutti quelli che aveva visto negli anni, quasi sempre con Pietro, l’avevano annoiata a morte, “comunque il punto è che… o queste famiglie un tempo erano tutte imparentate - il che spiegherebbe molte cose sull’intelligenza media dei loro principali esponenti - o qui c’è qualcosa che puzza. E non parlo della provola affumicata.”

 

“Qui… qui si dice che il serpente era un simbolo massonico, dottoressa… magari allora-”

 

“Magari allora la cupola non è che la punta dell’iceberg, Calogiuri? Magari c’è un’associazione di famiglie che va avanti da ben prima che non solo tu, ma che pure io nascessimo? Può essere. E non è che ci sia da fare grandi sofismi o pensare a riti esoterici, o a sette, o chissà che: chi ha il potere se lo vuole tenere stretto, Calogiuri. Ed è così dalla notte dei tempi, in ogni società, in ogni cultura, in ogni nazione. Se le famiglie della Matera bene, che tanto ama mia suocera, si fossero messe d’accordo per rimanerci arroccati nelle loro belle posizioni, nelle loro belle poltroncine, ti stupirebbe veramente la cosa?”

 

“Forse no… ma scusa, ma Zakary che c’entra allora? E la Firex? Non sono nemmeno italiani. E qui non c’è né la famiglia di Scaglione, né quella di Bruno, né quella di Lombardi.”

 

“E che fine hanno fatto? Zakary e la Firex hanno ricevuto un bell’avvertimento. Non oserebbero fare di più, questi gentiluomini, perché la Firex è un colosso, ma intanto gli hanno messo il sale sulla coda. Scaglione… lo sappiamo, si è suicidato per i sensi di colpa. Ma Bruno molto probabilmente è stato suicidato. E quindi rimane un unico anello debole, l’unico altro parvenu arricchito.”

 

“Lombardi.”

 

“Esattamente. E se non è scemo, e non è scemo, te lo garantisco, Calogiuri, sa di essere il prossimo, se non riga più che dritto. Dobbiamo capire dov’è e convincerlo che ha più chance di sopravvivere se parla, piuttosto che se tace, col rischio di portarsi i segreti nella tomba.”

 

Calogiuri fece un’altra di quelle sue ricerche su internet, di cui lei non sarebbe stata mai capace.

 

“Da un post di ieri sul suo profilo twitter pare sia a Roma per alcuni eventi del suo partito. E ho trovato più di un articolo dove si vocifera di un’inchiesta interna nei suoi confronti e che si ipotizza ci sarà una votazione a breve per decidere se estrometterlo dal partito.”

 

“Se è a Roma dobbiamo aspettare il rientro dal ponte e valutare se raggiungerlo o aspettare che il figliol prodigo torni a Matera. Se ci azzardassimo ad andare a Roma nei prossimi due giorni, è la volta buona che Vitali ci sospende, a parte che attireremmo troppo l’attenzione su di noi, e non è il caso,” sospirò, sebbene l’idea di dover attendere le causasse un senso tremendo d’ansia, “sperando solo di non arrivare troppo tardi. Ma non credo si spingerebbero fino a Roma, o almeno spero di no.”

 

“E adesso che vuoi fare?”

 

“Non è che possiamo fare molto altro, Calogiuri,” ammise con un altro sospiro, bevendo un sorso di vino e passandosi una mano sugli occhi.

 

“Appunto. Che ne diresti se facessimo qualcosa per uscire dal rettilario per un po’?”

 

“Per me va pure bene. Ma ti ho detto che avresti dovuto scegliere tu. E allora, che vuoi fare?”

 

“Non potendoci fare vedere insieme in giro, non è che ci siano molte possibilità. E purtroppo qui in casa non ho molto. Ti andrebbe se ci vedessimo un film?”

 

“Un film?” domandò, sorpresa che, tra tutte le opzioni possibili, lui avesse scelto proprio quella.

 

“Sì, ci possiamo mangiare i biscotti avanzati da ieri e finire il vin santo, magari,” propose con un sorriso, indicando la bottiglia di vino rosso, ormai vuota.

 

“Ma vuoi vedere un film o farmi ubriacare, Calogiù?” ironizzò, dandogli un buffetto su un braccio, prima di ammettere, “il problema è che… non sono molto appassionata di cinema. Cioè, più che altro non c’ho mai il tempo e molti generi di film mi annoiano.”

 

“E allora scegli tu cosa vuoi vedere,” le propose, recuperando biscotti e vin santo, accendendo la televisione e mettendo su un sito di video on demand, porgendole poi il telecomando.

 

Imma, travolta dalle opzioni per lo più infinite, provò ad andare per esclusione: niente gialli e thriller - che ne avevano già abbastanza nella vita di tutti i giorni - niente film troppo impegnati - che di solito per lei erano dei mattoni - niente film romantici - che la loro situazione era già peggio di un film così, e poi li aveva sempre detestati - alla fine rimase ben poco.

 

“Calogiuri, mi sa che se escludo ancora un po’ di film qui restano solo i cartoni animati,” scherzò, facendo scorrere una delle poche sezioni rimaste.

 

“E va beh, questo mi hanno detto che deve essere bello. E poi parla proprio del giorno dei morti, anche se in Messico,” rispose Calogiuri, indicando un film d’animazione - perchè così li chiamavano mo i cartoni, per conferire loro una maggiore dignità - di nome Coco, come le borse di quella spudorata di Chanel che c’aveva costruito un impero, sui polli che si facevano spennare per una firma su un pezzo di stoffa.

 

“Ma che sei serio, Calogiù? Che già qui a volte mi sembra di stare in regressione adolescenziale, ci manca solo il cartone animato,” proclamò, sarcastica, pensando già a che avrebbero pensato tutti quelli che sostenevano che lei sembrasse la madre di Calogiuri, o che gli facesse da madre, o che, al sapere della loro relazione, l’avrebbero definita una donna in crisi di mezz’età, nel vederla guardare i cartoni insieme a lui.

 

Una barzelletta praticamente.

 

“Se vuoi qualcosa per distrarti è l’unica opzione rimasta, a parte i documentari o i film horror,” ironizzò di rimando Calogiuri, non sembrando affatto offeso, solo divertito.

 

“Per carità, che gli horror mi hanno sempre fatto ridere o annoiare, con tutto quel sangue fintissimo,” ribatté con un sospiro, riflettendo che forse lei e la cinematografia erano proprio due mondi destinati a non incontrarsi mai.

 

“Senti, proviamo a vederlo. Se ti annoi spegniamo e facciamo qualcos’altro, quello che vuoi tu,” propose Calogiuri, con quel metodo di contrattazione e diplomazia che, in privato, sembrava usare sempre più spesso con lei e che, per qualche strano motivo, la divertiva moltissimo. E, ancora più stranamente, aveva pure il potere di convincerla, ma questo probabilmente perché si trattava di lui. L’avesse fatto qualcun altro, lo avrebbe steso con un paio di battutine al vetriolo fino a convincerlo a fare esattamente quello che voleva lei, al primo colpo.

 

“Va bene. Ma al primo sbadiglio, cambiamo,” concesse, guadagnandosi un sorriso soddisfatto di Calogiuri che selezionò il film con il telecomando e poi, timidamente, le passò un braccio intorno alle spalle.

 

Imma non perse tempo a stringersi di più a lui - almeno la visione del cartone qualcosa di positivo poteva ancora averla - ed iniziò a guardare le immagini con aria scettica, pensando a quanto tempo potesse fare trascorrere prima di invocare lo stop, senza offenderlo troppo.

 

Ma poi arrivò una scena, una scena in cui si parlava di un padre di famiglia che spariva, lasciando la moglie sola a dover mantenere la figlia piccola, Coco. E la madre si arrangiava come poteva e creava un’azienda e tirava avanti la famiglia, ma escludendo ogni divertimento, ogni svago, e tramandando questo senso estremo di responsabilità anche alla figlia e alle generazioni successive. E la figlia… la figlia ormai era un’anziana in sedia a rotelle, con la demenza senile, che non ricordava più nulla se non a sprazzi. Se non quel padre, svanito nel nulla.

 

Ed Imma, senza nemmeno sapere lei perché, iniziò a scordarsi del timer che si era imposta, a sentire gli occhi stranamente lucidi - e a darsi della scema perchè potesse succedere con un cartone, ma forse stava davvero regredendo definitivamente ad un’adolescenza mai vissuta - e, dopo un altro po’, iniziò semplicemente a concentrarsi sul film, senza più preoccuparsi del fatto che non lo detestasse, che anzi… le stesse pure piacendo.

 

A non detestare più nemmeno il ragazzino protagonista e i suoi sogni cretini di fare il musicista - di un genere musicale che lei peraltro odiava e manco cordialmente - ma di capirlo in quel suo desiderio di ritrovare le sue radici e di fare ciò che amava davvero e non solo ciò che il senso di responsabilità gli avrebbe imposto.

 

Ad un certo punto si sentì stringere da Calogiuri e si accorse che un paio di lacrime le erano scese sulle guance, mentre si parlava dei morti che vivono solo nei ricordi di chi li ha amati e che cessano di esistere definitivamente quando tutti si dimenticano di loro. E pensò a suo padre, alla sua famiglia, di cui non ricordava quasi niente e non sapeva praticamente niente, mentre l’unica depositaria di tutti quei ricordi ormai era messa tale e quale alla famosa Coco.

 

Finì il film con un nodo in gola, gli occhi lucidi ed un sorriso sulle labbra e si sentì stupida e cretina. Se per aver reagito così ad un filmetto del genere, o se per tutte le cose che si era persa nella vita per colpa dei suoi pregiudizi, della sua rigidità e del suo senso del dovere, non avrebbe saputo dirlo.

 

Allungò la mano a prendere uno degli ultimi biscotti e a bere un altro po’ di vino per cercare di mascherare e sciogliere il nodo, ma incontrò lo sguardo di Calogiuri, più commosso ancora del suo, e seppe che non era necessario. Si chiese se fosse per il film o per lei che aveva gli occhi lucidi, ma forse, in fondo, non lo voleva sapere.

 

“Ho pochissimi ricordi di mio padre,” si ritrovò a dire, senza quasi pensarci, forse per merito e per colpa dell’alcol, “quando ero veramente molto piccola, ricordo che stava sempre al lavoro e… e poi fece un incidente in cantiere. All’epoca non capivo bene ma credo che si ammalò di… di depressione. Beveva troppo, ma questo l’ho capito solo da adulta. E mia madre doveva spezzarsi la schiena per tirare avanti la baracca per tutti. E poi… e poi è morto, il fegato non ha retto più. Ma come fosse mio padre davvero, prima che si ammalasse, io non me lo ricordo, se non da poche immagini che mi tornano alla mente, ma chissà se sono vere. A mia madre non ho mai osato chiedere di lui, perché diventava sempre triste quando lo nominavo. E ormai… e ormai non posso più chiederglielo. Io della famiglia Tataranni non so praticamente niente, a parte le ricette di famiglia. Mio nonno era già morto prima che io nascessi e mia nonna quando andavo ancora all’asilo. E pure i genitori di mia madre sono morti presto, quando ero alle elementari, ma erano già ammalati da molti anni. La vita nei Sassi ti ammazzava giovane, Calogiuri.”

 

Non sapeva nemmeno lei perché gli avesse detto quelle cose, quei pensieri che non aveva mai espresso con nessuno, nemmeno con Pietro, perché facevano troppo male, perché appartenevano ad un passato che lei e sua madre avevano fatto di tutto per cancellare, per riscattare. Né perché le fosse sempre riuscito fin troppo semplice confidargli quei segreti e quei particolari imbarazzanti della sua infanzia ed adolescenza che, con chiunque altro, si sarebbe fatta ammazzare piuttosto che ammettere.

 

Ma, quando vide l'espressione di Calogiuri e si ritrovò stretta in un abbraccio fortissimo, del perché non le importò più e seppe istintivamente che non si sarebbe mai pentita di averlo fatto, come non si era mai pentita delle confessioni che gli aveva fatto in passato.

 

Rimasero un po’ così, abbracciati, fino a che un rumore improvviso dallo schermo la fece sobbalzare. Lei e Calogiuri si guardarono e scoppiarono a ridere: era partito il trailer di un altro film d’animazione, in automatico, e per poco a lei non pigliava un colpo.

 

“Un vecchietto che fa volare casa sua con dei palloncini? Ma che si fumano quelli che scrivono questi film?!” si domandò, sarcastica, e Calogiuri scoppiò nuovamente a ridere.

 

“In realtà anche quello dovrebbe essere molto bello. Che dici? Proviamo di nuovo a vedere se riesco a non farti sbadigliare o facciamo qualcos’altro?”

 

“Sul fatto che tu non mi faccia sbadigliare, ho pochi dubbi Calogiuri. Sul vecchietto coi palloncini appresso ne ho parecchi di più, invece,” ribatté con un sospiro, “e abbiamo pure quasi finito il vin santo e da sobria i dubbi diventano praticamente una certezza.”

 

“E quindi? Che vuoi fare?”

 

“E va bene, Calogiuri. Ma se mi annoio, decido io cosa fare domani,” concesse, perché, sotto sotto, era curiosa di vedere se quella di Calogiuri era la fortuna sfacciata del principiante, o se avessero realmente gusti simili anche in materia di film - per quanto di un genere terribilmente infantile.

 

Nuovamente abbracciati, si pentì quasi di aver acconsentito quando le immagini del matrimonio perfetto del vecchietto e della defunta moglie le fecero venire l’amaro in bocca ed una fitta tremenda di sensi di colpa nel giro dei primi minuti. Ma poi piano piano svanirono e capì, capì il senso del film. Che i ricordi sono importanti, è vero, la memoria, il passato. Ma non bisogna cadere nella trappola di viverci nei ricordi, e di scordarsi le persone che sono il nostro presente e il nostro futuro.

 

Le sembrò quasi, assurdamente, la chiusura perfetta del cerchio e finì per trovarsi di nuovo con gli occhi lucidi mentre scorrevano i titoli di coda, pensando che, o si era rincoglionita del tutto, o forse aveva davvero bisogno di guardare alle cose della vita con un poco meno di pregiudizi. E Calogiuri, per qualche motivo inspiegabile, riusciva a farglielo fare, come non ci era mai riuscito nessuno.

 

Ma, invece di compiacersene o farle qualche battuta in proposito, si limitò a tenerla abbracciata, con gli occhi lucidi pure lui, le mani che le accarezzavano i capelli, facendole venire i brividi.

 

“Dove ti piacerebbe andare in viaggio?” gli domandò, così, a bruciapelo, senza sapere nemmeno bene lei il perché avesse quella curiosità.

 

“Se avessi una casa volante, dici?”

 

“Pure con un normale volo di linea, Calogiuri,” chiarì con una mezza risata, dandogli un pizzicotto al fianco ed alzando la testa dalla sua spalla per guardarlo negli occhi.

 

“Forse… forse a Barcellona.”

 

“Eh, e te pareva, Calogiuri! La spiaggia, le discoteche, la movida, le ragazze spagnole…” ironizzò, godendosi il colorito rosato che, tanto per cambiare, gli faceva capolino dal collo del maglione.

 

“No, no, non è per quello! Cioè, la spiaggia mi piace pure, ma immagino che ce le abbiamo più belle qui. Ma una volta ho visto un servizio su Barcellona e facevano vedere le opere di quell’architetto, com’è che si chiama…?”

 

“Gaudì?”

 

“Esatto! E io di arte non ci capisco niente, di architettura nemmeno, però mi sono piaciute molto. Sembrano un po’ come entrare in un altro mondo. E poi la Sagrada Famiglia: l’idea di costruire una cosa del genere al giorno d’oggi, che continua a cambiare... insomma mi piacerebbe vedere tutte queste cose dal vivo.”

 

Imma si ritrovò a sorridergli intenerita, gli occhi che ricominciavano a pizzicarle - roba che avrebbe dovuto quasi dubitare le stesse venendo un’allergia agli acari, non fosse che casa di Calogiuri era ben più immacolata della sua, nonostante lei ci si stesse impegnando a scombinargli tutto. C’era qualcosa di incantevole nella meraviglia di Calogiuri rispetto a quel mondo che non aveva mai visto, a tutte quelle cose che ancora aveva da imparare. E le faceva venire una voglia matta di insegnargliele o di impararle insieme a lui.

 

“E tu?” le chiese, facendole fare un altro mezzo sobbalzo, talmente si era persa nei suoi pensieri, “qual è il viaggio che vorresti fare?”

 

“Non ho mai viaggiato molto, Calogiuri. Più che altro… sai… quando vieni dalla povertà, quella vera, è difficile poi spendere soldi in qualcosa di superfluo,” ammise, sapendo che lui l’avrebbe capita, ancora prima che le facesse un altro sorriso commosso. Perché era certa che fosse lo stesso anche per lui. Il motivo per cui, con tutti i low cost e le offerte che c’erano, non era ancora andato né a Barcellona, né a Ibiza con quella cretina di Maria Luisa, né in chissà quanti altri posti al mondo tutto sommato raggiungibili.

 

“E non c’è proprio nessun viaggio per cui faresti una follia?”

 

Per andarmene con te a Barcellona, o dove ti pare - fu il pensiero assurdo che non potè esprimere, concedendo invece, dopo un attimo di riflessione, “forse… forse il Giappone. Per togliermi la soddisfazione di stare in un posto dove tutti rispettano le regole, le file, gli orari, dove tutto sta in perfetto ordine - anche se poi in casa come hai visto tanto ordinata non sono - insomma, per andarmene qualche giorno davvero in un altro mondo, Calogiuri.”

 

Calogiuri scosse il capo e non trattenne un sorriso tra l’affettuoso e l’esasperato, per poi aggiungere, con tono e sguardo più maliziosi, il collo che già tornava a scurirsi dall’imbarazzo, “di sicuro, almeno con le vestaglie in stile giapponese stai benissimo.”

 

“Mi stai invitando ad andarmi a cambiare, Calogiù?” lo sfottè, dandogli un altro pizzicotto sul fianco, ma sporgendosi, quasi inconsciamente, di più verso di lui, i loro nasi che quasi si sfioravano.

 

E lui, per tutta risposta, le prese il viso tra le mani ed azzerò del tutto le distanze, in un bacio che si fece praticamente subito frenetico, incontenibile.

 

Imma si trovò spalmata allo schienale del divano e, sebbene si sentisse in paradiso, decise che per quel giorno era già stata fin troppo arrendevole. Con un sorriso che si fece ferale, gli diede una spinta sul petto, ribaltò la situazione e si riprese il dominio, facendolo finire disteso sul divano, lei a cavalcioni sopra di lui, che la guardava tra il sorpreso, l’eccitato e il divertito. Non perse tempo a liberarlo del maglione, sussurrandogli in un orecchio, “io la geisha non la faccio, Calogiuri. Se non alle mie condizioni.”

 

“Non avevo dubbi, dottoressa,” furono le ultime parole che gli riuscì di dire, prima che lo zittisse definitivamente con un altro bacio.

 

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“Dove stai andando?”

 

La voce alle sue spalle le fece prendere un colpo: inciampò nel piumone e solo per un soffio riuscì ad aggrapparsi al comodino e a non finire rovinosamente a terra, completamente nuda oltretutto.

 

“Calogiuri!” esclamò, una mano sul petto, come per calmarsi, rimettendosi a sedere sul materasso ed incrociando due occhi fin troppo vispi, che la guardavano divertita, “stavo andando a vestirmi per comprare la colazione, se non tiro gli ultimi prima.”

 

“E se invece la colazione ce la andassimo a fare da qualche altra parte? E pure il resto della giornata, che oggi dovrebbe esserci il sole,” propose con un sorriso, mettendosi a sedere e facendole prendere un altro colpo, ma per motivi diversi.

 

“E dove vorresti andare? Lo sai che a Matera non è prudente che ci vedano insieme, di sabato poi!”

 

“Perché non andiamo al mare? Farà sicuramente più caldo che qui e in questa stagione non ci va quasi nessuno.”

 

Il mare d’inverno poteva essere bellissimo o tristissimo. Le volte in cui ci era capitata, era stato praticamente sempre per qualche caso di omicidio e quindi erano, ovviamente, ascrivibili alla seconda categoria. Ma l’associazione di idee tra il mare e Calogiuri le riportava alla mente ricordi a dir poco eccitanti e si sorprese a sorridere, senza nemmeno rendersene conto.

 

“Ma come ci arriviamo al mare, Calogiù?”

 

“Con la moto, ovviamente,” proclamò, rimanendo serio per circa due secondi, prima di scoppiare a ridere, probabilmente avendo notato la sua espressione terrorizzata, “guarda che se ci copriamo bene non avrai freddo. Ti posso dare una delle mie giacche a vento, se vuoi. Hai un paio di pantaloni, magari? Poi al mare farà più caldo.”

 

“Se mi piglio una polmonite ti riterrò responsabile, Calogiuri!” intimò, ragionando che al massimo poteva mettersi i leggings sopra le calze e sperare fossero sufficienti per salvarla dal congelamento.

 

“Sarebbe un sì?” le domandò, con un altro sorriso, conoscendola fin troppo bene,

 

“Muoviti a prepararti, prima che cambi idea, Calogiuri,” ordinò, balzando in piedi e chinandosi per prendere i vestiti necessari dal borsone e per nascondere il sorriso che, nonostante tutto, faceva nuovamente capolino a tradimento.

 

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“Tutto bene?”

 

Mai stata meglio! - fu l’ennesimo pensiero che non potè esprimere, sollevando la testa dalla schiena di Calogiuri, per guardarlo negli occhi per un istante, prima che tornasse a concentrarsi sulla strada, limitandosi ad un “tranquillo, Calogiuri, tutto a posto.”

 

La verità era che il freddo nemmeno lo sentiva, abbracciata stretta a lui, che la proteggeva dall'aria gelida con il suo corpo.

 

E che con lui, in moto, in auto o con qualsiasi altro mezzo, sarebbe potuta andare pure in capo al mondo, e sarebbe sempre andato tutto bene.

 

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“Non farmi arrabbiare, mo, Calogiuri!”

 

Si frappose fisicamente tra il maresciallo e il bancone, porgendo i soldi al cassiere con lo sguardo degno del Padrino quando ti faceva una proposta che non potevi rifiutare. Il ragazzotto deglutì visibilmente, prese i soldi e, dopo una seconda occhiataccia di Imma, si affrettò a battere lo scontrino e a porgerglielo, insieme ai bomboloni e a due cappuccini ancora fumanti.

 

“Ti sei convertito pure tu al bombolone, Calogiù? O cominci a stare a corto di energie?” ironizzò, sedendosi con lui al tavolino e girando lo zucchero nel cappuccino: pure il giorno prima, dopo la maratona di film - ne avevano visti ancora un paio tra un intermezzo e l’altro - avevano fatto una maratona di ben altro genere.

 

Ma sembrava non bastarle mai e si chiedeva lei stessa dove trovasse tutte quelle energie. Eppure si sentiva euforica come non era mai stata e non avvertiva minimamente  la stanchezza.

 

“Effettivamente non è facile starti dietro. Ma ci sono abituato, ormai,” replicò con un sorriso affettuoso, pur con quella lieve traccia di imbarazzo che lei tanto adorava.

 

E anche lei ci si stava abituando, alla presenza costante di Calogiuri, fin troppo bene e fin troppo rapidamente. Una botta di malinconia la assalì al pensiero che l’indomani sarebbe dovuta tornare a casa e quella specie di bolla nella quale avevano vissuto negli ultimi giorni si sarebbe rotta, probabilmente per sempre.

 

Ma scacciò quel pensiero, addentò il bombolone, e si ripromise di godersi anche quella giornata fino all’ultimo morso.

 

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“Hai freddo?”

 

“No, sto bene,” replicò semplicemente, sollevando per un attimo il capo per sorridergli, per poi tornare ad appoggiarlo alla sua spalla, rifugiandosi ancora di più nel suo abbraccio.


Perché i brividi che sentiva non erano certo per la temperatura, peraltro straordinariamente mite, ma provocati dalla sua vicinanza e, soprattutto, dal poter camminare con lui in quel modo, letteralmente alla luce del sole.


Certo, la spiaggia era deserta, ma era comunque per lei ancora incredibile poterlo fare, senza doversi preoccupare di occhi indiscreti.

 

Quasi come se le avessero letto nel pensiero, un grido ruppe il silenzio perfetto, facendo sobbalzare entrambi.

 

Imma ragionò per qualche secondo se fosse il caso di staccarsi Calogiuri o meno ma, proprio in quel momento, un aquilone color arcobaleno volò nella loro direzione, il filo che penzolava nell’aria inseguito di nuovo da delle grida, grida di bambini.

 

E Calogiuri sciolse l’abbraccio e, come se fosse la cosa più semplice del mondo, fece un salto ed afferrò al volo la manopola all’estremità del filo, riportando l’aquilone più vicino a terra.

 

Proprio in quel momento sopraggiunsero i bimbi, anzi, le bimbe, con le lacrime agli occhi e quel viso corrucciato che solo in infanzia ti fa sembrare bellissima e tenerissima, invece che uno straccio. Alla vista di Calogiuri con l’aquilone, si illuminarono - se per Calogiuri, o per il giocattolo miracolosamente recuperato, o per entrambe le cose non lo avrebbero saputo dire - e lo raggiunsero con un gran sorriso, bagnato ancora dai residui del pianto.

 

“Immagino che questo sia vostro,” disse Calogiuri, porgendo loro l’aquilone con una dolcezza che le strinse il cuore, ed in quel momento sopraggiunse anche una donna - la madre presumibilmente - e questa volta Imma non ebbe dubbi sul motivo per cui pure lei si illuminò d’immenso alla vista del maresciallo.

 

“La ringrazio, è stato gentilissimo. Se no chi le sentiva più,” esclamò la donna, relativamente giovane, sulla trentina, piacente, guardandoselo in un modo che le provocò di nuovo quel maledetto ruggito interiore.

 

Quasi inconsciamente, fece un paio di passi e si affiancò a Calogiuri, che stava ancora mezzo accucciato, chiacchierando con le bambine ma, forse avvertendo la sua presenza, sollevò lo sguardo ad incrociare il suo, sorridendole, apparentemente inconsapevole.

 

“Sei la sua fidanzata?” le domandò una delle bambine, la più grande, età massima presumibile sette anni, l’apparecchio ai denti e un’espressione da mezza impunita che però le fece simpatia - e non solo perché, grazie al cielo, non l’aveva scambiata per la madre di Calogiuri.

 

La madre della bimba, invece, la squadrò con un’aria incredula e probabilmente sarebbe andata a braccetto col venditore di rose e con tutti quelli che ritenevano più probabile che avesse partorito Calogiuri ancora minorenne, non trasmettendogli - fortunatamente per lui - nulla del suo pool genetico, piuttosto che pensare che uno come lui potesse voler avere una relazione con una come lei.

 

“Più o meno,” le parole le uscirono di bocca prima che potesse trattenerle e vide Calogiuri spalancare gli occhi e rimanere di stucco di fronte a quell’ammissione. Non che non lo capisse: era lei stessa sbalordita da ciò che aveva appena detto.

 

Chi rimase proprio di sasso, col sorrisetto sarcastico ancora congelato sulle labbra, però, fu la simpaticissima trentenne, ed Imma provò un’irrazionale quanto viscerale soddisfazione, che sovrastò lo sconvolgimento ed il momentaneo senso di panico.

 

Con un ultimo sorriso e saluto alle bambine, si riprese Calogiuri sotto braccio, guadagnandosi un’altra occhiata sconvolta dalla di loro madre e dal maresciallo stesso e se lo trascinò via, prima che qualcun altro potesse proferire parola.

 

Lei inclusa.

 

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“Facciamo un brindisi?”

 

Gli sorrise e sollevò il calice, facendolo tintinnare con quello di lui, in quello che ormai era quasi un rituale.

 

Ma, rispetto a Roma, sembrava trascorsa una vita e c’era tutta un’altra atmosfera. Non c’era più disagio o imbarazzo tra loro, solo quella bella incredulità di essere lì insieme, in un ristorantino sul mare, seduti in mezzo ai pochi altri clienti rimasti in quella stagione, come se fosse la cosa più normale del mondo.

 

Si scambiarono un altro sorriso ed un’occhiata eloquente, che le scatenò uno di quei brividi lungo la schiena. Di riflesso, si concentrò con un po’ troppa attenzione sull’arrotolare una forchettata di spaghetti allo scoglio, e così notò solo all’ultimo il rumore di passi che si avvicinavano e si stoppavano bruscamente, una volta giunti al loro tavolo.

 

Sollevò lo sguardo, temendo per un attimo che avessero beccato qualcuno che li conosceva e tirò un mezzo sospiro di sollievo, insieme ad un senso prepotente di deja vu, quando vide che si trattava solo di un venditore di rose, giovane, molto giovane, poco più di un ragazzino.

 

“Una rosa?” domandò timidamente, alternando lo sguardo tra lei e Calogiuri.

 

E stavolta il maresciallo sorrise e tirò fuori in un lampo il portafoglio, porgendogli una banconota da dieci euro e dicendogli di tenere pure il resto, guadagnandosi un sorriso bianchissimo ed un po’ sbilenco e quello che era poco più di un bocciolo, prima di dileguarsi ancora più rapidamente di com’era comparso.

 

Calogiuri glielo offrì con uno di quei sorrisi aperti e limpidi che tanto adorava, senza parole, ma con una timida naturalezza, bellissima e tremendamente intima, che la spaventava e la rendeva felice al tempo stesso.

 

Senza volerlo, si ritrovò ad allungare un braccio sul tavolo, afferrargli la mano sinistra e stringergliela forte, incurante di tutto, se non del sorriso e dello sguardo sorpreso che si guadagnò come risposta.

 

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“Forse è meglio se ci avviamo, se vogliamo tornare prima che faccia buio, che col motorino è più prudente.”

 

Si sollevò leggermente dal petto di Calogiuri - quel tanto che le permetteva il giaccone di lui, in cui li aveva avvolti entrambi, per ripararsi meglio dall’aria che si era fatta più frizzante - ed incontrò un’espressione malinconica almeno quanto lo doveva essere la sua.

 

Fosse stato per lei non si sarebbe mossa di lì nemmeno con le cannonate, ma gli spiò l’orologio e si rese conto che erano già trascorse quasi due ore da quando si erano seduti su quella barchetta da bagnino, abbandonata in un angolo remoto della spiaggia, e l’avevano usata come rifugio di fortuna per baciarsi, toccarsi, stringersi e perdere il senso del tempo in un mondo tutto loro.

 

Sospirò ed annuì, posandogli un bacio sulle labbra e concedendosi un ultimo abbraccio, prima che il suono della zip del giaccone di lui, che si apriva alle sue spalle, segnalasse la fine di quella giornata troppo intensa e troppo breve.

 

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“Ecco qui. Se serve ho portato anche un’altra coperta.”

 

“Tranquillo, non ho più freddo,” lo rassicurò, facendogli spazio sul divano e prendendo il bicchiere di vino rosso che le venne offerto, facendo attenzione a non rovesciarlo mentre si sistemavano meglio sotto la coperta.

 

Fecero l’ennesimo brindisi, ma stavolta nei loro sguardi c’era più di un velo di malinconia, la consapevolezza che sarebbe stato probabilmente l’ultimo in quei giorni rubati e che erano volati via in un soffio.

 

Per distrarsi, si appropriò del sacchetto di carta pieno di castagne, che si erano fermati a comprare da un banchetto sulla via del ritorno e che Calogiuri aveva, premurosamente, scaldato ancora un poco nel forno, ed iniziò a pulirne una, cercando di non fare un macello sul divano.

 

E così trascorsero lunghi minuti, mangiando castagne e bevendo vino, abbracciati, la tristezza che serpeggiava in sottofondo, dietro la felicità di quegli ultimi momenti insieme, per chissà quanto tempo.

 

Quei giorni erano stati bellissimi, perfetti, quasi troppo. Le sembrava ancora impossibile essere stata tanto bene con lui. Non che pensasse di stare male, anzi, ma era sempre stata una che aveva bisogno dei suoi spazi dalle persone, anche da quelle a cui voleva più bene. Le era difficile stare in compagnia di qualcuno per tante ore di fila, senza provare il desiderio di staccare, di estraniarsi per un po’ o senza provare ad un certo punto un senso di noia, di fastidio ed il bisogno di fare qualcos’altro. Invece con Calogiuri non succedeva, né sul lavoro, ma questo già lo sapeva da mo, né, evidentemente, in privato. E questo la sorprendeva ancora di più, perché in procura, in fondo, avevano altro su cui concentrarsi ed ogni sera ognuno se ne andava bello bello a casa sua.

 

Forse era perché stavano entrambi bene nei silenzi e ne avevano rispetto. E questo permetteva di avere quegli attimi di pausa, pur rimanendo fisicamente vicini, essendoci ma lasciando l’altro libero, in una presenza piacevole e non opprimente. Forse perché si capivano davvero, senza bisogno di parole, con uno sguardo o un tono di voce. Forse perché avevano gusti simili su molte cose e non era difficile trovare qualcosa da fare che fosse piacevole per entrambi.

 

E di nuovo quel pensiero maledettamente pericoloso tornò, di quanto sarebbe stato bello se questa quotidianità, vissuta di straforo, potesse essere quella vera, di tutti i giorni.

 

Perché no? Lo sai che è possibile, dipende solo da te.

 

La voce della sua follia ritornò a farsi sentire, suadente e pericolosa come il canto delle sirene. Ma non poteva darle retta. Ce n’erano mille di perché no. Compreso il fatto che era facile stare bene insieme, in vacanza, in un ambiente ovattato e protetto, fuori dalla realtà. Ma bastava entrarci in contatto con la realtà, com’era successo quel giorno con la madre delle due bimbe sulla spiaggia, per rendersi conto che una scelta del genere avrebbe reso la vita di entrambi un inferno. Sul lavoro ed in privato. Avrebbero dovuto lottare con le unghie e con i denti per mantenere uno straccio di carriera e di credibilità. Avrebbero avuto tutti contro, dal primo all’ultimo. Lui la sua famiglia, lei sua figlia, che non l’avrebbe probabilmente mai perdonata. E poi c’era Pietro, che non se lo meritava proprio.

 

Non si merita nemmeno cosa gli stai facendo adesso. E sono mesi ormai che non riuscite più a stare bene insieme, se non a sprazzi.

 

Ed era vero, verissimo, ma era anche dovuto ai sensi di colpa, che le impedivano di godersi l’amore di suo marito senza sentirsi un’infame ad ogni sua gentilezza o gesto affettuoso. E poi con Pietro era stata bene per vent’anni. Con Calogiuri sembrava tutto perfetto ora, certo, ma chi poteva garantire loro che sarebbero stati bene non tra vent’anni, ma manco tra venti mesi, passata la meraviglia della scoperta, della novità, il periodo della passione travolgente e della voglia di fare l’amore in continuazione. Il periodo in cui vedi l’altro con occhi diversi, drogati dagli ormoni, e poi… e poi lui l’avrebbe vista per com’era davvero e lì sarebbe crollato tutto.

 

Ma ti ha già conosciuta al tuo peggio e, nonostante questo, è stato talmente folle da innamorarsi di te. E con Pietro non sei mai stata così bene, nemmeno all’inizio.

 

Ma all’epoca lui la mitizzava e lo faceva anche ora, seppure meno e-

 

“A che pensi?”

 

Si pigliò un altro mezzo colpo, sussultando tra le braccia che la stringevano. Calogiuri sembrava avere proprio il radar per sapere quando si stava perdendo in pensieri scomodi che lo riguardavano.

 

“A quanto sono stata bene in questi giorni con te,” rispose, dopo un attimo di pausa, confessando l’unica parte della verità che le fosse possibile ammettere. E, pure così, Calogiuri divenne color peperoncino nel giro di pochi secondi, un’espressione raggiante ed incredula insieme, manco gli avesse appena detto di aver vinto alla lotteria, “grazie, e non solo per questi giorni, ma per tutto, Calogiuri.”

 

“Grazie a te, per… per aver deciso di passarli insieme a me,” le sussurrò, commosso come non l’aveva forse mai visto, prendendole il viso. E le venne spontaneo ricambiare, accarezzandolo.

 

Stava sporgendosi per baciarlo, quando si bloccò di botto e scoppiò a ridere, senza riuscire a fermarsi.


“Che… che succede?” le domandò, preoccupato e confuso.

 

“Succede che ti ho rifatto il look con la cenere, Calogiuri. Non staresti male col pizzetto, ma ti preferisco senza,” ironizzò, tra una risata e l’altra, perché sembrava uno di quei bambini che si mascherano da Zorro a carnevale. Non si era accorta di avere le dita nero fumo, a furia di pelar castagne.

 

“Mi sa che anch'io ho fatto un po’ un macello…” ammise lui, imbarazzato, l’aria di chi stava trattenendo disperatamente il riso.

 

Imma si sporse a prendere il cellulare dal tavolo, attivò con un po’ di fatica la telecamera interna - che uno quei maledetti selfie in vita sua manco morta l’aveva mai fatto, continuando a ritenerli una perdita di tempo per narcisi e per poveri mentecatti, com’era peraltro l’opinione comune quando ancora si chiamavano autoscatti - e si vide: il viso che pareva quello di uno spazzacamino, tanto le guance erano rigate di nero.

 

Porse il telefono anche a lui, perché si rendesse conto di come lo aveva, involontariamente, ridotto ma, altrettanto involontariamente, premette uno dei tasti laterali e le partì uno scatto. Guardò incredula l’immagine di loro due, conciati in quel modo - le espressioni talmente sbalordite da sembrare usciti da un fumetto - incrociò lo sguardo di Calogiuri e stavolta scoppiarono entrambi a ridere, senza potersi trattenere.

 

“Questo è il primo selfie che faccio in vita mia, Calogiuri. Il primo e l’ultimo, visti i risultati,” ironizzò, riprendendosi il telefono con tutta l'intenzione di cancellare l’immagine, ma un impulso la trattenne appena prima di farlo.

 

Sarebbe stato folle tenere una foto del genere sul suo telefono, lo sapeva - e non solo perché sembravano due deficienti, venuti pure malissimo - ma perché era evidente che non stavano affatto in servizio: mezzi abbracciati sotto la coperta, i volti arrossati per il vino e l’aria fredda presa durante il giorno.

 

Eppure il dito non ne voleva proprio sapere di premere l’icona del cestino. Si affrettò a chiudere tutto e a spegnere lo schermo, prima che Calogiuri si avvedesse che l’immagine era ancora lì, nella memoria, in attesa che lei ritrovasse il senno o decidesse comunque che cosa farne.

 

Lui la guardò in un modo strano, se perché avesse capito o meno non avrebbe saputo dirlo con certezza, prima di proporre, “vuoi andare in bagno a sciacquarti?”

 

“Ho un’idea migliore, Calogiuri,” sussurrò, riprendendo il sacchetto delle castagne ed intingendo di proposito le dita nella polvere nera rimasta sul fondo, “che dici se vediamo quanto scrive questa cenere?”

 

Si godette per un secondo la nuova vampata di rossore che gli risalì dal collo, ed il modo in cui gli occhi gli si allargarono a dismisura, prima di sollevargli con uno strattone il maglione e dedicarsi con impegno all’esperimento

 

Un'altra risata le sfuggì dalla gola quando Calogiuri, che come sempre imparava fin troppo in fretta, ricambiò il favore, atterrandola sul divano e facendola impazzire di solletico e di scosse elettriche, tra un bacio e l'altro.

 

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“Imma…”

 

Sollevò lo sguardo di scatto: il cuore che le accelerava e quello strano pizzicore agli occhi che ancora la prendeva quando gli sentiva usare il suo nome di battesimo. Forse perché lo faceva così raramente.

 

Incontrò due occhi stanchissimi e malinconici: perfino nella penombra della stanza era impossibile non notarlo.

 

Allungò una mano per accarezzargli le guance - tornate del loro colore dopo la doccia, fatta rigorosamente insieme, prima di mettersi a letto - nonostante i muscoli e le giunture cominciassero a protestare. Avevano passato tutta la notte insonne, a fare l’amore e a coccolarsi, con la passione e la disperazione di chi sapeva che quella poteva benissimo essere l’ultima che avrebbero trascorso insieme. E che, in ogni caso, ne sarebbe dovuto passare di tempo prima di poter stare così e non doversi solo accontentare di qualche mezz’ora od ora sottratta agli impegni, ai casini, alle indagini e pure ai serpenti, mo.

 

Ma la stanchezza iniziava a farsi insostenibile, per lei e sicuramente pure per lui, nonostante la gioventù fosse dalla sua.

 

“Forse è il caso che dormiamo un poco, mo,” gli sussurrò, notando dall’orologio sul comodino che erano le sei del mattino, il cuore che le finì nello stomaco nel realizzare che il tempo era quasi scaduto.

 

“Ma non voglio che…”

 

“Lo so,” lo rassicurò, capendo benissimo che cosa volesse dire. Perché nemmeno lei voleva perdersi nemmeno un minuto, né che quella vacanza dalla vita finisse.

 

Gli accarezzò di nuovo il viso, gli posò un bacio sul petto e rimase ad ascoltare il suono del suo respiro ed il ritmo cadenzato dei suoi battiti, finché non riuscì a sentire più nulla.

 

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Le chiavi nella sua mano sembravano fatte di piombo, mentre si costrinse a mollarle, con un frastuono metallico, sul mobiletto dell’ingresso di Calogiuri. Sarebbe stato sconsiderato tenerle con sé, per quanto lo desiderasse.

 

Si voltò, sentendo freddo, nonostante fosse intabarrata nel cappotto e nonostante il riscaldamento, incrociando due occhi lucidi ma rassegnati. Avevano atteso il più possibile, prima di rivestirsi e prepararsi per l’inevitabile, ma sarebbe stato troppo pericoloso per lei ritornare a casa più tardi, con il rischio che Pietro e Valentina anticipassero il rientro.

 

“Gra- grazie ancora di tutto, Calogiuri. Ci vediamo domani in procura,” pronunciò a fatica, trattenendo lacrime che non poteva permettersi di mostrare, non davanti a lui, stringendolo in un ultimo abbraccio fortissimo, che fu ricambiato con tanto vigore da sollevarla da terra.

 

Non osò baciarlo, temendo di non riuscire più ad avere la forza di andarsene se l’avesse fatto. Si sentì stupida, dato che si sarebbero rivisti il giorno dopo e che non doveva certo andare in guerra, ma non sarebbe stato lo stesso, e lo sapevano entrambi.

 

Non appena i piedi toccarono il pavimento, si sciolse dall’abbraccio e praticamente si lanciò fuori dalla porta, prima di cambiare idea.

 

Camminò più in fretta che poteva, cercando di attirare il meno possibile l’attenzione dei pochi che si erano avventurati per strada in quella domenica mattina. Il gelo che le penetrava fin nelle ossa e… sulle guance?

 

Si toccò uno zigomo, con mano tremante, e si rese conto, dalla sensazione umidiccia, di stare piangendo. Affrettò ulteriormente il passo, nonostante questo facesse risuonare ancora di più i tacchi degli stivali sul selciato e, quando intravide finalmente il suo condominio in lontananza, non avrebbe saputo dire se fosse stato maggiore il senso di sollievo o quello di angoscia.

 

Buttò il cappotto nel cestone dei capi da portare in tintoria - facendo una nota mentale di aggiungere il giorno dopo i vestiti del borsone che Calogiuri le avrebbe portato in procura - si liberò dagli stivali e si gettò sul letto, sentendosi improvvisamente svuotata ed esausta, come se tutta la stanchezza del mondo le fosse piombata addosso di botto. Fece appena in tempo ad infilarsi una camicia da notte e a leggere il messaggio di Pietro che - ironicamente solo ora - le annunciava un ritardo dell’aereo di almeno tre ore, prima di crollare in un sonno profondo.

 

Non avrebbe saputo quantificare quanto tempo avesse dormito, quando fu svegliata dal rumore della porta di ingresso che si apriva e dalle voci di Pietro e Valentina. Fuori era già buio.

 

Richiuse gli occhi e decise di continuare a fingere di dormire, pure quando i passi raggiunsero la camera da letto, e la voce di Pietro si fece più delicata, nel dire a Valentina di fare silenzio, che la mamma stava riposando.

 

Si sentì in colpa, ma solo per un istante: non era nella condizione né fisica né mentale adatta per affrontare Pietro ora e non sapeva sinceramente dire quando lo sarebbe stata di nuovo.

 

Ma, come avrebbe detto quella piaga epocale di Rossella, domani sarebbe stato un altro giorno.

 

Nota dell’autrice: Voglio fare innanzitutto un enorme ringraziamento per l’affetto e il sostegno con cui seguite questa storia, per tutte le bellissime recensioni che mi avete lasciato e che mi danno una carica pazzesca per cercare di fare sempre meglio. Un grazie di cuore anche a chi ha messo la mia storia tra le preferite. Spero continui a mantenersi interessante, pur con questi capitoli più “dolciosi” festivi. Verso l’epifania, che tutte le feste si porta via, si tornerà su capitoli più turbolenti, avviandoci alla seconda parte della storia.

Vi annuncio inoltre che, siccome il prossimo capitolo doveva essere, per una coincidenza fortuita, natalizio ma mi sta nuovamente venendo troppo ma troppo lungo, allora anche per questa settimana si rimane sulla doppia pubblicazione. Giovedì arriverà un capitolo e domenica un secondo capitolo, quello più a tema festività. Dalla settimana successiva penso proprio torneremo alla pubblicazione normale domenicale, ma vi farò sapere anche in base a come procede la scrittura durante le feste.
Grazie mille ancora di vero cuore e colgo l’occasione per augurare a tutti voi buone feste e buon natale o qualsiasi altra festività voi celebriate in questo periodo :)!

 

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Capitolo 9
*** Dipendenza ***


Nessun Alibi


Capitolo 9 - Dipendenza


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Dottoressa, questa sua richiesta non mi sorprende, ma mi auguro capisca meglio di me perché non posso concederle l’autorizzazione per questa trasferta.”

 

Nemmeno la risposta di Vitali la sorprendeva, anzi, se l’aspettava in pieno, ma non potè comunque trattenere il moto di indignazione che le risalì in gola, “e io mi auguro che lei si renda conto che, se andiamo avanti così, dottor Vitali, rischiamo di chiudere il maxiprocesso perché gli imputati stanno tutti nell’oltretomba e ci tocca convocarli con una seduta spiritica. Lombardi è l’anello debole della catena, tra il colosso che è la Firex e Romaniello ed i suoi alleati e bisogna cogliere l’attimo, prima che sia troppo tardi.”

 

“Dottoressa, le ripeto che la capisco, ma andare a Roma ora significherebbe pestare piedi che non ci conviene affatto pestare, a lei per prima, mi creda, e questo a livello nazionale. Gira voce che Lombardi verrà presto escluso dal partito. A quel punto, se non ritornasse a Matera per l’udienza del processo, che comunque sarà tra pochi giorni, mi impegno fin da ora a concederle di andarlo ad interrogare di persona. Ma non prima.”

 

Imma sospirò, sapendo benissimo che, pure insistendo, non avrebbe cavato un ragno dal buco. Non aveva detto a Vitali dei suoi sospetti sui serpenti, ovviamente, mica era folle, ma Vitali l’avrebbe presa per tale e spedita in un bel TSO immediato se si fosse messa a parlare di associazioni tra famiglie, forse di origini massoniche addirittura, e dei suoi tanto odiati complotti. Nemmeno gli avesse detto che la Terra era piatta o che l’Australia non esiste.

 

Ma, pure senza i serpenti, la moria di coloro che erano legati al maxiprocesso sarebbe stata evidente perfino al più accanito degli scettici.

 

Si congedò da Vitali con un’occhiataccia che avrebbe intimorito chiunque e si rifugiò nel suo ufficio. Per scaricare la tensione, fece la punta compulsivamente ad una delle sue matite, col temperino nuovo, che si era rassegnata a comprare in sostituzione di quello storico ma, proprio in quel momento, qualcuno bussò alla porta.

 

“Avanti!” urlò, chiedendosi, non per la prima volta, se il rumore metallico avesse il potere di far comparire la gente di fronte al suo ufficio.

 

“Dottoressa…”

 

Alzò gli occhi di scatto e non riuscì a trattenersi dal sorridere come una cretina, benedicendo il temperino o chiunque altro avesse fatto apparire Calogiuri alla sua porta.


Quel giorno ancora non lo aveva incrociato - ormai era quasi sera - e le era mancato terribilmente. Ma la D’Antonio ultimamente se lo rapiva sempre più spesso e lei, per non farla insospettire e per evitare che glielo portasse via quando aveva più bisogno di lui - per lavoro o in privato - si stava costringendo a fare buon viso a cattivissimo gioco.

 

“Calogiuri! Vieni, accomodati! Allora, ci sono novità?” gli domandò, sforzandosi di mantenere un tono neutro per Diana che, con la coda dell’occhio, aveva notato osservarla dalla stanza accanto.

 

“Sì, dottoressa,” confermò, ricambiando il sorriso ed accomodandosi su una delle sedie di fronte alla sua scrivania, “ho fatto fare a Matarazzo quel giro per i negozi di abbigliamento da uomo che mi avevate detto di verificare. Ed, effettivamente, il cappotto indossato da Bruno al momento della morte è stato acquistato nella boutique in Via XX Settembre, una settimana prima che Bruno morisse.”

 

“Una settimana? Ma allora…”

 

“Ma allora la polvere da sparo non può essere del poligono di tiro, dottoressa,” confermò Calogiuri, con un’aria soddisfatta che le provocò un altro sorriso.


“Bel lavoro e ottima intuizione, Calogiuri! Bravo!” si complimentò, vedendolo arrossire e toccarsi il collo ed i capelli, “mi toccherà ringraziare anche Matarazzo, suppongo. C’è altro?”

 

“No, dottoressa. Ma, se volete, possiamo fare quel sopralluogo allo studio e a casa di Bruno.”

 

“Magari possiamo andare allo studio stasera, che è già tardi. L’abitazione è meglio tenerla per domani, considerate anche la condizione della madre di Bruno,” sospirò, alzandosi dalla sedia ed infilandosi il cappotto leopardato che aveva mollato con malagrazia sullo schienale, “Diana, esco e poi penso andrò direttamente a casa. Chiudi tutto tu qui?”

 

“Agli ordini, dottoressa!” le giunse la replica sarcastica della cancelliera, che ignorò, avendo di molto ma molto meglio da fare.

 

Cercò di guardare Calogiuri il meno possibile, mentre facevano il percorso verso l’uscita della procura. Lui, come sempre, un paio di passi indietro. Evitò di proposito la Moliterni, che già li attendeva al varco con uno sguardo che era tutto un programma e scese le scale quasi a rotta di collo, un senso di libertà che la invase quando l’aria gelida le schiaffeggiò il viso.

 

“Hai portato il borsone?” gli domandò, non appena ebbero allacciato le cinture e chiuso le portiere e sorrise quando lui annuì, “allora facciamo un rapido salto in tintoria, prima che chiuda, Calogiuri, poi andiamo allo studio di Bruno, tanto è sotto sequestro e possiamo starci quanto ci pare.”


“Agli ordini, dottoressa!” proclamò, con un tono strano, che la portò a voltarsi e a notare che il rossore al collo fosse nuovamente presente.

 

Ed Imma si sentì lei stessa avvampare, sebbene gli scenari vietati ai minori che le si palesarono davanti alla mente non avrebbe mai osato metterli in atto, non sul luogo di un indagine.

 

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“Direi che qui non troveremo niente, Calogiuri. Nessuna stilografica, nulla che ci possa essere utile, purtroppo.”

 

“Almeno ci abbiamo provato, dottoressa,” sospirò Calogiuri, avviandosi con lei verso la porta dello studio, “speriamo ci vada meglio domani.”

 

Imma sospirò di rimando, pensando che avrebbe proprio avuto bisogno di una bella botta di fortuna. Fece un altro passo e, senza volerlo, lei e Calogiuri si ritrovarono affiancati e mezzi incastrati nella porta. L’atmosfera tra loro era stata elettrica fin da quando avevano messo piede in quegli uffici, ma ormai si poteva tagliare con un coltello.

 

Il cuore che le batteva all’impazzata e la gola secca, chiuse gli occhi e forzò le gambe a muoversi e a levarla da quella posizione così pericolosa. C’erano alcuni limiti che si era imposta di non superare mai ed il rispetto del lavoro e delle indagini era uno di questi.

 

Tornò in auto quasi di corsa, rifugiandocisi come se fosse un’oasi di pace, chiudendo gli occhi quando Calogiuri si sedette accanto a lei, per evitare di guardarlo, cosa che sarebbe stata troppo pericolosa da fare: erano in pieno centro storico e non potevano permettersi alcun avvicinamento, nemmeno in auto.

 

“Tutto bene, dottoressa?” le chiese dopo qualche attimo di silenzio, il motore già avviato.

 

“Più o meno… forse.... forse è meglio se mi riporti in procura e se torno a casa a piedi,” ammise a fatica, perché la verità era che si sentiva sull’orlo di perdere il controllo e non era proprio il caso.

 

“Come preferisci,” le rispose e qualcosa nel suo tono di voce la portò ad azzardarsi a guardarlo e a notare il modo in cui serrava la mascella e cercava di contenere un’evidente delusione.

 

“Calogiuri,” sussurrò, non riuscendo a trattenersi dal prendergli la mano sul cambio, vedendolo sobbalzare e voltarsi a guardarla con un’espressione che era una pugnalata, “guarda che non è facile nemmeno per me, credimi.”

 

Avrebbe voluto dirgli mille cose: quanto le era mancato in quelle poche ore di distacco; che si era svegliata quella mattina sperando di essere ancora tra le sue braccia - e per poco non le prendeva un colpo quando si era ritrovata tra quelle di Pietro; che ogni volta che stavano insieme faticava sempre di più a staccarsi da lui; che avrebbe voluto tornare nel suo appartamento ora, seduta stante, e rimanerci fino al mattino; che non sapeva come stesse trattenendo l’impulso di baciarlo e di togliergli quell’espressione che le faceva male al cuore.

 

Ma non poteva dirgli nulla di tutto ciò, quindi si limitò a stringergli la mano e sperare che capisse, anche se era impossibile.

 

“Va bene…” le sussurrò, e lo sentì stringergliela ancora più forte, mentre un lieve sorriso gli si faceva largo sul viso, sebbene velato di malinconia.

 

E poi avviò il motore e, in quell’atmosfera dolceamara, ritornarono verso la procura.

 

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“Amò, allora, che te ne pare? Ti piacciono i tartufi?”

 

“Sì, Pietro, anche se mi sento male al pensiero di avere appena mangiato qualcosa che costa quasi più della cocaina,” ammise, finendo l’ultima cucchiaiata di risotto al tartufo, ricetta che, a quanto pare, Pietro aveva appreso direttamente da Samuel.


Era tornato da Alba carico di prodotti tipici. Altri se li era pure fatti spedire ed erano ancora in viaggio.

 

“E dai, amò, per una volta possiamo pure spendere un poco di più,” le sorrise, sporgendosi sulla tavola per posarle un bacio sulle labbra, prima di aggiungere, in un sussurro e in un tono che conosceva fin troppo bene, “e poi dicono che abbia anche effetti afrodisiaci.”

 

Il tartufo le ritornò in gola, con il suo odore di gas, sapendo già dove Pietro volesse andare a parare, anzi, avendolo già capito fin da quando era tornata a casa e lui le aveva annunciato che Valentina, tanto per cambiare, sarebbe rimasta a dormire da Bea. A volte si chiedeva se glielo proponesse direttamente lui, ormai, alla figlia, per cercare di smuovere la situazione tra loro.

 

Pietro la baciò di nuovo, mentre lei cercava disperatamente nella mente una scusa credibile, per evitarsi l’ennesima delusione per entrambi e, prima di riuscirci, si sentì sollevare di peso dalla sedia e si trovò seduta sulla credenza, la schiena attaccata al muro, mentre Pietro le sollevava la gonna con l’irruenza ormai familiare e che, evidentemente, lui pensava lei avesse gradito l’ultima volta.

 

“Pietro!” lo fermò in quello che era quasi un urlo, bloccandogli le mani e incrociando due occhi delusi ma che la guardavano con preoccupazione, prima di pronunciare la prima cosa che le venne in mente, “scusami, ma sono stanca.”

 

Ed era pure vero, anzi verissimo, peccato che fosse la scusa più banale del mondo, insieme al mal di testa e a fantomatici dolori mestruali che però lei, fortunatamente o sfortunatamente, non aveva mai avuto. Cercò di indorare la pillola in corner con un, ”venerdì c’è l’udienza e ho la testa altrove, Pietro.”

 

“Eh, l’ho notato che c’hai la testa altrove, Imma. Ma da mo,” replicò Pietro con un sospiro ed uno sguardo tra il deluso, l’addolorato e l’impaurito che fu un pugno alla bocca dello stomaco, “ma che pensi che sono scemo? Che non l’ho capito che c’è qualcosa che non va? Ma non da mo, è da agosto che sei strana, ma pure da luglio già c’era qualcosa che non andava. Prima pensavo che fosse per mia madre, poi dopo… dopo l’ultima volta pensavo di sbagliarmi, che magari eri solo un po’ annoiata dalla routine e che volevi qualcosa di diverso, per variare un po’. E invece… invece altro che variare un po’... mo mi sono fatto due conti e ho capito che ti sta succedendo.”

 

Imma si paralizzò, non aspettandosi né che Pietro affrontasse l’argomento così di petto, invece di ignorare ed abbozzare, come aveva sempre fatto in precedenza, né soprattutto che potesse… che potesse avere capito tutto.

 

Una colata d’acido le invase stomaco ed esofago, insieme ad un senso di nausea e si ripromise che non avrebbe mai più mangiato tartufi in vita sua, perché quel retrogusto di gas non faceva che peggiorare la situazione. Sentì un senso di panico, le mani che le si facevano bagnate, mentre gli occhi le pungevano tremendamente.

 

“Pietro, io ti posso spiegare-”

 

“Non serve che ti spieghi, Imma, ho capito benissimo, le date coincidono e tutto torna,” sospirò Pietro, allontanandosi di un passo da lei ed Imma sentì un brivido ed i sudori freddi sulla schiena.

 

“Pietro, non avrei mai voluto che tu-”

 

“Che io tornassi a fare lezioni di sax, non è così?” le domandò, interrompendola prima che potesse terminare la frase con un lo scoprissi in questo modo.

 

“Eh?” gli domandò, sconcertata, mentre al senso di sollievo si unì un moto di riso isterico che trattenne giusto in tempo.

 

“Sì, lo so che mi hai detto che non ti dava fastidio ma… ma non mi hai ancora perdonato la cena con Cinzia, non è vero? Perché è da allora, e poi da quando sono tornato a lezione, soprattutto, che sei strana.”

 

Imma ammutolì, il senso di colpa che si riproponeva insieme al tartufo, mentre due voci opposte e contrastanti si facevano largo nella sua mente. Da un lato quella di negare e rassicurare Pietro e non permettergli di prendersi la responsabilità di qualcosa di cui non aveva colpa. D’altro lato quella che le suggeriva di prendere al volo questo alibi perfetto, che le avrebbe consentito di evitare di continuare a sfuggirgli, almeno finché il desiderio nei confronti di Pietro non fosse rientrato nella norma.

 

E se non rientrasse nella norma che fai, Imma? Lo costringi a una vita monacale? - la vocetta della Moliterni risuonò al posto della coscienza.

 

“Pietro… non… non è colpa tua,” sussurrò infine, scuotendo il capo e prendendogli le mani, per stringergliele, “e veramente non voglio che smetti di studiare il sassofono per una mia gelosia. Hai sbagliato a mentirmi ma mi voglio fidare che con sta Cinzia davvero non ci sia stato niente. Non ce l’ho con te e non è una ripicca ma… ma è un periodo che non sento questo genere di desiderio nei tuoi confronti e… e spero mi passi presto, ma è così è basta.”

 

Era la cosa più vicina alla verità che potesse dirgli, senza dover confessare l’inconfessabile. Sperava Pietro capisse e smettesse di insistere ma, allo stesso tempo, non si flagellasse per colpe non sue.

 

“Imma… io ti desidero sempre, e lo sai, perché mi piaci da impazzire da quando ci conosciamo, praticamente. Ma, prima di tutto, ti amo e ci tengo che tu stia bene e che sia serena, quindi non ti voglio forzare. Saprò aspettare e farò tutto quello che posso perché tu stia bene con me, e non solo a letto, che al momento è la cosa che mi preoccupa di meno. Io voglio che tu torni a fidarti di me come una volta, Imma, ad essere serena con me, a parlare con me, che è tantissimo che non lo facciamo più. Dimmi cosa ti serve che faccia e io la farò, qualsiasi cosa.”

 

Altro che un macigno, i sensi di colpa ormai erano una pressa che la stritolava, ma non potè fare altro che annuire, mentre sentiva le lacrime scorrerle sulle guance e pensava che non si meritava né un uomo d’oro come Pietro, né un ragazzo d’oro come Calogiuri. Stava facendo soffrire tutti, se stessa in primis, ma non sapeva come uscirne senza causare sofferenze ancora peggiori e poi non si sentiva pronta ad uscirne, non ancora. Non ce la faceva a scegliere, di sicuro non a fare quella che il mondo avrebbe ritenuto la scelta giusta, non dopo il weekend appena trascorso. E si odiava per questo.

 

Sentì Pietro sfiorarle il viso con le mani e asciugarle una lacrima, con un’espressione come se avesse paura di toccarla di più, di spaventarla, e sussurrarle, con occhi lucidi, “mi dispiace, ho combinato un casino, Imma, e lo so. Ma spero davvero di non avere rovinato tutto, perché non me lo perdonerei mai.”

 

“Non hai rovinato niente, Pietro, non hai rovinato proprio niente tu,” gli sussurrò di rimando, abbracciandoselo stretto come non faceva da un sacco di tempo, piangendo insieme a lui.

 

Perché la verità era che Pietro non aveva rovinato proprio nulla. Nulla che non avesse già rovinato lei con le mani sue.

 

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“Tutto bene, dottoressa?”

 

Una meraviglia! - rifletté Imma, rovistando tra gli incartamenti di casa di Bruno. Come se non bastasse la dose di sensi di colpa privati, ci si era messa anche la madre di Bruno, visibilmente peggiorata nella salute dall’ultima volta che l’aveva vista, che le aveva sputato contro un “ci avete rovinato la vita!” prima di essere portata via dall’infermiera.

 

E poi Calogiuri lo aveva notato benissimo che era strana quel giorno. Dopo quanto successo la sera prima con Pietro, era divisa tra una necessità, fisica e non solo, di stare vicina a Calogiuri, di abbracciarlo, di stare con lui, e le coltellate di senso di colpa ogni volta che si ritrovava a desiderarlo. Seguite da altre coltellate di senso di colpa ogni volta che Calogiuri le lanciava quegli sguardi carichi di apprensione, avendo sicuramente notato che lei fosse più distante e di poche parole, presa com’era dal suo conflitto interiore.

 

“Come sto io adesso non è importante. C’è l’udienza tra tre giorni. Cerchiamo di concentrarci sulle indagini, va bene?” lo implorò, sentendosi sfinita mentalmente e fisicamente.

 

Calogiuri annuì e pronunciò uno di quei suoi “va bene…” che le causavano quel dolore al petto e quella voglia di abbracciarselo ed il circolo ricominciava punto e a capo.

 

“Qui è pieno di libri, di carte, ci vorrà tantissimo per analizzarle tutte,” sospirò il maresciallo dall’altro capo della stanza, dopo qualche attimo di silenzio, il tono apparentemente professionale e neutro.

 

Aveva eseguito l’ordine, come quasi sempre.

 

E cercò, per una volta, di seguire il suo stesso consiglio e di vedere davvero quello che aveva davanti agli occhi. Notò finalmente i titoli delle pile e pile di libri, specie quelle più vicino alla scrivania. Gialli, storie di spionaggio ed un sacco di libri di enigmistica e di logica.

 

La collezione di un paranoico, in poche parole.

 

Potevate andare d’accordo, dottoressa! - la sfotté la voce di Vitali, dalla sua sempre attiva coscienza.

 

E poi lo vide, in mezzo al caos: un astuccio di cuoio elegantissimo e dentro una stilografica, di quelle che costano un occhio della testa. Fece passare i cassetti della scrivania e ne trovò pure un’altra, seppur meno blasonata.

 

“Calogiuri, ho trovato due stilografiche. Se le puoi insacchettare, le mandiamo alla scientifica. Tu hai trovato qualcosa nella corrispondenza?”

 

“No, dottoressa, se c’è una lettera indirizzata a voi non è tra le lettere ricevute, né tra quelle ancora da spedire. Ma se, come ipotizzate voi, gliel’avessero sottratta e sostituita col messaggio di addio, che magari lo hanno costretto a scrivere, di sicuro non la troveremo qui.”

 

“No, infatti, Calogiuri. Temo anche io che-”

 

Il suono di un cellulare, il suo cellulare, la bloccò prima che potesse finire la frase. Lo estrasse dalla tasca ed il nome di Vitali le provocò un senso d’ansia che raramente aveva provato in vita sua.

 

Sapeva già che, qualsiasi cosa non potesse aspettare il rientro in procura, non poteva che essere una pessima notizia.

 

Calogiuri doveva aver notato, come sempre, il suo stato d’animo, perché le si avvicinò, uno sguardo interrogativo e preoccupato sul volto.

 

“Dottoressa…” il tono dimesso e quasi… imbarazzato… di Vitali la sorprese e le fece temere doppiamente il peggio, “dove si trova ora?”

 

“Sono nell’abitazione di Bruno, dottore. Che succede?”

 

“Io… non so come dirglielo dottoressa… se ha una televisione a disposizione, le consiglio di accendere sul primo canale.”

 

Imma stava per mandarlo a quel paese, ma l’occhio le cadde sul televisore al plasma posto sulla parete di fronte alla scrivania di Bruno.

 

“Il telecomando, Calogiuri, lo vedi? Dobbiamo accendere sul primo,” ordinò e Calogiuri, rapido come sempre, individuò l’aggeggio che, dopo il cellulare, era la seconda causa principale di liti domestiche e fece come gli venne chiesto.

 

Scorsero davanti ai loro occhi immagini di un bellissimo palazzo del centro storico di Roma. Di quelli che, per avere un loculo in affitto, devi lasciarci un rene. Udì le parole festino, cocaina, overdose, ancora prima di leggere il sottopancia “Politica: Roma, l’onorevole Luigi Lombardi ricoverato per overdose, prognosi riservata” e sentire la testa che le girava vorticosamente.

 

“Dottoressa!”

 

Una mano le afferrò il braccio, stabilizzandola contro una superficie calda e solida che riconobbe essere il petto di Calogiuri.

 

Non le serviva leggere altro, né vedere altro per sapere esattamente cosa fosse successo.

 

“Dottoressa, è ancora in linea?”

 

“Sì, ci sono,” furono le uniche parole che le riuscì di pronunciare, la gola chiusa, la bocca impastata, mentre all'ansia subentrò la rabbia, “che cosa le avevo detto, dottore, eh? Che cosa le avevo detto?!”

 

“Dottoressa, lo so, e mi creda, mi dispiace, sono mortificato.”

 

“Del suo dispiacere non me ne faccio niente, dottore, come non se ne farà niente Lombardi, né tutte le vittime di questa storia. E ora la lascio, prima di dire qualcosa di cui mi potrei probabilmente pentire in futuro. Ci vediamo in procura, se e quando mi sarò calmata.”

 

E gli chiuse il telefono in faccia, sapendo benissimo che, se non lo avesse fatto, avrebbe rischiato di definirlo con qualche epiteto che le sarebbe costato come minimo un richiamo disciplinare, se non il licenziamento.

 

Calogiuri non disse niente, ormai la conosceva troppo bene per farlo, ma sentì la presa di lui farsi più salda, lasciandole il braccio per passarle un braccio intorno alla schiena. Per un secondo ebbe l'impulso di ribellarsi e di sfogare anche con lui l’incazzatura. Ma durò un battito di ciglia, il tempo che la rabbia lasciasse il posto ad un senso di impotenza e di disperazione che raramente aveva mai provato in vita sua.

 

Sentiva che le stava sfuggendo tutto dalle mani, sul lavoro e non solo.

 

O quasi tutto - pensò, accasciandosi, senza quasi volerlo, in quella specie di abbraccio, fregandosene del luogo, del contesto, delle regole autoimposte e dei sensi di colpa, perché semplicemente non ne poteva fare a meno.

 

"E mo che facciamo?" lo sentì chiederle dopo un tempo che risultò quasi infinito.

 

Sollevò lo sguardo e ci lesse preoccupazione, ma anche una determinazione che la rassicurò ancor più dell'abbraccio stesso. Lui c'era e non l'avrebbe mollata, su di lui poteva contare davvero, fino in fondo. Sperava solo di non trascinarlo con sé in un baratro professionale e personale da cui non sarebbero più usciti.

 

"Dobbiamo sentire l'ospedale e provare a capire in che condizioni è Lombardi, dato che comunque doveva presenziare al processo. Bisogna vedere se Vitali riesce a farci parlare con chi si occupa delle indagini a Roma. Visto che si sente in colpa, bisogna cogliere l'attimo adesso. E altro da qui non possiamo fare, se non ci concede di andare a Roma di persona, ma non so se lo farà, se Lombardi non si riprende. E poi il processo è tra tre giorni, non c’è nemmeno il tempo di una trasferta.”

 

“Potremmo partire con la corriera della sera, stare domani a Roma e tornare o con quella di domani sera o con quella di giovedì mattina e faremmo in tempo.”

 

“Potremmo, Calogiuri?” gli domandò con un sorriso, non che l’idea di una trasferta romana con lui non attirasse anche lei, anzi, eccome se la attirava, nonostante tutto.


“Sei tu che hai detto per prima se ci concede di andare a Roma di persona,” le ricordò con un sorriso ed Imma si sorprese a constatare che era vero, ancor prima di notare che Calogiuri era tornato al tu, “ma se preferisci andare con Capozza o Matarazzo….”

 

E ad Imma scappò da ridere, di nuovo nonostante tutto. Calogiuri aveva il potere di rendere più leggera la sua vita, in tutti i sensi, di farle dimenticare per qualche istante i problemi, o meglio, di farglieli mettere in prospettiva.

 

“Il problema è che andare a Roma adesso potrebbe significare trascurare tutti i filoni d’indagine aperti qui, in vista dell’udienza, e rischiare di arrivarci impreparati. Ma, d’altro canto, pure qui non abbiamo molto in mano, la pista romana andrebbe battuta finché è calda e, tanto, col rito ordinario, la prima udienza sarà solo l’inizio di un iter molto lungo. Andiamo a parlarne con Vitali e vediamo cosa decide, Calogiuri.”

 

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“Se vuole andare a Roma, visto quanto accaduto, non posso biasimarla, dottoressa. Il partito si è dissociato dalle abitudini di Lombardi, pur esprimendo la vicinanza alla famiglia. A questo punto lo scandalo già c’è e non sarà la sua presenza nella capitale a farlo peggiorare, salvo non ci metta del suo. Quindi le concedo la trasferta, se la desidera, ma come sempre, se rompe qualcosa-”

 

“I cocci saranno i miei. Lo so, dottore, lo so. Ma mi creda, non c’ho il tempo di romperli i cocci, che devo essere di ritorno per il processo. Non mi metterò ad indagare negli ambienti della politica, se è questo che teme, anche perché i colpevoli non stanno certo a Roma, o meglio, non stanno solo lì. E la politica c’entra solo in parte in questa storia.”

 

“Come intende muoversi? Se desidera un’auto di servizio, è a sua disposizione.”

 

“Preferisco muovermi con la corriera dottore, almeno possiamo sfruttare il tempo di viaggio per dormire ed essere a Roma domattina.”

 

“Con possiamo, immagino intenda lei ed il maresciallo Calogiuri?” le domandò, con un tono che per certi versi le ricordò quello della Moliterni che, evidentemente, chissà quante cose aveva insinuato con Vitali su lei ed il maresciallo.

 

“Naturalmente, dottore. Non solo è l’elemento migliore che abbiamo in PG, ma è pure l’unico di cui mi fido al cento per cento per questo caso. Ed inoltre conosce bene Roma, avendoci vissuto di recente, il che non guasta.”

 

“D’accordo, dottoressa, d’accordo. La dottoressa D’Antonio non ne sarà felice ma, del resto, il maxiprocesso ha la priorità in questo momento e se volete analizzare la scena del crimine domani siete già quasi fuori tempo massimo. Contatterò personalmente il collega di Roma e lo avvertirò del vostro arrivo. Mi raccomando, dottoressa, non mi faccia pentire della fiducia che le sto dando.”

 

Era talmente felice di aver ottenuto una vittoria praticamente su tutta la linea, che evitò perfino di ricordargli che, al limite, ciò di cui si sarebbe già dovuto pentire era di non avergliela data prima la fiducia. Prima che fosse troppo tardi.

 

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“Amò, come mai sei già a casa? Sei ancora stanca? Se vuoi anticipiamo la cena. Sto preparando un brasato al barolo che sarà la fine del mondo, vedrai.”

 

Imma sentì una fitta tremenda allo stomaco. Non solo per le premure immeritate di Pietro, ma soprattutto per essersi scordata, nel giro di ventiquattr’ore, dell’enorme senso di colpa maturato la sera prima nei suoi confronti e di tutti buoni propositi che ne erano conseguiti.

 

Il viaggio con Calogiuri era di lavoro, certo, e lo avrebbe fatto anche se tra lei e il maresciallo ci fosse stato un rapporto squisitamente professionale.

 

Ma non c’era un rapporto solo professionale ed era proprio questo il problema. Come il fatto che Calogiuri riuscisse a farle dimenticare con un solo abbraccio tutti i sensi di colpa ed i paletti che provava ad imporsi.

 

“Pietro, mi spiace ma non ci sarò a cena e nemmeno stanotte e la notte prossima. Devo andare a Roma in trasferta, d’urgenza. Non so se hai sentito di Lombardi.”

 

“E certo che ho sentito di Lombardi, Imma, ne parla tutta Matera, figuriamoci in comune! Ma come fai col processo, gli spostamenti? Ma poi vai da sola pure stavolta? Spero almeno che tu ci vada in via ufficiale e non in vacanza!” le domandò con uno sguardo non deluso, ma semplicemente preoccupato, che fu un’altra mazzata.

 

“Vitali mi ha dato la benedizione stavolta. Andrò col bus e… e mi accompagna il maresciallo. E per il processo dovrei fare in tempo tranquillamente: alla fine starò a Roma solo la giornata di domani. Se riesco viaggio pure domani notte, se no giovedì di prima mattina,” gli disse, tutto d’un fiato, sperando che l’identità dell’accompagnatore si perdesse in mezzo a tutte le informazioni successive.

 

“Va bene,” annuì, senza alcuna traccia di sospetto apparente, facendole tirare un sospiro di sollievo, prima di levarsi il grembiule e offrire, “allora se vuoi ti dò una mano a preparare la valigia e poi ti accompagno alla corriera.”

 

“Non ti preoccupare, Pietro, ci vado a piedi, figurati, tanto sono due passi,” si affrettò a precisare, impanicata alla sola idea di un incontro tra il marito e il maresciallo.

 

Estrasse il borsone dall’armadio in cui l’aveva rinfilato giusto il giorno prima ed iniziò a riempirlo dei pochi vestiti necessari per il viaggio, cercando di fare il più in fretta possibile per evitare che Pietro notasse i capi già mancanti dall’armadio - che ancora stavano in tintoria - o il fatto che lei faticasse sempre di più a sostenere il suo sguardo.

 

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“Dottoressa! Sono qui!”

 

“Calogiuri!” esclamò, scorgendolo finalmente tra la folla di parenti e amici di coloro che stavano per partire, non potendo evitare di ricambiare il sorriso luminoso che le stava rivolgendo.

 

Li aspettava un altro giorno da trascorrere insieme ventiquattr’ore su ventiquattro e ancora non le sembrava vero, nonostante tutti i casini che li attendevano. E si chiedeva quando e in che modo l’avrebbe pagata tutta questa buona sorte dalle divinità protettrici degli amanti. Se solo lavorativamente, visto che il maxiprocesso ormai era un camposanto, o se pure in privato.

 

“Vi ho tenuto il posto, dottoressa,” proclamò, aiutandola, prendendola per un braccio in modo apparentemente formale e facendo strada.

 

La corriera era piena di materani e chiunque avrebbe potuto riconoscerli, dovevano cercare di rispettare il più possibile i ruoli e le apparenze, almeno per il viaggio.

 

Calogiuri aveva scelto, saggiamente, due posti in fondo, in modo da essere visti da meno gente possibile. Si chiese con quanto anticipo dovesse essere arrivato per ottenerli. Le sistemò il borsone nello scompartimento in alto, poi le fece galantemente cenno di sedersi al posto del finestrino ed infine estrasse una coperta dal borsone che aveva lasciato sui sedili, prendendo posto accanto a lei ed iniziando a stenderla sulle gambe di entrambi.

 

“Il riscaldamento è sempre rotto, dottoressa,” chiarì, forse notando il suo sguardo sorpreso e leggermente commosso da tanta premura.

 

Ma poi, una volta che ebbe tirato su la coperta quasi fino alle spalle, sentì una mano cercare la sua sotto la lana e capì i risvolti più piacevoli di quella bella pensata di Calogiuri.

 

Mica scemo, il ragazzo, altro che imparare in fretta!

 

“Hai sentito i colleghi di Roma, Calogiuri?” gli domandò, stringendogli la mano di rimando e parlando di una delle poche cose di cui potessero discutere in pubblico, ovviamente senza dare dettagli.

 

“Certo, dottoressa. Ci aspetteranno domattina alla fermata dell’autobus. Tra l’altro ho scoperto che del caso si stanno occupando anche due miei ex compagni di corso. Eravamo in buoni rapporti, quindi non dovrebbe essere difficile ottenere il loro aiuto. Mi hanno detto, in via confidenziale, che il magistrato sia invece poco propenso alla collaborazione. A quanto pare è un uomo molto geloso dei suoi casi e dal carattere molto forte,” spiegò, per poi aggiungere, in un sussurro udibile solo a lei, “ma avrà pane per i suoi denti.”

 

“Calogiuri,” sussurrò di rimando con un sorriso, decidendo di essere onorata di tanta fiducia, invece che offesa dalle possibili implicazioni sul suo di carattere. Ma sapeva benissimo che lei al maresciallo, inspiegabilmente, piaceva così com'era, nonostante il suo caratteraccio.

 

In quel momento si spensero le luci e la mano sotto la coperta accarezzò la sua, in una specie di silenzioso invito. Imma non se lo fece ripetere due volte e, accertatosi che nessuno li avrebbe visti, appoggiò la testa alla spalla di Calogiuri, intenzionata a farne il suo cuscino per quella notte, mentre lui la abbracciava leggermente.

 

Si godette per un po’ quel tepore che funzionava molto meglio di qualsiasi riscaldamento ed il battito ritmico del suo cuore sotto l’orecchio, finché il sonno, inaspettatamente, non tardò a vincerla.

 

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“Dottoressa, siamo arrivati.”

 

Aprì gli occhi, sentendosi completamente rincretinita e non solo per gli occhi azzurri che la fissavano a pochi centimetri dai suoi. La luce solare, fortissima per essere autunno inoltrato, la fece per un attimo lacrimare.

 

Stava ancora in deficit di sonno dal ponte e, con questa trasferta, non avrebbe fatto che peggiorare la situazione.

 

Si staccò a forza da Calogiuri, prima che qualcuno dei passeggeri accanto a loro potesse notare come avevano dormito, e lo seguì nel recuperare i bagagli. Lo aiutò a ritirare rapidamente la coperta e poi si avviarono all’uscita del bus.


“Ippazio!”

 

Fece appena in tempo ad aggiustare la visuale ai raggi solari, per riuscire a mettere a fuoco una biondina minuta e dal viso che pareva uscito da un quadro, tanto era bello, lanciarsi addosso a Calogiuri in un abbraccio che le fece scatenare non solo un ruggito, ma direttamente tutto lo zoo. Soprattutto quando si avvide che Calogiuri ricambiava, sebbene più timidamente.

 

“Come stai? Ti trovo bene! Hai fatto buon viaggio?” gli chiese, con un sorriso ed una voce da principessa Disney, perché proprio ad una principessa assomigliava la biondina, di quelle che, da un momento all’altro, partono a tradimento a cantare melodie smielate a caso.

 

“Sì… sì…” abbozzò Calogiuri, toccandosi collo e capelli e staccandosi dall’abbraccio, rivolgendo poi un’occhiata carica di apprensione ad Imma. Se per la coda di paglia o se perché avesse ormai capito che lei non gradiva certe… effusioni… non avrebbe saputo giudicarlo.

 

“Dottoressa Tataranni, il maresciallo Chiara Mariani. Ha frequentato il corso da sottufficiale con me, come vi avevo accennato,” si affrettò a chiarire, mentre la biondina la guardava sorpresa, forse non avendo capito che fosse lei il magistrato che accompagnava Calogiuri.

 

Sveglia la ragazza! Se il buongiorno si vede dal mattino...

 

“Maresciallo…” pronunciò in tono asciutto, senza sforzarsi nemmeno di sembrare amichevole ma, per tutta risposta, la ragazza le rivolse un sorriso che avrebbe illuminato pure una cripta.

 

“Dottoressa, è un onore per me! Il maresciallo mi ha parlato moltissimo di lei e dei casi che avete seguito insieme!" proclamò con entusiasmo, prendendola completamente in contropiede, mentre Calogiuri diventò color pomodoro, "sono davvero felice di avere l'opportunità di collaborare con lei. Per qualunque cosa sono a disposizione."

 

E che poteva dire o fare, di fronte a tanta gentilezza e fervore, ma soprattutto di fronte alla sincera ammirazione con cui la ragazza la guardava?

 

Che le hai raccontato, Calogiuri? - si trovò a domandarsi, incuriosita e intrigata già solo dal fatto che lui avesse parlato di lei ai compagni di corso.

 

"Non so cosa le abbia detto di me Calogiuri ma, considerato il suo entusiasmo, dubito le abbia accennato che sono molto esigente e molto attenta al regolamento, anche di servizio. Quindi mi sento in dovere di avvertirla che non so se sarà ancora così felice di aver collaborato con me, quando avremo finito."

 

"Invece, almeno caratterialmente, finora è esattamente come l'aveva descritta, quindi sono certa del contrario," ribatté la ragazza con un altro sorriso luminoso, mentre Imma restò colpita da quel caratterialmente. Sotto quali punti di vista era invece diversa dalla descrizione di Calogiuri?

 

Imma si ritrovò ad annuire, perché non poteva certo chiederglielo e perché nemmeno il suo caratteraccio poteva quasi nulla di fronte ad un atteggiamento tanto positivo, salvo voler passare veramente per stronza. La principessa aveva parecchio in comune col maresciallo da questo punto di vista, a parte l'apparente assenza di timidezza.

 

"Luca non è con te?" si inserì Calogiuri, ancora mezzo paonazzo, forse per cercare di cambiare argomento, per poi precisare, di fronte al suo sguardo interrogativo, "il maresciallo Conti, l'altro compagno di corso di cui vi accennavo."

 

"No, ci aspetta alla scena del crimine. Pensavamo voleste andare lì subito, prima che gli uomini della scientifica finissero gli ultimi rilievi. Come potete immaginare, visto il numero di ospiti alla festa, la quantità di tracce da rilevare e repertare è enorme. E questo non gioca a nostro favore. Poi vi accompagneremo in procura e, se il dottor Santoro ci autorizza, in ospedale. Anche se Lombardi al momento resta privo di conoscenza ed in prognosi riservata, ma potreste parlare coi medici che l'hanno in cura e con chi ha prestato il primo soccorso. E, presumibilmente, con la signora Lombardi."

 

"Mi piacerebbe parlare con la moglie di Lombardi, ma soprattutto con la sua segretaria. Ricordo che aveva sotto controllo quasi tutta la vita dell'onorevole, pubblica e privata," commentò Imma, con tono neutro, sebbene fosse colpita dall'efficienza della giovane e dal contrasto tra l'aspetto delicato ed i modi decisi, quando si parlava di lavoro.

 

Forse era più sveglia di quanto lasciasse presumere a primo impatto. Esattamente come Calogiuri.

 

Chi si somiglia…

 

"Ieri era anche lei in ospedale, perlomeno quando siamo stati inviati a interrogare la signora Lombardi. Ma, se il dottor Santoro ci autorizza, gliela rintracciamo molto volentieri," proclamò con solerzia, per poi aggiungere, leggermente imbarazzata, "mi scuso per questi contrattempi, ma il dottor Santoro tiene molto alle formalità e al momento ci ha autorizzati solo a mostrarvi la scena del crimine, dicendoci che preferisce parlare con voi di persona prima di concedervi maggiori margini di manovra con persone coinvolte nelle indagini. E sia io che il maresciallo Conti siamo relativamente nuovi in procura e non abbiamo molto ascendente su di lui, purtroppo. Ed in ogni caso non possiamo contravvenire ad un ordine diretto.”

 

“Non si preoccupi, Mariani, al collega ci penso io,” tagliò corto Imma, guadagnandosi un’occhiata tra il divertito e il preoccupato di Calogiuri, “mo però andiamo, che il tempo stringe ed il traffico di Roma è terribile, a quanto ricordo.”

 

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“E quindi Lombardi è stato ritrovato in questa stanza? A che ora e come si è svolta la dinamica dei fatti, in base agli elementi acquisiti finora?”

 

“Sì, dottoressa. Ieri notte, verso le tre, è giunta una chiamata al 118 che segnalava la presenza di una persona in overdose presso questa palazzina, in questo appartamento. L’ambulanza è arrivata con un po’ di ritardo, perché la chiamata era stata concitata e poco chiara. Una voce femminile ma, quando l’ambulanza è giunta sul posto, hanno trovato la porta dell’appartamento socchiusa ma l’appartamento era deserto. C’erano ovunque tracce di una festa, conclusa da poco e frettolosamente, ma l’unica persona rimasta era proprio Lombardi, che era in stato di incoscienza e respirava a fatica. Durante il trasporto in ambulanza ha avuto un arresto cardiaco. Lo hanno rianimato e portato in ospedale. A causa del tempo intercorso prima dell'arrivo dei soccorsi, i medici dicono che c’è il rischio concreto di danni cerebrali permanenti, ma bisogna attenderne il risveglio. Per il resto potete chiedere maggiori chiarimenti ai medici, se potremo portarvi in ospedale. Quello che le ho appena riferito è in via confidenziale, ovviamente, perché non sarei autorizzato a fornirle questi dettagli. La scientifica sta repertando tutto, ma sono state ritrovate copiose tracce di stupefacenti: cocaina e metanfetamine su tutti. Accanto a Lombardi, sul comodino, c’erano alcune strisciate di cocaina e i medici hanno confermato che l’abbia assunta effettivamente. Ma aveva anche bevuto alcol, in più stava assumendo degli ansiolitici, come confermato dalla moglie, e il mix ha causato l’overdose.”

 

Imma tirò quasi lei il fiato al posto di Conti, che aveva parlato a macchinetta senza nemmeno fermarsi un attimo. Non sembrava un cattivo ragazzo, ma aveva l’aria di chi si sforza troppo di fare una buona impressione, ottenendo di solito l’effetto opposto.

 

“Altre tracce degne di nota nella camera da letto?”

 

“Sì, impronte, di Lombardi e in più di altre tre persone, non identificate al momento. Inoltre c’erano tracce biologiche sulle lenzuola, maschili e femminili. La scientifica deve ancora finire con le analisi del DNA. Il problema è che in questo appartamento ci sono centinaia di impronte e nelle quattro stanze da letto è pieno di tracce biologiche da analizzare, ci vorrà tempo per farlo. La scientifica non ha ancora finito i rilevamenti dopo un giorno.”

 

“Capisco. Qualche dettaglio sull’identità della chiamante? Età presunta? Avete una registrazione della voce? Avete rintracciato la chiamata?”

 

“Una voce di donna, relativamente giovane. C’è una registrazione, ovviamente, ma la linea era abbastanza disturbata e la voce molto concitata, quindi non è chiarissima, come le ho già detto. Comunque in procura posso fargliela ascoltare. La chiamata proveniva da questo appartamento. Sul telefono però nessuna traccia: la persona deve averlo pulito abbastanza accuratamente dopo averlo usato.”

 

“Ci sono vie di fuga da questa stanza, a parte tornare all’ingresso?”

 

“Come vede qui fuori c’è un balcone, ma siamo all’attico ed è un bel salto nel vuoto, salvo essere professionisti dell’arrampicata. Tuttavia, con la confusione della festa, è più che possibile che chiunque ci fosse con Lombardi si sia dileguato dalla porta senza che nessuno ci facesse caso.”

 

“A questo genere di feste ci sono sempre buttafuori alla porta. Il problema sarà rintracciarli,” sospirò Imma, sapendo benissimo che sarebbe stata un’impresa quasi impossibile, “d’accordo, direi che abbiamo visto tutto, portateci in procura.”

 

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“E quindi, collega, sinceramente non capisco la richiesta del dottor Vitali di farla venire fin qui, senza nemmeno aver prima accertato se possa trattarsi di un semplice incidente o meno.”

 

Collega, nemmeno io gradisco ingerenze nei miei casi, quindi capisco la sua posizione, ma nel maxiprocesso a cui sto lavorando ed in cui è imputato Lombardi, ci sono già due casi di presunti suicidi che poi si sono rivelati, all’analisi dell’evidenza, tutt’altro che tali. Di conseguenza, salvo lei voglia credere al malocchio, direi che pensare che questo sia semplicemente uno sfortunato incidente, diventa assolutamente improbabile. Soprattutto visto che Lombardi doveva essere un cretino patentato a mettersi ad andare a fare festini e ad assumere stupefacenti proprio in questo momento, con il fiato del partito sul collo, gli altri imputati del processo che muoiono come mosche e l’udienza questo venerdì, non le pare?”

 

“Dottoressa, le garantisco che di cretini patentati nell’ambiente della politica ne ho visti un’infinità e-”

 

“Non stento a crederlo, visto come sta messo il nostro paese, dottore, ma non ho chiesto di venire qui perché non mi fidi di lei o del suo lavoro, ma perché conosco elementi che lei non può conoscere su Lombardi, e che le possono tornare utili, ed inoltre perché ho bisogno di più informazioni e dettagli possibili prima di venerdì. Ovviamente il caso resta a lei, anche per motivi di vicinanza geografica: non posso certo spostare la mia squadra qua a Roma. Mi faccia fare il mio lavoro e io le farò fare il suo. E le garantisco che converrà anche a lei lasciarmelo fare: se scopro qualcosa comunque i meriti restano a lei e alla sua squadra, ma magari si sarà evitato qualche mal di testa e perdita di tempo.”

 

Vide in tralice Calogiuri guardarla sorpreso: probabilmente si era aspettato che lei tirasse fuori il pugno di ferro e facesse fuoco e fiamme. Ma perfino lei sapeva quando poteva farlo e quando non poteva, e soprattutto non le conveniva farlo. E qui il coltello dalla parte del manico, e il potere di fare il bello ed il cattivo tempo, ce l’aveva Santoro. E aveva capito perfettamente il genere di collega che aveva di fronte: relativamente giovane, belloccio e curatissimo, anche lui, come Conti, con troppa smania di dimostrare qualcosa. Il genere di persona che non vuole farsi sfuggire un caso di alto profilo come quello di Lombardi, che non vuole dividere la scena. Meglio rassicurare la prima donna e passare oltre, tanto lei di palcoscenici da calcare ne aveva già fin troppi e di ben più ostici.

 

“Se ho capito bene vi fermerete solo per oggi, è corretto?”


“Esattamente, dottore, ho un processo che mi aspetta a Matera e devo rientrare domattina al massimo.”

 

“D’accordo. Allora le concedo di andare all’ospedale e di parlare con i medici ed inoltre di interrogare la signora Lombardi e la segretaria di Lombardi, come avete richiesto a Mariani e Conti. Naturalmente attendo trascrizione degli interrogatori ed un suo rapporto dettagliato su quanto da lei scoperto.”

 

“Naturalmente. E naturalmente lei mi invierà copia del fascicolo di questo caso, con tutti i futuri aggiornamenti e mi concederà di poter disturbare Mariani e Conti in proposito anche nelle prossime settimane, in modo da rimanere a conoscenza di tutti gli sviluppi del caso fino alla sua risoluzione?” rilanciò con un sorriso fintissimo e lo sguardo di chi lo sfidava a dirle di no e a non ricambiare la cortesia.

 

“Va bene. Ma a patto che non sottragga troppo tempo prezioso ai miei collaboratori,” concesse Santoro, con un sospiro esagerato e sollevando gli occhi azzurri fino al soffitto, per mostrare di proposito la sua insofferenza.

 

“Certamente e non faccio perdere ulteriore tempo prezioso nemmeno a lei. Buon proseguimento, dottore!” proclamò, prima di avviarsi a passo spedito verso la porta, sentendo Calogiuri seguirla, mentre gli altri due marescialli chiedevano il permesso di congedarsi.

 

“Lo scusi, dottoressa, non ce l’ha con lei… è solo così di carattere, ma è davvero molto bravo nel suo lavoro,” precisò Mariani a voce bassa, quando furono quasi all’uscita dalla procura.

 

Ad Imma per poco non scappò un sorriso: aveva notato, sebbene con la coda dell’occhio, il modo adorante in cui la principessa adocchiava Santoro.

 

Forse la principessa e Calogiuri avevano più di una cosa in comune, fin troppe, ma questa scoperta la mise, per qualche motivo, di ottimo umore.

 

Almeno Santoro è un gran bel pezzo d’uomo. Non ha la fede al dito ed avrà al massimo trentacinque anni, Imma. Proprio tanto in comune non direi! - le ricordò la vocetta sarcastica della Moliterni, immancabile come le luminarie natalizie che già decoravano la città eterna.

 

Ma il buonumore, nonostante tutto, permase inalterato.

 

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“D’accordo, dottore, la ringrazio, la prego di farmi sapere se l’onorevole Lombardi dovesse riprendere conoscenza, o se ci saranno sviluppi sulle sue condizioni di salute. Come ben sa, venerdì doveva essere presente al processo e alle udienze successive. Il maresciallo Calogiuri le lascerà un recapito telefonico.”

 

“Naturalmente dottoressa. Anche se al momento il decorso di questi due giorni non pare affatto incoraggiante, purtroppo.”

 

Congedò il medico, che non aveva fatto che confermarle quanto già raccontatole da Conti. Il rischio che Lombardi non fosse più presente a se stesso, almeno non completamente, anche in caso di risveglio, si faceva sempre più concreto mano a mano che le ore passavano.

 

Osservò attraverso il vetro per un attimo ancora quell’uomo, una volta tanto carismatico e piacente, l’idolo di praticamente tutte le donne della procura, Diana inclusa, e che ora sembrava invecchiato di almeno dieci anni, ridotto all’ombra di se stesso.

 

“Dottoressa, la signora Lombardi è qui fuori,” proclamò la Mariani, raggiungendo lei e Calogiuri, che stava finendo di scrivere gli ultimi appunti sul suo taccuino.


“E la segretaria arriverà tra una mezz’ora circa. Ma ha chiesto di non incontrare la signora. A quanto mi ha riferito una delle infermiere, ieri sera le due donne hanno avuto un litigio abbastanza pesante e da quel momento la segretaria in ospedale non si è più vista,” aggiunse Conti, con la solita eccessiva solerzia.

 

“Interessante, e si sanno i motivi del litigio?” domandò loro, mentre un’ipotesi in proposito si faceva largo nella sua mente, ricordando l’atteggiamento della segretaria quel giorno in parlamento.

 

“L’infermiera ha riferito che la segretaria avrebbe accusato la signora di, e cito testualmente, essersene sempre fregata dell’onorevole. E avrebbe anche aggiunto: sarai contenta ora!” precisò Conti, prima di aggiungere, in tono più basso, “mentre la signora le avrebbe dato della patetica e le avrebbe detto che, e cito sempre testualmente: forse ora che rimarrà menomato potresti avere finalmente qualche possibilità con lui, ma non ci spererei troppo nemmeno così, fossi in te!

 

Hai capito la segretaria! - pensò Imma, trovando conferma ai suoi sospetti. Ma, a quanto pare, era un amore non corrisposto il suo, almeno a sentire la signora Lombardi.

 

Anche se, sulla capacità dell’onorevole di tenere i pantaloni allacciati, non avrebbe scommesso nemmeno un centesimo.

 

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“Dottoressa, mio marito lotta tra la vita e la morte e non comprendo questo accanimento ingiustificato nei nostri confronti, da mesi, mesi e mesi, oltretutto. Io non posso dirle nulla che le sia di alcuna utilità. Mi hanno telefonato a casa per dirmi che Luigi era stato ricoverato in ospedale ed il resto lo sa anche lei. Io ero convinta andasse ad una cena con colleghi di partito, per cercare di ingraziarseli, vista la situazione turbolenta in cui versava per colpa del suo dannato processo. Ma invece era andato a… a soddisfare i suoi stramaledetti vizi, evidentemente, che già non avevamo abbastanza problemi! Non so altro e pure se me lo richiede altre cento volte continuerò a non sapere altro.”


La signora Lombardi era un muro di granito, impossibile cavarne qualcosa di minimamente utile. Se pure sapeva qualcosa, non lo avrebbe detto mai. Ciò che la colpì però, fu la freddezza con cui pronunciò le parole “mio marito lotta tra la vita e la morte”, quasi come se stesse parlando di un perfetto sconosciuto e non dell’uomo che, si suppone, dovesse amare. Ma anche il fatto che lo classificasse come un problema, invece che parlarne come di una tragedia, forse irreparabile.


Certo, gli ultimi mesi, tra Donata Miulli ed il maxiprocesso, dovevano aver scalfito, se non distrutto, l’unione tra i due coniugi, questo era verosimile e pure comprensibile. Ma si poteva davvero arrivare ad essere così indifferenti verso qualcuno che si era amato? Così glaciali?

 

“Ho saputo di un suo alterco con la segretaria di suo marito. Mi saprebbe dire il motivo?” sganciò la bomba e, finalmente, un lampo di rabbia passò sul volto liftato ed imperturbabile della signora Lombardi.

 

“Peggio delle comari le infermiere, noto con piacere, dottoressa. Ma non c’è problema. La segretaria di mio marito è una poveretta, innamorata di lui da sempre, da quando l’assunse che era poco più che una ragazzetta. Un amore mai corrisposto: a mio marito piacevano sì giovani, ma decisamente più piacenti. La poveretta ha accumulato anni di rancore nei miei confronti, forse pensando che io avessi ciò che lei non poteva avere, e ieri è scoppiata. La storia più vecchia del mondo, dottoressa. Ma non ce l’ho con lei: mi fa solo pena,” sibilò, con una cattiveria nella voce che palesava l’esatto contrario.

 

Ma perché tanto risentimento per la poveretta, oltretutto forse non corrisposta, rispetto a tanta indifferenza verso il marito? Un simile risentimento sarebbe stato giustificato a fronte di un’ancora forte gelosia nei confronti di Lombardi. Ma la gelosia ed il menefreghismo per le sorti del marito difficilmente andavano di pari passo.

 

Imma si congedò con un “si tenga a disposizione!” a cui la signora rispose roteando gli occhi, almeno per quanto le consentisse il lifting.

 

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“Perché ci ho litigato? Perché la signora sono mesi che trattava l’onorevole come fosse un appestato. Si vergognava di lui, della figuraccia che aveva fatto fare al buon nome della sua famiglia. Secondo me si sarebbe sentita sollevata se fosse morto! Certo, magari non in questo modo, che è un ulteriore danno di immagine per la signora. Ma non gliene frega niente che forse non riprenderà mai conoscenza o… forse rimarrà come un vegetale…”

 

La segretaria si interruppe, la voce che le si spezzava, gli occhi pieni di lacrime che cercava di trattenere.

 

“Ma come si fa, dico io, come si fa ad essere così indifferenti dopo averlo visto in quelle condizioni! Riverso su quel letto!” esclamò in quello che era un mezzo grido, iniziando a singhiozzare.


Imma ebbe un’illuminazione, che le luminarie di Roma in confronto parevano un cerino.

 

“L’ambulanza l’ha chiamata lei, non è vero?”

 

La segretaria smise bruscamente di singhiozzare e la guardò con occhi enormi ed acquosi, mentre lesse chiaramente il panico sul volto e seppe di averci azzeccato.

 

Ed invece due paia di occhi azzurri, quelli di Calogiuri e quelli di Mariani, la guardarono in contemporanea con un’ammirazione che per poco non la fece arrossire.

 

“Cosa… cosa le salta in mente? Io-”

 

“Se ci tiene all’onorevole, e lo so che ci tiene, le conviene dirmi la verità. Anche perché lo scoprirò comunque da sola e poi sarà peggio. La telefonata è stata registrata e non mi sarà difficile comparare la voce con la sua. Allora?”

 

La segretaria spalancò gli occhi, se possibile, ancora di più, poi li richiuse e scoppiò in un pianto disperato.

 

Imma la lasciò sfogare per un po’, poi, mossa a compassione, le posò una mano sulla spalla. Ma la segretaria si scostò dal suo tocco neanche l’avesse bruciata e le lanciò uno sguardo carico d’odio, “è inutile che faccia la gentile ora! La colpa di tutto questo è solo sua! Lei ha provato in ogni modo a rovinare la vita all’onorevole Lombardi, finché non ci è riuscita. Comodo dispiacersi adesso!”

 

Imma si sentì colpita come da uno schiaffo, il senso di colpa e di nausea che le ribollivano nello stomaco. Stava per provare a parlare, a reagire, quando una voce la interruppe.


“La dottoressa non ha colpa di nulla!” si inserì Calogiuri, con un tono deciso, quasi rabbioso, piazzandosi tra lei e la segretaria, “ha solo fatto il suo lavoro. L’onorevole Lombardi si è rovinato da solo: tradendo tutte le promesse elettorali, vendendosi alla Firex e agli altri della cupola, consapevolmente e per sua scelta e-”

 

“E non è stata una sua scelta!” urlò la segretaria, con una foga tale che Imma per poco non fece un salto e pure Calogiuri, “lo hanno ricattato per la storia della Miulli, lo volete capire? Dell’incesto, che poi non c’era. Ma oramai era troppo tardi per l’onorevole. Se non avesse collaborato lo avrebbero distrutto e-”

 

“E gli sarebbe bastato ritirarsi o accettare la sconfitta elettorale, invece che volere il posto in regione a tutti i costi,” insistè Calogiuri, ed Imma non seppe se fosse ancora per proteggerla o per far parlare la segretaria, approfittando delle difese lasciate sguarnite dalla rabbia, “o magari venire da noi e l’avremmo aiutato.”

 

“E secondo voi a quelli sarebbe stato possibile dire di no e ritirarsi? Lo avete visto cos’è successo, no?”

 

“Appunto,” si inserì nuovamente Imma, facendo segno a Calogiuri che poteva bastare così per ora, “cercare di tenerseli buoni non è servito. Se non li fermiamo, altre persone potrebbero essere in pericolo, compresa lei. E poi, non vuole che paghino per quello che gli hanno fatto? Mi racconti com’è andata e cercherò di tenerla fuori, per quanto è possibile. Ma soprattutto le garantisco che farò di tutto per fermarli.”

 

“Lo… lo avevano convocato per una festa, alcuni del partito e… e non poteva non andare, sperava di riuscire a recuperare e a non farsi espellere,” iniziò a raccontare, dopo un attimo di esitazione, asciugandosi le lacrime, con voce tremante, “ma non era tranquillo ad andarci da solo, così mi ha detto di aspettare fuori dalla festa, appostata in auto, e di avvisare la polizia se non fosse tornato entro un paio d’ore. Io ho atteso, fino alle due di notte, come mi aveva chiesto. Poi ho iniziato a preoccuparmi, volevo chiamare la polizia, ma ho cominciato a vedere gente che usciva dal palazzo, in fretta e furia, ma l’onorevole non era tra loro. Ho temuto il peggio, ma a quel punto temevo anche di coinvolgere l’onorevole in un altro scandalo. Ho atteso che se ne andassero quelli della sicurezza all’ingresso del palazzo e sono entrata. Ho trovato la porta dell’appartamento aperta e non c’era più in giro nessuno… tranne…”

 

Scoppiò di nuovo in lacrime ed Imma si dovette trattenere dal toccarla, per non peggiorare la situazione, “saprebbe dirmi chi sono i colleghi di partito? E riconoscere qualche invitato alla festa? Magari quelli della sicurezza?”

“Gli addetti alla sicurezza non so chi fossero, ma posso farle i nomi dei colleghi che doveva incontrare e sugli invitati… c’erano un sacco di politici, imprenditori, calciatori, vip. Posso dirle chi ho riconosciuto ma…”

 

“Lei li faccia questi nomi e non si preoccupi. Il maresciallo Mariani qui se li segnerà tutti e interrogheremo i colleghi di partito con discrezione,” la rassicurò, anche perché dubitava seriamente che fossero loro i colpevoli.


Probabilmente erano stati solo l’esca perfetta, per qualcuno che aveva approfittato della festa per colpire indisturbato e coprendo le sue tracce.

 

Ma ormai era sera, Vitali e Santoro non le avrebbero mai permesso di contattare i parlamentari, già lo sapeva, il suo tempo a Roma era quasi scaduto e non le restava che fare la cosa che più detestava fare al mondo: delegare.

 

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“Dottoressa, è stata incredibile! Proprio come l’ha sempre descritta Calogiuri. Ma come ha fatto a capire che era stata la segretaria a chiamare i soccorsi?”

 

Imma si ritrovò col volto in fiamme, nonostante tutto, di fronte alla venerazione smodata della principessa, che la guardava nemmeno fosse stata l’incarnazione di Miss Marple.

 

“Perché ha definito Lombardi come riverso su quel letto: modo strano di descrivere una persona in terapia intensiva, non trova? E poi chi ha chiamato i soccorsi era una donna e l’ha fatto concitatamente, come se fosse in panico. E l’unica donna nella vita di Lombardi a cui di Lombardi evidentemente importava qualcosa, fin troppo, è proprio la segretaria. E così…”

 

La Mariani la guardò, se possibile, con ancora più ammirazione, mentre Calogiuri le sorrideva tra l’imbarazzato e l’orgoglioso.

 

“Allora dove volete che vi portiamo? Alla Tiburtina o preferite che vi accompagniamo in un hotel?” domandò Conti, più pragmatico e come sempre troppo solerte.

 

Imma guardò Calogiuri, che ricambiò con un’occhiata da cane bastonato che fu l’ultima picconata alla sua già scarsa forza di volontà. Anche perché, chi poteva dirlo se ci sarebbe mai stata di nuovo un’occasione del genere? I colpi di fortuna non potevano durare per sempre.

 

“Calogiuri, se per te va bene io mi fermerei stanotte e ripartirei con la prima corriera domattina. Non credo di reggere un’altra notte a dormire seduta,” proclamò, in quella che in fondo era la verità, ma solo una piccolissima parte della verità.

 

Calogiuri si illuminò a tal punto da fare concorrenza alla principessa - che, peraltro, cominciava a farle molta simpatia, e non solo per l’ammirazione nei suoi confronti - e propose, facendole venire un mezzo colpo, “dove volete soggiornare? Se vi siete trovata bene all’hotel dell’altra volta, posso provare a vedere se hanno due stanze libere.”

 

L’idea di un riscatto di quel fine serata mancato la attirava, e non poco, e si ritrovò a sorridergli di rimando e ad annuire, ancor prima di rendersene conto.

 

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“Buonasera signori, desiderate una stanza?”

 

Imma vide, pure di sbieco, Calogiuri diventare color peperone crusco, tipico di quando si imbarazzava davvero moltissimo. Il fatto che lo facesse ancora, dopo tutto quello che c'era stato tra loro, era di una tenerezza e di una bellezza a dir poco incredibili.

 

Si erano congedati da Mariani e Conti con la promessa di risentirsi non appena ci fossero state novità e si era sorpresa a tollerare tutto sommato di buon grado l’inevitabile abbraccio tra Calogiuri e la principessa. Forse non si era ancora del tutto rincretinita dalla gelosia, almeno quando si rendeva conto che era immotivata. La pin up di Potenza invece era tutta un’altra storia, ovviamente.

 

“No, abbiamo due stanze prenotate telefonicamente, a nome di Immacolata Tataranni e Ippazio Calogiuri.”

 

“Ah, sì, ecco, le ho trovate,” proclamò il receptionist, facendo compilare loro tutti i documenti e consegnando le chiavi delle stanze che, con sollievo di Imma, risultarono essere adiacenti.

 

Salirono in ascensore in perfetto silenzio ma, quando le porte furono chiuse, si guardarono e non poterono evitare di sorridersi, divertiti ed un po’ emozionati.

 

“Finalmente ce l’ho fatta a raggiungerti su questo ascensore,” le sussurrò Calogiuri e questa volta fu il turno di Imma di sentirsi le guance un po’ troppo calde.

 

Ebbe la tentazione fortissima di baciarlo ma, proprio in quel momento, le porte si aprirono e scesero rapidamente, per lasciare il posto ad alcuni turisti che li guardavano incuriositi - o forse era solo lei ad essere paranoica.

 

Raggiunsero in fretta le stanze e, accertatosi che non ci fosse in giro nessuno, Imma aprì la sua e poi diede la chiave di riserva a Calogiuri.

 

“Vado a farmi una doccia e a disfare il letto, in modo che non si capisca che non ci ho dormito, e ti raggiungo,” le sussurrò il maresciallo che era sempre meno ingenuo, mano a mano che il tempo passava, nonostante la timidezza, “poi, se vuoi, andiamo a cena. Ti andrebbe lo stesso ristorante dell’altra volta, in ricordo dei vecchi tempi, o preferisci cambiare?”


“Se c’è posto, perché no? Si mangiava davvero bene e magari stavolta riesco a godermi la cucina con un po’ meno imbarazzo,” ammise, perché tanto sarebbe stato inutile negarlo: a marzo il pensiero del possibile dopo cena l’aveva fatta sentire agitata come forse mai in vita sua.

 

Lo vide annuire ed entrare in stanza e poi lo imitò, chiudendosi la porta alle spalle.

 

Mi fermo a dormire qui a Roma: sono troppo stanca per un’altra notte in corriera. Ceno presto e poi stacco il cellulare che domani mi tocca un’altra levataccia. Sarò a Matera nel primo pomeriggio. Un bacio a te e a Valentina.

 

Inviò il messaggio, constatando che pure lei, come Calogiuri, era ormai diventata sempre più abile a gestire la logistica di una relazione clandestina. E questo non la rendeva certo orgogliosa, anzi.

 

Ma non poteva permettersi chiamate in tarda notte, non che Pietro si sarebbe mai più azzardato nella vita a farle una serenata al sassofono, con tutto quello che era successo.

 

Scosse il capo e si ripromise di godersi il momento, fino in fondo: per i sensi di colpa e per riflettere su come si fosse ridotto il suo matrimonio, nel giro di soltanto pochi mesi, c’era sempre tempo al ritorno a Matera.

 

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“Tutto bene? Hai freddo?”

 

“No, figurati! Si mangia sempre molto bene. E, rispetto a Matera, non fa ancora tanto freddo qui, anche se, con tutte queste luminarie, sembra già natale.”


“È vero.”

 

“A proposito, che farai per le vacanze di natale? E non dirmi che lavori ancora Calogiuri, perché ti sospendo personalmente!” lo minacciò, con tono scherzoso ma con una punta di reale avvertimento.

 

“Ma niente di che… sicuramente dovrò tornare dai miei a Grottaminarda. Anche per via di mia nipote, non posso mancare,” le rispose con un sorriso che la intenerì molto: si illuminava sempre quando parlava della piccola, “e tu che farai?”

 

“Niente… natale con mia madre e con i miei suoceri, e pure il resto delle feste comandate, temo.”

 

Si guardarono per un attimo con malinconia: sapevano entrambi che sarebbero state due settimane durissime da sopportare, ma dovevano prepararsi psicologicamente fin da ora a farlo.

 

“Vino?” le domandò, in quella che era ormai la loro tradizione per stemperare i momenti di tensione, e lei sorrise e se lo fece versare.


“Allora, che hai raccontato esattamente di me alla Mariani, Calogiuri?” gli domandò a bruciapelo e Calogiuri per poco non si strozzò col vino, finendo a tossire convulsamente.


“Guarda che la morte per soffocamento non ti salverà dal darmi una risposta,” scherzò, quando si fu un poco calmato e riprese fiato.


“Ma niente… dei nostri casi insieme… di come li hai risolti… di che tipo sei…”


“E che tipo sono, Calogiuri?”

 

“Una che non molla mai la presa,” ironizzò, visibilmente rosso in viso nonostante il buio, per poi affrettarsi a precisare, “non le ho detto che… che mi interessavi al di là del lavoro, ovviamente, se è questo che ti preoccupa. E non credo che l’abbia capito.”

 

“A parte che chi è senza peccato…” commentò Imma con un sorriso e, allo sguardo confuso di Calogiuri, chiarì, “non hai visto come guardava Santoro? Non credo ci sia nulla tra loro, perché lui mi sembra il classico uomo innamorato solo di se stesso, ma a lei piace. E molto anche.”

 

“Non ci ho fatto caso,” ammise lui, passandosi una mano tra i capelli, prima di sussurrarle, il viso che gli si scuriva ancora di più, come gli occhi, “anche perché ero troppo impegnato a guardare te.”

 

Imma sentì un’altra vampata che manco fosse stata in menopausa, il cuore che le accelerava nel petto di fronte al candore di quell’ammissione, pur sempre venato da quell’adorabile timidezza.

 

Si sporse in avanti e gli afferrò la mano. Lo sguardo le cadde dagli occhi alle labbra, senza poterlo evitare. La tentazione di baciarlo stava per vincere contro il buonsenso, quando una voce per poco non le fece prendere un infarto.


“Comprare bella rosa per bella signora?”

 

Imma guardò Calogiuri che la fissò di rimando, incredulo quasi quanto lei. Si voltarono in contemporanea verso la voce fin troppo familiare.

 

Ma sempre qui sta questo?! - si domandò Imma, avendo la conferma definitiva che, sì, il venditore di rose era lo stesso di marzo. Ma forse gli ambulanti si dividevano le zone e questa, evidentemente, era la sua.

 

“Ma io mi ricordo voi! No moglie, no mamma,” proclamò con una risata l’uomo ed Imma si sentì sprofondare: lei e Calogiuri dovevano davvero risultare una stranissima coppia per essere ricordati a otto mesi di distanza da un ambulante, che ne avrà visti a centinaia di turisti in un anno, per non dire migliaia.

 

“Senti, quanto viene una rosa?” tagliò corto Calogiuri, ancora rosso in viso, con l’aria di voler strozzare il venditore.


“Due euro!” rispose con un sorriso ed Imma notò con piacere che almeno lui non soffriva l’inflazione.


“Allora dammele tutte, così puoi andare a riposarti per stasera,” proclamò Calogiuri, estraendo una banconota da venti euro, dopo aver contato le sette rose ancora in mano al venditore, e ad Imma per poco non prese un colpo.

 

“Calogiuri, ma sei impazzito?! Non è necessario!”

 

Ma il maresciallo piazzò la banconota in mano all’uomo e si prese le rose, dicendogli di tenere pure il resto. L’ambulante gli sorrise e si dileguò rapidamente, felice come una pasqua.

 

“Calogiuri, ma sei matto?! Non devi buttare soldi per me, non serve!” lo ammonì, anche se il cuore le batteva di nuovo all’impazzata ed una parte di lei si sentiva al settimo cielo per tanta galanteria e tanta premura.


“I soldi spesi per te non sono mai buttati,” proclamò Calogiuri e ad Imma quasi prese un secondo colpo, il nodo in gola, il pizzicore agli occhi ed il peso sul petto che riemersero contemporaneamente, con il pacchetto completo, “e poi, con tutti i caffè e le colazioni che mi hai offerto quest’anno, non so quando mi rimetterò alla pari.”

 

Le sorrise e le porse il mazzo di fiori e lei dimenticò tutte le proteste e se le prese, abbracciandosele, ancora commossa.


E stavolta, fregandosene degli astanti, si alzò dalla sedia, si sporse, gli afferrò la giacca con la mano libera e lo baciò, come se al mondo esistessero solo loro due.

 

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“Roma di notte è proprio bella!”

 

Lo vide sorriderle e si sorprese di averlo detto ad alta voce. Si strinse di più nel suo abbraccio e non solo per scaldarsi, mentre proseguivano la loro breve passeggiata panoramica, avendo deciso di fare un giro largo per tornare in hotel. Le strade cominciavano a svuotarsi, il caos del giorno che lasciava piano piano spazio ad un'atmosfera più intima, a tratti quasi surreale.

 

“Roma è sempre bella. Anche se Matera non ha paragoni,” proclamò Calogiuri ed Imma si sentì di nuovo avvampare, che veramente pareva di avere le caldane, mentre ripensava a quel sogno assurdo, quasi premonitore, e a Calogiuri che la buttava sulla scrivania. Una delle poche fantasie che probabilmente non avrebbe mai avuto l’incoscienza di replicare: il lavoro era pur sempre lavoro e la procura piena di gente.

 

“La grande città però ha i suoi vantaggi…” si ritrovò a riflettere, di nuovo ad alta voce ma quasi più tra sé e sé: qui non li conosceva nessuno e a nessuno importava niente di loro. Potevano camminare abbracciati, baciarsi in pubblico e, sebbene qualcuno lanciasse comunque qualche occhiata nella loro direzione ogni tanto - del resto lo sapeva che erano una coppia a dir poco strana a vedersi - la maggior parte della gente se ne fregava altamente della loro esistenza.

 

“Non se non ci sei tu,” le sussurrò in un tono bassissimo, quasi come se, anche lui, non intendesse affatto esplicitarlo. Si voltò a guardarlo e, a giudicare dall’espressione, imbarazzata come raramente l’aveva mai vista - ed era tutto dire, trattandosi di Calogiuri - capì che effettivamente così era.

 

La commozione la travolse per l’ennesima volta quella sera. Perché anche per lei era lo stesso: Matera non le era mai stata stretta quanto nei mesi lontano da lui, neppure negli anni peggiori del suo rapporto altalenante di amore ed odio con la città dei Sassi. Si bloccò, lo afferrò per la nuca e lo baciò con una passione quasi disperata, sentendolo ricambiare con altrettanto vigore, le mani che la stringevano a lui per poi iniziare a esplorare sopra e sotto il cappotto, tanto quanto quelle di lei.


Presi dalla foga, si trovò schiacciata tra il corpo di Calogiuri ed una superficie solida. Un gemito di piacere le sfuggì dalla gola non appena lui prese a baciarle il collo, che si trasformò in un'esclamazione di dolore quando la superficie la spinse via, dandole un colpo alla schiena.

 

“E pigliateve ‘na stanza! Manco li regazzini!” urlò un vecchietto, emerso alle loro spalle da quello che riconobbero essere un portone, con un sacco della spazzatura in mano.

 

Imma si sentì di nuovo sprofondare, Calogiuri che era ormai color vino rosso e provava a balbettare delle scuse. Se lo prese per mano e lo trascinò via dagli epiteti che ancora lanciava loro l'anziano.

 

Girarono l'angolo, si guardarono e scoppiarono a ridere, imbarazzati.

 

"Sei veramente pericoloso, Calogiuri! Prima o poi finisce che ci arrestano!" scherzò, anche se il modo in cui riusciva a farle perdere la testa era realmente preoccupante. Ma non riusciva ad arrabbiarsi, né con lui né con sé stessa: perché la faceva sentire viva come mai prima, ed a quei pochi momenti nei quali potevano essere semplicemente due persone, come milioni di altre, non avrebbe rinunciato per niente al mondo.

 

"Forse è meglio che torniamo in hotel," ammise lui, toccandosi il collo, prima di aggiungere, con tono e sguardo dispiaciuti, "e scusami per le rose… bel regalo ti ho fatto!"

 

Imma lanciò un'occhiata alla borsa, dove aveva riposto i fiori per avere le mani libere,e si avvide che erano effettivamente rimasti mezzi schiacciati nell'impeto della passione.

 

"Ma figurati, Calogiuri! E poi si sono sacrificate per una buona causa!" ironizzò, facendogli l'occhiolino e prendendolo nuovamente a braccetto, mentre lui si imbarazzava ancora di più.

 

Si avviarono rapidamente verso l'hotel, la tensione che ritornava a salire, fino a rendere l'atmosfera elettrica. Si ritrovarono a baciarsi non appena le porte dell'ascensore si chiusero alle loro spalle e a separarsi giusto il tempo di cercare disperatamente la chiave di lei in borsa, aprire la porta della stanza e chiudere il mondo fuori.

 

La prima a finire a terra fu la borsa: le rose ebbero un ultimo canto del cigno, spargendo petali sul pavimento, che manco in una telenovela argentina. E poi fu il turno dei vestiti, che seppellirono incerimoniosamente i petali, perché stavano a Roma e non a Buenos Aires.

 

Si staccò dalle labbra di Calogiuri solo per spingerlo, con un'esclamazione di soddisfazione, sul materasso. Lo guardò, disteso sul lenzuolo, completamente nudo, i capelli scompigliati dalle sue mani, il viso ancora rosato, giovane e bello come un dio greco e per un attimo si bloccò, incantata ad osservarlo, mentre qualcosa le si muoveva nel petto.

 

“Che c’è?” le domandò, con sguardo interrogativo, forse vedendola lì impalata, dopo la frenesia dei minuti precedenti.

 

“Sapessi quanto l’ho desiderato, di averti qui con me in questo letto…” le uscì in un sussurro, prima che potesse impedirselo, forse a causa del vino, forse a causa del senso di libertà derivante dall’essere per un po’ in un mondo quasi parallelo. Si sentì avvampare dalla testa ai piedi e tremendamente vulnerabile, mentre un moto di panico le strinse lo stomaco.

 

Fare certe ammissioni non era affatto da lei, ma ultimamente a volte le sembrava di non riconoscersi più.

 

L’espressione di Calogiuri mutò improvvisamente, facendosi viscerale, selvaggia come forse solo dopo quel primissimo bacio nel suo ufficio, che lei gli aveva chiesto, invano, di scordare. Lo vide sollevarsi sulle ginocchia e, in un attimo, si ritrovò pigiata nel materasso, mentre lui la baciava in un modo che le levò l’aria dai polmoni, lasciandogliene giusto il necessario per un grido che le fu impossibile soffocare.

 

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“Hai intenzione di tenermi sveglia tutta la notte anche stavolta, Calogiù?”

 

Se ne stava spalmata sopra di lui, il fiato ancora corto e le endorfine a mille, il cuore che le rimbombava nelle orecchie, il cervello che nuotava in quel mezzo stordimento misto a beatitudine in cui lui la riduceva ogni singola volta in cui facevano l’amore.

 

“Ah, perché tu invece di solito non mi tieni sveglio, dottoressa?” ribattè, con quel sorriso da impunito che sempre più spesso gli scappava in camera da letto, e non solo, per poi aggiungere, con uno sguardo più dolce, timido e quasi supplicante, “e poi possiamo sempre dormire un poco durante il viaggio.”

 

“Obiezione accolta, Calogiuri,” lo prese in giro, guadagnandosi un pizzicotto sul fianco. Per tutta risposta, provò a dargli un colpo sulla spalla ma lo vide fare una smorfia di dolore.

 

Sorpresa, considerati i muscoli del maresciallo, guardò l’area che aveva colpito e si avvide di un segno di denti tra il collo e la spalla. Il sangue le andò di nuovo alla testa, mentre sfiorava quel marchio provocato nel tentativo di non dare troppo spettacolo con gli altri ospiti, causandogli un altro sussulto, “scusami, Calogiuri, mi sa che ho un po’ esagerato.”

 

Calogiuri sorrise e poi, di botto, divenne di un colorito fucsiaceo e la guardò mortificato, indicandole il collo e balbettando un preoccupatissimo, “no- non sei la sola. Mi dispiace, non volevo, veramente. Non ti voglio creare problemi e… scusami, sono uno stupido!”

 

Imma si sollevò dal suo petto e rivolse uno sguardo allo specchio. E lo vide: un bozzo rosso sul lato del collo, inequivocabile. Provò un misto inspiegabile di panico ed eccitazione al tempo stesso.

 

“Non ti devi scusare per questo, Calogiuri. Lo so che stai sempre attento a non lasciare segni. Succede. Vorrà dire che per qualche giorno avrò un torcicollo tremendo,” ironizzò per sdrammatizzare, accarezzandogli il viso, intenerita nel vederlo così abbattuto, prima di afferrargli il mento e dirgli, con più forza, “ma se poco poco t’azzardi ancora a darti dello stupido, è la volta buona che mi arrabbio veramente. Chiaro?”

 

Calogiuri annuì, con un sorriso grato e con gli occhi lucidi e lei se lo abbracciò stretto, sorprendendosi di non sorprendersi nemmeno più di non riuscire ad arrabbiarsi con lui, né della strana calma con cui stava affrontando quell’imprevisto, dalle conseguenze potenzialmente gravissime. Per fortuna con Pietro erano in pausa da tentativi ravvicinati di contatto e, con fondotinta, una sciarpa ed un po’ di fortuna, sarebbe probabilmente riuscita a sfangarla anche stavolta.

 

“Sarebbe bello…” lo sentì sussurrarle dopo un po’ nei capelli, e sollevò il viso per guardarlo in modo interrogativo, rendendosi conto che era di nuovo un pensiero espresso inconsapevolmente ad alta voce.

 

“Che cosa?”

 

“Niente… poter fare altre trasferte qui a Roma,” ammise con un sospiro, abbassando gli occhi, provocandole di nuovo quel dolore dolce al petto.


“Lo so… piacerebbe pure a me, Calogiuri,” sussurrò, passandogli una mano tra i capelli, “ma dubito sarà possibile, conoscendo Vitali. Ma ti prometto che proverò a chiederglielo, quando ci saranno un po’ di sviluppi su cui indagare. Va bene?

 

“Va bene…” le sussurrò di rimando, in un modo che le fece bene e male al cuore.  Si ritrovò a baciarlo ed accarezzarlo con tutta la dolcezza di cui era capace, prima di farlo nuovamente suo. Lentamente, senza fretta, come se non ci fosse una clessidra invisibile a scandire i tempi di ogni loro incontro, la cui sabbia si stava inesorabilmente esaurendo. Come se suo lo fosse per davvero.

 

E, soprattutto, come se fosse realmente sua e soltanto sua, e non solo in quel mondo tutto loro, fatto di respiri, di sguardi e di frasi strette in gola o lasciate a metà.

 

Perché, oltre ogni logica e buonsenso, era esattamente così che si sentiva.


Nota dell’autrice: Innanzitutto, buon Santo Stefano e grazie per avere letto fin qui!

Vi confermo che il prossimo capitolo, che arriverà domenica, sarà parecchio a tema “natale e capodanno”, molto dolcioso, e chiuderà definitivamente la prima parte di questa storia che, al momento, dovrebbe avere circa quattro “atti”, più o meno, anche se non tutti della stessa lunghezza. La seconda parte sarà più turbolenta, vi preavviso, ma il lieto fine ci sarà, sempre e comunque ;). Spero davvero che la narrazione possa continuare a mantenersi interessante e non noiosa, come sempre i vostri commenti sono preziosissimi per capire come me la sto cavando.

Un grazie enorme per l’assiduità con cui state seguendo questa storia e per le vostre recensioni che mi danno una motivazione incredibile per continuare a scrivere e cercare di migliorarmi sempre.

Grazie di cuore ancora e auguri!

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Capitolo 10
*** Un Dono Inatteso ***


Nessun Alibi


Capitolo 10 - Un Dono Inatteso


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Dottoressa, siamo quasi arrivati. Volete passare prima da casa o andare direttamente in procura?”

 

Sollevò lo sguardo verso Calogiuri, ridestandosi definitivamente dal mezzo dormiveglia in cui si trovava. Alla luce del giorno, aveva dovuto accontentarsi del finestrino come cuscino, invece della spalla del maresciallo. Ma il suo subconscio doveva avere altre idee, perché nel sonno si era mossa, fino a gravitare verso di lui e ritrovarsi nuovamente nel suo abbraccio.

 

Passare la notte in bianco il giorno prima di un’udienza non era stata forse l’idea più responsabile del mondo, ma non riusciva a pentirsene, come di tutte le altre cose combinate ultimamente. Avrebbe recuperato quella notte e poi sarebbe andata come doveva andare.

 

“Andiamo in procura, Calogiuri, è già tardi e dobbiamo sistemare le ultime cose per domani. E poi Vitali vorrà che gli faccia rapporto,” sospirò, sebbene il procuratore capo, per una volta, non avrebbe dovuto proprio avere motivo di lamentarsi. Almeno per quanto riguardava il lavoro, era stata ligia alle regole, fin troppo.

 

Il bus si fermò. Ritirarono la coperta, presero i borsoni e scesero con calma: essendo gli ultimi, la fila davanti a loro era interminabile ed era inutile scapicollarsi.

 

“Fate attenzione, dottoressa, si scivola,” l’avvertì Calogiuri, premuroso come sempre: fuori dal bus diluviava e gli ultimi gradini si erano bagnati per la pioggia che cadeva di sbieco.

 

Le porse il braccio dal marciapiede, prendendosi il diluvio, e lei lo afferrò, usandolo per scendere il gradino più alto senza schiantarsi, o almeno provandoci, perché il tacco dello stivale destro decise di scivolare lo stesso e Calogiuri dovette afferrarla per l’altro braccio con la mano libera, per evitarle un capitombolo.

 

Sentì la familiare scossa elettrica alla spina dorsale, pur mentre la pioggia le inondava viso e capelli. Stava per aprire bocca per chiedergli dove avesse messo l’auto di servizio, quando una voce per poco non le fece prendere un infarto.


"Imma!”

 

Il cuore in gola, si voltò di scatto, rischiando un’altra scivolata, e staccandosi forse con troppa rapidità dalla presa di Calogiuri: si ritrovò davanti Pietro con un ombrello sulla testa ed un altro in mano, che la guardava con un’espressione che, per una volta, non avrebbe saputo decifrare. Si toccò quasi inconsciamente la sciarpa, che celava quel segno che non era affatto riuscita a coprire del tutto col fondotinta.

 

“Pietro! Ma che ci fai qui? Non dovresti stare al lavoro?” gli chiese, sforzandosi di produrre un tono neutro, anche se non era affatto sicura di esserne stata capace, prima di aggiungere, con il suo solito piglio di comando, cosa che le veniva decisamente meglio, “e passami sto ombrello prima che mi faccio la doccia.”


“Ah, sì, sì, ecco,” abbozzò lui, aprendole l’ombrello e porgendoglielo, “visto il diluvio, ho chiesto un’ora di permesso e ti sono venuto a prendere per accompagnarti a casa.”

 

“Grazie mille Pietro, davvero, ma non dovevi. Anche perché, il maresciallo ha la macchina qua vicino e pensavamo di andare direttamente in procura, che domani c’è l’udienza,” ribatté, voltandosi rapidamente verso Calogiuri che era ancora sotto il diluvio universale: i capelli ed il viso ormai completamente lavati e pure il giaccone, un'espressione fin troppo neutra, non fosse stato per la mascella serrata.

 

Per un secondo ebbe l’impulso di coprirlo col suo ombrello, ma si rese immediatamente conto che non sarebbe stato il caso. Non solo perché non era professionale, ma soprattutto perché l'unico modo di starci entrambi sotto quell'ombrellino sarebbe stato a braccetto, come minimo.

 

“Dottoressa, se volete andare a casa con vostro marito, vi posso venire a prendere più tardi,” si offrì, con un tono professionale come non glielo aveva forse mai sentito. Ma, lei che lo conosceva bene, colse il lieve tremore nella voce alla parola marito.

 

“Pietro, scusami, ma preferisco andare in procura: non sarei tranquilla a venire a casa ora,” proclamò, in quella che in fondo era solo la verità, ma non per i motivi che avrebbe immaginato lui, “cerco di rientrare un po’ prima stasera, che sono già stanca mo.”

 

Pietro annuì, sempre con quell’espressione indecifrabile sul volto e ad Imma prese il panico, mentre si chiedeva se sospettasse qualcosa. Il panico si sciolse e si acuì insieme quando lo vide alzare l’ombrello sopra il suo e sporgersi in avanti, prendendole il viso con la mano libera e posandole un bacio sulle labbra.

 

Si irrigidì senza volerlo, mentre un'ondata di senso di colpa le rovesciò lo stomaco, facendole venire la nausea.

 

Fortunatamente, Pietro si staccò prima che potesse peggiorare e, con un mezzo sorriso, si congedò, "va bene, amò, ti aspetto a casa. Maresciallo, buona giornata.”

 

“Buona giornata a voi,” sentì Calogiuri rispondergli, sempre con quel tono iperprofessionale e Pietro si voltò e si avviò verso la macchina.


“Dov’è l’auto di servizio?” gli chiese, con una voce che sembrava uscita dall’oltretomba e Calogiuri si avviò a passo rapido, per poi voltarsi, quando la udì incespicare, porgendole di nuovo il braccio, in modo rigido, formale.

 

Lo sapeva benissimo che c’era Pietro che ancora poteva vederli, ma sentì comunque la nausea peggiorare mentre lo afferrò, lasciandosi aiutare a compiere gli ultimi passi fino all’auto, mentre la macchina di Pietro sfrecciava accanto a loro. Si gettò dentro all'abitacolo, l’ombrello che le bagnava la gamba e formava una pozzanghera sul tappetino.


Ma fu niente in confronto a quella che si portò dietro Calogiuri, che sembrava si fosse appena fatto la doccia vestito.

 

Senza guardarla, avviò il motore e fece per partire, ma lei gli poggiò una mano tremante sul braccio e lo bloccò.

 

“Mi dispiace…” gli sussurrò, mortificata, e Calogiuri ancora non la guardò, ma abbassò la testa, in un modo che la fece sentire tremendamente in colpa.

 

“Ti prenderai un malanno così, aspetta,” proseguì, con voce tremolante, aprendo il borsone, fradicio anch’esso, ma per fortuna impermeabile, estraendone una delle sue maglie e porgendogliela, “tieni, non è un asciugamano, ma meglio di niente, e mo mettiamo il riscaldamento al massimo.”

 

E finalmente Calogiuri si voltò, il viso ancora completamente bagnato, se di pioggia o d’altro non avrebbe potuto dirlo con certezza, ma gli occhi lucidi non mentivano, fissandola con un misto di dolore e stupore.

 

“Non… non serve, ci sono abituato alla pioggia, dall’addestramento. Mi cambio poi in procura,” pronunciò in un tono meno freddo ma con una nota rassegnata che le fece doppiamente male, “e… non ti devi preoccupare. Lo so come funziona, te l’ho già detto.”

 

“Ma non è giusto, Calogiuri, e non posso non preoccuparmi! Prendi, è un ordine!” gli intimò, praticamente piazzandogli la maglia in mano, finché lui la afferrò con un sospiro e ci si asciugò alla bell’e meglio i capelli e il viso, “adesso mi porti veloce in procura e poi te ne vai a casa a cambiarti e a farti una doccia calda. Che tanto io devo parlare con Vitali. Ed è di nuovo un ordine, Calogiuri.”

 

Gli occhi gli si velarono di malinconia e gratitudine, mentre la guardava in un modo che le faceva venire voglia di piangere, di abbracciarselo e di baciarselo. E la cosa peggiore era che sapeva benissimo di essere stata lei la causa del suo dolore.

 

Ti farà anche male, ma non fai nulla per risparmiarglielo, Imma. Troppo comodo piangere lacrime da coccodrillo! - le ricordò la sua coscienza, con la voce della Moliterni, e odiò doverle dare ragione.

 

"Non me ne importa niente della pioggia," sussurrò Calogiuri, quasi come se potesse leggerle nel pensiero, ed Imma perse la battaglia con le lacrime - da coccodrillo o meno - sporgendosi per prendergli la mano, che ancora stava rigida sul cambio.

 

"Lo so…" ammise con un sospiro, prima di prendere una decisione, d'impulso, "andiamo a casa tua, Calogiuri. Vitali può pure aspettare un'altra ora."

 

Calogiuri sorrise, mentre gli occhi gli si fecero terribilmente acquosi, due lacrime che gli scendevano sulle guance da poco quasi asciutte, ma scosse la testa e rispose, stringendole la mano, "no, è troppo rischioso. Se… se tuo marito ti cerca in procura e non ti trova…. A me basta il pensiero."

 

Ed Imma sentì qualcosa di enorme e densissimo nel petto, che sembrava volerle scoppiare dentro. Non aveva mai provato niente del genere in vita sua, un misto di dolore e di bene e di a-

 

Si bloccò prima di poter formulare quel pensiero, spaventata, commossa e scombussolata come mai prima, limitandosi a buttare del tutto la cautela al vento ed abbracciarselo, fregandosene dell'acqua che dal giaccone di lui le filtrava nel cappotto e le bagnava i vestiti, fregandosene dei passanti, fregandosene dei rischi.

 

L'unica cosa che in quel momento le importava era che lui stesse bene.

 

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"Come mai tieni la sciarpa?"

 

La voce di Pietro la fece sobbalzare sul bordo del letto. Si era appena messa il pigiama, cambiata la sciarpa con una pulita e si apprestava a quelle che speravano fossero almeno dieci ore di sonno, nonostante la tensione per il maxiprocesso.

 

"Ho il torcicollo. Sai, a dormire in corriera, poi col freddo e l'umidità…" rispose, sperando che se la bevesse.

 

Era tornata a casa in apprensione, temendo i sospetti di Pietro, ma lui era stato finora apparentemente tranquillo e cordiale.

 

La guardò senza parlare per qualche istante e poi annuì, mettendosi a letto pure lui. Imma si affrettò a infilarsi sotto le coperte e girarsi su un fianco  in modo che il segno sul collo fosse dal lato del cuscino, per quanto le desse un po' fastidio.

 

Pietro provò ad abbracciarla da dietro e lei non riuscì a trattenersi dal contrarre i muscoli.

 

"Scusami, ma ho male al collo e ho bisogno di dormire," gli sussurrò, senza nemmeno voltarsi, trattenendo il fiato mentre lo sentì esitare e poi sciogliere l'abbraccio.

 

Attese una buonanotte che non arrivò, nemmeno dopo che lo udì girarsi nel letto e spegnere la luce.

 

Con un peso sul petto ed uno strano senso di fatalità addosso, si lasciò trascinare dalla spossatezza in un sonno profondissimo.

 

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"Se non ci sono ulteriori elementi, fisserei la seconda udienza al sei di marzo."

 

Come da copione. Dovette mordersi la lingua per non protestare per le tempistiche e non peggiorare la situazione col giudice.

 

E poi… che fretta c'era, ormai? Gli imputati, a parte Zakary, o erano all'ospedale o in carcere o al camposanto. 

 

Il giudice la guardò per un secondo, forse sorpreso dall'assenza di proteste, dichiarò chiusa l'udienza e si ritirò.

 

"E ora che facciamo?"

 

Si voltò verso Calogiuri che l'aveva raggiunta al banco dell'accusa, Vitali che la osservava per una volta con approvazione dalla terza fila di sedie.

 

"Niente Calogiuri, non ci resta che aspettare i risultati di tutte le analisi fatte e gli sviluppi da Roma. E lavorare sugli altri casi che abbiamo lasciato indietro."

 

Calogiuri sospirò ed annuì, aiutandola a farsi largo tra i giornalisti, in quello che era ormai un rituale quasi automatico.

 

"Dottoressa, come sta? La vedo un poco sciupata. Ha fatto le ore piccole? Dovrebbe avere più riguardo per la sua salute."

 

Alzò gli occhi al cielo e sospirò, voltandosi ad incontrare gli occhi di ghiaccio di Romaniello, scortato dagli agenti della polizia carceraria, che la fissava con un sorriso da brividi - e non di piacere.

 

"Dovrebbe preoccuparsi di più della sua di salute, signor Romaniello. Sebbene mi sembra si sia adattato bene ai suoi nuovi commensali e coinquilini. E anche il nuovo look le si addice," ironizzò, riferendosi alla divisa carceraria che Romaniello aveva deciso di indossare anche al processo, forse per giocarsi la carta dell'impietosimento.

 

"A lei invece questo abbigliamento castigato non dona affatto. Ha un collo così bello, perché coprirlo?" le sussurrò, in un tono che le fece venire i brividi - e di nuovo non di piacere - mentre fece un cenno a Calogiuri per dirgli di stare calmo, vedendo anche in tralice il modo in cui serrava la mascella e squadrava Romaniello, "anche se poi, si sa, l'abito non fa il monaco, o la monaca, anzi."

 

Si trovò, senza volerlo, a toccare il collo del maglione nero a dolcevita, la rabbia che montava insieme all'indignazione, prima di proclamare, sarcastica, "nel suo caso invece, l'abito la definisce perfettamente, signor Romaniello. E per il resto, fortunatamente ho opzioni meno limitate di lei in carcere, ma magari qualche anima buona le passerà una bella rivista, dato che una donna in carne ed ossa non la vedrà più fino ad un'età dove gli unici bollori che le saranno rimasti, saranno quelli della borsa dell’acqua calda. Buon proseguimento, signor Romaniello, tante care cose e buone feste!"

 

Girò sui tacchi e guadagnò rapidamente l'uscita, udendo, dopo qualche attimo di silenzio totale, i passi degli scarponcini di Calogiuri affrettarsi per raggiungerla.

 

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"Imma, sono appena arrivati i risultati della scientifica sugli oggetti di Bruno. Te li ho messi sulla scrivania."

 

"Alla buon'ora! Ormai mi aspettavo che me li portasse Babbo Natale!" proclamò, levandosi il cappotto e buttandolo sulla sedia, trattenendo un brivido di freddo, sia per la temperatura esterna gelida, sia per i riscaldamenti tenuti al risparmio.

 

Matera era avvolta dal gelo tipico dei primi di dicembre e tutto sembrava rallentare, anche le indagini.

 

Nell'ultimo mese di sviluppi degni di nota sul maxiprocesso non ce n'erano stati: da Roma tutto taceva e Lombardi era ancora in uno stato comatoso. Le possibilità che tornasse a una vita normale erano minime.

 

Gli onorevoli interrogati erano stati reticenti, come previsto, negando la presenza alla festa o l'invito a Lombardi e si attendevano ancora le analisi della scientifica sulle centinaia di prove rinvenute alla festa. E sui fronti aperti a Matera, questa era la prima novità significativa delle ultime settimane.

 

Sprofondò nella sedia ed aprì la busta, trovando i risultati dell'analisi sulle penne. La stilografica più costosa veniva confermata essere la penna con cui Bruno aveva scritto la busta indirizzata a lei. Come previsto. Le righe successive però la sorpresero:

 

Il pennino è risultato perfettamente pulito da ogni residuo di inchiostro. Sulla punta dello stesso sono state rinvenute tracce di una sostanza acida. Verosimilmente succo di limone o una sostanza dal pH paragonabile.

 

Imma si chiese se si potesse trattare di un detergente… anche se pulire una superficie metallica con il limone non le sembrava una grande idea. C'era qualcosa che le sfuggiva, qualcosa che scalciava nella sua memoria, ma cosa?

 

Decise di andare a cercare Calogiuri e parlarne con lui: di solito la aiutava a sbloccarsi in casi come questo. E poi, dopo la trasferta a Roma, di occasioni per stare insieme ce n'erano state ben poche, con la D'Antonio che gli teneva sempre il fiato sul collo e la mole di lavoro di tutti i casi lasciati indietro per il maxiprocesso. Ma, magari, se dicembre dava loro un po' di tregua...

 

Si affacciò in PG ma ci trovò solo Matarazzo che scriveva a computer.

 

"Se cerca il maresciallo, è andato al bar," disse dopo qualche attimo di silenzio, con un tono strano, un misto tra una sfida ed una nota amarognola che non comprese.

 

Tanto che non si sprecò nemmeno di fingere di non stare cercando Calogiuri o di essere sorpresa che quella fosse stata la prima intuizione di Matarazzo.

 

Con un cenno del capo si congedò e si avviò verso il bar, un po' sorpresa che Calogiuri facesse una pausa caffè già alle nove del mattino.

 

Entrò decisa ma i piedi le si bloccarono di colpo, neanche avesse indossato le Scarpette Rosse della celebre fiaba e non un paio di stivaletti leopardati.

 

Ad un tavolo riconobbe Calogiuri, pure se di spalle, ma, soprattutto, il caschetto corvino della donna di fronte a lui.

 

Lo zoo che viveva ormai in pianta stabile nel suo petto si mise a fare un casino infernale, mentre i suoi piedi si mossero da soli e si fermarono a pochi passi dal tavolino, protetta dalla visuale della brunetta dalla schiena di Calogiuri e dal provvidenziale albero di natale.

 

Stava valutando come palesare la sua presenza, quando la voce della Telese la raggiunse, sopra al brusio.

 

"E questo è tutto sugli sviluppi del caso. Invece… io sarò qui a Matera fino a dopodomani per un convegno. Se le va… se ti va, e se puoi, mi piacerebbe invitarti a cena stasera."

 

Un istinto omicida la colse, facendole immaginare decine di metodi diversi per mandare la pin-up al creatore, uno più soddisfacente dell'altro, prima che un senso di impotenza le attanagliasse il cuore, mentre attendeva col fiato sospeso la risposta di Calogiuri, che era rimasto paralizzato con la tazzina a mezz'aria. 

 

E che pensavi, Imma? Che si sarebbe accontentato di fare il tuo amante a vita, con la sfilza di corteggiatrici che può avere? - le ricordò la Moliterni con la solita mira da cecchino.

 

"Io- io vi ringrazio molto per l'invito, veramente, ma sono già impegnato."

 

La voce di Calogiuri, prima balbettante, poi più decisa, interruppe il vortice dei suoi pensieri e la inchiodò alle sue responsabilità con una stilettata di senso di colpa.

 

"Allora possiamo fare domani sera, se sei libero," incalzò la Telese ed Imma non avrebbe saputo dire se c'era o ci faceva.

 

"No, cioè… sono già impegnato sentimentalmente con una persona."

 

"Non dirmi che sei l'unico uomo impegnato e fedele rimasto sulla faccia della Terra?" ironizzò lei, con un misto tra delusione ed ammirazione nella voce.

 

"Non penso di essere l’unico. E, semplicemente, non mi interessa nessun'altra,” chiarì Calogiuri, con una sicurezza tale nella voce, come se stesse pronunciando un’ovvietà, che le causò quella sensazione intensissima nel centro del petto, sovrastando perfino il senso di colpa che la stava mangiando viva.

 

“Chiunque sia è molto fortunata, e spero lo sappia,” rispose la Telese, dopo qualche attimo di silenzio, prima di porgergli qualcosa sul tavolo.


E che non lo so che sono fortunata? E che non me la merito per niente tutta questa fortuna, purtroppo - pensò Imma, sentendosi sempre più a disagio, sentendo che stava sbagliando tutto, che doveva fare qualcosa per essere degna, almeno in minima parte, di tutto quell’amore incondizionato, per renderlo felice almeno un centesimo di come lui la rendeva felice.

 

C’è un solo modo, Imma, e lo sai qual è - le ricordò la voce della sua coscienza, e stavolta era la Imma interiore a parlare, a suggerire di nuovo l’impossibile, l’impensabile, l’in-

 

Non è impossibile, basta avere coraggio ed onestà. Due doti che non ti sono mai mancate sul lavoro, perché non puoi averle anche nel privato?

 

Perché non voglio finire per rovinarci la vita a vicenda, se fosse un fuoco di paglia! - sbottò con se stessa, per quanto suonasse folle, e forse un po’ lo era davvero.

 

A te sembra un fuoco di paglia?

 

Non potè evitare di scuotere il capo, mentre osservava Calogiuri tenere in mano un pezzo di carta e chiedere sorpreso alla Telese perché gli avesse dato il suo biglietto da visita.

 

“In caso cambiassi idea in futuro, l’invito resta aperto,” chiarì la donna, che evidentemente non aveva intenzione di mollare la presa tanto facilmente - e come darle torto!

 

“Guardate, se ci sarà occasione di collaborare per un altro caso, molto volentieri. Ma, per il privato, non penso proprio che cambierò idea in futuro. Spero questo non ci crei problemi sul lavoro.”

 

“No, maresciallo, assolutamente, si figuri,” sospirò la pin-up, tornando al lei in un’ammissione di resa.

 

Imma stava per sgattaiolare via, avendo visto e sentito abbastanza, quando il suo cellulare scelse proprio quel momento per iniziare a squillare all’impazzata.

 

Calogiuri e la Telese si girarono verso di lei e la beccarono in pieno. Se avessero capito che stava origliando non avrebbe potuto dirlo, perché si affrettò ad estrarre il cellulare dalla tasca della giacca e avviare la conversazione, la voce concitata del maresciallo La Macchia che le diede immediatamente sui nervi.

 

“Calogiuri, se mi puoi accompagnare, dobbiamo andare a Rotondella. Un morto in un Bed and Breakfast e, se non ci sbrighiamo, La Macchia farà il solito macello,” gli spiegò, non appena ebbe chiuso la conversazione, vedendolo lì impalato con un’espressione preoccupata sul viso.

 

Calogiuri si limitò a farle un sorriso, che in confronto tutte le luci dell’albero insieme erano nulla, e a un “agli ordini, dottoressa!” che le sembrò stranamente divertito e pure un po’ sollevato.

 

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“Imma, se non c’è altro io andrei che Cleo-”

 

“Torna da Londra per le vacanze. Lo so, Diana, lo so, me lo hai già detto cinque volte soltanto oggi,” sospirò, esasperata, sollevando lo sguardo e vedendo la cancelliera ancora impalata sulla porta, “e dai, vai pure e fai buone vacanze, prima che perda del tutto la pazienza.”

 

“Grazie Imma!” esclamò Diana con un sorriso, abbassandosi e trascinandola in un abbraccio prima che potesse obiettare. Le scappò un sorriso - tanto la cancelliera non lo avrebbe mai visto - e la strinse di rimando, dandole due colpi sulle spalle.

 

“E goditele pure tu le feste, anche se sembri Scrooge ed il Grinch messi insieme,” esclamò Diana, sciogliendosi dall’abbraccio, facendole un sorriso e sparendo rapidamente dalla porta, prima che riuscisse a reagire.


“Ma grazie! Bella gratitudine, complimenti!” le gridò attraverso la porta, sentendola ridere dal corridoio.

 

Sospirò e guardò l’orologio che segnava le 15. Era ancora molto presto e quell’anno oltretutto toccava chiudere già il ventuno, che lunedì era il ventiquattro ed in procura non ci sarebbe stato nessuno. Il natale era, come sempre, arrivato troppo in fretta, ma mai quanto quell’anno. La prospettiva di due settimane a casa, senza lavoro, non le era mai sembrata tanto opprimente.

 

Come avrebbe fatto a resistere senza vedere Calogiuri non lo sapeva: era già durissima dover centellinare il tempo con lui incontrandolo ogni santissimo giorno in procura.

 

Bussarono alla porta e urlò un “avanti!” che si trasformò in un sorriso quando l’oggetto dei suoi pensieri si materializzò sulla soglia.

 

“Dottoressa…” pronunciò in modo stranamente timido, chiudendosi la porta alle spalle ed avvicinandosi alla scrivania, con dei fascicoli in mano.

 

“Calogiuri. Tutto bene?” gli chiese, preoccupata dalla tensione e dal nervosismo che leggeva nel suo sguardo.

 

“Sì, sì. Volevo… volevo restituirvi il fascicolo sul caso di Rotondella. Ho terminato ed incluso gli ultimi verbali, come mi avevate chiesto, sono in cima al primo fascicolo,” pronunciò, porgendole le cartelline, per poi aggiungere, dopo un attimo di esitazione, “vi consiglio di dare una lettura prima di andare, perché ci sono un paio di punti in cui non ero certo della verbalizzazione. Per il resto, se non avete più bisogno di me, io andrei.”

 

“Vai già oggi a Grottaminarda, Calogiuri?” gli domandò, faticando a contenere la delusione nel tono di voce. Non sapeva che cosa si aspettasse esattamente dal loro congedo prima di natale, ma certamente non di parlare di verbali.

 

“Stasera, ma volevo sistemare un paio di cose a casa prima della partenza,” chiarì, con un tono neutro, e per un attimo Imma si aspettò un invito velato, che però non venne, anzi, Calogiuri rimase ad attendere qualcosa, che Imma realizzò essere il permesso di congedarsi.

 

“Va bene, Calogiuri,” sospirò, non potendo certo trattenerlo a forza, “allora fai buone vacanze e buon viaggio.”

 

“Grazie, dottoressa, passate buone vacanze anche voi,” sorrise Calogiuri, esitando per un attimo, come se fosse incerto se avvicinarsi o meno, prima di girare i tacchi e sparire dietro la porta.

 

Imma sentì un macigno sul petto ed un groppo tremendo in gola, gli occhi che le si facevano lucidi ma non per i motivi soliti per i quali Calogiuri le suscitava quei sentimenti. Fece mente locale su cosa potesse essere successo negli ultimi due giorni - quelli intercorsi dall’ultima volta che si erano visti a casa sua e sembrava andare tutto bene - per provocare un simile cambiamento nel maresciallo, una simile freddezza, cosa potesse avere fatto di sbagliato per rischiare di perderlo, se non l’aveva già perso.

 

Secondo te, Imma? Ci vuole proprio un grande sforzo di immaginazione! - le ricordò la Moliterni, pungente come sempre e, pure questa volta, non a torto.

 

Perché la verità era che era un miracolo che Calogiuri non l’avesse mandata a quel paese già da mo, anzi, che si fosse interessato a lei fin dal principio.

 

D’impulso, prese i fascicoli e li buttò a terra, con un boato tremendo. Stava per cedere alle lacrime, quando notò una busta bianca con un fiocco rosso che era scivolata da una delle cartellette, fin sul pavimento.

 

Si chinò e la afferrò, con mano tremante, voltandola e leggendo solo il nome Imma, scritto con la grafia ordinatissima di Calogiuri in mezzo alla busta.

 

Per poco non strappò via il fiocco, per via delle mani che facevano la tarantella, e riuscì finalmente ad aprire la busta e ad estrarne un cartoncino, che faticò per un attimo a mettere a fuoco, per via degli occhi lucidi e, quel poco che vi lesse, peggiorò pure la situazione.

 

Era un buono per quattro lezioni di equitazione, in un maneggio un po’ fuori Matera.

 

E di nuovo quella sensazione al petto, quella specie di conglomerato pronto ad esplodere, che non fece che ingigantirsi quando vide il biglietto bianco ancora infilato nella busta e le parole che c’erano scritte sopra.

 

Non è mai troppo tardi.

Tuo

Calogiuri

 

Si asciugò gli occhi alla bell’e meglio con i palmi delle mani e si guardò intorno, alla ricerca del cellulare, che quando serviva non c’era mai, ma poi, d’istinto, corse in corridoio, si affacciò alla finestra e lo vide, fermo poco davanti al portone, dove era stato bloccato da Capozza che gli diede una pacca sulla spalla e si allontanò.

 

Fregandosene della figura da pescivendola, aprì la finestra, lasciando entrare il vento gelido di dicembre e urlò un “Calogiuri, aspetta lì!” che risuonò per tutta la piazza.

 

Lo vide sollevare lo sguardo e sorriderle, di uno di quei sorrisi bellissimi che brillavano pure da lontano. Richiuse la finestra, rientrò in ufficio, raccolse sommariamente i fascicoli e li mollò sulla scrivania - per riordinarli c’era pure tempo a gennaio - si infilò il cappotto, nella cui tasca rintracciò finalmente il telefono, prese la borsa e uscì di corsa, ignorando la Moliterni e Vitali che provarono ad augurarle buone feste, limitandosi ad urlare loro un ironico “anche a voi e famiglia!”. Si fece i gradini due a due, arrivando, senza fiato ma con l’adrenalina a mille, fuori dal portone.

 

Due occhi azzurri incrociarono i suoi, appena sotto i gradini, a due passi dagli agenti della sicurezza, e le chiese, con un altro sorriso bellissimo, “avete ancora bisogno di me, dottoressa?”

 

Sempre! - fu la prima risposta che le salì in gola ma si affrettò a deglutire, limitandosi a un, “lo so che è l’ultimo giorno prima delle vacanze, ma un nuovo elemento di prova è appena giunto alla mia attenzione. E ho bisogno che mi accompagni in un posto, Calogiuri.”

 

Calogiuri sorrise, se possibile, ancora di più e le rispose con un “sarà un vero piacere, dottoressa!” il cui tono le causò un mezzo cedimento alle ginocchia, che per fortuna si affrettò a compensare, prima di concludere sì la giornata, ma in ospedale.

 

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“Non deve avere paura: il cavallo è alla corda e sotto controllo. Provi a farlo andare al trotto come le ho mostrato.”


L’insegnante, Sabrina, una che ai trenta ci arrivava a fatica, il fisico asciutto da fantino, tutta gambe, coda di cavallo alta che ondeggiava al vento, occhi azzurri e sorriso, tirò leggermente la corda, per incitare il cavallo - e lei - a muoversi.

 

Perché, sì, finora cavalcare andando al passo le era pure piaciuto, più di quanto si aspettasse, nonostante i sobbalzi ed i contraccolpi, ma l’incoscienza dell’infanzia non c’era più e lasciava il posto ad una certa dose di apprensione di rompersi il collo.

 

“Forza, sono sicuro che ce la puoi fare. Se ha imparato un brocco come me,” sentì la voce di Calogiuri spronarla, dal cavallo su cui era tranquillamente seduto, al di là del recinto del circuito di addestramento dove si trovava lei.

 

“La fai facile tu, che a cavallo ci sai già andare,” replicò lei con un sorriso, “ma se ti dai del brocco un’altra volta, giuro che corrompo il cavallo perchè ti disarcioni.”

 

“No, che il cavallo mi serve intero,” si inserì Sabrina, altrettanto ironica ma con una punta di avvertimento, “e poi ha ragione. Ce la può fare tranquillamente.”

 

Imma sospirò e, un po’ anche per un moto di orgoglio di non sfigurare con Calogiuri, strinse i polpacci - compressi nei pantaloni da equitazione che l’istruttrice le aveva noleggiato insieme agli stivali, essendosela vista arrivare in gonna e tacchi alti - come le era stato mostrato ed il cavallo prese a trottare, facendola sobbalzare che manco fosse in uno shaker.

 

“Provi a tenersi sollevata come le ho mostrato, così sarà meno fastidioso,” la spronò l’istruttrice ed Imma fece leva su quei pochi muscoli che aveva, forgiati da lunghe camminate su tacchi vertiginosi e riuscì a mantenersi in quell’equilibrio precario, almeno per qualche minuto che le sembrò interminabile, prima di sentire bruciare muscoli mai sentiti prima e doversi arrendere a tornare nello shaker.

 

“Bravissima! Per oggi può bastare così, fermi il cavallo come le ho mostrato,” si sentì ordinare, cosa a cui non era affatto abituata, ma fece come le venne detto e riuscì a fermare il docilissimo cavallo d’addestramento senza troppi problemi.


Scendere dalla sella fu invece più complesso e per poco non fece un ruzzolone, ma si sentì afferrare da due braccia forti e si voltò per vedere Calogiuri che le sorrideva. Doveva essere in qualche modo sceso da cavallo ed aver saltato la staccionata - roba che manco in uno spot di un olio di semi si vedeva più.

 

“Su come smontare dalla sella ci dobbiamo lavorare, ma per essere la prima lezione della sua vita e considerato la sua età è stata davvero bravissima, complimenti!” proclamò l’istruttrice con un sorriso, ed Imma fu combattuta tra la soddisfazione e l’istinto di strozzarla per averle velatamente dato della vecchia, almeno fino a che la ragazza aggiunse, “è molto portata per l’equitazione. Secondo me può fare grossi miglioramenti in poche lezioni e, mi creda, non lo dico a tutti, anche perché non mi converrebbe.”

 

Imma non potè evitare di sorridere e provare una sorta di commozione, come se si sentisse di stare abbracciando la se stessa bambina, quella che, di fronte agli occhi dispiaciuti di sua madre, aveva dovuto fingere un sorriso e che di andare a cavallo, in fondo, non le importasse nulla. Così come aveva sempre finto che non le importasse nulla di tutte le rinunce a cui la loro condizione economica l’aveva obbligata. Perché sapeva che sua madre si spezzava la schiena per lei e non voleva farla preoccupare.

 

E così, di tutti i suoi sogni di bambina, solo uno ne aveva realizzato, ed era diventare magistrato. Questo era il secondo ed era una sensazione stranissima, a cui non era affatto abituata.

 

Sentì la presa delle braccia che la stringevano ancora farsi un po’ più salda e si appoggiò leggermente al petto di Calogiuri con la schiena, voltandosi per incontrare il suo sguardo, colmo d’orgoglio e pure un poco commosso, e sorridergli.


“Se volete, visto che il suo compagno sa già andare a cavallo e ha pagato la lezione per fare poco e niente, e lei mi sembra molto leggera, potreste provare a farvi una cavalcata insieme, sullo stesso cavallo. Giusto qui intorno, che i boschi sono gelati e non è il caso. Quello magari più avanti, verso primavera, se proseguirete con le lezioni.”

 

Imma sentì una scossa di eccitazione, non avrebbe saputo dire se alle parole il suo compagno, o alla prospettiva della passeggiata. Forse era stata una follia non provare a fingere nemmeno che lei e Calogiuri avessero un rapporto semplicemente amicale: il maneggio era sì un po’ distante da Matera, ma non all’altro capo del mondo. Ma, semplicemente, era stata talmente felice che le era stato impossibile dissimulare ciò che provava per il maresciallo, e ormai sarebbe stato solo più sospetto farlo.

 

E così, si lasciò spiegare come montare davanti a Calogiuri, lei sulla sella, lui mezzo fuori, essendo più capace, sperando che il cavallo reggesse il loro peso combinato senza protestare.

 

Dopo un po’ di tentativi imbarazzanti, finalmente si trovò aggrappata alla sella, appoggiata alla schiena di lui che la abbracciava da dietro, tenendo le redini e mantenendola in equilibrio tra le sue braccia.

 

Calogiuri fece partire il cavallo, in una passeggiata intorno al maneggio, prima piano, poi al trotto e, stranamente, Imma si rilassò e riuscì a sollevarsi come richiesto e ad evitare lo shaker, i muscoli che per qualche motivo non protestavano più, forse perché lui le reggeva parte del peso.

 

“Dove hai imparato a cavalcare?” gli chiese, quando tornarono ad andare a passo più lento, rilassandosi del tutto sulla sua schiena, pur mentre con le gambe cercava di tenere l’equilibrio.

 

“Al corso d’addestramento mi hanno fatto fare un po’ di lezioni. Sai, per le parate…” le spiegò ed Imma se lo immaginò a cavallo, in alta uniforme e si sentì avvampare, per qualche motivo, “e poi… da bambino cavalcavo il mulo in campagna, ma non credo conti.”

 

“E perché no, Calogiuri? Comunque mo ho capito da chi hai imparato, quando ti impunti su qualcosa,” ironizzò, beccandosi un leggero pizzicotto sul fianco ed un bacio sul collo, che per poco dal cavallo non ci cascava sul serio, non ci fossero state due braccia muscolose a reggerla.

 

E, dopo qualche altro attimo bellissimo e fin troppo breve, il giro terminò e vide l’istruttrice fare loro segno di riavvicinarsi al recinto e smontare da cavallo.

 

Cosa che riuscirono a fare dopo qualche tentativo un po’ tragicomico, con lei che si ritrovò di nuovo aggrappata alle spalle di Calogiuri per non spalmarsi a terra, finendo a ridere come due matti.

 

“Su come scendere da cavallo ci dobbiamo proprio lavorare, a meno che non sia tutta una scusa,” ironizzò la ragazza, facendole un mezzo occhiolino, per poi affermare, con un sorriso, “non che non ti capirei: siete una coppia bellissima, complimenti! Forse la più affiatata che mi sia capitata da quando insegno qui. E siete pure tutti e due molto portati.”

 

Imma sentì il viso farsi bollente e notò che pure Calogiuri, al suo fianco, era diventato bordeaux, oltre al fatto che Sabrina era, per qualche motivo, passata a darle del tu. Cosa che però non le dispiacque, anzi, la fece sentire meno vetusta.

 

“Scommetto che lo dici a tutte le coppie che vengono qui, per convincerli a tornare,” scherzò Imma, anche se una parte di lei si chiese se fosse tutta una strategia di marketing o se davvero lei e Calogiuri potessero risultare una bella coppia, e non solo una coppia improbabile, a gli occhi di qualcuno.

 

“No, guarda, con certi casi umani che mi sono capitati, se non tornano mi fanno un favore. Non avete idea di quanta gente prenda il venire qui come una terapia di coppia, solo che se avessi voluto occuparmi di certi problemi, avrei fatto la psicologa e non il fantino,” sospirò, riprendendo in mano le redini del cavallo, prima di congedarli con un altro di quei sorrisi che le tenevano mezzo viso e dare loro appuntamento a dopo il sette gennaio, quando volevano.

 

“Ci tornerai vero?” le domandò Calogiuri, mentre si stavano avviando alla macchina, mezzi abbracciati.

 

“Se vieni con me, sicuramente,” rispose con un sorriso e lui si illuminò, come se il regalo di natale lo avesse fatto lei a lui e non viceversa.

 

“Certo che ci vengo!” esclamò, deciso, dandole un bacio sulla tempia che, per qualche motivo, le causò di nuovo quella sensazione al petto.


“Non dimenticherò mai quello che hai fatto oggi per me, Calogiuri. Grazie,” gli sussurrò, bloccandosi per voltarsi verso di lui e guardarlo negli occhi, “è stato il regalo più bello che mi abbiano mai fatto. Ed io non c’ho neppure niente da darti.”

 

“Venire qui con te è già il regalo più bello che tu potessi farmi,” sussurrò di rimando, e si sentì afferrare per la vita e trascinare in un bacio che le levò il fiato e la ragione.

 

“Che dici? Facciamo in tempo a farcelo un salto al tuo appartamento?” gli domandò con un altro sorriso, nonostante l’orologio segnasse ormai le diciassette e non fosse probabilmente l’idea più prudente che avesse mai avuto.

 

Ma l’espressione di Calogiuri, un mix di incredulità, felicità e gratitudine, mise a tacere anche l’ultima traccia di buonsenso rimasto, mentre gli prese il viso per reclamare un altro bacio.

 

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“Mi sa che mo mi tocca proprio andare, Calogiuri.”

 

Sospirò, tirandosi seduta, l’orologio sul comodino che segnava le diciannove. Non poteva tardare oltre e sperare di farla franca.

 

Calogiuri aveva quell’espressione che sembrava un cane bastonato, e la prese una botta di malinconia e nostalgia, sebbene non sapesse come fosse possibile sentire già la mancanza di qualcuno che era ancora lì con lei.

 

Se lo abbracciò, ignorando i brividi dati dal contatto con la sua pelle nuda, e gli sussurrò all’orecchio, seppure non ci credesse nemmeno lei, “due settimane passano in fretta, vedrai. Goditi le vacanze, però, è un ordine!”

 

“Va bene…” le sussurrò, in quel suo modo che le faceva male al cuore, mentre lei si staccò a fatica e prese a rivestirsi, facendogli segno di restare pure a letto.

 

“Non serve che ti rivesti, tanto torno a piedi, fai pure con comodo.”

 

Lui annuì, dopo qualche istante di esitazione, e lei rimase per un attimo in piedi, completamente vestita, ad ammirarselo ancora nudo su quel letto.

 

Le prese un’altra botta tremenda di magone: quanto avrebbe voluto poter passare tutte le vacanze con lui, tra quelle quattro mura o ovunque lui volesse. Ma, purtroppo, non si poteva e-

 

E perché, no, Imma? Basterebbe un po’ di sincerità! - le ricordò la Imma interiore, a cui ultimamente lasciava sempre più la briglia sciolta, letteralmente, a giudicare dalla quantità di follie che stava facendo in quel periodo - appunto! E domandati perché le stai facendo, nonostante il rischio di farti scoprire da Pietro. Forse perché il rapporto con lui non funziona più, e lo sai.

 

E certo! E mo vado da Pietro, bella bella, quattro giorni prima di natale e gli dico che lo lascio, dopo vent’anni insieme, perché mi sono i-

 

Si bloccò nuovamente, un senso di panico misto a felicità che la prese alla bocca dello stomaco. Si chiese come fosse possibile sentirsi in questo modo, come divisa tra due emozioni così contrastanti.

 

Aveva delle responsabilità, e lo sapeva, come sapeva benissimo che anche solo l’idea di una confessione ora sarebbe stata non solo una follia, ma una bastardata ancora peggiore del silenzio di questi mesi. Per quanto le cose con Pietro andassero male, anzi, malissimo, non si meritava una cosa simile e poi c’era Valentina che non c’entrava nulla e aveva il diritto ad un natale sereno.

 

Eppure, guardando Calogiuri, sentì di nuovo quella sensazione di essere sul punto di esplodere, come se ci fossero tantissime cose che voleva e doveva dirgli, ma non avesse in quel momento parole che rendessero loro giustizia e, soprattutto, che non risultassero maledettamente ipocrite, vista la sua situazione familiare e personale attuale.

 

“Tutto bene?” le chiese, facendole quasi fare un salto dallo spavento, immersa com’era in quei pensieri, e si avvide che la guardava preoccupato.

 

“Mi… mi mancherai,” ammise infine, perché era l’unico di quei pensieri confusi che potesse ammettere e Calogiuri sorrise, e si commosse, e la abbracciò ancora più stretto, come se non volesse lasciarla andare. Non che lei volesse essere lasciata andare.

 

Ma alla fine dovette staccarsi e, dopo un’ultima carezza su quel viso con i primi accenni della barba della sera, uscì dalla stanza, recuperò la borsa e si lasciò quell’appartamento e la felicità che conteneva alle spalle.


Sarebbero state due settimane infinite.

 

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“Imma! Finalmente, cominciavo a preoccuparmi! Ma dove sei stata? Ho provato a chiamarti e il cellulare mi dava sempre non raggiungibile. E in procura mi hanno detto che eri già uscita.”

 

Rimase impalata in corridoio, sorpresa, non tanto dalla preoccupazione di Pietro - qualche domanda se l’aspettava pure - ma un interrogatorio in piena regola no.

 

Estrasse il cellulare dalla tasca e si avvide dei messaggi della compagnia telefonica che segnalavano le chiamate perse, mentre il telefono non era raggiungibile.

 

“Ero in campagna, Pietro, per un sopralluogo. Evidentemente il cellulare non prendeva bene. Mi spiace se ti sei preoccupato,” riuscì a formulare, ormai fin troppo abile nell’inventarsi scuse all’ultimo momento.

 

“Un sopralluogo? Con il maresciallo, immagino?” le domandò, con un tono strano, ed Imma si fece due conti e si chiese chi gli avesse risposto in procura.

 

“Sì, certo,” rispose, sapendo benissimo che gli agenti della sicurezza li avevano visti andare via insieme, chiedendosi dove Pietro volesse andare a parare e se sospettasse qualcosa, sebbene nelle ultime settimane non avesse più fatto accenno all’episodio alla fermata della corriera.

 

Pietro la guardò per qualche istante, senza parlare, poi si avvicinò, come per baciarla, ma si bloccò a pochi centimetri da lei, con un’espressione stranita.

 

“Cos’è questo odore?”

 

Imma si paralizzò, chiedendosi se potesse sentirle addosso il profumo di Calogiuri. Avrebbe dovuto farsi una doccia prima di tornare a casa, ma non ne aveva avuto il tempo. Il senso di panico iniziò a farsi sentire, anche se c’era insieme pure quello strano fatalismo, che invece la sorprese.

 

“Sembra che ti sei infilata in una stalla! Ma dove siete andati a farlo il sopralluogo?”

 

“Ah! No, scusa, è che c’erano animali. Sai, mucche, cavalli…. Mi vado a fare una doccia, che mi sa che ne ho proprio bisogno,” proclamò, avviandosi in tutta fretta verso il bagno, ma lui le prese la mano e la fermò.

 

Ebbe un altro momento di panico, ma lui accorciò nuovamente le distanze e stavolta la baciò, sorridendole sulle labbra, “non me ne importa niente dell’odore, anzi, dà un certo nonsochè di selvaggio.”

 

Sapeva che stava scherzando e si sentì per certi versi sollevata del pericolo scampato. Ma, al panico di essere stata scoperta, si sostituì un altro tipo di panico: quello di quando Pietro tentava, anche indirettamente, un approccio. Cosa che ormai non faceva più da quasi un paio di mesi a questa parte, dopo il ritorno da Alba, ma non potevano continuare così per sempre, e lo sapeva.

 

“Ma importa a me. Mi sistemo e torno, tu intanto prepara in tavola, se non lo hai già fatto,” svicolò, verbalmente e dalle sue braccia, infilandosi in bagno e chiudendo con un sospiro la porta dietro di sé.

 

Sarebbero state due settimane durissime.

 

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“Ippà!”

 

L’aria gli uscì dai polmoni, ritrovandosi stretto in una morsa, con un sessanta chili buoni appesi al collo.

 

“E dai mà, così lo soffochi!” la voce di sua sorella risuonò da un punto indefinito alla sua sinistra e, per fortuna, la presa si sciolse.

 

“Ma figurati! Ma poi non lo vedi, come sta sciupato, mo che vive solo? Ma mangi, figlio mio?”

 

“Sì, mà, mangio, mangio, tranquilla!” sorrise, sospirando, come sempre, alle premure di sua madre che, fosse stato per lei, avrebbe dovuto pesare perlomeno un quintale, per come lo rimpinzava come un tacchino ogni volta che tornava a casa.

 

“Ma che sciupato! Sta benissimo, invece! E chissà quante ragazze c’ha intorno, mo che vive solo,” ironizzò sua sorella, facendogli l’occhiolino e comparendo sulla soglia di casa, lei sì con delle grandi occhiaie, tipiche dei neogenitori, “fai bene, Ippà, dà retta a me, divertiti finché puoi!”

 

“Ma che dici, Rosà?! Chisto teneva una ragazza d’oro e l’ha mollata come o’ baccalà! Mo manca solo casì piglia la prima svergognata che gli fa due moine, ingenuo che è!”

 

“Sì, ingenuo…” sospirò Rosaria, con un’occhiata eloquente, “magari una volta. Dai, mà, entriamo che fa freddo.”

 

Si sentì avvampare, come gli capitava fin troppo spesso, uno dei sintomi della timidezza di cui ancora non era riuscito a liberarsi, nonostante fosse indubbiamente migliorato, sia sull’essere impacciato, sia sull’ingenuità.

 

Forse era per questo che non amava molto tornare a Grottaminarda, e non solo per il pressing asfissiante di sua madre su Maria Luisa. Dovuto sia all’amicizia che l’aveva legata alla mancata consuocera, sia alla pressione del paesello, per l’onta ed il disonore arrecati alla famiglia di Maria Luisa, piantandola a due passi dalle nozze, almeno secondo le idee di una volta, ancora tanto care a sua madre e alle comari di paese.

 

Ma anche perché tornare a Grottaminarda gli ricordava quel ragazzo insicuro, imbranato, ignorante e, soprattutto, insoddisfatto di se stesso che sperava di essersi lasciato per sempre alle spalle. Ed, allo stesso tempo, quella purezza, quell’ingenuità, in senso buono, che invece un po’ gli mancava ed invidiava al se stesso di una volta e che aveva dovuto, almeno in parte, perdere per strada, con tutto quello che gli era successo nell’ultimo anno e mezzo.

 

Sperava solo di non perdersi del tutto, prima o poi, perché dopo Lolita lo aveva temuto sul serio. Ma la sua dottoressa l’aveva rimesso in carreggiata, sebbene se ne fosse risentito e pure parecchio. La verità, però, era che l’unica persona che aveva odiato davvero in quel periodo era se stesso. Di odiare lei non sarebbe mai stato veramente capace e, al di là di tutto, averla nella sua vita gli dava la strana certezza che, pure se avesse ancora sbandato, lei gli avrebbe sempre ricordato chi lui fosse veramente, con le buone o le cattive.

 

Si avviò col borsone verso la sua camera, che sua madre aveva mantenuto ancora religiosamente intatta, com’era prima che lui si arruolasse nell’Arma. Colse dai discorsi di sua sorella e di sua madre che suo padre e suo fratello fossero ancora nei campi, per finire di concimare vicino al frutteto. Sua nipote invece faceva un pisolino e suo cognato sarebbe rientrato quella sera dall’ultima consegna prima del blocco dei camion.

 

Lasciò il borsone sul letto e ci si sedette con un po’ troppa irruenza, mentre la mente tornava, inesorabilmente, ad Imma - perché, almeno nel pensiero, era così che si sorprendeva a riferirsi a lei, ormai sempre più spesso.

 

Era come una droga per lui, una droga dalla quale era in tremenda astinenza dopo soltanto un giorno, e si ritrovava a pensarla costantemente e, purtroppo, a chiedersi inevitabilmente cosa stesse facendo in quel momento. Con chi fosse.

 

E con chi vuoi che sia? Con suo marito, no! - gli ricordò la voce della sua gelosia che si faceva sentire sempre più spesso, soprattutto da quando gli era toccato non solo rivedere il signor De Ruggeri, con annessi sensi di colpa, ma soprattutto assistere impotente mentre si baciava la sua Imma.

 

Non è tua, e lo sai!

 

Ma è rimasta con me, era preoccupata per me e non per lui. Quel giorno ha scelto me, nonostante i rischi! - protestò, provando a zittire la voce che lo tormentava.

 

Perché Imma per lui faceva azzardi sempre più grandi, a mano a mano che i mesi passavano, questo era innegabile, pure per uno insicuro come lui. Come al maneggio, quando non aveva nemmeno provato a tenere le distanze e a negare che fossero una coppia - sebbene non lo fossero realmente, a ben vedere. O in procura, quando lo aveva chiamato dalla finestra - che per poco non gli prendeva un infarto - fregandosene dei commenti che, immancabilmente, avevano fatto gli agenti della sicurezza e chiunque altro l’aveva sentita.

 

Quando le aveva fatto quel regalo, non aveva nemmeno lontanamente creduto possibile che gli chiedesse di accompagnarla, anche se una piccola parte di lui, forse, un poco ci aveva sperato.

 

Perché la sentiva sempre più vicina, e non solo fisicamente. Perché, sempre più spesso, quello che le leggeva negli occhi gli dava, nonostante tutto, una speranza, forse folle ed insensata, ma pur sempre una speranza, che un giorno Imma avrebbe potuto sceglierlo sul serio, in tutti i sensi, alla luce del sole.

 

Ma, intanto che tu speri, lei ogni sera torna da suo marito e pure ora sta con lui, mentre tu stai qua a pensarla come il cretino che sei!

 

Si passò una mano sugli occhi, per far scomparire le immagini mentali che quel pensiero portava con sé. Perché immaginarsi Imma con lui gli era insopportabile.

 

Chissà se fa l’amore con lui, come lo fa con te. Se trema al suo tocco come quando la sfiori. Se anche con lui è così passionale, che sembra non bastarle mai. Se lo abbraccia dopo come si aggrappa a te, se dormono abbracciati ogni notte, come fa con te, se-

 

Si alzò di scatto dal letto, scuotendo la testa furiosamente, come se questo bastasse a levargli dalla mente quelle fantasie che lo tormentavano da mesi. Quel demone della gelosia che non poteva lasciare uscire, lasciar trapelare, nemmeno per sbaglio.

 

Perché Imma gli aveva praticamente ordinato di avvertirla se la loro situazione lo avesse fatto stare male. E lui temeva che, qualora lei se ne fosse resa conto, avrebbe finito per chiudere la loro frequentazione. E perché sapeva benissimo che, se fosse esploso in altre scenate come quella fattale in procura, pochi giorni prima della Festa della Bruna, sarebbe apparso agli occhi di lei come inaffidabile, come pericoloso - per davvero e non solo come lo definiva ormai costantemente, in modo scherzoso.

 

Non poteva sembrare una mina vagante, pronta ad esplodere: c’era in gioco troppo. Imma gli aveva messo in mano praticamente la sua carriera e tutta la sua vita, iniziando quella storia clandestina con lui, e non avrebbe mai voluto portarla a dubitare di essersi sbagliata a fidarsi di lui, al di là di come sarebbero finite le cose tra loro.

 

Decise che sarebbe andato a farsi una corsa: l’aria fresca lo avrebbe calmato ed anestetizzato, almeno per un po’. Doveva fare qualcosa di pratico per non impazzire, anche perché gli restavano ancora sedici giorni prima di rivederla.

 

Aprì il borsone, si spogliò e si infilò la tuta del’arma, la prima che aveva trovato. Prese il cellulare e le cuffie e si avviò verso la cucina e l’ingresso.


“E mo dove vai conciato così?”

 

“A correre, mà!” provò a tagliare corto, prima che partisse con una delle sue prediche, ma fu ovviamente inutile.

 

“Con sto freddo? Che poi ti pigli qualche malanno! E sei già tanto magro!”

 

“Mà, fa il carabiniere di mestiere, deve essere sportivo. Lascialo andare tranquillo,” lo difese sua sorella, riemergendo dalla stanza con in braccio la piccola Noemi, attaccata al seno.

 

“Ciao piccolina,” la salutò con un sorriso intenerito, ma la bimba si limitò ad aprire pigramente un occhio azzurro, prima di tornare a mangiare soddisfatta.

 

“Golosa come suo padre. Quando finirò di allattarla avrò il seno alle ginocchia,” sospirò, guadagnandosi un’esclamazione scandalizzata di loro madre.

 

“Grazie Rosa,” le sussurrò, grato per avere attirato le ire materne, consentendogli di sgattaiolare fuori, “e comunque sei bellissima, nonostante le occhiaie.”

 

“Se… solo perchè ti fa comodo. Ascolta, se esci recupera la posta, che ho visto il camion del postino passare prima, ma non c’ho voglia di cambiarmi per andare fin là.”

 

“Va bene, la recupero al ritorno,” la assicurò, guadagnando finalmente la tanto agognata libertà da quell’atmosfera opprimente e notando effettivamente, alla fine dello sterrato che dalla strada principale portava alla loro casa, un trecento metri più avanti, che la cassetta della posta era piena fino quasi a straripare.

 

Percorse, forse con fin troppa velocità, le stradine in terra battuta che costeggiavano i canali di irrigazione, familiari tanto da conoscerle a memoria, ripensando con stupore ai tempi in cui erano letteralmente tutto il suo mondo, l’unico che avesse mai conosciuto. Si avvide soltanto all’ultimo di essersi avvicinato al frutteto e riconobbe in lontananza le figure di suo padre, sempre più curvo, nonostante avesse poco più di cinquant’anni, e di suo fratello maggiore che, a stare nella posizione in cui stava ora, si sarebbe incurvato altrettanto rapidamente, quando i trent’anni di oggi avrebbero lasciato il posto agli anta.

 

Provò il solito misto di riconoscenza e senso di colpa verso Modesto che, per la sola sfortuna di essere il primogenito, si era trovato in dono questa bella eredità con cui spezzarsi la schiena. E questo sebbene non se ne fosse mai lamentato, né avesse mai provato a fare altro, mollando la scuola finito il periodo dell’obbligo, mentre lui, pur essendo considerato da tutti un brocco, le superiori almeno le aveva finite.

 

Ma, se l’essere l’ultimogenito, il ciuccio di famiglia, per un periodo lo aveva lasciato nello smarrimento di che cosa fare della sua vita e delle sue poche capacità, ora aveva definitivamente compreso quanto fosse stato fortunato, perché una vita aveva potuto scegliersela e aveva perfino trovato un mestiere che amava alla follia, quasi quanto amava chi gliel’aveva insegnato.

 

Suo fratello invece era intrappolato in una vita già scritta, sebbene non fosse ancora sposato, come avrebbe previsto il copione: al paesello a trent’anni se non stavi maritato voleva ancora dire che avevi qualche problema. Ma, se le donne, per via del maschilismo, erano considerate direttamente delle zitelle senza speranza, ai maschi ancora un po’ di ritardo veniva tutto sommato perdonato.

 

Questo non aveva impedito però a sua madre di dare il tormento sia a lui che a suo fratello. Sua sorella era l’unica che finora le aveva dato soddisfazione, sposandosi con il suo fidanzatino dai tempi delle superiori e rendendola finalmente nonna, dopo due anni di pressing martellante, iniziato poco dopo lo scambio delle promesse sull’altare.

 

Suo padre e suo fratello non lo notarono e lui se ne guardò bene di palesare la sua presenza, proseguendo la corsa e spingendosi fino a percorrere una quindicina di chilometri, rientrando solo quando le ombre iniziarono ad allungarsi e sarebbe stato imprudente tardare oltre.

 

Fradicio di sudore, nonostante il freddo, si fermò, correndo sul posto, per mantenere la promessa fatta e svuotare la cassetta da numerose buste ed un paio di piccoli pacchi destinati a sua sorella.

 

“La posta!” annunciò, entrando in casa e richiudendosi il freddo alle spalle, mollando pacchi e buste sul tavolo dell’ingresso.

 

“Grazie, fratellino! Oh, finalmente sono arrivati, non ci speravo più!” esclamò sua sorella, felice, afferrando i pacchetti con delicatezza, in modo da non disturbare Noemi che se ne stava tranquilla attaccata al suo petto, avvolta nella fascia.

 

Fece per andare in camera, per farsi una doccia prima che il bagno venisse occupato da suo padre e suo fratello di ritorno dai campi, quando si sentì chiamare.

 

“Questa è per te!”

 

Afferrò quasi in automatico la busta gialla che sua sorella gli porse, con uno sguardo incuriosito, e per poco non gli cascò di mano quando riconobbe la grafia con cui era scritto a pennarello nero il suo nome e cognome, chiedendosi se stesse allucinando o se veramente fosse di chi pensava che fosse.

 

Voltò la busta ma il mittente era un’anonima casella postale. Di Matera però. Ed era stata spedita una settimana prima, ma le poste sotto le festività si sapeva che non erano per nulla efficienti.

 

“Ippà, che c’è? Pare che hai visto un fantasma. Mica sarà un pacco bomba?” ironizzò sua sorella, con una punta però di reale preoccupazione.

 

“Ma figurati!” ribatté, il cuore in gola, facendo per avviarsi verso la stanza.

 

“Se non è una bomba, è una ragazza, dico bene?” lo raggiunse la voce alle sue spalle, e si sentì avvampare - maledetti capillari! - voltandosi con uno sguardo come ad implorarla di fare piano.

 

“Tranquillo: mamma è andata a fare la spesa insieme alla vicina. E comunque è una ragazza, allora. O una delle tante. E bravo il fratellino!” lo schernì, facendo per allungare una mano a scompigliargli i capelli e rinunciando all’ultimo momento, notando quanto fosse sudato, “vatti a fare una doccia, però mo, ti prego!”

 

Le sorrise e approfittò del via libera per chiudersi in stanza, la busta che sembrava pesare chili e non solo pochi grammi, il cuore che ancora andava all’impazzata, più che con tutta la corsa messa insieme.

 

Si sedette sul letto e con mano tremante aprì la linguetta, fregandosene per una volta di farlo senza tagliacarte, e svuotò il contenuto sul letto.

 

Barcellona.

 

Fu quello il primo nome che lesse mentre, incredulo, il suo cervello realizzava che si trattava di un biglietto aereo di andata, datato 27 dicembre, uno di ritorno per il cinque di gennaio, più la prenotazione di un albergo a tre stelle in centro città.

 

E, in mezzo a tutto il resto, un unico foglio bianco, ripiegato a metà.

 

Lo so che i regali andrebbero consegnati di persona ma, se lo avessi fatto, so che quasi sicuramente non lo avresti accettato. Vorrei poter partire anch’io insieme a te, ma purtroppo, come sai, non mi è possibile. Ma ti immaginerò tra le vie di Barcellona e sarà un po’ come se fossi lì con te.

Vai e divertiti, Calogiù, è un ordine!

Grazie per tutto quello che hai fatto e che fai per me ogni giorno, anche se non me lo merito.

Buon Natale!

Imma

 

Si accorse di tremare come una foglia dal modo in cui la lettera traballava nell’aria. Sentì freddo al viso e si rese conto che era bagnato e non solo di sudore. Il petto sembrava sul punto di scoppiare: non pensava gli sarebbe stato mai possibile amarla più di quanto già faceva, eppure quello che provava in quel momento superava tutto ciò che aveva mai provato prima, sommato insieme.

 

Perché sapeva benissimo che, per una come lei, frugale fino al centesimo, che comprava in offerta qualsiasi cosa, che una vacanza del genere probabilmente non se l’era mai regalata, il fatto che l’avesse fatto per lui era…

 

Perché acquistare dei biglietti aerei e prenotare un hotel implicava, molto probabilmente, non pagare in contanti, lasciare tracce inequivocabili sia del donante, che del donatario - che gli uscissero i termini del manuale di diritto privato era una cosa di cui si sarebbe preoccupato dopo. E, per una come lei, nella sua posizione, era un rischio enorme e lui lo sapeva benissimo.

 

La mano andò in automatico alla tasca dove teneva il cellulare, ancora attaccato alle sue orecchie tramite le cuffie. Sapeva che quello che stava per fare avrebbe comportato un ulteriore rischio, ma semplicemente non poteva non farlo.


Guardò l’ora: erano le 16.30, un orario tutto sommato accettabile, seppur di sabato pomeriggio e in periodo di vacanza.

 

Selezionò il primo numero in composizione automatica e lo sentì squillare. Attese, chiedendosi dopo quanti squilli sarebbe stato meglio arrendersi e mettere giù.


E, proprio quando stava per rinunciare, sentì quella voce roca che gli mancava già più dell’aria che in quel momento latitava.

 

“Pronto?”

 

“Scusami, lo so che non dovrei chiamare ma…” si interruppe, realizzando di averle dato del tu al telefono, realizzando di avere infranto un’altra regola e forse di avere appena fatto un casino, aggiungendo, con tono più calmo, “potete parlare, dottoressa?”

 

“Sì,” rispose lei, semplicemente, e non avrebbe saputo dire come, ma la sentì sorridere già solo in quella sillaba, e si rilassò immediatamente, “ma non posso stare tanto al telefono.”

 

“Io… è davvero troppo. Non lo posso-”

 

“Devi accettarlo, Calogiuri!” lo interruppe, avendo capito benissimo di cosa stesse parlando, con quel tono del non farmi arrabbiare, Calogiuri, che non ammetteva repliche, “se no puoi pure non presentarti il sette di gennaio e chiedere direttamente il trasferimento.”

 

“Va… va bene…” gli uscì, con un sorriso, scuotendo il capo, ancora incredulo, “ma è davvero… io non so come ringraziart- ringraziarvi.”

 

“Ti garantisco che non è niente, rispetto a quanto ti devo io. E non è un ringraziamento sufficiente, ma è qualcosa,” la sentì sussurrare, con quel tono dolce nella voce che gli sembrava ogni volta un miracolo che fosse rivolto a lui, “e poi… non voglio che passi le vacanze a tormentarti o a farti tormentare, chiaro?”

 

Sentì altre due lacrime scendergli sul viso, perché si rese conto che, sebbene conoscesse poco o nulla della sua famiglia, lei sapeva come lui si sentiva, lo sapeva e lo capiva, più di quanto avesse mai sperato fosse possibile.

 

“Ora devo andare, ma vai, divertiti, conosci gente, vedi più che puoi e fai foto, che poi voglio le prove che ci sei andato sul serio,” gli intimò, in quello che era un ordine scherzoso, ma con una punta di avvertimento, “buon natale, Calogiuri.”

 

“Buon natale... Imma,” sussurrò, non potendosi trattenere dal farlo, costringendosi a chiudere la chiamata subito dopo, prima di ritirare con mani tremanti la busta ed il suo contenuto, compresa quella lettera che, già lo sapeva, avrebbe conservato per sempre.

 

Si infilò in bagno, si svestì e si buttò sotto la doccia, ancora un po’ fredda, lasciando che l’acqua si portasse via il sudore e quelle lacrime che sapevano di felicità.

 

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“Auguri amò!”

 

Pietro le porse un pacchettino con un gran sorriso ed Imma si sforzò di sorridergli di rimando, anche se la verità era che quella festività la faceva sentire ancora più in colpa e terribilmente ipocrita.

 

“Che hai preso a mamma?” domandò Valentina, dal divano dove era seduta, mezza abbracciata a Samuel, che era tornato per le vacanze natalizie e che Imma aveva invitato più che volentieri a celebrare le festività con loro.


E non soltanto perché sua figlia era contenta come una pasqua, o perché la storia di quel ragazzo, solo al mondo, la toccasse molto, ma anche perché una persona in più in casa, per quanto perennemente attaccata alla figlia, le offriva una scusa e una distrazione da Pietro ed i suoi tentativi di ritrovarsi e di parlare dei loro problemi.

 

Perché la verità era che temeva che cosa le sarebbe potuto uscire dalla bocca, se poco poco avesse perso il controllo, e non era questo il periodo adatto per rischiare di mandare a carte quarantotto la vita di almeno quattro persone.

 

Certo, vedere sua figlia amoreggiare con Samuel non era proprio piacevole e l’apprensione materna c’entrava solo in parte. Il problema era che le faceva pensare alla persona che più avrebbe voluto avere vicino in quelle feste, a parte sua figlia, ma che doveva accontentarsi di immaginare a mangiare il baccalà fritto a Grottaminarda, con il resto della famiglia di cui sapeva poco o niente, ma a cui sicuramente sarebbe preso un colpo se avessero saputo di lei.

 

“Non lo apri?”

 

“Ah, sì, sì, certo!” si sforzò di nuovo di sorridere e di tornare alla realtà, sfilando il fiocco ed aprendo il pacchettino.

 

“Un… un viaggio?” gli chiese, sbigottita, mentre l’ironia della sorte la colse e dovette trattenere a forza un moto di riso isterico.


“Sì, per l’estate prossima. La meta la scegli tu e possiamo portare anche i ragazzi, se vogliono e-”

 

“Ve lo scordate!” proclamò Valentina, decisa, ed Imma non riuscì nemmeno a partire con la filippica su come le vacanze da soli post maturità non fossero affatto scontate, ma se le dovesse meritare, perché rimase completamente paralizzata.

 

Sentì come se dei muri invisibili la stessero stringendo, si sentì in trappola, perché la verità era che ad un’altra estate con Pietro al momento non ci poteva e voleva pensare e soprattutto ad una vacanza da sola con lui. Non che lei stesse male in presenza di Pietro o che non potessero condividere le giornate, se le avesse parlato di argomenti normali, tipo del tempo o la politica o l’attualità, o anche dei problemi della vita di tutti i giorni, fuori dalla famiglia, invece che voler discutere di loro due o volersi riavvicinare. Ma non poteva certo biasimarlo per tenere al loro rapporto e al loro matrimonio, anzi, era perfettamente consapevole di essere lei quella in torto marcio e “sbagliata”. E Pietro non era suo fratello o il suo migliore amico e sapeva benissimo cosa una vacanza a due avrebbe comportato.

 

Sempre se ci arrivate all’estate! - le ricordò la Imma interiore, e la mise a tacere, sapendo che sarebbero seguiti proclami sulla necessità di essere sincera, di parlare chiaro e di tutte le cose per le quali al momento non si sentiva pronta, ma su cui avrebbe dovuto iniziare a riflettere seriamente finite quelle vacanze infernali. Anche perché l’alternativa le appariva sempre più insostenibile, psicologicamente ed emotivamente.

 

“Hai visto, amò, ogni promessa è debito. Ma non dici niente?” le chiese Pietro, con un’aria ansiosa, ed Imma sentì un’altra ondata di senso di colpa.

 

“Sì, grazie mille, ma non dovevi! Chissà che ti costerà!”


“Ma figurati, Imma, per te qualunque cosa,” le sorrise, stampandole un bacio sulle labbra che si sforzò di ricambiare senza irrigidirsi.

 

“Io ti ho preso questo, invece,” proclamò, staccandosi da lui per porgergli un pacco decisamente più voluminoso.

 

Pietro lo scartò, incuriosito, e, una volta estratto l’astuccio nero e apertolo, la guardò come se avesse di fronte una folle, “un sassofono soprano? Ma ti sarà costato un occhio della testa, amò! Non è da-”

 

Si bloccò, probabilmente prima di pronunciare te e darle nemmeno troppo velatamente della tirchia, aggiungendo invece un, “ma come mai questo regalo?”

 

“Niente… so che lo desideravi e allora…” minimizzò, perché la verità era che il regalo era frutto dei sensi di colpa: quando era andata per comprargli un cd di jazz, come si era prefissata di fare, la differenza di valore economico tra il regalo per Calogiuri e quello per Pietro le aveva fatto provare una tremenda morsa di colpevolezza.

 

E così, si era buttata sul sassofono, che l’aveva richiamata da una vetrinetta, e questo era il risultato, sebbene il regalo di Calogiuri restasse di gran lunga più costoso ed avesse finito per svenarsi più di quanto aveva mai fatto in vita sua per regali, di natale e non.

 

“Imma, guarda che l’ho capito perché mi hai fatto questo regalo,” le sussurrò, e per un attimo le venne un colpo, ma si trovò trascinata in un abbraccio fortissimo, con Pietro che le disse in un filo di voce, “è per dirmi che mi hai perdonato la storia di Cinzia, non è vero?”

 

Imma si sentì divisa tra i sensi di colpa da un lato e dall’altro il terrore che Pietro potesse interpretare il gesto anche come un via libera per un genere di attività che con lui proprio non le andava ancora di praticare. E cominciava sinceramente a dubitare che la voglia le sarebbe mai tornata.

 

Sarebbero stati ancora dodici giorni estenuanti.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dai che manca poco! Victor, vai a prendere lo champagne!”

 

E certo, lo champagne, non lo spumante, che fa troppo poveracci! - sospirò Imma, vedendo la Moliterni che dava ordini al povero colf, un ragazzo filippino che aveva l’aria di voler essere da tutt’altra parte - ti capisco, Victor, eccome se ti capisco! Ma almeno a me non tocca lavorare all’ultimo dell’anno ed avere un capo del genere. Non che, se la procura fosse aperta, non mi ci fionderei di corsa, piuttosto che stare qui.

 

Se, solo un anno prima, qualcuno le avesse detto che avrebbe festeggiato il capodanno con la Moliterni e Vitolo, gli avrebbe consigliato di rivolgersi ad un bravo psichiatra, per curarsi dalle allucinazioni. Ma la verità era che l’alternativa, cioè passarlo da sola con Pietro - Valentina e Samuel erano a una festa insieme a Bea e altre compagne di scuola della figlia - nel giro di un solo anno si era trasformato da un’oasi di pace ad una prospettiva che la spaventava profondamente.

 

E non perché temesse gli avvicinamenti di Pietro, che per fortuna aveva mantenuto la parola data ormai due mesi orsono e attendeva una sua di mossa - campa cavallo! - ma perché i silenzi tra loro si erano fatti sempre più opprimenti, il dialogo su argomenti non rischiosi sempre più faticoso, come se l’elefante in mezzo alla stanza impedisse loro di concentrarsi su altro che non fosse l’evidente crisi totale in cui versava il loro matrimonio. E pure sentirlo sfiatarsi al sassofono, nuovo o vecchio che fosse, invece di darle un senso di pace, com’era una volta, le provocava solo una voglia infinita di piangere.

 

Così aveva accolto di buon grado l’invito della Moliterni a loro e ai suoi suoceri - sua suocera aveva ovviamente fatto i salti di gioia all’idea di passare il capodanno nell’attico del prefetto.

 

E ora, mentre fervevano i preparativi per la mezzanotte, con sua suocera e la Moliterni da un lato, e Vitolo e suo marito dall’altro, che si dedicavano ad aprire lo champagne quel tanto che bastava perché facesse il botto a mezzanotte precisa, si sentì in una scena a dir poco surreale. Quasi come se fosse spettatrice della vita di qualcun’altra e non della sua.

 

Qualcun’altra che non riconosceva più, sempre se l’aveva mai conosciuta davvero.

 

E, proprio in quel momento, sentì una vibrazione nella pochette dorata - il cui abbinamento con un abito altrettanto dorato aveva causato un’occhiata omicida da parte di sua suocera - e ne estrasse il telefono, che manco a farlo apposta si coordinava, per una volta, all’intero outfit, come l’avrebbe chiamato Valentina nei suoi video su youtube.

 

Un messaggio, notò con un sospiro, temendo il primo della sfilza di auguri da perfetti sconosciuti, a cui godeva profondamente nel rispondere con un “a te e famiglia!” che sperava li scoraggiasse dal ritentare l’anno successivo.

 

E invece, il nome che lesse sul display le causò un’accelerata al battito che per poco non le fece perdere la presa sul telefono. Aprì il programma di messaggistica istantanea e vide una foto di un panorama che riconobbe come Barcellona di notte, con già alcuni fuochi d’artificio in lontananza, sebbene fossero sullo stesso fuso orario e non fosse ancora mezzanotte nemmeno lì.

 

Sotto la foto un semplicissimo ed apparentemente formalissimo: Buon anno, dottoressa!

 

Ma lo sapeva che era solo un messaggio - anzi, un ringraziamento - in codice, oltre che un augurio.

 

Si guardò intorno e vide tutti concentrati ed indaffarati nei loro preparativi e allora si allontanò, ringraziando le dimensioni vergognose dell’attico, che pareva un campo da calcio, tra un po’, e si imboscò in un angolo nascosto, dietro alcuni vasi di alberelli sempreverdi che sicuramente costavano un occhio della testa.

 

Era una follia, e lo sapeva, ma in fondo una telefonata di auguri, pure tra colleghi, ci poteva stare, no?


E così selezionò il primo numero in elenco e lo sentì suonare libero per un po’. Stava per rinunciarci e sentirsi un po’ stupida, immaginando lui sarebbe stato in mezzo al frastuono di una festa e probabilmente con molto di meglio da fare, quando il telefono smise di squillare.

 

“Dottoressa?”

 

Ed Imma sorrise, senza poterlo trattenere, sussurrando quel “Calogiuri!” che erano giorni che aveva una voglia pazza di poter di nuovo pronunciare.

 

“Volevo-” provò a dire, ma proprio in quel momento sentì partire il conto alla rovescia della mezzanotte, in italiano con la voce stridula della Moliterni e quelle concitate di Vitolo e di suo marito ed in spagnolo da delle voci sguaiate dall’altro capo del telefono.

 

E rimase in silenzio, ascoltando il respiro di Calogiuri e quella specie di countdown stereofonico e cacofonico.

 

Tre! Tres!

 

Due! Dos!

 

Uno

 

E, mentre i fuochi esplodevano davanti ai suoi occhi e nelle sue orecchie e provocavano un’interferenza metallica al telefono, sussurrò un “tanti auguri, Calogiuri!”

 

“Tanti auguri… Imma,” lo sentì pronunciare di rimando, mentre gli occhi le si facevano lucidi e provava quella specie di sensazione al petto, che esplodeva peggio dei fuochi d’artificio, “e grazie ancora… qui è tutto bellissimo, anche se Matera continua a non avere paragoni e a mancarmi moltissimo.”

 

Trattenne a stento una risata, mentre una lacrima le scendeva bastarda sulla guancia. Avrebbe voluto dirgli mille cose: che anche lui le mancava talmente tanto da mandarla ai matti, che il prossimo capodanno lo voleva passare con lui e solo con lui, in carne ed ossa. E qualcos’altro che la sua mente si rifiutava di formare, ma che la sua gola iniziò a lasciarsi scappare, “Calogiuri, ti-”

 

“Ti?” le domandò, stupito, avendola sentita bloccarsi, fortunatamente per lei appena in tempo.

 

“Ti devo lasciare mo, ma… goditi il resto del viaggio e ci vediamo il sette. E… grazie a te... degli auguri e di tutto il resto.”

 

Rimase ancora per un istante ad ascoltare il suo respiro, leggermente affannato, e poi chiuse la chiamata, un groppo in gola tremendo, cercando di asciugarsi gli occhi meglio che poteva con le dita.

 

Il telefono ancora in mano, fece per uscire da quella specie di alcova cespugliosa, quando per poco non lanciò un urlo, trovandosi davanti, a pochi passi, la Moliterni, che le sorrideva ma con lo sguardo del gatto che ha appena mangiato il topo.

 

“Imma, champagne?” le offrì, porgendole un calice pieno, mentre nell’altra mano ne teneva uno semivuoto e sporco di rossetto, “ti sei persa il brindisi di mezzanotte, ci chiedevamo dove fossi finita.”

 

“Sì, Maria, mi spiace ma avevo bisogno di un po’ d’aria,” pronunciò a fatica, con un tono troppo dimesso per non risultare sospetto agli orecchi di una persona alla quale, quando era calma, si rivolgeva quasi urlando.

 

“Ma Imma, non ti devi dispiacere, anzi,” pronunciò, con un sorrisetto ed un tono tra il divertito, il sarcastico ed il sornione, prima di aggiungere, in un sussurro stranamente complice, “ti capisco, figurati. Sapessi quanto ne avrei bisogno io, di un po’ d’aria!”

 

Imma si sentì avvampare, mentre un senso di panico la colse, facendo mente locale di ciò che aveva detto, delle parole esatte che aveva pronunciato. Non erano compromettenti più di tanto, anzi, per chi non conosceva la situazione potevano quasi sembrare formali - per fortuna che si era bloccata in tempo! - ma aveva fatto il nome di Calogiuri. E, in ogni caso, l’orario e le circostanze erano molto compromettenti, invece.

 

Non poteva sapere quanto la Moliterni avesse sentito. C’erano i fuochi artificiali che facevano un casino infernale e lei aveva cercato di parlare piano. Ma se aveva capito… restava da comprendere come e quando intendesse usare quest’informazione.

 

“Maria-”

 

“Tuo marito ti stava cercando, ti conviene tornare di là. E hai un po’ di mascara che ti è colato qui,” le fece segno sotto l’occhio, come se fosse la cosa più normale del mondo e non una delle conversazioni più surreali della sua vita, annuendo quando si fu ripulita con un’altra ditata alla cieca.

 

Le porse di nuovo il calice e ad Imma sembrò per un attimo di stare accettando un patto con il diavolo, ma lo prese, perché non poteva fare altrimenti. Maria, con un sorriso soddisfatto ma, di nuovo, stranamente complice, se non l’avesse conosciuta fin troppo bene, la prese a braccetto - roba che di solito l’avrebbe mandata a stendere - e si avviò con lei verso il nugolo di voci festanti.

 

“Amò, tutto bene? Ma dov’eri sparita?” le domandò Pietro, preoccupato, vedendola tornare.

 

“Non si è sentita molto bene, aveva bisogno di un po’ d’aria,” rispose con nonchalance la Moliterni, lanciandole un’occhiata d’intesa, mentre Imma si chiese come e quando l’avrebbe scontata o che cosa le avrebbe chiesto in cambio.

 

“Dovevi avvisarmi amò: non mi fare preoccupare. Ti riporto a casa,” si offrì Pietro, premuroso, e ad Imma la nausea venne sul serio.


“Ma no, tranquillo, sto già meglio,” lo rassicurò con un sorriso, perché la verità era che si sentiva troppo scombussolata per affrontarlo in quel momento o forse per affrontarlo e basta.

 

Non si poteva continuare così ancora per molto e ne era perfettamente consapevole. Come sapeva benissimo che c’era un unico modo per disarmare la potenziale bomba rappresentata dalla Moliterni.

 

Devi essere sincera, Imma, con te stessa e con gli altri.

 

Il problema era come poterlo essere, senza rischiare di rovinare la vita a tutti, senza rischiare che la cura fosse peggiore del male. Senza rischiare di perdere per sempre le persone che amava di più al mondo.

 

Doveva rifletterci molto bene e sperava davvero che quei sei giorni di tortura che ancora l’attendevano potessero portarle consiglio o magari un segno, di quelli che nei film arrivano sempre al momento giusto.

 

Peccato che la sua vita non fosse un film. Anche perché, col carattere insopportabile che si trovava, chi mai sarebbe stato così folle da guardarselo un film sulla sua vita?




 

Nota dell’autrice: Innanzitutto voglio precisare che di equitazione non ne so nulla e non sono mai salita a cavallo in vita mia, quindi tutte le parti che la riguardano in questo capitolo sono frutto di ricerca su internet. Chiedo venia a chiunque la pratichi nella realtà che sia alla lettura per gli errori ed inesattezze che quasi sicuramente ci saranno.

Con questo capitolo natalizio si chiude quella che è la prima fase della storia e dal prossimo inizia la seconda, decisamente più “turbolenta” e che spero continui a risultare interessante da leggere, anche se sarà meno “dolce”, ma getterà le basi affinché Imma e Calogiuri possano finalmente fare evolvere il loro rapporto in qualcosa di più concreto, alla luce del sole.

Ringrazio tantissimo chi sta leggendo questa storia e chi l’ha aggiunta tra le preferite e le seguite.

Come sempre le vostre recensioni oltre a farmi molto piacere mi sono davvero utilissime per continuare a scrivere e a farlo nel modo migliore: spero davvero che gli ultimi capitoli più dolciosi, incluso questo, non siano risultati noiosi e che la storia continui a intrattenervi. Vi garantisco che a breve ci saranno delle “montagne russe” non da poco. Quindi vi ringrazio di cuore fin da ora se vorrete lasciarmi un’opinione o un parere e dirmi che ve ne sembra fin qui.

Il prossimo capitolo arriverà esattamente tra una settimana, domenica 5 gennaio, visto che non credo possa essere diviso in due come i precedenti, ma sia da leggere tutto insieme, per via delle tematiche trattate.

Grazie mille ancora di cuore, tanti auguri di buon fine anno e che possiate avere un 2020 meraviglioso!

 

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Capitolo 11
*** La Realtà ***


Nessun Alibi


Capitolo 11 - La Realtà


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“E si è fidanzata!! Con uno che studia per fare l’attore e intanto lavora in un bar. Che, figurati, la fame le farà fare, se mai si sposano! Le toccherà mantenerlo, povera figlia!”

 

“Diana, mi sembra di sentire mia suocera. Capo primo, tua figlia di anni ne ha diciannove e dubito proprio si voglia sposare con questo tizio a breve. Capo secondo, come dici tu lavora per mantenersi, che è già qualcosa.”

 

“Voglio vedere se venisse tua figlia a dirti che sta con uno che si crede il futuro Marlon Brandon!”

 

“Diana, dubito pure che quel ragazzo sappia chi sia Marlon Brandon. Ma poi a te non piaceva il mondo del cinema? Preziosi, Zingaretti…” la prese in giro, mentre finiva di sistemare i fascicoli che aveva abbandonato malamente sulla scrivania prima di natale.

 

“Appunto, il cinema, la televisione! Non il teatro a Londra!” si lamentò, abbattendosi sulla sedia di fronte alla sua scrivania, “e voglio vedere se ci fosse Valentina al posto di Cleo.”

 

“Eh beh, certo, o l’Oscar o niente. E comunque, a me basta che Valentina stia con un bravo ragazzo che sia onesto, le voglia bene, la renda felice e abbia voglia di lavorare, di qualsiasi mestiere si tratti.”

 

“Chi sei tu e che ne hai fatto di Imma Tataranni?”

 

“Guarda che quella che ha le velleità da gran signora per Valentina è sempre stata solo mia suocera. Valentina deve realizzarsi col suo di lavoro, non tramite quello del suo fidanzato o marito o quello che sarà.”

 

“Eh beh… certo… mo capisco perché la pensi così…” si lasciò sfuggire Diana ed Imma strinse gli occhi, mentre un senso di nervoso profondissimo la colse: nonostante tutto quello che stavano passando lei e Pietro, quel genere di commenti era il modo migliore per farla diventare una belva.

 

“Che vuoi dire, Diana?” le chiese con un tono che avrebbe fatto tremare pure il papa ed infatti la cancelliera aveva l’aria di chi voleva scavare una buca nel pavimento e finire direttamente in Australia.

 

“Niente, Imma… che voglio dire… niente, io… forse è meglio se-”

 

Il rintocco di nocche sulla porta fece tirare a Diana un sospiro di sollievo. Imma valutò se lasciarla svicolare o tenerla ancora un po’ sulla graticola, ma poi la curiosità di sapere chi fosse che osava cercarla già alle nove e un quarto del sette gennaio prese il sopravvento.

 

“Avanti!”

 

“Dottoressa, disturbo?”

 

Il cuore le finì dritto in gola già solo a sentire la sua voce, figuriamoci a vederlo, con la giacca di pelle, il maglione a collo alto ed un paio di jeans. Ogni volta che si rincontravano dopo un periodo di lontananza le sembrava più bello e non sapeva come fosse possibile.

 

“Calogiuri! Ma che disturbi! Fossero questi i disturbi!” rispose, citando involontariamente uno dei suoi sogni migliori - o peggiori - riguardanti il maresciallo, “vieni, accomodati! Hai fatto buone vacanze?”

 

Vide con la coda dell’occhio Diana che si alzò dalla sedia e si avviò quatta quatta verso il suo ufficio. La lasciò andare perché le conveniva, ma non prima di gridare, “Diana, voglio che mi risistemi tutti i fascicoli del maxiprocesso, che dopo mi serviranno.”


Era un lavoro rognoso e lo sapeva, ma almeno la sua cancelliera avrebbe imparato a riflettere prima di fare certe affermazioni.

 

Diana la guardò per un attimo, con l’aria di chi voleva dire qualcosa, ma poi abbassò il capo e sospirò un, “sì, dottoressa!” che le fece capire che sapeva benissimo di esserselo meritato.

 

“Ho fatto un bel viaggio a Barcellona, ma ammetto che il lavoro mi mancava, dottoressa,” rispose Calogiuri, con un tono che palesava che non parlasse affatto solo del lavoro, “e voi? Passate buone vacanze?”

 

“Una meraviglia, Calogiuri! Meno male che il sette gennaio arriva per tutti,” commentò Imma, sarcastica, non provando nemmeno a fingere che fossero state piacevoli per lei, “avevi bisogno di qualcosa?”

 

Calogiuri esitò, con l’aria di chi stava cercando di inventarsi una scusa di sana pianta, probabilmente più per le orecchie di Diana che per altro, “in realtà volevo sapere se oggi avevate bisogno di me, dottoressa.”

 

Ad Imma per poco scappò da ridere, perché aveva bisogno di lui come l’aria ma non solo quel giorno, ma tutti i santissimi e dannatissimi giorni, “vorrei fare un po’ il punto delle prove che abbiamo in mano sul maxiprocesso, Calogiuri, visto che il caso con La Macchia grazie al cielo è risolto. Dopo che Diana avrà finito di riordinare tutti i fascicoli possiamo metterci al lavoro, direi nel pomeriggio.”

 

“In realtà pensavo di rientrare un po’ dopo, dottoressa, perché devo sbrigare un paio di commissioni durante la pausa pranzo. Per voi è un problema?” le chiese Calogiuri, lanciandole un occhiolino che era un chiarissimo messaggio in codice ed un invito.


“No, Calogiuri, anzi, facciamo che ne approfitto anch’io per sistemare un paio di cose, e recuperiamo poi in serata. Va bene?” gli chiese, ricambiando l’occhiolino, senza farsi vedere da Diana.

 

Il sorriso di Calogiuri, ne era certa, era lo specchio perfetto del suo.

 

Dio, quanto le era mancato!

 

*********************************************************************************************************

 

“Vuoi-”

 

Non gli diede nemmeno il tempo di finire la frase: diede un calcio alla porta alle sue spalle per farla richiudere e se lo baciò, ancora incappottata com’era, con la frenesia di due settimane di arretrati e desideri repressi.

 

Calogiuri barcollò per un attimo ma poi le tenne testa, come solo lui in fondo sapeva fare, rispondendo con altrettanto vigore e quasi con disperazione.

 

Alla cieca, iniziarono a muoversi a tentoni verso la sala, quando improvvisamente udì un boato tremendo e poi si sentì tirare verso il pavimento. Si preparò ad un impatto che però in gran parte non venne: Calogiuri le aveva riparato la caduta con il suo corpo, sul quale era caduta rovinosamente.

 

Si guardò intorno e realizzò che era inciampato su una valigia, schiantatasi a terra con loro sopra.


“Ti sei fatto male?” gli chiese, preoccupata, cercando i suoi occhi e la sua espressione un po’ dolorante, “hai picchiato la testa?”

 

“No, no, tranquilla. Sono abituato alle cadute, dall’addestramento, ho solo picchiato un po’ il gomito ma non dovrei essermi rotto niente. Vedi?” la rassicurò, mostrandole che riusciva a muovere le giunture, mentre lei tirò un sospiro di sollievo.


Si guardarono per qualche istante e poi, senza potersi più trattenere, scoppiarono a ridere.

 

“E poi ero io ad essere pericoloso!” la prese in giro e lei gli colpì leggermente il petto.

 

“Non è colpa mia se lasci le cose in giro, Calogiuri. Che non è da te, oltretutto. Ma poi è una valigia enorme. Che ti sei portato dietro a Barcellona? Tutta la casa?” lo sfottè a sua volta, anche se era onestamente curiosa, tirandosi in piedi per consentirgli a sua volta di alzarsi.

 

“Ma no, ma mica è di Barcellona. Sono le cose che mi ha dato mia madre, ma non ho abbastanza spazio in frigorifero e negli armadi e quindi le tengo in valigia, fino a che capisco che farne,” le spiegò, aprendo la valigia e mostrandone il contenuto: un misto di salumi, formaggi stagionati e frutta da sfamarci letteralmente un reggimento.

 

“Puoi aprire una gastronomia, Calogiù,” ironizzò, anche se le prese uno strano senso di commozione di fronte a tanta premura materna, “meno male che non abbiamo rovinato niente. La frutta pare ancora buona.”

 

“Sì, per fortuna avevo già tolto le bottiglie di limoncello che fa mio padre. Se no potevo buttare tutto, a parte avere odore di limone e alcol in casa per mesi e-”

 

“I limoni!!” lo interruppe, dandosi un colpo in fronte: come aveva fatto a scordarselo?!

 

Grazie alla pin-up, Imma: quando qualcuna fa gli occhi dolci a Calogiuri, tu non ci capisci più niente! - le ricordò la Moliterni, che ormai aveva scalzato Diana nella pole position di voce irritante della sua coscienza.

 

“Come?”

 

“Mi sono dimenticata! Quando c’è stato l’omicidio a Rotondella, ero venuta a cercarti per dirti che sulla stilografica di Bruno, quella con la quale ha scritto la busta indirizzata a me, erano state ritrovate non tracce di inchiostro, ma di limone. Potrebbe essere un detergente, ma mi pare strano. A me ricorda qualcosa, ma che cosa?” gli chiese, mentre lui passava dallo sbigottimento ad un’espressione riflessiva, per poi illuminarsi che nemmeno Las Vegas di notte.

 

“Mi è venuta un’idea. Magari è stupida, ma… quando ero bambino, mio fratello, che era più grande, fece un anno negli scout della parrocchia. E gli avevano insegnato a scrivere i messaggi segreti col-”

 

“Col succo di limone, ma certo!” esclamò, dandosi mentalmente della scema, “e bravo, Calogiuri! Ma, se dici di nuovo che una tua idea è stupida, a terra ti ci faccio finire volontariamente, stavolta.”

 

“Non mi tentare, dottoressa,” le sussurrò, ed un brivido le corse a tradimento lungo la schiena. Per punizione gli diede un altro colpo sul petto, anche se faceva più male a lei che a lui.

 

“E quindi mo dobbiamo ricontrollare tutte le carte di Bruno, Calogiuri. Far verificare dalla scientifica se ci sono tracce di limone, o provare ad avvicinarle a una fonte di calore. Ma dove potrebbe aver scritto un messaggio del genere, se voleva farlo ritrovare?”

 

Di nuovo, ebbero uno di quei momenti perfetti, al limite dell’incredibile, in cui entrambi furono colti dalla stessa intuizione e seppero istantaneamente che fosse condivisa.

 

“Vuoi rientrare in procura per controllare subito, immagino?” le domandò con un sorriso, non deluso o esasperato, anzi, affettuoso, perché la conosceva bene, ma soprattutto la capiva, capiva quel fuoco che la coglieva quando incastrava un nuovo pezzo del puzzle, perché era anche il suo.

 

Ma, e questo invece era completamente inatteso, a dir poco senza precedenti, un fuoco più grande la consumava in quel momento, un fuoco che nemmeno una folgorazione degna di Sherlock Holmes avrebbe potuto sovrastare.

 

“Ha aspettato due mesi, Calogiù. Può pure aspettare un’altra ora, che ne dici?” gli domandò con un sorriso, sorprendendosi di se stessa tanto quanto ci rimase di stucco lui, che la guardava incredulo, come se gli avesse appena annunciato di volersi convertire ad un look total black, di quelli tanto cari alla Moliterni.

 

“E poi… ti dovrò pure ricompensare in qualche modo per l’intuizione, no?” gli sussurrò, come se non fosse una ricompensa pure per lei, anzi, soprattutto per lei, mettendogli le braccia intorno al collo e sorridendogli.

 

“Attenzione a creare precedenti pericolosi, dottoressa, perché potrei avere ottime intuizioni sempre più spesso,” le sussurrò di rimando, arrossendo dopo qualche istante alla sua stessa battuta.

 

“E allora vorrà dire che farò questo grande sacrificio per il bene della giustizia italiana, Calogiuri,” rise, trascinandolo in un altro bacio, prima di interrompersi a forza e ordinargli scherzosamente, “forse mo è meglio che andiamo in camera da letto, però, prima di finire al pronto soccorso.”

 

Per tutta risposta, si sentì prendere in braccio, cappotto e tutto, e lanciò un gridolino che manco le sembrava la sua voce.


“Agli ordini, dottoressa,” le sussurrò nell’orecchio, zittendo qualsiasi protesta con un altro bacio.

 

*********************************************************************************************************

 

“Mi sa che tra poco dobbiamo tornare al lavoro, Calogiuri, o stasera non finiamo più.”

 

“Te l’ho già detto, non mi tentare,” le sussurrò, prima di baciarle una tempia ed accarezzarle i capelli, provocando l’ennesimo brivido ed attacco di pelle d’oca.

 

La verità era che ci sarebbe stata all’infinito, accoccolata sul suo petto ad ascoltare il battito del suo cuore e tracciargli scie invisibili con la punta delle dita sulla pelle che si faceva ogni volta rosata al suo contatto.

 

Ma il dovere chiamava.

 

“Prima di andare però, ti devo dare una cosa,” proclamò Calogiuri, mettendosi a sedere, con lei ancora attaccata, armeggiando col cassetto del comodino, per poi produrne un minuscolo pacchetto regalo e porgerglielo, “un pensiero da Barcellona… è una cosa da niente ma…”

 

“Ma non dovevi, Calogiuri! Mi hai già fatto un regalo bellissimo, e non di certo economico, con le lezioni di equitazione,” gli ricordò, scuotendo il capo, anche se non potè trattenere un sorriso commosso nell’afferrare il pacchetto.

 

“Tra l’altro, ci tornerai, vero?”

 

“E certo che ci torno! Pensavo di andarci i giovedì quando… insomma posso stare fuori fino a tardi,” si corresse in corner, prima di nominare Pietro e le lezioni di sax, “allora, ci vieni con me o no?”

 

“E me lo chiedi pure?” esclamò, sorridendo come un bambino felice e dandole un altro bacio da levare il fiato, prima di alternare lo sguardo tra lei e il pacchetto e dirle, “allora, non lo apri?”

 

“Agli ordini, maresciallo!” proclamò, ironica, scuotendo il capo con affetto e scartando il pacchettino, producendone un piccolo astuccio, di quelli per i gioielli.

 

Per un attimo il fiato le si bloccò in gola, ma poi lo aprì e vide due orecchini a pendente, con un mosaico di quelli di Gaudì. Bellissimi ed assolutamente nel suo stile, anche se il resto del mondo li avrebbe forse giudicati troppo vistosi.

 

“Grazie mille… sono belli veramente, ma non dovevi,” si commosse, stampandogli l’ennesimo bacio, mentre pensava a come farli passare per un suo acquisto, o per un regalo di qualcun altro di meno compromettente, per poterli indossare nel futuro prossimo. Perché non voleva assolutamente lasciarli in un cassetto.

 

Se ti decidessi a darmi retta, non sarebbero solo gli orecchini che non dovresti più lasciare nel cassetto - le ricordò la voce della Imma interiore, che l’aveva accompagnata costantemente per tutti gli ultimi giorni di vacanza.

 

Ed il problema era che la prospettiva l’allettava sempre di più, pur terrorizzandola in egual misura.

 

*********************************************************************************************************

 

“Il momento della verità, Calogiuri. Fai attenzione o è la volta buona che ci sospendono a tutti e due.”

 

“Siete sicura di non voler chiamare gli agenti della scientifica, dottoressa?”

 

“Hai fatto le foto, mo facciamo partire il filmato e voglio vedere se possono dire che la prova non sia stata documentata a dovere. Sempre se non abbiamo preso un abbaglio.”

 

“Intendo per l’uso dell’accendino, dottoressa,” chiarì Calogiuri, con lo zippo già in mano ed un’aria tesa come raramente gliel’aveva vista. Non che non lo capisse: se avessero bruciato una prova, quella prova in particolare, era davvero la volta buona che si giocavano la carriera entrambi.

 

“Mi fido più di te che della scientifica, Calogiuri. Dai, forza, mano ferma. So che ce l’hai… almeno in certe circostanze,” gli sussurrò, per cercare di sdrammatizzare, facendolo diventare rosso fuoco e scoppiare in un attacco di tosse per la saliva che gli era andata di traverso.

 

“Non mi aiutate così, dottoressa,” proclamò, connotando il suo titolo con una nota sarcastica che trovò adorabile e di cui andò fiera. Perché suonava tremendamente da lei.

 

“Dai, Calogiuri, veloce! Che se no qui facciamo notte,” lo esortò e, con un altro sguardo esasperato ed un sorriso, Calogiuri avviò la telecamera, prese un gran respiro, accese lo zippo e lo avvicinò alla busta dove il suo stesso nome, scritto dalla grafia elegante di Bruno, pareva salutarla beffardo.

 

Trattenne il fiato ma non successe proprio niente: il suo nome rimase esattamente dov’era e non apparve alcuna scritta ulteriore, come aveva invece sperato.

 

Sentì un macigno di delusione piombarle sullo stomaco: possibile che lei e Calogiuri si fossero suggestionati a vicenda?

 

Anche il maresciallo apparve mortificato e fece per posare la busta, quando qualcosa in controluce colpì lo sguardo di Imma.

 

“Gira la busta, Calogiuri,” gli ordinò, la voce che le tremava dall’eccitazione.

 

E lui, come quasi sempre, obbedì, e per poco la busta non gli cadde di mano: all’interno, protette dai lembi esterni della busta, si intravedevano una serie di scritte piccolissime, tracciate con una grafia straordinariamente precisa ed inequivocabilmente corrispondente a quella del povero architetto.

 

In alcuni punti c’erano macchie ancora bianche e Calogiuri provvide a fare un’altra passata di accendino, fino a che le scritte non apparvero del tutto.

 

Dopo le foto di rito, sollevarono con delicatezza i lembi della busta, per potere leggere al suo interno. Probabilmente Bruno, per riuscire a scrivere in quel modo, l’aveva prima aperta completamente e poi rincollata.

 

I Serpenti

 

Già le prime due parole le causarono un brivido ed una sensazione di gelo nelle ossa, per non parlare di quello che ne seguì.

 

Nomi, nomi di famiglie della Matera bene. Quelle che avevano già individuato in precedenza. Ma, cerchiati tra tutti, c’erano tre nomi:

 

Romaniello Latronico Tantalo


E, appena più sotto, una scritta che il sangue glielo ghiacciò definitivamente.

 

Li ho sentiti parlare, vogliono costringermi a farla finita. Se trovate questo messaggio è perché ci sono riusciti. Aiutatemi ad avere giustizia.

Giulio Bruno

 

“Quindi Bruno sapeva che lo avrebbero costretto ad uccidersi?” domandò Calogiuri, dopo lunghi attimi di silenzio, con un tono di voce che gli aveva sentito giusto i primi tempi in cui lavoravano insieme, quando ancora si spaventava di fronte a certe scene del crimine particolarmente cruente, o di fronte alle confessioni di criminali efferati.

 

“Sì, Calogiuri. E probabilmente ha preparato la busta, magari mettendoci dentro una lettera per me, sapendo che gliel’avrebbero sottratta, ma avrebbero colto l’occasione per riutilizzare la busta al momento giusto. E il biglietto probabilmente lo hanno costretto a scriverlo o lo ha scritto lui stesso, ma indirizzandolo ad altri, e loro hanno semplicemente combinato busta e biglietto. Ma Bruno ha scritto appositamente la busta con la stilografica, perché si notasse la differenza delle due penne e perché-”

 

“Perchè facessimo analizzare la stilografica, trovando il succo di limone!”

 

“Esattamente. Un piano a dir poco cervellotico e rischioso, per lasciarci un messaggio che potevamo benissimo non scoprire mai, Calogiuri. Ma Bruno era appassionato di enigmistica e di storie di spie, ricordi? O forse anche quei libri erano un altro indizio per noi.”

 

“Doveva avere molta fiducia in voi e nelle vostre capacità, dottoressa, nonostante tutto,” constatò Calogiuri ed Imma dovette ammettere che era vero.

 

E, non avrebbe saputo dire perché, ma la cappa di senso di colpa nei confronti di Giulio Bruno e di suo padre Domenico svanì, lasciando il posto ad una strana sensazione di pace, sebbene accompagnata da una sete di verità e di fare giustizia che superava il suo già normale fervore, intensa come non l’aveva mai sentita.

 

Raccolse con mano guantata la busta, per guardarla meglio e fu in quel momento che l’attenzione si spostò dal contenuto sconvolgente delle ultime righe autografe di Bruno, a quei nomi cerchiati.

 

E, se Romaniello se lo aspettava e pure Latronico - sebbene un altro macigno le cadde sullo stomaco alla vista di quel cognome - il terzo nome le risuonò familiare e poi, d’improvviso, capì perché.

 

“Tantalo, Calogiuri. Maria Giulia Tantalo. La moglie di Lombardi!” esclamò, puntando il dito su quel cognome che sembrava sfidarla, beffardo, dalla busta.

 

“Ma allora…”

 

“Allora anche Lombardi c’entrava coi serpenti, certo, non direttamente. Ma sua moglie è di una delle famiglie più antiche della Matera bene, Calogiuri. Non ci avevo pensato quando abbiamo visto gli stemmi ma-”

 

“Aspettate,” la interruppe, smanettando col cellulare, azzardandosi a fare una cosa che solo a lui avrebbe perdonato, e lo sapevano entrambi, “ecco qui, dottoressa!”

 

E, sul display del cellulare, nero su bianco, lo stemma dei Tantalo.

 

Un magnifico albero, una quercia ad occhio e croce e, sotto di essa, due serpenti, intrecciati tra loro.

 

Finalmente avevano qualcosa di nuovo in mano, qualcosa di concreto, sebbene alcuni li avrebbero definiti i deliri paranoidi di un folle.

 

Ma era un inizio.

 

Come usare quelle informazioni per ottenere la verità, senza bruciarle troppo presto, era un altro paio di maniche.

 

Ma era un inizio.

 

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“Imma! Ma è tardissimo, amò, dove sei stata? Valentina ha già mangiato e ormai l’arrosto sarà gelato.”

 

“Scusami, Pietro, ma sai com’è il lavoro di rientro dalla procura dopo due settimane, che si accumula tutto. E poi oggi sono emersi nuovi elementi sul maxiprocesso, quindi siamo dovuti rimanere fino a tardi per finire di repertare tutto,” spiegò, buttandosi sul letto per levarsi stivali, cappotto e sciarpa.

 

“Siamo nel senso di tu e il maresciallo?” le domandò, con un tono apparentemente neutro ma che le fece suonare lo stesso un campanello d’allarme, perché le volte in cui Pietro le aveva chiesto questo genere di dettagli sul suo lavoro si contavano sulle dita di due mani, probabilmente.

 

“Sì, certo, e Diana, almeno fino a che mi è toccato mandarla a casa, o chi la sentiva più,” chiarì, con una nonchalance che quasi la spaventò, pur trattandosi della verità. Ma aveva sviluppato un sangue freddo in queste circostanze di cui non era affatto orgogliosa.

 

Pietro stette un attimo in silenzio e poi annuì, facendole infine un sorriso e proclamando che sarebbe andato a riscaldarle l’arrosto.

 

Imma tirò un sospiro di sollievo, ma allo stesso tempo quella vocetta interiore scalpitò sempre di più.

 

Non si poteva continuare così ancora per molto, e lo sapeva, ma tutte le alternative che aveva valutato nei giorni intercorsi da capodanno al sette gennaio avevano risultati catastrofici per una o più persone. Doveva trovare la quadratura del cerchio, il modo di far soffrire meno persone possibili, di non rovinare la vita a nessuno.

 

Ma, per una volta nella sua vita, le sembrava di essere di fronte ad un puzzle senza soluzione, se non continuare a sdoppiarsi tra una vita che non sentiva più sua ed un sentimento che le scoppiava dentro ma che sentiva ancora troppo giovane e fragile per affrontare la cattiveria del mondo, senza spezzarsi definitivamente.

 

E lei con lui.

 

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“Bravissima! Ora puoi far rallentare il cavallo, con delicatezza, come ti ho mostrato, poi lo fai fermare e scendi, senza cadere possibilmente stavolta, ok?”

 

Ad Imma sembrava ancora stranissimo prendere ordini da qualcuno, specie da una ragazza giovane come Sabrina. Ma, per qualche motivo inspiegabile, le stava quasi simpatica. Forse per quei modi decisi ma un po’ acerbi di dare gli ordini, appunto, tra la gentilezza e quella punta di sarcasmo che la divertiva parecchio. Si vedeva che era più abituata ad avere a che fare con gli animali che con le persone e la cosa ad Imma non dispiaceva, anzi. O, forse, perché i suoi metodi stranamente funzionavano e, dopo solo quattro lezioni, era già riuscita ad andare al galoppo, seppure per un tratto molto breve.

 

E riuscì pure a scendere di sella senza che fosse necessario l’intervento di Calogiuri per tenerla in piedi - sebbene questo non fosse necessariamente un vantaggio.

 

“E ora, se vi va, potete farvi la solita passeggiata a cavallo. Nel bosco ancora non è il caso, ma se volete farvi un giro sulle strade sterrate qui intorno, penso siate pronti a farlo,” proclamò Sabrina con un sorriso e Calogiuri si avvicinò sul suo di cavallo, con il quale aveva fatto un po’ di evoluzioni, compreso un salto, nel recinto lì vicino.

 

Imma non se lo fece ripetere due volte e riuscì agevolmente a montare in sella davanti a lui, non appena lui le fece spazio, come se lo avessero fatto da sempre e non da un mese scarso di lezioni. Era incredibile da un lato, eppure non avrebbe più dovuto sorprenderla, ormai.

 

Si appoggiò a lui e si avviarono in silenzio a godersi quello che, insieme alle pause pranzo rubate e alle serate in cui Pietro aveva calcetto, era diventato il momento più piacevole delle sue settimane.

 

C’era una strana intimità in quel silenzio, trascorso in mezzo alla natura ed al rumore degli zoccoli del cavallo che battevano sul terreno. Come un’evoluzione naturale di quei silenzi bellissimi dei loro primi mesi di lavoro insieme, di quei silenzi che per primi l’avevano conquistata di lui, quel loro stare bene senza bisogno di nulla, se non la presenza dell’altro.

 

Ma ora lui la abbracciava ed ogni tanto le lasciava un bacio sul collo o sul viso. Ogni tanto era lei a voltarsi e a ricambiare la cortesia. E, soprattutto, c'era un'intesa fisica e mentale talmente perfetta da essere quasi spaventosa, perché non sapeva sinceramente come fosse possibile sentirsi in quel modo, come se lui fosse un prolungamento del suo corpo e della sua mente, come se fossero un unico sistema che funzionava in sincronismo perfetto, senza barriere né filtri.

 

O quasi - le ricordò la sua stessa voce. E la Imma interiore rompeva le scatole tanto quanto l'originale, doveva ammetterlo, solo che non era abituata a subirlo, invece che farlo, il pressing da sfinimento.

 

Perché c'era qualcosa che non poteva né voleva esprimere, né a lui né a se stessa, almeno finché avesse trovato la famosa quadratura di quel dannato cerchio che non ne voleva sapere di piegarsi al suo volere.

 

Proprio in quel momento, Calogiuri fece partire il cavallo al trotto e, forse fu la botta di adrenalina, nel cercare di mantenersi in piedi sulle staffe, ma la voce di Sabrina le risuonò nella mente, quello che le aveva detto alla sua prima lezione, quando le sembrava di non riuscire a combinare niente.

 

Non c'è niente di troppo complicato, se si prende per gradi e lo si divide in attività più semplici.

 

E, quando il cavallo, con un movimento del polso di Calogiuri, tornò al passo, fu come se uno schema le si formasse nella mente, come quando trovava il bandolo della matassa per la risoluzione di un caso.

 

Parla a Pietro, ma poi aspettate a uscire allo scoperto, in modo che non abbiano prove che siete stati amanti e voi abbiate tempo di capire se quello che provate è duraturo o è solo un fuoco di paglia. Dopo un po', quando sarete entrambi pronti, sonda il terreno con Vitali, per capire come ridurre al minimo lo scandalo ed evitarvi i maggiori problemi sul lavoro.

 

Il piano suggeritole dalla Imma interiore non sarebbe nemmeno stato sbagliato, anzi, era pure sensato. Ma rimanevano due problemi quasi insormontabili: Valentina ed il maxiprocesso. 

 

Latronico avrebbe scavato in ogni modo nel suo privato per screditarla, non appena fosse uscita notizia di una separazione da Pietro, già lo sapeva. E questo rischiava non solo di compromettere la sua carriera e quella di Calogiuri, anni di lavoro e la possibilità delle vittime di avere giustizia, ma anche di danneggiare ulteriormente proprio Valentina.

 

Ma se, con i tempi della giustizia italiana, attendere la fine del maxiprocesso per separarsi da Pietro avrebbe significato stare in un limbo insostenibile fino a che Valentina avesse finito l'università, se non oltre, il problema con la figlia era invece ben più contingente e non poteva non tenerne conto.

 

Valentina era nell'anno della maturità, che avrebbe affrontato da lì a meno di sei mesi. Poi ci sarebbe stata la scelta delicatissima dell'università e di dove frequentarla. Poteva davvero sconvolgere gli equilibri di sua figlia con una separazione proprio ora, quando si stava giocando il suo futuro?

 

Ma, d'altro canto, poteva resistere ancora sei mesi in quella situazione insostenibile con Pietro? Sei mesi a mentire, omettere, nascondere, evitare, dissimulare?

 

E poi… sarebbe stato poi tanto meglio per Valentina comunicarglielo il primo anno dell'università, quando doveva concentrarsi sugli esami? C'era, in fondo, un momento giusto per dare una notizia simile?

 

Forse no, ma il fatto restava che quello fosse il momento peggiore possibile e che gli esami universitari si potessero pure rintentare, la maturità no. E, se avesse studiato fuori sede… almeno non sarebbe quasi mai stata a casa e non si sarebbe dovuta trovare così tanto in mezzo alle conseguenze logistiche di una separazione.

 

Parla con Pietro, digli che qualcosa in te è cambiato nei suoi confronti, che non sei più certa di cosa provi per lui, e poi decidete insieme come fare per il bene di Valentina. Ama vostra figlia e non è una persona irragionevole.

 

E, di nuovo, la Imma interiore tutti i torti non li aveva. Ma poteva davvero vivere da separata in casa con Pietro per mesi? Dormire nello stesso letto con lui, dividere la vita con lui come se non fosse cambiato niente, recitare una parte ad uso e consumo di Valentina? Poteva chiedergli tanto e chiedersi tanto?

 

Almeno non dovrai più mentirgli e prenderlo in giro.

 

No, dovrò solo prendere in giro mia figlia! - sospirò, non vedendo una soluzione perfetta al problema, ma forse quella era realmente la meno peggio possibile.

 

“A che pensi?”

 

La voce di Calogiuri nell’orecchio le fece fare un sobbalzo, tanto che il cavallo riprese ad andare al trotto, almeno fino a che il maresciallo riuscì a riprenderne il controllo, mentre la teneva più stretta a sè per evitarle di cadere.

 

I cavalli erano sensibili agli stati d’animo, le aveva spiegato Sabrina, ma pure Calogiuri sembrava avere una specie di radar per farle quella domanda ogni volta che stava pensando a loro due e ad un eventuale futuro insieme.

 

“A quante pazzie sto facendo da quando ti conosco,” gli rispose, voltandosi per sorridergli, anche se era solo una minuscola parte della verità.

 

“E te ne sei pentita?” le domandò, con un tono mezzo scherzoso, sebbene l’espressione tradisse una certa apprensione.

 

“Mai!” proclamò, decisa, posandogli un bacio sull’angolo delle labbra, per poi chiudere gli occhi e lasciarsi andare completamente tra le sue braccia.

 

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Girò le chiavi nella toppa con un sospiro.

 

Ultimamente tornare a casa era per lei il momento più pesante della giornata e sapeva che ciò non fosse normale, né giusto, ma non ci poteva fare niente.

 

Almeno quella sera sarebbe stata sola per un altro po’: Valentina era a cena con Bea, altri amici ed i genitori di Bea, che l’avrebbero riportata a casa più tardi e Pietro era ad una delle ormai famigerate lezioni di sax.

 

Buttò la borsa sul divano e si avviò verso la camera da letto, con l’intenzione di cambiarsi e buttare in lavatrice l’abbigliamento da equitazione, che si era infine decisa a comprare, visto il costo del noleggio, quando, accendendo la luce, cacciò un urlo, trovandosi davanti Pietro, seduto sul letto, immobile.

 

“Piè, un colpo mi hai fatto prendere! Ma che ci fai al buio?” esclamò, mettendosi una mano sul cuore che andava a mille, “anzi, che ci fai a casa? Non dovevi andare a lezione di sax?”

 

“Ci- l’insegnante aveva l’influenza e siamo tornati prima perché non si è sentita bene,” rispose Pietro, con un tono deciso, nonostante l’esitazione sul nome di Cinzia Sax, “e tu invece, Imma? Com’è che rientri solo ora? Dove sei stata? Ma poi, come ti sei conciata? E cos’è questo odore, che pare che ti sei portata appresso una stalla?”

 

Imma ebbe un istante di panico, di fronte a quella mitragliata di domande, di nuovo così non da Pietro, prima di decidersi a dire quella che, in fondo, era semplicemente la verità. Anche se, per vari motivi, avrebbe preferito mantenerla come un suo segreto ancora per un po’, “sono andata a fare una lezione di equitazione, Pietro. Per questo sono conciata così e avrò ancora addosso l’odore del cavallo.”

 

“Equitazione?!” le chiese, strabuzzando gli occhi, sbalordito nemmeno gli avesse annunciato di essere andata a rubare, “ma da quando è che ti piace andare a cavallo? E poi hai sempre criticato gli sport da ricchi.”

 

“Intendevo il golf, Pietro, che per l’onore di mettere il piede su un campo ci devi lasciare un mutuo,” sospirò, ricordando bene la discussione che avevano avuto quando Vitolo aveva paventato che Valentina iniziasse a frequentare il circolo del golf con Bea e che Pietro si iscrivesse per giocare insieme a lui. Peccato che l’iscrizione costasse come quattro mesi di stipendio per la maggior parte degli italiani.

 

“E comunque a me andare a cavallo piace fin da quando ero bambina,” chiarì con un sospiro, iniziando a levarsi la giacca della tuta, sperando di evitare ulteriori discussioni.

 

“E com’è che di questa passione che avresti avuto fin da bambina non me ne hai mai parlato finora?” le domandò invece, squadrandola in un modo che le ricordò, per un istante, l’espressione che lei stessa faceva durante gli interrogatori, quando pensava che il sospettato o testimone le stesse rifilando una panzana clamorosa.

 

In altre circostanze, sarebbe stata quasi orgogliosa di Pietro. In questa, era solo irritata.

 

“Perché non me l’hai mai chiesto, forse, Pietro,” ribattè, più tagliente di quanto avrebbe voluto, ma la verità era che quello era sempre stato uno dei problemi principali del loro rapporto: certe cose Pietro non gliele aveva mai chieste, o forse lei non si era mai sentita di raccontargliele. Di fatto però, in ogni caso, di certe cose di lei, soprattutto se successe prima di conoscersi, Pietro sapeva poco o niente.

 

“E come mai ti si sarebbe risvegliata proprio mo, dopo tutti questi anni? E perché non me ne hai parlato delle lezioni, oltretutto?”

 

“Perché mo c’ho i soldi per poterlo fare, Pietro, quelli che da bambina mia madre non teneva. E la vita è breve, non ho più vent’anni e voglio iniziare a concedermi quello che non mi sono mai concessa, prima che sia troppo tardi. E non te ne ho parlato perché volevo capire se c’ero portata e se avrei proseguito o meno, prima di fare proclami, che poi mica mi pare un segreto di stato. Tu le tue passioni le hai sempre avute, perché io non posso avere le mie?”

 

“Certo che puoi averle, Imma, ci mancherebbe. Ma tu non hai mai avuto passioni al di fuori del lavoro, un hobby. E… ultimamente invece… sei così cambiata… a volte mi sembra di non riconoscerti più,” esclamò, alzandosi in piedi e guardandola in un modo che le causò un nodo in gola: un misto tra smarrimento, paura e rabbia repressa.

 

Imma sapeva che questo era l’incipit perfetto, l’occasione ideale per dirgli che sì, era cambiata, e purtroppo in più di un senso. L’occasione per dirgli che, pur amandolo, nel senso più vero del termine, e pur non volendo farlo soffrire, non era più certa di provare per lui quel genere di amore che una moglie dovrebbe provare per un marito, non era più certa di poter tornare a stare bene con lui com’era una volta.

 

Era uno di quei momenti da ora o mai più. Imma prese un respiro profondo, sebbene tutto l’ossigeno del mondo non le sarebbe bastato per quel salto nel vuoto.

 

“Pietro… io… è vero, sono cambiata, sto cambiando molte cose di me che… che non pensavo sarebbero mai cambiate. Ma è successo e non posso fare finta che-”

 

“Papà! Dove sei?!”

 

La voce disperata di Valentina le fece fare un salto che per poco non le veniva un colpo e, nel giro di pochi secondi, il rumore pesante di passi lasciò il posto ad una figura che si lanciò tra le braccia di Pietro, iniziando a piangere disperatamente.

 

“Valentì, che succede, amore mio? Stai male?” le chiese suo marito, alternando uno sguardo preoccupato tra lei e la figlia.


“Bea è una grandissima stronza!” gridò, tra un singhiozzo e l’altro, ed Imma scambiò con Pietro un’occhiata eloquente, della serie - che t’avevo detto, io? - prima di fare un sospiro.

 

“Che cos’ha fatto Bea stavolta?” osò chiedere, dopo altri momenti interminabili di pianto, e Valentina si voltò verso di lei con due occhi infuocati, sia perché arrossati, sia perché incazzati come forse non li aveva mai visti ed esplose del tutto.

 

“L’ho sentita commentare con gli amici suoi del club che io sto con un criminale che stava in riformatorio, uno sfigato che fa lo sguattero in cucina e si crede uno chef! Più altre cose che non… che non voglio nemmeno ripetere,” buttò fuori prima di esplodere in un altro pianto disperato.

 

“Magari Bea è solo gelosa di Samuel, non ci hai pensato?” provò a dirle Pietro, venendo fulminato in contemporanea da due paia d’occhi scuri, “non che quello che ha detto non sia gravissimo, Valentina, ma magari sente che ti stai allontanando da lei e-”

 

“Ma se stiamo sempre appiccicate! Ormai passavo più tempo da lei che qui, visto che in questa casa negli ultimi mesi c’è un’atmosfera da funerale. Ma stavolta con me ha chiuso!” proclamò, decisa come Imma non l’aveva forse mai sentita, prima di staccarsi da Pietro e dirigersi verso la sua camera, sbattendo la porta alle spalle con un boato che diede ai vicini l’ennesimo buon motivo per detestare la loro famiglia - e non cordialmente.

 

E, nel silenzio che seguì, Imma si trovò a realizzare due cose ugualmente importanti e preoccupanti al tempo stesso.

 

Che Valentina non era scema, per fortuna e purtroppo, e aveva notato benissimo che tra lei e Pietro negli ultimi mesi qualcosa non andasse per il verso giusto. E che Pietro forse proiettava su Bea un altro genere di gelosia e un altro genere di dispiacere nel sentire qualcuno a cui si tiene allontanarsi.


Tutto questo le causò un’altra fitta di senso di colpa, mentre la sua botta di coraggio di provare a parlare a Pietro, la sua occasione, erano ormai svanite come neve al sole.

 

“E mo Valentina sarà di nuovo sola. Non le fa bene, hai visto che le è successo la scorsa volta,” commentò Pietro, dopo un po’, con un sospiro, rimettendosi a sedere sul letto, come abbattuto.

 

“Meglio sola che male accompagnata, Pietro. E Bea è una pessima amica per Valentina, oltre che una pessima influenza, te l’ho sempre detto,” ribattè, mantenendosi invece in piedi, anche se non avrebbe saputo dire il perché, le venne semplicemente istintivo. Qualche mese prima non sarebbe mai successo.


“Ma si conoscono da quando erano all’asilo e sono amiche da allora, Imma. Per Valentina è come la sorella che non ha mai avuto,” le fece notare ed Imma, pur sapendo che non ci fosse alcuna frecciata in quella frase, nessuna recriminazione al suo non aver voluto tentare più a lungo di allargare la famiglia, inspiegabilmente provò lo stesso un moto di irritazione. Forse perché il suo senso di colpa la portava a cercare motivi di discussioni, di lite, perché la migliore difesa in fondo è l’attacco.

 

“Bella sorella! Che poi tra Caino e Abele, Romolo e Remo, e tutti gli altri esempi che ci sono nella storia… forse essere figli unici non è poi uno svantaggio, direi,” proclamò, sarcastica, le braccia incrociate davanti al petto.

 

“Che c’entra… va bene il detto parenti serpenti, ma nella realtà i fratelli sono-”

 

“I serpenti! Ma certo!” esclamò Imma, non ascoltandolo più, colta da un’illuminazione che manco il faro di una discoteca, annunciando, di fronte allo sguardo sconcertato di Pietro, che la guardava come se fosse uscita del tutto di senno, “devo fare una telefonata!”

 

Corse in salotto, dove aveva mollato la borsa, ne estrasse il cellulare e si affrettò a selezionare il primo numero in elenco.

 

“Dottoressa? Ma è successo qualcosa? Tutto bene?” la voce preoccupata di Calogiuri la raggiunse dopo appena un paio di squilli.

 

“Tutto bene, tranquillo, Calogiuri. Ascoltami, ti ricordi che diceva esattamente il messaggio nella busta di Bruno? A parte i nomi delle famiglie, ovviamente,” gli domandò, trattenendo il fiato mentre attendeva il responso.

 

“La busta di Bruno?” le chiese di rimando, meravigliato e confuso, per poi rispondere comunque, dopo un attimo di esitazione, “qualcosa tipo li ho sentiti parlare e mi vogliono costringere a farla finita. Se trovate questo messaggio… e poi com’era? Posso andare a recuperare il taccuino, se serve.”

 

Ma Imma, il cuore che le andava a mille, quasi non ascoltava già più. Dopo qualche secondo necessario a riprendersi, gli spiegò, “no, Calogiuri, grazie non serve. Dimmi ora, non ti sembra che ci sia qualcosa di strano, qualcosa che non torna in quel li ho sentiti parlare e mi vogliono costringere a farla finita?”

 

“Perché, dottoressa, non lo ritenete probabile?” le chiese, sembrando completamente confuso.

 

“No, Calogiuri, ma chi c’era tra quei nomi?” gli domandò, avendo ormai la risposta che cercava ma volendo che ci arrivasse anche lui, perché sapeva che poteva riuscirci.

 

“I nomi erano Romaniello, Latronico e Tantalo ma-”

 

La voce al telefono si bloccò ed Imma non potè trattenersi dal sorridere, orgogliosa, sapendo che il maresciallo aveva capito.

 

“Ma Romaniello era in carcere da agosto. Questo non vi torna, non è vero, dottoressa?” lo sentì pronunciare, tutto d’un fiato, con un’ammirazione nella voce che, di nuovo, le strappò un altro sorriso.

 

“Bravo, Calogiuri, esattamente. E Bruno, prima di agosto, era ancora bello bello che tranquillo. Solo nelle ultime settimane era strano, come ci hanno detto pure suo padre e l'infermiera di sua madre. E, del resto, non so se possiamo avere una datazione su quella lettera, ma mi sembra improbabile l’avesse scritta da agosto o che una persona resista tanti mesi con una simile spada di Damocle sulla testa. Quindi, se Romaniello era in carcere da agosto…” si interruppe volutamente, per lasciarlo concludere.

 

“Il Romaniello della busta non è Saverio, ma suo fratello, il giudice,” lo sentì finire la frase in quasi un sussurro, come se non volesse dire quello che stava dicendo.

 

“Già…” sospirò a sua volta, sapendo che quello che stavano scoperchiando non era solo un nido di vipere, ma era molto, molto di più.

 

“E mo che facciamo, dottoressa?” le chiese, preoccupato come raramente lo aveva sentito.

 

“Per intanto ce ne andiamo a dormire, ci ragioniamo sopra e domattina ne parliamo meglio in procura, va bene?”

 

“D’accordo, dottoressa, cercate di riposare,” le sussurrò con un tono talmente dolce e talmente in apprensione che le strappò l’ennesimo sorriso.

 

“Anche tu. A domani!” lo salutò, obbligandosi a chiudere la conversazione.

 

Con ancora un mezzo sorriso sulle labbra, alzò gli occhi e per poco non le prese un altro colpo, trovandosi davanti Pietro, fermo immobile all’inizio del corridoio che dal salotto portava in camera da letto.

 

“Pietro! Ma stasera vuoi farmi proprio venire un colpo? Che c’è?” gli domandò, anche se forse non avrebbe dovuto farlo, ma tanto ormai…

 

“Era il maresciallo?” le chiese, con quel tono neutro che le sembrava sempre meno neutro ogni volta che le poneva quella stessa domanda.

 

“Sì, certo. Ho avuto un’intuizione sul maxiprocesso e-”

 

“E quindi per un’intuizione ti pare normale disturbarlo a quest’ora?”

 

“Per questo genere di intuizione pure alle tre di notte ed è già tanto se non sono corsa in procura, Pietro,” ribattè, perché era la pura e semplice verità ed il peggio era che sapeva benissimo che probabilmente qualche mese prima nemmeno Pietro ci avrebbe trovato niente di strano.

 

“Quel ragazzo o è un santo o ti deve essere proprio molto affezionato, Imma, per non averti ancora denunciata ai sindacati,” proclamò Pietro, con quella punta di sarcasmo così non da lui e così tremendamente da lei che la mise in allarme.

 

“O forse, come me, ama moltissimo il suo lavoro, Pietro, anche se mi rendo conto che il concetto ti sia di difficile comprensione,” sibilò, prima di riuscire a trattenersi e pentendosene un secondo dopo, quando vide l’espressione di lui, ferita e rabbiosa peggio che se gli avesse appena tirato uno schiaffo.

 

E, in un certo senso, lo aveva fatto davvero.

 

Le sembrò per qualche istante sul punto di esplodere, poi si voltò, si avviò a passo marziale verso la camera da letto e tornò con una coperta ed un cuscino.

 

“Buonanotte!” esclamò, stendendosi sul divano e dandole la schiena.

 

Imma alzò gli occhi al cielo e sospirò, divisa tra il senso di colpa e l’esasperazione, iniziando ad avviarsi verso la camera da letto.

 

Non ce la faceva più: la misura era colma per entrambi e se ne rendeva sempre più conto. E sapeva benissimo cosa doveva fare, il problema era quando e come farlo.

 

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“E così si prepara il cavallo per sellarlo. Ora vi mostro il passaggio successivo. Ci sarebbe da andare a recuperare le selle, le imbottiture e le coperte nei box.”

 

“Vado io, tranquilla,” si offrì Calogiuri, lanciando ad Imma un sorriso ed un’occhiata d’intesa, prima di sparire dentro alla stalla.

 

“Ma è sempre così cavaliere?” le chiese Sabrina, tra l’incredulo e il divertito, con uno di quei sorrisi che le tenevano mezza faccia e che la rendevano di una bellezza davvero particolare.

 

“Sempre! Anzi, a volte pure di più,” confermò Imma, non riuscendo a trattenersi di sorridere a sua volta, né a celare l’affetto nella voce - ma poi, con Sabrina, sarebbe stato inutile farlo.

 

“Sei fortunata! Hai trovato l’ultimo esemplare rimasto al mondo mi sa. E mo c’ha pure il cavallo,” ironizzò, mentre finiva di spazzolare Impeto, il cavallo ormai assegnato a Calogiuri.

 

“Sì, sono molto fortunata,” ammise Imma con un sorriso, imitandola per terminare la pulizia di Minerva, la cavalla che aveva usato nelle ultime due lezioni e che teneva fede al suo nome, essendole fin da subito parsa intelligentissima, fin troppo, e soprattutto testarda quasi quanto lei.

 

Il silenzio perfetto della natura venne interrotto dal rumore di un’auto che si avvicinava, le ruote che stridevano sullo sterrato.

 

“Strano: voi dovreste essere gli ultimi della giornata. Magari è qualcuno che è venuto a chiedere informazioni per un corso. Ma non ti preoccupare: vedo di cavarmela in fretta che già la prima parte della lezione oggi non la fate a cavallo.”

 

Imma annuì, annotandosi mentalmente un altro punto a favore di Sabrina: non era una di quelle che mirava a spennare i suoi allievi, anzi, era molto generosa con i tempi di lezione e non fiscale con l’orologio.

 

Si voltò, incuriosita di chi potesse essere il nuovo allievo o allieva, e le venne un conato di vomito, non appena riconobbe l’auto. La sensazione di nausea mista a panico non fece che aumentare quando la portiera si aprì e ne scese Pietro.

 

“Sabrina,” riuscì a malapena a pronunciare e per fortuna la ragazza la sentì e si voltò, passando da uno sguardo sorpreso ad uno preoccupato.

 

“Che hai? Sei sbiancata. Ti senti poco bene?” le domandò, in apprensione, avvicinandosi a lei.

 

“No, sto bene. Ma è che… quello è Pietro, mio marito,” le sussurrò e Sabrina spalancò gli occhi, incredula, per poi scuotere il capo, sembrando a disagio ed in apprensione, “mi dispiace. Io… non so come mai sia qui. Non gli ho mai nemmeno detto il nome del maneggio. Non ti volevo creare casini.”

 

“Dei miei casini direi che ci preoccupiamo dopo, ora piuttosto mi preoccuperei dei tuoi,” le sussurrò di rimando Sabrina, con un tono tra il sarcastico ed il preoccupato, voltandosi poi verso Pietro, che si stava avvicinando a passo deciso ed andandogli incontro con un sorriso, “buonasera, desidera?”

 

“Buonasera, sono il marito della dottoressa Tataranni. Ho pensato di farle una sorpresa e vederla a cavallo, finalmente,” proclamò, porgendo la mano a Sabrina e, dopo la stretta di rito, si avvicinò ad Imma con un sorriso, “e magari ne approfitto e prendo qualche lezione pure io... che ne dici, amò?”

 

“Pietro… io… che sorpresa! Ma come hai fatto a sapere che era questo il maneggio?!”

 

“E come ho fatto? Mica ho sposato un magistrato per niente. I miei trucchi del mestiere ce li ho pure io,” rispose con un altro sorriso che però, non potè evitare di notarlo, lei che lo conosceva tanto bene, non gli raggiunse gli occhi, per poi aggiungere, con tono ironico, “ho trovato una ricevuta, no, amò. Che non lo so che non tolleri l’evasione fiscale?”

 

Il fatto che Pietro si fosse messo a fare l’investigatore, lui che di indagini non ne aveva mai capito niente - nemmeno le intuizioni più basilari riusciva a fargli comprendere di solito - la inquietò da un lato e la fece sentire tremendamente in colpa dall’altro. Che fosse arrivato a tanto era indice dello stato in cui versava il suo matrimonio e ne era perfettamente consapevole.

 

E, come se l’avesse chiamato col pensiero, una voce familiare le fece, per una volta, precipitare il cuore nello stomaco, invece che farglielo scoppiare di gioia.

 

“Eccomi, dovrei avere preso tutto. Dove le appogg-” lo sentì interrompersi bruscamente, spalancando gli occhi con un’espressione impanicata e lanciandole poi un’occhiata tra il preoccupato e il e mo che facciamo?

 

“Maresciallo?! Ma che sorpresa! Che ci fa lei qui? Cos’è, Imma, vi aggiornate sugli sviluppi del caso pure a cavallo mo?” domandò Pietro, con un sorriso che era palesemente fintissimo ed un sarcasmo di cui Imma sarebbe stata orgogliosa in altre circostanze, fulminandola con un’occhiata che non si sarebbe mai dimenticata in vita sua.

 

Ma, soprattutto, non sembrava per niente sorpreso della presenza di Calogiuri, tanto che Imma si chiese se li avesse seguiti - altro che la ricevuta! - o se avesse avuto da qualcuno conferma che erano andati via insieme dalla procura quella sera.

 

In ogni caso, mentre il panico le rese il fiato improvvisamente corto, ebbe la nettissima sensazione che fossero sull’orlo di un dirupo e che Pietro stesse per scoppiare. Aveva tirato troppo la corda e si era spezzata, aveva rischiato troppo e mo ci sarebbe andato di mezzo pure Calogiuri per la sua stupidità.

 

“Amore! Dà pure a me le imbottiture e metti tutto il resto lì sulla staccionata, grazie!”

 

La voce di Sabrina interruppe il panico crescente e tre paia di occhi si voltarono verso di lei, sbigottiti, ma per motivi diversi.

 

Ma Sabrina, apparentemente tranquilla come una pasqua, afferrò le imbottiture dalle mani di Calogiuri, gli accarezzò il viso e gli baciò una guancia - ed Imma si sentì un’idiota al ruggito interiore che, perfino in quelle circostanze, se la mangiò da dentro - e si avviò ad iniziare a sellare i cavalli, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

“Amore?” ripetè Pietro, alternando lo sguardo tra l’istruttrice ed il maresciallo, l’aria di chi è diviso tra l’incredulità ed un’improvvisa speranza.

 

“Sì, io e Ippazio stiamo insieme. Non lo sapeva?” gli domandò Sabrina, mentre piazzava la prima imbottitura, “beh, in effetti immagino lei e sua moglie avrete di meglio da fare che parlare delle fidanzate dei suoi sottoposti.”

 

“La sorprenderebbe di che cosa parliamo io e mia moglie,” proclamò Pietro, di nuovo sarcastico, alternando lo sguardo tra tutti loro, come se fosse indeciso su a che cosa credere.

 

“Comunque Ippazio è sempre molto premuroso e mi sta aiutando ad aumentare il giro dei clienti, che non è da tanto che lo gestisco da sola il maneggio. E così mi ha portato anche sua moglie, che devo dire se la cava molto bene. Anzi, stavamo giusto giusto imparando a sellare i cavalli, vuole darci una mano?” offrì Sabrina, appioppandogli una delle imbottiture, prima che potesse protestare, e cominciando a spiegargli come fare a posizionarla su Impeto.

 

Imma ne approfittò per lanciare uno sguardo a Calogiuri, che pareva ancora mezzo paralizzato, che era uno scusami e un se sapessi che fare mo, lo avrei già fatto non verbali.

 

“Ma quindi al maresciallo avevi raccontato della tua passione d’infanzia per i cavalli, Imma?” chiese improvvisamente Pietro, voltandosi verso di lei e fulminandola con un altro di quegli sguardi che parevano voler cogliere ogni minima menzogna.

 

“Ma no, Pietro, ma figurati! Semplicemente mi ha parlato del maneggio e mi è venuta l’idea di provare a vedere se mi piaceva ancora come quando ero bambina,” chiarì, inventandosi di sana pianta la prima scusa che le venne in mente, prendendo l’altra imbottitura e decidendo di seguire l’esempio di Sabrina, sperando di tagliare corto la conversazione, “però mo lavoriamo che la lezione non è gratis e me ne sono già persa la metà.”

 

“Va beh… se non hai più bisogno del mio aiuto, visto che siete già in tre a sellare i cavalli e che la dottoressa ha un passaggio per tornare a casa, io magari mi avvierei…” provò ad inserirsi Calogiuri, chiaramente desideroso di levarsi di lì ed evitare ulteriore problemi ed imbarazzi a tutti.

 

“Ma no, maresciallo, rimanga pure con la sua fidanzata. Anzi, perché non ci facciamo una bella cavalcata tutti insieme? Si può salire in due su un cavallo, immagino? Da solo mi sa che mi ci vogliono un po’ di lezioni,” ribattè Pietro, con un’aria apparentemente cordialissima, anche se Imma continuò a notare lo scetticismo, misto a quella nota di speranza, che gli colorava la voce.

 

“Come no! Anche se non è facilissimo cavalcare in due: almeno uno deve essere sufficientemente esperto. Vediamo se sua moglie riesce a stare fuori dalla sella, e prima devo spiegarle un paio di cose su come ci si regge sul cavallo, perché non è automatico e dubito sua moglie riesca a sostenere il suo peso, in caso lei si sbilanci troppo,” provò a chiarire Sabrina, aiutando Imma a terminare di sellare Minerva, per poi passare ad Impeto, insieme a Calogiuri, che aveva un’espressione che Imma ricollegava ai momenti concitati che precedevano un’irruzione, quando stai con l’adrenalina a mille, pronto a beccarti una pallottola in ogni momento.

 

Non che non lo capisse: lei si sentiva ondeggiare tra uno stato latente di panico, il disagio e l’adrenalina di provare a salvarsi in qualche modo in corner ed evitare una scenata ed i danni peggiori.

 

In un’atmosfera a dir poco surreale, Imma assistette mentre Sabrina spiegava a Pietro - dopo avergli fatto indossare le dovute protezioni - come salire a cavallo, come mantenersi in equilibrio e, attaccando una corda a Minerva, che non pareva molto per la quale, come reggersi al trotto. Pietro decisamente non era particolarmente portato per l’equitazione e ci mancò un soffio che cadesse in almeno un paio di occasioni. Ironia della sorte, fu proprio Calogiuri ad intervenire la seconda volta, afferrandolo per un braccio per reggerlo sul cavallo ed evitargli di finire a terra.

 

“La… la ringrazio, maresciallo,” bofonchiò Pietro, lanciando all’altro uomo uno sguardo tra il sorpreso ed il grato, mentre Calogiuri rispose con un professionalissimo “figuratevi, dovere!”, che provocò in Imma una fitta al petto, anche se non sapeva bene il perché.

 

E poi giunse il momento che più temeva: salire a cavallo con Pietro. Preceduto da quel maledettissimo e stupidissimo ruggito interiore quando Sabrina mostrò loro insieme a Calogiuri come dovessero fare, salendo a cavallo davanti al maresciallo, sul bordo della sella e finendo quindi per farsi abbracciare da lui, che teneva le redini.

 

“Nel vostro caso è meglio che le redini le tenga sua moglie. Lei può tenerla per la vita, ma, se si sente cadere, cerchi di reggersi sulle staffe e non su sua moglie, d’accordo? Ora provate a salire in sella come vi ho mostrato e a fare un breve pezzo al passo qui nel recinto,” li istruì Sabrina, dopo che lei e Calogiuri ridiscesero di sella, mettendosi ai lati del cavallo per aiutare lei e Pietro a montare in sella ed evitare ulteriori cadute.

 

Lasciò salire prima Pietro, con non pochi tentativi e poi, dopo una furtiva occhiata a Calogiuri, che se ne stava fermo, rigido, con la mascella contratta, prese anche lei posto, con solo un aiuto minimo da parte dell’istruttrice. Come si fu posizionata, Pietro non perse tempo e l’abbracciò stretta da dietro ed Imma si sentì letteralmente soffocare, mentre il senso di colpa raggiunse il picco massimo nel vedere il modo in cui Calogiuri sembrò irrigidirsi ulteriormente, abbassando lo sguardo, quasi come se non volesse vedere.

 

Ma non poteva farci niente, se non sentirsi, per l’ennesima volta, una merda ed una cretina per averli messi in quella situazione. Avevano percorso un pezzo brevissimo quando Minerva, di colpo, forse percependo il nervosismo nell’aria, prese ad andare al trotto e, se lei riuscì all’inizio a tenersi in equilibrio, pur sballottata in quel modo, dopo pochi secondi, mentre cercava disperatamente di farla rallentare, si sentì tirare da Pietro verso destra.

 

Cacciò un urlo e, per fortuna, sentì delle braccia forti sostenerli entrambi, evitando una rovinosa caduta. Vide che Calogiuri si era affiancato a loro facendo praticamente da puntello umano, mentre Sabrina aveva preso le redini ed era riuscita a calmare la cavalla.

 

“Forse, forse è meglio se scendiamo mo, prima che ci ammazziamo,” ammise Pietro alle sue spalle ed Imma sentì una botta di sollievo che raramente aveva provato in vita sua.

 

E non solo all’idea di toccare di nuovo terra con i piedi, e non di faccia, ma che forse la lezione potesse finalmente dirsi conclusa, prima che qualcuno si facesse male sul serio ed in più di un senso.

 

“Mi dispiace, amò… non ti sei fatta male, vero?” le domandò Pietro, accarezzandole una guancia, visibilmente preoccupato, una volta che, con l’aiuto dell’istruttrice e del maresciallo, furono entrambi sani e salvi.

 

“No, tranquillo, Pietro…” sussurrò, anche se la verità era che probabilmente sulla vita le sarebbero rimasti dei lividi per un po’, ma sapeva benissimo che non l’aveva fatto apposta.

 

“Mi sa che l’equitazione non è proprio il mio sport, amò. Magari è meglio se guardo come te la cavi tu fino a che finisce la lezione e poi ce ne torniamo a casa?” le chiese con un sorriso, posandole le mani sulle spalle e scoccandole un bacio sulle labbra.

 

Imma avrebbe letteralmente voluto sprofondare, mentre lanciava un’altra occhiata a Sabrina e soprattutto a Calogiuri, che però sembrava intento a fissare Minerva, la mascella talmente rigida che sul collo pallido gli si intravedevano un paio di vene in rilievo.

 

“Pietro… forse è meglio se torniamo a casa… non so se me la sento di risalire subito a cavallo mo,” provò a svicolare, volendo solo togliersi di lì il prima possibile.

 

“Ma non dicono che quando cadi da cavallo devi subito risalire? Non voglio che ti resti la paura per colpa mia,” insistè Pietro, sembrando realmente preoccupato e soprattutto con uno sguardo ed un tono veramente premurosi, che avevano perso ogni traccia di sarcasmo e sospetto, forse per via del senso di colpa.

 

“Suo marito ha ragione, dottoressa,” si inserì inaspettatamente Sabrina ed Imma provò una strana sensazione nel sentirla tornare al lei. Sapeva che probabilmente era solo a beneficio di Pietro, ma, forse fu per via della coda di paglia, ma lo sentì come un’implicita disapprovazione e non di certo riguardante l’equitazione.

 

In ogni caso, a quel punto non aveva scelta e, con l’aiuto dell’istruttrice, calmò definitivamente la cavalla e cercò di riconquistarne la fiducia prima di risalire, sperando di non lasciarci le penne.

 

Ed invece il resto della lezione trascorse per fortuna relativamente tranquillo, con Minerva che intelligente lo era sul serio, e pure in maniera a dir poco inquietante. Infatti si comportò benissimo, meglio pure del solito, docile come nemmeno il cavallo d’addestramento, mentre Pietro la riempiva di complimenti, con un orgoglio che le scatenava solo un maggiore senso di colpa. E, nel frattempo, Sabrina e Calogiuri la affiancavano sull’altro cavallo, abbracciati in quel modo che le faceva male, sebbene sapesse benissimo fosse tutta una recita e che, invece che esserne gelosa, a Sabrina avrebbe dovuto fare un monumento, se mai avesse osato guardarla di nuovo in faccia finita questa terribile lezione.

 

E per fortuna l’ora terminò, mai troppo in fretta e, dopo che Pietro ebbe lasciato un’abbondante mancia a Sabrina, con ancora tante scuse per il quasi incidente, Imma se lo trascinò in auto, lanciando un’ultima occhiata mortificata in direzione sia di Sabrina che, soprattutto, di Calogiuri.

 

Ma il maresciallo si limitò a guardarla per un secondo, in quel modo che lo faceva sembrare un cane bastonato, e poi ad abbassare lo sguardo. Imma si sentì uno schifo, come forse mai prima di allora. Lei Calogiuri non se lo meritava proprio, e questa ne era l’ennesima conferma.

 

Ed era anche l’ennesima conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che doveva fare qualcosa, che questo triangolo non poteva andare avanti in questo modo, che avevano ormai toccato il fondo e da qui in poi si poteva solo scavare.

 

Che senso ha tenere in piedi una relazione extraconiugale quando l’unico uomo a cui sei fedele da mesi non è tuo marito?

 

La Imma interiore aveva ragione, ragionissima, pur essendo tremendamente irritante, e ne era perfettamente consapevole.

 

Ma, se avesse fatto ora una confessione a Pietro - quella confessione che avrebbe voluto fargli già qualche giorno prima, interrotta da Valentina, e che aveva cercato di nuovo disperatamente il momento giusto per fare, ma purtroppo la figlia, dopo la lite con Bea, era sempre a casa negli orari in cui c’era anche lei - il marito avrebbe immediatamente mangiato la foglia su lei e Calogiuri, era impossibile sperare il contrario.

 

Ed Imma temeva non tanto lo scandalo, ma le conseguenze lavorative che questo avrebbe potuto comportare, soprattutto per Calogiuri, che non aveva colpe della sua stupidità e di non essere stata capace di parlare, prima che fosse troppo tardi.

 

“Sei sicura di non esserti fatta male?”

 

La voce di Pietro la riscosse bruscamente dai suoi ragionamenti ed incrociò il suo sguardo, che sembrava ancora sinceramente preoccupato, quasi mortificato.


“Tranquillo, Pietro, e poi non è colpa tua. Non è facile stare in equilibrio al trotto, soprattutto all’inizio,” lo rassicurò con un sorriso, posandogli una mano sul braccio, perché, al di là di tutto, non si meritava tutta questa preoccupazione e tutto questo senso di colpa, e lo sapeva.

 

“Ma mi sa che continuerò solo col sassofono e lascerò a te l’equitazione,” scherzò, prima di proclamare, con un tono fiero che fu come girare il dito nella piaga, “sei davvero brava, amò, non credevo. Si vede che ti piace proprio e… e mi dispiace dell’improvvisata e di… di aver reagito male per questa storia delle lezioni. Ma… se devo essere sincero… ero un po’ geloso.”

 

“Geloso?” ripetè, trattenendo il fiato, perché non sapeva che altro dire senza rischiare di peggiorare la situazione.

 

“Sì, non che tu avessi un hobby, che anzi sono pure contento se non pensi solo al lavoro, ma del fatto che non me ne avessi parlato. Mi sono sentito tagliato fuori dalla tua vita, Imma. E poi… e poi, se devo essere sincero, ero pure un po’ geloso di te e del maresciallo: stai sempre con lui e passate molto tempo insieme, poi lo cerchi in continuazione e… e per un attimo ho temuto che tu… che voi… insomma….”

 

Imma ammutolì, perché non sapeva sinceramente che fare: se cogliere l’occasione e confessare, fregandosene delle conseguenze e levandosi un peso dalla coscienza e dal cuore, o se abbozzare e continuare a tacere, proteggendo Calogiuri dalle possibili conseguenze, oltre che se stessa.

 

“Lo so… lo so che non avrei dovuto dubitare di te… ma è che ultimamente… ultimamente sei così distante, Imma, e così ho avuto paura che c’avessi un altro,” ammise, con un tono ed uno sguardo spaventati che furono la stoccata finale, “ma non ti preoccupare, mo ho capito perché gli sei tanto affezionata al maresciallo: è proprio un bravo ragazzo, gentile, e pure la sua ragazza, sono veramente una bella coppia. Anzi, scusati con loro da parte mia quando hai occasione, soprattutto col maresciallo, che mi ha pure salvato l’osso del collo ed evitato di farti male, che non me lo sarei mai perdonato.”

 

“Pietro, io…” provò a dire, ma le parole non ne volevano sapere di uscire: le veniva da piangere e si sentiva una merda da un lato e dall’altro si sentiva soffocare, in trappola. In una trappola da cui non sapeva come fuggire.

 

Ed il peggio era che non poteva arrabbiarsi con nessuno, se non con se stessa, perché era lei che l’aveva creata e poi ci si era chiusa dentro, come la stupida che era.

 

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“Scusa per… per tutto quanto. E grazie per aver salvato la situazione.”

 

“Ma figurati! E poi non è che ci tenessi nemmeno io ad assistere a una scenata. Tu, piuttosto, tutto ok?” gli chiese, sembrandogli genuinamente preoccupata e lui si trovò a sospirare, perché decisamente non andava tutto bene, anzi, si sentiva come se fosse sull’orlo di scoppiare.

 

Da un lato di gelosia, dopo essere stato costretto ad assistere, per un tempo che gli era sembrato infinito, alle effusioni del signor De Ruggeri nei confronti della sua Imma.

 

Non è tua! - gli ricordò prontamente la voce della sua coscienza e, purtroppo, mai come in quel momento, non poteva darle torto.

 

Quando se la era abbracciata stretta, a cavallo, gli era sembrato di impazzire, per non parlare del modo in cui l’aveva accarezzata e baciata. Si era sentito fuori posto, di troppo, come forse mai prima di allora. Per carità, lo aveva notato benissimo che Imma era a disagio, certo, si vedeva lontano un chilometro, ma ciò non gli levava il dubbio di chissà come fosse con il marito quando erano soli, quando lui non c’era.

 

Per quanto, se il signor De Ruggeri si era spinto fino a seguirla e se sospettava qualcosa su di loro… forse le cose tra Imma ed il marito non andavano poi tanto bene ultimamente.

 

Ma intanto lei resta con lui, e tu stai qui a mangiarti il fegato, come il cretino che sei!

 

Scosse la testa per ignorare la voce, mentre cercava di tenere a freno quella rabbia che gli montava dentro e che rischiava di farlo impazzire. C’era andato fin troppo vicino ad esplodere e aveva dovuto fare leva su tutto il suo autocontrollo per stare tranquillo ed impassibile: quando per poco il signor De Ruggeri aveva fatto sfracellare a terra Imma insieme a lui, gli era venuta una voglia completamente irrazionale di strozzarlo, anche se sapeva benissimo che non l’aveva di certo fatto apposta e che non era colpa sua se non era capace di andare a cavallo.

 

E poi, come se non bastasse, alla gelosia si sommava la preoccupazione. Preoccupazione che lei stesse bene, e non solo fisicamente. Che il marito se la fosse bevuta la storia che lui e Sabrina stavano insieme, e che ora non le stesse facendo una scenata di gelosia. Ed il peggio era che non poteva scoprirlo, non poteva arrischiarsi a sentirla, non dopo quello che era successo. Avrebbe dovuto attendere il giorno successivo per avere sue notizie.

 

“Ehi, tutto bene?”

 

La voce preoccupata di Sabrina, che lo osservava dall’altro box, dove aveva appena riaccompagnato Minerva, lo riportò alla realtà presente.

 

“Insomma…” si limitò a rispondere, iniziando a togliere la sella ad Impeto, bisognoso di fare qualcosa che non fosse stare fermo immobile a pensare.

 

“Scusami, non mi volevo impicciare. Comunque se vuoi andare, qui finisco io, non ti preoccupare.”

 

“No, anzi, ho proprio bisogno di fare qualcosa di pratico: ti aiuto e poi mi avvio. E mi dispiace ancora di tutto, veramente.”

 

“A me dispiace più per te. Avevo… avevo notato che Imma porta la fede e tu no e… beh, insomma… la differenza d’età tra voi è evidente. Però siete… insomma… state talmente bene insieme che pensavo che tu non la portassi perché ti dava fastidio, magari. Ma ci deve essere sempre la fregatura da qualche parte, immagino,” proclamò, con un tono come se stesse parlando in buona parte tra sé e sé.

 

Stava cercando le parole adatte per risponderle, sempre se esistevano, quando lo squillo del cellulare rimbombò tra le pareti del box, cogliendolo di sorpresa e provocandogli un fortissimo senso d’ansia.

 

Si immaginò gli scenari peggiori: da Imma mollata per strada dal marito dopo una lite furiosa a che avessero avuto un incidente stradale, sempre dopo una discussione troppo accesa.

 

Estrasse di corsa il telefono dalla tasca ed avviò la chiamata, senza nemmeno guardare il numero.

 

E ciò che sentì per poco non gli fece davvero venire un colpo, ma per tutt’altra ragione.

 

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“Se cerca il maresciallo, non si è ancora visto oggi.”

 

Il sorrisetto di Matarazzo per una volta non le fece né caldo, né freddo: aveva ben altre preoccupazioni in quel momento.

 

Quando era arrivata in ufficio, puntuale alle nove precise, aveva sperato che Calogiuri comparisse di lì a poco, per accertarsi di come stesse, per scusarsi con lui, ma non si era visto.

 

Aveva allora atteso pazientemente, con la crescente preoccupazione che potesse avercela con lei dopo quanto avvenuto il giorno precedente. Ma, d’altro canto, potevano esserci altri mille motivi pratici per cui il maresciallo quella mattina avesse altro da fare, a partire dalla D’Antonio che se lo requisiva sempre più spesso per i suoi casi.

 

Si era imposta di attendere ma, arrivate le undici del mattino, non aveva più resistito e si era avviata verso la PG, sperando di avere sue notizie e temendo di trovare conferma alle sue paure.

 

Di certo non si era aspettata di sentire quello che le aveva detto Matarazzo.

 

“Come non si è visto? Ma è fuori per un sopralluogo? O è in permesso?” chiese, stupita, perché non ne sapeva niente di una sua possibile assenza quel giorno.

 

“Non che io sappia. L’ha cercato pure la dottoressa D’Antonio prima e non è segnato né come in ferie, né come in permesso. Ma io sono qui dalle otto ed oggi non si è proprio visto, non so che altro dirle dottoressa,” chiarì Matarazzo, sempre con quella punta di malizia che le dava da morire sui nervi.

 

Ma la preoccupazione sovrastava tutto il resto: non era da Calogiuri non presentarsi al lavoro in modo ingiustificato, né fare ritardo. Poi ormai… altro che ritardo… un altro po’ ed era mezzogiorno.

 

“Ma avete provato a chiamarlo?” chiese, l’ansia che montava e la risposta di Matarazzo non fece che peggiorare la situazione.

 

“E certo che ho provato, dopo che l’ha cercato la D’Antonio. Ma ha il cellulare staccato. Ho lasciato pure un messaggio, ma per ora tutto tace.”

 

“Va bene, la ringrazio, Matarazzo,” si congedò con un sospiro, mentre un sacco di scenari assurdi le affollavano la mente.

 

Dall’ipotesi che non fosse venuto a lavorare per quanto successo il giorno prima, ma che venne subito scartata: Calogiuri aveva un enorme senso del dovere ed era molto professionale, non avrebbe mai saltato il lavoro per una cosa del genere, non senza avvertire perlomeno. Anche perché, con tutte le ferie arretrate che aveva, un permesso glielo avrebbero concesso facilmente.

 

E poi c’era l’ipotesi che fosse successo qualcosa: un malore, un incidente… e ad ogni scenario che la sua mente le proiettava davanti agli occhi, l’ansia cresceva.

 

Prese il cellulare e avviò la chiamata, sperando che nel frattempo la situazione fosse cambiata, ma una voce metallica le annunciò che il numero non era raggiungibile.

 

Era appena tornata nel suo ufficio quando fu tentata di andare da Vitali a chiedere notizie.


Bella idea, Imma, così se non ne sa niente lo metti nei guai a Calogiuri! - le ricordò la voce della sua coscienza, versione Diana.

 

Si voltò verso l’ufficio della cancelliera e la beccò a guardarla tra l’incuriosito ed il preoccupato, forse avendo notato la sua agitazione.

 

E fu in quel momento che prese d’istinto una decisione, alla faccia della prudenza e del buon senso, ma semplicemente non poteva fare altrimenti.

 

“Diana, io esco, anticipo la pausa pranzo. Ci vediamo più tardi!” annunciò, guadagnandosi uno sguardo sorpreso, ma non attese nemmeno di ricevere risposta, prima di infilarsi il cappotto, recuperare la borsa ed avviarsi a passo deciso lungo il corridoio, verso le scale, che scese a due a due.

 

Sarebbe andata all’appartamento di Calogiuri e si sarebbe accertata se stesse bene, o se almeno fosse in casa. E se non lo avesse trovato… avrebbe chiamato gli ospedali, a costo di fare la figura dell’idiota paranoica, ma non le interessava.

 

Se gli fosse successo qualcosa… non ci poteva nemmeno pensare, perché la sola ipotesi le faceva gelare il sangue nelle vene.

 

Aveva appena disceso l’ultimo gradino quando sentì, poco distante, delle voci femminili che alternavano risolini ad esclamazioni entusiaste del tipo “ma quanto sei bella!!” e “ma che amore!!”, con quel tono da rincretinite che solitamente si riserva solamente ai bambini o ai cuccioli - che poi in fondo, il concetto è lo stesso.

 

Si voltò e ciò che vide le inchiodò le scarpe a terra e si paralizzò completamente, tra il sollievo e lo stupore: mezza popolazione femminile della procura era riunita di fronte all’ingresso della PG, letteralmente accerchiando una figura maschile che reggeva in braccio un bimbo - anzi, una bimba, a giudicare dal florilegio di vezzeggiativi - piccolissima, che non poteva avere più di qualche mese.

 

“Calogiuri!” le sfuggì dalle labbra ed il maresciallo straordinariamente sembrò udirla, nonostante il casino, e alzò i suoi occhi azzurri verso di lei, sorridendole, poco prima che tutto il drappello facesse lo stesso - tranne per il sorriso, ovviamente.

 

“Dottoressa!” le rispose, sembrando stranamente… sollevato?... nel vederla ed Imma, quasi inconsciamente, uscì dalla paralisi ed iniziò ad avvicinarsi a lui ed al nugolo di donne.

 

“Ha visto dottoressa, che avevo ragione quando dicevo di non averlo ancora visto al maresciallo?” le disse Matarazzo che, rispetto alle altre, si teneva un poco più in disparte dal crocchio.

 

“Mi avevate cercato, dottoressa?” le domandò Calogiuri, con un altro sorriso.

 

“Sì, avevo bisogno di parlarti del maxiprocesso e... sinceramente stavo pure iniziando a preoccuparmi che ti fosse capitato qualcosa. Ma che è successo?” gli domandò, ignorando l’espressione della Moliterni sulla sua ammissione di essersi preoccupata per lui, anche perché era una cosa normale e che avrebbe dovuto fare chiunque di loro al posto suo. E poi era lei la stronza dal brutto carattere.

 

“Mia sorella stanotte ha avuto un’emergenza e sono dovuto andare a recuperare lei e mia nipote a Grottaminarda e poi mi ha affidato mia nipote… è una lunga storia. Solo che non ho nessuno a cui lasciarla e quindi l’ho portata qui, anche per avvertire del motivo della mia assenza. Purtroppo mi si è scaricato il cellulare e non avevo il caricabatterie con me…”

 

Imma tirò un sospiro di sollievo e si fermò, ormai a pochi passi da lui. E, in quel momento, la piccola si voltò verso di lei, forse avendo sentito il rumore dei tacchi, e la fissò con due occhi azzurrissimi che le causarono un colpo al cuore, perché erano praticamente identici a quelli dello zio.

 

Non potè evitare di sorriderle, ma la cosa sorprendente fu che la bimba, dopo averla squadrata ancora per un attimo, non solo ricambiò con un sorrisone sdentato, ma esplose pure in un risolino, iniziando a muovere le braccia nella sua direzione.

 

“Ta-ta,” pronunciò la piccola, tra un sorriso e l’altro, mentre Calogiuri, il drappello di donne e la stessa Imma la guardavano con incredulità.

 

“Non tata, Tataranni, piccola, fidati, è assai diverso,” pronunciò sarcastica la Moliterni, prima di proclamare, con un sorriso malizioso, “comunque deve aver preso i gusti inspiegabili di famiglia, è evidente.”

 

Imma stava per dirgliene quattro, quando la bimba iniziò a sporgersi verso di lei dalle braccia dello zio, nel segno universale ed inequivocabile che indica il voler essere presi in braccio, e per poco ad Imma non venne un colpo, mentre una botta di magone le fece pizzicare gli occhi.

 

Incrociò lo sguardo di Calogiuri e vide la stessa meraviglia ed una buona dose di commozione.

 

“Posso?” gli chiese, guadagnandosi un’altra occhiata scioccata da Moliterni and friends.

 

“Ma certo, dottoressa!” esclamò Calogiuri con un sorriso emozionato, porgendole la piccola, mentre lei se la prese in braccio con mani un po’ tremanti, una scossa che la colpì in pieno quando le sue mani e braccia sfiorarono quelle del maresciallo.

 

Per un secondo temette che la bimba rinsavisse di colpo e si mettesse a piangere disperata. Invece Noemi - così si chiamava se non ricordava male - sorrise ancora di più e si mise a fare degli altri versi e gorgoglii tipici di quell’età.

 

Istintivamente, le sorrise di rimando e la fece sobbalzare un po’ tra le braccia, cullandola, guadagnandosi delle occhiate sbigottite da Moliterni, Matarazzo e da tutto il cucuzzaro, che la fissarono manco fosse un’aliena.

 

“Beh, che c’è? Vi ricordo che sono madre pure io e mia figlia mica l’ho fatta crescere ai lupi,” sibilò, sarcastica, e Noemi esplose in un altro risolino, conquistando definitivamente il suo cuore, se ancora ce ne fosse bisogno.

 

“No, solo dal marito,” sentì sghignazzare la Moliterni, seguita a ruota dalle altre oche del REGE. Ma in quel momento non gliene poteva proprio fregare di meno.

 

“Senti, Calogiuri, tu hai idea di come fare con la bambina? Hai il latte da darle e tutto il resto dell’attrezzatura?” gli chiese, pratica, come se stesse parlando di un caso da risolvere.

 

“Mia sorella mi ha lasciato tutto, dottoressa. Dire che so come si faccia… più o meno,” ammise, mostrando lo zaino che teneva in spalla e toccandosi il collo come faceva quando era nervoso.

 

“Allora vieni nel mio ufficio che tra io e Diana qualcosa ancora dovremmo ricordarcela e almeno la bambina ha un posto più tranquillo dove stare della PG,” propose, guadagnandosi l’ennesima occhiata sorpresa delle astanti.

 

“Sempre se non parti con una delle tue sfuriate, Imma,” proclamò la Moliterni con un altro sorrisetto ed Imma si chiese se fosse la stessa persona che a Capodanno le aveva mezzo salvato la faccia - letteralmente - e che, almeno al momento, non aveva ancora chiesto nulla in cambio per il favore del suo silenzio.

 

“Se mi porti tutti i fascicoli che ho chiesto per tempo non ce ne sarà bisogno, Maria,” replicò, tagliente, e Noemi di nuovo riprese a ridere.

 

Lanciò un’occhiata a Calogiuri, che sembrava divertito quanto lei e dovette usare tutto il suo autocontrollo per non scoppiare a sua volta in una risata.


Girò sui tacchi e, con Calogiuri al fianco e la bimba in braccio, si avviò su per le scale, anche se ad un passo molto più lento del suo solito.

 

“Dottoressa Tataranni? Che ci fa con una bambina? Le feste natalizie hanno addolcito perfino lei?”

 

La voce stupita di Vitali la raggiunse appena arrivata in cima alle scale.

 

“No, dottore, non si preoccupi, non c’è pericolo. Questa è la nipote del maresciallo e sua sorella gliel’ha lasciata per un’emergenza. Immagino non sia un problema se, intanto che troviamo una soluzione alternativa, resta per un poco nel mio ufficio, vero?” gli domandò, mentre pure Vitali continuava a guardarla sorpreso, manco se avesse annunciato che la bambina aveva intenzione di mangiarsela per pranzo.

 

“Ma no, dottoressa, ci mancherebbe, solo… non è da lei transigere così sul protocollo. Ma è umana, me ne compiaccio,” rispose il procuratore, iniziando a sorridere e a fare versi cretini in direzione della bimba che, per tutta risposta, gli afferrò il naso con entrambe le manine, provocandogli una smorfia di dolore.

 

“Ma no, dottore, è che, vede, io sono più che tollerante con le persone intelligenti. Ed è evidente che questa bimba a pochi mesi bagna il naso alla maggior parte delle persone qui in procura. Con permesso, mi congedo,” lo salutò, staccando Noemi dal suo naso prima che facesse troppi danni e guadagnandosi un’occhiataccia del procuratore e l’ennesima risata della bimba.

 

“Ti piace proprio quando cazzio la gente, eh, Noemi?” le chiese, ironica ed intenerita, e la bimba si produsse in un’altra risatina entusiasta, “brava, farai strada nella vita! Ti sopporteranno in pochi ma buoni, ma farai strada!”

 

Vide con la coda dell’occhio Calogiuri che si sforzava di trattenere una risata, pur con gli occhi un po’ troppo lucidi e che sembravano più grandi del solito. Entrò finalmente in ufficio e lo udì richiudere la porta alle sue spalle.

 

“La dottoressa non c’è, è uscita prim-” Diana si interruppe bruscamente sulla soglia, squadrandoli come se temesse di stare allucinando, “Imm- dottoressa, ma chi è questa bimba? Maresciallo, ma che succede?”

 

“La nipote del maresciallo, Diana. E, a proposito, Calogiuri, ma che è successo a tua sorella?” gli domandò, ignorando l’occhiata sbigottita di Diana e sedendosi su una delle poltroncine davanti alla scrivania, la bimba ancora in braccio che gorgogliava felice come una pasqua.

 

“Mi ha chiamato ieri sera. Suo marito, il padre di Noemi, fa il camionista e si è sentito male in Francia mentre faceva una consegna. Un’appendicite, lo hanno dovuto operare prima che andasse in peritonite. Quindi lo sta raggiungendo con un collega di mio cognato che deve riportare indietro il camion, mentre loro probabilmente rientreranno in aereo non appena mio cognato avrà il via libera dai medici per il trasferimento sanitario. E non poteva portarsi dietro la bimba in un viaggio simile e non poteva lasciarla a mia madre perché a casa a Grottaminarda si sono presi tutti l’influenza e sono ancora a rischio contagio. Quindi la devo tenere io per qualche giorno.”

 

“Un lazzaretto, praticamente, Calogiuri,” commentò Imma con un sospiro, “immagino ti prenderai qualche giorno di ferie arretrate?”

 

“Se posso sì… ma credo che avrei bisogno anche di una babysitter, non so se sono in grado da solo di farcela. Ma non conosco nessuno,” ammise Calogiuri, ricambiando il sospiro.


“Diana, tu conosci qualcuno, per caso? Che sei meglio dell’ufficio di collocamento per queste cose,” ironizzò Imma e Noemi, puntuale come un orologio svizzero, riprese a ridere.

 

“Forse… forse c’è un’amica di Cleo che a quanto ne so è bravissima con i bambini, sta pure studiando per fare l’educatrice. Se vuoi chiedo a Cleo il numero così sentite se è disponibile.”

 

“Ecco, visto?” chiese a Calogiuri con un sorriso sarcastico, prima di aggiungere, con tono più gentile, rivolta alla cancelliera, “e brava, Diana, grazie. Puoi sentirla subito?”

 

Una piccola parte di lei non potè evitare di interrogarsi su quanti anni avesse l’amica di Cleo e quanto fosse avvenente. Ma non era il momento di farsi prendere dalla gelosia e, in ogni caso, quelle erano domande che non avrebbe mai potuto fare, non a Diana.

 

La cancelliera la guardò come se pensò che fosse impazzita del tutto, probabilmente per la gentilezza inattesa, oltre che per la creatura che teneva in braccio, ma poi tornò nel suo ufficio senza fiatare.

 

Sentì una strana sensazione di calore al petto e per un attimo non ci fece caso, convinta che fosse l’effetto della presenza di Calogiuri. Ma, quando incrociò gli occhi del maresciallo e lo trovò praticamente paonazzo, seguì lo sguardo di lui fino al suo stesso seno e vide che Noemi si era attaccata con la bocca alla lana del suo maglioncino.

 

“Mi sa che qualcuno ha fame…” cercò di ironizzare, anche se la sua voce le suonò fin troppo roca, mentre sentiva di nuovo quel maledetto pizzicore agli occhi ed un altro genere di calore sul cuore, prima di staccarsela delicatamente e proclamare, “Noemi, mi dispiace deluderti, ma qua la latteria ha chiuso i battenti quasi vent’anni fa. Calogiuri, hai il latte con te, vero?”

 

“S- sì, dottoressa,” balbettò, imbarazzatissimo, spalancando il borsone ed estraendone un bollitore elettrico, un biberon, una bottiglia d'acqua e la confezione di latte artificiale.

 

“Lo ha già preso il latte artificiale, spero?” gli domandò, temendo una risposta negativa, visto che la povera creatura doveva resistere ancora per chissà quanto senza la madre.

 

“Sì, dottoressa. A casa ho un poco di latte che mi ha lasciato mia sorella, ma Noemi mangia talmente tanto che le dà anche un po’ di quello artificiale tutti i giorni.”

 

“E brava, Noemi, ti tratti bene, eh?" le sorrise, accarezzandole la pancia e la bimba si produsse in un altro dei suoi risolini, provando di nuovo inutilmente ad attaccarsi al seno, per poi rassegnarsi e mettersi a tirare il pelo del suo golfino.

 

Dopo vari tentativi, il latte fu finalmente preparato, quasi bollente, e lasciato raffreddare ed Imma gli mostrò come testare che non fosse troppo caldo, “sul polso, Calogiuri, mi raccomando, non sulla mano, che è meno sensibile al calore.”

 

“Sai come darglielo il biberon?” gli chiese e, di fronte alla sua esitazione, reclinò la bimba su un braccio, afferrò il biberon con la mano libera e glielo avvicinò alla bocca. La piccola se lo prese ed iniziò a succhiare con un’avidità che manco non avesse mai mangiato da quando era nata.

 

“Sono certa che nel frattempo i pediatri e gli esperti saranno venuti fuori con altre mille teorie su come si faccia a fare queste cose, Calogiuri, e mi troverebbero da dire da qui fino all’anno prossimo. Ma Valentina di fame non è mai morta, e mi sa che tua nipote mangerebbe pure appesa al lampadario, per quanto è vorace,” scherzò, alzando gli occhi verso di lui e beccandolo a guardarla di nuovo con quello sguardo commosso, che le provocò quella sensazione di avere il cuore sull’orlo dell’esplosione ed una vampata al viso, insieme però anche ad una botta di malinconia.

 

“Mo prova tu, però, che poi stasera lo devi fare da solo,” gli ordinò, più che altro per distrarsi ed evitare di indugiare troppo in pensieri decisamente pericolosi.

 

Gli porse la nipotina e lui se la prese in braccio, con l’immancabile scossa elettrica che la fulminò allo sfiorarsi delle loro mani, e poi iniziò a darle il biberon, senza particolari problemi, tanto che Imma dovette intervenire solo un paio di volte per mostrargli come tenerle la testa.

 

Si scambiarono un altro sguardo e stavolta gli occhi di Calogiuri erano talmente lucidi da far spavento.

 

Chissà se anche tu stai pensando a come sarebbe… avere un figlio nostro... - pensò Imma, cercando di deglutire il nodo in gola.

 

Sentì un rumore alle sue spalle e si voltò, beccando Diana che si era fermata sulla porta tra i loro uffici ad osservarli, con un’espressione strana.

 

“Visto che mi sembra che ve la stiate cavando benissimo pure senza di me, io andrei in pausa pranzo, che a me il biberon non basta,” scherzò, dopo qualche istante di silenzio, ed Imma si limitò ad annuire, perché non si fidava di che suono avrebbe potuto produrre la sua voce, se si fosse azzardata a parlare in quel momento.

 

Non appena udì il rumore della porta che si chiudeva, sentì una mano sulla guancia e due labbra sulle sue, in un bacio delicato, che si interruppe quasi subito perché Noemi si mise a vociare, reclamando il latte.

 

“Concentrati, Calogiuri, che questa è peggio di me se non obbedisci agli ordini, e pure veloce,” scherzò, sebbene in modo un po’ troppo tremolante per i suoi gusti, ed il maresciallo si limitò a risponderle con uno di quei sorrisi bellissimi che le facevano male al cuore e mai quanto in quel momento.

 

Ma cercò di ignorare quella sensazione e quella vocetta interiore, concentrandosi sulle attività pratiche. Finito il biberon, gli mostrò come farle fare il famoso ruttino, prima che Noemi rompesse i timpani a mezza procura con un pianto degno di una sirena. Non che non se lo sarebbero meritato, ma ancora l’udito le serviva.

 

E, dopo qualche attimo fugace di pace, la bimba riprese nuovamente a strillare ma, da un evidente indizio olfattivo, non ci volle chissà quale intuito per capire quale fosse il problema.

 

“Mi sa che è meglio se andiamo in bagno a cambiarla, Calogiuri,” suggerì Imma, pensando che quella era una delle tante cose della maternità che invece non le mancavano proprio.


“Non serve… cioè, non ti preoccupare, faccio da solo. Durante le vacanze di natale a Grottaminarda ho imparato,” si affrettò a chiarire con un sorriso, premuroso e cavaliere come sempre.

 

“Tua sorella l’attività migliore di tutte non ha perso tempo a insegnartela, vedo. Mo ho capito da chi ha preso Noemi,” ironizzò, guadagnandosi una mezza risata da Calogiuri ed una sdentata dalla piccola che, per qualche motivo inspiegabile, sembrava divertirsi un mondo ogni volta che lei usava un tono sarcastico.

 

Nel mentre che Calogiuri tornò, rientrò anche Diana, annunciando di avere avuto il numero della babysitter e che fosse disponibile dall’indomani per la giornata. Le notti se le sarebbe dovute smazzare Calogiuri, non che la cosa le dispiacesse da un lato… perché l’idea di lui da solo di notte con una ragazza giovane e probabilmente avvenente….

 

Ma si obbligò a soffocare la gelosia e a riferirgli il tutto, una volta che fu tornato dal bagno, con Noemi nuovamente allegra, anche se un po’ meno vivace.

 

“Mi sa che comincia ad essere stanca, Calogiuri. E anche tu mi sembri un poco provato,” commentò, quando ebbero ripreso posto sulle poltrone di fronte alla sua scrivania, per poi domandargli, con un tono che sperò suonasse professionale agli orecchi di Diana, “che pensi di fare allora? Prenderai ferie lo stesso?”

 

“Se Vitali me le concede sì, magari giusto un paio di giorni. Non voglio che Noemi si spaventi dei troppi cambiamenti: già non è a casa sua e non vede sua mamma. Anche se, come avete visto, è una bimba espansiva e vivace,” le rispose con un sorriso, cullando la piccola, i cui occhi sembravano cominciare a farsi sempre più pesanti.

 

“Va bene, Calogiuri, non ti preoccupare: per un paio di giorni ce la caveremo senza di te. Tu cerca di farla addormentare, con Vitali ci parlo io, così poi potete andare a casa, che mi sa che non è l’unica ad avere bisogno di una dormita.”


“Dottoressa… vi ringrazio, ma non è necessario, con il procuratore posso parlare io e-”

 

“Tranquillo, Calogiuri. Vitali sarà così felice, non appena mi sentirà pronunciare la parola ferie, che mi dirà di sì, prima che io faccia in tempo anche solo a dire per chi sono. Non che non te le concederebbe comunque: lui sulle vicende familiari è più che comprensivo. Stai qui tranquillo che torno subito,” intimò con un sorriso, avviandosi verso la porta e beccando di sottecchi Diana che, dalla sua scrivania, la guardava come se le fosse spuntata un’altra testa.

 

“Qualcosa che non va, Diana?” le chiese di proposito, affacciandosi alla porta tra i loro uffici.

 

“No, dottoressa. Solo che, di solito, lei non chiede mai favori per i colleghi,” le ricordò, con una punta ben poco velata di sarcasmo.

 

“A parte che, visti i risultati, certi favori forse era proprio meglio che non li avessi affatto chiesti, no, Diana?” le ricordò, considerato il fiasco seguito al trasferimento del marito a Matera, “ma comunque, qui non si tratta di un favore ma di due giorni di ferie che al maresciallo spettano da regolare contratto collettivo e che mi premuro semplicemente di domandare a Vitali in sua vece, invece che costringerlo ad andarci con una bimba di pochi mesi in braccio che, se non si addormenta a breve, riprenderà ad urlare peggio di quanto farò io alla prossima insinuazione di questo genere che ti azzardi a farmi. Chiaro?”

 

“Chiarissimo, dottoressa,” sospirò Diana, abbassando il capo, con l’aria di chi sapeva, di nuovo, di essersela cercata.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dica pure al maresciallo di prendere i giorni che gli servono, tenendosi però a disposizione durante il giorno in caso di emergenza, che non credo capiterà,” concluse Vitali, dopo una breve conversazione, lo sguardo ancora un poco sorpreso, anche se mai come quando gli aveva chiesto delle ferie per Calogiuri, “comunque a lei i bambini fanno proprio bene, dottoressa. A saperlo prima, le avrei portato la mia di nipote, anzi, pronipote in visita.”

 

“Guardi, dottor Vitali, come ho già provato a spiegarle, la mia pazienza con i bambini dipende tutta dal loro carattere, esattamente come quella con gli adulti. Quindi a grande rischio e pericolo di sua pronipote. Con permesso,” ironizzò, facendo per avviarsi verso la porta.

 

“E allora dovremo clonare i geni della famiglia del maresciallo per scoprire il loro segreto, dottoressa.”

 

“Basta parlare poco e lavorare molto, dottor Vitali, senza scomodare la genetica,” sibilò, aprendo la porta e chiudendola dietro di sé.

 

Percorse rapidamente il corridoio fino al suo ufficio, rallentando in prossimità della porta e cercando di fare meno rumore possibile coi tacchi, in caso la bimba dormisse.

 

E la scena che vide dalla porta le strinse il cuore: Calogiuri che sorrideva alla nipote in un modo che definire tenero sarebbe stato come definire Einstein un poco intelligente. La cullava e le accarezzava leggermente una manina, mentre la piccola sembrava già addormentata.

 

Di nuovo, quella vocina interna scalpitò, facendole male all’anima, il nodo in gola che divenne soffocante. Che Calogiuri ci sapesse fare con i bimbi, l’aveva già notato in precedenza ma, vedendolo con sua nipote, aveva avuto la conferma definitiva di quanto gli piacessero e quanto ci fosse portato. Un giorno sarebbe stato un padre perfetto, se-

 

Se tu non glielo impedisci, Imma - la voce della Moliterni le ricordò, al posto della sua coscienza, puntuale come il mal di denti e purtroppo, come sempre, niente affatto in torto, palesando quel pensiero latente che l’aveva tormentata nelle ultime ore.

 

Perché, se anche si fosse decisa a lasciare Pietro quel giorno stesso, se anche lei e Calogiuri avessero potuto uscire allo scoperto l’indomani - cosa impossibile - la probabilità che lei lo rendesse mai padre era tendente quasi allo zero.


E non solo per l’orologio biologico che si avvicinava inesorabilmente agli ultimi rintocchi. Per avere una possibilità non infinitesimale di restare incinta, avrebbero dovuto avere un figlio il prima possibile. Ma Calogiuri era ancora molto giovane e non sarebbe stato giusto costringerlo a bruciare le tappe. Lei era diventata madre esattamente all’età che aveva lui in quel momento, e dire che non fosse stata pronta per esserlo, col senno di poi, sarebbe stato riduttivo.

 

Si era persa talmente tante cose, tutte quelle cose che stava cercando di recuperare fuori tempo massimo, e non voleva succedesse anche a lui. Non voleva tarpargli le ali, impedirgli di fare le esperienze che doveva fare, di vedere quel mondo che era giusto che vedesse.

 

E poi… lei non avrebbe mai vinto il premio di madre dell’anno, era poco ma sicuro. Con Valentina era sempre stata troppo poco presente, per via del lavoro, e lo sapeva. Ma, in generale, non era mai stata molto materna, forse più paterna, per gli standard italiani almeno. Non che non amasse Valentina o odiasse i bambini, tutt’altro, ma non era mai stata una di quelle madri affettuose. Magari per via dell’esempio avuto dalla sua di madre, che di tempo per coccole e moine non ne aveva avuto, e le aveva trasmesso un’idea di educazione pragmatica, pratica, senza grilli per la testa.

 

Forse per questo e per il suo essere figlia unica, non aveva mai desiderato una famiglia numerosa. A lei Valentina era sempre bastata. Ma Pietro, una decina di anni prima, aveva insistito per un po’ perché provassero a darle un fratellino o una sorellina, in modo che non fosse sola al mondo come loro due e avesse qualcuno su cui poter contare - o con cui potersi scannare - per il resto della vita.

 

Imma non era stata proprio convintissima, ma alla fine si era fatta convincere ed avevano tentato per qualche mese, senza successo. Lei lo aveva interpretato come un segno del destino, Pietro aveva a poco a poco smesso di parlarne e tutto era proseguito come se nulla fosse avvenuto. Certo, non erano andati da nessun medico e magari lei non ci aveva provato con sufficiente impegno, ma se già non ci era riuscita dieci anni prima, la situazione non poteva essere che notevolmente peggiorata nel frattempo.

 

In quel momento, Calogiuri si voltò e quegli occhi azzurri e stanchi incrociarono i suoi, interrompendo i suoi pensieri e dandole un’altra stretta al cuore, un senso di magone e tristezza che la invasero prepotentemente, senza poterlo evitare.

 

Si sforzò di fargli un sorriso e si avvicinò a lui lentamente, quasi come se avesse paura di cedere con ogni secondo che passava e mostrare ciò che realmente provava in quel momento.

 

“Vitali ti ha concesso le ferie. Basta che resti reperibile di giorno in caso di emergenza, ma non dovrebbero esserci problemi. Ora però vai, anzi, andate a casa a riposare. Fatti accompagnare da un collega con la macchina, così non prendete freddo. Non Matarazzo, che se no tua nipote non solo si sveglia ma come minimo ti vomita addosso tutto il latte bevuto da quando è nata,” ironizzò con la voce più bassa che aveva, non che le ci volesse un particolare sforzo: era roca da fare spavento.

 

“D’accordo, dottoressa… vi ringrazio…” pronunciò lui di rimando, in quello che era poco più di un sussurro, sembrando esitare, come se non volesse andarsene e rimanere ancora un po’ lì con lei, in quell’atmosfera surreale, bellissima ed irripetibile che avevano creato in quella giornata.

 

Ma non poteva permetterglielo né permetterselo.

 

Lo vide raccogliere tutta l’attrezzatura della piccola e un “se hai bisogno di qualcosa per tua nipote... chiama pure, Calogiuri...” le uscì dalle labbra prima che potesse impedirselo. Si ripromise che sarebbe stato l’ultimo cedimento, anche perché era per una buona causa. Ma una volta che Noemi fosse ritornata sana e salva a casa con sua madre…

 

Calogiuri, completamente ignaro dei suoi pensieri, le fece uno di quei sorrisi amplissimi che fu il colpo di grazia. Sforzandosi di nuovo di ricambiare il sorriso, si concesse un’ultima carezza ad una delle guanciotte della bimba che, salvo emergenze di quei giorni, molto probabilmente non avrebbe mai più rivisto.

 

“Fatti sempre valere, piccoletta,” le sussurrò, vicina all’orecchio, ed il nodo in gola divenne una palla da golf quando la vide sorridere nel sonno.

 

Fu in quell’istante che ebbe la pessima idea di alzare gli occhi ed incontrò di nuovo quelli del maresciallo, che sembrava quanto lei sull’orlo del pianto - ma per ben altri motivi - e che esitò per un momento, quell’espressione che aveva sul viso quando stava per fare una pazzia. Le si avvicinò quasi impercettibilmente e lei gli posò una mano sul braccio, scuotendo il capo, prima che gli saltasse in mente di baciarla con Diana nell’ufficio accanto e la porta aperta.

 

Anche se quel bacio lo avrebbe voluto come l’aria, come l’ultima boccata d’aria prima di ciò che si stava condannando a fare. Ma non si poteva, doveva essere forte e razionale per entrambi.

 

Calogiuri annuì, comprensivo come sempre, il collo che gli diventò rosso dall’imbarazzo per ciò che era stato ad un soffio dal combinare e, con un ultimo sorriso e un “grazie ancora dottoressa, e se avete bisogno per qualsiasi cosa, chiamatemi anche voi, Io resto a disposizione!” si congedò e sparì dietro la porta.

 

Imma aveva chiesto un segno a capodanno, uno stramaledetto segno. Ed i segni c’erano stati: non uno, ma ben tre, compreso quello di quel giorno. Solo che non li aveva voluti vedere, né cogliere, fino a quel momento, perché… perché le indicavano una strada che non era quella che avrebbe voluto percorrere, né quella che aveva pensato e sperato di poter percorrere fino a quella stessa mattina, pur tra le mille incertezze.

 

Una strada però destinata, nel medio-lungo termine, a rendere felice solo lei e a rovinare la vita di tutti gli altri, Calogiuri in primis, e ora se ne rendeva definitivamente conto. Come se la realtà avesse finalmente bussato alla porta, infrangendo la bolla di fantasia che si era creata nella sua testa, presa da quelle sensazioni nuove e fortissime che provava per il maresciallo.

 

E, se am- se voler bene a qualcuno significava volere il suo bene, allora c’era solo una cosa che poteva e che doveva fare.

 

Era ancora lì fissa, piantata di fronte alla porta, quando una sensazione di freddo alla mano la riscosse bruscamente. Si avvide solo in quel momento, dalla goccia perfetta che le ornava il polso, delle lacrime silenziose che le rigavano le guance.

 

Meglio a me mo, che un giorno a lui.



 

Nota dell’autrice: Ammetto che sono in enorme apprensione per questo capitolo e per i successivi che, come avrete intuito benissimo dalle ultime righe di questo capitolo, saranno belli turbolenti, con molti alti e bassi, ma spero continueranno ad essere appassionanti e soprattutto che i personaggi si mantengano realistici ed in personaggio. Vi prometto che il lieto fine ci sarà, e sarà lietissimo, e che la dolcezza tornerà, ma nella vita non può sempre essere tutto rose e fiori e a volte per troppo amore si fanno anche grandi errori. Ma, proprio quando succedono le cose negative, i rapporti possono poi evolversi e farsi ancora più forti. Come si suol dire, ciò che non uccide fortifica ;)

Non voglio farvi ulteriori spoiler ma mai come per questi capitoli vi ringrazio fin da ora se li leggerete e mi farete sapere che ne pensate, perché davvero sono assai in ansia e la vostra opinione è fondamentale per capire come me la sto cavando.

Il prossimo capitolo arriverà, come sempre, domenica prossima.

Grazie ancora di cuore!

 

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Capitolo 12
*** Una Vita a Metà ***


Nessun Alibi


Capitolo 12 - Una Vita a Metà


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Un caffè doppio!”

 

Il barista annuì, senza proferire parola, conoscendola fin troppo bene per tentare di fare conversazione. Si voltò, accingendosi a prepararle la sua droga quotidiana, l’unica che riuscisse a tenerla più o meno attiva dopo le ultime notti semi insonni, quando una voce lo fece bloccare sui suoi passi.

 

“Lo stesso anche per me, Giuseppe, e per una volta offro io.”

 

Il cuore le finì in gola e poi nello stomaco, in una specie di flipper emotivo di cui ultimamente soffriva sempre più spesso.

 

“Calogiuri…” sussurrò, trovandosi al suo fianco il maresciallo, bello come il sole, nonostante le profonde occhiaie, segno di notti insonni, ma per ben altre ragioni che le sue.

 

Altre parole non vollero uscirle dalla gola, tanto che non protestò nemmeno, come al suo solito, per offrire invece lei, guadagnandosi un’occhiata sorpresa e poi preoccupata del maresciallo.


“Dottoressa, tutto bene?” le chiese, con quella dolcezza nella voce che le faceva un male cane, perché rendeva tutto così dannatamente difficile.

 

“Più o meno…” si sforzò infine di pronunciare, per poi aggiungere, attendendo la risposta come una sentenza, “tua nipote? Tua sorella?”

 

“Mia sorella è finalmente rientrata a casa con mio cognato, anche se dovrà fare la convalescenza. Ma per fortuna mia madre si è ripresa dall’influenza e darà loro una mano. Ho riportato Noemi ieri sera a Grottaminarda ed eccomi qui,” spiegò, passandosi una mano sugli occhi ancora stanchi, “tra l’altro vi volevo ancora ringraziare dottoressa: se non fosse stato per voi con i vostri consigli e per la signora Diana che mi ha trovato la baby sitter, non so come avrei fatto a cavarmela.”

 

“Figurati, Calogiuri, non mi devi ringraziare,” riuscì a rispondere dopo una sorsata di caffè, amarissimo come il gusto che già sentiva in gola, pensando che a breve altro che ringraziarla….

 

“Oggi avrete bisogno di me, dottoressa?” chiese, con uno sguardo speranzoso che fu un’altra mazzata, ma doveva farsi forza e andare avanti come aveva preventivato, per il bene di Calogiuri.


“Oggi credo che avrò una giornata molto piena, Calogiuri, però... se hai tempo in serata, passa un attimo nel mio ufficio prima di andare via... che ti devo parlare di alcuni… sviluppi inaspettati,” si obbligò a dire, nonostante la lingua si rifiutasse di collaborare e le ci vollero varie pause per terminare la frase.

 

“D’accordo, dottoressa,” annuì con un sorriso, ancora più carico di aspettativa, probabilmente immaginando che fosse una scusa per andare poi nel suo appartamento.

 

Il caffè prese a ballarle nello stomaco, manco fosse stato fatto con l’olio.

 

Sarebbe stata una giornata infinita, tremenda, per non parlare di ciò che sarebbe venuto dopo.

 

Ma doveva farcela, doveva tenere duro, per il bene di Calogiuri.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa!”

 

Vedersi comparire Calogiuri sulla soglia quella sera fu, per una volta, non fonte di gioia ma di un senso di angoscia come raramente ne aveva provati nella sua vita.

 

Il momento era giunto e sperava di esserne capace, di avere la forza necessaria per andare fino in fondo senza crollare come la stupida che era.

 

“Calogiuri, accomodati,” lo invitò, facendo segno verso una delle sedie ma mantenendosi seduta alla poltrona dietro alla scrivania, quasi a creare una barriera fisica tra loro.

 

“Imma, allora io vado,” annunciò la voce di Diana sulla soglia, impaziente: quella sera le aveva concesso di uscire puntuale, come se le stesse facendo un favore, ma in realtà era a lei che serviva che l’ufficio fosse sguarnito, come già lo era sicuramente praticamente tutto il resto della procura, conoscendo lo stacanovismo commovente dei suoi colleghi.

 

Forse sarebbe stato meglio evitare certi discorsi in procura, ma non poteva farli nemmeno all’aperto, o peggio in auto, per non parlare di a casa di lui. E quindi quella restava l’unica opzione rimasta, la meno peggio, come tutto in quella situazione, dove il meglio era un’utopia irraggiungibile.

 

Non appena la porta si richiuse alle spalle di Diana, Calogiuri fece per alzarsi in piedi ma Imma sollevò una mano, facendogli segno di fermarsi e lui, per uno di quegli automatismi ingenerati da anni di disciplina, familiare e militare, lo fece e si rimise a sedere.

 

“Calogiuri… dobbiamo parlare e ti prego di lasciarmi finire quello che devo dire,” esordì, tutto d’un fiato, perché temeva di tirarsi indietro se solo fosse stata interrotta. Lo vide confuso e poi preoccupato ma rimase in silenzio, forse pensando a qualcosa di lavoro, o forse no.

 

Imma si riscosse e fissò un punto indefinito sulla scrivania, perché non riusciva a sostenere lo sguardo di quegli occhi azzurri e a pronunciare ciò che non avrebbe mai voluto dover pronunciare, ma che sapeva essere la cosa giusta da fare, “ci ho riflettuto molto ultimamente e… e penso sia meglio che il nostro rapporto torni ad essere soltanto professionale. Mi sto rendendo sempre più conto di starti costringendo ad una vita a metà, di starti rubando tempo prezioso che dovresti usare per costruirti una relazione vera, che abbia un futuro, il futuro che ti meriti, Calogiuri. Con una persona che possa stare con te alla luce del sole e darti una famiglia e dei figli, quando li vorrete e-”

 

“Ma tu non mi stai costringendo a fare proprio niente ed io non voglio una famiglia e dei figli, non mi interessano,” la interruppe, contravvenendo all’ordine, con un tono talmente carico di dolore e di panico che le fece male al cuore, e che la portò, stupidamente, a rialzare lo sguardo dalla scrivania e ad incrociare due occhi azzurri che sembravano sull’orlo delle lacrime e, allo stesso tempo, ancora increduli.

 

“Mo non li vuoi, Calogiuri, ma un giorno li desidererai. Ho visto quanto sei bravo con i bambini e.... e come sei affezionato a tua nipote e… tu l’istinto paterno ce l’hai, eccome. Ora sei giovane e giustamente c’hai altre esigenze, ma tra qualche anno ti mancheranno ed io non potrei darteli, nemmeno se… se non avessi la situazione familiare che ho, Calogiuri,” ammise, anche se il solo esprimerlo ad alta voce le provocava un dolore tremendo.

 

“E se succederà te ne parlerò e deciderò di conseguenza, come ho sempre fatto, io non-”


“Ma intanto ti sarai perso appresso a me gli anni più belli, più importanti, quelli dove puoi ancora scegliere chi essere e con chi vuoi stare. Ti sarai perso chissà quante occasioni, quante donne che potranno… che potranno amarti come meriti e darti… darti quello che io non potrò mai darti e-”

 

“Ma a me non interessano le altre donne, a me interessi solo tu, lo vuoi capire?!” sbottò, alzando la voce e tirandosi in piedi, appoggiandosi con le mani sulla scrivania, il busto proteso in avanti.

 

“Appunto!” esclamò lei di rimando, tirandosi in piedi a sua volta e sporgendosi per affrontarlo in modo speculare, “perché ti tengo legato a me e non è giusto, Calogiuri. Tu mo sei preso da questo… da questo sentimento che provi nei miei confronti e non riesci a vedere altro. E più andiamo avanti e più sarà difficile poi dopo per te staccarti da me e farti la tua vita. Per questo ti devo lasciare andare adesso. Lo capisci che è per il tuo bene?”

 

“Il mio bene?! Il mio bene?! Ma chi ti credi di essere?” gridò, gli occhi che gli si fecero enormi, acquosi e rabbiosi, incazzato come non l’aveva mai sentito, tanto che Imma fece quasi un balzo indietro, aggrappandosi giusto in tempo al bordo della scrivania prima di cascare di nuovo seduta.

 

“Come?!” domandò, scioccata, non riuscendo nemmeno ad incazzarsi di rimando, tanto era sconvolta e presa in contropiede.

 

“Ti ho sempre lasciato decidere tutto e dettare tutte le regole di questa… di questa relazione perché sei tu che sei sposata, che hai una famiglia. Ma in privato non sei il mio capo e, soprattutto, non sei mia madre! Non sono più un ragazzino ed il mio bene sono più che capace di decidermelo da solo e non hai il diritto di sceglierlo tu per me!” buttò fuori, come un fiume in piena, il volume della voce che gli si alzava ad ogni frase, per poi fare appena una pausa e, approfittando dello stato momentaneo di shock in cui lei si trovava, proseguire, con un tono basso e amaro, “quando abbiamo iniziato sapevo che… che poteva finire in qualsiasi momento. Ma speravo almeno di meritarmi un po’ di sincerità e non questa… questa stronzata del ti lascio perché a te ci tengo troppo. Potevi dirmi che ti sei stufata o che, dopo quello che è successo l’ultima volta al maneggio, hai avuto paura che tuo marito scoprisse tutto e che hai scelto la tua famiglia e… e non dico che ne sarei stato felice ma avrei capito. Ma dirmi che lo fai per me e che ti dovrei pure ringraziare, tra un po’... questo almeno me lo potevi risparmiare.”

 

“Calogiuri…” sussurrò, la vista che iniziava ad appannarsi: non l’aveva mai visto così furente, mai, neanche dopo Lolita. Non l’aveva mai visto guardarla con così tanta rabbia, tanto rancore. Ed il peggio era che sapeva di meritarselo tutto.

 

Per un attimo fu tentata di ribattere, ma la verità era che forse era meglio che lui fosse così rabbioso, era meglio che la odiasse ora, anche se le faceva un male cane all’anima, piuttosto che, tra qualche anno, maledicesse per sempre di averla conosciuta. Ed un giorno, forse, avrebbe capito ed avrebbero potuto recuperare un rapporto civile, ma per ora doveva resistere e prendersi ciò che, in fondo, sentiva di meritarsi, per il male che gli aveva fatto sia in quel momento che in tutti quei mesi, pur senza volerlo.

 

“Pensala come vuoi,” riuscì infine ad articolare, asciutta, cercando disperatamente di non lasciare scendere nemmeno una lacrima, di tenerle chiuse negli occhi, ancora per qualche istante, “io ho deciso e non cambierò idea.”

 

“Allora è finita…” pronunciò lui a bassa voce, in un tono aspro che quasi non sembrava nemmeno la voce del suo Calogiuri - che suo non lo sarebbe proprio mai stato più - serrando la mascella e stringendo i pugni, prima di girare sui tacchi ed avviarsi verso la porta, dove si fermò per un attimo, voltandosi per fulminarla con un’occhiata che si sarebbe ricordata finché avesse avuto vita e sibilare, “anzi, no, non può finire qualcosa che non è mai iniziata.”

 

Il boato della porta che venne sbattuta malamente sui cardini rimbombò nella stanza e forse anche in tutta la procura per diversi secondi dopo che lui fu sparito dalla sua vista.

 

Fu in quel momento che le gambe le cedettero, come se fosse stato il suono a tenerla in piedi. Si accartocciò nella poltrona, scossa fin nelle viscere da singhiozzi che non riusciva più a contenere, così come le lacrime che sembravano inondare tutto, togliendole la vista, l’olfatto, facendola sprofondare in una disperazione talmente intensa da causarle un dolore lancinante al petto, quasi come se avesse corpo, se fosse fisicamente presente lì nella stanza insieme a lei, per conficcarle e poi torcerle un pugnale nello sterno.

 

Non aveva mai provato niente del genere in vita sua - come sempre quando si trattava di lui - ma sperava solo che un giorno il dolore si sarebbe affievolito o che avrebbe imparato a conviverci, che il maledetto tempo avrebbe guarito anche quella ferita che in quel momento le sembrava inconcepibile si potesse rimarginare.

 

Perché sentiva come se si fosse strappata via un pezzo di sé, un pezzo di cuore e non sapeva se un giorno sarebbe potuta tornare a sentirsi di nuovo tutta intera.

 

Ma meglio mo a me, che un giorno a lui - continuò a ripetersi come un mantra, mentre cercava di ricomporsi e di non soffocare nelle sue stesse lacrime.

 

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“Amò! Ma è tardissimo, dove sei stata?”

 

“In procura. Giornata terribile. Vado a farmi una doccia e mi butto a letto.”

 

Le parole le uscirono a fatica, quasi robotiche, ma stava facendo uno sforzo sovrumano per non scoppiare di nuovo a piangere, dopo averci impiegato quasi un’ora a calmarsi del tutto in procura, prima di tornare a casa.

 

“Ma amò, che è successo? Io-”

 

La voce di Pietro sparì dietro la porta del bagno, che per poco non gli aveva chiuso in faccia e se ne rendeva pure conto, ma non sapeva quanto ancora avrebbe potuto resistere. Si tolse i vestiti con talmente tanta rapidità ed irruenza che fece saltare un bottone della camicia e smagliò i collant. Ma in quel momento non gliene poteva fregare di meno.

 

Si buttò sotto la doccia, ancora gelida, e finalmente si sentì libera di lasciare di nuovo andare le lacrime che aveva dovuto trattenere nel percorso dalla procura a casa.

 

Rimase sotto il getto caldo per un tempo che le sembrò infinito, finché i singhiozzi bastardi tornarono a calmarsi e le lacrime furono sostituite soltanto da un senso di vuoto e da fitte profonde di mal di testa.

 

Chiuse la doccia, si infilò l’accappatoio e si asciugò alla bell’e meglio, andando in camera da letto lentamente, i capelli ancora avvolti in un turbante, stringendosi nella spugna.

 

Vide Pietro seduto sul letto, con uno sguardo preoccupato, che lo divenne ancora di più una volta che i loro occhi si incrociarono. I suoi dovevano essere rossi da far schifo e lo sapeva, ma non ci poteva fare niente.

 

Indossò il pigiama frettolosamente, sentendosi nuda e fragile come mai prima e poi si infilò sotto le coperte, coricandosi rapidamente, dando le spalle a Pietro, chiudendo gli occhi e trattenendo il fiato, per paura che volesse fare conversazione.

 

Dopo qualche minuto di silenzio, sentì il materasso muoversi e lo udì sospirare e mettersi a sua volta a letto.

 

La luce si spense ed Imma tirò un sospiro di sollievo, sperando di averla scampata almeno per quella sera, anche se temeva il momento in cui Pietro avrebbe probabilmente chiesto ragione del suo comportamento.

 

Dopo qualche istante di silenzio, sentì qualcosa toccarle un braccio, che realizzò essere la mano sinistra di Pietro. Si irrigidì, come ormai faceva quasi sempre quando lui la toccava.

 

“Non so cosa sia successo, amò, e ti lascio riposare, ma quando avrai voglia di parlarne io ci sono, ok?” lo sentì sussurrarle alle spalle, giusto per infliggerle un’altra dose di senso di colpa, poi le strinse leggermente il braccio e mollò la presa, ritornando nel silenzio più totale.

 

Gli occhi le bruciarono ancora di più per qualche istante, ma le lacrime non vennero, forse perché le aveva esaurite: era già un miracolo che non si fosse disidratata per quanto aveva pianto quel giorno.

 

Sapeva che Pietro aveva le migliori intenzioni, sebbene lei non si meritasse la sua preoccupazione e le sue premure, ma non poteva certo spiegargli cosa le stesse capitando, né ora né mai, né poteva farsi consolare da lui mentre piangeva per un altro uomo. Era già successo una volta, quando lei era crollata per la partenza di Calogiuri per Roma, oltre che per il suicidio dell’architetto, con Pietro che aveva cercato di farla sentire meglio, sussurrandole dolcemente di orologi da smontare e rimontare. Ma già allora non ne era stata molto convinta e infatti le ci era voluto non poco tempo per riprendersi.


E ora… ora era proprio impossibile, perché come fai a rimettere insieme un meccanismo a cui manca un ingranaggio fondamentale?

 

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“Ehi, devi uscire! Stiamo per chiudere!”

 

La voce irritata dell’addetto alla piscina lo raggiunse, attutita dall’acqua nelle orecchie e dalla cuffietta. Sollevò il capo e lo vide sbracciarsi, deformato dagli occhialini.

 

L’occhio gli cadde sull’orologio a parete e si rese conto che erano quasi le ventidue. Aveva perso completamente il senso del tempo, oltre che il conto delle vasche, preso com’era dal bisogno di sfogare in qualche modo la rabbia che sentiva ribollirgli dentro, senza esplodere.

 

Si sollevò sul bordo della piscina ed uscì dall’acqua, sentendo la testa girare, le gambe e le braccia molli ed il corpo di piombo: i muscoli che protestavano non solo per la forza di gravità che tornava a farsi sentire, ma anche per lo sforzo prolungato ed eccessivo, a cui non era più allenato. Aveva nuotato per due ore buone, senza fermarsi.

 

Fece un cenno con la mano all’addetto, che lo guardava ancora come se gli avesse rovinato la serata - e forse così era - e si avviò rapidamente alle docce, nonostante il mondo continuasse ad ondeggiare e a… ad appannarsi?

 

Si rese conto che gli occhialini si stavano riempiendo d’acqua, li tolse con uno strappo, e realizzò solo in quell’istante di stare piangendo, come lo stupido che era, come il debole che era sempre stato.

 

Prese alla cieca il necessario per la doccia e ci si buttò sotto, lasciando che l’acqua coprisse le lacrime e se le portasse via. Magari avesse potuto lavare via anche il dolore, la rabbia, la delusione.


Stupido, stupido, stupido! - si disse, trattenendo solo per un soffio l’istinto, ancora più idiota, di tirare un pugno alle mattonelle bianche della doccia, che già non aveva abbastanza problemi.

 

Lo sapevi che sarebbe finita così, che non ti dovevi fare illusioni, fin dall’inizio! E invece tu dovevi proprio vedere cose che non ci sono mai state, dovevi metterti in testa che lei si potesse stare innamorando di te, che magari addirittura avrebbe lasciato suo marito e rischiato tutto per stare appresso a te! Ma come hai fatto anche solo a pensarlo, eh? Stupido, stupido, stupido!

 

Non sapeva se fosse più incazzato nero con se stesso o con lei, che aveva osato perfino sostenere che lo stesse facendo per lui. Non perché aveva paura di perdere la famiglia, il marito e la faccia, no, per lui! Per il suo bene! Neanche fosse sua madre!

 

La verità, se ne rendeva conto solo in quel momento, anche se gli faceva male come forse nulla gli aveva mai fatto male nella vita, era che lei lo vedeva ancora come un ragazzino e lo avrebbe sempre considerato tale. Come qualcuno da guidare, da istruire, da comandare e al posto del quale poter scegliere. Come se fosse troppo stupido per capire le conseguenze di uscire allo scoperto con lei, sia volontariamente, sia se li avessero colti in flagrante, e poi cosa avrebbe comportato una vita con lei. Come se non fossero mesi che ci pensava, da quando si era accorto di amarla, praticamente.

 

Ma no, forse non lo considerava uno stupido, a giudicare almeno da quanto si arrabbiava quando lui si definiva tale, ma continuava a vederlo, in fondo, come quel ragazzo ingenuo arrivato da Grottaminarda. Le aveva sempre fatto tenerezza e anche per questo gli voleva bene. E le piaceva fisicamente, certo. Ma non l’avrebbe mai visto come un uomo, come qualcuno alla sua altezza, un suo pari, qualcuno con cui poter dividere la vita, alla luce del sole, al cui fianco poter lottare per superare le difficoltà che ci sarebbero sicuramente state, ma che non lo spaventavano.

 

Quell’avvicinamento che si era immaginato negli ultimi mesi, quegli sguardi carichi di quello che lui aveva voluto credere fosse, se non amore, qualcosa che ci andava molto vicino, invece non erano che affetto e tenerezza misti forse ad un crescente senso di colpa nei suoi confronti.

 

Nient’altro.

 

E gli faceva un male atroce, non solo l’essersi sbagliato così clamorosamente su di loro, su di lei, ma soprattutto rendersi conto di non essere abbastanza agli occhi della persona che per lui invece era tutto, per cui avrebbe fatto qualsiasi cosa, perfino farsi ammazzare.

 

Dei colpi alla porta dello spogliatoio lo avvertirono che l’addetto stava perdendo la pazienza e che era meglio sbrigarsi, se non voleva rischiare una discussione che nel suo stato mentale non era il caso di affrontare.

 

Chiuse l’acqua, cercando di asciugarsi il più rapidamente possibile e levarsi da lì.

 

Peccato che non ci fosse un rubinetto anche per le lacrime.

 

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“Un caffè doppio.”

 

Il barista la guardò con un’aria di compatimento che esprimeva chiaramente che lei gli sembrava messa peggio dello straccio posato sul bancone - esattamente come si sentiva, dopo una notte praticamente insonne. Poi fece per voltarsi per preparare l’ordinazione ma si bloccò, guardando alla sua sinistra.

 

Imma, con la coda dell’occhio, vide un giaccone di pelle e per un attimo sentì la testa girarle, mentre gli occhi ripresero bastardi a pizzicare da morire. Si pentì della bella trovata che aveva avuto e si ripromise di evitare il più possibile il bar della procura da quel momento in poi, a costo di bere soltanto lo schifo delle macchinette.

 

“Un caffè doppio anche per lei, maresciallo?” domandò il barista, ma Calogiuri rimase bloccato a qualche passo da lei e notò - sempre con la coda dell’occhio, perché non si azzardava a guardarlo in faccia, non nelle condizioni in cui si trovava - come serrò i pugni e la mascella.

 

“Normale, grazie,” rispose, con un tono rigido e formale che non era da lui, tanto che Giuseppe sembrò di nuovo sorpreso.

 

Rimasero in silenzio, l’uno accanto all’altra al bancone, vicinissimi fisicamente, eppure non lo aveva mai sentito tanto distante.

 

Afferrò la tazzina non appena venne posata sul piattino e tracannò il caffè, scottandosi la lingua e salvando l’esofago solo in corner, per istinto di autoconservazione.

 

“Segna, Giuseppe,” disse al barista, girando sui tacchi per andarsene.

 

“Solo quello della dottoressa, Giuseppe, mi raccomando. Il mio lo pago a parte,” sentì Calogiuri pronunciare alle sue spalle, seguito da un “se la dottoressa non ha niente in contrario…” del barista.

 

“La dottoressa non penso possa darmi ordini pure sul pagamento del caffè, o sbaglio?” pronunciò Calogiuri, tagliente, ed Imma sospirò, alzando gli occhi al cielo.

 

“Fate come vi pare,” disse, con un tono basso, stanco e roco da far schifo, senza voltarsi, forzando i piedi a riprendere a muoversi e dirigendosi a passo fin troppo rapido verso il suo ufficio, evitando solo per un soffio di travolgere Vitali e la Moliterni che, come al solito, facevano crocchio in corridoio.

 

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“E quindi non hai scoperto proprio nient’altro sulla Tantalo?”

 

“No, Imma, anche tra le nostre ex compagne di classe, nessuna ne sa più niente. A quanto pare è sempre a Roma, non sta più tornando a Matera, forse per paura dello scandalo.”

 

“Ma nessuna notizia su che combinava prima dell’overdose di Lombardi e dello scandalo? Che so… amicizie, un amante, magari?” insistè, sapendo bene quanto fossero pettegole le signore della Matera bene che componevano la vecchia sezione A. Tranne lei, ovviamente, l’unica poveraccia di quella classe di figlie di buona famiglia.

 

“Guarda… nessuno mi ha detto niente esplicitamente ma la Guarini mi ha parlato con un po’ troppa enfasi delle lezioni di tennis che la Tantalo prendeva al circolo. E ha fatto un paio di battute su uno degli istruttori, ma non ha fatto il nome.”

 

“Male, Diana, male! Le basi proprio ti devo insegnare? Mo appena puoi risenti la Guarini e cerchi di farti dire chi fosse sto benedetto istruttore di tennis, va bene?” ordinò, sentendo che stava per perdere di nuovo la pazienza, che quel giorno già era quasi inesistente, Diana che si ritrasse leggermente nella sedia, come una bimba che teme la punizione.

 

E, proprio in quel momento, bussarono alla porta. Erano quasi le diciotto e si chiese chi fosse a quell’ora, quando quasi tutti di solito si preparavano sui blocchi di partenza, pronti a scattare precisi alle diciotto e zero uno fuori dal portone della procura, che manco i centometristi.

 

“Avanti!”

 

La porta si aprì ed il cuore le fece un altro tuffo triplo carpiato nel tubo digerente, che altro che la Cagnotto, per restare in tema di Olimpiadi.

 

“Calogiuri,” pronunciò a fatica, prendendo aria che sembrava improvvisamente mancarle, sforzandosi infine di alzare gli occhi dalla scrivania ed incontrare quelli del maresciallo, per capire che intenzioni avesse a quell’ora.

 

Era dal loro incontro al bar di tre giorni prima che non si vedevano. Lui era stato impegnato con la D’Antonio e lei se ne era ben guardata dal protestare o cercarlo. Non c’erano stati particolari sviluppi sul maxiprocesso e per il nuovo caso di omicidio avvenuto il giorno prima, un accoltellamento di fronte a una discoteca, si era fatta accompagnare da Matarazzo e Capozza.

 

E quello che vide le provocò una fitta allo sterno, perché erano duri come non li aveva mai visti, nemmeno dopo Lolita: c’era un’espressione di rabbia trattenuta a fatica, la mascella contratta, le dita serrate su una cartellina che teneva tra le mani.

 

Temette improvvisamente un confronto o una scenata, per cui non si sentiva affatto pronta e che non voleva dover affrontare.


Proprio in quel momento, Diana, come al solito percettiva quanto una talpa, si alzò dalla sedia ed iniziò a svicolare verso la sua porta.

 

“Diana!” la richiamò, facendola bloccare a pochi passi dalla libertà, “non ti ho mica detto che puoi andare.”

 

“Lo so, dottoressa. Ma stasera ho l’appuntamento con l’avvocato, si ricorda?” pronunciò Diana, con una punta di sarcasmo nella voce.

 

La causa di separazione, ma certo, come dimenticarla!

 

“Va bene, Diana, ma domattina ti voglio qui puntuale,” dovette arrendersi, perché non poteva fare altrimenti.

 

“Agli ordini, dottoressa,” rispose con un sarcasmo ormai evidente e dopo poco la porta dell’ufficio della cancelliera si chiuse con un po’ troppa forza.

 

Sapeva di essere stata di pessimo umore per tutta la giornata e pure nei tre giorni precedenti, a dire la verità, e forse aveva a volte un po’ esagerato con Diana.

 

“Avevi bisogno di qualcosa, Calogiuri?” si decise infine a domandare, rivolgendo di nuovo lo sguardo verso il maresciallo, che era rimasto fermo impalato alla porta.


Trattenne il fiato, attendendo quella risposta come si attendeva una sentenza. 

 

“Ci sono novità da Roma, dottoressa,” dichiarò, dopo un attimo di silenzio, un tono talmente formale che manco fosse stato chiamato a deporre in tribunale.

 

Una botta di sollievo ed una di delusione la colpirono allo stesso momento ed Imma si chiese per quanto sarebbe durato quella specie di bipolarismo emotivo.

 

“E quindi?” lo sollecitò, vedendo che non diceva altro.

 

“E quindi Mariani mi ha riferito che la signora Tantalo sta facendo enormi pressioni sui medici affinché predispongano il trasferimento di Lombardi in una clinica riabilitativa in Svizzera di sua fiducia, nonostante i medici abbiano espresso parere negativo al trasferimento, che a loro dire sarebbe troppo pesante per il paziente al momento. Ma la moglie si dice pronta a fare ricorso in tribunale se non glielo concederanno.”

 

“Tutta questa insistenza è strana, Calogiuri, e poi proprio in Svizzera… così Lombardi sparisce e pure la signora. Lui diventa irraggiungibile definitivamente, pure se mai si riprendesse, sempre se non lo fanno fuori prima, e la signora senza l’estradizione non la rivediamo più,” commentò, la familiarità del lavoro che spezzò per un attimo in lei la tensione e l’imbarazzo.

 

Almeno finché attese invano una risposta di Calogiuri, una sua idea, una sua intuizione, un suo parere, ma incontrò solo il silenzio più totale e quell’espressione dura, rigida ed illeggibile.

 

“Devi… devi riferire ai colleghi di Roma che ci sono fondati indizi che la signora possa essere coinvolta negli eventi qui a Matera e di conseguenza forse anche nel malore del marito. Dì loro che le abbiamo fatto mettere sotto controllo i telefoni e che passeremo eventuali informazioni rilevanti, ma che facciano di tutto per opporsi al trasferimento. Chiaro?”

 

“Va bene, dottoressa,” annuì Calogiuri, asciutto più del deserto del Sahara, ancora lì impalato sulla porta, “se non avete altro da riferire ai colleghi di Roma, io mi congederei.”

 

Avrebbe dovuto sentirsi sollevata, felice di questa conversazione professionale e tutto sommato civile, seppur gelida, ma invece un istinto assolutamente irrazionale la prese e la spinse a parlare, a tentare di prolungare ancora per un attimo la presenza di Calogiuri nel suo ufficio, forse per cercare di spezzare quell’atmosfera così glaciale tra di loro.

 

“Questo non è da dire ai colleghi di Roma, ma lo dico a te, visto che ti occupi del maxiprocesso. Sto facendo fare un po’ di domande a Diana tra le nostre vecchie compagne di corso che conoscono la Tantalo. E probabilmente potrebbe avere avuto un amante, un istruttore di tennis al circolo che frequentava,” proclamò, prima di bloccarsi per un secondo, rendendosi conto di in quale ginepraio si era appena andata ad infilare ed aggiungere, sperando di salvarsi in corner, “non appena Diana saprà il nome, vorrei che facessi qualche ricerca su di lui, prima di interrogarlo.”

 

“Una donna di potere più matura ed un giovane di belle speranze. Il peggiore dei cliché, non credete, dottoressa?” proclamò con un sarcasmo ed un cinismo che non erano da lui, mentre Imma non potè evitare di sorprendersi che conoscesse il termine cliché, lui che fino a poco più di un anno prima non sapeva nemmeno cosa fosse una metafora.

 

“Calogiuri-”

 

“Chissà se anche lui è stato piantato per il suo bene,” concluse, ancora più sarcastico, prima di rimarcare, una mano già sulla maniglia, “se non c’è altro…”

 

“Non c’è altro,” si sforzò di rispondere con una decisione che non sentiva realmente, le parole di Calogiuri che le risuonavano ancora come uno schiaffo.

 

Tanto quanto il rumore della porta che venne richiusa con un po’ troppa forza, cigolando sui cardini già provati da qualche giorno prima.

 

Se l’era cercata, e lo sapeva, ma questo non le impediva di avere una voglia irrefrenabile di piangere.

 

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“Amò, mi vuoi dire che cos’hai? Sto cominciando davvero a preoccuparmi: sono giorni che sei triste e sembra sempre che stai per piangere.”

 

Imma sospirò ed alzò gli occhi al cielo: erano in camera da letto, si era appena fatta la doccia, dove si era effettivamente concessa un altro momento di sfogo per quelle lacrime che erano ore che tratteneva a fatica, e sperava di potersi mettere a letto e dormire almeno qualche ora, vista l’insonnia dell’ultimo periodo.

 

“Niente, Pietro. Sono solamente delle giornate un po’ difficili in procura, ma non ti devi preoccupare: andrà meglio presto, vedrai,” tentò di rassicurarlo, sebbene non ci credesse nemmeno lei ed il suo tono di voce risultò poco convincente perfino alle sue stesse orecchie.

 

“Imma… lo sai che mi puoi dire tutto, che su di me puoi contare. Mi… mi dispiace che non riesci più a confidarti con me, mi fa male,” ammise Pietro, gli occhi lucidi che le diedero l’ennesima botta di senso di colpa, mentre dovette soffocare un moto di riso isterico. Perché no, non poteva dirgli tutto, non poteva dirgli perché stesse male: c’erano così tante cose che non avrebbe più potuto condividere con Pietro, né allora né mai, e si rendeva sempre più conto di quanto questo fosse un problema quasi insormontabile.

 

“Pietro, per favore, è già stata una giornata, anzi una settimana tremenda. Possiamo evitare di discutere anche dei nostri problemi personali, mo?” lo implorò, sentendosi esausta alla sola idea di una discussione con lui.

 

“Ma i tuoi problemi sono anche i miei problemi, Imma, i nostri problemi. Questo vuol dire essere una coppia, una famiglia,” insistette, con un tono carico di affetto e rimpianto che le fece ancora più male, prima di mettersi in ginocchio in mezzo al letto, allungare una mano ad afferrare una delle sue, e tirare leggermente affinché pure lei facesse lo stesso.

 

Imma si sentiva letteralmente senza forza, senza forza di controbattere, di lottare, quindi si lasciò trascinare sul letto, accanto a Pietro, che la abbracciò di lato. E di nuovo i muscoli bastardi si tesero come corde di violino: sebbene non stesse più tradendo Pietro ed almeno quella parte di sensi di colpa avrebbe dovuto essersi quantomeno un poco affievolita, in realtà farsi consolare da lui mentre piangeva per un altro uomo la faceva sentire mille volte peggio. E poi c’era qualcos’altro, un altro genere di senso di colpa, che però non riusciva bene ad identificare.

 

“Ascoltami, se non vuoi parlarmi e dirmi che cos’hai, io non insisterò, Imma,” la rassicurò, stringendola più forte ed accarezzandole i capelli, fino a che lei non potè fare a meno di sciogliersi ed appoggiarsi a lui, perché semplicemente non aveva più le energie per resistere, “però non ti fa bene pensare sempre al lavoro. Ad esempio, stasera saresti dovuta andare ad equitazione, no? Invece è da quando ti ho fatto quella… improvvisata… che ho notato che non ci vai più. E se smettessi per colpa mia di fare qualcosa che ti piace non me lo perdonerei mai. Ci devi tornare, vedrai che ti farà bene.”

 

E ad Imma venne da piangere, perché come faceva a tornarci? Non solo perché non sapeva con che faccia affrontare Sabrina, ma perché proprio come logistica non aveva un’auto personale con cui raggiungere il maneggio.

 

“Il… il maresciallo ultimamente è molto preso con i casi di un’altra collega, Pietro, e non poteva accompagnarmi. E da sola non so come arrivarci,” ammise infine, per evitare ulteriori insistenze.


“Spero… spero che non sia per colpa mia che ti fai tutti questi problemi. Visto che prima tra un po’ lo chiamavi pure in piena notte, il maresciallo,” le fece notare Pietro, con un tono tra l’ironico ed il preoccupato, con una nota di senso di colpa.

 

“No, Pietro. Non c’entri tu. Solo che non posso continuare ad approfittare del suo tempo per cose non di lavoro, tutto qui,” rispose a fatica, in quella che di nuovo era in fondo la verità, solo che aveva approfittato del suo tempo in ben altro modo che con le lezioni di equitazione.

 

“E comunque, che problema c’è? Ti posso accompagnare io, no?”

 

“Tu hai le lezioni di sax e non te le faccio mollare, Pietro,” provò ad obiettare, anche perché, per quanto fosse assurdo, per lei l’equitazione era legata indissolubilmente a Calogiuri e le sembrava quasi un tradire quei ricordi bellissimi andarci con Pietro.

 

Oltre al fatto che non voleva rompersi l’osso del collo insieme a lui e lasciare Valentina orfana.

 

“E mica le mollo: ti ci accompagno prima delle lezioni, poi ti torno a prendere dopo. Così non ti sto col fiato sul collo, che tanto ho capito che io a cavallo è meglio che non ci salgo.”

 

Imma esitò un attimo, perché l’idea di affrontare Sabrina, in quel momento, non è che l’allettasse poi così tanto. Ma, in fondo, rinunciare ad una passione, all’unica passione che le era rimasta, sarebbe stato come tradire non solo i ricordi con Calogiuri, ma anche tutto quello che aveva imparato su di sé in quei mesi insieme a lui.

 

Ed invece almeno quella passione, che in fondo non faceva male a nessuno - caso più unico che raro nella sua vita - lei non se la sarebbe negata.

 

“Va bene,” acconsentì, ottenendo come risposta un sorriso sollevato e ritrovandosi stretta in un abbraccio fortissimo che però, più che consolarla o sollevarla, le fece solo venire una voglia infinita di piangere.

 

Perché nemmeno gli abbracci di Pietro le facevano più l’effetto che le facevano una volta. Non si sentiva più a casa tra le sue braccia e non sapeva se sarebbe riuscita mai a sentircisi di nuovo.

 

Ma, arrivati a quel punto, doveva almeno provarci.

 

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“Imma! Finalmente! Cominciavo a pensare che non saresti più tornata!”

 

Imma rimase per un attimo completamente spiazzata: si era immaginata mille possibili reazioni da Sabrina sul suo ripresentarsi lì dopo tre settimane dall’ultima lezione, ma non un’accoglienza così serena e quasi entusiasta.

 

Certo, era pur sempre una cliente e i clienti portano soldi, ma non era solo per quello e lo sapeva istintivamente.

 

“Sono state delle settimane un po’ complicate. Ti volevo… ti volevo ringraziare per aver salvato la situazione l’ultima volta e… e scusarmi con te per esserti trovata in mezzo a… ai miei problemi personali,” pronunciò a fatica, imbarazzata come raramente si era mai sentita in vita sua, lei che non era abituata a scusarsi praticamente con nessuno su niente.

 

“Figurati! Per carità, non è stata una bella situazione e per un attimo ho temuto il peggio, ma lo so che non è stata colpa tua, non volontariamente almeno. Insomma, com’è che si dice? Un delitto colposo ma non volontario?”

 

“Hai studiato diritto?” le chiese, stupita e un poco divertita dal paragone.

 

“No, ma ho visto un po’ troppe puntate di serie crime,” ammise Sabrina con una mezza risata, prima di aggiungere, “e poi… in realtà non è stato così tremendo, in fondo. Anzi, era dalla mia ultima gara che non provavo tanta adrenalina, ed almeno le lezioni di teatro sono servite a qualcosa.”

 

“Tu gareggi? E hai studiato recitazione?” le domandò, incuriosita dalla poliedricità della ragazza, mentre si avviavano verso i box dei cavalli.


“Gareggiavo. Ho fatto un incidente l’anno scorso e… e non mi sono ancora ripresa al cento per cento. E per noi donne l’ambiente dell’equitazione non è una passeggiata. Non che ci siano ambienti che lo siano, ma l’equitazione è pure peggio,” spiegò, con un amarezza che Imma capiva fin troppo bene, “ed i miei mi hanno fatto fare qualche anno di teatro alle superiori e non mi dispiaceva, eh, ma… ma neanche ne ero tanto appassionata. Mi sono sempre sentita più a mio agio con gli animali che con le persone.”

 

Imma sorrise, perché confermava l’impressione che aveva sempre avuto su di lei e perché Sabrina le piaceva forse proprio per quel motivo.

 

“Ti… ti ha accompagnata tuo… tuo marito?” chiese, in quella che era più un’affermazione, dopo un attimo di esitazione, una volta che furono davanti ai cavalli.

 

“Sì,” confermò Imma, anche perché sarebbe stato assurdo ed inutile negare.

 

“E… e Ippazio?” le domandò, dopo qualche altro istante di silenzio, l’aria di chi sapeva di stare entrando in territorio minato ma aveva il coraggio di entrarci lo stesso.

 

E, forse proprio per questo, Imma non se ne risentì, anche se un peso le si infilò dritto sullo sterno.

 

Il silenzio si prolungò per un tempo che si fece insostenibile, fino a che Sabrina, afferrando il necessario per sellare Minerva, pronunciò, fin troppo rapidamente, “lo so che non sono affari miei e… e se non ne vuoi parlare lo capisco, scusa.”

 

“Ci siamo… ci siamo lasciati. Se… se così si può dire, vista la nostra situazione,” si ritrovò ad ammettere, senza nemmeno sapere bene lei perché. Forse perché non poteva parlarne con nessuno e, a furia di tenersi tutto dentro, sentiva di stare per scoppiare.

 

Ci siamo… nel senso che?” si azzardò a chiedere ulteriormente Sabrina, con la stessa espressione cauta che usava con i cavalli particolarmente bizzosi, e ad Imma scappò un mezzo sorriso.

 

“La… la decisione è stata mia e… e lui non l’ha presa bene, ovviamente,” sospirò, anche se dire che Calogiuri non l’avesse presa bene era a dir poco riduttivo, visto che era ancora assolutamente incazzato nero nei suoi confronti. Per non dire che sembrava proprio odiarla, anche se il solo pensiero le provocava un moto di nausea e quel maledetto coltello che roteava nello sterno.

 

“Ma per… per quello che è successo qui?” osò indagare oltre, mentre piazzava l’imbottitura sul dorso di Minerva, l’aria di chi sapeva di essere ad un passo dall’esplosione della mina.

 

“No… anche se lui pensa il contrario. Ma… ma è… è complicato e lungo da spiegare.”


“Se vuoi, abbiamo tutto il tempo che ci serve per sellare i cavalli, più il tempo a cavallo. Ma solo se vuoi, ovviamente,” offrì Sabrina, sembrandole non solo curiosa, ma realmente preoccupata.

 

E forse fu per quello, forse fu perché le stava inspiegabilmente simpatica, forse fu perché non c’era alternativa ed era l’unica persona al mondo con cui ne poteva parlare, ma si ritrovò a raccontarle tutto: del fatto che l’improvvisata di Pietro le aveva fatto capire che avanti così non si poteva andare e doveva scegliere; della piccola Noemi, dell’amore di Calogiuri per i bambini, del fatto che lei molto probabilmente non ne avrebbe mai potuti avere altri e di come questo l’avesse portata ad una decisione finale.

 

“Ma tu con tuo marito sei felice?” le domandò, a bruciapelo, mentre portavano i cavalli sellati fuori dai box, ed Imma si ritrovò, suo malgrado, a scoppiare in una mezza risata amara.

 

“Ma allora che senso ha restare con lui?”

 

“Ha il senso che… che mia figlia tra pochi mesi c’ha la maturità, che… che siamo stati felici per vent’anni e che… che magari… che magari ora che ho interrotto questa… relazione con Calogiuri, magari potremmo tornare a essere… non dico felici, ma più sereni. Ci devo almeno provare, no?”

 

“Se non lo sai tu,” commentò Sabrina, con un sospiro, per poi buttare fuori, dopo qualche istante di esitazione, “io… io non so come siate stati tu e tuo marito per vent’anni e sono troppo giovane per capire cosa significhi vivere con una persona per tutto quel tempo. Ed immagino che sia normale che il rapporto cambi negli anni. Però… però io non ho mai visto nessuno con l’intesa che avevate tu ed Ippazio, veramente. Non hai idea di quanto vi invidiavo - in senso buono, eh. Pagherei oro per avere con un uomo l’intesa che avevate voi due e… e rinunciarci così per me… per me non ha senso, scusami se mi permetto di dirtelo. A maggior ragione se con tuo marito le cose non vanno affatto bene.”

 

“Non ha senso per me, forse, è vero. Ma ha senso per lui. Io… io non lo voglio condannare ad essere infelice insieme a me. E tra qualche anno lo sarebbe: dovrebbe fare troppe rinunce per starmi accanto e non è giusto che io gliele chieda.”

 

“Avete una grande differenza d’età, sicuramente, e… e senza dubbio questo porta a dei problemi ma… ma se è per i figli… ci sono coppie che non ne hanno e che mi sembrano più felici insieme di quelle che i figli li hanno fatti tanto per. E poi… e poi ci sono tanti modi di essere genitori. Prendi me, ad esempio,” esclamò Sabrina con un mezzo sorriso tra il grato e il malinconico che la confuse molto.

 

“In che senso? Tu sei mamma?”

 

“No, ma sono figlia,” rispose Sabrina con un altro di quei sorrisi, gli occhi che le si fecero un poco lucidi, “io… io sono stata adottata dai miei genitori. Vengo… vengo da un paesino vicino alla Siberia, molto povero ancora ora… figurati negli anni novanta, poco dopo la caduta del muro e nello stato in cui era ridotta la Russia. In realtà ho pochissimi ricordi perché sono venuta in Italia piccolissima e non so chi siano i miei genitori biologici, ma non mi interessa. I miei genitori sono quelli che mi hanno cresciuta e anzi, sono loro grata il doppio perché so che hanno scelto consapevolmente di avermi, che hanno lottato per avermi. E chissenefrega della genetica.”

 

Imma non potè evitare di sorriderle di rimando, gli occhi che le pizzicarono un poco. Capiva finalmente da dove derivassero quei lineamenti tanto particolari e quella bellezza non convenzionale della ragazza.

 

“Ora però sali a cavallo che hai già perso troppe lezioni e voglio vedere se ti sei arrugginita o se possiamo proseguire col galoppo,” le ordinò con un sorriso, in quel modo brusco ma stranamente gentile al tempo stesso, che la inteneriva e la divertiva sempre molto.

 

E, non avrebbe saputo dire se fosse stata la conversazione o la sensazione di libertà che provò di nuovo montando in sella e sentendo tutti i muscoli riattivarsi, mentre passava dal passo, al trotto, al galoppo, ma si sentì improvvisamente come se una piccola luce fosse emersa in quella cappa di oscurità nella quale si era sentita avvolta nelle ultime settimane.

 

I muscoli le avrebbero fatto un male tremendo il giorno dopo, già lo sapeva.

 

Ma almeno si sarebbe sentita viva.

 

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“Imma! Non indovinerai mai chi ho visto a pranzo!”

 

“Capozza?” le chiese in un sussurro, notando l’entusiasmo della sua cancelliera, dopo giorni di depressione seguiti alla prima terribile udienza di separazione: suo marito intendeva farle guerra su tutti i fronti e vendere cara la pelle.

 

“Ma no! Ma sei matta?! Lo sai che al momento non ci frequentiamo, con tutti i casini che ho!” proclamò Diana, arrossendo però leggermente, prima di appoggiarsi alla scrivania e proclamare, fiera, “la Guarini, no? E sai cosa mi ha detto?”

 

“No, e non mi interessa, salvo riguardi la Tantalo e magari il famoso istruttore di tennis.”

 

“E certo, Imma! Comunque, a quanto pare l’istruttore si chiama Richard Davidson. Sai, avere il coach inglese fa più chic,” spiegò con un altro sorriso ed un tono leggermente sarcastico.

 

“E questo chicchissimo coach lavora ancora al circolo?”

 

“Parrebbe di sì, almeno a quanto ne sa la Guarini.”

 

“D’accordo, grazie, Diana. Hai fatto un buon lavoro,” si costrinse ad ammettere, sapendo che aveva già strapazzato fin troppo la cancelliera nelle settimane precedenti.

 

Diana, per tutta risposta, la guardò come se le fosse appena spuntata un’altra testa e poi sorrise, sembrando per un secondo sull’orlo di scoppiare a piangere. Per fortuna, invece, si limitò a tornare nel suo ufficio, contenta come era da un po’ che non la vedeva.

 

Beata lei! - pensò Imma, che invece sentì un macigno piombarle addosso. Perché gli sviluppi sul maxiprocesso, per quanto positivi, significavano anche un’altra cosa che non poteva più rimandare.

 

Con un sospiro, si alzò dalla scrivania e uscì dall’ufficio, dove ultimamente era rimasta rintanata se non per lo stretto necessario al lavoro, e si avviò verso le scale, in direzione della PG. Le sembrava assurdo pensare a quanto fosse stata felice, di solito, di fare quello stesso percorso, l’eccitazione e l’adrenalina nelle vene, mentre ora le sembrava di stare andando al patibolo.

 

“Imma! Finalmente! Mi stavo cominciando a preoccupare. Ultimamente ti si vede così poco in giro… e non solo a te. Tutto bene?”

 

La Moliterni, ovviamente, puntuale come il ciclo mestruale in vacanza al mare, le si affiancò sul pianerottolo sopra le scale.

 

“Maria, se avessi saputo che sentivi così tanto la mia mancanza, sarei venuta di persona a sollecitarti quei fascicoli che sono due giorni che Diana cerca invano di avere da te. Ma rimedio subito,” le rispose con un sorriso sarcastico, detestando la percettività dell’altra donna che, doveva ammetterlo, sarà stata pure una scansafatiche di prim’ordine sul lavoro, ma per quanto riguardava il gossip in procura e gli stati d’animo di chi ci lavorava, sembrava avere il radar.

 

“Noto con piacere che sei in forma, più o meno. E comunque quella che mi hai chiesto è praticamente una ricerca storica in archivio. Ci vuole tempo, Imma.”

 

“Ed infatti ti ho dato due settimane, Maria. Due settimane che sono passate giovedì scorso. Mo è lunedì e, se permetti, il tempo è scaduto,” intimò, anche se in fondo la storia giudiziaria della famiglia Tantalo era sì importante ma non poi così urgente, viste le circostanze. Ma la migliore difesa è da sempre l’attacco e lo sapeva perfettamente.

 

“A te il weekend deve avere fatto male, o bene, Imma, a seconda dei punti di vista. Ma va bene, vorrà dire che rimanderò ricerche più urgenti su argomenti di attualità per finire la tua ricerca storica entro sera. Se poi la D’Antonio e Diodato se la prendono, dirò loro di venire a lamentarsi da te.”

 

“Come se non ci fossi abituata alle loro lamentele, Maria. Ora, se permetti, torno al lavoro, io,” proclamò, sarcastica, cercando di avviarsi sulle scale.

 

“Ma certo! Non vorrai fare aspettare Calogiuri. Cioè, la PG, dottoressa,” replicò Maria, altrettanto sarcastica ed Imma si rese conto che, visti gli eventi di capodanno, forse tirare troppo la corda con Maria non conveniva. Anche se ormai… ormai non c’era proprio più niente da nascondere.

 

Se non tutto il pregresso, Imma! - le ricordò la Moliterni interiore, in una specie di dolby surround con quella che ancora la fissava dalla cima delle scale.

 

Ignorò entrambe e marciò giù dalle scale, giusto giusto per finire dalla padella alla brace.

 

O forse no, visto che in PG di Calogiuri non c’era traccia e vi trovò solo Matarazzo che stava scrivendo un rapporto a computer.

 

“Dottoressa, chi cercate?” le domandò, per una volta, e questo già da solo era l’indice chiaro e netto della stranezza di quelle ultime settimane, che evidentemente quasi tutti avevano notato. Del resto, ultimamente si era sempre portata dietro Matarazzo per la storia della discoteca e Calogiuri lo aveva evitato il più accuratamente possibile, tanto che in quelle tre settimane trascorse da… da quando lo aveva lasciato, le volte in cui si erano parlati si contavano sulle dita di una mano.

 

“Calogiuri c’è?” si costrinse a chiedere, ottenendo uno sguardo tra il sorpreso e l’incuriosito di Matarazzo. Ma, nonostante tutto quello che era successo tra loro e nonostante l’argomento che era un campo minato, Calogiuri era ancora l’unico di cui si fidasse al cento per cento in procura. E per il maxiprocesso non poteva permettersi passi falsi.

 

“Il maresciallo non è ancora tornato dalla pausa pranzo,” rispose Matarazzo con nonchalance ed Imma fu assalita da una punta di assurda ed irrazionale gelosia, al ricordo di cosa significavano per loro le pause pranzo troppo prolungate, “oggi era in giro con la D’Antonio. Vuole che gli riferisca qualcosa quando torna?”

 

Imma ci pensò un attimo. In fondo l’istruttore di tennis era un uomo, Matarazzo una bella ragazza e, forse forse, poteva pure ottenere più informazioni da lui di quante potesse ottenerne Calogiuri.

 

“Si tratta… del maxiprocesso ma, se il maresciallo è impegnato, forse può occuparsene lei, Matarazzo,” propose, guadagnandosi un’altra occhiata sorpresa di Miss Sicilia, “bisogna andare a parlare con-”

 

“Non sono impegnato. E del maxiprocesso me ne sono sempre occupato io, o sbaglio?”

 

La voce di Calogiuri la interruppe bruscamente e per poco non fece un salto, voltandosi e ritrovandoselo davanti sulla porta, un’espressione dura ma anche carica di delusione in viso.

 

E, nonostante questo, le sembrava sempre più bello e non sapeva come fosse possibile e si maledisse per la sua debolezza.

 

“Calogiuri! No, non sbagli. Ma non sapevo se fossi disponibile oggi,” rispose, dopo un attimo di pausa, non riprendendolo nemmeno per averla interrotta, come avrebbe fatto con chiunque altro al posto suo, che si sarebbe beccato come minimo una lavata di capo. E lo sapeva benissimo, ma non ci poteva fare niente.

 

“In realtà oggi non siete disponibile nemmeno voi, dottoressa,” replicò Calogiuri, facendole un segno col capo che intendeva chiaramente dire che avesse qualcosa da riferirle ma in privato.

 

“Vieni nel mio ufficio, Calogiuri,” sospirò, dopo un attimo di esitazione, lasciandosi alle spalle Matarazzo, che li guardava incuriosita.

 

Fece le scale il più rapidamente possibile, sentendosi gli occhi del maresciallo nella schiena, uno strano brivido che le percorreva la spina dorsale. Ignorò l’occhiata ed il sorrisetto della Moliterni che ancora stava sulla cima delle scale - e te credo che la ricerca storica non è ancora pronta! - e si infilò nel suo ufficio, sentendo la porta richiudersi alle sue spalle.

 

Si voltò una volta giunta di fronte alla scrivania e vide che Calogiuri era rimasto attaccato alla porta, per quanto chiusa. Non potè fare a meno di fare un altro sospiro.

 

“Perché mi cercavate, dottoressa?” chiese, dopo un attimo di silenzio, ed Imma lanciò un’occhiata verso l’ufficio di Diana, sperando che il maresciallo, apprendendo il motivo, non si lasciasse scappare qualche altra battuta.

 

“Abbiamo il nome dell’istruttore di tennis della Tantalo. Un certo Richard Davidson. Bisogna andare a parlargli, magari inizialmente in modo informale. Te ne puoi occupare tu?” gli domandò, trattenendo il fiato ed attendendo la risposta.

 

“Va bene,” replicò, dopo qualche istante di esitazione, ed Imma ebbe l’impressione nettissima che si stesse mordendo la lingua per non aggiungere altro.

 

“Che intendevi quando hai detto che oggi non sono disponibile nemmeno io?” si affrettò a domandare, prima che Calogiuri potesse cambiare idea e cedere a qualche battuta.

 

“Che mi hanno appena chiamato dal carcere e… e il colloquio con Romaniello è stato fissato per oggi pomeriggio, tra un paio d’ore.”

 

Imma sentì per un attimo l’aria mancarle dai polmoni: erano settimane che aveva fatto richiesta per quel colloquio, ma Romaniello aveva sempre avuto qualche fantomatica problematica di salute. E ora, non se lo aspettava così di botto, e si sentiva impreparata ad affrontarlo. Tanto che nemmeno si stupì che avessero contattato direttamente Calogiuri, invece che lei, manco fosse il suo segretario. Anche perché, in effetti, almeno per il maxiprocesso, di fatto era stato il suo braccio destro e la sua ombra fin dall’inizio.

 

“Mi… mi puoi accompagnare?” chiese, sebbene l’idea di salire in auto con lui, dopo tre settimane, la mettesse quasi più in ansia del colloquio, ma non voleva di certo affrontare Romaniello da sola, né si poteva fidare di qualcun altro per una cosa del genere.

 

“Certamente, dottoressa, faccio predisporre la macchina. Quando volete possiamo partire, nel frattempo inizio a procurarmi qualche informazione in più sull’istruttore. Se non c’è altro…” rispose, educato ma formalissimo, l’aria di chi non vedeva l’ora di congedarsi, nonostante almeno la delusione che aveva letto nei suoi occhi in PG fosse sparita. Ma la durezza nello sguardo, purtroppo, quella era ancora tutta lì.

 

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“Dottoressa, che piacevole sorpresa!”

 

Romaniello, stavolta vestito elegantissimo, considerato il luogo dove si trovava, la attendeva seduto dietro il tavolo dei colloqui, alzandosi al suo ingresso, lentamente, con l’aria del padrone di casa.

 

“Dubito che sia una sorpresa, signor Romaniello, visto che sono settimane che cerco di ottenere un colloquio con lei, ma noto che la sua salute, tanto cagionevole, sia in netto miglioramento.”

 

“Eh, dottoressa… gli acciacchi dell’età che avanza, ma questo non mi impedisce di accogliere una bella donna come si deve,” pronunciò, mellifluo, ma con una nota maliziosa nella voce, prima di rivolgere uno sguardo a Calogiuri, che stava pochi passi alle spalle di lei, e proclamare, sarcastico, “anche se avrei preferito, per una volta, parlarle a quattr’occhi, da soli, senza il cavalier servente.”

 

Imma notò, in tralice, che Calogiuri digrignava i denti e si chiese per un secondo se fosse più incazzato con lei o con Romaniello o con entrambi.

 

“Ed io invece preferisco di gran lunga che il maresciallo sia presente, signor Romaniello, per evitarle di fare qualche stronzata da aggiungere alla lunga lista di quelle che ha commesso fino ad oggi,” sibilò Imma, prendendo posto nella sedia, Romaniello che la imitò, apparendo sorpreso, Calogiuri che rimase fermo, impettito ed immobile due passi alla sua sinistra, “vede, signor Romaniello, io credo di doverle delle scuse, per non aver capito prima il suo ruolo… non solo in questa incresciosa vicenda, ma nella vita, in generale.”

 

“Che intende dire?” le domandò, la maschera che gli cadde per un attimo dal viso, apparendo ancora più sorpreso, mentre pure Calogiuri le lanciò un’occhiata, come se pensasse fosse impazzita.

 

“Che non l’avevo capita la sua… confessione di quel giorno nel mio ufficio, se così la possiamo chiamare. Com’erano le sue esatte parole? Io sono sempre stato una pecora nera, da quando ero ragazzino, perché non mi piaceva quello che gli altri decidevano per me. Se lo ricorda, signor Romaniello?”

 

“I miei problemi di salute non riguardano la mia sfera psichica, dottoressa, e la mia memoria funziona ancora bene.”

 

“E poi mi disse anche che suo padre non le evitò il carcere perché volle darle una lezione esemplare, no?” proseguì, con tono tranquillo, vedendo Romaniello sempre più confuso, prima di giocarsi l’asso nella manica, “vede, signor Romaniello. Io credo di avere capito finalmente, perché suo padre le dovette dare quella lezione esemplare. E che cos’era che gli altri decidevano per lei, e che a lei non piaceva. Suo padre non gliela diede per un senso superiore di giustizia la lezione, o perché volesse correggere i suoi vizi che, parliamoci chiaro, signor Romaniello, in fondo all’epoca mettevano a repentaglio giusto la sua salute. Ma i suoi vizi erano un problema perché l’avevano portata all’arresto, avevano gettato un’ombra sul buon nome della sua famiglia. E allora, prima che a qualcuno potesse venire in mente che quel nome, forse, tanto buono non fosse, lei divenne il capro espiatorio, e suo padre la tenne in galera proprio per comprovare la specchiata onestà sua e del resto della famiglia. Che lei e solo lei fosse la pecora nera, e non semplicemente qualcuno che non riusciva a tenere sotto controllo i suoi vizi e che si rifiutava di diventare un bravo soldatino, un ingranaggio in un meccanismo ben più grande.”

 

Romaniello rimase per qualche istante in silenzio e scoppiò in una risata amara, per poi fulminarla con’occhiata tagliente e sibilare, altrettanto affilato, “ma che cosa pensa di ottenere, eh, dottoressa? Che io mi commuova per questa sua incredibile ed improvvisa empatia nei miei confronti? Che la povera pecora nera, maltrattata ed incompresa, sentendosi finalmente capita, le racconti tutto quello che sa, o che lei pensa che io sappia? Ma veramente mi crede tanto stupido?”

 

“No, e proprio perché non la ritengo stupido, signor Romaniello, confido che lei non voglia restare a marcire qui dentro da solo come, ancora una volta, unico capro espiatorio di questa vicenda.”

“Lei mi sottovaluta, dottoressa. Sono passati molti anni da allora e… sottovaluta la mia influenza, il mio potere e-”

 

“E intanto lei è l’unico che sta qui in galera, signor Romaniello. E dove stanno gli altri? E non parlo di quei poveri cristi che le persone a cui lei sa benissimo io mi sto riferendo hanno mandato al camposanto o fatto finire in coma. Ma lei pensa davvero che si scomoderanno a tirarla fuori di qui, ora che hanno il colpevole perfetto da cui prendere le distanze? Ora che gli altri che potevano parlare li hanno fatti tacere, in molti casi per sempre? Forse è lei che si sopravvaluta, signor Romaniello.”

 

“Io, dottoressa? Non le hanno insegnato in qualche esame di psicologia, o criminologia, o giù di lì che non bisognerebbe proiettare sugli altri le proprie mancanze? Lasci che le racconti io ora una bella storia, dottoressa. La storia di una poveretta che viveva in una topaia, col padre alcolizzato e la madre che puliva i cessi di mezza Matera per campare. E che, per prendersi una rivalsa sulla vita, passò tutta la giovinezza sui libri a sgobbare, senza mai alzare il capo, finché riuscì a ottenere un ruolo che a lei pareva importantissimo, ma che nella vita reale contava e conta quanto il due di picche, anche se lei continua a rifiutarsi di capirlo, di accettarlo.”

 

Imma sentì un’ondata di furia montarle dentro, ma poi notò un movimento alla sua sinistra e vide Calogiuri fare un passo in avanti. Alzò la mano, per dirgli di fermarsi, ma in quel momento Romaniello decise di parlare ancora, mettendo le mani sul bordo del tavolo e sporgendosi verso di lei.

 

“Lei non sa a che gioco sta giocando, dottoressa, in che cosa si è infilata. E la sa una cosa? Mi dispiacerà molto quando finirà male, ci può giurare. Perché è… divertente, anzi, direi… eccitante vederla lottare e contorcersi nella sua presunzione di poter cambiare le cose. Ma finirà malissimo, come tutti quelli che ci hanno provato prima di lei. Uno spreco, non pare anche a lei, maresciallo? Quando tutta questa energia repressa poteva essere usata in modo molto più piacevole.”

 

E stavolta Imma vide Calogiuri scattare verso Romaniello e, prima che potesse raggiungerlo, gli si buttò praticamente contro, bloccandolo con un braccio sul petto, beccandosi una scossa elettrica che la metà bastava. Non avrebbe saputo dire se l’avesse sentita anche lui, ma il maresciallo si fermò di colpo e le lanciò uno sguardo furente, ma stavolta non rivolto a lei, una specie di richiesta implicita, uno stai bene? e un sei sicura che non devo intervenire?

 

Lei si limitò a scuotere il capo, per poi fare un passo indietro e rimettere le distanze tra loro.

 

“Che quadretto commovente! E dire che eravate talmente rigidi che cominciavo a pensare ci fossero problemi in paradiso,” ridacchiò Romaniello, apparentemente tranquillo come una pasqua, imperturbabile, lanciando l’ennesima provocazione.

 

“Signor Romaniello, io le consiglierei di pensare ai suoi di problemi. Che i capri espiatori, quando non servono più, si sacrificano, come dice il nome stesso. Ma se lei è convinto di volersi prendere le colpe anche per gli altri, oltre che le sue, faccia pure, mi auguro che la permanenza in carcere continui ad essere di suo gradimento e che la sua salute tanto cagionevole non ne risenta ulteriormente. Buon proseguimento,” proclamò, girando i tacchi e avviandosi verso la porta, sapendo benissimo che, almeno quel giorno, da Romaniello non avrebbero ottenuto altro, per poi aggiungere, quando non sentì altri passi dietro i suoi, “andiamo, Calogiuri.”

 

Il maresciallo serrò la mascella, lanciò un’ultima occhiata di disprezzo a Romaniello e si affrettò a raggiungerla, piazzandosi alle sue spalle, in quel modo protettivo che aveva quando dovevano entrare in azione e che Imma aveva seriamente temuto di non vedere mai più.

 

Gli occhi iniziarono a bruciarle, ma li ignorò ed uscì da quella stanza opprimente, senza guardarsi indietro.

 

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Osservava la murgia scorrere fuori dal finestrino, cercando di trattenere le lacrime.

 

Un po’ per la rabbia verso Romaniello, un po’ per la commozione verso Calogiuri ed un po’ per la frustrazione di quel viaggio in auto trascorso, fino a quel momento, come quello d’andata, in un silenzio tombale. E non piacevole come i loro silenzi erano sempre stati, ma carico di risentimenti, di non detti, di rabbia e frustrazione represse.

 

Non poteva che ripensare all’ultima volta che avevano fatto lo stesso percorso, dopo la visita a Domenico Bruno. A come Calogiuri l’aveva abbracciata, consolata, con tutta quella dolcezza, con tutto quell’amore. E, sebbene fosse consapevole che quell’amore c’era ancora, da qualche parte, in qualche forma, sepolto sotto il rancore, come dimostrato da quell’istinto di protezione nei suoi confronti, allo stesso tempo sembrava essere trascorsa una vita intera e non solo pochi mesi da allora.

 

Osò lanciargli un’occhiata rapida e lo vide stringere il volante, la mascella serrata, concentrato sulla strada in modo eccessivo e di conseguenza poco credibile.

 

Sospirò e fece per tornare a voltarsi verso il finestrino, quando notò un lampo d’azzurro e lo beccò a spiarla, in tralice, prima di tornare a fissare dritto davanti a sé.

 

“Ti… ti ringrazio per prima ma… Romaniello fa apposta a provocare, aspetta solo che noi reagiamo per fare il martire. Non devi rischiare di passare un guaio per difendermi, non ne vale la pena,” si decise infine a dire, perché sapeva che fosse la cosa giusta da fare, per tutelarlo ed evitargli possibili casini disciplinari in futuro.

 

“Ho solo fatto quello che avrebbe fatto chiunque al posto mio,” replicò Calogiuri, asciutto, continuando a guardare la strada, prima di aggiungere, tagliente, “ma avete ragione voi: non ne vale la pena.”

 

E, sebbene non avesse fatto altro che ripetere le sue stesse parole, per qualche ragione le suonarono come un altro schiaffo, acuendo solo la voglia di piangere.

 

Ma strinse i denti e si disse che in fondo era meglio così: non poteva permettersi un avvicinamento a lui, di nessun tipo, non ancora, non mentre era così debole. Se l’avesse abbracciata, ma anche solo toccata… probabilmente non gli avrebbe resistito: del resto, quando lui le si avvicinava troppo lei non ci capiva più niente, da sempre, e non solo per l’attrazione fisica.

 

Questa distanza era la cosa migliore per tutti, tranne che per lei ed il suo cuore. Ma lo avrebbe ignorato, fino ad abituarsi a sentirlo come un dolore sordo di sottofondo, di quelli con cui impari a convivere, perché non hai alternative, perché, in un modo o nell’altro la vita va avanti, che tu sia pronta per farlo o meno.

 

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“Amò, che c’hai? Non hai quasi toccato cibo. Stai mangiando troppo poco, Imma, non va bene.”

 

Appoggiò i gomiti al tavolo, in barba a tutte le norme del galateo, si mise la testa tra le mani e sospirò, il mal di testa che iniziava a pulsarle nelle tempie e ad irradiarsi verso il centro della fronte.

 

Forse per l’inappetenza che, Pietro non aveva torto, l’aveva presa da quando aveva deciso di chiudere con Calogiuri. Forse per tutte le lacrime versate di straforo in quelle settimane, forse semplicemente per la tensione che non la lasciava mai davvero.

 

“Amò, ehi…”

 

Udì la voce di Pietro alle spalle, vicinissima, ancora prima che le sue mani ci si appoggiassero sopra con delicatezza, iniziando a massaggiarle, nonostante lei si fosse contratta ancora di più.

 

“C’è già Valentina che fa quasi lo sciopero della fame,” mormorò, tra il preoccupato e l’ironico - ed in effetti Valentina era da mo che era chiusa in stanza a chattare con Samuel, dopo aver spizzicato come un uccellino - prima di aggiungere, l’ironia che era completamente evaporata dalla voce, “ma tu mi stai facendo davvero preoccupare, mo. Mi vuoi dire che ti sta succedendo? Non ti posso vedere così, Imma.”

 

Imma fece un altro sospiro, le lacrime che minacciavano di uscirle di nuovo, il senso di colpa che ormai era talmente parte di lei da non sentirlo quasi più, soffocato dal dolore e da quel senso di mancanza, di vuoto, che non le dava tregua. Non ne poteva più delle insistenze di Pietro per sapere cosa le stesse capitando, e allo stesso tempo non reggeva tutta quella preoccupazione nei suoi confronti, quindi si decise a dargli qualcosa, almeno per farlo tacere per un po’.

 

“Oggi… oggi ho interrogato Romaniello in carcere. E… non è stato piacevole, Pietro,” spiegò, seppure fosse una versione largamente censurata di quanto era successo in realtà.

 

Il massaggio alle spalle si fermò di colpo.

 

“Ma ti ha fatto qualcosa, Imma? Ha provato a farti del male?” le domandò, con una nota di rabbia nella voce che la toccò profondamente, scostandole delicatamente la mano dal viso per incrociare il suo sguardo.

 

“No, Pietro, ma… ha detto delle cose orribili. Su di me, sui miei genitori. Ma non è solo quello… il maxiprocesso si sta rivelando qualcosa di molto più grande di quanto già pensassi. E… e a volte ho l’impressione che mi stia sfuggendo tutto di mano, Pietro, di aver sbagliato tutto negli ultimi mesi… di essermi infilata in una situazione che non riesco più a reggere,” ammise, mentre un singhiozzo le sfuggiva dalla gola, perché non stava più parlando solo del maxiprocesso, ma anche e soprattutto di tutto il resto, di tutto il resto che non poteva confessare e di cui non poteva parlare, se non in questo modo.

 

“Imma... non dirlo nemmeno per scherzo, amò: non c’è niente che tu non possa fare. Sei la persona più forte che io conosca,” le sussurrò, trascinandola in un abbraccio e lei si lasciò abbracciare perché ne aveva bisogno, perché non ce la faceva più e si ritrovò a ricambiare con una forza che la sorprese, “supererai, anzi, supereremo anche questo periodo, vedrai.”

 

E le venne da piangere, perché pure Pietro non stava più parlando solo del processo, e lo sapevano entrambi. Le lacrime le sfuggirono dagli occhi e si aggrappò a lui perché ci voleva e ci doveva credere che sarebbero riusciti a superare quella situazione in cui lei li aveva messi. Che un giorno, prima o poi, quell’abbraccio dal cui calore si sentiva avvolta, le avrebbe fatto lo stesso effetto di una volta, l’avrebbe fatta sentire di nuovo in pace con se stessa e col mondo.

 

Ma almeno, la faceva sentire amata, amata davvero ed era già molto di più di quanto pensava di meritare ma era anche ciò di cui in quel momento aveva disperatamente bisogno.


Di sentire l’amore di Pietro e sperare che sarebbe bastato per entrambi, almeno fino a che il suo cuore avesse smesso di fare le bizze, avesse smesso di sanguinare per un sentimento impossibile e senza futuro. E magari allora quell’amore che lei provava per Pietro, tanto trasformato negli ultimi mesi, sarebbe tornato piano piano quello di un tempo, quello che aveva fatto del loro matrimonio, per vent’anni, un’unione serena.

 

Forse non felice, ora che aveva scoperto cosa fosse la felicità piena, quella che ti fa scoppiare il cuore nel petto e compiere qualsiasi follia senza considerarla tale.

 

Ma non era in fondo già così rara e preziosa la serenità?

 

E poi non ho alternative, se non decidere di lasciare anche Pietro e rimanere sola. Ma devo almeno fare un tentativo di salvare questo matrimonio: per Pietro, per Valentina. Tanto, ciò che voglio davvero non lo potrò comunque avere mai.

 

Per stare sola, che era quello che si sarebbe meritata, peraltro, con tutto quello che aveva combinato negli ultimi mesi, in fondo, c’era sempre tempo. E, se voleva allontanare definitivamente Calogiuri e fare in modo che la dimenticasse, in ogni caso, almeno per un po' non poteva nemmeno pensare ad una separazione. E poi c'era Valentina e la maturità e tutto quello che sarebbe venuto dopo.

 

In quel momento, Pietro allentò leggermente l’abbraccio e prese ad asciugarle le lacrime con le dita.

 

E poi le posò un bacio su una guancia, con una dolcezza che le fece bene e male al cuore insieme, per poi passare all’altra guancia. Si ritrasse per un attimo e si guardarono, forse per la prima volta si guardarono veramente dopo mesi e mesi in cui non lo facevano più. Vide gli occhi lucidi, disperati e pieni d’amore di Pietro e, d’impulso, gli prese il viso e lo baciò, dritto sulle labbra.

 

Non sentì nessuna scossa elettrica, nessun brivido, ma il modo in cui lui le sorrise incredulo, quasi come se fosse appena avvenuto un miracolo, le provocò un’altra morsa di tenerezza. E poi lui la baciò ancora ed ancora e lei si lasciò baciare, e cercò di ricambiare come poteva, con dolcezza, in quello che era un ti voglio bene ed un cercare in qualche modo di compensare tutta la sofferenza che gli aveva causato in quei mesi.

 

Ad un certo punto, si sentì sollevare in piedi e, sempre baciandosi, lentamente, si ritrovò senza quasi rendersene conto in camera da letto.

 

Pietro si staccò e la guardò nuovamente, come a chiederle il permesso. Lei esitò per qualche istante, uno strano senso di qualcosa che le si agitava nel petto, ma si disse che doveva almeno provarci, che da qualche parte dovevano pur ricominciare.

 

Prese un forte respiro e chiuse la porta alle loro spalle, siglando la sua decisione.

 

Le sorrise, nuovamente quasi incredulo, e riprese a baciarla, a toccarla, a spogliarla, e lei glielo lasciò fare, si lasciò guidare, si lasciò amare, perché ne aveva un disperato bisogno.

 

Pietro fu dolce. Dolce ed appassionato come non era forse mai stato: ogni carezza, ogni bacio che sembravano una dichiarazione d’amore.

 

All’inizio la tenerezza ed il senso di bene profondo che l’avvolsero, insieme ad i sensi che si riattivavano, dopo settimane di astinenza, la portarono a lasciarsi andare, a cercare in qualche modo di ricambiare, ma, piano piano, si rese conto di non riuscirci, non del tutto. Di non riuscire a provare passione, solo tenerezza e commozione. Il bene ed il piacere fisico che lasciavano spazio, piano piano, ad un senso di vuoto e ad una voglia inspiegabile di piangere.

 

Realizzò solo dopo qualche istante che Pietro si era accasciato su di lei ed aveva smesso di muoversi. Avvertì una sensazione umida sulla spalla, nell’incavo del collo dove i capelli di lui le facevano il solletico.

 

Gli sfiorò il viso, lui si sollevò leggermente ed i loro sguardi si incrociarono. Si rese conto che Pietro stava piangendo, anzi, che stavano piangendo entrambi, quando la mano destra di lui si sollevò per asciugarle una lacrima dallo zigomo. Ma, a giudicare dal sorriso sollevato, grato ed ampissimo di Pietro, purtroppo, per motivi completamente diversi.

 

Si sentì trascinata in un altro abbraccio e lo strinse forte, maledicendosi per tutto quello che non riusciva più a provare, mentre il vuoto diventava quasi una voragine, peggiore ancora di quella che l’aveva accompagnata nelle ultime settimane.

 

E quel qualcosa che scalpitava nel petto finalmente prese forma e lo riconobbe, chiaro, netto e distinto: una mareggiata di senso di colpa talmente forte da levarle quasi il fiato.

 

Perché mi sento in colpa? Non sto più tradendo nessuno! - si domandò, confusa, almeno fino a quando due occhi azzurri non la fulminarono, accusatori, e spalancò gli occhi, il cuore in gola, mentre tutto le fu drammaticamente chiaro.

 

Merda!

 

*********************************************************************************************************

 

“Oh, è arrivato pure il maresciallo! Era ora, in questi giorni sei sempre sfuggente. Tutto bene?”

 

“Sono solo un po’ stanco,” cercò di dissimulare, sedendosi al tavolo del pub a cui gli altri agenti di PG avevano già preso posto. Alcuni erano già quasi in fondo alle loro pinte: quelli che tenevano famiglia ed erano sempre i primi ad andarsene.

 

Era una specie di tradizione ormai: l’ultimo lunedì del mese si ritrovavano al pub locale - praticamente deserto a inizio settimana e fuori dalla stagione turistica - subito dopo il lavoro, per una bevuta - e per chi lo voleva anche una mangiata - in compagnia, prima di ritornare ognuno alle proprie famiglie o alle proprie case.

 

L’idea era stata lanciata da Capozza mesi prima, nel periodo in cui era sempre giù per la signora Diana, che aveva deciso di allontanarsi da lui dopo la separazione dal marito.

 

Non che glielo avesse mai detto, Capozza, di lui e della cancelliera. Ma l’aveva capito lo stesso, ben prima di beccarli, non visto, a baciarsi come due ragazzini nell’ufficio di lei, un giorno che era rientrato a recuperare alcune cose che qualcuno a cui non doveva pensare in quel momento aveva scordato in ufficio: aveva riconosciuto gli sguardi e tutti quei segnali tipici che fanno capire che due persone si piacciono ma non lo vogliono ammettere. Si era spesso chiesto se anche lui e Im-

 

Si bloccò prima di andare oltre con quel pensiero: si era sforzato di uscire quella sera, nonostante la tentazione di dare buca fosse stata forte, proprio per distrarsi almeno per qualche ora da quei pensieri che lo tormentavano e torturavano da settimane. Da quel dolore incessante che non voleva dargli tregua e che minacciava sempre di farlo scoppiare a piangere nei momenti meno opportuni. Da quella rabbia che, mano a mano che passavano le settimane, lasciava sempre più il posto ad un senso di vuoto, ma che ancora rischiava di esplodere, soprattutto quando era con lei. Come quel pomeriggio, quando aveva osato quasi rimproverarlo per aver tentato di difenderla, come il cretino che era, con quel non ne vale la pena che l’aveva mandato in bestia.

 

Ecco, e mo ci sto di nuovo ripensando! Stupido, stupido, stupido! - si infuriò con se stesso, afferrando il menù del pub con fin troppa forza, tanto che la voce di Jessica, seduta accanto a lui, lo riscosse dai suoi pensieri con un “che ti ha fatto qualcosa di male quel menù? Che pare che lo vuoi fare fuori!”

 

Ignorò la battuta ed ordinò una birra scura, la più forte che c’era in lista. Ne aveva proprio bisogno.

 

“Che ne dici se ci prendiamo un hamburger? Io tengo una fame tremenda! Ne ho proprio bisogno!” gli propose lei, facendogli eco, con uno sguardo triste, e lui ci pensò un attimo, sentendo lo stomaco completamente chiuso, come ormai era da settimane, ma alla fine si impose di accettare.

 

Tra sport ed inappetenza stava perdendo peso e non andava bene, anche se l’hamburger con le patatine non era di certo l’alimento più salutare con cui interrompere il digiuno.

 

“Certo che stasera avete proprio un’atmosfera da funerale, ragazzi! Su, che siete giovani, belli, con tutta la vita davanti: se non state allegri voi, che dobbiamo dire noi, alla nostra età?” li riprese Capozza, con un mezzo sorriso malinconico.

 

“Questi discorsi mio padre me li può fare, Capozza. Che bisogna avere un’età minima pure per essere tristi, mo, in questo paese? E scommetto che per noi donne sarà pure più alta, come al solito,” ironizzò Matarazzo, afferrando la sua birra, una pinta chiara, mentre normalmente al massimo prendeva la mezza, ed ordinando i due concentrati di calorie e junk food anche per lui.

 

“Tu invece mi sembri allegro, Capozza. Cos’è successo? Belle novità in vista?” si divertì a punzecchiarlo, per sviare il discorso dalla sua di tristezza, perché ovviamente ai colleghi non poteva spiegare il motivo del suo malessere, né allora né mai.

 

“Chissà… forse…” rispose Capozza, con un mezzo sorriso vago e misterioso, ma con un che di sornione nella voce che gli fece ipotizzare che qualcosa bollisse di nuovo in pentola tra lui e la cancelliera.

 

O magari si è innamorato di un’altra, almeno lui, e non sta ancora appresso ad una donna che non potrà mai avere, come fai tu - gli fece notare la voce della sua gelosia, prima di aggiungere, in una stoccata finale - anche se la cancelliera è separata, almeno lei.

 

Bevve una sorsata di birra, nonostante fosse a stomaco vuoto e non fosse una buona idea farlo, e poi un’altra e un’altra ancora, cercando di scacciare quei pensieri dalla mente il più rapidamente possibile.

 

Si sentiva giusto giusto avvolto da quell’ovatta provocata dall’alcol, quando i colleghi maritati si congedarono, lasciando solo lui, Capozza e Matarazzo al tavolo.

 

Gli hamburger ancora tardavano, nonostante fossero praticamente gli unici clienti, e lui e Jessica avessero già finito entrambi la prima pinta, Capozza che li seguiva a ruota.

 

Jessica ordinò il secondo giro - altra cosa che non era affatto da lei - e lui gettò al vento il buon senso e la imitò, anche se un litro di birra a quella gradazione non l’avrebbe retta bene, stomaco vuoto o meno, mentre Capozza fece segno di no col capo, che doveva guidare e, proprio in quel momento, ricevette una telefonata e si allontanò per rispondere.

 

Ed, al suo posto, finalmente giunsero gli hamburger, meglio tardi che mai, e pure il secondo giro di pinte.

 

“Allora, che c’hai? Problemi di cuore?” ironizzò Jessica, afferrando il suo panino per addentarlo, per poi bersi un’altra sorsata di birra.

 

Lui si limitò a tacere e lei proseguì, con la bocca mezza piena, sarcastica ed amara, “ma no, voi uomini non soffrite mai per amore. Tu poi… lasciamo perdere!”

 

“Che… che vuoi dire?”

 

“Che tu le donne con cui stai le mandi pure in galera, senza battere ciglio. A parte che dei gusti inspiegabili tieni… ma contento te!” lo fulminò, con un’occhiataccia che poteva quasi uccidere, prima di tracannare un altro po’ di birra.

 

“Io… io non-”

 

“Lascia perdere, Calogiuri, scusa. Ma sto con l’umore girato e, quando mi prende così, tremenda divento. Lo so che hai fatto il mestiere tuo e non potevi evitarlo,” sospirò, prima di fissarlo in tralice con un sopracciglio alzato ed aggiungere, sarcastica, “ma sui gusti inspiegabili continuo a pensarlo, ma, ripeto, contento te! Non che i miei siano molto meglio, eh, che tutti i casi umani pare che col lanternino me li vado a cercare.”

 

“Casi umani?”

 

“Sì… quelli che mi vogliono a me non piacciono. E quelli che a me piacciono o non mi si filano proprio,” sospirò, lanciandogli un’occhiata eloquente che lo fece avvampare per l’imbarazzo, sentendosi un po’ mortificato, anche dopo mesi, per il due di picche che le aveva rifilato dopo quel bacio davanti alla procura, “oppure sono dei casi umani da manuale, che o li devo mollare io per esasperazione - e poi liberarsene te la raccomando - o mi piantano sempre sul più bello, così, senza una spiegazione, niente. Tanti saluti, arrivederci e grazie.”

 

“Mi… mi dispiace…” provò ad abbozzare, vedendo con sollievo Capozza tornare, sperando lo salvasse da quella conversazione che non era sicuro di riuscire a gestire. Già non era mai stato capace di consolare sua sorella Rosa dalle sue pene d’amore, quando aveva avuto le crisi periodiche con suo cognato, prima che si sposassero, figuriamoci mo con Matarazzo, con cui non è che avesse tutta questa confidenza e con cui c’era, per l’appunto, pure un pregresso già di suo imbarazzante.

 

Ma Capozza si limitò a brandire il cellulare e a proclamare di dover scappare per un’emergenza - e, di nuovo, chissà per quale motivo, visualizzò lui e la cancelliera avvinghiati sulla scrivania - e, dopo aver mollato i soldi per la sua birra sul tavolo, ad allontanarsi di filato.

 

“Tipo l’ultimo, no. Sai quando mi ha mollato il disgraziato? Sai quando mi ha mollato?”

 

Si ritrovò a bere un’altra sorsata di birra per guadagnare tempo, l’hamburger che praticamente ancora non lo aveva quasi toccato, la testa che iniziava vagamente a girargli, dopo una pinta e mezza a stomaco vuoto.

 

“Il giorno prima di San Valentino! Che bastardo, eh?! Giusto per risparmiarsi il regalo, ovviamente. Che io invece come una scema già glielo avevo comprato e mo glielo darei in testa quello stramaledetto profumo, che mo che me ne faccio?!” esclamò, sollevando il boccale al cielo, prima di finirlo in un’unica sorsata finale.

 

“Jessica…” provò ad intervenire, preoccupato che stesse bevendo troppo, per quanto la birra di lei fosse forte meno della metà della sua.

 

Ma Jessica scosse il capo, prima di metterselo tra le mani, per qualche istante, e poi guardarlo, con occhi improvvisamente troppo lucidi, che gli fecero male e allo stesso tempo scaturire quel moto di panico che sempre lo prendeva quando una donna piangeva di fronte a lui e non sapeva come fare per consolarla, quel desiderio quasi istintivo di fare qualsiasi cosa in suo potere per farla smettere il prima possibile.

 

“Ma che cos’ho che non va, eh? Che tutti mi dicono che sono bella, bella, sì, bella un corno! Ma poi nessuno mi vuole! Che fossi almeno brutta, potrei dirmi che è per quello: che sono superficiali, che è loro la colpa. Ma se non è l’aspetto, il carattere deve essere, no? E allora proprio io sono che c’ho qualcosa che non va!” proclamò, le lacrime che ormai le rigavano le guance, afferrandolo per il colletto della giacca di pelle e domandandogli, quasi scuotendolo,  “dimmi la verità! Che c’ho che non va?”

 

“Ma niente, Jessica, ma figurati, non hai niente che non va, anzi,” si affrettò a cercare di rincuorarla, appoggiando una mano su quelle di lei, sperando anche di calmarla, e di farla smettere di strattonarlo, “non solo sei bellissima, ma sei anche intelligente e hai un carattere molto forte, ma in senso buono, non ti manca niente, davve-”

 

Non riuscì a terminare la frase, perché si ritrovò con due labbra appiccicate a ventosa sulle sue, le mani di Jessica che gli tenevano il viso, baciandolo con passione e quasi con rabbia, mordendogli il labbro e riprendendo a baciarlo con più vigore quando lui si lasciò andare ad una mezza esclamazione di dolore, soffocata nella bocca di lei.

 

All’inizio non rispose, rimase immobile, quasi pietrificato, come sotto shock. Poi, la testa che gli girava, il primo istinto fu quello di respingerla, di allontanarla, nonostante fossero le prime sensazioni piacevoli dopo settimane di dolore e di astinenza. Nella sua mente passò, come in un flash, un volto purtroppo fin troppo familiare e dei capelli ricci color del rame.

 

Sei un cretino! Stai ancora a pensare a lei? - si rimproverò, mentre la rabbia verso se stesso e verso di lei tornava a montargli dentro.

 

E, proprio in quel momento, il bacio si interruppe e Jessica lo guardò, con occhi ancora più lucidi, le lacrime che le bagnavano le guance, fulminandolo con uno sguardo e proclamando, tra l’amaro ed il disperato, “non mi manca niente, ma non ti piaccio proprio, eh?”

 

Forse fu il dolore che le lesse nello sguardo, e che gli ricordava così tanto il suo, quella sensazione orrenda che si ha quando si comprende di non essere ricambiati, di avere messo il proprio cuore in mano a qualcuno che lo ha preso e lo ha fatto a pezzettini. O forse fu quel senso di rabbia che gli saliva fino in gola e sapeva, ironia della sorte, di rame. Forse furono gli ormoni che, insieme all’alcol, gli fecero girare nuovamente la testa, i contorni del viso di lei che si sfumavano, ma se lo prese tra le mani e la baciò, sentendola sorridere sulle sue labbra e baciarlo con maggiore vigore, maggiore passione, che si ritrovò a ricambiare, quasi meccanicamente, in automatico.

 

Senza rendersene praticamente conto, se la trovò in braccio, a cavalcioni su di lui, il corpo che gli si riattivava dopo settimane di castità forzata, la testa che ormai pareva essere finita sott’acqua, tanto la sentiva ovattata.

 

Fece appena in tempo a percepire dita che lo accarezzavano sotto il maglione e, proprio in quell’istante, un colpo di tosse e poi un altro, che li fecero staccare di colpo, col fiatone ed imbarazzati, mentre il proprietario del pub li guardava tra il divertito e l’esasperato, proclamando, con un mezzo sorrisetto, “se volete abbiamo delle stanze qui sopra, sono libere essendo fuori stagione. Quaranta euro. Pagamento anticipato.”

 

Sentì tutto il sangue andargli in viso, mortificato nei confronti di Jessica, e stava per negare fermamente quell’idea, quando lei gli sorrise e gli fece l’occhiolino, sussurrandogli, “che ne dici? Che io sto in caserma, lo sai, e non è il caso.”

 

Si sentì, se possibile, avvampare ancora di più, il viso che pareva essergli diventato un termosifone, nonostante gli ormoni in circolo ed il corpo che gli urlava di dire di sì, mentre il cervello, quel poco che ne restava, diceva di no. Il cuore ormai non lo sentiva più, non lo voleva sentire.

 

“Sei…. sei ubriaca, non voglio approfittare,” provò a svicolare, vedendo l’espressione speranzosa di lei, non volendo respingerla apertamente.

 

“Ma che ubriaca! Sono lucidissima!” rise lei, balzando giù dalla sedia e tenendosi in equilibrio su un piede solo, facendogli un altro occhiolino e aggiungendo, ironica, “soddisfatto dell’alcol test, maresciallo? E dai, che mica stiamo più nel medioevo, no? Se lo vogliamo entrambi, che male c’è?”

 

Già, che male c’è? - si chiese, la vista che un poco gli ondeggiava, il cervello che funzionava a sprazzi, domandandogli se lui su un piede solo si sarebbe saputo reggere, ma forse era meglio non scoprirlo.

 

Sei single, lei è single, vi piacete fisicamente, che c’è di male? - insistette quella maledetta voce, provocandolo, perché subito dopo, un pensiero si fece largo tra tutti gli altri, o forse era il cuore che mandava un segnale di vita, finalmente.

 

Perché non voglio tradire Im-

 

Si bloccò a forza, incazzato con se stesso come forse mai in quelle settimane. Incazzato con lei. Incazzato con il suo maledetto cuore per voler restare fedele ad una donna che l’aveva piantato in asso per tornare dal marito, senza rimpianti. Che non lo avrebbe mai amato.

 

E forse fu la rabbia, forse fu il desiderio fisico, forse furono gli occhi imploranti di Jessica, che lo guardava come se temesse di essere respinta un’altra volta, ma si tirò in piedi su gambe ben poco stabili, annuì e la baciò nuovamente, prima di staccarsi e cercare il portafoglio nella tasca dei pantaloni, lasciando denaro sufficiente per le loro consumazioni e per la stanza.

 

Per un attimo, mentre i soldi passavano di mano, sostituiti da una chiave, si sentì squallido, quasi come se avesse appena siglato un patto con il diavolo.

 

Ma poi Jessica lo baciò di nuovo ed ogni traccia di buonsenso svanì, sostituito dal bisogno fisico di provare qualcosa, di dimostrarsi che poteva provare qualcosa anche senza di lei.

 

Barcollarono su per le scale, perché continuava a sentire il mondo come appena uscito dalla piscina dopo una lunga nuotata, quella sensazione del pavimento che ondeggia sotto le suole, e finirono, dopo un po’ di tentativi con la chiave, nella camera a loro assegnata.

 

E da lì fu tutto confuso e rapidissimo: i vestiti che cadevano, Jessica che lo trascinava sul letto e lui che per poco non le crollava addosso, e poi lei riprese a baciarlo, a toccarlo, e tutto successe in modo automatico, quasi inevitabile, come andare col pilota automatico inserito, guidato solo dall’istinto, dagli impulsi, dal desiderio fisico e da quella necessità di sentire, maledizione, di sentire qualcosa, qualsiasi cosa.

 

Si ritrovò, alla fine, esausto, a cercare di prendere fiato nel collo di lei, che gli si era aggrappata alle spalle e lo teneva stretto forte, come una morsa nella quale improvvisamente si sentì soffocare.

 

Provò a staccarsi ma lei rotolò insieme a lui sul materasso e rimase distesa sul suo petto, alzando lo sguardo verso di lui e sorridendogli, con gli occhi stanchi ma apparentemente soddisfatti, anche se si chiese come, talmente era stato tutto indefinito nella sua testa.

 

Gli posò un bacio sulle labbra e un moto di nausea gli risalì fino in gola, forse per via della troppa birra, ma dovette rimandarlo giù a fatica.

 

Lei gli fece un altro sorriso, ignara di tutto, gli posò di nuovo la testa sul petto e, dopo poco, sentì il rumore del respiro di lei farsi più lento, in un lieve russare. Forse causato dalla birra bevuta o dalla posizione, o chissà che altro, ma che gli sembrò fastidiosissimo, quasi assordante.

 

E la nausea tornò prepotente, in un conato di vomito che lo gettò nel panico, facendogli calcolare la distanza tra il letto ed il bagno.

 

Trattenendo il fiato più che poteva, cercò di staccarsi da Jessica, che ancora si aggrappava a lui con una forza incredibile, considerato che stava dormendo. Sentì una prima fitta di senso di colpa, ma la ignorò, riuscendo finalmente a divincolarsi e a mettersi seduto, la testa che girava peggio che se fosse appena uscito da una lavatrice.

 

Su gambe tremanti, appoggiandosi al muro, arrancò fino al bagno, chiuse la porta, fece giusto in tempo ad arrivare al water e vomitò pure l’anima, scosso da conati che lo facevano tremare dalla testa ai piedi, mentre il viso gli si riempiva di lacrime.

 

E, a mano a mano che lo stomaco si svuotava, un altro genere di senso di vuoto, piano piano, sostituiva ogni altra sensazione fisica, mano a mano che i muscoli si raffreddavano, facendolo sentire come se una voragine lo stesse inghiottendo e lo stesso stritolando insieme, fino a non provare più niente, se non un senso di totale spossatezza.

 

Seguito di nuovo da quel senso di squallore e poi di schifo verso se stesso, non appena il cervello si riattivò a sufficienza per rendersi conto di cosa avesse appena fatto.

 

Si sentì una merda, il peggiore degli uomini, non solo per quello che aveva appena combinato ma soprattutto con chi. Jessica non se lo meritava, non se lo meritava e lo sapeva, lo sapeva benissimo, ora che quei pochi neuroni che teneva in testa avevano ripreso del tutto a ragionare, passata la botta dell’alcol e degli ormoni.

 

E poi, in un lampo, due occhi marroni lo fulminarono, accusatori, e spalancò gli occhi, non sentendo più rabbia, solo una mareggiata tremenda di senso di colpa, nonostante tutto, nonostante non avesse senso, nonostante non fosse logico.

 

Ma il suo cuore della logica e del buon senso non ne aveva mai voluto sapere o non si sarebbe mai innamorato di lei.


Si ripulì il meno peggio che riuscì e, facendo sempre pianissimo, si rivestì sommariamente, ansioso di togliersi di lì. Con un ultimo sguardo colpevole a Jessica, che dormiva profondamente, abbracciata a quello che era stato il suo cuscino, le lasciò le chiavi sul comodino, aprì con delicatezza la porta e la richiuse alle sue spalle, sentendo finalmente l’ossigeno tornare a riempirgli i polmoni.

 

Ma il vuoto ed il senso di colpa non gli diedero tregua, accompagnandolo lungo tutto il tragitto verso casa, sotto la doccia e poi a letto, dove rimase a fissare il soffitto, insonne, dandosi del cretino e chiedendosi come avrebbe trovato il coraggio di ripresentarsi in procura l’indomani, anzi di lì a poche ore.

 

Di riaffrontare Jessica, di riaffrontare lei.

 

Ma doveva farlo, doveva prendersi le responsabilità del casino che aveva combinato e le conseguenze che si meritava, per la sua stupidità.

 

Anche se la sola idea di deluderla gli faceva malissimo e si odiava per questo, quasi quanto si odiava per continuare a preoccuparsi più di lei che di Jessica, che in tutta quella storia non aveva alcuna colpa.

 

Almeno lei.





 

Nota dell’autrice: Ok, spero che dopo questo capitolo non vorrete uccidermi. Devo ammettere che è stato molto tosto da scrivere e che sono parecchio in ansia sul risultato, quindi vi ringrazio fin da ora se vorrete farmi sapere che ne pensate, nel bene e nel male perché mai come per questo e per i prossimi capitoli il vostro parere, oltre che a farmi un sacco piacere, mi è fondamentale per capire come sto andando.

Vi chiedo di fidarvi di me e voglio rassicurarvi che il sereno tornerà e sarà un sereno vero e pieno, ma a volte per capire cosa si prova davvero la lontananza può essere fondamentale e anche alcuni errori stupidi di percorso.

Vi ringrazio di cuore per tutto il supporto che state dando a questa storia, ringrazio chi la sta seguendo, recensendo e chi l’ha messa tra le preferite. Spero possa continuare a mantenersi di vostro gradimento e non noiosa anche in questa seconda fase.

Il prossimo capitolo arriverà tra una settimana esatta, domenica 19 gennaio.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 13
*** Un Giocattolo ***


Nessun Alibi


Capitolo 13 - Un Giocattolo


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Amò, sveglia, ti ho portato la colazione!”

 

Il sussurro al suo orecchio le fece spalancare gli occhi di botto, una fitta di mal di testa che le trafisse il cranio dividendolo in due, mentre cercò di mettere a fuoco la sveglia e realizzò che erano le otto del mattino.

 

Non si era resa conto di essere infine crollata nel sonno, sicuramente dopo le cinque, l’ultimo orario che aveva visto prima di cercare disperatamente di ottenere almeno qualche ora di riposo.

 

L’insonnia la stava spossando, fisicamente e mentalmente e, quando si voltò e vide gli occhi di Pietro, carichi di una felicità, pura, vera, incontenibile, quasi infantile, si sentì doppiamente esausta, mentre il senso di colpa si faceva un altro bel giro di vite nelle sue viscere.

 

Nei confronti di Pietro, perché lei non riusciva a provare felicità, nemmeno serenità, perché non riusciva a provare quasi niente.

 

E nei confronti di Calogiuri, che si sentiva di aver tradito quella notte, per quanto folle, assurdo ed irrazionale potesse sembrare quel pensiero.

 

Ma, del resto, se non mi stessi comportando in maniera folle, assurda ed irrazionale, ultimamente, non mi sarei in-

 

Si costrinse a concentrarsi su Pietro, che ancora la guardava in quel modo, come se gli fosse capitato un miracolo.

 

Sai te che bel miracolo! - pensò, tirandosi a sedere, sforzandosi di sorridergli di rimando e accettando il vassoio della colazione con un “ma grazie, Pietro, non dovevi disturbarti!”

 

Perché la verità era che non aveva per niente fame, ma proprio zero, nonostante stesse perdendo peso e se ne stesse pure rendendo conto, dai vestiti che le stavano più larghi.


E quindi si obbigò a mandar giù caffelatte e biscotti, che ad una certa non è che poteva fare troppe cretinate col suo fisico: non aveva più vent’anni ed aveva una figlia a cui pensare. E, se il sonno era più difficile da controllare, salvo cedere ai sonniferi, almeno sull’alimentazione uno sforzo lo doveva fare.

 

Pietro le sorrise, ancora più soddisfatto, e le diede un altro bacio, prima di farle quella domanda che lei temeva peggio di qualunque altra, “amò, perché non chiami in ufficio che fai un po’ più tardi e ce ne stiamo un po’ insieme solo noi due? Posso chiedere anch’io un permesso di qualche ora.”

 

E, sebbene la prospettiva di andare in procura ed affrontare lo sguardo di Calogiuri la allettasse quanto un pomeriggio di shopping con sua suocera e la Moliterni, l’alternativa era mille volte peggiore.

 

Che poi, mica ce l’aveva scritto in faccia quello che aveva fatto, no? E Calogiuri non poteva mica sapere che, prima di quella notte, lei e Pietro non avevano fatto l’amore per quattro mesi. Era una delle mille cose che non avrebbe mai saputo, perché lei non avrebbe mai potuto dirglielo, se voleva che lui si facesse la sua vita, che avesse il futuro che si meritava, senza di lei.

 

Ma tu con tuo marito sei felice? - la domanda di Sabrina le risuonò in testa, anche se non avrebbe saputo dire il perché, insieme a tutto quello che le aveva detto dopo, su figli ed adozioni e-

 

“Amò, allora? Ti sei incantata? O non è che ti ho stancata troppo ieri sera?” proseguì, ironico, stampandole un bacio sulle labbra.

 

Trattenne un moto di riso amaro, pensando alle maratone che faceva con Calogiuri, e se non si era mai stancata troppo lì, figuriamoci per quell’unica replica con Pietro, che le era bastata ed avanzata. Ma lui non poteva saperlo e non era colpa sua se lei non riusciva a provare abbastanza trasporto nei suoi confronti.

 

Per non dire che c’è proprio lo sciopero totale dei trasporti, Imma! - le ricordò la voce sarcastica della Moliterni, che si costrinse a far tacere, per rispondere a Pietro, che ancora attendeva con occhi carichi di aspettativa.

 

“No, Pietro, guarda, devo proprio andarci in orario in procura stamattina. Devo riferire a Vitali di Romaniello e poi ho degli appuntamenti già fissati. Magari un’altra volta, dai,” provò a svicolare, in una di quelle promesse da madre, come quei magari domani rifilati a Valentina, quando era bimba e faceva i capricci per qualcosa che non voleva concederle. Ma il domani ovviamente era sempre l’indomani e non arrivava mai.

 

Si affrettò ad alzarsi dal letto prima che Pietro potesse protestare - anche se colse benissimo la sua espressione delusa - ad afferrare i vestiti già predisposti sulla sedia e a correre in bagno, rifugiandocisi neanche fosse un bunker antiatomico.

 

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Aprì il portoncino e la luce solare lo trafisse con mille spilli, la testa che gli pulsava tremendamente, quasi peggio di quando si era svegliato, avvolto da un senso di nausea prepotente - se per i postumi dell’alcol o se verso se stesso, questo restava da stabilire - e dalla sensazione che il cervello volesse esplodergli nel cranio.

 

Si trascinò a forza fino in procura, sentendo le gambe fatte di piombo, lo stomaco ancora sottosopra ed una voglia prepotente di farsi inghiottire dal terreno e sparire, almeno per un po’.

 

Ma non si poteva: era già stato un vigliacco la sera prima. Doveva parlare con Jessica, scusarsi con lei e chiarire in qualche modo la loro situazione, a meno che pure lei la considerasse una cosa di una notte e basta. In fondo, era una ragazza moderna ed emancipata, no?

 

Però il modo in cui lo aveva abbracciato, in cui si era addormentata tra le sue braccia ed i pregressi tra loro gli fecero dubitare di poter essere tanto fortunato. E lo fecero sentire doppiamente vigliacco, stupido e stronzo.

 

Jessica non se lo meritava proprio e lavoravano pure insieme. Sarebbe stato un casino tremendo: già lo aveva trattato come un appestato per mesi dopo la storia di Lolita e mo… mo avrebbe avuto tutte le ragioni di avercela a morte con lui.

 

Non era da lui fare cose del genere, non era proprio da lui e sì, incolpava l’alcol ed il suo stato mentale, ma avrebbe dovuto comunque sapere dire di no, sapere quando fermarsi, capire perché non fosse il caso, invece che farsi trascinare dagli ormoni e soprattutto da quello stupidissimo senso di rabbia e di rivalsa.

 

Da quel bisogno di dimostrare a se stesso che poteva andare avanti senza di lei.

 

E così non solo non te lo sei dimostrato, ma farai soffrire pure un’altra persona che non c’entra niente, complimenti! Una collega, oltretutto! La storia con Lolita proprio non ti ha insegnato niente, eh?! E poi ti stupisci che io ti tratti come un ragazzino e che non mi fidi di te?! Era questo il grande amore che provavi per me, quando basta un po' d'alcol e non sei neanche capace di tenertelo nei pantaloni? - lo redarguì la voce della sua coscienza, che in quel momento aveva la sua voce, mentre un altro moto di nausea lo assaliva alla vista dell’edificio della procura.


Entrò con la sensazione di starci andando per rendere piena confessione delle sue colpe, come un indagato e non come un maresciallo. Anche se sperava vivamente che lei non lo scoprisse mai, che Jessica almeno mantenesse una certa discrezione invece che urlare ai quattro venti quanto fosse stato stronzo. Ma, conoscendola, temeva fosse una speranza più che vana - e, di nuovo, era solo ciò che si meritava.

 

Prese un respiro e varcò la soglia della PG e, ironia della sorte, la trovò deserta, tranne che proprio per Jessica, già seduta alla sua scrivania.

 

Si voltò e, come i loro sguardi si incrociarono, il viso di lei si aprì in un sorriso smagliante, amplissimo, che lo fece sentire ancora di più uno schifo, oltre che sorprenderlo, vista la sua fuga notturna.

 

“Buongiorno, maresciallo,” proclamò, ironica e con un che di malizioso, alzandosi dalla sedia ed avvicinandosi a lui con una camminata ed uno sguardo ancora più provocanti, che era dai primi tempi in cui lavoravano insieme, prima di Roma, che non le vedeva più adoperare nei suoi confronti, per poi sussurrargli, ormai a pochi centimetri da lui, “dormito bene?”

 

“Jessica, scusami, lo so che sono sparito stanotte, ma volevo… volevo spiegarti che io-”

 

“Ma figurati! Non ti preoccupare, anche se sei proprio tenero quando fai così,” gli disse con un tono tra l’ironico ed il dolce, sollevando una mano per accarezzargli una guancia, provocandogli l’istinto di ritrarsi che cercò di trattenere almeno per il tempo necessario a parlarle a quattr’occhi, “che pensi che non lo so che non è il caso che ci vedano arrivare insieme in procura? E che dovevi andare a casa a cambiarti? Tranquillo, maresciallo!”

 

“Jessica, veramente io-”

 

Ma non riuscì nemmeno a finire la frase, perché se la trovò praticamente appesa al collo, che lo baciava appassionatamente.

 

Fece appena in tempo a riaversi dallo shock e a poggiarle le mani sulle spalle, per cercare di staccarla, quando una specie di boato alle sue spalle gli provocò un mezzo infarto.

 

Il cuore in gola, fece un salto indietro, staccandosi bruscamente da Jessica, che gli lanciò un’occhiata altrettanto spaventata, prima di voltarsi e sentire un conato di vomito talmente forte che si dovette appoggiare ad una delle scrivanie con una mano per non rischiare di cascare.

 

Sulla porta c’era lei, c’era Imma: le mani a mezz’aria che le tremavano - e lo notava perfino nel suo stato di shock - un faldone riverso a terra ai suoi piedi, quello che aveva provocato il rumore infernale, la bocca spalancata e, soprattutto, uno sguardo tra l’incredulità, la delusione ed il dolore che gli provocò un’altra ondata di nausea.

 

“No- non è come sembra, noi-” provò a balbettare, dandosi dello scemo non appena le parole gli uscirono di bocca, assurde tanto quanto quella situazione. Ma si zittì quando Imma lo fulminò con un’occhiata che avrebbe incenerito un ghiacciolo e che, soprattutto, non aveva mai visto rivolta a lui, mai, nemmeno dopo averle dovuto confessare di Lolita. Una delle mani si alzò di più ed in verticale, rigida, per ordinargli di tacere.

 

“Di quello che voi fate fuori da qui non ne voglio sapere nulla, maresciallo,” sibilò, usando il suo titolo quasi come se fosse un insulto, “ma finché state tra queste mura - che questo è un ufficio pubblico, ve lo vorrei ricordare, e ricoprite un ruolo istituzionale - anzi, finché state in servizio, le vostre… pulsioni ve le tenete a freno. Altrimenti, se vi ribecco, sarò costretta a farvi rapporto. Sono stata chiara?!”

 

Non si era mai preso una lavata di capo simile da lei, forse non l’aveva mai vista tanto incazzata, con nessuno, ma qualcosa gli scattò dentro ed al senso di colpa si unì una rabbia, una furia che saliva, un senso profondo di indignazione di fronte a tanta ipocrisia. Chi era lei per fare la morale, quando, finché le faceva comodo, se non c’era in giro nessuno, degli orari di servizio se n’era fregata tranquillamente, tra baci rubati nel suo ufficio ed in auto?

 

Ma soprattutto, come si permetteva di fargli una scenata di gelosia, perché questo era, chiara e netta, quando era stata lei a mollarlo dalla sera alla mattina, proprio con la scusa che lui doveva trovarsi un’altra con cui stare alla luce del sole?

 

E più alla luce del sole di così! Ma mo, improvvisamente, non andava più bene.

 

Si trattenne a stento dal parlare, perché non sapeva cosa gli sarebbe potuto uscire fuori, pure mentre un’altra parte di lui invece voleva solo chiarire, spiegarsi, scusarsi.

 

Si limitò ad un “agli ordini, dottoressa!” che suonò duro e sarcastico più del dovuto e voluto, e lei gli rivolse un’altra occhiataccia, per poi indirizzarla pure verso Jessica, che nel frattempo gli si era affiancata.

 

“Matarazzo, aspetto ancora il verbale dell’interrogatorio al buttafuori della discoteca. Da venerdì scorso. Lo voglio entro mezzogiorno. Calogiuri, voglio un dossier completo sull’istruttore di tennis. Vita, morte e miracoli. Entro sera. E scopri i suoi orari al circolo che gli voglio andare a parlare,” ordinò, con il tono più brusco e meccanico che avesse mai usato nei suoi confronti.

 

Si chinò, raccolse il faldone da terra e, dopo averli inceneriti con un ultimo sguardo carico di rabbia per nulla celata, si girò e sparì oltre la porta, il rumore dei tacchi - che sembravano pugnalare il pavimento - che rimbombò per tutta la questura.

 

“Siamo in un bel casino, mi sa…” sospirò Matarazzo e questo lo portò a guardarla, per la prima volta da quando lei era entrata in PG.

 

Ma non gli sembrava realmente spaventata o contrita, anzi c’era qualcosa di strano nel suo sguardo che non riusciva a capire.

 

Decise che non fosse il caso di chiarire in quel momento, anche perché grazie agli ordini della dottoressa avrebbero passato la giornata chini sulle carte e al computer e non avevano altro tempo da perdere.

 

Ma, in qualche modo, doveva chiarire per forza.

 

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“Diana!! Dove sei?!!”

 

“Imma!” la voce della cancelliera la raggiunse dal suo ufficio, prima che comparisse sulla porta.

 

La gelò con un’occhiataccia, fino a che Diana, confusa, si corresse con un, “dottoressa!”

 

“Sai cos’è questo che ho in mano, Diana? Sai cos’è questo?!” le domandò, in quello che era praticamente un urlo, ma era troppo incazzata per contenersi.

 

“E che è… è un faldone, no, Imm- dottoressa!” si corresse in corner, di fronte al suo sguardo omicida.

 

“E grazie al cavolo, Diana, e meno male che un faldone ancora lo sai riconoscere - cosa di cui cominciavo pure a dubitare ultimamente! Ma che c’è qui dentro, secondo te?!” incalzò, raggiungendo la scrivania e buttandoci sopra il fascicolo, con un tonfo che echeggiò nell’ufficio.

 

Diana rimase muta, forse avendo capito che qualsiasi cosa avesse detto sarebbe stata usata contro di lei.

 

“C’è il fascicolo sulla Tantalo, Diana, che avresti dovuto recuperare dalla Moliterni ieri! Ma no, ovviamente sono dovuta andare a sollecitarglielo di nuovo di persona, perché tu ieri sera sei uscita prima, no?! Approfittandoti del fatto che ero a interrogare Romaniello. Quando il gatto non c’è, i topi ballano!”

 

“Im- dottoressa… io…”

 

“Ma certo, tanto qui in questa procura - che ormai più che una procura pare una casa di appuntamenti - ognuno si fa i comodi suoi, no, Diana? E i pranzi, e le cene, e i caffè e gli appuntamenti, di tutto. Tutto tranne che lavorare, ovviamente!”

 

Diana si fece rossa in viso, gli occhi che le si aprirono e chiusero fin troppo rapidamente, prima di scoppiare a piangere e scappare fuori dall’ufficio, lasciando la porta spalancata.

 

Imma provò una momentanea fitta di senso di colpa, avviandosi con un sospiro a richiuderla, insieme ad un’inspiegabile voglia di seguire Diana, presumibilmente in bagno, e piangere insieme a lei, ma poi l’immagine mentale di Calogiuri avvinghiato a Matarazzo le comparve di nuovo davanti agli occhi e tutto fu soffocato dalla furia che le ribolliva dentro, le bestie dello zoo che ruggivano tutte insieme, come i leoni nel colosseo, pronti a balzare alla gola dei gladiatori.

 

Non sapeva cosa la facesse incazzare di più: se quelle scuse idiote che aveva provato a balbettare lui - manco lei fosse cieca ed avesse bisogno del cane guida e del bastone, perché solo in quel caso avrebbe potuto forse fraintendere cosa stessero facendo lui e Miss Sicilia; se il sorrisetto di sfida e lo sguardo vittorioso di Matarazzo, che l’aveva fissata in quel modo, come a dire, hai visto? Mo lui è mio, ha scelto me! - e no, non se l’era immaginato, l’aveva visto benissimo;  se il fatto che, con tutte le donne che c’erano sulla faccia della Terra, proprio una collega doveva andare a scegliersi e, soprattutto, non avere almeno il minimo rispetto di non limonarsela pubblicamente in procura o-

 

O se il fatto che ci ha messo appena tre settimane a consolarsi, no, Imma? Forse pure meno, che chissà quando è cominciata. Altro che fuoco di paglia, un intero fienile, proprio!

 

Cercò di zittire la Moliterni nella sua testa, come sempre affilata come un bisturi - del resto ci aveva dimestichezza, a giudicare da tutti i ritocchini estetici fatti - ma non ci riuscì.

 

Perché era quella la cosa che le faceva più male. Certo, lo aveva lasciato perché si costruisse un futuro con qualcuna che potesse dargli quello che lei non avrebbe mai potuto offrirgli. E ovviamente non è che volesse vederlo soffrire e struggersi per sempre appresso a lei.

 

Però tre settimane, soltanto ventuno maledettissimi giorni erano bastati per cancellare tutto quel sentimento che lui aveva sempre professato nei suoi confronti.

 

E tu cosa hai fatto stanotte con Pietro, Imma?

 

Ma Pietro è mio marito! E dovevo almeno farlo un tentativo! E invece di.... di godermi le sue attenzioni, non solo non provavo niente, ma mi sentivo pure in colpa. Mi sentivo di aver tradito uno che nel frattempo stava a rotolarsi tra le lenzuola con Matarazzo, come minimo!

 

Visualizzare Matarazzo nell’appartamento di Calogiuri che, per qualche assurda ragione, aveva sempre sentito un po’ come loro - forse perché il maresciallo lo aveva palesemente affittato per avere un luogo dove potessero incontrarsi liberamente - fu l’ultimo schiaffo e fu travolta da un’ondata di rabbia e tristezza talmente forte che tornò alla scrivania, buttò giù tutti i faldoni e, non paga, prese a temperare compulsivamente una matita finché pure quel temperino dichiarò bandiera bianca con un rumore atroce ed assordante.

 

Ma la voglia di prendere a pugni qualcosa rimaneva, tale e quale, pure dopo aver fatto lo sforzo di raccogliere nuovamente tutti i faldoni da terra. E sperava solo che il maresciallo e Miss Sicilia non le si presentassero davanti per il resto della giornata, perché non garantiva di riuscire a mantenere una facciata professionale, in caso lo avessero fatto.

 

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“Vado in camera mia, non ho più fame!”

 

“Aspetta un attimo, Valentina. Ma non era oggi che c’era la pagella? Come sono andati i colloqui, Pietro?”

 

Se ne era quasi scordata, con tutto quello che era successo quel giorno, ma qualcosa nello sguardo di Valentina le aveva fatto risuonare uno di quei suoi campanelli d’allarme, quello che scattava quando qualcuno le stava nascondendo qualcosa.

 

“E come sono andati… abbastanza bene, Imma,” rispose Pietro, dopo un attimo di esitazione di troppo, lanciando un’occhiata alla figlia che era uno di quei suoi lascia fare a me, che la facevano sempre incazzare, come se non li notasse poi.


Ed era già sufficientemente incazzata di suo quel giorno.

 

“E posso vederlo pure io questo abbastanza bene? Dove sta la pagella?” intimò, in quello che era un ordine, più che una domanda, e lo sguardo impanicato della figlia le confermò che l’istinto non si era sbagliato, “Valentina?”

 

Sbuffando, Valentina si diresse verso camera sua, sbattè la porta, in un modo che la fece scattare dalla sedia, pronta a seguirla e a dirgliene quattro - ma pure otto o dodici - almeno fino a quando la porta si spalancò nuovamente e Valentina tornò, brandendo la pagella quasi come fosse un guanto di sfida.

 

Gliela prese e, facendo scorrere rapidamente le materie, l’arrabbiatura decuplicò.

 

“Abbastanza bene? Cinque in greco sarebbe abbastanza bene? E sei in latino? C’hai la maturità quest’anno, Valentina, questa pagella è una carneficina, altro che abbastanza bene!” sbottò, fulminando sia la figlia sia Pietro, per il suo tentativo di minimizzare.

 

“Ma amò, ascolta-”

 

“Non ascolto niente, Pietro! E se Valentina deve essere matura abbastanza per sta benedetta maturità, come ci continua a ripetere da mesi, è matura abbastanza pure per spiegarsi da sola, senza l’avvocato difensore. Allora, che hai da dire? Stavi andando così bene a fine dell’anno scorso!”

 

“Sì, ma tra Samuel che è lontano e poi la storia di Bea… le ultime verifiche sono andate male e quindi-”

 

“E quindi niente, Valentina! Capo primo, la lite con Bea è recente, quindi la media già era bassa o non avresti addirittura l’insufficienza. E, di conseguenza, evidentemente o la sua influenza è negativa - guarda caso i tuoi voti erano migliorati quando non vi vedevate più l’anno scorso - o questa storia con Samuel ti fa dimenticare le priorità e allora c’è un problema serio, Valentina. Non puoi permettertelo proprio mo e-”

 

“E scusa tanto se non sono una macchina come te, che tiri dritto fregandotene di tutto e tutti, che pensi sempre solo al lavoro, alla carriera. Ma tu hai mai provato che vuol dire stare male per amore, eh? Pensare a qualcuno continuamente senza riuscire a fare altro?!” le urlò contro, colpendo, senza saperlo, un tasto non solo dolente ma sanguinante.


Ed Imma non ci vide più.

 

“E tu hai mai provato che vuol dire fare la fame, Valentina?! Dover fare un lavoro degradante, che odi, per tutta la vita perché non hai i titoli per fare altro?!” le gridò contro di rimando, avvicinandosi fino ad essere a pochi centimetri, viso a viso, prima di proseguire, in un sibilo sprezzante, “quello che tu chiami amore è solo una droga ed una grande fregatura. Che oggi c’è e ti sembra meraviglioso ed invincibile, e poi invece dall’oggi al domani... lui magari se ne trova un’altra, e chi si è visto si è visto. Alla tua età poi, lasciamo perdere! Ma sai quanti ragazzi ti piaceranno ancora nella vita? E quante opportunità avrai ancora per rinscimunirti per questo cavolo di amore? Ed invece la tua opportunità per avere una vita decente è ora, Valentina, ora, e te la stai giocando malissimo!”

 

“Ma chi ti credi di essere?! Come puoi giudicare tutti con questa… questa saccenza, come se avessi la verità in mano? Chi sei per dire che tra me e Samuel finirà?? Dille qualcosa anche tu papà, che non la sopporto più!” strillò Valentina, raggiungendo decibel inauditi, gli occhi lucidi, tirando suo padre per un braccio.

 

“Imma, magari non-”

 

“E pure se non finisse, che vuoi fare? La moglie mantenuta dello chef a vita? Sai che fine hanno fatto le mie compagne che non hanno voluto studiare? O tirano a campare con lavori che lasciamo perdere, o si stanno mangiando il patrimonio di famiglia, o si fanno mantenere da mariti che non sopportano ma che non possono lasciare perché se no... chissà che bella fine fanno. Questa è la realtà, Valentina, non le tue favolette!”


“E tu sai quanti laureati che fanno la fame ci sono mo in Italia? Con centodieci e lode? Il titolo di studio non serve e-”

 

“Ma almeno aiuta! Figurati se ti diplomi dal classico con un calcio nel sedere, proprio tutti lì staranno ad offrirti un lavoro e comunque-”

 

“E comunque io e Samuel apriremo un ristorante tutto nostro e quindi il problema non si pone. E le tue compagne che fanno le mantenute, che tanto disprezzi, magari il tempo per stare con i loro figli ce l’hanno, per conoscerli e per ascoltarli, invece di stare solo lì col dito puntato a sparare sentenze. E in quanto a matrimoni infelici, ultimamente tu sembra quasi che ci fai un favore ad onorarci con la tua presenza, che stai sempre o depressa o incazzata. Devi ringraziare che papà è un santo, perché non so come faccia ancora a sopportarti! Ma io non ti reggo più!”

 

Valentina girò sui tacchi, approfittando del suo shock momentaneo, dovuto a quelle parole, precise ed affilate come rasoi. Poi però l'incazzatura raggiunse livelli mai raggiunti prima e fece per seguirla, ma si sentì bloccare da Pietro, che la prese per un braccio.

 

“Pietro, lasciami," sibilò, pronta a fare un casino.

 

“Imma, per favore, cerca di-”

 

“Non dirmi di calmarmi, Pietro, che lo sai quanto mi fa incazzare e-”

 

“Dicevo, cerca di lasciarle un po’ di tempo per calmarsi. Poi gliene riparliamo e vedrai che-”

 

“E vedrai che i problemi magicamente si risolvono? Come la pagella che era andata abbastanza bene? Come hai potuto cercare di nascondermela?!” urlò, incurante di farsi sentire da Valentina, anzi forse volendo che sentisse e capisse quanto la cosa fosse inaccettabile.

 

“Perché sapevo che era già un periodo complicato per te, Imma, e non volevo farti preoccupare ulteriormente,” rispose Pietro, con un tono calmo, cercando di metterle una mano su una spalla, nonostante lei si ritraesse ed insistendo finché non ci riuscì, “ascolta, le ho già parlato io e ci è rimasta malissimo pure lei per la pagella e mi ha promesso che si impegnerà al massimo nel secondo quadrimestre. E ti prometto che le starò dietro, la mandiamo anche a ripetizioni, se serve, e la seguo di più io con lo studio finché non ha recuperato. Va bene?”

 

Non le sfuggì affatto come avesse del tutto glissato sulla parte di sfogo della figlia che riguardava il loro matrimonio. Ma forse era meglio così.

 

“Ma all’università come farà, Pietro? Non possiamo starle dietro a farle da balia. Sempre se la vuole fare poi l’università e non si butta in questa cosa del ristorante che, parliamoci chiaro, dove pensano di trovarli lei e Samuel i soldi per un ristorante? E lei con quale esperienza pensa di gestirlo, o crede davvero che sia come cucinare per me e per te? Ti rendi conto che vive nel mondo dei sogni, sì?!”

 

“E glielo faremo capire, Imma. Magari… magari quest’estate quando ha finito la scuola e dopo il viag-” si interruppe appena in tempo, vedendo il suo sopracciglio alzato, “insomma dopo la maturità le facciamo magari fare un’esperienza in un ristorante, così vede com’è. E pure Samuel ormai avrà capito come funziona: l’ho visto come sgobba a Bra, sa benissimo che non è semplice. E per l’università ci pensiamo: una cosa alla volta, amò. Ti fidi di me?”

 

E che poteva rispondergli? Una volta avrebbe detto sì, senza nemmeno pensarci. Ma dopo Cinzia… si fidava al 90%. E su Valentina… a volte era troppo permissivo, ma era pur vero che anche lei sentiva di avere parte delle colpe, se erano arrivati in queste condizioni a fine quadrimestre: presa dalla… relazione con Calogiuri aveva allentato la vigilanza su Valentina, un po’ per una stupida empatia per la sua situazione con Samuel, un po’ perché presa da altri pensieri, e questi erano i risultati.

 

Ma mo si cambiava registro.

 

“Diciamo che mi fido più di te che di me, Pietro, per quanto riguarda Valentina, almeno. Ma solo fino a prova contraria,” sospirò, anche se Valentina non era certo l’unico argomento su cui si sentiva tutt’altro che affidabile ultimamente.

 

Pietro sorrise, si sporse in avanti e la baciò.

 

Inizialmente pensò si sarebbe fermato lì, che fosse un semplice suggellare l’accordo avvenuto, ma poi le diede un altro bacio e le sussurrò all’orecchio, “che ne dici se ti aiuto a rilassarti un po’ io, ora?”

 

La trascinò in un terzo bacio, più lungo dei precedenti, ed il suo primo istinto fu quello di staccarsi, di dirgli chiaro e tondo che non era dell’umore adatto ed andarsene sì a letto, ma a tentare di dormire.

 

Ma due occhi azzurri le comparvero davanti agli occhi e poi lui appiccicato a Matarazzo.

 

E la furia le risalì in gola, rapida e devastante e si chiese perché. Perché non dovesse fare l’amore con suo marito, quando lui di sicuro non stava a pensare a lei, anzi, l’aveva già bella che scordata.

 

Forse perché non riesci più a provare niente con Pietro? - le suggerì la sua stessa voce, la stramaledetta Imma interiore che l’aveva cacciata in quella situazione, a furia di darle retta come la scema che era.

 

E quindi la ignorò e, per zittirla, afferrò il viso a Pietro e lo baciò con passione, con rabbia, quasi violentemente, tanto che lui si fece sfuggire un’esclamazione di sorpresa e barcollò indietro di qualche passo.

 

Se ne fregò del brivido che mancava, di ciò che non sentiva, volendo solo sfogarsi, sfogare tutto quello che le ribolliva dentro fino a rischiare di esplodere.

 

A tentoni arrivarono fino alla porta della camera, che richiuse con fin troppa irruenza alle sue spalle.

 

Buttò praticamente Pietro sul letto, che la guardò sorpreso da tanta foga, anche se poi un mezzo sorriso gli si dipinse sul volto, almeno finché non glielo levò, buttandosi sopra di lui in un altro bacio ed iniziando a spogliarlo.

 

Nella mente e davanti agli occhi aveva lui, lui con Matarazzo, e nel cuore e nella gola la furia ed un desiderio assurdo ed irrazionale di fargliela pagare.

 

E poi si immaginò a baciarlo. Che era lui che stava baciando, rabbiosamente, sfogando tutta la frustrazione ed il risentimento che sentiva dentro.

 

Che era lui che stava toccando, spogliando, sebbene fosse tutto sbagliato e le sue mani lo sapessero benissimo.

 

Che c’era lui sotto di lei, alla sua mercé, che erano suoi quei gemiti e poi quel… grido?

 

Gli occhi le si aprirono di colpo e si fissarono in due occhi azzurri, ma del colore e del taglio sbagliati, che la guardavano sconvolti, la fronte ancora corrugata in un’espressione di dolore.

 

Si staccò bruscamente da Pietro e notò il filo vermiglio che gli scendeva dal labbro inferiore e si sentì andare tutto il sangue alla faccia, realizzando di averglielo morso con fin troppa forza, in quell’impeto furibondo che l’aveva guidata, quasi come fosse un pilota automatico.

 

“Scusa, Pietro, scusami, ti ho fatto male?” sussurrò, mortificata, le mani che le tremavano, sentendosi uno schifo, per troppe ragioni che non avrebbe saputo elencare. Forse avrebbe fatto prima a spiegare quelle per le quali non si faceva schifo.

 

“Ma no, amò, tranquilla, figurati. Non so cosa ti è preso stasera, ma non mi dispiace vederti tanto passionale, anzi!” provò a rassicurarla, mettendole una mano sulla spalla, e finalmente Imma sentì sì un brivido, ma purtroppo non di piacere, “magari giusto un filino meno, ecco.”

 

“Scusa, Pietro…” ripetè, scrollandosi dal suo tocco e mettendosi in piedi, mentre lui la guardava sorpreso, tirando su il lenzuolo ed avvolgendocisi, prima di recuperare la camicia da notte dalla sedia.


“Amò, ma dove vai?” le chiese, confuso e sconvolto, ma lei non lo sentiva già più e corse in bagno, richiudendo la porta dietro di sé meglio che potè, le mani che ancora traballavano incontrollatamente. Crollò sul pavimento, mentre sul viso scorrevano lacrime che non riusciva più a contenere.

 

Era tutto sbagliato: lei era sbagliata, il suo matrimonio era in frantumi e incominciava a dubitare fortemente che potesse essere salvato.

 

Sicuramente, almeno dal punto di vista sessuale, era morto e sepolto, e di questo aveva ormai la certezza assoluta.

 

Ed era solo colpa sua.

 

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“Diana! Ho bisogno che mi aiuti a recuperare i fascicoli su-”

 

Si interruppe, non appena giunse all’altezza della porta che collegava i loro uffici e notò che quello della cancelliera era vuoto.

 

Sarà in ritardo? Strano! - pensò, accomodandosi alla scrivania.

 

Diana aveva tanti difetti ma su una cosa era sempre stata ligia: la puntualità la mattina. Con un sospiro, aprì il fascicolo sulla famiglia Tantalo da dove l’aveva lasciato e riprese con la lettura.

 

Ma, dopo un quarto d’ora, notando che la cancelliera ancora mancava, si preoccupò e prese il telefono.

 

Fu allora che notò un messaggio.

 

Ho chiesto due giorni di ferie a Vitali e me le ha concesse. E venerdì ho l’appuntamento dall'avvocato, quindi sarò in permesso. Ci vediamo lunedì, dottoressa.

 

Imma sospirò, sapendo benissimo che l’uso del titolo significava che Diana ce l’avesse con lei, e non poco, considerato che era la prima volta in tanti anni di servizio che si prendeva ferie senza consultarla. Anzi, che si prendeva ferie quando non era in ferie pure lei, salvo emergenze.

 

Aveva esagerato il giorno prima e se ne rendeva pure conto, a giudicare dalla fitta tremenda di colpevolezza che la prese dritto in pancia. Doveva trovare un modo di fare ammenda con lei il lunedì successivo. Ma l’assenza di Diana complicava ulteriormente il suo lavoro e sarebbe stata una settimana ancora più infernale di quanto già si prospettasse fino a pochi minuti prima.

 

Ma se lo era meritato, e sapeva benissimo anche questo.

 

Va bene, fammi sapere come va con l’avvocato e parliamo meglio lunedì. Goditi le ferie, che te le sei meritate.

Imma

 

Sperava che il messaggio ed il firmarsi con il nome di battesimo avrebbero rappresentato almeno un primo spiraglio di pace.

 

Ma Diana non rispose, non che si aspettasse una risposta, vista la situazione.

 

Con un sospiro, prese una matita per temperarla, in quello che era il secondo temperino cambiato in pochi mesi - roba che tra un po’ la ditta poteva assumerla come collaudatrice, se il maxiprocesso fosse andato male ed avesse avuto bisogno di un cambio di carriera - quando bussarono alla porta.

 

“Avanti!”

 

E, come invocato dal temperino, la cui magia funzionava a prescindere dal modello usato, sulla soglia comparve lui.

 

“Calogiuri.”

 

Il maresciallo entrò e richiuse la porta alle spalle, rimanendo però sempre a pochi centimetri da essa, neanche fosse in una situazione di emergenza in cui potesse essere necessario evacuare l’edificio da un momento all’altro. L’espressione era fredda, neutra, il “dottoressa!” apparentemente professionale.

 

“Avevi bisogno di qualcosa?” gli domandò con un sospiro, sentendo l’irritazione ricominciare a crescere, nonostante tutto, la mente che continuava a tornare a quella scena in PG: a Matarazzo attaccata al suo collo e lui con le mani sulle sue spalle, che si baciavano appassionatamente.

 

“Ho le informazioni sull’istruttore di tennis, come mi avevate chiesto ieri, dottoressa,” rispose, formalissimo, ma con una punta di stizza nella voce che non fece che alimentare i leoni che le ruggivano dentro, l’irritazione che già virava verso l’ira.

 

La verità era che degli ordini dati il giorno precedente a lui e a Matarazzo si era praticamente già scordata, sebbene Miss Sicilia il verbale glielo avesse consegnato puntuale.

 

“Allora accomodati, Calogiuri, non stare lì impalato a reggere la porta,” lo invitò, non potendo contenere il sarcasmo nella voce, anche se da un lato avrebbe preferito tenerlo a distanza, ma doversi parlare in quel modo per un periodo prolungato sarebbe stato ridicolo.

 

“Ai comandi, dottoressa,” rispose, altrettanto sarcastico, prendendo posto in una delle sedie davanti alla scrivania, dritto ed impettito che neanche al banco dei testimoni.

 

“La signora Diana non c’è?” le chiese, notando l’ufficio sguarnito della cancelliera, mentre lo vide deglutire e sembrare improvvisamente quasi a disagio.

 

“In ferie e permesso fino a lunedì,” spiegò con un altro sospiro, prima di tagliare corto, “allora, che informazioni hai su questo Davidson?”

 

“Celibe, 25 anni, originario di Northampton, giovane promessa del tennis, da adolescente viene notato da un celebre allenatore che ha portato diversi suoi talenti a Wimbledon e a scalare i ranking mondiali. A diciotto anni subisce un brutto infortunio ad una spalla, in seguito ad un incidente d’auto, ed è costretto a ritirarsi dall’agonismo. Studia l’equivalente di scienze motorie all’università di Birmingham. Viene in Erasmus a Matera e decide di trasferirsi per terminare qui gli studi. Inizia a lavorare come istruttore al circolo di tennis e-”

 

“Calogiuri, ma che m’importa del ranking di tennis!” lo interruppe, alzando gli occhi al soffitto di fronte a quella fiumana di informazioni ripetute a macchinetta, senza quasi prendere fiato, “ma che mi stai dicendo?”

 

“Siete voi che mi avete detto che volevate sapere vita, morte e miracoli su questo Davidson, se-”

 

“Cose tipo lavori svolti qui in Italia e all’estero, precedenti, cose utili, Calogiuri, non se c’ha avuto il gomito del tennista!” esclamò, tagliente, prima di scuotere il capo, “eddai, su, Calogiuri, c’hai qualcosa di utile o no?”

 

“Qui in Italia ha lavorato solo al circolo di tennis. Non ha precedenti, tranne una denuncia per schiamazzi notturni durante il periodo dell’università qui a Matera ed una in Inghilterra per guida in stato di ebbrezza, in occasione appunto dell’incidente che ha causato il famoso infortunio e-”

 

“E quindi ha precedenti, Calogiuri. Minori ma pur sempre precedenti sono,” lo interruppe nuovamente, notando il maresciallo serrare la mascella, stringere le spalle e lanciarle un’occhiataccia, ma ciò non fece altro che peggiorare ulteriormente quella furia che le covava dentro, “relazioni sentimentali conosciute?”

 

“Dai profili social, una compagna di università in Inghilterra, ma non compare nelle foto da più di due anni a questa parte. Qui in Italia varie foto in gruppo con ragazze, in occasione di alcune serate in discoteca, ma nulla che balzi all’occhio. Negli ultimi mesi comunque la sua attività social è molto diminuita e parrebbe aver ridotto al minimo le foto, soprattutto niente più immagini in discoteca o comunque a feste. Foto principalmente di lui e del suo lavoro.”

 

“Da quanti mesi, Calogiuri? Sii preciso,” lo incalzò, sospirando rumorosamente, e vide Calogiuri serrare gli occhi e la bocca e prendere un lungo respiro, prima di risponderle.

 

“Da maggio, dottoressa, più o meno.”

 

“Dunque, la Miulli muore a marzo e, un paio di mesi dopo, improvvisamente la vita social di questo Davidson cambia. Magari perché nel frattempo la Tantalo ha deciso di farla pagare al marito e consolarsi pure lei con un amante?” ipotizzò, provando un improvviso ed assurdo moto di empatia per la Tantalo, proprio lei nella sua posizione poi, proseguendo, con un sarcastico, “vedi perché è importante essere precisi, Calogiuri?”

 

“Sì, dottoressa. Volete sapere altro?” domandò, con l’aria di chi si stava trattenendo a fatica dal mandarla a quel paese e non vedeva l’ora di levarsi di lì.

 

“Che mi dici dei movimenti economici di Davidson? Non dirmi che te li sei dimenticati, Calogiuri!”

 

“No, dottoressa. Ma non ho ancora ricevuto i dettagli dalla banca, avendone fatta richiesta solo ieri. L’unica cosa degna di nota è che da qualche mese, a ottobre per la precisione,” sottolineò, con un’altra punta di sarcasmo, consultando il taccuino, “ha acquistato un’auto sportiva del valore di quasi cinquantamila euro.”

 

“Mi pare una bella cifra per un istruttore di tennis, per quanto di un circolo snob quanto quello. Dovremo attendere i movimenti bancari. Sollecitali subito! E, una volta che li abbiamo, gli andiamo a parlare.”

 

“Sì, dottoressa, c’è altro?”

 

“Dovresti sapermelo dire tu se c’è altro, Calogiuri. C’è altro?”

 

“No, dottoressa,” rispose dopo un attimo di pausa ed aver preso un altro respiro, facendo per andarsene ma poi cambiando idea e voltandosi ad affrontarla, uno sguardo furente come raramente glielo aveva mai visto, appoggiando le mani alla scrivania e sporgendosi verso di lei, “anzi, sì, c’è altro. C’è che non capisco che cosa vuoi da me.”

 

Di riflesso, si tirò in piedi a sua volta e si sbilanciò in avanti, faccia a faccia, incazzata come raramente in vita sua, ancora di più quando lo sentì passare al tu, sebbene ciò le provocasse anche uno strano brivido lungo la schiena.

 

“Che cosa voglio da te?! Niente, Calogiuri, se non che tu faccia il tuo mestiere come so che lo sai fare e che rispetti il regolamento di servizio, magari, se non ti è di troppo disturbo.”

 

“E mo ti preoccupi del regolamento di servizio? Mo?! Lo sappiamo benissimo tutti e due che qui il regolamento non c’entra niente. Se al posto mio ieri ci fosse stato Capozza, oggi lo tratteresti in questo modo?”

 

“Io Capozza lo tratto pure peggio, Calogiuri,” rispose, dopo un attimo di esitazione, perché la verità era che, a parte dispiacerle per Diana - o forse congratularsi che l’amica si potesse trovare finalmente un uomo più intelligente, avvenente, meno maschilista ed, in generale, più alla sua altezza di Capozza - se lo avesse beccato con Miss Sicilia quasi gli avrebbe fatto le congratulazioni per averla, non si sa come, irretita in quel modo. Roba da chiedergli il segreto inspiegabile del suo successo con le donne e poi brevettarlo.

 

“Ma da sempre. Non per il regolamento di servizio. E hai un bel coraggio a prendertela in questo modo quando sei stata tu a dirmi che mi dovevo trovare un’altra, per il mio bene. Ma se ci provo, reagisci così. Ma non è certo una novità, che non sai quello che vuoi.”

 

“E perché, tu lo sai quello che vuoi, Calogiuri? Soltanto tre settimane fa sostenevi di volere solo me e nel giro di così poco tempo ti sei già consolato. Una ripresa da record, complimenti!” sputò fuori, non riuscendo più a trattenersi, la collera che raggiunse picchi mai toccati prima con lui, i leoni che ormai più che ruggire cercavano di sbanarsi vicendevolmente.

 

“Almeno non mi facevo consolare ogni sera da mio marito, io.”

 

Fu come una secchiata d’acqua gelida addosso, come se fosse stata punta da uno spillo e tutta l’incazzatura si fosse sgonfiata di botto come un palloncino.

 

Ma che cosa sto facendo? - si chiese, vergognandosi di se stessa, di non riuscire a controllarsi, di avergli fatto una scenata del genere quando lui aveva tutte le ragioni del mondo ed era lei ad essere in torto marcio, e lo sapeva.

 

Dopo averla fulminata con un’occhiata che avrebbe rivaleggiato perfino con le sue, e che le causò un’altra ondata di imbarazzo e di senso di colpa, Calogiuri girò sui tacchi, camminò a passo quasi marziale fino alla porta e la richiuse dietro di sé con forza, i cardini ormai provati dalle ultime settimane che protestarono con un cigolio.

 

Si lasciò cadere sulla sedia, maledicendosi quando sentì le guance farsi nuovamente bagnate, maledicendosi per la sua debolezza, per la sua mancanza di autocontrollo, per aver perso la lucidità, la professionalità, la razionalità che l’avevano sempre contraddistinta sul lavoro.

 

Ma del resto, quando si trattava di lui, era da mo che si erano volatilizzate, se mai c’erano state del tutto.

 

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“Ehi, maresciallo! Allora, stasera sei libero finalmente o no?”

 

Jessica! - sospirò, voltandosi e vedendola raggiungerlo appena fuori dalla procura, con un sorriso smagliante.

 

Il giorno prima non ce l’aveva fatta a parlarle e la sera si sentiva troppo stremato per affrontare un discorso del genere.


Ma il momento era arrivato e non poteva più rimandare, non sarebbe stato giusto continuare a illuderla di un qualcosa che non c’era e non ci sarebbe stato mai.

 

“S- sì, ci facciamo due passi?” propose, perché di sicuro nel suo appartamento non la voleva portare ed in caserma non era proprio il caso.

 

“E dove mi porteresti di bello?” gli chiese con un sorriso malizioso, avvicinandosi ulteriormente e prendendolo a braccetto, di fronte alle guardie che li guardarono con un’espressione vagamente stupita.

 

“Per intanto camminiamo, poi-” provò a dire, ma le parole gli morirono in gola quando il portoncino della procura si spalancò nuovamente e ne uscì lei.

 

Che si fermò bruscamente sui suoi passi e poi i loro sguardi si incontrarono per un attimo, prima che lei abbassasse il capo e sembrò fissare il punto in cui il braccio di Jessica incrociava il suo.

 

Si irrigidì senza volerlo e sentì Jessica, per qualche strana ragione, appoggiarglisi ancora di più al fianco, forse perché spaventata.

 

“Dottoressa,” la udì salutare e lui si affrettò ad unirsi al saluto, sebbene volesse essere ovunque tranne lì e soprattutto con chiunque tranne che con Matarazzo, nonostante il modo in cui lei lo aveva fatto infuriare quel giorno nel suo ufficio, con quella specie di scenata di gelosia.

 

“Calogiuri, Matarazzo,” li salutò di rimando, sembrando esitare un attimo, prima di avvicinarsi, guardandolo dritto negli occhi. Non potè evitare di ricambiare, sentendo uno strano tipo di disagio: un misto di rimpianto, rancore e quel senso di colpa che non aveva senso di esistere.

 

“Siamo fuori servizio, dottoressa,” intervenne Jessica al posto suo ed Imma le rivolse un’occhiata raggelante.

 

Stava preparandosi mentalmente ad un’altra lavata di capo, quando Imma prese un respiro e si voltò nuovamente verso di lui, ignorando apparentemente la provocazione di Jessica, almeno fino a proclamare, con un tono stranamente calmo e neutro, per i suoi standard, “l’ora la so leggere, Matarazzo. Ed infatti non vi ho detto niente, mi pare, no?”

 

Rimase sbigottito, non capendo a che gioco stesse giocando, completamente spiazzato, almeno fino a quando, senza mai interrompere il contatto visivo, prese un altro respiro ed aggiunse, “come vi ho già detto, fuori dal lavoro ovviamente siete liberi di fare quello che volete, per carità. E… e ammetto che ho un po’ esagerato nella mia reazione, ma la procura può essere un ambiente tremendo quando iniziano a girare certe voci, e potreste rischiare guai disciplinari. Quindi vi invito nuovamente ad un atteggiamento più prudente e a riservare certe… effusioni per quando non state in servizio, come adesso appunto. Buona serata.”

 

La bocca spalancata dallo stupore, gli occhi che improvvisamente parevano trafitti da spilli, la vide voltarsi ed allontanarsi con il suo solito passo da bersagliere, nonostante i tacchi vertiginosi degli stivaletti.

 

Si è… si è scusata? - pensò, incredulo, perché Imma non si scusava quasi mai, neanche sotto tortura. E che lo avesse fatto per lui - perché lui guardava e non Jessica - era….

 

Per un attimo fu tentato di piantare lì Jessica e di seguirla, di parlarle, ma subito dopo realizzò che lei stava pur sempre tornando a casa.

 

Da suo marito.

 

La commozione svanì, sostituita da quella strana fitta di dolore e rancore che provava sempre quando era in sua presenza. Ma il rancore si era di molto affievolito, rispetto ai giorni precedenti, lasciando spazio a quella specie di senso di vuoto, di mancanza.

 

“Allora, dove mi porti?”

 

La voce divertita ma un po’ impaziente di Jessica lo fece tornare alla realtà e, scuotendo il capo, si limitò a risponderle con un “vieni con me.”

 

“Agli ordini, maresciallo!” esclamò, ironica, stringendosi ancora di più al suo braccio e la sensazione di fastidio tornò prepotente, insieme a quella di soffocamento.

 

Più veloce che riusciva, considerata la posizione in cui erano, giunse con lei ad un parco lì vicino, semideserto a quell’ora di sera, nel gelo di fine febbraio, il sole ormai tramontato che lasciava gli ultimi sprazzi di luce, in un mondo già in penombra.

 

“Come mai mi hai portata qui? Ci sono posti più comodi di una panchina, lo sai?” lo punzecchiò Jessica, sedendosi comunque accanto a lui, sempre mezza abbracciata.

 

“Jessica, ascoltami, dobbiamo parlare,” esordì, prendendo un respiro che lo gelò fino nei polmoni, mentre lei lo guardava stupita e un po’ confusa, “ascoltami, io non ti voglio prendere in giro, non voglio farti soffrire e quindi voglio essere sincero con te. Tu sei una ragazza eccezionale e quello che ti ho detto l’altra sera al pub, io lo penso veramente ma… ma io… io mi sono reso conto di avere in testa e nel cuore un’altra persona e se continuassi un… un rapporto con te non sarebbe onesto innanzitutto nei tuoi confronti.”

 

“E questa che sarebbe? Una variazione del non sei tu ma sono io, eh, maresciallo?!” sibilò Jessica, staccandosi bruscamente da lui e guardandolo con perfino più disprezzo di quello che gli aveva riservato dopo la storia di Lolita, “e quand’è che te ne saresti accorto di avere un’altra nella testa e nel cuore - per non dire in quali altri posti? Subito dopo che mi hai portata a letto, magari?”

 

“Jessica… lo so che mi sono comportato malissimo e se sei arrabbiata con me hai tutte le ragioni del mondo ma… ma non posso decidere quello che sento e non sento e… e nei confronti di chi lo sento. Lo capisci?” le chiese, sperando che potesse capirlo, anche se sapeva benissimo che sarebbe stato pretendere troppo.

 

“Io capisco solo che sei uno stronzo! E scema io che mi sono di nuovo fidata di te, dopo tutto quello che hai combinato con quella… con quella specie di escort, sempre per non dire altro!” gridò, incazzata come non l’aveva mai vista, prima di aggiungere, in un altro sibilo, “e chi sarebbe questa nuova tizia, eh? Chi sarebbe? Almeno questo ho il diritto di saperlo, penso!”

 

“Non ha importanza chi sia e-”

 

“E allora è qualcuna che conosco, eh? Magari qualcuna che sta in procura?” dedusse, scatenandogli un moto di panico.

 

Jessica non era scema, tutt’altro… e se avesse mai capito tutto… non ci poteva nemmeno pensare!

 

“Ma anche se lo sapessi, che ti cambierebbe? Non è colpa sua in ogni caso, no? La colpa è mia e solo mia!” provò a svicolare, tirandosi in piedi, sebbene potesse sembrare una fuga vigliacca - e forse lo era - ma non voleva rischiare di proseguire quella conversazione.

 

“E infatti la colpa è tua! E questa me la paghi, Calogiuri, quanto è vero che mi chiamo Jessica Matarazzo!” proclamò, alzandosi a sua volta e puntandogli un dito contro al petto, per poi alzare una mano, quasi come a volergli tirare uno schiaffo, richiuderla in un pugno e, con un’ultima occhiata di disprezzo, girare sui tacchi e camminare a passo deciso verso l’uscita del parco.

 

Si sentì diviso tra un profondo senso di sollievo ed un’ansia latente, all’idea di che cosa potesse combinare Jessica.

 

Sperava soltanto di non coinvolgere lei, perché, al di là di tutto, non si meritava di finire nei guai per un casino che aveva combinato lui e solo lui. Perché la fiducia che gli aveva dato non l’avrebbe tradita mai.

 

Si sarebbe fatto ammazzare, piuttosto.

 

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“Valentina sta ancora in sciopero della fame?”

 

“Sì… però ha studiato oggi, Imma, ho ripassato greco con lei. E domani ha la prima ripetizione: vedrai che in poco tempo tornerà ai livelli dell’anno scorso.”

 

“Lo spero…” sospirò, cercando di addentare un’altra forchettata di pasta, nonostante pure lei avesse lo stomaco nuovamente in sciopero.

 

Perché continuava a visualizzare Calogiuri a braccetto con Matarazzo, davanti alla procura. E le toccava ammettere che esteticamente facevano proprio una bella coppia: una di quelle coppie che trovi nelle cornici nuove, da pubblicità. Anche se lui era troppo per lei, che era sveglia, sì, ma non intelligente quanto lui e soprattutto non buona d’animo quanto lui.

 

Perché tu lo saresti, Imma?

 

No, non lo era, ed infatti nemmeno lei Calogiuri se lo era mai meritato e lo sapeva benissimo. Ma l’idea di averlo lasciato nelle grinfie di Matarazzo e di quei suoi sorrisetti vittoriosi, neanche lui fosse stato una specie di trofeo conquistato, le faceva male e non era solo la gelosia a parlare.

 

Ma si sarebbe morsa la lingua ed avrebbe cercato di comportarsi in modo civile e professionale, da quel momento in poi, perché questo almeno a Calogiuri glielo doveva, dopo tutto il male che gli aveva fatto.

 

Anche se immaginarselo con lei le faceva un male cane e non poteva evitare di chiedersi cosa stessero facendo in quel momento e-

 

E che vuoi che stiano facendo, Imma?

 

L’immagine mentale che ne scaturì le causò un altro moto di nausea, ma lo ricacciò indietro, cercando di pensare ad altro, perché era in fondo, di nuovo, ciò che si meritava, dopo tutti quei mesi in cui-

 

Ogni sera tornavi a casa a farti consolare da tuo marito! - la voce di Calogiuri, accusatoria, aspra ed amara la inchiodò alle sue responsabilità. E, anche se lei da Pietro non riusciva proprio più a farsi consolare, e non ci era riuscita per tutti i mesi precedenti, Calogiuri aveva comunque dovuto sopportare l’insopportabile e questo era un dato di fatto.

 

“Amò, non hai più fame?” la voce di Pietro per poco le fece fare un salto sulla sedia.

 

“No, Piè, mi dispiace. Davvero è buonissima ma ho mangiato abbastanza,” ammise, sforzandosi di prendere un’ultima forchettata e lasciando il resto nel piatto.

 

“E allora che ne diresti se passassimo direttamente al dolce?” le sussurrò in un orecchio, scoccandole un bacio sulla guancia, per poi aggiungere, sfiorandosi il labbro, “come vedi il danno è quasi sparito, non è successo niente, tranquilla.”

 

“Pietro… ascolta io…” provò ad esordire, ma si rese poi conto che non era un discorso da fare in salotto, dove Valentina poteva sentire, quindi gli prese una mano, e gli disse, “vieni con me.”

 

Pietro sorrise, malizioso, probabilmente pregustando già il dessert, come lo chiamava lui, ignaro che stava per ricevere un bel digestivo, invece, di quelli amari, amarissimi.

 

Ma Imma ci aveva ragionato e aveva deciso che non voleva né insultare l’intelligenza di suo marito ricominciando ad addurre scuse cretine per svicolare dal contatto fisico, né doverlo allo stesso tempo subire per paura di fargli male.

 

Tanto gliene avrebbe fatto in ogni caso e, a quel punto, meglio essere sinceri, per quanto le fosse possibile.

 

Non appena la porta della camera da letto si richiuse alle loro spalle, Pietro di nuovo provò a baciarla, ma lei lo bloccò, poggiandogli le mani sul petto e facendo un passo indietro.

 

“Che vuoi fare Imma? Hai altre idee per stasera?” chiese, con un altro di quei sorrisi, non avendo ancora compreso e probabilmente pensando lei volesse fare qualche giochetto dei loro, quando le cose ancora funzionavano e lei si prendeva il controllo e lui glielo lasciava fare.

 

“Non solo per stasera in realtà, Pietro… siediti, per favore, dobbiamo parlare,” si affrettò a specificare, vedendolo iniziare a slacciare il colletto della camicia, le dita che gli si fermarono di botto, mentre uno sguardo preoccupato gli comparve sul viso.

 

Prese un respiro e si sedette accanto a lui, fissandosi le mani perché non riusciva a guardarlo negli occhi e a dire quello che stava per dire, “ascoltami, Pietro, io ci ho provato, veramente, ma… ma non ci riesco. Non riesco più a provare questo tipo di trasporto nei tuoi confronti e… e lo so che non è giusto e che tu hai tutto il diritto di avere certi impulsi. E mi sento davvero in colpa nei tuoi confronti per questo ma… ma non ci riesco e non posso forzarmi oltre o farei solo peggio.”

 

Pietro passò dallo spaventato, al sollevato, ad uno sguardo di panico, “ma quindi… ma quindi il morso di ieri era… era perché ti ho fatto male?”

 

“No, no! Pietro, ma no! Assolutamente no! Tu non mi hai fatto niente di male, mai, davvero!” si affrettò a rassicurarlo, vedendo gli occhi farglisi lucidi e sentendosi una merda, posandogli una mano su un braccio, “sono io che mi sono… che mi sono forzata, ma… ma tu sei stato sempre rispettoso… mi hai aspettata quattro mesi e… e lo so che è stato difficile per te. Non è colpa tua.”

 

“Ma allora perché… cioè… che ti succede, Imma? Nel senso… lo so che… che dopo tanti anni di matrimonio può essere normale che… che la passione se ne vada, ma tra noi ha sempre funzionato tutto così bene. Ma è per Cinzia?”

 

“No… è… è complicato, Pietro. Ma è così e basta e… e spero che magari sia solo un periodo. Ma, arrivati a questo punto, potrebbe anche non essere solo un periodo. E… e mi rendo conto che questo sia un problema enorme per te e per il nostro matrimonio e io-”

 

“Imma,” la bloccò, deciso, posando una mano sulla sua, che ancora gli afferrava il braccio, “il nostro matrimonio non è solo questo, no? Il nostro rapporto non è solo questo. E certo che ti desidero, ma la cosa che desidero di più non è il tuo corpo, ma questo.”

 

Sentì l’altra mano toccarle con delicatezza il petto, all’altezza del cuore e le scappò un singhiozzo, mentre le lacrime le scendevano sulle guance, quel senso di schifo e di odio verso se stessa che aumentava sempre di più.

 

“A me basta stare bene con te, insieme, condividere la vita con te, Imma, le giornate, quello che ti passa per la testa. Anche solo non fare niente ma stare bene insieme a te, l’uno accanto all’altra. Il resto se tornerà ne sarò felice e se no… affronteremo il problema come abbiamo sempre affrontato i problemi nel nostro matrimonio. Io non ti voglio perdere, Imma,” sussurrò, con un dolore nella voce semplicemente straziante.

 

Imma se lo abbracciò, perché era l’unica cosa che poteva fare. Perché avrebbe voluto rassicurarlo, promettergli che non l’avrebbe persa, ma non poteva. Perché, indipendentemente dal rapporto ormai finito con Calogiuri e sebbene lei e Pietro stessero ancora insieme, di fatto, sotto un sacco di punti di vista, e non solo quello fisico, l’aveva già persa, si erano già persi. Perché tutto quello che Pietro voleva dal loro rapporto lei negli ultimi mesi l’aveva avuto, sì, ma con un altro uomo.

 

Tutto questo la portava a dubitare sempre di più che si sarebbero mai potuti ritrovare, per quanto ci si sforzasse, per quanto ci stesse provando e ci avrebbe provato, con tutte le sue forze.


E questa consapevolezza la lasciava con il peso e la responsabilità enorme di decidere, qualora il dubbio fosse diventato certezza, cosa fosse più giusto fare, per tutti.

 

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Aveva un mal di testa tremendo, che dalla base della nuca le si irradiava per tutto il cranio.

 

Forse per il poco sonno - era sempre più vicina a cedere a farsi prescrivere dei sonniferi - forse per tutto quello da cui derivava il poco sonno.

 

Ma, qualunque fosse la causa, non riusciva a concentrarsi e decise di provare ad andare in bagno a sciacquarsi il viso, sperando fosse di qualche sollievo, prima di prendere un analgesico.

 

Aprì la porta ed un suono acuto e fastidiosissimo, come una specie di mugolio, le trafisse il cranio da parte a parte, facendola quasi sbandare.

 

Chiedendosi chi fosse che le volesse talmente male - l’elenco in procura era infinito, forse faceva prima a dire chi non le volesse male - alzò gli occhi e persino il dolore si attutì rispetto allo stupore per la scena che le si presentò davanti agli occhi.

 

Matarazzo abbracciata alla Mele, un’agente biondina ed occhialuta con cui Imma aveva interagito poche volte, essendo la cocca di Diodato, che se la portava sempre appresso, manco fosse la sua segretaria personale. Anche se, ovviamente, le voci su Diodato e la biondina non erano nemmeno lontanamente paragonabili a quelle su lei e Calogiuri, perché la parità dei sessi nel Belpaese era ancora un’utopia. E, se nel suo caso, era lei la vecchia racchia ed approfittatrice, nel caso della Mele ovviamente era l’agente ad essere quella disposta a tutto per la carriera, e non Diodato ad essere un vecchio bavoso, sempre per la fantastica parità dei sessi.

 

Ma, la cosa più sconvolgente fu notare che era proprio Matarazzo ad emettere quei miagolii insopportabili, a giudicare dal volto bagnato di lacrime, il mascara che le era colato sulle guance, rigandolo di nero.

 

Non capiva molto bene che stesse blaterando Miss Sicilia, finché un nome, in mezzo alle lamentazioni, le fece venire un tuffo al cuore.


Calogiuri.

 

Seguito da mugugni confusi che però avevano tutta l’aria di essere degli insulti irripetibili.

 

Proprio in quel momento, la porta del bagno si richiuse dietro di lei in automatico, con un tonfo, e le due agenti si voltarono verso di lei, sorprese, Mele che sembrava pure un po’ spaventata.

 

Matarazzo inizialmente parve quasi paralizzata, ma poi iniziò a piangere più forte di prima, e a quel punto Imma seppe, con un sospiro, di non poter fare finta di niente e uscire da lì.

 

E poi sei curiosa di sapere perché Matarazzo piange e che c’entra Calogiuri. Non è vero, Imma? Curiosa o speranzosa? - sottolineò la Moliterni, prendendo nuovamente il microfono della sua coscienza.

 

“Che succede qui? Matarazzo, si sente poco bene?” chiese, prendendola alla larga, perché non poteva certo ammettere di avere già origliato parte della conversazione - o almeno averci provato.

 

“Poco bene?! Poco bene?! Altro che poco bene, dottoressa! Quello stronzo! Ma me la paga, ah, se me la paga!” pianse più forte Matarazzo, diventando però finalmente un poco più comprensibile.

 

“Matarazzo, senta, siamo in servizio, quindi cerchi di moderare il linguaggio, per favore, sebbene comprendo che sia sconvolta. Ma di che sta parlando?” domandò, l’irritazione che già le iniziava a salire, perché, va bene tutto, va bene che magari non le dispiacesse esattamente che ci fossero problemi tra Miss Sicilia e il maresciallo, ma dare dello stronzo al suo Calogiuri, il ragazzo più buono che avesse mai conosciuto in vita sua, proprio no.

 

“Del maresciallo! E sentiamo, dottoressa, lei come lo definirebbe uno che prima ti porta a letto e poi ti pianta dall’oggi al domani, arrivederci e grazie, perché si è già trovato un’altra?”

 

“Un’altra?!” esclamò, ripetendo il primo fatto su cui il suo cervello e il suo cuore si erano concentrati, facendole un altro tonfo nel petto, prima che il resto delle informazioni sconvolgenti filtrassero e sedimentassero, con una fitta di dolore, di delusione e di incredulità.

 

Non avrebbe saputo dire cosa fosse peggio: se immaginarselo a letto con Matarazzo, se pensare che il suo Calogiuri, sempre così rispettoso, timido, gentile, potesse essere tipo da una botta e via - e che potesse essere tanto scemo da farlo proprio con una collega, oltretutto - o se immaginare che avesse addirittura già un’altra.

 

Altro che consolarsi, Imma! Questo si sta dando alla pazza gioia! - le ricordò la voce della Moliterni, pungente come sempre.

 

“Sì, un’altra!! In tre giorni. Usa e getta praticamente. E bravo il maresciallo, eh, con quella faccetta d’angelo? Ma lo sapevo, lo dovevo sapere: quelli che sembrano tanto buoni e tranquilli, alla fine sono sempre i più stronzi!” gridò, prima di scoppiare di nuovo a piangere.

 

Imma alzò gli occhi al soffitto, chiuse gli occhi e prese un respiro, perché avrebbe voluto piangere pure lei, per mille motivi, ma dubitava che Matarazzo avrebbe trovato credibile che fosse per un moto improvviso di empatia nei suoi confronti.

 

Anche se una certa empatia, nonostante quelle maledette occhiate di sfida degli ultimi giorni, la ragazza gliela suscitava sul serio. E questo doveva proprio essere uno dei segni dell’apocalisse.

 

“Matarazzo, mi ascolti. Io capisco che lei sia sconvolta e mi dispiace per lei e per la sua situazione personale. Ma qui siamo sul lavoro, questo è un ufficio pubblico, lei è un pubblico ufficiale ed è in servizio, siete in servizio entrambe, quindi non potete rimanere chiuse qui ancora a lungo,” provò ad abbozzare e vide l’occhiata indignata di Jessica ma bloccò ogni protesta con una mano alzata, “se lei oggi non è in grado di svolgere il suo lavoro, per motivazioni comprensibili, le suggerisco di chiedere una giornata di permesso, tornarsene in caserma o in un luogo dove si possa sfogare liberamente e rientrare al lavoro quando si sarà sufficientemente ripresa.”

 

“Ma… ma…”

 

“Se vuole vado a riferire a Vitali che si è sentita poco bene e ha preferito prendersi il resto del giorno libero, se non vuole farsi vedere da lui in queste condizioni,” si offrì, non sapendo nemmeno lei perché lo stesse facendo ed immaginando la faccia di Vitali di fronte alla seconda richiesta di quel genere da parte sua nel giro di poche settimane.

 

Per Miss Sicilia oltretutto.

 

Doveva proprio essere impazzita.

 

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“Avanti!”

 

Il mal di testa le dava un po’ di tregua, finalmente, grazie all’analgesico, quello al cuore, invece… lasciamo perdere. Ma stava cercando di concentrarsi sul maledetto fascicolo sui Tantalo, se non la interrompevano ogni cinque minuti.

 

“Dottoressa.”

 

La voce di lui non fece che peggiorare la situazione ed alzò gli occhi, vedendolo sulla porta, un’espressione neutra sul volto.

 

“Dimmi, Calogiuri.”

 

“Ho avuto i risultati dei movimenti bancari di Davidson. A quanto pare a ottobre ha ricevuto un bonifico di diecimila euro, con il quale ha poi pagato l’acconto dell’automobile. E due bonifici da ventimila euro ciascuno, uno a novembre e uno a dicembre, con i quali ha pagato il saldo. A gennaio ancora un versamento di altri ventimila euro e a febbraio uno di trentamila euro.”

 

“Centomila euro, Calogiuri? Una bella cifra! E da chi verrebbero i bonifici?” gli domandò, sforzandosi di mordersi la lingua e concentrarsi prima di tutto sulle indagini.

 

“Da una società con sede a Panama, apparentemente. E di conseguenza, purtroppo, sarà molto difficile rintracciarne la reale provenienza. La causale del bonifico parla di un compenso per un torneo di tennis.”

 

“Un torneo di tennis da centomila euro? Mi sembra una cifra eccessiva per un torneo da dilettanti, perché questo è considerato Davidson, o sbaglio?”

 

“No, dottoressa, non sbagliate. Ho provato a fare ricerche di tornei di tennis a Panama, ma è come cercare un ago in un pagliaio. In ogni caso non ho trovato articoli che menzionino Davidson o una vincita. Davidson però a Panama c’è stato davvero, la scorsa estate, ad agosto, ho verificato.”


“Quindi, potrebbe realmente aver partecipato a questo fantomatico torneo. Oppure potrebbe essere solo una copertura per un altro tipo di viaggio.”


“Che intendete dire?” domandò Calogiuri, confuso, prima di aggiungere, “pensate al traffico di droga?”

 

“O al traffico di qualcosa - a Panama gira di tutto Calogiuri - ma in quel caso mi pare strano che ti mandino un bonifico e non trovino altri modi di farti avere soldi dai… clienti finali qui in Italia. O magari il viaggio è stato organizzato per qualche altro scopo e per creare una copertura a Davidson per il compenso che avrebbe ricevuto in seguito. Dobbiamo scoprire cosa ha fatto a Panama, anche se sarà molto difficile. O se qualcuna delle altre persone coinvolte in questo caso ha legami con Panama. Dobbiamo controllare i movimenti bancari della famiglia Tantalo e di Lombardi. E gli spostamenti ad agosto, sia loro, sia degli altri coinvolti in questo caso.”

 

“D’accordo, dottoressa. Con Davidson volete che ci vada a parlare ora? O volete venire anche voi?” offrì, con un tono stranamente più neutro di quello usato negli ultimi giorni, senza quella nota sprezzante latente.


Forse le scuse del giorno prima erano servite a qualcosa, anche se in quel momento si pentiva amaramente di avergliele fatte.

 

Altro che le scuse si meritava!

 

“No, Calogiuri, meglio andarci una volta che abbiamo più informazioni. Non voglio rischiare che si accorga troppo presto di essere indagato e di bruciarci l’effetto sorpresa. E, in ogni caso, vorrei che ti accomodassi, perché dobbiamo parlare.”

 

“E di cosa, dottoressa?” le domandò, confuso, prendendo però posto come gli era stato chiesto, sebbene notò un lampo di disagio e un’espressione quasi di dolore passargli negli occhi.

 

Si chiese se stesse pensando anche lui all’ultima volta nella quale, in quella stessa posizione, gli aveva detto che dovevano parlare e poi… e poi lo aveva lasciato andare.

 

Ma non perché iniziasse a comportarsi come una specie di assatanato!

 

“Senti, Calogiuri,” esordì, alzandosi in piedi, per darsi il vantaggio dell’altezza, sporgendosi in avanti sulla scrivania “mi vuoi spiegare a che gioco stai giocando?”

 

“In che senso?”

 

“In che senso? Nel senso che… che meno male che ero io quella che non sapeva ciò che voleva!” proclamò, sarcastica, bloccandolo con un cenno della mano, prima che ribattesse o si alzasse in piedi, “per carità, ho esagerato ieri, è vero, e mi sono pure scusata ma… ma tu ti stai comportando in un modo che… che non è da te, Calogiuri. Matarazzo mi ha detto che l'hai già piantata per un’altra: mi è toccato pure consolarla nel bagno delle donne mentre piangeva disperata per colpa tua!”

 

“Io… mi dispiace io…” provò a balbettare, l’aria mortificata che, invece, almeno per un attimo, sembrava di nuovo quella del timido ragazzo di Grottaminarda.

 

Peccato che di quel ragazzo fosse rimasta giusto quella.

 

“Non devi dispiacerti per me o per Matarazzo, ma per te, Calogiuri! Ma ti rendi conto che Matarazzo è una collega, che tu le sei superiore in grado e di che cosa ti può capitare se decide di fartela pagare e denunciarti? Di che succede alle tue prospettive di carriera se ti fai una certa nomea?” esclamò, girando intorno alla scrivania per poggiarsi allo schienale dell’altra sedia, posta di fronte a lui e aggiungere, dopo un sospiro, perché il solo pronunciare quelle parole le faceva malissimo, “per carità… è vero, tu sei libero di andare con chi vuoi. Ma… se… se proprio vuoi darti alla pazza gioia e saltare da una donna all’altra, proprio con una che lavora qui lo dovevi fare?”

 

“Ma certo che me ne rendo conto!” ribattè, deciso, sebbene sembrasse ancora un po’, imbarazzato, contravvenendo all’ordine e tirandosi a sua volta in piedi, “me ne rendo conto eccome, ma non-”

 

“E quindi immagino e spero che questa… nuova fiamma per cui hai lasciato Matarazzo non stia in procura?” lo interruppe, trattenendo il fiato, sia perché sarebbe stato uno scandalo tremendo, sia perché la sola idea di trovarselo di nuovo avvinghiato a qualcuna tra le mura della procura… non ci poteva nemmeno pensare!

 

“Mi dispiace deluderti ma sta proprio qui in procura,” la gelò, con un tono ed uno sguardo strani, che non avrebbe saputo definire, ma che la mandarono lo stesso in bestia.

 

“Ah, ma bene! E meno male che te ne rendevi conto! Ma che cos’è? Una ripicca nei miei confronti, eh? O vuoi completare l’album di figurine?”

 

“Non è una ripicca e non voglio completare nessun album, anche se sei stata proprio tu a insistere perché lo comprassi, l’album.”

 

“E chi sarebbe questa? Un’altra della PG?”

 

“No, non è-"

 

“Allora è un magistrato? La D’Antonio?!” esclamò, dandosi della scema e realizzando improvvisamente che tutto tornava: la cara collega che se lo portava sempre dietro ed insisteva in ogni modo perché lui si dedicasse ai suoi casi, le pause pranzo allungate….

 

Come aveva fatto ad ignorare i segnali, quando aveva fatto lo stesso pure lei fino a qualche settimana prima?

 

“No, non è la D’Antonio. Ma non capisci che-”

 

“Ma gli altri magistrati sono tutti uomini!” lo interruppe, scioccata, un flash davanti agli occhi di Calogiuri che si baciava con Diodato.

 

“Ma mi vuoi far parlare?! Sei tu! Sei sempre e solo tu! Lo vuoi capire?!” esplose lui, sporgendosi a sua volta ed affrontandola dall’altro lato della sedia, lo schienale a fare da barriera tra di loro.

 

“Come?!”

 

“Quella sera con Matarazzo… avevo bevuto troppo, ero a stomaco vuoto e… e non è una giustificazione ma… ma mi sono fatto prendere… non lo so… dalla rabbia da… da tante cose. E ho sbagliato. Ma… ma quando me ne sono reso conto, ormai quello che era fatto era fatto. E così ho cercato di… di tagliare subito, appena possibile, per non prenderla in giro. E che le potevo dire? Che con lei non ho provato niente? Che mi sono fatto schifo da solo? Le ho detto la cosa più sincera che mi fosse possibile dirle e cioè che… che sono innamorato di un’altra persona,” ammise in quello che era poco più di un sussurro, abbassando lo sguardo, per poi rialzarlo e trafiggerla con due occhi carichi di talmente tanto amore, rimpianto, rabbia e dolore da farle quasi cedere le gambe, non fosse stato per la presa che ancora teneva sulla sedia.

 

Non aveva mai ammesso esplicitamente di essere innamorato di lei, mai, anche se… glielo aveva detto e dimostrato soprattutto, in altri mille modi.

 

Sentì gli occhi farsi caldi, bruciare, il viso bollente, mentre le lacrime le scesero sulle guance, senza poterlo evitare, in un misto di dolore, senso di colpa, sollievo e am-

 

“Sarai contenta adesso…” sussurrò di nuovo lui, scuotendo il capo, due lacrime che gli sfuggirono di rimando dagli occhi, prima di proseguire, a voce più alta “o forse sarai dispiaciuta, di non esserti ancora liberata di me! Se potessi… se potessi strapparti dal cuore, lo farei ma-”

 

Si rese conto solo quando sentì una tremenda scossa elettrica ed il calore familiare di due labbra sulle sue, di aver girato intorno alla sedia, avergli preso il viso tra le mani ed averlo baciato, come la scema che era.

 

Lui rimase per un attimo immobile, scioccato, e poi rispose al bacio, con passione, con disperazione, a tratti quasi con rabbia, mentre sbandavano e finivano addosso al tavolo vicino alla porta, i faldoni che le pungevano la schiena, ma non sentiva dolore, sentiva solo passione, felicità e sollievo. Il sollievo incredibile di sapere che Calogiuri non era impazzito, che era sempre il suo Calogiuri, quello buono, gentile, di cui si era in-

 

Il sollievo di sentirsi di nuovo… di nuovo a casa.

 

E poi, di colpo, non sentì più niente, se non freddo, anzi, un gelo improvviso, quando quel contatto venne reciso bruscamente.


Aprì gli occhi e se lo trovò davanti, ansimante, gli occhi pieni di lacrime, che la guardava in un modo talmente intenso che le gambe le cedettero del tutto e dovette appoggiarsi al tavolo per non finire a terra.

 

“Perché?” le sfuggì dalle labbra, non riuscendo a completare la frase, a dire altro, la voce che pareva fatta di catrame, ma la domanda era chiara.

 

Perché ti sei fermato?

 

“Perché ti voglio da impazzire, ma non così, e non voglio solo questo da te, lo capisci? Non sono un giocattolo che prendi, e molli e riprendi come e quando pare a te!” esclamò, rabbioso e disperato, le lacrime che gli cadevano dagli occhi e dalle guance sul maglione e sul pavimento, un’espressione che le causò un dolore tremendo al centro del petto ed un altrettanto tremendo senso di colpa.

 

“Questo non puoi dirlo, Calogiuri, perché non l’ho mai pensato, mai!” proclamò di rimando, non potendo evitare di alzare la voce, né di appoggiargli una mano sul petto e sollevare l’altra per accarezzargli il viso, sentendolo irrigidirsi ma non ritrarsi, “forse… forse ho sbagliato a baciarti ora, ma… ma lo capisci che se sto facendo tutto quello che sto facendo, anche… anche questi errori, è perché ti- perché a te ci tengo davvero?”

 

“E allora hai uno strano modo di dimostrarlo! E sei tu che devi capire cosa vuoi. Perché io sono sempre lo stesso e voglio sempre la stessa identica cosa. Te. Ma se devo… se devo averti solo così, forse preferisco non avere niente, perché non… non mi basta più e questa è l’unica cosa sulla quale avevi ragione,” ammise con un sorriso amaro, poggiando per un attimo la sua mano su quella di lei, prima di fare un passo indietro, staccarsi del tutto e, dopo un’ultima occhiata devastante, sparire oltre la porta.

 

Imma rimase completamente paralizzata, senza fiato, il cuore che le esplodeva nel petto più forte che mai prima, superando perfino il dolore ed il senso di colpa.


E, non avrebbe saputo dire bene il perché ma, nonostante l’essere stata respinta non fosse certo piacevole, una parte di lei non era mai stata orgogliosa di lui come in quel momento.

 

Né si era mai sentita tanto amata.




 

Nota dell’autrice: Come avete visto, in questo capitolo alcuni nodi hanno iniziato a venire al pettine ma… siamo ancora all’inizio delle montagne russe ;).
Vi ringrazio di cuore per tutte le rassicurazioni che mi avete dato per il capitolo precedente sul quale, come sapete, ero parecchio in apprensione. Spero davvero che la storia continuerà a mantenersi di vostro gradimento, con tutti i colpi di scena che si succederanno nei prossimi capitoli, che saranno un po’ agrodolci, ma alla fine vi garantisco che il dolce tornerà più preponderante. Se vorrete lasciarmi una recensione vi ringrazio tantissimo fin da ora perché, mai come per questi capitoli, mi è utile per capire come sta andando l’evoluzione psicologica dei personaggi, se risulti sempre credibile o meno, e se la lettura si mantenga sempre interessante, pur tra tutti gli alti e bassi.
Il prossimo capitolo arriverà puntuale tra una settimana, sempre di domenica, il 26 per precisione.
Grazie mille ancora!

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Capitolo 14
*** Cocci ***


Nessun Alibi


Capitolo 14 - Cocci


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Buongiorno, dottoressa.”

 

Alzò gli occhi dalle carte e si trovò Diana di fronte, con uno sguardo abbastanza tagliente, come il modo in cui aveva pronunciato il suo titolo.

 

Era ancora arrabbiata con lei dopo quasi una settimana: doveva avere proprio esagerato e se ne rendeva pure conto.

 

“Buongiorno, Diana, spero che le ferie siano andate bene.”

 

“Ah, benissimo. L’avvocato dice che mio marito potrebbe chiudermi i rubinetti e smettere di pagare il mantenimento di Cleo fino a che il giudice non ne stabilisce l’importo, per costringermi a cedere alle sue condizioni. Ma sono stata tradita io per prima, è colpa sua se il nostro matrimonio è finito! Certo, ci avrò pure messo del mio con Capozza ma non mi sarei mai guardata intorno se mi fosse stato fedele!”

 

Ogni parola fu una pugnalata dritta al petto per Imma ed i suoi sensi di colpa per lo stato in cui versava il suo matrimonio. Almeno Pietro si era risparmiato di beccarla con Calogiuri in qualche cespuglio… anche se a cavallo insieme li aveva mancati per un soffio.

 

Ed il pensiero andò in automatico a lui, che non vedeva dal giovedì precedente, da quel momento nel suo ufficio, quando aveva ceduto a quello che provava per lui e lo aveva baciato.

 

Non sapeva come sarebbe potuto andare un nuovo incontro tra loro, se ci sarebbe stato risentimento o imbarazzo o-

 

“Allora dottoressa?”

 

“Come, Diana?” chiese, confusa, essendosi persa nei suoi pensieri, come quasi sempre quando si trattava di lui.

 

“Ho chiesto se ha bisogno di qualcosa in particolare, dottoressa.”

 

“Diana, dai, piantala di chiamarmi dottoressa quando non c’è nessuno in giro! E per il lavoro, ci sono alcune carte sulla tua scrivania da risistemare nei fascicoli, tanto per iniziare.”

 

“Va bene…” sospirò Diana, avviandosi verso il suo ufficio, sembrando ancora molto sulle sue.

 

Almeno finché la sentì fare una specie di mezzo urletto ed emergere dalla porta con una busta e due biglietti in mano.

 

“Ma… ma…” balbettò incredula, brandendo i due biglietti per il Don Chisciotte con Alessio Boni con una mano tremolante.

 

“Visto che so quanto ti piace… così ci puoi andare con Capozza o con chi ti pare a te. Magari, se ci vai con Capozza, fai attenzione a tuo marito, però, che con la causa di separazione meglio evit-”

 

Non fece in tempo a finire la frase perché Diana se la abbracciò fortissimo, che tra un po’ la sedia si ribaltava e cascavano tutte e due.


“Dai, Diana, mo non esageriamo!” cercò di calmarla, dandole due pacche sulle spalle.

 

“Grazie, Imma! Però allora ci devi venire tu con me. Che mica posso andarci con un uomo!”


“Eh, beh, certo: metti che Boni pensa di avere concorrenza, poi magari non si fa avanti!”

 

“Ma piantala!” esclamò Diana con una risata, per poi fermarsi di colpo e guardarla di sottecchi, forse temendo di avere esagerato con la confidenza, “e comunque ti ho già detto che io e Capozza siamo in pausa.”

 

“Sì, va bene, Diana, se lo dici tu. Ma mo possiamo lavorare? Che in pausa noi ancora non siamo.”

 

“Va bene, dottoressa,” sbuffò, ma poi le fece un sorriso dalla porta.

 

Sollevata dall’essere riuscita a farsi perdonare da Diana, stava per riprendere il fascicolo sui Tantalo, che era più lungo ed intricato di una delle soap opera tanto amate da sua suocera, quando bussarono alla porta.


“Avanti!”

 

“Dottoressa.”

 

“Calogiuri!”

 

Il cuore le fece un’accelerata nel petto, mentre scrutava la sua espressione, per capire come fosse la situazione tra di loro.

 

Sembrava neutra, professionale, ma almeno non c’era quella durezza delle settimane precedenti, nonostante l’avesse respinta e l’avesse accusata di averlo trattato come un giocattolo, cosa che ancora le faceva malissimo, più del rifiuto in sé, il fatto che potesse anche solo pensarlo.

 

Non che non lo capisse fin troppo bene, purtroppo: sapeva di essersi comportata in modo irrazionale e contraddittorio, del resto quando c’era di mezzo lui la logica e l’autocontrollo le erano sempre mancati. Ma non era una scusante.

 

“Dimmi, ci sono novità su Davidson e su Panama?” gli chiese, per testare le acque.

 

“No, dottoressa, sto ancora facendo ricerche in proposito, non ho tutti i dati bancari necessari. Ma… ma forse ho scoperto qualcosa che potrebbe c’entrare con questo caso,” spiegò, con quell’aria di quando aveva in mano qualcosa di grosso, con quel forse che in realtà era una certezza, ma che veniva aggiunto per quell’insicurezza latente e quella modestia che ancora emergevano ogni tanto.

 

“In che senso, Calogiuri? Accomodati, dai, non restare lì impalato,” lo invitò, sembrandole per un attimo di essere tornata ai primi mesi della loro conoscenza, sebbene le motivazioni dell’imbarazzo nell’aria non avrebbero potuto essere più diverse.


E anche Calogiuri era cambiato, eccome se era cambiato, a giudicare da come le aveva tenuto testa nelle ultime settimane.

 

Ma non in peggio, come aveva per un attimo temuto dallo sfogo di Matarazzo, anche se con Miss Sicilia aveva indubbiamente sbagliato.

 

Anzi, era più… più forte, più determinato, più… più maturo, forse era quello il termine corretto da usare.

 

“Allora?” gli domandò, una volta che ebbe preso posto.

 

“Venerdì mi stavo occupando del caso Quaratino per la dottoressa D’Antonio,” esordì ed Imma notò che sul nome della collega il tono divenne lievemente sarcastico.

 

Si sentì avvampare, ricordandosi delle sue assurde ipotesi, perfino su Diodato.

 

Che cosa non fa la gelosia, eh, Imma? - le domandò la voce di Diana, direttamente dalla sua coscienza.

 

“Stavo interrogando la compagna di Quaratino che, visto che le cose per lui si mettono male, ha accettato di collaborare con noi in cambio di un permesso permanente per lei ed il figlio ed un inserimento in un programma di protezione,” spiegò, prima di estrarre alcune foto da un fascicolo, “le stavo mostrando alcune immagini di possibili indiziati per il traffico di auto rubate… e sapete com’è, mettiamo dentro anche diversi falsi positivi, ma la signora ha riconosciuto questa foto.”

 

“Ma questo è…” sussurrò, incredula di un simile colpo di fortuna. 

 

“Già… è la foto di Constantinescu dal suo permesso di soggiorno. L’avevo fatta inserire tra le foto dei cittadini rumeni da utilizzare in questi casi, sperando che prima o poi qualcuno magari l’avrebbe riconosciuto e avremmo scoperto qualcosa di più su di lui ma… ma non pensavo certo che lo avrebbe fatto la moglie di Quaratino.”

 

Quella sensazione dolce al cuore si fece fortissima, insieme all’orgoglio e alla commozione: aveva una voglia matta di alzarsi dalla sedia, girare intorno alla scrivania, abbracciarselo e baciarselo. Ma non poteva farlo.

 

“Ed è sicuro che non si sia confusa o che magari abbia sparato nel mucchio, proprio per evitare di coinvolgere persone realmente implicate col Quaratino?” gli chiese, frenando l’entusiasmo, come doveva fare per mestiere.

 

“Anche io l’ho pensato e allora le ho fatto qualche domanda in più. Sostiene che quell’uomo non facesse parte del giro delle auto rubate, non in maniera principale almeno, ma si occupasse insieme a Quaratino di un altro genere di traffico che facevano con dei vecchi camion, portati dall’Est Europa. Che lo ha visto un paio di volte appunto alla guida di questi camion, con targa rumena o ucraina, che poi consegnava a Quaratino. A questo punto, per essere sicuro al cento per cento, ho pensato che forse sarebbe il caso di tornare a parlare con l’ex compagna di Constantinescu. Ma se volete andare a interrogarla voi, visto che questo caso è vostro… insomma, come preferite.”

 

“No, interrogala pure da solo, Calogiuri. Te lo sei meritato,” gli sorrise, sia per l’orgoglio, sia per quel rossore che gli si iniziava ad accennare sul collo, che peggiorò soltanto quando aggiunse, “bravo, hai fatto davvero un lavoro eccezionale, complimenti!”

 

“Grazie…” mormorò, abbassando il capo per l’imbarazzo, per poi guardarla, sembrando esitare, senza aggiungere subito quel se non c’è altro, come aveva fatto nelle ultime settimane.

 

Avrebbe voluto fare mille cose, dirgli mille cose, ma non poteva e non solo per via di Diana che la guardava di sottecchi dall’ufficio accanto.

 

Calogiuri era stato chiaro, chiarissimo e… e prima di rischiare di avvicinarsi di nuovo troppo a lui doveva fare lei chiarezza nella sua vita e capire non tanto cosa voleva, perché quello, purtroppo e per fortuna, lo sapeva fin troppo bene ma… ma prendersi il tempo per ragionare molto attentamente su tutto il resto.

 

“Dottoressa?”

 

La voce di lui la riscosse dai suoi pensieri - il radar funzionava ancora, evidentemente, nonostante la loro frequentazione si fosse interrotta - e lo vide osservarla, confuso.

 

“Scusa, Calogiuri… stavo… stavo ragionando sugli ultimi sviluppi. Se… se vuoi andare, vai pure, e ancora complimenti per l’ottimo lavoro,” gli disse con un sorriso e lui annuì, apparendo ancora più dubbioso, tirandosi poi in piedi, “tienimi aggiornata.”

 

“Naturalmente, dottoressa,” concordò, con uno sguardo strano, prima di sparire oltre la porta.

 

*********************************************************************************************************

 

“Che ne diresti, se andassimo in terapia di coppia?”

 

Pietro sganciò la bomba proprio mentre Imma stava per infilarsi sotto le coperte, dopo essere appena rientrata dal bagno, e per poco non cascò dal letto.

 

“Come?”

 

“Ho… ho sentito che può funzionare in casi come il nostro. Possiamo parlare e capire dove stanno i problemi e le ragioni del tuo… blocco nei miei confronti,” spiegò, affrettandosi a chiarire, probabilmente dopo aver visto l’espressione di lei, “amò, non sto dicendo che sia colpa tua, anzi sicuramente ho contribuito io a questo blocco con… con quello che è successo negli ultimi mesi, però se ne parliamo e ci confrontiamo, magari-”

 

“Pietro, ho capito,” lo interruppe, mentre sentiva un senso di panico stringerla in una morsa, affrettandosi a dire, “e so cos’è la terapia di coppia ma… ma in questo momento non me la sento di affrontare una cosa del genere.”

 

“Ma perché, amò? Tanto rimane tutto tra noi, lo sai, c’è il segreto professionale.”

 

Pensa, Imma, pensa! - si sforzò, perché non voleva buttare via chissà quanti soldi alla settimana per una terapia inutile, dato che non poteva essere sincera e ammettere i motivi del suo blocco. Come se non li conoscesse benissimo poi. E l’idea di dover mentire ogni settimana non solo davanti a Pietro, ma soprattutto davanti a qualcuno che quasi sicuramente a cogliere le bugie era più che abituato… non ci voleva nemmeno pensare.

 

“Tra noi ed una terza persona che sicuramente dovrà mantenere il segreto professionale, Pietro, ma allo stesso tempo siamo nel mezzo di un maxiprocesso, tra due giorni ho pure la seconda udienza, con Latronico che sta cercando ogni cosa a cui attaccarsi. E se scopre in qualche modo che andiamo in terapia di coppia, farà in modo che salti fuori, vedrai, e ci costruirà sopra una sceneggiatura da Oscar sul perché ci andiamo. Vuoi davvero mettere in piazza gli affari nostri e rischiare che lo sappia pure Valentina?”

 

Si sentiva in colpa ad usare quella scusa, nonostante il rischio ci fosse e neppure tanto remoto: Latronico sapeva essere peggio di un segugio ed assolutamente spietato. E Matera restava un paesone nell’anima: una visita una volta alla settimana o più allo stesso professionista difficilmente sarebbe passata inosservata.

 

Ma sempre di una scusa si trattava.

 

“No, amò, hai ragione…” sospirò Pietro, passandole un braccio intorno alle spalle ed attirandola a sé, ed Imma si impose di rimanere rilassata, “ma allora come possiamo fare? Dimmi che posso fare, Imma, e lo farò, te l’ho già detto.”

 

“E se lo sapessi te lo avrei già detto pure io, Pietro. Non lo so… non sono cose che si possono forzare. Ma vorrei… vorrei che ci potessimo godere i momenti in cui siamo insieme, in modo più rilassato, senza… senza il fiato sul collo di dover parlare o discutere o risolvere qualcosa. Che ne dici?” propose, perché era l’unica cosa che desiderava da lui in quel momento, anche se non sapeva se sarebbe bastata. Ma voleva capire se i momenti con Pietro potessero essere di nuovo sereni, se lo stare in coppia potesse essere ancora un valore aggiunto e non solo un peso o un dolore per entrambi.

 

“Dico che mi sembra una buona idea, amò,” concordò Pietro, con un sorriso, stringendola più forte, “che ne dici se questo weekend ci prendiamo un giorno solo per noi, per fare qualcosa che piace ad entrambi?”

 

“Tipo?” gli domandò, perché la verità era che le veniva difficile pensare che potesse esistere qualcosa del genere, avendo avuto sempre gusti molto diversi.

 

E, a giudicare dallo sguardo impanicato di Pietro, probabilmente se ne rendeva conto pure lui.

 

“Ci… ci penso e poi se ti va bene organizziamo, d’accordo?”

 

“D’accordo,” annuì, perché in fondo l’idea di partenza era stata sua, sperando solo di non pentirsene amaramente.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa!”

 

Il cuore le fece un balzo, proprio mentre il cicalino annunciò l’arrivo dell’ascensore. Stava trasportando le copie dei fascicoli del maxiprocesso che si era portata a casa da studiare, in vista dell’udienza del giorno successivo, ed aveva una sporta per braccio più la borsa. Troppo per fare le scale.

 

“Date a me,” si offrì Calogiuri, con tono neutro e professionale. Imma annuì e gli passò una delle sporte.

 

Ma lui si prese anche l’altra e questo le causò quella strana sensazione al petto. O forse era la troppa vicinanza in quell’ascensore, l’aria che sembrava farsi elettrica e densa come non mai.

 

“A- avevi bisogno di qualcosa, Calogiuri?” domandò, per spezzare la tensione, tormentandosi le mani, mentre sperava che l’ascensore arrivasse in fretta al piano e allo stesso tempo che non ci arrivasse mai.

 

“Ho interrogato la compagna di Constantinescu. Le ho mostrato un po’ di foto e ha riconosciuto subito Quaratino. Mi ha detto di averlo visto diverse volte con Constantinescu, negli ultimi mesi, dopo che quest’ultimo aveva perso il lavoro. Che non le aveva mai voluto dire esattamente cosa facessero, ma sapeva che andava regolarmente a recuperare dei camion e a fare delle consegne vicino a Trieste, non potendo lasciare l’Italia col permesso di soggiorno scaduto."

 

“Bravo, Calogiuri! Hai davvero fatto un ottimo lavoro,” si complimentò nuovamente e, per un istante, quell’espressione neutra cedette e lo vide imbarazzarsi e le sembrò di notare l’accenno di un sorriso.

 

Ma, proprio in quel momento, con un altro cicalino l’ascensore giunse al piano e si aprì, interrompendo quel brevissimo disgelo.

 

La lasciò uscire per prima, rispettoso come sempre delle gerarchie, e la seguì con le sporte in mano, finché giunsero all’ufficio di lei, dove le depositò su quello stesso tavolo addosso al quale erano finiti a baciarsi nemmeno una settimana prima.

 

Sentendosi avvampare, gli fece cenno di accomodarsi e poi cercò di concentrarsi sul caso.

 

“Dobbiamo andare ad interrogare Quaratino, Calogiuri. Provo a parlarne con Vitali e con la D’Antonio, anche se immagino la reazione che avrà la collega,” commentò, con una punta di sarcasmo, sebbene non avesse per niente voglia dell’ennesima discussione con la molto disponibile PM, “novità sul fronte Davidson e Tantalo?”

 

“Per ora i movimenti bancari non hanno dato riscontri dottoressa.”

 

“Beh, del resto, se i soldi venivano da un conto off-shore, è probabile che fossero fondi neri ed è molto difficile che trovino corrispondenza con movimenti qui in Italia, dai conti ufficiali. Era un’ipotesi remota, Calogiuri, ma che dovevamo verificare. Altro?”

 

“Sì, nessuno di loro sembra aver avuto legami con Panama o esserci stato, dalle verifiche sui passaporti. Ma ho notato che Lombardi e la Tantalo erano in vacanza a Miami per capodanno dell’anno scorso. E la Tantalo è tornata negli Stati Uniti pure lo scorso agosto, senza Lombardi che è rimasto qui in Italia, tra le udienze alla Camera ed il processo. Da verifiche dei voli è stata a New York principalmente, ma poi ha fatto anche una tappa di nuovo a Miami. E sapete dove ha fatto scalo Davidson, proprio in quel periodo, di ritorno da Panama?”

 

“Miami?” rispose con un sorriso soddisfatto e lo vide annuire ma poi prendere un respiro, l’aria di chi aveva qualcosa da dire, qualcosa di grosso, “che c’è, Calogiuri?”

 

“C’è che... forse è un’idea assurda, ma ho pensato che magari qualcuno a Miami potrebbe gestire degli… investimenti a Panama per conto della Tantalo o di Lombardi o di entrambi. A quanto ne so, Miami è piena di Sudamericani che si occupano di traffici di quel tipo per conto di investitori americani e non.”

 

Imma ammutolì, il cuore che di nuovo pareva sull’orlo di scoppiarle nel petto, il sorriso che lasciava il posto ad una commozione incredibile. Che Calogiuri avesse del gran potenziale lo aveva sempre saputo, ma… maledizione, se era diventato bravo! Tempo qualche anno e forse l’avrebbe pure superata.

 

Ma la cosa, stranamente, non le causò preoccupazione o invidia, solo orgoglio.

 

“Che c’è?” fu lui a chiederglielo questa volta, sembrando sorpreso, “ho detto qualcosa di sbagliato?”

 

“No, no, Calogiuri, anzi. Da quand’è che sei diventato pure esperto di finanza internazionale?”

 

“Da… da quando mia sorella si è appassionata alle serie sui narcos e me ne sono dovuto sorbire una maratona mentre stavo a Grottaminarda a natale,” ammise, con un certo imbarazzo.


Imma non riuscì a trattenersi dal ridere e pure lui, dopo un paio di secondi, scoppiò in una risata, stemperando del tutto l’atmosfera.

 

Per qualche istante sembrò tornato definitivamente il sereno tra loro, come se niente fosse cambiato, come se fossero tornati al periodo precedente alla loro… relazione.

 

Ma poi, come sempre, ebbe la malaugurata idea di parlare troppo.

 

“Dovrò ringraziare tua sorella, allora, per l’intuizione,” le scappò di dire, senza riflettere e, un secondo dopo averlo fatto, lo vide rannuvolarsi e capì il perché.

 

Sua sorella, la piccola Noemi… e tutto il resto appresso.

 

L’atmosfera tornò triste, malinconica, opprimente, non rabbiosa, ma carica di rimpianto.

 

“C’è altro, dottoressa?” le domandò e quasi le venne da piangere nel sentire quelle poche parole, per quanto assurdo potesse sembrare.

 

“No… anzi, sì,” lo bloccò, mentre si stava tirando in piedi, “ascolta, domani c’è l’udienza e… vorrei che tu assistessi. Ormai è tardi per tirare fuori il filone Tantalo, questa storia di Constantinescu e quella dei Serpenti. Non voglio scoprire le carte troppo in fretta, prima di essere sicura di avere tutti gli elementi in mano, che c’è coinvolto pure un giudice. Ma vorrei che tu fossi i miei occhi e le mie orecchie in platea, per vedere che aria tira. Sei disponibile?”

 

“Certo, dottoressa, pensavo fosse scontata la mia presenza, avendo seguito il maxiprocesso dall’inizio,” rispose, con un misto tra sorpresa e delusione.

 

“Lo è: il maxiprocesso era, è e resta competenza tua, se tu lo vuoi,” lo rassicurò, dandosi di nuovo della cretina.

 

Un brevissimo sguardo d’intesa, troppo breve, e poi sparì dalla sua vista, lasciando però dietro di sé quella strana atmosfera, malinconica ed agrodolce.

 

*********************************************************************************************************

 

“E quindi vorrebbe occuparsi pure del caso Quaratino, mo, dottoressa?”

 

“No, dottor Vitali, vorrei soltanto poter interrogare Quaratino per scoprire quello che sa su Constantinescu. Poi certo, se la sua posizione risultasse collegata al maxiprocesso, ovviamente… capisce anche lei che potrebbe essere necessario accorpare le due inchieste. Ma non lo sapremo finché non lo interrogo.”

 

“E perché non dare modo alla dottoressa D’Antonio di interrogare il Quaratino, allora?” rilanciò Vitali, con l’aria di chi voleva essere ovunque tranne che lì, di chi temeva di trovarsi tirato in mezzo ad uno scontro epocale.

 

Quello tra lei e la disponibilissima collega, ovviamente.

 

“Perché il maxiprocesso è competenza mia, è in una fase delicatissima e francamente non voglio dover dare dettagli sensibili a nessuno finché posso evitarlo, nemmeno ai colleghi. Né dovermi fidare di come e quando utilizzeranno tali dati con un sospettato, dottore. C’è la mia faccia, la mia reputazione e pure la mia sicurezza in ballo, dottor Vitali, e lo sa meglio di me. Con tutto il rispetto per la D’Antonio o per chiunque altro.”

 

Vitali sospirò ma non protestò come avrebbe pensato, rimanendo invece per un attimo pensieroso, prima di sollevare la cornetta e chiamare un numero interno, “Monica, mi puoi convocare la dottoressa D’Antonio? Grazie!”

 

Dopo pochi minuti, la bionda di nero vestita comparve sulla soglia, puntuale e ligia al dovere - o forse sarebbe stato meglio dire ossequiosa - come sempre.

 

“Dottoressa, l’ho convocata perché sono emersi legami tra il Quaratino e Constantinescu, una delle vittime del maxiprocesso di cui si occupa la dottoressa Tataranni. Di conseguenza, la dottoressa chiede di poter interrogare il Quaratino e mi pare sensato concederglielo. Sono certo che troverò la sua approvazione, non è vero?”

 

“Se lo ritiene necessario, dottore, sebbene penso di essere più che qualificata per porre le domande necessarie al Quaratino io stessa. Mi stupisce invece scoprire ora di questo collegamento, visto che il caso Quaratino è di mia competenza. Posso chiedere come si è arrivati a questa scoperta?” chiese la D’Antonio, pungente, squadrando Imma dall’alto in basso.

 

Imma si rese conto, quel senso di calore nel petto che rifioriva fortissimo, che Calogiuri non aveva detto nulla su quanto riguardava il maxiprocesso alla D’Antonio, mettendone a parte solo lei. E sicuramente non lo aveva indicato nemmeno nei verbali, che la compagna di Quaratino aveva riconosciuto Constantinescu, o la D’Antonio l’avrebbe saputo. Ed ora rischiava di finire nei guai, di nuovo per colpa sua.

 

“Parlando con la vedova Constantinescu, ha riconosciuto una foto del Quaratino,” provò a spiegare, tagliando corto.

 

“E come mai ti è venuto in mente di mostrarle una foto di Quaratino, Imma?” incalzò la collega che, pur non essendo una regina del foro, il suo mestiere comunque lo sapeva fare.

 

“Perché trafficava veicoli con la Romania e la vedova di Constantinescu mi aveva parlato di un possibile traffico di camion rumeni ed ucraini in cui era coinvolto il marito. Sono tutti rumeni e stanno a Matera e non a Tokyo, quindi non ci vuole certo Sherlock Holmes per fare il collegamento.”

 

La D’Antonio rimase per un poco in silenzio, apparendo poco convinta, ma poi annuì e concesse, con un sopracciglio alzato, “come il dottor Vitali sa sono molto disponibile, Imma, quindi se vuoi interrogare il Quaratino per me va bene. Ma il caso resta mio, intesi?”

 

“Salvo emergano legami tali col maxiprocesso che richiedano di accorpare le inchieste, secondo il giudizio del dottor Vitali, naturalmente,” rilanciò, guardando di sottecchi Vitali, che aveva un’espressione che era quella che si era sempre immaginata avesse avuto Don Abbondio, fermato dai Bravi, ogni volta che le era toccato leggere i Promessi Sposi a scuola.

 

“Cominciamo con l’interrogatorio, dottoressa, e mi tenga costantemente aggiornato. Prego, potete andare,” le invitò con un gesto della mano, l’aria di chi non vedeva l’ora si levassero di lì.

 

Erano appena arrivate in corridoio e stava per ritornare nel suo ufficio, quando si sentì prendere per un braccio e si voltò, fulminando l’altra donna con un’occhiataccia, ma la bionda non mollò affatto la presa.


“Pensi che non l’ho capito, che è stato il maresciallo a darti l’imbeccata su Quaratino? Mi prendi per scema, Imma?” sibilò, furente, ed Imma si sentì tremendamente in colpa verso Calogiuri, cercando disperatamente un modo per parargli le spalle.

 

“Ma non mi permetterei mai! E non vedo che c’entri Calogiuri, a meno che tu abbia qualche prova di ciò che sostieni. Se devi prendertela con qualcuno, nonostante la tua paventata disponibilità, prenditela con me, anche se ti ricordo che sto soltanto facendo il mio lavoro e che non è certo colpa mia, né colpa di nessuno, se i nostri casi sono collegati un’altra volta.”

 

“No, non è colpa di nessuno quello. Ma il fatto che io sia l’ultima a saperlo, quando si tratta di un mio caso, quello certo che è colpa tua. Ma non finisce qui!” minacciò la bionda, prima di girare i tacchi e camminare a passo marziale fino al suo ufficio, entrando e sbattendo la porta con veemenza alle sue spalle.

 

Doveva avvertire Calogiuri, subito, e, con il cuore in gola, fece le scale e finì in PG.

 

“Il maresciallo non c’è?” chiese a Matarazzo che, al titolo di Calogiuri, si produsse in un’espressione talmente carica di disprezzo che superava perfino le sue.

 

“No, è fuori per la D’Antonio, non so se rientra stasera,” le rispose, con l’aria di chi, pure se non fosse rientrato mai più, non ne sarebbe stata di certo dispiaciuta.

 

Chiamami quando vedi il messaggio, ho bisogno di parlarti urgentemente.

 

Premette invio, sperando di ricevere subito risposta, ma le maledette spunte le segnalarono che evidentemente il maresciallo era in un posto dove il cellulare non prendeva.

 

Quando serve, non funziona mai e quando non serve funziona fin troppo! - pensò, ritirando in tasca l’oggetto infernale ed avviandosi verso l’ufficio.

 

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Una fitta di mal di testa da cervicale la riscosse dal ripasso delle carte per l’udienza del giorno successivo.

 

Guardò l’orologio e si rese conto che erano le diciotto e trenta. Probabilmente in ufficio, come al solito, c’era rimasta solo lei. Diana era da mo che se ne era andata: ultimamente usciva sempre puntuale, salvo fosse lei a chiederle il contrario.


Altro indizio che gatta ci covava e temeva pure di sapere con chi.

Ma non erano affari suoi - e poi chi è senza peccato! - e quindi raccolse la borsa, si impose di lasciare i fascicoli in procura ed evitarsi un ultimo ripasso serale, che non avrebbe in alcun modo aiutato, si infilò il cappotto e si avviò verso le scale.

 

O almeno ci provò, perché fu bloccata da delle grida, provenienti da un ufficio lì vicino. Il nome della D’Antonio sulla targhetta le fece ribaltare lo stomaco, ancora prima che riconoscesse la sua voce suadente e disponibilissima urlare in un modo da rivaleggiare persino con lei.

 

“Come ti sei permesso?! Tu dovevi riferire a me e a me soltanto! Gli sviluppi li hai scoperti indagando su un mio caso e quindi era a me che dovevi comunicarli, subito. E li hai pure omessi dai verbali! Non è solo gravissimo, ma di più!”

 

“Dottoressa, avete ragione e me ne prendo tutte le responsabilità ma vedete-”

 

“E ci manca solo che non te ne prendi le responsabilità, Calogiuri! Domani andiamo da Vitali e vediamo che cosa ti succede!”

 

Imma non potè rimanere ad ascoltare un secondo di più e bussò alla porta.

 

“Avanti!”

 

Entrò e, se gli sguardi avessero potuto uccidere, quello che le lanciò la D’Antonio l’avrebbe fatta secca, mentre Calogiuri sembrò mortificato, sorpreso e allo stesso tempo impanicato nel vederla.

 

“Il maresciallo mi ha spiegato come sono andate le cose, Imma. Che ha saputo di Quaratino e Constantinescu dalla compagna di Quaratino, come immaginavo e-”

 

“E per questo ti pare il caso di fare una piazzata che ti si sente da mezza procura?! La responsabilità è mia e solo mia, perché sono stata io ad ordinare al maresciallo di non dirti niente fino a che ne avessi parlato con Vitali. Lui ne ha parlato prima a me, perché sa benissimo che sulle notizie riguardanti il maxiprocesso deve riferire direttamente a me e solo a me, che non tollero ci siano fughe di notizie con nessuno, e non voleva finire nei guai. Quindi prenditela con me, perché lo sai che il maresciallo non può contravvenire ad un ordine diretto.”

 

“Veramente il maresciallo non mi ha parlato di alcun ordine diretto da parte tua, ma che la decisione di omettere è stata una sua iniziativa personale, che tu ignoravi.”

 

“Smettila di coprirmi, Calogiuri, anche perché non c’è niente da coprire!” intimò al maresciallo, che aveva appena aperto bocca, prima che potesse intervenire, “non stiamo all’asilo Mariuccia ed ho agito per il bene di un processo che coinvolge interessi enormi e che è in una fase delicatissima e se la collega qui, nella sua disponibilità non lo riesce a capire è un problema suo.”

 

“Come ti permetti, Imma?! Vorrei vedere se ci fossi stata tu al posto mio!”

 

“Ma che pensi che non ci sono stata al posto tuo?! Sono stata la prima magistrato donna in questa procura, vuoi che non sappia cosa significa dover lasciare casi importanti a colleghi? E non perché avessero scoperto cose che riguardassero i miei casi, come è successo ora, ma semplicemente perché il procuratore capo di allora decideva che certi casi di alto profilo, quando lo diventavano di alto profilo, dovesse gestirli un uomo. E tu stai a farmi la guerra per un interrogatorio a quel cretino di Quaratino, che non è solo un pesce piccolo, ma piccolissimo? E su cui tu ti sei impuntata solo ed esclusivamente per via del figlio, il cui caso peraltro ho risolto e senza il tuo aiuto, perché da quando Vitali ci ha coassegnate tu te ne sei fregata di quel povero ragazzino! Che se fosse per te ancora starebbe in fondo ad una grotta! Quindi non venirmi a fare la morale e a fare minacce o a minacciare colleghi che stanno solo facendo il loro lavoro, perché con me caschi non male, ma malissimo e se vuoi fare una guerra sappi che chi ne uscirà con le ossa rotte sarai solo tu. Ci sono abbastanza casi e abbastanza criminali in questo schifo di paese per tutte e due. E mo vado che domani ho un’udienza che mi attende. Calogiuri, vieni, che dobbiamo discutere di domattina.”

 

E, senza dare tempo alla D’Antonio di replicare, prese Calogiuri per un braccio e se lo trascinò fuori, lanciandole un’ultima occhiata come a sfidarla a dire qualcosa.

 

Continuò a tirarselo dietro fino a essere di nuovo nel suo ufficio, quando lui puntò i piedi e dovette mollarlo, che per poco non gli cascava all’indietro in braccio.

 

“Dottoressa, io-”

 

“Ti avevo lasciato un messaggio, Calogiuri, per avvertirti della D’Antonio, non lo hai visto?” lo bloccò, l’adrenalina ancora in circolo, l’incazzatura che piano piano scemava ma ancora latente.

 

“Ero nella murgia, non prendeva bene. Ma perché… perché ti sei presa la colpa al posto mio?” le chiese, sembrando ancora mortificato, ma allo stesso tempo con una gratitudine ed una dolcezza nella voce che era da prima che ponesse fine alla loro relazione che non sentiva più.

 

“E perché tu non mi hai detto di non avere parlato alla D’Antonio e soprattutto perché hai cercato di prenderti tutta la colpa con lei?” gli domandò di rimando, guardandolo dritto negli occhi, “non devi fare l’eroe, Calogiuri, te l’ho già detto: non ne vale la pena che rischi la tua carriera per me. Io ho una carriera consolidata, ho le spalle coperte e soprattutto so difendermi da sola e-”

 

“E invece io no?!” la interruppe, la dolcezza che svanì completamente, un lampo di rabbia che gli trasfigurò il viso, il tono della voce che divenne amarissimo.

 

“Non ho detto questo, Calogiuri, io-”

 

“Ma lo pensi! Mi tratti come… come se fossi un ragazzino, è questa la verità!”

 

“Ma non è vero! Tutto ho fatto tranne che trattarti come un ragazzino, Calogiuri, ma che scherzi?! Certe cose non le avrei mai fatte con un ragazzino. Ma come ti salta in testa?!”

 

“Mi salta in testa perché intanto hai deciso per il mio bene, senza chiedermi niente, pure oggi, come se avessi bisogno della balia! Continui a dirmi che non sono stupido, ma sei la prima a trattarmi come se lo fossi! Ma che pensi davvero che non le sappia le conseguenze che avrei avuto prendendomi le mie colpe con la D’Antonio oggi? Pensi che non sapessi cosa avrebbe potuto comportare omettere delle cose nei verbali? Ma soprattutto pensi davvero che non ci abbia mai pensato a cosa sarebbe potuto succedermi, succederci - e non solo sul lavoro - se mai fossimo usciti allo scoperto e se.... se mai avessimo avuto una relazione… vera io e te? Sono mesi che ci penso, mesi!”


“Calogiuri…” sussurrò, sentendo un nodo in gola, gli occhi che iniziavano a bruciarle.

 

“Ma sai qual è la differenza tra me e te? Che per me ne valeva, anzi, ne vale la pena! Ma non… non posso convincerti a pensare lo stesso e-”

 

Si interruppe bruscamente, le lacrime agli occhi, la voce che gli si spezzava, mentre Imma sentì spezzarsi direttamente il cuore, come se qualcuno lo avesse preso e ci avesse fatto una spremuta, le lacrime che le scivolavano sulle guance.

 

Calogiuri la guardò ancora per un istante e poi si avviò verso la porta, senza chiedere il permesso di congedarsi, non che lei sarebbe stata in grado di darglielo in quelle condizioni.

 

Di nuovo, avrebbe solo voluto fermarlo, abbracciarlo e baciarlo ma non voleva fargli ancora più male e lui era stato più che chiaro in proposito.

 

La porta si richiuse e stava per cedere ad una valle di lacrime, ma si riaprì di botto e lo vide rientrare, con uno sguardo che non si sarebbe mai scordata.

 

Stava per buttare i buoni propositi al vento e gettarsi tra le sue braccia, quando Calogiuri parlò, con voce tremante e roca, “domattina… vi… vi vengo a prendere a… a casa… o preferite qui in procura?”

 

“I- in procura,” le riuscì di pronunciare, deglutendo il nodo in gola che però si riformò subito.

 

Lo vide annuire e poi sparire nuovamente dalla sua vista, che si fece appannata nel giro di pochi secondi.

 

Nella sua mente c’era un solo pensiero: certo, che ne sarebbe valsa la pena.

 

Ma, a differenza di Calogiuri, le sue scelte non avrebbero inciso solo sulla sua di vita. E non poteva non tenerne conto.

 

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“Amò che c’hai? Sei preoccupata per l’udienza di domani?”

 

“Pietro… per favore, ho solo bisogno di una dormita,” lo implorò, infilandosi a letto, non volendo altre discussioni: sapeva di essere uno straccio e ci si sentiva pure.

 

“D’accordo. Però ascolta, ho pensato a cosa possiamo fare sabato: che ne dici se ce ne andiamo a Metaponto, ma solo io e te? Ci troviamo un bel ristorantino sulla spiaggia, ci mangiamo del buon pesce e ci facciamo una passeggiata. Che ne pensi?”

 

E che ne penso? - sospirò, non potendo certo esprimere ad alta voce che quel bel programmino le ricordasse fin troppo un’altra giornata al mare trascorsa giusto pochi mesi prima, ma con qualcun altro.

 

Ma alla fine… c’erano proposte ben peggiori che poteva fare Pietro, sebbene una parte di lei sperasse improvvisamente nel maltempo e che la giornata saltasse, per quanto orribile fosse quel pensiero. Ma doveva almeno farlo un ultimo tentativo, per togliersi ogni dubbio su in che stato fosse il suo rapporto con Pietro, al di là del lato fisico che ormai era morto e sepolto. Se, pur con tutte le mancanze, sarebbe stato ancora possibile dividere la vita con lui, o se sarebbe stata solo una sofferenza inutile per entrambi.

 

“Va… va bene,” cedette, trovandosi trascinata in un abbraccio che sentì come un po’ troppo stretto e soffocante.

 

Una volta non le sarebbe successo.

 

Si staccò a fatica, si girò dall’altra parte e chiuse gli occhi, sperando solo che il sonno arrivasse presto.

 

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“E fisso quindi la prossima udienza per il ventotto di giugno."

 

Sospirò, al pensiero che mancassero ancora quasi quattro mesi.

 

Ma forse non sarebbe stato un male: il tempo era proprio ciò di cui aveva bisogno per raccogliere tutti gli elementi mancanti e presentare una tesi a prova di bomba. 

 

L'udienza era stata relativamente tranquilla e Latronico appariva soddisfatto: del resto tutti gli elementi probatori più rilevanti se li era tenuti per sé ed avevano passato l'udienza semplicemente a spiegare perché le morti di Constantinescu e Bruno non fossero credibili come suicidi, ma avessero richiesto la mano di terze persone.

 

Ma i Serpenti… li aveva lasciati ben chiusi nel cesto e anche la lettera di Bruno. Doveva raccogliere più prove prima di farla uscire ma… ma sapeva benissimo che l'unico modo di averle era probabilmente quello di ottenere una confessione da uno di loro.

 

Ed al momento i candidati più promettenti erano la Tantalo, se avesse raccolto abbastanza su di lei ed il suo presunto amante per corroborare la tesi che quello di Lombardi non fosse stato un incidente. O Romaniello, che però si ostinava a rimanere zitto in carcere ed a guardarla dal fondo dell'aula con aria di sfida. 

 

Vide Calogiuri avvicinarsi, come sempre, nel consolidato rituale con i giornalisti, prima di avviarsi verso l'uscita. La sua presenza la rassicurava, certo, ma le metteva anche quel senso di magone, al pensiero di cosa fosse successo tra loro dopo l'udienza della condanna di Romaniello. Sembrava passata un'eternità da allora e non solamente sette mesi.

 

"Dottoressa!"

 

“Signor Romaniello! Mi dica, vuole proprio rifilarci una delle sue solite battute sarcastiche a sfondo sessuale, o per stavolta ce la risparmiamo, che ormai pare un disco rotto?” lo prevenne, alzando gli occhi al cielo.

 

“In realtà volevo complimentarmi con lei, dottoressa, per aver finalmente imparato a tenere la bocca chiusa: non pensavo ne fosse capace,” ribattè con un sorrisetto che le fece prudere le mani, per non parlare di quando decise di aggiungere, “poi, se ha colto il mio consiglio e deciso di utilizzarla per più nobili scopi, ne sono lieto per lei e per il fortunato.”

 

“Ecco, e mo la battuta l’ha fatta, che cominciavo a preoccuparmi! E invece mi chiedo se sia proprio sicuro di volerla tenere lei la bocca chiusa, signor Romaniello. Ma forse la sua nuova residenza le piace così tanto che non la vuole abbandonare.”

 

“Dottoressa… se vuole farmi parlare… l’unica è farmi un’offerta che non posso rifiutare. Ma il denaro non mi serve, quindi lascio a lei intuire a quale genere di… prestazione potrei essere interessato,” sussurrò, guardandola dritto negli occhi in quel modo viscido che la fece rabbrividire per il disgusto, pur mentre tendeva una mano verso Calogiuri per dirgli di non intervenire.

 

“Senta, signor Romaniello, se lei pensa di spaventarmi o scandalizzarmi con queste provocazioni, ha sbagliato persona. La invito a rifletterci molto bene, tanto il tempo per farlo non le manca. Andiamo, Calogiuri,” ordinò, facendo per voltarsi ma la voce di Romaniello, carica di malizia, la bloccò.

 

“Dottoressa, lei crede davvero che sia solo una provocazione? Non mi conosce affatto, allora!”

 

“E non ci tengo a conoscerla, signor Romaniello, ma lei invece evidentemente ci tiene proprio a conoscere molto bene i suoi compagni di cella. Contento lei…” ribattè, cercando di mantenere un tono calmo e neutro, sebbene gli avrebbe soltanto voluto tirare un ceffone, “andiamo Calogiuri, che abbiamo molto da fare, noi.”

 

“Oh, non ne dubito, dottoressa. Divertitevi! Un po’ la invidio, maresciallo, ma tra uomini ci si intende,” proclamò, sempre più insinuante, e Calogiuri serrò i pugni e si avvicinò di un passo.

 

Imma stava per intervenire nuovamente e mettersi in mezzo, quando fu Calogiuri a farle un cenno con la mano, come a dirle va tutto bene e a replicare, con una durezza ed un disprezzo nella voce che raramente gli aveva mai sentito, "abbiamo un'idea molto diversa di che cosa significhi essere un uomo, signor Romaniello."

 

Imma sentì di nuovo quel calore, l'orgoglio che strabordava e che si accrebbe ulteriormente quando, all'ennesima provocazione di Romaniello, uno sprezzante "ma allora il Cavalier Servente è dotato di parola! E io che cominciavo a pensare che fosse muto come la Sirenetta di Andersen!", Calogiuri lo freddò con un: "a differenza sua, signor Romaniello, non parlo se non ho nulla di utile o di intelligente da dire."

 

Romaniello rimase per un attimo di stucco, preso in contropiede, ed Imma ne approfittò per lanciare un'occhiata d'intesa e di approvazione a Calogiuri ed avviarsi insieme a lui verso il portone del tribunale.

 

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“Allora, amò, è proprio bello qui, eh?”

 

“Già…” sospirò Imma, guardando il mare dalla finestra del ristorante, uno dei pochi aperti anche fuori stagione.

 

Il mare era bello, certo, non che non lo conoscesse benissimo dopo aver passato innumerevoli estati a Metaponto, ma, come sempre per il mare d’inverno, poteva essere meravigliosamente romantico o tremendamente malinconico.


E, almeno finora, la gita con Pietro purtroppo rientrava nella seconda categoria. Avevano fatto una passeggiata sulla spiaggia, in un silenzio quasi tombale, interrotto da sporadici tentativi di fare conversazione.


Valentina, il lavoro di lei, Valentina, il lavoro di lui, Valentina, il lavoro di lei, Valentina, il lavoro di lui.

 

Ma ormai, arrivati al primo - degli ottimi spaghetti alle vongole - le sembrava di essere invece arrivata direttamente alla frutta, perché avevano esaurito gli argomenti ed un silenzio opprimente aveva caratterizzato quasi tutto il pranzo, interrotto da ovvietà sparate da Pietro per cercare di rompere l’imbarazzo.

 

Non si era mai resa conto prima di quel momento quanto fosse difficile comunicare, comunicare davvero con Pietro. E non perché lui non ne fosse capace, anzi, lo era sicuramente più di lei, ma perché avevano talmente pochi interessi in comune che dopo poco diventava complicato trovare qualcosa di cui parlare che entrambi potessero capire e che non risultasse noioso ad almeno uno dei due.

 

In passato, l’amore tra loro aveva sopperito alle mancanze, rendendo i silenzi piacevoli e confortanti, insieme alla passione, per quanto forse non era mai stata travolgente quanto aveva sempre creduto.

 

Ed il poco tempo passato insieme, tra gli impegni di entrambi, lei con il lavoro, lui con Valentina, aveva fatto il resto. Perché in quel poco tempo libero potevano appunto discutere degli unici due argomenti che avevano in comune - il lavoro e la figlia - e… e il resto del tempo lo avevano sempre dedicato a fare tutto tranne che parlare.

 

Ma già le estati a Metaponto e la sua insofferenza verso di esse, il suo bisogno di estraniarsi sul materassino ed il bisogno di Pietro di farlo con i suoi fumetti, di vivere giornate in gran parte parallele, senza interagire, avrebbe dovuto farle suonare un campanello d’allarme e questo ben prima di Calogiuri.


Una visione tremenda le comparve davanti agli occhi: loro due pensionati, Valentina grande ed ormai con una sua vita indipendente.

 

Di che avrebbero parlato a quel punto?

 

Una vita fatta di silenzio, di imbarazzo, una convivenza tesa ad evitare il più possibile l’altro, per tenere in piedi un rapporto ormai senza fondamenta, le si prospettò davanti, chiara e limpida come il cielo di marzo.

 

Per carità, non era una cosa così rara: quante coppie aveva visto così, di anziani e non solo, rette sull’abitudine e sul mutuo soccorso.

 

Ma voleva davvero, a poco più di quarant’anni, a metà del suo percorso di vita, più o meno, condannarsi e condannare Pietro ad un futuro del genere?

 

“A che pensi amò?” le chiese Pietro, di colpo, e Imma si chiese se pure lui, come Calogiuri, avesse un radar, o se fosse una cosa tipicamente maschile.

 

“Niente… gli spaghetti sono veramente buoni, stavo cercando di capire la ricetta,” mentì, come se non fosse più che palese e basica.

 

“Magari possiamo chiederla al cuoco e già che ci siamo potremmo anche chiedere se assumono apprendisti per l’estate, sai per Valentina, dopo la maturità….”

 

Ed eccolo tornare all’argomento cavallo di battaglia numero uno.

 

“Dubito stiano ad aspettare i comodi di Valentina e che finisca l’esame, Pietro: la stagione inizia a maggio,” sospirò, grata però di avere almeno un attimo di tregua e di poter, per qualche altro breve minuto, tenere alla larga quell’atmosfera così mesta e deprimente.

 

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"Dottoressa!"

 

"Calogiuri!" esclamò, la mano che le finì sul cuore, la borsa che per poco le cascò di mano.

 

Era appena entrata in procura, pronta ad iniziare la settimana, e non si aspettava di trovarlo appostato lì ad attenderla.

 

"Vi siete spaventata?" le domandò, sembrando però più divertito che dispiaciuto.

 

Ma era già qualcosa, rispetto a quell’espressione semi illeggibile o dura delle ultime settimane.

 

"No, è che mi hai colta di sorpresa. Dimmi, ci sono novità?"

 

"Hanno chiamato dal carcere e possiamo andare ad interrogare Quaratino oggi stesso," spiegò, ed Imma notò che aveva già indosso il giaccone.

 

"E a che ora?" domandò, giusto per confermare la sua intuizione.

 

"Non appena siete disponibile, anche adesso se volete."

 

"D'accordo, meglio farlo subito perché potrebbe andare per le lunghe, visto il soggetto. L'auto di servizio-?"

 

"È già pronta, dottoressa. Da questa parte," le fece strada, senza perdere altro tempo, e ad Imma sfuggì un sorriso: quando voleva, Calogiuri veloce sapeva esserlo davvero.

 

E così, in silenzio, salirono in macchina e Calogiuri partì, con la sua solita guida efficiente ma prudente al tempo stesso, che lei tanto apprezzava.

 

Averlo così vicino, le braccia che quasi si toccavano, e non poterlo nemmeno sfiorare era una tortura vera e propria, in quel silenzio carico di talmente tante cose che non l’avrebbe saputo nemmeno definire, l’elettricità che però era sempre presente, nonostante tutto, riempiendo ogni spazio vuoto tra loro.

 

Lo vide lanciarle qualche occhiata di straforo e si impose di guardare fuori dal finestrino e di cercare di concentrarsi su altro, preferibilmente sul caso. Anche se le era impossibile ignorare la sua presenza, con ogni recettore del corpo che gliela ricordava, pure se si sforzava di non fare contatto visivo.

 

Ma doveva rifletterci molto bene prima di fare altre mosse stupide ed avventate, prima di rischiare di causargli altro dolore e di compromettere ancora di più la situazione tra di loro, mai tanto fragile e volatile.

 

Sul suo matrimonio, da un lato, che ormai pareva essere giunto quasi al punto di non ritorno, ed il weekend non aveva fatto che peggiorare le cose. Ma c’era Pietro che la amava disperatamente e che non si meritava né di essere lasciato, né però neppure di rimanere in un limbo di sofferenza, con lei che non riusciva a dargli quello che una moglie avrebbe dovuto dargli, e non solo fisicamente. E c’era Valentina che era in un periodo difficilissimo, stava andando male a scuola e… e che un’eventuale separazione non l’avrebbe presa solo male, ma peggio, rischiando di compromettere ancora di più quei mesi delicatissimi e fondamentali per il suo futuro.

 

E, poi c’era Calogiuri ed il suo di futuro, il suo di bene, anche se si era arrabbiato come mai prima al fatto che lei lo avesse deciso anche per lui. E, col senno di poi, tutti i torti non li aveva avuti a reagire così, a sentirsi trattato come un ragazzino. Forse era giusto che ne parlassero, ma solo qualora lei fosse stata certa di poter lasciare Pietro, perché non poteva né voleva illuderlo e fargli più male di quanto ne avesse già fatto. Ma, in caso, si rendeva ora conto che la cosa più giusta da fare sarebbe stata parlarne seriamente e decidere insieme che cosa fosse il suo bene.

 

Perché le parole di Sabrina erano giorni che le risuonavano in testa, tentatrici come il canto delle sirene. E, se c’era una persona di cui non avrebbe mai dubitato che sarebbe stata capace di amare alla follia un figlio od una figlia non biologicamente suoi, era proprio Calogiuri. Ma… ma era lui che avrebbe dovuto limitare comunque di molto le sue opzioni nel medio-lungo termine stando con lei e non viceversa, e non solo dal punto di vista della paternità biologica, ma in moltissimi altri ambiti.

 

E, guardando invece al breve termine, era lui che avrebbe dovuto non solo sopportare insieme a lei tutto quello che avrebbero gettato loro addosso, qualora fossero usciti allo scoperto, ma pure quello che lavorativamente era in una situazione più precaria.

 

Ma forse… forse sarebbe stato abbastanza forte da riuscirci, senza farsi distruggere. Perché in quei giorni era stato sicuramente più forte, deciso e pure, le toccava ammetterlo, più professionale di quanto lo fosse stata lei, nonostante il casino combinato con Matarazzo, e solo in quel momento cominciava a rendersene conto del tutto.

 

Era cresciuto talmente tanto in quell’ultimo anno e mezzo, sotto tutti i punti di vista, ben oltre le sue più rosee aspettative, pur avendone riconosciuto quasi subito il potenziale a livello intellettivo. Ma dal punto di vista caratteriale, certe volte la sorprendeva ancora completamente, come quando aveva tenuto testa a Romaniello, e non con le mani, ma appunto con la testa.

 

“Dottoressa…”

 

Si voltò per incrociare il suo sguardo, chiedendosi se il radar si fosse riattivato e se ne sarebbe seguita una richiesta di sapere a cosa stesse pensando.

 

“Sì?”

 

“Vi squilla il telefono.”

 

Presa dai suoi pensieri, non se ne era resa conto.

 

Pietro.

 

Fu tentata di non rispondere, ma poteva essere qualcosa di serio e comunque non voleva dare adito ad ulteriori sospetti.

 

Lanciò un'occhiata a Calogiuri che continuava a guardare la strada.

 

"Pronto?"

 

"Amò, finalmente, ma dove sei?"

 

"Sto andando in carcere per un interrogatorio. È successo qualcosa?"

 

"Ascolta, mi ha appena chiamato uno dei miei compagni di calcetto e stasera devo fare un allenamento extra perché abbiamo una partita tra pochi giorni. Ti spiace se rientro più tardi? Valentina mi ha detto che può preparare lei la cena ed oggi ha ripetizioni quindi non serve che la seguo."

 

"No, figurati, non c'è problema," rispose, ansiosa di tagliare corto, spiando la reazione del maresciallo che mantenne però un'espressione neutra. Non capiva perché Pietro l'avesse chiamata per una cosa del genere, in orario di lavoro oltretutto, invece di mandare un messaggio.

 

"Ok, grazie amò. A stasera!"

 

"Va bene, a dopo."

 

Non era esattamente il saluto più entusiasta del mondo ma era l’unico che si sentiva di fare in quelle condizioni.

 

Trattenne il fiato, aspettandosi qualcosa da Calogiuri: un commento o anche solo uno sguardo sarcastico o di riprovazione, ma niente, continuò a guidare in quel silenzio carico di non detti.

 

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“Le ho già detto che non so niente!”

 

“Quaratino, senta, abbiamo due testimonianze diverse e concordanti che ci dicono che lei conosceva Constantinescu. Quindi le conviene parlare, se non vuole vedere aggiunti ulteriori reati ed anni alla proposta di condanna che già pende sulla sua testa. Lo sa anche lei che non ha speranza di essere assolto al processo, sì?”

 

Quaratino si limitò ad alzare le spalle, con quell’aria strafottente che la mandava in bestia. Ma doveva stare calma e ragionare: dopo tre ore inutili di interrogatorio, forse era giunto il momento di passare al poliziotto buono.

 

E però per farlo aveva bisogno di un’autorizzazione. Fece un cenno a Calogiuri ed uscì dalla sala degli interrogatori, lasciandoci dentro Quaratino ed il maresciallo. Compose il numero di Vitali, sperando rispondesse in fretta.

 

“Pronto?”

 

“Dottore, senta, sono ancora qui con Quaratino ma è completamente reticente a confessare, nonostante gli abbia detto chiaramente che ci sono due testimoni diversi che confermano ciò che sostengo. Mi autorizza ad offrirgli uno sconto di pena se collabora, e l’inserimento in un programma di protezione altrove? Credo che tema ritorsioni. Del resto in questo carcere c’è anche Romaniello e sappiamo bene che fine hanno tentato di far fare a suo tempo a Iannuzzi, e poi ci sono pure riusciti.”

 

“Dottoressa, lo sa che il caso è della dottoressa D’Antonio…”

 

“Lo so, dottore, lo so. Ma se nel traffico di veicoli con la Romania è coinvolta anche la cupola del maxiprocesso, lei si rende conto che non si tratta solo di auto rubate, ma di camion usati per trasportare rifiuti tossici e chissà che altro?”

 

“Me ne rendo conto, dottoressa, me ne rendo conto. D’accordo, ha la mia autorizzazione, con la D’Antonio parlerò io. Sebbene, a quanto mi ha riferito lei stessa, dottoressa, so che questa storia ha causato una certa tensione anche tra la D’Antonio ed il maresciallo e spero vivamente che questi conflitti tra lei e la dottoressa non si ripetano e soprattutto non abbiano un’escalation, mettendo in mezzo i ragazzi della PG.”

 

“Non dipende solo da me, dottore, e lo sa benissimo. E non voglio mettere in mezzo nessuno, mi creda.”

 

“Lo so, ma so anche che lei non è esattamente… accomodante e dedita al lavoro di squadra, Tataranni. In ogni caso, tornando al Quaratino, conto su di lei per ridurre la pena il meno possibile, intesi?”

 

“Che non mi conosce, dottore? Secondo lei ci tengo a fare un favore ad uno come Quaratino che, sarà pure un pesce piccolo, ma dal punto di vista umano… lasciamo perdere.”

 

“Ecco, appunto, dottoressa. Allora siamo intesi,” si congedò Vitali, chiudendo la comunicazione, ed Imma tirò un sospiro di sollievo.

 

La D’Antonio avrebbe fatto il diavolo a quattro, già lo sapeva. Ma Calogiuri era in salvo - prendere il toro per le corna e prendersi la colpa con Vitali prima che la D’Antonio gli andasse a spifferare delle sue omissioni aveva funzionato - e lei… lei aveva la scorza dura ed era fin troppo abituata alla grande disponibilità dei suoi colleghi.

 

“Quaratino, senta, ho una buona notizia e una cattiva,” proclamò, rientrando e piazzandosi al tavolo davanti a lui, in piedi, chinandosi in avanti per sovrastarlo maggiormente, “la cattiva è che, se non parla, alle sue accuse si aggiungono favoreggiamento nel traffico di rifiuti tossici e, soprattutto, in omicidio. Se le va male e la dottoressa D’Antonio ci vuole andare giù particolarmente pesante, e penso abbia intuito che non nutre per lei una grande simpatia, potrebbe chiedere il concorso in omicidio e in associazione per delinquere. O direttamente l’associazione per delinquere. Lei capisce che passa da un semplice traffico di veicoli rubati, con una pena tutto sommato limitata, a qualcosa che potrebbe comportare che lei non esca di qui per una ventina d’anni buoni, come minimo. Se sommiamo tutte le imputazioni a suo carico pure una trentina. Ora, lei ci tiene proprio ad invecchiare qui dentro, Quaratino?”

 

“Meglio invecchiare qui dentro vivo, che fare una brutta fine, dottoressa,” ribattè lui, sempre con quell’apparente sfrontatezza, ma Imma notò un piccolo tic ad un occhio che prima non c’era.

 

“Quaratino, parliamoci chiaro, le persone che lei teme la vogliano far fuori lo faranno anche se lei sta qui dentro. Lei ha presente l’aggressione capitata qualche tempo fa in carcere a Iannuzzi che-”

 

“Che poi è uscito ed è stato fatto fuori!”

 

“Perché è scappato, Quaratino, invece di farsi proteggere. Immagino lei sappia cosa sta succedendo alla maggior parte degli indagati in questo maxiprocesso, no? Gente molto più influente e potente di lei, misteriosamente morta suicidata, o finita in coma o, come Constantinescu, morto, tenuto congelato e poi buttato giù da una trivella per mettere su un bello spettacolino. E lei sa chi c’è detenuto qui dentro, non è vero, Quaratino? Ma lei pensa davvero che una volta che sapranno che siamo arrivati a lei, la lasceranno stare bello bello qui dentro senza provare a farla tacere prima che possa parlare?”


Alcune gocce di sudore gli imperlarono la fronte ed Imma sapeva di esserci quasi, era ora di passare alla carota, dopo le bastonate.

 

“Invece, se lei parla ora, non solo si garantisce un consistente sconto di pena, su questo l’accusa si impegna fin da ora, ma soprattutto le garantisco l’inserimento in un programma di protezione e lo spostamento in un istituto penitenziario ben lontano da qui.”

 

“Ma la mia compagna e mio figlio-”

 

“La sua compagna già è inserita in un programma del genere e pure suo figlio. Non saranno comunque qui nei dintorni, Quaratino. Il resto non dipende da me.”

 

Quaratino la guardò e poi fissò per qualche istante Calogiuri, nemmeno potesse consigliargli il da farsi.

 

“Si fidi della dottoressa, Quaratino. Io c’ero quando è morto Iannuzzi e… non è stato un bello spettacolo. Se parla e firma il verbale già riduce il rischio che la facciano fuori per farle portare i segreti nella tomba. E, in attesa della sua testimonianza al processo, prima, durante e dopo sarà in un’altra località, non raggiungibile da questi signori. Mentre qui… non sarebbe loro difficile farle avere un incidente. Sono specializzati in questo.”

 

Imma incrociò il suo sguardo, grata per quell’intervento in suo aiuto, oltretutto non richiesto.

 

Quaratino sembrò rifletterci ancora per qualche istante, poi scosse il capo e sospirò, mettendosi la testa tra le mani.

 

“D’accordo, tanto ormai sono fregato in ogni caso,” proclamò, sollevando il capo e lanciandole un’occhiata, “ma voglio un suo impegno per iscritto sulla riduzione della pena e su tutto il resto.”

 

“Quaratino, le ho già detto che ho l’approvazione della procura per concedergliela, poi ovviamente è il giudice a decidere, ma se la richiesta parte dall’accusa molto difficilmente può rigettarla. E il maresciallo qui è testimone e sta verbalizzando l’impegno preso. Suvvia, parli e non ci faccia perdere altro tempo che, se non finiamo troppo tardi, abbiamo modo di organizzare il suo trasferimento in tempi brevi e senza farle correre rischi inutili.”

 

“Va bene… io… io so veramente poco di questa storia, dottoressa. Constantinescu lo conoscevo, è vero. Me lo ha presentato un altro rumeno che collaborava con me per il traffico delle auto rubate. Aveva bisogno di lavorare ed era un camionista, poteva trasportare un altro genere di veicoli. All’inizio pensavo di usare anche lui per trasportare le auto dal confine a qui, non potendo lui passare il confine, col permesso scaduto. Ma poco dopo sono stato contattato da… da Romaniello.”

 

“Romaniello Saverio?” chiese Imma, e non solo per precisione formale.

 

“Sì, certo. Aveva bisogno di camion puliti, se lei mi capisce, non registrati, anonimi, da intestare a prestanome. E così glieli abbiamo procurati. Constantinescu andava fino a Trieste, recuperava un camion, tornava col camion, ed il giro si ripeteva in questo modo.”

 

“Ci hanno parlato di consegne, Quaratino, consegne di che cosa?”

 

“Di ciò che c’era da dare in cambio del camion, dottoressa. Soldi o droga principalmente.”


“E vi fidavate a farli trasportare da Constantinescu?”

 

“No, Constantinescu pensava di trasportare prodotti locali da rivendere al nord. La merce di valore in realtà era nascosta in doppi fondi nelle macchine che usava all’andata. Le vetture finivano in Romania, passando il confine, e poi tornavano indietro, tramite il nostro giro.”

 

“Insomma, una bella organizzazione, Quaratino. E tornando ai camion, quindi lei mi vorrebbe fare credere che non sapeva nulla del traffico di rifiuti tossici?” gli chiese, con un sopracciglio alzato, tornando a sporgersi sul tavolo.

 

“No, io consegnavo solo i camion, puliti, poi per cosa li usavano io non lo so.”

 

“Peccato che Constantinescu avesse sintomi tipici di qualcuno che i rifiuti tossici li ha trasportati per lungo tempo, Quaratino, e non di chi guida camion puliti come li definisce lei. Altro che puliti! Dal nord Constatinescu tornava con i camion pieni di rifiuti tossici, non è vero? Dica la verità che le conviene, o l’accusa di concorso in traffico di rifiuti tossici non gliela leva nessuno e la nostra offerta ovviamente decade.”

 

“Ma come, io-”

 

Lo interruppe, togliendosi la soddisfazione di picchiare i pugni sul tavolo, dopo che quello zotico lo aveva fatto sulla sua scrivania, a due passi da Diana oltretutto.

 

“Ho detto che l’offerta è valida se lei confessa, Quaratino, non se ci prende per scemi. Allora?!”

 

“Va bene… va bene…” sospirò nuovamente, passandosi una mano sulla fronte e tra i capelli, ormai completamente fradici di sudore, “è vero, Constatinescu non tornava con i camion vuoti. Ma… ma i dettagli del traffico di rifiuti io realmente non li conosco. Da dove venivano i rifiuti ad esempio, o dove finivano. Mettevo a disposizione i camion e l’autista. Poi se li gestivano Romaniello e gli altri.”

 

“Ma i camion dove li portava Constantinescu? Perché dei veicoli pieni di rifiuti tossici in attesa di sversamento non è che si possano tenere così in giro belli belli per strada.”

 

“C’era… c’era un deposito, un vecchio capannone abbandonato, di un’azienda agricola che ormai credo sia chiusa da anni. Constantinescu li portava lì. Poi altro non so, veramente, dottoressa, mi deve credere. Quando ho saputo che Constantinescu e… che altri autisti si erano sentiti male, come Iannuzzi… io… mi sono molto spaventato.”

 

“Immagino la sua commovente partecipazione emotiva, Quaratino. L’indirizzo di questo capannone e lo voglio prima di subito! E se ci sono altri posti, che mi pare strano le consegne si concentrassero tutte in un luogo solo.”

 

“No, dottoressa, il posto era quello. Almeno nell’ultimo anno. Prima non me ne occupavo io, ma nell’ultimo anno il posto era quello. C’era un camion circa a settimana e in quel deposito di camion ce ne stavano almeno quattro. Poi un modo di smaltire i rifiuti lo trovavano.”

 

“E meno male che non ne sapeva niente! L’indirizzo, Quaratino, ora.”

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa, che volete fare?”

 

La domanda di Calogiuri arrivò non appena furono fuori dalle mura carcerarie, l’aria fresca di inizio marzo nei polmoni e per fortuna nessun giornalista in vista.

 

Aveva già chiamato Vitali per disporre il trasferimento di Quaratino. Ormai era diventata quasi paranoica quando si trattava del maxiprocesso: non voleva l'ennesimo indagato da far testimoniare tramite seduta spiritica.

 

“Sono le quattordici, Calogiuri. Andiamo subito in questo capannone, che qua dentro i muri hanno orecchie ed è meglio arrivarci prima che quelli della cupola mangino la foglia che sappiamo di Quaratino.”

 

“D’accordo ma… solo noi due? Non mi pare prudente, vista la situazione…” obiettò, con un’aria preoccupata, come non gliel’aveva vista sovente.

 

Del resto non aveva tutti i torti: in quel caso c’erano stati più morti che feriti - ed indagati - e lei non era certo addestrata all’azione, al massimo alla sopravvivenza. Ed andarci da soli, se ci fosse ancora stato qualcuno - per quanto la cosa fosse improbabile - poteva essere molto pericoloso.

 

“Chiama in PG, Calogiuri, e chiedi a chi è disponibile di raggiungerci. Anche se preferirei che eventuali prove le vedessimo solo io e te, ma almeno per assicurarci che l’area sia sicura.”

 

“D’accordo, dottoressa, volete che chiami anche la scientifica?”

 

“Una volta sul posto e valutato che elementi troviamo. Però mo, Calogiuri, andiamo, veloce! I colleghi li puoi chiamare pure dalla macchina.”

 

“Agli ordini, dottoressa,” replicò, salendo in macchina insieme a lei, senza però il sarcasmo degli ultimi giorni, ma con quell’apprensione latente.

 

Sfrecciarono verso la campagna, mentre Calogiuri faceva le telefonate di rito. Gli rispose Matarazzo - Imma riconobbe il tono a dir poco ostile di lei pure senza il vivavoce - e lui le diede l’indirizzo a cui raggiungerli.

 

“Dovrebbero arrivare poco dopo di noi, se si attivano subito,” riassunse, chiudendo la telefonata e concentrandosi meglio sulla guida.

 

Rimasero in silenzio, mentre lasciavano la statale per infilarsi su una strada decisamente più stretta, i campi ancora brulli che si estendevano attorno a loro ben oltre l’orizzonte.

 

“Grazie per l’aiuto con Quaratino,” si decise a dire dopo attimi interminabili di silenzio, lanciandogli uno sguardo.

 

“Figuratevi, dottoressa. Avete fatto tutto voi,” le rispose, e le sembrò di cogliere quell’ammirazione nel suo tono di voce che era da un po’ che non sentiva più.

 

Ma non ricambiò lo sguardo, rimanendo concentrato sulla strada.


Forse anche per lui questa vicinanza forzata era difficile da sopportare: l’elettricità che continuava a crescere, a comprimersi, a caricarsi.

 

Stava per esplodere di frustrazione quando finalmente si trovarono vicino ad un capannone, circondato da boscaglia su due lati, ben riparato e nascosto, isolato.

 

Un nascondiglio quasi perfetto.

 

Parcheggiarono la macchina poco distante ma Calogiuri non scese, sganciando solo la cintura e lo vide recuperare la pistola dalla fondina. 

 

Fece per slacciare la cintura anche lei ma lui la bloccò, posandole una mano sul braccio, una scarica che la fulminò immediatamente, facendola tremare. Dopo settimane di lontananza era ipersensibile al suo tocco, ancora più del solito.

 

"Aspettiamo i rinforzi, dottoressa," pronunciò, in quello che pareva assurdamente un ordine che non avrebbe potuto ovviamente darle.

 

Nonostante ciò, sospirò ed annuì: ormai erano sul posto e, per qualche minuto di differenza, non valeva la pena correre rischi inutili.

 

Ma fu in quel momento che lo vide: un filo di fumo, che iniziava ad uscire da una finestra del capannone. 

 

"Dobbiamo chiamare i vigili del fuoco, Calogiuri, subito!"

 

"Chiamateli voi, io vado a vedere che succede: il fumo è poco, forse stanno solo bruciando delle prove. Se li blocchiamo ora siamo ancora in tempo."

 

E, senza aspettare risposta, scese dall'auto, la pistola in mano. Imma, il cuore in gola, compose il 115, slacciandosi la cintura e, contravvenendo "all'ordine", scese dalla macchina: col cavolo che lo lasciava entrare lì dentro da solo!

 

"Sono il sostituto procuratore Tataranni. Mi serve un intervento urgentissimo nel capannone dell'ex azienda agricola Crispino," spiegò concitatamente, dando l'indirizzo preciso, "stanno tentando di bruciare il capannone. È un principio di incendio, ma se non intervenite subito ci potrebbe essere un rischio ambientale. È possibile che qui fossero stoccati rifiuti tossici. Dieci minuti? Va bene, fate più veloce che potete. Noi cerchiamo di mettere in sicurezza l'area."

 

Chiuse la chiamata ed aprì il bagagliaio, afferrando il piccolo estintore portatile, togliendo la sicura. Se per cercare di spegnere l'incendio o come arma di fortuna non l'avrebbe saputo dire: di sicuro in entrambi i casi era terribilmente inadeguato, e lo sapeva. Richiuse il bagagliaio che Calogiuri era già arrivato alla serranda e si era piazzato dietro al portoncino, pronto a fare irruzione.

 

Si affrettò a raggiungerlo, ma lui la sentì arrivare e si bloccò. 

 

"Che fate? Torna- te in auto, per favore!" intimò, in quello che era poco più di un sussurro, il voi che per un secondo aveva lasciato spazio al tu.

 

"Se entri tu, entro anch'io, Calogiuri. I rinforzi ed i pompieri stanno arrivando. Forza, veloce ma con prudenza, mi raccomando."

 

Calogiuri la guardò come se volesse contravvenire all'ordine e trattenerla lì in qualche modo, ma il fumo sembrò peggiorare, l'odore che si diffondeva nell'aria e, dopo un attimo di esitazione, si rimise in posizione, con un "tenetevi sempre dietro alle mie spalle, però."

 

Imma annuì e, con un boato, Calogiuri calciò la porta ed entrò, facendole poi cenno con una mano per darle il via libera.

 

Attaccata alla sua schiena, procedettero nel capannone, apparentemente deserto, a parte per alcuni pallet impilati e dei cassoni di plastica, forse eredità dell'attività precedente.

 

E poi videro una zona uffici in fondo, con una finestra che lasciava intravedere il fumo che veniva da dentro. Sempre camminando con cautela, schiena contro schiena, procedettero verso la porta, fino a fermarsi poco distante.

 

"State riparata qui dietro mentre metto in sicurezza l'ufficio," le sussurrò, accucciandosi dietro ad uno dei cassoni, il più vicino alla porta, e facendole segno di fare lo stesso.

 

Stava per protestare ma sospirò ed annuì, accettando "l'ordine", dovendo riconoscere che era tutto sommato di buonsenso, non avendo lei una pistola in mano.

 

Calogiuri diede una rapida occhiata da dietro il cassone e si tirò in piedi.

 

Imma sentì il rumore di un motore e di ruote sullo sterrato e pregò che fossero i rinforzi - i pompieri non potevano essere, era passato troppo poco tempo - e non altre brutte sorprese.

 

Lo vide fare un paio di passi verso la porta e, in quel momento, non avrebbe saputo dire come, notò un movimento alla loro destra, da dietro ad una delle pile di pallet, uno scintillio metallico e soprattutto che Calogiuri invece aveva ancora gli occhi fissi sulla porta, concentrato e pronto ad entrare in azione. 

 

Fu una questione di secondi, d'istinto, di adrenalina, il mondo che sembrava andare al rallentatore. 

 

Si udì urlare il suo cognome, il corpo che le si muoveva da solo, lanciandoglisi addosso, lui che barcollava in avanti, perdendo l'equilibrio, e poi uno sparo, un boato assordante, vicino, troppo vicino. E fumo, fumo dell'estintore che soffiava e fischiava, riempiendo l'aria e levandole il fiato, intanto che finiva a terra, sopra di lui. E poi braccia sulla testa e sui fianchi, mentre rotolavano sul pavimento, e stavolta Calogiuri era sopra di lei: il peso dei muscoli che la schiacciava a terra, facendole da scudo col suo corpo.

 

E ancora spari, altri spari, vicini e dopo più distanti, il rumore dei vetri che si infrangevano, mentre tratteneva il fiato e gli passava le mani sulla schiena, terrorizzata all'idea di sentire un lamento di dolore o il bagnato appiccicoso del sangue.

 

Ma non sentì niente e lui rimase immobile, continuando a farle da scudo umano, il fumo acre che la fece tossire, finché gli spari non si fecero sempre più distanti ed udì delle voci familiari - non era mai stata tanto felice di sentire Matarazzo e Capozza - gridare concitate "di là, di là, sta scappando!", seguite da altri spari e dal rumore di un motore.

 

Ed in quel momento osò riaprire gli occhi, il fumo che un poco si diradava, trovandosi davanti il giaccone di Calogiuri, che ancora la teneva riparata, le braccia che le circondavano la testa.

 

"Sei- sei ferita?" lo sentì sussurrarle appena più in alto della testa, la massa muscolare sopra di lei che si muoveva, lasciandole più spazio per respirare e per ricominciare a sentire.

 

"N- no, non mi pare," mormorò, il sangue e l'adrenalina che ancora le pompavano nelle vene, "tu?"

 

Calogiuri si risollevò il necessario affinché i loro sguardi si potessero incrociare, e quello che vi lesse le piazzò una pallina da golf in gola, gli occhi che le pungevano e non c'entrava il fumo. Un misto di sollievo e di terrore, due lacrime che gli scendevano sulle guance imbiancate dalla schiuma dell’estintore, come i capelli e parte del giaccone.

 

"Tu?" ripeté, il cuore in gola, tirando un sospiro di sollievo quando le fece segno di no col capo, il fumo che le provocò un altro colpo di tosse.

 

Per qualche istante che sembrò infinito restarono a guardarsi, così, come paralizzati.

 

"Ma… ma sei matta?! Ti potevi fare ammazzare!" esclamò all'improvviso, un lampo di rabbia che gli passò nel viso, oscurando tutto il resto.

 

"Perché se invece ti facevi ammazzare tu, allora andava bene?!" ribatté, non potendo evitare di alzare a sua volta la voce, l'incazzatura irrazionale che montava mentre l'adrenalina scemava.

 

"Ma che c'entra?! Tu sei più importante di me e-"

 

"Ma tu per me sei più importante, lo vuoi capire?!" le sfuggì dalle labbra, prima che potesse fermarsi, e lo vide spalancare e poi richiudere la bocca, sorpreso, una lacrima che gli cadde finendole sulla guancia e provocandole un brivido lungo la schiena, "e non vali meno di me, mettitelo in testa!"

 

"Imma…" sussurrò, in quel modo che non pensava avrebbe mai più sentito, come se il suo stesso nome fosse una dichiarazione d'amore.

 

Sentì dita tra i capelli e poi sul viso, una corrente magnetica che lo attraeva verso di lui, gli occhi che le si chiudevano ed il suo respiro così vicino alle labbra e poi-

 

Crack

 

Il rumore di un vetro che si rompe li fece sobbalzare, l'adrenalina che tornava in circolo, mentre si guardavano disperatamente intorno e poi… e poi la vide.

 

A pochi passi da loro, vicina al cassone, Matarazzo, la pistola puntata davanti a sé, un'espressione scioccata che rendeva quasi comico quel suo bel viso da Miss, i frammenti di vetro della finestra dell'ufficio, rotta durante la sparatoria, sotto il tacco di uno stivaletto.




 

Nota dell’autrice: come avrete potuto desumere dal finale, da questo capitolo in poi ci saranno tutta una serie di colpi di scena e svolte di trama. Stiamo entrando nel vivo delle montagne russe e di questa seconda parte di storia, più agrodolce, e a breve ci saranno parecchi scossoni.

Spero che si mantenga interessante e coinvolgente, nonostante tutti gli alti e bassi e i problemi tra Imma e Calogiuri. Ringrazio chi segue questa storia e chi l’ha inserita tra le preferite. Vi ringrazio di cuore per tutte le recensioni che mi avete lasciato finora, che mi sono state utilissime e mi fanno sempre un piacere immenso. E vi sarò davvero molto grata se anche per questo capitolo mi farete sapere sinceramente che ne pensate, perché questa fase della storia è veramente molto delicata da tarare e da gestire.

Il prossimo capitolo arriverà sempre di domenica, 2 febbraio.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 15
*** Il Sangue ***


Nessun Alibi

 

Capitolo 15 - Il Sangue


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Nota dell’autrice: Abbiamo lasciato Imma e Calogiuri stesi a terra, uno sopra all’altra, in procinto di baciarsi, quando è sopraggiunta Jessica. Che succederà ora? Non vi faccio perdere ulteriormente tempo, vi lascio alla lettura e ci rileggiamo alle consuete note a fine capitolo ;)


Matarazzo continuava a fissarli, immobile come una statua di sale, la pistola ancora puntata, le braccia rigide ma che tremavano leggermente, tanto che per un attimo temette che le partisse un colpo.

 

Le salì il panico fino in gola, chiedendosi cosa avesse sentito e visto soprattutto. 

 

Calogiuri non perse tempo e si sollevò del tutto da sopra di lei, sembrando altrettanto sconvolto ed impanicato. Imma provò ad alzarsi da terra ma le gambe le cedettero e lui la afferrò per un soffio, passandole una mano intorno alle braccia e reggendola di peso, mentre Matarazzo, che aveva finalmente abbassato l’arma, non levava loro gli occhi di dosso, con un'espressione che dallo shock virava al rabbioso.

 

La fissò di rimando, sfidandola a dire qualcosa, ma l'agente mantenne il silenzio. Dopo poco, cercò di sfilarsi dalla presa di Calogiuri con un "ce la faccio a reggermi, mo. Tranquillo, Calogiuri."

 

"No, dottoressa, vi riaccompagno alla macchina e-"

 

Uno scalpiccio di passi annunciò l'arrivo dei vigili del fuoco ma lei urlò un "fermatevi!" che li bloccò sulla porta.

 

"Calogiuri, guarda che c'è nell'ufficio e poi, se serve, li facciamo entrare. Se no la scientifica qui non trova più niente," ordinò, appoggiandosi alla parete esterna dell'ufficio, intimando, col tono che non ammetteva obiezioni, quando non lo vide muoversi,  "Calogiuri, è un ordine!"

 

Lui deglutì ed annuì, lanciandole un'ultima occhiata preoccupata, per poi recuperare la pistola, abbandonata a terra poco distante, ed avvicinarsi alla porta. Si bloccò con la mano sulla maniglia, guardandole le gambe ed esclamando, atterrito, "ma... sanguin- ate!"

 

Imma abbassò lo sguardo e notò che era vero: un rivolo di sangue le scendeva dal ginocchio destro fino alla caviglia. Sollevò leggermente la gonna, temendo il peggio, il cuore che le rimbombava nelle orecchie, Calogiuri che, infrangendo l'ordine, tornava ad avvicinarsi, il terrore in quei suoi occhi troppo azzurri. Per fortuna si avvide che era una semplice sbucciatura, la calza che si era strappata sul ginocchio, probabilmente quando si erano rotolati a terra. 

 

"Tranquillo, non è niente. Veloce, Calogiuri, l'ufficio!"

 

Calogiuri assentì, facendo un cenno a Matarazzo che, sempre con quell'espressione durissima sul volto, si piazzò dall'altro lato della porta. Fecero irruzione, urlando dopo poco: "libero!"

 

Imma, zoppicante - cominciava a sentire male al ginocchio, ora che l'adrenalina scemava - si avvicinò all'ufficio, sostenendosi alla parete col gomito, per non lasciare impronte.

 

Spiò oltre l'uscio e vide una pila di carte ormai praticamente in fumo ed una tanica di benzina lì vicino, ancora chiusa: chi era venuto ad appiccare l'incendio non aveva potuto finire il lavoro e la fiamma per fortuna si era estinta da sola, forse per l’umidità, una volta che la carta era bruciata, senza intaccare i mobili circostanti. 

 

"Chiamate subito la scientifica! Dite ai vigili del fuoco che ci servirà magari la loro consulenza, ma per ora è meglio che non entrino. Matarazzo, il sospettato che fine ha fatto?"

 

"È scappato in auto, dottoressa, approfittando della confusione e del fumo. Capozza lo sta inseguendo con Lorusso."

 

Siamo a posto! - pensò, chiedendosi perché non lo avesse fatto Matarazzo l'inseguimento, per una volta che la sua guida sportiva sarebbe stata utile, invece di quella incerta di Capozza e poi-

 

E poi almeno non ti avrebbe beccata avvinghiata a Calogiuri, no, Imma? - le ricordò la Moliterni, gentilissima come sempre.

 

Chiuse gli occhi per scacciare quel pensiero e, quando li riaprì, si posarono sull'estintore, rotolato poco distante.

 

Una vampata tremenda al viso ed un brivido freddo la schiaffeggiarono nel notare ciò che probabilmente aveva causato il boato e il fumo: il foro di ingresso di un proiettile.

 

L’estintore le era caduto dalle mani nel buttarsi addosso al maresciallo. Si rese conto del tutto di quanto ci fosse andata così vicina, troppo vicina a… a perderlo per sempre.

 

Il mondo si fece a macchie, il sangue che le finì nei piedi e si sentì mancare le forze. Barcollò, cercando disperatamente di stare in piedi, maledicendo la propria debolezza: non era mica una donnicciola dell'Ottocento che sveniva ad ogni soffio di vento.

 

E, di nuovo, delle braccia familiari la presero, stavolta per la vita, tenendola in piedi ed intimando un, "adesso però vi porto fuori. Matarazzo, chiama la scientifica, subito, e un'ambulanza!"

 

"Niente ambulanza o vi faccio rapporto! È solo un calo di pressione, tranquillo, Calogiuri," lo rassicurò, appoggiandosi però di più a lui, la vista che piano piano tornava normale ma la testa che ancora le girava tremendamente.

 

Calogiuri sembrò voler protestare ma rimase poi in silenzio, continuando a condurla rapidamente verso l'uscita, lei che cercava di concentrarsi su dove mettere i piedi per evitare altri inciampi.

 

Fu così che la notò: una macchia rossa, tonda, una goccia quasi perfetta sul pavimento davanti a loro.

 

"Fermati, Calogiuri!" ordinò e lui la guardò preoccupato, forse temendo un altro mancamento, "non guardare me, guarda a terra!"

 

"Sangue?"

 

Osservarono meglio il pavimento, notando che la scia di macchioline proveniva da vicino all'ufficio e proseguiva fino alla serranda e presumibilmente pure oltre.

 

"Matarazzo, la scientifica, ora! O lei o Capozza c’avete avuto la mira buona. E allertate gli ospedali di avvertirci se si presenta qualcuno con una ferita d’arma da fuoco, anche se ne dubito."

 

"Agli ordini, dottoressa," sibilò, estraendo però il cellulare e facendo come le era stato chiesto.

 

Arrivarono in qualche modo alla macchina di Calogiuri, che la fece accomodare sul sedile del passeggero.

 

"Vi posso almeno accompagnare al pronto soccorso? Vi dovete far medicare," chiese, il tono dolce e preoccupato come probabilmente mai prima.

 

Ed era tutto dire, trattandosi di Calogiuri.

 

"Sì, al pronto soccorso per un ginocchio sbucciato, mo, che la sanità italiana non è già abbastanza intasata, Calogiuri. Non serve! Basta un po' di disinfettante e un cerotto o una garza. E devo togliere le calze."

 

"Se volete, il kit di pronto soccorso nel bagagliaio c'è, ma…"

 

Imma si sentì di nuovo avvampare, ma per motivi diversi, rendendosi conto che non fosse il caso che lo facessero lì, davanti ad uno stuolo di vigili del fuoco, visto che avrebbe dovuto come minimo sollevare la gonna per levare i collant.

 

Poi altro che le voci… a parte che con quello a cui aveva probabilmente assistito Matarazzo, forse era troppo tardi per preoccuparsi di quello.

 

"Se volete torniamo in procura, o ci allontaniamo un poco di qui, se preferite.”

 

"La seconda che hai detto, Calogiuri, tanto stiamo in un posto isolato," acconsentì, chiudendo la portiera, Calogiuri che si affrettò a mettersi al volante e a partire.

 

Percorsero pochi chilometri: giusto il necessario per essere in mezzo al nulla più totale dei campi spogli, appena seminati. Calogiuri accostò e scese dall’auto, aprendo il bagagliaio e poi la portiera del passeggero, un kit di primo soccorso in mano.

 

“Se… se volete levarvi le calze, vi copro, in caso passasse qualcuno,” si offrì, girandosi di spalle e facendo da barriera, in modo che lei fosse riparata tra l’auto, la portiera aperta e il corpo di lui.


Imma provò un moto assurdo di tenerezza e non solo per il voi, chiaramente usato per cercare di mantenere un minimo di professionalità, visto che non c’era in giro nessuno, ma anche che si fosse voltato… nonostante tutto il pregresso tra loro.

 

Ma forse era meglio così o… o non sapeva che sarebbe potuto succedere: l’atmosfera si stava già facendo fin troppo elettrica, passata l’adrenalina, o forse proprio per quella.


Si sbrigò a sollevare la gonna e far scendere i collant, almeno finché arrivò all’altezza del ginocchio infortunato e le sfuggì un’esclamazione di dolore dalla gola.

 

“Tutto bene, dottoressa?”

 

“Mi si sono incollate le calze alla ferita, Calogiuri.”

 

“Se… se vi sedete ci penso io,” pronunciò, sembrando a disagio, e ad Imma sfuggì un altro sorriso intenerito, rimettendo a posto la gonna e riaccomodandosi sul sedile.

 

Calogiuri si voltò e si mise in ginocchio davanti a lei, in una posa che non fece che aumentare il crescente imbarazzo, mentre, per qualche assurdo motivo, le tornò in mente Romaniello e quel soprannome, Il Cavalier Servente.

 

Le dame, i cavalier, l’arme, gli amori… e tutto il resto appresso.

 

Calogiuri si igienizzò le mani, estrasse il disinfettante, lo aprì e lo sollevò verso il suo ginocchio. Non potè non notare che la mano gli tremava terribilmente - sicuramente non per il clima, fresco ma non così tanto. Le dita della mano libera si posarono all’esterno del ginocchio infortunato, vicino alla ferita ma non troppo, una scossa elettrica tremenda che le percorse tutto il corpo, prima che le scappasse un mugolio di dolore, quando sentì il disinfettante colare sulla ferita.

 

“Scusa-te, ma devo bagnare la ferita per togliere la calza senza strappare,” spiegò Calogiuri, rimettendosi al lavoro.

 

Era delicato, di una delicatezza commovente, come sempre, nonostante le mani tremanti, il dolore che si mischiava alle scosse elettriche in una specie di sovraccarico per le sue terminazioni nervose, che non ci capivano più niente - e lei con loro.

 

Erano quasi quarant’anni che non si sbucciava le ginocchia, dai tempi delle scuole elementari, ma ormai la regressione era completata ed il cerchio era chiuso.

 

Riuscì infine a levarle i collant, il rossore familiare che gli prese il collo e le guance quando gliele sfilò insieme agli stivaletti leopardati, il destro ormai macchiato di sangue. E poi si impegnò con la medicazione e la garza, lei che d’istinto gli strinse una spalla, l’altra mano che artigliava il sedile, cercando di contenere il male e non muoversi troppo.

 

Ben presto la fasciatura fu terminata, il dolore che gradualmente scemò, mentre le dita di Calogiuri le sembrarono improvvisamente impresse a fuoco nella sua coscia, appena sopra il ginocchio. Il fiato le si fece corto, lui sollevò il viso ed incrociò i suoi occhi: arrossati, stanchi, sfatti ma pieni di troppe emozioni per potere essere definiti.

 

Senza sapere come, le mani le scivolarono dalle spalle a quel collo rosato, che sotto i suoi polpastrelli divenne rosso vivo, la pelle ancora più morbida di quanto la ricordasse - ah, la gioventù!

 

Stava per cedere alla follia e baciarlo, come avrebbe già voluto fare nel capannone, fregandosene dei buoni propositi - che le sembravano improvvisamente talmente stupidi ed insensati, di fronte alla prospettiva della morte - ma in quel momento sentirono il rumore di un motore e videro la camionetta della scientifica avvicinarsi a marcia spedita.

 

Calogiuri si affrettò a tirarsi in piedi, le mani che le mollarono bruscamente la gamba, causando brividi di freddo e non solo, mentre si dedicava a ritirare tutto nel kit di primo soccorso, con una cura che neanche fosse stata una valigetta piena di esplosivi.

 

Imma si rinfilò gli stivaletti, maledicendo il freddo alle gambe, ripromettendosi di portarsi sempre un paio di collant di ricambio, e richiuse la portiera. Il maresciallo la raggiunse dal lato del guidatore proprio mentre la scientifica si accostava a loro, per chiedere indicazioni.

 

“Sì, proseguite su questa strada, vi raggiungiamo tra poco,” urlò, il sangue che ancora le rimbombava nelle orecchie, intercettando l’occhiata preoccupata di Calogiuri e rassicurandolo, “ce la faccio, Calogiuri. Andiamo a vedere chi c’ha fatto sto bello scherzetto, sempre se Capozza è riuscito a prenderlo.”

 

“Sei sicura?” le domandò, e non era il carabiniere che parlava e chiedeva conferma dell’ordine alla dottoressa, era l’uomo che chiedeva conferma a Imma, come l’aveva di nuovo chiamata nel capannone.

 

“Tranquillo, ce la faccio. E se non mi sentissi bene te lo dico subito, veramente, non ti preoccupare.”

“Che non ti conosco?” rispose con un sorriso mezzo esasperato, strappandole a sua volta un sorriso.

 

“Non ci tengo a sfracellarmi di nuovo a terra e a farmi fare un’altra medicazione, Calogiuri,” lo rassicurò, anche se, dolore a parte, non era stata poi così male, affatto.

 

Calogiuri fece inversione a U. In un silenzio carico di elettricità ma senza quella malinconia latente, ritornarono al capannone, trovandosi di fronte Matarazzo che continuava a fissarli, ostile, gli occhi che si alternavano tra loro due per poi cadere sulla fasciatura sul ginocchio. E, purtroppo, al suo fianco c’era Capozza, con un’aria mortificata che non prometteva niente di buono.

 

“Capozza… non mi dica che-”

 

“Mi è scappato, dottoressa, mi dispiace! Ad un certo punto si è infilato nel bosco e… ho ritrovato la macchina ma non so dove sia finito. Ma era ferito, c’era sangue sul sedile, dubito possa essere andato lontano.”

 

“Dobbiamo chiamare subito una squadra per perlustrare il bosco.”

 

“Ci penso io, dottoressa, e-” si offrì Calogiuri, ma Matarazzo lo interruppe, con un’occhiata eloquente, annunciando: “non si preoccupi, maresciallo, ho già fatto io, non appena Capozza è tornato a mani vuote. Che non sapevo se e quando sareste tornati.

 

“Bella iniziativa, Matarazzo,” si costrinse a complimentarsi Imma, per una volta senza rispondere al sarcasmo con altro sarcasmo, ma Miss Sicilia la guardò come se l’avesse appena insultata.

 

“Capozza, conduca un paio di agenti della scientifica all’auto. Calogiuri, vieni con me a perlustrare meglio il capannone, mo che è sicuro. Matarazzo, attenda i rinforzi e dia loro istruzioni per il pattugliamento del bosco, visto che li ha chiamati lei. Una volta che abbiamo finito col capannone la raggiungiamo, Capozza, che la macchina voglio vederla pure io. Forza, veloce!”

 

E, dopo un’ultima occhiata raggelante di Matarazzo ed una mortificata di Capozza, rientrò in quel capannone, l’odore della schiuma dell’estintore misto al fumo che permeava ancora l’aria, la presenza rassicurante di Calogiuri alle sue spalle che le fu annunciata da una scarica di elettricità statica.

 

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Sospirò e dovette arrendersi: a parte le tracce di sangue e ciò che delle carte si era salvato dall’incendio, nel capannone non c’era niente di apparentemente utile, almeno ad occhio nudo.

 

E pure sulla vettura: un’auto che, da una prima ricerca, risultò intestata ad un pensionato ottantasettenne. L’ennesimo prestanome del giro di Quaratino, probabilmente.

 

A parte la macchia di sangue e qualche capello, utili per il DNA, nulla: la macchina era stata chiaramente usata appositamente per quella missione.

 

E quindi non poteva essere una coincidenza: qualcuno aveva intuito che sarebbero presto arrivati al capannone ed aveva agito per far sparire le prove. Probabilmente non pensavano che ci si sarebbero recati immediatamente.

 

Ma la soffiata doveva essere partita dal carcere, per forza. Si chiese se qualcuna delle guardie fosse in combutta con Romaniello e con i Serpenti. Il trasferimento di Quaratino doveva avvenire prima di subito.

 

Certo, per la fretta il criminale aveva dovuto lasciare delle tracce, che sarebbero state fondamentali, qualora fosse già stato schedato. Ma se non lo fosse stato… doveva solo sperare che le pattuglie della forestale e dei carabinieri lo trovassero nel bosco.

 

“A che pensate, dottoressa?”


“Che oggi non troveremo più niente, Calogiuri. Meglio rientrare, che tra poco farà buio. Hai saputo niente di Quaratino?”


“Sì, dottoressa, mi hanno riferito che sta raccogliendo i suoi effetti personali e lo trasferiranno oggi stesso nel carcere di Milano,” spiegò, avviandosi insieme a lei verso l’auto di servizio.

 

Incespicò sullo sterrato, tra i tacchi ed il ginocchio malandato, e si sentì afferrare per un braccio, un fuoco che le si diffuse immediatamente fino alla punta delle dita, non rendendo affatto più facile la deambulazione. Ma si lasciò sorreggere, contando che lui avesse abbastanza equilibrio per entrambi, pure in senso metaforico.


“Bene, speriamo che la distanza sia sufficiente e che i Serpenti non abbiano contatti pure lì. Ma più di così non possiamo fare…” riuscì infine a pronunciare, quando lui lasciò la presa per aprirle la portiera, abbassandosi con un po’ di fatica sul sedile, il ginocchio che cominciava a pulsare.

 

Calogiuri partì e, in un’atmosfera talmente densa da levare il fiato, percorsero in relativo silenzio la stradina sterrata che dal bosco conduceva verso il capannone. Superandolo notò che la camionetta della scientifica era ancora lì per gli ultimi rilievi, mentre l’auto di servizio usata da Matarazzo era assente: l’agente doveva essere già rientrata.

 

E te pareva! Voglia di lavorare saltami addosso! - pensò, con un sospiro, seguito però da una fitta di preoccupazione.

 

Sperava non fosse corsa a far rapporto a Vitali, non che avesse prove in mano: lei e Calogiuri avevano appena rischiato la vita e potevano spiegare facilmente perché lui fosse sopra di lei. Quello che si erano detti e che fossero palesemente in procinto di baciarsi… quello sarebbe stato assai più difficile da spiegare, sebbene sarebbe stata la parola di Matarazzo contro la sua e quella di Calogiuri. Ma stavolta non poteva precederla, andando da Vitali con una scusa in proposito, senza spararsi nei piedi da sola. Perché una scusa credibile semplicemente non esisteva, probabilmente nemmeno Latronico sarebbe riuscito ad inventarsela.

 

Avevano percorso qualche chilometro, la penombra che diventava buio, quando Calogiuri prese una buca ed il ginocchio le finì contro lo sportello dell’auto, causandole un’esclamazione di dolore.

 

“Tutto bene?” lo sentì chiedere, preoccupato, frenando immediatamente, la macchina che si arrestava in mezzo al nulla più assoluto.

 

“Ho… ho solo picchiato il ginocchio, niente di grave, tranquillo,” lo rassicurò, mentre si teneva ai lati della fasciatura, nemmeno questo potesse fermare il male.

 

“Mi dispiace io… se vuoi- se volete, posso rifare la medicazione,” si offrì, e fu in quel momento che la sua mano destra finì sopra le sue, “fai- fatemi vedere.”

 

Una scossa elettrica più forte di tutte le precedenti messe insieme le fece sfuggire un’esclamazione che era di tutto tranne che di dolore. Istintivamente gli bloccò la mano tra le sue, perché il suo tocco in quel momento non era solo pericoloso, ma insopportabile.

 

Il fiato corto che manco avesse avuto l’asma, il cuore che pareva un martello pneumatico, ebbe la malaugurata idea di incrociare il suo sguardo, così carico di preoccupazione, di desiderio, di amore, mentre la mano di lui le stringeva spasmodicamente le dita.

 

Fu di nuovo questione di secondi, d’istinto, non avrebbe saputo sinceramente dire chi avesse iniziato, solo che si trovò incollata alle sue labbra, stretta tra braccia che le erano mancate più dell’aria, a baciarlo con disperazione, compressa tra il calore rassicurante del suo petto ed il sedile.

 

Forse per le ore passate l’uno accanto all’altra senza poter sfogare la tensione ormai alle stelle, forse per le settimane di astinenza reciproca, forse per l’adrenalina, forse all’idea della morte, mai tanto vicina, di ciò che avevano rischiato, furono colti da una specie di raptus, le mani che finivano sotto ai vestiti, toccando, accarezzando, con una frenesia incontenibile.

 

Almeno fino a che sentì le dita di lui insinuarsi sotto la gonna, proprio mentre si rese conto di avergli appena slacciato i pantaloni.


“Calogiuri, non-” lo bloccò, fermandogli le mani, prima che il raptus li conducesse a fare quella che non era solo una follia, ma un suicidio bello e buono.

 

“Scu- scusami, scusatemi, io-” balbettò, il rossore che gli si vedeva pure al buio, affrettandosi a ritrarre le mani fino a tenersele in grembo, chiuse a pugno.

 

“Non ti devi scusare,” lo rassicurò con un sorriso, sembrandole di essere tornati indietro nel tempo, all’estate precedente, a quel benedetto e maledetto ingorgo nel traffico che li aveva condotti fino a quel momento.

 

“Po-portami a casa,” le uscì dalla bocca, prima di potersi fermare, e lo vide guardarla con una delusione tale che fu un vero e proprio schiaffo.

 

Stupida, stupida! Ti aveva detto chiaro e tondo che non voleva solo questo e tu… tu ti fai avanti così, come un’assatanata?!

 

“D’a- d’accordo, dottoressa, vi riporto a casa,” replicò, deglutendo visibilmente, come compiendo uno sforzo sovrumano per ricomporsi, le mani che tornavano sul volante.

 

Comprese in quel momento che l’aveva fraintesa. E che, in quella specie di lapsus, in quell’assenza dell’aggettivo possessivo tua, stava un significato talmente grande che non serviva certo Freud per comprenderlo.

 

Avrebbe potuto tacere, anzi, avrebbe dovuto tacere, approfittando del malinteso, ma non ci riusciva ad essere razionale, non quel giorno.

 

“Inte- intendevo casa tua, Calogiuri,” sussurrò, con gli occhi bassi, avendo paura di leggere la sua espressione e trovarci un rifiuto, “scusami, lo so che non… che non è giusto e che non avrei dovuto, ma io non-”

 

Un tocco sulla guancia la zittì, dita tremanti che le sollevarono il viso fino a portare a guardarlo negli occhi, prima di trovarsi trascinata in un altro bacio, stavolta più breve e delicato.

 

“Non mi importa. Oggi non mi importa di niente,” le sussurrò sulle labbra, riaprendo gli occhi ed inchiodandola con uno sguardo che fu il colpo di grazia.

 

Lo baciò un’altra volta, tenendogli il viso tra le mani, imponendosi infine di staccarsi completamente da lui, prima di perdere del tutto il controllo.

 

Col fiato corto, si riallacciò la cintura, mentre lui si rimise alla guida, i minuti che sembravano eterni, mentre andavano veloci, fin troppo, prendendo la strada più breve possibile.

 

Un’esclamazione di sollievo le scappò dalle labbra quando riconobbe il condominio, ormai così familiare e che non pensava di rivedere mai più.

 

Calogiuri parcheggiò con una rapidità che ebbe quasi del miracoloso e che in altre circostanze le avrebbe strappato pure una battuta, ma non in quella. Si sganciò la cintura e provò a scendere, il ginocchio che le doleva sempre di più, arrancando in piedi, almeno fino a che si sentì afferrare di nuovo per la vita.

 

“Appoggiati a me. E questa fasciatura va rifatta assolutamente,” proclamò, sorreggendola e conducendola, a passo lento ma sicuro, fino al portoncino di ingresso e poi dentro l’ascensore, l’aria che sembrava sfrigolare in quell’ambiente piccolo e chiuso.

 

Non perse tempo ad aprire la porta di ingresso e, non appena si fu richiusa alle loro spalle, la prese in braccio, senza parole, come aveva fatto moltissime volte in passato, anche se per motivi diversi. Si aggrappò al suo collo, sentendosi, assurdamente, almeno per un istante, come una sposa alla prima notte di nozze.

 

Realizzò, mentre superavano il divano ed il salotto, quanto le fossero mancate quelle stanze, quanto le fosse mancato quel profumo che sapeva… sapeva di casa.

 

Quando venne depositata con delicatezza sul letto, aveva già gli occhi lucidi ed il petto che voleva scoppiare.

 

“Hai male?” le domandò, preoccupato, inginocchiandosi nuovamente di fronte a lei, le mani che andavano alla fasciatura, iniziando a disfarla, ma giele bloccò.

 

“Tranquillo, per la fasciatura c’è tempo, Calogiuri,” lo rassicurò con un sorriso, tirandolo per le mani e sussurrandogli, “vieni qui.”

 

Ricambiò il sorriso, con uno sguardo altrettanto commosso e si sedette accanto a lei, sembrando per un attimo quasi timoroso, forse di farle male, forse di farsi male e di… di tutto il resto.

 

Sciolse una mano dalle sue e gli accarezzò il viso e lui ricambiò, con mano tremante, prima di tirarla delicatamente a sé per un altro bacio.

 

E, a dispetto della frenesia che c’era stata in auto, su quel letto c’era un’atmosfera totalmente diversa, di un’intensità che non aveva nulla a che vedere col desiderio fisico. Si spogliarono senza fretta, Calogiuri che le tolse stivaletti e gonna con una cura che le causò quel calore tremendo, una lacrima che infine le scappò dalle ciglia.

 

Fu tenero, dolcissimo, le mani che si afferravano e che puntualmente tornavano sul viso, ad accarezzare le guance, a cercare il contatto visivo, a sorridersi con gli occhi lucidi, increduli, grati di essere lì, insieme, ancora una volta, di essere vivi, di essere, almeno per qualche istante, di nuovo loro.

 

Per quanto forti e travolgenti fossero state le emozioni che avevano condiviso in quei mesi, si rese conto in quel momento, ad ogni movimento dei loro corpi uniti, in quel sincronismo assurdo che li contraddistingueva, ad ogni carezza, ad ogni bacio, ad ogni gemito soffocato, di non aver provato forse ancora niente, e non solo dal punto di vista fisico. Di essere a malapena alla punta dell’iceberg di quello che sentiva per lui, pur non sapendo come fosse possibile.

 

Come fosse possibile sentirsi tanto amata e… e… e amare-

 

Un’esplosione di sensazioni la travolse: il cuore, la mente e il corpo che andavano in tilt allo stesso tempo, fino a non vedere, né sentire più niente tranne il cuore che batteva in ogni singola vena ed una sensazione di piacere e soprattutto di pace indescrivibile.

 

“Stai… stai bene?”

 

La sua voce preoccupata la forzò ad aprire gli occhi, mentre piano piano il mondo tornava a fuoco, due occhi azzurri che la guardavano pieni di lacrime.

 

“Co- come?”


“Stai bene?” ripetè, ancora più in apprensione, toccandole il viso, e si rese conto in quel momento di stare piangendo come una fontana e, dalla sensazione di freddo ed umido sul collo e sul petto, era già da un po’ che lo faceva.

 

Provò a parlare, ma non riuscì a trovare la voce e allora si limitò ad annuire, a sorridergli e a catturare quel sospiro sollevato tra le sue labbra.

 

E poi lo abbracciò, forte, fortissimo, fino a farsi male ai gomiti e alle spalle, come temeva non avrebbe mai più potuto fare, e si sentì avvolgere in un modo così delicato e saldo al tempo stesso, che non fece che incrementare quella sensazione al petto.

 

Quell’amore talmente grande che sembrava voler esondare da un momento all’altro.

 

Perché lei Calogiuri lo amava, lo amava, lo amava con un’intensità con cui non aveva mai amato nessuno in vita sua, a parte Valentina, ma quello era tutto un altro genere d’amore. Lo amava e basta, era inutile negarlo ulteriormente. Lo amava talmente tanto che si sarebbe fatta ammazzare per lui, anzi, che si era quasi fatta ammazzare per lui e non avrebbe mai rimpianto di averlo fatto.

 

Ma morire da eroi… quello per certi versi era facile: questione di istinto, di secondi, non tanto una scelta ma un impulso, quasi inspiegabile, di mettere la vita di qualcun altro di fronte alla propria.

 

La vera sfida era vivere, vivere davvero, non solo quel sentimento, ma tutto il resto della sua esistenza. Perché quello avrebbe richiesto coraggio, decisione, perseveranza, nonostante tutte le difficoltà di mesi, di anni, di una vita intera, se sarebbero stati abbastanza bravi ed abbastanza fortunati. Se avessero avuto la capacità di riuscire a conciliare due percorsi di vita in due fasi tanto diverse, in uno solo che arricchisse entrambi invece di rubare loro qualcosa. Soprattutto a lui.

 

Sarò pronta a farlo? - si chiese, continuando ad abbracciarlo, finché lo sentì muoversi leggermente, staccandosi di poco da lei, quegli occhi azzurri che tornarono a fissarsi nei suoi, ancora pieni di lacrime.

 

Sì.

 

Non c’era altra risposta possibile, quella era la verità. Avrebbe dovuto trovare il momento giusto di parlare con Pietro, capire come fare con Valentina e la maledetta maturità e poi-

 

“Non ti preoccupare…”

 

“Come?” gli chiese di nuovo, sentendosi un disco rotto e domandandosi, ancora una volta, se lui avesse la capacità di leggerle nel pensiero.

 

“Lo… lo so che non… che non cambia niente… e non mi aspetto niente,” pronunciò, una lacrima che gli scendeva sulla guancia, ma con voce decisa e con una rassegnazione, quasi un’ineluttabilità, che le torse il cuore in una morsa.

 

“Calogiuri…” sussurrò, asciugandogli la guancia con le dita, comprendendo come lui avesse forse frainteso le sue lacrime o forse… forse stesse cercando di lasciarle una via di uscita ed, allo stesso tempo, di farle capire che non ce l’aveva più con lei.

 

Ma, in compenso, lei ce l’aveva da morire con se stessa.

 

Diglielo che lo ami, diglielo che hai scelto lui ed è solo questione di tempo, che devi mettere a posto i pezzi della tua vita, ma che hai scelto lui, se è ancora così pazzo da volerti! - la esortò la Imma interiore, facendo casino come mai prima.

 

“Calogiuri, io… io… io ti-”

 

Un rumore infernale la interruppe, facendole fare quasi un salto. E realizzò che era la suoneria d’emergenza del suo cellulare, l’unica che si fosse sprecata a personalizzare, visto che colei che usava l’altro numero - peraltro intestato sempre a lei - la chiamava talmente di rado che, quando lo faceva, di solito c’era qualche casino abnorme da risolvere.

 

Si guardò intorno ed individuò la borsa in un angolo della stanza, mezza sepolta sotto al cappotto. Fece per voltarsi, per scendere dal letto ed andarla a prendere, ma sentì il materasso muoversi e Calogiuri, con un balzo, la precedette, raccogliendo la borsa da terra e porgendogliela. Con uno sguardo grato e dispiaciuto al tempo stesso, ci scavò dentro, fino a individuare il telefono, che aveva smesso di suonare nel frattempo.


Richiamò.

 

“Mamma, dove sei?!”

 

La voce di Valentina suonava terrorizzata.

 

“Valentì, che succede?! Ti è successo qualche cosa?! Dove sei tu?!” domandò, un senso di terrore dritto in pancia, come solo Valentina - e mo pure qualcun altro - le suscitava.

 

“Sono a casa, io! Dove sei tu che-”

 

“La cena!” si ricordò improvvisamente, notando che ormai erano già le venti passate e Valentina probabilmente la stava aspettando da un po’, “sì, lo so, Valentì, tra… tra poco arrivo, ma al lavoro oggi è successo… di tutto e-”

 

“Appunto! Lo so, mà! La sparatoria! Lo hanno detto al tg, che ti hanno sparato addosso e… e avevo paura che-”


La voce all’altro capo del telefono si interruppe ed Imma si chiese, con un’altra mareggiata di senso di colpa, se la figlia stesse piangendo.


Certo, ogni dimostrazione d’affetto di Valentina per lei era un mezzo miracolo, ma non voleva che la pensasse ferita gravemente o peggio.

 

Anche se questo lasciava un problema fondamentale: qualcuno aveva fatto una soffiata a Zazza, ma chi? Se scopriva chi era la talpa in procura...!

 

“Valentì, tranquilla: c’è stata una sparatoria sì, ma nessuno mi ha sparato,” la rassicurò, in quella che era una mezza bugia ed una mezza verità, “tra poco arrivo, va bene? Stai tranquilla, lo sai che i giornalisti esagerano sempre per fare notizia.”

 

“Torna presto, ok? Non sapevo se avvisare papà ma-”

 

“Mo ci manca solo quello! Quando torna a casa gli spieghiamo tutto. Arrivo.”

 

“Mamma…”

 

“Sì?”

 

“Ti voglio bene!” esclamò con la voce rotta dal pianto ed Imma, che aveva a malapena smesso di piangere, sentì lacrime fresche solcare le guance che tiravano già terribilmente.


“Anche io, pure se non sono brava a dimostrarlo,” le rispose, lanciando un’occhiata a Calogiuri che aveva uno sguardo intenerito, “tra poco sono a casa, va bene? Scalda la cena. A tra poco.”

 

“Scusami, Calogiuri, ma-”

 

“Il nostro amico Zazza ha avuto la notizia e ci ha fatto su un bel romanzo?”


“Già… e… e mo devo tornare a casa a tranquillizzare mia figlia. Scusami,” ripetè, accarezzandogli nuovamente una guancia, tutte le cose che voleva dirgli che le bruciavano ancora in gola, ma si rese definitivamente conto che non poteva dirle in quel momento.

 

Non poteva diventare una di quelle donne sposate - anzi, di solito erano uomini a dir la verità - che prometteva all’amante di lasciare il consorte e poi… e poi, come si era visto benissimo, la vita ci si metteva sempre di mezzo e Valentina aveva un tempismo quasi degno di quello di suo padre.

 

No, lei non avrebbe fatto promesse che poi chissà quando avrebbe potuto mantenere. Non avrebbe illuso Calogiuri prima del tempo e soprattutto non lo avrebbe coinvolto in casini in cui non era giusto coinvolgerlo. Avrebbe trovato il modo di parlare con Pietro, e forse pure con Valentina, a seconda di come sarebbe andata con Pietro. E poi coi fatti in mano, non con le parole, sarebbe andata da Calogiuri, gli avrebbe confessato ciò che sentiva per lui ed avrebbero deciso insieme il da farsi.

 

“Non ti devi scusare: guarda che lo so che tua figlia è più importante, ed è giusto,” le rispose con un sorriso, nonostante la malinconia di fondo che era anche la sua.

 

Avrebbe voluto dirgli che era importante in modo diverso, perché, di fatto, per salvare lui aveva quasi rischiato di rendere Valentina orfana e… e se da un lato il pensiero la atterriva e la faceva sentire in colpa verso la figlia, dall’altro lato, di nuovo, non riusciva a pentirsene e lo avrebbe rifatto altre mille volte. Forse questo la rendeva una madre degenere, ma era semplicemente ciò che sentiva.

 

Però Valentina era sua responsabilità e, di conseguenza, la sua priorità assoluta doveva essere lei, il suo futuro, pur essendo ormai maggiorenne. E doveva capire come fare per renderle il meno traumatica possibile la separazione da Pietro.

 

“A che pensi?” le domandò, il radar che si riattivava.


“A tutti i casini che ci aspettano fuori da qui, Calogiuri,” ammise, anche se era solo una versione generica e parziale della verità, provando a mettersi seduta sul bordo del letto e sibilando dal male al ginocchio.

 

Si rese conto, il viso che avvampava, che la fasciatura si era spostata e di avere macchiato di sangue il lenzuolo.

 

Altro che prima notte di nozze! Anche se qui la verginità è da mo che si è persa!

 

“Scusa, Calogiuri, mi dispiace, io-”

 

“Ma non dirlo nemmeno per scherzo! Le lenzuola si lavano,” la rassicurò, levandole il tessuto macchiato dalle mani, come se non fosse successo niente, “ma la fasciatura va rifatta per forza. Sarò veloce, non ti preoccupare.”

 

“Calogiuri…” sussurrò, commossa, mentre lui raccoglieva i vestiti da terra e glieli porgeva, affinché potesse rivestirsi, e sparì in bagno, tornando con il necessario per la medicazione.

 

Fu rapido come promesso, sebbene la sua ispezione del ginocchio non rivelò buone notizie, “temo che, oltre alla ferita, abbia preso anche un bel colpo. Si sta gonfiando. Dovresti metterci del ghiaccio e, se non migliora in un paio di giorni, magari farlo vedere da un ortopedico.”

 

“Agli ordini, dottore,” replicò, ironica ma grata per tutta quella premura, stringendo i denti e cercando di non mostrare troppo il dolore, finché la fasciatura fu terminata e potè rivestirsi del tutto.

 

E, non appena lo ebbe fatto, si ritrovò con Calogiuri già bello che vestito, che la prese in braccio come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

Le scappò un sorriso, senza volerlo.

 

“Che c’è?”


“C’è che sto pensando a come fare domani per venire al lavoro. Che mica mi puoi prendere in braccio pure in procura, se no… va beh che con quello che è successo oggi…”


Ed improvvisamente, l’atmosfera si fece seria e nessuno dei due ebbe più voglia di ridere.

 

“Se serve… se serve con Jessica posso provare a parlare e-”

 

“Per carità, Calogiuri: arrabbiata com’è ci manca solo quello. Dobbiamo sperare che non voglia causarsi mal di testa: alla fine non ha niente in mano e, in caso riferisca qualcosa a Vitali, è la nostra parola contro la sua,” lo tranquillizzò, sebbene lei stessa non fosse affatto convinta.

 

Calogiuri annuì e, dopo poco, si ritrovò fuori dall’appartamento, da quell’atmosfera che già le mancava terribilmente, e Calogiuri la depositò a terra nell’ascensore.

 

Arrivare all’auto fu più faticoso del previsto, pur con lui che la teneva stretta, sostenendo quasi tutto il suo peso. La botta iniziava davvero a farsi sentire.

 

Il tragitto in auto fu breve e silenzioso, mentre Imma si chiedeva come avrebbe fatto a fare le scale per raggiungere il suo appartamento.

 

E, quando Calogiuri parcheggiò nella piazza antistante, incrociando il suo sguardo capì che si stava facendo la stessa domanda.


“Ti… ti accompagno fino alla porta… tuo marito c’è? Lo so che… che non sarebbe il caso… ma le scale non le puoi fare da sola.”

 

“Pietro credo sia ancora fuori, ma c’è Valentina. Se mi accompagni fino alla porta, poi suono e mi aiuta lei.”

 

Lui annuì e scese dall’auto, aprendole la portiera e tirandola su quasi di peso dal sedile, quando una voce familiare e disperata la bloccò.

 

“Mamma!”

 

Imma si voltò e la vide: alla base della scala, gli occhi che brillavano pure al buio. Istintivamente, mollò le mani di Calogiuri, che ancora la sostenevano, ma fu una precauzione inutile, perché Valentina le si buttò addosso, abbracciandola, che per poco non si schiantavano per terra. E non potè evitare di farsi sfuggire un’esclamazione di dolore.


“Mamma, che hai?” chiese Valentina, sciogliendo leggermente l’abbraccio, facendole perdere del tutto l’equilibrio.

 

Per fortuna, intervenì Calogiuri, prendendola per un braccio e tenendola in piedi, prima che trascinasse per terra pure Valentina.

 

“Mà, che hai?” ripetè, alternando lo sguardo tra lei e Calogiuri, per poi fare un passo indietro ed abbassare lo sguardo, esclamando, terrorizzata, “ma cos’hai al ginocchio?! Allora ti hanno… ti hanno sparato davvero?”

 

“Ma no! Ho una sbucciatura e ho preso una botta. Sono caduta nella confusione, poi sai, con i tacchi...” minimizzò, mentre Valentina la guardava con l'espressione di quando temeva le stesse raccontando balle.

 

E poi Valentina rivolse lo sguardo a Calogiuri, “lo so che prende ordini dalla dottoressa, qui, ma è vero che non è una ferita da arma da fuoco?”


“Guardate, se fosse una ferita d’arma da fuoco, vostra madre a quest’ora sarebbe in ospedale,” rispose Calogiuri, con il tono più professionale e cortese che gli avesse mai sentito.

 

E Valentina, per tutta risposta, scoppiò a ridere.


“Valentì…” la avvertì Imma, sperando che la figlia non si esibisse in qualche battutina delle sue - che quelle in parte le aveva prese da lei, e sapeva essere molto pungente quanto ci si metteva.

 

“Scusa, mà… anzi mi scusi… maresciallo, giusto? Ma non pensavo che esistesse ancora gente che dava del voi. Poi ad una della mia età.”

 

“Sono in servizio e siete parente della dottoressa, quindi non posso darvi del tu,” chiarì con un sorriso.

 

“Ed io che pensavo di essere messa male ad averla per madre. Averla come capo deve essere mille volte peggio. Mamma, il maresciallo può darmi del tu e non farmi sentire in età da badante, o questo reca offesa alla tua autorità?”

 

Imma dovette trattenersi dal ridere di fronte a quella conversazione così surreale.

 

“Il maresciallo può fare quello che vuole, basta che ci leviamo di qui che comincio ad avere male al ginocchio. Calogiuri, mi puoi aiutare a fare le scale?”

 

“Mà, ti posso aiutare pure io,” si offrì Valentina, prendendole l’altro braccio e passandoselo sopra la spalla.

 

Imma si scambiò un rapido sguardo di intesa con lui e, pregando di non schiantarsi tutti e tre sulle scale, si avviò con loro su per i gradini, Valentina che cercava di coordinare i loro movimenti a furia di "uno, due, uno, due", in quella che pareva quasi una coreografia di cabaret - o di Don Lurio - venuta male. Sentire la mano di Valentina appena sotto quella di Calogiuri sulla sua schiena, per qualche motivo, le provocò un tremendo nodo in gola.

 

Aspetta che sappia di voi, Imma, e poi altro che salire per le scale a braccetto tutti insieme appassionatamente. Dalle scale vi ci spinge giù lei! - le ricordò la voce della Moliterni, con la solita mira da cecchino.

 

Dopo un tempo che sembrò interminabile, giunsero infine sul pianerottolo.

 

“Grazie, Calogiuri. Da qui credo che ce la facciamo io e Valentina, giusto?”


“Giusto, dottoressa,” replicò Valentina, sarcastica come sempre. Ma, non appena Calogiuri mollò cautamente la presa, la sentì stringerla più forte a sé, in quello che era praticamente un mezzo abbraccio.

 

“Allora io vado, dottoressa. Buona serata a tutte e due. Domattina se volete vi posso passare a prendere, come preferite.”

 

“Ma no, Calogiuri, non serve: mi faccio accompagnare," lo rassicurò, guardandolo in un modo come a cercare di fargli capire che fosse per evitargli altre situazioni imbarazzanti.

 

"Come preferite. A domani," si congedò, con un ultimo sguardo d’intesa.

 

O almeno ci provò perché, proprio mentre si stava girando, una figura comparve sulle scale.

 

"Maresciallo?! Amò, Valentì?! Ma che succede?"

 

"Niente, Pietro, poi ti spiego," provò a tagliare corto Imma, maledicendo il tempismo dei De Ruggeri.

 

"Mamma si è fatta male ad un ginocchio cadendo durante una sparatoria, ma non le hanno sparato. E il maresciallo ci ha aiutate a farle fare le scale."

 

"Una sparatoria?!” esclamò Pietro, con un’espressione spaventata, avvicinandosi a lei e prendendole il viso tra le mani. Imma non potè ritrarsi, anche perché Valentina la teneva saldamente nel suo abbraccio, “amò, ma-"

 

"Pietro, ne possiamo parlare in casa che vorrei sedermi e mettere del ghiaccio sul ginocchio, magari?” provò a svicolare, bloccandogli le braccia con le sue prima che gli venissero altre idee, per poi voltarsi verso Calogiuri e lanciargli un’occhiata di scuse, vedendolo lì, immobile, con un’espressione tra il dolore e la rassegnazione sul viso, “Calogiuri, vai pure, tranquillo."

 

"Maresciallo, aspetti!" lo bloccò Pietro, lasciandola andare e voltandosi verso l’altro uomo, che si fermò e alternò lo sguardo tra i due coniugi, l’aria di chi voleva essere ovunque tranne lì.

 

"Volevo ancora ringraziarla per… per il salvataggio al maneggio. E scusarmi con lei e anche con la sua fidanzata per… il casino che ho combinato."

 

"Ma figuratevi. Non vi dovete scusare: ho solo fatto quello che avrebbe fatto chiunque. E Sabrina faceva il mestiere suo. Io ora andrei che già è tardi e-"

 

"Ma perché non si ferma a cena? Valentina cucina benissimo e almeno la ripaghiamo un po' di tutto il disturbo, no, amò?"

 

Ma che è? Un vizio di famiglia?! - pensò Imma, ricordando l'invito a cena di sua suocera. Anche se almeno Pietro non cercava un buon partito per Valentina.

 

"Pietro, guarda non-"

 

"La ringrazio moltissimo per l'invito ma ho già un appuntamento per cena e sono pure in un ritardo tremendo e se non mi presento…" la interruppe Calogiuri, deciso, ed Imma notò con rammarico che pure lui era diventato fin troppo bravo a mentire. Ed era tutta colpa sua.

 

"No, per carità, non voglio causarle problemi con la sua fidanzata, che ho visto quant'è tosta. Ne so qualcosa di stare con una donna forte, eh, amò?” le disse Pietro, abbracciandola dal lato lasciato libero da Valentina e dandole un bacio sulla guancia. Imma notò chiaramente la mascella di Calogiuri aumentare di volume.

 

“Calogiuri, vai tranquillo. E grazie ancora di tutto e… e scusami per… per tutto quanto,” gli disse, sperando che capisse, anche se sapeva benissimo che nessuna scusa sarebbe stata sufficiente.

 

Ma Calogiuri si limitò ad annuire e, con quell’espressione neutra che lei ormai tanto temeva e un “figuratevi, dottoressa, a domani…” si voltò e scese rapidamente per le scale, sparendo dalla sua vista.

 

Si sentiva una merda: lo aveva portato a subire l’ennesima umiliazione e proprio quella sera, di tutte le sere possibili. Doveva sbrigarsi a trovare un momento buono per parlare con Pietro anche se… avrebbe almeno dovuto aspettare di essere in grado di camminare sulle sue gambe. Perché c’era la possibilità concreta che avrebbe dovuto andarsene di casa, se Pietro non avesse accettato di aspettare un po’ di tempo prima di dare la notizia a Valentina. Del resto… era casa di Pietro quella, della sua famiglia e non sarebbe stato giusto costringerlo ad andarsene, non avendo oltretutto alcuna colpa.

 

“Amò, ma mi spieghi che ti è successo al ginocchio?”

 

“Sì, ma non qui, entriamo che ho bisogno del bagno, di cambiarmi, di una sedia e del ghiaccio, in quest’ordine,” spiegò, col suo solito piglio di comando, l’arma migliore che aveva per cercare di dissimulare e di sopravvivere alle premure di Pietro senza farsi sopraffare dai sensi di colpa. E non solo nei confronti di Pietro.

 

Ma doveva tenere duro: il limbo stava per finire e poi… nel bene o nel male avrebbe davvero dovuto camminare sulle sue gambe. In tutti i sensi.

 

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Imma sospirò, dando l’ultimo morso al panino che si era fatta portare dal bar della procura. Giuseppe era stato davvero premuroso, facendoglielo avere ancora quasi bollente e stracaricandoglielo di mortadella, tanto che dubitava avrebbe avuto fame quella sera, con il moto quasi nullo fatto quel giorno. Non che non avesse bisogno di recuperare il peso perso nelle ultime settimane, ma….

 

“Imma, se hai bisogno di aiuto per andare in bagno… che poi andrei in pausa pranzo.”

 

“Diana, grazie, ma le stampelle ormai più o meno le so usare ed in bagno se serve ci so andare da me: non ti preoccupare e vai pure.”

 

“Ma perché rischiare andandotene in giro da sola, quando ci sono io?”


“Perché devo imparare ad usarle le stampelle, almeno fino a che non riesco ad appoggiare il ginocchio. Tranquilla Diana: vai, mangia e torna che poi abbiamo molto lavoro da sbrigare.”


“Agli ordini, dottoressa!” rispose, richiudendo la porta tra i loro uffici e poi la sentì sbattere pure quella del suo ufficio.

 

Imma sospirò, adocchiando le due stampelle e le ballerine leopardate sulle quali le era toccato ripiegare quella mattina. Il ginocchio era ancora gonfio e, su insistenza di Pietro, erano passati dal fisioterapista della squadra di calcetto, prima di accompagnarla in procura. Le aveva incerottato la pelle sana intorno al ginocchio con dei cosi colorati, che manco un calciatore. E poi il responso era stato ghiaccio e non appoggiare il peso sulla gamba per qualche giorno, da cui le stampelle. Se non fosse migliorato entro una settimana, doveva fare una risonanza magnetica, che sperava davvero di potersi evitare.

 

Bussarono alla porta.


“Avanti!” urlò, chiedendosi chi fosse così dedito al lavoro in pausa pranzo.

 

E l’ovvia risposta le si parò davanti, lo sguardo che vagava tra lei e le stampelle con una preoccupazione che la commosse nel giro di due secondi netti.


“Calogiuri…” sussurrò, sentendosi ancora imbarazzata e mortificata e notando come lui rimase sulla porta, con un’incertezza che le fece male.

 

Non l’aveva ancora visto quella mattina e, malconcia com’era, non era potuta andare a cercarlo in PG, ma temeva fortemente che ce l’avesse di nuovo con lei - non che non se lo sarebbe meritato.

 

“Dottoressa, dovrei parlarvi ma… in privato…” esordì Calogiuri, lanciando uno sguardo verso la porta che separava il suo ufficio da quello di Diana.

 

“Diana è andata a pranzo, Calogiuri. Ma se è per… per ieri sera, ti volevo chiedere ancora scusa. Lo so che… che ti sei trovato per l’ennesima volta in una situazione che… lasciamo perdere… e lo so che non è giusto nei tuoi confronti, Calogiuri e… e mi dispiace, non sai quanto, anche se delle mie scuse te ne fai poco, ma-” 

 

“Non è per ieri sera,” la bloccò, avvicinandosi piano alla scrivania, in un modo che le sembrò quasi… timoroso, “lo sapevo che andando a casa tua sarebbe stato probabile incontrare tua figlia e… e tuo marito. Ma non avevi alternative, con il ginocchio in quelle condizioni. Come va oggi?”

 

“Va con ghiaccio e stampelle, Calogiuri, in qualche giorno sarò a posto, si spera. Ma allora… di cosa volevi parlarmi?”

 

Per tutta risposta, Calogiuri prese una delle due sedie di fronte alla sua scrivania, la sollevò di peso e la piazzò accanto alla sua, prendendo poi posto, lasciando giusto lo spazio necessario affinché le loro ginocchia non si toccassero.

 

“Ma che succede?” gli chiese, un senso di inquietudine misto ad uno di eccitazione, non sapendo se aspettarsi una doccia fredda o una dichiarazione, vista la posizione nella quale si trovavano.

 

“Non… non so come dirtelo…” sospirò Calogiuri, un tono grave e preoccupato come raramente glielo aveva mai sentito.

 

“Matarazzo?” chiese, andando in panico, temendo che avesse fatto un casino, che avesse fatto loro rapporto - anche se in quel caso probabilmente sarebbe stata già convocata da Vitali, ginocchio o non ginocchio.

 

“No, Jessica oggi non si è vista. Ha chiesto permesso, a quanto pare,” spiegò Calogiuri con un altro sospiro ed Imma non avrebbe saputo dire se l’assenza di Miss Sicilia fosse positiva o negativa.

 

“E allora? Calogiuri, dai, spara che-” si bloccò, realizzando che non fosse l’espressione più felice da usare in quel momento, “insomma… dimmi che succede, che lo sai che non c’ho pazienza per tutti sti misteri.”

 

“Sono… sono arrivati i risultati del DNA sul sangue nel capannone. Avevo fatto pressioni alla scientifica che fossero la priorità assoluta, visto che la ricerca nei boschi è stata un buco nell’acqua,” spiegò ed Imma, se non si fosse trattato di Calogiuri, lo avrebbe già mandato a quel paese.

 

“Tutto sto casino per il DNA?! E che è? Non è schedato, immagino?”

 

“No, non è schedato. O meglio… nel capannone c’erano tracce di sangue riconducibili a due persone distinte. Una schedata ed una no. E… hanno una compatibilità parziale tra loro, in una percentuale che indica che condividerebbero almeno un genitore biologico,” chiarì, prendendo un respiro alla fine di ogni frase, quasi come se avesse l’asma.

 

Ma che c’aveva Calogiuri quel giorno?!

 

“Quindi c’erano due aggressori e non uno? Due fratelli? E se uno è schedato è una buona notizia… possiamo arrivare all’altro, no?”

 

“Una. Il DNA identificato è femminile… ed è stato ritrovato per terra, vicino all’ufficio, poco distante dall’estintore e…” si interruppe, guardandola in quel modo, come se avesse paura che una bomba potesse esplodere da un momento all’altro.

 

E fu in quel preciso momento che gli ingranaggi nel suo cervello si incastrarono tra loro e la bomba, dentro di lei, esplose sul serio.

 

“Oddio mio…” sussurrò, portandosi una mano alla bocca, la vista che le si appannava, mentre un brivido la scuoteva, il corpo che le sembrava diventato di ghiaccio, “il… il DNA identificato… è il mio?”

 

Tutti quelli che lavoravano sulle scene del crimine erano schedati, per individuare eventuali contaminazioni. Lei inclusa.

 

E lo sguardo di Calogiuri diceva tutto, tutto pur senza bisogno di parole. Un singhiozzo le scappò dalle labbra, mentre sentiva il mondo crollarle addosso, il freddo artico che divenne improvvisamente un forno.

 

“L’altro è… è maschile, vero?” chiese in un sussurro, la voce che le si spezzava, e lo vide annuire, come previsto.

 

Un secondo singhiozzo le sfuggì, il forno che fu di nuovo sostituito dal freezer, l'aria che sembrò mancarle, la vista che la abbandonava del tutto, sommersa dalle lacrime, e poi… e poi si ritrovò stretta in un abbraccio fortissimo, che, per qualche strana ragione, le ridiede per un attimo fiato, almeno fino a quando le scappò un urlo di dolore.

 

Il ginocchio, maledetto!


“Scusami,” lo sentì sussurrarle nell’orecchio, e si ritrovò presa di peso, appoggiata su due gambe forti e poi avvolta ancora più saldamente. E lei gli si sciolse addosso, le lacrime ed i singhiozzi che la facevano tremare come una foglia e la scuotevano completamente.

 

Non avrebbe saputo quantificare il tempo in cui rimasero così, fino a che le lacrime si ridussero un poco, il cuore tornò a battere ad un ritmo più normale e quella specie di bipolarismo termico si attenuò leggermente. Ma si sentì pervadere da un terribile senso di vuoto e allo stesso tempo di panico, il cervello in sovraccarico ed il cuore a pezzi, mentre sentiva che la sua vita era in frantumi, lei era in frantumi e non sapeva da che parte iniziare a raccapezzarsi.

 

Ma, in mezzo a tutti quei pensieri confusi e indistinti, uno solo apparì chiaro e netto.

 

“Non voglio stare qui.”

 

“Come?” lo sentì sussurrarle all’orecchio, confuso.

 

“Non… non penso di riuscire a lavorare oggi e… non voglio essere qui quando torna Diana,” spiegò, esprimendo l’unico concetto che il suo cervello fosse in grado di elaborare in quel momento, staccandosi leggermente da lui per guardarlo negli occhi.

 

“Riesci a camminare fino alla macchina? Ti porterei in braccio ma…” rispose, semplicemente, estraendo un pacchetto di fazzoletti dalla tasca e porgendoglielo, affinché potesse asciugare le lacrime rimaste.

 

Imma annuì, sebbene non ne fosse affatto sicura. Ma ce la doveva fare, per forza, non c’era altra possibilità se non quella. Si ricompose meglio che potè con l’aiuto di uno specchietto, recuperato dalla borsa, e con le stampelle in mano e Calogiuri al suo fianco, procedettero fino all’ascensore, evitando per un soffio la Moliterni che tentò di avvicinarsi, ma la porta dell’ascensore le si richiuse praticamente in faccia.

 

E per fortuna non li seguì all’uscita, perché non sapeva come avrebbe potuto affrontarla in quelle condizioni.

 

Un paio di volte Calogiuri dovette intervenire per tenerla in piedi, ma, in qualche modo, arrivò sull’auto di servizio, e non era mai stata tanto grata di vedere quei sedili come in quel momento.

 

“Dove ti porto?”

 

“A casa… tua,” specificò stavolta e Calogiuri annuì, sembrando un poco sorpreso e pure commosso, ma partì comunque senza dire niente.

 

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“Ti ho fatto una camomilla.”

 

Osservò la tazza fumante che le venne offerta e la afferrò con mani ancora un po’ tremanti, sforzandosi di berne una sorsata. Sentì il materasso muoversi ed avvertì quel calore familiare alle spalle. Si lasciò di nuovo andare sul suo petto, quasi come fosse uno schienale, le gambe che lambivano le sue, come se fosse la sua custodia, ad avvolgerla e proteggerla dal mondo esterno.


Erano rimasti così per quasi tutto il pomeriggio: sul letto, completamente vestiti, senza parlare. Si era limitato ad abbracciarla, mentre lei cercava disperatamente di tornare a funzionare, di elaborare e non solo il lutto della perdita dell’identità: per quello ci sarebbe voluto un bel po’ di tempo.

 

“Non so… non so perché ci sto così male. Lo sapevo che… che era una possibilità ma…” riuscì a dire, e si sentì stringere ancora più forte.

 

“Ma ora è una certezza. E non è la stessa cosa,” concluse lui per lei ed Imma annuì, mentre il nodo si riformava in gola e altre due lacrime le scapparono. Cercò di deglutirlo con un altro po’ di camomilla.

 

“Mi sembra… di non avere più certezze. Di… di non sapere più chi sono. La mia vita è stata… è stata tutta una bugia, Calogiuri. Sono sempre stata La Tataranni, magari quella gran rompipalle della Tataranni, quella grande stronza della Tataranni, ma la dottoressa Tataranni e invece-”

 

“E lo sei ancora. Te l’ho già detto una volta: i figli sono di chi li cresce. La genetica non conta niente e-”

 

“E invece conta!” esclamò, rabbiosa, voltandosi verso di lui, e ci mancò un pelo che si rovesciasse addosso la camomilla, “mio padre... era analfabeta, di una famiglia che… che il più sveglio avrà fatto la quinta elementare. Mia madre pure. E io invece… invece sono diventata… quello che sono diventata. E Latronico fa l’avvocato. Non capisci che… che tutto torna e-”

 

“Tu sei diventata quello che sei diventata perché hai studiato tantissimo, senza mai fermarti, con mille sacrifici, perché non ti sei mai arresa. Me lo hai detto tu, chissà quante volte. Nessuno ti ha regalato niente e non è che fossi uno di quei… geni a cui viene tutto facile, no?”

 

“No,” sussurrò, perché lei se le era sudate la sua cultura, la sua memoria, la sua conoscenza, non le erano venute come un dono dal cielo, “ma sono comunque… intelligente, Calogiuri e-”

 

“E pure se l’intelligenza l’avessi presa da… dai Latronico, che ci sarebbe di male? Qualcuno diceva che non sono le nostre capacità a dimostrare chi siamo veramente, ma le scelte che facciamo," proclamò, deciso, accarezzandole una guancia.

 

"Questa citazione mi suona familiare… ma stavolta non è mia. Keats?"

 

"Il preside di Harry Potter. Per le citazioni più colte mi ci vuole ancora un bel po’ studio e... mi sa che il taccuino non basta…" ammise, toccandosi i capelli, imbarazzato.

 

Ed Imma, non seppe come né perché, ma scoppiò a ridere, pure in mezzo alle lacrime.

 

Appoggiò la camomilla sul comodino e se lo abbracciò forte, sussurrandogli: " grazie…"

 

"E perché?"

 

"Perché riesci a farmi sempre ridere, nonostante tutto."

 

"Dovrebbe essere un complimento?"

 

"Lo è," lo rassicurò, staccandosi leggermente per accarezzargli una guancia.

 

Ma poi il momento di leggerezza passò e tornò a sospirare, quel peso che ancora le si posava sul cuore. 

 

"Ascolta… lo so che è… una notizia sconvolgente. Ma… ma tu stessa poco fa hai definito tuo padre tuo padre e non Latronico. Perché lui era e resta tuo padre e nel tuo cuore lo sai anche tu."

 

"Calogiuri…" sussurrò, commossa, il peso sul cuore che venne sciolto da quel calore così familiare.

 

"E sei la stessa persona che eri stamattina, che eri ieri. Non sei cambiata, sei sempre la stessa… che poi conoscendoti… non sei mai cambiata in tutta la tua vita, perché dovresti farlo mo?"

 

Gli occhi che tornavano a pungerle da pazzi, se lo trascinò in un altro abbraccio fortissimo e grato, sentendosi stringere con altrettanta intensità, mentre pensava che non fosse del tutto vero, perché lui l'aveva cambiata, in meglio. O forse le aveva fatto capire chi fosse veramente, lasciandola libera di esprimere quei lati di sé che aveva sempre represso. Ma non lo avrebbe fatto più.

 

Si lasciò scappare un altro sospiro, ma stavolta sollevato, lasciandosi andare del tutto tra le sue braccia.

 

"A che pensi?"

 

"Che non so come avrei fatto senza di te," ammise, staccandosi leggermente per accarezzargli di nuovo il viso e poi aggiungere, più seria, "quindi se riprovi a darti del ragazzino o dello stupido, o a pensare che io ti ritenga tale, mi arrabbio sul serio, chiaro?"

 

E lui annuì, semplicemente, sorridendole di rimando e sembrando altrettanto commosso.

 

Trascorsero altri momenti così, in silenzio, abbracciati, finché Calogiuri osò fare la domanda che era nell'aria ormai da un po': "che pensi di fare ora?"

 

"Devo… devo parlare con mia madre. Anche se… anche se ci capisce poco o niente lo devo fare. E poi… e poi dovrò parlare a Vitali, prima che legga i risultati delle analisi e scoppi un casino e-"

 

"Per quello… per quello non c'è pericolo, almeno per un po'."

 

"Che vuoi dire?"

 

"Che ho tenuto io l'unica copia del rapporto della scientifica. Aspetta," le disse, scendendo dal letto e recuperando la giacca di pelle dalla sedia sulla quale l'aveva buttata, estraendo una busta da una tasca interna, e poi avvicinandosi per porgergliela, "ecco qui. Così puoi decidere tu come e quando farla uscire."

 

"Ma… ma Calogiuri, ti sei… ti sei preso un'altra volta una responsabilità troppo grande. E poi la scientifica sa di avere mandato il rapporto e-"

 

"E dubito se ne accorgeranno se Vitali non lo riceve per qualche giorno, no? Chi vuoi che mai verifichi, con tutto il lavoro che hanno quelli della scientifica?"

 

Imma dovette ammettere che non aveva torto.

 

"Va bene. Ma la responsabilità per il ritardo me la prenderò io con Vitali, in caso, chiaro?" gli intimò, puntandogli un dito al petto, conoscendolo fin troppo bene.

 

"Chiaro."

 

"Se esce questa cosa… devo capire come… come fare a spiegare a Vitali che… so che si tratti di Latronico e… e se viene fuori che avevo già il sospetto da mesi, io-"

 

"Potresti averne parlato con tua madre solo ora, no? Dopo aver visto il DNA. E… tua madre potrebbe averti detto di Latronico. Vitali non ha prove che lo sapessi già da mesi, no?"

 

"Il problema è che mia madre ha la demenza, Calogiuri, quindi non è una teste attendibile. E l'unica prova che ho in mano è un braccialetto che Latronico regalò a mia madre e… e la commessa della gioielleria che mi ha confermato che fu comprato da Latronico sa che sono andata da lei l'anno scorso. E Vitali potrebbe pensare che abbia taciuto per nascondere un conflitto di interesse. Anche perché, se viene fuori che sono imparentata con un sospettato, che è pure l’avvocato della controparte… è probabile che mi chiedano di lasciare il maxiprocesso ad un collega. Oltre al fatto che verrà fuori uno scandalo enorme su mia madre… su di me… ne diranno di cotte e di crude."

 

E figuriamoci quando si sarebbe separata da Pietro e poi… e poi quando sarebbe uscito fuori di lei e Calogiuri. Già li sentiva i commenti delle comari, già le leggeva le scritte per terra o sui muri, che se già le davano della troia mo… poi sarebbe stato un gioco al massacro. Ma la preoccupazione principale era per Valentina, essendo femmina - che, se fosse stato un maschio, si sarebbe beccato del figlio di buona donna, mentre così la buona donna sarebbe stata direttamente sua figlia, oltre che lei. E le sue compagne di classe, tutte della Matera bene o quasi, avevano già dimostrato di essere spietate. Doveva parlare a Pietro e Valentina di sicuro, prima di rischiare che la notizia uscisse in qualche modo, ma non sarebbe stato facile.

 

"Ma Vitali sarà comprensivo, vedrai: potevi ribaltare la tua vita e quella dei Latronico per il dubbio di una persona affetta da demenza? Nessuno lo avrebbe fatto al posto tuo! E ora che hai le prove, se ti confidi con lui su Latronico, perché dovrebbe reagire male? E tu a Latronico non hai mai fatto sconti e lo sa pure Vitali. E per il resto… se c’è qualcuno che sa come affrontare le voci e tutto il resto… quella persona sei tu.”

 

“Non lo so, Calogiuri… vorrei essere ottimista ma… ma non è da me, e lo sai. E… e a volte vorrei solo poter avere un attimo di pausa da… da tutti questi casini. Ma è la vita che mi sono scelta e devo prendermi il bello e il brutto. Solo che nemmeno col mio pessimismo avrei mai pensato di trovarmi in mezzo a… a tutto questo.”


“Non sei da sola, però, va bene? Lo sai che su di me ci puoi contare," proclamò, deciso stringendole forte una mano ed incrementandole il senso di esplosione nel petto, "vorrei… vorrei poter fare di più ma-”

 

“Ma tu fai già tantissimo, credimi," lo rassicurò, stringendogli la mano di rimando e sollevando l'altra per accarezzargli il viso, "soprattutto visto che non… non mi meriterei niente da te e lo so benissimo."

 

"Non dirlo nemmeno per scherzo! Se non fosse per te… non so se starei qui oggi, in tutti i sensi. E i nostri… problemi personali possono pure aspettare."

 

Se lo abbracciò fortissimo, la consapevolezza di quanto c'era andata vicino a perderlo definitivamente che la colpì di nuovo come un pugno in piena pancia. E tutto il resto, improvvisamente, le sembrò meno grave, più sopportabile.

 

In qualche modo ne sarebbero usciti, insieme. Come le diceva sempre sua madre, solo alla morte non c'è rimedio. E questo la portò alla prima cosa da fare. Guardò l'orologio sul comodino. Erano le diciassette. Tardi ma non tardissimo. Ed era meglio prendere il toro per le corna, perché non poteva aspettare troppo a parlare con Vitali: Latronico, dovunque si trovasse in quel momento, doveva essere ferito e, se lo avessero beccato mentre aveva ancora i segni della sparatoria… non gli sarebbe rimasto che confessare.

 

"Mi accompagneresti da mia madre?" gli sussurrò in un orecchio e lo sentì annuire e stringerla ancora più forte.

 

E ringraziò di nuovo chiunque fosse in ascolto di averlo nella sua vita, promettendosi che avrebbe fatto di tutto per meritarselo.

 

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“Imma? Che ci fai qui, figlia mia? Domenica già è?”

 

Con un po’ di fatica erano arrivati all’appartamento di sua madre e l’avevano trovata in salotto, Nikolaus che giocava con lei a carte.

 

“No, mà, non è domenica. Ma… ti devo parlare, e-”

 

“Ma che facesti alla gamba?!”

 

“Niente, mà. Solo una caduta e-”

 

Le mancò la terra da sotto i piedi, una stampella che scivolava sul tappeto che si era spostato. Si stava già preparando all’impatto con il suolo, quando si sentì afferrare per la vita e si ritrovò con la schiena attaccata al petto di Calogiuri, che la reggeva in piedi. Si voltò leggermente per lanciargli un’occhiata colma di gratitudine e lui le sorrise di rimando.

 

“Figlia mia, ma che ubriaca stai che continui a cascare?” ironizzò sua madre, per poi sorridere ed aggiungere, “o tutta una scusa è, così al fidanzato tuo gli tocca di abbracciarti?”

 

Imma si sentì avvampare, mentre Calogiuri scoppiò in un attacco di tosse. Rivolse lo sguardo a Nikolaus che però sembrava imperturbabile sul divano.


“Mamma, questo è il maresciallo che lavora con me. Non è… non è Pietro, mio marito, te lo ricordi, Pietro?” le chiese, per dissimulare, anche se nominare tutte quelle volte le parole Pietro e marito in presenza di Calogiuri le causava un tremendo senso di colpa.

 

“E certo che me lo ricordo a Pietro, non so’ mica rincoglionita! E pure che questo non è lui, che gli piacerebbe a Pietro essere tanto bello, tanto alto proprio come-”

 

“Garibaldì, sì, mà, lo so, ma allora-”

 

“E che c’entra mo, che mi vuoi dire che questo non è il fidanzato tuo? Cieca ancora non sono, Immarè,” proclamò, decisa, con lo stesso tono che non ammetteva repliche di quando da bimba la riprendeva su qualcosa, “che non l’ho visto come vi guardate? E ancora abbracciati state.”

 

Ed Imma abbassò lo sguardo e si rese conto che era vero: era stata talmente presa in contropiede dalle parole di sua madre che non ci aveva nemmeno fatto caso. Cercò bruscamente di staccarsi ma il tappeto scivolò di nuovo in avanti e a Calogiuri toccò nuovamente salvare la situazione, riprendendola al volo, stavolta per le braccia, le stampelle che cascarono a terra con un tonfo.

 

“Forse è meglio se vi sedete, dottoressa,” le suggerì, con un tono mezzo impanicato, spostandola quasi di peso verso la sedia tra quella di sua madre e quella di Nikolaus ed aiutandola ad accomodarcisi, per poi prendere posto di fronte a lei, le guance ed il collo in fiamme.

 

“Nikolaus, mi ascolti, io… avrei bisogno di parlare un attimo con mia madre in privato. Non si offenda ma sono cose riservate di lavoro. Potrebbe magari andare a fare un poco di spesa o qualche commissione? Non ci metteremo molto."

 

“Ma certo! Non c’è problema. Signora, io torno presto, ok?” disse a sua madre con un sorriso, prima di alzarsi, recuperare il suo giaccone ed uscire, sempre tranquillo come una pasqua, come se non fosse successo niente.

 

“Mà, ti ricordi… ti ricordi di quando abbiamo parlato di… Cenzino Latronico?” esordì e sua madre, per tutta risposta, abbassò gli occhi e tornò a fissare le carte, in quello che sembrava un tremendo dejavu proprio di quella conversazione.


“Ascoltami, ho… ho avuto la conferma che… che Latronico era mio padre e-”

 

“E dove sta la novità? Sempre te l’ho detto che era papà tuo: bello, alto, come-”

 

“Garibaldi, lo so, mà,” sospirò, chiedendosi se sua madre stesse tornando nel mondo della demenza come difesa, “ma… ma ho avuto la certezza, mà. Che lui era mio padre e che… e che l’avvocato Latronico è… è mio fratello.”

 

“E la dottoressa, tanto cara, è tua sorella, ovviamente. Che si è sistemata così bene, lei, vi siete sistemati tutti tanto bene!” proseguì con un sorriso, quasi non ascoltandola più, continuando a mischiare le carte.

 

Allungò una mano ad afferrare quelle di lei e gliele fermò.

 

“Mà… l’avvocato Latronico ha… ha fatto una cosa grave. Ha… ha tentato di sparare al maresciallo, qui,” provò a spiegarle e sua madre strabuzzò gli occhi e ricambiò la stretta di mano, sembrando molto turbata.

 

“Ma… ma perché?! Tu stai bene, figliolo?"

 

Calogiuri diventò, se possibile, ancora più rosso, e annuì, "sì, signora, sto bene, non vi preoccupate."

 

"Mà, l'avvocato Latronico è… coinvolto in un'inchiesta su cui sto lavorando. Lo stavamo per beccare a distruggere delle prove e… e per scappare ha sparato. Ma mo per provare che è stato lui, io… io potrei dover fare uscire pubblicamente che sono… figlia di Cenzino Latronico e non di… di Rocchino Tataranni. Capisci che vuol dire, mà?"

 

"Mica so' scemm, figlia mia. E certo che lo so! Che non la conosco Matera? Ma… ma io vecchia sono e chi vuoi che incontro? E, pure se parlano, a me dalla capa entra e dalla capa esce, che tanto dopo poco non lo ricordo più. Ma è per te che mi dispiace, che… che so che non ti lasceranno in pace. Ma se tuo fratello tanto meschino è stato, devi fare il lavoro tuo, Immarè, come sempre! Quella… quella è stata sempre una famiglia disgraziata, pure papà tuo… stava in brutti giri… e lo sapevo, ma…"

 

Sua madre sembrò perdersi per un po' nei suoi pensieri e poi la guardò, dritta negli occhi, e proclamò, decisa e sembrando improvvisamente lucida, "ma una cosa buona almeno fuori ne è venuta, e sei tu, figlia mia. L'ho sempre dubitato, sai, che… che tu fossi figlia di Latronico perché… con Rocchì tanto abbiamo dovuto provare e incinta mai rimanevo e invece…."

 

"Mà…" sussurrò, commossa, sentendosi stringere più forte la mano. Chissà perché aveva detto a Porzia il contrario. O forse… forse era Porzia ad averle raccontato una palla, per proteggerla, vedendo quanto ci stesse male.

 

"Ma quella gente è pericolosa, figlia mia. Chi se li mette contro una brutta fine fa. Tu devi stare attenta, anche per Brunella, mi raccomando!"

 

"Tranquilla, mà, ci sto attenta e poi… e poi come vedi c’ho pure la scorta," scherzò, per stemperare la tensione e l'imbarazzo nell'aria, lanciando uno sguardo a Calogiuri che aveva ancora viso e collo a chiazze, "adesso chiamo Nikolaus che tra poco dobbiamo andare, va bene?"

 

Sua madre annuì e, mentre parlava con il badante, che era al supermercato vicino a casa, la sentì chiedere a Calogiuri se volesse fare una partita con lei.

 

Ne seguirono dei momenti a dir poco surreali in cui assistette, incredula, mentre sua madre spiegava delle regola inventate di sana pianta al povero Calogiuri, che l’assecondava con la sua solita pazienza, per poi giocare una partita completamente priva di senso, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

Gli occhi tornarono a pizzicarle e si trovò, non per la prima volta, ad immaginare un futuro con lui: le ricorrenze a pranzo con sua madre, lui e-

 

Valentina le comparve davanti, furente pure nella sua fantasia, riportandola bruscamente alla realtà. No, non sarebbe stato facile come con sua madre che, forse per via della demenza, era l'eccezione che confermava la regola. Ma nella sua vita quasi nulla era stato mai facile e non per questo si era arresa senza provarci.

 

"Eccomi!" annunciò Nikolaus, di ritorno con due sporte della spesa ed uno dei suoi sorrisi.

 

"Mà, noi dobbiamo andare mo."

 

Tirò indietro la sedia e provò a mettersi in piedi, ritrovandosi nel giro di pochi secondi con Calogiuri alla spalle, che la portò di peso fino a oltre il tappeto, passandole poi le stampelle.

 

"Siet' proprio bell' insieme!" proclamò sua madre con un altro sorriso, "certo, lui pure da solo proprio bello è!"

 

"Mamma!" esclamò, non potendo evitare di scoppiare a ridere, soprattutto per l'espressione di Calogiuri: un misto di felicità ed imbarazzo totale.

 

Lei invece, nonostante tutto quello che le stava piovendo addosso, era solo felice e si chiedeva come fosse possibile e se fosse impazzita del tutto.

 

Ma il ritorno alla realtà, come sempre, arrivò col suono di un cellulare - il suo - ed un nome sul display: Amò.

 

"Imma! Ma dove sei? Sono venuto a prenderti in procura e mi hanno detto che non ci stai!"

 

Dal tono, tra il preoccupato e l'arrabbiato, si chiese anche se gli avessero detto a che ora se ne era andata e, soprattutto, con chi.

 

"Sì, scusa ma sono a casa di mamma e-"

 

"Ma è successo qualcosa?! Sta bene?" la interruppe, il nervosismo che spariva lasciando spazio solo alla preoccupazione.

 

"Sì, sta bene, ma è anche successo qualcosa. Valentina è a casa?"

 

"Sì, perché?"

 

"Allora aspettatemi a casa che ne parliamo," chiuse la telefonata prima che potesse fare obiezioni.

 

Ci mancava solo che li raggiungesse lì e sua madre definisse Calogiuri il fidanzato suo in presenza di Pietro.

 

"Scusami, Calogiuri, ma…" sospirò, sapendo che gli stava chiedendo di sottoporsi all'ennesimo incontro con Pietro.

 

"Non vi preoccupate, dottoressa, ci sono problemi più importanti mo," la rassicurò, con un sorriso malinconico che non attenuò affatto il suo senso di colpa.

 

*********************************************************************************************************

 

"E quindi… e quindi mia madre mi ha confermato che sono figlia di Cenzino Latronico. Domani ne parlerò a Vitali e cercheremo di intercettare ed interrogare l'avvocato Latronico, se non è uccel di bosco. E a quel punto faremo il DNA e avremo la conferma definitiva. Spero di poter evitare di rendere pubblica questa storia ma… ma potrebbe anche uscire e-"

 

"Ma ti rendi conto che la nostra vita diventerà un inferno?! Già ci dicono di tutto! A scuola come ci torno?!" la interruppe Valentina, furente, gli occhi pieni di lacrime.

 

"Valentì, e credi che non lo so?! Ma che posso fare, eh?"

 

"Magari mettere tua figlia e la tua famiglia davanti al lavoro, per una volta!"

 

"Valentì, ma tu ti rendi conto che Latronico ha quasi ammazzato un carabiniere per scappare?! Che per poco non me la sono vista brutta pure io?! E secondo te posso permettergli di andarsene in giro bello bello, che chissà che può fare la prossima volta?! E lo faccio pure per voi, per la sicurezza di tutti quanti! Ma che pensi che io non sia sconvolta?! Che mi faccia piacere che si sappia in giro che ho gli stessi geni di un delinquente e che... che mio fratello è quasi un assassino?! E pensi che questo non mi creerà problemi pure sul lavoro?! È probabile che mi leveranno pure il caso. Ma che altro posso fare?"

 

"Valentì, tua mamma ha ragione. Deve fare il suo lavoro e deve fare la cosa giusta anche e soprattutto perché c'è questo legame di… di sangue. Se no che fine fanno tutti i suoi principi, anzi, tutti i nostri principi?" intervenne Pietro, deciso come raramente l'aveva mai sentito, allungando una mano a stringere la sua, per poi tirarla più vicina a sé sul divano.

 

Sentì un moto di gratitudine ed una fitta tremenda di senso di colpa.

 

"Questa… è tutta colpa di nonna! Ma come ha potuto?! Come ha potuto tradire il nonno così e mentire a tutti per tutti questi anni?! Io non ci posso credere! E questa non gliela perdonerò mai!" urlò, incazzata come non l'aveva forse mai vista, le lacrime che ormai le avevano bagnato tutto il viso.

 

"Valentì, nonna ha sbagliato, è vero, ma una volta non c'era il DNA e… e forse ha voluto credere che potessi essere figlia di… di mio padre. Perché Rocchino Tataranni resta mio padre. E… e nella vita può succedere di fare degli errori ma-"

 

"Può succedere?! Può succedere?! Bruciare la cena può succedere, un brutto voto può succedere, ma… ma… scoparsi qualcuno che non è tuo marito non è che capita per caso!"

 

"Valentina!" gridò, sia per il linguaggio, sia perché si sentì punta nel vivo, una coltellata di senso di colpa mista a paura che la prese allo sterno: se reagiva così per sua nonna… figuriamoci quando avrebbe saputo di lei e Calogiuri.

 

"Che cos'è? Gli è inciampata addosso? L'ha ipnotizzata? Per fare certe cose bisogna volerlo ed è uno schifo tradire così la fiducia di qualcuno! E non capisco tu come faccia a stare così calma e a non essere incazzata con lei!"

 

"E con chi mi devo arrabbiare, eh?! Con una donna affetta da demenza che si è spaccata la schiena e le mani per una vita intera per crescermi e farmi studiare? Non è perfetta, ha sbagliato, ma se n'è pentita, nel frattempo sono passati più di quarant'anni e ha fatto una vita d'inferno per… per stare accanto a mio padre fino alla fine. Tu non c'eri, Valentì, e non sai un sacco di cose. E non so come fosse mio padre prima che nascessi ma… ma ti garantisco che quando avevo l'età buona per capire non… non era facile stargli vicino. Quindi mia madre ha le sue colpe ma ha pure le sue attenuanti. E non puoi sparare a zero e giudicare così senza conoscere la situazione e-"

 

"Detto da te fa proprio ridere, visto che è tutto quello che sai fare: di mestiere e non. Ma forse bisogna avere la demenza per avere la sua clemenza, dottoressa. Peccato che, quando ha combinato quello che ha combinato, fosse più che capace di intendere e volere. E se stava così male con il nonno poteva lasciarlo, invece di continuare a prenderlo per il culo!" urlò, alzandosi dal divano e marciando verso la sua camera, sbattendo la porta.

 

“Valentina!” gridò, provando d’istinto ad alzarsi e andarle dietro per dirgliene quattro, maledicendo il ginocchio che glielo impediva, insieme alla mano di Pietro che le prese il polso, “Pietro, mollami! Ma ti rendi conto di come parla?! E di sua nonna poi!”

 

Anche se, la verità era che, di nuovo, Valentina l’aveva colpita dove faceva più male. Senza volerlo, certo, ma… si sentiva chiamata in causa e ora aveva ancora di più la certezza, se mai avesse avuto il minimo dubbio, che Valentina forse la separazione da Pietro e poi la relazione con Calogiuri non gliele avrebbe mai perdonate veramente.

 

“Amò, lo so, ma… ma tua madre per Valentina è… è come un mito e, forse anche per la demenza, l’ha sempre vista come questa persona… innocente, perfetta, da proteggere, capisci? E ora che scopre che… che ha fatto dei grossi sbagli pure lei... le è crollato un po’ il mondo addosso. Bisogna darle un po’ di tempo per elaborare. Tu, piuttosto… mi chiedo se tu non sia ancora un po’... sotto choc perché… mi pare che la stai prendendo sin troppo bene, considerando che… insomma… che hai appena scoperto di avere un altro padre biologico e… uno come Latronico, oltretutto.”

 

“Grazie, Pietro, mi sei di grande conforto, veramente!” proclamò, sarcastica, sia perché girare il dito nella piaga più di così sarebbe stato impossibile, sia per cercare di cambiare argomento.

 

Anche perché, cosa poteva mai dirgli? Che aveva pianto tutto il pomeriggio tra le braccia di un altro? Che capiva sua madre ed empatizzava con lei perché pure lei… e altro che l’errore di una volta! Sebbene almeno lei, purtroppo e per fortuna, una gravidanza non la rischiasse manco volendo, non che non avessero sempre preso tutte le precauzioni del caso, ovviamente.

 

“Dai, Imma, lo sai che voglio dire. Anche se hai ragione quando dici che tuo padre resta tuo padre e… il sangue non conta niente. Ma… deve essere comunque stata una bella botta e… non ti devi tenere tutto dentro e fare l’eroina, come fai sempre…”

 

“Guarda, Pietro, il momento di choc e di sconforto già mi è venuto quando ho avuto la notizia. Ma mo devo pensare alle conseguenze pratiche ed al casino che mi piomberà addosso domani quando parlerò con Vitali. Non ho tempo di piangermi addosso. E ora, se mi dai una mano, andrei a dormire che domani sarà una giornata infernale.”

 

“D’accordo, come vuoi, amò. Ma per qualunque cosa, io ci sono, ok?” ribadì con un sospiro, tirandosi in piedi e recuperandole le stampelle.

 

Il problema, pensò Imma, afferrando le stampelle, era che ormai era lei a non esserci più.

 

*********************************************************************************************************

 

Entrò in PG trattenendo il fiato, temendo il momento nel quale avrebbe incrociato lo sguardo di Jessica ed un’eventuale scenata. Ma c’era solo Capozza, stranamente mattiniero ed allegro, a giudicare da come stava canticchiando una canzone che non riconosceva affatto.

 

“We, maresciallo! Come va? Che faccia sbattuta che tieni. Che hai fatto le ore piccole ieri, eh?” gli domandò, sornione, con uno sguardo di intesa.

 

“No, Capozza,” mentì: le ore piccole le aveva fatte sul serio, ma non per i motivi che pensava l'altro.

 

Era preoccupato per lei, per… per come aveva preso la notizia di Latronico - e come volevi che la prendesse, idiota?! - anche se pareva essersi un poco tranquillizzata. Per i casini che avrebbe avuto con Vitali, col processo, e poi lo scandalo che sarebbe venuto fuori, tra i giornalisti, Zazza, le comari e mezza Matera, che già non la vedevano di buon occhio.


Ed il peggio era che non poteva farci niente, a parte preoccuparsi. E da lì l’insonnia, che però non serviva a niente, se non a farsi fare battute cretine da Capozza.

 

“Ma Jessica?” chiese, decidendo che fosse meglio sapere che non sapere.

 

“Non so… forse è ancora in permesso. Certo che pure tu! Per carità, eh, gran bella figliola, Matarazzo, ma la prossima volta, per divertirti e basta, scegline una che non lavora qui. Dà retta a me che un po’ di esperienza ce l’ho in queste cose: le storie sul lavoro portano quasi sempre solo guai,” gli disse e Calogiuri si sentì avvampare, sia per la conferma che Matarazzo era andata, come temeva, a gridare ai quattro venti quello che aveva combinato, sia per essersi beccato la predica - purtroppo meritata - pure da Capozza.

 

Ma il modo in cui aveva pronunciato quel quasi, unito al buonumore del collega, gli fece dubitare che almeno per una persona in particolare, Capozza facesse eccezione alla sua regola delle relazioni sul luogo di lavoro.

 

“Capozza… ho sbagliato completamente con Matarazzo ma… non mi volevo divertire, ero ubriaco e ho fatto una cretinata, va bene? Io non mi diverto in questo modo e non intendo ripetere l’esperienza, a costo di diventare astemio,” ribadì, perché non gli piaceva parlasse di Jessica in quel modo, come fosse un giocattolo, prima di alzarsi e decidere di andare dove avrebbe già voluto recarsi fin da quando era arrivato in procura.

 

Sentì il cuore accelerargli leggermente nel petto e quel senso di apprensione, sia per come l’avrebbe potuta trovare, sia perché… non sapeva come stessero esattamente le cose tra loro e probabilmente non lo sapeva nemmeno lei. Del resto, avevano cose più importanti a cui pensare ed, in ogni caso, purtroppo, quasi sicuramente non sarebbe comunque cambiato nulla.

 

Certo, il giorno prima, di fronte a sua madre, dopo un po’ non aveva più negato che fossero fidanzati - pure se non lo erano affatto. Ma sua madre aveva la demenza senile. Ed un conto era ammettere certe cose di fronte a lei, che tanto se le sarebbe scordate da lì a poche ore, o di fronte a persone sconosciute come Sabrina. Un altro era pensare che avrebbe mai potuto sceglierlo ed uscire allo scoperto con lui davanti al resto del mondo e soprattutto davanti alla sua famiglia. Si era già illuso una volta, non lo avrebbe fatto più. Il massimo a cui poteva aspirare con lei, purtroppo, era una storia clandestina, fino a quando sarebbe potuta durare, prima che lei se ne pentisse di nuovo e decidesse di chiuderla e stavolta definitivamente. Nient’altro.

 

Aveva appena fatto l’ultimo gradino e girato a sinistra, per andare verso il suo ufficio, quando una voce lo bloccò.

 

“Maresciallo, aspetti!”

 

Si voltò di scatto, trovandosi davanti il dottor Vitali, con un’espressione strana in volto.

 

“Ai comandi, dottore. Avevate bisogno di qualcosa?”


“Sì, maresciallo. Potrebbe venire un attimo nel mio ufficio?” gli chiese con la solita gentilezza, in quello che però era un ordine.


Si limitò ad annuire e a seguirlo, mentre il procuratore si era già avviato, senza attendere la risposta.

 

“Chiuda la porta e si accomodi, maresciallo,” proclamò, in un modo che gli sembrò stranamente solenne, indicando una delle sedie di fronte alla sua scrivania.

 

Ci si sedette, con un poco di apprensione, e rimasero per qualche attimo in silenzio.

 

“Ho bisogno di parlarle, maresciallo, riguardo ad una vicenda molto spiacevole che è stata portata alla mia attenzione e che non posso ignorare. E che coinvolge lei e la dottoressa Tataranni. Immagino sappia di cosa sto parlando.”

 

Imma gli aveva già parlato di Latronico? O quelli della scientifica gli avevano mandato le analisi?

 

“Se… se si tratta del DNA, le posso spiegare che-”

 

“DNA? Di cosa sta parlando, maresciallo?!” domandò, sembrando completamente sorpreso e Calogiuri si diede del cretino - quando imparerai a morderti la lingua, quando?!

 

“Niente, dottore. Avevo sbagliato a… ad archiviare un’analisi del DNA. La dottoressa per fortuna lo ha notato e… e mi ha ripreso in proposito. Pensavo si riferisse a questo.”

 

“No, maresciallo, magari si trattasse di un semplice errore di archiviazione! Sebbene mi pare difficile pensare che la dottoressa la riprenda su qualcosa. Ma qui il problema è tutto un altro genere di... ripresa…” chiarì Vitali con un sospiro, un’espressione seria come gli aveva forse solo visto all’epoca del caso di Don Mariano, quando aveva tolto il caso ad Imma.

 

“Mi hanno… fatto avere queste foto, Maresciallo… e c’è pure un filmato, ma immagino le foto parlino già da sole…”

 

Vitali piazzò quattro ingrandimenti fotografici sulla scrivania, in sequenza, neanche fossero carte da gioco.

 

Un pugno lo prese in pieno stomaco: erano lui ed Imma, di fronte al suo condominio.

 

Le prime due immagini erano di due sere prima: lei con un braccio sopra la sua spalla, lui che la teneva per la vita per sorreggerla. La prima li ritraeva mentre andavano verso il portone, la seconda mentre uscivano, con tanto di data ed ora. E le ultime due erano del giorno prima: Imma con le stampelle e lui al suo fianco, sempre una all’ingresso ed una all’uscita.

 

Merda!




 

Nota dell’autrice: E, dopo il tour de force emotivo di questo capitolo, Imma sembra pronta a confessare e a dire tutto a Pietro e a Calogiuri ma… è appena scoppiata LA bomba, che cambierà un sacco di cose, per certi versi quasi tutto, anche se nel medio lungo termine le conseguenze non è affatto detto che siano tutte negative.
Spero vi sia piaciuto anche questo capitolo e che la storia continui a intrattenervi e non risultare noiosa, vi ringrazio per tutto il supporto che mi avete dimostrato fino a qui e, se mi vorrete lasciare una recensione, è come sempre apprezzata moltissimo e mi motiva un sacco, oltre ad aiutarmi a capire come sto andando nello scrivere.

Il prossimo capitolo arriverà esattamente tra sette giorni, domenica 9 di febbraio per la precisione.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 16
*** La Vittoria di Pirro ***


Nessun Alibi


Capitolo 16 - La Vittoria di Pirro


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Nota dell’autrice: Abbiamo lasciato Calogiuri nell’ufficio di Vitali, che gli ha appena mostrato quattro foto che ritraggono lui ed Imma entrare ed uscire dall’appartamento di lui nei due giorni precedenti. Che succederà ora?



 

Il panico che si impossessava di lui, Calogiuri si sforzò di analizzare meglio le immagini.

 

La qualità delle foto era molto buona ma non eccezionale, probabilmente prese con un buon cellulare e… Jessica ne aveva uno di ultimissima generazione, se lo ricordava bene. Li doveva avere seguiti in qualche modo quando se ne erano andati dal capannone. Doveva averlo fatto dopo che erano tornati sulla statale, perché prima se ne sarebbe sicuramente accorto. Ma erano stati talmente sconvolti che aveva buttato la cautela al vento e aveva fatto la strada diretta, senza le solite deviazioni e senza controllare costantemente di non essere seguito, come faceva di solito. E lo stesso il giorno prima, con tutto quello che era successo: voleva solamente portarla in un posto tranquillo e consolarla e… e invece le aveva solo causato altri problemi.

 

Stupido, stupido, stupido! - si rimproverò, un brivido freddo lungo la schiena, la nausea che peggiorava: se Imma avesse avuto problemi non se lo sarebbe mai perdonato. Perché, se Jessica aveva il dente avvelenato a tal punto di fare appostamenti, la colpa era solo sua.

 

“Dottore, io posso spiegare. Non è come sembra, io… posso spiegare. Nelle prime foto se… se reggevo in quel modo la dottoressa, è perché si era fatta male al ginocchio. L’ho portata a casa mia per rifarle la medicazione e-”

 

“Quasi due ore di tempo per rifare una medicazione, maresciallo? A meno che lei non sia anche un chirurgo ortopedico ed il ginocchio non glielo abbia operato alla dottoressa, mi sembra un po’ poco credibile, che dice?” lo interruppe Vitali, sarcastico e con una durezza nella voce che, stavolta era certo, non gli aveva proprio mai sentito, nemmeno nelle peggiori litigate con Imma.

 

“Abbiamo… abbiamo discusso di quanto era successo al capannone. Era… era molto scossa e-”

 

“Ed il giorno dopo era ancora talmente scossa che siete tornati a casa sua, in orario di servizio, peraltro, e ci siete rimasti per quasi cinque ore?” lo incalzò: il bonario procuratore capo era sparito e si trovava di fronte quello che doveva essere il magistrato Vitali, in aula, davanti ad un sospettato reticente.

 

“Dottore, lo sapete anche voi che la dottoressa fa ore ed ore di straordinari di sua iniziativa e che… e che non si allontanerebbe mai in orario di lavoro per dedicarsi ad attività personali. E, se capita, le recupera sempre con gli interessi. Se… se ieri ci siamo allontanati era per discutere di… di un argomento molto delicato che riguarda non solo le indagini ma anche la vita privata della dottoressa e che… e che la dottoressa vi comunicherà a breve, dottor Vitali, perché ieri dovevamo ancora fare delle verifiche in proposito,” ammise, odiando di dover in un certo senso tradire la fiducia di Imma, anticipando qualcosa a Vitali, ma l’alternativa era mille volte peggio anche e soprattutto per lei, e lo sapeva.

 

“E quale sarebbe questo fantomatico argomento di lavoro, maresciallo?”

 

“Lo dovete chiedere alla dottoressa, dottor Vitali. Io non posso tradire la sua fiducia ed in ogni caso, quando gliene parlerete, comprenderete perché sia più giusto che glielo comunichi lei di persona,” tenne il punto, perché questo ad Imma almeno lo doveva.

 

“Ed ovviamente nel frattempo voi non vi metterete d’accordo per inventarvi un argomento di lavoro credibile, immagino? Ma che pensa che sono nato ieri, maresciallo?”

 

“Dottore, vi garantisco che quando saprete di cosa si sta parlando non potrete minimamente pensare che possiamo esserci… inventati una cosa del genere."

 

“Ammesso e non concesso che io creda a questo racconto, maresciallo, resta il fatto che ho una testimone pronta a garantire che, a ridosso della sparatoria, riferisce e cito testualmente: iI maresciallo era steso sopra la dottoressa e le accarezzava le guance, l’ha chiamata per nome e le dava del tu. Le rimproverava di essersi messa in pericolo per salvargli la vita. La dottoressa gli ha ribadito quanto lui fosse importante per lei. E si stavano per baciare, erano a pochi millimetri dal farlo ma mi hanno sentita arrivare e si sono staccati.”

 

“Matarazzo, immagino…” sospirò Calogiuri, rendendosi conto che Jessica era veramente disposta ad andare fino in fondo.

 

“Mi vuole dire che la testimonianza della sua collega è mendace, maresciallo?”

 

“Dottore, se eravamo in quella posizione è perché stavo cercando di riparare la dottoressa durante la sparatoria. E… e per il resto… Matarazzo ha il dente avvelenato per… per un mio errore personale nei suoi confronti di cui mi prendo tutta la responsabilità. E… e anche riguardo a quanto Matarazzo sostiene di aver visto… eravamo sotto choc e… e sono io che… che non ho rispettato la gerarchia e… mi sono preso delle libertà, ma la colpa è soltanto mia. La dottoressa non si è mai approfittata di me o della sua posizione in alcun modo, ci tengo a sottolinearlo.”

 

“Maresciallo, mi ascolti, la sua difesa della dottoressa le fa onore, nonostante le circostanze lo facciano molto meno. Ma pure se volessi fidarmi della sua parola, io con questi elementi in mano ed una sua collega che, glielo garantisco, non si fermerà a me, se decidessi di ignorarli, non posso fare altro che far partire un’inchiesta interna su di lei e sulla dottoressa Tataranni. E questo spero lei si renda conto che significhi: verrà analizzata non solo l’attività professionale congiunta sua e della dottoressa, ma email, messaggi, telefonate, spostamenti, eccetera, eccetera. E col maxiprocesso in corso… lei capisce cosa comporterebbe il fatto che la dottoressa finisca sotto inchiesta, non è vero?”

 

Calogiuri sentì un macigno sul petto e dovette trattenere a forza la voglia incontenibile di piangere o di spaccare qualcosa: non era più un ragazzino e doveva farsi forza e cercare una via di uscita, se non per se stesso almeno per lei.

 

In caso di inchiesta sarebbero venute fuori certe telefonate in orari sospetti… tipo quella di capodanno e… se fossero stati particolarmente scrupolosi… c’era il viaggio a Barcellona che gli aveva regalato e… e un sacco di altri possibili indizi compromettenti. E poi… e poi la vita di Imma sarebbe stata distrutta in ogni caso: suo marito già aveva avuto dei sospetti e… e non voleva che si ritrovasse in un altro tritacarne mediatico, oltre a quello che già avrebbe avuto per la storia di Latronico. Non voleva che fosse in un certo senso costretta dagli eventi a sceglierlo o comunque ad uscire allo scoperto con lui. Non così.

 

“Che cosa volete che faccia, dottore? Perché avete chiamato prima me e non la dottoressa, a parte che sono l’osso meno duro, ovviamente?”

 

“L’intelligenza e l’intuito non le mancano, maresciallo, me ne compiaccio, la furbizia forse un po’ meno, ma quella si acquisisce con gli anni. Ed è stato un osso ben più duro di quanto mi aspettassi, lo devo ammettere,” sospirò con uno sguardo che gli parve improvvisamente comprensivo, quasi dispiaciuto.

 

“Quello che vi ho riferito finora sugli eventi degli ultimi giorni comunque è la verità, dottore, e lo potrete verificare parlando con la dottoressa. Sempre se… sempre se ne volete parlare con la dottoressa.”

 

“Vedo che ha capito, maresciallo. Se ne parlassi con la dottoressa Tataranni… si prenderebbe tutta la colpa, come ha appena cercato di fare pure lei, e come ha già fatto a riguardo dei suoi screzi con la D’Antonio, qualche giorno fa. Ed ovviamente non sfuggirebbe all’inchiesta, anzi, lei lo sa bene, la affronterebbe di petto. E… e come le ho già detto, col maxiprocesso in corso, il fatto che la dottoressa finisca sotto inchiesta comporterebbe bloccare tutto e gettare in fumo tutto il lavoro fatto finora. E, a differenza di quanto possa pensare la dottoressa, io questo non lo voglio. Non solo, ma si potrebbero anche delineare ombre su tutti i casi a cui avete lavorato insieme, potrebbe essere chiesto il riesame. Quindi un’inchiesta va evitata assolutamente. E l’unico modo per evitarla… immagino lei sappia qual è, maresciallo?”


“Volete… volete le mie dimissioni?” gli chiese, cercando di contenere il tremore nella voce. Se serviva a salvare la carriera e la reputazione ad Imma, lo avrebbe fatto senza esitazioni. In qualche modo… in qualche modo avrebbe ricominciato, anche se… anche se il pensiero di rinunciare all’unica cosa che sapeva fare davvero bene nella vita era… era quasi insopportabile.

 

Ma sapere di essere stato la causa della rovina di Imma… quello non se lo sarebbe mai, ma proprio mai perdonato.

 

“Ma no, maresciallo! Mi pare un po’ drastico, no? Queste… queste vicende personali sono… molto spiacevoli e possono distruggere una carriera, e per questo le suggerisco di essere più avveduto in futuro. Ma non pretendo certo che lasci l’Arma per una cosa del genere. Ho pensato ad una soluzione che spero possa… tranquillizzare l’agente Matarazzo ed allo stesso tempo dare a lei la possibilità di… avere una nuova opportunità di carriera, evitando lo scandalo. Mi servirebbe una sua firma per accettazione,” proclamò, porgendogli un foglio già precompilato a computer. Le parole RICHIESTA DI TRASFERIMENTO, scritte maiuscolo ed in grassetto al centro dell’intestazione furono un altro pugno dritto in pancia.

 

Fece scorrere il testo e un dettaglio lo colpì.

 

“Roma?” chiese, sorpreso, vedendo che era la destinazione indicata come preferita.

 

“Da quando l’agente Matarazzo ieri sera mi ha consegnato quelle immagini, mi sono attivato per cercare una soluzione alternativa. So che lei è stato a Roma per il corso da sottufficiale, so che sta già collaborando con il dottor Santoro per il caso Lombardi e che ci sono alcuni suoi ex compagni di corso lì in procura. Roma è una grande città e le offrirà sicuramente più prospettive di carriera di Matera e… e almeno non andrà in una città sconosciuta, dove dovrebbe ricominciare tutto da capo. Una collega di Roma mi ha confermato che stanno cercando un rinforzo per la PG, visto che uno dei marescialli si sta per trasferire in Puglia. E quindi ci sarà un posto libero a breve. Ho contattato il procuratore capo e mi ha garantito che, considerate le sue credenziali ed il fatto che già conosce parte della squadra, se lei ne fa richiesta, il posto sarà sicuramente suo.”

 

“Tra quanto tempo dovrei trasferirmi?” domandò, non sapendo se sperare che fosse poco o tanto. In entrambi i casi sarebbe stata una tortura.

 

“Sicuramente meno di un mese, maresciallo. Considerata la situazione, prima lei si allontana da qui e meglio è. Lei mi capisce, vero?” chiese Vitali, di nuovo con quel tono comprensivo, ma con una determinazione nella voce che gli fece capire che non avrebbe accettato un no come risposta.

 

Era una scelta obbligata, l’unica possibile, e lo sapeva ma… ma forse, in fondo, era meglio così.

 

Imma ci teneva a lui, da morire, letteralmente, di questo non poteva proprio più dubitare: si era quasi fatta ammazzare al posto suo. Però… però non abbastanza da sceglierlo: le sue priorità rimanevano sua figlia e.... e suo marito, sebbene gli facesse un male atroce ammetterlo. Ma forse… forse era giusto così.

 

Più di quello che avevano avuto finora non avrebbe mai potuto avere da lei e… e finché fosse rimasto a Matera non sarebbero mai riusciti a staccarsi del tutto, o almeno, lui non sarebbe mai riuscito a farlo, ad andare avanti e a dimenticarla.

 

E, sebbene dubitasse seriamente di riuscire a farlo pure a Roma o in qualsiasi altro angolo del pianeta, sebbene gli sembrasse impossibile anche solo pensare di poter amare qualcuno che non fosse lei - perché, di fatto, si era reso conto di non avere nemmeno avuto una vaga idea di cosa fosse l’amore prima di stare con lei - comunque così non si poteva andare avanti ancora a lungo, senza finire solo per farsi del male a vicenda e senza… senza rovinarsi la vita come avevano quasi già fatto.

 

La cosa che gli faceva più male era lasciarla sola proprio in quel momento. Si sarebbe sentita abbandonata, forse tradita, e lo sapeva ma… ma l’alternativa sarebbe stata mille volte peggiore. Le doveva la vita, letteralmente, doveva a lei tutto quello che era diventato, nel bene e nel male, e… e farsi da parte e salvargliela per una volta lui a lei la vita sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe potuto fare per lei, il suo regalo d’addio, anche se lei non l’avrebbe mai saputo.

 

“Dove devo firmare?” chiese, la voce che gli si spezzava leggermente, accettando la penna che Vitali gli porse e che pesò tra le sue dita nemmeno fosse fatta di piombo.

 

Con mano tremante firmò la sua condanna, probabilmente quello che si meritava, per il casino che aveva combinato.

 

Vitali raccolse i fogli, compiaciuto, e poi sollevò lo sguardo verso di lui, “ovviamente conto sulla sua discrezione a riguardo delle motivazioni del suo trasferimento, maresciallo, soprattutto con la dottoressa.”

 

“Naturalmente, dottore, spero… spero solo che a Matarazzo basti il mio trasferimento e non prenda altre... iniziative.”

 

“Parlerò personalmente con l’agente Matarazzo e credo e spero non ci saranno ulteriori ripercussioni da parte sua,” chiarì Vitali e poi il suo sguardo mutò e ci lesse del dispiacere, così come nel suo tono di voce, “mi rammarica perdere un elemento come lei, maresciallo, mi creda, nonostante le… problematiche personali. Ha un grande talento e grandi capacità, su questo la dottoressa Tataranni aveva visto giusto fin dall’inizio. Cerchi di non sprecarle e di essere più accorto in futuro, d’accordo? Il mare è pieno di pesci - per un uomo giovane e di bell’aspetto come lei, figuriamoci! - e certi legami sul luogo di lavoro sono una pessima idea sempre, a maggior ragione se la controparte non è libera.”

 

“Le donne non sono pesci, dottor Vitali, e non sono interscambiabili. Ma la ringrazio per il consiglio, anche se penso proprio che, almeno per un bel po’, questo sarà proprio l’unico rischio che non corro,” proclamò, deciso, perché, dopo quanto successo con Matarazzo, se ne sarebbe ben guardato dal buttarsi con altre donne, fino a quando avrebbe avuto la mente ed il cuore occupati da lei. Almeno quella lezione l’aveva imparata.

 

“La dottoressa ci aveva veramente visto giusto su di lei. Che la sua di vista, ma pure l’udito, le funzionino bene invece un po’ ne dubito, maresciallo, ma de gustibus non est disputandum.”

 

Non capiva il latino, ma almeno quella citazione la conosceva benissimo. Si morse la lingua prima di mandarlo a quel paese e cedere alla tentazione di replicare che poteva dire lo stesso di sua moglie, anche se quel pensiero gli suonò terribilmente da lei.

 

Forse gli aveva insegnato pure più di quanto avesse mai potuto immaginare. E comprese in quel momento che una parte di lei lo avrebbe accompagnato sempre, dovunque sarebbe potuto andare, perché ormai era pure parte di lui.

 

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“Ho bisogno di parlare col dottor Vitali,” annunciò, dirigendosi con le stampelle verso la porta dell’ufficio del procuratore, ma trovandosi bloccata dalla sua segretaria.

 

“Dottoressa, mi dispiace ma il dottore è impegnato e-”

 

Proprio in quel momento, la porta si aprì e ne uscì Calogiuri, che si bloccò non appena la vide, un’espressione quasi spaventata sul volto.

 

“Calogiuri, tutto bene?”

 

Non è che Vitali ha scoperto delle analisi del DNA mancanti? - si chiese, temendo già il peggio.

 

“Sì, dottoressa,” rispose, suonandole un po' neutro e meccanico, facendole un cenno col capo ed allontanandosi fin troppo rapidamente.

 

Strano, molto strano!

 

“Dottoressa Tataranni, aveva bisogno di parlarmi?” domandò il procuratore, sembrando stranamente… preso in contropiede?

 

“Sì, dottore, se ha un po’ di tempo, perché… sarà una cosa abbastanza lunga.”

 

Entrarono nell’ufficio e chiuse la porta alle sue spalle, per poi accomodarsi su una delle sedie di fronte alla scrivania di Vitali.

 

“Sono arrivati i risultati sul DNA ritrovato al capannone dove hanno sparato a me ed al maresciallo Calogiuri,” proclamò, porgendogli il rapporto della scientifica, decidendo di partire dai fatti.

 

Vitali lesse, poi corrugò la fronte, poi rilesse e poi la guardò, confuso, poi rilesse ancora, e sembrò sconvolto.

 

“Ma che significa, dottoressa?! Qui dice che… che l’autore della sparatoria sarebbe… un suo fratello?”

 

“Esattamente, dottore,” confermò con un sospiro.

 

“Ma… ma non sapevo lei avesse fratelli, dottoressa,” proseguì, sconcertato, passandosi una mano sulla fronte.

 

“Non lo sapevo nemmeno io, se è per questo, dottore, ma… ma ho parlato con mia madre e… e credo proprio di sapere di chi si tratta. Ora le spiego…”

 

E così gli raccontò tutto: di sua madre che faceva le pulizie a casa Latronico, del fatto che avessero avuto una fugace relazione, forse solo di una notte, del braccialetto che sua madre teneva a casa e che le era stato confermato essere regalo di Latronico. Del fatto che avesse sospetti a riguardo da un po’ di tempo, per via di alcune uscite di sua madre ma, soffrendo sua madre di demenza senile e non avendo la certezza non se l’era sentita di far uscire la cosa.

 

“Ma di fronte a queste analisi… non posso più dubitare che… che l’avvocato Latronico sia, almeno dal punto di vista genetico, mio fratello. E le chiedo di darmi l’autorizzazione a farlo cercare, sempre se non si è nascosto da qualche parte. Sarà ferito e avrà sicuramente dei complici che lo avranno aiutato a fuggire dal bosco. E forse medici compiacenti che lo avranno curato. Ma, se lo troviamo mentre è ancora ferito, avremo la prova finale che sia stato lui a spararci addosso.”

 

“Dottoressa io… io non so cosa dire,” replicò, ancora sconvolto, preoccupato, ma anche con un’aria che gli sembrò stranamente… colpevole e non ne capiva il motivo, “lei capisce che significa se… se questa storia viene allo scoperto, immagino. Non solo per lo scandalo, ma per il fatto che Latronico è coinvolto nel maxiprocesso e ne è pure l’avvocato difensore.”

 

“Lo so, dottore, ma… ma ho parlato con la mia famiglia ieri sera e… li ho avvertiti della possibilità che questa… informazione potrebbe uscire fuori. E, anche se spero di evitarlo, se fosse l’unico modo per inchiodare Latronico alle sue responsabilità, sono disposta a farlo, dottore. Mi ha quasi ammazzata e non solo a me.”

 

“Lo capisco, dottoressa, lo capisco, ma… ma la invito a rifletterci molto bene. Potrei doverle togliere il caso per incompatibilità, lo sa questo, vero? E non voglio farlo, mi creda, ma l’opinione pubblica potrebbe costringermi a dover prendere questa decisione, per il bene del processo. Ed inoltre… immagino anche le ripercussioni che ci saranno sulla sua vita privata e familiare. Quindi la invito a trovare una soluzione alternativa, per quanto possibile. Per intanto sicuramente ha la mia autorizzazione a far rintracciare Latronico, ma la esorto ancora a rifletterci molto bene. Il martirio sarà pure un gesto nobile, dottoressa, ma per poter continuare a lottare e ad essere utili, è meglio restare vivi.”

 

“Ci penserò, dottore. Allora avvio subito la ricerca di Latronico. Con permesso, mi congedo,” concluse, alzandosi a fatica dalla sedia, aiutandosi con le stampelle e stupendosi di nuovo di come Vitali fosse stato fin troppo accomodante, e di quell’espressione colpevole che aveva.


Ma magari stava diventando paranoica. Del resto, con tutto quello che le era successo nell’ultimo periodo, chi avrebbe potuto darle torto?

 

Ebbe la tentazione di scendere in PG e comunicare la notizia a Calogiuri di persona, ma il ginocchio la fece desistere. Tornò invece nel suo ufficio e, una volta seduta alla scrivania, compose il suo numero.

 

“Dottoressa. Avete bisogno di qualcosa?” rispose, dopo pochi squilli e c’era ancora qualcosa di strano nel tono di voce, che non riusciva a capire. Non sembrava arrabbiato con lei come nelle settimane precedenti, solo... strano.

 

“Sì, Calogiuri. Ho parlato con Vitali e… c’è da andare a prendere Latronico. Te ne puoi occupare tu? Ma non da solo, eh, mi raccomando! Portati almeno due colleghi, e tienimi aggiornata, va bene?” gli chiese, non potendo evitare di sentirsi in ansia, con tutto quello che era successo.

 

“Va bene,” rispose, semplicemente, e udì per qualche secondo il suo respiro, come se fosse indeciso se dire altro, finché la chiamata si interruppe.

 

Un senso indefinibile di qualcosa le si mosse nel petto, l’ansia che non fece che peggiorare. Ma non poteva fare altro che aspettare.

 

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Suonò di nuovo il campanello.


Era la terza volta.

 

Fece un ultimo suono più prolungato. Niente.

 

“Prepariamoci ad entrare lo stesso: abbiamo l’autorizzazione a farlo. Capozza, al tre sfondiamo. Uno, due, tre!”

 

Con due calci ben assestati la porta saltò via dal cardini ed entrarono, pistola in pugno, coprendosi le spalle a vicenda, Lorusso che chiudeva il terzetto. Percorsero il corridoio, aprendo a turno le porte, sempre tenendosi sotto copertura a vicenda. Ma l’appartamento era immacolato e sembrava completamente vuoto. Almeno fino a che sentirono un rumore dal piano superiore, come un lieve suono di passi.

 

Facendo segno solo coi gesti, indicò le scale e salirono, cauti. E, di nuovo, iniziarono ad aprire le porte, una dopo l’altra, ma non ci trovarono niente. E poi un altro rumore sordo, come un tonfo, e Calogiuri tornò verso la camera da letto che avevano già ispezionato e, arma in pugno, fece segno a Capozza di aprire con lui le porte dell’armadio.

 

“Mani in alto!” urlò vedendo una figura muoversi e tentare di scappare, che si bloccò di colpo, cadendo ai loro piedi.

 

“Non spara! Non spara!” gridò, disperata, parandosi la testa con le mani alzate.

 

Era una ragazza, bionda, dall’accento dell’Est Europa, vestita con un abitino estivo liso e fin troppo leggero per il clima di marzo. Non poteva avere più di vent’anni.

 

“Tranquilla, non devi avere paura,” provò a rassicurarla, abbassando la pistola e facendo segno a Capozza e a Lorusso di fare lo stesso, “come ti chiami?”

 

“Oksana.”

 

“Oksana, sai dov’è l’avvocato Latronico?”

 

“Non so… non so niente… tanti giorni che non vedo lui, dovete credere me!”

 

“D’accordo, però dovresti seguirci in procura. Ti dobbiamo fare alcune domande, va bene?” le chiese, cercando di mantenere un tono gentile.

 

“Ti prego, no! Io no permesso, non voglio tornare a Ucraina!” lo implorò, gli occhi che le si riempivano di lacrime.

 

“Tranquilla. Non ci importa del permesso, dobbiamo farti delle domande sull’avvocato. E, se ci aiuti, vedrai che noi ti possiamo aiutare pure col permesso, va bene?” la rassicurò, chiedendole poi, “hai un giaccone? Qualcosa di più pesante per uscire?”

 

La ragazza fece segno di no con la testa.

 

Calogiuri sospirò e si levò la giacca di pelle, mettendogliela sulle spalle, per poi fare un cenno a Capozza e Lorusso, mantenendo leggermente la presa su un braccio della ragazza, “qui non troveremo niente: è tutto troppo pulito. Rimettiamo in sesto la porta, per non dare nell’occhio, in caso Latronico rientrasse. Lorusso, tu poi resti appostato qua fuori, fino a nuovo ordine. Capozza, noi per ora rientriamo.”

 

Pensò che quelli potevano essere tra gli ultimi ordini che avrebbe dato lì a Matera… che poi ancora gli faceva così strano darli gli ordini. Pensò a lei che attendeva in procura, sicuramente in ansia, e a come si sarebbe sentita sapendo che Latronico era forse in fuga o… o forse… meglio non pensarci. Anche perché sarebbe stato l’ennesimo morto in quel caso, che ormai era una vera e propria carneficina.

 

E a come si sarebbe sentita quando le avrebbe dovuto dire che…

 

Scacciò quel pensiero e, con Oksana ancora sotto braccio, uscì da quella casa troppo pulita ma che sapeva comunque di marcio.

 

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“E quindi sei arrivata in Italia e ti hanno… portata dall’avvocato Latronico?”

 

“Sì, io doveva… fare pulizie…” spiegò Oksana, dopo un attimo di esitazione, che non le sembrò affatto dovuta all’incertezza linguistica.

 

“E questo quando è successo?”

 

“Era caldo fuori, estate… sesto mese, come si chiama?”

 

“Giugno?”

 

“Sì, giugno,” confermò, faticando sulla pronuncia.

 

Imma sospirò, pensando che questo spiegasse l’abito estivo che indossava la ragazza, che sembrava liso e consunto. Ne aveva altri sicuramente ma… ma nulla di più pesante, come confermava la giacca di Calogiuri che ancora indossava. Ed era prima che scoppiasse il caso di don Mariano, prima che iniziasse il maxiprocesso, prima di tutto il casino che era successo.


Quando i Serpenti e la cupola dovevano ancora sentirsi invincibili, al punto da fare magari un bel regalino a Latronico, o forse procurarsi un modo per ricattarlo meglio in futuro.

 

“Oksana, tu… tu non potevi uscire da casa Latronico, o sbaglio? Eri chiusa dentro a chiave?”

 

“Lui diceva che se qualcuno vedeva me, io dovevo tornare a mio paese. E io lì non avevo casa, non avevo mangiare, qui almeno tetto, riscaldamento e mangiare. Anche se…”

 

“Anche se non dovevi fare solo le pulizie a casa Latronico, non è vero?” dedusse, quel senso di schifo che le salì in gola e che si trasformò in un conato vero e proprio quando Oksana scosse la testa, gli occhi che le si riempivano di lacrime, confermando ciò che già temeva.

 

“Io a inizio faceva solo pulizie ma… ma lui sempre gentile... diceva che ero bella, che piacevo a lui tanto… che lui salvata me da amici suoi perché mi voleva bene. Che se non era per lui… finivo per strada con… con tanti uomini, come altre ragazze venute con me da Ucraina,” spiegò, le lacrime che le scendevano dagli occhi finendo sulla stoffa a fiori ormai consunta, “io… io a inizio non volevo ma… ma poi volevo perché lui sempre gentile con me, dopo tempo sempre più gentile. E non ho nessuno, solo lui.”

 

Imma sentì gli occhi pizzicarle, mentre l’indignazione ed il senso di schifo montavano. Non solo per la schiavitù in cui versava la ragazza e l’evidente sindrome di Stoccolma di cui soffriva, per considerare gentile un uomo che ti tiene prigioniera e non si degna nemmeno di darti un cambio d’abito per l’inverno, che ti tratta peggio di un animale da compagnia. Ma anche perché… le tornarono in mente le parole di sua madre su Latronico, Cenzino stavolta: anche lui secondo sua madre era stato gentile. E pure lei faceva le pulizie e poi... non solo quello.

 

Molto probabilmente non era stata la stessa cosa e forse Cenzino Latronico gentile lo era stato davvero. E sua madre non era certo prigioniera a casa Latronico: era sposata e poteva andare e venire come voleva. Ma la verità è che, quando hai davanti una persona disperata, un sorso d’acqua fresca può sembrare champagne ed un comportamento inaccettabile può sembrare gentile, pure lusinghiero, se presentato in modo accattivante, se confrontato ad una vita ancora più degradante.

 

“Quindi sei venuta in Italia con altre ragazze. Sai che fine hanno fatto?”

 

“No, Angelo mi ha detto che sono a… a battere per strada o... a feste per uomini ricchi…"

 

Imma si chiese se fossero collegate anche al famoso festino a Roma, quello dove Lombardi era finito in overdose.

 

"Senti, ora ti faccio vedere delle foto e mi devi dire se riconosci qualcuno, va bene? Non devi avere paura: ti porteremo in un posto sicuro dove non ti troveranno e-"

 

"Ma Angelo come fa? Da domenica che non vedo lui. Ho paura che successo qualcosa!" la interruppe, sembrando preoccupata quasi più per Latronico che per se stessa.

 

"Ascolta, lo stiamo cercando. Se gli è successo qualcosa lo scopriremo, ma è probabile che si sia allontanato volontariamente. Non ti devi preoccupare," la rassicurò, anche perché veramente di Latronico non si sarebbe affatto dovuta preoccupare, dopo quello che le aveva fatto.

 

Ma certi rapporti di codipendenza tra vittima e carnefice potevano essere fortissimi, lo sapeva bene.

 

"Calogiuri, mi passi le foto?" gli chiese e il maresciallo annuì e fece quanto richiesto, rimanendo però in silenzio. Da quando era tornato con la ragazza aveva detto pochissime parole, pure per i suoi standard, ed Imma cominciava a preoccuparsi e a chiedersi cosa ci fosse che non andava.

 

Oksana fece passare le foto ed ignorò quella di Vaccaro - del resto quando era arrivata in Italia probabilmente era già morto e sepolto da quasi un anno - e di Lombardi ma puntò decisa il dito su una foto familiare.

 

"Calogiuri, dobbiamo metterci in contatto con quel gentiluomo di Quaratino. Che a questo punto l'accordo va rivisto sostanzialmente, se non salta del tutto," sibilò, furente, anche se non avrebbe osato farlo: Quaratino era un bastardo della peggior specie, ma era più utile vivo che morto.

 

Ci mancava solo lo sfruttamento della prostituzione, tra le attività della cupola e forse dei Serpenti. A parte per i rapporti con quell’altro gentiluomo di Vaccaro. Evidentemente avevano proprio voluto fare l’en plein. Presa da un’idea, afferrò il cellulare ed inviò un messaggio a Calogiuri che, quando lo ricevette, sollevò gli occhi per un attimo, sorpreso, ma annuì e, dopo poco, portò alla ragazza un fascicolo, questa volta di foto femminili, nel quale ne aveva inserita una in particolare.

 

E, come prevedibile, Oksana riconobbe, senza esitazione, pure la compagna rumena di Quaratino.

 

“Calogiuri, dobbiamo contattare pure la signora, se così si può definire. Grazie mille Oksana, ci sei stata utilissima. Ora chiamiamo un’associazione che si occupa di donne con una storia simile alla tua e che vedrai che ti aiuteranno a stare meglio e a cercarti un lavoro vero. E ci occuperemo del tuo permesso di soggiorno, come promesso, va bene?” le chiese con un sorriso, allungando una mano per stringere quella della ragazza dall’altra parte della scrivania.

 

“Sì, ma voi trovate Angelo, per favore, io preoccupata per lui, tanto,” ribadì, gli occhi ancora piena di lacrime e ad Imma si strinse il cuore, pensando al percorso psicologico che avrebbe dovuto fare quella ragazza prima di tornare ad una vita libera davvero, anche dai condizionamenti invisibili, che a volte legano di più delle catene.

 

“Non ti preoccupare: lo stiamo cercando ovunque e se gli è successo qualcosa lo scopriremo sicuramente. Diana! Puoi venire qui un attimo?”

 

La cancelliera arrivò, trafelata.

 

“Diana, ti puoi occupare tu di Oksana fino a quando vengono a prenderla? Tienila con te nel tuo ufficio, così sta tranquilla. Magari fatti portare un altro tè dal bar, che ho visto che le piace, o quello che desidera, va bene?”

 

“Va bene, Im- dottoressa."

 

Oksana si alzò e fece per togliersi la giacca e ridarla a Calogiuri ma lui le fece segno di no con il capo, “tienila pure, non mi serve, ne ho altre a casa e come vedi sono già vestito pesante, non ti preoccupare.”

 

“Ma non è giusto, giacca tua, non posso tenere io,” insistè la ragazza, mentre Imma sentì quel calore piacevole al petto e si chiese chi dei due glielo scatenasse di più, pure se sapeva che Calogiuri probabilmente vinceva già in partenza.

 

“Non ti preoccupare. Al limite me lo fai avere poi più avanti, va bene?”

 

“Diana, fai una cosa: già che vi tocca aspettare, chiama il negozio qui sotto e fatti portare un cambio completo taglia… 38, immagino? E una giacca adatta alla stagione,” intervenì, prima che andassero avanti ancora per chissà quanto, considerato il carattere di Calogiuri e quello della ragazza.

 

“No, ma io non posso pagare e-”

 

“Tranquilla, lo pagherà l’associazione, è la prassi, cioè, è normale,” la rassicurò, facendo segno poi a Diana, non appena Oksana ebbe voltato le spalle, che avrebbe saldato lei, guadagnandosi un’occhiata sorpresa della cancelliera ed una che sembrava commossa di Calogiuri.

 

Infine la porta dell’ufficio di Diana si richiuse e rimasero soli.

 

“Senti i Quaratino, Calogiuri, che c’hanno parecchie cosette da spiegarci,” ordinò, ma Calogiuri rimase per un attimo impalato, la commozione che lasciò il posto di nuovo a quell’espressione strana, “è successo qualche cosa?”

 

“Sì, ma… è meglio se ne parliamo in un altro momento,” rispose ed Imma ovviamente si incuriosì, immaginando che si trattasse di un argomento privato e che non fosse il caso di affrontare con Diana e la ragazza nell’ufficio accanto, “come facciamo con Latronico, dottoressa? Volete che interroghiamo anche i colleghi o… la sorella?”

 

Notò l’esitazione su la sorella ed un gusto dolceamaro le salì in bocca. Gli fece cenno di avvicinarsi, perché non voleva farsi sentire da Diana e dalla ragazza. Le si affiancò e si abbassò per essere alla sua altezza.

 

“Se Latronico ha lasciato Oksana chiusa a casa sua, o è morto e i suoi complici non sanno che la ragazza stava lì o, se è vivo, o è gravemente ferito, oppure non sa di essere ricercato. Perché, se lo sapesse, se avesse previsto che saremmo andati a casa sua, avrebbe fatto sparire la ragazza in qualche modo, non credi?”

 

“E quindi?”

 

“E quindi è probabile che sia da qualche parte a curarsi, in qualche clinica privata compiacente probabilmente. Ed è meglio non svegliare il can che dorme, non che mangi la foglia che lo stiamo cercando. Diramiamo la segnalazione al confine e… e fammi una ricerca sulle cliniche private nel raggio di due ore da Matera. Non credo possano essersi allontanati di più con una ferita sanguinante. Cerca se qualcuna ha legami con i Latronico o con gli altri del giro.”

 

“D’accordo, dottoressa, vi terrò informata,” concluse, rimettendosi diritto in piedi ed avviandosi verso la porta, professionale come sempre, un po’ troppo considerato quanto era successo negli ultimi giorni tra loro.


Come se non vedesse l’ora di andarsene, eppure non sembrava più arrabbiato con lei.

 

Quel malessere, come un sesto senso, tornò a scalciarle dentro ma si costrinse a zittirlo e a rimettersi al lavoro.

 

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“Imma, allora io vado.”

 

“Aspetta, Diana. Quanto veniva il conto del negozio? Che nelle mie condizioni non ci riesco ad andare, ma se riesci a passare tu a saldare…”

 

“Cento euro, era centoventicinque ma, spiegata la situazione, ci hanno fatto cifra tonda,” rispose Diana, porgendole lo scontrino.

 

Imma sospirò: se fosse andata lei avrebbe spuntato ancora meno, con le offerte, ma come minimo sarebbe stata criticata per gli abiti che avrebbe scelto. Sapeva che il suo gusto personale non era esattamente condiviso dal resto del mondo, anzi.

 

Porse due banconote da cinquanta a Diana, contenta comunque della buona azione fatta. Non sapeva se perché la ragazza le aveva fatto tenerezza, se per non far perdere a Calogiuri la sua giacca preferita o se perché-

 

Se perché voleva rimediare a ciò che ha fatto il sangue del suo sangue? - domandò sarcastica la voce di Romaniello, scatenandole un brivido di disgusto.

 

Non doveva pensarci: Latronico non era suo fratello, era solo un individuo con cui divideva una percentuale del pool genetico.

 

“Grazie Imma. Hai fatto un bel gesto, veramente. Lo vedi che, quando vuoi, sei la persona più buona che conosco?” le domandò Diana, con un sorriso che le ricordò quelli che aveva da ragazza, quando erano ancora migliori amiche, prima della Guarini, trascinandola in un abbraccio così stretto che per poco non la soffocava.

 

Rimase per un attimo paralizzata e poi ricambiò la stretta, almeno fino a quando il rumore di una porta che si apriva e poi un balbettante, “sc- scusate, ripasso dopo!” la fece staccare e pronunciare un “Calogiuri, aspetta!” che lo bloccò sui suoi passi.

 

“Diana, vai pure,” disse con un sorriso e la cancelliera, per tutta risposta, fece un sorriso ancora più ampio, stranamente divertito, e con un “agli ordini, dottoressa!” si congedò del tutto, chiudendo la porta del suo ufficio dietro di sé, seguita dalla porta più esterna.

 

“Calogiuri, dimmi, avevi bisogno di qualche cosa?” gli chiese, notando come fosse ancora impalato sulla porta, quasi come se fosse indeciso se rimanere o andarsene.

 

Esitò un attimo e poi, sempre con quello sguardo strano, sospirò ed annuì, chiudendo la porta dietro di sé. Si avvicinò alla scrivania ma non si sedette, rimanendo in piedi.

 

“Accomodati, dai, non stare lì impalato,” gli fece segno verso la sedia, ma Calogiuri stranamente non si mosse.

 

Quel qualcosa che le si contorceva dentro si fece un altro giro di giostra.

 

“Calogiuri, mi vuoi dire che cosa succede? è da stamattina che sei strano,” gli fece notare e l’espressione di Calogiuri mutò, uno strano mix di disagio e… colpevolezza?, “Vitali che voleva da te?”

 

Per un attimo Calogiuri spalancò gli occhi, forse preso in contropiede. E poi li chiuse, fece un altro sospiro e sganciò la bomba.

 

“Vitali… voleva comunicarmi che… che la mia richiesta di trasferimento è stata accettata e che dovrebbe avvenire a breve, probabilmente entro un mese.”

 

Imma si sentì soffocare, il fiato che le mancava e ringraziò il cielo di essere seduta, perché se no probabilmente sarebbe cascata, da come le tremavano sia le mani che le gambe, il ginocchio che le lanciava fitte tremende.

 

Il suo cervello si rifiutava di connettere, eppure aveva capito benissimo, le parole trasferimento, accettata, entro un mese che le rimbombavano in testa, il fiato che si faceva sempre più corto.

 

“Tra- trasferimento?” riuscì solo a pronunciare, cercando di incrociare quegli occhi azzurri, nonostante la vista le si appannasse, ma lui li teneva bassi, fissi sul pavimento, come se non osasse guardarla.

 

“Mi… mi avevi fatto promettere che… che ti avrei detto quando non sarei stato più bene, no? E… e in queste settimane mi sono reso conto che… che non potremo avere mai altro che… che questo e… e, come ti ho già detto, a me non basta più. Non ti voglio chiedere di scegliere anche perché… lo so benissimo che la scelta non sarei io. Tu hai tua figlia, la tua famiglia e verranno sempre prima di me e… e forse è giusto così,” pronunciò con una voce roca come mai prima, sollevando infine gli occhi, colpendola con uno sguardo terribilmente lucido, in tutti i sensi, “ma finché resto qui… non… non ci riesco a staccarmi da te e forse nemmeno tu da me. Non riuscirei ad andare avanti, a resistere a quello che provo per te e… e si è visto pure negli ultimi giorni. Mi dispiace andarmene proprio adesso, con tutto quello che ti sta succedendo… e se… se ce l’avrai con me per questo lo capirò, e avrai tutte le ragioni del mondo. Ma… Vitali mi ha detto che si è liberato un posto a Roma. Potrei… potrei tornare a lavorare con i miei compagni di corso e Roma mi piace e mi ci trovo bene, lo sai. E se non colgo quest’occasione mo, chissà quanto tempo ci vorrà prima che si ripresenti o… o dove potrei andare a finire e.... lo so che è da egoista, ma-”

 

“Calogiuri,” sussurrò, a fatica, alzando una mano per interrompere la tirata, chiudendo gli occhi e facendo uno sforzo sovrumano per non scoppiare a piangere.

 

Aveva aspettato troppo, aveva tirato troppo la corda con lui e si era spezzata. E come poteva dargli torto se se ne voleva andare, mo?

 

Digli che lo ami, digli che lascerai Pietro, che è solo questione di tempo, digli di restare con te, che deve solo avere un po’ di pazienza! - le urlò la Imma interiore, scalpitando come non mai, anzi, doveva essere stata lei a scalciarle dentro già prima.

 

Ma la zittì, la soffocò, a fatica, perché se c’era qualcuno di egoista non era Calogiuri, ma era stata lei in tutti quei mesi e lo sarebbe stata ancora di più a chiedergli di restare. Di rinunciare ad un posto nella procura più importante d’Italia per stare lì con lei, a sobbarcarsi i suoi casini, lo scandalo tremendo che ci sarebbe stato di lì a poco, e poi quello che ci sarebbe stato dopo, uscendo allo scoperto con lei.

 

Una cosa sola si era ripromessa, ancora prima di iniziare quella relazione clandestina con lui, ancora prima… ancora prima di… di innamorarsi di lui, quando aveva cominciato a capire quanto ci tenesse all’appuntato Calogiuri, e poi al maresciallo Calogiuri, quando aveva provato sulla sua pelle quanto era stata male nel saperlo a Roma, seppure per pochi mesi.

 

Ed era che non gli avrebbe mai impedito di farsi la sua carriera, indipendentemente da lei, se lui lo avesse voluto. Lei la sua opportunità nella vita l’aveva avuta e ora toccava a lui. Ed era giusto che non si limitasse a lavorare solo con lei, alla piccola Procura di Matera, che di prospettive di crescita e di carriera ne offriva ben poche. Mentre a Roma ce ne sarebbero state eccome e, intelligente e stacanovista com’era Calogiuri, avrebbe avuto un futuro professionale brillante, ne era più che certa.

 

Non poteva tenerlo legato a sé per l’amore, il senso di colpa o la gratitudine. Se lui voleva spiccare il volo senza di lei non poteva impedirglielo, anzi, doveva fare ciò che era meglio per lui, proprio perché… perché lo amava e ci teneva alla sua felicità, al suo futuro, che dovevano venire prima di tutto.

 

“Se… se è quello che vuoi, è giusto che… che ti fai la tua strada, Calogiuri. Io… io me la caverò: in qualche modo me la cavo sempre, lo sai. Non... non ti devi preoccupare per me,” pronunciò, la voce che pareva carta vetrata, facendosi quasi violenza per costringersi a parlare e a non cedere al pianto.

 

Calogiuri rimase per un attimo immobile, uno sguardo strano in volto, come un misto di disappunto e di sollievo, una lacrima che gli sfuggì su una guancia.

 

"Mi occuperò dei casi aperti, cercando di lasciare tutto in ordine per… per chi mi sostituirà. Mi dispiace per il maxiprocesso, lo so che… che me ne sono sempre occupato io e che… che lo lascio nel momento peggiore. Ma cercherò di archiviare tutto al meglio e, se c'è bisogno, ovviamente posso tornare per testimoniare e… posso aiutare i colleghi di Roma col caso Lombardi. Però preferirei non prendere in carico casi nuovi e… e credo che, al di là di quanto necessario per il lavoro, sia meglio se ci vediamo il meno possibile fino alla mia partenza, perché… perché se no mi sarà ancora più difficile staccarmi da te."

 

E che gli poteva dire? Poteva forse dirgli di no? Era la cosa migliore per lui e lo sapeva… per lei no, anzi, tutt'altro, ma non poteva fare altro che acconsentire, perché era la cosa giusta da fare.

 

"Va bene," annuì, la voce che le si spezzò a tradimento sul bene, ma almeno le lacrime stava riuscendo a tenerle aggrappate agli occhi.

 

Calogiuri annuì di rimando e si avviò alla porta, girandosi verso di lei per guardarla un'ultima volta, l'aria di chi voleva dire qualcosa, ma lo vide prendere un altro respiro e poi uscì e chiuse la porta dietro di sé.

 

Ed il pianto esplose: la diga si era rotta e si ritrovò a tremare come una foglia, scossa da singhiozzi tremendi, le lacrime che le andarono di traverso, facendola tossire, mentre si accartocciava su se stessa, tra la sedia e la scrivania, un dolore al petto lancinante, forte come mai prima, tanto che per un attimo temette di sentirsi male sul serio. Ma in quel momento non le importava di niente, non riusciva a fare nulla se non affogare nella disperazione più profonda, in quel senso di buio, di vuoto che la avvolgeva.

 

Non avrebbe saputo quantificare quanti minuti o ore fossero trascorsi così, appallottolata in posizione fetale, ignorando le fitte al ginocchio, sommerse da un dolore ben più forte, quando sentì una mano su una spalla.

 

Un senso di sollievo, una luce di speranza, mentre sollevava il capo a fatica, mormorando un "Ca-" che le morì in gola quando le sue orecchie udirono un "amò, che c'hai?" ancora prima di trovarsi davanti lo sguardo preoccupato di Pietro, che ondeggiava tra le lacrime.

 

"Pie- Pietro? Che- che ci fai qui?!"

 

"Ti dovevo venire a prendere alle 18.30, ricordi? Mo sono le 19.30, non ti ho visto uscire e mi sono preoccupato. Amò… te l'ho detto che non ti devi tenere tutto dentro! Lo capisco che sei sconvolta per… per Latronico ma lo sai che puoi sfogarti con me… non devi piangere di nascosto," esclamò, con una dolcezza ed un’apprensione nella voce che, in altre circostanze, l’avrebbero fatta sentire in colpa, o forse amata, ma l’unica cosa che sentiva in quel momento era la mano di Pietro sulla spalla, come se fosse un corpo estraneo.

 

“Lasciami,” le uscì, la gola che parlò prima che il cervello connettesse.


“Come?”

 

“Lasciami sola."

 

“Amò, ma… ma non puoi stare qui così ancora a lungo, è tardi e dobbiamo andare a casa. Qui tra poco chiude tutto.”

 

“A casa c’è Valentina?” domandò, perché non riusciva a farsi vedere dalla figlia, non in quelle condizioni.

 

“Sì, certo."

 

Avrebbe… avrebbe avuto bisogno di andare da una persona amica con cui sfogarsi, con cui parlare e si rese conto in quel momento per la prima volta di quanto fosse veramente sola.

 

Certo, c’era Diana ma come poteva confidarle di Calogiuri? Lavoravano insieme e Diana a volte sapeva essere meravigliosa con lei, ma altre volte le cose le sfuggivano di bocca senza volerlo e non poteva rischiare. E poi… la verità era che temeva il suo giudizio, dopo tutti i discorsi che le aveva fatto sul “male non fare, paura non avere” ai tempi della storia con Capozza.

 

E c’era Sabrina, che non era proprio un’amica ma era l’unica che sapesse più o meno tutta la verità. E avrebbe pure avuto equitazione il giorno dopo, ma col ginocchio in quelle condizioni andarci era fuori discussione.

 

Per un momento ipotizzò persino di andare da sua madre, ma non aveva un letto in più oltre al suo e a quello di Nikolaus. E, per quanto fosse affetta da demenza e sfogarsi con lei potesse avere il vantaggio di avere di fronte una persona che il giorno dopo probabilmente si sarebbe scordata tutto, da un lato temeva invece ricordasse eccome - e poi altro che battute sul fidanzato suo! - dall’altro lato non voleva che potesse pensare che stesse piangendo per la storia di Latronico, sempre se sua madre si ricordava ancora dei discorsi fatti il giorno precedente.

 

“Se… se andiamo a casa… mi puoi lasciare sola in camera almeno per qualche ora, per favore? Ho bisogno di stare sola, Pietro,” provò a contrattare, inghiottendo le lacrime, sentendosi esausta, maledicendo il ginocchio che la faceva dipendere dagli altri, la cosa che aveva da sempre odiato di più al mondo.

 

“Se… se pensi di averne bisogno, va bene, ma non ti fa bene tenerti tutto dentro, Imma, e lo sai. Vuoi una mano ad alzarti?”

 

Ed Imma annuì, maledicendo la sua debolezza, le gambe che le tremavano, maledicendo lo stato in cui era ridotta per colpa di un uomo, anzi no, per colpa sua, soltanto per colpa sua.

 

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Si sentiva esausto: non aveva chiuso occhio e aveva gli occhi che ancora gli tiravano e gli bruciavano per tutte le lacrime versate, prima sotto la doccia e poi nel cuscino.

 

Malediceva la sua debolezza, quel bisogno fisico e mentale che aveva di lei, di stare con lei, anche solo per qualche istante, di vedere la sua espressione, di sapere come stava, di respirare il suo profumo che sapeva di quel bagnoschiuma agli agrumi che lei usava e che lui ancora conservava religiosamente nel suo bagno, insieme allo shampoo.

 

Avrebbe dovuto decidersi a buttarli, prima del trasloco, insieme a tutte le vane speranze di un futuro con lei.

 

Forse staccarsi da lei, da quella dipendenza che era quasi una droga, era davvero la cosa migliore per tutti ma già sapeva che sarebbe stata durissima. Gli mancava da impazzire già in quel momento, che ancora poteva incrociarla per caso in procura, figuriamoci quando sarebbe stato a Roma.

 

Ricordava benissimo come si era sentito l’anno prima, quando si era trasferito nella capitale per i sei mesi necessari al corso da maresciallo. Era lì che aveva capito di provare qualcosa di diverso dall’ammirazione per la dottoressa, perché si era trovato a pensarla continuamente: ogni cosa che faceva sul lavoro gliela riportava alla mente e si chiedeva come l’avrebbe fatta lei, come l’avrebbero affrontata insieme. Se la immaginava accanto a lui, fino a riuscire a visualizzare perfino le sue espressioni. Ma anche in caserma, quando si svegliava e quando andava a letto, si ritrovava spesso ad immaginare quell’ultimo abbraccio tra loro, a cercare di rivivere quello che aveva provato quando lei, inaspettatamente, gli si era aggrappata al collo, quelle sensazioni fortissime e confuse. E quel momento davanti alla caserma, quando si era appoggiata al suo petto e lui non aveva saputo che fare. Avrebbe voluto abbracciarla ma non aveva osato, non sapendo dove mettere le mani, o meglio, dove poteva mettere le mani. Dove voleva metterle le mani glielo avevano chiarito poi i sogni, perché quella scena se l’era sognata spesso, ma immaginandosi un altro finale. Ricordava ancora quando si era svegliato, sconvolto ed imbarazzato di se stesso, dopo aver sognato per la prima volta di stringerla tra le sue braccia mentre lei piangeva e subito dopo, quando lei lo aveva implorato di stare zitto, di annullare quella breve distanza tra loro e zittirla a sua volta con un bacio.

 

Il suo ricordo l’aveva accompagnata per tutto il periodo di Roma, ben prima che ci arrivasse pure in carne ed ossa, tanto che aveva fatto una testa così pure alla povera Mariani, perché aveva bisogno di parlare di lei con qualcuno, pur non potendo esplicitare tutti i pensieri che gli passavano per la testa.

 

E questo un po’ temeva del ritorno a Roma: i ricordi che lo legavano a lei lì. Certi luoghi li avrebbe dovuti evitare il più possibile, già lo sapeva. Ma la verità era che sarebbe pure potuto andare in capo al mondo, ma lei ormai era dentro di lui e lo avrebbe accompagnato ovunque e comunque, era inevitabile. Se già era stato così difficile fare a meno di lei, quando ancora esattamente non aveva dato un nome a ciò che provava, quando il massimo del contatto tra loro era stato un abbraccio, ora sarebbe stata una tortura starle lontano, senza poterla vedere né sentire.

 

Ma doveva farlo, non c’erano alternative e poi… e poi lei ci era rimasta male per il trasferimento, certo, lo aveva visto benissimo che aveva gli occhi lucidi quando glielo aveva comunicato, aveva sentito la voce che le si spezzava. Ma non aveva protestato, non si era nemmeno arrabbiata, come aveva temuto - e forse un po’ sperato - no, aveva accettato il tutto con rassegnazione, segno evidente che quello che lui le aveva detto fosse vero e che lei ne fosse perfettamente consapevole. Che lei avrebbe scelto sempre suo marito e la sua famiglia e che non avrebbero mai avuto un futuro. Se mai avesse avuto qualche ultimo dubbio residuo, era stato definitivamente spazzato via, insieme ad ogni traccia di speranza.

 

Un rumore di tacchi lo riscosse dai suoi pensieri, appena giunto in PG, e si voltò, sebbene non potesse essere lei: a causa delle stampelle negli ultimi giorni aveva sempre le scarpe basse, cosa straordinaria.

 

E fu così che si ritrovò di fronte Matarazzo, che lo squadrò con un’aria di disprezzo che, pur sapendo da un lato di meritarsi, dall’altro lo mandò in bestia.

 

“Mi trasferisco a Roma, entro un mese, non so se te lo ha già comunicato Vitali. Ma mi dovrai sopportare ancora per poco."

 

Matarazzo si bloccò completamente, sembrando presa in contropiede. Vitali non glielo aveva ancora detto, evidentemente.

 

“So che Vitali ti parlerà e ti spiegherà i motivi della mia decisione. Io quello che ti posso dire è che so di avere sbagliato con te e ti chiedo ancora scusa per questo ma… ma pagherò il mio errore, come vedi. E spero non vorrai coinvolgere ulteriormente altre persone che non c’entrano niente, perché sono solo io che ho sbagliato nei tuoi confronti.”

 

“Ah, sì? E consolarmi e fare la comprensiva mentre io come una disperata piangevo, sapendo benissimo che piangevo per te, perché tu mi hai mollata per lei, non ti sembra aver sbagliato nei miei confronti? Per il culo mi ha presa, la tua cara dottoressa, è questa la verità!”

 

Un moto di panico, si guardò in giro ma per fortuna non c’era nessuno, le fece però cenno di abbassare la voce e replicò cercando di rimanere il più calmo possibile, sperando Jessica potesse fare lo stesso.

 

“Ma non lo sapeva. Non sapeva nemmeno che ti avevo… lasciata, Jessica, anzi, me le sono pure sentite da lei per come ti ho trattata, mi ha detto chiaro e tondo che ho sbagliato con te. E… e non glielo avevo detto perché… perché quello che provo io per lei non è ricambiato, Jessica, e non lo sarà mai. Quindi non so se possa consolarti, ma anche io non sto bene in questo periodo, per niente.”

 

“No, non mi consola, ma è quello che ti meriti!” sibilò, per poi fare un sospiro e aggiungere, dopo un attimo di pausa, “ma visto che la tua lezione l’hai avuta e tra un po’ non ti avrò più tra i piedi… cercherò di collaborare con la dottoressa, che se ti ha usato e poi gettato solo che bene ha fatto, perché tu soltanto quello ti meriti, che giusto tra le lenzuola sei buono a qualcosa! E poi, pure lì, non è che sei tutto quel granché!”

 

E, con un altro sguardo schifato, girò i tacchi ed uscì dalla PG.

 

Strinse i pugni, non sapendo se, nei confronti di Jessica, prevalesse la rabbia, il rancore, il dolore o il senso di colpa. Avrebbe voluto incolparla di tutto il casino che gli stava succedendo: sarebbe stato facile, molto facile. Ma la verità era che se l’era cercata, comportandosi come un cretino irresponsabile. E se con Lolita in qualche modo se l’era cavata senza troppe conseguenza lavorative - quelle mentali se le portava ancora dietro - gli errori nella vita purtroppo, quasi sempre, si pagano.

 

E lui lo avrebbe pagato carissimo.

 

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Gli occhiali da sole indosso, nonostante fosse una giornata neanche troppo soleggiata, guardò l’orologio che segnava le quindici, sentendosi mentalmente esausta. Non aveva dormito e Pietro aveva avuto la bella trovata di tentare di abbracciarla a metà della notte, forse nel sonno o forse svegliato da lei che si rigirava continuamente.

 

Invece di esserle di conforto, si era sentita soffocare. Non ci riusciva veramente più a farsi consolare da Pietro, nemmeno nel senso letterale del termine.

 

E non era normale, non era giusto, ma era quello che provava, quando il suo corpo non faceva che segnalarle le differenze tra le braccia che la stringevano e quelle dalle quali avrebbe voluto essere stretta come soltanto quarantotto ore prima, mentre pensava, ingenuamente, che il suo mondo stesse andando in pezzi.

 

Perché, se quelli erano pezzi… ormai… non era rimasta che la cenere, la polvere. Perché forse di un padre mai conosciuto e di un fratello che meglio perderlo che trovarlo poteva pure fregarsene, tutto sommato: a 44 anni suonati non ne aveva certo bisogno. Era adulta e… ormai la sua vita e la sua infanzia erano state quello che erano state.

 

Ma Calogiuri… per un attimo ci aveva davvero sperato, nonostante tutte le difficoltà, nonostante tutti i casini e i limiti, che sarebbe potuto essere il suo futuro. Era stata l'unica luce di speranza che le aveva dato forza nelle ultime settimane, pur tra tutti i dubbi e le paure su se e come lasciare Pietro. Ed invece avrebbe dovuto fare i conti con le macerie di cui era fatta la sua vita, ed avrebbe dovuto farlo da sola.

 

Perché il matrimonio con Pietro non si sarebbe magicamente aggiustato nemmeno con l’assenza di Calogiuri. Perché la sua carriera era appesa ad un filo e la sua identità personale non era stata mai tanto traballante. Le granitiche certezze su cui aveva basato una vita intera si erano sgretolate e lei con loro.

 

Le rimanevano giusto i suoi principi, ma pure quelli, a parte mantenerli sul lavoro, nella vita privata li aveva traditi tutti o quasi. Forse per amore o forse per egoismo. E, anche se non se ne sarebbe mai pentita, mo era arrivato il conto e l'avrebbe pagata cara, con gli interessi.

 

Spiò Diana che la guardava dall'ufficio accanto e prese una decisione di impulso.

 

"Diana, mi accompagneresti a casa? Mi sento poco bene."

 

Diana, per tutta risposta, la guardò con un'aria mortalmente preoccupata, manco le avesse annunciato di essere in fin di vita.

 

La capiva, per carità: i suoi giorni di ferie e permessi fuori dalle vacanze estive e natalizie si contavano sulle dita di una mano. Ma non ce la faceva proprio a concentrarsi, novità rilevanti non ce n'erano e le scartoffie avrebbero potuto aspettare pure il giorno dopo.

 

"Che ti senti, Imma? Non è meglio che ti porto dal dottore?"

 

"Ma no, è solo il ginocchio che non mi dà tregua, tranquilla," mentì, e Diana la guardò con uno scetticismo di cui non sapeva se essere orgogliosa o irritata

 

"Pure gli occhiali da sole sono per il ginocchio?"

 

"Diana…" ribatté, in tono di avvertimento, "mi puoi dare una mano sì o no?"

 

La cancelliera sospirò e si avvicinò, aiutandola ad alzarsi e a raccogliere tutte le sue cose.

 

Erano arrivate in corridoio quando intravide vicino alla scala Calogiuri con Capozza. Calogiuri la notò ed i loro sguardi si incrociarono per qualche secondo, ma poi abbassò gli occhi frettolosamente sulle carte che gli stava mostrando Capozza. Imma vide Diana sorridere e fare un passo verso i due carabinieri, ma la bloccò piazzandole davanti una stampella. Le fece segno verso l'ascensore, pigiando ripetutamente il bottone.

 

Diana sembrò un attimo sorpresa ma non disse niente. 

 

Almeno fino a che, con un po' di fatica, riuscirono a salire sulla sua auto.

 

"Ho sentito che Calogiuri si trasferisce a Roma," proclamò, così, dal nulla, con un tono neutro, fin troppo.

 

Imma sospirò e se ne guardò bene dall'aprir bocca, sia perché non si fidava della sua voce, sia perché... come avrebbe mai potuto rispondere?

 

"Non dici niente?"

 

"E che devo dire? Buon per lui, avrà molte più opportunità a Roma.”

 

Diana sospirò, scuotendo lievemente il capo, e continuò a guidare in un silenzio che non venne più interrotto finché la lasciò, sana e salva, davanti alla porta di casa.

 

Entrò e fece appena in tempo a mollare la borsa, quando si ritrovò di fronte Valentina, con un mestolo in mano ed un grembiule addosso.

 

“Che ci fai già a casa?” le domandò, sbalordita, nemmeno le avesse appena annunciato che le avrebbe comprato un cellulare da seicento euro.

 

“Non… non mi sentivo molto in forma e così… magari mi metto un attimo a letto, tu che cucini di buono?”

 

“Faccio dei biscotti con la farina di riso, mi ha mandato la ricetta Samuel,” chiarì, affrettandosi a specificare, “i compiti li ho già finiti e più tardi ripasso con papà.”

 

“E se li facessimo insieme i biscotti e poi ripassassi con me?” le chiese, perché aveva bisogno di una distrazione, qualsiasi cosa pur di non pensare a Calogiuri almeno per qualche istante.

 

Per tutta risposta, Valentina prima spalancò un attimo la bocca, restando lì impalata, e poi si trovò travolta da un abbraccio fortissimo, che ricambiò quasi con disperazione. Ogni abbraccio di Valentina era sempre un dono inatteso e… e se avesse fatto ciò che temeva di dover fare, a prescindere da Calogiuri… sarebbero diventati del tutto un miraggio.

 

Scacciò quel pensiero dalla testa, perché di problemi in quel momento ne aveva fin troppi, e si godette quel contatto fino in fondo, perché ne aveva bisogno come l’aria.

 

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“Mi avete cercato, dottore?”

 

“Sì, maresciallo. Volevo comunicarle innanzitutto che ho parlato con l’agente Matarazzo e mi ha confermato che non intende proseguire con ulteriori denunce o azioni nei confronti suoi o della dottoressa, a condizione ovviamente che lei si trasferisca come pattuito. Inoltre mi hanno contattato da Roma e la collega con cui ho parlato mi ha confermato che il procuratore capo ha controfirmato il suo trasferimento. La sua presenza è richiesta a Roma entro e non oltre la fine del mese.”

 

Tre settimane. Tre sole settimane per organizzare un trasloco, risolvere i casini burocratici legati all’appartamento preso in affitto e al relativo preavviso. I mobili non li avrebbe potuti portare con sé, forse poteva convincere il proprietario a scalarglieli dagli affitti rimanenti insieme alla caparra, visto che li aveva usati per pochi mesi.

 

Probabilmente avrebbe dovuto tornare a vivere in caserma almeno per un po', per risparmiare, che un’altra caparra di chissà quanti mesi anticipati non se la poteva permettere, con gli affitti di Roma, poi. Tanto a Roma un appartamento non gli sarebbe servito a niente.

 

E poi… tre sole settimane prima di doverle dire definitivamente addio. A lei e alla città che ormai identificava indissolubilmente con lei, che l’avevano cambiato più di quanto avrebbe mai osato pensare quando ci era arrivato per la prima volta, fresco di divisa, ammirando quelle strane case arroccate sulla roccia che tanto l’avevano resa celebre. E che, come lei, erano di una bellezza unica, spigolosa, che ti affascina ed incanta a poco a poco fino a rimanerne completamente conquistato.

 

“Maresciallo?”

 

La voce del procuratore capo interruppe quel flusso di pensieri.

 

“Sì?”

 

“Ho… ho saputo dalla dottoressa della faccenda di… di Latronico. Volevo solo dirle che ora mi è chiaro ciò che intendeva, maresciallo, ed i motivi per cui non me ne ha voluto parlare. E che le fa onore non averlo fatto. E, al di là di tutto, mi ha fatto piacere constatare che effettivamente lei e la dottoressa avevate una buona ragione per quella visita al suo appartamento in orario di servizio, visto quanto era emerso e… e quanto fosse pericoloso discuterne in procura. Mi creda, mi dispiace molto di questo suo allontanamento, maresciallo, anche umanamente, ma… ma a maggior ragione la situazione del maxiprocesso si fa ancora più delicata, lei mi comprende.”

 

“Vi ringrazio, dottore, e comprendo le vostre ragioni professionali,” rispose, perché era la verità, sorpreso da quell’apparente empatia di Vitali e che non gli suonasse finta o di circostanza, “c’è altro o posso andare?”

 

“Può andare. E se ha bisogno di permessi per organizzare il trasloco, viste le tempistiche strette, ovviamente le saranno concessi.”

 

“Vi ringrazio,” ripetè, ansioso di togliersi di lì, uscendo dall’ufficio. Intravide la signora Diana vicino alle scale, intenta a parlare con Capozza.

 

L’aveva vista uscire con lei un po’ di tempo prima, chissà dov’erano andate, forse a fare qualche sopralluogo, ora che stavano cercando di evitarsi il più possibile, anche se gli faceva male.

 

Stava per scendere il primo gradino quando udì le parole “è tornata a casa prima perché non stava bene. Sono preoccupata, non è proprio da lei!” e si fermò bruscamente sui suoi passi.

 

Ovviamente Capozza e la signora Diana lo notarono subito, così fece un sospiro e si avvicinò di più a loro, chiedendo, sapendo che sarebbe stato inutile fingere disinteresse, “la dottoressa Tataranni non sta bene?”

 

“No, e sono molto preoccupata perché di solito viene al lavoro pure moribonda. Lei ne sa niente, per caso, Ippazio?”

 

“No, no, oggi non l’ho nemmeno vista. Ma mi auguro stia meglio presto,” tagliò corto, ignorando le occhiate strane di entrambi, girando sui tacchi e riprendendo a scendere le scale.

 

Si chiese se stesse male per Latronico o… o per lui, il solo pensiero che gli provocava una fitta tremenda di senso di colpa. Lo sapeva che ci doveva stare male, al di là di tutto, si ricordava benissimo come l’aveva presa già ai tempi del corso da maresciallo. E questo era il momento peggiore in assoluto per lei, tra il lavoro e la scoperta della sua paternità. Per un secondo fu tentato di chiamarla, o di mandare un messaggio, ma non poteva farlo.

 

Non poteva rischiare che lei capisse il vero motivo per cui lasciava Matera, perché Vitali su una cosa aveva ragione: Imma per senso del dovere e di responsabilità si sarebbe immolata per tutti e due, e non era giusto.

 

E così si tenne il senso di colpa e quel macigno sul cuore, chiedendosi a cosa servisse tutto quell’amore, tutto quell’affetto, tutto quel bene reciproco, se doveva essere represso, nascosto, perché non diventasse un male.

 

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Scese dall’auto, salutando Pietro che aveva insistito per accompagnarla, per non sforzare troppo il ginocchio appena ripresosi del tutto.

 

Camminò a passo deciso verso le guardie, godendosi il rumore dei tacchi sotto ai suoi piedi, il senso di libertà che inspiegabilmente le dava poterli di nuovo indossare, il senso di potere che le trasmetteva trafiggere l’asfalto con ogni passo, nonostante i piedi che, abituati per più di una settimana a scarpe comode, di già protestavano.

 

Li ignorò, come ignorava da giorni le sensazioni negative che il suo corpo le trasmetteva. Si sarebbe goduta almeno quella piccola vittoria e-

 

E, entrata in procura, lo intravide in lontananza, con ancora il giubbotto indosso ed anche quella flebile sensazione positiva svanì, insieme a quella stupida vittoria di Pirro.

 

“Dottoressa, aspettate!” la chiamò, ed il cuore le fece una giravolta nel petto: quanto le era mancata la sua voce, erano giorni che non si parlavano.

 

“Dimmi, Calogiuri,” rispose, quando le si fu fatto più vicino, nonostante si tenesse a maggiore distanza del solito.

 

“Forse ci sono novità su… su chi sapete voi,” proseguì, con tono più basso, sebbene non ci fosse in giro nessuno, ed il suo cuore di nuovo fece un tonfo: non sapeva se fosse più felice o più atterrita a quella notizia. Dopo oltre una settimana dalla sparatoria, cominciava seriamente a temere che fosse morto.

 

“Vieni nel mio ufficio e-”

 

“Proprio di questo vi volevo parlare: c’è Oksana che vi sta già aspettando con una delle volontarie. Si è fatta accompagnare perché dice di avere delle notizie che potrebbero aiutarci a rintracciarlo,” spiegò, dirigendosi verso l’ascensore, mentre lei rimase ai piedi delle scale. Si voltò dopo pochi passi, probabilmente non sentendola muovere, “non è meglio che prendiamo l’ascensore, visto che avete appena tolto le stampelle e avete pure i tacchi?”

 

“Non sono mica invalida, Calogiuri,” ribattè, forse per spirito di contraddizione, forse perché la sola idea di stare chiusa con lui in uno spazio tanto stretto la terrorizzava, non sapendo come avrebbe potuto reagire.

 

In ogni caso, si voltò e si mise a fare le scale, decisa, troppo decisa, finché incespicò e si sentì prendere per un braccio, prima di fare un ruzzolone in avanti, una scossa tremenda che dal gomito si irradiò in tutto il corpo.

 

Forse era questo il vero motivo per cui aveva deciso di fare le scale, le toccò ammetterlo almeno con se stessa, mentre si voltava verso di lui per ringraziarlo, ma lui rimase con gli occhi fissi sui gradini, affrettandosi a lasciarle il gomito non appena furono arrivati al piano.

 

Un magone tremendo la assalì, al pensiero che forse quella avrebbe potuto essere l’ultima volta che la toccava, l’ultimo salvataggio di Calogiuri. Che da lì a dodici giorni - li stava contando come un condannato alla pena capitale - non ci sarebbe stato più nessuno a rimetterla in piedi quando perdeva l’equilibrio, letteralmente e metaforicamente.

 

Era sempre stata tanto orgogliosa di saper bastare a se stessa e ora… e ora si era abituata con fin troppa facilità a contare su di lui, per quasi ogni cosa sul lavoro e per troppe cose nel privato. E disabituarsi alla sua presenza sarebbe stata durissima, tanto quanto abituarcisi era stato fin troppo facile.

 

Spalancò la porta dell’ufficio e si trovò davanti Oksana, vestita con gli abiti che le aveva regalato - si chiese se per gentilezza o se al centro non gliene avessero ancora forniti altri, avrebbe dovuto indagare in proposito - che la guardò con occhi enormi e acquosi.

 

“Mi hanno detto che hai qualche informazione su Latronico?” le chiese, mettendosi a sedere alla scrivania.

 

“Sì, io non voleva dire per… per non mettere lui in guai, però… maresciallo mi ha detto che state cercando anche in clinica, no?” esordì e Imma lanciò un’occhiata sorpresa a Calogiuri.

 

“L’ho chiamata qualche giorno fa per chiederle se sapesse di qualche clinica o ospedale che potesse essere collegato a Latronico,” chiarì ed Imma sentì un lampo di fastidio, ma non verso Oksana, ma verso il fatto che Calogiuri non glielo avesse detto. Ormai le faceva rapporto solo sulle novità importanti, per il resto la evitava completamente e non la teneva aggiornata sulle sue mosse e questo le faceva malissimo.

 

“E ti è venuto in mente qualcosa?”

 

“Sì… qualche mese fa… ha portata me in un posto con dottori, credo una clinica. Non ricordo strada però era più di una ora di macchina da casa di Angelo."

 

“Come mai ti ha portato in clinica, Oksana?” le chiese, temendo la risposta, dubitando fosse per un’influenza.

 

“Io… io…”

 

“Eri incinta?” sussurrò, sentendo una nuova ondata di schifo ed una voglia di piangere, che non fecero che incrementarsi quando la ragazza divenne rossa quasi peggio che Calogiuri nei suoi momenti di imbarazzo massimo, ed una lacrima le scese sul viso.

 

Tale padre, tale figlio… non c’era che dire. E lei… e lei sperava di aver preso il meno possibile da loro. Ironia della sorte, almeno la straordinaria fertilità non gliel’avevano proprio trasmessa.

 

“Sì… ma Angelo spiegato me che non poteva tenere bambino. Scandalo grande troppo per lui e io clandestina e senza documenti. Se andava in ospedale loro riportava me in Ucraina. E quindi… e quindi…”

 

“Ho capito…” la interruppe Imma, non volendo sentire altro delle palle raccontate da Latronico per salvarsi la faccia.

 

“Però ho pensato che vicino a clinica c’era lago con… con quel muro per tenere acqua.”

 

“Una diga?” le chiese e la ragazza annuì, “a più di un’ora da Matera… mi viene in mente la Diga di Monte Cotugno. Ci sono cliniche nella zona, Calogiuri?”

 

Calogiuri prese il cellulare e fece alcune verifiche, “sì, ce n’è una a Senise, lì vicino, vedo se riesco a trovare una foto della clinica.”

 

Dopo pochi movimenti sul display, porse il cellulare alla ragazza che annuì, scoppiando poi a piangere.

 

“La clinica sembra piccola… se ci muoviamo subito possiamo fare irruzione e verificare se Latronico è lì, dubito ce lo diranno con le buone, se gli hanno levato una pallottola senza fare domande,” propose ed Imma ci riflettè un attimo.

 

Se Latronico non si fosse trovato lì, un’irruzione in una clinica privata piena di pazienti, in provincia di Potenza oltretutto, fuori dalla sua giurisdizione, non sarebbe stata certo ben vista.

 

Ma se fosse stato lì… non potevano lasciarselo sfuggire.


“Va bene, ma portati dietro almeno altri tre della PG, Calogiuri. Non dovete correre rischi inutili. E tienimi aggiornata, mi raccomando!”

 

“Va bene,” pronunciò, in quel modo che voleva dire talmente tante cose che, non solo due, ma nemmeno cento parole sarebbero bastate per definirle con precisione.

 

Quanto le sarebbero mancati pure i va bene di Calogiuri...

 

*********************************************************************************************************

 

“Capozza, tu stai sul retro con Matarazzo, in caso qualcuno provasse ad uscire da lì. Lorusso, con me. Mele, tu resta con Lobascio a presidiare l’ingresso. Forza, al tre: uno, due, tre!”

 

Entrò con Lorusso, distintivi in una mano, la pistola, abbassata, nell’altra, urlando, “fermi, polizia!”

 

Le receptionist li guardarono, terrorizzate, ed alzarono le mani.

 

“Mettetevi lì, vicine all’ingresso, lontane dai telefoni,” ordinò loro, con voce ferma ma cercando di non esagerare, e le due ragazze obbedirono subito, “quante stanze ci sono in questa struttura?”

 

“Di-dieci,” rispose una delle due, esitante.

 

“C’è qui una persona con ferita d’arma da fuoco, non è vero? In che stanza è? Vi conviene collaborare, ne terremo conto."

 

“La sei,” sussurrò l'altra, quasi avesse paura di farsi sentire.

 

“Rimani all’inizio del corridoio, io verifico,” proclamò, andando a passo deciso verso la stanza indicata, pistola in pugno. Tenendosi sulla cornice della porta, la aprì di scatto ed entrò.

 

E sull’unico letto trovò proprio Latronico, un braccio ancora fasciato sotto al pigiama a maniche corte, che vedendolo entrare, fece per scattare in piedi, almeno fino a che al suo, “fermo, mani in alto!”, si bloccò, sollevando il braccio buono.

 

La pistola che ancora gli tremava in mano, si avvicinò a lui, all’uomo che li aveva quasi ammazzati, al… al fratello di Imma, sebbene non si assomigliassero per niente, forse giusto qualcosa nel naso e-

 

Scacciò quei pensieri, una rabbia irrazionale che lo assaliva, mentre si avvicinava a lui.

 

Dovette contenersi per un soffio dallo strattonarlo, nelle condizioni in cui era poi. Si limitò a prenderlo per un braccio e a urlare un, “Lorusso, lo abbiamo trovato, avvisa gli altri!” che risuonò per tutto il corridoio.

 

*********************************************************************************************************

 

"Non capisco perché mi trovo qui, dottoressa. Ero ricoverato per un intervento ortopedico e mi avete portato via con la forza, mettendo a rischio la mia salute e potrei farvi causa per questo e-"

 

"Avvocato, se sa cosa è meglio per lei, le conviene tacere."

 

"Cos'è? Una minaccia?!" domandò, sprezzante, continuando con quell'atteggiamento sicuro, quasi strafottente, che aveva pure in aula.

 

"No, una constatazione. Mi vuole dire che facendole analizzare la ferita non la troveremo compatibile con il foro di un proiettile? So che le sue cartelle cliniche parlano di un intervento ortopedico, ma una persona che lavora alla clinica ha confermato che lei aveva una ferita da arma da fuoco. E inoltre sulla scena del crimine sono rimaste tracce del suo DNA, ci basta fare un confronto, Latronico!"

 

"Peccato che al momento non abbiate nulla in mano che mi colleghi alla scena del crimine di cui lei parla e le sue sono tutte supposizioni. Il giudice non autorizzerà mai né la perizia medica, né il DNA, a cui io mi opporrò, perché questa è una palese violazione dei miei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, nonché un tentativo di intimidazione verso la difesa al processo e-"

 

Alzò una mano per farlo tacere, sapendo benissimo che non avrebbe ottenuto niente, proseguendo in quella direzione: Latronico era una volpe e conosceva alla perfezione i suoi diritti, oltre ad essere immanicato con i giudici e con mezza procura. Se voleva convincerlo a parlare, non c'era che giocare a carte scoperte o quasi. Giocarsi il tutto per tutto e sperare che la strategia che aveva studiato in lunghe notti insonni avrebbe funzionato.

 

Prese la busta con le analisi del DNA e gliela buttò di fronte, sulla scrivania, facendo segno di leggerla.

 

Latronico la aprì, con malcelata sorpresa, e poi strabuzzò gli occhi e voltò il foglio un paio di volte, quasi come se sperasse che, facendolo, il contenuto di quelle righe cambiasse magicamente. Poi rilesse, facendo scorrere il dito sul testo incriminato e la guardò, come se la vedesse per la prima volta, scioccato, continuando a studiarla, a fissarla, come fosse un alieno.

 

"Ma… ma che… che significa?!"

 

"Significa quello che ha capito benissimo che significa, avvocato, e mi creda non ne sono più felice di quanto lo sia lei, anzi!"

 

"Ma… ma… com'è possibile?!"

 

"Immagino che la storia delle api e dei fiori la conosca, avvocato. Mia madre lavorava per… per suo padre, come lei ben sa, e… diciamo che evidentemente lei e suo padre proprio non ne siete capaci a mantenere un rapporto professionale con chi lavora per voi," pronunciò tagliente, anche se l'ironia della frase la colpì come uno schiaffo.

 

Forse almeno questo l'aveva preso dai Latronico, dopotutto.

 

"Avete… avete parlato con Oksana?!" dedusse e le sembrò strano che si preoccupasse più di quello che di tutto il resto, "dov'è? Come sta? So che è scomparsa da casa, avevo mandato qualcuno a portarle la spesa in mia assenza e non l'ha trovata. Pensavo fosse scappata."

 

Almeno non l'aveva lasciata a morire di fame, chiusa in casa per più di una settimana. Non era una gran consolazione e rimaneva un bastardo di prima categoria, ma forse a modo suo, nel suo modo malato, dei sentimenti verso ragazza li aveva davvero. Peccato fossero completamente insani.

 

"Sta bene ora, non grazie a lei. Senta, Latronico, parliamoci chiaro. Con la storia di Oksana si configurano per lei i reati di riduzione in schiavitù, sequestro di persona, violenza sessuale e personale, aborto non consenziente e-"

 

"Ma Oksana voleva stare con me! Noi ci amiamo e l'ho tolta dalla strada e-"

 

"E dubito, pure con la sua parlantina, riesca a convincere il giudice che una ragazza tenuta chiusa a chiave in un appartamento lo facesse di sua volontà, avvocato!”

 

"Ma lo facevo per la sua sicurezza, dottoressa, perché… perché non la portassero via in mia assenza. Chi gestisce certi giri è gente che non scherza e lei lo sa bene."

 

"Peccato che chiunque abbia portato Oksana da lei facesse parte di quei giri e che lei probabilmente, con gli amici suoi, di quei giri ne sia a capo. Altro che amore!" gridò, picchiando i pugni sulla scrivania, prima di sporgersi in avanti e dirgli, dritto in faccia, "lo ripeto, parliamoci chiaro. Oltre alla storia di Oksana, che già sarà uno scandalo immane per lei, a parte le conseguenze penali, se non mi consente di prelevare un campione del suo DNA, io non posso fare altro che andare dal giudice con tutti gli elementi in mio possesso che comprovino la relazione tra mia madre e suo padre. Compreso un dono di un certo valore economico, fatto all'epoca della mia nascita, e confermato da chi lo ha venduto a suo padre come di sua provenienza. A quel punto ci sarà uno scandalo, come lei immagina, ma io sono disposta ad andare fino in fondo, se serve. Ma sappiamo benissimo che non le conviene, non solo per la reputazione della sua famiglia, che già è molto traballante, ma per gli scenari che questo potrebbe configurare da un punto di vista economico e patrimoniale anche per sua sorella, che in questa storia mi pare non c'entri nulla. Io non li voglio i vostri soldi, avvocato, sapendo da dove arrivano poi, figuriamoci! Ma, lo ripeto, se mi forzate la mano sono disposta ad andare fino in fondo, non mi importa dello scandalo, tanto uno più o uno meno, ci sono abituata. Ma lei vuole davvero lasciare questo bel regalo a sua sorella, prima di finire comunque in galera?"

 

Latronico rimase per un attimo immobile, ancora sotto choc, e poi la guardò nuovamente, come se la stesse studiando. 

 

"Non ci somigliamo molto… forse l'altezza e qualcosa in viso. Ma qualcosa di mia sorella c'è, lo noto solo ora. Mia sorella somiglia… somiglia a sua figlia, dottoressa, ora che ci penso," pronunciò, quasi tra sé e sé, ed Imma sentì un brivido correrle lungo la schiena. Sia nel sentire quell’uomo così viscido parlare di Valentina, sia perché, ora che gliela menzionava, la somiglianza tra Valentina e Chiara Latronico ce la vedeva pure lei, pur con i tratti somatici che Valentina aveva preso dalla famiglia di Pietro.

 

E poi c'era l'altezza, che Imma sapeva di non avere preso né da sua madre, né da suo padre e-

 

"È ironico che siamo finiti a lavorare entrambi in tribunale, non trova? Anche se dalla parte opposta. E nessuno mi aveva mai dato del filo da torcere quanto lei, gliene devo dare atto…" sospirò, prima di aggiungere, “se mi sottopongo volontariamente alla prova del DNA e confesso, che ci guadagno? A parte evitare lo scandalo che, lo sappiamo bene, conviene pure a lei, dottoressa."

 

Ed eccolo lì, il principe del foro, di nuovo in azione.

 

"Se confessa tutto e non solo la faccenda di Oksana ed il tentato omicidio del maresciallo e mio… e con tutto intendo anche il suo intervento nella morte di Bruno e tutto quello che sa su Lombardi e sui suoi compari - e non solo Romaniello ma quelli che stanno ancora dietro le quinte -, si guadagna uno sconto di pena ed il trasferimento in una struttura carceraria lontana da qui e dai suoi soci. Con una buona condotta, lei sa meglio di me che tra qualche tempo potrebbe chiedere misure alternative al carcere, riservate ai collaboratori di giustizia. Che ne dice?"

 

"D'accordo, ma voglio un impegno scritto dottoressa. Non sono uno sprovveduto come Quaratino."

 

"Calogiuri," chiamò e il maresciallo, che aveva assistito all'interrogatorio dall'ufficio di Diana, che era stata mandata a fare una lunga ricerca in archivio per tenerla lontana, entrò, lanciandole uno sguardo tra il preoccupato e l'ammirato, "preparami un accordo scritto per l'avvocato. Ovviamente inserendo una clausola che, qualora le informazioni risultassero mendaci o parziali, come avvenuto per Quaratino, l'accordo salta. E, se ne sarà reso conto, avvocato, con me le bugie hanno le gambe cortissime. E pure le omissioni."

 

Calogiuri annuì e uscì nuovamente dalla stanza, per poi rientrare, dopo minuti che sembrarono infiniti, con un foglio firmato da Vitali in persona.

 

Imma lo analizzò e poi lo passò a Latronico che lo lesse con estrema attenzione e alla fine controfirmò. 

 

"Aprite la bocca, per favore," ordinò Calogiuri, un tampone per analisi del DNA in mano, e Latronico obbedì, lasciandosi fare il prelievo.

 

“E ora la confessione, avvocato: il maresciallo qui verbalizzerà tutto, ovviamente.”

 

E così Latronico iniziò a parlare, raccontando della cupola, confermando tutte le sue deduzioni in proposito al traffico di rifiuti tossici, confermando il coinvolgimento di Saverio Romaniello, Bruno, Scaglione, Zakary e Lombardi, e a quale titolo. E poi parlò di Oksana, del traffico di giovani donne dall’Est Europa per prostituirsi per strada o - le più avvenenti - diventare escort per festini di lusso. Di come era rimasto colpito da quella ragazza, vista per caso scendere da un camion scassato, una volta che era andato a trovare Quaratino per farsi dare un’auto pulita - il Quaratino di conoscere Latronico lo aveva omesso, ovviamente, e l’avrebbe pagata cara come tutte le altre omissioni - e aveva convinto Quaratino a cedergliela, ufficialmente come colf in nero, in cambio di difenderlo gratis in un processo che aveva in corso.

 

“Non le ho mai usato violenza, però, mi dovete credere. L’ho corteggiata a lungo, è vero, ed è vero che la tenevo chiusa in casa e lo so che non era giusto, ma temevo potessero trovarla i complici del Quaratino, con cui noi non avevamo rapporti. Noi ci occupavamo principalmente dello smaltimento di rifiuti tossici, non della prostituzione. Tranne Romaniello, lui ogni tanto si faceva portare delle ragazze, ma occasionalmente, solo per… prestazioni del momento. Ma, con Oksana, ho atteso ad avere rapporti finché fosse consenziente, mi dovete credere.”

 

“Avvocato, lei sa meglio di me che, in una situazione come quella in cui versava la ragazza, il consenso è un concetto labile e che esiste la Sindrome di Stoccolma, ma prosegua sugli altri punti,” sospirò Imma, chiedendosi se Latronico si fosse costruito una fiaba romantica e distorta nella sua testa o se tentasse solo di svicolare da alcuni dei capi di imputazione peggiori e più personali, “che mi dice di Bruno? Ho ritrovato un documento autografo dell'architetto dove la indica chiaramente, insieme ad altre persone, come intenzionato a farlo fuori e farlo sembrare un suicidio. E sappiamo benissimo che in quella gola non si è calato da solo.”

 

"Posso vederlo?" le chiese ed Imma si rese conto che l'avvocato non era stupido: non avrebbe confessato un concorso in omicidio, nemmeno per salvarsi da un tentato omicidio più tutto il resto delle accuse. Non se lei non avesse avuto elementi in mano che lo costringessero a farlo.

 

Recuperò una copia del contenuto della busta e glielo mostrò: era ora di scoprire le carte sui Serpenti. Tanto Latronico a breve non avrebbe più avuto alcun modo di contattare i suoi soci.

 

Latronico spalancò gli occhi e poi si prese la testa tra le mani, l'aria di chi sapeva ormai di essere incastrato e di non avere alternative per uscirne che il male minore.

 

“Io… io non volevo partecipare, mi creda, mi sono opposto, ma ormai c’eravamo dentro fino al collo e Bruno era una mina vagante. E così abbiamo incaricato alcuni uomini di fiducia di Quaratino di occuparsene: Funar e Petrescu, mi sembra che si chiamino, ma dovete chiederlo a lui.”

 

“Abbiamo chi, avvocato?"

 

"Io, Maria Giulia Tantalo, Quaratino e pure Romaniello, dal carcere, ne era a conoscenza, come… come scritto da Bruno."

 

"E la lettera di suicidio di Bruno, chi l'ha predisposta?"

 

"La busta l'aveva già scritta lui… gliel'abbiamo trovata addosso, nel cappotto, quando ci siamo incontrati con lui quella sera. Era indirizzata a lei e c'era una… confessione, di tutto quello che avevamo fatto. Allora abbiamo tolto il contenuto dalla busta, lo abbiamo costretto a scrivere quelle parole di accusa e gliel'abbiamo infilata nuovamente nel cappotto. Poi lo abbiamo consegnato agli uomini di Quaratino, istruendoli di rimettergli il cappotto addosso solo a cose fatte."

 

“E di Lombardi, che mi sa dire? In che modo è coinvolta la Tantalo?”


“No, guardi, di Lombardi non so nulla. Credo che dovrebbe chiedere alla signora Tantalo, se ha pianificato qualcosa, magari insieme al suo giovane amante. Un istruttore del circolo del tennis, potete verificare," sospirò, l’aria di chi, in fondo, non avendo ormai niente da perdere, non era così dispiaciuto che morisse Sansone con tutti i Filistei, “ma sono solo mie supposizioni, dottoressa. Non avremmo tentato un colpo del genere fino a Roma. Almeno, non che io sapessi, perché non ero al corrente di tutto, mi deve credere.”

 

“Io posso pure crederle, Latronico, ma in quanto difensore della cupola e di tutti gli altri, lei doveva saperne di cose. E nessun altro è stato coinvolto nell’omicidio di Bruno? Magari gente che ancora non è emersa e sta nell’ombra, sotto i sassi, come i serpenti dai quali avete preso il nome? Perché lo so che ci sono, Latronico, e non ci credo che siate stati solo lei, la Tantalo e Quaratino coi suoi uomini."


“No, non so nient’altro,” ripetè, deciso, ed Imma pensò per un attimo se giocarsi il tutto per tutto e menzionare il giudice Romaniello. Ma, se Latronico non lo aveva nominato, era perché lo temeva e non si sarebbe sbottonato su di lui, preferendo riversare tutto sull'altro Romaniello. E rischiava di giocarsi l’effetto sorpresa in tribunale.

 

No, l’unica speranza per costringere il giudice alle sue responsabilità era il fratello, e lo sapeva molto bene.

 

“E che mi dice di Constantinescu?”

 

“Era già morto, di morte naturale, dopo uno dei trasporti che ha fatto. E… ed era un avvertimento per Zakary, di tenere la bocca chiusa o avremmo dato enormi problemi a lui e alla Firex. E il messaggio è arrivato.”


“Anche qui c’era coinvolta pure la Tantalo, immagino?”

 

“Sì.”

 

“Chi lo ha messo sulla trivella?”

 

“Alcuni degli uomini di Quaratino. Credo sempre Funar, Petrescu e non so chi altri. Dovreste chiederlo a lui.”

 

“E… e della sparatoria, che mi dice? Com’è andata esattamente?” domandò, lanciando un’occhiata a Calogiuri che stava ancora verbalizzando, ripensando a quanto avevano rischiato, a come per poco l’uomo davanti a loro non li aveva ammazzati, “innanzitutto, chi le ha fatto la soffiata dal carcere che avevamo beccato Quaratino?”

 

“Una delle guardie, Scopece Vincenzo, l’ha vista arrivare a interrogare Quaratino e… e ci ha informato che non si trattava di uno dei soliti interrogatori della D’Antonio sulle auto rubate, che gli stavate chiedendo di Constantinescu e del traffico di rifiuti tossici. E che Quaratino, per togliersi le castagne dal fuoco, vi aveva indirizzati al capannone. E così… e così sono dovuto andare di persona al capannone a distruggere le prove rimaste, perché non c’era tempo e… e non potevo più fidarmi dei soci di Quaratino a quel punto. Non pensavo sareste arrivati così in fretta. Volevo semplicemente bruciare le prove e, se necessario, tutto il capannone ma… ma poi vi ho sentiti arrivare: avevo la finestra dell’ufficio aperta, per via del fumo. E così mi sono nascosto dietro alcuni pallet e… io non volevo uccidere nessuno, davvero, mi dovete credere, e mi dispiace tantissimo per come sono andate le cose ma… sono andato in panico all’idea di essere scoperto. Quando ho visto il maresciallo uscire da solo dalla copertura, senza di lei, con la pistola in mano… ho pensato di sparare per… per ferirlo e disarmarlo e potere fuggire indisturbato. Ma poi sono arrivati i rinforzi e… e c’è stata la sparatoria e mi hanno ferito ad un braccio. Sono scappato nel bosco e lì mi hanno raggiunto alcuni uomini di Quaratino: a quel punto li ho dovuti chiamare per forza, offrendo loro i soldi necessari per fuggire in Romania a fare la bella vita, senza rischiare l’arresto. E mi sono fatto portare in quella clinica, gestita da amici che… che mi hanno curato in maniera riservata. Avrei potuto uscire anche prima, ma non volevo farmi vedere in giro con il braccio fasciato e rischiare di attirare sospetti. E questo è quanto.”

 

Imma dubitava che gli uomini che lo avevano trovato nel bosco fossero di Quaratino e si chiedeva se il giudice Romaniello non c’entrasse in qualche modo. Ma per ora doveva farsi andare bene questa versione. Tutto sommato, se fosse stata trovata lacunosa, forse sarebbe stato meglio per tutti. Certo, c’era sempre il rischio che prima o poi Latronico, se gli accordi non gli fossero andati bene, avrebbe tirato fuori la questione della sua paternità… doveva ragionarci molto bene sulle mosse successive ed un’idea le balenava sempre di più in testa come l’unica soluzione possibile, per quanto le facesse male e rabbia anche solo a pensarci.

 

Ma avrebbe aspettato che Calogiuri se ne fosse andato prima di compiere altri passi: non voleva metterlo in mezzo, questo almeno glielo doveva.

 

“Avvocato, con tutto il rispetto per quanto lei asserisce, dubito seriamente che lei fosse in grado, da quella distanza, di essere certo di sparare un colpo non letale che avrebbe solo ferito il maresciallo. Per poco non ammazzava o a me o a lui: il proiettile ha preso l’estintore che avevo praticamente in braccio, Latronico. Spero lei si renda conto che stava per uccidere un uomo di neanche trent’anni per non farsi beccare a bruciare delle prove. Per lei la vita umana non deve valere davvero nulla, avvocato, ed è inutile mo che mi venga a dire che le dispiace: non insulti la nostra intelligenza!" sibilò, tagliente forse pure più del dovuto… ma se pensava che glielo aveva quasi ammazzato, l’avrebbe strozzato con le sue stesse mani, sangue o non sangue, “Calogiuri, mostra il verbale all’avvocato e faglielo firmare che poi abbiamo finito.”

 

Latronico, lo sguardo basso, rilesse tutti i fogli ed appose la firma su ognuno di essi, quella firma che fino al giorno prima costava migliaia di euro ed ora non sarebbe valsa quasi più niente. Non lo rialzò nemmeno quando ebbe finito, forse perché colpito, forse perché non sapeva cos'altro dire, fino a che lo fecero portare via da Lorusso e Capozza, in una sala riservata a chi attendeva il trasferimento in carcere.

 

“Prepara la documentazione per il trasferimento di Latronico in un carcere del nord. Non Milano, visto che c’è già Quaratino, che dovremo assolutamente risentire, perché a questo punto gli accordi saltano del tutto, anche se non lo possiamo riportare qui o è un uomo morto,” sospirò, perché la voglia di mettere quel gentiluomo di Quaratino nei casini era fortissima, ma un altro cadavere sulla coscienza non lo voleva, "e avvisa Vitali di questo Scopece e che ci devono essere cimici nella sala interrogatori del carcere o in quella di monitoraggio della sala interrogatori. Mo capisco, a maggior ragione, perché Romaniello si rifiutasse di parlare. E Quaratino ci ha detto giusto il minimo sindacale, ovviamente, essendoci dentro fino al collo con gli omicidi."

 

Alla fine l'ossessione della D'Antonio per Quaratino aveva avuto le sue ragioni e le era tornata utile, non c'era che dire. Ma, prima di ammetterlo alla disponibilissima collega, si sarebbe fatta ammazzare.

 

“D’accordo, dottoressa,” annuì, alzandosi dalla scrivania e fermandosi alla porta del suo ufficio, esitando per un attimo, senza congedarsi.


“Volevi dirmi qualcosa, Calogiuri?” gli chiese, una fiammella di speranza che, per quanto flebile, si riaccendeva con quella domanda.

 

“Sì, siete stata eccezionale, come sempre! E… e sono felice che siate riuscita a fare in modo che… insomma… che non uscisse fuori quello che sappiamo,” pronunciò, con quel tono ammirato ed orgoglioso che le provocò quel dolore piacevole al petto, prima di aggiungere, malinconico, “parto più tranquillo sapendo che… che almeno questo problema ve lo siete evitato.”

 

Il dolore da piacevole si tramutò in lancinante, gli occhi che iniziarono a pungere, realizzando ancora una volta quanto fosse incontrovertibile ed immutabile quella realtà.

 

Calogiuri, il suo Calogiuri, da lì a poco se ne sarebbe andato e non lo avrebbe molto probabilmente mai più rivisto.

 

Ed, improvvisamente, perfino la confessione piena appena avuta, che le avrebbe consentito una vittoria quasi schiacciante nel processo più importante di tutta la sua carriera, le sembrò la più tremenda e beffarda della vittorie di Pirro.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qui, la bomba è esplosa e Calogiuri ha scelto di sacrificarsi per il bene di entrambi, anche se Imma non lo sa. Il trasferimento incombe e… diciamo che ci stiamo avviando verso la parte finale della seconda fase della storia. Avverranno ancora un paio di scossoni belli forti e poi i personaggi, soprattutto Imma, dovranno fare i conti con tutto quello che è successo e capire cosa vogliono davvero. Diciamo che a volte non tutti i mali vengono per nuocere, almeno nel lungo termine…

Vi ringrazio tantissimo per aver letto fin qui e per tutto il supporto che avete dato a questa storia.

Questi capitoli sono davvero molto complicati da bilanciare, tra tristezza e momenti più leggeri, quindi vi ringrazio di cuore fin da ora se vorrete lasciarmi una recensione e dirmi cosa ne pensate. Veramente mi motivano tantissimo a cercare di fare sempre meglio e sono un importantissimo feedback di come sta andando la scrittura e se vi intrattiene sempre, o diventa pesante, o se c’è qualcosa che vi convince di meno.

Il prossimo capitolo arriverà come sempre domenica prossima, 16 febbraio.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 17
*** Lasciarsi Andare ***


Nessun Alibi

 

Capitolo 17 - Lasciarsi Andare

 

Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

 

Gli stivali con il tacco dieci non le erano mai pesati tanto quanto in quel momento: parevano incollati al suolo, nemmeno ci fossero stati quaranta gradi e l’asfalto fosse diventato una gomma da masticare.

 

Fece un cenno agli agenti della sicurezza e varcò la soglia della procura, sentendo di stare andando al patibolo.

 

Infine il giorno era arrivato, il giorno che non avrebbe mai voluto arrivasse, in quell’attesa che all’inizio era stata straziante ed infinita. Ma poi, da un certo punto in avanti, le giornate erano corse via in un soffio, portandola dritta a quel momento.

 

Il momento in cui avrebbe dovuto dirgli addio.

 

Non si sentiva pronta a farlo, non sarebbe mai stata pronta a farlo veramente, mai. La tentazione di fuggire era fortissima: in verità era stata fino all’ultimo tentata di prendersi un giorno di ferie, ma sapeva benissimo che non se lo sarebbe mai perdonato.

 

Se non lo avesse salutato, se non lo avesse rivisto almeno un’ultima volta, per quanto le avrebbe fatto un male atroce.

 

Stava per imboccare le scale, quando sentì delle urla festose provenire dall’ufficio della PG, dei “congratulazioni!”, degli “evviva il maresciallo!”, seguiti da dei “discorso! Discorso! Discorso!”, manco fossero stati ad un matrimonio.

 

Forse volendosi fare del male, forse perché sapeva che fosse la cosa giusta da fare, si trascinò fino alla soglia della PG, ritrovandosi davanti gli agenti abbigliati con quei cappellini di carta idioti - un’idea di Capozza, senza dubbio! - Calogiuri che stava verso il fondo dello stanzone, circondato dai colleghi, tutti con un bicchiere di spumante in mano.

 

L’unica eccezione era Matarazzo, che se ne stava in un angolo con un’aria schifata e non facendo nulla per celarlo. Miss Sicilia la fulminò con un’occhiata e poi sbuffò, voltandosi verso la finestra.

 

E, proprio in quel momento, Calogiuri si accorse di lei ed i loro sguardi si incrociarono. Fu investita da una botta di magone e seppe istintivamente di avere fatto una cazzata ad andare in PG e di doversi levare da lì, ed in fretta, prima di farne una peggiore.

 

“Dottoressa! Ma c’è anche lei! Aspetti che le dò un bicchiere! Ha visto, eh, che il nostro ragazzo è cresciuto? Mo se ne va a Roma, a fare il maresciallo, e chissà che carriera che farà. Quando sarai capitano, o magari pure maggiore o colonnello, ricordati degli amici, eh, Calogiuri!” proclamò Capozza, con un tono allegro e scherzoso, ma con una traccia di reale commozione nella voce che gli fece recuperare un bel po’ di punti ai suoi occhi.

 

Almeno finché non li perse tutti porgendole un bicchiere e chiedendole, “perché non lo fa lei un discorso, dottoressa, visto che il maresciallo qui è troppo timido?”

 

"Dai, Capozza, lascia in pace la dottoressa. Non serve nessun discorso!”

 

“Lascialo decidere a noi, Calogiuri! Allora, chi lo fa sto discorso?”

 

“Calogiuri,” pronunciò, prendendo un respiro, prima di cambiare idea, guadagnandosi uno sguardo stupito da tutti gli astanti, soprattutto da lui, sperando che la voce le reggesse fino alla fine, “spero che… spero che Roma ti offra tutte le opportunità che ti meriti. E… per una volta concordo con Capozza, che è tutto dire. Di strada ne farai tanta e… e sono… sono molto orgogliosa di quello che sei diventato e… e sono stata molto fortunata a… a poter contare su di te per tutto questo tempo. Non cambiare mai e non dubitare più delle tue capacità, mi raccomando! E- e mo tornate a lavorare che è tardi!”

 

Si bevve lo spumante d’un sorso, la gola riarsa, incrociando due occhi azzurri che parevano sull’orlo delle lacrime, e poi posò il bicchiere sulla scrivania più vicina e girò sui tacchi, sentendo le gambe iniziare a farsi di gelatina. Torturò il pulsante dell’ascensore, sperando che giungesse in fretta.

 

Avrebbe voluto abbracciarlo, da morire, ma se l’avesse fatto in pubblico sarebbe stata la fine, perché non avrebbe potuto evitare di sciogliersi in un pianto incontrollato, lo sapeva perfettamente.

 

Camminò a testa bassa fino al suo ufficio, le prime lacrime che già scappavano dalle ciglia.

 

Si sedette rapidamente e tirò su il primo fascicolo che le venne in mano, piazzandoselo davanti al viso per pararsi dalla vista di Diana, mentre estraeva gli occhiali da sole dalla borsa, pure se fuori era nuvoloso e con quelli indosso non vedeva più nulla o quasi, altro che il fascicolo!

 

Resistette appena cinque minuti, prima di trovarsi quasi a correre verso il bagno, constatando con sollievo che fosse deserto, chiudersi dentro ad uno dei cubicoli ed iniziare a piangere, tirando l’acqua perché coprisse i singhiozzi, pregando chiunque ci fosse in ascolto, e che ancora volesse darle retta, che nessuno la trovasse in quelle condizioni.

 

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“Ma che bel discorso commovente! E meno male che quello che provavi per lei non era ricambiato!”

 

“Jessica…” sospirò, trovandosela di fronte quando il resto dei colleghi si erano dileguati per la pausa pranzo.

 

Stava raccogliendo in una scatola le ultime cose dalla sua scrivania: quel pomeriggio non avrebbe lavorato.

 

“No, non lo è, non in quel senso. E comunque, pure se lo fosse, e ti ripeto, non lo è, purtroppo per me, a questo punto non sono affari tuoi e non vedo che ti cambia,” replicò, iniziando a perdere seriamente la pazienza, “me ne sto andando, non mi vedrai più e non vedrò più neanche lei. Hai ottenuto quello che volevi, che altro vuoi?”

 

“E pensi che soltanto perché mo te ne vai, tutto si sistema? Che quello che mi hai fatto sparisce? E la tua cara dottoressa, tutt’altro che professionale è stata: avete avuto una… una specie di relazione e lei è sposata. E quindi, non ti conviene rispondermi con questo tono, quando sono io ad avere il coltello dalla parte del manico! Che ne so che non continuerete a vedervi pure mentre stai a Roma? Sono sempre in tempo a farle uscire quelle foto, lo sai?”

 

La misura era colma: finora aveva ingoiato in silenzio gli insulti di Jessica, sia per il senso di colpa residuo nei suoi confronti, sia perché non voleva peggiorare la situazione e dare problemi a Imma. Ma se, nonostante tutto, lei voleva comunque proseguire con la sua vendetta e le sue minacce nei confronti di Imma, lui non se ne sarebbe più stato zitto, perché mo dalla parte del torto era lei e non lui. E non aveva più nulla da perdere.

 

“Senti, Jessica, quella sera con te ero ubriaco, va bene? Ubriaco! E non capivo bene cosa stavo facendo, non del tutto, se no non avrei mai fatto quello che ho fatto, mi sarei tirato indietro, come peraltro ho cercato pure di fare. Ma tu sei stata molto insistente: le cose si fanno in due Jessica, ed io ho le mie colpe ma pure tu hai le tue. E non è colpa della dottoressa se… se quella sera mi sono ubriacato. E nemmeno se mi sono innamorato di lei e non di te, perché è questo che a te dà fastidio, mica altro. Mi sto già facendo da parte, ma se tu vuoi comunque andare avanti e rovinare la carriera di una persona che non ti ha fatto niente, ma soprattutto rischiare che chissà quanta povera gente non trovi giustizia e chissà quanti criminali la facciano franca, soltanto per un errore di una notte, che abbiamo fatto insieme, io e te, beh, quella non professionale e a cui evidentemente non frega niente né della divisa che porta, né della giustizia, né dei giuramenti che hai fatto, sei tu. E mo, se mi lasci finire, levo il disturbo, così spero vivamente che potrai scordarti della mia esistenza ed andare avanti, perché direi che è pure ora di farlo.”

 

Jessica aprì la bocca ma poi la richiuse, ammutolita, le guance che diventarono paonazze ed abbassò lo sguardo.

 

Si dileguò rapidamente, i tacchi che rimbombavano sulle piastrelle. Sperava non corresse di nuovo da Vitali o creasse altri problemi ad Imma. Ma una parte di lui sapeva istintivamente che non l’avrebbe fatto: non fosse altro per non dargli la soddisfazione di dover ammettere che lui aveva ragione.

 

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“Imma, allora io vado a pranzo, vuoi che ti porto qualcosa, magari?”

 

“No, Diana, non ti preoccupare, vai tranquilla,” rispose, la voce ancora troppo roca, lo stomaco chiuso per sciopero che le mandò un’ondata di nausea alla sola idea di cibo.

 

Diana sospirò ed annuì, chiudendo entrambe le porte del suo ufficio.

 

Sentì bussare e per un attimo fu tentata di non rispondere, di fingere di essere già in pausa, ma la porta, inaspettatamente, si aprì lo stesso e due occhi azzurri vi fecero capolino, esitanti e preoccupati.

 

“Posso?” 

 

La commozione che tornava implacabile, Imma annuì.

 

Calogiuri richiuse la porta dietro di sé e si avvicinò alla scrivania, fermandosi a pochi passi dalle sedie.

 

“Volevo… volevo ringraziarvi per… per quello che avete detto prima e... “ esitò, facendo poi cenno all’ufficio di Diana.

 

Imma scosse il capo e riuscì a pronunciare, a fatica, “a pranzo.”

 

“Volevo… volevo ringraziarvi per… per tutto quello che mi avete insegnato, dottoressa,” riprese, con un sorriso malinconico, sembrando cercare il suo sguardo dietro gli occhiali da sole.

 

D’istinto, se li levò e li buttò sulla scrivania: almeno questo glielo doveva.

 

“E… e volevo… volevo ringraziarti per tutto quello che mi hai insegnato, Imma,” proseguì, la voce che gli si spezzò sul suo nome di battesimo, e la prima lacrima, bastarda, le sfuggì su una guancia, “mi hai… mi hai fatto capire chi sono davvero e cosa… e cosa voglio veramente, anche se… anche se ciò che voglio di più non lo potrò mai avere. Ma… ma senza di te… se… se non ti avessi mai incontrata… sarei intrappolato in una vita infelice, forse pure in un matrimonio infelice, facendo un lavoro che odio, convinto di… di non valere nulla. E invece io ti devo tutto, tutto ciò che di buono sono diventato, e… e per questo non potrò mai ringraziarti abbastanza.”

 

“Ca- Calogiuri,” sussurrò, il viso ormai completamente bagnato, ma non gliene fregava niente. Si tirò in piedi, aggrappandosi alla scrivania.

 

“E lo so che… che ci siamo fatti anche male, senza volerlo. Io poi… io poi ho fatto un sacco di casini ma… ma tutto il bene che c’è stato e che mi hai dato, non me lo scorderò mai e… e me lo porterò dietro per sempre. E non rinnego niente di quello che c’è stato tra di noi e… e rifarei tutto, anche se… anche se non mi fa onore,” concluse, un paio di lacrime che gli rimasero appese alle ciglia inferiori e ad Imma prese una voglia matta di levargliele con una carezza.

 

Si mosse, come in trance, e lo fece, sentendolo tremare ed appoggiarsi leggermente alle sue dita. Le riabbassò, facendo un passo indietro e prendendo un respiro, sperando che la voce non la tradisse.

 

“Anche.. anche per me è lo stesso, Calogiuri,” sussurrò, roca da far paura, dritta negli occhi, “anche… anche tu mi hai… mi hai insegnato moltissimo, più di quanto immagini. Con te ho… ho scoperto dei lati di me che non pensavo di avere e ho provato cose che… che mai avrei pensato di provare, alla mia età poi! E… e tu non mi hai mai fatto del male, mai! Sono io che… che te ne ho fatto tanto, invece, e lo so… e… e mi dispiace. Mi dispiace non essere stata in grado di… di meritare tutto l’amore incondizionato che mi hai sempre dimostrato, Calogiuri. Ma… ma pure io non mi pentirò mai di quello che c’è stato tra noi, anche se… anche se questo mi rende una stronza egoista, ma-”

 

“E allora siamo in due,” la interruppe con un sorriso, pur tra le lacrime, sfiorandole una guancia con dita tremanti.

 

Il cuore che le faceva bene e male insieme, come mai prima, gli buttò le braccia al collo e se lo abbracciò, più stretto che poteva, sentendosi sollevare da terra e stringere in una morsa che fu una boccata d’ossigeno. Forse l’ultima. Ma scacciò quel pensiero, godendosi quel contatto come un condannato a morte si gode l’ultimo pasto.

 

Rimase così, avvolta da quel calore, per un tempo indefinito, finché lui si staccò leggermente. Le mani tornarono ad accarezzarsi vicendevolmente le guance, il collo e poi… e poi si guardarono per un secondo, perfettamente immobili, ed un secondo dopo lo stava baciando.

 

Prima con dolcezza, tenerezza, cercando di trasmettergli tutto quello che provava ma non poteva, non riusciva ad esprimere con le parole. E poi il bacio aumentò di intensità, la passione che si riaccendeva sotto la cenere e si ritrovò attaccata al muro a baciarlo come se non ci fosse un domani. Perché non ci sarebbe stato un domani, non per loro.

 

Crash!

 

Un rumore improvviso la fece sobbalzare. Si staccarono, col fiato corto, ed Imma si guardò intorno, temendo li avesse nuovamente beccati qualcuno. Ed invece si avvide che, con la mano, aveva buttato giù inavvertitamente le bandierine che teneva sopra al comò. Nella caduta, oltre a fare un rumore infernale, avevano spostato la foto di Mattarella, che per poco non cascava pure quella.

 

Si guardarono e scoppiarono a ridere. Quanto le sarebbero mancate le loro piccole follie! Ridere insieme a lui di quello che erano in grado di combinare insieme, senza vergognarsene.

 

Ma ben presto il sorriso morì loro sulle labbra, consapevoli di quell’addio che incombeva, sempre più vicino.

 

Ed Imma, senza nemmeno riflettere, presa da un impulso irrefrenabile, gli accarezzò il viso e gli sussurrò, “portami via da qui.”

 

Calogiuri spalancò gli occhi, sorpreso.

 

“Stai attenta a ciò che chiedi, perché potrei prenderti fin troppo in parola, lo sai?”

 

Se lo abbracciò stretto, prima che le potesse uscire altro, perché la verità era che, se non ci fosse stata Valentina e se avesse seguito il suo cuore, a Roma con lui ci sarebbe andata e pure di corsa, senza guardarsi indietro. Ma non si poteva: la sua vita e le sue responsabilità erano lì, ancorate tra quelle montagne, come i Sassi.

 

“Segnati in permesso e tra cinque minuti ti aspetto nel vicolo all’angolo del panettiere qui dietro,” propose, staccandosi da lei, e ad Imma venne di nuovo da ridere.


“Da quand’è che sei così ligio alla procedura, Calogiù?”

 

“Lo sanno tutti che è il mio ultimo giorno qui e che oggi pomeriggio non avrei dovuto lavorare. E non voglio che tu abbia problemi se ci vedono andare via insieme.”


“Va bene…” gli sorrise, stringendolo un’ultima volta prima di lasciarlo andare.

 

Quando sparì dietro la porta, dopo un’occhiata da farle tremare le ginocchia, una specie di strano terrore la colse: il dubbio atroce che fosse tutta una scusa, che a quell’appuntamento di fronte al panettiere non si sarebbe presentato.

 

Lasciò un messaggio a Diana che si prendeva mezza giornata libera e di riferirlo per lei a Vitali, si infilò lo spolverino ed uscì di corsa, ignorando la Moliterni che, con uno dei suoi soliti sorrisetti, le stava venendo incontro in cima alle scale.

 

Le scese a tempo di record e l’aria fresca di fine marzo le colpì il viso non appena uscita dalla procura, dandole un momentaneo sollievo. Ma non sufficiente.

 

Arrivò al luogo concordato e si guardò intorno, il panico che cresceva, non trovando nessuno. Fino a quando una Fiat Tipo, parcheggiata lì vicino, le fece i fari e, incrociando due occhi azzurri, potè finalmente tornare a respirare.

 

“Ma da dove viene questa macchina?” gli chiese, salendo al posto del passeggero e chiudendo la portiera.

 

“L’ho noleggiata per il trasloco. Capozza viene con me a Roma a darmi una mano e poi la riporta qui al posto mio.”

 

Imma dovette, a malincuore, dare ulteriori punti al carabiniere, che evidentemente era davvero affezionato a Calogiuri, più di quanto avesse mai immaginato.

 

“Allora, dove mi porti?” gli domandò, incuriosita, ma lui, per tutta risposta, fece un sorriso tra il misterioso ed il divertito.

 

“Non ti fidi più di me?”

 

“Mi fiderò sempre di te, Calogiuri, anche se non te lo metterai mai in testa!”

 

Il sorriso di Calogiuri si fece malinconico ed avviò il motore. In perfetto silenzio, percorsero vicoli e stradine secondarie, facendo un giro che le sembrò in larga parte privo di senso. Notò che Calogiuri guardava spesso nel retrovisore, per accertarsi di non essere seguito.

 

Tutta quella premura nei suoi confronti - perché lui il giorno dopo se ne sarebbe andato e non avrebbe certo avuto problemi, pure se li avessero beccati insieme - fu l’ennesimo colpo a ciò che restava del suo cuore.

 

Dopo un numero non precisato di deviazioni, arrivarono alla statale che portava verso il mare ed Imma provò un miscuglio impossibile di felicità e di tristezza. Felicità ai ricordi che li legavano a quella strada, a quel mare, dove tutto era iniziato tra loro. Tristezza all’idea che, laddove tutto era iniziato, così tutto sarebbe inesorabilmente finito, da lì a poche ore che, già lo sapeva, sarebbero passate troppo in fretta.

 

Gli si appoggiò al braccio, come facevano una volta, durante i lunghi spostamenti in auto, prima che lei chiudesse la loro frequentazione, e lui la guardò, sorpreso. Ma poi le posò un bacio sulla fronte e riprese a guidare, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

Ed infine giunsero al mare, deserto in quella stagione, in piena settimana lavorativa. Pure i ristoranti ed i bar erano praticamente tutti chiusi: avrebbero aperto solo per i turisti del fine settimana.

 

Calogiuri parcheggiò proprio vicino a dove avevano lasciato la moto in quel meraviglioso ponte dei santi, il cui ricordo avrebbe custodito gelosamente per sempre.

 

In totale silenzio, iniziarono a passeggiare sul bagnasciuga, immersi in un’atmosfera quasi lunare: due alieni nel deserto che li circondava.

 

Se lo abbracciò di lato, senza remore, e si sentì stringere ancora più forte.

 

“Sai…” lo sentì sussurrare, dopo un tempo infinito trascorso semplicemente a camminare stretti stretti, “qui… con quelle due bambine che inseguivano l’aquilone... è stato il primo momento in cui… in cui per un attimo ci ho creduto veramente che… che potessimo avere un futuro io e te.”

 

“Calogiuri…” mormorò, il magone che tornava lancinante.

 

Perché la verità era che pure per lei era stato lo stesso: da quel fine settimana il pensiero di un futuro con lui era stato sempre più tentatore, sempre più vicino, quasi come potesse toccarlo con le dita, sebbene ne avesse paura. Pure dopo che aveva posto fine alla loro frequentazione.

 

Ma non glielo poteva dire o… o lui non si sarebbe fatto la sua vita a Roma. E non era giusto.

 

“Scusami… lo so che… lo so che non mi hai mai fatto promesse e che… sono io che mi sono fatto illusioni, ma…” iniziò a balbettare, finché gli posò l’indice sulle labbra.

 

“Non ti devi scusare e… e la colpa è solo mia, Calogiuri. La verità… la verità è che quando sono con te… non ci capisco più niente ed è come se il resto del mondo sparisse. Ma il resto del mondo c’è e… e non posso ignorare le responsabilità che ho, Calogiuri, soprattutto verso mia figlia. Anche se lo vorrei, ma non posso.”

 

“Volere è potere ma… ma capisco che tua figlia venga prima di tutto, te l’ho già detto. Vorrei… vorrei essere nato vent’anni prima…”

 

“Al massimo vorrei essere nata io vent’anni dopo, Calogiù, se proprio dobbiamo scegliere. Anche se… anche se forse, se mi avessi conosciuta a vent’anni, manco mi avresti notata.”

 

“Questo è proprio impossibile: non fosse altro che per come ti vesti!” ribattè, con quell’espressione da schiaffi, nonostante gli occhi lucidi.

 

“Calogiuri!” esclamò, colpendogli il braccio e lui la agguantò per la vita, iniziando a farle il solletico.

 

Provò a divincolarsi, tra grida e risate, finché riuscì a liberarsi e corse in avanti, verso due barche coperte da teli, che ricordava benissimo dalla loro visita precedente. Stava per infilarcisi in mezzo quando si ritrovò sollevata da terra e, un attimo dopo, senza capire bene come, era in grembo a Calogiuri, che si era seduto su una delle due imbarcazioni e la teneva ferma, la schiena attaccata al suo petto. Tentò ancora di liberarsi, da bastian contrario che era, divincolandosi, sebbene non avrebbe mai voluto staccarsi da lui e, ad un certo punto, lo sentì emettere un forte respiro e mollare la presa.

 

Una scossa elettrica la prese in pieno quando ne comprese il motivo e, per un istante, si bloccò pure lei. Ma poi un sorriso malizioso le si dipinse sul volto, senza poterlo evitare, e si voltò per fronteggiarlo, notando le guance rosate e il fiato corto, gli occhi con le pupille talmente dilatate che parevano quasi neri.

 

Il bacio fu intenso ma lento, le bocche che si esploravano come a voler fermare nella mente e nel cuore ogni sensazione, ogni sapore per portarselo dentro per sempre.

 

E le mani iniziarono la loro danza, senza più freni inibitori, sotto i maglioni, finché, con un suono gutturale di soddisfazione, le riuscì di sganciargli la cintura e abbassargli la zip e dita tremanti le bloccarono il polso.

 

Fu quasi uno schiaffo. Alzò gli occhi ad incontrare i suoi, più scuri ed intensi che mai, l’aria di chi stava facendo uno sforzo impossibile per trattenersi.


“Ci… ci possono vedere…”

 

Per poco non le scappò di nuovo da ridere: i ruoli si erano proprio invertiti del tutto.

 

Imma si guardò intorno e, con un altro sorrisetto, rispose, “basta avere un po’ di fantasia, Calogiuri. Quando vuoi lo so che ce l’hai. E pure parecchia.”

 

Lui la guardò con quell’aria affettuosamente esasperata e lei si tirò in piedi, girò intorno a una delle due barche e poi si accucciò, iniziando a slacciarne il telo.

 

“Dammi una mano con questi teli, Calogiù. Che non hai mai giocato agli indiani da piccolo? O sei troppo giovane?”

 

“Agli ordini, dottoressa!” esclamò, aiutandola a sciogliere il resto dei nodi, lasciando solo quelli del lato tra le due barche e rivoltando il telo, appoggiandolo sull’imbarcazione accanto, fino a creare una specie di tunnel.

 

C’era un odore tremendo di salsedine e di pesce, ma ad Imma sembrò lo stesso il paradiso. Ci si infilò sotto, ridendo quando lo sentì acquattarsi accanto a lei. Sembravano due soldati della prima guerra mondiale che si infilavano in trincea.

 

Ma… come si dice… non fate la guerra ma fate l’amore.

 

E non persero tempo: Calogiuri che si mise d’impegno a levarle stivali, calze, maglione e gonna, veloce come non era forse mai stato. E lei ovviamente non potè essere da meno, marcando ogni vestito che cascava sulla sabbia con una specie di grugnito di vittoria.

 

Non sentì né il fresco di fine marzo, né la sabbia che doveva starsi infilando ovunque, ma solo il calore del corpo contro il suo, la morbidezza della pelle sotto le dita, cercando di memorizzare ogni linea, ogni muscolo, ogni callo delle sue mani, ogni suono di piacere che riusciva a strappargli.

 

Si presero tutto il tempo che inesorabilmente stava finendo, giocando, esplorando, stuzzicandosi, cercando di ritardare il più possibile la fine, tra un bacio e l’altro sulla fronte, sul collo, sulle guance ormai bagnate di lacrime che si mischiavano, come i loro corpi, fino a sentirsi totalmente fusa con lui in quel mondo solo loro.

 

Ma la passione non potè più essere contenuta e, con un grido che le rimbombò nelle orecchie in quella capanna di fortuna - e non avrebbe saputo dire chi avesse gridato - si ritrovò sepolta sotto di lui, scossa da singhiozzi incontenibili e dal corpo che sussultava sopra al suo.

 

Si guardarono, nella penombra, gli occhi rossi, i visi sporchi di lacrime e sabbia rappresa.

 

Lo abbracciò, fortissimo, mordendosi le labbra prima che si lasciassero scappare quelle due parole che il suo cuore scoppiava dalla voglia di urlargli, almeno una volta.

 

Ma non poteva: sarebbe stata una bastardata peggiore di tutte quelle che gli aveva già fatto, sommate insieme.

 

Cercò invece, di nuovo, di godersi ogni ultimo istante, ogni granello di quella clessidra che si stava esaurendo, affinché il loro ricordo le bastasse per una vita intera e forse pure oltre.

 

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“Puoi… puoi lasciarmi qui… l’ultimo pezzo è meglio se lo faccio a piedi.”

 

Ogni parola era acido in gola: il momento era arrivato, non si poteva più rimandare.


Parevano usciti da una tempesta di sabbia, tutti e due, nonostante avessero cercato di levarsi di dosso il più grosso: doveva rientrare per forza prima che tornasse Pietro, non c’erano alternative.

 

“Imma…” sussurrò, guardandola in quel modo, come se fosse un cane bastonato, e le lacrime tornarono, inesorabilmente, insieme a quella sensazione di starsi strappando il cuore dal petto, ma stavolta tutto intero. Per lasciarlo a lui, perché lo portasse via con sé.

 

“Calogiuri… io… io…” balbettò, non riuscendo a sostenere quello sguardo.

 

E così lo abbracciò di nuovo, per l’ultima volta, sussurrandogli nell’orecchio, “fatti valere a Roma e… e vivi, viviti in pieno la tua vita, la tua gioventù, perché te lo meriti, va bene?”

 

“E… e tu… cerca di essere felice. Perché se… se so che sarai felice, in qualche modo lo sarò anch’io.”

 

Imma sentì la gola chiudersi, perché la verità era che anche la felicità se ne stava andando via con lui. Perché era lui che gliel’aveva fatta scoprire davvero, per la prima volta. E le sembrava inconcepibile riviverla con qualcuno che non fosse lui.

 

Un’ultima stretta da togliere il fiato, un ultimo bacio su labbra salate e tremanti e si buttò fuori dalla macchina, senza guardarsi indietro.

 

La vista che ondeggiava, giunse a fatica fino a casa, maledicendo per una volta il suo amore per i tacchi, gli stivali pieni di sabbia.

 

Si levò tutto e si fece violenza per gettare ogni indumento in lavatrice, accenderla e poi infilarsi sotto la doccia, eliminando non solo l’odore del mare, ma il suo odore, che avrebbe voluto conservare sulla pelle per sempre.

 

L’acqua saponata e lo shampoo si mischiarono a lacrime fresche, mentre si liberava di tutta la sabbia, incollata al corpo ostinatamente, come quel sentimento che era lì, più forte che mai, nonostante ci avesse provato in ogni modo a cancellarlo con ben più di un colpo di spugna.

 

Si era appena infilata in un telo, un turbante sulla testa, tremante come una foglia, quando la porta del bagno si aprì e comparve Pietro. Si chiese quanto ci fosse rimasta sotto la doccia.

 

“Amò, che ci fai già a casa?”

 

“Niente è che… è che abbiamo finito un po’ prima per… per festeggiare il maresciallo, che domani si trasferisce a Roma.”

 

“A Roma?” chiese conferma, sorpreso, ma con un che di sollevato, prima di aggiungere, ironico, “e mo chi chiamerai nel cuore della notte per i casi?”

 

Imma si sforzò di fare un sorriso stiracchiato, perché non ci riusciva a scherzare, non su questo.

 

E poi Pietro colmò del tutto la distanza tra loro, le mise le mani sulle spalle nude e le posò un bacio sulle labbra.

 

Un conato di vomito la prese, violentissimo, lo stomaco che pareva in lavatrice. Si staccò di corsa da lui, spingendolo via e si gettò sulla tazza del water, vomitando il nulla che aveva mangiato, bile e succhi gastrici.

 

“Amò, che c’hai?”

 

Si scansò bruscamente dalle mani che cercavano di reggerle il capo, mentre un altro conato la prese, ancora più forte.

 

Scacciando le dita di Pietro manco fossero mosche, si rialzò e mise la testa nel lavabo, bisognosa di acqua fresca e di una scusa credibile.

 

“Credo… credo di avere mangiato qualcosa che mi ha fatto male alla festa…” si costrinse a mentire.

 

Perché come puoi dire a tuo marito che i suoi baci ed il suo tocco ormai ti provocano il voltastomaco?

 

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Si lasciò andare sulla sedia dietro alla sua scrivania, gli occhiali da sole incollati al naso, esausta dopo la prevedibile notte insonne, passata a piangere il più silenziosamente possibile, mentre Pietro russava al suo fianco.

 

Calogiuri se ne sarebbe andato quel pomeriggio e lei non poteva fare altro che stare lì, artigliando i braccioli, non sapendo se augurarsi che le ore passassero in fretta o mai.

 

Il rumore di una porta sbattuta con violenza la riscosse e vide Diana entrare come una furia in ufficio e lanciare la borsa sulla scrivania.

 

Non era da lei.

 

E poi la vide buttarsi sulla sedia, mettersi la testa tra le mani e rimanere in quella posizione, come una statua.

 

Da un lato era tentata di ignorarla, dall'altro aveva proprio bisogno di una distrazione. E così le si avvicinò, per capire come stesse.

 

"Diana, tutto bene?"

 

"Tutto bene? Tutto bene?! Capozza mi ha dato un ultimatum: o esco allo scoperto con lui e dico di noi a tutti, compresa la mia famiglia, o ha minacciato di farsi trasferire, come Calogiuri!"

 

Quelle parole furono una fitta al cuore ed Imma barcollò per un attimo, mettendole una mano su una spalla.

 

"Diana, ascoltami, ma se con tuo marito sei già in fase di separazione, se tieni così tanto a Capozza - per motivi a me inspiegabili, ma ci tieni - e non lo vuoi perdere, perché non lo fai? Lo so che peggiorerà la situazione con tuo marito, ma è stato lui a tradirti per prima e c’hai pure le prove ed i testimoni. Con un bravo avvocato dalla tua parte sono certa che potrai fare valere le tue ragioni comunque."

 

"Lo so Imma ma… ma ho paura di come potrà prenderla Cleo. Temo non me lo perdonerà mai: lei è tanto affezionata a suo padre!"

 

"Ma Cleo è grande mo: vive a Londra e probabilmente ci farà pure l'università. Avrà la sua vita ed è giusto che pure tu ti faccia la tua."

 

"Ma poi ci sarà uno scandalo tremendo qui in procura, figurati, già me li sento i commenti! E soprattutto detesto dover dar ragione a mio marito e ai suoi sospetti sulla mia relazione con un carabiniere!"

 

“Scusa, ma quindi tu per i giudizi della gente, che tanto un motivo per sparlare lo trova sempre, rinunceresti ad essere felice? O per quello di tuo marito, che proprio lui per primo ne ha combinate di ogni e ha chiesto pure la separazione? Ma non ha senso!”

 

“La fai facile tu Imma, che te ne freghi del giudizio della gente e vai sempre dritta per la tua strada. In questi momenti vorrei somigliarti: lo so che tu nella mia situazione non rinunceresti mai alla felicità per paura, ma non tutti siamo come te!" proclamò, sollevando finalmente il capo dalle mani e guardandola dritto negli occhi.

 

“Veramente forse neanche io sono come me…” sussurrò Imma tra sé e sé.

 

"Che vuoi dire, Imma?"

 

"Che in realtà... molto spesso sei tu ad essere più coraggiosa di me, perché hai il coraggio di volere bene senza temere di essere ferita."

 

"Coraggiosa… vuoi la verità? La verità è che ho anche paura ad ufficializzare con Capozza perché se poi non funzionasse, se tornasse tutto com’era gli ultimi tempi tra me e Giuseppe, se la routine uccidesse tutto quanto e capissi di avere gettato via tutto per un fuoco di paglia… non so se lo potrei sopportare!"

 

“E quindi per paura che magari sarai infelice scegli di esserlo sicuramente? Non ha senso, Diana!" esclamò, decisa e, un secondo dopo aver finito di pronunciarle, le sue stesse parole la colpirono come uno schiaffo. 

 

Perché doveva smettere di raccontarsi palle: era proprio questo che temeva più di ogni altra cosa, oltre al distruggere definitivamente il rapporto fragilissimo con Valentina.

 

Di essere felice, troppo felice, di continuare ogni giorno di più ad innamorarsi di Calogiuri, ad abituarsi alla sua presenza, fino a rendere la sua assenza ancora più insopportabile di quanto già fosse. E poi che finisse tutto, dopo avergli messo in mano il suo cuore, la sua vita, che lui li facesse a brandelli, non volutamente o per cattiveria, ma semplicemente crescendo, cambiando in un modo che lo allontanasse da lei.

 

Ma poteva per paura di un rischio, condannarsi alla certezza?

 

"Sai Imma, sei proprio brava a dare consigli…" pronunciò Diana, dopo qualche attimo di silenzio, con uno sguardo strano, prima di afferrarle la mano, ancora poggiata sulla sua, e aggiungere, con un'occhiata chirurgica, "e guarda che Roma non sta mica in capo al mondo."

 

“Perché? Pure Capozza mo se ne vuole andare a Rom-” si interruppe e restò paralizzata per qualche secondo, poi esclamò un "Diana!" che fece sobbalzare la cancelliera.

 

“Non è troppo tardi, Imma!” le disse, stringendole la mano più forte, prima di lasciarla andare ed alzarsi dalla sedia, proclamando, “vado a recuperare quei documenti sui Romaniello in archivio, dottoressa.”

 

La porta si richiuse ed Imma restò sola. Sola con una marea di idee confuse su cosa fare. Se fosse stata la protagonista di un film, sarebbe corsa da Calogiuri, prima che partisse, e lo avrebbe travolto con un bacio appassionato, impedendogli di andarsene.

 

Ma non era in un film e Calogiuri sarebbe partito lo stesso, per forza, il trasferimento non poteva essere annullato. E non voleva andare da lui con promesse vane. E poi per lui Roma restava un’occasione d’oro.

 

Come diceva Diana, però, Roma non era in capo al mondo. Un rapporto a distanza era possibile, almeno per un po’, anzi, non avrebbero più avuto il problema che lui fosse un suo sottoposto. E poi… e poi una soluzione la si poteva sempre trovare, per riavvicinarsi in qualche modo.

 

Quelle parole di Calogiuri: “volere è potere!” le rimbombarono in testa come un mantra.

 

Ma ora era lei a dover agire, sui tre fronti che le impedivano al momento di poter essere libera di seguire il suo cuore: Valentina, Pietro ed il maxiprocesso.

 

E se per Valentina avrebbe dovuto aspettare qualche mese, affinché scegliesse la sua strada e poi… e poi avesse il tempo e lo spazio necessari per metabolizzare la notizia, per Pietro ed il maxiprocesso poteva, anzi, doveva agire quanto prima.

 

Un piano d’azione in testa, chiaro come non mai, si gettò sulle carte riguardanti i Romaniello che già aveva a disposizione, pronta a sciogliere almeno il primo bandolo della matassa.

 

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“Amò, com’è andata oggi al lavoro? Lo stomaco va meglio? Mi pare che hai una cera migliore di ieri. Sto finendo di preparare una cena leggera, che almeno ti riguardi ancora un po’.”

 

“Grazie, Pietro, ma non dovevi! Io sto meglio ma… ascolta una cosa, io-”

 

“Mamma!”

 

Si ritrovò con Valentina buttata tra le braccia, con ancora indosso il giubbotto di pelle e tutto.

 

“Valentì, che c’hai?”

 

“Avevi ragione tu su Samuel!” urlò, piangendo come una disperata, aggrappandosi al suo collo in un modo che per poco non cascavano tutte e due, “è uno stronzo!”

 

“E che ha fatto mo?” domando, preoccupata, le mani che le prudevano ed una voglia prepotente di far vedere al ragazzo di che era capace lo Sceriffo di Matera, “non dirmi che ti ha lasciata?”

 

“No, ma è come se lo avesse fatto! Mi aveva fatto tutte quelle promesse sul ristorante e poi… e poi mo se ne esce che uno chef stellato, con cui hanno fatto uno stage, gli ha offerto un lavoro in uno dei suoi ristoranti quando finirà il corso. O a Milano o a Roma! E mo chi lo vede più?!”

 

Deve esserci qualcosa di contagioso nell’aria! - pensò, anche se un nonsoché le si smosse dentro, una specie di strana eccitazione.

 

E poi un lampo di illuminazione la colse. Forse era davvero un segno, di quelli che arrivano al momento giusto.

 

“Valentì, scusa se te lo dico, ma Samuel avrà capito che aprire un ristorante senza esperienza è una follia. E lavorando con uno chef stellato imparerà un sacco di cose, magari un giorno pure per aprirsi un ristorante tutto suo. Ma poi… ma poi, va bene che Milano è lontana, ma Roma non è in capo al mondo, no?”

 

“E come no, solo a una notte di corriera! Ma-” Valentina si bloccò, il viso che le si illuminò, “ma potrei andarci per l’università… in fondo mancano pochi mesi e… e tante mie compagne vogliono farla a Roma! E ci sono tra le università migliori d’Italia. Che ne dite?!”

 

“Valentì, non so… credo che ne dobbiamo parlare un poco, prima di decidere…” abbozzò Pietro, guardando Imma come se temesse la sua esplosione di lì a poco.

 

“Se prendi un bel voto alla maturità, se mi dimostri che sei matura abbastanza per la vita da fuorisede e se decidi con criterio che facoltà fare - che ancora non l’ho capita - insomma, se mi dimostri che non lo fai solo per correre dal fidanzatino tuo, ma che tieni anche un progetto serio in mente, ne possiamo parlare. Io non ho mai potuto vivere fuori per l’università e col senno di poi… forse è un’esperienza che mi è mancata. Ma mi devi dimostrare che la testa ce l’hai ben piantata sulle spalle, chiaro?”

 

Valentina e Pietro la guardarono come se fosse impazzita. Imma si sentì un poco in colpa perché, sebbene quanto aveva appena detto a Valentina lo pensasse sul serio, la verità era anche che, se Valentina avesse fatto l’università a Roma, il più grande dei nodi che la legavano a Matera si sarebbe sciolto.

 

E allora… se Maometto non va alla montagna….

 

“Grazie, mà!! Ti prometto che mi impegnerò al massimo e vedrai che ti potrai fidare di me! Ti voglio bene!” esclamò, con le lacrime agli occhi, stringendola in un altro abbraccio a morsa, mentre Pietro rimase in disparte, un’espressione strana sul volto.

 

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“Amò, come mai sei così favorevole all’idea di Roma? Non è da te.”

 

La domanda arrivò, puntuale come sempre, mentre si stava infilando a letto.

 

“Prima di tutto perché così almeno Valentina ha un qualcosa per cui impegnarsi negli studi, sebbene preferirei non fosse per un ragazzo. E finalmente ha capito di dover fare l’università ed accantonare l’idea del ristorante, sperando scelga bene. E poi… e poi è vero, io sono passata da casa di mia madre a casa nostra, Pietro, e mi sono persa un sacco di cose.”

 

“Quindi ti avrei fatto perdere un sacco di cose?” le domandò, visibilmente irritato.

 

“No, Pietro, non è colpa tua, sono io che… che per tanti motivi sono stata rinchiusa in casa prima di conoscerti. Per me è stata una fortuna immensa incontrarti, e dico davvero,” proclamò, perché era quello che pensava sul serio: come primo uomo della sua vita, per la ragazza che era allora, piena di complessi e insicurezze, Pietro era stato perfetto. Buono, rassicurante, a volte quasi paterno. Ma non era più la ragazza di allora, semplicemente, e non lo sarebbe mai più stata.

 

E questo la portava alla seconda parte del problema.

 

“Senti, se… se questo weekend ci prendessimo di nuovo una giornata io e te da soli? Magari non al mare però… non so… anche solo per farci due passi qui vicino,” propose, perché, per fare quello che voleva fare e per dirgli quello che gli doveva dire, avere casa libera ormai era un’utopia. Allo stesso tempo, però, non si voleva trovare bloccata in capo al mondo con Pietro in auto, dopo avergli annunciato la sua intenzione di separarsi.

 

Pietro, per tutta risposta, fece un sorriso amplissimo, che la fece sentire ancora più in colpa. Ma non ci poteva fare niente, se non smettere finalmente di prenderlo in giro.

 

Provò a baciarla ma lei lo fece deviare su una guancia, prima di augurargli una buonanotte, sebbene sapesse già che non lo sarebbe stata.

 

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“Ippazio!”

 

L’aria gli uscì dai polmoni, sentendosi travolgere in un abbraccio a morsa.

 

“Chiara…” sussurrò, ricambiando la stretta, felice di ritrovare almeno qualche volto familiare, sebbene avesse passato tutto il viaggio a trattenere la voglia di piangere. Non poteva farlo, non di fronte a Capozza.

 

“E chi è questa bella ragazza, che neanche me la presenti?”

 

“Capozza… certo che non cambi mai! Il maresciallo Chiara Mariani, lui è il brigadiere Capozza. Mi ha accompagnato per darmi una mano con il trasloco.”

 

Vide Capozza esibirsi in un baciamano e Mariani guardarlo tra il perplesso e lo schifato, “tranquilla, Chiara, fa lo sciupafemmine ma in fondo è un gentiluomo. Ed è già impegnato e pure innamorato assai, o sbaglio?”

 

“Non mi rovinare la piazza, Calogiuri! E te che ne sai?” ribatté, l’altro, ma con un sorriso che lasciava intendere che avesse ragione, “e bravo il nostro maresciallo! Allora quando vuoi le cose le noti, eh?”

 

“Sarebbe il mio mestiere, Capozza.”

 

“Se è per quello è pure il mestiere mio, maresciallo. E le cose le noto eccome, che ho giusto giusto un poco più di esperienza di te,” proclamò, facendogli l’occhiolino e a Calogiuri per poco non prese un colpo.

 

Era solo la sua coscienza sporca o Capozza sapeva di lui ed Imma?

 

“Va beh,” tagliò corto, prima che facesse altre battute o che Mariani intuisse qualcosa, “se mi aiuti a scaricare la macchina, così poi andiamo a dormire. C’è una camera in più per lui in caserma o-”

 

“Tranquillo, Ippazio, ho già predisposto tutto. Dai, che ti dò una mano pure io,” si offrì Mariani, decisa, aprendo il bagagliaio e scaricando una valigia pesantissima come se fosse fatta di piume. Decisamente si era messa a fare seriamente palestra, nonostante la stazza minuta ingannasse.

 

“Luca?”

 

“In permesso dai suoi fino a venerdì, compreso. Ma ha già detto che questo weekend vuole uscire con noi a festeggiare al solito pub.”

 

La parola pub gli causò il secondo colpo della sera, ma almeno le uscite con Luca e Chiara non ponevano quel genere di rischio.

 

“E bravi che vi godete la gioventù! Se non dovessi tornare a lavorare, non ripartirei domani e mi fermerei pure io. Chissà i locali di Roma come sono… un sacco di gente… un sacco di vita!”

 

“E chi ci impedisce di andarci stasera? O siete troppo stanchi?”

 

“Veramente sarei un po’ stanco e non proprio dell’umore adatto-” esordì, ma poi vide le loro espressioni deluse e decise che, in fondo, deprimersi in camera sua non l’avrebbe aiutato.

 

Per quello avrebbe già avuto tutta una vita davanti.

 

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Prese un respiro profondo, preparandosi mentalmente a ciò che stava per fare.

 

Stava per entrare nella sala interrogatori della procura, dopo averla fatta ispezionare palmo a palmo per garantirsi che non ci fossero cimici, supervisionando personalmente l’ispezione.


“Ma è veramente sicura di voler entrare da sola, dottoressa?”

 

“Sì, dottor Vitali, è l’unica soluzione. Se sono sola si sbottonerà di più, spero non letteralmente.”

 

“Mi auguro vivamente che stia scherzando, dottoressa. Comunque noi saremo qui fuori, pronti ad intervenire ad un suo cenno.”

 

“Ecco, ma non prima dottore, mi raccomando! Se ho bisogno d’aiuto un urlo lo so cacciare, e se non lo posso cacciare capirete da soli che è il caso di intervenire,” concluse, ironica, guadagnandosi un’altra occhiata preoccupata che, dovette ammetterlo, un poco la toccò.

 

Un ultimo respiro ed entrò nella gabbia dei leoni. Anzi, del serpente.

 

“Dottoressa! Che bella sorpresa! Mi chiedo il motivo del cambio di location, non che mi dispiaccia uscire per un po’ dalle mura del carcere!”

 

Romaniello, vestito elegantissimo - chissà chi dei lacchè della sua famiglia gli portava i cambi in carcere - la accolse con un sorriso, tirandosi in piedi.

 

Non era ammanettato né bloccato in alcun modo, per suo preciso ordine: nella sala c’erano solo il tavolo e le sedie, che erano inchiodati al pavimento.

 

E poi si bloccò un attimo e guardò alle sue spalle, sembrando, stavolta, realmente sorpreso.


“Ma è sola? E il Cavalier Servente? Che fine ha fatto?” domandò con un sorrisetto che le venne voglia di prenderlo a schiaffi, girando il dito nella piaga.

 

“Il maresciallo Calogiuri ha avuto un trasferimento a Roma, quindi si risparmierà il suo umorismo irresistibile da ora in poi, signor Romaniello. Almeno lui.”

 

“Dottoressa, ma che mi racconta! Certo che non ci sono più i Cavalieri di una volta! Come ha osato abbandonare una donna, anzi, una femmina come lei? Vede a riporre la fiducia nelle persone sbagliate e invece respingere coloro che la apprezzano veramente?”

 

“Sì, signor Romaniello, in effetti lei le sue femmine, come le chiama lei, le ama proprio fino alla morte. La loro,” ribatté, rimanendo in piedi, all’altro capo del tavolo di fronte a lui, appoggiandosi leggermente in avanti, “ma non sono qui per disquisire dei suoi gusti sessuali o sentimentali, signor Romaniello.”

 

“Ah no? E allora perché mi ha convocato qui? Sentiamo… sono tutto orecchi, dottoressa.”

 

“Senta, signor Romaniello. Ho capito benissimo perché in carcere non poteva parlare e dirmi ciò che sa. E cioè che, se lo avesse fatto, pure tutti i suoi soci ed in particolare uno, a lei molto vicino, lo avrebbero saputo subito. Ma ora siamo qui, ho fatto verificare questa stanza palmo a palmo e non ci sono cimici. E quindi glielo chiedo chiaro e tondo: mi dica ciò che sa dei Serpenti. Nomi, cognomi, famiglie. E magari avrà una speranza di avere uno sconto di pena e di allontanarsi da questo posto dove il capro rischia di essere sgozzato da un momento all’altro. Latronico ha già parlato e ha fatto quasi tutti i nomi della vostra bella combriccola. Ed è in un programma di protezione. Idem il Quaratino. Resta solo lei, Romaniello. E resta un unico nome fuori da questa storia, perché il cognome dentro già c’è ed è il suo. E le conviene parlare, se non vuole che questo qualcuno la metta a tacere affinché possa rimanersene bello bello, pulito pulito, pronto a ricominciare a farsi i suoi traffici pure senza tutto il rettilario. O preferisce aspettare in carcere la sua condanna a morte o comunque la sua condanna definitiva, in un processo in cui tanti auguri mo, a trovare un nuovo avvocato difensore?”

 

“Vedo che ha fatto i suoi compiti a casa, dottoressa, secchiona come sempre, non c’è che dire,” sorrise, mellifluo, prima di tirarsi a sua volta in piedi e sporgersi verso di lei, “ma gliel’ho già detto: se vuole che io parli un prezzo c’è, e lei lo sa qual è.”

 

“Signor Romaniello-” provò a bloccarlo, ma Romaniello, con una velocità inattesa, girò intorno al tavolo e le si avvicinò, sempre di più.

 

Imma provò ad arretrare, ma si trovò con le spalle al muro, Romaniello che ormai era a due passi da lei: riusciva a sentire il suo fiato pesante sul viso e dita lunghe ed ossute che si sollevavano fino a sfiorarle una guancia.

 

La nausea in gola, il cuore a mille, gli diede un pestone dritto sul piede col tacco a stiletto, sentendolo urlare di dolore, e ne approfittò per scansarsi e spintonarlo stavolta lei al muro, notando con disgusto come gli occhi di Romaniello, dietro al dolore, si dilatassero in un’evidente eccitazione.

 

“Lo so benissimo che questo è solo il suo modo di umiliarmi e di giocare con me, signor Romaniello ma, come vede, con me non attacca,” gli sibilò, dritto in faccia, tenendolo fermo per il bavero.


“Lei si sottovaluta, dottoressa. Le garantisco che con lei avrei in mente ben altro tipo di giochi, molto più piacevoli per entrambi,” sussurrò, e si sentì afferrare per la vita da dita nodose che però mantennero una presa inaspettatamente delicata.

 

“Dubito che la mia idea di piacevole coincida con la sua, signor Romaniello. Lei è un sadico, ci gode a sottomettere le donne, non è vero? E sì, probabilmente per questo io sarei per lei una preda molto ambita. Sottomettere una donna come me la farebbe sentire così potente, così… virile, non è vero?”  gli soffiò in faccia, continuando a strattonarlo, “ma invece di sfogare i suoi complessi di inferiorità su donne che vengono con lei solo in cambio di qualcosa, perché non prendersi la sua rivincita, perché non punire chi questi complessi glieli ha fatti venire, signor Romaniello? I suoi genitori ed il suo caro fratello. La pecora bianca, il paragone di virtù. Amato e rispettato da tutti. O temuto, da chi sa che sotto il manto candido si cela un lupo. Non le piacerebbe vedere per una volta lui sulla graticola, a implorare pietà?”

 

Romaniello spalancò gli occhi, uno sguardo ferale, animalesco, che per un attimo le fece temere che volesse o baciarla o picchiarla. O entrambe le cose. Ma poi il viso gli si tese in un sorriso che le scatenò un altro brivido e che veramente sembrava quello di un serpente.

 

“Lei ci sa proprio fare, lo sa dottoressa?” le sussurrò in un orecchio, stringendola di più a sé ed Imma, con un conato di vomito, potè sentire chiaramente quanto fosse eccitato.


Stava per cedere e chiamare i rinforzi, o per tirargli un altro pestone al piede e poi una ginocchiata dove non batte il sole, quando Romaniello allentò la stretta, trattenendola ancora per la vita, ma lasciando finalmente dello spazio tra loro “lo sa che le dico? Che questa prospettiva è l’unica cosa perfino più eccitante di un incontro con lei. Quindi collaborerò. Ma, visto che avrò uno sconto di pena, quando l’avrò finita di scontare, le prometto che la verrò a cercare perché almeno un invito a cena me lo deve. Le garantisco che non se ne pentirebbe.”

 

“Signor Romaniello,” sospirò, spingendogli via le mani dai fianchi e facendo un altro passo indietro, “le garantisco che se ne pentirebbe lei. E comunque dubito che avremo occasione di frequentare gli stessi posti almeno per i prossimi decenni, visto che ovviamente anche lei verrà inserito in un programma di protezione. Sebbene chi debba proteggersi da chi nel suo caso sia opinabile, signor Romaniello. E se otterrà uno sconto di pena, con tutto quello che ha combinato, al massimo sarà lei ad essere in debito con me.”

 

“Bella ed implacabile. Ha mai pensato di fare la dominatrix di professione? Pagano molto bene, lo sa? Anche se non è il mio genere, ma per lei potrei fare un’eccezione, dottoressa. E comunque ci restano le udienze del processo, per poterci rivedere. E i tempi della giustizia italiana sono biblici, lo sa meglio di me, quindi potrò ancora godere del piacere della sua presenza per molto, molto tempo.”

 

“Per intanto potrò godere del piacere della sua assenza, non appena avremo messo a verbale la sua confessione riguardo a suo fratello. E per il resto, mi pagano già per punire le persone, ed i completi di pelle li ho sempre trovati assai scomodi, signor Romaniello. E mo la confessione, che prima cominciamo, prima possiamo preparare il suo trasferimento, visto che lei al penitenziario di Matera non ci può più tornare.”

 

“Com’è noiosa quando fa così, sa? Un po’ di spirito, dottoressa!” esordì, ma poi, di fronte alla sua occhiata impaziente, sospirò, si risedette ed iniziò a parlare, “e va bene. Come lei ha intuito benissimo, a capo di questa organizzazione che esiste da secoli e che raggruppa tutte le famiglie più potenti di Matera, al momento c’è proprio il mio fratello maggiore, il giudice Eugenio Romaniello. Lui ha occhi e orecchie ovunque in tribunale, in procura, in carcere, ovviamente, col mestiere che fa. E questo ci ha sempre fatto molto comodo per i nostri affari. Non mi fraintenda, dottoressa, principalmente mio fratello si occupa di cose assai noiose, come corruzioni, collusioni, deviazione di fondi pubblici, il favorire qualche politico qua e là, per perpetuare il circolo. Insomma, principalmente fa l’uomo d’affari. Ma ovviamente, ha le mani in pasta con svariate organizzazioni criminali, con le quali ha sempre chiuso uno o due occhi quando conveniva. E non ha mai avuto paura di sporcarsi le mani, anzi, di farle sporcare agli altri, se serve. E poi… e poi c’eravamo noi: io, Zakary, Bruno, Scaglione e Lombardi, che abbiamo deciso di ampliare ulteriormente gli affari e di sfruttare tutte le belle cavità di questa terra di sassi e di nulla mischiato al niente, per stoccare i rifiuti tossici che le aziende del nord tanto amano rifilarci, no? A questo sud disgraziato che per loro è buono giusto per venirci in vacanza, nelle cartoline, o per le foto sui social, di questi tempi moderni. Ma abbiamo avuto la sfortuna di coinvolgere un debole come Scaglione, di farci beccare e poi-”

 

“E poi lei si era già fatto beccare, no, signor Romaniello? Con la storia di Aida. E questo, suo fratello non gliel’ha perdonata. Una volta l’ha tolto dai guai, una seconda no. L’incendio al deposito delle prove l’ha organizzato lui, non è vero?”

 

“Sì, lui conosceva ovviamente benissimo sia com’era fatto il deposito, sia gli impianti di sicurezza, sia gli orari della sorveglianza. Ha organizzato tutto con la complicità di una delle guardie. Un certo Carnevale, può verificare. Però poi lei ha trovato le prove che le ha lasciato Scaglione e… e il mio anello che quel figlio di puttana di Vaccaro mi aveva rubato. E così sono finito in carcere. Mio fratello mi ha promesso che mi avrebbe fatto tirare fuori di qui, che il processo sarebbe finito in nostro favore, se me ne stavo zitto. Mentre, se provavo a parlare, ero un uomo morto. E so che lui ha uomini ovunque, dottoressa, qui a Matera. Ma non mi aspettavo lei arrivasse fin qui e sinceramente mi stupisco non abbia ancora fatto una brutta fine. Forse mio fratello l’ha sottovalutata. O forse è stata brava, come le ho suggerito, a tenersi la bocca cucita su certe cose fino all’ultimo.”

 

“O forse suo fratello sapeva che la mia morte avrebbe causato ulteriori ombre sul maxiprocesso e avrebbe fatto di me un’eroina. Mentre fare fuori tutti coloro che potevano parlare, facendoli sembrare suicidi, sarebbe stato più pratico e avrebbe fatto di me il boia di Matera.”

 

“Può essere… mio fratello è estremamente intelligente, dottoressa. Ed ha un senso dell’umorismo ancora più perverso del mio, ma in modo diverso. Ha bisogno di sapere altro?”

 

E così Imma gli chiese, a grandi linee, ciò che aveva domandato anche a Latronico, senza ovviamente svelare quanto già sapesse, e Romaniello le confermò praticamente tutto quanto detto dall’avvocato, compreso il coinvolgimento di Quaratino.

 

“E che mi dice di quanto avvenuto a Lombardi?”

 

“Io ero già in carcere, come ben sa, dottoressa, ma credo che lì ci sia lo zampino della moglie. Mio fratello non è così folle da andare a scompigliare le carte a Roma, in uno dei partiti principali poi. No, lì deve indagare altrove, dottoressa, credo proprio sia stata una resa dei conti personale. Voi donne quando vi sentite tradite sapete essere spietate.”

 

“Chi è stato materialmente a prelevare Vaccaro per farlo fuori, signor Romaniello? Chi ha ucciso Iannuzzi? Sempre uomini di Quaratino?”

 

“No, dottoressa. Uomini di mio fratello. Quaratino ci è stato molto utile, ma per certi lavori delicati mio fratello ha altre persone a sua disposizione. Gente del luogo, non poveri disperati della Romania. Posso farle una lista di nomi, ma l’elenco completo lo conosce solo lui.”

 

“Sa per caso se sono stati loro ad aiutare Latronico a fuggire? Magari le è giunta qualche voce qui in carcere…”

 

“Non saprei dottoressa, può essere… anche se a quel punto mi stupisce che mio fratello abbia lasciato Latronico vivo… ma magari non pensava sareste potuti arrivare a lui.”

 

“Eccole un foglio, signor Romaniello. E voglio anche i nomi di chi lavora per suo fratello tra tribunale, procura e carcere, che lei sappia ovviamente.”

 

Romaniello, con un sorriso di sfida negli occhi, iniziò stilare un elenco. Lungo, lunghissimo, praticamente infinito. Agenti, cancellieri, inservienti e-

 

Il cuore le cadde nello stomaco quando riconobbe i nomi di Diodato, di un altro collega magistrato e dei loro cancellieri - per fortuna almeno la D’Antonio non pareva essere coinvolta - e pure di un agente di PG che collaborava spesso con loro, ma con cui lei per fortuna aveva lavorato molto raramente. Nessuna menzione della Mele però. Forse Diodato alla ragazza teneva davvero e da certe cose l’aveva tenuta fuori? E poi fu sopraffatta dallo sconforto quando Romaniello scrisse il nome del giudice a cui era affidato il maxiprocesso.

 

“Sta scherzando, vero?”

 

“No, dottoressa. Del resto avrà notato pure lei che ha fatto di tutto per evitare la mia condanna, no? Fino a quando ha capito che fosse inevitabile. Istruzione del mio caro fratello, quella di sacrificarmi temporaneamente, in modo magari di ribaltare le cose in appello o comunque di far poi invece finire bene il maxiprocesso senza destare sospetti, che era quello che a mio fratello premeva di più. Certo, ormai il dubbio mi era venuto che invece volesse tenere in galera solo me, come lei mi aveva paventato. Le avevo detto che stava lottando contro i mulini a vento, dottoressa, ma lei non vuole mai credermi.”

 

E così, Imma seppe ancora di più cosa doveva fare. Era un’idea che le era balenata in testa già da un po’ di giorni, da dopo l’interrogatorio di Latronico per la precisione, ma ormai era praticamente inevitabile.

 

Fece finire a Romaniello l’elenco e si fece portare la verbalizzazione della confessione da un agente che aspettava fuori, La rilesse punto per punto e la porse a Romaniello per firme e controfirme. E poi si alzò e fece per congedarsi.

 

“Il Cavalier Servente deve essere proprio un pazzo, ad averla mollata per andarsene a Roma, dottoressa. A meno che non sia lei ad essersi stufata del giocattolino, naturalmente. Del resto una donna come lei, uno come lui se lo mangia a colazione.”

 

“A differenza sua, signor Romaniello, per me le persone non sono giocattoli. Ed il maresciallo è semplicemente un uomo di troppo valore per restare eternamente a fare il Cavalier Servente, come lo definiva lei. E avrà un futuro giusto un poco più roseo del suo, signor Romaniello. Perché lui uno come lei se lo mangia a colazione, e non viceversa. Mi stia bene, signor Romaniello, e tante care cose! Dubito ci rivedremo ancora ed il piacere di averla conosciuta non è stato mio.”

 

E, con queste parole, uscì dall’aula, senza guardarsi indietro.

 

“Dottoressa! Ho sempre saputo che lei fosse un po’ matta ma… ma quello che ha fatto è… stavo per intervenire pure senza il suo via libera!” la accolse Vitali, uno sguardo scioccato ed allarmato.

 

“L’importante è il risultato, dottore, e come vede sono tutta intera, io. Questa procura invece è un colabrodo, anzi, tutta questa città, se ne rende conto mo, o mi vuole ancora parlare di complotti?!”

 

“Dottoressa, è comunque la parola di una persona ma-”

 

Lo fulminò con un’occhiata, facendolo desistere dal dire anche solo una sillaba di più.

 

“Ovviamente faremo tutte le verifiche del caso, dottoressa, mi creda, ma-”

 

“Mi fa piacere che verificherete, dottore, soprattutto per quanto riguarda le inchieste future, ma io a questo punto voglio chiederle ufficialmente di trasferire questo processo, per incompatibilità ambientale. Non può tenersi qui a Matera: ci sono troppe persone coinvolte e c’è il rischio concreto che non si abbia giustizia.”

 

“Come?” le domandò, se possibile ancora più scioccato, la bocca che rimase aperta in un modo che lo fece sembrare un pesce palla

 

“Dottor Vitali, Romaniello ci ha appena dato una lista tanto lunga da scriverci un poemetto. E ci potrebbero essere pure altre persone coinvolte, amiche di Eugenio Romaniello, e di cui Saverio Romaniello ignora il coinvolgimento. A questo punto mi pare evidente che il processo non possa tenersi qui. Se andiamo nel suo ufficio, magari ne parliamo con più calma?” chiese, adocchiando gli agenti presenti che sì, potevano essere di relativa fiducia, ma preferiva fare quel discorso da soli.

 

“D’accordo, dottoressa, mi lasci predisporre per il trasferimento di Romaniello. Ovviamente sarà sempre seguito da almeno tre agenti, escludendo quelli presenti in questa lista. E le persone qui nominate saranno temporaneamente sospese dal servizio oggi stesso, in attesa di far luce sulla veridicità delle affermazioni fatte. Diciamo che offrirò loro un periodo di vacanza. Non vorrei che Romaniello stesse cercando anche con informazioni mendaci di indebolire la procura. Certo, dovremo far venire persone nuove da fuori in ogni caso, anche se già dovrebbe arrivare a breve il rimpiazzo del maresciallo Calogiuri.”

 

“Che però almeno era di assoluta fiducia, dottore, come ha potuto verificare lei stesso. Ma è un inizio.”

 

Vitali annuì, con un’espressione strana sul volto e le diede appuntamento nel suo ufficio di lì a un’ora.

 

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“Dottoressa, si accomodi. Ho riflettuto su quanto lei mi ha detto e… immagino che lei sappia che, se l’inchiesta venisse trasferita, necessariamente non se ne occuperebbe più lei?”

 

“Certo che lo so, dottore. Ma… arrivati a questo punto credo sia la cosa migliore per il bene dell’inchiesta ed è già da qualche giorno che ci rifletto su in realtà, da quando è uscita tutta la vicenda di Latronico e dal suo interrogatorio per la precisione,” chiarì, accomodandosi su una delle due sedie, “vede, visto quanto è emerso dal racconto di Romaniello, è evidente che Latronico ci abbia detto quasi tutto, ma non tutto. E, in base all’accordo da lui stesso sottoscritto, questo comporterebbe che alcuni benefici a lui promessi vadano revocati. Ovviamente non ci conviene togliergli la protezione, lo sappiamo entrambi, o non ci arriva vivo a testimoniare, ma… ma potrebbe, se i nuovi accordi non gli stessero bene, continuare ad usare la minaccia di uno scandalo sulla nostra parentela come una spada di Damocle sul processo.”

 

“Dottoressa, ma se è solo per questo, non credo che convenga nemmeno a Latronico, lo sa meglio di me.”

 

“Lo so, dottore, ma non è solo per questo: questi hanno in mano pure il giudice che doveva occuparsi del processo, e chissà chi altri! A questo punto credo che, per il bene dell’inchiesta e della giustizia, che è l’interesse primario che ho giurato di servire, e non il mio prestigio o la mia carriera personale, il processo è giusto vada a finire dove possa essere portato a termine senza finire bloccato, boicottato o insabbiato. Mi ritengo comunque soddisfatta di avere portato i principali imputati a rendere una confessione piena e Romaniello ad una prima condanna. Ormai non resta che fare arrivare il processo a sentenza, che a questo punto dovrebbe essere scontata, e poi occuparsi del secondo grado di giudizio. Ma, per portare a termine il lavoro, vorrei una persona competente, dottore, incorruttibile e che non si faccia intimidire. E vorrei almeno poterla scegliere insieme a lei.”

 

“Dottoressa, quello che dice le fa molto onore. E mi creda che mi riesce difficile immaginare chi meglio di lei potrebbe condurre questa inchiesta e questo processo. Ma ci ho pensato, come le ho detto, e ho in mente una soluzione che potrebbe consentirle di rimanere comunque aggiornata sul processo e di dare il suo prezioso contributo, qualora lei lo desideri, ed inoltre rendere tutto più efficiente. Come lei ben sa, a Roma si sta svolgendo il processo su Lombardi e-”

 

“Se vuole affidare il maxiprocesso a Santoro se lo scordi! L’ho visto come lavora ed è una primadonna e su Lombardi non ha fatto progressi dopo mesi e mesi, se non quelli che io stessa ho dovuto imbeccargli e-”

 

“No, dottoressa, non parlo di Santoro. C’è una collega, la dottoressa Ferrari, che conosco dai tempi di Milano e che è a Roma da pochi mesi. Questo innanzitutto le garantisce una certa neutralità dagli ambienti romani, se lei mi capisce, dottoressa. Ma, soprattutto, pur essendo relativamente giovane-”

 

“Giovane quanto, dottore?”

 

“Non si chiede l’età a una signora, dottoressa, e l’anno preciso non lo ricordo, diciamo tra i 35 e i 40 anni, ma, e mi faccia finire prima di interrompere, a Milano si era occupata di un’inchiesta di corruzione, tangenti e collusioni che riguardavano esponenti sia della politica, che dell’imprenditoria, che delle forze dell’ordine e lo aveva fatto molto bene. La chiamavano il pitbull con i guanti di velluto, perché sembra buona e gentile, rassicurante, ma poi quando azzanna la preda non la molla.”

 

“I soprannomi migliori sempre a noi donne, noto,” ironizzò Imma, improvvisamente curiosa di conoscere questo pitbull, che si immaginava, chissà perché, come una donna bassa, un po’ tarchiata, magari con una quinta di reggiseno, di quelle rassicurantemente materne, ma che poi al momento giusto sapeva tirare fuori gli artigli.

 

“E ho pensato appunto che il fatto che il processo andasse ad un’altra donna, invece che all’ennesimo collega uomo, le avrebbe fatto piacere, dottoressa. E poi così, trattandosi di Roma, insomma, la dottoressa potrebbe avere l’aiuto del maresciallo Calogiuri, che conosce perfettamente il maxiprocesso fino a qui. E voi potreste restare in contatto… in modo che lei riceva aggiornamenti sull’andamento del processo e possa fornire il suo contributo, qualora lo desideri e lo ritenga necessario.”

 

C’era un qualcosa nel modo in cui Vitali aveva pronunciato le ultime frasi, una specie di imbarazzo, che la portò a domandarsi se sospettasse qualcosa di lei e Calogiuri. Ma magari si era solo fatto condizionare dai mesi e mesi e mesi di voci su loro due. O forse era la sua coscienza sporca a farle vedere cose che non c’erano.

 

“Guardi, dottore, se mi permette, faccio una ricerca su questa Ferrari per conto mio e le darò una risposta a breve, va bene? E per il resto… almeno per ora non credo di voler essere troppo coinvolta nell’inchiesta, sia per il fatto di Latronico, sia perché sono disponibile ad aiutare la collega, ma non vorrei nemmeno porle troppe ingerenze. Riguardo al maresciallo, sarei più che felice se si occupasse del maxiprocesso ma, se ha chiesto il trasferimento, immagino sia proprio anche per fare un’esperienza nuova e credo che, almeno per i primi tempi, sia meglio che non resti lavorativamente troppo legato a… a me e a Matera, ma se si costruisce i suoi equilibri a Roma.”

 

Vitali la guardò in un modo, sempre sorpreso sì, ma c’era qualcosa che non avrebbe saputo definire, un misto di senso di colpa ma anche di… se non fosse stato impossibile l’avrebbe definita ammirazione.

 

“Dottoressa, lei è una grande, enorme, immensa scassapalle,” pronunciò, deciso, prendendola in contropiede, ma poi aggiunse con un sorriso, “ma umanamente, pur con tutti i suoi difetti, è una delle persone migliori che abbia mai conosciuto. Sono fortunato a lavorare con lei, dottoressa. Quando non mi fa venire voglia di ucciderla, naturalmente.”

 

“Potrei dire lo stesso di lei, dottor Vitali,” rispose, ricambiando il sorriso e tirandosi in piedi.

 

Per un secondo, le venne il dubbio assurdo che Vitali volesse abbracciarla, ma poi le tese la mano e, dopo una stretta fin troppo vigorosa, lasciò il suo ufficio, pronta a fare un paio di ricerche su internet. O almeno provarci.

 

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“Imma io andrei… chi è questa? Una nuova collega? Che ho sentito che ci saranno un po’ di rivoluzioni qui in procura. E chi se lo sarebbe mai immaginato di Diodato! Che pareva un uomo tanto distinto, ma sono sempre quelli i-”

 

“Diana, frena, frena”, la bloccò, con una mano alzata, notando con dispiacere come le voci stessero già correndo in procura, “stai andando a casa, immagino? Che Capozza ormai sarà tornato da Roma…”

 

“Imma!” esclamò, fintamente scandalizzata, ma poi le fece un sorriso, “allora io vado. Tu sei tranquilla a stare qui da sola, con tutto quello che è successo oggi?”

 

“Tranquilla, Diana, ho la scorza dura io. Buona serata!”

 

Riguardò la foto sul monitor. Il pitbull dai guanti di velluto pareva più giovane dell’età dichiarata da Vitali, ma era un’immagine di qualche anno prima. C’erano diversi articoli che la menzionavano ed in effetti sembrava aver portato a termine l’inchiesta di Milano nel migliore dei modi - sebbene si chiese come mai l’avessero affidata a lei, tanto giovane, o forse speravano che fallisse, e in quel caso erano rimasti fregati a sottovalutarla. Pochissime foto, tutte di articoli di quotidiani, con lei in toga. Niente scatti social o comparsate in programmi televisivi che si occupavano delle vicende giudiziarie.

 

E questo era un punto a suo favore.

 

La foto, presa da distanza in un’aula di tribunale, rivelava un viso dai lineamenti belli, regolari, da statua neoclassica. I capelli raccolti in uno chignon stretto, matita nera sugli occhi, un’immagine semplice ed austera. Un po’ noiosa, per i suoi standard. Il fisico non avrebbe saputo giudicarlo sotto la toga, ma non era ad un concorso di bellezza e non vedeva perché avrebbe dovuto preoccuparsene e-

 

Forse perché dovrà lavorare a stretto contatto con Calogiuri per il maxiprocesso? No, perché sono due ore che indugi sulle sue foto, Imma, quasi più che su tutto il resto del materiale messo insieme - le suggerì la vocetta della sua gelosia, che ormai era diventata in pianta stabile quella di Maria Moliterni.

 

Ma la ignorò e decise che, visti anche i suoi progetti futuri, avere il maxiprocesso a Roma sarebbe potuta essere tutto sommato un’occasione per non perdere del tutto i mesi e mesi e mesi di lacrime e sangue versati per quell’inchiesta. Anche se non se ne sarebbe mai più potuta occupare, nemmeno se… se la montagna se ne fosse andata a Maometto, visto il coinvolgimento di Latronico, ma era già qualcosa.

 

Certo che questa Ferrari stava per beccarsi tra le mani quello che era sia un bellissimo regalo per la sua carriera, sia una potenziale disgrazia. Temeva un po’ i legami a Roma dei Serpenti ma… ma almeno sapeva che Calogiuri avrebbe continuato ad occuparsene e di lui si fidava ciecamente.

 

D’accordo, dottore, accetto il suo suggerimento, si metta in contatto con i suoi colleghi di Roma e con la Ferrari. Mi tenga aggiornata.

 

Inviò il messaggio, spense la luce e si avviò verso casa, sentendosi leggera come non mai. Soprattutto perché l’indomani sarebbe stato finalmente venerdì. Mancavano solo tre giorni alla fine del limbo.

 

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“Ippazio!”

 

“Luca! Ma pensavo rientrassi domani!”

 

Si beccò una pacca sulla spalla, che ricambiò, mentre il maresciallo gli porgeva una confezione da pasticceria, “un po’ di dolci tipici di Catanzaro, per darti il benvenuto. Spero non si siano troppo schiacciati nel viaggio. E in realtà ho preso ferie anche oggi per chiudere la settimana e avere il tempo di sistemarmi al rientro, ma come vedi, eccomi qui. Allora, quando festeggiamo, oggi o domani?”

 

“Domani per carità, che già l’altra sera Mariani e un mio collega di Matera mi hanno fatto fare le ore piccole e ancora mi devo riprendere!”

 

Dopo un paio di birre - lui si era limitato alla coca cola - Capozza aveva convinto Mariani ad andare tutti insieme in una discoteca lì vicino. E, se sul fatto che Capozza fosse un pazzo scatenato, in senso buono, non aveva mai avuto dubbi, aveva scoperto che pure la collega, quando si lasciava andare, non era da meno. Aveva ballato per ore, prima con lui, poi insieme a Capozza, poi da sola, poi aveva scacciato a forza due che le ronzavano troppo intorno e che probabilmente per un po’ avrebbero potuto cantare nelle voci bianche, pure prima che loro intervenissero.

 

Alla fine, la serata si era conclusa che erano quasi le quattro del mattino, lui con un mal di testa assurdo e la voglia di chiudersi in camera e rimanerci per tutta la vita, mentre Mariani raccontava entusiasta degli anni passati a scuola di danza, classica e poi contemporanea, e del suo amore per il ballo, ma di non dirlo a nessuno, se no l’avrebbero derisa per un passatempo tanto femminile.

 

Come Capozza fosse arrivato sano e salvo a Matera il giorno prima, e pure relativamente presto, era un mistero. Forse potenza dell’amore e della voglia di riabbracciare la signora Diana.

 

“Allora, che mi racconti di bello?”

 

“Di bello ben poco, Luca, per il resto io-”

 

“Scusate, disturbo?”

 

Si voltarono verso l’ingresso della PG e videro una donna, sulla trentina, avvolta in un cappotto grigio scuro, una valigetta di pelle nera in mano, l’aria di chi lì era di casa e che stava ponendo una domanda retorica, di cortesia.

 

“Dottoressa!” scattò Luca, mettendosi quasi sull’attenti.

 

Si sbrigò ad imitarlo: la dottoressa doveva essere davvero temibile, vista la reazione del collega, che sembrava ancora più ansioso del solito.

 

“Conti, buonasera, spero la vacanza sia andata bene. Sono dolcetti della Calabria quelli?” chiese invece la donna, con un sorriso ed un tono tranquilli, che gli fecero sembrare ancora più strana la reazione di Conti. L’accento non era romano, era… del nord, anche se non avrebbe saputo identificarlo esattamente.

 

“Sì, esattamente. Ne vuole un po’, dottoressa?” le domandò, incurante del fatto che fosse un dono per lui e Calogiuri non seppe se offendersi o se scoppiare a ridere.

 

“No, tranquillo, Conti, poi immagino che fossero un omaggio per il... maresciallo Calogiuri, presumo?”

 

“Sì, dottoressa, scusatemi, ai comandi!” rispose, mettendosi sull’attenti, imbarazzato di non essersi presentato per primo, come da protocollo.

 

“Si figuri, maresciallo, comodo, comodo. Irene Ferrari, molto piacere, come avrà intuito sono uno dei magistrati di questa procura,” pronunciò, porgendogli la mano in una stretta decisa, “so che ieri ha già fatto le dovute presentazioni con i miei colleghi, ma ero ad un processo. Avevo intenzione di venirmi a presentare, per darle il benvenuto, ma temo invece di doverla già disturbare per un motivo di lavoro, nonostante l’orario di venerdì sera. Se per lei non è un problema, può venire un attimo nel mio ufficio?”

 

“Ma certo, dottoressa, figuratevi!” rispose, anche perché non poteva fare altrimenti, congedandosi da Conti e seguendola lungo quei corridoi che ancora doveva memorizzare, fino a giungere ad un ufficio.

 

Era moderno, luminoso, tutto sul bianco e sul nero. Un po’ impersonale, niente foto, mentre il pensiero correva inevitabilmente all’ufficio di lei. L’unica cosa in comune erano le pile di fascicoli, ma qui erano perfettamente ordinate.

 

“Maresciallo, si accomodi,” lo invitò, con un gesto della mano, “ascolti, se la disturbo a quest’ora è perché ho avuto notizie da Matera. Non su di lei, stia tranquillo, anche se, anzi, di lei il dottor Vitali mi ha parlato molto bene, ma sul maxiprocesso che si sta svolgendo lì. Vitali mi ha detto che lei lo ha seguito praticamente dall’inizio alla fine e che era il braccio destro del magistrato che se ne è occupato finora, la dottoressa...”

 

“Tataranni,” concluse per lei, prima di rendersi conto del tempo verbale usato e venir colto da un senso di nausea misto a rabbia, “che vuol dire se ne è occupato finora?”

 

“Vuol dire che, visti gli ultimi sviluppi del caso, che immagino lei si sia perso, essendo avvenuti quando lei ormai era già qui a Roma, la dottoressa Tataranni ha richiesto che l’inchiesta ed il processo venissero trasferiti da Matera per incompatibilità ambientale. A quanto pare è emerso dalla confessione di un…” esitò, aprendo un fascicolo per consultarlo, “un certo Romaniello Saverio, che suo fratello, un giudice, era a capo dell’intera organizzazione criminale e ha fatto un lunghissimo elenco di persone coinvolte. E sono in procura, in tribunale, nei principali uffici pubblici… compreso il giudice incaricato proprio del maxiprocesso. Capisce dove voglio andare a parare immagino.”

 

Lo capiva eccome, ma un senso di rabbia gli montava dentro. Si era trasferito apposta perché Imma non dovesse subire scandali e non dovesse rinunciare al maxiprocesso e invece… non è che Vitali lo aveva fregato e glielo aveva poi tolto lo stesso? Magari anche per la storia di Latronico?

 

“Lo capisco, ma non capisco in che modo c’entri io o… o perché Vitali vi abbia informata di tutto questo…”

 

“Perché il dottor Vitali mi conosce dai tempi in cui lavoravamo insieme a Milano e ha consigliato il mio nome alla dottoressa Tataranni, come nuovo magistrato per occuparsi del maxiprocesso, che quindi si trasferirebbe qui a Roma. Dove oltretutto c’è già il caso Lombardi, come lei ben sa. E, visto che lei è già informato su tutti i dettagli, il dottor Vitali ha suggerito che potrebbe essere il mio braccio destro per questo caso. Inoltre potrebbe farmi da tramite con la procura di Matera e con la dottoressa Tataranni, qualora avessi bisogno di ulteriori informazioni da lei. Anche se, col lavoro eccezionale che mi sembra abbia fatto la dottoressa e con tre confessioni piene in mano, il processo ormai dovrebbe arrivare ad una logica sentenza di condanna, almeno per il primo grado, ma bisognerà far inserire moltissimi nuovi imputati e questo dilaterà i tempi. E poi ci sarà il secondo grado di giudizio e lì potrebbero porsi nuove complicazioni. Se la sente, maresciallo? Mi è essenziale poter contare su qualcuno che so essere di assoluta fiducia, visto il tipo di inchiesta, e il dottor Vitali mi ha assicurato che lei è assolutamente incorruttibile.”

 

Rimase per un attimo di stucco, sia per le parole di estrema fiducia di Vitali, dopo che lo aveva praticamente costretto a trasferirsi, sia per tutto il resto.

 

Ed un solo pensiero emerse confuso da tutto il resto: Imma. Doveva sapere come stava, se davvero quella decisione l’avesse presa lei o le fosse stata imposta. Si sentiva impotente e rabbioso ad essere bloccato lì, mentre lei a Matera si era appena messa contro mezza città, se non di più.

 

“Maresciallo?”

 

“Scusatemi, dottoressa. Se non vi dispiace, vorrei… vorrei coordinarmi prima con… con Matera, per capire meglio cosa stia succedendo e poi vi farò avere la mia risposta. Spero comprenderete che-”

 

“Tranquillo, maresciallo, anzi, la vostra lealtà per le persone con cui avete lavorato vi fa onore ed è un buon biglietto da visita, per quanto mi riguarda, oltre a quello che mi ha già detto il dottor Vitali. Che collaboriamo a quest’inchiesta o meno, benvenuto in squadra, maresciallo,” proclamò, tirandosi in piedi e porgendogli di nuovo la mano, con un sorriso che gli sembrò stavolta più sincero e non solo formale, che le raggiungeva gli occhi e la fece sembrare improvvisamente molto più giovane.

 

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“Amò! Sbrigati che è quasi pronto, se no si scuoce la pasta!”


“Arrivo!” urlò, finendo di infilarsi il golfino ed i pantaloni che usava per casa.

 

E, proprio in quel momento, il suo cellulare squillò.

 

Il nome sul display per poco non le fece pigliare un infarto.

 

Fu in dubbio per un secondo se rispondere o meno, ma già sapeva che, se si fosse persa questa chiamata, non se lo sarebbe mai perdonato.

 

“Pronto?” chiese, mentre si chiudeva in bagno.


“Dottoressa, potete parlare?”

 

Erano solo tre giorni che l’aveva salutato, eppure quella voce già le mancava da morire. Le sembrò un altro segno del destino poterla riascoltare ancora una volta, così presto.

 

“Sì, ma per poco,” si sforzò di dire, sapendo che fosse la cosa più giusta e prudente da fare, “è successo qualcosa, Calogiuri? Tutto bene?”

 

“Sì, ma… ho saputo del maxiprocesso. La dottoressa Ferrari mi ha informato che… che avete chiesto di trasferirlo per incompatibilità ambientale. E mi ha chiesto se voglio collaborare con lei, su consiglio di Vitali. Volevo capire se… se è davvero una decisione vostra, dottoressa, o se vi ci hanno costretto. Non so se potete parlarne al telefono ma-”

 

“Calogiuri, tranquillo,” lo interruppe, prima che continuasse a parlare a macchinetta, una botta di commozione tremenda che la prese al pensiero che lui si preoccupasse così tanto di lei, “sì, l’ho chiesto io a Vitali di trasferire il processo. C’è implicato perfino il giudice, Calogiù, e non so se hai visto l’elenco di nomi che ha fatto Romaniello, ma c’è dentro di tutto. Pure… pure Diodato e il suo cancelliere e… e un sacco di gente che conosco. E poi con la storia di… insomma di quello che sai… non voglio che Latronico abbia niente in mano per il futuro. Era l’unica cosa logica da fare Calogiuri. E sono contenta se… se te ne occupi anche tu, di lasciarla in mano a te, perchè so che non potrebbe essere in mani migliori.”

 

“Imma…” lo sentì sussurrare, e si maledisse mentre le prime lacrime iniziavano a fare capolino sulle ciglia.

 

“Ma non voglio che ti senti in obbligo nei miei confronti, va bene? Tu ti devi fare la tua vita ed il tuo percorso a Roma, lo so. Pensa ad inserirti con i nuovi colleghi, a fare il tuo lavoro come lo sai fare, ed io me la caverò da questa parte, come sempre.”

 

“Va bene…” lo sentì replicare, sembrando quasi rassegnato.

 

Manca poco, Calogiuri, manca poco, aspettami! - pregò silenziosamente, pur mentre ad alta voce si costringeva a congedarlo con un, “ora devo proprio andare, Calogiuri. Buona fortuna a Roma!”

 

Aprì la porta del bagno e si ritrovò davanti Pietro, con il mestolo in mano, “ti stavo venendo a cercare: la pasta tra un po’ è una colla!”

 

Sperava che non avesse sentito niente, anche se non c’era nulla di compromettente in quella telefonata. E ormai poco cambiava, in ogni caso.

 

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“Valentina, perché non vieni con me? Sono settimane che non vedi nonna, lo sai quanto ci tiene a te! E oggi è pure il suo compleanno!”

 

“Tanto mica se lo ricorda, quindi che differenza fa? E sono ancora troppo arrabbiata con lei per tutto quello che ha combinato!”


“Ma non uscirà niente, Valentina, te l’ho detto. Lo sappiamo in pochissimi e tutti quanti che hanno interesse a tenere la bocca chiusa, Latronico per primo. E poi ormai… ormai il processo non lo gestirò più io, quindi a maggior ragione-”

 

“Come non lo gestirai più tu, amò?” intervenne Pietro, sorpreso, uscendo dal bagno ancora in accappatoio.

 

“Una storia lunga, Pietro ma… ma sta per uscire un vero casino, questo sì, ma che non riguarda noi, ma diversi pezzi più o meno grossi qui a Matera. Salteranno parecchie teste, figurativamente parlando e… e visti alcuni nomi coinvolti, il processo verrà trasferito fuori Matera. Qui sarebbe impossibile portarlo a termine senza ingerenze. Per questo ho proposto di farmi da parte, è la cosa migliore per tutti.”


“Ma è per quello che Lanfranchi e Rizzuto da ieri non sono più al lavoro?” chiese, sembrando improvvisamente molto inquietato.

 

“Calogero Lanfranchi e Tommaso Rizzuto? Se sono loro di cui parli allora sì.”

 

“Rizzuto giocava pure con noi a calcetto! Se penso a quante martellate negli stinchi mi sono preso per la sua difesa inesistente!” ironizzò, ma con una durezza nella voce che lasciava trasparire quanto si sentisse tradito.


Se si sente tradito da loro, figuriamoci da te quando gli dirai-


“Dai, Valentina, allora vieni per il compleanno di nonna, no? Papà non può perché deve accompagnare sua madre a Potenza per una visita medica, ma almeno tu…”

 

“No, mamma, non mi interessa, pure se la storia non esce. Nonna ci ha presi tutti in giro, per una vita intera. E a me non passa così facilmente!” proclamò rabbiosa, per poi aggiungere, con un entusiasmo che nemmeno stesse annunciando di andare ad un concerto, “e mo vado in camera che devo studiare. E poi devo guardarmi gli opuscoli di orientamento per l’università che ci hanno dato ieri a scuola.”

 

E sparì, come sempre, dentro a quella stanza che era ormai off limits.

 

“Beh, almeno sulla scuola si sta impegnando molto, no? E vedrai che presto le passerà l’arrabbiatura con tua madre: lo sai com’è fatta… ha la capa tosta, come te, le ci vuole un po’ quando si mette in testa una cosa.”

 

“Perché i difetti li ha presi tutti da me e i pregi tutti da te?” ribattè, ironica, prima di sospirare e fare per avviarsi, ma Pietro la bloccò per un bacio e lei finì per posarglielo sulla fronte.

 

“Dì a tua madre che passo da lei appena posso, non domani ovviamente, perché… domani è confermato che stiamo solo noi due, vero?”

 

“E certo, Pietro!” confermò, sentendosi una merda.

 

Ma, quantomeno, ancora un giorno e avrebbe potuto smettere di mentire.

 

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“Allora, mà, ti piace la torta?”

 

“Eh certo che mi piace, Immarè: della torta di ricotta sempre ghiott’ son’ stat’! Ma che se festegg’?”

 

“Il tuo compleanno, mà, ti ricordi? Oggi fai settantasei anni.”

 

“Di già? Certo che so’ propr’ vecchia, figlia mia, vecchia!” esclamò, addentandosi però voracemente un altro pezzo di torta, con un appetito da fare invidia a una ventenne.

 

L’amore per la ricotta è un’altra cosa che vi accomuna del resto, no, Imma?

 

Si chiese cosa avesse fatto di male per avere Maria Moliterni ormai fissa nella sua coscienza.

 

Tanto. Forse troppo.

 

“Ma perché tieni sta faccia appesa, Immaré? L’altra volta che ti ho vista, tanto felice stavi, col fidanzato tuo!”

 

Imma rimase per un attimo paralizzata, ringraziando il cielo che Valentina non fosse venuta ad accompagnarla, dopo tutto, e maledicendo o forse benedicendo la memoria di sua madre, che sempre al momento giusto decideva di funzionare.

 

“Scusa, mamma, lo so che è il tuo compleanno ma-”

 

“Ma dove sta il fidanzato tuo? Che oggi lavora?”

 

“No, mà, il maresciallo, che non è il fidanzato mio, né di nessuna al momento, è partito, si è trasferito a Roma, per lavoro e non… non tornerà più qui.”

 

La voce le si spezzò, nonostante i progetti folli che negli ultimi giorni le balenavano in mente. Ma ci sarebbe ancora voluto tempo, prima di poterli portare a compimento

 

“E allora mo ho capito perché sei triste… ma perché non ci vai pure tu a Roma? Mica è come Tataranno vecchio, che stava oltreoceano.”

 

“Eh, mà… lo so ma… ma qua ho tante responsabilità e… mica posso mollare tutto di botto. Magari tra un po’ di tempo io-”

 

“Se è per me, non ti devi preoccupare, figlia mia. Tu non ti devi limitare per me, hai capito? Che io qui sto bene, c’ho pure a Bruno Lauzi che come una regina mi fa stare,” rise, indicando Nikolaus che stava stirando e che le sorrise di rimando, “e poi… e poi non credo che starò qui ancora per molto, sai?”

 

“Non dirlo nemmeno per scherzo mà! Settantasei anni mica sono tanti! Ancora giovanissima sei!” la rimproverò, quella morsa che le venne sul cuore ogni volta che sua madre faceva cenno alla sua morte, “e poi comunque non dipende solo da te: ci stanno pure Pietro e Valentina e-”

 

“E Pietro non può essere felice, se tu c’hai nella capa un altro, figlia mia! Che non lo so come si sta? Ci sono passata pure io con Rocchì… ma all’epoca separarsi non si poteva, e poi lui si ammalò e come potevo abbandonarlo? E per chi poi? Ma mo con questi tempi moderni è diverso. E Brunella… Brunella prima o poi capirà, vedrai. Tu mi hai capita, no, Immarè?”


“Sì, ma io ho quarantaquattro anni, mà e… e ho molti motivi per cui ti posso capire, come vedi. Ma se l’avessi saputo all’età di Valentina, non so come l’avrei presa.”

 

“Ma Brunella è grande ormai, si farà la sua vita e… e se tu rinunci per lei ad essere felice, finirai per soffocarla come io con te ho fatto. Perché solo te tenevo, Immaré e… e faticavo a staccarmi da te. E così quando tu china sui libri stavi, a studiare, io ti dicevo che era giusto perché tu la fine mia non la dovevi fare. Ed era vero. Ma… ma troppo dura con te sono stata, sempre troppo da te ho preteso e… e non solo per il bene tuo. Ma per il bene mio, perché… perché a te non ci volevo rinunciare. Scusami, se sono stata egoista, e non fare lo stesso errore mio con Brunella.”

 

“Mà…” sussurrò, il viso pieno di lacrime, abbracciandosela fortissimo e sentendosi stringere in un modo che la riportò alla bimba che era stata, a quegli abbracci di cui aveva sempre avuto un disperato bisogno, di ricevere e di dare, ma che erano stati sempre troppo pochi.

 

“A proposito di Brunella, ma dove sta? Da tanto è che non la vedo quella figlia! Che di solito sempre tanto cara è. Ma non sta bene per qualcosa?”

 

“No, mà, è solo tanto presa con lo studio, sai per la maturità e poi la scelta dell’università.”

 

“Aspetta, aspetta,” pronunciò sua madre, tirandosi in piedi e si affrettò a sorreggerla, prima che cascasse.


Si avvicinò alla cassettiera e, frugando un po’ tra i vestiti, ne estrasse una catenina. Per un attimo temette fosse un altro omaggio di Cenzino Latronico, ma invece la riconobbe come una collanina che sua madre metteva spesso, quando era giovane, nei giorni di festa. La catenina buona, d’oro vero, anche se leggerissima.

 

“Questa la devi dare a Brunella, mi raccomando! Che se la merita proprio!”

 

Come no! - pensò, sentendosi in colpa e ripromettendosi che, la prossima volta, Valentina da sua madre a costo ce l’avrebbe trascinata a forza.

 

“Ma non gliela puoi dare tu, mà, la prossima volta che vi vedete?”

 

“No, figlia mia, dagliela tu, oggi, mi raccomando!” pronunciò sua madre, decisa, pigiandogliela in mano e le toccò acconsentire.

 

La rimise a sedere, a fatica, e, finito anche l’ultimo pezzo di torta, fece per congedarsi, dovendo finire tutte le commissioni rimaste in sospeso quel giorno, che l’indomani… cosa sarebbe successo dopo la sua confessione non lo poteva nemmeno immaginare.

 

Ma sua madre la trattenne ancora, prendendole entrambe le mani nelle sue e, guardandola dritto negli occhi, le disse, ancora più decisa, quasi solenne, “ricordati, figlia mia: è meglio vivere di rimorsi che di rimpianti. E finché la capa funziona bisogna usarla, ma non ti devi dimenticare mai il cuore. Promettimi che sarai felice, Immarè, che farai di tutto per esserlo, promettimelo!”

 

“Ma sì, mà, tranquilla, te lo prometto!” la rassicurò con un sorriso, stringendole a sua volta le mani.

 

“E non te lo scordare, anche se nella vita sembra che ci sta sempre qualcosa di più importante. Ma non c’è, ricordatelo sempre!”

 

“Tranquilla, mà. Ho capito e ti prometto che farò di tutto per essere felice veramente, anche se non sarà facile,” ribadì, in quella che era di fatto una promessa forse più a se stessa che a sua madre.

 

Le strinse ancora una volta le mani e, con un ultimo bacio sulla guancia, si avviò verso tutte le incombenze che l’attendevano.

 

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“Amò! Che fai di buono? La pasta al forno? E ce n’è per un reggimento qui.”

 

La verità era che aveva voluto preparare una scorta di cibo visto che, molto probabilmente, nei giorni successivi lei e Pietro non sarebbero stati dell’umore adatto per cucinare.

 

“Come sta tua madre?” gli chiese, abbassandosi per recuperare un’altra teglia di alluminio ed evitare l’ennesimo tentativo di bacio, “tutto bene dal dottore?”

 

“Sì, ha un po’ di sciatica ma niente di grave. Le ha prescritto della ginnastica dolce e dei massaggi e dovrebbe tornare a camminare più in forma di prima.”

 

Del resto, come si suol dire… l’erba cattiva - pensò, iniziando a comporre gli strati di besciamella, pasta, mozzarella, provola, salsa di pomodoro e polpette, come piaceva a lei.

 

Aveva quasi finito la teglia, quando le squillò il telefono.

 

“Pietro, puoi passarmi il telefono per favore?” gli chiese, visto che il mittente di telefonate pericolose non l’avrebbe sicuramente richiamata pure quel giorno. Se mai l’avrebbe più richiamata.

 

Pietro, solerte come sempre, obbedì ed Imma lesse il nome sul display: Nikolaus.

 

“Puoi?” gli chiese e Pietro sbloccò il telefono e glielo mise su una spalla, in modo che lei lo tenesse in equilibrio attaccato all’orecchio, “pronto, Nikolaus, che succede? Mi sono dimenticata qualcosa?”

 

“No, signora, io… vostra madre… fatto riposo, come al solito ma… io ho provato a svegliare lei, tante volte ma… non… non si sveglia più!” lo sentì balbettare e poi scoppiare in lacrime.

 

Per un attimo il cervello non connettè, si rifiuto di connettere, di capire, di comprendere, rimase qualche secondo così, mentre Nikolaus ancora parlava, “ho chiamato 118 e poi ora lei ma deve-”

 

Le gambe che le cedevano, si sentì afferrare per la vita, mentre il mondo girava vorticosamente, la voce di Nikolaus che ancora balbettava in lontananza, soffocata da un mare di pasta al forno.





 

Nota dell’autrice: Spero non vorrete uccidermi ed ammetto che sono in super apprensione sul finale di questo capitolo, su cui ero molto indecisa ma che, per una serie di motivi, ho infine pensato che fosse logico inserire ai fini di trama. Compreso il fatto che, per chi ha letto i libri, ciò avviene già nel primo della serie. Ma mi rendo conto che il personaggio della madre di Imma sia super amato, da me per prima, quindi mai come in questo caso attendo con estrema ansia le vostre reazioni in proposito. Se vorrete quindi farmi sapere che ne pensate, anche in negativo, vi sarò gratissima perché sapere come sta proseguendo la storia e se vi sta piacendo, o se qualcosa non vi sta convincendo o vi sta annoiando, mi è utilissimo per fare sempre meglio. Non vorrei abbandonaste la storia prima di arrivare alla fase più “positiva” che, vi garantisco, avrà moltissime cose belle in serbo per Imma e Calogiuri, oltre che gli ovvi problemi.

Quindi, davvero, se mi lascerete una recensione mi farete un piacere immenso e vi ringrazio di vero cuore fin da ora.

Il prossimo capitolo arriverà domenica 23 febbraio, puntuale come sempre.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 18
*** Dirsi Addio ***


Nessun Alibi


Capitolo 18 - Dirsi Addio


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Sua madre non ha nessun segno evidente, dottoressa. Crediamo sia semplicemente morta nel sonno. Ma se vuole un’autopsia possiamo-”

 

“No, no, per carità!” urlò quasi, sostenuta da Pietro da un lato e tenendosi al muro della stanza dall’altro, guardando sua madre, che sembrava dormire tranquillamente nel suo letto, un sorriso ancora sulle labbra.

 

E invece… e invece non si sarebbe mai più svegliata, non avrebbe mai più riaperto gli occhi, non l’avrebbe mai più sentita chiamarla Immaré o figlia mia, con quel tono affettuoso o di rimprovero.

 

“Ma… ma è possibile che… che se lo sentisse? Perché oggi… oggi faceva dei discorsi strani, sulla morte, mi ha anche lasciato una… una collanina in dono per mia figlia. Io pensavo fosse malinconica perché era il suo compleanno, ma-”

 

“Non lo so, dottoressa, alcuni malati effettivamente avvertono come un cambiamento poco prima di morire ma… sua madre soffriva di demenza, ma per il resto era relativamente sana. Difficile dirlo con certezza e ci sono ancora tante cose che la medicina non può spiegare,” chiarì il medico e poi richiuse la valigetta e le porse la mano, con l’aria di chi è abituato a questo ruolo per mestiere, anche se forse un poco meno di lei, “mi dispiace molto, dottoressa, le mie condoglianze.”

 

“Grazie, dottore.”

 

Il dottore oltrepassò la soglia, dove stava ancora Nikolaus, che piangeva disperatamente, attaccato alla cornice della porta. Ci doveva proprio essere affezionato a sua madre… il buon Bruno Lauzi. E ora… e ora chissà che lavoro avrebbe trovato, avrebbe dovuto aiutarlo, sdebitarsi in qualche modo e-

 

Ma come fai a pensare a questo proprio mo? - le chiese la Imma interiore, e la verità era che non lo sapeva, ma doveva concentrarsi su qualcosa di pratico, per non impazzire.

 

I preparativi, sì, i preparativi per il funerale e per tutto il resto. Doveva chiamare le pompe funebri, doveva chiamare-

 

“Mamma!”

 

“Valentina?!” si chiese, stupita: la figlia era all’open day dell’università a Matera e le aveva lasciato un messaggio dicendo di richiamarla, ma non si aspettava certo di trovarla lì.

 

Nikolaus fece per bloccarla ma Valentina si buttò nella stanza e, come vide la nonna, crollò in ginocchio in un pianto disperato, afferrandole la mano e, probabilmente sentendola fredda, la lasciò andare bruscamente e si accartocciò del tutto.

 

Le gambe ancora instabili lei stessa, le si avvicinò leggermente e provò ad appoggiarle una mano sulla spalla, ma Valentina continuò a singhiozzare, non sentendola nemmeno.

 

E allora, si mise pure lei in ginocchio, nonostante quello appena guarito protestasse, e le passò una mano intorno alla spalla, finché Valentina si voltò e le si buttò in grembo, piangendo come quando era bambina, ma con tutt’altro tipo di disperazione: quello di un’adulta ben consapevole del perché stia piangendo.

 

“Perché non me lo avete detto subito?” urlò infine, staccandosi da lei e guardandola con occhi accusatori.

 

“Abbiamo provato a chiamarti, Valentì, ma il cellulare era irraggiungibile,” intervenne Pietro, mettendole una mano sull’altra spalla, “ma come lo hai saputo?”

 

“Dalla Nicoletti, che è figlia del becchino,” esclamò prima di scoppiare in un altro pianto ed Imma si chiese se a Matera le notizie volassero così rapidamente sempre o in particolar modo quando si trattava di lei.

 

“Valentina, lo so che è difficile da accettare, ma la nonna è morta nel sonno, serena, e-”


“E io non le ho nemmeno detto addio! Sono… sono settimane che non la vedevo e lei… lei sarà morta pensando che la odiavo! Non me lo perdonerò mai, mai!” gridò, disperata, stringendosi ancora più forte a lei e poi a Pietro, e poi a tutti e due, singhiozzando fortissimo.

 

“Ascolta, la nonna non sapeva che tu ce l’avessi con lei, anzi, e ti voleva molto bene. Oggi mi ha dato pure un regalo per te e-”

 

“E io sono stata una stronza! Non me lo perdonerò mai!” ribadì, piangendo ancora più forte ed Imma si pentì di aver menzionato il dono, ripromettendosi di farlo avere a Valentina quando la botta sarebbe stata un poco meno fresca, per tutte e due.

 

Ma, per quello strano meccanismo che prende gli esseri umani quando qualcuno che dipende da loro soffre, le sue di sofferenze in quel momento passarono improvvisamente in secondo piano.

 

Dopo un tempo infinito in cui rimasero così, tutti e tre abbracciati a terra, che manco la sacra famiglia nel presepe, Imma, continuando a tenersi stretta a Valentina, estrasse il cellulare dalla tasca ed iniziò meccanicamente a predisporre tutto il necessario per dare a sua madre una degna sepoltura.


Sebbene il solo pensiero la facesse rabbrividire. Ma non avrebbe cambiato la realtà dei fatti. Chissà perché le tornò in mente la tomba di Cenzino Latronico e pensò che forse era proprio accanto a lui che sua madre avrebbe voluto essere sepolta.

 

Ma ovviamente non era possibile.

 

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“Mi dispiace tanto, Imma!”

 

“Grazie di essere passata,” mormorò, abbracciandosi stretta stretta a Diana, per quanto consentiva lo spazio angusto della camera ardente, in quella che era stata la stanza di sua madre.

 

In realtà al momento non si erano viste moltissime persone: le solite comari che fanno presenza fissa in queste occasioni, tanto per sparlare; qualche sua ex compagna di scuola, che sicuramente lo aveva fatto per lo stesso motivo; la moglie di Nikolaus, ovviamente; i suoi suoceri, che per fortuna non avevano indugiato troppo a lungo, con la scusa della sciatica della signora De Ruggeri; qualche agente della PG, i sopravvissuti alle ferie obbligatorie, naturalmente; Taccardi, che le era sembrato stranamente commosso e ora Diana e Capozza che, straordinariamente, erano venuti insieme.

 

“Ma allora quel discorso che mi hai fatto non era tutta una scusa?” le sussurrò, avendo bisogno di parlare di qualcosa di positivo, che non fossero morte e dolore.

 

“Era in parte una scusa, ma quelle sono paure che ho davvero pure io. Ma… diciamo che ho preso due piccioni con una fava.”

 

Forse lei e Diana si somigliavano più di quanto avrebbe mai voluto ammettere.

 

Si staccarono e poi la vide: intimidita, stretta nei jeans ed in una giacca di pelle che non faceva che sottolineare quanto fosse minuta.

 

“Sabrina!” esclamò, sorpresa, e la ragazza le si avvicinò, con l’aria di chi si sente un pesce fuor d’acqua.

 

Se ne fregò e se l’abbracciò, sentendola per un attimo irrigidirsi, sorpresa, ma poi ricambiare la stretta.

 

“Ma come...?”

 

“Ho visto per caso l’annuncio e… e volevo dirti che… lo so che hai il ginocchio ancora malandato ma… a me i cavalli hanno aiutato tantissimo in un momento difficile. Quando vuoi, noi ci siamo: non serve che vieni a fare lezione, anche solo per stare un po’ con loro e con me, se ti va. Gratis ovviamente.”

 

“Grazie…” sussurrò, commossa da tutta quell’empatia da quella che in fondo era una mezza sconosciuta. Ma Sabrina, come i suoi amati cavalli, sembrava naturalmente capace a capire gli stati d’animo della gente.

 

“Sabrina…”

 

La voce di Pietro le fece separare e poi lui si avvicinò e le strinse la mano, “grazie di essere venuta, immagino non sia un momento facile, con la separazione dal suo fidanzato.”

 

“Veramente io-”

 

“Ma dai, Pietro, saranno affari loro, no? E poi si vedranno nei weekend, che Roma è una città bellissima,” provò a intervenire, per lanciarle un indizio.

 

“In- infatti… non mi posso lamentare… Imma io… io ora vado, ma quando vuoi, l’offerta è sempre valida. Arrivederci, signor De Ruggeri.”

 

E si defilò di gran corsa, mentre Pietro le guardò in modo strano, almeno fino a che fu distratto dall’arrivo di Vitolo e della Moliterni in persona.

 

“Imma! Sapessi quanto mi dispiace!” esclamò Maria, buttandole le braccia al collo e stringendola in un abbraccio che la lasciò di stucco, “mi ricordo con tanto piacere di tua mamma, quando veniva a fare le pulizie da noi: era tanto buona con me e mia sorella.”

 

Si era evitata di fare la battuta su da chi avesse preso lei, anche se aleggiava nell’aria. In altre circostanze avrebbe pensato che il fare riferimento al lavoro di sua madre fosse una frecciatina, neanche tanto velata, nei suoi confronti, ma in fondo Maria in tutti questi mesi su quello che sapeva - se qualcosa sapeva - se ne era stata zitta. Forse non la odiava poi così tanto, dopotutto.

 

E poi arrivarono Vitali con moglie e figlio, che andò a salutare Valentina, che se ne stava in un angolo: praticamente nessuna delle sue compagne di classe si era vista - Bea figuriamoci! - e Samuel non poteva assentarsi da Bra per il funerale. E lei ci stava malissimo ovviamente. Si rese conto di quanto fosse sola sua figlia, troppo. Di sicuro almeno quel lato del carattere non lo aveva preso dal padre, che faceva amicizia pure coi muri - anche perché si faceva andare bene chiunque, a dirla tutta. Ma forse, tra chiunque e quasi nessuno ci poteva essere una via di mezzo più salutare.

 

“Dottoressa! Mi dispiace moltissimo… questo è proprio un periodo nero per lei ma… ma confido nella sua proverbiale forza d’animo, affinché torni presto a rompermi le scatole al lavoro. E sappia che, per qualunque cosa, può contare su di me. Tranne che per assegnare tutti i casi a lei, ovviamente.”

 

“La ringrazio, dottor Vitali,” sussurrò, commossa, e stavolta, dopo un attimo di esitazione, si ritrovò ad abbracciarlo, chinata che tra poco le faceva male la schiena, ma tanto quasi sicuramente non sarebbe accaduto mai più.

 

Si era appena congedata pure dal procuratore capo, quando il telefono squillò. Fu tentata di ignorarlo: era tutto il giorno che le arrivavano messaggi di condoglianze da gente semi sconosciuta, probabilmente curiosi della domenica, ma le telefonate erano più rare e magari poteva pure essere qualcosa di lavoro, per quanto fosse in permesso.

 

Estrasse il cellulare dalla tasca e per poco non le cascò di mano.

 

Calogiuri.

 

Il cuore che prese il volo, si guardò un attimo intorno e vide Pietro impegnato con un paio di colleghi della regione e Valentina che ancora parlava col figlio di Vitali e allora prese un respiro e si infilò nel bagno.

 

“Pronto?” chiese, non sapendo che aspettarsi, se domande sul maxiprocesso o che altro, ma avendo un bisogno tremendo di risentire il suono della sua voce, sebbene fossero passati solo pochi giorni, ma era come una droga per lei.

 

E mai come in quel momento aveva bisogno di una dose.

 

Imma…

 

Lui lo sapeva.

 

“Non so se… se è un buon momento… cioè, certo che non lo è. Scusami, sono uno stupido! Volevo dire, non so se puoi parlare ma…” balbettò ed un sorriso le sfuggì pur mentre si scioglieva in lacrime come una cretina, sedendosi sul water.

 

“Posso… posso parlare per un poco, Calogiuri, se ci riesco.”

 

“Insomma… ho… ho saputo di tua madre e… e mi dispiace… lo so che non ci sono parole da dire in queste circostanze e, se pure ci fossero, di sicuro non sarei capace di trovarle, ma… ma mi dispiace. Mi dispiace per lei che, per il poco che l’ho conosciuta, mi è sembrata una persona eccezionale e… e dal carattere proprio come il tuo. E… e mi dispiace per te e… e mi dispiace non essere lì per il funerale ma… non posso chiedere permessi, essendo appena arrivato qui, non ne ho e-”

 

“Calogiuri…” sussurrò, prima di venire scossa da un singhiozzo che parve un terremoto e lasciarsi andare ad un pianto disperato, quello che non era ancora riuscita a fare, presa dallo choc, dal bisogno di consolare sua figlia, dai suoi tentativi di distrarsi.

 

“Mi dispiace... io... è colpa mia… non volevo farti piangere. Lo so che da qua non posso fare niente ma… posso fare qualcosa?”

 

“Re- resta lì,” le riuscì di pronunciare, tra una lacrima e l’altra, mentre il suono del suo respiro dall’altra parte della cornetta, per qualche motivo, la consolava, la faceva sentire meno sola.

 

Finalmente riuscì a calmarsi e si sentì più leggera, nonostante la realtà non fosse cambiata e lo sapesse benissimo. Guardò il cellulare e si rese conto che erano rimasti quasi un quarto d’ora così.

 

“Calogiuri… sei ancora lì?”

 

“Certo che ci sono.”

 

“Grazie… grazie per la pazienza, ancora una volta.”

 

“Ma figurati! Se… se vuoi ti posso chiamare pure in un altro momento, quando sei più tranquilla, se ti fa piacere. Anche perché possiamo parlare del maxiprocesso, se… se può servire per distrarti.”

 

Il cuore le urlava di dire di sì, perché ne aveva bisogno, ne aveva disperatamente bisogno. Ma non sarebbe stato giusto nei confronti di Calogiuri anche perché… per come stava messa Valentina e per come stava messa lei, la sua confessione a Pietro slittava inesorabilmente: non si sentiva in grado di affrontarlo nelle condizioni in cui era. E con essa, slittava il momento in cui avrebbe finalmente potuto essere libera.

 

“Calogiuri… te l’ho già detto… io c’ho la scorza dura e… e me la caverò, quindi non ti devi preoccupare per me, va bene? Per il maxiprocesso… ne possiamo poi parlare con calma più avanti, se la dottoressa Ferrari avrà bisogno di chiarimenti e se ci saranno novità. Per ora tu concentrati su te stesso e sul tuo futuro. E se so che lo farai sarò più serena pure io, va bene?”

 

“Va bene… ma se hai bisogno… il mio numero lo sai ed è sempre acceso.”

 

“Grazie e… lo stesso vale per me, e lo sai. Grazie ancora, Calogiuri, e… non sai quanto significa per me questa telefonata. Ti… ti devo lasciare mo, ma… grazie… di tutto!”

 

Sfiorare il simbolo rosso le costò uno sforzo di volontà tremendo. Presa da un impulso irrefrenabile, aprì la galleria immagini e trovò la foto di loro due, sporchi di cenere e rossi di vino e vento gelido. E sorrise, sfiorandogli il viso sul display e sentendosi patetica, peggio di una quindicenne.

 

Ma non gliene fregava niente.

 

“Ti amo…” gli disse, sperando di poterlo presto fare anche con l’originale, in carne ed ossa.

 

Chiuse il telefono e si avviò fuori dal bagno, trovando a pochi passi Pietro, di spalle, che sembrava a sua volta intento a parlare al telefono, mentre Valentina era sparita chissà dove.

 

“Imma!”

 

“Porzia!” esclamò, voltandosi verso la voce arrochita da troppe sigarette e sentendosi trascinare in un altro abbraccio.

 

Sarebbe stata una giornata lunghissima.

 

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“Maresciallo!”

 

Si voltò di scatto, il telefono ancora in mano, il cuore in gola. Era uscito per telefonare ma si era attardato troppo, l’orario glielo confermava: avrebbe dovuto rientrare in PG dalla pausa pranzo almeno un dieci minuti prima.

 

“Dottoressa, scusatemi, lo so che sono fuori oltre il mio orario, ma era un’emergenza e vi garantisco che recupererò stasera e-”

 

Una mano alzata lo fece fermare. Forse la prima cosa che la Ferrari aveva in comune con lei.

 

“Ero venuta a cercarla per complimentarmi con lei per il dossier che mi ha preparato sul maxiprocesso. Lo devo ancora concludere ma è sintetico il giusto, accurato e allo stesso tempo molto completo. Poi dovrò comunque leggermi tonnellate di carte, ma almeno ho un’ottima base di partenza. Le deve essere costato parecchie ore di lavoro e sicuramente nel fine settimana, visto che ci siamo parlati per la prima volta venerdì sera. Quindi direi che i dieci minuti di sforo sulla pausa pranzo se li è meritati, Calogiuri, anzi, pure troppo.”

 

“Grazie, dottoressa, ma vi garantisco che non è comunque mia abitudine attardarmi, solo che… dovevo fare delle condoglianze.”

 

“Alla dottoressa Tataranni, immagino? Ho saputo che è morta sua madre.”

 

“Ma come?”


“Vitali: ci stiamo coordinando per il maxiprocesso, come può immaginare, e me lo ha riferito per farmi sapere che per un po’ la dottoressa potrebbe non essere disponibile a parlarmi, per ovvie ragioni.”

 

“Capisco.”

 

“Tanto posso contare su di lei e sulle sue capacità di reporting, Calogiuri, quindi almeno per un po’ la dottoressa non la dovrò disturbare. E ora, se è disponibile, le chiederei di accompagnarmi nel mio ufficio, così le faccio alcune domande sul suo dossier.”

 

“Veramente… veramente il dottor Santoro mi ha già chiesto di recarmi con lui dalla signora Tantalo e-”

 

“Vedo che è già molto richiesto, Calogiuri, e ne capisco pure il motivo.”

 

“Posso passare da voi quando torno dal sopralluogo con il dottor Santoro.”

 

“Ma no, maresciallo, non serve: già ha fatto gli straordinari nel weekend, ne possiamo parlare domani.”

 

“No, ma non è un problema, veramente, tanto qui conosco ancora pochissime persone e-”


“E appunto! Cerchi di conoscere gente nuova, vedere un po’ Roma, che quando ci saranno emergenze sarò la prima a farle fare le ore piccole, Calogiuri. Quindi si goda la libertà, finché può,” proclamò con un sorriso, prima di rientrare in procura.

 

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Il prete aveva appena annunciato la fine della messa.

 

Imma, insieme a Pietro e Valentina, se ne stava in piedi vicino alla bara e all’altare, per salutare e ringraziare i pochi intervenuti.

 

Fondamentalmente quelli che si erano già presentati alla camera ardente, e che non dovevano lavorare, più le solite comari curiose.

 

Le voci sul maxiprocesso cominciavano a diffondersi e con esse l’ostilità verso di lei stava crescendo esponenzialmente. Parecchia gente aveva almeno un familiare, un parente o un amico coinvolto nelle indagini e che si era trovato sospeso dal servizio e, ovviamente, lei incolpavano.

 

E avrebbero continuato quasi sicuramente ad incolparla anche quando la notizia del trasferimento del processo a Roma sarebbe diventata di dominio pubblico. Non osava sperare il contrario.

 

Ma ad avere terra bruciata attorno, in fondo, ci era abituata, ciò che la stupiva erano le sincere manifestazioni di affetto.

 

Se ne erano praticamente andati tutti e fu solo allora che la vide: seduta ad un banco in fondo, tutta vestita di nero, compresi gli occhiali da sole calati sul viso.

 

Forse intercettando il suo sguardo, si avvicinò a passo cauto, perfino più di quello di Sabrina il giorno precedente, nonostante quel portamento elegante, nobiliare, da etoile di danza classica.

 

“Volevo farle le mie condoglianze…” disse semplicemente, porgendole una mano, che Imma esitò un secondo prima di accettare.

 

“Mi sorprende vederla qui,” ammise, perché altro non poteva dire, sebbene la sorpresa fosse solo una piccola parte di ciò che sentiva.

 

“Ho… ho parlato con mio fratello.”

 

Sganciò la bomba così, con quel tono dolce e neutro di sempre.

 

“Ah… a riguardo di?” chiese conferma, giusto per evitare la peggiore delle gaffe.

 

“Di tutto. E… e ora capisco perché sua madre era tanto affezionata alla memoria di mio padre. Nonostante forse lui non se lo meritasse affatto. Ho cercato di ricordare momenti dell’epoca: io avevo già quasi dieci anni. Ma ricordo solo quanto sua madre fosse buona con noi, nient’altro.”

 

“Ascolti, lei comunque non si deve preoccupare. Io non voglio fare uscire niente, né voglio niente da voi: né soldi, né-”

 

“Lo so, e lo capisco. Siamo… siamo sempre stati una famiglia disgraziata. Ricca sì, ma disgraziata. Ma io mi sono allontanata da mio padre e mio fratello molti anni fa, mi sono sempre fatta la mia vita, col mio studio medico. Certo, ammetto che i loro soldi all’inizio mi hanno aiutato ad avviare l’attività, ma poi ho sempre voluto farcela da sola, sulle mie gambe. Io… io non ho più nessuno al mondo come famiglia, se non i miei figli e… e sebbene non pretendo che alla nostra età possiamo considerarci…”

 

Si avvicinò al suo orecchio e sussurrò pianissimo la parola sorelle.

 

“Ma mi piacerebbe che potessimo magari diventare amiche, col tempo. Farti conoscere i miei figli, anche se ormai sono grandi e stanno uno a Roma e uno a New York e magari pure il mio primo nipotino. E gli altri se ci saranno. E mi piacerebbe conoscere meglio la vostra famiglia, se me lo concederete. Ma se non volete fidarvi di me, lo capirò.”

 

Imma rimase di stucco: pensava pure lei di non avere più una famiglia e invece mo poteva ritrovarsi con una… una... comunque la si volesse definire, e pure con nipoti e pronipoti.

 

Ma lo voleva davvero? E, soprattutto, lo avrebbe voluto Valentina, che era la sua prima preoccupazione?

 

Certo, ormai il maxiprocesso non era più suo e non c’era più alcun conflitto potenziale a frequentare Chiara Latronico, ma...

 

“Non mi devi rispondere ora, capisco che sia un periodo terribile. Quando è mancata mia madre… va beh… insomma… comunque se… se mai lo vorrai in futuro, questo è il mio biglietto da visita. Anche solo per una visita oculistica, se ti serve, o per qualsiasi cosa.”

 

“Gra-grazie…” balbettò, ancora scioccata, addocchiando Pietro e Valentina che però se ne stavano abbracciati vicino alla bara, apparentemente ignari di tutto.

 

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“Valentì, dai, vieni al cinema con me. Questo film lo aspettavi da tanti mesi, lo so!”

 

“Non ne ho voglia! Se vuoi, vacci pure tu da solo!”

 

Vide Pietro sospirare, attaccato al legno della porta di camera di Valentina che, da quando era morta la nonna, ne usciva solo per andare a scuola, per mangiare e per andare in bagno.

 

“Ormai è passato quasi un mese… lo so che non è tanto per un lutto, ma alla sua età dovrebbe almeno cominciare un po’ a uscire. Mi sembra si stia isolando sempre di più e non va bene.”

 

“Già…” dovette per una volta convenire con Pietro, ma che ci potevano fare se Valentina non aveva più amiche o quasi?

 

“Se provassimo a farla uscire un po’ col figlio del tuo capo, com’è che si chiama? Che mi pare abbiano chiacchierato per un po’ quando… insomma…”

 

Ci mancava solo il figlio di Vitali!

 

“Vedremo, Pietro, per intanto almeno studia e si concentra sulla maturità. E per le amicizie… magari potrebbe conoscere altra gente appassionata di cucina online, no? O di qualcos’altro che piace a lei. Prova a suggerirglielo. Con attenzione, che non siano maniaci o… insomma visto le minacce che abbiamo avuto nelle ultime settimane.”

 

Oltre alle scritte sotto casa che le davano della meretrice in tutti i sinonimi esistenti nella lingua italiana, Pietro si era trovato con gli pneumatici tagliati. E, ogni tanto, qualcuno nella buca delle lettere le lasciava dei simpatici messaggi in cui le augurava la morte. Del resto, grazie a lei, un sacco di gente stava sotto inchiesta e a casa, invece che al lavoro. E altrettanta aveva perso il suo “appiglio” nelle istituzioni, con il quale fare il bello e cattivo tempo.

 

“Va bene.”

 

La pochette in mano, vestita elegante - per i suoi standard - , pronta per andare al famoso spettacolo di Boni con Diana - nonostante non ne avesse affatto voglia, ma meglio che stare in casa a disperarsi - attese un attimo di fronte a Pietro.

 

Un saluto, qualcosa, ma niente.

 

Nemmeno un complimento sul vestito, come avrebbe fatto di solito, o una raccomandazione di fare attenzione e tornare presto.

 

Pietro semplicemente si voltò, si sedette sul divano e si mise a leggere il giornale.


Le sembrò strano, stranissimo, ma era da dopo il funerale di sua madre che era così, almeno in certi giorni. In altri sembrava il Pietro affettuoso di sempre, che le domandava di continuo come stesse, premurosissimo, quasi appiccicoso. Tanto che le toccava scansarlo. Ma poi aveva questi momenti nei quali sembrava quasi lei non esistesse.

 

E non sapeva quale tra i due “Pietro” preferisse, ma di sicuro era tutto molto strano.

 

Avrebbe dovuto decidersi a parlargli e lo sapeva, ma non era certa di essere pronta ad affrontare la discussione che ne sarebbe seguita, le conseguenze che ci sarebbero state, ad affrontare un altro lutto, per quanto annunciato.

 

Si sentiva veramente tremendamente stanca. Di tutto.

 

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“Imma, io vado che Capozza mi aspetta. Certo che, rispetto a Boni… mamma mia quanto era bello!!”

 

“Sì, Diana…” rispose distrattamente, perché era dal sabato precedente che l’amica le faceva una testa così sull’avvenenza dell’attore, che aveva a tutti i costi voluto fermare fuori da teatro e con il quale conservava gelosamente un selfie a dir poco imbarazzante.

 

“E dai, Imma! Ma dimmi te, dove lo trovi un altro così bello, così… così… così bono!”

 

Un nome le balenò in testa - che per lei era pure assai più bono di Boni, con tutto il rispetto - e, in quel momento, proprio come se lo avesse chiamato, squillò il telefono e se lo trovò sul display.

 

“Pronto?” chiese, il cuore in gola, mentre faceva segno a Diana di pure andare.

 

Era dal giorno prima del funerale che non lo sentiva.

 

“Dottoressa, scusatemi se vi disturbo, ma ho notizie sul maxiprocesso.”

 

“Nessun disturbo, Calogiuri, dimmi,” rispose, cercando di contenere la delusione al tono iper professionale di lui.

 

“La prima udienza qui a Roma rimane fissata per fine giugno, così ha deciso oggi il nuovo giudice. La dottoressa Ferrari si chiedeva se… insomma, se vi andrebbe di venire ad assistere. Se tutto va come crede, vorrebbe chiedere di arrivare a sentenza entro fine anno: l’ostacolo principale rimangono tutti i nuovi imputati che si sono appena aggiunti ed il fatto che debbano ancora nominare una nuova difesa.”

 

“Guarda, Calogiuri, ringrazia la collega per il pensiero ma… ma temo che giugno sarà un mese parecchio impegnativo per me, e pure luglio. E poi preferisco si senta libera di imbastire la sua parte di processo come ritiene più opportuno. Magari più avanti, se davvero si arriverà a sentenza.”


“D’accordo, dottoressa, come preferite.”

 

E stavolta fu lei a notare una certa delusione nella voce. Ma quelli erano i mesi della maturità di Valentina e… dopo finalmente avrebbe potuto fare ciò che andava fatto. E non si fidava a rivederlo prima di allora, perché, se le si fosse avvicinato troppo, già sapeva che non gli avrebbe resistito. E avrebbero solo aggiunto casino al casino già esistente.

 

“Come va?” le chiese di botto, dopo un attimo di silenzio, ed un sorriso malinconico le si dipinse sul volto.

 

“Diciamo che… che va e-”

 

“Amò! Guarda che, se non ti muovi, farai tardi ad equitazione e io a calcetto!”

 

Pietro, comparso sulla soglia, per poco non le fece venire un infarto.

 

“Scusami, ma ora devo proprio andare. Fammi sapere se ci sono altri aggiornamenti o, se vuole, la Ferrari può pure chiamarmi direttamente. Buona serata e grazie!”

 

Chiuse la chiamata fin troppo di fretta, Pietro che la guardava con quell’espressione indefinibile che ultimamente aveva sempre più spesso e che si contendeva la pole-position con quella apatica.


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“Problemi di cuore?”

 

Ci mancò poco che cadde dalla sedia, su cui era in un equilibrio oggettivamente precario.

 

“Dottoressa, scusatemi, io-”

 

“Tranquillo, Calogiuri. L’orario di servizio è finito quasi mezz’ora fa. Allora? Fidanzata lasciata a Matera?”

 

“No… veramente io… diciamo... diciamo un amore impossibile, ecco.”

 

“Impossibile…” pronunciò la Ferrari, appoggiandosi alla sua scrivania ed iniziando a contare sulle dita di una mano, “allora, o è minorenne - cosa che mi auguro vivamente per lei di no, maresciallo, ma lei non mi pare il tipo - o è più grande, o è sposata. Più grande E sposata, dico bene?”

 

“Ve- veramente io-” balbettò, chiedendosi come avesse fatto, mentre la dottoressa, per tutta risposta, scoppiò a ridere.

 

“Non sarà mai un bravo giocatore di poker, maresciallo,” sorrise, scuotendo il capo, per poi aggiungere, decisa, “ascolti, io di amori impossibili ho una certa esperienza. Diciamo che… che io sono stata lei, una decina di anni fa. E se c’è una cosa che ho capito, da quell’esperienza, è che se un amore è impossibile, vuol dire che una delle due parti non ama a sufficienza per lottare per renderlo possibile. Quindi, in sintesi, sono solo delle grandi fregature.”

 

“Forse… forse avete ragione voi…” gli toccò ammettere, anche se gli faceva male.

 

“Senta, anzi, posso darti del tu, visto che siamo fuori servizio?”

 

“S- sì, certo.”

 

“Senti, perché non vieni con me a fare un aperitivo? Che in questi casi, parlarne fa bene e non c’è niente di meglio che farlo con dei perfetti sconosciuti. Meno complicazioni. E poi, se ti va, ci sono due mie amiche che mettono in scena uno spettacolo qui vicino e che ti posso presentare. Anche loro sono esperte di fregature amorose. Ti piace il teatro?”


“Non… non lo so… non ci sono mai stato ma… ma insomma… io… io non bevo... e poi... io… io non sono interessato a… a fare nuove conoscenze in quel senso.”

 

“Guarda che non è mia abitudine fare ubriacare i miei sottoposti agli aperitivi e poi approfittare di loro.”

 

“No, no, no, dottoressa, figuratevi, cioè, non mi permetterei mai! Intendevo per… per le vostre amiche.”

 

“Tranquillo, nemmeno loro sono interessate a te. Sono fidanzate. Tra loro.”

 

“Ah... scusate non-”

 

“Smettila di scusarti e, fuori servizio, smettila di darmi del voi, che una corona in testa non ce l’ho. Dai, Calogiuri, forza, che sei giovane, stai nella caput mundi e, se fai ancora un po’ di straordinari, su quella scrivania ci metterai radici. Forza, è un ordine!”

 

“Va bene,” si arrese, non riuscendo a trattenere un sorriso.

 

La dottoressa Ferrari non avrebbe potuto essere più diversa da Imma, fisicamente e caratterialmente, eppure ogni tanto, almeno in qualcosa, si somigliavano.

 

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“Imma… a che punto sei con-”

 

Cercò di asciugarsi le lacrime con l’avambraccio, l’unico punto pulito rimasto dopo aver strigliato il cavallo.

 

“Imma… guarda che… che se ti vuoi sfogare non serve che ti nascondi. Possiamo aspettare ancora un attimo per salire a cavallo.”

 

“No, no, non ti preoccupare…” rispose, con voce tremante, mentre Minerva le premette il muso forte contro il petto, quasi come se capisse, facendosi accarezzare.

 

“Hai avuto un lutto e parecchie botte in poco tempo. Sei umana e quando si sta male bisogna sfogarsi, se no le cose marciscono dentro e si creano solo problemi. Me lo diceva sempre la psicologa da cui sono andata quando… quando ho avuto problemi dopo l’incidente.”

 

“Lo so… ma è difficile sfogarsi quando tutti dipendono da te.”

 

“Tutti chi?”

 

“Mia figlia, soprattutto.”

 

“Ma tua figlia ha pure suo padre, no? E non è lui ad aver perso la madre da poco.”

 

“Sì, è vero. E… e Valentina per tante cose, anzi, per quasi tutto, preferisce Pietro a me, eh. Ma… ma lui ultimamente è strano, non so bene come spiegarlo. A volte è fin troppo presente, a volte è assente, a volte è spento totalmente, a volte è entusiasta e propositivo.”

 

“Non è che… che ha capito qualcosa? Insomma di te e di Ippazio.”

 

“Ma ormai lui sta a Roma, avrebbe dovuto essere strano quando stava ancora qui, no? Non mo che è a quattrocento chilometri.”

 

“Non so… ma hai provato a notare se… se succede qualcosa di specifico quando cambia così umore?”

 

In effetti no, non ci aveva provato.

 

“Ci farò caso. Grazie, Sabrina!”

 

“Di niente, Imma. Ma, se lo vuoi un consiglio, ti direi di parlargli ed essere onesta con lui, il prima possibile. Sei ancora intenzionata a farlo, vero?”

 

Imma sospirò: quando era tornata da Sabrina dopo il funerale, le aveva spiegato tutto quello che era successo nelle settimane d’assenza, compresa l’intenzione di separarsi da Pietro, non appena si fosse un po’ ripresa dal lutto. Perché era l’unica a cui si sentiva di dirlo. Avrebbe potuto parlarne anche con Diana ma… ma temeva sempre che si facesse sfuggire qualcosa nei momenti meno opportuni o con Capozza.

 

“Sì, ma… ma non so se sono pronta a farlo, se… se è il momento giusto, con tutto quello che è successo.”

 

“E non pensi che proprio perché è successo quello che è successo, hai bisogno di poter essere sincera con le persone che più hai vicino? Se no è come continuare a correre con un cavallo zoppo: non si va da nessuna parte e alla fine ti tocca abbatterlo.”

 

“E questa dove l’hai sentita, mo? Sempre dalla psicologa?”

 

“No, dal mio istruttore di equitazione,” le sorrise, prima di dare un colpetto sulla sella di Minerva e aggiungere, decisa, “dai forza, che direi che Minerva ormai più che per una lezione è pronta per un concorso di bellezza. E voglio vedere quanto reggi al trotto stavolta, che la scusa del ginocchio non ce l’hai più!”

 

“Agli ordini!” ribattè, non riuscendo a non sorriderle di rimando: Sabrina era troppo grande per essere sua figlia ma, se avesse avuto una sorella minore, l’avrebbe voluta tale e quale a lei.

 

E questo riportò il pensiero a Chiara Latronico e alla sua offerta, che per ora aveva lasciato cadere nel dimenticatoio.

 

Scosse il capo, montò in sella e staccò il cervello.

 

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“Amò, ti ho vista per un po’, sai: stai diventando sempre più brava. Tra un po’ sarai una campionessa!”

 

“Mo non esageriamo, Pietro,” minimizzò, mentre tornavano in macchina insieme, sorpresa da tutto quell’entusiasmo.

 

Pietro, per tutta risposta, le stampò un bacio su una guancia.

 

Quando l’aveva accompagnata ad equitazione a malapena avevano detto tre parole. Ed era stato di pessimo umore per tutto il giorno, e pure il giorno precedente, e quello ancora.

 

Non lo vedeva così di buonumore da… da lunedì quando… quando era andato a giocare a calcetto.

 

Proprio come quella sera.

 

Un qualcosa le si mosse dentro, quel sesto senso del detective in azione, ed una punta di... fastidio? Gelosia? Sospetto? Non avrebbe saputo dirlo.

 

Era come se Sabrina, col suo consiglio, avesse scoperchiato il vaso di Pandora e cercò di ripensare alle settimane precedenti, ma la memoria era troppo confusa.


Forse il calcetto lo metteva di buonumore o forse…

 

E poi mancava qualcosa. Qualcosa che non tornava, ma cosa?

 

Si avvicinò leggermente al sedile di lui e capì: non odorava di bagnoschiuma, come quando si faceva la doccia negli spogliatoi della palestra.

 

Ma nemmeno di sudore, per niente, e ormai era maggio, non faceva certo freddo e a correre per un’ora o quasi….

 

Quella sensazione che continuava a muoversi dentro, si ricordò improvvisamente di quella chiamata, così strana, quel lunedì in cui lei e… e Calogiuri erano andati a interrogare Quaratino e poi era successo il finimondo.

 

Era da lì che Pietro aveva iniziato a fare due allenamenti a settimana, cosa che doveva essere temporanea ma poi non lo era stata. Aveva saltato solo nella settimana in cui era morta sua madre.

 

E quella chiamata… perché non mandarle un messaggio? Forse per accertarsi dove fosse?

 

C’era qualcosa di strano, anche se Pietro aveva iniziato a comportarsi in modo scostante solo da dopo il funerale, non prima. Ma strano restava.

 

E, se c’era una cosa che Imma sapeva fare molto bene, era indagare.

 

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“Amò! La cena è pronta!”

 

“Un attimo, finisco di cambiarmi e arrivo!”

 

Imma, ancora in accappatoio, quatta quatta, aprì l’armadio e ne estrasse il borsone da calcetto di Pietro.

 

La divisa era pulita e ordinata, troppo. Ma non sapeva nemmeno di bucato. Come se fosse lì così già da un po’. Gli scarpini erano altrettanto lucidi, di sicuro non erano stati usati quel giorno.

 

Per scrupolo finale, tornò in bagno e controllò il cesto della biancheria sporca, ma niente.

 

Come aveva fatto a non rendersene conto?

 

Forse perché eri presa prima da Calogiuri - e dai tuoi di segreti e panni sporchi - e poi dal lutto, Imma?

 

La Moliterni mentale pure stavolta aveva ragione da vendere.

 

Quel senso indefinito nel petto, rimise tutto a posto, finì di cambiarsi ed andò a tavola.

 

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Imma Tataranni aveva fatto un sacco di cose che non le competevano nella sua carriera da magistrato o, come dicevano i maligni, da poliziotto mancato: interrogatori fuori dal tempio della giustizia, ispezioni delle scene del crimine, qualche volta era pure entrata in azione.

 

Gli appostamenti però… quelli proprio le mancavano.

 

Si sentiva assolutamente ridicola: vestita con un completo nero regalatole da sua suocera un tempo immemore fa e che nemmeno per il funerale di sua madre aveva indossato; una parrucca mora recuperata tra il materiale a disposizione della PG; gli occhiali da sole e scarpe da ginnastica - per fare meno rumore possibile - ai piedi.

 

Pregava qualsiasi divinità che fosse in ascolto di non incontrare nessuno che la riconoscesse e che Pietro non si accorgesse di lei. E che non si mettesse alla guida, che lei una macchina non l’aveva.

 

Ma, per fortuna, Pietro, la cui pigrizia restava proverbiale, non aveva evidentemente voglia di cercarsela troppo distante l’amante - perché di questo doveva trattarsi, per forza.

 

Non sapeva bene cosa avrebbe fatto una volta avuta la certezza della relazione parallela di suo marito, con tutto quello che aveva combinato lei poi, ma c’era questa sensazione nel petto che non le dava tregua e che non le avrebbe dato tregua finché non avesse avuto certezza della verità.

 

E così, stando a distanza, attenta a non farsi beccare, lo seguì fino… fino in palestra?


Stava per darsi della cretina paranoica quando, solo due minuti dopo, Pietro uscì di nuovo e non perse tempo a continuare il pedinamento.

 

Arrivarono infine in un condominio, anonimo, di quelli anni Ottanta, costruiti per la gente della piccola borghesia che iniziava a spostarsi finalmente dai Sassi, per una vita migliore nella città alta.

 

Lo vide suonare ad un campanello e, nascosta dietro ad una pianta del bar di fronte, estrasse il binocolo portatile per essere certa di quale fosse: il secondo dall’alto a destra.

 

Attese che Pietro entrasse, gli diede ancora un dieci minuti, per essere certa non uscisse subito, e poi si avvicinò.

 

Fece scorrere le dita sui campanelli e quello che ci vide la lasciò completamente scioccata.


Si aspettava di tutto ma non quello.

 

Studio medico - psicologico

 

Così recitava l’etichetta bianca con scritta nera.

 

E, o Pietro aveva una relazione extraconiugale due volte a settimana con una che di mestiere faceva la psicologa, agli stessi giorni e agli stessi orari, cosa assai improbabile, o… o stava andando in terapia.

 

La terapia di coppia!

 

Ora che ci pensava, le doppie lezioni di calcetto erano iniziate proprio poco dopo che lui gliel’aveva proposta e lei l’aveva rifiutata. Forse… forse aveva deciso di iniziare comunque un percorso di terapia, da solo.

 

Certo, questo poteva spiegare in parte il buonumore subito dopo le sedute, meno… meno il resto ma….

 

Ma la verità era che, al di là dell’umore di Pietro, ciò che non poteva proprio più ignorare era il suo di umore.

 

Perché provava una tremenda, fortissima, atroce DELUSIONE.

 

Non sollievo di non essere cornuta, no, delusione!

 

Perché le avrebbe fatto tanto comodo, oh se le avrebbe fatto comodo, poter scaricare, se non tutta, almeno parte della responsabilità su Pietro, avere una motivazione, una scusa, un alibi per sentirsi meno in colpa. E invece no.

 

Nessun alibi per lei, nessuna attenuante.

 

Si sentì una persona orribile. Pietro non se lo meritava, non si meritava questo, non si meritava di buttare via tempo, fatica e soldi per un qualcosa che non esisteva più. Non si meritava di scervellarsi settimanalmente per una situazione di cui non aveva affatto colpa, di tentare disperatamente di salvare un matrimonio che era morto e sepolto.

 

E Imma sapeva esattamente cosa doveva fare.

 

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“Amò, sei già a casa? Allora, che vuoi di cena?”

 

“Niente, Pietro, aspetta un attimo, dobbiamo parlare.”

 

“Come?” le chiese, sorpreso, appoggiando il borsone da palestra vicino all’armadio.

 

“Ho bisogno di parlarti,” ribadì, facendogli cenno di sedersi sul letto, accanto a lei.

 

“Ma c’è la cena da preparare e Valentina…”


“In camera sua, come al solito, ha già detto che non viene a cena.”

 

E aveva la musica a tutto volume, ma questo Imma non lo disse ad alta voce.

 

“Vieni qui, Pietro, siediti,” lo invitò di nuovo.

 

“Scusa amò, ma devo proprio correre in bagno, e poi mi faccio una doccia, magari parliamo dopo, eh?”

 

Provò a bloccarlo ma lui era già sparito, chiudendosi in bagno.

 

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“Io vado!”

 

“Ciao Valentì! Mi raccomando con il compito in classe!”

 

“Sì, mà, tranquilla, ho studiato!” urlò, chiudendo poi la porta dietro di sé.

 

“Amò, com’è che non sei già pronta oggi?” le chiese Pietro, invece vestito di tutto punto, finendo il caffè e mettendo la tazzina nel lavello.

 

“Ho pensato che posso entrare un attimo dopo, Pietro. Ieri sera poi sei stato tutto il tempo a sentire Ridolfi per il suo computer ma… io ti devo ancora parlare, è importante.”

 

Pietro si bloccò, come se non sapesse bene che fare, poi guardò l’orologio e disse, “ma io stamattina c’ho una riunione presto, magari ne parliamo un’altra volta, eh? Quando c’ho più tempo. Ciao amò!”

 

E, stampandole un bacio sulla fronte ed afferrando la valigetta in pelle, seguì Valentina fuori dall’uscio, lasciando Imma da sola col suo caffè e la sensazione nettissima che Pietro stesse volutamente svicolando.

 

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“Amò? Che ci fai qui?”

 

“Torniamo a casa insieme dal lavoro, ti va?” gli chiese, afferrandolo per il braccio, in quello che non era un invito, ma un obbligo.

 

“Ma è prestissimo per te, non avevi da fare in procura?”

 

“Niente di improrogabile,” rispose, continuando a camminare con lui, anzi, quasi a trascinarlo, verso casa.

 

Valentina non ci sarebbe stata: il giorno dopo aveva una simulazione della seconda prova della maturità e l’aveva convinta ad andare a studiare con le due secchione della classe, con le quali non era esattamente in amicizia, ma non c’era nemmeno il gelo artico che c’era con Bea.

 

E, infine, ci arrivarono e Pietro, salendo le scale, aveva l’aria di chi veniva trascinato al patibolo.

 

Chiuse la porta dietro di loro e si guardarono per un attimo, poi Imma si levò lo spolverino leggero. Pietro rimase così, in giacca e cravatta.

 

Si sedette sul divano, lui rimase in piedi.

 

“Ascolta, Pietro, sono tre giorni che ci provo e… e ormai non posso più rimandare. Dobbiamo parlare, è importante.”

 

“Ne sei sicura, Imma?” le chiese, con un’espressione carica di dolore, di apprensione, il labbro che gli tremava sotto il baffo.

 

“Che è importante?”

 

“No, di volerlo fare davvero…” replicò, guardandola negli occhi, i suoi che già erano lucidi, lucidissimi.

 

Ed Imma seppe immediatamente che Pietro aveva capito eccome, tutto, e svicolando stava solo cercando di rimandare, magari sperando che lei cambiasse idea.

 

“Sì,” confermò, sentendo a sua volta gli occhi pizzicare, ma sapeva che era la cosa giusta, l’unica possibile, “sono sicurissima.”

 

“Pietro, io… io… io non… non ti amo più. Non di quell’amore che… che una moglie dovrebbe provare per un marito. Tu per me sei… sei un pezzo di vita, il padre di mia figlia, sei… sei la mia famiglia e ti voglio bene veramente, e te ne vorrò sempre, anche se molto probabilmente non ci crederai. Ma… ma non ti amo più in quel modo in cui tu ti meriti di essere amato. E se… se continuiamo così… a trascinare questo rapporto... finiremo solo per odiarci e per rovinare tutto quello che di bello c’è stato tra noi. E questo non lo voglio.”

 

“Io non potrei mai odiarti, Imma, e lo sai,” sussurrò lui, con gli occhi bassi, forse per cercare di nascondere le lacrime.

 

“Io invece mi… mi odio già, tutti i giorni,” ammise, perdendo la lotta con il pianto.

 

“C’è un altro, vero?” le domandò, risollevando lo sguardo, dritto negli occhi, accusatorio e allo stesso tempo rassegnato.


E ad Imma prese un colpo, perché non voleva coinvolgere lui, non ora, non con Pietro.

 

“Ma che... che importanza ha questo mo! Io-”

 

“Non negare! Lo so che c’è.”

 

“Lo sai?”

 

“Ti ho sentita al telefono… quando… quando è morta tua madre… che… che dicevi a qualcuno che… che…” la voce gli si spezzò del tutto e Pietro quasi si piegò in due mentre scoppiava in lacrime, prima di accasciarsi anche lui sul divano e sussurrare, strozzato, “che lo amavi.”

 

“Pietro…” sussurrò, capendo finalmente tutto: lo strano cambiamento da dopo il funerale, gli sbalzi di umore, tutto. Ciò che non capiva era perché-

 

“Chi è?”

 

Due parole, secche, decise, nette. Le sembrò di tornare indietro, per un attimo, a quella che pareva ormai una vita precedente: loro due, seduti su quello stesso divano, lui che le stringeva la mano e lei che, per una pura ipotesi di indagine, gli domandava se gliel’avrebbe stretta in quel modo, qualora avesse saputo che lei lo tradiva. Quando ancora la sola idea di tradire Pietro le pareva talmente assurda, che al massimo un esempio investigativo poteva essere.

 

E invece mo…

 

“Pietro… non… non ha importanza chi è e-”

 

“E certo che ce l’ha, Imma! Se permetti ho il diritto di sapere per chi mi stai lasciando dopo più di vent’anni insieme!” alzò la voce, di botto, arrabbiato come non l’aveva mai sentito, “e con chi te la fai da chissà quanto tempo!”

 

Lo sentì quasi come uno schiaffo. Ma se l’era meritato. Tutto.

 

“Pietro, se non te lo voglio dire è perché… perché con questa persona è… è finita da un po’. Non ci stiamo frequentando al momento e… e non so se torneremo a farlo o meno. E non voglio coinvolgerlo, se così non fosse, anche perché sono io che ti ho tradito, Pietro, non lui, e la colpa è mia e solo mia.”

 

“Il maresciallo.”

 

Di nuovo solo due parole: stavolta amare, rassegnate, l’aria di chi in fondo lo sapeva benissimo, lo sapeva già e voleva solo una conferma.

 

Ma ad Imma prese il panico lo stesso.

 

“Pietro…”

 

“Non ci posso credere, Imma! Allora avevo ragione! E… e tutta la storia di… di Sabrina… era solo l’ennesima presa per il culo, non è vero?! Rispondi!”

 

“Sabrina ha… ha solo cercato di evitarci una scenata, Pietro, e che… e che tu lo scoprissi in quel modo… perché… perché avrei voluto dirtelo io e non… non che lo scoprissi da solo.”

 

“E perché non me lo hai detto, allora?!”

 

“Sono settimane, che ci provo, Piè, settimane! Ma è successo sempre qualcos’altro, è successo di tutto e poi… e poi ultimamente… perché mi hai impedito di dirtelo?!” urlò di rimando, perché andava bene prendersi tutte le sue colpe, ma in questo lui era corresponsabile quanto lei, aggiungendo con più calma, “perché, Pietro, se… se già sapevi praticamente tutto? Io mi prendo tutte le colpe, lo so che ce le ho, ma… perché?”

 

“Perché… perché forse… forse speravo che fosse solo un colpo di testa che… che ti sarebbe passata, visto che… che eri rimasta qui, con me e… e lui invece…” si interruppe, la voce che gli si spezzava nuovamente, “Imma, ma ti rendi conto che è… è un ragazzetto? Non c’avrà manco trent’anni e… e chissà quante ne avrà che gli ronzano intorno! E se ne è pure andato a Roma lui, con tutto quello che ti è successo negli ultimi mesi. Se ne è andato a Roma e di te se ne è fregato, mi pare, salvo qualche telefonata. Ti rendi conto di… di per che genere di persona stai gettando via un matrimonio?! Per uno che nel momento del bisogno se l’è data a gambe, mentre io… io ero e sono qui! E…e pure se ero e sono incazzato con te, pure se mi hai deluso da morire, speravo che tu… che tu ti rendessi conto di che cazzata incredibile stai facendo, che tornassi in te.”

 

“Ma io sono in me!” gridò, ignorando tutto il resto, perché le faceva male, troppo male.

 

Perché non era vero, non poteva essere vero: lo aveva sentito in quelle telefonate, nel loro addio e… e Pietro parlava come un uomo ferito. Ma in quel momento non era quello che contava.

 

“Pietro, il problema non è cosa… cosa lui provi per me o meno. Potrebbe pure… potrebbe pure avere un harem a Roma,” proclamò, anche se la voce le si spezzò alla sola idea, “il punto è cosa provo, o non provo più per te, Pietro. E non riesco più ad… ad essere felice con te e quindi a renderti felice. E questo non cambia, nemmeno se… nemmeno se io rimanessi sola a vita da ora in poi. E l’amore… l’amore non è meritocratico, Pietro, perché se lo fosse… tu sei un uomo meraviglioso e… e non avrei mai voluto disinnamorarmi di te, credimi.”

 

“Imma…”

 

“Ci ho provato, credimi a… a sperare che fosse una cosa temporanea, reversibile, che magari un giorno avrei potuto tornare a provare per te quello che provavo una volta ma… ma non ci riesco e non ci riuscirò mai, perché… perché certe cose o le provi o non le provi. E lo sai anche tu, se no a quest’ora te ne saresti trovata una di gran lunga migliore di me.”

 

“Imma…” ripetè, guardandola con due occhi pieni di lacrime e poi si mise il viso tra le mani e scoppiò in singhiozzi che furono come coltellate, dritte in pancia.

 

E pianse, pianse anche lei, la voglia di toccarlo, di consolarlo. La consapevolezza di non poterlo fare. Mai più.

 

“Che… che vuoi fare ora?” le chiese, quando infine sembrò essersi un po’ calmato, guardandola con un terrore negli occhi che non si sarebbe più scordata.

 

“Io… io lo so che è da egoista chiedertelo ma… ma vorrei aspettare a dirlo a Valentina, dopo la maturità, visto anche… come ha preso la… la morte di mia madre. Ma solo se pensi di potercela fare, Pietro, se no-”

 

“No, va bene,” la interruppe, fin troppo rapidamente, sembrando quasi… sollevato?

 

“Ma… ma questo comporterebbe vivere sotto lo stesso tetto fino ad allora, Pietro, ovviamente. E per la notte… non so… potrei andare sul divano… o magari prendere una di quelle brande da tenere qui in camera. Te la sentiresti?”

 

“Certo che me la sento… è… è per Valentina, no?” rispose con un sospiro, ma anche con uno sguardo un po’ strano, indecifrabile, “e per il resto… abbiamo dormito accanto nello stesso letto nelle ultime settimane e io… sapevo quello che sapevo. Non cambia poi molto, no?”

 

Pietro doveva essere ancora sotto choc per reagire così, o essere candidato per la santità, non ci poteva essere altra spiegazione.

 

“Forse non cambia per te, ma cambia per me e…” sospirò di rimando, facendo una pausa, “ascoltami, credo che… credo che andrò a stare un paio di giorni a… a casa di… insomma, in quella che era la casa di mia madre. Ne approfitto per risistemare un po’ di cose, iniziare a fare un po’ d’ordine. Così ti lascio un po’ di spazio e… e hai il tempo di ragionarci su e non rispondermi così a… a botta calda, va bene?”

 

“A casa di tua madre? Ma ti sembra una buona idea, Imma?” le chiese e il suo preoccuparsi così tanto per lei, nonostante quello che gli aveva appena detto, la fece sentire ancora di più la persona peggiore del mondo.

 

“Prima o poi lo devo fare comunque, Pietro. E… non ti devi preoccupare per me, in questa situazione poi! Preoccupati per te e… e di come ti senti veramente. Perché non voglio farti ancora più male di quanto già te ne ho fatto.”

 

E, con un ultimo sguardo carico di lacrime, si avviò verso la stanza da letto, per preparare un borsone.

 

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“Mamma, ma che ci fai con quel borsone? Dove vai?”

 

Si bloccò in fondo alle scale, Valentina la raggiunse, con una faccia preoccupata, lo zaino di scuola su una spalla.

 

“Vado un paio di giorni a… a casa di nonna, a sistemare un po’ di cose, che ce n’è bisogno.”

 

“Se ritiri… se ritiri le cose di nonna voglio venire anch’io con te!” proclamò con gli occhi lucidi, bloccandola per un braccio.


“Ascolta, tu mo ti devi concentrare sulla prova di domani, va bene? Facciamo che io stasera inizio a smistare tutto e poi domani, quando hai finito la prova, se ti va, mi raggiungi e vediamo insieme cosa fare di tutte le cose. Va bene?”

 

“Va bene!” esclamò, trascinandola in un abbraccio fortissimo, di cui aveva un disperato bisogno.

 

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“Certo che da ragazza nonna era proprio bella…”

 

“Già…” annuì, sbirciando la foto in bianco e nero che Valentina teneva in mano: una delle pochissime di sua madre da giovane.

 

Con un abito bianco molto semplice indosso e al braccio di un altrettanto giovane ed elegante Rocchino Tataranni, il giorno del loro matrimonio.

 

Le foto all’epoca costavano, mica come mo, che ci si riempie di foto e selfie per qualsiasi stupidata.

 

“Sembravano così… così felici… e invece…” commentò Valentina, dopo un attimo di silenzio, ma senza rabbia, solo con amarezza.

 

“Ma lo erano, Valentì, sicuramente lo erano. I sentimenti cambiano, mutano a volte, ma… ma questo non vuol dire che non sono stati veri quando li abbiamo provati,” proclamò, anche se non stava affatto pensando solo a sua madre.

 

“Ma l’amore, se è vero, non dovrebbe mai finire, no?”

 

“Magari non finisce, ma appunto si può… si può trasformare in qualcosa d’altro, col tempo. In affetto ad esempio,” provò a spiegare, sentendo di stare entrando in un campo minato.

 

“A me sembra sempre tutta una scusa buona perché… perché ci si annoia. Se ami qualcuno non puoi volere qualcun altro. Vedo io con Samuel: gli altri ragazzi nemmeno li vedo.”

 

“E mi fa piacere per te e per Samuel, Valentina, ma… ma state insieme da meno di un anno. E vi vedete pochissimo. Quando gli anni passano a volte… a volte si cresce in modo diverso, semplicemente.”

 

“Non dirmi che vuoi farmi il solito discorso che con Samuel finirà e-”

 

“Valentina, non voglio fare nessun discorso. Sto solo dicendo che, se ti capitasse di capire che per Samuel non provi più quello che provi un tempo, non avrai sbagliato qualcosa, né l’avrà sbagliata necessariamente lui. Può capitare e… e in quel caso voglio che tu sappia seguire il tuo cuore, sempre. Hai capito?”

 

“Sì, ho capito…” sbuffò e Imma colse l’occasione al volo per cambiare argomento.

 

“Allora, le foto le teniamo tutte ovviamente. I vestiti ancora buoni li donerei all’associazione di Don Mariano e poi-”

 

Il suono di singhiozzi la zittì completamente. Guardò Valentina che però era rivolta verso la parete, le spalle che tremavano silenziosamente.

 

“Che cosa c’è? Non vuoi dare via i vestiti di nonna?” le chiese, poggiandole una mano sulla spalla: sarebbe stato un colpo al cuore pure per lei farlo ma… ma tenerli in un armadio non serviva a nulla, “se c’è qualcosa che vuoi tenere, puoi-”

 

“Mamma, sono stata una stronza!” urlò, e se la trovò praticamente in braccio, a piangere come già successe il giorno in cui morì sua madre, “la nonna è sempre stata tanto buona con me e io… e io… non le ho neanche detto addio.”

 

“Amore mio…” sussurrò, baciandole la fronte, “te l’ho già detto: la nonna lo sapeva che le volevi bene, tanto. L’hai resa così felice negli ultimi mesi, andandola a trovare così spesso per i tuoi video di cucina. Si illuminava sempre quando c’eri tu e quando parlava di te. E… e a volte la vita è così… non sempre le morti hanno… hanno un senso o abbiamo modo di… di dire addio alle persone, come nei film o nei libri. Ma… ma quello che di buono c’è stato rimane, hai capito? E la nonna lo sapeva benissimo che tu le volevi molto bene. Non dubitarlo mai.”

 

Rimasero così ancora per un po’, abbracciate strette strette e poi, quando Valentina si fu calmata, Imma si aprì leggermente la camicetta e slacciò la collanina che sua madre le aveva dato quel giorno e che, per qualche motivo, aveva indossato da allora, senza mai levarla.

 

“Questa me l’ha data quel giorno, perché la tenessi tu. Era la sua catenina buona e ci teneva tantissimo, come ci teneva a te. Sembra tanto fragile e sottile, ma ha resistito cinquant’anni. Perché è più forte di quello che sembra. Proprio come era la nonna, e come sei tu,” le disse, mettendole la catenina in mano.

 

“Mamma!” esclamò di nuovo, abbracciandola ancora più forte, “ti voglio bene.”

 

“Anche io, Valentì, anche io, tanto. Non scordarlo mai,” le sussurrò in un orecchio, una parte di lei che temeva fortemente che quelli sarebbero stati gli ultimi abbracci con sua figlia, per chissà quanto tempo.

 

“Stanotte sei sicura di volere dormire ancora qui? Non… non ti fa impressione?”

 

“Ma no! Sto nel letto che era di Nikolaus. Tranquilla.”

 

“Posso stare qui con te pure io, allora? Non so da quanto è che non dormiamo insieme.”

 

“Va bene, ma domattina ci svegliamo presto che devi recuperare a casa il necessario per la scuola!”

 

“Sì, dottoressa!” sbuffò, ma poi aggiunse con un sorriso, “a proposito di Nikolaus, secondo te come si trova con nonna?”

 

Nikolaus, per sua sfortuna, era stato assoldato da sua suocera, dopo che la povera Ilona, comprensibilmente, se l’era data a gambe levate per andare a fare la badante in un’altra famiglia.

 

Ma se c’era una persona al mondo che poteva sopportare la signora De Ruggeri, era proprio quel sant’uomo di Nikolaus.

 

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In un silenzio solenne, un solo fiore rosa in mano - i preferiti di sua madre - Imma e Valentina si recarono sulla sua tomba. Valentina era dal giorno del funerale che non ci andava: probabilmente perché si sentiva troppo in colpa.

 

Si avvicinarono alla lapide in legno, ancora provvisoria, e ci videro una figura chinata a porre una rosa bianca.

 

“Ma…”

 

Al suono della sua voce, Chiara Latronico si voltò, come se fosse stata colta sul fatto. Imma aveva notato qualche rosa bianca, ormai mezza secca, nelle sue visite precedenti e finalmente capiva il perché.

 

“Ho… ho pensato di ricambiare per… per tutti gli anni in cui lei lo ha fatto per nos- per mio padre,” spiegò e l’aggettivo nostro la colpì ancora di più del gesto.

 

“Mamma, ma chi…?”

 

“Valentina, questa è la dottoressa Chiara Latronico, la figlia di Cenzino Latronico, la sorella dell’avvocato,” chiarì e Valentina spalancò gli occhi, sembrando studiare l’altra donna.

 

Sua zia.

 

Le venne un brivido solo a pensarlo. Altri quando ebbe conferma definitiva, vedendole una accanto all’altra, della somiglianza tra le due.

 

“Scusatemi io… io non volevo essere di troppo. Vi lascio tranquille. Buona giornata,” si congedò di fretta, con un sorriso imbarazzato.

 

“Quella… quella sarebbe…”

 

“Sì, Valentina, esattamente,” confermò, mettendole una mano sulla spalla.

 

“Non… non sembra poi così male,” proclamò Valentina che, detto da lei, era già un gran complimento, “ma lei non è implicata con…?”

 

“No, apparentemente si è sempre limitata a fare l’oculista. E… e mi ha detto che le piacerebbe conoscerci e presentarci i suoi figli, quando torneranno a Matera. Ma non so se…”

 

“Figli? Quindi… quindi avrei dei… dei cugini?” chiese, sorpresa, “ma dove vivono? Cosa fanno? Quanti anni hanno?”

 

“Non lo so, Valentina, non mi sono informata, ma se vuoi faccio qualche ricerca.”

 

“Va bene… ma non so se li voglio conoscere, eh. Solo che… è strano pensare di avere altri… parenti.”

 

“Lo so, Valentì, lo so.”

 

Deposero il fiore e rimasero in silenzio, l’una accanto all’altra, a stringersi la mano.

 

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“Pietro, ne sei proprio sicuro, allora?”

 

“Sì, Imma, sono sicuro: siamo rimasti così pure quando le cose già non andavano bene. Possiamo farlo ancora pure per queste settimane. In fondo mancano meno… meno di due mesi alla fine della maturità.”

 

Lo disse in un modo strano, che non riuscì a decifrare. Se ne fosse sollevato o dispiaciuto.

 

“Va bene,” assentì, tirando giù il copriletto ed infilandosi a letto.

 

Ci mise un sacco ad addormentarsi, come ormai era consuetudine: troppi pensieri, quasi tutti rivolti ad un’unica persona.

 

Se lo immaginava a Roma, con chissà chi, di solito con qualche ragazza troppo giovane e troppo avvenente. Ma, altre volte, quelle che preferiva, si immaginava insieme a lui, a baciarsi in qualche viuzza romana o abbracciata a lui in moto.

 

O che la stringeva forte, proprio come in quel momento e-

 

Spalancò gli occhi, rendendosi conto che non era un sogno: due braccia la cingevano per la vita.

 

Pietro probabilmente dormiva, a giudicare dal respiro profondo che aveva, ma lei non ce la faceva a rimanere così.

 

Lo staccò a fatica, prese il cuscino ed una coperta dall’armadio e se ne andò sul divano, ripromettendosi che il giorno successivo sarebbe andata a comprarsi uno di quei lettini pieghevoli da tenere in camera da letto. Anche perché poteva pure puntare la sveglia presto, prima che Valentina si svegliasse, ma la figlia era fin troppo intelligente e, se lei o Pietro avessero dormito sul divano per tutte quelle settimane, sicuramente li avrebbe beccati prima o poi.

 

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“Mamma, guarda, parlano del maxiprocesso!”

 

La voce di Valentina le fece fare una corsa verso il salotto, con ancora il grembiule addosso ed un paio di fagiolini, che stava pulendo, in mano.

 

La figlia, seduta al tavolo e sepolta dalla pila di libri del ripasso della maturità, aveva alzato il volume del televisore.

 

C’era stata la prima udienza a Roma quel giorno. Aveva cercato di pensarci il meno possibile, ma tant’era.

 

“Ed ecco la dottoressa Ferrari, che ha rifiutato di rilasciare dichiarazione ai giornalisti, uscire dal tribunale, scortata dagli agenti di polizia. Con tre imputati rei confessi, la dottoressa ha chiesto di chiudere il primo grado di giudizio entro tre udienze, il tempo necessario di sentire tutti i testimoni e gli imputati. Il giudice ha, al momento, accettato il calendario richiesto dalla dottoressa, salvo emergano ulteriori elementi. Ci si attende quindi di giungere a sentenza, per questo processo che ha sconvolto l’intera città di Matera, entro fine anno.”

 

Tutto come preannunciatole da Calogiuri.

 

Il cuore le fece un tonfo nel petto quando riconobbe lui, accanto alla Ferrari - che era più alta di come se l’era immaginata in foto, e le sembrava sempre un po’ troppo giovane - impegnato a tenerle alla larga i giornalisti.

 

Come faceva di solito con lei.

 

“Che effetto ti fa, Imma?”

 

La voce alle sua spalle la fece sobbalzare e si ritrovò davanti Pietro, con un’espressione strana in volto.

 

Se si riferisse al maxiprocesso o al rivedere lui non avrebbe saputo dirlo.

 

La verità era che le faceva molto più male l’idea di aver rinunciato al secondo che al primo. Cosa sconvolgente per una come lei.

 

Ma era solo questione di tempo ed ormai ne mancava davvero poco. Doveva ripeterselo come un mantra, per non impazzire.

 

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“Allora, che te ne è sembrato?”

 

“Mi sembra… mi sembra che sia andata molto bene… il giudice ha accettato su tutta la linea, no?” rispose, dovendo ammettere che la Ferrari era stata impressionante.

 

Certo, non come… come una certa dottoressa: non aveva quel piglio che ti lasciava incantato ad ammirarla in azione, col fiato sospeso su cosa avrebbe combinato dopo.

 

Ma era per certi versi più imprevedibile: normalmente sembrava dolce, rassicurante, innocua, ma quando tirava fuori gli artigli era implacabile. Forse non quanto lei, ma implacabile comunque.

 

Il Quaratino sul banco dei testimoni se lo era letteralmente divorato, anche se sarebbe stato curioso di vederla in azione con Romaniello.

 

“Che c’è?”


“Niente… niente, stavo pensando a quando dovrà testimoniare Romaniello.”

“Eh, quello sarà un osso duro, a quanto ne so. Ma mancano ancora diversi mesi, Calogiuri, ed è inutile fasciarsi la testa prima di averla rotta. Che ne dici se, per rilassarci un po’, ci andassimo a fare uno dei nostri aperitivi? Che stavolta tocca a me offrire.”

 

Avevano preso quell’abitudine, una volta alla settimana circa: a volte le parlava di Imma - senza fare nomi, né dare dettagli riconoscibili, ovviamente - lei delle sue disgrazie amorose passate. A volte lo invitava ad eventi a cui mai avrebbe pensato di partecipare in vita sua.

 

Musei, teatri, conferenze. All’inizio ci aveva capito ben poco, doveva ammetterlo, ma poi, tornato in caserma, aveva preso a fare ricerche su quanto aveva appena visto e sentito e, piano piano, cominciava a sentirsi meno come un pesce fuor d’acqua.

 

E poi spesso gli presentava le sue conoscenti - come le definiva lei, perché di amiche, essendo pure lei da pochi mesi a Roma, sosteneva di averne ben poche. Per ora nessuna l’aveva colpito, ma almeno cominciava a conoscere più gente a Roma, oltre a Mariani, Conti e alle loro di amicizie. Che però erano molto più da caserma, in tutti i sensi. E lui non era mai stato particolarmente il tipo e, con l’umore che aveva in quel periodo, meno che mai.

 

In quel momento, squillò il telefono e la Ferrari mise il vivavoce.

 

“Pronto, Maria, dimmi!”

 

“Signora, se potete tornare a casa, c’è Bianca che continua a vomitare. Non so più che fare da sola e-”

 

“Va bene, Maria, dammi dieci minuti e arrivo,” esclamò, la voce che assumeva, per la prima volta da quando la conosceva, un tono impanicato, “Calogiuri la strada più rapida da qui la sai o...?”

 

“Non ti preoccupare, ormai questa zona la conosco abbastanza bene,” la rassicurò, ingranando la marcia e dando un’accelerata.

 

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“Mamma, non vieni a vedere il carro?”

 

“Andate voi… io lo vedrò da qua che devo finire un lavoro. Mi raccomando, tornate presto che-”

 

“Che devo studiare per la maturità, lo so, lo so. A dopo!”

 

Staccò il telefono e guardò la scrivania e poi il mobile sopra al quale teneva la bacheca.

 

Ripensava ad un anno prima, al loro primo bacio… dopo… dopo quella dichiarazione d’amore stupenda, emozionante ed indimenticabile.

 

Solo un anno era passato eppure… eppure erano successe così tante cose, le loro vite erano cambiate completamente.

 

Chissà se anche lui la stava pensando o se… se stava andando avanti senza di lei.

 

Non lo sentiva ormai da quasi due mesi, da quella chiamata sul maxiprocesso, ma era stata lei a dirgli di farsi la sua vita a Roma, di non preoccuparsi per lei. Certo, forse non si aspettava che la prendesse così alla lettera. Ogni giorno un po’ ci sperava ancora, in una sua telefonata. Era una tortura non sapere cosa facesse, come stesse proseguendo la sua vita, dover fare a meno di lui, tutti i giorni, dopo due anni nei quali, salvo qualche periodo, erano vissuti quasi in simbiosi. E non solo sul lavoro.

 

Le mancava da morire: vedere il suo sorriso, sentire il suono della sua voce, confidarsi con lui, i suoi silenzi, il modo in cui la guardava, manco fosse una dea, il modo in cui abbassava gli occhi, intimidito, e come li spalancava invece, quando era arrabbiato o turbato. I suoi abbracci, il sapore dei suoi baci, il suo profumo.

 

Il suo respiro durante la notte.

 

Ce l’aveva scolpita nel cuore quella frase ed era forse proprio quello che le mancava di più in assoluto: dormire abbracciata a lui, spiare quell’espressione indifesa e dolce, ancora più del solito.

 

Aprì la galleria del telefono e fece scorrere le foto fino a ritrovare quella di loro due, insieme.

 

Calogiù, aspettami ancora per un poco, ti prego! Anche se non me lo merito.

 

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“Ippazio, sei sicuro che non vuoi venire? Dai che ci divertiamo! Dicono che la band di stasera sia davvero eccezionale!”

 

“No, davvero, non sono dell’umore adatto, andate voi.”

 

“Come preferisci. Ma la prossima volta non accetto un no come risposta!” intimò Mariani con un sorriso, prima di uscire dalla PG, accompagnata da Conti e dagli altri agenti.

 

Era il due luglio, la festa della Bruna a Matera.

 

Un anno esatto dal loro primo bacio. Ricordava ancora ogni gesto, ogni frase, ogni sensazione e quel misto di incredulità e felicità immense che aveva provato dopo, quasi come gli fosse appena successo un miracolo.

 

Si chiese cosa stesse facendo Imma in quel momento, se anche lei stesse pensando a lui o se...

 

Era dalla sua ultima telefonata che non la sentiva più. Lei non lo aveva mai cercato e… e lui finché non ci sarebbero stati sviluppi sul caso non poteva farlo. In fondo, se se ne era andato, oltre che per non metterla nei guai, era proprio per… per cercare di lasciarle il suo spazio, per cercare in qualche modo di andare avanti e dimenticarla.

 

E, sebbene gli fosse impossibile anche solo concepirlo al momento e nonostante in quelle due telefonate avesse sentito chiaramente quanto ancora lei tenesse a lui… lei aveva scelto suo marito e la sua famiglia e doveva rispettare quella decisione, anche se gli faceva un male atroce.

 

Sentendosi stupido, aprì il cellulare e cercò il suo nome online, trovando una foto di lei, all’uscita dal tribunale, ironia della sorte proprio al suo fianco, l’espressione che aveva quando era ad un soffio dal voler uccidere qualcuno.

 

Sorrise, senza poterlo evitare, immaginando che fosse ancora lì, accanto a lui.

 

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“Papà, mamma!!”

 

Stavano sul divano, in trepidante attesa, quando Valentina rientrò, un sorriso radioso sul volto, l’aria un po’ sbattuta e pallida tipica dei maturandi, che stanno rinchiusi in casa mentre gli altri già sono in vacanza.

 

“Allora?”

 

“Cento!! Non ho avuto la menzione per via di quella di greco ma-”

 

“Ma è fantastico!!! Bisogna assolutamente festeggiare!” esclamò Pietro, saltando su dal divano e correndo ad abbracciarsela, mentre Imma rimase per un attimo paralizzata.

 

Dall’orgoglio e dalla commozione e non solo per il risultato raggiunto: la sua bimba era cresciuta, stava crescendo ogni giorno di più. Le sembrava ieri che l’avevano accompagnata al primo giorno di scuola, tutta timorosa, e lei si era attaccata alle sue gambe, implorandola di riportarla a casa.

 

Quando ancora era più mammona che “cocca di papà”.

 

E invece... era passato così tanto tempo da allora.

 

“Mamma, non dici niente?” domandò infine Valentina, staccandosi da Pietro.

 

“Sì, che sono molto orgogliosa di te, Valentì,” proclamò, raggiungendola e stringendola più forte che poteva.

 

“Ora lo devo dire a Samuel… che andiamo in Grecia. Perché con questo voto mi ci lasciate andare, vero?”

 

E che poteva dirle di no? Certo che l’avrebbe lasciata andare, nonostante fosse già in apprensione. Ma, del resto, se poi avesse deciso di studiare a Roma, come sembrava ormai sempre più probabile, ci si doveva abituare al fatto che Valentina avrebbe spiccato il volo. E Valentina doveva imparare a non contare sempre su di loro.

 

La cosa più difficile sarebbe stato adattarsi a non averla più costantemente a casa. Perché abituarsi a non preoccuparsi per lei… quello… quello le sembrava proprio impossibile.

 

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“Che cosa???!!!”

 

“Mà, ma è la cosa più logica da fare: Roma è cara, gli affitti costano e lo sai anche tu. E… e nessuna delle mie compagne di classe con cui vado d’accordo va a fare l’università lì. E piuttosto che prendere casa con delle sconosciute-”

 

“E certo! Meglio andare a convivere con il tuo ragazzo a diciott’anni e-”

 

“Tra pochi mesi saranno diciannove mamma e-”

 

“E non cambia la sostanza della cose, Valentì: è troppo presto, è il tuo primo ragazzo vero, tu sei giovanissima. Dovresti fare la vita da ragazza universitaria, non quella da vecchia coppia sposata. Te ne rendi conto o no?!”

 

“Ma cos’è? Non ti fidi di me o di Samuel? Io farò l’università, come promesso, e non farò colpi di testa, se temi… se temi che io possa rimanere incinta e-”

 

“E ci mancherebbe pure altro, Valentì!” esclamò, in quello che era quasi un urlo, continuando a camminare su e giù per il salotto, Pietro che rimaneva fermo sul divano, ignavo come non mai.

 

Quanto le dava sui nervi quando faceva così! Pur essendo oggettivamente un sant’uomo, per come era rimasto tutti quei mesi a fare da convivente separato in casa senza quasi mai lamentarsi. Non aveva più di tanto protestato nemmeno quando si era presentata in casa con la poltrona letto, anzi l’aveva pure aiutata a montarla.

 

“Il punto è che dovresti farti delle amiche all’università, conoscere gente, non isolarti con Samuel a Roma. Lo capisci? Non fare lo stesso errore mio, Valentì, che di amiche ne ho sempre avute troppe poche e-”

 

“E ci credo: col carattere che ti ritrovi!”

 

“Valentina!” urlò, perdendo del tutto la pazienza.

 

“E comunque sono maggiorenne e non puoi impedirmelo!”

 

“Peccato che l’appartamento lo pagheremmo anche io e tuo padre e-”

 

“E allora lo pagherà Samuel con il suo stipendio e io mi troverò un lavoretto part time per dare la mia parte di affitto!” ribattè, decisa, “tanto servizi sociali non ha la frequenza obbligatoria, se non ai tirocini.”

 

Imma capì in quel momento che Valentina aveva la capa tosta, più della sua, e che negli errori ci doveva sbattere il muso o non avrebbe capito. E, se le avesse tolto i fondi per l’affitto, e l’avesse costretta a lavorare per pagarselo, non solo avrebbe sottratto tempo allo studio, ma le avrebbe impedito ancora di più di avere il modo di fare amicizie all’università.

 

“Tu che dici, Pietro?” gli chiese, perché voleva evitare di prendere una responsabilità del genere da sola.

 

“Tanto alla fine decidi sempre tutto tu, Imma,” rispose, con un sarcasmo ed un’amarezza che non erano da lui ed Imma sapeva benissimo che non si riferiva affatto solo a Valentina.

 

“Se noi ti diamo un contributo per l’appartamento, Valentina, mi aspetto innanzitutto che sia in una zona da cui ti è facile raggiungere l’università in sicurezza. Poi che la media rimanga sempre alta e soprattutto che tu faccia amicizie, Valentina, non che rimani tutto il tempo chiusa in casa con Samuel quando non deve lavorare. Chiaro?!”

 

“Ti garantisco che Samuel ha verificato e la zona è tranquilla e sono in università con tre fermate di metro. E per lo studio e le amicizie, mi impegnerò tantissimo, vedrai che non te ne pentirai!! Grazie mamma!” gridò, stringendola in un altro abbraccio.

 

E, stavolta, Imma aveva praticamente la certezza matematica che quell’abbraccio sarebbe stato l’ultimo per chissà quanto tempo, tranne forse quello quando sarebbero partiti per la Grecia da lì ad un paio di giorni.

 

“Però, prima di dare caparre, verifica almeno che andiate d’accordo in viaggio, va bene?”

 

“Ma rischiamo che poi l’appartamento non ci sia più: a Roma sono richiestissimi, dobbiamo darla ora, mamma. Tanto ha già detto che ci pensa Samuel e lui di un alloggio ha comunque bisogno.”

 

“Va bene. Ma se in vacanza le cose non andassero bene o se in futuro ti rendessi conto che con Samuel non ti trovi, voglio che tu sappia che non c’è niente di male a dircelo, a fare un passo indietro. E non sarà un fallimento, chiaro?”

 

“Chiaro, mamma, me lo hai già detto. Non ti preoccupare, ho capito,” replicò, decisa, staccandosi dall’abbraccio.

 

Ma Imma sapeva, per esperienza, che accettare di essersi sbagliata, con un carattere come quello di Valentina, così simile al suo, mica era facile, tutt’altro.

 

E sperava che Valentina, in caso, non trascinasse le cose come aveva fatto lei.

 

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“Certo che fa uno strano effetto vederla partire da sola, eh, Imma?”

 

“Già…” annuì, chiudendo dietro di sé la porta di casa e raggiungendo Pietro in camera da letto.

 

Lo osservò mentre si toglieva le scarpe ed un pensiero improvviso la colpì: che fosse l’ultima volta, l’ultima volta che questa sarebbe stata la routine, la normalità.

 

Era stato difficile resistere quei due mesi a casa con Pietro, mettendo in scena ad uso e consumo di Valentina un qualcosa che non esisteva più. Dormire tutte le notti su quella scomodissima poltrona letto, cercare di fingere serenità mentre si sentiva come qualcuno che sta mettendo una pezza su un vestito ormai talmente liso e consunto da essere quasi trasparente, il tessuto nuovo che tirava e sfilacciava ancora di più quello circostante, peggiorando solo lo strappo. Come qualcuno che mette un cerotto su una ferita ormai in putrefazione, invece di curarla, aggravandola ancora di più.

 

Pietro era stato paziente, a volte perfino gentile, civile fin troppo, nonostante c’erano stati periodi in cui passava intere giornate senza rivolgerle la parola, di umore nero, o se ne usciva con frasi passive aggressive che facevano intuire la rabbia repressa. Ma non poteva pretendere di più da lui.

 

Ma ne era valsa la pena: Valentina aveva affrontato gli esami con relativa serenità, aveva pure preso il massimo dei voti, aveva scelto una facoltà che, pur non dando sbocchi enormi di lavoro, tutto sommato le si confaceva moltissimo e… e anche se aveva avuto la malsana idea della convivenza, almeno avrebbe a breve avuto un sacco di cose con cui distrarsi e non sarebbe stata lì a beccarsi le conseguenze della separazione.

 

Ma era giunto il momento di strappare il cerotto e ricominciare da zero.

 

Aprì l’armadio e ne estrasse la valigia. Quella grande, che non aveva quasi mai usato, se non per trasportare cose particolarmente voluminose da e per Metaponto.

 

“Che fai, Imma?”

 

La voce spaventata di Pietro la portò a guardarlo e la sua espressione, un misto di dolore e terrore, fu un pugno allo stomaco.

 

“La… la valigia, Pietro. Valentina ormai è partita e… e mo è giusto che smettiamo di fare i separati in casa e che… che ci separiamo veramente.”

 

“Ma… ma davvero te ne vuoi andare così? Adesso?”

 

“Pietro… ne abbiamo già parlato a maggio che… che dopo la maturità ci saremmo separati e… e poi lo avremmo detto a Valentina. E il momento è arrivato. Perché sei così sorpreso, mo?”

 

“Ma… ma dopo tutto questo tempo… non ne hai mai più fatto cenno, Imma… io pensavo che… che magari… che magari nel frattempo avessi cambiato idea…” sussurrò, distrutto, quasi implorante.

 

Ed era quella la grande differenza tra loro due: lei magari ci metteva una vita a decidersi, a cambiare idea, ma quando lo faceva era per sempre. Pietro… Pietro era conciliante ed abituato ai compromessi, sebbene facessero stare male lui per primo.

 

“Pietro, ascoltami. Quello che provo e che… che non provo non è cambiato. E non dirmi che in questo periodo la mia presenza in casa ti ha reso felice perché… lo sappiamo tutti e due che non è così, Pietro. La tua è… è solo paura e lo capisco, perché ce l’ho anche io, ma-”

 

“No, la mia non è paura, Imma, è che… è che ti amo e… e per me è difficile accettare che… che tutto questo finisca, dopo tutti questi anni. Così. Che tu non… non sarai mai più… mai più… il mio amò. Non lo capisci?!” gridò, le lacrime che iniziavano a bagnargli le guance.

 

Imma si sentì un verme, una stronza, mentre non poteva non piangere insieme a lui per… per tutto quello che avevano perso, per essersi persi. Ma ciò non cambiava la realtà.

 

“Lo capisco, Pietro, ma… ma pure se stessi qui non lo sarei più comunque. Non lo sono già più. Lo capisci questo?”

 

Pietro rimase per un attimo come paralizzato, poi si sgonfiò ed annuì, sconfitto, tornando a sedersi sul letto, con un tonfo.

 

Imma si asciugò gli occhi e riprese a fare la valigia: doveva levarsi da lì il prima possibile, prima di crollare del tutto.

 

Ci buttò dentro alla rinfusa i vestiti estivi - quelli invernali li poteva recuperare in un secondo momento - e tutto quello che le veniva per le mani e che le potesse sembrare anche solo remotamente utile.

 

“Sei… sei sicura di volertene andare tu?” le chiese, dopo attimi infiniti di silenzio, “di solito… di solito dovrebbe essere l’uomo ad andarsene di casa, no? Anche se… le convenzioni tu le hai sempre ribaltate tutte.”


“Pietro, questa è casa dei tuoi genitori. Già tua madre mi odia così - mo non so se mi odierà ancora di più o se sarà felice che io mi sia tolta di mezzo - non mi pare il caso di portarti via quella che di fatto è casa tua. E poi… e poi Valentina, a parte che sarà sempre più spesso a Roma ma… ma lo sappiamo tutti e due che preferisce te a me e, quando saprà della separazione, ho pochi dubbi su con chi vorrà stare.”

 

“Quando… quando vorresti dirglielo?”

 

“Quando torna dalla Grecia, Pietro. Anche perché noterà pure che me ne sono andata, no? Così… così avrà tempo di metabolizzare per un po’, prima di partire per l’università e poi… e poi tanto sarà sempre più spesso a Roma, per l’appunto e… e non sarà in mezzo a tutte le… le beghe burocratiche.”

 

“Quali beghe burocratiche?” chiese, quasi meccanicamente, sembrando ancora in pallone.

 

“Beh… c’è… c’è da fissare l’udienza per la causa di separazione. Spero… spero che vorrai accettare la consensuale, sebbene… sebbene mi rendo conto di avere io tutte le colpe. Ma ti lascio la casa e… e ovviamente darò un contributo per Valentina ogni mese. Mi piacerebbe ci dividessimo i weekend nei quali sarà qui a Matera in modo equo… sempre se lei lo vorrà, essendo maggiorenne ormai. E… insomma… mi cercherò un avvocato e ti consiglio di fare altrettanto, nonostante per la consensuale non dovrebbe essere necessario e… e ti comunicherò quando ci sarà l’udienza per la separazione, se per te va bene.”

 

“Hai… hai pensato proprio a tutto…” sussurrò con il tono di chi finalmente inizia a realizzare che ciò che sta vivendo è reale.

 

“Beh, ho avuto un po’ di mesi per pensarci, no?” gli rispose, perché la verità era che ci pensava da ben prima di maggio.

 

“E… e ora dove andresti a stare?”


“Da mia madre- cioè, in quella che era la casa di mia madre. In fondo è di mia proprietà, è libera ed è la soluzione più sensata per ora. E poi devo finire di sistemarla e… e capire che cosa voglio farne e… e poi vedrò.”

 

“Ma sei sicura che ti faccia bene, Imma? Sola in quella casa… e poi… e poi tu da sola non ci sei mai stata,” le disse ed Imma non seppe se commuoversi per la preoccupazione o irritarsi per il terrorismo psicologico.

 

“Imparerò, Pietro. C’è una prima volta per tutto nella vita… anche se alcune prime volte forse le avrei dovute fare vent’anni fa. Ma mi toccherà recuperarle mo, in qualche modo.”

 

“Sai, Imma… quando… quando ci siamo conosciuti e quando ci siamo innamorati io… io lo sapevo che magari un giorno tu… tu avresti voluto recuperare le tappe perse. Ma… pensavo sarebbe successo dopo qualche anno, non a quarant’anni suonati!”

 

“Ma qui non è solo una questione di tappe perse, Pietro. E comunque… io sono grata per questi vent’anni insieme, pure se non ci crederai e… e spero che un giorno riusciremo a vederli così, con gratitudine, invece che con rancore, anche se mo non ti è possibile e lo capisco.”

 

“E invece non capisci! Non capisci che io… io di questi vent’anni insieme sono grato eccome. Anche se sono arrabbiato con te per… per il tradimento ma… ma ciò che provo per te non cambia, maledizione! E… e ne avrei voluti, anzi ne vorrei almeno altri venti… ed è quello che mi fa più male. Capire che non… che non invecchierò con te, Imma. Che… che dovrò immaginare la mia vita senza di te, perché… mi sembra inconcepibile. ”

 

“Mi dispiace, Pietro… per tutto il male che ti ho fatto… mi dispiace ma… ma questo è l’unico modo che c’ho per non fartene dell’altro e spero che un giorno… che un giorno lo capirai e che… che potrai essere felice veramente, di nuovo, anche se senza di me. Pure se mo ti sembra inconcepibile.”

 

Finì di chiudere la valigia: sicuramente si era dimenticata un sacco di cose ma in quel momento non importava.

 

Gli posò una mano sulla spalla, ma si trovò stretta in un abbraccio fortissimo che ricambiò, costringendosi però dopo poco a staccarsi, anche se lui ancora la tratteneva.

 

La valigia in mano ed un macigno sul petto, percorse il lungo corridoio, aprì la porta e richiuse alle sue spalle quella che, da quel giorno in poi, non sarebbe mai più stata casa sua.

 

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La cosa che più la colpì fu il silenzio.

 

Rientrare dal lavoro nel silenzio più assoluto, senza il profumo di una cena già quasi pronta, senza il casino di Valentina, o Pietro che suonava il sassofono.

 

Si preparò una cena frugale: bruschette, pecorino e olive.

 

Ma sapeva che si sarebbe dovuta riabituare a cucinare, soprattutto una volta arrivato l’inverno.

 

Quando finì di lavare piatto e bicchiere, afferrò in automatico la fede, appoggiata vicino al lavello - non troppo, che non ci cascasse dentro. Un gesto fatto migliaia di volte. Ma si fermò improvvisamente, osservando quell’anello d’oro giallo, un poco rovinato dopo vent’anni: aveva perso la sua lucentezza e qualche riga qua e là si notava eccome.

 

Il nome di Pietro invece era ancora inciso chiarissimo, così come la data delle loro nozze. Con un groppo in gola, rimase per un attimo immobile, indecisa sul da farsi. Ma poi si avviò verso la stanza di sua madre - lei sempre in quella di Nikolaus dormiva - e aprì il cassetto dove teneva i suoi pochi gioielli buoni. Diede un ultimo bacio a quella fede, simbolo di vent’anni d’amore, e la ripose lì, insieme a tutti quei ricordi preziosi di un’epoca che ormai il tempo aveva sbiadito e portato via con sé.

 

Il dito le sembrava nudo, la pelle terribilmente sensibile, l’incavo, scavato in un ventennio, che indicava chiaramente l’assenza di qualcosa. Ma era giusto così: i ricordi non si sarebbero mai cancellati ed il matrimonio con Pietro avrebbe sempre fatto parte della sua vita, di ciò che era diventata, nel bene e nel male, perché era cresciuta insieme a lui.

 

Nei giorni seguenti, iniziò a pensare a come sistemare casa di sua madre per renderla più sua. Le foto di Valentina già c’erano, quelle di qualcun altro non poteva certo esporle. Sarebbe dovuta andare a comprare qualche tenda nuova, lenzuola nuove, qualche cuscino, qualcosa di personale. Magari una stampa, un quadro.

 

Piante no, che le avrebbe lasciate morire in tempo zero.


Faticava a dormire in quell’appartamento silenzioso, eppure quando ci riusciva il sonno era profondissimo, senza nessuno che lo potesse disturbare.

 

Quando pensò a come fare per comprare le suppellettili necessarie, si rese conto che avrebbe dovuto decidersi ad acquistare pure una macchina, magari usata, piccina, facile da parcheggiare, e riesumare la sua patente di guida. Altrimenti il massimo che avrebbe potuto raggiungere erano la procura ed il pizzicagnolo vicino a casa.

 

E poi c’erano le bollette e tutte quelle cose di cui si era sempre occupato Pietro. Si sentì assurdamente inadeguata ed, allo stesso tempo, una parte di lei non vedeva l’ora di dimostrare a tutti che ce l’avrebbe fatta, pure da sola.

 

Certo, sperava di non esserlo per sempre, ma forse per un periodo era proprio quello di cui aveva bisogno: capire chi fosse davvero a quasi quarantacinque anni, non solo sul lavoro, ma in privato. Conoscere la se stessa che non aveva mai conosciuto e che solo qualcuno che mo stava a Roma le aveva fatto intravedere.

 

Non la figlia, non la moglie, non la madre. Semplicemente Imma.

 

Uscì di casa, pronta per andare al lavoro, ed incontrò un paio di vicine che le chiesero, curiose, come mai da qualche giorno stesse a casa della buon’anima di sua madre, che ci facesse lì.

 

“Ci abito,” fu la sua risposta, semplice e netta.

 

Era perfettamente consapevole che, così facendo, tutta Matera lo avrebbe saputo di lì a breve, che quella grandissima stronza della Tataranni probabilmente si era separata da quel sant’uomo del marito.

 

Si chiese se Pietro l’avesse già detto a sua madre.

 

Di sicuro, da lì a pochi giorni, avrebbero dovuto dirlo a Valentina.


Nota dell’autrice: Come avete visto, in questo capitolo Imma finalmente si è decisa a lasciare Pietro e ci sono stati un po’ di salti temporali, oltre ad essere un po’ di transizione verso il prossimo capitolo nel cui succederà un evento veramente molto ma molto ma molto atteso.

Spero vi sia piaciuto, sono assai in apprensione anche per la struttura particolare del capitolo rispetto agli altri, quindi se vorrete farmi avere il vostro parere, come sempre oltre a farmi molto piacere e a motivarmi un sacco, almeno mi rendo conto di come sto procedendo e se la lettura è sempre piacevole o vi sta annoiando.

Quindi se vorrete lasciarmi una recensione vi ringrazio di vero cuore fin da ora.

Il prossimo capitolo arriverà esattamente tra una settimana, il primo marzo e sarà la conclusione della seconda parte della storia, che sarà idealmente fatta più o meno da quattro parti.

Grazie mille ancora!

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Capitolo 19
*** La Verità ***


Nessun Alibi


Capitolo 19 - La Verità


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“E poi Santorini era fighissima: la musica e tutto quel bianco!”

 

Stavano per rientrare a casa. Anzi, a casa di Pietro - le faceva strano ancora anche solo a pensarci - e Valentina parlava a macchinetta da quando l’avevano recuperata all’aeroporto.

 

Samuel invece era volato su Roma, dovendo iniziare il lavoro di lì ad una settimana. Valentina già scalpitava per raggiungerlo.

 

Infine, Pietro parcheggiò, scaricarono la valigia di Valentina e salirono tutti insieme quelle scale che aveva percorso milioni di volte.


Pietro aveva a malapena detto tre parole. Era tirato, triste, l’aria di chi stava dormendo troppo poco.

 

Imma sentì una fitta di senso di colpa e sapeva benissimo che sarebbe stata solo la prima della giornata.

 

Entrarono in casa e Valentina si guardò intorno e disse, “qui c’è qualcosa di strano…”

 

Ma che c'aveva? Il radar pure lei?

 

“Che vuoi dire Valentì?” domandò Imma, trattenendo il fiato

 

“Che è tutto… troppo ordinato. Papà, hai ripulito tutto perché tornavo?”

 

“Non proprio, Valentì, se-”

 

“Se ci mettiamo un attimo in salotto, tuo padre ed io abbiamo alcune cose da dirti.”

 

Valentina mollò bruscamente il trolley che aveva in mano, che ondeggiò per un po’ e poi si schiantò in avanti sul pavimento del corridoio.

 

“Ma che succede?” chiese, un lampo di paura negli occhi.


Valentina era decisamente sveglia, troppo.

 

“Vieni qui che ne parliamo,” ribadì Imma, prendendo posto sul divano. Pietro si appolaiò sul bracciolo, dalla parte opposta e lasciò spazio a Valentina per sedersi tra loro.

 

La ragazza esitò un attimo e poi, cautamente, si sedette, “ma si può sapere che succede? Mi fate spaventare così!”

 

“Valentina io… noi… noi ci...” provò ad esordire Pietro, ma si interruppe, gli occhi lucidi e l’aria di chi non aveva più fiato.

 

Imma sospirò e seppe che sarebbe toccato a lei. E forse era pure più giusto così.


“Valentina… io… io e tuo padre ci… ci stiamo separando,” riuscì a pronunciare, lottando contro la voce che non voleva saperne di collaborare.

 

Valentina spalancò gli occhi, incredula, sotto shock e rimase in silenzio, come paralizzata, per un po’.

 

“Che… che cosa? Stai scherzando, vero? Dimmi che stai scherzando!” esclamò infine, il tono della voce che si alzava a mano a mano.

 

“Valenti… io… le cose tra me e tuo padre non andavano bene già da un po’ di tempo e… e mi sembrava che lo avessi notato anche tu….”

 

Gli occhi di Valentina si riempirono di lacrime e poi, nel giro di un secondo, il suo volto si trasfigurò in una maschera di rabbia.

 

Le cose tra me tuo padre non andavano bene?! Dì pure che eri tu quella a cui non andava più bene niente! Ma pensavo che fosse… che fosse uno dei tuoi soliti periodi in cui ce l’hai con il mondo, non che…! Chi lo ha deciso di separarsi?! Perché non l’ha deciso papà, ci scommetto tutto quello che vuoi!” alzò la voce, fulminandola con un’occhiata carica di talmente tanto rancore da far spavento.

 

“Valentì, io…” provò di nuovo a intervenire Pietro, ma non riuscì a dire altro.

 

Che, di fatto, era già una risposta.


“La decisione l’ho presa io, sì, Valentina. E mi prendo tutte le mie colpe per questo ma… anche se vorrò sempre un bene dell’anima a tuo padre, purtroppo l’amore a volte finisce. E credo che prenderne atto e separarsi sia la cosa migliore per tutti.”

 

“Per tutti!! Per tutti chi?! Per te forse! Che almeno puoi dedicarti solo al tuo stramaledetto lavoro, senza avere nessuno tra i piedi, mo che tanto io starò a Roma ed il babysitter non ti serve più. E quindi arrivederci e grazie!”

 

“Valentina, non è così, capisco che mo sei arrabbiata e c’hai tutte le ragioni ma… se io e tuo padre abbiamo aspettato a dirtelo, è stato per farti fare la maturità serenamente e-”

 

“E mo sarò proprio serena a partire per Roma, con papà qua da solo! E sentiamo, gli porti via pure la casa? Perché io con te non ci voglio abitare, chiaro?!”

 

“La casa è di tuo padre e resta di tuo padre. E vorrei che, quando torni da Roma, stessi un po’ da me e un po’ da lui e-”

 

“E tu dove staresti, sentiamo?”

 

“A casa di nonna e-”

 

“E mo capisco perché sei andata a sistemarla! E io come una cretina ti ho pure aiutato a preparare la fuga per la libertà. Complimenti, dottoressa! E comunque te lo scordi: io resto con papà, tu fatti pure la tua vita da single che non ti recheremo altro disturbo! E mo vado in camera mia che sono stanca”


“Valentì!” provò ad urlarle dietro, sebbene non riuscisse nemmeno ad arrabbiarsi come al suo solito, perché si sentiva troppo colpevole per farlo.

 

Udì la porta della camera sbattere e poi il silenzio più assoluto.

 

Si rese conto solo quando sentì una sensazione umida sul collo di stare piangendo.

 

“Le devi dare tempo, Imma… lo sai com’è fatta… è testarda più di te e-”

 

“Non mi aspettavo la prendesse diversamente, Pietro, lo so quanto ti vuole bene e-” si interruppe, perché non riusciva più a parlare, “io mo vado ma… ma ripasserò domani e spero… spero mi vorrà ascoltare. Se… se non mi vuoi incontrare passerò quando sarai al lavoro, magari.”

 

“Imma… non è che non ti voglio incontrare. Ed è proprio quello il problema,” sospirò Pietro, passandosi una mano sugli occhi, “ma tu sei proprio sicura che-”


“Sì, Pietro, mi dispiace ma, sì, sono sicurissima,” ribadì, alzandosi in piedi su gambe tremanti e lasciando quella casa e quella conversazione prima che diventassero troppo pericolose.

 

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Provò a chiamare per l’ennesima volta, ma il messaggio fu rimbalzato sulla segreteria.

 

Erano ormai quattro giorni che aveva detto a Valentina della separazione. Aveva provato ad andare a trovarla ma si era sempre rifiutata di uscire da camera sua.


E quindi mo provava a chiamarla, ma le venne pure il dubbio che le avesse bloccato il numero. Almeno finché un suono non segnalò un messaggio in arrivo.


Smettila di chiamarmi o vengo lì e ti denuncio per stalking. Non ti voglio parlare, lasciami in pace.

 

Sospirò: la testa dura Valentina l’aveva presa da lei ed insistere non sarebbe servito a nulla.

 

Doveva lasciarle il suo spazio, anche se la faceva un male tremendo.

 

Appoggiò la testa sulle mani sulla scrivania: aveva voglia di piangere, ma sentiva di non avere più lacrime.

 

Negli ultimi mesi ne aveva già versate troppe.

 

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“E lei che ci fa qui?!”

 

Il tono ed il modo in cui Valentina la fulminò, non appena si rese conto della sua presenza, le fece capire che in quelle due settimane le cose non erano migliorate.

 

Sua suocera, accanto a lei, la guardava, se possibile, ancora peggio. Un disprezzo in dolby surround.

 

“Valentì, ho pensato fosse giusto avvertirla che partivamo, così che ti potesse salutare…” abbozzò Pietro, guadagnandosi, sempre in dolby surround, due occhiatacce della serie sei troppo buono, ma che ti salta in mente!

 

“E certo, visto che parto con te nel viaggio che le avevi regalato e che dovevate fare insieme, prima che ti mollasse come un cretino! Proprio voglia di salutarla c’ho!”

 

Normalmente si sarebbe incazzata e le avrebbe detto che mo stava esagerando, ma tra i sensi di colpa e la presenza di sua suocera, non ne aveva le forze.

 

“Spero… spero che passiate una bella vacanza insieme, al di là di tutto. La Sardegna deve essere stupenda.”

 

“Visto che non ci sarai tu, magari lo sarà!” sibilò Valentina ed Imma dovette mordersi la lingua, “andiamo papà, che se no rischiamo di fare tardi per l’aereo.”

 

Dovette attendere mentre sua suocera si abbracciò Pietro e Valentina. A lei toccò un saluto con la mano, visto che sua figlia si piazzò subito in macchina, ignorandola.

 

L’auto aveva appena girato l’angolo quando sua suocera commentò con un tagliente, “almeno non dovrò sopportare la tua compagnia e la tua cucina a ferragosto.”

 

“Signora, guardate-”

 

“Che non mi sei mai, ma proprio mai piaciuta, lo sai benissimo! Ma dopo tutti questi anni almeno ti riconoscevo che a mio figlio, pure se te lo rigiravi come un calzino e lo trattavi come un povero schiavo, almeno te lo tenevi stretto. E invece…. Ma forse è meglio così! Almeno mio figlio finalmente si risveglierà dalla sindrome di Stoccarda nella quale lo avevi stregato e si troverà una migliore di te, che non ci vuole molto!”

 

“Stoccolma.”

 

“Come?”

 

“La sindrome è di Stoccolma, non di Stoccarda,” la corresse, prendendoci gusto nel farlo, ora che Pietro e Valentina non c’erano più ed ignorando l’occhiata incinerente che le lanciò, “e comunque pure io auguro a Pietro di essere felice, felice come ultimamente non eravamo più. E se troverà un nuovo amore ne sarò contenta per lui e per la fortunata, la cui unica disgrazia sarà avere una suocera come voi!”

 

Godendosi il colorito paonazzo che prese sua suocera, che pareva sul punto di esplodere, si voltò sui tacchi e si incamminò verso la procura.

 

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C’era un silenzio tombale.


Le strade di Matera erano semideserte. A ferragosto era quasi tutto chiuso, tranne nei posti turistici ovviamente.

 

Sarebbe andata in procura pure quel giorno, se solo non fosse stata chiusa. Pure se, molto probabilmente ci sarebbero stati giusto lei e Puddu, il giovane agente arrivato come rimpiazzo di Calogiuri. Imbranato e che, soprattutto, guidava malissimo. Non come Matarazzo, ma per eccesso opposto: era lento come una lumaca, pareva terrorizzato da ogni curva.

 

E da lei.

 

Ma nel periodo estivo era uno dei pochi a non essere in vacanza, non avendo ancora permessi, e così in quei giorni si stava facendo una full immersion di lui e delle sue storie sulla sua gioventù a Nuoro e sul corso di polizia.

 

Forse era ingiusta con lui: la verità era che non le sarebbe andato bene nessuno. Perché nessuno sarebbe stato Calogiuri.

 

Una botta di nostalgia la prese, ripensando alla loro follia dell’estate precedente, quando erano andati al mare insieme. Quanto aveva riso quel giorno! Come non aveva forse mai fatto prima in vita sua. Come aveva, pure dopo, fatto solo in presenza di lui.

 

D’istinto, prese il telefono e fece scorrere i nomi in rubrica, fino ad arrivare al suo.

 

La tentazione di sfiorare il simbolo verde la prese, fortissima.

 

In fondo ora era una donna libera, se non ancora di fronte alla legge, almeno di fronte alle persone a lei più care e a tutta quella Matera che sparlava della vita privata della Tataranni.

 

Almeno era ancora La Tataranni. Visti gli eventi degli ultimi mesi era già un risultato.

 

Stava per farlo ma si bloccò. Chissà dov’era quel ferragosto. Chissà che faceva.

 

Chissà con chi era.

 

E se non fosse stato solo? E se, chiamando, si fosse messa in una situazione imbarazzante e lo avesse messo in una situazione imbarazzante?

 

E poi, come poteva chiamare così, dopo mesi che non si sentivano, bella bella, il giorno di ferragosto? E dirgli che cosa poi?

 

Per telefono oltretutto.

 

No, certe cose andavano dette guardandosi negli occhi.

 

E portando i fatti.

 

Avrebbe aspettato l’udienza di separazione consensuale che, visti gli impegni della Cancelleria e del Presidente del Tribunale, avrebbe dovuto essere presumibilmente a settembre.

 

E poi, con le carte in mano, sarebbe andata da lui, di persona.

 

Sperando che ci fosse ancora posto per lei nella sua vita.

 

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“Sei sicura di avere tutto?”

 

“Sì, e poi se mi manca qualcosa posso comprarlo a Roma,” rispose, alzando un sopracciglio, “dai papà, tranquillo, mica vado in guerra.”

 

La sua bambina stava per partire per Roma… per l’università e… per la sua prima convivenza.

 

Anche se su quello Imma rimaneva dubbiosa e contraria ma alla fine… purtroppo avrebbe dovuto lasciarle fare i suoi errori.

 

Era già un miracolo che, da quando era arrivata per salutarla - per fortuna Pietro l’aveva avvertita della data e dell’ora esatta del bus - Valentina non l’avesse inondata di commenti sarcastici.

 

Per ora si limitava più o meno ad ignorarla.

 

“Stiamo per partire!” annunciò l’autista, sporgendosi fuori dalla scaletta.

 

“Ciao, Valentì, mi raccomando, per qualunque cosa, sai che puoi chiamare,” le disse Pietro e li vide abbracciarsi stretti stretti.

 

“Valentina… lo so che ce l’hai con me ma, come dice tuo padre, per qualsiasi cosa nel giro di poche ore stiamo a Roma. E… e ti voglio tanto bene e sono orgogliosa di te. Mi raccomando!” le disse, provando ad avvicinarsi, ma Valentina si scostò all’ultimo, facendo un passo indietro.

 

“Peccato che io non lo sia di te,” le rispose, secca, voltandosi verso il bus e salendo la scaletta.

 

Non sapeva se fosse maggiore la voglia di urlare o quella di piangere. Erano passati quasi due mesi ormai e cominciava a disperare che la figlia la perdonasse mai.

 

“Imma…” sentì la voce di Pietro ed una mano sulla spalla, “lo sai che è orgogliosa, ma sono sicuro che le ha fatto piacere vederti qui oggi. Vedrai che le passerà.”

 

“Grazie Pietro… sei… sei davvero troppo buono con me.”

 

Gli sorrise, la commozione ed il senso di colpa che facevano a pugni nel suo stomaco.

 

Pietro la abbracciò e lei ricambiò, per qualche secondo, prima di fare un passo indietro.


“Per l’udienza… è confermata tra due settimane, te lo ricordi, vero?” gli disse e vide l’espressione di lui rabbuiarsi immediatamente.

 

“Sì, Imma… e come potrei dimenticarlo…”

 

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“Valentì!”

 

“Papà!”

 

Padre e figlia si abbracciarono e poi Valentina le rivolse un’occhiata ed un asciutto: “ciao mamma!”.

 

Ma era meglio che niente.

 

“Allora, come ti trovi a Roma? Ti diverti? E come va la convivenza?”

 

“Bene. Sicuramente più che a Matera. E va benissimo, nonostante le tue previsioni catastrofiche.”

 

“Ne sono felice, Valentì,” rispose, ignorando volutamente la provocazione.

 

“Allora, Valentì, dove vuoi andare? A casa mia o a casa di mamma?” chiese Pietro, indicando le loro due macchine, parcheggiate lì vicino.

 

Alla fine Imma si era decisa a comprare una Punto usata in super offerta che, per le sue esigenze, era più che sufficiente.

 

“A casa nostra, papà, ovviamente,” rispose Valentina, come se la sola alternativa fosse inconcepibile.

 

“Allora domani ti passo a trovare, va bene?”

 

“Tanto ci verrai lo stesso, già lo so,” sbuffò, ma non disse di no ed il tono le sembrò meno ostile delle ultime volte.

 

Era poco ma era già qualcosa.

 

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“Imma…”

 

“Pietro…”

 

Era vestito con un completo nero, elegantissimo, ma sembrava pronto per un funerale, anche come espressione.

 

Ed in effetti lo era: il funerale del loro matrimonio.

 

“Imma, sei veramente sicura di volerlo fare?”

 

Se avesse avuto un euro per tutte le volte che glielo aveva chiesto negli ultimi mesi, avrebbe potuto pagare a Valentina l’università a Harvard, invece che alla Sapienza.

 

“Pietro, anche se continui a chiedermelo la risposta non cambia. Se sono arrivata fin qui, sì, sono sicura. E spero veramente che… che tu possa accettarlo perché è il primo passo per andare avanti, tutti e due.”

 

“Lo so che mi devo rassegnare, Imma ma… ma un ultimo tentativo lo dovevo fare. Concedimi almeno questo.”

 

Sospirò ed annuì, rendendosi sempre più conto di quanto male gli avesse fatto e gli stesse facendo. E di quanto lui l’amasse in un modo che lei veramente non si era mai meritata.

 

Poteva solo sperare che, anche per lui, prima o poi questo sentimento si trasformasse in qualcos’altro e che questo gli restituisse un po’ di serenità.


“Udienza De Ruggeri - Tataranni”

 

La voce del cancelliere, che sul suo cognome aveva per un attimo incespicato - lo conosceva, per un periodo aveva lavorato alla sezione penale e lo aveva fatto nero per un errore con alcuni fascicoli - li portò ad avviarsi verso l’aula dove li aspettava il Presidente del Tribunale.

 

Fu tutto surreale e trascorse velocissimo: prima il tentativo di conciliazione e Pietro, per fortuna, non si oppose alla separazione.

 

E poi il Presidente che leggeva l’accordo a cui erano addivenuti lei e Pietro e chiedeva di confermare il consenso.

 

Gli sentì la voce spezzarsi nel pronunciare il sì e vide il modo in cui la mano gli tremava nel firmare il documento, che pareva quasi avere il Parkinson.

 

Un’altra fitta di senso di colpa, prese a sua volta la penna e appose la firma al primo passo verso la fine definitiva del suo matrimonio.

 

Sapeva che era necessario, sapeva che era la cosa giusta da fare, quasi inevitabile, ma sentì insieme un senso di liberazione ed uno di lutto, di fallimento.

 

Ma non erano i pezzi di carta a contare, ciò che contava davvero era ciò che si sentiva nel cuore. E lì purtroppo il suo matrimonio era già finito da fin troppo tempo.

 

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"E ora, da Roma, gli ultimi aggiornamenti sul maxiprocesso che ha scosso gli equilibri dell'intera città di Matera. Rita, ci sono novità?"

 

Imma alzò gli occhi bruscamente dalla bistecca che stava rosolando nel padellino e che sarebbe stata la sua scarsa cena. Vide il tribunale di Roma, la Ferrari e poi… e poi lui che pronunciava le parole: "la dottoressa non intende rilasciare dichiarazioni."

 

Fu un colpo al cuore, udire quella voce, vedere il suo viso, con quell'aria concentrata e protettiva.

 

E poi una fitta irrazionale di gelosia, quando notò la sua mano sulla spalla di lei, il modo in cui la stringeva mezza a sé per ripararla da un giornalista particolarmente insistente, che le era praticamente finito addosso.

 

Quasi non udì nemmeno la giornalista parlare di Latronico, che aveva appena testimoniato, dell'andamento dell'udienza e di tutto il resto.

 

L'unica cosa che vedeva era lui, mentre il senso di mancanza si faceva sempre più forte.

 

Ormai erano quasi sei mesi che non si vedevano e quasi cinque che non si sentivano. Non l’aveva nemmeno chiamata per chiederle di partecipare a questa udienza, non aveva più saputo niente da lui. Certo, glielo aveva chiesto lei di farsi la sua vita e contattarla solo in caso di novità sul maxiprocesso, che evidentemente non c’erano state, ma….

 

Ma ora lei… lei era una donna separata. Tra poco avrebbe pure ricevuto le carte ufficiali dal tribunale.

 

Doveva piantarla di indugiare, di aspettare chissà cosa, per paura di ciò che avrebbe trovato a Roma, e decidersi. Avrebbe chiesto ferie a Vitali, che tanto ad agosto non le aveva fatte e ne aveva una quantità abnorme in arretrato, e l'avrebbe raggiunto.

 

E poi… e poi finalmente gli avrebbe detto tutto quello che si teneva dentro da mesi.

 

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"Valentina, sarò in ferie da lunedì e vorrei venire a Roma qualche giorno e passare un po' di tempo con te. Non ti preoccupare, starò in albergo, ma quando c’hai un po' di tempo libero dai corsi, insomma…"

 

"Vuoi venire a controllarmi?!"

 

Valentina ci andava sempre giù per il sottile. 

 

"Ma no! Voglio solo stare un po' con te, che è tanto che non lo facciamo. Se non vuoi, a casa tua non ci metto nemmeno piede, se hai paura che vengo a fare l’ispezione."

 

Non era da lei essere tanto accomodante. Però, oltre al senso di colpa da un lato, dall'altro il vivere da sola le faceva capire meglio Valentina ed il suo desiderio di indipendenza ed individuazione. Per quanto non approvasse la sua scelta sulla convivenza, capiva l’importanza di quella tappa per sua figlia, che lei stava facendo mo, fuori tempo massimo.

 

"Va bene… allora, se mi dici quando arrivi, ti vengo a salutare alla fermata del bus."

 

Quella piccola apertura le sembrava già un miracolo. Doveva insistere e dimostrare a Valentina quanto ci tenesse a lei.

 

E sperava davvero che fosse un segno e che questo viaggio romano partisse sotto i migliori auspici.

 

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"Mamma!"

 

"Valentì!"

 

Se la abbracciò forte, senza aspettare il permesso, e Valentina, dopo un attimo di esitazione, ricambiò senza tirarsi indietro. 

 

"Ti voglio bene, Valentì," le sussurrò e la figlia non rispose ma non sciolse l'abbraccio, se non dopo qualche istante.

 

"Mà, tu in albergo ci sai arrivare? Perché io tra poco devo andare a lezione e non ti posso accompagnare."

 

"Tranquilla Valentì: ci sono già stata le altre volte che sono venuta a Roma. La strada la so."

 

Per scaramanzia, forse, aveva preso la solita pensione, dove lei e Calogiuri avevano dormito insieme l'ultima volta che erano stati insieme a Roma. Erano passati quasi undici mesi. Un anno, praticamente, e le sembrava ancora impossibile. 

 

"Io sono libera stasera dopo le diciotto, che finisco i corsi, e tanto Samuel come al solito deve essere al ristorante fino a tardissimo. Se vieni da me, ci andiamo a mangiare qualcosa insieme."

 

Se l’era solo immaginato per la sua apprensione materna o Valentina, quando parlava degli orari di Samuel, aveva un tono tutt’altro che felice?

 

"Va bene, Valentì, come preferisci. Allora a stasera!"

 

Valentina esitò un attimo e pure lei, indecisa se darle un altro abbraccio o meno, ma alla fine la lasciò andare, non volendo tentare troppo la sorte.

 

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Finalmente l'ufficio della procura le si parò davanti e la sua ansia aumentò. 

 

Era la pausa pranzo. Chissà cosa avrebbe detto, vedendosela comparire davanti all’improvviso dopo tutti quei mesi. Chissà cosa avrebbe provato rivedendolo. Chissà soprattutto cosa avrebbe provato lui, cosa provava ancora lui per lei.

 

Si stava giocando tutto e lo sapeva.

 

"Mi scusi!" disse ad una delle guardie appostate fuori, mostrando il tesserino, "sono il sostituto procuratore Tataranni. Stavo cercando il maresciallo Ippazio Calogiuri. Mi potrebbe dire dove posso trovarlo?"

 

"Mi scusi, dottoressa, ma non sono autorizzato a dare queste informazioni riservate. Può provare a chiedere dentro alla Cancelleria e-"

 

"Dottoressa Tataranni!"

 

Si voltò e la voce ed il sorriso della principessa Disney non le erano mai sembrati tanto melodici come in quel momento.

 

“Mariani!”

 

"Dottoressa, che piacere rivederla! Cercava Calogiuri?"

 

"Sì, sai dov'è?"

 

"Purtroppo no. È in permesso per questa settimana."

 

La sua solita fortuna! Il cuore le fece un tonfo nello stomaco. Non poteva essere arrivata fin lì per niente.

 

"Ma sai se è a Roma?"

 

"Immagino di sì, perché ha lasciato detto di essere reperibile in caso di emergenza. Ma non sono sicura al cento per cento, perché non ho idea del motivo del permesso e perché non vive più in caserma da agosto. Beato lui!"

 

Avrebbe potuto chiederle dove viveva ora, ma avrebbe rasentato lo stalking a presentarsi sotto casa sua così,senza avvertire.

 

"D'accordo, grazie mille comunque."

 

A quel punto non restava che una cosa da fare, quella che aveva rimandato in tutti i modi possibili: telefonare.

 

Si allontanò un po’ dalla procura e da occhi e orecchie indiscrete e poi compose il numero.

 

Attese per un tempo indefinito e, quando stava quasi per riattaccare, finalmente smise di squillare.

 

“Calogiuri, scusami se ti disturbo, io-”


“Tao, taaooo.”

 

Una vocetta acutissima, infantile e stentata le rispose dall’altro capo della cornetta, tanto che Imma per un attimo temette di avere sbagliato numero. Ma guardò il display che confermava che quello era proprio il numero di Calogiuri.

 

“Pronto? Cercavo-”

 

Sentì un rumore di passi ed una voce femminile, decisa che disse, “no, eh! Quante volte ti ho detto che non devi toccare i telefoni!”

 

“Pronto!” rispose poi, attaccata allo speaker, probabilmente dopo aver recuperato il telefono, “mi scusi, ma mia figlia ha la brutta abitudine di rispondere al telefono da sola. Chi parla? Cercava Ippazio? Perché è sotto la doccia, ma la posso fare richiamare appena ha finito.”

 

Imma restò paralizzata, con la cornetta in mano, senza sapere che dire o fare: le sembrava di essere in un mondo parallelo, anzi in un incubo dal quale avrebbe solo voluto svegliarsi.

 

“Io… io…” balbettò, perché non riusciva a connettere, a dire niente di sensato, sentiva solo gli occhi bruciare e come un coltello infuocato nel petto.

 

“Che succede?”

 

Udì la sua voce, pure se attutita dalla distanza.

 

“Non so… ti cerca una certa... dottoressa? Ma la linea mi sa che non prende molto bene.”

 

Sentì un fruscio, seguito da un attimo di silenzio, e poi la sua voce, vicinissima, come se le stesse sussurrando all’orecchio, “Imma?!”

 

Un singhiozzo le scappò dalla gola, mentre gli occhi le si appannavano: era tardi, troppo tardi! Aveva sbagliato tutto, aveva perso tutto ed era solo colpa sua!

 

Ma lui almeno… almeno era felice ed aveva… aveva quella vita che lei non gli avrebbe mai potuto dare. Anche se con un’altra.

 

“Scusami…” riuscì a tirare fuori, con voce roca da far schifo, “non ti cercherò più.”

 

Interruppe la comunicazione, barcollando fino ad una panchina, la vista che ormai era andata, la testa che le girava.

 

Sentì il telefono squillare: era lui che cercava di richiamarla.

 

Respinse la chiamata.

 

Lui ci riprovò una terza volta e lei, anche se le faceva un male cane, respinse di nuovo la telefonata e poi bloccò il numero.

 

Perché era la cosa giusta da fare. Forse non per il suo cuore, ma per lui sì.


E quella era l’unica cosa che contava.

 

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“Mamma!”

 

“Valentì!

 

Era riuscita ad arrivare a casa di sua figlia. Aveva addirittura pagato un taxi, cosa non da lei, ma non era in condizioni di prendere la metro.

 

“Mamma, che c’hai? C’hai una faccia che fa spavento!”

 

E non so se fu per la preoccupazione di Valentina, se fu che non ce la faceva più, ma scoppiò a piangere, senza riuscire a trattenersi.

 

Il calore di due braccia che la stringevano la lasciò spiazzata e le si aggrappò, come ad un’ancora di salvezza.

 

“Mamma… mamma che c’hai? Mamma!” esclamò Valentina, stringendola più forte, “ascolta… lo so che… lo so che ti ho trattata male ultimamente ma… ma non ti odio, va bene? Non devi piangere! Sono solo molto preoccupata per papà… e per questo ero arrabbiata con te… perché… perché ho visto quanto stava male e… e tu invece sembri sempre così… invulnerabile, come se niente ti toccasse, come se non ti importasse di niente e di nessuno. Ma… ma non volevo farti stare male così!

 

Ed Imma pianse ancora più forte, stringendosela a morsa, pensando che magari fosse stata invulnerabile, come credeva sua figlia!

 

La verità era che non si era mai sentita fragile come in quel momento.

 

Ma forse doveva smettere di nasconderlo, di nascondere ciò che sentiva, se non al mondo, almeno alle persone che amava di più.

 

Perché se no, l’unico risultato, come aveva appena sperimentato sulla sua pelle, era quello di allontanarle e poi di perderle per sempre.

 

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PUTTANA, TROIA, SEI MORTA!

 

Le solite scritte rosso sangue le diedero il bentornato a Matera e a quella che era stata la casa di sua madre.


Vide alcune comari sporgersi fuori e poi farsi il segno di croce, probabilmente preoccupate di vivere accanto ad una vicina tanto pericolosa.


Trovò un paio di simpatiche lettere minatorie nella buca delle lettere -  per fortuna le serrature almeno erano in ordine - e chiuse la porta di casa dietro di sé, buttando la valigia in un angolo.

 

Era sabato mattina, sarebbe dovuta rientrare il giorno dopo ma aveva anticipato.

 

Nel weekend Valentina era più libera di stare con Samuel nelle ore in cui lui non lavorava e non la voleva certo tra i piedi, dopo quattro giorni di full immersion serale.

 

Però almeno a qualcosa il viaggio era servito: non poteva dire che con Valentina fosse tornato il sereno al cento per cento ma si erano riavvicinate parecchio ed in quelle sere avevano parlato tanto, anche se su alcune cose aveva dovuto mordersi la lingua.

 

Vedeva che sua figlia ci soffriva per gli orari di Samuel, che li costringevano a vedersi pochissimo: quando lui lavorava lei era a casa e quando lui era a casa lei era in università.

 

Ma Valentina doveva imparare da sola dai suoi errori, non doveva essere lei ad infierire facendoglieli notare, se no la figlia ci si sarebbe incaponita ancora di più, solo per farle dispetto. Questo almeno lo aveva imparato.

 

Si costrinse a disfare la valigia e a buttare i capi in lavatrice, poi aprì il frigo e ci trovò il deserto dei Tartari.

 

Doveva andare a fare la spesa, perché la vita andava avanti pure se… pure se senza di lui. Aveva già perso peso negli ultimi mesi, mai del tutto recuperato, e non poteva permettersi di perderne altro, anche se aveva lo stomaco chiuso.

 

Avrebbe dovuto imparare definitivamente a cavarsela da sola, perché forse era così che sarebbe rimasta, a vita.

 

Sola.

 

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Aveva le buste in mano, cariche del cibo necessario per una settimana o quasi, quando per poco, uscendo dal supermercato, non venne travolta da una coppietta che camminava abbracciata, probabilmente con la testa sulle nuvole.


“E guardate dove andate, porca miseria!” urlò, con gusto, perché in quel momento particolare della sua vita non c’era nulla che la facesse incazzare di più delle coppiette felici.

 

I due si fermarono - e per un attimo temette che volessero menarla, prima o poi qualche manesco che avrebbe provato a darle una lezione l’avrebbe trovato, glielo diceva sempre la buonanima di sua madre - e si girò.

 

E rimase doppiamente impietrita. Perché la coppietta non erano altro che Pietro - con una faccia che definire colpevole sarebbe stato come definire Romaniello un poco maiale - e Cinzia Sax - con un’espressione che definire trionfante sarebbe stato come definire la sua quasi ex suocera un poco stronza.

 

“I- Imma…” balbettò Pietro, mentre Cinzia Sax se lo stringeva ancora più forte.

 

E, chissà perché, le tornarono in mente Calogiuri e Matarazzo.


“N- non è come sembra, noi-” proseguì, insieme al senso tremendo di dejavu.

 

Solo che non provava gelosia, no, né sollievo, solo una grande, immensa incazzatura che montava. Pietro l’aveva fatta sentire in colpa per mesi e mesi e mesi. Ad immaginarselo solo e sofferente. E mo si scopriva che, bello bello, lui intanto aveva una relazione con Cinzia Sax.

 

“Non devi dare spiegazioni alla tua ex moglie,” intervenne Cinzia, con quello sguardo da gattamorta che le avrebbe graffiato via dal viso volentieri da quando la conosceva.


Era quasi tentata di specificare che, legalmente, lei era ancora la moglie, ma si morse la lingua, piuttosto che darle la soddisfazione di pensare che fosse gelosa.

 

“Cinzia, ci puoi lasciare un attimo da soli?” chiese invece Pietro, staccandosi da lei e la gatta per un attimo sembrò abbassare la coda, e la cresta.

 

Poi, lanciandogli un’occhiata di avvertimento e a lei un’altra di sfida, proclamò: “vado anch’io a fare un poco di spesa, che così poi ti cucino qualcosa di buono.”

 

“Magari eviterei il pesce ed i frutti di mare, che alla prossima ci resta secco, se non ci restate entrambi!” non potè trattenersi dall’esclamare, tagliente, mentre Pietro si frapponeva tra lei e Cinzia, forse temendo che la gattamorta reagisse.

 

Ma si limitò a diventare rossa come un peperone e battere alla ritirata dentro al supermarket, con la coda tra le gambe.

 

“Imma…”

 

“Pietro, scusami ma erano mesi che me lo tenevo dentro e se Cinzia Sax, o Sex, o come cavolo si chiama non vuole che io risponda, potrebbe evitare di provocare. Comunque pure tu, complimenti! Mi hai fatto una testa così per mesi con il sei sicura di volerlo fare e poi scopro che-”

 

“Non è come credi! Ci siamo rivisti da un paio di settimane, quando sono ricominciate le lezioni di sax. E… tu mi hai detto che devo andare avanti e… e lei mi ha invitato ad uscire e allora…”

 

“Pietro, sai che ti dico? Non ha più importanza. E se… se sei felice con lei, ne sono felice per te, veramente. Ma, visto che abbiamo una figlia in comune, forse dovresti invitarla ad essere un poco più civile nei miei confronti. Soprattutto dato che tu potresti pure avere il diritto di avercela con me, ma lei no, che anzi, è da quando eravamo sposati che ci prova in modo spudorato con te e me ne sono sempre stata zitta. Ma alle provocazioni sai che io reagisco.”

 

“D’accordo, glielo dirò, Imma, è che… è gelosa di te, ovviamente, anche perché ci stiamo frequentando da poco quindi… è pure normale che-”


“Si senta minacciata? Se lei sta nel suo io starò nel mio, Pietro, è semplice. Comunque mo vado, prima che i surgelati siano da buttare. Vi auguro una buona giornata e cucina sempre tu, per l’amor di dio!”

 

Si avviò a passo veloce, prima che potesse replicare.

 

Arrivò rapidamente a casa e, mentre ritirava la spesa, si chiese come si sentisse esattamente, perché aveva un misto di emozioni confuse che le lottavano dentro.

 

Non era realmente gelosa di Pietro, anche se avrebbe voluto per lui una donna diversa da quella, che non poteva soffrire.

 

Solo che si rendeva ancora di più conto di tutto quello che aveva perso.

 

Aveva voluto avere troppo, senza rinunciare a niente. Aveva pensato di poter esplorare quello che provava per Calogiuri e mantenere il rapporto con Pietro intatto e invece… e invece ovviamente i sentimenti non funzionano così: non è possibile mantenere due vite parallele, due cuori paralleli, a compartimenti stagni. E quello che provava per Calogiuri aveva sgretolato il sentimento per Pietro, inesorabilmente.

 

Ed alla fine era rimasta con niente in mano. Chi troppo vuole, nulla stringe. Glielo diceva sempre sua madre.


Ma era il giusto contrappasso, per tutti i mesi in cui aveva fatto soffrire due uomini meravigliosi, del cui amore non era mai stata degna.

 

E mo l’avrebbe pagata, tutta, fino in fondo.

 

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Salutò gli agenti all’ingresso e procedette verso le scale, salendole a passo meno deciso del solito.

 

La verità era che, tra le notti semi insonni ed il magone tremendo che la prendeva ogni volta che pensava a lui, aveva pochissime energie. Si sentiva spenta come forse mai in vita sua.

 

Arrivò in cima alle scale e trovò la Moliterni, in agguato come un avvoltoio, con un sorrisetto ancora più ampio del solito.

 

Accelerò il passo per scansarla, che non era proprio dell’umore per affrontarla. Si infilò nel corridoio e vide un paio di persone affacciarsi dai loro uffici, che sembravano squadrarla, incuriositi.

 

Doveva avere proprio una cera tremenda, o forse non erano abituati all’idea che la Tataranni facesse vacanza e mo si stupivano a vederla tornare.

 

Con un sospiro, girò la maniglia ed entrò nel suo ufficio.

 

Quanti ricordi che la legavano a lui lì dentro!


Sollevò lo sguardo e si bloccò di botto - mo pure le allucinazioni c’ho?! Che saranno i sonniferi?

 

Perché vedeva una figura, di spalle, in penombra, per via del sole del mattino che gli splendeva addosso, filtrando attraverso di lui dalla finestra.

 

E, se non avesse saputo benissimo che era impossibile, le sarebbe sembrato proprio...

 

“Calogiuri…” sussurrò, incredula, quando la figura si voltò ed incrociò quel viso, quegli occhi azzurri, spalancati, come se lo avesse colto di sorpresa.


Ebbe un fortissimo senso di dejavu.

 

Era un sogno, sicuramente, doveva essere un sogno! Si pizzicò un braccio e trattenne un mugolio di dolore.


E poi notò, in ordine sparso e casuale: i capelli, leggermente più lunghi dell’ultima volta in cui lo aveva visto, e quell’ombra sul viso che gli veniva quando era da qualche ora che non si radeva.

 

Ed i vestiti, nuovi, che non aveva mai visto prima, tranne la giacca di pelle, la sua preferita.

 

Imma…” sussurrò, con un sorriso malinconico e mezzo esasperato.

 

Seppe definitivamente che non era un sogno. Perché nei sogni che faceva su di lui ambientati in procura non l’aveva mai chiamata col suo nome di battesimo. E non lo avrebbe mai fatto in quel modo.

 

Ma non le riuscì di spiccicare parola: era completamente paralizzata, dallo shock, dalla felicità da… da troppi sentimenti che le esplodevano nel cuore.

 

“Che… che ci fai a Matera?” riuscì infine a balbettare, dopo attimi infiniti in cui rimasero a squadrarsi, immobili, come due cretini.

 

“Sono giorni che provo a chiamarti, ma mi hai bloccato e non rispondi a numeri sconosciuti. Così… ho provato a telefonare in procura, ma la signora Diana mi ha detto che eri in ferie e… che eri a Roma, da tua figlia. E, a parte che non so dove abita, ma non potevo certo presentarmi a casa sua. E così… ho deciso di raggiungerti al tuo ritorno a Matera… sarei venuto pure prima, ma non potevo mollare mia sorella e mia nipote che erano venute a trovarmi a Roma.”

 

“Tua… tua sorella e tua nipote…?!”

 

Imma…” le sorrise, scuotendo il capo, “ma… ma come hai potuto pensare che… che in così pochi mesi io… io potessi….”

 

Le venne da ridere: di sollievo e, allo stesso tempo, di quanto era stata stupida. Si trattenne a fatica e si passò una mano sugli occhi, su quegli occhi che quando si trattava delle indagini funzionavano alla grande, ma quando si trattava di Calogiuri e della gelosia che nutriva nei suoi confronti… gli occhi, ma pure le orecchie ed il cervello non connettevano più e la facevano rincitrullire completamente. Facendole ignorare la spiegazione più ovvia.

 

“Ma tua nipote a poco più di un anno già risponde al telefono, Calogiù?”

 

Non aveva idea del perché, di tutte le cose che poteva dire o fare, in quel momento, le fosse uscita proprio quella.

 

“Eh… suo padre fa il camionista ed è sempre via. Per lei, quando squilla il telefono, pensa che sentirà il suo papà.”

 

E, di nuovo non seppe perché, ma le venne da commuoversi, come una scema.

 

Avrebbe voluto buttarsi tra le sue braccia, abbracciarlo, baciarlo ma… ma prima voleva dirgli tutto quello che doveva dirgli. E… e d’altro canto, immaginarlo con una compagna giovane, fertile, le aveva fatto ricordare tutto quello che lei non avrebbe mai potuto offrirgli. E questo rendeva doppiamente importante parlare, fino in fondo.

 

“E tu… perché mi hai cercato a Roma?”

 

“Non è facile da spiegare…. non così su due piedi. Ti vorrei… ti vorrei portare in un posto. Hai qualche ora da dedicarmi?”

 

“E secondo te io sono venuto apposta fino a qui per capire che cosa fosse successo, e mo riparto subito?” la punzecchiò, con un altro di quei sorrisi affettuosamente esasperati.

 

Non potè evitare di sorridergli di rimando con quello che, ne era certa, doveva essere uno sguardo ebete, ma non le importava.

 

“Diana!” chiamò, per avvisare la cancelliera che si sarebbe presa un’altra giornata di permesso.

 

Diana avrebbe parlato, no, l’intera procura avrebbe parlato, vedendoli andare via insieme, ma non poteva fregargliene di meno.

 

Che parlassero pure fino a non avere più fiato: lei quel giorno da Calogiuri non si sarebbe staccata a meno che fosse lui a volerlo.

 

“La signora Diana è andata un attimo in archivio. Mi ha detto di mandarle un messaggio se avevi bisogno.”

 

E brava, Diana! - pensò, sapendo che la cancelliera l’aveva fatto apposta per lasciarli soli.

 

“Vitali lo hai visto, Calogiuri?”

 

“No… non ancora, perché?” le chiese, con un tono strano, che non riuscì a capire.


“Perché mo gli mando un messaggio e ce ne andiamo.”

 

Ho bisogno di un giorno in più di permesso per motivi personali. Domani sarò al lavoro. Mi scuso per il poco preavviso ma è un’emergenza. Grazie

 

Con tutte le insistenze degli ultimi mesi sul fatto che lei stesse lavorando troppo, un giorno extra il procuratore capo non glielo poteva proprio negare.

 

“Andiamo, Calogiuri, veloce!” lo punzecchiò, come ai vecchi tempi, guadagnandosi l’ennesimo meraviglioso sorriso.

 

Dio, quanto le erano mancati!

 

Fecero in tempo ad arrivare alle scale quando si trovarono Maria Moliterni a fare da barriera, impedendo loro di proseguire senza passare dalle sue grinfie.

 

“Maresciallo! Ma allora non mi ero sbagliata: è proprio lei! Che ci fa qui? Nostalgia di Matera?”

 

“Ci fa quello che in questa procura praticamente nessuno si fa mai, Maria: i fatti suoi!”

 

“Suoi o vostri?”

 

“Suoi, miei, nostri, sicuramente comunque non tuoi, Maria. Buona giornata!”

 

Lo prese per un braccio e se lo trascinò giù per le scale, prima che la Moliterni potesse replicare.

 

Quando arrivarono davanti alla PG, notò che Calogiuri sembrò esitare un attimo e guardarsi intorno.


“Vuoi passare a salutare i tuoi ex colleghi?”

 

“No, no, andiamo,” rispose, e stavolta fu lui a trascinarla in avanti, fino a che non furono fuori dalla procura e ad una certa distanza dalle guardie.

 

Poi la guardò e scoppiò a ridere.

 

“Che c’è?”

 

“C’è che non cambi mai!”

 

“Dovrei?”


“Assolutamente no!” proclamò, stringendole leggermente il braccio che ancora le tratteneva, prima di aggiungere, più serio, “allora, dove mi porti?”

 

“Vieni con me,” rispose, conducendolo fino alla sua vecchia e poco gloriosa Punto, spiegando, allo sguardo sorpreso di lui, “è la mia macchina, Calogiuri. Mi sono dovuta decidere a comprarla, senza il mio autista di fiducia. Temo ci starai un poco scomodo ma-”


“Va benissimo,” la interruppe, infilandosi nel lato del passeggero, senza protestare, nemmeno quando dovette tirare indietro del tutto il sedile e ancora pareva mezzo rattrappito.

 

Imma si sentì improvvisamente nervosa, ad essere lei a guidare. Pure se era un poco migliorata, rimaneva comunque una principiante. Ma Calogiuri, cavaliere come sempre, non commentò le sue incertezze al volante, limitandosi ad un, “chi me lo doveva dire a me?”

 

“Che cosa?”

 

“Che un giorno mi avresti fatto tu da autista.”

 

“Bell’autista ti sei scelta, Calogiù! Con pochissima esperienza e zero referenze,” ribatté, ricambiando l’occhiata ironica di lui, e per un attimo le sembrò di essere tornata ai primi tempi del loro rapporto, fatti di lunghi viaggi in auto, silenzi e sguardi reciproci.

 

Ma il tragitto fu molto breve: ben presto arrivò di fronte a quella che negli ultimi mesi aveva chiamato casa, seppure non la sentisse ancora come tale.


“Ma questa è…” esclamò Calogiuri, sorpreso, riconoscendo l’edificio.

 

“Già. Vieni.”

 

Scese dall’auto, si avvicinò al portoncino e, implacabili, vide un paio di comari affacciarsi, in agguato.

 

“Dai, entra, che qui abbiamo pubblico,” esclamò, volutamente ad alta voce, aprendo la porta e richiudendola rapidamente alle sue spalle, “scusami, ma le mie vicine sono delle pettegole incorreggibili.”

 

“Le tue vicine?”

 

“Sì…” confermò, abbandonando la borsa sul divano, prima di lasciarcisi cadere, facendogli segno di accomodarsi, “io… io vivo qui da qualche mese… da quando… da quando mi sono separata da Pietro.”

 

Calogiuri si sedette accanto a lei, un lieve sorriso sulle labbra, gli occhi lucidi, ma non le sembrò affatto sorpreso: era stato più stupito alla notizia che lei vivesse lì.

 

“Già lo sapevi?” dedusse e lui annuì. Un nome le balzò alla mente e le scappò dalle labbra, “Diana!”

 

“Quando l’ho chiamata la settimana scorsa me lo ha detto, sì, che… che eri andata a trovare tua figlia perché, dopo la separazione, il vostro rapporto è stato un po’... turbolento,” chiarì ed Imma non avrebbe saputo dire se fosse più forte la voglia di strozzare o di abbracciare la sua cancelliera.

 

Perché era palese che lo avesse fatto apposta a lasciarsi scappare quel piccolo particolare con Calogiuri.

 

“Saresti… saresti venuto lo stesso a Matera, se non lo avessi saputo?”

 

La domanda le uscì così, prima di potersi trattenere.

 

Imma…” sospirò, scuotendo il capo per l’ennesima volta quel giorno, “ma che non mi conosci? Certo che sarei venuto lo stesso!”

 

“Calogiuri…”

 

“Perché non me lo hai detto prima?”

 

“Perché… perché c’avevo un sacco di cose da sistemare nella mia vita, Calogiuri, e non volevo che ti trovassi coinvolto nei miei casini con Valentina e… e con Pietro. Volevo che ti potessi ambientare a Roma, senza la pressione di doverti preoccupare per me in continuazione. E avevo bisogno di un po’ di tempo da sola per… per affrontare il lutto della separazione e… e quello di mia madre. Non volevo venire da te troppo presto, con promesse che non ero sicura di poter mantenere. E poi… e poi forse, se devo essere sincera, un po’... un po’ mi è venuta paura, più il tempo passava di… di che cosa avrei trovato a Roma. Che tu magari… fossi andato avanti, giustamente, eh, e… e che non provassi più per me quello che provavi prima e-”

 

Un dito sulle labbra la zittì.


“E adesso ne sei sicura?”

 

“Di quello che provi per me?”

 

“Non solo… di poterle mantenere le promesse,” chiarì, guardandola in un modo talmente intenso da darle i brividi.

 

“Sì, Calogiuri, sì, ne sono sicura, ma,” si bloccò per un attimo, afferrandogli entrambe le mani con le sue, guardandolo dritto negli occhi, “ma il problema, Calogiuri, come mi ha ricordato questo… equivoco con tua sorella… è che certe cose non posso proprio promettertele, perché molto probabilmente non te le potrò mai dare. E non perché non lo desideri ma, ma… per l’età che c’ho, nemmeno con tutto l’impegno. Dei figli biologici ad esempio, se un giorno ne vorrai, come credo. Ovviamente mo è più che prematuro pensarci, Calogiuri, ma… ma sarei aperta all’adozione, se un giorno tu ne volessi e se quel giorno noi fossimo ancora insieme. Ma… ma non è un percorso semplice, anzi, e non è detto che sia possibile, o che tu lo voglia affrontare. E poi… a parte i figli… non ti posso dare la spensieratezza di un rapporto giovane, l’energia di una donna giovane: i viaggi, le opportunità e... aspetta, non mi interrompere, fammi finire!”

 

“Agli ordini, dottoressa."

 

“Però se… se nonostante tutti questi limiti e tutti i casini che mi porto dietro e che invece non avresti con una donna giovane e libera: il rapporto incasinato con mia figlia, il fatto che, lo sai, ci massacreranno tutti quanti, dal primo all’ultimo, quando usciremo allo scoperto insieme…. Insomma, se nonostante tutto questo e nonostante il mio caratteraccio tremendo sei ancora… sei ancora matto abbastanza da volermi, io non ti posso promettere una vita facile, Calogiuri, ma ti prometto che farò tutto quello che posso, che mi impegnerò al massimo ogni giorno per renderti felice quanto tu mi hai sempre resa felice. E lo sai che quando mi metto in testa una cosa non mollo e vado fino in fondo.”

 

Si sentì stringere le dita fortissimo, una lacrima che gli scendeva sul viso e poi lo vide avvicinarsi, per baciarla, ma gli piazzò le mani, che ancora trattenevano le sue, sul petto, per bloccarlo.

 

“Sei sicuro? Ci hai pensato bene? Non mi devi rispondere subito e-”

 

Imma…” sussurrò, in quel modo che le faceva amare il suo nome come mai nella vita, “ho avuto pure io mesi, e mesi e mesi per pensarci, non credi? E… e prima di tutto, tu sei la donna più energica che conosco e fatico pure a starti dietro e-”

 

“E lo sono mo, ma per quanto ancora potrò tenere il passo, Calogiù?”


“Di sicuro, se andiamo avanti così, cederò prima io di te e, al massimo, vorrà dire che finalmente andremo allo stesso passo e non mi toccherà più fare le maratone per inseguirti, per quanto mi piaccia farlo.”

 

Risero insieme per qualche istante e poi lui proseguì, “e poi… e poi i figli… ai figli per ora non ci penso ma… ma quel giorno, quando ci siamo occupati di mia nipote, se ero tanto felice era perché c’eri pure tu con me, perché lo stavamo facendo insieme. E ho capito che… che se ne avessi, li vorrei con te, vorrei dividere l’esperienza con te e solo con te. Che siano biologici o adottati, non fa differenza. E… e se non sarà possibile… io con te sto talmente bene che, quando siamo insieme, qualsiasi cosa facciamo, non sento il bisogno di altro e non credo questo possa cambiare con il tempo.”

 

“Calogiuri…” sussurrò, cedendo finalmente pure lei al pianto, perché anche per lei era lo stesso e lui… lui era veramente troppo meraviglioso per essere vero.

 

“E per i viaggi… quelli invece li voglio fare assolutamente, ma con te, che te li meriti, finalmente: che sia in Giappone o a Barcellona o dove ti pare a te. Quindi preparati! E… e che altro avevi detto?”


“E chi se lo ricorda più mo!” ammise, tra le lacrime, abbracciandoselo più forte che poteva.

 

Poi lui si staccò leggermente e le prese il viso tra le mani, asciugandoglielo ed accarezzandoglielo in un modo che altro che pelle d’oca!

 

“Imma… tu non… non mi hai mai tolto niente, anzi. Mi hai dato un sacco di opportunità e… e mi hai sempre lasciato libero di scegliere. E... lo so che sarà così sempre perché… perché mi hai fatto persino partire per Roma, per non farmi perdere un’occasione di carriera, senza dirmi niente, pure se… pure se avevi già intenzione di separarti da tuo marito, non è così?”

 

Annuì, sentendo quel qualcosa di dolce nel petto: lui aveva finalmente capito, capito tutto, l’aveva capita, fino in fondo. O forse si erano capiti davvero, per la prima volta, al cento per cento, senza bisogno di trattenersi, di nascondersi più niente.

 

Tranne una cosa.

 

“Ti amo.”

 

Le uscì così, semplicemente, quasi in un sussurro, come se fosse una cosa ovvia, inevitabile.

 

Perché lo era.

 

Lui rimase per un attimo paralizzato, imbambolato, gli occhi che divennero enormi e acquosi, increduli, mentre altre due lacrime gli scesero sulle guance.


“Che… che cosa hai detto?” le chiese con voce tremante.

 

E stavolta gli prese lei il viso tra le mani e, dritto negli occhi, ribadì a voce più alta quello che erano mesi che le scoppiava dentro, “ti amo! Ti amo e… non sai da quanto è che volevo dirtelo, ma… ma non potevo dirtelo perché… perché con la mia situazione… non volevo che pensassi che fosse una presa in giro e-”

 

Due labbra sulle sue la zittirono definitivamente, una scossa elettrica tremenda che la percorse per intero, dopo tutti quei mesi di distacco.

 

Sentire di nuovo quelle labbra morbide e salate sulle sue fu veramente come tornare a casa. Se lo baciò, dolcemente, senza fretta, per cercare di trasmettergli tutto quello che provava, fino in fondo. Quanto lo amava, quanto le era mancato, quanto desiderava stare con lui, in tutti i sensi, senza staccarsi mai, fino a perdere il fiato.

 

E alla fine fu lui ad interrompere il bacio, ansimante quanto lei, e sussurrò, il fiato corto, “Imma anche io, anche io ti-”

 

Lo interruppe con un altro breve bacio, “non serve che me lo dici ora, se dopo tutti questi mesi… insomma posso aspettare e-”

 

E stavolta fu lui a zittirla con un bacio, prima di sussurrarle, sulle labbra, “ma vuoi stare un po’ zitta?”

 

“Lo sai che non è molto nelle mie corde, Calogiuri, a meno che continui a baciarmi e allora-”

 

E lui obbedì, ma si staccò praticamente subito, facendole scappare un mezzo grugnito di frustrazione e, prendendole il viso tra le mani, le ribadì, occhi negli occhi, “Imma, come puoi dubitare anche solo un momento che… che anche io ti amo. Ti amo da… da talmente tanto tempo… e lo sai.”

 

Gli sorrise sulle labbra, il cuore che le esplodeva nel petto e lo trascinò in un altro bacio, stavolta più intenso e passionale, e poi un altro ed un altro ancora.

 

Non avrebbe saputo dire quanto tempo avessero passato a limonare su quel divano, come due ragazzini, ma ci sarebbe potuta rimanere per sempre. Ma, alla fine, il desiderio trattenuto per mesi diventò insopportabile, le mani che ormai vagavano ovunque, i vestiti spiegazzati che se ne erano già mezzi che andati sul pavimento.

 

“Vieni…” gli sussurrò, tirandosi in piedi e prendendogli le mani. Ed ebbe un fortissimo senso di dejavu della loro prima volta.

 

Ma anche quella, per tanti altri versi, lo era.

 

Lo condusse in quella che era ormai la sua stanza, ringraziando il cielo di aver optato per un matrimoniale quando aveva scelto i mobili.

 

Lo vide sorridere, non appena gli occhi gli si posarono sul letto.

 

Immaginò fosse per il copriletto, leopardato.

 

“Calogiuri…” lo avvertì, ma lui scoppiò a ridere.

 

Gli diede un buffetto sul braccio ed un pizzicotto sul fianco. Lui per tutta risposta la prese per la vita e la buttò sul letto, iniziando a farle il solletico.

 

“Basta! Basta! Mi arrendo!” esclamò, senza fiato, felice come non mai.

 

Dio, quanto le era mancato tutto questo!

 

Lui le tenne le mani ferme sopra la testa e la baciò, con passione, finché lei, dopo essersi applicata con impegno per distrarlo, si liberò e lo fece rotolare sul materasso, mangiandosi la sua risata con un altro bacio e continuando così, a giocare, a lottare per il controllo, i pochi vestiti rimasti che volavano ovunque per la stanza.

 

E poi, improvvisamente, si fermarono e si guardarono negli occhi, le mani che si cercavano e, ancora intrecciate, finivano sulle guance, come a voler preservare quel momento, come se fossero ancora increduli che non fosse un sogno ma di essere davvero di nuovo insieme.

 

"Ti amo…" gli ripeté, in un sussurro, proprio lei che non era mai stata una molto affettuosa con le parole.

 

Ma sentiva istintivamente che a lui non si sarebbe mai stancata di dirlo e di dimostrarlo, perché Calogiuri praticamente in ogni momento combinava qualcosa che la faceva innamorare ancora di più. 

 

"Sono l'uomo più fortunato del mondo," le rispose, dandogliene l’ennesima conferma.

 

"Sono io che sono fortunatissima, Calogiuri, anzi, diciamo pure che c’ho un culo tremendo!”

 

“Non direi proprio,” la punzecchiò, dandole un pizzicotto proprio lì e facendola sobbalzare, “a meno che, con tremendo, intendi bellissimo.”

 

“Calogiuri!” gridò, fintamente scandalizzata ma sentendosi per un attimo stupenda, schiaffeggiandogli via la mano e riprendendo a baciarlo.

 

Ed andarono avanti così, per ore, a fare l’amore ancora e ancora e ancora, come se non bastasse mai. A cercare di recuperare il tempo perso, a volte con dolcezza, a volte con passione, a volte giocando come due ragazzini, il letto che alla fine pareva un vero campo di battaglia.

 

“Hai freddo?” le chiese, sentendola rabbrividire sul suo petto, tirando su il famoso copriletto leopardato per avvolgerci entrambi, stretti stretti. Il lenzuolo nel frattempo era scomparso, probabilmente finito per terra.

 

Quando furono in quella specie di bozzolo animalier, le accarezzò un braccio, la guardò, si guardò e poi scoppiò a ridere.

 

“Che c’è, Calogiù?”

 

“C’è che sembriamo Tarzan e Jane.”

 

“Sbaglio o noto una punta di ironia sui miei gusti in fatto di arredamento, Calogiuri?”

 

“Non mi permetterei mai, dottoressa. E poi… non mi aspettavo altro da te.”

 

“In realtà… in realtà di solito uso lenzuola un poco più sobrie ma… ma in questa casa… diciamo che volevo ravvivarla un po’, ecco, cambiare atmosfera,” spiegò e, per tutta risposta, si sentì stringere più forte e baciare sulla fronte.

 

“Mi dispiace che hai dovuto affrontare tutti questi mesi da sola…”

 

“Ma forse ne avevo bisogno, sai? Non ero mai stata da sola, Calogiuri e… e a volte serve fare i conti un po’ con se stessi. Anche se avrei preferito che fossi qui con me ma… ma se è servito a… ad arrivare a questo, ne è valsa la pena.”

 

“Imma…” sussurrò, dandole un altro bacio, “anche per me è lo stesso, ma… ma tu sai sempre dirlo meglio di quanto potrei mai fare io.”

 

“Non ti sottovalutare, che pure tu con le parole ci sai fare, fin troppo. Chissà che stragi di cuori avrai fatto a Roma!”

 

“Non credere, no. Anche perché… c’avevo ancora te in testa e… e diciamo che non volevo prendere in giro nessuno.”

 

“Come minimo le hai fatte eccome ma non te ne sei accorto, come al tuo solito,” sospirò, sapendo benissimo quanto Calogiuri si sottovalutasse e provando un pizzico di gelosia. Ma perché il loro rapporto potesse funzionare doveva imparare a contenerla e a contenere le sue insicurezze.

 

Specie visto che almeno per un po’ avrebbero dovuto rimanere distanti.


E questo la riportò bruscamente alla realtà.


“Quando… quando devi tornare a Roma?”

 

“Domattina presto, con la corriera. Avevo pochi giorni di permesso e li ho già quasi tutti bruciati la settimana scorsa e… più di un giorno e mezzo extra non potevo chiedere.”

 

Sentiva già il magone iniziare a montare, pur se si aspettava una risposta del genere. Ma doveva abituarcisi, per forza.

 

“Posso… posso tornare con la corriera del venerdì sera e ripartire con quella della domenica sera e… e così possiamo vederci nei weekend. Se tu vuoi, ovviamente. E quando avrò ferie. Purtroppo per un po’ di anni ancora non posso chiedere un nuovo trasferimento, lo sai, e in ogni caso non potrei chiederlo qui a Matera, per ovvi motivi, ma in qualche modo possiamo fare e-”

 

Gli mise un dito sulle labbra per zittirlo, “aspetta, Calogiuri, ti devo far vedere una cosa.”

 

Si liberò dal copriletto e aprì l’armadio, dove teneva la valigia preparata per Roma, ormai vuota tranne per una cosa, che non aveva avuto la forza di togliere dalla tasca e ritrovarsi davanti agli occhi.


Aprì la zip e ne estrasse una cartellina in cartone e plastica.

 

Si voltò di scatto e lo beccò in flagrante ad osservarla, gli occhi che subito gli precipitarono sul famoso copriletto, ma era troppo tardi. Si rese conto che, completamente nuda e piegata in quel modo doveva avergli offerto un bello spettacolo. Ma non provò imbarazzo, anzi, si sentì sensuale, forte, desiderabile.

 

Ma doveva trattenere i bollenti spiriti ancora per qualche attimo. Gli si avvicinò e si rifugiò nuovamente nel giaciglio leopardato, porgendogli la cartellina.

 

“A Roma… ti volevo portare questo.”


“Le… le tue carte della separazione?”


“Non solo. Se guardi l’ultima pagina… non devi andare in panico, eh, Calogiù. Si tratta solo di una possibilità, se tu lo vuoi e se… se le cose tra noi funzioneranno. Puoi prenderti tutto il tempo che vuoi per decidere, anche perché, per i tempi tecnici, in ogni caso ce ne vorrà un po’. Ma… ma volevo farti sapere che… che sono disposta a farlo, se tu ancora mi vuoi tra i piedi.”

 

Calogiuri andò all’ultima pagina e spalancò occhi e bocca in un modo talmente comico che si dovette trattenere a fatica dallo scoppiargli a ridere in faccia.

 

“Un… un trasferimento a Roma?! Ma sei matta?!”

 

Ecco, hai voluto strafare come al tuo solito: è troppo. È troppo presto, lo hai spaventato, stupida che non sei altro!


“Se… se non lo vuoi, se ti pare affrettato, lo capisco e-”

 

“Ma non dirlo nemmeno per scherzo! Certo che… certo che ti vorrei a Roma con me, pure domani!” la interruppe, il foglio che gli tremava tra le mani, “ma… ma questa è la tua città… tu… tu ami Matera. Anzi, tu sei Matera!”


“Sì, va beh, non esageriamo mo!”

 

“Lo sai che cosa voglio dire...”

 

“Lo so, lo so, ma… ma come dici tu… per qualche anno tu da Roma non ti puoi muovere. E… e per qualche anno a Roma ci starà pure mia figlia, per la maggior parte del tempo. Insomma… tutti i miei affetti stanno lì e… e che cosa mi resta qui? Il mio dovere qui l’ho fatto… ho fatto tutto ciò che potevo per questa città. E a Roma… a Roma tu avrai più possibilità di carriera e… se riuscissi a farmi trasferire in una sede diversa della procura dalla tua, non avremmo più il problema che tu sia un mio sottoposto. Anche se mi manca tantissimo lavorare con te.. E… e in ogni caso potremmo viverci la nostra storia molto più liberamente. Lì nessuno ci conosce, o quasi, e a nessuno importerebbe di vedere una vecchia tardona come me in giro con un bel giovane come te-”

 

“Ma piantala, che sei bellissima e non sei affatto vecchia!”

 

“Lo sai che voglio dire. Qui ci massacrerebbero tutti quanti… mentre lì… si, ci sarebbero problemi, come ovunque, ma… ma non dovremmo avere gli occhi di tutti quanti puntati costantemente addosso e potremmo stare in pace.”

 

“Ti… ti vergogni di farti vedere con me qui a Matera?” le chiese lui, di getto, con un’amarezza nella voce che le fece male.

 

“No! Assolutamente no! Anzi, dovresti essere tu al limite ad essere in imbarazzo. Io non mi vergognerò mai di te, Calogiuri, mai," ribadì con forza, prendendogli il viso tra le mani, "ma i commenti lo sai come saranno!”

 

“Lo so, ma… ma non mi spaventano,” la rassicurò, afferrandole le dita e stringendogliele forte, “comunque… comunque se sei sicura di Roma… certo che ti vorrei lì con me! Ma voglio che tu sia convinta al cento per cento. Io posso aspettare.”

 

“Lo sono, Calogiuri, lo sono. Ho avuto pure io un sacco di mesi per pensarci, no? E poi… mica deve essere per sempre, se lo vorrai e se per allora ancora non ti sarai stancato di sopportarmi, quando potrai di nuovo chiedere il trasferimento ci potremo riavvicinare a Matera.”

 

“E… e quindi mo come vuoi fare?”

 

“Beh, per intanto posso fare la domanda di trasferimento a Vitali. Roma è molto gettonata e immagino ci vorrà un po’ di tempo, Calogiuri. E per intanto… come dici tu, possiamo vederci nei weekend. Magari quando… quando mia figlia sta a Roma o è qui con suo padre, possiamo fare a turno: una volta ti raggiungo io ed una volta mi raggiungi tu. E… e poi almeno un weekend al mese lo passerò con lei qui, fino a che non vivrò a Roma. Sperando che lei voglia passarlo qualche weekend con me, che al momento siamo ancora in una situazione un po’ turbolenta.”

 

“Ma sei sicura di volerti fare tutta questa sfacchinata? Non è un problema per me viaggiare e-”


“E lo so, ma non devi farlo tu tutti i weekend, Calogiuri, o mi arrabbio: è un ordine!” lo interruppe, prima di aggiungere, più seria, “ascoltami… io… io ti garantisco che non mi vergogno di te, di noi e che fosse per me lo direi pure a tutta Matera oggi stesso. Voglio dire, con le vicine che mi ritrovo, che tu sei stato qui oggi lo saprà mezza Matera entro domani. Ma… ma vorrei aspettare a… a dirlo a tutti fino a che ne posso parlarne con Valentina. E… e visto come Valentina ha preso la mia separazione da Pietro, vorrei attendere ancora un poco a dirglielo, se non ti dispiace, perché-”

 

“Te l’ho già detto: tua figlia è la tua priorità e lo so. Tutto… tutto questo,” proclamò, indicando le carte, “è già molto di più di quanto… di quanto mi sarei mai aspettato venendo qui.”

 

“Calogiuri, tu sei troppo buono e dovresti pretendere molto ma molto di più,” gli sussurrò di rimando, abbracciandoselo forte.

 

“E… invece per… tuo… tuo marito… immagino vorrai aspettare a dirlo pure a lui?”

 

“Pietro già sa di noi due e quello che provo per te. Lo ha… lo ha capito da solo, me lo ha detto quando… quando gli ho chiesto la separazione. Non sa che sarei venuta a cercarti mo, ovviamente, anche se forse lo avrà intuito. E non sa che progetto di trasferirmi a Roma. Vorrei dirglielo a cose fatte, anche per scaramanzia. Ma… ma con Pietro è finita completamente, Calogiuri, non ti devi preoccupare, va bene? E poi di recente ha pure iniziato una nuova storia, quindi…”

 

“Va bene,” le disse semplicemente, in quel modo che tanto adorava e che voleva dire proprio tutto.

 

“E ora che ci siamo chiariti, che vorresti fare, maresciallo?” gli chiese, maliziosa.

 

Ma, proprio in quel momento, una specie di ruggito la bloccò.


“Me l’ero quasi dimenticato quanto rumore facesse il tuo stomaco quando è vuoto,” lo sfotté amorevolmente, guardando l’orologio ed accorgendosi che erano già le tre del pomeriggio.

 

“Scusami ma… praticamente è da ieri sera che non faccio un pasto come si deve.”

 

“Ma potevi dirmelo! Che poi con tutto quello che abbiamo bruciato… mi servi in forze, Calogiuri! Mo ti cucino qualcosa. Anzi,” si interruppe, con un sorriso, “in frigo c’ho i pomodorini e l’ultimo basilico buono della stagione. Non è che mi faresti sto famoso spaghetto dell’appuntato? Che ormai sono due anni che aspetto di assaggiarlo!”

 

“Per alcune cose vale la pena aspettare…” le sussurrò, stringendola a sé e dandole un ultimo bacio, prima di alzarsi dal letto, “non garantisco però che lo spaghetto dell’appuntato sia una di quelle.”

 

“Forse lo spaghetto no. Ma l’appuntato, che poi ormai è maresciallo, eccome se lo è.”

 

La guardò di nuovo in quel modo, come se gli fosse capitato un miracolo, poi si rivestì sommariamente, giusto pantaloni e t-shirt, e sparì per andare in cucina.

 

Ma il miracolo, quello vero, era successo lei. Alla soglia dei quarantacinque anni una nuova vita le si apriva davanti, con l’uomo più meraviglioso, buono, intelligente e dolce che avesse mai conosciuto. Oltre che bello come il sole.

 

Le pareva di poter scoppiare dalla felicità.

 

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“Allora, com’era lo spaghetto?”

 

“Per essere pomodorini e basilico, e neppure dei migliori, era davvero ottimo, Calogiuri. Te la cavi sempre bene in cucina.”

 

“Grazie…” susssurrò, modesto come al solito, versandosi un altro goccio di vino, “per questo finesettimana pensi di essere libera o...?”

 

“Sì, Valentina dovrebbe tornare, ma credo starà con suo padre, dato che noi ci siamo viste tutta la settimana scorsa. Te lo farò sapere appena ho notizie. In caso però vengo io a Roma, Calogiuri, che tu già due notti quasi insonni ti passerai e poi lavorerai fino a venerdì.”

 

“Perché? Non mi vuoi far dormire stanotte?” le chiese con un sopracciglio alzato.

 

Imma, per tutta risposta, gli si piazzò in braccio e sussurrò, “solo lo stretto necessario, maresciallo, sempre se riesci a starmi dietro.”

 

Venne travolta da un bacio che sapeva di vino e basilico. Ed ebbe la conferma definitiva che quella notte avrebbero fatto proprio tutto tranne che dormire.

 

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Dio mio! Come fai ad essere sempre più bella?

 

Abbarbicata al suo petto, un riccio ribelle sul viso che si sollevava ritmicamente con il suo respiro, mentre altri gli solleticavano la pelle.

 

Quanto gli era mancato tutto questo! Era passato quasi un anno dalla loro ultima notte insieme, a Roma.

 

Fino a qualche giorno prima era convinto di doverle solo rivivere nei ricordi, nei sogni che faceva fin troppo spesso, e invece…

 

E invece ora Imma era lì con lui. La sua dottoressa era veramente sua adesso, sua e di nessun altro.

 

E lo amava, lo amava. Amava proprio lui, un povero maresciallo con ben poco da offrirle se non l’amore immenso che provava per lei e che aveva ormai abbandonato ogni speranza potesse essere ricambiato un giorno.

 

E invece non solo lo amava, ma lo amava a tal punto da essere disposta a rivoluzionare tutta la sua vita per lui.

 

Gli occhi gli pizzicarono: era un miracolo, un vero miracolo! Tutti i suoi desideri più impossibili si erano realizzati in un solo giorno ed una parte di lui ancora temeva di svegliarsi e scoprire che era stato tutto solo un sogno.

 

Forse per quello non aveva chiuso occhio, ma l’orologio sul comodino segnalava che era quasi ora di prepararsi per andare a prendere la corriera.

 

Inspirò ancora per un attimo il profumo dei suoi ricci, vi posò un lieve bacio e poi cercò di staccarsi da lei, il più silenziosamente possibile, per lasciarla dormire, visto che avevano passato la notte praticamente in bianco.

 

Ci era riuscito e si stava mettendo a sedere, quando si sentì afferrare per un braccio.

 

“Dove… dove pensi di andare?” gli chiese una voce assonnata, due occhi che brillarono pure nella penombra della stanza.


“Non ti volevo svegliare. Riposati: io mo devo andare ma… ma sabato mattina sono di ritorno.”

 

“Calogiuri, ti ho già detto che ci vengo io a Roma. E se ti azzardi di nuovo a provare ad andartene senza svegliarmi, giuro che mi arrabbio sul serio e poi le notti le passi in bianco, ma in un altro senso,” intimò, tirandosi a sua volta a sedere e piantandogli l’indice nello sterno.

 

“Va bene, va bene. Agli ordini, dottoressa! Ma su questo weekend non transigo. Dal prossimo facciamo come vuoi tu, ma sei appena tornata da Roma pure tu e… e ho visto i sonniferi sul comodino. Io sulla corriera riesco a dormire, lo sai.”

 

“Calogiuri…” gli sussurrò, con quel tono dolce che gli causava sempre la voglia di abbracciarla fortissimo, “e comunque se ci sei tu con me i sonniferi non mi serviranno.”

 

“Dovrebbe essere un complimento?” ironizzò, prima di cedere all’impulso e stringerla forte a sé e la verità era che non avrebbe mai voluto staccarsi.

 

Ma alla fine si costrinse a lasciarla andare ed iniziare a rivestirsi.

 

Quando ebbe terminato, la vide ancora lì, che lo fissava con un’intensità che lo faceva commuovere. Si avvicinò per un ultimo bacio e le sussurrò, “ti amo!”

 

Gli sembrava incredibile poterglielo dire liberamente, senza dover temere di spaventarla, di essere respinto.

 

“Anche io! Fammi sapere quando arrivi e… mi raccomando a Roma!” gli intimò, scherzosa ma non troppo.

 

La gelosia di Imma era un’altra delle cose alle quali avrebbe dovuto fare l’abitudine. E da un lato gli faceva piacere, ovviamente, sapere che lei temesse di perderlo, dall’altro però voleva rassicurarla che non ne avesse proprio motivo.

 

“Tornerò prima che tu possa sentire la mia mancanza. Tranquilla.”

 

“Questo è proprio impossibile, Calogiuri. Ma ce la faremo.”

 

“Sì,” confermò, deciso, la commozione che prendeva il sopravvento, “ce la faremo. Insieme.”

 

Un ultimo bacio e si decise ad uscire nell’aria frizzantina dell’alba di ottobre.

 

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Le sembrava di camminare sulle nuvole e non su degli scomodissimi tacchi dodici.

 

Aveva una specie di mezzo sorriso ebete sul viso che non riusciva a levarsi: avrebbe potuto incontrare perfino la sua quasi ex suocera per strada e ancora un po’ avrebbe abbracciato pure lei.

 

Si sentiva come quei deficienti delle pubblicità delle merendine, che si svegliano all’alba entusiasti, cantano mentre fanno colazione ed escono di casa, invece di maledire la sveglia e volerla fare a pezzettini.

 

Era felice, felice, felice, come non pensava avrebbe mai potuto essere in vita sua: neanche sapeva potesse esistere una felicità così intensa.

 

Arrivò in procura e salutò le guardie che la guardarono basiti, probabilmente per il sorriso con cui si era rivolta a loro.

 

E poi salì le scale e si trovò di fronte, ovviamente, la Moliterni.

 

“Imma… ti vedo particolarmente allegra stamattina. Non che la cosa mi stupisca: ce li avessi io, gli affari tuoi! Beata te!”


“Maria!”


“Tranquilla, Imma, sulla mia discrezione lo sai che ci puoi contare, no?”

 

Era la prima volta che faceva riferimento a quanto successo il Capodanno precedente.


“E comunque, a proposito di discrezione,” aggiunse, avvicinandosi al suo orecchio, “hai un segno qui, sul collo.”

 

Imma avvampò completamente e si toccò la parte incriminata ma non sentì niente.

 

Maria, per tutta risposta, scoppiò a ridere, “scusami, Imma, ma non ho resistito. E comunque ancora complimenti, dottoressa! Un giorno dovrai spiegarmi il tuo segreto.”

 

E si avviò verso il suo ufficio, come se nulla fosse.

 

Gliel’aveva fatta, gliel’aveva proprio fatta! Maria Moliterni a dirigere il REGE era un disastro, ma sarebbe stata bravissima a condurre gli interrogatori.

 

Doveva parlare con Vitali, ma non poteva farlo proprio subito dopo che Calogiuri si era presentato in procura. Decise di aspettare ancora qualche giorno, e poi avrebbe giustificato la richiesta di trasferimento dicendo di voler raggiungere la figlia. Che era peraltro parte della verità.

 

Si diresse verso il suo ufficio e trovò la sua cancelliera appollaiata su una delle sedie, con un sorriso che le ricordò quando al liceo si rincontravano tutte dopo l’estate e Diana attendeva i gossip più succulenti delle compagne che, a differenza di Imma, avevano una vita sociale e amori estivi.

 

“E allora?”

 

“E allora non so se ti devo uccidere o farti i complimenti, Diana, ma almeno potevi avvisarmi che lo avevi sentito!”

 

“Come tu potevi dirmi che te ne saresti andata a cercarlo a Roma. Mica solo tu devi tenerti i segreti, dottoressa! E poi non volevo rovinarti la sorpresa!” rispose, sorniona, alzandosi in piedi per poi ribadire, “e allora?”

 

“Che cosa vuoi, Diana? I dettagli? Non stiamo al ginnasio!”

 

“Ma per carità di dio, no! Ma, se ci sono dettagli da raccontare, vuol dire che… insomma…?”

 

“Che è andato tutto bene, Diana, molto bene. E di più non dimandare o ti spedisco a farmi una ricerca storica in archivio.”

 

“Sono tanto felice per te, Imma!” esclamò, e si trovò avvolta in una specie di morsa, “pensa i casi della vita: alla nostra età, dopo tanti anni di matrimonio, tutte e due ci separiamo e abbiamo una relazione con un carabiniere. Quante erano le probabilità?”

 

Si morse la lingua dal dirle che a lei era andata giusto giusto leggermente meglio.

 

“Sì, ma per ora questa cosa non voglio pubblicizzarla. Valentina non lo sa ancora e-”

 

“Tranquilla, Imma! Sono mesi che tengo il segreto, da quando vi ho beccato a baciarvi in ufficio ed eravate talmente presi che manco vi siete accorti di me…” rise ed Imma si sentì di nuovo avvampare.

 

“Pure Capozza lo sa, immagino?”

 

“Ma certo che lo ha capito pure lui, Imma! Dai, di voi in procura ci sono voci da mesi e lo sai. Ma sta tranquilla: noi non diremo niente fino a quando darai tu l’annuncio ufficiale. Che poi… sai quante ne farai schiattare d’invidia qui in procura?! Soprattutto Matarazzo: dovevi vedere ieri, quando ha saputo che Calogiuri ti era venuto a trovare ed eravate andati via insieme, mi hanno detto che è stata intrattabile tutto il giorno, peggio pure di te. Quasi sì è mangiato vivo il povero Puddu che ha provato a chiederle cosa avesse.”

 

“Noto che le voci in procura girano sempre più in fretta che su internet. Qua tra un po’ altro che annuncio ufficiale: i manifesti mi trovo appesi.”

 

“E va beh, Imma, che non lo conosci l’ambiente qui com’è? Comunque, a chi mi ha chiesto notizie, ho detto che gli stavi dando una mano per il maxiprocesso a Roma. Almeno così c’avete una bella scusa ufficiale.”

 

“Diana…” sorrise e stavolta fu lei ad abbracciarsela, “grazie, grazie di tutto!”

 

“Ma ti pare, Imma! Se non ci si aiuta tra noi. E poi almeno magari sarai un po’ più allegra, che ultimamente eri ancora più intrattabile del solito!”


“Diana!” urlò, ma la cancelliera le fece l’occhiolino, la strinse di nuovo a sé e poi tornò alla sua scrivania, come se nulla fosse successo.

 

Si rese conto in quel momento di quanto le sarebbe mancata Diana, di quanto le sarebbe mancata Matera, nonostante tutto, nonostante mai come nel suo caso nemo profeta in patria.

 

Ma Calogiuri si meritava quel sacrificio. E dove c’erano lui e Valentina, lì c’era la sua casa, nel senso più vero del termine.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qui, finalmente quello che doveva succedere da diciannove capitoli è successo. Imma e Calogiuri possono ora iniziare a costruire una storia vera e non soltanto una relazione clandestina e Imma ha finalmente ammesso ciò che prova per lui.

Ma non è finita qui. Con questo capitolo si chiude la seconda parte della storia, siamo più o meno a metà, ci saranno nuovi gialli e poi Imma e Calogiuri ne hanno di problemi da affrontare prima di poter vivere la loro storia liberamente alla luce del sole.

E sarà proprio questo il tema centrale di almeno parte della terza fase di questa storia, ci saranno momenti di maggiore serenità ma alternati anche agli ovvi problemi di una coppia con tanta differenza d’età e di una donna col vissuto di Imma.

Spero la storia continui a mantenersi interessante e coinvolgente e veramente ogni vostra recensione mi è preziosissima e mi motiva tantissimo a fare sempre meglio, oltre a farmi capire come sto andando con la scrittura.

Se vorrete quindi farmi avere il vostro parere vi ringrazio fin da ora e vi ringrazio in ogni caso per l’affetto e la costanza con le quali avete seguito questa storia fin qui.

Il prossimo capitolo arriverà come sempre domenica prossima, l’otto di marzo.

Grazie a tutti!

 

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Capitolo 20
*** Venirsi Incontro ***


Nessun Alibi


Capitolo 20 - Venirsi Incontro


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

 

Nota dell’autrice: questo capitolo era stato in gran parte scritto e completato prima degli eventi delle ultime settimane. Questo punto della storia è ambientato a inizio 2019. Comprenderete il perché del disclaimer leggendo, grazie a tutti.


“Ma che significa, dottoressa?!”

 

“Quello che vede scritto lì, dottor Vitali, a meno che lei non abbia problemi di presbiopia, ultimamente.”

 

“Il suo sarcasmo non la abbandona mai, dottoressa! Ma… ma che vuol dire che chiede il trasferimento a-” si interruppe, girando la pagina, facendo una faccia strana e pronunciando, “a Roma?”

 

“Vuol dire che intendo andare a vivere a Roma, dottore. Mia figlia sta facendo lì l’università e… e come lei saprà, immagino, mi sono recentemente separata da mio marito, quindi….”

 

“Dottoressa, capisco la sua esigenza di… di stare vicino ai suoi affetti. Ma devo dire che non mi sarei mai aspettato che lei fosse addirittura disposta a lasciare Matera. Mancherà molto a questa città e a questa procura, dottoressa, nonostante il suo caratteraccio insopportabile ma… è probabilmente la persona più in gamba con cui ho avuto il piacere e il dispiacere di collaborare. Ed è una grande perdita per tutti noi se lei se ne va.”

 

“Dottor Vitali…” sussurrò, commuovendosi per un attimo, di fronte a tali parole di stima.


“Non posso sperare che lei ci ripensi immagino, dottoressa. Ma le voglio dire che, finché sarò io procuratore capo qui a Matera, qualora lei vorrà ritornare qui in futuro, farò di tutto affinché le porte siano aperte, per lei e per i suoi affetti. Lei mi capisce, non è vero?”

 

"Veramente no…"

 

"Dottoressa, suvvia, lei sa perfettamente di chi sto parlando. Gli riferisca che, se vorrà tornare qui insieme a lei tra qualche anno, cercherò di fare in modo che ciò sia possibile, senza che incorriate un’altra volta in problemi disciplinari. Ci siamo intesi?"

 

E ad Imma si gelò il sangue nelle vene, mentre una specie di fuoco iniziava a irradiarlesi da dentro, quello che preannunciava un’incazzatura con i fiocchi.

 

“In che senso un’altra volta, dottore?”

 

“Come?”

 

“Ha detto: senza che incorriate un’altra volta in problemi disciplinari. Ora, a parte che non so come lei sia tanto convinto del fatto che io tra i miei affetti ricomprenda chi sappiamo benissimo entrambi, come dice lei, ma quando mai saremmo incorsi in problemi disciplinari io e i miei affetti?”

 

“Ma no… dottoressa… mi sarò confuso...” balbettò, in evidente panico.

 

“Dottore, come mi ha detto una volta lei stesso, lo sappiamo benissimo che a lei non sfugge quasi niente e che non si confonde facilmente. Quindi, di che sta parlando?!”


Era come se un puzzle nella sua testa si stesse ricomponendo, pezzo per pezzo, e gliene mancava giusto uno, quello finale, per completare il quadro, ma gli altri si incastravano tutti.

 

Calogiuri che, di botto, le annunciava di volersi trasferire, ma sembrando pure in colpa di volerlo fare, proprio quando lei aveva appena scoperto la sua vera paternità. Calogiuri che, in mille altre occasioni, aveva rinunciato a ciò che era meglio per lui, per ciò che era meglio per lei. Si sarebbe trasferito proprio in quel momento, pure in un posto prestigioso come a Roma? Dopo averle promesso di rimanere al suo fianco?

 

Non le era sembrato strano all’epoca, perché presa dai sensi di colpa immensi che aveva nei confronti di Calogiuri e perché… perché avevano appena ceduto di nuovo alla passione dopo… dopo la sparatoria!

 

Matarazzo.

 

Li aveva visti. Ma poi, a parte lanciare occhiatacce a destra e manca, non aveva fatto nulla.

 

Presa com’era da tutto quello che le stava piovendo addosso in quel periodo e dalla disperazione per il trasferimento di Calogiuri, non ci aveva fatto nemmeno caso, però… però era strano, che non avesse fatto proprio niente. All’epoca aveva pensato che non si volesse creare problemi, Matarazzo, ma e se….

 

E poi c’era il comportamento di Calogiuri: dopo l’annuncio del trasferimento l’aveva evitata il più possibile. Per non stare peggio, aveva detto lui. Ma l’ultimo giorno era andato comunque a dirle addio e se ne era scappato con lei, per quella che pensavano fosse l’ultima volta. Ma… ma era stato cauto, cautissimo, quasi paranoico, sul fatto che qualcuno li potesse vedere insieme.


Cretina, cretina che non sei altro! Come hai fatto a non notarlo prima?!

 

“I problemi disciplinari ci sono stati, dottore, non è vero? E… e il trasferimento di Calogiuri… non è stato esattamente volontario, non è così?!” sibilò, sporgendosi in avanti sulla scrivania e rovesciandogli di proposito la maledetta statuetta di pulcinella.

 

Vitali era talmente spaventato che non obiettò nemmeno.

 

“C’entra Matarazzo, non è vero?! Mi risponda!”

 

Il procuratore capo deglutì visibilmente e poi, con mano tremante, si aggrappò alla statuetta, quasi temesse gliela potesse spaccare - forse in fronte.

 

“Dottoressa… lei deve capire che ho solo fatto il mio mestiere. E sì, ho suggerito io al maresciallo la soluzione del trasferimento, ma ha accettato volontariamente di farlo, non l’ho costretto. E… e lo ha fatto, anzi lo abbiamo fatto per salvare la carriera, ad entrambi.”

 

Imma si accasciò sulla sedia, la rabbia e l’indignazione che si mischiavano all’incredulità e alla commozione.

 

“Ma che è successo esattamente?!”

 

“L’agente Matarazzo aveva - o forse ha, perché del fatto che le abbia distrutte non posso esserne certo - delle foto di voi due che uscivate e rientravate dalla casa del maresciallo. Il giorno della sparatoria nella quale siete stati coinvolti e… e quello successivo. Poi ho capito che… che le visite a casa del maresciallo erano anche per la storia di Latronico, dottoressa, ma Matarazzo era pronta a testimoniare ciò che aveva visto e sentito durante la sparatoria, che di nuovo immagino lei sappia meglio di me. Era pronta a montare uno scandalo e anche a bypassarmi, se non l’avessi ascoltata. E così… c’era di mezzo il maxiprocesso, dottoressa, la storia di Latronico e lei era una donna sposata. E, se fosse finita sotto inchiesta, tutto il suo lavoro sarebbe andato in fumo… e così… e così ho scelto il male minore, dottoressa, e il maresciallo ha concordato con me che fosse la soluzione migliore per tutti. Ma sinceramente pensavo ormai lei lo sapesse… viste le circostanze tra lei ed il maresciallo.”

 

“No, non lo sapevo, dottore! E lei si è approfittato del buoncuore, dell’ingenuità e della generosità del maresciallo, invece di avere il coraggio di affrontarmi! Non che la cosa mi sorprenda ma-”

 

“Ma il risultato finale è stato quello che è contato dottoressa: la sua reputazione lavorativa è salva e… e per il resto non potevo certo sapere che lei avrebbe comunque deciso di lasciare il maxiprocesso. Né potevo immaginare che le cose tra lei ed il maresciallo fossero… serie fino a questo punto.”

 

“Perché? Se lo avesse saputo mi vuole dire che sarebbe cambiato qualcosa? E mo ci troviamo a doverci trasferire a Roma che, per carità, città stupenda e meravigliosa! Ma se mi avesse permesso di affrontare Matarazzo, magari tutto questo si poteva evitare e soprattutto non è giusto che lei abbia lasciato un peso del genere solo sulle spalle di Calogiuri, invece che sulle mie, che ero il suo superiore e quindi, al limite, la persona con più responsabilità in questa vicenda!”

 

“Dottoressa… lei mi conosce… io devo fare gli interessi della procura e della giustizia, lo sa bene. E forse avrei comunque fatto le cose come le ho fatte, non lo so questo, dottoressa, è facile ragionare col senno di poi, ma spero lei capisca che ho cercato di agire per evitarvi il peggio, ad entrambi, incluso il maresciallo. Devo dire che è quasi commovente vedere con quanta veemenza vi difendete a vicenda. E verrò già punito perdendo il mio magistrato migliore, non crede?” le chiese con un mezzo sorriso e non sapeva se volesse strozzarlo o complimentarsi per la faccia tosta.

 

“Comunque mo capisco cosa intendeva con il fatto che i miei affetti potessero rientrare tra qualche anno, anche se, vista la presenza di Matarazzo, non capisco cosa cambi tra mo ed allora dal suo punto di vista.”

 

“Se la situazione tra voi due sarà ufficializzata, dottoressa, l’agente Matarazzo avrà ben poco da fare e… e non è detto che sia ancora qui, quando voi tornerete. Perché spero vivamente lo farete, non appena il maresciallo potrà trasferirsi nuovamente. Matera sa essere tremenda, lo so, ma lei ha la scorza dura, Tataranni. Il maresciallo a prima vista non parrebbe, ma quando serve il carattere lo tira fuori e per sopportarla deve avercene parecchio.”

 

“Potrei dire lo stesso di sua moglie, dottore,” proclamò, lanciandogli un’ultima occhiata di avvertimento e congedandosi definitivamente per quella sera.

 

*********************************************************************************************************

 

Era stata indecisa tutto il giorno su che fare con quell'informazione. Da un lato era venerdì sera ed il mattino dopo avrebbe finalmente rivisto Calogiuri. Sebbene non fosse certa se prevalesse la voglia di baciarlo o quella di strozzarlo.

 

In entrambi i casi, gli avrebbe fatto perdere il fiato.

 

Ma bussarono alla porta.

 

"Avanti!" chiamò, con un sospiro, e le comparve di fronte proprio Miss Sicilia, che la squadrava in un modo strano, tra lo schifato ed uno sguardo di sfida.

 

Ed Imma non ci vide più.

 

"Matarazzo. Aveva bisogno di qualcosa?" chiese, giusto per accertarsi se ci fosse qualcosa di urgente, prima di partire all'assalto.

 

"Le ho portato il rapporto sull'accoltellamento alla stazione dei bus," proclamò, praticamente gettandoglielo sulla scrivania.

 

"Matarazzo, ha deciso di diventare, oltre che pilota di formula uno, pure giocatrice di baseball, o ha qualcosa da dirmi?"

 

Matarazzo rimase per un attimo immobile, come se fosse incerta sul parlare o meno e fosse sul punto di scoppiare.

 

"So tutto delle foto, Matarazzo, se è questo che sta cercando di trovare il coraggio di gettarmi in faccia, invece del fascicolo. Ma, visto che non ce l'ha avuto in tutti questi mesi, non mi stupisce che le manchi ora."

 

"Glielo ha detto il maresciallo, quando è venuto in visita lunedì?" domandò ed Imma capì il motivo del rinnovato risentimento: del resto in procura le voci correvano velocissime.

 

"No, l'ho scoperto da sola. Ci ho messo un po', Matarazzo, perché non avrei mai immaginato che lei potesse arrivare fino a questo punto, ma-"

 

"Ma nemmeno un poco si vergogna?!"

 

"Secondo il parere comune dovrei vergognarmi di qualcosa di diverso quasi ogni giorno Matarazzo, ma no, di questo proprio non mi vergogno. E non mi vergognerò mai. Lei, piuttosto, non si vergogna nemmeno un po' ad aver quasi distrutto la carriera di un ragazzo di valore come il maresciallo ed averlo costretto ad un trasferimento per un risentimento personale? Perché di questo si tratta. Io e Calogiuri lavorativamente parlando non abbiamo fatto niente di male e lei lo sapeva benissimo, pure prima di mettersi a fare la detective privata."

 

"E quando siete andati a casa di lui in orario di lavoro? Pure in quello non c'era niente di male? Il senso della vergogna proprio non ce l'ha, dottoressa. Ma io le foto ancora sono in tempo a farle uscire, lo sa?!" gridò, afferrando il cellulare e porgendoglielo, facendo scorrere le quattro foto di lei che entrava e usciva da casa di Calogiuri, "visto che evidentemente la lezione non vi è bastata!"

 

"Allora, Matarazzo, punto primo queste foto non provano niente se non delle mie visite a casa del maresciallo. Io ero pure infortunata peraltro e il dottor Vitali conosce il motivo di quella mia visita in orario di servizio, inoltre-" la bloccò, quando cercò di aprire bocca, "io sono una donna separata mo, il maresciallo Calogiuri non è un mio sottoposto ed il mio quasi ex marito sa perfettamente che abbiamo una relazione, visto che ci tiene tanto a saperlo pure lei. Quindi, se vuole fare uscire uno scandalo lavorativo arriva giusto giusto con qualche mese di ritardo; se vuole rovinare la mia reputazione, mi danno già della troia tutti i giorni, me lo scrivono pure sotto casa e dubito possano trovare ulteriori sinonimi sul vocabolario, ormai. E se vuole sconvolgere la mia vita familiare, come vede anche per quello è decisamente troppo tardi. Per me con queste foto può pure farci i manifesti ed appenderle per tutta Matera, per quanto me ne frega!"

 

Era in larga parte un bluff ma vide Matarazzo sgonfiarsi visibilmente, "e per il resto non so cosa speri di ottenere, se non di farsi lei una pessima reputazione. Lavorativa e personale. Avete passato una notte insieme e sono trascorsi otto mesi. Lui avrà pure sbagliato nei suoi confronti - a parte che era pure ubriaco, a quanto ne so - ma ora chi rasenta l’ossessione ed il penale è lei. Se continua cosi, una bella denuncia per ricatto e minacce non gliela leva nessuno. Gliel'ho già detto, per me quelle foto sono carta igienica e le consiglio di eliminarle prima che le si ritorcano contro. Perché, se solo le nomina un'altra volta io sono disposta ad andare fino in fondo con la denuncia. E mo, Matarazzo, se non c’è altro, me ne andrei a casa, a vedere se i materani hanno esercitato la loro fantasia con qualche nuovo epiteto nei miei confronti."

 

Matarazzo rimase a bocca spalancata per un secondo, poi si voltò ed uscì di corsa, con la coda tra le gambe.

 

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“Imma!”

 

Erano le sette e mezzo di sabato mattina e trovarsela davanti, due secondi dopo aver suonato il campanello, ancora in camicia da notte, gli provocò un’emozione indescrivibile.

 

Richiuse la porta e fece per abbracciarla quando lei mise le braccia rigide davanti a sé, per bloccarlo, un’espressione strana in volto che non prometteva nulla di buono.

 

“Che…. che succede?!”

 

“Succede che ho parlato con Vitali e poi con Matarazzo e… e mi ha mostrato certe foto, Calogiuri. E… e come ti è saltato in mente di tenermelo nascosto??!!” gridò, palesemente incazzata nera.

 

“Ma Matarazzo vuole crearti ancora problemi? Ti ha minacciata?!” chiese, preoccupatissimo, con una voglia di strozzare l’agente come mai prima.

 

“Matarazzo l’ho rimessa al suo posto, Calogiuri, spero definitivamente. Come avrei magari pure già fatto, se mi avessi detto quello che stava succedendo e ti fossi fidato di me, invece di farti fregare da Vitali e fare l’eroe solitario. Avrei affrontato lei, Vitali e pure Pietro se serviva, Calogiuri, non dovevi sacrificarti tu per tutti e due! E mo ci troviamo in questa bella situazione e-”

 

“Imma, io non potevo permettere che tu rischiassi il lavoro e la carriera per me. E soprattutto non volevo che tu fossi costretta ad uscire allo scoperto con me, non in quel modo, lo capisci sì o no?! Volevo fosse una tua scelta, libera e-”

 

“E lo sarebbe stata, Calogiuri! Lo sarebbe stata! Io volevo dire tutto a Pietro già da tempo! Ma poi, quando tu mi hai detto del trasferimento, non volevo impedirti di avere la tua occasione a Roma, visto che sembravi tanto deciso e-”

 

“E io come potevo saperlo?! E come potevo sapere che avresti mollato tu stessa il maxiprocesso, facendoti da parte? E comunque, se è servito ad evitarti un’inchiesta e a salvarti la carriera io non me ne pento, Imma, anche se… anche se mo sto a Roma. Ma se… se tu non te la senti più di raggiungermi, perché pensi che sia colpa mia, io-”

 

Un dito sulle labbra lo zittì.

 

“Ma sei matto?! Lo so quanto ti è costato, Calogiuri, porca miseria! Hai rivoluzionato tutta la tua vita per… per proteggermi! E… e io a Roma certo che ci voglio venire, anche perché per te resta una grande occasione! Ma… ma non voglio che fai più l’eroe per me, Calogiuri: non voglio che mi nascondi le cose. I problemi li dobbiamo affrontare insieme, come una squadra, o questo rapporto non può funzionare, con tutti quelli che ci saranno che ci daranno addosso. Lo capisci questo?”

 

“Lo capisco… ma è che… tu mi hai già protetto così tante volte, Imma, per una volta volevo essere io a fare qualcosa per te. E… e non pensavo che per noi ci fosse un futuro. Ma ora è diverso e sarà diverso, te lo prometto!”


“E perché, tu non mi hai protetta un’infinità di volte, da quando ti conosco? Non ti devi più sottovalutare, Calogiuri e non hai proprio niente da dimostrarmi! Tu hai già fatto e fai già fin troppo! Lo hai capito mo o te lo dovrò proprio ripetere allo sfinimento?”

 

Sentì la commozione salire a tradimento: forse una parte di lui non si sarebbe mai sentita abbastanza per lei, era inevitabile. Ma lei e solo lei riusciva sempre a scacciare quel demone dell’insicurezza, che lo prendeva quando meno se lo aspettava, a farlo sentire così importante, apprezzato, rispettato.


Ed ora, perfino amato.

 

Se la abbracciò, sentendo quel corpo caldo e morbido tremare leggermente contro la sua giacca, probabilmente per il freddo che si portava dall’esterno.

 

“Se ce ne andassimo ancora per un poco a letto, che è ancora presto?”

 

“Mi leggi nel pensiero, maresciallo,” gli sussurrò di rimando, piantandogli un bacio sul collo - era tanto più bassa, la sua Imma, senza i soliti tacchi - e, prendendolo per mano, lo condusse fino in camera.

 

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“Mi erano mancati i cornetti all’arancia di Matera!”

 

“Anche a me, moltissimo!”

 

“Ma se tu prendi sempre il bombolone alla crema, e poi potevi mangiarli quando volevi.”

 

“E chi ha parlato di mangiarli?” gli sussurrò, sporgendosi sopra al vassoio della colazione per dargli un bacio, perché era quello il sapore di cui tanto aveva sentito nostalgia.


Ed era pure meglio di come si ricordasse.

 

“Imma… se vai avanti così da questo letto oggi non usciamo più…” le sorrise in quel modo esasperato.


“E sarebbe un problema per te?”

 

“No, ma-”

 

In quel momento suonò il campanello.

 

Imma guardò l’orologio: erano le undici di sabato mattina, più ora di pranzo che di colazione, oggettivamente, ma loro erano stati impegnati in ben altro.

 

“Aspetti qualcuno?” le chiese e ci notò, con piacere, una punta di gelosia.

 

“No, non credo, aspetta qui.”

 

Si avviò, ancora scalza, alla porta e guardò dallo spioncino: Valentina.

 

Merda!

 

Corse in camera più rapidamente e silenziosamente che poteva.

 

“Calogiuri… è… è mia figlia… senti, lo so che quello che ti sto per chiedere è orribile, ma puoi stare qui senza far rumore? Io mo mi rivesto, apro la porta e cerco di capire che succede. Scusami, ma… non voglio che scopra di noi così.”

 

“Ehi… tranquilla! Guarda che lo capisco benissimo! Nemmeno io vorrei trovare mia madre… insomma…”

 

“Grazie!” esclamò, stampandogli un bacio, mentre si infilava di corsa i vestiti del giorno prima che ancora stavano su una sedia e sentiva il campanello suonare.

 

Chiuse la porta della camera e corse ad aprire.


“Finalmente!! Cominciavo a pensare che non fossi in casa, ma quel catorcio di macchina che ti sei presa per risparmiare è qua davanti, e quindi mi stavo pure preoccupando.”

 

“Valentì,” espirò, col fiatone, “scusa ma stavo in bagno. Come mai sei qui?”

 

“Che accoglienza, complimenti! Se ti do fastidio me ne vado subito!”

 

“Ma che fastidio e fastidio, vieni qui!” esclamò, afferrandola per una spalla ed abbracciandosela.

 

“Che cos’è questo odore?”

 

“Di cosa?!” chiese Imma preoccupata, staccandosi bruscamente.

 

“Di arancia?”

 

“Ah, no, niente, mi sono mangiata un cornetto all’arancia per colazione.”

 

“E da quando ti piacciono?”

 

Sapessi… Valentì - pensò, non potendolo dire ad alta voce, facendola sedere sul divano.

 

“Allora? Come mai questa visita?”

 

“Niente… è che… mi chiedevo se volessi venire a pranzo insieme a me. Papà è con nonna ad un’altra visita per la sua sciatica, poi torno da lui.”

 

A parte maledire la sciatica di sua suocera, benedisse invece per una volta il poco amore di Valentina per la sua cucina.

 

“Va bene. E che ne dici se prima andiamo a fare un po’ di shopping? Che lo so che mo avrai molta più scelta a Roma, ma i prezzi che ci sono qui-”

 

“Certo, se compri quegli obbrobri con cui ti vesti tu, trovi tutto in super sconto. Comunque, se lasci scegliere a me volentieri, che almeno non stiamo troppo qui dentro… mi fa ancora effetto questa casa, non so come fai a starci.”

 

Valentina era sempre delicata come un caterpillar. Come sua suocera. O forse come lei.

 

“Ci sto come una che non vuole pagare un affitto extra, Valentina, oltre al tuo a Roma, e a tutte le altre spese,” rispose, seppure si rendesse conto che, di lì a breve, un altro affitto a Roma lo avrebbe dovuto pagare.

 

Ma a maggior ragione, doveva mettere i soldi da parte.

 

“Va bene, va bene, allora andiamo?”

 

“Sì, tu comincia a uscire: recupero borsa e cellulare e arrivo,” rispose e, quando Valentina fu uscita, tornò in camera, rivolgendo a Calogiuri, che nel frattempo si era rivestito, uno sguardo mortificato.

 

“Mi dispiace, ma…” gli sussurrò e lui scosse le spalle.

 

“Tranquilla, ho sentito tutto. Avvisami quando torni, che non mi faccio sentire,” le sussurrò di rimando.

 

Gli stampò un bacio sulle labbra e si avviò a raggiungere Valentina.

 

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“Scusami, ancora, veramente, mi dispiace tantissimo e se sei arrabbiato-”

 

“Imma,” la interruppe, prendendole di mano il sacchetto con i pochi acquisti fatti quel giorno, “te l’ho già detto: lo so che tua figlia è la tua priorità e che… che non è facile per te dirle di noi due. Forse… forse per questi primi tempi è meglio che io venga qui da te solo quando lei sta a Roma. E invece, quando lei viene a trovare… suo padre, vieni tu a Roma. Che ne dici?”

 

“Ma così dovresti farti tu due weekend su tre di viaggio, Calogiuri, e non è giusto. E poi a Roma almeno non dobbiamo rimanere rinchiusi in casa come qui, o quasi.”

 

“Perché? Ti sei già stufata di stare da sola con me?”

 

“Mai!” proclamò, decisa, trascinandoselo in un bacio, mentre lui le slacciava il cappotto.

 

“Perché non mi fai vedere i tuoi nuovi acquisti?”

 

“Che cos’è? Vuoi una sfilata, maresciallo?”

 

“Mi leggi nel pensiero, dottoressa,” rispose, incominciando a baciarle il collo.

 

Ed Imma dubitò seriamente che avrebbe avuto il tempo di infilarseli i vestiti.

 

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“Devo proprio andare mo, o perdo la corriera… ma una settimana passa in fretta.”

 

Erano rimasti fino all’ultimo abbracciati sul divano: proprio non si voleva staccare da lui. Ma sapeva benissimo che Calogiuri non poteva trattenersi oltre.

 

“Insomma… ma stavolta vengo io, eh, pure se Valentina sta a Roma: tanto è enorme e le probabilità che ci incrociamo sono minime.”

 

“Agli ordini, dottoressa!” proclamò, ironico, dandole un ultimo bacio, prima di avviarsi.

 

“Aspetta! Mi stavo dimenticando di queste!”

 

Calogiuri si voltò e lo vide sgranare gli occhi, di fronte al mazzo di chiavi che gli stava porgendo.

 

“Te ne ho fatta una copia. Così il sabato mattina puoi entrare senza dover suonare e… e poi almeno, in caso di problemi, come ieri, puoi andare e venire più liberamente.”

 

“Gr-grazie…” balbettò, con quello sguardo che lo faceva sembrare un cucciolo sull’orlo delle lacrime.

 

Si trovò travolta in un altro bacio e poi, troppo velocemente, Calogiuri sparì oltre la porta, portandosi via il suo sorriso e il suo calore.

 

L’attesa sarebbe stata durissima da sopportare.

 

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“Calogiuri, ci sei? Che mi sembri addormentato oggi! Tutto bene?”

 

“Scusatemi, dottoressa, ma sono solo un po’ stanco.”

 

“Mmmm… è da un po’ che non ci facciamo uno dei nostri aperitivi. Belle novità da raccontare, per caso, Calogiuri?” gli domandò, ironica, alzandosi e girando attorno alla scrivania, per poi appoggiarcisi contro, accanto a lui.

 

“No… no… sto solo… tornando più spesso a trovare i miei nei fine settimana.”

 

Gli spiaceva mentire a Irene che, a parte Chiara e Luca, era l’amica più cara che aveva a Roma e si era pure sopportata tutte le sue storie - anonime - su Imma. Ma non poteva ancora dire a nessuno della sua relazione con lei, specie se lo avrebbe poi raggiunto a Roma.

 

“Sarà… in ogni caso mi servi sveglio, Calogiuri, quindi forza! Allora, sul maxiprocesso, come vedi l’ultima testimonianza sarà di Saverio Romaniello. E poi ci sarà l’interrogatorio ad Eugenio Romaniello. Finito questo si dovrebbe arrivare finalmente a sentenza. Il problema è che l’avvocato assunto da Eugenio Romaniello  e che sta pure difendendo molti dei nomi sulla lista fatta dal fratello, ha chiesto un rinvio per avere il tempo di raccogliere le testimonianze di tutti gli imputati aggiuntivi. Questo significa che, all’udienza di inizio dicembre se ne aggiungerà un’altra, spero l’ultima appunto, se l’avvocato non riesce a fare ulteriormente melina, probabilmente tra febbraio e marzo. Tutto chiaro fin qui?”

 

“Sì, dottoressa.”

 

“Bene. Io voglio che nel frattempo tu ti spulci nel dettaglio la vita di tutte queste persone: relazioni, lavori, movimenti bancari. Lo so che sono tante, Calogiuri, ma dobbiamo arrivare preparati all’udienza di inizio dicembre. E poi vorrei che contattassi la dottoressa Tataranni, sia per avere un aiuto da Matera in tal proposito, dato che risiedono lì, sia perché mi piacerebbe molto che presenziasse almeno all’ultima udienza, visto che ha fatto praticamente tutto lei in questo processo.”

 

“D’accordo, dottoressa!” proclamò, entusiasta all’idea di poter di nuovo lavorare con Imma, seppur da distanza.

 

“Se servisse, saresti disposto ad andare qualche giorno a Matera per raccogliere informazioni?”

 

“Naturalmente, dottoressa!”

 

“Calogiuri… a te Matera deve piacere proprio. O sfacchinare. Perché sei più energico dopo averti chiesto un dossier su decine di imputati - un lavoraccio tremendo, me ne rendo conto - che prima.”

 

“Lo sapete che a me il lavoro non spaventa. E poi a… a questo processo sono particolarmente legato.”

 

“Lo noto, Calogiuri, lo noto. Allora buon lavoro! E domani sera aperitivo: non accetto un no come risposta.”

 

“Va bene,” annuì con un sorriso, lasciando l’ufficio.

 

Non vedeva l’ora di dare la notizia ad Imma.

 

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“Certo che ci vengo, Calogiuri! A parte che per allora, magari….”

 

Lasciò la frase in sospeso, sia per scaramanzia, sia perché c’era Diana nell’ufficio accanto. Sperava davvero per l’anno nuovo, quando ci sarebbe stata l’ultima udienza, se non di essere già a Roma in pianta stabile, di avere perlomeno la data del trasferimento.

 

“Se venissi lì per qualche giorno… ci potrebbero essere problemi con Matarazzo, lo so, ma-”

 

“Ne parlo con Vitali, Calogiuri, e ci inventeremo qualcosa. Comunque non ti preoccupare, che la lista ce l’ho pure io e comincio a farti un po’ di ricerche da qua. E se serve posso pure andare a fare loro un bel discorsetto, ma forse quello la collega lo gradirebbe meno.”

 

“La dottoressa Ferrari è una persona molto aperta e disponibile, quindi non credo che avrebbe problemi.”

 

Aperta e disponibile in che senso, Calogiuri?” non potè trattenersi dal chiedere e vide, pure di sottecchi, Diana ridere sotto i baffi. Lo sapeva che suonava gelosa ma…

 

Ma lo sei, Imma, lo sei e basta! - si inserì pure la Moliterni.

 

“Nel senso che è molto collaborativa. E veramente, non come la D’Antonio. Sono sicuro che andreste d’accordo. Va d’accordo con quasi tutti qui in procura.”

 

“E allora mi sa che non andremmo d’accordo, Calogiuri,” sospirò: aveva sempre diffidato delle persone che piacciono a tutti e riescono a farsi amare da tutti.

 

Di solito perché hanno una faccia buona per ogni occasione e sono, uno, nessuno e centomila.

 

“Non cambi proprio mai!”

 

“Mi dovresti conoscere, ormai, Calogiuri. Va bene, senti, io parlo con Vitali e poi ci riaggiorniamo.”

 

“Per sabato è confermato? Ti vengo a prendere a Tiburtina?”

 

“E certo! E puntuale! E mo devo scappare, Calogiuri, ma fammi sapere se hai altre novità. Buon lavoro!”

 

“Pure a te. Buon lavoro!”

 

E chiuse la chiamata. Un poco rimase delusa: si aspettava un saluto un minimo più affettuoso ma… ma era sul lavoro pure lui, in fondo.

 

“Diana! Vado dal procuratore capo!”

 

E, ignorando l’occhiata divertita della cancelliera, arrivò all’ufficio di Vitali. Che, per fortuna, era libero e Monica, la segretaria, la fece passare subito.

 

“Dottoressa! Lei mi legge nel pensiero, l’avrei fatta chiamare!”

 

“Ci sono novità, dottore? Sul trasferimento magari?” chiese, speranzosa come non mai.

 

“Sì e no, dottoressa, ma mi dica prima perché mi cercava lei. Prego, si accomodi!”

 

E così Imma gli riferì della telefonata di Calogiuri.

 

“Bene, molto bene. Questo va nella direzione di ciò che volevo proporle, in realtà.”

 

“Di avere qui il maresciallo Calogiuri per qualche tempo?” domandò, sorpresa.

 

“No. Quello in realtà… salvo mandare per un periodo in permesso Matarazzo, forse sarebbe meglio evitarlo, per non riscaldare gli animi, lei mi capisce, dottoressa. So che ultimamente l’agente non è stata esattamente… collaborativa con lei e che non pare avere preso bene la recente visita del maresciallo.”

 

Le voci volavano, evidentemente.

 

“Comunque potrei cercare di evitare la presenza di Matarazzo in quei giorni, qualcosa ce la possiamo inventare dottoressa. Io però mi riferivo al suo trasferimento. Per un trasferimento definitivo, ancora nulla: come sa, Roma è estremamente gettonata e temo ci vorranno ancora parecchi mesi. Ma ho fatto qualche ricerca e penso di aver trovato una soluzione che potrebbe consentirle di prendere i proverbiali due piccioni con una fava. Per intanto, potrebbe chiedere un cambio di sede temporaneo, per seguire il maxiprocesso. Visto quanto mi ha appena riferito, sono ancora più certo che Irene non avrebbe niente in contrario: è una persona estremamente collaborativa.”

 

“Irene?”

 

“La dottoressa Ferrari.”

 

E ridaje con l’aperta e pure estremamente collaborativa, mo!

 

“Sono sicuro che le farebbe piacere avere il suo contributo per il maxiprocesso pure a Roma e, se lo richiedeste entrambe, potrebbe aiutarla farle avere il trasferimento in tempi brevi. Ovviamente appunto temporaneo, ma c’è ancora tutto l’appello e... con i tempi della giustizia italiana… lei li conosce meglio di me, dottoressa. E poi, almeno manterrebbe un posto qui qualora, tra qualche tempo, volesse tornare.”

 

“Ma questo significherebbe dovermi trasferire nella stessa sede della dottoressa e quindi del maresciallo Calogiuri.”

 

“Sì, dottoressa. Ovviamente.”

 

E questo avrebbe significato ancora chissà quanto tempo in clandestinità, per evitare problemi sul lavoro ad entrambi, essendo lui nuovamente un suo sottoposto.

 

“E allora… e allora preferisco aspettare e vedere se viene fuori qualcos’altro, dottore, lei mi capisce, non è vero?”

 

“La capisco eccome, dottoressa, ma… ci pensi. Ci sono i pro e i contro, come in tutte le cose, ovviamente. Non che a me non faccia più che piacere se lei si trattiene qui ancora per un tempo indefinito.”

 

Chi l’avrebbe mai pensato che avrebbe mai sentito Vitali pronunciare quelle parole nei suoi confronti, il giorno in cui si erano conosciuti.

 

Il mondo doveva proprio essersi ribaltato.

 

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“Imma!”

 

“Calogiù!”

 

Gli buttò le braccia al collo non appena scesa dalla corriera e si sentì stringere fortissimo, un senso tremendo di deja vu che la colse.

 

Ma, allora, era ancora la dottoressa e non Imma.

 

“Hai fatto buon viaggio? Sei riuscita a riposare?”

 

“Tranquillo, Calogiuri, come vedi tutto a posto e sto bene! Allora, dove andiamo?”

 

“Prima di tutto a recuperare il motorino… spero non ti dispiaccia ma è ancora l’unico mezzo che ho qui a Roma,” le disse con un sorriso che indicava chiaramente che sapesse benissimo che no, non le dispiaceva affatto.

 

“E poi, dopo che ci siamo rifatti il remake di Vacanze Romane, dove mi porti, Calogiuri?”

 

“Pensavo di passare prima dal mio appartamento a lasciare le tue cose e poi… pensavo di andare in metro verso piazza di Spagna, piazza Navona, quelle zone lì, turistiche. Se tua figlia studia qui in settimana, di sicuro non ci vorrà andare nel weekend, con tutta la folla… e poi non abbiamo mai fatto i turisti a Roma.”

 

“Approvo il piano d’azione, maresciallo, nonostante il mio odio per le folle. E per i folli che vanno a fare shopping da quelle parti, con quello che costa!”

 

Calogiuri la guardò in quel modo dolcemente esasperato e poi si avviarono, a braccetto, verso il motorino. Ovviamente diverso da quello di due anni prima, che doveva essersi venduto al ritorno a Matera.

 

Ormai era più che capace di infilarsi il casco, salire in sella e… sullo stringersi, manco c’era da dirlo! E così partirono rapidamente, Calogiuri che osava molto di più alla guida rispetto alla volta precedente e lei che si stringeva ancora più forte alla sua schiena, l’adrenalina a mille.

 

“Allora, che mi racconti? Non mi hai ancora detto dove vivi mo.”

 

“Roma Nord, le procure stanno tutte lì. Come zona è cara, quindi l’appartamento è piccolissimo ed era già ammobiliato. Non è un granché, purtroppo.”

 

“Andrà benissimo, Calogiuri,” gridò, ammirando il parco che scorreva accanto a loro.

 

“Questo è il Pincio, possiamo tornarci dopo. E tra poco c’è Piazza del Popolo, il Tevere e da lontano si vede il Vaticano.”

 

Imma si godette il panorama, la vicinanza ed il calore di Calogiuri, la moto che sfrecciava, evitando il traffico di sabato mattina. Infine giunsero in una zona più residenziale e Calogiuri parcheggiò la moto sotto ad un condominio dall’aspetto anni Settanta.

 

Salirono insieme tre piani senza ascensore e poi Calogiuri aprì una porta alla fine del corridoio.

 

“Ecco qui… è minuscolo, te l’ho detto. Questa è l’unica stanza e dietro quella porta c’è il bagno.”

 

Era un monolocale piccolissimo, con un divano letto ed una cucina microscopica, un’isola che faceva da tavolino. Tutto incastrato al millimetro.

 

“Come hai fatto a farci stare tua sorella e tua nipote, Calogiù?” ironizzò, appoggiando il borsone e ringraziando il cielo di non aver portato una valigia più grande.

 

“Tanto Noemi vuole stare sempre in braccio, praticamente,” spiegò, prima di aggiungere, più preoccupato, “lo so che è un buco e non è degno di te ma-”

 

“Sì, va beh, mo! Degno di me? E che sono? La regina Elisabetta? Tu ti sei sopportato il copriletto leopardato. E poi… vorrà dire che dovremo stare più vicini,” gli sussurrò, afferrandolo per il colletto della polo e baciandolo, come aveva avuto voglia di fare fin dal loro saluto alla Tiburtina.

 

Anzi, come aveva voglia di fare da una settimana, quasi.

 

“Imma… Imma…” lo sentì mormorare dopo un po’, mentre lei si dedicava a tormentargli il collo, indugiando su quei punti che ormai sapeva lo facevano impazzire di più, “se… se continuiamo così, da qui oggi non usciamo.”

 

“E te ne lamenti, Calogiù?”

 

“Non dirlo nemmeno per scherzo! Ma… vorrei farti vedere anche Roma.”

 

“Per intanto ho voglia di vedere te. Roma può aspettare pure qualche ora, che dici? Anche perché avremo poi un sacco di mesi, di anni pure, per vederla.”

 

Si sentì afferrare il viso, mentre Calogiuri la guardava a occhi spalancati, come se fosse ancora incredulo di quella prospettiva e, allo stesso tempo, come se avesse una voglia irrefrenabile di saltarle addosso.

 

Non che gliel’avrebbe frenata.

 

“Come farò io con te? Me lo dici?” le sorrise in quel modo esasperato.

 

“Dovrai avere tanta, ma tanta pazienza e-”

 

Ma un bacio le mozzò la frase in gola mentre, arretrando alla cieca, finì contro una superficie dura che scoprì essere l’isola della cucina quando Calogiuri, a forza di braccia, ce la issò sopra, le gambe che gli si allacciavano intorno alla vita mentre la liberava dal cappotto e dal golfino in un’unica mossa, le labbra che le facevano il solletico tra il collo e la clavicola, ricambiandole la cortesia.

 

“Ah!” le sfuggì dalla gola, quando sentì un lieve morso alla base del collo.

 

Di solito era lei la vampira e non lui. Lo guardò sorpresa, mentre lui si staccava un attimo per guardarla, tra il preoccupato ed il sornione.

 

“Mo posso farlo pure io, no? O devo essere solo io a dovermi mettere sempre i maglioni a collo alto?”

 

“Ringrazia il cielo che fa un freddo cane fuori, maresciallo!” proclamò, fintamente severa, prima di levargli l’espressione preoccupata con un altro bacio, “e certo che puoi, se qualcosa non la gradisco ti assicuro che te ne renderai conto nel giro di due secondi netti.”

 

“Non ne dubito, dottoressa!” proclamò con una risata, prima di tapparle la bocca con un altro bacio, le mani che le si infilavano sotto la gonna, sollevandola sempre di più, fino a toccare la pelle nuda sopra le autoreggenti, guadagnandosi un’esclamazione sorpresa.

 

“Tanto lo so che i collant con te fanno una brutta fine, Calogiù, quindi mi sono premunita,” gli sussurrò sulle labbra.

 

La guardò in quel modo quasi animalesco, ad occhi sbarrati, di quando era ad un millimetro dal perdere del tutto il controllo, e si trovò travolta da un altro bacio, mezza distesa sull’isola, prima di perderlo anche lei del tutto il controllo e non capire più niente, mentre il primo grido moriva nella bocca di lui.

 

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“Allora, ti piace qui?”

 

Erano a Piazza Navona: avevano appena visto il Pantheon e stavano ammirando le famosissime fontane.

 

“Calogiuri, come fa a non piacermi Roma? Ad ogni metro c’è un pezzo di storia tra un po’,” rispose, abbracciandoselo più stretto.

 

Ma la verità era che ciò che le piaceva più di Roma in quel momento era proprio poter girare con lui, liberamente, senza i soliti sguardi indiscreti.

 

Non aveva fatto in tempo a pensarlo - o forse proprio perché l’aveva pensato si era finalmente guardata intorno, invece che restare concentrata sulla bellezza delle statue della fontana, oltre che su quella della statua greca al suo braccio - quando notò un gruppetto di ragazzette che indicavano verso di loro e ridevano.

 

Volle pensare ad una coincidenza.

 

Ma poi, pure proseguendo col giro della piazza ed infilandosi in un vicolo, per andare verso Campo de’ fiori, notò altre occhiate.

 

Certo, la maggioranza delle persone se ne fregava della loro esistenza, ma c’erano eccome, soprattutto da signore, da donne che la guardavano in quel modo tra l’incredulo e il ridicolizzante.

 

“Che c’è?”

 

“Niente, Calogiuri, niente…” provò a deviare, maledicendo per una volta il radar.

 

“Come niente? Riconosco benissimo quell’espressione e poi ti sei irrigidita,” obiettò, facendola voltare verso di lui e sollevandole il mento con un dito, “mi vuoi dire che ti succede?”

 

“Niente… è che… perfino qui c’è gente che ci fissa, Calogiuri. Siamo strani pure qui. O meglio, tu sei troppo bello ed io accanto a te sono strana, è questa la verità.”

 

“Imma…” sospirò, scuotendo il capo, “prima di tutto, che guardino pure se vogliono: io sono solo che orgoglioso che mi vedano in giro con te.”

 

“Calogiuri…”

 

“E poi… non pensi che magari se ci guardano è anche per il cappotto leopardato che indossi, e che non passa esattamente inosservato, e non perché io sia bello o perché noi insieme siamo strani?”

 

Imma si guardò e dovette ammettere che forse aveva ragione.

 

“Secondo te è troppo appariscente? Dovrei mettere qualcosa di più sobrio finché stiamo in incognito?”

 

“Imma… se non ti vestissi così… non saresti tu. Perché dovresti cambiare? Sei bellissima così come sei. E chi se ne importa se ci notano. Mica stiamo facendo niente di male, no?”

 

Se lo abbracciò, perché che poteva fare di fronte a una dichiarazione del genere? Ed aveva ragione: che fosse per il cappotto o perché le invidiavano l’accompagnatore, potevano guardare fin che volevano, tanto lui era al suo braccio ed aveva, straordinariamente, intenzione di restarci.

 

Ironia della sorte, dopo poco, arrivarono di fronte ad una vetrina dove spiccava, tra abiti più sobri, un tubino nero fino a quasi sotto il seno, ma con la parte superiore leopardata.

 

“Lo vuoi provare?” le chiese con un sorriso.

 

“Ma chissà quanto costerà!”

 

“Ma no, in questi vicoli laterali i prezzi di solito sono più abbordabili.”

 

Imma guardò il cartellino e dovette ammettere che non era poi così improponibile. Presa da un impulso di rivalsa, entrò insieme a lui nel negozio e chiese ad una giovane commessa, che incrociarono poco dopo, dell’abito in vetrina.

 

La ragazza li squadrò un attimo, poi con un sorriso andò a recuperare il modello richiesto. Imma si affrettò nel camerino: la gonna nera era aderente, forse fin troppo, per via del tessuto usato, fatto per sottolineare le forme. Ma non le stava male, anzi, solo che forse alla sua età non era molto il caso.

 

Aprì la tenda del camerino e chiese a Calogiuri che ne pensasse.

 

“Sei bellissima, ti sta benissimo!” proclamò, guardandola in un modo che la fece sentire incredibilmente sensuale e che la portò quasi a ignorare lo sguardo pungente della commessa che stava alle spalle di lui.

 

Richiuse la tenda per cambiarsi, decisa a comprare il vestito ed usarlo magari in qualche serata con lui, quando sentì, seppure fosse a voce molto bassa, il commento della commessa.

 

“Eh, ti capisco, pure mia madre ha dei gusti improbabili e mi tocca sempre assecondarla, anche se… sai te l’imbarazzo!”

 

Fu come uno schiaffo: una botta tremenda di umiliazione la colpì in pieno, mentre sentiva gli occhi pungere.

 

Altro che sensuale: era ridicola, soltanto ridicola e accanto a lui sembrava sua madre. Una madre di cui essere pure imbarazzati per come si conciava, oltretutto! Quella era la verità.

 

“Non è mia madre, è la mia compagna! Ed è bellissima, e proprio per questo può permettersi di vestirsi come vuole. E quel vestito le sta benissimo! Tu invece spero che sia da poco che fai questo lavoro, perché non credo che riuscirai a vendere molto, se tratti i clienti così!”

 

Le lacrime agli occhi, ma stavolta di commozione, sarebbe uscita dal camerino così, in intimo, solo per abbracciarselo. Ma sapeva che quello non era che il primo di una lunghissima serie di commenti di quel tipo che avrebbero ricevuto. Se era così già a Roma, figuriamoci a Matera. Doveva farci il callo ed essere forte e lo sapeva ma… ma faceva malissimo e le spiaceva per lui. Perché se, agli occhi dell’opinione pubblica, lei era la tardona con pessimo gusto nel vestirsi, che aveva vinto un terno al lotto, lui era quello scemo abbastanza da farsela con la tardona con pessimo gusto nel vestirsi.

 

Finì di rivestirsi e incrociò lo sguardo preoccupato di lui, che lo divenne ancora di più. Capì che Calogiuri sapeva benissimo che lei aveva sentito tutto. Lanciò un’occhiata incinerente alla commessa, che era già bordeaux, mollandole lì il vestito ed uscì a braccetto con lui.

 

Ma, finito il momento di baldanza ad uso e consumo della commessa, si sentì nuovamente col morale sotto le scarpe.

 

“Non le devi dar retta, va bene? Guarda che stavi veramente benissimo: hai un fisico perfetto, sei bellissima e qualunque uomo al posto mio lo vedrebbe.”

 

“Per intanto, lo hai visto solo tu, Calogiuri,” rispose, non potendo aggiungere e Pietro, ma pensandolo. Due uomini in quarantacinque anni quasi di esistenza non è che fossero proprio una media eccellente, anche se col secondo aveva vinto al superenalotto.

 

“Perché quando sei vestita lo nascondi quasi sempre e voglio sperare che, a parte me, nessun altro ti abbia vista nuda ultimamente,” ironizzò, anche se con una punta di reale gelosia, prima di sussurrarle, “vieni con me, ti voglio fare vedere una cosa.”

 

Non capì bene dove stessero andando, finché le sembrò di tornare su strade familiari e capì di essere dalle parti di Piazza di Spagna e poi proprio sulla piazza. La portò di fronte alla vetrina di Dolce & Gabbana e le scappò da ridere. Era un tripudio di leopardato, sia per donna che per uomo. C’era pure un cappotto abbastanza simile al suo, solo con parecchi zeri in più nel conto finale.

 

“Da quando è che sei un esperto di alta moda, Calogiuri?”

 

“Da mai… solo che, ogni volta che venivo da queste parti e guardavo questa vetrina, mi venivi in mente tu. Come vedi, c’è gente che paga qualsiasi cifra per vestirsi come te. E il fatto che te ne freghi del giudizio della gente ed hai il coraggio di essere come vuoi essere, è una delle cose che ho sempre ammirato di più di te e… e nelle quali avrei sempre voluto somigliarti. Quindi, perché preoccupartene mo?”

 

“Beh…” mormorò… la commozione che di nuovo prendeva il sopravvento, “decidendo di avere una storia con me, direi che sul fregartene del giudizio della gente mi hai superato alla grande, Calogiuri.”

 

“E allora lascia che guardino, così vedranno quanto siamo felici insieme.”

 

E se lo baciò, perché come poteva non farlo dopo questa ennesima dichiarazione d'amore?

 

Vennero interrotti da un colpo di tosse e notarono il buttafuori di D&G, un omone che tra un po’ occupava tutta la metratura del monolocale di Calogiuri, che li guardava malissimo, dato che erano praticamente accanto all’entrata.


Scoppiarono a ridere, guadagnandosi un'altra occhiataccia, e poi si lasciò trascinare da Calogiuri alla famosa scalinata, salendo i gradini e proseguendo fino a raggiungere il parco che riconobbe come il Pincio.

 

“Quasi è l’ora del tramonto, vieni,” la incitò, portandola fino ad una balconata da cui si vedeva un panorama mozzafiato di tutta la città, il cielo che cominciava a tingersi di rosso.

 

“Ci facciamo una foto?” gli chiese, senza sapere nemmeno lei il perché.

 

Lui sorrise, stupito, quanto lo era lei di se stessa in realtà, e provarono a farsi un selfie ma, tra tutti e due, non erano proprio in grado di farne uscire uno buono.

 

Per fortuna una coppia di turisti, presumibilmente giapponesi, ebbe pietà di loro e fece loro segno se volessero una foto.

 

E, sebbene odiasse gli stereotipi, questi giapponesi in particolare davvero ci sapevano fare con le foto, perché gliene fecero tre, una più bella dell’altra, di loro che si guardavano negli occhi, con il panorama meraviglioso dietro ed il cielo mezzo infuocato.

 

Sembravano usciti da una cartolina. E sapeva che, come il loro primo tragico selfie, le avrebbe conservate per sempre. Ringraziarono i giapponesi che ricambiarono con tanto di inchini.

 

“E mo godiamoci il tramonto, Calogiuri,” propose, voltandosi insieme a lui, che la abbracciò stretta stretta.

 

“Sai… ogni tanto venivo qui a correre la sera e… e quando vedevo le coppie abbracciate a guardare il tramonto… pensavo a… a quanto sarebbe stato bello averti qui con me…”

 

“Calogiuri…” sussurrò, il magone che tornava prepotente, baciandogli una guancia, “non hai idea di quanto mi sei mancato pure tu a me! Ogni giorno, quando andavo in ufficio, una parte di me sperava di vederti entrare dalla porta… credo di avere fatto una capa tanta a tutti in questi mesi, peggio del solito.”

 

“Sai? Mi sembra ancora un sogno che… che sei veramente qui con me e che… e che tra non molto ci sarai tutti i giorni.”

 

“Pure a me, Calogiuri, pure a me. Ma dobbiamo ancora solo avere un poco di pazienza, anche se te ne ho già chiesta tanta. E poi la pazienza ti servirà, ma per sopportarmi ogni giorno.”

 

“Se è per quello lo facevo già prima, pure per dieci ore di fila certi giorni,” la punzecchiò, guadagnandosi un pizzicotto ed un altro bacio sulla guancia.

 

E poi lui si voltò del tutto verso di lei e finirono per baciarsi di fronte al tramonto, fregandosene della gente intorno, fregandosene dei turisti che scattavano foto, immersi in un mondo tutto loro.

 

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“Io ricordo di voi! Ma venite qui una volta all’anno?”

 

Erano al solito ristorante - ormai era tradizione ed avevano deciso di andare lì a festeggiare la prima notte romana - e c’era il solito venditore di rose. In effetti erano passati quasi due anni dalla prima volta che l'avevano visto ed il suo italiano nel frattempo aveva fatto passi da gigante.

 

Un po’ come la loro relazione.

 

“Più o meno…” abbozzò lei.

 

“Ma tra poco vivremo tutti e due qui a Roma, quindi magari ci vedrai più spesso,” aggiunse Calogiuri, con un orgoglio che la toccò profondamente.

 

“Allora stasera vi regalo io una rosa, di buon augurio. Tanta felicità qui a Roma!” esclamò, porgendogliela.


Calogiuri fece per protestare e pagare ma il venditore si era già dileguato.

 

“Va beh, dai, Calogiuri, diciamo che ti sei rifatto da tutti i resti mancati delle ultime volte.”

 

“Però è stato gentile. Vedi che c’è anche qualcuno che fa il tifo per noi?”

 

“Eh certo, Calogiù, se veniamo qui più spesso e gli molli dieci o venti euro di fiori a botta! Pure io farei il tifo per noi al posto suo!” ironizzò, anche se era pure lei emozionata dal gesto del venditore. Gli perdonava quasi di averla scambiata per la madre di Calogiuri.

 

“Sei tremenda!” sospirò, scuotendo il capo, prima di sporgersi in avanti e stamparle un bacio al sapore di vino bianco e pepe nero.

 

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“E ve movete? Che dobbiamo annare o domattina nun arriviamo più!”

 

Si staccarono a fatica e poi si guardarono imbarazzati e risero.


“Ci facciamo sempre riconoscere, Calogiù. Vado, prima che mi lascino qui. Ci vediamo tra due settimane, che il prossimo fine settimana Valentina probabilmente starà con me.”

 

“Va bene. Fai buon viaggio!”

 

E, dopo un ultimo rapido abbraccio, salì di corsa sul bus, beccandosi un’occhiataccia dall’autista.

 

Ormai era quasi tutto pieno, quindi ahilei le toccò un posto abbastanza davanti, lato corridoio, vicino ad una signora che più o meno sarà stata sua coetanea.


“Ah, la capisco, sa? Anche io ho mio figlio che studia qui a Roma ed è sempre durissima salutarlo,” esordì la sua vicina, una volta che si fu sistemata.

 

Cominciamo bene!

 

“Quello non era mio figlio, signora, ma il mio compagno,” ribattè, non seppe nemmeno lei perché, ma fu liberatorio farlo, aggiungendo, di fronte allo sguardo scioccato della signora, “comunque non si preoccupi, la capisco: pure mia figlia studia qui a Roma.”

 

La signora rimase completamente ammutolita ed Imma si congratulò con se stessa per essersi appena garantita un viaggio relativamente tranquillo, quando la sentì pronunciare, in quello che era quasi un sussurro, “ma… ma come ha fatto?”

 

Le scappò da ridere, invece che offendersi, soprattutto quando notò lo sguardo dell’altra donna, tra l’ammirazione e l’invidia.

 

“A saperlo, signora! A volte le botte di fortuna capitano nella vita!”

 

“Beata lei!” sospirò la vicina, prima di immergersi nella lettura di non si sapeva quale giornaletto scandalistico.

 

Imma, soddisfatta come poche volte in vita sua, si avvolse in una sciarpa e sperò di prendere presto sonno.

 

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“Allora, com’è andato il weekend? Ti vedo felice, ma c’hai certe occhiaie che, lasciatelo dire, Imma: un po’ di correttore, che ti costa?”

 

Ormai era un mese che lei e Calogiuri facevano i weekend da pendolari, dormendo peraltro pochissimo sia a Roma, sia a Matera, per ovvi motivi.

 

“Sono appena arrivata con la corriera, Diana, sfido te a sembrare riposata!”

 

“Ma Calogiuri non può proprio riavvicinarsi, in qualche modo? Mo ci sono un sacco di posti liberi qui a Matera, con tutto lo scandalo che c’è stato.”


“Lo so, Diana, ma il regolamento è il regolamento e per almeno due anni niente trasferimenti,” sospirò, accasciandosi sulla sedia e sentendosi un po’ in colpa di non avere ancora detto a Diana dei suoi progetti.


La verità era che non ne aveva il coraggio: al momento lo sapeva solo Vitali, a parte Calogiuri, ovviamente.

 

“Sono arrivati quei movimenti bancari e i tabulati telefonici che mi avevi chiesto. Immagino li vorrai trasmettere tu a Calogiuri?” le chiese con un sorriso, porgendole i documenti sul maxiprocesso.

 

“Immagini bene, Diana,” proclamò, sorridendo all’idea di avere un’altra scusa per sentirlo così presto.

 

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“Come funziona sto coso?”

 

“Devi tirare su un poco di più lo schermo del portatile, se no vedo… va beh… non è che mi lamento, ma dovremmo lavorare.”

 

“Calogiuri!” gridò, ringraziando il cielo di indossare le cuffie e notando che, nel piccolo schermo dove si vedeva la sua di immagine, la telecamera era puntata al livello del seno. Non che si vedesse molto, col golfino peloso che indossava.

 

Si affrettò a sollevarla fino a che le inquadrasse il viso, mentre Calogiuri dall’altra parte si stava palesemente trattenendo dal ridere.

 

“Allora, hai visto la mappa che ti ho mandato, Calogiuri?”

 

“Più o meno: la foto non era chiarissima, ma ho provato a ricostruirla, aspetta che ti mando la schermata.”

 

E, non capiva come, ma sul computer le comparve una versione digitale della mappa concettuale che teneva al momento sulla bacheca, col collegamento tra tutti i nomi emersi dalla confessione di Romaniello, in base ai movimenti bancari e alle telefonate. Quella sulla bacheca pareva un telaio, talmente era fitta di fili, quella sul computer era oggettivamente più chiara.


“Dovresti dirmi i collegamenti che ho saltato e poi cerchiamo di analizzarli tutti quanti, insieme, va bene?”

 

“Ok, Calogiù, vedo già che te ne manca uno in alto a destra, tra Diodato e Mazzocca…”

 

Andarono avanti così per un sacco di tempo, ma Imma si sentiva talmente felice di stare nuovamente collaborando con Calogiuri che avrebbe potuto andare avanti all’infinito.

 

“E poi, come vedi, dal secondo movimento bancario a pagina dieci, è evidente che c’è stato un passaggio di denaro tra-”

 

“Calogiuri? Che ci fai ancora qui? Sono le venti passate!”

 

Una voce dall’altra parte dello schermo la interruppe e vide Calogiuri voltarsi bruscamente ed una macchia nera comparire accanto a lui.

 

“Scusatemi, dottoressa, ma sono in videoconferenza con la dottoressa Tataranni, per i collegamenti tra gli indagati che dovranno testimoniare alla prossima udienza. Ma abbiamo quasi finito.”

 

“Ah, bene, Calogiuri,” la sentì pronunciare, e vide la macchia nera trasformarsi in un viso familiare, anche se un po’ sgranato: evidentemente la Ferrari si era abbassata per essere inquadrata.


“Buonasera, dottoressa Tataranni, e grazie per tutto l’aiuto. Francamente un po’ mi vergogno, perché in questo processo ha fatto tutto lei. Spero davvero che vorrà farmi l’onore di esserci all’ultima udienza: non potrei concluderlo senza di lei presente.”

 

Il pitbull dai guanti di velluto aveva un sorriso in apparenza dolce, amichevole ed una voce altrettanto tranquilla, cortese.

 

Si chiese dove stesse sto benedetto pitbull o se uscisse solo in rarissime circostanze.

 

“Si figuri, dottoressa, grazie a lei per avermi lasciato carta bianca qui in questi giorni. E sicuramente non mancherò.”

 

“Benissimo. Allora vi lascio finire di lavorare, buona serata, dottoressa!” proclamò, prima che tornasse ad essere una macchia nera indistinta.

 

Ma, in quel momento, una mano si poggiò sulla spalla sinistra di Calogiuri, “Calogiuri, noi ci vediamo domattina all’udienza e vedi di non strafare. Ora ho capito da chi hai imparato lo stacanovismo. Buona serata anche a te!”

 

La mano sembrò stringergli la spalla e poi sparì, ma ad Imma rimase un fastidio tremendo, come un qualcosa piantato in gola, pure mentre sentiva rumore di passi allontanarsi.


“Che c’è, Imma? Tutto bene?”

 

La voce preoccupata di Calogiuri la ridestò dai suoi pensieri a dir poco ridicoli - è solo una mano sulla spalla, Imma, non hai sedici anni che ti puoi ingelosire per queste cretinate! Lavorano insieme da mesi, è normale che ci sia un po’ di confidenza.

 

“Sì, Calogiuri, stavo solo notando quanto sia tardi effettivamente. Te la senti di terminare ora o…?”

 

“Lo sai che non devi nemmeno chiedermelo!”

 

E così proseguirono, fino a trovare, letteralmente, il bandolo della matassa.

 

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“Ecco qui, dottoressa, il dossier completo che ho terminato con l’aiuto della dottoressa Tataranni.”

 

La Ferrari prese l’enorme fascicolo, aprì ed analizzò la mappa che faceva da inizio e da indice e poi fece scorrere le varie sottocartelle, una per ogni indagato, strabuzzando gli occhi.

 

“Calogiuri, credo di avere visto tesi di laurea assai più ridotte di questo dossier, quando facevo l’assistente all’università. Non so quanto ci metterò a leggerlo, ma non posso che complimentarmi con te e con la dottoressa per il lavoro eccezionale. Non scherzo quando dico che mi sento in imbarazzo: praticamente, a parte condurre le ultime udienze, avete fatto tutto voi.”

 

“Il merito è della dottoressa, io faccio quel che posso.”

 

“Sei troppo modesto, Calogiuri! E il peggio, o il meglio, è che non lo sei per finta. Comunque, spero tu non stia esagerando troppo con il lavoro: sei più pallido del solito ed hai un’aria un po’ sbattuta. Sei sicuro di stare bene?” gli domandò, scrutandogli il viso e sembrandogli realmente preoccupata.

 

In effetti si sentiva un po’ stanco, ma quella sera aveva la corriera per Matera e non se la sarebbe persa per niente al mondo.

 

“Non vi preoccupate, tutto a posto.”

 

“Cerca almeno di riposarti nel weekend, mi raccomando, che mi servi in forze per l’udienza di settimana prossima. E se per caso stessi male in questi due giorni, chiamami pure, d’accordo? So quanto è brutto essere lontani dagli affetti e non sentirsi bene.”

 

“Grazie mille, ma non ce ne sarà bisogno, vedrai,” rispose e gli venne spontaneo passare al tu. In realtà, ad Irene, da quando avevano iniziato le loro uscite settimanali, gli sembrava quasi innaturale dare del voi, ma ci si sforzava in procura.

 

Non era come con Imma… non c’era quell’ammirazione, quel timore reverenziale e quell’imbarazzo che aveva avuto per così tanto tempo con lei.

 

“D’accordo, ma il mio numero lo sai, Calogiuri.”

 

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“E buonasera a voi!” urlò alle sue vicine, vedendole in agguato dietro la finestra, come al solito.

 

Sul marciapiede erano comparse nuove scritte, stavolta le davano della puttana e poi, come al solito, la minacciavano di morte.

 

Il comune stava spendendo un capitale a far ripulire il marciapiede del suo condominio.

 

E fu allora che notò la sua povera Punto, con le gomme tagliate e piena di scritte anch’essa. Pregò che la sua assicurazione coprisse gli atti vandalici, perché se no sarebbe stato più il costo della riparazione che quello dell’auto stessa.

 

Nonostante il trasferimento del maxiprocesso, il clima per lei a Matera si stava facendo sempre più insostenibile. Per fortuna di lì a poco avrebbe tolto il disturbo, anche se le sarebbe spiaciuto se fosse sembrata una fuga.

 

Perché lei alle minacce non si era mai piegata e non intendeva farlo ora.

 

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Un rumore improvviso la svegliò: tipo vetri che si infrangevano al suolo.

 

E poi udì dei passi: pesanti, lenti, non familiari.

 

Guardò l’orologio: erano le sette del mattino, si era addormentata tardissimo e per quello era ancora rintronata.

 

Ma da lì a poco sarebbe arrivato Calogiuri… se solo fosse riuscita a nascondersi o a prendere il suo aggressore di sorpresa… poi ci avrebbe pensato lui.

 

Quatta quatta, afferrò il cellulare ed il ferro da stiro dall’asse lì vicino e si piazzò dentro l’armadio, tenendolo socchiuso, pronta a colpire se necessario.

 

Una figura scura, un po’ claudicante, le si parò davanti.

 

Stava col ferro alzato, pronta a dargli un bel colpo, quando un “Imma, dove sei?!" pronunciato con voce familiare, pur se stranamente roca, la bloccò appena in tempo.

 

“Calogiuri!” esclamò, sollevata, uscendo dall’armadio. Lui fece un balzo e si voltò di colpo, perdendo completamente l’equilibrio e finendo per fortuna mezzo disteso sul letto.

 

“Calogiù! Oddio, scusami, ti sei spaventato così tanto?!” chiese, mollando il ferro a terra ed avvicinandosi, “scusami, ma ho sentito dei vetri rompersi e… e temevo fosse qualche malintenzionato.”

 

“No, scusami tu… è che… con lo zaino ho urtato una delle cornici vicino all’ingresso ed è caduta. Mi dispiace, io-”

 

“Ma figurati! Una cornice si cambia! Tu piuttosto, hai intenzione di tirarti su o è un invito a raggiungerti?”

 

Calogiuri si sollevò sulle braccia ma poi ricadde all’indietro, scivolando di sedere sul pavimento.

 

“Calogiù, ma che c’hai?! Tutto a posto?! Quella che casca in continuazione tra noi due sono io,” chiese, chinandosi verso di lui e prendendogli una mano per aiutarlo a rialzarsi.

 

E fu in quel momento che sentì la pelle scottare.

Ma stavolta non per la passione, ma perché Calogiuri veramente era caldo, troppo.

 

“Calogiù, ma c’hai la febbre?!”

 

Gli toccò la fronte, impanicata, e sentì che era un forno.

 

“Ma tu scotti! Ma se non stavi bene… sei matto ad esserti fatto una notte in corriera?!”

 

“Tranquilla, sto bene, non ho niente, io…” 

 

Provò di nuovo ad alzarsi e le toccò sostenerlo e spingerlo a forza sul letto, prima che finisse di nuovo sul pavimento.

 

“Mo aspetta qui che torno con un termometro!” ordinò, dopo avergli levato le scarpe ed averlo aiutato a stendersi meglio sul letto.

 

“Ma c’hai 38.5: ci credo che non stai bene! Che altro ti senti? Vuoi che chiamo il dottore? E ti devi prendere un antipiretico, veloce.”

 

“Non mi sento niente, solo un po’ di stanchezza, veramente. Non ti devi preoccupare. E mi basta la mia dottoressa,” rispose con un sorriso dolce, ma aveva gli occhi lucidi e un po’ appannati dalla febbre.

 

“Mo ti prendi le medicine e poi vediamo, maresciallo!"

 

Lo costrinse quasi a bersi le pastiglie e poi lo aiutò ad infilarsi nel pigiama e a mettersi sotto le coperte. E poi ci si infilò accanto a lui.

 

“Se… se fosse una cosa contagiosa, non te la voglio attaccare, veramente, io-”

 

“Ma ti pare?! E pure se me la attaccassi... vorrà dire che faremo il grande sacrificio di rimanere insieme a letto in malattia.”

 

“Tu che ti prendi giorni di malattia? Non ci credo neanche se lo vedo,” la punzecchiò, con voce stanca, “e comunque avevo un’altra idea su come passarlo a letto questo weekend.”

 

“Mo riposati, che per quello abbiamo sempre tempo di rifarci un’altra volta. Cerca di dormire un poco.”

 

“Agli ordini, dottoressa!” proclamò, prima di esplodere in un paio di colpi di tosse.

 

Gli prese una mano e con l’altra gli accarezzò il viso bollente, fino a che Calogiuri chiuse gli occhi.

 

E rimase così, con la mano nella sua: i respiri gli si fecero più lenti e cadenzati e la presa si sciolse un poco.

 

Lo restò a guardare dormire, intenerita, gli occhi che gli si muovevano sotto le palpebre, mentre era impegnato in chissà quale sogno.

 

Dopo un tempo che le sembrò infinito, sembrò calmarsi. Gli sfiorò la fronte e la sentì meno calda: le medicine stavano facendo effetto.

 

Rimase ancora per un po’ a vegliarlo, finché, cullata dal rumore dei suoi respiri, cedette pure lei al sonno arretrato.

 

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“Calogiù, svegliati che devi mangiare un poco mo.”

 

Vide due occhi azzurri ed appannati: sembrava ancora leggermente ubriaco, ma meno di quella mattina.

 

Lo aveva lasciato riposare ma non poteva stare a digiuno tutto il giorno: già non aveva mangiato praticamente nulla a pranzo, né a colazione, almeno una cena, seppur in orario da ospedale, doveva farla.

 

“Ti ho fatto un brodo di pollo con un poco di pastina. Mi rendo conto che non sia il massimo della vita, ma il brodo almeno dovrebbe essere buono. Per quanto possa essere buono il brodo, ovviamente.”

 

Era uscita apposta a prendere del pollo per farglielo, con la ricetta di sua madre, a suo dire miracolosa, con cui aveva curato i suoi pochi malanni giovanili.

 

Per sua fortuna, aveva sempre avuto una salute ferrea.

 

“Grazie ma… mi dispiace per… per tutto il disturbo e-”

 

“Ma che disturbo e disturbo, Calogiuri! Sei ammalato, mica è colpa tua, e che disturbo vuoi che sia? Dai, mangia mo, prima che si freddi!”

 

“Agli ordini, dottoressa! Mi sa che il medico sarebbe stato meno severo,” la prese in giro ma con un sorriso grato, prima di prendere il cucchiaio e iniziare a mangiare, “è veramente molto buono… grazie.”

 

“Sei tu che sei troppo buono, ma prego.”

 

Finì di mangiare in silenzio e poi si accasciò sui cuscini, lasciandole il vassoio.

 

“Sai cos’è? Mi dispiace che tu… che tu mi debba vedere così, io-”

 

“E perché? Sei umano, se staremo insieme per un po’... sarà pure normale vederci ammalati ogni tanto, no?” gli accarezzò il viso, prima di aggiungere, quasi tra sé e sé, “e poi sei bellissimo pure quando stai mezzo bollito, mannaggia a te!”

 

“Mi stai paragonando al pollo?”

 

Al massimo ad un bel manzo - fu il pensiero che non espresse, schernendosi invece con un “al limite sono io la gallina vecchia, ma che fa buon brodo, Calogiuri."

 

“L’unica cosa su cui sono d’accordo è che il brodo lo fai buono. E non capisco come fai a non renderti conto di quanto sei bella!”

 

“Mi sa che la febbre ti sta risalendo!” ironizzò, avvicinandosi per toccargli scherzosamente la fronte, che per fortuna rimaneva ad una temperatura accettabile.

 

Ma lui la avvolse in un abbraccio ed Imma gli si accasciò contro per qualche istante, prima di scoppiare a ridere, mentre una scossa elettrica la prendeva in pieno, "e mi sa che non è l'unica cosa che sta risalendo, Calogiù!"

 

Lui fece un paio di colpi di tosse, che sembravano più di imbarazzo che altro, "e… va beh… lo sai l'effetto che mi fai, no? Poi vestita così…."

 

Aveva su una delle sue vestaglie, quella in stile kimono che, in effetti, a lui piaceva particolarmente, anche se non ne capiva il perché.

 

"Direi proprio che non sei nelle condizioni di fare le nostre solite evoluzioni, Calogiuri. Ma mo ci penso io a te," proclamò, maliziosamente, iniziando a sollevare le coperte, ma lui le bloccò le mani.

 

"Non serve, davvero, io… tra un po' mi passa."

 

"Oh, su quello ci puoi scommettere!" gli sussurrò, prima di dargli un bacio ed approfittare del momento di distrazione per infilarsi sotto le coperte.

 

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"Buone notizie! La febbre sembra quasi passata: senza medicine arriva a 37."

 

Era domenica e avevano appena pranzato.

 

"Ho avuto un'ottima dottoressa… fin troppo," le disse, con un sorrisetto che la portò a chiedersi se stesse ancora pensando al trattamento del giorno prima, "e sarà stata giusto un po' di stanchezza. E spero di non averti attaccato niente."

 

"Secondo me è la stanchezza, Calogiuri: negli ultimi fine settimana hai dormito più in corriera che nel letto. Non possiamo continuare così."

 

"Che vuoi dire?" le chiese, con un panico nello sguardo che la intenerì molto.

 

"Che forse è il caso di ridurre un po' la frequenza dei nostri weekend e-"

 

"Ma io mo sto bene, veramente e-"

 

Lo zittì con un indice sulle labbra.

 

"E, se mi fai finire, ti volevo anche dire che è pure il caso di accelerare il trasferimento. Vitali mi ha proposto una soluzione ma… ero molto esitante perché ha pure dei contro da considerare. Mo ti spiego."

 

E così gli riferì della proposta del procuratore capo.

 

"Ma questo significherebbe…"

 

"Significherebbe lavorare di nuovo nella stessa procura, Calogiuri. E quindi, almeno per un po', dovremmo ancora nasconderci o il trasferimento non me lo concederebbero. È per quello che esitavo. A parte che la Ferrari dovrebbe acconsentire, naturalmente."

 

"Per quello non c'è problema: è rimasta molto colpita dal tuo lavoro e sono sicuro che sarebbe felice di avere il tuo aiuto pure a Roma."

 

Sarà… - pensò, dubbiosa sulle infinite virtù di questa specie di santa protettrice dei pitbull, ma non disse niente.

 

"E a me piacerebbe tornare a lavorare con te, lo sai."

 

"Pure a me, Calogiuri."

 

"Però… per quanto dovremmo nasconderci ancora?" le chiese, afferrandole una mano con uno di quegli sguardi da cane bastonato che la riducevano in pappa.

 

"Non lo so… qualche mese... e poi lo diremmo al procuratore capo. Io mo sono una donna separata, Calogiuri, quindi almeno non avrebbero prove che la nostra relazione sia iniziata mentre ero ancora sposata e tu non avresti problemi con l'Arma. Sempre se Matarazzo non è così matta da arrivare fino a Roma. E poi… e poi posso chiedere un trasferimento ad un'altra procura di Roma o limitrofa, se il procuratore capo non ci vorrà più fare lavorare insieme."

 

"Ma potrei trasferirmi io ad un'altra caserma, non in PG, sarebbe più facile e-"

 

"E non dirlo nemmeno per scherzo, Calogiuri, o mi arrabbio sul serio! È il tuo futuro la PG ed è un lavoro che sai fare molto bene. Io la mia carriera l'ho fatta e mo tocca a te. Chiaro?"

 

"Agli ordini!" sospirò, prima di aggiungere, più serio, "ma con… insomma con la tua famiglia come pensi di fare?"

 

"Dirò loro che voglio avvicinarmi a mia figlia, che poi è parte della verità e-"

 

"E quindi a tua figlia quando pensi di dire di… di noi due?"

 

"Subito prima di dirlo in procura, Calogiuri. Non prima. Non per altro ma perché, conoscendola, temo possa fare un casino. Ha la testa dura e la prenderà malissimo. Non per colpa tua, eh, la prenderebbe malissimo in ogni caso: già ci ha messo mesi dopo la separazione per tornare ad avere un rapporto civile con me."

 

"A me basta sapere che sei convinta su noi due e che sei disposta a farlo. E che potrò di nuovo stare con te tutti i giorni. L'importante è che ciò che c'è tra noi lo sappiamo noi due. Poi… ti ho aspettata tanto… qualche altro mese lo posso pure ancora aspettare perché lo sappia tutto il mondo…."

 

"Calogiuri…" sussurrò, commossa, abbracciandolo più forte che poteva, "allora dirò a Vitali che accetto il suo suggerimento e… e dovrò cercarmi un appartamento a Roma, perché non possiamo avere lo stesso domicilio."

 

"Quindi se… se non avessimo dovuto nasconderci… saresti stata disposta a venire a vivere con me in quel buco di monolocale?" le domandò, con quello sguardo meravigliato che lo faceva sembrare un bimbo alla vigilia di natale.

 

"Se tu mi ci avessi voluta… perché no? Ma non devi sentirti in obbligo per il futuro, mi raccomando, Calogiuri, non è che dobbiamo convivere per forza e-"

 

Un bacio la zittì definitivamente, facendola sorridere sulle sue labbra.

 

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"Sei davvero sicuro che te la senti di partire stasera?"

 

"Non posso chiedere giorni di malattia con un certificato di Matera, non visti i progetti che abbiamo per il futuro. E poi ormai non ho più la febbre."

 

"Ma, come arrivi a Roma ti metti a letto, vai dal medico e ti fai dare almeno qualche giorno di malattia."

 

"Tu che inciti all'assenteismo? È incredibile!"

 

"Guarda che rischi, Calogiuri!" intimò, dandogli un colpo alla spalla attraverso la sua giacca di pelle.

 

"E comunque giovedì c'è il processo e devo lavorare per forza. Ma ti prometto che domattina vado dal medico," la rassicurò, infilandosi lo zaino in spalla e poi, appoggiando la fronte, per fortuna relativamente fresca, sulla sua le sussurrò, "manca poco."

 

"Manca poco."

 

Un ultimo bacio e sparì nel freddo della sera.

 

Imma afferrò il cellulare e compose un messaggio, la mano che le tremava leggermente.

 

Dottore, accetto il suo suggerimento per il trasferimento temporaneo. Può contattare Roma e farmi sapere? Grazie.

 

Il dado era tratto.

 

*********************************************************************************************************

 

"Calogiuri, ma che mi combini? Ti senti meglio oggi? Ti ho portato un po' di viveri di prima necessità."

 

"Grazie, ma… ma non dovevi!" esclamò, imbarazzato, guardandosi alle spalle prima di avvisarla, "casa mia è un disastro al momento e…"

 

"Dovresti vedere casa mia, quando non ho chi me la pulisce. Mi fai entrare o ti lascio la spesa e me ne vado?"

 

"No, cioè sì, cioè, scusami. Entra pure…"

 

Le fece spazio e la vide guardarsi intorno. Era la prima volta che Irene veniva a casa sua e aveva il letto ovviamente disfatto, dato che ne era appena uscito. E occupava da solo metà dell'appartamento.

 

"Beh, è piccolino ma ben strutturato, Calogiuri. Allora, come sei messo? Pensi di farcela per l'udienza di dopodomani?"

 

"Spero… spero di sì," rispose, prendendole dalle mani la spesa ed iniziando a ritirarla, "non ho più la febbre, dovrei essermi ripreso. Magari rientro pure già domani."

 

"Prenditi il tempo che ti serve, tranquillo," proclamò, sedendosi su uno degli sgabelli dell'isola.

 

"Vuoi… vuoi ripassare per dopodomani? O vuoi chiarimenti sul dossier?"

 

"No, Calogiuri, l'ho finito ieri ed è molto chiaro e ben fatto. Sarà difficile illustrarlo al giudice, perché questo processo è peggio di una ragnatela, ma avete fatto un lavoro perfetto. E poi, se serve, posso sempre disturbare la dottoressa, no? Anzi… forse a breve la potrò disturbare spessissimo."

 

"Che… che vuoi dire?"

 

"Che il procuratore capo oggi mi ha comunicato che vuole chiedere un trasferimento qui a Roma. Temporaneo per il momento, per seguire il maxiprocesso," pronunciò, con un tono indefinibile, che non le aveva mai sentito.

 

"E… e per te è un problema?" le domandò, sperando non notasse né l'apprensione, né quanto per lui invece la notizia fosse musica per le sue orecchie.

 

"No, perché dovrebbe essere un problema?" gli domandò, stringendo gli occhi, "cioè, intendiamoci Calogiuri, averla a Matera mi faceva comodo per situazioni come quelle degli ultimi giorni. Ma in appello, al peggio, faremo trasferte o… o farà trasferte."

 

"Che vuoi dire?"

 

"Che, se starà qui, forse ha più senso che l'appello lo segua lei, Calogiuri. In fondo è il suo processo, la sua creatura. Io so dare a Cesare quel che è di Cesare."

 

"Non so se… se lei lo vorrà però," si lasciò scappare, maledicendosi un secondo dopo, quando Irene strinse nuovamente gli occhi.

 

"E perché no, Calogiuri?'

 

"Niente… motivi personali della dottoressa."

 

"Va bene, Calogiuri, facciamo che te la passo e non indago oltre. Però… per te invece è un problema?"

 

"Il processo di appello?"

 

"No. Che la dottoressa Tataranni si trasferisca qui."

 

"No, assolutamente no!” esclamò, con decisione, e per poco non gli scappava da ridere, perché altro che problema, “abbiamo pure lavorato insieme nelle ultime settimane, no?"

 

"Appunto. Nelle ultime settimane. I primi tempi mi sembravi più… reticente a contattarla, Calogiuri," commentò, sempre con quel tono strano di prima.

 

"No… è che… la dottoressa era in un periodo difficile e non volevo disturbarla."

 

"Va bene…" sospirò, alzandosi in piedi ed afferrandogli una spalla, per poi guardarlo dritto negli occhi, in un modo che sembrava potergli leggere dentro, fin nelle viscere, "cerca solo di salvaguardarti, Calogiuri, mi raccomando!"

 

Si sentì a disagio, come se fosse nudo.

 

"Ma per il processo, dici? Non sto facendo sforzi e mi sto riguardando, veramente."

 

"No, Calogiuri," rispose, con un'altra di quelle occhiate, "per tutto il resto."

 

Gli lasciò la spalla e si riavviò verso la porta, congedandosi con un, "se hai bisogno di qualcosa, chiama! A giovedì!"

 

Gli rimase addosso una sensazione indefinibile, se non di nuovo con l’aggettivo strana, ed una confusione totale su che cosa lei avesse voluto dirgli.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa!”


“Mi dica che ha novità sul trasferimento, dottore!” chiese, incrociando le dita, visto che l’aveva convocata di botto nel suo ufficio di venerdì sera.

 

“Sì. Ho parlato con il procuratore capo di Roma, che ha sentito la dottoressa Ferrari e il suo cambio di sede può avvenire dal sette di gennaio. Tanto ormai siamo a dicembre ed immagino questo periodo farà comodo anche a lei per cercare una sistemazione, sempre se non è già… attrezzata.”

 

“No, dottore, è perfetto pure per me. La ringrazio moltissimo, veramente, anche se… se mo si prospettano altri problemi. Ovviamente tornerò qui per seguire le udienze dei processi che ho in sospeso e cercherò di lasciare tutto in ordine. E… e… lei ha detto qualcosa al procuratore capo?”

 

“Riguardo a cosa, dottoressa?”

 

“Riguardo ai… ai miei affetti…” chiarì, ritorcendogli contro la sua stessa metafora.

 

“Ovviamente no, dottoressa. Quindi consiglio a lei e ai suoi affetti un po’ di discrezione per almeno un periodo, ma poi di parlare chiaro, prima che il mio collega lo venga a sapere da altri. Meglio non ripetere l’esperienza avuta qui a Matera, non crede?”


“Se… se lei fosse al posto del suo collega, che farebbe?”

 

“Difficile dirlo, dottoressa… io non mi priverei di una squadra come quella formata da lei ed il maresciallo a cuor leggero. Ma, in caso di scandali, lei sa che dobbiamo fare il nostro mestiere. Quindi stia in campana e faccia tesoro di quanto avvenuto qui. Spero che il maresciallo lo abbia già fatto.”

 

“Ah, lo spero pure io, dottore, mi creda, lo spero pure io,” sibilò, perché la sola idea di beccarlo a baciarsi con un’altra in procura a Roma…. le faceva ribollire il sangue.


Vitali, per tutta risposta, scoppiò a ridere.

 

“Non lo invidio proprio al maresciallo, dottoressa! Povero guaglione!”

 

“Come io non invidio proprio sua moglie, dottore!”

 

“La sa una cosa, dottoressa? Credo di essere affetto da una specie di sindrome di Stoccolma nei suoi confronti. Perché mi mancherà persino il suo pessimo umorismo.”

 

“A quanto pare è una sindrome che provoco spesso in chi mi sta vicino, dottore. Almeno a sentire la mia ormai quasi ex suocera.”

 

“Quella della scorta?”

 

“Esattamente. E di nuovo, non posso che rispedire il complimento al mittente.”

 

Gli strinse la mano, evitando per un soffio la statuetta di Pulcinella, che traballò pericolosamente per qualche istante, prima di rimanere in piedi.

 

Si congedò e si affrettò a pescare il cellulare dalla tasca, richiudendosi nel suo ufficio: per fortuna Diana era già sparita per il weekend.

 

“Imma, ma è successo qualcosa?”

 

Quel weekend Valentina sarebbe tornata a Matera e sarebbe stata con lei, quindi loro non si sarebbero visti.

 

“Sì, Calogiuri… preparati perché… perché dal sette di gennaio, anzi direi pure da poco dopo natale, dovrai di nuovo sopportarmi tutti i santi giorni e non ti libererai più di me.”

 

Sentì silenzio dall’altro capo del telefono, tanto che si preoccupò, “Calogiuri? Ci sei?”

 

“Sc- scusami…” lo sentì balbettare, la voce che gli si spezzava in un’evidente commozione, tanto che pure a lei cominciò a salire il nodo in gola, “è che… è che…”

 

“Lo so, Calogiuri, lo so.”

 

“Non potevo… non potevo avere regalo di natale migliore!”

 

“Nemmeno io, Calogiù, nemmeno io, credimi.”

 

“Ti amo!" le disse, la voce che oramai era poco più di un sussurro ed Imma cedette definitivamente alle lacrime.

 

“Ti amo pure io, più di quanto immagini."

 

Di nuovo ci fu il silenzio, ma dal rumore dei respiri capì che anche lui stava piangendo e le si strinse il cuore.

 

I sette giorni prima di poterlo riabbracciare sarebbero stati una tortura.

 

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Domani sera vorrei fare una cena con te e Valentina a casa mia. Ho bisogno di parlarvi. Sei disponibile? Se sì, per che ora?

 

Espirò non appena inviato il messaggio: ormai non si tornava più indietro.

 

Pochi minuti ed il suo cellulare vibrò.

 

Certo che posso. Devo portare qualcosa o cucini tu? Facciamo per le otto?

 

Scrivo a Valentina che sarà in corriera e ti confermo l'orario. Cucino io.

 

Valenti, domani vorrei fare una cena con te e tuo padre qui a casa mia. Ti va bene per le otto?

 

Poggiò il telefono, convinta di dovere aspettare una vita ed invece poco dopo arrivò la risposta.

 

Va bene. Ma io poi dopo devo uscire con un'amica, quindi massimo alle dieci me ne vado.

 

D'accordo. Fai buon viaggio. Ti devo venire a prendere alla corriera?

 

No, tranquilla che qualche centinaio di metri a piedi li so fare. A domattina!

 

*********************************************************************************************************

 

"La tua lasagna è sempre buonissima, a- Imma!

 

Notò la correzione in corner ed il cuore le fece un tuffo nella lasagna che già le stava sullo stomaco.

 

"Io preferisco come cucini tu, papà, ma la lasagna non è male."

 

E te pareva! C'è qualcosa in cui mia figlia non preferisce suo padre a me?

 

Portò il dolce - una torta al limone - e, mentre Valentina la ispezionava che manco uno di quei giudici rompipalle dei programmi di cucina, Pietro si produsse in complimenti neanche l'avesse fatta lo chef stellato da cui lavorava Samuel.

 

E, dopo il dolce, arrivò il momento dell'amaro, in tutti i sensi. 

 

"Vi chiederete perché vi ho invitato a cena, immagino," esordì, prendendo un forte respiro e vide padre e figlia scambiarsi uno strano sguardo d'intesa, "insomma… ci ho riflettuto tanto in questi mesi in cui ho vissuto qui da sola e… e sono giunta a una conclusione che… che vi riguarda da vicino, e quindi ovviamente volevo rendervi partecipi entrambi."

 

"E quindi, Imma?" chiese Pietro, con uno sguardo altrettanto strano.

 

"Ho… ho chiesto il trasferimento a Roma. Temporaneo, al momento. Ed è stato accettato."

 

"Che cosa?!" esclamò Valentina, in quello che era quasi un urlo, mentre a Pietro cascò di mano il bicchiere con l'amaro, che per fortuna non si ruppe, ma in compenso il liquido nerastro si sparse per mezza tovaglia.

 

"Scusa! Mo- mo pulisco" balbettò, provando a tamponare col tovagliolo.

 

"Lascia stare, Pietro che fai solo peggio!" lo bloccò, più preoccupata della reazione di sua figlia, "insomma, in questo modo potrei starti più vicina, Valentì, e potremo vederci un poco più spesso e-"

 

"E nessuno te lo ha chiesto! E non voglio trovarmi con una balia opprimente che mi tiene il fiato sul collo! E poi io vivo con Samuel e-"

 

"E io infatti mi cercherò un appartamento per me, vicino alla procura. Anche se, ovviamente, a casa mia sarai sempre la benvenuta. Ma capisco che c’hai bisogno dei tuoi spazi e della tua indipendenza: ci vedremo quando e come vorrai, quando c’avrai tempo. E poi… e poi pure io ho bisogno di cambiare un po' aria."

 

"E vai nello smog per cambiare aria?" chiese Pietro, sarcastico e più amaro di quello che inzuppava la sua povera tovaglia.

 

Ci fu qualche attimo di silenzio, poi Valentina chiese, "da quando sarebbe sto trasferimento?"

 

"Dal sette di gennaio, Valentì, ma ovviamente andrò a Roma già durante le vacanze, per fare il trasloco. Dopo natale però, che vorrei comunque passarlo insieme a voi, se siete d'accordo. Se no possiamo fare io il cenone e tuo papà il pranzo o viceversa, ma era per fare prima."

 

"Va beh, praticamente hai già deciso tutto tu, come al solito. Comunque per natale a me va bene, ma io il resto delle vacanze le voglio passare qui a Matera con papà."

 

"Non vuoi stare con Samuel?" domandò, stupita, anche se questo le avrebbe reso più facile il trasloco. Ma almeno un po’ di tempo con sua figlia a Roma sperava di passarlo anche nelle vacanze.

 

"Tanto lavorerà tutto il tempo, anche a natale e a Capodanno, pure di più. E le mie amiche dell'università tornano tutte a casa e poi… e poi mi ha detto Penelope che torna qui per fare il natale con sua mamma. Almeno sto con un'amica."

 

"Sei ancora in contatto con Penelope?" chiese Pietro, sorpreso e un po' preoccupato: Imma non aveva idea del perché ma quell'amica di sua figlia in particolare non gli era proprio mai piaciuta. 

 

"Sì, ci sentiamo sui social, papà."

 

"Va bene, Valentina, come vuoi. Imma, hai qualcosa in contrario? E pure per me per natale va bene."

 

"No, niente in contrario."

 

"Bene, visto che avete deciso tutto, io mo andrei, che le mie amiche mi aspettano," proclamò Valentina, lanciando un altro di quegli sguardi a suo padre, prendendo borsa e cappotto ed uscendo senza nemmeno aspettare la risposta.

 

"Pietro, mi vuoi spiegare che succede? Le ho notate le occhiate tra te e Valentì e… e nostra figlia sappiamo benissimo che a Matera non ha praticamente più amicizie."

 

Pietro sospirò e si mise sul divano. Imma lo seguì, sedendosi accanto a lui.

 

"È che… è che Valentina sperava che questa cena… insomma, che magari fosse un segno che tu ci avessi ripensato e… e volessi riavvicinarti a me," pronunciò, con occhi lucidi ed un tono carico di delusione.

 

Di nuovo, le lasagne si misero a ballarle la samba nella pancia che manco al Carnevale di Rio.

 

"Lo sperava solo Valentina o lo speravi pure tu?" gli chiese, trafiggendolo con uno sguardo penetrante, "e poi, scusa, ma che fine ha fatto Cinzia Sax?"

 

"Con Cinzia… ci stiamo frequentando…"

 

"E allora, se vi state frequentando, perché non hai detto ancora di lei a Valentina?"

 

"Perché non è una cosa seria al punto da dirlo a nostra figlia, Imma, e comunque-"

 

"E comunque non hai risposto alla mia seconda domanda. Pietro, lo sai che non torneremo più insieme, vero?"

 

Pietro si passò un attimo una mano sugli occhi e poi la fulminò con un'occhiata, "a Roma… è dove si è trasferito pure il tuo maresciallo, no?!"

 

"Pietro…"

 

"Quindi è come pensavo! State insieme? Ed è per lui che ti trasferisci, altro che per Valentina!" gridò, sembrandole più arrabbiato in quel momento che quando gli aveva chiesto la separazione.

 

"Mi trasferisco anche per Valentina. E comunque sì, abbiamo… abbiamo una relazione, Pietro."

 

"Da quanto?"

 

"Ma che ti cambia saperlo?"

 

"Da quanto, Imma?"

 

"Da inizio ottobre…"

 

"Dopo che sei andata a Roma per trovare Valentina, ma certo! E quindi tu… tu per una relazione di un paio di mesi con… con un ragazzino sei disposta a sradicare tutta la tua vita?! Ma sei impazzita?!"

 

"Calogiuri non è un ragazzino! Per certe cose è forse più maturo di me-"

 

"Non che ci voglia molto, visto come ti stai comportando ultimamente!" la interruppe, più sarcastico che mai.

 

"E comunque io e Calogiuri ci amiamo, Pietro, la nostra è una storia seria e-"

 

"Talmente seria che ancora per cognome lo chiami!"

 

"Ma che vuol dire mo?! Quello… quello è il nostro modo di- va beh non sono affari tuoi!" proclamò, perché non voleva certo spiegare a Pietro perché Calogiuri sarebbe sempre rimasto il suo Calogiuri e perché pure a lui andasse benissimo così. E non solo perché Ippazio detestava il suo nome di battesimo.

 

“E non lo voglio manco sapere come vi chiamate nell’intimità! Dio mio, Imma, ma ti rendi conto che stai buttando via la tua vita, tutto quello che hai costruito, per una… una crisi di mezza età con uno stramaledetto toyboy?!”

 

"Non sono mai stata così lucida, Pietro, che a te piaccia o meno! E Calogiuri non è un giocattolo per me e ti devi mettere in testa che facciamo sul serio, Pietro. Non… non avrei cambiato e non starei cambiando tutta la mia vita se non fosse così."

 

"Sul fatto che per te sia una cosa seria ho pochi dubbi, purtroppo," sospirò, prima di aggiungere, duro, "su di lui invece ho moltissimi dubbi e… e spero che non dovrai pentirtene, Imma. Ti ha già mollato una volta e se ne è scappato a Roma, il tuo grande amore! Proprio un eroe, non c’è che dire!"

 

"Tu non sai di cosa stai parlando, Pietro! Calogiuri si è trasferito per salvarmi la faccia e la carriera, se proprio ci tieni a saperlo! E per il resto.. Io invece penso che tu speri proprio l'esatto contrario, Pietro, che io torni con la coda tra le gambe. Ma per carità, lo capisco, è umano."

 

"Ma, visto che la vostra è una storia seria," ripeté, sempre più sprezzante, "ti rigiro la tua domanda: quando pensi di dirlo a Valentina?"

 

"Non appena potremo dirlo in procura a Roma, Pietro, perché per i primi mesi la nostra storia ce la dovremo tenere per noi e… e non voglio casini sul lavoro."

 

"Allora lo sai pure tu che Valentina la prenderà malissimo!"

 

"Sì, ma spero che tu terrai la bocca chiusa per ora, come io l'ho tenuta chiusa su Cinzia Sax, e pure dai tempi delle famose cozze."

 

Pietro abbassò il capo e sembrò sgonfiarsi per un attimo. Ma che fosse più che arrabbiato e deluso non c'erano dubbi ed Imma sperò vivamente che non si lasciasse scappare niente.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qui, con questo capitolo siamo all’inizio della terza fase della storia e ci saranno ancora gialli e numerosi problemi da risolvere.

Spero davvero che la storia continui a mantenersi interessante per voi che la leggete, so che il cambio nello status della relazione di Imma e Calogiuri da un lato e i cambi di location dall’altro sono abbastanza critici come punti, quindi mi auguro che la narrazione continui ad essere coinvolgente e non noiosa.

Se mi vorrete far sapere che ne pensate vi ringrazio di cuore fin da ora perché tutti i vostri commenti oltre a farmi sempre un immenso piacere mi sono davvero utilissimi per capire come sta andando la scrittura e la trama e se vi convincono o meno.

Il prossimo capitolo arriverà domenica prossima, il quindici di marzo.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 21
*** Una Vita Nuova ***


Nessun Alibi


Capitolo 21 - Una Vita Nuova


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


"Imma!! Ma è vero che te ne vai a Roma??!!"

 

Fu così che Diana l'accolse il lunedì successivo. Con due occhi enormi ed uno sguardo tra il sorpreso, il tradito e il dispiaciuto.

 

"Vedo che in questa procura nessuno si sa tenere un cecio in bocca, come sempre del resto. Comunque sì, Diana, avrei voluto dirtelo io, ma ne ho avuto pure io conferma venerdì sera, quando te ne eri già andata. Ho avuto un trasferimento a Roma, temporaneo per ora, ma-"

 

Si ritrovò con Diana attaccata al collo, che la stringeva forte, "sono contenta per te, Imma, credimi, anzi, per voi, ma… ma mi mancherai tantissimo!"

 

"Pure tu mi mancherai, Diana," disse, staccandosi leggermente, "ma… tornerò per le feste comandate e forse in estate. E poi non è detto che sia per sempre. E vedrai che, quando avrai un capo meno rompiballe di me e che ti farà fare meno straordinari, sarai contenta pure tu."

 

"Ah, trovare un capo più esigente di te è difficile, Imma, ma… ma sei l'amica più cara che ho!"

 

"Certo che stai proprio messa bene, Diana!" provò a sdrammatizzare, nonostante stesse trattenendo a fatica le lacrime, prima di abbracciarla lei questa volta.

 

Le sarebbe mancata da morire e non avrebbe mai trovato una cancelliera, anzi un'amica, che la sopportasse quanto lei.

 

*********************************************************************************************************

 

"Imma!"

 

"Maria."

 

Era, come sempre, in agguato vicino alle scale, con il suo solito sorrisetto, puntuale come un orologio svizzero.

 

"Ho saputo che ti trasferisci a Roma. E insomma… così avrai modo di tornare a collaborare da vicino con Calogiuri."

 

"Eh, Maria… che ti devo dire? Ognuno ha i collaboratori che si merita!" proclamò con una risata.

 

Maria rimase un attimo di stucco prima di ribattere, "un giorno mi dovrai spiegare cosa hai fatto esattamente per meritartelo, Imma, e qual è il tuo segreto."

 

"Hai mai provato a lavorare, Maria? Duramente magari, tante ore al giorno. Pare funzioni."

 

E la mollò così, col bicchierino del caffè a mezz'aria.

 

*********************************************************************************************************

 

"Imma, che ci fai qui?! Ippazio?!"

 

"Hai tempo per una lezione extra? O anche solo per farci fare una cavalcata? E poi… e poi siamo venuti perché ti volevamo salutare."

 

"Salutare?" ripeté, scendendo da cavallo e squadrandoli con quegli occhi belli e grandissimi.

 

"Dall'anno nuovo… mi trasferisco a Roma pure io…" ammise con un sorriso.

 

Non sapeva perché avesse aspettato l'ultimo weekend prima di natale per dirlo a Sabrina. Le aveva raccontato della separazione e poi di quando lei e Calogiuri si erano ritrovati ed avevano ricominciato a vedersi.

 

Ma c'era qualcosa nel dirle addio, almeno per il momento, che le dispiaceva profondamente. Forse perché, in un certo senso, era stata la prima a credere in loro due, pure quando non ci credeva neppure lei stessa. O perché alcuni dei momenti più belli vissuti con Calogiuri erano legati a lei. O forse perché l'aveva tanto aiutata in quegli ultimi mesi, anche solo con i silenzi, come i suoi cavalli.

 

"Sono… sono molto felice per voi…" esclamò, gli occhi che le si fecero ancora più grandi, "però… mi spiacerà non averti più a lezione. E mi devi promettere che continuerai con l'equitazione pure a Roma. Ho un amico che ha un maneggio nella capitale: avevamo lo stesso istruttore. Se vuoi, ma pure se non vuoi, ti lascio l'indirizzo."

 

"Agli ordini!"

 

"Mi spiace solo che non siate mai venuti in primavera o estate. Il bosco è veramente bello per passeggiarci ma mo è troppo pericoloso."

 

"Magari torneremo questa estate, no?" chiese Calogiuri ed Imma annuì e gli sorrise.

 

"Allora vi aspetto. Ma ora mettiamoci al lavoro!"

 

E, con un po' di malinconia, si avviarono verso i box, per un'ultima cavalcata.

 

*********************************************************************************************************

 

"Allora ci vediamo il 28. Sei sicura che non vuoi che ti venga a prendere qui a Matera? Posso noleggiare una macchina."

 

Calogiuri era sulla porta, zaino in spalla, pronto ad andare nuovamente a farsi una notte in bus.

 

"No, finché non ho un appartamento è inutile che mi porti via molte cose. Mi porterò giusto una valigia più grande. Ci sono novità con gli annunci?"

 

"Sì, nel periodo di natale non è facilissimo ma abbiamo un po' di appuntamenti fissati dal tre in poi, per alcuni appartamenti vicini alla procura, ma non troppo vicini. Ammobiliati e non."

 

"Abbiamo?"

 

"Se non vuoi che ti accompagni, io-"

 

"Ma che scherzi?! Certo che voglio che vieni con me! Senza obbligo, però, Calogiuri, te l'ho già detto."

 

"Io vivrei con te già da mo, se potessi!" proclamò deciso, prima di imbarazzarsi da solo in quel modo adorabile che aveva soltanto lui.

 

"Pure io, Calogiù, ma per qualche mese ci toccherà barcamenarci tra due appartamenti. Tra l'altro dal sette dovrò per forza trovarmi una pensione perché mica posso dire in procura che sto da te. Spenderò una fortuna in questo primo periodo… se non trovo un appartamento e pure veloce."

 

"Tranquilla, vedrai che lo troveremo. Io ora devo proprio andare, ma nei prossimi giorni farò passare ancora tutti gli annunci."

 

"Come farei senza di te?" sospirò, prendendogli il viso e stampandogli un bacio.

 

"Esattamente come hai fatto in tutti i mesi nei quali non c'ero?" ironizzò, ma con uno sguardo compiaciuto.

 

Appunto. E non ero felice, per niente! - pensò ma non lo disse, trascinandolo in un altro bacio, stavolta più profondo.

 

Si staccarono e rimasero fronte a fronte, come ormai era loro abitudine prima di salutarsi.

 

"Lo so che te lo dico sempre, Imma, ma stavolta manca davvero poco."

 

Ed Imma sorrise, stringendolo più forte.

 

*********************************************************************************************************

 

Stava ritirando le ultime carte, per lasciare la scrivania il più in ordine possibile: pure se il trasferimento al momento era solo temporaneo, era prevedibile che venisse occupata da qualcun altro in sua assenza.

 

Mise in una scatola le poche cose che appartenevano a lei: il temperino elettrico e le foto, compresa quella di Pietro che ormai da un bel po’ giaceva ritirata in un cassetto.

 

Una vita aveva passato in quell’ufficio, una vita intera. Ci era entrata come una giovane donna, una giovane moglie e madre. Una PM fresca di nomina, di belle speranze e ora… e ora ne usciva con molte consapevolezze e molto cinismo in più, un bel po’ di idealismo in meno, anche se i valori per i quali combattere erano ancora tutti lì. Ma sapeva bene che tra il dire e il fare c’erano di mezzo un mare di burocrazia, corruzioni e procedure. Per certi versi, facendo un bilancio, aveva ottenuto tanto, tantissimo, forse più di quanto avrebbe mai osato sperare, anche se aveva poi dovuto cederlo ad un’altra. Allo stesso tempo però, quegli anni non erano stati come se li era aspettata. Quel lavoro l’aveva cambiata, forse in peggio, forse in meglio, dipendeva dai punti di vista.


Anche se, di base, restava sempre quella ragazzina con il cannocchiale in mano che andava ostinatamente nella direzione opposta a tutti gli altri. Ma forse, a volte, aveva imparato che per raggiungere i suoi obiettivi, almeno per un po’, bisognava fingere di seguirla la corrente, pronti ad uscirne al momento giusto.

 

Ho imparato a fingere, dottoressa.

 

La voce di Romaniello, chissà perché, la raggiunse. Lei non aveva imparato propriamente a fingere, non quanto lui, certe cose non le sapeva proprio trattenere e le si leggevano in faccia. Però… però quegli anni e soprattutto il maxiprocesso le avevano insegnato un po’ di prudenza e anche - cosa per lei inaudita - un po’ di pazienza.

 

Richiuse lo scatolone, ripensando a tutti i ricordi legati a quel luogo, anche a quelli legati a lui.

 

Ricordò ancora la prima volta che era andato a presentarsi e a farle rapporto, sembrando quasi terrorizzato. Aveva bussato talmente piano che all’inizio non era sicura di avere sentito bene e aveva dovuto bussare una seconda volta prima che gli potesse dare il permesso di entrare. Le era sembrato un pulcino implume, una specie di Calimero, per quanto bellissimo - quello lo aveva notato subito, mica era cieca! E dio solo sapeva quanto fosse cambiato e maturato, anche se a volte quel Calogiuri un poco le mancava e ripensava a lui con nostalgia e tenerezza. Ma ogni tanto lo ritrovava ancora, sotto la cenere, nei momenti più inattesi. Perché alla fine puoi crescere, puoi maturare, ma il carattere quello resta. Un po’ com’era per lei: anche lui aveva imparato un poco a dissimulare, ma non sapeva fingere e a lui sì che gli si leggeva tutto in faccia. Ed una parte di lei sperava sarebbe sempre rimasto così.

 

Era ancora assorta nei suoi pensieri, quando il suono di una trombetta per poco non le causò un infarto.

 

Una mano sul petto, alzò gli occhi e si trovò davanti Capozza con la maledetta trombetta in mano e un cappellino di carta in testa, reggendo una confezione di quelle che parevano pastarelle nell’altra mano, seguito da praticamente tutta la PG.


Stava per mandarlo a quel paese per averle fatto prendere un colpo quando, a sorpresa, entrarono anche i colleghi magistrati sopravvissuti al repulisti, inclusi D’Antonio e Vitali. C’era pure la Moliterni col REGE appresso. E poi Diana arrivò dal suo ufficio, sembrando già commossa.

 

“Volevamo farle una festa di commiato, dottoressa. Sappiamo che lei le odia, ma semplicemente non potevamo non farlo, dopo tutto quello che lei ha dato a questa procura,” proclamò Vitali con un sorriso.

 

E, in quel momento, Capozza si fece passare una bottiglia di spumante e urlò un “evviva la dottoressa!” talmente cacofonico che quasi le fece simpatia.

 

“Dottore… non so se ringraziarla o strozzarla, ma credo che la ringrazierò per essersi prestato a tutto questo,” rispose, una parte di lei che non poteva evitare di commuoversi.

 

“Dottoressa,” proclamò ancora Vitali, prendendo in mano due bicchieri pieni e porgendogliene uno, “quando sono arrivato in questa procura, mi avevano avvertito di lei in particolare. E, come le ho già detto una volta, non credo di avere mai conosciuto una persona capace di far perdere la pazienza pure ad un santo quanto lei. Ma… lei ha fatto tantissimo per questa procura e per questa città, non per ultimo il sapersi fare da parte, mettendo il bene comune davanti al suo prestigio personale. Dottoressa, per me lei, nonostante il suo pessimo carattere, è esattamente tutto quello che credevo dovesse essere un magistrato quando ho iniziato a fare questo lavoro. Ma la vita mi aveva fatto un po’ perdere la… la fiducia che… che esistessero ancora persone con certi ideali. Certo, magari il carattere me lo sarei pure evitato, ma non si può avere tutto… e sarà stato il giusto contrappasso. Insomma, dottoressa, tutto questo per dirle che spero davvero che questo non sia un addio ma soltanto un arrivederci e per augurarle buona fortuna a Roma, a lei e a chi dovrà sopportarla. Ma sono certo che farà un lavoro eccezionale anche lì. Auguri!”

 

E tutti esplosero in un “auguri!” collettivo che le provocò una botta di commozione, soprattutto quando vide Diana piangere apertamente. La D’Antonio aveva una faccia schifata e Matarazzo non c’era proprio.

 

Ma non gliene fregava niente.


“Grazie mille dottor Vitali e, anche se negherò fino alla morte di averlo mai detto, la stima è reciproca, pure se anche il suo di carattere non scherza. E grazie a tutti! Spero anche io che magari un giorno tornerò qui… al momento sento il bisogno di stare vicino ai miei affetti e seguire questo processo a cui tengo molto. Ma non crediate di esservi liberati di me tanto facilmente! Potrei tornare quando meno ve lo aspettate!” ironizzò, rivolgendosi poi a Maria che aveva, inaspettatamente, gli occhi lucidi, “quindi Maria, tienilo in ordine sto benedetto archivio!”

 

Per tutta risposta, la Moliterni sorrise e poi si ritrovò stretta in un abbraccio, seguito da un, “goditela, Imma, beata te che puoi!” sussurrato in un orecchio.


Si chiese se fosse possibile essere amiche e nemiche al tempo stesso. Per loro forse era così.

 

L’abbraccio con Diana fu ancora più straziante, “vienimi a trovare a Roma, quando vuoi. Pure con Capozza, se proprio devi.”

 

“Imma…” sussurrò e le lacrime maledette le scesero finalmente.

 

“Una pastarella napoletana, dottoressa?” le chiese Vitali, quando lei e Diana si costrinsero a staccarsi.

 

E, inaspettatamente, per una volta la accettò, quasi come se fosse un simbolico calumet della pace e di come era cambiato il loro rapporto in quegli anni.

 

Avrebbe sentito la mancanza di quasi tutti.

 

Ma mai quanto la sentiva di lui.

 

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"Un nuovo computer portatile?! Grazie papà!"

 

“Eh, lo so che ti serviva per l’università!”

 

Un regalino proprio da niente le aveva fatto, Pietro, e senza neppure consultarla! Non che dovesse farlo, ormai, ma lei ovviamente sarebbe passata come la tirchia della situazione.

 

"E mamma… due biglietti per il concerto di Achille Lauro a Roma?!" chiese, con una faccia sconvolta.

 

"Spero che ti piaccia ancora Valentì, ma ho visto i manifesti e-"

 

"E quando li hai visti i manifesti?"

 

"Due weekend fa, sono venuta a Roma per iniziare a guardarmi in giro, Valentì, lo sai che devo trovare un appartamento," si salvò in corner, maledicendo la sua abitudine di parlare troppo.

 

"E perché non me lo hai detto che stavi a Roma?"

 

"Perché tanto eri qui con tuo padre, no?"

 

"Già…" rispose, poco convinta, "comunque Achille Lauro mi piace ancora molto. Grazie! Ci andrò con Samuel o con un'amica se lui non può. Solo che… non è molto un regalo da te."

 

"In che senso, Valentì?"

 

"Che non è da te regalare qualcosa di poco utile, ecco. A meno che il concerto ti sia piaciuto più del previsto e ci voglia venire tu con me."

 

"No, guarda, grazie, una volta mi è bastata e avanzata, con tutto il rispetto per Achille Lauro."

 

La verità era che già Valentina faceva una vita da vecchia, con la convivenza e tutto, forse per questo aveva voluto regalarle qualcosa di più leggero. O forse sarà stata l'influenza di un certo maresciallo sulla sua di vita.

 

"Mamma ultimamente fa tante cose che non sono da lei, Valentì."

 

E rieccole, le battutine. Durante il cenone Pietro era stato tutto sommato civile, ma ogni tanto qualche frecciatina se l’era fatta scappare.

 

"Va beh… un ultimo dolcetto lo volete?" offrì, cercando di ignorare la provocazione.

 

Aveva fatto i dolcetti natalizi tipici materani, per mantenere almeno un minimo di normalità in quel natale che normale non lo era affatto.

 

"No, che domani abbiamo il pranzo da nonna e già ci rimpinzerà come dei maiali!"

 

"Ah, andate a pranzo da tua madre per natale, Pietro? Non lo sapevo. Anche se non mi stupisce affatto di non essere stata invitata, quindi potevi pure dirmelo."

 

"Sai che mia madre ci tiene alle tradizioni e alla famiglia. Lei."

 

"Tua madre tiene alle apparenze e poi alla famiglia, Pietro, che è diverso."

 

"Va beh, se dovete litigare, io andrei che tanto la mezzanotte è passata. E poi domani volevo uscire con Penelope, dopo il pranzo da nonna, che è una vita che non ci vediamo."

 

Imma e Pietro sospirarono all'unisono, ma per motivi completamente diversi.

 

E, sebbene Imma avesse da sempre odiato le feste comandate, si chiese se da quel momento in poi sarebbero sempre state una tortura simile, o se la situazione prima o poi sarebbe tornata meno tesa.

 

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Arrivò alla tomba con in mano un mazzo di fiori finti, di quelli di buona qualità. Le piangeva il cuore, ma quelli freschi sarebbero appassiti e chissà chi e quando li avrebbe cambiati.

 

E ci trovò una rosa bianca, un po' appassita ma non ancora del tutto rinsecchita.

 

Chiara Latronico.

 

"Ciao mà. Sono venuta a salutarti perché per un po' di tempo non potrò passare. Me ne vado a vivere a Roma, non so per quanto, credo almeno per un paio d'anni. Ma ti penso sempre e tornerò qui quando posso. Ho… ho cercato di mantenere la promessa che ti ho fatto, mà, e cercherò di mantenerla sempre. Sono felice, felice come non lo ero da tanto… anche se... ci saranno ancora tanti problemi nei prossimi mesi, ma quelli non ci hanno mai spaventate, no, mà? Mi sento un po' stupida a parlarti così ma… volevo dirti che spero che pure tu sia felice, dovunque stai ora e che… non dimenticherò mai tutto quello che mi hai insegnato. Ti… ti voglio bene, mamma!"

 

Lasciò i fiori, gli occhi che pungevano maledettamente e rimase per un po’ ferma, in silenzio, finché sentì un rumore di passi sui sassolini, poco distante.

 

Si voltò e si ritrovò di fronte proprio alla Latronico, con una rosa fresca in mano.

 

"Scusa… non ti volevo disturbare."

 

"No… è che… sono venuta a fare un ultimo saluto a mia madre. Da domani mi trasferisco a Roma."

 

Non avrebbe saputo dire perché avesse sentito il bisogno di dirglielo.

 

"Ma… ma per seguire il processo?"

 

Non c'era bisogno di specificare quale.

 

"Anche, seppure molto probabilmente lo farò soltanto indirettamente. Ma mia figlia studia a Roma e…"

 

"Ti capisco. Sai quante volte ho pensato pure io di lasciare Matera, ora che i miei figli sono via? Ma qui ho il mio studio e a Roma dovrei ricominciare da capo e poi… non lo so… c'è sempre qualcosa che mi trattiene qui. Non so se sia più l'odio o più l'amore che provo verso questa città."

 

E la capiva, eccome se la capiva, perché pure per lei era lo stesso.

 

"Se sarai a Roma… magari... quando ci vado per trovare mio figlio, ci potremmo vedere? Che lì ci sono meno occhi indiscreti. Non voglio essere invadente o troppo insistente, ma ci terrei veramente tanto a conoscerti meglio."

 

"Va bene."

 

Le uscì di getto, prima di rifletterci. Forse perché, oltre a Valentina, era l'unica famiglia rimastale e mai come in quelle feste se ne rendeva conto. 

 

Pure se era una sconosciuta. Ma voleva sapere di più di lei. Ne aveva bisogno, per qualche strana ragione.

 

Forse anche per capire perché portasse fiori a quella che, di fatto, era stata la donna con la quale suo padre aveva tradito sua madre.

 

"Mentre sarai via, ci penserò io a lasciarle un fiore, non ti preoccupare!" disse, sembrandole leggere nel pensiero. 

 

E non avrebbe saputo dire se la cosa fosse più rassicurante o inquietante.

 

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“Imma!”

 

“Calogiù!”

 

Gli buttò le braccia al collo e se lo baciò, fregandosene di eventuali materani che li potessero vedere, scendendo dalla corriera. Tanto ormai non la riguardava più.

 

“A cosa… a cosa devo questa accoglienza?” le chiese, quando si staccarono.

 

“A tutto,” gli rispose, accarezzandogli una guancia, “e mi sa che ci dovrai fare presto l’abitudine a questa accoglienza, tutte le sere.”

 

“Mi pare ancora incredibile… ma… ci siamo… ci siamo davvero.”

 

Gli vide gli occhi farsi lucidi e anche lei provava la stessa cosa: dopo tutti quei mesi prima di relazione clandestina, poi di separazione, poi di relazione a distanza, potevano finalmente stare insieme veramente, nella quotidianità.

 

Forse non potevano ancora dirlo al mondo ma… era già più di quanto avesse mai osato sognare.

 

“Di chi è la valigia che pare uscita da un safari?” urlò la voce dell’autista e Calogiuri la guardò e scoppiò a ridere.

 

“La valigia è mia!” urlò, recuperando il mega trolley leopardato prima che l’autista facesse ulteriori danni.

 

“Ci prendiamo un taxi? Vista la valigia mi pare la soluzione più comoda, anche se ci costerà un poco di più.”

 

“Va bene, per una volta si può fare, Calogiù,” concesse, sorridendo di quanto lui la conoscesse bene.

 

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Avevano da poco superato la zona di Piazza del Popolo e il Tevere, quando il taxi fece una frenata brusca e per fortuna indossavano le cinture o si sarebbero schiantati contro i sedili.

 

“Ah signorì, ma che state a fa’?! Siete matta?!” urlò il taxista, incazzato nero, verso la ragazza che si era praticamente parata di fronte al taxi, con le braccia alzate, facendo segno di fermarsi.

 

Era altissima, biondissima, bellissima e vestita in modo elegante, da sera, ma allo stesso tempo molto succinto. Alle sette e trenta del mattino pareva una visione incongruente con la città che le stava intorno.

 

“Vi prego, fate me salire!” gridò di rimando, con un’aria disperata.

 

Imma e Calogiuri si guardarono un secondo e dissero all’unisono al tassista “fatela salire!”

 

“Ma la corsa è già occupata e-”

 

“Non importa, fatela salire. Sono un carabiniere, fate come dico,” intimò Calogiuri, esibendo il distintivo e il taxista deglutì e le sbloccò la portiera davanti, accanto a lui.

 

“Grazie! Grazie mille!” esclamò la ragazza, salendo di corsa sul taxi ed Imma notò un vistoso tatuaggio sulla parte bassa della schiena, lasciata nuda dal vestito. Era un mistero come potesse non morire di freddo.


“Dove andate signorì?” chiese il taxista, sembrando improvvisamente non così dispiaciuto di avere una simile bellezza accanto a lui, “che prima devo portare i signori qui a casa, ma sta qua vicino.”

 

“Ovunque, basta lontano da qui, poi posso scendere con loro, non importa, anzi, basta che lasci me a fermata di metro.”

 

“Ma che ti è successo?” chiese Imma, preoccupata dall’evidente paura della giovane.

 

“Niente… io… hanno tentato di rubare borsa e poi… insomma io scappata,” rispose, in un modo che le sembrò un po’ reticente.

 

“Ma sei sicura che abbiano cercato di rubarti solo la borsa? Ascolta, io sono un magistrato e lui è un carabiniere. Se ci dici che ti è successo possiamo aiutarti a-”

 

La ragazza, a quelle parole, sembrò ancora più spaventata.

 

“No, no, io-”

 

In quel momento, il taxi si fermò ad un semaforo rosso e, prima che potessero rendersene conto, la ragazza spalancò la portiera e iniziò a correre ad una rapidità incredibile, considerati i tacchi.

 

Un altro sguardo di intesa e Calogiuri scese dall’auto, prendendo a correrle dietro, mentre Imma ordinò al taxista di fermarsi per un attimo lì, tanto pure il tassametro correva lo stesso.

 

Ma, dopo qualche minuto, Calogiuri tornò a mani vuote.

 

“Niente… l’ho persa di vista… ha girato un angolo e c’erano troppe stradine… non l’ho più trovata. Mi dispiace.”

 

“Che volete che facciamo signò?”

 

“Vuoi andare in procura?” le chiese Calogiuri ed Imma ci ragionò su: se si fossero presentati in procura insieme in pieno periodo natalizio sarebbe sembrato a dir poco sospetto.


E poi, pure fossero andati in procura, che potevano dire? Che una bella ragazza straniera, come ce ne sono a migliaia e migliaia a Roma, era salita sul loro taxi ed era fuggita, dopo forse una subita rapina? Sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio.

 

“No, Calogiù, sarebbe inutile. Andiamo a casa tua,” sospirò: certo che il soggiorno romano iniziava già col botto, quasi letteralmente.

 

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"Ma che cos'è questo profumo di… di…"

 

"Di fiori d'arancio? È che ho cucinato un po' di cose tipiche natalizie - spero che ti piacciano e siano venute mangiabili - visto che il natale non lo abbiamo potuto passare insieme. E quindi ho pensato che potevamo festeggiare oggi."

 

Avevano appena fatto in tempo ad entrare nel monolocale, la valigia ci passava a malapena, e già le toccava di nuovo lottare con la commozione. Mannaggia a lui!

 

"Fiori d'arancio… o hai fatto la pastiera napoletana o è un messaggio subliminale, Calogiù?" gli chiese, per sdrammatizzare, ma Calogiuri scoppiò in uno dei suoi attacchi di tosse, sembrando imbarazzatissimo.

 

"E dai, Calogiù, sto scherzando, non mi andare in panico!"

 

"No, ma che panico… anzi…" mormorò, con uno di quei suoi sorrisi timidi.

 

E fu il turno di Imma di sentirsi avvampare, la saliva che le andava di traverso e pure lei si ritrovò a tossire.

 

"Ma non dico mica mo o a breve, eh! Cioè… voglio dire… tra qualche anno… da parte mia almeno… perché no?" si affrettò a precisare lui, balbettando per l'agitazione.

 

"Sì, anche perché mo mi denunciano per bigamia, Calogiù," scherzò, per lasciare cadere quell'argomento tanto pericoloso, in cui però era stata lei ad infilarcisi.

 

Per carità, le faceva piacere da un lato sapere che lui, al momento, non fosse in assoluto contrario alla prospettiva del matrimonio, in un futuro non troppo prossimo. Ma, dall'altro lato, lui era ancora troppo giovane e sarebbe stata lei a dover tenere i piedi per terra ed andarci con i piedi di piombo, per entrambi, anche una volta ottenuto il divorzio.

 

"Va beh… ti prendo il cappotto e poi… e poi, magari se ti vuoi fare una doccia… e poi magari-"

 

"Ottima idea, Calogiuri!" lo interruppe, baciandolo appassionatamente ed iniziando a slacciargli il giaccone.

 

"Che… che fai?"

 

"Risparmiamo l’acqua facendo la doccia insieme. Mai sentito parlare di efficienza energetica?" ironizzò, buttandogli il giaccone a terra.

 

"Più o meno… ma se vuoi illustrarmela meglio, dottoressa, io sono più che disponibile."

 

Ridendo, gli sfilò pure il maglione e cominciò a baciargli il petto, amando il modo in cui il cuore gli batteva già all'impazzata, ma soprattutto l'idea che, da quel giorno in poi, quella sarebbe stata la normalità e non solo un'eccezione, una bellissima parentesi alla routine della vita.

 

E si ripromise che avrebbe fatto di tutto perché la normalità non diventasse mai banale. Non che con lui fosse molto probabile, visto quanto si applicava per sorprenderla ogni volta.

 

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"Era tutto buonissimo, Calogiuri! Ti sei superato stavolta!!"

 

"Grazie…" sussurrò, abbassando gli occhi, modesto come al solito.

 

"E poi voglio le ricette, eh!”

 

"Agli ordini, dottoressa! Vuoi ancora un pezzo di pastiera o...?”

 

"No, per carità che tra un poco scoppio. E poi mo… aspetta un attimo qui che ti devo dare una cosa, sempre se la trovo."

 

Tornò a scavare nella sua valigia, che si apriva a fatica in quello spazio risicato, e ne estrasse una busta.

 

"Buon natale, Calogiù!" proclamò, porgendogliela, un po’ in apprensione.

 

"Ma è…"

 

"Un viaggio per quest'estate, a Minorca. Ho sentito che ci sono spiagge bellissime ed isolate, una natura magnifica ed un sacco di percorsi che si possono fare a cavallo o in moto. E poi, visto che tu sei giovane, se vuoi possiamo andare anche qualche giorno a Maiorca, anche se sul reggere la movida non garantisco. Sempre se mi vuoi portare con te. E… e se la meta non ti piace puoi sempre cambiarla e-"

 

“Ma non dirlo nemmeno per scherzo! Certo che mi piace e ovviamente voglio andarci con te!" esclamò felice come un bimbo, trascinandola in un bacio che… altro che movida!

 

“Sai… dicono che a Minorca ci siano pure delle bellissime spiagge per nudisti,” lo provocò quando si staccarono, “visto che, se non ricordo male, eri interessato a provarle e-”

 

“E secondo te io ti faccio girare nuda per la spiaggia?!” la interruppe, con una gelosia nella voce che la inorgoglì tantissimo.

 

“Eccolo lì, l’uomo del sud. Lo sapevo che prima o poi sarebbe uscito!” scherzò, dandogli un pizzicotto sul fianco.

 

“Perché? Tu saresti felice se io girassi nudo per le spiagge di Minorca?”

 

“Se ci sono solo io, moltissimo. Se ci sono pure altre… diciamo che rischieresti di cantare nelle voci bianche, maresciallo, se solo ti azzardi!”

 

“Eccola lì, la donna del sud!” la canzonò e si ritrovò stretta al suo petto, avvolta da un altro bacio.

 

Stava per slacciargli la polo di flanella quando lui le bloccò le mani.

 

“Aspetta! Anche io ho qualcosa da darti,” proclamò, estraendo un sacchetto, un pacchettino ed una busta e porgendole prima il sacchetto.

 

Lo aprì e riconobbe immediatamente il tubino nero con la parte superiore leopardata, che avevano provato con quella stramaledetta commessa.

 

“Ovviamente l’ho preso in un altro negozio ma… eri talmente bella che sarebbe stato un delitto non comprartelo. Spero non ti dispiaccia e-”

 

Gli mise l’indice sulle labbra, mentre la prendeva un’altra botta di magone, capendo benissimo perché avesse fatto quel gesto.

 

E poi le porse il pacchettino.

 

Lo aprì e ci trovò dentro un mazzo di chiavi, il portachiavi rigorosamente leopardato, e le venne da ridere.

 

“Così puoi andare e venire più liberamente e poi… spero che, fino a che non avrai un appartamento tuo, starai più qui che in pensione.”

 

“Ci puoi scommettere, Calogiù,” proclamò, dandogli un altro bacio.

 

Commossa da morire, pensò che non avrebbe potuto amarlo più di così.

 

Almeno finché le porse la busta.

 

“Anche se non è molto originale, a questo punto..."

 

Imma la aprì e rimase a bocca spalancata. 

 

"Un viaggio in Giappone?! Ma sei matto?! Ti costerà una follia!"

 

"Guarda la data."

 

"Tra… tra un anno e mezzo?!"

 

"L'idea è che metto un po' di soldi da parte ogni mese e tra un anno e mezzo avrò raggiunto la cifra necessaria per andarci insieme."

 

"Se fai una cosa del genere voglio contribuire anche io ogni mese, non scherziamo!" protestò, la lotta con la commozione ormai persa, due lacrime che le scendevano sulle guance.

 

"No, se no che regalo sarebbe? Già devi aspettare un anno e mezzo per poterlo avere. Ci manca solo che lo paghi tu!"

 

"Sei tu il regalo migliore di questo natale, Calogiuri! Il resto a me non serve," proclamò, abbracciandoselo stretto stretto.

 

"E lo stesso vale per me. Ma un premio ce lo meritiamo, in fondo, no?"

 

"Tu dovresti mettere da parte soldi per il tuo futuro e-"

 

"E questo è il mio futuro. Tu sei il mio futuro, Imma, sempre se lo vorrai."

 

"Calogiuri…" sussurrò, stringendolo talmente forte da finirgli praticamente in braccio, "intendo per te stesso e per cose pratiche: qualsiasi cosa capiti tra noi, tu devi avere le spalle coperte, hai capito?"

 

"E le avrò, basta fare bene i conti e risparmiare. E su questo ho una maestra inflessibile."

 

"Ci puoi giurare!” esclamò, prima di notare i bottoni della polo ancora mezzi slacciati e decidere di finire il lavoro, “e mo, che ne dici se ti insegno qualche cosa d’altro, Calogiuri?”

 

“Magari stavolta sarò io a insegnare qualcosa a te, dottoressa,” la sfidò con un sorriso, iniziando a sua volta a slacciarle il golfino.

 

Eh sì, il suo Calogiuri era proprio cresciuto! Eccome se era cresciuto!

 

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“Sei sicuro che ti vada bene passare il capodanno così?”

 

“Ti sembra che mi stia lamentando?” le chiese, accarezzandole il collo e poi una spalla nuda, fino a farla rabbrividire.

 

Erano a casa sua, avevano fatto una cena con i classici di capodanno materani e campani e la stavano smaltendo a letto.

 

“No, ma… ma tu sei giovane… dovresti fare feste, andare a divertirti e-”


“Ma io mi sto divertendo, dottoressa, e pure parecchio,” ribatté, dandole un bacio, “tu no? Perché se no, evidentemente sto sbagliando qualcosa.”

 

“Non mi posso lamentare, Calogiuri,” rise, mordicchiandogli il labbro, prima di guardarlo negli occhi, “ma sai cosa intendo.”

 

“Sì, ma non potevo desiderare di passarlo in modo migliore questo capodanno. E se vuoi andare ad una festa… possiamo sempre farlo l’anno prossimo.”

 

L’anno prossimo… le sembrava ancora quasi impensabile poter fare progetti con Calogiuri. Progetti a lungo termine pure, senza che fosse solo una fantasia.

 

“In realtà… anche io volevo passarlo così il capodanno. Lo sai… l’anno scorso… quando ci siamo sentiti che… che tu stavi a Barcellona e ci siamo fatti gli auguri… io un solo desiderio avevo: che il capodanno successivo avrei potuto passarlo con te e solo con te. E… e si è avverato.”

 

Non sapeva perché sentisse il bisogno di dirglielo, forse perché si sentiva maledettamente felice.

 

Imma…” le sussurrò, con quel sorriso incredulo e gli occhi lucidi, come se gli fosse appena successo un altro miracolo.

 

Le accarezzò il viso e si scambiarono un bacio dolce, tenero, delicato, almeno fino a che non furono disturbati dai botti che iniziavano fuori.

 

Guardarono l’orologio: era la mezzanotte precisa.

 

“Tanti auguri, Calogiù!”

 

“Tanti auguri, Imma!” replicò, scoccandole un altro bacio, prima di staccarsi e scendere dal letto ed andare verso il frigorifero.

 

Mamma mia! - esclamò tra sé e sé, chiedendosi se si sarebbe mai abituata a tutto quel ben di dio.

 

Tornò con lo spumante e due calici. Lo stappò, versandogliene uno.

 

“A che brindiamo? E devi esprimere un desiderio, ma non me lo devi dire, se no non si realizza.”

 

“A noi due, Calogiù e che quest’anno nuovo ci porti davvero una vita nuova!” proclamò e fecero il brindisi, guardandosi negli occhi.

 

E che desidero? Desidero essere sempre felice come lo sono ora e che lo sia pure tu, Calogiù, niente di più e niente di meno.

 

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“Vale, che c’è, non ti diverti?!”

 

“No, anzi, questa festa è proprio fighissima, è solo che…”

 

“Che c’è, Vale?” le chiese, trascinandola con sé via dalla musica assordante ed avvicinandosi all’uscita del capannone industriale riconvertito, per l’occasione, in una specie di locale da live.

 

“C’è che tu tra pochi giorni torni a Milano e io a Roma. E lì…  lì sarò di nuovo sola quasi tutto il tempo.”

 

“Ma le cose con Samuel non vanno proprio?” le domandò, con una faccia strana, bevendo un altro sorso di birra.

 

“Non è che non vanno, è che non ci sono. Lui non c’è quasi mai e quando torna è stanchissimo. Io non so più come fare. Non lo voglio soffocare ma…. ma è come vivere da sola o quasi.”

 

“Lo capisco ma… quello è il suo lavoro, la sua passione e lo sarà sempre. Forse dovreste vedervi solo nel tempo libero e non convivere? Così ti sentiresti meno sola.”

 

“Ma a quel punto non ci vedremmo quasi più! E io mo ho l’università e non ho tutte le ore, figurati se lavorassi pure io. O mi trovo un lavoro serale o non ci incroceremmo quasi mai…”

 

“Vale, non so che dirti. Ho sempre sentito dire che fare la moglie di uno chef è dura, ma non ho mai provato una convivenza, con nessuna, quindi non saprei come consigliarti.”


“Beh, ma con un’amica è diverso, no?” le chiese, sorpresa, “dovresti provare la convivenza con un uomo e poi-”

 

“Non… non credo… se non come amico…” sospirò Penelope, bevendo l’ultima sorsata di birra.


“Che vuoi dire?”


“Beh… pensavo che l’avessi capito che… insomma… che sono lesbica.”

 

Valentina rimase a bocca aperta: no, che non l’aveva capito, non con certezza. Certo, Penelope scansava i ragazzi come la peste, ma aveva pensato fosse per il suo carattere molto selettivo.

 

“No, scusa, io… non…”

 

Quelle scritte De Ruggeri lesbica le tornarono alla mente e si sentì avvampare.

 

“Spero che… insomma… che ora che lo sai tra noi non cambi niente e non sia un problema per te, Vale.”

 

“No, figurati, perché dovrebbe essere un problema?” rispose, anche se provò un certo latente senso di imbarazzo e non capì nemmeno lei bene il perché.

 

“Grazie Vale, non tutte sono come te, anche se a Milano è più aperta la mentalità da questo punto di vista, specie all’accademia.”

 

“Beh, più aperta di Matera non ci vuole molto!” proclamò con un sorriso.

 

“No, infatti. Riprendiamo a ballare, ti va?” le chiese, prendendole la mano, come aveva già fatto milioni di altre volte.

 

E Valentina provò una sensazione strana, né piacevole, né spiacevole, solo strana.

 

Ma, in silenzio in mezzo al caos assordante, ricominciarono a ballare.

 

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“Allora, che ve ne pare?”

 

Si guardarono e bastò quello a capire che era un no per entrambi.

 

Stavano visionando appartamenti ormai da qualche ora, ma avevano tutti diverse magagne: o erano bui e tristi, o erano ammobiliati con arredi che cadevano a pezzi, o erano dei veri e propri buchi. Ovviamente negli annunci erano stati tutti descritti come confortevoli, luminosi e dei veri affari.

 

“Non avete proprio niente di meglio?” chiese Calogiuri, esprimendo pure il suo pensiero.

 

“Non con il budget che mi ha dato la sua compagna. Certo, se si potesse salire un poco sarebbe diverso.”

 

“Un poco quanto?” domandò Imma, già in apprensione.

 

“Dipende… diciamo almeno un cinquecento euro in più al mese.”

 

“Ma è una cifra enorme!” protestò Imma, indignata: in certi posti quattrocento euro al mese era l’affitto di un appartamento ben più che confortevole.

 

“Signora, qui stiamo in una zona di Roma molto prestigiosa. Se volete spendere meno dovete allontanarvi di più e andare più verso la periferia. Non c’è alternativa.”

 

“Forse è davvero l’unica soluzione, Calogiù…” sospirò, sebbene l’idea di farsi mezz’ore di metro ogni giorno non la entusiasmasse, o di farsi venire a prendere e rimanere ore bloccata nel traffico.

 

“Senta, possiamo avere qualche esempio di questi appartamenti? Qual è il meno caro?”

 

“Se mi date un attimo consulto il database,” sospirò l’agente immobiliare, iniziando a smanettare sul cellulare.


“Calogiuri, ma non posso spendere di più, io…” provò a protestare ma lui la interruppe con un dito sulle labbra.

 

“Vediamo almeno un confronto, poi se è troppo cerchiamo in una zona più distante… ma non vorrei vivere in due appartamenti così lontani…” sospirò lui e lei non potè che dargli ragione, “se no prendi un appartamento di rappresentanza e poi stai da me ma… hai presente com’è il mio appartamento: non ci entra quasi niente e dovresti lasciare quasi tutto a Matera.”

 

“Guardate,” li interruppe l’agente immobiliare, “forse siete fortunati. Ho un nuovo annuncio, di un appartamento che normalmente costerebbe molto di più, ma il proprietario ha fretta di affittare. Sfora il vostro budget di quattrocento euro, ma dalle foto credo converrete che li vale tutti.”

 

“Veramente pure questi appartamenti avevano foto decenti sugli annunci,” protestò Imma, pur sporgendosi per vederle.

 

Era un appartamento non ammobiliato e dalle foto sembrava veramente bello e luminoso.

 

“Allora, che facciamo? Volete vederlo?”

 

“Io direi di sì, poi al limite lo scartiamo, ma proviamoci, no?” le domandò, con sguardo implorante.

 

“E va bene, vediamo sto appartamento!”

 

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Era quasi a bocca aperta: l’appartamento era veramente bello, spazioso il giusto, luminoso, con pure un terrazzino con tanto di vista sul cupolone, seppur da una certa distanza.

 

Certo, c’era da ammobiliarlo tutto e poi quattrocento euro in più….

 

“Lo so a cosa stai pensando, ma è bellissimo,” le sussurrò Calogiuri in un orecchio.

 

“Sì, lo so, Calogiù, ma in questo momento non so se me lo posso permettere: ho pure il mantenimento di Valentina e-”

 

“E potrei contribuire io con una parte dell’affitto, se tanto a breve verremo a viverci insieme… quando insomma… quando potremo dire a tutti di noi. Alla fine spenderei meno di quanto spendo ora e-”

 

“Appunto, alla fine! Ma mo non puoi pagare il tuo affitto più un pezzo del mio, non esiste proprio!”

 

“Ma in questo appartamento ci devi passare molti mesi, anzi, ci dobbiamo passare molti mesi. Non credi che sia importante avere un posto dove ci si possa sentire a casa?” le domandò, con quel suo sguardo di quando voleva convincerla di qualcosa.


Ed era bravo, maledettamente bravo.

 

La verità era che dovunque ci fosse lui lei si sentiva a casa, pure in una topaia, ma non poteva dirglielo.

 

“Calogiù… lo so ma… ma devo tenere i piedi per terra e poi c’è pure da comprare i mobili e-”

 

“E possiamo andare in un posto che vende mobili economici. Costerà meno di quanto pensi: fidati perché l’ho già fatto a Matera. E poi appunto… è solo per qualche mese e poi divideremo le spese a metà. Inoltre anche la posizione è perfetta: puoi arrivare a piedi in procura ma è abbastanza distante da non trovarsi colleghi che passeggiano qui davanti ogni volta.”

 

Si fece due conti: per carità, i soldi da parte non le mancavano ma non voleva scialacquarli. Però per qualche mese si poteva fare e poi… e poi avrebbe avuto lo spazio di portarsi via le cose che teneva a casa di sua madre e… e magari decidersi a darla in affitto, anche se le avrebbe fatto male. Tenerla chiusa per quelle poche visite all’anno a Matera non ne valeva la pena e lo sapeva. Ma era un passo che non era sicura di essere pronta a compiere.

 

“Va bene. Ma voglio vedere tutte le carte su questo appartamento, tutti gli ultimi controlli fatti, l’agibilità e tutto il resto, per accertarmi che sia tutto a posto veramente. E poi voglio mandare un idraulico e un elettricista a ispezionare prima di firmare il contratto definitivo.”

 

Preferiva spendere di più prima della firma, ma di case in apparenza bellissime con poi magagne tremende ne sapeva qualcosa da tutte le cause che impestavano la sezione civile della procura di Matera.

 

“Ma lei è un avvocato?” chiese l’agente immobiliare, tra il sorpreso e l’inquietato.

 

“No, sono un pubblico ministero. Ha qualcosa da dirmi su questo appartamento prima che lo scopra da sola?”

 

“No, no, non credo. Comunque può fare i controlli che crede. Nel frattempo potremmo firmare un preaccordo in cui si dice che, se i controlli risultassero soddisfacenti, lei si impegna a prenderlo in affitto. In questo modo può fermare l’appartamento e-”

 

“Lei sa che prima di firmare qualsiasi cosa la analizzerò molto a fondo, vero? Quindi, se vuole darmi questo preaccordo, ma le consiglio di non provare a fare scherzi. La normativa sugli affitti e sui beni immobili me la ricordo ancora perfettamente.”

 

“Naturalmente, dottoressa…” balbettò l’agente, sempre più nervoso, estraendo il cellulare e tornando per un attimo a smanettarci.

 

“Ecco qui, dottoressa, gliel’ho mandato per email. Se vuole leggerlo, poi andiamo in ufficio per la firma.”

 

Ed Imma iniziò ad ispezionarlo riga per riga, pronta a trovare qualsiasi magagna.

 

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“Mo non resta che trovare idraulico ed elettricista di fiducia. Tu conosci qualcuno Calogiù?”

 

“Io no, ma in procura sicuramente qualcuno che ne sa più di me c’è. Dopo faccio un giro di chiamate. Certo, fino a dopo il sette è difficile che siano disponibili ma magari siamo fortunati.”

 

“Grazie. Così poi posso firmare il contratto definitivo e dopo ci resterà da scegliere i mobili.”

 

Ci resterà?” le chiese con un sorriso amplissimo, di quelli che avrebbero illuminato a giorno pure il polo d’inverno.

 

“Beh… se prima o poi verrai anche tu ad abitarci, voglio che li scegliamo insieme. Diciamo che mi rendo conto di avere un gusto… particolare, Calogiuri, e vorrei che ti sentissi a tuo agio a casa nostra.”

 

“A casa nostra…” ripeté, con tono incredulo e, dopo pochi secondi, Imma si ritrovò con le spalle al muro di un condominio, in un bacio da levare i sensi.

 

“Calogiuri… Calogiuri…” lo fermò dopo un po’, bloccandolo per le spalle, “che ti vuoi già far riconoscere dai nostri futuri vicini?”


Il collo gli si tinse di rosa: arrossiva meno spesso di una volta, ma ogni tanto ancora lo faceva.

 

“No, ma… è che mi sembra quasi assurdo pensare che… che avremo una casa nostra. Non… non ci avrei mai sperato, ma non lo sai quanto l’ho desiderato.”

 

“Pure io Calogiù, pure io…” gli sussurrò, abbracciandolo forte, prima di staccarsi e chiedergli, “allora mo che facciamo? Torniamo a casa tua, per intanto?”

 

“Non converrebbe già andare a dare un’occhiata ai mobili, finché siamo in ferie, visto che le metrature le abbiamo? Possiamo comprare dopo online o tornare di persona, ma almeno ti porti avanti, visti i tempi di consegna, e non devi stare troppo tempo a pagare la pensione.”

 

“Fammi capire. Tu sei l’unico uomo che volontariamente si offre - e pure con entusiasmo - di andare in un negozio di mobili?” ironizzò, pensando che a Calogiuri veramente lo avrebbero fatto santo un giorno.

 

“In realtà più di uno, anche se non riusciremo a fare tutto in un giorno: uno per i mobili, uno per lampade e accessori e uno per… cose più strane.”

 

“Strane in che senso, Calogiù?” gli domandò con tono malizioso, e lui scosse il capo, mentre le stringeva più forte la vita.

 

“Non in quel senso, dottoressa. Diciamo cose più particolari, che magari ti possono piacere, ecco.”

 

“Calogiuri, la descrizione continua ad essere ambigua e pure parecchio. Te ne rendi conto, sì?”

 

E Calogiuri si mise a ridere.

 

“Per la casa. Per la casa. Per il resto… mi sa che hai già abbastanza fantasia e non ci serve altro.”

 

“E perché tu no, Calogiù?” ribatté, stampandogli un ultimo bacio, prima di avviarsi con lui verso la moto.

 

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“Allora, tra le camere da letto quale preferisci?”

 

“Non lo so, Calogiù, l’importante è che il letto sia resistente, conoscendoti,” gli sussurrò in un orecchio e lui fece un paio di colpi di tosse, “ma anche il tavolino, le sedie, il divano…”

 

“Sei tremenda!” rispose, pizzicandole un fianco e lei rise.

 

“Posso aiutarvi?” chiese un commesso che avrà avuto circa l’età di Calogiuri.

 

“In realtà dobbiamo arredare un intero appartamento, ma per ora stiamo dando un’occhiata, non abbiamo ancora firmato il contratto definitivo.”

 

“Beh, ma per intanto posso farvi il progetto e il preventivo, poi almeno quando tornate fate più in fretta. Tanto i prezzi, se non aspettate troppo, non variano.”

 

“Ci guardiamo ancora un attimo intorno, anche con le offerte, e la chiamiamo quando abbiamo più o meno deciso, va bene?”

 

“Va bene.”

 

“Calogiù, facciamo che per cominciare scegli tu e io ti dico se mi va bene o meno?”


“E se non ti va bene?”

 

“Mi dai un’altra opzione e poi se non mi va bene nemmeno quella, ti dico quale piace a me. Ma voglio che tu sia sincero.”

 

“Agli ordini!” rise, cominciando tra sfogliare il catalogo e indicare i mobili.

 

Ed Imma si sorprese come in realtà le piacesse praticamente tutto quello che le proponeva. Lui aveva un gusto moderno e semplice, luminoso e, come per l’appartamento a Matera, ci si vedeva a viverci e a sentirsi a suo agio.

 

Certo, con qualche tocco dei suoi, che se no sarebbe stato troppo semplice.

 

“Ma sei sicura che ti vada bene tutto? Non lo devi fare per farmi piacere e-”

 

“Calogiuri, mo sei tu che non mi conosci. Secondo te io mi farei andare bene una cosa che non mi piace?”

 

“No…” ammise, sorridendo ed abbracciandola più stretta.

 

E fu così che tornarono dal commesso, che si mise a disegnare quella che sarebbe stata la loro casa, in base alle metrature fornite.

 

“Che ve ne pare?” chiese alla fine ed Imma sentì quel calore immenso nel petto, la mano che cercava istintivamente quella di Calogiuri e la stringeva forte.

 

“A me piace moltissimo.”

 

“Casa nostra…” lo sentì sussurrare, mentre ricambiava la stretta e gli diede un bacio sulla guancia, fregandosene del commesso.

 

Avevano quasi finito quando sentì il bisogno di andare in bagno e chiese dove fosse. Fece in tempo ad allontanarsi di poco quando sentì il commesso chiedere a Calogiuri, “ma… siete in luna di miele?”

 

“No, è la mia compagna ma… diciamo che è la prima volta che andiamo a convivere, sì.”

 

“E dimmi... com’è?”

 

“Com’è cosa?”

 

“Beh, stare con una donna molto più grande. Sono davvero delle bombe a…? Insomma ci siamo capiti.”

 

Imma trattenne il fiato, attendendo la risposta di Calogiuri e temendo la reazione, visti i precedenti con Romaniello. Stava tornando indietro quando lo sentì replicare.

 

“Io non so com’è stare con una donna molto più grande, so com’è stare con Imma. Ed il resto non sono affari tuoi. Se ci stampi il progetto, che quando torna ce ne andiamo!” lo sentì sibilare con un tono durissimo che raramente gli aveva sentito.

 

“Scusami, io non volevo offendere, anzi, per me è un complimento e-”

 

“E certi complimenti te li puoi risparmiare per quando sei con gli amici tuoi e non sul lavoro. Il progetto!”

 

“S-sì, va bene,” balbettò l’altro ed Imma, con un sorriso soddisfatto, si riavviò verso il bagno.


Calogiuri ormai sapeva essere più tagliente di lei, quando ci si metteva, e non avrebbe potuto essere più orgogliosa di lui.

 

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“Allora ciao, Vale, spero che ci rivedremo presto! Io magari potrei cercare di venire qui la prossima estate, ma immagino tu andrai altrove in vacanza ormai.”

 

“Ma perché non vieni a trovarmi a Roma qualche volta? E io potrei venire a Milano. Con il treno sono tre ore di viaggio. Tipo quando c’è una pausa dalle lezioni e non abbiamo troppi esami.”

 

“A fine febbraio allora… a parte che per i weekend, pure quando abbiamo lezione… una volta si potrebbe fare. Anche se immagino tu li voglia passare con Samuel e poi ci sono i tuoi e-”

 

“E un weekend lo possiamo organizzare lo stesso. Tanto mia madre mo mi toccherà vederla pure in settimana, che sta a Roma. E i weekend con lei non tornerò più a Matera, credo.”

 

“A me farebbe molto piacere, lo sai. Ti voglio bene!” esclamò Penelope, trascinandola in un abbraccio stretto stretto.

 

Valentina ricambiò, sentendo una morsa al cuore: non voleva che se ne andasse.

 

Ma non c’era alternativa.

 

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“Sei proprio sicuro che tutta l’ultima giornata di vacanza la vuoi passare a scegliere lampade e suppellettili, Calogiù?”

 

“In effetti ci sarebbero modi migliori in cui passarla, dottoressa, ma poi, a parte nei weekend, non è che possiamo chiedere permessi insieme. Via il dente, via il dolore e oggi magari c’è meno gente.”

 

“Speriamo!” sospirò, odiando quei luoghi affollatissimi.

 

Le lampade le avevano già scelte quella mattina, anzi, le aveva scelte: Calogiuri le aveva permesso di sbizzarrirsi un po’ di più ed era venuta una combinazione non male tra l’ordine e la pulizia di Calogiuri e il suo estro un po’ caotico.

 

Mo mancavano cose tipo piatti, bicchieri, tovaglie e accessori.

 

Capì subito perché Calogiuri l’avesse portata lì: era un tripudio di mobili ed accessori pseudo vintage e in generale… particolari davvero.

 

Tra ananas in ceramica, fenicotteri rosa giganti e cose più normali, ma semplicemente in stile industriale o vintage, c’era pane per i suoi denti.


E così cominciò a scegliere, e stavolta era Calogiuri a poter porre il veto, ma certe cose erano troppo perfino per lei, per quanto ad alcuni sarebbe sembrato impossibile.

 

Alla fine scelsero cose tutto sommato relativamente normali e classiche, finché non arrivarono ad una sezione con un dittico di una testa di zebra, dei cuscini bianchi con stampe leopardate sopra ed una statuetta di un leopardo.

 

“Calogiù…” gli disse, guardandolo con un sopracciglio alzato e lui si mise a ridere.

 

“Già lo so che le vuoi tutte e tre. Per me va bene, basta che la statuetta ed il quadro non li mettiamo nello stesso punto.”

 

“Aggiudicato! E che ne dici di questo trittico in stile giapponese per sopra al letto? Così…”

 

“Così ci ricordiamo del nostro obiettivo tra un anno e mezzo? Mi sembra un’ottima idea, dottoressa!” replicò, abbracciandola di lato e baciandole una guancia.

 

“Sai, Calogiuri, è fin troppo facile fare acquisti con te. Ma sei sicuro che ti va bene tutto e non lo fai solo per farmi contenta?” gli chiese, accarezzandogli il viso.

 

“Mi hai fatto scegliere praticamente tutto il mobilio e poi… a me la tua follia piace, lo sai…”

 

“E a me piace il tuo gusto.”

 

“In effetti ho ottimi gusti,” commentò, guardandola dritta negli occhi e stampandole un rapido bacio.

 

“No, sulle donne hai gusti inspiegabili, Calogiuri, ma meglio per me!”

 

“Prima o poi ti convincerò di quanto sei bella! E in effetti ci manca giusto giusto uno specchio.”

 

“Ecco, meglio che lo scegli tu, che io li rompo!”

 

“Al massimo non ti ci rifletti, viste certe abitudini che hai in certi momenti...” le sussurrò in un orecchio e ad Imma per poco non prese un colpo, sentendo il viso farsi caldo e non solo quello.

 

“Calogiuri!”

 

In effetti di segni sul collo involontari gliene aveva lasciati abbastanza, anche negli ultimi giorni. Avrebbe dovuto contenersi dal giorno successivo.

 

O forse no! - pensò, vedendo come una delle donne lì presenti si ammirò Calogiuri, non appena il suo accompagnatore si distraette un attimo.

 

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“Che c’è?”

 

“Come?”

 

“Ti vedo agitata, non stai ferma un attimo e in questo monolocale non è che ci sia molto posto per passeggiare,” ironizzò, prendendole una mano e si trovò trascinata accanto a lui sul divano, ancora chiuso, “allora, che succede? Pentita degli acquisti di oggi?”

 

“No, anzi! La verità è che… sono un po’ in apprensione per domani, sai, procura nuova, gente nuova e-”

 

“E tanto tu te li mangerai tutti in un solo boccone, fidati,” ribatté lui con un sorriso, posandole un bacio su una tempia e stringendola più forte, “che ne dici se facessimo qualcosa per distrarci?”


“Che cos’hai in mente, maresciallo?” gli domandò, maliziosa, voltandosi verso di lui.

 

“In realtà anche quello… ma prima… che ne diresti se ci guardassimo un film insieme? Non lo abbiamo ancora fatto in questi giorni e mi manca.”

 

Ed Imma si intenerì, i bollenti spiriti che un po’ le si placarono - tanto avevano sempre tempo dopo per rifarsi.

 

“Va bene, dai fammi vedere che scelte abbiamo!” concordò, recuperando una coperta e appoggiandosi al suo petto.

 

Calogiuri aprì uno dei suoi siti di streaming e vide diverse icone in primo piano, tutte col nome Scandal.

 

“Che cos’è sto Scandal? Non dirmi che guardi i porno, Calogiù!” scherzò e lui per tutta risposta esplose in due colpi di tosse e poi si mise a ridere.

 

“No… è… è una serie tv americana, quelle sono le stagioni che non ho ancora visto.”

 

“Mmmm… e di che parla?” domandò, incuriosita.

 

“Beh… di una… di una che tira fuori dai guai gente facoltosa-”


“Insomma, una tipo Latronico?”


“Non proprio… un poco più onesta ma dipende. E… e segue anche la campagna elettorale presidenziale per uno dei candidati e si innamorano ma lui è sposato con figli. E da lì… va beh….”

 

“Calogiuri…” sussurrò, il magone che le risalì fino in gola, “non dirmi che ti sei fatto del male guardando una storia del genere in questi mesi? Almeno finisce bene?”

 

“No, in realtà… in realtà la guardavo quando noi due… insomma quando ero ancora a Matera. Poi non sono più riuscito ad andare avanti. Forse dovrei riprendere dall’inizio.”

 

“E che ne dici se invece la riprendiamo insieme, se ti va? Anche se, a quanto vedo, qui sono tutti bellissimi e ovviamente la donna è più giovane.”

 

“Ma tu sei molto più bella!” proclamò, con una sincerità ed una decisione tali che la fecero sorridere.


“Calogiù, occhio che se ti sente qualcuno scatta il TSO immediato,” ironizzò, vedendo benissimo quanto fosse strafiga la protagonista, “dai allora, che dici? Ce lo guardiamo?”

 

“Beh…. potrebbe diventare un appuntamento fisso, sempre se ti piace. Sarebbe bello in effetti, una cosa solo nostra.”

 

“E allora taci e accendi, Calogiù,” gli intimò, con un sorriso commosso, perché l’idea di poter avere questo genere di quotidianità con lui era ancora completamente nuova ed incredibilmente eccitante.


“Agli ordini, dottoressa!”

 

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“Allora, pronta per il primo giorno di lavoro?”

 

Si sentì stringere la vita da dietro e un bacio le si posò sulla guancia.

“Sono quasi pronta,” rispose, girandosi verso di lui con un sorriso, “invece tu maresciallo sei già più che pronto, vedo.”

 

“Vado un po’ prima, così non ci vedono arrivare insieme. Già non hai passato la notte in pensione.”

 

“Eh, mi sa che qualche notte in pensione la dovrò fare per forza, per non dare sospetti. L’idraulico e l’elettricista vanno oggi a fare l’ispezione, giusto?”

 

“Sì, poi possiamo fare la firma e per i mobili… ci vorranno un paio di settimane mi sa, prima che tu possa entrare in casa.”

 

“Ce la faremo, Calogiù. Poi sarà più semplice con due appartamenti. Allora, buon lavoro maresciallo, a più tardi!”

 

“A più tardi, dottoressa!” replicò, dandole un ultimo bacio e sparendo oltre la porta d’ingresso.

 

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“Sono la dottoressa Tataranni, ho appuntamento col dottor Mancini.”

 

“Prego, dottoressa, si accomodi!” le fece strada la segretaria del procuratore capo.

 

“La dottoressa Tataranni, presumo?”

 

“Esattamente, dottore, piacere di conoscerla,” replicò, porgendogli la mano.

 

Era un uomo sulla cinquantina: alto, brizzolato, occhi scuri, che dava l’idea di essere stato un gran bell’uomo in gioventù e rimaneva ancora decisamente prestante per l’età che aveva.

 

Un bel cambio rispetto al povero Vitali.

 

“Il piacere è mio, dottoressa, ho sentito parlare benissimo di lei, sia dal dottor Vitali che dalla dottoressa Ferrari. Sono certo che la sua collaborazione sarà d’aiuto non solo al maxiprocesso ma anche a molti altri casi che abbiamo qui. So che il suo al momento è un cambio di sede temporaneo, ma immagino che vorrà dividersi i nuovi casi equamente con i suoi colleghi?”


“Ma certo, dottore. Il lavoro duro non mi ha mai spaventata. Anzi! E poi il maxiprocesso è della dottoressa Ferrari al momento, quindi mi resterebbe molto tempo libero. Pure troppo.”

 

“Devo dire che è veramente come l’ha descritta il dottor Vitali, dottoressa,” proseguì con un mezzo sorriso, “mi ha avvertito che lei è una stacanovista instancabile.”

 

“Più o meno… amo molto il mio lavoro dottore. Spero questo non sia un problema.”

 

“No, per carità, dottoressa, anzi. Qui abbiamo talmente tanti casi che avrà pane per i suoi denti. Che ne dice ora se le faccio fare un breve giro, così la presento ai suoi nuovi colleghi, almeno a quelli di turno oggi? E le mostro il suo ufficio.”

 

“Ma certo, dottore, è gentilissimo, grazie!” esclamò, sorpresa che di una cosa del genere si premurasse il procuratore capo in persona.

 

“Mi segua, dottoressa.”

 

Aveva una falcata decisa il procuratore capo, tanto che quasi faticò a stargli dietro con i tacchi. Doveva fare sport per essere tanto in forma.

 

“Oh, ecco lì il dottor Santoro. Dottore!” chiamò e il magistrato si girò, Mariani e Conti al suo fianco.

 

“Se non mi sbaglio, conosce già la dottoressa Tataranni, giusto?”

 

“Sì,” rispose, secco, senza aggiungere altro, guardandola come se gli stesse guastando la giornata.

 

Sempre un simpaticone, non c’era che dire.

 

“Dottoressa Tataranni, è un piacere rivederla!” proclamò Mariani con un sorriso.


“Anche per me, dottoressa, un grande piacere!” si affrettò a inserirsi Conti, ossequioso come sempre.

 

“Bene, visto che vi conoscete passerei oltre. Questi che vede sono gli uffici dei procuratori suoi colleghi. Ah, ecco il dottor De Santis e la dottoressa Roncati,” annunciò ed Imma strinse le mani e fece i soliti convenevoli, prima di congedarsi.

 

“Non vedo altri colleghi… avrà modo di conoscerli mano a mano, scendiamo che ci sono l’archivio e la PG.”

 

La struttura era simile a quella di Matera, sebbene molto più in grande. Del resto era soltanto logico che l’archivio, con il peso che ne conseguiva, e la PG stessero al piano terra e gli uffici dei magistrati fossero al secondo, maggiormente protetti da eventuali intrusioni.


Scesero le scale e, di nuovo, faticò a stare dietro a Mancini che le scendeva di corsa come se non avesse fatto altro in vita sua.

 

Chissà che sport faceva, mannaggia a lui.

 

Arrivò al piano terra e Mancini le mostrò l’archivio e poi salutò una signora mora poco distante, che pareva la signorina Rottermeier per com’era abbigliata e pettinata.

 

“Giovanna!” la chiamò e la donna si avvicinò, guardandola severamente da un paio di occhialetti da lettura calati sul naso adunco.

 

“Lei è Giovanna Gracco. La responsabile del REGE. Giovanna, la dottoressa Tataranni, il nuovo sostituto procuratore che è venuto a darci un rinforzo.”

 

“Sì, ho sentito del suo arrivo, dottoressa. Sappia che se vuole un documento dall’archivio deve farne debita richiesta tramite la sua cancelliera e sarà mia premura farglielo avere entro due giorni lavorativi, fatta eccezione per ricerche particolarmente lunghe. Con permesso, ho del lavoro da sbrigare.”

 

E se ne andò, a passo rapido, sparendo oltre le mura dell’archivio.

 

Pure questa gemella della Moliterni proprio - pensò, riflettendo che la Gracco pareva un robot o forse un computer per quanto era impostata.

 

“E ora, dottoressa, da questa parte c’è la PG e, ah, ma vedo il maresciallo Calogiuri!”

 

Come sentì quel nome, Imma alzò gli occhi e vide che Calogiuri era effettivamente in fondo al corridoio, davanti alla macchinetta del caffè e le dava le spalle.

 

Strano: di solito odiava il caffè delle macchinette e non lo prendeva già così presto.

 

E poi lo vide abbassare le spalle, che gli si mossero come se stesse ridendo e fu in quel momento che si spostò leggermente e notò che non era da solo, ma c’era una donna di fronte a lui.

 

Una donna… una strafiga più che altro, come avrebbe detto Valentina, lo vedeva già da distanza.

 

Alta, formosa al punto giusto, fasciata in un tailleur con gonna a tubino nero, elegantissimo, che pareva uscito direttamente dalle puntate di Scandal che avevano visto insieme la sera prima.

 

Altri due passi e le vide meglio il viso. E si rese conto che la strafiga non era altro che la dottoressa Ferrari. Coi capelli sciolti, lunghi e mossi, non l’aveva riconosciuta e la toga… la toga ingannava eccome, maledizione!

 

E pure lei rideva, di gusto, insieme a Calogiuri, appoggiandogli una mano sul braccio come se fosse la cosa più normale del mondo. E, soprattutto, lui non si scomponeva minimamente a quel contatto.

 

Lo zoo che si risvegliò anticipatamente dal letargo forzato, Imma pestò più sui tacchi, accorciando le distanze, e fu proprio la Ferrari a notarla per prima, incrociando il suo sguardo.

 

Sembrò confusa per un attimo, ma poi, forse non notando l’occhiata omicida che doveva starle rivolgendo, la bocca le si aprì in un sorriso.

 

“Dottoressa Tataranni! Che bello incontrarla finalmente!” esclamò e Calogiuri si bloccò e si voltò di scatto.

 

Imma gli lanciò uno sguardo fulminante, a cui lui rispose con uno confuso. Poi Imma allungò la mano per stringere quella che le porse la collega, forte, di proposito. Ma la Ferrari ricambiò con una stretta salda, senza farsi intimidire, anzi sembrando sempre tranquilla e contenta come una pasqua.

 

“Finalmente ci conosciamo! Non vedo l’ora di collaborare con lei al maxiprocesso: dovremo assolutamente fare una riunione così le spiego cosa dovrebbe capitare all’ultima udienza. Ma spero lavoreremo insieme anche ad altri casi. Ho già detto a Calogiuri che il lavoro che avete fatto per l’udienza di dicembre è stato assolutamente pazzesco e non so come ringraziarvi: è merito di tutte le informazioni che avete raccolto se sono riuscita a convincere il giudice ad evitare le richieste di ulteriori rinvii della difesa.”


“Si figuri, dovere,” pronunciò, asciutta, prima di rivolgersi a Calogiuri con un, “vedo che ti sei ambientato molto bene a Roma, Calogiuri. Ben ritrovato!”

 

Calogiuri la guardò di nuovo in modo interrogativo, avendo colto benissimo il suo tono, e poi ricambiò con un, “dottoressa Tataranni! Benvenuta a Roma e sarà un vero piacere lavorare di nuovo con voi!”

 

“Quasi dimenticavo che voi lavoravate insieme. Matera ha ottimi elementi da offrire, evidentemente, siamo fortunati,” si inserì Mancini, aggiungendo, dopo poco, “visto che lei ed il maresciallo vi conoscete già così bene, magari può aiutarla lui a terminare il giro e accompagnarla nel suo ufficio? Sa qual è immagino, maresciallo?”

 

“Ma certo, dottore, e non c’è problema, anzi, sarà un piacere.”

 

“Perfetto. Io allora per ora mi congedo, dottoressa, ci rivedremo appena avrò un caso da assegnarle, quindi immagino molto presto. Per intanto buon lavoro e ancora benvenuta!”

 

E, con un altro scatto, il procuratore capo si avviò di nuovo verso le scale.

 

“Ma è sempre così veloce?”

 

“Da giovane era campione di triathlon e credo lo pratichi ancora. Ha vinto pure delle medaglie alle universiadi,” spiegò la Ferrari, prima di buttare il bicchierino del caffè, prodursi in un altro sorriso e congedarsi con un, “torno al lavoro. Quando si sarà sistemata ci aggiorniamo per la riunione. Calogiuri, ricordati che alle quattordici ho bisogno di te per quell’interrogatorio.”

 

“D’accordo, dottoressa, a dopo!” rispose Calogiuri con un sorriso che le sembrò fin troppo ampio, fin troppo amichevole.

 

Forse era solo paranoica ma c’era qualcosa di diverso nel modo in cui Calogiuri si riferiva alla Ferrari, rispetto agli altri magistrati con cui l’aveva visto interagire. Era più… rilassato, a suo agio, pur nell’apparente formalità.

 

E questo non le piaceva per niente.

 

“Allora, dov’è il mio ufficio, Calogiuri? Che il tour è praticamente concluso. A meno che tu non voglia farmi conoscere i tuoi colleghi della PG,” rimarcò, rimanendo sempre un po’ sulle sue.

 

“D’accordo, dottoressa, vediamo chi c’è in PG e poi vi accompagno in ufficio,” rispose, col suo tono più professionale, ma continuando a lanciarle occhiate della serie - ma che succede?

 

Arrivarono in PG e le presentò gli agenti che non erano già in servizio. C’avrebbe messo un po’ a memorizzare tutti i nomi, pur con la sua buona memoria. Erano una squadra ben fornita, ovviamente, viste le dimensioni della capitale.

 

E poi uscì accanto a lei e, continuando a guardarla in tralice, la accompagnò su per le scale, fino al piano superiore e ad un ufficio d’angolo con una targhetta fresca di stampa che indicava il suo nome.

 

“Ecco qui, dottoressa,” le fece strada, facendola passare per prima e poi richiuse la porta dietro di loro.

 

L’ufficio era leggermente più piccolo che a Matera, ma aveva comunque un paio di tavoloni che lei avrebbe presto riempito di carte, una bacheca, la scrivania e tutto l’indispensabile per fare il suo lavoro. Si sarebbe dovuta procurare l’immancabile temperino automatico e un po’ di cose extra, ma tutto sommato non le era andata male.

 

Sentirono bussare all’altra porta dell’ufficio e al suo “avanti!” sbucò una ragazza tra i venticinque e i trenta massimo, bionda ossigenata, non una bellezza travolgente ma curatissima, anche lei fasciata in uno di quei tailleur che evidentemente lì in procura andavano di moda, ma visibilmente di fattura meno buona di quello della Ferrari, probabilmente un tripudio di poliestere e materiali altamenti infiammabili.

 

“Buongiorno dottoressa. Sono Asia Fusco, la sua nuova cancelliera.”

 

La cancelliera che si chiama come un continente ci mancava solo, mo! - pensò, ma non lo disse, stringendole la mano. Le stava già antipatica a pelle.

 

Non che fosse strano, ma sperava in una cancelliera più… più della sua età e più sullo stile di Diana. Anche se Diana era insostituibile.

 

“Buongiorno. Al momento non abbiamo casi assegnati se non aiutare la Ferrari col maxiprocesso. Quindi per favore mi procuri tutte le carte aggiornate di quest’ultimo affinché possa studiarle. Per il resto, mi sa dire dov’è una cartoleria?”

 

“Una cartoleria?” domandò, sorpresa, "ce n’è una all’angolo qui sotto, girando a destra ma-”

 

“D’accordo, grazie e per ora può andare,” tagliò corto e la ragazza, un po’ basita, fece come le veniva detto e si ritirò nelle sue stanze.

 

“Si può sapere che ti succede?” le domandò Calogiuri in un sussurro, sembrandole quasi preoccupato.

 

“Succede che ti sei ambientato un po’ troppo bene, Calogiuri,” gli sussurrò di rimando, in un orecchio e, al suo sguardo perplesso, chiarì, “ti ho visto sai, con la Ferrari. Sembravate molto… intimi.”

 

“Intimi? Ma sei matta?!” proclamò, alzando per un secondo la voce e poi tappandosi la bocca e riabbassandola, avvicinandosi per sussurrarle, “io e Irene abbiamo fatto amicizia in questi mesi ma non c’è altro!”

 

Irene?” sibilò Imma, per nulla tranquillizzata, anzi.

 

“Così si chiama…”

 

“Per chiamare me Imma ti ci sono voluti anni, Calogiuri, non pochi mesi!” gli fece notare, incrociando le braccia.

 

“Perché tu non mi hai mai dato il permesso prima e… e non avrei osato… perché… per quello che provavo e provo per te, con te ero ancora più imbranato su certe cose. E proprio questo dovrebbe farti stare tranquilla, no? E poi lei non è interessata a me in quel senso, veramente, credo di… di farle tenerezza, non lo so, mi ha preso un po’ sotto la sua ala perché mi vedeva sempre triste e solo i primi tempi, mi ha aiutato tanto ad ambientarmi qui.”

 

E, se da un lato l’ammissione di quanto fosse stato male per lei fu un po’ uno schiaffo, il resto, almeno da parte della Ferrari, non la tranquillizzò per niente: pure a lei Calogiuri all’inizio aveva fatto tenerezza e l’aveva preso sotto la sua ala. Ma poi… altro che ala. Aveva preso pure tutto il resto.

 

“Va beh… non è il caso di parlarne qui. Ti lascio tornare al lavoro. Che interrogatorio avete oggi?”

 

“Di… di un bastardo che ha quasi ucciso la moglie in un litigio prima di natale. Lei lo voleva lasciare e lui… lei è ancora in prognosi riservata.”

 

Adorava il modo in cui Calogiuri si indignava ogni volta che una donna veniva toccata, era una delle cose che più amava di lui.

 

“Va bene, buon lavoro, a dopo!”

 

“A dopo!”

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa, disturbo?”

 

“Dottor Mancini! No, figuriamoci, si accomodi. Ma è successo qualcosa?”

 

“Sì, dottoressa, lo so che è il primo giorno ed è ormai sera, ma ho già il primo incarico per lei. Ci hanno chiamato da un palazzo in zona Prati. Qui vicino. Una ragazza trovata morta di overdose, ma ha alcuni segni sospetti e… va beh… lo vedrà di persona. La scientifica ed il medico legale sono già sul posto. Se vuole il maresciallo Calogiuri è disponibile, visto che lo conosce bene, e poi scelga lei il resto della squadra tra gli agenti di turno.”

 

“Grazie dottore!” proclamò, prima di voltarsi verso l’ufficio accanto ed urlare, “signorina Fusco, io esco che ho un caso da risolvere! Mi faccia avere quelle carte che le ho chiesto. Se non rientro in tempo, a domani!”

 

Non attese risposta e si avviò verso la PG, dove incrociò Calogiuri.


“Calogiuri, hai sentito che-?”

 

“Sì, ho sentito, dottoressa. Vado a preparare la macchina, volete che controlli quali agenti sono disponibili?”

 

“Scegli tu, di te mi fido, almeno sulla scelta degli agenti,” sottolineò ancora una volta, con uno sguardo eloquente, prima di avviarsi verso l’uscita.

 

*********************************************************************************************************

 

“Che cosa abbiamo qui?”

 

“Donna, caucasica, età apparente tra i venti e i venticinque anni. Considerato l’abbigliamento e… gli oggetti presenti nella stanza, possiamo desumere che di mestiere facesse… insomma… la escort,” spiegò Calogiuri, mentre Conti ed un altro agente di cui non ricordava ancora il nome giravano con la scientifica per le altre stanze.

 

“L’appartamento si sa a chi era intestato?”

 

“Sì, ad un certo Roberto Ricci. Ma è uno di quegli appartamenti che si danno in affitto temporaneo su internet, avete presente? Il proprietario ci sta facendo avere il nome di chi lo avrebbe affittato nelle ultime notti, verificheremo.”

 

“E lei che mi dice, dottore? Io sono Imma Tataranni, sono arrivata oggi alla procura di Roma, molto piacere!”

 

“Il piacere è tutto mio, dottoressa. Sono Edoardo Proietti. Mi scusi se non le dò la mano, ma come ben vede…” disse, indossando i guanti, mentre ispezionava il cadavere che era prono sul letto, le braccia protese in avanti, come se stesse cercando di afferrare qualcosa.

 

Si vedeva già solo di schiena che la vittima doveva essere stata una ragazza bellissima, tra i capelli biondi e lunghi, il fisico perfetto e… quel tatuaggio proprio appena sopra al sedere, molto provocante.


Le ricordò qualcosa, ma non avrebbe saputo dire che cosa.

 

“Com’è morta? Conferma l’overdose?”


“I sintomi ci sono tutti, dottoressa, e sul comodino c’è una bustina mezza vuota di coca e segni di strisciate. Però aspetti che, se quelli della scientifica hanno finito con le foto, giriamo il corpo e le saprò dire qualcosa di più.”

 

“Immagino non avesse documenti con sé? Una borsa?”


“No, se li aveva qualcuno se li è portati via, c’è solo quel tatuaggio che forse potrebbe aiutarci ad identificarla, ma non è detto: di tatuatori a Roma è pieno zeppo e potrebbe esserselo fatto altrove.”

 

E poi il medico legale la girò e ad Imma e Calogiuri scappò un sospiro simultaneo.


“Eh, avete ragione, non è un bello spettacolo…”

 

Ma non era per la schiuma alla bocca o gli occhi roteati che aveva sospirato, e di sicuro nemmeno Calogiuri.


Era che la riconosceva benissimo: era la ragazza che era salita di corsa sul loro taxi qualche giorno prima. Ed erano proprio in zona Prati allora.

 

Scambiò uno sguardo con Calogiuri che annuì, dandole conferma che non stava allucinando.

 

E poi notò le ecchimosi sugli avambracci, come se qualcuno l’avesse stretta forte, in più punti, e dei segni sui polsi che riconosceva benissimo come da sfregamento, per delle corde.

 

“Che mi dice dei lividi, dottore?”

 

"Alcuni sono più freschi, altri sembrano più vecchi, di qualche giorno almeno, forse pure una settimana."

 

I tempi potevano quasi corrispondere.

 

“E le corde?”


“Forse un gioco erotico un po’ troppo violento? Anche se qui non sono state trovate corde o manette, quindi… ma potrebbe averle usate con un altro cliente, anche se sembrano relativamente fresche.”

 

“Altro?”

 

“No… ma la vittima come lineamenti potrebbe essere dell’Est Europa. Il DNA darà la conferma.”

 

“Veramente-”

 

“Veramente è tutto quello che ha da dirci, dottore?” Imma si affrettò ad interrompere Calogiuri, lanciandogli un’occhiata che significava di stare in silenzio e non dire che l’avessero conosciuta.


“Al momento sì, sarò più preciso dopo l’autopsia.”

 

“In quanto tempo?”

 

“Massimo entro fine settimana.”

 

“Due giorni, dottore, due giorni. So che ce la può fare.”

“Quindi lei conosce il mio carico di lavoro?” ribatté, non sembrando per nulla intimidito.

 

“No, ma so che vi tenete tempo libero per i sopralluoghi. Quindi due giorni sono sicura le basteranno per una singola autopsia, salvo ci sia una moria nel frattempo.”

 

“Da dove viene, dottoressa?”

 

“Da Matera.”

 

“Il mio collega di Matera le dava tutto in due giorni?”


“Se non voleva che lo tempestassi di telefonate sì,” rispose, con un sorriso della serie, fa’ come ti dico o cominciamo male.

 

“Ho capito… immagino sarà… interessante lavorare con lei, dottoressa,” sospirò, con un sarcasmo che, nonostante tutto, non le dispiacque.

 

“Ci può scommettere, dottore!”

 

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“Vi accompagno io in albergo, dottoressa?”

 

Erano all’uscita dall’appartamento e lei annuì, perché avrebbe reso le cose più semplici, congedandosi da Mariani e dall’altro agente.

 

“Perché non hai voluto che dicessi che-”

 

“Che la conoscevamo, Calogiuri? Ti ricordo che era il ventotto di dicembre ed eravamo insieme. Poi come lo spieghi in procura?”

 

“Ma potrei dire di averla vista solo io, chi potrebbe contraddirmi?”

 

“Prima cerchiamo di capire esattamente la dinamica dell’omicidio, poi valutiamo, Calogiuri. Se era una escort, non mi sembra così improbabile che… che quella non fosse la prima volta che magari scappava da un qualche cliente o festino. Anche se era già mattina. Se sarà necessario poi dirò io di essermi ricordata di lei, in qualche modo faremo. Ma per ora discrezione, intesi?”


“Va bene… come vuoi tu.”

 

Lei sospirò e rimase per un po’ in silenzio, guardando fuori dal finestrino,

 

Lo udì sospirare di rimando, finché arrivarono davanti alla pensione.

 

“Sali a disfare la camera e ti aspetto qui?” le chiese e lei rimase per un attimo esitante.

 

Era ancora irritata per la storia della Ferrari, ma si rendeva conto di dover tenere a freno la gelosia.

 

“Va bene,” confermò, scendendo dalla macchina.

 

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“Mi vuoi dire che ti succede?” le chiese, mentre stavano mangiando, in silenzio, degli ottimi spaghetti alla carbonara che lui aveva preparato.

 

“Niente…”

 

“Imma… ti conosco e di solito non sei così silenziosa. Che ti succede?” ribadì, prendendole la mano accanto a lui, appollaiati agli sgabelli dell’isola.

 

“Niente.. è che… non mi aspettavo la tua vicinanza con la Ferrari, Calogiuri. Non è da te prenderti tanta confidenza, a meno che una persona ti piaccia.”

 

“E infatti mi piace come persona, in amicizia,” si affrettò a specificare, notando il suo sguardo omicida, “è una persona che mi mette a mio agio e lavoriamo bene insieme. Che male c’è?”

 

“Niente… a parte il fatto che è come avrei potuto descrivere noi due agli inizi. Va beh… quantomeno quando hai iniziato ad essere a tuo agio, finito il periodo in cui eri sempre terrorizzato di sbagliare qualcosa,” ironizzò, anche se era preoccupata sul serio. Sapeva che Calogiuri non aveva malizia, ma su quella lì non ci avrebbe messo la mano sul fuoco.

 

“Ma non c’è minimamente paragone! E io con te… non sono mai stato a mio agio al cento per cento, non in tutti i sensi, perché… perché lo sai che intendo, no? C’era sempre questa cosa… latente tra noi.”

 

Latente - pensò Imma, stupendosi di come il vocabolario di Calogiuri si arricchisse mano a mano che lo conosceva. Negli ultimi mesi era ancora migliorato.

 

“Ed invece con Irene non c’è perché… perché non mi interessa affatto da quel punto di vista. E poi per me ci sarà sempre e solo un’unica dottoressa!” proclamò, stringendole forte la mano e sollevandogliela per posarvi un bacio.

 

“Di te mi fido, Calogiuri, fino a prova contraria, di lei non so…”

 

“Ed invece ti devi fidare, perché ti garantisco che non mi vede proprio in quel modo. Figurati che mi presentava pure le sue amiche, per aiutarmi a distrarmi e capire se mi potesse piacere qualcuna.”

 

“Ah, benissimo!” sibilò, pensando di dover ringraziare il cielo che Calogiuri fosse sufficientemente innamorato di lei dall’essere stato così folle di non essersi guardato in giro per tutti quei mesi. Sta Ferrari le stava sempre più sul gozzo: ma che gliene fregava a questa della vita sentimentale di Calogiuri?

 

“E poi l’importante è cosa provo io, no? Pure se mi saltasse addosso domani - e non lo farà -” precisò, di fronte all’occhiata omicida di lei, “sta a me dire di no, giusto? Io non voglio che tu sia così in ansia, Imma, non ne hai motivo, veramente.”

 

“Lo so che mi hai aspettato mesi, Calogiuri. Ma sei giovane e sei bellissimo… è normale che… che mi senta un po’ insicura con tutte quelle che ti ronzano intorno.”

 

“E allora ti dimostrerò ogni giorno che non hai motivo di preoccuparti,” proclamò, deciso, prendendole il viso tra le mani e dandole un bacio, “non sai quanto ho voluto e sognato… tutto questo. Dovrei essere proprio scemo a rovinare tutto mo, no? Io voglio solo te, mettitelo in testa perché sarà sempre così!”

 

“Calogiuri!” disse con un sorriso commosso, abbracciandolo fortissimo.

 

E si baciarono con passione, sempre di più, fino ad evitare solo per un soffio di cascare dagli sgabelli.

 

Si guardarono e si sorrisero. Poi il sorriso di lui mutò in uno furbetto che conosceva fin troppo bene ed Imma cacciò un urletto quando si ritrovò sollevata di peso dallo sgabello, le gambe che gli si allacciarono automaticamente alla vita, intrappolata tra il caldo del suo corpo e il freddo della parete, a baciarsi come due adolescenti, mentre le mani iniziavano la loro danza sotto ai maglioni.

 

Ed in quello di adolescenziale non c’era proprio niente.



 

Nota dell’autrice: eccoci qui dopo un capitolo di quiete relativa e di prove di semi convivenza ma… dopo la quiete è in arrivo la tempesta, quindi preparatevi, perché dal prossimo capitolo in poi ci saranno un bel po’ di problemi da risolvere per i nostri protagonisti.

Spero che la storia continui a mantenersi interessante e non noiosa, compresi i nuovi casi gialli. Da questo capitolo si apre lo scenario romano e ci aspettano parecchi eventi sia legati a vecchi casi e vecchie conoscenze, sia nuovi.

Vi ringrazio tantissimo per l’affetto con il quale seguite questa storia e davvero ogni vostra recensione oltre ad essere graditissima e di grande motivazione per proseguire, è anche uno stimolo a fare sempre meglio, quindi vi sarò grata fin da ora se vorrete farmi sapere che ne pensate. Visto che mi rendo conto che il passaggio da “clandestinità” a “coppia” sia difficile da gestire.

Grazie ancora e il prossimo capitolo arriverà domenica 22 marzo.

 

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Capitolo 22
*** La Fedeltà ***


Nessun Alibi


Capitolo 22 - La Fedeltà


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Allora, dottoressa, nell’ultima udienza, che sarà il momento decisivo, testimonieranno sia Saverio che Eugenio Romaniello. Naturalmente c’è da sperare che il primo mantenga la versione dei fatti a lei fornita, e che il secondo non faccia brutti scherzi. Per ora è stato nelle retrovie e non si è esposto, sembra un uomo molto bonario. Ma molto spesso è proprio dalle persone in apparenza così innocue che bisogna diffidare di più.”

 

Un po’ come da lei? - pensò Imma, ma non lo disse, perché a lei l’aureola che aveva la Ferrari non piaceva per nulla.

 

“Sicuramente Eugenio Romaniello è molto più abile del fratello a coprire le sue tracce. Io stessa per mesi non ho sospettato di lui. E non ho mai avuto occasione di interrogarlo. L’ho conosciuto solo una volta, quindi non saprei esattamente come aiutarla riguardo a lui, dottoressa. Invece, per quanto riguarda Saverio Romaniello, purtroppo ho avuto il dispiacere di dover avere a che fare con lui molte volte. Ama provocare, soprattutto facendo allusioni a doppio senso sessuale, non dubito lo farà pure con lei, essendo una donna e oltretutto molto avvenente.”

 

“Non so se ringraziarla del complimento, dottoressa.”

 

“Ma è soltanto la verità, e sono certa che pure lei ne sia consapevole, dottoressa. Comunque, il punto debole di Saverio Romaniello è il senso di sudditanza e di rivalsa che ha nei confronti del fratello e della famiglia e che ha sempre sfogato… in altri modi. Punti su quello e avrà la sua carta vincente.”

 

“D’accordo, dottoressa, la ringrazio, mi è stata preziosissima,” rispose la Ferrari con un altro di quei sorrisi iper amichevoli che le davano solamente sui nervi, “ha altri consigli per me?”

 

“No, al momento no, se avesse bisogno ovviamente sono pronta a testimoniare e così immagino lo sia anche il maresciallo.”

 

“Perfetto, la ringrazio moltissimo, dottoressa. Anzi… possiamo darci del tu e chiamarci per nome? Visto che collaboreremo insieme per un po’, almeno spero.”

 

“D’accordo… Irene, giusto?” chiese, come se non lo sapesse benissimo, da quando Calogiuri l’aveva chiamata per la prima volta così. 

 

“Esatto, Imma. Allora ti lascio e grazie ancora per l’eccellente lavoro che avete fatto sul maxiprocesso e per aver avuto fiducia in me nell'affidarmelo.”

 

“Per quello devi ringraziare soprattutto Vitali: è lui che ti ha raccomandata caldamente.”

 

E le venne pure un dubbio se Vitali avesse un debole per la Ferrari. Ma cercò di scacciare quel pensiero sessista da dove era venuto.

 

“Lo farò a tempo debito. Ho un ottimo ricordo di lui: ha un po’ le sue manie, ma è davvero una persona incorruttibile, nonostante la prudenza a volte eccessiva e la paura che ha sempre di pestare piedi sensibili.”

 

E, almeno su questa descrizione le toccava proprio concordare con la Ferrari. Era sveglia e le persone le sapeva leggere molto bene la collega.

 

La cosa non le piaceva affatto.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ohi, Cinzia! Come va? Che hai portato di buono?”

 

“Una lasagna fatta da me, visto che mi hai detto che ti piacciono tanto.”

 

“Grazie… sei troppo gentile!”

 

Andarono a tavola, già apparecchiata, e Pietro versò il vino rosso e taglio la lasagna, ancora calda da forno.

 

La assaggiò e… ed era buona. Ma gli mancava quella che gli preparava Imma, nonostante tutto.

 

“A che pensi?” gli domandò Cinzia, manco gli avesse letto nel pensiero.


“No, niente, che è buonissima, complimenti!” mentì e Cinzia sorrise, versandosi ancora un po’ di vino.

 

“Senti Pietro…” disse infine, dopo un attimo di esitazione, “ormai è qualche mese che ci frequentiamo, no?”

 

“Beh, sì, certo. Perché, c’è qualche problema?”

 

“No, ma… so che… che la tua ex sa di noi, ovviamente ma… ma quando lo dirai a tua figlia? Quando lo diremo qui a Matera? Non mi piace dovermi continuare a nascondere come una ladra quando vengo a casa tua fuori orario o quando vado via la mattina. O quando c’è tua figlia.”

 

“Non… non lo so, Cinzia. Sai, è che Valentina la separazione l’ha presa proprio male e… non voglio farla stare peggio, temo reagirà malissimo. Ho bisogno ancora di un po’ di tempo. Puoi concedermelo?”

 

“Eh va bene… come vuoi tu, Pietro," sospirò, addentando la lasagna, ma con uno sguardo decisamente deluso.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa, c’è una chiamata per voi, potrebbe essere importante!”

 

Vide Calogiuri entrare, cellulare in mano e la cosa la sorprese: perché se la chiamata era per lei, telefonavano a lui?

 

Doveva essere qualcuno da Matera, per forza.

 

“Si tratta di Oksana, ve la ricordate? La ragazza trovata a casa di-”

 

“Latronico, ma certo! Ma perché chiama noi e non la Ferrari? Lei si occupa del caso.”

 

“Quando le parlerete, capirete.”

 

“Pronto, Oksana?”

 

“Pronto, dottoressa. Scusate se io disturbo, ma volevo dire che… ho visto televisione… ragazza morta di droga. Ho visto che lei fa indagine.”

 

“Sì, sì, esattamente, Oksana. Ma come mai ti interessa? Conoscevi la vittima per caso?”

 

“Sì, lei venuta con me da Ucraina. Bella, molto bella. Lei scelta per… per feste di ricchi e non per strada, dottoressa.”

 

“Ma sai come si chiamava? Se ha qualche parente?”

 

“Alina. Ma non so altro, loro toglievano documenti appena prendeva noi: lei diceva me che aveva sorella piccola in Ucraina, a cui doveva mandare soldi. Ma altro non so.”

 

“Grazie mille lo stesso, Oksana, sei stata preziosissima. Cioè mi hai aiutato tanto. Grazie ancora!”

 

“Non c’è problema, dottoressa! Piacere mio! Grazie lei di tutto!”

 

E mise giù il telefono.


“Calogiuri, a questo punto dobbiamo avvisare la Ferrari perché i nostri due casi potrebbero essere collegati. Ci pensi tu?”


“Certo, dottoressa, ai comandi!” rispose, efficiente come sempre, sparendo oltre la porta.

 

*********************************************************************************************************

 

“I mobili arriveranno quasi tutti domani, Calogiù, mi toccherà prendere una giornata di permesso.”

 

“Verrei ad aiutarti ma non possiamo o si insospettirebbero. Ma questo weekend montiamo insieme quelli che non sono già montati.”

 

“Agli ordini, maresciallo!” proclamò, ironica, addentando la bistecca: stavolta aveva cucinato lei, “poi almeno finalmente potrò disdire la pensione e finirla con la pantomima di dover ogni volta andare a disfare il letto.”

 

“E dove vorresti stare? Da me o da te? Da te c’è più spazio e-”


“E dipende dagli impegni del giorno dopo, Calogiù: se ti cercano e non ti trovano nel tuo appartamento… secondo me faremo i turni comunque. E poi ti dirò… questo monolocale non mi dispiace, pure se c’è poco spazio.”


Ma ci sei tu ed il tuo profumo, ed è questo che conta! - pensò, ma non disse ad alta voce, stringendogli però la mano accanto alla sua.

 

In quel momento, un cellulare squillò. Quello di Calogiuri. Lo guardò incuriosita.


“Chi ti cerca a quest’ora?”

 

“La Ferrari. Scusa ma potrebbe essere di lavoro,” rispose, afferrando il cellulare e iniziando a smanettare.


Almeno non si era allontanato, in compenso però leggendo uno dei messaggi sorrise e questo le causò un morso allo stomaco.

 

“Buone notizie o gli omicidi ti mettono allegria?” commentò, sarcastica, senza poterlo evitare.

 

“Ma no! Mi ha invitato a vedere uno spettacolo che allestiscono delle sue amiche, per dopodomani sera. A te non dispiace se ci vado, vero?”

 

“Spettacolo a teatro?” chiese, pensando che sì, le dispiaceva eccome, ma non poteva certo presentarsi pure lei, che per Calogiuri, ufficialmente, non era niente.

 

“Sì. Ha molte amiche nell’ambiente del teatro, ma pure dei musei. Avevamo preso l’abitudine di andare insieme a teatro, a musei, a convegni, una volta alla settimana circa uscivamo a fare qualcosa e-”

 

“Ah, bene!” sibilò Imma, la bistecca che le rosolava sullo stomaco.

 

“Sì, ma, ti ripeto, sempre solo in amicizia. E ho imparato un sacco di cose, veramente. Irene dice che è importante anche per fare conversazione agli eventi, se voglio fare carriera.”

 

E su questo Irene aveva ragione, le toccò ammetterlo, anche se la faceva imbestialire. Ma questo suo remake di My Fair Lady con Calogiuri nei panni della fioraia non la convinceva per niente.

 

“Più che altro, se inizio a dirle di no così all’improvviso… non sarebbe sospetto? E ti avviso che una volta alla settimana uscivo pure con i ragazzi di solito, soprattutto Mariani e Conti e-”


“Calogiuri. Tu sei giovane e non voglio certo impedirti di avere la tua vita sociale. Ricordati solo che sei impegnato e che uscire una volta alla settimana con una bellissima donna single può magari farle venire certe idee… ci capiamo, no?”

 

“Ma se ci avesse voluto provare, lo avrebbe già fatto in tutti questi mesi, no? Invece ha sempre tenuto le distanze.”

 

“Io ho un’altra definizione di distanze, Calogiuri,” pronunciò, sarcastica, pensando a tutte le toccate di mano che la Ferrari gli faceva, “ma diciamo che capisco perché non ti puoi rifiutare. Ma attento a te, maresciallo, e se ci provasse mai in qualche modo mi devi promettere che me lo dirai, subito!”

 

“Promesso, dottoressa! Ma non succederà, vedrai!” la rassicurò, con una mano sul cuore, prima di aggiungere, guardandola dritto negli occhi, “però anche tu mi devi promettere lo stesso, Imma.”

 

“Ma chi vuoi che mi corteggi, Calogiuri?”


“Beh, io non sono proprio nessuno, direi, no?”

 

“No, ma sei stato l’unico in vent’anni. Comunque, va bene, te lo prometto! Se qualcuno sarà così folle da corteggiarmi e avrà gusti strani quanto i tuoi, ti avvertirò subito!” promise, più che convinta che tanto non sarebbe mai capitato.

 

"Non sono strani i miei gusti. Sono strani gli altri che non sanno apprezzare ciò che hanno di fronte agli occhi.”

 

“Nel tuo caso invece apprezzano tutte. Fin troppo!” ribatté con un sorriso, avvicinandoglisi e dandogli un bacio, “ma tu sei prenotato maresciallo, finché lo vorrai almeno.”


“E allora sono proprio fuori mercato a vita,” ribatté, ricambiando il bacio, finendo per limonare come due ragazzini, attaccati al muro dell’appartamento.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ed ecco qui, signò, tutto montato!”

 

Annuì, ispezionando ancora il lavoro fatto e dovendo ammettere che non era affatto male e l’appartamento iniziava finalmente a prendere forma.

 

“Va bene, vi ringrazio.”

 

Si congedò dai montatori e iniziò a sistemare e pulire il più grosso di quanto lasciato in giro.

 

E a quel punto suonò il campanello.

 

“Vi siete dimenticati qual-” esordì, ma poi si ritrovò davanti Calogiuri, con un sorriso e un paio di sporte in mano, “che ci fai qui?”

 

“Sono riuscito ad uscire un paio di ore prima, così ti posso dare una mano a pulire e magari inizio a montare qualcosa.”

 

“Tu sei matto, Calogiuri! E se ti hanno notato?”

 

“Ma no: ho saltato la pausa pranzo ed ero in giro, le mie ore le ho fatte. Dai, dottoressa, o vuoi farmi restare sulla porta per ore?”

 

“Va bene, va bene,” gli concesse con un sorriso.

 

E così iniziarono a pulire e Calogiuri era a volte perfino più veloce di lei. In questo sugli uomini aveva sempre avuto una gran fortuna, doveva ammetterlo.

 

E poi fu il turno di montare le lampade, che prima erano da assemblare, e risero come due scemi quando, a causa delle istruzioni poco chiare, una venne fuori come una specie di accrocchio inguardabile.

 

“Mi sa che è da rifare… anche se sembra quasi un’opera d’arte moderna.”

 

“Che hai visto in un museo con la Ferrari, per caso?” lo punzecchiò e lui, per tutta risposta, rise di nuovo e si sentì abbracciare stretta

 

“Lo sai che mi piace quando fai la gelosa? Ma a patto che non stai male, perché non ce n’è proprio motivo.”

 

“Sento di avere bisogno di qualche dimostrazione in più, maresciallo,” rispose con un sorriso, iniziando a slacciargli la camicia.

 

“Ma mo, qui?”

 

“Beh, dovremo ben inaugurare questa casa e testare la resistenza dei mobili nuovi, no? Da quale preferisci partire, maresciallo?”

 

“E perché scegliere, dottoressa?” le sussurrò malizioso, iniziando a baciarla già lì, sul pavimento.

 

Forse le giunture avrebbero protestato il giorno dopo, ma non se ne sarebbe mai lamentata.

 

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“E quindi pensi che questo caso sia collegato al maxiprocesso?”

 

“Temo proprio di sì. Non solo ma… chiamalo intuito, se vuoi, ma ho l’idea che ci potrebbe essere qualche collegamento anche con il caso Lombardi. Se ci pensi le modalità sono simili. Lombardi era stato trovato prono sul letto. L’unico motivo per cui è ancora vivo - se così si può dire - è che la sua segretaria l’ha trovato in tempo e ha chiamato i soccorsi. Bisogna analizzare innanzitutto le partite di coca, per vedere se sono compatibili, anche se ne dubito e poi-”

 

“Beh, sì, capisco, Imma. Lombardi è collegato al maxiprocesso. Alina è collegata al maxiprocesso da Oksana e Latronico. Per proprietà transitiva un collegamento tra i tre eventi ci potrebbe essere. Ma pensi che Alina fosse presente al famoso… festino di Lombardi.”

 

“Lo ripeto, è solo un’intuizione ma… magari sì.”


“Ma perché aspettare ora a farla fuori, se avesse visto qualcosa di scomodo all’epoca?” obiettò la Ferrari sebbene non con un tono scettico, più riflessivo.

 

“Non lo so… magari non osavano… magari ha minacciato solo ora di rivelare qualcosa…  magari…”


Magari l’hanno trovata solo ora… - le suggerì una voce, chissà da dove. Ricordava i lividi e le ecchimosi sulle braccia e come era scappata quella mattina. Ma sperava ancora di non doverlo rivelare a nessuno.

 

“Imma, io del tuo intuito mi fido, del resto mi basta vedere come hai condotto il maxiprocesso. Ma convincere Santoro a considerare questo elemento per le sue indagini lo vedo più complesso. Santoro ha un carattere… particolare, diciamo così…” commentò la pitbull e le bastò il tono per capire che anche lei non avesse gran stima del collega.

 

Le persone le sapeva valutare bene, la donna di fronte a lei, pure troppo, se si pensava a Calogiuri.

 

“Ma le indagini su Lombardi si sono del tutto arenate, nonostante gli abbia fornito tonnellate di prove. C’è pure ancora il presunto amante della signora Tantalo e un sacco di altri elementi. Non puoi occupartene anche tu? La Tantalo è coinvolta nel maxiprocesso.”

 

“E pensi che non ci abbia provato? Santoro è molto geloso delle sue indagini ma forse ora che siamo due contro uno… potremmo provare ad andare dal procuratore capo. Ma a Santoro non piacerà, ti avverto. Il caso Lombardi per lui è una manna dal cielo, come visibilità, lo avrai capito da sola, immagino.”

 

“Sì, immagini bene.”

 

“Va bene, allora se non c’è altro, se non ti dispiace io mi avvierei, che stasera ho un appuntamento e se no rischio di fare tardi,” proclamò la Ferrari con un sorriso ed un ruggito salì nel petto di Imma.

 

“Un appuntamento galante?” chiese, così, come se fosse per fare conversazione, tra donne.

 

“Non pensavo fossi il tipo che si interessa della vita privata dei colleghi,” commentò, con un mezzo sorriso che non capì del tutto, “ma no, vado a teatro con… amici. Amo molto il teatro, quando ero giovane ho fatto pure un corso, mentre andavo all’università. Aiuta in questo lavoro.”

 

Imma non seppe che pensare: da un lato la Ferrari aveva appena ammesso di essere capace di recitare, magari non di essere un’attrice superlativa, ma di sapere recitare sì. Dall’altro lato, per l’appunto, lo diceva senze problemi.

 

“Va bene, allora buona serata e buon divertimento con i tuoi amici!”

 

“Grazie, buona serata pure a te!” rispose, iniziando a preparare la valigetta.

 

La Ferrari era uno dei più grandi misteri che avesse mai incontrato nella sua carriera: da un lato la vedevano uguale su molte cose, era evidentemente intelligente e capace ed, in alcuni momenti, le faceva perfino quasi simpatia. D’altro canto detestava la sua vicinanza a Calogiuri e c’era qualcosa in quella sua gentilezza e disponibilità che le urtava il sistema nervoso e la metteva in allerta.

 

Sperava di scoprire quale fosse la vera Irene Ferrari, prima che potesse diventare potenzialmente pericolosa.

 

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“Allora? Com’era lo spettacolo?”

 

“Ma sei ancora sveglia? Ormai è mezzanotte passata!”

 

Aveva acceso la luce, mentre lui faceva pianissimo, per non farsi sentire.

 

“Non sono mica ottantenne, Calogiuri, e a mezzanotte passata ancora sono sveglia. Allora, com’era sto spettacolo?”


“Bello! Le attrici recitavano in mezzo al pubblico praticamente, molto suggestivo. Poi Irene è voluta andare a mangiare qualcosa con le amiche sue e allora… sono andato pure io, visto che non avevo ancora cenato. Ti avrei mandato un messaggio ma erano già le undici passate.”

 

“Non ti preoccupare, Calogiuri, ma la prossima volta avvisa lo stesso, che io tanto a quell’ora sono sveglia,” rispose, anche se una parte di lei sperava non ci fosse una volta successiva.

 

“Agli ordini, dottoressa!” proclamò, con un sorriso, prima di annunciare, “vado in bagno a sistemarmi e arrivo tra un minuto.”

 

“Dove pensi di andare, maresciallo?” lo bloccò, afferrandolo per il collo della camicia ed iniziando a mordicchiargli il lobo dell’orecchio.

 

“Imma… Imma.”

 

“In bagno ci puoi andare pure dopo,” gli soffiò nell’orecchio.

 

Lo buttò di peso sul letto, non perdendo tempo e mettendosi sopra di lui, iniziando a liberarlo dalla camicia con tanta forza da far saltare un paio di bottoni, Calogiuri che, per tutta risposta, la guardava in quel modo, come se fosse una dea. E poi lo sguardo gli si fece quasi animalesco ed iniziò pure lui ad usarle le mani e le sapeva usare molto, ma molto bene.

 

Qualcuna poteva pure fare My Fair Lady, ma lei avrebbe fatto 9 settimane e mezzo e contava di proseguire a farlo per ben più di un paio di mesi.

 

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“Direi che finalmente ci siamo!”

 

La famosa lampada era stata smontata e rimontata correttamente e Calogiuri aveva appena finito, non senza una certa apprensione da parte di Imma, di connetterla alla rete elettrica.

 

Imma stava montando una piccola libreria, che in teoria doveva essere semplice da assemblare. In pratica, ogni tanto Calogiuri interveniva e le dava una mano ma era una soddisfazione riuscire a fare quasi tutto da sola.

 

Ormai c’erano quasi: le lampade erano tutte installate, mancava giusto la libreria e poi da disporre tutti gli accessori e le suppellettili.

 

“Direi che per stasera avremmo finito. L’allaccio te lo fanno lunedì, giusto?” chiese per conferma e lei annuì.

 

“Sì, così da lunedì sera smetto di pagare per niente la pensione. Non ce l’avrei mai fatta a fare tutto così in fretta senza di te. Grazie mille, Calogiù!”

 

“Ma ti pare? L’ho fatto volentieri e lo sai… e poi mi piace lavorare con te, pure se si tratta di montare mobili.”

 

“Anche a me piace, Calogiuri,” ammise con un sorriso, la mente che tornava ad un giorno di un paio di anni prima, quando parlavano della ormai famosa Maria Luisa e del fatto che lui la trascurasse. E lui aveva ammesso che gli piaceva lavorare con lei. Ma la cosa più straordinaria era che pure lei aveva ricambiato. Si era data della cretina per un sacco di tempo successivamente, per quell’ammissione, seppure fosse la sola e unica verità. Ma lei al debole che aveva per Calogiuri non era mai stata molto capace di resistere.

 

Sentì la sua presenza alle sue spalle

 

Calogiuri si inginocchiò di fianco a lei ed iniziò a darle una mano e in due, come sempre, fecero molto più in fretta.

 

Sorridendosi, piazzarono la libreria - i libri li avrebbe dovuti acquistare mano a mano, perché i suoi li aveva dovuti lasciare a Matera - e Calogiuri la fissò al muro e poi cominciarono a piazzare i vari oggetti che avevano acquistato.

 

Quando Calogiuri piantò i chiodi per appendere il dittico della zebra venne ad entrambi da ridere.

 

“Mi prenderanno per matta, lo so, ma a me piace.”

 

“E allora prenderanno per matto pure me, perché ti dirò che l’effetto che fa non mi dispiace per niente. Rende l’ambiente più… più caldo.”

 

“Quello in realtà lo fai tu, Calogiù,” commentò, ammirandoselo con la t shirt bianca ed i pantaloni, leggermente sudato, che sembrava uscito da uno spot di una bevanda.

 

“Ah sì? Se è per quello pure tu…" rispose, mollando il martello e girandosi verso di lei, agguantandola per la vita e non mollandola mentre lei si dibatteva, per poi sussurrarle, baciandole la nuca, “ma posso fare di meglio.”

 

“Calogiuri!” urlò, sentendosi sollevare di peso e prendere in braccio.

 

“Sbaglio o il letto dobbiamo ancora inaugurarlo? Il materasso non lo abbiamo ancora testato!”

 

Era vero: due giorni prima erano finiti per fare l’amore tra il pavimento e il divano.

 

“E allora rimediamo a questa imperdonabile mancanza, maresciallo!” ironizzò, lasciandosi trasportare in camera.

 

Si sentiva maledettamente, tremendamente, schifosamente felice: talmente tanto che le faceva quasi paura.

 

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“Scusate ma, in base agli elementi che mi state fornendo, non capisco come possiate essere tanto sicure che il caso della dottoressa Tataranni sia collegato anche al mio.”

 

“Infatti gli elementi non li abbiamo, dottor Santoro, ma con le dovute analisi forse li potremmo avere.”


“Del tipo?”

 

“Comparazione della droga usata, verifica se le impronte di Alina siano sulla scena del crimine, o del malore, se preferisce, di Lombardi, domandare alla segretaria di Lombardi se per caso riconosce la ragazza, visto che era appostata fuori dall’appartamento.”


“E se vi concedessi di fare queste cose e il risultato fosse negativo, poi mi lascereste in pace tutte e due?” chiese Santoro, squadrando in cagnesco sia lei che la Ferrari, che stava al suo fianco.

 

“Poi resterebbe la pista della Tantalo e del suo amante, Santoro. Come sta procedendo con l’interpol? Lo sai che il maresciallo Calogiuri e la dottoressa avevano un’ipotesi che Lombardi e moglie avessero affari a Panama tramite Miami.”

 

“Lo so, ma l’interpol ha i suoi tempi e non si scomoda certo per un presunto affare di corna, visto che la relazione tra la Tantalo e il ragazzo è basata solo su testimonianze e-”


“Ma gli affari a Miami non lo sono, sono basati su biglietti aerei. Santoro, questo è l’unico punto oscuro che resta nel maxiprocesso, ti rendi conto che non ci stai facendo una bella figura, visto che è l’unico caso gestito da te?”

 

Imma guardò la Ferrari, sorpresa che fosse così diretta, lei che era sempre così diplomatica. Santoro, per tutta risposta, prima diventò paonazzo, poi sembrò incazzarsi, poi iniziò a elencare scuse tipo che, “non è colpa mia se magari non c’è un bel niente da scoprire!” e alla fine, dopo qualche altra scusa balbettata, quando la Ferrari gli intimò un, “e allora dimostracelo, o almeno dimostraci di aver fatto tutto il possibile! Se no chiederò al procuratore capo di assegnarlo a me il caso Lombardi, visto che ho pure il maxiprocesso!”, sporgendosi in avanti sulla scrivania, con uno sguardo mezzo omicida, concesse su tutta la linea.

 

Sia a lei di fare ciò che voleva riguardo ad Alina, sia sul sollecitare l’interpol.

 

Mo ho capito dove sta sto pitbull! - pensò tra sé e sé Imma, uscendo dalla stanza con la collega.

 

“Grazie ma… spero di non averti creato problemi.”

 

“Con Santoro? Con tutte le volte che ci siamo presi sotto, i problemi li dovrei avere da una vita. Fa tanto il borioso ma è solo perché è molto insicuro. Non mi mollerà mai il caso, salvo sia obbligato a farlo, e non vorrei arrivare a tanto, ma magari la minaccia sarà sufficiente. Io ora vado, che ho un’udienza nel pomeriggio.”

 

Era brava la Ferrari. Era brava davvero. E aveva carattere da vendere.

 

E, anche se finora non aveva fatto altro che aiutarla, la cosa non le piaceva per niente.

 

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“Dottoressa, allora, volete che vi accompagno in pensione? Già che ci siamo?”

 

Erano appena usciti dalla procura, dopo aver fatto un salto in obitorio, per il caso di Alina. La morte si confermava come un’overdose, ma i lividi, come sospettava anche lei, risalivano sia a poco prima della morte, sia a parecchio tempo prima. I segni sui polsi erano stati fatti qualche ora prima della morte. Ma se fosse stata legata per drogarla o per un gioco erotico o per entrambe le cose, chi poteva dirlo? Il tatuaggio, come temeva, non aveva dato risultati.

 

“Va bene, Calogiuri, ma non sto più in pensione, da stasera ho il mio appartamento,” gli disse, ad uso e consumo delle guardie che stavano appostate di vedetta, come se Calogiuri non lo sapesse.


“Ah, bene, dottoressa! Allora però mi dovete dare l’indirizzo,” rispose con un sorriso, con una nonchalance che aveva quasi del preoccupante, salendo sull’auto di servizio, mentre lei si piazzava al suo fianco.


“Sei diventato un po’ troppo bravo a dire le bugie, Calogiuri, mi devo preoccupare?” gli chiese, quando la vettura si fu avviata.


Calogiuri, per tutta risposta sorrise e disse un, “a te non ho mai mentito, Imma e non ho intenzione di farlo.”

“Tranne sui motivi del trasferimento!” gli ricordò e Calogiuri arrossì.


“E va beh… ma lì… lì lo sai perché l’ho fatto, no? Ma ti ho promesso che non ti avrei più mentito e ti garantisco che non lo farò più!”

 

“Sarà meglio per te… maresciallo!” gli intimò, dandogli un pizzicotto su un braccio e poi mettendo la mano sulla sua, sulla leva del cambio.

 

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“Alla tua nuova casa!”


“E a noi due!” aggiunse lei, facendo toccare i loro bicchieri e bevendo lo spumante.

 

Non poteva desiderare un party di inaugurazione migliore: erano da soli, dopo una cenetta che aveva cucinato velocemente lei con specialità di Matera, pure se gli ingredienti non erano gli stessi a Roma, e ora stavano quasi al dessert.

 

Che non era calorico e, anzi, faceva benissimo alla salute.

 

“Aspetta, ho qualcosa per te,” annunciò, aprendo la borsa ed estraendone un mazzo di chiavi nuovo, con un semplice portachiavi di pelle nero, lo stesso colore delle sue moleskine preferite, “per quando staremo da me. E poi… da noi.”

 

Calogiuri, per tutta, risposta, mollò il calice, le prese il viso tra le mani e la baciò teneramente, una mano che afferrava le chiavi dalla sua.

 

“Da noi… mi pare assurdo ancora anche solo dirlo.”

 

“Ma ben presto non sarà più assurdo, Calogiuri. E questa casa è mia quanto è tua, lo sai.”

 

“E… e mi pare che sia venuta proprio bene… che ne dici?” le chiese, guardandosi intorno, e lei gli sorrise: certo che era venuta bene, anzi benissimo.

 

Lo stile di lui e quello di lei non c’entravano niente l’uno con l’altro, almeno in linea teorica. Ma in pratica si combinavano alla perfezione, compensandosi. Un po’ come loro due nella vita di tutti i giorni.

 

“Sì, e poi pure la vista non è niente male…” commentò lei, guardando fuori dalla finestra al famoso cupolone illuminato.

 

“No, infatti, non è niente male,” si sentì sussurrare in un orecchio, e poi lui cominciò ad accarezzarla ovunque, da sopra l’abito che aveva indossato per l’occasione, mentre le baciava il collo.

 

“Calogiuri…” sussurrò, sentendo dita ancora fresche dal bicchiere di spumante gelato alzarle la gonna, le mani che correvano sulla pelle nuda.

 

Non solo sembrava non bastargli mai - non che per lei non fosse lo stesso - ma col passare del tempo diventava più audace, più sicuro di cosa poteva o non poteva osare.

 

E a lei questo faceva impazzire.

 

“Direi che non è il caso che diamo spettacolo alla finestra, che dici, Calogiù?”

 

“Che dovremo comprare anche le tende, dottoressa,” rispose, prima di trascinarla con sé, fino a sollevarla sulla tavola, per fortuna già mezza vuota.

 

“In effetti questo tavolo ci mancava ancora di inaugurarlo, Calogiuri!” lo schernì, fino a che lui, con un bacio esigente, le tappò la bocca.

 

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“Direi che è stata una festa d’inaugurazione memorabile…”

 

Lo guardò e lo vide sorridere soddisfatto, ma allo stesso tempo un poco imbarazzato: avevano veramente inaugurato la casa, in tutti i sensi. Erano quasi le due di notte ma, ogni volta che avevano smesso, la passione in qualche modo si riaccendeva e ricominciavano da capo, da qualche altra parte.

 

“Faccio ancora fatica a crederlo… che questa tra pochi mesi sarà casa nostra… e potremo stare così tutte le notti…” lo sentì sussurrare dopo un po’.

 

“Magari non faremo proprio queste maratone tutte le notti, se no la mattina come ci arriviamo al lavoro? Non che mi lamenti eh, anzi,” ironizzò, stampandogli un bacio su una guancia, la lieve barba della sera che iniziava a farsi sentire, “ma devi crederci perché manca poco ormai, anche se lo diciamo da mesi.”

 

“Lo so…” sussurrò lui, baciandola di nuovo. E poi la sua espressione cambiò e le disse, “aspetta un secondo.”

 

Sorpresa, lo vide alzarsi dal letto ed allontanarsi - roba che tra un po’ le veniva voglia dell’ennesima replica alla sola visione - e poi lo vide avvicinarsi a lei, con un pacchettino in mano.

 

“Regalo per la casa nuova,” le spiegò e Imma aprì, incuriosita, e ci trovò una cornice, di quelle digitali.

 

“Così, quando potrai esporla, ci metteremo tutte le nostre foto insieme, oltre alle altre foto che vorrai. Per intanto c’è quella al Pincio,” le spiegò, accendendola, e vide le foto scattate dai gentilissimi turisti giapponesi.


“Come si aggiungono altre foto?”

 

“Bisogna caricarle con un cavetto USB dal cellulare o da chiavetta ma… ma al momento non ne abbiamo altre.”

 

“In realtà sì…” confessò, sentendosi un poco in imbarazzo e, prendendo il cellulare, fece scorrere la galleria fino ad arrivare al famoso selfie di loro due al ponte dei santi.

 

“Ma veramente lo hai conservato?” le chiese, incredulo, con un tono commosso e gli occhi che gli si fecero lucidi.

 

“Non sai quante volte l’ho guardato nei mesi nei quali… nei quali io ero a Matera e tu a Roma… non lo avrei mai buttato, Calogiù, pure se sembriamo due deficienti,” rise, stampandogli un bacio e lui, per tutta risposta, la strinse in un abbraccio fortissimo.

 

Imma…” le sussurrò, in quel modo che le dava i brividi, “ti amo.”

 

“Anche io, Calogiù, ti amo da morire.”

 

E si sentì stringere ancora di più, forse perché stavano pensando entrambi la stessa cosa: che l’uno per l’altra quasi erano morti sul serio.

 

E Imma lo avrebbe rifatto ancora mille volte, senza esitazioni.

 

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“Calogiuri, allora controllami anche le persone su questa lista. Movimenti bancari, telefonici, il solito.”

 

Annuì e prese il foglio. Stavano indagando su una rapina finita male ed al momento erano appena all’inizio delle indagini.

 

“C’è altro, dottoressa? Se no io andrei che mi aspetta la dottoressa Tataranni per il caso di Alina.”

 

“No, cioè… sì, Calogiuri, aspetta!” lo bloccò, non appena stava per tirarsi in piedi e si rimise seduto.

 

“Ascoltami… non sono affari miei e qui in procura sono peggio delle comari e lo sappiamo tutti. E immagino tu conosca le voci che girano su te e me, no?” gli chiese e Calogiuri si sentì avvampare.

 

“Cioè… avevo sentito qualcosa ma… se vi dà fastidio, io-”

 

“No, Calogiuri, a me da qui entrano e da qui escono, non è un problema. Però… ho sentito che cominciano a commentare anche su come… su come accompagni spesso tu a casa, o in albergo, o dovunque stia a dormire, la dottoressa Tataranni. Su come passate molto tempo insieme. E quindi iniziano a parlare pure di voi. Ora, a me non è che dispiaccia se l’argomento del giorno per una volta non sono io, ma… insomma… volevo avvisarti di farci attenzione. Tutto qui.”

 

“Dottoressa… io…” balbettò, andando in panico e sperando che non gli chiedesse il perché la accompagnasse sempre lei.

 

“Non mi dire niente, era solo un’informazione, Calogiuri. Buon lavoro con la dottoressa!” proclamò, sembrandogli leggere nel pensiero, in quel modo che un po’ lo inquietava.

 

Ma si congedò e si affrettò ad andare nell’ufficio di Imma.

 

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“Allora, Calogiù, direi che per oggi abbiamo finito. Sull’appartamento di Alina non scopriremo altro: purtroppo i documenti forniti a chi affittava sono fasulli e su internet i controlli sono relativi. Non ci resta che attendere i risultati della scientifica. Certo, se Oksana avesse saputo il cognome di Alina sarebbe stato più semplice e purtroppo essendo immigrata clandestinamente le sue impronte non sono schedate. Ma, se riusciamo a collegare i tre casi, sono certa che arriveremo da qualche parte, Calogiù, me lo sento proprio.”

 

“Il dottor Santoro ha chiesto a Mariani di prepararvi il dossier su quanto scoperto dalla scientifica nell’appartamento di Lombardi e di far confrontare le impronte di Alina con le centinaia trovate in quell’appartamento. Secondo me avremo notizie a breve, se in qualche modo c’è qualche coincidenza e-”

 

Proprio in quel momento, bussarono alla porta.

 

Lupus in fabula.

 

“Mariani, buonasera, mi dica,” la esortò, invitandola con un gesto della mano a sedersi accanto a Calogiuri e la ragazza lo fece.

 

“Buone notizie, dottoressa! Aveva ragione lei: le impronte di Alina corrispondono a delle impronte trovate nell’appartamento dove si è sentito male Lombardi. E non indovinerà mai dove.”

 

“Nella stanza da letto di Lombardi?” chiese, con un sorriso, anche se ne era praticamente certa.

 

“Esattamente dottoressa. Erano vicine al letto, sul comodino, ora confronteremo anche il DNA della ragazza con quelli rinvenuti nel letto, ma ci vorrà un po’ di più, perché la scientifica deve ancora finire con l’analisi.”

 

“Perfetto, Mariani, perfetto! Non poteva darmi notizia, migliore, grazie!”

 

“Ma si figuri, dottoressa, piacere mio! Allora io andrei! Posso solo chiedere una cosa personale al maresciallo, che poi almeno vado a casa?”


“Certo, faccia pure.”

 

“Allora, per dopodomani sera ci sei? Ormai non ti si vede praticamente più!”

 

Calogiuri lanciò per un attimo un’occhiata a Imma che dissimulò la sua vera risposta con un, “Calogiuri, non hai mica bisogno del mio permesso per risponderle. E poi su, vai e divertiti, alla tua età! Che fate di bello, Mariani, se posso chiedere?”

 

“Ah, niente, un’uscita al solito pub. Ma dovrebbe suonarci una band niente male.”

 

“D’accordo, d’accordo,” acconsentì Calogiuri, avendo colto quanto voleva dirgli Imma.

 

“Bene, Mariani, allora buona serata a lei e divertitevi dopodomani!”

 

“Grazie, dottoressa!” sorrise la biondina, congedandosi in fretta.


“Grazie…” sussurrò Calogiuri, non appena furono soli.

 

“Non mi devi ringraziare. Tu ti devi fare la tua vita sociale, te l’ho sempre detto.”


“E tu? Perché non cerchi di fare amicizie?” ribatté, con uno sguardo per la serie - predichi bene e poi razzoli male.

 

“Perché col mio carattere fatico a fare amicizia, Calogiuri. E poi dove le trovo? Ma se le troverò, ci uscirò, promesso.”

 

“Va bene…” sorrise lui, scuotendo il capo e facendo per alzarsi.

 

“Andiamo a casa mia allora, Calogiuri?” gli chiese, alzandosi a sua volta.

 

“No, cioè sì… però… forse è meglio che non ti accompagni io. Ho sentito voci su noi due e sul fatto che torni sempre a casa con me. Ti va bene se ci vediamo là? Tanto a piedi ci arrivi, giusto?”

 

Imma si sorprese, perché lei non aveva ancora sentito nulla, se non voci su Calogiuri e la Ferrari che l’avevano fatta ingelosire non poco, ma sospirò, comprendendo che fosse la cosa più prudente.

 

“D’accordo, Calogiuri, allora ci vediamo a casa. Stasera sei di turno tu a cucinare,” gli ricordò, scherzosamente.


Agli ordini, dottoressa,” replicò, facendole l’occhiolino e sparendo oltre la porta.

 

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Stavano mangiando un’ottima arrabbiata, quando il telefono di Imma prese a squillare con la suoneria delle emergenze.

Valentina.

 

Da quando era andata a vivere a Roma, si erano viste giusto una volta, su sua insistenza peraltro. Valentina sembrava nuovamente un po’ risentita con lei per la decisione del trasferimento.

 

“Pronto, Valentì, tutto bene? Ma è successo qualcosa?” chiese, in ansia, visto quanto poco sua figlia la chiamava.

 

“Tranquilla mamma, tutto bene. Ascolta una cosa… una delle mie compagne di corso al corso di diritto privato fa giurisprudenza e… lei ha pure penale e tutti quegli esami lì, come puoi immaginare. Dovrebbe fare una ricerca per diritto penale, su un caso, soprattutto su tutta la fase processuale e, se possibile, andare in procura e fare qualche domanda a chi se ne occupa, sia per la documentazione, sia al pubblico ministero. E sa che sei un magistrato quindi…”


“Ma questa è un’amica tua, Valentì?” le chiese, un mal di testa che già cominciava a salirle: detestava gli studenti di giurisprudenza e le gran perdite di tempo che comportavano con le loro ricerche.


“Beh, diciamo che è una delle ragazze con cui passo più tempo, mà,” rispose ed Imma sospirò, perchè che altro poteva fare?

 

Valentina già aveva poche amiche e lei non era certo in ottimi rapporti con la figlia al momento. Per una volta che le chiedeva una mano, non poteva dirle di no.


“Va bene, dille pure di venire, quando pensate di passare?”

 

“Venerdì mattina per te va bene?”

 

“Ok, Valenti, a venerdì allora. Tu come stai?”

 

“Io sto bene mà, te l’ho già detto. Buona serata!”

 

“Tutto a posto?” chiese Calogiuri, sorseggiando un goccio di vino, probabilmente vedendo l’espressione di lei.

 

“Sì, a parte il fatto che venerdì Valentina verrà in procura, direi tutto bene!”

 

“Ma che problema c’è se viene in procura?”

 

“Nessuno, ovviamente, se non che potrebbe vederti e capire tutto.”

 

“Ma manco si ricorderà di me, mi ha visto due volte. E comunque eviterò il tuo ufficio venerdì mattina allora.”

 

“Grazie, Calogiù!” esclamò, abbracciandolo forte, “lo sai perché… insomma… spero che tu capisca perché non glielo voglio ancora dire.”

 

“Lo capisco, Imma, lo capisco. Ma tra qualche mese lo diremo a tutti, vero?” le chiese, guardandola dritto negli occhi.

 

“E certo che sì! Ma che pensi che pure a me non pesi dover fare tutte ste pantomime per non far capire che praticamente già viviamo insieme?”

 

E non mi pesi che tutte credano che tu sei single e disponibile? - pensò ma non lo disse, l’immagine di una certa PM che le apparve davanti agli occhi più nitida di tutte le altre.

 

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“Scusi, abbiamo appuntamento con la dottoressa Tataranni, sono la figlia.”

 

La guardia all’ingresso squadrò lei e Laura, la sua amica, per qualche istante, prima di fare loro cenno di passare.

 

Non una parola di più.

 

E mo dove la trovo mamma? - si chiese Valentina, guardandosi intorno, spaesata in quell’edificio talmente grande.

 

Aveva già afferrato il cellulare e stava per telefonare, quando le passò davanti un ragazzo, carico di fascicoli, evidentemente uno che lavorava lì e dall’aria stranamente familiare.

 

“Mi scusi!” lo chiamò e lo vide voltarsi, sorpreso, tanto che i fascicoli traballarono e li riprese all’ultimo secondo, praticamente al volo.

 

“Mi scusi, cercavo lo studio della dottoressa Tataranni. Ho, anzi, abbiamo un appuntamento con lei: è mia madre,” chiarì e vide che l’espressione gli divenne strana, anche se non avrebbe saputo definire come.

 

C’era qualcosa di terribilmente familiare in lui, più lo vedeva e più ne era convinta.

 

“Se cercate la dottoressa Tataranni, è al piano di sopra, vi posso accompagnare e-”

 

“Ma noi non ci siamo già visti?” chiese, di botto, il voi che le riportava a galla una memoria, “ma lei non è… il maresciallo, quello che stava a Matera? Quando mamma si è fatta male al ginocchio!”

 

Lo vide spalancare ancora di più gli occhi, “beh… sì, sì… lavoravo a Matera prima. Ma è quasi un anno che mi sono trasferito qui a Roma.”

 

A Valentina venne da ridere per la timidezza di lui, che le faceva sinceramente un po’ di tenerezza: era imbarazzatissimo e, seppure fosse più grande di lei, questo lo faceva sembrare giovanissimo.

 

“Insomma… ti è andata male come a me. Anche tu pensavi di essere riuscito a liberarti di lei e invece te la sei ritrovata pure qua!” ironizzò e anche lui rise, seppure in modo più nervoso, “mi puoi accompagnare da-”


“Calogiuri!”

 

La voce di sua madre la raggiunse, da davanti a lei. Il maresciallo si voltò e lei si spostò di lato e la vide. Come la notò, sua madre si bloccò sui suoi passi, sembrando sorpresa e stranamente agitata.

 

“Valentì, ma non dovevi venire tra un’ora?” le chiese, avvicinandosi.


“Eh, alla fine abbiamo fatto prima. Stavo giusto chiedendo al maresciallo qui dove fosse il tuo ufficio.”

 

“Va beh… visto che vi siete ritrovate, io andrei che devo rimettere a posto questi fascicoli. Buona giornata ed è stato un piacere rivedervi,” disse il maresciallo, levendosi da lì a grande rapidità.

 

“Ma è sempre così timido?” chiese a sua madre, che continuava con quell’espressione strana.


“Abbastanza,” rispose con un sospiro, prima di rivolgersi alla sua amica con un, “tu devi essere Laura, immagino?”


“Come? Ah, sì, sì,” rispose lei, fissando ancora il punto in cui Calogiuri se ne era andato.


Conoscendo l’amica, il carabiniere doveva piacerle e parecchio. In effetti, imbranataggine a parte, era proprio un bel ragazzo.

 

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“Grazie, dottoressa, sono sicura che con tutte le informazioni che mi ha dato la ricerca verrà benissimo.”


“Bene,” rispose sua madre, con l’aria di chi voleva solo levarsela di torno e Valentina decise di non tentare oltre la sorte.

 

“D’accordo, noi ora andiamo.”

 

“Valentina, ascolta, ci verresti a cena da me una di queste sere?” le chiese improvvisamente sua madre.

 

Valentina era ancora un po’ irritata per la storia del trasferimento, anche se dall’altro lato era toccata dal fatto che sua madre si fosse spinta a tal punto per starle più vicino.

 

Sapeva di non poterla evitare per sempre e poi quel weekend avrebbero dovuto stare insieme, in teoria.

 

“Va bene, mà, vengo domani sera se vuoi. Tanto Samuel ha da lavorare.”

 

Tanto per cambiare, si vedevano sempre pochissimo.

 

“Perfetto. A domani sera allora! E ciao pure a te Laura!”

 

E sua madre richiuse la porta dell’ufficio.

 

Si riavviarono verso l’uscita quando intravidero di nuovo il maresciallo. Laura si bloccò di colpo.

 

“Che dici se faccio un paio di domande anche a lui? Collabora con tua madre, no?”

 

“Beh sì, ma… perché vuoi parlare pure con lui? Non hai già abbastanza materiale?”

 

“Ma come perché, Valentina? Ma l’hai visto bene? Non so se mi spiego… per una volta che c’ho una scusa buona!” proclamò Laura, guardandosi il carabiniere con occhi trasognati.


“Va beh… va beh… fà come vuoi. In caso io faccio finta di non conoscerti,” proclamò, ironica, vedendola avviarsi di corsa verso il maresciallo, che sembrò sorpreso e quasi spaventato a vederle.


“Sì?”

 

“Volevo farle delle domande su un caso che ha seguito con la dottoressa Tataranni. Per l’università. Ha due minuti da dedicarmi?”

 

Calogiuri alternò lo sguardo tra loro due e poi annuì con un sorriso, “va bene, ma non più di quindici minuti che poi ho un appuntamento di lavoro e non posso tardare.”

 

“D’accordo, grazie mille!” proclamò Laura, afferrandoselo per un braccio e facendolo accomodare sulle sedie nel corridoio.

 

Era in imbarazzo lei per l’amica, ma non disse niente e si sedette accanto a loro.

 

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“Calogiù, sei sicuro che non ti dispiaccia? Comunque quando Valentina se ne va ti mando un messaggio, così hai il via libera per rientrare. Sempre che non voglia restare qui stasera, ma non credo, in caso ti avviso.”

 

“Tranquilla, lo so che tua figlia è più importante e sono contento che si sia decisa a venire a cena da te. Io ne approfitto ed esco con Mariani e Conti, così non mi daranno il tormento anche in settimana e possiamo starcene soli io e te.”

 

“Va bene, maresciallo! Ma fai il bravo, mi raccomando! E bevi poco!” gli intimò, ironica, ma con una punta di reale avvertimento.

 

“Guarda, sono mesi che l’alcol l’ho bevuto praticamente solo con te. E comunque… sapendo quello che so mo, potrei essere pure ubriaco fradicio ma non rifarei lo stesso errore. Mi credi?”

 

Il modo in cui glielo sussurrò nella cornetta, quasi disperato, che sembrava un bambino bisognoso di conferme, le sciolse il cuore manco fosse fatto di burro.

 

“Diciamo che ti credo fino a prova contraria, maresciallo. Quindi, ti ripeto, occhio a te!” ribadì e questa volta era veramente ironica.

 

Del resto, aveva passato mesi ad esserle fedele quando avevano una relazione clandestina e basta e pure a Roma non si era rifatto una vita, nonostante tutte quelle che gli ronzavano intorno.


“Va bene. Allora aspetto un tuo messaggio! A dopo!”

 

“A dopo, Calogiù!”

 

Fece in tempo a mettere giù e dare un’ultima girata al sugo alla poverella, il preferito di Valentina - anche se i funghi cardoncelli li aveva dovuti sostituire, non essendoci lì a Roma - quando il campanello squillò.

 

Si levò il grembiule e si guardò di nuovo in giro per accertarsi che tutte le tracce visibili di Calogiuri fossero sparite - aveva già fatto un’accurata rimozione in bagno e in camera da letto - ed andò ad aprire la porta.

 

“Valentì!” la accolse con un abbraccio e Valentina si irrigidì per un attimo ma poi si fece abbracciare e ricambiò la stretta.


“Ti ho portato il dolce, una torta di frutta,” proclamò Valentina, porgendole un pacchetto, “l’ha fatta Samuel che si sta esercitando sulla pasticceria.”

 

“E bravo Samuel!” commentò con un sorriso, “vieni, Valentì, vieni, accomodati. Vuoi fare il giro della casa magari?”

 

Valentina rimase per un attimo in silenzio, poi si guardò intorno, poi la guardò, poi osservò di nuovo la stanza, poi rimase in silenzio.

 

“Che c’è?”

 

“Ma i mobili li hai scelti tu o ti ha aiutata qualcuno? Perché sono stranamente… di buon gusto e… moderni… per essere stati scelti da te!” commentò, sarcastica, guardandola in un modo che per un attimo le fece venire un colpo.

 

“Diciamo che mi sono fatta consigliare. Sai che non c’ho tempo, Valentì, e io ho scelto più gli accessori.”

 

“Si vede!” sollevò gli occhi Valentina, indicando il famoso dittico della zebra e i cuscini leopardati.

 

“E va beh… dai… qualche stravaganza concedimela. Insomma, ti va bene o no che io sia stravagante?”

 

“Tanto non ci devo vivere io qui!” commentò Valentina, per poi aggiungere, "comunque un giro al resto della casa lo faccio volentieri, di sicuro hai una vista bellissima: te la invidio! Ma come hai fatto?”

 

“Un colpo di fortuna, Valentì, un colpo di fortuna!” commentò con un sorriso, come del resto era stato quasi tutto in quei mesi.

 

E così fecero il giro di casa e Valentina alla fine commentò con un, “devo dire che è molto meno peggio di come me l’aspettassi. Non mi dispiace.”

 

Che, detto da lei, era un enorme complimento.

 

“Se ogni tanto vuoi restare a dormire, qui il posto c’è ovviamente. E il divano è un divano letto, se servisse,” le chiarì, non seppe nemmeno bene lei il perché.

 

“Perché? Vuoi che inviti altre due mie amiche e facciamo un pigiama party in quattro, come quando avevo dodici anni?” ironizzò Valentina, ma non commentò oltre.

 

Imma buttò la pasta e, dopo il tempo canonico, si misero a tavola.

 

“Allora, com’è? Mo che sei abituata con un quasi chef!”

 

“Eh, ma il quasi chef per me non cucina mai, che non ha tempo…” sospirò Valentina e Imma si rese conto che era l’ennesimo sospiro quando si parlava di Samuel, “comunque niente male, anche se coi funghi cardoncelli è un’altra cosa.”

 

“Lo so, Valentì, ma qui ci dobbiamo accontentare,” rispose con un sorriso, “ne vuoi ancora?”

 

“No, grazie, che poi c’è anche il dolce,” rispose Valentina, che come sempre cucinava assai ma mangiava come un uccellino.

 

“Va bene…”

 

Portò in tavola la torta e la tagliò, servendone una fetta ciascuno.

 

“Molto buona, Valentì, fai i complimenti a Samuel!” disse con un sorriso e Valentina, per tutta risposta, fece un altro sospiro ed annuì.

 

“Le cose con Samuel non vanno bene?” chiese e si rese immediatamente conto, dall’espressione di Valentina, di avere appena pestato una mina.

 

“Scusa, scusa, se non ne vuoi parlare non ti chiedo altro,” alzò le mani e stavolta Valentina la fissò sì, ma stupefatta.

 

“Chi sei tu e cosa hai fatto di mia madre?”

 

“Ma niente, Valentì, è che ho capito che è inutile forzare le persone a parlare, almeno nella vita privata. E poi sei grande ormai. Ma se avrai voglia di confidarti o bisogno di qualcosa, io ci sono, va bene?”

 

“Va bene…” sospirò Valentina, addentando un altro pezzo di torta.

 

Mangiarono per un po’ in silenzio, finché Valentina non sollevò gli occhi verso di lei e sganciò la bomba.

 

“Mamma… quel maresciallo che lavora per te… quello che c’era pure a Matera… com’è che si chiama?”

 

Imma sentì già lo stomaco che diventava una lavatrice, la torta e i funghi che si mischiavano in una poltiglia disgustosa.

 

“Calogiuri?” domandò, il fiato in gola, un pezzo di torta ancora in bocca.

 

“Ecco, sì, Calogiuri, che poi immagino non sia il suo nome. Comunque…” fece un attimo di pausa e poi domandò, sembrando in tremendo imbarazzo, “sai se è impegnato? Insomma, se c’ha già qualcuna?”

 

Imma per poco non si soffocò con il boccone, che le andò completamente di traverso, iniziando a tossire come una disperata.

 

“Mà, ehi mà, tutto bene?” le chiese, preoccupata, alzandosi e dandole dei colpi sulla schiena, finché Imma finalmente tornò a respirare.

 

“S- sì, p- più o meno,” esalò, a fatica, gli occhi pieni di lacrime, la gola che bruciava per lo sforzo e una morsa nel petto che nulla aveva a che fare col mezzo soffocamento.

 

Si asciugò gli occhi e bevve un sorso d’acqua, per poi annuire che andava bene.

 

“E allora?” chiese Valentina.

 

“E allora cosa?”


“Il maresciallo, è impegnato o no?” ribadì e ad Imma prese il panico. Non era gelosia, era proprio panico.


Se a Valentina piaceva Calogiuri - dio santo, non ci poteva nemmeno pensare!

 

“Valentì, va bene che le cose con Samuel va beh… vanno come non vuoi dirmi che vadano, ma da lì al maresciallo, io credo che-”

 

“Ma che hai capito, mà! Mica è per me, no! Che per carità, bello è bello, ma è talmente imbarazzato e imbranato che mi pare un quindicenne!” commentò Valentina, sarcastica, ed Imma si dovette mordere la lingua dal difendere Calogiuri.

 

Del resto, non poteva certo spiegarle perché Calogiuri, soprattutto con lei, fosse così tanto in imbarazzo, mentre con il resto dell’umanità era ormai decisamente più sicuro di sé.

 

“E allora per chi è?”

 

“Per la mia amica Laura: da quando l’ha visto è rimasta come folgorata! Continua a parlarmi di lui e insomma… mi ha chiesto di chiedere informazioni in giro. Non lo avrei fatto, ma se no continuerà a tormentarmi finché non le dico qualcosa e-”

 

“Ho capito, ho capito, Valentì,” la interruppe, con un sospiro, un macigno sul petto.


“E allora? Sai se è impegnato o no?”

 

Imma sapeva di essere ad un bivio. Ad uno di quei bivi che la vita ti pone davanti a volte, inaspettatamente.

 

Poteva dire di sì, poteva dire di no, poteva fingere di non saperne nulla. Ma la verità era che il colpo che le aveva fatto prendere la sola ipotesi che a Valentina piacesse Calogiuri l’aveva fatta riflettere.

 

Non solo su quanto fosse pericoloso che Valentina non sapesse di loro due, potenzialmente - oggettivamente l’età per invaghirsi di Calogiuri ce l’aveva più Valentina di lei - ma sul fatto che, se avesse mentito in quel momento, che sarebbe successo da lì a qualche mese, quando lei e Calogiuri sarebbero usciti allo scoperto?

 

Valentina si sarebbe sentita ancora di più presa per il culo.

 

E, anche se temeva il polverone che avrebbe suscitato Valentina, anche se temeva da morire di perderla, mentirle guardandola negli occhi no, quello non lo poteva fare. Un’omissione ci poteva stare, ma una bugia - dalle gambe così corte, oltretutto - no.

 

“Sì, è impegnato, con me,” rispose, in quello che era poco più di un sussurro, ma la voce più di così non le veniva fuori.

 

Valentina, per tutta risposta, aggrottò la fronte con uno sguardo interrogativo.

 

“Come cosa?”

 

“Eh?”


“Hai detto che è impegnato come… come che?” chiese di nuovo Valentina.

 

“Non come. Con me,” ripeté, stavolta scandendo bene.


Valentina strabuzzò gli occhi e poi scoppiò a ridere.

 

Imma rimase paralizzata, di stucco: o era una risata isterica o non sapeva che pensare. Di tutte le reazioni che avrebbe potuto avere Valentina non si aspettava quella.

 

“Sì, certo!” esclamò poi Valentina, tra le risate, “e io sono impegnata con Chris Hemsworth. Dai, seriamente, con chi è impegnato, se è impegnato?”

 

Imma si sentì come se le avessero appena mollato due ceffoni in pieno viso. Non si era sentita mai tanto umiliata in vita sua, mai, nemmeno da quella cretina della commessa. Per sua figlia il fatto che Calogiuri si interessasse a sua madre era probabile quanto il fatto che un bonazzo di Hollywood, di cui aveva il poster in camera da ragazzina, si interessasse a lei.

 

Le spuntarono le lacrime agli occhi, senza riuscire a trattenerle.

 

E fu allora che Valentina smise di sorridere, il suo sguardò che mutò prima verso l’incredulità, lo shock e poi verso la rabbia.

 

“Mamma, stai scherzando, vero?! Dimmi che stai scherzando!” le chiese, tirandosi in piedi ed alzando sempre di più la voce.

 

Imma scosse il capo, le lacrime che le rigavano le guance, la voce che se ne era andata del tutto.

 

“Ma sei scema?! Ti sei bevuta del tutto il cervello?! Ma non ci posso credere, mamma! Quanti anni avrà quel… quel… non c’avrà nemmeno trent’anni!” gridò Valentina, completamente fuori di sé.

 

“Valentì, calmati, ascoltami, non è come pensi tu, è che-”

 

Valentina si fermò, di botto, a pochi passi da lei, come colta da un’illuminazione, mentre un’espressione di disprezzo che non le aveva mai visto prima le si fece largo sul viso.

 

“Ma certo. Lui c’era già a Matera!” sibilò, con un tono quasi calmo, basso ma gelido, “da quanto va avanti tra voi, eh?!”


“Valentina, non è come credi tu, è che-”

 

“Ah, no?! Vuoi dirmi che magicamente tra voi è cominciata dopo che tu ti sei lasciata con papà, qui a Roma??!! Ma che pensi, che sono nata ieri??!!” gridò, incazzata come veramente non l’aveva mai sentita, nemmeno quando le aveva annunciato la separazione.

 

Poi si bloccò di nuovo, realizzando un’altra cosa. 

 

“Ecco perché sei venuta a trovarmi a Roma! Ecco perché ti sei trasferita qui!! Mica per me, no, per lui!! A fare la… la madre eroica, mentre invece a te non è mai fregato niente di me, o di papà, a te è sempre fregato solo di te stessa!”

 

“Valentina, non è così! Tu sei la persona più importante della mia vita. Io mi sono trasferita qui anche per recuperare il rapporto con te e-” 

 

“E te lo puoi scordare! Mi fai schifo!! Schifo, hai capito??!” urlò talmente forte che quasi le si ruppe la voce, gli occhi praticamente fuori dalle orbite, “hai distrutto papà e la nostra famiglia per due scopate con un cazzo di toyboy!”

 

Lo schiaffo le partì prima che lo potesse trattenere e se ne pentì all’istante, ma ormai quello che era fatto era fatto.

 

Rimasero per qualche attimo così, il tempo che sembrò dilatarsi all’infinito: Imma con la mano alzata a pochi centimetri dal viso di Valentina e la ragazza che si teneva la guancia.

 

“Ti odio! Hai capito?! Ti odio e non ti voglio più vedere!!” gridò Valentina, in lacrime, afferrando il cappotto dal divano e scappando fuori dall’appartamento senza nemmeno infilarselo.

 

Imma rimase per un istante paralizzata e poi si accasciò sulla sedia, che per poco non mancò e non cascò per terra.

 

Le lacrime uscirono a fiumi, senza poterle trattenere: aveva sbagliato tutto, tutto quanto e Valentina non glielo avrebbe davvero mai perdonato questa volta.

 

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“Ippazio, tutto bene? Mi sembri distratto stasera!”

 

“Sì, Mariani, non ti preoccupare,” le urlò, sopra la musica assordante del pub.

 

La verità era che ormai era quasi mezzanotte e non aveva ricevuto alcun messaggio da Imma. Magari la cena stava andando benissimo e Valentina aveva deciso di fermarsi lì a dormire, ma Imma gli aveva garantito che lo avrebbe avvertito in ogni caso, in modo che si potesse regolare. E invece niente.

 

Tutto ok? Dove dormo stanotte? Ti penso.

 

Voleva scrivere ti amo, ma gli sembrava banalizzarlo scriverlo per messaggio, dopo tutta la fatica fatta per poterselo dire a voce. Non voleva diventasse un’abitudine, di quelle cose che si dicono e si scrivono in automatico, ma che ogni volta avesse il senso che si meritava di avere.

 

Aspetto cinque, dieci, quindici minuti ma niente. L’ultimo accesso era di ore prima. Strano, molto strano: Imma col suo cellulare era un mezzo avvoltoio, stava sempre in allerta, in caso arrivassero messaggi di lavoro.

 

Una telefonata a quell’ora, se ci fosse stata sua figlia presente, non poteva farla, ma iniziava seriamente a preoccuparsi.

 

Alla fine decise di fregarsene e chiamare, al massimo avrebbe inventato su due piedi di un cadavere ritrovato.


Uscì e telefonò ma niente, il telefonino continuava a squillare a vuoto e lui stava seriamente iniziando a preoccuparsi.

 

“Tutto bene?” ripeté Mariani, che lo aveva seguito dopo un po’.

 

“Sì, ma devo andare, salutami tu gli altri,” rispose, prendendo le chiavi del motorino e montando in sella.


C’era una specie di istinto che gli diceva che qualcosa non andava.

 

Arrivò sotto l’appartamento e vide che le luci del salotto erano ancora accese. Provò a suonare al campanello esterno ma nessuno rispose.

 

Allora estrasse il mazzo di chiavi e salì. Provò di nuovo a suonare anche al secondo campanello ma niente. Con un sospiro, usò il mazzo di chiavi ed entrò, facendo meno rumore possibile.

 

E fu allora che la vide: accasciata sulla sedia, vicino al tavolino, con una specie di sguardo catatonico, il viso rigato da lacrime ormai asciutte.

 

“Imma, Imma che è successo?!” le domandò, preoccupatissimo, precipitandosi al suo fianco ed inginocchiandosi davanti a lei, “che succede?! Parlami, dì qualcosa!”


E lei, per tutta risposta, gli gettò le braccia al collo ed iniziò a piangere e a singhiozzare disperatamente, quel corpo esile che tremava contro al suo.

 

Continuò a stringerla e ad accarezzarle viso e capelli, anche se si stava realmente allarmando.


“Imma… ti prego, dimmi qualcosa, qualsiasi cosa…”

 

“Mi odia, Calogiù, mi odia!” urlò, all’improvviso, alzando il viso per pochi secondi dal suo petto, gli occhi iniettati di sangue, per poi tornare a riabbassarlo e a piangere disperatamente, “mi… mi ha detto che non vuole più vedermi, mai più. Mi odia, mi odia, è finita!”

 

Cercò di farla tranquillizzare ancora un attimo, stringendola più forte che poteva: ormai era seduta in braccio a lui sul pavimento, finché sentì che i respiri un attimo si calmarono.


“Ma… ma com’è successo?” le chiese infine, perché non capiva: con Valentina finalmente le cose stavano andando meglio.

 

“Le ho… le ho detto di noi due,” sussurrò e per Calogiuri fu come una stilettata dritta al cuore.

 

Era da tantissimo che voleva che Imma parlasse anche con la figlia, ovviamente, ma… ma non a questo prezzo. Era evidente che la ragazza l’aveva presa ancora peggio del previsto.


“Ma… ma non volevi aspettare?” le chiese, sorpreso, dandosi del deficiente da solo quando quella fu la prima domanda che gli uscì.

 

“Sì, ma… la sua amica, quella dell’altro giorno… le piaci molto, Calogiuri e… e Valentina mi ha chiesto se fossi impegnato e… e non mi sono sentita di mentirle ancora… solo che…” si interruppe, ricominciando a piangere, rintanata nella sua giacca di pelle.

 

Lui rimase in silenzio, lasciandola sfogare.

 

“Valentina ha… detto delle cose orribili su di me… su di te… e… e non so che mi è preso, ma… ma le ho dato uno schiaffo e…” si interruppe di nuovo, la voce che le si spezzava, “mi ha detto che… che mi odia e non mi vuole più vedere e-”

 

“Imma, ascoltami, mo sarà arrabbiata, furiosa, sconvolta. Già quando ti sei separata da… da tuo marito l’ha presa malissimo, no? Ma devi darle un po’ di tempo e sono sicuro che-”

 

“Ma non l’ho mai vista così, Calogiuri, veramente… né con sua nonna, né quando le ho detto della separazione. E… non le avevo mai dato uno schiaffo prima, anche se glielo avevo minacciato tante volte. Non… non so se mi perdonerà più.”

 

“Ma certo che ti perdonerà! Ti vuole bene! Ora è delusa ma le passerà.”

 

“Non lo so… Calogiù. Stavolta temo davvero di averla persa per sempre. E io… io senza Valentina non posso vivere, lo capisci?”

 

“Non succederà, Imma, non succederà, vedrai,” la rassicurò, prendendole il viso tra le mani e guardandola negli occhi, “non succederà: vi volete bene e tua figlia è una ragazza sveglia e di buon cuore. Capirà o prima o dopo.”

 

Imma annuì ma riprese a piangere e Calogiuri pregò che le sue rassicurazioni non fossero vane, perché la verità era che pure lui era terrorizzato. Non solo per il dolore di Imma, che lo uccideva, ma anche perché, se Valentina non l’avesse realmente perdonata e l’avesse costretta a scegliere tra lei e lui… Imma avrebbe ovviamente e giustamente scelto sua figlia.

 

E non poteva perderla, non proprio ora che si erano finalmente trovati per davvero.

 

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Lo squillo insistente della sveglia la costrinse a muoversi, alzandosi dal petto di Calogiuri a cui era rimasta abbracciata tutta la notte. Le aveva accarezzato i capelli mentre piangeva fino a tardissimo, quando infine le lacrime avevano smesso di scorrere.

 

O almeno ci provò ad alzarsi, perché un braccio forte glielo impedì.

 

“Non hai dormito niente: oggi ti prendi una giornata di permesso e-”


“Sono appena arrivata qui a Roma e non posso già chiedere permessi Calogiuri.”


“Sì, che puoi, se è per la salute. Ti prendi una giornata di malattia. Io vado e-”

 

“Non se ne parla nemmeno! Sai quante notti insonni ho passato a Matera, ma non sono quasi mai mancata. E poi il lavoro mi distrae, lo sai. Se tu vai, vengo con te.”

 

Calogiuri scosse il capo e sospirò, piantandole un bacio sulla fronte.

 

“Non cambierai proprio mai… ma se sei troppo stanca torni a casa, me lo devi promettere, dottoressa.”

 

“Va bene, Calogiù, va bene. Ora prepariamoci che se no facciamo tardi.”

 

Si alzò, notando in che condizioni pietose era la maglietta di lui: piena di strisciate di lacrime ormai seccate.

 

Non sapeva come avrebbe fatto senza di lui ma non sapeva nemmeno come fare senza Valentina. Doveva solo sperare che Calogiuri avesse ragione e che Valentina l’avrebbe perdonata perché se no… non ci poteva nemmeno pensare.

 

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Valentina, capisco che tu sia sconvolta e mi scuso per lo schiaffo che è stato imperdonabile, ma dobbiamo parlare. Tu per me sei la persona più importante, indipendentemente da con chi io possa stare. Per favore, rispondimi e parliamo. Ti voglio bene più di quanto immagini, anche se non ci credi. Mamma

 

Mandò il messaggio, sebbene non ci sperasse nemmeno in una risposta. Ma avrebbe continuato finchè Valentina non le avesse dato retta, era l’unico modo e lo sapeva per esperienza.

 

Bussarono alla porta.

 

“Avanti!”


“Buongiorno dottoressa,” la salutò Mancini, vitale e scattante come al solito, per poi aggiungere, quando la vide in faccia, sembrando preoccupato, “ma si sente bene? Non ha una bella cera.”

 

“Non si preoccupi, dottore. Una notte insonne. Ogni tanto succede. Allora, mi dica, aveva bisogno di aggiornamenti sul caso di Alina o su come sto procedendo col maxiprocesso?”


“No, in realtà avrei un nuovo caso da affidarle. Si tratta di un paziente di una casa di cura, quelle di lungodegenza, ha presente?”

 

“Come no, dottore. Immagino sia morto, quindi? E immagino ci sia qualcosa di sospetto nelle circostanze, se era un malato cronico.”

 

“Esattamente. Soffriva di una malattia degenerativa ed era costretto a letto ormai da molti mesi. Ma non era malato a tal punto da compromettere le funzioni vitali, così dicono i medici. Normalmente non avrebbero avviato un’inchiesta ma il figlio ha molto insistito. Sostiene che ci sia qualcosa di sospetto e che la nuova moglie del padre, molto più giovane rispetto a lui, avrebbe avuto interesse a toglierlo di mezzo. Dalla struttura sanitaria ci hanno detto che sono disposti ad aprire un’inchiesta ma devo mandare qualcuno. Santoro si è rifiutato, ritenendola una perdita di tempo, ma… diciamo che nella stessa struttura c’è qualcuno di sua conoscenza, dottoressa.”

 

“E chi?” chiese stupita, fino a che lo sguardo del procuratore capo più il termine lungodegenza e la menzione a Santoro non le accese una lampadina, “Lombardi?”

 

“Esattamente, dottoressa,” rispose Mancini con un sorriso, “vedo che lei mi capisce al volo. Magari sarà una perdita di tempo ma intanto… può dare un’occhiata in giro alla struttura, non crede?”

 

Evidentemente la Ferrari e lei non erano le uniche per nulla entusiaste dei progressi di Santoro sul caso Lombardi.


“Ma non teme questo creerà problemi con Santoro?”

 

“Dottoressa, io gliel’ho proposto e lui si è rifiutato, senza voler conoscere il nome della struttura. A questo punto… sono libero di assegnare il caso a chi voglio e se si troverà nelle vicinanze di Lombardi, casualmente, io non posso impedirglielo, non crede?”

 

“Dottore, lei non teme di pestare piedi sensibili, oltre a quelli di Santoro, andando a indagare su Lombardi?”

 

“E di chi sarebbero questi piedi sensibili? Lombardi ormai è fuori dal partito e dai giochi da tempo e, dai dossier suoi e della Ferrari, appare sempre più evidente che il delitto non ha nulla a che fare con la politica e molto con le vicende personali. A me interessano i risultati, Tataranni, e chi li può portare. E vorrei chiudere il maxiprocesso senza ulteriori ombre o strascichi. Lei mi capisce, non è vero?”

 

Lo guardò sorpresa: veramente non avrebbe potuto essere più diverso da Vitali e dalla sua prudenza estrema.

 

“Sì, dottore, lo capisco.”

 

“Bene, allora buon lavoro!”

 

“Anche a lei, dottore!”

 

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“Cosa abbiamo qui?”

 

“Maschio, caucasico, sessantaquattro anni d’età. Soffriva di Parkinson in uno stadio abbastanza avanzato e per questo era ricoverato qui da sei mesi circa, a giudicare dalle cartelle cliniche. Non riusciva più a deambulare e faticava molto ad utilizzare gli arti superiori.”

 

“Capito, dottore. Segni sospetti sul cadavere?”

 

“Al momento, come vede, un segno d’ago su un braccio ma la maggioranza delle medicine gli veniva data per via orale, a causa degli spasmi involontari. A parte questo, non ha segni particolari di traumi, a parte alcuni lividi sul retro degli avambracci, ma potrebbe esserseli procurati da solo per via della malattia. Nient’altro di sospetto ma dobbiamo fare l’autopsia per essere certi. Non aveva un quadro clinico tale da giustificare una morte improvvisa, ma è anche vero che potrebbe avere avuto uno spasmo particolarmente violento e magari essere soffocato, sebbene non sembri morto di soffocamento. Le saprò dire di più dopo l’esame autoptico.”

 

“D’accordo, dottore, la ringrazio molto,” rispose, dando un’ultima occhiata a quell’uomo che sembrava molto più anziano dell’età effettiva che aveva, evidentemente per effetto della malattia, “c’è qui qualche parente?”

 

“Sì, dottoressa. C’è la moglie del defunto e l’unico figlio, che è quello che ha fatto la denuncia.”

 

“Va bene, Calogiuri, allora andiamo a interrogarli,” ordinò e Calogiuri le aprì la porta ed uscirono insieme dalla stanza.

 

Li riconobbe subito, per l’atteggiamento che avevano: da un lato del corridoio una donna sulla trentina - almeno in apparenza - bionda, dagli occhi verdi grandi quasi quanto le pesanti occhiaie che li circondavano. Piangeva sommessamente con un fazzoletto appena sotto gli occhi. Dall’altro un uomo moro, occhi scuri, presumibilmente anche lui tra i trenta e i quaranta, le braccia incrociate ed un’aria truce ed incazzata nera, le dava volutamente le spalle.

 

“La signora Spaziani, immagino?”

 

“Ricci, che il cognome di mio padre quella non se lo merita!” esclamò il figlio con una voce talmente carica d’odio che le stette immediatamente sull’anima, pure se la Ricci o Spaziani fosse stata effettivamente un’assassina. Dopo la notte insonne e tutto quello che era successo la sua pazienza era a zero.

 

“Senta, signor Spaziani, a me qui non me ne frega niente di chi merita il cognome di famiglia o meno. Lei parla solo quando la interpello, le è chiaro? Che questa è un’indagine e peraltro l’ha voluta pure lei!”

 

“Pensavo fossimo in democrazia.”

 

“E lo siamo e infatti democraticamente sono stata nominata sostituto procuratore e altrettanto democraticamente le dico di starsene in silenzio, cosa che è mio diritto fare secondo le leggi democratiche di questo paese, e parlare quando la interpello. Qualche cosa d’altro non le è chiaro?”

 

E a quel punto lo Spaziani sbuffò e si rimise a braccia conserte. Il classico figlio di papà che pensava tutto gli fosse dovuto e tutti stessero ai comodi suoi, e che per questo non temeva le autorità. Quanti ne aveva visti così.

 

“Signora Spaziani,” ripetè, giusto per spirito di contraddizione, “mi può dire come si sono svolti i fatti dal suo punto di vista? Innanzitutto chi si è reso conto della morte di suo marito?”

 

“Uno degli infermieri, quando è passato stamattina presto per la colazione. Mio marito non era collegato alle macchine e non aveva quindi un segnale di emergenza se… se non respirava…” ricominciò a piangere, disperatamente, “ho ricevuto la telefonata che ero a casa e mi sono precipitata qui.”

 

“Cosa ha fatto da ieri sera a stamattina?”

 

“Niente… ero… ero a casa nostra, cioè… a casa mia.”

 

“Quella non è casa tua e-”

 

“Signor Spaziani, se non sta in silenzio la faccio allontanare. Allora, dicevamo, era a casa. Qualcuno che può confermare?”

 

“La cameriera, Luisa, potrebbe confermarlo ma solo per stamattina. Arriva alle sette di solito: era con me quando ho ricevuto la… la chiamata,” disse, con un singhiozzo.

 

“E ieri sera a che ora se n’è andata Luisa?”

 

“Mah… saranno state le diciotto: prepara la cena e poi se ne va.”

 

“Quindi di fatto dalle diciotto alle sette lei non ha alibi, giusto?”

 

“Giusto… forse… forse solo le telecamere di sorveglianza della villa, che potrebbero avere ripreso quando sono entrata e uscita.”

 

Non era così sprovveduta la signora per pensare a una cosa simile.

 

“Verificheremo. Da quanto eravate sposati?”

 

“Da cinque anni. Lui era molto… molto più grande di me ma ci siamo innamorati e… e la differenza d’età non contava. Non pensavamo si sarebbe ammalato, gli ultimi due anni… è stato tremendo vederlo soffrire così!” proclamò, piangendo un’altra volta.

 

Imma sentì una fitta dritta in gola e guardò Calogiuri, chiedendosi se pure lui pensasse la stessa cosa. Ma Calogiuri stava semplicemente annotando sul taccuino.

 

“Vi siete innamorati?! Tu dei suoi soldi eri innamorata, questa è la verità! Trent’anni di differenza! Ma chi ci crede! Volevo vedere se fosse stato un povero operaio dove finiva questo grande amore!” esclamò il figlio, sprezzante, facendo per avvicinarsi, ma Calogiuri gli si parò davanti.

 

“Adesso basta signor Spaziani. O si dà una calmata o l’accompagno fuori.”

 

Sempre solerte Calogiuri.

 

“A me non importava dei suoi soldi! Io lo amavo davvero! Avevo una carriera pure io ma l’ho mollata per stargli vicino negli ultimi anni.”

 

“Sì, tanto i soldi ormai li avevi…”

 

“Che lavoro faceva, signora Spaziani?”

 

“Facevo l’infermiera. Ho conosciuto… mio marito quando sua madre si ammalò, l’assistevo in una struttura simile a questa. E ci siamo innamorati. Per un po’ ho mantenuto il lavoro ma poi quando si è ammalato… sono stata a casa per assisterlo. Ma quando è peggiorato e non ce la facevo più da sola, ha insistito per essere ricoverato qui.”

 

“Dì pure che avrà capito che non ce la facevi più e volevi liberarti di lui!”

 

“Signor Spaziani, l’avevo avvertita. Calogiuri, accompagnalo in una delle stanze d’attesa che poi lo interrogherò separatamente. Grazie.”

 

Calogiuri annuì e prese l’uomo per un braccio che però protestò con un “non mi toccare!” e sparirono insieme oltre al corridoio.

 

“Senta… io lo so come può sembrare… è vero, lui aveva trent’anni più di me ed era molto più ricco di me. Ma noi eravamo veramente innamorati. Poi… poi io da sola non riuscivo ad assisterlo giorno e notte, ha voluto lui essere ricoverato per darmi modo di riposare un po’. Non pensavo che… insomma… che se ne sarebbe andato così presto. Ieri quando l’ho visto mi sembrava stesse bene. Per quanto potesse stare bene,” esclamò, ricominciando a piangere.

 

“Ascolti, al momento dobbiamo ancora fare l’autopsia e non sappiamo nemmeno se la morte di suo marito sia realmente sospetta. Queste sono domande di routine. Sa se suo marito aveva un testamento e com’era strutturato?” le chiese, domandandosi se fosse veramente disperata o se non stesse piangendo troppo.

 

In ogni caso quella storia le faceva male al cuore per altri motivi.

 

“Sì, ha fatto testamento dopo che si è ammalato, con il suo notaio. Io non l’ho mai visto ma… mi ha sempre detto che avrebbe lasciato la casa a me e l’azienda al figlio. E il resto non lo so. Io non volevo farli quei discorsi… non mi sono mai interessata a vederlo di persona.”

 

Chissà se era vero….

 

“Va bene, signora, per intanto può andare ma resti a disposizione.”

 

Raggiunse Calogiuri nella sala di attesa.

 

“Finalmente, se ha smesso di parlare con quella-”

 

“Signor Spaziani, se siamo qui è su sua segnalazione, che mi auguro sia fondata e non sia solo una terribile perdita di tempo. Faremo l’autopsia e accerteremo la causa di morte di suo padre. Nel frattempo, mi dica che ha fatto lei da ieri sera a stamattina.”


“Come? Chiede un alibi? A me?! Sono io che l’ho voluta questa inchiesta.”

 

“Appunto. E mo se la prende, col bello e col brutto. Dove stava in quegli orari, signor Spaziani.”

 

“E dove stavo? Fino alle ventitré ero dalla mia fidanzata, può controllare, poi però sono tornato a casa.”

 

“Quindi non ha dormito dalla sua fidanzata, come mai?”

 

“Cos’è, un reato?”

 

“No, ma è curioso, essendo stati insieme fino alle ventitré.”

 

“Non abbiamo l’abitudine di dormire insieme perché abbiamo entrambi il sogno leggero e ci disturbiamo a vicenda, se proprio ci tiene a saperlo. Comunque sono tornato a casa e ci sono rimasto fino alla chiamata di stamattina dalla clinica.”

 

“E qualcuno può testimoniarlo?”

 

“No, vivo solo e la colf viene solo qualche volta alla settimana, quando io sono via. Come le ho già detto ho il sonno-”

 

“Leggero, sì, ho capito bene, signor Spaziani. E del testamento di suo padre, che mi dice, sapeva se ne aveva uno?”

 

“Io ho insistito molto nelle ultime settimane perché parlasse con un notaio e sistemasse le cose come si deve. Ma lui niente, testardo come un mulo. Credo avesse fatto testamento tempo fa. Mi ha sempre detto che a me sarebbe andata l’azienda. Ma le pare giusto, dottoressa, che… che una che è arrivata dal niente, che è stata sposata con lui tre anni si prenda almeno metà dei beni? Quella si è approfittata di mio padre! Questa è la verità!”

 

“Che ne è di sua madre, signor Spaziani?”

 

“Morta, quando io avevo quindici anni. Tumore, è stata ammalata per molti anni.”

 

“Beh… mi sembra suo padre ci abbia messo parecchio prima di rifarsi una vita, no? Lei quanti anni c’ha mo?”

 

“Trentacinque. Ma che c’entra! La verità è che mio padre con gli anni… sa com’è… si diventa più deboli e quella lo ha circuito con due moine, mentre faceva l’infermiera a mia nonna. Altro che infermiera! Ha due anni meno di me, si rende conto?!”

 

“Non è un reato sposare una donna più giovane o un uomo più maturo, signor Spaziani. Faremo le dovute indagini e in caso emerga qualcosa ovviamente faremo tutti gli accertamenti del caso per arrivare alla verità. Per intanto buona giornata e si tenga a disposizione.”

 

Uscì da quella stanza sentendosi come una cappa opprimente addosso.

 

“Imma…” sussurrò Calogiuri e si voltò verso di lui, “ti vedo ancora più pallida. Ce la fai a reggere?”

 

E che poteva dirgli? Poteva spiegargli perché era pure più pallida? Non sapeva se sperare che lo capisse da solo o meno.

 

“Andiamo a vedere dove sta Lombardi. Tranquillo, Calogiuri,” disse con un sorriso tirato, cercando la stanza dell’ex onorevole.

 

E alla fine lo trovò. Era solo, non c’era nessuno con lui. Era attaccato a varie macchine, stradimagrito, l’ombra dell’uomo che avevano conosciuto.

 

“Se volete vedere l’onorevole, la moglie ha dato ordine di non far passare nessuno,” proclamò un infermiere abbastanza massiccio, uscendo da una porta lì vicino.

 

“Immacolata Tataranni, Procura della Repubblica di Roma,” disse, mostrando il distintivo e le fece uno strano effetto pronunciarlo ad alta voce, “conosco di persona l’onorevole Lombardi e mi sto occupando del caso che lo riguarda. Posso farle qualche domanda?”

 

“Pensavo del caso Lombardi si occupasse un uomo, non ricordo il nome ora dopo tutti questi mesi…”

 

“Santoro? Sì, ma ci sono varie inchieste collegate e di due di queste mi sto occupando anche io. Ascolti, lei stava dicendo che la moglie non lascia avere visitatori?”

 

“No, non li permette. Lo visitano solo lei e la sua infermiera o colf, insomma, una signora che viene con lei.”

 

“E ogni quanto lo visita?”

 

“Più o meno? Mah… una volta al mese, forse… è da tanto che non si vede. Magari viene più spesso eh, ma di solito se qualcuno viene a trovare sovente i pazienti prima o poi al turno di giorno li vediamo.”

 

“E posso chiederle come sta l’onorevole?”

 

“Non so se posso darle quest’informazione.”

 

“Suvvia… che le costa. Da mesi sta qui, non credo ci siano informazioni nuove, no?”

 

“No, infatti. Rimane stazionario. Arrivati a questo punto è assai probabile che rimarrà in stato vegetativo permanente.”

 

“D’accordo, grazie. Altre cose che le vengono in mente?”

 

“Al momento no, sinceramente.”

 

“Grazie lo stesso,” sospirò, lanciando un’ultima occhiata a Lombardi e non sapendo se sperare o meno che lo Spaziani veramente fosse stato ucciso, che almeno avrebbero giustificato il tempo perso, “Calogiuri, andiamo!”

 

“Va bene, dottoressa.”

 

Uscirono insieme dalla clinica e, giunti in auto, Calogiuri le chiese, “che ne pensi?”

 

“Di Lombardi che la moglie è assai sospetta, ma lo sapevamo già. Di Spaziani che prima di pensare a qualsiasi cosa e perdere tempo è meglio avere l’autopsia.”

 

“Va bene…” sospirò lui e si mise alla guida.

 

Rimasero in un silenzio totale fino all’arrivo in procura.


Nota dell’autrice: Ed ecco che è scoppiato il primo grande casino che metterà a dura prova il rapporto tra Imma e Calogiuri.

Spero che la storia sia ancora interessante e non risulti noiosa, vi prometto che nei prossimi capitoli ci saranno diversi colpi di scena.

Come sempre, ogni vostra opinione positiva o negativa mi motiva tantissimo a proseguire a scrivere ed è utilissima per capire come sto andando, oltre a farmi tanto piacere sentire che ne pensate, quindi vi ringrazio di cuore se vorrete lasciarmi una recensione.

Il prossimo capitolo arriverà domenica prossima, il ventinove di marzo.

Grazie mille ancora e un abbraccio seppur a distanza!


 

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Capitolo 23
*** Bugie ***


Nessun Alibi

 

Capitolo 23 - Bugie


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

Valentì, ascolta, lo so che sei arrabbiata con me, ma è passata una settimana e ti rifiuti di rispondermi. Dobbiamo parlare, è importante. Io ti voglio bene e non c’è nessuno più importante di te per me. Se non vuoi chiamarmi almeno mandami un messaggio. Mamma.

 

Non ci sperava in una risposta, ma lo inviò lo stesso, perché che altro poteva fare?

 

Niente, non ci poteva fare niente, quella era la verità. Aveva pure pensato di aspettarla fuori dall’università, ma temeva avrebbe fatto peggio e voleva giocarsela come ultima spiaggia.

 

Era stanchissima, dopo notti quasi insonni, mitigate solo dagli abbracci di Calogiuri e da qualche sonnifero quando non ce la faceva più.

 

Sentì bussare.


“Dottoressa.”

 

“Calogiuri, dimmi.”

 

“Sono arrivati i risultati dell’autopsia del signor Spaziani.”

 

“E allora?”

 

“E allora gli è stata trovata una dose elevata di insulina nel sangue. Ma Spaziani non era diabetico. Questo gli è stato fatale. Gli è stata iniettata, da qui la puntura d’ago.”

 

“C’è la possibilità che si sia trattato di un errore medico?”

 

“A sentire Proietti è improbabile: Spaziani prendeva praticamente tutte le medicine per bocca, per vena aveva solo un’iniezione a settimana. Il giorno era quello, ma secondo lui i fori sono due, pure se ravvicinati, e quindi…”

 

“E quindi perché fare due fori per una sola iniezione? Salvo un infermiere abbia sbagliato.”

 

“Comunque a detta sua non ci sono molti pazienti diabetici e gli infermieri conoscono bene i pazienti, rimanendo ricoverati a lungo. Questo rende molto improbabile un errore umano. Anche se…”

 

“Anche se?”

 

“L’insulina rimane nelle analisi, dottoressa. Se volevano ucciderlo e farla sembrare una morte naturale, perché usare quello invece che altro?”

 

“Questa è una bella domanda, Calogiuri, ma forse non pensavano ci sarebbe mai stata un’inchiesta. Spaziani era malato da tempo, la maggior parte dei familiari avrebbe constatato il decesso, pur con dolore, e non avrebbe chiesto di fare ulteriori accertamenti. Qui sono stati fatti principalmente per via della faida tra il figlio e la nuova moglie.”

 

E quell’ultima frase le causò un dolore al petto, per motivi fin troppo chiari.

 

“Il figlio però aveva ragione ad essere sospettoso. Certo, non è detto che si sia trattato realmente della moglie.”

 

“Beh, Calogiuri, dalla morte di Spaziani due avevano da guadagnarci, almeno in teoria. Dobbiamo vedere il testamento: verifica se è già stato aperto e fattene avere una copia. E diciamo che Spaziani figlio dovrebbe essere o molto stupido o molto spregiudicato a chiedere un’inchiesta, se fosse lui il colpevole.”


“Per sviare i sospetti da se stesso, in caso qualcuno avesse notato qualcosa di strano?” le chiese e quell’orgoglio nel petto si mosse, nonostante tutto.


“Esattamente, Calogiuri, ma ci vuole fegato e quello urla e sbraita ma non so se ce l’abbia per davvero. Fammi sapere una volta che avrai più notizie sul testamento. Nel frattempo chiedi pure i tabulati, i movimenti bancari e mettiamo sotto intercettazione moglie e figlio.”


“D’accordo, dottoressa, come volete. Se non c’è altro, io andrei, che ho un interrogatorio con la Ferrari tra un’ora. Per la rapina in banca dell’altro giorno.”

 

C’era stata una rapina in una banca del quartiere Capannelle pochi giorni prima e purtroppo i banditi avevano perso la testa e uno degli impiegati ci aveva lasciato la pelle. Da allora era caccia agli uomini, specialmente a quello che aveva sparato.

 

“No, Calogiuri, non c’è altro. Buon interrogatorio!” proclamò, anche se non ne era tanto entusiasta.

 

Ma la gelosia per la collega era di gran lunga sovrastata dalla preoccupazione per la figlia.

 

*********************************************************************************************************

 

“Vale, ma che cos’hai? Sono giorni che te ne stai sempre per conto tuo.”

 

“Niente, Laura… ho… problemi con mia madre.”

 

“Beh, mi sembra una tipa tosta da avere come madre ma-”

 

“Ma non è per quello!” la interruppe, furibonda, incrociando le braccia.

 

“A proposito, hai poi saputo niente del maresciallo e se è impegnato?” le chiese Laura innocentemente e Valentina avrebbe voluto strozzarla anche se non era colpa sua. Come poteva l’amica immaginare che sua madre fosse così scema?

 

“Sì, è impegnato. Ed è quello il problema.”

 

“Perché? Piace pure a te?” chiese Laura, sorpresa, “va beh che se è impegnato… ma io al limite mi faccio da parte, visto che lo conosci da più tempo e-”

 

“Non piace a me. Piace a mia madre. Ed è impegnato. Con lei! Mo lo capisci qual è il problema?!” sbottò, perché stava esplodendo e a qualcuno lo doveva dire, a costo di essere derisa.

 

“Cioè… tua madre… tua madre se la fa con quel pezzo di manzo?!” domandò Laura, incredula, ma sembrando più ammirata e gelosa che sconvolta.

 

“Non dirlo in quel modo! Vorrei vedere se stesse con la tua di madre!”

 

“No, per carità, che poi vorrei portarglielo via e faremmo Beautiful. Ma sei sicura?” le chiese, ancora incredula.

 

“Sì, me lo ha detto lei… quando le ho chiesto se fosse impegnato. Ma quello già ci stava a Matera. Chissà quante corna ha fatto a mio padre mia madre, per chissà quanti mesi! Mi dici come faccio a perdonarle una cosa del genere?!”

 

“Non si può, immagino, ma… ma insomma resta sempre tua madre e-”

 

“E una che per un… per un toyboy ha buttato nel cesso vent’anni di matrimonio e ha pure cambiato città. Ti rendi conto?”

 

“Beh, per quel toyboy pure io cambierei città,” scherzò, ma poi forse vedendo la sua occhiata omicida, “Vale, seriamente, pure io sarei sconvolta se si trattasse di mia madre, ma… ma i matrimoni finiscono. Pure i miei si sono separati e io sono ancora qua. Non è facile, ma prima o dopo bisogna accettarlo.”

 

“Ma i miei… sembravano diversi dagli altri. Tu non li hai mai visti ma… per vent’anni avevano un matrimonio che mi sembrava perfetto. Mio padre amava e ama alla follia mia madre, infatti ci sta da cani. Le faceva perfino le serenate quando lei era via, dopo vent’anni di matrimonio. E… insomma… erano pure ancora molto fisici, fin troppo, che mi toccava mettere la musica per non sentirli a volte.”

 

“Oddio!” esclamò Laura con una faccia semi schifata.

 

“E poi all’improvviso, mia madre ha iniziato a cambiare e mo ho capito perché. Ma ha perso la testa per un deficiente di quasi vent’anni di meno, che come minimo tra poco la mollerà e chi si è visto si è visto.”

 

“E in quel caso saranno problemi suoi, non credi?”

 

“No, sono problemi miei e di mio padre che nel frattempo abbiamo sofferto perché mia madre è impazzita!”

 

“Chi è impazzita?” chiese una voce alle sua spalle e si voltò e vide Ludovica, sedersi accanto a loro.

 

“La professoressa: ci ha dato troppo lavoro,” tagliò corto: Ludovica la conosceva molto meno bene di Laura e non si sentiva di confidarsi con lei.

 

“E io stasera devo pure uscire con quel figo dell’assistente di privato,” si lamentò Ludovica, accavallando le gambe.

 

“Cioè… tu esci con l’assistente?” chiese Laura, con tanto d’occhi. In effetti era giovane e veramente bello l’assistente, e un sacco di ragazze del corso gli morivano dietro.

 

“Eh, certo! Sai com’è… sono andata a ricevimento e… da cosa nasce cosa…” sorrise Ludovica, orgogliosa, con quell’aria da vamp che aveva sempre.

 

Del resto era davvero bella, la più bella del corso: era pure stata alle finali di Miss Italia come Miss Lazio ed ogni tanto faceva delle pubblicità.

 

“Che vi devo dire? A me gli uomini non resistono. Devo ancora trovarne uno che mi dica di no,” proseguì, il sorriso che divenne felino, mentre ticchettava le unghie smaltate sul banco.

 

“Nessuno, nessuno?” chiese Laura, un po’ scettica.

 

“Nessuno, un due di picche ancora non l’ho mai preso, ma sai quanti ne ho dati!” rise Ludovica, agitando la lunga chioma castana.

 

In quel momento entrò la docente.

 

Ma a Valentina un’idea cominciò a frullare in testa. Prima indefinita, quasi nebulosa, ma poi sempre più chiara.

 

Avrebbe dovuto parlare con Ludovica alla fine della lezione.

 

*********************************************************************************************************

 

“Avanti!”

 

“Buongiorno dottoressa.”

 

“Ah, Mariani, buongiorno, mi dica, ci sono novità?”

 

“Sì, dottoressa… la scientifica ci ha messo un po’ perché di DNA in quell’appartamento ce n’era ovunque ma ha confermato che il DNA della ragazza è presente. Nella stanza di Lombardi. Su alcuni bicchieri e… nel letto.”

 

“Quindi lei e Lombardi potrebbero avere avuto un rapporto sessuale?” chiese, sorridendo dell’imbarazzo della ragazza.

 

“Potrebbero… o comunque ha avuto rapporti sessuali con qualcuno in quel letto prima che ci andasse Lombardi.”

 

“Altre tracce in giro per l’appartamento?”


“A parte qualche impronta digitale qui e lì no, da un punto di vista di… prestazioni, sembra si sia concentrata su quella stanza in particolare.”

 

“D’accordo, Mariani, la ringrazio. C’è altro?”

 

“Sì, la cocaina rinvenuta nei due appartamenti è tagliata in modo simile, ma non è della stessa partita. Del resto sono passati diversi mesi. E stiamo cercando di comparare i DNA e le impronte dell’appartamento a Prati con quelli della festa di Lombardi. Per vedere se troviamo corrispondenze.”

 

“La segretaria di Lombardi per caso l’avete sentita? Ha riconosciuto la ragazza? Anche se ormai è una formalità.”

 

“Sì, ma ha detto, e cito testualmente, quelle sono tutte uguali. Ha detto che di ragazze alte, bionde e mezze nude da quella festa ne sono uscite parecchie.”

 

“Va bene. Grazie Mariani, state facendo un buon lavoro, continuate così. Il dottor Santoro come la sta prendendo?” le domandò e Mariani arrossì vistosamente.

 

Il debole c’era ancora. Che ci avrà trovato Mariani in quel tipo. Doveva avere pure lei la Sindrome di Stoccarda, come avrebbe detto sua suocera.

 

“Non benissimo, dottoressa, ma finché lei indaga principalmente sul caso di Alina non ha problemi…” rispose con un mezzo sorriso.

 

“D’accordo, grazie Mariani, può andare!”

 

“Grazie a lei, dottoressa!”

 

*********************************************************************************************************

 

“Quindi tu non avresti mai ma proprio mai avuto un due di picche?” chiese a Ludovica, con tono volutamente scettico, una volta che la lezione fu conclusa.

 

“No, mai. Che c’è, non mi credi?”

 

“Beh… non so… sai magari almeno uno. Però… e se facessimo una scommessa?” le chiese, con un sorriso di sfida, vedendo che la ragazza sembrava punta sul vivo.

 

“Una scommessa? Del tipo?” domandò Ludovica, sembrando stavolta incuriosita.

 

“C’è un ragazzo molto ma molto bello. Un tipo timido, hai presente, di quelli che sembrano un po’ imbranati?”

 

“Vale…” provò ad intervenire Laura, ma Valentina la zittì con un’occhiataccia.

 

“E allora? Io i tipi così me li mangio a colazione, figurati! Già non riescono a dire di no normalmente a qualsiasi cosa chiedi loro, figurati con una bella ragazza. Ma che scomessa è?”

 

“No, ascolta. Questo tipo a quanto pare ha gusti strani…”


“Gli piacciono gli uomini? Perché se è gay, va beh tutto ma miracoli non ne posso compiere!”

 

“No, ma gli piacciono le donne più grandi. Diciamo sulla quarantina.”

 

“Le vecchie?” chiese Ludovica con una risata, “aspetta che veda la differenza tra me e loro a livello di fisico… non c’è paragone.”

 

“E si dice che insomma… questo non ceda facilmente, non è uno che ha molte storie,” spiegò. Aveva fatto un po’ di indagini sul maresciallo dai social in quella settimana e aveva pure provato a contattarlo con un profilo fake, ma niente. E dai suoi social non sembrava avere una fidanzata ufficiale dai tempi di una certa Maria Luisa di Grottaminarda, una bella ragazza, giovane, ma con lo sguardo da arpia.

 

Il carattere di merda doveva proprio piacergli in una donna.

 

Però magari nel frattempo se l’era spassata con mezza Roma, in modo non ufficiale. Come poteva saperlo con certezza?

 

“Quindi ci stai? Tu ci provi con lui e, se ci riesci a conquistarlo… ti invito una sera al sushi, quello che ci dicevi ti piace tanto ma è molto caro e pago tutto quello che vuoi,” disse, pronta a svenarsi pur di far ragionare sua madre.

 

E fargliela pagare e vendicare suo padre. Ma quello era un altro discorso.

 

“Mi fai vedere una foto di questo tipo, prima? Giusto per capire se vale il sushi doverci provare con lui.”

 

Valentina scaricò una foto di Calogiuri dal suo facebook - non voleva fare sapere a Ludovica come si chiamava, né che fosse un carabiniere, e gliela mostrò.

 

“Ok, è figo davvero, lo devo ammettere. D’accordo, non c’è problema, sarà un gioco da ragazzi. Prepara il portafoglio che già mi sento il sapore del sashimi e dei gunkan!” esclamò con una risata, “e se perdo?”


E se perdi è una tragedia - pensò, ma non lo disse, aggiungendo un, “offri tu a me.”

 

“D’accordo, affare fatto! Poi mi devi dare tutti i dettagli però!”

 

“Ah, ultima cosa. Ovviamente voglio una registrazione, come prova,” disse Valentina, perché da sua madre ci voleva andare con le prove in mano, da sbatterle in faccia.

 

“Cioè tipo filmino??!! Io ste cose non le faccio, mi dispiace ma che-”

 

“Ma no, che schifo! Una registrazione audio, ovviamente! Poi mi basta che si capisca che con te ci starebbe, se poi tu ci vuoi andare o non ci vuoi andare, vedi tu, insomma.”


“Beh se è così figo magari il sacrificio lo posso fare fino in fondo…” rise, maliziosa, continuando a picchiettare le unghie sul banco.

 

“Va beh… in ogni caso non ci serve la registrazione con tutti i dettagli. Ma, se no, come dimostri che la scommessa è vinta?”

 

“D’accordo, ho capito. Userò il registratore che uso qui a lezione, che registra molto bene. Qualcosa mi inventerò. Prepara il portafoglio, De Ruggeri!”

 

E Valentina non aveva mai desiderato così tanto perderla una scommessa, anche se Laura, accanto a lei, la guardava con disapprovazione. Se perché fosse gelosa dell’opportunità avuta da Ludovica o se perché disapprovasse il suo piano non avrebbe saputo dirlo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Tutto bene, Calogiù?”

 

“Sì, sì, scusami, le solite notifiche…” rispose, disattivando il display del telefono e riprendendo a mangiare.

 

Ma non se l’era sognata quella richiesta di amicizia da parte di Valentina De Ruggeri.

 

La figlia di Imma. Chissà cosa voleva da lui.

 

Era indeciso se dirlo ad Imma o meno ma, in caso la ragazza lo avesse contattato solo per riempirlo di insulti, non voleva farla rimanere male ulteriormente. Decise di aspettare e vedere cosa sarebbe successo.

 

*********************************************************************************************************

 

Accettò la richiesta di amicizia.

 

Con la scusa di andare in bagno si era allontanato un attimo da Imma. Del resto, a parte alcune ore al lavoro, ormai vivevano sempre attaccati praticamente.

 

Stava per uscire dal bagno, quando gli arrivò un messaggio.

 

Ciao. So che hai una relazione con mia madre. Ti voglio parlare faccia a faccia, solo noi due, per chiarirmi un po’ le idee. Quando puoi? Non dirlo a mia madre che non la voglio appresso.

 

Dritta al punto Valentina, come sua madre. Ci pensò un attimo: non gli piaceva nascondere le cose ad Imma e aveva promesso di non farlo più. Ma se poteva aiutare in qualche modo la sua situazione con la figlia… lo vedeva quanto ci stava male. E almeno era un primo tentativo di avvicinamento di Valentina.

 

Va bene. Di solito da mezzogiorno alle due posso sempre, se mi libero per tempo. Dimmi tu dove e quando.

 

E a quel punto attese una risposta che però non arrivò. Stava pensando che fosse stato solo uno scherzo o un test, quando infine, dopo una decina di minuti, arrivò la risposta.

 

Domani. Alle 12.30, vicino alla mia università, c’è un bar che si chiama BarOne. Lì di fronte. Ciao.

 

Non perdeva proprio tempo in convenevoli, come Imma.

 

Calogiuri mandò la conferma ed uscì finalmente dal bagno.

 

“Calogiuri, ma che stavi a fare in bagno? Mi stavo preoccupando! Ma non stai bene?”

 

“No… è… va beh… tutto a posto mo… tranquilla.”


“Ma sei sicuro? Vuoi che ti faccia qualcosa? Una camomilla?”

 

“No, davvero, tutto a posto, ma magari la camomilla ce la beviamo insieme e ci guardiamo qualcosa, che ne dici?”

 

“Non so se sono dell’umore giusto…” la vide sospirare, con gli occhi bassi.

 

“Almeno ti distrai un attimo. Continuare a rimuginare sui problemi non serve a niente.”

 

“Forse hai ragione… allora proseguiamo a vedere cosa combina quel deficiente del presidente degli Stati Uniti?” acconsentì, piazzandosi sul divano.


“Guarda che lui è quello sposato. Dovresti stare più dalla sua parte.”

 

“Ma resta un deficiente, Calogiuri, e non perché è sposato, ma perché da solo non riesce a combinare niente. A parte fare casini.”

 

Non potè trattenere una risata: adorava i commenti al vetriolo di Imma su tutti i personaggi, anche se poi per la storia d’amore si commuoveva, probabilmente pensando a loro due.

 

Le passò un braccio intorno alle spalle ed iniziarono la visione.

 

*********************************************************************************************************

 

“Allora Mariani, ci sono novità?”

 

“Sì, dottoressa. Oltre al DNA di Alina, altri due DNA femminili corrispondono con quelli trovati a casa di Lombardi. E forse siamo fortunati: all’epoca non era stata trovata corrispondenza nei database, ma riprovandoci ora una delle ragazze è schedata. Fermata a inizio anno in possesso di droga, visto il quantitativo se l’è cavata con l’uso personale, ma sappiamo chi è. Certo, rintracciarla potrebbe essere più complicato ma… è una certa Maja Varga. Ungherese e quindi-”

 

“E quindi non aveva bisogno del permesso di soggiorno e non ha avuto il rimpatrio forzato.”

 

“Esattamente. Difficile dire dove si trovi ora, ma è un inizio.”

 

“Abbiamo la foto quindi?”

 

“Eh, certo, dottoressa.”


“Bene, allora ascoltami Mariani, forse questa è una cosa che farebbero più volentieri i tuoi colleghi maschi, per questo per intanto il compito lo lascio a te. Se questa ragazza è ungherese, molto probabilmente rimane qui volontariamente, aveva i documenti no, quando l’avete fermata?”


“Sì, esattamente.”

 

“Quindi magari non è come Alina e le altre, che sono obbligate a fare le escort. Magari le feste ed i clienti questa ragazza se li sceglie pure, se non ha un protettore, ma pure se ce l’ha. Bisogna andare sui siti di escort e vedere se si trova corrispondenza con la foto. Sicuramente non sarà col suo vero nome, ma magari qualcosa si trova.”


“D’accordo, dottoressa, ho capito. C’è altro?”

 

“No, non c’è altro. Mi raccomando, Mariani! Conto su di te!”

 

“Sì, dottoressa, grazie!”

 

Col cavolo che quel lavoro lo avrebbe assegnato a Calogiuri! La storia di Lolita le era bastata per una vita.

 

A proposito, chissà dov’è finito? - si chiese: era tutta la mattina che non lo vedeva. Afferrò il cellulare.

 

Dove sei? Ci sei per la pausa pranzo?

 

No, mi spiace, non riesco a tornare per tempo. Ci vediamo stasera da te?

 

Va bene. A stasera!

 

Era un po’ delusa, lo doveva ammettere: la sua presenza era come una droga per lei e ci si stava riabituando fin troppo in fretta, nonostante i mesi di assenza totale o forse proprio per quelli. E, in quel periodo, con Valentina che non le parlava, ne aveva bisogno più che mai. Ma non ci poteva fare molto, se non aspettare

 

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Rimise il telefono in tasca, anche se era tentato di mandare un messaggio a Valentina.

 

Stava aspettando da mezz’ora ormai: era l’una. Gli stava venendo il dubbio che Valentina lo avesse fatto andare lì apposta per fargli perdere tempo e poi dargli buca.

 

Del resto, che fosse il tipo da ripicche era abbastanza evidente ed aveva un caratterino bello tosto, dal poco che aveva saputo di lei.

 

Alla fine si decise a mandarle un messaggio.

 

Sono al BarOne, dove sei? Stai arrivando? Hai avuto qualche problema?

 

Ma niente, nessuna risposta, non aveva nemmeno letto.

 

Le avrebbe concesso ancora un quarto d’ora e poi se ne sarebbe andato.

 

In quel momento il telefono trillò.

 

Scusa, ma mi hanno trattenuta a lezione: il professore ha deciso che dovevamo recuperare un’ora che avevamo perso, non ce la faccio per oggi. Facciamo per un’altra volta? Ti faccio sapere quando.

 

Poteva pure dirglielo prima e il dubbio che fosse fatto di proposito gli rimase, ma non gli restò che rispondere con un laconico.

 

Va bene. Buona lezione.

 

Fece giusto pochi passi lontano dal bar, quando una ragazza mora, che camminava guardando il cellulare, incespicando su tacchi vertiginosi, inciampò a pochi metri da lui e volò in avanti.


Fece appena in tempo ad afferrarla e a reggerla in piedi. Ma perché le donne si ostinavano a mettersi su quei trampoli? Pure la sua Imma, anche se lei era ben felice di prenderla al volo pure ottocento volte, ma poteva essere pericoloso.

 

“Tutto bene?” le chiese, tenendola ancora per le spalle mentre recuperava l’equilibrio.

 

“Si, grazie mille, io, AHI!” gridò d’improvviso, incespicando in avanti e se la trovò praticamente spalmata addosso.

 

“Che ti succede?” le chiese, cercando di rimetterla in piedi e lei sollevò il piede destro, toccandosi la caviglia.

 

“Credo… credo di essermi presa una storta.”

 

“Ma riesci a camminare?”

 

“Non credo… come appoggio il piede ho una fitta tremenda, proprio qui!” esclamò, indicando di nuovo la caviglia.

 

“Vuoi che ti accompagno al pronto soccorso? Io purtroppo sono venuto in metro e non ho l’auto ma possiamo chiamare il 118.”

 

“Ma no, per una storta! Io abito qui a due passi. Se mi dai una mano me ne torno a casa e mi metto a letto. Poi al limite chiamo il fisioterapista se non mi passa.”

 

“Ma se avessi qualcosa di rotto? Non è meglio togliersi il dubbio andando in pronto soccorso?”

 

“Non dovrebbe essere più gonfio e farmi più male, se fosse rotta?” chiese lei, spaventata.

 

Calogiuri ci pensò un attimo: da un lato il protocollo sarebbe stato farla andare al pronto soccorso. Ma non era in servizio in quel momento, era in pausa, e alla fine in effetti andare al pronto soccorso per una cosa del genere forse era eccessivo.

 

“Ascolta, ho fatto un corso da infermiere, posso provare a vedere com’è messa, poi in caso chiami il fisioterapista che ne sa più di me,” propose infine, passandole un braccio sulla spalla, in modo da farle da stampella, “così riesci a camminare?”

 

“Credo… credo di sì…” disse lei e, incespicando si incamminarono per poche decine di metri, finché lei indicò un portoncino, poco più avanti sulla destra, "ecco, abito lì."

 

"Va bene…" sospirò Calogiuri, aiutandola a raggiungere il portone e ringraziando il cielo che ci fosse l'ascensore.

 

Salirono fino al terzo piano, poi lei gli fece strada nell'appartamento, un monolocale di poco più grande del suo. Il divano letto era ancora aperto e mezzo sfatto.

 

"Scusa il disordine ma vivendo da sola… stavo andando in università e la mattina non c'ho mai voglia di riordinare!"

 

"Figurati!" disse, camminando insieme a lei e cercando di farla sedere sul letto. Ma lei praticamente precipitò giù, tanto che per poco non cascava sopra di lei. Per fortuna riuscì a tenersi con le mani al materasso.

 

Se la trovò a pochi centimetri dal viso, il fiato sulle labbra e si sentì il viso infuocato dall'imbarazzo, affrettandosi a ritirarsi in piedi.

 

"Scusami… non volevo, ma ho perso l'equilibrio!"

 

"Figurati!" lo rassicurò lei con un sorriso.

 

"Hai bende a casa? Così magari ti faccio un bendaggio. Qualche pomata per il livido?"

 

“Le medicine sono in bagno, nel primo cassetto,” indicò, facendo segno verso l’unica porta dell’appartamento.

 

“Va bene…”

 

Andò in bagno e, con un po’ di imbarazzo, visti gli indumenti intimi stesi sopra la tenda della doccia, aprì il cassetto e, dopo un po’ di ricerca, ne estrasse quanto necessario.

 

“Ecco qui…” disse, tornando e sedendosi vicino a lei sul letto, “puoi togliere la scarpa che così non rischio di farti male, facendolo io?”

 

“Ok,” rispose e fece come chiesto e poi, senza preavviso, si mise mezza distesa sul letto e gli piazzò il piede in grembo, aggiungendo, forse al suo sguardo sorpreso e un po’ imbarazzato - aveva una minigonna e con le gambe aperte in quel modo per un attimo aveva visto fin troppo - “beh, se mi devi fare la fasciatura… anzi, com’è che ti chiami?”

 

“Ippazio,” ammise, anche se detestava il suo nome e la reazione sorpresa che aveva di solito la gente sentendolo.

 

E infatti anche la ragazza si mise a ridere.


“Che nome strano! Ma di dove sei?”

 

“Di Avellino,” rispose, non volendo dare troppi dettagli personali, “e tu come ti chiami?”


“Ludovica.”

 

“Bene, Ludovica. Allora, io mo ti devo tagliare la calza e-”

 

“No, macché, con quello che costano, aspetta!” ribatté lei e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, infilò le mani sotto la minigonna e iniziò a sfilarsi l’autoreggente destra.

 

Calogiuri sentì tutto il sangue andargli in viso, mentre abbassava gli occhi, cercando di guardare solo il piede, finché la calza le arrivò alla caviglia.

 

“Mi puoi dare una mano?” gli chiese lei e lui annuì, ancora paonazzo, togliendole delicatamente la calza.

 

“Ti faccio male?”

 

“No, no, figurati, anzi, sei molto… delicato… le sai usare proprio bene le mani,” replicò in un modo che lo fece sentire a disagio.

 

Non disse niente e cercò di fare il più in fretta possibile con la pomata ma ad un certo punto la sentì gemere.

 

“Ti faccio male?” chiese, preoccupato, sollevando gli occhi.

 

“Un po’...” si lamentò lei, continuando ogni tanto a mugolare e non avrebbe saputo dire perché ma pure quello lo mise a disagio.

 

“Comunque a vederlo così non sembra messo male, non è nemmeno gonfio per ora, magari si gonfierà tra un po’ ma dovrebbe essere solo una distorsione.”

 

Finì con la pomata ed iniziò con la fasciatura, partendo da metà piede e arrivando a metà polpaccio, cercando di stringerla ma non troppo, come gli avevano insegnato al corso.


“Fatto, ora prova a muovere leggermente il piedi in avanti ed indietro, per vedere se contiene abbastanza.”

 

“Così?” gli chiese e mosse sì il piede in avanti e indietro, ma pure la gamba, e si sentì toccare proprio .

 

“Ma che fai?” fece in tempo a dire, il viso che ormai era un forno, quando si sentì afferrare per la camicia.

 

“Come che faccio? Provo a vedere se il piede funziona ancora e… ti ringrazio per il salvataggio,” proclamò lei e, nel giro di due secondi, le mani gli finirono sul viso e si ritrovò trascinato in un bacio.

 

Giusto il tempo di un paio di istanti di shock e la spinse via con forza, forse troppa, visto che la ragazza cascò all’indietro sul letto, le gambe mezze in aria, con un’altra visione che lasciamo perdere, e si affrettò a tirarsi in piedi.

 

“Ma perché fai così? Non ti va se ci divertiamo un po’? Ho sentito che le endorfine aiutano a sopportare meglio il dolore e… quale modo migliore? Lo so che ti piaccio,” proclamò, rimettendosi lentamente a sedere con un sorriso che avrebbe forse dovuto essere seducente ma lo fece solo innervosire.


“Veramente no, non mi piaci.”

 

“Guarda che l’ho visto come mi guardi… e dove guardi…” proclamò, mettendosi in ginocchio e provando a riagguantarlo, ma lui si tirò indietro.

 

“Perché è impossibile non guardare quello che mi piazzi di fronte agli occhi, mica sono cieco! Ma ciò non significa che ciò che vedo mi piaccia. Non sono interessato e poi sono già impegnato, felicemente,” ribadì deciso, facendo un altro passo indietro e chiudendosi la giacca di pelle, manco fosse uno scudo.

 

“Felicemente? Mi vuoi dire che la tua ragazza è bella quanto me?” gli chiese di nuovo lei, con un’espressione incredula, come se non potesse nemmeno concepire l’idea che lui non fosse interessato.

 

Ma che problemi aveva?

 

“No, non è bella quanto te,” rispose netto, aggiungendo poi, sprezzante, “è molto più bella, dentro e fuori, anche perché non molesta perfetti sconosciuti che hanno solo cercato di darle una mano. Metti il ghiaccio sul piede e pure… e pure sul resto che mi sa che te ne serve parecchio!”

 

Ludovica, per tutta risposta, divenne dello stesso color fuoco del suo rossetto e lui ne approfittò per uscire e levarsi di lì, mentre si ripuliva la bocca con il retro della mano, colto da un senso di nausea.

 

Si sentiva in colpa verso Imma, anche se sapeva di non avere fatto niente di male, ma si sarebbe dovuto allontanare prima, ai primi segnali, anzi, forse avrebbe dovuto portare la ragazza in pronto soccorso e basta.

 

Ed Imma stava già male per la figlia ed era così insicura e gelosa di lui, che potesse interessarsi a qualcuna più giovane. E come poteva dirle cos’era successo, mo, senza farla preoccupare ancora di più?

 

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"E allora? Com'è andata?"

 

Ludovica era finalmente riapparsa, dopo aver saltato le prime due ore del pomeriggio e questo portava Valentina a ben sperare che il piano avesse funzionato. 

 

Almeno fino a che vide l'espressione delusa, quasi ferita, della ragazza. 

 

"Com'è andata?! Che quello è un matto o deve avere una specie di top model come fidanzata. O veramente gli piacciono soltanto le vecchie. Non sono mai stata trattata così in vita mia!" esclamò e sì, la voce era decisamente ferita.

 

"Ma che ti ha fatto? Ti ha fatto del male?" chiese Valentina, ancora speranzosa che dal piano ne sarebbe uscito qualcosa di buono. Anche se forse davvero gli avrebbe dovuto mandare un'altra quarantenne invece di una ventenne.

 

"No, ma mi ha respinta bruscamente e mi ha detto delle cose orrende…"

 

"Mi fai sentire la registrazione?" chiese Valentina, volendo capire che fosse successo.

 

"E a che serve?! Tanto la scommessa ti ho già detto che l'hai vinta!"

 

"Dai, è importante, voglio capire come ha reagito lui. Se ti ha trattata così male posso… va beh… me lo fai sentire? Tanto da qua non esce."

 

Ludovica sospirò e le passò il registratore e delle cuffie e Valentina iniziò ad ascoltare.

 

All'inizio sembrava tutto normale, anche se i tentativi di seduzione di Ludovica erano talmente palesi da sembrarle quasi comici.

 

E poi si sentì arrossire quando intuì cosa aveva fatto l'amica, sentì il bacio e poi quelle parole dette in modo cosi deciso, con veemenza. 

 

Hai capito il timido maresciallo?!

 

Non solo aveva detto a chiare lettere a Ludovica di non essere interessato e che era impegnato felicemente - sul definire sua madre più bella fuori di Ludovica doveva avere seri problemi di vista o mentali - ma l'aveva pure rimessa al suo posto in un modo che le ricordava qualcuna che conosceva ahilei fin troppo bene. 

 

Forse era stato troppo a lungo a contatto con sua madre.

 

E, anche se il dubbio che avesse un fetish per le donne più su d'età le rimase, una parte di lei sentì istintivamente che avrebbe reagito allo stesso modo chiunque gli avesse messo di fronte.

 

Forse il modo nel quale aveva pronunciato quel felicemente impegnato, o il tono della voce quando parlava di sua madre.

 

Era veramente strano il maresciallo ma forse era realmente ed inspiegabilmente preso da sua madre.

 

Doveva parlargli e capire che tipo fosse e cosa volesse da sua madre, e stavolta sul serio.

 

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“Calogiù, tutto bene?”

 

“Perché?”

 

“Perché stasera sei tu che sei più silenzioso del solito. Che ti succede? Ma non è che non stai bene? La pasta l’hai appena toccata. Se invece non ti piace la mia carbonara…”

 

“La tua carbonara è buonissima… è che non devo aver digerito bene il pranzo, scusami.”


“Ma che mi chiedi scusa, Calogiù! Ma sono un paio di giorni che mi sa che c’hai problemi di digestione. Non è che ti sei preso qualche malanno?”

 

“No, tranquilla… è che ho mangiato un panino di corsa e ho digerito male. Tutto qui,” rispose e poi vide che gli trillò il telefono e fece un’espressione strana.


“La Ferrari?” gli chiese, sapendo che lui avesse ormai capito che ne era gelosa.

 

“Sì, ma non è una cosa urgente, posso rispondere pure dopo, tranquilla,” la rassicurò, mettendo in bocca un altro poco di carbonara.

 

“Se non è urgente, non è di lavoro,” gli fece notare lei, puntuta.

 

“Sì, infatti, è per un invito a teatro,” rispose, mangiando un altro poco di pasta.


“Guarda che se non ti va non la devi mangiare, che ti fa solo peggio,” lo riprese, chiedendogli poi, “e che dovreste vedere stavolta?”

 

“Mi aveva accennato che era uno spettacolo su delle donne che ballano, non ho capito bene.”

 

Pure le donne che ballavano mo, ci mancava solo quello! Ma sta Ferrari proprio della vita sentimentale di Calogiuri si doveva interessare?

 

"Va beh, rispondile pure, eh, se vuoi andare a vedere ste donne ballare," ribatté, non riuscendo a trattenere del tutto la gelosia dalla voce.

 

"C'è una sola donna che vorrei veder ballare…" rispose lui con uno di quei sorrisi che mannaggia a lui gli avrebbe perdonato quasi qualsiasi cosa.

 

"Se ti riferisci a me, non sono mai stata molto capace, Calogiuri. Anche perché non ho avuto molte occasioni di fare pratica, ma meglio così."

 

A scuola alle feste era sempre a fare tappezzeria con la Pisicchio, visto che i ragazzi neanche la guardavano. E dopo… Pietro suonava ma non era mai stato appassionato di ballo, nemmeno al loro matrimonio lo avevano fatto. Giusto qualche tentativo terrificante di lento ai primi tempi della loro relazione ma avevano smesso subito di provarci.

 

"E allora creiamola l'occasione," ribatté lui con un altro di quei sorrisi.

 

"Se vuoi andare in discoteca, scordatelo che sono troppo vecchia per quella musica infernale. Meglio se ci vai con Mariani, Conti e gli altri ragazzi. E per la balera siamo un po' troppo giovani che dici?"

 

"Non serve mica andare in giro per ballare."

 

Lo vide prendere il cellulare e iniziare a smanettare e dopo poco una musica iniziò a diffondersi dalle casse del telefono. Era un lento, anche se un po' flebile visto da dove proveniva il suono. 

 

"Dobbiamo assolutamente comprare delle casse bluetooth ma per intanto…" disse, piazzando il telefono sul tavolo e porgendole la mano.

 

"Ma e lo stomaco?"

 

"Digerirò meglio se faccio un po' di movimento," non si arrese, continuando a porgerle la mano.

 

"Lo sai che se ci vede qualcuno ci prende per matti, sì, Calogiù?" rispose, infine, afferrandogliela con un sospiro.

 

"E allora oltre alle casse dovremo proprio deciderci a comprare pure le tende. Così possiamo sfruttare ancora meglio tutta la casa…"

 

"Calogiù!" esclamò, fintamente scandalizzata, dandogli un colpo sulla spalla.

 

Ma poi lui le prese le mani e una se la piazzò sulla spalla mentre l'altra la tenne tra le sue.

 

"Devi solo muovere i piedi con la musica, segui me," le spiegò, iniziando a muoversi.

 

Ma Imma non sapeva dove mettere i piedi, si sentiva completamente incapace, tanto che gli pestò un piede, inciampò e gli finì addosso.

 

"Non è che mi lamento ma… devi smetterla di pensare e lasciarti andare… e lasciarti condurre da me e dalla musica."

 

"Mi sa che non sono brava a farmi condurre, Calogiuri, nemmeno nella vita," ammise e lo sentì ridere di rimando, con un'espressione affettuosamente esasperata.

 

"E allora conduci tu, io ti seguo. Poi quando ti senti a tuo agio proviamo a fare anche il contrario," le propose e ad Imma sembrò, ironia della sorte, un po' una metafora di tutta loro relazione.

 

"D'accordo… ci provo…" sospirò, cercando di muoversi in qualche modo, giusto con dei piccoli passetti ma Calogiuri la seguiva senza problemi.

 

Dopo un po' iniziò a prenderci la mano ed i passi si fecero più sicuri, finché non doveva più sempre guardarsi i piedi. E poi, quando non ebbe più paura di cascare o di fargli male, lo abbracciò più forte, le braccia strette al collo gli sussurrò un "mo guidami tu, Calogiù."

 

E lui non se lo fece ripetere due volte, iniziando a condurla e lei si lasciò andare del tutto, appoggiandogli la testa sul petto e, straordinariamente, funzionava, funzionavano insieme, senza che lei dovesse concentrarcisi più, in modo naturale.

 

"Sei sempre stato bravo a guidare, Calogiuri," gli sussurrò, ironica, ad un certo punto, "e sei pure bravo a ballare, ma quando hai imparato? In discoteca?"

 

"Ma no, sai… alle feste di paese ancora si ballano i lenti e il liscio e queste cose qui…"

 

"E tu ci andavi spesso? Con Maria Luisa?" gli chiese e lo sentì irrigidirsi un po'.

 

"Imma…"

 

"Tranquillo, Calogiù, io non sono gelosa del passato. Del futuro parecchio, ma del passato no."

 

"Sì, ci andavo anche con lei… da quando ci siamo messi insieme. Del resto avevamo diciassette anni e non è che ci fosse molto da fare in paese, se non queste feste, d'estate soprattutto "

 

Insomma, un fidanzamento storico in cui lei era entrata a gamba tesa. Ma forse sarebbe finito comunque e Calogiuri sarebbe rinsavito pure senza la sua presenza.

 

"L'hai più vista dopo che…"

 

"Che ci siamo lasciati? No. Mia madre ci ha pure provato, eh, ma non la volevo più vedere. È stato un po' un casino, con mezzo matrimonio già prenotato. Ma ti ringrazierò sempre per avermi fatto capire quanto quella relazione mi facesse male. Chi ti ama deve credere in te e fare il tifo per te, non sminuirti per tenerti legato a sé. E fino a quando ti ho conosciuta non lo capivo."

 

"Calogiù…" sussurrò, stringendolo più forte, prima di pronunciare, decisa, "comunque se vuoi andare allo spettacolo con la Ferrari, per me non è un problema."

 

"Ma ne sei sicura?'

 

"E certo! Lo sai che sono un po' gelosa, però di te mi fido!"

 

Sentì Calogiuri bloccarsi un attimo, poi le sussurrò, "però devi promettermi che una sera mi permetterai di portarti a ballare."

 

"Se in discoteca scordatelo! Mi è bastato il concerto di Achille Lauro!"

 

"Tu sei stata ad un concerto di Achille Lauro?!" domandò con un tono talmente incredulo che le scappò una risata.

 

"Sì, per… per fare felice Valentina e-"

 

La voce le si ruppe, il pensiero della figlia e delle ultime parole orrende che si erano scambiate che tornò prepotente.

 

"Scusami, sono uno stupido!" le sussurrò e lei per tutta risposta gli puntò un dito nel petto. 

 

"Non dirlo nemmeno per scherzo! Lo so che stai facendo di tutto per distrarmi e in questi giorni non so come avrei fatto senza di te."

 

"Imma…" le sussurrò e si sentì stringere più forte. 

 

Passarono un po' in silenzio a ondeggiare al suono della musica.

 

"E allora ci vieni con me a ballare? Cerco un posto tranquillo e lontano dalla procura, promesso."

 

"E va bene, Calogiù, anche se preferisco farlo qui, e sai perché?" gli sussurrò all'orecchio, sollevandosi sulle punte dei piedi.

 

"No, perché?"

 

"Perché lì non potrei fare questo."

 

Iniziò a mordicchiargli il lobo dell’orecchio, poi soffiò fino a sentirlo rabbrividire ed iniziò a tormentargli il collo, come amava fare, sentendosi stringere più forte, il desiderio che si riattivava prepotente dopo giorni in cui i suoi pensieri erano stati altrove e si erano limitati ad abbracci e coccole.

 

Ma mo intendeva recuperare, con gli interessi.

 

“Imma… Imma…” lo sentì mormorare, mentre lo spingeva al muro, continuando a baciarlo, le mani che andavano sotto al maglione per levarglielo.

 

Ma lui gliele prese e se le bloccò dietro la schiena, mentre si trovò travolta in un bacio appassionato, vagando alla cieca per la cucina. Alla fine sentì qualcosa contro la schiena e si trovò, senza nemmeno bene capire come, distesa sul tavolo, mentre un frastuono assordante segnalava che la pentola di carbonara era appena cascata a terra.

 

Sentì Calogiuri sollevarsi leggermente da lei ma lo bloccò, afferrando il maglione con entrambe le mani.

 

“Se provi a staccarti sei morto, Calogiù,” gli intimò e lui le sorrise in quel modo da impunito che aveva ogni tanto e stavolta fu lui ad avvicinarsi all’orecchio e darle un rapido morso.

 

“Non ci penso nemmeno, dottoressa, ma avevo altro in mente…” le sussurrò, afferrandole le mani e bloccandogliele tra le sue, per poi baciarla sul collo scendendo giù, sempre più giù, “di molto meglio della carbonara.”

 

“Calogiù!” esclamò tra le risate, afferrandogli il viso con le mani finalmente libere, le dita che gli finivano tra i capelli, mentre si sentì sollevare la gonna, il fiato di lui che le solleticava la pelle.


E poi non solo quello.

 

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Imma stava dormendo, finalmente, come sempre mezza abbracciata a lui, il respiro lento e regolare come non lo sentiva da tante notti.

 

Era quasi l’una e dopo l’ondata di passione evidentemente era stata presa dal sonno arretrato.

 

Con cautela afferrò il cellulare dal comodino e ritrovò la notifica del messaggio di Valentina De Ruggeri, che prima a tavola non era riuscito a leggere.

 

Per fortuna la Ferrari lo aveva già invitato a teatro quel pomeriggio e almeno aveva avuto una scusa pronta.

 

Era rischioso, ma era troppo curioso di sapere che volesse, dopo avergli dato buca quel giorno.

 

Senti, visto che in orario di lezioni è un po’ un casino, ti va se ci vediamo una di queste sere? Tipo in un pub? Verso le otto che poi voglio rientrare ad un’ora decente. Quando potresti? Ovviamente sempre senza dirlo a mia madre.

 

Niente ulteriori scuse per la buca datagli. Valentina era quasi più brusca di Imma con le persone che non le andavano molto a genio, tipo lui.

 

La sera era rischiosa… le passava sempre con Imma e se Valentina non voleva che lo dicesse alla madre… si sarebbe dovuto inventare una scusa.

 

Ma, d’altro canto, se poteva servire ad avvicinare Imma e Valentina… in fondo era un’omissione a fin di bene.

 

E non sarebbe nemmeno stata l’unica di quel giorno.

 

Alla fine aveva deciso di non dire niente ad Imma dell’assalto subito da quella specie di pazza vicino all’università: tanto che senso aveva farla preoccupare? Lui non ci era stato e comunque non l’avrebbe - si spera - mai più rivista.

 

E per Valentina… poteva inventarsi un’uscita con dei colleghi, tanto Imma non avrebbe mai verificato.

 

Ragionò se fosse il caso di rispondere a quell'ora o meno, ma vide che Valentina era online. Sperando che Imma non si risvegliasse, compose il messaggio.

 

Va bene. Facciamo dopodomani sera. Dimmi tu dove preferisci, basta sia raggiungibile in metro o col motorino.

 

Aspettò giusto un paio di minuti e gli arrivò la risposta.

 

C’è un pub vicino all’università, il Foxhound. Dopodomani alle otto allora?

 

Va bene.

 

Staccò i dati, appoggiò il cellulare al comodino e si abbracciò meglio ad Imma, sperando davvero che quell'incontro potesse servire e non fosse solo l'ennesima buca.

 

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"Calogiù che ci fai ancora qui?"

 

Se la vide apparire davanti in PG, dove ormai era rimasto solo lui, invece che andare a casa, rigorosamente in modo separato, come al solito.

 

"Scusami ma ho un lavoro urgente da finire per domani. E poi alcuni dei ragazzi mi hanno invitato a bere qualcosa. Ti spiace se stasera arrivo più tardi?"

 

"No, certo che no, ma… magari dimmelo prima la prossima volta."

 

"È che… è stato tutto all'ultimo anche per me. Ma quando arrivo a casa prometto che mi faccio perdonare," proclamò anche se si sentiva in colpa tremenda a mentirle così.

 

Ma era per una buona causa.

 

Aveva deciso di dirglielo all'ultimo proprio per avere meno chance di essere scoperto.

 

"Ah sì? E come?" gli domandò con un sorriso e si avvicinò di più a lui.

 

"Se mi aspetti sveglia lo scoprirai," rispose, guardandosi intorno prima di piantarle un rapido bacio sulle labbra, "ma comunque cerco di tornare presto."

 

"Va bene, maresciallo. Ma sappi che sarò un giudice molto severo e ho aspettative altissime."

 

"D'accordo, dottoressa."

 

La vide sparire dietro la porta con un sorriso che era cosa rara da vedere in quei giorni. Ma sperava davvero che presto non lo fosse più.

 

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Entrò e si guardò intorno, chiedendosi se prendere un tavolino o aspettare Valentina. E invece la vide dopo poco, già seduta ad un tavolinetto alto, di quelli con gli sgabelli.

 

Beh… almeno non gli aveva dato buca stavolta e anzi, era arrivata pure in anticipo.

 

“Ciao, è da tanto che aspetti?” le chiese, sedendosi sull’altro sgabello.

 

“No,” rispose, secca, senza elaborare oltre.

 

“Allora… mi hai invitato qui per parlare. Vuoi prendere qualcosa da mangiare o da bere mentre parliamo?”

 

“Poco, che credo che avrò la nausea a parlare di te e mia madre,” ribatté, tagliente, afferrando il menù.

 

“Va beh… ordiniamo quello che vuoi e poi parliamo,” abbozzò, un po’ a disagio per l’evidente ostilità, anche se se l’era aspettata.

 

Valentina ordinò un hamburger senza panino ma con le patatine fritte.

 

Lui, che del cibo da pub aveva ancora un ricordo traumatico, la imitò ma da bere ordinò solo una coca cola.

 

“Non bevi alcolici?” gli chiese Valentina, incuriosita, che invece aveva ordinato una birra piccola.

 

“Molto raramente e di solito solo a casa ormai,” spiegò, mentre lei lo guardava in modo sospetto.


“Sai che Baudelaire diceva che chi non beve ha qualcosa da nascondere?” insinuò, fulminandolo con un’occhiata inquisitoria stranamente familiare.

 

“Purtroppo non ho fatto il classico come te, ma solo l’istituto tecnico, quindi temo di non essere molto ferrato in letteratura. Ma non è che ho qualcosa da nascondere, semplicemente dopo devo guidare il motorino e credo che per questa conversazione è meglio che sia lucido, no?”

 

“Sai che ho fatto il classico?”


“Sì, tua madre mi ha spesso parlato di te, soprattutto ultimamente, come puoi immaginare.”

 

“Quale onore essere un vostro argomento di conversazione!” proclamò, sardonica, per poi chiedere, con tono inquisitorio, “l’istituto tecnico? Che specializzazione?”


“Meccanica. I miei genitori sono contadini… e non sono mai stato un asso nello studio, almeno da giovane, sono migliorato negli anni, quindi dovevo fare studi pratici, per trovare un lavoro.”

 

“E poi com’è che ti sei arruolato?”

 

“Ho provato a fare un po’ di lavori dopo la maturità, ma per lavorare in fabbrica avrei dovuto trasferirmi al nord e non volevo fare il contadino, se possibile, e poi c’era già mio fratello che lo faceva e non abbiamo abbastanza terre per mantenerci tutti. Ho provato a fare un corso di pronto soccorso e mi è piaciuto, mi piaceva aiutare gli altri ma per lo studio appunto non ero portato e fare infermieristica mi sembrava troppo difficile. Poi un giorno ho visto il bando dell’Arma e mi sono detto che, male che fosse andata, avrei avuto vitto e alloggio gratis per la durata del corso. E poi mi sono trasferito a Matera per il mio primo incarico e il lavoro mi è piaciuto molto e-”

 

“E non solo quello!” lo interruppe, sempre più pungente, e Calogiuri si sentì avvampare, “senti, mi puoi risparmiare la storia da Cenerentolo di campagna, che non è che mi impietosisce se hai origini umili o me ne fregherebbe se fossi ricco sfondato. Ma voglio capire che ci trovi in mia madre e che intenzioni hai con lei. Sei giovane e sei bello, chissà quante ne hai che ti corrono dietro e mia madre… va beh… diciamo che ha uno stile tutto suo. E ha… quanti anni hai tu?”

 

“Ventinove quest’anno.”

 

“Quindi avete… sedici anni di differenza? Sono tantissimi, te ne rendi conto?”

 

“Sì, lo so che c’è una grande differenza d’età ma… ma per me non conta, non la sento. Cioè, lo so che tua madre su molte cose probabilmente sarà più matura ed avrà più esperienza di me ma… ma in altre ne ho più io di esperienza e ci compensiamo, non so spiegartelo.”


“Non voglio sapere in quali…” commentò Valentina, sarcastica.

 

“No, non credere. Io prima di tua madre a parte qualche storia da ragazzetto e poi va beh… pochissime storielle così, ho avuto un solo fidanzamento molto lungo, dai 17 ai 27 anni. Quasi mi sono sposato e poi-”

 

“E poi è arrivata mia madre e sei impazzito?”

 

“No… tua madre mi ha fatto aprire gli occhi, Valentina. La ragazza con cui stavo, Maria Luisa, mi trattava come fossi un cretino che non avrebbe mai concluso nulla di buono nella vita. Mia madre pure mi trattava così. Tutte le persone a me vicine mi consideravano stupido e io mi ci sentivo. Ma poi tua madre… tua madre mi ha insegnato un mestiere - e no, non avevamo una relazione, io la vedevo come una specie… di mito allora… il tipo di persona che avrei voluto diventare, ma sapevo che non sarei mai stato al suo livello. Di intelligenza, di bravura. Invece lei ha creduto in me e mi ha spinto a studiare, a fare carriera, mi ha fatto capire che ero capace e meritavo di meglio. E così è finita la storia con Maria Luisa e… e dopo un po’ ho capito di essermi innamorato di tua madre, anzi, di amarla proprio e ti garantisco che non ho mai amato nessuno come amo lei.”

 

Valentina rimase per un attimo in silenzio, pensierosa.

 

“Ma a parte il fatto che ti ha spronato sul lavoro, che ci trovi in mia madre? Questo non lo capisco.”


“Non lo so come spiegartelo ma… con lei mi sento la versione migliore di me stesso, tira fuori il meglio di me e non solo sul lavoro. E poi mi capisce sempre, senza parole, basta uno sguardo, e questo fin da quando ci siamo conosciuti. Ed è sempre così energica, divertente, appassionata in ciò che fa, mi piace pure la sua testardaggine, quando non esagera. Non lo so come spiegartelo, ma c’è un qualcosa di lei che sento simile a me, anche se sembriamo tanto diversi, e che ci lega, e che va al di là dell’età e di tutto il resto. Con lei mi sento… a casa… e questo da tantissimo tempo, dovunque siamo. E poi è intelligentissima, ha un cuore grande, anche se lo nasconde a tutti, ma si fa in quattro per gli altri, senza darlo a vedere. È forte, fortissima, ma ha anche questi momenti di fragilità nei quali sembra una bambina. Ed è bellissima, nonostante i look stravaganti e-”

 

“Cioè, fammi capire, tu la vedi davvero bellissima?” gli chiese, sembrando stupita.


“Sì, certo!”

 

“Ma da quando l’hai conosciuta o la cecità selettiva è subentrata dopo?”


“Quando l’ho conosciuta non avrei mai osato pensare a lei in quei termini… ma da quando ho cominciato a vederla come una donna… l’ho sempre trovata bellissima. Ha un fascino incredibile per me.”

 

“Io non so che dire…” mormorò Valentina, ma notò che il tono ostile non c’era più e gli occhi le sembravano un poco lucidi, ma magari erano le prime sorsate di birra.

 

Per un po’ rimasero in silenzio, arrivò il cibo e iniziarono a mangiare, sempre senza parlare.

 

Ma non si sentiva a disagio, per qualche strana ragione.

 

“Quando è iniziata tra voi?” gli chiese, di botto, e per poco non si strozzò con un boccone.


“Valentina…”

 

“Voglio la verità.”


“Di questo non sarebbe meglio parlarne con tua madre?”


“E che differenza fa? La storia ve la siete fatta in due, no? Quindi posso chiederlo anche a te. Tanto l’ho capito che eravate amanti a Matera, non ci vuole un genio e l’ho detto pure a mia madre. Non è possibile che sia iniziata mo a Roma, non da come ne parli e poi… se lei si è trasferita qui-”

 

“Guarda che lo ha fatto davvero anche per starti vicina, lei ci tiene tantissimo a te. In questi giorni è distrutta, tu non hai idea di quanto ha pianto. E non voglio impietosirti ma è la verità.”

 

“Poteva pensarci prima, invece di fare quella che chiagne e fotte, come si suol dire.”

 

“Ma… ma guarda che tua madre ha cercato in tutti i modi di… di salvare il suo matrimonio e di allontanarsi da me. Io mi sono pure trasferito a Roma perché… perché pensavo fosse anche quello che lei volesse, che il nostro rapporto si interrompesse e… e non ci fosse la tentazione di mezzo. Ma poi il resto devi fartelo raccontare da lei, non sarebbe giusto che parlassi io di cosa prova o non prova tua madre e di cosa è successo tra noi. Posso dirti che a me dispiace e mi rendevo conto quando ho iniziato ad avvicinarmi a lei che era sbagliato ma… a volte certe cose non si controllano ed io non sono riuscito a controllarle. Tua madre ha sempre cercato di porre un freno, quindi al limite la maggioranza delle colpe ce le ho io.”

 

“Ma mia madre era più grande ed era lei quella sposata, quindi la colpa è soprattutto sua! E se questo è un modo per farmi parlare di nuovo con lei-”

 

“No, è che credo davvero sia la cosa più giusta da fare. Anche perché io non posso parlare per lei e dei suoi sentimenti. Però lei ti vuole davvero un bene dell’anima, Valentina, non l’ho mai vista distrutta come quando hai… hai scoperto di noi e… va beh… è successo quello che è successo.”

 

“Mi ha dato uno schiaffo. Sai che non me l’aveva mai dato prima? Anche se ci era arrivata vicino. E me l’ha dato per te! Questo mi fa imbestialire e-”

 

“E se pensi che io sia più importante per lei di te, sbagli, e di grosso pure. Ha aspettato che tu studiassi qui a Roma per venire da me e dirmi che si era separata e… va beh poi è successo di tutto, ma abbiamo ricominciato a vederci davvero solo da ottobre, dopo mesi che non ci sentivamo. Per lei la tua serenità è sempre venuta prima di tutto e viene prima di tutto, ce lo siamo detti tante volte.”

 

“Ma intanto si è comunque messa con te.”

 

"Per mia fortuna l'amore non si controlla, Valentina. E non voglio parlare del rapporto tra i tuoi genitori perché non ne ho il diritto e non so come fosse prima della separazione. Ma ti garantisco che non è una decisione che tua madre ha preso d'impulso o a cuor leggero, anzi. Poi io lo capisco che sei arrabbiata e che ce l'hai con me, pure io ce l'avrei con me al posto tuo. Però non si sceglie chi si ama. L'ho visto con Maria Luisa. E ti garantisco che con tua madre ho intenzioni più che serie, che abbiamo parlato del futuro e sono e siamo consapevoli dei problemi che ci potranno essere per la differenza d’età. Ma io con tua madre voglio stare finché lei mi vorrà e, se la fortuna mi assiste, spero mi vorrà sempre."

 

“O sei matto o sei masochista,” esclamò Valentina, scuotendo il capo, “ma contento te….”

 

“Valentina…”

 

“No, ma… è che… quando parli di mia madre, a tratti mi sembra di sentire parlare di un’altra persona, che non conosco. Però non dubito che tu la vedi in questo modo, si vede da come ne parli. Ma… diciamo che ho bisogno di un po’ di tempo per pensare, a tutto quanto, sia a quello che mi hai detto tu, sia a cosa voglio fare dopo.”

 

“Se parlassi con tua madre almeno… per lei sarebbe davvero importante poterti spiegare il suo punto di vista. Pure se non sarà magari condivisibile o se avrà sbagliato. Ma a te ci tiene veramente.”

 

Valentina lo guardò con un’occhiata indecifrabile ma che di nuovo gli fu stranamente familiare. Non somigliava molto a Imma nei tratti, eppure nel modo di fare qualcosa in comune c’era davvero.

 

“Ci penserò… almeno hai avuto coraggio a venirmi a parlare, questo te lo riconosco. Non lo hai detto a mia madre, vero?”


“No, e ci è voluto più coraggio per nasconderle qualcosa, credimi.”

 

“Ah, non ne dubito. Ci ho passato l’adolescenza con lei in modalità PM a casa, hai presente?” gli chiese e gli venne da sorridere.

 

E poi pure lei sollevò un angolo della bocca, di pochissimo, ma era già qualcosa.

 

“Immagino che non vedi l’ora di tornare da mia madre?”


“E tu dal tuo ragazzo?” domandò di rimando, ma l’espressione di Valentina si rabbuiò completamente.

 

“Tanto torna tardi: ha il turno al ristorante stasera.”

 

"Allora vuoi prolungare l'interrogatorio ancora per un po'? Io non bevo ma potremmo prenderci il dolce."

 

"Sul serio staresti ancora qua con me? Tu non stai bene. Sei più che masochista!" ironizzò, sarcastica ma non in modo sprezzante, semplicemente stupito.

 

"Ti garantisco che sto benissimo! E poi sono abituato agli interrogatori, a farli ed a riceverli, quindi...”

 

"Tipo quello che ti farà mia madre quando torni stasera?”

 

“Tipo,” replicò con un sorriso.


“Va bene, prendiamo il dolce. Ma solo perché ho ancora fame e qui fanno un tortino al cioccolato buonissimo. E poi ti volevo chiedere una cosa, visto che ne stiamo parlando.”

 

“Che cosa?”

 

“Come hai fatto a capire che… insomma che non amavi più la tua fidanzata e che ti eri innamorato di mia madre? Va beh che con un’arpia del genere... io l’avrei mandata a quel paese molto prima, pure senza bisogno di conoscere mia madre.”

 

“Lo so… hai ragione ma… ma quando tutti quelli che ti circondano ti dicono in continuazione che non vali niente, finisci per crederci,” spiegò, prima di domandarle, un po’ in imbarazzo, “ma perché lo vuoi sapere?”

 

“Curiosità su come si è evoluto il tuo masochismo negli anni…”

 

Ma il tono, di nuovo, non sembrava più così ostile, anzi, lo vedeva che era veramente curiosa.

 

“Mah… non lo so… diciamo che… per quanto riguarda Maria Luisa, avevo sempre meno voglia di tornare il fine settimana a trovarla al paese. Mi dicevo che era perché ero stanco - e a tua madre ancora non pensavo in quel modo, o non capivo forse di stare iniziando a pensarci - ma non avevo più tanta voglia di stare con lei. E quando poi ero con lei mi annoiavo, o mi sentivo sempre inadeguato, o mi arrabbiavo per come mi trattava. E poi… e poi appunto ho capito che mi meritavo di meglio e l’ho lasciata. E tua madre… in quel periodo è successo il suicidio dell’architetto, non so se te lo ricordi, ma credo di averla vista per la prima volta come una persona e non questo mito invulnerabile. E poi sono andato a Roma per qualche mese e mi mancava molto, la pensavo in continuazione, le ragazze che mi si avvicinavano le trovavo tutte… poco interessanti e le paragonavo a lei, insomma le solite cose….”

 

Valentina annuì, sembrandogli stranamente sovrappensiero. E non parlò più nemmeno quando arrivò il dolce, iniziando a mangiarlo in perfetto silenzio.

 

*********************************************************************************************************

 

Imma sospirò, mentre si ingollava un’altra forchettata di spaghetti al tonno. Il piatto da single per eccellenza, anche se lei single non lo era più.

 

L’appartamento era silenzioso e Calogiuri le mancava, per quanto fosse assurdo: erano stati sei mesi senza vedersi e cinque senza sentirsi e mo, invece, quando alla sera non c’era, anche solo per un paio d’ore, non vedeva l’ora arrivasse a casa. Ma sapeva che doveva contenersi perché Calogiuri non doveva rinunciare alla sua vita sociale per lei, non sarebbe stato giusto, oltre al fatto che avrebbero attirato sospetti.

 

Con un altro sospiro accese la tv, almeno per distrarsi un po’ e beccò il TG della sera. Dopo qualche notizia abbastanza inutile, improvvisamente l’anchorman apparve più agitato.

 

“Abbiamo un’ultimora: a Roma, sparatoria durante un’irruzione per catturare i responsabili della rapina in banca finita nel sangue alle Capannelle. Ci sono ancora notizie confuse ma si parla di almeno un morto e diversi feriti, che informazioni hai, Roberta?”

 

La forchetta le cadde nel piatto, un nodo in gola quando si rese conto che era il caso di cui si stava occupando Calogiuri con la Ferrari. Ma doveva stare calma: Calogiuri non era in servizio a quell’ora sicuramente, anche se aveva finito tardi e non era detto che quelli della PG fossero coinvolti.

 

“Sì, confermo, sono arrivate le ambulanze, e ho sentito parlare di almeno un morto e di diversi feriti, anche tra gli agenti intervenuti. Non ho notizie più certe ma- aspettate! Ecco che passa la PM incaricata del caso. Dottoressa, ci sono notizie? Dichiarazioni? Che è successo?”

 

Ed Imma vide la Ferrari, ancora più elegante del solito, come se la sua serata fosse stata bruscamente interrotta dall’irruzione e, accanto a lei....

 

“La dottoressa non intende rilasciare dichiarazioni, fateci passare!”

 

Riconobbe la voce concitatissima di Conti, che stava attaccato alla Ferrari manco fosse un cane da guardia ed Imma si sentì mancare del tutto il fiato.

 

Se c’era Conti… Calogiuri aveva pure finito tardi quella sera, li dovevano avere richiamati tutti all’improvviso, per intervenire. E sia che fosse in procura ancora, sia che fosse già insieme a Conti… doveva essere lì pure lui, per forza.

 

Il cuore in gola, afferrò il telefono e compose il numero di Calogiuri. Ormai la sparatoria era finita e doveva rispondere.

 

Il telefono squillò libero e tirò un sospiro di sollievo. Lo lasciò squillare fino in fondo, ma niente.

 

Riprovò ancora due volte, non le importava se sarebbe sembrata una povera pazza, ma il risultato era sempre il medesimo.

 

Si alzò e cominciò a camminare compulsivamente per la stanza, agitata come non mai. Nei confronti del mondo, lei per Calogiuri non era nessuno e, pure se gli fosse successo qualcosa, nessuno avrebbe mai pensato di avvisarla.

 

Si impose di aspettare quindici minuti, il tempo di solito necessario a Calogiuri per accorgersi di una qualsiasi telefonata se era in servizio, o per liberarsi da qualsiasi impegno e poi richiamò.

 

Niente.

 

Dopo mezz’ora, quando ormai era sull’orlo di un attacco di panico, provò un’ultima volta ma ancora nulla.

 

Che poteva fare? Non sapeva nemmeno in quale ospedale avessero portato i feriti e i canali di news 24 ore non davano ulteriori notizie.

 

C’era un’unica soluzione, un unico modo per sapere, anche se forse si sarebbe tradita, ma a quel punto non le importava di niente, solo di sapere che lui stesse bene.

 

Compose il numero della Ferrari.

 

Squillò libero per un po’ e temette che fosse impegnata e non le avrebbe risposto, ma alla fine sentì la sua voce familiare, anche se le suonò stanca e preoccupata come non l’aveva mai sentita.

 

“Imma? Che succede? Dimmi. Hai saputo della sparatoria, immagino?”

 

“Sì, sì, esatto. Dimmi… è vero che… è vero che è morto qualcuno e che ci sono dei feriti? Chi… chi sono?” domandò, non riuscendo a trattenere l’ansia dal tono di voce.

 

“Il morto è un appuntato della caserma vicino a Capannelle, Imma, non lo conosci,” spiegò ed Imma tirò un sospiro di sollievo, le gambe che le cedevano mentre cadde sul divano, “mentre i feriti… sono Rizzo e Palermo, più un agente di Capannelle. Ma al momento non sembrano in condizioni critiche. Per fortuna Conti, Mariani e Rosati stanno bene.”

 

Imma rimase un attimo di stucco. E Calogiuri? Era incredibilmente sollevata di non sentirlo nella lista dei morti e dei feriti, ma la Ferrari aveva praticamente menzionato tutta la PG tranne Carminati - che era in ferie - e Rizzuto - che stava in malattia.

 

Forse se l’era semplicemente scordato ma… di solito era lui il suo braccio destro, mentre… mentre al TG era apparsa con Conti.


Per un attimo le venne il dubbio che non volesse dirle che era ferito, per non farla preoccupare o che lo avesse omesso apposta, per costringerla a chiedere direttamente di lui.

 

In altre circostanze non lo avrebbe fatto, ma in quel momento la prudenza poteva andare dritta dritta a farsi un bel giro, “ma Calogiuri?”

 

“Calogiuri?”

 

“Sì, non lo hai nominato. Sta bene?”

 

Sentì silenzio per un attimo dall’altra parte e temette il peggio, il cuore che le andava a mille, il panico che saliva, mentre ipotizzava che la Ferrari si stesse preparando a darle una brutta notizia.

 

Ed in effetti così era, solo che non era quella che si sarebbe aspettata.

“Calogiuri… non c’era in questa irruzione. Abbiamo provato a chiamarlo per sentire se era disponibile, visto che la soffiata ci è arrivata all’ultimo, ma il cellulare squillava sempre a vuoto. Non so dove sia, immagino sarà da qualche parte dove non sente il telefono e che stia bene. Da un lato è stato fortunato,” le disse, con un tono strano, prima di aggiungere, rapidamente, “se non c’è altro andrei che qui, come immaginerai, è un delirio e devo poi raggiungere i feriti in ospedale.”

 

“Va bene, grazie,” replicò, quasi meccanicamente, il nodo in gola che ormai era un sasso ma per motivi completamente diversi.

 

Non ci poteva credere, non ci voleva credere ma… ma Calogiuri le aveva raccontato una palla, un’enorme palla, era evidente.

 

Ricordò i messaggi degli ultimi giorni, in strani orari, quella sosta prolungata in bagno, il modo sfuggente in cui aveva risposto alle sue richieste di informazioni.

 

Eppure lei le corna le aveva fatte per mesi, doveva riconoscerli i segnali, porca miseria!

 

Non si era mai sentita tanto umiliata, tanto ferita: gli erano bastati neanche sei mesi di relazione e due di quasi convivenza per stancarsi di lei ed iniziare a guardarsi intorno.

 

La verità, anche se le faceva male ammetterlo, è che avevano avuto ragione tutti a metterla in guardia, a dirle che si era rincretinita e se ne sarebbe pentita a rivoluzionare tutta la sua vita per un uomo tanto più giovane. Pure a Pietro le toccava dare ragione, mo.

 

Calogiuri l’aveva desiderata tanto solo finché non poteva averla, probabilmente attratto da una visione idealizzata di lei, da qualcosa di irraggiungibile. Ma poi… ma poi, una volta che l’aveva raggiunta, si era stufato in fretta e si era sicuramente cercato qualcuna di più bella, di più giovane, di più adatta a lui.

 

E lei che temeva la Ferrari, mentre invece… lui già intorno si guardava e non in tribunale stavolta. Almeno quella lezione l’aveva imparata, lo stronzo.

 

Ed una rabbia cieca esplose insieme al dolore e a tutto il resto, una voglia di fargli male, di fargliela pagare.

 

Prese a pugni uno dei cuscini del divano fino a farsi male alla mano, beccando per sbaglio il bracciolo.

 

E poi arrivarono le lacrime.

 

*********************************************************************************************************

 

Richiuse dietro di sè la porta di casa lentamente, temendo di fare troppo rumore.

 

L’appartamento era buio pesto e non si vedeva praticamente niente.

 

Arrivò a tastoni fino in camera e al letto e lo vide già occupato.

 

Provò ad avvicinarsi per un bacio ma Samuel continuò a dormire e si rigirò pure dall’altra parte, come se lo avesse disturbato.

 

Era sfinito e lo sapeva pure lei e lo capiva ma....

 

Ma non per la prima volta si chiese se non avesse fatto il passo più lungo della gamba con lui.

 

*********************************************************************************************************

 

Aprì la porta lentamente, temendo di svegliarla: erano già le undici di sera, tra quando aveva lasciato Valentina ed il tempo di rientro, e non sapeva se fosse già a letto o meno, nonostante avesse promesso di aspettarlo sveglia.

 

Ma era una precauzione inutile: Imma era seduta sul divano, a testa bassa.

 

“Eccomi!” fece in tempo a dire e lei sollevò lo sguardo e ciò che ci vide lo fece bloccare bruscamente sui suoi passi.

 

Aveva gli occhi non rossi, di più, il viso pieno di lacrime rapprese e un’espressione furibonda.

 

“Imma, che succede?” le chiese, preoccupato, facendo qualche passo verso di lei.

 

“Non. Ti. Avvicinare!” gli gridò contro con una rabbia ed una veemenza che non le aveva veramente mai sentito e, per una come lei, era davvero tutto dire.

 

“Come? Ma che succede, io-”

 

“Dove sei stato?” sibilò, tirandosi in piedi dal divano, i pugni chiusi accanto ai fianchi e vedeva che tremava tutta.

 

“Fuori con i ragazzi e-”

 

“Ah, ma davvero? E quali ragazzi, sentiamo!” pronunciò, con un sarcasmo che non comprese, oltre ad una durezza tremenda.

 

“Beh, i soliti… Conti, Mariani, Palermo e-”

 

“E deve essere stata proprio una seratina molto interessante, visto che Palermo sta in ospedale con ferita d’arma da fuoco e Conti e Mariani sono sul posto, insieme a praticamente tutta la PG, tranne te!”

 

“Che… che cosa?!”

 

“C’è stata un’irruzione per il caso a Capannelle ed è morto un agente, ci sono diversi feriti, sta su tutti i tg! Ho provato a chiamarti non so quante volte e non rispondevi. Pensavo… pensavo che tu fossi morto, maledizione!” gli urlò di nuovo contro, avvicinandosi lei stavolta per tirargli due pugni sul petto e poi allontanandosi bruscamente prima che potesse toccarla, mentre una mano gelida gli si serrava sullo stomaco, “e invece… e invece ho chiamato la Ferrari e che ti scopro? Che tu eri irraggiungibile e quindi all’irruzione non c’eri proprio. E io come una cretina qui a preoccuparmi per te, mentre tu… mentre tu chissà con chi eri, eh! Con chi eri? E voglio la verità o ti giuro che-”

 

“Con Valentina,” la interruppe, prima che urlasse ancora di più di quanto già non stesse facendo.

 

“E chi è sta Valentina, mo?!” gridò, ancora più forte, tirandogli un altro colpo sul petto.

 

“Tua figlia Valentina.”

 

La vide bloccarsi di botto, come se fosse stata di sasso.

 

“Mia… mia figlia Valentina?” ripeté, con un tono indefinibile, tra lo sbigottito e qualcos’altro.

 

“Sì. Mi ha chiesto di vederci da soli per parlare a quattr’occhi e… e non voleva che te lo dicessi. Io… io volevo solo darti una mano, Imma, a riavvicinarti a lei e-”

 

“E per questo ti sembra normale che tu mi nascondi che ti vedi con mia figlia?! E se questo incontro avesse peggiorato le cose? Queste cose le devo decidere io, sono io sua madre, tu non sei suo padre e soprattutto non sei un suo amico!” gridò, tornando incazzata nera, “già c’è Pietro che mi nasconde le cose su Valentina ma lui… lui almeno è il padre, porca miseria!”

 

“Ma non ho peggiorato le cose, anzi, abbiamo chiacchierato tanto, sono rimasto con lei anche più del previsto, finché non era quasi ora che tornasse il fidanzato, secondo me ci siamo capiti ed è andata bene!”

 

“E meno male che è andata bene!” esclamò, alzando le braccia al cielo, prima di puntargli un dito al petto, “ma se non fosse andata bene? Eh?! Che succedeva allora?! Porca miseria, Calogiuri, UNA cosa ti avevo chiesto, UNA, cioè di non nascondermi le cose e che i problemi bisognava affrontarli insieme. E invece tu… riparti al salvataggio, come con il trasferimento. Se io ti trattavo come un ragazzino, tu come mi stai trattando, eh? Come una povera demente alla quale bisogna nascondere le cose?!”

 

“No, Imma, no, è solo che sapevo quanto eri in pensiero e-”

 

E proprio per quello avresti dovuto dirmi tutto! Sarebbe stato grave su qualsiasi argomento, ma su Valentina, era proprio l’ultima cosa su cui dovevi raccontarmi una palla, Calogiuri!”

 

Era incazzata quasi quanto quando credeva di essere stata tradita e il panico gli montò ancora di più. Capì di aver sbagliato tutto, di averla combinata grossa e proprio sulla e con la persona a cui Imma teneva più al mondo.

 

“Imma, ho capito, ho sbagliato, perdonami io… sono stato uno stupido, ma ti garantisco che ero in buona fede. Ma non succederà più, te lo prometto!” la implorò, la paura che gli bloccava quasi il fiato, perché non poteva perdere Imma e soprattutto non poteva perdere la sua fiducia. Era quella la cosa che gli faceva più male.

 

“Questa frase l’ho già sentita, Calogiuri. A casa mia a Matera per la precisione. E hai fatto tale e quale a prima, se non peggio. Altre cose che mi hai nascosto nel frattempo, prima che le scopra da sola?” gli intimò, con un sibilo ed uno sguardo che non si sarebbe mai scordato, mai, “perché come avrai notato, anche se io a raccontare palle in qualche modo sono riuscita per mesi, con me le bugie purtroppo per te hanno le gambe corte, cortissime e gli uomini che stanno con me hanno la sfiga di farsi beccare subito, evidentemente, appena mi raccontano una storia. Quindi prima che ci siano altri eventi tragici per farle uscire allo scoperto, dimmi la verità!”

 

“Beh… io… io…” balbettò, pensando a quella ragazza, che manco più si ricordava il nome, e se fosse il caso di confessarglielo o meno.

 

Ma alla fine decise che, se le avesse mentito, Imma se ne sarebbe accorta: lo conosceva troppo bene e lo stava guardando con troppa attenzione perché le potesse sfuggire.

 

“Beh… insomma… diciamo che l’altro giorno c’è stato un episodio ma non ti devi preoccupare, perché non è successo niente e-”


“E se non fosse successo niente me lo avresti raccontato e non mi diresti di non preoccuparmi. Che è successo?” lo interruppe, puntandogli di nuovo il dito nello sterno.

 

“L’altro giorno… tua figlia mi aveva già dato appuntamento di fronte all’università ma poi mi ha dato buca perché doveva stare a lezione e-”

 

“Ah! Ma benissimo! E allora-”

 

“E allora l’episodio non è quello. Quando me ne sono andato, una ragazza ad un certo punto è inciampata e mi è quasi caduta addosso. L’ho presa al volo ma si era distorta un piede e… e io le ho offerto di portarla al pronto soccorso ma lei mi ha detto che abitava lì vicino e preferiva tornare a casa. Va beh… in poche parole sono andato a casa sua, le ho fatto una fasciatura e lei… insomma… diciamo che ci ha provato e… e ha tentato di baciarmi, ma io l’ho respinta subito, gliene ho dette quattro e me ne sono andato.”

 

La vide paralizzata, come per un istante, e seppe che non era un buon segno.

 

“Calogiuri…” soffiò nuovamente, l’espressione di essere sull’orlo dell’esplosione, “oltre al prometterci di non nasconderci più le cose, mi avevi ESPRESSAMENTE promesso che, se qualcuna ci avesse provato con te, me lo avresti detto. E invece… ma complimenti di nuovo!”

 

“Imma… era solo che… veramente non era successo niente e so quanto sei gelosa e… non volevo farti preoccupare e-”

 

“E mo invece non sono solo preoccupata, Calogiuri! Sono… sono… ma mi spieghi come posso fidarmi di quello che mi dici e di quello che fai da ora in poi, eh?! Per carità, pure io non sono stata uno stinco di santo ma… se non c’è fiducia in una relazione non può funzionare e io mo.. sono più che arrabbiata, sono delusa, Calogiuri. Delusa.”

 

Fu come ricevere uno schiaffo tremendo dritto in viso. Non le aveva mai sentito quel tono, mai, come sconfitto e..

 

Ormai più che impanicato era terrorizzato.

 

“Ma poi porca miseria, sei un maresciallo! Almeno non eri in divisa ma… andare da solo a casa di una perfetta sconosciuta! E se a questa gira e ti denuncia, eh? Che succede! Ma che ti dice il cervello?! A me sembra che a volte o fai finta di non capire o non vuoi capire quanto piaci alle donne, pure se mi prendi per paranoica, tipo con la Ferrari. Che mi è pure toccato chiamarla per chiedere di te e mo chissà che penserà, se non è scema, e mi pare fin troppo furba.”

 

“Imma, ascolta, lo so, ho sbagliato, sono stato un cretino e ho capito mo, ho capito tutto e ti giuro che non ti nasconderò mai più niente, per quanto possa farti male saperlo. E su tua figlia soprattutto ti dirò ogni singola cosa che la riguarda, se riproverà a contattarmi, ma io-”

 

“Puoi andartene per favore? Ho… ho bisogno di riflettere e… e stasera non ci riesco a farlo e non ti voglio vedere finché non l’ho fatto,” gli chiese, in quello che però sapeva benissimo essere una specie di ordine.

 

E quella strana calma lo inquietava più di tutto il resto.

 

“Imma-”

 

“Per favore, Calogiuri. Se sai un minimo quello che è meglio per te e se a me ci tieni anche solo un poco, lasciami da sola mo.”

 

Gli occhi che gli bruciavano, sentì due lacrime sul viso e le mani che gli tremavano.

 

“Va… va bene…” sussurrò, a fatica, perché sapeva che non c’era alternativa purtroppo e che avrebbe solo fatto peggio ad insistere.

 

Lanciando un’ultima occhiata in quel viso che tanto amava e che era contorto in un’espressione che era peggio di una pugnalata, ritornò sui suoi passi e si richiuse la porta alle spalle, prima di cedere alle lacrime.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qui, al primo grande problema da affrontare per Imma e Calogiuri. Calogiuri da un lato l’ha fatta grossa, non dicendo niente a Imma, Imma d’altro canto su Valentina è iperprotettiva ed è molto gelosa e… nel prossimo capitolo vedremo che succederà e se e come riusciranno a trovare un chiarimento. E anche come procederanno le cose tra Imma e sua figlia.

Spero la storia continui ad essere interessante e piacevole da leggere e vi ringrazio per avermi seguita fin qui e se vorrete lasciarmi una recensione, oltre a farmi tanto piacere ed essere una gran motivazione a proseguire, mi sono davvero utilissime per capire in cosa posso fare meglio, cosa vi convince e vi piace di più e cosa meno.

Il prossimo capitolo arriverà puntuale il cinque di aprile.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 24
*** Squadra ***


Nessun Alibi


Capitolo 24 - Squadra


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

Era stanchissima dopo una notte insonne, ma doveva sforzarsi di stare attiva: quel giorno in procura c’era il delirio, era un venerdì di fuoco, per via di tutti i feriti e assenti in PG.

 

Non aveva mai visto la Ferrari tanto poco composta e anche gli altri colleghi non scherzavano affatto.

 

Sentì bussare e urlò un “avanti” che risuonò incazzoso perfino alle sue orecchie.

 

“Dottoressa.”

 

La sua voce le fece fare un tuffo nello stomaco, perché non voleva doverlo affrontare, ma vide che aveva dei fogli in mano e immaginò si trattasse di lavoro.

 

“Dimmi, Calogiuri. Hai bisogno di qualcosa?” gli chiese, con il tono che faceva capire benissimo che tra loro non era affatto tutto a posto e che la notte non aveva portato consiglio.

 

Era ancora troppo arrabbiata con lui e non sapeva cosa voleva fare o non voleva fare. Continuava ad immaginarsi lui con quella ragazza che gli era saltata addosso, e non gliel’aveva detto, e la cosa la faceva impazzire. Non solo, ma quando la sera prima le aveva detto di essere uscito con Valentina, per un secondo con orrore si era immaginata sua figlia con Calogiuri - se già non c’era bastata Valentina stessa e la sua ex suocera due estati prima. E poi pensare che le due persone più importanti della sua vita le nascondessero qualcosa di importante insieme le era insopportabile. E Calogiuri non era Pietro, non aveva il carattere di Pietro ed aveva ancora meno giustificazioni nel farlo.

 

Forse era semplicemente ancora troppo poco maturo e quindi inaffidabile, anche se le faceva malissimo ammetterlo.

 

Però non si era mai incazzata così tanto con Pietro, mai, forse neanche ai tempi di Cinzia Sax. Con Calogiuri era come se tutto fosse sempre amplificato, più forte: il bello e pure il brutto.

 

“Sono-” si bloccò un attimo, deglutendo, “sono arrivate notizie sul testamento di Spaziani. Ha lasciato la casa alla moglie, l’azienda al figlio ed il resto è stato diviso tra i due. Non ci sono altri eredi.”

 

“Quindi questo restringe di molto il movente a solo due persone. Spulciati tabulati telefonici, movimenti bancari e chiedi ai ragazzi di sentirsi le intercettazioni telefoniche. Dobbiamo scoprire di più su moglie e figlio. C’è altro?”

 

Stavolta toccava a lei usarla quella frase.

 

“Non sul caso, no,” rispose, in quella che era una chiara domanda implicita.

 

“E allora non c’è altro, Calogiuri. Ti chiamerò io se avrò bisogno di parlarti.”

 

Dal modo in cui gli si abbatterono le spalle e dall’espressione che fece, aveva compreso chiaramente che pure lei non stava affatto parlando solo di lavoro.

 

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“Calogiuri!”

 

“Dottoressa, avevate bisogno di me?”

 

“Con mezza PG fuori uso? Ovviamente sì, Calogiuri. Ieri alcuni della banda sono sfuggiti al raid. Gli agenti e i carabinieri di Capannelle e dintorni si stanno attivando, ma dobbiamo contribuire e siamo sotto squadra. Dobbiamo controllare tutto quanto è stato trovato nel covo di ieri e che non è alla scientifica. Fatti dare i tabulati dei telefoni rinvenuti sul posto, sollecita la perizia balistica e chiedi al medico legale se ci sono novità sull’autopsia. Tutto chiaro?”

 

“Sì, dottoressa, naturalmente.”


“Bene, allora direi che ne hai da fare per oggi e pure per il finesettimana. Di solito non te lo chiederei, Calogiuri, ma qui c’è da serrare il cerchio e in fretta. Sei disponibile a venire al lavoro pure domani? E anche dopo, se serve.”

 

“Sì, va bene,” rispose, perché non poteva fare altro anche se… anche se avrebbe sperato di avere il weekend libero per provare in qualche modo a riavvicinarsi a Imma, piano, piano.

 

Ma forse era meglio così e lasciarle il suo spazio.

 

“Bene. Detto questo… sei stato fortunato ad evitarti il raid ieri, Calogiuri, ma cerca di essere meglio reperibile al cellulare, anche per evitare di far preoccupare le persone.”

 

“Perché? Vi siete preoccupata?” le domandò, sorpreso.

 

“Io non particolarmente, pensavo fossi impegnato in… cose più piacevoli. Ma la dottoressa Tataranni mi ha chiamato ed era molto in pensiero per te, pensava fossi stato coinvolto nella sparatoria,” pronunciò, con un tono strano, prima di alzarsi dalla scrivania, girarci intorno ed abbassarsi verso di lui, mettendogli una mano sulla spalla e guardandolo dritto negli occhi, come aveva già fatto quella volta a casa sua, sembrando invadergli la mente, “non fare cazzate, Calogiuri. Primo, perché sei davvero bravo e puoi avere una grande carriera davanti a te ma certi… problemi… possono rovinartela. Secondo, perché se no mi convincerò definitivamente che i bravi ragazzi sono una specie ormai estinta. Terzo, perché altrimenti rischi che il prossimo omicidio su cui mi troverò ad indagare sia il tuo, e vorrei evitare di arrestare una collega.”

 

“Che… che vuoi dire?” le sussurrò di rimando, non riuscendo più a mantenere il voi.

 

“Che non sono nata ieri, non ho l’Alzheimer e i discorsi che ci siamo fatti in questi mesi me li ricordo ancora molto bene, Calogiuri. Tutti. E non bisogna essere dei grandi investigatori per fare due più due.”

 

“Irene, io-” iniziò, impanicato ma lo fermò con un gesto della mano.

 

“Non voglio sapere niente e non dirò niente. Ma stai accorto, Calogiuri, che stai giocando col fuoco, letteralmente.”

 

“Ma comunque non è come pensi e-”

 

“E non mi interessa sapere com’è. Ma ti ho già detto che devi pensare a tutelarti tu per primo. E questo include non fare cretinate che si ripercuotano su… sull’ambiente di lavoro. Chiaro?”

 

“Chiarissimo.”

 

“Bene, ora però concentriamoci sulle indagini perché abbiamo molti uomini in meno in servizio ed il caso è diventato una priorità assoluta.”

 

“Va bene,” acconsentì, prendendo congedo da lei, il senso di imbarazzo che permaneva nell’aria.

 

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Arrivò a casa e chiuse la porta dietro di sé con un sospiro. Era silenziosa, buia, vuota.

 

Quanto avrebbe voluto trovarci lui, anche se sapeva che era impossibile.

 

Posò la borsa e raggiunse il tavolino dove trovò un bigliettino:

 

Domani devo attaccare presto, doppio turno, dormo da un collega. Un bacio

 

Prese il foglio e lo accartocciò in una mano. Quella non era una convivenza, era come vivere da sola praticamente.

 

E Samuel tra un po’ lo vedeva di più quando erano distanti: almeno quando poi si raggiungevano, per quei giorni passavano tutto il tempo insieme.

 

Lo sapeva che non era colpa di Samuel ma la realtà non cambiava.

 

E, chissà perché, le venne in mente, chiaro e netto, il maresciallo. Come parlava di sua madre, come gli occhi gli si illuminavano quando raccontava di lei, il tono di voce che usava.

 

Scacciò quell’immagine: era ancora troppo arrabbiata con sua madre.

 

Anche se, quantomeno, aveva avuto buon gusto e pure la fortuna di trovare uno che sembrava in fondo un bravo ragazzo - a parte l’andare con le donne sposate - e pure tanto preso da lei.

 

Cosa avrebbe dato perché Samuel fosse ancora così preso da lei, se mai lo era stato!

 

Andò in camera da letto, tanto aveva già mangiato, e iniziò a levarsi i vestiti. Aprì un cassetto e ne tirò fuori gli indumenti puliti per portarli in bagno insieme al pigiama. E fu in quel momento che vide il sacchettino nel quale teneva le sue poche cose di valore, dal quale era sbucata fuori, chissà come, una catenella d’oro sottilissima.

 

La catenina di sua nonna Brunella.

 

La prese per un attimo in mano, per rimetterla a posto, ma si bloccò. Ricordò le parole di sua madre quando gliel’aveva data, quando lei era ancora devastata dai sensi di colpa per essersi persa le ultime settimane di vita della nonna per il suo orgoglio. Su come fosse in apparenza fragile ma avesse resistito a tutto.

 

Come sua nonna, come lei.

 

E forse... forse come il rapporto con sua madre?

 

Lo sentì come una specie di segno. Era ancora incazzata con sua madre, non solo per tutto il male che aveva fatto a suo padre - che ci stava ancora da cani e si vedeva - ma anche e soprattutto perché si era sentita presa in giro per tutti quei mesi e poi…. E poi perché in fondo, anche se aveva temuto la sua ingerenza quando si era trasferita, il fatto che avesse cambiato città per lei l’aveva fatta sentire importante per sua madre come mai prima.

 

E invece… aveva ben altri motivi per trasferirsi la dottoressa.

 

Ma, allo stesso tempo… con sua madre non voleva avere rimorsi e rimpianti come con sua nonna.

 

E c’era un’unica cosa da fare.

 

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Il suono del campanello la svegliò: aveva appena passato l’ennesima notte quasi insonne e si era addormentata dopo le cinque o le sei.

 

Lottando contro le fitte di mal di testa, guardò l’ora e vide che erano le dieci del mattino. Era domenica.

 

Chi poteva essere a quell’ora?

 

Un solo nome le veniva in mente e non sapeva se sperare o meno che fosse lui, perché come si sentiva ancora non lo sapeva con certezza e, nonostante il giorno precedente avesse apprezzato quell’unico messaggio che le aveva mandato e che ricordava a memoria:

 

Io per qualunque cosa ci sono, rispetto i tuoi spazi ma non mollo, Imma. E ti proverò in ogni modo che ti puoi fidare di me e di quello che provo per te. Tuo, Calogiuri

 

A cui si era limitata a rispondere con un laconico:

 

Me lo auguro.

 

Che poteva dire tutto e niente e lo sapeva.

 

D’altro canto non era certa di essere pronta ad affrontare la questione ed era ancora parecchio incazzata.

 

Si avvicinò allo spioncino e, con sua enorme sorpresa, si trovò di fronte due occhi più che familiari.

 

Ma non azzurri.

 

“Valentì!” esclamò, sbigottita, aprendo la porta e vedendola con un sacchetto di carta in mano, “che… che ci fai qui a quest’ora?”

 

“Se non sono gradita me ne vado.”

 

“Ma che scherzi! Entra!” la invitò, afferrandola per un braccio e chiudendole la porta alle spalle prima che potesse cambiare idea, “ma che ci fai qua?”

 

“Colazione,” rispose, come se fosse la cosa più naturale del mondo, porgendole il sacchetto, e guardando oltre le sue spalle, “sperando che tu non l’abbia o non l’abbiate già fatta. Immagino tu non sia da sola?”

 

“In realtà… in realtà sono da sola, Valentì. Ma… come mai questa… colazione?” chiese, ancora stupefatta, visto che era da quando aveva scoperto di Calogiuri che sua figlia ignorava ogni suo tentativo di avvicinamento.

 

“Perché volevo parlarti o parlarvi, se c’era pure lui.”

 

Imma aprì il sacchetto e ci trovò dentro tre bomboloni.

 

“No, sono da sola, come vedi,” replicò, iniziando a preparare il caffè.

 

“Come mai? Problemi in paradiso?” ironizzò Valentina, con un tono sarcastico da cui non si capiva se li auspicasse o meno.

 

“Se ci tieni proprio a saperlo, sì. Ho scoperto per caso che non mi ha detto di averti incontrata e mi ha raccontato una scusa per farlo. E sono molto arrabbiata con lui per questo. Purtroppo per lui, come ben sai, Valentì, le bugie con me hanno le gambe cortissime. A meno che fosse quello il tuo obiettivo, nel chiedergli di non dirmelo, cioè di farmi incazzare con lui.”

 

Valentina rimase per un attimo ammutolita e sembrò colpita.

 

“Certo che è proprio sfortunato il tuo maresciallo. E diciamo che non era proprio questo il mio obiettivo, anche se…” sospirò, quasi più tra sé e sé, per poi aggiungere, con un mezzo sorrisetto, “comunque gli devi almeno riconoscere un certo fegato, sia ad avermi incontrata, sia a non averti detto niente.”

 

Ed Imma si bloccò di scatto mentre chiudeva la caffettiera, che per poco non rovesciava tutto.

 

Sua figlia stava… se non difendendo… almeno dicendo qualcosa di positivo su Calogiuri?

 

“Deduco che l’incontro non sia poi andato così male?”

 

“Diciamo che… almeno non è il demente bello ma senza cervello che pensavo che fosse… da quelle due volte precedenti che l’ho visto. E, per qualche motivo inspiegabile, è molto preso da te, questo glielo devo riconoscere. In ogni caso, è con te che sono arrabbiata principalmente, non con lui. Non è lui che ha tradito papà e mollato una famiglia.”

 

“Valentì, io-”

 

“Però volevo sentire la tua parte della storia, visto che lui si è rifiutato di sbottonarsi troppo, dicendo che me ne dovevi parlare tu di… di cosa provi per lui e di come sono andate le cose tra voi. Anche se, che eravate amanti a Matera, sarebbe evidente pure ad un bambino. Insomma, sono qui perché voglio la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità, dottoressa,” concluse, sarcastica, mettendosi a sedere davanti a lei.

 

Forse Valentina più di qualcosa da lei l’aveva preso sul serio.

 

“Forse non è il momento migliore, visto che sono arrabbiata con lui, ma-”

 

“Che tu ti arrabbi per menzogne ed omissioni altrui, dopo quello che hai combinato negli ultimi mesi, mi pare un po’ paradossale, no, mamma? E poi siamo in un paese libero, non vedo che reato ci sia se mi ha incontrato. O ti deve chiedere il permesso?”

 

“No, ovviamente no, ma… proprio perché ho già provato cosa vuol dire avere bugie ed omissioni in un rapporto di coppia, non ne voglio più, Valentì, almeno sulle cose importanti che bisognerebbe affrontare insieme: ho visto le conseguenze che c’hanno. Ed il mio rapporto con te per me è importantissimo, anche se non ci crederai. E comunque non è solo per quello: a parte l’omissione sul vostro incontro, non mi ha neppure detto che una ci ha provato spudoratamente con lui, se non parecchi giorni dopo il fatto.”

 

Valentina fece una faccia strana, come se stesse riflettendo prima di parlare, e poi sospirò.

 

“Senti, e questo te lo dico contro il mio interesse e non vuol dire che ti ho perdonata ma… ma diciamo che secondo me non ti devi preoccupare. Magari tra qualche anno quel poveretto si sveglierà e non ti reggerà più e si cercherà un’altra, ma al momento è talmente preso da te che pure se ci provasse con lui la donna più bella del mondo non cederebbe. E se mi ha incontrata, è solo perché voleva che tornassi a parlare con te. Dimmi te se mi tocca pure difenderlo mo!”

 

“E come fai a dirlo, scusa? Perché ci hai parlato una sera? Mica ci proverebbe con una davanti a te, non è cretino, anche se tu lo pensavi.”

 

“No, perché… ti descrive come fossi… non lo so una specie di dea. Una donna perfetta, bellissima, intelligentissima. Ha problemi seri, ma seri di testa, di vista, udito e tutto il resto,” ironizzò, per poi fare un’altra pausa, e ammettere con un tono imbarazzato, “e… e la tipa che ci ha provato con lui… diciamo che… che so di chi stai parlando.”

 

“Che vuoi dire?”

 

“Quando… quando l’ho contattato la prima volta, ero incazzata nera con te, con lui e… e volevo farti rinsavire o forse vendicarmi, non so. Insomma, dimostrarti che razza di irresponsabile ti eri scelta. E quindi… c’è una mia compagna di università, una che è stata finalista a Miss Italia, bellissima, che si vanta sempre che nessuno le resiste e… e diciamo che ho fatto in modo che…”

 

“Che cosa?! La tizia era la tua compagna di università?! E tu… tu hai… hai cercato di fare in modo che lui mi tradisse con lei?!” gridò, furente, e vide che Valentina tirò indietro la schiena sulla sedia, come se temesse un altro ceffone.

 

Cercò di calmarsi ma in quel momento era nera. Nera.

 

“Senti, lo so che era un piano stupido e che ho sbagliato ma… ma non ti devi preoccupare, veramente. Dovevi vedere com’è tornata con la coda tra le gambe. L’ha pure registrato - solo l’audio, non ti preoccupare,” si affrettò a precisare, probabilmente notando la sua occhiata omicida, “perché volevo una prova da portarti ma… ma lui l’ha respinta subito e non gliele ha mandate a dire. Mi sembrava quasi di sentire te. E poi le ha pure detto che era impegnato e perfino… perfino che tu eri molto più bella di lei, figurati!”

 

Imma si accasciò su una sedia, non sapendo se essere più incazzata o più commossa.

 

“Giusto per farti capire quanto sia accecato il tuo maresciallo,” aggiunse, smanettando sul cellulare e poi porgendoglielo.

 

E vide la foto di una ragazza bellissima, anzi stupenda, roba che Matarazzo in confronto era una racchia. Non faticava a credere che nessuno le resistesse.

 

E Calogiuri veramente non stava bene.

 

“Ma perché mi stai dicendo tutto questo mo?”

 

“Diciamo per rimediare, perché so che quello che ho fatto è sbagliato. E perché, visto che voglio la verità, voglio essere sincera anche io. Ripeto, questo non vuol dire che ti ho perdonata ma… ma almeno mi consola sapere che non hai perso la testa per un toyboy col cervello come una nocciolina e non ti sei proprio rinscimunita del tutto. Anche se per me papà resta ovviamente molto meglio, e sei matta ad avere rinunciato ad uno che ti ama ancora come ti ama lui dopo vent’anni.”

 

Imma sospirò… non sapeva se voleva strozzare la figlia o essere orgogliosa di lei per averle detto la verità, pure se in ritardo. Ma più che altro non era facile farle capire il perché lasciare Pietro era stata l’unica scelta ormai possibile e giusta per tutti.

 

A parte che Pietro, evidentemente, ancora non le aveva detto di Cinzia Sax, ma non poteva certo essere lei a dirglielo.

 

“Valentì, ascolta, tu razionalmente c’hai pure ragione: chiunque un uomo innamorato come tuo padre, un brav’uomo come tuo padre, che mi ha sopportata per vent’anni con il carattere che tengo, se lo sarebbe tenuto stretto. Sulla carta. Ma il problema è che, anche se lui mi amava ancora, io non lo amavo e non lo amo più. Gli voglio bene ma non lo amo. E… e i sentimenti non li puoi forzare o far tornare magicamente una volta che se ne vanno, nemmeno se lo vuoi. E con lui stavo male, non per colpa sua, ma perché non potevo più dargli ciò che giustamente lui voleva da un rapporto di coppia, anche da un punto di vista emotivo. E forzare i rapporti porta solo ad arrivare ad odiarsi e io non volevo questo. Pure se… pure se Calogiuri non mi avesse più voluta, pure se mo noi ci lasciassimo, io non tornerei con tuo padre. Perché non sarebbe giusto prima di tutto di lui, sarebbe un approfittarsi dei suoi sentimenti, se ancora mi amasse. Lo capisci questo?”

 

Valentina rimase per un attimo pensierosa, ma sembrò colpita dalle sue parole.

 

“Non so… forse… forse sì, forse no, non so. Ma che vuol dire pure se Calogiuri non mi avesse più voluta?” le chiese, con sguardo penetrante.

 

“Ti va se ci prendiamo caffè e bombolone e poi ti spiego tutto con ordine? Credo di averne bisogno.”

 

Valentina annuì.

 

Imma finì di preparare il caffè, portò il latte e fecero colazione in silenzio perfetto. Era quasi surreale.

 

Imma finì l’ultimo boccone del bombolone sentendosi un po’ come un condannato a morte che ha appena terminato l’ultimo pasto. Ma poi si fece forza e provò a spiegare ciò che era difficilissimo raccontare proprio a sua figlia.

 

“Calogiuri e io siamo stati amanti per un periodo a Matera,” ammise, alzando una mano per evitare di essere interrotta da Valentina, “lo so che è stato sbagliato e imperdonabile probabilmente ma… ma quello che provavo per lui era davvero forte. E non solo dal punto di vista fisico. E ad un certo punto non sono più riuscita a resistere. Non so cosa speravo… se speravo che vivendo questa passione mi sarebbe passata ma… ma non succedeva e anzi, il rapporto con tuo padre andava sempre peggio perché… perché non provavo più per lui le stesse cose di prima, non ci riuscivo più, ma ancora non volevo ammettere che… che il mio matrimonio con tuo padre fosse finito. Per paura di perdere te, perché comunque lui è stato un punto di riferimento per tanti anni e l’ho amato per vent’anni… e così per un po’ ho tenuto il piede in due scarpe. Ho pure… ho pure provato a lasciare Calogiuri, se così si può dire, perché non volevo approfittarmi di lui e fargli perdere la sua giovinezza appresso a me. Perché non si meritava di fare l’amante, così come tuo padre non si meritava di essere tradito. Solo che… che mi sono resa conto di essermi innamorata di lui perché… perché non riuscivo a stargli lontano e-”

 

“E quello non lo definirei proprio amore,” la interruppe Valentina, con un sopracciglio alzato.

 

“Ma non solo per l’attrazione fisica. Quando mi stava crollando il mondo addosso per la mia paternità, solo da lui sono riuscita a farmi consolare - e non in quel senso. E non da tuo padre. E poi ha rischiato di morire in una sparatoria e… diciamo che quello mi ha messo le cose in prospettiva.”

 

“Ma allora perché non hai lasciato papà? Stiamo parlando di quasi un anno fa! Perché Roma e perché aspettare l’estate?”

 

“Perché a quel punto Calogiuri mi ha detto che si sarebbe trasferito a Roma. Ufficialmente perché soffriva troppo in quella situazione. In realtà di recente ho scoperto che una sua collega aveva scoperto di noi e voleva montare uno scandalo e… si è fatto trasferire per salvarmi la carriera e la faccia, senza dirmi niente.”

 

“Insomma… un eroe senza macchia e senza paura proprio!” proclamò sarcastica, ma notò che c’era un qualcosa sotto la durezza. Forse a Valentina Calogiuri in fondo non stava più tanto sul gozzo. Con lei era un altro paio di maniche ovviamente.

 

“Più che altro uno che si sacrifica senza dirmi le cose, e questo mi ha fatto pure arrabbiare, nonostante il bel gesto. Comunque, dopo che lui è andato a Roma, come sai è successo quello che è successo con nonna ma… ma dopo un po’ ho capito che le cose con tuo padre dovevano chiudersi per il bene psicologico di entrambi. Ma gli ho chiesto di aspettare la maturità tua per dirtelo. Poi a fine settembre, quando sono venuta a trovarti, ho provato a ricontattare Calogiuri. Nel frattempo, che tu ci creda o no, non ci eravamo più sentiti praticamente, dalla morte di tua nonna o quasi. Ma va beh… diciamo che dopo un po’ di malintesi ci siamo ritrovati e abbiamo intrapreso una relazione. E con te a Roma e lui a Roma e il maxiprocesso a Roma… venire qui era la scelta più logica per me. Ho sbagliato forse a non parlartene prima e lo so, ma avevo paura di perderti, Valentì e… e probabilmente ho fatto peggio.”

 

Probabilmente?”

 

“Sicuramente.”

 

“Papà lo sa?” le chiese, con un’occhiata penetrante e un tono da interrogatorio dei quali, in altre circostanze sarebbe andata fiera.

 

“Sì, lo sa. Ma gli ho chiesto io di non parlartene, perché te ne avrei parlato io a tempo debito.”

 

“E cioè quando una mia compagna di università si sarebbe presa una cotta per il tuo maresciallo? Se non ci fosse stata Laura, quando me lo avresti detto, eh?”

 

“Pensavo di dirtelo… poco prima di uscire allo scoperto, qui a Roma.”


“E quando avverrebbe questa cosa, tanto per capirci?”

 

“Non lo so… tra qualche mese penso, per evitarci casini sul lavoro. Poi magari trasferiranno lo stesso o me o lui, o mi chiederanno di tornare a Matera, non lo so, ma… almeno lui si eviterà problemi con l’Arma. Valentì, se ti sto dicendo queste cose mo è perché mi sto fidando che tu non mediti altre vendette, specie contro Calogiuri che per l’appunto c’entra solo in minima parte e non ha tradito nessuno.”


“Già… almeno lui,” sottolineò, amara.

 

“Valentì, lo so che ho sbagliato, te lo ripeto, lo so. Ma ci sono situazioni in cui sai che, qualunque cosa tu scegli di fare, qualcuno soffrirà e… e non solo facili da gestire. Io sicuramente l’avrò gestita malissimo ma… non è stato facile manco per me vivere con questo peso addosso tutti quei mesi, pure se non ci crederai.”

 

Valentina si passò una mano sugli occhi e poi rimase per un po’ in silenzio.

 

“Senti… mi spieghi perché… perché ti sei innamorata di lui? A parte il fattore estetico, che è un bravo ragazzo e ha gusti strani sul genere femminile. Cos’ha lui che papà non ha?”

 

“Ma non è che tuo padre c’abbia qualcosa meno, Valentì, è che… è che Calogiuri è più simile a me, per tanti versi, pure se non sembra a prima vista. Ci capiamo senza bisogno di parole, da sempre. E… e con lui mi sento capita, libera di essere me stessa e… e a casa… e anche questo da sempre. Non lo so come spiegartelo, ma c’è un senso di familiarità inspiegabile con lui e c’era pure quando sapevamo poco o nulla l’uno dell’altra. Ma è così è basta.”

 

Valentina la guardò in un modo strano poi sospirò e scosse il capo, “sai… mi ha detto… mi ha detto una cosa simile pure lui. Anche se lui si è un po’ più sprecato con i superlativi assoluti nel descriverti.”

 

“Va beh, gli occhi per vederlo ce li hai pure tu, Valentì, e lo sai come sono fatta, no?”

 

“Sì, lo so,” annuì con un altro sospiro, “e già che stiamo qui a parlare da tutto questo tempo è un miracolo per te.”

 

“Senti chi parla!”

 

Valentina scosse di nuovo il capo, con un sorrisetto sarcastico, prima di farsi più seria.

 

“Senti… io… io ho bisogno di pensarci un po’ su. Non è facile per me accettare tutti quei mesi di bugie… a me e a papà. Ho bisogno di un po’ di tempo.”

 

“Va… va bene… lo capisco,” concesse, anche se le faceva male, perché la capiva veramente Valentina, purtroppo.

 

Non è facile quando le persone a cui vuoi bene ti mentono, anche se lo fanno con le migliori intenzioni, e mo lei lo capiva più che mai.

 

“Io mo vado… mi faccio sentire io, va bene?”

 

“Va bene, Valentì, come preferisci. Ma, se hai bisogno di qualunque cosa, io ci sono, va bene?”

 

“Va bene.”

 

Valentina si alzò e per un attimo Imma ebbe il dubbio se la volesse abbracciare o meno, ma poi si allontanò e sentì la porta di casa richiudersi.

 

Ma almeno l’aveva ascoltata. Era un primo passo.

 

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Suonò il campanello. Era andata lì presa da un impulso e non sapeva se pentirsene o meno, ma ormai era fatta.

 

Attese qualche minuto e premette il pulsante un altro paio di volte ma niente: evidentemente non era in casa

 

Erano quasi le diciotto di domenica e si chiedeva dove fosse finito. Era presto per uscire a cena con qualcuno o qualcuna, ma…

 

Si voltò verso il marciapiede e fu allora che vide un’auto fermarsi e ne scesero Calogiuri e la Ferrari.

 

Non sapeva se fosse più il panico nel dover trovare una scusa del motivo per il quale si trovasse lì, o l’incazzatura che saliva all’idea che lui, invece di starsene magari a casa a riflettere, fosse corso a consolarsi da quella.

 

E, proprio in quel momento, la Ferrari alzò lo sguardo ed incrociò il suo.

 

Fece un’espressione strana e disse a Calogiuri, “mi sa che hai programmi per cena. Se mi dai le chiavi, me ne vado a casa mia e levo il disturbo.”

 

Calogiuri, sorpreso, guardò nella stessa direzione e, quando la notò, si bloccò di colpo.

 

Stava per intervenire, con la prima scusa idiota che le fosse venuta in mente, quando lui rispose con un “va bene…” e fece come richiesto.

 

“Buona serata,” augurò loro, salendo in auto, avviandola ed andandosene come niente fosse.

 

“Calogiuri, ma sei impazzito?! Almeno una scusa ce la potevamo inventare!” esclamò, rabbiosa, non appena rimasero soli.

 

“Sarebbe stato inutile: ha capito di noi due dalla tua telefonata. Me lo ha detto, anche se velatamente. Ma non dirà niente, stai tranquilla.”

 

“Tranquillissima proprio! Ma se si fa scappare qualcosa in procura?!”

 

“No, guarda, io penso che in realtà sospettasse già da parecchio di noi due e non ha mai detto niente. Quando… quando ero da solo qui a Roma e pensavo che… insomma che tra noi fosse tutto finito… le avevo parlato dei miei problemi sentimentali con una donna più grande ed impegnata. Pure lei ha avuto una storia simile, a quanto ho capito, quando era più giovane. Non potevo immaginare che poi saremmo finiti qui a lavorare insieme e-”

 

“No, ma potevi pure avvertirmi prima di queste vostre conversazioni!”

 

“Ma non avevo la certezza che lei avesse capito e da quando ce l’ho avuta… tu non mi volevi parlare e… e pensavo di dirtelo quando ci saremmo visti nuovamente, cioè mo.”

 

“E che ci facevi con lei di domenica, eh?”

 

“Lavoravo. Abbiamo lavorato sia ieri che oggi, per via della sparatoria, stiamo cercando di capire dove si nascondano gli ultimi complici. Ma possiamo entrare a parlarne?”

 

Imma tenne un attimo a freno la rabbia ed annuì. Paradossalmente era calma quando era arrivata, ma la confidenza tra lui e la Ferrari la mandava ai matti.

 

Per parlarle di lei e confidarsi in quel modo dovevano essere davvero molto complici, al di là delle uscite culturali, per così dire.

 

Entrarono dal portoncino, salirono le scale ed arrivarono al monolocale di lui. Imma gettò cappotto e borsa sul divano e incrociò le braccia.

 

“Ma sei arrabbiata per ora o sei ancora arrabbiata per l’altro giorno? Perché se sei qui… pensavo e speravo che magari un poco mi avessi... non dico perdonato, ma-”

 

“E infatti così era. Solo che mo scopro che con la Ferrari hai questa confidenza estrema e questo non me l’avevi detto.”


Confidenza estrema?! Ma no, è solo un’amica, ed è più grande e lo ha capito da sola che soffrivo per amore, quando mi sono trasferito qui. E con qualcuno dovevo pure sfogarmi, no? E Mariani e Conti ti conoscevano e poi che vuoi che ne capiscano… mentre lei comprende la situazione e per questo ti dico che non dirà niente.”

 

“Mi ricordo benissimo di quando a me parlavi di Maria Luisa, Calogiuri. Tu delle cose tue non ti confidi con chiunque ed il fatto di continuare a scoprire pezzi del puzzle tra te e la comprensiva Ferrari mi manda in bestia!”

 

“Ma non c’è niente da scoprire. Io la vedo solo come un’amica. E basta. Per questo non ci trovo niente di male e pensavo l’avessi capito.”

 

“Infatti l’avevo capito, prima che mi omettessi altre cose, Calogiuri. Per non farmi preoccupare, no? E mo che ne so, che se quella si avvicina un po’ troppo, tu magari non me lo dici per non-”

 

“Imma, lo so che ho sbagliato con Valentina e con quell’altra mezza pazza. Ma ti prometto che d’ora in poi se una donna ci proverà con me te lo dirò subito. Inclusa la Ferrari.”

 

“Sempre se lo capisci che le donne ci provano con te, Calogiuri, perché il dubbio mi è rimasto, lo sai?”

 

“Beh… con te… con te lo avevo capito no? Già a Roma c’avevo il dubbio di piacerti e volevo farti capire che ricambiavo,” le ricordò con un sorriso ed Imma sospirò.

 

“Sì, ma con altre persone mi sembri fin troppo ingenuo e non sono tutte come me, che non potevo farmi avanti, e quindi c’hai avuto mille occasioni per capirlo.”

 

“Ma te l’ho già detto: pure se ci provassero io rifiuterei. Sempre. Voglio solo te. Ti amo più di quanto immagini e… e mi distrugge pensare che non ti fidi più di me, perché… è quella la cosa che mi fa più male,” ammise, con un tono ed uno sguardo da cucciolo che erano veramente un’arma impropria.

 

E ad Imma tornò in mente quello che le aveva detto Valentina sulla sua compagna di corso Quasi Miss Italia. Categoria che Calogiuri attirava evidentemente.

 

“Non è che non mi fido di te, è che… mi sembra che tu non ti fidi più di me, porca miseria! Che mi devi proteggere, nemmeno fossi una di quella dame dell’Ottocento. Lo so che… che sono troppo gelosa e che… che per questo tu puoi avere pensato di non dirmi certe cose. Per non farmi preoccupare. Ma io preferisco sapere, anche perché me ne rendo conto da sola che sei uno che piace molto alle donne, e non ti voglio far fare una vita da recluso o sapere tutto quello che fai e conoscere ogni tua mossa. Ma voglio poter contare sul fatto che sulle cose importanti e sui problemi che ci saranno mi dirai sempre la verità, per affrontarli insieme. E su Valentina… le ho parlato, stamattina è venuta a casa e… abbiamo chiarito un po’ di cose. E credo tu le abbia fatto effettivamente una buona impressione, e con il suo carattere non so come hai fatto. Ma se ti azzardi a nascondermi di nuovo qualcosa di importante su mia figlia, io-”

 

“Non lo farò, te lo prometto! Ho imparato la lezione. E se Valentina prova di nuovo a chiedermi di fare qualcosa di nascosto, te lo dirò e valuteremo insieme il da farsi. Ma io voglio che tu mi prometti che, se ti riferisco qualcosa di quello che lei mi racconterà eventualmente in futuro, non le dirai niente, perché se no come fa a fidarsi di me?”

 

“Non intendo questo, Calogiuri. Non voglio che… che tu non possa parlare con Valentina liberamente. Infatti non ti ho chiesto niente di quello che vi siete detti, no? Però manco essere l’ultima a sapere le cose, soprattutto su mia figlia. Dobbiamo fare squadra e affrontarli insieme i problemi, non che ognuno parte al salvataggio solitario.”

 

“Va bene, Imma, ho capito, te lo assicuro. E lo sai che… che a me fare squadra con te è sempre piaciuto da impazzire, no?” le chiese con un sorriso che era illegale.

 

Imma lo osservò ancora per un attimo in silenzio e la verità era che avrebbe voluto rimanere incazzata con lui, tenere un po’ di più il punto, ma quando la guardava in quel modo, con gli occhi lucidi, quando usava quel tono di voce… come faceva?

 

Era impossibile.

 

“Va bene. Ma questo è un cartellino giallo, maresciallo, alla prossima… uomo avvisato, mezzo-”

 

Un abbraccio fortissimo la interruppe, mentre si sentiva sollevare da terra, e le mani andarono in automatico ad allacciarsi intorno al collo di lui, stringendolo più forte.

 

“Ti prometto che al rosso non ci arriveremo mai,” le sussurrò in un orecchio, baciandole poi dolcemente una guancia.

 

“Sarà meglio per te!” gli intimò, prima di aggiungere, con tono malizioso, “anche se… dipende dal rosso.”

 

“Che vuoi dire?”

 

“Dopo una giornata intensa di lavoro, non senti il bisogno improvviso di una doccia, maresciallo?”

 

“Decisamente sì, dottoressa!” proclamò con uno di quei sorrisetti che lei tanto adorava e procedettero a tentoni verso il bagno, continuando a baciarsi.

 

In una sola mossa, si trovò liberata dall’abito leopardato che aveva indossato e lei ricambiò levandogli il maglione.

 

E poi si tolse le scarpe e, una volta che lui la ebbe imitata, lo spinse dentro la doccia, ancora mezzo vestito.

 

“Imma!” rise, stupito, mentre lei aprì il getto della doccia, gelandoli per un attimo entrambi, prima che diventasse calda, in più di un senso.

 

“Tanto sono da buttare a lavare,” proclamò, ricambiando il sorriso, e si trovò inchiodata alle mattonelle fredde della doccia, trascinata in un bacio famelico, mentre l’acqua scrosciava su di loro ed i vetri si appannavano, così come la sua mente.

 

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“Dottoressa!”

 

“Calogiuri, dimmi,” lo accolse con un sorriso che sapeva benissimo essere malizioso: del resto la sera prima avevano fatto la pace in modo molto ma molto prolungato, oltre che molto soddisfacente.

 

Lui ricambiò con uno sguardo tra l’imbarazzato e il compiaciuto e proseguì, “ci sono novità sul caso Spaziani.”

 

“Cioè?”

 

“Dai movimenti bancari al momento non è risultato nulla di particolare, ma da un’indagine sull’azienda di famiglia, che ora gestisce il figlio, sembra non essere in buonissime acque. Non è a proprio a rischio fallimento al momento, ma tira avanti a fatica, se così si può dire.”

 

“Quindi il figlio avrebbe avuto minore interesse a far fuori il padre, salvo fargli cambiare il testamento o incolpare la moglie, escludendola così dal testamento.”

 

“Sì, restano comunque gli altri beni e conti da dividere a metà. Che avrebbero potuto aiutare la situazione finanziaria del figlio.”

 

“E la moglie, come se la passa? Movimenti sospetti?”

 

“No, lei aveva un conto suo personale dove il marito, da quando era ospedalizzato, versava tutti i mesi una cifra proveniente dal suo conto. Comunque non avevano il conto in comune, quindi non mi sembrava uno sprovveduto. Certo, ereditando lei prende metà degli averi del marito più la casa, mentre ora aveva uso della casa più una rendita. Comunque sul suo conto personale c’è una buona somma, la rendita non la spendeva tutta e risparmiava.”


“Quindi non sembra una con le mani bucate e un urgente bisogno di liquidità. Altro?”

 

“Sì, ho fatto controllare le intercettazioni telefoniche e quelle del figlio hanno chiamate frequenti e molto ricorrenti ad una certa Eleonora Marchi, che stiamo verificando se sia la compagna, e ad uno dei manager della società, ma può essere normale amministrazione lavorativa. Mentre la moglie aveva un numero che chiamava molto spesso, intestato a uno studio di avvocati.”

 

“Uno studio di avvocati?” domandò, incuriosita: che la moglie volesse divorziare dal marito ormai invalido? O magari sapere cosa le sarebbe spettato nel caso.

 

“Sì, ma c’erano chiamate un po’ a tutte le ore del giorno, insomma è strana come frequenza. Stiamo facendo verificare a chi corrisponda il numero tra gli avvocati dello studio.”

 

“D’accordo. Grazie, Calogiuri. C’è altro?”

 

“No, per il momento è tutto, dottoressa,” disse, prima di guardarsi intorno, avvicinarsi alla scrivania in modo furtivo, abbassarsi verso di lei e sussurrarle in un orecchio, “sei bellissima. E non vedo l’ora che sia stasera.”

 

“Ci conto,” mormorò di rimando e lui le piantò un rapido bacio sulla guancia e poi si tirò in piedi ed andò verso la porta.

 

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“Che cucini di buono?”

 

“Volevo fare un’amatriciana, Calogiù.”

 

Voltò il viso verso di lui, col mestolo del sugo in mano, e se lo trovò davanti con solo l’asciugamano della doccia legato in vita.

 

“Io avrei un’idea migliore. Che ne dici se l’amatriciana ce la teniamo per dopo?” le sussurrò e si sentì abbracciare da dietro, le mani che già iniziavano a vagare.

 

“Più che una proposta mi sembra un ordine, maresciallo,” rise, facendo appena in tempo a spegnere il fornello prima di trovarsi intrappolata tra un bancone della cucina ed il corpo di lui, l’asciugamano che spariva mentre le mani vagavano sempre più in basso, facendole il solletico e lasciandola a invocare “Calogìù, Calogiù!” tra le risate.

 

E poi per ben altri motivi.

 

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“Mariani, buongiorno, ha notizie per me?”

 

“Sì, dottoressa. Forse sono riuscita a rintracciare Maja Varga. Non è facile perché nella foto segnaletica era un po’ sfatta e su questi siti sono tutte super truccate e photoshoppate, però mi sembra molto somigliante.”

 

Le porse un tablet con su la foto di Maja Varga e poi cambiò su un sito chiamato “emotional luxury” dove c’era una specie di Barbie versione umana, vestita molto poco e truccata troppo, che si faceva chiamare Monique e descriveva con dovizia di particolari francamente tragicomica in che modo avrebbe fatto emozionare i suoi tesori, come li chiamava lei.

 

“Beh, Mariani, difficile dirlo sotto quei chili di trucco, ma somigliarci ci somiglia ed il nome era con la M. E spesso per gli pseudonimi si tiene la stessa iniziale. Dobbiamo provare a contattarla.”

 

“Ecco, questo sì, però… io posso scriverle, ma se poi c’è da parlarle ci serve un uomo che vada di persona.”

 

“Conti è libero, in caso?”


“Conti?” chiese Mariani, con una mezza risata, “dottoressa, ascolti, il capo è lei e ci mancherebbe, ma Conti si imbarazza già da morire se la Ferrari gli rivolge la parola o si avvicina troppo. E con le donne è una vera frana. Ce lo vede a fare il cliente disinvolto con una così?”

 

Dovette ammettere che Mariani aveva ragione. Ma non ci vedeva nemmeno Calogiuri, gelosia a parte.

 

“Non ci rimangono molte opzioni, dottoressa, con mezza squadra fuori uso,” le ricordò Mariani e dovette ammettere che aveva ragione. Purtroppo o mandava Conti o mandava Calogiuri, anche perché non poteva chiedere uomini extra in prestito alla Ferrari in questo periodo, che aveva un caso molto più urgente da risolvere.

 

“Va beh… senti, tu inizia a contattarla e a capire come funziona per avere un incontro. Mi rendo conto che scrivere come un uomo allupato non sia facile, Mariani, ma attingi dal peggio che ti sei sentita dire in questi anni e moltiplicalo per due, che almeno il maschilismo da cui siamo circondate servirà a qualcosa per una volta.”

 

Mariani si mise a ridere ed annuì, “sarà fatto, dottoressa.”

 

“Poi, una volta che ci capiamo qualcosa in più, decidiamo chi mandare, anche in base alla disponibilità di persone. Il caso della Ferrari ha priorità in questi giorni e me ne rendo conto. Mi raccomando, Mariani.”

 

“Certo dottoressa. E in fondo è divertente fare la parte di un uomo, per una volta,” ammise, facendole un sorriso più complice.

 

Le piaceva molto Mariani: era solare ma davvero e non per convenienza e, pur essendo estroversa, non era una che ti asfissiava di chiacchiere inutili. Anche se aveva gusti pessimi in fatto di uomini, ma almeno non era interessata a Calogiuri, a differenza di altre.

 

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“Buonissima l’amatriciana, Calogiù. Ma stasera riusciremo a mangiarla o farai come ieri sera?”


“Perché? Ti lamenti? E ti ricordo che ieri sera pure tu hai partecipato e mi sembra più che volentieri,” le ricordò Calogiuri con un sorrisetto dei suoi.

 

La sera prima, presi dalla passione, avevano lasciato la pasta a mollo finché era diventata colla da manifesti e il sugo aveva un aspetto molto poco raccomandabile.


Alla fine si erano mangiati giusto un panino al prosciutto ed erano tornati ad occuparsi di attività più interessanti.

 

I giorni di distanza forzata avevano causato una nuova fiammata di passione ancora più travolgente e Calogiuri era sempre più sicuro di sé e osava sempre di più.

 

E questo sarebbe valso mille paste scotte.

 

“No, non mi lamento ma… per consumare dopo, dobbiamo prima consumare un po’ di calorie.”

 

Le sorrise e stava versandole il vino quando suonò il campanello.

 

Si guardarono: era martedì sera ed erano quasi le venti. E a casa sua non veniva mai nessuno, aveva giusto lasciato l’indirizzo in procura.

 

“Se vuoi vado in camera, anche se noteranno la tavola apparecchiata per due.”

 

“Aspetta che vedo prima chi è,” proclamò, andando silenziosa verso lo spioncino e rimanendo sorpresa, nonostante fosse oggettivamente una delle pochissime opzioni possibili.

 

“Valentì? Che ci fai qui a quest’ora?” le chiese, sorpresa.

 

“Volevo parlarti, anzi parlarvi, a questo punto, buonasera maresciallo,” proclamò, guardando oltre le spalle di Imma e vedendolo seduto a tavola.

 

“Ci stavamo facendo un’amatriciana Valentì, non ce n’è molta di più ma ti posso cucinare qualcos’altro e-”

 

“No, non importa, tanto ho già mangiato all’uscita dall’università,” ribattè, guardandola poi in modo penetrante, “ma mi fai entrare o no?”

 

“Ah sì, sì, ma certo, vieni!” le fece strada e Calogiuri si tirò in piedi, manco fosse entrato il procuratore capo.

 

“Maresciallo, a riposo,” commentò sarcastica sua figlia, con un tono che le ricordava il suo.

 

Ma Calogiuri non si offese, anzi si mise a ridere.


“Sbaglio o ci davamo del tu noi due?”

 

“Sì, non sbagli, ma non so manco come chiamarti. Calogiuri, giusto?”


“Calogiuri va benissimo.”

 

“Ma un nome ce l’hai almeno? Questo non te l’ho chiesto l’altra sera.”

 

“Ippazio.”

 

E Valentina scoppiò a ridere ed Imma la voleva strozzare, “mo ho capito perché ti fai chiamare per cognome. I tuoi genitori ti volevano proprio male, a parte dirti che non eri buono a fare nulla.”

 

Imma si sorprese, sia che Valentina conoscesse questi particolari, sia che Calogiuri glieli avesse detti.

 

E mo era curiosissima di sapere tutto ma proprio tutto quello che si erano raccontati. Ma sapeva di non potergli fare un interrogatorio in proposito: non sarebbe stato giusto.

 

“Mio fratello si chiama Modesto e mia sorella Rosaria. Direi che pure a loro non è andata benissimo.”

 

“No, ma Ippazio è il più strano di tutti. Va beh, almeno in classe non avrai mai avuto il problema di avere un altro che si chiamava come te,” concluse Valentina, sedendosi al lato della tavola, tra loro due, in uno dei posti liberi, come se niente fosse.

 

“Senti Valentì, sei sicura che non vuoi davvero niente?”

 

“Ma no, finite la pasta, poi parliamo.”

 

“Se vuoi posso prepararti qualcosa di dolce dopo. Non so fare il tortino al cioccolato, ma con lo zabaione me la cavo bene.”

 

“Immagino il motivo…” ironizzò Valentina e Calogiuri divenne rosso fuoco mentre pure lei si sentiva avvampare.

 

“Va beh, senti Valentì, noi finiamo sta pasta, tu intanto se ci dici di cosa volevi parlare, così poi parliamo.”

 

“Più che altro volevo-” esordì, ma lo squillo di un cellulare li bloccò.

 

Era quello di Calogiuri.

 

Una chiamata a quell’ora non era normale. Lo prese e poi la guardò e disse, “è la Ferrari, devo rispondere.”

 

“Pronto, sì? Ma dove? Tra quanto? No, no, vengo io, tu un passaggio già ce l’hai immagino. D’accordo, sarò lì tra una mezz’ora al massimo.”

 

“Che succede?” gli chiese, preoccupata, alzandosi in piedi ed avvicinandosi a lui.

 

“Hanno trovato i fuggitivi. Sono in un capannone in zona Ciampino. Dobbiamo andare a dare una mano pure noi. Passo da casa mia a cambiarmi e vado a raggiungerli.”

 

Imma sentì un senso di ansia e di impotenza forte come mai prima. Quelli erano pericolosi, lo avevano già dimostrato.


“Calogiù, è pure sera e sei stanco. Mi raccomando, stai attento, sempre allerta e copritevi le spalle a vicenda, che questi non scherzano e hanno già ammazzato e ferito fin troppa gente,” lo implorò, avvicinandosi e prendendogli le mani.

 

“Tranquilla. Non sono stanco, sono lucido. E non ti libererai così facilmente di me, dottoressa.”

 

Imma se lo abbracciò, più stretto che poteva, anche se sapeva di doverlo lasciare andare. E poi gli prese il viso tra le mani.


“Avvisami subito, appena avete finito, a qualunque ora, non importa. Promesso?”

 

“Promesso, stai tranquilla. Sarò di ritorno presto.”

 

Gli diede un rapido bacio e poi lo lasciò andare, lui che, con imbarazzo, si voltò verso Valentina con un, “buona serata, sarà per un’altra volta, spero!” e scappò fuori dalla porta.

 

Presa dal panico, si era dimenticata di Valentina per un istante e ora era lei ad essere in imbarazzo. E a temere soprattutto che sua figlia prendesse malissimo quelle manifestazioni di affetto nei confronti di Calogiuri in sua presenza.

 

Le lanciò uno sguardo ma Valentina sembrava quasi… commossa.

 

“Che c’è?”

 

“C’è che… si vede che… che te ne sei proprio innamorata e lui va beh… già lo sapevo. Ma a te non ti ho mai vista così.”

 

“Così come?”


“Così… dolce? Umana? Ti… ti addolcisce molto, mamma e non credevo che fosse un’impresa possibile. E ahimè mi tocca ammettere che nemmeno con papà eri così e… e forse neanche con me.”

 

“Con te?”

 

“Lo so che sono tua figlia ed è un altro rapporto ma… ma quando il tuo maresciallo mi ha descritto il modo in cui lo hai supportato nel lavoro, in cui lo hai spinto a credere in se stesso, a non mollare, il modo in cui gli sei stata vicina. Beh… quello lo avrei voluto anche io con te, non sai quanto. Un po’ l’ho invidiato pure, lo devo ammettere.”

 

“Ma lui appunto non è mio figlio e… e non avevo la responsabilità di… di contenere le sue intemperanze adolescenziali e di evitargli sbandamenti. Forse con te a volte sono stata troppo dura, Valentì, ma c’era già papà che era il poliziotto buono, a me toccava fare quello cattivo, anche se a volte non era facile. E mia madre mi ha cresciuta con una certa severità, anche nonna si è addolcita molto negli anni ma… immagino di avere imparato da lei. Ma forse avrei a volte dovuto riconoscere più i tuoi meriti, Valentì, ma se tu pensi che non sono orgogliosa di te ti sbagli. Anche se non concordo con tutto quello che fai.”

 

“Come io non concordo con tutto quello che fai tu.”

 

“Credo sia parte di… di come evolve il rapporto con i genitori crescendo, Valentì. Ma il bene che provo per te non è in discussione e tu e Calogiuri siete su due piani diversi e… e non voglio che ti senti in competizione con lui o pensi che tenga più a lui che a te, perché non ha senso. Sarebbe come chiedere a te se tieni più a papà o a Samuel.”

 

E Valentina si rabbuiò improvvisamente.

 

Non era la prima volta che le succedeva quando si citava il suo ragazzo.

 

“Che c’è?”

 

“Niente… ma penso di andare da papà questo finesettimana, ho bisogno di sentire anche il suo lato della storia,” spiegò Valentina, glissando sul resto, ed Imma un po’ si preoccupò di cosa le avrebbe potuto dire Pietro.

 

Ma del resto pure lui aveva diritto di dare la sua versione dei fatti.

 

“D’accordo. Mi pare giusto. Ma volevi parlarmi solo di questo?”

 

“No, in realtà… in realtà forse volevo vedervi insieme per capire un po’ meglio… insomma… come funzionavate, vista la differenza di età. E mo vi ho visti e quindi potrei andare ma… ma se vuoi aspetto qui finché non torna. Si tratta della famosa sparatoria che c’è stata quando lui era con me al pub?”

 

“Sì, esatto, dovrebbero essere gli ultimi complici rimasti. Si spera. E comunque ti ringrazio per l’offerta e mi fa piacere se rimani, ma non ti devi sentire in obbligo se non te la senti, va bene?” le chiese, sentendo gli occhi pizzicarle un poco.

 

“Chi sei tu e cosa hai fatto di mia madre?”

 

“Diciamo che ho capito che il mondo non è tutto bianco e nero, Valentì. E che i sentimenti non si possono forzare. E quindi….”

 

“E quindi… magari posso restare un altro po’. Che ne dici se ci guardiamo qualcosa insieme, per distrarci? Anche se tu i film li odi.”

 

“D’accordo. E ti dirò che Calogiuri mi ha fatto scoprire che alcuni generi li apprezzo.”


“Forse non voglio sapere quali.”

 

“Ma no, Valentì,” rise, scuotendo il capo, “ho scoperto che mi piacciono i film d’animazione. E alcuni film drammatici e alcune commedie.”

 

“L’uomo dei miracoli, insomma,” proclamò sarcastica Valentina, “allora, cos’hai da vedere?”

 

“Scegli tu,” le propose, passandole il telecomando dopo aver aperto il sito di streaming - Calogiuri le aveva insegnato come fare.

 

“Scandal? Vedo che su certi argomenti vi tenete aggiornati.”

 

Imma si sentì arrossire, “lo segui pure tu?”

 

“No, ma ho presente che trama ha. Senti, e se ci guardassimo insieme un film di quando ero bimba?”

 

“Ma dici sul serio?”

 

“E certo che dico sul serio! Vediamo… che ne dici di Rapunzel?”

 

E che ne diceva? Ricordava benissimo che lo tollerava molto poco già allora, ma si era offerta e mo non si poteva rifiutare.

 

“Va bene,” acconsentì con un sospiro, preparandosi psicologicamente ad oltre un’ora di canti, balli e buoni sentimenti.

 

Mentre lei aveva in mente solo Calogiuri e dove si trovasse in quel momento.

 

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“Mariani, tu vai con Carminati. Conti, tu con Rosati. Io vado con Calogiuri.”


“Ma come, dottoressa, volete entrare anche voi?” le chiese, sbigottito.

 

“Tranquillo, Calogiuri, ho fatto addestramento specifico qualche anno fa. Siamo sotto organico e due paia di occhi sono meglio di uno. E poi non posso lasciare uno di voi da solo. Forza e seguiamo il piano previsto, gli agenti qui ci faranno da supporto, dobbiamo bloccare tutte le vie di fuga.”


“D’accordo dottoressa,” esclamarono tutti all’unisono e si dispersero.


“Ma sei davvero sicura di volerlo fare?” le chiese, quando gli altri si furono allontanati.

 

“Calogiuri, tranquillo, come ti ho già detto, ho fatto addestramento e… e ora i banditi sono tre e noi siamo ben di più, con gli agenti di supporto. Dobbiamo solo coprirci le spalle a vicenda e stare attenti ad ogni movimento, chiaro?”

 

“Chiarissimo.”

 

“Bene, allora entriamo al momento stabilito.”

 

Si misero accanto alla porta e dagli auricolari arrivò il conto alla rovescia, seguito da un perentorio “ora!”. Calogiuri calciò la porta ed entrò, facendole poi segno di passare.

 

Procedevano schiena a schiena, guardando ogni angolo della parte di capannone loro assegnata prima di procedere. Questa situazione gli dava un tremendo senso di dejavu.

 

Ma stavolta fu lui a notare un movimento ed un bagliore e sparò, senza esitazione, sperando non fosse un colpo letale ma fu comunque sollevato quando vide la figura cadere a terra.

 

“Bella mossa, Calogiuri, compl-”

 

E poi sentì altri due spari, alle sue spalle ed il peso di Irene che si scaricava su di lui.

 

Si voltò, terrorizzato, pronto a sorreggerla, ma la vide tirarsi dritta in piedi, la pistola in pugno, un altro uomo riverso poco distante.

 

“Due su tre, settore fortunato, Calogiuri,” commentò con un sospiro e con un sangue freddo invidiabile e forse pure un po’ inquietante, “controlliamo come sono messi, ma continua a coprirmi le spalle, e poi sentiamo gli altri se hanno trovato qualcuno.”

 

“Questo respira, l’ho preso alla gamba, e statti fermo che è peggio!” gli urlò, prendendogli la pistola mentre l’uomo si contorceva, tenendosi la zona del ginocchio.

 

“Mentre lui… è incosciente ma respira. Bisogna far intervenire subito l’ambulanza, l’hai preso al braccio e alla spalla destra.”

 

“Volevo fargli mollare la pistola. Spero di non aver preso organi vitali,” commentò, abbassandosi per esaminare il foro, sempre schiena contro schiena, “è abbastanza in alto, forse mi è andata bene. Un morto sulla coscienza ancora non ce l’ho e non voglio avercelo. Allerta l’ambulanza, Calogiuri e poi-”

 

Sentirono altri spari, in lontananza, e Calogiuri trattenne il fiato, finchè sentì nell’auricolare la voce di Mariani, “ne abbiamo preso uno, abbiamo sentito altri spari, che succede?”

 

“Ne abbiamo presi due, Mariani,” rispose la Ferrari, con un tono che gli sembrò più rilassato, “finiamo il giro di perlustrazione come previsto, nel frattempo fate intervenire i medici dalle ambulanze per il vostro settore e per il nostro. Chiudo.”

 

Finirono la ricognizione mantenendo alta l’attenzione, ma non c’era nient’altro da trovare.

 

Era finita, finalmente.

 

“Bel lavoro, Calogiuri, ho fatto bene a scegliere te per guardarmi le spalle,” si complimentò la Ferrari con un sorriso, quando ebbero finito ed ebbe rimesso la pistola nella fondina, i paramedici che sopraggiungevano poco distante.

 

“Ma anche t- voi… cioè… ma dove avete imparato a sparare così?”

 

“Mio padre era colonnello dell’arma, ormai è in pensione. Ma, essendo l’unica figlia, voleva che seguissi le sue orme. E allora mi hanno praticamente costretta a iscrivermi a giurisprudenza solo che… ho scoperto che mi piaceva molto di più vincere un dibattito che entrare in azione. E quindi alla fine ho deciso di fare il concorso per magistratura e l’ho vinto. Mio padre non me l’ha mai perdonato del tutto, credo, come tante altre cose. Ma nel frattempo avevo fatto parte dell’addestramento del corso da ufficiali, ho mollato prima di fare il giuramento. Non faceva per me, con tutto il rispetto.”

 

“Capito… è che vedendovi non l’avrei mai pensato che aveste un passato da militare. Siete sempre così… elegante e di classe.”

 

“Guarda che i colonnelli come mio padre frequentano giri altolocati: alla fine il lavoro principale di mio padre, specie negli ultimi anni, era andare ad eventi e manifestazioni. C’è molta politica di mezzo. Le ossa me le sono fatte allora, subendomi non sai quante feste noiose, quando mia madre non poteva. E poi… e poi lo studio e le attività culturali mi sono sempre piaciute di mio, gli eventi sociali un po’ meno, ma bisogna imparare a gestirli, Calogiuri, per quando farai carriera. Perché tu farai carriera, se non ti rovini con le tue mani.”

 

“Che volete dire?” le domandò, incuriosito.

 

Ma proprio in quel momento sopraggiunsero Mariani e Carminati ed Irene si zittì, raggiungendoli per complimentarsi con loro.

 

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Il telefono squillò ed Imma fece un balzo sul divano, affrettandosi ad afferrarlo.

 

Valentina mise in pausa proprio mentre madre Gothel stava per fare una brutta fine.

 

“Pronto?”

 

“Sto bene, Imma, sto bene, stai tranquilla.”

 

Imma sentì quel qualcosa di potentissimo nel petto e si accorse solo dal preoccupato “mamma?” di Valentina di stare piangendo.

 

“Sta bene…” le spiegò, prima di sorridere rivolta al telefono, neanche lui la potesse vedere, “Calogiuri, li avete presi tutti? Com’è andata?”


“Sì e… ti spiego meglio quando torno. Ma stai tranquilla, va bene?”

 

“Va bene… ti amo…” gli sussurrò, per un attimo dimentica di tutto e del fatto che ci fosse lì Valentina, ma non poteva non dirglielo.

“Ti amo anche io. E te l’ho detto, non ti libererai così facilmente di me.”

 

“Va bene, ti aspetto,” gli disse, con un altro sorriso, prima di chiudere la telefonata.

 

Guardò preoccupata Valentina, ma le sembrava di nuovo quasi commossa.

 

“Dev’essere difficile stare con qualcuno che rischia la vita quando va a lavorare. Già con te… tante volte ho avuto paura, ma almeno tu di solito non entri in azione. Con papà al massimo poteva farsi venire la cervicale a furia di stare sul pc,” commentò, con un tono riflessivo, prima di aggiungere, “sai, pensavo che stare con un aspirante chef fosse tosta, ma c’è di peggio. Anche se… almeno tu e lui vi vedete, fin troppo, che non so come fa a sopportarti a casa e al lavoro. Io non ce la farei.”

 

“Ma lui è felice di sopportarmi e sì, sono stata fortunata, con il carattere che tengo, lo so. E per quanto riguarda lo chef… non ha giorni di pausa?”

 

“Sì, ma è stanchissimo e poi di solito cadono sempre quando sono all’università.”

 

“Valentì, io non sono proprio adatta per dare consigli sentimentali, però ti posso dire che… tu e Samuel vi siete conosciuti pochissimo prima di andare a convivere. E no, non ti voglio fare la predica ma è la verità,” si affrettò a precisare, vedendo la sua occhiata, “eravate sempre a distanza e lui studiava ancora. Mo il suo lavoro è questo e devi capire tu se è compatibile con la tua vita o se lui riesce a renderlo compatibile in qualche modo. Capisci che intendo?”

 

“Credo… credo di sì…” ammise con un sospiro, prima di aggiungere, guardando l’ora, “va beh… finiamo di vedere Gothel che muore male e poi tornerei a casa, che tanto il tuo maresciallo è sano e salvo.”

 

“Grazie, Valentì. Di essere rimasta stasera e di tutto il resto… sei maturata moltissimo negli ultimi mesi. Mi sa che vivere sola ti ha fatto bene,” le disse con un sorriso.

 

“Ecco, hai detto bene, sola,” commentò, amara, prima di riavviare lo streaming ed evitare ogni successivo tentativo di conversazione.

 

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“Imma!”

 

“Calogiù!”

 

Se lo era aspettato davanti alla porta e gli aveva buttato le braccia al collo non appena l’aveva richiusa.

 

Rimasero così, stretti stretti, per istanti che parevano infiniti.

 

“Allora? Com’è andata?” gli chiese, staccandosi leggermente da lui.

 

“Se… se ci sediamo te lo racconto che… se mi stai così vicina… mi risulta un po’ difficile,” ribattè lui, scherzosamente ma non troppo.

 

Ci pensò su un attimo e poi iniziò a slacciargli il giaccone, “allora il resoconto me lo fai più tardi, con calma, a letto.”

 

“Imma, ma… ma sono messo malissimo, ho bisogno di una doccia e-”

 

“Risparmio energetico, ricordi, maresciallo?” ribatté con un sorriso malizioso, per poi sussurrargli, “e poi… e poi ti meriti proprio un bel trattamento rilassante completo.”

 

“E che cosa prevederebbe?”


“Intanto dammi una mano a levare questi vestiti che sono di troppo, vieni in bagno con me e lo scoprirai.”

 

“Agli ordini dottoressa!”, proclamò, ironico, levandole la vestaglia in un sol colpo e lasciandola solo con la camicia da notte, “hai un’idea di quanto mi fai impazzire vestita così?”

 

“No, ma illustramelo meglio, maresciallo,” ribattè, trovandosi trascinata in un bacio profondissimo, i vestiti che iniziavano a cadere per terra, tracciando un sentiero fino al bagno.

 

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“Che cosa?!”

 

“Sì, ha fatto l’addestramento e c’ha pure un’ottima mira.”

 

Imma sospirò: tra le mille qualità della Ferrari ci mancavano solo i momenti Rambo nei quali entrava in azione. Ma del resto… figlia d’arte… sicuramente aveva avuto la strada spianata lei, l’accesso alle migliori scuole, e a tutte quelle cose culturali a cui invitava Calogiuri e che Imma da giovane non si sarebbe mai potuta permettere. E pure mo lo faceva comunque al risparmio.

 

E poi si era scelta Calogiuri per coprirle le spalle, mica scema, anche se… anche se dall’altro lato glielo aveva protetto e gliele aveva coperte pure lei le spalle. E pure molto bene. E per questo doveva esserle grata, anche se… per tutto il resto…. Il fatto che Calogiuri le dovesse in un certo senso la vita non è che le andasse proprio giù, ma avrebbe preferito avere milioni di di debiti con la Ferrari che l’alternativa.

 

“Comunque io preferisco sempre la mia dottoressa armata di estintore, anche se quella volta mi hai fatto venire un colpo,” le sussurrò ed Imma non potè trattenere un sorriso, accarezzandogli il viso e rifugiandosi ancora di più nel suo petto

 

“E perché tu no, maresciallo? Io… io non so come farei senza di te. Non sono mai stata così felice e… e c’ho paura di perdere tutto, mi sembra troppo bello per essere vero.”

 

“Io non sapevo nemmeno cosa significasse essere felici prima di conoscerti, figurati,” rispose lui, in un modo che la fece commuovere, “ma tu sei forte e ce la faresti anche senza di me, lo so. Ma ti prometto che, finché sarà in mio potere e tu lo vorrai, farò di tutto per esserci sempre.”

 

“Anche io, Calogiù, anche io,” gli sussurrò di rimando, due lacrime che le bagnavano le guance, baciandolo dolcemente, senza fretta, le mani che ricominciavano la loro danza sotto le lenzuola ma accarezzandosi con tenerezza, quasi come a rassicurare l’altro, a coccolarsi e a dirsi quanto fosse grande il bene che c’era, al di là dell’amore e della passione.

 

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“Pronto?”

 

“Imma?”

 

“Chi parla?” chiese, stranita, non riconoscendo la voce dall’altro capo del telefono.

 

“Sono Chiara, Chiara Latronico. Scusa se ti disturbo ma… sono a Roma da mio figlio e… e insomma… mi chiedevo se ti andasse di vederci. Ti ho chiamata in procura perché non avevo il tuo cellulare e non mi pareva il caso di farmelo dare senza il tuo permesso.”

 

Imma ci riflettè un attimo… non ci aveva quasi più pensato a Chiara Latronico, presa com’era dai problemi con sua figlia e poi con Calogiuri.

 

Le avrebbe fatto piacere rivederla? Sarebbe stato il caso?

 

In fondo però del maxiprocesso ormai si occupava solo marginalmente.

 

“D’accordo, per me va bene,” si sentì rispondere, prima forse di averci ragionato su del tutto.

 

Ma era pur sempre un legame con le sue origini e poi… e poi doveva ammettere di essere curiosa.

 

Sperando di non pentirsene.

 

“Allora se ti va ti lascio il nome del mio hotel. C’è un ottimo bar qui, possiamo prenderci un aperitivo insieme. Non è distantissimo dalla procura, perché anche mio figlio vive qui vicino. Io sono a Roma ancora per una settimana, quando vuoi.”

 

Imma consultò mentalmente l’agenda dei suoi impegni. Tra due giorni Calogiuri avrebbe fatto una delle sue uscite culturali con Irene. Poteva rientrare più tardi pure lei.

 

“Ti va bene dopodomani alle diciotto e trenta?”

 

“Va benissimo.”

 

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“Secondo te ho fatto male?”

 

“No, cioè… devi fare come ti senti, Imma. Lo puoi sapere solo tu cosa ti senti di fare in questo caso.”

 

“Forse… forse c’hai ragione… è che… da un lato sono curiosa, dall’altro lato temo le sue vere intenzioni e cosa potrò scoprire.”

 

“Ma cosa ci guadagnerebbe a parlarti? Mi sembra che sia lei quella più abbiente e ormai Latronico ha confessato ed è agli arresti, seppure con i benefici dati dall’aver collaborato. Non credo abbia nulla da guadagnarci, no?”


“No, infatti. Ed è proprio questo che mi stranisce. Anche il fatto che lasci i fiori a mia madre, nonostante fosse l’amante di suo padre. Perché?”

 

“Puoi chiederlo a lei quando la vedi, no?” le fece notare Calogiuri con un sorriso, “non è un interrogatorio in cui devi valutare cosa chiedere e cosa no. E se le risposte non ti piacciono puoi sempre non rivederla più.”

 

Imma rimase per un attimo ammutolita: da quando Calogiuri era così volitivo?

 

“Che c’è?”

 

“C’è che mi stai diventando troppo saggio, Calogiuri, sarà merito della Ferrari e di tutti i suoi eventi culturali?” domandò, sarcastica, dandogli un pizzicotto sul fianco e facendolo sobbalzare nel letto.

 

“Credo sia più il merito della semi convivenza con una certa dottoressa.”

 

“Ah sì?” gli chiese con un sorrisetto soddisfatto.


“Sì,” confermò, stampandole un bacio, per poi aggiungere, più serio, “comunque, se ti danno così fastidio le mie uscite con la Ferrari, posso ridurle.”

 

“Ma no, Calogiuri. Ti ho detto che non voglio che ti limiti per me. Finché quella rimane al posto suo però. Cosa prevede l’evento di dopodomani?”

 

“Uno spettacolo chiamato La Menzogna.”

 

Annamo bene… - pensò ma non lo disse, con l’accento romano che ormai sentiva fin troppo spesso.

 

“Va beh… lo spettacolo Due Donne che Ballano alla fine con il ballo non c’entrava niente. Ti ho già detto che ti ci devo portare, vero, prima che chiuda?”

 

In effetti Calogiuri da quello spettacolo era tornato commosso come non l’aveva quasi mai visto da quando lo conosceva.

 

“Va bene, Calogiù, ma se mi addormento e fai brutta figura sarà colpa tua. Uomo avvisato…”

 

“Mi basta che spegni il cellulare, dottoressa,” rise, conoscendola fin troppo bene.

 

“Vediamo se riesci ad essere convincente a sufficienza maresciallo…” lo provocò, soffiandogli sulle labbra, ritrovandosi ben presto sepolta sotto ad un corpo muscoloso, le braccia intrappolate nella sua presa a godersi una dolce tortura di baci, morsetti e solletico dalla quale non si sarebbe mai voluta liberare.

 

Ma lo avrebbe fatto lo stesso, per puro spirito di contraddizione.

 

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“Buonasera, cercavo la signora-”

 

“Imma!”

 

La voce di Chiara Latronico la raggiunse prima che potesse pronunciare il suo cognome ed Imma si voltò e la vide poco distante, elegante come sempre.

 

Com’era questo hotel, del resto, un cinque stelle.

 

Era ricca la Latronico, sia di famiglia sia per la professione che faceva.

 

Le venne da fare il paragone con la pensione dove era stata lei a Roma e quasi le scappò da ridere.

 

“Allora, come va? Ti trovo benissimo!” esclamò con un sorriso, come se fosse la cosa più normale del mondo, “l’aria di Roma ti fa bene.”

 

In realtà era Calogiuri a farle benissimo, ma non poteva certo dirlo.

 

“Bene, non mi posso lamentare. Tu? Ti vedo più allegra del solito.”

 

“Beh… quando vedo uno dei miei figli sono sempre allegra. E poi amo Roma e… e in questo periodo allontanarsi da Matera è ancora più liberatorio del solito, come potrai immaginare.”

 

Imma sospirò: certo che lo capiva ma-

 

“Tranquilla, non voglio parlare del processo né del tuo lavoro, anche perché so che non me ne potresti parlare,” si affrettò a chiarire, sembrandole leggere nel pensiero, “che ne dici se proseguiamo al bar? Fanno un aperitivo niente male.”

 

“Va bene,” acconsentì, seguendola in un posto fin troppo elegante e sentendosi a disagio per com’era vestita.

 

Tutti la guardavano e lei, per reazione, camminò a passo ancora più deciso e fiero, seguendo la Latronico a un tavolino d’angolo.

 

“Signora Latronico!” le raggiunse uno dei camerieri con un sorriso, “e vedo che ha un’amica stasera. Per lei il solito?”

 

“Sì, grazie. Per te, Imma? Io solitamente prendo un martini.”

 

Ovviamente: semplice, di classe.

 

Imma si affrettò a leggere il menù dai prezzi esorbitanti e alla fine optò per un poraccissimo spritz. Ma non reggeva superalcolici a stomaco vuoto.

 

“Allora, che mi racconti?” chiese Chiara, con un altro sorriso.

 

“Mah… niente di particolare… però… avrei io delle domande per te, se non ti dispiace.”

 

“No, non mi dispiace.”

 

“Senti, posso chiederti perché… perché ci tieni tanto a conoscermi? E soprattutto perché porti i fiori sulla tomba di mia madre? In fondo era l’amante di tuo padre. Non dovresti avercela con lei?”

 

Chiara scosse il capo e sorrise, “lo capisco che sei scettica, lo sarei anche io al posto tuo, vista la mia famiglia. Allora… diciamo che con mia madre… non ho mai avuto un rapporto molto materno. Lei ci lasciava sempre alle tate e alle donne di servizio, come tua madre, di cui invece ho un bellissimo ricordo. Era molto buona con me, mi dava le caramelle di nascosto da mia madre, che non voleva. Mia madre… non era una persona cattiva ma si era sposata con mio padre per imposizione delle famiglie. Le piaceva fare la bella vita e… non era affettuosa, era molto rigida, quasi anaffettiva. Forse perché ce l’aveva con mio padre, che non era un santo, non so ma… ma ci vedeva un po’ come dei pesi. Vedi, lei avrebbe voluto fare la ballerina professionista di danza classica ma i miei nonni la costrinsero a sposarsi giovane, perché non era un lavoro serio per una ragazza di buona famiglia. E così mia madre poi ha costretto me, per anni, a prendere lezione di danza classica, a fare diete strettissime. E appunto, per me tua madre soprattutto era un po’ una via di fuga dalle imposizioni di mia madre. Mi è spiaciuto molto quando si è licenziata, anche se ora ho capito perché.”

 

Imma rimase in silenzio. Da un lato capiva da dove derivasse il portamento della Latronico, dall’altro lato per trovare morbida sua madre… la sua doveva essere stata un sergente di ferro. A parte che si è sempre più morbidi coi figli degli altri.

 

“Io non giustifico mio padre, né per quello che faceva sul lavoro, né in privato. Ma il divorzio era un disonore all’epoca e… e diciamo che da un lato lo capisco, come immagino mia madre avrà avuto i suoi amanti. O forse no… talmente era anaffettiva. Chi lo sa. Ma non invidio la vita matrimoniale che ha fatto mia madre, né quella che ha fatto mio padre.”

 

“Capisco…” ammise con un sospiro.

 

In fondo una cosa ce l’avevano in comune: genitori con un matrimonio infelice, anche se da una parte la personalità più problematica era paradossalmente la madre e, nel suo caso, suo padre.


“Però da qui a lasciarle le rose e volermi conoscere…”

 

“Lo so… ma è solo che… credo col senno di poi sia stata la persona che più ha amato mio padre, per quello che aveva di buono, nonostante tutti i suoi difetti. E volevo ricambiare in qualche modo. Forse… forse perché vedeva appunto del buono in lui, in noi e in questo periodo… non è facile vedercelo nemmeno per me.”

 

Imma non seppe perché ma si commosse un poco, anche se si trattenne dal mostrarlo.

 

“Senti, lo so che non saremo mai sorelle nel senso vero del termine e se non mi vorrai più vedere lo capirò, però… io davvero ho un’altra vita rispetto a mio fratello e a mio padre. E anche i miei figli. Forse… forse visto che hai visto il peggio dei Latronico, vorrei conoscessi anche il… meno peggio. Capisco tu non sia esattamente fiera della nostra metà di pool genetico e ti capisco.”

 

“Ci… ci devo pensare ma… credo di avere compreso un po’ più cose oggi,” ammise, con un lieve sorriso, “e tu, vuoi sapere qualcosa?”

 

“Sì, vorrei sapere i tuoi gusti, cosa ti piace fare… magari qualcosa della tua infanzia se ti va di dirmelo. Insomma, sono curiosa di capire se abbiamo qualcosa in comune a parte… la genetica,” rispose ed Imma si sorprese molto che fosse quella la sua prima curiosità.

 

“In realtà mi piace soprattutto lavorare e non ho moltissimi hobby. Ma ci posso provare.”

 

“Allora comincio io, se ti va e mi dici se c’è qualcosa che ti suona familiare.”

 

Imma annuì, sollevata, lasciandola parlare.

 

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“Direi che almeno sulla gastronomia abbiamo molte cose in comune. E anche sulla genetica buona per non prendere peso, a parte le diete di mia madre..”

 

Imma doveva ammettere che era vero. La Latronico era una buona forchetta, al di là delle apparenze, si vedeva da come si mangiava l’aperitivo.

 

Poi avevano in comune la passione per il latino e il greco, la memoria per le citazioni classiche, l’odio per gli eventi mondani e la passione per le matite ben temperate; anche se Chiara temperava a mano.

 

Chissà da quando aveva incominciato a pensare a lei come Chiara, nel corso della conversazione.

 

“Le signore gradiscono ancora qualcosa?” chiese il cameriere, vedendo che avevano finito i drink. Ed Imma notò che avevano chiacchierato per un’ora e mezza, quasi un record per lei se non si trattava di lavoro.

 

“Io sì, volentieri, tu, Imma?”


“Io veramente-” provò a temporeggiare, indecisa se smarcarsi o meno, quando venne interrotta da un “mamma!” pronunciato ad alta voce.

 

Alzò gli occhi e vide un bel giovanotto, alto, moro, occhi marroni, la pelle chiara, l’aria da bravo ragazzo di buona famiglia, vestito elegantissimo, una valigetta di pelle in mano.

 

“Andrea! Che ci fai qui?” gli domandò sorpresa la Latronico, voltandosi e il giovanotto la strinse in un abbraccio.

 

“Avevo un appuntamento qua vicino che è finito tardi e così ho pensato di vedere se eri in hotel e farti un saluto,” chiarì, prima di sollevare lo sguardo e notarla, “buonasera signora. Una tua amica, mamma?”

 

“Lei è Imma Tataranni, Andrea,” spiegò e il ragazzo spalancò gli occhi, tirandosi improvvisamente più dritto.

 

Sapeva chi era, evidentemente.

 

“Capisco… piacere di conoscerla, dottoressa, Andrea Galiano. Mia madre mi ha parlato di lei,” proclamò, anche se in tono più formale e capì che non era altrettanto entusiasta di conoscerla.

 

“Guardi… se teme per la sua famiglia, io non voglio niente da voi economicamente, questo l’ho già chiarito a sua madre.”

 

“No, no, non è questo, è che… diciamo che me l’ero immaginata diversa, questa figura mitologica che ha distrutto il sistema corrotto creato da mio nonno e da mio zio. E alla fine è una nostra parente… a volte la vita ha un’ironia quasi beffarda, non trova?”

 

“Sul beffarda mi trova in pieno accordo.”


“Ma suvvia, dagli pure del tu, Imma, che mica siete in tribunale. Per te invece mi sa che è lei a doverti dare il permesso,” aggiunse, rivolta al figlio.

 

“Come preferisci,” disse, rivolta al giovane, che sospirò ed annuì, sembrando un minimo più rilassato, “e comunque non ho intenzione di convocare nessuno qui in tribunale, salvo abbiate qualcosa da dichiarare.”

 

“Sì, che sono un avvocato, quindi il tribunale lo frequento di mio,” chiarì il Galiano e ad Imma venne un masso sullo stomaco, prima che lui precisasse, alzando una mano, “non penalista, non penalista. Mi occupo di diritto di famiglia.”

 

“L’ambiente con il più alto tasso di crimini violenti,” ribattè lei, con un mezzo sorriso, anche se un po’ teso.

 

“Sì, ma diciamo che i miei clienti di solito si scannano sugli alimenti e su chi ha in affidamento i figli o gli animali domestici, ma se arrivano a scannarsi sul serio non me ne occupo io, per fortuna, ma altri colleghi dello studio.”

 

“Ah, non ti invidio lo stesso. Anche se questo significa che non ci troveremo mai a doverci scontrare in tribunale.”

 

“Direi proprio di no, per fortuna, da quello che ho sentito su di lei. E lo so che può pensare che abbia seguito le orme di mio zio ma… semplicemente… credo che l’amore per il contraddittorio sia di famiglia. Solo che io preferisco non dover difendere criminali. Non che certi miei clienti siano santi, ma insomma… ci siamo capiti, no?”

 

“Sì, anche se… io e la categoria degli avvocati raramente andiamo d’accordo, con tutto il rispetto. Ma meglio per te non essere un magistrato ora qui a Roma, visto il processo in corso. Hai avuto ripercussioni?”


“No, nessuno o quasi sa chi sia mio zio. Del resto abbiamo fatto sempre vite molto separate e ho un altro cognome. E non posso farla ricredere sulla categoria, ma spero di farla ricredere almeno su di me, se lei e mia madre vi frequenterete da ora in poi.”

 

Chiara Latronico la guardò, come se aspettasse una specie di sentenza.

 

“Vedremo… per intanto ci stiamo conoscendo meglio… un passo alla volta,” rispose, senza sbilanciarsi e Chiara annuì, comprensiva come al solito.

 

Decisamente quello non l’avevano in comune.

 

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“Grazie per avermi riaccompagnata, Calogiuri. Anche se potevo guidare io.”

 

“Ma figurati, dovere! Ti parcheggio la macchina qui sotto? Tanto da qui a piedi ci metto un attimo,” le chiese ed Irene annuì con un sorriso.

 

Lo aspettò fuori dalla vettura mentre lui parcheggiava e poi allungò una mano per prendergli le chiavi.

 

“Spero ti sia piaciuto lo spettacolo, Calogiuri.”

 

“Sì, anche se ha una visione della vita di coppia che… è molto pessimista.”

 

“Un po’. Ma è anche realista. Tutti mentono, Calogiuri, pure tu hai mentito, giusto qualche giorno fa. Dipende da quanto grande è la menzogna,” rispose con un sopracciglio alzato e si sentì preso in fallo.

 

“Ma a fin di bene. E comunque non lo farò più, ho imparato la lezione.”

 

“Sempre una menzogna è, e… è umano mentire. Anche a se stessi. L’importante è rendersene conto almeno un po’. Comunque, ora mi sa che ti lascio e risalgo a casa. Grazie ancora della compagnia.”


“Grazie a te dell’invito,” le rispose con un sorriso.

 

La Ferrari ricambiò ed improvvisamente si avvicinò e lo baciò sulle guance, aggiungendo, mentre si ritraeva, “fai il bravo, Calogiuri, mi raccomando!”

 

Preso in contropiede, un po’ imbarazzato, anche se in fondo era un normale saluto tra amici, la vide sparire dietro il portone.

 

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“Calogiù, finalmente, cominciavo a preoccuparmi!”

 

Entrò e la trovò sul divano, in vestaglia: in effetti era quasi mezzanotte.

 

“Scusami ma… ma alla fine abbiamo dovuto aspettare un’amica di Irene che recita nella compagnia, per salutarla.”

 

“E com’era lo spettacolo?”


“Bello, ma un po’ triste… parlava di una coppia che in apparenza è felice ma si mente praticamente su tutto.”

 

L’espressione di Imma fu tutto un programma.

 

Poi si alzò e si avvicinò a lui, alzandosi sulle punte - visto che era per una volta senza tacchi - per dargli un bacio, ma si bloccò bruscamente.

 

“E cos’è quello?” chiese con un’occhiata rabbiosa, indicandogli la guancia.

 

“Che cosa?” chiese lui, confuso, ma lei, per tutta risposta, lo trascinò davanti allo specchio.

 

E lo vide, aveva un segno di rossetto sulla guancia, vicino alla mandibola.

 

“Ah… ma niente, deve essere di Irene, mi ha salutato dandomi i due baci sulle guance e aveva il rossetto,” spiegò, ma Imma non sembrava particolarmente rassicurata.

 

“Siete sempre più in amicizia, noto,” proclamò, sarcastica, aggiungendo, dopo qualche istante, “il prossimo passo quale sarà? Gli abbracci? O ci siete già arrivati?”

 

“Ma no, figurati! Si è trattato solo di un saluto, come tanti.”


“Di solito nei saluti ci si bacia guancia a guancia e non si stampano rossetti ma... concediamole che le sia scappato… comunque se si avvicina ancora di più fisicamente me lo devi dire, chiaro?”

 

“Imma, te lo dirò, se mai succederà, ma non ti devi preoccupare. Mi ha pure intimato di fare il bravo con te e non fare cavolate.”

 

“E chi è per dirti ciò? Tua madre? Tua sorella? La tua migliore amica? Si prende un sacco di confidenza, Calogiuri, è questa la verità. Ma finché non si avvicina e tu sei convinto della sua buona fede, diciamo che cercherò di crederci pure io.”

 

“Non ti va proprio giù, eh?” le sorrise, cercando di abbracciarla e riuscendoci dopo un paio di tentativi nei quali lei provava a scansarsi.

 

“Non mi piace che sappia di noi due, Calogiuri. Questo la rende pericolosa, capisci?”

 

“Ma se avesse voluto fare uscire qualcosa lo avrebbe già fatto. E se io fossi stato interessato a lei o lei a me, abbiamo avuto quasi sei mesi nei quali io e te non ci siamo sentiti perché nascesse qualcosa. Ma non c’è mai stato nulla del genere.”

 

“Va bene…” sospirò Imma, scuotendo il capo, “sperando solo che questo spettacolo non ti abbia insegnato troppe cose, maresciallo.”

 

“Solo che non voglio una vita del genere e voglio che possiamo sempre essere sinceri, senza paura. Ma tu devi avere più fiducia in me, Imma, e in te stessa. Ti sono stato fedele per mesi, pure quando non dovevo farlo, non capisci che non hai proprio nessun motivo di preoccuparti di qualcun’altra?”

 

Imma sospirò ed annuì, abbracciandoselo stretto stretto, finché non gli sussurrò, “che ne dici se mo laviamo via questo rossetto e tutto il resto e poi magari… magari ti mostro io come si usa per bene il rossetto?”

 

“E cioè?”

 

“Cioè ci sono punti ben più interessanti, maresciallo,” gli sorrise in quel modo che lo faceva eccitare tremendamente.

 

E non vedeva l’ora di ricevere un’altra lezione dalla sua dottoressa.

 

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Infilò le chiavi nella toppa e aprì la porta.

 

Voleva fargli una sorpresa, per questo era tornata prima del previsto. Era sicura che gli avrebbe fatto piacere, visto quanto si sentiva solo.

 

Fece qualche passo, borsone in mano, e sentì il rumore di risate.

 

Si stranì un attimo: chi poteva essere a quell’ora? Erano le dieci di sera passate.

 

Proseguì nell’appartamento e, giunta in salotto, si trovò davanti a una scena che mai avrebbe voluto vedere: suo padre e una donna avvinghiati sul divano, per fortuna ancora mezzi vestiti, che limonavano peggio che in discoteca.

 

Le cadde il borsone di mano.

 

Suo padre fece un salto e si staccò di colpo da quella, girandosi verso di lei, spaventato e sembrando ancora più terrorizzato quando i loro sguardi si incrociarono.

 

“Va- Valentì… ma che… che ci fai qui?”

 

La donna si ricompose, con una specie di sorrisetto imbarazzato e Valentina la riconobbe: era l’insegnante di sax di suo padre.

 

“Che ci faccio io qui?! Che ci fa lei qui?! Da quanto va avanti tra voi, eh?! E tu a fare l’innamorato abbandonato e addolorato!!”

 

“L’innamorato abbandonato e addolorato?” chiese Cinzia, sembrando confusa.

 

“Valentì, io, non è come pensi, ti posso spiegare, io-”

 

“Pensavo con mamma di avere toccato il fondo, ma forse tu sei pure peggio!” urlò, prendendo il borsone e uscendo di corsa e, ignorando suo padre che provava a correrle dietro ed inciampava nei pantaloni mezzi slacciati, inforcò il portone di casa.


Nota dell’autrice: Eccoci arrivati anche alla fine di questo capitolo. Valentina ha scoperto, nel modo peggiore, anche di suo padre e Cinzia e ora… cosa combinerà? Inoltre Imma si sta avvicinando alla famiglia Latronico ma… chissà come si evolveranno le vicende in proposito nei prossimi capitoli. Imma e Calogiuri inoltre sono stati scoperti dalla Ferrari e… diciamo che la clandestinità sul luogo di lavoro potrebbe cominciare a fare emergere altri problemi….

Spero che la storia continui a rimanere appassionante e vi ringrazio di cuore  per avermi seguita per tutti questi capitoli.

Le vostre recensioni sono un enorme sprone ad andare avanti e mi danno sempre la carica, quindi se vorrete farmi sapere cosa ne pensate, in positivo o in negativo, ve ne sarò davvero molto grata.

Il prossimo capitolo arriverà domenica prossima, il dodici di aprile. So che sarà sicuramente una pasqua molto particolare per tutti noi e proprio per questo ho deciso di tenere comunque la pubblicazione di domenica, nonostante la festività.

Grazie mille ancora e un abbraccio!

 

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Capitolo 25
*** Ricercata ***


Nessun Alibi


Capitolo 25 - Ricercata


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Pronto?”


Rispose al telefono un po’ affannata: era impegnata in una sessione di ginnastica da camera con Calogiuri, quando il telefono aveva squillato. Erano le ventitré, quindi doveva essere una cosa importante.

 

O qualcuno sarebbe stato ucciso.

 

“Pronto, Imma?”

 

Nel riconoscere la voce le prese un colpo.

 

“Pietro? Come mai chiami a quest’ora, è successo qualcosa?” chiese, perché da quando si era trasferita a Roma non l’aveva più sentito.

 

“Sì… cioè… Valentì, ecco-”

 

“Che è successo a Valentina?” domandò, terrorizzata, perché a quell’ora… di giovedì sera, dove poteva essere?

 

“Niente… è che… è tornata qui all’improvviso e… e mi ha trovato con Cinzia in casa e-”

 

“Trovato in che senso?!” lo interruppe, pensando già al trauma psicologico devastante della figlia.

 

“Ma no, che ci baciavamo sul divano, insomma… però è scappata via, sconvolta, e non riesco a trovarla. Ho provato a casa di… insomma… quella che era casa di tua madre ma non c’è, a casa di mia madre nemmeno, Bea non ne sa niente e sta pure lei a Roma all’università. Insomma-”

 

“Ho capito, ho capito, maledizione!” esclamò, il panico che si impossessava di lei, “senti, prova a vedere se sta in qualche pub o posto nei dintorni che è ancora aperto, io ti raggiungo appena posso.”

 

“Come?!”

 

“Vengo lì, ovviamente, Pietro. Ti raggiungo appena posso, ti faccio sapere,” concluse, chiudendo la chiamata.

 

“Calogiuri, io… mia figlia non si trova e devo-”

 

“Andare a Matera, l’ho capito. Ascolta, l’auto di servizio è dalla Ferrari. La chiamo e le spiego la situazione e le chiedo di poterla avere per stanotte e domani.”

 

“Ma no, non-”

 

“Imma, tanto ormai sa di noi. Faremo il pieno con i nostri soldi. A quest’ora un’auto a noleggio dove la trovi? E non possiamo arrivare a Matera in scooter. E la prima corriera ormai parte domattina.”

 

“Va bene,” acconsentì con un sospiro, perché non poteva fare altrimenti.

 

Lo vide afferrare il cellulare e chiamare.

 

“Irene, ciao, scusa l’orario ma… ho bisogno dell’auto di servizio e di prendermi un giorno di ferie. Io e Imma dobbiamo tornare a Matera. Sua figlia non si trova, probabilmente ora di domattina sarà a casa ma… va bene… va bene… grazie mille, veramente... come? Dici sul serio? Benissimo, grazie veramente, ti devo un favore.”

 

Quella frase non le piaceva affatto ma che ci poteva fare?

 

“Ci lascia la macchina e dirà al procuratore capo che ha autorizzato lei questo viaggio a Matera per raccogliere alcuni elementi mancanti. In cambio, una volta che abbiamo trovato tua figlia, dobbiamo andare a parlare con un paio di testimoni del maxiprocesso e raccogliere alcuni documenti in procura, in modo che non si capisca che era tutta una scusa e lei non passi un guaio.”

 

“Va bene…” sospirò Imma, dovendo ammettere che la Ferrari stava facendo loro un enorme favore e sperando non fosse tutta una fregatura.

 

*********************************************************************************************************

 

“Pronto? Pietro? Allora ci sono novità? Non l’avete trovata ancora? Noi siamo partiti. Sì, noi, io e Calogiuri. Tra cinque ore saremo lì, più o meno. Va bene, voi continuate a cercare. Sì, sì, Pietro, no, non sono incazzata, ma che figurati! Sono solo mesi che ti dico che le devi dire di Cinzia. Ma tanto l’avrebbe presa male comunque, lo sappiamo, ma magari non sarebbe scappata in piena notte. Va bene, a dopo.”

 

“Niente?”

 

“No, ancora niente.”

 

“Senti, perché non chiamiamo Capozza? Tanto sa di noi e… magari ci dà una mano a cercarla, con discrezione.”

 

“Capozza?!” gli domandò, come se le avesse proposto di mandare a cercarla un ciuccio.

 

“Senti, Capozza non sarà un genio investigativo, ma il suo mestiere in fondo lo sa fare. E tre persone sono meglio di due, no?” provò a suggerirle e vide il suo sguardo sbigottito mutarsi in uno rassegnato.


“D’accordo, Calogiuri, proviamoci.”

 

“Selezionami il contatto sul cellulare, che almeno gli parliamo in vivavoce.”

 

Imma, dopo un paio di tentativi, fece quanto richiesto.

 

“Ca- Calogiuri?” rispose dopo un po’ di squilli e pareva mezzo addormentato.


“Capozza, ciao, scusa se ti chiamo a quest’ora ma è un po’ un’emergenza.”


“Che succede?” domandò, sembrando preoccupato e, dietro di lui, dopo poco si sentì una voce femminile decisamente familiare chiedere: “amore, che c’è?”

 

“Ossequi alla signora Diana, Capozza,” ironizzò e sentì il brigadiere fare due colpi di tosse dall’altro capo del telefono.

 

“Capozza, buonasera, ci sono anche io,” si inserì Imma di colpo, prendendo le redini, “metta pure il vivavoce così sentite entrambi.”

 

“Dottoressa? Buonasera a lei ma… ma che sta succedendo? Qualcosa con il maxiprocesso?”

 

“No, Capozza, cioè… anche… stiamo venendo a Matera, siamo partiti da poco da Roma e dobbiamo venire a raccogliere alcune prove e testimonianze ma… la verità è che mia figlia Valentina è scappata da casa del mio ex marito stasera, borsone in mano. Era appena arrivata da Roma e non si trova e mi chiedevo se…”

 

“Insomma, Capozza, puoi darci una mano nelle ricerche?” intervenì Calogiuri, deciso.

 

“Ma certo che può! Ma che scherziamo! Quella povera figlia, non mi ci far pensare! Fosse la mia Cleo, che paura! Anzi, mo esco pure io a cercarla che tanto due macchine c’abbiamo,” intervenne Diana, concitatissima.

 

“Ma amore, non so se il caso a quest’ora…” provò a protestare Capozza.

 

“E stiamo a Matera, mica c’è sto pericolo a girare di notte chiusa in auto.”

 

“Diana, stai attenta, però!” si raccomandò Imma, sembrando preoccupata per l’amica.

 

“Capozza, ascolta, bisogna partire dai locali notturni. Pub che ormai chiudono, discoteche. Se non è stupida, e non è stupida, starà cercando un posto del genere per passarci la notte. Poi magari domattina torna a Roma ma…”

 

“D’accordo, Calogiuri, tranquillo. E anche a lei dottoressa. Ve la troviamo, non vi preoccupate!”

 

“Grazie, Capozza, noi intanto vi raggiungiamo.”

 

Fecero appena in tempo a mettere giù la chiamata che ne arrivò un’altra.

 

Vide il nome sul display: Ferrari.

 

“Metti pure il vivavoce, Calogiuri,” gli mezzo ordinò Imma, sarcastica.

 

Scuotendo il capo, divertito ma anche un poco esasperato dalla sua gelosia, fece come chiesto.

 

“Calogiuri, scusa se ti disturbo ma… dove sei, anzi dove siete?”

 

“Siamo poco fuori Roma, ci vorranno ancora quasi cinque ore. Dimmi, è successo qualcosa? Problemi col procuratore capo?” chiese, preoccupato.

 

“No, di sicuro non lo chiamo a quest’ora, se no sì che avrei problemi. Lo avviso domattina. Ascolta, mi viene in mente che a Bari lavora un capitano dei carabinieri con cui ho collaborato a lungo. Davvero bravo. Non è molto distante da Matera. Se lo chiamassi e gli chiedessi di andare a fare due ricerche? Ha lavorato pure nei ROS, è uno in gamba. Almeno comincia a fare un giro per i locali di Matera.”

 

“Guarda, abbiamo chiesto a due colleghi di Matera di aiutarci ma…” esitò, guardando Imma, dubbioso sul da farsi.

 

Imma sembrò per un attimo altrettanto dubbiosa, ma poi sospirò ed annuì.

 

“D’accordo, grazie mille davvero, Irene.”

 

“Ma figurati! Mi serve una foto della figlia di Imma, però, così sa chi cercare. E se mi passi il numero dei colleghi, almeno si coordinano e si dividono la ricerca in modo efficiente.”

 

Di nuovo Calogiuri guardò Imma e lei intervenì, “te li mando io, che Calogiuri sta guidando.”

 

“Ciao Imma. Dai, forza, che la troviamo, vedrai. Poi è maggiorenne e vive a Roma. Non è una ragazzina, immagino i pericoli li sappia evitare.”

 

“Lo spero. Grazie dell’aiuto,” proclamò con un tono che gli sembrò meno ostile del solito.

 

“Ma ti pare! Buona fortuna con la ricerca e buon viaggio!” concluse, chiudendo la conversazione.

 

“Certo che è davvero gentilissima. Candidata alla santità, quasi,” commentò Imma, mentre le mandava i messaggi richiesti.

 

“Ma che cosa ci guadagnerebbe ad aiutarti in questo modo? Che secondi fini potrebbe avere?” le fece notare ed Imma sospirò nuovamente.

 

“Avere un debito nei suoi confronti, Calogiuri. In certi ambienti è una moneta di scambio preziosa. Ma va bene, per ora mi basta trovare Valentina, quindi supponiamo la Ferrari sia totalmente disinteressata ed in buona fede.”

 

“Non ti va proprio giù, eh?” sospirò di rimando, scuotendo il capo.

 

“Non mi piacciono le persone troppo gentili, Calogiuri, mi chiedo sempre dove stia la fregatura, lo sai. E lei quando vuole si trasforma, e altro che gentile, l’ho già visto. Ma-”

 

“Ma lo fa coi criminali o con gente che non fa il suo lavoro. Non mi sembra una cosa negativa, no?”

 

“Diciamo che su di lei non saremo mai d’accordo, Calogiuri. Anche se spero di essere io a sbagliarmi sul suo conto e che tu abbia ragione e abbia le migliori intenzioni. Ma, per intanto, pensiamo a trovare Valentina.”

 

“Agli ordini, dottoressa!” concesse, chiedendosi se fosse solo la proverbiale gelosia di Imma o se il suo sesto senso avesse ragione su Irene.

 

Ma non gli aveva fatto che del bene da quando si erano conosciuti, era stato un supporto importante per lui e… e le era affezionato. E per questo sperava davvero che, per una volta, Imma si sbagliasse.

 

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Con il pub ormai chiuso, non le era rimasto che andare verso la discoteca. Aveva mollato borsone e giaccone nel guardaroba e si era buttata nella mischia, sperando di non trovare nessun cretino che ci provasse.

 

Le venne in mente l’ultima volta che era andata a ballare, con Penelope, e avrebbe tanto voluto che fosse lì con lei, per potersi confidare e sfogare.

 

Non era che non voleva che suo padre si rifacesse una vita o che soffrisse per sempre per sua madre. Ma sembrava così triste negli ultimi mesi, per casa c’erano ancora foto di loro insieme che non aveva tolto dalle cornici. Prima che sua madre annunciasse la sua partenza per Roma addirittura sembrava un po’ speranzoso di poter tornare con lei. E ancora adesso ogni tanto le chiedeva se l’avesse sentita e le sembrasse felice a Roma, anche se lei ovviamente aveva sempre svicolato.

 

E invece… pure lui si divertiva e la maestra di sax l’aveva conosciuta prima della separazione. Certo, magari era iniziata dopo, però a quel punto perché nasconderglielo?

 

Si chiese se sua madre lo sapesse o meno e cosa avrebbe provato, in caso, nell’apprendere la notizia.

 

Si mise a ballare, non perché ne avesse voglia ma semplicemente per sfogarsi un po’. Ad un certo punto notò un paio di ragazzi avvicinarsi a lei e si spostò, fino a perderli di vista.

 

Non avrebbe saputo quantificare il tempo in cui rimase così, nella pista a ballare da sola, ma ad un certo punto realizzò che doveva andare in bagno. Ci si stava avviando quando si avvicinò un uomo di mezza età in giacca di pelle nera e jeans.

 

“Aspetta, fermati, ti devo parlare, sono-”

 

Terrorizzata, non lo fece nemmeno spiegare e se la diede a gambe, tornando in mezzo alla pista. Vide che la seguì per un po’ ma riuscì a infilarsi tra la gente che ballava, fino a seminarlo a sufficienza per uscire dalla pista dalla parte opposta.

 

A quel punto corse al guardaroba, col cuore in gola e prese giaccone e borsone.

 

Non poteva rimanere lì. Corse via, sperando che l’uomo fosse ancora incastrato in mezzo alla pista e non la seguisse.

 

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“Calogiuri!”

 

“Capozza, che succede?”

 

“Dove siete?”

 

“Ad un paio d’ore da Matera, Capozza, che succede?”

 

“L’avevo trovata! In una discoteca ma-”


“Ma?” lo interruppe Imma, sentendo già l’incazzatura montare.

 

“Ma mi è scappata e deve avere lasciato la discoteca perché non la trovo più. Ho provato a fermarla ma si deve essere spaventata e-”

 

“E ci credo, Capozza!” sbottò, immaginandosi sua figlia avvicinata da Capozza in discoteca: pure lei se la sarebbe data a gambe levate, “ma non poteva mettersi in divisa, porca miseria?!”

 

“Ma temevo che poi scappasse vedendomi in divisa o non mi facessero entrare e-”

 

“E niente. Capozza, ha già fatto abbastanza. Vada a mettersi la divisa se vuole proseguire le ricerche. Qual era la discoteca?”

 

“La Discolife.”

 

“Va bene, Capozza, provi a far cercare nelle vicinanze anche al capitano e a Diana.”

 

“D’accordo… mi scusi, dottoressa, ma comunque come vede sta bene ed evita le situazioni di pericolo.”


“Non sa che incredibile consolazione, Capozza!” proclamò, sarcastica, immaginandosi Valentina spaventata a morte alle tre del mattino.

 

Ma doveva solo sperare che usasse il buonsenso che sapeva che sua figlia aveva, quando voleva, e non si mettesse in altre situazioni pericolose.

 

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Si era rifugiata dietro la fermata dei bus, riparata da alberi e cespugli.

 

Avrebbe atteso lì la prima corriera del mattino successivo. I locali notturni erano troppo pericolosi.

 

Ad un certo punto, vide una macchina fermarsi. Si nascose ancora di più, il cuore che le andava a mille.

 

Ne scese una figura vestita di nero, ma con una torcia in mano.

 

“Valentina? Valentina De Ruggeri? Se sei qui, stai tranquilla ed esci fuori, sono un capitano dei carabinieri, sei al sicuro.”

 

Valentina si sporse leggermente e vide che l’uomo era effettivamente in divisa. Poi sapeva il suo nome e cognome.

 

Doveva averglielo mandato sua madre. Un capitano addirittura!

 

Ma era troppo sollevata per arrabbiarsi dell’iperprotettività materna, che aveva coinvolto le forze dell’ordine.

 

Prese il borsone su cui si era seduta ed uscì allo scoperto, avvicinandosi al carabiniere.

 

“Valentina?” chiese l’uomo con un sorriso e lei annuì.

 

Il sorriso di lui si fece più ampio, “i tuoi sono preoccupati per te. Comunque non ti devi preoccupare, l’uomo che ha cercato di avvicinarti in discoteca era un brigadiere in borghese.”

 

“A me pareva un maniaco, per come era vestito,” commentò Valentina, non potendo non notare che invece il capitano era proprio un bell’uomo, anche se probabilmente avrà avuto sui quarant’anni.

 

“Comunque non ti devi preoccupare. Ora avviso tutti che ti abbiamo trovata.”

 

“Sì, ma non voglio vedere mio padre, assolutamente,” intimò e il carabiniere fece un sorrisetto.

 

“Si vede che sei figlia di un magistrato. Il timore per la divisa proprio non ce l’hai,” ribattè, estraendo il cellulare.

 

Ma, proprio in quel momento, arrivò un’altra macchina sconosciuta e Valentina si avvicinò di più al carabiniere, spaventata, almeno fino a che ne scese di corsa un cespuglio di capelli rossi.

 

“Mamma!” esclamò, con un’ondata di sollievo, correndole incontro e abbracciandola fortissimo, mentre sua madre, dopo un attimo di sbandamento, ricambiava.

 

“Grazie per averla trovata,” la sentì pronunciare, rivolta al carabiniere.


“Beh, veramente l’avete trovata pure voi due: vedo che abbiamo avuto la stessa idea.”

 

E Valentina si voltò e notò che dal posto del guidatore era appena sceso Calogiuri.

 

“Ma avete guidato da Roma fin qui?” domandò, rendendosi solo conto in quel momento della sfacchinata, visto l’orario.

 

“Sì, Valentì, che ti potevo lasciare scomparsa per le vie di Matera?! E se ti capitava qualcosa?! Promettimi che non farai più un colpo di testa del genere, piuttosto ti lascio le chiavi di casa di nonna, o mi chiami e ti vengo a prendere, ma non puoi andartene in giro di notte così. Può essere pericoloso!” la riprese ma, nonostante ci fosse un poco di rabbia nella voce, si rese conto che sua madre era soprattutto sollevata.

 

“Ma lo sai perché sono scappata?”

 

“Sì, lo so, Valentì, lo so. Ma non è comunque un buon motivo. Potevi chiuderti in camera tua, o startene sul pianerottolo tutta la sera o appunto telefonarmi ed andare in un posto sicuro, tipo una caserma.”

 

“Chissà perché per te il posto sicuro è dove ci sono i carabinieri…” ironizzò, rivolgendo poi un’occhiata al capitano che la guardava sorpreso, “con tutto il rispetto.”

 

“Comunque ancora grazie, capitano…?” pronunciò sua madre, che evidentemente, nel casino, manco aveva saputo ancora il nome del suo salvatore.

 

“Ranieri. E felice di esserle stata d’aiuto, dottoressa… Tataranni, giusto? Ho sentito parlare di lei per il maxiprocesso e ai tempi del caso Bruno.”

 

“Non immaginavo che la mia fama arrivasse fino a Bari ma immagino non abbia sentito niente di buono.”

 

“Dai giornalisti no. Ma Irene mi ha parlato molto bene di lei e, per farmi una telefonata a quell’ora, dovete essere molto amiche. Era da un sacco di tempo che non la sentivo.”

 

Sua madre a quel commento fece un’espressione strana ma si limitò a un, “ringrazierò la collega per averla disturbata, capitano.”

 

“Nessun disturbo. Sia per la ricerca, sia perché avere una scusa buona per risentirla non mi è dispiaciuto affatto. Forse Irene non sarà della stessa idea,” commentò con un tono che le fece dubitare se questo capitano - che effettivamente era un gran bel pezzo d’uomo - e questa Irene avessero precedenti sentimentali, “vi auguro un buon rientro a casa. E Valentina, mi raccomando, anche se devo dire che mi sembri abbastanza prudente di tuo, per come te ne sei rimasta nascosta fino a che mi sono identificato come un carabiniere. Ma è meglio non rischiare.”

 

E così, con un sorriso, si rimise in auto e se ne andò.

 

“Ma chi era quello, mamma? E chi è Irene?”


Irene è una mia collega,” chiarì, pronunciando il suo nome in un modo che le fece seriamente dubitare che fosse una sua amica, “e il capitano è un suo conoscente. Era nei ROS, uno sveglio evidentemente, a differenza di quel cretino di Capozza. Poi che storia ci sia stata tra i due non lo so e neanche lo voglio sapere.”

 

Il tono dell’ultima frase invece era palesemente una bugia: sua madre era più curiosa di lei.

 

“Mamma… ma… ma da quanto sapevi di papà e di-”

 

“Di Cinzia Sax? Da un po’, Valentì, da un po’.”

 

“Ma perché non me lo hai detto e ti sei presa tutta la colpa?”

 

“Perché capo primo doveva essere tuo padre a parlartene. Capo secondo… sono stata comunque io a lasciarlo, Valentì e, a quanto ne so, la storia con questa Cinzia è iniziata dopo che ci siamo lasciati. Quindi comunque non è un alibi per me, Valentì. Ma se tuo padre è felice con lei, io sono solo che felice e dovresti esserlo pure tu. Ha diritto di rifarsi una vita, no?”

 

“Ma non è felice!! O fingeva di non esserlo! Sono mesi che quando sono io a casa è giù di corda, ogni tanto lo becco che guarda le tue foto e si strugge. E lo vedo triste e abbattuto. E mo scopro che intanto se la fa con un’altra. Mi fa incazzare quasi più di te e non lo pensavo possibile! Almeno tu non hai fatto la madonna addolorata!”

 

Sua madre guardò verso il maresciallo, che aveva uno sguardo preoccupato. Non disse niente però.

 

“Senti, Valentì, mo avvisiamo papà e chi ti stava cercando che stai bene e-”

 

“E io papà non lo voglio vedere!”


“Ascolta, intanto dobbiamo avvertire. Poi andiamo… andiamo a casa di nonna a questo punto. Dobbiamo restare qui almeno un paio di giorni, perché per venire con l’auto di servizio insieme a Calogiuri abbiamo dovuto impegnarci a fare delle indagini sul maxiprocesso, che se no come glielo spiegavamo in procura? Quindi stiamo a casa di nonna e-”

 

“Ma lì l’unica stanza rifatta è la tua e io in camera di nonna non voglio che qualcuno vada a dormire, mi fa senso.”

 

“Non c’è problema, io è meglio che vada a dormire in caserma. Se domani ci vedono in procura non posso certo spiegare che dormo da te. Un posto c’è sempre. Ci vediamo domattina,” si inserì Calogiuri con uno di quei suoi sorrisi gentili.

 

“Ma sei sicuro? Una scusa la possiamo sempre trovare e-”

 

“Tranquilla, sono sicurissimo. Ci vediamo domattina. Ti lascio l’auto, tanto io da qui in caserma ci arrivo a piedi.”

 

“Se si sfascia un’auto di servizio chi è che paga?” ironizzò Valentina, guadagnandosi un’occhiataccia da sua madre e una divertita dal maresciallo.

 

“Fino a casa di nonna so’ capace di guidare, Valentì. E comunque allora a domattina, Calogiù, a sto punto immagino dormiremo un poco di più che sono le cinque passate. Quando ci svegliamo ti mando un messaggio, va bene?”

 

“Va bene, a domani,” le sorrise e rimase per un attimo indeciso sul da farsi.

 

“Se dovete baciarvi, io mi giro e non guardo,” sbuffò Valentina, dando loro le spalle e li sentì fare una mezza risata e poi un lieve schiocco di labbra.

 

L’immagine di sua madre con un altro uomo ancora le faceva un po’ impressione però… però si era fatto centinaia di chilometri in auto per venirla a recuperare, senza fiatare, e mo le lasciava pure sole.

 

“Dai, Valentì, ti puoi girare, andiamo,” si sentì chiamare da sua madre e, voltatasi, si trovò stretta in un abbraccio a morsa, fortissimo. E ci si lasciò andare.

 

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“Calogiuri?! Che ci fai qui?”

 

Al suono di quella voce gli pigliò un macigno allo stomaco misto ad un senso di rabbia: di tutte le persone che poteva incontrare, proprio lei?

 

“Matarazzo… ci faccio che ho bisogno di un letto per un paio di notti, probabilmente. Sono tornato per terminare delle indagini sul maxiprocesso. Tu che ci fai in piedi a quest’ora?”

 

“Mi stavo preparando per andare a correre, che è l’alba. Ma tu non hai dormito?”

 

“No, ho guidato.”


“Comunque ci dovrebbero essere stanze libere, vai a vedere le chiavi appese in portineria. E… sei tornato da solo o-?”

 

“No, non sono tornato da solo, ovviamente,” sospirò, temendo già la direzione che poteva prendere questa conversazione.

 

“Lo immaginavo… senti, Calogiuri… facciamo che io ignoro voi e voi ignorate me. Per fortuna domani io di riposo sono ed evitarsi non sarà difficile. E mo vado, che già abbastanza tempo ho perso,” proclamò, inforcando le cuffie del cellulare ed uscendo dal portoncino.

 

Almeno non aveva fatto una scenata… era già qualcosa.

 

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“Sì, Pietro, tranquillo che è sana e salva. Non ti vuole parlare al momento ma sta bene. Le riferisco io, certo. Lo spero anche io, Pietro. Buon riposo anche se ormai è mattina.”

 

“Papà ti vuole parlare, Valentì, gli ho detto che al momento tu non vuoi ma… non lo puoi evitare per sempre.”

 

“Lo so, lo so, ma… ma mo non me la sento proprio. Sono troppo arrabbiata.”

 

“Ascoltami, siccome so cosa si prova a trovarsi al posto suo… fai passare oggi se vuoi, ma secondo me, prima che ripartiamo per Roma dovresti parlargli. Papà ha sbagliato a nasconderti questa cosa, come io ho sbagliato a nasconderti di Calogiuri, ma mo non devi passare da un estremo all’altro. Io non sono la buona e lui il cattivo.”

 

“Lo so, mamma, lo so. Ma è solo che… è stato talmente stupido da parte sua non dirmelo! Non è come te che… va beh… altro che scheletri nell’armadio! Poteva dirmelo e l’avrei presa non dico bene, ma…”

 

“Sicura?” le chiese, con un’occhiata penetrante.


“Che vuoi dire?”

 

“Che per te papà è sempre stato un po’ un mito, perfetto, intoccabile. E non è che sei anche un po’ gelosa di lui? Sarebbe pure normale, che tu lo sia un poco.”

 

“Non so ma… forse… forse vedevo il vostro amore come indistruttibile e… e invece anche per lui sono bastati pochi mesi e…”

 

“Senti, Valentì, io non so cosa tuo padre provi per Cinzia, per me e come stia in generale. Il nostro è stato un amore vero, per tanti anni e sei nata tu, cosa per cui io e tuo padre credo non saremo mai grati abbastanza. Ma… ma le persone cambiano e a volte questo porta l’amore a trasformarsi e a finire. Tuo padre… credo stia cercando di rifarsi una vita e se gli vuoi bene come so che gliene vuoi, dovresti essere felice che ci stia almeno provando.”

 

“Ma proprio con quella? Guarda che me lo ricordo che litigavate per lei e perché gli stava un po’ troppo vicino, e mo-”

 

“Ah, c’avevi sentito…” sospirò Imma, comprendendo che Valentina era troppo sveglia per nasconderle le cose, “comunque, visto come è andata pure per me… che importanza ha, Valentì, ormai? Il risultato non cambia, no?”

 

“No, ma… da papà forse mi aspettavo qualcosa di diverso. Ma forse pretendo troppo e hai ragione tu: è pur sempre un uomo!”

 

“Va bene… fingerò di non aver sentito e non ti chiederò di uomini in generale, anche perché tra poco è meglio dormire.”

 

“Già,” annuì Valentina, finendo di infilarsi il pigiama e mettendosi dal suo lato del letto.

 

Imma la imitò e allungò una mano per sistemarle i capelli dietro l’orecchio, come faceva quando era bimba.

 

“Mamma?”

 

“Sì?”

 

“Chi è davvero Irene e che c’entrava il capitano?” le chiese, guardandola intensamente e Imma rimase di stucco perché si sarebbe aspettata qualsiasi domanda ma non quella.

 

“Te l’ho già detto: una collega e il capitano un suo ex collega.”

 

Ex collega… mo si dice così,” ironizzò Valentina, prima di aggiungere, con un’occhiata eloquente, “e mi sa che la collega non ti sta molto simpatica, anche se ti ha aiutato.”

 

“Diciamo che ha un carattere molto diverso dal mio.”

 

“Quindi è simpatica e gentile?”

 

“Valentì!”

 

“Fammi indovinare… è giovane, bella e passa molto tempo col tuo maresciallo?”

 

Imma rimase sbigottita: Valentina la conosceva fin troppo bene.

 

“Mi sa di sì… ma ti ho già detto, non ti devi preoccupare! Non potrà essere più bella di Ludovica.”

 

“No, ma… ma ha carisma e fascino, Valentì, è furba ed è molto brava con le parole.”

 

“Beh, fa il magistrato, se non lo fosse dovrebbe cambiare mestiere.”

 

“Sai quanti ce ne stanno che dovrebbero cambiare mestiere, Valentì!”

 

“Mo sono quasi curiosa di conoscerla questa. Dovrò ripassare in procura prossimamente.”

 

“Cos’è? Speri che Calogiuri mi molli per lei?” ribattè, sarcastica, anche se una punta di reale preoccupazione e di incazzatura c’era ancora.

 

“No. Perché se no avresti fatto tutto sto casino per un coglione e mi incavolerei ancora di più. E il tuo maresciallo almeno è gentile. Poteva capitarmi di peggio come tuo nuovo compagno, col carattere che ti ritrovi.”

 

“Mi vuoi dire che Calogiuri ti sta simpatico?”


“Mo non esageriamo! Diciamo che è… tollerabile? E a tratti fa un po’ tenerezza e non solo perché sta con te.”

 

Imma sorrise e se l’abbracciò, guadagnandosi un “mà! mà!” scandalizzato ma non le importava.

 

Detto da Valentina era già un grande complimento e le sembrava un mezzo miracolo.

 

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“Io allora vado, Valentì, ci vediamo stasera.”

 

“Sì, mà, tranquilla, non scappo, promesso.”

 

Imma sospirò, le diede un ultimo abbraccio a tradimento ed uscì da casa di sua madre, ripercorrendo vie familiarissime ma che era da tempo che non rivedeva. Qualcuno si voltò a guardarla sussurrando ma lei continuò a camminare a passo deciso: che parlassero pure.

 

Arrivò di fronte alla procura e la prese una botta di magone: quella era la sua procura e lo sarebbe probabilmente sempre stata nel suo cuore.

 

Roma davvero non aveva paragone, nonostante tutto.

 

Gli agenti all’ingresso la squadrarono sorpresi e la salutarono con quello che sarebbe stato quasi definibile entusiasmo, almeno per i loro standard.

 

Entrò e si trovò davanti Porzia che la guardò manco avesse visto la Madonna.

 

“Imma!” esclamò e si trovò stretta in un abbraccio, “ma che ci fai qua? Dimmi che torni a lavorare qua, che la tua mancanza troppo si sente!”

 

“No, Porzia, è solo per due giorni, per finire un paio di indagini. Ma tornerò ancora, che mica vi liberate tanto facilmente di me! Mo vado ma poi ripasso a salutarti.”

 

“Sarà meglio!”

 

Salì le scale e si trovò di fronte, in un colpo solo, Vitali e Moliterni che facevano crocchio come sempre.

 

“Dottoressa?! E che ci fa qua?!”


“Imma! Ma che sorpresa! Ti trovo benissimo! Si vede che il trasferimento e l’aria nuova ti fanno bene!” proclamò Maria con un sorrisetto ed Imma si stupì di un commento simile dopo le poche ore di sonno avute.

 

“Dottore, sono qui da parte della Ferrari per interrogare un paio di persone e recuperare alcune carte. E grazie Maria, tu invece non sei cambiata affatto.”

 

“Eh, ma io non c’ho l’aria nuova, Imma… purtroppo…” ironizzò, facendole l’occhiolino.

 

“Ah, Irene non mi ha ancora avvertito. Strano,” rispose il procuratore, prendendo in mano il cellulare e poi aggiungendo, “anzi, sì, mi sono perso la notifica. Ecco, mi sembrava strano, solerte com’è. Come ci si trova, dottoressa, a lavorare con lei?”

 

Pure solerte mo… ma che ci faceva agli uomini la Ferrari? Non che Vitali fosse sta gran conquista!

 

“Meglio che con la D’Antonio, dottore,” ribatte, sarcastica, perché non voleva dire molto e lo sapevano entrambi.

 

“Se nemmeno con Irene riesce ad andare d’accordo, dottoressa, che va d’accordo pure coi sassi, mi sa che dovremmo proprio clonare i geni del maresciallo Calogiuri, visto che è l’unico che le sia mai andato a genio.”

 

E, nemmeno l’avessero chiamato, udì una voce familiare alle loro spalle.

 

“Buongiorno dottor Vitali, dottoressa, signora Moliterni.”

 

“E te pareva… dove c’è l’una c’è pure l’altro, come sempre!” proclamò Maria con uno sguardo sornione.

 

“Ah, ma è tornato anche lei, maresciallo?” domandò Vitali, con aria invece preoccupata.

 

“Sì, ho accompagnato io la dottoressa con l’auto di servizio. Comunque ho dormito in caserma, quindi ho già avuto modo di coordinarmi con i ragazzi della PG, Matarazzo inclusa, ma credo che potremo sbrigare tutto io e la dottoressa, non è vero? O volete altre persone di supporto?” domandò Calogiuri, inviando ad entrambi quello che era di fatto un messaggio in codice: Matarazzo presumibilmente se ne sarebbe stata buona. O almeno così sperava.

 

“No, non credo che sia necessario. Io andrei a salutare Diana, ti faccio avere l’elenco delle carte che mi servono, Maria. Ovviamente entro oggi, che poi…”

 

“Appena tornata e già ci sobbarca di lavoro!” sospirò Maria, buttando via il bicchierino del caffè, “i miei ossequi dottoressa, e saluti anche a lei, maresciallo. Comunque vi trovo bene entrambi, occhiaie a parte.”

 

E così, con il suo carico di doppi sensi, Maria sparì oltre la porta del REGE.

 

“Dottoressa, è sempre un piacere rivederla, nonostante il suo carattere. Se non ci rivediamo prima della sua ripartenza, spero ritorni presto, anzi, che ritorniate entrambi. E mi saluti Irene e il dottor Mancini.”

 

“Sarà fatto, dottore,” lo rassicurò, stringendo la mano che le venne offerta e vedendolo allontanarsi.

 

Arrivò in quello che era il suo ufficio e bussò. Non sentendo rispondere aprì e non ci trovò nulla: era ancora vuoto come lo aveva lasciato, evidentemente non era stato assegnato ad altri colleghi.

 

In quel momento si aprì la porta accanto e ne emerse Diana, che come la vide, le si buttò tra le braccia.

 

“Imma!” le urlò quasi nell’orecchio, stringendola fortissimo, “ma che bello vederti! Anche se mi spiace per lo spavento per Valentina. Ma hai visto che è andato tutto bene, sì? Ah, questi figli, che preoccupazioni! Ma tu… ti trovo proprio bene, sembri quasi ringiovanita, sei così luminosa anche se… quelle occhiaie... un po’ di correttore e… ah Ippazio, c’è anche lei… bello vederla, anche se pure lei come occhiaie non scherza. Me la sta trattando bene, sì? E-”

 

“Frena, Diana, frena!” la interruppe Imma, ridendo, chiedendosi come Diana potesse parlare così a macchinetta senza quasi respirare, “tutto bene, io sto bene, abbiamo fatto una notte insonne, da cui le occhiaie. E mi sta trattando bene, anche perché se no rischia grosso.”

 

Calogiuri, per tutta risposta, scosse il capo e scoppiò a ridere a sua volta.

 

“E di come lei sta trattando me nessuno si preoccupa?”

 

“Per quello ci pensa Capozza, Calogiuri,” ribattè Imma, dandogli un pizzicotto ad un fianco, prima di chiedere, più seria, rivolta a Diana, “e voi come state? Ma tu per chi lavori mo, che l’ufficio è ancora vuoto?”

 

“Mi hanno assegnata a dare una mano alla D’Antonio e al PM nuovo che è arrivato al posto di Diodato. Siccome il tuo trasferimento è temporaneo, per ora faccio da supporto a loro, così ha voluto il procuratore capo.”

 

E bravo Vitali! - pensò, ma non lo disse: evidentemente Vitali sperava davvero che lei tornasse a Matera e in tempi non lunghissimi, per averle in un certo senso conservato il posto.

 

“Ho una lista di documenti che mi devo riportare a Matera, possibilmente in formato digitale, ci pensi tu con la Moliterni?”

 

“Certo, Imma!”

 

“Mo noi andiamo a interrogare dei testimoni e poi torno da mia figlia ma… venite a Roma qualche volta tu e Capozza, mi raccomando! Anche se lui poteva evitare di vestirsi da maniaco per andare a cercare Valentina!”

 

“Scusalo, Imma, lo sai che è abituato a stare in borghese e… io ci ho provato a farlo vestire un poco meglio, magari con un look più adatto alla sua età ma… è uno spirito libero,” proclamò, con un tono carico d’affetto e ammirazione, manco stesse parlando di John Lennon.

 

“Sì, ma lo spirito libero una divisa ce l’ha. Che la usi quando serve!” ribattè, chiedendosi per la milionesima volta che cosa Diana ci trovasse in Capozza.

 

Ma almeno sembrava felice.

 

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“Che cosa? Ma ne sei sicura?!”

 

“Sì, Imma, sono sicura. Voglio che ci parli tu per prima e mi lasci le tue impressioni. E poi, con un interrogatorio pregresso, sarà più facile trovare delle contraddizioni in sede di processo. Pensavo di venire io a Matera, ma a questo punto…”

 

E grazie al… cavolo! - pensò Imma, dicendosi che la Ferrari era furba sì, ma fin troppo. In cambio del favore le stava soltanto chiedendo di andare a parlare con Eugenio Romaniello, senza preparazione, oltretutto, e dopo la nottata che aveva passato.

 

“Lo so che pensi di non essere pronta per questo interrogatorio,” riprese dall’altro capo del telefono, come se le leggesse nel pensiero, “ma so anche che conosci questo caso a memoria e l’effetto sorpresa farà il resto. Eugenio Romaniello non si aspetta una visita e non da te. Devi prenderlo in contropiede, non ottenere una confessione. Al resto poi ci penso io in tribunale. E vedere te lo snerverà di più che vedere me.”

 

“Non sono certa se sia un insulto o un complimento…” commentò Imma, sarcastica, sentendo che le avevano appena chiesto di buttarsi nella tana del lupo vestita da agnello sacrificale.

 

“Un complimento, visto il soggetto. Imma, non te lo chiederei se non pensassi che sia la cosa migliore per il processo. E poi tu ti meriti questo interrogatorio, visto tutto il lavoro che hai fatto per arrivarci.”

 

Anche in questo caso, non sapeva se fosse un premio o una punizione. Con la Ferrari era tutto così: tremendamente ambivalente.

 

Ma non poteva tirarsi indietro. E poi… una parte di lei, quella che non si sentiva in trappola, in fondo era tremendamente curiosa di parlare con Romaniello Sr., gettata la maschera.

 

“Va bene. Ma non garantisco sul risultato, Ferrari.”

 

“E invece io sì, Imma, io sì,” ribattè la cara collega, prima di chiudere la conversazione.

 

“Ma che succede?” le chiese Calogiuri, seduto su uno dei tavolini del suo ex ufficio.

 

“Che dobbiamo andare a interrogare Eugenio Romaniello,” spiegò, aggiungendo, alla sua occhiata scioccata, “sì, lo so, Calogiuri, lo so… ma così vuole la tua cara Irene e allora…”

 

“Ma vuoi recuperare dei fascicoli prima? Vuoi rileggerti qualcosa?”

 

Calogiuri la conosceva fin troppo bene.

 

“No, Calogiuri, a questo punto, o avevo qualche giorno per prepararmi o è meglio andare così: diretti e decisi. Se no è come ripassare prima di un esame. Tu stai pronto a intervenire. La pistola d’ordinanza ce l’hai?”

 

“Sì, certo, me la sono portata dietro.”

 

“E allora portatela dietro pure da Romaniello. E per il resto… speriamo che qualcuno ce la mandi buona, Calogiuri.”

 

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“Buonasera, sono la dottoressa Tataranni, procura di Roma, devo parlare con il signor Eugenio Romaniello.”

 

“Dottoressa… la sua visita non è annunciata, quindi non credo di poterla fare passare,” rispose quello che presunse essere il maggiordomo, o colf che dir si volesse.


“Il signor Romaniello può ricevermi qui o venire in procura a Matera. Ho regolare convocazione per interrogarlo. Glielo riferisca, che sono certa conoscerà benissimo la procedura.”

 

Il maggiordomo sparì e dopo poco riapparve Eugenio Romaniello in persona. Vestito di tutto punto, in giacca, camicia e pantaloni, pure per starsene in casa.

 

“Dottoressa, che ci fa qui? Mi dicono che ha una convocazione per me?”

 

Imma gli mostrò la carta che si era fatta stampare in procura.

 

“Lei sa che ho diritto a un avvocato, vero?” le rispose, con un mezzo sorrisetto.

 

“Se vuole chiamarlo lo chiami pure, io posso aspettare,” ribattè, non arretrando di un millimetro, “tuttavia ho l’impressione che a lei l’avvocato non serva, anzi, anche perché il suo sta a Roma attualmente e qui a Matera… i migliori li ha già fatti fuori lei. Professionalmente, si intende, coinvolgendoli nei suoi giri.”

 

“Tutte fantasie, dottoressa. E mi stupisce lei abbia creduto ai deliri di quel depravato di mio fratello.”

 

“Peccato che i deliri del depravato stiano venendo corroborati da prove concrete, mano a mano che arrestiamo quelli del suo giro. Passaggi di soldi, di documenti, favori, appalti, contratti. Omicidi su commissione. Ed è soltanto questione di tempo prima che altri parlino contro di lei. Ormai è solo, signor Romaniello. Ma se vuole che continuiamo a discuterne qui per strada, facciamo pure.”

 

Eugenio Romaniello sembrò pensarci un attimo, poi li lasciò passare e li condusse fino a un salone. Mobili antichi, quadri appesi alle pareti, lo stemma col serpente che campeggiava in alto sul muro in fondo alla stanza.

 

Ma se pensava di intimidirla col mobilio si sbagliava e di grosso.

 

“Immagino non le dispiaccia se non ho niente da offrirle.”

 

“No, signor Romaniello, anzi, la ringrazio per avermi risparmiato lo sforzo di declinare l’invito. Allora, mi vuole dire che tutti i riscontri che stiamo trovando sono una straordinaria coincidenza?”


“No, ma sono semplicemente tutti riconducibili a mio fratello. Che ha pensato bene di scaricare tutta la colpa su di me e mi sorprende lei ci sia cascata.”

 

“Peccato che alcuni eventi emersi siano successi quando suo fratello era all’estero. E che molte delle persone coinvolte non abbiano avuto alcun contatto documentato, né telefonico né personale con suo fratello ma molti con lei.”

 

“Essendo un giudice ho contatti con molte persone, come lei del resto essendo un magistrato. Specie in procura. Non mi pare un reato.”

 

“No, ma io non intascavo mazzette e non ho conti a me intestati in Svizzera e in paesi off-shore.”

 

“Nemmeno io, dottoressa,” replicò Romaniello, sereno e placido come una Pasqua.

 

“No, giusto, lei no, ma due dei suoi ex domestici sì. Doveva proprio pagarli molto bene per fermare la gente alla porta, signor Romaniello.”

 

“Che le posso dire? Sono un uomo generoso. E quei conti può averli aperti mio fratello. Il mio personale lo conosceva pure lui.”

 

Imma capì che quel giorno non ne avrebbe cavato un ragno dal buco, era evidente. Ma forse la Ferrari era questo che voleva: raccogliere le scuse preliminari di Romaniello per preparare dei controargomenti per il processo.

 

Ma Romaniello era peggio del fratello e aveva una risposta buona per tutto.

 

“Quindi lei mi vuole dire che lei, un giudice, che appunto in procura conosce tutti, per anni ha ignorato che suo fratello, che frequentava regolarmente e conosceva benissimo pure i suoi domestici, avesse un impero del crimine con una rete fittissima di relazioni proprio nella procura dove lei lavorava?”

 

“Perché? Lei se n'è mai accorta, dottoressa?” ribatté, come se nulla fosse.

 

“Avevo i miei sospetti, non su tutti ovviamente, signor Romaniello. Ma io per fortuna non sono sorella di Saverio Romaniello, quindi ovviamente nessuno sarebbe mai venuto da me a rivelare i traffici criminosi in procura. Ma lei, il fratello, mi vuole proprio dire che nessuno dei suoi colleghi, in anni, anni e anni di traffici possa averle fatto anche solo una battuta in proposito? Si rende conto che tutto questo è estremamente inverosimile?”

 

“Mi rendo conto solo che, per quanto possa sembrare inverosimile, non è nemmeno comprovato il contrario, dottoressa. Non oltre ogni ragionevole dubbio. Mentre il mio caro fratello oltre a un… passato colorito… ha già i suoi bei morti sulla coscienza. Perché credere a lui, dottoressa? Per rivalsa personale? Per prestigio?”


“Le ricordo che il caso non è più di mia esclusiva competenza e non è me che affronterà in tribunale, signor Romaniello.”

 

“Lo so… ma se sperava di venire qui e ottenere qualcosa si sbaglia di grosso. Io lo so come lavora, dottoressa. Come ragiona, come agisce, come risponde. E non conosco bene il nuovo magistrato ma… sa quanti ne ho visti passare nella mia carriera? Troppi. Io non sono come mio fratello, che invece di studiare si è dato alla pazza gioia e poi al crimine. Io so esattamente quali sono i miei diritti, cosa dire e cosa non dire. Quindi ora o ha altre domande per me, o mi congederei che tra poco è ora di cena.”

 

“Si ricorda quello che mi disse quando ci incontrammo al tempio greco due estati orsono, signor Romaniello? Siamo un paese dove siamo esperti nell’arte di aggirare gli ostacoli. Ecco, lei è esattamente questo che ha sempre fatto. Aggirare. Mandando avanti altri, a fare il lavoro sporco per lei. Ma se lei pensa che tutti se ne staranno zitti e si immoleranno per salvarle la faccia - per non dire altro - lei si sbaglia e di grosso. Si goda questi ultimi giorni qui a Matera, signor Romaniello,” pronunciò, decisa alzandosi e facendo cenno a Calogiuri e poi, lanciando un’ultima occhiata a Romaniello, prese la via dell’uscita.

 

L’aveva vista: una singola goccia di sudore sulla fronte del giudice.

 

Ma era già qualcosa. Sarebbe stato un osso duro Romaniello, ma bastava un’altra testimonianza oltre a quella del fratello e la sua baldanza sarebbe sparita.

 

Sperava vivamente che la cara Irene fosse in grado di procurarsela.

 

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“Valentì, sei sicura di non volere andare a parlare con tuo padre?”

 

“Per ora no, mà, magari più avanti. Ho bisogno di più tempo per elaborare tutto. Tanto a Matera posso sempre tornarci, no? Magari stavolta avvisando prima,” commentò, più sarcastica di lei quasi.

 

“Va bene, allora ci vado a parlare io e poi ripartiamo.”

 

“Perché ci vuoi andare a parlare?”


“Perché voglio rassicurarlo e chiarire la situazione con Cinzia, una volta per tutte, se è presente, ovviamente. Torno presto,” spiegò, uscendo dal portoncino e avviandosi verso quella che per vent’anni era stata casa sua.

 

Vide qualche comare spiarla dalle finestre mentre passava, ma lei si mise a camminare ad un passo ancora più deciso, come faceva per reazione in questi casi.

 

Suonò il campanello.

 

Ci volle un attimo prima che rispondesse al citofono.

 

“Chi è?”


“Imma.”

 

“Imma?” domandò, sorpreso, “c’è anche Valentì?”


“No, sono sola, Pietro. C’è pure Cinzia?”

 

“No, no, sta a casa sua.”

 

“Allora mi apri?”

 

“Va… va bene…” rispose Pietro, con un tono che sembrava quasi imbarazzato, facendola salire.

 

E fu con uno sguardo altrettanto imbarazzato che la accolse a quella che era stata la porta di casa loro.

 

Era qualche mese che non ci tornava.

 

Vide la statua della tigre ancora nell’ingresso, insieme a tutte quelle suppellettili che appartenevano a lei e che non aveva avuto tempo e voglia di portarsi a casa di sua madre. Si sorprese che non li avesse ritirati e buttati.

 

O forse no.

 

“Come mai sei qui, Imma?” le chiese, stupito.

 

“Perché voglio chiarire questa situazione con Cinzia e tra noi due una volta per tutte.”

 

“E cioè?”

 

“E cioè che non ti capisco, Pietro, e voglio capire qual è veramente la tua situazione, prima che ne risenta anche Valentina.”

 

“Ah, quindi Valentina dovrebbe risentire della mia situazione e non di te che te la fai con un ragazzetto? Almeno Cinzia è una donna adulta.”

 

“Sulla definizione di adulta abbiamo idee diverse, Pietro, ma… io almeno ho detto chiaro a tondo a Valentina cosa provo: che amo Calogiuri e voglio stare con lui. Tu invece stai con Cinzia ma poi Valentina mi dice che con lei sei triste, sembra che ti manco, insomma, a che gioco stai giocando Piè? Era per farmela pagare e far sì che Valentina rimanesse incazzata con me?” domandò, dritta e decisa, perché era quello il dubbio orribile che le covava dentro da quando aveva parlato con la figlia.

 

“Ma no, Imma! Non lo farei mai! Anzi, ho sempre cercato di spronare Valentina a perdonarti ma… ma per me non è facile dimenticarti, Imma. Ci sto provando con Cinzia, in ogni modo ma… ma soprattutto quando c’è Valentina mi tornano in mente i ricordi di noi insieme e mi manca quello che avevamo, com’eravamo quando eravamo felici. A te non capita mai?” le chiese con un’espressione che fu un colpo al cuore: era indifeso, vulnerabile e fragile come raramente l’aveva visto. Quasi implorante.

 

“Pietro… ovviamente ricordo con affetto e gratitudine i momenti in cui eravamo felici. Ma non com’eravamo gli ultimi tempi e… e io sono felice mo, anche se è brutto da dire, ma è la verità. Sono felice e non mi pento della scelta che ho fatto. E tu devi andare avanti e trovare qualcuna che ti renda felice del presente, non del passato. E se non è Cinzia la persona giusta, sarà qualcun’altra.”

 

Pietro sospirò ed annuì, “è che Cinzia è… una persona fantastica ma… ma non è te. E non è facile per me smettere di amare, Imma, anche se ci devo riuscire e lo so.”

 

“Cerca solo di non illudere sta Cinzia, anche se non posso credere di stare pronunciando queste parole,” rispose Imma, guardandolo dritto negli occhi, “non se lo merita, nonostante le cozze. E poi mi pare abbia un bel caratterino e che rischi grosso, Pietro.”

 

“Ma da qualche parte devo pur ricominciare, no?”

 

“Fai come credi. Comunque Valentina dice che ha bisogno di un po’ di tempo. Cercherò di convincerla a tornare a Matera uno dei prossimi fine settimana. Avvertendo prima, stavolta.”

 

“Va bene, grazie, Imma. Spero che possa capire e perdonarmi.”

 

“Se ha capito me, sicuramente capirà pure te, Pietro. Solo che su di me riponeva basse aspettative, tu per lei sei l’uomo ideale e… e mo ti becchi le conseguenze dello scontro con la realtà.”

 

“Avrei preferito essere l’uomo ideale per te, Imma,” proclamò, con un altro di quegli sguardi che la fecero sciogliere. Ma che non cambiavano la realtà.

 

“E lo sei stato, per molto tempo lo sei stato. Ma sono cambiata, Pietro e… e mi dispiace che ci sia andato di mezzo tu, ma non ci posso fare niente, se non essere sincera.”

 

“Lo so… anche se… fa male, ma… ci proverò a concepire una vita senza di te.”

 

Imma sospirò, gli prese una mano e gliela strinse, poi si alzò dal divano e provò a lasciargli la presa anche se lui la tratteneva.

 

“Devo andare mo.”

 

“Dal maresciallo?”

 

“E da Valentina. Torniamo a Roma. Il mio lavoro qui a Matera è finito.”

 

Pietro le lasciò la mano, annuendo con aria sconfitta. Imma imboccò la porta di casa che ormai però di casa non aveva più niente, era come il fantasma di un tempo passato, che non poteva più tornare.

 

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Erano partiti da poco: lei e Calogiuri davanti e Valentina seduta dietro.

 

“Ci sentiamo un po’ di musica, almeno?”

 

“Non la puoi ascoltare dal cellulare tuo?” chiese Imma, conoscendo e temendo i gusti della figlia.

 

“Ho quasi finito i giga per questo mese e a casa di nonna non c’è il wifi.”

 

“Prendi il mio, se vuoi,” si offrì Calogiuri, indicando il cellulare poggiato vicino al bracciolo.

 

“Sei l’unico uomo che presta liberamente il suo cellulare o ne hai due?” domandò Valentina, sorpresa.

 

“E che ci vuoi trovare?”


“A parte i miei messaggi?” si inserì Imma, non volendo la figlia li leggesse, per quanto fossero per la maggior parte tranquillissimi.

 

“Che non leggerei mai per evitarmi ulteriori traumi. Vedere papà che si limonava Cinzia Sax mi è già bastato per una vita.”

 

Imma si trattenne a stento dal ridere, vedendo che il soprannome di Cinzia aveva iniziato ad usarlo pure la figlia. Ma non poteva dare a vedere che segretamente approvava.

 

Comunque Valentina si prese il cellulare e cominciò a spulciarlo. Imma rimase col fiato sospeso finché Valentina esclamò, “ma ascolti pure tu Achille Lauro?!”

 

“Ogni tanto quando mi alleno sì. Ho iniziato a sentirlo quando indagavo su un caso con tua madre e poi… non è così male.”


“Allora ce lo sentiamo dallo stereo? Dai, mamma, in ricordo anche del concerto!”

 

Imma li guardò, comprendendo che avere un compagno giovane e dai gusti più simili a quelli di Valentina era assai pericoloso in certi frangenti. Anche se da un lato forse Calogiuri poteva aiutarla a capirla meglio. In fondo quando le era andato a parlare, aveva evidentemente saputo trovare le parole giuste.

 

“Con sei ore di Achille Lauro io divento scema e potrei non rispondere di me, vi avverto.”

 

“Ma no, possiamo pure cambiare poi. E mettere quella roba vecchia che piace più a te. Qui c’è pure Battiato. Certo che anche sulla musica c’hai gusti strani, tu,” disse, rivolta a Calogiuri.

 

Imma lo guardò e lui le sorrise e seppe istantaneamente di quale album di Battiato si trattava e di quale canzone. Del resto pure a lei, dalla prima volta che l’avevano sentito insieme, ricordava tremendamente lui.

 

Ma ogni pensiero romantico si dissolse quando Valentina fece partire a tutto volume dall’impianto audio una traccia di Achille Lauro che proclamava di volere una Rolls Royce.

 

A lei sarebbe bastato pure un pandino in quel momento, purché silenzioso: sarebbe stato un viaggio lunghissimo.

 

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“Eccoci qui. Mi raccomando, Valentì. E cerca di sentirlo tuo papà, non appena ti senti pronta per farlo, va bene?”

 

“Va bene, mà. Grazie per il salvataggio e per essermi venuti a prendere. E comunque i tuoi gusti musicali non sono così male, Calogiuri. Quelli sulle donne, insomma, ma contento te,” ironizzò, ma con un sorriso che faceva capire come non fossero solo i gusti musicali di Calogiuri a non dispiacerle.

 

“Figurati, buona serata!”

 

“Ormai buonanotte che mi sa che vado dritta a dormire,” si congedò Valentina, scendendo dall’auto borsone in mano ed entrando nel portone di casa sua.

 

“Mi sa che hai fatto una buona impressione, Calogiuri. E con mia figlia non è facile.”

 

“Con te è ancora più difficile, quindi… sarò fortunato con le donne di famiglia Tataranni.”

 

“Oh, su questo ci puoi scommettere. Pure mia madre c’aveva un debole pazzesco per te,” ricordò con commozione, stringendogli una mano, “va beh, ora ti va se andiamo a casa mia? O preferisci passare dalla tua per prenderti un altro cambio?”

 

“Ma no, ci torno domattina. Andiamo a casa,” rispose lui e il fatto che quella fosse semplicemente casa, pure per lui, le diede un’altra botta di magone.

 

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“Una lettera?”

 

Aprì la buca col suo nome con stupore: era la prima lettera che riceveva da quando stava a Roma. Le bollette erano domiciliate e chi mai poteva volerle scrivere?

 

E invece c’era proprio il suo nome e cognome, scritti a mano in una bella grafia, il mittente era la procura.

 

“Ma perché mi scrivono dalla procura mo?” chiese ad alta voce, entrando in casa con Calogiuri al seguito e mollando i cappotti all’ingresso.

 

Strappò la lettera con poche cerimonie e quello che lesse la gettò nello sconforto.

 

Festa Annuale della Procura della Repubblica di Roma

La Signoria Vostra è invitata il giorno 16 marzo presso l’hotel

 

Smise di leggere e guardò Calogiuri, porgendogli il foglio.

 

“Sai che cos’è sta roba?”

 

“Sì, la festa annuale, c’è tutti gli anni appunto, ma io l’anno scorso me la sono persa perché ero ancora a Matera. Si invita tutta la Procura o quasi, più autorità, industriali, politici, gente che conta insomma. Tipo una cena elegante. Non so se mi inviteranno, essendo un maresciallo, ma forse sì. Però i magistrati sono tutti invitati.”

 

“E posso mandarli a quel paese e non andare, vero?” domandò, speranzosa, perché la sola idea di un evento simile le dava l’orticaria.

 

“A quanto ne so Mancini ci tiene molto. Non so se riuscirai ad evitartelo. Ho visto le foto dell’anno scorso e i magistrati c’erano tutti. E forse non è il caso-”

 

“E forse non è il caso di inimicarsi Mancini, lo so. Va beh, gli parlerò, tanto qui devo dare conferma entro tre giorni. Sai quanto odio queste cose.”

 

“Ma potrebbe essere anche un’occasione per conoscere gente nuova, no?”

 

“E chi? Industriali pieni di sé e di soldi? Politici che fanno campagna elettorale? Le mie categorie preferite tra cui fare amicizia, proprio.”

 

Calogiuri scoppiò a ridere.

 

“Ma non cambi mai…”

 

“E che non mi conosci, Calogiù?! Dovresti preoccuparti se cambiassi.”

 

“Hai ragione.”

 

Proprio in quel momento, arrivò una notifica sul cellulare di lui. Era sabato sera e poteva essere o la cara Irene o, si sperava, Mariani o Conti.

 

“Mariani, vuole sapere se domani sera vado con lei e Conti al pub.”

 

“Calogiuri, ti ho già detto che non mi devi chiedere il permesso, no?”

 

“No, infatti, ma era per fartelo sapere.”

 

“Vorrà dire che ti aspetterò al ritorno, per la nostra di serata,” proclamò lei con un sorriso, allacciandogli le braccia al collo e mordicchiandogli il labbro: doveva cercare di fidarsi di lui e vivere bene le sue uscite, era l’unico modo per non impazzire e per non rischiare di sfinirlo al punto tale da perderlo o che lui riprendesse a nasconderle le cose.

 

E poi, visti gli ultimi episodi con Valentina, sapeva che al momento non aveva da temere.

 

A parte forse con la Ferrari, perché Irene era un’altra cosa e su di lei di stare tranquilla proprio non ci sarebbe mai riuscita.

 

“Anzi, che ne dici se ti offro un’anteprima?” chiese, anche per scacciare quel pensiero, trascinandolo verso il bagno.

 

“Risparmio energetico, dottoressa?”

 

“Risparmio energetico, maresciallo,” confermò, sentendosi, per tutta risposta, prendere in braccio e dicendo già mentalmente addio ai vestiti che sarebbero dovuti finire dritti in lavatrice.

 

Ma non gliene fregava niente.

 

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“Buonasera ragazzi!”

 

“Calogiuri, finalmente! Cominciavamo a pensare che ci avresti dato buca. Ma è vero che sei dovuto tornare a Matera negli ultimi due giorni?”

 

“Sì, una sfacchinata tremenda.”

 

“Immagino, poi con la Tataranni, che è un mastino!” commentò Carminati e Calogiuri dovette trattenersi a fatica dal difendere Imma, “non so come fai tu che te la sopporti da tanti anni.”

 

“La dottoressa è molto corretta sul lavoro, se uno lavora bene, non ho mai avuto problemi con lei,” ribattè, cercando di stare sul professionale ma provando comunque un moto di rabbia.

 

“Va beh… adesso però mo basta parlare di lavoro. Calogiuri, qui tu ti devi un po’ svegliare,” si inserì Rosati, lì vicino.

 

“In che senso?”

 

“Che ormai è quasi un anno che stai qua, e di uscite ne abbiamo fatte tante e tu a parte qualcuna che ci prova ma che poi non rivediamo più… ancora single stai. Ora, o c’hai conquiste segrete che non vuoi dividere con noi o comincia ad essere preoccupante la cosa. Non è che hai altri gusti?” ironizzò Carminati e Calogiuri si sentì avvampare.

 

“A parte che pure in caso non ci sarebbe niente di male, ma no, semplicemente ho gusti… difficili e dopo un matrimonio annullato a due passi dall’altare ci penso molto bene prima di iniziare una relazione.”

 

“Ti sei salvato appena in tempo, Calogiuri!” commentò Rosati, con una risata, dandogli una pacca sulla spalla, “ma non è che sei già impegnato e non ce lo vuoi dire?”

 

“Che… che vuol dire?” chiese Calogiuri, sentendosi prendere dal panico.

 

“Ma sì, magari con una certa dottoressa…” proseguì Rosati e il panico diventò totale.

 

“Ma no, che dite, non-”

 

“Che pensi che non le abbiamo notate tutte le uscite che fai con la Ferrari? Come siete sempre vicini? E che vi date del tu quando pensate che non vi senta nessuno? Perfino in azione è entrata insieme a te e non lo aveva mai fatto.”

 

“No, guardate-”

 

“Che poi, voglio dire, con una figa del genere, pure io non mi guarderei intorno. Deve essere una bomba atomica a letto, beato te!” proclamò Carminati, come sempre un lord inglese.

 

“Non dovete parlare della dottoressa in questi termini! Non solo è un nostro superiore ma non è un pezzo di carne e merita rispetto!” si irritò, perché veramente quei commenti da caserma non li aveva mai sopportati.

 

“Vedi come si scalda? Mi sa che c’avevamo ragione!” rise Rosati, mentre Mariani gli lanciava un’occhiata come a dire porta pazienza e Conti era bordeaux e con un’espressione tra lo schifato e il deluso.

 

“Io mi scaldo perché non mi piace che si parli così delle persone e-”

 

In quel momento si sentì toccare alla schiena e si voltò e si ritrovò di fronte a Valentina, con un gruppo di amiche, tra le quali quella che aveva già incontrato in procura.

 

“Ciao Valentina! Che ci fai qui?”

 

Il pub non era il loro solito e, in effetti, era oltre il Tevere, a metà strada tra la procura e l’università, ma Carminati aveva insistito per venire lì perché gli piaceva una delle cameriere.

 

“Ci esco, come te immagino e-”

 

“E loro sono dei miei colleghi della procura,” la interruppe, sperando che cogliesse il messaggio e Valentina spalancò leggermente gli occhi.

 

“Ma non è che è questa bella figliola la tua fidanzata misteriosa?” si inserì subito Carminati e Calogiuri si sentì avvampare e vide che pure Valentina diventava fucsia.

 

“No, no, Valentina è la figlia della dottoressa Tataranni.”

 

“Perché non vi unite a noi?” offrì Carminati, non perdendo tempo, ma Valentina scosse il capo.

 

“No, grazie, stasera serata sole donne. Buona serata, Calogiuri!”, ribattè Valentina, seguita dalle sue amiche, tra cui quella vista in procura che continuava a lanciargli occhiate. Si misero ad un tavolo lì vicino.

 

“Hai capito?! Chi avrebbe mai pensato che una simile bellezza fosse figlia di quella racchia della Tataranni!” rise Carminati e Calogiuri dovette artigliare il tavolo per non menargli un pugno.

 

“Im-Innanzitutto la dottoressa Tataranni è un superiore. Punto secondo, non deve fare Miss Italia ma il suo lavoro e lo fa benissimo. Punto terzo, non è una racchia, anzi è una gran bella donna. E poi tu sei sempre inopportuno e non li sopporto più i tuoi commenti maschilisti!”

 

“Come sei sensibile! Ma poi una gran bella donna?! Ma ci vedi bene? Tra quei capelli e come si infagotta sempre in quei vestiti che pare un sacco di patate leopardato!” commentò con un’altra risata.

 

“Carminati…” provò ad intervenire Mariani, ma Calogiuri stava facendo uno sforzo sovrumano per non levargli il sorriso a suon di cazzotti.


“Magari avrà look stravaganti, ma resta una bella donna e soprattutto è il tuo capo ed è la donna più intelligente che conosca. Lo stesso non posso dire di te, Carminati, che poi, vediamo, tutte ste conquiste dove stanno? O le donne come ti sentono parlare fuggono, giustamente, a gambe levate? Sempre se si avvicinano prima, visto che non sei esattamente tutto questo gran bel vedere.”

 

“Calogiuri!” esclamò Carminati, prima scioccato, poi furioso, “guarda che rischi!”

 

“Sai te che paura! E comunque non ne vale proprio la pena, di rischiare un provvedimento disciplinare per uno come te. Godetevi la seratina, che a me la birra è rimasta sullo stomaco!” concluse, mollando bruscamente il boccale sul tavolo, lasciandoci i soldi ed uscendo dal locale.

 

Sentì passi affrettati corrergli dietro e ci vide Mariani.

 

“Scusalo, lo sai com’è. In realtà è solo invidioso perché quando ci sei tu le ragazze le attiri tutte tu, per quello fa lo scemo. Ma non devi farti provocare, va bene?”

 

“Tranquilla, Mariani, ed è quello che sto facendo.”

 

“La prossima volta usciamo solo io, te e Conti, promesso,” ribadì Mariani, mettendogli una mano sulla spalla.

 

“Occhio che se ti vede Carminati, poi penserà che c’abbiamo una relazione pure io e te.”

 

“Va beh, su tutta la PG mi poteva andare molto peggio, Calogiuri, anche se non sei il mio tipo, ahimé. Io ho gusti terribili.”

 

“Grazie Mariani, sei un’amica.”

 

“Pure tu. Guida con prudenza e non farti prendere troppo dalla rabbia, mi raccomando, che come hai detto tu non ne vale la pena,” si raccomandò, prima di stringerlo in un rapido abbraccio e tornare verso il tavolo con quei cretini.

 

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“Calogiù? Ma che ci fai già a casa?”

 

Erano appena le 22.30, presto per una serata al pub.

 

“Niente… è che… ero stanco e ho preferito tornare prima,” ribattè, ma gli lesse in faccia che era triste o incazzato o forse entrambe le cose.


“Calogiuri, ma è successo qualcosa?” gli chiese nuovamente, avvicinandosi per bloccarlo per le spalle e costringerlo a guardarla negli occhi.

 

“Non ci ha provato nessuna, se è questo che ti preoccupa,” ribattè, amaro ed Imma capì che era veramente arrabbiato.

 

“No, non è questo che mi preoccupa, sei tu che mi preoccupi. Che è successo? Lo sai che mi puoi dire tutto!”

 

Ma Calogiuri rimase muto, con quell’espressione triste, che le ricordava qualcosa.

 

E poi capì che cosa: era l’espressione che aveva anche a Matera, quando qualcuno sparlava di loro o di lei e lui ci rimaneva male e pensava lei non se ne accorgesse.

 

Ma se n’era sempre accorta, solo che non poteva parlarne con lui, per ovvie ragioni.

 

“Qualcuno ha detto qualcosa su di me?” gli chiese e Calogiuri spalancò gli occhi in quel modo stupito, come se avesse di fronte qualcuno che potesse leggergli nel pensiero, e seppe di avere ragione.

 

“Deduco di sì. Allora, che è successo?”

 

“Ma niente… Carminati ha fatto un po’ di commenti da caserma su di te. Ma anche sulla Ferrari, eh. Sapevo che era un cretino ma mi ha fatto arrabbiare.”

 

“Commenti da caserma di che genere?”

 

“Ma niente… è un cretino e-”

 

“E quindi deduco che non fossero lusinghieri?”

 

“Ma no… commentava il tuo abbigliamento, cose così.”

 

“E va beh… Calogiuri, sai quante me ne sono sentite dire. Non ti devi preoccupare, veramente, io c’ho la pellaccia dura sui commenti sull’estetica. Ci sono abituata.”

 

Calogiuri sospirò e annuì, prima di aggiungere, come colto da un lampo, “ah, e ho rivisto Valentina. Per caso, eh, è venuta con un gruppo di amiche e ci siamo solo salutati. L’ho avvertita che erano colleghi e lei e le amiche sue se ne sono subito andate a un altro tavolo. Ma, visto che ti ho promesso che te lo avrei detto in caso di contatti con lei-”

 

“Tranquillo, Calogiuri. Non è che mo voglio sapere di ogni tuo singolo contatto con mia figlia e tutto quello che vi dite ma che, se ci sono cose importanti o problemi, che tu me lo faccia sapere, così li affrontiamo insieme. Tutto qui,” sussurrò, intenerita, vedendolo così impanicato ed abbracciandolo forte, “senti, perché non approfittiamo di questo rientro anticipato a causa dei commenti da caserma per goderci una serata rilassante solo io e te?”

 

“E cosa prevederebbe?” le chiese con un sorriso.


“Innanzitutto un bel massaggio, che ti sento tutto contratto e hai guidato troppo in questi giorni. E poi dopo… diciamo che devi usare la tua fantasia, maresciallo, ma stasera sei nelle mie mani. In tutti i sensi.”

 

Calogiuri la guardò prima con tenerezza e poi spalancò gli occhi in quel modo quasi animalesco, prima di baciarla con passione.

 

“Non vedo l’ora, dottoressa,” le sussurrò sulle labbra, fronte a fronte, quando si staccarono per riprendere fiato.

 

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“Valentì.”

 

“Mamma, ciao, come mai mi chiami a quest’ora? Sto andando in università.”

 

Lei era sulla strada per andare in procura: approfittava del fatto che lei e Calogiuri ci si recassero separatamente per fare un po’ di indagini.

 

“Senti, Valentì, Calogiuri mi ha detto che vi siete visti per caso ieri sera.”

 

“E che cos’è mo, un reato?”


“No, anzi, ma… ho capito che qualcuno con cui stava ha fatto commenti su di me. Lui non mi vuole dire che è successo, ma me lo puoi raccontare tu, magari? Sono un po’ preoccupata. Non dei commenti, ma di come li prende male lui.”

 

“Mà… non ho sentito molto… ero a un tavolo vicino ma c’era casino…” provò a svicolare Valentina, ma capì istantaneamente che almeno qualcosa aveva sentito.


“E allora? Dai che ti conosco!”

 

“Ma niente… uno degli agenti, uno un po’ bassino, col nasone ha… insomma… ha fatto brutti commenti sulla tua estetica, più che altro su come ti vesti. Ma il tuo maresciallo gliene ha cantate quattro, gli ha dato poco velatamente del cesso e se ne è andato. Pensavo lo menasse a un certo punto,” commentò Valentina e sentì nella voce una certa ammirazione, “ascolta, tanto lo sai che la gente commenta su come ti vesti, no? Il tuo maresciallo ci dovrà fare l’abitudine. Che poi tu hai un bel fisico mamma, se non lo nascondessi sempre. Quel carabiniere dovrebbe guardarsi lui, che sembra un panzerotto e ha un naso che pare una portaerei.”

 

“Sbaglio o mi hai appena fatto un complimento?”

 

“E ti ho detto che ti vesti malissimo. Ma che ti costa per una volta vestirti un po’ meglio? Valorizzarti un po’. E non ci posso credere che tocca a me dirtelo. A casa e coi vestiti estivi stai bene, sono quelli invernali, che ti infili ottocento strati abbinati che… lasciamo perdere.”

 

“Perché c’ho freddo, Valentì. Ma ci penserò, grazie per i complimenti,” ironizzò, anche se effettivamente… a quel cretino di Carminati e agli altri le sarebbe proprio piaciuto dare una bella lezione.

 

Non che sarebbe mai stata una strafiga come la Ferrari, ma se Calogiuri e perfino sua figlia, la cui massima idea di complimento era dire che qualcosa non le facesse schifo, le dicevano che aveva un bel fisico… forse un po’ di verità c’era.

 

Doveva pensarci su. Anche perché di cambiare per compiacere gli altri non se ne parlava proprio.

 

Le cose le avrebbe fatte, ma con il suo stile.

 

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“Dottoressa Tataranni! Com’è andata a Matera?”

 

“Tutto bene, dottore. Sto preparando insieme al maresciallo Calogiuri il rapporto sull’interrogatorio a Romaniello, ma è andata bene, credo. Diciamo che non mi aspettavo niente di diverso da lui.”

 

“Ne sono certo, conoscendola. O non si sbilancerebbe. Allora, aveva bisogno di me?”

 

“Sì, dottore. Vede, ho ricevuto l’invito per la festa annuale e mi chiedevo se potessi-”

 

“Dottoressa, non mi dica che non vuole partecipare! Ci tengo moltissimo che lei sia presente, essendo nuova qui in Procura oltretutto. Ho molta gente da presentarle e… è giusto che si faccia conoscere. Sta facendo un ottimo lavoro qui, ma è importante anche coltivare le relazioni pubbliche, lei mi capisce.”

 

“Io la capisco, ma… non sono molto amante di questo tipo di eventi. Né molto capace a fare relazioni pubbliche, col mio carattere.”

 

“Suvvia, sono sicuro che qualche ora di relazioni pubbliche in un anno non le costerà poi tanta fatica. E comunque è principalmente un buffet, poi c’è anche l’accompagnamento musicale. Insomma, appunto è un modo per fare conversazione. E ad una certa ora può smarcarsi, se proprio le viene a noia.”

 

“D’accordo. Ma non garantisco di essere gradita ai suoi ospiti, dottore.”

 

“Ma sicuramente la sua presenza sarà gradita a me,” ribattè Mancini con un sorriso di quelli a cui non potevi dire di no, “vedrà che sarà meno peggio di come se lo immagina.”

 

“Va bene, dottore, del resto non posso dirle di no,” concluse Imma con un sospiro, prendendo congedo dal procuratore capo.

 

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“Imma! Com’è andata? Ti vedo bene, nonostante tutto il trambusto degli ultimi giorni.”


“Poteva andare peggio. Eccoti il rapporto sull’interrogatorio a Romaniello.”

 

“Grazie!” esclamò, sembrando sorpresa, “come mai non me lo hai fatto portare da Calogiuri?”

 

“Per dirti che devi stare attenta quando sarà sul banco degli imputati. Davvero è un serpente e non mollerà di un millimetro. Scarica tutta la colpa sul fratello. Devi avere riscontri a prova di bomba e possibilmente più di un testimone, a parte Saverio Romaniello.”

 

“Ci sto lavorando, Imma, ci sto lavorando,” rispose con un sorriso misterioso, “comunque sono sicura che hai fatto un ottimo lavoro. Leggerò il rapporto e ti farò sapere se avrò altre domande.”

 

Fu in quel momento che notò, su un tavolo all’angolo, un sacchetto di carta di quelli da boutique costosa, tutto infiocchettato.

 

“Ah, sì, sono andata a comprarmi il vestito per la festa annuale. In pausa pranzo, ovviamente,” si affrettò a precisare, avendo notato la sua occhiata, con un sorriso, “tu ci verrai, vero? Ci serve qualche donna in più, per fare squadra e sopravvivere alla serata.”

 

“Pensavo che gli eventi mondani ti piacessero,” rispose, sorpresa.

“Gli eventi mondani sono un male necessario, Imma, come tante cose in questo lavoro. A me piacciono gli eventi culturali. Quelli mondani… li tollero, perché sono utili per conoscere gente e conoscere gente è utile per le indagini. Non sai quanti futuri imputati ed indagati si trovano a queste feste,” commentò con un sorrisetto sarcastico.

 

E, per una volta, le venne da ridere sinceramente. In fondo lei e la Ferrari di cose in comune ne avevano. Solo che Imma non si sapeva tenere un cecio in bocca. La Ferrari era invece la regina della diplomazia e della dissimulazione. Il che la rendeva assai pericolosa.

 

Imma prese nota del nome della boutique sul sacchetto, intenzionata ad andare a darci un’occhiata, anche se immaginava già il numero di zeri di quei vestiti. Avrebbe copiato lo stile e poi trovato qualcosa di mooolto più abbordabile.

 

E ci avrebbe aggiunto il suo tocco personale, naturalmente.

 

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“Mariani, mi dica!”

 

“Dottoressa, ho buone notizie. Sono riuscita a fissare un appuntamento con Maja. O meglio, mi ha scritto due date tra le quali scegliere. Ora però la palla passa necessariamente a un mio collega uomo, per ovvie ragioni,” spiegò, mettendole davanti il tablet con la chat con Monique.

 

Fece scorrere l’ultimo pezzo e le venne da ridere: Mariani si era proprio calata nella parte dell’uomo infoiato.


“Mariani, complimenti per le doti di scrittura ed immedesimazione!” la prese in giro e la ragazza divenne color peperone.

 

“E va beh… dottoressa… a furia di stare in caserma… sa quante ne ho sentite?”

 

“Immagino, Mariani, immagino. Ascolti, chi c’è disponibile per questo lavoro? Abbiamo anche Rosati e Carminati oltre che Conte e Calogiuri, giusto?”

 

“Sì, dottoressa ma… Carminati lo lascerei perdere. Rischia di calarsi un po’ troppo bene nella parte, se capisce cosa intendo. Quello quando vede una gonna non capisce più niente. Rosati forse… però io resto dell’idea che sia meglio mandarci Calogiuri, anche se come uomo che va a escort forse è poco credibile. Ma almeno è il più affidabile e non è imbranato quanto Conte.”

 

Ad Imma balenò in mente Lolita Tiger ma non disse niente. Lei Calogiuri proprio non voleva mandarcelo, maledizione! Anche se sicuramente, tra tutti, era il migliore e non ci pioveva.

 

“Per intanto accetti l’appuntamento per settimana prossima, Mariani, poi vedrò il da farsi. E ottimo lavoro, complimenti!”


“Grazie, dottoressa.”

 

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“Signora, ha bisogno?”

 

“Grazie, al momento sto dando un’occhiata,” rispose alla commessa, elegantissima, e che l’aveva occhieggiata con sospetto da quando era entrata in negozio, come se lei non si potesse permettere quella roba ingiustificatamente costosa.

 

In realtà poteva permettersela, non sempre ovviamente. Ma non voleva permettersela perché era uno schiaffo alla miseria.

 

“Ma se mi dice per quale occasione, posso darle una mano,” continuò ad insistere ed Imma decise di cedere per levarsela di torno. Tanto poteva sempre provare qualcosa e poi non comprare nulla.

 

“La festa annuale della procura, sono un magistrato.”

 

“Ma lei è una collega della dottoressa Ferrari, per caso? Perché è una nostra ottima cliente!”

 

E te credo, col guardaroba che c’ha vi lascerà un mutuo! - pensò con sarcasmo, ma non lo disse, limitandosi ad annuire.

 

“Vorrei una cosa abbastanza semplice, ma che sottolinei la figura.”

 

“Che taglia ha? Con questi vestiti e il cappotto fatico a capirlo.”

 

E così glielo disse e si ritrovò senza sapere come in camerino, a provare un tubino nero dal taglio elegantissimo e dalla stoffa che, le toccava ammetterlo, era la cosa più morbida che avesse mai avuto sulla pelle. Le arrivava di poco sotto il ginocchio e le stava come un guanto. Era praticamente perfetto, pure senza ritocchi.

 

La commessa la guardò stupita quando uscì dal camerino e si produsse in complimenti su come le stava che suonarono stranamente sinceri, considerato che le appartenenti alla categoria devono incentivarti all’acquisto pure se il vestito ti fa sembrare un capocollo.

 

Il problema era il prezzo. Ma avrebbe potuto riutilizzarlo per molte altre occasioni formali e poi… per una volta. Forse era impazzita. Ma se ne era innamorata e ultimamente agli innamoramenti e alle tentazioni le veniva assai difficile resistere.

 

Ma voleva che Calogiuri potesse non vergognarsi di presentarla come la sua compagna, quando sarebbero usciti allo scoperto. E, anche se non sarebbe mai stata Miss Italia, le sue armi ce le aveva anche lei ed era ora di sfoderarle. Poi sarebbe pure potuta tornare al suo look solito per tutti i giorni.

 

Ora restava da dare una botta di vita all’outfit, come lo avrebbe chiamato Valentina, perché di omologarsi alla massa, nonostante tutto, non ci pensava nemmeno.

 

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“Calogiuri, dimmi, sei pronto per il finesettimana?”

 

Glielo domandò come se non la sapesse benissimo la risposta. Lui sorrise, sornione. Erano ormai le diciotto di venerdì sera e non vedeva l’ora di poter passare tutto il finesettimana con lui. Cena di gala a parte, sebbene pure lui fosse stato invitato. Non vedeva l’ora anche di vederlo vestito elegante, nonostante sperasse che non ci avesse speso un capitale, che non se lo poteva proprio permettere lui.

 

“Sì, dottoressa, ma ho novità per voi sul caso Spaziani. Innanzitutto, le telecamere di sicurezza all’ingresso della villa confermano che la signora Spaziani non si è mossa da quando se n’è andata la cameriera fino al mattino dopo, in seguito alla chiamata, e quindi-”

 

“E quindi o ha trovato un modo di eludere le telecamere o il suo alibi regge.”

 

“Ho controllato la cancellata della villa, dottoressa, ed è molto alta, oltre che acuminata. Scavalcarla è un azzardo, tranne per un professionista, ed inoltre ci sono altre telecamere perimetrali, se vuole possiamo farle verificare, ma-”

 

“Meglio verificarle, Calogiuri, per scrupolo, anche se ritengo improbabile una dinamica del genere. Al massimo la moglie potrebbe avere incaricato qualcun altro di commettere il fatto al posto suo.”

 

“Esattamente. Poi ho verificato questa Eleonora Marchi ed è la compagna di Amedeo Spaziani, insomma, il figlio, da un paio di anni. Lei conferma che lui abbia lasciato il suo appartamento alle ventitrè e dopo quindi non ha un alibi. Mi sono permesso di convocarla per un interrogatorio più approfondito per lunedì.”

 

“Hai fatto bene, Calogiuri. Altro?”

 

“Sì. Ho chiamato lo studio di avvocati al quale la signora Spaziani faceva tutte quelle telefonate e quell’utenza telefonica sembra appartenere effettivamente all’avvocato divorzista dello studio, un certo… Andrea Galiano.”

 

Imma sentì tutto il sangue andarle fino ai piedi, la testa che le girava, un senso prepotente di nausea.

 

E poi di rabbia.


Nota dell’autrice: Innanzitutto buona pasqua! Anche se è una pasqua sicuramente particolare. Riguardo alla storia invece, come avete visto ci attende nel prossimo capitolo una Imma che deve fare pubbliche relazioni e “tirare fuori le armi”. Diciamo che ne succederanno (spero) delle belle e chissà quali risultati porterà quella serata… di sicuro qualcuno potrebbe essere geloso ;). Inoltre si prosegue col giallo, il maxiprocesso si avvicina e le due inchieste aperte da Imma andranno sempre più avanti, coinvolgendo persone a lei vicine, come avete appena letto. Spero che la storia continui a mantenersi interessante e coinvolgente e vi ringrazio davvero per averla seguita per questi venticinque capitoli. Le vostre recensioni oltre ad essere graditissime mi sono davvero utili per capire cosa vi piace di più e di meno e cosa funziona e cosa c’è che non va, quindi se vorrete farmi sapere che ne pensate vi ringrazio di vero cuore.

Il prossimo capitolo arriverà puntuale domenica 19.

Grazie e ancora auguri!

 

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Capitolo 26
*** La Gelosia ***


Nessun Alibi


Capitolo 26 - La Gelosia


“A che ora pensi di arrivare alla festa?”

 

“Eh, penso di arrivare puntuale, Calogiù, non prima, che già durerà abbastanza.”

 

“E allora io cerco di arrivare un po’ in anticipo, così che non ci siano dubbi che siamo venuti separatamente. Tu vieni in taxi, immagino?”

 

“Per forza… stasera mi tocca, Calogiuri,” sospirò: tra tacchi e vestito di sicuro in metro così non ci poteva andare, “a dopo!”

 

“A dopo!” rispose, chiudendo la telefonata.

 

Finì di guardarsi allo specchio, si raccolse i capelli, dato che Calogiuri la riempiva sempre di complimenti quando lo faceva, e mise un poco più di trucco del solito, specie sugli occhi.

 

Infilò il cappotto leopardato, chiamò il radio taxi ed uscì di casa.

 

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“Immacolata Tataranni, Sostituto Procuratore.”

 

“Sì, dottoressa, è in lista. Buonasera, se vuole lasciare il cappotto al mio collega,” disse la ragazza che filtrava le persone in ingresso, squadrandola da capo a piedi.

 

Mollò il cappotto ad un ragazzotto elegantissimo, ricevendone in cambio un numeretto che si affrettò a infilare nella pochette, leopardata anch’essa, così come le scarpe.

 

Perché elegante andava pure bene, ma noiosa proprio no.

 

Camminò a passo volutamente deciso e notò parecchie occhiate stupite da chi la circondava: alcune facce familiari altri no.

 

Se per il vestito, se per il passo o per gli accessori leopardati non avrebbe saputo dirlo.


E poi arrivò in fondo al corridoio e, proprio vicino all’ingresso della sala, si trovò di fronte Calogiuri che parlava - ovviamente - con la Ferrari, vestita con un abito lungo blu elegantissimo, che aveva notato in negozio e al cui confronto il suo doveva essere economicissimo.

 

Neanche le avesse letto nel pensiero, la donna si voltò verso di lei, ben presto imitata da Calogiuri.

 

“Imma! Alla fine allora vedo che hai ceduto. Ma stai benissimo!” esclamò, in quel modo amichevole che le dava sui nervi, prima di rivolgersi a Calogiuri, che però continuava a fissarla come se avesse appena visto la madonna, “non è bellissima, stasera, Calogiuri?”

 

“S- sì, sì,” balbettò lui, il collo che già gli si arrossava sopra il colletto bianco della camicia, non levandole gli occhi di dosso, tanto che Imma stessa si sentì avvampare un poco.

Va bene che Calogiuri la trovava stupenda pure in abiti da casa, quindi non voleva dire molto, ma almeno uno degli obiettivi della serata era stato raggiunto.

 

E pure lui con quel completo elegante e la cravatta era talmente bello da essere quasi illegale.

 

Stava per fare una battuta per allentare la tensione, quando sentì una voce familiare alla sua destra.

 

“Dottoressa Tataranni! Sono felice che alla fine sia dei nostri!”

 

Era Mancini, elegantissimo e sorridente come sempre, che le si affiancò, “devo dire che stasera è davvero bellissima, dottoressa, se posso permettermi.”

 

Imma sentì il calore peggiorare: era vero che Mancini era di una gentilezza incredibile, ma pareva sincero nell’apprezzamento.

 

“Irene, noi ci siamo già salutati e va beh… che sei bellissima già lo sai e sei una garanzia a questi eventi. Buonasera, maresciallo. Se non vi spiace, vi porto via la dottoressa, che ho un po’ di gente a cui presentarla,” proclamò, deciso, ed Imma si sentì prendere, seppure delicatamente, a braccetto e le toccò seguire il procuratore capo.

 

“Dottore, ma ne è sicuro? Con tutto il rispetto, io non sono proprio portata per fare conversazione, non le conviene,” lo avvertì, mentre lui la dirigeva verso il fondo della sala dove c’era un drappello di persone.

 

“Allora può fare parlare di più me, ma qualcosa mi dice che non lo farà,” rispose con un sorriso e dovette ammettere che era vero: per quanto odiasse fare conversazione, zitta proprio non ci sapeva stare.

 

“Giorgio, tutto bene?” gli chiese un uomo rasato e con un completo che urlava soldi, dandogli la mano con una confidenza e sicurezza che urlavano tanti soldi, più di quelli che lei avrebbe mai visto in due vite, “e chi è questa bella signora? Non dirmi che finalmente ti sei deciso a trovarti una nuova compagna.”

 

Imma si sentì ancora più in imbarazzo, ma Mancini le lasciò con discrezione il braccio e sorrise, “no, è il nuovo acquisto della procura. Almeno per un po’. La dottoressa Tataranni di Matera: si è occupata del maxiprocesso giù in Basilicata, che ora si sta concludendo qui, ne avrai sentito parlare.”

 

“Ma certo! Dottoressa, forse avevo visto anche qualche spezzone di lei fuori dai tribunali ma devo dire che non le rendeva giustizia. Complimenti per tutto quello che fa per il nostro paese!”

 

Quando esordivano così, già si chiedeva quanto fosse alta la loro evasione fiscale e quali scheletri avessero nell’armadio, “sa, in tribunale devo fare il mio mestiere, non una sfilata di moda. Però la ringrazio, signor...?”

 

“Dominici, Franco Dominici, immobiliarista.”


“Con quanto costano le case qui a Roma avrà una fortuna, signor Dominici,” ironizzò, chiedendosi con quanti esponenti del pubblico avesse le mani in pasta.

 

Gli appalti erano uno dei settori più corrotti in assoluto.

 

“Non mi posso lamentare… lei invece quindi è qui per occuparsi del maxiprocesso?”

 

“In parte. Se ne occupa principalmente una collega, la dottoressa Ferrari, a cui lo avevo affidato quando stavo ancora a Matera. Quindi questo mi lascia molto tempo libero per occuparmi di altri casi ed indagare. Sa… dopo aver ripulito Matera... a me piace molto fare le pulizie.”

 

“Non ne dubito…” mezzo balbettò l’immobiliarista ed Imma si aspettò che Mancini la stoppasse ma non avvenne nulla di tutto ciò.

 

Fu lo stesso Dominici a congedarsi, poco dopo, con la coda tra le gambe.

 

Mancini la guardò e sembrò stranamente divertito.


“Dottore, come vede non sono molto adatta a fare pubbliche relazioni.”

 

“Dottoressa, lo so, lo so. Ma diciamo che il mio lavoro è… valorizzare i talenti dei miei sottoposti.”

 

“Vuole dire che… voleva che gli dessi una lezione?” domandò, sorpresa.

 

“Più che altro un avvertimento. Dottoressa, il mio lavoro consiste in bastone e carota. Per la carota diplomatica ci sono colleghi come la Ferrari. Per il bastone…”

 

Ad Imma venne da ridere, “beh, se mi autorizza ad usare il bastone, fare pubbliche relazioni potrebbe non dispiacere nemmeno a me.”

 

“Andiamo dal prossimo, dottoressa,” rispose lui, ricambiando il sorriso.

 

E così si trovarono davanti ad un uomo brizzolato, anche lui di un’eleganza da far schifo.

 

“Giorgio, come va?!” chiese con un sorriso, stringendogli la mano, “e questa bellissima signora? Se è la tua nuova compagna, congratulazioni!”

 

Aridaje co sta compagna!

 

Ma che era?! Parevano tutti più interessati alla vita sentimentale di Mancini che la Ferrari a quella di Calogiuri.

 

“No, è la dottoressa Immacolata Tataranni di-” ricominciò a spiegare, mentre Imma si preparò ad impugnare il bastone.

 

Purtroppo solo figurativamente.

 

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“Calogiuri, che c’hai?”

 

“Niente, niente,” dissimulò, bevendo un altro sorso di prosecco.

 

“Non direi… hai la mascella serrata che pari uno schiaccianoci e se gli sguardi potessero uccidere, Mancini starebbe già su un tavolo autoptico.”

 

“Irene…” sospirò, anche se aveva ragione.

 

Ma Imma quella sera non era solo bellissima, era stupenda: quel vestito le pareva cucito addosso da tanto che le sottolineava le forme.

 

E, da un lato, lo faceva impazzire di desiderio, dall’altro lato però Mancini se la stava monopolizzando ormai da più di mezz’ora, portandola di qua e di là per la sala. E un po’ a braccetto, e un po’ con la mano su una delle spalle, che peraltro erano praticamente nude. Ad un certo punto le aveva perfino preso una mano e ci aveva picchiettato sopra con l’altra. Per carità, potevano essere gesti galanti e cortesi, ma… gli davano un fastidio tremendo.

 

Aveva sentito pure qualcuno chiedersi se quella fosse la nuova compagna del procuratore capo.


E questo lo faceva impazzire per altri motivi.

 

“Guarda che Mancini l’anno scorso ha fatto fare il tour anche a me, che ero nuova. Non ti devi preoccupare,” lo rassicurò e si sentì toccare il braccio, “senti, ora vado anche io a parlare con un po’ di persone che non posso non salutare, tu cerca di distrarti e di socializzare, che è importante. O vuoi che ti presenti io ad un po’ di gente? Almeno non stai qui a mangiarti il fegato.”

 

“Va bene,” annuì lui con un sospiro, anche se non riusciva a staccare gli occhi di dosso da Imma.

 

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“Dottore, vuole che spaventi qualche altro invitato o abbiamo quasi finito?”

 

“Sinceramente mi sto divertendo talmente tanto a sentire i suoi commenti al vetriolo che la porterei anche da quelli che non devono stare in campana,” ironizzò Mancini, porgendole un calice di vino. Del resto, a furia di parlare, aveva la gola secca.

 

Che le divenne un deserto quando, alzando gli occhi, vide che Calogiuri stava ancora con la cara Irene, che se lo portava pure lei in giro, presentandolo a persone che evidentemente non erano sulla lista nera di Mancini, visto che non erano tra quelli con cui aveva parlato.

 

Ma che era? La sua guardia del corpo? Il suo pigmalione?

 

Almeno Mancini aveva un motivo professionale, ma quella… ogni scusa era buona per attaccarsi al suo Calogiuri e monopolizzarselo.

 

E questo la mandava in bestia.

“Dottoressa?!”


“Come?” chiese, confusa: per il fastidio si era persa l’ultimo pezzo di conversazione.

 

“L’assessore deve averla fatta parecchio scaldare, vista la sua espressione.”

 

“Diciamo che i politici li digerisco ancora meno degli imprenditori. Forse giusto un poco di più degli avvocati.”

 

Soprattutto di un avvocato, con il quale avrebbe fatto i conti a breve.

 

“Le chiedevo se volesse mangiare qualcosa. Non abbiamo quasi toccato cibo ed è meglio approfittare di quest’attimo di tregua.”

 

“Ah, sì, sì, grazie. Ma non vorrei approfittare troppo del suo tempo, dottore,” rispose, mentre lui le faceva strada verso il buffet.


“Si figuri, lei è il nostro nuovo acquisto, se così si può dire. E poi ammetto di essermi raramente divertito tanto a questi eventi.”

 

Certo che era proprio diverso da Vitali, al quale sarebbe già venuto un coccolone con quello che aveva detto alla metà degli invitati con i quali aveva parlato.


Forse pure ad un quarto.

 

Arrivarono al buffet e scelse le cose dall’aspetto meno improbabile: detestava il cosiddetto finger food e quelle robe da nouvelle cousine.

 

“Senta dottore, posso farle una domanda personale?” prese infine coraggio, la curiosità che ebbe il sopravvento.

 

“Dipende dalla domanda,” ribattè lui con un altro sorriso, ma sembrò intrigato.

 

“Perché tutti quanti le chiedono se ha una nuova compagna, manco dovesse essere un evento storico?”

 

“Vede… cinque anni fa sono rimasto vedovo, purtroppo. E da allora… diciamo che non ho più avuto una relazione ufficiale, se capisce cosa intendo. Quindi….”


“Mi dispiace, io… non immaginavo!” si scusò, per una volta sinceramente mortificata.

 

“Ma si figuri, dottoressa! Capisco che dopo aver sentito quella domanda allo sfinimento… e poi ormai ho superato tutte le fasi del lutto. Anche se è una cosa che ti rimane dentro. Posso fargliela invece io una domanda personale?”

 

“Dipende dalla domanda,” lo imitò, facendolo sorridere.

 

“Perché è venuta qui a Roma, lasciando Matera? Una scelta coraggiosa dopo tanti anni di servizio.”

 

“Perché mi sono separata da mio marito, mia figlia studierà qui per un po’ di anni e… e Roma mi è sempre piaciuta. Ed è il posto migliore da cui ricominciare.”

 

“Ah, mi dispiace per la separazione: non sapevo lei fosse sposata e con una figlia. Quanti anni ha?”

 

“Diciannove, va per i venti. Lei ha figli, dottore?”


“No, no, purtroppo no. Li avrei voluti ma… non sono mai arrivati. Ma forse era destino così…” commentò con un sospiro.

 

Imma si sentì improvvisamente un po’ a disagio, come sempre capitava quando una conversazione diventava più intima, salvo con poche persone.

 

“Ora credo che la lascerò ai suoi altri ospiti, dottore, se non ha più bisogno di me,” provò a smarcarsi, ma Mancini scosse il capo.

 

“Ho ancora un tre o quattro persone a cui presentarla, se pensa di farcela,” proclamò in quel tono a cui era impossibile dire di no, perché era di fatto un mezzo ordine.

 

Imma sospirò e si lasciò condurre verso l’ennesimo individuo con troppi soldi e troppi pochi scrupoli.

 

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“Calogiuri!”

 

Irene si era appena allontanata per parlare con altri amici suoi ma lui aveva preferito smettere per un attimo di socializzare ed avvicinarsi al buffet, anche perché stava tenendo d’occhio di soppiatto Imma che, lì vicino, parlava ancora con Mancini.

 

Ed ora arrivava quel cretino di Carminati, con Rosati, Conti e Mariani al seguito.

 

“Ti ho visto… tutta la sera con la Ferrari! Ma che ci fai tu alle donne, Calogiuri? Quando lo ammetterete che avete una relazione? Beato te!” commentò Carminati e Conti di nuovo sembrò rabbuiarsi.


Che aveva un debole per la Ferrari sarebbe stato chiaro pure a un cieco.

 

“Quando ce la avremo, cioè presumibilmente mai, Carminati,” sospirò, prendendo un’altra tartina e sperando così che la piantasse di parlare e lo lasciasse mangiare.

 

“Comunque la vera sorpresa della serata è la Tataranni…” si inserì Rosati e Carminati annuì con un’altra risata.


“Vero! Chi lo avrebbe detto che sotto quei sacchi di patate nascondeva un fisico del genere? Davvero è una gran bella donna, Calogiuri, c’hai proprio l’occhio clinico tu! O non sarà che-”

 

“Sarà che l’ho vista con gli abiti estivi. E comunque non ci vuole l’occhio clinico per vedere quando una donna è bella, sei tu che hai problemi di vista, Carminati, visto che guardi solo le scollature e non dico che altro.”

 

“Sarà… comunque se è single… un pensierino me lo farei… certo è un po’ matura, ma con tutto quell’animalier… se è così una tigre pure in altri ambiti…”

 

“Di sicuro lei non si farebbe un pensierino su di te, Carminati. Quindi direi che puoi pure evitarti di chiedertelo, tanto non lo scoprirai mai.”


“Calogiuri, come sei sensibile, e dai! Ho pure riconosciuto che è una bella donna! Ma non sarà mica che c’hai un debole anche per la Tataranni? Una PM non ti basta? Lasciane un po’ anche agli altri!” ironizzò Carminati, imperterrito, e Calogiuri era ad un millimetro dal buttargli lo spumante in faccia o dargli direttamente un pugno, “a parte che mi sa che le ha già messo gli occhi addosso Mancini. E quello alle donne piace pure più di te, Calogiuri, quindi c’avresti concorrenza.”

 

“Tu invece sei proprio in un’altra categoria, Carminati, e non farmi dire quale. E io mo me ne vado in bagno perchè sinceramente non ne posso più di ascoltarti!”

 

“Mi sa che il debole per la Tataranni ce l’hai sul serio. Occhio a non fare ingelosire la Ferrari, che quella ti stende,” gli urlò dietro, ma Calogiuri si avviò a passo rapido, prima di fare un casino, seguito da un’occhiata preoccupata di Mariani.

 

L’ultima cosa che vide, prima di uscire dal salone, fu che Imma ancora con Mancini stava. Ed era ormai passata più di un’ora.

 

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“La ringrazio della pazienza, dottoressa. Ha resistito più di quanto mi aspettassi.”

 

“Sinceramente, se mi si lascia dare libero sfogo, ammetto che socializzare non è poi così male. Anche se le controparti di stasera non concorderanno,” scherzò, prima di aggiungere, “però ora se non le dispiace mi riposerei un poco.”

 

Mancini le sembrò un attimo dispiaciuto ma poi annuì, “va bene, cerchi di godersi la festa, dottoressa. Grazie ancora per il suo contributo di stasera. Vorrà dire che dopo il bastone, ora sarà il turno della carota.”

 

E, con un sorriso, si allontanò da lei.

 

Imma non se lo fece ripetere due volte e si avviò verso il bagno, che era tutta la sera che necessitava di andarci.

 

Fece più in fretta che poteva, si lavò le mani e poi uscì con un sospiro, pronta ad unirsi alla bolgia.

 

Ma, passando oltre una porta, si sentì afferrare per un polso e trascinare dentro.

 

Stava per cacciare un urlo quando riconobbe due occhi azzurri e una voce che diceva, “sono io, tranquilla!”

 

“Calogiuri, ma sei matto?! Un colpo mi hai fatto prendere!” esclamò, mentre Calogiuri la metteva, letteralmente, con le spalle al muro.

 

“Sei tu che mi hai fatto prendere un colpo, con questo vestito! Ed è tutta la sera che lo volevo fare, ma tu stavi sempre attaccata a Mancini,” chiarì, con un tono che erano mesi che non gli sentiva.

 

Da quando, molto raramente, lui incontrava o parlavano di Pietro, pure senza nominarlo. Anzi, forse no, neanche allora.

 

“Non dirmi che sei geloso, Calogiù,” lo punzecchiò e, se da un lato la cosa le faceva piacere, che non fosse solo lei la gelosa della coppia, dall’altro lato ne era sorpresa perché non ce n’era veramente motivo.

 

“Sì, sono geloso, e pure parecchio. E lo sai o lo dovresti sapere, perché lo sono da sempre. Solo che prima non avevo alcun diritto di esserlo e quindi dovevo tenermelo per me, mentre mo…”


“Mo puoi rapirmi in stanze buie contro la mia volontà?” ironizzò, non riuscendo però a trattenere un sorriso.

 

“Non mi sembra che sia contro la tua volontà,” replicò, due secondi prima di incollare le labbra alle sue e levarle del tutto il fiato.

 

Si godette il bacio, le mani che gli finivano tra i capelli, accarezzandoglieli, ma poi lui iniziò a baciarle il collo, scendendo verso la scollatura, e la schiacciò di più contro al muro e poteva sentire quanto fosse eccitato, “hai un’idea di quanto mi fai impazzire?!”

 

“Calogiù… Calogiù…” lo fermò, bloccandogli le spalle e spingendolo leggermente via, “è meglio che ci diamo una calmata mo. Lo sai che non possiamo farci scoprire. E soprattutto non così.”

 

Calogiuri annuì con un sospiro ed uno sguardo frustrati che le fecero tenerezza, “dai che quando arriviamo a casa recuperiamo, promesso.”

 

“Tra quanto ce ne possiamo andare?” domandò lui, per tutta risposta, e le venne da ridere.

 

“Direi non prima di una mezz’ora, Calogiù e credimi, pesa a me quanto a te. Però mo andiamo,” lo invitò, per poi trattenerlo per un braccio e lui le rivolse uno sguardo speranzoso, “anzi, aspetta che devi pulirti le labbra. Che dubito capirebbero perché indossi il rossetto.”

 

“Mi sa che pure tu devi andare un attimo in bagno: con i baci ho fatto un po’ un macello,” ammise lui ma c’era una lieve soddisfazione nel tono di voce.

 

Adorava quando faceva così.

 

Gli diede un ultimo bacio, gli risistemò la cravatta e, quatta quatta, tornò in bagno.

 

Alla faccia del macello! Il rossetto era tutto sbavato e ne aveva qualche traccia pure sul collo.

 

Ma non sarebbe mai riuscita ad arrabbiarsene.

 

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Stava aspettando un taxi. C’era una fila infinita di gente prima di lei. Sarebbe stata una lunga attesa.

 

Ad un certo punto una macchina scura e parecchio lussuosa le si fermò davanti. Il finestrino si abbassò e vide che era il procuratore capo.

 

“Ha bisogno di un passaggio, dottoressa?” le chiese con un sorriso.

 

Esitò un attimo, “dottore, se offre un passaggio a me dovrebbe offrirlo a mezza procura, lo sa?”

 

“Ma non ho tenuto mezza procura impegnata per quasi tutta la serata. Su, salga, non mi faccia sentire in colpa per averla quasi costretta a presenziare.”

 

Imma sospirò e si disse che, in fondo, non c’era nulla di male. Era vero, l’aveva fatta lavorare un sacco quella sera, ci stava che si volesse sdebitare.

 

“D’accordo,” annuì, aprendo la portiera e sedendosi accanto a lui, perché sicuramente non poteva farle da autista.

 

“Mi dovrebbe dire dove abita, perché non ne ho idea.”

 

“Non è molto distante,” spiegò, dandogli l’indirizzo, e il procuratore capo lo inserì rapidamente nel navigatore.

 

“Ci sarà traffico ma tra poco sarà a casa, dottoressa. Vicino alla procura, vedo. Comodo.”

 

“Sì, la mattina così vengo a piedi.”

 

“Io sto un po’ più distante, invece, verso Villa Borghese.”

 

Zona ancora più cara! - rifletté Imma, ma del resto al procuratore evidentemente le risorse economiche non mancavano.

 

Il resto del viaggio trascorse in silenzio, ma non spiacevole, anzi apprezzava che Mancini non cercasse di fare conversazione a tutti i costi.

 

“Eccoci qui,” proclamò, fermandosi esattamente di fronte al suo portone, “allora a lunedì, dottoressa. Passi una buona domenica.”

 

“Anche lei, dottore. E grazie per il passaggio,” rispose con un sorriso, scendendo dalla macchina.

 

Lo vide però rimanere fermo finché non ebbe aperto il portoncino e solo allora ripartì. Premuroso il procuratore capo.

 

Stava per chiudere il portoncino, quando notò una figura scura avvicinarsi dall’altro lato della strada. E per fortuna stavolta lo riconobbe subito.

 

“Calogiù! Che ci fai lì? Vieni!”

 

“Stavo aspettando che tornassi col taxi per accertarmi che fosse tutto a posto. E invece… vedo che hai avuto l’autista,” proclamò con un tono sarcastico che era più da lei che da lui.

 

E rieccola la gelosia!


“Calogiuri, dai, mi ha offerto un passaggio per ringraziarmi per averlo aiutato per tutta la serata o quasi e-”

 

“Appunto!”

 

“Non posso credere che tu sia sul serio geloso del procuratore capo. Guarda che non c’è proprio niente di cui preoccuparsi, veramente,” lo rassicurò, chiudendo il portone dietro di loro e allacciandogli le braccia intorno al collo, “punto primo, non penso sia minimamente interessato a me in quel senso, ma soprattutto ho già te e dovrei essere proprio scema a lasciarti scappare!”

 

E Calogiuri sorrise, “ah sì?”

 

“Sì.”

 

“Sbaglio o hai una certa promessa da mantenere, dottoressa?” le chiese, riprendendo a baciarle il collo e le sfuggì un mugolio quando ci lasciò un piccolo morso.

 

“Se riusciamo ad arrivare nell’appartamento e non nell’androne del palazzo, magari, prima che inizi a fare Dracula.”

 

“Senti chi parla!”

 

Ridendo, si infilarono nell’ascensore e premettero il pulsante. Calogiuri non perse tempo ed iniziò già a baciarla con passione.


Riuscì appena a svicolare un attimo, aprire il portoncino e richiuderlo dietro di loro, quando ci si trovò schiacciata contro, travolta da un bacio famelico, le mani di Calogiuri che vagavano e trovavano la zip del vestito, iniziando ad abbassarla, fino a che scivolò a terra, in una pozza di stoffa.

 

Si sentì prendere in braccio e, mentre le mordicchiava il labbro e la intrappolava contro al muro, qualcosa le disse che in camera da letto non ci sarebbero arrivati proprio.

 

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Sentì labbra sulla nuca e che scendevano lungo la spina dorsale, le mani che la tenevano abbracciata da dietro fino a poco prima che riprendevano la loro tortura di carezze.

 

“Calogiù!” esclamò, ridendo per il solletico involontario, tirando indietro un braccio per cercare di afferrargli la nuca, “ma stasera sei veramente insaziabile, che ti prende?!”

 

Dopo aver battezzato l’ingresso, avevano fatto un piccolo detour nel salotto e infine a letto. E ora lui ricominciava.

 

“Che mi prende? Che con quel vestito stasera eri… e devo rifarmi di ore di attesa, dottoressa.”

 

Imma rise, soddisfatta. Il vestito era stato sicuramente un buon investimento, per molti motivi, ma quello sarebbe già stato sufficiente.

 

E poi il riso si trasformò in un grido, soffocato a fatica nel cuscino.

 

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“Buongiorno…”

 

“Mmm… ma che ore sono?” si stiracchiò, spalancando gli occhi ed incrociandone due azzurri e già vispi.

 

“Le undici, ora di alzarsi,” pronunciò, posandole un bacio sulle labbra e poi sentì un aroma di caffè, prima che un vassoio le venisse adagiato sulle gambe.

 

“Colazione a letto?! A cosa devo questo onore?”

 

“Al vestito di ieri sera, a questa notte, a tutto…” proclamò lui in quel modo schietto che la faceva impazzire.


E sì, quelli del vestito erano stati decisamente soldi ottimamente investiti.

 

Dopo un altro bacio, iniziò a mangiare il suo bombolone alla crema e a bere il caffelatte, quando, improvvisamente, suonarono alla porta.

 

“Oddio… non è che è Valentina?” si chiese, perché chi altro poteva essere a quell’ora di domenica mattina?

 

“Mi offrirei di andare io ma....” disse Calogiuri, che era leggermente più vestito di lei.

 

“No, no, aspetta qua,” rispose, infilandosi il primo maglione e la prima gonna che le capitarono a tiro.

 

Arrivò al citofono e, alla richiesta di chi fosse, risposero: “il fioraio.”

 

Imma sorrise: Calogiuri era proprio un tesoro - oltre che un cretino a farle prendere questi colpi - e lo fece salire.

 

Le lasciò un piccolo mazzo di rose bianche. Strano, per essere di Calogiuri, ma magari aveva voluto variare un po’ e in fondo simboleggiavano un amore puro e incondizionato. Ed il suo lo era veramente.

 

Firmò la ricevuta, salutò il fioraio e tornò in camera da letto con le rose in una mano, abbracciandoselo stretto e sussurrandogli, “grazie…” in un orecchio.

 

“Veramente non te le ho mandate io…” rispose, con un tono per nulla felice, ed Imma si ritrasse dall’abbraccio, guardò il mazzo, poi guardò lui, incredula.

 

“Come?!”

 

“Non te le ho mandate io, Imma,” ripetè, sembrando sempre più contrariato.

 

E lo capiva pure ma-

 

“Ma allora chi…?” si chiese, prima di vedere un minuscolo biglietto tra le rose.

 

Bianco nel bianco le era sfuggito.

 

Lo aprì e ci lesse poche righe.

 

Grazie per le bastonate e per avermi fatto divertire come non capitava da molto tempo. Spero sarà dei nostri ancora per un bel po’ e che avrò altre occasioni di vederla in azione.

GM

 

GM. Giorgio Mancini. Si sentì avvampare anche se il messaggio era tutto sommato professionale, ma si chiedeva se fosse normale che Mancini inviasse fiori - per quanto rose bianche - alle sue sottoposte.

 

“E allora?” chiese Calogiuri, un’espressione imbronciata che la intenerì immensamente.

 

“Leggi tu stesso…” gli disse, porgendogli il biglietto, perché non aveva niente da nascondere.

 

Calogiuri, per tutta risposta, si imbronciò ancora di più, la mascella che gli si serrava.

 

“E poi dici che non è interessato a te?”


“Calogiù, dai, è un messaggio professionale. Sono rose bianche, non rosse. Al momento posso considerarlo un ringraziamento ed un benvenuto.”

 

“Un benvenuto molto accorato,” ribattè Calogiuri e le venne da ridere, e se lo abbracciò anche se lui rimase rigido.

 

“Senti, Calogiuri, facciamo così: se ci saranno ulteriori gesti di Mancini o cose che possano far capire un suo interesse nei miei confronti, te lo farò sapere subito, va bene? Ma al momento almeno lui non mi invita a fare uscite come la cara Irene.”

 

“Ma la cara Irene non mi ha mai mandato fiori, né regali.”

 

“No, però ti sta sempre appiccicata pure lei. Anche ieri sera. Che pensi che non l’ho notato?”

 

“Mi stava presentando ai suoi conoscenti.”


“E Mancini ai suoi… quelli a cui voleva male, in realtà,” rispose lei con un sorriso, per poi accarezzargli il viso, “e poi ti garantisco che sono totalmente, completamente soddisfatta della relazione che ho con te, quindi perché dovrei guardarmi intorno?”

 

“E perché dovrei farlo io, allora?”

 

“E perché stiamo discutendo invece di finire la colazione che si fredda?”

 

“Il caffelatte posso sempre rifarlo, ora avrei un’idea migliore…” ribattè lui, appoggiando il vassoio a terra, afferrandola per la vita e buttandola sul materasso, facendole il solletico.

 

Ed il mazzo di rose bianche finì poco cerimoniosamente a terra, lasciando una scia di petali sul letto.

 

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“Buongiorno signora Marchi, si accomodi, prego.”

 

La donna, elegantissima e sulla trentina, si accomodò dove le fu chiesto. Imma aveva fatto un po’ di ricerche sul suo conto: anche lei figlia di industriali, lei e Spaziani figlio stavano insieme da qualche anno.

 

Una coppia di giovani rampolli, anche se la situazione economica di lui appariva sempre meno dorata.

 

“Mi dica, cosa vuole sapere?”

 

“Mi conferma che il suo fidanzato, Amedeo Spaziani, ha lasciato il suo appartamento alle ore ventitre la sera prima che morisse suo padre?”

 

“Sì, glielo confermo, ma l’avevo già detto al maresciallo qui,” ribatté con un sottotono della serie perché mi fai perdere tempo?

 

Non fosse che c’aveva di meglio da fare, l’avrebbe tenuta lì ore di proposito solo per quello.

 

“In che rapporti era con il signor Spaziani, il padre?”

 

“Quasi nessun rapporto negli ultimi anni. Lo conoscevo tramite mio padre al circolo, è così che ci siamo conosciuti io e Amedeo. Ma poi da quando si è risposato… Amedeo si è molto allontanato dal padre e di conseguenza ho avuto poche occasioni di rivederlo.”

 

“Quando l’ha visto l’ultima volta?”

 

“Un paio di anni fa, al circolo, poco prima che le sue condizioni peggiorassero e quindi poi di casa non è quasi più uscito. La data precisa ovviamente non la ricordo.”

 

“In che rapporti era il suo fidanzato con suo padre?”

 

“Tesi. Per via della matrigna. Ma Amedeo voleva bene al padre, era preoccupato per le sue condizioni di salute, ma era più preoccupato ancora che la sua nuova moglie se ne approfittasse.”

 

“Ed economicamente com’è messo il suo fidanzato, che lei sappia?”

 

“Beh, bene, molto bene, credo,” rispose ed Imma notò che pareva sinceramente stupita di quella domanda, “insomma, l’azienda a quanto ne so va molto bene e ha un alto tenore di vita. Facciamo spesso viaggi. Mi fa regali abbastanza costosi. Come io a lui del resto. Insomma, non ci possiamo lamentare.”

 

“Bene,” disse, senza elaborare oltre, ma lanciando un’occhiata d’intesa a Calogiuri.

 

Amedeo Spaziani stava mentendo sulla sua situazione economica, sicuramente alla fidanzata ma forse pure ad altri. E vivendo evidentemente al di sopra delle sue possibilità per nascondere i problemi finanziari.

 

E l’eredità del padre a quel punto poteva essere un ottimo movente.

 

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“Calogiuri, tutto bene? Ti vedo pensieroso.”

 

“Sì, sì, scusami, cioè, scusatemi”

 

“Tanto non c’è nessuno in giro, puoi pure darmi del tu. Allora, che ti prende? Sono cinque minuti buoni che fissi lo stesso foglio di quel fascicolo e non è da te.”

 

“No, niente, riflettevo sul caso,” mentì ma venne accolto da un’occhiata scettica.

 

“Le palle le sai raccontare proprio male, Calogiuri. Allora, mi vuoi dire che succede?”

 

“L’anno scorso alla festa annuale, mi hai detto che Mancini ti ha tenuta impegnata quasi tutta la sera, giusto?”

 

“Sì, mi ha presentata a mezzo mondo. E quindi?” chiese, perplessa, prima di aggiungere, con un sorriso, “Calogiuri, non dirmi che sei un tipo geloso perché lo stereotipo di uomo del sud proprio non ti si addice. E ti ho già detto che non ti devi preoccupare.”

 

“No, ma… poi ti ha mai fatto che ne so… omaggi o regali…?"

 

“Ma chi, Mancini?” domandò, ancora più perplessa, “no, ovviamente no, perché avrebbe dovuto? Qui in procura non c’è l’usanza, per quanto ne so, ovviamente. Manco io e te ci siamo mai fatti regali. Se no ad ogni ricorrenza ci dovremmo svenare, siamo talmente in tanti.”

 

“No, niente, curiosità, volevo capire quanto fosse… gentile, insomma,” provò ad abbozzare, anche se dentro sentiva l’ansia mista a fastidio che montavano.

 

I fiori ad Irene non li aveva mandati il procuratore capo. Ed Imma ancora pensava che fosse un gesto professionale.


“Calogiuri, comunque, guarda, di Mancini non ti devi preoccupare. A quanto ne so io, da quando è rimasto vedovo non ha avuto storie ufficiali. E le sue storielle se le fa ben lontane dalla procura, non è stupido.”

 

Si chiese se gli stesse implicitamente dando dello stupido, ma lei si affrettò ad aggiungere, con un sorriso, “niente di personale, Calogiuri.”

 

Gli leggeva veramente nella mente, Irene. Lo conosceva troppo bene, ormai.

 

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“Dottoressa! Buongiorno, com’è andata la sua domenica?”

 

“Bene, dottore, la ringrazio. Anche per i fiori, ma non doveva disturbarsi,” rispose, perché sapeva che fosse la cosa cortese da fare e perché voleva valutare la reazione di lui.

 

“Ma si figuri! Lo consideri un piccolo ringraziamento per l’altra sera e per il lavoro fatto in questi mesi. Allora, mi dica, aveva bisogno di me?” le chiese con un sorriso e Imma cercò di capire se ci fossero doppi sensi ma le sembrava semplicemente cordiale.

 

“Sì, riguardo al caso di Alina. Abbiamo rintracciato una collega che era presente su entrambe le scene del crimine. Si chiama Maja, ma ora va sotto lo pseudonimo Monique. Voglio mandare uno degli uomini ad un appuntamento con lei. Ma mi serve la sua autorizzazione per i fondi e ovviamente per la missione sotto copertura, anche se di brevissima durata.”

 

“Va bene, dottoressa, non c’è problema. La ragazza lavora qui a Roma, immagino?”

 

“Certo.”

 

“Perfetto, quindi a parte i fondi per l’appuntamento non le serve altro, presumo. E tanto li riavremo indietro. Chi vuole mandare della PG?”

 

“Calogiuri,” proclamò, anche se la lingua si rifiutava di cooperare.

 

Oggettivamente era quello di cui si fidava di più e sarebbe sembrato sospetto, oltretutto, se non avesse mandato lui. Sperava di non pentirsene, ma dai tempi di Lolita erano cambiate molte cose e si era ripromessa di essere meno gelosa.

 

“Non proprio il prototipo dell’uomo che va ad escort. Ma Carminati, che ha il physique du rôle in effetti rischia di entrare un po’ troppo nella parte,” ironizzò Mancini, prima di aggiungere, “d’accordo, dottoressa, ha la mia autorizzazione. Noto che si fida moltissimo del maresciallo Calogiuri, del resto lavorate insieme da molto tempo.”

 

“Sì, dottore.”

 

“Devo dire che anche la dottoressa Ferrari lo considera il suo braccio destro. Ha fatto un ottimo lavoro con lui a Matera, dottoressa.”

 

“Grazie, dottore. Ma il potenziale era ed è del maresciallo.”

 

“Allora buon lavoro, dottoressa. Mi faccia poi avere il rapporto di come andrà l’operazione.”

 

“Naturalmente, dottore, buon lavoro anche a lei.”

 

Si chiuse la porta dietro di sé e scosse il capo: Mancini era perfettamente normale con lei. L’idea che potesse avere dei doppi fini doveva esserle stata trasmessa dalla gelosia di Calogiuri, ma non c’era nulla di cui preoccuparsi.

 

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“Avevate bisogno di me dottoressa?”

 

“Sì,” rispose, facendogli cenno di sedersi, anche se fu tentata di chiedergli se fosse una domanda retorica. Perché la risposta la conosceva benissimo.

 

“Ascolta, Calogiuri, ti devo parlare per due motivi. Il primo è per il caso di Alina. Mariani è riuscita a fissare un appuntamento con Maja Varga, una escort presente sia alla festa in cui è stato ritrovato Lombardi, sia a quella in cui è morta Alina. Ora dobbiamo incontrarla e portarla in procura. Dovresti quindi fingerti il cliente e… diciamo che è già stata fermata per detenzione di droga, quindi se ne ha con sé hai la scusa buona per portarla qui e farmela interrogare.”

 

Calogiuri sembrò un attimo stupito: forse non se lo aspettava vista la sua gelosia o forse anche lui stava ripensando a Lolita. Ma alla fine le fece un sorriso bellissimo che la ripagò della lotta interna che aveva fatto con se stessa per chiederlo proprio a lui.

 

“Naturalmente, dottoressa, vi garantisco che farò del mio meglio per ripagare la vostra fiducia.”

 

Ed Imma ricambio il sorriso, ma poi gli fece un’occhiata eloquente e gli intimò, “sarà meglio, Calogiuri.”

 

Rimasero per un attimo in silenzio, poi sospirò e sganciò la bomba, “Calogiuri, ti ricordi l’avvocato che è nei tabulati telefonici di Barbara Spaziani?”

 

“Chi? Andrea… Andrea…”

 

“Galiano.”

 

“Sì, volete interrogarlo, dottoressa?”

 

“Sì, ma non è questo,” sospirò nuovamente, prima di aggiungere, a voce più bassa, “è il figlio di Chiara Latronico.”

 

Calogiuri spalancò un attimo la bocca e poi la richiuse: gli aveva raccontato a grandi linee di com’era andata con Chiara in hotel e di avere conosciuto suo figlio, ma non come si chiamasse. Ma ora il momento era giunto.

 

“E… e che cosa pensate di fare?”

 

“Vorrei interrogarlo, ovviamente ma… ma magari non qui in procura, per cominciare. In un bar, ad esempio. Che te ne pare, Calogiuri?”

 

“Ma lo chiedete a me?” domandò, sorpreso.

 

“E a chi se no?”

 

“Credo… credo sia una buona idea. Volete quindi contattarlo voi, visto che… insomma… lo conoscete?”

 

“Sì, così penserà a un incontro personale. Ma vorrei mi accompagnassi, Calogiuri.”

 

E Calogiuri le regalò di nuovo quel sorriso luminoso, come se gli avesse fatto un regalo, anche se era una bella gatta da pelare.

 

“Naturalmente, dottoressa. Grazie della fiducia.”

 

“Magari così ti metterai in testa che di te mi fido. Invece… invece di qualcun’altra non mi sarei dovuta fidare e mo… questo complica tutto.”

 

“Ma… ma intendete… insomma… la Latronico?” le chiese, in poco più di un sussurro.


“Già.”

 

“Ma… ma quando ha iniziato a chiedervi di incontrarvi a Matera, Spaziani era ancora vivo e vegeto.”

 

“Ma quando ci siamo incontrate a Roma no.”

 

“E voi pensate che… sapesse che il figlio è coinvolto in quest’indagine?”

 

“Ti stupirebbe veramente, Calogiuri?”

 

“Non… non so che dire. Se non che forse dovreste parlarne anche con lei.”

 

“Oh, su questo ci puoi scommettere, Calogiuri. Ci puoi scommettere.”

 

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“Dottoressa. Non mi aspettavo questo invito, sinceramente. Mia madre nel frattempo è rientrata a Matera e-”

 

“E capirà le ragioni dell’invito tra poco, avvocato. Prego, si accomodi,” ribattè, facendogli segno di sedersi all’altra sedia libera del tavolino del bar, per poi fare segno verso il suo accompagnatore, “il maresciallo Ippazio Calogiuri.”

 

“Piacere, ma… come mai è qui? E lei non mi dava del tu l’ultima volta che ci siamo visti?”

 

“Eh, lo so avvocato. Ma purtroppo questa volta non è una visita di cortesia e ho preferito per intanto convocarla al bar invece che in procura ma… diciamo che lei è persona informata sui fatti di un’indagine che sto seguendo.”

 

“Quale indagine?”

 

“Suvvia, avvocato. Il nome Barbara Spaziani o Ricci, che dir si voglia, non le dice niente?”

 

Andrea Galiano deglutì visibilmente e apparve nervoso. Per essere un avvocato non era affatto al livello dello zio, anche se nel suo ambito non necessitava della stessa faccia di bronzo.

 

“Immagino sia una domanda retorica, dottoressa, e che lei conosca già la risposta.”

 

Almeno non era scemo.

 

“Immagina bene. Abbiamo i tabulati telefonici e risultano chiamate dal numero a lei intestato dello studio alla signora a tutte le ore, perfino a tarda sera. Ora, o la signora ha una parcella da decine di migliaia di euro da saldare di cui nessuno al suo studio è a conoscenza, o mi pare evidente che il vostro rapporto non sia squisitamente professionale.”

 

Il Galiano si passò una mano sugli occhi e poi ammise, “vedo che già sapete tutto. In effetti io e Barbara ci siamo conosciuti anni fa, quando era venuta col marito per la separazione dei beni prima del matrimonio. Poi non ci siamo più rivisti per molto tempo. Ma mi hanno richiamato quando lui doveva essere ricoverato, per fare un accordo in base al quale lui le versava un mensile. Il signor Spaziani temeva che, in caso contrario, il figlio lo avrebbe contestato, conoscendolo. E poi ci siamo rivisti ad un bar per le carte, quando lui era già in ospedale, e… lei sembrava veramente a pezzi. Ed abbiamo iniziato a parlare anche di altro oltre che del lavoro. All’inizio ci mandavamo giusto qualche messaggio ogni tanto, lei mi aveva colpito molto e sembrava molto sola, mi faceva… tenerezza? Non lo so. Ma poi insomma… i messaggi sono aumentati e… ed è nata un’amicizia.”

 

“Un’amicizia che vi fa telefonare fino a mezzanotte e pure oltre? A volte anche tutti i giorni? Mi pare un po’ stretta come amicizia… le ricordo che possiamo inviare la scientifica a far analizzare il suo appartamento e certe tracce restano molto a lungo e non si tolgono facilmente. Ci basta un capello o una traccia di DNA residue. Allora? Non le conviene dirci subito tutto? Lo sa anche lei come funziona, no?”

 

“Va bene… diciamo che… che abbiamo anche iniziato a vederci di persona… e c’era qualcosa di più di un’amicizia... e il resto ve lo potete immaginare.”

 

“Ce lo possiamo immaginare sì, signor Galiano e-”

 

“Ma non voglio che pensiate male di Barbara: lei amava davvero suo marito, anche se mi rendo conto che sembri assurdo che lo dica io. Solo che era sola da tanti anni, sempre in mezzo alla sofferenza, alla malattia e io… credo le dessi un po’ di leggerezza. Ma lei passava anche tantissimo tempo dal marito, lui era la sua priorità e lo sapevo, l’ho sempre saputo.”

 

“E a lei questo andava bene signor Galiano?”

 

“Che intende dire?”

 

“Che magari… diciamo che eliminato l’ostacolo primario… sareste stati più liberi di vivervi la vostra amicizia. Va bene la signora Spaziani, che rispetto a lei non aveva alternative alla solitudine, ma lei sembrava investire tutto il suo tempo libero in questo rapporto, insomma, essere molto interessato, forse in tutti i sensi. Anche perché resta la possibilità che i soldi di Spaziani potessero fare gola pure a lei che, a quanto vedo dai suoi conti, sta bene economicamente ma non è certo a livello della ricchezza di Spaziani.”

 

Il Galiano spalancò gli occhi e sembrò spaventato e poi deluso e poi quasi rassegnato, “senta, dottoressa, io mi rendo conto che… che tra mio zio e mio nonno la mia famiglia non abbia proprio dei precedenti stellari. Ma io non ucciderei mai una persona, mai. Meno che mai un povero malato. E non avrei dato mai un dolore del genere a Barbara, veramente. Lei è devastata dalla morte del marito, pur con tutta la sofferenza che è stato vederlo stare male per tanto tempo.”

 

“Ha un alibi per la sera e la notte della morte di Spaziani, avvocato?” tagliò corto, con un sopracciglio alzato.

 

“Io… io… non… non ce l’ho. Sono… sono uscito verso le ventuno. Dovevo vedermi con Barbara a Trastevere, per cenare insieme. Ma lei mi ha chiamato e mi ha detto che non se la sentiva di uscire quella sera, che era troppo stanca dopo la giornata in ospedale. E così sono tornato a casa.”


“A che ora è rientrato?”

 

“Verso mezzanotte, più o meno.”

 

“Mezzanotte? O quella sera c’era un traffico tremendo a Roma, avvocato, o tre ore per andare e tornare…. Qualcuno che l’ha vista? Al ristorante magari?”

 

“No, al ristorante non ci sono andato. Ho preso giusto un panino da uno di quei chioschetti sul lungotevere, quelli ambulanti, non mi ricordo quale esattamente. E poi sono andato a farmi una passeggiata al Gianicolo e a vedere la città illuminata. Dopo sono tornato in auto.”

 

“Quindi lei da solo è andato in piena notte, al freddo, a passeggiare in un parco?”

 

“Mi piace Roma di notte, la vista, mi calma e mi dà pace.”


“E c’è qualcuno che possa testimoniare di questa passeggiata?”

 

“C’era in giro qualche coppietta ma… ma non so che dirle dottoressa, nessuno che credo possa ricordarsi di me. Erano presi a fare altro.”

 

Ed Imma si scambiò uno sguardo con Calogiuri.

 

“Quindi in sostanza non ha un alibi ed era pure fuori da casa.”

 

“Dottoressa, non pensavo di averne bisogno, né che succedesse quello che è successo.”

 

Imma sospirò: ovviamente non aveva prove su Galiano ma era molto sospetto.

 

“Lei si rende conto che quando ci siamo visti in hotel Spaziani era già morto? Ed immagino lei sapesse benissimo che mi occupavo io del caso, o dalla signora Spaziani, o perché lo avrà sentito frequentando la procura. Se non avesse avuto niente da nascondere, poteva parlarmene allora, no? Invece che mettermi e mettersi ora in questa posizione. Ricordo ancora come mi diceva che non avremmo mai dovuto avere a che fare in procura e che mi avrebbe fatto ricredere su di lei e sulla famiglia Latronico. Al momento, mi creda, non in positivo.”

 

“Lo sapevo, sì, dottoressa ma… ma non volevo compromettere Barbara che, veramente, oltretutto non c’entra niente. Non sarebbe stato corretto da parte mia nei suoi confronti, non crede?”

 

“Quello che credo o non credo al momento, signor Galiano, è un problema suo ma non la riguarda. Comunque può andare, ma non lasci la città e si tenga a disposizione.”

 

L’uomo sospirò, la guardò con quegli occhi marroni simili a quelli materni - e forse pure un po’ ai suoi - e se ne andò senza dire un’altra parola, probabilmente sapendo che sarebbe stato inutile.

 

“Che ne pensi, Calogiuri?” gli chiese poi, vedendolo pensieroso.

 

“A me, a parte il non volere ammettere la relazione, è sembrato sincero, ma immagino di non essere il più abile a capire quando la gente sta mentendo.”

 

Si chiese se solidarizzasse con Galiano per via della relazione con la Spaziani. I parallelismi erano evidenti pure a lei. Le relazioni extraconiugali dovevano essere una caratteristica di famiglia.

 

La verità era che pure a lei non era sembrato bugiardo, non completamente. Del resto aveva ammesso spontaneamente di essere uscito quella sera, anche se magari già sapeva che dalle telecamere - o magari da un portiere - lo avrebbero potuto verificare. O dalle celle del cellulare. Era pur sempre un avvocato, in fondo.

 

Non sapeva se prevalesse il desiderio di essere scettica e cauta o quello di fidarsi. Di sicuro sapeva che era difficile restare obiettiva e rimaneva molto arrabbiata con lui per non averle detto niente da subito.

 

Prese il cellulare e compose un numero che aveva salvato come Chiara L., forse mo l’avrebbe rinominato volentieri C. Latronico, per ricordarsi esattamente perché non ci si potesse fidare.

 

“Imma?” rispose, dopo un po’ di squilli, “ma che bella sorpresa! Mi fa molto piacere sentirti! Io sono rientrata a Matera, ma forse lo immaginerai. Dimmi.”

 

O era una grande attrice o sembrava realmente felice di sentirla.

 

Ma i Latronico erano dei grandi attori.

 

“Non è una chiamata di cortesia. Tuo figlio è coinvolto in un mio caso. Era l’amante della moglie di un uomo ucciso in una casa di lungodegenza. E non ha un alibi. Oltretutto i fatti sono avvenuti prima che ci incontrassimo a Roma. Volevo avvertirti che ovviamente credo sia meglio non ci sentiamo più e che ti potrei dover convocare per chiederti notizie su tuo figlio e i vostri incontri qui a Roma. Ho già parlato con lui.”

 

Sentì silenzio, tanto che dubitò che la linea fosse caduta o che la Latronico fosse svenuta.


“Non… Imma, lo so che la nostra famiglia è quella che è… ma… mio figlio non farebbe mai male a una mosca, veramente: lui è buono, è generoso, pure se fa l’avvocato. Non… io spero che tu non creda veramente che-”

 

“Poteva parlarmene lui per primo e dirmi la verità ma non l’ha fatto, non-”

 

“Ma se non l’ha fatto è stato sicuramente per non peggiorare la situazione di questa… signora, di cui, credimi, non sapevo niente. O forse per non deludermi, non so, visto che gli ho sempre raccomandato di evitare le donne impegnate e non fare come suo zio e suo nonno. Però… però, veramente, non ammazzerebbe mai qualcuno, non il mio Andrea. Né coprirebbe un omicidio.”

 

“Se è innocente non ha niente da temere. Ma io devo fare come sempre il mio lavoro. Anzi, lo devo fare con ancora più scrupolosità proprio per…  per tutti i pregressi.”

 

“Certo, Imma, lo capisco, ma-”

 

“Mi farò viva io se devo convocarti per un interrogatorio. Devo andare mo,” tagliò corto, perché non sapeva che altro dire e non voleva farsi imbambolare.

 

“Spero che ci potremo risentire per altre ragioni quando tutto questo sarà finito,” rispose la Latronico, anche se le sentiva la voce tremare un poco.

 

Ma Imma chiuse la comunicazione.

 

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“Tutto bene, Calogiuri?”

 

“Sì, dottoressa, non vi preoccupate, riuscite a vedere bene la telecamera?”

 

“Sì, al momento sì.”

 

“E l’audio?”

 

“Buono, Calogiuri. Cerca di rimanere così, mi raccomando, che se ti leva la giacca è un problema,” disse, apparentemente con un tono professionale, visto che stava su una camionetta a poca distanza da lui con Mariani e Conti.

 

Ma la realtà era che sperava che quella a svestire Calogiuri non ci si avvicinasse nemmeno lontanamente. E non solo per la telecamera nascosta nel taschino. Sperò Maja non la notasse, né notasse gli auricolari.

 

“D’accordo, dottoressa,” rispose e gli colse una lieve ironia nella voce, “chiudo.”

 

Col cuore in gola, si costrinse a stare calma, mentre lo vedeva entrare in quell’hotel elegante e lo sentì chiedere della stanza che aveva prenotato, sotto falso nome, ovviamente.

 

Non gli chiesero i documenti ed il receptionist gli passò una chiave magnetica con un sorriso complice.

 

Avrebbero sorriso tutti molto meno in quell’hotel, non appena l’operazione fosse stata conclusa, perché una bella inchiesta per favoreggiamento della prostituzione, più svariate altre imputazioni, non gliela levava nessuno.

 

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Arrivò alla stanza indicata sul cartoncino che accompagnava la chiave. Penultimo piano, zona evidentemente al riparo dagli occhi indiscreti. Si chiese se Maja non fosse l’unica ad utilizzare questo hotel a questo scopo. Del resto, di ricchi annoiati che magari chiedono qualche extra durante il soggiorno ce ne dovevano essere parecchi.

 

Aprì la porta e si trovò di fronte alla Varga, vestita con un abitino nero che definire succinto sarebbe stato riduttivo, e che gli fece un grande sorriso, un’espressione sorpresa sul volto.

 

“Tu sei Marco Caltagirone?”

 

“Sì, perché?”

 

“No, è che dalla chat ti immaginavo diverso. Più vecchio e… e insomma non mi sembri il tipo che ha bisogno di pagarla una donna.”

 

“Ma viaggio tanto per lavoro e non ho molto tempo da perdere. E poi… sai quante donne si avvicinano a me solo perché sono ricco? A quel punto tanto vale pagare una professionista, che è quasi più onesto,” rispose, ripetendo la scusa ufficiale che si erano inventati e sperando suonasse convincente nel suo cinismo e maschilismo.

 

Se lo avessero sentito sua madre e sua sorella lo avrebbero, giustamente, menato.

 

“Vero! Lo dico sempre anche io. Almeno noi non fingiamo di volere altro da voi e voi non fingete di volere altro da noi. Anche se… secondo me non tutte ti si avvicinano solo perché sei ricco. Ma, a proposito, se mi dai i soldi, così possiamo cominciare la… seduta,” rispose, pratica, nemmeno fossero dal medico.

 

Calogiuri estrasse il portafoglio di pelle, preso in prestito da Mancini che lo aveva di marca buona, ed un plico di banconote da cento. Maja le contò e si accertò che ci fossero i mille euro promessi.

 

“Benissimo… ci sono tutti. Allora, che cosa preferisci fare per iniziare?” gli domandò, con un sorriso ed un tono di voce che immaginò dovessero risultare seduttivi, avvicinandosi e mettendogli le mani sulle spalle.


“Aspetta!” la bloccò, prima che potesse levargli la giacca o comunque spostargli la telecamera.

 

“Ah, sei uno di quelli ai quali piace guardare mentre mi spoglio?”

 

“Anche, ma… prima non avresti qualcosa per… tirarci un po’ su... se capisci cosa intendo?”

 

“Come no! Ma sono cento euro extra,” rispose Maja e Calogiuri pensò che pure sullo spaccio facesse una bella cresta. Estrasse un’altra banconota dal portafoglio e gliela diede.

 

“Perfetto. Allora… ecco qui…” proclamò, tirando fuori un piccolo rotolino bianco ed una specie di carta di credito dalla borsetta, che era rimasta su una delle sedie, ed appoggiandolo su uno dei tavolini, dove lo aprì, lasciandone uscire una polvere bianca.

 

Calogiuri aveva visto abbastanza.

 

“A te l’onore…” fece segno lei, ma lui ribatté, “no, prima le signore.”

 

E, mentre Maja si chinava, le bloccò i polsi dietro la schiena.

 

“Ah, ti piace giocare, eh?” gli chiese spingendoglisi contro con il fondoschiena proprio , in quella posizione imbarazzante e Calogiuri si sentì avvampare, e faticò quasi a recuperare le manette dal retro della giacca.

 

Come la ragazza sentì la manetta su un polso, iniziò a divincolarsi, “no, certe cose non le faccio e-”

 

“Maja Varga, sei in arresto per detenzione e spaccio di stupefacenti,” la interruppe, chiudendole anche l’altro polso e Maja prima si bloccò, poi iniziò a divincolarsi ancora di più, “stai calma e non succederà niente.”

 

“Maledizione!” urlò lei, seguito da una serie di epiteti intelligibili in quello che doveva essere ungherese ma che di sicuro erano come minimo insulti.

 

Dopo un altro po’ di minuti in cui cercava di tenerla bloccata, finalmente la porta si spalancò ed entrò Mariani. Conti doveva essere rimasto giù in reception con il receptionist e chissà chi altri.

 

“Dai, Calogiuri, ti dò una mano così la portiamo fuori. Signora Varga, ha un cappotto da indossare?”

 

Lo videro su una delle sedie e provò a metterglielo addosso, ma continuava a muoversi. Alla fine però si arrese e si lasciò coprire.

 

“Dovevo capirlo… eri troppo bello per essere uno che va ad escort, quando puoi avere gratis tutte le donne che vuoi…” proclamò infine, scuotendo il capo, quasi a darsi della cretina, prima di farsi condurre da Mariani alla porta.

 

“Operazione conclusa,” proclamò al microfono, aspettando che gli auricolari riprendessero vita, “che devo fare ora? Chiamo la scientifica per la stanza?”

 

“Difficilmente ci sarà qualcosa a parte le tracce di Maja e tue ma vale la pena fare un tentativo. Noi abbiamo bloccato il receptionist e mo vado a parlare con il direttore dell’albergo. Bel lavoro Calogiuri! Se vuoi puoi raggiungermi per l’interrogatorio.”

 

Le sentì il sollievo e l’orgoglio nella voce. E, come sempre accadeva in questi casi, quel senso di gioia, di pace e di soddisfazione profondissima lo invasero al sapere che lei era fiera di lui.

 

E questa era la cosa che contava di più.

 

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“Allora, signora Varga, la avviso che al momento è accusata di detenzione e spaccio di stupefacenti. Visto l’arresto precedente, si aggiunge l’aggravante della reiterazione del reato. Ma siamo disposti a venirle incontro, se lei risponde ad alcune nostre domande.”

 

“Sulla droga?” chiese Maja, sembrando sorpresa, e guardandosi in giro nell’ufficio di Imma: probabilmente si aspettava di finire in un commissariato o in caserma.

 

“Anche, ma più che altro su una ragazza che… diciamo che lavorava spesso con lei. Sappiamo che si chiamava Alina ed ecco la sua foto,” disse Calogiuri, mostrandole l’immagine meno peggio della ragazza tra quelle scattate all’obitorio.

 

Maja spalancò gli occhi, il labbro le si contrasse per un secondo, ma poi scosse il capo e disse con una voce solo in apparenza ferma, ma con un lieve tremore che non riusciva del tutto a celare, “non la conosco, anzi, non la conoscevo, visto che mi pare evidente che sia morta.”

 

“Ascolta, Maja," intervenne Imma, "ti dò del tu perché sotto tutto quel trucco credo tu abbia meno anni di quelli che dimostri. Abbiamo le prove che tu e lei eravate diciamo… al lavoro insieme almeno in due differenti posti. Alla festa dove l’onorevole Lombardi… è sfortunatamente finito in overdose e pure alla festa dove Alina è stata ritrovata morta. Guarda caso sempre overdose. E il risultato lo vedi in quella foto. Ora, non ci prendere per scemi: è evidente che vi conoscevate e se collabori noi-”

 

“Io non parlo. Io non so niente. Non voglio fare una brutta fine. Se dovete arrestarmi per la droga, fatelo, meglio in galera che morta.”

 

“Ascolta Maja, io non so se chi ha ucciso Alina stia cercando di fare fuori anche altre persone che magari potevano sapere qualcosa o meno. Ma sappiamo che Alina è stata con Lombardi quella sera. Credimi che sei più al sicuro se parli con noi, piuttosto che se rimani là fuori a fare questo mestiere qui a Roma. Ti daremo protezione e comunque la tua testimonianza al momento rimarrà diciamo anonima. Non faremo il tuo nome ad altri e non sveleremo la tua identità, se non, qualora fosse necessario, al processo, ma nel frattempo sarai protetta e pure dopo. A quelle feste c’erano diverse ragazze, no? Difficilmente potranno risalire a te, soprattutto se mo sparisci per un po’ dalla circolazione. Vuoi davvero rimanere là fuori e rischiare di fare la fine della tua amica?”

 

“Non era mia amica.”

 

“Io invece credo di sì, visto come hai reagito vedendo la sua foto. Non era una delle tante colleghe, non è vero? Non vuoi che abbia giustizia?”

 

“Giustizia,” rispose, con una risata, “beata lei che ancora ci crede!”

 

“Lo so che la giustizia non sempre funziona. Ma ti garantisco che io faccio il possibile e pure l’impossibile per portare fino alla fine i miei processi e non mollo.”

 

“Le interesserebbe veramente così tanto la morte di… di una come me, se non ci fosse di mezzo Lombardi?”

 

“Stavo indagando sulla sua morte prima di scoprire il collegamento con Lombardi e avrei continuato a farlo con lo stesso scrupolo pure senza sapere di lui. Per me il mestiere che fai non conta. L’unica cosa che ti contesto è che spacci quella merda, seppure a uomini che va beh… non sono esattamente dei santi. Ma immagino ormai ne sia dipendente pure tu.”

 

“No… cerco di prenderne pochissima… lavorando da sola non sono come le ragazze del giro di Alina, che obbligano a prenderla per renderle dipendenti fisicamente. Però i clienti se la aspettano e devo avercela con me. Fa parte degli… strumenti del mestiere.”

 

“Senti… raccontami quello che sai. Forse leverò qualche cliente dal giro, ma sarai poi più sicura se vorrai… continuare a fare questo lavoro. Tu e le tue colleghe. E se invece vorrai fare altro… possiamo darti una mano.”

 

“E che cosa, eh? La cameriera? La badante? La colf? Ora ho un bell’aspetto, ma quanti anni mi restano? Con quello che guadagno, io e la mia famiglia in Ungheria possiamo garantirci il futuro anche per quando non potrò più fare questo lavoro.”

 

“Possiamo darti un’identità nuova e potresti studiare. Visto come parli perfettamente la nostra lingua sono sicura che non avresti problemi a farlo e a trovarti un lavoro remunerativo ma meno pericoloso. Vuoi davvero rischiare di fare la fine di Alina? Ne vale la pena?”

 

Maja sbuffò e rimase per un po’ in silenzio, poi scosse il capo.


“Va bene… tanto ormai sono compromessa… tanto vale che non rischi di tornare là fuori. Che cosa volete sapere?”

 

“Beh… perché non ci racconti dall’inizio. Da quanto conoscevi Alina? In che rapporti eravate?”

 

“Ci siamo conosciute meglio proprio dopo la festa di Lombardi. Ma prima era da qualche mese che la vedevo in giro, insieme alle altre ragazze. Mi contattò qualche giorno dopo quello che è successo a Lombardi appunto. Sapeva che io lavoravo in modo indipendente e lei era scappata da quelli che la gestivano, aveva pure cambiato colore e taglio dei capelli, si metteva le lenti colorate spesso, sembrava molto spaventata. Però non aveva soldi e quindi voleva continuare a fare questo lavoro, ma come me. Io glielo dissi che era pericoloso, che alla fine rimanendo nel giro rischi che ti ribecchino, perché sì, Roma è una città grande ma alla fine dove girano i soldi insomma… quasi tutti conoscono tutti. Ma lei non sapeva come fare e quindi mi ha fatto tenerezza e le ho dato una mano a iniziare a lavorare e a trovarsi un posto dove stare. A patto che non dicesse a nessuno che l’avevo aiutata io, naturalmente.”

 

“Ti ha detto qualcosa di cos’è successo la sera in cui è morto Lombardi?”

 

Maja sospirò per un attimo e sembrò esitante, poi annuì, “sì, mi aveva detto che… che le era stato ordinato dai… dai suoi capi di mettergli della ketamina nel bicchiere.”

 

Ketamina… un anestetico potente, la droga dello stupro. Svanisce dopo poche ore. Con Lombardi svenuto, dargli un'overdose di cocaina sarebbe stato un gioco da ragazzi.


“Sai chi erano i suoi capi?”

 

“No, quelli che gestivano il suo giro di ragazze. Io in certe cose non ho mai voluto entrare e non lo voglio sapere.”

 

Insomma, molto probabilmente c’entrava quel gentiluomo di Quaratino e la sua compagna. O almeno i suoi uomini.

 

“E quindi ha fatto come le è stato ordinato?”

 

“Sì, non poteva fare altro. Quelli sono gente che non scherza.”

 

“E poi? Ti ha detto altro?”

 

“Sì… mi ha detto che ha lasciato la stanza, come le era stato ordinato ma… ma ha incrociato lo sguardo con un uomo che ci è entrato poco dopo. Ed aveva molta paura perché lui aveva notato che lei lo aveva visto.”

 

Imma sentì il battito accelerare dall’eccitazione, “e com’era questo uomo? Te lo aveva descritto?”


“Mi ha detto che era abbastanza giovane, bello, ma che aveva l’occhio del serpente.”

 

Ed il sangue dal fluire fin troppo rapidamente le si gelò nelle vene.

 

“L’occhio del serpente? E che vuol dire?”

 

“Non lo so… io… io mi sono spaventata quando mi ha raccontato queste cose e le ho detto che non volevo sapere altro e che doveva scordarsele pure lei e non parlarne con nessuno.”

 

Imma sospirò ma non si arrese: doveva tirarne fuori qualcosa di buono da questo interrogatorio.

 

“E quindi tu ed Alina eravate in contatto in questi ultimi mesi?”


“Sì, spesso le davo dritte sulle feste dove andavo pure io o cercavo di passarle i nomi di clienti che volevano… variare un po’.”

 

“Ed è così che siete finite insieme alla festa dov’è… stata uccisa?”


“Sì, esatto.”

 

“Eri presente anche quando è stata aggredita, qualche settimana prima?”

 

Maja la guardò, stupita, “e lei come lo sa?”

 

“Non importa come lo so. Allora?”

 

“No, a quella festa non c’ero. Ero tornata in Ungheria dai miei genitori per il natale. Però Maja mi ha detto di essere stata aggredita, era molto spaventata. Io l’avevo avvertita che doveva cambiare aria per un po’, andare altrove, ma lei sperava non c’entrasse niente con quello che era successo con Lombardi, perché il cliente che l’aveva aggredita era uno sconosciuto. E nel nostro mestiere succede che qualche cliente abbia gusti un po’ strani e… si faccia prendere la mano.”

 

“E della sera della… morte di Alina, che mi dici? Hai notato niente di strano? Sai con chi si era appartata?”

 

“Un uomo alto, moro, piazzato ma… non era uno che avessi mai visto prima. Io mi sono ritirata presto in camera con un mio cliente, poi quando abbiamo finito sono tornata a casa mia. Non avevo sentito niente di strano… non potevo immaginare che…” si interruppe, mentre le scendeva una lacrima, “l’ho saputo dai telegiornali.”

 

“E non era lo stesso uomo dell’aggressione, quindi?”

 

“Non penso: me lo aveva descritto come abbastanza basso e tracagnotto. E poi, se avesse riconosciuto qualcuno si sarebbe spaventata, ma era tranquilla quella sera, almeno finché non l’ho vista più.”

 

“Pensi che sapresti riconoscere chi c’era a quest’ultima festa? O qualcuno che c’era alla festa di Lombardi?”

 

“A quella di Lombardi è più difficile, a quest’ultima penso di sì, anche se c’era molta gente e non conoscevo tutti.”

 

“Sai… sai come si chiamasse Alina di cognome? Di dove fosse?”

 

“Sì, Holub. Era della zona di Charkiv, vicino al confine russo. Aveva ancora una sorella lì, a cui doveva mandare soldi. Altro non so.”

 

“Va bene. Per oggi basta così. Ora il maresciallo ti accompagnerà da una collega e faremo in modo di mandarti in un luogo protetto sotto falso nome e vedrai che ti troverai bene,” la rassicurò, anche se Maja non sembrava molto convinta e squadrava Calogiuri con ancora meno convinzione, probabilmente avendocela con lui per averla incastrata.

 

“Seguitemi e non vi preoccupate. La dottoressa quando dà la sua parola la mantiene.”

 

“Mi dai del voi ora? Sei proprio un tipo strano e diciamo che delle tue rassicurazioni me ne faccio poco, maresciallo. Ma non ho molte alternative,” sospirò, alzandosi, ancora ammanettata e lasciandosi prendere per un braccio e condurre fuori.

 

Imma era orgogliosa di lui e di come aveva gestito la situazione, anche se quando Maja si era avvicinata un po’ troppo aveva avuto un moto di inevitabile fastidio. Ma Calogiuri era stato pronto, rapido e professionale.

 

Era maturato negli ultimi anni, pur essendo ancora un po’ troppo ingenuo a tratti. E alla fine, in fondo, era anche quel residuo di innocenza, nonostante tutto, il suo bello.

 

Ma doveva dargli più fiducia, perché se la meritava, ed imparare ad essere meno insicura.

 

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“Dottore perché ci ha fatto convocare?”

 

Guardò alla sua destra, sorpresa di vederci Santoro.

 

“Perché ho preso una decisione, in seguito al suo rapporto sull’interrogatorio di Maja Varga, dottoressa,” esordì Mancini, facendo segno ad entrambi di accomodarsi.


“E sarebbe?” chiese Santoro, guardandola in cagnesco.


“Ad oggi è evidente che il caso di Alina Holub e di Lombardi sono collegati. E che quello di Lombardi non è stato affatto un tragico incidente. Ho deciso quindi di unire le due inchieste. E, visto il progresso delle indagini avvenuto grazie all’intervento della dottoressa Tataranni, ho deciso che sia più giusto affidarlo a lei.”

 

“Che cosa?!” esclamò Santoro, livido, in quello che era praticamente un urlo.

 

“Dottor Santoro, la prego di moderare i toni,” lo redarguì Mancini, lanciandogli un’occhiataccia di cui Imma non lo avrebbe ritenuto capace, “la dottoressa Tataranni ha riaperto questo caso che era fermo da mesi e mi pare giusto che ci lavori lei con occhi freschi. Lei ha avuto l’opportunità per oltre un anno, Santoro, e non abbiamo fatto alcun progresso rilevante. Sto solo facendo il mio lavoro e ciò che è meglio per quest’indagine, che oltretutto è l’unico tassello ancora mancante al maxiprocesso, che si dovrebbe chiudere a breve.”

 

“Ma questo non è un buon motivo per togliermi il caso! La dottoressa Tataranni è stata solo fortunata a trovare il cadavere giusto al momento giusto. Io non avevo tutti gli elementi e-”

 

“E la maggior parte degli elementi che già aveva glieli ha forniti la dottoressa Tataranni stessa da Matera, Santoro, ho studiato tutto il fascicolo.”

 

“Lo stesso può essere detto della dottoressa Ferrari e del maxiprocesso allora. Vuole affidare pure quello alla dottoressa Tataranni?”

 

“Il maxiprocesso è stato volutamente lasciato dalla dottoressa Tataranni e la Ferrari ha fatto un lavoro encomiabile ad entrare a poche udienze dalla fine e cercare di portarlo a termine. Anche se la parte investigativa è praticamente tutta farina del sacco della dottoressa Tataranni. Ma almeno la Ferrari è stata collaborativa e ha utilizzato correttamente il lavoro di squadra con la dottoressa e con il maresciallo Calogiuri e stanno ancora facendo progressi. Lei è fermo da mesi, anche con questa richiesta all’Interpol, che ho verificato non essere più stata sollecitata. Sono tempistiche inaccettabili e me ne occuperò personalmente, Santoro. Lei è giovane ed è brillante, ma su quest’inchiesta ha avuto una lentezza e un’inazione che non sono giustificabili, vista l’importanza del caso e del maxiprocesso.”

 

“Ma secondo lei l’Interpol si scomoda rapidamente per scoprire gli interessi di Lombardi e consorte a Panama? Senza uno straccio di prova che ci sia qualcosa di sospetto nel suo malessere se non l’opinione di altri indagati, che però non ci danno uno straccio di certezza. La testimonianza della Varga ha rimesso tutto in discussione ma-”

 

“Ma ci è voluta la dottoressa Tataranni che insistesse, insieme alla Ferrari, per collegare le inchieste, Santoro. Pensa che non l’abbia saputo? Mi dispiace ma questo caso passa a chi se ne è realmente occupato finora. E non è lei. E ora, se non le dispiace, vorrei parlare da solo con la dottoressa Tataranni.”

 

“Va bene, dottore,” sibilò Santoro con un tono omicida, squadrò Imma con uno sguardo da non finisce qui ed uscì sbattendo la porta.

 

Imma rimase per un attimo in silenzio, poi si voltò verso Mancini, non sapendo se essere più ammirata o preoccupata.

 

“Dottore, ma è sicuro? Santoro non l’ha presa molto bene, direi.”

 

“Non mi importa nulla dell’ego ferito di Santoro, dottoressa. Gliel’ho già detto: quello che per me contano sono i risultati e chi può portarli. E non si deve preoccupare per ritorsioni di Santoro, io-”

 

“Ma no, dottore, non è per quello, che ad inimicarmi i colleghi ci sono abituata. Ma insomma… vorrei evitarle problemi.”

 

“Stia tranquilla e pensi a lavorare, che a Santoro ci penso io. Disporrò affinché Mariani le fornisca tutto il materiale sul caso Lombardi. Le lascio carta bianca, dottoressa, se vuole sentire qualcuno che fosse pure già stato interrogato. Le chiedo solo di avvertirmi se volesse sentire politici. Non glielo negherò se fosse necessario, ma preferirei evitare di attirare un certo tipo di attenzioni, specie se il movente, alla fine, fosse una vendetta privata.”

 

“Non lo so, dottore. Di sicuro a mio avviso in qualche modo c’entra Romaniello, essendo probabilmente coinvolto il Quaratino. Ma la descrizione dell’uomo entrato nella stanza di Lombardi effettivamente non è incompatibile con Richardson. Ma non ne abbiamo la certezza. A questo punto ci servono quei dati dall’Interpol, dottore, per avere qualcosa in mano per interrogarlo.”

 

“Ci penso io, dottoressa. Ho un paio di amici all’Interpol e solleciterò la pratica. Vedrà che se Lombardi o la Tantalo avevano affari a Miami e Panama ne troveremo traccia. Il giro dei faccendieri è meno ampio di quello che si pensa.”

 

“Bene, la ringrazio dottore, per la fiducia e per l’interessamento personale,” rispose Imma, soddisfatta anche se pure un po’ preoccupata per cosa avrebbe potuto combinare Santoro, “aveva bisogno di parlarmi anche di altro?”

 

“Sì, dottoressa. Mi hanno invitato a presenziare a un convegno a Milano per parlare, tra le altre cose, di ingerenze tra istituzioni e criminalità organizzata e come combatterle. Ora, lo so che a logica potrei portare con me la dottoressa Ferrari, che si occupa del maxiprocesso, ma le ho parlato e concorda con me che è più giusto che lo faccia lei, che si è trovata in prima persona in mezzo a questo conflitto a Matera e a dover capire come portare a termine il processo. Vorrei portasse il suo esempio. Mi accompagnerebbe quindi al convegno?”

 

“E… e quando sarebbe?” domandò, stupita, perché di solito la tenevano a distanza siderale da occasioni nelle quali c’era da parlare in pubblico, conoscendo il suo carattere.

 

“A inizio aprile. Dopo, si spera, l’ultima udienza del maxiprocesso. Lei potrà quindi discuterne più liberamente, sebbene manchino ovviamente due gradi di giudizio. Il convegno durerà due giorni ed inizia presto la mattina, quindi ci toccherà trascorrere due notti a Milano. Per lei è un problema?”

 

Imma ci riflettè un attimo: a inizio aprile non aveva impegni. Certo, stare via due notti col procuratore capo… Calogiuri probabilmente non ne sarebbe stato entusiasta, ma del resto si trattava di lavoro e non doveva certo chiedergli il permesso.

 

“Va bene, dottore, non c’è problema. Mi può magari mandare qualche informazione in più sull’evento, così mi organizzo?”

 

“Certamente, dottoressa. Procedo con le prenotazioni e le farò avere tutto. E poi mi piacerebbe che la sua presentazione la rivedessimo insieme qualche giorno prima, per coordinarci. E mi sarebbe molto utile se lei invece controllasse la mia di presentazione, già che ci siamo.”

 

“Dottore, io non sono la persona più adatta a parlare in pubblico.”

 

“Ma a correggere gli altri è un’esperta.”

 

Le scappò un sorriso e dovette ammettere che era vero, “va bene, dottore. C’è altro o posso andare?”

 

“No, no, la lascio al suo lavoro, dottoressa. E complimenti per come ha saputo trovare il collegamento tra la Holub e Lombardi. Non molti avrebbero avuto quell’intuizione e ci ha visto giusto.”

 

“Grazie, dottore. Diciamo anche che la sorte è stata dalla nostra parte, per una volta. Buon lavoro anche a lei.”

 

Ed uscì dall’ufficio, un po’ stranita, anche se non avrebbe saputo dire esattamente il perché.

 

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“Ho sentito che Mancini ti ha affidato il caso Lombardi.”

 

Imma annuì, mentre tagliava un altro degli involtini di carne preparati da Calogiuri. Era proprio bravo a cucinare, ma temeva che le sarebbero rimasti sullo stomaco quando gli avrebbe dovuto dare l’ulteriore notizia.

 

“Sì, ha sorpreso anche me. Santoro non l’ha presa bene, ovviamente.”

 

“Il caso te lo meriti di gestirlo tu, Imma, e Santoro avrebbe dovuto farsi da parte molto tempo fa,” fu il commento sorprendente di Calogiuri, che le strappò un sorriso grato, “certo, mi stupisce Mancini sia arrivato a tanto. Vitali non lo avrebbe mai fatto ma… da quando sono qui nemmeno lui ha mai tolto un caso a qualcuno.”

 

“Lo so, Calogiuri, è un bel rischio per lui e… ora sarò ancora più sul libro nero di Santoro. Ma almeno possiamo lavorarci insieme al caso Lombardi e, se la fortuna ci assiste, magari riusciamo a trovare la quadratura del cerchio in tempo per l’ultima udienza del maxiprocesso.”

 

“Già…” commentò, pensieroso, mangiando un altro boccone, “Irene ovviamente ne sarebbe felice, specie se potesse aiutarla con Eugenio Romaniello.”


“E te credo che Irene sarebbe felice, Calogiuri. Ma vedremo,” commentò, sarcastica, prima di potersi trattenere, per poi aggiungere, più esitante, “però ho anche un’altra novità.”

 

“E cioè? Spero sia una buona notizia.”

 

“Dipende… ancora non lo so… insomma… Mancini mi ha invitato ad accompagnarlo ad un convegno a Milano a inizio aprile, per parlare della mia esperienza a Matera sull’ingerenza tra criminalità e istituzioni. Dovrò stare via due notti perchè dura due giornate.”

 

“Ah.”

 

Secco, di poche parole, il suo viso si rabbuiò per un attimo, mentre si concentrava a tagliare l’involtino rimastogli nel piatto.

 

“Calogiuri-”

 

“Se ne parli così, è perché immagino che tu abbia già accettato,” la interruppe, alzando di nuovo lo sguardo per incrociare il suo.

 

“Eh, beh, certo che ho accettato, Calogiuri. Mica posso dire di no, lo sai, è il mio lavoro.”

 

“No, lo so, lo so, e per carità fai bene ad andarci e, di nuovo, te lo meriti, Imma. Ma è solo che… chiamami paranoico ma Mancini ci sta provando con te, è evidente.”

 

“Quindi perché uno apprezzi il mio lavoro e voglia mostrarlo ad altri deve essere per forza interessato a me?!” sibilò, cominciando ad irritarsi.

 

“No, Imma, certo che no. Per apprezzare il tuo lavoro basta vedere come lavori. Non è questo. Ma… Mancini è cambiato completamente nei tuoi confronti dopo la festa annuale. Sono ingenuo forse, ma persino io l’ho notato. E non sono stato l’unico, se è solo per questo.”

 

“Che vuoi dire?”

 

“Che… che in molti commentano su come Mancini ti abbia messo gli occhi addosso, Imma, ancor prima di quello che è successo oggi.”

 

“Se è per quello in molti commentano anche che tu e la Ferrari siate una coppia da mesi, pure se di nascosto e-”

 

“E non è vero, ovviamente. Come ben sai.”

 

“E allora perché devi dare retta ai pettegolezzi su Mancini?”

 

“Perché tu a quelli sulla Ferrari dai retta e comunque-”

 

“E comunque non si tratta dei pettegolezzi. Si tratta di come si comporta quando è con te. Il tono di voce, il linguaggio del corpo e-”

 

“Ed è la stessa cosa che sto provando a spiegarti su Mancini. Non puoi non aver notato il suo atteggiamento nell’ultimo periodo.”

 

“Come tu non hai mai notato quello di Irene in tutti questi mesi?”

 

“Ma Irene non è cambiata, è sempre stata così, e invece-”

 

“E invece a me sembra che si prenda sempre più confidenza. Mentre Mancini è sempre stato rispettoso delle distanze di sicurezza.”

 

“A me non sembra proprio, però… a me basta che tu ci stia attenta e che se si avvicina troppo me lo dici.”

 

“E lo stesso basterebbe a me,” sospirò Imma, che ancora ricordava i segni di rossetto che gli lasciava l’amichevole Ferrari, “Calogiuri, lo so che non sono proprio un modello di fedeltà coniugale, ma ho avuto due uomini nella mia vita e con uno è durata più di vent’anni e il secondo sei tu. Secondo te mi lascerei tentare da Mancini, pure se fosse? Ho te e non c’è paragone.”

 

Calogiuri sospirò ma poi fece un mezzo sorriso, “e anche tu non hai paragoni per me. E lo sai.”

 

“Sì, so di questa tua cecità selettiva,” ironizzò Imma, alzandosi dalla sedia e sedendosi a cavalcioni su di lui, prima di piantargli un bacio sulle labbra e ritrarsi proprio quando lui stava per rispondere, dopo lo stupore iniziale.

 

“Che hai in mente, dottoressa?”

 

“Secondo te, maresciallo?” gli chiese sorniona, avvicinandosi e sussurrandogli in un orecchio, “ho proprio voglia di… vedere una puntata di Scandal.”

 

E si alzò bruscamente, avviandosi verso il divano e prendendo il telecomando. Calogiuri rimase per un attimo paralizzato, poi la guardò tra il frustrato e il divertito.


“Imma!” fu l’ultima parola coerente che sentì, un suono che era quasi un ruggito, prima di ritrovarsi spalmata sul divano, un corpo forte sopra il suo, il telecomando che le veniva preso dalle mani, travolta da un bacio che altro che Scandal….

 

Italians do it better.


Nota dell’autrice: Eccoci arrivati alla fine di un altro capitolo, come vedete qualcuno si sta interessando parecchio a Imma e i casi gialli proseguono. Nel prossimo capitolo avremo qualche altro pezzo del puzzle a riguardo ed Imma e Calogiuri che cercano di fare i conti con queste interferenze esterne nel loro rapporto e con le loro insicurezze.

Spero davvero che la storia continui a mantenersi piacevole da leggere ed interessante, vi ringrazio di cuore per continuare a seguirmi e come sempre ogni commento positivo o negativo che sia mi aiuta tantissimo sia come motivazione sia a tarare la scrittura, quindi se vorrete lasciarmi una recensione vi ringrazio di cuore.

Il prossimo capitolo arriverà come sempre puntuale domenica prossima 26 aprile.
Grazie ancora!

 

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Capitolo 27
*** L'Occhio ***


Nessun Alibi


Capitolo 27 - L’Occhio


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Dottoressa, proprio lei cercavo!”

 

“Dottore, che succede?” domandò, sorpresa: era a pochi passi dalla procura e Mancini si era fermato accanto a lei sulla sua auto, il finestrino dalla parte del passeggero abbassato.

 

“Un amico che ho all’Interpol ha fatto ricerche con il suo corrispondente a Miami e abbiamo trovato il faccendiere che si occupava degli affari della Tantalo. Se sale in macchina la accompagno da lui.”

 

“Dal faccendiere?”

 

“No, dal mio amico dell’Interpol. Il faccendiere sarà in collegamento da Miami.”

 

“Ma a Miami non è notte fonda, mo?”

 

“Diciamo che Mendoza lavora a tutti gli orari, dottoressa. E in ogni caso non poteva rifiutarsi. Gli hanno trovato talmente tanti affari poco chiari con gente che conta qui in Italia che non gli conviene.”

 

“Capisco,” rispose con un sorriso, aprendo la portiera e sistemandosi accanto a lui, che non perse tempo e partì con uno sprint che francamente la sorprese.

 

“Che cosa c’è, dottoressa?”

 

“Niente è che… la sua velocità alla guida mi sorprende, l’altra volta era più tranquillo.”

 

“A quest’ora nel traffico di Roma o si è decisi o non si va da nessuna parte, dottoressa. Un po’ come in molti ambiti nella vita, non crede?”

 

Ed Imma sorrise per la metafora e si limitò ad annuire mentre, in silenzio, procedevano nel traffico verso la sede dell’Interpol.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ciao Giorgio!”

 

“Brian, come va?”

 

I due uomini si diedero delle pacche sulle spalle, come fossero amici da una vita. In effetti parevano più o meno coetanei.

 

“Dottoressa Tataranni, questo è Brian Martino, dell’Interpol, ci conosciamo dai tempi dell’università, Brian, la dottoressa Tataranni, il nuovo acquisto della procura.”

 

“Dottoressa, è un piacere!” esclamò, entusiasta, con un lieve accento americano, stringendole la mano in una presa decisa, “Giorgio mi ha parlato molto di lei, sono felice di conoscerla di persona.”

 

“Ah, sì?” chiese, stupita, “e di che cosa? Del mio pessimo carattere?”

 

“No, del lavoro eccellente che sta facendo a Roma e che ha fatto a Matera. E poi beh, sì, me l’ha detto che è… come si dice in italiano… strong headed?”

 

“Dal mio scarso inglese immagino significhi che c’ho la capa tosta? Anche se neppure questo è italiano,” ironizzò Imma, un poco in imbarazzo. Ma Mancini lo sembrava ancora più di lei.

 

“In senso buono, naturalmente, dottoressa,” si affrettò a precisare.

 

“Lo immagino, dottore. Allora, quando ci possiamo collegare con questo Mendoza? Come l’avete trovato?”

 

“Non perde tempo, vedo, dottoressa, dritta al punto,” rise il Martino, facendole segno di accomodarsi al tavolo, di fronte ad un proiettore, “possiamo chiamare quando vuole. Al momento il Mendoza è trattenuto alla stazione di polizia di Miami Dade. Per trovarlo… quelli che fanno il suo lavoro li conosciamo, dottoressa, è un giro stretto. Ma stanno sempre ai limiti della legge. Panama è un paradiso fiscale ma… ci possiamo fare poco, finché non importano o esportano cose illecite. E Mendoza è furbo, ai controlli è sempre risultato pulito. Ma abbiamo fatto una ricerca su chi più spesso ha clienti italiani e sono più o meno cinque persone. Mendoza ha fatto un viaggio a Panama proprio nei periodi in cui la signora Tantalo o il marito erano a Miami. E anche quando c’è andato… come si chiama il tennista?”

 

“Davidson.”

 

“Ecco. Era a Panama gli stessi giorni di Davidson e poi sono tornati a Miami lo stesso giorno ma con due voli diversi. Credo che lui si faccia portare il denaro da complici come Davidson appunto. Puliti, incensurati, insospettabili. Magari come diamanti o altre pietre preziose che si nascondono facilmente ed eludono i controlli. Poi si ritrovano alla destinazione, Mendoza recupera gli oggetti di valore e li porta i suoi contatti e… e se serve si riporta qualcosa durante il viaggio di ritorno con lo stesso metodo. Ci capiamo?”


“Certo, dottore.”

 

“Bene. Tra poco ci colleghiamo con Mendoza e insomma… lascio a lei l’interrogatorio, tanto parla benissimo l’italiano, oltre che lo spagnolo e l’inglese.”

 

“Meno male, perché il mio di inglese è assai maccheronico,” ammise con un mezzo sorriso, attendendo il collegamento.

 

E poi comparve un uomo elegantissimo, moro, pelle ambrata: sembrava un businessman di quelli di livello, più che un traffichino. Accanto a lui due agenti di polizia americani in uniforme.

 

“Rogelio Mendoza, questa è la dottoressa Imma Tataranni, il magistrato che si occupa del caso in cui si pensa siano coinvolti certi tuoi clienti. Come ti abbiamo già spiegato, se collabori possiamo chiudere ancora per un po’ un occhio su certi tuoi traffici, sempre se non ti fai beccare nuovamente.”

 

“Is she the prosecutor?” chiese Mendoza in inglese con accento spagnolo.

 

“Yes. Imma Tataranni, the prosecutor.”

 

“Ok, I get it,” rispose Mendoza con un sospiro, “dottoressa si dice, giusto? Che in Italia siete tutti dottori.”

 

“In America sono dottori solo i medici e chi fa i phd… come si dice in Italiano?” chiarì il Martino, un po’ imbarazzato.

 

“Dottorato di ricerca,” sospirò Imma, che però aveva ben altro per cui incazzarsi che se Mendoza la voleva o meno chiamare dottoressa, “senta, Mendoza, a me non me ne frega niente dei titoli, basta che arriviamo al punto. Lei gestiva i suoi affari per la signora Tantalo e/o per l’onorevole Lombardi?”

 

Vide che gli mostravano le foto di Maria Giulia Tantalo e di Lombardi.

 

“Per la signora, sì. L’uomo non l’ho mai visto.”

 

“Ne è sicuro, Mendoza?”

 

“Certo, dottoressa. Uno così me lo ricorderei. A handsome man, sembra un attore. Non passa inosservato. The lady has good taste. Come si dice in Italiano?”

 

“Che c’ha buoni gusti sugli uomini, immagino, Mendoza. Si riferisce anche a Davidson?” domandò, mentre gli mostravano la foto del giovane.

 

“Sì.”

 

“Davidson lo ha visto con la signora?”

 

“L’ultima volta che è venuta qui, sì. L’estate dell’anno scorso, non l’ultima.”

 

“E che cosa le ha chiesto di fare la signora? O Davidson?”

 

“Stavolta non voleva portare soldi a Panama, ma prenderli. Duecentomila euro in diamanti, più o meno. Davidson è partito con me e poi li portava lui al ritorno. Ovviamente ha preso il volo dopo il mio e l’ho bloccato subito al rientro a Miami, con i miei… collaboratori. Li abbiamo consegnati alla signora e poi non so come li hanno riportati in Italia.”

 

“Quindi Davidson e la Tantalo si sono incontrati con lei presente?”

 

“Sì, certo.”

 

“E come le sono sembrati… insomma…”

 

“Intende se avevano un affair?”

 

“Sì, ecco le sembravano intimi o solo professionali?”

 

“A me sembrava che… insomma… quei due a letto insieme c’erano andati, da come si comportavano. Certe cose si capiscono subito.”

 

Non parafrasava il Mendoza. E non solo per la conoscenza dell’italiano.

 

“Va bene. E quanto rimane alla Tantalo a Panama o in generale sotto la sua… gestione?”

 

“Dottoressa… certe cose sono legate dal… come si dice? Segreto professionale.”

 

“Lo era pure quanto ci hai detto prima, Mendoza. Tranquillo, che se ci aiuti conviene anche a te, a meno che non vuoi conoscere molto più approfonditamente il carcere di Miami Dade. Allora?” intervenne il Martino, perentorio.

 

“Diciamo negli anni… sui cinque milioni di dollari, più o meno.”

 

Ammazza! - pensò Imma: la Tantalo si era tenuta da parte un bel gruzzoletto e a quanto pare di nascosto dal marito.

 

“Va bene, grazie, io non ho altre domande,” rispose Imma e, dopo un paio di scambi di battute in inglese, da cui colse solo che il Mendoza chiedeva che la sua confessione rimanesse riservata per non rovinargli la piazza, il collegamento si interruppe.

 

“Questo dovrebbe aiutarla, immagino, dottoressa?” domandò Mancini con un sorriso ed avrebbe quasi voluto abbracciarselo per averle portato la prova che le mancava per iniziare finalmente ad indagare seriamente su Davidson e la Tantalo.

 

“Sì, mo i rapporti di Davidson con la Tantalo non sono più solo gossip. E lo dobbiamo convocare. Posso mandare Mariani e Conti a prelevarlo a Matera?”

 

“Ma certo, dottoressa! Gliel’ho detto che ha carta bianca su questo caso,” ribatté Mancini con un altro sorriso, prima di rivolgersi a Brian e dargli una pacca sulla spalla, “grazie mille, come sempre!”

 

“Ma figurati! Però quest’anno alla gara di triathlon vinco io, vedrai!”

 

In effetti parevano tutte e due molto fisicati, specie per l’età che avevano.

 

“Dottoressa, è stato un piacere conoscerla!” aggiunse poi il Martino, stringendole una mano, “è raro sentire Giorgio così… impressed da qualcuno. E ora capisco perché. Spero di rivederla magari in circostanze migliori.”

 

Imma annuì, anche se quella non è che le sembrasse una circostanza particolarmente spiacevole, anzi, ma alla fine si congedarono e uscirono dalla sala e poi dalla sede dell’Interpol. Guardò l’ora: era l’una passata.


“Dottoressa, le va se ci prendiamo qualcosa di pranzo e poi torniamo al lavoro? Conosco un bar qui vicino che non è niente male. Ed il servizio di solito è veloce, come piace a lei. E pure a me in realtà.”

 

“Va bene,” sorrise Imma, anche se le balenò in testa per un attimo Calogiuri e la sua gelosia per Mancini. Ma, alla fine, era solo un pranzo di lavoro e pure lui stava spesso in giro con la Ferrari o con altri colleghi.

 

Non c’era niente di male.

 

*********************************************************************************************************

 

“Buongiorno, maresciallo, cercava la dottoressa?”

 

“Buongiorno, signora Asia. Sì, la dottoressa è in pausa pranzo?”

 

“Veramente è tutta la mattina che non si è vista, sarà in giro a fare qualche sopralluogo dei suoi, immagino,” commentò la ragazza con un sorriso bianco smagliante, “vuole lasciarle detto qualcosa?”

 

“No, non vi preoccupate, la sentirò io direttamente, grazie,” rispose, uscendo dall’ufficio.

 

Quella mattina era uscito da casa di Imma un po’ prima di lei, ma non sapeva di impegni suoi quella giornata. Magari c’era stato qualche caso imprevisto e non c’era niente da preoccuparsi.

 

Provò a chiamarla ma il cellulare squillava a vuoto.

 

Alla fine si rassegnò, le lasciò un messaggio chiedendole dove fosse e di richiamarlo, e si avviò verso l’ufficio di Irene, visto che aveva un lavoro da finire anche con lei.

 

“Calogiuri!” esclamò, sorpresa, quando bussò e poi entrò, “ti aspettavo più tardi.”

 

“Sì, ma è che non trovo la dottoressa Tataranni e allora… tanto vale che ci portiamo avanti noi due, se voi potete.”

 

“Certo che posso. Anzi, mi fai proprio comodo, che con Mariani e Conti via almeno mi dai una mano tu a compilare questi rapporti.”

 

“Perché? Dove sono Mariani e Conti?”

 

“Ah, ma non lo sai?” gli chiese, stupita, “sono andati a prelevare Davidson a Matera. Mancini è stato stamattina con Imma all’Interpol ed hanno interrogato un certo Mendoza, il faccendiere della Tantalo. Che ha confermato che Davidson è implicato con lei. Lo stanno andando a prendere per interrogarlo.”

 

Calogiuri si sentì come se avesse appena ricevuto uno schiaffo: non solo perché Imma era via con Mancini da ore, ma soprattutto perché non aveva mandato lui a Matera e non l’aveva nemmeno avvertito degli sviluppi sul caso. Aveva dovuto scoprirlo da Irene.

 

E questo lo faceva sentire escluso e gli faceva malissimo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottò, buongiorno! E chi è questa bella signora? Che ve siete deciso finalmente a trovavve na donna? Pure se alcune clienti staranno a lutto, staranno, che signora mia, questo qui c’ha la fila che je sta a core dietro. Ma lui niente, core più veloce,” ironizzò il barista, rivolgendosi a lei che si sentì di nuovo imbarazzata.

 

Evidentemente, almeno pubblicamente, Mancini aveva una vita quasi monacale. Poi in privato chissà, che per gli uomini un’astinenza quinquennale era non solo improbabile ma pure impossibile. Specie per uno piacente come Mancini.

 

“No, Remo, la dottoressa è una collega. Stiamo in pausa pranzo. Che ci prepari qualcosa di veloce? Per me un’insalata delle tue.”

 

“Sì, che sempre leggero volete stare. E a voi dottoré, che ve porto? Volete vedere il menù?”

 

“Ma no, va bene l’insalata pure per me.”

 

“Annate tutte due de fretta, eh? Dottò, forse avete trovato qualcuna che ve tiene er passo,” commentò il cameriere, ironico, sparendo rapidamente dentro al bar.

 

Loro erano in un tavolino antistante, con una vista fantastica sul parco del Pincio.

 

“Mi scusi ma sa, vengo spesso qui a mangiare, nei fine settimana soprattutto. Stare a casa a mangiare da solo è triste e quindi… almeno qui vedo un po’ di gente. Ma immagino lei mi possa capire, vivendo sola.”

 

Ad Imma per poco non andò di traverso l’acqua ma annuì, potendo in effetti capirlo: il periodo post separazione da Pietro, quando era ancora a Matera e non aveva sentito Calogiuri per mesi era stato tosto. Soprattutto appunto i weekend, pur non essendo un tipo molto socievole di suo.

 

“Ma… mi scusi se mi permetto, dottore, ma… se patisce così tanto la solitudine, com’è che in questi anni non ha cercato una nuova compagna? Insomma… a parte i commenti del barista, immagino che le occasioni non le mancheranno, poi col suo lavoro conosce un sacco di gente,” gli chiese, incuriosita, perché, se non stava più a lutto, o si voleva dare alla pazza gioia senza impegnarsi, o la cosa non si spiegava. Di sicuro non era il tipo che faticava a trovare una donna.

 

“Per carità, dottoressa, in questi anni non è che sono stato un monaco di clausura, lei mi capisce. Però… non ho mai trovato nessuna che mi prendesse di testa ed emotivamente e… alla mia età il lato fisico è piacevole, sì, ma non basta più. Faccio un lavoro complicato e, se tornare a casa la sera da solo è triste, tornare a casa da una persona che è un peso ulteriore invece che qualcuno che mi stimoli e mi renda la vita più leggera… no grazie.”

 

Ad Imma venne da sorridere perché lo capiva fin troppo bene. Con Calogiuri era stata davvero ma davvero fortunata e se ne rendeva conto ogni giorno di più. Tornare a casa la sera, per quanto amasse il suo lavoro e ne fosse quasi drogata, non era mai stata una prospettiva tanto piacevole.

 

“E lei, dottoressa? Ha iniziato a guardarsi intorno o è ancora troppo presto?” le chiese all’improvviso ed Imma si trovò a cercare una risposta che non fosse una bugia ma che non svelasse nemmeno del tutto la situazione. Per qualche mese ancora lei e Calogiuri non potevano uscire allo scoperto: era a Roma da troppo poco tempo perchè risultasse credibile una loro relazione nata post separazione.

 

“Diciamo che dopo la fine di un matrimonio ventennale ci sto andando con i piedi di piombo, dottore,” rispose, e non era del tutto una menzogna, in fondo, per poi aggiungere, per sdrammatizzare, “e per il resto… pure se mi guardassi intorno, non è che ci sia esattamente la fila, col carattere che mi ritrovo.”

 

“Dottoressa, solo gli uomini insicuri temono una donna forte al proprio fianco. Una persona sicura di sé ed intelligente non può che apprezzarla, mi creda. E infatti dopo la festa annuale ho sentito vari apprezzamenti nei suoi confronti. Sia in procura, che pure tra alcuni degli invitati. Quindi la fila credo proprio che ci sia, forse è lei che non la vede, ma c’è.”

 

Imma si sentì di nuovo un po’ in imbarazzo e quindi decise di sviare il discorso, con un, “va beh… vorrà dire che se la troverò glielo farò sapere, dottore. Per intanto che ne ha pensato delle rivelazioni del Mendoza? Secondo lei la Tantalo come può avere accumulato una cifra simile, pur essendo ricca di famiglia? Affari con gli altri della cupola?”

 

Mancini fece un sospiro e poi un mezzo sorriso che Imma non capì e cominciò ad illustrare la sua tesi.

 

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“Eccoci qui, dottoressa, aspetti.”

 

Imma, sorpresa, lo vide scendere dall’auto e aprirle la portiera, cosa che non avrebbe dovuto fare, essendole superiore.

 

Ma era pur vero che era sempre gentile, Mancini.

 

Lo stesso avvenne alla porta, quando la fece passare per prima.

 

Fecero in tempo a fare pochi passi verso la scala e si trovò di fronte Calogiuri, con un’espressione strana.

 

“Calogiuri, per caso cercavi me?”

 

“Sì, dottoressa, ho alcune novità da riferirvi.”

 

“Va bene, allora vi lascio. Ancora grazie per l’ottimo lavoro, dottoressa, attendo il rapporto quando avrà modo di interrogare Davidson,” proclamò Mancini, salendo le scale al suo solito passo rapidissimo.

 

“Andiamo nel mio ufficio, Calogiuri,” lo invitò, precedendolo sulle scale e sentendo dopo un po’ i suoi passi familiari seguirla.

 

Arrivarono in ufficio e chiusero la porta dietro di loro.

 

La sua ossigenata cancelliera comparve dall’altra porta.


“Buongiorno dottoressa, volevo dirle che l’ha cercata il maresciallo Calogiuri, ma vedo che l’ha già trovata, e che ho convocato la signora Spaziani per domani, come da lei richiesto. Le serve altro?”

 

“Sì, grazie, mi vada a sollecitare al REGE le informazioni sulla famiglia Spaziani e me le fascicoli come le ho spiegato. Grazie, può andare.”

 

“Va bene, dottoressa,” rispose asciutta, uscendo.

 

Non ci poteva fare niente, ma tra i capelli ossigenati, i vestiti da Ferrari dei poveri e quel rossetto rosso fuoco che si ostinava a mettere, più il modo in cui sembrava sempre avere un palo nel sedere, le stava sul gozzo. Rimpiangeva terribilmente Diana.

 

“Calogiuri, che fai lì impalato? Accomodati!” gli fece segno, mentre lei si sedeva al suo lato della scrivania.

 

Calogiuri annuì e fece come chiesto ma notò una strana tensione nella mandibola. Ormai lo conosceva troppo bene.

“Allora, che cosa volevi dirmi, Calogiuri?”

 

“Ho fatto le ulteriori verifiche bancarie su Amedeo Spaziani, dottoressa. Ed effettivamente risulta che un paio di mesi fa ha provato a chiedere un prestito alla banca, ma senza risultato.”

 

“Beh… questo potrebbe dare un ulteriore movente. Evidentemente aveva bisogno di liquidità. Dobbiamo indagare di più sull’azienda e sulle finanze personali di Spaziani. Te ne occupi tu?”

 

“Sempre se non volete affidare il compito ad altri,” replicò, sarcastico, la mandibola che si strinse nuovamente.


“Che vuoi dire?”

 

Lui si guardò intorno e poi girò intorno alla scrivania e si sedette accanto a lei. In quella posizione la sovrastava completamente. Qualche mese prima non avrebbe mai osato farlo.

 

“Perché hai mandato Mariani e Conti a Matera e non me?” le chiese, in un tono basso, “e perché non mi hai avvisato degli sviluppi su Davidson e sei andata da sola con Mancini? Di questa indagine pensavo mi occupassi io, come del maxiprocesso.”

 

“Mancini è riuscito a sollecitare l’interpol tramite sue conoscenze personali, Calogiuri. Mi ha intercettata stamattina e mi ha chiesto di andare con lui a fare questa videoconferenza. Mica potevo rifiutare ed eravamo già in due. Anzi, meno male che i suoi amici hanno sbloccato la situazione, che con Santoro erano mesi che stavamo al palo. E se ho mandato Mariani e Conti e non te è perché voglio che ci sia anche tu ad interrogare Davidson con me, Calogiuri, e mi servi riposato e non reduce da oltre dieci ore di viaggio. Chiaro?”

 

Calogiuri annuì ma vide che era ancora in tensione, dal modo in cui teneva le spalle.

 

“Mi vuoi dire che ti succede?” gli chiese, alzandosi in piedi per affrontarlo faccia a faccia.

 

“Che mi succede… che mi sono sentito escluso. Ho dovuto avere queste notizie da altri. E poi non mi piace l’atteggiamento che ha Mancini quando sta con te. Siete stati a pranzo insieme, immagino?”

 

“Sì, mi ha invitata, era ora di pranzo e mica potevo dirgli di no. Ma come lo sai?”


“Perché non hai più il rossetto e la mattina lo metti sempre. Quindi o avete mangiato o-”

 

“O abbiamo mangiato,” lo interruppe, mettendogli le braccia intorno al collo e sussurrandogli, “mi piace quando noti questi dettagli da detective e quando fai il geloso, se a piccole dosi. Ma ti ho già detto che non hai nulla di cui preoccuparti, veramente.”

 

“Me lo auguro,” rispose, in un modo che era talmente da lei da strapparle una risata.

 

“Che fai, mi rubi pure le battute mo, maresciallo?” gli chiese, avvicinandosi all’orecchio per sussurrargli, “e comunque il rossetto in un certo modo me lo puoi levare solo tu.”

 

“Me lo auguro,” ripetè, stavolta più ironico e, dopo essersi guardato intorno, le stampò un rapido bacio, le accarezzò una guancia ed uscì dall’ufficio.

 

In fondo la gelosia di Calogiuri non era poi così male.

 

*********************************************************************************************************

 

“Davidson, si sieda.”

 

Era proprio bello, Davidson, pure evidentemente mezzo stravolto dal viaggio Roma - Matera sulla volante. Erano le 22 ormai ma aveva voluto interrogarlo subito, per approfittare della stanchezza e sperare che si tradisse di più.

 

Il classico prototipo dello sportivo: alto, atletico, biondo e con gli occhi chiari. Pantaloni e polo bianche, cardigan elegante. Pareva uscito da uno di quei poster delle band di ragazzetti che Valentina teneva in camera quando andava alle medie.

 

Davidson si sedette di malavoglia sulla sedia della sala degli interrogatori. L’aveva preferita al suo ufficio, incuteva più timore. Calogiuri era accanto a lei, pronto a prendere note, Mariani e Conti rimasero sulla porta, pur avendo anche loro un aspetto abbastanza stravolto.

 

“Allora, signor Davidson, immagino intuisca perché la abbiamo fatta convocare qui.”

 

“Veramente no. Stavo facendo una lezione al circolo e mi trovo trascinato fino a Roma,” rispose, con un marcato accento britannico.

 

“Eh ma lei qui a Roma ha delle conoscenze, no, signor Davidson? La signora Tantalo ad esempio…”


“Chi?”

 

“Signor Davidson, ma ci prende per scemi? Maria Giulia Tantalo, la moglie dell’onorevole Lombardi, quello che sta in coma ormai da più di un anno? La sua allieva al circolo del tennis? Le dice niente?”

 

“Ah, sì, ma è tantissimo che non viene più a lezione. Credo viva qui a Roma ormai.”

 

“E su questo lei c’ha ragione, signor Davidson. Ma vede… qui in Italia c’è un bel detto che se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto.”

 

“Maometto? Che c’entra la religione musulmana?”

 

“Niente, è una metafora. Vuol dire che anche se la signora Tantalo non veniva più a Matera, lei magari veniva spesso qui a Roma. La sua macchina - bellissima, tra l’altro, complimenti! - ha un gps ed un navigatore satellitare di ultima generazione. Oltre all’apparecchietto dell’assicurazione ed il telepass. Non ci vuole nulla per risalire ai suoi spostamenti. E lei viene a Roma almeno una volta al mese signor Davidson, a volte anche quasi tutti i fine settimana.”

 

“E allora? Mica è un reato? A Matera non c’è niente mentre qui a Roma… ci sono tanti posti per la nightlife. Sono giovane e voglio divertirmi.”

 

“E sarebbe pure giusto, signor Davidson. Peccato che qui a Roma appunto ci stia anche la signora Tantalo. Comunque, vedo dai suoi spostamenti che lei l’anno scorso è stato a Miami. E poi ha fatto un viaggio a Panama. Come mai?”

 

“Per un torneo di tennis, che ho vinto.”

 

“Peccato che, facendo verifiche a Panama, quel torneo non esista affatto. E che ho un testimone che mi ha confermato che lei con la signora Tantalo l’anno scorso ci ha fatto un bel viaggietto a Miami, in voli separati, of course. E che è andato a Panama per ritirare una sommetta da niente, giusto un duecentomila euro, appartenenti alla stessa Tantalo. La signora si deve fidare molto di lei Davidson, per lasciarle una cifra del genere.”

 

“Non so chi sia questo testimone ma he is full of shit. Non so come si dica in Italiano.”

 

“Non serve la traduzione, grazie, ma quello che naviga in un mare marrone qui è lei, signor Davidson, se non dice la verità. Allora, mi vuole dire che questo testimone non dice la verità? E che, dopo pochi mesi da quell’evento, lei ha ricevuto centomila euro da una vincita mai esistita, con i quali ha peraltro comprato la sua auto, costosissima per un istruttore di tennis dal suo reddito. Centomila euro, esattamente metà della cifra che si era riportato da Panama. Allora?”

 

“E allora… ok, ho gestito degli affari per conto della signora Tantalo. E ho avuto in cambio una percentuale.”

 

“Il cinquanta percento? Mi pare una percentuale molto generosa, signor Davidson!”

 

“La signora Tantalo ha grandi disponibilità economiche e… voleva darmi una mano, e sì, è molto generosa, tutto qui,” ribadì, deciso, ed Imma capì in quel momento che, senza altre prove in mano, avrebbe continuato a sostenere questa tesi all’infinito.

 

O era molto fedele alla Tantalo o era molto spaventato.

 

“Allora, per il momento le prendiamo impronte e DNA, signor Davidson, e faremo alcune verifiche. Lei ovviamente è in stato di fermo per traffico internazionale illecito di diamanti e complicità in evasione fiscale. Per il resto, credo che qualche giorno in cella magari le schiarirà le idee. Mariani, Conti, portatelo via.”

 

Ed i due marescialli fecero come richiesto, mentre lei rimase sola con Calogiuri che finiva di annotare il tutto.

 

“Che ne pensi?” gli chiese, buttandosi sulla sedia, sentendosi distrutta.

 

“Che Davidson ovviamente ha molto da nascondere. Speriamo con DNA e impronte di ottenere qualcosa di più concreto. Per intanto almeno da qua non può muoversi,” rispose, chiudendo il computer e poi aggiungendo, con uno sguardo eloquente, anche se con tono neutro, visto che c’erano le telecamere, “e per il resto vi vedo abbastanza provata, dottoressa. Forse è meglio andare a riposare e ragionarci a mente fresca?”

 

“Mi pare una buona idea, Calogiuri,” ammise, con un sorriso grato, raccogliendo le sue cose, “passa una buona serata.”


“Anche voi, dottoressa!” le augurò, strappandole un altro sorriso.

 

Perché con lui era certa che lo sarebbe stata.

 

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“Che ci fai già qui?”

 

Se lo trovò davanti, che usciva dalla camera da letto indossando una delle tute che aveva lasciato lì da lei come abbigliamento da casa.

 

“Col motorino ho fatto prima. E, visto l’orario, mi sono permesso di ordinarci due pizze a domicilio. Anzi due pinse, di quelle che ti piacciono tanto. Spero che ti vadano, dovrebbero arrivare tra poco.”

 

D’istinto, se lo abbracciò forte forte, godendosi il suo profumo: un misto di docciaschiuma e di ammorbidente che ormai le era tanto familiare. Per lei quelle premure erano meglio di qualsiasi dichiarazione d’amore. Anche se pure le dichiarazioni non le disdegnava affatto ultimamente. E poi aveva mangiato solo l’insalatina light dell’atletico Mancini e aveva una fame tremenda.

 

“Faccio in tempo a farmi una doccia e a cambiarmi, Calogiù? Senza risparmio energetico, però, che se no altro che mangiare!”

 

Calogiuri rise ed annuì. Imma si affrettò a svestirsi, raccogliere i capelli, buttarsi in doccia, uscirne e indossare camicia da notte ed una delle sue vestaglie.

 

Sentì il campanello che suonava ma ci pensò Calogiuri ad aprire, anche se era un poco rischioso, ma alla fine il ragazzo delle consegne chi mai poteva conoscere?

 

Arrivò giusto in tempo per vedere Calogiuri che si portava i cartoni sul tavolino davanti al divano, dove già stavano pronti i piatti e due bottiglie di birra.

 

“Proprio da seratina da pensionati,” ironizzò Imma, sedendoglisi accanto, mentre lui, come sempre, la guardava in quel modo che le faceva capire quanto apprezzasse le sue mise domestiche.

 

“L’unico vestito da pensionato qua sono io,” si schernì Calogiuri, aprendo uno dei cartoni e chiedendole se volesse per prima quella bianca con la mortazza, come si diceva a Roma, o quella rossa con la salsiccia.

 

Calogiuri ormai conosceva i suoi gusti.

 

“Bianca,” rispose, mentre lui la divideva in due e gliene passava una metà su un piatto, “e comunque tu puoi vestirti come ti pare che sempre bello resti, Calogiuri, quindi non vale.”

 

Calogiuri sorrise, un poco imbarazzato, e lei approfittò del momento per accoccolarglisi contro, mezza abbracciata, mentre continuavano a mangiare e a bere sorsate di birra.

 

“Ci vediamo qualcosa per completare il quadro da pensionati?”

 

“Va bene… Calogiù. Dai, proseguiamo con Scandal che nelle ultime sere lo abbiamo un po’ trascurato, tra una cosa e l’altra. Vediamo se il presidente riesce a diventare ancora più cretino. Anche se, essendo un politico, è assai probabile.”

 

Calogiuri sorrise e le porse il telecomando e poi si sentì abbracciare più forte, mentre si godeva il calore di Calogiuri e della mortazza ed il freddo della birra che le scendeva in gola.

 

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“Imma, vuoi un’altra birra per caso? O qualcosa di dol-”

 

Si zittì quando si rese conto che Imma aveva gli occhi chiusi ed il respiro lento: si era addormentata abbracciata a lui.

 

Avevano finito di mangiare da una ventina di minuti al massimo ed era già crollata: doveva essere davvero stanchissima.

 

Dio, quanto era bella! Con un angolo della bocca leggermente sporco di pomodoro ed il viso rilassato e sereno, come non lo era praticamente mai di giorno.

 

Cercando di fare il più piano possibile, per non svegliarla, spense la televisione, prese un tovagliolino di carta, le pulì la bocca e poi se la prese in braccio.

 

“Calogiù…” la sentì mormorare nel dormiveglia, stringendosi più a lui.

 

“Shhh, riposati,” le sussurrò, dandole un bacio sulla tempia prima di adagiarla sul letto che, per fortuna, era ancora tirato giù da quella mattina.

 

La coprì, si svestì e ci si infilò anche lui. Dopo poco la sentì muovere e vide che si levava la vestaglia e la buttava per terra e poi la sentì abbracciarsi a lui.

 

Ricambiò, ritrovando dopo poco la loro posizione preferita in cui dormire. Ed il respiro di lei vicino al suo collo, lento e regolare, lo cullò presto in un sonno profondo.

 

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“Signora Spaziani, immagino lei conosca il motivo di questa convocazione.”

 

Galiano le aveva telefonato poco dopo averlo interrogato al bar, lo sapevano dalle intercettazioni telefoniche. Ma non si erano detti nulla di compromettente, solo rassicurazioni sul fatto che sarebbe andato tutto bene. Ma Galiano era un avvocato e non era scemo.

 

“Andrea me ne ha parlato, sì, che l’avete interrogato,” rispose la donna, con un tono rassegnato.

 

Almeno non aveva mentito, ma magari glielo aveva consigliato Galiano.

 

“Sentite, io lo so che non mi fa onore ma… io amavo Ferdinando, veramente. Solo che dopo tutti questi anni da sola, in mezzo alla malattia e alla sofferenza… io non ce la facevo più. Andrea è stato come… una fuga… un momento felice in mezzo a tanti problemi. Ma io non avrei mai fatto del male a mio marito e neanche lui. Amavo moltissimo Ferdinando, cercavo di dedicargli più tempo che potevo e speravo di poterlo avere ancora con me finché non fosse stata troppa la sofferenza per lui, pur con tutte le difficoltà. E Andrea è un bravo ragazzo, è giovane, ha una carriera brillante ed è ricco, perché mai avrebbe dovuto uccidere un povero malato? Non lo avrebbe mai fatto, non ha senso!”

 

“Magari per averla tutta per sé? O per aiutarla ad avere una sua indipendenza economica?”

 

“Se avesse fatto una cosa del genere non glielo avrei mai perdonato e non glielo perdonerei mai, ma non lo ritengo capace di una cosa così. E comunque io economicamente avevo tutto quello che mi serviva, non sono mai stata una che spendeva follie e non mi mancava nulla. Perché avrei dovuto uccidere mio marito? Inoltre io quella sera non sono mai uscita, potete verificarlo.”

 

“Sì, lo abbiamo già verificato ed effettivamente lei non è mai uscita. Ma magari qualcun altro ha agito al posto suo. Lei era un’infermiera, vero?”

 

“Certo, l’ho fatto per parecchi anni dopo la laurea e-”


“Ed immagino quindi sappia fare le iniezioni in vena?”

 

“Certo! Sono capace di farle, come tutte le infermiere del resto.”

 

“Suo marito è stato ucciso con un’iniezione di insulina dritta in vena. Cosa inusuale, visto che di solito si somministra con siringhe ipodermiche. Molto probabilmente chi l’ha fatto sperava che il foro dell’iniezione si confondesse con quello fatto lo stesso giorno per un altro farmaco anti Parkinson. Quindi conosceva le prescrizioni farmacologiche settimanali del defunto.”

 

“Ma io non sono uscita di casa.”

 

“Ma avrebbe potuto insegnare al signor Galiano a fare un’iniezione in vena?” le chiese, sporgendosi in avanti sulla scrivania e guardandola dritta negli occhi.

 

“La verità? Certo che avrei potuto insegnarglielo, come avrei potuto insegnarlo a chiunque abbia la mano ferma e non abbia paura del sangue. A rischio della mia incolumità, se avesse dovuto testare su di me le prime volte. Ma Ferdinando aveva il parkinson ed era pieno di spasmi. Per questo cercavano di evitargli le iniezioni il più possibile, perché erano rischiose, e questo infermieri e medici esperti che lo seguivano ogni settimana. Lei pensa davvero che io possa avere insegnato ad un avvocato come fare un’iniezione in vena a pochi millimetri da un altro foro, ad una persona che il braccio non lo tiene fermo salvo forse legarlo e nemmeno così? Lei si rende conto quanto è improbabile che uno come Andrea potesse riuscirci senza fare un macello?”

 

Imma si bloccò e ci ragionò su: in effetti era improbabile, molto improbabile, salvo…

 

“Quindi secondo lei deve essere stato un professionista a fare quell’iniezione?”

 

“Certo, un professionista, e pure esperto. So che ora lei può pensare che io ne abbia ingaggiato uno, ma in ogni caso Andrea non c’entra niente, è impossibile, mi creda.”

 

Ed Imma non seppe da cosa rimase più colpita: se dal modo in cui difendeva il Galiano, peraltro con la logica, o se dal fatto che preferisse spostare nuovamente i sospetti su di lei come mandante piuttosto che implicare lui.

 

Di solito gli amanti assassini finivano per incolparsi a vicenda alla prima difficoltà.


E questo la portò a pensare ad altri due amanti, e per una volta non erano lei e Calogiuri ai tempi.

 

“D’accordo, signora Spaziani. Per oggi può bastare,” concluse, congedandola rapidamente.

 

“Le credete, non è vero?” chiese Calogiuri, non appena furono nuovamente soli ed Imma, per tutta risposta, compose un numero che una volta era assai familiare e mise in viva voce.

 

“Dottoressa Tataranni?! Quanto tempo! Non mi dica che è tornata a Matera, che si stava così bene senza di lei che sollecitava autopsie ogni due ore.”

 

“No, Taccardi, non si preoccupi, sto ancora a Roma. Ma ho bisogno di un parere medico e di lei mi fido di più che del suo collega di qua che conosco ancora poco,” chiarì, spiegandogli la vicenda e quanto sostenuto dalla Spaziani, “che ne pensa, dottore? Davvero è necessario un professionista?”

 

“Beh, dottoressa, vista la situazione… direi che o questo avvocato ha avuto la fortuna del principiante, o sì, decisamente solo un professionista molto abile poteva fare un’iniezione del genere ad una persona in quello stato di salute. Qualcuno che di iniezioni in vita sua ne ha fatte una marea e può farle ad occhi chiusi, diciamo, e anche così è pericoloso.”

 

“D’accordo, grazie dottore, è stato prezioso come sempre.”

 

“Ah, pur che resti a Roma sono ben felice della consulenza, dottoressa. Buon proseguimento!” rispose, sarcastico, chiudendo la chiamata.

 

“Però a questo punto può essere stata sia la moglie che il figlio. Chiunque dei due avrebbe potuto assoldare un professionista con pochi scrupoli. Certo, la signora forse aveva più conoscenze tra i medici ma…”

 

“Ma poteva evitare di indirizzarci da un professionista, visto che era l’unica con un alibi di ferro,” concluse per lui Imma, guardandolo con orgoglio, “proviamo a capire chi conosceva il figlio, invece. Magari se frequentava qualche clinica in particolare, a parte quella dov’era ricoverato il padre. Puoi verificare tu, Calogiuri?”

 

“Certamente, dottoressa,” rispose con uno dei suoi sorrisi luminosi, ma uno sguardo furbo che la portò a lanciargli di rimando un’occhiata interrogativa.

 

“C’è altro, maresciallo?”

 

“No, io andrei, dottoressa, anche perché avrei un impegno per stasera.”

 

“Ah, sì? Impegno galante?” gli chiese sarcastica, cercando di trattenere la delusione, ma poi lo vide scrivere qualcosa sul suo taccuino, strapparne un foglio e passarglielo.

 

Ti porto a cena e poi a ballare.

Ti passo a prendere alle 20?

 

Le scappò un sorriso: una volta non avrebbe mai osato organizzare una cosa così senza chiederle prima il permesso. Ma del resto il giorno dopo era sabato e potevano riposare.

 

“Sì, sempre se non mi danno buca.”

 

“Non credo proprio, Calogiuri, che tu corra questo rischio: dovrebbe essere proprio scema per darti buca. Allora buona serata!”

 

“Buona serata a voi, dottoressa!” rispose, facendole l’occhiolino e sparendo oltre la porta.

 

E mo doveva tornare a casa e cercare di rendersi presentabile in poco più di un’ora. Non sarebbe stato facile.

 

Ma almeno sapeva già cosa indossare.

 

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“Ce la fai a salire sulla moto?”

 

“Se non mi si strappa la gonna sì, se no mi toccherà rimanere col cappotto tutta la sera, Calogiù,” ironizzò, infilandosi il casco e sedendosi dietro di lui e con la gonna a tubino non era facile, ma almeno era molto elasticizzata.

 

Calogiuri sorrise e si rimise alla guida.

 

Lei gli si strinse più forte che poteva e sfrecciarono sulle stradine di Roma, in mezzo al traffico del venerdì sera.

 

“Dove mi porti, Calogiù? Solito posto?”

 

“No, stavolta ho voluto cambiare. Vedrai.”

 

E costeggiarono il Tevere fino a fermarsi di fronte ad un ristorante che, almeno dall’insegna, era specializzato in pesce e aveva dei tavolini che fronteggiavano il fiume, con una vista bellissima dell’isola Tiberina e della città illuminata.

 

“Calogiù, ma questo posto costerà ben più della trattoria! Facciamo alla romana, però, allora,” intimò, puntandogli un dito al petto.

 

“Sono settimane che non mangiamo fuori. Posso offrirti qualcosa per una volta? Che mangio sempre da te e-”

 

“E la spesa a volte la fai tu e-”


“E mi vuoi offendere?!” le domandò, incrociando le braccia, con un tono deciso di cui fu assai orgogliosa, anche se non poteva darlo a vedere, “se non potessi permettermelo non ti ci avrei portata qui. Risparmiamo sempre: che male c’è a concederci qualcosa una volta ogni tanto?”

 

“Va bene, va bene, mi arrendo, maresciallo!” concesse, piantandogli un bacio sulle labbra e sussurrandogli, “grazie mille!”

 

Lui sorrise di rimando e poi, a braccetto, entrarono al ristorante.

 

Calogiuri diede il suo nome e furono accompagnati ad un tavolo con una vista davvero eccezionale ed Imma si levò il cappotto.

 

“Ma… ma…” esclamò Calogiuri, guardandola in un modo che le fece venire un caldo tremendo.

 

“Prima o poi dovevo indossarlo, no, Calogiuri? E mi sembrava la serata giusta,” commentò: aveva messo il famoso tubino con gonna nera e il top leopardato che le aveva regalato a natale.

 

“E… ma quelli sono… ce li hai ancora?!” domandò, sembrando commosso, ed Imma capì immediatamente a che cosa si riferiva: aveva raccolto i capelli ed aveva indossato gli orecchini in stile Gaudì che le aveva portato in dono da Barcellona, in quella che sembrava una vita precedente ma era poco più di un anno prima.

 

“E certo che ce li ho ancora! Li ho dovuti tenere per un po’ in un cassetto a Matera, ma mo mi sembrava la serata giusta pure per loro.”

 

“Imma…” sussurrò, allungando una mano per stringere la sua e lei la strinse fortissimo di rimando.

 

Perché anche per lei era lo stesso e si stava commuovendo come una scema: ce l’avevano fatta, nonostante tutto e tutti ed erano lì insieme, a dispetto di ogni probabilità.

 

E non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte.

 

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“Mi hanno detto che questo posto dovrebbe essere abbastanza tranquillo. Solo musica per ballare, niente discoteca, ma non è una balera da pensionati.”

 

Imma, incuriosita, entrò a braccetto a lui ed in effetti il volume della musica - un tango argentino - era abbastanza tollerabile. Ed il posto non era affollatissimo, nella pista si ballava veramente.

 

Il problema è che lo si faceva fin troppo.

 

Guardò le coppie in pista ed erano quasi tutti bravissimi, gente che evidentemente andava a scuola di ballo: le donne che ruotavano e si flettevano come niente, gli uomini che le guidavano come non avessero fatto altro nella vita. Sembravano quasi pronti ad una puntata di ballando con le stelle.

 

“Calogiù, ma tu vorresti veramente che io e te ballassimo in mezzo a queste persone? Ma ti rendi conto del livello?” gli domandò, imbarazzatissima, che loro giusto i lenti potevano fare.

 

“E va beh, che fa? Non sono tutti così bravi, lo vedi, no? E l’importante è che ci divertiamo io e te, mica è una gara. Loro stanno concentrati su loro stessi. E poi tanto chi ci conosce?” le fece notare con uno di quei sorrisi disarmanti che facevano sembrare pure le follie più grandi così raggiungibili e facili.

 

“Calogiuri…” sospirò, prima di avviarsi verso il guardaroba per mollare il cappotto e tenere solo la borsa piccolissima a tracolla. Che soldi, cellulare e documenti col cavolo che li lasciava in giro!

 

Calogiuri la imitò e poi si avviarono sulla pista, anche se un poco in disparte. Per fortuna finì il tango ed iniziò una musica un poco più tranquilla, di cui non riconobbe il genere, ma gli altri iniziarono tutti a ballarla in modo simile quindi evidentemente sapevano di cosa si trattasse.

 

Beati loro!

 

“Vuoi un cocktail per scioglierti un po’?” si sentì sussurrare all’orecchio e scosse il capo fermamente.

 

“Per carità che sono già scoordinata così, ci manca solo l’alcol! Guida tu, Calogiuri e speriamo che qualcuno ce la mandi buona!”

 

Con un sorriso, lui la prese e fece come richiesto e lei cercò di lasciarsi andare e concentrarsi solo su di lui e sulla musica. Ed, in qualche modo, ballarono in sincronia e dopo pochi minuti non gliene fregò più niente degli altri o del fatto che stessero inventandosi un ballo tutto loro. Era tra le sue braccia, in un locale pubblico per di più, dove erano solo due persone come tante, tra altre centinaia, e poteva starci fin quando le pareva, godendosi il tepore del corpo contro il suo ed il modo in cui il battito gli accelerava quando gli si appoggiava al petto.


E tutto il resto davvero non aveva importanza.

 

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Si guardò un attimo intorno in cerca di Calogiuri: alla fine era dovuta andare in bagno ed era stata un’esperienza meno traumatica del previsto, visto il genere di locale e l’orario.

 

Ma non lo vide.

 

Anzi sì, era poco distante, attaccato al muro ma circondato da due tipe, presumibilmente sulla trentina, anche se era difficile valutare con tutto quel trucco, che se lo baccagliavano marcandolo, letteralmente, a uomo.

 

Normalmente le sarebbe partito un impulso di gelosia, ma lo vide talmente in difficoltà sul come levarsele di torno che francamente le venne quasi da ridere.

 

Stava per avvicinarsi e farle sparire con un paio di battute ben assestate, quando si sentì prendere per un polso.


Si voltò e vide un ragazzotto, sulla trentina pure lui, vestito con una camicia e pantaloni neri, la camicia aperta fino quasi a metà pancia. Per carità, c’aveva pure i muscoli ed un’abbronzatura palesemente frutto di abuso di lettini solari, ma era ridicolo lo stesso.

 

“Mi lasci immediatamente!” intimò con sguardo assassino, strattonandogli via il polso e per fortuna lui mollò la presa.

 

“Va bene, va bene, ma perché sei così scontrosa?! Sei qui da sola? Vuoi ballare?” le chiese con un sorriso sbiancato artificialmente, avvicinandosi però di più a lei che, a furia di indietreggiare, si trovò con le spalle al muro.

 

“No, non sono da sola e non voglio ballare,” chiarì e stava per mollargli un pestone al piede - o una ginocchiata altrove - se non la faceva respirare, quando sentì una voce poco distante e decisamente incazzata.


“Lei è con me, grazie!” si inserì Calogiuri, con lo sguardo omicida che aveva sempre quando la vedeva in pericolo, anzi, forse pure peggio.

 

“Scusa, scusa amico, non avevo capito!” alzò le mani l’altro, che rispetto a Calogiuri era più basso e molto meno piazzato, e sparì tra la folla alla velocità della luce.

 

“Tutto bene?”

 

“Sì, Calogiù, non ti preoccupare. Gli hai giusto giusto salvato i gioielli di famiglia,” ribatté e Calogiuri scosse il capo e scoppiò a ridere, in quel modo affettuosamente esasperato che adorava.

 

Con la coda dell’occhio vide le due tipe ancora ferme vicine al muro, con uno sguardo deluso, e ci godette proprio a prenderselo a braccetto e riportarlo verso la pista.

 

E ripartì nuovamente un tango, ma stavolta non gliene importava nulla se sarebbero risultati ridicoli.

 

Si lasciò trascinare da Calogiuri e, come sempre, il resto del mondo sparì, mentre stavano in quella bolla tutta loro.

 

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“E ora l’ultima canzone della serata!”

 

“L’ultima?” chiese, sbalordita, “ma che ora abbiamo fatto, Calogiù?!”

 

“Sono… sono le cinque di mattina,” ammise, imbarazzato, ed Imma era sconvolta per quanto fosse volato il tempo, pur con qualche pausa qua e là, e dalla sua resistenza in piedi, anche se oggettivamente su tacchi molto più comodi dei soliti.

 

Ma tra le braccia di Calogiuri il tempo scorreva, da sempre, troppo in fretta.

 

“Va beh… facciamo questo ultimo ballo ormai e poi andiamo.”

 

E si godettero il lento, abbracciati stretti stretti, finché la musica finì.

 

Tra i pochi altri superstiti della serata - la maggior parte aveva già abbandonato da mo - andarono a recuperare i cappotti.

 

“Voi siete nuovi, vero?” chiese all’improvviso una donna in fila davanti a loro.

 

“Beh, sì, è la prima volta che veniamo. Noi non abbiamo mai ballato, si vede, immagino.”

 

“Si vede che non avete fatto lezioni ma siete molto portati, tutti e due, e avete tanta sintonia. E una grande resistenza: tutte quelle ore in pista. Io faccio lezioni in una scuola qua vicino, se siete interessati magari potete venire a dare un’occhiata.”

 

“Ma guardi, non lo so, siamo molto presi col lavoro.”

 

“Ma abbiamo corsi anche serali! Vi lascio il mio biglietto da visita, pensateci!” esclamò lei, ignorando le proteste, porgendole un cartoncino pieno di scritte laminate e che era troppo sgargiante perfino per lei.

 

“Qualcosa mi dice che non sei così entusiasta all’idea, dottoressa,” le sussurrò Calogiuri, quando ebbero recuperato i cappotti e furono a distanza di sicurezza dagli altri.

 

“Mi ci vedi a ballare in mezzo ad una classe affollata, Calogiuri? Che poi come minimo vogliono fare feste, pranzetti, cenette, uscite a ballare e-”

 

Calogiuri rise, scuotendo il capo e piantandole un bacio sulla tempia, per poi sussurrarle, “a me va benissimo se continuiamo a ballare solo io e te, dottoressa.”


“Pure a me, maresciallo, pure a me.”

 

“Però perché non riprendi almeno con l’equitazione? Sabrina ci aveva lasciato il numero del suo amico e alla fine non ci siamo ancora andati.”

 

In effetti era vero, ma con tutte le spese dei primi mesi a Roma aveva voluto rimandare quella evitabile delle lezioni di equitazione.

 

“Se ci vieni con me si può fare, anche perché coi mezzi mi sa che non è molto raggiungibile.”

 

“Lo sai che non devi neanche chiedermelo, dottoressa. E poi lì possiamo essere solo noi due e farli noi i pranzetti e le cenette. Da soli.”

 

Imma se lo abbracciò più forte, mentre uscivano dal locale e raggiungevano il motorino.

 

“Vuoi andare a casa o ti va di fare un’ultima pazzia per stasera?”

 

“Cioè?” gli chiese, intrigata, perché straordinariamente la stanchezza non la sentiva nemmeno, forse per merito dell’adrenalina, e poi avevano la notte successiva per recuperare.

 

“Lo vedrai,” rispose misterioso, passandole il casco, ed Imma, sempre più curiosa, se lo infilò, per poi stringersi a lui non appena si mise alla guida.

 

Benedetti i motorini e chi li ha inventati!

 

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“Allora, che te ne pare?”

 

“Che sto alzando l’età media, Calogiù,” ironizzò, mentre si allontanavano da qualche altra coppietta di giovani ventenni che avevano avuto la stessa idea di Calogiuri.

 

Erano alla terrazza del Gianicolo per ammirare il sole che sorgeva ed il panorama di Roma da un’angolazione che non aveva ancora visto. Avevano fatto uno stop ad un chioschetto poco distante per prendere due meritatissimi bomboloni alla crema, che dopo tutte le calorie bruciate ci volevano proprio.

 

“E dimmi, qui ci avresti portato qualcuna, Calogiù? Visto che il posto lo conosci,” lo punzecchiò, mentre si piazzavano in un punto tranquillo ma da dove si poteva comunque godere il panorama.

 

“Ci sono stato con i ragazzi qualche volta a prendere il cornetto caldo, dopo la discoteca. Qui vicino ci sono alcuni locali notturni.”

 

“Va beh… diciamo che te la passo, maresciallo, anche se ti ho già detto che del passato non sono gelosa.”


“Ma non riciclerei mai un posto usato con qualcun’altra con te! Ed in ogni caso non ci sarebbe paragone.”


“Certo che tu una volta eri di poche parole ma mo sei diventato fin troppo bravo ad usarle, Calogiuri! E comunque io invece non ho mai fatto l’alba con qualcuno, neanche da ragazzina. In discoteca prima non ci potevo andare e poi non ci volevo andare e… vedere l’alba e mangiare i cornetti caldi, figurati! Era già tanto se uscivo la sera qualche volta!”

 

Anche con Pietro non l’aveva mai fatto: lui odiava ballare e finivano sempre per rientrare relativamente presto, anche quando erano giovani.

 

“Guarda che neanche io l’ho fatto spesso e… ed è la prima volta che lo faccio con la persona che amo, quindi non me la scorderò mai.”

 

“Calogiù…” sussurrò, completamente sciolta, stampandogli un bacio sulla bocca e sentendo il rumore di liquido che si rovesciava a terra, mentre Calogiuri evidentemente faticava a tenere la bomboloni e cappuccini in mano senza far cascare qualcosa.

 

“Dai, mo mangiamo e beviamo prima che combiniamo un macello, ho capito.”

 

Calogiuri le porse il sacchetto e lei si afferrò avidamente un bombolone e poi cercò di bere il cappuccino da quel bicchiere plasticoso che sembrava uscito da un film americano.

 

“Ma come si beve da sti cosi? Sa tutto di plastica!”

 

“Aspetta!”

 

Glielo prese di mano e levò il coperchio e poi fece lo stesso.


“Facciamo un brindisi, Calogiù?”

 

“E a che cosa?”

 

“Alle prime volte, alla Città Eterna, a noi due e questi primi mesi insieme. E alle occhiaie che c’avremo per tutto il fine settimana e forse pure oltre!”

 

“Le occhiaie ti donano. E comunque spero di poterti regalare altre prime volte anche migliori di questa.”

 

“Pure io, Calogiù, pure io!”

 

Toccarono i bicchieri, poi finalmente bevvero ed Imma sentì con piacere il liquido caldo scenderle nello stomaco e riscaldarla dall’aria frizzante del mattino.

 

“Allora, ne valeva la pena sì o no?” le chiese dopo un po’, indicando la città tinta dall’arancione del sole che cominciava a spuntare all’orizzonte.

 

“Sì, ma non soltanto per il panorama, Calogiù” gli rispose, stampandogli un altro rapido bacio al sapore di crema e Calogiuri per poco non si versò addosso un po’ di cappuccino.

 

“Ho capito, ho capito, cercherò di contenermi prima che ci facciamo la doccia tutti e due!” lo sfotté, addentando un altro morso di bombolone.

 

“Se mi distrai non è colpa mia!”

 

“Bisogna avere mano ferma per fare il tuo mestiere, Calogiuri. Sto solo cercando di mantenerti in allenamento.”

 

“Sei tremenda! E quando arriviamo a casa… altro che mano ferma...” le sussurrò scatenandole un brivido.


“Ci conto!”

 

Si sorrisero e poi, in silenzio e mezzi abbracciati, ammirarono l’alba di un nuovo giorno insieme.

 

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Erano in motorino che costeggiavano il Tevere, quando si sentì toccare una spalla.

 

“Calogiù, senti, perché non andiamo un salto dal panettiere vicino a Piazza del Popolo? Così prendiamo il pane per oggi e pure qualcosa per la seconda colazione quando ci svegliamo, che mi sa che ne avremo bisogno.”

 

“Agli ordini, dottoressa!” proclamò, deviando verso il ponte ed attraversandolo, guidando nelle strade ancora mezze deserte del sabato mattina fino a raggiungere il panettiere.

 

Lo avevano scoperto durante le visite al Pincio ed era il loro preferito, ma di solito andavano ad uno più vicino alla procura, per comodità.

 

“Torno subito!” proclamò Imma, scendendo dalla moto e mollandogli il casco.

 

Aveva i capelli ancora raccolti ma con qualche riccio sfuggito qua e là e non l’aveva mai vista così bella: era talmente luminosa, nonostante la stanchezza, che sembrava splendere di una luce tutta sua, ancora più del solito.

 

Avrebbe dovuto portarla a ballare più spesso.

 

La vide allontanarsi ed entrare in panetteria e sorrise all’idea che tra poco sarebbero stati a casa, lontani da sguardi indiscreti, e poi-

 

E poi vide un uomo molto familiare correre sul marciapiede, a non molta distanza da lui.

 

Merda!

 

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“Grazie e buon sabato!”


“Anche a lei!” rispose, con un tono che suonò stranamente cordiale alle sue stesse orecchie, ma era così felice che non riusciva a trattenersi.

 

Uscì e per poco non finì addosso ad uno di quei fissati che correvano pure di primo mattino, in barba al buonsenso e al vivere civile.

 

“E stia attento, porca miseria!” urlò, perché felice va bene, ma c’era un limite alla sua pazienza ed il fissato si fermò e si voltò verso di lei, iniziando a scusarsi prima di bloccarsi bruscamente.

 

“Dottoressa?!” chiese, alzando gli occhiali da sole e guardandola prima incredulo e poi mortificato, “mi scusi! Si è fatta male?”

 

Merda!

 

“No, no, dottore, non si preoccupi, per fortuna ci siamo mancati di poco,” rispose, in panico, guardando alle spalle di Mancini per cercare Calogiuri. Ma nel punto dove prima stava il motorino non c’era più nessuno. Forse si era già avveduto del procuratore capo e si era levato da lì per tempo.

 

“Ma che ci fa lei qui?”


“Ci compro il pane ed i bomboloni per la colazione, anzi, vuole favorire?” gli chiese, per sviare i sospetti, aprendo il sacchetto.

 

“I bomboloni? Non pensavo fosse così golosa, dottoressa, o non fa colazione sola?” le chiese, con un tono strano, ed Imma si diede mentalmente della deficiente, “e non è un po’ lontana da casa sua?”

 

“No, è che mi viene a trovare mia figlia, sa è sabato. E questa panetteria è la sua preferita.” 

 

Era ormai una maestra a raccontare balle. E Mancini ci aveva pure creduto, a giudicare dallo sguardo quasi commosso.

 

“Eh… cuore di mamma! Ma fa bene, dottoressa, un po’ la invidio in realtà. Io invece mi faccio la mia corsa mattutina in solitaria, ma che ci vuole fare: è la vita da single e poi mi devo tenere in forma per il triathlon.”

 

“Guardi, per come è veloce credo che ulteriori allenamenti non le servano, dottore.”

 

“Beh, potrei dire lo stesso di lei. Non ho mai incontrato una donna che riesca a tenere il mio passo quanto lei, con quei tacchi poi, non so come fa,” disse, guardandole i piedi, per poi soffermarsi sul cappotto, che per fortuna copriva il vestito da sera, “ma del resto il ghepardo è tra gli animali più veloci del mondo!”

 

“Questo però è leopardato, dottore,” replicò, sorridendo, mentre cercava mentalmente un modo di smarcarsi e di capire dove fosse finito Calogiuri.

 

“In ogni caso le sta benissimo,” proclamò deciso, squadrandola di nuovo da capo a piedi in un modo che le causò un moto di imbarazzo, per poi soffermarsi di nuovo sul viso, “e anche questa pettinatura. Li dovrebbe raccogliere più spesso i capelli: ha un viso così bello che è un peccato coprirlo.”

 

Ed Imma si sentì arrossire del tutto: non ci era abituata ai complimenti - escludendo Calogiuri e in parte Pietro. E poi a lei il suo viso non era mai piaciuto del tutto.

 

“Mah… mo non esageriamo, dottore…”

 

“E perchè? Ha un viso particolare, ma proprio per questo è bello, ha carattere. Che ormai tutte le donne paiono fatte con lo stampino. Lei invece tira dritto per la sua strada e non si fa condizionare ed è una cosa che ammiro molto.”

 

“Pure lei tira dritto, dottore, fin troppo che quasi non mi investiva,” ironizzò, per deviare la battuta, e poi aggiungere, “anzi, la lascio alla sua corsa che le ho già fatto perdere troppo tempo e torno a casa a preparare per mia figlia, anche se chissà a che ora arriverà.”

 

“Va bene, dottoressa,” replicò lui con un tono ed uno sguardo che lasciavano trasparire come avesse colto perfettamente il tentativo di deflettere, ma l’avesse compreso di buon grado, “allora buon fine settimana a lei e a sua figlia!”

 

E, con un ultimo sorriso, si voltò e si mise a correre.

 

Imma si guardò in giro, cercando di nuovo Calogiuri e, quando Mancini fu sparito dalla visuale, sentì il rumore di un motorino alle sue spalle e lo vide arrivare.

 

“Calogiù! Ma dove ti eri nascosto?”


“Ho visto Mancini e l’ho superato e sono andato più avanti, sperando col casco non mi notasse,” spiegò, prima di incrociare le braccia e proclamare con tono per nulla felice, “e comunque avete parlato parecchio. Che voleva?”

 

“Sapere perché ero qui. Mi sono inventata che stavo prendendo la colazione per me e Valentina che ama questa panetteria. E poi… va beh… niente… si è scusato per avermi travolta ed è stato gentile come al solito.”

 

“Gentile in che senso?”

 

“Ma niente… mi ha fatto qualche complimento sul cappotto e sulla pettinatura, cose così…” minimizzò, anche perché Mancini era il capo e non voleva che Calogiuri facesse colpi di testa o si rodesse il fegato: ci dovevano lavorare, era inevitabile.

 

Anche se in cuor suo sperava che Mancini fosse galante per carattere e basta, e che Calogiuri si sbagliasse sul suo conto quando diceva che aveva un interesse nei suoi confronti.

 

“Che stai bene con quel cappotto e quella pettinatura te l’ho sempre detto pure io ma… non è molto professionale, mi pare.”

 

“Ma mo stiamo fuori servizio e mica mi è saltato addosso, Calogiuri,” ironizzò, ma lo vide contrarre la mascella.

 

“E meno male! Ci mancava solo quello!”

 

“Anche perché, in caso, si sarebbe beccato un bel ceffone.”

 

“Veramente?” le chiese con un sorrisetto che le fece capire che non gli sarebbe affatto dispiaciuto.

 

“Che non mi conosci, maresciallo? C’è solo un uomo che al momento è autorizzato a saltarmi addosso e, se poco poco stiamo ancora qui a discutere, dovrà aspettare domani per farlo, perché sarò troppo stanca ora del rientro a casa.”

 

“Imma…” soffiò con quel tono affettuosamente esasperato e si sentì prendere per la vita e travolgere da un bacio da farle tremare le ginocchia, mannaggia a lui!

 

“Allora?” le chiese, quando le lasciò prendere fiato.

 

“Allora in qualche modo la prima e la seconda colazione le dovremo pure smaltire, Calogiù. Ma veloce mo!” ordinò, infilandosi il casco e salendo in sella, aggiungendo poi, quando lui si fu riposizionato davanti a lei, “magari solo mo e non dopo, possibilmente!”

 

“Attenta a ciò che chiedi che potrei tenerti impegnata fino allo sfinimento, se mi provochi.”

 

“E questa sarebbe una minaccia, maresciallo?”

 

“No, è una promessa,” le sussurrò, facendole l’occhiolino e, con quel sorriso da impunito, avviò il motorino e ripartirono verso quella che ormai era casa.

 

*********************************************************************************************************

 

Il rumore di una suoneria lo risvegliò di soprassalto. Aprì gli occhi con una fitta di mal di testa e vide quelli di Imma spalancati, un’espressione preoccupata sul volto palesemente stanco. Guardò l’ora: erano le undici del mattino e si erano addormentati che erano le quasi le nove, intenti com’erano a mantenere la promessa.

 

“Mi sa che è il tuo, Calogiuri,” pronunciò con la voce arrochita dal sonno e lui si voltò ed afferrò il telefono sul comodino, temendo un richiamo in servizio per il quale non era sicuro di poter essere lucido.

 

In un certo senso lo era: sua madre.

 

“Pronto, mà?”

 

“Ippà! Ma che voce c’hai? Che stai male?”

 

“No, mà, no. Solo che ancora a letto stavo, ieri sera sono uscito, è sabato mattina.”

 

“Eh, bravo che accussì nun combini niente, come al solito tuo! Nu vacabbùnnu sei! Di notte se dorme, di giorno attivi bisogna stare, mica a ddurmì fin a menzujùrnu come li signuri!”

 

“Sì, mamma, sì, ma mi sveglio presto tutta settimana,” le rispose, alzando gli occhi al soffitto: non sarebbe mai cambiata.

 

Imma gli lanciò un’occhiata preoccupata e vide che cercò, se possibile, di fare ancora meno rumore.

 

“E poi invece ca ddurmì, potresti pure degnarti de venì a trovare la tua famiglia, che da natale è che non ti fai vedere e mo tra poco è pasqua! Che se nemmeno a pasqua vieni ti disconosco!”

 

“Mamma, mancano settimane ancora a pasqua. E comunque ci vengo, tranquilla, ci vengo,” sospirò, perché non poteva fare altrimenti, che altrimenti sua madre glielo avrebbe rinfacciato a vita.

 

“E meno male! E ogni tanto la strada per il paese tuo te la potresti pure ricordare!”

 

“Mà, e lascialo un po’ in pace che c’avrà gli impegni suoi!” sentì la voce di sua sorella di sottofondo, e poi più vicina, “Ippà, non darle retta e goditi Roma, tu che puoi!”

 

“Figli degeneri che mi sono capitati! Che disgrazia!”

 

“Va beh, mà, mo devo proprio andare. Ci vediamo a pasqua, tranquilla. Rosa, ciao e dai un bacio a Noemi da parte mia!”

 

“Sarà fatto, fratellino, fai il bravo, anzi no!” gli urlò la sorella, seguita da qualche altro borbottio materno a cui mise fine chiudendo la telefonata.

 

“Scusami, ma… non so se hai sentito ma…”

 

“Ma a pasqua devi andare da tua madre che si chiede dove sei finito. In effetti la capisco pure,” commentò Imma con un sorriso, scarmigliandogli i capelli.

 

“Ma tu da che parte stai?”

 

“Dalla tua! Ma sono pure io mamma e capisco che le manchi.”


“Sì, perché non può più criticarmi in continuazione o cercare qualcuna con cui maritarmi,” proclamò sarcastico ed Imma lanciò un’occhiataccia che paradossalmente gli fece tornare il buonumore.

 

“Ecco, sul maritarti magari non la ascolterei troppo a mammà, se fossi in te, Calogiù,” intimò, puntandogli un dito al petto, seria, ma poi finendo per sorridere pure lei.

 

“Tranquilla, non c’è pericolo.”

 

“Sarà meglio! E comunque mi sa che pure io pasqua la passerò con mia figlia e… forse anche con Pietro, se riusciamo, per comodità. Ti dispiacerebbe?” gli chiese, tornando serissima.

 

“Imma… lo so che hai una figlia e che… o fate pranzi e cene separate o alle ricorrenze sarà inevitabile rivedersi. Per me non è un problema. Spero solo… spero solo di poterci essere pure io un giorno, in modo ufficiale.”

 

“Lo spero anche io, Calogiù, e presto. Ma occhio a cosa speri, che le ricorrenze con mia figlia potrebbero essere devastanti!”

 

“Pure quelle con mia madre, credimi!” ironizzò lui e vide Imma farsi malinconica, con uno sguardo amaro.

 

“Dubito tua madre mi vorrà alle ricorrenze, Calogiù. Va bene che ti vuole maritare ma… io già non piacevo alla mia prima suocera ed io e Pietro siamo quasi coetanei. A tua madre quando saprà di me le piglierà un colpo, lo sai, sì?”

 

“Ed in caso vorrà dire che le ricorrenze le passerò da te, ma… ma a me non importa dell’opinione di mia madre, cioè… vorrei che lei vedesse che persona straordinaria sei, ma anche se così non fosse, io non ho bisogno della sua approvazione. Tanto è impossibile averla o quasi e non dipende da te.”

 

“Calogiù,” gli sussurrò, e la sentì attaccarglisi al collo e stringerlo forte e ricambiò, baciandole la fronte ed accarezzandole i capelli. Avrebbe potuto rimanere così per sempre, anche se era stanchissimo.

 

Ma, dopo un poco, sentì il fiato di lei sul suo petto farsi più lento e si rese conto che si era riaddormentata. Doveva essere esausta.

 

Con un sorriso li coprì meglio, spense la luce sul comodino e sperò di riuscire ad avere ancora qualche ora di sonno.

 

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Sentiva le gambe di piombo mentre faceva i gradini della procura, ancora terribilmente assonnata.

 

Anche se non si sarebbe mai pentita della notte in bianco e del sabato con sveglia alle due del pomeriggio, la notte tra sabato e domenica non era bastata a recuperare del tutto il sonno perso. Ma mo era lunedì e toccava lavorare.

 

Arrivò in cima alle scale e sentì delle urla che provenivano da un ufficio lì vicino, dopo poco vide la Ferrari uscire come una furia, sbattendo la porta del suo stesso ufficio.

 

Come la vide si bloccò, poi fece un sospiro e le si avvicinò.

 

“Ma che succede? Tutto a posto?” le chiese Imma, perché non l’aveva mai vista tanto infuriata e non era da lei, sempre così calma e composta.

 

“No. Il giudice ha accolto l’istanza dell’avvocato di Eugenio Romaniello di rinviare l’udienza, perché vogliono avere il tempo di risentire alcuni degli imputati e dei testimoni e sostengono di non averlo avuto a causa del loro numero. E siccome c’è di mezzo pasqua, il venticique aprile ed il primo maggio…”

 

“Quando è l’udienza alla fine?”

 

“A metà maggio. Perdiamo un mese e mezzo e per cosa? Per dargli il tempo di intimidire e corrompere quelli che avevo convinto a testimoniare? Anche il giudice… sembrava d’accordo con rimanere su dei tempi serrati e adesso cambia opinione così di botto. Non mi piace, Imma, qua sta succedendo qualcosa.”

 

E, per una volta, non poteva darle torto.

 

“Pensi che Romaniello abbia trovato un modo di… convincere il giudice?”

 

“Non lo so… è vero che dei legami con Roma li avevano ma… a Milano pure avevo avuto dei problemi a volte, ma non all’ultima udienza, porca miseria!”

 

“A me la hanno anticipata un’udienza, a ferragosto praticamente, figurati. Comunque se serve andare a parlare di nuovo con queste persone io posso aiutarti, ovviamente.”

 

“Ci serve un altro testimone a prova di bomba come il fratello… qualcuno che non abbia più niente da perdere e tutto l’interesse a collaborare. Ma la maggioranza di quelle persone sono accusate di reati più piccoli e Latronico e Quaratino continuano a sostenere di non saperne niente di Eugenio Romaniello, anche se è inverosimile.”

 

“Il Quaratino probabilmente è coinvolto nel giro di ragazze che c’era alla festa di Lombardi e-” si bloccò, perché un percorso le si delineò chiaro in mente.

 

C’era una sola persona rimasta che poteva fornire la testimonianza decisiva, perché altro che reati minori... ma bisognava capire come inchiodarla e convincerla a parlare.

 

Ed era Maria Giulia Tantalo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa, come state?”

 

“Calogiuri, dimmi che hai buone notizie, almeno tu!” esclamò, perché ne aveva veramente bisogno dopo la tegola che le era caduta in testa quella mattina.

 

“Avete saputo dell’udienza, deduco.”

 

“Deduci bene, Calogiuri,” sospirò e lui la guardò con quegli occhi azzurri enormi e colmi di preoccupazione che la intenerivano sempre, “dai, dimmi che cos’hai per me.”

 

Calogiuri fece un sorrisetto carico di doppi sensi che la portò, nonostante tutto, a ricambiare, mannaggia a lui, e poi si schiarì la voce e spiegò, “riguardo al caso Holub e Lombardi ho delle novità. Le impronte di Davidson erano effettivamente tra quelle ritrovate alla festa. Ce n’erano un paio nella stanza stessa, insieme ad una traccia di DNA, sul comodino dove c’era la cocaina, in una zona stranamente priva di impronte. Probabilmente ha cercato di cancellare le tracce dopo aver drogato Lombardi ma…”

 

“Ma non ci è riuscito del tutto. Del resto non è certo un professionista del crimine. Questa è un’ottima notizia, Calogiuri! A questo punto non ci resta che riconvocarlo per un nuovo interrogatorio e tramutare il fermo in custodia cautelare. Alla richiesta ci penso io, tu puoi andarlo a prendere?”

 

“Sarà un piacere, dottoressa!” proclamò con un sorriso smagliante, prima di sparire oltre la porta.

 

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Stava aspettando impazientemente che Calogiuri tornasse, quando il telefono squillò.

 

Il nome di Pietro sul display la fece immediatamente preoccupare.

 

Decisamente non era un giorno fortunato.

 

“Pietro, dimmi, è successo qualcosa?”

 

“No, Imma, non è successo niente di grave. Stai in pausa pranzo?”

 

“No, oggi probabilmente lo salterò perché ho un interrogatorio urgente. Dimmi.”

 

“Eh… è che… Valentina continua a rifiutarsi di venire a Matera a parlarmi e risponde a malapena ai miei messaggi.”

 

“Benvenuto nel club, Piè!” sospirò, sapendo bene come ci si sentisse, “ma vedrai che se le è passata con me, le passerà pure con te.”

 

Anche se tu non hai accanto uno come Calogiuri, che ha conquistato le simpatie pure di tua madre, ma Cinzia Sax che è simpatica come la sabbia nelle mutande! - pensò, ma non lo disse, perché non poteva e perché non erano affari suoi.

 

“Sì, ma pensavo… forse potrei venire a Roma questo fine settimana, per parlarle, che ne dici?”

 

“Che il fine settimana è l’unico momento in cui passa un po’ di tempo con Samuel. Non hai un paio di giorni da prendere in settimana? Credimi che forse apprezzerebbe di più la tua compagnia allora.”

 

“Sì, ma… non vorrei venire lì per niente. Non è che… potresti parlarle tu e spiegare che voglio venire a trovarvi a Roma?”

 

“A trovarci?” chiese, stupita per l’uso del plurale.

 

“Beh, sì, già che sarò lì, vorrei incontrare anche te, vedere come ti sei sistemata a Roma. Che c’è di male?”

 

“Niente… ma…”

 

“Ma non vuoi perché vivi già con lui?”

 

“No, ognuno c’ha il suo appartamento, Pietro. Non che sarebbero affari tuoi a questo punto,” sospirò, perché non è che non volesse parlare con Pietro, ma non voleva altri tentativi di avvicinamento da parte sua, “è che… visto quanto ci siamo detti l’ultima volta a Matera non so se sia una buona idea, lo capisci?”

 

“Lo so… ma… se non sono venuto a Roma finora forse era proprio perché… perché non volevo vedere quanto e come la tua vita fosse cambiata, Imma. Ma, anche se non è che c’abbia tutta questa voglia di vedervi insieme tu e lui, anzi... forse vedere come la tua vita sta proseguendo mi darà un altro senso di chiusura. Non lo so.”

 

Si chiese se stesse ancora andando dalla psicologa e, in caso, se questo esperimento avrebbe fatto meglio o peggio.

 

“Pietro… che ti posso dire… se lui fosse a casa mia quando vieni di sicuro non lo caccio via, anche se probabilmente ci lascerebbe pure soli, gentile com’è.”

 

“Eh, certo, gentilissimo è. Ho visto come ci ha lasciati soli, quando avevamo un matrimonio felice. Solissimi.”

 

“Pietro…” sibilò, perché non cominciava proprio bene questo ipotetico incontro.

 

“Lo so, lo so che la colpa è principalmente tua e che… che il tuo maresciallo non mi doveva niente, che manco mi conosceva. Ma non è stato correttissimo neanche lui, se permetti. Ma va beh… è inutile che mi faccio il sangue amaro mo: tanto ormai quello che è stato è stato e le corna me le sono prese e mo me le tengo.”

 

“Pietro…”

 

“Senti, se lui starà lì con te… cercherò di essere civile ovviamente. Ma voglio parlare con te e non con lui, in fondo abbiamo una figlia in comune ed è giusto che ci proviamo, no, ad avere buoni rapporti?”

 

“Dipende da quanto buoni li vuoi, Pietro, non per cattiveria, ma per il tuo bene, anche se non avrei diritto a preoccuparmene mo.”

 

“Lo so. E no, non ne avresti. Affatto.”


“Comunque, a proposito di buoni rapporti, per pasqua, se Valentina scenderà a miti consigli, volevo farla di nuovo tutti insieme, se per te va bene. Anche se magari tua madre c’ha altri piani.”

 

“No, per me va bene,” si affrettò a dire Pietro, sembrandole fin troppo entusiasta, “comunque se ne parli con Valentina del mio viaggio a Roma… così vedo che posso fare col lavoro.”

 

“Va bene, Pietro, ci provo, ma cocciuta com’è non ti prometto niente. Ti faccio sapere. Mo però devo tornare a lavorare.”

 

“D’accordo. Grazie Imma…” rimase per un attimo in sospeso e poi aggiunse, “e buon lavoro!”

 

“Pure a te!”

 

Mise giù mentre cominciava a sentire i primi accenni di un mal di testa, quando bussarono alla porta.

 

“Avanti!”

 

Calogiuri entrò con Davidson al seguito. Stavolta, avendo le prove, non serviva la stanza degli interrogatori. Sperava di cavarsela in fretta.

 

Calogiuri lo fece sedere, ancora ammanettato. Poi, quando si fu accertato che fosse calmo, gliele levò e se le rimise in tasca.

 

“Allora, signor Davidson, la vedo un po’ sbattuto. Immagino la sua permanenza in cella al momento non sia delle migliori.”

 

“Non avete niente contro di me! Quello che state facendo è... è.... inhuman e-”

 

“E le faccio risparmiare il fiato che, oltre ai traffici da Panama, in mano c’abbiamo altro eccome. Le sue di mani, Davidson, che hanno lasciato delle belle impronte proprio sul comodino dove sono stati ritrovati i residui della cocaina che ha ridotto in coma l’onorevole Lombardi. Insieme a tracce del suo DNA, saliva. Nella fretta, nel nervosismo, le devono essere sfuggiti, del resto lei non è certo un sicario professionista, signor Davidson. Ma questo fa passare la sua imputazione a tentato omicidio, con una serie di aggravanti come la premeditazione, giusto per dirgliene una.”

 

“Io… magari sono entrato in quella stanza durante la festa… come fate a provare che ho lasciato quelle tracce dopo che Lombardi è stato drogato?” ribattè ed era furbo Davidson, glielo doveva riconoscere.

 

La Tantalo se l’era scelto bello sì, ma mica scemo.

 

Per l’agitazione probabilmente però, Davidson iniziò prima a toccarsi il collo - cosa che indicava chiaramente che stesse mentendo - e poi si passò un dito nel colletto della t-shirt, allontanandola dalla pelle, come se si sentisse soffocare.

 

E fu in quel momento che la vide: una macchia nera e grigia, tonda.

 

Lanciò un’occhiata a Calogiuri e lui ricambiò in un modo che le fece capire di non avere avuto un’allucinazione. La volta precedente che l’avevano interrogato aveva il cardigan e la polo col colletto, era impossibile vedergli il petto.

 

“Può levarsi la maglietta, signor Davidson?” gli chiese, decisa e professionale, anche se si rendeva conto che la frase suonasse comunque da maniaca.

 

“Come?” chiese, sbigottito.

 

“La t-shirt. Se può togliersela un attimo che dobbiamo verificare una cosa.”

 

“Ma non potete chiedermi una cosa del genere, io-”

 

“Lei è in stato di fermo e quindi possiamo chiederglielo eccome. Si levi la maglia, Davidson, suvvia, bastano giusto due minuti e le garantisco che vederla come mamma l’ha fatta non mi interessa. Ho visto di meglio. Si sbrighi.”

 

Calogiuri fece un colpo di tosse ed Imma vide che stava trattenendosi dallo scoppiare a ridere ma, allo stesso tempo, aveva le guance leggermente rosate e lo sguardo compiaciuto.

 

Davidson sospirò e, dopo aver lanciato un’occhiata implorante Calogiuri, manco gli stesse chiedendo soccorso, infine si levò la maglietta.

 

E, al di là dei muscoli che sì, la Tantalo proprio bene se l’era scelto - anche se Calogiuri per lei restava mille volte meglio - trovò quello che stava cercando e dovette trattenere un’esclamazione di esultanza.

 

Nel mezzo del petto c’era un tatuaggio: un occhio che pareva effettivamente quello di un serpente, circondato nella parte inferiore ai lati da una specie di ferro di cavallo. Doveva essere una roba del Signore degli Anelli, se non ricordava male.

 

“L’occhio di Sauron?” chiese Calogiuri, rinfrescandole la memoria.

 

“Ero appassionato di The Lord of the Rings da ragazzo. E allora? I tatuaggi non sono vietati in Italia, no?”

 

“No, certo che no. Peccato che la ragazza che le ha fatto trovare Lombardi incosciente e con cui vi eravate incrociati - e che mo è morta proprio per aver avuto la sfortuna di incrociare l’occhio suo e pure quello di Sauron, Davidson - avesse detto chiaramente ad altri di aver visto entrare nella stanza di Lombardi una persona con l’occhio del serpente. E quello, magari circondato da una camicia un poco sbottonata, pare proprio l’occhio di un serpente, non le pare?”

 

Davidson iniziò a sudare visibilmente, nonostante fosse ancora mezzo nudo, ed Imma si guardò bene dal dirgli di rivestirsi. Non per lo spettacolo, ma per il vantaggio psicologico che le dava.

 

“Allora, signor Davidson? Ma ci prende per scemi? Lo sa che se confessa avrà almeno delle attenuanti, sì? Con le prove che abbiamo lei al processo è spacciato e vuole veramente prendersi tutta la colpa? Chi le ha ordinato di mandare in overdose Lombardi?”

 

Ma Davidson rimase muto, rifiutandosi di parlare.

 

“Lo sa che succede a chi finisce in galera imputato in questo caso o nel maxiprocesso, no, Davidson? Vuole davvero correre questo rischio? Perché mo è ancora in custodia qui ma, se si va avanti così, io devo tramutare il fermo in arresto e a quel punto finisce in carcere per forza.”

 

Ma Davidson continuò a non parlare: evidentemente era un osso duro e fedele alla Tantalo o ai suoi complici.

 

“Chi ha ucciso la povera Alina, Davidson? La ragazza che ha dato la ketamina a Lombardi per stordirlo.”

 

Di nuovo rimase in completo silenzio, con le braccia incrociate.


Imma si massaggiò le tempie esausta e lanciò un’occhiata preoccupata a Calogiuri: se andavano avanti così non ne avrebbero cavato un ragno dal buco.


E l’occhio di Sauron pareva quasi fissarla beffardo e pericoloso quasi quanto l’originale.

 

E, non seppe bene perché, ma in mente le tornò Eugenio Romaniello.


Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo capitolo, come avete visto Imma e Calogiuri sono in ballo sia coi processi, che stanno arrivando sempre più nel vivo, sia con vari casini che li travolgeranno dal prossimo capitolo. Imma c’ha Pietro da un lato e Mancini dall’altro, Calogiuri ha la Ferrari e poi c’è pure “mamma sua” che inizia a chiedersi che fine abbia fatto il figlio. E diciamo che nei prossimi capitoli succederanno diversi scossoni ma che potrebbero anche portare a nuove consapevolezze.

Spero che la storia continui a mantenersi piacevole e non noiosa. Vi ringrazio di cuore per averla seguita fino a qui, ringrazio chi l’ha messa nei preferiti e seguiti e un grazie enorme a chi recensisce, cosa che oltre a farmi un sacco piacere e darmi una grande carica, mi stimola a fare sempre meglio e a capire cosa vi convince di più e cosa dovrei migliorare.

Il prossimo capitolo arriverà come sempre puntuale domenica 3 maggio.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 28
*** Avvicinamenti ***


Nessun Alibi


Capitolo 28 - Avvicinamenti


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Dottoressa, ho Maja in videoconferenza, come mi avevate chiesto.”

 

“Bene, Calogiuri, piazzalo pure qui il computer,” ordinò, da un lato non felicissima che lui avesse contatti diretti con la ragazza, ma aveva deciso di doversi fidare e, professionalmente almeno, Calogiuri aveva più che imparato la lezione con Lolita.

 

“Buongiorno,” la salutò Maja, appena il portatile la inquadrò ed Imma dovette ammettere che, quasi struccata e vestita in borghese, oltre ad essere bellissima dimostrava poco più di vent’anni, anche se probabilmente ne aveva qualcuno in più ed era quasi coetanea di Calogiuri.

 

“Maja, ciao. Allora, io mo ti faccio vedere una foto e devi soltanto dirmi se riconosci questa persona o meno, va bene?”

 

“Va bene.”

 

Calogiuri si chinò accanto a lei, cosa che, nonostante tutto, causò una botta di elettricità statica nell’aria, ed inviò una schermata con una foto di Davidson.

 

“Allora?”

 

“Bel ragazzo ma… non me lo ricordo, almeno non alle ultime feste con Alina. Uno così me lo ricorderei, mi creda, di solito i clienti non sono come lui o come il maresciallo,” proclamò con un sorriso che le causò una fitta di gelosia.

 

Riguardo alle indagini invece, la cosa non la sorprendeva ma voleva dire che, oltre a Davidson, la Tantalo o chi per lei aveva poi mandato qualcun altro a finire il lavoro con Alina. Del resto Alina non aveva riconosciuto i suoi aggressori.

 

“Va bene, Maja, grazie, come ti trovi lì?” le chiese, anche se non sapeva bene perché.

 

“Non è male, ma è un po’ noioso. Però dicono che potrei iniziare a studiare per l’università. Lei che facoltà mi consiglia, dottoressa? Non sarebbe ironico se studiassi legge?”

 

“Guarda, Maja, sveglia come sei non credo che tu abbia bisogno del mio consiglio e puoi studiare tutto quello che vuoi. Legge te la consiglio solo se ti mancano proprio le persone viscide e senza scrupoli con le quali hai avuto a che fare finora.”

 

E Maja rise e, in fondo in fondo, per qualche motivo la trovava simpatica. Forse perché era intelligente o forse perché, nonostante il mestiere che aveva fatto, o magari proprio per quello, era schietta e priva di malizia, paradossalmente.

 

*********************************************************************************************************

 

“Allora, come mai questo invito a pranzo?”

 

“Perché volevo vederti e poi perché devo parlarti di un paio di cose.”

 

“Cos’ho fatto questa volta che non va?” sospirò Valentina, sedendosi all’altro tavolino del bar vicino alla procura.

 

“Niente, Valentì, è solo che… papà è preoccupato perché non lo vai più a trovare e non lo vuoi sentire. Vuole venire qui un paio di giorni a trovarti, per parlare con te. O nel fine settimana o potrebbe prendere ferie, se ti fosse più comodo in settimana.”

 

“La possibilità che semplicemente possa continuare a non parlargli per un po’ non è contemplata?” sbuffò, incrociando le braccia.

 

“Valentì… ormai è passato un po’ di tempo, no? Immagino che un poco tu abbia avuto modo di rifletterci su. A che serve rimandare? Almeno vi potete chiarire o, se hai qualcosa da dirgli e lamentele da fargli, gliele puoi fare di persona.”

 

Valentina rimase un attimo in silenzio, poi sospirò nuovamente.


“Va beh, ho capito. Se vuole venire può farlo pure questo weekend. Tanto Samuel dal pomeriggio lavora, ci possiamo vedere allora. Però vorrei che ci fossi anche tu, almeno all’inizio, così vedo come va e come mi sento.”

 

“Grazie, Valentì.”

 

“Ma perché mi ringrazi tu?”

 

“Perché tuo padre resta sempre tuo padre e non voglio che siate in cattivi rapporti. E, a proposito di questo, se vi riconcilierete e se ti andrà, la pasqua vorrei di nuovo passarla tutti e tre insieme, se per te va bene.”

 

“E al maresciallo e a Cinzia Sax va bene?” domandò con un’occhiata penetrante.

 

“A Cinzia non lo so. Calogiuri deve tornare da mammà, che se no se le sente, quindi comunque non potremmo passarla insieme. Però… quando saremo una coppia ufficiale… chissà magari-”

 

“Ma sì, un bel pranzo tutti insieme, immagino già che meraviglia guarda! Tra il carattere tuo e l’imbarazzo di tutti…”

 

“Va beh… se no ci divideremo le ricorrenze, Valentì, ma a me piacerebbe veramente che potessimo andare d’accordo e tu non sia costretta a scegliere.”

 

“Cioè, vuoi dirmi che a te piacerebbe davvero passare le feste con Cinzia Sax? Proprio tu che non vai d’accordo con nessuno già di base e hai sempre odiato le ricorrenze?”

 

Lo sguardo ed il tono sarcastici di Valentina erano molto da lei. E dovette ammettere che non aveva tutti i torti. Ma ci potevano almeno provare, e poi… e poi sperare che non ci scappasse il morto o fare eventi rigorosamente separati.

 

“Per intanto pensiamo al presente. Al rapporto tra te e tuo padre mo e pure a questa di pasqua. Da qui a natale c’è tempo per rifletterci su, non pensi?”

 

“Va beh… come vuoi… mo ordiniamo qualcosa da mangiare che poi devo tornare in università e ho una fame terribile?”

 

“Va bene,” concesse, sapendo di avere già ottenuto ben più di quanto sperasse.

 

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Stavano quasi davanti alla procura, Valentina avrebbe proseguito ancora per un pezzo per prendere la metro.

 

“Valentì, grazie per il pranzo e allora dirò a tuo padre che-”

 

“Buongiorno, dottoressa!”

 

La voce gioviale di Mancini la interruppe e lo vide arrivare a piedi, probabilmente anche lui di ritorno dalla pausa pranzo. Guardò verso Valentina e chiese con un sorriso, “e questa deve essere sua figlia, immagino? Giorgio Mancini, molto piacere.”

 

“Valentina De Ruggeri,” rispose sua figlia, un po’ basita, stringendo la mano che le venne estesa.

 

“Il dottor Mancini è il procuratore capo, Valentina. E sì, è mia figlia e siamo uscite insieme a pranzo.”

 

“Eh, beata lei, dottoressa, beata lei. Allora levo il disturbo. Buon proseguimento, Valentina, noi dottoressa ci vediamo dopo, se può passare dal mio ufficio, che vorrei parlarle del convegno.”

 

“D’accordo dottore, arrivederci.”

 

E lo videro incamminarsi al suo solito passo rapidissimo verso la procura.

 

“Ma è così gentile con tutti?” chiese Valentina, con un sopracciglio alzato, “e cos’è questa storia del convegno?”

 

“Mancini è molto gentile, sì. E dobbiamo andare ad un convegno insieme prima di pasqua. A Milano.”

 

“E il tuo maresciallo che ne pensa?”

 

“E che ne deve pensare, Valentì… è il mio lavoro e lo sa. E non è che mo devo correre dietro a tutti gli uomini che vedo.”

 

“Sì, anche perché correre dietro a quello lì, veloce com’è, non dev’essere facile nemmeno per te,” ironizzò Valentina ma Imma si chiese se le sarebbe dispiaciuto se lei e Calogiuri si fossero lasciati.

 

Cosa che ovviamente sperava non avvenisse mai.

 

Quasi come se l’avesse chiamato col pensiero, un’auto di servizio si fermò lì vicino e ne scese proprio Calogiuri.

 

Con Irene ovviamente.

 

“Dottoressa, Valentina, buongiorno,” le salutò un poco intimidito, com’era sempre quando c’era la figlia.

 

Dopo poco li raggiunse la cara collega.


“Tu devi essere Valentina, immagino. Complimenti perché sei ancora più bella che in foto! Irene Ferrari, una collega di tua madre, stiamo lavorando insieme al maxiprocesso,” le spiegò con un sorriso dei suoi, allungando una mano e Valentina, stavolta, la strinse ma vide che stava trattenendosi dal ridere.

 

“Il capitano dei carabinieri che mi ha soccorso a Matera è amico suo, giusto?” le chiese Valentina ed Irene, per un secondo, sembrò imbarazzata ma poi si ricompose.

 

“Sì, esattamente, abbiamo lavorato insieme per molto tempo a Milano. Vi lascio ora e torno alle mie incombenze, ahimé. Calogiuri, tu che fai? Vieni o resti qua con la dottoressa?”

 

“No, vengo a finire il rapporto. Noi ci vediamo dopo, dottoressa, Valentina,” le salutò con un sorriso, seguendo la Ferrari dentro la procura.

 

“Mo ho capito perché ti sta tanto sulle scatole. Bella è bella davvero ed è elegantissima. Pare uscita da una rivista. Ed è pure gentile, anche se con quel Ranieri… altro che lavorare!” commentò Valentina, strappandole un sorriso.

 

“Valentì…”

 

“Comunque mà, per come il tuo maresciallo guarda te, rispetto a come guarda lei, non hai niente di cui preoccuparti. La sua cecità ed infermità mentale proseguono.”

 

“Speriamo, Valentì, speriamo…” sospirò, perché fino a che non avesse capito le sue intenzioni, a lei la Ferrari non sarebbe proprio mai andata giù.

 

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“Dottore, aveva bisogno di parlarmi?”

 

“Sì, dottoressa, si accomodi. Si tratta del convegno. Volevo lavorare insieme a lei alle nostre presentazioni. In settimana temo che nessuno di noi due avrà il tempo, senza interruzioni continue. Le andrebbe questo fine settimana se ci trovassimo per lavorarci su?”

 

Imma sapeva che Mancini aveva ragione: in settimana lui era richiestissimo ovviamente e pure lei non aveva un attimo di tregua, ma si chiedeva come li avrebbe presi Calogiuri i suoi straordinari con Mancini.

 

“Dottore, guardi, mi dispiace ma questo fine settimana non posso proprio. Viene in visita a Roma il mio ex marito e devo passare del tempo con lui e con mia figlia.”

 

Mancini annuì anche se con un’espressione strana che non capì, “allora il successivo? Visto che quello ancora dopo c’è il convegno, non ci sono molte alternative. Se facciamo una full immersion dovrebbe esserci tempo a sufficienza, almeno spero.”

 

“Va bene, dottore, confido sulla sua proverbiale velocità,” ironizzò e Mancini sorrise, l’espressione strana che svanì.

 

“Ed io sulla sua, dottoressa.”

 

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“Imma?”

 

“Pietro, ascolta. Ho parlato con Valentina e… va bene se vieni questo fine settimana. Lei vorrebbe che ci fossi pure io quando ci incontriamo, insomma, almeno all’inizio, poi vi lascio soli.”

 

“Va bene, Imma, va bene, figurati, non c’è problema. E ti va sempre bene se vengo a trovarti a casa?”

 

Imma sospirò un attimo ma che poteva dirgli?

 

“Sì, Pietro, se pensi che ti possa servire va bene.”

 

“Mi dovresti dare l’indirizzo però.”

 

Imma realizzò che non gliel’aveva nemmeno detto esattamente dove abitava, vista la sua reazione al trasferimento a Roma.

 

“D’accordo, te lo mando per messaggio. Passa una buona serata e a sabato allora.”

 

“A sabato,” replicò Pietro, chiudendo la telefonata.

 

Sentì un rumore alle sue spalle e si girò e vide che era Calogiuri, che la guardava dal divano, dove si era appena seduto.

 

“Era Pietro… viene questo fine settimana e… e probabilmente passerà anche qui. E poi dovrò stare un po’ con lui e Valentina,” spiegò, raggiungendolo e sedendosi accanto a lui.


“Va bene, Imma, lo capisco. In fondo avrete sempre una figlia insieme e lo so che è giusto che i rapporti tra voi siano buoni. Vorrà dire che ci rifaremo il prossimo fine settimana,” le propose, con un tono carico di sottintesi e facendole l’occhiolino.

 

Imma sentì il cuore precipitarle nello stomaco perché non sapeva come dargli la notizia successiva.

 

“Calogiù… vedi… in realtà il prossimo fine settimana mi toccherà lavorare con Mancini. Almeno sabato, forse pure domenica. Per preparare il convegno.”

 

Calogiuri la guardò con quello sguardo da cane bastonato che era un’arma letale.

 

“Ma poi sarai via per il convegno e poi il weekend ancora dopo c’è pasqua. Quindi avremo pochissimo tempo insieme, al di fuori del lavoro, per un mese quasi.”

 

Lei sorrise, intenerita, e gli mise le braccia intorno al collo, “vedrai che ci rifaremo di sera in settimana. E poi anche questo fine settimana e il prossimo, la sera sarò comunque tutta tua, promesso.”

 

“Perché? Il resto del tempo non sei tutta mia?” le domandò con un tono ironico ma con una punta di gelosia.

 

“Sempre, Calogiù, sempre,” lo rassicurò, accarezzandogli una guancia e poi abbracciandolo forte e sentendolo ricambiare in quel modo che aveva lui, come se ogni volta fosse l’ultimo abbraccio.

 

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“Vorrei capire come mai mi trovo qui. E che ci fa qui lei. Del caso di mio marito non si occupava il dottor Santoro?”

 

“Se ne occupava il dottor Santoro, sì, ma il caso è stato passato a me che mo lavoro a Roma e mi ci tratterrò ancora per un po’, per seguire il maxiprocesso. Il suo avvocato comunque ne è stato regolarmente informato del cambio di pubblico ministero, signora Tantalo, mi stupisce che lei non lo sappia.”

 

“Con mio marito ancora in coma ho altri pensieri, dottoressa.”

 

“Ah, sì? Peccato che al capezzale di suo marito la si vede una volta ogni mese o due, se tutto va bene, signora Tantalo, quindi mi sembra che di tempo libero ne abbia parecchio, pur nel comprensibile dolore.”

 

“Non sopporto di vederlo ridotto in quel modo! Questo non significa che non stia soffrendo!” ribatte la Tantalo, incrociando le braccia e fulminandola con lo sguardo, “e comunque a questo punto voglio il mio avvocato.”

 

“Ma lei al momento non è indagata, è una persona informata sui fatti. E voglio avvertirla esattamente della sua situazione, poi deciderà se chiamerà il suo avvocato. Vede, signora Tantalo, abbiamo interrogato un certo Rogelio Mendoza, che ci ha spiegato per filo e per segno dei suoi affari a Panama e della bella sommetta che ha accumulato all’insaputa di suo marito. Non solo, ma abbiamo scoperto che il suo ex istruttore di tennis, Richard Davidson, si è fatto un bel viaggetto a Panama proprio quando lei stava a Miami, l’estate prima del tragico incidente di suo marito. E a Davidson lei ha lasciato centomila euro, una bella cifra, no, per un istruttore di tennis? Non solo, ma Davidson è stato riconosciuto da una testimone oculare per essere entrato nella stanza di suo marito, dopo che lui era stato messo KO con della ketamina da Alina Holub, una escort trovata poi morta qualche settimana fa. Sempre per overdose, che coincidenza strana, eh? E abbiamo trovato pure le impronte di Davidson sul comodino dove c’era la droga che ha messo in quelle condizioni suo marito. Abbiamo parlato con Davidson ed è chiaro che lei è la mandante di questo omicidio: gli ha ordinato di dare la cocaina a suo marito, una volta che sarebbe stato incosciente. E sappiamo che continuate ad essere amanti, visto che Davidson viene a Roma da lei tutte le settimane o quasi.”

 

La Tantalo rimase completamente ammutolita, chiaramente colpita da questo fiume di informazioni. Non si aspettava avessero in mano tanto. Imma decise di passare alla seconda fase.

 

“Ora, se lei non vuole essere imputata per concorso in tentato omicidio volontario, con svariate aggravanti quali la premeditazione, oltre al metodo usato che può essere di fatto paragonato all’avvelenamento, visto che Lombardi era stordito. Insomma, se lei non ci tiene a beccarsi un ergastolo, qualora suo marito, come parrebbe, non dovesse più riprendersi, potrebbe parlare e il giudice ne terrà conto in sede processuale. Altrimenti Davidson avrà il suo sconto di pena e lei rimarrà con la richiesta di condanna maggiore.”

 

“Davidson è matto! Sapevo che fosse ossessionato da me ma non pensavo fino questo punto! Io non ne sapevo niente di questa storia, evidentemente lui voleva togliere di mezzo mio marito per avermi tutta per sé e magari anche i nostri soldi. Io non avrei mai fatto del male a mio marito, anche se lui ne aveva fatto a me. Davidson ha fatto tutto da solo! E sì, in questi mesi ci siamo frequentati perché lui mi consolava e mi stava vicino dopo il trauma che avevo subito. Ma era tutto premeditato da parte sua per spillarmi altro denaro!”

 

“Quindi perché gli avrebbe dato i centomila euro?” incalzò Calogiuri, “sono una somma enorme.”

 

“Lei è giovane, maresciallo, immagino abbia molte spese, no, e non molti mezzi. Lo stesso era per Davidson. Era qui in Italia, da solo, ed era un po’ in difficoltà economiche. A me i soldi non mancano, glieli ho dati, lui mi ha garantito che negli anni poi me li avrebbe restituiti. Era soltanto un prestito ad un amico che mi aveva fatto un favore, niente di più.”

 

“E certo! Perché mo traffico internazionale di diamanti e complicità in evasione fiscale me lo chiama un piccolo favore.”

 

“Senta, dottoressa, potrò aver fatto dell’evasione fiscale. Ma se tutti gli evasori in Italia fossero anche omicidi saremmo morti tutti, non crede?”

 

“L’evasione uccide più di quello che lei pensa, mia cara signora Tantalo. Ma per carità, certo, magari lei è solo da evasione fiscale, a livello penale, ovviamente. Che in questo paese quasi un vanto può sembrare. Peccato che Davidson abbia una versione dei fatti diversa e che quella che ci guadagnava dalla morte di suo marito era lei.”

 

“Io non ci guadagnavo un bel niente. Quella ricca tra i due sono sempre stata io. Mio marito aveva un buon reddito da parlamentare e con le vendite dei suoi libri, ma anche un alto tenore di vita, oltre ai suoi… vizi. Io non avevo bisogno dei suoi soldi. Lui dei miei non so.”

 

Imma capì che la Tantalo avrebbe negato allo sfinimento e che quel giorno una confessione non l’avrebbero ottenuta.

 

Ma ci doveva essere un modo.

 

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“Che c’hai?”

 

“Come?”

 

“D’accordo che il presidente sta facendo cavolate un’altra volta, ma mi sembri un po’ troppo preoccupata perché sia per la puntata.”

 

Imma aveva quel solco in mezzo gli occhi che le veniva quando era concentrata su qualcosa. E dubitava si trattasse di Scandal. Mise in pausa.

 

“Sto pensando alla Tantalo e al fatto che dobbiamo trovare prove su di lei prima del maxiprocesso. E anche col rinvio il tempo stringe. Potrebbe essere la nostra ultima possibilità per incastrare Eugenio Romaniello.”


“E come pensi di fare?”

 

“Tu come ti sentiresti al posto di Davidson, se vedessi l’interrogatorio della Tantalo?”

 

Calogiuri ci ragionò su giusto un attimo, “tradito? Lui non ha parlato mentre lei… lo ha descritto come un folle.”

 

“Vedi, gli amanti criminali spesso finiscono per scaricare le colpe l’uno sull’altro. Amore, amore sì, ma quando c’è davanti la prospettiva della galera…”

 

“Ma Davidson non l’ha fatto. Forse teneva più lui alla Tantalo che lei a lui a questo punto.”

 

“Già… o ne aveva paura.”

 

“Ma nemmeno Galiano lo ha fatto.”

 

“No, infatti,” acconsentì Imma, con un’espressione pensierosa, per poi aggiungere con quel tono dolce che ogni tanto ancora gli sembrava un miracolo fosse rivolto a lui, “e nemmeno tu. Anzi, ti sei pure fatto trasferire per me senza dirmi niente.”

 

“Lo sai che non ti tradirei mai, Imma. In tutti i sensi,” la rassicurò, accarezzandole una guancia.

 

“E nemmeno io. Ma tra non tradire e fare il kamikaze c’è una via di mezzo, Calogiù.”

 

“L’ho capito, dottoressa, l’ho capito, tranquilla.”

 

“Comunque a questo punto ciò che resta da fare è-”

 

“Mostrare l’interrogatorio della Tantalo a Davidson e sperare che parli?” finì la frase per lei e la vede sorridere di nuovo in quel modo pieno di orgoglio che lo faceva sempre sentire in pace col mondo.

 

“Sì. Stai diventando sempre più bravo… e non solo nelle indagini.”

 

“Ah, sì? E in che cos’altro?”

 

“Mah… ad esempio in cucina…” ribatté con quel sorrisetto che lo faceva impazzire.

 

“Imma!” rise, prima di prenderla per la vita e spingerla distesa sul divano, iniziando a farle il solletico.


“Calogiù, Calogiù!” la sentì ridere e divincolarsi, tanto che ci mancò un soffio che cascassero entrambi dal divano e finirono invece praticamente inginocchiati uno di fronte all’altro tra divano e tavolino.

 

Si guardarono e risero.

 

E poi si sentì mordicchiare il labbro, sorrise e la spinse fino a trovarsi distesi sul tavolino e le soffocò una risata con un altro bacio. E poi le aprì la vestaglia ed iniziò a baciare ogni centimetro lasciato scoperto dalla stoffa, lasciandosi guidare da quei mugolii che lo mandavano ai matti.

 

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“Signor Davidson, la vedo sempre più provato, si sieda.”

 

Davidson, vestito ancora come all’interrogatorio precedente, pareva invecchiato di almeno cinque anni in pochi giorni.

 

“Vorrei vedere lei in quella cella, dottoressa.”

 

“Ah, in tanti mi ci vorrebbero vedere, signor Davidson. Ma non ci sto per due motivi: primo perché, grazie al cielo, ho sempre condotto una vita onesta, secondo perché, a differenza sua, mi so scegliere meglio le conoscenze e soprattutto le persone con cui sto.”

 

Calogiuri, alle spalle di Davidson, le lanciò un’occhiata da far tremare le vene e i polsi ma cercò di mantenersi professionale.

 

“Ascolti, ho qui un bel filmino da farle vedere, penso lo troverà interessante.”

 

E, dal pc, gli mostrarono l’interrogatorio della Tantalo, da quando parlava di lui ovviamente.

 

Terminata la registrazione, Davidson rimase ammutolito per un attimo, poi sibilò qualche parola in inglese che di sicuro non insegnavano né ad Oxford né a Cambridge. Vide che aveva gli occhi lucidi. Possibile che alla Tantalo ci tenesse realmente?

 

“Come vede la signora Tantalo la dipinge come una specie di stalker ossessionato, signor Davidson. Lei ha niente da dire in proposito? Vuole veramente restare in galera da solo?”

 

Davidson sembrò ancora più colpito e… tradito era quello il termine giusto. Forse il rapporto con la Tantalo non era solo di interesse ma, almeno da parte di lui inaspettatamente c’era pure altro.

 

“Maria Giulia… non posso credere che abbia detto quelle cose. Abbiamo avuto una relazione, è vero, ma lei la voleva, la volevamo tutti e due in tutti questi anni, anche negli ultimi mesi fino a che non sono… finito qui in galera. Ed è stata lei a suggerirmi di… di togliere di mezzo suo marito, che l’aveva tradita e la umiliava e continuava a tradirla ed andare a feste e donne. Che addirittura era stato con una che poteva essere sua figlia e che poi non lo era ma… lo avrebbe potuto essere. E mi aveva promesso che senza di lui un giorno, quando sarebbero finite le indagini, avremmo potuto essere una coppia ufficiale. Mi ha spiegato cosa dovevo fare, di andare a quella festa e che… che lo avrei trovato stordito in quella camera. Poi dovevo solo dargli della droga,” spiegò, e la voce gli si spezzò, “è stato… non lo so… quasi come un sogno… surreale. Questa persona orribile e che odiavo ma che… era lì senza difese. Però l’ho fatto, in qualche modo, perché era l’unico modo per… per non deludere Maria Giulia e per salvarla e salvarle la reputazione da questo marito che non la meritava. E poi… e poi lui però è sopravvissuto e quindi… e quindi abbiamo dovuto continuare a rimanere amanti di nascosto, per non attirare i sospetti.”

 

Imma sentì un moto di soddisfazione, anche se sapeva che era solo l’inizio: se gli amanti continuavano a scaricarsi il barile a vicenda si poteva finire con un nulla di fatto, come spesso in questi processi, o a incolpare solo Davidson in quanto esecutore materiale del fatto.

 

“E di Alina Holub che mi dice?” intervenne Calogiuri, che stava alla scrivania lì accanto.

 

“Chi?”

 

“Questa ragazza, Davidson,” lo incalzò con un tono di cui fu assai orgogliosa, mostrandogli stavolta una delle foto peggiori dell’autopsia della ragazza, “quella che ha dato la ketamina a Lombardi per farglielo trovare stordito e che l’ha vista entrare nella sua stanza, lei e il suo occhio di Sauron.”

 

Davidson divenne color cenere e per un attimo Imma temette svenisse e di doverlo pure raccattare da terra.

 

“Io… io…”

 

“Allora? Sappiamo che lei l’ha notata, Davidson. A chi lo ha detto? Perché che quella poveretta sia finita ridotta così non è una coincidenza.”

 

“Io… io veramente non lo so… ho detto… ho detto a Maria Giulia che temevo che la ragazza che aveva drogato Lombardi mi avesse visto. Ma poi non so più niente di cosa sia successo, immagino… immagino ci abbia pensato lei. Pensavo… pensavo di essere l’unico con cui aveva e ha un certo tipo di rapporto, ma so che ha amici potenti, me lo ha sempre detto di stare in guardia che… che se la tradivo… insomma….”

 

“Ma perché allora avrebbe scelto lei per l’omicidio, anzi il tentato omicidio di Lombardi, invece che gli amici potenti?”

 

“Perché… perché diceva che era una prova d’amore… una cosa che ci avrebbe uniti… e che quello che le aveva fatto il marito era una cosa personale e anche la vendetta voleva che fosse personale.”

 

Imma sospirò: parevano le frasi da manuale dei coniugi che convincono l’amante a uccidere l’altro coniuge. Ma Davidson era davvero così plagiato?

 

“E lei ci ha creduto o magari voleva in cambio i soldi della signora Tantalo? Tipo quei centomila euro?”

 

“A me… a me i soldi facevano comodo, sicuramente. Ma io… io volevo continuare il rapporto con Maria Giulia e… e non volevo che mi lasciasse per un altro che le avrebbe dato quello che voleva.”

 

Insomma… se non voleva essere mollato per interesse sentimentale o monetario o per entrambi, era difficile dirlo con certezza, ma la realtà dei fatti non cambiava.

 

“Davidson, all’accusa di traffico internazionale di diamanti e complicità in evasione fiscale, si aggiunge ovviamente quella di concorso in tentato omicidio, come esecutore materiale del fatto. Ma, se lei è disposto a ripetere la sua confessione davanti ai giudici, avrà uno sconto di pena e le sarà garantita protezione in questi mesi, vista la situazione.”

 

“Tanto ormai tutto quello che dovevo perdere l’ho perso…” sospirò Davidson, passandosi una mano nella chioma bionda la cui messa in piega perfetta era da mo che se ne era andata.


Ma ora Imma doveva trovare chi aveva ucciso Alina. Era l’unico modo per implicare definitivamente la Tantalo.

 

Fecero firmare a Davidson la deposizione e poi lo fecero portare via da Carminati che la fissò in quel modo inquietante col quale la fissava nelle ultime settimane, come se volesse spogliarsela con lo sguardo. Forse, tutto sommato, era meglio quando faceva battute da caserma a Calogiuri su quanto fosse cessa.


“Che ne pensate? Come facciamo se la Tantalo continua a scaricare su di lui la colpa?” chiese Calogiuri ed Imma sentì di nuovo quella cosa piacevole al petto che provava quando lui le dimostrava quanto fosse diventato bravo a leggere le situazioni e a fare il suo lavoro, in generale.

 

“Penso che l’unico modo sia capire chi ha ucciso Alina, Calogiuri. E deve c’entrare in qualche modo il giro di Quaratino o di Eugenio Romaniello. Dobbiamo pedinare la Tantalo e rispulciarci tutte le intercettazioni telefoniche e i tabulati delle telefonate, Calogiuri, soprattutto vicino alle date dell’aggressione ad Alina, del suo omicidio e del tentato omicidio di Lombardi. Me le recuperi tu?”

 

“Certamente, dottoressa, con piacere,” rispose con un sorriso: solerte come sempre il suo Calogiuri.

 

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Il suono del campanello le fece quasi prendere un colpo: non era abituata a sentirlo.

 

Stava preparando il caffè, erano le undici e un quarto di sabato mattina e Calogiuri era ancora in doccia. Dovendo vedere Pietro nel pomeriggio avevano deciso di evitarsi il risparmio energetico, prima di perdere il senso del tempo.

 

E poi già la sera prima avevano dato il loro contributo alla salvezza del pianeta.

 

In camicia da notte, vestaglia e ciabatte, andò al citofono e, quando chiese chi fosse, il viso di Pietro, insieme alla sua voce le fecero fare un tuffo allo stomaco.

 

“Imma, sò io. Mi apri?”

 

E che poteva fare, lasciarlo fuori? Ma che ci faceva lì a quell’ora, senza avvertire prima?

 

Aprì e attese alla porta, sperando non succedesse un casino.

 

L’ascensore arrivò al piano e ne uscì Pietro, che la guardò da capo a piedi in un modo che un po’ la imbarazzò, un po’ la mise a disagio, anche se una volta sarebbe stato normale, “vedo che l’abbigliamento notturno non lo hai cambiato. Ma come mai stai ancora in vestaglia?”

 

“Perché ancora devo fare colazione, Pietro. Anzi, lo vuoi un po’ di caffè, già che lo preparo?” gli domandò, facendolo entrare ed avviandosi verso la cucina.

 

Lui c’è o-?”

 

Come se lo avesse sentito, Calogiuri uscì proprio in quel momento dal bagno, bloccandosi nel piccolo corridoio che dava sulla stanza che faceva da cucina e salotto e che conduceva anche alla camera da letto. Era vestito, se così si poteva dire, solo con un asciugamano legato ai fianchi: evidentemente non aveva sentito il citofono.

 

Pietro rimase per un attimo impietrito, con la bocca mezza spalancata, ed idem Calogiuri, che divenne di un colorito rosato sempre più acceso.

 

“Pietro… potevi pure avvertire un attimo prima della tua visita!” intervenne Imma, perché non era colpa di Calogiuri se si erano ritrovati in quella situazione.

 

E Pietro si riscosse dalla paralisi e rivolse prima a lui e poi a lei un’occhiata sarcastica, “ma sono le undici passate e tu sei sempre stata mattiniera, Imma. Ma evidentemente le cose cambiano, eccome se cambiano, e tu sei cambiata moltissimo.”

 

Il sarcasmo raggiunse il picco massimo nell’ultima frase, pronunciata fissando Calogiuri in asciugamano in un modo che gli fece venire uno sguardo mortificato e si affrettò a levarsi di lì con un, “va beh… vado a cambiarmi, vi lascio parlare.”

 

“Calogiuri, guarda che il caffè è quasi pronto. Se ti vuoi cambiare cambiati, ma poi vieni che ci manca che rimani a stomaco vuoto,” ribatté Imma, sfidando con un’occhiataccia Pietro a dire qualcosa e lanciando invece a Calogiuri uno sguardo che sperò fosse rassicurante.

 

Lui annuì leggermente, per fortuna le parole non servivano per capire cosa volessero dirsi veramente e le chiese, “hai già preso i bomboloni o è il mio turno oggi?”

 

“Sarebbe il tuo turno Calogiuri, ma al massimo c’abbiamo i biscotti.”

 

“Mi cambio e vado un salto a prenderli. Volete qualcosa, signor De Ruggeri? Un bombolone, un cornetto?”

 

“Per carità che di cornetti ne ho già avuti a sufficienza, grazie,” ribatté Pietro, tagliente e duro, nonostante lei fosse a un soffio da dargli un pestone al piede, se le occhiatacce non bastavano.

 

E con un “come preferite!” ed uno sguardo che le fece capire che la battutaccia era stata recepita in pieno, Calogiuri si ritirò in camera da letto.

 

“Pietro…”

 

“Imma, scusami ma… tra l’accoglienza e certe battute… se le potrebbe proprio risparmiare il tuo maresciallo.”

 

“Guarda che Calogiuri cercava di essere gentile, sei tu che ti stai comportando in un modo inaccettabile!”

 

“Io??!!”

 

“Sì, tu! Volevi vedere la mia vita a Roma? Beh, questa è la mia vita a Roma, questa è casa mia e qui Calogiuri di casa. E, o sei almeno civile con lui, o quella è la porta,” sibilò, con un tono talmente duro che Pietro si bloccò e fece un passo indietro, sembrando quasi spaventato.

 

“Di casa? E che cos’è successo ai due appartamenti?”

 

“Che ce li abbiamo ancora, ma ovviamente spesso io dormo da lui o lui dorme da me. Un po’ come te e Cinzia Sax, insomma, e pure noi di solito, se qualcuno avverte prima, evitiamo di farci beccare in situazioni imbarazzanti.”

 

Pietro arrossì ed Imma seppe di aver colpito al punto giusto.

 

In quel momento Calogiuri, in tuta e giacca di pelle, uscì dalla stanza da letto e con un “torno subito!” lasciò l’appartamento.

 

Per un attimo rimasero in un silenzio carico di disagio, poi Imma per rompere il ghiaccio gli propose, “allora, visto che sei qui, vuoi vedere casa?”

 

“Magari la camera da letto me la risparmio, Imma,” rispose Pietro, amaro, guardandosi intorno.

 

“Va beh… questo come avrai visto è il bagno,” indicò, aprendo la porta e mostrando la stanza ancora un po’ umida, per poi rivolgersi alla porta opposta, “quella come immaginerai è la camera, ma appunto te la evito, ed il resto della casa è qui. C’è una bella vista su Roma, come puoi vedere.”

 

Pietro si avvicinò alla finestra ed annuì ma si guardò ancora in giro, per poi rivolgerle uno sguardo penetrante, “questa casa… è… è moderna… ma… a parte il leopardato non è proprio da te, Imma. Lo ha scelto lui l'arredamento?”

 

“Ho lasciato a Calogiuri più spazio sulla scelta dei mobili, sì, ma li ho approvati tutti perché questo stile mi piace molto. Semplice, ma sta bene con il mio stile più… eccentrico.”

 

“Imma… a volte mi sembra di non riconoscerti più, lo sai?” sospirò, scuotendo il capo.

 

“Guarda che io è da mo che sono così, Pietro. Forse non hai voluto vedere quanto sono cambiata negli anni e che… che i miei gusti andavano oltre a quello che pensavi tu. Comunque, a proposito di leopardato, le mie cose stanno ancora a casa tua, Pietro?”

 

“Sì, ancora al posto loro stanno.”

 

“E a Cinzia non dà fastidio?”

 

“Ormai c’è abituata a vederle. E so che dovrei liberarmene, ma sono lì da talmente tanti anni che non ci riesco.”

 

“Va beh… qualcosa magari me la vengo a recuperare a pasqua, così la porto o a casa di mia madre o qui.”

 

“Non c’è fretta, Imma, fosse quello il problema!” sospirò Pietro, proseguendo verso la zona salotto e fermandosi di fronte alla cornice digitale.

 

Alla fine Imma aveva deciso di esporla: tanto dalla procura non veniva mai nessuno e, quando succedeva, ci volevano due minuti a ritirarla nel cassetto sottostante.

 

Ma lui si bloccò a fissarla, quasi ipnotizzato, mentre le foto scorrevano: c’era quella con le caldarroste, quelle fatte al Pincio, una scattata al Gianicolo da un’altra coppia a cui avevano ricambiato il favore e poi una fatta con l’autoscatto a casa, di fronte alla finestra con la vista sulla città.

 

“Pietro…” provò a intervenire, quando vide che continuava a rimanere fisso sulle foto che scorrevano in loop.

 

“Di foto nostre non ne avevamo così tante, Imma, non in così poco tempo. Forse in anni e anni, che una ad ogni morte di papa ne facevamo e ti vergognavi sempre.”

 

“E va beh, Piè, i tempi so’ cambiati. Mo col cellulare è più facile farsi una foto, non c’è da portarsi dietro tutta l’attrezzatura. Ed è più facile vedere com’è venuta, oltretutto.”

 

Ma Pietro sospirò e tutta la sua rabbia sembrò evaporare e lo vide triste come raramente prima.

 

“Ma che c’è? Pietro, è normale che io e Calogiuri c’abbiamo foto insieme, visto che stiamo insieme e lo sai pure tu.”

 

“Non è quello, Imma… è che…” si fermò un attimo come se cercasse le parole e poi la fulminò con un’occhiata tra il disperato e l’accusatorio, “è che non ti avevo mai vista così… così felice e… e spensierata come in quelle foto. Sembra… sembra che stai scoppiando di felicità quasi. E con me quell’espressione… quell’espressione non l’ho mai vista, se non in pochissimi momenti e questo mi fa malissimo, Imma, non hai idea quanto.”

 

Imma si ammutolì perché non sapeva come rispondere. Era vero. Non che non fosse stata felice con Pietro, anzi, ma l’intensità delle emozioni che aveva provato e ancora provava per Calogiuri era un’altra cosa, talmente forte che nemmeno lei pensava di esserne capace, prima di incontrarlo.

 

“Pietro, io-”

 

In quel momento la porta dell’ingresso si aprì e rientrò Calogiuri con un sacchetto di carta in mano.

 

“Calogiuri… se li sistemi su un piatto io finisco di preparare il caffè.”

 

“E io scaldo il latte?” si offrì lui con un sorriso, levandosi la giacca di pelle, lavandosi le mani ed iniziando il solito rituale della colazione. Anche se pure su chi faceva il caffè di solito facevano a turno, perché ognuno aveva il suo metodo.

 

Pietro rimase a guardarli, in silenzio, manco stesse fissando un film o dei pesci nell’acquario ed Imma si sentì un poco in imbarazzo. Calogiuri, da come rimaneva concentrato sul latte, lo era palesemente.

 

“Come lo vuoi il caffè, Pietro? Con latte o senza?” chiese infine, per spezzare l’atmosfera.

 

“Amaro,” rispose, ed il tono era davvero amaro, “cioè, normale, niente latte, grazie.”

 

Calò un silenzio pesante pure mentre mangiavano, Pietro che in pochi secondi aveva finito il caffè ed Imma era a disagio, ma si impose di mangiare e fregarsene, mentre vedeva che pure Calogiuri avrebbe probabilmente preferito trovarsi da un’altra parte.

 

“Allora… visto che… ormai praticamente convivete… quando avete intenzione di uscire allo scoperto pubblicamente?” domandò Pietro all’improvviso ed Imma per poco non si strozzò col bombolone.

 

Ma che gliene fregava a lui?

 

“Tra qualche mese, Pietro, se tutto va bene. Il problema è il lavoro ovviamente,” chiarì, ma notò che Calogiuri invece rimase in silenzio.

 

Finirono la colazione ed Imma infine fece la domanda che aveva voglia di fare da quando Pietro era arrivato, “scusa, Pietro ma con Valentina a che ora ti vedi? Perché mo è quasi mezzogiorno, tra una cosa e l’altra.”

 

“Dobbiamo vederci per pranzo verso l’una. Vieni pure tu, vero? Anche se immagino non avrai voglia di pranzare, visto l’orario della colazione.”

 

Imma ci rifletté un attimo: non poteva tirarsi indietro e non andarci, conoscendo Valentina, e poi glielo aveva chiesto la figlia.

 

Lanciò un’occhiata a Calogiuri e lui annuì e disse, “non ti preoccupare, noi ci vediamo più tardi.”

 

Lei gli sorrise e poi si alzò e con un “mi cambio, torno subito!” si avviò verso la stanza da letto.

 

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Sentì la porta richiudersi e fissò quel ragazzo - perché definirlo uomo sarebbe stato troppo - che gli aveva portato via il suo amò.

 

Lo sapeva che non era tutta colpa del ragazzetto e che era Imma ad essere impazzita, forse in una crisi di mezz’età o nella voglia di recuperare quella giovinezza mai vissuta, ma non poteva non avercela pure con lui. Se se ne fosse stato al posto suo, se Imma non lo avesse mai conosciuto o comunque se lui non l’avesse ricambiata, lui ed Imma sarebbero ancora stati felicemente sposati.

 

Forse non felicemente quanto pensava, perché quelle foto gli avevano fatto un male cane: Imma era raggiante, serena e felice e… e senza filtri come non l’aveva quasi mai vista. E pure mo, dal vivo, sembrava più giovane, più bella, più luminosa: si vedeva che stava bene.

 

E, anche se credeva fermamente che presto se ne sarebbe pentita, quando il ragazzetto si sarebbe stancato di avere una compagna che gli facesse da balia e si sarebbe cercato una della sua età, comunque gli faceva male. Perché lo portava a chiedersi se Imma lo avesse mai amato quanto lui aveva sempre amato lei o se… se nella sua inesperienza si fosse in un certo senso accontentata, non avendo altri termini di paragone.

 

Di sicuro, il suo matrimonio era finito in maniera irreversibile e quella visita non aveva fatto altro che confermarlo definitivamente. Ma l’impatto con la realtà era duro, durissimo, anche se aveva creduto di essere finalmente pronto ad affrontarla e ad affrontarli.

 

“Se avete finito il caffè ritirerei la tazzina.”

 

La voce del maresciallo lo riscosse dai suoi pensieri e lo vide lì, con quello sguardo gentile, in apparenza innocuo. E la rabbia prese il sopravvento.

 

“Ma lo sai che proprio una bella faccia tosta c’hai? Prima hai fatto tutto quello che hai fatto e mo fai pure il gentile con me!”

 

“Signor De Ruggeri, io-”

 

“Tanto lo so che sei solo un ragazzino. Mia moglie - perché Imma ancora è mia moglie - ti piace perché ti guida, ti fa da figura materna, perché c’ha un carattere forte lei, e lo posso pure capire. Ma tra un po’ crescerai e non ne avrai più bisogno e magari ti vorrai guardare intorno con quelle della tua età. E se farai soffrire Imma te la vedrai con me!” pronunciò, deciso, anche se sapeva benissimo che in uno scontro fisico sarebbe stato molto probabilmente lui a soccombere, ma la voglia di levare al maresciallo quell’espressione innocente con un pugno era fortissima, “e comunque, a parte il fisico, non capisco proprio che cosa Imma ci trovi in te. Quindi magari sarà lei a stancarsi per prima, chi lo sa, una volta che le sarà finita questa... regressione all’adolescenza. Che per tenere vivo il suo interesse e starle dietro il fisico non basta, ci vuole ben altro!”

 

Vide un’espressione di dolore in quegli occhi azzurri e seppe di avere colpito nel segno. Sapeva che forse era meschino, ma provò comunque un’immensa soddisfazione. Non servivano i pugni per colpire, in fondo, ed il ragazzetto se lo meritava dopo tutto il dolore che lui ed Imma gli avevano procurato. Che si preoccupasse pure un po’ lui, mo, di perderla.

 

“Sentite… io capisco che ce l’abbiate con me… pure io ce l’avrei con me se fossi al posto vostro. Però io con Imma ho intenzioni serie e non ho nessuna intenzione di farla soffrire. Anche perché stancarsi di lei è impossibile. E se lei tra un po’ di tempo si stancherà di me, questo non lo posso sapere con certezza, ma quello che abbiamo va al di là del lato fisico e l’importante è che sia Imma a vedere quello che c’è di buono in me. E questo l’ha fatto da sempre, pure prima che ce lo vedessi io, quindi… sono fortunato, lo so. E per il resto, mi dispiace di come sono andate le cose e lo so che il mio comportamento non è stato nobile ma… ma io Imma la amo moltissimo e non sono riuscito a trattenere quello che provavo e provo per lei. E, anche se capisco il vostro risentimento, spero riusciremo ad avere rapporti civili, visto che… facciamo e faremo entrambi parte della vita di Imma.”

 

Allora la parola ce l’aveva il ragazzetto, quando voleva. E parlava pure bene. Mo cominciava a capire perché Imma si fosse fatta intortare da lui, a parte i muscoli. Ma lo voleva proprio vedere al maresciallo, tra qualche anno, ma solo anche tra qualche mese, alla prova del fuoco, se la sua era solo un’infatuazione per una figura di riferimento o quell’amore di cui si riempiva la bocca. E pure Imma se, finiti i primi mesi di passione, si sarebbe stufata o meno. Perché sì, lo doveva ammettere, date le corna subite, pur se sapeva che Imma non sarebbe tornata da lui, avrebbe preferito vederla con chiunque tranne che con il maledetto maresciallo. Poteva essere meschino, forse, ma ne aveva già digerite tante, pure troppe, di bugie e di corna ed il solo vederlo gli dava i nervi, non ci poteva fare niente.

 

E fu in quel momento che sentì il rumore inconfondibile di tacchi e riapparve Imma, bella come sempre, anzi pure di più, con uno dei suoi soliti maglioncini e la gonna leopardata.

 

“Pietro, se hai finito andiamo, mo,” disse, chiaramente impaziente di levarlo da lì.

 

No, non aveva finito, ma tanto non sarebbe servito a niente. Doveva solo sedersi al lato del fiume ed aspettare.

 

“Va bene, Imma, andiamo. Maresciallo,” salutò freddamente ed il ragazzetto gli fece un cenno con il capo e rispose con un formale “signor De Ruggeri.”

 

Imma si avvicinò ma deviò verso il maresciallo e gli disse, “Calogiù, noi ci vediamo dopo, ti faccio sapere a che ora rientro, va bene?”

 

Pure il nomignolo affettuoso mo! Anzi, il cognomignolo.

 

“Va bene,” le rispose, facendole un sorriso enorme che gli diede ancora più sui nervi.

 

Lo stomaco gli si rivoltò quando Imma gli diede un bacio - anche se fortunatamente solo sulla guancia - come se lui non fosse lì a vederli, e poi gli fece segno di seguirla fuori dalla porta.

 

E, a quel punto, non vedeva l’ora di farlo.

 

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“Valentì!”

 

“Ciao mà, tutto bene?” le chiese, per poi rivolgere un’occhiataccia a Pietro e salutarlo con un secco, “papà.”

 

“Valentì, sì, tutto bene, tu?” le domandò di rimando con un sorriso, anche se il viaggio in taxi con Pietro era stato carico di un silenzio a dir poco opprimente e non vedeva l’ora di finire questo pranzo a tre.

 

Forse la pasqua tutti insieme non era poi una così grande idea: gli animi erano ancora più tesi che a natale e non solo perché Valentina ce l’aveva con suo padre.

 

La visita di Pietro a casa sua non aveva che peggiorato le cose, altro che dargli la chiusura che cercava! Pietro era stato pessimo con Calogiuri e ora sembrava nuovamente arrabbiato con entrambi. Capiva il suo risentimento, ma non che lo sfogasse a casa sua dopo averle chiesto lui di venirci. Anche per questo aveva voluto far rimanere lì Calogiuri: ci mancava che Pietro lo cacciasse. Solo che mo si doveva beccare l’umore dell’ex marito ancora per qualche ora.

 

“Io sto come mi vedi…” sospirò Valentina, sedendosi a un tavolino del ristorante.

 

La imitarono e dopo poco arrivò il cameriere ed ordinarono.

 

“Mà, come mai solo un’insalata? Non è da te!”

 

“Eh, già, non è da lei. Ma del resto se si fa colazione alle undici passate…”

 

“Ma come fai a saperlo?” gli chiese, sorpresa, “mà, papà è passato da casa tua?”

 

“Sì, Valentì,” sospirò Imma, perché era inutile negare.

 

Valentina fece un’espressione strana.

 

“Ma eri da sola o-?”

 

“No, non ero da sola, Valentì,” confermò Imma, temendo l’ira rinnovata della figlia in nome e per conto del padre.

 

Ma a Valentì venne un mezzo sorrisetto.


“Ecco, così mo forse capisci cosa ho provato a trovarti con Cinzia Sax o come cavolo si chiama! Anche se mi auguro che non vi abbia trovati come li ho trovati io.”

 

Pietro divenne color gambero, tossendo perché gli era andata di traverso l’acqua, ed Imma dovette ammettere una cosa: il sapere come mettere a disagio le persone con una battuta bella piazzata quando ce l’aveva con loro Valentina l’aveva proprio preso da lei.

 

“No, Valentì, ha soltanto beccato Calogiuri che usciva in asciugamano dal bagno, perchè è arrivato all’improvviso che lui stava ancora sotto la doccia, ma io ero vestita,” precisò, prima che Pietro potesse fare allusioni: via il dente via il dolore.

 

“Per fortuna quando sono venuta io eravate entrambi ben vestiti. Che già il trauma con papà mi è bastato per sempre. Ma ormai ho imparato ad avvertire prima e suonare molto a lungo il citofono e non usare mai le chiavi.”

 

“Valentì…” provò ad intervenire Pietro, ancora in imbarazzo.

 

“Senti, papà, il trauma mo ce l’ho e me lo tengo ma… perché non mi hai detto niente di sta Cinzia? Perché intanto che... altro che suonare il sax... con me facevi l’innamorato abbandonato e addolorato per mamma? Che intenzioni c’hai con sta Cinzia?”

 

“Valentì… è che… è che per me dimenticare tua madre non è facile, ecco. E stando con te... non potevo non pensare a com’eravamo tutti insieme. Con Cinzia… sto provando ad andare avanti e lei mi aiuta molto e le voglio bene ma… non posso dire ancora di amarla, per questo non te l’ho mai presentata. Non mi pareva il caso, anche per non illudere lei e non darle un’idea sbagliata e farle sembrare la nostra relazione più importante di quella che è al momento,” chiarì Pietro, ormai completamente paonazzo, alternando lo sguardo tra Valentina e la tovaglia.

 

“Quindi non sai se la ami e per un rapporto ufficiale no, ma per andarci a letto ti va bene, eh? Tutti uguali voi uomini!”

 

Imma si chiese come stesse andando il rapporto con Samuel, viste tutte le frecciatine in materia di uomini dell’ultimo periodo.

 

“Valentì… non è solo quello… come ti ho già detto io a Cinzia voglio bene e poi… da qualche parte devo ricominciare, no?”

 

“E ricominciare stando da solo e capendo cosa vuoi, magari no, eh? Che c’hai sempre bisogno di una donna che ti comandi a bacchetta? Capisco che sei attratto da donne col carattere di merda, visti i vent’anni con mamma, ma la tua cara Cinzia è una bella gattamorta, da quel poco che l’ho vista, e dal sorrisetto che ha fatto quando vi ho beccati insieme. Ma non si merita comunque di essere presa per il culo. E nemmeno io me lo meritavo.”

 

Imma manco si offese a sentirsi dire per l’ennesima volta dalla figlia di avere un carattere di merda: di sicuro non avrebbe voluto essere al posto di Pietro in quel momento. Anche perché ci era già passata.

 

“Valentì, guarda che Cinzia è una donna veramente molto dolce,” replicò Pietro e, quando si trovò di fronte all’occhiata incredula e scettica della figlia che, probabilmente, rispecchiava pure la sua, aggiunse, “no, veramente, dovresti conoscerla, darle almeno una possibilità mo che… mo che tanto sai di noi. La prossima volta che vieni a Matera potremmo fare un pranzo insieme e vedere come va, no?”

 

“Ma se non sei manco sicuro di volerla tu sta Cinzia, perché dovrei volerla conoscere io? Me lo spieghi?”

 

Un silenzio assordante avvolse il tavolo per un po’. Imma stava per intervenire perché, nonostante la sceneggiata a casa sua, sapeva come si stava al posto di Pietro, quando lui risollevò il capo e allungò una mano a prendere quella della figlia, lo sguardo deciso come poche volte gliel’aveva visto nel loro matrimonio.

 

“Valentì, ascolta. Su Cinzia non sono sicuro, è vero. Questo è un periodo in cui non sono sicuro quasi di niente. Ma su una cosa, una cosa sola sono sicurissimo ed è che non voglio perdere il rapporto con te, perché tu sei e sarai sempre la persona più importante della mia vita. E se non vuoi vedere Cinzia, vorrà dire che, quando mi verrai a trovare, Cinzia la vedrò un’altra volta. Per me la priorità sei tu, sempre.”

 

Valentina lo guardò per un attimo ma poi il viso le si addolcì impercettibilmente, anche se gli levò la mano dalla sua e se la passò tra i capelli.

 

“Senti, io… io ci devo pensare. Nemmeno io vorrei perdere il rapporto con te ma… sono ancora delusa. E poi… e poi vorrei che fossi più deciso su ciò che vuoi e sulla tua vita sentimentale. Se non sei convinto di questa Cinzia e se non ti rende felice, trovatene un’altra, non mi piace quando si tengono i piedi in due scarpe e si prendono in giro le persone, lo avrai capito.”

 

“Valentì,” si decise infine ad intervenire Imma, vedendo che Pietro era sempre più mortificato, “ascoltami, non so cosa c’è o non c’è tra tuo padre e questa Cinzia e manco lo voglio sapere. Però… però a volte, anche se una situazione non ci rende felici, si ha paura di chiuderla… per paura della solitudine, o di ferire l’altra persona, o di ammettere un fallimento, che non è facile da accettare. Non è così semplice, tutto bianco o nero.”

 

Le lanciò un’occhiata eloquente e Valentina abbassò gli occhi, forse punta sul vivo. Perché Imma non si stava affatto riferendo solo a lei e Calogiuri ma anche a ben altro e sua figlia, che non era scema, l’aveva capita al volo.

 

“Va bene… ci penserò…” sospirò infine Valentina e, proprio in quel momento, l’arrivo del cameriere con i loro piatti le tolse le castagne dal fuoco.

 

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“Calogiù!” esclamò sollevata, rientrando in casa e levandosi le scarpe, trovandolo seduto sul divano, ancora in tuta.

 

Non che non fosse sempre felice di rivederlo, ma quella sera in particolare le sembrava di essere arrivata in un’oasi di pace dopo un deserto di disagio e tensione.

 

“Ciao,” le rispose, rimanendo sul divano e sembrando un po’ giù di corda dal tono e dall’espressione.

 

Ed anche dal fatto che non si fosse già alzato in piedi per accoglierla come faceva di solito. Minimo con un bacio o un abbraccio. A volte, a quest’ora, si sarebbe già ritrovata attaccata alla parete.

 

“Calogiù, che ti succede?” gli chiese, turbata, avvicinandosi e sedendosi accanto a lui.

 

“Niente, non ti preoccupare.”

 

“Ma è perché volevi che rientrassi prima? Non dirmi che sei geloso di Pietro? Perché se è per quello non c’è niente di cui preoccuparsi, davvero, io-”

 

“No, Imma, non è per quello… non sono più geloso di te e… insomma del tuo ex marito, veramente. E poi lo so che dovevate parlare con Valentina e spero sia andata bene,” replicò lui ed il tono le sembrava sincero, ma l’aria mogia rimaneva.

 

“E allora che ti succede?” ripeté, allungando una mano per prendergli il mento e costringerlo a guardarla negli occhi.


Quando faceva quello sguardo da cucciolo lei si scioglieva e le veniva solo una voglia matta di consolarlo e di levarglielo in qualche modo.

 

Si avvicinò di più a lui e fece scivolare le braccia dietro la sua schiena, iniziando a massaggiargli le spalle e a sussurrargli, “che posso fare per farti rilassare e tirarti un po’ su, maresciallo?”

 

Ma Calogiuri si irrigidì ancora di più.

 

Non era mai successo da quando stavano insieme.

 

“Calogiù, mi vuoi dire che ti succede? Perché, se non me lo dici, ti faccio un interrogatorio che ti giuro che pure i Romaniello se lo sognano.”

 

Ma Calogiuri non sorrise alla battuta, niente, rimase così, mogio mogio.

 

“Se… se non avessi… insomma… se non avessi avuto l’aspetto che ho, ti saresti innamorata di me?” le chiese, all’improvviso, ed Imma ricascò indietro sul suo lato del divano.


E da dove gli usciva questo dubbio cretino mo?

 

“Mentre mi stavo cambiando Pietro ti ha detto qualcosa? O ha fatto qualcosa?”

 

Calogiuri non rispose ma vide chiaramente che ci aveva preso: lo conosceva troppo bene ormai.

 

“Senti, Calogiuri, non so cosa ti abbia detto Pietro e mi dispiace per… per tutta la sceneggiata di stamattina ma… ma se mi fai una domanda del genere mi incazzo io mo, perché vuol dire che di me e del nostro rapporto non hai capito niente!”

 

“Imma…” provò a intervenire Calogiuri, incrociando finalmente di nuovo i suoi occhi, ma ormai Imma era un fiume in piena.

 

“Senti, c’eravamo tu ed io quando ci siamo conosciuti e quando questa storia è iniziata e lo sai com’è iniziata e… e quanto ci tenessi a te e ti volessi bene pure prima, al di là dell’aspetto fisico, che per carità era ed è un bel vedere, che non sono mica cieca, ma…. Ma se fosse stato solo per quello non avrei buttato all’aria tutta la mia vita, che mica sono scema! Se mi sono innamorata di te è per questo e questo,” proclamò, mettendogli una mano sulla testa e una sul cuore, “anche se mi sa che mo non stanno funzionando più, se ti vengono certi dubbi.”

 

“Imma…”

 

“Anzi, a me la tua bellezza ha sempre fatto pure… pure un po’ paura, a parte la tua età, lo vuoi capire sì o no? E quello che mi è sempre piaciuto di te era anche come fossi inconsapevole di quanto… di quanto sei bello e non te ne fregasse niente e-”

 

“E a me che vedevi altro in me e… e che non vedevi solo quello. Lo so. Anche se… se quando mi facevi capire indirettamente che mi trovavi bello ovviamente mi faceva molto piacere,” la interruppe, prendendole le mani tra le sue, “lo so che… che è un dubbio stupido, è solo che-”

 

“Che Pietro ti ha fatto qualche battuta in proposito e tu ci sei rimasto a rimuginare qui tutto il giorno,” lo interruppe di rimando e Calogiuri annuì, “ma non gli devi dare retta, lui parla da uomo ferito e… e per quello ti vuole ferire a sua volta, e mi dispiace, perché non ti avrei voluto mettere in questa situazione. Ma Pietro non capisce cosa c’è tra me e te, non lo può capire, perché… perché non mi ha mai capita quanto mi capisci tu, pure quando di me non sapevi quasi niente mentre lui sapeva quasi tutto.”

 

Quegli occhi azzurri si fecero enormi ed acquosi. Si trovò stretta in un abbraccio fortissimo e ci si lasciò andare.

 

Si chiese se pure lui stesse ripensando ai loro primi incontri, a quei momenti in ufficio ed in auto passati a studiarsi, di soppiatto, lui così silenzioso, rispettoso e lei intrigata dal mistero di come un ragazzo tanto bello potesse essere anche tanto insicuro e tanto timido. Ma, nonostante ciò, era incredibilmente solerte e a volte non serviva nemmeno darglieli gli ordini, fin dall’inizio. Bastava un “Calogiuri” ed un’occhiata e lui capiva, per qualche motivo, ed eseguiva: sembrava sempre così attento a lei, ad ogni sua espressione e cambio di intonazione, anche se poi in apparenza teneva di solito gli occhi piantati al suolo o fissi sulla strada. E da lì aveva capito che non era stupido, l’appuntato, anzi, nonostante l’aria da Calimero. E ricordava ancora esattamente la prima volta che aveva voluto metterlo alla prova.

 

Stavano tornando da una scena del crimine, una ragazza che era caduta dal balcone di casa sua. Si sospettava il suicidio ma Imma aveva seri dubbi, per alcuni motivi. Calogiuri, alla vista del cadavere, era diventato di un colorito verdognolo, come gli succedeva spesso i primi tempi, prima di farci l’abitudine, ma aveva resistito senza lamentarsi e questo gli aveva dato altri punti in suo favore, anche se aveva temuto gli svenisse lì sotto il sole pur di non dare a vedere che stava male.

 

Erano in auto, seduti l’uno accanto all’altra, come le era venuto spontaneo fare dal terzo viaggio insieme, forse per studiarlo meglio, lui e il suo silenzio, forse perché guidava con prudenza, forse per stargli inconsciamente più vicino, chissà. E, quando Calogiuri fu di nuovo di un colorito normale, gli chiese che ne pensava e se pure secondo lui, come per Taccardi, poteva trattarsi di suicidio.

 

Ricordava ancora la tinta color pomodoro di cui divennero le guance di Calogiuri, prima che lui balbettasse un, “ma lo chiedete a me?”

 

“Calogiuri, altri in questa macchina non ci stanno. O pensi che parlo da sola?” gli aveva domandato di rimando e Calogiuri si era imbarazzato ancora di più.

 

Ci fu un attimo di silenzio interminabile, in cui si chiese se Calogiuri stesse nuovamente per svenire, ma alla fine esordì con uno dei suoi, “non so… magari è un’idea stupida, ma…” che avrebbe sentito ancora per molto tempo da lì agli anni a venire e poi buttò fuori, tutto d’un fiato, “ma perché vestirsi così elegante, coi tacchi a spillo, per poi suicidarsi in un modo che… insomma… ti riduce in quello stato? Se ci teneva ad essere ritrovata… insomma… bene… poteva suicidarsi in un modo diverso, no? E se invece non le importava, perché vestirsi così? Di giorno, oltretutto, in casa.”

 

E, mentre Calogiuri attendeva il responso con aria terrorizzata e gli occhi piantati sulla strada, manco fossero al grand prix, Imma ricordò ancora come si fosse accasciata quasi sul sedile, incredula di fronte ad un simile miracolo. L’appuntato ragionava - cioè, che ragionasse normalmente e non fosse un decerebrato l’aveva già capito - ma ragionava sul serio, come un detective. E quella è una cosa che si può allenare, ma di base il talento o ce l’hai o non ce l’hai. E forse il silenzioso appuntato, nel suo parlare poco ed osservare tanto aveva imparato a vedere, a vedere veramente, non solo a guardare a pecorone come fa la maggior parte dell’umanità. Ed era empatico e sapeva immedesimarsi in come avrebbe ragionato una vittima. Pure in come avrebbe ragionato lei, visto come era solerte a capire i suoi ordini non verbali.


Fu lì che pronunciò il primo “bravo, Calogiuri, bravo!” di una lunghissima serie e ricordava ancora come lui divenne ancora più paonazzo, che veramente aveva temuto facesse un incidente, e poi balbettò un incredulo “gra- grazie” che le provocò, per la prima volta, un impulso istintivo di abbracciarselo. Lo aveva frenato, ovviamente, e si era detta che fosse solo perché la sua timidezza le faceva tenerezza.

 

Ma ora non doveva contenersi più e se lo strinse ancora più forte e gli piantò un bacio nel collo, sentendosi avvolgere ancora di più di rimando.

 

“Allora, che vuoi fare stasera?” gli chiese infine, staccandosi leggermente, per accarezzargli una guancia.

 

“Non lo so… a me basta stare con te.”

 

Come faceva a non squagliarsi di fronte ad una dichiarazione così e a quello sguardo?

 

E decise che Calogiuri si meritava una dimostrazione di quanto ci tenesse a lui, al di là dell’aspetto fisico, e di quanto si fidasse di lui, al costo di rischiare di passare una serata noiosissima, dopo la giornata tremenda che già aveva trascorso.

 

“Se sta ancora in cartellone… che ne diresti di andare a teatro a vedere il famoso spettacolo delle donne che ballano? Sempre se ci sono ancora i biglietti.”

 

Calogiuri sorrise, incredulo, come se gli avesse appena fatto un regalo bellissimo, “sì, c’è ancora e… e per i biglietti posso telefonare. Ma sei sicura che lo vuoi fare veramente? Non ti devi sentire in obbligo, specie se sei stanca.”

 

“Calogiù, ma che, di nuovo, non mi conosci? Se una cosa non la voglio fare non la faccio e lo sai.”

 

“Imma…” le sussurrò, mentre si sentì stringere in un altro abbraccio.

 

E seppe di aver fatto la scelta giusta, pur mentre pregava di non addormentarsi a metà spettacolo.

 

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“Attenta!”

 

Si sentì afferrare per la vita prima di inciampare su un sanpietrino. Mannaggia a Calogiuri e al suo spettacolo! Aveva la vista ancora completamente appannata dalle lacrime, gli occhi che le bruciavano e si sentiva un nodo in gola e al petto quasi lancinante.

 

Non pensava qualcosa potesse farle un effetto del genere - a parte sua figlia e Calogiuri - e mo si trovava a piangere come una scema per uno spettacolo teatrale.

 

Sentì qualcosa nelle mani e realizzò che Calogiuri le aveva appena passato un altro fazzoletto di carta. Ci si asciugò meglio gli occhi, pensando che col trucco doveva essere un disastro. E dire che si era messa pure il tubino elegante e mo doveva sembrare una truccata per Halloween.

 

“Sono un disastro, non è vero?”

 

“Sei bellissima…” rispose lui con un sorriso intenerito che avrebbe sciolto pure il polo sud, e si sentì accarezzare le guance ed asciugare lacrime e trucco colato.

 

Pure lui era commosso e con gli occhi rossi, lo vedeva, ma almeno gli uomini non avevano il problema di sembrare dei panda, beati loro!

 

“Direi che lo spettacolo ti è piaciuto, dottoressa?”

 

“Mannaggia a te, mannaggia!” rispose lei, dandogli un colpetto sul braccio ma poi lasciandosi abbracciare forte, incurante degli altri spettatori che uscivano da teatro.

 

Ma dopo un poco, sentì un ruggito. E stavolta non era la gelosia.

 

“Calogiù, c’hai fame presumo? Vero che non abbiamo cenato!” proclamò con una risata, pur tra le lacrime.

 

“E va beh… un poco sì.”

 

“Un poco… a giudicare dal ruggito direi un poco tanto! Allora, che c’è nelle vicinanze? Dove sei andato con la cara Irene?”

 

“Siamo andati in un ristorante giapponese a mangiare il sushi. Era molto buono, se ti va-”

 

“No, per carità! Che col pesce crudo c’ho ricordi traumatici e ridotta come sono poi... quello sarà un ristorante elegante, e chissà il conto se ci dobbiamo sfamare. Non hai qualcosa di più tranquillo e semplice?”

 

“Conosco solo un locale che fa supplì e fritti alla romana, tipo i carciofi alla giudia d’asporto ma-”

 

“Ma va benissimo, Calogiuri, almeno possiamo mangiare all’aperto e non vedono in che condizioni sto.”

 

“Ti ho già detto che sei bellissima, ma come preferisci,” concesse lui con quello sguardo affettuosamente esasperato e così raggiunsero il locale e, prima che potesse bloccarlo, lui era già entrato a comprare supplì e fritti.


Tanto ormai sapeva i suoi gusti il maresciallo.

 

“Calogiuri, poi mi devi dire quanto hai speso!” intimò, quando fu di ritorno.

 

“Per i fritti e due supplì? E dai, dottoressa, che fa?” ribatte lui per poi bloccare le sue proteste con, “qui vicino c’è il Tevere. Che ne dici se andiamo lì a mangiarci il tutto?”

 

“Va bene.”

 

E così, a braccetto, ognuno reggendo un sacchetto di carta e una bottiglia di birra, arrivarono fino al fiume, attraversando la folla di macchine che ancora c’era in giro, essendo sabato sera e, usando il parapetto di pietra come una tavola improvvisata, iniziarono a gustarsi le prelibatezze romane.

 

Nel silenzio interrotto solo dal traffico, Imma non potè che ripensare ancora allo spettacolo appena visto. A teatro c’era andata pochissime volte a vedere spettacoli più classici e si era sempre annoiata a morte. Ma questo… questo era stato come un pugno allo stomaco e non poteva evitare di ripensarci e di commuoversi un poco.

 

“Imma…” sentì sussurrare al suo fianco, un braccio che le cingeva la vita e si trovò in una specie di mezzo abbraccio, di lato.

 

“Non pensavo che… che una cosa finta, recitata, avrebbe potuto emozionarmi così. Mo capisco perché mi ci hai voluto portare e perché ti piace tanto il teatro.”

 

Il anche se ci vai con Irene era implicito, perché in quel momento non riusciva manco ad essere gelosa.

 

“Sono contento di averti fatta emozionare tanto ma-”

 

“Ma tu mi fai emozionare sempre, Calogiù, mica serve il teatro,” lo interruppe, mollando birra e sacchetto e voltandosi per guardarlo negli occhi, che gli brillavano, altrettanto lucidi.

 

“Spero di non farti sempre piangere, però.”

 

“Non ho mai riso tanto come da quando ti conosco, Calogiù, non sono mai stata così felice. E sì, ho pure pianto tanto, anzi abbiamo pianto tanto, no?” gli chiese, e lui annuì, sembrando sull’orlo del pianto pure in quel momento, “ma ciò che mi piace è che… che non ho paura di farlo davanti a te perché… perché tu non hai paura delle mie lacrime e mi sai ascoltare e lasciarmi sfogare, senza dovermi tirare su di morale a tutti i costi. Anche se poi alla fine ci riesci sempre.”

 

E si trovò stretta in un altro di quegli abbracci fortissimi, nei quali avrebbe voluto vivere per quanto la mettevano in pace col mondo, e le sussurrò all’orecchio, “anche per me è lo stesso. E tu… tu sei l’unica che non si è mai approfittata della mia timidezza e della mia sensibilità e non me ne hai mai fatto vergognare.”


“Sul non approfittarmi non lo so, Calogiuri… visto tutto il periodo che abbiamo passato in clandestinità.”

 

“Tutto o quasi tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo fatto in due, pure gli errori, ma se mo stiamo qui sono serviti, no? E ne è valsa la pena.”

 

“Sempre,” ribatté, non riuscendo a trattenere un sorriso, né l’impulso di baciarlo dolcemente, senza fretta, tanto avevano tutto il tempo del mondo.

 

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“Dottoressa!”

 

“Calogiuri, Mariani, ditemi, ci sono novità?”

 

“No, purtroppo no, dottoressa,” rispose Calogiuri, con quell’aria frustrata che la inteneriva sempre.

 

“Il pedinamento della signora Tantalo non ha dato alcun risultato finora e nelle intercettazioni non emergono chiamate ad altre persone coinvolte in questo caso o nel maxiprocesso in corrispondenza dei delitti, ma molti mesi orsono. A parte Davidson, che chiamava sempre ma nelle intercettazioni degli ultimi mesi… va beh… a parte esprimere ogni tanto preoccupazione per il processo e le indagini, parlare di quando si sarebbero visti e più che altro… insomma…”

 

“Diciamo che quando erano distanti… facevano pure altro oltre che parlare, ecco, anche nei messaggi…” si inserì Calogiuri per aiutarla, diventando fucsia quasi quanto la Mariani.

 

Hai capito la Tantalo!

 

Mo quasi ste intercettazioni se le voleva sentire pure lei e leggere sti messaggi. O forse meglio di no.

 

“Va bene. Senti, Calogiuri, mi puoi portare i tabulati? Che voglio darci un’ultima occhiata. Ci deve essere qualcosa, per forza.”


“Ma volete riguardarveli tutti da sola? Noi della PG ci abbiamo messo un sacco di tempo!”

 

“E va beh… in qualche modo farò, Calogiuri, non ti preoccupare.”

 

“Se volete… se volete vi posso dare una mano, in due facciamo prima e almeno vi dico cosa avevamo già notato con Mariani.”

 

“Va bene, Calogiuri.”

 

“Dottoressa, se non servo anche io dovrei andare in tribunale a testimoniare per un processo del dottor Santoro,” si inserì Mariani e quando pronunciava il nome di Santoro sembrava sempre ammirata.

 

Che ci trovasse in quel damerino non l’avrebbe capito mai. Era una ragazza tanto bella e dolce, si meritava di molto meglio.

 

“Va bene, Mariani, vai pure,” si congedò, lanciando un’occhiata a Calogiuri che le sorrise di rimando e si avviò verso la porta con un “torno subito con i tabulati, dottoressa!”

 

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“Che ore abbiamo fatto, Calogiuri?”

 

“Sono quasi le venti, dottoressa, mi sa che in procura non c’è in giro più nessuno.”

 

“Ti va di proseguire o hai qualche impegno per la serata?”

 

“Non lo so, dottoressa, dovrei sentire la mia compagna se vuole che torni per cena o meno,” ribatté con quello sguardo da impunito che la faceva impazzire.

 

“Alla tua compagna va bene continuare a lavorare e cenare più tardi, se non crolli di stanchezza, Calogiuri. Anzi, ci possiamo far portare magari una pizza o qualc-”

 

Si bloccò improvvisamente perché un flash di qualcosa le era passato davanti agli occhi.

 

“Che c’è?” chiese lui, preoccupato.

 

“Calogiuri, torniamo alle intercettazioni prima della festa dove Alina è stata aggredita la prima volta, a fine dicembre.”

 

Calogiuri sfogliò i tabulati e fece come chiesto. Ed Imma puntò il dito su un numero che aveva scorso di sfuggita ma che evidentemente era rimasto registrato nel suo cervello. La Tantalo aveva fatto una telefonata brevissima, proprio la sera prima dell’aggressione.

 

“Una pizzeria? E allora? Non dirmi che vuoi ordinare lì, ce ne sta una qui vicino che-”

 

“Ma no, Calogiuri! Mo torna ai giorni prima dell’omicidio di Alina.”

 

E Calogiuri scorse i fogli e spalancò gli occhi, guardandola in quel modo ammirato, manco avesse di fronte un genio, che la inorgogliva sempre tantissimo.

 

Le porse il foglio indicandole lo stesso numero e nome della pizzeria, proprio la sera prima dell’omicidio.

 

“Calogiù, la Tantalo stava già sotto intercettazione. Voglio sentire quelle registrazioni e subito, mo!”

 

“Le vado a recuperare, ci vorrà un attimo però, devo trovare il punto giusto.”

 

“Allora non c’è problema: in quello sei un esperto, maresciallo!”

 

Calogiuri prese a tossire e diventò bordeaux e lei non potè trattenersi dal ridere mentre lui con un “Imma!” di avvertimento, scosse il capo esasperato e sparì oltre alla porta.

 

Era bello sapere di riuscire ancora a prenderlo in contropiede.

 

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“Calogiuri, allora?”

 

“Ecco qua, ho salvato entrambe le telefonate. Ascolta.”

 

Le mise il portatile sulla scrivania, le si piazzò accanto e fece partire un file audio.

 

Riconobbe chiaramente la Tantalo che ordinava “una pizza della casa all’indirizzo che conoscete.”

 

Certo poteva sembrare una fedele cliente, ma…

 

Il secondo clip audio era esattamente lo stesso, parola per parola, “una pizza della casa all’indirizzo che conoscete.”

 

Probabilmente chi aveva ascoltato le intercettazioni dopo giorni di registrato si era scordato ed aveva pensato realmente ad un ordine di pizzeria.

 

Poteva essere una coincidenza e la Tantalo una fedele cliente abitudinaria, ma….

 

“Calogiuri, dobbiamo verificare se prima di queste date ci sono state altre chiamate a quella pizzeria.”

 

“Ho già verificato. C’è una telefonata, ma pochi giorni dopo il tentato omicidio di Lombardi, quando non era ancora intercettata perché Santoro non ha disposto subito le intercettazioni, ti ricordi.”

 

“Sì. E quanto è durata?”

 

“Di più, due minuti circa. Non possiamo sapere cosa si fossero detti anche se, con l’omicidio del marito appena avvenuto, dubito potesse sbilanciarsi molto.”

 

“Magari, con la scusa della pizza a domicilio, qualcuno andava da lei di persona e lei dava per iscritto le istruzioni su dove andare a colpire.”

 

“Può essere, purtroppo l’appartamento della signora Tantalo è in un condominio prestigioso ma ci sono tanti appartamenti. Difficile notare un ragazzo delle consegne che va o che viene, sai quanti ce ne sono in una sera.”

 

“Eh, sì, Calogiuri, ma questa pizzeria è sospetta. Dove si trova, da quanto è aperta? Dobbiamo verificarlo.”

 

“Ho già verificato anche questo,” ribatté lui con un sorriso soddisfatto.


“Ma che mi vuoi rubare il mestiere, Calogiù?”

 

“Veramente sei tu che lo rubi a me, visto che le indagini sarebbero compito mio, dottoressa,” rispose lui, facendole l’occhiolino e mostrandole una visura camerale.

 

“Aperta cinque anni fa. Un proprietario ottuagenario. Bilancio più o meno in pareggio ogni anno quindi non chiude ma-”

 

“Ma non paga manco le tasse. Non mi pare un’attività molto redditizia. Affitto o stabile di proprietà?”

 

“Affitto. Ma il proprietario dello stabile è-”

 

“Un altro ultraottantenne?”

 

“Esatto, che a quanto verificato risiede in una casa di riposo. Come del resto il proprietario della pizzeria.”

 

“La stessa?”

 

“No, una sta ai Castelli, l’altra in zona Cecchignola.”

 

“Va bene, Calogiuri. La pizzeria invece dove sta?”

 

“Nella zona tra Campo de’ Fiori e il Tevere, per capirci, più o meno. Ho verificato su internet e ha diverse recensioni sui siti insomma… quelli dove i clienti possono recensire i ristoranti. Non è che se ne parli molto bene, ma neanche molto male, è un posto per turisti, credo. Però sembra avere un’attività.”

 

Imma si ripassò mentalmente la geografia della città, doveva ancora imparare bene tutti i quartieri e le zone, ma ci stava lavorando.

 

“Direi che è il caso di andare a dare un’occhiata a questa pizzeria, Calogiuri.”

 

“Non dirmi che ci vuoi andare a cena,” rispose lui con un sorrisetto.

 

“Guarda, normalmente ci andrei di corsa ma… ma se è gestita da chi penso sia gestita temo che il mio volto sia più che noto Calogiuri, e forse pure il tuo. Dobbiamo mandare qualcuno che non ha mai lavorato né al maxiprocesso né al caso della Tantalo.”

 

“E allora temo che rimangano solo Rosati, Carminati, Rizzuto e Palermo. E su Rosati e Carminati non sono sicuro al cento per cento che non ci abbiano lavorato.”

 

“Ma non ce li manderei io… specie quel cretino di Carminati! Rizzuto e Palermo potrebbero sembrare una coppia invece, oltretutto. Sperando che se la sentano, visto che sono appena tornati da malattia e infortunio. Domani ne parlo a loro e a Mancini, che è venerdì e magari se ci vanno di sabato c’è tanta gente e danno meno nell’occhio. E poi, se serve, possono tornare in settimana.”

 

“Va bene. Dovranno fotografare quindi tutto, immagino. Speriamo che riescano a non farsi scoprire.”

 

“Speriamo, anche perché altri morti sulla coscienza non li voglio, Calogiuri, e se c’è dietro chi penso ci sia dietro, quella è gente che non scherza.”

 

“Mo però che ne diresti di andarcene a casa, visto che non credo ci sia altro da scoprire? E il tuo compagno immagino avrà fame e magari avrà ancora voglia di ordinare quella pizza a domicilio, in modo che arrivi in tempo per il rientro a casa.”


“Direi che è un’ottima idea e che il mio compagno non è l’unico ad avere fame, maresciallo!” ribatté, ironica, piantandogli un bacio sulle labbra.

 

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“E questa è la situazione, dottore, quindi le chiedo l’autorizzazione per la missione per domani, così da parlarne a Rizzuto e Palermo.”

 

“Ma certo, dottoressa! Ammetto che sono veramente impressionato dalla sua intuizione nel ricollegare quelle due telefonate, oltre che dalla sua memoria eccezionale. Pensare a quante persone avevano visto quei tabulati… e non si sono accorte di niente!”

 

“Forse proprio perché erano in tanti, dottore. Io ho analizzato tutto da sola, o meglio, con l’aiuto del maresciallo Calogiuri, che come sempre mi ha dato una grande mano, che sulle cose tecniche e tecnologiche io sono un disastro.”

 

“Lei ed il maresciallo siete proprio una bella squadra, devo ammetterlo. Persino meglio di lui con la Ferrari, anche se non pensavo fosse possibile, visto quanto sono affiatati. Ma, del resto, lei ha un quid in più, dottoressa, che è raro da trovare in questo lavoro e ci sta che tiri fuori il meglio delle persone.”

 

Imma si sentì un poco in imbarazzo, non abituata a ricevere tanti complimenti, anzi. Di solito i procuratori capo con cui aveva avuto a che fare passavano il tempo a bacchettarla e a cercare di contenere lei ed il suo brutto carattere.

 

Sul sentire quanto Calogiuri fosse affiatato con la Ferrari invece era decisamente meno felice.

 

“La ringrazio, dottore. Ma facciamo entrambi soltanto il nostro lavoro e ci piace farlo bene.”

 

“E pure a me, dottoressa, pure a me. A proposito, per domani anche noi avremmo una missione. Mi conferma che riusciamo a lavorare sulle presentazioni, vero?”

 

“Certo, dottore, mi sono tenuta libera, non si preoccupi. A che ora vuole che venga in procura?”

 

“In realtà…” esordì Mancini sembrando a sua volta un poco in imbarazzo, “in realtà preferirei evitassimo la procura.”

 

“E perché? Non mi pare che ci siano elementi così scottanti o novità così rilevanti.”

 

“No, dottoressa, ma vede… quando io sono in procura ho interruzioni continue. Tutti quelli di turno mi cercano per qualcosa o quasi. Preferirei evitarmelo ed evitarcelo o rischiamo di non concludere niente.”

 

“E quindi dove ci dovremmo trovare?”

 

“Le andrebbe di venire a casa mia?” le chiese e si affrettò ad aggiungere, alla sua espressione che doveva essere scioccata, “le avrei proposto un bar ma… sono comunque dati sensibili e non mi pare il caso parlarne in pubblico. E a casa sua non mi permetterei di autoinvitarmi. Casa mia è grande ed ho una stanza dedicata interamente a studio, quindi sarà come essere in ufficio. Comprendo che la cosa possa metterla a disagio, ma…”

 

Imma ci rifletté un attimo su. Calogiuri non ne sarebbe stato felice, era ovvio. Ma Mancini era un professionista e poi… mica era così scemo da giocarsi la carriera con una denuncia per molestie!

 

“Va bene, dottore, come preferisce. A che ora?”

 

“Facciamo alle nove del mattino?”

 

“D’accordo. A domani allora. Però mi deve mandare il suo indirizzo perché non lo so.”

 

“Si figuri, dottoressa, la passo a prendere io e la riporto a casa, ci mancherebbe, con tutto il disturbo che le darò. Comunque le invierò anche l’indirizzo stasera, così che, in caso ci siano problemi, sappia come raggiungermi.”

 

Imma annuì e, con un po’ di apprensione, uscì dall’ufficio.

 

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“Eh?!”

 

A Calogiuri era caduta la forchetta nel piatto e la guardava con tanto d’occhi, come se sperasse di aver capito male.

 

“Domani Mancini mi ha proposto di lavorare a casa sua, Calogiuri. Mi ha detto che ha uno studio, che la casa è grande, insomma… che staremo in un ufficio. Dice che in procura lo interrompono di continuo e lo sai pure tu che è vero.”

 

“Va bene, ma… proprio a casa sua dovete andare per non essere interrotti?”

 

“Preferiresti che lo portassi qui? Lo sai che non possiamo parlarne in pubblico, Calogiuri, non col maxiprocesso ancora in corso oltretutto.”

 

“No, ma… ma non mi piace, Imma. Ti continuo a dire che ci sta provando e ne sono sempre più convinto.”

 

“Ed in caso posso sempre andarmene, Calogiuri. Ma tu pensi davvero che Mancini voglia una denuncia per molestie sul lavoro? Non è mica Carminati, che probabilmente mi salterebbe addosso.”

 

“E ci manca solo quello! Ma… ma temo che magari lui pensi che tu… che tu gradisca il suo corteggiamento e che… che poi ti trovi in una situazione imbarazzante, Imma.”

 

“Calogiuri, senti, io sono sempre stata educata ma ti garantisco che non gli ho mai dato modo di pensare ad un interesse nei suoi confronti. Pure con te, che ero interessata, lo sai quanto mi sono trattenuta, no, all’inizio? Non ho quindici anni e so come comportarmi.”

 

“Imma, lo so, ma… è che non mi piace che quello ci provi così con te e non sappia che sei impegnata. Non che credo se ne farebbe un problema, pure se lo sapesse.”

 

“Perché, la tua Irene che sa che sei impegnato e che ti continua ad invitare ad uscite a due invece i problemi se li fa?”

 

“Ma non mi ha mai invitato a casa sua! So dove abita giusto perché ce l’ho accompagnata! Non mi ha mai fatto regali e riempito di attenzioni come fa ultimamente Mancini con te.”

 

“Un mazzo di fiori mo me li definisci regali e riempirmi di attenzioni? Calogiuri, eddai, su! E poi ti fidi di me o no?”

 

“Certo che mi fido, ma-”

 

“E allora che problema c’è? C’ho una bocca e so dire di no, benissimo. E pure dei piedi e delle ginocchia, se è solo per quello.”

 

E Calogiuri scoppiò a ridere, scuotendo il capo, esasperato.

 

“Va bene, dottoressa. Ma se hai qualunque problema, qualunque cosa, mi prometti che mi chiami e che ti vengo a prendere? Non me ne frega niente se il procuratore capo può pensare male.”

 

“Esistono anche i taxi, Calogiuri, ma ti prometto che se servirà ti chiamerò subito. Anche se potrebbe servire più l’ambulanza per lui, in caso superi una certa linea. Ma non lo farà, non è un maniaco assatanato.”

 

Calogiuri sospirò ed annuì, poi finì l’ultima forchettata di pasta e le si avvicinò, prendendole le spalle e iniziando a massaggiargliele dolcemente.

 

“Che c’hai in mente, Calogiù?” gli chiese con una risatina, perché il fiato sul collo le faceva il solletico.

 

“Di farti un bel massaggio, che di solito li fai sempre tu a me. E poi… di fare il maniaco assatanato, perché io posso farlo, vero?”

 

Con me, Calogiuri. Solo con me. O altro che ambulanza!” lo avvertì, voltandosi verso di lui con un’occhiataccia e vedendolo sorridere.

 

“Naturalmente, dottoressa!”

 

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Era appoggiata sul suo petto, godendosi i battiti regolari del cuore di Calogiuri e cominciando a sentire il sonno calare su di lei, quando le mani che le cingevano la vita iniziarono a vagare verso luoghi decisamente più pericolosi.

 

“Calogiù… va bene che volevi fare il maniaco assatanato, ma non ti pare di esagerare, mo?” gli chiese, con una risata, perché era già l’una di notte, tra una replica e l’altra, “cos’è? Vuoi sfinirmi così non ho più energie per Mancini domani?”

 

Ed ecco rispuntare quello sguardo da impunito e quel sorrisetto che le facevano battere più forte il cuore e le provocavano una voglia matta di baciarlo. E poi le sussurrò, a pochi centimetri dalle labbra, “ci puoi giurare, dottoressa.”

 

“Se la presentazione per il congresso verrà un disastro mi avrai sulla coscienza, maresciallo!”

 

“Va bene, va bene, ho capito, ti lascio riposare,” concesse lui con uno sguardo arrendevole, piantandole un bacetto sulle labbra e facendo per ritrarsi.

 

“Non ci provare nemmeno, Calogiù!” esclamò, rotolando con lui fino a finirgli spalmata addosso e zittendo la sua risata sorpresa con un bacio vero.

 

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“Tra quanto arriva Mancini?”

 

“Dieci minuti, Calogiù, puoi lavarle tu le tazze stamattina?”

 

“Sì, tranquilla,” la rassicurò, addentando un altro morso del bombolone.

 

In quel momento gli arrivò un messaggio sul cellulare.

 

“Irene, mi chiede se stasera voglio andare a vedere uno spettacolo con lei. Ha avuto due biglietti all’ultimo,” le disse sembrando in apprensione.

 

Imma ci ragionò su: da un lato non gli piaceva che la Ferrari lo invitasse la mattina per la sera e proprio quando lei sarebbe stata a lavorare con Mancini. Una parte di lei dubitò che la cara Irene lo sapesse benissimo. Ma, d’altro canto, non poteva fare storie a Calogiuri quando lei stava per passare tutta la giornata a casa del procuratore capo.

 

“Ti ho già detto che non mi devi chiedere il permesso, no? E poi almeno non stai da solo tutto il giorno ed io non so a che ora finisco.”

 

“Appunto!” la fulminò con un’occhiata sarcastica e ad Imma venne da ridere.

 

“Calogiù, con le evoluzioni di stanotte cercherò di rientrare il prima possibile, che se no mi addormento sul computer, mi sa. Quindi credo proprio che tornerò io prima di te. Ma non ti garantisco di avere ancora energie, soprattutto se rientrerai troppo tardi.”

 

“E va beh… vorrà dire che proverò a rientrare prestissimo o che ci rifaremo un’altra volta, magari cercherò di fare un po’ meno il maniaco assatanato.”

 

“Non mi sto lamentando, Calogiuri, anzi,” ribatté, facendogli l’occhiolino e proprio in quel momento suonò il campanello.

 

Mancini.

 

In lieve anticipo, solerte come sempre.

 

Finì l’ultima sorsata di caffelatte, si alzò, diede un bacio al sapore di crema e caffè a Calogiuri, prese la borsa e con un, “fai il bravo, maresciallo!”, seguito da un “anche tu, dottoressa!”, uscì di casa.

 

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“Buongiorno dottoressa!”

 

Mancini era in piedi accanto alla macchina e le aprì la portiera.

 

Imma, come sempre, era un po’ in imbarazzo per tanta premura da parte di un superiore. Ma Mancini era un gentiluomo e quindi queste attenzioni in fondo erano normali per lui.

 

“Buongiorno, dottore, puntualissimo vedo,” rispose, infilandosi al posto del passeggero.

 

“Come lei, dottoressa, come lei,” replicò, chiudendo la portiera.

 

Si misero in viaggio in silenzio ed Imma riconobbe a grandi linee la strada che conduceva verso la zona di Villa Borghese, passarono pure di fronte alla famosa panetteria.

 

Alla fine arrivarono in una zona piena di Grand Hotel, ambasciate ed edifici tirati a lucido, che doveva essere costosissima.

 

Mancini arrivò sotto ad uno stabile bellissimo e lo accolse un uomo in divisa da portiere che gli prese le chiavi - ed una mancia - e sparì dopo un ossequiosissimo, “vi parcheggio l’auto, dottore, bentornato.”

 

Si chiese se Mancini avesse un posto auto riservato o un garage, in ogni caso era evidente che risiedeva in un immobile riservato a gente piena di soldi.

 

Entrarono e salirono in ascensore, Imma che si sentiva un poco fuori posto, di fronte a tutta quell’opulenza.

 

Arrivarono all’ultimo piano - pure l’attico c’aveva il procuratore capo! - e Mancini aprì una delle due porte, facendola passare prima di lui.

 

L’appartamento era enorme per gli standard di Roma, a giudicare già dal salone ed Imma rimase ad occhi spalancati quando intravide il terrazzo, grandissimo pure quello, che aveva una vista bellissima sul parco del Pincio.

 

Mancini doveva essere ricco di famiglia, perché nemmeno il suo ruolo da procuratore capo giustificava un tenore di vita del genere.

 

“Dottoressa, venga, lo studio è da questa parte,” le fece strada, aprendo una delle porte che davano sul salone ed Imma ci trovò un ufficio che quasi rivaleggiava con quello che Mancini aveva in procura.


Lui le scostò una delle due sedie che aveva predisposto davanti al pc portatile ed allo schermo gigante e si sedette accanto a lei.

 

“A lei l’onore, dottoressa. Vorrei che prima ci occupassimo della sua presentazione, che sarà sicuramente molto più pratica e più corposa, essendo stata lei in prima linea. Io poi adatterò la mia, in modo da non creare ripetizioni ma di complementare la sua.”

 

“Quindi intende dire che dovrò parlare di più io?” gli domandò, sorpresa, lanciandogli un’occhiata preoccupata.

 

“Dottoressa, non mi sembra che parlare per lei sia un problema, anzi,” ribatté, ironico, ed Imma dovette ammettere che era vero.

 

“Sì, ma odio gli eventi pubblici, dottore. Comunque mo vediamo. Certo, non ho qui con me tutti i dati ma...”

 

“Ma io sì. Ho l’accesso ai registri informatici da qui. Solo per consultazione, ovviamente. Ma i file del maxiprocesso trasmessi da Matera ci sono praticamente tutti. E anche quelli sulla parte romana.”

 

Aprì la schermata di un programma: attrezzatissimo il procuratore capo e pure avvezzo con l’informatica, a differenza di lei.

 

“Sì, dottore, però mi sa che mi dovrà aiutare lei a reperirle le informazioni, perché non so come funzioni.”

 

“Non si preoccupi, mi dica cosa vuole cercare e glielo trovo,” la rassicurò, sporgendosi verso di lei per mettere le mani sulla tastiera, che le stava di fronte.

 

Era vicinissimo, troppo, le loro braccia si toccavano in alcuni punti ed Imma ne era consapevole, ma lui non ne sembrava minimamente turbato, continuando a mantenere la concentrazione sullo schermo.

 

“Il… il caso di Don Mariano Licinio, dottore, partirei da lì.”

 

“Va bene, dottoressa,” replicò Mancini guardandola per un attimo di sbieco, a pochi centimetri dal suo viso, e poi tornando a fissare il monitor e a digitare sulla tastiera, come se niente fosse.

 

Le venne in mente il viso di Calogiuri e non sapeva bene il perché.

 

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“E con questo direi che abbiamo finito per quanto riguarda la parte su Saverio Romaniello e la sua cupola.”

 

“Dottoressa, è l’una passata. Che ne dice se ci fermiamo un attimo e ordiniamo il pranzo? Posso fare arrivare un’altra insalata dal bar, se vuole, o ci possiamo andare di persona per fare due passi, come preferisce.”

 

“Ma sì, dottore, sgranchirci un po’ le gambe non ci farà male, tanto sta qua vicino, se ricordo bene.”

 

“Ricorda bene, dottoressa, ricorda bene, ma del resto non mi aspettavo altro da lei,” ribatté Mancini con un sorriso, alzandosi in piedi ed aiutandola a scostare la sedia. Pareva uscito da un film di inizio Novecento.

 

Uscirono nell’aria ormai tiepida di inizio aprile.

 

Mentre camminavano, vide diverse persone che passeggiavano, di rientro dalla spesa, o che stavano fuori dai negozietti, che salutavano Mancini con grandi sorrisi e la guardavano un po’ stupiti.

 

Evidentemente Mancini doveva vivere lì da parecchio tempo ed il suo essere un lupo solitario doveva essere di dominio comune. Magari le sue fiamme non se le portava nemmeno a casa. Il che da un lato avrebbe dovuto rassicurarla sulle sue intenzioni, forse.

 

Arrivarono al bar ed il barista, nel riconoscerla, le fece un gran sorriso, “dottò, dottorè, ma nun me dite che lavorate pure de sabato!”

 

“Eh, ci tocca, Remo, ci tocca, abbiamo un convegno a breve. Per me il solito, per lei, dottoressa?”

 

“L’insalata va bene anche per me, dottore,” confermò, ansiosa di tornare a lavorare per finire il prima possibile e sperando di rifarsi delle poche calorie ingerite a cena.

 

“Allora, dottore, per treni ed albergo come facciamo?”

 

“Partiremo il venerdì sera verso le 18 e ripartiremo la domenica sempre verso le 18. In tre ore tanto saremo a Milano. Per il pernottamento ho prenotato due stanze in un hotel molto vicino a dove si terrà la conferenza, purtroppo l’hotel della conferenza era già esaurito. Però, d’altro canto, almeno sulle cene saremo più liberi e ci possiamo smarcare più facilmente dalla folla di colleghi, tranne quelli che saranno al nostro stesso hotel.”

 

“Ma non era lei quello che voleva fare pubbliche relazioni, dottore?” gli chiese, ironica, non che l’idea di non sorbirsi i colleghi tutta la sera la infastidisse, anzi.

 

“In orari limitati, dottoressa. Già ci toccherà farle per tutto il giorno per due giorni di fila.”

 

“Non vedo l’ora, guardi,” ironizzò Imma e Mancini non sembrò offeso ma anzi sorrise.

 

Arrivò l’insalata e per un poco rimasero in silenzio a mangiare, finché Mancini, dal nulla, le chiese, “tra due fine settimana sarà pasqua, dottoressa. Sa già come la passerà?”

 

“Sì, dottore, tornerò a Matera, così io ed il mio ex marito faremo il pranzo insieme a nostra figlia, che è più comodo per tutti al momento.”

 

“Ah, capisco,” rispose Mancini, con uno sguardo indefinibile, per poi sorprenderla con un’altra domanda decisamente personale, “mi scusi se mi permetto, dottoressa, ma… ma lei è ancora innamorata del suo ex marito? Visto come lo frequenta assiduamente…”

 

Imma rimase un attimo basita, ma le sovvenne che in effetti il fine settimana precedente aveva dato buca a Mancini dicendogli della visita di Pietro. E pensare che in realtà non si erano visti per mesi, altro che assiduamente! Ma mo come rispondere?

 

Se doveva uscire allo scoperto con Calogiuri prima che passassero secoli non poteva fare la ex moglie disperata, non sarebbe poi stato credibile.

 

“No, dottore, no, ma sto cercando di mantenere rapporti almeno civili per nostra figlia. Io e Pietro siamo stati insieme una vita ma… ma siamo cresciuti in modo diverso, siamo molto cambiati, soprattutto io, e… alle volte l’amore finisce,” chiarì, cercando di stare sul vago, ma Mancini annuì senza chiedere altro. Imma decise di farlo lei, per riempire il silenzio a quel punto un po’ imbarazzante, “e lei, dottore? Come la passerà la pasqua?”

 

“Da solo, come sempre. Non ho parenti qui vicino a me.”

 

“Ma non ha proprio nessun parente?”

 

“Ho un fratello che ha quattro anni meno di me. Ma vive a Parigi ormai da anni. Ed i nostri genitori sono morti poco dopo che mi sono laureato, in un incidente d’auto. Erano due diplomatici e viaggiavano molto. La casa dove vivo l’ho ereditata da loro e ne avevano una anche a Parigi, perché mia madre era francese quindi…”

 

“Quindi lei e suo fratello avete preso due strade diverse.”

 

“Sì, lui ha sempre preferito l’atmosfera di Parigi, io quella di Roma. Poi col mio lavoro ho girato mezza Italia, come può immaginare, dottoressa, ma da qualche anno finalmente sono riuscito a tornare qua. E lei, dottoressa? Fratelli, genitori?”

 

Per poco non si strozzò al pensiero dei Latronico, ma non potevano essere definiti né fratelli genitori, nonostante il sangue.

 

“Mio padre è morto che ero bambina. Mia madre l’anno scorso, ma soffriva di demenza da un po’ di anni e… dopo me non hanno avuto altri figli.”

 

“Allora siamo quasi sulla stessa barca, dottoressa. Ma lei almeno è fortunata ad avere sua figlia. Che cosa studia qua a Roma?” le chiese, continuando quel mezzo interrogatorio, ma ad Imma non scocciava rispondere, forse perché anche Mancini stava rivelando cose molto personali e non si limitava a domandare e basta.

 

“Assistente sociale.”

 

“Una professione nobile ma difficile, dottoressa, molto tosta. Ma se ha preso il carattere dalla mamma non avrà problemi.”


“Diciamo che Valentina è tosta ma c’ha un carattere un poco più buono del mio, che se no poveri assistiti!”

 

E Mancini fece una mezza risata, ma poi si fece più serio e, incrociando il suo sguardo proclamò, “dottoressa, il suo carattere non ha proprio niente che non va, anzi!”

 

Imma si sentì nuovamente a disagio, guardò verso il piatto, l’insalata che era ormai finita e disse, “dottore, che ne dice se mo andiamo e ci rimettiamo al lavoro? Che ancora abbiamo parecchi pezzi della parte di Matera, più la parte romana da finire ed inoltre c’è pure la sua di presentazione.”

 

“Va bene, dottoressa,” annuì con un sospiro, dopo un attimo di silenzio.

 

*********************************************************************************************************

 

“Che ne pensa, dottore?”

 

“Che la sua presentazione è perfetta, dottoressa. Credo sarà molto apprezzata al convegno e ovviamente questo darà un grande risalto non solo al suo operato ma anche alla nostra procura. Ottimo lavoro!”

 

“Grazie, ma mi ha aiutato moltissimo pure lei,” rispose, un poco imbarazzata da tanti complimenti, anche se le facevano ovviamente piacere. Ed era vero: Mancini era molto più abile di lei da un punto di vista informatico e le aveva pure dato degli ottimi spunti.

 

“Dottoressa, sono le venti ormai. Ci sarebbe ancora la mia presentazione da terminare, che sarà molto più breve, ma vorrei davvero il suo input. Se se la sente possiamo prendere qualcosa per cena e poi finire stasera. Se no ci troviamo anche domani, come preferisce.”

 

Imma ci ragionò un attimo su: stare a cena col procuratore capo e rimanere lì fino a tardi forse non avrebbe fatto molto piacere a Calogiuri, ma almeno avrebbero poi avuto un giorno tutto per loro, l’ultimo fin dopo pasqua.


“Per me va bene proseguire, dottore, mi faccia solo fare una telefonata a mia figlia prima che esca per cena, che poi chi la trova.”

 

“Ma certo, non c’è problema!” rispose con un sorriso ampissimo, “intanto posso ordinare. Le andrebbe del sushi?”

 

Ma tutti ossessionati da sto sushi erano mo?

 

“Dottore, vede, c’ho un po’ di brutte esperienze col pesce crudo. Non in prima persona, per fortuna, ed il sushi non l’ho mai mangiato, quindi non so se-”


“Ma guardi, questo posto lo conosco da anni, mangio da loro molto spesso e non ho mai avuto problemi. Almeno assaggia qualcosa di nuovo. Poi se proprio non le dovesse piacere, vorrà dire che ci cuciniamo due spaghetti.”

 

“Va bene, e vada per il sushi. Mo però andrei un attimo in bagno, se non le dispiace.”

 

“No, certo, la strada la conosce ormai.”

 

Ed Imma passò nel salone ed entrò nel corridoio che conduceva al bagno e, presumeva, alle camere da letto. Ci si infilò, chiuse la porta a chiave e compose il numero di Calogiuri.

 

Ma niente, non rispondeva, era irraggiungibile. Magari era già a teatro e aveva spento o era in un posto dove non prendeva. Decise di mandargli un messaggio.

 

Visto che abbiamo quasi terminato il lavoro, ceno con Mancini e cerchiamo di finire stasera. Quindi tornerò più tardi del previsto, ma poi domani sono libera, maresciallo. Un bacio e divertiti, ma occhio al tipo di divertimento!

Imma

 

Le spunte indicavano che il messaggio era stato inviato ma non ricevuto, ma lei non poteva rimanere ancora per molto in bagno. Con un sospiro, sperò che Calogiuri lo leggesse a breve.



 

Nota dell’autrice: E siamo giunti alla fine di questo capitolo. Oltre all’incursione di Pietro che ha messo la pulce nell’orecchio a Calogiuri e alle sue insicurezze, Mancini sta decisamente pigiando sull’acceleratore e nel prossimo capitolo capiremo forse del tutto sia le sue intenzioni sia… alcune cose del comportamento della Ferrari. Riusciranno Imma e Calogiuri ad affrontare queste presenze esterne e la loro gelosia senza che il loro rapporto ne risenta? Vi ringrazio come sempre tantissimo per avere seguito la mia storia fin qui, per tutti colore che l’hanno messa nei preferiti e nei seguiti e un grazie enorme a chi mi ha lasciato e mi lascerà una recensione che mi danno sempre una carica pazzesca e, in positivo o in negativo, mi aiutano a capire se la storia si mantiene interessante o diventa noiosa. Siamo all’inizio di un po’ di montagne russe e un bel po’ di scossoni, nei prossimi capitoli ci saranno parecchie rivelazioni che incideranno moltissimo sugli equilibri di Imma e di Calogiuri e sul loro futuro. Grazie ancora e il prossimo capitolo arriverà come sempre puntuale il dieci di maggio!

 

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Capitolo 29
*** Il Limite ***


Nessun Alibi


Capitolo 29 - Il Limite


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Allora? Che ne pensa del sushi, dottoressa?”

 

“Guardi, dottore, a parte il fatto che con queste bacchette non capisco bene che ci dovrei fare, devo dire che quel poco che sono riuscita a mangiare non è poi così male.”

 

Temeva il sapore del pesce crudo, ma la salsa di soia e quella specie di mostarda verde erano ottime.

 

“Aspetti! Le bacchette deve tenerle così,” le spiegò, mostrandole come le stava impugnando lui, ma lei rimase confusa quasi quanto prima.

 

E allora Mancini si alzò in piedi e si mise accanto a lei e le prese la mano destra, come se fosse la cosa più normale del mondo, posizionando le bacchette nel modo corretto e mostrandole come muoverle.

 

Imma si sentì avvampare, mentre Mancini le dirigeva la mano verso uno dei rotolini più piccoli e la guidava nell’afferrarlo.

 

“Tutto chiaro?” le chiese poi, lasciandole la mano ed il rotolino ricadde sul piatto.

 

“Più o meno…” replicò Imma, che per l’imbarazzo era stata attenta fino ad un certo punto, ma si affrettò con un, “aspetti che mo ci riprovo!”, prima che lui le riafferrasse la mano.

 

E, in effetti, tenendo le bacchette come gliele aveva piazzate in mano lui, e con un po’ di concentrazione, riuscì a riafferrare il rotolino al salmone, metterlo nella salsa e poi in bocca.

 

“Lei impara in fretta, dottoressa,” proclamò, rimettendosi a sedere con un tono che sembrava quasi… dispiaciuto?

 

Ma Imma si limitò ad annuire e riempirsi la bocca con un rotolo più grande, pur di non dover parlare per un po’.

 

“Vuole un po’ di vino, dottoressa?” le chiese, porgendole il vino bianco ed Imma annuì, deglutendo e raccomandandosi, “poco, dottore, che dobbiamo lavorare.”

 

“Va bene. Va bene,” acconsentì, versandogliene un mezzo bicchiere.

 

“Allora, dottoressa, ora che vedo che ha assaggiato più o meno tutto, le piace il sushi?”

 

“Devo ammettere che non me l’aspettavo, ma non mi dispiace affatto, sì.”

 

“Ne sono felice. A volte le cose migliori sono quelle inaspettate e inattese, quando si va oltre al pregiudizio iniziale.”

 

Ed Imma sorrise, perché in mente le comparve Calogiuri e la sorpresa meravigliosa che era stato, da quel pulcino implume che era entrato per la prima volta nel suo ufficio.

 

“Già... è vero, dottore.”

 

“Sa, Vitali mi aveva parlato molto bene di lei ma mi aveva avvertito - e avevo pure sentito molte voci - sul suo carattere tosto e quasi impossibile. E quindi non mi aspettavo che fosse così,” replicò, ricambiando il sorriso.


“Così come?”

 

“Così… divertente, oltre che carismatica. Al di là del carattere che sì, è tosto, ma in senso buono.”

 

“Guardi, dottore, lei è uno dei pochissimi al mondo a trovarmi divertente.”

 

“Non lo capisco proprio, ma… peggio per loro e meglio per me! Così ha tempo di lavorare pure di sabato sera ed io ho modo di godere della sua compagnia.”

 

“Come se avesse bisogno di me per avere compagnia, se solo la cercasse."

 

“Ma non è affatto detto che sarebbe così piacevole, anzi,” proclamò lui, deciso, guardandola negli occhi.

 

Imma si affrettò ad abbassarli sul sushi rimasto e a cercare di terminarlo rapidamente, per deflettere e poi tornare al lavoro.

 

Mancini fece un mezzo sorriso e, con un’espressione indecifrabile, la imitò.

 

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“Allora, ti è piaciuto lo spettacolo? Mi sembri un po’ altrove…”

 

“Sì… sì… mi è piaciuto…” rispose, anche se la verità era che se ne era perso dei pezzi, perché gli continuavano a tornare in mente Imma e Mancini.

 

“Con questo entusiasmo sei poco credibile, maresciallo,” lo punzecchiò con un sorriso.

 

“Scusa, è che-”

 

“Ma di che ti scusi?! Mica ci ho recitato io o l’ho scritto io. E poi in ogni caso i biglietti erano omaggio, quindi non ho neanche perso i soldi. Anche se a me non è dispiaciuto affatto, soprattutto il pezzo in cui-”

 

In quel momento gli arrivò la notifica di messaggi in arrivo, più di uno. Aveva riacceso il telefono già dentro il teatro, ma probabilmente non prendeva bene.

 

Controllò e, in mezzo a messaggi della chat di gruppo con Mariani e Conti, c’era un messaggio da Dottoressa.

 

Imma.

 

Era pure di qualche ora prima, notò, maledicendosi. Lo aprì di corsa, preoccupato che le fosse successo qualcosa con Mancini. Una volta letto, da un lato si tranquillizzò, dall’altro lato sentì una fitta fortissima di gelosia e di un altro genere di preoccupazione. Certo, era felice che Imma non dovesse lavorare il giorno dopo ma-

 

“Calogiuri, tutto bene?”

 

“Come?”

 

“Sei mezzo sbiancato ed hai uno sguardo che fa spavento. Tutto bene?”

 

“Sì… sì…”

 

“Calogiuri, ti ho già detto che le palle non le sai raccontare. Dai, spara, che succede?”

 

Sospirò, mentre aprì l’auto e ci salì e lei lo raggiunse sul sedile del passeggero.

 

“Imma. A quanto pare è rimasta a cena da Mancini perché dovevano lavorare pure dopo cena… chissà se hanno già finito…” si chiese, guardando il cruscotto e notando che erano le 23.30.

 

“Calogiuri, e dai, su! Pure io ho lavorato un sacco di volte anche di sera con varie persone, quando c’era da chiudere un caso o un’udienza problematica, ma nessuno è mai saltato addosso a nessuno. Certo, magari evito di fermarmi con quel maiale di Carminati o col povero Conti, che se no mi sa che ci rimane secco.”

 

Calogiuri si voltò verso di lei, sorpreso dal commento, “ma quindi sai che Conti-”

 

“Che ha un debole per me? Lo hanno capito persino i sassi, Calogiuri. Ed è un bravissimo ragazzo, eh, però non ricambio il suo interesse e quindi cerco di limitare i contatti per non metterlo a disagio.”

 

“Ma c’è qualcuno che ti interessa o sei ancora scottata dalle vecchie esperienze di cui mi hai accennato qualche volta? Perché è un anno ormai che lavoriamo insieme e non mi hai mai parlato di nessuno nel presente. In realtà parli molto poco di te al presente in generale,“ le fece notare, perché si rese conto in quel momento quanto poco lui sapesse di lei.

 

Mentre lei di lui sapeva quasi tutto.

 

“Calogiuri… che ti posso dire… quando… quando resti scottata tanto e io… diciamo che le mie scottature hanno avuto conseguenze non da poco sulla mia vita, e non parlo solo di sentimenti… diciamo che è difficile recuperare la fiducia e tendo a non lasciare entrare quasi nessuno, non fino in fondo. Ma… ma diciamo che sto imparando che ci sono anche persone che la fiducia se la meritano e tu sei una di queste persone, anche se mi rendo conto che sono stata molto reticente nei tuoi confronti. Però… quando avremo più tempo… ci sono diverse cose che ti vorrei dire e… e alcune che ti vorrei mostrare.”

 

“In che senso?”

 

“Magari una di queste sere ti invito io a cena e ne parleremo con più calma. Non sono discorsi da fare nel tempo che ci impiegheremo ad arrivare a casa mia. A meno che tu non voglia salire a berti qualcosa ed abbia ancora un po’ di tempo da dedicarmi stasera’.”

 

Calogiuri rimase molto sorpreso, visto che a casa di lei non ci aveva mai messo piede e lei non gli aveva mai nemmeno vagamente proposto di andarci, nemmeno prima che sapesse di Imma. Ci rifletté un attimo ma immaginò la reazione di Imma e poi… e poi voleva vedere se fosse già a casa e com’era andata con Mancini.

 

“Guarda, magari un’altra volta, mo preferisco tornare a casa… sono un po’ stanco e poi-”

 

“E poi vuoi controllare se Imma è già rientrata?” lo interruppe lei e aggiunse, con una risata, toccandogli il braccio, “Calogiuri, ti si legge tutto in faccia. Per certi versi è il tuo bello, eh, ma un poco dovresti lavorarci su, col mestiere che fai.”

 

Calogiuri si chiese se lei avesse ragione, ma una parte di lui sapeva che Irene comunque ormai sarebbe stata in grado di leggerlo in ogni caso. E si era ripromesso di non cambiare troppo, nonostante tutto. E quella promessa intendeva mantenerla.

 

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“Eccoci qui. Grazie ancora, dottoressa, credo che abbiamo fatto un ottimo lavoro oggi. Al convegno avrà molta risonanza, vedrà.”

 

“Non so se sperarlo o temerlo, dottore. Comunque grazie a lei per il passaggio e buonanotte,” lo salutò, aprendo la portiera per poi scendere dall’auto.

 

Come la volta precedente, Mancini aspettò che lei avesse aperto il portone prima di ripartire. Imma lo chiuse dietro di sé e scosse la testa: era tutto il giorno che aveva il dubbio se Mancini fosse solamente molto ma molto gentile o se stesse testando le acque e corteggiandola. Sperava Calogiuri non avesse ragione o sarebbe stato un grande casino. Ma c’era di buono che, in ogni caso, il procuratore capo sembrava un gentiluomo e sicuramente non ci avrebbe provato esplicitamente con una sottoposta, se lei non gli avesse dato un chiaro via libera.

 

Aprì la porta di casa e si trovò davanti Calogiuri che la aspettava sul divano. Bastò un’occhiata per capire che non era esattamente di buon umore. Aveva quello sguardo tra il triste e l’accusatorio che segnalava che fosse arrabbiato con lei, fin dai tempi post Lolita.

 

“Calogiuri!”

 

“Meno male che eri sfinita e che dovevi tornare presto!” commentò, con un sarcasmo che sembrava il suo.

 

“Ma non hai visto il mio messaggio?”


“Certo che l’ho visto ma… è mezzanotte passata, Imma. Sei stata fino a mo a casa di Mancini? Da soli?”

 

“Calogiuri, e dai su, stavamo lavorando, mica è successo niente! Abbiamo cenato e finito la presentazione: almeno domani sarò libera di stare con te.”

 

“E dove avreste cenato?”

 

“Calogiuri…” sospirò, cominciando ad irritarsi e lui si alzò in piedi e si avvicinò a lei, “e comunque ha ordinato del sushi a domicilio, non siamo usciti a cena, se è questo che ti preoccupa.”

 

“Il sushi? Ma se quando te l’ho proposto io eri terrorizzata dal pesce crudo. E poi quasi avrei preferito che foste usciti a cena. E che non rimanessi fino a quest’ora a casa di un uomo single che secondo me è palesemente interessato a te!”

 

“Calogiuri, Mancini è il capo ed ha insistito sul sushi e… e alla fine era pure buono, mica potevo fare la schizzinosa, visto che offriva lui e stavo a casa sua. E non voglio inimicarmelo proprio mo, lo capisci o no?”

 

“Ed è questo che mi preoccupa! Che per non inimicartelo finirai per ignorare certi segnali e lui lo interpreti come silenzio assenso.”

 

“E che è, una richiesta al tribunale?! Ti ho già detto che non sono scema, Calogiuri, e se una cosa non la voglio fare non la faccio, capo o non capo. Ma Mancini deciderà del nostro futuro e non posso non tenerne conto. E comunque pure tu con la cara Irene hai spesso fatto la mezzanotte e quindi devi fidarti di me come io mi sto fidando di te.”

 

“Ma non stavo a casa sua! Ed è da quando l’hai conosciuta che mi fai una testa così su di lei, altro che fidarti!”

 

“Ma io di te mi fido, Calogiuri è di lei che non mi fido, per niente. E tu sottovaluti l’effetto che fai alle donne, te lo dico sempre.”

 

“E tu ti sottovaluti con Mancini, perché sottovaluti quanto sei bella ed affascinante. Non ho mai visto Mancini comportarsi con la Ferrari come si comporta con te, mai. Imma, te lo ripeto, se non stai attenta, alla conferenza rischi di trovarti in una situazione molto spiacevole.”

 

“E, in caso mi ci trovassi, vorrà dire che Mancini finirà a cantare nelle voci bianche e potrà fare una grande performance alla prossima festa annuale.”

 

Le labbra di Calogiuri si contrassero per un attimo e vide che provava a rimanere serio, ma alla fine scoppiò a ridere e scosse il capo con un esasperato, “come devo fare con te?”

 

“Non lo so, maresciallo. Per intanto, invece di discutere, potresti pensare a come vuoi trascorrere la giornata di domani visto che saremo finalmente io e te da soli, tutto il giorno,” sottolineò, mettendogli le braccia intorno al collo e dandogli un rapido bacio.

 

“Non vedo l’ora…” sussurrò lui di rimando e la baciò, ma con più passione.


“Calogiù, Calogiù,” lo stoppò lei, staccandosi leggermente, “senti, visto che domani abbiamo appunto tutto il giorno, ti spiacerebbe se andassimo a dormire mo? Perché dopo una notte mezza insonne e tutto il giorno a lavorare sono esausta veramente.”

 

Calogiuri fece per un attimo quello sguardo deluso da cucciolo, ma poi annuì e replicò con un “va bene, dottoressa, lo sai che so aspettare!” che la fece sciogliere completamente.

 

“Vai pure in bagno, io inizio a mettermi a letto,” si congedò lui, con ultimo bacio.

 

Imma si sbrigò a farsi una doccia rapida e cambiarsi in una delle sue camicie da notte, prima di raggiungerlo nel letto e trovarlo che la fissava come se fosse un’apparizione.


“Con quella camicia da notte non mi aiuti, dottoressa!”

 

Imma si guardò ed in effetti la camicia da notte fucsia era molto corta, con pure degli spacchi sui lati, e lasciava ben poco all’immaginazione.

 

“E dai, Calogiuri, come si dice? L’attesa aumenta il desiderio, no?” lo punzecchiò, infilandosi sotto le coperte.

 

“Ci puoi scommettere!” le sussurrò, abbracciandola forte ed Imma appoggiò la testa sul suo petto, godendosi il suo calore prima di essere vinta dal sonno.

 

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Fu svegliata da un suono insistente e fastidioso che realizzò essere il campanello.

 

Si sollevò leggermente dal petto di Calogiuri che si passò una mano sugli occhi e poi la guardò, ancora assonnato.

 

“Chi può essere a quest’ora? Sono le nove del mattino.”

 

“E che ne so, Calogiù, aspetta qua che vado a vedere,” proclamò, scendendo dal letto, mezza addormentata, una parte di lei che temeva una nuova improvvisata di Pietro, per quanto l’idea fosse assurda, un’altra che sperava fosse Valentina.

 

“Magari conviene che ti metti una vestaglia prima,” le fece notare Calogiuri, con tono un poco geloso, ed Imma ricordò che in effetti era più svestita che vestita. Si infilò un maglione ed una gonna a caso e corse al citofono.

 

“Chi è?”

 

“Il fioraio, signò, cominciavo a pensare non ci fosse nessuno in casa!”

 

Il cuore di Imma precipitò nello stomaco perché, salvo Calogiuri avesse deciso di farle una sorpresa, aveva un senso di dejavu. E poi gli omaggi floreali di Calogiuri di solito erano più spontanei.

 

Quando vide il mazzo di rose bianche, capì che la sensazione era giusta. Al centro però stavolta c’era una singola rosa arancione. Aprì il biglietto, anche se sapeva già di chi fossero.

 

Grazie per la compagnia e la giornata di ieri: è sempre un vero piacere lavorare con lei.

Spero che impari a sottovalutarsi di meno, in tutti i campi, perché è veramente straordinaria.

GM

 

Con sempre quel peso addosso, ritornò in camera da letto, perché non poteva certo nasconderli a Calogiuri, anche se già temeva un’altra discussione.

 

“Chi era?” le chiese con un sorriso che svanì quando notò i fiori, “Mancini?”

 

“Guarda tu stesso,” rispose, porgendogli il biglietto.

 

Calogiuri lo lesse e la sua espressione divenne ancora più irritata, la mascella contratta.

 

“Calogiuri…”

 

“E poi mi vuoi dire che non ci sta provando con te?! Per carità, le cose che scrive sono tutte vere e te le dico sempre pure io… ma… aspetta…”

 

Prese il cellulare e fece una ricerca e poi glielo passò.

 

Era una pagina sul significato dei fiori, perché in effetti la rosa arancione era particolare e non aveva idea di che significasse visto che, a parte Pietro e Calogiuri con le rose rosse, nessuno glieli aveva mai regalati. E, a quanto stava scritto su quel sito, a seconda se fosse arancione o corallo - che differenza c’era poi? - poteva rappresentare o fascino e bellezza o desiderio.

 

In ogni caso, pur in mezzo a tutte le rose bianche, era comunque un segnale.

 

“E che ti devo dire, Calogiù?! Le rose comunque sono quasi tutte bianche. Magari era solo per sottolineare, come dice il biglietto, che mi devo sottovalutare di meno.”

 

“Appunto! E quindi evidentemente Mancini lo ha notato eccome quanto sei bella, Imma!”

 

E le venne da arrossire un poco, non per Mancini, ma ogni volta che Calogiuri faceva questi proclami una parte di lei, oltre ad essere al settimo cielo, si imbarazzava tremendamente.


“Calogiù… quello che ti posso dire è che, se Mancini ci dovesse provare in modo più esplicito, lo respingerò. Ma al momento non posso mandarlo a quel paese per questi gesti gentili, anche perché, metti che non sia interessato, sarebbe una gaffe tremenda che rischierebbe di causarci non pochi problemi.”


“Imma, secondo me-”

 

Ma in quel momento arrivò una telefonata: Mancini, lupus in fabula.

 

“Pronto, dottore? Grazie dei fiori ma-”

 

“Dottoressa, sono felice che li abbia già ricevuti, ma non la chiamo per questo. Ci è arrivata una telefonata anonima in procura, su Galiano, che ci consiglia caldamente di ispezionare casa sua ed il suo ufficio perché potremmo trovare cose interessanti. Che ne dice? Vogliamo mandare oggi qualcuno nel suo ufficio, visto che lo studio legale di domenica è chiuso?”

 

Imma tirò un sospiro di sollievo, anche se dall’altro lato era delusa: non solo perché si trattava di Galiano, ma anche perché la giornata in solitaria con Calogiuri stava sfumando inesorabilmente.

 

“Va bene, dottore. Andrò di persona e mi porterò dietro Mariani e Calogiuri. Li sento io. Le farò sapere.”

 

“Mancini… c’è una soffiata su Galiano e dobbiamo andare ad ispezionare il suo ufficio. Chiamo Mariani e tu-”

 

“Ed io mi preparo e addio giornata insieme,” sospirò Calogiuri, anche se sembrò pure leggermente sollevato, forse dal fatto che quantomeno non ci sarebbe stato Mancini.

 

“Dai, che se facciamo veloce riusciamo a ritagliarci un po’ di ore questo pomeriggio, magari.”

 

“Speriamo,” sospirò nuovamente, anche se con l’aria di chi ne dubitava fortemente.

 

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Stavano spulciando l’ufficio già da un’ora buona ma al momento, a parte le tonnellate di carte tipiche di uno studio legale, non c’era niente che sembrasse particolarmente fuori posto.

 

Stava già pensando a tutto il tempo perso e alle cose di gran lunga più piacevoli che avrebbe potuto stare facendo in quel momento, quando Calogiuri pronunciò un “dottoressa” che, per una volta, le gelò il sangue nelle vene.

 

Era quello di quando le doveva dare una bruttissima notizia e trattenne il fiato mentre lui, guardandola con un’estrema apprensione, estrasse con mano guantata dal fondo di un cassetto di uno schedario una boccetta di liquido trasparente.

 

Imma si avvicinò e lesse l’etichetta: insulina.

 

Sentì come se la terra le stesse crollando da sotto i piedi e si diede della scema, perché dai Latronico solo questo poteva aspettarsi.

 

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“Dottoressa, ma che succede, perché questa convocazione improvvisa di domenica?”

 

Galiano sembrava sbalordito e un po’ preoccupato: del resto, essendo avvocato, doveva sapere benissimo che non era certo usuale.

 

“Avvocato, in seguito ad una… soffiata… siamo andati ad ispezionare lo studio dove lei lavora ed in particolare il suo ufficio. E guardi che cosa abbiamo trovato nascosto in fondo ad uno schedario, ironia della sorte in corrispondenza della lettera I,” proclamò, durissima, porgendogli le foto della boccetta di insulina, “ho già fatto fare una rapida verifica alla scientifica e stanno procedendo con tutte le analisi, ma mi hanno confermato che effettivamente quella è insulina. Mi dica, come ci sarebbe finita nel suo ufficio? A quanto ne so, né lei né nessun altro avvocato dello studio soffre di diabete, abbiamo già fatto verifiche anche in tal senso. E nemmeno sua madre e suo fratello. Allora?!”

 

“Dottoressa… io… io… non lo so. Mi rendo conto che sia tutto contro di me, ma io quella boccetta veramente non l’avevo mai vista prima, non sapevo nemmeno come fosse fatta l’insulina. Mi deve credere!”

 

La guardava con degli occhi disperati che le ricordavano moltissimo quelli di Chiara. Ma non poteva farsi fregare. Però le sembrava sincero, maledizione! Ma non poteva farsi condizionare dalla pseudo parentela. Eppure non sembrava mentire, glielo diceva il suo istinto. Ma poteva fidarsi del suo istinto?

 

In ogni caso, doveva seguire la legge e cosa prevedeva in questi casi.

 

“Avvocato, che io le creda o non le creda, a questo punto la devo mettere in stato di fermo, considerato anche il rischio di inquinamento delle prove.”

 

“Ma dottoressa, io-”

 

“Se è innocente non ha niente da temere, avvocato. Ma se invece non lo fosse, ha molto, moltissimo da temere, perché io non mi fermerò fino a che sarò arrivata in fondo a questo caso. In un senso o nell’altro. Le è chiaro?” gli domandò, abbassandosi a poca distanza dalla sua faccia per guardarlo dritto negli occhi.

 

“E allora spero che lei sia capace come mi hanno sempre detto e che arrivi fino in fondo, dottoressa. Perché qui qualcuno mi vuole incastrare, anche se non so chi,” le rispose il Galiano, altrettanto deciso, senza distogliere lo sguardo.


Era sincero o era solo la faccia tosta dei Latronico?

 

“Mariani, lo accompagni alla zona di detenzione,” si limitò a rispondere e il Galiano sospirò e si fece condurre fuori senza opporre resistenza.

 

“Che ne pensi, Calogiuri?”

 

“Non lo so… a me pare sempre sincero, dottoressa. O molto bravo a fingere. Però… perché tenersi l’insulina in ufficio invece che buttare quella che gli era rimasta, una volta compiuto il delitto? Non gli sarebbe comunque più servita, no?”

 

Imma sorrise, come sempre quando Calogiuri le leggeva nel pensiero o quasi e faceva quel genere di intuizioni, “e bravo Calogiuri! E sì, non ha molto senso, anzi. Chiedi i filmati delle telecamere di sicurezza del palazzo e dello studio e dacci un’occhiata. Magari scopriamo qualcosa di interessante, sperando non li cancellino dopo pochi giorni, anche se dubito che l’insulina fosse lì da molto, se è come pensiamo.”

 

“Agli ordini dottoressa!” rispose prontamente, facendole l’occhiolino e poi chiedendole, “c’è altro o pensate che per oggi abbiamo finito?”

 

“Credo che ce ne possiamo pure andare a casa, Calogiuri, anche se ormai è quasi ora di cena e la domenica è andata. Cerca di goderti la serata almeno.”

 

“Anche voi dottoressa, anche voi,” ribatté con un mezzo sorrisetto, uscendo dal suo ufficio.

 

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“Mi dispiace di aver perso questa giornata insieme, Calogiuri.”

 

“Non ti devi preoccupare, mica è stata colpa tua,” la rassicurò e si sentì abbracciare da dietro sul divano, un bacio che le fece solletico sulla nuca.

 

Dopo attimi infiniti di silenzio, nei quali fissava senza realmente vederli i contenitori takeaway ormai svuotati dalle mozzarelle in carrozza che si erano divorati, le chiese, in un sussurro, “come stai?”

 

Si appoggiò di più a lui e gli prese le mani tra le sue. Sapeva che si preoccupava per lei quando c’erano di mezzo i Latronico. Era stato l’unico ad interessarsi davvero a cosa lei provasse a riguardo, da sempre.

 

“Sto bene, tranquillo, Calogiuri. Non sono convinta che Galiano sia colpevole e, pure se lo fosse, non sarebbe una novità, no?” rispose, cercando di apparire tranquilla, anche se poi ammise, in un tono più basso, “è solo che… che temo a volte di non essere del tutto obiettiva in questo caso.”

 

“Imma, tu hai spedito in galera senza esitazioni tuo… diciamo quello che biologicamente sarebbe tuo fratello. Del tuo istinto io mi fido e poi in questo caso coincide col mio. Ed io con i Latronico non ho alcun legame.”

“Tranne me… e non vorrei che il tuo istinto di proteggermi ti influenzasse, Calogiuri.”

 

“Io ti voglio proteggere, Imma, sempre. Ma, se pensassi che Galiano è colpevole, insisterei perché venisse mandato a processo, quello sarebbe proteggerti, tenerti lontana da lui.”

 

“Calogiù…” sussurrò, voltandosi leggermente nell’abbraccio e piantandogli un bacio sul collo.

 

Lui di rimando la strinse più forte.

 

Rimasero lì così, semplicemente ad abbracciarsi, per non avrebbe saputo dire quanto tempo, il suo respiro ed il suo calore che la tranquillizzavano e le davano un senso di pace.

 

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“Buongiorno dottoressa.”

 

“Palermo, Rizzuto, buongiorno. Com’era la vostra pizza?”

 

“La pizza non era un granché, dottoressa. Ma abbiamo fatto diverse foto e pure un video, se possiamo,” esordì Palermo, con un sorriso.

 

Conosceva poco l’agente, anche perché era stata fuori gioco per buona parte della sua presenza in procura, ma i suoi capelli ricci, di un rosso in apparenza naturale - a differenza del suo - risaltavano molto tra tutte le chiome more della procura, salvo Mariani ovviamente.

 

“Prego,” fece segno verso la scrivania e Rizzuto, un uomo sulla trentina, né bello né brutto, sicuramente atletico, le pose il portatile di fronte e fece partire le immagini.

 

Imma le fece scorrere ed erano parecchie, alla ricerca non sapeva bene nemmeno lei di che cosa.


E poi lo vide, un volto familiare, anche se non sapeva come e perché.

 

“Fermi, fermi. Potete tornare a due foto prima?” chiese loro e gli agenti si prodigarono ad eseguire.

 

“Io questa faccia l’ho già vista. E non penso a Roma. Calogiuri c’è?”

 

“Al momento credo sia fuori con la dottoressa Ferrari, ma-”

 

Alzò una mano per interrompere e compose il numero di Calogiuri.

 

“Buongiorno dottoressa, tutto bene?”

 

“Calogiuri, ho qui una foto di qualcuno che mi è familiare. Se te la mando mi sai dire se ricordi chi è? Credo che sia qualcuno dI Matera.”

 

“Meglio se facciamo una videochiamata, dottoressa, aspettate, però dovete mettere giù.”

 

Fece come chiesto e dopo poco squillò il telefono e le apparve un’immagine un po’ sgranata di Calogiuri, che era in auto apparentemente.

 

“Che succede, Calogiuri?” sentì Irene chiedere nelle vicinanze e Calogiuri le spiegò che doveva riconoscere una persona.

 

“Calogiuri, mo inquadro col cellulare, dimmi se ti ricorda qualcosa.”

 

“Va bene, dottoressa.”

 

Dopo un po’ di lotte per cambiare la fotocamera, che scatenarono due sorrisi poco trattenuti da Palermo e Rizzuto, si rassegnò a girare il telefono e inquadrare con quella frontale, “lo vedi, Calogiuri?”

 

“Sì, dottoressa, anche se l’immagine non è il massimo. Non saprei, sinceramente, non mi pare di riconoscerlo, ma avete sempre avuto una memoria di gran lunga migliore della mia. Se volete, al mio rientro mandiamo la foto a Matera, se pensate sia di lì.”

 

“Sì, Calogiuri. Nel frattempo Palermo e Rizzuto, voi due tornate al ristorante pure a metà settimana, magari non questa ma la prossima, per non dare troppo nell’occhio. E cerchiamo di procurarci altre foto. Calogiuri, manda le foto pure a Maja, per vedere se riconosce qualcuno.”

 

“Va bene, dottoressa, sarà fatto. Io ora-”

 

“Imma, noi ora dovremmo andare a fare un sopralluogo. Se è tutto e non c’è altro di urgente magari vi potete sentire dopo?” intervenne la Ferrari, apparendo nella telecamera e facendole venire una voglia irrazionale di strozzarla, lei ed i suoi sorrisi apparentemente gentili.

 

“Ma certo. A dopo e buon sopralluogo!” li salutò, chiudendo la chiamata.

 

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Stava infilando in valigia i vestiti che aveva scelto per Milano, quando si sentì afferrare e sollevare da dietro e cacciò un urlo di sorpresa.

 

“Calogiù!” rise, per il solletico sul collo, e poi lui le mordicchiò il lobo, “cos’è? Non vuoi che la faccia questa valigia?”

 

“Eh va beh, puoi farla pure dopo, no? Prima possiamo fare qualcosa di meglio.”

 

“Tipo?”

 

“Usa la tua fantasia, dottoressa,” le sussurrò e si trovò mezza buttata sul letto e rise, riuscendo giusto a sollevarsi sulle ginocchia, appena prima di sentirsi di nuovo abbracciare da dietro.

 

“Io la fantasia ce l’ho bella funzionante, maresciallo, e tu?”

 

“Lo sai come finisce quando mi sfidi, dottoressa,” le soffiò sull’orecchio e si trovò stretta ancora più forte, mentre le mani di lui cominciavano a vagare sotto i vestiti, e ormai conosceva perfettamente i suoi punti deboli.

 

Finisce molto bene, per me - pensò, ma non lo disse, mentre cadeva di nuovo sul materasso e cercò di trattenere un gemito, proprio quando un tonfo segnalava che la valigia era finita poco cerimoniosamente a terra.

 

E quando il gemito divenne un grido soffocato nel copriletto, tutto il resto della stanza scomparve.

 

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“A che pensi?”

 

“Che mo dovrò stirare di nuovo tutti gli abiti per il viaggio, Calogiuri, se non trovo un ferro in hotel,” ironizzò, abbracciata a lui - finalmente sotto le coperte - mentre nella stanza sembrava essere passato un tornado: la valigia era per terra, insieme a tutti i vestiti per il viaggio, più quelli che avevano indosso quella sera.

 

“Se vuoi dopo ti posso dare una mano, ma non ne è valsa la pena?” le chiese, con uno sguardo sornione e soddisfatto che la fece impazzire.

 

“Decisamente, Calogiù, decisamente,” concordò lei, dandogli un bacio sul collo e si sentì stringere più forte mentre le accarezzava le guance e i capelli.

 

Incrociò di nuovo il suo sguardo e le sembrò improvvisamente triste.

 

“Guarda che non c’hai nulla di cui preoccuparti. Ti devi fidare di me, Calogiuri, perché veramente non c’è motivo.”

 

“Lo so… ma non è solo per quello. Ma è che… lo so che sono solo due giorni e che è stupido ma… negli ultimi mesi siamo stati sempre insieme o quasi. Mi mancherai questo fine settimana.”

 

“Anche tu mi mancherai,” gli sussurrò, prendendogli il viso e sfiorandogli le labbra con le sue, mentre i loro nasi si toccavano e si facevano il solletico.

 

“Mi prometti che… che se avessi qualsiasi problema me lo dirai? Ti raggiungo a Milano, piuttosto, non mi importa dei rischi, va bene?”

 

“Non credo che ci sarà bisogno che tu faccia il cavaliere al salvataggio, Calogiuri. Ma, se avessi un problema, lo sai chi chiamo sempre per primo, no?”

 

Lui le fece un sorriso meraviglioso e poi il suo sguardo mutò ed iniziò a baciarla con passione, mentre finiva di nuovo schiacciata tra lui e il materasso.

 

“Calogiù, questa valigia non me la vuoi proprio far fare. O vuoi sfinirmi un’altra volta prima del viaggio?” lo punzecchiò, tenendogli un attimo fermo il viso, mentre lui la guardava con gli occhi che brillavano, prima di spingergli le spalle e farlo rotolare fino ad essere lei sopra di lui, “e comunque il tuo turno al comando già lo hai avuto, mo tocca a me.”

 

“Agli ordini, dottoressa,” le sorrise, con uno sguardo che lasciava intendere che la cosa non gli dispiacesse affatto, anzi.

 

Ma quasi spiacque a lei levarglielo con un altro bacio.

 

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Stava finalmente chiudendo la valigia. Calogiuri se ne era andato da poco per farsi la sua corsa mattutina e passare da casa a fare una doccia e cambiarsi, dopo averla aiutata a rendere nuovamente presentabili i vestiti con un po’ di ferro a vapore, mentre lei preparava la colazione ad entrambi. Era bravo a stirare, veloce e precisissimo come al solito.


Ed un nodo le venne in gola quando pensò a quanto era sempre felice di farla la valigia quando era a Matera per raggiungere lui mentre in quel momento… in quel momento era solo in apprensione, sia per il convegno in sé, sia per l’accompagnatore.

 

Scuotendo il capo per scacciare via quei pensieri, chiuse definitivamente la valigia e si preparò per uscire.

 

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Guardò l’ora: erano le diciassette. A breve avrebbe dovuto raggiungere Mancini per andare a Termini a prendere il treno.

 

Sospirò ed afferrò la borsa, quando il cellulare squillò.


Vitali.

 

“Dottore, mi dica, come va? Ma è successo qualcosa?”

 

“Buonasera dottoressa, qui va tutto come al solito. Spero lei non faccia disperare troppo il mio collega di Roma: so che avete un convegno questo fine settimana. Mi raccomando, tenga alto il nome della nostra procura, e cerchi di non mandare a quel paese troppe persone, se ci riesce.”

 

Il tono di Vitali era ironico ma ci sentiva anche una punta di nostalgia e affetto, anche se forse era solo la sua immaginazione.

 

“Non si preoccupi, dottore, o forse sì, visto che il mio carattere lo conosce. Le farò sapere com'è andata. Ovviamente alcuni dettagli li ometteremo, visto il processo ancora in corso.”

 

“Ovviamente, dottoressa.”


“Ma mi chiamava solo per il convegno, dottore?”

 

“No, dottoressa. Ma mi sono arrivate le foto di cui lei ha chiesto un riconoscimento e la D’Antonio ha identificato il cameriere che le era sembrato familiare. Si tratta di Diego Mazzocca, uno dei giovani del clan, un pesce piccolo, almeno fino a qualche anno fa, quando operava qui a Matera. La D’Antonio lo aveva fermato per-”

 

“Per il sospetto di essere tra i gestori di una bisca clandestina, con un bar come copertura. Me lo ricordo mo,” lo interruppe, mentre la sua memoria fotografica riprendeva a funzionare.

 

“Esattamente, dottoressa. Noto che la sua memoria è ottima come sempre. Purtroppo però la dottoressa non ha saputo identificare gli altri camerieri, ma come lei sa il clan Mazzocca ha rami anche a Roma, anche se non ha la potenza che ha qui da noi.”

 

“D’accordo, dottore, è stato comunque utilissimo. Immagino che mi toccherà chiederle di ringraziare la D’Antonio da parte mia,” proclamò con un sospiro e Vitali rise.

 

“Ah, dottoressa, non cambia mai, eh? Riferirò. E lei? Tutto bene? O ogni tanto ha un po’ di nostalgia di Matera?”

 

“Nostalgia di Matera molta, dottore, ma sa bene perché al momento il mio posto è qui.”

 

“Non ha ancora ufficializzato… insomma… immagino.”

 

“Immagina bene, dottore.”

 

“Le consiglio di attendere ancora un poco ma di non attendere troppo, dottoressa, è più prudente.”

 

“Non è che spera che Mancini mi faccia rientrare a Matera, dottore?” ironizzò, anche se in realtà era una delle sue paure principali nel dirgli di Calogiuri.

 

“In caso lo facesse, peggio per lui e meglio per me, dottoressa. Ma cerchi di non tirare troppo la corda, mi raccomando, che se si spezza è finita.”

 

“Lo terrò presente, dottore, grazie.”

 

“Buona serata, dottoressa e buon convegno.”

 

“Buon fine settimana anche a lei, dottore.”

 

Mise giù e stava per comporre il numero di Calogiuri, quando sentì bussare e se lo vide comparire sulla porta.

 

“Proprio te cercavo, Calogiuri. Mi ha chiamata Vitali. La D’Antonio - figurati te! - ha riconosciuto il cameriere come uno del clan Mazzocca, di nome fa Diego, coinvolto in un suo caso di qualche anno fa. Devi cercarmi più informazioni su di lui e poi magari, tramite i social, vedere se anche gli altri camerieri fanno parte del clan. Ricordo che i membri più giovani c’avevano una vita social che manco quelli che sponsorizzano thé e creme improbabili.”

 

“Ma chi? Gli influencer?”


“Eh, esatto, Calogiuri. Tu? Novità per me? Maja ti ha fatto sapere qualcosa?”

 

“No, dottoressa, ancora no, ma in questi giorni so che era a fare un giro delle università. La sollecito.”

 

“Sollecitala pure lunedì, Calogiuri, tanto sono via, quindi non c’è urgenza.”


“Siete sicura di sentirvi bene, dottoressa?” la sfotté e lei scosse il capo e si avvicinò per tirargli un colpo sulla spalla.

 

Stava per dirgli qualcosa o approfittarne per un saluto prima della partenza, quando bussarono alla porta e comparve Mancini.

 

“Dottoressa, maresciallo. Scusate ma dovremmo proprio andare, dottoressa, o col traffico di Roma dell’ora di punta… di venerdì sera poi…."

 

“Va bene, dottore,” annuì, recuperando spolverino, valigia e borsa e, rivolgendosi a Calogiuri, aggiunse, “allora lunedì senti Maja. Buon weekend, Calogiuri.”

 

“Anche a voi e in bocca al lupo per il convegno. Se avete bisogno di qualunque cosa, come sempre sono raggiungibile,” rispose lui, in apparenza rivolto ad entrambi ma guardando lei, uscendo dalla porta e congedandosi con un’ultima occhiata.

 

“Sempre stacanovista il maresciallo. Le è molto affezionato, dottoressa,” commentò Mancini, prima di abbassarsi e prenderle la valigia con un, “lasci fare a me.”

 

“Ma no, dottore, posso portarla da me!” provò a protestare, ma non poteva certo levargliela dalle mani, “e comunque sì, Calogiuri ama il suo lavoro, da sempre, e lo sa fare molto bene.”

 

“Del resto ha avuto un’eccellente insegnante,” rispose Mancini con un sorriso, “prego, dopo di lei.”

 

Ed Imma, con un po’ di apprensione, uscì dall’ufficio.

 

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“Eccoci qui, dottoressa.”


“Ma è solo per noi due?” chiese, stupita, guardandosi intorno nella stanza conferenze privata.

 

“Esattamente.”


Mancini doveva avere prenotato il viaggio nella classe più alta ed Imma pensò alle tasche dei poveri contribuenti.

 

“Stia tranquilla, dottoressa, la procura ci rimborsa il biglietto base ma ho la tessera per avere l’upgrade: ho collezionato più punti su questi treni negli ultimi anni che da bimbo con le merendine.”

 

“Ma ne è sicuro, dottore? Posso pagare la differenza per il mio biglietto e-”

 

“E mi vuole offendere, dottoressa? E poi li devo pure usare in qualche modo, no? Si sieda e si rilassi.”

 

Eh… è una parola! - pensò, mettendo la valigia nell’apposito alloggiamento e prendendo posto.

 

Dopo un po’ di tempo passato in silenzio, Mancini improvvisamente le domandò, “come sta, dottoressa? La vedo un po’ preoccupata o sbaglio?”

 

“Ammetto di essere un poco in apprensione per il convegno, dottore,” ammise, anche se non era in apprensione solo per quello, “non sono abituata a parlare in pubblico, se non in tribunale.”

 

“Ma non si preoccupi che andrà benissimo: lei è talmente brillante che non avrà problemi.”

 

“Brillantissima, proprio!” si schernì, la sua agitazione che non faceva che aumentare.

 

“Senta… so io come aiutarla a rilassarsi. Le andrebbe un aperitivo e due calici di vino?”

 

“Almeno quello però voglio offirlo io, dottore.”

 

“Ma è compreso nel prezzo del biglietto, dottoressa, torno subito.”

 

E così Mancini sparì e dopo poco arrivò un cameriere in guanti bianchi portando una sfilza di finger food e il vino. Imma rifletté che, al di là dell’upgrade, quel biglietto dovesse normalmente costare come tutte le corriere prese da lei negli ultimi anni sommate insieme.


“Allora, dottoressa, che ne dice se facciamo un brindisi?”

 

“E a che cosa?”

 

“A questa trasferta e al lavoro di questi mesi, sperando che sia solo l’inizio e che ci saranno altre occasioni come questa,” rispose lui, guardandola negli occhi in un modo che le causò un po’ di imbarazzo.

 

“Aspetti di vedere come andrà la presentazione, prima, dottore,” ironizzò, per deflettere, mentre lui faceva toccare i loro calici, “anzi, a proposito della presentazione, ho alcune novità che possono riguardare il maxiprocesso. Se questa stanza è sufficientemente insonorizzata verso l’esterno la posso aggiornare, visto che c’abbiamo tempo.”

 

“Non si preoccupi, dottoressa, non ci sentirà nessuno,” la rassicurò Mancini con un altro sorriso.


Anche se la cosa non era esattamente rassicurante per lei.

 

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Guardava con un occhio la tv e con uno il cellulare, sperando in un messaggio, in una chiamata ma ancora niente. Neanche quando si era messo con Maria Luisa che era un adolescente stava conciato così, ma era preoccupato per tanti motivi e non ci poteva fare nulla.

 

Improvvisamente il telefono squillò e lo afferrò con entusiasmo, ma il nome Dottoressa Ferrari sul display lo spense un po’.

 

Irene.

 

“Pronto?”

 

“Ciao, Calogiuri, ti disturbo? O non era la chiamata che speravi di ricevere?”

 

“Irene…” sospirò, non riuscendo però a trattenere un sorriso.


“E dai, Calogiuri, che sei giovane e la vita è bella. Invece di stare lì a roderti il fegato, domani sera che ne dici di venire a teatro con me? Magari stavolta lo spettacolo ti prenderà di più, se non stai sempre con la mente a Milano.”

 

“E va beh… sei tremenda, lo sai?”

 

“Lo so. Ma qualcuno deve pure aiutarti a tirarti un po’ su, che non hai ottant’anni! Allora, ci vieni? A sto giro è un musical, dovrebbe piacerti, credo, piace quasi a tutti.”

 

“E come si chiama?”


Notre Dame de Paris. Come il Gobbo di Notre Dame, ce l’hai presente? O eri troppo piccolo per ricordartelo, il film Disney? Ma la storia segue più quella del libro che… va beh… non ti faccio spoiler, anche se su un libro pluricentenario è ridicolo. Però si parla anche molto di gelosia e dei suoi effetti deleteri.”

 

“Il libro non l’ho letto e non ho neanche visto il film. Ma va bene… tanto se sto qui finirò solo per pensare ad Imma a Milano con Mancini. E sulla gelosia… tu non saresti gelosa al posto mio?”

 

“Calogiuri, se c’è una cosa che ho imparato negli anni e che la tua storia con Imma dovrebbe averti insegnato, è che se qualcuno ti vuole tradire lo può fare anche tutti i giorni andando a lavorare. Non serve la trasferta a Milano. Quindi o ti fidi o non ti fidi, o ti ossessioni o la vivi bene. Tanto non cambia niente. Il che non significa ignorare la realtà, eh. Io non potrei stare con qualcuno di cui non mi fido o che non si fida di me, penserei che non abbia stima di me, capisci che intendo?”

 

“Credo… credo di sì. Ma Mancini-”

 

“Ma Mancini non è uno che molesta le donne o le violenta, Calogiuri. Anzi, è sempre molto corretto. Quindi sta ad Imma dire sì o no. E quindi il punto torna lo stesso: ti fidi di lei o no? Certo, capisco perché potresti non fidarti, ma-”

 

“In che senso?”

 

“Nel senso che, visto che la vostra storia è iniziata con un tradimento, non è esattamente un bel biglietto da visita, Calogiuri. Ma non tutte le storie devono finire allo stesso modo.”

 

“Io di Imma mi fido ciecamente!” replicò Calogiuri, anche se una parte di lui continuava a sentire, chissà perché, la voce del marito di Imma che gli diceva che lei si sarebbe presto stancata di lui.

 

Ma non poteva essere vero.

 

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“Dottoressa, che ne dice se lasciamo le valigie in camera, ci rinfreschiamo e ceniamo al ristorante dell’hotel, visto che è tardi?”

 

Imma lo guardò e poi si guardò ancora in giro nella hall dell’albergo, elegante ed in una zona che, di nuovo, urlava soldi.

 

“Pure l’hotel non lo hanno pagato i contribuenti, dottore?”


“Dottoressa, l’hotel della conferenza sarebbe costato forse pure di più. E comunque non si preoccupi che ai contribuenti e a non pesare sulle loro spalle ci penso sempre. I fondi non mi mancano.”

 

“Ma allora voglio pagare la mia stanza e-”


“E lei è un’ospite, mia e dei contribuenti per la loro parte. Suvvia, dottoressa, vivo solo e non ho spese particolari, due notti in un hotel quattro stelle me le potrò permettere, no? Mica è un cinque stelle lusso.”

 

E ci mancava solo quello! - pensò Imma, perché già per lei era carissimo così.

 

“Va bene, grazie, dottore, ma così poi mi dovrò sdebitare.”

 

“Il piacere della sua compagnia e l’eccellente lavoro che farà domani sono sufficienti. Che ne dice se ora saliamo in camera?”

 

“D’accordo, dottore,” sospirò, sapendo che più di tanto non poteva protestare: era il capo, in fondo.

 

Mancini premette il pulsante - Imma vide che era quello del penultimo piano - e poi le chiese, “lei che stanza ha, dottoressa?”

 

“La 716, dottore.”

 

“Allora siamo vicini, io ho la 718.”

 

Imma deglutì, mentre arrivarono al piano e, in effetti, le due stanze erano una accanto all’altra.

 

“Quanto tempo le serve, dottoressa?”

 

“Mah… venti minuti?”

 

“D’accordo. A dopo allora!”

 

Lo vide entrare in stanza e lo imitò, rimanendo a bocca aperta per l'arredamento e le dimensioni, rispetto alle pensioni a cui era abituata lei. Pure il bagno era enorme.

 

E, non seppe perché, ma le venne in mente Calogiuri e si sentì un po’ in colpa.

 

Provò a chiamarlo ma il numero era occupato. E allora gli lasciò un messaggio.

 

Sono in hotel, ora doccia e poi ceno. Ci sentiamo dopo se non hai altri impegni, maresciallo.

 

Sapeva che la risposta non sarebbe arrivata subito e quindi si svestì e si buttò sotto il getto caldo e ristoratore.

 

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Mise giù il telefono, chiedendosi se dopo la chiacchierata con Irene si sentisse più tranquillo o più agitato di prima e, proprio in quel momento, gli arrivò il messaggio di Imma.

 

Era di venti minuti prima e non poteva arrischiarsi a telefonarle. Le risposte con un altro messaggio.

 

Ma certo che non ho altri impegni. Chiamami quando sei in stanza. Un bacio.

 

Dalle spunte, Imma lo aveva ricevuto ma non letto. Probabilmente era a cena con Mancini. Scacciando quel pensiero, cercò di concentrarsi sul film che quasi si era scordato di avere iniziato.

 

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“Allora, dottoressa, le piace qui?”

 

Quella domanda le diede un tremendo senso di dejavu, anche se si sentiva molto più a suo agio con Calogiuri nella trattoria a Roma che in quel ristorante con Mancini.

 

“Molto elegante, dottore, anche se temo di avere scelto la cosa meno elegante sul menù,” commentò Imma, prima di prendere un’altra forchettata di risotto alla Milanese.

 

Ma tutti quei piatti dai nomi improbabili le facevano venire il mal di stomaco solo a leggerli, figuriamoci a mangiarli. Mancini, atletico come sempre, si era preso una specie di insalata con su del salmone crudo, che doveva proprio piacergli.

 

“Dottoressa, l’eleganza non sta nel piatto ma in chi lo mangia.”

 

“Allora con me stiamo freschi, dottore,” ironizzò, ma lui scosse il capo.

 

“Non è affatto vero. E comunque il risotto alla milanese è da provare quando si viene a Milano. Lei è già stata qui o è la prima volta?”

 

“No, è la prima volta, dottore. Non ho mai viaggiato molto. Lei invece mi sembra che abbia familiarità o sbaglio?”

 

“No, non sbaglia. Ci ho lavorato alla Procura di Milano, per diversi anni, prima di riuscire finalmente a trasferirmi a Roma.”

 

Imma si fece due conti e disse, “ma allora lei ci ha lavorato prima di Vitali?”

 

“Esattamente. Lui è stato il mio successore, ma ci ha passato solo due anni e poi è venuto a Matera. Più vicino alla sua amata Napoli. Il procuratore capo che c’è ora lo conosco solo di sfuggita. Io sto bene a Roma e conto di rimanerci. E lei, come si trova, dottoressa? Pensa di fermarsi solo fino alla fine del maxiprocesso, o fino a quando sua figlia studierà nella capitale?”

 

“Roma mi piace, dottore, anche se Matera è nel mio cuore, pur avendoci sempre avuto un rapporto di amore ed odio. Ma al momento a Matera non ho nessun affetto che mi aspetti. Però vedremo… dipende anche da lei e dalla Ferrari, oltre che dai tempi della giustizia italiana, perché mia figlia potrebbe pure laurearsi prima della fine del maxiprocesso, conoscendoli.”

 

“Farò di tutto perché ciò non accada, dottoressa, anche se mi spiacerebbe se lei si ritrasferisse, quindi per una volta le lungaggini del nostro sistema giudiziario potrebbero tornarmi utili.”

 

Imma si imbarazzò un poco e si chiese se intendesse solo in senso professionale o meno.

 

“Matera deve essere molto affascinante, dottoressa. Mi piacerebbe vederla un giorno,” proclamò poi, guardandola negli occhi, in un modo che non fece che peggiorare la situazione.


“Matera è bella ma è dura e piena di asperità e purtroppo c’è ancora poco futuro per i nostri giovani, non quanto si meriterebbero. Ma speriamo che non sia per sempre così.”

 

“Beh, forse lei il suo contributo lo ha dato, no? Con le sue pulizie…”

 

“Eh, speriamo...” rispose, finendo l’ultima forchettata di risotto che, le toccava ammetterlo, non era niente male.

 

“Noto che è una buona forchetta, dottoressa,” commentò Mancini con un sorriso, ancora alle prese con la sua insalata, “ma probabilmente a furia di andare veloce brucia tutto.”

 

“Beh, dottore, potrei dire lo stesso di lei. L’insalata non le serve.”

 

“Eh, ma se devo correre la mattina presto devo digerire bene e mantenere le buone abitudini.”

 

“Quindi lei domattina andrà a correre?”

 

“Certo, per caso vuole unirsi a me, dottoressa?” le chiese ed Imma si chiese se tutti i doppi sensi se li stesse immaginando solo lei o fossero voluti.

 

“Guardi, dottore, le corse sui tacchi mi bastano,” ironizzò, per smorzare la tensione, bevendo un sorso di vino rosso, “ma quindi lei a che ora va a correre la mattina, quando lavora?”

 

“Mi alzo alle cinque se riesco, massimo alle sei. Faccio in tempo a fare tutto ed essere in ufficio puntuale. O domani al convegno.”

 

Imma pensò che pure Calogiuri faceva sport la mattina presto ma mica a quei livelli. Se avesse provato a muoversi dal letto alle cinque del mattino lo avrebbe ucciso probabilmente.


“Per carità, dottore, la ammiro per la costanza ma io manco a pagarmi.”

 

“Ma del resto lei non ha bisogno di fare ulteriore sport, dottoressa, ha già un fisico perfetto così. Vuole altro vino?” le chiese, come se fosse la cosa più naturale del mondo, ed Imma si sentì arrossire.

 

“Meglio di no, dottore. Si è fatto tardi e domattina soprattutto lei dovrà svegliarsi presto. Andrei in camera a riposare.”

 

Mancini fece un mezzo sorriso e scosse leggermente il capo ma annuì, facendo un cenno al cameriere e dicendogli di segnare sulla sua camera la cena.

 

“Dottore, però almeno sulla cena possiamo fare a metà? Mi mette in imbarazzo così, veramente,” gli chiese, una volta che furono sull’ascensore.

 

“Dottoressa, per un risotto, che vuole che sia!” ribattè Mancini ed Imma pensò che erano quindici euro tondi tondi, senza considerare il vino, “e comunque, quando è in imbarazzo è pure più bella, se posso permettermi.”

 

Imma arrossì del tutto e lui sorrise ancora di più e si chiese se lo pensasse seriamente o facesse apposta per prenderla un po’ in giro. Da un lato avrebbe sperato fosse la seconda ipotesi.

 

“Ecco, appunto,” commentò lui, facendole segno di passare pure per prima dall’ascensore e, in pochi passi, furono alle loro stanze.

 

“Cerchi di riposare, dottoressa, mi raccomando. E… se avesse bisogno di qualcosa… dove trovarmi lo sa. Buonanotte,” le augurò, con un altro di quei mezzi sorrisi, entrando nella sua stanza.

 

Imma, ancora un po’ confusa, fece appena in tempo a dirgli un “buonanotte!” di rimando e poi si rifugiò in camera, chiudendosi la porta dietro le spalle.


Restavano ancora due giorni e poi… e poi c’era il convegno e la presentazione, che non l’aiutavano certo a tranquillizzarsi, anche se per altri motivi.

 

Mancini era un gentiluomo, per carità, lanciava soltanto delle battute e non era mai inappropriato o volgare, anzi, e le piaceva parlare con lui, perfino se si andava sul personale, al di là dell’imbarazzo quando le faceva i complimenti. Però… però cominciava seriamente a chiedersi se fosse solo il suo umorismo ed un po’ di galanteria o se dovesse preoccuparsi veramente. Ma, finché continuava solo a fare battute… in fondo non c’era niente di male, no?

 

Di sonno non ne aveva per niente, nonostante la lunga giornata e l’impegno profuso da Calogiuri la sera prima per sfinirla. E, a proposito di Calogiuri, sfilò il cellulare dalla borsa e sorrise quando trovò il suo messaggio di risposta. Ma prima di rispondere voleva mettersi comoda.

 

Dopo una rapida sosta in bagno, aprì la valigia e ne estrasse la t-shirt bianca di Calogiuri, che gli aveva fregato a sua insaputa il giorno prima e che aveva ancora il suo profumo. Forse era una cosa tremendamente adolescenziale, ma se la portò al viso e le sembrò per un attimo di averlo lì con lei. Si svestì e se la infilò anche se le era enorme di larghezza. Ma in lunghezza le arrivava giusta giusta alle cosce. Si sedette sul letto e lo chiamò.

 

Fece giusto in tempo a fare due squilli che il suo “pronto” la mise subito di buonumore.

 

“Sei in camera? Come stai?” le chiese, premuroso come sempre.

 

“Abbastanza bene… anche se… sono un po’ preoccupata per domani, Calogiuri. Lo sai come sono fatta, no?” gli rispose, prima di ammettere, quasi senza rendersene conto, “vorrei tanto averti qui, poterti vedere.”

 

“Beh, lì non ci posso stare, dottoressa, ma sul vedere… che ne dici se facciamo una videochiamata?”

 

“Calogiuri, io su ste cose sono negata, lo sai.”

 

“Aspetta, se metti giù ti chiamo io.”

 

Fece come chiesto, rispose quando lui la richiamò e lo vide sullo schermo, che le sorrideva. Riusciva ad intravedere pure il colletto di un’altra t-shirt bianca.

 

“Ma come sei vestita?” le chiese, sembrando leggerle nel pensiero, “perché quel pigiama non me lo ricordo.”

 

“Non è un pigiama, Calogiù… non ti sei accorto che la maglietta di ieri sera mancava?” gli chiese, scendendo con l’inquadratura per mostrargliela, “siamo vestiti uguali.”

 

Quasi uguali: occhio a dove inquadri, dottoressa!” esclamò, sembrando un po’ imbarazzato.

 

Imma guardò meglio la telecamera e realizzò che, da seduta, la maglietta si era sollevata e le si vedevano le gambe e pure in parte la biancheria.

 

“Calogiù! E comunque potrei pure lasciarla così, non fosse che, se ci intercettano, forse non è il caso di prendere esempio dalla Tantalo e da Davidson. Anche se l’idea non è che mi dispiacerebbe poi così tanto.”


Calogiuri divenne d’improvviso fucsia, pure dall’altro lato dello schermo si notava, mentre ruggiva un “Imma!” che la fece scoppiare a ridere. Imma tornò ad inquadrarsi il viso, godendosi il suo imbarazzo.

 

“Un giorno mi manderai al creatore, dottoressa!”

 

“Più probabile che lo faccia tu, maresciallo, credimi!”

 

“Ne dubito,” scosse il capo con quell’aria affettuosamente esasperata che adorava, per poi aggiungere, con uno sguardo più dolce, “sei più tranquilla mo?”

 

“Un poco sì, ma non del tutto, Calogiù.”

 

“Hai già disfatto la valigia?”

 

“Ma che mi conosci o no? Ovviamente no, maresciallo: sai che tiro fuori le cose a mano a mano, che non c’ho voglia.”

 

“Lo immaginavo, anche se magari a casa mia lo facevi anche per motivi di spazio. Ma, fossi in te, proverei a farlo, magari ti rilassa.”

 

“Disfare la valigia dovrebbe rilassarmi?” chiese, un po’ basita, ma poi qualcosa nel tono di lui la spinse ad alzarsi dal letto ed andare verso il trolley.

 

“Occhio sempre a dove inquadri, dottoressa,” le ricordò lui, quando lei abbassò il telefono per rovistare nel bagaglio.


“E ti lamenti pure, Calogiuri?”

 

“No, ma non mi tentare, che già è abbastanza difficile così.”

 

Imma rise e frugò meglio, spostando i vestiti, cercando di non spiegazzarli e poi, proprio sul fondo, vide alcune bustine gialle.


“Camomilla?” chiese, stupita, prima di vedere il bigliettino piazzato lì accanto.

 

Per aiutarti a riposare, visto che non posso preparartela di persona.

Calogiuri

 

Imma sentì gli occhi pizzicarle, la commozione che iniziava a prendere il sopravvento, e poi notò delle specie di cordini neri. Li estrasse da sotto una gonna e vide che si trattava di auricolari, attaccati ad un piccolo marchingegno, simile a uno che Valentina aveva qualche anno prima, quando ancora aveva il cellulare dei narcos.

 

“Calogiuri, ma…?” provò a chiedere, sollevando il cellulare perché inquadrasse il suo viso e l’apparecchio.

 

“Il mio vecchio lettore mp3. Ti ho caricato un po’ di canzoni che penso potrebbero piacerti e… aiutarti a rilassarti.”

 

“Calogiù…” sussurrò, cercando di trattenere la commozione, mentre si infilava le cuffie. Provò a premere il tasto di accensione.

 

E un nome sul display, ancora prima delle note iniziali, le diede la botta finale e non riuscì a trattenere una lacrima.

 

E ti vengo a cercare, anche solo per vederti o parlare…

 

In fondo, pur essendo legata ad una circostanza estremamente tragica e pur non avendo portato fortuna alla povera Stella, per certi versi era quella la loro prima canzone. Le aveva sempre ricordato lui, dalla prima volta che l’aveva riascoltata durante quel caso. Perché veramente le bastava vederlo, parlare con lui, anche solo stare insieme in silenzio, per sentirsi meglio, per capirsi meglio, da sempre. E poi… lui le ricordava le sue radici, o almeno, quelle che aveva creduto fossero le sue radici. Sicuramente le ricordava la sua infanzia e giovinezza. Pochi mezzi, il doversi conquistare tutto, quel “a me nessuno regala niente”, sul quale pure lei aveva basato una vita fatta di sacrifici, per riscattarsi dalla povertà.

 

“Ma sei… sei…” balbettò, la commozione che le spezzò la voce.

 

“Ci sono altri brani, puoi farli scorrere con la freccetta destra o sinistra. Se premi il tasto in basso esce la lista di tutte le canzoni e puoi selezionarle con quello in mezzo. Il tasto sopra è per avviare e mettere in pausa.”

 

Si fosse trattato di un altro, gli avrebbe urlato contro se l’avesse presa per scema, a farle il tutorial su come funzionava un lettore mp3. Ma Calogiuri sapeva quanto lei fosse imbranata con la tecnologia, pure quella non esattamente di ultima generazione, quindi la sua spiegazione la intenerì e basta, forse anche perché era già troppo commossa.

 

Premette il tasto inferiore e gli altri titoli non li riconobbe, ma era curiosissima di ascoltare tutte le canzoni.

 

“Calogiuri… sei… sei…” non riusciva a trovare le parole e si limitò a sorridergli nella telecamera, mentre pure lui sembrava un po’ commosso, “grazie. Non ci sono parole, ma... grazie. Ti amo.”

 

“Ti amo anche io. Cerca di riposare ma… se avessi problemi chiamami a qualsiasi ora, va bene? Pure nel cuore della notte.”

 

“Va bene. Ma spero non ce ne sarà bisogno. Buonanotte, maresciallo.”

 

“Buonanotte, dottoressa.”

 

Esitò un attimo prima di chiudere la chiamata, perché voleva stamparsi nella mente il sorriso meraviglioso che aveva lui, ma poi lo fece.

 

Con le cuffie nelle orecchie, si rimise a letto e si ricominciò ad ascoltare “E ti vengo a cercare”.

 

Cullata dalle note, cominciò a rilassare i muscoli, finché partì un’altra canzone, che esordiva dicendo “Io non so parlar d’amore, l’emozione non ha voce.


Riconosceva Celentano e che era una vecchia canzone. Chissà come l’aveva scovata Calogiuri.

 

Ma in fondo che le importava, si stava già commuovendo così, anche se Calogiuri ormai non era più così tanto di poche parole.

 

Le venne da ridere e si chiese se ci fosse un avvertimento nel “disonesto mai lo giuro, ma se tradisci non perdono. Ti sarò per sempre amico, pur geloso come sai” ma al ritornello si sciolse definitivamente in lacrime.

 

“Tra le mie braccia dormirai serenamente, ed è importante questo sai, per sentirci pienamente noi. Un’altra vita mi darai che non conosco, la mia compagna tu sarai fino a quando so che lo vorrai.”

 

Mentre asciugava le lacrime e sorrideva ad un pezzo che parlava di come due caratteri diversi prendessero fuoco facilmente, ma da come fossero legati da un amore che dava la profonda convinzione che nessuno li avrebbe mai divisi, la tentazione era forte di richiamarlo o di scrivergli un messaggio, ma decise che gli avrebbe dovuto fare una sorpresa di persona, per ricambiare il gesto.

 

Un chiaro messaggio le aveva mandato il suo Calogiuri ed Imma sorrise e fece ripartire la canzone da capo, perché voleva riascoltarla ancora e ancora.


E, cullata da quell’abbraccio virtuale, si addormentò quasi senza rendersene conto.

 

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Stava facendo una rapida colazione in camera - prenotata da Mancini a sua insaputa, ovviamente, lei sarebbe scesa a farla al buffet - quando le arrivò un messaggio.

 

Sei riuscita a riposare? In bocca al lupo per oggi, ma andrai benissimo, come sempre.

 

Imma sorrise e decise di richiamarlo, sentendo un’altra botta di commozione al tono dolce del suo “pronto?”.

 

“Mannaggia a te, Calogiù, ma certo che ho dormito! Ti amo!”

 

Di solito non se lo dicevano spesso e glielo aveva già detto la sera prima, ma… ma non poteva trattenersi dopo quella sorpresa meravigliosa, “come hai scovato la canzone di Celentano me lo devi spiegare però, che eri un bambino quando è uscita.”

 

“La ascoltava mia sorella Rosa da ragazzina, le piaceva molto e l’ho ritrovata in una playlist. E quello che provo per te lo sai, anche se non sono tanto bravo ad esprimerlo a voce.”

 

“Sei fin troppo bravo, Calogiuri, altro che di poche parole! Mo devo proprio scappare ma ci sentiamo dopo.”

 

“Fammi sapere com’è andata, anche se già lo so.”

 

Imma sorrise, mise la vibrazione al cellulare - onde evitare figuracce alla conferenza - ed andò a finire di prepararsi.

 

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“Dottoressa, ma è elegantissima, sta benissimo!"

 

Imma rimase sorpresa dall’accoglienza di Mancini: aveva messo il tubino elegante già indossato alla festa della procura con sopra una giacca leopardata, per renderlo più da giorno. E aveva raccolto i capelli, sì, ma sapeva che la maggior parte della gente avrebbe obiettato sul leopardato.

 

“Dottore, mi prende in giro?”

 

“Non mi permetterei mai, dottoressa. E poi il suo stile è bello proprio perché è il suo stile. Ma resta elegantissima con quel vestito.”

 

“Intende nonostante il leopardato?”

 

“Non ho detto questo, dottoressa,” le sorrise ed Imma si ritrovò a ricambiare.


Si avviarono verso l’hotel della conferenza che era effettivamente a pochi passi dal loro. Una volta entrati, lasciati i nomi e ricevuti i loro badge - come li chiamava la receptionist - da appuntare sulla giacca, giunsero alla sala della conferenza ed Imma notò parecchi occhi voltarsi al suo passaggio. Sicuramente per il leopardato, ma non le importava, in mezzo a quel mare di nero, blu scuro o, massimo massimo, grigio. Gli uomini erano tutti tirati a lucido come Mancini, le donne sembravano cloni della Ferrari come abbigliamento.

 

Un po’ spaesata, rimase accanto a Mancini, sperando di arrivare presto al loro posto a sedere, ma si avvicinarono due uomini sulla trentina che salutarono calorosamente Mancini, mentre la fissavano di sottecchi, un po’ stupiti.


“Dottoressa, il maresciallo Righi e il maresciallo De Rossi. Collaboravano con me a Milano. Lei è la dottoressa Imma Tataranni, che da qualche mese abbiamo il piacere di avere in procura a Roma.”

 

“Dottoressa, la conosco di fama. Sono molto curioso di sentire la sua presentazione, devo ammetterlo. E pure la sua, dottore, naturalmente,” rispose Righi con un sorriso, anche se lo sguardo rimaneva sorpreso, come se avesse davanti un’aliena.

 

“Non so cosa abbia sentito su di me, maresciallo, ma sono pure peggio,” ironizzò Imma e Mancini intervenne subito.


“Non datele retta, a fare il suo lavoro è eccezionale. Vedrete dalla presentazione.”

 

I due uomini sembrarono ancora più stupiti ma, prima che potessero fare altri commenti, un uomo in divisa segnalò che la conferenza stava iniziando ed invitò i presenti ad accomodarsi.

 

Imma e Mancini si ritrovarono tra le prime file, riservate agli speaker, come c’era scritto sui bigliettini coi loro nomi piazzati sulle sedie.

 

Imma prese posto e sospirò, sperando di non addormentarsi tra una presentazione e l’altra, visto che lei e Mancini dovevano parlare nel pomeriggio.

 

Alcune presentazioni erano effettivamente interessanti, altre di una noia mortale. Ma, mano a mano che passavano le ore, alla noia si associava una certa agitazione per il dover parlare in pubblico.

 

Stava guardando di soppiatto l’orologio, mentre un vecchio trombone blaterava da secoli, notando come fosse quasi mezzogiorno, quando Mancini le sussurrò all’orecchio, “si faccia forza, è quasi l’ora del buffet.”

 

Imma gli sorrise, sperando che avesse ragione.

 

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“I finger food non le piacciono molto, dottoressa?”

 

“Diciamo che sono più per i cibi genuini, pane al pane, vino al vino. E poi non capisco il bisogno di usare tutto sto inglese.”

 

“Forse perché cibo da mangiare con le mani non suonava benissimo?”

 

“E che cambia, dottore? Una volta li chiamavano tartine, stuzzichini, mo bisogna fare suonare tutto raffinato, esotico. Come la fave e cicoria destrutturata.”


“La che?”

 

“Niente, dottore, niente, ricette di un ristorante di Matera che non le consiglio.”

 

Mancini rise e la guardò in un modo tra l’esasperato e l’affettuoso che la mise di nuovo in imbarazzo. Di solito solo Calogiuri e Pietro ai tempi la guardavano così. E forse a volte Diana, ma per altri motivi.

 

“Giorgio! Che piacere vederti!”

 

Imma si voltò verso l’uomo che aveva salutato con una pacca alla spalla - ricambiata - Mancini e che, oltre ad essere oggettivamente uno spettacolo per gli occhi, pareva pure stranamente familiare.

 

“Il capitano Ranieri?” le sfuggì, quando lo riconobbe, avendolo visto solo alla luce di un lampione stradale.

 

Ranieri si voltò e le sorrise, “dottoressa TatarannI! Che piacere rivederla! Ho visto che siete tra i relatori del pomeriggio. Io parlerò domani invece.”

 

“Ma vi conoscete voi due?” chiese Mancini, sorpreso, per poi aggiungere, come se fosse ovvio, “ah, beh, certo, Bari e Matera non sono così distanti, in fondo.”

 

“Infatti,” intervenne Imma e il capitano si zittì, comprendendo probabilmente che la scomparsa di Valentina, che aveva aiutato a ritrovare, dovesse rimanere tra di loro, “voi invece come vi conoscete?”


“Abbiamo lavorato insieme a Milano, quando stavo ancora nei ROS.”

 

“Ma era il lavoro che aveva fatto con la Ferrari?”


“Esattamente. Ed è parte della mia presentazione di domani, in realtà, tra le altre cose,” rispose il capitano, con un sorriso, “avrei voluto che ci fosse anche Irene ma non mi sorprende poi tanto che non ci sia.”

 

E, improvvisamente, Imma mise insieme il puzzle, dandosi della stupida per non averlo notato prima.

 

“Ma dottore, quindi lei e la Ferrari avete lavorato insieme già a Milano?” chiese a Mancini e lui annuì.

 

“Certamente, dottoressa, per diversi anni. Diciamo che per molti versi l’ho vista crescere, lavorativamente parlando. Ma pensavo lo sapesse.”

 

“No, dottore. Del passato della dottoressa Ferrari so molto poco, in realtà,” commentò Imma, chiedendosi se Calogiuri ne fosse al corrente.

 

Avrebbe voluto chiedere di più e capire anche altri dettagli del rapporto tra il capitano e Irene e se fosse come pensava, ma in quel momento, di nuovo, vennero interrotti da una voce che annunciava la ripresa dei lavori.


“Allora buona presentazione, dottoressa, dottore.”

 

“Arrivederci, capitano,” disse Imma, stringendogli la mano.

 

“Fatti sentire ogni tanto,” raccomandò il capitano a Mancini e si salutarono di nuovo come vecchi amici.


“Pure tu ti puoi fare sentire però!”

 

Imma prese un respiro e si preparò per l’attesa più estenuante: era terza a parlare e non sapeva se sperare che i primi due non la finissero mai o che terminassero in fretta.

 

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“E ora, la dottoressa Imma Tataranni della Procura di Roma, che ci illustrerà la sua esperienza nel combattere la criminalità organizzata tra Roma e Matera. Dottoressa, prego.”

 

Si sentì stringere rapidamente la mano da Mancini e lo guardò, sorpresa, mentre lui le sussurrò un “andrà bene, stia tranquilla!” prima di lasciargliela per permetterle di alzarsi ed andare a raggiungere il palco.

 

Già era in tensione di suo e la stretta di mano di Mancini non è che fosse esattamente tranquillizzante per lei in quel momento.

 

Guardò il giovane che faceva scorrere la sua presentazione al posto suo e gli fece cenno di pure partire. Prese un respiro, vedendo sullo schermo integrato nel leggio la sua presentazione, con le sue note sotto, e provò a parlare.

 

“Buongiorno a tutti, io-” si fermò, vedendo le facce che la squadravano manco fosse un esemplare raro allo zoo, tranne Mancini che le sorrideva.

 

Decise di ignorare tutti e concentrarsi solo sulla presentazione, immaginandosi di essere in tribunale.

 

“Vi… vi voglio presentare il lavoro che ho fatto negli ultimi anni, prima a Matera e poi a Roma. Non da sola naturalmente, ma con l’aiuto di molte persone che citerò più avanti, tra cui il dottor Mancini, che presenterà dopo di me e la dottoressa Ferrari, che sta portando avanti la parte processuale a Roma, come vedrete. Siccome il processo è ancora in corso, è stato necessario omettere alcuni dettagli, ma questa presentazione dovrebbe darvi un’idea di quanto sia stato complicato scardinare la rete di collusioni tra criminalità organizzata, politica e potere giudiziario che si era creata a Matera. Tutto è iniziato da qui,” disse, facendo un altro cenno e la slide cambiò, mostrando un articolo di giornale, “dalla morte di Don Mariano Licinio, un sacerdote che aveva da sempre aiutato i più deboli a Matera. Ma, ancora prima,” altro cenno e la slide cambiò nuovamente, mostrando foto di un pinakes, di una fossa in un campo e di un giovane, “dal ritrovamento in un fosso di Nunzio Festa, un ragazzo con troppe ambizioni e troppi pochi scrupoli, finito in un giro più grande di lui.”

 

Si azzardò ad alzare lo sguardo e vide che le persone non la guardavano più stranite, ma con interesse e, prendendo un altro respiro, si sciolse del tutto e cominciò a narrare quella che, oltre ad essere la sua storia degli ultimi tre anni, era forse la storia di una città intera.

 

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“Tra poche settimane ci sarà l’udienza finale del processo di primo grado a Roma, con la quale speriamo si possa chiudere il cerchio, anche se mancano ancora due gradi di giudizio. E speriamo che tutte le persone le cui attività criminose hanno portato morte e malattia nella città di Matera, sia chi già ha confessato, sia chi ancora cerca di sfuggire alla giustizia, possano ricevere la sentenza che meritano e non tornare più a nuocere. Che le vittime presenti e future, perché purtroppo gli effetti di certe sostanze nei terreni si vedranno ancora per parecchi anni, abbiano giustizia. E che i materani possano finalmente scegliere liberamente del loro futuro, soprattutto i giovani che ancora troppo spesso devono abbandonare la nostra città per mancanza di lavoro. Grazie per avermi ascoltato.”

 

Un applauso assordante la sorprese e alzò gli occhi, vedendo gli astanti che si sperticavano in applausi, con molto più entusiasmo delle altre presentazioni fatte fino a quel momento. In effetti questa era l’inchiesta più corposa e più grossa tra tutte quelle di cui si era parlato quel giorno. Imma si sentì felice ma un po’ in imbarazzo, che non fece che aumentare quando guardò verso Mancini e vide che le sorrideva con un’espressione orgogliosa, manco avesse appena vinto un nobel, e pareva quasi… commosso? 

 

“Qualcuno ha domande per la dottoressa?” chiese il moderatore e diverse mani si alzarono nella platea.


Cominciamo bene! - pensò: non vedeva l’ora di essere libera.

 

“Dottoressa, qual è stata la difficoltà maggiore che ha avuto nel provare a scardinare la collusione di Matera? E invece che cosa l’ha aiutata di più?” chiese un uomo seduto in terza fila, probabilmente un altro relatore.

 

“Dire che cosa sia stato più difficile… quasi tutto in realtà,” disse, scatenando una risata generale, “forse… forse la cosa più difficile è stata trovare qualcuno che credesse ai collegamenti che io vedevo e che per la maggior parte delle altre persone invece erano solo mie paranoie o teorie del complotto. Trovare le prime prove concrete che non mi sparissero da sotto il naso o finissero magicamente bruciate in incendi. La cosa che mi ha aiutato di più… a parte il mio caratteraccio che mi ha portata a tirare dritta per la mia strada, sono stati i miei collaboratori, in particolare il maresciallo Calogiuri, che ho già citato e che ha seguito tutta l’inchiesta, anche quando ho dovuto lasciarla in altre mani. La dottoressa Ferrari, che ha accettato in corsa il caso, e ovviamente i miei superiori: il dottor Mancini, che se ne è preso carico e che mi ha molto sostenuto in questi mesi a Roma, ed il dottor Vitali che non ha ceduto a Matera, nonostante le pressioni per insabbiare tutto, ma ha creduto in me. Avere delle persone su cui si possa contare e di cui ci si possa fidare in questo mestiere non è scontato e sono stata fortunata.”

 

Guardò di sottecchi Mancini e vide che sembrava soddisfatto dalla risposta.

 

Si preparò alla seconda mano alzata, sperando di finire presto.

 

Dopo un fuoco di fila di domande che neanche ad una conferenza stampa, finalmente, con un altro applauso, il moderatore le consentì di tornare al suo posto.

 

Mancini la accolse con un sorriso amplissimo e sì, sembrava decisamente commosso, rimanendo in piedi per andare lui sul palco e congedandosi con un, “parlare dopo di lei sarà molto difficile, dottoressa, ma davvero complimenti: è stata perfino meglio di come mi aspettassi. Come sempre, del resto.”

 

Imma si sentì arrossire e si sedette, cercando di tranquillizzarsi e di dirsi che quello che leggeva in Mancini fosse solo stima lavorativa e basta.

 

Ma le era sempre più difficile convincersene.

 

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“Ancora complimenti! La sua è stata la presentazione migliore di oggi ed il caso è uno dei più complessi che ho sentito in questi anni.”

 

“La… la ringrazio…” disse Imma, all’ennesima persona che si congratulava con lei: non c’era abituata e si sentiva a disagio.

 

Si stavano anche prodigando di complimenti a Mancini, ma indubbiamente la maggior parte dell’attenzione era rivolta a lei. Lanciò un’occhiata al procuratore capo che però le sorrise, facendole un cenno col capo come a chiederle se volesse uscire. Lei annuì.

 

Salutarono ancora gli ultimi che si erano già avvicinati e poi, quando uno dei presenti, il procuratore capo di Torino, chiese a Giorgio se volessero andare a cena con loro, Mancini si scusò dicendo di avere fatto una levataccia e aver dormito poco e che preferiva andare in hotel ed Imma lo assecondò, più che grata di risparmiarsi la cenetta con degli sconosciuti.

 

Perfino l’aria con lo smog di Milano le sembrò fresca una volta usciti da lì.

 

“Dottoressa, come immaginavo la sua presentazione ha avuto il successo che meritava, davvero complimenti. Poche volte ho visto tanto interesse a queste conferenze,” proclamò Mancini, mentre erano incamminati verso il loro hotel.

 

“Grazie dottore, ma è anche merito suo se la presentazione è venuta bene, che se fosse stato per me stavo ancora alla prima diapositiva. E poi pure la sua presentazione è stata molto apprezzata.”

 

“Ma io ho fatto poco per questo caso, dottoressa, quello che potevo fare, ma comunque poco. Ammiro davvero la sua caparbietà ed il suo coraggio, anche perché conosco il carattere del dottor Vitali e, pur essendo un uomo onesto, è estremamente cauto. Convincerlo di quest’inchiesta non deve essere stato facile.”

 

Sapesse! - pensò Imma, ma non lo disse, facendogli un mezzo sorriso.

 

“In ogni caso, dottoressa, questo successo va festeggiato!” proseguì Mancini, aprendole la porta dell’hotel.

 

“In che modo?” chiese, di nuovo un poco in apprensione.


“Invitandola a cena in uno dei ristoranti più antichi di Milano. Cibo tipico, visto che le è piaciuto il risotto e… stavolta prometto che eviterò l’insalata, anche perché dubito che ci sia sul menù.”

 

Imma non potè evitare di sorridere: in fondo non sembrava una cena romantica, viste le premesse, né costosa. E poi in qualche modo doveva pur mangiare.

 

“Va bene, dottore, ma solo a patto che lasci offrire me.”

 

“Dottoressa…” sospirò Mancini, scuotendo il capo e poi concedendo con un, “va bene, ma solo questa cena.”

 

Sì, il posto non doveva essere molto costoso, se aveva acconsentito, ma chiese conferma con un, “quanto è elegante il ristorante?””

 

“Informale, quindi può pure mettersi più comoda se vuole, l’importante è che le scarpe siano comode - almeno per i suoi standard - perché ci sarà da camminare un po’. Se vuole andare un attimo in camera, ci rivediamo tra una ventina di minuti, che ne dice?”

 

“D’accordo,” annuì, dirigendosi con lui verso l’ascensore.

 

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Infilò la camicia e finì di abbotonarsi la giacca. Elegante ma non troppo, adatto per il teatro.

 

Guardò l’ora e realizzò che erano le venti passate ed Imma ancora non si era fatta sentire. Sperava che la conferenza fosse andata bene, il silenzio un po’ lo preoccupava.

 

Decise di mandarle un messaggio perché, finché c’era la possibilità che fosse con Mancini, non poteva arrischiarsi a telefonare.

 

Com’è andata oggi? Tutto bene? 

 

Ma niente, aspettò un po’ ma nessuna risposta. In quel momento sentì il campanello, doveva essere Irene. Decise di mandarle un secondo messaggio.

 

Adesso esco per andare a teatro con Irene, spegnerò il telefono ma cerco di rientrare presto. Scrivimi quando puoi e dimmi a che ora ti posso chiamare. Un bacio.

 

Infilò il cellulare in tasca, insieme al portafoglio, a cui si unirono le chiavi della porta di casa una volta che la richiuse alle sue spalle.

 

“Calogiuri! Finalmente! Cominciavo a pensare non avessi sentito il campanello. Tutto bene?” gli chiese Irene, quando salì al lato del passeggero: quel giorno l’auto di servizio ce l’aveva lei e, come ogni tanto succedeva, evidentemente aveva voglia di guidare.

 

“Sì, sì, tutto bene…”

 

“Calogiuri…” sospirò lei, lanciandogli quell’occhiata scettica che pareva trafiggerlo da parte a parte, “dimmi la verità: sei ancora preoccupato per Imma e per Mancini?”

 

Lui sospirò di rimando ed annuì.

 

“Calogiuri, te l’ho già detto: o ti fidi o non ti fidi,” proclamò, posandogli una mano sull’avambraccio e stringendo leggermente, “quindi ora, anzi mo, come diresti tu, per le prossime tre ore ti scordi di Milano e ti concentri su Parigi, va bene?”

 

“Parigi?”

 

“Dov’è ambientato il musical, Calogiuri. E dai, su, puoi evitare di ossessionarti? La gelosia fa male a chi ce l’ha e a chi la subisce, che poi è il tema dello spettacolo di stasera, e non ha mai impedito un singolo tradimento, anzi.”

 

“Va bene… va bene… ci provo.”

 

“C’è solo fare o non fare, Calogiuri, non c’è provare. Come disse una volta un saggio.”

 

“E chi? Uno dei tuoi filosofi?”

 

“No. Yoda di Star Wars. Ma sei troppo giovane pure per quello, mi sa. Va beh, andiamo, prima che col traffico di quest’ora arriviamo in ritardo,” proclamò e partì, con una sgommata decisa, che gli confermava che sì, l’addestramento da carabiniere l’aveva proprio fatto.

 

Ma almeno guidava bene, a differenza di Matarazzo.

 

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“Dottore, che mi consiglia di prendere?”

 

“Guardi, qui la specialità è la cotoletta alla milanese, la cosiddetta orecchia di elefante. E tra i primi c’è il risotto con l’ossobuco, ma se prende la cotoletta potrebbe essere un po’ troppo, o se no i ravioli al brasato sono ottimi. Ma è tutto buono.”

 

“Vada per i ravioli e la cotoletta,” assentì e il cameriere, arrivato di lì a poco, prese le loro ordinazioni - Mancini come promesso la imitò nella scelta del menù - e portò dopo poco il vino rosso che il procuratore capo aveva prescelto.

 

“Allora, facciamo un brindisi al suo successo di oggi, dottoressa!” proclamò, versandole il vino.

 

“La ringrazio, ma è stato un lavoro di squadra di tante persone.”

 

“Ma a fare la presentazione c’era lei. E poi non è da lei essere modesta, dottoressa, non sulle sue capacità lavorative almeno.”

 

“Non sono modesta, dico soltanto la verità. Da sola non avrei potuto fare tutto quello che ho fatto. Anche se ho indubbiamente avuto la capa tosta di andare fino in fondo. Quando mi metto qualcosa in testa non mollo.”

 

“Nemmeno io, dottoressa. Ed è una delle tante cose che mi piacciono di lei,” concluse Mancini con un sorriso, facendo toccare i loro bicchieri.

 

Imma sentì, per l’ennesima volta quel giorno, le guance farsi calde. Mancini continuava con le battute. Lei si era pure vestita con una gonna leopardata ed un maglioncino verde petrolio tranquillissimi, da giorno, sperando che l’informalità della cena la rendesse palesemente una cena tra due colleghi, massimo massimo amici. Mancini pure si era messo jeans, camicia e maglione, abbigliamento con cui non l’aveva visto nemmeno a casa sua. Ma non si sentiva tranquilla lo stesso, anzi paradossalmente forse l’informalità, almeno per loro, rendeva il tutto stranamente più intimo.

 

Bevve un sorso di vino e cercò di cambiare discorso, “da come ne parla immagino sia già venuto molte volte in questo ristorante?”

 

“Ci venivo ogni tanto quando vivevo qui a Milano. Più che altro quando avevo ospiti che volevano assaggiare la cucina tipica milanese. Come può immaginare non si concilia molto col triathlon. Ma ogni tanto si può pure trasgredire, no?” le chiese con un’occhiata che la portò nuovamente a chiedersi se stesse parlando solo della cucina.

 

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Accese il cellulare ed attese le notifiche. Ne arrivarono un po’: Conti e Mariani, sua sorella, ma da Imma ancora niente. Probabilmente non aveva sentito il messaggio. Mandargliene un altro sarebbe stato eccessivo e non voleva disturbarla se magari era con colleghi. Resistette alla tentazione, rispense il telefono e lo rimise in tasca.

 

“Calogiuri, che c’hai? Non dirmi che stai ancora con la testa nella mia città natale.”

 

Si voltò verso Irene, che si era appena seduta accanto a lui.

 

“No, no.”

 

“Va bene, allora che ne pensi della prima parte e della trama? Vediamo se sei stato attento, maresciallo,” ribatté con un sorriso giocoso, scuotendo il capo.

 

“Che fai, mi interroghi?”

 

“Lo sai che gli interrogatori mi sono sempre piaciuti. Allora?”

 

“Allora… allora diciamo che il musical è molto bello, gli acrobati non so come facciano a essere ancora interi. Però i personaggi mi paiono tutti scemi o quasi. Tra lei che si innamora in cinque minuti di uno che voleva uccidere tutto il suo popolo e invece di mandarlo a quel paese quando la invita in un… va beh… in un bordello ci va pure. Poi il prete ossessionato e assassino, il povero gobbo che però non capisce un tubo. Insomma… gli unici sani di mente sono l’altro gitano ed il poeta che probabilmente è innamorato solo di se stesso, visto quanto si piace.”

 

Irene scoppiò a ridere, forse non l’aveva mai vista ridere così tanto.

 

“Una volta questa vena sarcastica non ce l’avevi, Calogiuri. Sei stato attento ma… hai fatto un riassunto che pare un bisturi per quanto è tagliente.”

 

Calogiuri si chiese se vedere serie tv con Imma l’avesse contagiato o se fosse solo in vena molto poco romantica e molto sarcastica quella sera, con i pensieri che c’aveva, ma dovette ammettere che era vero.

 

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Erano al dessert - una tipica torta di pane e latte - e, per essere un dolce povero, doveva ammettere di nuovo che era molto buono.

 

“Dottoressa, sapevo che l’appetito non le manca ma ammetto che sono sorpreso lo stesso da quanto riesce a mangiare.”

 

“Dottore, dopo i finger food di oggi, di fronte a cibo vero non mi tiro indietro.”

 

E Mancini rise di nuovo, finendo la sua fetta di torta. Pure il procuratore capo, per una volta, aveva dato un calcio alla dieta.

 

“Allora, dottoressa, visto che non abbiamo cenato leggero, che ne pensa se ci facciamo due passi per digerire? Così le faccio vedere un po’ di Milano, almeno i luoghi principali. Tanto sono qua vicino.”

 

Imma ci ragionò su un attimo: da un lato era tentata di tornare subito in hotel ma, dall’altro, di sicuro Mancini non le sarebbe saltato addosso in mezzo alla strada. E poi di sgranchirsi le gambe aveva voglia pure lei e chissà quando ci sarebbe tornata a Milano.

 

“Va bene, dottore, mo ho capito perchè mi ha detto di portarmi le scarpe comode.”

 

“Sì, dottoressa, anche se non vorrei doverci camminare io,” ribatté, guardando i suoi stivali coi tacchi non proprio bassi.

 

“Dottore, con questi stivali ci ho esplorato una grotta, si figuri. La pavimentazione di Milano non sarà peggiore, no?”

 

“Direi di no, dottoressa,” concordò Mancini ed Imma si affrettò a chiamare il cameriere e chiedere il conto, prima che lo intercettasse lui.

 

Per la posizione il ristorante era pure economico, merito del fatto che la cucina tradizionale evidentemente non riscuoteva più tutto questo successo. Imma pagò e Mancini sorrise e scosse il capo, “grazie per la cena, dottoressa. Spero che ora sia soddisfatta.”

 

“Diciamo che è solo una minima parte di quanto ha pagato lei, dottore, ma almeno per una volta ce l’ho fatta ad offrire io.”

 

Mancini scosse di nuovo il capo e la fece passare per prima, come al solito. Milano di sabato sera brulicava ancora di vita e seguì il procuratore capo che si incamminò a passo deciso, sperando che gli stivali reggessero e pure le gambe.

 

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“Allora, dottoressa, ce la fa a camminare ancora o alza bandiera bianca?”

 

Erano di fronte al Castello Sforzesco, dopo aver visto Duomo e Galleria Vittorio Emanuele.

 

“Un poco ancora ce la faccio, dottore, non è che abbiamo percorso tutta questa distanza.”


“Che ne dice di andare in un posto dove ci possiamo pure prendere qualcosa da bere? C’è Brera o ci sono i Navigli, anche se ai Navigli ci sono locali più giovanili. Ma pure più economici, cosa che ho capito lei apprezza. Ed i Navigli una visita la meritano.”

 

“E vada per sti Navigli, dottore. Ma sul bere credo di avere già dato abbastanza col vino rosso.”

 

“Per intanto facciamo due passi, poi vediamo,” ribatté, facendo segno verso un taxi.

 

“Perché il taxi, dottore?”


“Perché i Navigli non sono dietro l’angolo, dottoressa, e almeno il taxi mi permetta di offrirlo.”

 

“Va bene, va bene,” sospirò Imma, decidendo che all’orgoglio di Mancini questa concessione la poteva pure fare: già si era adattato alla serata low cost, come avrebbero detto i milanesi.

 

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“Oh… ora sì che ti riconosco, Calogiuri, mi stavo preoccupando!”

 

Si sentì afferrare il braccio in una specie di mezzo abbraccio e si voltò verso Irene che gli sorrideva, in quel modo un po’ intenerito che, specie i primi tempi, aveva spesso con lui.

 

Alla fine si era commosso e stava piangendo, come lo scemo che era. Ma, a quanto pare, lei era contenta che lui si emozionasse tanto.

 

“A sto giro gli attori sono troppo famosi e non li conosco, Calogiuri, ma se vuoi possiamo andarci a mangiare qualcosa o-”

 

Si bloccò all’improvviso e si toccò la tasca della giacca dove teneva il cellulare.

 

“Devo rispondere, Calogiuri,” disse, mentre si avviava a passo più rapido fuori dal teatro.

 

La vide parlare concitatamente e poi tornò verso di lui e sembrava estremamente preoccupata.

 

“Scusami, Calogiuri, ma devo tornare a casa. Ti spiace se-?”

 

“Ma figurati, non c’è problema! Vuoi che guido io?” le chiese, vedendo come era agitata.

 

“Forse… forse è meglio, Calogiuri, tieni,” annuì, passandogli le chiavi.

 

“Ma che è successo?”

 

“Mi hanno chiamata da casa e…” si bloccò di colpo, come indecisa se proseguire o meno.

 

“Va beh… se non ti va di parlarne non devi dirmelo.”

 

“No, è che… è complicato da spiegare, Calogiuri, e non ne ho la forza in questo momento. Scusami.”

 

“Non ti devi scusare. Per una volta te lo posso dire io.”

 

Irene sorrise ma flebilmente, si vedeva che era in tensione tremenda.

 

Sperò che il traffico romano del sabato sera desse loro tregua.

 

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“Allora, dottoressa, che gliene pare di Milano?”

 

Alla fine, dopo una lunga passeggiata, si erano seduti a un tavolino di un wine bar meno da movida giovanile degli altri. Uno dei pochi dove non c’era di fronte una folla con bicchieri di plastica in mano.

 

“Il cibo è buono, quando non è finto, la città è moderna, piena di vita. E le parti storiche sono molto belle. La gente è efficiente e corre veloce, cosa che non posso che apprezzare, dottore, come lei ben sa. Ma mi chiedo se sappiano tutti perché e dove corrono o se sia solo abitudine.”

 

“Come analizza lei le cose, dottoressa, con poche parole ben assestate, nessuno,” replicò Mancini, ridendo di gusto, “e il vino, le piace?”

 

“Il vino è molto buono, dottore, ma sarà pure molto caro e deve permettermi almeno di pagarmi il mio bicchiere.”

 

“Dottoressa, ho insistito io per fermarci qui a bere qualcosa, quindi è mia ospite, non se ne parla nemmeno. Lei può offrire la prossima volta.”

 

“Ma domani il convegno finisce, dottore! Che le offro? Il vino gratis del treno?”

 

“Ma mica è necessario un congresso per offrirsi da bere, dottoressa. Può offrirmi pure qualcosa a Roma, no? Una sera di queste, magari.”

 

Imma sentì un’altra vampata al viso e stava scervellandosi su come rispondere senza offenderlo, quando sentì una voce alle sue spalle.


“Giorgio, ma sei tu? Che ci fai qua? Non dirmi che sei tornato a Milano?”

 

“Paul?!” chiese Mancini, stupito, alzandosi in piedi e salutando l’altro uomo. Uno che non passava inosservato: alto, atletico, elegante e con una massa di capelli tanto folta che pareva quasi un tappeto, “comunque sono qua per un convegno e-”

 

“E non dirmi che ti sei finalmente deciso a trovarti una nuova compagna!”

 

“Veramente-”

 

“Sono una collega, la dottoressa Immacolata Tataranni, piacere,” intervenne Imma per levarsi dall’imbarazzo, allungando una mano.

 

“Ah, dottoressa, lei è quella del caso di Matera, giusto? Paul Frazer, piacere!” rispose, ricambiando con una stretta vigorosa.

 

“Ma è un magistrato pure lei?”

 

“No, sono un giornalista,” rispose, ed Imma ebbe l’istinto immediato di ritrarre la mano.

 

“Tranquilla, dottoressa, conosco Paul da molti anni, facevamo triathlon insieme. Fa il corrispondente in Italia per un network americano, ma ultimamente fa più l’anchorman che andare sul campo, o sbaglio?”

 

“Purtroppo non sbagli. Ma ogni tanto qualche inchiesta me la fanno fare ancora. E la notizia di Matera mi aveva molto colpito, so che ora il processo è a Roma.”

 

“Sì, ma se ne occupa una collega, la dottoressa Ferrari.”

 

“Come no, la conosco! Anche se l’ho persa di vista da quando se n’è andata da Milano. Me la salutate?”

 

“Non mancherò,” rispose Imma, cercando di trattenere il sarcasmo.

 

Ma sta Ferrari che ci faceva agli uomini?

 

“Vuole unirsi ai signori?” chiese il cameriere, sopraggiunto al vedere il nuovo potenziale cliente.

 

“No, in realtà sto aspettando una persona ma… dovrebbe essere qui tra poco… c’è un tavolo?”


“Al momento sono tutti occupati, signore, ma-”

 

“Ma noi stavamo giusto giusto andando, no? Tanto ormai il vino l’abbiamo finito,” intervenne Imma, finendo l’ultima sorsata, ansiosa di levarsi da lì visto la piega che aveva preso la conversazione con Mancini, “ed è stata una lunga giornata e la stanchezza comincia a prendere il sopravvento.”

 

“Va bene, dottoressa,” confermò Mancini, allontanandosi col cameriere per pagare il conto.

 

Imma rimase a studiare il giornalista con sospetto, nonostante lo sguardo in apparenza gentile.

 

Ma lei della categoria aveva una pessima opinione e ci voleva ben altro per farle cambiare idea.

 

*********************************************************************************************************

 

I minuti sembrarono interminabili, fino a quando, finalmente, si intravide il condominio di Irene. Lei scese di scatto ma poi si fermò, con la mano sulla portiera, si voltò e disse, “puoi aspettare un attimo? Potrei dovere andare al pronto soccorso e… mi potrebbe servire l’auto.”

 

“Va bene,” rispose lui, sempre più preoccupato, vedendola chiudere la portiera, entrare dal portone e salire di corsa.

 

Guardò il cellulare per vedere se Imma gli avesse risposto ma ancora non aveva visualizzato. Ed era quasi mezzanotte. Si chiese che stesse facendo e dove fosse.

 

Attese una decina di minuti in auto. Stava per provare a telefonare a Irene, preoccupato, quando la vide ritornare.

 

“Calogiuri, scusami ma… va meglio ma temo ancora di dovere andare al pronto soccorso. Però non ti voglio far rimanere qua come un manichino. Ti va di salire? Così magari ti spiego pure meglio che succede.”

 

Calogiuri esitò un attimo: Imma non l’avrebbe presa bene una visita a casa di Irene a quell’orario, con lei assente poi, lo sapeva ma… ma in fondo pure lei era stata a casa di Mancini a tarda ora, quindi non poteva lamentarsi. E poi non aveva mai visto Irene tanto in ansia, lei che era sempre così tranquilla e composta.

 

“Va bene…” annuì ed Irene gli sorrise, facendo strada verso il portone.

 

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“Bentornati, signori.”

 

Imma raramente era stata tanto felice di rivedere la hall di un hotel. I piedi iniziavano a farle male e la stanchezza cominciava a farsi sentire.

 

In silenzio, come erano stati sul taxi al ritorno, si infilarono nell’ascensore ed arrivarono al loro piano. In poche falcate Imma fu davanti alla sua stanza. Mancini si fermò a pochi passi da lei, un sorriso sulle labbra.


“Grazie per la bella serata, dottoressa!”

 

“Grazie a lei per avermi fatto da guida turistica per Milano, oltre ad offrire il vino.”

 

“Ma si figuri! Per me è un piacere: mi trovo bene con lei ed il tempo passa sempre molto in fretta.”

 

“Sarà perché vado veloce, dottore,” ironizzò Imma, l’imbarazzo che tornava a farsi sentire.

 

“Più veloce pure di me, dottoressa, e non è facile trovare qualcuno che mi stia dietro. Ma lei mi supera decisamente. In tutti i sensi.”

 

“Lei è sempre troppo gentile, dottore.”

 

“Dico solo la verità. Lei è veramente una delle persone più straordinarie che io abbia mai conosciuto. Oltre ad una delle più affascinanti.”

 

“Dottore…” mormorò, sentendosi il viso bollente e cercando una risposta, ma il cervello le era andato momentaneamente in tilt.

 

Si sentì afferrare la mano destra e Mancini se la portò alle labbra in un baciamano che le fece il solletico. Il calore che peggiorava esponenzialmente, ancora mezza paralizzata, sentì altre dita sulla guancia destra e poi vide Mancini avvicinarsi lentamente, guardandola negli occhi, come a chiederle il permesso.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci giunti alla fine di questo capitolo. Vi ho lasciati su un cliffhanger, lo so. Nel prossimo capitolo vedremo che succederà tra Imma e Mancini e tra Calogiuri e la Ferrari e… ci saranno un bel po’ di casini ma anche parecchie rivelazioni su un personaggio particolarmente misterioso.

Vi ringrazio tantissimo per avermi seguita fin qui, grazie a chi ha messo questa storia nei preferiti e nei seguiti e un ringraziamento particolare a chi mi ha lasciato o mi lascerà una recensione, che davvero mi aiutano a cercare di migliorare sempre e mi motivano un sacco a proseguire.

Spero che la storia continui a mantenersi piacevole da leggere e non risulti noiosa.

Il prossimo capitolo arriverà domenica 17 maggio, come al solito.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 30
*** La Fiducia ***


Nessun Alibi


Capitolo 30 - La Fiducia


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Calogiuri, accomodati. Se vuoi metterti sul divano… vuoi bere qualcosa intanto che aspetti?”

 

“Magari un goccio d’acqua,” rispose, sedendosi come richiesto, anche perché si sentiva a disagio ad andare oltre nell’appartamento senza il permesso di lei. Non ci stava capendo nulla, se non che evidentemente c’era un’emergenza in corso.

 

Irene si avviò verso la cucina che era un ambiente unico con il salotto, ammobiliati in uno stile moderno ed elegantissimo - altro che il suo arredamento a basso costo! - aprì il frigo, ne estrasse una bottiglia, prese un bicchiere da un armadietto e glieli poggiò sul tavolino di fronte a lui.

 

“Torno tra poco,” disse, andando verso un corridoio che presumibilmente conduceva alla stanza dal letto, al bagno e chissà dove altro, visto che c’erano diverse porte.

 

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Imma era ancora paralizzata, le dita di Mancini che le accarezzavano la guancia ormai bollente, il volto del procuratore che si avvicinava lentamente, sempre più vicino, tanto che ne sentiva il fiato sulle labbra.

 

L’istinto prese il sopravvento e finalmente la mano libera si mosse, si piazzò sul petto del procuratore e spinse indietro, con decisione, mentre la lingua pronunciava la parola, “no.”

 

Mancini spalancò gli occhi e si bloccò, le mani che bruscamente si staccarono dalla guancia e dalle sue dita, ricadendogli sui fianchi. E fu lui a diventare paonazzo, sul volto gli si dipinse uno sguardo mortificato e pure un po’ spaventato.

 

“Do- dottoressa, mi scusi, io… io… spero di non averla spaventata o messa a disagio perché… non era mia intenzione, mi creda,” pronunciò, in un modo quasi balbettante, facendo due o tre passi indietro e sollevando le mani con i palmi rivolti verso di lei, quasi come se gli avesse intimato un mani in alto, “forse… forse con il vino mi sono un po’... un po’ lasciato andare ma… ma lei mi piace molto e… non mi capitava da tempo che una donna mi prendesse così tanto e… speravo che lo avesse capito e che magari potesse ricambiare il mio interesse.”

 

Imma tirò un sospiro di sollievo, nonostante l’imbarazzo ancora fortissimo nell’aria, e Mancini le fece quasi tenerezza. Era un gentiluomo, al di là di tutto, per come l’aveva mollata subito e per come sembrava voler sprofondare. Ed era pure schietto e diretto, mo che aveva scoperto le carte. Ma non sapeva bene cosa dirgli, cosa non dirgli, come spiegargli senza potergli spiegare davvero.

 

“Dottore, io… il dubbio di piacerle mi era venuto, ovviamente, ma siccome non ci conosciamo da molto tempo… ed io non sono esattamente una top model, pensavo che magari fosse solo il suo modo di essere galante e… fino a che mi rimaneva anche solo una percentuale piccola di dubbio, non volevo infilarmi in discorsi imbarazzanti con lei e magari sembrarle paranoica. Lei… lei mi è simpatico, la stimo molto dal punto di vista lavorativo e mi piace parlare con lei e, se mi conosce un poco, sa che per me non è una cosa molto frequente, anzi. Però… però ho già la mente ed il cuore presi da… da un’altra persona, quindi… non… non ho un interesse di… di questo tipo nei suoi confronti,” spiegò, facendo segno tra loro due.

 

“Il suo ex marito?” le chiese, con un’aria dispiaciuta e un po’ rassegnata, “e comunque non si dovrebbe sottovalutare in questo modo, dottoressa, veramente.”

 

“No, dottore… è un’altra persona ma… vista la situazione ci sto andando coi piedi di piombo e… preferirei non parlarne.”


“Dottoressa, se non ne vuole parlare, non mi voglio intromettere nel suo privato,” la rassicurò Mancini, gentile come sempre, anche se gli leggeva ancora la delusione sul viso, “chiunque sia, è un uomo molto fortunato. E… se lei dovesse cambiare mai idea, l’offerta resta sempre valida, dottoressa, ma non deve temere altri... avvicinamenti da parte mia. Ho capito.”

 

“Col mio carattere, dottore, è assai più probabile che cambi idea lei non appena mi conoscerà un poco meglio,” ironizzò Imma, per spezzare la tensione.

 

“Ne dubito, dottoressa, ma mi fa piacere vedere che si sente ancora a suo agio a scherzare con me. Mi scuso nuovamente per prima,” disse Mancini, ricambiando il sorriso ma sembrando in apprensione, a parte la delusione latente.


“Dottore, visti i modi che ha avuto, non ha niente di cui scusarsi, veramente.”


“Grazie, dottoressa, e spero che… insomma… che questo non incida sui nostri rapporti sul lavoro e che lei non dubiti che… la mia stima professionale nei suoi confronti è indipendente da… da tutto il resto. Mi dispiacerebbe moltissimo perdere un elemento come lei o che non si sentisse a suo agio a lavorare con me.”

 

“Stia tranquillo, dottore, anche per me è lo stesso: la stima professionale resta immutata. E pure quella personale, almeno per me.”

 

“Grazie, dottoressa. Riposi bene, allora, che domani ci attende una giornata lunghissima. Buonanotte.”

 

“Buonanotte a lei, dottore,” rispose e Mancini, dopo un ultimo sguardo carico di una specie di malinconia, si ritirò in camera sua.

 

Imma si chiuse in camera e tirò un sospiro di sollievo anche se, d’altro canto, il procuratore capo le aveva veramente fatto tenerezza e le dispiaceva sapere che probabilmente sarebbe stato male almeno per un poco a causa sua.

 

Però poi il viso di Calogiuri le comparve nella mente e… sapeva che doveva dirgli di Mancini… ma sperava anche di potergli spiegare quanto fosse stato corretto il procuratore capo, prima che Calogiuri si incazzasse con lui. Con lei forse si sarebbe arrabbiato comunque, visto che l’aveva avvertita dell’interesse di Mancini e di tenere le distanze, e lei come una scema non gli aveva dato retta.

 

Anche perché mo uscire allo scoperto con Calogiuri era diventato ancora più complicato ma… Mancini in fondo era un gentiluomo e sembrava averla presa con la sua solita eleganza e sportività. Sperava che continuasse così anche quando avrebbe scoperto chi era esattamente il suo compagno.

 

Si buttò sotto la doccia, sentendo di averne un disperato bisogno, poi si infilò la t-shirt che ancora conservava un poco del profumo di Calogiuri, anche se ormai mischiato al suo, e prese il cellulare per vedere che stesse combinando e se fosse già rientrato. Era tardi ormai, l’una passata.

 

Le prese un colpo quando notò i messaggi di Calogiuri di diverse ore prima: non li aveva proprio sentiti, forse per vita del rumore, e con Mancini di fronte non si azzardava a guardare troppo il cellulare, non che vedesse messaggi pericolosi.

 

Un moto di irritazione le venne all’idea che fosse andato di nuovo a teatro con Irene ma, oggettivamente, visto l’orario e quello che gli doveva dire, temeva di più lei una scenata di gelosia. E tutti i torti non si sentiva manco di darglieli, perché se lui le avesse detto che Irene aveva tentato di baciarlo, il suo primo istinto sarebbe stato quello di dirgli “te lo avevo detto!” ed il secondo quello di andare a cantargliene quattro a quella gattamorta. Ma Mancini era diverso, non aveva più di tanto colpe, e sperava che Calogiuri lo capisse e non si creassero attriti nei confronti del procuratore capo che avrebbero potuto avere ripercussioni sul lavoro per entrambi.

 

Con un sospiro, si fece coraggio e selezionò il numero di Calogiuri.

 

Squillò libero a lungo, molto a lungo, tanto che Imma si stupì e si chiese se non stesse già dormendo e magari si fosse scordato di togliere la vibrazione, o avesse comunque il sonno di pietra tipico della sua età.

 

Stava per mettere giù quando Calogiuri rispose con un “pronto, Imma?” pronunciato piano. Ma non sembrava addormentato. Sussurrava e pareva quasi… in apprensione?

 

“Calogiuri, dove sei, che succede?” chiese, preoccupata, temendo fosse coinvolto in qualche azione d’emergenza, visto il volume del parlato.

 

Sentì un attimo di esitazione dall’altra parte e poi un, “Imma, io…” seguito da un rumore in lontananza di passi ed un “Calogiuri, hai detto qualcosa?” pronunciato da una voce femminile fin troppo familiare.

 

La cara Irene.

 

“Ma ancora con la Ferrari stai?”

 

“Sì, Imma, io-”

 

“Ma dove siete? Che a quest’ora i teatri stanno chiusi e pure i ristoranti tra un po’. E poi non c’è rumore di sottofondo.”

 

La detective che c’era in lei si era riattivata con tanto di allarme rosso, non ci poteva fare niente, un senso di incredulità misto ad incazzatura che già montava.

 

“Siamo… siamo a casa sua ma-”

 

“Ma sei impazzito?! Che ci fai lì, a quest’ora poi?!” urlò, il demone della gelosia che prendeva decisamente il sopravvento.

 

“Imma, poi ti posso spiegare, ma-”

 

“Ma che?! E sarà meglio che spieghi mo, maresciallo! Veloce!”

 

“Imma… non… non ne posso parlare al telefono… quando torni ti spiego con calma,” disse in un altro sussurro e Imma sentì l’incazzatura decuplicare. Ma l’aveva presa per scema?!

 

“Calma un corno, Calogiuri, anzi magari dovrei dire corna! Che pensi che sono nata ieri?! Che così, ora che torno, trovi il tempo per inventarti una scusa!”

 

“Imma, se ti dico che non posso parlarne al telefono è perché non posso parlarne al telefono. Se mi conosci sai che ti puoi fidare di me. O ti fidi o non ti fidi,” replicò, in un tono sempre basso ma deciso che la fece infuriare ancora di più.

 

“Calogiuri, c’è fidarsi e poi c’è avere i prosciutti sugli occhi!”

 

“Allora pure tu che non mi hai richiamato tutte queste ore, non hai visto i messaggi e sei in viaggio con Mancini, che dovrei dire io, eh?”

 

“Perché non ho sentito i messaggi quando sono arrivati e con Mancini non posso tirare fuori il cellulare, lo capisci sì o no? E comunque, se ti interessa saperlo, Mancini ha provato a baciarmi ma-”

 

“Che cosa?! Imma ma-”


“Ma io l’ho respinto perché gli ho detto che sono innamorata di un’altra persona. E lui ha capito ed è stato un gentiluomo. Almeno lui.”

 

“Un gentiluomo che ci prova con una sottoposta in viaggio di lavoro, che gentiluomo, complimenti! A meno che tu non gli abbia dato dei chiari segnali di interesse!” sibilò, sarcastico come raramente l’aveva sentito, nonostante il volume sempre bassissimo della voce.

 

“No, ma potrei darglieli da mo, visto che evidentemente tu la mia fedeltà e la mia fiducia non te le meriti, Calogiuri.”

 

“Fiducia? Quale fiducia? Tu di me non ti fidi, da prima di stasera, Imma, questa è la verità, non ti fidi e non ti fiderai mai. Ma nella vita ci sono cose più importanti delle tue scenate di gelosia. Ma corri pure dal gentiluomo, se ti fidi più di lui che di me, dopo tutto quello che ti ho dimostrato in questi anni. Io mo devo andare che abbiamo già fatto fin troppo casino. Se vuoi parlarmi di persona, quando torni sai dove trovarmi, sempre se non sei troppo impegnata col gentiluomo.”

 

“Calogiuri, non-”

 

Ma non sentì più nulla e si rese conto che Calogiuri le aveva chiuso la chiamata in faccia. Furente ed incredula provò a richiamare ma il cellulare non era più raggiungibile.

 

D’impulso gettò il telefono, che per fortuna rimbalzò sul letto e poi sulla moquette, salvandosi da morte certa. Era furiosa, nera, nera! Calogiuri aveva una faccia tosta da primato e osava pure fare l’offeso, lui, dopo non averle dato uno straccio di spiegazione credibile.

 

Non posso parlarne al telefono! - manco fosse stato sotto copertura a casa di un boss mafioso e non da quella gattamorta della Ferrari.

 

Picchiò due colpi sul materasso e sul cuscino e poi la furia per un attimo si calmò, sostituita dalle lacrime di rabbia, di delusione, di dolore all’idea che fosse bastato stare via un giorno per mandare affanculo tutte le promesse che si erano fatti.

 

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“Ma che è successo? Problemi con Imma? E cos’è sta storia di Mancini?”

 

Calogiuri, ancora furente ed incredulo per quello che Imma gli aveva appena detto - non solo su Mancini ma soprattutto che, per l’ennesima volta, aveva dimostrato di non avere la minima fiducia in lui e di saltare subito alle conclusioni senza dargli retta - alzò lo sguardo e vide Irene che lo squadrava, con un’aria confusa e preoccupata.

 

“Non ti preoccupare, veramente. Bianca come sta?” le chiese, concentrandosi su problemi decisamente più urgenti e gravi delle paranoie di Imma.

 

“Direi bene, sembrerebbe essersi addormentata,” gli rispose con un sorriso ed uno sguardo grati, “se ora vuoi andare puoi farlo tranquillamente, credo che per stanotte siamo a posto.”

 

“Ma no, dai, ormai è tardi e… preferisco stare qui fino a domattina, non che si svegli e stia ancora male. Posso dormire sul divano se per te non è un problema e se… se la mia presenza non fa peggio.”

 

Irene non rispose ma i suoi occhi si allargarono e poi si fecero lucidi e, improvvisamente, senza capire bene come, se la ritrovò tra le braccia che lo stringeva forte. Un po’ in imbarazzo, ricambiò l’abbraccio e la sentì sussurrargli nell’orecchio un “grazie!” con un tono che lo commosse a sua volta.

 

“Sai…” gli disse poi, con voce roca, staccandosi da lui ma rimanendogli seduta vicino, “per me non è facile fidarmi di qualcuno e… e mi spiace averti dovuto… omettere tante cose di me per tanto tempo. Ma sono felice di essermi fidata di te.”

 

“Non devi scusarti, veramente. Pure io al posto tuo sarei molto in ansia all’idea di far entrare qualcuno nella mia vita privata.”

 

“Sei sempre troppo buono, Calogiuri,” proclamò lei e poi si alzò, “ti porto almeno un cuscino e una coperta.”

 

La vide sparire e tornare dopo poco, depositando sul divano quanto promesso, prima di sentirsi trascinare in un altro rapido abbraccio e sussurrare un, “grazie ancora, buonanotte!”

 

Sorpreso, la vide sparire in corridoio e dietro una delle porte che presunse essere la camera da letto. Si preparò il suo giaciglio di fortuna, si levò giacca e scarpe e provò a mettersi a dormire.

 

Non sapeva se fosse più forte lo stupore e la preoccupazione per quanto appreso quella sera o l’irritazione e la delusione nei confronti di Imma, ma ben presto sentì le palpebre farsi sempre più pesanti e si lasciò vincere dal sonno.

 

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Ancora incazzata nera, si infilò a letto e, come mise la testa sul cuscino, sentì qualcosa di fastidioso sotto la testa, allungò una mano e ci trovò il lettore mp3 di Calogiuri.

 

Era molto tentata di lanciare via pure quello, eccome se era tentata, ma una frase della canzone ascoltata solo ventiquattr’ore prima la bloccò, quel “disonesto mai lo giuro, ma se tradisci non perdono” che mo le suonava quasi beffardo.

 

Calogiuri poteva davvero, dopo averle fatto una sorpresa del genere, dopo tutti quei mesi insieme, a lottare per potersi vivere il loro rapporto, essere corso dalla Ferrari dopo una sola notte? Fosse stato pure un desiderio di rivalsa verso lei e Mancini.

 

O ci poteva, anzi, ci doveva essere un’altra spiegazione?

 

Riafferrò il cellulare e provò a richiamarlo, ma niente, era ancora staccato.

 

Sentì freddo al collo e si rese conto di stare piangendo, mentre la rabbia e l’impotenza si impadronivano di lei. Non doveva farsi intortare: a parole erano tutti buoni ma poi… Calogiuri si era rifiutato di darle spiegazioni ed il cellulare era spento, forse perché spiegazioni non ce n’erano e stava cercandone una da inventarsi.

 

Delusa, non sapendo più a cosa credere, si rimise con la testa sul cuscino, nonostante il sonno non ne volesse sapere di venire e, ogni volta che chiudeva gli occhi, si immaginava Calogiuri e la Ferrari insieme, che facevano ben altro che parlare.

 

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Sentì un tocco sul braccio e sorrise, sussurrando, “Imma?”

 

“Chi è Imma?”

 

Aprì gli occhi di colpo, trovandosi di fronte una bimba riccia e mora, dalla pelle bianchissima, mentre il cervello assonnato ricollegava gli eventi delle ultime ore e perché lui fosse su un divano.

 

“Bianca?” le chiese, mettendosi a sedere piano piano, timoroso di spaventarla.

 

“Chi è Imma?” ripeté con uno sguardo curioso, “e perché dormi qui?”

 

“Imma è… è la mia fidanzata.”

 

“Allora veramente non sei fidanzato con Irene?” chiese lei, con un tono strano.

 

“No, non siamo fidanzati, siamo solo amici. E… e dormo qui perché era tardi per tornare a casa ed ero stanco, ma domattina vado via presto, stai tranquilla.”

 

Ma la bimba continuò a studiarlo con uno sguardo indecifrabile, anche se quantomeno non sembrava impaurita.

 

“Tu stai bene? Hai bisogno di qualcosa?” le chiese, preoccupato.

 

“Vorrei… vorrei un bicchiere di latte e poi… mi sono svegliata e avrei bisogno di una storia ma… ma Irene e la tata dormono e poi raccontano sempre le stesse storie. Tu ne conosci qualcuna?”

 

“Dipende da quali conosci tu.”

 

“Cenerentola, Biancaneve, La Sirenetta, Raperonzolo, le solite.”

 

Calogiuri notò che mancava Cappuccetto Rosso ma la cosa tutto sommato non lo stupì, vista la storia personale della bimba.

 

“Senti, allora, se per te va bene, tu ti rimetti a letto e io ti vado a prendere il latte e poi provo a raccontartene una, va bene?”

 

La bimba annuì e, dopo un ultimo sguardo, andò a passo rapido verso la sua stanza.

 

Calogiuri, sentendosi un po’ a disagio, non essendo a casa sua, prese un bicchiere da sopra il lavabo e versò il latte dal frigo e poi la raggiunse.

 

La stanza di Bianca era con le pareti bianche ed il soffitto ricoperto da stelline fosforescenti. Alcune bambole ed altri giochi in un contenitore vicino al letto, i comodini e il letto bianco, l’armadio di un tono molto delicato di lilla. Era luminosa, dava un senso di tranquillità, e Calogiuri immaginò che fosse proprio quello lo scopo. Vicino alla bimba sul letto c’era un solo peluche: un koala dalle orecchie che cominciavano a mostrare i segni del costante uso.

 

Le mise il latte sul comodino e poi si sedette su una sedia che c’era vicino alla porta, tenendosi volutamente lontano dal letto, per non spaventarla. Bianca prese il latte e ne bevve un poco e poi rimise il bicchiere sul comodino, afferrando il suo koala e chiedendo, “allora, mi racconti una storia?”

 

“Certo. Ma il koala come si chiama?” chiese lui, mentre si sforzava di pensare ad una fiaba che non fosse tra quella da lei elencate.

 

“Non si chiama, è un pupazzo,” rispose lei, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.


E in effetti lo era.

 

“La conosci la storia di Aladino?” chiese, per cambiare argomento, buttando lì la prima cosa che gli era venuta in mente: il film Disney corrispondente, un vhs ereditato da suo fratello Modesto, era stato quello che aveva visto più spesso da bimbo. Non che ne avessero molti e lui si era dovuto sempre accontentare di ciò che gli passavano i fratelli.

 

“No, com’è?” domandò Bianca, incuriosita.

 

“Allora, in un posto vicino al deserto, molto ma molto caldo, c’era una città chiamata Agrabah, governata da un sultano che-”

 

“Che cos’è un sultano?”

 

Ma perché i bambini avevano sempre domande difficili?

 

“Diciamo che è tipo un re… e poi aveva una figlia di nome Jasmine ed un visir di nome Jafar. Il visir era… diciamo il vice del sultano.”

 

“E il sultano come si chiamava?”

 

“Ora che ci penso.... il nome del sultano non lo sappiamo, ma perché era così importante che tutti lo chiamavano sultano o sua maestà.”

 

“Insomma, era come il mio koala.”

 

A Calogiuri venne da ridere e non riuscì a trattenersi: Bianca era sveglia, fin troppo.

 

“Più o meno, in effetti era un po’ un pupazzo, un po’ imbranato ma molto buono, solo che il visir Jafar…”

 

E proseguì a raccontare e all’inizio Bianca continuava con le domande, ma poi, quando lui entrò nel vivo della storia e iniziò a narrarle del genio e della lampada, cercando pure di imitare le voci, iniziò a ridere e si mise più comoda ad ascoltare, senza interromperlo più o quasi.

 

“Sei proprio bravo a raccontare le storie,” disse con un sorriso sonnacchioso, quando stava descrivendole di Aladino e di Jasmine che si trovavano sul tappeto volante e di quel “ti fidi di me?” che in quel momento gli pareva a dir poco beffardo, vista la situazione con Imma.

 

Stava proseguendo per spiegarle di come Aladino perdeva la lampada, quando si rese conto che Bianca si era addormentata.

 

Soddisfatto, si alzò dalla sedia, cercando di fare più piano che poteva e si voltò verso la porta per spegnere la luce, quando per poco non gli prese un colpo trovandoci Irene, che però lo guardava con un sorriso e pareva di nuovo sull’orlo del pianto.

 

Gli fece segno di uscire e poi chiuse delicatamente la porta.

 

“Grazie… non so che dire… è raro che Bianca sia così tranquilla con… con un estraneo. Di solito è terrorizzata, soprattutto se sono uomini, quindi è un mezzo miracolo. Sei proprio bravo coi bambini.”

 

Calogiuri si sentì arrossire ma sorrise, toccandosi la nuca.

 

“E poi sei bravo pure a fare le voci, potevi avere un futuro nel teatro, se non avessi fatto il carabiniere!”

 

Calogiuri sentì il calore al viso peggiorare ancora, per non parlare poi di quando si ritrovò di nuovo stretto in un altro abbraccio.

 

“Grazie,” gli sussurrò, staccandosi; sentì dita accarezzargli la guancia sinistra ormai bollente, e poi Irene si allontanò di un paio di passi e con un “cerca di riposare!” si infilò nella sua stanza.

 

Calogiuri se ne tornò sul divano. E fu allora che vide sul tavolino il cellulare, ancora spento. Lo prese in mano e guardò l’ora sull’orologio: erano le tre del mattino ormai. Chiamare Imma a quell’ora non poteva e poi… e poi alla mente gli balenò chiara l’immagine di Mancini che la baciava e mollò bruscamente il cellulare sul tavolino, decidendo che era meglio che rimanesse spento, almeno finché non sarebbe tornato a casa sua.

 

Anche perché per telefono, pure volendo, realmente non poteva spiegarle cosa fosse successo.

 

Qualche ora prima...

 

Era seduto sul divano, il bicchiere d’acqua in mano, quando aveva sentito una vocina chiedere “ma c’è qualcuno di là?” e la voce di Irene rispondere “un mio collega, stai tranquilla!”

 

Ma, dopo pochi minuti, dalla stanza era spuntata una bimba mora, coi capelli ricci ricci e gli occhi chiari, che lo aveva fissato dal corridoio, come impaurita.

 

Dopo poco era apparsa Irene che le aveva detto, “stai tranquilla, Bianca, è un mio collega, un carabiniere: è un amico ed è venuto ad aiutarmi con la macchina.”

 

La bimba era rimasta immobile, lo sguardo corrucciato e preoccupato. Lui non aveva saputo bene che fare, come comportarsi, quindi se ne era stato fermo e zitto e, dopo poco, aveva abbassato gli occhi, un po’ a disagio.

 

Ed era stato allora che aveva sentito dei passi e, rialzando lo sguardo, aveva visto che la bimba si era avvicinata un poco, rimanendo comunque sempre a distanza di sicurezza, Irene al suo fianco che la teneva per mano. Bianca sembrava studiarlo con attenzione, nemmeno fosse un animale potenzialmente pericoloso.

 

“Come ti chiami?” gli aveva chiesto, all’improvviso, con una vocetta timida che l’aveva intenerito ancora di più.

 

“Ippazio.”

 

E la bambina aveva riso. Il suo nome faceva sempre lo stesso effetto a tutte le età.


“Che nome strano, non l’ho mai sentito prima.”


“Eh lo so che è strano… e tu come ti chiami?”

 

“Bianca.”


“Bel nome! Sicuramente meglio del mio!”

 

La bimba lo aveva guardato con un’aria da “non ci vuole molto!” che gli aveva ricordato tantissimo Irene quando era sarcastica. Poi era rimasta un attimo pensierosa, come se volesse dire qualcosa ma non osasse. Ed alla fine aveva fatto la domanda.

 

“Ma sei il fidanzato di Irene?”

 

Calogiuri si era sentito avvampare ed aveva visto che pure Irene pareva imbarazzata, pur nascondendolo dietro un colpo di tosse.

 

“No, no, sono solo un collega, un amico, non siamo fidanzati, veramente.”

 

“Meno male!” aveva proclamato la bimba, sembrando un poco sollevata, “perché di solito amico è come dire fidanzato e a me gli amici e i fidanzati di mia mamma mi hanno sempre fatto paura.”

 

Dire che era rimasto sconvolto era dire poco. Aveva guardato Irene, preoccupato: sapeva che avesse un brutto passato sentimentale di qualche tipo, ma addirittura gente che faceva paura... non gli sembrava il tipo da cadere nelle grinfie di uomini violenti, senza menarli - per non dire altro - prima lei di suo, Rambo com’era.

 

Irene aveva scosso il capo e fatto un segno della mano come a dire “ne riparliamo dopo…”

 

“Cosa ci fai qui?” aveva chiesto ancora la bimba, ormai in modalità interrogatorio.

 

“Niente è che… sono qui con l’auto di servizio e aspettavo per vedere se la tua mamma aveva bisogno di un passaggio o meno.”

 

Bianca, di rimando, era diventata triste, gli occhi che le erano finiti sul pavimento e gli era sembrata ad un passo dallo scoppiare a piangere. E Calogiuri si era chiesto cosa avesse detto di sbagliato.

 

“La mia mamma è in un posto molto lontano e non può tornare mai più,” aveva sussurrato la bimba e dire che in quel momento Calogiuri sarebbe voluto sprofondare fino al sotterraneo del palazzo ed oltre sarebbe stato riduttivo.

 

“S- scusa io-”

 

“Non ti devi scusare, nessuno ci può fare niente. Però grazie se ci volevi provare, sei gentile,” aveva risposto Bianca, pur malinconica.

 

“Bianca, forse ora è meglio se provi a dormire un poco, no?” era intervenuta Irene, mettendole una mano sulla spalle la bimba aveva annuito ed insieme erano andate verso la stanza da cui erano uscite in precedenza. Bianca gli aveva lanciato un ultimo sguardo curioso prima di sparire oltre la porta.

 

Aveva atteso per un po’, non sapendo bene che fare, ed in corridoio era ricomparsa Irene ed un’altra donna che presumeva essere la tata della piccola. Irene le aveva detto di andare pure a riposarsi, la donna l’aveva ringraziata ed era entrata in un’altra stanza. E poi Irene lo aveva raggiunto, sembrando ancora un po’ in imbarazzo.

 

“Immagino avrai un sacco di domande, Calogiuri…” gli aveva detto con un sospiro, sedendosi accanto a lui sul divano.

 

“Sì… ma… scusami per prima io… io non sapevo che tu-”


“Non ti devi scusare, Calogiuri, la colpa è mia che non ti ho spiegato prima la situazione. Come… come avrai intuito, Bianca non è mia figlia, biologicamente parlando e, a dire la verità non lo è nemmeno per lo stato italiano. Ce l’ho in affido ma, non essendo sposata o convivente, non posso adottarla ufficialmente. Bianca… è figlia di una… di una mia testimone al processo di Milano. La madre di Bianca ha avuto sempre compagni violenti… purtroppo… purtroppo li attirava come una calamita ed era giovane e molto povera quando è rimasta incinta. Il padre di Bianca è finito in galera che Bianca aveva due mesi, stava in giri di droga e… e la madre di Bianca si era rifatta una vita con un altro che te lo raccomando e che… e che era di una famiglia abbastanza potente nella criminalità organizzata di Milano. Quando… quando siamo andati ad arrestarlo e le abbiamo trovate, la mamma di Bianca, Elisa, aveva un occhio completamente nero ed un sacco di lividi. L’ho convinta a testimoniare contro il compagno, in cambio di protezione per lei e Bianca ma… ma quel bastardo, che il giudice mi aveva messo ai domiciliari in attesa del processo, l’ha trovata lo stesso e l’ha uccisa a coltellate, mentre l’agente che la sorvegliava si era allontanato, a quanto pare per fare una telefonata. Che non si scorderà mai, visto che gli è costata il posto. Però… però ora che è tornato all’appartamento era troppo tardi. Per fortuna Elisa aveva nascosto Bianca in un armadio ma… ma Bianca ha sentito quasi tutto.”

 

Calogiuri era ammutolito. Per quanto si vedeva che Bianca fosse impaurita, non immaginava una storia così tremenda. Altro che essere spaventata, povera piccola!

 

“Quando sono arrivata… sul posto… Elisa era… era già morta ed in condizioni terribili. L’ex compagno per fortuna l’agente era riuscito a bloccarlo, anche se si era preso pure lui una coltellata, e poi aveva chiamato i rinforzi. Ma Bianca non si trovava. Pensavo che fosse riuscito a farla portare via prima di essere fermato ma… ma lui insisteva che non l’aveva vista la bastarda, così la chiamava. E… e poi in camera da letto ho sentito dei respiri e… l’ho trovata terrorizzata nell’armadio. All’inizio è stata dura convincerla a uscire, ma poi si è attaccata alla mia gamba e non si voleva più staccare. Chiedeva di sua mamma e… ho dovuto impedirle di vederla e… e poi ho chiamato ovviamente degli psicologi e degli psichiatri con cui collaboriamo, per aiutarmi a farle capire che sua mamma era morta. Ma… ma lei già lo sapeva credo… solo che… è rimasta molto traumatizzata per quello che aveva sentito. Aveva attacchi continui di panico, di pianto, soprattutto per il primo anno. Siccome si era affezionata a me e voleva solo me il giudice me l’ha affidata, pure se ero single e… e così, finito il processo, ho fatto armi e bagagli e me ne sono venuta a Roma, per tenerla al sicuro, perché il clan del suo patrigno non è stato del tutto smantellato e… e qui nessuno sul lavoro sa di lei, se non Mancini e ora… e ora tu. Pensa che pure la sua tata ha fatto un corso di difesa personale, ha fatto anche la guardia del corpo in passato. E, col maxiprocesso in corso, a maggior ragione sto cercando di tenere nascosto il più possibile che ho… una bimba a casa.”

 

“Ma… ma Bianca non esce, non…?”

 

“Esce con la tata, non in questo quartiere ma esce. Ma poco perché ha molta paura del mondo esterno, degli estranei, anche se con me e con la tata è una bimba molto sveglia, abbastanza vivace. Per ora non va all’asilo. Dall’anno prossimo dovrebbe andare a scuola... ho cercato di farle incontrare bambini, figli delle mie amiche, avrai notato che me le scelgo sempre molto lontane dagli ambienti della procura ma… ma appunto è molto impaurita. Già è migliorata tanto, ha sempre meno attacchi e crisi ma… ma stasera ne ha avuta una. Io cerco di uscire almeno una sera a settimana, oltre che di giorno, per abituarla ma… ogni tanto ancora sta male.”

 

“Io… io non so cosa dire…” aveva sussurrato, ancora sconvolto dal racconto e da tutto il resto, prima di essere colto da un dubbio, “ma… ma se tu cerchi di non fare amicizie nell’ambiente della procura… perché con me invece lo hai fatto?”

 

“Beh, per intanto è un anno che ci conosciamo e di Bianca te l’ho detto solo ora, Calogiuri, anche se… se avrei dovuto farlo prima e… e mi dispiace. E… e poi… non so… sarà che in te rivedo un po’ di quella che ero un tempo, anche se abbiamo caratteri molto diversi, sarà che sei un buono, un buono vero. Non hai maschere, non hai filtri, ti si legge tutto in faccia, te l’ho detto tante volte. E di sti tempi ne sono rimaste pochissime di persone come te.”

 

“Non so se sia un complimento o un’offesa…” aveva ironizzato, per allentare la tensione.

 

“Un complimento, Calogiuri, un complimento. Pure se a volte col lavoro che facciamo non è prudente.”

 

“E poi… e poi non ti devi scusare. Lo capisco perché non me ne hai parlato prima e… e spero davvero che Bianca stia meglio e di non avere peggiorato la situazione con la mia presenza e… e con le mie parole, che in certi momenti parlo sempre troppo.”

 

“Anzi, tu sei di poche parole, Calogiuri e… no, Bianca sembra essersi calmata e si stava addormentando. Tra tutti gli estranei che ha visto negli anni, sei quello con cui ha reagito meglio, soprattutto considerando che sei un uomo. Probabilmente perché sei tranquillo e te ne sei rimasto fermo in silenzio e hai aspettato che si avvicinasse lei. Ci sai fare coi bambini.”

 

“Ma no… è che… sono timido lo sai e poi… quando temo di fare danni di solito cerco di non fare niente.”

 

“Sei sempre troppo modesto,” gli aveva risposto con un sorriso, prima di dargli come una pacca su una gamba, rialzarsi e proclamare, “vado un attimo a controllare se Bianca dorme.”

 

E, poco dopo che Irene si era allontanata, l’aveva chiamato Imma. Era stato tentato di non rispondere ma alla fine aveva ceduto per timore di farla preoccupare o che le potesse essere successo qualcosa. Ma l’atteggiamento accusatorio di lei, la sua sfiducia l’avevano fatto incazzare come forse mai prima.

 

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La sveglia del cellulare le fece aprire gli occhi di scatto, mentre sentiva le prime avvisaglie di un mal di testa colossale.

 

Aveva passato una notte praticamente insonne e si era addormentata sicuramente dopo le quattro. E mo la pagava cara.

 

Ma non poteva perdere tempo: c’era il convegno e doveva pure finire di fare la valigia prima di andarci, perché la stanza era da lasciare libera entro mezzogiorno.

 

Si sforzò di cambiarsi, indossando un vestito pitonato che aveva già utilizzato per la maledetta cena della Moliterni ed una giacchetta nera che si era decisa ad acquistare per l’occasione, ricordandosi di sua figlia e della raccomandazione di non fare troppi abbinamenti di fantasie. Ma per lei quello era il massimo della sobrietà possibile.

 

Buttò tutto il resto in valigia, maglietta di Calogiuri compresa e, dopo un attimo di esitazione, si mise in borsa il lettore mp3. Guardò il cellulare sul comodino, che sembrava chiamarla come il canto di una sirena con i marinai.

 

Era tentata di chiamare Calogiuri, fosse stato solo per dirgliene quattro, eccome se era tentata. Ma le aveva praticamente chiuso il telefono in faccia, aveva staccato il cellulare e se ne era stato bello bello, in piena notte, a casa di quella gattamorta della Ferrari. Col cavolo che doveva farlo lei il primo passo: come minimo Calogiuri doveva tornare in ginocchio sui ceci, ma proprio come minimo.

 

In quel momento bussarono alla porta e due pensieri la colsero all’improvviso: da un lato il timore che si trattasse di Mancini, dall’altro la speranza che fosse invece qualcosa da parte di Calogiuri, se era rinsavito.


Chiese chi era e il “colazione in camera” di risposta le fece crollare quella flebile speranza.

 

Aprì ed il cameriere gentilmente lasciò tutto l’occorrente, come il giorno prima, ma stavolta, sopra la tovaglia ci trovò un bigliettino ripiegato.

 

Mancini, ovviamente.

 

Dottoressa, mi scuso ancora moltissimo per ieri sera e spero che abbia riposato bene. L’aspetto alla reception per andare al convegno.

GM

 

Ad Imma venne quasi da piangere: aveva un uomo praticamente perfetto che evidentemente ci teneva a lei, fin troppo, e lei invece stava lì a struggersi per un segnale di Calogiuri, un segnale qualsiasi.

 

Pure un mazzo di carciofi le sarebbe andato bene, tra un po’, al di là dell’incazzatura.

 

Si impose di mangiare qualcosa, che sarebbe stata una giornata lunghissima prima del rientro a Roma, con solo il maledetto finger food e poi si rassegnò a finire di prepararsi, raccogliere tutte le sue cose e lasciare la stanza.

 

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Una luce improvvisa ed un tocco sul braccio lo risvegliarono. Confuso, aprì gli occhi e, non appena si adattarono alla luce, vide Irene e Bianca al suo fianco, già perfettamente vestite.

 

“Che… che ore sono?”

 

“Sono le nove, ora di svegliarsi,” disse Irene con un sorriso e Calogiuri non potè fare a meno di pensare alle dormite che si facevano lui e Imma, pure fino alle undici del mattino, “visto che sei qui, ti va di fare colazione con noi prima di andare?”

 

“Sì, sì, certo,” annuì, mettendosi seduto e cercando un minimo di ricomporre camicia e pantaloni, che erano parecchio spiegazzati, “vuoi che vi vada a prendere i cornetti o qualcosa d’altro di colazione?”

 

Bianca guardò prima lui e poi Irene con occhi degni del gatto con gli stivali di Shrek, “possiamo?”

 

“Va bene, è domenica e si può fare per una volta. Tu cosa vuoi, signorina?”

 

“Il cornetto al cioccolato.”

 

“Invece per me una brioche alla crema.”

 

“Cioè un cornetto o-?”

 

“Calogiuri, va bene che sono di Milano e noi milanesi su questo ci confondiamo spesso, ma l’Italia l’ho girata e se dico brioche intendo brioche, non il cornetto,” replicò con un sorriso, “qui davanti c’è un bar che le fa buonissime. Ogni tanto ci vado a prendere la colazione. Però pago io, va bene? Che tu hai già fatto abbastanza.”

 

“No, dai, mi offri già sempre il teatro. Almeno la colazione te la offro io. La… la tata che cosa vuole di colazione?”

 

“Maria è già da un’ora che è uscita, Calogiuri, oggi è il suo giorno libero e la mattina esce presto. Stai tranquillo.”

 

“Ma non ho sentito niente.”

 

“Dormi come un sasso, Calogiuri, e poi Maria è abituata a essere silenziosa, col lavoro che fa. Meglio di un ninja.”

 

Calogiuri sorrise e, rimessosi la giacca, uscì dall’appartamento in direzione del bar di fronte.

 

Il barista lo guardò un po’ stranito, probabilmente perché era vestito da sera ed aveva l’aria di averci dormito nei suoi vestiti ma poi prese l’ordinazione. Era stato tentato per un attimo dal bombolone alla crema, ma gli faceva venire in mente Imma. E così prese un cornetto al cioccolato, come quello di Bianca.

 

Recuperò il telefono dalla tasca, mentre aspettava, e si rese conto che era ancora spento. Lo riaccese e vide una chiamata persa da Imma, poco dopo che lo aveva staccato.

 

La tentazione di richiamarla era forte, fortissima, anche se forse a quell’ora era già al convegno o comunque con quel marpione di Mancini - per non dire altro.

 

Ed il pensiero di Imma tra le braccia di Mancini che la baciava, insieme alla totale mancanza di fiducia che aveva dimostrato nei suoi confronti, gli levarono la tentazione. Lui glielo aveva detto chiaro e tondo che, se voleva parlargli, sapeva dove trovarlo. Mo, se aveva anche solo un briciolo di interesse di e fiducia in lui e se voleva dimostrarglielo doveva venire lei da lui, di persona.

 

“Abbello, capisco che te sei fatto la nottata e c’avrai sonno ma fanno 6 euro, te movi?”

 

La voce del barista, leggermente irritato, lo riscosse dai suoi pensieri ed allungò una banconota da dieci euro, un po’ imbarazzato per essersi distratto a tal punto, recuperando il sacchetto di carta e affrettandosi a tornare da Irene.

 

Lei sorrise ed afferrò il sacchetto, mettendo il tutto su un piatto e poi in tavola, dove già c’erano le tovagliette e tre tazze.

 

“Allora, Calogiuri, ti va il cappuccino?” gli chiese e lui assentì, vedendo che aveva pure l’attrezzatura per fare la schiuma, anche se non la usava benissimo e sembrava un po’ in difficoltà.

 

“Posso?” le chiese, facendo cenno verso il pentolino del latte, alto e stretto, e lei glielo passò, stupita. Lo mosse fino a far formare la schiuma ed Irene lo guardò  e lui chiarì, “ho fatto il barista per oltre un anno.”

 

“E allora poi devi farmi vedere esattamente il movimento di mano, Calogiuri,” rispose lei con un sorriso e lui rovesciò la schiuma piano piano sul caffè d’orzo lungo destinato a Bianca. Quando glielo pose davanti la bimba aveva gli occhi che brillavano.

 

“Sembra una nuvola, sei proprio bravo!” esclamò, contenta, battendo una volta le mani.

 

Si sbrigò a montare il latte necessario anche per lui ed Irene e, una volta preparati i cappuccini, le raggiunse a tavola ed iniziarono a mangiare.

 

Morse il suo cornetto e non era male, anche se gli mancavano i bomboloni e le brioche all’arancia con Imma, ma non ci doveva pensare in quel momento. Sentì Bianca ridere, la guardò e vide che lo indicava, sorridendo.

 

“Cosa c’è?”

 

“Sembra che hai i baffi e c’hai tutti i denti neri.”

 

“Senti chi parla, signorina!” ribatté, ricambiando il sorriso, perché effettivamente pure lei era tutta sporca e Bianca sorrise di nuovo coi denti ricoperti di cioccolato, prima di tornare a mangiare.

 

Si sentì stringere poco sopra il ginocchio e si voltò verso Irene, che mollò la presa e gli fece un cenno col capo, come un grazie. Aveva gli occhi lucidi e gli sorrise.

 

E gli venne spontaneo ricambiare, pure coi denti sporchi.

 

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“Dottoressa.”

 

“Buongiorno, dottore,” rispose, seguendolo mentre si avviava fuori dalla reception.

 

“Dottoressa, tutto bene?” le chiese Mancini, quando erano a pochi passi dall’hotel del convegno, fermandosi di colpo e guardandola negli occhi, “se è per quanto è successo ieri sera… io spero veramente di non averle rovinato il convegno perché non me lo perdonerei. Se preferisce, posso sedermi lontano da lei oggi e pure in treno.”

 

La verità era che non si sentiva in imbarazzo per la sera prima, non quanto aveva temuto. Era talmente stanca, triste e giù di corda che aveva la mente completamente altrove. Continuava a pensare ad un certo maresciallo e ad una certa dottoressa, che chissà cosa stavano facendo in quel momento.

 

“Ma si figuri, dottore, non è per lei, no!” rispose, decisa, vedendolo così mortificato, “anzi, la ringrazio per la colazione e non deve scusarsi oltre, veramente. Ma… diciamo che ho un po’ di problemi a casa, di cui però preferirei non parlare.”

 

“Dottoressa, spero solo che non sia niente di grave e che possa risolversi presto.”

 

“Eh, lo spero anche io, dottore, lo spero anche io…” sospirò, riprendendo a camminare verso l’hotel, seguita da Mancini.

 

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“Allora io vado. Ti lascio le chiavi della macchina.”

 

“Ma sei sicuro di volertela fare a piedi?” gli chiese, afferrando il portachiavi che le stava porgendo.

 

“Sì, tranquilla, almeno faccio un po’ di esercizio dopo tutto il cioccolato.”

 

“Pa- passerai ancora a trovarci?” chiese improvvisamente Bianca, in piedi accanto a Irene, che si voltò verso di lei, stupita.

 

“Ti piacerebbe rivederlo?” le domandò e Bianca ci pensò un attimo e poi annuì, spostando lo sguardo su di lui e dicendogli, “mi piacerebbe sentire altre storie raccontate da te.”

 

“Allora facciamo così… me ne studio una nuova e tornerò a raccontartela, se va bene per tutte e due.”

 

“Ma certo che va bene,” gli sorrise Irene, sembrandogli nuovamente commossa, mentre Bianca annuiva.

 

Irene lo accompagnò alla porta, sussurrandogli un “grazie di tutto!” mentre usciva.

 

“Figurati e se hai bisogno…”

 

Lei annuì, gli occhi lucidissimi, e gli fece un altro sorriso prima di chiudere la porta.

 

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“Vi ringrazio per l’attenzione.”

 

Imma si associò agli applausi per il relatore che scendeva dal palco ma senza particolare entusiasmo. Non che fosse stato noioso, era lei che aveva proprio la testa altrove. Continuava a dirsi che non era da lei distrarsi sul lavoro e che doveva concentrarsi, ma l’immagine mentale di Calogiuri con la Ferrari la tormentava e non ci riusciva, non del tutto almeno.

 

“E ora invito sul palco il capitano Ranieri della Procura di Bari, che ci relazionerà sul lavoro svolto con i Reparti Speciali a Milano e a Bari.”

 

Si unì ad un altro giro di applausi di cortesia ma stavolta non si dovette imporre di stare attenta, perché quello che doveva dire Ranieri interessava pure a lei e molto.

 

Il capitano parlò di collusioni tra criminalità organizzata, imprenditoria ed alcune istituzioni a Milano ed Imma si chiese se fosse il lavoro fatto con la Ferrari e poi iniziò a parlare di come fosse tornato a Bari, la sua terra natale, e avesse cercato di proseguire il lavoro anche lì e delle difficoltà che aveva incontrato e stava incontrando.

 

Si consolò constatando che, se non tutto il mondo, sicuramente tutta Italia era paese e che i problemi erano abbastanza simili a quelli di Matera, anche se ancora non c’era nessun maxiprocesso in corso a Bari e le indagini erano più frammentate. Ma, se voleva scoprire qualcosa di più personale sul capitano, non ebbe grandi informazioni da quella presentazione, ma del resto sarebbe stato strano presumere il contrario.

 

E nemmeno le domande fecero luce su molto altro, se non su ulteriori particolari riguardanti i casi da lui seguiti, naturalmente.

 

Ma Imma si chiese lo stesso perché il capitano avesse lasciato i ROS e fosse tornato a Bari da Milano, a lavorare in procura, vista la carriera indubbiamente brillante che gli si prospettava. Si chiese se la Ferrari c’entrasse in qualche modo, dato il suo commento sul fatto che lei forse non sarebbe stata molto felice di avere di nuovo contatti con lui. Se avessero avuto una relazione e fosse finita male al punto da spingerlo a mollare tutto e trasferirsi. Eppure quella più risentita sembrava essere la Ferrari, il che non aveva molto senso.

 

Ma, se c’erano risposte a quelle domande, sicuramente non le avrebbe scoperte quel giorno. E, più che del passato sentimentale della Ferrari, probabilmente doveva preoccuparsi del presente e del futuro, soprattutto.

 

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Il suono di una notifica gli fece afferrare il telefono, che aveva lasciato accanto al comodino per andare a farsi una doccia di cui aveva bisogno dopo una notte sul divano.

 

Ma niente, era solo Mariani che lo invitava ad uscire quella sera. Le rispose che era troppo stanco e che era meglio rinviare ad un altro giorno. Lei gli diede del pantofolaio e gli mandò una emoji con una linguaccia, finché lui si decise a chiederle di uscire martedì e lei rilanciò di giovedì, che almeno c’era più gente in giro, e gli toccò accettare per non sentire ulteriori lamentele.

 

La verità era che aveva voglia di tutto tranne che di uscire in quel momento: a parte la stanchezza era ancora troppo arrabbiato e deluso.

 

Ed ormai erano quasi le tredici ed Imma neanche un messaggio aveva mandato, niente.

 

Si mise sul divano, facendo scorrere titoli di film e serie tv, ma non aveva la testa per concentrarsi su nulla.

 

Nonostante avesse già fatto una lunga camminata da casa di Irene e si fosse appena cambiato, decise di infilarsi una tuta, preparare il borsone ed andare in piscina. Era da un sacco di tempo che non ci andava ma aveva veramente un bisogno disperato di sfogarsi e togliersi l’immagine mentale di Imma e Mancini dalla testa.

 

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“Ed ecco i vostri posti.”

 

Mancini aveva di nuovo prenotato la sala separata dagli altri passeggeri. Imma appoggiò la valigia e si sedette a un capo del tavolo, Mancini prese posto all’altro.

 

Il procuratore capo cercava di mantenere una certa distanza fisica tra di loro, probabilmente per non metterla a disagio, e lei da un lato gli era grata, dall’altro lato la testa sempre a Roma stava e di tutto il resto le importava poco.

 

“Dottoressa, vuole bere qualcosa? O magari riposare un poco?”

 

“Guardi, dottore la ringrazio, ma non ho voglia di niente, veramente, sono soltanto un po’ stanca.”

 

“Va bene… la lascio tranquilla allora,” proclamò con uno sguardo tra il preoccupato ed il malinconico, estraendo un tablet dalla ventiquattrore e iniziando a leggere.

 

Imma prese il telefono dalla borsa ma da Calogiuri ancora nessun segno di vita. Non poteva fare a meno di chiedersi, per l’ennesima volta, che stesse facendo, se fosse ancora con la Ferrari magari.

 

Le sembrava di impazzire e non ce la faceva più, il suo cervello che le prospettava scenari l’uno peggiore dell’altro, di loro due insieme. Ma col cavolo che avrebbe di nuovo provato a contattarlo: era lui in torto marcio e doveva essere lui a scusarsi e a spiegarsi. E forse non sarebbe bastato neppure quello per fidarsi di nuovo di lui.

 

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Dopo l’ultima forchettata di pasta riprovò ad accendere la televisione, per distrarsi un po’. Ma gli apparve davanti l’icona di Scandal, per ricordargli di proseguire nella visione, e ovviamente, il pensiero tornò ad Imma. Ormai doveva essere rientrata a casa, a Roma, salvo fosse ancora con Mancini, naturalmente.

 

L’istinto di sentire se stesse bene c’era eccome, ma gli tornarono in mente le parole di Irene “o ti fidi o non ti fidi” e “non potrei stare con una persona che non ha fiducia in me, penserei che non abbia stima di me”. E la verità era che aveva ragione.

 

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Il silenzio dell’appartamento vuoto la accolse peggiorando ulteriormente il suo umore.

 

Buttò la valigia in un angolo, senza nemmeno disfarla, ci avrebbe pensato in settimana. Si levò pure i vestiti usati per il viaggio e si infilò in doccia e poi a letto. Di cenare non ne aveva minimamente voglia.

 

Le lenzuola le aveva cambiate prima di partire e non sapeva se esserne sollevata o se le mancasse il profumo di lui nel letto.

 

La mano andò in automatico al telefono ma niente, nemmeno un messaggio. La tentazione di chiamare, anche solo per dirgliene quattro, era forte ma era lui a doverle più di un chiarimento, lei era stata sincera fino in fondo.

 

Ma forse la verità era che la situazione tra lui e la Ferrari era esattamente quella che sembrava e Calogiuri, piuttosto che affrontarla apertamente ed ammetterlo, preferiva fare lo struzzo.

 

Con un sospiro, spense la luce e si preparò per quella che si prospettava come un’altra notte semi insonne.

 

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“Dottoressa, io vado a pranzo. Vuole che le prenda qualcosa?”

 

Alzò lo sguardo stupito verso Asia, che era comparsa dal suo studio, platinata e attillata come sempre.

 

Non glielo aveva praticamente mai offerto, in tutti i mesi che avevano lavorato insieme. Doveva proprio avere un aspetto tremendo.

 

“No, grazie, non serve,” rispose, congedandola con un cenno della mano. La colazione ancora le ballava sullo stomaco e sapeva che molto probabilmente pure quella sera avrebbe dovuto sforzarsi di mangiare.

 

Sentì bussare alla porta e al suo “avanti!” un po’ irritato le comparve davanti lui.

 

Aveva l’aria stanca, occhiaie pure peggiori delle sue - ma magari per motivi ben diversi, se aveva fatto la nottata con la cara Irene - ed un’espressione che era dai tempi in cui lo aveva lasciato per il suo bene e lui se l’era presa da morire che non gli vedeva più.

 

Aveva pure il coraggio di fare l’incazzato mo?

 

“Calogiuri,” pronunciò, asciutta, secca, “ci sono novità?”

 

“Sono riuscito a contattare Maja, dottoressa, ed effettivamente ha riconosciuto Diego Mazzocca come una delle persone presenti alla festa in cui è morta Alina. Ma non come l’uomo con cui è poi andata in camera. Non ha riconosciuto nessun altro e l’uomo in questione non era presente in quelle foto. Vorrei far tornare Rizzuto e Palermo domani sera in pizzeria, per vedere se ci sono altre persone che Maja possa riconoscere. Nel frattempo ho fatto un giro sui social e sembra che anche un altro dei camerieri sia del clan Mazzocca, quindi sto analizzando le amicizie di lui e di Diego per vedere se riesco a capire chi siano gli altri. Ho anche fatto una ricerca sui proprietari della pizzeria e del locale dove sono in affitto e sono due nullatenenti, con una pensione bassissima e che quindi, almeno in teoria, non dovrebbero potersi permettere di pagare il costo mensile delle case di riposo dove soggiornano. Ho verificato con entrambe le strutture e ci vorrebbe almeno il doppio della loro pensione.”

 

Aveva snocciolato tutto senza sollevare gli occhi dalla cartelletta che aveva in mano e senza prendere fiato o quasi. Di solito a ogni frase si fermava per chiedere i suoi input o vedere la sua espressione, ma niente. Quando lei non parlò per un po’, solo allora alzò lo sguardo ed incontrò il suo. E sì, era proprio incazzato, e questa cosa la faceva arrabbiare ancora di più.

 

“Allora, Calogiuri, ipotizziamo che i Mazzocca paghino le quote a questi signori, in cambio di usarli come prestanome. Potrebbe starci, no?” gli chiese, provando a concentrarsi solo sul lavoro.

 

“Sì, in effetti potrebbe essere. I due anziani hanno anche intestate alcune auto ed utenze telefoniche, che evidentemente non utilizzano.”

 

“Bene. Allora continua le ricerche che mi hai detto e concordo su Rizzuto e Palermo, ma aspettiamo ad interrogare i due pensionati. Meglio non mettere la pulce nell’orecchio ai Mazzocca che stiamo indagando sulla pizzeria.”

 

“Va bene,” disse con un sospiro che, purtroppo le suonò fin troppo familiare, così come il successivo, “c’è altro?”

 

“Dimmelo tu, Calogiuri, c’è altro?”

 

“Se non c’è altro per voi, dottoressa, e se non avete niente da dirmi, io andrei,” rispose, visibilmente irritato.

 

Imma, incazzata nera, aspettò qualche istante per rispondere ma, prima che potesse farlo, lui si voltò ed uscì, chiudendo con troppa forza la porta.

 

Sì, era tutto decisamente familiare. Solo che mo ad essere furiosi erano in due. E si rifiutava di fare il primo passo, finché lui non le giustificava quella nottata passata a casa della Ferrari col telefono spento.

 

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“Ciao Imma! Com’è andata a Milano?”

 

Stava uscendo dalla procura e, alzati gli occhi, vide la Ferrari vicino all’auto di servizio con Calogiuri accanto.

 

Solo questa ci mancava mo, per peggiorare ulteriormente il suo umore!

 

“Abbastanza bene, Irene,” rispose, forse mettendo troppo accento sul nome della collega, ma non ci poteva fare niente, per poi aggiungere, con un mezzo sorriso, “ah, e ti salutano un paio di amici tuoi, non so se te lo ha già detto Mancini, visto che ho saputo che vi conoscete dai tempi di Milano e che siete molto amici. Un giornalista, un certo Paul Frazer, e poi il capitano Ranieri, naturalmente.”

 

La Ferrari spalancò gli occhi, sembrando presa in contropiede, mentre Calogiuri, accanto a lei, strinse gli occhi e la guardò in un modo come se la volesse fulminare, che sembrava molto più da lei che da lui.

 

“Irene, lo vuoi un passaggio?” le chiese, senza nemmeno usare il titolo o il voi, pur essendo davanti alla procura.

 

Non avrebbe saputo dire se le desse più fastidio quello o il palese tentativo di difendere la gattamorta. Conosceva la protettività di Calogiuri e vedersela rivoltare contro non le piaceva affatto e la faceva infuriare ancora di più.

 

“Se… sei sicuro di potere? Sai che non è un problema per me guidare,” rispose la Ferrari, alternando lo sguardo tra loro due.

 

“Certo che posso, posso fare quello che mi pare. Allora?” le chiese di rimando e, sembrando un po’ a disagio, la Ferrari annuì ed entrò dal lato del passeggero, con un, “arrivederci, Imma!” che le suonò comunque beffardo.

Calogiuri si limitò ad un secco, “dottoressa!” prima di mettersi al volante, chiudere la portiera e partire con fin troppa velocità.

 

Imma si strinse i pugni talmente forte da farsi male alle nocche, anche se li avrebbe volentieri spaccati in testa a qualcuno. E poi, cercando di trattenere la rabbia e le lacrime, si avviò verso casa.

 

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“Eccoci qui.”

 

“Grazie del passaggio, Calogiuri, anche se… anche se spero non sia stato per ripicca verso Imma, che io non mi voglio trovare in mezzo alle vostre discussioni,” rispose Irene, slacciando la cintura e guardandolo con un’occhiata penetrante.

 

“No, anzi, ti ho dato un passaggio proprio per evitarti di… di doverti subire la rabbia di Imma nei miei confronti. Anzi, mi dispiace per i suoi commenti e-”

 

“E mica ti devi scusare tu al posto suo, Calogiuri. E ti ringrazio per il salvataggio, ma mi so difendere da sola, va bene?” gli disse, facendogli l’occhiolino.

 

“Visto come spari, direi che sai fare pure più che difenderti.”

 

Ed Irene rise e poi gli strinse l’avambraccio.

 

“Grazie ancora e… ti inviterei a cena ma… ma visto che sei stato a casa mia pochi giorni fa… temo sia troppo presto per Bianca. Non vorrei si abituasse troppo sovente alla tua presenza e poi… e poi rimanesse delusa quando non potrai esserci così spesso.”

 

“Tranquilla, non c’è problema, però… però quando pensi sia il momento giusto e se può servire… posso venire volentieri a trovarla, anzi a trovarvi.”

 

“E allora organizzo una cena come si deve, Calogiuri, magari dopo pasqua, che ormai ci siamo quasi. Tu che fai? Torni a Grottaminarda?”

 

“Per forza, o mia madre mi uccide.”

 

“Ah… le mamme italiane e i figli maschi… non ti invidio, Calogiuri!”

 

“E tu che farai?”

 

“Niente… starò qui con Bianca, come al solito alle festività.”

 

Si chiese, non per la prima volta, se i suoi genitori stessero a Milano e se fossero ancora vivi ma, a parte del padre colonnello, non ne aveva mai parlato.

 

“Allora buona serata e mi dispiace ancora per prima.”

 

“Non dirlo più, Calogiuri, e grazie a te!”

 

Con stupore, si sentì piantare un bacio sulla guancia e, dopo un’altra stretta all’avambraccio, Irene scese dall’auto e si avviò verso il suo portone.

 

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“Dottoressa! Prego, si accomodi, ci sono novità?”

 

“Sì, dottore. Devo mandare nuovamente Rizzuto e Palermo in pizzeria stasera. Maja ha riconosciuto Diego Mazzocca ma potrebbe non essere lui l’assassino o non il solo assassino. Voglio vedere se c’è qualcun altro che ci lavora che la ragazza possa aver già visto.”

 

“Va bene, dottoressa, ha la mia autorizzazione,” rispose Mancini ed Imma stava per alzarsi quando le chiese, “la vedo un po’... tirata, dottoressa, stanca. Se… se è a disagio a causa mia mi scuso ancora moltissimo.”

 

L’autoflagellazione di Mancini le faceva veramente tenerezza.

 

“Dottore, non si deve più scusare, veramente. Ci siamo chiariti ed è acqua passata. Come le ho già detto, in questo periodo ho altri problemi personali.”

 

“E io non voglio intromettermi, ma se posso fare qualcosa…”

 

A parte trasferire la Ferrari in Australia? - pensò ma non lo disse, non solo perché era impossibile, ma perché in verità nemmeno quello avrebbe risolto il problema alla base.

 

“Purtroppo no, dottore, ma la ringrazio per il pensiero. Se posso andare…”

 

“Ma certo, dottoressa, e buon lavoro!”

 

“Anche a lei, dottore!”

 

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“Allora, com’è andata ieri sera? Avete avuto problemi?”

 

“No, dottoressa,” proclamò Palermo, piazzandole nuovamente il portatile sulla scrivania, “c’era meno gente ma non credo si ricordassero di noi. Certo, abbiamo dovuto fare più attenzione a scattare le foto.”

 

Imma iniziò a farle scorrere, sperando di trovare qualche altro viso familiare. Molti dei camerieri erano gli stessi della volta precedente, c’era giusto qualche volto nuovo. Ma lei non riconosceva nessuno, per quanto ci si sforzasse.

 

“Calogiuri c’è?”

 

“Sì, dottoressa, è in PG.”

 

Compose il numero interno della PG e rispose Mariani, “Mariani, mi può passare Calogiuri, grazie?”

 

Dopo qualche attimo di attesa, sentì la voce di lui che esordì con un monocorde, “dottoressa.”

 

“Calogiuri, sono qui con Rizzuto e Palermo, ci sono le foto della pizzeria, vieni a vedere se riconosci qualcuno?”

 

“Arrivo, dottoressa,” rispose, non sembrando però affatto entusiasta.

 

Comparve dopo poco e le si piazzò accanto, scorrendo le foto. La tensione nell’aria si tagliava con un coltello e non solo per la vicinanza fisica.

 

“No, dottoressa, non riconosco nessuno,” proclamò infine, staccandosi da lei ed Imma da un lato tirò un sospiro di sollievo, dall’altro lato se ne dispiacque.

 

“Allora, tu mo contatti Maja e vedi se lei invece qualcuno lo riconosce, Calogiuri. Come va la ricerca sui social?”

 

“Ho quasi terminato, dottoressa, ho identificato la maggior parte dei camerieri, ora cercherò anche questi nuovi. Non tutti fanno parte del clan ma diversi sono comunque interconnessi, anche se di altre famiglie. Sto cercando anche gli altri membri del clan, tra i parenti più prossimi, che non lavorano lì, per allargare il cerchio, dando precedenza a chi mi pare più simile alla descrizione fornita da Maja. Dovrei riuscire a farvi avere almeno la maggior parte dei profili domani.”

 

“D’accordo, Calogiuri. Anche perché poi sarà pasqua e vorrei finire prima, che il maxiprocesso si avvicina e perderemo già abbastanza tempo con le feste comandate.”

 

“Dottoressa, noi possiamo andare?” chiesero Rizzuto e Palermo, avendo probabilmente intuito che lei non avesse più bisogno di loro. Sapevano tutti che la parte più investigativa di quel caso era di competenza di Calogiuri.

 

“Sì, potete andare. Avete fatto un buon lavoro, bravi!” disse Imma e loro la guardarono sorpresi, la ringraziarono e se ne andarono.

 

Calogiuri rimase ancora per un attimo lì, immobile, forse aspettando di essere congedato, forse no.

 

Si guardarono negli occhi ed Imma sperò veramente che lui dicesse qualcosa, qualunque cosa, per giustificare quello che aveva combinato e l’atteggiamento degli ultimi giorni, ma lo sguardo di lui virò verso il deluso ed il rabbioso e pronunciò un nuovo, “se non c’è altro…” che la fece sospirare.

 

Con un gesto della mano, gli fece segno di pure andare. Lui serrò la mascella ed annuì, uscendo.

 

Si mise le mani tra i capelli, non sapendo se fosse più arrabbiata o più triste.

 

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“Allora ci vediamo alla corriera di venerdì sera, va bene?” le chiese, mentre girava il sugo per la pasta al tonno che si sarebbe costretta a mangiare quella sera.

 

“Sì, mamma, va bene, ho capito. Tu arrivi coi mezzi o ti accompagna il tuo maresciallo? Giusto per capire se devo prepararmi a scene da diabete,” proclamò Valentina, sarcastica ma non acida, anzi, c’era una punta di affetto quasi.

 

Solo che a Imma mo pensare a Calogiuri faceva malissimo.

 

“No, verrò coi mezzi, Valentì, quindi niente picco glicemico, tranquilla.”

 

“Ma… ma è successo qualcosa? Perché ne parli in modo strano. Di solito quando si parla del tuo maresciallo fai quel tono dolce che non è da te.”

 

Valentina aveva le antenne peggio di lei, doveva riconoscerglielo.

 

“Valentì, è complicato…”

 

“Quindi è successo qualcosa. Devo venire a dirgliene quattro o si è svegliato e non sopporta più il tuo caratteraccio?”

 

“Valentì… non ci riesco a parlare della mia vita sentimentale con te, dai, sono pur sempre tua madre.”

 

“Ma se almeno avessi un’amica o qualcuno con cui parlarne. Invece, come al tuo solito, amicizie zero, suppongo.”

 

Ed Imma dovette ammettere che era vero: l’unico con cui si era frequentata di più in privato era Mancini, e figuriamoci se poteva parlarne con lui, e poi c’era la cara Irene, che era il cuore del problema. Calogiuri non era solo il suo compagno, ma era anche il suo migliore amico, forse l’unico amico che avesse a Roma. E mo era sola. Certo, c’era Diana a Matera e pure con Sabrina erano in amicizia ma… poteva chiamarle da Roma per chiedere loro se doveva parlare con Calogiuri o mandarlo affanculo definitivamente per le presunte corna?

 

“E tu, signorina, con chi parli dei tuoi problemi sentimentali? Perché con me di sicuro no. Ma da qualcuno avrai pur preso.”

 

E Valentina si azzittì. Imma seppe di aver colto nel segno.

 

“Mà, io…”

 

“Senti, non ti voglio fare l’interrogatorio, Valentì, ma vorrei davvero che tu fossi felice.”

 

Sentì un rumore strano e si chiese se sua figlia si fosse commossa.

 

“Pure io lo vorrei, mà, pure io, per tutte e due.”

 

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Si era cambiata e stava per andare a letto, quando sentì il suono di un messaggio.

 

Pur sapendo che fosse patetico, non riuscì a trattenersi dal correre ad afferrare il cellulare sul comodino.

 

Calogiuri.

 

Il nome sul display le fece accelerare il battito, mentre sbloccava il telefono per leggere il messaggio, non sapendo bene cosa sperare, se una richiesta di parlare o delle scuse o che altro.

 

Ho mostrato le nuove foto a Maja. Il riconoscimento non ha dato esiti.

 

Breve, formale, secco, il contenuto ed il tono del messaggio le causarono una doppia delusione. E quella lavorativa passava decisamente in secondo piano.

 

Di solito l’avrebbe chiamata per avvisarla e poi ne avrebbe approfittato per parlare un po’.

 

Anzi, di solito a quell’ora sarebbe stato lì con lei e avrebbe pure potuto dirglielo di persona.

 

Però, d’altro canto, avrebbe potuto aspettare anche il giorno dopo per informarla, non c’era tutta questa urgenza, se oltretutto non aveva trovato niente.

 

Va bene. A che punto sei con le ricerche sui social?

 

Decise di rispondere pure lei parlando di lavoro, per testare le acque.

 

Per domani dovrei aver finito.

 

Ammazza se era sintetico, Calogiuri, peggio di lei. La tentazione di scrivergli qualcosa di personale, fosse solo un che cazzo stai combinando con la Ferrari? era forte, ma era lui quello che doveva farle le sue scuse. Lei quello che doveva dirgli glielo aveva detto. E osava pure fare l’incazzato con lei. Che se ci fosse stata lei al suo posto con Mancini in piena notte senza dare spiegazioni, chissà che scenata le avrebbe fatto pure lui. Come se fosse solo lei quella gelosa.

 

Quindi si limitò ad un laconico

 

Bene.

 

E si impose di mettere giù il telefono e concentrarsi su un libro dalle dimensioni di un mattone che aveva iniziato sperando le conciliasse il sonno. Al momento le conciliava solo la noia.

 

Calogiuri ovviamente non inviò altri messaggi.

 

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“Avanti!”

 

Erano quasi le diciotto ed era di umore nero. Si chiese chi osasse disturbarla a quell’ora, invece che essersene già scappato a casa.

 

“Dottoressa.”

 

“Calogiuri,” rispose, il cuore che, negli ultimi giorni, nonostante tutto, si metteva maledettamente a picchiarle nel petto al solo vederlo.

 

Era carico di apparecchiature elettroniche, che depositò su un tavolo tra i faldoni.

 

“Ho terminato lo studio sui movimenti social dei Mazzocca. Piazzo il proiettore e vi mostro,” pronunciò, professionalissimo, che quasi avrebbe potuto lavorare al convegno a Milano, per quanto era formale.

 

Imma rimase ammutolita mentre lui sistemava cavi e faceva prove di proiezione sulla parete bianca del suo ufficio. Perché la verità era che non sapeva nemmeno bene lei cosa dire ed una discussione in ufficio era meglio evitarla.

 

“Ecco qui,” annunciò, prendendo posto di fronte al tavolo e le toccò alzarsi e raggiungerlo per riuscire a vedere correttamente.

 

Si sedette di proposito sul tavolo, accanto alla sua sedia, per vedere la sua reazione. Calogiuri deglutì visibilmente ma non disse niente, iniziando con la proiezione.

 

Imma all’inizio era concentrata fino ad un certo punto, consapevole com’era della vicinanza di lui ma, mano a mano che le slide proseguivano e Calogiuri descriveva, con tanto di foto, cugini, zii, fratelli, sorelle, genitori e figli di ognuna delle persone nella foto e pure di altri del clan, Imma rimase impressionata.

 

Aveva pure fatto una specie di albero genealogico.

 

Era un lavoro enorme, oltre che fatto benissimo.

 

“Bravo, Calogiuri! Ma quanto tempo c’hai messo?!” le scappò, prima di riuscire a trattenersi, e l’ombra di un sorriso, giusto un accenno, gli comparve sul viso.

 

“Eh, un po’, dottoressa.”

 

Quantomeno non doveva aver passato molto tempo con la Ferrari fuori dall’orario di lavoro, se era riuscito a portare a termine una simile mole di lavoro in pochi giorni. A meno che si fosse fatto aiutare da lei, ma dubitava la gattamorta nel tempo libero con Calogiuri avrebbe voluto dedicarsi al lavoro.

 

“Ascolta, Calogiuri, mo chiamiamo Maja e le facciamo vedere tutte queste foto e speriamo che riconosca qualcuno. Le telefoni tu?”

 

“Sì, dottoressa, ora chiamo.”

 

Calogiuri avviò una videochiamata dal cellulare e, dopo qualche squillo, vide apparire Maja, che sembrava sempre più giovane e sempre più bella.

 

“Ehi, maresciallo, come stai? In questi giorni mi chiami in continuazione.”

 

E che era tutta sta confidenza, mo? E chiamarlo maresciallo in quel modo scherzoso doveva essere una sua prerogativa. E poi in che senso in continuazione?

 

“Ciao Maja, sì, scusa ma abbiamo delle nuove foto da mostrarti. Dovrebbero essere le ultime e poi ti lascio in pace per un po’, spero.”

 

“Ma che in pace, che qui fino a che non posso iniziare l’università mi annoio. Almeno ho qualcosa da fare. Dai, fammi vedere queste foto.”

 

“Va bene.”

 

“Ma non sei da solo?” chiese Maja, che forse l’aveva vista nell’inquadratura.


“No, Maja, ci sono pure io.”

 

“Dottoressa, buonasera. Sa che alla fine ho scelto l’università? Mediazione linguistica e interpretariato. So già parecchie lingue, devo solo imparare la tecnica e magari ne imparerò di nuove. Solo che inizierò da ottobre.”

 

“E brava Maja. Sono sicura che andrai benissimo, sveglia come sei,” rispose, che la ragazza lo era fin troppo, specie per come si approcciava a Calogiuri, “allora, mo ti facciamo vedere queste foto. Se riconosci qualcuno, diccelo che ci stoppiamo.”

 

Fecero passare tutte le foto dei camerieri ma niente, nemmeno quelli nuovi. Imma stava per disperarsi quando Maja disse un “fermi!” che le causò un tuffo al cuore, l’eccitazione che saliva.

 

“La foto precedente, dottoressa.”

 

Fece segno a Calogiuri che fece come richiesto e Maja disse, “sì, è lui, è l’uomo che si è appartato con Alina quella sera.”

 

“Ne sei sicura?”

 

“Dovrei vederlo dal vivo, dottoressa, ma mi sembra proprio lui.”

 

L’uomo in questione era Kevin Mazzocca, un cugino di Diego, con il quale appariva in alcuni scatti in discoteca. Guardò Calogiuri e non riuscì a trattenere un sorriso perché, senza la sua accuratezza nella ricerca sui social, probabilmente non lo avrebbero mai individuato.

 

“D’accordo, mo ti facciamo vedere le foto rimanenti, dicci se riconosci qualcun altro.”

 

Ma Maja non disse più nulla ed alla fine scosse il capo.

 

“Va bene, Maja. Ascolta, se ci fosse da fare il riconoscimento dal vivo saresti disponibile? Ovviamente lui non ti vedrebbe, saresti dietro un vetro.”

 

“Se è proprio necessario sì. Ma mi aveva promesso che non mi avrebbe coinvolta almeno fino al processo.”

 

“E infatti così è, Maja. Considera che è probabile che questa inchiesta venga accorpata ad un’altra che sto seguendo e quindi, in quel caso, il processo sarà a breve. E comunque tu resti sotto protezione, lontana da qui. Ma se io riuscissi a ottenere una confessione potrei anche non convocarti, vedremo.”

 

“D’accordo, dottoressa, mi fido di lei, anzi di voi due, ma non mi fate scherzi che alla pelle io ci tengo.”

 

“E pure noi alla tua, Maja, stai tranquilla. Allora in bocca al lupo e se hai bisogno facci sapere.”

 

“Non si preoccupi, al limite chiedo al maresciallo, che è sempre così disponibile.”


Imma gli lanciò un’occhiataccia ma Calogiuri rimase impassibile.

 

“Eh, Maja, il maresciallo è uno stacanovista, la sua disponibilità qui in procura è ben nota. Buona serata!”

 

“Buona serata a voi!” si congedò Maja con un mezzo sorrisetto, prima di chiudere la comunicazione.

 

“Calogiuri, se non hai esaurito la tua grande disponibilità, dovremmo andare da Mancini a riferirgli quanto accaduto.”

 

Calogiuri passò dall’irritato al sorpreso, “volete che andiamo insieme da Mancini?”

 

“La scoperta è merito tuo, Calogiuri, quindi sì, andiamo insieme da Mancini. Se non hai di meglio da fare, ovviamente.”

 

“No, dottoressa, certo che no,” rispose con uno sguardo che confermava quanto l’avesse preso in contropiede.

 

Non era solo che non ci teneva a stare sola con Mancini, ma che era giusto dare a Cesare quello che era di Cesare. E a Calogiuri i suoi meriti, anche se restava incazzata con lui e la telefonata di Maja non aveva certo migliorato la situazione.

 

A passo deciso, si avviò verso l’ufficio del procuratore capo, sentendo i passi più lenti di Calogiuri che la seguivano. La segretaria le fece cenno di pure passare e bussò, il procuratore capo che, come la vide, si tirò in piedi.

 

“Dottoressa Tataranni…” la salutò, per poi pronunciare, più sorpreso, “maresciallo?”

 

“Dottore, abbiamo novità decisive sul caso Holub. Ma credo che facciamo prima a mostrargliele che a raccontargliele. Potrebbe venire un attimo nel mio ufficio?”

 

“Certamente, dottoressa, non è un problema,” rispose Mancini, sempre più stupito, seguendola, Calogiuri che terminava la fila.

 

Giunti nel suo, ufficio, riabbassò le luci per la proiezione, e poi disse, “Calogiuri, mostra al dottore che cos’hai trovato dalle tue ricerche sui social.”

 

Entrambi gli uomini la guardarono meravigliati, Calogiuri che le lanciò uno sguardo come a dire “perché io?”. Ma, quando Mancini spostò lo sguardo su di lei, Calogiuri lo trafisse con un’occhiataccia che avrebbe potuto pugnalarlo alle spalle.

 

Quando il procuratore tornò a rivolgersi verso di lui e verso lo schermo, Calogiuri rimise su una maschera professionale, anche se lei notava benissimo quanto fosse rigido.

 

Che Mancini avesse provato a baciarla evidentemente non gli era proprio andato giù e da una parte lo capiva pure. Non fosse per il piccolo particolare della sua vicinanza alla cara Irene.

 

“Dottor Mancini, questo è il risultato di ricerche sui social tra i contatti dei camerieri fotografati da Palermo e Rizzuto. Ho cercato parenti e amici stretti, che comparissero nelle foto, e Maja Varga ha riconosciuto telefonicamente Kevin Mazzocca,” spiegò, andando alla foto corretta, “cugino di Diego. Non lavora in pizzeria apparentemente, ma appaiono in diverse immagini insieme e sembrerebbe risiedere a poca distanza dal cugino e lavorare in un locale notturno, che potrebbe a questo punto essere sempre gestito dai Mazzocca.”

 

Calogiuri finì la presentazione ed Imma vide che Mancini pareva anche lui molto colpito dal lavoro svolto. Al di là di come andassero le cose tra loro, Calogiuri se lo meritava e non voleva più cadere nei comportamenti poco professionali che aveva tenuto a Matera quando aveva scoperto di lui e di Matarazzo. Erano due adulti e il lavoro era lavoro.

 

“Ottimo lavoro, maresciallo. Dottoressa, lei come vorrebbe procedere ora?”

 

“Le chiederei di andare a prelevare Diego e Kevin Mazzocca per un interrogatorio, dottore.”

 

“Dottoressa, non è che non voglia concederglielo, ma è la sera di giovedì santo, a breve i due probabilmente saranno al lavoro. E anche nei prossimi giorni Roma sarà piena di gente. Andare a prelevare due esponenti di un clan, per quanto non tra i più potenti in città, può dare luogo a reazioni da parte degli altri parenti presenti e ci potrebbero andare di mezzo persone innocenti e chi fa l’operazione. Già abbiamo avuto due agenti infortunati per mesi. Ho un amico fidato ai reparti speciali, mi metto in contatto con lui ed organizziamo l’operazione in modo da causare meno impatto possibile, se lei è d’accordo.”

 

Imma prese un respiro e si chiese se negarle qualcosa fosse un po’ una rappresaglia di Mancini. Ma sembrava sinceramente preoccupato e non era nemmeno un no definitivo, in fondo.

 

“Dottore, lei lo sa che meno persone sanno di questo caso e più sono tranquilla…”

 

“Lo so, dottoressa. Ma si tratta di una persona fidata e con molta esperienza sul campo. Possiamo poi magari collaborare anche noi se serve, ma la cosa primaria per me è che non ci siano conseguenze, che magari si possano ripercuotere negativamente anche su di lei e sul processo.”

 

“D’accordo, dottore,” concesse, anche perché non mandare Calogiuri in prima linea non è che le dispiacesse, “ma la prego di comunicarlo a meno persone possibili.”

 

“Stia tranquilla, il mio amico farà la valutazione preliminare e, prima di coinvolgere altri agenti dei ROS, la terrò informata sugli sviluppi. A questo punto l’operazione sarà dopo pasqua quasi sicuramente.”

 

“Va bene, dottore, ma se fossimo in tempo prima dell’ultima udienza del maxiprocesso, credo sarebbe molto utile anche alla Ferrari, per chiudere il cerchio.”

 

Non che volesse fare un favore ulteriore alla gattamorta, ma non voleva nemmeno strascichi e trovarsi Eugenio Romaniello ancora in libertà.

 

“Tra l’altro dovrebbe informarla di questi sviluppi, dottoressa. Anche se credo che sia già andata a casa. Ora andrei pure io e le farò sapere non appena ho notizie.”

 

“D’accordo, dottore, la ringrazio.”

 

“Ancora complimenti per l’ottimo lavoro, maresciallo, dottoressa. E buona serata,” si congedò, lanciandole uno sguardo che definire agrodolce sarebbe stato riduttivo.

 

Notò, pure di sbieco, come la mascella di Calogiuri si contrasse ancora di più.

 

“Dottoressa, se abbiamo finito, andrei anche io,” pronunciò, secco, ed Imma sospirò, trattenendosi per un soffio dal sollevare gli occhi al soffitto dalla frustrazione.

 

“Va bene,” rispose, altrettanto asciutta, facendogli un cenno con la mano e Calogiuri, dopo un’ultima occhiata indecifrabile, si richiuse la porta alle spalle.

 

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Aveva appena sceso l’ultimo gradino fuori dalla procura quando un’auto le si fermò davanti. Le sarebbe quasi venuto un colpo, vista la situazione contingente, ma riconobbe che era quella di Mancini.

 

“Visto che è tardi ormai e c’è in giro poca gente, vuole un passaggio, dottoressa?” le chiese, abbassando il finestrino, “considerato su cosa sta indagando forse è più prudente.”

 

In effetti, tra una cosa e l’altra, avevano fatto tardi. E Mancini non aveva tutti i torti. Ma non voleva rischiare di dargli illusioni o di trovarsi in altre situazioni imbarazzanti.

 

“Ma no, dottore, non si preoccupi. Sono giusto due passi a piedi, vada pure a casa tranquillo. Ci vediamo domani.”

 

Mancini fece un sospiro e le sembrò sull’orlo di protestare ma alla fine annuì, probabilmente comprendendo il suo disagio.

 

“D’accordo. A domani.”

 

Ed il vetro si rialzò e l’auto partì nella notte, veloce come il suo proprietario.

 

“Perché non hai accettato il passaggio?” chiese una voce alle sue spalle, facendole fare un salto. Si voltò di scatto e lo vide, sulla porta.

 

“Calogiuri, mi hai fatto prendere un colpo!”

 

“Perché non hai accettato il passaggio?” ripeté con un tono che le causò un nuovo moto di irritazione.

 

“Sai che c’è? Me lo sto chiedendo pure io, mo, Calogiuri,” ribatté, prima di voltarsi per avviarsi verso casa.

 

Ma sentì passi che la seguivano e un, “aspetta, Imma!”

 

“Posso accompagnarti a casa a piedi? Al di là di tutto… Mancini almeno sul fatto che possa essere pericoloso che tu giri al buio da sola non ha tutti i torti.”

 

Imma sospirò, anche se qualcosa la intenerì un poco e portò la rabbia a ridursi. Forse la preoccupazione di lui, a prescindere della situazione tra loro.

 

“Va bene… anche se non credo ce ne sia bisogno,” concesse, iniziando ad avviarsi verso casa e sentendo la camminata cadenzata di Calogiuri dietro di lei.

 

Trattenne il fiato mentre si aspettava un tentativo di fare conversazione ma niente: arrivarono fino a casa sua in perfetto silenzio, anche se la tensione nell’aria era palpabile.

 

Rimasero di fronte al portone, impalati, per qualche istante, guardandosi negli occhi.

 

Imma era tentata di chiedergli di salire, per parlare, per chiedergli tutto quello che gli doveva chiedere. Ma il casino con la Ferrari lo aveva fatto lui e non voleva sembrare cornuta e mazziata, voleva almeno un gesto da parte di lui prima di cedere le armi.

 

E così il silenzio si prolungò finché Calogiuri fece un sospiro e si congedò con un “buonanotte”, prima di avviarsi verso la sua di casa.

 

Imma si sentì delusa, inutile negarlo a se stessa, mentre apriva il portoncino e chiamava l’ascensore. Calogiuri non mollava di un millimetro e si chiese perché, mentre la volta precedente, con la storia di Valentina, si era cosparso il capo di cenere.


E mo che non era uscito soltanto a farsi due chiacchiere con sua figlia ma si era fatto una bella seratina intima con quella gattamorta di Irene, che lo tacchinava da mesi, staccando pure ogni comunicazione, si comportava come se fosse stata lei a fargli chissà quale torto e non solo per Mancini.

 

Entrò in casa e buttò la borsa sul divano ma si ribaltò e si rovesciò per terra.

 

Pure questa ci mancava mo!

 

La ritirò su e, mezzo incastrato tra le altre cose, c’era il famoso lettore mp3. Il solo vederlo le mise una profonda tristezza e malinconia addosso.

 

Non avrebbe saputo dire perché, forse per voglia di farsi del male, indossò gli auricolari e premette play. Era ancora fermo alla canzone di Celentano, che aveva messo a ripetizione prima di addormentarsi quella sera a Milano.

 

E due pezzi in particolare la colpirono, risuonandole come beffardi e quasi premonitori insieme.

 

Due caratteri diversi prendon fuoco facilmente, ma divisi siamo persi, ci sentiamo quasi niente. Siamo due legati dentro da un amore che ci dà la profonda convinzione che nessuno ci dividerà.

 

E

 

Poi vivremo come sai solo di sincerità, di amore e di fiducia, poi sarà quel che sarà.

 

Che erano le parole con le quali finiva la canzone. Sincerità, amore e fiducia. Calogiuri l’aveva accusata più volte di non fidarsi di lui, fin da prima che avessero una relazione. E, più di recente, le aveva fatto capire di patire la sua gelosia nei confronti della Ferrari. Si ricordava benissimo quel “se vuoi parlarmi di persona, sai dove trovarmi!” con il quale le aveva buttato giù il telefono.

 

Ed ora, evidentemente, si aspettava che fosse lei a fare un salto nel vuoto, a fidarsi che ci fosse una spiegazione a tutto. Ma lei non era abituata a farli i primi passi, a lasciare andare l’orgoglio, anche se con lui già a volte in passato lo aveva fatto.

 

Certo, indubbiamente era stato lui, più spesso, a venirle incontro, letteralmente e metaforicamente. Ma avevano la capa tosta tutti e due, questo lo sapeva pure senza la canzone. Con Pietro non era mai stato così: lui non era un tipo orgoglioso, se non in rarissime occasioni. Era abituato a cedere, a non contraddirla, ad assecondarla, a non prendere posizione.

 

Ma, in fondo, una delle cose che le erano piaciute di più di Calogiuri era come, al di là della bontà, a volte il carattere lo tirasse fuori eccome e le tenesse testa, senza paura.

 

Poteva lasciare che finisse tutto così, dopo tutto quello che c’era stato tra loro, dopo tutti gli sforzi fatti per stare insieme, senza nemmeno parlarsi?

 

Ma, d’altro canto, poteva rischiare e fidarsi a fare il primo passo?

 

In fondo… se quello che aveva da dire non l’avesse convinta, era sempre in tempo a mandarlo a quel paese per direttissima.

 

Rimase così, sul divano, il lettore in mano, divisa tra cuore e ragione, finché, d’istinto, giunse ad una decisione.




 

Nota dell’autrice: Eccoci qui alla fine di questo trentesimo capitolo. Come avete visto Imma e Calogiuri sono ancora divisi dall’orgoglio e questa volta Calogiuri non sembra intenzionato a cedere, finché Imma non dimostrerà di fidarsi di lui. Nel prossimo capitolo scopriremo se Imma riuscirà a fare il primo passo, inoltre ci sarà pasqua e quindi il ritorno di alcuni personaggi (e anche l’apparizione di un personaggio finora molto nominato ma mai incontrato), un giallo sta arrivando alle battute finali e inoltre si avvicina un momento assai cruciale della storia, quello in cui un po’ tutti gli equilibri potrebbero cambiare.

Vi ringrazio tantissimo per aver seguito questa storia per ben trenta capitoli, e spero possa continuare ad appassionarvi e a non essere noiosa o pesante. Ringrazio chi l’ha messa nelle preferite o nelle seguite e come sempre le vostre recensioni mi aiutano tantissimo a capire come sta andando la scrittura, oltre ad essere un enorme stimolo per proseguire, quindi se vorrete farmi sapere che ne pensate vi ringrazio davvero di cuore.

Il prossimo capitolo arriverà domenica 24 maggio.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 31
*** Opprimente ***


Nessun Alibi


Capitolo 31 - Opprimente


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Lottando nell’indecisione fino all’ultimo, premette il pulsante, con fin troppa forza.

 

“Chi è?” domandò una voce familiare, suonando leggermente irritata, forse dalla scampanellata, forse da quanto successo non troppo tempo prima.

 

“Imma. Mi apri?”

 

“Imma?!” domandò, chiaramente sorpreso.

 

Si stava preparando a qualche battuta sarcastica o ad una domanda, quando il portoncino si aprì di scatto. Sentendosi improvvisamente il cervello svuotato di tutto quello che avrebbe voluto dire e chiedere, l’apprensione che aumentava, prese l’ascensore, fino ad arrivare di fronte ad un piano e ad un volto decisamente ben conosciuti.

 

“Calogiuri.”


“Che ci fai qua?” le domandò, sembrandole stupito, di fronte alla porta.

 

“Se non sono gradita, me ne vado subito, Calogiuri,” ribatté, secca, e lui sospirò e scosse il capo.

 

“Dai, entra,” le rispose, facendole strada, ed Imma si infilò in quel mini appartamento nel quale avevano progettato insieme il loro futuro romano, anche se ultimamente lo usavano molto meno frequentemente, soprattutto lei.

 

“Vuoi qualcosa?” le chiese, facendole segno verso la cucina ed il frigo.

 

“Sì, Calogiuri, la verità. Ci sono parecchie cose che mi devi spiegare, mi sembra.”

 

“Pure tu hai parecchie cose da spiegarmi, no? Ad esempio sul bacio con Mancini.”

 

“Non c’è proprio niente da spiegare perché non c’è stato nessun bacio, Calogiuri, e se mi avessi ascoltato lo avresti capito. Lui ha provato ad avvicinarsi ma l’ho fermato e… e devo dire a sua discolpa che era mortificato e si è subito scusato. Anzi è da allora che mi chiede scusa praticamente ogni giorno, almeno lui.”

 

“E allora, se Mancini è così perfetto, almeno lui, perché non hai accettato il suo passaggio e stai qua con me, visto che mi avevi detto che forse avresti ricambiato le sue attenzioni?”

 

“E dai, Calogiuri, era una battuta sarcastica! Ma secondo te, se io e te litighiamo o ci lasciamo, io per ripicca mi butto tra le braccia del primo che incontro? Non sono mica così infantile, io.”

 

“La storia di Matarazzo non me la perdonerai mai, non è vero?”

 

“Calogiuri… io la storia con Matarazzo non te la perdonerò mai perché non c’è niente da perdonare e l’hai già pagata fin troppo cara. E lo so che tra lei e Lolita la lezione te la sei imparata, ma… la tua vicinanza con la Ferrari mi spaventa, il fatto che tu la difenda e le prenda le parti pure nei miei confronti mi fa… non so neanche dirti come mi fa sentire. E che sei stato a casa sua col telefono staccato, dopo avermelo chiuso in faccia oltretutto!”

 

“Se ho staccato il telefono è perché non volevo discutere con te in quel momento e perchè ti ho detto chiaramente che, pure volendo, non potevo farlo al telefono e dovevo farlo di persona, a quattr’occhi.”

 

“E mo sono qui a sentirle queste spiegazioni, Calogiuri.”


Mo sei qui. Ma io è una settimana che aspetto che tu venissi qua o mi invitassi a casa tua e mi facessi queste domande… invece di saltare subito alle conclusioni e… e trattare me ed Irene in quel modo. E se la difendo è perché non se lo merita di essere trascinata in mezzo alle tue paranoie ed incazzature nei miei confronti.”

 

“Paranoie?! Se io ti avessi risposto dalla camera di Mancini ed avessi staccato il telefono quella sera, che avresti pensato?!”

 

“Non lo so, ma se tu mi avessi garantito che non era successo niente e chiesto di parlarmene di persona, sarei venuto da te già domenica sera, nonostante l’incazzatura, perché io mi fido di te. Di lui meno, che allunga le mani e altro quando non dovrebbe, ma di te sì. Ti avrei chiesto se stavi bene, prima di tutto il resto. Ma tu di me non ti fidi. Sembra che sei lì ad aspettare che io faccia un passo falso e che ti tradisca, come se per te fosse impossibile che ti ami veramente o che ti sia fedele. Su Irene sono mesi che mi ossessioni e io ti dico che è solo un’amica per me, ma tu niente, insisti, e non ce la faccio più a sentirmi sempre sotto interrogatorio e sotto processo. Non sono uno dei tuoi imputati.”

 

Imma rimase per un attimo a bocca aperta, non sapendo come rispondere. Aveva capito che la sua gelosia gli pesasse, ma che si sentisse sotto processo no.

 

“Calogiuri, io sono un’investigatrice dentro, così come lo sei tu. Mi viene naturale indagare e… e forse la vita non mi ha insegnato esattamente a fidarmi delle persone. Ma io di te mi fido o non avrei fatto tutto quello che ho fatto e non mi sarei trasferita qui a Roma per stare con te. Ma mi riesce difficile fidarmi ciecamente, lo capisci? Specie se succede una cosa del genere.”

 

“Ma io non ti ho mai negato una spiegazione. Ti ho solo detto che volevo parlartene di persona. Te l’ho già detto: se fossi venuta qui domenica sera, ti avrei spiegato tutto. Ma non posso essere sempre io a fare la prima mossa e non mi posso scusare quando non ho fatto niente di male. Perché non ho fatto niente di male.”

 

“Ma mo sono qui e… e lo sai quanto mi costa, Calogiuri, perché mi conosci. E, te lo ripeto pure io, se sono qui è per ascoltarla questa cavolo di spiegazione. Allora? Che è successo?” gli chiese, sedendosi sul divano letto e Calogiuri sospirò e si sedette accanto a lei.

 

“Non so da dove partire, è una storia molto complicata.”

 

“Dall’inizio Calogiuri, ma se provi a propinarmi una scusa lo sai che ti becco subito, no?”

 

“Credimi, non ho abbastanza fantasia per inventarmi una scusa del genere.”

 

Imma si morse la lingua per non ricordargli che di fantasia ne aveva fin troppa.

 

“Però mi devi promettere che questo resta tra me e te. Irene si è fidata di me e… questa cosa la sappiamo solo io e Mancini al momento.”

 

“Calogiuri, ma secondo te io vado a raccontare le cose in giro? Lo sai che non parlo alla gente manco delle cose normali, e su!”

 

Calogiuri annuì e si mise a raccontarle tutto quello che era successo, di Bianca e della sua storia. Imma rimase prima sconvolta, poi le venne da commuoversi per la bimba, ed infine però si fece largo una certa preoccupazione.

 

“Ma scusa, ma come mai la Ferrari ha accettato il maxiprocesso allora? Se si era trasferita da Milano apposta per stare più al sicuro?”

 

“Non lo so, Imma. Credo che… che comunque il fatto che gli imputati fossero molto più potenti a Matera che a Roma abbia inciso e poi… e poi di Bianca qui non ne sa niente quasi nessuno. E comunque mi pare una che, se può, non cede e va fino in fondo. Il processo a Milano lo ha portato a termine, no? Lo so che non la sopporti ma… secondo me è una brava persona, che tu ci creda o no.”

 

“Calogiuri, qua non si tratta di essere una brava o cattiva persona in assoluto. Si tratta di quello che Irene prova o non prova per te. E per parlarti di Bianca e fidarsi solo di te, di tutta la procura, a parte Mancini che conosce da una vita … insomma vuol dire che ci tiene a te, e pure parecchio. E non sono sicura che ci tenga soltanto in amicizia o in modo platonico, per niente proprio.”

 

“Ma io ci tengo a lei soltanto in amicizia, Imma. E… e direi che c’è una bella differenza tra il suo comportamento e quello ad esempio di Mancini, no?”


“Sì, che Mancini ha fatto palesemente capire cosa voleva da me, Calogiuri. Irene no, è ambigua e ti sta sempre più vicino. Lo so che tu ti fidi di lei, ma-”

 

“Ma, come mi hai detto tu una volta, se pure ci volesse provare, e non credo lo farà mai o che lo voglia fare, ho la bocca per dire no e le gambe per andarmene. Va bene che con te faccio il maniaco assatanato, ma non è che cedo così facilmente. Io voglio solo te e non so più come fartelo capire, ed è questo che mi fa incazzare di più, oltre alla mancanza di fiducia.”

 

“Calogiuri…” sussurrò, commossa, cedendo infine e allungando una mano per accarezzargli una guancia. E tirò un sospiro di sollievo quando lui non si ritrasse ma si appoggiò di più sulla sua mano, “e io non so più come farti capire che mi fido di te, nonostante tutto, o non starei qui col mio orgoglio, e lo sai.”

 

“Quindi per te va bene se ogni tanto vado a trovare Bianca? Vorrei davvero poterla aiutare ad avere meno paura degli estranei e… sono felice di esserci stato quando non è stata bene.”

 

“Calogiuri, tu sei… sei dolcissimo e lo sei ancora di più coi bambini, l’ho visto quanto sei bravo. Però… però vorrei che tu ci facessi attenzione, se la vuoi frequentare, al di là di quello che penso di Irene, perché… perché non vorrei che questa bambina si affezioni troppo a te e poi magari speri che tu e Irene diventiate una coppia e per questo ci stia male lei e ti senta in colpa pure tu.”

 

“Imma, ti garantisco che Bianca era solo che felice che io ed Irene non fossimo una coppia e poi… sa che sono fidanzato con un’altra persona. E, in ogni caso, non è che mo voglio vederla tutti i giorni e pure Irene mi ha detto che non vuole che Bianca si abitui troppo spesso alla mia presenza. Ma che c’è di male ad essere un amico di famiglia?”

 

Niente… se pure lei avesse potuto essere un’amica di famiglia. Ma dubitava che la cara Irene avrebbe voluto pure lei appresso a Calogiuri. A parte che, col carattere suo, Bianca come minimo sarebbe rimasta ancora più traumatizzata.

 

“Va bene, Calogiuri. Anche se non amo particolarmente la Ferrari, se vuoi frequentare lei e Bianca e sei convinto di poter mantenere le distanze di sicurezza non te lo voglio certo impedire. Ma stai attento a non farti male, ti dico solo questo, mi raccomando.”

 

“Imma, l’unica cosa che mi farebbe male sarebbe perderti. Ma voglio che tu sia più serena e che questo rapporto ce lo viviamo meglio entrambi, che ci fidiamo davvero al cento per cento d’ora in poi.”

 

“Calogiuri… il cento per cento non so se posso promettertelo. Ma un novantacinque sì,” replicò, con tono ironico, dandogli un pizzicotto ad un fianco.

 

E Calogiuri rise e poi le sorrise: quanto le era mancato il suo sorriso!

 

Si sentì afferrare per una mano e trascinare in un abbraccio fortissimo e si strinse più forte a lui, godendosi il suo profumo che sapeva davvero di casa.

 

“Mi sei mancata, dottoressa.”

 

“Mi sei mancato pure tu, maresciallo, anche se ti volevo strozzare. Non voglio più litigare così con te.”

 

“Nemmeno io. Ma se imparerai a fidarti più di me e-”

 

“E tu di me, e a capire che mi fido di te.”

 

“Va bene, diciamo che se impareremo a fidarci di più a vicenda non succederà più e ti prometto che farò di tutto per fare la mia parte.”

 

“Pure io, Calogiuri, e ti assicuro che farò di tutto anche per contenere il mio lato da PM in privato.”

 

“Ma a me piace quando fai le tue indagini, dottoressa. Ma quando non esageri, non mi martelli e non metti in dubbio quello che provo per te. E poi non fare promesse che non puoi mantenere.”

 

Ed Imma rise: Calogiuri la conosceva troppo bene.

 

Se lo abbracciò più forte ma, ad un certo punto, sentì un ruggito che ormai avrebbe riconosciuto ovunque.

 

“Calogiù, mi sa che è meglio se mangiamo mo, che è tardi. Che c’hai in frigo? Che stasera cucino io, per festeggiare.”

 

“Purtroppo c’ho ben poco, avrei dovuto fare la spesa ma… possiamo ordinare qualcosa se ti va.”

 

“Le pinse?”

 

“Pensavo più al sushi, visto che con me non l’hai mai mangiato e ti volevo fare assaggiare il mio di sushi a domicilio.”

 

“E poi non saresti geloso, maresciallo? E comunque ti costerà troppo. Accetto solo se facciamo a metà.”

 

“E dai, dottoressa, poi non ti vedrò fino a dopo pasqua e dobbiamo festeggiare! Lasciami offrire qualche volta.”

 

“Appunto, dobbiamo festeggiare. Quindi fammi fare alla romana, Calogiù, o ci prendiamo le pinse.”

 

“Va bene, va bene, hai vinto! Te lo ha mai detto nessuno che sei una testona?”

 

“Senti chi parla, Calogiuri, che sono giorni che hai tenuto il punto senza cedere di un millimetro.”

 

“E va beh… ho imparato dalla migliore.”

 

Ed Imma rise e gli diede un altro pizzicotto. Stava per fare una battuta quando il cellulare di Calogiuri squillò e lei temette per un attimo che fosse di nuovo la cara Irene.

 

“Merda, è Mariani: mi sono scordato di lei e di Conti. Dovevo incontrarli al pub stasera!”

 

Ad Imma scappò una mezza risata ma poi le fece piacere e tenerezza insieme, che si fosse dimenticato di tutto per lei.


“Calogiuri, se vuoi andare sei ancora in tempo. Sono neanche le ventidue.”


Ma lui scosse il capo e poi rispose al telefono, “Chiara, lo so, lo so, scusami ma ho lavorato fino a tardi e poi mi è proprio passato di mente. Sì, sì, lo so che sono in colpa e che tra poco è pasqua, ma ci facciamo gli auguri domani e prometto che settimana prossima recuperiamo ed offro io per farmi perdonare. Va bene, grazie Chiara e scusami anche con Conti. Buona serata.”

 

“Calogiuri… mo mi fai sentire in colpa. E sto sushi lo offro io, se tu devi offrire settimana prossima a Mariani e Conti.”

 

“Dottoressa, non tirare troppo la corda. Facciamo a metà. E mo chiamo e cerco di capire a che ora ce lo possono portare, se non è troppo tardi. Scelgo io o vuoi qualcosa in particolare?”

 

“Mi fido di te, Calogiuri, pure sul sushi. Anche perché i nomi manco me li ricordo.”

 

Lo vide smanettare un po’ sul cellulare, ricevette un messaggio e poi telefonò, iniziando a fare una lista di piatti dai nomi per lei poco comprensibili. Infine le annunciò, tenendo il telefono in mano, “il sushi arriva ma ci vorranno quarantacinque minuti. Ti va bene?”


Lei annuì. Lui confermò l’ordine e chiuse la chiamata.

 

E lei ne approfittò per levargli il telefono di mano, appoggiarlo sul divano e mettergli le braccia intorno al collo.

 

“Che fai?”

 

“Beh, maresciallo, cerco un modo di farli passare più in fretta questi quarantacinque minuti…” disse, piantandogli un bacio sulle labbra e poi mordicchiandogli quello inferiore.

 

“Risparmio energetico, dottoressa?”

 

“Sarà meglio. Così ci rifacciamo del costo del sushi,” proclamò, ironica, e poi non riuscì a trattenere un mezzo urlo quando si sentì sollevare e si trovò a penzolare sopra una spalla di Calogiuri.

 

Le ricordò nettissimamente la loro prima volta ed iniziò a ridere e a dargli colpetti sulla schiena, “Calogiuri, mettimi giù!”

 

“Agli ordini, dottoressa!” proclamò, e la mollò sì in piedi ma sotto la doccia. E le aprì il getto dell’acqua addosso, che era ancora vestita e tutto, le aveva giusto levato le scarpe mentre la portava in bagno, per fortuna.

 

“Calogiuri, sei morto!” gridò, afferrandolo per la maglietta e trascinandolo sotto il getto, sentendolo ridere e poi lasciarsi scappare un gemito quando gli mordicchiò il collo.

 

“Mi erano mancati i tuoi morsi da Dracula, dottoressa.”

 

E lei, sorridendo soddisfatta, lo zittì con un bacio e poi gli levò la t-shirt, ormai resa trasparente dal getto dell’acqua, mentre lui le sollevava il maglioncino, già completamente zuppo, facendogli fare un volo, insieme alla t-shirt, fuori dalla doccia.


Forse avrebbero allagato mezzo bagno, ma quando lui la liberò dei pantaloni e la prese in braccio non gliene fregò più niente, l’unico pensiero fisso quello di ricambiargli la cortesia e rimanere così, pelle a pelle, il più a lungo possibile.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ecco il sushi!”

 

Calogiuri, con altri pantaloni della tuta e una nuova t-shirt bianca - di cui doveva avere comprato uno stock - piazzò dei contenitori di plastica sul tavolino, sul quale aveva già preparato il vino bianco e due calici, e si sedette accanto a lei sul divano.

 

E poi si bloccò un attimo a guardarla.

 

“Che c’è?”

 

“C’è che vestita così sei… le mie magliette stanno decisamente meglio a te che a me.”

 

“Se l’Arma non mi denuncia, Calogiuri,” ironizzò, perché si era messa su una t-shirt dei carabinieri, che le arrivava a metà coscia.

 

“Spero che nessun altro dell’Arma ti veda così, dottoressa.”

 

“Tranquillo, maresciallo, hai l’esclusiva. E poi non ti dovevi fidare al cento per cento?”

 

“E va beh… ma mo ogni parola che dico deve essere usata contro di me?” scherzò, accarezzandole una guancia.

 

“Senti chi parla, maresciallo!” ironizzò, prendendogli la mano nella sua e stringendo forte.

 

E poi Calogiuri si staccò e iniziò ad aprire le confezioni di sushi, con salsa di soia e la famosa pasta verde, porgendogliene una e tenendone un’altra per sé, “ce le dividiamo così assaggiamo un po’ di tutto?”

 

Imma annuì e provò a prendere in mano le bacchette e ad utilizzarle come le aveva mostrato Mancini, ma da seduta sul divano non era così semplice.

 

Calogiuri le fermò la mano e si chiese se pure lui le avrebbe fatto vedere come fare, ma invece le tolse le bacchette, dicendo, “queste non servono, puoi usare le mani, il sushi è fatto apposta. Poi tanto siamo a casa, non ci vede nessuno.”

 

Era tentata di chiedergli scherzosamente chi gli avesse insegnato a mangiare il sushi con le mani a casa - un nome le balzava in mente - ma si trattenne perché aveva recepito il messaggio e non voleva rischiare di essere pesante.

 

Invece prese un rotolino con le mani, lo intinse nella salsa e se lo portò alla bocca con enorme soddisfazione. Altro che bacchette!

 

Afferrò un pezzo dalla vaschetta di Calogiuri, lui ricambiò e continuarono per un po’ a mangiare in silenzio. Ma poi, colta da un impulso, con un mezzo sorrisetto, scelse un rotolino dalla sua vaschetta e lo mise sulle labbra di Calogiuri, che le apri, sorpreso. Lo imboccò, trattenendo un risolino quando la sua lingua le fece solletico alle dita.

 

Calogiuri, lo sguardo da impunito di nuovo sul volto, prese a sua volta un pezzo più grande, di quelli col riso e il salmone sopra, lo intinse nella salsa e ricambiò il gesto. Ed Imma si divertì parecchio a provocargli almeno lo stesso solletico, oltre che a provocarlo, ovviamente.

 

“Dottoressa, non mi tentare. Se no qua non mangiamo più.”


“Perché tu non mi tenti, maresciallo?” ribatté, sporgendosi per dargli un bacio sul collo. Lui fece un’esclamazione come di dolore e si rese conto, dal segno rosso che c’era già sulla pelle, che in doccia col vampirismo aveva esagerato un po’.

 

“Domani mi tocca la camicia a collo alto,” sospirò lui ma con un sorriso sulle labbra.

 

“Pensa a me che mi tocca il foulard e fa già caldo.”

 

“Eh va beh, non puoi mica fare Dracula solo tu, dovrò pur ricambiare, no?” le chiese, dandole un bacio sulle labbra, per poi domandarle, con un altro sorriso, “allora, ti piace il sushi?”

 

“Moltissimo e le bacchette ancora di più.”

 

“Meglio di quello che hai mangiato con Mancini?”

 

“Non c’è proprio paragone, Calogiuri,” sussurrò, intenerita, baciandolo vicino all’orecchio, prima di porgergli un altro pezzo.

 

E continuarono così, ad imboccarsi a vicenda e a bere vino bianco, godendosi la vicinanza l’uno dell’altra. Finito di mangiare, si presero i calici in mano e si accoccolarono più stretti.

 

“Mi era mancato tutto questo…”


“Pure a me, dottoressa, non sai quanto,” le sussurrò, dandole un altro bacio che sapeva di bollicine, “allora, quando vai a Matera?”

 

“Prendo il bus di domani sera, Calogiuri. Tu a Grottaminarda?”

 

“Pure io domani sera, anzi, domani notte per trovare meno traffico. Un collega mi presta la sua auto che tanto sarà via in questi giorni e non gli serve.”

 

“E se facessi portare la mia auto da Matera, Calogiuri? Lo so che è piccola e scassata, ma almeno ne avresti una a disposizione.”

 

“Ma no, dottoressa, con il poco che la usiamo non ne vale la pena, e poi trovare un parcheggio è quasi impossibile. Non ti preoccupare.”

 

“Dì la verità che è perché hai paura di non starci con le gambe.”

 

Calogiuri rise e poi aggiunse, dopo un attimo di riflessione, “ti rendi conto che dovrò passare tutte le vacanze di pasqua con su la camicia, dottoressa? Per non far scoprire le tue tendenze vampiresche.”

 

“E io col foulard. Che mia figlia già rinfaccia a Pietro la storia di Cinzia Sax, figurati se mi vede col collo conciato così.”

 

“Che poi Valentina è fin troppo sveglia… ho paura lo capirà lo stesso. Scusami ma… hai iniziato tu e non ci ho proprio pensato a pasqua.”


“Ma di che ti scusi, Calogiuri? E poi ne è valsa la pena!”

 

“Ah sì?” le chiese con un sorriso sornione e lei annuì e si sentì afferrare il calice di vino, che finì poco cerimoniosamente sul tavolo, prima di trovarsi schiacciata sul divano, in una lotta di solletico.


“Calogiù, Calogiù!” urlò, ridendo e cercando di liberarsi, ma poi lui smise di botto di farle il solletico, la guardò in un modo che non si sarebbe mai scordata e le levò il poco fiato rimasto con un bacio.

 

“Almeno ne varrà ancora di più la pena…” le sussurrò, facendole l’occhiolino, e stavolta fu lei a baciarlo, spingendolo fino a intrappolarlo tra il suo corpo e lo schienale del divano.

 

Altro che valerne la pena!

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa, ha bisogno di una mano?”

 

Stava uscendo dalla procura con il borsone per il breve viaggio a Matera. Mancini le si era affiancato con la sua ventiquattrore.

 

“No, grazie, dottore, veramente, è leggero.”

 

“Torna a Matera per pasqua, se non ricordo male?”

 

“Esattamente.”

 

“Senta, non la voglio mettere in imbarazzo, ma lo vuole un passaggio fino alla stazione? Stia tranquilla che, come lo ho già detto, ho capito e manterrò le distanze, ci mancherebbe.”

 

“No, dottore, lo so, ma… è che già si è offerto gentilmente il maresciallo Calogiuri, che tanto poi deve andare fuori Roma,” rispose, dopo un attimo di esitazione, vedendo che Calogiuri era parcheggiato lì di fronte e la stava aspettando in auto.

 

“Ah, d’accordo,” rispose Mancini, guardando anche lui in direzione di Calogiuri e poi tornò a rivolgersi verso di lei ed abbassò gli occhi verso il foulard al suo collo. Per un attimo temette avesse notato qualche segno. Ma gli aveva detto di essere impegnata, certo magari non voleva ne vedesse pure le prove.

 

“Allora passi una buona pasqua, dottoressa, ci vediamo al rientro e spero di avere buone notizie per lei sul caso.”

 

“La ringrazio, dottore, buona pasqua anche a lei,” rispose, avviandosi verso l’auto di Calogiuri e lui scese dalla macchina per aiutarla a mettere il borsone nel bagagliaio, in apparenza formalissimo, e poi le chiuse la portiera, si mise al volante e partirono.

 

“Che voleva Mancini?” le domandò, quando ebbero svoltato l’angolo della procura.

 

“Aiutarmi con il bagaglio ed offrirmi un passaggio in stazione, Calogiuri, ma gli ho detto che il passaggio ce l’avevo già.”

 

Vide che contraeva un poco la mascella.

 

“Calogiuri, ti devo ricordare tutti i discorsi sulla fiducia che proprio tu mi hai fatto ieri sera?”


“No, Imma… ma non è che sono geloso, più che altro sono preoccupato. Non mi sembra intenzionato ad arrendersi così facilmente.”

 

“Ma mi ha assicurato che non si avvicinerà più, Calogiuri.”

 

“E ci mancherebbe altro! Ma secondo me continuerà a corteggiarti, anche se velatamente, sperando che tu cambi idea, pure se sa che sei impegnata.”

 

“Ed in caso continuerò a dirgli di no, ma io credo che stia cercando di essere cortese perché si sente in colpa e vuole mantenere comunque buoni rapporti lavorativi.”

 

“Il problema è che li vorrebbe troppo buoni i rapporti.”

 

“Calogiuri,” sorrise, prima di stringergli il ginocchio, “comunque eviterò di stare da sola con lui se non è per motivi inderogabili di lavoro. La lezione mi è bastata.”

 

E Calogiuri sorrise e le strinse a sua volta per un attimo la mano, prima di lasciarla andare per cambiare marcia.

 

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“Ma non dovevi venire con la metro?”

 

“Eh, Valentì, cambio di programma. Calogiuri mi ha potuta accompagnare.”

 

“Allora fate un buon viaggio e… buona pasqua a tutte e due,” proclamò Calogiuri, dopo aver depositato il borsone di Imma nel vano del bus.

 

Imma era indecisa su come salutarlo.

 

“Ho capito… io come al solito mi giro e non guardo,” ironizzò Valentina, mettendosi una mano sugli occhi e voltandosi verso la corriera.

 

Ad Imma venne da sorridere: la melodrammaticità sua figlia l’aveva presa da lei.

 

Ma si sentì abbracciare forte ed ogni pensiero scomparve. Ricambiò l’abbraccio di Calogiuri e poi gli piantò un rapido bacio sulle labbra.

 

Mentre, a malincuore, si staccava completamente, vide alcune ragazze e signore guardarla un po’ stranite, ma ormai non la disturbava più. La maggior parte glielo invidiava e le capiva pure.

 

“Dai Valentì, andiamo!” proclamò, poggiando il braccio sulla spalla della figlia, che ovviamente sciolse il contatto quasi subito, ma si avviò sulla scaletta del bus con uno sguardo divertito.

 

“Buona pasqua, Calogiuri. E occhio al rossetto, che se tua madre è come la mia ti fa un interrogatorio appena ti vede!” lo salutò Valentina, prima di salire sul bus, e Calogiuri diventò di un colorito fucsiaceo e si affrettò a pulirsi le labbra.

 

“A lunedì sera, Calogiù. Mi raccomando da mammà e, se hai bisogno, chiama quando vuoi.”

 

Lui le fece un sorriso dolcissimo ed annuì, prima di salutarle con un cenno della mano, augurare di nuovo buona pasqua ed avviarsi verso la macchina.

 

Imma si diresse verso due posti ancora liberi, purtroppo nella parte anteriore del bus, ignorando le occhiate di alcuni dei presenti.

 

Valentina, generosa come sempre, si prese il lato dal finestrino ed Imma si accontentò del corridoio.

 

“Allora, ho visto che i problemi in paradiso sono rientrati…” proclamò Valentina, con un mezzo sorrisetto.

 

“Beh… diciamo di sì…”

 

“Diciamo di sì? Quel poveretto non sta sotto un treno, ma sotto tutta Trenitalia per te! Dovresti proprio svelarmi il segreto del tuo successo o se basta trattare la gente di merda.”


“Ma non lo tratto male, anzi,” proclamò Imma, anche se le parole di Valentina su quanto preso fosse il suo Calogiuri non potevano che farle piacere.

 

“In effetti forse è la persona con la quale ti comporti meno peggio, probabilmente, ma non vuol dire molto.”

 

“Senti chi parla, signorina!” rise, abbracciandosela di lato e Valentina ricambiò per circa due secondi, prima di divincolarsi come al suo solito.

 

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“Ippà! Finalmente ti vedo! Ma come stai sciupato! Ma mangi?”

 

Sua madre lo trascinò in un abbraccio a morsa, dopo la solita domanda di rito e nonostante il suo “sto bene, mà, sto bene…” continuò a ripetergli quanto fosse patito pure mentre entrarono in casa.

 

“Ma che sciupato, sta benissimo! Ciao fratellino!” proclamò sua sorella, abbracciandolo a sua volta ma senza stritolarlo.

 

“Ma se tiene due occhiaie tremende!”

 

“Appunto, mà, appunto!” ironizzò Rosaria, lasciando l’abbraccio e facendogli l’occhiolino.

 

“Comunque stavamo pronti per colazione qui. Tuo padre e tuo fratello già nei campi stanno, che lavorano assai loro.”

 

Calogiuri sospirò: sapeva che sua madre non avrebbe mai approvato la sua scelta di fare il carabiniere. Non del tutto.

 

“Non darle retta!” gli sussurrò sua sorella, prendendolo per un braccio, “allora, mangi un poco o vuoi dormire qualche ora prima?”

 

“No, veramente ho dormito abbastanza stanotte, nonostante la levataccia. Un po’ di colazione va bene e-”

 

“Ciiio!”

 

Una vocetta felice lo fece guardare verso il corridoio e si trovò con due manine attaccate alla gamba, senza quasi rendersene conto.


“Noemi! Ma quanto sei cresciuta?!” esclamò, un po’ commosso, abbassandosi per prendersela in braccio.

 

“E certo che è cresciuta, se qui non ci vieni mai, che pare che teniamo i serpenti in questa casa!”

 

“E dai mà, su! C’ha da lavorare e la sua vita a Roma, non può mica tornare ogni cinque minuti. E poi ti devo venire a trovare io, che a settembre ci siamo divertiti un sacco e pure la peste qui non vede l’ora.”

 

“Quando volete…” rispose con un sorriso, facendo saltellare un po’ la piccoletta in braccio, che gli si aggrappò ancora di più.

 

“Ma non è meglio che torna a casa sua lui, invece di stare in un buco col traffico e lo shmoki e-”

 

“Lo smog, mamma, lo smog. E poi Roma ha pure i monumenti, i negozi, un sacco di bei posti da vedere.”

 

“Come accà non si sta da nisciuna parte!”

 

“Appunto!” rispose Rosaria con un sospiro, prima di mettergli una mano sulla spalla e dare una carezza a sua figlia, “dai, fratellino, che andiamo in camera tua a mollare la tua roba, prima che mà ti fa una testa così.”

 

“Io non faccio na testa accussì a nisciuno!”

 

“Sì, sì,” sospirò di nuovo Rosaria, quasi trascinandolo verso la camera, Noemi ancora in braccio.

 

Si chiuse la porta alle loro spalle e gli disse, “allora, chi è?”

 

“Chi è chi?”

 

“La causa delle tue occhiaie e delle tue poche visite a mammà, fratellone, non che non ti capisca. Allora, chi è?”

 

“Ma niente, Rosa, è il troppo lavoro.”

 

“Sì, certo. Guarda che sono più grande di te, fratellino, e ti conosco.”

 

“E dai, Rosa, su, che mi fai l’interrogatorio pure tu mo?”

 

“No, ma… se ne vuoi parlare, sai che non dirò niente a nessuno, anzi a nisciuno, come direbbe mamma.”

 

Calogiuri sospirò e poi annuì, che tanto sarebbe stato inutile negare oltre. Ma non le avrebbe detto altro: Imma di lui si fidava e non poteva rischiare che Rosa, anche solo inavvertitamente, si lasciasse scappare qualcosa con sua madre.

 

Sapeva pure lui che, se avesse saputo di Imma, avrebbe fatto un casino e non voleva metterla nei guai.

 

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“Allora, vi piace?”

 

“Tutto buono come sempre, Pietro. Pure i taralli con lo zucchero,” annuì, prima di metterne in bocca uno, non sapendo bene che altro dire.

 

Durante tutto il pranzo pasquale c’era stato un silenzio opprimente. Pietro almeno non sembrava più arrabbiato, ma era comunque di cattivo umore, si vedeva, pure se era l’unico che tentava di fare conversazione. Valentina stava in silenzio con un’espressione manco fosse stata a un funerale. Ed Imma non era mai stata brava a fare conversazione tanto per.

 

“Valentì, perché non porti la pannarèdd che hai fatto, così la fai vedere anche a mamma?”

 

“Che poi non so cosa mi è venuto in mente di farla. Una perdita di tempo per niente. Ma tanto qua non c’è mai niente da fare,” si lagnò Valentina, tornando dopo poco con il dolce con incastonato un uovo intero.

 

“E brava, Valentì, di sicuro è venuta meglio a te di quanto veniva a me.”

 

“Non ci vuole molto, mamma,” replicò Valentina, tagliando le parti mangiabili del biscottone, esibendosi in un sospiro esagerato.

 

Ma la verità era che la capiva. Ed iniziava a chiedersi se avesse senso trascorrere ancora le festività tutti insieme, almeno fino a che lei e Pietro non fossero riusciti di nuovo a recuperare un rapporto non solo civile ma anche amichevole e a parlare senza problemi.

 

Chissà se sarebbe mai successo.

 

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“Ciiiooooo, ovo, ovo!”

 

“Mi sa che qualcuna ha voglia di cioccolato,” ironizzò, prendendosi in braccio Noemi e passandole un pezzetto dell’uovo di pasqua che ancora stava sulla tavola apparecchiata in giardino.

 

“Golosona! Che corrompi lo zio. Poi basta con i dolci però, Ippà, che non vorrei che le facessero male.”

 

“Tranquilla, Rosa, e poi non ne aveva preso tantissimo. Ma mo basta, promesso.”

 

Rosaria sorrise e disse “se me la tieni un attimo tu, andrei a mandare un po’ di messaggi di auguri e a rispondere a quelli che mi sono arrivati.”


“Tranquilla, vai pure. Noi qui ce la caviamo, vero signorina?”

 

“Ciiiiii!” rispose entusiasta Noemi, la bocca tutta sporca di cioccolato ed il solito adorabile problema che aveva ancora nel pronunciare alcune consonanti. Ma parlava, eccome se parlava.

 

“Scappo finché posso,” confermò sua sorella, facendogli l’occhiolino e ritirandosi in casa.

 

Lui continuò a tenere in braccio la nipotina, che finiva di deglutire il cioccolato, prima di prendere un tovagliolo di carta e cercare di pulirla meglio che poteva, quando sopraggiunse sua madre, che si era allontanata un attimo insieme a suo padre e a Modesto per parlare con una vicina venuta a fare gli auguri.


“E guarda come stai bene con i bambini! Quando è che ti decidi a sposarti e a fartene uno tuo, eh?”

 

“Mà…” sospirò, perché questo discorso lo aveva già sentito non si sapeva quante volte in quei due giorni, così come Rosaria si sorbiva la predica di dare un fratellino a Noemi. Modesto era stato risparmiato, forse perché era già così impegnato a lavorare nei campi che sua madre aveva deciso di concentrarsi sulla sorella e soprattutto su di lui, la pecora nera della famiglia.

 

“E che aspetti? Che tutti i capelli bianchi ti vengono?”

 

“Mà, non ho nemmeno trent’anni e non ho intenzione di correre a sposarmi. Già ho fatto un errore in passato e-”

 

“E appunto! Ma magari stai ancora in tempo a rimediare!”

 

“Che vuoi dire?”

 

In quel momento, nemmeno la avesse invocata, una macchina si fermò di fronte allo stradino che portava alla loro casa e ne scese una figura un tempo assai familiare.


“Maria Luisa?!” chiese, sconvolto, voltandosi verso sua madre, che però sorrideva.

 

Non ci poteva credere!

 

“Mà, ma come ti è saltato in mente?!” le chiese in un mezzo sibilo, ma sua madre lo ignorò e si avviò verso Maria Luisa, con un grande sorriso, abbracciandola.

 

“Maria Luì, ti trovo benissimo, complimenti!”

 

“Anche voi, signora, vi ho portato un pensiero,” la sentì rispondere, porgendo a sua madre dei fiori e una vaschetta di quelle di alluminio, “mia madre ha fatto la Pigna pasquale.”

 

“Grazie, cara, tua mamma tiene sempre le mani d’oro!” esclamò, dandole perfino una lieve carezza su una guancia.

 

Se sua madre avesse avuto per lui un grammo della predilezione che aveva sempre avuto per Maria Luisa. E se Maria Luisa fosse stata almeno un minimo gentile con lui come lo era con sua madre.

 

Ma ormai erano pensieri ancorati in un passato che quasi gli sembrava risalire ad una vita precedente.


Con Noemi ancora in braccio, rimase lì impalato, mentre Maria Luisa, finite le effusioni con sua madre, si voltò verso di lui e lo trafisse coi suoi occhi scuri.

 

“Ippazio,” disse, avvicinandosi a passo deciso, continuando a guardarlo negli occhi, per poi voltarsi verso Noemi, fare un sorriso e chiedere, “e chi è questa principessa, eh?”

 

Noemi, per tutta risposta, la prese per il naso e gli venne quasi da ridere, ma cercò di liberare Maria Luisa che si lamentava di dolore, afferrando delicatamente un braccio di Noemi e dicendole “dai, Noemi, lascia.”

 

Noemi lo guardò per un attimo e poi obbedì, rifugiandosi però di più nel suo collo e dando la schiena a Maria Luisa. Doveva proprio starle antipatica o forse aveva percepito quanto lui fosse in tensione.

 

“Maria Luisa… non mi aspettavo di vederti qui…” disse, dopo un attimo di silenzio, sperando che la sua ex cogliesse tutti i sottotesti di quella frase.

 

“Eh… ma sai… con tua madre ogni tanto capita di incontrarsi in paese e… mi ha invitata a passare se volevo e allora….”

 

“Non dubitavo che ci fosse di mezzo mia madre,” sospirò lui, dando due carezze sulla schiena a Noemi e, sapendo che non poteva evitarsi quella conversazione, piazzandosi su una delle panchine di pietra dell’aia.

 

Maria Luisa lo imitò e gli si sedette fin troppo vicino, Noemi che, di rimando, gli si strinse ancora più al collo.

 

“Come stai?” gli domandò infine Maria Luisa, dopo un attimo di silenzio.


“Bene, tu?” rispose, lanciando nel frattempo un’occhiataccia a sua madre, in risposta al sorrisetto soddisfatto che gli aveva fatto prima di raggiungere suo padre e Modesto, che stavano rientrando dagli ultimi saluti alla vicina.

 

“Insomma…” sospirò Maria Luisa, piazzandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e poi si sentì toccare appena sopra un ginocchio, “mi manchi, Ippazio. Dopo… dopo di te non sono più riuscita a… ad innamorarmi di nessun altro e… e tua madre mi ha detto che pure tu non ti sei più messo con nessuna. Lo sai quanto mi costa essere qui, con il mio orgoglio ma… ma se vuoi io ti perdono e… e possiamo ricominciare, nonostante quello che è successo.”

 

Dire che fosse incredulo era dire poco: dopo averla piantata a due passi dall’altare, dopo tutte le litigate fatte con lei e con la famiglia di lei per il disonore e pure per i soldi già spesi… questo proprio non se lo aspettava. E mo che poteva dirle per dissuaderla da questa idea folle?

 

Forse c’era un solo modo ed era con almeno una parte della verità.

 

“Maria Luì, senti, mi dispiace se… se tu non sei riuscita ad andare avanti ma… ma la nostra storia non funzionava più già da molto tempo. A te non andava bene com’ero io e quello che volevo fare nella vita e… non eravamo compatibili, le nostre vite non erano e non sono compatibili. Se sono arrivato ad annullare un matrimonio un motivo c’era e pure serio. E poi… e poi io mo sono innamorato di un’altra persona, anche se ci sto andando piano e non l’ho ancora presentata a mia madre ma… sono innamorato e sono felice con lei, molto.”

 

“E chi sarebbe chista mo? E poi ma come parli? Compatibili? E che sei mo, un libro stampato?”

 

“Chi è non sono affari tuoi. E parlo come parlo, pure se a te non è mai andato bene nemmeno questo. Ed intendo dire che magari ti devi trovare qualcuno che voglia coltivare gli ulivi e stare qua per sempre. Ma quel qualcuno non sono io e non sarò mai. La mia vita è un’altra.”

 

“E che ti credi superiore mo? Perché hai studiato e fai carriera?”

 

“No, Maria Luì, no, semplicemente ho sogni diversi dai tuoi. E sono sicuro che troverai qualcuno che ti renderà molto più felice di quanto eravamo insieme.”

 

“Eh, come no! Chi mi si prende mo, eh? Che c’ho quasi trent’anni e gli anni migliori li ho persi appresso a te. Sei un disgraziato sei! Ma questa è l’ultima umiliazione che mi dai, l’ultima!”

 

E, mentre Noemi iniziava a strillare, probabilmente spaventata dal troppo rumore, Maria Luisa si alzò in piedi e, con un ultimo sguardo sprezzante, iniziò ad incamminarsi verso l’auto ancora in attesa.

 

“Maria Luì, ma dove vai?” la chiamò sua madre, ma la ragazza fece un cenno con la mano e non si fermò fino a che non fu sulla macchina.

 

“Ma si scem’? Ma che hai combinato?”

 

“Che ho combinato io?! Che hai combinato tu, semmai!” non potè trattenersi dal gridare, alzandosi in piedi e cercando di consolare Noemi che piangeva ancora di più.

 

“Che alzi la voce con me?! Come ti permetti!” gridò di rimando sua madre, l’aria di chi, se non ci fosse stata Noemi in braccio, gli avrebbe già mollato una cinquina.

 

“Come ti permetti tu di farmi arrivare qui Maria Luisa, di nascosto, tra capo e collo. Non capisci che hai fatto solo peggio e mo ci starà male e ce l’avrà ancora a morte con noi per chissà quanto tempo?”

 

“Ma io l’ho fatto per te! Che non ti svegli e non ti trovi na brava quagliona. E tra poco schitto rimani!”

 

“Sono già fidanzato, va bene?! E sono pure felice, molto felice. Ma la mia vita sentimentale è la mia e non la gestisci tu.”

 

Sua madre rimase per un attimo a bocca aperta, ma poi proseguì imperterrita con la domanda che temeva e si aspettava insieme, “e se tieni la fidanzata perché non me lo dicesti? E chista chi è?”

 

“Perché non stiamo più nell’Ottocento e al momento non è che ci dobbiamo sposare. Quando sarà il momento te la presenterò.”

 

“Ma siamo sicuri che chista criatura esiste o te la sei inventata mo per tenermi buona?”

 

“Esiste, mà, esiste. Ma mi pare presto per fidanzamenti ufficiali, che già ho cancellato un matrimonio.”

 

“Se a natale state ancora insieme però me la devi presentare, hai capito?”

 

“Vedremo, mà, vedremo…” sospirò, sapendo che sua madre gli avrebbe dato il tormento per conoscere Imma. Ma non poteva fare altro.
 

“Mà, e lascialo in pace mo! E ti pare il caso di chiamare quella, dopo tutto quello che ha detto su di lui? Solo perché non si trova un altro, che con quel carattere chi se la piglia?”

 

“Ma che parli tu?! Che t’impicci! Che figli disgraziati che mi sono capitati!” esclamò, fulminando Rosa con un’occhiataccia e poi allontanandosi stizzita, tornando da suo padre e suo fratello che se ne stavano in disparte, con l’aria di voler diventare invisibili.

 

Calogiuri lanciò uno sguardo grato alla sorella. 

 

“Grazie Rosa, e scusami, mi sa che si è agitata mo,” disse, cercando di far calmare Noemi che ancora si lamentava.

 

“Tranquillo, fratellino, che lo so che non è colpa tua,” disse, allungando le braccia per prendere la figlia, che ci si rifugiò. Ma poi guardò di nuovo verso di lui.

 

“Cio, pecché chella ullava?”

 

“Perché era fidanzata con lo zio ma lo zio l’ha lasciata tempo fa e non vuole tornare con lei,” le spiegò Rosaria e Noemi la guardò un attimo confusa, ma poi proclamò, seria e decisa, “faccio bene, cio!”

 

Gli venne un po’ da ridere, considerando le sfuriate di Imma, e si chiese se a Noemi sarebbe stata ancora simpatica o ne sarebbe stata spaventata. Di sicuro Maria Luisa le stava sul gozzo. E la capiva benissimo.

 

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Stavano al caffè e all’uovo di pasqua, lo stomaco che era un dirigibile, quando sentì suonare alla porta.

 

Era casa di Pietro quella ormai e quindi non aveva idea di chi potesse essere. Temette che Cinzia Sax avesse fatto loro un agguato.

 

Almeno fino a quando sentì una voce familiare ma non era Cinzia Sax. No, era molto peggio.

 

La sua quasi ex suocera.

 

“Tanti auguri, figliolo, e Valentina dove sta?”

 

“Mà, ma non dovevamo vederci domani?” sentì Pietro rispondere.

 

“Ma domani è pasquetta e non posso fare gli auguri in ritardo alla mia nipotina!” la sentì proclamare, prima che apparisse dal corridoio, vestita da festa, rivolgendo un enorme sorriso a Valentina, per poi cambiare obiettivo e trafiggerla con un’occhiataccia che poteva uccidere, “ah, ci stai pure tu?”

 

“Eh, sì, signora, sapete… è pasqua e allora ci sono pure io,” rispose, con tono e sguardo di sfida.

 

“Che cos’è? Rimpiangi quel sant’uomo di mio figlio? Ma lui per fortuna guarda avanti ormai.”

 

“Se Pietro guarda avanti io non sono altro che felice, signora. E comunque io a Roma sto molto bene, grazie.”

 

“E pure noi a Matera senza di te. E non dirmi che ti sei trovata un altro povero martire che ti si è presa. Ma uno santo come il mio Pietro dove lo trovi?”

 

“Signora, con tutto il rispetto non sono affari suoi,” replicò, non riuscendo a trattenere il sarcasmo.

 

“Come immaginavo! Ma chi ti si piglia a te?”

 

Valentina la guardò con compatimento e perfino Pietro le lanciò uno sguardo che pareva quasi dispiaciuto.

 

Mentre sua suocera si concentrava su Valentina, chiedendole come stesse, Imma pregò chiunque ci fosse in ascolto di darle la forza di resistere senza commettere un omicidio volontario e si promise, almeno per qualche tempo, di evitare le feste comandate tutti insieme.

 

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Stava leggendo un vecchio fumetto che aveva ritrovato nell’armadio, cercando di distrarsi dalla situazione assurda con Maria Luisa, quando gli squillò il telefono.

 

Sorrise, senza poterlo evitare, quando vide il Dottoressa sul display.

 

“Tanti auguri, dottoressa!”

 

“Eh… pure a te, Calogiuri. Puoi parlare?”

 

“Certo. Allora, come va? Dove sei? Hai la voce triste o sbaglio?”

 

“Sono appena rientrata a casa… insomma a casa di mia madre, Calogiuri. Oggi è stata una giornata tremenda.”

 

“Ma che è successo?”

 

“Eh… mia suocera anzi, la mia quasi ex suocera ha deciso di fare una bella improvvisata dopo pranzo. Ti lascio immaginare il resto….”

 

“Mi dispiace… vorrei essere lì con te ma-”

 

“Eh, ma c’ho avuto questa bella idea di provare a fare le feste tutti insieme e mo mi prendo le conseguenze, Calogiuri. Tu come va? Pure tu c’hai la voce un po’ strana. Tutto bene, sì?”

 

“Eh… diciamo che poteva andare meglio.”

 

“E cioè?”

 

“Mia madre… ha fatto venire qui Maria Luisa, pure lei dopo pranzo, senza dirmi niente naturalmente e-”

 

“Cosa?! Quella scema di Maria Luisa?! Ma che ci è venuta a fare là?” sentì Imma chiedergli con il tono di voce già irritato e gli venne da ridere.

 

“Niente… diciamo che lei non è stata fortunata come me e voleva… voleva riprovarci con me. Credo l’abbia convinta mia madre, conoscendola. Ma… ma le ho detto che non sono interessato e… e poi ho dovuto dirle… e quindi dire anche a mia madre che sono impegnato. Ma non ho detto con chi, naturalmente, non ti preoccupare e-”

 

“Calogiuri, respira, tranquillo. Hai fatto bene,” lo interruppe, con un tono più dolce ma stavolta era lei a sembrare divertita.

 

“Che c’è? Che ridi?”

 

“No, niente, Calogiù… forse sarò pessima ma… avrei voluto vedere la faccia di Maria Luisa quando le hai detto che eri già impegnato.”


“Sei tremenda, dottoressa!” esclamò, non riuscendo però a trattenere un sorriso.

 

“Scusami, Calogiuri, ma… se penso a come ti ha trattato per tutti quegli anni, o almeno da quando hai iniziato a parlarmene, mi sta sul gozzo, non ci posso fare proprio niente.”

 

“Più di Irene?”

 

“Calogiuri, sono due cose diverse. Maria Luisa non mi provoca gelosia, ma irritazione per come si comportava con te. La Ferrari invece… mi provoca fastidio perché non so dove voglia andare a parare, ma almeno non ti tratta male, che è già qualcosa suppongo, anzi.”

 

Stava per ribattere quando sentì bussare alla porta.


“Scusami, ma mo devo proprio andare che mi bussano in camera.”

 

“Va bene, Calogiuri, buona serata. Quando arrivi a Roma?”

 

“Domani sera, dottoressa. Se non torno troppo tardi ti va bene se ti raggiungo?”

 

“Calogiuri, a qualsiasi ora torni, vieni a casa che ti aspetto.”

 

Gli venne un nodo in gola e gli occhi lucidi, perché quella per lui era davvero casa, ormai, non c’era niente da fare.

 

“A domani allora. Ti amo.”

 

“Ti amo anche io, maresciallo, a domani!”


Si costrinse, anche se a malincuore, a chiudere la chiamata e sentì bussare nuovamente.

 

“Sì, chi è?” chiese, temendo, vista l’insistenza, che si trattasse di sua madre.

 

“Sono io, posso entrare?”

 

“Rosa? Ma certo, entra!” esclamò e vide la porta aprirsi ed il viso sorridente di sua sorella fare capolino. Ma aveva uno sguardo furbo, che gli ricordava quando erano bimbi e stava per combinare qualcosa.

 

“Che c’è?” le chiese, mentre lei chiudeva la porta alle sue spalle.

 

“Eri al telefono con la tua fidanzata?” gli domandò di rimando, con un sorriso ancora più sornione e, preso in contropiede, cercò di trovare una scusa credibile.


“Rosà, io-”

 

“Sei diventato come un pomodoro! Eddai, fratellì, che non sono nata ieri. Tranquillo, che non dico niente a mammà.”

 

“Rosa…” sospirò, ma lei, incurante, si sedette accanto a lui sul letto.

 

“Allora, com’è?”

 

“Com’è cosa?”

 

“Questa ragazza, com’è?”

 

Rimase un attimo ammutolito, anche perché in realtà Imma non era propriamente una ragazza.

 

“Rosa, guarda, per ora preferirei non parlarne e-”

 

“Ma non mi devi fare un identikit, vorrei solo che me la descrivessi un poco, più che altro cosa ti ha fatto innamorare. Perché è evidente che sei molto preso e ne dubitavo già, visto che stavi sempre a Roma i fine settimana. Allora, com’è? Vive a Roma, vero?”

 

“Sì… sì…” annuì, perché in fondo era la verità, scervellandosi su come descrivere Imma senza identificarla troppo chiaramente, “e diciamo che è… è bellissima, tosta di carattere, intelligentissima. Ma è anche buona d’animo, e generosa e-”

 

“Mamma mia, non sei solo cotto, sei proprio andato!” lo interruppe con una risata, “non ti ho mai visto così con Maria Luisa, neanche ai tempi d’oro, si fa per dire.”

 

“E va beh… non c’è paragone. Con lei è tutta un’altra cosa.”


“Mo vorrei proprio conoscerla questa che ti ha rubato il cuore, fratellino, se è così straordinaria come la descrivi.”

 

“Rosà, è ancora presto per presentarla in famiglia e-”

 

“E se temi che scappi conosciuta la futura suocera - e la capirei pure - potresti presentarla a me, la prossima volta che vengo a Roma con la peste. Sai che le cose me le so tenere per me, no?”

 

“Beh… sì, vediamo e-”

 

Ma in quel momento ribussarono alla porta ed entrò suo cognato, con una faccia preoccupata.

 

“Amore, che succede?”

 

“Noemi è un po’ strana, pare stanca stanca. Pensavo che era perchè aveva corso assai, ma mi pare un poco calda.”

 

“Pure questa, mo. Arrivo!”

 

Calogiuri, preoccupato, seguì sua sorella per accertarsi di cosa fosse successo.

 

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“Allora, Valentì, mi raccomando, avvisami quando stai a casa sana e salva.”

 

“Mà, sto a poca distanza dalla fermata metro, stai tranquilla. Tu piuttosto, che devi cambiare a Termini, sei sicura di cavartela?”


“Valentì, ma che pensi che sono cretina? Certo che lo so fare il cambio.”

 

“Va bene, va bene, ma avvisami pure tu quando arrivi a casa… visto il periodo.”

 

L’irritazione svanì e si lasciò sfuggire un sorriso, “mi stai dicendo che ti preoccupi per me?”

 

“Mi preoccupo sempre per te, matta come sei!” proclamò, prima di afferrare il borsone per prepararsi a scendere, “però mà, mi prometti che evitiamo da ora in poi le cene tutti insieme appassionatamente? A natale piuttosto faccio doppia abbuffata cenone e pranzo: o tu e papà riuscite a parlare normalmente, o è peggio che passare le feste da sola.”

 

“Lo so, Valentì, e ti prometto che, se la situazione da qui a natale non sarà più distesa, faremo ognuno per conto suo. Che tanto sei giovane e la digestione ce l’hai buona.”

 

“E meno male! Con la tua cucina poi! Ciao mà, aspetto il tuo messaggio allora.”

 

E, chiedendosi quando fosse cresciuta così, Imma la vide scendere dal vagone, con orgoglio misto a preoccupazione.

 

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Sentì il rumore di chiavi nella porta e le venne da sorridere istintivamente, appoggiando il libro che stava leggendo sul tavolino di fronte al divano.

 

“Calogiù!” lo salutò, tirandosi in piedi per raggiungerlo e lui fece quasi un salto, ma poi si voltò verso di lei, sorridendole in quel modo meraviglioso che aveva solo lui, “ti sei spaventato?”

 

“Eh sì, è che pensavo fossi già a letto. Ormai è mezzanotte passata.”

 

“Te l’ho detto che ti avrei aspettato, maresciallo, no?” gli ricordò, mettendogli le braccia intorno al collo e sollevandosi sulle punte delle ciabatte leopardate per dargli un bacio, “allora, com’è andato il viaggio?”

 

“Bene, bene, non vedevo l’ora di essere a casa. E tu?”

 

“Pure io, Calogiuri, pure io.”

 

Fece un passo indietro per farlo passare e Calogiuri mise a terra il borsone vicino alla cucina e si sentì un rumore pesante.


“Ma che c’hai in quella borsa, Calogiù, sassi?”

 

“No, mia madre… mi ha dato un po’ di viveri perché mi vede sciupato,” chiarì, aprendo il borsone e mostrando una sfilza di conserve e sacchetti di plastica contenenti presumibilmente salumi e formaggi, dall’aroma, “mo dovrò mettere a lavare tutti i vestiti che mi sono portato dietro, che se no sembrerò uscito da una stalla.”

 

Imma rise, ma poi commentò, intenerita, “però è stata gentile, no? E poi c’ha ragione che ti sciupo un po’... con tutto quello che ti faccio lavorare e non solo in procura.”

 

“Tu puoi sciuparmi finché vuoi, dottoressa!” proclamò, con quello sguardo furbo che la faceva impazzire.

 

“Ah sì?” gli chiese, sporgendosi per cingergli nuovamente il collo.

 

“Sì…” confermò, piantandole un altro bacio.

 

“Pure tu, maresciallo, ma non dirlo a nessuno,” ironizzò, mettendosi di nuovo sulle punte per dargli un altro bacio, ma vide il viso di lui farsi… triste… e quindi si fermò, “che cosa c’è, Calogiù?”

 

“Niente… è che… è che mi chiedo per quanto tempo ancora non potremo dirlo a nessuno di noi due. Io ho detto a mia madre che sto con qualcuno, tu lo hai detto a Mancini… insomma, quando arriverà il momento di dire anche con chi stiamo?”

 

“Calogiuri… non… non lo so… ma mo mi pare un po’ troppo presto, soprattutto visto che Mancini si è appena dichiarato e… temo sarebbe troppo uno schiaffo morale per lui se gli annunciassi che sto con te mo.”

 

“Forse… ma… ma lo schiaffo morale ci sarebbe comunque e… ed è sempre più difficile dover fare tutto di nascosto, non poter dire niente di noi due alla gente. Mi pesa sempre di più, Imma, e a volte temo che… temo che questo momento non arrivi mai e che tu… che tu ti possa vergognare di me e-”

 

“Ma sei matto?! Non dirlo neanche per scherzo, Calogiuri!” esclamò, da un lato arrabbiata che lui potesse anche solo pensare una cosa del genere, dall’altro però anche toccata dalla sua insicurezza, “al massimo sei tu che ti potresti vergognare di stare con una della mia età. Io sarò la più invidiata della procura, altroché! Ma ho paura che Mancini costringa almeno uno dei due a trasferirsi e… e di dover ricominciare una relazione a distanza. Lo so che ce la faremmo comunque, Calogiuri, se ci mettiamo d’impegno, ma… ma mi mancherebbe moltissimo la quotidianità, poterti vedere tutti i giorni e… e passare questi momenti così, a casa insieme.”

 

“Lo so, Imma. Ma, se non ci dovessimo trasferire, questa potrebbe diventare ufficialmente casa nostra a tutti gli effetti, invece di dover continuare con i due appartamenti. E poi… e poi al massimo mi posso sempre trasferire in una caserma a Roma e lo sai.”


“E ti ho già detto che non se ne parla nemmeno. Piuttosto mi cerco io un tribunale vicino, chiaro?”

 

“Va bene… va bene… ma il maxiprocesso non te lo faccio mollare un’altra volta quindi… al limite il tribunale più vicino me lo trovo io.”

 

“Testardo come il mulo che cavalcavi da piccolo sei, maresciallo!” sbuffò e Calogiuri sorrise e scosse il capo.

 

“A proposito, quando è che pensi di tornare a cavallo, dottoressa?”

 

“Appena mi ci porti, maresciallo.”

 

“Allora prestissimo,” le promise, accarezzandole una guancia.

 

Ad Imma scappò un mezzo sorriso e, facendolo indietreggiare, lo spinse di peso sul divano.

 

“Che fai, dottoressa?”

 

“Nell’attesa di altre cavalcate mi tengo in allenamento, maresciallo,” gli sussurrò, mettendosi a cavalcioni su di lui e godendosi il modo in cui le guance gli si fecero un poco rosate: adorava quando le riusciva ancora di farlo imbarazzare.

 

Ma poi si dedicò con impegno all’allenamento, iniziando a liberarlo dai vestiti ormai d’intralcio, baciando la pelle rosea che a mano a mano scopriva, godendosi ogni reazione ed il modo in cui si lasciava andare, completamente alla sua mercé.

 

Ed era solo all’inizio.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa, buongiorno. Come sono andati questi giorni di vacanza?”

 

“Dipende dal giorno, dottore. Diciamo in generale che poteva andare peggio. Lei?”

 

“Eh, da solo come sempre, dottoressa. Quindi diciamo che poteva andare peggio ma poteva anche andare meglio.”

 

Le lanciò un’occhiata a dir poco struggente ed Imma provò di nuovo un istinto di tenerezza verso il procuratore capo e la sua solitudine. Ma non ci poteva fare niente.


“Dottore, come mai mi ha fatta convocare? Dubito sia per parlare solo delle vacanze di pasqua.”

 

“No, infatti,” annuì, prima di prendere la cornetta e premere un pulsante, “signorina, può fare entrare il maresciallo per favore?”

 

Ed Imma vide la porta aprirsi ed entrò un uomo tra la trentina e la quarantina, in giacca, camicia e pantaloni, col fisico di chi stava più in azione che davanti ad una scrivania e l’espressione di chi di cose ne aveva viste parecchie.

 

“Il maresciallo De Luca, la dottoressa Tataranni,” li presentò Mancini ed Imma strinse la mano del maresciallo che aveva una stretta quasi d’acciaio, mannaggia a lui.

 

“Dottoressa, ho sentito molto parlare di lei da Giorgio,” esordì ed Imma, a maggior ragione dopo quanto successo tra loro, si chiese che cosa Giorgio gli avesse detto, “negli ultimi giorni ho studiato i movimenti dei due Mazzocca. Per fortuna la zona di Roma dove stanno è piena di telecamere e mi sono fatto aiutare da due dei miei uomini più fidati a pedinarli alternativamente le ultime sere.”

 

“Ma posso sapere chi sono questi uomini di massima fiducia? Con tutto il rispetto, maresciallo, il dottore mi aveva garantito che di questa storia al momento ne avrebbe saputo solo lei,” rispose, lanciando un’occhiata in tralice a Mancini che sembrò un poco imbarazzato.

 

“Dottoressa, Giorgio me lo ha detto ma… diciamo che se vogliamo chiudere questa storia prima del famoso maxiprocesso, bisognava guadagnare tempo. Che è una cosa che Giorgio mi ha detto lei apprezza molto, solitamente. E le garantisco che le persone che ho mandato sono il mio braccio destro ed il mio braccio sinistro, avrà modo di conoscerli prossimamente, ed hanno già fatto un sacco di operazioni delicate con me, tutte andate a buon fine, e godono veramente della mia massima fiducia.”

 

“Va bene, maresciallo,” assentì con un sospiro, anche perché ormai quello che era fatto era fatto e poteva farci ben poco, “allora, che avete scoperto?”

 

“Temevo cambiassero strada per andare al lavoro, ma fanno sempre lo stesso percorso, evidentemente si sentono tranquilli ed al momento non pensano di essere indagati o a possibili ritorsioni di altri clan. Vorrei prenderli per strada, un po’ distante sia dall’abitazione che dal lavoro, per fare un lavoro veloce ed evitare rappresaglie della famiglia o di coinvolgere gli altri clienti della pizzeria e del locale notturno. Quello che vorrei fare è mandare tre team: uno a catturare Diego Mazzocca, uno a catturare Kevin Mazzocca e uno al ristorante a mettere i sigilli, adducendo un controllo dei NAS, per distrarre l’attenzione dei Mazzocca. Il locale notturno non lo coinvolgerei al momento, dato che non paiono esserci connessioni dirette con l’indagine e aprirà comunque molto più tardi.”

 

“E quando vorreste fare tutto questo?”

 

“Domani sera: eviterei i giorni più affollati, per ovvie ragioni. L’importante è catturarli insieme. Di solito escono uno alle diciassette e uno alle diciannove. Se ci va bene il clan Mazzocca sarà impegnato con la storia dei NAS e non avrà il tempo di accorgersi della cattura di Diego.”

 

“E da quante persone sarà composto ciascun gruppo?”

 

“Cinque persone a testa per prendere i Mazzocca. Due auto ed una moto per spiarne l’uscita e poi imbottigliarli nel traffico. E per il ristorante volevo mandare quattro persone, con la possibilità di rinforzi in caso di resistenza. Dubito vorranno scatenare un casino di fronte ai presunti NAS, ma vedremo.”

 

“Quindi quattordici persone in totale? Sono molte, maresciallo. La possibilità di una fuga di notizie aumenta.”

 

“Proprio per questo ho chiesto al dottore se qualcuno del vostro team vuole venirci a dare una mano, per ridurre un poco il numero di estranei alla vostra procura. In più interverrò anche io, quindi saranno dieci dei ROS in tutto. Ma consideri comunque che sono tutte persone di estrema fiducia e siamo abituati a dare loro le indicazioni precise sull’identità degli obiettivi dei raid all’ultimo, proprio per evitare fughe di notizie.”

 

“E chi vorrebbe dalla PG?” chiese, sorpresa, ma De Luca fece un cenno a Mancini che annuì.

 

“Guardi, dottoressa, il maresciallo ha chiesto a me ovviamente, dato che conosco i ragazzi, e avrei deciso per Calogiuri, visto che ha seguito il caso dall’inizio e nelle azioni sembra saperci fare, e poi Mariani e Conti, che pure loro se la cavano bene e mi pare che siano di sua fiducia. Ne metterei uno per team.”

 

“Ed avete già idea di a quale team assegnarli?”

 

“Dottoressa, pensavo al maresciallo Calogiuri per il team di Kevin Mazzocca, visto che è lui il presunto assassino. Mariani per il team di Diego Mazzocca. Conti, che a quanto mi ha detto il dottore è più… pacato per fare finta di essere uno dei NAS.”

 

Imma sospirò: Calogiuri era finito proprio nel gruppo potenzialmente più pericoloso. Ma era anche un grande riconoscimento della sua capacità e del suo lavoro fare parte di un’azione del genere. E, anche se era estremamente preoccupata, non poteva certo impedirglielo o fare obiezioni che avrebbero suscitato sospetti.

 

“Va bene. Allora chi avvisa Calogiuri, Mariani e Conti?”

 

“Se ci vuole pensare lei, dottoressa, domani mattina presto tornerò per spiegare loro in dettaglio la situazione ed assegnare ad ognuno i ruoli. Ed aggiornerò anche i membri del mio team. Nel primo pomeriggio ci troveremo ad un punto stabilito e studieremo tutti insieme la strategia nei minimi dettagli, poi ci divideremo nei tre gruppi ed entreremo in azione con un po’ di ore di anticipo, in modo da non rischiare di mancare i due quando usciranno di casa.”

 

“D’accordo, maresciallo.”

 

Sarebbero state due giornate infinite.

 

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“Che c’è, dottoressa?”

 

“Come?”

 

“Lo sento che sei tesa. Che cos’hai?”

 

Erano mezzi abbracciati e stavano guardando un episodio di Scandal abbastanza surreale. Come la maggior parte degli episodi del resto.

 

Ma Calogiuri ormai la conosceva troppo bene.

 

“E che c’ho… Calogiuri, che ti devo dire?”

 

“Ma è per l’operazione di domani?”

 

“Come faccio a non preoccuparmi, Calogiuri? Quella è gente pericolosa.”

 

“Lo so, dottoressa, ma stai tranquilla che starò attentissimo.”

 

“Promettimi che non ti metterai in situazioni troppo a rischio, visto che ci saranno i colleghi dei ROS che a questo genere di operazioni sono più abituati.”

 

“Ma che pensi? Che non sono capace?” le chiese, con un tono che sembrava un po’ ferito ed Imma si voltò tra le sua braccia per guardarlo negli occhi ed accarezzargli il viso.

 

“Guarda che lo so che sei capace a fare il tuo lavoro e che lo fai pure molto bene, ma non è questo. In PG di azioni di questo tipo se ne vedono meno oggettivamente, Calogiuri, e le tue armi migliori sono sempre state la penna e la lingua, piuttosto che la pistola.”

 

E Calogiuri sorrise e poi le chiese, con uno sguardo che era tutto un programma, “in che senso la lingua, dottoressa?”

 

“Al lavoro spero solo in un senso, Calogiuri, anche se in effetti la sai usare molto bene pure in molti, ma molti altri sensi,” sussurrò, dandogli un rapido bacio sulle labbra e sentendosi avvolgere dalle sue braccia in una stretta meravigliosa e che la tranquillizzò più di mille parole. Ma, quando si staccò e riprese a baciarla con più passione, lo fermò con una mano sul petto e fece segno di no.


“Che succede?” le chiese, stupito e preoccupato.

 

“Che dici se andiamo a dormire mo? Meglio se non fai sforzi stasera, maresciallo, così domani sei riposato e a mente fresca.”

 

“Dottoressa… non li definirei proprio sforzi, anche se tu puoi essere insaziabile a volte,” ironizzò, dandole un pizzicotto su una guancia, prima di annuire ed acconsentire con un, “va bene, ma allora vorrà dire che recupereremo dopo coi festeggiamenti.”

 

“Contaci!” gli sussurrò, abbracciandoselo di nuovo più forte che poteva.

 

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“Qui Cobra Uno. Cobra Due e Cobra Tre, mi ricevete, siete in posizione?”

 

“Cobra Uno, qui Cobra Due, sono in posizione, passo.”

 

“Cobra Uno, qui Cobra Tre, anche noi siamo in posizione, passo.”

 

“Va bene. Cobra Due, mandaci il segnale appena lo avvisti e quando arriva al punto stabilito, così convergiamo. Passo e chiudo.”

 

Calogiuri osservò con un po’ di apprensione il maresciallo De Luca che stava alla guida del veicolo. Erano tutti incappucciati, visto il tipo di operazione, ed il passamontagna gli pizzicava il viso, non c’era abituato. Come non era abituato a vedere il mondo da due fessure.

 

“Calogiuri, ripetimi cosa dobbiamo fare quando arriva il segnale.”

 

Calogiuri, nonostante lo avessero già ripassato un sacco di volte, si sforzò di rispondere perché capiva la cautela del collega, “lo chiudiamo da dietro e Cobra Tre lo blocca da davanti. Mentre Cobra Uno e Cobra Due mi coprono, scendo e rimango dietro la portiera, intimo al sospettato di scendere dall’auto con le mani in alto, quando lo fa mi avvicino e lo carico sulla nostra auto.”

 

“Bene, Calogiuri, tieniti pronto. Diego Mazzocca è già sotto chiave, se tutto va liscio abbiamo concluso l’operazione.”

 

Teso come raramente si era mai sentito, l’adrenalina a mille, aspettò il segnale.

 

“Qui Cobra Due, lo vedo, è uscito di casa.”

 

“Cobra Due, qui Cobra Uno, allertaci come convenuto, passo e chiudo.”

 

Attesero minuti che sembrarono infiniti, fino a quando arrivò un, “qui Cobra Due, convergete!” che fece partire De Luca a razzo, tanto che, d’istinto, si tenne alla portiera.

 

Nemmeno Matarazzo andava tanto veloce.

 

Dopo attimi che gli parvero un’eternità, arrivarono al punto convenuto e videro il motorino di Cobra Due e l’auto di Mazzocca poco davanti a loro. Gli arrivarono dietro e Calogiuri preparò la pistola. Con una sgommata, l’auto Cobra Tre si piazzò di traverso sulla strada, poco di fronte all’auto di Mazzocca, bloccandola completamente.

 

Ci fu un rumore di frenata, mentre Mazzocca inchiodò.

 

Il tempo che si fu fermato e Cobra Tre avevà già arrestato il motorino e si era accucciato, la pistola in mano. Una portiera si aprì nell’auto Cobra Tre e ne uscì uno dei ROS, sempre pistola in pugno. Calogiuri si sbrigò ad aprire la portiera e, chinandosi per usarla come copertura, scese dall’auto, inginocchiandosi e puntando l’arma dal finestrino.

 

“Mazzocca, sei circondato! Esci dalla vettura con le mani in alto e mettile dietro alla testa!” intimò, con tutta la voce che aveva, la pistola in mano, il cuore a mille, mentre dentro la macchina Mazzocca sembrava esitare, “Mazzocca, sei circondato e ti abbiamo sotto tiro, non peggiorare le cose. Esci ora!”

 

Dopo qualche secondo, la portiera si aprì e Kevin Mazzocca scese, le braccia tese davanti a sé, “mani dietro la testa! Mettiti a terra!”

 

Mazzocca si portò le mani alla nuca, ma esitò un attimo, e gli urlò di nuovo “a terra ho detto!” fino a che si mise in ginocchio.

 

Dopo aver verificato di essere ancora sotto copertura degli altri due agenti, tenendo la pistola puntata, si alzò in piedi e, piano piano, raggiunse il Mazzocca. Una volta arrivatogli alle spalle, tenendolo sempre sotto tiro, prese le manette dalla tasca, gli ammanettò un polso e poi abbassò la pistola per ammanettargli l’altro.

 

Lo tirò in piedi con uno strattone, stupendosi di come il Mazzocca non sembrasse reagire e stava per avviarsi verso l’auto quando sentì uno strano rumore, che gli ricordava i cavalli imbizzarriti quando correvano in branco e, di colpo, da due dei condomini ai lati della strada apparvero degli uomini armati di bastoni, spranghe e svariati oggetti contundenti.

 

“Merda! Salite in auto!” urlò De Luca e Calogiuri, dopo un attimo di panico, iniziò a strattonare Mazzocca più forte che poteva, anche se l’uomo si era messo a peso morto.

 

“Cammina! Cammina che sei sotto tiro!” urlò, spingendolo con tutte le energie che aveva, spalancando la portiera sul retro e buttandolo dentro, mentre la folla inferocita si avvicinava.


“Sali! Sali!” urlò De Luca, il drappello ormai a pochi passi. Calogiuri chiuse la portiera sul retro e si buttò sul sedile del passeggero accanto a De Luca, sporgendosi appena in tempo per chiudere la sua di portiera e tirare su il finestrino, proprio mentre le persone iniziavano a circondare l’auto. Vide che pure l’auto Cobra Tre era circondata, mentre Cobra Due era sparito dal motorino.

 

“Dov’è Cobra Due?” chiese, in panico, non sapendo verso cosa o chi puntare la pistola. La cacofonia di metallo e di vetri che si infrangevano lo assordò alla prima serie di bastonate sul cofano dell’auto.

 

E poi sentì, sia con le orecchie, sia vibrandogli fin nelle ossa, un bastone che iniziava a colpire il finestrino del passeggero. La folla urlante li circondava, sembrando quasi seppellirli. Forse avevano saputo di Diego Mazzocca, nonostante la distrazione dei NAS, ed erano rimasti in allerta. O comunque evidentemente il clan era più potente di quanto pensassero in quel quartiere.

 

Non aveva mai avuto tanta paura in vita sua, se non quando avevano sparato a lui e ad Imma.

 

L’unico sollievo era che lei non fosse lì e si chiese, in un attimo di lucido panico, se l’avrebbe mai rivista.

 

E poi il sollievo mutò in terrore quando realizzò che, con le telecamere piazzate nell’abitacolo e collegate con la procura, Imma stava vedendo tutto.

 

Pregò con tutto il cuore, chiunque fosse in ascolto, di non lasciarla in quel modo.

 

E che non dovesse vederlo morire.


Nota dell’autrice: Lo so, lo so, vi ho lasciate su un altro cliffhanger ma… ci ho preso gusto ;). A parte le battute, spero che questo capitolo vi sia piaciuto con la riconciliazione tra Imma e Calogiuri, il giallo e le varie beghe familiari. Nel prossimo capitolo succederà un po’ di tutto e diciamo che si getteranno le basi per un evento molto ma molto atteso, che cambierà tutti gli equilibri di questa storia. Nel frattempo, le indagini sul maxiprocesso sono agli sgoccioli.

Vi ringrazio di cuore per avermi seguita fin qui, ringrazio tutte le persone che hanno messo la mia storia nei preferiti o nei seguiti e un grazie enorme a chi ha recensito o recensirà, perché davvero i vostri commenti mi aiutano tantissimo a capire come sta procedendo la storia e a cercare di migliorarmi sempre.

Il prossimo capitolo arriverà puntuale domenica prossima, 31 maggio.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 32
*** Senza Via D'Uscita ***


Nessun Alibi


Capitolo 32 - Senza Via D’Uscita


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Si sentiva paralizzata, ogni colpo di bastone e spranga che le rimbombava nella mente e nel petto, un dolore al cuore tremendo, che quasi temeva di sentirsi male, la lingua che non voleva saperne di muoversi, finché trovò la forza di parlare, anzi di gridare, “dobbiamo tirarli fuori da là! Dobbiamo tirarli fuori da là! Mandiamo qualcuno, subito, porca miseria!”

 

“Dottoressa, si calmi, ora inviamo due pattuglie ma-”

 

“Si calmi un corno! Quella macchina tra poco la distruggono! Vuole aspettare che vengano linciati dalla folla?!” gridò contro Mancini, fregandosene dei ruoli e di tutto il resto e scostandosi bruscamente dalla mano che le aveva messo sulla spalla per tranquillizzarla.

 

Mancini la fissò per un attimo, evidentemente stupito dalla sua reazione così violenta, ma poi si voltò verso l’agente dei ROS che stava coordinando il collegamento da remoto insieme a loro, “dite alla squadra di Mariani di tornare a dar manforte ai ragazzi. Tanto Diego Mazzocca ormai è sottochiave.”


“Ai comandi, dottore!”

 

“Vedrà che ce la faremo, dottoressa: De Luca e i suoi uomini sono esperti in questo genere di operazioni e resisteranno fino ai rinforzi.”

 

“Spero che chi ha vinto l’appalto per quelle auto le abbia fatte solide, dottore, perché ora che Mariani e gli altri li raggiungono… stiamo freschi!”

 

“Ce la faremo, dottoressa.”

 

“Non ci stiamo noi su quelle auto, dottore,” sibilò, secca, e Mancini abbassò il capo, mortificato, ma non gliene fregava niente.

 

Avevano sbagliato tutto, avevano sottovalutato troppo i Mazzocca. E il suo Calogiuri… chissà il terrore che doveva stare provando in quel momento. Non poteva perderlo così, non poteva finire così a ventinove anni, ucciso dopo aver provato chissà quali atroci sofferenze.

 

Pregò chiunque ci fosse in ascolto di riportarglielo sano e salvo. Ci si sarebbe buttata lei in mezzo a quella folla se avesse potuto.

 

Ma era troppo lontana, maledizione!

 

*********************************************************************************************************

 

Il bastone picchiò con un colpo secco sul vetro, che per fortuna però resistette, essendo antisfondamento, nonostante il suono terribile, ma la portiera cominciò a dare segni di cedimento, mano a mano che i colpi continuavano.

 

Lanciò uno sguardo verso De Luca, poi verso Kevin Mazzocca, che se ne stava con un sorrisetto trionfante sul sedile dietro, oltre il vetro antiproiettile ed antisfondamento che divideva l’abitacolo. Poi guardò di nuovo la strada, gli uomini intorno alla macchina, ed il motorino abbandonato, “dov’è Cobra Due?”

 

“Si è infilato nell’altra auto. Dobbiamo levarci da qui. Mettiti la cintura e reggiti forte.”

 

Calogiuri fece come gli era stato detto e De Luca fece fare all’auto uno scatto in avanti, abbastanza da colpire gli uomini che stavano vicino al cofano ma non da tirarli sotto, facendoli spostare.

 

Inferociti, i loro compagni corsero verso di loro per aiutarli e dar loro manforte ma, proprio in quel momento, Calogiuri si sentì proiettare all’indietro, mentre la macchina faceva retro a tutta birra. Quando si vide arrivare all’incrocio pregò che non arrivasse nessun’altra vettura ma il maresciallo, guardando indietro, fece l’incrocio in retro con una manovra degna di un film e partì sgommando in avanti prima che gli uomini armati potessero raggiungerli.

 

Calogiuri, lo stomaco in gola, si aggrappò alla maniglia e gli chiese, “e l’altra auto?”

 

“Dovrebbero riuscire ad uscire, visto che gli altri inseguivano noi. Volevano riprendersi il Mazzocca, a parte darci una lezione. Ma verifica con la radio.”

 

“Sì, si,” annuì, afferrando la radio e chiedendo, “qui Cobra Uno, Cobra Tre, mi ricevete? Segnalate la vostra situazione. Necessitate di rinforzi?”

 

Attese un attimo, ancora tutto sottosopra, finché arrivò una scarica di elettricità statica e una comunicazione, “Cobra Uno, qui Cobra Tre, ci siamo liberati e stiamo procedendo in direzione del punto convenuto. Passo.”

 

“Ottimo lavoro, Cobra Tre. Ci vediamo là. Contattateci in caso di altri problemi. Passo e chiudo.”

 

“Hai visto? Che ti dicevo? Torniamo alla base! Base, se ci sentite, stiamo rientrando.”

 

“I miei legali mi tireranno fuori. E vi beccherete una denuncia per gli uomini che avete investito!” urlò il Mazzocca dal sedile dietro, chiaramente furente.

 

“Signor Mazzocca, non abbiamo investito nessuno e su quella strada è pieno di telecamere e pure noi stiamo riprendendo tutto. Ed in ogni caso sarebbe legittima difesa dopo aggressione a mano armata contro pubblici ufficiali. Si rilassi e si goda questo viaggio, che mi sa che le strade di Roma non le rivedrà per un bel po’,” rispose De Luca, con un tono imperioso.

 

Chissà quante ne doveva avere viste in azione. Aveva un sangue freddo da far paura.

 

“Non finisce qui! Stronzi! Bastardi!”

 

E, accompagnati dalla litania di insulti a loro e a tutta la loro parentela presente e futura, sfrecciarono sulle strade di Roma verso la procura.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa, che succede? Non sta bene?”

 

Si era appena accasciata sulla sedia, le cuffie ancora alle orecchie, il terrore che lasciava spazio al sollievo.


“Dottoressa, mi sente? Tutto bene?”

 

Si rese conto solo in quel momento, alzando lo sguardo verso Mancini e vedendolo tutto appannato, di avere le lacrime agli occhi. Sollevò una mano per asciugarli e si avvide di stare tremando come una foglia.

 

“S- sì, dottore, mi scusi, è… tutta la tensione accumulata. Ma… sto bene mo,” riuscì a dire, mentre Mancini la guardava preoccupato e stupito.

 

E certo che non poteva capire, non poteva capire il panico, il dolore e tutto quello che aveva provato vedendo la folla pronta a linciare il suo Calogiuri. Il terrore che morisse in quel modo orribile, che non potesse mai più vederlo e che quelle sarebbero state le ultime immagini che aveva di lui.

 

C’erano andati troppo vicini. Da un lato era grata a De Luca per averglielo tirato fuori da lì, ma dall’altro era incazzata per come avevano sottovalutato il clan Mazzocca o forse i clan affiliati.

 

“La capisco, dottoressa… è stata una scena davvero terribile ed abbiamo rischiato troppo, oltre che aver rischiato di compromettere mesi di indagine. Per fortuna la missione è riuscita ma dovremo rivalutare le ramificazioni dei Mazzocca qui a Roma. Sono soltanto sollevato di non essere intervenuto con la sola PG.”

 

Aveva ragione: se fossero andati a prendere i Mazzocca senza i ROS… non poteva nemmeno pensarci. Ma erano stati comunque fatti degli errori nello studiare il piano, o qualcuno aveva dato la soffiata ai Mazzocca dopo il primo arresto.

 

“Il team di Conti come va?” chiese, d’improvviso preoccupata, visto che in teoria i NAS ancora stavano al locale.

 

Mancini si girò verso altri uomini di fronte ad un altro schermo in fondo alla stanza ed uno di loro urlò, “qui tutto bene! Probabilmente i Mazzocca temono troppo di fare saltare la copertura del locale. Ma dico a Conti e agli altri di venire via.”

 

“Dottore, mandiamo almeno altre due pattuglie a scortarli fuori dal quartiere, pure tre. Prima che ci scappi il morto.”

 

“Concordo, dottoressa. Mandiamo il team di Mariani, che tanto Mazzocca ormai è agli arresti, e pure un’altra pattuglia da qua. Voi allertate Conti all’auricolare.”

 

E, mentre Mancini parlava, Imma pensò che non vedeva l’ora di rivedere Calogiuri in carne ed ossa e di poter essere da sola con lui, per stringerlo in un abbraccio e non lasciarlo più andare fino a perdere le forze.

 

*********************************************************************************************************

 

“E cammina!”

 

La voce di Calogiuri la fece scattare in piedi dalla sedia della sala interrogatori. Mancini, seduto accanto a lei, la imitò.

 

E lo riconobbe subito, pure con su il passamontagna e tutto coperto dall’uniforme uguale a quella dei ROS. Quegli occhi azzurri li avrebbe distinti tra mille altri.

 

“Siediti!” lo sentì ordinare, spingendo Kevin Mazzocca verso la sedia dall’altra parte del tavolo. Era ancora ammanettato con le mani dietro la schiena.

 

Calogiuri fece un cenno verso un altro uomo che presumeva essere De Luca, che stava alla porta, e gli levò le manette, intimandogli, “niente scherzi che tanto è inutile!” e rimase dietro di lui. E poi le lanciò uno sguardo con occhi lucidi che riusciva a leggere perfettamente nonostante il passamontagna.

 

Era uno stai bene? e, allo stesso tempo, le faceva capire quanto fosse felice di rivederla.

 

Imma fece un quasi impercettibile cenno di assenso col capo e ricambiò per qualche secondo lo sguardo, sperando di fargli capire tutto quello che provava in quel momento. Lo spavento, il sollievo, la gioia nell’averlo di fronte di nuovo e tutto intero. Pure senza parole.

 

Ma poi il “e che volete da me?!” di Mazzocca la riscosse e si concentrò sul lavoro e sull’imputato.

 

“Signor Mazzocca, che vogliamo da lei? Vede, è semplice. Abbiamo una testimonianza di una persona che ha riconosciuto lei e suo cugino Diego Mazzocca ad una festa in zona Prati, dove è stata uccisa una ragazza, Alina Holub, con un’overdose che sicuramente non aveva proprio nulla di accidentale. La ragazza era già stata aggredita in precedenza ed aveva diversi lividi e segni sul corpo. Lei è stato visto parlare con la ragazza ed entrare in camera con lei. Ed è stato l’ultimo ad averla vista viva.”

 

“A parte che è la parola di questo testimone contro la nostra, ma… metti caso pure che c’ha ragione, che prove c’avete che noi c’entriamo qualcosa con questa overdose?”

 

“E mo glielo spiego, signor Mazzocca. Vede, suo cugino Diego, presente alla festa, lavora in una pizzeria vicino a Campo de’ Fiori, giusto? E proprio a quella pizzeria ha telefonato Maria Giulia Tantalo, la moglie dell’onorevole Lombardi, che è tuttora ricoverato ed in coma dopo un’altra sfortunata overdose. E la vittima di questo caso, Alina Holub, aveva riconosciuto chi gliel’aveva procurata l’overdose a Lombardi.”

 

“Ed allora interrogate questa Tantalo. Che c’entro io?”

 

“Ci sto arrivando. Sempre per una straordinaria coincidenza, la signora Tantalo ha ordinato una pizza alla vostra pizzeria, guarda un po’ che caso, proprio la sera prima dell’aggressione ad Alina e la sera prima della festa dove è morta. Ed il clan Mazzocca e la Tantalo sono implicati insieme nel maxiprocesso. Non faccia finta di non saperne niente perché è impossibile.”

 

“E allora? La signora magari voleva mangiare una pizza, no?”

 

“Usando la stessa identica frase entrambe le volte, parola per parola? Come se fosse un codice? E poi proprio in quelle sere la prendeva improvvisamente la voglia di pizza, dopo non averla mai ordinata nelle settimane precedenti e successive?”

 

“Aho, ma che ne so… magari poi stava a dieta,” proclamò, con una sfacciataggine che le diede sui nervi.

 

“Signor Mazzocca, qui non ci sta proprio niente da ridere. Lei e suo cugino Diego siete accusati di omicidio premeditato con svariate aggravanti, tra cui l’associazione di stampo mafioso. Se non parlate, un bell’ergastolo a testa non ve lo leva nessuno.”

 

“Un ergastolo per qualcuno che dice di averci visto ad una festa e per due pizze? Ma lei sta fori de melone se pensa che ce terranno dentro. La famiglia Mazzocca non si tocca!”

 

“Sì, che fa pure rima,” sospirò Imma, scuotendo il capo e alzando gli occhi al cielo, “invece di sputare fuori frasi che paiono uscite da un film del Padrino, non pensa che forse è il caso di parlare ora, prima che le prove arrivino? Perché le avremo, mo che vi abbiamo beccati.”

 

“Io non so niente e non parlo.”

 

“Come vuole, se desidera proprio guadagnarsi un soggiorno tutto compreso in una cella, forse in 41 bis, per il resto della vita, non glielo posso impedire. Prendetegli impronte, DNA, schedatelo e portatelo via. Ovviamente separato dal caro cugino. E dite alla scientifica che le analisi hanno priorità assoluta.”

 

“Naturalmente, dottoressa!” assentì Calogiuri, per poi ordinargli, “metta le mani dietro la schiena!” e ammanettarlo nuovamente.

 

Prima di uscire insieme a De Luca le lanciò uno sguardo, che capì essere un nemmeno Diego Mazzocca ha parlato? e gli fece un quasi impercettibile cenno di no col capo. Comprese dal modo, sempre appena accennato, in cui le annuì, che si erano intesi.

 

La reticenza dei due Mazzocca non la sorprendeva, anzi sarebbe forse stato strano il contrario. Ma con DNA, impronte e quant’altro sperava di avere cose concrete in mano per andare avanti e far sì che tutta questa operazione non risultasse in un nulla di fatto.

 

“Dottoressa, si è fatto molto tardi, come vuole procedere?” le chiese Mancini ed Imma si voltò verso di lui e notò che la guardava in un modo un poco strano, anche se non avrebbe saputo dire come.

 

“Credo che sia meglio che ce ne andiamo tutti a casa per stasera, dottore. Ma vorrei fare una riunione anche col maresciallo De Luca al più presto, per cercare di capire cosa sia andato storto e perché.”

 

“Va bene, dottoressa. Gli parlerò personalmente e vediamo quando è disponibile.”

 

“Spero a breve, dottore, che qua il processo si avvicina veloce.”

 

“Non si preoccupi, dottoressa, cercheremo di farlo il prima possibile. Visto che è tardi, e a maggior ragione vista la situazione di oggi, lo vuole un passaggio?”

 

“Dottore, la ringrazio veramente, ma prima di uscire vorrei dire due parole al maresciallo Calogiuri, se non se ne è già andato. Al limite mi faccio dare un passaggio da lui, ma comunque sono giusto due passi e dubito sia così rischioso.”

 

Quello che era rischioso era forse ammettere tutto quello a Mancini ma, in fondo, se avesse mai sospettato di lei e Calogiuri, poteva pensare che quello fosse un segno che anzi non c’era niente tra di loro, visto che si potevano parlare pure fuori dalla procura. Ma non voleva trovarsi in un’altra situazione imbarazzante con Mancini e poi doveva sincerarsi subito che Calogiuri stesse bene.

 

Mancini sospirò e poi la guardò di nuovo in quel modo strano, “va bene, dottoressa, come preferisce. Ma sia prudente, mi raccomando, piuttosto chiami un taxi che glielo metto nei rimborsi più che volentieri.”

 

“Stia tranquillo, dottore, non ho nessuna intenzione di farmi ammazzare. Buona serata!”

 

“Buona serata a lei! E faccia i complimenti al maresciallo anche da parte mia per come ha gestito la situazione. Spero stia bene. Mi faccia sapere se ci sono problemi.”

 

“Certamente, dottore,” si congedò, uscendo dalla porta della sala interrogatori e andando verso l’area della PG, ma non c’era nessuno.

 

Estrasse il cellulare e stava per chiamarlo quando sentì dei rumori nella stanza accanto: un piccolo archivio in uso alla PG. Senza pensarci, entrò e lo vide intento a sfilarsi il giubbotto dell’uniforme. Aveva ancora addosso il passamontagna.

 

Pure di spalle e tutto intabarrato lo riconobbe senza problemi, anche prima di notare e riconoscere gli abiti civili riposti con cura su uno scaffale lì vicino.

 

Calogiuri si voltò lentamente e poi le sorrise, non sembrando sorpreso di vederla.

 

“I tacchi sono inconfondibili, dottoressa,” le disse, leggendole nel pensiero e buttando il giubbino in un angolo.

 

Imma non aspettò un secondo di più, gli si gettò tra le braccia e lo strinse più che poteva. Lo sentì ricambiare con così tanta forza da sollevarla da terra e gli si aggrappò addosso, godendosi il suo calore.


“Imma…” lo udì sussurrare, con un tono preoccupato, mentre sentì mani accarezzarle i capelli e si rese conto di stare piangendo.

 

Si allontanò appena di un passo da lui per guardarlo negli occhi, ancora dietro il passamontagna e sussurrare, “io… io… quando eri intrappolato in quella macchina... non sai quanta paura ho avuto di non rivederti più….”

 

“L’ho temuto anche io, dottoressa, ma sono qui. Te l’ho già detto che non ti libererai facilmente di me!”

 

“Scemo!” esclamò tra una risata e il pianto, sollevando le mani per levare di mezzo il passamontagna, passandoglielo sopra la testa.

 

Quando finalmente lo vide sentì un’ondata di tenerezza coprire tutto il resto. Sembrava un pulcino bagnato: i capelli completamente lavati, il viso madido di sudore e di lacrime. Gli sorrise, gettò via il cappuccio e gli piantò un bacio sulle labbra, per poi abbracciarlo di nuovo ed accarezzargli il volto e i capelli.

 

“No, dai, che sono tutto sudato, devo farmi una doccia… mi dispiace io-”

 

Ma lo zittì con un altro bacio e poi gli sussurrò sulle labbra, “non dirlo nemmeno per scherzo, maresciallo!”

 

Rimasero per un po’ così, fronte contro fronte, finché lui le chiese, dopo l’ennesima carezza, “che ne dici se mo ce ne andiamo a casa, dottoressa?”

 

“Andiamo a casa,” annuì, facendo qualche passo indietro e lasciandogli lo spazio perché si potesse cambiare.

 

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“Cosa vuoi mangiare?”

 

“Non lo so… non ho molta fame… giusto una pasta... sono un po’ stanco.”

 

“E te credo, Calogiuri. Ti va una cacio e pepe? Se vuoi andarti a fare la doccia, io intanto preparo.”

 

“Grazie...” le sussurrò con un sorriso meraviglioso, dandole un ultimo bacio prima di sparire oltre la porta del bagno.

 

Imma andò in camera da letto, si cambiò ed entrò un attimo in bagno per lavarsi le mani, sforzandosi di resistere alla tentazione rappresentata dal vetro della doccia appannato dalla condensa e soprattutto dal corpo che si riusciva ad intuire oltre di esso, imponendosi di andare a cucinare.

 

“Che buon profumo…”

 

Sorrise, vedendolo arrivare in una delle sue tute, i capelli ancora un poco umidi. Se lo abbracciò e poi sussurrò, “pure tu non scherzi, Calogiuri. Altro che cacio e pepe!”

 

“Imma…” mormorò, stringendola più forte, ma poi sentì un brontolio assai familiare che la spinse a costringersi a staccarsi.

 

“Noto che hai una leggera fame. Dai, maresciallo, a tavola, veloce!”

 

“Agli ordini, dottoressa!” le sorrise, sedendosi a quello che ormai era il suo posto.

 

Si affrettò a scolare, condire ed impiattare la pasta e mise tutto in tavola.

 

Calogiuri mangiò con appetito e rimase incantata a guardarlo, pensando a quanto fosse fortunata, anzi a che botta di culo immensa, per dirla più prosaicamente, fosse averlo nella sua vita. E… se pensava a quanto c’era andata vicina a perderlo….

 

“Che c’è? Sono sporco in faccia?” le chiese dopo un po’, toccandosi una guancia, avendo evidentemente notato il suo sguardo.

 

“No, anzi. Sei bellissimo, mannaggia a te!” proclamò, allungando una mano per accarezzargli una guancia.

 

Stava per toglierla quando lui la bloccò con una delle sue e la strinse forte, guardandola in quel modo che aveva quando la voleva rassicurare, prima di lasciarla andare dopo un, “sei tu che sei bellissima, dottoressa.”

 

La sua cecità evidentemente proseguiva, come avrebbe detto Valentina.

 

Finirono di mangiare in silenzio e poi fece per alzarsi per ritirare i piatti, ma si sentì trascinare verso di lui e gli si ritrovò seduta in grembo, senza neanche sapere bene come.

 

“Che cosa c’è, maresciallo? Vuoi festeggiare?” gli domandò, facendogli l’occhiolino e dandogli un bacio e poi un lieve morso al labbro inferiore.

 

“Veramente mi sento un po’ stanco… ti dispiace se rimandiamo i festeggiamenti a domani e restiamo solo così per un po’?” le chiese di rimando, con un tono tra il dispiaciuto e l’implorante che la intenerì da morire.

 

“Va bene, maresciallo. Ma che ne dici se ci spostiamo sul divano, che almeno stiamo più comodi?”

 

Lui annuì e cercò di tirarsi in piedi con lei in braccio, come aveva fatto un’infinità di volte, ma ricaddero insieme sulla sedia.


“Scusami, ma… mi sa che sono proprio un po’ andato.”

 

“Se ti scusi un’altra volta mi arrabbio, Calogiuri. Ti sei fatto male?”

 

“No, no, tu?”

 

Lei scosse la testa, poi si costrinse a mettersi in piedi e lo prese per un braccio, tirandolo su con lei.

 

“Ti va di guardare un po’ di tv?” gli chiese, mentre si piazzavano di nuovo sul divano e lui l’abbracciava da dietro.

 

“Tutto quello che vuoi, dottoressa,” rispose e si sentì stringere ancora più forte.

 

Si abbandonò tra le sue braccia, rilassandosi completamente.

 

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“Certo che non si smentisce proprio mai, vero Ca-”

 

Le parole le morirono in bocca quando si voltò e lo vide col capo reclinato leggermente, gli occhi chiusi. Stava dormendo e pure della grossa.

 

Quanto era bello e dolce da addormentato, sembrava ancora più giovane e le ricordava da morire il Calogiuri cucciolo dei primi tempi. Non che non fosse sempre tenero e a volte ingenuo, ma lo era sicuramente molto meno.

 

Era tentata di ammirarselo ancora per un po’, ma doveva essere stanchissimo e si meritava un riposo in un letto decente e non mezzo storto sul divano.

 

“Calogiuri, Calogiù!” lo chiamò, scuotendolo delicatamente quando non la sentì.

 

“I- Imma?” domandò, sorpreso, aprendo leggermente gli occhi, stanchi e confusi.

 

“Ti sei addormentato sul divano. Ora di andare a dormire, maresciallo. Mi spiace di averti svegliato ma io in camera non ci riesco a portarti.”

 

Lui le sorrise, le diede un bacio delicato sulle labbra e poi annuì, lasciando che i loro nasi si accarezzassero e sussurrò, “andiamo a letto.”

 

Abbracciati, si avviarono verso la loro camera.

 

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“Calogiuri, come stai? Ho saputo di ieri da Mancini.”

 

“Sto bene… sto bene, grazie,” la rassicurò, vedendo che aveva ancora uno sguardo preoccupato.

 

Lo aveva convocato nel suo ufficio ma non pensava fosse per parlare di quello.

 

“Ti vedo un po’ stanco, immagino lo spavento. Non è il caso che ti prendi un giorno di permesso?”

 

“No, state tranquilla, davvero e poi dobbiamo procedere contro i Mazzocca. Purtroppo sembrano essere molto più potenti di quanto immaginavamo. E insomma… voi come state?”

 

“In che senso?” gli domandò, sorpresa.

 

“Per via del maxiprocesso e del fatto che loro sono coinvolti e… per tutto il resto…” disse a voce bassa, lasciandole sottintendere che parlasse di Bianca.

 

“Calogiuri… con il mio lavoro mi tocca metterlo in conto e speriamo che le loro ramificazioni non siano estese come altri clan che ho visto in passato. Però grazie, sei gentile a preoccuparti per… per me,” rispose, anche lei a bassa voce, facendogli un sorriso grato e sembrandogli un po’ commossa, “hai tempo per lavorare sul maxiprocesso? O sei impegnato con Imma?”

 

“No, dottoressa, al momento sono libero, più tardi dovrò occuparmi dei Mazzocca, se arrivano i risultati della scientifica.”

 

“Va bene, allora mettiamoci al lavoro!” proclamò, alzandosi e poi accomodandosi nella sedia accanto alla sua, di fronte alla scrivania.

 

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“Come può essere successo? Avete identificato chi erano gli aggressori?”

 

De Luca, di solito sicuro di sé e composto, le lanciò uno sguardo che pareva uno studente preso in castagna e chiamato in presidenza. Ma non gliene fregava niente, era troppo arrabbiata ancora per il giorno prima.

 

“Sull’identificazione ci stiamo lavorando con Calogiuri, Mariani e Conti, dottoressa, rivedendo tutti i filmati fatti dalle telecamere interne alle auto, che per fortuna non sono state rotte. Le confronteremo con residenti e domiciliati in quei condomini anche se temo che molti siano abusivi. Per il resto, stiamo cercando di capire se ci siano state soffiate, anche se i nostri uomini erano tutti in gruppo e sono persone di fiducia, ma stiamo seguendo tutte le piste ovviamente. La cosa che ritengo più probabile è che qualcuno del clan abbia assistito all’arresto di Diego ed abbia messo in allerta tutto il quartiere. Di sicuro dovremo rivedere le affiliazioni del clan Mazzocca perché non pensavamo fosse così potente qui a Roma.”

 

“Questo non mi rassicura, dottore, c’è un maxiprocesso tra poco in cui i Mazzocca sono coinvolti e non vogliamo casini e strascichi.”

 

Non potè fare a meno di pensare a Bianca: anche se Irene non le stava esattamente simpatica, poteva solo immaginare quanto fosse preoccupata per la bimba dopo quanto era successo.

 

“Dottoressa, le garantisco che nei prossimi giorni daremo la priorità a questo caso. Ormai è una questione personale pure per noi, dopo che ci hanno quasi ammazzati.”

 

Imma sospirò, sperando veramente di potersi fidare, anche se la possibile presenza di una talpa nei ROS la impensieriva non poco.

 

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“Dottoressa!”

 

Era appena rientrata da una pausa pranzo veloce e sorrise trovandolo di fronte al suo ufficio.

 

“Calogiuri, dimmi, tutto bene?” gli chiese, sedendosi alla scrivania e lui si accomodò alla sedia di fronte.

 

“Sì, dottoressa, ci sono novità sul caso Mazzocca. La scientifica ha confermato che l’impronta trovata nella camera da letto dove è stata ritrovata Alina appartiene a Kevin Mazzocca. E due impronte nell’appartamento corrispondono a quelle di Diego Mazzocca. Per il DNA ci vorrà più tempo ma ormai sarebbe solo una conferma ulteriore.”

 

“Sollecitalo comunque, Calogiuri, che qui più cose abbiamo in mano e meglio è. A questo punto vai con Mariani a prelevarli dalla loro… suite qua sotto che dobbiamo interrogarli di nuovo.”

 

“Ai comandi, dottoressa. Vado e torno.”

 

Lo vide uscire dall’ufficio e sorrise di nuovo: Calogiuri era sempre così solerte, pure se lo sguardo era ancora un po’ stanco.


Si ripromise quella sera di fargli un bel trattamento rilassante, di quelli che piacevano tanto a lui.

 

E di solito anche per lei gli effetti collaterali non erano niente male.

 

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“Allora, mi sapete spiegare che ci facevano le vostre impronte nell’appartamento della festa dov’è morta Alina Holub? Ed in particolare le sue impronte, nella stanza dov’è morta?” chiese, rivolgendosi a Kevin Mazzocca, “e non mi dite che è una coincidenza perché tra impronte e testimone oculare che l’ha vista entrarci non ci crede nessuno.”

 

Ma Diego e Kevin fecero scena muta, incrociando le braccia e rimanendo in silenzio.

 

“Se non parlate lo sapete che vi tocca l’ergastolo ed il 41 bis, sì? Chi è il mandante di questo omicidio? Maria Giulia Tantalo?”

 

Ma loro rimasero di nuovo in totale silenzio.

 

“Allora è Eugenio Romaniello, che stava cercando di ripulire il lavoretto malfatto dall’amante della Tantalo?”

 

Niente, muti e immobili che manco una statua.

 

“Sentite bene, Eugenio Romaniello ha lasciato in galera suo fratello, il sangue del suo sangue. E quelli coinvolti in questo caso sono tutti morti come funghi. Secondo voi proteggerà voi due, due pesci piccoli nemmeno del clan principale dei Mazzocca, o come minimo vi lascerà a marcire in isolamento, per non dire altro?”

 

“Non c’abbiamo niente da dire,” proclamò Kevin, deciso, e Diego accanto a lui annuì.

 

Non avrebbero mai parlato, lo sapeva, forse per non contravvenire alle regole della famiglia. Doveva trovare un’altra soluzione se voleva beccare il mandante.

 

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“Che c’hai? Sei ancora stanco? Sei pallido più del solito.”

 

“Un poco... forse non mi sono ancora ripreso tra il fine settimana e poi tutto il trambusto di ieri.”

 

“Allora mo ti metti comodo e ti faccio cena pure stasera. Che ti andrebbe?”

 

“Non ho molta fame… fai tu, dottoressa, quello che viene più comodo a te.”

 

Dopo aver analizzato il contenuto del frigo, optò per una rapida bistecca che consumarono in silenzio, guardandosi ogni tanto negli occhi. Lo vedeva che era esausto.

 

“Vuoi andare a letto, maresciallo? E intendo per dormire.”

 

“No… voglio stare ancora un po’ con te… ci mettiamo sul divano?”

 

“Va bene… vuoi riprovare a guardare la puntata che ti sei perso ieri sera?”

 

“Ma no… a me basta stare insieme, se non ti annoi, dottoressa.”

 

“Ma mi spieghi come faccio ad annoiarmi con te?” gli chiese, tirandolo per un braccio e stringendolo per un attimo, prima di andare verso il divano e sedercisi insieme, ancora abbracciati.

 

Imma rifugiò il capo nell’incavo del collo di lui e gli accarezzò il petto, godendosi i battiti del cuore, lenti e regolari.

 

Poi sollevò lo sguardo e stava per accarezzargli il viso, quando notò un piccolo bozzo su una guancia.

 

“Calogiù… ti stanno tornando i brufoli? Sarà la cucina di mammà o è colpa mia che ti faccio regredire insieme a me all’adolescenza?”

 

“Non lo so, dottoressa, ma un po’ adolescente mi ci sento. Anzi, nemmeno da adolescente provavo quello che provo ora per qualcuna,” sentì sussurrare all’orecchio, il fiato di lui che le faceva il solletico, mentre la guardava con occhi grandi e dolcissimi.

 

“Pure per me è lo stesso, Calogiuri. Ma i brufoli spero di evitarmeli, visto che già c’ho le rughe.”


“Ma se sei bellissima! E poi le poche rughe che hai ti danno carattere,” proclamò in un modo talmente sincero che Imma si disse, per l’ennesima volta, che aveva vinto al superenalotto il giorno che l’aveva conosciuto.

 

“Se ti sentono ti mandano dritto dall’oculista o a fare una perizia psichiatrica, maresciallo.”

 

“No, perché è la verità, dottoressa, e lo vedono tutti tranne te,” rispose e si ritrovò trascinata in un bacio lento, delicato, dolce.

 

Poi Calogiuri si staccò, gli occhi stanchi ma felici e se lo abbracciò di nuovo, più forte che poteva, per poi appoggiarsi di nuovo al petto di lui.

 

“Come pensi di fare confessare i Mazzocca?”

 

“Non credo che confesseranno mai, Calogiuri. L’unica è trovare un'altra via.”

 

“E cioè?”

 

Lo guardò in un modo eloquente e Calogiuri spalancò gli occhi e le rispose, “stai pensando alla Tantalo?”

 

“E bravo, Calogiuri! Pure se sei stanco il cervello funziona ancora!”

 

“Pure altro funziona ancora, dottoressa, e come mi passerà la stanchezza dovrai vedertela con me,” rispose, pizzicandole leggermente la vita, ed Imma rise e gli diede due buffetti alle mani, prima di piantargli un altro bacio sulle labbra.

 

“Non vedo l’ora, maresciallo!”

 

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“Perché mi avete convocata di nuovo? Pensavo che la mia posizione fosse chiara ed è la parola di quell’opportunista di Davidson contro la mia.”

 

“Signora Tantalo, non l’ho fatta convocare per questo. A parte la confessione di Davidson, che regge perfettamente e lo vedremo al processo, c’abbiamo un’altra vicenda in sospeso. L’omicidio di Alina Holub, per cui Davidson si proclama innocente ed in effetti al momento non c’è nulla che lo colleghi al delitto.”

 

“E ci sarebbe qualcosa che collegherebbe me, invece?”

 

“Più di qualcosa, signora Tantalo. Non solo che Davidson abbia parlato con lei del fatto che Alina lo avesse visto quando stava entrando nella stanza di suo marito per… fargli prendere la cocaina. Ma anche il fatto che lei ha chiamato una pizzeria proprio la sera prima dell’omicidio della ragazza e la sera prima di una tentata aggressione nei suoi confronti. Non le pare una strana coincidenza?”

 

“Che c’entrerebbe una pizza con l’omicidio? Se tutti quelli che ordinano una pizza d’asporto in Italia fossero assassini-”

 

“Ma non tutti la ordinano dalla pizzeria gestita dal clan Mazzocca, signora Tantalo. E non tutte le pizzerie hanno un cameriere come Diego Mazzocca, riconosciuto da un testimone oculare e le cui impronte erano alla festa in cui è stata uccisa la Holub. O come suo cugino Kevin Mazzocca, che è stato visto entrare in stanza con Alina e le cui impronte erano nella suddetta stanza. E non tutti gli ordini in pizzeria avvengono utilizzando le stesse parole, tali e quali, a distanza di mesi, senza specificare nome della pizza ed indirizzo, come se fosse una cliente abituale, anche se lei appunto quella pizzeria l’ha chiamata solo quelle due volte. Quindi, o chi prendeva l’ordine aveva una memoria a dir poco prodigiosa e c’è una sequenza di coincidenze da primato, o era ovviamente un messaggio in codice, che la rende la chiara mandante di questi delitti. O crede davvero che il giudice si berrà la sua versione che non regge in piedi?”

 

“Dottoressa, io-” tentennò e vide che le tremava leggermente il labbro inferiore, mentre la fronte, sotto a tutto il trucco, si imperlava di sudore.

 

Non si aspettava avesse tanto in mano, la signora.

 

“Se non vuole beccarsi un ergastolo come mandante di un tentato omicidio, di un omicidio e per l’accusa di essere a capo di un’associazione per delinquere di stampo mafioso, più i vari capi d’imputazione del maxiprocesso, io fossi in lei ci penserei bene a parlare, prima che sia troppo tardi. Se ci dice chi è il mandante di questo omicidio le resta soltanto, si fa per dire, il tentato omicidio di suo marito, oltre al maxiprocesso, e ne terremo conto.”

 

Maria Giulia Tantalo sembrò per un attimo esitare, probabilmente sotto il bombardamento di informazioni.

 

“Volete davvero essere messa in carcere a vita in isolamento o con gente come i Mazzocca e gli altri clan mafiosi?” incalzò Calogiuri, per la sorpresa di Imma, e la Tantalo lo guardò in un modo quasi implorante.

 

L’effetto che Calogiuri faceva alle donne si vedeva anche in queste circostanze.

 

“Se parlo sono morta, ve ne rendete conto, sì?” gli chiese, quasi come se lui potesse salvarla dal suo interrogatorio e dal carcere ma Imma lo lasciò fare.

 

Lei era il poliziotto cattivo e lui il buono, ci poteva stare.

 

“Fidatevi della dottoressa: al momento gli altri testimoni sono tutti in strutture diverse. Se parlate non vi lascerebbe in mano a Romaniello e ai Mazzocca. Ma se non parlate non ci possiamo fare niente su dove finirete, per via dell’associazione a delinquere di stampo mafioso.”

 

La Tantalo ci pensò ancora un attimo, guardandolo fisso negli occhi e poi sospirò, rivolgendosi stavolta a lei, con uno sguardo più deciso, “se parlo voglio essere messa in un istituto di pena a parte e avere garanzie sul periodo massimo che farò in carcere.”

 

“Signora Tantalo, per tentato omicidio con premeditazione le pene vanno da dodici a vent’anni. Con la confessione avrà uno sconto di pena e se attuerà una buona condotta potrà poi usufruire di metodi alternativi di scontarla la pena, tra pochi anni. Non pensa che, rispetto all’ergastolo, sia tutto sommato un buon affare? Le ricordo che Davidson ha già confessato e l’ha indicata come la mandante, quindi per il tentato omicidio di suo marito che venga condannata è praticamente certo. E se pensa che i due Mazzocca la aiuteranno sta fresca. Per non parlare di Romaniello, che quando uno viene beccato lo getta ai pesci. E ovviamente, in caso lei testimoni, la metteremo in un posto separato dagli altri. Io, a differenza sua, morti sulla coscienza non ne voglio avere.”

 

La Tantalo ci pensò un attimo, mordendosi le labbra, lanciò di nuovo un’occhiata a Calogiuri che annuì, come a volerla incoraggiare.

 

“Va bene. Va bene, ha vinto, dottoressa. Sì, è vero, ho chiesto io a Richard di… di fare quello che ha fatto. Ho trovato la ragazza tramite il giro di Quaratino e di Romaniello, lei non mi aveva mai visto ovviamente. Ho detto loro di organizzare una festa e invitarci mio marito. Però ho fatto agire Richard, perché più insospettabile e perché… la vendetta era ormai una cosa personale. Ho capito che Luigi non mi ha mai amata. Mi ha sposata solo per i soldi, per il potere che aveva la mia famiglia. Io gli ho dato tutto, è grazie a me se è diventato quello che è diventato e lui in cambio che mi ha dato? Corna, dolore, umiliazioni continue, una donna dopo l’altra, persino una che poteva essere pure sua figlia, in tutti i sensi! I miei genitori me lo avevano detto di non sposarlo, ma io cocciuta, perché lo amavo, perché col suo bel faccino mi aveva ingannata. Peccato che fosse solo apparenza. E non ne potevo più di averlo nella mia vita, mi faceva schifo e ribrezzo, ma non volevo dover affrontare un divorzio e doverlo magari pure mantenere ancora, che se il partito lo avesse cacciato - e lo avrebbero cacciato - di soldi non ne aveva quasi più. Per fortuna negli anni mi ero tenuta da parte una mia riserva personale e ho aspettato, ho aspettato. E poi ho incontrato Richard e mi era molto affezionato. Forse pure lui per soldi, chissà… ma avevo capito che avrebbe fatto qualsiasi cosa per non perdermi. E quindi… gli ho ordinato di drogare mio marito, che tanto di droga se ne faceva già abbastanza di suo. Pensavo sarebbe morto e che nessuno avrebbe sospettato niente, visti i suoi vizi: un’overdose come tante. Ma no, lei si è messa di mezzo ed è stata cocciuta fino in fondo e quella povera scema dell’assistente di mio marito l’ha salvato e… io mi sono ritrovata con un’indagine di polizia.”

 

“Dovrebbe ringraziare la povera scema se ora è solamente accusata di tentato omicidio e non di omicidio, signora Tantalo. E farà bene ad augurarsi che suo marito recuperi, che sarebbe meglio per la sua situazione processuale,” sibilò, non sapendo bene come sentirsi di fronte a quella confessione.

 

Lombardi non le aveva mai fatto simpatia, anzi, lo riteneva un ominicchio senza spina dorsale, oltre che un opportunista. Ma in fondo, anche se proprio in fondo, la storia di Donata le aveva fatto capire che, di tutto il club dei Serpenti, forse lui una coscienza ancora ce l’aveva, da qualche parte. E chi era senza peccato…. Certo, lei Pietro non lo aveva sposato per interesse e non lo aveva cornificato per tutta la durata del matrimonio. Ma, anche se Lombardi poteva meritarsi una lezione e anche se sicuramente non si meritava alcuna carica istituzionale, arrivare a progettare così l’omicidio di una persona che si era teoricamente amato per tanti anni le era inconcepibile. A volte il confine tra amore, possesso ed ossessione era molto labile e sperava davvero di non riuscire a capire mai fino in fondo cosa spingesse le persone a compiere gesti come quelli di Maria Giulia Tantalo.

 

La Tantalo nel frattempo era ammutolita, poi le rivolse un’occhiata carica di disprezzo ed infine incrociò le braccia.

 

“Che è successo dopo che è iniziata l’inchiesta e Davidson le disse di Alina e che la ragazza l’aveva visto?”

 

“Richard mi disse che Alina l’aveva visto, sì. Io a quel punto ero spaventata, non volevo arrivaste a lui e quindi a me. Ho avvisato Romaniello a quel punto-”

 

“Romaniello Eugenio, immagino?”

 

La Tantalo prese un lungo respiro e annuì, pronunciando la parola “sì” come se pesasse un macigno.

 

E in effetti così era.

 

“Sì, ero in panico e sapevo che lui… era esperto a gestire queste situazioni. Ma la ragazza era furba, aveva capito di essere in pericolo e… ed era scappata. Romaniello ed i Mazzocca l’hanno cercata a lungo, tra le feste per escort, e poi l’hanno trovata, poco dopo natale. Romaniello a quel punto mi ha dato il contatto dei Mazzocca e mi faceva avere le informazioni su come trovare la ragazza, perché non voleva incontrare direttamente i Mazzocca o avere contatti con loro, essendo sotto sorveglianza. Io dovevo chiamare la pizzeria dei Mazzocca la sera prima della festa e… e passare al fattorino delle pizze le istruzioni scritte su un foglio di carta.”

 

“Erano scritte a mano? Ne ha una copia?”

 

“No, a computer e… e non le ho conservate, temevo un’ispezione in casa e comunque non avevo una fotocopiatrice. E salvarle sul computer o sul cellulare sarebbe stato troppo rischioso. La prima volta la ragazza è riuscita a scappare. Temevo se ne sarebbe andata da Roma o sarebbe corsa alla polizia, ma per fortuna è riapparsa dopo qualche settimana, probabilmente per bisogno di soldi. E alla seconda volta… ho saputo che era stata uccisa ma non avevo idea di quali esattamente tra i Mazzocca fossero… diciamo intervenuti. Io sentivo la pizzeria, poi ci pensavano loro, secondo le istruzioni di Romaniello.”

 

“E non ha alcuna prova concreta del coinvolgimento di Romaniello? A parte la sua testimonianza, naturalmente, che dovrà ripetere davanti al giudice al maxiprocesso?”

 

La Tantalo ci pensò un attimo, poi esclamò, quasi tra sé e sé, “il biglietto!”

 

“Il biglietto?”

 

“Durante una delle udienze del processo, Romaniello mi ha passato un foglietto che aveva scritto a mano sul momento col nome della pizzeria e la frase da dire. Ce lo dovrei avere ancora a casa.”

 

Imma sentì un senso di trionfo: bastava una perizia calligrafica, anche se Romaniello avesse tentato di cammuffare la grafia.

 

“Mariani, porti la signora Tantalo nell’area di detenzione e si faccia spiegare dove è custodito il foglietto. Ovviamente in un’area separata da quella dei due Mazzocca. Signora Tantalo, se Mariani e gli altri agenti che invieremo a casa sua troveranno quel foglietto, predisporrò immediatamente il suo trasferimento in una struttura protetta. Per ora la lascio con Mariani.”

 

“Non mi vedranno i Mazzocca, vero?” domandò, improvvisamente terrorizzata.

 

“Naturalmente no, signora Tantalo. Non vi faremo incontrare. E comunque appunto sarete trasferiti in strutture diverse e loro saranno in isolamento. Non si deve preoccupare, sappiamo quello che facciamo e lei è una testimone importante per noi. Proteggerla è anche nel nostro interesse.”

 

La Tantalo assentì e, ad un cenno del capo, Mariani l’accompagnò fuori.

 

“Calogiuri, dobbiamo avvertire Mancini e decidere chi mandare alla casa della Tantalo. Quel foglietto è della massima importanza e non possiamo rischiare altri… intoppi sulla via. Se serve portatevi De Luca, che almeno lui penso sia al di sopra di ogni sospetto, anche se l’operazione vostra… lasciamo perdere. Vieni con me, che mo andiamo da Mancini.”

 

Calogiuri la guardò, sembrando ancora sorpreso dal fatto che non ci andasse solo lei dal procuratore capo. Non era per evitare di stare da sola con lui, ma perché quell’indagine, anzi, tutto il maxiprocesso, erano di Calogiuri quanto erano suoi.

 

Le tornava in mente, come fosse il giorno prima, quando era arrivato a salvarla giusto in tempo al processo contro Romaniello, con la prova schiacciante che le mancava. E da allora l’aveva sempre aiutata e supportata, pure quando il caso non era più suo e lui era distante. Ma si era preso cura di quel processo quasi come se fosse un figlio loro. Sicuramente non ce l’avrebbe fatta ad arrivare fino a lì senza l’aiuto di lui.

 

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“Va bene, dottoressa. Proporrei di mandare Mariani, Calogiuri, Conti e chiamare De Luca. Due auto dovrebbero essere sufficienti per non dare troppo nell’occhio. E manderei Rizzuto e Palermo su un’altra auto, che rimarrà nelle vicinanze per dare manforte in caso di emergenza, e che si accompagnerà alle altre due macchine nel rientro in procura. Ma, trattandosi della residenza della signora Tantalo, non penso ci sia lo stesso rischio: può essere un’ispezione di routine e non possono sapere cosa abbiamo trovato. In ogni caso, visti i suoi dubbi su una possibile talpa, meglio contenere il numero delle persone dei ROS che invieremo.”

 

“D’accordo, dottore. E poi… volevo andare anch’io a ispezionare quella casa se-”

 

“Non se ne parla nemmeno!” la interruppe subito Mancini, perentorio come non l’aveva mai sentito, “è troppo rischioso, dottoressa. Lasci andare i ragazzi della PG, tanto sanno dove cercare. Al limite, se non trovassero nulla, potrà andarci in futuro. Ma ora, con i Mazzocca in custodia e il processo alle porte, è troppo pericoloso.”

 

Guardò verso Calogiuri, seduto alla sua destra, ma lui disse, “con tutto il rispetto, concordo con il dottor Mancini, dottoressa: è troppo pericoloso. Lo so che volete sempre andare di persona a fare i sopralluoghi, ma in questo caso ritengo sia più prudente evitarlo.”

 

Imma sbuffò, pensando che, se Calogiuri dava ragione a Mancini dopo quanto successo, doveva essere uno dei segni dell’Apocalisse, ma le faceva anche capire quanto in effetti fosse rischiosa la situazione.

 

“Imma, se posso permettermi, concordo con Mancini e Calogiuri,” intervenne, dalla sedia alla sua sinistra, la voce per lei sempre più insopportabile della Ferrari, con tutta la sua gentilezza ipocrita, “non è un rischio che valga la pena correre, specialmente in questa fase.”

 

“Va bene, va bene!” sospirò Imma, alzando le mani in segno di resa, “ma voglio che ci mandi un messaggio quando trovi quello che cercavi, Calogiuri, subito, e voglio che restiamo in collegamento come l’altra volta, in caso di problemi, almeno collegamento audio.”

 

“Sento De Luca e mi organizzo, dottoressa,” rispose Calogiuri, facendo poi un cenno a Mancini ed indicando la porta, “se posso….”

 

“Ma certo, maresciallo. E dica a De Luca che questa operazione è della massima urgenza e che deve esserci, a tutti i costi. Dica che gliel’ho detto io. Attendiamo vostre notizie, maresciallo. Mi raccomando, prudenza!”

 

“Va bene,” annuì Calogiuri, alzandosi in piedi e sparendo oltre la porta.

 

Imma non si era mai sentita tanto tormentata tra la voglia di chiudere un’indagine e la paure di cosa potesse succedere. Ma non restava che aspettare.

 

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Si sentiva terribilmente nervosa, mentre guardava di sottecchi Mancini e la Ferrari, che parevano entrambi coi nervi a fior di pelle.

 

Stavano aspettando il rientro di Calogiuri e degli altri ragazzi inviati per la missione. Il foglietto lo avevano trovato, Calogiuri le aveva mandato un messaggio con scritto “tutto a posto, rientriamo!” una mezz’ora buona prima. Ma mo era in apprensione.

 

Il collegamento video non era stato possibile, anche perché le vetture dei ROS erano ancora in riparazione ed avevano preferito andare con auto in borghese per dare meno nell’occhio. Ma questo comportava più rischi in caso di blocchi per strada, non essendo semi corazzate contro eventuali assalti. Ed avevano il collegamento radio, ma al momento non sentiva nulla: sperava veramente che fosse un buon segno e non ci fossero problemi.

 

Il tempo sembrò dilatarsi a dismisura, seduta su quella poltroncina, mai tanto scomoda, quando, d’improvviso, il rumore di una porta che si apriva le fece fare quasi un salto.

 

Si voltò e vide Calogiuri e lo sguardo… lo sguardo era lo stesso di quel giorno al processo di Romaniello, quella soddisfazione incontenibile, e nemmeno Imma riuscì a trattenere un sorriso ed uno sguardo orgoglioso. Già dovette contenere a stento l’impulso di abbracciarlo e baciarlo, come si meritava, ma si ripromise di recuperare una volta giunti a casa.


Calogiuri infilò una mano nella giacca e ne estrasse un sacchetto di plastica di quelli delle prove, dove, lo vedeva anche da distanza, c’era un singolo foglio di carta.

 

Imma accorse e glielo prese dalle mani, trattenendo a stento la commozione, il sollievo, la gratitudine, mentre analizzava quelle poche righe scritte a penna. Il nome della pizzeria e la frase pronunciata dalla Tantalo nelle due telefonate.

 

“C’è da far fare la perizia grafologica, subito! E qui la voglio: questo foglio da qua non esce e va messo sotto chiave,” pronunciò, girandosi verso Mancini e la Ferrari che annuirono.

 

Irene si avvicinò e guardò anche lei il foglietto con aria soddisfatta.

 

“Chiamo il grafologo, dottoressa, è un amico e dovrebbe venire a breve. Se tutto va bene tra poche ore al massimo avremo la conferma definitiva,” proclamò Mancini, prendendo il telefono e componendo un numero, “intanto dobbiamo trovare altri campioni della scrittura di Eugenio Romaniello.”

 

“Ce ne sono moltissimi all’archivio della procura di Matera, essendo un giudice. Chiamo e me li faccio mandare, dottore,” rispose, prendendo il cellulare dalla tasca e componendo il numero di Diana.

 

Dopo qualche squillo rispose, con un tono allegro che la fece sorridere, nonostante tutto, “Imma! Che bella sorpresa! Ma come va? Tutto bene? Non sai qui quante novità ci sono e-”

 

“Diana, ferma, ferma. Qui tutto bene e sono felice di sentirti ma ho bisogno di avere dei campioni di scrittura di Eugenio Romaniello e ne ho bisogno mo, veloce. Puoi andare subito al RE.GE e farti dare qualche sentenza sua in archivio? Ma mi servono in fretta, Diana, non con i tempi della Moliterni, mi raccomando!”

 

“Sempre dritta al punto, tu, eh? Va bene, Imma, vado dalla Moliterni e cerco di farteli avere subito scansionati. Ti serve altro?”


“No, ma più cose trovi e meglio è, più esemplari ci sono delle varie lettere dell’alfabeto. Conto su di te, Diana!”

 

“Tranquilla, Imma. Ti mando subito tutto appena li trovo. E salutami tua figlia e pure Calogiuri.”

 

“Va bene, Diana, pure tu saluta tutti. Ciao.”

 

Chiuse la telefonata e guardò verso Mancini e la Ferrari, che la fissavano tra il divertito e il basito.

 

“La mia ex cancelliera, Diana, dovrebbe mandarmi il tutto al più presto, responsabile del RE.GE. permettendo.”

 

“Il grafologo ha dato conferma che massimo entro mezz’ora sarà qui. Non ci resta che aspettare.”

 

Proprio quello che le pesava da sempre di più fare.

 

Ma ormai mancava poco.

 

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“E allora?”

 

Il grafologo alzò lo sguardo, con l’aria di chi voleva mandarla a quel paese. Ma era impaziente, non ci poteva fare niente.

 

“Allora, dottoressa, dall’analisi della grafia con un paio dei campioni da lei fornitimi, sebbene il biglietto sia stato scritto in maniera frettolosa, posso desumere che la mano sia la stessa. Si vede chiaramente sia dall’andamento ascendente delle lettere, tipico di persone molto ambiziose, sia dal modo in cui la parte centrale delle lettere sovrasta il resto ed è particolarmente grossa, rispetto alla media. Di solito questo è tipico di persone fortemente egocentriche, in questo caso direi tendente al narcisismo. E poi gli occhielli nelle lettere, ad esempio le a e lo o sono consistenti tra i vari campioni, e anche la dimensione di quelli delle g e delle l, giusto per fare qualche esempio.”

 

“Quindi è disposto a confermare la corrispondenza in una perizia scritta e a testimoniare in tribunale?” si inserì Irene, che ovviamente e comprensibilmente pensava al maxiprocesso di lì a poco.

 

“Naturalmente, dottoressa. Se volete posso redigerla anche ora, visto che sono qua. Mi ci vorrà almeno un’ora, ma siete fortunati che oggi non avevo l’agenda troppo piena.”

 

“Sì, Umberto, anche perché questo reperto andrà sottochiave e vorremmo evitare che esca da qui,” spiegò Mancini, per poi fargli cenno verso la scrivania, “se vuoi è a tua disposizione finché avrai finito.”

 

“Va bene, Giorgio. Mi metto subito al lavoro.”

 

E, mentre il perito scriveva, Imma si sentì travolgere da un’ondata di soddisfazione e sollievo: era finita, almeno la parte di indagine sul maxiprocesso era finita. Certo c’era ancora l’udienza e da catturare chi aveva aggredito il suo Calogiuri, ma mo il lavoro principale era in mano alla Ferrari.

 

“Grazie Imma, grazie Calogiuri, avete fatto un lavoro eccezionale e… le mie speranze per l’ultima udienza del processo sono molto più alte ora,” proclamò la Ferrari, parendo leggerle nel pensiero.

 

“Mo dipende solo da te e con queste carte in mano non puoi proprio perdere,” rispose Imma, con un sottotono che voleva dire azzardati a farlo e sei morta!

 

Ma Irene sorrise, sembrando divertita, ed annuì.

 

“Congratulazioni anche da parte mia, dottoressa, come sempre è stata eccezionale e ha superato tutte le mie aspettative, anche le migliori,” si complimentò Mancini, sorridendole e mettendole una mano sulla spalla.

 

Imma notò l’occhiata omicidia di Calogiuri, che stava in piedi al lato del procuratore capo, e sciolse rapidamente il contatto ed annuì, un po’ in imbarazzo, “la ringrazio, dottore, ma per l’appunto è stato un lavoro di squadra. Soprattutto col maresciallo Calogiuri che mi ha sempre supportata, fin dai tempi di Matera. Senza il suo contributo non ce l’avrei mai fatta.”

 

“Dottoressa, ho solo fatto quello che ho potuto, il merito è tutto vostro,” le rispose, con uno sguardo grato e con gli occhi lucidi, sembrandole nuovamente commosso.

 

“Sono felice di avere una squadra così nella mia procura. Ancora complimenti, dottoressa, maresciallo. Irene, conto su di te e sulle tue capacità in tribunale, come ai vecchi tempi a Milano,” proclamò, rivolgendosi poi verso Imma e aggiungendo, “quando ci si mette potrebbe convincere gli eschimesi a comprare frigoriferi, quindi non dubito che con le prove che ha in mano siamo quasi in una botte di ferro.”

 

Imma era assai meno entusiasta delle doti di persuasione della Ferrari, ma doveva sperare che fosse veramente così e che le botti di ferro non c’avessero i chiodi dentro.

 

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“Imma, naturalmente ti voglio a testimoniare al maxiprocesso. Te la senti, vero?”

 

Insieme a Calogiuri e alla Ferrari erano appena usciti dall’ufficio di Mancini, che era rimasto lì ad attendere la fine della stesura della perizia.

 

E mo la Ferrari faceva la sua mossa. Non che non se lo aspettasse, naturalmente, o che le avrebbe detto di no.

 

“Certamente, anche se vorrei capire su cosa devo testimoniare.”

 

“Sei un po’ il mio asso nella manica, Imma: vorrei parlassi soprattutto dei Romaniello, oltre che dei morti a Matera. Vediamo come si mette l’udienza, vorrei che fossimo flessibili con le domande, tanto so che sarai all’altezza della situazione.”

 

Imma deglutì, chiedendosi se stesse per infilarsi in un campo minato, ma era anche vero che era nell’interesse della Ferrari e della sua carriera chiudere bene udienza e primo grado di giudizio.

 

“E va bene.”

 

“E Calogiuri, ovviamente mi servi anche tu come testimone, soprattutto dell’aggressione avvenuta qualche giorno fa, ma anche degli altri eventi.”

 

“Va bene…” annuì, con un tono stanco quasi quanto il suo viso.

 

“Calogiuri, ma stai bene?” gli chiese la Ferrari, prendendolo per un braccio in un modo che le fece scatenare un mezzo ruggito interiore, “a parte che sei pallidissimo, ma ti vedo un po’ strano.”

 

“Sì… sì… non vi preoccupate, io…”

 

Erano più o meno a metà strada tra il suo ufficio e quello di Mancini quando Calogiuri iniziò a barcollare pericolosamente, sbiancando ancora di più.

 

“Calogiuri!” gridò, vedendolo sbandare. Per fortuna la Ferrari aveva più forza del previsto e, tenendolo già per un braccio, gli impedì di cadere.

 

Imma si affiancò e gli afferrò l’altro braccio, mettendoselo sulle spalle.

 

“Dobbiamo farlo sedere, aiutami a metterlo su quella panca!” ordinò alla collega, incurante di tutto, preoccupata come non mai.

 

“Va bene.”

 

Calogiuri era a peso morto e non le era mai sembrato così pesante. A fatica arrivarono alla panca sul corridoio - di solito riservata a qualcuno in attesa di entrare negli uffici - e ci si sedettero, facendolo sedere insieme a loro.

 

Non appena accertatasi che non correva più il rischio di cadere, Imma si voltò a guardarlo ed ebbe la conferma che era praticamente svenuto.

 

“Calogiuri, Calogiuri, mi senti?!” lo chiamò, preoccupatissima, scuotendolo leggermente per una spalla e mettendogli una mano sul viso.


“Im- Im-” pronunciò a fatica, aprendo gli occhi azzurri che erano super acquosi.

 

Lo aveva visto solo una volta ridotto così.

 

Gli mise la mano sulla fronte ed era un forno.

 

“Ma scotti! C’hai la febbre!” esclamò, preoccupatissima, anche se almeno, pure se mezzo ubriaco, gli occhi li teneva aperti.

 

“Sì, è vero, mi sa che ha la febbre alta,” confermò Irene, mettendogli a sua volta la mano sulla fronte e poi sulla guancia, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

Nonostante la situazione, dovette contenere un altro ruggito e la voglia di mozzargliele quelle mani.

 

“Ma cos’è questo?” chiese poi, distraendola prima di poter attuare i suoi progetti omicidi, ed indicando il brufolo sulla guancia di Calogiuri.

 

“Penso un brufolo per la stanchezza? Ce l’aveva già ieri.”

 

Ma Irene lo guardò e poi la guardò, con aria poco convinta e, di colpo, sempre come se fosse perfettamente normale, gli mise le mani al colletto della camicia ed iniziò a slacciargliela.

 

Imma stava veramente per fare una strage, quando la cara collega si fermò al quarto bottone ed aprì la camicia, dicendo, “guarda…”

 

Mezza paralizzata, notò bollicine anche sul petto, identiche a quella sul viso, e ce n’era anche qualcuna che iniziava a spuntare sul collo.

 

“Ma… ma…”

 

“Varicella… l’ho vista l’anno scorso quindi la riconosco bene. L’hai già fatta, spero?” le domandò, guardandola con apprensione.

 

“Sì… quando Valentina era piccola me la sono presa pure io…” annuì, estremamente preoccupata.

 

La varicella in età adulta era una brutta bestia, se lo ricordava bene.

 

“Calogiuri negli ultimi giorni è stato in contatto con i ragazzi della PG, con quelli dei ROS e con Mancini. Oltre che con i Mazzocca, la Tantalo e il perito. Dobbiamo avvisarli e pregare che la maggior parte di loro se la sia già fatta: speriamo di non avere un’epidemia proprio ora, che manca giusto qualche settimana al processo e in ogni caso sarebbe un casino.”

 

Presa dalla preoccupazione per Calogiuri non ci aveva nemmeno pensato.

 

“Devo… devo portarlo dal medico e poi a casa e-”

 

“Meglio portarlo direttamente a casa. Conosco un dottore che visita a domicilio ed è più prudente che non vada in ambulatorio, che magari infetta altra gente. La macchina a Roma l’hai mai guidata?”

 

“No… no…” ammise, la testa nel pallone, ma Irene sembrava decisa come non l’aveva mai vista.

 

“Vi accompagno io a casa sua: da sola non riesci a portarlo fino all’appartamento se non sta in piedi. E così guido io. Gli proviamo la febbre e chiamo il medico. Se mi dai una mano, lo solleviamo.”

 

“Sì… sì…” assentì, perché era logico e non poteva fare altro in quel momento.

 

“Vado ad avvisare Mancini e poi ti aiuto a portarlo all’auto. Ma almeno Mancini inizia allertare le persone con cui Calogiuri ha avuto contatti e a chiedere se la varicella l’hanno già fatta o meno, prima che la cosa si sparga di più.”

 

“Va bene…” sospirò, vedendola sparire oltre la porta del procuratore capo.

 

“Imma…” lo sentì sussurrare e lo guardò intenerita: in queste circostanze sembrava veramente un cucciolo. Ma era anche terribilmente in apprensione per lui.

 

Calogiuri si mosse leggermente e si appoggiò con la testa alla sulla spalla, chiudendo gli occhi. Pareva un gattino sonnacchioso ed evidentemente non era più conscio di dov’erano. Per fortuna non passava nessuno, anche se c’erano altre preoccupazioni primarie in quel momento.

 

Sentì una porta aprirsi e vide la Ferrari tornare con Mancini al seguito. La Ferrari le lanciò uno sguardo preoccupato, mentre Mancini sembrò sbalordito.

 

“Si è addormentato… credo sia mezzo delirante,” rispose Imma, perché che altro poteva dire in quelle circostanze?

 

“Vi aiuto a portarlo in auto, tanto la varicella l’ho già fatta… e lei con quei tacchi dottoressa è meglio evitare…” proclamò il procuratore capo, cercando di prendere Calogiuri per l’altro braccio.

 

Calogiuri riprese a lamentarsi e con un sorriso mormorò, “Mma… mma…”

 

“Sì, sta proprio delirando, se l’ha scambiata per sua madre, dottoressa,” ironizzò Mancini, parendo però sollevato, e tirando su Calogiuri quasi di forza.

 

Imma ringraziò chiunque fosse in ascolto che Calogiuri, nel pronunciare male il suo nome, avesse stavolta omesso la prima parte.

 

Avrebbe voluto aiutare Mancini ma Irene gli prese l’altro braccio e se lo trascinarono fino all’ascensore, Imma che li seguiva sentendosi un po’ inutile.

 

Infine lo caricarono sul sedile di dietro dell’auto di servizio, sotto lo sguardo stupito dei colleghi alla porta.

 

“Se avete bisogno di un medico o di un’ambulanza fatemelo sapere. Io avviso gli uomini qui e speriamo non ci siano molti potenziali contagiati.”

 

“Tranquillo. Ci penso io a chiamare il mio medico di fiducia. Buon lavoro e fammi sapere.”

 

“Va bene, Irene. Dottoressa, ancora complimenti e… spero che questa situazione non crei problemi per il processo. Se diventasse più cosciente augurate al maresciallo una buona guarigione da parte mia.”

 

E Mancini rientrò in procura. Irene le lanciò un’occhiata che era tutta un programma e le disse, “stai sul sedile dietro con lui mentre guido?”

 

Imma annuì e si infilò accanto a Calogiuri, cercando di allacciargli la cintura, ma lui le crollò addosso o quasi. Finì per tenerlo di nuovo mezzo abbracciato riuscendo, infine, a mettergli la cintura almeno intorno alla vita.


“Cerco di non guidare troppo bruscamente…” disse Irene, guardando nel retrovisore in un modo indecifrabile.

 

Poi sembrò concentrarsi di nuovo sulla strada, mentre un silenzio strano ed un po’ imbarazzante si diffondeva nell’auto.


Sperava solo che Calogiuri non si sentisse male nel tragitto e che la febbre non fosse alta come temeva.

 

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“Ci siamo quasi…”

 

“Lo so.”

 

Non avesse avuto metà del peso di Calogiuri sulle spalle l’avrebbe strozzata già solo per quel lo so. Come se avesse bisogno di sottolineare che lei evidentemente nell’appartamento di Calogiuri c’era già stata, la cara Irene.

 

Si fermarono davanti alla porta ed Imma cercò le chiavi nella borsa, ma senza successo.

 

Infine si arrese e provò nelle tasche di Calogiuri - alla faccia della Ferrari e del modo in cui la guardava - trovando infine il mazzo di chiavi in una tasca interna della giacca di pelle.

 

C’erano sia quelle di Calogiuri che quelle di casa sua. Imma selezionò quella giusta, aprì la porta e proseguirono, fino a sedersi insieme a lui sul divano, crollandoci quasi per quanto era stanca.

 

Irene si alzò ed andò a chiudere la porta.

 

“Sai se c’è un termometro?”

 

“Lo prendo io,” rispose Imma, provando a tirarsi su, ma Calogiuri le si era di nuovo aggrappato addosso, a mo di koala, e doveva staccarlo per potersi muovere.


“Se mi dici dov’è, lo recupero io,” propose Irene con un mezzo sospiro, scuotendo il capo, e Imma dovette cedere.

 

“In bagno nel primo cassetto.”

 

La cara collega annuì e sparì oltre l’unica porta dell’appartamento, per poi tornare col termometro in mano.

 

Imma glielo prese, aprì la camicia di Calogiuri e glielo piazzò a forza, tenendogli chiuso il braccio affinché non cascasse.

 

Alla fine, al bip del termometro, lo estrasse e vide che la temperatura era 39.2. Era spaventata e non sapeva bene da dove cominciare.

 

“39.2? L’ha presa bella forte, chissà da quanto la covava. Ascolta, io adesso chiamo il dottore, gli spiego la situazione e ti lascio il numero, in caso non arrivasse in tempi umani. Nel frattempo hai degli antipiretici?”

 

“Non lo so… le medicine stanno nel primo cassetto del bagno…” rispose, perché la verità era che entrambi avevano una buona salute e passavano comunque più tempo a casa di lei.


Ma, se fosse venuta un’ispezione del medico del lavoro, non potevano certo trovare Calogiuri a casa di lei.

 

“Va bene, li cerco, se no vado un salto in farmacia a prendere le medicine che intanto mi consiglia il dottore. Lo chiamo.”

 

Ed Imma dovette contenere il fastidio mentre Irene rispariva oltre la porta del bagno e la sentì parlare ma non capiva cosa dicesse. Sapeva che la stava aiutando, per carità, ma il fatto che si muovesse quasi fosse a casa sua le dava noia, anche se da un lato le era grata per avere preso la situazione in mano mentre lei era andata in pallone per la preoccupazione.

 

Tornò dopo qualche minuto.

 

“Non ci sono antipiretici. Il medico mi ha detto che arriverà entro un paio d’ore massimo. Vado in farmacia e torno tra poco. Ti serve una mano a disfare il divano e fare il letto?”

 

Contenne l’istinto irrazionale di chiederle come sapesse che fosse un divano letto: era un monolocale e non era scema. O Calogiuri dormiva sul divano o non poteva essere altrimenti. Ma con la Ferrari c’era ben poco di razionale.

 

Avrebbe voluto dirle di no, che ce la faceva da sola, ma la verità era che Calogiuri pesava non poco e temeva cadesse.

 

“Va bene. Ma dobbiamo sollevarlo prima.”

 

Con l’aiuto di Irene riuscì a tirarlo di nuovo in piedi e poi, mentre l’altra continuava a sorreggerlo, Imma aprì il divano letto e rimise in sesto il letto.


“Vuoi una mano a metterlo sotto le coperte?” chiese di nuovo la collega, con una voce che palesava lo sforzo di reggersi Calogiuri da sola, anche se era meno minuta di lei.

 

Imma sospirò, tirò giù il copriletto e poi riprese Calogiuri sotto braccio e, insieme a Irene, lo fece sedere sul coprimaterasso.

 

“Da qua me la cavo. Se vuoi andare in farmacia, aspetta che ti dò i soldi.”

 

“Me li ridai dopo, quando arrivo con lo scontrino. A tra poco.”

 

Aspettò che avesse richiuso la porta di ingresso e poi iniziò a spogliare Calogiuri per metterlo in pigiama, che col cavolo che si faceva aiutare pure per quello.

 

La Ferrari già gli era abbastanza vicina, non c’era bisogno lo diventasse ancora di più.

 

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“Speriamo la febbre scenda, chissà tra quanto arriverà il dottore…”

 

“Massimo un’ora e mezza, Imma, ma se la situazione dovesse peggiorare o se non arriva chiamalo.”

 

“Sono preoccupata… sia perché sembra mezzo delirante, sia perché… non so come fare col lavoro: non posso lasciarlo solo se rimane così.”

 

“Qualcuno deve stare qui per forza. Non lo so… se vuoi posso chiedere qualche giorno di permesso e ci diamo il cambio, ma la sera devo tornare a casa,” si offrì Irene, con una nonchalance incredibile, ed Imma si chiese se fosse seria.

 

Ma col cavolo che la lasciava a casa da sola con Calogiuri in quelle condizioni!

 

“Ma tu c’hai il maxiprocesso a breve da preparare e poi… e poi è compito mio… dovrei chiedere qualche giorno di ferie. Certo, Mancini temo farà due più due ma-”

 

“Ma cos’è più importante per te, Imma? La carriera o la salute di Calogiuri?”


“Che vuoi dire?” sibilò, fulminandola con un’occhiataccia, perché a quella domanda già l’incazzatura stava montando.

 

“Che voglio dire? Che non capisco a che gioco stai giocando con tutta questa melina, Imma. Se avessi già parlato chiaro a Mancini di te e Calogiuri, non vi trovereste in questa situazione ora.”

 

“Se non ne ho parlato a Mancini finora è stato soprattutto per tutelare la carriera di Calogiuri e la sua posizione con l’Arma. E poi volevamo evitare che uno dei due fosse trasferito.”

 

“Sì, ma stai proteggendo anche e soprattutto la tua carriera e la tua reputazione, Imma. Cos’è, hai paura di perdere la faccia ammettendo che stai con un ragazzo più giovane? Ma più aspetti con Mancini e peggio è. Anzi, è già peggio!”

 

“Ma come ti permetti?! Tu non sai niente!” non potè trattenersi dal gridare, tirandosi in piedi per fronteggiarla, i pugni stretti lungo i fianchi, “e su Mancini non capisco proprio dove vuoi arrivare!”

 

“Dove voglio arrivare? Ti ricordo che, quando avete avuto quella discussione al telefono, Calogiuri era a casa mia e ho sentito benissimo che Mancini ci ha provato con te. E lo conosco da una vita e non è il tipo, anzi, è sempre stato correttissimo con le sottoposte, quindi per farlo deve essere veramente molto interessato a te. E quindi come pensi si sentirà ora, quando gli rivelerai di Calogiuri?”

 

“Appunto! Se glielo dico mo si sentirà ancora più umiliato, è per questo che sto cercando di rinviare!” sbottò, furiosa per il modo in cui la cara Irene aveva evidentemente ascoltato tutto della sua conversazione con Calogiuri.

 

“Perché se glielo dici tra qualche mese pensi che cambierà qualcosa e non capirà che sempre con Calogiuri stavi? Già oggi solo un cieco non lo avrebbe capito, anche se ti è andata bene con quella storia di mamma. Ma Giorgio non è scemo. E non si merita questa presa per il culo nemmeno lui. Non so come hai fatto ad infilarti in questa situazione, Imma, ma mi chiedo se tu non stia solo cercando scuse e se non ti sei fatta corteggiare da Giorgio, magari anche inconsciamente, pure per avere appunto una scusa per rinviare ulteriormente la vostra uscita allo scoperto.”


“Ma chi ti credi di essere?! Ma che te ne frega a te! Chi saresti mo, la mia psicanalista?!”

 

“Me ne frega perché ci tengo a Giorgio ma soprattutto perché ci tengo a Calogiuri e si merita qualcuna che lo metta al primo posto, prima della sua carriera, e che non stia con un piede dentro ed uno fuori a questa… relazione.”

 

“E questa persona saresti tu?!” sibilò, le unghie che ormai le artigliavano i palmi delle mani, anche se le unghiate gliele avrebbe date volentieri in faccia a quella gattamorta. Altro che mastino coi guanti di velluto!

 

“Non deflettere su di me le tue mancanze, Imma. E cerca di capire quali sono le tue priorità, perché Calogiuri è un ragazzo d’oro, buono e ancora fin troppo ingenuo. E si merita il meglio.”

 

“E cos’è il meglio per lui Calogiuri lo sceglie da solo e lo ha già scelto, tante grazie!” soffiò, sarcastica, “e comunque non sono affari tuoi, ma chiederò ferie a Mancini, perché che Calogiuri stia bene per me è la cosa più importante, nonostante quello che ti diverti tanto ad insinuare!”

 

“Me lo auguro! Spero che Calogiuri si riprenda in tempo per l’udienza e che ci possiate essere entrambi. Se il medico non arrivasse e dovesse non rispondere, avvisami che lo sollecito. Buona serata!” pronunciò, con un tono stranamente più calmo e poi prese ed uscì, così, come se non fosse successo niente o quasi.

 

Imma rimase semi paralizzata, incredula. Non capiva a che gioco stesse giocando la Ferrari o dove volesse arrivare e non lo sopportava. E non la sopportava. Ma perché incitarla ad uscire allo scoperto con Mancini mo? Non aveva senso.

 

Però sapeva che chiedere ferie fosse l’unica cosa logica e giusta da fare e di sicuro non avrebbe mai permesso che fosse la cara Irene a fare da crocerossina a Calogiuri.

 

“Im- Imma…”

 

Sentire Calogiuri lamentarsi le strinse il cuore e gli si avvicinò e gli toccò la fronte bollente, scostando i capelli sudati. Era così indifeso sotto il lenzuolo, sembrava veramente un cucciolo. Aprì l’armadio e ci ritrovò un foulard ripiegato dei suoi, rimasto lì forse dalla loro ultima riappacificazione. Calogiuri glielo aveva lavato. Andò in bagno, lo imbevve di acqua fredda, lo strizzò e glielo mise in fronte, sperando che il fresco lo confortasse un po’. C’era anche il rischio che avrebbe iniziato a grattarsi, quando fosse passata la febbre più alta, o forse pure prima, e avrebbe dovuto evitarlo.

 

Vedendolo sorridere flebilmente, forse per il fresco, gli strinse ancora una mano e poi cercò il telefono dalla borsetta e si preparò a fare quello che temeva di più.

 

Cercò il numero di Mancini in rubrica e fece partire la telefonata.

 

Dopo qualche squillo, rispose con un, “pronto, dottoressa?”

 

“Dottore, buonasera, la disturbo?”

 

“Lei non disturba mai, dottoressa. Mi dica, come sta il maresciallo? Irene è ancora con lei?”

 

“No, Irene è andata via e… il maresciallo ha la febbre alta. Dovrebbe venire il dottore a breve ma quasi sicuramente è varicella.”

 

“Quindi lei è ancora a casa del maresciallo?” le chiese Mancini, con un tono strano, ed Imma rispose con un semplice, “sì.”

 

Rimasero per un attimo in silenzio, Imma stava per parlare e chiedere le ferie, quando Mancini intervenne con un, “ho allertato tutte le persone con cui ha lavorato Calogiuri. Gli unici a non aver fatto la varicella sono due dei ROS, Conti e Carminati. Per sicurezza se ne staranno in isolamento per qualche giorno.”

 

“Bene, dottore, meno male che da bambini ce la siamo fatta quasi tutti…” sospirò Imma, pensando che se pure Calogiuri se la fosse fatta da piccolo sarebbe stato meglio.

 

Poi Mancini non disse più niente ed allora Imma prese un respiro, si fece coraggio, e gli annunciò, “dottore, avrei bisogno di qualche giorno di ferie. Non so ancora quanti esattamente.”

 

La linea rimase talmente silenziosa che per un attimo temette che Mancini fosse svenuto o che fosse saltato il collegamento ma poi pronunciò, con un tono che non avrebbe mai dimenticato, “dottoressa, c’è per caso qualcosa che deve dirmi?”

 

Ed Imma sospirò di nuovo, alzando gli occhi al soffitto, sapendo benissimo che Mancini aveva capito e, del resto, dopo gli ultimi eventi, questa doveva essere stata solo la conferma finale.

 

“Diciamo di sì, dottore, ma ne vorrei parlare di persona al mio rientro.”

 

Di nuovo un attimo di silenzio e poi, serio come non l’aveva mai sentito e con una nota strana nella voce, Mancini rispose, “va bene, dottoressa. Le ferie sono concesse. Ma mi faccia sapere quando ha intenzione di rientrare e… e quando lo farà mi aspetto che venga immediatamente nel mio ufficio.”

 

“Va bene, dottore,” assentì, perché non poteva dire altro.

 

“Si riguardi,” pronunciò, sempre in quel modo, e la chiamata si interruppe.

 

Imma, il cuore a mille, non sapendo se sentirsi più leggera o più terrorizzata, si accasciò sul letto accanto a Calogiuri, cercandogli la mano ed accarezzando la zona libera da bolle con dita tremanti.

 

Ormai indietro non si poteva più tornare e se ne sarebbero presi le conseguenze.


Sperava solo di non avergli appena rovinato la vita.


Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine del trentaduesimo capitolo e… come vediamo pure il velo di segretezza sulla storia tra Imma e Calogiuri potrebbe essere squarciato e, al di là della varicella, avranno molte cose e persone da affrontare nel prossimo capitolo e non sarà affatto semplice. In tutto questo quali saranno le intenzioni della Ferrari e come andrà a finire col maxiprocesso? Siamo ormai quasi agli sgoccioli della terza fase della storia e poi… ci aspetta la quarta fase e magari anche un po’ di salti temporali.

Spero che la storia continui a rimanere di vostro gradimento e vi ringrazio di cuore per avermi seguita per tutti questi capitoli e questi mesi, settimana dopo settimana.

Grazie mille a chi ha messo la mia storia nei preferiti e nei seguiti e un grazie enorme a chi ha speso o spenderà un po’ del suo tempo per lasciarmi una recensione, che mi danno sempre una carica e una motivazione enorme.

Grazie ancora ed il prossimo capitolo arriverà puntuale domenica sette giugno.

 

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Capitolo 33
*** Allo Scoperto ***


Nessun Alibi


Capitolo 33 - Allo Scoperto


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Allora, dottore?”

 

“Varicella, glielo confermo. E confermo anche le medicine che ho già raccomandato alla dottoressa Ferrari. Le faccio una prescrizione come promemoria. E per il resto ci vuole molto riposo. L’importante è che si tenga sotto controllo la temperatura e gli si impedisca di grattarsi, oltre che a mantenere l’idratazione, visto che mangerà meno. Se non riuscisse a far abbassare la temperatura o non migliorasse entro qualche giorno mi chiami.”

 

“Va bene, dottore, la ringrazio,” rispose, pagandogli il corrispettivo e rimanendo piacevolmente colpita quando fece subito regolare ricevuta.

 

Almeno la Ferrari non se li sceglieva evasori. O furbi abbastanza da non tentare l’evasione fiscale di fronte ad un magistrato.

 

Accompagnò il dottore fuori dalla porta e tornò da Calogiuri, che un poco ancora si lamentava. Gli accarezzò la fronte e stava per andare a cambiargli il foulard, a cui il medico aveva lanciato un’occhiata che era tutto un programma, quando arrivò un messaggio proprio dalla gattamorta.

 

Il medico è passato? Hai bisogno di altre medicine o di fare un po’ di spesa?

 

Non l’avrebbe forse mai capita: prima aveva tirato fuori sto famoso lato da pitbull ed aveva litigato con lei e mo le chiedeva se volesse le consegne a domicilio, come se niente fosse? Non la voleva tra i piedi con Calogiuri, anche se in effetti l’aveva aiutata parecchio. Ma sicuramente perché teneva a Calogiuri e non per fare un favore a lei.

 

Sì, è passato e no, grazie, ho tutto quello che serve.

 

Non fare complimenti. Posso farti arrivare la spesa e poi paghi tu alla consegna, se preferisci.

 

Dovere un favore ad Irene e magari al pizzicagnolo amico suo le dava fastidio. Però c’era il suo orgoglio e poi c’era il buonsenso: non poteva mollare Calogiuri a lungo almeno finché non sarebbe stato più cosciente.

 

Andò verso il frigo e c’era il deserto dei Tartari: Calogiuri ormai stava più spesso a casa di lei che lì. E non poteva fargli mangiare pinse o sushi o chissà che altre cose d’asporto. Avrebbe potuto chiedere a Valentina ma la Ferrari si era offerta e sua figlia aveva le sue cose a cui pensare, altro che fare le commissioni per lei.

 

Va bene, ti mando una lista ma pago io.

 

Ok. Ti faccio sapere quando dovrebbe arrivare.

 

Sospirò, facendo un elenco non troppo lungo ed inviandolo. Del resto dopo due o tre giorni sperava di poter uscire lei stessa.

 

Cinque minuti ed arrivò la risposta.

 

Passeranno domattina verso le 11.

 

Ammazza se era efficiente la Ferrari e doveva proprio avere un giro di conoscenze assai vasto. Era pure vero che, vista la situazione di Bianca, non fosse poi così sorprendente che la spesa gliela portassero a domicilio, se la bimba non poteva stare troppo da sola.

 

Ma, a parte quello che non erano affari suoi, era proprio l’atteggiamento di lei che era un enigma. Ed Imma odiava gli enigmi che non riusciva a risolvere. Oltre al fatto che la Ferrari di suo le stava sull’anima.

 

Dopo aver ispezionato la dispensa, decise di farsi una rapida pasta in bianco, anche se dubitava che Calogiuri avrebbe potuto mangiare molto in quelle condizioni.

 

Ma doveva almeno provarci.

 

*********************************************************************************************************

 

“Imma…”

 

“Riesci a mangiare ancora un poco?” gli chiese, porgendogli un’altra piccola forchettata di maccheroni in bianco.

 

La febbre era scesa ma rimaneva a 38 e Calogiuri alternava momenti di lucidità ad altri in cui sembrava sognare ad occhi aperti. Però almeno un po' di pasta l’aveva presa.

 

Lo vide annuire ma poi dire, con lo sguardo da cane bastonato, “mi spiace che…”, facendo segno verso lei ed il piatto.

 

“Ma non dirlo nemmeno per scherzo, Calogiù! E poi magari un giorno ti toccherà farlo tu per me, quando sarò ancora più vecchia,” ironizzò, anche se era una delle paure più grandi che aveva su di loro nel lungo termine, quella di pesare su di lui.

 

“Hai… una salute… di ferro… io… sono un disastro.”

 

Lei scosse il capo e gli avvicinò la forchetta alle labbra e Calogiuri si prese un altro boccone.

 

“Non sei un disastro. Ma c’hai un’idea di dove puoi aver preso la varicella?”

 

“Forse… Noemi stava male e aveva la febbre ma… non mi hanno detto che…”

 

“Ho capito, ho capito. Non sforzarti, mangia,” lo esortò, dandogli un’altra forchettata e lui fece come chiesto.

 

Ma poi mise una mano sul piatto e fece segno che poteva bastare. Imma annuì e si alzò: non voleva esagerare e rischiare stesse male.

 

Andò all’area cucina per svuotare il resto nell’immondizia e prendergli dell’acqua fresca, e poi tornò verso il divano letto.

 

Calogiuri pareva già mezzo addormentato - per non dire ubriaco - e gli si avvicinò e gli accarezzò la fronte nelle zone senza segni. Sembrava che la temperatura, forse per lo sforzo, stesse risalendo un poco. Vide che una mano gli si muoveva come per grattarsi e allora gliele bloccò e le tenne su di sé, sperando di calmarlo, ma lui iniziò a grattare lei - doveva essere decisamente addormentato - facendole il solletico.

 

Dopo poco per fortuna smise ed Imma cercò di alzarsi di nuovo per andare a bagnare il foulard con acqua fredda, quando si sentì prendere per una mano.

 

“Imma…” mormorò, aprendo per un attimo quegli occhi azzurri e troppo lucidi, “non mi lasciare…”

 

Il cuore le si sciolse come mai prima. Calogiuri aveva uno sguardo che era un’arma impropria.

 

“Torno subito, maresciallo,” gli sussurrò e cercò di fare più in fretta che poteva.

 

Quando tornò e gli mise il pezzo di stoffa leopardato sulla fronte, si sentì di nuovo trattenere per un polso.

 

Scuotendo il capo, si levò il golfino, rimanendo solo in camicia da notte, e si infilò a letto accanto a lui, tenendogli la mano ed assicurandosi che i respiri rimanessero calmi e regolari, osservandolo dormire tra il preoccupato e l’intenerito.

 

*********************************************************************************************************

 

“No, Imma, no!”

 

Si svegliò di scatto, un po’ rintronata, e guardò l’orologio sul cellulare: erano le quattro del mattino.

 

Si voltò verso Calogiuri e vide che si muoveva a scatti nel sonno: probabilmente aveva un incubo dovuto alla febbre.

 

“No, non… non lasciarmi!”

 

Sentì un nodo in gola, il cuore che le doleva in quel modo piacevole che causava solo lui: aveva proprio paura che lei potesse non volerlo più accanto a sé. Se solo avesse saputo quanta ne aveva lei, di perderlo e di perdere tutto, perché le sembrava troppo bello per essere vero a volte. Eppure, nonostante avesse capito che la sua gelosia eccessiva lo infastidisse e nonostante Calogiuri fosse più cocciuto di un mulo quando ci si metteva, evidentemente aveva bisogno di conferme quanto ne aveva bisogno lei.


Li attendeva un periodo durissimo quando sarebbero tornati al lavoro e pure dopo, e si ripromise di rassicurarlo più che poteva che lei ci sarebbe sempre stata ed avrebbe lottato per loro due, finché lui avesse voluto stare con lei.

 

“Shhh… sono qui…” gli sussurrò, toccandogli la fronte e sentendola di nuovo scottare, il foulard leopardato che era finito sul cuscino, “ti porto la medicina.”

 

Lui le trattenne la mano per un attimo, gli occhi azzurri che gli si aprirono per qualche secondo, confusi.

 

“Ti vado a prendere la medicina per la febbre, faccio veloce, promesso,” lo rassicurò, e lui le sorrise, annuì e poi richiuse gli occhi.

 

Dargli l’antipiretico non fu semplicissimo, ma alla fine riuscì a farglielo deglutire. Le faceva male vederlo così indifeso e sperava davvero che le medicine facessero effetto e che la fase acuta sarebbe durata ancora per poco.

 

Rimase a vigilarlo il più a lungo possibile, tenendogli la mano e dandogli ogni tanto una leggera carezza, quando lo vedeva agitarsi, finché fu vinta dal sonno.

 

*********************************************************************************************************

 

“Grazie, buona giornata!”

 

Alla fine la spesa era arrivata, puntuale come un orologio svizzero, nonostante il traffico di Roma.

 

Efficienti i fornitori della Ferrari, tanto per cambiare.

 

Stava per riavvicinarsi al letto - Calogiuri lottava ancora con la febbre alta ed alternava momenti di incoscienza totale ad altri nei quali era più consapevole di cosa gli succedeva intorno - quando il suo telefono squillò, segnale di un messaggio in arrivo.

 

Sei viva? Sono giorni che non mi tartassi più di messaggi per controllare se sto bene.

 

Valentina… in effetti di solito un messaggio al giorno la sera per controllare che fosse tutto ok glielo mandava. Ma con Calogiuri in quelle condizioni e prima tutto il casino dei Mazzocca aveva saltato un po’ di sere.

 

Decise di chiamarla per fare prima.

 

“Mà?”

 

“Ciao Valentì, puoi parlare?”

 

“Sì… sono in pausa tra le lezioni ma… ma tu come mai mi chiami a quest’ora? Di solito quando lavori non lo fai.”

 

“Perché non sto al lavoro. Calogiuri si è preso la varicella, forse a Grottaminarda, ha la febbre alta ed è mezzo delirante. Sono qui con lui finché non sta un po’ meglio.”

 

“Qui dove?”

 

“A casa sua… sai se venisse il medico del lavoro….”

 

“Non so se essere più sconvolta da te che stai a casa dal lavoro o dalla sfiga del tuo maresciallo, che si becca la varicella a quasi trent’anni e deve pure sopportarti per tutto il giorno.”

 

“Ma che spiritose che siamo! Guarda che anche a te ti ho curato dalla varicella, me la sono pure presa io!”

 

“Ero piccola ed incapace di intendere e volere…” ironizzò, anche se sentì un tono affettuoso nella voce. Poi, dopo un attimo di pausa, le chiese, “ascolta, hai bisogno di qualcosa?”

 

E stavolta fu il turno di Imma di essere sconvolta. Sua figlia che si offriva di fare qualcosa per lei, anzi, per loro, senza nemmeno chiederglielo.

 

Se lei a volte si sentiva tornata all’adolescenza, sua figlia invece stava maturando sempre di più. Anche se non era certa che fosse per motivi felici, anzi.

 

“Guarda, Valentì, mi hanno appena portato la spesa, per due o tre giorni stiamo a posto. Se la situazione non migliora ti faccio sapere, ma grazie per esserti offerta.”

 

“E di che? E poi almeno verifico se quel poveraccio sta bene o se hai violato le Convenzioni di Ginevra.”

 

“E se sto bene io non ti preoccupi?”

 

“In effetti il tuo essere rimasta a casa dal lavoro potrebbe portarmi a pensare che stai delirando pure tu, ma la varicella so che l’hai fatta, quindi non mi preoccupo più di tanto.”

 

Imma sospirò e scosse il capo. L’umorismo tagliente sua figlia l’aveva preso proprio da lei.

 

Ma ne era orgogliosissima, anche se ogni tanto la faceva disperare.

 

*********************************************************************************************************

 

Sentiva una sensazione di prurito alla mano e come un venticello sul collo.

 

Aprì gli occhi, la luce che gli causò una fitta alla testa, mentre il mondo appannato piano piano prese fuoco.

 

E poi vide del rame e riconobbe i ricci di Imma, vicinissimi a lui, il viso di lei mezzo sepolto tra cuscino e capelli. Una mano teneva ancora la sua, per quello sentiva prurito, e il venticello sul collo era il suo fiato.

 

Non ricordava benissimo cosa fosse successo nelle ultime ore, o forse negli ultimi giorni, non era nemmeno sicuro da quanto fossero in quella casa. Sapeva di avere la varicella e ricordava, con imbarazzo pur nella gratitudine, lei che lo imboccava di cibo manco fosse un bambino.


Gli dispiaceva sia averle dato tanto disturbo, sia che l’avesse visto così. Voleva essere forte per lei, non sembrare un marmocchio con la varicella. Ma gli faceva anche bene al cuore sapere quanto lei teneva a lui, tanto da essere evidentemente rimasta a casa dal lavoro, per quanto poteva ricordarsi. Proprio lei che per prendere malattia o ferie bisognava costringerla a forza.

 

Si sollevò leggermente per cercare il cellulare e guardare l’ora. Lo trovò per terra accanto al letto, lo accese ed erano le dieci del mattino di sabato.

 

Era stato incosciente per un giorno e mezzo.

 

Ora il problema era l’impulso irrefrenabile di grattarsi, ma decise di concentrarsi su altro. Ed Imma glielo rendeva veramente facile: era stupenda quando dormiva in quel modo, così serena e tranquilla.

 

Allungò la mano libera per scostarle leggermente i capelli ed accarezzarle il viso, più piano che poteva.


La vide sorridere in un modo che era indescrivibile, per quanto era bello. E, dopo qualche istante, aprì leggermente gli occhi: si vedeva che era assonnata.

 

“Ca- Calogiuri?” domandò, sorpresa, sembrando poi svegliarsi di botto, lasciargli la mano e guardarlo preoccupata, “come stai? Hai bisogno di qualcosa?”

 

“Sto meglio, dottoressa, tranquilla,” le sussurrò, anche se la voce ancora era un po’ roca, dopo i giorni a letto, e sentì dita fresche sulla fronte.

 

“Sì, sei meno caldo di prima. Aspetta che ti prendo il termometro e misuriamo la febbre. Vuoi un po’ d’acqua? Vuoi mangiare qualcosa?”

 

“Shh… tranquilla… ti ho detto che sto meglio. Voglio solo stare ancora un poco qua con te,” la rassicurò, prendendole di nuovo la mano e trattenendola nella sua, per poi lasciarci un paio di baci.

 

“Calogiù…” gli sorrise, sembrando commossa, e si sentì baciare sulle labbra, dolcemente.

 

Si guardarono per un attimo negli occhi e poi le prese il viso e la baciò, di nuovo. La sentì esitare prima di toccarlo e le sorrise sulle labbra, capendo che aveva paura di fargli male, e poi prese a baciarla con più passione, le mani che, quasi in automatico, scendevano ad accarezzarla sopra la camicia da notte e poi-

 

E poi si sentì trattenere per i polsi e riaprì gli occhi e la guardò, stupito.

 

“Maresciallo, è meglio che ti dai una calmata mo. Sei ancora convalescente e, a parte la febbre, non voglio che rischi di farti venire cicatrici per via dei bollenti spiriti.”

 

“Tanto con te il rischio c’è pure senza varicella, dottoressa,” ironizzò, ricordando la sua tendenza a mordicchiare.

 

“Cretino!” esclamò, ma la vide ridere e scuotere il capo, con affetto, “come devo fare con te? Mannaggia a te!”

 

Stava per risponderle quando sentì squillare un telefono. Era il suo.

 

Si voltò e guardò il display sul pavimento.

 

Mamma.

 

Merda!

 

Era sabato mattina e non poteva non risponderle o gli avrebbe come minimo mandato la protezione civile.

 

Allungò una mano a prendere il telefono, mostrò il display ad Imma che annuì, avendo capito il messaggio implicito e poi rispose al telefono.

 

“Ippà, finalmente! Ma che stai ancora a dormire?”

 

“No, mà, mi sono svegliato da poco.”

 

“Ma che voce che tieni? Che ti è successo?! Non stai bene? Sembri il nonno Modesto dopo tutto il tabacco che si era fumato, pace all’anima sua!”

 

“Ma niente mà, io-”

 

“Ma che niente e niente! Allora?”

 

“Mà… Noemi aveva la varicella?” chiese, sia per confermare l’ipotesi che per rispondere alla domanda.

 

“Oh madonna santa! La varicella ti prendesti? Sì, Noemi se la sta facendo, povera criatura! Ma la facesti pure tu da bambino, quindi non pensai di avvisarti.”

 

“Mà, se sto ridotto così non l’ho fatta da bambino, evidentemente.”

 

“Allora doveva essere Modesto. Già, tu la scarlattina ti prendesti.”

 

Calogiuri sospirò. Sua madre per lui aveva sempre la massima attenzione non c’era che dire.

 

“Ma tieni bisogno di qualcosa? Quanta febbre c’hai? Mangi? Che la varicella da adulti è na disgrazia!”

 

“Mà, sta tranquilla, la febbre è scesa e-”

 

“Ma non puoi uscire a fare la spesa e a prendere le medicine se stai accussì. Non puoi startene da solo. Piglio la corriera e ti raggiungo!”

 

Ecco, come non detto. Quando non si preoccupava troppo poco si preoccupava decisamente troppo.

 

L’idea di avere lì sua madre era ancora peggio della varicella e poi… e poi non voleva doversi separare da Imma, che di certo non poteva incontrare sua madre.


“Ma no, mà, stai lì tranquilla che Rosa avrà bisogno di te con Noemi e poi… e poi io me la cavo, veramente.”

 

“Ma come faccio a stare tranquilla che stai lì schitto schitto? No, io mo vengo.”

 

E alla fine Calogiuri lanciò uno sguardo verso Imma e le sussurrò, “posso?”

 

Ed Imma, che evidentemente per quanto urlava sua madre aveva capito cosa stava dicendo e cosa intendesse lui, annuì.

 

“Mà, non sono solo. C’è qua la… la mia fidanzata.”

 

Vide Imma sorridere divertita e mordersi un poco il labbro: evidentemente la definizione fidanzata faceva strano pure a lei.

 

“Ah, sta criatura del mistero sta lì con te? E allora passamela a mamma, che ci faccio due raccomandazioni.”

 

“Mà, non ha bisogno di raccomandazioni, lei-”

 

“Ma nemmeno parlarci posso? Che cos’ha, è muta? E poi che vuoi che ne sappia ‘na ragazzetta di come si cura la varicella! Almeno le dò qualche consiglio che ci sono già passata con i tuoi fratelli.”

 

“Mà, non so se è il caso, io-” rispose, guardando Imma, un poco impanicato.

 

Pure lei sembrava abbastanza in apprensione, per come corrugava la fronte e si mordeva il labbro ma poi annuì e gli sussurrò, “passamela.”

 

“Imma, non è necessario, veramente, io-” le sussurrò di rimando ma Imma alzò una mano, con il palmo aperto verso di lui, in un chiaro messaggio non verbale.

 

Ci pensò ancora un attimo, ma sapeva che sua madre non avrebbe dato più loro pace altrimenti, e sussurrandole un “mi dispiace!” le mise il cellulare in mano.

 

*********************************************************************************************************

 

Il telefono di Calogiuri le sembrò pesare un quintale ma si fece forza mentalmente e se lo  portò all’orecchio.

 

In fondo non poteva essere molto peggio della madre di Pietro, almeno fino a quando non l’avrebbe vista di persona e si sarebbe sicuramente scatenato l’inferno.

 

“Pronto?”

 

“Finalmente! E ci voleva tanto! Quel disgraziato di mio figlio! Ti chiami Imma, giusto?”

 

La madre di Calogiuri c’aveva un udito eccellente, quello glielo doveva riconoscere.

 

“Sì, signora, mi chiamo Imma.”

 

“Immagino che sta per Immacolata? Sento che pure tu hai l’accento del sud? Ma anche te stai male? Che c’hai una voce roca quasi peggio di quella di Ippà.”

 

Imma sospirò mentalmente… eh certo, di solito le ventenni non avevano il suo timbro.

 

“Sì, sta per Immacolata ed effettivamente sono anche io del sud. Ma no, non sto male… la mia voce questa è.”

 

“Ah…” sentì sospirare dall’altro lato della cornetta e non potè evitare di chiedersi se la voce di Maria Luisa fosse melodiosa al confronto, al di là dei contenuti molto opinabili, “vabbuò, ascolta, che medicine sta prendendo il mio Ippazio, che gli fai da mangiare? Me lo stai trattando bene, sì?”

 

Si trattenne dal replicare che il suo Ippazio di anni ne aveva ventinove, non nove, e che non era un cagnolino - nonostante gli sguardi da cucciolo abbandonato - e che lei non era automaticamente la sua cameriera solo per il fatto di essere la sua fidanzata. Ma, considerato che la varicella era una brutta bestia, cercò di non prenderla troppo sul personale con tutti i sottotesti maschilisti.

 

Se aveva tollerato i commenti di sua suocera per vent’anni poteva sopportare per cinque minuti quelli di questa, che tanto l’avrebbe sicuramente detestata a prescindere quando l’avrebbe vista di persona.

 

“Gli sto dando tutto quello che gli hanno prescritto, signora, la febbre è scesa. E sul mangiare gli preparo cose leggere: pasta in bianco, riso, oggi gli farò un brodo di pollo, penso.”

 

“Ah, ma sai fare il brodo in casa? E come lo fai?”

 

Ma che era? Una puntata di un programma di cucina?

 

“Guardate, è la ricetta di famiglia che facevano a me quando stavo male…”

 

“Ah, allora mamma tua le ricette di famiglia te le ha insegnate. Bene, bene, che mio figlio come minimo se no si mangia tutte quelle schifezze confezionate.”

 

“Veramente vostro figlio cucina e pure molto bene,” non potè trattenersi dal replicare, perché la sua tolleranza aveva un limite.


Aveva l’ennesima conferma del perché Calogiuri fosse cresciuto tanto insicuro e si fosse sopportato quella cretina di Maria Luisa per tutti quegli anni - Valentina le avrebbe detto che era la stessa ragione per la quale sopportava pure lei. Sua madre però era pure peggio di come se l’era immaginata.

 

“Meno male! Allora almeno qualcosa ha imparato da me,” replicò: ovviamente tutti i meriti del figlio erano suoi e i demeriti erano del figlio stesso. Un classico in quel tipo di donne.

 

“In ogni caso potete stare tranquilla: sta meglio e non sta da solo.”

 

“Va bene, mi ripassi mio figlio per favore? E se hai bisogno di consigli chiama pure, mi raccomando, fatti dare il numero da Ippà. O chiedi a mamma tua?”

 

“Mia madre è morta, signora,” rispose, perché che altro poteva dire?

 

“Oh, mi dispiace!” replicò dopo un attimo di silenzio, con un tono un poco a disagio, “ma da quanto tempo?”

 

“Un anno, più o meno.”

 

“Che disgrazia! E papà tuo, come sta?”

 

“Lui è morto quando ero bambina, invece,” chiarì e sentì il silenzio dall’altro capo della linea del telefono.

 

Almeno forse la signora avrebbe imparato a non farli gli interrogatori, che ci si poteva trovare con risposte che mettevano in imbarazzo per averle fatte le domande.

 

“Un’orfana! Che disgrazia! Ma allora mio figlio ti deve assolutamente portare a casa nostra per le prossime festività o gliene dico quattro!”

 

Si chiese come avrebbe reagito quando avrebbe capito che non era un’orfanella poco più che ventenne ma una che, molto probabilmente, aveva giusto pochi anni meno di lei.

 

“Signora, vi ringrazio ma non è necessario disturbarvi, veramente,” si affrettò a rassicurarla, perché improvvisamente le feste con Pietro le sembravano quasi un’alternativa migliore.

 

“Ma che disturbo! E ripassami mio figlio. A presto, cara!”

 

Essere chiamata cara da una suocera era una specie di shock per quanto non ci era abituata. Ma tanto non sarebbe durata a lungo.

 

“Buonasera,” si congedò, ripassando il telefono a Calogiuri, che la guardò sorpreso.

 

Chissà quanto aveva capito. Di sicuro non lo invidiava affatto.

 

*********************************************************************************************************

 

“Mà, pronto?” chiese, recuperando il telefono con un po’ di apprensione.

 

“Ippà, ma che hai lasciato quella povera ragazza senza famiglia a pasqua? A natale ce la devi portare, così impara un altro po’ di ricette, chiaro?”

 

Non sapeva se l’immagine mentale di sua madre che provava ad insegnare qualcosa ad Imma, soprattutto cose casalinghe, lo facesse più ridere o più incazzare da parte di lei.


“Mà, Imma sa già tutte le ricette che le servono ed il mangiare quando sto bene me lo so fare pure da solo. E comunque ti ho già detto che è presto, non è che ci dobbiamo sposare.”

 

“Senti, ma se hai trovato una brava quagliona che sa fare pure il brodo in casa e che ti cura quando stai male, che aspetti ancora? Di fare quarant’anni? Devi sbrigarti che il tempo passa. E più il tempo passa e più le brave ragazze tutte sistemate sono.”

 

E dire che, ironia della sorte, se davvero avesse avuto quarant’anni, la sua relazione con Imma sarebbe stata sicuramente molto più accettata dalla società.

 

“Mà, io mo devo andare che è meglio se non parlo troppo. Sta tranquilla che sto bene.”

 

“Va bene, ma non farti scappare questa Imma, non fare il cretino come con la povera Maria Luisa, chiaro?”

 

“Tranquilla, mà, non ho intenzione di farmela scappare,” la rassicurò, perché era la verità, lanciando uno sguardo ad Imma, che lo guardava meravigliata, “buon sabato.”

 

E chiuse la telefonata prima che potesse replicare ancora.

 

“Scusami per l’interrogatorio… ma sai, mia madre….”


“Tranquillo, Calogiuri: lo so che non è colpa tua, anzi. Anche se mo ho capito da chi hai imparato ad indagare. Mo ti riposi e ti vado a preparare la colazione. Che se no non glielo tratto bene il suo Ippazio.”

 

Gli scappò da ridere e scosse il capo, allungando le dita per darle una carezza sul viso. Ma gli venne il prurito pure alla mano.

 

“Che c’hai? Se vuoi il dottore mi ha dato una cosa che dovrebbe diminuire il fastidio.”

 

“Ma no, non serve, veramente. E… per la colazione… mi spiace di darti tutto questo disturbo.”

 

“Non dirlo neanche per scherzo, Calogiuri. Fossero questi i disturbi! Ti va un po’ di caffelatte e dei biscotti? E poi vorrà dire che quando starai bene cucinerai tu per una settimana di fila.”

 

“Va bene…” acconsentì, non riuscendo a trattenere una mezza risata, “e comunque… a mia madre sei piaciuta molto, mi ha raccomandato che non ti devo far scappare, quindi….”

 

“Perché non mi ha vista e non si è resa conto di quanti anni tengo. Aspetta che mi veda e poi vorrà farmi scappare lei, di corsa pure! Comunque ho provato l’ebbrezza per qualche minuto di piacere ad una suocera. Ma temo sia un segno dell’apocalisse.”

 

“Ma che apocalisse!” rise, scuotendo di nuovo il capo, poi fece per avvicinarsi a baciarla ma si fermò.

 

“Che c’è, Calogiuri?”

 

“Devo avere un alito tremendo. Mi aiuti ad andare in bagno che mi lavo i denti? Mi gira ancora un po’ la testa e-”

 

“Prima la colazione e dopo ti aiuto col bagno, maresciallo. Ma occhio che se caschi non ti tiro su,” gli intimò, col suo tono più professionale, “e poi sei sempre troppo premuroso: stai male e devi pensare solo a guarire.”

 

“Non ti devo fare scappare, no?”

 

“Solo una scema potrebbe scappare da te, Calogiuri! Altro che alito!” gli rispose con uno di quei sorrisi meravigliosi, che gli sembrava sempre un miracolo ogni volta che li vedeva rivolti solo a lui, così come queste dichiarazioni spontanee di amore, “vorrei abbracciarti ma come minimo peggioro solo la situazione con tutti gli sfoghi.”

 

“Recupereremo quando sarò guarito, vero, dottoressa?”

 

“Ah, ci puoi scommettere, già sei prenotato per allora, maresciallo…” gli sorrise, ma poi la vide farsi un po’ malinconica e sembrava quasi preoccupata.

 

“Che c’è?”

 

“Niente, Calogiuri… pensa a guarire e alla colazione, poi-”

 

“Imma…” rispose, fermo e deciso, “ti ricordi tutta la storia sulla fiducia?”

 

“Ma non voglio farti preoccupare, proprio mo che non stai ancora bene.”

 

“Se fai così mi preoccupo di più. Che è successo?”

 

Imma rimase in silenzio per un attimo, poi sospirò ed annuì.

 

“Credo che… credo che Mancini abbia capito… insomma di noi due perché… perché ho chiesto ferie proprio quando tu sei stato male. Anche se probabilmente aveva sospetti pure da prima, eh. Ma mi ha detto che quando rientro mi vuole parlare.”

 

Calogiuri sentì un moto di apprensione ed un istinto di protezione fortissimo insieme: Mancini come minimo si sentiva rifiutato e preso in giro. E non voleva rischiare che la facesse pagare ad Imma sul lavoro.

 

“Imma, ci vengo pure io a parlare con Mancini, ci andiamo insieme e-”

 

“Primo non so se sia il caso o se peggiorerebbe le cose, Calogiuri. E poi se tu stai meglio io lunedì devo tornare al lavoro, non posso mica aspettare che ti passi la varicella del tutto. Ma… ho paura che, a parte possibili conseguenze disciplinari, mi chieda di tornare a Matera. O chieda a te di trasferirti e-”

 

“E se pure dovesse essere, ce la faremo, dottoressa. E poi te l’ho già detto, mi posso trovare una procura qua vicino, lo sai.”

 

“Vedremo, Calogiuri e… lo so che ce la faremo ma… ma non vorrei più doverti vedere solo nel fine settimana. O magari pure meno, se ci trasferissero in due luoghi lontani. Mi mancheresti più di quanto t’immagini, mannaggia a te!”

 

“Pure con la varicella?”

 

“Sempre, lo sai. Io non ti mollo, maresciallo, a meno che non sia tu a volerlo.”

 

“Nemmeno io ti mollo, dottoressa. E a Mancini voglio che parliamo insieme: è giusto che gli facciamo capire che siamo uniti e che non abbiamo niente da nascondere o di cui vergognarci, perché sul lavoro siamo sempre stati professionali e non stiamo facendo niente di male,” ribadì, accarezzandole di nuovo una guancia e stringendole la mano più forte che poteva, “piuttosto fallo venire qui, ma non voglio che fai tutto da sola, che ti conosco e so che ti prenderesti tutta la colpa.”

 

“Senti chi parla, maresciallo! Quello che si è fatto trasferire a Roma senza dirmi niente. E non mi pare il caso di farlo venire qui mentre stai ancora male, Calogiuri, e poi non so se ci metterebbe piede e se… e se non lo farebbe sentire ancora più umiliato e maldisposto nei nostri confronti. Ma la responsabilità principale me la voglio prendere io, che sono il tuo superiore e sono ad un punto della mia carriera in cui ho maggiori sicurezze. Te l’ho già detto una volta, ti ricordi?”

 

“Sì, a Matera quando mi avevi mollato per il mio bene,” rispose, una fitta di dolore ancora al petto al solo ripensarci, “e toglitelo dalla testa, dottoressa, chiaro?”

 

“Tranquillo, Calogiuri, ho capito che il tuo bene lo devi decidere da solo. Ma lo stesso vale per me e non devi fare tu l’eroe in solitaria, hai capito? Io la mia carriera l’ho fatta e mo tocca a te prenderti le soddisfazioni che meriti e questa è una mia scelta, in caso.”

 

“Imma…” sussurrò, ancora quasi incredulo che lei fosse disposta a tanto per aiutarlo, ma la guardò negli occhi e le intimò, “Imma… in questa storia ci siamo entrati insieme in modo consapevole e le conseguenze ce le prenderemo insieme. Io non ti mollo in tutti i sensi.”

 

“Nemmeno io, Calogiù, nemmeno io,” rispose, con uno dei sorrisi più belli che gli aveva mai fatto e si sentì per qualche secondo stringere in un forte abbraccio, prima che lei si staccasse di corsa, chiedendogli, “scusami, ti ho fatto male?”

 

“Tu non mi hai mai fatto male, dottoressa,” le rispose e le vide gli occhi farsi lucidissimi e proclamare “dai, mo, ti preparo la colazione”, avviandosi verso il bancone della cucina, mentre si asciugava di sottecchi le guance.

 

Non sapeva come fosse possibile ma la amava ogni giorno di più.

 

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“Che fai?”

 

“Vado a fare un po’ di spesa, così domani la porto a mia madre, che… che quello con cui sta c’ha la varicella e lo sta aiutando.”

 

“Ma il tipo che sta con tua madre non ti stava antipatico perché era troppo giovane? E poi per una volta che sono a casa, potremmo stare un po’ insieme.”

 

Non sapeva cosa le desse più fastidio: se il fatto che fosse rimasto fermo alla situazione con il maresciallo di mesi prima, tanto poco si parlavano, o che, dopo essere rimasto tutto il tempo sul divano, mo le chiedesse di stare insieme. Lo sapeva che era stanco e che lavorava molto, ma le pareva a volte di fare una vita da pensionata.

 

“Tanto tra meno di un’ora vai al ristorante, no? E poi diventa troppo tardi per andare al supermercato. E domani quello qua vicino è chiuso che è domenica.”

 

Ma del resto che ne sapeva lui, che tanto la spesa toccava sempre a lei?

 

Samuel sbuffò un attimo ma poi annuì, “magari cerco di prepararti qualcosa, così gliela porti domani insieme alla spesa.”

 

“Se ti avanza abbastanza tempo,” rispose, prima di aprire la porta e richiuderla dietro di sé.

 

Sapeva di essere intrattabile ma non sopportava più la situazione. Si chiedeva dove fosse finito il Samuel innamoratissimo di lei dei primi tempi.

 

E, anche se faticava ad ammetterlo a se stessa, dove era finita la Valentina che si sentiva pazzamente innamorata di lui, a tal punto che lo avrebbe seguito in capo al mondo.

 

Ma il problema era che, col lavoro che faceva lui e con gli orari che faceva lei, in qualunque capo al mondo fossero andati non sarebbe mai stata con lui veramente. E l’amore di lui per la cucina era evidentemente assai più forte di quello per lei.

 

Forse da un lato avrebbe voluto anche lei avere una passione così grande, come quella che aveva lui. O come sua madre che poteva lavorare a ritmi terribili senza mai stancarsi.

 

Ma sua madre gli uomini se li era scelti con orari o passioni compatibili con i suoi, a differenza di quanto aveva stupidamente fatto lei.

 

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Un suono prolungato e fastidioso - e soprattutto troppo vicino - la fece svegliare di soprassalto.

 

Si guardò intorno, un po’ assonnata, e realizzò che era la porta.

 

“Ma che succede?” mormorò la voce di Calogiuri, leggermente meno roca del giorno prima e lo vide sfregarsi gli occhi.

 

“Non lo so, maresciallo, ma siamo a casa tua. Aspettavi visite?”

 

“No, veramente no. Ma che ore sono?”

 

“Le dieci. Aspetta che vedo chi è. Arrivo!” urlò, incurante di essere a casa di lui.

 

Tanto ormai era solo questione di tempo e non poteva farlo andare ad aprire la porta in quelle condizioni.

 

“Imma…” la chiamò e vide che indicava con lo sguardo verso una delle sedie dove aveva mollato i vestiti.

 

Effettivamente aveva solo la camicia da notte addosso.

 

Si infilò il golfino ed andò al citofono.

 

“Chi è?” domandò, temendo di sentire dall’altro capo qualcuno del lavoro.

 

La Ferrari sarebbe stata l’opzione meno peggio ed era proprio tutto dire.

 

“Mà, sono io. Mi fai entrare? Sto qua che sotto era già aperto.”

 

“Valentì?” chiese, sorpresa, aprendo la porta e trovandosi di fronte la figlia con delle sporte in mano.

 

Valentina la squadrò da capo a piedi e poi le chiese, tra l’ironico ed il preoccupato, “posso entrare o mi aspetta un altro trauma?”

 

“Calogiuri sta a letto ma per la varicella. Ma secondo te con lui che sta male pensiamo a certe cose mo?”

 

“Non si sa mai! La lezione con papà mi è bastata!”

 

“Dai, entra,” la incitò, facendola passare, “ma cosa c’è in quei sacchetti?”

 

“La spesa e…” rispose Valentina, bloccandosi a pochi passi dalla porta, lanciando uno sguardo a Calogiuri, che era bordeaux ma non certo per la febbre, e guardandosi in giro per la stanza, “appartamento… interessante… non c’è che dire.”


“Valentì, è un monolocale, che pretendi? E Calogiuri non sta bene da giorni, quindi è normale che sia un po’ incasinato. Se ci avvisavi prima-”

 

“Sì, col tuo ordine siamo freschi. E comunque vi ho fatto un po’ di spesa, cose che pure uno con la febbre dovrebbe riuscire a mangiare e che persino tu sei in grado di cucinare.”

 

“Ma come sei spiritosa, signorina!” ribatté, trattenendosi dal rinfacciarle i suoi primi tentativi in cucina, da intossicazione alimentare, che altro che cozze e Cinzia Sax. Alla fine era già un mezzo miracolo che si fosse disturbata in quel modo.

 

“C’è dentro pure un ciambellone che ha fatto Samuel per voi. Se non avete ancora fatto colazione…”

 

“No, dobbiamo ancora farla. Ringrazialo!” rispose, estraendo il contenitore per alimenti dalla busta.

 

“Ringrazialo pure da parte mia,” sentì Calogiuri dire dal letto, mentre si metteva seduto meglio.

 

Valentina si limitò ad annuire in un modo che fu l’ennesima conferma che qualcosa non andava, ma tanto era inutile chiederglielo e lo sapeva.

 

“Allora, Calogiuri, come stai? Mia madre ti sta trattando bene o non ce la fai più?”

 

“Tua madre mi tratta sempre benissimo. Sono io che le sto dando un sacco di fastidi.”

 

“Ma che fastidi! Dillo un’altra volta e mi arrabbio, Calogiuri,” esclamò, iniziando a ritirare la spesa.

 

“Ecco appunto!” ironizzò Valentina, aggiungendo, sempre più sarcastica, “se hai bisogno d’aiuto e non puoi parlare, sbatti le palpebre tre volte.”

 

Calogiuri rise, scuotendo il capo.

 

“Valentì, tu hai visto troppi film! Ma grazie della spesa: hai preso cose che mi servivano veramente molto.”

 

Valentina la guardò sorpresa e capì quanto non fosse abituata a suoi complimenti. Forse doveva farglieli più spesso.

 

Poi sentì un rumore e vide Calogiuri che provava ad alzarsi dal letto. Per fortuna, per via delle bolle e del rischio sfregamento con il lenzuolo, era più vestito del solito ma la preoccupazione principale non era quella.

 

“Che fai, che rischi di cadere? Aspetta!”

 

“No, Imma, veramente, sto meglio. Non credo di avere la febbre e la testa non gira più.”

 

“E se caschi come ti tiriamo su? Aspetta!” ripeté, mollando i sacchetti ed avvicinandosi. Valentina la imitò.

 

“Riesco a camminare, sul serio,” ribadì, tirandosi in piedi per la prima volta da solo, ed in effetti non sembrava più traballante, anche se aveva le braccia, che uscivano dalla t-shirt bianca, che pareva un pollo spennato.

 

“Certo che l’hai presa bella tosta. Sei peggio di certi miei compagni che avevano acne ovunque,” ironizzò Valentina, per poi aggiungere, probabilmente di fronte all’occhiata semi omicida di lei, “almeno le zone che sbucavano dai vestiti, ovviamente.”

 

“Non è quello, Valentì. Chi c’ha l’acne mica è colpa sua. E nemmeno la varicella. Sedetevi mo che preparo il caffelatte e ci mangiamo il ciambellone. Lo prendi anche tu, Valentì, sì?”

 

Valentina sospirò ed annuì, anche se non sembrava così entusiasta.

 

Rimasero in silenzio mentre finiva di scaldare il latte ed il caffè iniziava ad uscire dalla moka, ma non era spiacevole. Non c’era disagio e la cosa la sorprendeva e le faceva molto piacere allo stesso tempo.

 

“Ecco qua!” esclamò, porgendo loro le tazze e poi tagliò tre fette di ciambellone.

 

“Allora, come va, mà? Avete bisogno di altro? Mi sembra che si sia un po’ ripreso da come me lo descrivevi l’altro giorno.”

 

“Sì… ero proprio un po’ andato, ora sto molto meglio,” ammise Calogiuri con un certo imbarazzo e poi si toccò il collo, come era sua abitudine, e vide che lottò con l’impulso di grattarsi e rimise la mano sul tavolo.

 

Imma avrebbe potuto semplicemente rispondere “bene!”, ma ci ragionò su per un attimo e poi si voltò verso Calogiuri e gli lanciò uno sguardo d’intesa. Lui la guardò come per chiederle che volesse dire e lei sollevò le sopracciglia e fece segno tra loro due e poi col capo accennò verso la finestra.

 

Calogiuri mezzo spalancò la bocca ma poi annuì, avendo capito.

 

“Senti, Valentì… noi non c’abbiamo bisogno di altro e ti ringrazio per la premura, veramente, ma… c’è qualcosa che ti devo dire,” esordì, un po’ in apprensione, ma sapeva che era giusto avvisarla di cosa sarebbe probabilmente successo.

 

“Sei incinta?!”

 

Imma sputò il caffelatte - per poco non centrò Valentina - e sentì Calogiuri tossire e rantolare come se si fosse strozzato.

 

“Calogiù… Calogiù… respira!” lo incitò dandogli due colpi sulla spalla, prima che il suo “ahi!” gli facesse ricordare che era pieno di bozzi pure lì.

 

Rialzò lo sguardo su Valentina che li guardava tra il preoccupato, lo scioccato ed il divertito, “ma come ti salta in testa, Valentì?!”

 

“Visto che dubito seriamente che voi due passiate le serate a guardare la televisione e chiacchierare, poi tu mi dici che mi devi parlare con sto tono da funerale, che altro vuoi che mi venga in mente?!”

 

Imma si sentì avvampare e notò che Calogiuri ormai era tutto del colore della varicella, un fucsia uniforme praticamente.

 

“Guarda che esistono pure le precauzioni, signorina, cosa che spero vivamente tu sappia e pure meglio di me!”

 

“Sì, che lo so… e in ogni caso non c’è pericolo, guarda.”

 

Imma tornò serissima, guardò Valentina negli occhi ed allungò una mano fino a stringere la sua, nonostante la figlia protestasse un poco, “ascoltami, Valentì. A parte che non so… non so se, pure volendo… se sia una possibilità, che non c’ho più vent’anni. Ma, in caso io e Calogiuri volessimo… percorrere questa strada... ovviamente ne parlerei con te e non ti avviserei solo a cose fatte. Sei grande ormai ed è giusto che tu lo sappia.”

 

Valentina sembrò osservarla per un attimo, poi guardò verso Calogiuri e gli chiese, “e tu che ne pensi?”

 

“Io?”

 

“I figli si fanno in due, mi sembra.”

 

Imma guardò verso di lui, un po’ in apprensione. Per loro quello era un argomento minato, da sempre.

 

“Io concordo con tua madre: non avrei problemi a dirtelo prima, insomma. Però al momento stiamo bene così e… io con tua madre penso proprio che starò bene sempre, se lei non si stufa di avermi tra i piedi, a prescindere se avremo un figlio o meno.”

 

“Tu non stai bene, altro che varicella, c’hai un problema molto più serio!” ironizzò Valentina, ma Imma notò che aveva gli occhi leggermente più brillanti.

 

Imma, dal canto suo, aveva un groppo in gola dalla commozione, mannaggia a lui!

 

“Ma allora che cosa mi dovevi dire?” chiese poi sua figlia ed Imma fece un altro sospiro.

 

“Valentì… ho vari motivi per pensare che… che il procuratore capo abbia capito tutto di me e di Calogiuri. Gli dovremo parlare quando torniamo al lavoro ma… è probabile che questa storia possa diventare di dominio pubblico, almeno qui a Roma. E poi le voci corrono, si sa… può essere che arrivino pure a Matera, non lo posso escludere. Volevo avvertirti in modo che… insomma che tu fossi preparata.”

 

Valentina rimase per un attimo immobile ma poi sospirò ed annuì, “va beh, mà, tanto… tanto papà lo sa, Samuel lo sa, le poche amiche che ho a Roma lo sanno…. A Matera succederà un casino e non lo so come la prenderà nonna, ma ti tratta già di merda da sempre. E… e di amiche a Matera non ne ho più e poi sto quasi sempre a Roma quindi… non cambia molto, alla fine.”

 

“Valentì…” sussurrò, le lacrime che non riusciva più a trattenere, abbracciandosela forte.

 

“Mà… mà… mi soffochi, piano…” protestò ed Imma la lasciò un attimo andare, ma solo per piantarle un bacio sulla guancia. Ma poi vide la figlia farsi più seria e le chiese, “mà… c’è… c’è la possibilità che tu abbia problemi sul lavoro? O che vi trasferiscano?”

 

“Valentì… non lo so… dipende tutto dal procuratore capo e da come deciderà di procedere. Il rischio di… di un trasferimento c’è, almeno per uno di noi due, o che magari mi facciano tornare a Matera,” spiegò, per poi aggiungere con un mezzo sorriso, “ma perché? Non dirmi che ti mancherei!”

 

“Mancarmi non lo so… ma se trasferiscono lui e tu resti qui da sola chi ti regge più?”

 

“Valentì!” esclamò, ma la vide sorridere e la trascinò in un altro rapido abbraccio, lanciando uno sguardo d’intesa verso Calogiuri, che aveva di nuovo gli occhi lucidissimi.

 

E non solo per la varicella.

 

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Il suono del campanello lo fece quasi sobbalzare. Iniziava ad avere un poco di mal di testa, probabilmente avrebbe dovuto tornare a letto ma non voleva che Valentina pensasse che non la volesse tra i piedi, perché anzi la sua presenza ed il suo atteggiamento con Imma gli avevano dato un sollievo incredibile, tra tutte le preoccupazioni che lo accompagnavano da quando aveva scoperto che Mancini sapeva di loro.

 

“Ma aspetti qualcuno?” gli chiese, giocherellando con la tazza della colazione ormai vuota.

 

“No, in realtà non aspetto nessuno. Vado a vedere chi è.”

 

“Vuoi una mano? Che se caschi mia madre mi uccide.”

 

Calogiuri sorrise ma scosse il capo: Imma era andata a farsi una doccia, visto che aveva passato gli ultimi due giorni accanto a lui praticamente senza sosta. E poi sperava di potersela fare pure lui, anche se temeva un po’ la sensazione del getto d’acqua sulla pelle irritatissima.

 

Ma prima doveva scoprire chi era che suonava a casa sua alle undici di domenica mattina.

 

Gli venne in mente solo Irene: ricordava che c’era pure lei quando si era sentito male. Certo, in caso, temeva che Imma non avrebbe preso benissimo la sua presenza, anche se ultimamente sulla gelosia si era più trattenuta.

 

Con passi cauti e rassicurando con lo sguardo Valentina che andava tutto bene, arrivò al citofono e chiese chi fosse.

 

“Ippà, sono io! Aprimi che so’ carica come un mulo! Sto qua, il portoncino sotto stava aperto.”

 

Il cuore gli finì nello stomaco, mentre si ripromise di indagare su chi fosse il vicino che lasciava il portoncino aperto, alla faccia delle norme di sicurezza.

 

Mo non c’era tempo e si prospettava un disastro. Ormai non poteva fingere di non essere in casa, lo aveva sentito. E poi non sarebbe stato molto credibile, avendo la varicella.

 

Guardò verso Valentina, in panico, e le sussurrò, “mia madre.”

 

“Merda!” esclamò Valentina, prima di aggiungere, più piano, “certo che se ci fosse un nobel per la sfiga tu lo vinceresti subito. Che pensi di fare?”

 

“Ippà, ma che stai a fà? Aprimi, disgraziato, che sta roba pesa!”

 

“Non posso lasciarla fuori… scusami per… mi spiace che ci debba essere pure tu in questo casino.”

 

“Ah, ma tanto poi io me ne vado, sei tu che te la devi sopportare. Certo, mo capisco perché con mia madre ti senti a casa, visto quanto urla pure la tua.”


Calogiuri scosse il capo, in altre circostanze avrebbe riso a sentirsi ritorcere contro le parole di mesi prima. Valentina aveva una memoria di ferro, come la madre.

 

Alla fine si fece coraggio ed aprì, perché ormai non c’era alternativa e poi comunque a sua madre avrebbe dovuto dire di Imma prima che il tutto diventasse di pubblico dominio. Certo, aveva sperato di poterglielo dire in modo diverso ed in altre circostanze.

 

“Ippà, apri!!” urlò di nuovo e Calogiuri, prima che i vicini giustamente lo uccidessero, si decise, girò la chiave nella toppa ed abbassò la maniglia.

 

“E la buon’ora! Ma che stavi a fare, eh?! Che un colpo mi hai fatto prendere che magari ti eri sentito male!”

 

“Mà, sto bene, tranquilla… è che… con la varicella sono più lento,” si inventò di sana pianta.

 

“Perché di solito sei veloce tu! Allora, mi fai entrare o devo stà accà a mettere radici? Ma poi non ci doveva stare la fidanzata tua? Non dirmi che ti ha abbandonato conciato accussì!”

 

“No, mà, io-” provò a rispondere, ma sua madre per poco non lo spinse via, roba che dovette tenersi al muro per non cadere, ed entrò nella stanza con i suoi modi da bulldozer, per poi fermarsi di colpo quando vide Valentina in piedi vicino all’isola.

 

Mollò il borsone bruscamente, che doveva pesare una tonnellata dal rumore che fece - come minimo era pieno di conserve e altre cose di cui amava rimpinzarlo - ed esclamò, “ah, ma allora ci sei! Che già ti stavo dando della disgraziata pure a te!”

 

Valentina la guardò, basita, e poi gli lanciò uno sguardo interrogativo, della serie ma che vuole da me sta pazza?!

 

In alcune espressioni Valentina somigliava moltissimo ad Imma.

 

“Signora, io-”

 

“Ma che bella che sei, Imma!” esclamò, avvicinandosi a Valentina con una rapidità da far spavento ed afferrandole il viso, come se fosse una cosa normale, “sei proprio bellilla! Ippà, con tutto sto mistero mi stavi facendo preoccupare, che chissà com’era sta fidanzata tua, ma te la sei scelta proprio bene, bravo! Ma il ciambellone ti ha fatto? E c’ha l’aria di essere pure buono! Ricetta di mamma tua anche questa? Tra l’altro mi dispiace ancora tanto per lei e per tuo padre.”

 

Valentina aveva un’aria tra il terrorizzato ed il confuso e lo guardò implorante, per quanto le consentiva sua madre, che era ancora attaccata a morsa e mo se l’abbracciava pure.

 

“Signora, guardi, io-”

 

“Ma c’hai la voce diversa che al telefono! Che parevi uscita dalla cassa da morto! Ippà devi cambiarlo che deve essere scassato!”

 

“Mamma, veramente lei è-”

 

“Calogiù, ma ha suonato il campanello?”

 

Si voltarono tutti e tre, all’unisono, verso Imma che era appena emersa dalla doccia, in ciabatte, camicia da notte leopardata e turbante in testa.

 

“E chista chi è?” chiese sua madre, squadrandola da capo a piedi con un’espressione ed un tono che lo fecero incazzare.

 

“Signora, veramente potrei farle la stessa domanda.”


“Mamma!” esclamò Valentina, facendole segno come a dire di non parlare.

 

Imma lo guardò, confusa, e poi guardò meglio sua madre ed il colore le sparì dal viso, avendo capito.

 

“Ma mamma tua non era morta, Imma?” chiese sua madre, confusa, rivolgendosi verso Valentina.

 

“Mamma, se mi fai parlare, non hai capito,” provò ad intervenire, e finalmente si voltò verso di lui.

 

“Lei è Imma,” chiarì, avvicinandosi ad Imma, il cui sguardo stava passando dal confuso ad un’espressione ferita che riconosceva troppo bene.

 

“Ma come? Ma non era la fidanzata tua che si chiamava Imma?” chiese sua madre, con l’aria di chi ancora non aveva capito, o forse non voleva capire.

 

“E infatti Imma è la mia fidanzata,” confermò, deciso, mettendole un braccio intorno alle spalle e sentendola tremare leggermente, stringendola più forte che poteva al suo fianco per farle forza.

 

Sua madre fece un’espressione scioccata, poi scoppiò a ridere, “è uno scherzo, vero? Ippà, non fare lo scemo, ma che pensi che ci credo?!”

 

Sentì Imma tremare ancora di più, la guardò di sottecchi e vide che stava evidentemente facendo uno sforzo sovrumano per non piangere e per non esplodere.

 

“Mamma!” sibilò, incazzato come non si era mai sentito, “non è uno scherzo. Lei è Imma ed è la mia fidanzata. Valentina è sua figlia.”

 

Sua madre smise quella specie di risata isterica e divenne furiosa, “ma che sì scem’?! Ma non ci posso credere! Con tutte le belle quaglione che ci stanno a Roma, proprio con chista! Che potrebbe essere tua madre e terrà la mia età, terrà!”

 

“Veramente Imma ha un po di anni in meno di te, ma comunque-”

 

“Ma comunque tiene ‘na figlia che c’ha quasi l’età tua e-”

 

“E Valentina ha dieci anni meno di me e-”

 

“Appunto, vent’anni tiene sta criatura! Quindi chista signora,” esclamò, indicando Imma con un chiaro tono di disprezzo, “almeno quarant’anni c’avrà. Ma sì scem?! E a te Valentì, non dirmi che a te sta bene sta pazzia?”

 

Valentina lo guardò come a chiedergli perché a me? e la capiva pure. Provò ad intervenire con un, “mà, per favore, non coinvolgere Valentina che non-”

 

“Guardi, all’inizio ero contraria ovviamente e ho reagito male, ma-”

 

“Ah, ecco, almeno una che ragiona ci sta ancora! E-”

 

“Ma poi ho visto quanto suo figlio tiene a mia madre e viceversa e che… nonostante la differenza d’età stanno bene insieme. Quindi… se sono felici loro non sono affari miei,” la interruppe Valentina, decisa e con uno sguardo determinato che gli ricordava incredibilmente Imma.

 

“Ma qui tutti ammattiti state! Ma pure tu, Ippà, non ti riconosco più! E poi dove te la sei andata a prendere una… una che tiene quasi la mia età, eh?”

 

Guardò Imma, che aveva sempre quell’espressione che gli faceva un male tremendo, e lei chiuse gli occhi ed annuì.


“In procura,” ammise con un sospiro.

 

“Ah, beh, eh certo!” esclamò sua madre, aggiungendo, con tono e sguardo sprezzanti, “che una vestita così me lo immagino che mestiere fa.”

 

Imma sussultò leggermente nella sua stretta e vide due lacrime scenderle sulle guance, un’espressione tra l’umiliato ed il rabbioso.

 

“Mà, chiedile scusa, subito!” urlò, furibondo come non si era mai sentito, stringendo di più Imma a sé, “ed Imma in procura ci lavora e-”

 

“Ah, chista sarebbe un carabiniere? Conciata così?”

 

Calogiuri sentì i muscoli di Imma tendersi sotte le sue mani e, per un attimo, tremare più forte, ma poi si voltò verso di lui, gli lanciò uno sguardo deciso che era un scusami, ma lo devo fare!, e poi fece un paio di passi avanti, sciogliendo l’abbraccio in cui ancora la teneva stretta.

 

Chista tiene un nome. Immacolata Tataranni, Sostituto Procuratore,” proclamò, presentandosi con il tono e con l’atteggiamento che aveva quando entrava in tribunale, decisa, la voce che non dava il minimo segno di cedimento, nonostante avesse ancora il volto umido di lacrime.

 

Forse non si sarebbe mai abituato a quanto era incredibilmente bella, quando le usciva lo spirito da guerriera.

 

“Un magistrato!?” chiese sua madre, con l’aria scioccata, manco Imma le avesse appena detto di essere un’attrice di Hollywood, ma poi spalancò gli occhi, l’espressione nuovamente tra l’incredulo ed il furioso, “ma certo, Tataranni! La dottoressa Tataranni, la famosa dottoressa di Matera! Quella su cui ci facevi una capa tanta quando tornavi a casa. E la dottoressa ha fatto questo, e la dottoressa ha fatto quello, e quanto è intelligente la dottoressa, e quanto è brava la dottoressa!”

 

Si sentì avvampare, Imma che gli lanciò uno sguardo tra il preoccupato ed il compiaciuto, e pure le sue guance avevano assunto un colorito un po’ più rosato.

 

“Io non ci posso credere! Ma da quanto va avanti questa storia,eh?! Tu avresti mollato Maria Luisa praticamente all’altare per chistachista…” 

 

“No, mà, Maria Luisa l’ho mollata perché mi trattava come uno scemo e voleva costringermi ad abbandonare il lavoro che amo e ad essere infelice a vita. Con Imma è iniziata molto dopo e comunque-”

 

“E comunque bello schifo, complimenti!! Chistachista… si è approfittata del suo ruolo, di te, di un ragazzo semplice e ingenuo e ti ha... ti ha pigiato!!”

 

“Forse intende plagiato, signora,” rispose Imma, col tono più sarcastico che aveva, incrociando le braccia e mettendosi con un piede in avanti, l’aria di chi non avrebbe mollato di un millimetro.

 

“Ma come si permette, questa?! Ippà e tu permetti che mi tratti così?!

 

“Mà, sei tu che la stai trattando malissimo e non ti sei nemmeno scusata. Ed Imma non mi ha plagiato: sono adulto e sono più che capace di ragionare con la mia testa. Anzi, sono stato io a corteggiarla insistentemente!” precisò ed Imma si voltò a guardarlo, sorpresa, lanciandogli uno sguardo come a dire ma che fai?

 

“Ippà, per favore, ja! Lo sappiamo tutti in famiglia che sei un poco ciuccio su ste cose. Tanto avrà detto, tanto avrà fatto, e tu ci cascasti con tutte le scarpe!”

 

“Lo sapevo che tu e papà di me non avete una grande opinione, ma non fino a questo punto. E comunque pensala pure come ti pare, ma io amo Imma e non sono mai stato tanto sicuro di una cosa in vita mia. Quindi mi piacerebbe molto avere la tua approvazione, ma se non è possibile, me ne farò una ragione, come ho fatto per il concorso da maresciallo, per quando ho lasciato Maria Luisa e per tutto il resto,” proclamò, deciso, facendo anche lui un passo avanti e tornando ad abbracciare Imma, che lo guardò commossa.

 

“Eh, no, Ippà e mo basta, eh! Fin troppo libero t’abbiamo lassato e questi sono i risultati. Tu mo la smetti co sta pazziata, chiaro?!”

 

“Mamma, c’ho quasi trent’anni e non puoi dirmi cosa posso o non posso fare.” 

 

“Ah sì? Allora scegli: o noi o lei. O se ne va lei, o me ne vado io e non mi vedi più, anzi non ci vedi più fino a che non la pianti con sta follia,” gli intimò sua madre, in un modo che gli fece capire chiaramente che non era solo per spaventarlo, ma che lo pensava sul serio.

 

Non si era mai sentito così tradito e così incazzato, e dire che i rapporti con sua madre erano sempre stati turbolenti. Si aspettava che la prendesse male, ma che arrivasse ai ricatti no.

 

Questa è casa mia e non puoi dirmi chi va e chi resta e comunque-” provò a dire, ma si sentì prendere la mano e si voltò verso Imma, che lo guardava con gli occhi lucidi, scuotendo il capo.

 

“Calogiuri, senti, io mo me ne torno un attimo a casa, tanto tu stai meglio, no? Ti chiarisci con calma con tua madre e poi ne ripar-”

 

“No, non ci penso nemmeno! Questa è anche casa tua e nessuno ti può cacciare da qui, non esiste proprio. E comunque non c’è niente da chiarire,” la rassicurò, allungando una mano per accarezzarle la guancia ed asciugarle le lacrime residue. Poi sollevò lo sguardo verso la madre e concluse, “se la metti così, quella è la porta.”

 

“Cioè tu preferisci chista.. chista… alla tua famiglia??!”

 

“Capo primo, sei tu che mi stai costringendo a scegliere. Capo secondo, odio i ricatti e gli ultimatum. Capo terzo, sì, se devo scegliere, preferisco una donna che da quando la conosco ha cercato in ogni modo di rendermi felice, che ha sempre creduto in me e nelle mie capacità e che mi ha cambiato la vita in meglio ad una madre che dice di amarmi ma poi mi considera un cretino ed un incapace. Una madre che vuole costringermi a sposare una donna che non amo e fare una vita che non voglio solo perché è quella che fa più comodo a lei. Una madre che si presenta a casa mia insultando la donna che amo e che ha passato gli ultimi tre giorni ad assistermi giorno e notte e che non sa nemmeno chiedere scusa. Quindi te lo ripeto, se questo è il tuo atteggiamento, la strada la conosci.”

 

Sua madre rimase per qualche attimo con la bocca spalancata, ancora proiettata in avanti col corpo, ma completamente bloccata e poi lo guardò, rabbiosa.

 

“Non finisce qui!” sibilò, avviandosi verso la porta.

 

“Mamma,” la chiamò, quando aveva quasi la mano sulla maniglia e la vide voltarsi, con uno sguardo trionfante, “hai i soldi per il taxi e per il bus di ritorno?”

 

Lo sguardo di sua madre tornò incredulo e furente, “non mi servono i tuoi soldi. E comunque non finisce qua, dottoressa!” sottolineò, marcando il titolo di Imma come se fosse un insulto. Poi prese il borsone, uscì dalla porta e se la sbatté dietro le spalle.

 

“E pensavo di averla presa male io!” commentò Valentina, scuotendo il capo e sembrando preoccupata.

 

“Calogiù,” intervenne Imma e si voltò verso di lei, che lo guardava con un misto di gratitudine, orgoglio ed apprensione, “sei… sei sicuro di quello che hai appena fatto? Io non voglio che tu rinunci alla tua famiglia per me e non vorrei che… che tu te ne pentissi un giorno.”

 

“Sicurissimo,” ribadì, prendendole le mani tra le sue, “io non sto rinunciando a niente. Mia madre sta rinunciando a me. E se non accetta le mie scelte e ciò che mi rende felice… è meglio così. E poi non doveva permettersi di trattarti in quel modo! Mi dispiace e-”

 

Il mondo si fece improvvisamente a macchie nere, la testa che gli girava vorticosamente, finché non si sentì cadere ed un “Calogiù!” terrorizzato gli giunse alle orecchie.

 

E poi non sentì più niente.

 

*********************************************************************************************************

 

“Calogiù… Calogiù…”

 

Lo scosse leggermente e poi gli toccò la fronte, preoccupata, ma non sembrava bollente, solo un poco caldo.

 

“Ma era già svenuto prima?”

 

“Sì, in procura. Negli scorsi giorni ogni tanto era incosciente ma sembrava essersi ripreso. Forse si è sforzato troppo. Calogiù… Calogiù…”

 

“Im- Imma?” mormorò infine, aprendo gli occhi e guardandola, confuso.

 

“Sei svenuto, maresciallo,” gli spiegò tirando un sospiro di sollievo, “per fortuna stavi vicino al letto e siamo riusciti a farti cascare sul materasso.”

 

Calogiuri si guardò in giro, vide Valentina e poi annuì, “scusami, ti sto dando un sacco di disturbo e… e poi scusami per le cose orrende che ti ha detto mia madre. Anche tu, Valentina, mi dispiace che sei rimasta coinvolta e-”

 

“Calogiuri, non ti scusare, ma che scherzi? Hai fatto tutto quello che hai potuto per difendermi!” intervenne Imma, con un sorriso, “mò però ti riposi un poco, tranquillo.”

 

“Anche a me dispiace per te, Calogiuri. Pensavo di avere una madre insopportabile, ma la tua la batte decisamente,” ironizzò Valentina, anche se le sembrava sinceramente addolorata per entrambi.

 

“Riposati, dai. Dopo quando ti sei ripreso ne parliamo meglio. Mo dormi.”

 

“Agli ordini, dottoressa!” esclamò, sorridendole e si sentì stringere la mano per un attimo. Poi gliela lasciò, si voltò nel cuscino e dopo poco sembrò addormentarsi.

 

“Mà… io mo andrei. Se hai bisogno fammi sapere, che vedo che non è ancora messo bene.”

 

“Non penso ce ne sarà bisogno, ma grazie,” le rispose, stringendosela a sé ed abbracciandosela, “e mi dispiace per… per tutto il casino.”

 

“Tu che dici che ti dispiace di qualcosa? Mi devo preoccupare? Negli ultimi giorni tra quello e le ferie non sembri nemmeno tu.”

 

“Divertente, Valentì!”

 

“E comunque… devo ammettere che il tuo maresciallo c’ha gli attributi, ancora più di quanto pensassi. Che facesse di tutto per proteggerti se qualcuno parla male di te già l'avevo visto, ma non pensavo sarebbe stato così pure con sua madre.”

 

Imma sentì una fitta al cuore, sorrise ed annuì. Era vero, nemmeno lei pensava che Calogiuri potesse essere tanto deciso. Soprattutto abituata com’era all’atteggiamento passivo di Pietro nei confronti di sua madre - tranne quando aveva deciso di sposarla contro al suo parere. Se ne era sentite di cotte e di crude prima e dopo al matrimonio, con lui che abbozzava e basta.

 

Calogiuri era diverso anche in questo, nonostante il carattere in apparenza mite e la giovinezza. Ma sperava veramente che sua madre prima o dopo capisse e che non dovesse realmente dire addio alla sua famiglia, perché non era giusto e non voleva che rinunciasse a tutti loro per lei. Anche se sua madre forse era meglio perderla che trovarla, visto come si comportava. Ma alla sorella e alla nipote Calogiuri sembrava molto affezionato. Il fratello e il padre invece non li nominava praticamente mai, ma non sembrava comunque averci un cattivo rapporto.

 

“Calogiuri quando ci si mette ha un carattere più tosto del mio,” concordò e Valentina sorrise ed aveva uno sguardo quasi ammirato che le fece un piacere immenso.

 

*********************************************************************************************************

 

“Non ho più febbre.”

 

Guardò il termometro e vide che effettivamente aveva 36.8.

 

“Con gli antipiretici però, maresciallo. Devi continuare a prenderli e non fare sforzi per qualche giorno, che non voglio che mi svieni un’altra volta.”

 

“Agli ordini, dottoressa!” proclamò, per poi, prenderle una mano e posarci un bacio, prima di farle la domanda che si aspettava e che temeva di più allo stesso tempo, essendo ormai sera, “che pensi di fare domani?”

 

“Devo rientrare al lavoro, Calogiù, non posso più aspettare. Ma-”

 

“Ma allora non puoi chiamare Mancini e dirgli che gli vogliamo parlare insieme? Non voglio che lo affronti da sola.”

 

Imma sospirò e lo guardò negli occhi, “Calogiuri, ti fidi di me?”

 

“E certo che mi fido, ma-”

 

“Mancini ha detto che mi vuole parlare e non posso evitarlo. Sono una professionista e devo comportarmi come tale. Ed invitarlo qui con entrambi presenti sarebbe girare il dito nella piaga. Oggi mi hai difesa tu, ma domani è il mio turno di lottare per tutti e due, maresciallo. E già ti ho promesso che non mollo. Se poi Mancini vorrà un confronto anche con te, gli proporrò di venire qui a parlarti, va bene?” gli propose e, al suo tentativo di protestare, aggiunse, “Calogiuri, il casino con Mancini l’ho fatto principalmente io, non allontanandolo subito e… aspettando a dirgli di noi due. Mi prenderò le mie responsabilità con lui, ma metterò in chiaro che non intendo rinunciare a te e-”

 

“E io non voglio che sembri che ti mando avanti da sola e che non mi so prendere le mie di responsabilità, dottoressa.”

 

“Ed allora vorrà dire che gli dirò subito che gli vuoi parlare anche tu, va bene? Poi però resta a Mancini decidere, e lo sai. E dai, su! Fidati di me,” ripetè, stringendogli di più la mano e Calogiuri alla fine sospirò ed annuì.

 

“Ma se hai qualsiasi problema voglio che mi chiami. Piuttosto vengo lì con la mascherina, per evitare contagi,” proclamò, deciso, e ad Imma scappò un sorriso.

 

“Tranquillo, maresciallo, vedrai che non ci sarà bisogno che tu faccia l’eroe mascherato,” lo rassicurò, cedendo all’impulso di abbracciarlo, anche se cercò di essere il più leggera possibile, e gli sussurrò all’orecchio, “ti amo!”

 

Lui, per tutta risposta, sciolse lievemente l’abbraccio, le prese il viso tra le mani e le diede un bacio dolcissimo, prima di sussurrarle, “dire che ti amo è dire poco, dottoressa.”

 

“Lo so…” mormorò, commossa, benedicendo come non mai il giorno in cui le avevano assegnato l’appuntato Calogiuri.

 

Altro che vincere al superenalotto!

 

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La segretaria le fece cenno di pure passare, vedendola arrivare.

 

Si sentiva in apprensione peggio che prima di un’udienza. Questo momento era decisivo e non solo per lei, e lo sapeva.

 

“Dottoressa,” la salutò Mancini, con un cenno del capo. Il tono era freddo distaccato, a differenza del solito.

 

Nessun sorriso, anzi, l’espressione era dura, ma c’era anche una certa malinconia negli occhi.

 

“Allora? Mi pare che abbia parecchie cose da spiegarmi, dottoressa,” esordì, facendole segno di sedersi.

 

Imma fece come richiesto ma Mancini rimase in piedi.

 

Brutto segno: li conosceva benissimo questi trucchetti da interrogatorio.

 

“Allora?”

 

“Da dove vuole che parta, dottore?”

 

“Dall’inizio, magari. Da quanto va avanti questa storia? E perché non mi ha detto qualcosa prima che lo scoprissi praticamente da solo?”

 

Imma prese un respiro, preparandosi alla battaglia.

 

“Allora, da quando va avanti tra lei e il maresciallo? E perché non mi ha detto niente?”

 

Imma prese un altro respiro mentre cercava qualcosa che non fosse una bugia ma che non mettesse Calogiuri troppo nei guai.

 

“Dottore, dopo che… dopo che mi sono separata, io e Calogiuri ci siamo ritrovati ed abbiamo intrapreso una relazione. Ma ho preferito tenerla riservata, sia per capire se avrebbe funzionato o meno, sia per tutti gli ostacoli che sapevo avremmo avuto non appena la notizia fosse stata di dominio pubblico. E non volevo che Calogiuri avesse problemi lavorativi, perché non se lo merita, e ovviamente pure lui non voleva crearne a me. Calogiuri voleva venire qui insieme a me per parlarle, come penso avremmo fatto tra qualche mese se… se questa cosa non fosse uscita fuori in questo modo, ma non sta ancora bene e non può muoversi da casa. Però vuole anche lui spiegarle e-”

 

“E lo farà, dottoressa, non ne dubiti,” sibilò Mancini, tra il sarcastico e il duro ed Imma non l’aveva mai visto così incazzato.

 

“Dottore, essendo io il superiore di Calogiuri e… ed avendo deciso io di non rendere pubblica la nostra relazione me ne assumo tutta la responsabilità. Ma faccio sul serio con lui, anzi, facciamo sul serio o non avrei deciso di intraprendere una relazione con un mio sottoposto. E siamo sempre stati professionali: abbiamo sempre rispettato i ruoli e la mia relazione personale con lui non ha inciso in alcun modo sul nostro operato e sulle valutazioni che ho fatto nei suoi confronti e-”

 

“E questo mi risulta un po’ difficile crederlo, dottoressa. Soprattutto il rispetto dei ruoli, visto che mi pare complicato mantenerli i ruoli, quando dietro le mura domestiche avviene tutt’altro, non le pare?”

 

“Calogiuri ama il suo lavoro e lo fa senza risparmiarsi e pure molto bene. Ha fatto uno splendido lavoro e non soltanto con me, ma anche con la dottoressa Ferrari. E fino a qualche giorno fa mi pare che lo riconoscesse pure lei.”

 

“Dottoressa, che il maresciallo lavori senza risparmiarsi e che abbia fatto uno splendido lavoro non cambia il fatto che abbia intrapreso una relazione con lei ed abbia accettato di tenerla segreta, pure se lei ora se ne vuole prendere le responsabilità. E non posso non tenerne conto. Ma la persona che mi ha deluso di più è lei, dottoressa. Francamente mi sento preso in giro: ha avuto mille opportunità per dirmi di lei e del maresciallo, soprattutto quando… quando abbiamo fatto quel discorso a Milano, sa benissimo a cosa mi riferisco, e-”

 

“E le ho detto di essere impegnata, ma che era una situazione delicata. Ed è la verità, mi sembra, no?”

 

Una parte della verità, dottoressa. Come mi pare una parte della verità dire che lei ed il maresciallo abbiate intrapreso una relazione dopo la sua separazione. Ma vuole farmi credere davvero che il trasferimento del maresciallo a Roma da Matera, avvenuto in fretta e furia, e poi la sua separazione da suo marito dopo appena qualche mese siano coincidenze? Mi prende per stupido?! Ho fatto un po’ di ricerche in questi due giorni e… avevo sempre pensato che il trasferimento del maresciallo fosse stato spinto dal dottor Vitali per fargli seguire il maxiprocesso, visto che Vitali e lei progettavate di farlo svolgere a Roma. Ma ora ho capito che le motivazioni erano altre. O mi sbaglio?”

 

“Dottore…” sospirò, rendendosi conto che era stata fin troppo ottimista nello sperare che Mancini non avrebbe fatto due più due. Ma non aveva prove e non avrebbe mai ammesso pubblicamente di avere una relazione con Calogiuri mentre era ancora sposata, non tanto per lei ma per le regole dell’Arma, “senta… io non la ritengo uno stupido, anzi. Ma lei non prenda per stupida me. Che io le dica di sì o di no lei crederà a ciò che vuole, ma ciò che è successo eventualmente a Matera riguarda soltanto il dottor Vitali. Quello che posso dirle è che io ed il maresciallo non ci siamo visti da quando lui si è trasferito qui fino ad ottobre scorso. E ci siamo a malapena sentiti. Questo è facilmente verificabile. Poi abbiamo deciso di intraprendere una relazione ed io mi sono trasferita qui per stare vicino a lui e a mia figlia. Ho sbagliato a non parlargliene prima, ma avrebbe accettato il mio trasferimento se avesse saputo? E, al posto mio, avrebbe reso pubblica la relazione subito? Se io fossi stata libera e se a Milano… avessi ricambiato le sue attenzioni… sarebbe corso a dire di noi due a tutta la procura o avrebbe aspettato?”

 

E Mancini rimase per un attimo ammutolito, senza parlare, come colpito, ed Imma sapeva benissimo qual era la risposta a quella domanda. Ma poi parve riscuotersi e, amaro, proclamò, “va bene, diciamo pure che non poteva dirmelo subito. Ma da gennaio, quando si è trasferita qui, sono passati quasi cinque mesi ormai. E quando… quando abbiamo fatto quel discorso a Milano e lei ha capito ciò che provo per lei, poteva dirmi tutto, almeno per rispetto nei miei confronti, ed invece non si è fidata di me ed è questo che mi addolora di più, oltre alla presa in giro.”

 

“Dottore, ascolti, lo so che le risulterà difficile credermi, ma… io mi fido di lei e la stimo molto, cosa che mi capita raramente, per non dire quasi mai. Ma non c’erano solo la mia reputazione e la mia carriera in gioco, e lo sa perfettamente. E poi... forse avrei dovuto dirle di essere impegnata fin dall’inizio ma… ma quando lei mi ha detto quelle cose a Milano, come potevo dirle di chi ero, anzi di chi sono innamorata?” gli chiese, sentendo un leggero tremito ed un misto di ansia e di liberazione insieme ad ammettere pubblicamente cosa provava per Calogiuri, “non volevo girare il dito nella piaga ed affrontare l’argomento in quel modo, in quel momento. E lo stesso è stato nelle ultime settimane: per me era diventato ancora più difficile parlargliene, lo capisce? Calogiuri voleva che lo facessi ma… ma stupidamente non gli ho dato retta. Però ho cercato di tenerla a distanza e di essere più chiara che potevo, considerate le circostanze.”

 

“La ringrazio per la premura, dottoressa,” sibilò, sarcastico, “ma questo non mi consola, come mi resta difficile credere a questa sua santificazione del maresciallo, anche se la responsabilità primaria rimane sua, dottoressa, sia per il grado, sia per l’età. Io mi fidavo di lei ed avevo un’enorme stima per lei, al di là di tutto, ma… ma proprio per questo non mi sarei mai aspettato da lei una cosa del genere, mai. Soprattutto con… con un ragazzetto come il maresciallo! Una donna con il suo carattere, con tutti gli uomini che può avere, che possano tenerle testa, si è andata a scegliere uno che… che per carità, posso ammettere pure che sia un bel ragazzo, ma un ragazzo resta e con quel carattere poi….”

 

“Questo non glielo permetto, dottore!” ribatté, l’incazzatura che montava, superiore o meno, alzandosi in piedi, i pugni stretti ai fianchi, “nessuno mi ha mai tenuto testa come Calogiuri, nessuno. Ed il carattere ce l’ha eccome, oltre ad essere estremamente intelligente. Non bisogna confondere il rispetto e la riservatezza con la mancanza di carattere e, fosse stato solo perché è un bel ragazzo, non avrei mai iniziato una relazione con un uomo tanto più giovane. Perché Calogiuri è un uomo, anagraficamente e di testa, e se gli parlerà di persona se ne renderà conto pure lei!”

 

Mancini fece un passo indietro e rimase bloccato per qualche istante, a bocca aperta, ma poi lo sguardo si fece nuovamente deciso e duro, “lo vedremo. Per intanto non voglio che lavoriate più insieme, nemmeno quando il maresciallo tornerà dalla malattia. E a partire da questo momento non le saranno assegnati nuovi casi, dottoressa, in attesa di capire se ci saranno azioni disciplinari da prendere nei confronti suoi e del maresciallo, oltre che la vostra… collocazione lavorativa.”

 

“Dottore, io ed il maresciallo siamo sempre stati professionali e credo che il nostro lavoro abbia portato a risultati importanti, come lei stesso sottolineava solo pochi giorni fa. Ma se si tratta della carriera di Calogiuri, io sono disposta a ritornare a Matera, se lo riterrà necessario, visto che il mio è un trasferimento temporaneo. Ma un provvedimento disciplinare nei suoi confronti o un nuovo trasferimento sarebbero ingiusti e so che lo sa anche lei, dottore. Il maresciallo qui sta lavorando bene e non solo con me. E la responsabilità principale di tutto questo era e resta mia.”

 

Mancini fece un’espressione strana, indecifrabile, poi scosse il capo e le fece segno verso la porta, congedandola con un, “le farò sapere la mia decisione tra qualche giorno, dottoressa, dopo il maxiprocesso. Nel frattempo parlerò anche con il maresciallo e valuterò le responsabilità di entrambi. Può andare.”

 

Imma sapeva che protestare oltre sarebbe stato inutile: aveva sparato tutte le sue cartucce. Sperava solo che Mancini fosse ragionevole e non volesse rovinare la vita e la carriera ad entrambi, al di là del regolamento di servizio e dei risentimenti personali.

 

L’importante era che Calogiuri non perdesse tutto, dopo aver quasi perso la sua famiglia. E avrebbe fatto di tutto per non permettere che ciò accadesse.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo capitolo. Come vedete alla fine il confronto c’è stato ma non solo con Mancini. Nel prossimo capitolo potremo vedere le reazioni in procura, che non saranno molto piacevoli, e cominciare a capire cosa rischiano Imma e Calogiuri. Inoltre l’udienza incombe e con essa potrebbero accadere alcuni eventi inattesi. Poi ci saranno dei salti temporali e… vedremo che succederà e se Imma e Calogiuri li affronteranno insieme o separati.

Spero che il capitolo sia stato interessante, nonostante l’ambientazione prevalentemente casalinga e che la storia continui a mantenersi coinvolgente.

Vi ringrazio tantissimo per avermi letta fin qui, grazie a chi ha aggiunto la mia storia nei preferiti e nei seguiti e un ringraziamento particolare a chi ha trovato o troverà il tempo di lasciarmi una recensione. I vostri pareri mi danno una grandissima spinta ad andare avanti e a cercare di fare sempre meglio.

Il prossimo capitolo arriverà domenica 14 giugno.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 34
*** Sotto Processo ***


Nessun Alibi


Capitolo 34 - Sotto Processo


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

Ho parlato con Mancini. Potrebbe venire lì, tieniti pronto.

 

Vide che lo aveva letto istantaneamente, probabilmente era stato lì ad aspettare sue notizie in apprensione da quando era uscita quella mattina.

 

Tranquilla, com’è andata?

 

Ne parliamo stasera.

 

“Com’è andata?”

 

Imma fece un mezzo salto per la sorpresa, alzò lo sguardo dal cellulare e sbuffò: l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare in quel momento.

 

“E com’è andata… lo puoi prevedere, no? Tu che sai sempre tutto,” proclamò, sarcastica, procedendo verso il suo ufficio, ma sentì altri tacchi risuonare dietro i suoi.

 

Aprì la porta e si trattenne dalla tentazione di richiudergliela in faccia: non poteva permettersi altri problemi disciplinari in quel momento, anche se la sua presenza non era propriamente gradita, né amica.

 

“Allora? Ha preso qualche provvedimento nei confronti tuoi e di Calogiuri?” insistette l’altra, dopo aver chiuso la porta dietro di sé.

 

“Al momento non mi assegnerà altri casi e Calogiuri ed io non lavoreremo più insieme. Deciderà dopo il processo e credo andrà a parlare anche con Calogiuri nel frattempo. Sai benissimo cosa può succedere e conosci sicuramente meglio tu Mancini di me, quindi….”

 

La Ferrari si appoggiò ad uno dei tavoli pieni di faldoni e sospirò, “non avresti dovuto aspettare così tanto tempo a dirglielo… anche se apprezzo che tu l’abbia fatto, pur se… diciamo... costretta dagli eventi. Comunque spero che ora non ci vada di mezzo Calogiuri, soprattutto con l’Arma, che sulla morale possono essere rognosi se si impuntano. Uno dei tanti motivi per cui sono stata felice di non aver fatto il carabiniere.”

 

Si trattenne per un soffio dal farle notare che era ironico, visto che lei in apparenza viveva una vita monacale, anche perchè non voleva certo spronarla ad uscire dal monastero, invece rispose con un, “non dubitavo che ti importasse soltanto della sorte di Calogiuri. Ma sono la prima a preoccuparmene e farò di tutto perché non abbia problemi.”

 

“Me lo auguro…” rispose la Ferrari, guardandola in un modo strano e scuotendo il capo, “anche perché è evidente che non lo avrebbe mai tenuto nascosto di voi due, se fosse dipeso solo da lui. Gli si legge tutto in faccia a Calogiuri, varicella o no. A proposito, immagino che se sei qui, vuol dire che sta un po’ meglio?”

 

Aveva una faccia tosta da primato la Ferrari, non c’era che dire: quando levava il velo della diplomazia, andava dritta come un caterpillar. Non sapeva se ammirarla, quasi, pur nell’odio istintivo che le causava da sempre, perché ci sapeva proprio fare con gli interrogatori. Era curiosa di vedere come se la sarebbe cavata all’udienza, non che non l’avrebbe strozzata con le mani sue se non fosse andata bene, con tutte le prove che le aveva procurato.

 

“Calogiuri sta meglio, sì, visita di Mancini permettendo. Ma ha un carattere più tosto di quello che pensi, nonostante non riesca molto a dissimulare.”

 

“Lo so. L’importante è che non sia troppo tosto, trovandosi di fronte Mancini. Era molto geloso di lui ed immagino tu te ne sia resa conto.”

 

Imma provò un altro moto di fastidio nel sentire la Ferrari parlare di Calogiuri con quella confidenza, come se lo conoscesse come le sue tasche.

 

Ma ciò non cambiava la realtà. E la realtà era che la cara Irene evidentemente Calogiuri lo conosceva, eccome.

 

Pure più di quanto già temesse.

 

*********************************************************************************************************

 

Il suono del campanello lo sorprese mentre finiva di chiudere il divano letto.

 

Un’ultima spinta e finalmente ci riuscì, afferrò la felpa della tuta da mettere sopra alla maglietta, per cercare di coprire almeno un poco i segni della varicella, andò al citofono e chiese, “chi è?”

 

“Mancini.”

 

Il procuratore capo era secco, asciutto, dire che non fosse felice sarebbe stato un eufemismo.

 

Gli aprì e diede un’ultima occhiata in giro per assicurarsi che fosse tutto a posto, poi spalancò anche la porta d’ingresso e lo vide poco dopo uscire dall’ascensore.

 

Mancini lanciò un’occhiata che definire dura sarebbe stato, di nuovo, dire poco. Sembrava volerlo incenerire e Calogiuri temette che non ci fossero solo le motivazioni professionali di mezzo.

 

Lo fece entrare e poi chiuse la porta dietro di sé. Mancini si guardò intorno tra l’incredulo ed il critico e Calogiuri ringraziò il cielo di essere riuscito a sistemare almeno il più grosso e di non essersi fatto trovare a letto in pigiama.

 

“Se volete accomodarvi…” offrì, indicando verso l’isola o verso il divano.

 

Mancini diede un’altra occhiata dubbiosa e poi si piazzò su uno degli sgabelli e gli fece segno verso il divano.

 

Era paradossale venire comandato a casa sua, ma del resto Mancini era lì in veste ufficiale e questo incontro avrebbe dovuto svolgersi in procura, se lui fosse stato bene.

 

L’informalità dell’ambiente ed il giocare in casa in realtà gli davano uno svantaggio perché si sentiva ancora di più sotto processo, anche a livello personale.

 

E certo, Mancini era ricco: si vedeva dalla macchina che aveva, dai vestiti che indossava, dall’albergo che aveva prenotato per lui ed Imma a Milano, dalla zona in cui viveva e dalle dimensioni del suo appartamento, per quel poco che gliel’aveva descritto Imma.

 

Invece lui aveva giusto un minuscolo monolocale in affitto, già ammobiliato e pure in modo spartano. Doveva proprio sembrare un poveraccio ai suoi occhi.

 

“Allora, maresciallo? Che cos’ha da dirmi? La dottoressa mi ha detto che pure lei mi voleva parlare, quindi….”

 

Deglutì, la palla che passava a lui e cercò di riordinare le idee che in quel momento parevano tutte ingarbugliate, “dottore… io… volevo dirle innanzitutto che sono stato io a corteggiare per primo la dottoressa Tataranni e a volere fortemente questa relazione. La dottoressa non mi ha mai fatto pressioni o abusato del suo ruolo in alcun modo, anzi. Ed è sempre stata corretta nei miei confronti e professionale quando eravamo in servizio. Questo ci tengo a sottolinearlo.”

 

“Lo immagino…” sospirò Mancini sarcastico, con un sopracciglio alzato, scuotendo il capo.

 

“Ma è la verità, dottore. La dottoressa è sempre la prima ad arrivare in procura e l’ultima ad andarsene e lavora senza sosta. E non solo con me. Lei lo sa quanto è brava a fare il suo lavoro e quante cose ha scoperto da quando si è trasferita in questa procura. Il fatto che… che noi in privato abbiamo una relazione non incide sul suo operato quando è in servizio e-”

 

“Senta, maresciallo. Io posso pure credere che la dottoressa non l’abbia obbligata a nulla, sia perché nonostante tutto non ce la vedo la dottoressa a fare una cosa del genere, sia perché ho notato quanto… quanto lei sia attaccato alla dottoressa, in tutti i sensi,” pronunciò, sardonico, e Calogiuri rimase un attimo confuso, chiedendosi se avesse combinato qualcosa nel delirio della febbre, “sia perché credo che se Vitali ha assentito al suo trasferimento qui a Roma… insomma… io Vitali scemo non lo faccio, ma non mi prenda per stupido nemmeno lei, maresciallo. Sono sicuro che lei e la dottoressa siate… complici, per così dire, e da prima di venire qua a Roma. Ma il problema è che i comportamenti privati di un ufficiale pubblico, se minano la sua credibilità e la sua percepita moralità, possono ripercuotersi anche sul suo lavoro. Che credibilità possono avere un pubblico ministero ed un maresciallo che parlano di legalità e rispetto delle regole quando sono i primi a violarle quando conviene a loro?”

 

“E allora potrei dire lo stesso di lei, dottore.”

 

“Come, prego?!” sibilò, con sguardo furente, ma Calogiuri non si spaventò anzi, gli montò ancora di più tutta la rabbia e l’irritazione trattenute in quei mesi.

 

“Perché lei a Milano non ha cercato di violarli i regolamenti, dottore? E almeno la dottoressa, quando iniziammo la nostra… relazione, ha atteso che io le dicessi chiaramente ciò che provavo per lei prima di tentare… un qualsiasi approccio con me. Lei invece ha interpretato un silenzio di una sua sottoposta come assenso e l’ha messa in una posizione di grande imbarazzo. La dottoressa l’ha sempre difesa con me ma io tutto questo suo essere un gentiluomo francamente non lo vedo. Un gentiluomo si sarebbe comportato diversamente!”

 

“Ma chi si crede di essere?! Come si permette?! Non solo si comporta come… come un ragazzino, ma sta mancando di rispetto ad un suo superiore!” tuonò Mancini, tirandosi in piedi, con l’aria di chi gli avrebbe dato un pugno in faccia, se non fosse stato troppo furbo per farlo.

 

Ma Calogiuri non si fece intimidire e si alzò a sua volta per fronteggiarlo. Un pugno glielo avrebbe tirato volentieri pure lui, varicella o non varicella, non fosse stato da cretini. Ma almeno affrontarlo faccia a faccia e non sembrare debole era il minimo.

 

“Chi si sta comportando come un ragazzino rancoroso è lei, dottore! Perché, al di là del lato lavorativo, nei suoi comportamenti è evidente un grande risentimento personale!”

 

“Forse chi è risentito è lei, maresciallo, delle vicende personali mie con la dottoressa. Ma è squallido sfruttare quanto è successo a Milano per giustificare il suo e il vostro comportamento!”


“Squallido?! Squallido è portarsi una sottoposta in viaggio di lavoro e poi provarci con lei. E comunque non mi può dire che non c’è niente di personale, visto che evidentemente per lei, dottore, una storia tra lei e la dottoressa non avrebbe minato la sua di credibilità e moralità. E per non parlare poi del suo atteggiamento con me e la dottoressa Ferrari. Scommetto che se avessi annunciato di essere impegnato con lei, invece che con la dottoressa Tataranni, la sua reazione sarebbe stata ben diversa!”

 

“Che c’entra ora Irene?!”

 

“C’entra perché è da quando sono a Roma che usciamo insieme e siamo amici e girano voci su di noi in procura. Voi vi conoscete molto bene, ho saputo, e lei, dottore, non mi ha mai detto niente in proposito e dubito abbia detto qualcosa alla dottoressa Ferrari o avrebbe agito diversamente nei miei confronti. Mi vuole dire sinceramente che si sarebbe comportato allo stesso modo se la relazione fosse stata tra me e la dottoressa Ferrari, invece che tra me e la dottoressa Tataranni?”

 

Mancini esitò per un attimo e Calogiuri ebbe la sua risposta e finalmente una piccola vittoria in questo confronto.

 

“Maresciallo, sono due situazioni diverse.”

 

“E perché? Perché c’è una differenza d’età minore?”

 

“Non solo. Irene non è separata da poco e non ha una figlia che fa già l’università!”

 

“Ma questo non c’entra nulla col lavoro! La dottoressa Ferrari è un mio superiore tanto quanto lo è la dottoressa Tataranni! Anzi, dal momento che è lei che si sta occupando ufficialmente del maxiprocesso e che sto lavorando più con lei da quando sono qui a Roma, francamente la situazione con la dottoressa Ferrari dovrebbe essere più delicata ancora.”


“Ma cosa ne sa lei! Cosa ne sa di cosa significa essere a capo di una procura?! Non può permettersi di giudicare il mio operato e comunque non capisce quali saranno i risvolti e le conseguenze della sua… diciamo della sua relazione personale con la dottoressa Tataranni. Né quali saranno le reazioni delle persone. Con la dottoressa Ferrari lo scandalo sarebbe stato di gran lunga minore! E comunque mi sono sentito preso in giro dalla dottoressa Tataranni, che poteva anzi doveva parlarmi prima di molte cose. E scommetto che pure Irene si sarà sentita presa in giro da lei, Calogiuri, dopo quanto si è fidata di lei e non se lo meritava questo.”

 

“Io non ho mai preso in giro la dottoressa Ferrari. Tra noi c’è stato sempre un rapporto di amicizia da entrambe le parti ed è sempre stato chiaro a tutti e due,” esclamò, non volendo metterla nei guai rivelando a Mancini che Irene già sapeva di loro due e non gli aveva detto niente, “è lei, dottore, che ha voluto vedere altro perché le avrebbe fatto più comodo. E fare una colpa a me e alla dottoressa Tataranni di una cosa che lei per primo avrebbe desiderato, nonostante il suo ruolo, mi pare ipocrita. Al di là dei giudizi della gente che non dovrebbero interferire con l’operato di una procura.”

 

Mancini, per tutta risposta, si mise a ridere.

 

“Non so se sia più arrogante o più ingenuo, maresciallo. Ma proverà sulla sua pelle che significa essere un pubblico ufficiale e come la reputazione incida eccome, purtroppo. Io farò quello che è meglio per la procura, cosa che di sicuro so meglio di lei, visto che, a differenza sua, faccio questo mestiere da quando lei era ancora sporco di latte. E, come ho detto alla dottoressa, prenderò una decisione su voi due passata l’udienza del maxiprocesso. Anche se, dopo quello che lei si è permesso di dirmi oggi, una punizione non gliela leva nessuno, Calogiuri, al di là della sua storia con la dottoressa.”

 

“Ah, sì? E quando mi farà rapporto per le mie affermazioni di oggi spiegherà anche cosa è successo tra lei e la dottoressa? O, siccome non le conviene, la sua grande etica lavorativa di questi piccoli dettagli si scorderà proprio? Se lei per motivi personali è disposto a rovinare la vita e la carriera a me e alla dottoressa, preferisco trasferirmi io e lasciare a lei il posto a seguire il maxiprocesso. Perché, con tutta la stima professionale verso la dottoressa Ferrari che è bravissima, senza la dottoressa Tataranni non esisterebbe un maxiprocesso e lei questo lo sa benissimo, dottore.”

 

“Queste valutazioni le devo fare io, maresciallo, e non devo spiegare proprio niente a nessuno, visto che tra me e la dottoressa di fatto non è successo niente. E comunque non so se sia la febbre che la fa straparlare, ma ha una spocchia ed una faccia tosta incredibili. Non capisco proprio cosa la dottoressa ci trovi in lei, tra i ragionamenti da quindicenne, il non sapere come si sta al mondo e la strafottenza, una volta che le cade quella maschera da angioletto che tiene sempre.”

 

“Io non uso nessuna maschera, ma non permetto a nessuno di mancare di rispetto alla dottoressa Tataranni ed alla sua e alla mia intelligenza, nemmeno ad un superiore. E l’importante è che lo veda la dottoressa cosa c’è di buono in me. E se sapere stare al mondo significa farsi condizionare dal giudizio degli altri, invece che seguire ciò che è giusto fare, preferisco continuare non sapere stare al mondo il più a lungo possibile.”

 

Mancini rimase per un attimo in silenzio, poi scosse il capo, sospirò e lo vide fare un paio di passi indietro - a furia di discutere erano arrivati ormai a pochi centimetri l’uno dall’altro - ed avviarsi verso la porta.

 

“Le raccomando di non ripresentarsi in procura finché non sarà più contagioso. Che ci manca solo l’epidemia a completare il quadro di tutto ciò che lei ha combinato, Calogiuri. E rifletta bene su quanto le ho detto.”

 

“Rifletta anche lei su cosa le ho detto, dottore. Le ripeto, io sono anche disposto a farmi da parte a livello lavorativo. Ma so di non aver fatto niente di male e che nemmeno la dottoressa ha fatto niente di male.”

 

Mancini scosse ancora il capo e, dopo un ultimo sguardo strano, chiuse la porta dietro di sé con fin troppa forza.

 

Si lasciò cadere sul divano, esausto.

 

Forse aveva esagerato, ma almeno aveva detto tutto ciò che doveva e non avrebbe avuto rimpianti. Anche se forse la decisione di Mancini era già presa e il loro destino già segnato.

 

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“Calogiuri! Come stai?”

 

Sollevò lo sguardo dal letto in cui era disteso. Aveva gli occhi stanchi e sembrava ancora uscito dai fumetti de La Pimpa che leggeva quando era bambina: sua madre le portava a casa i vecchi giornaletti che le lasciavano i signori per cui lavorava, quando ai loro figli non servivano più.

 

“Meglio, dottoressa, non ti preoccupare! E tu come stai? Com’è andata con Mancini, allora?”

 

Imma sospirò, si levò lo spolverino rosa e poi si sedette sul copriletto, vicino a lui.

 

“Ho cercato di convincerlo a non prendere provvedimenti disciplinari, Calogiuri, ma non so se servirà. Mi ha detto che deciderà dopo l’udienza finale del maxiprocesso, quindi tra pochi giorni. E tu? Com’è andata? Poi è venuto a parlarti?”

 

“Sì, qualche ora fa.”

 

“Non è andata bene, immagino?”

 

“Diciamo che… quello che potevo dirgli gliel’ho detto, dottoressa. Non sono stato accondiscendente e non mi sono scusato. Lo so che tu forse lo avresti preferito ma… non abbiamo fatto niente di male e trovo assurdo che si attacchi al regolamento, quando lo sa benissimo pure lui quanto vali e come lavori,” proclamò, deciso, prendendole le mani nelle sue.

 

E, se da un lato temeva tantissimo che Mancini ci sarebbe andato giù ancora più pesante con Calogiuri, visto che immaginava che non si fossero esattamente scambiati galanterie, d’altro canto era incredibilmente orgogliosa di lui per com’era diventato e per come non si tirava mai indietro di fronte a ciò che percepiva come un’ingiustizia.

 

“Comunque ha detto anche a me che deciderà dopo l’udienza. E penso che quasi sicuramente avrò un provvedimento disciplinare. Ma non ho rimpianti, dottoressa, anche se forse tu mi vorrai strozzare.”

 

“Sai qual è la fregatura, Calogiù?” gli chiese, mettendogli delicatamente le braccia intorno al collo, cercando di non fargli male, “che la voglia di strozzarti è sempre minore di quella di abbracciarti, mannaggia a te! E con tutta la gente che ho mandato a quel paese io, superiori compresi, non posso darti lezioni sulla diplomazia. Ma io l’ho sempre pagata cara, Calogiuri, e speravo che… speravo che non dovessi pagarla pure tu, non così giovane almeno. Ma lotterò con le unghie e con i denti perché ciò non accada!”

 

“Dottoressa…” le sussurrò, gli occhi che si fecero nuovamente più acquosi, prima di darle un rapido bacio e sussurrarle, con un sorriso che era tutto un programma, “e comunque viste le unghie e i denti che c’hai… non possiamo proprio perdere.”

 

“Calogiù!” esclamò, in un finto rimprovero, prima di trascinarlo in un altro rapido bacio.

 

Non sapeva come fosse possibile, ma lo amava ogni giorno di più.

 

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Era cominciato con qualche sguardo furtivo, appena entrata in procura. Un paio di cancelliere la guardavano strana - più del solito almeno - e poi aveva visto quel cretino di Carminati insieme a Rosati fermarsi e ridacchiare quando li aveva incrociati sulle scale.

 

Anche al piano superiore si beccò quelle occhiate tra il malizioso ed il divertito.

 

Li ignorò, tirando dritta, anche se aveva un macigno nello stomaco: la voce si era già sparsa, evidentemente.

 

Si chiese se fosse stato Mancini o la Ferrari o qualcun altro, che magari aveva notato i movimenti del giorno prima del procuratore capo, o le sue ferie in coincidenza con la malattia di Calogiuri

 

In ogni caso non avrebbe mai potuto provarlo con certezza e poi era solo questione di tempo. Certo, sperava che le voci non corressero così tanto in fretta, ma ci era abituata dagli anni di Matera.

 

Almeno per le procure, tutto il mondo è paese, pure in una grande città come Roma.

 

Aprì la porta dell’ufficio, ansiosa di sottrarsi agli occhi della gente e di poter calare la maschera. Fece giusto in tempo a richiuderla, quando notò qualcosa sulla sua scrivania che non doveva stare lì, un coso nero e rosa.

 

Si avvicinò e la borsa le cadde dalle mani: era un bambolotto biondo e con gli occhi azzurri - moro probabilmente non lo avevano trovato, ma perché i bambolotti erano quasi tutti biondi, poi? - vestito con un body dei carabinieri di quelli per neonati e, soprattutto, pieno di macchie rosse in viso e sul corpo - probabilmente fatte a pennarello. Al body c’era spillato un bigliettino con su scritto:

 

Baciami che ho la bua <3

 

Sentì male alle mani ancora prima di rendersi conto che stava stringendo i pugni talmente forte che le unghie le si erano conficcate nei palmi. Non sapeva se fosse maggiore l’incazzatura o la voglia di piangere, ma si asciugò una lacrima che era sfuggita e poi, presa da un impulso, afferrò il bambolotto, uscì dall’ufficio e scese dalle scale con il passo più marziale che aveva.

 

Non dubitava che tutta la procura stesse sparlando di lei e Calogiuri ma c’era solo una persona abbastanza demente da farle uno scherzo del genere.

 

“Buongiorno!” esordì, entrando in PG sbattendo di proposito i tacchi per terra e, raggiunta la scrivania di Carminati, che la guardava tra il sorpreso ed il divertito, gli piazzò il bambolotto di fronte allo schermo del computer.

 

“Carminati, credo che questo le appartenga. E la ringrazio molto per il pensiero, ma non potrei mai privarla dell’unica compagnia che evidentemente le resta nelle sue notti tristi e solitarie,” esclamò, aspettando un secondo e vedendolo diventare rosso, furente, ma senza riuscire a ribattere. Poi si girò, guardò gli altri ragazzi della PG presenti, tra cui Mariani e Conti che la osservavano preoccupati e si congedò con un, “buon lavoro! E non rubate il giocattolo a Carminati, mi raccomando, che poi se fate rissa e si fa male a lui la bua non gliela bacia nessuno.”

 

E, di nuovo con il passo più deciso che aveva si riavviò su per le scale, sentendo il rumore di qualcosa che finiva a terra - presumibilmente il povero bambolotto - e Carminati che urlava, “ma come si permette sta stronza?!”

 

Ma, nella giungla che era la procura, tra tutti quegli pseudo maschi alfa, meglio stronza che debole, lo sapeva benissimo.

 

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Un suono fastidioso lo risvegliò dal sonno in cui era caduto senza nemmeno accorgersene.

 

Ormai non aveva quasi più febbre ma era più sonnolento del solito.

 

In apprensione che potesse essere Imma e che avesse avuto qualche problema, afferrò il telefono e vide il nome Rosa.

 

Il cuore nello stomaco, chiedendosi se volesse anche lei dargli dello scemo, anzi dello scem’, dopo quello che era successo con sua madre, accettò la chiamata perché era pur sempre un contatto con la sua famiglia, per quanto inatteso.

 

E poi temeva che magari sua madre si fosse sentita male al rientro, visto quanto si era agitata.

 

“Pronto?”

 

“Ma che voce che c’hai! Ippà, ma non stai ancora bene?”

 

Tirò istantaneamente un sospiro di sollievo, sentendola preoccupata ma allo stesso tempo ironica e allegra, come al suo solito, “eh, no, c’ho ancora la varicella. Noemi come sta?”

 

“Meglio, anche se per non farla grattare è una lotta che non ti dico! Ma mi dispiace che te la sei presa pure tu! Purtroppo non mi ricordavo se la varicella l’avevi fatta o no, ero troppo piccola, ma mamma mi aveva detto di sì. Comunque, se ti può consolare, non indovinerai mai chi si sta facendo la varicella oltre a te e a Noemi.”

 

“E chi?”

 

“Quella scema di Maria Luisa! Così magari è la volta buona che impara a starti lontano!”

 

“Rosa!” esclamò, anche se non riuscì a trattenere una risata: a Rosaria, a differenza che al resto della famiglia, Maria Luisa non era mai piaciuta.

 

E, col senno di poi, aveva avuto ragione.

 

Solo che questo lo portava ad un altro pensiero: ad Imma e a quello che Rosaria potesse pensare.

 

“Rosa, senti… mà ti ha parlato di-”

 

“Della tua Imma e del fatto che c’ha quasi l’età sua e tiene una criatura di vent’anni?” domandò, di fatto rispondendo alla domanda, con un’imitazione quasi perfetta di sua madre.

 

“Ecco… ma… mi ha pure detto che non mi vuole più vedere e che pure voi insomma-”

 

“Ma lasciala parlare, fratellì! Ma figurati se le dò retta e mi perdo l’occasione di conoscere questa Imma, che mo sono ancora più curiosa. Mi spiace che Noemi abbia causato tutti sti casini con la sua varicella, pur senza volerlo.”

 

“Tranquilla, Rosà, ci sono abituato,” ironizzò, perché Noemi, sempre involontariamente, era stata la causa scatenante di un sacco di casini tra lui ed Imma.

 

Ma in fondo li aveva pure aiutati a fare evolvere la loro relazione, certo a modo suo.

 

“In che senso?”

 

“Eh… è una lunga storia, Rosa. Ma quindi non avrai problemi, no?”

 

“Ma che problemi! Sono andata a farmi due passi e ti ho chiamato. Mamma è tremenda ma mica può intercettarmi le telefonate! E comunque quando Noemi starà meglio e tu vorrai ti vengo a trovare a Roma, mà può dire quello che vuole. Che se litiga con me non può vedere la nipotina e non le conviene mica!”

 

E Calogiuri sorrise e scosse il capo: sua sorella era proprio una forza della natura.

 

“Va bene… ora qui… ci sono un po’ di problemi tra io che non sto bene e… e lo abbiamo dovuto dire al procuratore capo di me ed Imma e… dobbiamo ancora capire se avremo delle conseguenze lavorative o no, ma-”

 

“Ma che gliene frega al procuratore capo, scusa? A meno che non vi mettiate ad amoreggiare in mezzo alla procura, in quel caso lo capisco, poraccio!”

 

“Rosa! E comunque purtroppo da regolamento potremmo avere dei problemi… potrebbero trasferire o me o lei o prendere altri provvedimenti, ma… spero che riusciremo ad evitarlo. Ma comunque sapevamo che sarebbe successo prima o poi, non è colpa della varicella.”

 

“Certo che le cose semplici tu mai, eh, fratellì?” gli chiese, con un tono affettuoso ma un po’ esasperato.

 

“Rosa… dimmi la verità, per te è un problema?”

 

“Se ti trasferiscono? Beh, a Roma c’ero affezionata e poi se ti mandano più lontano sarà più difficile vedersi, ma-”

 

“Ma no… intendo l’età di Imma e che abbia una figlia di vent’anni.”

 

Trattenne il fiato mentre sentì per un attimo silenzio dall’altra parte.

 

“Senti, Ippà, capo primo la devo conoscere di persona per poter avere problemi con lei. Capo secondo, se ti rende felice davvero - e non come Maria Luisa - non ci devo mica stare insieme io. Ti rende felice davvero?”

 

“Moltissimo,” rispose, senza esitazioni, “è una donna davvero straordinaria. Ha un carattere tosto ma è la persona più buona e generosa che conosca e-”

 

“E bellissima ed intelligentissima. Me l’hai già detto, fratellino,” ironizzò e si sentì avvampare, nonostante la varicella, “che sei proprio andato lo sento, spero che lei ricambi.”

 

“Beh, si sta giocando la carriera e la reputazione per me e, nonostante il suo carattere, non ha mandato a quel paese nostra madre, che gliene ha dette di ogni, quindi…”


“Va bene, vedremo. E comunque visto che a mà piaceva Maria Luisa, che questa Imma non le piaccia è già un buon segno.”

 

Quanto adorava sua sorella! Meno male che aveva almeno lei!

 

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“Imma!”

 

Sentire la sua voce e vederlo, pur con ancora tutte le macchie sul viso, fu comunque un sollievo. Finalmente era a casa e poteva stare tranquilla per qualche ora.

 

Mollò la borsa e lo spolverino e gli si avvicinò.

 

“Come stai, maresciallo?” gli chiese, arrivando a pochi passi da lui e, per tutta risposta, si trovò tirata giù sul letto e trascinata in un abbraccio.

 

“Non ti fa male?” gli chiese, preoccupata, ma lui scosse il capo e le diede un bacio, prima di lasciarla andare.

 

“Allora, come stai? Non mi sembri caldo.”

 

“In che senso, dottoressa?”

 

“Visto l’umorismo, mi sa che stai meglio, maresciallo,” lo punzecchiò, dandogli un altro rapido bacio e scompigliandogli un poco i capelli, finché lui si lamentò e realizzò che doveva avere bozzi pure lì, “scusa, è che… con tutti i capelli che c’hai non si vedono.”

 

“Tranquilla, dottoressa, sto meglio e non ho più la febbre. E… e oggi mi ha chiamato mia sorella Rosa,” annunciò con un sorriso che la rilassò immediatamente, “mi ha detto che ci vuole venire a trovare quando Noemi starà meglio e che comunque lei non darà retta a mia madre e continuerà a sentirmi e a vedermi.”

 

“Ne sono davvero felice, Calogiù!” esclamò, un peso che le si era tolto dal cuore, e stavolta fu lei ad abbracciarselo il più delicatamente che poteva.

 

“E tu, dottoressa? Com’è andata oggi? Mancini ti ha dato dei problemi?”

 

Imma si bloccò e sospirò, prima di scuotere il capo, “no, Mancini non l’ho neanche visto.”

 

“Ma ci sono stati dei problemi, non è vero?” le chiese, guardandola dritto negli occhi.

 

La conosceva troppo bene ormai.

 

“Diciamo che… che la voce si è sparsa, Calogiuri. E Carminati ha fatto una delle sue sceneggiate, come al suo solito, ma l’ho già rimesso al posto suo, non ti preoccupare,” lo rassicurò, vedendo come contraeva la mascella, protettivo come sempre, “però… credo che dovresti parlare a Mariani e Conti quando torni al lavoro, perché siete amici e… potrebbero chiedersi perché non glielo hai detto prima. Ma dì pure che sono io ad avere insistito per tenercelo per noi, anche perché è la verità.”

 

“Imma…” sospirò, scuotendo il capo e poi sentì dita leggere su una guancia, “non ti preoccupare, coi ragazzi ci parlerò. Ma… ma se Carminati o qualcun altro ti dovesse dare ulteriori problemi voglio che me lo dici. E che lo affrontiamo insieme, va bene?”

 

“Va bene, maresciallo, ma non ce ne sarà bisogno, vedrai. L’unico che dobbiamo temere è Mancini, ma lì ci possiamo fare ben poco, purtroppo.”

 

E, dallo sguardo preoccupato di Calogiuri, sapeva che pure lui, con il suo innato ottimismo nei confronti del genere umano, non riusciva a darle torto.

 

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“Certo che tua madre e soprattutto il suo compagno hanno una sfiga da primato. Avrei voluto assistere alla scena!”


“Ti avrei lasciato volentieri il mio posto, così ti beccavi tu i pizzicotti sulle guance e gli abbracci della madre di Calogiuri. Tra un po’ mi stritolava!”

 

Penelope rise, scuotendo il capo, e Valentina sorrise anche se le venne pure un po’ di tristezza: quanto avrebbe voluto che fosse lì con lei per parlarle di persona, invece che in videochat.

 

“Che c’è Vale?” le domandò, sembrandole improvvisamente preoccupata. Sapeva sempre capire quando qualcosa non andava.

 

“Ma niente… è che… qui mi sento un po’ sola. E mi sento pure una sfigata a dover quasi invidiare la storia d’amore di mia madre in confronto alla mia.”

 

“Ma non è che… che ti piace il maresciallo?”

 

“Ma che sei matta?! Solo che… vorrei avere anche io qualcuno che ci tiene a me come lui tiene a mia madre. E viceversa, eh. Invece se non sono in università sono qui da sola.”

 

“Vale… ascolta, sai che non mi piace dare consigli amorosi che poi… di solito quando li dai la gente tanto fa ciò che vuole e si risente pure che glieli hai dati. Ma se sei infelice puoi sempre cambiare le cose. Non hai neanche vent’anni, non sei sposata e non avete figli. E pure se fosse potresti cambiarle lo stesso.”

 

“Lo so ma… ma è un casino: c’è la casa, l’affitto e poi… un sacco di discussioni che non so se sono pronta ad affrontare mo che ci sono pure gli esami tra poco e-”

 

“E della casa puoi parlarne con i tuoi e sono sicura che ti daranno una mano. Non sei sola al mondo e una soluzione si può trovare, no? L’importante è provarci. Se abitassi pure io a Roma ti ospiterei ma….”

 

“Lo so, grazie comunque per il pensiero e per i consigli. Ci penserò,” promise, anche perché cominciava davvero a non farcela più.

 

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“Allora, dottore?”

 

“Le confermo che è guarito e non è più contagioso. Può tornare al lavoro anche domani.”

 

Calogiuri annuì, da dov’era seduto sul divano letto e poi la guardò, in un modo che le fece capire perfettamente quanto fosse da un lato sollevato, ma dall’altro in apprensione.

 

Era lunedì ed erano ormai dieci giorni che era a casa. Affrontare la procura non sarebbe stato facile. Era probabile che, una volta che lui fosse rientrato, lo prendessero di mira. O che li prendessero di mira vedendoli insieme.

 

Ma o prima o dopo sarebbe successo, non si poteva più rinviare.

 

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“Che c’è, dottoressa?”

 

“Come?” gli chiese, voltandosi e vedendo due occhi azzurri preoccupati.

 

“Hai mangiato pochissimo stasera e sei tesa, lo sento,” rispose, dandole un bacio sulla tempia.

 

Erano distesi sul divano letto ancora aperto, mezzi abbracciati, e stavano guardando un poco di televisione prima di dormire.

 

“Che vuoi che ci sia, Calogiuri. Sono preoccupata per domani, come lo sei tu, e non dirmi di no perché ti conosco.”

 

La guardò per un attimo in silenzio, ma poi gli tornò lo sguardo da impunito, dopo due settimane che non lo vedeva e le venne da ridere, sapendo già cosa aspettarsi, ancora prima che le dicesse, “e se ti aiutassi io a rilassarti per una volta, dottoressa? Con un bel massaggio, che ormai ho imparato la tua tecnica.”

 

“Lo so che sei veloce a imparare, Calogiuri. Ma ti sei appena ripreso dalla varicella ed è da un giorno che sei libero dalle croste. Domani ti devi svegliare presto e sarà una giornata difficile. Non voglio che ti stanchi troppo e-”

 

“E ho dormito pure oggi e poi… dopo tutti questi giorni nei quali mi hai assistito, non posso fare io qualcosa per te?” le chiese, aggiungendo poi, al suo sopracciglio alzato, “e magari pure un poco per me, dottoressa.”

 

Rise, perché che altro poteva fare quando la guardava in quel modo? Ma il riso si trasformò in un sospiro quando sentì un bacio sulla nuca e quelle dita ormai così familiari che le abbassavano le spalline della camicia da notte, prima di iniziare ad accarezzarla in un modo che era proprio tutto tranne che rilassante e che le provocò un gemito soffocato a fatica nel cuscino.

 

Dopo più di due settimane di astinenza ogni tocco le provocava una sensazione di calore incredibile sulla pelle - per non dire altro.

 

Sapeva per esperienza che c’era un solo modo per estinguere quell’incendio. E che sarebbe stato molto, ma molto piacevole, anche se l’avrebbe mandata ai matti prima o poi.

 

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La guardò un poco in apprensione, mentre sentiva le voci delle guardie all’ingresso che la salutavano con il solito, “dottoressa!”

 

Le aprì la porta, nel rituale consolidato ormai in tutti quegli anni di lavoro, ma lei gli sorrise in un modo che per poco non lo fece inciampare, altro che rituale!

 

E del resto era la prima volta da quando si conoscevano che arrivavano insieme in procura la mattina, e non solo per un caso fortuito, anzi.

 

La notte che avevano appena trascorso era stata meravigliosa. Non era riuscito a trattenersi oltre ed avevano finalmente recuperato i festeggiamenti arretrati. E prima di dormire, quando la stanchezza aveva cominciato a farsi sentire per tutti e due, era riuscito anche a farle il famoso massaggio rilassante ed Imma si era addormentata con un’espressione dolce e soddisfatta che non si sarebbe mai scordato.

 

Quella mattina sembrava ancora brillare di luce propria, più del solito almeno, ed in quel sorriso ci vedeva tante di quelle cose che ancora non poteva credere alla fortuna incredibile che aveva a poter stare al suo fianco.

 

E finalmente alla luce del sole, senza doversi più nascondere. Quello che aveva provato quando dopo la colazione gli aveva detto, “andiamo maresciallo!” e se lo era trascinato fuori di casa insieme a lei non poteva nemmeno essere definito a parole.

 

“Buon lavoro, Calogiuri!” gli disse, facendogli un altro sorriso e poi andando verso le scale, incurante degli sguardi dei presenti, incamminandosi al suo solito passo marziale.

 

Rimase per un attimo imbambolato, prima di costringersi a muoversi e ad andare verso la PG, ignorando le occhiate di un paio di cancelliere e della responsabile del RE.GE. che stavano a pochi passi da lui.

 

“Calogiuri! Vedo che ti sei ripreso finalmente!”

 

La voce di Carminati gli fece alzare lo sguardo e notò che lo fissava in modo quasi beffardo, “sì, sto meglio. E vedo che né tu né Conti avete preso la varicella.”

 

“Per fortuna no… anche se avere un’infermiera a domicilio pure a me non sarebbe dispiaciuto, Calogiuri.”

 

Strinse i pugni ai fianchi e decise di ignorare quella che era certo sarebbe stata la prima di molte battute. Lanciò uno sguardo a Mariani e Conti, che lo guardavano strano, dalle loro scrivanie in fondo alla stanza, accanto alla sua. Avrebbe dovuto parlare con loro, lo sapeva benissimo. Sperava non ce l’avessero troppo con lui.

 

Prese posto alla scrivania, sentendosi nonostante tutto come se stesse ritrovando un pezzo di sé, dopo tanti giorni a casa. Accese il computer ed aprì il primo cassetto, per estrarne un taccuino nuovo - quello del maxiprocesso se lo teneva Imma sottochiave - quando un sacchettino bianco, di quelli regalo, lo lasciò per un attimo interdetto.

 

Lo estrasse dal cassetto e rivolse un’occhiata grata a Mariani e Conti, immaginando che avessero voluto fargli un regalo di bentornato.

 

Ma loro lo guardarono confusi, con l’aria di chi quel sacchetto non lo aveva mai visto prima.

 

Notò che c’era una targhettina di carta attaccata ad uno dei manici.

 

Per il signor Tataranni

 

Bastarono quelle quattro parole per capire che il contenuto non gli sarebbe piaciuto, mentre sentiva già la rabbia salirgli in gola.

 

Lo aprì e per fortuna e purtroppo non gli servì estrarre nulla per capire di cosa si trattasse.

 

Un reggiseno ed un perizoma leopardati.

 

Il messaggio era chiarissimo e sapeva pure chi fosse il mittente.

 

Alzò lo sguardo verso Carminati, il sacchetto che si piegava mentre stringeva le mani a pugno.

 

“Che c’è, maresciallo? Dovresti ringraziarmi che cerco di mantenere calda la tua vita di coppia, prima che, con te che sei tanto deboluccio, qualcuna si guardi intorno e si cerchi un vero uomo, pantera com’è!” esclamò, ridacchiando, seguito da quel cretino di Rosati accanto a lui.

 

Scattò verso Carminati e si sentì afferrare per il braccio da Mariani, Conti che si piazzava dall’altro lato e lo tratteneva, pronunciando, “non ne vale la pena.”

 

Pur nella rabbia, provò sollievo e gratitudine nel sapere che loro comunque stavano dalla sua parte, “tranquilli, non voglio certo avere casini disciplinari per uno così. Che di vero uomo non hai niente, Carminati, e non c’è nessuna specie animale di cui ho un’opinione abbastanza bassa per paragonartici.”

 

“Ma come ti permetti?! Fai il fenomeno perché c’hai le protezioni e-”

 

“Ma come ti permetti tu?!” urlò, svincolandosi ed avvicinandosi alla scrivania di quel cretino, standogli di fronte, “primo, sono un tuo superiore! Secondo la dottoressa Tataranni è un tuo superiore. Terzo, questo… questa immondizia oltre ad essere passibile del reato di insubordinazione, è pure una chiara molestia sessuale sul luogo di lavoro. Quindi se non vuoi che ti faccia rapporto e rischiare il posto, oltre a qualche anno di galera, farai bene ad evitare altri… doni. Anche se capisco che probabilmente questo ce l’avrai avuto a casa da quando l’ultima poveretta a cui hai tentato di regalarlo te l’ha tirato giustamente in faccia, ed in qualche modo dovevi pure riciclarlo.”

 

“Stronzo!” gli gridò contro, sporgendosi in avanti per afferrarlo ma Calogiuri fece un passo indietro e Carminati si ribaltò sulla scrivania, finendo per trovarcisi disteso sopra, che pareva un pesce spiaggiato, “e poi parli tu di denunce! Che vedrai che ti succede a te e all’amichetta tua, Mancini vi farà neri e-”

 

“Che dovrei fare io?”

 

Calogiuri si voltò e vide il procuratore capo fisso sulla porta, con un’aria per niente felice, “e che succede qui?”

 

“Niente, io-”

 

“La colpa è di Carminati, dottore, ha tenuto un comportamento inqualificabile,” intervenì Mariani, bloccandolo, e Conti annuì.


“Ma perché sta sulla scrivania? Qualcuno l’ha colpita, Carminati?”

 

“La colpa è sua, mi ha fatto cadere di proposito!” esclamò Carminati, indicando Calogiuri e tirandosi in piedi a fatica.

 

“Non è vero. Carminati ha tentato di afferrare Calogiuri e Calogiuri ha fatto solo un passo indietro. Non è colpa sua se Carminati ha la coordinazione di un bimbo di tre anni, e pure il cervello, con tutto il rispetto per i bimbi di tre anni,” intervenne nuovamente Mariani, con un tono ed uno sguardo tosti come non li aveva mai sentiti.

 

Mancini sembrò un attimo sorpreso, poi si rivolse di nuovo verso di lui e vide che lo sguardo si indirizzava al sacchetto che ormai aveva accartocciato in un pugno.

 

“E cos’è quel sacchetto?”

 

“Niente, dottore…” provò a dire, perché non voleva certo un’ulteriore umiliazione per Imma, più che per lui.

 

“Calogiuri, dubito che non sia niente e sa che non si possono avere oggetti non correlati al lavoro mentre si è in servizio. Mi faccia vedere che cos’è,” intimò, porgendogli la mano a palmo aperto, in un chiaro ordine.

 

“Dottore, se glielo mostro può evitare di estrarre il contenuto dal sacchetto? Capirà pure lei il perché…” sospirò, ma Mancini rimase in silenzio ed avvicinò ancora di più la mano.

 

Gli passò il sacchetto, Mancini lo rimise più o meno in sesto, lo aprì e Calogiuri vide chiaramente come diventò prima pallido, poi di un colorito fin troppo rosso, ed infine notò il biglietto e lo lesse.

 

“Questa sarebbe opera sua, Carminati, presumo?” sibilò, con un tono talmente incazzato che il loro scontro della settimana prima era niente in confronto e Carminati assunse il colore dei fogli di carta sulla sua scrivania.

 

“Dottore… veramente…”

 

“Questo biglietto è scritto a mano, Carminati, e riconoscerei le sue zampe di gallina ovunque. Allora?!”


“Dottore, si faceva per scherzare!”

 

“Stiamo in una procura, Carminati, non ad un cabaret. Se vuole scherzare lo fa a casa sua con gli amici suoi. Anzi, ce la mando subito. Vada a casa a schiarirsi le idee e se rifà una cosa del genere un provvedimento disciplinare ed una bella sospensione non glieli leva nessuno, chiaro?”

 

“S- sì, dottore,” balbettò Carminati e poi, sotto lo sguardo di Mancini, afferrò la sua giacchetta di pelle bisunta dalla sedia e si avviò fuori dalla PG.

 

“E voi tornate al lavoro ora! Questo lo tengo io, in caso ci siano ulteriori episodi di questo genere da parte di Carminati,” spiegò, rivolto verso di lui, in un modo che gli faceva capire che era incazzato pure con lui, o forse con la situazione in generale, “e mi aspetto che non succedano più cose di questo tipo, che se no dovrò prendere provvedimenti ben più seri. Spero sia chiaro a tutti!”

 

E, con un ultimo sguardo durissimo, il sacchetto tra le mani, uscì al suo solito passo rapido, sparendo dalla loro vista.

 

“Grazie ragazzi…” esclamò, rivolgendosi a Mariani e Conti, che lo guardavano di nuovo preoccupati, “credo che… credo che dobbiamo parlare.”

 

“Lo credo anche io, Calogiuri. Domani sera ci vediamo e se provi a dire di no-”

 

“Ci sarò, ci sarò,” le assicurò, mettendosi una mano sul cuore, grato di avere ancora almeno due facce amiche in procura, a parte Irene.

 

O almeno così sperava.

 

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“Possiamo?”

 

“Mariani, Conti. Prego, entrate,” fece loro segno ed i due marescialli si fermarono pochi passi avanti alla scrivania, “allora, che succede? Tutto bene?”

 

Avevano delle espressioni indecifrabili e si chiese se fosse per via della storia tra lei e Calogiuri. Non le avevano mai detto niente da quando era rientrata e non aveva idea se avessero detto qualcosa a Calogiuri. Ma sicuramente l’atmosfera intorno a lei era strana, anche se era pure prevedibile che lo fosse.

 

“Abbiamo delle informazioni su chi potrebbe aver aggredito Calogiuri e i ROS quando sono andati a recuperare il Mazzocca.”

 

“Bene!” esclamò, anche se provò una piccola fitta al cuore: normalmente quel rapporto glielo avrebbe fatto Calogiuri. Se ancora avesse potuto lavorare con lei.

 

“Allora?”

 

“Allora abbiamo confrontato le immagini della folla con alcuni residenti di quei palazzi ed abbiamo identificato cinque persone. Poi stiamo cercando sui social tra i loro amici e tra amici e parenti dei Mazzocca e così facendo ne abbiamo trovate altre tre,” chiarì Mariani, mettendole delle foto con dei profili sulla scrivania, “mancano ancora all’appello sette persone, salvo qualcuno fosse al di fuori del raggio delle telecamere, ma continueremo a cercare. Che vuole fare con gli identificati?”

 

“Aspettiamo, Mariani. Questi bisogna prenderli tutti insieme, sempre se non sono già scappati, o non li prendiamo più. Proseguite la ricerca, che il maxiprocesso è tra pochi giorni e sarebbe meglio avere queste informazioni prima piuttosto che dopo. Io intanto ne parlerò al procuratore capo.”

 

“Va bene, dottoressa.”

 

“C’è altro?”

 

Mariani e Conti si guardarono di nuovo per un attimo, poi scossero il capo.

 

“Va bene, andate pure.”

 

Uscirono rapidamente, senza dire un’altra parola. E se per Conti era normalissimo, Mariani di solito era molto più loquace.

 

Si chiedeva se ce l’avessero con lei. Se magari pensavano che avesse messo nei casini Calogiuri.


E, tutto sommato, non poteva nemmeno dare loro più di tanto torto.

 

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“Calogiuri!”

 

“Dottoressa… posso entrare?”

 

“Erano un po’ di mesi che non eri così formale, Calogiuri. La varicella ti ha fatto regredire?” gli chiese, ironica, e tirò un sospiro di sollievo ed entrò, chiudendo la porta dietro di sé.

 

Almeno Irene non sembrava cambiata nei suoi confronti, forse anche perché già sapeva.

 

“Allora, come stai? Ti sei ripreso?”

 

“Mi sono ripreso e per il resto… immagino voi sappiate com’è la situazione.”

 

“Sì, Calogiuri, lo so. E mi dispiace che ti ci trovi in mezzo. Ma t’avevo detto di stare attento, ricordi?” pronunciò, alzandosi in piedi e poi sedendosi sul lato anteriore della scrivania. Lui annuì e la imitò.

 

“Comunque ora non posso lavorare con… con la dottoressa Tataranni. Quindi mi chiedevo se aveste bisogno di qualcosa.”

 

“Con il maxiprocesso tra pochi giorni? Ma è una domanda retorica, Calogiuri?” gli chiese, con un mezzo sorriso, “vedrai che ti terrò talmente impegnato in questi giorni che ringrazierai il cielo di non avere anche il lavoro con Imma.”

 

Le sorrise di rimando, con gratitudine. Anche se non sentire la mancanza di lavorare fianco a fianco con Imma era proprio impossibile, pure se avesse dovuto fare ore di straordinari ogni giorno.

 

Ma ci si sarebbe dovuto abituare, purtroppo.

 

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La gola un po’ secca, si forzò a percorrere i pochi passi che la separavano da quell’ufficio nel quale non avrebbe voluto rientrare. Almeno non così presto.

 

“Dottoressa.”

 

L’accoglienza era asciutta come aveva previsto e temuto.

 

“Dottore. Sono venuta a parlarle dell’indagine sui Mazzocca e sull’aggressione a... alla squadra che abbiamo inviato ad arrestare Kevin Mazzocca. Mariani e Conti hanno identificato alcuni degli aggressori e proseguiranno con le verifiche incrociate per cercare di dare un nome a quelli che ancora rimangono anonimi. Secondo me però, vista l’importanza del clan Mazzocca qui a Roma, che abbiamo evidentemente sottovalutato, sarebbe il caso di infiltrare almeno una persona nell’organizzazione per capire non solo chi siano gli altri, ma quanto esteso è il clan.”

 

Mancini la guardò con un’espressione indefinibile, poi sospirò e disse, “dottoressa, ci penserò. Ma al momento il caso Mazzocca credo sia meglio venga accorpato al maxiprocesso e quindi se ne occuperà principalmente la dottoressa Ferrari, oltre che io, ovviamente. Almeno finché non si chiarirà la situazione disciplinare sua e del maresciallo Calogiuri, visto anche… diciamo lo scompiglio che questa storia sta portando in procura.”

 

“Che vuol dire?”

 

“Dottoressa, non mi dica che non ha notato le voci e le battute che ci sono. Oggi Carminati ha dato il peggio di sé e per poco non veniva alle mani col maresciallo. Colpa di Carminati, in questo caso, ma non saremmo in questa situazione se voi due non vi ci foste messi e non ci aveste trascinato tutta la procura. Io devo tutelare la credibilità mia e di questa istituzione, al di là delle mie possibili opinioni personali su come avete gestito la vicenda.”

 

Imma sentì il cuore nello stomaco: chissà che aveva combinato quel deficiente di Carminati a Calogiuri. Evidentemente la lavata di capo della settimana prima non gli era bastata.

 

“Dottore, io la capisco ma, con tutto il rispetto, Carminati si comporta in modo inqualificabile con tutte le esponenti di sesso femminile della procura e non solo, pure da prima che uscisse questa storia. E non vedo perché ci debbano rimettere gli altri, pure se possono avere sbagliato. E se non posso avere nuovi casi e nemmeno lavorare a quelli che già ho, che mi resta da fare qui? Vuole spingermi a tornare a Matera, dottore?”

 

“Dottoressa, le resta il caso Spaziani e non voglio spingerla a fare proprio niente, anche perché prenderò una decisione e gliela farò sapere. Le responsabilità me le so prendere, io, senza aspettare che gli altri agiscano al posto mio.”

 

Quando voleva sapeva lanciare delle stoccate non da poco il procuratore capo.

 

“Ah sì? E però non mi sembra che tutte queste preoccupazioni sulla credibilità della procura e sulla sua di credibilità le avesse quando la possibile relazione non era tra me e Calogiuri ma tra me e lei, dottore. O quando era lei il superiore,” sibilò, avendo perso la pazienza, “io posso capire tutto, posso capire la sua delusione, ma lo sa come abbiamo lavorato io ed il maresciallo in questi mesi, lo sa che praticamente tutte le cose che sono uscite fuori sul maxiprocesso sono venute da me e da lui, con tutto il rispetto per la dottoressa Ferrari. E se lei rischia di rovinare gli esiti di un processo del genere, perché il primo grado di giudizio non è definitivo, e la carriera di due persone per motivazioni personali - visto che a me e lei evidentemente le stesse regole non si sarebbero applicate - è lei a deludermi ora, e pure a trattarmi come una stupida.”

 

Aspettò un secondo ma Mancini si era ammutolito, mezzo a bocca aperta, guardandola in un modo stranissimo.


Senza aspettare ulteriori risposte, si girò sui tacchi e si avviò verso la porta con un, “mi congedo!”, sentendo di nuovo aria fresca nei polmoni quando fu uscita di lì.

 

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“Calogiuri!”


“Dottoressa,” la salutò, voltandosi e mantenendo un’aria professionale che la intenerì moltissimo.

 

Era a due passi dall’uscita della procura, mentre lei stava scendendo gli ultimi gradini delle scale. Non si erano dati appuntamento stavolta, ma lei era rimasta in ufficio solo venti minuti oltre l’orario, che tanto aveva poco da fare purtroppo.

 

Lui doveva avere finito con la Ferrari e stava uscendo pure lui un po’ prima del solito.

 

“Andiamo?” gli chiese, raggiungendolo, e lui sembrò sorpreso ma poi annuì, con uno dei suoi sorrisi bellissimi.

 

Stava per aprirle la porta ma lei lo precedette e gli fece segno di avviarsi. Lui rimase di nuovo un po’ stupito ma poi fece come gli aveva chiesto ed uscirono fianco a fianco, mentre lei gli ricordava, “non siamo in servizio mo, Calogiuri.”

 

E lui le regalò un altro sorriso bellissimo e poi la seguì mentre si incamminava verso casa, che ora che la varicella e i giorni di malattia erano terminati c’era decisamente più spazio che a casa di lui.

 

Vide in tralice le occhiate dei presenti: gli agenti a guardia fuori dalla porta e quel simpaticone di Santoro. E poi notò che c’era pure Mancini, che stava entrando in auto e che li guardò senza proferir parola. Ma si rivolse verso Calogiuri, che era ancora al suo fianco, e gli fece segno di non preoccuparsi. Lui annuì, anche se vedeva che era un poco in tensione, e superarono il procuratore capo, continuando a camminare uno accanto all’altra.

 

Girarono l’angolo e Calogiuri sembrò tirare un sospiro di sollievo e le chiese, “sei sicura che…”

 

“Che vada bene se ci vedono insieme fuori dall’orario di servizio, Calogiuri? Tanto ormai lo sanno tutti e nascondersi è inutile. E poi non stiamo facendo niente di male.”

 

Anche lei era un po’ in apprensione ma era meglio farsi vedere forti che spaventati e poi, fosse stato pure solo per qualche giorno, la soddisfazione di potersi vivere il rapporto con Calogiuri alla luce del sole non se la sarebbe tolta.

 

“Mariani e Conti vogliono che esca con loro domani sera, per parlare,” le disse improvvisamente, dopo qualche minuto a camminare in silenzio.

 

“Mi sembra giusto che vi chiariate, Calogiuri,” rispose con un sorriso, per poi farsi più seria, “che è successo con Carminati oggi?”

 

“Lo hai saputo, vedo. Comunque niente… è un imbecille come al solito. Ma non ti devi preoccupare. L’ho minacciato di fargli rapporto e poi… e poi è arrivato Mancini e gli ha detto che alla prossima lo sospende. Credo che Carminati si sia spaventato a sufficienza.”

 

Non le sfuggì che Calogiuri non le avesse detto cosa fosse successo esattamente. Ma, del resto, neppure lei gli aveva detto del bambolotto.

 

“L’importante è che non ti fai provocare, Calogiù. Quello aspetta solo l’occasione per fare la vittima.”

 

“Tranquilla, dottoressa. Tanto la mia migliore arma è sempre stata la lingua, no?” le chiese con un tono un po’ malizioso.

 

“Puoi dirlo, maresciallo!” esclamò e se lo prese a braccetto, godendosi la sua espressione nuovamente stupita.

 

Ma tanto erano vicini a casa e poi quei momenti di normalità voleva goderseli appieno, anche se rischiavano di essere gli ultimi per chissà quanto tempo.

 

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“Oh, finalmente! Iniziavo a temere che ci dessi buca pure stasera!”

 

“Scusate, ma ho finito tardi con la Ferrari e sono dovuto passare a casa a cambiarmi. Avete già ordinato?”

 

“No, stavamo aspettando te, che non sappiamo cosa puoi mangiare dopo che sei reduce dalla varicella, e volevamo dividere.”

 

“Quello che volete… non ho molta fame.”

 

“Va beh, ho capito, ordiniamo il solito e al limite io e Conti mangiamo di più, che mi sa che ne avremo bisogno. E pure di bere. Birra?”


“Piccola che sono due settimane che non bevo e devo guidare.”

 

Mariani fece le ordinazioni, il cameriere del pub che praticamente se la mangiava con gli occhi, come sempre, e poi portò fin troppo rapidamente le tre birre.

 

“Hai fatto conquiste, Chiara,” ironizzò, prendendo un solo sorso della sua birra, che di alcol a stomaco vuoto aveva già abbastanza esperienza.

 

“Senti chi parla! E allora? Che in procura non si parla d'altro che di te e della dottoressa Tataranni.”


“Beh, che… che abbiamo una relazione ormai lo sapete, no?” chiese e Mariani lo guardò come a dire e grazie al cavolo! per non dire altro.

 

“Sì, Ippazio, lo sappiamo, ma insomma… perché non ci hai detto niente?”

 

“Perché avevamo deciso di tenerlo solo per noi ancora per qualche mese… poi c’è stata la mia varicella e-”

 

“E Mancini l’ha scoperto e poi tutta la procura,” finì per lui Mariani e annuì, “ma nessuno lo sapeva?”

 

Prese un respiro, ma sapeva che se avesse mentito in quel momento lo avrebbero beccato subito, “la dottoressa Ferrari ne era a conoscenza ma perché lo ha capito da sola, non perché glielo abbia detto io.”

 

“E adesso si spiegano un po’ di cose. Sai che moltissimi pensavano che tu e la Ferrari foste una coppia, sì? Compreso Conti, qui, che non capisce mai niente!”

 

“E dai! Uscivano insieme e si davano del tu. Che dovevo pensare?” chiese Conti, anche se con un’aria tutt’altro che infelice, anzi.

 

Evidentemente era solo che sollevato che Irene non fosse impegnata con lui. Ma non poteva certo dirgli apertamente che non aveva comunque speranze con lei, visto che Irene glielo aveva detto in confidenza.

 

“E tu invece non lo pensavi?” chiese a Chiara che si fece una mezza risata.

 

“Ippazio, io so riconoscere quando uno è innamorato e soprattutto quando non è ricambiato e… il modo in cui tu guardi la dottoressa Tataranni… non hai mai guardato la Ferrari così. Ma poi ci hai fatto una testa tanta su di lei durante il corso da sottufficiali. Il dubbio mi era venuto già quando siete venuti insieme a Roma che tu stavi ancora a Matera, ti ricordi?”

 

“E certo che mi ricordo!”

 

“Diciamo che negli ultimi mesi ho avuto sempre più la certezza, anche perché era evidente come vi guardavate e tu non mi sembravi più un innamorato deluso come quando ti sei trasferito qui a Roma. Anzi, a parte qualche volta, ti ho sempre visto felice.”

 

Sospirò: come aveva potuto pensare di tenerglielo nascosto?

 

“E infatti sono felice con lei, molto,” confermò, con un sorriso, “lo so che… che non vi ho detto nulla e mi dispiace. Sono mesi che volevo farlo ma… ma avete visto anche voi quello che è successo e… e non volevamo rischiare che uno dei due si dovesse trasferire. Anche se temo capiterà comunque. E grazie per avermi difeso con Mancini e con Carminati, io-”

 

“Senti, non siamo nati ieri, no? Il regolamento lo conosciamo e capiamo perché non volevate dirlo apertamente. Ma ciò non toglie che speravo che di noi ti fidassi!”

 

“Lo so, ma… non volevo costringere nessuno a tenersi questo segreto. Era già abbastanza pesante per me… e poi… un po’ avevo paura di come l’avreste presa…. Insomma per via del fatto che è un superiore e che è più grande di me e-”

 

“E chi è senza peccato scagli la prima pietra, Calogiuri. Quindi… se sei felice non ho niente in contrario. Anche se temo non potremo fare le uscite a sei quando troveremo pure noi qualcuno, che dubito la tua dottoressa sia il tipo da pub.”

 

“Chiara!” rise, scuotendo il capo ed immaginandosi la scena. Però in fondo Imma, asocialità a parte, nei locali non se la cavava poi così male, “e comunque ti potrebbe sorprendere.”

 

“Non ne dubito….”

 

“Anche io la penso come Chiara, Calogiuri. E… e mi dispiace se ero un po’ scontroso con te ultimamente ma… ero geloso di te e della Ferrari,” ammise Conti, diventando color fragola.

 

“L’avevo capito, tranquillo. E… e io sulla gelosia non posso dire niente.”

 

“L’ho notato alla festa della procura, Calogiuri. Che Mancini pareva lo volessi ammazzare ad un certo punto. Mentre Conti voleva uccidere te che stavi sempre con la Ferrari,” li punzecchiò Mariani e Calogiuri si grattò il collo, in imbarazzo.

 

“Ma non ti sfugge proprio niente, eh?”

 

“Siete voi uomini che avete i prosciutti sugli occhi quando si tratta di sentimenti. Anche se voi due non siete quelli messi peggio della categoria, tutto sommato!”

 

Sapeva bene a chi si riferiva Mariani e si chiese come mai, con tutti gli uomini che poteva avere, si fosse impuntata su Santoro che era più gelido di un freezer.

 

Ma in quel momento arrivò il mangiare e l’argomento cadde, mentre Conti si ingozzava e Chiara lo prendeva in giro come al solito.

 

Non avrebbe mai pensato di essere così grato per questa normalità tra loro. E sperava davvero che non sarebbe stata una delle ultime volte, o forse l’ultima volta, nella quale potevano uscire tutti insieme.

 

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“Volevi parlarmi?”

 

“Sì, Imma, accomodati.”

 

Rimase un attimo sorpresa quando notò che su una delle sedie c’era già Calogiuri e alla sorpresa subentrò la preoccupazione mentre prendeva posto in quella accanto a lui.

 

“Allora, siete pronti per l’udienza?”

 

“Considerato che non mi hai detto cosa mi chiederai sono pronta quanto lo posso essere, Irene. E poi non ero sicura se, visti gli ultimi eventi, ci avresti ancora voluti tutti e due a testimoniare.”

 

La Ferrari sospirò e scosse il capo, “Imma, gli ultimi eventi, come li chiami tu, potrebbero uscire fuori domani, lo sappiamo tutti e due, visto che le notizie volano e l’avvocato di Romaniello non è uno stupido e ha molte conoscenze in procura. Ma siete stati decisivi ai fini dell’indagine e quindi certo che vi voglio entrambi a testimoniare. E spero che prima di intraprendere questa relazione tu abbia pensato a cosa fare quando la cosa sarebbe uscita allo scoperto e qualcuno avrebbe potuto tirarla fuori in tribunale. Perché potrebbe capitare anche in futuro e credo tu ne sia consapevole.”

 

Dire che fosse infastidita da quelle parole era dire poco e vide Calogiuri che le guardò un po’ sorpreso, forse non aspettandosi un atteggiamento così della Ferrari nei suoi confronti. Ma non disse niente e si chiese se con lui si comportasse in quel modo o se forse non lo turbasse quanto a lei.

 

“Certo che ci ho pensato! Ma appunto non so se tu voglia avere questa variabile domani, tra tutte le altre cose. Perché la parte in aula spetta a te principalmente,” le ricordò, cercando di contenersi dal dirle che solo la parte in aula spettava a lei, visto che per le indagini aveva fatto ben poco.

 

“Non credo ci sia scelta, Imma, perché chi altri dovrei fare testimoniare? Mariani? Conti? Lo sai benissimo che non hanno la tua preparazione né sul processo in sé né su come muoversi in tribunale. Per questo ti dico che spero siate pronti tutti e due a tutto ciò che può capitare.”

 

“Certo che siamo pronti. Quello che facciamo in privato non interferisce sul nostro lavoro e chiunque ci abbia visto lavorare lo sa. E se qualcuno prova a dire il contrario se la vedrà con me!” proclamò Calogiuri, deciso come raramente lo aveva visto, ed Imma si rimangiò il pensiero di prima e gli sorrise con gratitudine.

 

“E pure con me!” gli fece eco, allungando una mano per stringere quella di lui, alla faccia della cara Irene, guardandola per spiarne la reazione.

 

Ma la Ferrari si limitò a scuotere il capo, come ormai faceva spessissimo con lei, e poi, con uno sguardo di quelli suoi enigmatici che le stavano sull’anima, proclamò, “va bene. Allora ci vediamo domattina in tribunale.”

 

Imma restò un attimo spiazzata ma si sollevò dalla sedia e con sollievo vide che Calogiuri la seguì. Insieme uscirono dall’ufficio, a testa alta, pure quando videro le due cancelliere in corridoio iniziare a ridacchiare non appena li notarono.

 

Ma Imma lanciò loro un’occhiata incinerente e tornò al suo ufficio, scaricando di proposito ancora più peso sui tacchi.

 

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“No, dottoressa. Adesso ti metti comoda sul divano e poi ci penso io a te.”

 

“Che fai? Mi dai gli ordini mo?”

 

Avevano finito la cena che aveva preparato Calogiuri - un’ottima cacio e pepe - e stava per mettersi a sparecchiare, com’era loro abitudine - chi cucinava non lavava i piatti - ma lui l’aveva bloccata.

 

“Sì. E poi hai fatto tutto tu per giorni e giorni mentre stavo male. Devo recuperare.”

 

“Agli ordini, maresciallo!” ribattè, ironica, prima di aggiungere, “e comunque stasera te lo concedo ma solo perché sono stanca. Se no altro che ordini e ordini!”

 

Calogiuri scosse il capo con quell’aria mezza esasperata e poi indicò verso il divano. Lei gli fece il saluto militare e ci si sedette, chiedendosi che cos’altro si dovesse aspettare.

 

Cercò di rilassarsi guardandolo lavorare - di solito funzionava - ma il pensiero dell’udienza del giorno seguente e di quanto c’era sul piatto della bilancia continuava a tornare incessantemente. Già sarebbe stata un fascio di nervi normalmente, visto che era l’udienza decisiva, figuriamoci con la spada di Damocle che pendeva sulla loro testa.

 

Era talmente assorta che fece un mezzo salto quando sentì qualcosa di caldo fra le mani. Sollevò lo sguardo e ci trovò una tazza di camomilla ancora mezza fumante, Calogiuri che si sedeva accanto a lei con un’altra tazza in mano.

 

“Calogiuri…” sussurrò, toccata da quel gesto, perché non serviva parlare per capire perché avesse avuto quella premura nei suoi confronti. E le venne in mente la loro prima camomilla insieme, la notte che aveva preceduto l’udienza decisiva contro Saverio Romaniello.


Quanto tempo era passato da allora e com’erano cambiati sia il loro rapporto che le loro vite!

 

Ma le attenzioni di Calogiuri, quel suo capirla senza parole, non cambiavano proprio mai, per fortuna.

 

“Quando hai finito con la camomilla ti faccio un bel massaggio, dottoressa.”

 

“Calogiù, visto come finiscono i nostri massaggi non so se è il caso, che domani dobbiamo essere attivi e riposati.”

 

“Mi limiterò solo al massaggio, dottoressa, promesso!” proclamò, solenne, ed Imma si sciolse ancora di più.

 

“Vedremo…” rispose, prima di avvicinarsi di più a lui. Si sentì passare un braccio intorno alla vita e si trovò stretta in un mezzo abbraccio. Appoggiò la testa al suo petto, godendosi il movimento ritmico dei muscoli ed il battito del suo cuore.

 

“Cerca di rilassarti un po’, dottoressa, anche se so che non è facile.”

 

“Ci provo Calogiuri, ma… domani ci giochiamo tutto e lo sai pure tu,” rispose, prendendo un’altra sorsata di camomilla e poi voltandosi per guardarlo negli occhi, “ma voglio dirti che, comunque vadano le cose, sono fiera di te, di tutto quello che hai fatto in questi anni, di tutto quello che abbiamo fatto insieme per questo processo e non solo. E spero che potremo continuare a lavorare fianco a fianco, in qualche modo, ma se non dovesse essere possibile sono sicura che te la caverai benissimo, come hai già fatto a Roma da solo.”

 

“Imma…” le sussurrò e vide che gli occhi gli si facevano lucidi, mentre anche a lei veniva un groppo in gola.

 

Sentì un bacio alla tempia e poi la strinse a sé ancora più forte.

 

“Io ti devo tutto e lo sai. E sai anche quanto amo lavorare con te e non vorrei doverci rinunciare, dottoressa. E soprattutto non vorrei rinunciare a… a tutto questo,” proclamò, indicando la stanza intorno a loro, “però sono sicuro che te la caverai benissimo domani, perché mi sorprendi ogni volta che ti vedo in azione e hai una forza che tu nemmeno t’immagini.”

 

“Senti chi parla, maresciallo,” ribatté, mollando la tazza sul tavolino e voltandosi del tutto per dargli quell’abbraccio di cui sapeva che aveva bisogno quanto lei.

 

E poi rimasero così, in silenzio, prima a sorseggiare camomilla e poi a coccolarsi dolcemente, cercando di rassicurarsi a vicenda e di promettersi che ci sarebbero stati l’uno per l’altra, nonostante tutto e tutti.

 

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Arrivarono insieme in tribunale, come d’abitudine. Lui la riparò dai primi giornalisti presenti, le aprì la porta ed entrò dietro di lei.

 

La differenza era che era vestita in borghese e non con la toga, visto che avrebbe solo dovuto testimoniare.

 

Sicuramente avrebbero trovato da ridire sul tubino nero e sulla giacca leopardata, che aveva già indossato al convegno. Ma non aveva l’intenzione di rinunciare a ciò che era e a ciò che sentiva per compiacere gli altri. E non solo per l’abbigliamento.

 

Vide la gattamorta che li salutò da distanza e che si trovava accanto a Mancini, che invece si limitò ad un cenno del capo, l’aria torva che aveva anche negli ultimi giorni. Guardò Calogiuri e stava per chiedergli dove volesse piazzarsi, per rimanere a distanza di sicurezza dal procuratore capo, quando sentì una voce inconfondibile alle sue spalle.

 

“Dottoressa! Che piacere rivederla! Noto che lo spirito da tigre e il suo… diciamo gusto nel vestire non sono cambiati.”

 

Solo lui ci mancava per completare quella giornatina che già si prospettava terribile.

 

“Signor Romaniello,” sospirò, voltandosi ed incontrando il sorriso e lo sguardo quasi animaleschi della pecora nera.

 

Sempre elegantissimo lui, proprio vero che l’abito non fa il monaco.

 

“Anche a lei non la trovo male, signor Romaniello. L’ambiente del carcere le si addice proprio.”

 

“Suvvia, dottoressa! Neanche ora che stiamo dalla stessa parte mi risparmia queste battutine? Non che vorrei che lei cambiasse, si intenda. Quando fa così è ancora più bella,” proclamò, con quel solito tono viscido che le causava la pelle d’oca.

 

“Dalla stessa parte mi sembra un parolone, signor Romaniello. E lei invece non cambia mai, purtroppo.”

 

“Dica la verità che le sono mancato, dottoressa!”

 

“Contavo i minuti, guardi, soprattutto per chiudere questo processo e non dover avere più a che fare con lei.”

 

“Ma ci sono tre gradi di giudizio, come lei ben sa, e mio fratello non si arrende facilmente. Quindi credo che avremo il piacere di vederci ancora per un po’ di anni, visti i tempi della giustizia italiana.”

 

“Di sicuro avrà il piacere di vedere la dottoressa Ferrari. Me non lo so.”

 

“Non mi dica che è gelosa, dottoressa! Ma non deve! La dottoressa Ferrari è indubbiamente una bella donna, ma lei ha sempre quel qualcosa di speciale che la contraddistingue. Non è vero, maresciallo?” chiese, rivolgendo uno sguardo a Calogiuri che lo fulminò con un’occhiataccia, aggiungendo, prima che avesse modo di parlare, “tra l’altro ho avuto da poco la conferma che lei lo ha potuto constatare di persona, maresciallo, e molto da vicino. Devo dire che mi sento un po’ il cupido di questa vostra… relazione. Ma dottoressa, quando si stancherà dei muscoli e di quella bella faccetta da patata lessa, attendo il mio turno. Sono sicuro che con me si divertirebbe molto di più.”

 

“Considerando che sembrate un disco rotto da quando vi conosco ne dubito seriamente, signor Romaniello. L’unica persona che siete in grado di far divertire siete voi stesso, in tutti i sensi.”

 

Imma spalancò gli occhi, incredula, vedendo Romaniello diventare bordeaux e non poté trattenersi dallo scoppiare a ridere. Calogiuri quando ci si metteva non le mandava proprio a dire.

 

Approfittò dello shock di Romaniello per allontanarsi un attimo da lui. Calogiuri la seguì e gli sussurrò, “c’hai la battuta sempre più pronta, maresciallo. Magari al banco dei testimoni un poco meno pronta. Che se Romaniello, che sta da mesi in carcere altrove, sa di noi due lo sanno tutti.”

 

“Tranquilla, dottoressa. Cercherò di contare fino a dieci prima di parlare.”

 

“Se ci riesci poi spiegami come si fa, Calogiuri,” ironizzò e lo vide sorridere in quel modo che, nonostante la situazione e nonostante le occhiate omicide che vedeva benissimo che sia Mancini che Romaniello stavano lanciando loro, le dava la strana convinzione che sarebbe andato tutto bene.

 

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“Dottoressa Tataranni, in base a tutte le indagini che ha compiuto su questo processo, sia a Matera che a Roma, a chi si può a suo avviso ricondurre, in ultima istanza, l’attività criminosa che è stata illustrata dalle precedenti testimonianze?”

 

La Ferrari aveva già interrogato Latronico, Romaniello Jr., Maja Varga, Davidson e la Tantalo, più vari altri testimoni minori. L’aveva tenuta tra le ultime testimonianze, anche se Calogiuri ancora non lo aveva fatto parlare e nemmeno Romaniello Sr.. Ci sapeva fare la Ferrari in tribunale, era tosta e aveva la risposta pronta a tutto. Era veramente un pitbull e non mollava la presa, nemmeno nei controinterrogatori, con l’avvocato di Romaniello Sr. che cercava di smontare tutto.

 

“Dottoressa Ferrari, tutte le testimonianze che abbiamo sentito e tutte le prove che ho e che abbiamo raccolto in questi mesi riconducono ad un unico cognome: Romaniello. E se Saverio Romaniello sono ormai due anni quasi che sta in carcere, ed era incarcerato pure quando gran parte delle attività delittuose che si sono delineate oggi stava avvenendo, appare invece chiaro come il giudice Romaniello Eugenio, sfruttando i contatti che aveva sia nel mondo giudiziario, sia nel mondo politico, sia in quello criminale, abbia creato una vera e propria rete a Matera. Anzi, non l’ha creata, ma l’ha ereditata, contribuendo però ad espanderla anche oltre i confini della Basilicata, come abbiamo visto dalle indagini sulla famiglia Mazzocca qui a Roma e dal loro coinvolgimento nell’omicidio di Alina Holub, di cui ci ha parlato la signora Tantalo. Oltre alla prova madre che ci ha fornito, cioè quel biglietto scritto da Eugenio Romaniello stesso, dove le dava istruzione su come contrattare un killer per l’esecuzione della Holub e-”

 

“Obiezione, la dottoressa parla per ipotesi ed imbecca l’accusa, signor giudice.”

 

“Con tutto il rispetto non ho bisogno di farmi imbeccare dalla dottoressa Tataranni per fare un’arringa, signor giudice, e la dottoressa sta semplicemente illustrando quanto già emerso dalle prove e da testimonianze numerose, chiare, precise e concordanti. Parlare di ipotesi arrivati a questo punto mi pare un po’ come dire che sia un’ipotesi che l’acqua bolle a cento gradi.”

 

Sentì alcuni risolini in aula ed il giudice annuì verso la Ferrari e disse, “obiezione respinta, avvocato. La dottoressa Tataranni è stata chiamata a testimoniare sul lavoro da lei svolto e lo sta facendo. Prosegua pure, dottoressa Tataranni.”

 

“Come stavo dicendo, appare evidente che Romaniello Eugenio abbia organizzato anche l’omicidio di Alina Holub, per coprire il… diciamo il lavoro malfatto da Davidson per conto della signora Tantalo. Ma anche lì, Alina era stata portata in Italia ed era gestita dal giro di Quaratino e di Romaniello Saverio. Attività di cui Romaniello Saverio stesso ha testimoniato che suo fratello era perfettamente al corrente, come del resto emerso anche da altri testimoni. Appare evidente che a capo di tutto ci sia Romaniello Eugenio e che, anche se in questa vicenda ben pochi sono del tutto innocenti, era lui a muovere le fila, dal suo posto privilegiato, lasciando che fossero gli altri a fare il lavoro sporco al posto suo. Ma questo non lo rende meno colpevole, anzi, è il responsabile principale di tutte le morti a cui ho purtroppo assistito da quando ho iniziato questa indagine e da quando assisto la dottoressa Ferrari qui a Roma, una volta che il processo è stato trasferito per incompatibilità ambientale. Incompatibilità data, nuovamente, da Romaniello Eugenio e dalla rete criminale e di corruzione che aveva creato in procura a Matera e non solo.”

 

Aveva detto tutto ciò che poteva, il giudice sembrava impressionato, pure la Ferrari la guardava con approvazione, quando il giudice chiese all’avvocato di Romaniello, “avvocato, vuole procedere con il controinterrogatorio?”

 

E l’avvocato esordì con un “con piacere!” che non prometteva niente di buono.

 

“Dottoressa, l’abbiamo sentita fino adesso parlare di corruzione, di legalità, di rispetto delle istituzioni, dipingendo il mio cliente come l’origine di tutti i mali non solo di Matera ma dell’intera Basilicata addirittura, e pure di Roma a sentire lei. Non solo questo ritratto del mio assistito come una specie di gangster è ridicola e frutto di testimonianze di persone che hanno come unico interesse comune quello di scaricare il barile delle loro colpe e dei loro crimini ma, soprattutto, a dipingere questo ritratto c’è una mano che, in quanto a etica sul luogo di lavoro e a rispetto della legalità e delle istituzioni, lascia molto a desiderare, non le pare?”

 

“In realtà no, avvocato,” rispose, decisa, anche se sapeva benissimo dove stava per andare a parare.

 

Ma il colpo fu lo stesso secco e netto quando l’avvocato Marchesi, gonfiando tronfio il doppiopetto del suo completo giacca e pantaloni che doveva costare quanto tutti i mobili del suo appartamento, proclamò, “è vero o non è vero che lei ha intrattenuto e sta intrattenendo una relazione tutt’altro che meramente professionale col maresciallo Ippazio Calogiuri, che chiameremo a testimoniare più avanti e che ha seguito insieme a lei tutta quest’inchiesta prima che venisse trasferita qui da Matera e pure dopo?”

 

“Obiezione! La domanda riguarda vicende private completamente scollegate da questa inchiesta e da questo processo e-”

 

“Presidente, con tutto il rispetto, le vicende private di due dei testimoni nonché dei principali fautori di questa inchiesta riguardano quest’inchiesta eccome, se portano a mettere in dubbio l’indipendenza e l’etica del loro operato.”

 

“Obiezione respinta, dottoressa Ferrari. Dottoressa Tataranni, risponda alla domanda dell’avvocato,” proclamò il giudice, con aria a dir poco severa.

 

Il giudice non poteva non sapere già di lei e Calogiuri, visto che ormai la cosa era di dominio pubblico, ma era evidente che avrebbe tenuto comunque un atteggiamento di riprovazione al riguardo. Ed Imma sapeva di non poter negare, purtroppo, né di potersi sottrarre alla domanda.

 

Incrociò lo sguardo del giudice Romaniello che aveva un’aria di trionfo stampata in faccia. Doveva evitare che la facessero nera o, al di là dell’udienza, sarebbe stata compromessa la sua carriera e la sua credibilità. E anche quelle di Calogiuri, la cui occhiata dai banchi, un misto di preoccupazione e rabbia, le fece un male tremendo al cuore.


Nota dell’autrice: Eccoci giunti alla fine di questo capitolo. Come avete visto l’uscita allo scoperto di Imma e Calogiuri non è stata affatto indolore, anzi, e nel prossimo capitolo vedremo che conseguenze ci saranno sul maxiprocesso e sulla carriera di entrambi. E poi arrivano finalmente i salti temporali ed alcuni ritorni credo molto attesi. Inoltre si aggiungerà un altro tassello al misterioso comportamento della Ferrari.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che la storia continui a mantenersi interessante. Con il passare delle settimane e delle pagine scritte il timore di venire a noia è sempre più forte, quindi se vorrete farmi avere una recensione con il vostro parere, vi ringrazio di cuore fin d’ora.

Un grazie per avere seguito la storia sino a qui e a chi l’ha messa nei preferiti o nei seguiti: spero continui a non deludervi.

Il prossimo capitolo arriverà puntuale domenica 21 giugno.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 35
*** Il Giudizio ***


Nessun Alibi


Capitolo 35 - Il Giudizio


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Allora, dottoressa Tataranni? Lei ed il maresciallo Calogiuri avete un rapporto personale che va al di là dell’ambito lavorativo?”

 

“A parte che la sua domanda vuol dire tutto e niente, avvocato. In ogni caso, sì, è vero, io ed il maresciallo abbiamo... una relazione ma-”

 

“Ora mi dico,” la interruppe bruscamente, senza lasciarla spiegare, “che credibilità può avere un’inchiesta condotta ed orchestrata da due persone che hanno ignorato tutti i regolamenti esistenti in proposito di relazioni sul luogo di lavoro, proprio per evitare anche l’inquinamento di prove?”

 

“Avvocato, francamente paragonare il presunto mancato rispetto delle regole derivante da una relazione personale tra me ed il maresciallo, due adulti liberi e consenzienti, al mancato rispetto delle regole, per usare un eufemismo, mostrato dal suo cliente è a dir poco paradossale. Lei mi vuole dire che innamorarsi di qualcuno è una cosa grave come ordire omicidi multipli, corruzioni, ricatti... e non sto qui di nuovo a farle l’elenco perché non mi basterebbe tutta la durata dell’udienza?”

 

“Peccato che questi crimini vengano ricollegati al mio cliente in maniera soprattutto indiziaria. E se le prove sono state raccolte solo da lei e dal maresciallo si pongono molte domande sul fatto che, magari, per darle una mano nella sua carriera e nella sua vendetta personale contro il mio cliente, il maresciallo potrebbe aver… guardato dall’altra parte mentre lei costruiva e fabbricava prove contro il mio cliente, non le pare?”

 

“Peccato che ogni singola prova di questo processo sia stata regolarmente documentata da telecamere e da agenti della scientifica o della polizia giudiziaria presenti. E che ci siano svariate testimonianze tutte concordanti. O mi vuole forse dire che ho sedotto e corrotto pure tutti i testimoni, uomini e donne, buona parte del personale di due procure e persino telecamere e computer? Perché la mia autostima dal punto di vista estetico non è mai stata particolarmente alta, avvocato, ma da oggi dovrò evidentemente rivedere le opinioni mie e di quasi tutti quelli che conosco sulla mia avvenenza.”

 

Sentì qualche risata tra i banchi e poi vide la Ferrari annuire e prendere parola, “presidente, vorrei anche ricordare che la dottoressa Tataranni ha liberamente rinunciato al caso a Matera quando si è prospettata l’incompatibilità ambientale, nonostante il prestigio che occuparsi di un processo di queste dimensioni poteva comportare. Non solo, ma ora è di mia competenza ed il ritorno principale di carriera e di… immagine, se così vogliamo chiamarla, è stato e sarà mio. Che interesse poteva avere la dottoressa Tataranni a corrompere il maresciallo Calogiuri per un’inchiesta per la quale non sapeva nemmeno se sarebbe mai più apparsa in tribunale? A meno che l’avvocato voglia insinuare che la dottoressa abbia pure una storia con me, viste le teorie assurde che sta portando avanti.”

 

“Mi sembra che la dottoressa Tataranni si sia scordata, guarda caso, di menzionare come sia stata lei la principale mentore del maresciallo Calogiuri, fin dai tempi in cui lui era un appuntato alle prime armi e lavoravano insieme a Matera. Ma ho fatto le mie ricerche e la dottoressa all’epoca era una donna sposata e tutt’oggi è separata e non divorziata legalmente. Questo non solo mette in dubbio la moralità sua e del maresciallo, ma anche l’enorme influenza che può avere avuto su di lui sin dai primi momenti delle indagini, quando la dottoressa Ferrari non era presente ed il maresciallo era in chiara sudditanza psicologica. Inoltre la sua vendetta personale contro la famiglia Romaniello e contro le famiglie benestanti di Matera, per un solo motivo di lotta di classe e di risentimenti personali, è evidente a chiunque la conosca. E le testimonianze possono essere ottenute con la forza o per opportunismo, se l’alternativa prospettata è il carcere a vita e-”

 

“E ci sono prove a corroborare le testimonianze, avvocato, prove, fatti, non solo parole. Molte delle quali non raccolte né dalla dottoressa né dal maresciallo. Inoltre direi che gli affari matrimoniali della dottoressa riguardano solo lei ed il marito e che, se l’avere relazioni sul luogo di lavoro con persone a cui si è fatto da mentore, come dice lei, bastasse a mettere in dubbio la moralità di qualcuno e le sue capacità lavorative… avvocato, come si suol dire… chi è senza peccato scagli la prima pietra e lei sa benissimo a cosa mi riferisco. Le mie ricerche le so fare anche io.”

 

“Presidente, la dottoressa Ferrari tenta di intimidirmi!” esclamò l’avvocato, iniziando però a sudare vistosamente.

 

“Presidente, io ho fatto un’affermazione generale e non ho approfondito perché, a differenza dell’avvocato, se posso evito di mischiare le vicende personali con quelle professionali. Ma se si sente chiamato in causa al punto da ritenerla un’intimidazione, forse questo dice già tutto quello che non ho detto io, no? Ma, visto che non voglio che si dica che io tento di intimidire la difesa o di fare ricatti, parlerò chiaro, almeno per quanto può essere verificabile da atti e non da voci. Perché il qui presente avvocato ha collezionato, tra le altre cose, a distanza di cinque anni l’una dall’altra, due denunce per molestie sul luogo di lavoro da due praticanti. Chiuse, guarda caso, con un accordo privato senza arrivare in tribunale e delle quali dovremmo parlare arrivati a questo punto.”

 

“Obiezione! Si tratta di cose personali irrilevanti ai fini di quest’indagine e-”

 

“E se le sue vicende personali sono irrilevanti, avvocato, perché devono essere rilevanti quelle della dottoressa Tataranni, dove peraltro la consensualità non è mai stata messa in dubbio dal maresciallo? Perché lei è un uomo e la dottoressa è una donna? Mi risulta che lei fosse sposato all’epoca di entrambi i fatti e che di certo le persone coinvolte fossero in un rapporto di chiara sudditanza psicologica, giusto per parafrasare. E lei sa benissimo che la dottoressa Tataranni non ha il potere di migliorare la carriera del maresciallo, mentre un avvocato in uno studio privato ha molto più potere di discrezione sulle sue dipendenti. E le due praticanti dopo che l’hanno denunciata, sempre guarda caso, non hanno più lavorato in ambito legale, peraltro.”

 

Marchesi ormai pareva un innaffiatoio per quanto sudava e l’avvocato si rivolse verso Eugenio Romaniello che aveva l’aria di chi, non avessero avuto decine e decine di testimoni, avrebbe volentieri contravvenuto alla sua abitudine di non sporcarsi le mani per strozzarlo personalmente seduta stante.

 

Il giudice pareva completamente spiazzato, i presenti erano ammutoliti mentre Irene aveva un’aria di trionfo da cui non sapeva se essere ammirata o inquietata. Altro che pitbull!

 

Le aveva salvato la pelle, lo doveva riconoscere, almeno per il momento, ma si chiese se il passato dell’avvocato non fosse uno degli assi che la Ferrari aveva già nella manica da tempo e se per questo avesse insistito tanto per farla uscire allo scoperto con Calogiuri prima del processo, in modo da tendere una trappola all’avvocato e spingerlo ad entrare in argomento.

 

Ma non poteva aver previsto la varicella di Calogiuri, salvo avesse doti profetiche, e si rese conto di essere fin troppo paranoica nei suoi confronti.

 

Però era brava, porca miseria se era brava, almeno in tribunale! E ad un senso di rispetto nuovo nei confronti della collega, si aggiunse una dose ulteriore di timore nei suoi confronti.

 

Incrociò lo sguardo Calogiuri che sembrava alternarsi tra il sollievo e lo stupore e si chiese se anche lui si fosse finalmente reso conto di cosa fosse capace la Ferrari. Ma, a giudicare dall’occhiata di gratitudine che quegli occhi azzurri lanciarono subito dopo alla cara Irene, evidentemente ancora non la vedevano allo stesso modo su di lei. E forse non l’avrebbero mai vista allo stesso modo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Riconosce questo foglio, maresciallo?”

 

“Certamente, dottoressa. Si tratta di un foglio ritrovato a casa della signora Tantalo.”

 

“Era da solo al momento del ritrovamento, maresciallo, o con la dottoressa TatarannI?”

 

“No, dottoressa. La dottoressa Tataranni era rimasta in procura ed ero con altri colleghi della PG ed un maresciallo dei ROS. Inoltre le rarissime repertazioni avvenute in presenza solo mia e della dottoressa sono sempre state regolarmente filmate. Abbiamo seguito tutte le procedure alla lettera ed anche di più.”

 

“Le ricordo, signor giudice, che un perito calligrafico ha stabilito che la grafia su questo foglio appartiene ad Eugenio Romaniello e che la frase ivi scritta è stata usata dalla signora Tantalo esattamente la sera prima del delitto ad Alina Holub e la sera prima di un’aggressione subita dalla ragazza per allertare la famiglia Mazzocca, in un chiaro messaggio in codice. Mi pare evidente che pensare ad una coincidenza sia insultare l’intelligenza di tutti i presenti in quest’aula, oltre che la sua, presidente.”

 

Il giudice non ebbe altro da ridire e Calogiuri prese un respiro, chiedendosi se Irene gli avrebbe chiesto altro o se avrebbe lasciato spazio al controinterrogatorio, anche se l’avvocato della difesa pareva in pallone dopo quanto emerso su di lui.

 

“Vuole fare altre domande al teste, dottoressa, o passiamo al controinterrogatorio?”

 

“Solo un’ultima domanda, signor giudice. Maresciallo, per sgombrare il campo da ogni possibile dubbio, visto che l’argomento è stato tirato in ballo dalla difesa… ci può dire se il… rapporto personale che ha sviluppato con la dottoressa Tataranni è nato liberamente o se ci sia mai stata alcuna pressione o coercizione su di lei da parte della dottoressa? Sia in ambito personale che lavorativo. Le ricordo che è sotto giuramento.”

 

Calogiuri rimase un attimo sorpreso e la guardò come a dire ma sei impazzita?! ma poi scambiò un’occhiata con lei che fece segno quasi impercettibilmente verso Marchesi e capì. Non voleva che a fare la domanda fosse lui, anche se non pensava si sarebbe azzardato dopo quanto successo.

 

“Il mio rapporto lavorativo con la dottoressa Tataranni è rimasto professionale. Abbiamo sempre rispettato le procedure ed i ruoli e credo di tenere con lei sul lavoro lo stesso atteggiamento e rispetto che ho quando collaboro con altri magistrati. A livello personale, la relazione con lei è nata non solo in maniera assolutamente libera ma anzi sono stato io a… a farmi avanti per primo e a manifestarle il mio interesse. E la dottoressa è sempre stata molto cauta in proposito, soprattutto per tutelarmi. Per mia fortuna però ha ricambiato e ricambia ciò che provo per lei. Ma la vita privata è privata ed il lavoro è lavoro e non vedo come ciò che provo o non provo per lei e viceversa possa incidere sul nostro operato. Allora qualsiasi rapporto, anche di amicizia, tra colleghi dovrebbe essere messo in discussione, no? Ma siamo esseri umani non macchine e, se si rispettano tutte le procedure e se si ha un’etica professionale, non penso che ci sia niente di male nel tenere a qualcuno.”

 

Irene annuì e poi aggiunse, calma, “non ho altre domande.”

 

“Avvocato, lei ha qualche domanda per il maresciallo Calogiuri?”

 

Ma l’avvocato scosse la testa, Romaniello al suo fianco che pareva sempre di più sull’orlo di un omicidio. Del resto sulla perizia del grafologo non poteva dire niente e sulla sua relazione personale con Imma, arrivati a questo punto, non conveniva che intervenisse ancora.

 

E capì che era per questo che Irene l’aveva lasciata come ultima domanda, per mettere in chiaro le cose ed allo stesso tempo mettere l’avvocato della controparte in difficoltà nel controinterrogarlo.

 

Era proprio brava in aula. Nelle indagini non era abile come Imma, ma in tribunale aveva un modo di prevedere le reazioni altrui e di indirizzare gli argomenti dove voleva lei che Imma, che aveva un approccio molto più diretto e di pancia, non aveva.

 

Anche se preferiva le lotte senza esclusioni di colpi della sua dottoressa, capì una volta e per tutte come Irene fosse riuscita a portarsi a casa il processo di Milano, nonostante tutte le difficoltà.

 

E la ammirava molto per questo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottor Romaniello, la grafia su questo foglio è la sua? Le ricordo che è sotto giuramento, anche se, visto il suo mestiere, lo sa meglio di me.”

 

La Ferrari aveva appena finito di far parlare il perito in lungo e in largo sulle similitudini della grafia sul biglietto con quelle di Romaniello, con tanto di proiezione ed ingrandimento affinché tutti lo vedessero.

 

E poi aveva chiamato Romaniello a testimoniare ma aveva fatto soltanto questa domanda.

 

Del resto sulle altre cose Romaniello avrebbe potuto svicolare ed inventarsi giustificazioni fantasiose come faceva di solito. Ma su questa proprio no. Era la pistola fumante che lo legava con certezza ad almeno un omicidio.


Romaniello la fulminò con un’occhiata che avrebbe inquietato chiunque, incrociò le braccia e non rispose.


“Dottor Romaniello, vuole che le ripeta la domanda?”

 

“No. Ma non ho niente da dirle. Non ho ricordi di quel foglio.”

 

Era la risposta meno peggio che potesse dare. Un sì lo avrebbe inchiodato, un no sarebbe stata una palese menzogna sotto giuramento.

 

“Quindi lei non ricorda perché una scrittura identica alla sua al 99% sia stata lasciata su un biglietto, indicando con precisione il posto ed il modo di contrattare un omicidio? Mi pare un poco inverosimile, dottore.”

 

“Non ricordo, dottoressa.”

 

“Va bene. Se questo è l’atteggiamento che vuole avere non posso obbligarla a rispondere diversamente. Ma le ricordo, presidente, che Romaniello Eugenio è un uomo lucido e dalla grande memoria, a detta di chiunque lo abbia visto in azione, professionalmente e a livello personale. Quindi questa improvvisa amnesia selettiva mi pare a dir poco inverosimile e pretestuosa. Non ho altre domande.”

 

“Va bene, dottoressa. Avvocato, vuole controinterrogare il testimone?”

 

Ma l’avvocato scosse il capo, l’aria di chi sapeva di essere nei guai fino al collo. E non solo per quello che si era scoperto su di lui ma perché Romaniello era sicuramente pericoloso, vendicativo e difficilmente avrebbe dimenticato quanto successo.

 

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“Confermo per l’imputato Romaniello Saverio una condanna complessiva di anni trenta per i reati a lui ascrivibili in questo processo. Silenzio in aula!”

 

I commenti, molti dei giornalisti presenti in sala, stavano aumentando ad ogni sentenza di condanna. Al momento tutti gli imputati avevano preso la pena richiesta dalla Ferrari, anche chi aveva testimoniato.

 

Sapere che quel sadico maiale di Romaniello sarebbe rimasto in carcere almeno per altri tredici anni, fino ai quindici canonici, considerando anche la sua età, fu fonte di incredibile soddisfazione. E già gli era andata bene perché, se non avesse collaborato, l’ergastolo non glielo levava nessuno.

 

Ma ora c’era il nome che temeva e che aspettava di più.

 

“Condanno l’imputato Romaniello Eugenio alla pena dell’ergastolo per associazione per delinquere di stampo mafioso, istigazione all’omicidio, istigazione al suicidio, omicidio volontario plurimo in quanto mandante con le aggravanti della premeditazione e dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, corruzione, concussione, corruzione in atti giudiziari, abuso d’ufficio, intimidazione e tutti gli ulteriori reati accessori a lui ascrivibili che saranno meglio dettagliati nelle motivazioni della sentenza. Infine condanno l’imputata Tantalo Maria Giulia alla pena complessiva di anni venti, per il tentato omicidio di Lombardi Luigi, in quanto mandante, con l’aggravante della premeditazione e del legame matrimoniale con la vittima e le attenuanti in quanto rea confessa; nonché per i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso ed istigazione al suicidio di Bruno Giulio.”

 

Imma lasciò andare il respiro che nemmeno sapeva di stare trattenendo e si voltò verso Calogiuri, seduto accanto a lei, che la guardava con un sorriso meraviglioso, tra il sollievo, la felicità e l’orgoglio che era certa fosse lo specchio del suo.

 

“Ce l’hai fatta, dottoressa,” le sussurrò e lei se ne fregò di tutto e tutti, tanto non era lì in veste ufficiale ed ormai le carte erano scoperte e se lo abbracciò rapidamente, sussurrandogli di rimando, sentendo i muscoli contrarsi dalla sorpresa, “ce l’abbiamo fatta, maresciallo, grazie di tutto!”

 

Lo lasciò andare, vedendolo un po’ imbambolato, incurante dei giornalisti che probabilmente li stavano fotografando e poi incrociò lo sguardo di disapprovazione di Mancini, seduto al banco dell’accusa, accanto alla Ferrari.

 

La cara Irene invece le rivolse uno di quei suoi sorrisi che le davano sui nervi, ma che stavolta sembrava più sincero del solito, si vedeva quanto fosse soddisfatta.

 

“Complimenti, dottoressa, siete stata eccezionale!” sentì la voce di Calogiuri pronunciare e, mentre un moto di gelosia l’assaliva, vide la Ferrari sorridere ancora di più, stringergli la mano e dargli un rapido abbraccio.

 

Non sapeva cosa le desse più fastidio, se l’abbraccio o quell’eccezionale di Calogiuri, aggettivo che solitamente rivolgeva solo a lei, anche se era sicuramente meritato. Ma subito dopo la Ferrari si rivolse verso di lei e disse, “Imma, congratulazioni! Il primo grado di giudizio è andato benissimo e senza il tuo lavoro di indagine non sarebbe stato possibile. Spero che tu sia soddisfatta del risultato.”

 

“Sì, molto. Devo dire che qui in aula… hai gestito bene la situazione,” le toccò ammettere, perché era la verità e non poteva fare altrimenti.

 

La Ferrari sembrò un attimo sorpresa e poi per poco ad Imma non prese un colpo quando si sentì trascinare in un rapido abbraccio, seguito da una stretta di mano. E poi, come se niente fosse, la Ferrari si rivolse a Mancini e fece lo stesso con lui.

 

Si chiese se fosse uno show per i fotografi: i magistrati uniti, compatti, che fanno squadra, pure senza le cenette tanto care a quella lavativa della Moliterni.

 

Con la cara Irene tutto era ambivalente e misterioso.

 

Ma almeno a fare il suo lavoro era capace, che era più di ciò che potesse dire della maggior parte dei magistrati con i quali aveva avuto il dispiacere di lavorare. Anche se a tratti nel modus operandi le sembrava più un avvocato, di quelli di cui pure il suo quasi fratello sarebbe andato orgoglioso.

 

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“Dottoressa, ha qualche dichiarazione su queste condanne?”

 

“Le sue richieste sono state pienamente accolte, è soddisfatta?”

 

La Ferrari, circondata rapidamente dal nugolo di giornalisti, alzò una mano per chiedere silenzio e, dopo poco, il vociare calò fino a diventare un brusio.

 

“Sono soddisfatta del risultato raggiunto oggi. Questa è una giornata molto importante per la città di Matera, per la città di Roma e credo per tutta la giustizia italiana. Ma la sentenza odierna non sarebbe stata possibile senza la tenacia ed il lavoro instancabile del maresciallo Calogiuri e soprattutto della dottoressa Tataranni, che ha lottato senza sosta affinché questa rete criminale venisse allo scoperto e che ha dato un contributo fondamentale alle indagini sia a Matera che qui a Roma. Credo che quindi le congratulazioni vadano fatte primariamente a lei ed è mio desiderio e mia speranza che voglia e possa occuparsi lei del secondo grado di giudizio, se alcuni imputati, come presumo che sia, faranno appello. Io mi ritengo soddisfatta di avere traghettato il processo fino a questa giusta sentenza.”

 

Imma spalancò gli occhi, sbigottita, chiedendosi se la Ferrari fosse impazzita. Mancini, che le stava ancora accanto, aveva uno sguardo manco avesse appena inghiottito un nido di vespe.

 

Scambiò uno sguardo con Calogiuri, che pareva basito quanto lei.

 

“Dottoressa Tataranni, cosa risponde alla sua collega?”

 

“Dottoressa Tataranni, accetterebbe di riprendere in mano il processo per l’appello?” chiese un’altra voce ed Imma riconobbe la chioma fin troppo folta e l’accento americano del giornalista che avevano visto a Milano… Paul qualcosa.

 

E poi ci fu una sequela di altre domande tutte dello stesso tenore. Sapeva che i giornalisti dovevano pronunciare la domanda di rito per poi farsi fare il montaggio ad hoc, ma dovette mordersi la lingua per trattenersi dal ricordare loro che l’arteriosclerosi ancora non ce l’aveva.

 

“E se mi lasciate parlare!” si lasciò però sfuggire, mettendoli a tacere, “ringrazio la dottoressa Ferrari per le belle parole, ma non lo so. Credo sia una valutazione da fare attentamente ed in altra sede. In ogni caso la ringrazio per come ha condotto questa ultima parte processuale e per avermi consentito di collaborare alle indagini ed aver sostenuto il mio trasferimento qui a Roma.”

 

La cara Irene la guardò come se le fosse cresciuta un’ulteriore testa e pure Calogiuri, ma alla fine almeno quelle cose le pensava veramente. La restante opinione sulla collega l’avrebbe omessa, almeno per il momento.

 

“Dottoressa, si è parlato molto della sua relazione con il maresciallo qui presente. C’è già chi la chiama la Pantera di Matera. Ha qualche dichiarazione in proposito?”

 

“Ma lei lavora per un giornaletto di gossip o per un quotidiano?” chiese inizialmente, pungendo il giornalista, uno che trasudava viscidume ancora di più dell’esponente medio della categoria, con il suo abbigliamento da pseudo giovane anche se avrà avuto almeno la sua età, “e comunque mi hanno definita con appellativi peggiori, pantera è già un miglioramento, visto che sono animali intelligentissimi, molto di più di parecchi esseri umani che conosco. Anche se, fossi stata un uomo, sono certa vi sareste stupiti invece se avessi intrapreso una relazione con una mia coetanea, no?”

 

Vide chiaramente che sia Calogiuri che la Ferrari si trattenevano dal ridere, mentre Mancini sembrava sempre più sconvolto. Il giornalista non parlava più.

 

“E lei, maresciallo, ha qualche dichiarazione da fare?”

 

“Credo abbiano già detto tutto la dottoressa Ferrari e la dottoressa Tataranni,” replicò, con uno sguardo eloquente di cui andò parecchio orgogliosa.

“Dottor Mancini, e lei che ne pensa? Accoglierà la proposta della dottoressa Ferrari di lasciare il giudizio d’appello in mano alla dottoressa Tataranni?”

 

“Dottor Mancini, teme ripercussioni sulla reputazione della procura dalla relazione tra la dottoressa Tataranni e il maresciallo Calogiuri?”

 

“Come ha detto la dottoressa Tataranni, questa non è la sede opportuna dove fare queste valutazioni.”

 

“Dottore, come sottolinea la dottoressa Tataranni, esiste ancora una differenza nella percezione di molti riguardo alle relazioni sentimentali quando è la donna ad essere più matura dell’uomo. Lei che pensa in proposito di questa discriminazione di genere?” intervenne di nuovo Paul qualcosa ed Imma gli fu profondamente grata. Almeno uno che aveva un minimo di decenza, in mezzo a tutto quel gruppo di pseudo maschi alfa accalcati in branco.

 

“Ovviamente sono contrario ad ogni discriminazione, ciò che c’è da valutare è l’operato delle persone coinvolte.”

 

“Ed indubbiamente l’operato della dottoressa e del maresciallo è sotto gli occhi di tutti coloro che hanno seguito questa inchiesta,” si inserì la Ferrari con un sorriso.

 

Era un’affermazione ambigua quanto lei, ma sapeva benissimo che sarebbe stata presa in senso positivo dai giornalisti.


“Concorda con la dottoressa Ferrari, dottor Mancini?”

 

Mancini guardò per un attimo la Ferrari, con un’aria non esattamente felice, ma poi tornò a sorridere, “la dottoressa Ferrari ha lavorato fianco a fianco con il maresciallo e la dottoressa Tataranni, quindi ha avuto modo di vederli in azione molto meglio di me. Con permesso, se ci lasciate passare, per oggi è tutto.”

 

*********************************************************************************************************

 

“Perché lo hai fatto?”

 

Erano infine rimaste sole in una stanza della procura: Mancini era stato chiamato al telefono e Calogiuri era rimasto coi ragazzi della PG a dare una mano alle guardie, per cercare di tenere a bada i giornalisti ancora assiepati fuori.

 

La cara Irene la guardò con un’aria quasi divertita e le domandò a sua volta, “che cosa?”

 

“Dire quelle cose sul lasciarmi il processo d’appello e… e su di me e Calogiuri.”

 

La sintesi sarebbe stata un perché ci hai aiutato? ma certi termini con la Ferrari le riusciva difficile utilizzarli, la lingua proprio si rifiutava.

 

“Imma…” sospirò, scuotendo il capo, “per quanto riguarda l’appello so riconoscere a Cesare quello che è di Cesare ed in questo processo hai fatto quasi tutto tu, almeno per la parte investigativa. Inoltre, vista la mia situazione familiare e la posizione dei Mazzocca qui a Roma, se c’è qualcun altro che può occuparsene bene al posto mio, di sicuro non sono qui a scalpitare per tenermelo stretto. Di maxiprocessi ne ho già fatti, la mia reputazione nel bene e nel male già ce l’ho, le mie soddisfazioni professionali me le sono tolte e me ne sono pure beccata le conseguenze, e ci sono un sacco di casi di cui occuparsi qui a Roma. Quindi….”

 

Imma annuì perché da un lato la capiva molto bene, anche se si chiedeva se la componente egoistica e di protezione verso Bianca prevalesse sul lato più altruistico.

 

“E per il resto… se sei qua ad occuparti del processo non puoi tornare a Matera. E… lo so che Mancini potrebbe comunque trasferire Calogiuri ma, vista la situazione, se rimani tu non gli conviene, o salterebbe fuori un polverone, essendo lui il sottoposto. E… anche se sulle tue intenzioni ho sempre un po’ i miei dubbi e continuo a pensare che Calogiuri potrebbe avere di meglio, quantomeno ti sei presa le tue responsabilità ed hai avuto il coraggio di uscire dalla clandestinità. Quindi ti voglio dare il beneficio del dubbio, almeno per ora. E poi non voglio vederlo soffrire e, se foste costretti a separarvi, so per esperienza che starebbe molto male… quindi….”

 

Rimase ammutolita per un attimo, le battute sarcastiche che le vennero in mente riguardo alla munificenza della cara collega di darle il beneficio del dubbio le morirono in gola.

 

“Ci devi tenere proprio tanto a Calogiuri,” le uscì e la Ferrari scosse di nuovo il capo.

 

“Credo sia impossibile non tenere tanto a Calogiuri quando lo si conosce bene. Ma proprio per questo mi auguro che non lo prenderai in giro e che tu faccia sul serio con lui. Perché se no... hai visto che quando mi ci metto il mio soprannome di pitbull me lo sono guadagnato sul campo.”

 

Lo aveva visto eccome e che la Ferrari fosse iperprotettiva nei confronti di Calogiuri era ormai palese. Ma se fosse solo una cosa platonica o ci fosse altro non lo poteva sapere. E forse al momento non aveva nemmeno tanta importanza, in fondo: era lui che aveva scelto di stare con lei ed era lui che doveva sceglierla ogni giorno. Ma la Ferrari aveva quella capacità di essere sempre due o tre mosse avanti agli altri, come se il mondo fosse un’eterna partita di scacchi, che la inquietava abbastanza.

 

“Spero che tu non abbia problemi con Mancini,” disse invece, e quello lo pensava davvero.

 

“A parte che non gli converrebbe, Imma, dopo la sentenza di oggi ed il polverone mediatico che ci sarà, ma… Mancini lo conosco da una vita e ci penso io, non ti preoccupare. E poi non credo che avrebbe realmente trasferito o te o Calogiuri, alla fine, pure senza il mio intervento, non sarebbe da lui. Ma ho preferito non rischiare.”

 

Sul fatto che la Ferrari potesse mantenere un buon rapporto con Mancini non aveva dubbi, abile com’era nelle relazioni sociali. Su che potessero riuscirci lei e Calogiuri invece....

 

Ma, in fondo, c’era abituata a stare sull’anima ai procuratori capo. Mancini era stato l’eccezione che confermava la regola, ma poteva sopravvivere ad un ritorno alla normalità.

 

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“Sei stata convocata anche tu?”

 

Lo stomaco le finì in gola: Mancini le aveva chiesto di andare nel suo ufficio a parlare e ci si era trovata di fronte Calogiuri.

 

Era evidente quale sarebbe stato l’argomento del giorno. E l’ansia si impossessò di lei all’idea del verdetto che incombeva.

 

“Prego, il dottore è libero ora.”

 

Annuì alla segretaria e varcò la soglia, seguita da Calogiuri.

 

“Dottoressa, maresciallo.”

 

Il tono di Mancini era come sempre di una gelida formalità, non che si aspettasse di meglio. Fece segno a loro di sedersi ed Imma con rassegnazione prese posto.

 

“Presumo che immaginiate perché vi ho convocato…”

 

“Che cos’ha deciso, dottore?” tagliò corto, perché era meglio sapere che prolungare la tortura.

 

“Non prenderò provvedimenti disciplinari e per il momento non disporrò per il trasferimento di uno di voi due. Ma per quanto riguarda il maxiprocesso e… la proposta della dottoressa Ferrari voglio discuterne bene con lei e valutare anche la reazione dei media nel prossimo periodo. Ne riparleremo una volta che sarà fatto appello ufficialmente. E fino a nuovo ordine voglio che continuiate a non lavorare insieme, salvo emergenze. Maresciallo, lei tornerà a collaborare principalmente con la dottoressa Ferrari e con il dottor Santoro, qualora ne facesse richiesta. Vi è tutto chiaro?”

 

Imma vide in tralice che Calogiuri sembrava sull’orlo di protestare, probabilmente per la decisione di dividerli lavorativamente, ma si affrettò ad un, “va bene, dottore.” che lo lasciò sorpreso.

 

Ma tra tutte le ipotesi, era oggettivamente quella meno peggio.

 

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Chiuse la porta di casa dietro di sé con un sospiro di sollievo come raramente ne aveva sentiti: era venerdì sera, la settimana era finita e per un paio di giorni non avrebbe dovuto riaffrontare la procura e tutto il resto appresso.

 

“Tutto bene?”

 

Si voltò verso Calogiuri, che la guardava un po’ preoccupato, e le uscì di getto un, “mo sì, Calogiuri!” e poi se lo abbracciò stretto.

 

Lui sembrò un attimo sorpreso ma ricambiò la stretta con tanta forza che si ritrovò a penzolare in aria e le cascò pure a terra una scarpa col tacco.

 

Si guardarono e venne ad entrambi da ridere.

 

“Visto che è venerdì sera e la settimana è finita… ti va di andare a qualche parte a festeggiare la sentenza e che ci siamo evitati il trasferimento?”

 

“Per ora Calogiù, per ora,” gli ricordò, anche se sperava veramente che la decisione di Mancini diventasse presto definitiva, “e per il resto… che cos’hai in mente, maresciallo?”

 

“Non ti fidi di me, dottoressa?”

 

“Il problema non è fidarmi di te, Calogiù. Il problema è se mi reggo in piedi o no, che non c’ho più vent’anni ed è stata una settimana tremenda.”

 

“Allora possiamo fare domani sera, se preferisci.”

 

Ci pensò un attimo, ma aveva ancora l’adrenalina mista ad incazzatura addosso. Sonno non ne aveva realmente e poi se c’era un’occasione che andava festeggiata era proprio quella.

 

“Va bene stasera, Calogiù. Vuoi andare subito o faccio in tempo a cambiarmi?”

 

“Vado a casa mia a cambiarmi pure io, ti passo a prendere con la moto tra mezz’ora?”

 

“E va bene,” gli sorrise, dandogli un ultimo bacio ed andando in camera, lanciandogli un ultimo sguardo incuriosito, chiedendosi cosa avesse in mente.

 

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“Che c’è?”

 

“Ma quel vestito è nuovo? Sei… insomma, sei… ti sta… meravigliosamente!”

 

Imma sorrise compiaciuta, vedendolo in difficoltà con le parole, che ultimamente gli uscivano fin troppo bene. Adorava come notasse questi dettagli e fargli ancora tanto effetto quando si metteva qualcosa più da sera, anche se nel suo stile. Come quell’abito nero al centro e zebrato ai lati.

 

“L’ho comprato da qualche settimana, ma non avevo avuto ancora l’occasione di inaugurarlo, con tutto quello che è successo.”

 

“Allora dovrò darti più occasioni di uscita, dottoressa, se questo è il risultato,” proclamò lui, scendendo dal sellino per farle spazio.

 

“Maresciallo, mo non esageriamo che non c’ho un conto illimitato, eh! E neanche tu!”

 

E Calogiuri rise e scosse il capo, in quel modo mezzo esasperato, ma non disse niente, tanto sapeva che sarebbe stato inutile.

 

Salì in sella con facilità, ormai era un’esperta o quasi, e si avviarono rapidamente tra le stradine trafficate del venerdì sera romano.

 

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“Allora, ti piace qui?”

 

“Molto! E si mangia pure molto bene! Ma chissà quanto costa, Calogiù, io-”

 

“Se proponi di fare alla romana mi offendo, con tutte le spese che hai fatto tu ultimamente. E poi sai che non scelgo mai posti che non mi posso permettere.”

 

Imma sorrise, godendosi il panorama della terrazza che offriva un bellissimo scorcio di un’area di Roma che non conosceva, con uno dei colli a fare da sfondo, il sole che stava tramontando. Il menù era principalmente carne grigliata, molto buona, e le porzioni non erano ridicole, il che la faceva ben sperare in effetti sul prezzo finale.

 

“Ma dove lo hai trovato questo posto, Calogiù?” chiese, sperando non gliel’avesse consigliato la cara Irene.

 

“Ma niente… ho cercato su internet e ne parlavano bene.”

 

“Allora brindiamo ad internet e la tua capacità di fare ricerche, Calogiuri, anche se non si tratta di casi!” proclamò, alzando il bicchiere, e lui ricambiò.

 

“Che dici se brindiamo anche al tuo successo e a… a molti alti brindisi insieme, si spera sempre qui a Roma?”

 

“Mi sembra un’ottima idea Calogiù! Ma il successo è nostro, chiaro?”

 

Dopo un altro brindisi ricominciarono a mangiare, ma Imma notò con la coda dell’occhio una ragazza che si era alzata dal tavolo, presumibilmente per andare in bagno, e che la fissava. Si guardò intorno per bene per la prima volta - prima era troppo concentrata sulla vista di Roma e su quella di Calogiuri, che con quel completo elegante pareva uscito da una pubblicità - e realizzò che le occhiate in realtà venivano da diverse persone.

 

“Che c’è?”

 

“Niente… è che… mi sa che tra il mio vestito e… insomma… ci stanno squadrando pure più del solito, Calogiù.”

 

“Se è per guardare te che sei bellissima lo capisco, dottoressa. Se preferiscono farsi i fatti nostri che ammirare il panorama, invece, peggio per loro.”

 

Ed Imma sorrise, perché Calogiuri sdrammatizzava sempre le situazioni ma, proprio in quel momento, udì una voce sussurrata ma non a sufficienza dire, “ma non è quella che stava al TG?” e, dopo un altro po’, un altro bisbiglio, “ma sì, la Pantera di Matera.”

 

Si sentì stringere la mano e vide che Calogiuri la guardava preoccupato, “se… se preferisci che andiamo da un’altra parte….”

 

Quella sensazione meravigliosa nel petto che le dava solo lui, ricambiò la stretta, si sporse e gli piantò un bacio sulle labbra.

 

“Ma… ma…” farfugliò, evidentemente sorpreso, mentre i bisbigli per un attimo si zittirono, per poi riprendere con maggiore intensità.

 

“Ormai non ci dobbiamo più nascondere, no? E poi… e poi c’abbiamo ancora un sacco di carne nel piatto e col cavolo che la sprechiamo! Non so tu, ma io morivo di fame.”

 

Lo vide trattenere una risata, ma con gli occhi un po’ lucidi e poi sussurrarle un, “agli ordini, dottoressa!” che le fece veramente venir voglia di buttare la prudenza al vento e di baciarselo come si doveva, alla faccia degli astanti.

 

Ma, dopo un altro sorso di vino rosso, si sforzò di concentrarsi prima su un altro genere di appetito.

 

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“Ci voleva proprio una serata come questa, Calogiuri! Dovremmo farlo più spesso!”

 

Vederla così serena, nonostante le malelingue, fu un grande sollievo, oltre che una grande soddisfazione.

 

“Se… se vuoi… visto che è ancora abbastanza presto… potremmo andare a ballare al posto dell’altra volta,” azzardò, un poco in apprensione, ma erano settimane che voleva proporglielo e non gli sembrava ancora stanca. E poi aveva una voglia matta di vederla meglio in quel vestito nuovo.

 

Lei sembrò stupita, poi si morse un attimo il labbro e, dopo aver scosso leggermente il capo, come faceva spesso quando lui le proponeva una mezza pazzia che però a lei in fondo non dispiaceva, annuì, “e va bene, maresciallo! Ma stavolta l’alba non la facciamo, che se no poi tocca a te farmi da infermiere nei prossimi giorni.”

 

“Va bene, va bene. Promesso. Come sei stanca me lo dici e rientriamo.”

 

Per tutta risposta, si trovò trascinato di nuovo in un rapido bacio e le sorrise sulle labbra: gli sembrava ancora impossibile poterlo fare così liberamente, senza nemmeno il timore residuo che qualcuno scoprisse di loro due.

 

E, soprattutto, non gli pareva ancora vero che lei fosse la prima a lasciarsi andare a queste manifestazioni pubbliche d’affetto nei suoi confronti, senza remore e senza vergognarsi di che cosa avrebbe potuto dire la gente.

 

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“Stai bene?”

 

“Sì, te l’ho detto, sono solo un po’ stanco, scusami, devono essere ancora i postumi della varicella.”

 

“Ma che ti scusi, Calogiuri! Basta che non ti senti male. Ce la fai a guidare?” gli chiese, tenendoselo stretto a braccetto anche se era rassicurata dal fatto che sembrasse camminare con scioltezza.

 

Erano le tre e mezza del mattino e alla fine, dopo un ultimo tango appassionato - ballato in una maniera che avrebbe fatto rizzare i capelli ai giudici delle gare di ballo - era stato lui a gettare la spugna e a chiederle se potevano tornare a casa. Lei non si era nemmeno resa conto dell’ora: quando stava con lui tra le sue braccia e, soprattutto, quando ballava, era come se tutta la stanchezza si ritirasse in un angolino, pronta a tornare fuori il giorno dopo, ma non prima.

 

“Certo che ce la faccio, a meno che non ci voglia provare tu, che a quest’ora c’è poco traffico. Ma le buche ci sono lo stesso.”

 

“Eh, è sempre una città antica, Calogiuri!” lo sfotté, e lui arrossì, probabilmente avendo riconosciuto la citazione, e rendendosi finalmente conto del perché le buche sull’asfalto non fossero esattamente conseguenza dell’antichità di una città.

 

“Sei tremenda, dottoressa! Meno male che qualcosa l’ho imparata in questi anni!”

 

“Hai imparato moltissimo, maresciallo, e non solo sulle buche…”

 

“Imma!”

 

Ma lei rise, vedendo persino alla luce del lampione come il collo e le guance gli erano diventati bordeaux.

 

“Andiamo a casa, maresciallo?”

 

Lui le lanciò uno di quei suoi sguardi da ma come farò io con te? e poi l’aiutò a montare in sella. Se lo abbracciò stretto stretto, mentre il motore si avviava con un borbottio, e cominciarono a prendere velocità.

 

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“Ma che è?”

 

Qualcosa la ridestò bruscamente, infrangendo il sogno che stava facendo, in cui lei e Calogiuri stavano ballando su una bellissima spiaggetta al tramonto.


Ed alla musica latina si era sostituito un trillo fastidiosissimo che riconobbe come la sua stessa suoneria.

 

“Im-ma,” pronunciò lui, spalancando gli occhi ancora assonnati e guardandola con un’aria mezza distrutta.

 

Sbirciò l’ora sul comodino ed erano quasi le undici del mattino.

 

Il problema era che, una volta arrivati a casa, la stanchezza di Calogiuri pareva svanita e le aveva dimostrato in modo pratico esattamente quanto aveva imparato in quegli anni. Si erano addormentati alle cinque passate.

 

Afferrò il cellulare, il cui squillo insisteva martellante, presumendo fosse Valentina, visto l’orario.

 

Chiara L.

 

Il sonno residuo svanì del tutto, l’apprensione che iniziò a montare.

 

“Chi è?” le domandò lui, preoccupato, avendo sicuramente notato la sua espressione.

 

Gli mostrò il display.

 

“Pensi di rispondere?”

 

Ci pensò su ancora un secondo: in fondo, se avesse lasciato squillare ancora, probabilmente la chiamata sarebbe andata persa, ma poi d’impulso fece scorrere il dito sul verde.

 

“Pronto?”

 

“Imma? Tutto bene? Sono-”

 

“Lo so chi è. Come mai questa chiamata? Mi pareva di essere stata chiara nella nostra ultima conversazione riguardo alla mia posizione,” replicò, rendendosi conto di essere pure più dura del solito, ma non poteva farne a meno. Si sentiva ancora presa in giro dalla Latronico.

 

“Sì, ma… ma sono qui a Roma… sono venuta per l’udienza… insomma di Angelo… e mi chiedevo se potessimo parlare.”

 

“Non ti ho notata in aula,” rispose, sorpresa, anche se c’era talmente tanta gente e lei era stata così concentrata sul procedimento che poteva pure essere. E poi era stata seduta in prima fila quasi tutto il tempo. Latronico si era beccato vent’anni come la Tantalo.

 

“E comunque non mi pare proprio il caso. La situazione di… di tuo figlio non è cambiata e-”

 

“Appunto! Sono molte settimane ormai che è in carcere, da innocente con… con tutto quello che sta succedendo poi! Lo capisco che… che c’era il processo e… e tutto il resto... ma Andrea sta male e non ha fatto niente per meritarsi di stare in galera! E se tu non farai le indagini mi ci metterò di persona a cercare di capire cosa è successo, e non me ne andrò da Roma fino a che tutto non sarà chiarito.”

 

“Forse non ci siamo capite. Io farò il mio lavoro, come ho sempre fatto, e se Andrea Galiano è innocente lo dimostrerò. Al momento le uniche prove che abbiamo lo indicano come colpevole e non sono usciti altri elementi nelle ultime settimane. Questo non significa che non li stiamo cercando. Ma non accetto ricatti di alcun tipo: per quanto mi riguarda, puoi stare a Roma, a Matera o dove ti pare a te, ma il mio lavoro lo so fare e lo farò come al solito, nel bene e nel male, chiaro? E non chiamarmi più fino a che questa inchiesta non si sia risolta, salvo sia una questione di vita o di morte.”

 

E chiuse il telefono, prima di poter sentire le proteste della Latronico. 

 

Fu tentata di bloccare il numero, ma in fondo poteva succedere qualcosa che riguardasse il caso e sperava che il messaggio fosse stato recepito, pure senza ricorrere a quei mezzi drastici.

 

“Tutto bene?” ripetè Calogiuri, e si sentì sfiorare il viso in una carezza delicata.

 

“Hai sentito anche tu, no? Nelle prossime settimane almeno avrò più tempo di concentrarmi sul caso Spaziani. Anche se mi spiace che non potrai più lavorarci con me.”

 

“Ma a casa nessuno può impedirci di parlarne, no, dottoressa? Se hai bisogno lo sai che sono sempre disponibile.”

 

“Fin troppo, Calogiù, fin troppo!” esclamò, scompigliandogli i capelli ed abbracciandoselo più forte che riusciva.

 

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“Tutto a posto, Calogiù, sì?”

 

“Pe- perché?” le chiese, appoggiando il sacchettino di carta sul tavolo, “i bomboloni erano finiti, ho preso le brioche alla crema.”

 

“Eh… abbiamo fatto troppo tardi stavolta, Calogiù. E comunque c’hai una faccia che sembra che hai appena visto un fantasma e ci hai messo un bel po’.”

 

“E, ma sai, di sabato mattina, c’era la fila.”

 

“A quest’ora?”

 

“Mica saremo gli unici che hanno fatto la nottata, no, dottoressa?” rispose, anche se c’era qualcosa nello sguardo che non la convinceva ancora, “faccio i caffelatte?”

 

Annuì e stava valutando se lasciar cadere l’argomento o proseguire con le domande quando sentì di nuovo squillare il telefono.

 

“Se è ancora la Latronico giuro che stavolta la blocco!” esclamò, incazzata, recuperando il cellulare che era abbandonato sul comodino, l’incazzatura che si tramutò in preoccupazione.

 

“Valentì, tutto bene?”

 

“Mà… io sì, tutto bene. Tu piuttosto? E il tuo maresciallo, ovviamente. State bene? Volevo chiamarti prima ma… immaginavo che stessi ancora dormendo.”

 

“E perché?” chiese, sorpresa, “mica stiamo male: la varicella a Calogiuri è passata del tutto. E va bene che spesso nel weekend dormiamo fino a tardi ma puoi chiamarmi, lo sai….”

 

“No, è che… considerando l’ora a cui sarai andata a dormire….”

 

“Scusa, e tu che ne sai?” le domandò, basita, domandandosi per un secondo se ci fosse pure Valentina a ballare ma poi escludendolo: non era un posto per universitari quello.

 

“Non hai letto i giornali, immagino? Cioè più che altro un giornale, anzi, un paio… ma la notizia c’è pure su internet.”

 

“I giornali?” chiese, sorpresa, ma poi le si accese una lampadina e guardò verso Calogiuri che aveva un’aria tra il colpevole e l’apprensivo, “Calogiù… non è che per caso hai visto i titoli dei quotidiani nell’edicola qui di fronte, no?”

 

“Imma…”

 

“Imma un corno! Allora?! Lo sai che non mi devi nascondere le cose!”

 

“Ma non volevo farti preoccupare e comunque-”

 

“Valentì, ti richiamo!” pronunciò nel telefono, mettendo giù e, afferrata la borsa, uscì dall’appartamento e scese le scale di corsa, pure se stava in ciabatte.

 

Sentì i passi di Calogiuri che la seguivano, ma si fiondò al bugigattolo del giornalaio.

 

Vide l’edicolante fissarla con tanto d’occhi e poi notò una prima pagina di un quotidiano che diceva

 

La Pantera di Matera in Balera

 

E prometteva di fornire molte più informazioni a pagina cinque.

 

Sentì un misto tra mortificazione, incredulità e incazzatura, anche se il giornale era quello di quell’omuncolo che già l’aveva soprannominata in quel modo fuori dalla procura. Oltretutto la testata era nota, in generale, per i titoli a dir poco sessisti e misogini, oltre a discriminatori contro chiunque non fosse un maschio etero bianco, possibilmente abbiente.

 

Le spiaceva pagare per una copia, quando già usarla come carta igienica sarebbe stato troppo, ma doveva capire che era successo.

 

“Ci sono altri giornali sull’argomento?” chiese al tipo mingherlino che stava nel chiosco e che la guardò imbarazzato, “sa cosa intendo.”

 

“Sì, c’è… c’è anche questo che ha ripreso la stessa notizia.”

 

“Va bene. Me li dia!”

 

L’edicolante, con l’aria di chi stava brandendo una spada di fronte ad un dragone, le porse le due riviste, accettando i soldi con mano tremante.

 

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“Imma…”

 

“Non dirmi di stare calma, Calogiù che mi incazzo solo di più, lo sai!”

 

“Lo so. Infatti ti volevo chiedere come va,” rispose con aria un po’ sconsolata, che pareva un cucciolo abbacchiato, e che l’addolcì irrimediabilmente.

 

La sua reputazione da stronza vacillava sempre quando c’era lui. Certo, ora ne aveva un’altra di reputazione, del tipo che le ragazze dalla A a Matera probabilmente se ne stavano ancora scioccate col giornale in mano, perché da lei nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Non tanto che potesse violare qualche regola - anche se era sempre stata considerata una rompipalle, sì, ma onesta allo sfinimento - ma che potesse avere una relazione con uno come Calogiuri. Di sicuro avrebbero pensato tutte e tutti che stava con lei per interesse o per obbligo, già lo sapeva.

 

“Imma…”

 

Sentì un tocco viso e lo sollevò, incrociando gli occhi di lui, “è tutta spazzatura e lo sai. Anche se… se l’avessi saputo non ti avrei invitata fuori ieri sera. Mi dispiace, non ci ho pensato e-”

 

“E a me invece non dispiace, Calogiuri. Non dirlo neanche per scherzo, hai capito? La serata di ieri sera è stata meravigliosa e questi con questa... carta igienica ti lascio immaginare cosa ci si possono pulire.”

 

E Calogiuri scoppiò a ridere e poi si sentì abbracciare forte forte. Rimase per un po’ così, rifugiandosi nel suo petto, ma sapeva che alla realtà non si poteva scappare.

 

“Chissà come hanno fatto… non ho notato nessuno,” sospirò poi, staccandosi a forza, osservando meglio quelle due foto molto scure che li ritraevano però chiaramente: la prima a baciarsi fuori dal ristorante, la seconda quando erano usciti a braccetto dal locale di balli latini.

 

“Nemmeno io… anche se ero troppo impegnato a guardare te, lo ammetto.”

 

“E pure io te, Calogiù, pure io!” gli sorrise, abbracciandoselo di nuovo di lato.

 

“Che pensi di fare m-”

 

Calogiuri non fece in tempo a finire la frase che la suoneria del suo telefono squillò per l’ennesima volta quella mattina.

 

“Ma che è, un centralino?” sospirò, recuperando il telefono dalla borsa.

 

Ed il nome sul display fu una doccia gelida.

 

Mancini

 

Mostrò il telefono a Calogiuri che strinse mascella e pugni, ma non poteva non rispondere.

 

“Pronto, dottore?”

 

“Ma che le è saltato in mente?!” lo sentì praticamente urlare, tanto che dovette allontanare leggermente il cellulare dall’orecchio, “è nell’occhio del ciclone ed invece di tenere un basso profilo se ne va a ballare?! Ma è impazzita?!”

 

“Senta, dottore,” sibilò, la pazienza che non aveva che stava evaporando, “tanto per cominciare, quello che faccio nel mio tempo libero riguarda solo me e non lei. Non mi pare sia un reato andare ad un ristorante e poi a ballare, se no dovremmo mettere in galera milioni di persone. E poi di sicuro non mi aspettavo di avere i fotografi alle calcagna. Non sono mica una celebrità, della mia vita privata non è mai fregato niente a nessuno e la colpa è dei giornalisti che la violano e che scrivono titoli offensivi, non di certo mia.”

 

“Ma ora invece della sua vita privata alla gente frega e molto, dottoressa. E, se continua così, sarà un disastro per la procura e per lei, e mi toccherà prendere provvedimenti.”

 

“Dottore, come le ho già detto non sono una celebrità e non ho una vita così interessante. Tra un paio di settimane al massimo i giornali di questa storia si saranno belli belli che scordati. Nel frattempo, come dice lei, terrò un basso profilo e cercherò di evitare le uscite, come peraltro faccio quasi sempre.”

 

“Sarà meglio, dottoressa, perché se la pressione dei media non cala, sarò costretto a rivalutare la sua posizione qui a Roma e lo sa anche lei. Buon proseguimento.”

 

E così, senza dire altro, Mancini chiuse la telefonata.

 

“Dottoressa…” le sussurrò Calogiuri e si trovò nuovamente stretta al suo petto, “ce la caveremo, vedrai. Se serve, in queste settimane me ne vado a dormire a casa mia e-”

 

“Ma figurati, Calogiuri! Ti ricordi quando mi chiamavano lo Sceriffo di Matera e poi il Boia di Matera, no? Passerà….”

 

Lo sentì annuire sopra la sua testa e si accoccolò ancora di più a lui, cercando di fargli forza quanto lui ne faceva a lei.

 

Anche se temeva seriamente che i festeggiamenti fossero stati prematuri e che il suo posto a Roma mai come in quel momento fosse appeso ad un filo.

 

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“Non ho alcuna dichiarazione!”


“E lei, maresciallo?”


“Nessuna dichiarazione, fateci passare!”

 

Calogiuri aveva insistito comunque per accompagnarla in procura e, visto il nugolo di giornalisti, che per poco non l’avevano travolta, aveva avuto ragione, anche se ora avrebbero avuto un’altra serie di scatti da pubblicare.

 

“Se avete bisogno…”

 

“Tranquillo, Calogiuri, buon lavoro!” lo rassicurò, prendendo le scale per andare nel suo ufficio, ignorando le occhiate.

 

“Dottoressa!”

 

“Mariani, Conti, ci sono novità?” domandò, vedendoli praticamente appostati di fronte al suo ufficio.

 

“Sì, dottoressa,” rispose Mariani, entrando cautamente con un tablet sotto braccio e posizionandosi accanto all’altro maresciallo, di fronte alle sedie.

 

“E allora? Ci sono notizie sugli… amici dei Mazzocca? Perché in tal caso sapete che dovete parlarne alla dottoressa Ferrari, almeno per il momento, e-”

 

“No, dottoressa, sui Mazzocca ci stiamo lavorando, ma… venerdì visto che finalmente eravamo liberi dal maxiprocesso abbiamo ripreso ad analizzare i filmati dello studio legale dove lavora Galiano, per il caso Spaziani,” spiegò Conti, con un mezzo sorriso.

 

“E su, Conti! Non mi costringa a cavarle le parole di bocca, che li odio questi giochetti. Che cosa avete scoperto?”

 

“Abbiamo finito poco fa, dottoressa, ed abbiamo trovato una cosa, guardi,” proclamò Mariani, smanettando per un attimo sul tablet prima di piazzarglielo di fronte.

 

Imma vide un filmato sgranato di quella che era sicuramente una telecamera in notturna. Riconobbe l’ingresso dello studio dove lavorava Galiano, con il banco della receptionist. E poi la porta di ingresso si aprì ed entrò una figura completamente intabarrata, con una torcia in mano, che accese una volta richiusa la porta. La figura si guardò intorno ed entrò in un ufficio che sapeva corrispondere con quello di Galiano.

 

“Ma… quando è avvenuto tutto questo?”

 

“Il venerdì sera prima del ritrovamento dell’insulina, dottoressa. Era l’una di notte circa.”

 

“Ma… ma la porta è stata forzata o…”

 

“Ce lo siamo chiesti pure noi ma nessuno ha notato nulla e… non sembra anche a lei una chiave quella?”

 

Imma guardò meglio la parte di filmato che Mariani fermò ed ingrandì e, seppure fosse sgranata, quello che la figura teneva in mano non aveva né la forma di un grimaldello né di un attrezzo da sfondamento. Sembrava proprio una chiave.


“Quindi la persona in questione doveva avere una copia delle chiavi. O è stato lo stesso Galiano, per confondere le acque e scagionarsi. Ma se sta in carcere è proprio per l’insulina e mi pare un piano troppo contorto e rischioso pure per lui,” proclamò, il e per i Latronico che le balzò alla mente anche se non poteva dirlo, “o qualcuno ha in qualche modo recuperato le chiavi ed organizzato tutto questo. Dobbiamo capire subito dallo studio legale chi ne ha una copia, veloce!”

 

“Va bene, dottoressa, ci attiviamo subito!” proclamò Mariani, riprendendosi il tablet.

 

“E bel lavoro, bravi! Continuate così!”

 

La guardarono un po’ stupiti, come se non ci fossero abituati ai complimenti.

 

In effetti di solito li faceva quasi esclusivamente a Calogiuri ma, almeno per un po’, doveva rassegnarsi ed abituarsi a concederli a qualcun altro.

 

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“Calogiuri, finalmente! Mi stavo preoccupando!”

 

“Scusa ma… mi hanno seguito alcuni giornalisti e non volevo far capire loro dove abiti o dove abita Irene. Per fortuna è stata paziente ed abbiamo fatto un giro dell’oca infinito con la macchina prima di lasciarla a casa sua e poi venire qui.”

 

E per una volta al fastidio si unì una certa solidarietà per la cara Irene perché non voleva certo che lei e Bianca avessero casini per via di loro due e dei giornalisti, “non dirlo a me, Calogiù. Mariani mi ha fatto fare un tour di mezza Roma Nord praticamente.”

 

“Per domattina come vuoi fare?”

 

“Facciamo un giro largo a piedi ma arriviamo comunque insieme, Calogiuri. Alla fine si stuferanno pure, non possono pubblicare sempre lo stesso tipo di foto, no? Ed è meglio che stiano appostati davanti alla procura che altrove.”

 

“Va bene… spero che si stanchino presto.”

 

“L’unico rischio è che le lettrici italiane facciano crescere la tiratura dei giornali collezionando le tue foto. Fosse solo per me avrebbero ben poco da pubblicare, tipo me che vado dal pizzicagnolo o che esco dalla procura. Sai te che spettacolo!”

 

“Intanto tutti i titoli sono per te, dottoressa, e chissà quanti uomini apprezzano.”

 

La Pantera di Matera? Come no! Immagino già lo stuolo di ammiratori, guarda!”

 

“Ti sottovaluti sempre troppo, dottoressa!”

 

“Come direbbe Valentina… tu non stai bene Calogiù, per mia fortuna!” ironizzò, dandogli un pizzicotto sulla guancia.

 

Per tutta risposta, lui la afferrò per la vita e la colpì a tradimento con un attacco di solletico ma, proprio in quel momento, squillò il telefono.

 

Se già normalmente avrebbe volentieri mandato a quel paese per direttissima il fautore dell’interruzione, ultimamente il cellulare era presagio di sventura. Svicolò da Calogiuri e lo pescò dalla borsa, il nome sul display che le causò un misto di nostalgia e preoccupazione.

 

“Pronto, Diana, è successo qualcosa?”

 

“Imma! Ma che tu chiedi a me se è successo qualcosa? Sono io che lo chiedo a te! Ho visto i giornali, Imma! Mi dispiace, anche se tu e Calogiuri nelle foto siete venuti proprio bene e quando verrò a Roma ci devi portare pure a me e Capozza a ballare, che stiamo facendo un corso di balli da sala. Ma da te non me lo aspettavo e poi… sono proprio degli stronzi, Imma! Come stai? E Calogiuri? E Valentina, quella povera figlia, come l’ha presa e-”

 

“Respira, Diana, respira! Ma che polmoni tieni?” la interruppe, perché se no rischiava di trovarsi con un orecchio fucsia prima che Diana le consentisse di parlare.

 

“E dai, Imma, non scherzare! Come va? Che sono preoccupata, lo so che i giornalisti non danno tregua e poi-”

 

“E poi meno male che nella vita hai fatto la cancelliera e non hai preso il tesserino da giornalista, perché se no saresti stata ancora più una disperazione, con la parlantina che c’hai. E comunque sto bene, anzi, stiamo bene. Pure Valentina: già sapeva di me e Calogiuri e che la cosa poteva uscire.”

 

“Meno male! Sono contenta! Ma senti, se i giornalisti dovessero continuare… insomma… a darti il tormento... magari puoi chiedere qualche giorno di ferie e venire qui a Matera. Pure Calogiuri. Se non vuoi aprire casa di tua madre posso ospitarvi io, che tanto la stanza di Cleo è libera, che ormai quella da Londra quando torna più e-”

 

“Diana, ti ringrazio per l’offerta, veramente. Ma, a parte che penso che a Matera sarebbe pure peggio, che mi conoscono tutti ed è più difficile seminarli i giornalisti, e poi al momento il mio posto a Roma me lo devo tenere ben stretto, quindi qua rimango finché non mi schiodano.”

 

“Imma… lo sai che da un lato sarei felice… insomma se tu tornassi a lavorare a Matera. Però… ti auguro di poter rimanere a Roma con Calogiuri se sei felice lì.”

 

“Grazie, Diana...” mormorò con un sorriso, perché sapeva quanto ci tenesse veramente a lei, al di là di tutto, “e, giornalisti a parte, lo sono, molto. E sono pure molto fortunata!”

 

“Mamma mia! Imma Tataranni che ammette di essere felice e soddisfatta di qualcosa! Calogiuri un miracolo ha fatto! Proprio tu, che hai sempre preso in giro quelle che chiamavi dichiarazioni da diabete e invece mo-”

 

Ma Imma non stava più ascoltando, perché qualcosa l’aveva colpita, il suo cervello aveva preso a ragionare e per ben altri motivi del botta e risposta con Diana.

 

“Scusa Diana ma devo fare una chiamata urgente. Grazie della telefonata e non esagerate con il ballo te e Capozza, per il bene del mondo della danza!” tagliò corto, chiudendo la conversazione che l’altra ancora parlava.

 

“Che succede?” chiese Calogiuri, passando dal divertito al confuso.

 

“Che devo fare una telefonata, Calogiù,” ripeté, facendo scorrere la rubrica fino alla T.

 

Il telefono squillava libero ma non rispondeva nessuno. Non demorse perché era perfettamente normale che così fosse.

 

Stava per prepararsi mentalmente a richiamare, quando finalmente un “pronto!” esasperato e molto familiare le giunse all’orecchio.

 

“Dottore! Immagino abbia finito di lavorare ma ho bisogno di un parere medico urgente!”

 

“Dottoressa, gentile come sempre. E le ricordo che io mi occupo dei morti, non dei vivi. Ma se le serve un ricostituente per stare dietro al maresciallo, dopo tutti i balli, o se serve a lui, ne ho uno ottimo da consigliarle, tutto naturale.”

 

“Taccardi!” sibilò, l’incazzatura che già faceva capolino: se lo sapeva Diana e lo sapeva Taccardi, ormai ne era a conoscenza tutta la procura e pure tutta Matera.

 

Non che sperasse il contrario.

 

“Dottoressa, non si offenda! Anzi, è un complimento, insomma… chi lo avrebbe mai detto, eh? Da lei proprio non me l'aspettavo una cosa del genere, visto come si concia poi!” proclamò con una risata, che ormai l’incazzatura altro che fare capolino, aveva sfondato la porta.


“Ha visto, dottore? Non si disperi, che vedrà che magari ci sarà speranza anche per lei, prima o poi!” 

 

“Molto spiritosa, dottoressa! Allora, che ha bisogno di sapere?”

 

“L’insulina, dottore, si ricorda che ne avevamo parlato? Dalla boccetta è possibile capire in qualche modo da dove proviene l’insulina?”

 

“Beh… di solito le case farmaceutiche tengono traccia dei lotti e a chi li vendono. Sa, in caso di partite da ritirare. E a volte le farmacie tengono un registro per certi farmaci e pure gli ospedali. Certo, è più comune con farmaci come gli antidolorifici ed i calmanti, ma l’insulina può essere pericolosa, quindi soprattutto gli ospedali tendono a tenere conto della destinazione di ogni fiala.”

 

“In effetti la clinica in cui è avvenuto l’omicidio sosteneva di non avere fiale mancanti.”

 

“Beh, allora può partire da lì e verificare con la casa farmaceutica e poi con la clinica il numero seriale.”

 

“E non c’è altro modo di procurarsi l’insulina?”

 

“Salvo avere un parente o amico diabetico compiacente, o un farmacista compiacente, direi proprio di no.”

 

“Va bene, dottore. La ringrazio.”

 

“Di niente e mi saluti il maresciallo! Se vuole ho un ottimo collega psichiatra da consigliargli, e pure un oculista ed un otorino.”

 

“Non li consigli però alle donne che dovessero provare ad avvicinarla, dottore, o la speranza nel suo caso non sarà l’ultima a morire!”

 

Chiuse la telefonata prima che potesse replicare e Calogiuri la guardò interrogativo.

 

“Tutta Matera sa di noi, Calogiuri, non che la cosa mi sorprenda.”


“E… e questo come ti fa sentire?”

 

“Non lo so… credo un misto di preoccupazione e… e di voglia di vedere la faccia di certa gente quando lo ha saputo!” ammise e Calogiuri scosse il capo e rise, “e tu, maresciallo?”

 

“Io cosa?”

 

“Come ti fa sentire… insomma… che mezzo mondo sappia di noi due?”

 

“Che mi dispiace se ci stai male per i giornalisti ma… ma io sono fiero di stare con te, fierissimo.”

 

Un giorno con quelle dichiarazioni avrebbero trovato il suo cuore liquefatto da qualche parte - anche se la maggioranza delle persone ritenevano che non ne avesse uno.

 

E se lo baciò, perché era l’unica reazione umanamente possibile.

 

“Pure io, Calogiù, non sai quanto!” ammise, allontanandosi il necessario per guardarlo negli occhi.

 

Cedette all’impulso di baciarlo di nuovo e poi ancora e ancora, finché si sentì sollevare in aria, le gambe che gli si allacciavano alla vita, ritrovandosi senza capire bene come in bagno.

 

“Mi mancava il risparmio energetico, maresciallo!” rise, prima di avvertirlo, con un dito puntato in petto, “ma se t’azzardi di nuovo a buttarmi nella doccia vestita sei morto!”

 

“Vorrà dire che farò il grande sacrificio di spogliarti prima, dottoressa,” replicò con una faccia da schiaffi.

 

“Calogiù!” esclamò, fintamente scandalizzata, assestandogli un buffetto sul braccio che sicuramente fece più male a lei che a lui, “e poi bisogna vedere se te lo permetto o-”

 

Ma si trovò zittita con un bacio che fece scomparire persino il suo desiderio innato di avere l’ultima parola.

 

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“Dottoressa!”

 

“Mariani? Mi dica, ha scoperto qualcosa?”

 

“Sì, dottoressa. Ho chiamato lo studio legale e a quanto pare le chiavi le hanno la receptionist e i due partner. Galiano non ne aveva una copia, in teoria. Si sono però stupiti che il sistema d’allarme non abbia suonato. Da una verifica con la società che lo gestisce, quel venerdì sera non è stato attivato. Lo hanno fatto poi loro in automatico la sera successiva, perché a volte capita che qualcuno lavori anche di sabato.”

 

“Avete individuato chi è stato l’ultimo ad andarsene e che avrebbe dovuto collegare l’allarme?”

 

“Sto verificando, dottoressa, dalle telecamere, ma ci vorrà qualche ora.”

 

“Bene. Nel frattempo ho avuto una… consulenza sull’insulina. Lei e Conti dovete chiamare la casa farmaceutica e farvi dire la partita di cui faceva parte da chi è stata acquistata.”

 

“Va bene, dottoressa, procedo subito,” proclamò e fece per avviarsi ma poi esitò un attimo.

 

“C’è qualcos’altro, Mariani?”

 

“Sì…” pronunciò, titubante, prima di far uscire, tutto d’un fiato, “insomma, mi dispiace per lei e Calogiuri e la situazione con i giornalisti. Se vuole io e Conti possiamo fare a turno la sera e la mattina per venirvi a prendere e riportavi a casa finché non si calmano e-”

 

“La ringrazio, Mariani. Per la sera va bene, ma per la mattina non serve, che non voglio farvi passare le ore a fare il giro dell’oca per Roma. I giornalisti si stuferanno e troveranno un’altra notizia più appetibile e più nuova, lo fanno sempre.”

 

“Comunque se ha bisogno… insomma… noi siamo disponibili, ecco.”

 

Le fece uno di quei sorrisi da principessa Disney ed Imma non potè evitare di ricambiare, per quanto le era possibile quantomeno. Mariani le faceva simpatia da sempre ed era molto felice che Calogiuri avesse un’amica come lei su cui poter contare.

 

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“Com’è?”

 

“La tua carbonara è sempre più buona, Calogiù! Però da domani riprendiamo i turni per cucinare, che direi che hai più che recuperato i giorni di malattia.”

 

“Va bene, dottoressa. Ai comandi!”

 

“Anzi, che vuoi mangiare domani? Qualche desiderio in particolare?”

 

“Sul cibo non saprei… su altro invece-”

 

Ma non fece in tempo a finire la frase, anche se l’espressione da impunito c’era già tutta, che le squillò il telefono.

 

Pregava che non fosse un altro giornalista, che qualcuno di loro aveva avuto chissà come il suo numero ed aveva dovuto bloccarli. Il suo telefono in quei giorni rischiava di surriscaldarsi per il troppo utilizzo.

 

Ma no, era potenzialmente molto peggio.
 

“Pietro? Ma è successo qualcosa?” domandò, sorpresa, perché era da dopo pasqua che non lo sentiva.

 

“Secondo te, Imma? Non è successo proprio niente, in questi giorni, no?! Con te che stai su tutti i giornali, oggi pure sulle riviste scandalistiche che si legge mia madre stavi. E nemmeno una telefonata hai pensato di fare per avvisarmi!”

 

“Pietro…” sospirò, perché da un lato non aveva tutti i torti, dall’altro però non ci aveva nemmeno pensato, “ho avvertito Valentina che sarebbe potuto uscire fuori di me e Calogiuri, ma… ma poi una volta che è finita l’udienza e tutto… ormai la notizia era di dominio pubblico ed era abbastanza inutile chiamarti a quel punto, no?”

 

“Eh, infatti. Talmente di dominio pubblico che l’ho saputo da mia madre, l’ho saputo. E ieri ed oggi al lavoro non ti dico quante me ne sono sentite. Tu sarai pure la Pantera di Matera, ma io qua ormai sono il Cornuto di Matera.”

 

“Ma siamo separati quasi da un anno e-”

 

“E pensi che alla gente di qua questo importi? Ovviamente commentano tutti su come probabilmente ve la facevate pure quando stavate qua e non ci eravamo ancora separati. E poi-”


“E poi tu stai con Cinzia Sax, no? E mi pare che la cosa sia risaputa da molto tempo. Perché non sono mai venuti da me a chiamarmi la Cornuta di Matera, Piè? Pure se probabilmente non lo ero, eh. Ma lo sai benissimo che avrebbero sparlato in ogni caso, perché io sono una donna, oltre a stare sull’anima a mezza città, e di sicuro non me ne posso fare una colpa mo.”

 

“No, ma non ci stai tu qua a sentire cosa si prova e-”

 

“E non ci stai tu qua a sentire cosa si prova ad essere inseguiti dai giornalisti o a sentirsi dire un sacco di gentilezze. La smetteranno, Pietro, e lo sai. Tornerai ad essere il Martire di Matera, che si è dovuto sopportare quella grande stronza della Tataranni, e che mo se ne è trovata una migliore, e ti lasceranno stare.”

 

“Me lo auguro, Imma, perché mia madre è furiosa e pure Cinzia. Siamo tutti preoccupati per Valentina e-”

 

“E Valentina sta bene, la sto tenendo fuori da questa storia. E per quanto riguarda tua madre e Cinzia... non mi pare che sia una novità, no? Comunque fammi sapere come va, ma spero che i materani si trovino qualcosa di più interessante di cui parlare.”

 

“Lo spero pure io, Imma!” esclamò con un sospiro, prima di mettere giù il telefono.

 

“Problemi a Matera?”

 

“Sì, a quanto pare siamo l’argomento del momento, Calogiuri. E Pietro ne sta pagando le conseguenze, purtroppo. E non ne è felice, ovviamente.”

 

“Ma… ma questo ti può mettere nei guai?” le chiese, preoccupato.

 

“Non lo so… Calogiuri… diciamo che col lavoro non cambia molto, tanto... peggio di così! Ma potrebbe incidere sul divorzio, se Pietro dovesse decidere di non proseguire in modo consensuale.”

 

“Quindi… quindi tu divorzieresti?” domandò, e sembrò quasi sorpreso.

“Beh, se mi sono separata, Calogiuri, certo che ho intenzione di divorziare quando sarà possibile. Ma perché? Avevi dubbi?” chiese di rimando, non sapendo se essere più stupita o più irritata dal fatto che ne avesse ancora.

 

“Ma no… è che… non ne hai mai più parlato e… e quindi non sapevo se lo volevi fare o… o se per te andava bene così.”

 

“Non ne ho mai più parlato perché mi sembrava una cosa ovvia, Calogiuri, oltre che giusta nei miei confronti, nei tuoi e poi pure legalmente. Ma se ti vengono questi dubbi, le cose me le puoi, anzi me le devi chiedere, hai capito?”

 

E Calogiuri fece un sorriso meraviglioso e poi le accarezzò una guancia.

 

Stava per ricambiare, quando squillò di nuovo il telefono.

 

Ma stavolta non era il suo.

 

Calogiuri recuperò il telefono e fece una faccia strana.


“Mia sorella…” annunciò, prima di rispondere.

 

L’ansia tornò prepotente: chissà cosa ne pensavano i parenti di Calogiuri del loro improvviso debutto sui giornaletti di gossip.

 

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“Rosa… come va? Tutto bene?”

 

“E a me lo chiedi, fratellì? Che ho scoperto di avere un fratello famoso! Come state tu e… e Imma?”

 

“Eh… insomma… cerchiamo di sfuggire ai giornalisti… lì com’è? Immagino mamma l’abbia presa male?”

 

“Secondo te, fratellì? Ne parla tutta Grottaminarda di te e… della Pantera di Matera. Però mà si è presa tutti i giornali e se li sta tenendo da parte, che sai, comunque che un Calogiuri finisca sui giornali non è cosa da tutti i giorni. Ovviamente è molto arrabbiata perché le altre comari gliene dicono di ogni, come potrai immaginare. Ma tanto quelle parlano sempre, fratellì, le conosci, si azzittiranno solo nella cassa da morto e forse nemmeno così.”

 

Nonostante tutto, gli venne da ridere: era per questo motivo che adorava così tanto sua sorella.


“E… e papà e Modesto come l’hanno presa?”

 

“Loro parlano poco, come sempre. Ma Modesto mi ha fatto un sacco di domande e ho visto che si leggeva i giornali. Quando mamma ne parla lui ha sempre una faccia strana, ma non capisco perché. Papà invece si fa i fatti suoi, come al solito.”

 

Sospirò: Modesto in fondo era il più tradizionalista tra loro tre. L’unico che aveva sempre fatto ciò che i loro genitori volevano. E magari si vergognava di lui e pure lui pensava che fosse diventato scem’ come diceva sua madre.

 

“Mi spiace, Rosa… spero che tu e Noemi stiate bene e… non volevo causare tutti questi problemi, ma-”

 

“Ma che problemi e problemi! Io a provocare le comari mi diverto un mondo! Mi spiace per te e per Imma che vi dovete sopportare i giornalisti, ma almeno finalmente l’ho vista, anche se solo in foto e in video.”

 

“E… e come ti sembra?” domandò, trattenendo il fiato, perché se dell’approvazione del resto della famiglia non gliene era mai più di tanto importanto, essendo rassegnato in partenza a non averla, quella di Rosa invece era importante per lui.

 

“E come mi sembra…. A parte il… gusto particolare nel vestirsi… diciamo che rispetto alla tua descrizione nemmeno una Miss Universo che ha pure vinto un Premio Nobel avrebbe potuto reggere il confronto, fratellì. Ma ho visto come ti ha difeso e mi sembra una tosta e per me l’importante è quello, che ti tratti bene, capito? E poi devo conoscerla di persona per dare il mio giudizio definitivo.”

“Tranquilla, mi tratta benissimo. E quando vuoi sai che qua il posto c’è.”

 

“Allora se ti vengo a trovare questo weekend e mi fermo qualche giorno con Noemi ti va bene? Che almeno tiro il fiato da mammà? E poi se ci troviamo una babysitter mi devi portare a ballare pure a me, che sono curiosa di vederti in azione. Che quando ballavate tu e Maria Luisa eravate uno spettacolo, con lei che si incazzava sempre perché vi pestavate i piedi e le rovinavi le scarpe!”

 

“Rosa!” esclamò, un po’ sorpreso, perché lui dei balli con Maria Luisa aveva altri ricordi, anche se in effetti soprattutto all’inizio si era beccato un bel po’ di lavate di capo.

 

Ma all’epoca gli sembrava normale. Ora l’avrebbe mandata a quel paese se non alla prima alla seconda. Quanto era cambiato, per fortuna! Ed il merito era anche e soprattutto di Imma.

 

“Rosa, sul ballare non credo che si possa fare, che dobbiamo evitare i giornalisti per un po’, ma per il resto penso vada bene. Fammi solo sapere quando pensi di arrivare, che devo sistemare casa.”

 

“Va bene, fratellì. Ma Imma la voglio conoscere, hai capito? Anche solo per due minuti, diglielo già.”

 

“Glielo dirò, tranquilla, glielo dirò,” la rassicurò, anche se si sentiva parecchio in apprensione.

 

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“E insomma… mia sorella arriverà venerdì sera con mia nipote e ripartono mercoledì. Ovviamente possono stare nel mio monolocale, che tanto è libero, però Rosaria ti vorrebbe conoscere e… lo so che non ami queste cose ma… ma lei è molto meglio di mia madre, anche se non ci vuole molto, e-”

 

“Respira, Calogiù, respira! Che mi sembri Diana, mi sembri!” lo interruppe, un po’ intenerita da tutta quell’agitazione, “e comunque pure io sono curiosa di conoscere tua sorella. E… e se vuole e non è a disagio può stare qua sul divano letto, che almeno c’è più spazio per lei e per Noemi e non devono stare sole la notte. O non dovete stare tutti assiepati nel monolocale.”

 

“Come?” le domandò, con un’espressione talmente scioccata che era paro paro ad una di quelle faccine idiote che si fanno sui cellulari.

 

“Se non sei a tuo agio o lei non è a suo agio lo capisco, Calogiuri, ma non vedo perché ti sorprendi tanto. Se mi sono sopportata le vacanze con la mia ex suocera per anni posso stare con tua sorella e tua nipote per qualche giorno, no? Che poi per la maggioranza del tempo sarò al lavoro, che in questo periodo non posso prendere ferie.”

 

La abbracciò talmente forte che per poco non le mancò il fiato ed il modo in cui continuava a sussurrarle grazie e in cui cercava di nasconderle gli occhi lucidi non fecero che farla sciogliere ancora di più.

 

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“Dottore.”

 

“Maresciallo, aveva bisogno di parlarmi?”

 

Mancini aveva un tono a dir poco duro ma si sarebbe stupito del contrario.

 

“Avrei bisogno di ferie lunedì e martedì per motivi familiari. So di essere stato assente per la varicella, ma visto che il maxiprocesso è finito e… vista la situazione…”

 

“Guardi, Calogiuri, per me lei potrebbe pure prendersi tutte le ferie arretrate che ha e non avrei niente da obiettare, che magari i giornalisti si decidono a lasciare in pace la procura. Quindi i due giorni sono concessi, ma qualsiasi cosa debba fare cerchi di mantenere un basso profilo. Almeno quello.”

 

Era evidente che Mancini avrebbe dato qualunque cosa per liberarsi di lui e che si augurasse che prima o poi lui stesso avrebbe chiesto trasferimento. Ma sperava di riuscire a resistere, sebbene cambiare procura, se la situazione non fosse migliorata, forse sarebbe stato meglio per tutti, soprattutto per Imma.

 

Uscì dall’ufficio e per poco non si scontrò con Irene, che portava un paio di faldoni in corridoio.

 

“Scusatemi, posso darvi una mano?”

 

“Ma no, tranquillo, Calogiuri, sono leggeri,” esclamò, prima di sussurrargli, con aria preoccupata, “ma che ci facevi da Mancini?”

 

La seguì in ufficio e chiuse la porta dietro di loro.

 

“Sono andato da Mancini per chiedergli due giorni di ferie. Mia sorella Rosaria e mia nipote vengono in visita sabato e staranno qui fino a mercoledì. Tanto non abbiamo molto in questi giorni, no? E Mancini sembrava fin troppo felice di liberarsi di me.”

 

“No, Calogiuri, non abbiamo niente di urgente, per fortuna, ma stai attento a tenerti stretto il posto e non mi fare scherzi, mi raccomando!” gli intimò, puntandogli un dito in un modo che gli ricordava un poco Imma, “comunque sono felice che qualcuno della tua famiglia venga a sostenerti.”

 

“Pure io,” ammise, ma poi un’immagine gli balenò in testa, “senti, forse è un’idea stupida, ma… che ne diresti di far conoscere mia nipote Noemi a Bianca? Ha poco meno di due anni ed è vivace, ma è una bimba molto buona e allegra. Magari con qualcuno di più piccolo di lei avrà meno paura, no?”

 

Ed Irene gli fece un sorriso come quello che gli aveva fatto quella notte quando era rimasto con lei e Noemi.

 

“Ti ringrazio per il pensiero e… lo proporrò a Bianca e vedo che ne pensa. In caso domenica pomeriggio potrebbe andare bene?”

 

“Certo!” annuì, anche se temeva un poco di dirlo ad Imma.

 

Ma in fondo si trattava di bambine.

 

“Ti spiacerebbe se venisse anche mia sorella? E… e magari pure Imma, se vuole, o pensi che sia troppa gente per Bianca?”

 

Irene fece un’espressione strana, ma poi scrollò le spalle, “non lo so, Calogiuri. Provo a chiedere a Bianca. Di solito con le donne è meglio che con gli uomini ma… magari mi puoi mandare una foto di tua sorella e di tua nipote, così inizio a prepararla? E pure una di Imma, che quelle del giornale direi che è meglio evitarle, che Bianca già un poco legge, anche se dubito capirebbe.”

 

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“A che ora aveva la corriera tua sorella, Calogiù?”

 

“Dovrebbe essere qui tra poco, non c’è motivo di essere preoccupata, veramente.”

 

“La fai facile tu, Calogiuri,” sospirò, perché l’attesa era snervante: si chiese per l’ennesima volta che le fregasse di fare un’impressione non pessima sulla sorella di Calogiuri e poi si diede la risposta.

 

Nonostante la sua asocialità e che ne facesse un po’ un vanto di essere odiata quasi da tutti, essere apprezzata in fondo in fondo faceva sempre piacere, anche se non ci era abituata. E poi non voleva rischiare che Calogiuri si allontanasse dall’unica parente che al momento non gli aveva voltato le spalle.

 

In quel momento il cellulare di Calogiuri trillò ed Imma si chiese se il taxi della sorella faticasse a trovare la strada. Normalmente sarebbero andati a prenderla di persona ma, visti i giornalisti, era meglio evitare.

 

“Irene…” chiarì ed Imma provò l’inevitabile moto di fastidio, “mi ha confermato che va bene se viene anche Rosaria a vedere Bianca e… e pure tu se vuoi.”

 

“Troppo generosa Irene, grazie!” ironizzò, immaginando quanto la gattamorta fosse felice di averla tra i piedi.

 

“Lo fa per Bianca, lo sai che non è molto a suo agio con gli estranei, non è una cosa personale.”

 

Si trattenne a fatica dal fargli notare che la cara Irene non l’aveva mai invitata nemmeno per sbaglio ad un’uscita, pure quando di Bianca non c’era alcuna traccia - cioè quasi sempre - ma non poteva fargli perdere una degli unici tre amici che aveva a Roma. Pure se aveva seri dubbi che aspirasse solo ad essere un’amica.

 

E per quello aveva cercato anche di non fargli notare che questo ritrovo di famiglia con Bianca e Noemi un poco la infastidisse, perché la nipote era di Calogiuri e non ne aveva il diritto.

 

La verità era che temeva che, come succedeva sempre, Noemi l’avrebbe detestata ed invece sarebbe rimasta conquistata dalla Ferrari e lo stesso Rosaria.

 

Il pensiero fu interrotto dal suono insistente del campanello.

 

Calogiuri le sorrise e fece per avvicinarsi al citofono ma si bloccò quando un, “Ippà, sto qua, il portoncino era già aperto, mi apri che sto carica?!” risuonò per l’appartamento.

 

Almeno le corde vocali Rosaria le aveva prese dalla madre. Come avrebbe commentato Valentina, capiva ancora di più perché con lei Calogiuri si sentisse a casa.

 

Calogiuri la guardò e sorrise, quasi le avesse letto nel pensiero, e poi spalancò la porta.

 

“Fratellino!” esclamò una ragazza mora con la coda, comparendo con un trolley in una mano ed una bimba dalla faccetta furba in braccio.

 

“Cioooooooo!!” ululò la piccola, buttandosi in braccio a Calogiuri, che cercò di prenderla meglio che poteva.

 

“Non vedeva l’ora di vederti, mi ha fatto una capa tanta per tutto il viaggio!” proclamò Rosaria, prima di voltarsi oltre l’ingresso dell’appartamento, ed Imma sentì un mezzo brivido.

 

Gli occhi di Rosaria erano identici a quelli di Calogiuri - e a quelli di Noemi pure. Anche i capelli erano foltissimi e dello stesso colore di quelli del fratello. Ma i lineamenti erano diversi: belli ma meno dolci, più marcati, anche se della madre di Calogiuri aveva ricordi confusi di espressioni contorte dalla rabbia, quindi non avrebbe saputo dire chi somigliasse di più a lei e chi eventualmente al padre.

 

La ragazza non apriva bocca e lei non sapeva bene cosa dire, effetto che sicuramente le facevano solo i componenti della famiglia Calogiuri.

 

“I- Imma Tataranni, piacere,” proclamò infine, avvicinandosi leggermente e tendendole la mano, realizzando solo in quel momento quanto fosse ridicolo presentarsi col cognome, manco fosse in tribunale.

 

“Rosaria Calogiuri, piacere,” replicò l’altra, ricambiando con una stretta decisa, con lo stesso identico tono e con un sorriso che era similissimo a quello di Calogiuri quando si divertiva a prenderla in giro.

 

Solo che Calogiuri ci aveva messo quasi due anni prima di azzardarsi ad usarlo, sua sorella due minuti scarsi.

 

Decisamente il carattere non le mancava e la timidezza non l’aveva proprio presa da lei il fratellino.

 

“Tutti mi chiamano Rosa, comunque, per fortuna.”

 

Le sorrise, anche se si sentiva assurdamente lei un po’ intimidita: forse perché c’erano quelle somiglianze con l’espressività del fratello che apparivano a tradimento, ma anche così tante differenze.

 

“Va beh… io in teoria sarei Immacolata, che figuriamoci, quindi…” fece per cercare di sdrammatizzare, quando notò con la coda dell’occhio Noemi voltarsi verso di lei, una manina in bocca, e studiarla con attenzione.

 

“Questa piccola peste è mia figlia Noemi e, come si vede, è una cocca di zio,” proclamò Rosaria, avvicinandosi al fratello per prenderla in braccio.

 

Ma Noemi invece continuò a guardare fisso verso Imma, con la fronte corrucciata in un modo adorabile ed uno sguardo inquisitorio di cui, fosse stata sua figlia, Imma sarebbe stata oltremodo orgogliosa. Poi estrasse il pollice mezzo sbavato dalla bocca e, scoprendo i dentini da latte, sorrise ed agitò le braccine verso di lei, esclamando, “tata!”

 

Lo shock che provò, misto ad un’incredibile commozione, era lo stesso che c’era sul viso di Calogiuri. La sorella invece sembrava soltanto sbigottita.

 

“Tata, tata!” ripeté più forte, sporgendosi ancora di più.

 

“Posso?” domandò, prima di allungare le mani per prenderla in braccio e Rosa annuì, evidentemente basita. Noemi si produsse in un risolino non appena la sollevò dalle braccia di Calogiuri.

 

Se la trovò attaccata al collo, che esclamava “beo, beo!” allungandosi verso uno dei suoi orecchini leopardati. Si evitò per un soffio uno strattone all’orecchio.

 

“Aspetta mo,” le disse e Noemi si ritrasse un poco e la fissò nuovamente, mentre se la portava sul divano e si sedeva, per togliere l’orecchino senza rischiare di farla cascare.

 

Non appena le ebbe dato in mano il pendente e la bimba se lo prese, provando in modo a dir poco comico a metterselo all’orecchio, sollevò gli occhi e vide gli sguardi nuovamente mezzi scioccati di Rosaria ma soprattutto di Calogiuri, che probabilmente si aspettava reagisse diversamente, conoscendola.

 

Ma i bimbi, almeno quelli svegli, di solito tiravano fuori il meglio - o il meno peggio - di lei. Il problema erano gli adolescenti, per non parlare degli adulti.

 

“Devi avere i buchi nelle orecchie per questi ma dovrei averne qualche paio con la clip. Dopo te li faccio vedere se vuoi.”

 

“Ci, ciiii! Gacie! Bei!” esclamò la piccola, entusiasta, e se la trovò di nuovo attaccata al collo.

 

Si chiese come la cervicale di Rosaria potesse essere ancora intera, ma c’aveva un’altra età, beata lei!

 

“Scusa… Noemi è… è molto vivace… ma di solito non è così tanto vivace con gli estranei. Ed è raro che prenda così in simpatia qualcuno,” proclamò Rosaria con un sorriso più ampio dei precedenti.

 

“Imma… Imma già la conosce, anche se non credo se lo ricordi,” spiegò Calogiuri e Rosaria si voltò verso di lui.

 

“Come?”

 

“Quando… quando tuo marito si è sentito male e me l’hai lasciata a Matera all’improvviso, l’ho dovuta portare in ufficio con me il primo giorno. Imma mi ha dato una mano… insomma a farmi vedere come prendermi cura di lei e poi mi ha trovato una baby sitter. Noemi le si era affezionata, però… non credo si possa ricordare.”

 

“Allora grazie per averlo aiutato a cavarsela e aver aiutato mia figlia, anzi entrambi a sopravvivere.”

 

Nonostante l’ironia, vide che era grata sul serio e che aveva una luce diversa nello sguardo che le ricordava ancora di più il fratello, anche se per motivi diversi.

 

“Figurati! E poi non potevo mica lasciare Calogiuri nei guai e-”

 

“Calogiuri?” la interruppe Rosaria, con l’espressione quasi identica alla faccia da impunito del fratello, “cioè, ti chiama Calogiuri?!”

 

“Va beh… è una storia lunga, Rosa, ma… lo sai che non amo molto il mio nome e poi-”

 

“E poi forse preferisco non saperlo, fratellino, che siamo in fascia protetta.”

 

“Cociè fassa potetta?” si inserì Noemi, con l’aria di chi si stava divertendo un sacco.

 

“Ecco appunto!”

 

Stava per ribattere quando sentì un calore e soprattutto un odore molto familiari.

 

“Mi sa che è ora di un cambio di pannolino…”

 

“Ci penso io, non ti preoccupare!” intervenne Calogiuri, avvicinandosi per prenderla in braccio.

 

“Ma no, Calogiù, figurati non c’è problema e-”

 

Calogiù?! Ci sono altre varianti del nostro cognome di cui devo venire a conoscenza, fratellino?”

 

“E dai, Rosa!” replicò, diventando però color fragola.

 

“E comunque lascia che ci pensi Calogiù, Imma, che con i pannolini è un esperto!”

 

“Infatti,” si inserì nuovamente lui, prendendo Noemi per la vita, che rise e gli si buttò di nuovo addosso.

 

“Se porti la valigia ti facciamo vedere la stanza da letto ed il bagno, così vi sistemate,” offrì, superando Calogiuri e Noemi e facendo strada.

 

“Ma non dovevamo stare sul divano letto?”

 

“Almeno se Noemi deve fare qualche pisolino non dovete aprirlo ogni volta. E poi siete più vicino al bagno e potete stare più tranquille.”

 

“Però mi spiace cacciarvi dalla tua… cioè dalla vostra stanza. Non serviva, veramente. E poi… non è che ci trovo qualcosa che rimango traumatizzata, vero fratellì?”

 

Calogiuri passò dal fragola al vino rosso ma a lei venne da ridere, perché pensò che Rosaria sarebbe andata molto ma molto d’accordo con Valentina.

 

Ma, forse per quello, forse perché palesemente lo faceva con affetto, il suo umorismo non le dava fastidio, anzi.

 

O forse perché, in fondo in fondo, di fronte agli occhi di Calogiuri non le riusciva proprio di incazzarsi, pure se erano su un viso diverso.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci al capitolo 35 della storia e all’inizio della quarta fase. Dal prossimo capitolo ci saranno i famosi salti temporali, nel frattempo però scopriremo anche che succederà con Rosa, Noemi, la Ferrari e l’opinione pubblica.

Spero che questo capitolo non sia risultato pesante nonostante le incessanti telefonate ed il processo e che la storia continui a mantenersi interessante.

Come sempre ogni parere, positivo o negativo, è importantissimo per capire come sta andando la scrittura e mi dà un’enorme motivazione, quindi vi ringrazio tantissimo se mi farete sapere cosa ne pensate.

Grazie di cuore per aver seguito la mia storia per trentacinque capitoli e per tutti questi mesi e grazie a chi l’ha messa nelle preferite o nelle seguite.

Il prossimo capitolo arriverà domenica prossima, il ventotto giugno.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 36
*** L'Opinione Pubblica ***


Nessun Alibi


Capitolo 36 - L’Opinione Pubblica


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Scegline un paio che te li metto.”

 

“Chetti!”

 

Le scappò un mezzo sorriso, notando che Noemi aveva indicato sempre degli orecchini leopardati con tre pendenti, per fortuna più leggeri di quelli che quasi le aveva strappato dall’orecchio.

 

“Ecco qua!” proclamò, mettendole giusto la punta della clip sui lobi, piccolissimi rispetto agli orecchini, che erano lunghi come la testa della bimba.

 

La prese in braccio e la mise di fronte allo specchio e Noemi batté le mani, felice.

 

“Mamma, hai vitto? Che bei!”

 

Rosaria fece un’espressione che pareva uno spero vivamente che crescendo li troverai orrendi come li trovo io! ma poi sorrise, annuì e le lancio di soppiatto un’occhiata di gratitudine.

 

“Mi sa che ti devo portare allo zoo se ti piacciono tanto i leopardi,” scherzò poi con la figlia, ma Noemi rise di nuovo e fece segno ad Imma di metterla giù, iniziando a trottare per la stanza ed avvicinandosi allo specchio dell’armadio, scuotendo la testa per fare muovere gli orecchini.


In quel momento suonò il telefono ed Imma temette, visto l’orario di venerdì sera, che fosse o un altro giornalista che aveva avuto il suo numero o qualcosa di lavoro.

 

“Valenti?” chiese, sorpresa, rispondendo alla chiamata.


“Ciao mà. Come va lì? I giornalisti sono ancora ad inseguirvi o hanno trovato una notizia più interessante della semi infermità mentale del tuo maresciallo?”

 

“Spiritosa, signorina! E comunque, come direbbe il mio capo, stiamo cercando di tenere un basso profilo. Tu che fai questo fine settimana? Stai qua o vai a Matera?”

 

“Ti ho chiamata proprio perché pensavo di prendere la corriera di stasera. Papà l’ha presa un po’ male e volevo andare a vedere come stava e-”

 

“Tata! Tata! Poccio povae atti?!”

 

“Ma chi è che parla? Pare una bambina. Sei ancora in giro?”

 

Imma sospirò, rendendosi conto di essersi scordata di avvertire Valentina. Non che fossero affari suoi, in fondo, ma….


“No, è… è la nipotina di Calogiuri. Lei e sua madre, cioè la sorella di Calogiuri, sono venute a Roma a trovarlo per qualche giorno.”

 

“Cioè… fammi capire… tu stai ospitando una bambina piccola? Quanto tempo ha?”

 

“Due anni ad agosto. E sì.”

 

“Oddio, la cosa è ancora più grave del previsto. Non è solo il tuo maresciallo ad essere impazzito, ma pure tu non stai bene!”

 

“Valentì! E comunque-”

 

“E comunque c’è una riunione di famiglia del genere e non mi dici niente? Io questa scena non me la posso perdere! Fino a quando staranno lì?”

 

“Fino a mercoledì, ma io lunedì e martedì lavoro e poi-”

 

“E poi domattina vengo a colazione. Alle dieci se riuscite a svegliarvi in tempo.”

 

“Ma Matera?”

 

“Partirò domani pomeriggio e torno lunedì, tanto non ho lezione. A domani!”

 

“Tutto bene?” le chiese Rosaria, quando ebbe messo giù, in un modo che le ricordava un po’ il fratello.

 

“Sì… ma… mia figlia vuole venire a colazione domani. Spero che non ti dispiaccia.”

 

La criatura che tiene vent’anni?” chiese, imitando in modo perfetto la voce di sua madre.


“In realtà i venti li deve ancora compiere, ma sì, non ne ho un’altra.”

 

“Ma che dispiacermi! Anzi! Non sai quanto ero curiosa di conoscerla!” proclamò con un sorriso ed un tono furbi, prima di prendere in braccio Noemi che ancora stava giocherellando con i pendenti, “e grazie per la pazienza con la peste. Non me lo aspettavo.”

 

“Non posso prendermela con l’unica persona al mondo a cui piace il mio abbigliamento.”

 

Oltre alla risata di Rosaria, ne sentì una ben più familiare e si voltò e vide Calogiuri sulla porta che la guardava con quegli occhi lucidi che erano un’arma letale.

 

“Vi lasciamo riposare mo. Se avete bisogno stiamo di là, buonanotte,” si congedò, raggiungendo Calogiuri e chiudendo la porta dietro di loro.

 

*********************************************************************************************************

 

“Allora, come va?”

 

“Il divano letto non è comodissimo, il tuo mi sa che è meglio, Calogiù. Però per qualche notte è accettabile. Tu come va? Felice della riunione di famiglia?”

 

“Molto! E poi… Noemi ti adora proprio! Però, insomma… quando vuoi un po’ di pausa da lei dimmelo pure, non voglio che ti senti in obbligo e-”

 

“Ma che obbligo e obbligo! Che non mi conosci, maresciallo? Quando non mi va di fare una cosa o di avere a che fare con qualcuno lo sai che mi si legge in faccia, no?”

 

“Sì, lo so, ma-”

 

“E poi appunto è l’unica persona al mondo che mi ruberebbe il guardaroba, quindi…”


“In realtà pure io te lo ruberei volentieri, dottoressa, ma per altri motivi,” la punzecchiò con un tono che le faceva venire voglia di fare tutto tranne che dormire.

 

“Maresciallo! Guarda che per qualche giorno ce ne dobbiamo stare buoni buoni, prima che traumatizziamo tua sorella e tua nipote. Quindi non provocarmi che è pericoloso! Anzi, sei pericoloso!”

 

“Era da un po’ che non me lo dicevi, dottoressa,” ribatté, l’ironia che lasciava trasparire un misto di dolcezza e di nostalgia.

 

“Il fatto che non lo dica non vuol dire che non lo pensi,” replicò, dandogli un pizzicotto sul petto, prima di appoggiarci il capo.

 

“Sono passati quasi due anni… mi sembra incredibile a volte.”

 

“Pure a me… ma non cambierei mai la mia vita di oggi per quella di allora, nonostante tutti i casini,” si sorprese ad ammettere e sentì i muscoli sotto al suo viso bloccarsi per un attimo. Lo sollevò e incontrò due occhi azzurri pieni di lacrime ed un sorriso dolcissimo.

 

“Ti amo!” le sussurrò, e poi la baciò in un modo che la fece commuovere ancora di più.

 

“Ti amo pure io e-”

 

Ma in quel momento sentì un frastuono tremendo e balzò in piedi di scatto, beccando Rosaria che aveva rovesciato una statuetta in metallo - raffigurante un leopardo stilizzato che correva - che aveva acquistato da poco e che teneva su un mobiletto all’inizio del corridoio. Per fortuna non si era rotta.

 

“Scu- scusate ma volevo prendere un po’ d’acqua e… non ho notato questa… statua…” disse, sembrando un poco imbarazzata, anche se l’occhiata che rivolse al suppellettile era tutto un programma.

 

“Tranquilla. Hai bisogno di qualcos’altro per la notte?” chiese Calogiuri, che aveva le guance nuovamente rosate.


“No, non credo. Ma posso uscire stanotte per andare in bagno o corro il rischio di traumi?”

 

E pure Imma si sentì arrossire ma scosse il capo, “cercheremo di dormire il prima possibile.”

 

Rosa annuì, recuperò una bottiglia d’acqua dalla cassetta e poi si riavviò verso la camera da letto. Si fermò di colpo all’inizio del corridoio, si voltò verso di lei e disse, “comunque, a parte la camicia da notte leopardata che non metterei neanche morta, devo dire che hai un fisico invidiabile, complimenti! Mio fratello non era del tutto accecato dall’amore quando mi decantava quanto sei bella.”

 

Il calore alle guance peggiorò, anche perché ai complimenti non ci era ancora abituata, dalle donne poi.

 

“E siete… teneri insieme, anche se non pensavo fosse possibile. Cioè, da mio fratello sì, che è un patatone da sempre, ma tu mi sembravi così tosta in video. Non che non lo sei, eh, ma mi fa piacere che non sei troppo tosta pure in privato, che non avrei voluto che Ippà replicasse la relazione dei nostri genitori che… va beh, mia mamma l’hai conosciuta, quindi te la puoi immaginare. Buonanotte e, se sentite ululare, portate pazienza che è la peste che si sveglia ancora ogni tanto la notte.”

 

Rosaria si voltò come se niente fosse e rientrò in camera da letto.

 

Imma incrociò lo sguardo di Calogiuri, che era ancora più commosso di prima. Allungò il braccio verso di lei e le tese la mano. Lei la afferrò e si rinfilò sotto il lenzuolo, trovandosi stretta in un altro abbraccio.

 

“Hai visto che non ti dovevi preoccupare? Ero certo che le saresti piaciuta.”

 

“Bugiardo! Eri preoccupato anche tu, maresciallo. Ma, visto che per me piacere a qualcuno, a una potenziale cognata poi, è un mezzo miracolo, non ti do torto.”

 

“Ed invece alla maggior parte dei Calogiuri piaci.”

 

“Veramente mancano ancora tuo fratello e tuo padre, che dubito siano entusiasti. Ma già non essere detestata da tutti per me è un risultato.”

 

“Va beh… mio padre e mio fratello non esprimono un’opinione quasi su niente, quindi è difficile capire cosa ne possano pensare. Però di solito accettano in silenzio il pensiero di mia madre per non discutere, anche se non è detto che siano d’accordo.”

 

Mi ricordano qualcuno! - pensò Imma ma non lo disse, anche perché quel nome non si sentiva di nominarlo a letto e poi non sarebbe stato giusto nei confronti di Pietro.

 

E almeno Pietro aveva un grande senso dell’umorismo, che compensava abbastanza bene la totale ignavia. Temeva invece che il padre ed il fratello di Calogiuri rientrassero nella categoria di persone che odiava di più in assoluto, dopo i disonesti.

 

Ossia i noiosi.

 

*********************************************************************************************************

 

“Chi è? Chi è?”

 

Era suonato il campanello e Noemi, ancora in pigiama, era scattata dal divano dove si era arrampicata e seduta - per fortuna lei e Calogiuri si erano alzati in tempo per rifare il letto e ritirarlo - ed era corsa verso la porta.

 

“Noemi, lo sai che non si va alla porta a casa degli altri. Bisogna aspettare.”

 

La bimba, per tutta risposta, guardò prima la madre con uno sguardo con su scritto ingiustizia! e poi si rivolse a lei implorando, “poccio veere chi c’è?”

 

“Quasi sicuramente è mia figlia, aspetta che apro mo,” rispose, avvicinandosi al citofono e, dopo aver confermato che si trattasse di lei, facendola salire.

 

Aprì la porta, cercando di evitare che Noemi corresse fuori, finché la bimba fu riacciuffata dalla madre. Dopo poco, l’ascensore arrivò al piano e ne uscì Valentina con un sacchetto di carta in mano.

 

“Ciao mà! Che miracolo che non stai ancora in camicia da notte a quest’ora di sabato! Ho portato i bomboloni per tutti, spero vada bene.”

 

“Va benissimo, Valentì, solo che… li avevamo già comprati pure noi. Qua possiamo aprire una pasticceria!” scherzò Imma, facendole segno di passare.

 

Valentina la superò ma si fermò di scatto quando vide Rosaria con la figlia.

 

“Siete la sorella e la nipote di Calogiuri, giusto?”

 

“Ma che pure tu lo chiami Calogiuri? Che è un vizio di famiglia? Mi pare di stare in caserma,” ironizzò Rosaria, prima di allungare la mano libera, “Rosaria, ma tutti mi chiamano Rosa. E questa è Noemi.”

 

“Ciu cei la fija di tata?” chiese la bimba, fissandola con gli occhioni azzurri spalancati dalla sorpresa.

 

“Tata?”

 

“Sì, Noemi, è mia figlia. Valentì!” la avvertì, lanciandole un’occhiata, ma Valentina si vedeva chiaramente che tratteneva a stento una risata.

 

“Ma cei gande, tanto!”

 

“Eh, sì, Valentina ha quasi vent’anni. Ormai è grande.”

 

“Coci’hai nel ciacchetto?”

 

“I bomboloni per la colazione.”

 

“Cììììì!” esclamò con entusiasmo, allungandosi per afferrare la carta, ma Rosaria la trattenne.

 

“Noemi, ce li abbiamo già in tavola e non si prendono i regali senza chiedere il permesso. Grazie e scusala ma è molto vivace.”

 

“Figurati. Di questi, mà, che ne facciamo? O vi volete fare un’overdose di bomboloni?”

 

“Se volete… dopo posso fare un salto in caserma e portarli ai ragazzi. Tanto lì finiscono subito. Naturalmente ti rimborso, Valentina.”

 

“Ma che rimborso, per cinque bomboloni! Guarda che non sono messa male come mia madre sui soldi,” ironizzò Valentina, lasciandogli il sacchetto.

 

“Lo sai perché sono… oculata… Valentì,” rispose Imma, in fondo in fondo leggermente irritata dal commento, più che altro perché c’era presente anche Rosaria.

 

“Sì, mà, lo so. E dai su, un po’ di autoironia, anche se in effetti per te è quasi impossibile,” ribatté Valentina con un sorriso, prima di chiarire a Rosaria, che la guardava un po’ stranita, “nonna, cioè la madre di mia madre, aveva origini molto umili. Quindi mà è molto attenta al valore dei soldi.”

 

Imma non sapeva se voleva abbracciarla a menarla, ma vide Rosaria che le sorrise, rispondendo, “beh… che noi non navighiamo nell’oro te ne sarai accorta, no, Imma? Anche se il fratellino si sta sistemando bene che sta facendo carriera, alla faccia di mammà!”

 

Rosaria poi diede un pizzicotto sulla guancia a Calogiuri e Noemi ne approfittò per appenderglisi di nuovo al collo, tipo koala.

 

“Cio! Cio! Colacione!”

 

“Povero maresciallo! Il tuo destino è proprio prendere gli ordini in famiglia,” ironizzò Valentina e Rosaria si mise a ridere.

 

E poi si avviarono con uno sguardo complice verso il tavolo già mezzo apparecchiato.

 

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“Cio!” saltò su Noemi all’improvviso, la bocca mezza piena di crema, “ma ciu shei boboi?”

 

“Come?” domandò Calogiuri, evidentemente confuso.

 

“Amiche di nonna dicono che shei boboi, pecché o dicono i cionnai!”

 

Sentì Calogiuri tossire, mentre Rosaria esclamava, “Noemi!”. Lei ci mise un attimo a tradurre il tutto in italiano ma poi capì e si sentì avvampare.

 

“Eh?” chiese invece Valentina, non essendo abituata alla pronuncia ancora stentata della piccola.

 

“Non devi dare retta a nonna e quella non è una bella parola, hai capito?”

 

“Ma è paolaccia?”

 

“No, non è una parolaccia, Noemi. Ma… toy boy vuol dire… vuol dire che uno è un giocattolo, quindi non è una bella cosa da dire a qualcuno.”

 

“Ma cio non è ciocattoo! Palla e si move da soo!”

 

E a quel punto scoppiarono tutti a ridere, perché la logica di Noemi in effetti era ineccepibile.

 

“Infatti non è un giocattolo, anzi, è una delle persone più intelligenti che conosco e quando inizia a parlare non lo ferma più nessuno, anche se di solito è silenzioso,” intervenne Imma e Calogiuri la guardò commosso, prima di stringerle la mano sul tavolo.


“Ecco, sono felice che ci sia anche tu, così capisci che scene da diabete mi devo subire ogni volta che li vengo a trovare!” ironizzò Valentina, rivolgendosi a Rosaria che rise nuovamente.

 

“Cociè dibete?”

 

“Signorina, ma non sei un po’ piccola per queste domande? Di solito l’età dei perché è a tre anni, non adesso!”

 

“Ma io soo gande!” proclamò Noemi scandalizzata, deglutendo un altro mega morso di bombolone, almeno per la sua stazza.

 

“Di sicuro sei una grande peste!” rispose Rosaria, prendendola in braccio ed aiutandola col bombolone prima che si spolverasse tutta di zucchero a velo, che neanche le dame del Settecento con la cipria, “e comunque, Valentina, sono felice che ci sia qualcuno di ancora non accecato dall’amore qui. Senti, lo so che per te sarò vecchia, ma ti andrebbe se uscissimo una di queste sere, visto che qui i due piccioncini devono tenere un basso profilo? Che ho proprio bisogno di svagarmi un po’ e tanto il fratellino fa da babysitter per qualche ora, vero fratellino?”

 

“Beh… sì… non c’è problema,” rispose lui, lanciando un’occhiata verso Imma.

 

“Tranquillo, Calogiù, se al cambio pannolini ci pensi tu per me va bene,” scherzò, guardando a sua volta Valentina, sperando che non se ne uscisse con un commento dei suoi.

 

“Guarda, avrei bisogno di uscire anche io, ma ho promesso a mio padre che sarei andata a Matera oggi. Magari possiamo fare martedì sera, se te la senti. E sì, mamma, lo so che ho lezione ma per una mattina posso pure sgarrare.”

 

“Ma chi ha detto qualcosa?” chiese Imma, sollevando le mani.


“Va bene… al massimo dormirò poi in corriera, se la peste me lo permette.”

 

Imma intercettò un’altra occhiata di Calogiuri, che sembrava soddisfatto, e pure lei lo era: forse almeno qualcuno in quella nuova famiglia allargata, che stavano pian piano costruendo, sarebbe andato d’accordo.

 

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“Noemi, allora, hai capito? Questa bimba è un po’ timida, cerca di non avvicinarti troppo in fretta, va bene?”

 

“Ma come con muo di cio Modetto?”

 

“No, il mulo è più simile a zio Ippazio, quando ci si mette,” ironizzò Imma, seduta accanto a lui sull’auto di servizio che Calogiuri era andato a recuperare da Irene, per poi venirle a prendere.

 

“Comunque sì, bisogna avvicinarsi con delicatezza… hai capito?”

 

“Cìììì e poi io ciò bava!!”

 

Scoppiarono tutti a ridere, finché Rosaria disse, “lo sappiamo che sei brava, quando ti ci metti. E anche che sbavi parecchio in realtà.”

 

Rimasero per qualche minuto il silenzio, a parte Noemi che ogni tanto si produceva in un “beo chetto!” o “beo chello!”, ma alla fine Rosaria sganciò la domanda del secolo.

 

“Ma questa Irene com’è? Che dal video pareva una bellissima donna, ma pure una che se le vai poco a genio ti sbrana.”

 

“In realtà Irene, tranne che in tribunale e con i criminali, di solito è gentile con tutti.”

 

Imma ringraziò il cielo di essere seduta davanti e che Rosaria non vedesse la sua espressione in quel momento.

 

“E tu, Imma, sei d’accordo con il fratellone?”

 

“Diciamo che io non vado d’accordo quasi con nessuno quindi non faccio testo,” replicò, usando quel briciolo infinitesimale di diplomazia che possedeva, anche se il tono non l’aveva controllato benissimo.

 

“Ho capito!” rise Rosaria, col tono di chi aveva capito veramente.

 

Imma era curiosissima di sapere cosa ne avrebbe pensato della gattamorta.

 

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“Benvenuti! Spero non abbiate avuto problemi coi giornalisti.”

 

“Tranquilla, ho fatto un giro lunghissimo per evitarli, così Rosaria e Noemi hanno fatto un tour panoramico di Roma.”

 

“Piacere, Irene Ferrari,” esordì Irene, stringendo la mano a Rosaria, che aveva l’aria di chi si stava trattenendo dal ridere, “che c’è?”

 

“No… è che… deve essere un’abitudine di voi magistrati presentarvi con nome e cognome.”

 

“Eh sì, deformazione professionale, temo. E tu devi essere Noemi,” esclamò la cara Irene, rivolgendosi alla bimba che stava in braccio a Calogiuri.

 

“Cì. Come ciai mio nome?” chiese, squadrandola con quell’occhiata inquisitoria che Imma adorava.

 

“Eh, lo zio mi ha parlato tanto di te.”

 

“Ma come conossi cio? Pecché lui cià fidanciacio!”

 

Imma, se avesse potuto, se la sarebbe abbracciata fino allo sfinimento.

 

Irene invece rise e pure Rosaria. Calogiuri sembrava imbarazzato.

 

“Io e tuo zio lavoriamo insieme.”

 

“Cei caabiniee?”

 

“No, sono un magistrato. Diciamo che tuo zio cattura i cattivi e fa le indagini. Io poi devo discutere con chi difende i cattivi, fino a farli condannare.”

 

“Beo!! Ma acche ciu fai uguale?” chiese poi Noemi, rivolgendosi ad Imma.

 

"Non proprio. A me piace anche catturare i cattivi, pure se non dovrei.”

 

“Bava che aiuti cio!” proclamò Noemi, decisa, battendo le mani.

 

“Comunque se vi volete accomodare,” offrì poi Irene, visto che stavano ancora tutti sulla porta.

 

Entrarono nell’appartamento ed era veramente stupendo. Luminoso, moderno, con mobili che definire di pregio era dire poco.

 

“Che beo!! Tutto bianto! Ciemba nuvoa!” esclamò Noemi, con la bocca aperta.

 

“Sì, cerca di non distruggere qualcosa, che qua ci va uno stipendio, come minimo!” si raccomandò Rosaria ma Irene sorrise.

 

“Ma no, sono cose resistenti e a prova di bambino quasi tutte. Tranquille, fate come foste a casa vostra!”

 

“Manco con tre mutui potrebbe essere casa mia, chista,” mormorò Rosaria, rimanendo anche lei impressionata.

 

Imma un po’ pativa il confronto, ma che la Ferrari fosse molto agiata era già evidente da tempo.

 

“Accomodatevi pure sul divano o sulla poltrona, vado a recuperare Bianca che è in camera sua.”

 

La Ferrari sparì oltre al corridoio e dentro una stanza. Imma si accomodò e si sentì come una macchia di colore stridente in mezzo a tutto quel candore. La donna che faceva le pulizie a casa della Ferrari doveva essere una santa, sua madre le avrebbe fatto un monumento a dover tenere pulito quel mobilio.

 

“Eccoci qui!” annunciò Irene, tornando mano nella mano con una bimba bellissima, dai capelli quasi neri e ricci ricci, gli occhi chiari e la pelle diafana, che però stava mezza nascosta dietro la sua gamba, “lei è Bianca.”

 

Bianca in una casa quasi tutta bianca… pareva quasi uscita dalle favole.

 

Pure Noemi rimase un po’ a bocca aperta, ma poi Bianca si sporse leggermente dalla gamba di Irene, si rivolse a Calogiuri con un sorriso e disse, “Ippazio! Sono felice che sei tornato.”

 

Calogiuri sorrise di rimando, prese a sua volta per mano la nipotina, e si avvicinò a Irene e alla bimba, “io le promesse le mantengo sempre. E questa è Noemi, mia nipote. Ha quasi due anni.”

 

Pure quella pareva una scena uscita da un film ed Imma non potè evitare una fitta di preoccupazione e gelosia. Ma doveva resistere.

 

“Ciao!” esclamò Noemi, ridendo ed agitando una manina, “che bei capei che ciai! Icci icci!”

 

Bianca rimase un po’ confusa ma poi sorrise e disse, “avete gli occhi uguali!”

 

Noemi fece una risatina, poi le chiese, “poccio datti a mano?”

 

Bianca sembrò un attimo esitante ma annuì ed allungò la manina verso quella di Noemi, ancora più piccina, e Noemi fece dondolare un po’ le braccia, soddisfatta.

 

“Voi chi siete invece?” chiese poi Bianca, guardando verso Rosaria ed Imma che erano rimaste sul divano.

 

“Mia mamma Osa e Tata!”

 

“Tata?” ripeté Bianca, confusa.

 

“Sono mia sorella Rosa - la mamma della piccoletta qui - e lei è… la mia fidanzata.”

 

“Ah! Imma!” esclamò Bianca, come se fosse la cosa più normale del mondo, e tutti la guardarono stupiti.

 

“Te lo ricordi ancora?” domandò Calogiuri, sbigottito.


“Bianca ha una memoria di ferro, non dimentica quasi nulla.”

 

“Un po’ come te e anche come Imma. Ma pure come Rosa in effetti.”

 

“Che ci vuoi fare, è una caratteristica di noi donne! Non ci scordiamo niente, quindi attento a te, fratellino, che oggi siamo cinque contro uno.”

 

Nel frattempo però Bianca si era staccata da Noemi e si era avvicinata piano piano al divano dove c’erano sedute lei e Rosa.

 

“Perché sei vestita come Jane?” chiese ad un certo punto Bianca, guardandola incuriosita anche se da distanza di sicurezza.

 

“Quale Jane?” le domandò di rimando.

 

“Quella di Tarzan,” rispose Bianca con un sorriso e, mentre Rosa sembrò divertita e Calogiuri terrorizzato, Irene parve quasi sinceramente mortificata.


“Scusala, ma… l’altro giorno abbiamo visto un film su Tarzan e-”

 

“Ma perché ti scusi? Jane è bella!” esclamò Bianca, come se fosse la cosa più normale del mondo, “ma come mai ti vesti così? Non ho mai visto nessuno che si veste così.”

 

“Eh… perché mi piace,” rispose, cercando di non prenderla sul personale perché la bimba, salvo avesse preso tutto da Irene, sembrava realmente innocente nella domanda.

 

“Anche i capelli sono belli, rossi rossi, come Anna.”

 

“Anna?”

 

“Anna di Frozen. Sai… Bianca ama molto i film Disney..”

 

“Non c’ho presente questa Anna, ma se aveva i capelli rossi doveva essere una tosta.”

 

“Tanto! Anche se i suoi genitori erano morti, come i miei,” proclamò Bianca, in un modo che le fece venire quasi un istinto irrazionale di abbracciarla.

 

“Ma ei no è ciua mamma?” saltò su Noemi, confusa, guardando verso Irene.

 

Calogiuri sembrava sempre più terrorizzato, mentre fu il turno di Rosa di dire un “Noemi!”.

 

“Irene sta con me da quando mia mamma è morta.”


“Ma ce vivete incieme e ci vole bene è ciua mamma, no?” proclamò Noemi, con la stessa decisione di chi proclama una cosa ovvia.

 

Per un attimo nella stanza non volò una mosca, poi Bianca inclinò il capo e fece un mezzo sorriso, “sì, forse sì.”

 

Irene pareva sull’orlo di piangere e pure Calogiuri. Rosa era tra il sollevato e il commosso. E perfino Imma dovette ammettere di sentire un certo nodo in gola: i bambini sapevano essere cattivissimi se volevano, ma all’età di Noemi, soprattutto, sapevano anche tirare fuori delle cose bellissime, non ancora condizionati dalle regole e dalle convenzioni della società.

 

“Ti va di giocare un po’?” domandò poi Bianca a Noemi, che saltellò ed iniziò a battere le mani, come al suo solito quando era felice.

 

“Mi raccomando, niente giochi con parti piccole, va bene?” si raccomandò Irene e Bianca annuì.

 

Non aveva mai visto una bimba così educata, forse per la timidezza e lo stare sempre con adulti, ma per certi versi pareva molto più grande della sua età. Per altri piccolissima.

 

“Ippazio, vieni anche tu a giocare con noi?” chiese poi Bianca, con occhi imploranti, e lui lanciò uno sguardo intorno.

 

“Andate pure in camera,” rispose Irene e Calogiuri e le bimbe si avviarono.

 

Prima che sparissero dietro alla porta, sentì Noemi chiedere a Bianca, “poccio toccae capei? Ciono bei!”

 

Bianca le porse due ciocche di ricci e Noemi li toccò, esclamando ancora, “bei! Bei!”

 

“Piano Noemi, non tirare, mi raccomando!”

 

“Ci cio!”

 

E poi la porta si richiuse e rimasero in tre.

 

“Calogiuri ci sa proprio fare coi bambini. Bianca lo ha visto una volta e lo adora.”

 

“Non solo con i bambini,” ironizzò Imma, punzecchiandola un po’.

 

“Hai proprio un fratello buono come il pane. Non pensavo esistessero più ragazzi così,” replicò Irene, rivolgendosi però a Rosaria, “volete qualcosa da bere? Un caffè? Un té? Se volete ho degli scones con la marmellata e la clotted cream.”

 

Rosaria la fissò come se avesse appena parlato arabo. Pure Imma aveva solo vagamente idea di che fosse quella roba, “ma come il tè inglese?”

 

“Esatto. Ho un’amica che ha una stanza da tè qui a Roma e ogni tanto me li porta. Lei è inglese, quindi è la ricetta originale. Vi va di provare?”

 

Rosaria si rivolse a lei come a chiedere aiuto. Sembrava quasi intimorita da Irene, nonostante fosse stata così decisa, quasi sfacciata, persino con lei che di solito altro che intimorire la gente.

 

“Va bene, ma io sono abbastanza tradizionalista sul mangiare quindi non garantisco.”

 

“Ma sì, Imma, se non vi piace ovviamente lo lasciate nel piatto. Come té un Darjeeling può andare bene?”

 

“Non ho la più pallida idea di cosa sia,” ammise Imma, Rosa che le lanciò uno sguardo grato, evidentemente essendo nella stessa situazione.

 

“Tranquille, faccio io. Torno tra poco.”

 

Non appena fu sparita oltre l’angolo che dava sulla cucina, Rosaria le sussurrò, “ma ha origini nobili inglesi?”

 

“No, credo sia soltanto ricca, molto ricca.”

 

“Ma come fa Ippà a frequentarla senza farsi venire l’ansia? Lui che è così… alla buona.”

 

“Eh, ma Irene gli ha fatto un po’ da insegnante, come in My Fair Lady, e mo è abituato agli ambienti di classe.”

 

“Come in che?”

 

“Niente… diciamo che gli uomini hanno una percezione diversa.”

 

“Se lo dici tu… certo che bella è bella. Ma è tutto così perfetto che mette soggezione.”

 

Imma sorrise, soddisfatta che anche Rosa avesse notato l’eccessiva e snervante perfezione apparente della Ferrari.

 

“Ecco qui!” ricomparì dopo un po’, con un vassoio con una teiera, dei dolcetti a cupola, marmellata ed una roba che pareva burro.

 

“Ah, ma è tipo pane, burro e marmellata?” esclamò Rosa, sembrando sollevata.

 

“Più o meno,” rise Irene, passando loro i dolcetti e versando il té.

 

Se lo portò alla bocca e dovette ammettere che era buono, anzi buonissimo, lei che al massimo comprava le bustine da pochi euro al supermercato.

 

“Ma che tè è?”

 

“Un Darjeeling first flush. Sono le prime foglie raccolte dell’anno, ancora giovani, dopo il freddo. Quindi è più aromatico.”

 

Imma annuì calcolando mentalmente il costo di suddetto té, mentre Rosa si diede al pane, burro e marmellata. Poi con mano tremante la ragazza prese la tazza ma, forse per l’agitazione, le cascò qualche goccia sul divano.


“Oddio, scusa, scusa!” esclamò, in un modo che le ricordò una scolaretta terrorizzata.


“Ma figurati! Il divano è lavabile, basta asciugare e poi ci penso io,” rispose Irene, serafica.

 

Rosaria sembrò tranquillizzarsi per un attimo, ma si vedeva chiaramente che non era del tutto a suo agio. E come non capirla.

 

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“Mà, tata!”

 

Noemi riapparve correndo, sembrando felicissima, tirandosi dietro Bianca che per fortuna sorrideva e pareva serena.

 

Calogiuri riemerse alle loro spalle con aria un po’ stanca ma soddisfatta.

 

“Allora, vi siete divertite?” domandò Irene, prima di offrire, “lo volete un dolcetto e magari un po’ di latte e cioccolato?”

 

“Cììììì!” esclamò Noemi, il cui entusiasmo di fronte al cibo era a dir poco comico.

 

“Sì per la merenda e sì, è stato… bello!” ammise Bianca, con un tono timido, per poi girarsi verso Calogiuri e dichiarare, “Ippazio è bravissimo a raccontare le storie e pure a giocare con le bambole.”

 

“Con che bambole avete giocato?” chiese Imma, divertita.


“Con e Babbi.”

 

“Ah ma allora ci credo che è bravissimo! Quando eravamo bambini lo facevo giocare alle Barbie con me, che Modesto non voleva mai. Lui invece essendo più piccolo mi obbediva. Anche se mà non voleva perché diceva che erano giochi da femmine ma alla fine si divertiva pure lui, vero fratellino?”

 

“Beh sì…” ammise Calogiuri, grattandosi il collo.

 

“Perché giochi da femmine?” domandò Bianca, stupita.

 

“Perché la gente ama classificare le cose per motivi assurdi, ma un gioco è un gioco e basta,” intervenì Irene con un sorriso.

 

“E tu, Imma, con che giochi giocavi da bimba?” le chiese Bianca, così di botto.


“Beh… in realtà… non avevamo tanti soldi e di giochi non me ne potevo permettere molti. Leggevo i libri della biblioteca e… avevo un cannocchiale. Mi piaceva andare in giro a esplorare ed indagare. Mi è sempre piaciuto.”

 

“Ma allora sei proprio come Jane!” esclamò con entusiasmo Bianca, prima di ammettere con un sospiro, “io invece… ho paura ad andare in giro. Però anche io leggo tanto.”

 

“Ma guarda, io le avventure le ho vissute tutte dietro casa perché non ho mai viaggiato lontano se non con la fantasia.”

 

“Me ne racconti una prima di andare via?”

 

Imma lanciò un’occhiata ad Irene e una a Calogiuri, che però pareva divertito, “io non sono brava a raccontare le storie come Calogiuri. Ma se ti accontenti ci provo.”

 

“Cììììì!!” ululò Noemi, entusiasta come sempre di quasi tutto.

 

“Allora merenda, dopo Imma vi racconta la storia e poi li lasciamo andare che se no viene tardi,” concluse Irene, con un’espressione indecifrabile.

 

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“E, tornando dal fiume, ho visto delle lenzuola stese, bianche bianche, che erano di una vicina molto antipatica e che trattava sempre male me e mia madre. Allora, siccome avevo le scarpe ancora tutte infangate, ho preso e ci sono saltata sopra fino a riempirlo tutto di pedate,” raccontò e le bimbe risero, soprattutto Bianca che sembrava divertirsi un mondo. Irene invece le lanciò un’occhiata come a dire ma ti pare il caso? e lei si guardò intorno e realizzò che in effetti poteva sembrare istigazione al danneggiamento di casa, “solo che si vedeva chiaramente che erano impronte da bambino. La vicina mi aveva vista al fiume ed andò a lamentarsi con mia madre ma non c’aveva prove. Mia madre mi difese ma poi in privato mi fece una capa tanta e non potei più uscire per un mese. Da lì imparai che non ci si poteva fare giustizia da soli, anche se mi ero levata una soddisfazione.”

 

Bianca continuò a sorridere mentre Noemi batteva le mani. Pure Calogiuri e Rosaria sembravano divertiti, mentre Irene le rivolse un altro sguardo della serie ti sei salvata in corner.

 

“Mi piacerebbe vedere quei posti… Matera deve essere bellissima!”

 

“Lo è, anche se non è sempre bellissima. Però, quando te la sentirai, puoi venire qualche giorno in un periodo in cui ci sono le vacanze. O io o Calogiuri ti facciamo da guida, va bene?” si offrì, quasi senza rendersene conto, guadagnandosi due espressioni sbigottite da Irene e pure da Calogiuri.

 

Non se lo aspettava nemmeno lei, ma la bimba le faceva tenerezza e simpatia. Era molto intelligente e sveglia anche se timida. Per certi versi le ricordava lei alla sua età… se avesse avuto un trauma del genere e se avesse avuto come madre una specie di Lady e non una povera donna che si spaccava la schiena a fare le pulizie.

 

“Mi piacerebbe tanto… spero di… di stare meglio presto.”

 

“Quando vuoi!”

 

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“Mi ha stupito un po’... l’invito a Bianca. Anche perché… tu torneresti con me a Matera?”

 

“Beh… tanto ormai tutti sanno di noi, Calogiù. Magari non mo che dobbiamo tenere il basso profilo. E quest’estate abbiamo le Baleari ma… più avanti si può fare, no? Che ne so… tipo per Natale. Avrei voluto tornare per la Festa della Bruna ma… mi sa che non è il caso.”

 

Per tutta risposta, si sentì abbracciare forte forte e poi rimase così, con la testa sul petto di lui, sotto le lenzuola nella casa stranamente silenziosa, mo che Noemi dormiva.

 

“E comunque tu te la cavi proprio bene con i bimbi, Calogiù, anche se mi pento di essermi persa la scena di te che giocavi con le Barbie.”

 

“Sei tremenda, dottoressa” mormorò e non le servì alzare lo sguardo per sentire che fosse in imbarazzo.

 

“Però occhio a con quali bambole plastificate giochi, Calogiù. Le Barbie vanno pure bene ma altre no.”

 

“Preferisco decisamente le bellezze naturali, dottoressa, soprattutto una!”

 

“Ah sì?”

 

“Sì!” ribadì, dandole un pizzicotto sul fianco e facendole il solletico. Imma si ritrovò a ridere, senza poterlo evitare, finché un bacio le levò il riso e pure la cognizione del luogo e del tempo, almeno per qualche istante.

 

“Calogiù… Calogiù…” lo bloccò ad un certo punto, spingendolo sul petto per farlo staccare, “guarda che se viene di qua tua sorella o tua nipote e poi le traumatizziamo, io-”

 

“Va bene. Ma la prossima volta la camera da letto che si chiude a chiave ce la teniamo noi. Cioè… se ci sarà una prossima volta. Ovviamente senza impegno e-”

 

Lo zittì con un dito sulle labbra, prima che andasse del tutto in panico.

 

“Tranquillo, Calogiù. E non mi dispiacerebbe se ci fosse una prossima volta. Magari non tutte le settimane o tutti i mesi, ecco, ma la compagnia di tua sorella e di quella peste di tua nipote in fondo non mi dispiace.”

 

Calogiuri sembrò nuovamente sull’orlo delle lacrime e si trovò stretta talmente forte da mancarle quasi il fiato.

 

Ma la verità era che avere una famiglia allargata che non fosse composta solo da una suocera scassapalle e da un suocero che mirava a sopravvivere alla vita coniugale, non era poi così male.

 

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“Mariani! Ci sono novità?”

 

“Sì, dottoressa. Abbiamo finito di verificare le telecamere dello studio e chi non ha inserito l’allarme. E l’ultima ad uscire è stata la receptionist.”

 

“Dimenticanza o qualcos’altro? Avete verificato se è successo altre volte che l’allarme non fosse inserito?”

 

“A quanto pare la receptionist se n’era già scordata un paio di volte nel corso dei mesi, e poi aveva chiamato per farlo inserire più tardi.”

 

“Certo che è una bella coincidenza che il nostro uomo mascherato sia entrato proprio quando la receptionist si è dimenticata dell’allarme. Da fuori si vede se l’allarme è inserito?”

 

“No, anche perché chi ha le chiavi sa anche come disinserirlo prima che scatti.”

 

“Quindi, o abbiamo un criminale molto fortunato o qualcosa non quadra.”

 

“Vuole interrogare la receptionist?”

 

“No, al momento no. Non abbiamo niente in mano e, se fosse d’accordo col tizio mascherato, rischiamo di farle mangiare la foglia. Voglio tabulati, movimenti bancari, insomma qualsiasi cosa ci aiuti a capire qualcosa di più su di lei. Va bene?”

 

“Va bene, dottoressa.”

 

“E sull’insulina ci sono novità?”

 

“No, dottoressa. Ho mandato la partita all’azienda farmaceutica ma temo ci vorrà qualche giorno.”

 

“Solleciti, Mariani, mi raccomando, che se no rischiamo che ci voglia una vita.”


“Naturalmente. C’è altro, dottoressa?”

 

“No, Mariani, vada pure, grazie!”

 

“Va bene, allora ci vediamo alle diciotto che l’accompagno io a casa stasera.”

 

E, luminosa e gentile come sempre, Mariani si congedò lasciandosi dietro quella sua aura di positività.

 

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“Allora, va bene qui o-?”

 

“Ma che scherzi, va benissimo! Dopo quasi due anni di pannolini, pappe e poco sonno vedere un pub mi sembra un miraggio, mi sembra.”

 

“In realtà pure io non ci vengo spesso… se non ogni tanto con le mie amiche dell’università.”

 

“Ma come mai? Perché sei molto studiosa? Perché uno dei miei rimpianti di non aver studiato è anche il vivere con le amiche, le feste, tutte le cose che mi sono un po’ persa stando a Grottaminarda.”

 

“In realtà... è che… vivo con il mio… ragazzo ma-”

 

“Ma allora avete di meglio da fare che uscire al pub! Mo ho capito!” esclamò Rosaria con una risata, bevendo una sorsata di birra, “ma sei fortunata! Mia madre, se le avessi detto che andavo a convivere col mio ragazzo, avrebbe fatto una tragedia quasi pari a quella che sta facendo al mio povero fratellino.”

 

“Ma guarda, magari c’avessi meglio da fare! E… pure mia madre non era convinta e… forse avrei dovuto darle retta che era troppo presto. Ma sono cocciuta, quando mi metto in testa una cosa.”

 

“Mi pare una caratteristica di famiglia. Non solo della tua. Allora, se ne vuoi parlare…” offrì Rosa e Valentina da un lato si sentiva un po’ in colpa a scaricarle addosso le sue magagne per una sera libera che aveva, ma voleva proprio sfogarsi.

 

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“Aaah!”

 

L’urletto di Noemi per poco non le fece prendere un infarto. La sentì infrattarsi nel suo fianco, le manine che le stringevano la vita.

 

“Butto! Butto! Fa paua!”

 

“Vuoi vedere qualcos’altro?” le domandò, preoccupata, guardando verso lo schermo dove c’era il Re Leone ed il pezzo delle iene con il leone dal manto nero e dalla cicatrice in viso, giusto per non lasciare alcun dubbio che fosse il cattivo.

 

“Forse in effetti è un po’ troppo per lei, non ci avevo pensato, io ero più grande quando l’ho visto,” disse Calogiuri, prima di guardare l’orologio, “e poi è già tardi. Che ne dici di dormire, signorina?”

 

“Poccio dommire co voi? No vojo sola. Pe faore!” domandò con occhi imploranti che erano una versione ancora più letale ed adorabile dello sguardo da cucciolo di Calogiuri.

 

E, manco a farlo apposta, fu il turno dello zio di fare quasi lo stesso sguardo della nipote.

 

Come faceva a dire loro di no?

 

“Va bene, finché non arriva tua mamma stai con noi,” acconsentì, e si trovò Noemi aggrappata al collo che esultava, la paua già scomparsa.

 

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“E quindi questa è la situazione. Tu che mi consiglieresti di fare?”

 

Rosaria la guardò un attimo allibita, poi scosse il capo e sospirò.

 

“Senti, se la situazione è questa, lascialo mo prima che sia troppo tardi. Io… io sono abituata a non vedere quasi mai mio marito, sai lui fa il camionista. Però non mi è mai dispiaciuto… sarà anche che… insomma quando ci siamo sposati stavamo insieme da una vita e ho sempre preferito avere un po’ di indipendenza, visto com’è la situazione al paese quando i mariti sono troppo presenti. Però… c’hai manco vent’anni… dovresti vivere e farti le tue esperienze, tu che puoi. Avessi avuto io il coraggio di trasferirmi a Roma! Non che mi dispiaccia la vita che faccio ora, eh, e Noemi è dolcissima ma… ho aspettato a sposarmi proprio per potermi godere quel minimo di libertà il più possibile.”

 

“Sì… mia madre per l’appunto mi aveva detto che… che era troppo presto e che non lo conoscevo abbastanza, ma-”

 

“Ma meglio capirlo mo che dopo tanti anni buttati via, no?”

 

“Forse… forse hai ragione. Grazie!”

 

“Ma ti pare! Grazie a te che mi fai fare un po’ di vita da giovani stasera.”

 

“Ti va di andare a ballare? Possiamo tornare presto se sei stanca.”

 

“Non è che i giornalisti seguono pure te, no? Perché, considerato con che cosa può fare rima Grottaminarda, di prendermi un soprannome anch’io me lo evito volentieri.”

 

Valentina rise: Rosaria era davvero fantastica, peccato che vivesse lontano e comunque avesse un tempo libero molto limitato, prendendosi cura di Noemi.

 

“No, al momento no, ma ho visto mia madre il meno possibile in questo periodo.”

 

“E allora andiamo! Poi chissà se mi ricapiterà più, che ormai divento vecchia!”

 

“Se ci va ancora mia madre a ballare, non vedo perché non possa farlo tu.”

 

“In effetti… e poi ormai i trenta sono i nuovi venti, no?”

 

Si sentì prendere sotto braccio ed uscirono insieme dal pub.

 

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“Non è ora di dormire, signorina?”

 

Noemi scosse il capo e rise. Era tra lei e Calogiuri nel divano letto e continuava a muoversi e ad aggrapparsi a turno a lei e allo zio.

 

“No, pecché domani tonniamo a casha e no vi veo più.”

 

Il tono di Noemi si era fatto più triste, cosa rarissima per lei. Si scambiò uno sguardo con Calogiuri che aveva gli occhi lucidi quanto dovevano essere i suoi.

 

E stavolta se la abbracciò lei più forte, facendole un po’ il solletico per farla ridere, “ma vedrai che ci vedremo presto, tornerete a trovarci.”

 

“Pecché no veite voi a casha quacche votta?”

 

Una nuova occhiata condivisa con Calogiuri, ma stavolta di panico.

 

“Eh… non possiamo perché…” lo guardò, implorandolo di suggerirle qualcosa.

 

Perché come facevi a dire ad una bambina di quell’età che sua nonna non ti voleva vedere manco in foto, figuriamoci dal vivo.

 

“Imma ha tanto lavoro e non può prendere ferie ora. Ma ci vedremo presto, vedrai.”

 

“Periamo!” esclamò la bimba, tirando con una mano la camicia di notte di lei e con l’altra la maglietta di lui.

 

Pregò si addormentasse presto, anche se la verità era che pure a lei sarebbe mancata e molto.

 

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“Grazie di tutto, Imma, soprattutto di aver sopportato la peste!”

 

“Ma che grazie e grazie! E poi Noemi è una meraviglia. Sta crescendo benissimo e spero continui così,” ammise sinceramente e vide che Rosaria sembrava commossa, ma lo era anche lei.

 

“Tata!” ululò Noemi, sporgendosi da in braccio a sua mamma per attaccarlesi al collo ed Imma se la strinse forte, di nuovo quel nodo che saliva in gola, soprattutto al pensiero dell’ultima volta nella quale l’aveva salutata, poco dopo averla conosciuta.

 

Aveva creduto davvero di dirle addio… e invece… quella piccoletta fin troppo sveglia avrebbe fatto parte della sua vita si sperava il più a lungo possibile.

 

“Fai la brava, mi raccomando a te!” le intimò e Noemi rise e poi si buttò verso Calogiuri.

 

“Ciooooooooo!” pianse, come i bimbi a quell’età davanti ai saluti e Calogiuri pareva sull’orlo di scoppiare pure lui.

 

Alla fine si avviarono oltre la porta, valigie in mano, il taxi che avevano chiamato che aspettava sotto.


“A presto e trattami bene il mio fratellino, mi raccomando!” si congedò Rosaria, facendole l’occhiolino, “e tu fratellino, attento a te, che qua sei fai uno sbaglio ti ritrovi con me e Noemi che non ti lasciamo più in pace. Per fortuna i tuoi gusti sono assai migliorati dai tempi di Maria Luisa e spero che pure tu continui così.”

 

“Va bene…” mormorò Calogiuri, con un sorriso commosso.

 

E poi la porta si richiuse e la casa sembrò silenziosissima.


“Andiamo al lavoro, maresciallo?”

 

“Agli ordini, dottoressa! E… grazie di tutto. Sei stata… incredibile con Noemi e… e pure con Rosaria.”

 

“Non so come siate usciti così bene, vista la madre che ti ritrovi, Calogiù, ma tu e tua sorella siete tra le pochissime persone con le quali non mi devo sforzare di essere civile. E Noemi si fa volere bene per forza, proprio come lo zio.”

 

“Imma…”

 

E, prima di poter parlare, si trovò travolta da un altro bacio.

 

Lo interruppe a forza dopo qualche istante, prima che diventasse impossibile farlo, “non possiamo arrivare in ritardo, lo sai.”

 

“E va bene… ma stasera recuperiamo con gli interessi, dottoressa.”

 

“Guai a te se non lo fai, maresciallo!”

 

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“Dottoressa!”

 

Era appena entrata in procura, lottando insieme a Calogiuri contro i giornalisti che ancora stavano appostati ostinatamente lì fuori, nonostante fosse arrivata da sola per tre giorni di fila, quando Mariani per poco non le fece prendere un colpo.

 

“Mariani, mi dica, ha aggiornamenti per me?”

 

“Sì, dottoressa, e pure abbastanza importanti!” esclamò la ragazza con un’evidente soddisfazione nella voce.

 

“Va bene, andiamo nel mio ufficio. A dopo, Calogiuri!” si congedò con un sorriso, da lui ricambiato.

 

“Allora? Che ha scoperto?”

 

“Ho sollecitato la casa farmaceutica e… mi hanno dato il nome di una clinica qui a Roma, Villa Mughetto. Mi pareva familiare e quindi ho fatto un po’ di ricerche ed è la clinica dove lavorava la signora Spaziani, quando ha conosciuto la vittima.”

 

Imma per poco non cascò dalla sedia: la Spaziani non le sembrava proprio il prototipo della moglie assassina, nonostante l’amante. Forse perché aveva difeso veementemente il Galiano, ma magari era solo una tattica per depistare, mentre cercava in realtà di incastrarlo.

 

“La voglio sentire subito, Mariani, mo! Convocala.”

 

“Certo, dottoressa!”

 

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“Allora, signora Spaziani? Che ha da dire?! Cosa ci faceva una fiala di insulina proveniente da Villa Mughetto nell’ufficio di Galiano?”

 

La donna la guardò terrorizzata, come un cerbiatto di fronte ai fanali, balbettò un attimo e poi si zittì.


“Allora?!”

 

La Spaziani si morse il labbro e poi, dopo un attimo di esitazione, buttò fuori, tutto in un colpo, “non è colpa di Andrea! Sono… sono stata io a lasciargli quella fiala in ufficio, per… per incastrarlo. Ma non è stato lui ad uccidere mio marito.”

 

“E chi sarebbe stato? Visto che lei ha un alibi di ferro confermato pure dalle telecamere.”

 

“Io… io… preferisco non mettere in mezzo questa persona, tanto la responsabilità è mia, no? Avendo io ordinato l’omicidio,” proclamò, decisa, nonostante il labbro le tremasse.

 

Imma però cominciò ad avere seri dubbi: la Spaziani era l’unica che grazie alle telecamere poteva procurarsi un alibi di ferro. Perché incastrare, Galiano con una fiala riconducibile peraltro a lei, quando già non avrebbe avuto problemi comunque? Il Galiano non aveva parlato.

 

“E… come ha fatto a mettere l’insulina nell’ufficio di Galiano?”

 

“Come?”

 

“Come ha fatto a piazzare lì l’insulina senza che lui se ne accorgesse?” ripeté e notò benissimo che la donna andò in panico.

 

“Io… io… una volta che lo sono andato a trovare l’ho messa lì.”

 

“E quando? Non ha usato i suoi servigi come avvocato di recente, mi pare.”

 

“No, ma… un giorno ci siamo visti lì che lui era in pausa pranzo. Era… era andato in bagno e ne ho approfittato.”

 

“E dove l’ha nascosta l’insulina, signora Spaziani?”

 

“Come?” ripeté di nuovo, sempre più impanicata.


“Dove l’ha nascosta l’insulina?”

 

“Ma lo sapete benissimo, no?”

 

“Noi sì. Ma vorrei che me lo dicesse lei.”

 

“Io… io… l’ho messa… in un cassetto… della scrivania,” disse, come se fosse una domanda.


“Fuochino, ma no, ha sbagliato,” rispose con un sospiro, prima di scuotere il capo, sedersi sulla scrivania, accanto alla sedia della donna, e metterle una mano sulle spalle, portandola a guardarla negli occhi, “senta, non serve che… che si sacrifichi per Galiano, mo. Soprattutto se è innocente come credo. Lei lo è sicuramente, a questo punto, perché non penso che abbia la furbizia di fare un doppio bluff di questo tipo. Però mi deve aiutare a capire chi si è potuto procurare quella fiala di insulina. Va bene?”

 

“Ma… ma dov’è stata ritrovata?”

 

“Questo non ha importanza. Le dico solo che è stata messa lì due giorni prima di quando è stata trovata nell’ufficio di Galiano. Allora, mi può aiutare?”

 

“Non… non lo so…. Cioè… è da tanto che non lavoro più lì e non so quanta gente conosco ancora. Ma… ci posso pensare.”

 

“Con discrezione, però, non si metta in pericolo, mi raccomando. Non faccia troppe domande. Cerchi solo di capire magari chi delle sue conoscenze è ancora in quella clinica e chi può avere accesso all’insulina-”

 

“Beh… quello tutti i medici e tutti gli infermieri, dottoressa. Però c’è una lista delle fiale e chi ne porta via una deve segnare.”

 

“Quindi c’è un registro personale?”


“Beh… sì… o almeno c’era.”

 

“Perfetto. Allora se mi dà solo il nome di qualcuno in clinica che pensa che mi possa aiutare, per il resto ci penso io.”

 

“Verifico e… e le faccio sapere… grazie…” sussurrò la donna, con gli occhi lucidi, per poi prenderle la mano e chiederle, disperata, “ma Andrea nel frattempo… deve rimanere in galera? Non se lo merita! Non ha fatto niente!”

 

“Farò domanda di metterlo agli arresti domiciliari, visto che il pericolo di inquinamento di prove mi sembra ridotto. Ma piantatela di fare giochetti per coprirvi a vicenda, o in galera vi ci devo mettere tutti e due, chiaro?”

 

“Sì, grazie, grazie!” esclamò, sembrando come se un peso le si fosse levato dalle spalle, le lacrime che ormai le rigavano i bei lineamenti.

 

Imma sospirò: per quanto non si fidasse di Galiano, per via della famiglia da cui veniva, la verità era che più passava il tempo e meno sembrava colpevole.

 

Ora doveva solo convincere Mancini a farlo scarcerare. Ma vedere il procuratore capo era l’ultima cosa di cui aveva voglia in quel momento.

 

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“E quindi credo che sia inutile tenere il Galiano in carcere. Anzi, credo che, se pure fosse coinvolto, sarebbe più utile poter intercettare i movimenti suoi e della vedova fuori dal carcere.”

 

Mancini unì le mani a piramide, poco sotto il mento, come se lo aiutasse a riflettere, poi sospirò ed annuì, “va bene, dottoressa. Anche se… ultimamente non mi ha dato esattamente motivo di fidarsi di lei a livello personale, a livello professionale almeno questa decisione mi pare sensata. Firmi pure l’ordine di scarcerazione. Per il resto… spero stia continuando a tenere un profilo basso, anche se noto che la mattina viene ancora al lavoro con il maresciallo.”

 

“Dottore, mi pare meglio che ci intercettino qui per farsi le loro belle fotografie da rotocalco, piuttosto che lo facciano altrove, no?”


“Anche se sarebbe meglio che non lo facessero affatto.”

 

“Mi creda, dottore, tutta quest’attenzione è più che spiacevole pure per me.”

 

“Questo lo immagino ma… forse... a parte il basso profilo, è ora di controllare la narrazione di questa storia.”

 

“Che vuol dire?”

 

“Che, visto che il putiferio ormai si è scatenato, e ci metteranno un po’ prima di calmarsi, forse è meglio che lei conceda un’intervista, una sola, in cui chiarire la sua posizione e la sua relazione col maresciallo, una volta per tutte, per poi sperare che la gente la smetta e la notizia diventi poco rilevante.”

 

“Cioè… dovrei raccontare i fatti miei e di Calogiuri ad un giornalista? Ma è impazzito lei mo, dottore?”

 

“Per carità, i particolari ovviamente me li eviterei più che volentieri e li eviterei più che volentieri anche a lei, dottoressa. Diciamo… far capire alla gente perché… perché avete deciso di intraprendere questa storia, ecco, e come avete gestito la cosa da un punto di vista lavorativo. Non che io capisca ancora cosa lei ci trovi nel maresciallo, dottoressa, ma magari gli italiani potranno capirlo, se lei è brava abbastanza ad inventarsi una storia convincente, e ci lasceranno in pace.”

 

“Io non devo inventare proprio niente! E comunque dei giornalisti non mi fido!”

 

“Ma ovviamente non sceglierei un giornalista qualunque. Non so se si ricorda di Paul Frazer, il mio amico che abbiamo visto a Milano. C’era anche all’udienza.”

 

“Sì, me lo ricordo,” sospirò Imma, perché uno con quella chioma strabordante chi se lo scordava? Doveva ammettere che era stato uno dei pochi a non averla presa di punta fuori dal tribunale.

 

“Però non vorrei fare la solita intervista agiografica compiacente, che sono ridicole. E poi questo Frazer non si occupa di esteri? Non mi pare uno che parla di gossip, no?”

 

“Ma infatti l’intervista verterà sul maxiprocesso e sulla sua esperienza professionale, poi si parlerà anche della sua… relazione personale col maresciallo, ma non solo di quello. Che ci manca soltanto l’intervista da talk show pomeridiano, con le sorprese strappalacrime di amici e parenti e poi stiamo freschi, proprio!”

 

Ad Imma venne nonostante tutto da sorridere, “perché lei guarda i talk show pomeridiani, dottore?”

 

“No, ma visto che molti parlano in modo pessimo anche di casi di crimine, purtroppo qualcuno l’ho dovuto vedere. Comunque, se lei è d’accordo, fisserei un’intervista tra qualche giorno, ovviamente qui in procura. Vorrei che Paul facesse anche qualche domanda al maresciallo, giusto per levare ogni dubbio.”

 

“Ne… ne parlerò con Calogiuri e le farò sapere, dottore.”

 

“Va bene, ma mi faccia sapere in fretta che Paul deve venire apposta da Milano.”

 

“Va bene, dottore.”

 

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“E così Mancini vuole che ci sia anche tu per qualche domanda. Che ne pensi? Sinceramente, Calogiuri.”

 

Erano a tavola e per poco non gli andava di traverso il pollo.

 

E che ne pensava? Come faceva a non preoccuparsi? Lui di Mancini non si fidava per niente, figuriamoci dell’amico suo, anche se non lo conosceva.

 

“Non ti fidi?” gli domandò, leggendogli nel pensiero.

 

“Ma non di te, dottoressa, di loro due.”

 

“Beh, pure io con un microfono in mano posso fare molti danni, Calogiuri, mi conosci.”

 

“Tu puoi dire ciò che vuoi, dottoressa, mi fido di te e sarebbe comunque la verità.”

 

Gli sorrise in quel modo bellissimo che era ogni volta un regalo, allungò una mano a prendere la sua e se la sentì stringere.

 

“Capisco le tue paure, Calogiuri, e se non te la senti. Ma è solo che… credi davvero che Mancini danneggerebbe la procura tendendoci una trappola con un giornalista? Nonostante tutto, io non penso arriverebbe a tanto.”

 

“Sei sempre troppo fiduciosa nei confronti di Mancini.”

 

“E tu nei confronti di qualcun’altra.”

 

“Ma mi pare che al processo qualcun’altra ci abbia salvato, no?”

 

“E perché non pensi che Mancini farebbe lo stesso? Non fosse altro che per non sbugiardare la Ferrari e non mettere in pericolo il processo. Se volesse liberarsi di me o di te, basterebbe convincerci al trasferimento, no? E non ci provare, Calogiù, prima che ti salti in mente, che ti conosco!” esclamò, notando l’espressione di lui e temendo che ci stesse pensando seriamente di cambiare procura, per tirarla fuori dai guai.

 

“E neanche tu, dottoressa!”

 

Imma sorrise ma poi fece un’espressione strana.

 

“Che c’è?”

 

“Sai… pare il dilemma del prigioniero portato all’estremo opposto. L’ho pensato anche oggi con la Spaziani, che sarebbe andata in galera per salvare Galiano. Nel dilemma del prigioniero ci sono due sospettati: se uno confessa ottiene uno sconto ma comunque ha una pena, pure se ridotta, e l’altro la pena intera. Se nessuno confessa, invece, sarebbero tutti liberi. Ma succede sempre che entrambi finiscono per incolpare l’altro, per non rischiare di avere la pena per intero. Noi stiamo facendo l’opposto invece, come Spaziani e Galiano. Rischiamo di perdere tutti e due tutto quanto e non è giusto. Dobbiamo combattere uniti, maresciallo, ma per uscirne tutti e due incolumi, chiaro?”

 

“Più o meno… mi sa che questa cosa del prigioniero è un po’ complicata per me. Ma è una tua teoria?”

 

Ed Imma rise, “no, di un Premio Nobel, un certo Nash. Io non arrivo a tanto, Calogiù.”

 

“Con tutto il rispetto per il Nobel, tu i sospettati li hai fatti confessare nella realtà e senza tanti giri di parole,” rispose, anche se era ancora un po’ confuso, “e comunque va bene, dottoressa, niente trasferimento. Farò di tutto per restare qui accanto a te, te lo prometto.”

 

“Ci conto, maresciallo, o dovrai trasferirti sì, ma al polo nord, per sfuggire alla mia ira!”

 

“Beh, almeno lì coi tacchi farai più fatica a correre!” scherzò e, per tutta risposta, Imma gli diede un pizzicotto sulla mano. Ma poi si alzò in piedi e, senza capire bene come, se la trovò in braccio.

 

“Sbaglio o dovevamo recuperare con gli interessi, maresciallo?”

 

“Pure se dovessero essere interessi altissimi?”

 

“Ti autorizzo ad oltrepassare i limiti imposti dalla legge antiusura, anzi è un ordine e-”

 

La zittì in uno dei pochi modi che conosceva, con un bacio, e poi la sollevò di peso, con tutte le intenzioni di mantenere la promessa ed usare la sua arma migliore in ben altro modo che per parlare.

 

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“Dottoressa, sono veramente felice che abbia accettato quest’intervista.”

 

“Ma… ma la facciamo qui?” chiese, guardandosi intorno, perché erano nel bar della procura.

 

“Sì, mi pare un ambiente più… rilassato. Anche se la troupe ci ha impiegato un’ora a togliere tutti i riferimenti al marchio del caffé. Forse dovrebbe indagare anche sui dirigenti di quest’azienda, dottoressa, perché è ovunque.”

 

“Ci penserò, signor Frazer.”

 

“Per favore, mi chiami solo Paul. L’idea deve essere quella di una chiacchierata informale, anche se riservata.”

 

“Sì, riservata tra noi e chissà quanti milioni di telespettatori.”

 

“Ma non siamo in diretta e vedrà che andrà bene: si concentri solo su di me e non pensi alle telecamere.”

 

“Ci provo,” sospirò, perché quella specie di cespuglio ingellato che aveva in testa la distraeva: Calogiuri in confronto era calvo, ed era tutto dire.

 

“Buonasera, sono qui con la dottoressa Imma Tataranni, che ringrazio per avermi accordato quest’intervista. Da poco è finito uno dei maxiprocessi più importanti della storia recente d'Italia e-”

 

“Il primo grado, solo il primo grado, che qui in Italia finché non è passata la cassazione può succedere di tutto,” non poté trattenersi dall’interromperlo.

 

“Certamente, ma penso che sia già una grande vittoria. Ed in gran parte al femminile, visto che lei è riuscita a far partire questo processo e poi la dottoressa Ferrari ha gestito la parte finale. Ma ora potrebbe tornare a lei. Sarebbe disposta a riprenderlo in mano?”

 

“Come ho già detto, è una valutazione che andrà fatta quando sarà depositato l’appello. La dottoressa Ferrari ha comunque fatto un ottimo lavoro in fase processuale e la ringrazio.”

 

“Ecco, mentre lei ha fama di essere veramente imbattibile nelle indagini. Qualcuno la definisce un poliziotto mancato, c’era gente che la chiamava lo sceriffo di Matera. Che ne pensa dei… nomignoli che le sono stati attribuiti negli anni?”

 

“Che la gente vuole sempre classificare tutto e, se qualcosa non rientra nei loro schemi, partono con i soprannomi cretini. Io amo fare il mio lavoro e, per avere successo in fase processuale, le indagini sono fondamentali. Ovviamente non è che non mi fidi di polizia e carabinieri, anzi, ma… credo sia importante essere di supporto in entrambe le direzioni, non solo loro a me ma pure io a loro. E poi mi hanno sempre insegnato che chi fa da sé fa per tre.”

 

“Ed è vero?”

 

“In questo lavoro è impossibile fare tutto da soli. Ma non trovo nemmeno giusto delegare tutto agli altri, mi piace essere coinvolta in prima persona, lo trovo più efficace, senza ovviamente nulla sottrarre ai miei doveri d’ufficio.”

 

“Capisco. So che, con ancora due gradi di giudizio, non si può parlare con piena libertà dei dettagli dell’indagine ma… volevo capire com’è nata e da dove è partito tutto.”

 

“Diciamo da un dito in mare.”

 

“Un dito in mare?”

 

“Se non annoio gli spettatori., perché è una storia un po’ lunga.”

 

“Abbiamo tutto il tempo, poi so che non ama perdersi in troppe chiacchiere di circostanza, quindi sono sicuro che sarà sintetica.”

 

“Ah, su quello ci può contare.”

 

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“E così siamo arrivati ad avere una prova schiacciante contro Eugenio Romaniello e… il resto è agli atti del processo ed è stato seguito abbondantemente dalle telecamere in tribunale, quindi ve lo risparmio.”

 

Il giornalista sembro trattenersi dal ridere.

 

“Il filo rosso di quest’indagine mi pare il coraggio delle donne. E anche, purtroppo, il fatto che molte delle vittime sono donne, o parte di minoranze etniche, o di fasce economicamente disagiate della popolazione e quindi più vulnerabili. Che ne pensa?”

 

“E che ne penso… che la criminalità trova gioco nella povertà, nell’ignoranza, intesa come mancanza di studio, di possibilità. Poche persone con una prospettiva di vita tutto sommato serena si danno al crimine - salvo gente che probabilmente ci è nata come i Romaniello, si intende - ma… chi è ricco sta al vertice, solitamente, chi è povero fa da manovalanza. Nemmeno il mondo criminale è democratico come classi sociali. E le donne sono una minoranza, e le minoranze sono trattate malissimo, da sempre, che sia per sesso, religione, etnia od orientamento sessuale. Sono considerate, siamo considerate persone più deboli e quindi più facilmente diventiamo vittime di violenza. Anche per la mentalità che purtroppo ci viene inculcata, di essere carine, docili, remissive, senza fare troppo rumore o dare troppo disturbo.”

 

“Beh… mi sembra tutt’altro che debole, remissiva o docile.”

 

“Ed infatti questa cosa non me l’hanno proprio mai perdonata. Molte donne per prime, purtroppo.”

 

“A Matera o pure qui a Roma?”

 

“Nelle piccole realtà è peggio… la grande città dovrebbe essere più aperta mentalmente, anche se a giudicare dai titoli dei giornali e da quanti se li comprano quando parlano di spazzatura, invece che quando trattano di argomenti seri, direi che tutto il mondo è paese.”

 

“Immagino si riferisca a… tutti i titoli sulla Pantera di Matera. Ho qui un breve estratto delle testate principali e dei vari titoli, per riassumere la situazione ai nostri spettatori e a quei pochi che si fossero persi quella che è la notizia del momento, per così dire.”

 

Paul fece un attimo di pausa, probabilmente perché ci doveva essere un taglio con la grafica da lui menzionata, cosa che già le dava molta ansia non poter vedere, e poi riprese con un, “ed eccoci qui. Allora, dicevamo, i titoli dei giornali li ha visti tutti immagino ed i giornalisti non le danno tregua. Come commenta tutta questa situazione?”

 

“Penso innanzitutto che sia assurdo che, dopo un maxiprocesso che si spera ridia un po’ di respiro ad una città i cui giovani sono ancora troppo spesso costretti ad emigrare, e che ha coinvolto tante persone anche qui a Roma, invece di parlare dei risultati raggiunti e delle vittime si parli della… Pantera di Matera. Potrei capire i giornaletti ma non i quotidiani, sinceramente.”

 

“Perché c’è tanto interesse?”

 

“Perché sono una donna tutto sommato normale ed ho osato separarmi e trovarmi pure un compagno più giovane. E bello. Ovviamente ci deve essere qualcosa sotto, no? Almeno secondo la gente. Per dire… posso chiederle quanti anni ha?”

 

“Quarantacinque.”

 

“Siamo più o meno coetanei. Se lei domani annunciasse che si è fidanzato con una ventinovenne, nessuno batterebbe ciglio, no? Poi per carità, è un bell’uomo, ma pure se fosse il Mostro di Lochness probabilmente nessuno batterebbe ciglio lo stesso. Sarebbe normale e nessuno la chiamerebbe il Panterone di… di dov’è?”

 

“Di Boston.”

 

“Ecco, nessuno si sognerebbe mai di chiamarla The Panther of Boston. Io invece…”

 

E Frazer stavolta rise, scuotendo il capo.

 

“Per mia fortuna no, anche perché sembra il nome di un team di football. E comunque posso dire ai nostri spettatori che la dottoressa e una delle donne più affascinanti che abbia mai intervistato, quindi non dovrebbe farsi problemi da quel punto di vista.”

 

Imma si sentì un attimo avvampare, ma poi scherzò, “occhio che mo diranno che la Pantera di Matera ha colpito ancora. Solo che in realtà nella mia vita ho colpito ben pochi, anche se devo dire pochi ma buoni.”

 

“No, no, che se no la mia compagna colpisce me, che pure lei ha un bel carattere forte e non le manda a dire, come dite qui in Italia,” scherzò il giornalista, ma qualcosa negli occhi le fece capire che non scherzava del tutto e che sta compagna doveva essere una tipa parecchio tosta.

 

Frazer poi tornò più serio e, con un tono stranamente professionale, visto l’argomento, le domandò, “vuole raccontarci qualcosa di com’è nata la sua relazione con il maresciallo Calogiuri? Mi rendo conto che sia gossip, ma credo sia importante che la gente veda anche il lato umano della vicenda, al di là dei titoli dei giornali.”

 

Imma prese un respiro, perché quella domanda era potenzialmente molto pericolosa, “non è che ci sia tanto da dire. Quando ho conosciuto Calogiuri ovviamente… va beh… che fosse bello bastava avere gli occhi per notarlo. Però mi ha colpito perché era molto riservato, di poche parole, gentile, buono, insomma una bella persona, cosa che nel mio lavoro è difficilissimo poter dire di qualcuno. Ma allo stesso tempo era molto intelligente, portato per le indagini, anche se si sottovalutava tanto e… e poi col tempo ho scoperto che quando una cosa non la riteneva giusta aveva una capa tosta quasi peggio della mia. Sapeva e sa tenermi testa in un modo a cui non sono abituata, col caratteraccio che ho, e mi capisce con uno sguardo. E così… insomma piano piano ho capito di essermene innamorata e non è stato facile accettarlo ed ammetterlo anche solo a me stessa. Per fortuna lui per qualche motivo inspiegabile ricambiava e ricambia e… e il resto direi che sono fatti nostri.”

 

“Se non le dispiace chiederei anche al maresciallo, così poi arriviamo alla conclusione di quest’intervista.”

 

“Va bene,” annuì e Frazer fece un cenno e Calogiuri, vestito per una volta in giacca, camicia e pantaloni - lei aveva indossato l’unico tubino buono che aveva - entrò nell’inquadratura e si sedette sullo sgabello accanto a quello di lei.

 

“Maresciallo, immagino abbia sentito cosa ha detto la dottoressa, perché non prova a spiegare lei com’è nata questa storia che sta facendo tanto discutere e cosa ne pensa dell’opinione pubblica in proposito?”

 

Calogiuri la guardò per un secondo e poi si rivolse all’altro uomo ed iniziò a parlare, “sull’opinione pubblica… che conoscendo la mentalità diffusa immaginavamo non tutti avrebbero reagito bene, ma che non mi aspettavo e non ci aspettavamo un interesse del genere e anche io trovo abbastanza assurdo e offensivo che, dopo tutto il lavoro svolto dalla dottoressa Tataranni e dalla dottoressa Ferrari, si parli solo di noi due che ci prendiamo una serata libera, come tutte le persone fanno al mondo.”

 

“Mi scusi, ma... la chiama ancora la dottoressa Tataranni?”

 

Calogiuri diventò color fragola, “in servizio sì, il rispetto dei ruoli è fondamentale. In privato ovviamente non la chiamo dottoressa… se non scherzosamente quando si mette a dare gli ordini.”

 

“Calogiuri!” esclamò, sentendosi avvampare del tutto ma lui rise, guardandola negli occhi e non riuscì a prendersela, “e comunque senti chi parla!”

 

“Diciamo che, al di fuori del lavoro, col nostro carattere prendiamo ordini solo se ci va. Però, seriamente, ciò che mi piace del rapporto con lei è proprio il… il grande rispetto e la grande fiducia che ha nei miei confronti, ricambiati ovviamente. E per il resto… non c’è molto da spiegare. Basta conoscerla per vedere quanto è bella, forte, intelligente, ma è anche buona, con chi se lo merita almeno, e-”

 

“Non mi rovinare la reputazione, mo!”

 

“Ecco, appunto!” rise, rivolgendosi a Frazer, prima di tornare a voltarsi verso di lei e guardarla fisso negli occhi, “annoiarsi con lei è impossibile e… e sinceramente non so come ci si possa non innamorare di lei, conoscendola, quindi fatico sempre a capire tutto questo stupore.”

 

“Mannaggia a te!” gli sussurrò perché le stava venendo da piangere ed allungò una mano sotto al tavolino per stringere quella di lui.

 

Dopo poco sentì qualcuno schiarirsi la gola e si voltò verso Frazer, che li guardava con un’espressione strana, “sinceramente, vedendovi insieme, mi stupisco pure io che la gente si stupisca. Siete una delle coppie più affiatate che abbia mai visto e pure una delle più divertenti.”

 

“Con tutto il rispetto, mi viene da chiederle chi frequenti di solito,” ribatté, anche se, in fondo in fondo, le fece un piacere immenso e Frazer rise di nuovo.

 

“No comment, dottoressa. Vi ringrazio per il tempo che mi avete dedicato per quest’intervista e spero veramente che da ora in poi potrete tornare ad occuparvi solo di indagini.”

 

“Lo speriamo pure noi, che il lavoro è tanto, purtroppo per le vittime, ma cerchiamo sempre di fare del nostro meglio. Che non è proprio rilasciare interviste.”

 

“Non direi, anzi. Grazie ancora e buona serata ai nostri telespettatori.”

 

Frazer mise giù il microfono e fece segno di tagliare.

 

“Per me va bene. Dobbiamo vedere il girato ma mi sembra che sia venuta molto naturale, cercheremo di non fare tagli, in modo da mantenere l’idea di una diretta o quasi,” spiegò, e del resto avevano girato tutto al primo colpo, volutamente. Poi il giornalista guardò oltre le loro spalle e disse, “Giorgio! Come ti è sembrata?”

 

Imma mollò la mano a Calogiuri e si voltò, notando Mancini che li fissava dall’ingresso del bar.

 

“Non è… non è venuta male. Credo… credo possa funzionare,” ammise il procuratore capo con un sospiro, guardandola negli occhi in un modo che le causò una fitta al petto.

 

In effetti avevano girato il dito nella piaga, anche se involontariamente.

 

“Sì, devo dire che dopo che è entrato anche lei, maresciallo, la dottoressa era paradossalmente molto più a suo agio e poi… siete molto divertenti quando vi… come si dice pick on eachother?”

 

“Punzecchiare…” tradusse Mancini con un altro sospiro, l’aria di chi avrebbe preferito trovarsi di nuovo in mezzo alla folla di giornalisti che lì.

 

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“Lo speriamo pure noi, che il lavoro è tanto, purtroppo per le vittime, ma cerchiamo sempre di fare del nostro meglio. Che non è proprio rilasciare interviste.”

 

“Non direi, anzi. Grazie ancora e buona serata ai nostri telespettatori.”

 

Imma lanciò un’occhiata a Calogiuri: erano sul divano di casa, era quasi mezzanotte e avevano appena finito di trasmettere, in seconda serata, la loro intervista.

 

“Che ne pensi?” gli domandò, preoccupata.

 

“Che sei molto… come si dice… telegenica? Stavi benissimo e hai fatto una bella intervista.”

 

Non fosse stato lui ma qualcun altro, avrebbe pensato che la stesse prendendo in giro, ma si vedeva che era sincero.

 

“Sì, va beh… sei tu che... altro che telegenico. C’aveva ragione quello del film su Gesù Cristo che potevi fare l’attore, potevi!”

 

“Pure tu, espressiva come sei, dottoressa.”

 

“Come no! Che poi con quella storia che mi chiami dottoressa, mo chissà la gente che penserà!” esclamò, trattenendosi però dal ridere, perché si immaginava la faccia della sua ex suocera quando lo aveva sentito. Perché sicuramente non se l’era persa l’intervista, conoscendola.


“E che penserà? Che ci amiamo, no?”

 

“Altro che pericoloso sei, Calogiù!” sospirò, abbracciandoselo di lato.


“Comunque Frazer è stato di parola: non ha tagliato niente. Mi pare che sia venuta bene, no?”

 

“E che ne so, Calogiù… mica me ne intendo! Speriamo che la televisione mi renda più simpatica che dal vivo e-”

 

In quel momento il suo telefono iniziò a squillare: Diana.

 

E pure quello di Calogiuri: Rosaria.

 

Si guardarono per un attimo e poi lui le chiese, “vuoi che non rispondo?”

 

“Senti, se vogliono commentare l’intervista ci possono mandare un messaggio. Che ne dici se mo ce ne andiamo a letto?”

 

“Sei così stanca, dottoressa?”

 

“E chi ha parlato di dormire, maresciallo?” gli domandò, con un sopracciglio alzato.

 

“La cosa si fa interessante!”

 

“E quando mi ricapita di andare a letto con un divo della televisione?”

 

“Beh, pure a me, in realtà, quando mi ricapita?”

 

Spero mai, maresciallo, se non con me finché durano, si spera per poco, questi minuti di celebrità.”

 

“Sei tremenda!” rise, scuotendo il capo.

 

Si sentì sollevare per aria e, dopo poco, si trovò buttata sul letto.

 

“Cos’è? Sei in vena di giocare stasera?”

 

“Perché tu no?”

 

“Beh… potrei fare questo grande sacrificio e-”

 

Stava per agguantarlo per la felpa quando la suoneria, talmente forte che la sentiva fin dal salotto, la bloccò.

 

Era quella più rumorosa che aveva, perché di emergenza.

 

“Valentina…” sospirò, guardandolo tra il dispiaciuto e l’implorante.

 

“Tranquilla, lo so che devi rispondere. Vorrà dire che nel frattempo leggo che mi ha scritto mia sorella. Ma poi riprendiamo il discorso da qua.”

 

“E ci mancherebbe altro!” esclamò, dandogli un pizzicotto al fianco e scendendo dal letto per raggiungere il cellulare.

 

“Pronto?” riuscì a rispondere prima che smettesse di squillare.

 

“Mà… ma che voce c’hai? Stai bene?”

 

“Sì, scusa, è che… avevo lasciato il cellulare lontano ed ho dovuto fare una corsa. Dimmi.”

 

“Ho visto l’intervista.”

 

“E che ne pensi?” domandò, trattenendo il fiato.

 

“Diciamo che tu eri come al solito da diabete, quando si parla del tuo maresciallo. Lui almeno due battute le ha fatte, anche se rimarrò per sempre col trauma all’idea di in quali momenti ti chiama dottoressa.”

 

“Valentì!”

 

“Come se non avessi ragione! Comunque hai visto i commenti online? Siete finiti in trend topic!”

 

“In che cosa?”

 

“Siete stati tra i più commentati sui social.”

 

“Immagino che cosa potranno avere scritto…” sospirò Imma, temendo che Mancini, nonostante fosse stata un’idea sua, la prendesse come la classica goccia che faceva traboccare il vaso.

 

“Ma no! Cioè, all’inizio magari sì. Ma poi, a parte le persone più su d’età, che continuavano con i commenti che ti immagini tu, molti ragazzi e ragazze - e pure alcune signore della tua età - hanno iniziato a scrivere cose tipo come state bene insieme. Un sacco di ragazze ovviamente commentavano quanto è figo tuo maresciallo. Ma ho anche letto alcuni commenti su di te di gente della mia età, soprattutto ragazzi, che altro che trauma!”

 

“Cioè.. intendi commenti positivi?”

 

“Fin troppo!” la sentì proclamare con un tono disgustato, per poi aggiungere, “pensa che ho un sacco di richieste di amicizia di gente di Matera che non sento da una vita, e pure gente mai vista, ma col cavolo che le accetto.”

 

“Valentì… mi dispiace, io-”

 

“Ma figurati! Non vedo l’ora di andare da nonna per sentire che ne pensa,” la punzecchiò, facendosi poi più seria, “però… mi preoccupa solo come la prenderà papà. Quindi credo che starò a Matera anche questo fine settimana, se non ti dispiace.”

 

“Va bene. E… mi sarei e ci sarei evitata tutto questo casino, potendo, credimi.”

 

“Tanto ormai ci sono abituata ad avere una mamma famosa, anzi famigerata. Magari non a livello nazionale, però.”

 

“Se hai bisogno di qualcosa o se ti danno disturbo dimmelo, va bene?”

 

“Va bene, mà, a presto! E salutami il tuo maresciallo, se si è ripreso dal fiatone almeno lui.”

 

“Valentì!” esclamò, ma la figlia aveva già riattaccato.

 

Tornò in camera e vide Calogiuri che guardava il cellulare con aria stupita.

 

“Che c’è? Brutte notizie da tua sorella?”

 

“No, no, anzi, ha detto che l'intervista le è piaciuta e che nostra madre pareva si fosse mangiata un rospo ma se l’è vista tutta.”

 

“E allora? Perché quella faccia?”

 

“Perché ho dovuto bloccare le notifiche dei social. Ho ricevuto più di cento richieste di amicizia e continuano ad arrivare.”

 

“Eh?!” esclamò, ringraziando il cielo di non avere quelle diavolerie sul suo telefono, “tutte ragazze giovani, immagino?”

 

“Pure qualcuna della tua età e anche più grande. Ma ovviamente non le accetterò, solo che mi stanno intasando i messaggi. Dovrò bloccare tutto, se va avanti così!”

 

Imma si mandò a quel paese da sola per avere accettato la bella idea di Mancini: mo non aveva solo la concorrenza della Ferrari o di tutte le ragazze locali. No, aveva pure le fan in rete il suo Calogiuri.

 

Ma come poteva biasimarle?

 

“Imma…” sentì pronunciare vicino all’orecchio e notò che Calogiuri si era mosso fino ad essere sul bordo del letto, a pochi centimetri da lei, e si sentì prendere il cellulare di mano, che finì insieme a quello di lui sul comodino, “non avevamo un discorso in sospeso?”

 

Esitò solo un secondo, prima di spingerlo lei stavolta sul materasso ed inchiodarlo con un bacio.

 

Ed era solo l’inizio: gli avrebbe dimostrato coi fatti come il reale era molto ma molto meglio del virtuale.

 

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Il telefono squillò per l’ennesima volta quella mattina.

 

Stava per cedere alla tentazione di mandare pubblicamente a quel paese i giornalisti e chiunque avesse dato loro il suo numero, quando il nome sul display le fece rimangiare il pensiero.

 

“Pronto, signora Spaziani? Ci sono novità?”

 

“Sì, dottoressa. Io… volevo innanzitutto ringraziarla per avere messo Andrea ai domiciliari, anche se non lo posso vedere, ma-”

 

“Non mi deve ringraziare, ho solo applicato la legge. Mi dica se ha qualche notizia.”

 

“Sì, sì. Ho contattato una persona che lavora lì in clinica e che per il momento vorrebbe rimanere anonima. Mi ha fatto alcuni screenshot del registro dell’insulina nelle date vicine a quelle di… dell’omicidio di mio marito e di quando hanno messo l’insulina nell’ufficio di Andrea. Le mando le foto e… così può anche confrontare il seriale. Se serve posso farle avere tutto il registro dalla data che le serve, ma ci vorrà più tempo.”

 

Ammazza se era sveglia la Spaziani! Forse fin troppo, ma per il momento voleva fidarsi della sua intuizione.

 

“Va bene. Per ora può bastare, grazie, mi potrebbe essere molto utile. Non indaghi oltre e non si metta nei guai.”

 

“Non voglio mettermi nei guai, ma… voglio che questo incubo finisca, soprattutto per Andrea. Mi sento così in colpa che sia stato messo in mezzo a questa storia solo perché mi conosce.”

 

“Lo vedremo.”

 

Stava per chiudere la chiamata quando l’altra donna le disse, “l’ho vista in televisione, sa?”

 

Ecco, ci mancava solo quello! La sua credibilità istituzionale poteva andare a farsi benedire.

 

“Lei e troppa gente, temo, signora Spaziani.”

 

“No, perché? Anzi! Ha detto delle cose… molto belle e… e lei ed il maresciallo siete davvero una bella coppia. Credo di essere fortunata che si occupi lei di questo caso, anche perché… può vedere la situazione senza pregiudizi. Credo che molti suoi colleghi uomini mi avrebbero già massacrata.”

 

Si chiese se fosse un tentativo di captatio benevolentiae, ma suonava sincera, “sto facendo semplicemente il mio lavoro e mi sarei comportata con lei nello stesso identico modo anche se la mia… situazione personale fosse completamente diversa.”

 

“Lo so. Ma perché… è libera mentalmente, dottoressa. E purtroppo, come ha detto lei, questa libertà noi donne la paghiamo cara.”

 

“Se è innocente non ha niente da temere. Mi faccia sapere se ha altre novità.”

 

Chiuse la chiamata e telefonò a Mariani ma niente, squillava a vuoto.

 

“Asia! Asia!” gridò, sperando che magari avesse ulteriori notizie sulla carabiniera.

 

Ma niente: dall’ufficio dell’ossigenata cancelliera non si sentiva volare una mosca.

 

Imma si avvicinò alla porta di soppiatto - pronta a cogliere in flagrante un eventuale allontanamento dal luogo di lavoro - la aprì di scatto e vide la giovane che saltò sulla sedia, smanettando poi a computer.

 

“Mi faccia vedere cosa stava combinando con quel computer.”

 

“Dottoressa, io-”

 

“Le ricordo che siamo pagati dai contribuenti e che utilizzare un computer della pubblica amministrazione per fini privati è passibile di sanzioni e-”

 

“Stavo guardando la casella mail del lavoro, se ci tiene proprio a saperlo.”

 

“E allora, se stava lavorando, che c’aveva da nascondere?!

 

“Questo!” esclamò, girando il monitor verso di lei con l’aria da ti avevo avvertita!

 

“E questo me lo chiama lavoro?!” domandò, fissando incredula una foto in costume di un ragazzo biondo, con gli occhi azzurri, sulla ventina. Pure bello, eh, per carità, ma l’incazzatura già stava salendo.

 

“Sì, lo chiamo lavoro perché la mail era indirizzata a lei. Alcuni… alcuni devono avere trovato questo indirizzo e, non avendo lei i social, scrivono qui pensando che li leggerà.”

 

“E mandano ste foto?” chiese, sconvolta, domandandosi se la gente fosse pure più rinscimunita di quanto già pensasse.


“Sì… per non parlare di quello che scrivono, ma-”

 

Alzò la mano perché non voleva sapere altro.

 

“Cancelli quest’immondizia, per piacere, e blocchi i mittenti, anche se servirà a poco. E, se persistono, minacci di denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale.”

 

“Sì, dottoressa, ma… ci sono anche alcuni messaggi di donne. Alcuni sono… molto toccanti. Vuole che butti anche quelli?”

 

Imma sospirò, “quelli non degli allupati me li giri, vedrò se ho tempo di leggerli fuori dall’orario di servizio, come dovrebbe fare pure lei. Le mail degli infoiati d’ora in poi le butti direttamente senza stare a perdere tempo a leggerle, grazie.”

 

Stava per uscire, quando sentì la vocetta della Fusco domandare, “dottoressa, ma lei da che parrucchiere va?”

 

“Come scusi?”

 

“Visto il successo che sta avendo… mi chiedo se da rossa avrei… più riscontro pure io.”

 

“Capo primo la tinta me la faccio in casa, che chi c’ha tempo del parrucchiere. Capo secondo, non sono i capelli che fanno la differenza, ma quello che c’è sotto.”

 

“Il cuoio capelluto?” chiese, con uno stupore a dir poco comico.

 

“No, i neuroni!” replicò, alzando gli occhi al cielo, prima di chiudere la porta con fin troppa forza.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa, io vado a pranzo!”

 

“Va bene,” annuì, congedandola con un cenno della mano.

 

“Vuole che le porti qualcosa? Che mi pare più nervosa del solito.”

 

“No, non mi serve niente, grazie!”

 

“Le ho girato le mail che sono arrivate negli ultimi giorni, quelle più interessanti.”

 

Imma sospirò: era ormai trascorso quasi un mese ma, se i giornalisti iniziavano finalmente a dare loro tregua fuori dalla procura, anche perché le foto si erano fatte ripetitive, online la situazione era ancora abbastanza movimentata, anche se non come i primi giorni, fortunatamente.

 

Calogiuri continuava a ricevere richieste sui social e lei mail che venivano quasi tutte cestinate.

 

Ma c’erano delle donne che le mandavano messaggi veramente commoventi, anche se non poteva rispondere a tutte. Ad alcune, che non parlavano solo di matrimoni infelici, ma che raccontavano di vere e proprie violenze domestiche, aveva risposto facendole contattare dai centri antiviolenza.

 

Ancora non poteva credere che la sua storia potesse toccarle tanto. Che poi… lei aveva avuto un marito meraviglioso e gentile. In confronto a ciò che aveva letto si sentiva veramente fortunata in un modo sfacciato.

 

Specie quel giorno, anche se… anche se qualcuno forse se ne era scordato.

 

Per carità, era solo uno dei loro anniversari ed in fondo non era nemmeno quello ufficiale. E Calogiuri era impegnatissimo con la cara Irene che lo riempiva di lavoro. Ma… era il due luglio, a Matera si festeggiava la Bruna e… per lei era quello il loro anniversario vero, quasi ancora di più di quello che avrebbero festeggiato ad ottobre.

 

Non era mai stata una da ricorrenze ma… ma era da quella mattina che ci pensava, solo che le sembrava infantile farlo notare a Calogiuri.

 

Bussarono alla porta e si stupì, visto l’orario.

 

“Avanti!” urlò, chiedendosi chi fosse che ancora non era fuggito in pausa pranzo.

 

“Dottoressa, disturbo?”

 

Lupus in fabula, Calogiuri entrò con uno sguardo un poco strano.

 

“Che ci fai qui?”

 

Calogiuri chiuse la porta alle sue spalle e le chiese, “ti va di venire a pranzo con me? Non ci sono giornalisti fuori, ho già controllato. E poi non so fino a che ora mi toccherà lavorare, temo che dovrò fare tardi e quindi-”

 

“Va bene…” gli sorrise, anche perché era una vita che non lo facevano più, “dai, andiamo!”

 

“Non vuoi che usciamo separatamente?”

 

“Se non ci sono i giornalisti no, Calogiù, mi sembra pure ridicolo.”

 

E così, uno accanto all’altra, si avviarono verso le scale. Notò Mancini che usciva dal suo ufficio e che li guardò in quel modo in cui li guardava ultimamente, un misto di biasimo e dispiacere.

 

Uscirono all’aria aperta ed effettivamente non c’era traccia di reporter o fotografi.

 

Stava per avviarsi a piedi verso il solito bar, ma Calogiuri le fece un cenno col capo verso l’auto.

 

“Dove mi porti?”

 

“Volevo andare dove fanno le pinse, per una volta che pranziamo insieme.”

 

Imma annuì e salì in macchina. Calogiuri partì a tutta velocità ma, ad un certo punto, sbagliò uscita ad un incrocio.

 

“Guarda che il posto delle pinse è dalla parte opposta e-”

 

Ma Calogiuri sorrise in un modo che le fece capire che l’errore era più che voluto.

 

“Dove mi stai portando, maresciallo?”

 

“Ti fidi di me, no?”

 

“Calogiù!” rise, scuotendo il capo, “certo che mi fido ma… non possiamo allontanarci troppo, che dobbiamo tornare al lavoro e-”

 

“Ed è un posto dal quale ti garantisco torneremo facilmente entro domattina.”

 

“Domattina?”

 

“Ho chiesto il pomeriggio di ferie anche per te. Spero… spero che non ti arrabbierai ma… insomma… lo sai che giorno è oggi?”

 

Ma Imma era talmente commossa che quasi non riusciva a parlare, “certo che me lo ricordo! Pensavo te ne fossi scordato tu, pensavo, ma-”

 

“Questa è una data che non avrò mai, ma proprio mai, bisogno di annotarmi sull’agenda, dottoressa, credimi.”

 

Buttò la prudenza al vento, si sporse verso il sedile del guidatore e gli pianto un bacio all’angolo della bocca, prima di sussurrare, “nemmeno io, Calogiù, nemmeno io!”


Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo trentaseiesimo capitolo. Come avrete notato, siamo ai salti temporali e ce ne saranno parecchi nel prossimo, la narrazione darà una decisa accelerata almeno per un po’.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, tra piccole pesti, giornalisti ed i social, anche se mi rendo conto che le tematiche fossero un po’ diverse dal solito e più improntate sulla commedia. Ci attendono appunto parecchi eventi di grande importanza per i protagonisti e ci saranno diversi ritorni, anche geografici, oltre ad alcuni luoghi completamente nuovi.

Spero che la storia continui a mantenersi interessante e vi ringrazio tantissimo per avermi seguito fin qui. I vostri commenti come sempre mi danno una grandissima carica a proseguire quindi vi ringrazio fin d’ora se vorrete lasciarmi una recensione. Grazie a chi ha messo questa storia tra le preferite o le seguite.

Il prossimo capitolo arriverà puntuale domenica 5 luglio.

Grazie di cuore!

 

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Capitolo 37
*** La Passione ***


Nessun Alibi


Capitolo 37 - La Passione


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Ma… ma dove siamo?”

 

“Ancora un minuto di pazienza, dottoressa, e lo capirai.”

 

“Lo sai che la pazienza non è il mio forte, Calogiù.”

 

Le sorrise ma, dopo l’ennesima curva, le parole Circolo Ippico si fecero sempre più vicine. Sorpassarono l’ingresso e poi Calogiuri parcheggiò l’auto.

 

“Ma…” esclamò, faticando a trovare le parole, la commozione che già si impossessava di lei.

 

“Visto che non ti decidevi a venirci… ho chiesto l’indirizzo a Sabrina e…”

 

“Calogiù…” sussurrò, afferrandogli il viso per piantargli un bel bacio, “grazie!”

 

Le fece l’occhiolino, scese dalla macchina e lo vide girare intorno per aprirle la portiera, come ai vecchi tempi.

 

“Sempre cavaliere! E tra poco avrai di nuovo un cavallo!” ironizzò, per evitare di sciogliersi del tutto, quando la portiera fu spalancata.

 

E poi Calogiuri aprì il bagagliaio e ne tirò fuori due borsoni, porgendogliene uno, “dovrei aver preso tutto l’occorrente dall’armadio.”

 

“Ti sei messo a rovistare, Calogiù?”

 

“Se no come facevo a farti la sorpresa? Per fortuna ultimamente hai pure tu il sonno di pietra!”

 

“Con tutta la ginnastica da camera che mi fai fare, altro che sonno di pietra, mannaggia a te!”

 

Calogiuri, per tutta risposta, fece lo sguardo da impunito, la prese sottobraccio e si avviò verso le palazzine del circolo.

 

Furono accolti da un uomo che doveva avere più o meno trentacinque anni. Il fisico asciutto da fantino, alto poco meno di lei con i tacchi.

 

“Voi dovete essere la dottoressa Tataranni ed il maresciallo Calogiuri? Bruno Logiurato, piacere!”

 

“Di Matera pure lei, sento dall’accento.”

 

“Sì, sì. Sono andato a scuola di equitazione lì, insieme a Sabrina che era bravissima, ma pure io non me la cavavo male, eh. Ho fatto anche qualche gara. Poi però mi sono trasferito qui a Roma e ho rilevato questo maneggio. Ed eccomi qua.”

 

“Il fascino della grande città?”

 

“Più che della grande città… va beh, immagino che a lei ne posso parlare liberamente, dottoressa. Diciamo che… per me ed il mio compagno la vita a Matera sarebbe stata impossibile, per via delle nostre famiglie ma non solo. E quindi ci siamo trasferiti qui. Penso lei possa capirmi, anche se per motivi diversi,” disse con un sospiro, alternando lo sguardo tra lei e Calogiuri.

 

“Come discriminazione temo che la sua situazione sia purtroppo ben più complicata della nostra. Ma mi auguro che la mentalità cambi e che prima o poi la gente capisca che non si sceglie chi si ama e che non ci si debba più trasferire per poter vivere in pace. Anche se Roma è una bellissima città, eh, ma pure qua non è mica tutto rose e fiori.”

 

“A giudicare dai giornali no. Comunque non vi preoccupate, che da qua i giornalisti li terrò lontani, se necessario. Abbiamo una zona sul retro circondata da alberi dove potete allenarvi in tranquillità.”

 

“Grazie, ma spero che non trovino questo posto, abbiamo fatto un giro lungo apposta,” rispose Calogiuri, con un sorriso.

 

“Bene. Allora direi che possiamo cominciare. Ho sentito Sabrina e mi ha detto più o meno dove era arrivata, dottoressa. E so che lei, maresciallo, sa già cavalcare. Credo dovrete fare entrambi un po’ di pratica dopo tanti mesi ma vedrete che a breve sarete pronti a fare le passeggiate: abbiamo un bel parco.”

 

“D’accordo, ma per favore niente dottoressa e maresciallo, che siamo fuori servizio,” offrì Imma e l’uomo sembrò sorpreso, “solo Imma va bene.”

 

“Ci diamo del tu, allora? E chiamatemi Bruno.”

 

“Va bene.”

 

“Vi mostro gli spogliatoi.”

 

Imma entrò in quello delle donne, anche se al momento c’era solo lei - probabilmente visto anche l’orario - aprì il borsone e ne estrasse il completo economico da equitazione che aveva comprato da Sabrina. Trovò anche un paio di sacchetti e notò che c’era il necessario per la doccia e pure un costume da bagno. In effetti quegli spogliatoi, a differenza di quelli a Matera, avevano le docce ed almeno avrebbero evitato l’odore di cavallo sull’auto di servizio.

 

Sempre iper premuroso e previdente, il suo Calogiuri, pure dopo due anni.

 

*********************************************************************************************************

 

“Bene, bene! Prova a fare una partenza al trotto e poi una al galoppo e per oggi basta così.”

 

Imma, un po’ in apprensione, fece come richiesto, sperando di non rompersi l’osso del collo. Alba, la cavalla che le aveva dato Bruno, sembrava abbastanza docile ma in fondo non la conosceva ancora. E si sentiva molto arrugginita come muscoli.

 

Guardò per un secondo Calogiuri che annuì, prese un respiro e si decise.

 

Riuscì a fare bene il trotto e sul galoppo si tenne in equilibrio, che tutto sommato era già qualcosa.

 

“Va bene, per oggi basta così. Brava, per essere quanti mesi che non ti alleni?”

 

“Eh… più di sei mesi ormai.”

 

“Direi che va molto bene. Però dovete promettermi che cercherete di venire almeno una volta alla settimana questo mese, che ad agosto chiudiamo.”

 

“Eh… e noi saremo via.”

 

“E dove andrete?”

 

“Maiorca e Minorca,” spiegò Calogiuri.


“A Minorca ci sono dei percorsi da fare a cavallo meravigliosi. Dovete assolutamente arrivarci pronti o sarebbe un peccato. Se potete, venite pure due volte alla settimana, anche se immagino che col lavoro non sia facile.”

 

Ecco un altro che dava gli ordini: doveva essere una consuetudine degli istruttori di equitazione.

 

“Ci proviamo ma dipende dalle emergenze anche, quindi non possiamo promettere niente,” gli rispose, prima di scendere da cavallo.

 

Alba abbassò il muso verso di lei e le diede due carezze: era decisamente molto più coccolona della cavalla che portava di solito a Matera.

 

“Ci andiamo a fare una doccia?” le chiese Calogiuri, dopo che ebbero riportato i cavalli nei box ed Imma gli sorrise.

 

“Ho visto che… mi hai messo in borsa perfino il costume. Hai pensato proprio a tutto, Calogiuri!”

 

“In realtà… in realtà il costume non è per la doccia, è per dopo. E ti consiglio di metterlo sotto i vestiti.”

 

“Calogiuri… dove mi vorresti portare?”

 

“Beh… non a Fontana di Trevi, dottoressa.”

 

Ed Imma rise e gli diede un colpetto sul braccio, “sì, ci manca solo che facciamo La Dolce Vita, con relativa multa per bagno nella fontana e poi coi giornali stiamo a posto, proprio. E dai, l’ho capito che mi porti al mare, ovviamente, ma dove?”

 

“Prima partiamo e prima arriviamo, dottoressa.”

 

“Va bene, ho capito! Ma ringrazia il cielo che qua non posso usare i miei metodi di interrogatorio più efficaci, maresciallo!”

 

“E sarebbero?”

 

“Sarebbero che altro che finire sui giornali! Ma stasera a casa potrei mostrarteli. Sempre se te lo sarai meritato.”

 

“Beh, dipende se te lo sarai meritato pure tu, dottoressa," le sussurrò, con uno sguardo ed un tono che le rendevano ancora più difficile aspettare fino a quella sera.

 

Si costrinse a forza a chiudersi nello spogliatoio e a buttarsi sotto la doccia, anche se avrebbe significato lasciargli l’ultima parola. Ma l’alternativa altro che pericolosa poteva essere!

 

*********************************************************************************************************

 

“No, dottoressa. Aspettami qua che torno tra un minuto.”

 

Calogiuri si era fermato di fronte ad un ristorantino sul mare ad Ostia ed Imma aveva slacciato la cintura per scendere, convinta che fosse quella la destinazione.

 

“Certo che in questi due anni sei proprio cambiato, Calogiuri. Ti piace fin troppo dare gli ordini mo!”

 

“Come se non piacesse pure a te quando lo faccio. E comunque fa parte della sorpresa. Un minuto e torno.”

 

“Va bene… va bene…” sospirò, vedendolo scendere, sparire dentro al ristorante, e tornare veloce come una volta non sarebbe mai stato con un borsone di quelli refrigerati.

 

“Calogiù…” mormorò con sguardo interrogativo, quando fu risalito in auto dopo aver piazzato il tutto nel bagagliaio.

 

“Volevo portarti al ristorante ma… visto che dobbiamo tenere il basso profilo ho preferito fare in modo diverso.”

 

“E quindi dove andiamo?”

 

“Ancora un poco di pazienza e ci siamo.”

 

Calogiuri ripartì e si allontanarono sempre di più dal centro abitato, andando verso una zona più boscosa.

 

“Mi sembra di avere un deja vu, Calogiuri.”

 

Lui sorrise ma, dopo un po’ di strada, Imma si vide comparire davanti un altro cartello e per poco non le venne un colpo al leggere la parola naturista.

 

“Calogiù!” esclamò, sentendosi avvampare, e lui fermò l’auto, cosa che le fece venire una botta di calore ancora più forte.

 

“Che c’è?” le chiese, con aria preoccupata.

 

“Ma come che c’è?!” rispose, indicando il cartello, e Calogiuri, pure di profilo, divenne rosso che più rosso non si poteva.

 

“Ma… ma… ma che pensi davvero che-” balbettò, tra l’incredulo ed il mortificato, e ad Imma venne da ridere.

 

“E che ne so! Ultimamente sei sempre più sicuro di te, Calogiù, anche se noto con piacere che su certe cose in questi due anni non sei ancora cambiato.”

 

“E ci mancherebbe!” rispose, in un tono che le ricordava fin troppo il suo.

 

Si sporse per dargli un bacio ed un pizzicotto sulla guancia e poi Calogiuri ripartì, portando l’auto su una strada sterrata.

 

“Dopo la faccio lavare, tranquilla, dottoressa,” la rassicurò, guardandola divertito.

 

“Non ho detto niente!”

 

“Però lo hai pensato.”

 

Dovette ammettere che era vero: ultimamente, dopo l’inseguimento dei giornalisti e tutti i pettegolezzi che c’erano su di loro in procura, era molto cauta a non lasciare tracce delle loro attività extra lavorative.

 

“Eccoci qua, ci sarà da camminare un poco.”

 

“Il senso di deja vu è sempre più forte, Calogiù,” ironizzò, scendendo anche lei dall’auto.

 

“Stavolta però non ci dovrebbero essere rocce. Ma ti conviene lo stesso mettere queste.”

 

Calogiuri aprì il suo di borsone e ne estrasse un sacchetto, dal quale apparvero due ciabatte da mare leopardate molto familiari.

 

“Ma… ma… ce le hai ancora?” gli domandò, incredula, il nodo in gola che già si formava.

 

“Diciamo che… è una delle cose che non ho avuto il coraggio di buttare quando mi sono trasferito a Roma, anche se forse avrei dovuto, ma-”

 

Gli prese il viso tra le mani e lo interruppe con un bacio, prima di sussurrargli, fronte contro fronte, “ma sono felice che tu non l’abbia fatto, anche se non mi potrò mai scusare abbastanza per… per tutto quello che ti ho fatto passare, Calogiuri.”

 

“Ed io non potrò mai ringraziarti abbastanza per tutto quello che mi hai dato in questi mesi, invece.”

 

Lo abbracciò più forte che poteva, fino a sentirsi sollevare da terra e trovarglisi praticamente in braccio.

 

“Io altro che ringraziarti dovrei, Calogiuri!” sussurrò, accarezzandogli il viso, e poi gli chiese, divertita, “mi vorresti portare in braccio fino al mare?”

 

“Se non avessimo i borsoni lo farei sul serio,” rispose, prima di scoccarle un ultimo bacio e lasciarla scendere.

 

Fece per afferrare almeno uno dei borsoni ma lui se li caricò in spalla, tenendo in mano quello con il cibo, e si avviò come se niente fosse.

 

Percorsero la pineta, gli aghi caduti a terra che un poco le pungevano i piedi, fino a che gli alberi si diradarono, arrivando ad una spiaggetta, riparata da un lato da una duna e da una specie di recinzione fatta con la paglia, e dall'altro da una barriera di scogli.

 

"La recinzione immagino sia per la spiaggia dei naturisti," dedusse Imma, prima di aggiungere, preoccupata, "ma non è che vengono a nuotare verso di qua? E come lo conosci questo posto? Non dirmi che hai chiesto a qualcuno in caserma, che-"

 

"Tranquilla, ho cercato su internet, dottoressa: dicevano che in settimana è un posto tranquillo. Nel fine settimana magari meno, ma come vedi siamo oltre tutti gli stabilimenti. Ed i naturisti, se vanno oltre la spiaggia a loro adibita, sono passibili di denuncia per oltraggio al pudore, no?"

 

Imma non riuscì a trattenersi dal ridere.

 

"Che c'è?"

 

"C'è che parli con le parole del manuale, Calogiuri. Peggio di me!"

 

"E va beh… a furia di stare vicino ad un magistrato mi ci sono abituato."

 

"A proposito di vicino… maresciallo, che ne diresti se ci mettessimo in costume e poi-"

 

"Aspetta. Prima devo montare-"

 

"Che cosa, Calogiù?" lo punzecchiò e Calogiuri, che ancora non si era del tutto ripreso dal rossore precedente, parve ustionato prima ancora di iniziare.

 

"La tenda, la tenda!"

 

"Come la tenda? Vorresti dormire qui?"

 

"No, dottoressa, che domani so che devi essere riposata. Intendo la tenda da mare."

 

E, senza altre parole, Calogiuri estrasse un sacchetto dalla borsa e montò rapidamente una tenda bassa a semicerchio, sul cui pavimento stese dei teli.

 

"Così siamo riparati dal sole e pure da eventuali occhi indiscreti."

 

"Certo che pensi sempre a tutto! Ma che vorresti fare esattamente al riparo dagli occhi indiscreti, Calogiù?"

 

"Non mi provocare, dottoressa, che se no altro che basso profilo!"

 

"Cercherò di trattenermi, ma non prometto niente, maresciallo, mi conosci!"

 

"E poi sarei io quello pericoloso!"

 

"Sempre!" rise, baciandolo rapidamente sul collo, prima di togliersi il vestito pitonato che aveva indossato per il lavoro e rimanere con un insieme azzurro di laccetti e stoffa ormai molto familiare, "ti piace proprio questo costume, eh?"

 

"Eh va beh… in ricordo dei vecchi tempi, no?"

 

Imma si ripromise di comprare qualche completo da mare nuovo in tempo per il viaggio alle Baleari. Ma, una volta che si spogliò pure Calogiuri, i pensieri furono presi da ben altro.

 

Era incredibile quanto le facesse ancora effetto dopo due anni e dopo sei mesi di quasi convivenza.

 

“Che c’è?”

 

“C’è che altro che pericoloso sei, mannaggia a te!”

 

Calogiuri le fece un sorrisetto, giusto per peggiorare la situazione, ed estrasse un flacone di crema solare dal suo borsone, aggiungendo, con un tono più che eloquente, “prima che ci ustioniamo, pallidi come siamo, dottoressa.”

 

“Calogiù, fammi capire, ma vuoi che qua finiamo malissimo?”

 

“Preferisci rischiare l’ustione? E comunque per me sarebbe finire benissimo.”

 

“Peccato che, se ci beccano i giornalisti, finiamo sotto un ponte, finiamo.”

 

“Allora ognuno si spalma la crema da sé, dottoressa?” le chiese, passandole la confezione da bravo cavaliere qual era.

 

“Va beh, diciamo che potrei correre pure questo rischio, Calogiuri, ma solo perché non voglio che ti ustioni, che già sei rosso di tuo,” lo punzecchiò, aprendo la crema e spruzzandogliela di proposito sul collo.

 

“Imma!” esclamò, ridendo. Si sentì strappare la crema di mano e poi le scappò un urletto per la sensazione di freddo sul collo e sulla schiena, mentre lui le ricambiava il favore.

 

“Calogiù!” gridò, riprendendosi la crema e buttandogliela stavolta sul petto.

 

Lui cercò nuovamente di togliergliela di mano ed iniziarono una specie di lotta, finché si sentì afferrare per la vita e cercò di divincolarsi. Dopo qualche secondo, però, le mancò la terra sotto un piede e cascò all’indietro. Si sentì riprendere per la vita, ma ormai erano troppo sbilanciati, e finì per ruzzolare in avanti, addosso a Calogiuri, che le attutì l’impatto con il suo corpo.

 

“Ti sei fatto male?” gli chiese, preoccupata, ma lui scosse il capo.


“Tu?”

 

“No. Era da un po’ che non mi salvavi dalle cadute, Calogiuri, anche se stavolta non è colpa dei tacchi. Ma tua che mi fai girare la testa e-”

 

Si trovò zittita con un bacio e poi schiacciata a terra tra la sabbia ed il corpo di Calogiuri. Non volendo cedere il comando, lo distrasse con un altro bacio ed un morsetto sulle labbra e lo spinse fino a tornare sopra di lui.

 

Con un sorrisetto vittorioso, si staccò leggermente per guardarlo negli occhi, ma il sorriso si trasformò in una risata quando lo vide bene.

 

“Perché ridi?”

 

“Perché per una volta sei leopardato pure tu, Calogiuri!” lo punzecchiò, toccandogli le chiazze di sabbia e crema solare che aveva sul collo e sul petto.

 

“Anche tu non scherzi!” ribatté ed Imma notò che era vero.

 

Si guardarono per qualche secondo negli occhi e poi le scappò un altro gridolino quando si ritrovò sollevata in aria, sopra la spalla di lui, come se non avesse peso.

 

Non fece nemmeno in tempo a protestare che si trovò buttata in acqua.

 

“Calogiù!” gridò non appena riemerse, trovandoselo vicinissimo, con il sorriso da impunito, bello come il sole.

 

“Dobbiamo pure lavare via la sabbia in qualche modo, no?” le domandò, il sorrisetto che divenne ancora più ampio quando cominciò ad accarezzarla, in teoria per lavare via la crema.

 

Ma a questo gioco potevano giocarci in due e quindi gli restituì il favore, partendo dalle macchie sul collo ma poi scendendo sempre più giù. Le scappò un grugnito di soddisfazione quando sentì la pelle d’oca sotto le dita, lo sguardo di lui che si fece molto più scuro, le pupille dilatate nonostante il sole.

 

Senza quasi accorgersene, gli era nuovamente in braccio, a baciarsi come due ragazzini, il fiato corto e il cuore a mille, nonostante tutto, come se non aspettassero altro da mesi e non solo da poche ore.

 

“Calogiù… Calogiù…” provò a fermarlo, prima che replicassero del tutto il deja vu dell’uscita di due anni prima, perché stavolta sarebbe stato veramente troppo pericoloso.

 

Lui si fermò ma poi, tenendola stretta a lui, la portò a peso fuori dall’acqua e, nel giro di qualche secondo, si trovò depositata nella tenda.

 

“Che-” non fece in tempo a chiedere, perché entrò pure lui ed aprì due ganci sulla parte anteriore, liberando due specie di tendine che penzolarono di fronte all’ingresso, coprendolo e coprendoli alla vista dall’esterno, lasciandoli immersi solo dalla luce azzurrina che filtrava dalla tenda.

 

“Che cosa vuoi fare, maresciallo?” gli chiese, divertita, mordendosi il labbro e dandogli un pizzicotto sul petto.

 

“Non è una deduzione difficile, dottoressa!” la prese in giro e, nel giro di qualche secondo, gli si ritrovò seduta in grembo.

 

“Non è che sta cosa si ribalta e finiamo al pronto soccorso, Calogiù?”

 

“L’ho fissata alla sabbia con più ganci. Certo, conoscendoti… non garantisco, ma dovrebbe reggere perfino la tua irruenza.”

 

“Senti chi parla e-”

 

Un altro bacio le impedì di ribattere oltre. Imma punì l’insubordinazione con un piccolo morso al labbro inferiore di lui, che però sentì sorridere.

 

Ma poi iniziò a tormentarle il collo, le mani che scioglievano i lacci del costume e tutti i pensieri razionali svanirono, evaporando insieme all’acqua di mare ed al sudore dalla pelle.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ecco qua!”

 

Calogiuri le passo un flute ed un piatto di plastica, colmi rispettivamente di prosecco quasi ghiacciato e di pesce e frutti di mare preparati in mille modi, anche se serviti freddi.

 

“Per fortuna la borsa termica ha funzionato, visto che ci siamo un po’... distratti.”

 

“Come se non lo avessi fatto tu il danno, Calogiù!” gli ricordò, con un sopracciglio alzato, anche se non riusciva del tutto a celare la soddisfazione.

 

Avevano fatto la sauna in quella tenda ma ne era decisamente valsa la pena. E poi era bastato un altro rapido tuffo per rinfrescarsi anche se, quando si erano finalmente decisi a mettersi sul serio la crema solare, avevano quasi rischiato di ricominciare tutto da capo.

 

“Come se tu non mi avessi più che provocato, dottoressa! Meno male che avevo portato la tenda, che ti conosco.”

 

“E certo! Proprio un grande sacrificio hai fatto!” esclamò, dandogli un colpetto sul braccio, seguito però da un bacio sulla guancia, “grazie di… di tutto quanto, Calogiuri, veramente. Due anni fa la Bruna altro che bene mi ha portato!”

 

“Grazie a te… non… non sono mai stato così felice!” ammise, in quel modo che aveva lui di fare le confessioni, buttandole fuori in maniera in modo incredibilmente naturale.

 

“Nemmeno io,” mormorò, il nodo in gola che deglutì con un goccio di prosecco, prima di dargli un altro bacio.

 

“Facciamo un brindisi? Che sia solo il primo di tanti anniversari insieme!”

 

“Ah, ci puoi scommettere. Che ti lascio scappare, mo?” rise, facendo toccare i bicchieri e godendosi un altro poco di vino, per poi dedicarsi al pescato che era veramente squisito.

 

“Ma è buonissimo, Calogiuri! Altro posto trovato su internet?”

 

“No, consiglio di Mariani, anche se non ho specificato perché mi serviva o quando ci sarei venuto.”

 

“Va beh… di Mariani mi fido, Calogiuri,” ammise e lui la guardò in un modo meravigliato che  gli fece guadagnare un altro colpo sul braccio.

 

Mangiarono in silenzio, godendosi l’ombra, il fresco del vino, il sole e la brezza lieve che arrivavano dall’apertura della tenda, nuovamente spalancata.

 

Finito il pesce, Calogiuri estrasse una confezione di frutta a pezzettoni, continuando quel momento di relax.

 

“Grazie davvero. Era tutto buonissimo, ma-”

 

“Se parli di quanto mi sarà costato mi offendo veramente!” la interruppe, conoscendola ormai perfettamente.

 

“Volevo solo dire che al prossimo anniversario mi dovrò sdebitare io,” ribatté, prima di sentire un altro nodo in gola quando notò lo sguardo di lui alle parole il prossimo anniversario.

 

Era così naturale ormai pensare al futuro con lui e le sembrava un miracolo, considerando come aveva passato il giorno della Bruna solo un anno prima.

 

“Che c’è?”

 

“Niente… stavo pensando a… a un anno fa, al giorno della Bruna. Non sono nemmeno riuscita ad andare a vedere il carro… mi faceva troppo male e… e continuavo a pensare a te e a cosa stavi combinando qua a Roma e… e se anche tu mi stessi pensando o se fossi già andato avanti.”

 

Si trovò avvolta da un abbraccio a morsa, “certo che ti pensavo! Ho passato tutto il giorno a pensare a te e a… a sentirmi un cretino… a… a immaginarmi con chi fossi alla festa e-”

 

Si interruppe, da gentiluomo com’era, ma capiva perfettamente che stesse parlando di Pietro e sentì, per la prima volta dopo tanto tempo, una fitta di senso di colpa per tutto quello che gli aveva fatto sopportare.

 

“Scusami, ma…”

 

“Se ti scusi di nuovo mi arrabbio! Lo so benissimo quanto hai rischiato e quanto stai rischiando per stare con me e non me lo dimenticherò mai. Voglio guardare al futuro e basta.”

 

“Calogiuri…” sussurrò, le lacrime che ormai se n’erano belle belle che uscite, stringendolo nuovamente a sé, “pure per me è lo stesso.”

 

“E allora… e allora ho qualcosa per te,” rispose, sembrando improvvisamente quasi… imbarazzato?

 

Lo vide rovistare nel suo borsone ed estrarne un sacchettino di quelli da regalo, per poi porgerglielo.

 

Incuriosita, lo aprì, il cuore che già andava a mille, e ci vide un mazzo di chiavi in pelle scura che ormai le era molto familiare.

 

“Sono… la mia copia delle chiavi del mio appartamento. Lo so che… che forse è un modo un po’ stupido di chiedertelo ma… ti andrebbe di convivere con me stabilmente? Ne avevamo già parlato, ma se non ti senti pronta lo capisco e-” balbettò, finché gli posò un dito sulla bocca per farlo stare zitto.

 

“Certo che sì! Tu piuttosto, sei sicuro di riuscire a sopportarmi a tempo pieno senza una casa tua dove poterti rifugiare dal mio caratteraccio?”

 

“Già non posso più vederti sul lavoro, altro che sopportarti! Lo sai che… che con te sto benissimo, no?”

 

“Pure io, mannaggia a te che mi riduci sempre così!” esclamò, accarezzandogli il viso e baciandolo dolcemente. Ma poi le venne un’idea e non riuscì a trattenere un sorriso.

 

“Perché ridi?”

 

“Mi è venuto in mente, maresciallo, se questa è la tua copia delle chiavi di casa,” esordì, sollevando il portachiavi e facendolo dondolare su un dito, “vuol dire che tu a casa non puoi più rientrare senza il mio permesso? Neanche per prendere i vestiti? Perché la cosa si fa interessante, molto interessante.”

 

“Dipende… vuoi che vada al lavoro in costume da bagno, dottoressa? O vestito da casa?” ribatté, non perdendo un colpo, come sapeva fare ormai alla perfezione.

 

“Ma manco morta o morto!” esclamò, provando a dargli un pizzicotto, ma lui le afferrò i polsi e la intrappolò sul fondo della tenda, sotto al suo corpo.

 

“Calogiuri… non dirmi che vuoi già il bis!”

 

“E va beh… dobbiamo pure smaltire il pranzo e attendere prima di poter fare il bagno, no? Quante ore bisogna aspettare?”

 

“Abbastanza, maresciallo, più che abbastanza da mandarmi al creatore, se non mi dai tregua,” rispose, gettando la prudenza al vento e baciandoselo, mentre lo sentì armeggiare ed il mondo tornò a tingersi di azzurro.

 

Anche se forse il rosso sarebbe stato molto più appropriato.

 

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“Forza, dottoressa, veloce!”


“Ti diverti proprio a prendermi in giro, eh?!” gli chiese, facendo le ultime bracciate per raggiungerlo e trovandosi aggrappata a lui.

 

“Per una volta che posso essere più veloce di te, devo approfittare.”

 

“Però… forse dovrei fare un po’ di pratica, per quando saremo alle Baleari. Non voglio che ti debba limitare per causa mia.”

 

“Tu non mi limiti in niente, anzi, quindi non dirlo nemmeno per scherzo!” proclamò, con uno sguardo serissimo che la intenerì da morire, “però se vuoi qualche lezione di nuoto possiamo venire al mare in questi fine settimana. Oppure ti posso portare in piscina, che ci sarà meno gente.”

 

“Come preferisci. In questo caso mi fido dell’insegnante.”

 

“Solo in questo caso?” ironizzò, dandole due pizzicotti sui fianchi e facendola ridere.

 

“Sempre, ma diciamo in questo caso ti concedo più carta bianca, Calogiuri.”

 

“Bene…” mormorò e si sentì stretta ancora più forte.

 

Almeno fino a quando si ritrovò a volare in aria, atterrando in acqua con un tuffo fragoroso, affannandosi a tornare in superficie per respirare.

 

“Calogiuri!”

 

“Mi hai detto tu che mi davi carta bianca, dottoressa,” rise, schizzandola con l’acqua.

 

Lei ricambiò, salendogli poi sulla schiena per lottare meglio, fino a trovarsi di nuovo sott'acqua, ma stavolta attaccata a lui e senza nessunissima intenzione di lasciarlo andare.

 

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“Mi era mancato tutto questo, lo sai?”

 

Erano fuori dalla tenda che cercavano di asciugarsi il più possibile prima di rientrare a casa. L’ora del tramonto si avvicinava inesorabilmente, allungando le loro ombre sulla sabbia e facendo finalmente diminuire un poco la temperatura.

 

“Il mare o la lotta in acqua, dottoressa?”

 

“Beh… il mare è da quando ci siamo… ci siamo andati l’ultima volta che non lo vedevo.”

 

“Imma…” le sussurrò in un orecchio e si sentì abbracciare fortissimo da dietro.

 

Ricordava ancora quello che aveva pensato sarebbe stato il loro ultimo addio come una delle giornate più brutte e, allo stesso tempo, più belle e struggenti della sua vita.

 

“In realtà… nemmeno io ci sono andato l’estate scorsa. E… ci dovremmo venire più spesso, anche se ci rifaremo in Spagna.”

 

“Va beh… nessuno ce lo vieta, no? Nonostante il basso profilo. Anche se speriamo che non ci abbia seguito nessuno, se no dalla Pantera di Matera divento il Polipo di Matera.”

 

Calogiuri rise e sentì una serie di bacetti sul collo, mentre la stringeva ancora più a sé.

 

“Pure tu come polipo non scherzi, Calogiuri!”

 

“A me quando fai il polipo non dispiace affatto, dottoressa.”

 

“E chi ti ha detto che mi dispiace?” gli chiese, voltandosi e dandogli un bacio dolce e lento.

 

“Che dici? Rientriamo a casa?”

 

L’assalì uno strano magone, misto però a felicità, anche se non capì subito il perché. Ma, quando lui la guardò interrogativo, la motivazione le si fece chiara come quegli occhi preoccupati.

 

“Niente… pensavo a… a com’era... insomma… doversi salutare la sera e non sapere se ci sarebbe mai stata un’altra giornata così. Ed invece questa volta… torniamo a casa insieme.”

 

Non udì alcuna risposta ma sentì i muscoli che la stringevano tremare leggermente.

 

Bastò un’occhiata in quelle due pozze d’azzurro brillanti per capirsi senza bisogno di parlare e per stringerlo nuovamente in un abbraccio, che non avrebbe voluto finisse mai.

 

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“Imma, ti suona il telefono!”

 

La porta del bagno si aprì ed entrò Calogiuri, già lavato e con addosso una delle sue immancabili magliette bianche, sopra la quale aveva però infilato il grembiule che usavano entrambi per cucinare.

 

“Ma chi è a quest’ora?” si chiese, finendo di raccogliere i capelli nel turbante e chiudendo un po’ meglio l’asciugamano che usava al posto dell’accappatoio, visto il caldo della stagione.

 

Avevano fatto la doccia separatamente, perché insieme rischiavano di non finire più ed era già abbastanza spompata dalla giornata.

 

Il nome sul display la sorprese e la fece un attimo preoccupare.

 

Accettò senza pensarci troppo la chiamata, rendendosi conto solo quando si trovò di fronte il viso della sua ex cancelliera, un po’ sgranato per via del buio, che quella sciagurata aveva fatto una videochiamata.

 

“Imma! Ma che tieni, il turbante in testa?”

 

“Diana, stavo sotto la doccia, mannaggia a te!”

 

“Ma sono le ventuno passate, che fai la doccia mo?”

 

“Perché è vietato?! E comunque sono appena tornata dal mare!”

 

“No! Ma lì non è festa! Imma Tataranni che si prende un giorno di ferie, non ci posso credere!”

 

“Ed invece credici, anche se il merito è di qualcuno che me le ha prese al posto mio.”

 

“Lo immaginavo! Ma lui è lì? Ippazio?!” esclamò, chiamandolo come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

“Buonasera signora Diana!” rispose, con aria divertita, avvicinandosi a lei e facendosi inquadrare dal telefono.

 

“Ma che c’ha su, il grembiule? Ma non dirmi che me lo schiavizzi pure a casa questo santo ragazzo!”

 

“No, Diana, facciamo a turno sui lavori di casa. Allora, che c’è?” tagliò corto, cercando di inquadrare il più in alto che poteva e sperando che l’asciugamano non cedesse.

 

“C’è che ti volevo far vedere una cosa, Imma, se c’hai un poco di pazienza, anche se non è il tuo forte!”

 

E la telecamera di Diana passò dalla frontale a quella normale ed Imma si trovò di fronte ad un primissimo piano di Capozza, di cui avrebbe fatto pure volentieri a meno.

 

“Ma che mi chiami a quest’ora per farmi vedere Capozza? Buonasera al brigadiere, ma-”

 

“Ma no, Imma, aspetta!” esclamò Diana, inquadrando finalmente qualcosa di meglio, anzi di molto meglio: piazza Vittorio Veneto, addobbata per la festa. Guardò l’ora e si rese conto che era quasi giunto il momento.

 

Tornò in salotto insieme a Calogiuri e si piazzò sul divano, la commozione che di nuovo tornava a fare capolino, mannaggia a Diana.

 

E poi si sentirono urla e vide, seppure con la qualità relativa della ripresa a cellulare, il carro che giungeva in piazza e la folla che iniziava lo strazzo, distruggendo la cartapesta.

 

Un braccio di Calogiuri le avvolse le spalle e gli poggiò la testa sul petto, ricambiando il mezzo abbraccio. Proprio in quel momento, Diana rigirò la telecamera frontalmente - si era quasi scordata che la potesse vedere! - e commentò con un, “ma che carini che siete!” che la fece arrossire.

 

“Grazie… per tutto…” le sussurrò e Diana le sorrise in un modo che le fece capire che condividevano lo stesso stato d’animo.

 

“Questo grazie me lo segnerò sul calendario, dottoressa! Però mi devi promettere che l’anno prossimo venite qua a vederlo, dal vivo. Piuttosto prendi le ferie già da mo, Imma!”

 

“Va bene, va bene, urgenze permettendo te lo prometto!” le assicurò, dopo un’occhiata rapida a Calogiuri che annuiva.

 

“Ma che urgenze e urgenze, per un giorno! Imma, ricordati che le promesse si mantengono, poi il giorno della Madonna della Bruna!”

 

“Credo che abbia altro di cui preoccuparsi della nostra presenza a Matera, Diana!”

 

“Secondo me si è accorta della mancanza di una macchia leopardata e pastello in mezzo alla folla e si starà preoccupando!”

 

“Diana!” gridò, ma la verità era che si sentiva felice come non mai: pur non essendo fisicamente a Matera era la festa della Bruna più bella di tutta la sua vita.

 

E sentiva una strana convinzione che quella dell’anno successivo sarebbe stata ancora migliore.

 

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“Allora, come vanno gli esami?”

 

“Diciamo che vanno… dovrei riuscire a portarmene solo due a settembre.”

 

“E brava, Vale! Mi sei diventata secchiona?”

 

“Ma no! Mica ho tutti trenta, eh! E poi… a parte studiare non ho molto da fare, anche perché le mie amiche stanno rinchiuse pure loro per gli esami.”

 

“E con… con Samuel come va? Se puoi parlare…”

 

“Ma certo che posso, tanto lui sta al lavoro, tanto per cambiare!” sospirò, mentre Penelope la guardava preoccupata dallo schermo del computer, “in realtà… ho deciso di lasciarlo e… e per settembre cercherò un’altra sistemazione. Ma mi spiace mollarlo da solo con le spese e poi... non so se riesco a trovare un’altra soluzione in meno di due mesi. Ed i miei ci hanno aiutati con la caparra e non so se possono permettersene un’altra, che se Samuel resta qui non gliela restituiranno i padroni di casa e-”

 

“Ma non puoi parlarne con i tuoi per l’appartamento? Sono sicura che, se sanno che non sei felice, ti daranno una mano, caparra o non caparra.”

 

“Va bene… ci provo. Tu cosa pensi di fare per le vacanze?”

 

“Non so… se torni in zona Matera e di Metaponto posso magari venire pure io da mia madre.”

 

“Sarebbe proprio figo fare le vacanze insieme! Ma… ma non so se voglio andare a Metaponto quest’anno, e non solo perché ci ho fatto tutte le vacanze tranne quelle dell’anno scorso, ma perché… mio padre è giù e mia nonna ce l’ha a morte con mia madre. Non ho proprio voglia di passare tre settimane o quattro ad evitare le frecciatine su di lei o a beccarmi i suoi commenti. Un giorno o due è pure divertente ma di più no.”

 

“E tua madre dove va in ferie invece? O sta a Roma?”

 

“Ma no! Figurati te che lei ed il suo maresciallo se ne vanno alle Baleari.”

 

“Ammazza, e brava tua madre! Non dirmi che se ne vanno ad Ibiza, che già me li vedo in discoteca!” rise Penelope, prima di fare una faccia mortificata, “cioè… non per la storia dei giornali, eh, ma-”

 

“Tranquilla, e poi immaginare mia madre nella movida di Ibiza fa ridere pure a me. Come minimo cercherebbe di convincere la polizia locale a multare tutti per schiamazzi e va beh… tutto il resto.”

 

“Ma allora dove va?”

 

“Maiorca e Minorca a quanto ho capito.”

 

“Certo che si tratta bene tua madre. Dai, non possiamo fare vacanze più tristi delle sue, no? Perché non andiamo da qualche parte io e te?”

 

“Eh… sarebbe bellissimo, ma non so se posso permettermelo, sai che dipendo dai miei.”

 

“Ma possiamo fare una cosa più economica. Che ne so… perché non ci facciamo un giro per l’europa in tenda, con l’interrail? Non costa tanto ed è una cosa che ho sempre voluto fare.”

 

“Piacerebbe un casino pure a me!” sospirò Valentina, immaginandosi già un sacco di posti meravigliosi che aveva visto solo in foto e più avventura di quanta ne avesse avuta in tutti gli ultimi anni messi insieme, “ma non so se i miei mi daranno il permesso. Lo so che sono maggiorenne ormai, ma non voglio tirare troppo la corda visto il periodo.”

 

“Va beh… tu provaci. Chiedere non costa niente.”

 

Già… a parte i timpani, se conosceva bene sua madre.

 

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“Che cosa? Ma sei matta?!”

 

Valentina sbuffò con quell’espressione da ecco, lo sapevo! che era da un annetto buono che non le vedeva più.

 

“Mamma, l’interrail lo fanno in tanti all’età mia e di Penelope e-”

 

“E non è che se in tanti si buttano giù dal ponte tu a pecorone gli vai dietro!”

 

“Quanto non mi era mancata questa frase!”

 

“Valentì, io non è che non voglio che tu vada in vacanza, ma non hai manco vent’anni. Due ragazze sole in tenda all’avventura, che come minimo chissà in che campeggi finite, se vuoi risparmiare. Non puoi fare una cosa più tranquilla?”

 

“Mamma, ti ricordo che è quasi un anno che vivo praticamente sola qui a Roma e sono ancora viva. E Penelope è una sveglia, lo sai, vedrai che ce la caveremo. E poi Penelope non guarda i ragazzi ed io non c’ho proprio la testa per un’altra storia mo, quindi-”

 

“Scusa, ma quindi Samuel che fine ha fatto? Vi siete lasciati?” la interruppe e Valentina aprì la bocca e poi si ammutolì.

 

I lapsus Freudiani funzionavano sempre.

 

“Allora?”

 

“No, non ci siamo lasciati ma… vorrei lasciarlo prima delle vacanze. Lo so che… che è da stronza ma non ce la faccio più.”

 

“E finalmente!” esclamò Imma, sollevata, abbracciandosi la figlia che le lanciò un’occhiataccia, “cioè, Valentì, mi spiace che sia andata male e mi spiace per Samuel che, al di là di tutto, lo so che è un bravo ragazzo. Ma voi due insieme non era proprio cosa e non ne potevo più di vederti fare una vita da settantenne!”

 

“E allora, se non vuoi farmi fare la vita da settantenne, fammi andare in vacanza con Penelope!” la incalzò Valentina, in un modo di cui andò quasi orgogliosa.

 

“Vedremo… quando… quando vuoi dargli la notizia?”

 

“Pensavo… pensavo… finiti gli esami, così mal che vada posso tornare a Matera da papà, anche se spero non ci sia Cinzia Sax. Ma… ma non so come fare da settembre, mà. Non credo riavrò la caparra e chiederne metà a Samuel dopo che lo lascio con tutte le spese…. Ma so che ce l’avete messa voi, e che hai tante spese, e non so se si trova un altro appartamento in tempo e-”

 

“E mi sembri Diana, mi sembri! Respira, Valentì!” ironizzò, dandole una carezza a cui la figlia si sottrasse con un po’ più di ritardo rispetto al solito, “ascolta, fammici riflettere un attimo, ma tranquilla che una soluzione la troviamo, va bene? L’importante è che tu sia serena e che cominci a fare ciò che ti rende felice.”

 

Valentina parve sull’orlo di piangere ma poi ammise, in un modo che le faceva malissimo, “il problema è che non lo so nemmeno io cosa mi rende felice.”

 

“E c’hai tutto il tempo per scoprirlo, Valentì! Ma per farlo da qualche parte bisogna pure cominciare, no?”

 

La vide annuire e se la abbracciò forte forte. E, per una volta, Valentina non si divincolò ma anzi si abbandonò tra le sue braccia, come ormai non faceva quasi più.

 

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“Imma…”

 

Sollevò il capo dal petto di lui ed incrociò il suo sguardo.

 

“Lo sento che sei tesa. Tutto bene?”

 

Gli sorrise e gli accarezzò il viso, prima di ammettere, “è per… per Valentina. Ha deciso di lasciare Samuel e-”

 

“Finalmente!” esclamò Calogiuri, deciso, e le venne da ridere.

 

“Che c’è?”

 

“C’è che è stata la mia stessa reazione quando me l’ha detto, Calogiù.”

 

“E allora perché sei tesa?”

 

“Perché Valentina non sa dove andare, se lascia casa di Samuel, e-”

 

“E che problema c’è? Può stare nel mio appartamento, finché non ne trova un altro più comodo, no? Tanto io devo decidermi a finire di spostare le poche cose che ho e a traslocare.”

 

“Ma non avevi già dato la disdetta al proprietario?”

 

“Per fortuna è quasi sempre irraggiungibile e non l’ho trovato al telefono.”

 

“Ma non ti farà problemi se ci sta Valentina invece che tu?”

 

“Finché paghiamo l’affitto e ha la caparra ne dubito. Chi lo ha mai visto il proprietario?”

 

“Grazie…” gli sussurrò, scoccandogli un bacio, “ne parlo con Valentina e… e con Pietro, perché naturalmente, finché ci sta Valentina, l’affitto tuo e le spese le paghiamo metà io e metà lui e-”

 

“Non dirlo nemmeno per scherzo! Per qualche mese… non voglio i soldi del… del tuo ex marito.”

 

“Calogiù, dai, non farmi l’uomo del sud, mo. Il mantenimento di Valentina è giusto che lo paghiamo a metà io e lui, come abbiamo fatto sempre.”

 

“Ma lo sai che l’appartamento mio è più costoso della metà di affitto che ora pagava Valentina e-”

 

“E per qualche mese Pietro può pagare la differenza, come farò io e-”

 

“E allora però da questo mese pago metà dell’affitto qua, dottoressa, chiaro? E metà delle spese, senza barare, che ti conosco, e voglio vedere le bollette.”

 

“Sei diventato peggio di me, Calogiù!” ironizzò dandogli un pizzicotto sulla guancia.

 

“E va beh… ho imparato dalla migliore e poi altrimenti non mi faresti pagare mai niente e non è giusto. Non voglio fare il… boboi mantenuto,” scherzò di rimando, ma con una punta di orgoglio nella voce.

 

“Scemo!” lo riprese, provando a fargli il solletico ma finendo tra il letto e lui, che la guardava in un modo decisamente illegale.

 

Se lo baciò con passione, o almeno ci provò, perché Calogiuri si staccò e sollevò la testa, giusto abbastanza da rendere le sue labbra irraggiungibili, visto che lei era ancora bloccata al materasso.

 

“Calogiuri!” sbuffò, tra il frustrato ed il divertito, quando lui finse un paio di volte di abbassarsi per poi ritrarsi sempre all’ultimo secondo, “oggi rischi, lo sai?”

 

“Lo so, ma è un rischio che corro più che volentieri, dottoressa,” le sussurrò sulle labbra, per poi iniziare a farle il solletico al collo con il fiato, baci e morsetti.

 

Si lasciò andare e si rassegnò di buon grado a lasciargli il comando.

 

Almeno per un poco.

 

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“Che cosa?!”

 

“Pié, è la soluzione più veloce e logica. Poi cercheremo qualcosa di meno costoso dall’autunno, ma nostra figlia con Samuel non sta bene e lo sai pure tu.”

 

“Imma, non è per quello: che Valentina non fosse felice con Samuel l’ho notato pure io e… se vuole lasciarlo è giusto che lo lasci. Ma, con tutti i posti dove può andare a stare, proprio a casa del maresciallo?! E lui dove starebbe, eh? Da te, immagino?” sospirò, sarcastico, dall’altra parte della linea telefonica.

 

“In realtà… pure di questo volevo parlarti. Calogiuri ed io… abbiamo deciso di convivere stabilmente a casa mia, che quindi da ora in poi sarà casa nostra. Pensava di disdire l’appartamento, ma a questo punto lo terremmo finché Valentina avrà un’altra soluzione.”

 

“Ah…” rispose, secco, netto ed Imma sapeva che non l’aveva presa bene.

 

“Per le spese dovresti continuare a versarmi la tua quota solita e-”

 

“E dubito che un monolocale a Roma Nord costi quanto metà dell’affitto della casa di Valentina e Samuel.”

 

“No, ma-”

 

“Dimmi quanto ti devo, Imma, pure se mi sembra assurdo pagare metà dell’affitto del tuo maresciallo. Almeno mo ti dà una mano con le spese dell’appartamento vostro o...?”

 

“A parte che non sono affari tuoi!” sibilò, già incazzata, “ma certo che facciamo a metà. Se ci tieni a saperlo, Calogiuri voleva continuare a pagare pure metà dell’affitto del suo appartamento, ma gli ho detto che non sarebbe stato giusto.”

 

“E ci mancherebbe altro!” ribatté, il tono altrettanto irritato, “Valentina è mia figlia e spero che almeno su questo il tuo maresciallo non voglia interferire, visto che ha già interferito abbondantemente su tutto il resto.”

 

“No che non vuole interferire, e se lo facesse mi incazzerei. Ma non posso starmene zitta con te che gli dai poco velatamente del mantenuto, Pietro!”

 

“Quando lo dicevano di me, però, non mi pare che ti incazzassi così tanto, Imma.”

 

Rimase per un attimo paralizzata: allora le aveva sentite pure Pietro le voci in tutti quegli anni a Matera, anche se non aveva mai detto niente.

 

“Certo che mi incazzavo, Pietro, e mi incazzerei tutt’ora, ma non me lo dicevano davanti a te, ovviamente!”

 

“Va beh… senti, hai altre notizie? Altri canali radiotelevisivi sui quali comparirai senza nemmeno avvisarmi?”

 

“Pietro…” soffiò, perché iniziava a non poterne più.

 

“Imma, dopo la tua bella intervista è un mese che è ancora peggio al lavoro e non solo. Mo, oltre a quelli che mi danno del povero cornuto, ci sono pure le ammiratrici del maresciallo che commentano tra loro su come hai vinto al superenalotto, come se non le potessi sentire!”


“Senti, Pietro, mi dispiace che tu sia rimasto coinvolto, ma ho deciso con la procura di dare la nostra versione dei fatti - mia e di Calogiuri - e poi qua stanno allentando un po’ la presa, vedrai che si daranno una calmata pure lì, anche se Matera è piccola.”

 

“Imma, lo sai benissimo come funziona qua, no? Le notizie rimangono notizie pure per anni, che mica succede tutto quello che succede a Roma!”

 

“Senti, non posso impedire alla gente di parlare e non è facile manco per me qua!”

 

“Ma almeno tu te lo sei scelto, Imma! L’hai voluto tu combinare... tutto quello che hai combinato. Ed io ne pago le conseguenze.”

 

Sospirò perché su questo punto non si sentiva del tutto di dargli torto, ma pure lui c’aveva i suoi scheletri nell’armadio mo, “e Cinzia? Che fine ha fatto, Pietro?”

 

“Cinzia sta bene, anche se è arrabbiata per tutta la situazione. Ma sta bene.”

 

“E allora puoi fare capire alla gente che sei felice con la tua Cinzia Sax e smetteranno di darti il tormento, no?”

 

Sentì un silenzio tombale.

 

“Pietro, ci sei?”

 

“Sì, ci sono,” lo sentì sospirare.

 

“Non sei così felice con Cinzia, non è vero?”

 

Ma Pietro non rispose.

 

“Non fare pure tu la fine di Valentina, Pietro. Non è l’unica donna sulla faccia della Terra!”

 

“Ma almeno mi ama… che è già qualcosa, no?”

 

“Sì, ma non è abbastanza, se non la ami pure tu, Pietro, e lo sai.”

 

“Avevi altro da dirmi o-?”

 

“In realtà ci sarebbe un’altra cosa. Valentina vuole andare in vacanza con Penelope e… e farsi l’interrail con zaino e tenda e-”

 

“E non dirmi che le hai detto di sì, Imma?! Va bene il ritorno alla gioventù col tuo maresciallo, e le tappe perse, ma Valentina non-”

 

“Le ho detto che te ne avrei parlato, Pietro!” tagliò corto, ad un filo dall’esplosione.

 

“E allora sai benissimo che la mia risposta è no. Poi con quella Penelope! Lo sai che non mi è mai piaciuta!”

 

“Lo so, Pietro, lo so, ma è l’unica amica vera che le è rimasta e… e comunque mi sembra una brava ragazza.”

 

“Se lo dici tu, Imma… ma per la vacanza non se ne parla nemmeno! Non possono fare una cosa più tranquilla? Che ne so, possono venire a Metaponto e-”

 

“E non tutti hanno come aspirazione massima nella vita le vacanze a Metaponto, Pietro, almeno non tutte le estati della propria vita. Valentina è giovane ed è giusto che viaggi finché può farlo. E comunque potrei… potrei portarmele a Maiorca, se va bene a Calogiuri. Poi se ne staranno in una sistemazione per conto loro, ma almeno saranno vicine se succedesse qualcosa. Che ne pensi?”

 

“Che cos’è sta storia di Maiorca?”

 

“Ad agosto vado con Calogiuri a Maiorca e Minorca, pensavo di avertelo detto.”

 

“Eh no che non me lo avevi detto, Imma! E comunque non ti riconosco più! Con me manco a Metaponto volevi venire e-”

 

“E veramente eri tu che insistevi ogni volta per andarci, con la scusa che era tranquillo e rilassante e c’era mamma tua che poteva darmi una mano con Valentina. Il tutto solo per non scontentare tua madre e perché faceva comodo a te!” sbottò, perché era veramente troppo, “e comunque che ne pensi per Valentina?”

 

“Dovrei… dovrei finanziare pure io questa bella vacanza, immagino?”

 

“Solo metà del costo di Valentina, naturalmente, Pietro.”

 

“Se va bene a Valentina, ma non provare a farle pressione, chiaro?! E se va bene al tuo maresciallo avere dietro pure Valentina e Penelope, che immagino si immaginasse un altro tipo di vacanza.”

 

“Ti ho già detto che le ragazze se ne starebbero per conto loro, Pietro, ci mancherebbe altro! E non solo per Calogiuri ma pure per nostra figlia, che se no chi la sente.”

 

“Fammi sapere,” concluse, chiudendole quasi il telefono in faccia.

 

Pietro era ancora più che arrabbiato con lei, ad oltre un anno da quando si erano lasciati. E cominciava a dubitare che gli sarebbe mai passata del tutto.

 

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“Che ne pensi? Non… se non vuoi non devi farti problemi, Calogiuri, eh, ma-”

 

“Imma,” la interruppe, prendendole la mano sulla tavola, “per me non è un problema. Maiorca e Minorca sono enormi e Valentina mi è simpatica, lo sai. Basta che però tu stai tranquilla e che non passi le vacanze ad inseguire Valentina o a controllarla, se no mi rifiuto io per lei, più che per me.”

 

Ed Imma rise e gli strinse la mano, prima di accarezzargliene il dorso e promettere, “ho ben altri da inseguire, Calogiuri, altro che Valentì!”

 

“Ah, sì, e chi?” le domandò con un sopracciglio alzato e l’espressione da schiaffi.

 

“Lo sai. E comunque non è affatto detto che Valentì accetti, quindi vedremo.”

 

“Ah, io nel frattempo ho sentito il mio padrone di casa, e Valentina può stare lì quanto vuole se continuiamo a garantirgli l’affitto. Solo che, se la cosa si prolungasse oltre la fine dell’anno, vorrà il contratto a suo nome e la caparra la dovrei trasferire a lei. Ma magari trova altro prima, no?”

 

“Infatti… e magari con qualche amica stavolta, invece di stare sempre da sola.”

 

“Chissà da chi ha preso questa difficoltà a fare amicizia, dottoressa.”

 

“Hai ragione ma… Valentì il carattere un poco meno peggio del mio ce l’ha. E comunque c’ho Diana e poi… pure Mariani non è così male!”

 

“Allora ti andrebbe se una volta uscissimo con lei e con Conti?”

 

“Se non mi fai fare cose ridicole, che devo mantenere l’autorevolezza del mio ruolo, sì, Calogiuri.”

 

“Ma a te basta un’occhiataccia per essere autorevole, dottoressa,” rise, scuotendo il capo.

 

“Sarà meglio! Se no vorrebbe dire che è giunto il momento di cambiare mestiere, Calogiuri!”

 

Per tutta risposta, si beccò un, “non cambi mai, altro che mestiere!” e si trovò sollevata dalla sedia ed in braccio a Calogiuri, che la baciava con una dolcezza che le faceva un bene immenso al cuore.

 

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“Ma sei impazzita?! A parte che non voglio avere la balia, ma secondo te il tuo maresciallo vuole me e Penelope tra i piedi nella vostra prima vacanza da soli? Se non ti manda a quel paese è un santo!”

 

“Ma no, Valentì, voi ve ne stareste da un’altra parte, dove vi pare a voi. Sono isole grandi, non ci dobbiamo incontrare se non volete. Ma almeno non siete chissà dove in treno e con la tenda.”

 

“Ne parlo con Penelope, ma non ti prometto niente!” le rispose Valentina, mettendo giù il telefono.

 

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“E questi dove li vuoi mettere, Calogiù?”

 

Lo stava aiutando ad infilare le sue cose negli scatoloni, per portarle a casa sua, anzi, a casa e basta. Gli mostrò un elastico, una corda per saltare ed altri cosi che faticava ad identificare ma che intuiva gli servissero per fare esercizio.

 

“In questo scatolone, grazie,” rispose lui, indicando uno dei cartoni mezzi pieni, depositando una pila di magliette, camicie e pantaloni in quello subito accanto.

 

E poi estrasse dall’armadio un qualcosa che non gli aveva mai visto indosso: la divisa da maresciallo.

 

Calogiuri la guardò in modo interrogativo, forse avendo notato il suo di sguardo, ed Imma si morse il labbro, “niente, Calogiù, meglio che non dico niente e che la ritiri, prima che mi becco una denuncia dall’Arma!”

 

“Imma!” esclamò, sembrando un poco imbarazzato, ma anche compiaciuto.

 

L’atmosfera si stava facendo improvvisamente bollente e non solo per l’estate romana che trasformava quel piccolo monolocale in un mezzo forno.

 

Stava per cedere, in tutti i sensi, quando le squillò il telefono. La suoneria era quella di Valentina.

 

Ogni tanto aveva un tempismo degno di suo padre ai tempi.

 

“Pronto?” rispose, cercando di scacciare le immagini mentali di Calogiuri in divisa.

 

“Pronto, mà? Ascolta, ho parlato con Penelope e… per noi va bene. Ma vorremmo stare a Minorca quando voi starete a Maiorca e viceversa, così siamo a poca distanza di traghetto ma abbiamo più libertà.”

 

“Mi sembra un compromesso ragionevole, Valentì, anche se ti garantisco che la libertà l’avreste avuta in ogni caso. Ne parlo con tuo padre e ti dò conferma. Noi siamo a casa di Calogiuri per portare via le ultime cose. Da domani quando vuoi è libera.”

 

“Va bene, grazie!” le rispose e sentì che aveva un tono sì felice, ma anche un po’ impaurito.

 

“Sei più forte di quanto pensi, Valentì. Non dimenticartelo mai.”

 

Valentina non disse più niente, ma udì quello che sembrava un mezzo singhiozzo e poi mise giù il telefono.

 

Sospirò e sollevò lo sguardo per cercare quello di Calogiuri, ma non lo vide più.

 

“Calogiù? Calogiù?”

 

La porta del bagno si aprì ed il suo maresciallo riemerse, vestito di tutto punto in divisa, che ad Imma prese di botto una caldana pazzesca.

 

“Calogiuri…” sussurrò, il fiato che un po’ le difettava.

 

“A saperlo prima che ti faceva questo effetto, mi sarei messo in divisa più spesso già a Matera,” scherzò, prima di farsi serio, almeno in apparenza, mettersi sull’attenti e dire, “dottoressa, ai comandi, posso fare qualcosa per voi?”

 

Non avrebbe saputo dire se fosse per lo sguardo, per il tono o per tutto il resto, ma il fiato se n’era bello bello che andato.

 

“Calogiuri…” mormorò, a fatica, “a parte che starai facendo la sauna, ma… se rovini la divisa come lo spieghi all’Arma, esattamente?”

 

“Tanto ho come l’impressione che non la indosserò a lungo, dottoressa, quindi non c’è pericolo.”

 

“Non sfidarmi, maresciallo, che come sai ho moltissima fantasia e so essere inflessibile quando mi ci metto!”

 

“Lo sapete che a me piace lavorare con voi, dottoressa. E poi… e poi dovremo pure dire addio a questo appartamento come si deve, no?”

 

Imma non sapeva come potesse provare tanta tenerezza e tanto desiderio insieme, ma il secondo prevalse sulla prima e se lo baciò con tutta la passione che aveva, bloccandogli però le mani quando le sentì su di sé.

 

“Non mi pare di averti ordinato il riposo, no, maresciallo?” ironizzò, entrando però nella parte anche col tono di voce.

 

“Qui altro che riposo…” lo sentì mormorare, prima di zittirsi completamente, come da copione.

 

Imma trattenne una risata e gli morse il labbro inferiore, mentre pensava agli ordini successivi.


Sarebbe stato un addio molto ma molto lungo, già lo sapeva.

 

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Sentì la porta d’ingresso aprirsi: Samuel era rientrato dopo un turno di mezzogiorno al ristorante.

 

Si alzò dal divano, il trolley più grande che aveva che le faceva da scudo e da bastone al tempo stesso.

 

“Come mai la valigia? Vai da qualche parte? Torni a Matera?”

 

“No, non torno a Matera. Almeno non oggi. Ma… sì, vado via… definitivamente, Samuel. Non… non sapevo come dirtelo ma… questo mi sembrava il modo più semplice ed almeno ho già messo via quasi tutte le mie cose,” buttò fuori, tutto d’un fiato, prima che le mancasse il coraggio.

 

“Definitivamente?” chiese lui, sembrando stupito, anche se forse non dispiaciuto quanto una parte di lei avrebbe in fondo voluto.

 

“Che le cose tra noi non funzionano lo sai anche tu e… penso che sia la cosa migliore. Mi spiace lasciarti con le spese ma… ora hai lo stipendio del ristorante e… e sono sicura che riuscirai a trovare facilmente qualcuno con cui dividere l’appartamento. Ma… io qui sempre da sola non ci sto più bene.”

 

Samuel abbassò per un attimo lo sguardo, sembrando quasi vergognarsi, poi lo risollevò verso di lei e sì, era dispiaciuto, “scusami, io-”

 

“Non serve che ti scusi: ti stai facendo la tua strada ed io dovrò farmi la mia. Ci siamo buttati in questa convivenza troppo presto ed abbiamo vite troppo diverse. E non ci conoscevamo abbastanza da… da prendere una decisione così importante. La colpa è tua ma pure mia.”

 

“Sei… sei cambiata, Valentina, sei cresciuta e non me ne sono nemmeno accorto. Mi… mi dispiace di… di tutto quanto.”

 

“Anche a me,” ammise, perché la verità era che non provava rancore, solo dispiacere, malinconia e sollievo.

 

Forse era proprio quello il segno che stava facendo la cosa giusta. Perché la rabbia era pur sempre sinonimo di una passione ancora esistente. Qui c’era solo una piatta rassegnazione.

 

“Allora… buona fortuna,” le disse Samuel, prima di chiederle, con uno sguardo dolce che era una vita che non gli vedeva più, “ti posso abbracciare?”

 

“Certo!” rispose e lo strinse in quello che sapeva sarebbe stato molto probabilmente l’ultimo abbraccio tra loro.

 

Non le faceva più l’effetto di una volta. C’era sempre e solo quel velo di malinconia e rimpianti, insieme all’affetto per una persona con la quale hai condiviso un pezzo di vita e sei cresciuta, nel bene e nel male.

 

“Tornerò a prendere le ultime cose nei prossimi giorni, che tanto tu sarai al lavoro, immagino. Poi ti lascio la chiave nella buca delle lettere.”

 

“Va… va bene…” annuì Samuel, passandosi una mano sugli occhi stanchi, “con la valigia come fai? Vuoi una mano? Dove andrai?”

 

“Mia madre mi ha trovato un appartamento e… mi viene a prendere col suo compagno. Dovrebbero essere qui tra poco.”

 

E, neanche a farlo apposta, il campanello squillò.

 

“Posso… posso sentirti ancora, ogni tanto? Mi… mi farebbe piacere sapere come stai e… insomma… non perderci del tutto di vista. Posso mandarti messaggi, visti i miei orari.”

 

Sì, era proprio finita, talmente tanto che l’idea in fondo non dispiaceva nemmeno a lei. Se pensava a quanto sua padre fosse ancora arrabbiato con sua madre dopo tutti quei mesi. Certo c’erano più di vent’anni di matrimonio alle spalle, ma….

 

“Se… se ti fa piacere,” rispose, perché realmente non aveva niente in contrario.

 

Un’altra scampanellata le fece capire che era ora di andare.

 

Prese nuovamente in mano l’impugnatura del trolley e lasciò quell’appartamento, senza guardarsi indietro.

 

Fece appena in tempo ad uscire dall’ascensore, che si trovò di fronte sua madre, con un’aria preoccupata che le fece venire voglia di abbracciarla.

 

“Tutto bene?” le domandò, con un tono che non era da lei. O meglio, non era della madre che aveva creduto di conoscere durante la sua adolescenza.

 

Ma ora capiva molte più cose. Non era perfetta, aveva un carattere di merda, ma le voleva bene e voleva che fosse felice. Ed era quello l’importante.

 

“Ora sì,” rispose, cedendo all’impulso e buttandole le braccia al collo, sorridendo all’esclamazione di sorpresa che si lasciò scappare.

 

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“E qua c’è il contatore e le altre chiavi. Tutto chiaro?”

 

“Sì, mà! Dai, è un monolocale, quanto vuoi che ci metto ad orientarmi? Ci sono tre posti in croce dove guardare!” sbuffò Valentina, con quel tono insopportabile ma che le somigliava più di quanto volesse ammettere. E poi fece uno sguardo furbo e le domandò, “anzi… non è che rischio di trovare qualcosa di traumatizzante, vero? E devo disinfettare tutto, immagino?”

 

“Valentì,” la riprese, sentendosi avvampare e notando che pure Calogiuri aveva il collo fucsia, “e comunque abbiamo già pulito tutto a specchio e tolto ogni traccia della nostra presenza, tranquilla!”

 

“Lo spero!” proclamò Valentina, ironica, anche se, in cuor suo, Imma tutti i torti non glieli dava.

 

Se quell’appartamento avesse potuto parlare… quanti ricordi meravigliosi avevano lì dentro, che si sarebbe portata dietro per sempre.

 

Sperava che, come lo era stato per lei, potesse essere un nuovo inizio pure per sua figlia, anche se magari non propriamente nello stesso modo. Si augurava che si prendesse un po’ di tempo per sé, prima di buttarsi in un’altra storia seria.

 

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“Ma è normale che balli tutto così?”

 

“Stiamo decollando, certo che è normale!” la rassicurò, prima di chiederle, con un sorriso, “non mi dire che hai paura dell’aereo?!”

 

“In… in realtà… ci sono andata solo due volte in tutta la mia vita, questa è la terza.”

 

“Beh, pure io sono solo andato a Barcellona, dottoressa. Però forse ho ricordi più recenti e non era stato male.”

 

“Io invece ho ricordi traumatici dal viaggio… dal viaggio in Grecia, con uno scarcassone traballante che te lo raccomando!” spiegò, mordendosi appena in tempo la lingua prima di farsi scappare che il viaggio in questione fosse stato quello di nozze.

 

“Guarda che nemmeno io sono geloso del passato, Imma,” le rispose, tenendole la mano.

 

Come sempre aveva capito tutto.

 

Si sporse per dargli un bacio e, in quel momento, l’aereo si staccò dalla pista e lo stomaco le finì per un attimo in gola. Non fosse stato per la cintura gli sarebbe finita in braccio.

 

“Dai, che il peggio è quasi passato,” le sorrise, stringendole più forte le dita.

 

Ricambiò e riuscì finalmente a dargli un bacio, anche se breve, ringraziando il cielo che Valentina e Penelope avessero preso il volo diretto per Minorca e non fossero lì a prenderli in giro.

 

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“Ci siamo quasi, dottoressa: guarda che bello il mare!”

 

“Sì, il mare è bello, ma vorrei vederlo da vicino a piedi e non con l’aereo.”

 

“Manca poco!” provò a rassicurarla, prendendole nuovamente la mano.

 

Ancora non poteva credere che una come Imma avesse tanta paura del volo, ma si ripromise di fargliela passare portandola in viaggio più spesso, risparmi permettendo. Anche perché, se dovevano farsi oltre tredici ore di volo per il Giappone l’anno successivo, dovevano allenarsi.

 

Intenerito, la vide chiudere gli occhi e la strinse più forte, finché le ruote dell’aereo toccarono la pista con uno scossone ed Imma li riaprì, sollevata, mentre il cicalino automatico annunciava l’arrivo a Maiorca.

 

La baciò, sentendosi in parte ancora incredulo di essere lì con lei, in vacanza, come migliaia di altre coppie, nonostante tutti i casini degli ultimi mesi.

 

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“Allora, che te ne pare?”

 

Imma spiava fuori dal finestrino del taxi con uno sguardo incantato che gli pareva quasi una bambina.

 

“Avevo guardato un po’ di foto e… avevo fatto qualche ricerca ma… non pensavo fosse così bello!” gli rispose con un sorriso che non si sarebbe mai scordato e poi si trovò con le labbra incollate alle sue.

 

“Estás de luna de miel?” chiese il tassista, con un sorrisetto.

 

“No, pero son nuestras primeras vacaciones juntos,” chiarì, sperando di non avere appena commesso un omicidio della grammatica spagnola e guadagnandosi uno sguardo a dir poco stupito di Imma.

 

“Ay, ahora entiendo por qué pareces dos tortolitos!” rise di gusto il tassista, per poi aggiungere, “estoy seguro de que serán unas vacaciones inolvidables.”

 

“Che ha detto?” gli domandò Imma, sempre più basita.

 

“Che capisce perché sembriamo due piccioncini,” ammise, sentendo il viso un poco caldo, “e che saranno delle vacanze indimenticabili.”

 

“Ah, visto che ci sei tu, lo saranno di sicuro, maresciallo!”

 

“Eres un mariscal? Del ejército?”

 

“Carabinieri.”

 

“Y tu novia te llama mariscal?” chiese, divertito, lanciando un’occhiata a loro oltre che una alla strada.

 

“Si stupisce che ti chiamo maresciallo?” gli domandò Imma, altrettanto divertita, e Calogiuri annuì.

 

“Digli che sono un magistrato ed è deformazione professionale.”

 

“Su deformazione professionale pretendi troppo dal mio spagnolo, dottoressa.”

 

“Doctora? Eres un fiscal?”

 

“Sì, sono molto fiscale, in effetti,” scherzò Imma, prima di dedurre, “fiscal è il pubblico ministero?”

 

“Dottoressa, di nuovo chiedi troppo al mio spagnolo.”

 

“Si, si, magistrado,” confermò il tassista, con l’aria di chi si stava divertendo un mondo, per poi dargli un’occhiata dallo specchietto e domandandogli, con tono complice, “¿y a ella le gusta dar órdenes?”

 

“Muchísimo!” si lasciò scappare con una risata, guadagnandosi un colpo sul braccio di Imma che aveva evidentemente capito perfettamente, spagnolo o non spagnolo.

 

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“La habitación está en el cuarto piso. Bienvenidos a Palma de Mallorca!”

 

La receptionist le passò le chiavi magnetiche e restituì loro i documenti. Imma fece per avviarsi verso l’ascensore ma Calogiuri le prese la valigia.

 

“Te la porto io, non ti preoccupare.”

 

“Fai pure il servizio in camera, Calogiuri?”


“Per te sempre!” non perse tempo a ribattere, facendole l’occhiolino.

 

Salirono in ascensore. Per fortuna l’hotel non sembrava male, per essere un tre stelle.

 

“Mo però mi devi dire quando e come hai imparato lo spagnolo, Calogiuri. Che qua continuo a scoprire doti nascoste, anche se alcune è da mo che le ho scoperte!” si divertì a punzecchiarlo a sua volta, godendosi quel lieve imbarazzo che ancora gli colorava le guance.

 

“Sei tremenda! E comunque… a Grottaminarda, prima di decidere di arruolarmi, avevo fatto un corso di spagnolo, perché stavo valutando di trasferirmi in Spagna per cercare lavoro. C’era una signora che aveva studiato lingue ed aveva vissuto per un periodo a Madrid, che era tornata al paese da poco - dopo essersi separata, credo - e dava lezioni ad un prezzo ragionevole.”

 

“E poi perché hai smesso? Che dopo tutti questi anni te lo ricordi ancora bene. E tu che dicevi di non essere portato per lo studio!”

 

“Portato è una parola grossa, dottoressa. Ma… diciamo che Maria Luisa si era ingelosita: diceva che l’insegnante ci provava con me. E così mi ha convinto a lasciare il corso.”

 

“Insomma, ti ci ha costretto,” tradusse Imma, sentendo un’altra ondata di odio verso Maria Luisa, “e quest’insegnante che ha scatenato l’ira funesta di Maria Luisa com’era? Una bella donna?”

 

“Ma… ma sì… avrà avuto… la tua età, credo, cioè più o meno sarete coetanee. Ma, a parte che tu sei molto, ma molto più bella, all’epoca neanche ci pensavo… insomma non mi sarei mai nemmeno sognato di vederla in quel modo, non mi interessava proprio. E nemmeno pensavo potesse interessarsi a me. Solo che… forse col senno di poi Maria Luisa non aveva nemmeno tutti i torti. La professoressa mi invitava spesso a stare a pranzo con lei, alcune volte mi ha cercato per farle dei lavori a casa ed in cambio mi offriva le lezioni gratis. Una sera mi ha pure invitato a fermarmi a cena, ma dovevo vedermi con Maria Luisa. Quando gliel’ho raccontato mi ha detto che se provavo a tornare dalla professoressa mi avrebbe mollato e così…”

 

E brava l’insegnante di spagnolo! - pensò Imma, anche se non lo disse, ma del resto come non capirla.

 

“Certo che eri proprio ingenuo da morire, Calogiù!” esclamò, intenerita, accarezzandogli una guancia, “meno male che hai aspettato me per… allargare i tuoi orizzonti. Ma mo vedi di richiuderli, eh!”

 

“Sei tu il mio orizzonte, lo sai!” proclamò, con una sincerità così disarmante che perfino una dichiarazione del genere non le sembrò ridicola, anche se Valentina avrebbe commentato sul diabete.

 

Se lo baciò, perché da sempre era l’unica risposta possibile quando faceva così, e poi gli sussurrò, per sdrammatizzare, “lo spero! O… come si dice ti ammazzo in spagnolo?”

 

“Te mato.”

 

“Pare veneto, pare!” ribatté, guadagnandosi una risata ed uno sguardo esasperati e, nel giro di due secondi, si ritrovò in aria e poi sul letto, Calogiuri che le piombò addosso facendole il solletico.

 

“Calogiù, Calogiù…” gridò, divincolandosi, perché quasi non respirava, “te mato veramente, altroché!”

 

Le lasciò riprendere fiato giusto il tempo necessario per levarglielo con un bacio, che le fece capire benissimo che intenzioni avesse, “Calogiù… ma siamo appena arrivati e-”

 

“Dobbiamo pure collaudare il letto, no?” le rispose, con una faccia da schiaffi, “e poi fuori fa caldo e… possiamo uscire pure tra un’ora.”

 

“Va bene, ma solo perché se il letto non ti regge è meglio scoprirlo mo che stanotte, Calogiù!” scherzò, trovandosi nuovamente sotto l’assalto di un altro attacco di solletico, felice come non mai.

 

E, considerato quanto Calogiuri la rendeva felice da quando era nella sua vita, era veramente tutto dire.


Nota dell’autrice: Anche questo capitolo è giunto al termine e la vacanza di Imma e Calogiuri è solo all’inizio. Che combineranno tra Maiorca e Minorca? Riusciranno a stare tranquilli o i casini li seguiranno pure lì?

Nel prossimo capitolo ci saranno altri salti temporali e… ci saranno nuove situazioni e nuovi problemi che riguarderanno non solo Imma e Calogiuri ma pure le rispettive famiglie, mentre scopriremo un po’ di più su alcuni personaggi. E Matera potrebbe fare un ritorno a breve, chissà….

Vi ringrazio di cuore per avermi letta fin qui, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che la storia si mantenga interessante e coinvolgente, nonostante la lunghezza. Come sempre le vostre recensioni e i vostri commenti, positivi o negativi, sono utilissimi per capire come sto andando, quindi vi ringrazio fin da ora se mi dedicherete un po’ di tempo per farmi sapere cosa ne pensate.

Un grazie anche a chi ha inserito la mia storia nelle preferite e nelle seguite.

Il prossimo capitolo arriverà puntuale domenica 12 luglio.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 38
*** Chiaroscuro ***


Nessun Alibi


Capitolo 38 - Chiaroscuro


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Non è che preferivi andare in spiaggia? Ma sono tanto affollate e ho pensato che ci andremo già a Minorca e poi... avevo in mente un paio di spiaggette più isolate pure qua.”

 

“Hai fatto ricerche, vedo, dottoressa. E comunque questo palazzo è bellissimo. Se penso al mio quasi ex monolocale, in confronto a questa… casa vacanze.”

 

Ed Imma rise, perché in effetti il palazzo de l’Almudaina era stupendo ma talmente grande che, in confronto, Mancini e la Ferrari messi insieme parevano due nullatenenti.

 

“Hai proprio gusti strani, Calogiuri. Tutti i ragazzi della tua età su quest’isola a quest’ora saranno ancora a dormire dopo la discoteca e prima della spiaggia…”

 

“Ma in spiaggia ci posso andare anche in Italia, in un posto così no. E poi… devo ammettere che mi piacciono gli edifici storici ed i musei, anche se non avrei mai pensato. Ma stare a Roma mi ha fatto ricredere.”

 

“Roma o la Ferrari?”

 

“E dai, dottoressa, pure la gelosia a distanza, mo?”

 

“No, perché intanto qui con te in vacanza ci sto io e non lei e poi… e poi sono felice che tu abbia allargato i tuoi orizzonti da un punto di vista culturale. Da altri punti di vista, invece….”

 

“Ti ho già detto chi è il mio orizzonte, no?”

 

Imma scosse il capo, dandogli però una rapida carezza sul viso.

 

Stava per ritrarre la mano e proseguire la visita quando lui le afferrò le dita, “e comunque in discoteca una sera ci voglio andare, ma con te.”

 

“Io in discoteca? Poi queste discoteche che sono enormi?”

 

“E dai, dottoressa, per una sera! E poi, appunto, se devi andare in una discoteca meglio farlo in grande, no?” le chiese, con uno di quei sorrisi ai quali era impossibile dire di no.

 

“Vedremo… mo che ne dici se proseguiamo, che dopo dobbiamo vedere pure la cattedrale? C’è anche un museo di arte moderna qui vicino ed un altro castello, ma possiamo farli pure domani ed andare un poco in spiaggia stasera.”

 

“Se facessimo oggi il museo e domani castello e cattedrale? Anche se non mi sembravi il tipo da arte moderna.”

 

“Mi stai dicendo che sono antica, Calogiuri?” gli chiese, le mani sui fianchi e il busto proiettato in avanti, come a sfidarlo.

 

“No, al limite quello antico sono più io, o ero più io. Ma è che… su certe cose hai idee modernissime, su altre sei molto tradizionalista, mica è facile prevederli i tuoi gusti.”

 

“Senti chi parla! E comunque diciamo che ho deciso che voglio fare cose nuove. Poi, se i quadri non mi piaceranno, non farò a meno di farlo notare, mi conosci.”

 

“Li conosco i tuoi commenti, dottoressa!" rise, scuotendo il capo, "ma… a proposito di cose nuove… possiamo cominciare dalla discoteca, non pensi?”

 

“E va bene, Calogiuri, hai vinto! Ma il giorno dopo non garantisco di essere in forma.”

 

“Vorrà dire che staremo in spiaggia, dottoressa. O possiamo andare in una spa: ho letto che ce ne sono di bellissime qua sull’isola. E d’estate penso siano meno frequentate.”

 

“Vediamo… ma in caso i massaggi solo da me te li fai fare, Calogiuri, chiaro?”

 

“Lo stesso vale per te, dottoressa! E poi alla spa possiamo fare altro di rilassante, insieme.”

 

“Con te altro che rilassamento, Calogiuri!” rise, dandogli un rapido bacio, prima di proseguire nella visita guidata, tra i turisti che li guardavano strano.

 

Ma non le importava niente.

 

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“Come va? Lo vuoi un massaggio ai piedi?”

 

Era in bagno con le gambe ammollo nella vasca: avevano camminato tantissimo ed i sandali, per quanto relativamente comodi, le avevano distrutto i piedi.

 

“Non pensavo fossi un feticista, Calogiuri!”

 

“Ma no, no, io-”

 

Scoppiò a ridere e si godette l’imbarazzo di lui, che su certi argomenti a volte aveva ancora un’ingenuità adorabile, pur essendo per il resto diventato fin troppo esperto, mannaggia a lui!

 

“E comunque l’offerta è valida, anche perché ti devi riprendere per camminare domani, dottoressa!”

 

“E va bene… vorrà dire che anticipiamo un po’ il trattamento spa privato, Calogiuri.”

 

Privatissimo…” le sussurrò, e gli si trovò in braccio, in un bacio famelico.

 

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“Dove mi porti, Calogiù? Dobbiamo andare a cena e ho ancora i piedi distrutti.”

 

“Appunto! Ti fidi di me, no?”

 

“Certo, ma…”

 

E, girato l’angolo, vide un negozietto di scarpe e vestiti.

 

Gli sorrise e lui intimò, con un tono assolutamente adorabile, “mo ci compriamo delle scarpe comode, dottoressa.”

 

“Ci compriamo?”

 

“Tu hai offerto la vacanza, posso farti un regalo, no?”

 

“Ma stiamo facendo a metà con i pasti!”

 

“Imma…” sospirò, guardandola in quel modo che non ammetteva repliche.

 

Lo faceva raramente, ma sapeva che quando la chiamava Imma e non dottoressa era serissimo.

 

“Va bene, Calogiù, va bene!”

 

Entrarono nel negozio ed una commessa alta, bionda, davvero bella, si avvicinò a Calogiuri ad una velocità quasi tragicomica.

 

“Hola. ¿Puedo ayudarte?”

 

Calogiuri lanciò un’occhiata ad Imma e bastò quella per capirsi.

 

“Hola. Mi novia necesita zapatillas,” si affrettò a specificare e la commessa la guardò in un modo talmente incredulo che tra un po’ le cascava la mascella.

 

Ma ormai c’era abituata. Quindi soffocò la fitta di dolore e mise addosso il suo sorriso migliore, prendendo Calogiuri a braccetto. Se c’era qualcuno che si doveva mangiare il fegato non era di certo lei.

 

La commessa rimase un attimo spiazzata, poi balbettò un, “¿has visto algo que te guste?”

 

“A parte il mio novio?” chiese Imma, contando sul fatto che, come lei capiva a grandi linee lo spagnolo, la commessa capisse l’italiano, poi si guardò in giro e vide un paio di scarpe da ginnastica leopardate nella parte superiore e che sotto parevano un dipinto di arte moderna di quelli che avevano visto quel giorno: a sezioni rosse, bianche nere e gialle.

 

Scambiò uno sguardo con Calogiuri che sembrava molto divertito e lui prese in mano la scarpa di prova e chiese, “queste, vero?”

 

La commessa stavolta non sembrò stupita, la squadrò solo da capo a piedi nel suo vestito leopardato rosa con paillettes ma non disse nulla. Anche se quello che pensava si capiva benissimo.

 

Imma si scelse il suo numero, se le provò ed erano comode e pure scontate. Stava per rialzarsi per andare alla cassa quando Calogiuri le indicò un paio di espadrillas con la zeppa ed i lacci.

 

“Che ne dici? Come souvenir?”

 

“Dico che almeno un paio me le pago io, Calogiuri, e-”

 

“Non mi fare arrabbiare, dottoressa!” le intimò ed Imma capì che, per una volta, doveva cedere le armi.

 

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“Calogiù, quanto manca?”

 

“Quasi ci siamo, dottoressa, cinque minuti. Tutto bene?”

 

“Quando sono in moto con te va sempre tutto bene, lo sai. Anche se sono abituata allo scooter e questo è molto più veloce!”

 

Per esplorare il resto dell’isola avevano noleggiato una moto, perché era molto più facile da parcheggiare che l’auto.

 

Si godeva il panorama, l’aria sui vestiti ed i suoi amati silenzi con Calogiuri.

 

“Eccoci qui, dottoressa, se scendi parcheggio.”


“Ma figurati, Calogiù! Ti accompagno. Che mi hai pure costretta a mettere le scarpe comode, mi hai costretta!”

 

“Lo sai che mi piace prenderti al volo, ma se ti fai male qua è un disastro. E poi… e poi queste scarpe sono proprio nel tuo stile!”

 

“Lo so… grazie ancora, Calogiù!” gli sussurrò, stringendolo più forte da dietro.

 

Trovato parcheggio, Calogiuri la aiutò a levare casco e protezioni usate per il viaggio e raggiunsero le Grotte del Drago.

 

Imma riuscì a spuntarla nel pagare gli ingressi e si avviarono a braccetto nella grotta, insieme alla guida e ad altri turisti.

 

Beccò un paio di ragazze che si fissavano Calogiuri come se fosse un cono gelato, ma decise di concentrarsi sulla meraviglia che li circondava.

 

"È… è davvero bellissima!" esclamò ad un certo punto, incantata dalle rocce, dall’acqua azzurrissima, dai giochi della luce che filtrava illuminando il meraviglioso fondale.

 

“Imma…” sentì sussurrare all’orecchio. Si girò verso di lui e fu solo quando due dita le sfiorarono la guancia che si rese conto che le era scesa una lacrima di commozione.

 

“Scusami, io… non ti preoccupare… è che… hai presente quando vedi qualcosa di così bello che…”

 

“Ce l’ho presente molto bene,” mormorò lui, guardandola fisso negli occhi in un modo che le fece capire che non stava parlando solo della grotta, “e poi a noi le grotte hanno sempre portato fortuna, no?”

 

Gli diede un rapido bacio, finché la guida esclamò un “no se queden atrás!” che li fece staccare un po’ imbarazzati e si riavvicinarono rapidamente al resto del gruppo.

 

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“Hai freddo? Forse avremmo dovuto portarci i giubbini e non lasciarli in moto.”

 

“Preferisco decisamente scaldarmi così, Calogiuri,” gli rispose, e si sentì accarezzare le braccia che la stringevano da dietro, mentre si appoggiava ancora di più a lui, “e comunque avevi ragione che ne valeva la pena di venire a Cap de Formentor a quest’ora… il tramonto è… e pure il panorama e il faro. Oggi è… tutto bellissimo.”

 

Un nodo gli si piantò in gola, il cuore che pareva esplodergli nel petto: era bella da mozzare il fiato con la luce rossastra della sera che le si rifletteva nei capelli e con quell’espressione felice che la faceva veramente sembrare una ragazzina.

 

Ed era orgogliosissimo di avere contribuito a renderla così felice.

 

“Beh… la vacanza l’hai scelta tu, dottoressa, quindi….”

 

“Sì, ma… ma non avrei mai pensato di… di vedere cose del genere e di… di vivere esperienze così, alla mia età poi!” la sentì mormorare, quasi tra sé e sé.

 

“Beh… nemmeno io, ma… non è per l’età… è che… non ti sei mai concessa niente e-”

 

“Come se pure tu non fossi una formichina, Calogiuri, almeno nell’animo!” esclamò, assestandogli un buffetto sul braccio che non gli fece male, anzi.

 

“Tu però sei imbattibile, dottoressa!”

 

“Mi stai dando della tirchia pure tu come Valentì?!” gli chiese, voltandosi leggermente verso di lui, con uno sguardo fintamente indignato che gli fece venire una voglia matta di baciarla.

 

E non si trattenne: almeno lì erano solo una coppia come tante altre, senza i problemi dei giornalisti ed il maledetto basso profilo.

 

“Che ne dici se rientriamo mo? Che il sentiero è ripido e la strada è tortuosa ed è meglio andare prima che faccia del tutto buio,” gli propose, anche se aveva sul viso la malinconia di chi non avrebbe voluto andarsene.

 

Ma aveva ragione: sarebbe stato imprudente.

 

“Agli ordini, dottoressa!” acconsentì, prendendola nuovamente a braccetto per aiutarla sulla via del rientro.

 

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“Al-? Ch- n- -si?!”

 

“Eh? Non ti sento!”

 

“Che ne pensi?!” ripeté, stavolta urlandoglielo quasi nell’orecchio e finalmente capì.

 

“Che ci vorrebbero i dpi acustici per non diventare sordi! E stiamo come sardine!”

 

Calogiuri, che evidentemente grazie alla gioventù l’udito l’aveva messo un po’ meglio del suo, scoppiò a ridere, o almeno così le parve dal linguaggio del corpo, perché sentiva solo la musica che le rimbombava ovunque.

 

Erano appena usciti da un ascensore di vetro ed entrati alla famosa discoteca: enorme, un tripudio di luci led multicolori da accecarsi e soprattutto una folla che manco alla festa della Bruna.

 

“Vieni con me!” urlò Calogiuri, dirigendosi verso il lato della sala.

 

Si tenne stretta a lui, temendo quasi di soffocare. Passarono vicino a dei palchi con delle ragazze decisamente troppo svestite per i suoi gusti - avevano due specie di pennacchi sul seno e per il resto erano in topless, per non parlare degli slip che parevano filo interdentale - ma Calogiuri sembrava guardare davanti a sé o era bravo a non farsi beccare a fissarle. Dopo svariati strattoni tra la folla di tarantolati, finalmente arrivarono ad una scala dove c’era un nastro divisorio ed un gorilla al cui confronto Calogiuri sembrava rachitico.

 

Si chiese, non per la prima volta, perché si fosse lasciata convincere e cosa ci facesse lì, con gente che aveva la metà - se non pure un terzo - dei suoi anni.

 

Calogiuri mostrò al buttafuori un foglio che aveva preso in cassa - aveva pagato anticipatamente, per fregarla, ormai ci riusciva sempre più spesso! - e l’uomo li squadrò per un attimo ma poi li fece passare.

 

“Ma che sei matto?! Hai preso il privè? Chissà quanto costa!”

 

“Non è quello vip, tranquilla, dottoressa!” gridò, precedendola sulle scale, finché arrivarono in cima e le fece spazio urlando, “e poi non potevo non portarti qui!”

 

Imma si guardò intorno ed un “Calogiù!” le uscì spontaneo, a volume altissimo e non per la musica.

 

In quella specie di balconata, infatti, oltre ad esserci decisamente meno folla, un volume di musica più tranquillo, e non essere a rischio soffocamento, c’erano sgabelli, bar, divani, tutto quanto zebrato.

 

E lei aveva proprio messo il vestito nero e zebrato da ballo quella sera, manco a farlo apposta.

 

“Ma la musica qua è diversa, non solo per il volume!” notò, e poi, guardandosi in giro, vide che pure l’età media era un poco meno da denuncia, anche se lei era sempre decisamente over, “e ci sono meno ragazzetti o sbaglio?”

 

“No, dottoressa. Qui si fa musica deep ed è solo per maggiori di venticinque anni.”

 

“E che c’avrebbe di profondo sto fracasso?” chiese, sconvolta, e Calogiuri scosse il capo e si mise a ridere.

 

“Non è che sia un grande esperto di musica da discoteca, dottoressa, ma dovrebbe essere più rilassante.”

 

“E certo, per gli anziani sopra i venticinque! Per me dovrebbero passare direttamente al requiem.”

 

Calogiuri scosse di nuovo il capo ma la accompagnò ad uno dei tavolini più minuscoli, con un bigliettino con su scritto Calojuri che le provocò una mezza risata.

 

“Quanto ti è costata sta follia, Calojuri?”

 

“Poco, dottoressa, decisamente poco rispetto a quanto a te è costata questa vacanza!”

 

Ed Imma si rassegnò, mimetizzandosi sopra lo sgabello, mentre Calogiuri faceva segno ad un cameriere che arrivò chiedendo cosa volessero di consumazione.


“Tranquilla, è compresa nel prezzo!” la rassicurò, conoscendola fin troppo bene, ed Imma assentì, iniziando a sfogliare una lista di cocktail dai nomi improbabili, ripromettendosi, visti i prezzi, che non avrebbero fatto il bis.

 

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“Che c’è, Calogiuri?”

 

Non riusciva a trattenere un sorriso ma era da un’ora che ballavano ed Imma, dopo un momento iniziale di spaesamento, ci aveva evidentemente preso gusto e si muoveva in un modo che lo avrebbe mandato ai matti.

 

“Ridi di come ballo, Calojuri?” lo sfotté e lui approfittò del momento per coglierla di sorpresa e farle fare un mezzo casquet, strappandole un grido di sorpresa.

 

“Mi chiamerai Calojuri per tutta la sera, dottoressa?”

 

“Come minimo! E comunque mica stiamo ballando il tango. Va bene che sta musica è profonda, ma che c’entra il casquet?”

 

“Non mi pare che ci siamo mai preoccupati delle regole, almeno quando balliamo.”

 

“Va beh… diciamo che ne abbiamo infrante un po’ pure fuori dal ballo, no?” rispose, con un sorriso tra il compiaciuto e l’imbarazzato che gli faceva venire voglia di tornarsene subito in hotel.

 

Ma la notte era ancora giovane, Imma aveva un’energia che superava decisamente la sua e vederla così spensierata era la cosa più bella di quella vacanza.

 

“E te ne sei pentita, dottoressa?”

 

“Fossi matta!” replicò e si sentì trascinare in un bacio che era decisamente profondo, altro che la musica!

 

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“Ci vuole un poco di pausa, mo!”

 

La vide quasi accasciarsi sulla poltroncina, zebrato su zebrato, e poi guardare fuori dal grande finestrone di vetro.


“Certo che qua c’è una vista bellissima pure in mezzo a questo casino!”


“Allora l’ho scelta bene o no, la discoteca?”

 

“Fin troppo, che a vedere quanto costano le consumazioni-”

 

“A proposito, dottoressa, che ne dici di berci qualcos’altro? E non dirmi con quello che costa, Calogiuri, perché-”

 

“Prima vado in bagno, Calojuri, poi vediamo. Ce n’è uno su questo piano, no?”

 

“Vuoi che ti accompagno alla porta?”

 

“Sicuramente con tutte le giovani manco trentenni che sembrano uscite da una rivista da cui siamo circondati, sarò proprio a rischio io, guarda! E poi mi vedi pure da qua. Vado e torno.”

 

Sospirò, perché non voleva essere pesante, ma si preoccupava sempre un po' nei locali notturni. La vide allontanarsi, camminando su quelle zeppe altissime come se fossero ciabatte, ed entrare in bagno.

 

Stava per approfittare della sua assenza per andare ad ordinare altri due cocktail, quando un rumore alle sue spalle, più forte della musica, lo portò a voltarsi.

 

“¡Suéltame!”

 

A gridare era stata una delle cubiste della discoteca, poco distante dalle scale che portavano presumibilmente al privè vip. Un uomo sulla trentina abbondante la stava tenendo per un braccio ed insieme a lui c’erano altri due uomini che l'avevano circondata.

 

D’istinto si alzò e si avvicinò, intimandogli un, “suéltala!” ma l’uomo lo ignorò, finché non gli si avvicinò ancora di più e gli gridò quasi in faccia, “déjala ir!”

 

“¿Cómo te atreves? No sabes quien soy yo? ¡Chicos!”

 

E gli altri due uomini, con solo quel cenno, gli andarono praticamente addosso e tentarono di afferrarlo per le braccia, probabilmente per trascinarlo dove non c’erano testimoni e poi dargli una lezione.

 

Riuscì a scansarli per un soffio e notò che il buttafuori del locale se ne stava impalato sulle scale senza dire né fare niente, con l’aria di chi voleva trovarsi ovunque tranne che lì.

 

Sperando di non peggiorare la situazione, infilò la mano nella tasca dei pantaloni e vide che gli energumeni si ritrassero un attimo, ma poi spostarono pure loro le mani verso la zona posteriore dei pantaloni.

 

“¡Deténgase!” urlò, estraendo il distintivo. Sapeva che in Spagna non aveva alcun valore legale, ma sperava bastasse a farli desistere.

 

I due uomini però si bloccarono lo stesso e lanciarono un’occhiata a quello che presumibilmente era il loro capo. Il boss fece un cenno quasi impercettibile con la testa e mollò la ragazza in un modo così brusco che la poveretta sbandò all’indietro e non si sfracellò contro le scale solo perché il buttafuori la prese al volo.

 

“¡Vàmonos! ¡Que no vale la pena!

 

Ed i tre, come se fosse la cosa più normale del mondo, scesero le scale dall’altra parte della balconata, dalle quali sbucò l’altro buttafuori, che fece un segno al collega e poi tornò al suo posto, come se non fosse successo niente.

 

E pure il gorilla per la zona vip, una volta lasciata la ragazza, gli lanciò un’occhiata che pareva un non ti azzardare a fare altri casini! e rimase impassibile.

 

“¿Todo bien? ¿Cómo estás?” le domandò, preoccupato, visto che la cubista tremava un poco e, dato il caldo, certamente non perché era più svestita che vestita.

 

“Sei un carabiniere?” lo sorprese, in un italiano non solo perfetto ma dall’accento familiare, nonostante l’aspetto esotico, conferitole dall’abbronzatura, dal trucco e dai capelli lunghissimi, neri e lisci.

 

“Sei italiana?”

 

“Sò de Roma, sì, cioè di Grottaferrata. Tu? Napoletano?”

 

“No, di Avellino.”

 

“Grazie… anche se… ti conviene stare attento quando esci. Che quelli… sò pericolosi!”

 

“Ma chi sono quelli?” le chiese, sempre più preoccupato.

 

“Uno che c’ha i soldi e… e va beh… col mestiere che fai, ci capiamo come li ha fatti i soldi, no?”

 

“Ma allora pure tu sei in pericolo! Dovresti andare dalla polizia e-”

 

“E denunciarlo? E per cosa?! Per avermi presa per un braccio? Quello è potente e qui nessuno farà niente… per una come me poi! Sai in quanti pensano che noi… non dobbiamo ballare e basta?”


“Ma… ma e se tornasse pure domani sera? Come pensi di fare?”

 

“Eh… o me ne vado ad Ibiza a finire la stagione, che tanto questo locale mi sa che me lo sò bruciato, o me ne torno in Italia: ormai è agosto. Peccato però, qua mi piaceva,” sospirò la ragazza, toccandosi leggermente il braccio.


“Ti fa male?”

 

“Ma no, è solo un livido!”

 

“Dovresti metterci un po’ di ghiaccio. Possiamo chiedere al bar,” propose, guadagnandosi un’occhiata un po’ stupita.

 

Andò verso il bar e chiese, “hielo para el moretón, por favor!”

 

Il barista, pure lui con l’aria di chi avrebbe preferito essere da un’altra parte, gli diede un po’ di cubetti dentro a dei tovaglioli di carta.

 

Gli passò il fagotto e la ragazza se lo mise sul braccio. Poi lo guardò di nuovo in quel modo strano, come se fosse un alieno, e rise.


“Che c’è?”

 

“C’è che sei forse il primo qua dentro che mi guarda solo negli occhi e non… da n’altra parte…” rispose con un sorriso e Calogiuri si sentì avvampare, “comunque… io sò Melania, anche se tutti qua mi chiamano Melita.”

 

“I- Ippazio,” rispose lui, un po’ imbarazzato e la ragazza strabuzzò gli occhi.

 

“Come scusa? Mi sa che con la musica non ho capito!”

 

“Ippazio,” ripeté lui, avvicinandosi leggermente per urlarglielo all’orecchio, e Melita ebbe la reazione che avevano tutti: scoppiò a ridere.

 

“Mai sentito sto nome!” rise, dandogli poi una pacca sul braccio, sopra al bancone.

 

“Calogiuri!”

 

L’urlo fu talmente forte che lo avrebbe sentito pure nel casino della sala principale. Si voltò e ritrovò Imma con un’espressione omicida, i pugni serrati, le braccia che un poco le tremavano.

 

“Imma! Non è-”

 

“Me ne vado in bagno cinque minuti e così ti trovo?!” gridò e percepì chiaramente la delusione nel tono di voce.


“Ma mi hai preso per scemo?! Se volessi…” fece segno verso la ragazza, perché non poteva nemmeno usarla la parola tradirti, “secondo te lo farei con te a due passi?”

 

“A me sembrava che ti fossi scordato di tutto, Calojuri!” sibilò, stavolta sprezzante, “cos’è? Dovevi fare pratica con la lingua?”

 

“Imma…” sospirò, cominciando ad innervosirsi, “sto solo facendo il mio lavoro!”

 

“Il tuo lavoro? Questo sarebbe il tuo lavoro?!” gli chiese, con le braccia conserte, “perché io me lo ricordavo un poco diverso  e non mi pare che tu stia nell’interpol!”

 

“Sì, perché è stata aggredita. E non certo da me!” gridò, stufo del sarcasmo, ed Imma si zittì bruscamente.

 

“Come aggredita?!” chiese, il viso che si faceva preoccupato, rivolgendosi subito alla ragazza, “ma che è ghiaccio, quello? Ti sei fatta male?! Che è successo?”

 

Calogiuri, con un sospiro di sollievo, l’irritazione che evaporava di fronte al grande cuore di Imma, iniziò a spiegare la situazione.

 

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“Melita, que pasa? Tienes que bailar conmigo y Manola!” domandò una specie di palestrato moro - vestito solo con delle mutande bianche e con delle ali da angelo attaccate alle spalle, i muscoli tutti oleati - avvicinandosi fin troppo a Imma e chiedendo, “¿quienes son estos?”

 

“Devo tornare al lavoro e-”

 

“Ma c’hai qualcuno che ti accompagna quando finisci?” intervenne Imma, con aria professionale.

 

“No, ma-”

 

“A che ora stacchi?”

 

“Alle cinque, ma-”

 

“E allora ti accompagnamo noi. Tanto rimaniamo qua fino alla chiusura,” proclamò Imma, in quello che era un ordine, “non fare scherzi che non ti voglio sulla coscienza! E mi dispiace per prima, ma-”

 

“Non ti preoccupare: pure io se c’avessi un fidanzato così… nun lo mollerei n’attimo!” scherzò Melita, raggiungendo l’angelo culturista ed allontanandosi con lui verso il privè.

 

Sentì una mano sul braccio e poi Imma pronunciò una parola che forse non si sarebbe mai abituato del tutto a sentire da lei: “scusami.”

 

“Va beh, dottoressa… diciamo che pure io se ti avessi visto con… con uno come quello… non sarei stato contento.”


“Ma chi? Il tacchino unto?” esclamò lei e Calogiuri non potè contenere un’altra risata, “preferisco decisamente… il manzo italiano. E poi… se ti azzardi a mettere su un costume del genere ti denuncio per oltraggio al pudore! Che pareva na mutanda pareva!”

 

“Imma…” sospirò, stringendosela più forte che poteva, “come devo fare con te?”

 

“Dici che ci sarà qualcosa con la caffeina? Che se dobbiamo tirare fino alla chiusura.... Ma offro io!”

 

“Agli ordini, dottoressa!”

 

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Aveva gli occhi chiusi e si godeva quell’abbraccio, lasciandosi andare addosso a lui, mentre ondeggiavano al ritmo di un lento.

 

E poi, bruscamente, la musica si spense e le luci si accesero tutte.

 

Aprì gli occhi, confusa, e Calogiuri le sorrise, “mi sa che abbiamo fatto chiusura, dottoressa. Allora, com’è stata questa serata?”

 

“Preferisco i balli latini, Calogiù. Ma… non è stata male, per essere la prima volta che ci metto piede in una discoteca come cliente. Anche se sono parecchio fuori età.”

 

“Davvero non…?” le chiese con sguardo stupito ed Imma scosse il capo: con Pietro non ci erano mai stati, anche perché erano già tutto sommato abbastanza grandicelli quando avevano iniziato ad uscire insieme.

 

“Estamos cerrando. Tienes que salir.”

 

Il buttafuori non aveva perso tempo nel fare loro capire che se ne dovevano andare. Si guardarono per un attimo, perché Imma non era convinta che fosse una buona idea aspettare Melita all’aperto, quando la ragazza, sempre vestita con le nappe da tenda ed il filo interdentale, comparve da dietro l’armadio a tre ante della sicurezza.

 

“Venite con me. Mi cambio e andiamo.”

 

La seguirono, giù dalle scale, e poi in un corridoio che evidentemente dava sui camerini, a giudicare da quante ragazze e ragazzi mezzi nudi correvano verso le varie stanze.

 

Anche Melita si infilò in una delle porte ed Imma spiò di sottecchi Calogiuri: si chiedeva se fosse un santo o se l’avesse proprio terrorizzato, perché le ragazze che passavano manco le guardava, restando con gli occhi bassi. Anche se la visione periferica ce l’aveva più che buona, dai tempi di Metaponto.

 

Lo vide estrarre il telefono e parlare in spagnolo, ma non ci capì molto.

 

Dopo qualche minuto, la porta si aprì e ne uscì Melita, in shorts e maglietta.

 

“Ci conviene prendere il pulmino,” disse Calogiuri e sia lei che la ragazza lo guardarono stupite, “non vi preoccupate, ho un piano.”

 

Per fortuna, la maggior parte della gente si era già avviata o a piedi o su altri bus e riuscirono a salire al primo tentativo.

 

Dopo tre fermate però, Calogiuri fece segno di scendere.

 

“Ma io non abito qua-” disse la ragazza, sorpresa, ma Calogiuri scosse il capo e scese. Un poco dubbiosa, lo seguì e la ragazza pure.

 

E poi, quando vide un taxi fermo poco distante, capì.

 

Ci salirono tutti e tre, stretti dietro, e la ragazza diede un indirizzo al tassista.

 

I minuti trascorsero in un silenzio un po’ imbarazzato, finché la vettura si fermò in un quartiere decisamente diverso da quelli per i turisti.

 

“Grazie…” mormorò Melita, sembrando quasi intimidita e dimostrando finalmente gli anni che doveva avere, poco più di venti sicuramente.

 

“Mi raccomando, se riesci a… a trovare altro… non rischiare!”

 

“State attenti pure voi, che quello c’ha tanti uomini qui sull’isola!”

 

Imma fu improvvisamente molto felice all’idea che a breve se ne sarebbero andati a Minorca.

 

Melita stava per scendere quando, presa da un impulso, le disse “aspetta!”, aprì la pochette zebrata, ma si rese conto di essersi portata solo i soldi ed i documenti essenziali.

 

“Calogiuri, c’hai un biglietto da visita?”

 

Calogiuri frugò nel portafogli e ne estrasse uno, che pareva essere lì da un bel po’, per quanto era spiegazzato.

 

“Se avessi bisogno di aiuto…” spiegò Imma e Calogiuri le porse il cartoncino.

 

La ragazza li guardò entrambi, un po’ sorpresa, poi sorrise, li ringraziò ancora e scese dall’auto.

 

Aspettarono che fosse rientrata e diedero al tassista un indirizzo vicino al loro hotel ma non quello preciso.

 

Paranoie da PM.

 

Si sentì abbracciare la vita ed incrociò gli occhi di Calogiuri, che scintillavano commossi, ma sul viso aveva anche un’aria soddisfatta.

 

“Che c’è?”

 

“C’è che… sono felice, dottoressa,” rispose semplicemente, stringendola più forte.

 

“Lo sai che mi fido di te, no? Anche se… magari all’inizio mi parte un po’ la capa.”

 

“A me piace quando ti parte la capa. Ma a piccole dosi.”

 

“Avvertimento recepito, maresciallo!” ironizzò, dandogli un bacio sulla guancia e rifugiandosi di più in quella stretta che la faceva sentire a casa pure alle Baleari.

 

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“Mmmm… ci voleva proprio!”

 

Imma galleggiava nella vasca idromassaggio accanto a lui, un’aria rilassata sul volto, solo che lui…

 

“Qualcosa che non va?” gli chiese all’improvviso, tornando seduta e smettendo di galleggiare.

 

Ormai percepiva i suoi stati d’animo solo dal silenzio.

 

“C’è che… se fai certi… mugolii… come faccio rilassarmi, dottoressa?”


“E dai, Calojuri!” lo prese in giro, con quello che ormai era il soprannome di quella vacanza, prima di attaccarglisi ad un braccio, “e poi non dirmi che sei geloso pure di un idromassaggio.”

 

“No, perché stasera... altro che idromassaggio, dottoressa…”

 

“Ci conto, maresciallo!” gli soffiò sulle labbra e sentì un bacio che sapeva leggermente di cloro.

 

“Che ne dici se proviamo le piscine calde e fredde, dottoressa?”

 

“Va bene, Calogiuri! Ma prima… mi sa che conviene che passiamo da quelle fredde, che ne hai bisogno!”

 

“Imma!” esclamò, afferrandola per la vita e facendole il solletico, almeno fino a quando un paio di occhiatacce di uno dello staff gli fecero capire che stava turbando la quiete assoluta che si respirava lì dentro.

 

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Aprì l’armadietto per recuperare portafoglio e cellulare. Stava per metterli in tasca, ma notò una notifica dall’app di messaggistica istantanea.

 

Grazie ancora per ieri. Ho lasciato il lavoro e tra qualche giorno parto per Ibiza. Ho provato a mandarti una richiesta di amicizia sui social ma ce le hai intasate. Se ti va, così se ho bisogno non ti disturbo al cellulare. Buona vacanza! Melita

 

Calogiuri andò a verificare ed effettivamente tra le ultime richieste di amicizia arrivategli, in mezzo a tutte quelle di sconosciuti, c’era proprio quella di una certa Melita Italianita.

 

Ovviamente un nome d’arte.

 

Stava decidendo il da farsi quando un, “tutto bene, Calogiù?” per poco non gli fece cascare il telefono di mano.

 

Imma si era cambiata ed aveva raccolto i capelli ancora un po’ umidi.

 

“S- sì, sì.”

 

“Pare che hai visto un fantasma, Calogiù!”

 

“No, è che… mi ha scritto Melita per ringraziarmi e mi ha chiesto l’amicizia - sui social - per non disturbarmi con telefonate, dice. A quanto pare ha lasciato il lavoro ed andrà ad Ibiza,” spiegò, tutto d’un fiato, ed Imma scosse il capo e sorrise.

 

“Tranquillo, Calogiuri. In fondo ho detto io di lasciarle il numero, no? Però… se dovesse… allargarsi oltre l’amicizia in un altro genere di richieste….“

 

“Messaggio recepito, dottoressa!” esclamò, sollevato, dandole un rapido bacio.

 

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“Valentì!”

 

“Mà! Ti fai sempre riconoscere! Pure se sei conciata meno peggio del solito!”

 

Imma scosse il capo ma se l’abbracciò, incurante delle proteste, anche se le toccò lasciarla rapidamente andare.

 

In effetti era vestita con i pantaloni da equitazione ed una maglia bianca. Ma sapeva per esperienza che, quando si andava a cavallo, era meglio indossare cose facili da lavare.

 

“Ti trovo bene! E pure tu Penelope! Pure se qua di noi non se ne abbronza uno!”

 

“Siamo senza melanina, dottoressa,” rispose la ragazza con un sorriso.

 

“Ma che dottoressa, dai che stiamo in vacanza! Chiamami pure Imma. E allora, come sono andati questi giorni?”

 

“Benissimo, mà! Abbiamo visto un sacco di posti fighissimi. Abbiamo noleggiato le bici e poi ci siamo accampate con la tenda. Se vuoi ti mando un messaggio coi luoghi che ci sono piaciuti di più.”

 

“Va bene. Anche se io e Calogiuri gireremo soprattutto a cavallo. Anzi, siete pronte per oggi?”

 

“Sperando di non spaccarci qualcosa,” sospirò Valentina, anche se non sembrava poi così dispiaciuta.

 

Le ragazze avevano il traghetto per Maiorca quella sera e Valentina aveva accettato di passare qualche ora insieme a Minorca, andando a cavallo.

 

“Hola! ¿Cómo estás?”

 

Il proprietario del maneggio li raggiunse e diede loro la mano, “¡Jordi Ruiz, encantado! ¡Bruno me ha hablado mucho de vosotros!”

 

Bruno li aveva raccomandati ad un amico con cui aveva fatto pure delle gare e, grazie a lui, erano riusciti a noleggiare i cavalli per alcuni giorni ad un ottimo prezzo, mentre normalmente avrebbero potuto fare solo escursioni di poche ore. Volevano fare con calma il giro dell’isola, sul Camì de Cavalls, facendo tappa ai vari maneggi e punti di ristoro.

 

Le ragazze andarono a mollare gli zaini grandi e a cambiarsi, mentre Jordi li portava a vedere i due cavalli di razza minorchina che li avrebbero accompagnati in quei giorni e che avrebbero usato quel pomeriggio.

 

“Pistacho y Enigma!”

 

Imma sorrise, già solo per il nome della cavalla a lei destinata: cominciavano bene!

 

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“Essendo due per cavallo dovete reggervi così,” mostrò loro, salendo alle spalle di Calogiuri, per poi ridiscendere.


Valentina e Penelope parevano ancora un poco intimorite.

 

“Va beh… io vado con lui che tanto… con me non c’è pericolo!” si schernì Penelope, cercando di imitarla, mentre Calogiuri le diede una mano.

 

“Dai, Valentì, sali che partiamo!”

 

“Mà, non è che caschiamo tutte e due, vero?”

 

“Se ti reggi bene no,” la rassicurò, anche se stava pensando un se somigli a tuo padre siamo freschi!

 

Ma non poteva dirlo, anche perché quella era stata una giornata decisamente da cancellare dalla memoria collettiva.

 

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“Allora?”

 

“Allora puzzeremo da far schifo, ma che figata!” la sentì esclamare alle sue spalle, mentre per una volta era costretta ad abbracciarla alla vita.

 

La spiaggia su cui stavano facendo l’escursione era davvero stupenda e soprattutto tranquilla, perché riservata ai cavalli.

 

Avevano incontrato pochi altri fantini ma, essendo loro in due e con delle principianti, andavano al passo ed erano stati superati da tutti.

 

Lanciò un’occhiata a Calogiuri che, insieme a Penelope, procedeva al suo fianco e poi chiese, “vi andrebbe di fare un pezzetto al trotto?”

 

Le ragazze, che da terrorizzate erano passate ad entusiaste, annuirono e, dopo un altro cenno di intesa, Imma e Calogiuri lanciarono i cavalli un poco più in velocità.

 

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“Ci facciamo il bagno?”

 

La proposta era partita da Penelope, Valentina che subito aveva acconsentito entusiasta.

 

“Ma non c’ho il costume sotto!” aveva provato a protestare, ma sua figlia aveva sfoderato inattese doti da avvocato - anche se temeva da chi potesse averle prese - protestando che tanto erano solo tra loro e Calogiuri sicuramente l’aveva già vista altro che in intimo! e che tanto si sarebbe asciugata subito con quel caldo!

 

E così, mentre Calogiuri si era offerto di tenere i cavalli e dare loro da bere, Imma si era lasciata convincere - per una volta che Valentina era felice di qualcosa che includesse pure lei - si era tolta i vestiti, ed era rimasta con l’intimo leopardato.

 

Penelope l’aveva guardata come se non credesse ai suoi occhi, mentre Calogiuri sembrava sull’orlo di scoppiare a ridere.

 

Le ragazze - che invece erano state più previdenti sul costume - l’avevano praticamente trascinata nell’acqua fredda e poi avevano iniziato con una battaglia di schizzi da fare impallidire quelle tra lei e Calogiuri.

 

“All’attacco!” aveva poi urlato Valentina, praticamente buttandola sott’acqua. Penelope le guardava divertita ma pareva un poco timorosa all’idea di avvicinarsi a lei.

 

Ma poi Valentina si buttò pure addosso a Penelope ed Imma si unì a lei, fino a quando la ragazza emerse dalle acque, le trecce azzurre tra i capelli biondi che la facevano sembrare quasi una sirena.

 

E poi Imma notò i tatuaggi che aveva sulla schiena. Uno, che le percorreva le scapole, era un disegno che riconosceva da una maglietta che aveva pure Valentina: due ragazze una di spalle all’altra, ritratte fino al seno, i capelli dell’una che si confondevano con quelli dell’altra.

 

“Eh, ho un po’ di tatuaggi!” disse Penelope, avendo notato il suo sguardo.

 

“Pensa che li ha disegnati tutti lei e-”

 

“E me li ha fatti una tatuatrice professionista, ovviamente. Io ho fatto giusto il bozzetto, Vale.”

 

“Non sarebbe figo se mi facessi pure io un tatuaggio, mamma?!” saltò su Valentina, quasi dal nulla, e ad Imma prese un colpo.

 

Stava per reindossare i panni da PM, come le rinfacciava Valentina da adolescente, quando sua figlia si mise a ridere.

 

“Valentì!” gridò, aggrappandolesi alle spalle per farla finire in acqua, ringraziando chiunque ci fosse in ascolto di quanto si fosse trasformato in meglio il loro rapporto negli ultimi anni.

 

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“A che punto sei, Calogiù?”

 

“Ho finito, dottoressa,” rispose, uscendo dalla tenda, brandendo la pompa con la quale aveva gonfiato il materassino.

 

Imma infilò la testa in quello spazio angusto - anche se meno della controparte da spiaggia - e guardò un poco preoccupata il materassino ed il sacco a pelo leggero matrimoniale.

 

“Se… se è troppo scomoda per te, domani siamo in agriturismo e poi… posso cercare in hotel se hanno posto.”

 

“Non lo so, Calogiuri. In tenda non ci sono mai stata nemmeno da ragazzina ed è una di quelle cose che sto recuperando fuori tempo massimo. Ma purtroppo non con la schiena dei vent’anni.”

 

“Ma se sei in formissima! Oggi a cavallo te la sei cavata meglio di me!”

 

“Non so se sei più accecato dall’amore o più bugiardo, Calogiuri, anche se è una bugia a fin di bene!”

 

“Con te non mento mai, dottoressa, non più,” proclamò serio, guardandola negli occhi, prendendole la mano e mettendosela sul cuore.

 

“Disonesto mai, lo giuro?” gli chiese, citando la famosa canzone di Celentano, e lui le fece un sorriso tenerissimo ed annuì.

 

Anche se a fatica, Imma si decise a staccarsi e, prendendo un respiro, si infilò nella tenda, stendendosi sul materassino.

 

“Com’è?” gli chiese lui, un po’ preoccupato, ma Imma dovette ammettere che era molto più comodo di quanto pensasse.

 

“Non male, Calogiuri, ma il verdetto lo avremo domattina, temo.”

 

E poi lui annuì e si levò maglietta e pantaloni, rimanendo in boxer ed infilandosi nel sacco a pelo.

 

Imma lo imitò ma, sollevato il lembo del sacco a pelo, scivolò di proposito sopra di lui.

 

“Che fai?”

 

“Siamo in vacanza da pochi giorni e già mi perdi colpi sulla tua capacità deduttiva, maresciallo?” lo sfottè, prima di scivolare sempre più in basso, sussurrandogli, “e comunque recupero un’altra tappa persa, Calogiuri, fino a che c’ho ancora le forze.”

 

“Me le leverai a me le forze, dotto-” provò a ribattere ma la frase gli morì in gola.

 

Imma ormai sapeva benissimo come farlo tornare di poche parole.

 

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“Perché ridi?”

 

“No, ripensavo a tua madre oggi. Mi ha stupita, non la facevo così… avventurosa. Sembra molto più giovane della sua età. E pure l’intimo leopardato…!”

 

“Ma non è che ti piace mia madre?” le chiese, sentendo un misto di preoccupazione e di qualcos’altro che non avrebbe saputo definire.


“Ma che sei scema?!” esclamò Penelope, sollevandosi dal suo sacco a pelo e fulminandola con lo sguardo, “guarda che non è che perché sono lesbica mi devono piacere tutte.”

 

“No, ma… visto che mia madre inspiegabilmente ha successo tra i giovani…”

 

“Beh, devo ammettere che è una bella donna ed ha un bel fisico, ma non è il mio tipo,” rise, scuotendo il capo, “anche se è molto diversa da come me la descrivevi una volta e da come la descrivono i giornali.”

 

“Ma perché non era così, anzi, pareva di avere un gendarme in casa! Ma… da quando sta con Calogiuri… non so… si è molto addolcita e fa cose che non avrei mai nemmeno immaginato di vederla fare. Tipo oggi.”

 

“Va beh… allora tutti i mali non sono venuti per nuocere, no? E comunque lei ed il maresciallo sono una bella coppia.”

 

Valentina sorrise ma poi si sentì assalire da un’ondata di malinconia.

 

“Che hai, Vale? Sei ancora preoccupata per tuo padre?”

 

“No, è che… mi chiedo se troverò mai anche io qualcuno che mi ami così. E magari prima dei quarant’anni, possibilmente.”

 

“Ti dovresti solo guardare intorno, Vale…”

 

“In che senso?” le chiese, il cuore che le batteva stranamente un poco più forte, ma Penelope si ridistese nel sacco a pelo, sembrando fissare il soffitto della tenda.

 

“Nel senso che, se continui a pensare al tuo fallimento con Samuel, rischi di perderti un sacco di occasioni.”

 

“Mah… io tutte queste occasioni non le ho proprio viste. E tu?” le chiese, prendendo coraggio.


“E io cosa? Se vedo occasioni?”


“In un certo senso. Ti piace qualcuna?”

 

Penelope si zittì per un attimo, tanto che Valentina temette di avere fatto una domanda di troppo, ma poi sospirò, “forse… forse mi piace un poco una. Ma… ma tanto è inutile.”

 

“Perché?”

 

“Perché è etero, quindi non ho speranza ed è inutile pensarci,” spiegò, continuando a guardare in alto.

 

“Come… come hai capito che ti piacciono le ragazze?” le chiese d’improvviso, dandosi della deficiente mentre le parole le uscivano dalla bocca.

 

“Ma che domanda è? E tu come hai capito che ti piacciono i ragazzi? Lo so da sempre, un po’ come la mia passione per l’arte.”

 

“Per me non è così, io… io non ho queste passioni come… come le hai tu, come le ha perfino mia madre. L’università non mi dispiace ma… non ho mai trovato qualcosa che mi appassioni così tanto, se non forse la cucina i primi tempi.”

 

“Vale… non hai manco vent’anni! Troverai qualcosa che ti appassiona, basta che la smetti di accontentarti e che ti guardi intorno in tutti i sensi!” esclamò Penelope, voltandosi verso di lei, “e nel frattempo magari rifletti e stai un po’ da sola, che non c’è niente di male.”

 

“Sono già fin troppo sola. Quando… quando questa vacanza finirà, tornerò nel monolocale che ho ereditato dal maresciallo e forse vedrò le mie compagne di università agli esami. Ma con loro non… non ho il rapporto che ho con te. E mi mancherai!”

 

Penelope le sorrise ed allungò una mano fino a stringere la sua, “pure tu mi mancherai. Possiamo vederci un po’ più spesso nei finesettimana. Ma devi trovarti le tue amicizie a Roma. Magari cerca un appartamento con altre ragazze, no? O esci più spesso con le tue compagne di corso. Almeno conosci gente e qualcuno lo troverai, vedrai.”

 

Valentina annuì e le lasciò andare la mano, girandosi poi dall’altra parte per provare a dormire.


Ma la verità era che si sentiva molto triste, anche se non sapeva nemmeno lei il perché.

 

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Si svegliò di botto, il cuore in gola, confusa ma con un senso di pericolo imminente.

 

“I- Imma?” sentì bofonchiare al suo fianco, anche se non vedeva praticamente niente, ma si rese conto di essere nella tenda buia.

 

E poi li udì: i cavalli nitrivano disperatamente.

 

Una luce improvvisa la accecò e si rese conto che Calogiuri aveva acceso la torcia e si stava rapidamente rivestendo.

 

Le fece cenno di stare ferma, mentre lui sarebbe uscito dalla tenda.

 

Lei rispose scuotendo la mano davanti alla fronte, come a dire manco morta!, lo bloccò prima che potesse uscire e si infilò canotta e pantaloncini.

 

Una nuova occhiata di Calogiuri la implorò di restare nella tenda ma lei scosse di nuovo il capo, decisa.

 

E poi lui sospirò ed uscì senza ulteriori proteste. Imma si acquattò dietro di lui e lo vide proiettare la luce della torcia su tutta la zona circostante, ma l’unica cosa che si poteva scorgere erano i manti neri e lucidi dei cavalli, che parevano ancora imbizzarriti, e che, per fortuna, erano rimasti legati alla staccionata vicino alla tenda.

 

Calogiuri ispezionò ancora i dintorni ma sembrò non esserci nulla. Poi accese la lanterna da campeggio più grande, che aveva lasciato fuori dalla tenda, spense la torcia e si avvicinò con molta calma ai cavalli, parlando loro con dolcezza.

 

Rimase per un attimo incantata a vederlo all’opera, anche se soprattutto Enigma sembrava ancora molto agitata, pur lasciandosi toccare il collo.

 

“Mi porteresti un po’ d’acqua ed un poco del loro cibo?” le chiese ed Imma annuì, divertita dall’ordine, frugando in uno degli zaini e passandogli quanto aveva chiesto.

 

In poco tempo, i cavalli si erano calmati del tutto ed Enigma si coccolava Calogiuri appoggiandogli il collo su una spalla.

 

E come non capirla!

 

“Non pensavo di essere fidanzata con l’uomo che sussurrava ai cavalli!” ironizzò, anche se, passata la paura, un poco si stava quasi commuovendo.

 

“Fidanzata?” le chiese però Calogiuri, gli occhi che brillavano nell’oscurità come l’arma impropria che erano.

 

“E come mi devo definire, Calogiuri? Accompagnata?”

 

“Fidanzata va benissimo,” le sussurrò e si trovò stretta in un abbraccio che, senza tacchi, la sollevò dalla sabbia.

 

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“Che… che cosa sono queste?”

 

Alzò lo sguardo da dove stava preparando la colazione - pane con burro d’arachidi e caffè solubile sciolto nel latte freddo - e vide che Imma indicava un punto nella sabbia poco dietro ai cavalli.

 

Mollò la colazione sul tavolino gonfiabile e si avvicinò a lei, facendo attenzione a non disturbare gli animali che stavano facendo pure loro un poco di colazione, in attesa di rifocillarli meglio al maneggio successivo.

 

Guardò a terra e vide, accanto ai segni lasciati dagli zoccoli, alcune impronte di scarpe da uomo, di quelle col carrarmato, forse scarponcini.

 

“Imma…” sussurrò, incrociando lo sguardo di lei che era molto preoccupato, “magari… magari c’erano già e-”

 

“Così nette? Sulla sabbia, Calogiuri? Lo sai anche tu che di notte con l’umidità le impronte rimangono, ma di giorno... va bene che è una spiaggia isolata, ma con sto vento-”

 

“Faccio delle foto e provo a capire che numero potrebbe essere, va bene? E stasera abbiamo l’agriturismo e poi a questo punto cerchiamo di andare nei campeggi sorvegliati. Mi dispiace, io-”

 

“Non ti preoccupare, Calogiuri. Ma è meglio essere prudenti.”

 

Sentendosi terribilmente in ansia, nonostante cercasse di farsi forza per lei, recuperò il cellulare ed iniziò a documentare il più possibile le tracce vicino alla tenda.

 

Sperando che quelle immagini non sarebbero mai servite in un’indagine.

 

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“Sembra di stare su Marte!”

 

Il sorriso di lei, sotto al cappello che la riparava dal sole, era smagliante. Aveva quasi temuto di non vederla più così spensierata: tutto il giorno prima e pure durante quella giornata era rimasta preoccupata per quelle impronte vicino alla tenda e quell’incidente notturno.

 

Ma, dopo due giorni tranquilli, e forse di fronte alla bellezza della spiaggia rossa, sembrava di nuovo serena come raramente l’aveva mai vista a Roma e Matera. Del resto, d’accordo che avevano dormito in agriturismo ma, se qualcuno li avesse seguiti in mezzo a quel nulla, se ne sarebbero già dovuti accorgere.

 

E poi la vide saltare giù da cavallo, con un “voglio provare a camminarci, Calogiù!”

 

Smontò pure lui di sella, proseguendo a piedi insieme a lei, i cavalli che si lasciavano dolcemente condurre per le redini.

 

“Così le tue scarpe avranno un colore in più, che già non ne avevano abbastanza!” scherzò, per sdrammatizzare, ed Imma gli diede un colpetto al braccio.

 

Enigma, per tutta risposta, fece una specie di grugnito e le soffiò sul collo.

 

“Tranquilla che non te lo sciupo. Pure la cavalla c’ho come rivale mo!”

 

“Almeno lei ci tiene alla mia incolumità fisica, dottoressa. Tu, considerate le ultime notti, un po’ meno.”

 

“Scemo!” esclamò, e la vide trattenersi dal dargli un altro colpetto, “e comunque, se ti pesa così tanto, posso tutelare la tua incolumità almeno fino al ritorno a Maiorca.”

 

Si sporse e le diede un bacio sulla guancia: non cambiava proprio mai.

 

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“E dopo Marte mo sembra di stare sulla luna…”

 

Era l’ultima tappa prolungata del loro giro dell’isola: il giorno successivo sarebbero rientrati al maneggio ed avrebbero riconsegnato i cavalli.

 

Erano finiti in una spiaggia bianchissima, che pareva uscita da una foto dei Caraibi, molto lontana dai luoghi battuti dai turisti: per l’ultimo pezzo avevano dovuto proseguire a piedi, guidando i cavalli piano piano.

 

E, dopo aver dato loro da bere ed un poco da mangiare, si erano levati gli zaini e messi in costume.

 

“Vuoi farti un bagno, dottoressa?” le chiese Calogiuri, dopo aver finito per l’ennesima volta di spalmarsi a vicenda di crema solare, della quale in quei giorni avevano fatto fuori una quantità industriale.

 

“Mmmm… sì… ma mi sa che ti sei dimenticato di spalmarmela in alcuni punti, Calogiuri.”

 

“Cioè?” chiese, con uno sguardo confuso che le fece un’enorme tenerezza.

 

Si guardò per un’ultima volta in giro e prese coraggio: o era allora o mai più. Forse era una follia, ma con lui si sentiva pronta a fare quasi qualsiasi cosa.

 

Sganciò i lacci del bikini fucsia e la mascella di Calogiuri per poco non cascò sulla sabbia.

 

“Ma-”
 

“Una promessa è una promessa, no, maresciallo?” gli chiese, liberandosi del tutto del costume e correndo verso l’acqua, “e poi il naturismo qui non è vietato dalla legge.”

 

Non fece in tempo a tuffarsi che sentì una specie di ruggito e poi Calogiuri le ricambiò il favore e se lo trovò addosso senza quasi rendersene conto, mentre ruzzolavano insieme nell’acqua.

 

“Non dovevi tutelare la mia incolumità fino a Maiorca? Un giorno mi manderai in manicomio!” esclamò, con sguardo ancora incredulo, tenendola però talmente stretta che quasi le mancava il fiato.

 

“Devo pure accertarmi del tuo buono stato psicofisico, Calogiuri, e-”

 

Un grido spazzò via parole e pensieri: c’era solo quel momento, loro due ed il mare e tutto il resto non importava.

 

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“Mi raccomando, fai la brava! Che tanto so che mi capisci!”

 

Le accarezzò la fronte e la sentì soffiarle leggermente sulle labbra, in quello che sapeva essere un segno di saluto.

 

Ricambiò e poi la lasciò andare. Ovviamente Enigma non perse tempo e si buttò sulla spalla di Calogiuri: non c’era niente da fare, lui col genere femminile vinceva proprio a mani basse.

 

Salutò anche Pistacho, che le accarezzò il collo, e la colse un senso di bruciore agli occhi.

 

Non sapeva come fosse possibile affezionarsi tanto in così poco tempo ma, dopo qualche giorno quasi in simbiosi, le sembrava impossibile pensare di non rivederli mai più.

 

Infine, si rivolsero a Jordi e lo salutarono, ringraziandolo profusamente per l’esperienza indimenticabile.

 

“¡Gracias a los dos! Regresen cuando quieran. ¡Nunca había visto a Pistachio y Enigma volverse tan aficionados a alguien!”

 

La commozione non fece che peggiorare, mentre si incamminavano verso dove avevano lasciato la moto a noleggio: si sentiva tutta indolenzita, ma era felice in una maniera che le faceva quasi spavento.

 

“Anche a me mancheranno…” sussurrò Calogiuri e percepì dita delicate, anche se un poco più ruvide del solito, sulla guancia destra.

 

“Non è solo per quello… ma è che… questa è stata la vacanza più bella della mia vita ed è quasi finita.”

 

“Ce ne saranno molte altre, vedrai. Anche se non garantisco che riuscirò sempre a starti dietro, che mi ci vorranno settimane per riprendermi da questa vacanza!”

 

“A chi lo dici!” esclamò, abbracciandolo fortissimo, prima di staccarsi bruscamente.

 

“Che c’è?”

 

“Senti… se chiedessimo a Jordi se ci possiamo fare una doccia? Che qua mi sa che sul traghetto per Maiorca non ci fanno neanche salire. In albergo non ne parliamo.”

 

“Mi stai dicendo che puzzo, dottoressa?”

 

“Ti sto dicendo che se ci beccano Taccardi e Proietti ci mettono una targhetta sul pollice e ci infilano in un cassetto refrigerato, Calogiuri.”

 

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“Mà!”

 

“Valentì!”

 

Si avvicinò per abbracciarla ma si bloccò perché la figlia la guardava come se le fosse spuntata un’altra testa.

 

“Che c’è?”

 

“C’è che… ma che hai fatto? Sei… sei bellissima stasera!”

 

L’apocalisse doveva proprio essere vicina.

 

“Sei sicura di sentirti bene, Valentì, sì? Non è che hai preso troppo sole in questi giorni?”

 

“No, mà, è che sei… diversa.”

 

“Concordo!” si inserì Penelope con un sorriso.

 

“Sarà il vestito nuovo?” chiese, guardando il vestito leopardato - più corto davanti e più lungo dietro - preso a poco ad un mercatino locale quel giorno stesso.

 

“Ma no! Ti sei truccata diversamente? Sei… sei più luminosa in viso.”

 

“No, anzi, co sto caldo mi sono truccata poco o niente. Deve essere l’effetto di questa vacanza.”

 

“Allora non è che potete rimanere qui fino a Natale? Visto che ti fa così bene!”

 

“Spiritosa, signorina! E comunque no, domani sera si torna tutti a casa. Ma siete proprio sicure che l’ultima sera di vacanza volete passarla con noi?”

 

Valentina e Penelope si scambiarono uno sguardo complice e divertito che la mise in allarme.


“Sì, mà! Questo locale lo dovete assolutamente vedere!”

 

“Ma che ora vorreste fare? Che domani abbiamo l’aereo!”

 

Le due ragazze però si limitarono a sorridere, Valentina che la prese a braccetto e la trascinò con sé prima che potesse cambiare idea.

 

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“Ma questo è-”

 

Valentina e Penelope scoppiarono a ridere ed Imma capì di avere capito benissimo.

 

Sul palco c’era una drag queen che cantava e, a giudicare dall’atteggiamento che avevano tra di loro alcuni dei ragazzi e delle ragazze presenti, non erano semplicemente amici o amiche che stavano facendo serata.

 

“Hola chicas!” arrivò un cameriere a salutare sua figlia e Penelope, come se fossero vecchi amici, per poi rivolgersi verso Calogiuri, con sguardo decisamente più malizioso, “ay qué guapo! Donde lo tenias escondido? ¿Como te llamas, bombón?”

 

“Questo è il fidanzato di mia madre. E questa è mia madre.”

 

“¡Ay no! ¡Vas a romper muchos corazones esta noche!” esclamò il cameriere, rivolto a Calogiuri, sembrando deluso, ma poi la squadrò in modo complice e le disse, “eres una mujer muy afortunada, tigre!”

 

“Dà un soprannome a quasi tutti,” spiegò Valentina, l’aria di chi si stava divertendo un mondo.

 

Poi il cameriere fece segno loro verso un tavolino e dopo aver chiesto se volessero il solito, sparì verso il bar.

 

“Ma da quanto lo conoscete?” chiese Imma, ancora un attimo scombussolata.

 

“Siamo venute qui l’altra sera e ci siamo trovate così bene che siamo tornate tutte le sere. Lo spettacolo è divertentissimo!”

 

“Non mi dite che siete a disagio?” chiese Penelope, sembrando però non offesa, ma con l’aria di chi si aspettava esattamente quello.

 

“No, no. Ma è solo che non ci sono mai stata in un locale gay. Tu, Calogiuri, ci eri poi andato durante l’indagine a Bari?” gli chiese, lanciandogli un’occhiata complice, e Calogiuri scosse il capo e rise.

 

“No, dottoressa, è la prima volta pure per me. Anche perché Matarazzo se no chissà che combinava!”

 

Imma fece un’espressione mezza disgustata al solo sentire quel nome e Calogiuri rise ancora di più.

 

“Hi!”

 

Un ragazzo molto attraente, dai muscoli talmente definiti che poteva tranquillamente reggere il confronto con il tacchino unto dell’altro locale, ma vestito benissimo, si era avvicinato a Calogiuri, guardandolo come se fosse altro che un bonbon.

 

“I have never seen you here before. Why don’t we drink something together?”

 

Calogiuri le fece un cenno come a chiedere aiuto: con l’inglese se la cavava molto poco ma pure lei non è che lo sapesse benissimo, anche se lo capiva a grandi linee. Che il ragazzo volesse bere qualcosa con Calogiuri - e chissà che altro - però non ci voleva una laurea in lingue a capirlo.

 

“Sorry, but… she is my…”

 

“Fiancée,” si inserì Imma, anche se forse non era la traduzione più corretta.

 

“You’re not gay?! And into cougars?” chiese sorpreso l’altro.

 

Valentina e Penelope risero. Imma vide che Calogiuri si stava un poco irritando, sicuramente per la definizione di cougar, ma il ragazzo scosse il capo e se ne andò, deluso.

 

“Mi dispiace, io-”

 

“Ma che ti scusi tu, Calogiuri? Vorrà dire che sarò pure la Pantera delle Baleari, mo! E poi… che sei bello lo so, ed evidentemente hai un successo trasversale,” ironizzò, dandogli una pacca sul braccio, “io invece-”

 

“Hola!”

 

La voce a poca distanza dal suo orecchio per poco non le fece prendere un colpo e si trovò di fianco una donna sulla trentina, mora, formosa, dagli occhi scurissimi, fasciata in un abito a fiori come ne aveva visti diversi nei negozi locali, “¿quieres bailar?”

 

“Ma dici a me?” domandò Imma, presa in contropiede, e lei annuì.

 

“Ti ringrazio ma… questo è il mio novio e questa è mia figlia.”

 

La donna parve un attimo sorpresa, ma poi sorrise e sembrò quasi… commossa?

 

“¡Tienes mucha suerte!” esclamò, rivolgendosi a Valentina, per poi indicare lei e Penelope e chiedere ad Imma, “soy una pareja muy hermosa,¿no?”

 

E fu il turno di Imma di rimanere meravigliata ma annuì, lanciando uno sguardo a Valentina.

 

“No, è che… abbiamo detto in giro che siamo una coppia per evitare rimorchiamenti, che io non sono dell’umore giusto e Valentina non è interessata,” chiarì Penelope, dopo che la spagnola si fu allontanata, sembrandole, per la prima volta da quando la conosceva, in imbarazzo.

 

“Ma non ho detto niente!” rispose Imma, scuotendo il capo ed alzando le mani come in segno di resa.

 

“No, ma è che… non voglio creare problemi a Valentina.”

 

“Ma che problemi?!” esclamò Imma, non sapendo se offendersi o se essere intenerita dalle preoccupazioni di Penelope, “e poi non-”

 

“Tapas!”

 

Il tono super allegro del cameriere, che riempiva il loro tavolino di ste famose tapas - che a lei sembravano sempre stuzzichini, anche se decisamente più invitanti del finger food - e di una brocca di quella che pareva sangria, interruppe quella conversazione. Penelope sembrò tirare un sospiro di sollievo.

 

Guardò di nuovo sua figlia che invece era tra il sorpreso e l’imbarazzato, anche se non ne capiva bene il motivo.

 

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“¡Muchas gracias! Os quiero a todos!”

 

La drag queen aveva finito il suo spettacolo e c’erano applausi fragorosi che l’accompagnavano all’uscita dal palco.

 

“Allora?”

 

“Molto divertente, anche se con l’inglese non capivo tutto. Tu che sei esperto di spettacoli dal vivo, Calogiuri, che ne pensi?”

 

“Che già ballare su quei tacchi è un’impresa, dottoressa. Io mi sarei spaccato una gamba dopo due minuti. E purtroppo sull’inglese sono messo peggio di te.”

 

“Ah guarda, se torniamo al locale dell’altra volta, ti trovi un’insegnante madrelingua in tempo zero. Ma poi mi tocca fare come Maria Luisa. Anche se, pure qui, di aspiranti insegnanti ne hai quanti ne vuoi!”

 

“E tu, no, dottoressa? Tra spagnolo e inglese?!”

 

In effetti, a inizio serata, tra lei e Calogiuri avevano ricevuto un sacco di inviti a ballare o a bere qualcosa, anche se dopo un po’ erano un po’ scemati, probabilmente perché la gente aveva capito che stavano insieme.

 

“Va beh, non-”

 

“Oh my god! I love your look, it’s fabulous!”

 

Si trovò con Kiki, la drag queen, a due passi e, coi tacchi, era alta due metri.

 

“I noticed you from the stage! You are slaying that dress, girl!”

 

“Credo intenda dire che con quel vestito sta benissimo e che adora il suo look,” tradusse Penelope, mentre Imma era un poco confusa dallo slang.

 

“Thank you…” rispose, maledicendo la barriera linguistica, perché non sapeva bene che dire.

 

“Ah, italiani! Sorry, but my Italian is really bad. I only know enough to pick up cute guys, but he is taken, right?” le chiese con un sorriso ed Imma rise ed annuì, avendo stavolta capito che, tanto per cambiare, Calojuri aveva fatto colpo. Sempre se Kiki era seria e non scherzava per deformazione professionale, come aveva fatto per quasi tutto lo spettacolo.

 

“Come on stage with me for the encore! Come on!” le disse poi, concentrandosi su di lei, ed Imma si sentì andare in panico.

 

“Me?” chiese, sperando vivamente di aver capito male, e che non volesse veramente farla ballare con lei per il bis.

 

“I always pick someone from the crowd for the encore. Come on: with this look you just have to!”

 

Si trovò improvvisamente a rivalutare i completi noiosi e da beccamorto della Ferrari e perfino della D’Antonio. Almeno a loro nessuno avrebbe mai fatto caso.

 

“Vai, mamma, vai!” la incitò Valentina, con l’aria di chi stava per soffocare dalle risate, Penelope idem e…

 

“Calogiuri, tu quoque?!” esclamò, quando incrociò l’espressione di lui, che pareva starsi trattenendo malamente dall’esplodere a ridere.

 

“E dai, dottoressa, che balli benissimo!”

 

“Are you a doctor?”

 

“No, not a medical doctor,” riuscì a dire, facendo mente locale sul suo poco inglese.


“Oooh… a pet name. Kinky!”

 

Si sentì avvampare e vide che pure per Calogiuri era lo stesso, ma di sicuro non era il caso di stare lì a spiegare che lei fosse un magistrato e lui un carabiniere, o le battute sarebbero state probabilmente pure di più.

 

“Come on!” esclamò, prendendola per una mano e portandola ad alzarsi in piedi, “and you too, of course, sweetie pie! The men in the front row will be dying!”

 

Con l’altra mano, Kiki afferrò pure il braccio di lui che divenne, se possibile, ancora più paonazzo.

 

“Se lo faccio io lo fai pure tu, Calojuri!” lo sfottè, tutto sommato felice di condividere l’imbarazzo con lui: mal comune, mezzo gaudio!

 

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“Non ho mai riso tanto! Mi fa quasi male la pancia! Questa è stata la vacanza più figa di sempre! Altro che Metaponto! Oddio, pensa se ti avesse vista nonna!”

 

Erano usciti dal locale che erano le tre di notte e Valentina rideva come una matta e non solo per la sangria. Pure Penelope era molto divertita.

 

“La prossima volta a ballare sul palco ci andate voi, però!”


“Ma se ve la siete cavata pure bene, alla fine! All’inizio un po’ meno,” continuò a ridere Valentina ed Imma si voltò verso Calogiuri, lanciandogli uno sguardo di scuse, ma lui sorrise e scosse il capo.

 

“Mi sono divertito anche io, dottoressa. E poi vederti ballare mi piace sempre!”

 

“Il diabete è tornato!” esclamò Valentina, con aria finta disgustata ed Imma le diede un buffetto sul braccio.

 

In realtà si era divertita molto pure lei, anche se non lo avrebbe ammesso manco morta. Dopo l’encore avevano conversato un po’ con Kiki - aka Charles - che si era bevuto qualcosa con loro. E sia quando era in personaggio, sia quando aveva levato le maschere e parlato più seriamente, l’aveva fatta pentire amaramente di non sapere meglio l’inglese, perché aveva quel sarcasmo e quell’intelligenza che difficilmente trovava nelle persone che frequentava quotidianamente, a parte in Calogiuri e in sua figlia - quando non la faceva troppo disperare.

 

“Va beh, il nostro campeggio è qua. Ci vediamo domani pomeriggio allora,” disse Penelope, distogliendola dai suoi pensieri.

 

Imma annuì, augurando alle ragazze buonanotte, la stanchezza ed il male ai piedi che iniziavano a farsi sentire.

 

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“Certo che tua madre è una matta, ma in senso buono!”

 

“Lo so,” rise, infilandosi nel sacco a pelo, però per poi farsi più seria, “ma perché ti sei messa a farle tutto quello spiegone sul fatto che io e te non stiamo insieme?”

 

Penelope sospirò, voltandosi verso di lei, un’espressione un poco amara, “te l’ho detto, Vale, non volevo darti problemi. Sai quanti genitori non vogliono che sia nemmeno amica delle loro figlie, quando scoprono che sono lesbica?”

 

“Mia madre ha tanti difetti ma non è così!”

 

“No, ma… sai… anche tra chi è più aperto mentalmente… è molto più facile quando a non essere etero sono i figli degli altri. Quando sono i tuoi… il discorso cambia e- Vale!” esclamò, sorpresa, e fu solo a quel punto che Valentina si rese conto di averla abbracciata.

 

Penelope sembrava sempre così forte, sicura di sé, quasi invincibile, ma capiva da come ne parlava che i suoi problemi doveva averli avuti anche lei, pure con quei genitori moderni che le aveva tanto invidiato alle superiori.

 

Sentì uno strano miscuglio di sensazioni nel petto ma, prima che potesse anche solo iniziare a capirle, un rumore fuori dalla tenda la fece staccare bruscamente, interrompendo il momento.

 

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Si infilò a letto e prese in mano il cellulare: era tutta la serata che non lo controllava.

 

Un messaggio di Rosaria, che esprimeva invidia per la loro vacanza - le aveva mandato alcune foto di lui ed Imma insieme e dei luoghi più belli che avevano visto - poi uno di Mariani, che gli chiedeva a che ora doveva venirli a prendere all’aeroporto.

 

Decise di fare un giro anche sui social, perché ultimamente, se non lo faceva spesso, si intasavano di messaggi e notifiche.

 

E trovò subito un messaggio di Melita, che gli aveva scritto quel pomeriggio e che, avendo l’amicizia reciproca, gli appariva in evidenza rispetto agli altri.

 

Sono a Ibiza. Tutto bene. Spero anche voi. Grazie ancora!

 

Vide che aveva pubblicato delle storie e dei post e sperò vivamente che non avesse fatto sapere a tutto il mondo dove si trovava, visto quanto era successo.

 

Ci cliccò sopra ma, a giudicare da quanto non era vestita, e dalle luci a neon inconfondibili, erano foto ancora scattate al locale lì a Palma.

 

Melita era sveglia, per fortuna.

 

Sentì un rumore, la porta del bagno che si apriva mentre Imma ne emergeva in camicia da notte, i capelli ancora raccolti nel turbante, e per poco non gli prese un colpo, rendendosi conto di quanto potesse sembrare compromettente la cosa.

 

“Che c’è?” gli chiese, guardandolo in quel modo che sembrava potergli leggere dentro.

 

“No, niente… è che… mi ha scritto Melita che è arrivata ad Ibiza e-”

 

“A quest’ora?!”

 

“No, oggi pomeriggio, ma l’ho visto solo mo. E poi… e poi ha postato delle foto ma da Palma, credo per depistare.”

 

“Che genere di foto, Calojuri?” gli chiese, con un sopracciglio alzato, “o forse mo dovrei chiamarti bonbon?”

 

“Imma…” sospirò, scuotendo il capo, “e comunque… diciamo che era… vestita da lavoro, ecco, come quando l’abbiamo incontrata.”

 

Imma rimase un attimo in silenzio, con un’espressione indefinibile.


“Vuoi vedere il suo profilo, dottoressa?” le chiese, perché non aveva niente da nascondere, anche se un poco si sentiva in ansia.

 

Ma Imma sorrise e scosse il capo, “preferisco decisamente guardare il tuo di profilo, Calogiuri!” esclamò e lui annuì e le porse il cellulare.


Lei, per tutta risposta, scoppiò a ridere.

 

“Che c’è?”

 

“C’è che mi sembra di essere tornata indietro di anni, Calogiuri. Non mi riferivo al tuo profilo sui social, ma a questo profilo!” esclamò, mentre con un dito gli sfiorava il viso dalla fronte, alla punta del naso, fino alle labbra e al mento, “e se ti chiedessi mai di controllare i tuoi social, denunciami per violazione della privacy, Calogiuri, che me lo meriterei, come minimo.”

 

“Dottoressa…” le sussurrò, mollando il cellulare e tirandola a sé fino a farla sedere in grembo, “come-”

 

Ma, proprio in quel momento, arrivò un altro trillo.

 

“Ancora gente che ti cerca, Calogiù?”

 

“Veramente questo è il tuo cellulare, dottoressa.”

 

Imma alzò gli occhi al cielo e si sollevò da lui, rotolando nella sua parte di letto, fino a recuperare il cellulare dal comodino.

 

Pochi secondi ed il cellulare le cadde sul materasso con un tonfo, il viso che le sbiancò talmente tanto da confondersi quasi con le lenzuola.

 

“Imma!” esclamò, prendendola per le spalle, perché, nonostante fosse seduta, temeva svenisse, talmente tremava.

 

Stava per chiederle cosa fosse successo, ma l’occhio gli cadde sul display del cellulare e vide una foto di due ragazze, in spiaggia, presa con una fotocamera ad infrarossi.

 

Notò contemporaneamente due cose: il numero anonimo del mittente ed il vistoso tatuaggio sulla schiena di una delle due ragazze.

 

Penelope. E l’altra era chiaramente Valentina.

 

“Pro- proviamo a chiamarle, Imma,” propose, mentre lei continuava a tremare.

 

Bastò un cenno d’intesa e prese lui stesso il cellulare, trovando il numero di Valentina e componendolo.

 

Ma risultava staccato.

 

Ed una mano gelida gli si strinse sul cuore.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua. Un capitolo dove ci sono alcune nuove consapevolezze e un po’ di giallo, oltre al rosa. Che fine avranno fatto Valentina e Penelope? Forse lo scopriremo nel prossimo capitolo dove ci saranno ulteriori salti temporali ed un ritorno della Città dei Sassi.

Spero che il capitolo vacanziero vi sia piaciuto - i prossimi avranno toni un po’ più seri - e che la storia continui a mantenersi interessante, nonostante la lunghezza. Se vorrete farmi sapere che ne pensate, come sempre le vostre recensioni, oltre a darmi una carica pazzesca, mi fanno un enorme piacere.

Vi ringrazio di cuore per avermi letta fin qui e grazie a chi ha messo la mia storia tra le preferite o le seguite.

Il prossimo capitolo arriverà domenica 19 luglio.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 39
*** A Nudo ***


Nessun Alibi 39


Capitolo 39 - A Nudo


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Ella es su madre y un fiscal. Y yo soy un mariscal.”

 

Calogiuri stava provando a spiegare la situazione al custode del campeggio, affinché indicasse loro dov’era la tenda delle ragazze. Imma era già stata tentata di chiamare la polizia ma sapeva di doversi almeno accertare che le ragazze non ci fossero, o non si sarebbero mossi sicuramente.

 

Alla fine, dopo che Calogiuri gli ebbe mostrato il distintivo ed Imma una foto sua con sua figlia, l’uomo - un tipo sulla cinquantina che sembrava esausto - assentì, digitò qualcosa a computer, probabilmente per consultare il registro, e con un “sígueme!” uscì dal suo sgabbiotto. Fece loro strada con una torcia tra la distesa di tende ancora al buio.

 

Del resto erano le quattro del mattino passate.

 

Dopo attimi che le sembrarono pesantissimi ed infiniti, finalmente il custode si fermò prima all'altezza di una fila di tende e poi davanti alla penultima in fondo.

 

Imma riconobbe la tela rossa che aveva visto in un paio di foto che Valentina le aveva mandato delle loro vacanze a Minorca.

 

“Valentina!” provò a chiamare, sforzandosi di non gridare, ma il suo tono dovette risultare comunque troppo alto perché si guadagnò un’occhiataccia del custode e, al secondo “Valentina!” una delle tende vicine si aprì e una ragazza la fulminò, con un “we are trying to sleep!”

 

Imma quindi si decise ed aprì la porta della tenda.

 

La testa le girò vorticosamente, mentre si sentì afferrare il braccio da Calogiuri: la tenda era vuota, c’erano solo i sacchi a pelo stesi e, a giudicare da com’erano spiegazzati, qualcuno ci aveva dormito quella notte.

 

L’idea di cosa avesse potuto interrompere il sonno di sua figlia non fece che peggiorare il panico che già montava.

 

“Imma…”

 

Guardò Calogiuri, la preoccupazione in quegli occhi chiari, insieme ad una domanda implicita.

 

Stava aspettando sue istruzioni su come voleva procedere. Non in quanto suo capo ma in quanto madre di Valentina.

 

Imma sapeva che c’era un’unica cosa da fare: avvisare la polizia e sperare che quella foto della spiaggia fosse sufficiente per dare loro qualche indicazione, anche se ne dubitava. Era un piano molto stretto: chiunque fosse stato ad averla scattata era stato bravo a non lasciare indizi visibili.

 

“Chiamiamo, Calogiuri,” disse, semplicemente, perché non c’era bisogno di specificare chi e perché non voleva che il custode capisse e magari obiettasse, per non avere grane. In fondo polizia e policía suonavano quasi identiche.

 

“Cerco il numero,” rispose lui, cellulare in mano. Solo in quel momento Imma si rese conto di non essersi nemmeno segnata i numeri di emergenza spagnoli prima di partire per la vacanza, una cosa inconcepibile per lei.

 

Ma Calogiuri la faceva sentire al sicuro e, tra quello e l’atmosfera vacanziera, si era rilassata, dimenticando le preoccupazioni che aveva sempre da quando faceva il suo mestiere, e negli ultimi mesi ancora di più.

 

E mo ne pagava le conseguenze.

 

“Trovato. Chiamo io o chiami tu?”

 

“Meglio tu, Calogiuri, che un poco di spagnolo lo parli, anche se spero sappiano pure l’inglese, con tutti i turisti che ci sono!”

 

Calogiuri annuì e si mise il cellulare all’orecchio, il custode che li guardava un po’ stupito.

 

Imma cercò di trattenere tutte le emozioni che lottavano per uscire, l’immagine di Valentina, raggiante come non l’aveva mai vista, che ancora le era impressa nelle palpebre.


Non erano passate nemmeno due ore e quella sera l’aveva sentita vicina come non mai. Perfino più di quando da bambina le si aggrappava addosso al rientro dal lavoro e la mattina prima di andare a scuola con suo padre, come se non volesse lasciarla andare.

 

Era un rapporto del tutto diverso, più consapevole, anche se Valentina doveva ancora crescere tanto e-

 

Una lama gelida la trapassò, mentre il terrore che sua figlia non avrebbe mai potuto crescere le piombò addosso. Quel timore che nessun genitore vorrebbe mai avere ma che, in quelle circostanze, una persona che faceva il suo mestiere, e aveva visto quello che lei aveva visto, non poteva non considerare.

 

Che non avrebbe mai più rivisto il suo sorriso o il suo broncio incazzato, che non avrebbe mai più sentito la sua voce, il modo un po’ sfottente in cui la chiamava “ma!”

 

Le sembrava quasi di poterla sentire e-

 

“Mà!? Che ci fai qua?”

 

Spalancò gli occhi e guardò verso Calogiuri, trovandolo prima scioccato e poi sollevato.

 

Forse allora non era ammattita del tutto.

 

Si voltò verso la voce e sì, non poteva essere un’allucinazione, perché Valentina era a pochi passi da lei, con la torcia in una mano ed una borsa di tela da spiaggia nell’altra, Penelope accanto a lei e, soprattutto, due ragazze bionde e sconosciute alle loro spalle.

 

“Hey, what’s happening?”

 

“My mother…” rispose Valentina, con il tono tra il rassegnato ed il rimprovero che le riservava da adolescente quando la controllava o la accompagnava da qualche parte, “mà, che ci fai qua?”

 

Le due ragazze, dall’accento britannico, la guardarono ancora per un attimo e poi si congedarono con un “we are going to sleep. Night!”

 

Superarono lei, Calogiuri ed il custode e si infilarono nell’ultima tenda della fila.

 

“¡Ah, las madres italianas! ¡Buenas noches! ¡Y no hagas más ruido!” esclamò il custode, seppur a voce bassa, guardandola come se fosse una povera pazza paranoica, tanto che per un attimo le parve di rivedere il Vitali dei primi tempi.

 

Ma Imma sentì un calore tra le braccia, insieme ad un corpo che un poco si divincolava, una sensazione di bagnato sul collo, e si rese conto solo in quel momento che le gambe le si erano mosse da sole e si era buttata ad abbracciare Valentina.

 

“Mà… ma è successo qualcosa? Mà?!” le chiese accanto al suo viso, sembrando meno scocciata e più preoccupata.

 

Imma si staccò leggermente, chiedendosi quanto dirle e come dirlo, per non farla spaventare troppo da un lato, ma per tenerla al sicuro dall’altro. Anche perché non le avrebbe lasciate lì in tenda manco morta, ma se le sarebbe portate con sé in hotel, mentre ringraziava il cielo che la vacanza fosse quasi finita e-

 

Il suono di un cellulare interruppe i suoi pensieri. Erano più messaggi, in sequenza rapida, come un’odiosa mitragliata.

 

“Imma, è il tuo,” sussurrò Calogiuri ed Imma si staccò del tutto dalla figlia e, dopo aver frugato nella borsa, individuò finalmente sul fondo il maledetto aggeggio infernale.

 

Era di nuovo l’app di messaggistica istantanea ed il numero era sempre anonimo.

 

Aprì l’anteprima e si trovò nella stessa chat in cui le era arrivata quella foto.

 

Gliene avevano inviate altre, che però non si erano ancora scaricate perché aveva il risparmio dati inserito e non era più collegata al wifi dell’hotel. E poi un messaggio, che lesse quasi in automatico.

 

Cinquantamila euro o i giornali avranno un bel servizio fotografico

 

La prima delle immagini si caricò e fu un pugno nello stomaco.

 

Valentina e Penelope, sempre sulla spiaggia, sempre riprese da una fotocamera a infrarossi, ma erano in topless.

 

E poi nella foto successiva erano proprio nude. In quella ancora dopo stavano correndo in acqua e si vedevano anche le due ragazze inglesi, che erano già in mare.

 

Sollevò lo sguardo verso Valentina, rendendosi conto che aveva i capelli ancora bagnati.

 

“Che succede?” sussurrò Calogiuri alle sue spalle ed Imma d’istinto spense lo schermo del telefono.

 

“Avete fatto il bagno nude?” le uscì, prima di potersi trattenere, e vide Valentina che spalancò gli occhi, prima imbarazzata, poi incredula, poi incazzata.

 

“Ma cos’è? Ci hai spiate?! E io che pensavo che tu fossi cambiata ma-”

 

“Shut up! We want to sleep!”

 

“E state zitte, porca miseria!”

 

Una serie di lamentele in multilingua, che pareva di stare a Babele, si sollevarono dalle tende lì accanto, alcune che si aprirono rivelando ragazzi e ragazze incazzati non poco.

 

“Prendete le cose essenziali, subito, che venite a dormire da noi in albergo,” sussurrò, col tono che non ammetteva repliche.

 

“Ma-”

 

“Vi devo parlare urgentemente, ma non qui,” sibilò, interrompendo le proteste di Valentina sul nascere.

 

“C’è un motivo, serio,” si inserì Calogiuri, con tono basso e calmo, e Valentina si rivolse a lui, rimanendo un attimo zitta e poi guardò Penelope che sollevò le spalle.

 

“Va bene. Ma, se non c’è una spiegazione valida, stavolta mi incazzo davvero!” esclamò Valentina, entrando nella tenda e uscendone con lo zaino. Penelope fece lo stesso.

 

Imma dovette trattenere la sua di incazzatura, se verso Valentina, verso i fotografi o verso se stessa non avrebbe saputo dirlo.

 

Ma si avviò prima che potesse trapelare.

 

*********************************************************************************************************

 

“E dopo che siete arrivate alla tenda mi hanno inviato delle foto di voi nude sulla spiaggia: ecco qua!”

 

Passò il telefono a Valentina e Penelope. Sua figlia spalancò gli occhi, sembrando sull’orlo del pianto, Penelope invece aveva uno sguardo preoccupato e mise una mano sulla spalla a sua figlia.

 

“Vale… mi dispiace, io-”

 

“No, è a me che dispiace! Se… se… se ci hanno fatto queste foto è perché vogliono colpire mamma e… tu non c’entri!” esclamò Valentina, decisa, rivolgendosi verso l’amica in un modo determinato e protettivo che non le aveva forse mai visto.

 

Ed Imma si rese conto contemporaneamente di due cose: di quanto fosse cresciuta Valentina e che purtroppo aveva ragione.

 

La colpa principale era stata la sua, che non aveva mantenuto il maledetto basso profilo, anzi, e che le aveva portate in vacanza con sé.

 

Se fossero andate a farsi l’interrail, nessuno le avrebbe mai inseguite per fotografarle. Certo, avrebbero corso altri rischi, forse, ma almeno quello no.

 

E poi non poteva incazzarsi con loro per una cosa che aveva fatto pure lei, presa dalla follia della vacanza. Certo, in una spiaggia molto meno frequentata, ma in pieno giorno e-

 

“Calogiù…” le uscì in un sussurro, la lingua che si mosse prima che il pensiero si formulasse del tutto.


“Che c’è?”

 

“C’è che… e se… quella notte, quando i cavalli hanno fatto tutto quel casino. E se stavano seguendo pure noi anche a Minorca?”

 

Bastò guardarsi negli occhi per capirsi: se avessero ripreso pure il loro momento di nudismo ed avessero pubblicato le foto, sarebbe stato uno scandalo che poteva costare a lei la carriera e a lui il posto nell’Arma.

 

“Imma… può essere, ma… se avessero foto compromettenti di noi due… ti avrebbero ricattata già prima, no?”

 

“Forse. O forse le nostre foto valgono di più vendute ai giornali. Valentina è sconosciuta e magari pensano di ottenere più soldi così. O vogliono testare le acque, ma-”

 

“Scusate, in che senso foto compromettenti di voi due? Che cosa può uscire?” li interruppe Valentina, l’aria tra il preoccupato, l’incredulo e lo schifato.

 

“Niente, Valentì, pensa alle tue di foto compromettenti, mo! E comunque qua c’è da fare la denuncia, anche se non so se la competenza sia spagnola, visto che tecnicamente le foto sono state scattate qua ed il ricatto è avvenuto in territorio spagnolo, almeno come mia ricezione.”

 

“Denuncia? Ma quindi puoi bloccare le foto?” domandò sua figlia, speranzosa.

 

“Valentì, io posso fare denuncia per il ricatto, che è un reato. Ma, siccome siete entrambe maggiorenni e presumo lo fossero anche le due ragazze inglesi, e stavate in luogo pubblico… non credo ci sia alcun illecito da questo punto di vista e non posso impedire la pubblicazione di quelle foto. Anzi, per fortuna qui il nudismo è consentito, perché in Italia rischiavate voi una sanzione amministrativa mica da ridere.”

 

“Sì, dottoressa,” ribatté Valentina, prima di sospirare e farsi più seria, “mà, mi… mi dispiace per tutto questo casino, ma… Rachel ed Emma sono venute ad invitarci al bagno di mezzanotte e poi si sono buttate in acqua nude e… e mi sono detta perché no e che alla fine era un’esperienza da fare una volta nella vita. Poi a quell’ora pensavo non ci avrebbe viste nessuno.”

 

“Senti, Valentì, io non voglio certo farti la morale, anche perché siete le vittime. Ma purtroppo, anche se pure io me lo ero scordata, mi rendo conto che sono sotto il microscopio pure più di quanto pensassi, e che nemmeno stare all’estero basta ad evitarlo. Quindi per un po’ è meglio che teniamo tutti sto maledetto basso profilo, te compresa. Non voglio che corri rischi per colpa mia, va bene?”

 

Valentina annuì ed Imma si trovò stretta in un abbraccio forte, anche se la sentì pure tremare un poco.


Sapeva che conseguenze potevano avere quelle foto, se fossero uscite, per la già fragile vita sociale di Valentina.A Matera poi non ne parliamo.

 

E sperava davvero di poterglielo evitare.

 

*********************************************************************************************************

 

“Sentite, voi dormite sul letto, noi usiamo i sacchi a pelo: tanto è per poche ore.”

 

“Nel vostro letto, mà?!” le chiese guardando le lenzuola ancora mezze disfatte con un’aria schifata che non avrebbe saputo dire se fosse più comica o più insultiva.

 

“Valentì, le lenzuola le cambiano tutte le mattine e ci siamo giusto stesi due minuti prima di accorrere in campeggio. Eh su!”

 

“Comunque possiamo dormire noi nei sacchi a pelo, mi pare più logico, Vale!” si inserì Penelope, sembrando stranamente in imbarazzo, lei che di solito non la smuoveva niente.

 

“Nei sacchi a pelo dove sono stati per chissà quante notti? Effettivamente forse sono meno a rischio le lenzuola!”

 

“Valentì!” esclamò, il calore che le si diffondeva sulle guance, mentre a Calogiuri andò di traverso la saliva.

 

“Imma, perché non ti metti sul divano? Io rimango per terra col sacco a pelo,” offrì lui, cercando evidentemente di togliersi da quella situazione.

 

“Ma no! Mamma può dormire con noi, tanto per poche ore in tre nel letto ci stiamo. Così non stai sul pavimento, Calogiuri.”

 

Non avrebbe mai del tutto capito l’alternanza di Valentina tra stoccatine e momenti di inattesa gentilezza.

 

Ma, in fondo, non poteva biasimarla, visto che pure lei era fatta uguale.

 

*********************************************************************************************************

 

“Sei sicura che…?”

 

“No, non sono sicura di niente in questo momento, Calogiuri!”

 

Erano soli in stanza, perché le ragazze erano uscite a fare colazione al bar di fronte all’hotel. Rimaneva un poco in apprensione per loro, ma le avevano seguite con lo sguardo dalla finestra finché erano entrate nel locale e, in mezzo alla folla, era meno probabile che qualcuno tentasse di fare scherzi.

 

Aveva il cellulare in mano ed il nome Mancini sul display. Doveva decidere se chiamarlo o meno, ma tanto l’avrebbe dovuto avvisare prima o poi e, in fondo, del giudizio del procuratore capo si fidava, anche se purtroppo poteva anticipare la sua reazione. Erano le nove del mattino, ma sapeva che il capo era mattiniero pure in vacanza.

 

Selezionò il numero, che squillò libero per qualche istante, poi un, “dottoressa?” familiare le giunse all’orecchio.

 

“Buongiorno, dottore, spero di non disturbarla in vacanza ma ho bisogno di parlarle urgentemente.”

 

Un attimo di pausa e poi ripose, “non mi disturba affatto, dottoressa. Mi dica, è successo qualcosa?”

 

Il tono del procuratore capo era sicuramente il meno ostile che aveva sentito da mesi, anzi, pareva quasi gentile. Che avesse intuito che doveva essere successo qualcosa di grave per chiamarlo in quel momento?

 

“Purtroppo sì, dottore. Ora mi trovo in Spagna e… dovrei rientrare stasera. Se ha qualche minuto le spiego la situazione.”

 

“In Spagna?”

 

Sembrava sorpreso. Del resto non gli aveva specificatamente detto dove lei e Calogiuri sarebbero andati, anche se sapeva benissimo che entrambi erano in ferie.

 

E, con un sospiro, iniziò a raccontargli tutto per filo e per segno.

 

“E quindi… e quindi immagino che la giurisdizione competente sia quella spagnola, dottore, ma… ho pensato che fosse meglio consultarla prima di decidere il da farsi e-”

 

“E magari avrebbe dovuto consultarmi prima di decidere di andarsene in vacanza alle Baleari. A Maiorca poi! Immagino che sappia che è una meta gettonata anche dai paparazzi, che le è saltato in mente?! Alla faccia del basso profilo!”

 

La gentilezza, reale o percepita, era già del tutto svanita.


“Dottore, ho prenotato questa vacanza a dicembre. Non ho doti profetiche e non avevo idea che qualche fotografo potesse interessarsi tanto alla mia vita privata a Roma, figuriamoci all’estero! E comunque-”

 

“E comunque ora dobbiamo risolvere questa situazione. Sua figlia come sta? Mi rendo conto che sia una cosa potenzialmente molto traumatica, sapere di essere stati seguiti e spiati e la prospettiva di… di avere foto del genere rese pubbliche.”

 

“Dottore…” sospirò, perché, dopo il cazziatone, Mancini era tornato ad avere una certa dolcezza e preoccupazione nella voce, sebbene per Valentina e non certo per lei, “guardi… non so se sia l’incoscienza dei vent’anni o… la botta ancora fresca, ma per ora lei e la sua amica sembrano stare abbastanza bene, per fortuna.”

 

“Meglio così, anche se spero che non commettano imprudenze, dottoressa.”

 

“Non si preoccupi, non le perdo di vista, dottore, letteralmente,” spiegò, mentre continuava ad osservare il bar dalla finestra.

 

“D’accordo. Allora, senta, facciamo così. Mi consulto con Brian, il mio amico dell’interpol, che su diritto internazionale ha decisamente la memoria più fresca della mia e la richiamo tra poco, va bene?”

 

“Va bene…” sospirò, perché sapeva fosse la cosa più ragionevole da fare, anche se non era per niente entusiasta che altre persone venissero a conoscenza di quella storia.

 

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“Quindi deve fare la denuncia al commissariato lì a Palma. E poi chiederemo di spostare la giurisdizione in Italia, vista la sua posizione, dottoressa. Per intanto, se mi dà il numero dal quale le è arrivata la richiesta, posso fare un po’ di ricerche su a chi è intestato.”

 

“Dottore, la ringrazio ma… è un numero anonimo, purtroppo.”

 

“Allora, se mi dà l’autorizzazione, chiedo alla compagnia telefonica di verificare. Così accorciamo i tempi. Sicuramente gliela chiederanno anche i colleghi spagnoli, ma li sentirò io, se dà loro il mio numero. E al limite li faccio parlare con Brian.”

 

“Va bene, dottore… per l’autorizzazione e per tutto il resto. La ringrazio,” disse, perché gli era seriamente grata per come aveva reagito rapidamente e preso a cuore quella vicenda, nonostante sicuramente ce l’avesse con lei per l’imprudenza commessa.

 

“Invece di ringraziarmi, cerchi di mantenerlo veramente il basso profilo da ora in poi. E… per caso ci sono altre foto che potrebbero uscire di cui dovrei essere a conoscenza? Tipo sue o del maresciallo, che presumo sia lì in vacanza con lei?”

 

Imma sospirò: non aveva menzionato esplicitamente Calogiuri a Mancini, ma ovviamente non ci voleva Sherlock Holmes per capire che non fosse lì solo con la figlia e con Penelope.

 

“Non lo so, dottore. Non ci siamo accorti di nulla, ma diciamo che siamo andati a ballare in qualche locale, e poi in spiaggia, in tenda, a cavallo, insomma-”

 

“Non so se complimentarmi con lei per l’energia o rimanere esterrefatto dalla sua mancanza totale di prudenza, dottoressa. In tenda? Con il mestiere che fa? Al di là dei possibili paparazzi!”

 

“Dottore, se permettessi a dei criminali, perché questo sono di fatto, di condizionarmi la vita, è come se avessero già vinto.”

 

“C’è non farsi condizionare e poi c’è fare i kamikaze, dottoressa.”

 

“Comunque ho capito che… che devo essere più prudente, dottore. Semplicemente non pensavo sarebbero arrivati fin qui: sembravano pure essersi un attimo dati una calmata in Italia.”

 

“Lo spero che l’abbia capito, pure se mi sembra un po' tardi. Mi faccia sapere come va. Ci vediamo al suo rientro in Italia.”

 

La chiamata si chiuse e cercò gli occhi di Calogiuri, che però sembrava concentrato soltanto su cosa stava accadendo al di fuori dalla finestra.

 

Sapeva benissimo che in realtà così non era, affatto. E non poteva nemmeno biasimarlo del tutto: pure a lei avrebbe dato fastidio se lui avesse dovuto chiedere l’aiuto di Irene e raccontarle tutti i fatti loro.

 

Anche se una cosa non di poco conto gliel’aveva tenuta nascosta a Mancini. Non era solo per pudore o per timore di perdere il posto, ma soprattutto perché non voleva rigirare ancora di più il dito nella piaga.

 

*********************************************************************************************************

 

“So they are blackmailing you. It could be a pap or a journalist, but you seem to have a lot of enemies and a lot of media attention, now that I have looked you up online.”

 

Per fortuna il commissario - quando avevano esibito il distintivo di Calogiuri e lei si era qualificata, l’agente di turno in guardiola li aveva portati direttamente da lui - parlava un ottimo inglese, per quanto con accento spagnolo, e sembrava pure un tipo sveglio.

 

Del resto, avere più nemici che amici non era una novità per Imma. E si chiedeva quali delle notizie su di lei il commissario avesse trovato su internet.

 

In quel momento, squillò il suo telefono e, estrattolo dalla borsa, vide che era Mancini.

 

“My… my boss… the… head prosecutor?” spiegò, non essendo certa della traduzione.

 

“¿El fiscal General?” chiese il commissario, rivolgendosi a Calogiuri, e lui annuì, anche se manco lui pareva convinto al cento per cento.

 

“Dottore, mi dica.”

 

“Dottoressa, dove si trova?”

 

“Sono in commissariato, davanti al commissario e-”

 

“Va bene. Me lo può passare o mi può mettere in viva voce, che forse facciamo prima? Il commissario sa l’inglese?”

 

“Sì, dottore,” spiegò, facendo come chiesto.

 

“This is Giorgio Mancini, head prosecutor here in Rome. I do not know if prosecutor Tataranni explained to you who I am or what happened.”

 

“I know what happened. But why are you calling?”

 

E così Mancini gli spiegò, nel suo inglese da Oxford, che aveva cercato il numero che aveva inviato foto e messaggi ricattatori e che risultava intestato a un ottuagenario di Latina. Sicuramente un prestanome.

 

“So it is probably someone who is used to do this kind of things…” dedusse il commissario, ed in effetti Imma non poteva dargli torto: sicuramente il ricattatore era un professionista e non solo delle foto.

 

“Have there ever been other cases of blackmailing to… celebrities?” chiese Mancini, anticipando la sua domanda.

 

“Not that I know of. But celebs usually pay up, instead of risking compromising pictures being published. And they would not come to me anyway.”

 

Il commissario tutti i torti non li aveva: la maggior parte degli pseudo vip su quell’isola avrebbero o pagato o comunque sarebbero tornati nel paese natale prima di denunciare.

 

“I want to ask for the proceedings to be transferred here in Rome, considering prosecutor Tataranni’s position and the fact that the blackmailer seems to be Italian. Since we are at a dead end, I would suggest for her to pretend to be willing to pay the blackmailer. We may gain some more information that way.”

 

Non capiva perfettamente tutto, ma aveva intuito che Mancini avesse chiesto il trasferimento del caso a Roma e, soprattutto, che lei avrebbe dovuto fingere di voler cedere al ricatto, in modo da poter magari ottenere qualche prova, visto che in quel momento latitavano e che dal telefono non ne avrebbero cavato nulla.

 

“We already have enough crimes to take care of. I have no objections to the transfer. I will ask the judge. In the meantime, I authorize you to proceed with the set-up.”

 

Per fortuna il commissario pareva ragionevole, anche se mo arrivava la parte più difficile per lei e la più rischiosa.

 

*********************************************************************************************************

 

“Calogiuri, qua non concludiamo niente. Mi sa che non c’abbiamo scelta! Matera, Roma o Palma, sempre degli incapaci sono!”

 

Forse era un po’ esagerato, ma temeva di essere seguita e fingere di essere in conflitto con la polizia spagnola era l’unico modo per non far mangiare troppo la foglia a chi l’aveva spiata e ricattata.

 

“Ne sei sicura?” chiese Calogiuri, sempre più pacato di lei anche nella recitazione. E lei annuì.

 

Si allontanarono un po’ dal commissariato e, quando fu arrivata quasi in albergo, prese il cellulare e digitò semplicemente:

 

Come e quando?

 

Sperava davvero di riuscire, per il bene di Valentina, e di non cadere in una trappola ancora peggiore.

 

*********************************************************************************************************

 

In contanti, ti scriverò il posto. Entro domani.

 

Stava preparando la valigia, che sarebbero poi anche dovuti andare a recuperare le tende e l’attrezzatura da campeggio delle ragazze, quando finalmente arrivò la risposta.

 

Devo tornare in Italia per poter prelevare e mi ci vorranno più giorni per mettere insieme la somma. 

 

L’attesa le parve interminabile, ma infine il telefono fece un altro trillo.

 

Quattro giorni, non uno di più. Scrivimi quando hai i soldi e ti dirò dove.

 

Imma sospirò. Il tempo era poco e probabilmente non avrebbero saputo il luogo del deposito fino all’ultimo. Ma l’opzione di fallire non era nemmeno contemplata. E poi le venne un ultimo dubbio e si arrischiò a scrivere un altro messaggio.

 

Se sono foto digitali, come faccio a sapere che non ne avrai altre copie e non le pubblicherai?

 

Se fai la brava non avrete problemi né tu né tua figlia.

 

Una promessa molto credibile. E poi quando sentiva quelle tre parole, fai la brava, le montava un’incazzatura inarrestabile, fin da quando era bimba.

 

Ma gliel’avrebbe o giel’avrebbero pagata, con gli interessi.

 

*********************************************************************************************************

 

Un lieve tremore al braccio. Si rese conto dopo qualche istante che non era il suo.

 

Girò di scatto la testa verso Valentina, incastrata tra lei e Penelope sul taxi che li stava portando all’aeroporto e che aveva per sicurezza fatto prenotare a quelli dell’hotel. Calogiuri stava accanto al guidatore.

 

Valentina aveva uno sguardo che le aveva visto poche volte nella vita: quando l’avevano ritrovata alla fermata del bus e quando avevano cominciato con le minacce di morte sotto casa sua e di Pietro.


Sollevò la mano, per abbracciarla, ma si scontrò con quella di Penelope, che evidentemente aveva avuto la stessa idea.

 

Si scambiarono uno sguardo d’intesa e la ragazza ritrasse la sua, lasciandole la precedenza, anche se Imma non era affatto sicura che fosse l’idea migliore.

 

Almeno fino a quando Valentina non le si buttò quasi tra le braccia, stringendola forte.

 

“Non devi avere paura. Ce la caveremo come sempre, vedrai.”

 

“Ma tu ci sei abituata, mà, io no… e… voglio vedere se quelle foto fossero le tue, se staresti così tranquilla!”

 

E che le poteva dire? Che lei rischiava uscissero foto di gran lunga peggiori, visto che lei e Calogiuri non si erano limitati a fare il bagno nel loro momento naturista, anzi, tutt’altro?

 

“Prima di tutto non è detto che escano, Valentì. Farò di tutto perché non succeda, e poi-”

 

“E poi non è solo quello. Se sta gente sta a Roma… che devo fare? Stare chiusa in casa in quell’appartamento da sola?”

 

Imma sospirò, perché effettivamente il rischio a Roma era forte e non sapeva quanto ci sarebbe voluto per individuare i colpevoli.

 

“Se… se ti senti più tranquilla puoi stare da noi per un po’: il divano letto non è troppo scomodo.”

 

Alzò lo sguardo, incredula, ed incrociò gli occhi rassicuranti di Calogiuri, almeno fino a che la vista non se le appannò: un giorno lo avrebbero fatto santo, come minimo! Martire, per essere precisi.

 

Sentì Valentina rimanere per un attimo come bloccata, ma poi li squadrò entrambi, sembrando molto colpita, “guarda, ti ringrazio per l’offerta e sei fin troppo gentile, Calogiuri, ma… magari con voi due sarò pure al riparo da certi traumi, ma ne rischio molti altri. E poi non voglio fare la terza incomoda.”

 

Stava per protestare che era sempre sua figlia e a casa sua sarebbe sempre stata la benvenuta, quando Penelope intervenne con un, “Vale potrebbe venire a stare da me, finché non ricominciano gli esami o le lezioni. Il mio condominio ha il portiere ventiquattr’ore su ventiquattro e sto in una zona tranquilla. Mio padre su queste cose è fin troppo apprensivo. E la mia coinquilina di sicuro fino a fine settembre non rientra, che sta al mare dai suoi in Calabria.”

 

“Sì, ma pure a Milano ci stanno i giornalisti, fin troppi! E poi voi due da sole, se qualcuno provasse ad aggredirvi… non so se è una buona idea.”

 

“Ma potremmo uscire il meno possibile, farci consegnare la spesa ed il mangiare. Sempre se Valentina ha voglia di venirci, ovviamente.”

 

“Ma che scherzi, Penelope? Certo che ne avrei voglia! Mamma, posso? Se sono con lei starò più tranquilla. E poi non ho mai visto Milano.”

 

“E manco stavolta la dovresti vedere! Che se mi vai in giro nei luoghi della movida, tanto vale che te ne stai a Roma ed esci con un cartello luminoso in testa con scritto fotografatemi!”

 

“Ma no, mà, saremo prudenti, veramente. E poi dopo queste vacanze un po’ di giorni a divano e serie televisive non mi dispiacerebbero per niente.”

 

Imma cercò di nuovo lo sguardo di Calogiuri che annuì leggermente. Non era forse la situazione ideale da un punto di vista della sicurezza ma, o metteva sua figlia sotto scorta, cosa impossibile, o la costringeva ad abitare con loro, o doveva accettare il rischio. E con Penelope sicuramente le conseguenze psicologiche per sua figlia di doversene stare rintanata in casa, e di quello che sarebbe potuto seguire ad un’eventuale pubblicazione, sarebbero state minori che per conto suo o con loro due.

 

E poi Valentina era maggiorenne ormai e non aveva bisogno del suo permesso in ogni caso.


“Siate prudenti, mi raccomando!” intimò ad entrambe e si ritrovò avvolta in un altro abbraccio.

 

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“Sono qui!”

 

Mariani, bella come il sole, con quel sorriso luminoso da principessa Disney e l’aria da ragazzina, li salutò non appena uscirono con i bagagli.

 

Notò l’occhiata sorpresa di Penelope e pure di Valentina, che probabilmente non si aspettavano che il maresciallo Mariani fosse così.

 

“Venite,” si affrettò a dire, avviandosi verso una delle porte.

 

Vista la fretta, Imma si chiese se Mariani sapesse già tutto.

 

Ed ebbe la sua risposta pochi minuti dopo, quando arrivarono ad una specie di mini bus, di quelli da navetta coi vetri oscurati e, salendo, si trovò Mancini in borghese, seduto nell’ultima fila di posti.

 

“Dottore…” sussurrò, rimanendo turbata da qualcosa di indefinito nello sguardo di lui.

 

“Salite in fretta e partiamo,” ordinò lui, asciutto, mentre Penelope sembrava ancora più stranita.


Valentina no: probabilmente lo aveva riconosciuto.

 

Calogiuri, invece, rimase in silenzio, sedendosi accanto a lei e fissando un punto davanti a loro. Non servivano parole per capire il suo stato d’animo.

 

“Sto raccogliendo i fondi necessari, dottoressa. E preparando l’operazione. Ci deve comunicare appena possibile il luogo dell’appuntamento e poi ci pensiamo noi,” proclamò Mancini, deciso, non appena il veicolo ebbe iniziato a muoversi.

 

“Noi chi, dottore?” chiese, voltandosi verso di lui e trattenendo a stento un’occhiataccia.

 

“Ho chiesto aiuto a De Luca, oltre che a Brian e-”

 

“E l’ultima volta che ci sono stati di mezzo i ROS, con tutto il rispetto per De Luca che è bravissimo, sappiamo com’è finita, dottore!”

 

“Ho coinvolto solo lui e Brian, dottoressa. E Mariani e Conti, di cui mi pare lei si fidi. Ce la faremo, vedrà.”

 

“Lo spero, ma vorrei capire come si svolgerà quest’operazione, dottore, visto che c’è di mezzo mia figlia oltretutto.”

 

Mancini le rivolse un’occhiataccia, ma poi si voltò verso Valentina e Penelope ed il suo sguardo parve addolcirsi, “non vi preoccupate: vedrete che riusciremo a prenderlo o a prenderli. Però dovete essere prudenti d’ora in poi e stare al riparo il più possibile finché questa storia non sarà finita.”

 

“Ma come fa a finire? Mia madre resta un magistrato! E poi cos’è? Vuole farci la predica su cosa abbiamo fatto in vacanza e che non è stata una buona idea e-”

 

“La predica, come la chiami tu, Valentina, giusto?” chiese, interrompendola, ma in un modo paziente, specie considerando il tono di Valentina che era tornato quello da schiaffi dell’adolescenza, “l’ho già fatta a tua madre. Lo so che siete giovani e… sapeste che ho combinato io alla vostra età! Ma per qualche tempo purtroppo dovete fare anche voi un sacrificio e stare più attente del solito, finché non riusciamo a prendere queste persone. Qua non si tratta soltanto di fotografi, ma penso ci sia dietro un’associazione a delinquere vera e propria.”

 

Valentina si ammutolì, colpita, e pure Imma lo era, le toccava ammetterlo. Sia dalle parole di lui, sia dal modo in cui le aveva pronunciate. Sarebbe stato un buon padre, Mancini, se avesse avuto una vita meno sfortunata. E poi una parte di lei si chiese come doveva essere stato in gioventù. Di sicuro il tipo da fare stragi di cuori.

 

“Va… va bene,” sospirò Valentina, scambiandosi un’altra occhiata d’intesa con Penelope.

 

“Dove vi lasciamo, ragazze?” chiese Mariani, mentre superava con abbastanza facilità il traffico ridotto della capitale ad agosto.

 

Ed Imma comprese che Mancini voleva probabilmente discutere dei dettagli dell’operazione ma senza che ci fossero loro due presenti.

 

Valentina e Penelope si lanciarono un’altra specie di segnale e poi Valentina rispose, “alla stazione Termini.”

 

“Come a Termini?!” intervenne Mancini, sbigottito.

 

“Dottore, vede, le ragazze vogliono stare a Milano, a casa di Penelope. Mi hanno garantito che usciranno il meno possibile e… e forse è meno peggio lì che qui.”

 

Il procuratore capo sembrò rifletterci un attimo e poi annuì.

 

“Se state in casa va bene. Ma comunque chiederò ad un paio di uomini di fiducia che ho a Milano di rimanere di sorveglianza, almeno fino alla fine dell’operazione. Se mi dai l’indirizzo, Penelope.”

 

Il tono di Mancini era gentile, ma di fatto era un mezzo ordine.

 

Valentina e Penelope spalancarono gli occhi, sembrando sull’orlo di protestare ma le precedette, “sentite… forse… forse è più prudente. Almeno, in caso di problemi, c’è qualcuno che può intervenire subito. E così potete stare più tranquille anche quelle volte in cui dovrete uscire. Sarà solo per qualche giorno, no, dottore?”

 

“Spero di sì. Questa cosa o in un modo o nell’altro dovrebbe chiudersi in un paio di settimane al massimo.”

 

Sapeva che cosa intendesse dire: o riuscivano a prenderli o le foto sarebbero comunque uscite in un tempo non lunghissimo. Dopodichè la sorveglianza sarebbe stata in ogni caso inutile.

 

Sua figlia guardò l’amica e poi, quasi all’unisono, annuirono entrambe.

 

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“Finalmente!”

 

Mollò la valigia e lo zaino in camera e si liberò subito dalle scarpe, i piedi che si lamentavano dopo due giorni di quasi non stop, salvo quattro ore scarse di sonno.

 

Udì un tonfo e vide che pure Calogiuri aveva depositato i suoi di bagagli.

 

Ma c’era qualcosa in quel rumore, o forse nel modo in cui lui teneva le spalle ed evitava il suo sguardo, che le fece venire un campanello d’allarme.

 

“Calogiuri?” chiese, ma non ottenne risposta, ed il campanello suonò ancora di più, “che c’è?”

 

“Ma no, niente, non ti preoccupare, che… che ne hai già abbastanza di pensieri,” rispose, facendo per avviarsi verso il bagno, ma Imma gli si parò davanti e lo bloccò.

 

“Calogiuri, se non mi dici entro due secondi che cos’hai, altro che preoccupazione o averne abbastanza!” esclamò, mettendogli una mano sul petto. E poi le venne un’intuizione, “ma… è per Mancini?”

 

E, dall’ombra che passò sull’azzurro, capì di averci preso in pieno.

 

“Non… non mi piace il suo atteggiamento, Imma: per carità, lo so che è capace e che… e che ha tanti mezzi e tante conoscenze, ma-” si bloccò, scuotendo il capo, prima di aggiungere, con un tono amaro, “forse… forse la verità è che… che vorrei poter fare io di più per te e per Valentina e invece-”

 

“Ma sei matto?! Hai fatto tantissimo, Calogiuri! Se non ci fossi stato tu non so come avrei fatto… sarei andata in panico. E pure in commissariato, te la sei cavata benissimo!”

 

“Ma non abbastanza da… da non aver bisogno del salvataggio di Mancini. Lo so che non sono e non sarò mai al suo livello e-”

 

“E questa è una grandissima cavolata, Calogiuri! E se lo ripeti mi incazzo! Nemmeno io ho i contatti che ha Mancini, Calogiù, o la sua esperienza, ma… ma la persona di cui mi fido di più di tutti sei tu. Solo che in questa situazione… dobbiamo per forza avere l’aiuto di qualcuno che sia meno coinvolto, visto quanto ci tengono d’occhio.”


“Scusami, tu sei preoccupata per Valentina e-”

 

“Se ti scusi di nuovo ti faccio dormire sul divano, Calogiuri!” intimò, abbracciandoselo forte forte. Poi però si staccò, realizzando improvvisamente una cosa, “devo… devo avvertire Pietro, prima che le foto possano uscire sui giornali.”

 

A giudicare dallo sguardo di lui, sapeva benissimo come lei che difficilmente sarebbe andata bene.

 

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“Che cosa?! Lo sapevo che non dovevo far venire Valentina appresso a te, Imma!”

 

“Veramente tu non volevi farla andare in interrail, Pietro!”

 

“E ci mancava solo quello, visto tutto quello che ha combinato. Dove sta mo, che le voglio parlare?”

 

“Dovrebbe… dovrebbe quasi essere a Milano. Le ragazze sono andate a stare a casa di Penelope, finché la situazione non si sgonfia un poco e-”

 

“E magari parlarmene prima di farla andare ancora in giro da sola con quella Penelope? L’ho sempre detto che è una pessima influenza su Valentina e avevo ragione: non avrebbe mai fatto cose del genere se non ci fosse stata pure lei appresso!”

 

“Pietro, ma che non conosci più tua figlia? Mi sembra che sia sempre stata… abbastanza vivace, per non dire altro, e poi è una ragazzata e-”

 

“Una ragazzata?! Io non mi sono mai buttato nudo in mare a Metaponto e-”

 

“Ma in una cabina sì. O mi ricordo male?” sbottò, perché non ne poteva più.

 

Ci fu un attimo di pausa, tanto che pensò pure che Pietro avesse buttato giù il telefono.

 

“Soltanto per cercare di mantenere vivo il nostro rapporto, come lo scemo che ero, che sentivo che ti stavi allontanando da me, Imma. E poi non ti riconosco più: una volta avresti messo su un caso di stato anche solo per il bagno a mezzanotte e mo invece… la giustifichi in tutti i modi. Anche se so che Valentì è una vittima e che andrebbe protetta, come tu però non mi pare stia facendo.”

 

“E dove dovevo dirle di stare, Pietro? Qua a due passi da casa mia e dalla procura? O a Matera che c’ha più comari e occhi che Sassi?”

 

“Non lo so. Ma una volta ti saresti consultata con me, Imma. Valentina resta mia figlia e mi pare che te ne sia scordata!”

 

“E tu mi pare che ti sei scordato che è maggiorenne, Pietro. E, se vuole andarsene a Milano a spese sue e di Penelope, non posso impedirglielo. E poi sarà sorvegliata da alcune persone di fiducia.”

 

“Va beh… tanto con te è inutile stare a discutere, lo so. La chiamerò più tardi per sentire come sta. C’era altro che dovevi dirmi?” le chiese, con un tono strano, tanto che per un secondo si chiese se fosse veggente e sapesse delle possibili foto sue e di Calogiuri.

 

Ma non voleva tirare troppo la corda.

 

“No, Piè, non c’è altro. Ti faccio sapere appena ho notizie.”

 

E mise giù, sentendo di essersi levata di dosso un peso.

 

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Ho i soldi. Dove e quando?

 

L’ansia salì non appena il messaggio fu inviato. Erano passati tre giorni ed aveva fatto varie visite in banca, per rendere credibile il fatto che stesse prelevando. In realtà i soldi li aveva appena finiti di raccogliere Mancini ed era ora di fare scattare il piano.

 

Sotto questa panchina al Pincio. Tra un’ora.

 

Vide una panchina di pietra, accanto ad un busto.

 

Due, devo prima trovare la panchina.

 

Un’ora e mezza. Non fare scherzi e vieni da sola o le foto escono tutte.

 

“Senti Mancini e io sento MarianI?”

 

Sorrise a Calogiuri, vedendolo così pronto all’azione, pure tra le mura domestiche.

 

“Lo sai che ci devo andare da sola al Pincio, vero? Almeno in apparenza.”

 

“Lo so…” sospirò lui, mentre la preoccupazione di entrambi sobbolliva, come un sugo pronto ad esplodere loro in faccia non appena avessero osato sollevare il coperchio.

 

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“Ci siamo… ha lasciato il sacchetto. Dottoressa, cammini con calma fino all’uscita del parco e torni verso casa. Da qui ci pensiamo noi.”

 

Vide Imma ravviarsi i capelli dietro le orecchie, il segnale convenuto per fare loro capire che l’auricolare invisibile ancora funzionava. E continuò a camminare, come se niente fosse.

 

L’investigazione non era fatta solo di azione, intuizioni geniali e adrenalina.

 

Era fatta anche di attese: lunghe, lunghissime attese. Soprattutto con i tempi italiani.

 

Ma quegli attimi trascorsi a guardare lo schermo gli parvero infiniti, per tutta una serie di ragioni alle quali non poteva e non doveva pensare.

 

Perché, sotto alla rabbia per come aveva gestito malissimo tutta quella situazione e per la presa in giro, a quella donna che procedeva sui ciottoli a passo marziale, su quei tacchi vertiginosi ai quali pure in quella circostanza non aveva rinunciato, lui teneva ancora maledettamente.

 

Si era fidata di lui per uscire da quella situazione e non voleva deluderla, anche se lei per primo l’aveva deluso come poche altre persone al mondo. Ma, soprattutto, non voleva che fosse in pericolo, né lei né la figlia.

 

La dottoressa, anzi, Imma, come pensava a lei in privato, era già sparita dalla ripresa quando, dopo alcuni minuti, un senzatetto, un po’ claudicante, entrò nell’inquadratura.

 

Inizialmente non ci fece troppo caso: purtroppo i parchi erano pieni di persone sfortunate che non avevano un tetto sopra la testa.

 

Ma, quando si avvicinò alla panchina in questione, temette che tutto sarebbe andato in fumo.

 

L’uomo si sedette sulla panchina ed udì una voce femminile che gli chiese, “che facciamo ora?”

 

Era Mariani che, con un cane addestrato al guinzaglio, stava passeggiando nel parco.

 

Stava ancora scervellandosi per trovare un modo di fare allontanare il senzatetto di lì, che non destasse sospetti, quando l’uomo si rialzò, ma in mano teneva il sacchetto che la dottoressa aveva depositato.

 

“Che facciamo?” ripeté e Mancini ebbe pochi secondi per rifletterci su.

 

Magari il senzatetto aveva solo colto un’occasione al volo. Ma, in entrambi i casi, doveva farlo seguire per capire, anche perché poteva essere in pericolo.

 

“Alpha, seguilo a piedi. Beta, tieniti pronto con l’auto. Chi rimani in posizione, continuando a passeggiare.”

 

Vide dalle telecamere che Alpha, cioè Brian, che stava nei pressi del parco in completo da runner, si era avviato come da lui richiesto. De Luca gli fece un cenno di ok da sopra al volante.

 

La tensione che saliva, fissò l’area di schermo che rimandava il feed della telecamera di Brian che, seppure a distanza, seguiva l’uomo che zoppicava oltre l’uscita, dirigendosi verso Piazza del Popolo.

 

Con una lentezza esasperante, l’uomo percorse alcune stradine laterali alla piazza, fino ad arrivare vicino alla fermata della metro Flaminio. E, in un lampo, gettò il sacchetto dentro a un cestino dei rifiuti ed iniziò ad allontanarsi.

 

“Qui Alpha. Ordini?”

 

Erano ad un bivio: potevano fermare il senzatetto o attendere lì per vedere cosa sarebbe successo.

 

“Alpha, resta in posizione. Delta, convergi e seguilo. Sta procedendo su Via di Villa Ruffo, verso il parco.”

 

“Ricevuto!” rispose Conti, avviandosi dalla sua posizione.

 

Mentre era ancora intento a fissare il vecchietto, improvvisamente sentì la voce di Brian sibilare, “l’ha preso!”

 

Spostò lo sguardo verso il cestino e vide un uomo che pareva uscito da Gomorra con il sacchetto nero in mano.

 

Alto, muscoloso, con su una maglietta attillatissima, una catena al collo e gli occhiali da sole a specchio, oltre all’abbronzatura e alla pettinatura da tamarro, si stava già avviando verso Via Flaminia.

 

“Seguilo, Alpha,” ordinò, anche se era l’unica cosa logica da fare, ed infatti Brian aveva già fatto qualche passo.

 

Il ragazzo sembrava molto cauto, guardandosi spesso alle spalle e facendo un mezzo giro dell’oca. Per fortuna Brian negli inseguimenti era più che capace e, dopo un po’, finalmente l’erede di Savastano si fermò di fronte ad un’auto decisamente anonima. Forse rubata.

 

Lo vide aprirla ed a quel punto seppe che non c’era altro tempo da perdere.

 

“Beta e Gamma, convergete ai lati di Via Flaminia, seguitelo col GPS, mi raccomando state a distanza!”

 

Per fortuna il rilevatore di posizione nascosto tra le banconote non era stato individuato, almeno per il momento.

 

De Luca e… e il maresciallo fecero segno di ok dai loro veicoli e si spostarono dai due angoli del parco nei quali erano rimasti parcheggiati in attesa.

 

All’inizio era stato contrario a fare partecipare Calogiuri alla missione ma, a parte De Luca, al volante era il migliore. Ed avevano bisogno di tutti gli uomini di cui si potevano fidare.

 

Almeno per quanto riguardava il lavoro ed il non essere a rischio fuga di notizie, perché per il resto… lui del maresciallo si fidava molto poco, anzi.

 

Ma non era quello il momento di pensare alle vicende private.

 

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“Qui Beta, tutto regolare. Gamma, come va?”


“Qui Gamma. Sono in zona Farnesina, procedo in parallelo alla vettura.”

 

Sentiva il battito rimbombargli nel petto, l’adrenalina a mille. Per fortuna era agosto e a quell’ora non c’era tanto traffico, ma gli inseguimenti in auto erano sempre un’incognita.

 

Soprattutto visto quello che era capitato l’ultima volta.

 

E poi… e poi stavolta in collegamento non c’era Imma, che se ne era dovuta tornare a casa per non destare sospetti. Ma forse era meglio così.

 

Stava sfrecciando verso nord, cercando di mantenersi sempre vicino alla vettura che, seppur con qualche cambio di direzione improvviso, probabilmente per depistare eventuali inseguitori, continuava a seguire a grandi linee Via Flaminia.

 

Qualche istante dopo il puntino sul GPS rallentò e si fermò. Mise la freccia e si accostò nel primo posto disponibile, anche se in doppia fila, attendendo di vedere cosa sarebbe successo.

 

“Beta, Gamma, mi ricevete? Si è fermato. Attendete un attimo prima di procedere, che potrebbe essere un altro trucco.”

 

La voce di Mancini, come al solito decisa, da uomo abituato a dare ordini e a prendere decisioni per gli altri, un po’ lo infastidì, come gli capitava sempre di più negli ultimi mesi.

 

Ma non poteva fare altro che sperare che il suo piano funzionasse, per il bene di Imma e di Valentina.

 

“Si muove, si muove ma molto lentamente… che succede?” chiese De Luca, ed in effetti il puntolino procedeva a passo d’uomo.

 

“Magari è sceso dalla macchina ma dobbiamo esserne certi. Gamma, procedi in auto verso quella via e verifica. Beta, se fosse a piedi, preparati a lasciare la vettura e seguirlo.”

 

“Agli ordini!” rispose, inserendo la prima ed avviandosi quanto più rapidamente consentissero le altre vetture, essendo in borghese.

 

Infine riuscì a raggiungere il puntino e lo vide, inconfondibile visto com’era conciato, che continuava a camminare sul marciapiede come se nulla fosse.

 

“Lo vedo, è a piedi.”

 

“Beta, seguilo. Gamma, rimani in zona in auto, ma fuori dal campo visivo.”

 

Sapeva che l’inseguimento a piedi era meglio che non lo facesse lui, sapeva che avrebbero potuto riconoscerlo, ma gli pesava dover rimanere così defilato.

 

Non poteva fare altro che aspettare.

 

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“Qui Beta, è entrato in un condominio. Istruzioni?”

 

“Aspettiamo. Sorveglia che non esca. Chi e Delta, raggiungete Beta in modo da darvi il cambio. Abbiamo un po’ di immagini del sospettato e faremo qualche ricerca. Beta, dammi l’indirizzo preciso.”

 

“Qui Chi. Con il primo sospettato come facciamo?”

 

“Non conviene interrogarlo ora. Gli scatti una foto e cerchi di procurarsi le impronte. Magari offrendogli qualcosa. Così se serve lo rintracciamo. Di solito le persone che vivono in strada restano principalmente in una zona sola.”

 

“Ai comandi. Passo e chiudo.”

 

“Qui Beta. Sei sicuro di non voler procedere?” si inserì De Luca, osando fare la domanda che probabilmente si stavano ponendo tutti.

 

“Qui Alpha. Se c’è da fare irruzione posso raggiungervi.”

 

“No, meglio attendere e verificare che il ricattatore sia davvero lui. C’è qualcosa che non mi convince.”

 

Sapeva di starsi prendendo un’enorme responsabilità. Ma quel ragazzotto non gli sembrava il tipo da gestire un giro di ricatti internazionali e, se fosse stato a Maiorca, Imma lo avrebbe notato sicuramente.

 

Aveva più l’aria da manovalanza. Sperava solo di non sbagliarsi ma, se avessero agito troppo presto, rischiavano di non cavarne niente, perché i tipi come quello non parlavano. Li conosceva troppo bene.

 

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“Ti piace?”

 

“Buonissimo! Altro che il sushi da all you can eat che mangiavo a Roma. A Milano vi trattate bene!”

 

“Eh… diciamo che ormai il sushi è molto più diffuso della cucina milanese,” rise Penelope, afferrando con le bacchette l’ultimo pezzo di uramaki che le era rimasto nella confezione di plastica.

 

Valentina annuì, bevendo un altro sorso di vino, pure quello eccezionale. Aveva intuito che il padre di Penelope fosse abbastanza abbiente, ma aveva mandato loro la cena a domicilio, non badando a spese. Sua madre al massimo le avrebbe inviato un trancio di pizza ed una bibita in lattina.

 

Non potè evitare di chiedersi dove sarebbe stata Penelope in quel momento, se non fosse stato per lei. Probabilmente con chissà quale giro di amicizia figo a fare serata in qualche locale alternativo. Ed invece erano lì chiuse in quell’appartamento ormai da quattro giorni.

 

“Che c’è, Vale? Qualcosa che non va?”

 

Sollevò lo sguardo dagli ultimi due nigiri rimasti ed i loro occhi si incrociarono. Per qualche motivo, le venne un lieve brivido lungo la schiena.

 

“No… è che… mi dispiace di averti trascinata in tutto questo casino. Soprattutto se… se quelle foto alla fine dovessero uscire,” ammise, anche se una parte di lei si rifiutava anche solo di considerare quell’ipotesi. Ma la realtà non cambiava.

 

“Vale, guarda che per me non è un grosso problema se pubblicano quelle foto. Essere inseguita e spiata ovviamente mi fa incazzare, ma…  hanno fatto un mio nudo in accademia, poi col lavoro che voglio fare sai che me ne frega. A me spiace per te che… che lo so che avrai più problemi, tra la famiglia, Matera e l’università.”

 

“Che fine ha fatto?” chiese prima di potersi trattenere.

 

“Che cosa?”

 

“Il nudo che hai fatto.”

 

“Ce l’ho ritirato in un cassetto, credo, perché?”

 

“No, per capire se stava in qualche mostra.”

 

“Come no! I miei compagni d’accademia ne devono fare di strada prima di essere esposti, Vale. E anche io.”

 

“Lo… lo potrei vedere? Se non ti imbarazza?” le uscì di nuovo, forse era il vino a darle coraggio.

 

“Veramente mi hai vista nuda dal vivo, quindi perché dovrebbe imbarazzarmi? Ma-”


“No, è che… mi è sempre piaciuto quel genere di ritratti, quindi ero curiosa.”

 

“Va bene, vedo se lo trovo,” rispose, alzandosi dal divano ed avviandosi verso la camera da letto.

 

Il cuore che sembrava un tamburo, Valentina attese col fiato sospeso, fino a che Penelope tornò con un foglio arrotolato, sciolse il nastro che lo legava e glielo porse.

 

Penelope era stata ritratta di fronte, seduta, abbracciandosi le ginocchia che le coprivano il petto. Era una posa raffinata, pareva uscita da qualche dipinto antico, non fosse stato per la chioma ed i piercing.

 

“Sei… bellissima…”

 

Si rese conto di che cosa aveva detto solo quando ormai lo aveva già fatto e Penelope, stranamente, divenne di un colore quasi ciliegia, lei che era sempre così tranquilla.

 

“Sì… va beh… devi vedere certe modelle che abbiamo in accademia! Loro sì che sono bellissime.”

 

Ed a quella frase un qualcosa le si rimestò nello stomaco, come un fastidio. E non era il sushi.

 

“Vorrei… vorrei averlo anche io un ritratto così,” disse infine, per rompere il silenzio.

 

“Sì. Con tutti i casini che hai, Vale, ti ci manca solo il ritratto nuda e poi tua madre vedi che ti fa!”

 

“Ma non da… da esporre in giro. Da tenere per me.”

 

“Se… se vuoi te lo posso fare io. Ma… ma ci vorrà un bel po’ di tempo e di pazienza a posare.”

 

Le palpitazioni che ormai non si contavano, le mani sudate, Valentina annuì, con un, “tanto il tempo non ci manca, no?”

 

“No, infatti….” rispose Penelope, con un sorriso, “aspetta che vado a prendere la carta da disegno e il carboncino.”

 

Prima che le mancasse il coraggio, Valentina si levò i vestiti, rimanendo in intimo. Ma, quando Penelope tornò con l’attrezzatura, improvvisamente si sentì molto più intimidita che in spiaggia. Forse perché almeno là erano al buio, mentre lì con quei led c’era fin troppa luce.

 

“Ti… ti dispiace se… se resto così?”

 

“No, però… dovresti abbassare le spalline. Poi tanto il resto nel ritratto sarà più o meno coperto e vado per intuizione. Prova a metterti in posa così,” le disse, sedendosi e mostrandole come doveva posizionarsi: seduta con le braccia incrociate intorno al seno, le gambe semipiegate lateralmente in modo da coprire il resto.

 

“Per… per quanto devo resistere in questa posizione?”

 

“Tranquilla che facciamo delle pause, possiamo pure fare in più giorni se ti stanchi. Tanto, appunto, chissà per quanto tempo ci tocca stare qua.”

 

Penelope si piazzò sul tavolino di fronte al divano ed iniziò a scarabocchiare qualcosa sul foglio.

 

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“Com’è… com’è andata?”

 

Calogiuri, sulla porta, per poco non fece un salto, “Imma! Prima o poi mi farai davvero prendere un colpo!”

 

“E dai, Calogiù! Lo sai che… tutte queste ore a non sapere niente. Che è successo?”

 

“Abbiamo due sospettati. Principalmente uno, che pare un mezzo mafioso come atteggiamento e che si è portato i soldi in un condominio. Mancini lo sta facendo sorvegliare e… e sta facendo ricerche su di lui. Ma mi ha detto che era meglio che io rientrassi che… che il mio volto è troppo noto e rischio di farmi riconoscere.”

 

Coglieva perfettamente la frustrazione di Calogiuri, anche se da un lato era più tranquilla così, per quanto si fidasse delle capacità di lui. Ma non voleva un altro agguato come quello nel quale quasi ci aveva lasciato la pelle.

 

Allungò una mano per dargli una carezza, ma lui le disse, “aspetta!” ed estrasse una lettera dalla tasca interna della giacca leggera, porgendogliela.


“Era nella buca giù all’ingresso.”

 

Imma per un attimo si spaventò, temendo che potesse essere un altro messaggio ricattatorio. Poi, girandola, vide come mittente l’indirizzo del tribunale di Matera.

 

Con mano un po’ tremante, si avviò verso la cucina, cercando una forbice, ed infine fu Calogiuri a passargliela.


“Vuoi che la apra io?”

 

“No, tranquillo, Calogiuri.”

 

Riuscì a strappare solo di poco la carta e ad estrarne un foglio piegato in tre.

 

Udienza di Divorzio

 

Quelle parole emersero dal foglio chiare e nitide, sovrastando tutte le altre.

 

E poi vide la data: mancavano soltanto due settimane.

 

L’efficienza della cancelleria del tribunale e la solerzia dei giudici erano come sempre encomiabili. Dopo averla fatta aspettare esattamente un anno dalla separazione, oltretutto, pure se era stata consensuale.

 

Ma ora… con tutto quello che stava capitando… poteva andarsene a Matera proprio in quel momento?

 

Guardò Calogiuri che evidentemente aveva capito benissimo di cosa si trattasse e forse pure di più, a giudicare dal modo in cui abbassò lo sguardo e si allontanò verso il bagno, senza dire una parola.

 

*********************************************************************************************************

 

“A… a che punto sei?”

 

“Sei scomoda, Vale?”

 

Non sapeva esattamente che dire, perché la scomodità non era quella che si immaginava Penelope. Sentiva come una tensione crescente nell’aria, ogni volta che Penelope la guardava e poi riprendeva a disegnare, sempre più forte, ed un senso di agitazione mai sentito prima.

 

Si chiedeva se fosse lo stesso anche per Penelope o se non provasse niente, visto che sembrava tutto sommato tranquilla.

 

“Comunque ho finito la bozza iniziale, da qua devo lavorare sui dettagli.”

 

“Posso?” le chiese, rimettendosi seduta normalmente sul divano e sporgendosi verso di lei per spiare oltre al blocco di fogli.

 

E fu un altro colpo al cuore.


“Ma… ma è bellissimo. Io… io non sono così bella!” disse, ammirando con stupore la forma del corpo e del viso che c’erano tratteggiate sul foglio.

 

“Mi stai dando dell’incapace, Vale? Guarda che io i ritratti li faccio realistici! Tu sei bella,” esclamò, decisa, ma poi si bloccò per un attimo, come se trattenesse il fiato o le parole.

 

Solo in quel momento, sollevando gli occhi, Valentina si rese conto che il viso e, soprattutto, la bocca di Penelope erano a pochi centimetri. Il respiro di lei le solleticava la guancia.

 

E, prima di capire del tutto cosa stesse succedendo, si trovò con dei capelli tra le dita, il busto che, quasi da solo, si estendeva ancora di più, fino ad avere quelle labbra morbide sulle sue.



Nota dell’autrice: Ed eccoci qua, alla fine di questo trentanovesimo capitolo che mi rendo conto essere leggermente più corto del mio solito. Ma se non mi fossi interrotta qui sarebbe venuto infinito, per gli argomenti da trattare.

Nel prossimo capitolo, il quarantesimo, cifra tonda, ci saranno Milano, Roma e Matera, alcune cose che arrivano a conclusione ed altre che iniziano. La situazione molto particolare in cui sono i personaggi potrebbe creare delle tensioni tra Imma e Calogiuri ma… tra un salto temporale e l’altro… chissà come se la caveranno, mentre alcuni soggetti che tramano nell’ombra si delineeranno sempre di più.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto nonostante la connotazione più gialla e vi ringrazio di cuore per avermi seguita fin qui ormai per quasi quaranta capitoli.

Come sempre le vostre recensioni sono una motivazione immensa per me, oltre ad aiutarmi a tarare meglio la storia, e quindi vi ringrazio se vorrete farmi sapere che ne pensate.

Un grazie a chi ha messo la mia storia tra le preferite o le seguite.

Il prossimo capitolo arriverà domenica prossima, 26 luglio.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 40
*** Vite Parallele ***


Nessun Alibi


Capitolo 40 - Vite Parallele


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

Il cuore in gola, ogni pensiero svanì in quelle sensazioni nuove, inspiegabili e talmente intense da sconvolgerla. E poi, in un secondo, in un “Vale!” soffiatole sulle labbra ed una leggera spinta sulle spalle, che la fece sbilanciare indietro sul divano, tutto svanì.

 

Riaprì gli occhi e vide quelli azzurri di Penelope, spalancati ed increduli. Ed improvvisamente temette di essersi fatta un film in testa ed avere frainteso tutto. Ma, anche se per pochi istanti, c’era stata pure lei in quel bacio, l’aveva sentita, non era possibile che fosse tutto a senso unico.

 

O no?

 

“Vale… hai… hai bevuto troppo vino. Mi sa che è meglio se ce ne andiamo a dormire e-”

 

“A dormire?” chiese, non volendo credere a quelle parole, perché si sentiva talmente a fuoco, in tutti i sensi, che dormire sarebbe stato impossibile, “non sono ubriaca! Anzi, non sono mai stata così lucida! È… è da un po’ che… che ci penso e… e che quello che provo per te è diverso da… da un’amicizia e basta. E… pensavo che forse anche tu-”

 

“Vale,” la interruppe, decisa, mettendole la mano sull’avambraccio. Valentina sentì una specie di scossa che la lasciò per un attimo senza fiato.

 

Possibile che la sentisse solo lei?

 

Eppure Penelope si affrettò a ritrarre la mano e poi proseguì, più seria, “ti… ti sono sempre piaciuti i ragazzi, lo so. Pure prima di Samuel. Non vorrei che… con tutto quello che è successo negli ultimi mesi con lui... e adesso… che sono settimane che stiamo da sole io e te…. Insomma, non vorrei che tu stessi confondendo un po’ le cose, magari perché ti senti sola o perché hai paura di cosa succederà quando tornerai a Roma.”

 

“Ma secondo te io ti… ti userei perché mi sento sola? Ma non mi conosci?!” esclamò, non potendo credere a quello che stava sentendo, che le faceva molto più male del rifiuto in sé.

 

“Non sto dicendo questo, Vale. Ma… mi è già capitato in passato di avere relazioni con ragazze che stavano ancora… scoprendo il loro orientamento. Ed alla fine hanno capito di preferire gli uomini e l’amicizia intanto si è rovinata, ovviamente.”

 

“A me questa sembra solo una scusa! Se non… se non ti piaccio e non sei interessata puoi dirmelo e basta.”

 

“Vale, non è quello. Tu... tu mi piaci, ma prima di tutto ti voglio bene e ci tengo troppo a te per rovinare la nostra amicizia con un esperimento.”

 

“Quindi se… se io fossi lesbica e basta, per te le cose sarebbero diverse?”

 

“Sì, ma non lo sei, Vale.”

 

“Ma come faccio a capire… a capire cosa sono se non ci provo neanche? Che poi… che c’è da capire! Mica ci vorrà chissà che, per sentire se una persona ti attrae, no? E… baciandoti lo so io cosa ho provato, e non puoi deciderlo tu per me!”

 

“No, non posso deciderlo io per te, ma posso evitarci una cazzata per il troppo vino. Quando sarai del tutto sobria ne possiamo riparlare, Vale, ma non prima,” sentenziò Penelope, decisa, posando il blocco da disegno sul tavolo ed alzandosi in piedi, “dai, che è meglio se ci dormi sopra.”

 

La delusione e l’incazzatura facevano a pugni dentro di lei, “guarda che non sono una bambina. E pensavo di essere io ad avere troppe paure, e che tu fossi quella coraggiosa. Ma mi sbagliavo.”

 

“Vale-” si sentì chiamare mentre, ancora furiosa, andava verso la camera della coinquilina di Penelope, che stava per il momento usando lei.

 

Ma non si fermò e sbattè la porta dietro di sé, alla faccia di Penelope e dei vicini.

 

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“Calogiuri, si può sapere che c’è? Già non hai mangiato quasi niente, e va bene che la mia pasta fredda magari non sarà stata il massimo, ma mo… sei stato talmente silenzioso stasera che, al confronto, quando ti ho conosciuto eri loquace.”

 

Lo sentì sospirare, seduto accanto a lei nel letto, nella stessa posizione in cui era da non sapeva nemmeno quanti minuti. Poi, finalmente, si voltò a incrociare il suo sguardo.

 

“Imma… lo sai che c’è. Ho visto la tua espressione quando… quando hai visto dell’udienza di divorzio. Non hai intenzione di andarci, non è vero?”

 

Lo sguardo deluso di lui era peggio di uno schiaffo, per non parlare del tono di voce rassegnato. Sì, la conosceva decisamente troppo bene.

 

“Calogiuri, se dubito se sia… opportuno andarci tra due settimane è solo perché… c’è di mezzo tutta questa storia di Valentina e dei ricatti. E… finché non ci si capisce qualcosa, non so se sia il caso che me ne vada via da Roma. A Matera, poi.”

 

“E lo capisco, Imma, ma… e se la situazione non dovesse risolversi a breve? Se… se i giornalisti continuassero ancora per tanti mesi… che succederà?”

 

“Calogiuri…” sussurrò, prendendogli una mano e stringendogliela forte, “il problema non sono i giornalisti ma… ma il ricatto ed il fatto che qui non sappiamo nemmeno se si tratti solo di paparazzi e basta. Se… se è solo per due foto sui giornali, non me ne sono preoccupata prima e non comincerò adesso. E poi… che io non sia più legalmente sposata sarà solo un vantaggio, sia per il lavoro, che per l’opinione pubblica. Anche se non è per quello che voglio divorziare.”

 

“Ah no? E per cosa?” le domandò e finalmente gli angoli della bocca gli si risollevarono in uno di quei sorrisi che tanto amava.

 

Per me, Calogiuri, prima di tutto. Quando una cosa è finita, è finita, e non ha senso tenerla in piedi. Non avrebbe senso nemmeno se… nemmeno se non fossi fortunata come sono e non c’avessi te a sopportarmi, nonostante tutti i miei casini.”

 

Si trovò stretta in un abbraccio e tirò un sospiro di sollievo, lasciandocisi andare.

 

Anche se una parte di lei temeva che prima o poi la pazienza di Calogiuri si sarebbe esaurita: ne aveva già avuta talmente tanta in quei mesi, più di quanta ne avesse mai avuta lei in tutta la vita sua.

 

*********************************************************************************************************

 

“Il sospettato ancora non è uscito? Ormai sono due giorni!”

 

“No, dottoressa: i ragazzi sono sempre rimasti in postazione e col maresciallo abbiamo fatto i turni per sorvegliare il feed delle telecamere. Ma niente.”

 

Era molto toccata dal fatto che il procuratore capo stesso si mettesse a fare un lavoro del genere, in un periodo in cui probabilmente avrebbe dovuto essere in vacanza, oltretutto. Ma molti della PG erano in ferie e poi, a parte loro tre, Mariani e Conti, nessuno in procura fortunatamente sapeva di quella storia. Ci mancava solo che lo scoprisse quel maiale di Carminati e a posto stavano!

 

“Siamo sicuri che… che non abbia un altro modo per lasciare quel condominio? Mi sembra molto strano, non crede?” domandò, sedendosi accanto a Mancini, nella sala trasformata per l’occasione in una specie di cabina di regia, con tanto di monitor e cuffie.

 

“Non penso che il sospettato sia ad un livello criminale tale da poter pensare che abbia bunker o cunicoli nascosti sotto casa, dottoressa, e-”

 

Nocche che bussavano alla porta interruppero la spiegazione e, dopo un “avanti!” del procuratore capo, la porta si aprì e comparve Calogiuri che, vedendola lì accanto a Mancini, fece un’espressione indecifrabile ma che non prometteva benissimo. Si rivolse poi al superiore, con un fin troppo professionale, “dottore, sono venuto a darle il cambio come mi aveva chiesto.”

 

“Sono già le diciannove? Qua dentro si perde il senso del tempo. Comunque, stavo spiegando alla dottoressa che il sospettato non si è ancora visto.”

 

“Prima o poi dovrà uscire… quei soldi, se non sono destinati del tutto a lui, li dovrà consegnare a qualcuno, no?”

 

“Già, Calogiuri. A meno che… questo qualcuno non vada a ritirarli. Persone con bagagli sospetti?”

 

“Non mi pare, dottoressa. Solo alcune signore con delle sporte della spesa, ma in entrata. A lei, maresciallo?”

 

“No. Visto l’orario, lo avrei notato sicuramente.”

 

Calogiuri aveva trascorso la notte precedente in procura ed era rientrato a casa mentre lei stava facendo ancora colazione, che per lui era stata praticamente la cena.

 

Pure quella notte le sarebbe toccato passarla in un letto vuoto, senza di lui.

 

Sentiva su di sé gli sguardi sia di lui che di Mancini. Era veramente come essere tra incudine e martello.

 

Non sapendo più bene che chiedere, si voltò verso gli schermi, quando vide un tizio avvicinarsi all’entrata posteriore del condominio.

 

Pareva avere sui trent’anni, forse anche qualcosa meno, un po’ robusto, con una maglietta firmata che gli tirava sulla pancia e dei jeans che, pure dalla telecamera, a distanza, parevano troppo stretti. Occhiali da sole a specchio sul ciuffo da gallo cedrone, i lati della testa rasati, completavano il quadro stranamente familiare.

 

“Io… io questo l’ho già visto da qualche parte!” disse, quasi in automatico.

 

“Come?” domandò Mancini, girandosi di scatto.

 

“Forse… forse anche io, dottoressa,” si inserì Calogiuri, con il tono di quando il forse significava che ne fosse certo al novantanove percento.

 

E fu in quel momento che arrivò l’illuminazione.

 

“Ma certo! La ricerca, Calogiuri! Quella che avevi fatto sui Mazzocca per-”

 

“Per capire chi fossero i camerieri?”

 

“Esatto! Puoi recuperarla?” gli chiese, orgogliosissima sia di come gli era migliorata la memoria, sia di quella famosa ricerca, che era stata un lavoro immane.

 

“Ne dovrei avere ancora una copia sul computer, per fortuna, che la dottoressa Ferrari è in vacanza. Con permesso, vado e torno.”

 

Non appena sparì oltre la porta, la stanza tornò in un silenzio che iniziò a farsi un po’ pesante.

 

“Era venuta qui pensando che ci fosse già il maresciallo e non io, non è vero?”

 

Improvvisamente rimpiangeva il silenzio.

 

“Dottore…” mormorò, sforzandosi guardarlo in faccia, anche se la tristezza che ci leggeva sopra la faceva sentire in colpa.

 

“Mi scusi, è stata una domanda stupida. Ed ingiusta. In fondo è normale, visto che avete una relazione e che lo sa tutto il mondo, ormai.”

 

Le scuse la stupirono ancora più di tutto il resto, ma non sapeva come rispondergli, perché non c’erano le parole adatte in una circostanza del genere.

 

“Non serve che dica niente, dottoressa,” aggiunse, sembrando leggerle il pensiero, e poi si voltò verso il computer, “però… da suo superiore, le consiglio di non passare la notte qui col maresciallo, che ci manca soltanto quel tipo di voci.”

 

Si sentì avvampare e balbettò un “non, non-”, finché realizzò che Mancini intendeva semplicemente a lavorare o a fargli compagnia, ed il viso le si fece ancora più bollente.

 

Mancini per fortuna non lo poteva vedere, dato che continuava a fissare uno degli schermi di fronte a lui.

 

“Ecco- mi.”

 

La voce di Calogiuri le fece fare un mezzo balzo. Stava sull’uscio, col portatile in mano ed un’aria stranita, probabilmente avendo notato la pesantezza dell’atmosfera.

 

“Dà qua, Calogiuri,” ordinò, cercando di apparire il più naturale possibile, e si ritrovò col computer in braccio.

 

Calogiuri era stato come al solito efficientissimo: il tizio che era entrato nel condominio poco prima li guardava da una foto in discoteca, con la mano sulla spalla di-

 

“Ma questo è Kevin Mazzocca!”

 

“Esatto. E questo è Stefano Mancuso. Sua madre è una Mazzocca, cugina del padre di Kevin.”

 

“Insomma… imparentato, pure se più alla lontana. A questo punto…”

 

“A questo punto mi sa che dietro a quelle foto c’è ben altro, dottoressa, e dobbiamo stare ancora più attenti. Sono felice di aver dato una protezione a sua figlia, ma pure lei-”

 

“Dottore, se sono arrivati al ricatto non credo vogliano colpirmi fisicamente ma… o costringermi a lasciarli in pace e a mettermi dalla loro parte, oppure… farmi perdere di credibilità, in vista del secondo grado di giudizio.”

 

“Sì, dottoressa, purtroppo è la cosa più probabile. Ma, con gente come questa, è meglio prevedere pure il peggio.”

 

“E mo che facciamo? Se quello si porta fuori i soldi…”

 

“Ne dubito, al massimo pochi alla volta. Cinquantamila euro per i Mazzocca sono niente, non credo si spingano a rischiare tanto per una cifra del genere. Penso che i soldi siano solo un pretesto, per tenerla in pugno, dottoressa, insieme alle foto.”

 

“Sì, ma… cosa facciamo, dottore? Mia figlia non può rimanere a Milano per sempre. E poi… e poi quelli arrivano pure all’estero, figuriamoci a Milano, e non può stare chiusa in casa all’infinito.”

 

“Lo so, ma… cerchiamo altre informazioni su questo Mancuso e di vedere se troviamo anche l’uomo che ha preso i soldi al parco. In base a questo decideremo il da farsi, va bene?”

 

“Senta… se io controllassi le telecamere, mentre Calogiuri fa la ricerca sui social? Che è decisamente più capace di me, e Conti e Mariani sono già esausti per i turni.”

 

“Va bene… meglio che non torni a casa da sola. Verrò domattina all’alba a darvi il cambio e domani lei, dottoressa, si prende la giornata intera di riposo. Niente scuse!” ordinò, con un’occhiata eloquente, prima di alzarsi in piedi e lasciarli da soli.

 

“Perché all’alba? Doveva venire alle sette a darmi il cambio…” esclamò Calogiuri, stupito, mentre prendeva il posto di Mancini.

 

“Perché non vuole che si sappia che abbiamo passato la notte qui insieme, Calogiuri, per motivi che puoi dedurre da solo.”

 

Le orecchie ed il collo di Calogiuri si fecero leggermente fucsia, ma poi si avvicinò pericolosamente e le sussurrò, “vuoi dirmi che… che non hai mai fatto un pensiero su noi due… in procura? No, perché io l’ho pensato. Anche se più a Matera che qua.”

 

Ma Imma, a parte sentire un brivido, ebbe una visione nitidissima di un sogno che aveva fatto su Calogiuri, dopo il quasi bacio nella Grotta dei Pipistrelli.  Lui che testimoniava per farla mettere in galera per alto tradimento nei confronti di Pietro.

 

“Che c’è? Ti è venuto in mente qualcosa sul caso?” le domandò, tornando serissimo, forse perché aveva riconosciuto e malinterpretato lo sguardo di quando si perdeva nei ricordi.

 

“Non sul caso, no,” mezzo balbettò, dandosi della cretina da sola, perché su una cosa Mancini aveva ragione: ci mancava solo quello!

 

“Mettiamoci a lavorare, Calogiuri, che se mi distrai e mi perdo qualche movimento e quelli escono, stiamo freschi. E tu inizia a cercare vita, morte e miracoli di quel Mancuso sui social.”

 

“Va bene… va bene…” annuì lui, iniziando a muoversi con una velocità impressionante tra diverse pagine internet.

 

Almeno su quello era molto più veloce di lei.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ci sono novità, Calogiuri?” chiese, trattenendo a fatica uno sbadiglio dopo la notte in bianco.

 

Un conto era passarla ballando, con l’adrenalina a mille, un conto era cercare di stare sveglia guardando immagini sempre uguali per ore.

 

Non aveva forse più l’età per questo genere di lavori, non che normalmente sarebbero stati di sua competenza.

 

“No, dottoressa. Cioè… ho trovato varie foto con gente del clan, ma-”

 

“Ma?” gli chiese, perché si era interrotto di colpo.

 

“Guarda qua!” esclamò, col tono di quando aveva scoperto qualcosa e pure di grosso.

 

Voltò verso di lei lo schermo del portatile ed Imma per poco non scoppiò a ridere: in una foto di più di un anno prima, c’era Mancuso insieme al mega tamarro che aveva prelevato i soldi nella spazzatura. Era lui sicuramente, sebbene la maggior parte delle foto di Mancuso lo ritraessero con gente al cui confronto lei si vestiva sobria.

 

“Puoi scoprire chi è da questa foto?” gli chiese, trattenendo il respiro.

 

“Sì, sì, l’ha taggato! Cioè… ha messo il link al profilo di lui. Vediamo se riesco ad aprirlo.”

 

Pochi clic e comparve una pagina di un certo BigBoy93. Quel cretino era pure più giovane di Calogiuri, anche se li portava malissimo.

 

E, a parte una sfilza di foto a petto nudo in pose da macho palestrato, che erano a dir poco ridicole, Imma pregò che Calogiuri trovasse anche un nome ed un cognome.

 

“Qui lo chiamano… Nick. Immagino stia per Nicola. Ora controllo i Nicola sull’altro social, che di solito ci sono i nomi veri, se non i cognomi addirittura.”

 

Dopo un’altra sfilza di ricerche di cui lei non capiva nulla, apparve una lista di Nicola e, dai muscoli di una delle foto profilo, il cui proprietario aveva ritratto solo il bicipite, forse erano risaliti a quello giusto.

 

Trattenne di nuovo il fiato, mentre Calogiuri fece scorrere le foto. Ce n’era una in cui era con un altro ragazzo simil palestrato e due ragazzette troppo truccate, ma che difficilmente superavano i diciott’anni, per non dire altro.

 

Pure maiali!

 

“Non ha il cognome ma… ma se guardo tra i suoi amici… ha gente più… più su d’età che fa tutta Giuliani di cognome.”

 

“Cognome di Roma quindi. A parte che… su d’età…. Calogiuri, alcuni di questi la mia età c’avranno!”

 

“Va beh, dottoressa, ma tu te li porti molto meglio! E poi, secondo me, hanno qualche anno in più di te.”

 

“Calogiuri, non serve che mo cerchi di indorare la pillola e-”

 

Il rumore di una gola che si schiariva li fece voltare.

 

Mancini, sulla porta, con in mano un sacchetto di carta e due di quelle specie di bicchieracci di plastica per caffè all’americana, che le facevano orrore da sempre.

 

“Dottore!”

 

“Pensavo di trovarvi esausti ma noto che vi… tenete svegli,” commentò, con un sopracciglio alzato ed il tono un poco amaro, prima di appoggiare il tutto sul tavolo, “vi ho portato la colazione.”

 

Sentì un tuffo al cuore. Non solo per la premura in sé, ma perché erano della panetteria vicino al Pincio da cui l’aveva vista uscire quella mattina, quando quasi li aveva beccati mentre andava a correre all’alba.

 

Guardò l’orologio sul computer: erano le cinque e trenta del mattino.

 

“Ma a che ora si è svegliato, dottore?” chiese, quella sensazione al petto che peggiorò quando aprì il sacchetto e ci trovò i suoi amati bomboloni alla crema.

 

“Come al solito, dottoressa, non si preoccupi, ma per stamattina ho saltato la corsa. Vi conviene fare colazione ed andare prima che arrivino gli altri. Nel frattempo… sbaglio o avete scoperto qualcosa?”

 

“Sì, ma… lei ha fatto colazione, dottore?”

 

“A casa, come al mio solito. Allora? Mi racconta lei, maresciallo, che lasciamo mangiare la dottoressa in pace, che si è fatta il turno doppio?”

 

Calogiuri annuì, cavaliere quanto Mancini, e cominciò a spiegare.

 

“Allora… il sospettato si chiama presumibilmente Nicola Giuliani, o di madre fa Giuliani, giusto?” riassunse Mancini, dopo che Calogiuri ebbe finito di parlare.

 

“Esattamente, dottore. Questi sono i suoi profili, se vuole dare un’occhiata. Su uno, non avendo l’amicizia, purtroppo posso vedere poco.”

 

Mancini si prese il computer, mentre lei si stava finendo il bombolone e Calogiuri cominciava il suo. Aveva appena messo in bocca un sorso di caffè, ustionante per via della famigerata tazza in plastica, quando Mancini si bloccò dal suo clic intermittente e spalancò gli occhi.

 

“Ma questo…”

 

“Conosce qualcuno, dottore?”

 

“Sì, purtroppo sì,” rispose, girando il monitor e mostrando loro un uomo quasi più tamarro di Nick, ma che sembrava aver passato la trentina da un po’. Forse pure i quaranta.

 

“Si chiama Massimo Coraini. Ha un’agenzia fotografica qui a Roma e… non ha una bellissima reputazione.”

 

“Quindi… gestisce un gruppo di… paparazzi?”

 

“Esattamente. Potrebbe esserci di mezzo pure lui, non mi stupirei.”

 

“Possiamo… possiamo rintracciare i fotografi che lavorano nella sua agenzia? Magari riconosciamo qualcuno che abbiamo visto in Spagna.”

 

“Dottoressa… non è semplicissimo, perché molti di questi paparazzi sono freelance. Ma ci possiamo provare. Chiamerò qualche amico. Ora però voi, se avete finito, ve ne andate a riposare. Mi farò vivo io più tardi se ci sono novità.”

 

“Va bene, dottore,” acconsentì, tirandosi in piedi, da un lato felice di togliersi da lì, anche se loro tre insieme, assurdamente, funzionavano bene come squadra.

 

Ironia della sorte.

 

*********************************************************************************************************

 

Uscì dalla stanza, ancora mezza intontita dopo la notte praticamente insonne.

 

“Ti sei svegliata. Pensavo non uscissi più!”

 

Si girò di scatto verso la voce, sorpresa da quelle parole.

 

Non dal loro contenuto, che era pure vero - era quasi l’una del pomeriggio - ma dal fatto stesso che fossero state pronunciate.

 

Era dalla sera in cui l’aveva baciata che Penelope le aveva detto a malapena due parole. Ognuna se ne stava prevalentemente in camera sua. Lei per l’arrabbiatura, mentre Penelope sembrava sempre in imbarazzo.

 

Invece quella mattina, o forse sarebbe stato più corretto dire quel pomeriggio, ormai, la aspettava al tavolo della cucina, apparecchiata con la tovaglietta ed il necessario per prepararsi i suoi cereali preferiti.

 

“Ma… è successo qualcosa?” le chiese, in quella che era più un’affermazione, non tanto per la premura, ma per qualcosa nello sguardo di Penelope.

 

“Sì… mi ha avvisata mio padre, che sa che siamo amiche e…” disse, prendendo il tablet dal tavolo e porgendoglielo.

 

Vide l’immagine di una copertina di una nota rivista di gossip. La fece scorrere e, in uno dei riquadri, c’era scritto “La Pantera ruggisce in vacanza” e c’era un’immagine di sua madre e Calogiuri che si baciavano.

 

Fece scorrere l’immagine successiva ed era l’articolo completo. Non riusciva bene a leggerlo, ma le foto erano inequivocabili: sua madre in spiaggia con Calogiuri, a Maiorca - a giudicare da quanta gente c’era - ripresi mentre lui le spalmava la crema solare sulla schiena, e lei si reggeva il pezzo sopra del bikini fucsia. Sua madre e Calogiuri che si baciavano ad un tavolo di un ristorante, poi mezzi abbracciati davanti ad una nota discoteca ed, infine, una foto di loro insieme a Charles, ancora truccato, anche se vestito in borghese, di fronte al locale gay. Lei e Penelope erano state tagliate dalla foto.

 

“Ma… ma…”

 

“Non sono uscite foto nostre, Vale, almeno al momento. Però pensavo lo dovessi sapere subito,” spiegò Penelope, con aria preoccupata.

 

Non poteva darle torto: quelle foto avrebbero suscitato un casino forse ancora peggiore delle precedenti.

 

E temeva fosse solo l’inizio.

 

*********************************************************************************************************

 

“Fatemi uscire!”

 

Gridava, attaccata alle sbarre di una cella buia. Sentiva una goccia in lontananza che ticchettava, fastidiosa, rompendo il silenzio tombale.

 

“Fatemi uscireee!!!”

 

“Siete sicura che è quello che volete veramente, dottoressa?”

 

Si voltò, di scatto, e cacciò un urlo quando si trovò qualcuno a pochi centimetri dal viso. Ma poi lo riconobbe: era Calogiuri, vestito in alta uniforme, con un sorrisetto che le fece schizzare gli ormoni a mille.


Altro che paura!

 

“Calo-” fece in tempo a dire, perché si ritrovò pressata contro le sbarre della cella, ma non sentiva dolore alla schiena, solo un desiderio che la consumava da dentro.

 

Almeno fino a quando Calogiuri si staccò leggermente, ma tenendola ferma con le braccia, in modo che non potesse staccarsi dalle sbarre.

 

“Allora, confessate?”

 

“Eh?” gli chiese, la frustrazione che andava a mille.

 

“Confessate, dottoressa?” ripeté, continuando a tenersi appena appena al di fuori della sua portata, per quanto lei cercasse di divincolarsi.

 

“E cosa dovrei confessare?”

 

“Tutto,” le rispose, soffiandole sulle labbra, in un modo che la faceva impazzire.

 

“Altro che la convenzione di Ginevra, Calogiuri! Confesso tutto quello che vuoi, basta che-”

 

Fece appena in tempo a sentirlo nuovamente addosso, quando un allarme fortissimo rimbombò per la cella, facendole prendere un colpo.

 

Sentì caldo, troppo caldo, e spalancò gli occhi e vide, oltre le spalle di Calogiuri, fiamme arancioni e rossastre che avevano invaso la cella.

 

“Calogiuri, Calogiuri!” provò a chiamarlo, per avvertirlo, perché i capelli neri cominciavano a prendergli fuoco, ma lui continuò a baciarla, come se non le sentisse nemmeno, a non lasciarla andare, finché-

 

“Imma! Imma!”

 

Spalancò gli occhi di scatto, anche se per un attimo continuò a dimenarsi. Almeno fino a che non sentì una mano sulla spalla ed incrociò il viso di Calogiuri, che però la guardava preoccupato.

 

Non c’era nessun incendio: erano in camera da letto e lei si era intrappolata da sola nelle lenzuola. Era completamente fradicia.

 

“Imma, stai bene?” le domandò, e sentì una carezza su una guancia.

 

“Sì, sì… ho… ho fatto un sogno e-”

 

Ma si interruppe, perché l’allarme antincendio ripartì più forte di prima.

 

“Valentina…” sospirò, provando a liberarsi da quella ragnatela di lenzuola, ma Calogiuri le passò il telefono dal comodino.

 

“Sì, è la terza volta che chiama. Penso sia urgente, ma non riuscivo a svegliarti.”

 

Lo afferrò ed accettò la chiamata, con un “pronto!” che altro che dalla cassa da morto pareva uscito.

 

“Mà? Ma stai bene? C’hai il raffreddore?”

 

“No, è che… mi sono appena svegliata,” spiegò, affrettandosi a chiarire, di fronte al silenzio della figlia, “è che ho fatto il turno di notte con Calogiuri e-”

 

“Sì, immagino in che senso…”

 

“Valentì! E comunque abbiamo fatto veramente il turno di notte, in procura, cercando di beccare quelli che… va beh… sai di che parlo, no?” le chiese, perché non voleva discutere di certi argomenti per telefono.

 

“Sì, che lo so, mà! E appunto ti chiamavo per-”

 

“Ma è successo qualcosa? Tu e Penelope avete problemi o-”

 

“No, mà, io e Penelope al momento stiamo bene. Ma… immagino tu non abbia visto i giornali, allora.”

 

“Oddio, non dirmi che...!”

 

“Non sono uscite foto mie e di Penelope, ma… di voi due sì, purtroppo. Aspetta che te le giro. O è meglio che le mando a Calogiuri, che è più tecnologico?”

 

“Valentì!” sospirò, il cuore che le andava nello stomaco all’idea di quali immagini potessero essere uscite.

 

L’unica cosa che la faceva ben sperare era che Valentina non aveva parlato di traumi, e stavolta non scherzosamente.

 

“Senti… mandale sul telefono di Calogiuri, che almeno io e te possiamo restare connesse.”

 

“Guarda che puoi restare al telefono con me ed aprire le foto contemporaneamente ma… va beh… faccio prima così che a spiegarti come funziona.”

 

Sentì lo squillo familiare della suoneria di Calogiuri e lui prese il telefono e strabuzzò gli occhi.

 

Si mise accanto a lei, facendo scorrere le foto, ed Imma già si immaginava la reazione di Mancini, ma pure quella di tutta la procura, per non parlare dell’Arma. Anche se almeno il peggio, al momento, se lo erano evitati.

 

Una specie di ronzio nelle orecchie, che riconobbe essere la vibrazione del cellulare, ed Imma vide il nome del procuratore capo comparire sul display di Calogiuri, sopra alle foto.

 

“Valentì, ti devo salutare che ci chiama il procuratore capo, presumo le abbia viste pure lui.”

 

“Così la predica la fa a voi stavolta! Va beh… ci sentiamo dopo.”

 

Imma si affrettò a mettere giù e Calogiuri accettò la chiamata e mise il vivavoce.

 

“Dottore…”

 

“Maresciallo. Ho provato a telefonare alla dottoressa, ma era sempre occupato e quindi ho chiamato lei. Ho bisogno di parlare con entrambi.”

 

“La dottoressa era al telefono con la figlia, ora è qui, l’ho messa in vivavoce, dottore.”

 

“Dubito avrete avuto modo di vedere i giornali, ma-”

 

“Dottore, mia figlia mi ha mandato delle foto uscite su una rivista. La solita. Ce ne sono altre o è per queste che chiamava?”

 

“Ce ne mancano solo altre, dottoressa! Lei si rende conto di come saranno, anzi, di come sono già ora le reazioni dell’opinione pubblica? Tra… tra la foto in costume e… e pure con una drag queen!”

 

“E allora?! Al sole mi scotto e da chi dovevo farmi spalmare la crema sulla schiena, mi scusi? E per il resto… la drag queen è stata una delle conoscenze migliori di tutta la vacanza, anzi, di tutta la mia vita. Non mi pare che ci sia nulla di male, no, dottore?” sibilò, perché, pur aspettandosi quella reazione, la infastidiva comunque.

 

“No, dottoressa, non c’è nulla di male. Ma non parlo per me, parlo perché so benissimo la mentalità che c’è nei nostri ambienti, e pure in generale nella popolazione, soprattutto oltre una certa età, e-”

 

“Se la gente è omofoba è un problema loro, non mio, dottore. E la predica se la dovrebbero beccare loro e non io. Ci sono altre novità sul caso, o mi voleva parlare solo di questo?”

 

“Sto ancora facendo domande, dottoressa. Domani quando rientra in ufficio ne parliamo. Maresciallo, l’aspetto alle diciannove?”

 

“Dottore!” intervenì, perché le era appena venuta un’idea, “e se provassi a ricontattare l’uomo che ci ha scritto? Visto che sono uscite foto mie e di Calogiuri, pure dopo averlo pagato. Magari potremmo capire meglio quali saranno le prossime mosse, non crede? Anche perché dubito avessimo dietro uno stuolo di giornalisti: con tutti i vip che ci sono alle Baleari, proprio appresso a me e a Calogiuri, che siamo a malapena conosciuti, dovevano stare? Oltretutto oggi, se questa gente mi tenesse d’occhio, sapranno che non sono in procura, quindi forse è meno sospetto, no?”

 

“Va bene, dottoressa, mi tenga informato. A dopo, maresciallo.”

 

Calogiuri posò il telefono e le chiese, “sei sicura di…”

 

“Ormai qua dobbiamo arrivare fino in fondo, Calogiuri. Non ti preoccupare, prima la finiamo e meglio è.”

 

Lui non sembrava molto convinto, ma Imma, dopo un attimo di esitazione, compose un messaggio.

 

Ho visto le foto. A che gioco stai giocando?

 

Attese per un attimo la risposta ma, visto che non arrivava, si alzò e se ne andò in bagno, decisa a farsi una lunghissima doccia.

 

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“Imma…”

 

Le bastarono quelle due sillabe per capire che la risposta era arrivata, pure prima di notare l’apprensione negli occhi di lui.

 

Si buttò seduta sul letto ed aprì il messaggio.

 

Il gioco lo conduco io. I soldi erano per le foto di tua figlia, non per le tue. Ne ho ancora altre che i giornali troverebbero molto interessanti. Se non vuoi che escano pure quelle, voglio informazioni e scoop in anteprima sui casi, soprattutto sul maxiprocesso. Se sei furba, conviene sia a me che a te.

 

Sentiva, letteralmente, il fiato di Calogiuri sul collo e lo torse fino a poterlo vedere chiaramente, avendo la conferma che avevano avuto entrambi lo stesso identico pensiero.

 

“Bastardi!” lo sentì sibilare e le scappò un sorriso, nonostante tutto.

 

“Se non puoi sconfiggerli… unisciti a loro. O costringili ad unirsi a te. Visto che lo sanno benissimo che non era possibile mettermi a libro paga… hanno trovato un metodo alternativo. O almeno così credono. Prima mi chiederanno solo scoop, poi cercheranno di indirizzarmi per il maxiprocesso, avendo ulteriore materiale su cui ricattarmi per la mia… collaborazione con loro. Hai notato altro dal messaggio, Calogiuri?”

 

Ma lui scosse il capo, confuso.

 

“La grammatica, Calogiuri. La grammatica.”

 

“Che cos’ha che non va?”

 

“Niente! Ed è proprio quello che è strano. I primi messaggi erano brevi, semplici. Ma questo è uno che ha studiato, Calogiuri, o che comunque legge e scrive, che azzecca congiuntivi e condizionali. Non è un ciuccio. Ora, hai presente com’erano scritti i post di Mancuso e Giuliani? Va bene che stavano sui social, ma pure nei messaggi la gente non mi pare si sforzi molto, no? E quei post erano zeppi di errori e non di battitura, ma proprio di grammatica di base. Devi capire se quel Coraini ha studiato, anche se mi dà l’idea di sì. O almeno di essere fin troppo furbo.”

 

Calogiuri le sorrise e scosse di nuovo il capo, “hai un’idea di quanto sei bella quando fai così?”

 

“Quando faccio il mio lavoro, Calogiù?”

 

“Lo sai cosa voglio dire, dottoressa,” rispose, facendole l’occhiolino.

 

“Se… va beh… stupenda, proprio! Comunque mo gli rispondo che ci devo pensare. Poi tu riferisci a Mancini stasera e decidiamo come procedere, va bene? Che, d’accordo capire dove vogliono arrivare, ma non voglio nemmeno tirare troppo la corda, non che questa storia ci scoppi in mano, e poi finisco sì sui giornali, ma come La Corrotta di Matera. Che continuo a preferire la Pantera, sinceramente.”

 

“Pure io, dottoressa, pure io,” le rispose e si sentì stringere in un altro abbraccio del quale aveva veramente bisogno.

 

La sua vita non era mai stata semplice, ma ultimamente sembrava non ci fosse un attimo di tregua. E pure quelli, bellissimi, che aveva, anzi, che avevano avuto, mo toccava pagarli con gli interessi.

 

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“Dottoressa, sempre mattiniera, vedo.”

 

Si erano incrociati all’ingresso ed erano appena le sette e trenta. Ma senza Calogiuri faticava a riposare bene e poi voleva parlare a lui e Mancini appena possibile. E sapeva che il procuratore capo, in teoria, doveva dargli il cambio alle otto.

 

“Posso dire lo stesso di lei, dottore. Volevo ancora ringraziarla per… per i turni di dodici ore che si sta facendo in questi giorni, con tutto l’altro lavoro che ha da smaltire poi.”

 

“Dottoressa, che questa storia finisca bene è anche nell’interesse mio e di tutta la procura e poi… e poi sa, a fare il mio lavoro, un po’ manca il contatto diretto con le indagini. Anche se il suo è fin troppo diretto.”

 

Imma sentì un calore a tutto il corpo, finché realizzo, dall’occhiata del procuratore capo, che pareva più imbarazzato di lei, che i sottotesti su lei e Calogiuri non erano voluti. Evidentemente si riferiva solo alla sua abitudine di giocare all’investigatore, come le rinfacciavano sempre in troppi.

 

“Volevo… volevo parlare con lei e Calogiuri del da farsi, dottore, immagino l’abbia aggiornata.”

 

“Sì, dottoressa. Ed ho i risultati delle ricerche che le avevo promesso. Vedo che ha portato la colazione al maresciallo,” disse, indicando il sacchetto di carta ed il thermos che teneva in mano, “se andassi a prendere due caffè al bar e ne discutiamo con calma?”

 

“Va bene. Ma stavolta offro io, dottore.”

 

“Dottoressa, mi aspetti col maresciallo, è un ordine,” rispose con un sospiro.

 

In certe cose si somigliavano fin troppo. Per fortuna e purtroppo.

 

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“Riconoscete qualcuno?”

 

“Questo!” esclamarono all’unisono lei e Calogiuri, indicando la stessa foto, tanto che le loro dita si scontrarono.

 

“Scusa- temi, vi siete fatta male?” le chiese lui, preoccupato, recuperando in corner con il voi.

 

“Se siamo solo noi tre può pure non dare del voi alla dottoressa, maresciallo, che è quasi ridicolo, vista la situazione,” sospirò Mancini, bevendosi l’ultimo sorso del suo caffè, forse per mascherare l’espressione non esattamente felice, “comunque, quello che avete indicato è un fotografo che si fa le stagioni nelle località turistiche dei vip. Inverno Cortina, estate le Baleari, anche se molte delle sue foto sono state scattate ad Ibiza e a Formentera.”

 

“Dov’è che lo abbiamo visto, Calogiuri? Perché con tutta la gente che c’era mi sfugge, ma sono sicura di averlo visto!”

 

Non potè evitare di intenerirsi un poco quando vide l’espressione concentrata di lui, che improvvisamente si aprì in un sorriso, “quando siamo usciti dal locale con Melita. Mi sono guardato bene intorno e…”

 

“E stava vicino alla fermata del bus. Ci è pure salito!”

 

“Sì, ma non è sceso con noi, per fortuna….”

 

“Melita chi è? La drag queen?” si inserì Mancini, confuso.

 

“No, la drag queen è Charles, in arte Kiki. Melita è una ragazza immagine che era stata aggredita da dei tipi poco raccomandabili di Maiorca. Era in quell’altro locale, ci hanno fotografati all’ingresso però, o meglio, hanno pubblicato foto all’ingresso, non all’uscita. L’abbiamo accompagnata a casa.”

 

“Forse essendo in tre la foto era meno interessante?”

 

“Calogiuri, temo che, essendo in tre, la foto poteva essere pure più interessante, se interpretata in un certo modo.”

 

Fu assordata da un attacco di tosse in dolby surround, perché anche a Mancini doveva essere andata di traverso la saliva.

 

Uomini!

 

Li lasciò sfogare per un attimo, sperando non soffocassero lì, e poi Mancini finalmente ruppe il silenzio, rochissimo rispetto al solito, “ho fatto anche un po’ di domande su Coraini. Ed effettivamente è laureato in giornalismo e comunicazione. Poi ha… scelto un’altra strada, ma la cultura ce l’ha. Ho trovato alcuni suoi pezzi di molti anni fa e non scriveva neppure male. Mancuso si è ritirato in seconda superiore, dopo essere stato bocciato due volte. Giuliani è uscito col minimo da un corso professionale.”

 

“In ogni caso, difficilmente l’hanno mandato loro l’ultimo messaggio. Legami tra Coraini e i Mazzocca? A parte la conoscenza con Giuliani, che conosce Mancuso.”

 

“Dottoressa, quello conosce tutti, brava gente e disonesti. Si sospetta da tempo che abbia un database di nomi e… informazioni sensibili per ricattare la gente. Ma sono sempre state solo voci, che quello era meglio non inimicarselo.”

 

“Quindi potrebbe ricattare altra gente qua in procura?”

 

“Non lo so, dottoressa. Qualche anno fa un assessore si era suicidato, dopo essere finito su tutti i giornali, per essere stato beccato in auto con una prostituta transessuale. E c’erano state varie transazioni bancarie sospette, finché ad un certo punto aveva smesso di pagare, poco prima che uscissero quelle foto, perché la moglie aveva scoperto il conto prosciugato e gli aveva fatto levare la firma. Il suo collega che si occupava del caso, e che ora lavora a Genova, era convinto che c’entrasse l’agenzia di Coraini con quelle foto e con quelle transazioni ma… non è mai stato possibile dimostrarlo. Come vede si affida sempre ad una rete di persone che fanno il lavoro sporco per lui.”

 

“Uno così è un ottimo alleato per una famiglia come i Mazzocca. Ed i Mazzocca sono ottimi alleati per uno così,” sospirò, perché il collegamento era chiaro ma due foto sui social ed un messaggio dalla buona grammatica non erano certo prove schiaccianti, “e mo che facciamo, dottore? Io sono preoccupata di cosa potrebbero combinare. E non parlo solo delle foto.”

 

“Sì, condivido le sue preoccupazioni sul fatto che potrebbero decidere di far uscire questa storia dei cinquantamila euro, per farle perdere di credibilità. Anche se forse a libro paga fa loro più comodo, ma sanno anche che lei non è stupida, affatto. E poi non è un’agente speciale dei ROS, farle fare l’infiltrata non rientra nel suo lavoro ,e non voglio mettere più a rischio lei e sua figlia. Ma ho un piano.”

 

“E cioè?”

 

“Qua l’unico modo per uscirne è con le intercettazioni ambientali. Voglio convocare per interrogarlo Giuliani: sicuramente non parlerà, ma è per mettere la pulce nell’orecchio agli altri senza scoprire del tutto le carte. Prima però, voglio far piazzare delle cimici a casa di Coraini per registrare la sua reazione e quello che farà nei giorni successivi.”

 

“Ma… ma come pensa di fare, dottore?”

 

“Coraini ha un punto debole: le belle donne. De Luca mi ha raccomandato una sua collega, bravissima, oltre che a molto avvenente. Deve farsi abbordare da lui al locale che frequenta di solito e poi… al resto ci pensa lei.”

 

“Ma… ma ci dovrà finire a letto?” chiese, preoccupata, perché non voleva di certo avere un’altra donna sulla coscienza.

 

“Ma no, dottoressa, in questo genere di operazione è più che capace a cavarsela, stia tranquilla. Con le sostanze che girano in certi ambienti… basta poco per stordire qualcuno.”

 

“Sì, ma questo vale pure per l’agente, non solo per il Coraini, dottore!”

 

“Sarà sotto controllo, ovviamente, dottoressa. Sono professionisti, non deve preoccuparsi.”

 

“E quando sarebbe quest’operazione?”

 

“Se riusciamo, già stasera. Se va in porto, domani andiamo a prelevare Giuliani e lo portiamo in procura.”

 

“Ma… e le foto? Come minimo le faranno uscire subito, come sapranno che… che non ho realmente ceduto al ricatto.”

 

Non era tanto per lei e per la sua carriera, ma per Valentina che era preoccupata. Lei quella vita se l’era scelta e sapeva che essere al centro dell’attenzione mediatica poteva esserne una conseguenza, per quanto sgradita, ma sua figlia no.

 

“L’unica cosa è anticiparli noi, dottoressa,” rispose Mancini, serissimo.

 

“Cioè… vuole dire… pubblicarle noi? Ma è impazzito?!” chiese, non potendo credere alle sue orecchie.


“No, dottoressa, ovviamente no, anche se ci sono ragazze dell’età di Valentina che sui social altro che quello pubblicano! Intendo dire che… deve rilasciare una dichiarazione, nella quale spiega la situazione ed il ricatto in corso. Questo servirà sia a prevenire problemi per quei cinquantamila euro, sia a mettere ulteriormente la pulce nell’orecchio a Coraini, sia possibilmente ad evitarci che quelle foto escano.”

 

“E come?” domandò, perché non capiva in che modo ammettere l’esistenza di quelle foto non avrebbe invece scatenato una caccia tra le riviste ad accaparrarsele.

 

“Ieri sera ho messo giù due righe di massima, poi ovviamente ci deve lavorare su lei, perché non devono risultare impersonali,” proclamò, passandole un foglio scritto a mano nella sua solita grafia elegantissima.

 

Spalancò gli occhi, incredula, e poi le scappò una mezza risata. Poteva funzionare, poteva davvero funzionare!

 

“Lei… lei è un genio, dottore!” esclamò, prima di potersi trattenere, e Mancini, che già non si era del tutto ripreso dall’imbarazzo precedente, divenne ancora più rosso.

 

Sentì, ancora prima di vederla, l’occhiata di Calogiuri: molto fastidio ed un po’ di delusione. Forse avrebbe dovuto imparare a contare fino a dieci prima di parlare, ma non poteva non dare a Cesare quello che era di Cesare.

 

“Se ci lavora su oggi, dottoressa, poi possiamo rivedere la bozza, prima di metterla sui social.”

 

“Sui social? Ma pensavo… pensavo lo mandasse a quel giornalista, Frazer.”

 

“Paul non lavora coi quotidiani e, in un caso come questo, agire direttamente è la cosa migliore, fa più presa sulle persone. Dovrà crearsi un profilo social, dottoressa, poi può scriverci anche solo quello, ma-”

 

“Ma mi ci mancano solo i messaggi minatori o degli infoiati sui social, dottore!”

 

In quei giorni, con la maggiore attenzione puntata addosso dai giornali, si erano scatenati di nuovo con le email. Ed il peggio era che Asia era in vacanza, quindi toccava a lei cestinarle.

 

“Può scegliere da chi riceverli i messaggi privati, dottoressa. Può pure evitarli del tutto. Sono sicuro che il maresciallo le può spiegare come funziona, non è vero?”

 

Calogiuri si limitò ad annuire, sembrando sempre meno entusiasta.

 

Ma era un’idea buona quella di Mancini, social o non social.

 

E non aveva alternative migliori.

 

“Ne parlo con mia figlia, dottore, e le faccio sapere.”

 

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“Pronto, mà?”

 

“Valentì! Ma dov’eri? Che mi sono spaventata!”

 

“Ero a farmi una doccia, mà, che non si può più?”

 

“No, ma… hai una voce un po’ strana, Valentina. Sei preoccupata per… per la storia delle foto?”

 

“No,” rispose, secca, e poi sospirò.

 

Valentina non gliela raccontava giusta, ma non era quello il momento di approfondire.

 

“Valentì… devo… devo fare una dichiarazione pubblica, dalla quale si capirà che… che quelle tue foto esistono. Vorrei poterlo evitare ma… ma forse è l’unico modo per impedire che vengano pubblicate. C’è un giro grosso dietro ed è… ed è complicato. E quelle foto comunque continueranno a esistere, come una potenziale minaccia.”

 

Silenzio.

 

“Valentì?”

 

“Mamma… e che ti devo dire? Tanto lo so che… che farai di testa tua, sul lavoro, poi!”

 

“Qua non è solo lavoro, Valentì. Sei tu, che vieni prima di tutto, anche se non ci credi. Ma non voglio che ti trovi con questa Spada di Damocle sulla testa per chissà quanto e… e se prendiamo la gente coinvolta… c’è il rischio che le facciano subito uscire online. Ti fidi di me?”

 

“Dissero quelli sul Titanic prima di morire affogati!”

 

“Veramente uno è morto per assideramento e l’altra si è salvata, Valentì, ma non è questo il punto. Allora?” tagliò corto, perché lo sapeva anche per lei che per sua figlia non era affatto facile, ma non c’era una soluzione perfetta.

 

“Posso sapere cosa dovrai dichiarare, mà?”

 

“Non per telefono, Valentì, ma… diciamo che l’obiettivo è fare sentire non solo criminali, ma pure stronzi, chiunque le dovesse pubblicare. Non posso dirti di più.”

 

“Va… va bene, mamma. Però… avvisami subito quando la pubblichi, va bene? E… e menzionerai Penelope?”

 

“No, Valentina. Dirò solo che eri con amiche. Stai tranquilla, va bene? E avvisa anche Penelope e… e dille che mi dispiace di… di non poter fare più di così.”

 

“Va beh… ora devo andare, ciao mà!” concluse, abbastanza bruscamente, e si ritrovò con la chiamata quasi chiusa in faccia.

 

C’era proprio qualcosa di strano in Valentina e non c’entrava con la notizia che le aveva appena dato.

 

Che avesse litigato con Penelope? In fondo, dopo tanti giorni insieme, senza poter uscire, ci poteva stare. Poi con una che aveva per metà il suo carattere, figuriamoci quanto poteva essere facile la convivenza!

 

L’importante era che rimanessero al sicuro e non facessero colpi di testa, anche se, a sentire Mancini, erano state sempre chiuse in casa.

 

Un’altra fitta di senso di colpa la prese in pieno, al pensiero di aver ridotto sua figlia, neanche ventenne, a fare la reclusa.

 

E non era ancora finita: c’era pure un’altra telefonata che doveva fare e che stava cercando in ogni modo di rimandare.

 

Ma quello che era giusto era giusto

 

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“Che cosa?!”

 

“Pietro, stavolta ti sto avvertendo per tempo, no?” chiese, staccando leggermente il telefono dall’orecchio per non assordarsi.

 

“Non si tratta solo di avvertire, Imma, si tratta magari pure di chiedermi cosa ne penso, o questo particolare ti è sfuggito dalla nostra ultima conversazione?”

 

“Pietro… Valentina è maggiorenne e deve essere lei a decidere in un caso come questo. E credimi che le ho valutate tutte, ma questa è la soluzione migliore. Non c’è un modo certo per evitare che quelle foto escano, e questo-”

 

“E questo è il modo per fare sì che tutto il mondo sappia che esistono foto di mia figlia nuda, che basta cercarle per trovarle. Ma pensi veramente che qualcuno non le metterà su internet? E che pensi che succederà qua a Matera, che è ancora casa pure di Valentina. Come pensi che la prenderà mia madre?”

 

“In questo momento mi preoccupo solo del benessere di Valentina, Pietro, e tra far sapere che potenzialmente nella sua vita è stata nuda, di notte ed in una spiaggia isolata, peraltro, ed avere le foto in giro sui giornali, perfino tua madre dovrebbe preferire la prima opzione!”

 

“Sai che preferenza, Imma!”

 

“Pure tua madre sarà stata giovane, no? E poi proprio lei, che voleva sempre comprare i vestiti da baby squillo a Valentina, per attrarre i rampolli, mo dovrebbe farmi storie sulla decenza?”

 

“Con i vestiti da baby squillo, come li chiami tu, non era nuda.”

 

“Per me è più dignitoso un nudo che certi vestiti che paiono filo interdentale, Pietro. Ma comunque-”

 

“Ma comunque, a parte che mia madre direbbe lo stesso dei tuoi di vestiti, Imma, in ogni caso mi pare che tu abbia già deciso, come sempre ultimamente.”

 

“Non ho deciso da sola, Pietro, ho deciso con Valentina e con varie persone che questo mestiere lo fanno da decenni. E non sto parlando di Calogiuri.”

 

“Eh no, certo! A meno che l’Arma non sfrutti il lavoro minorile mo. E comunque-”

 

“E comunque ho un’altra cosa da dirti, Pietro,” tagliò corto, prima che si esibisse in una serie di commenti sarcastici sull’età di Calogiuri.

 

“Che c’è? Pure tu potresti finire nuda sui giornali?” ironizzò ma, conoscendolo bene, sentiva che una parte di lui lo temeva sul serio.

 

E come dargli torto, visto che lo temeva pure lei? Ma non poteva di certo ammetterlo.

 

“No, Pietro, non penso. Ma… mi è arrivata la lettera per l’udienza di divorzio.”

 

Ci fu un silenzio talmente prolungato che dubitò Pietro si fosse sentito male.

 

“Piè?”

 

“L’hai ricevuta pure tu, allora.”

 

“Come? L’hai ricevuta e non mi hai detto niente?” gli chiese, stupita, e poi le tornò nitida nella mente la loro ultima telefonata, “quando ci siamo sentiti qualche giorno fa... già lo sapevi, non è vero?”

 

“Sì, ma… pensavo lo sapessi anche tu, ma che magari… con tutto quello che sta succedendo… volessi rinviare.”

 

In fondo Pietro la conosceva da più di vent’anni. Ma forse ci sperava pure un po’.

 

“Pietro… non lo so… se… se la faccenda dovesse stabilizzarsi per un po’ dopo… il post e tutto quello che accadrà domani… penso che sia meglio per tutti andare avanti. Tu almeno sarai divorziato e non continueranno ad associarti a me e… e pure io sarò più libera.”

 

“Più libera di così mi pare difficile, Imma. Sono mesi ormai che fai tutto quello che ti passa per la capa, senza pensare alle conseguenze. Ma va bene, tranquilla, non ti chiederò se sei sicura, perché tanto ormai lo so che lo sei. E, sinceramente, a questo punto lo sono pure io.”

 

Non sapeva nemmeno bene lei il perché, ma il modo in cui lo disse, invece di darle sollievo, fu quasi uno schiaffo fisico e non solo morale. Anche se sapeva che era incazzato con lei e tutti i torti, almeno per quanto riguardava Valentina, in fondo non riusciva a darglieli.

 

“Va bene. Allora… allora ci vediamo il giorno dell’udienza, salvo emergenze che spero non ci saranno.”

 

“Me lo auguro, Imma, anche perché se no parto io, ma per Milano, se Valentina non torna prima.”

 

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“Dottoressa! Ormai siamo sincronizzati su quest’orario!”

 

Sette e trenta del mattino, di nuovo, come il giorno prima. Lei sempre con la colazione in mano per Calogiuri, che era dalla mattina precedente che non vedeva né sentiva. Era andato a dormire poco dopo che avevano finito con Mancini, ed era tornato al lavoro mentre lei rientrava a casa.

 

Seguendo il rituale ormai consolidato, Mancini andò a prendere i caffè, mentre lei raggiunse Calogiuri nella stanza in cui stava passando ormai tutte le notti.

 

“La colazione, Calogiù!”

 

Non si voltò subito ma con una certa lentezza, peggiore perfino di quando l’aveva conosciuto e le sembrava un po’ un bradipo, a volte.

 

Aveva gli occhi cerchiati, si vedeva che era esausto.

 

“Stanotte non puoi farti dare il cambio da Conti o Mariani?”

 

“Loro stanno già facendo gli appostamenti di persona, dottoressa. E non possono farlo senza supporto da remoto, se succedesse qualcosa, lo sai.”

 

“Va beh… tanto da stasera mi sa che la sorveglianza la faremo in un altro modo, Calogiuri, se l’agente dei ROS sarà riuscita a piazzare le cimici. E così tu ti puoi riposare.”

 

“Guarda che non è solo per l’orario che dormo male, dottoressa. Non dirmi che tu ci riesci, che pure col trucco si vede che sei stanca.”

 

C’era preoccupazione nelle parole di Calogiuri, ma c’era anche un qualcosa di indefinibile che la fece un po’ preoccupare. Una stanchezza diversa da quella puramente fisica.

 

“Quando questa storia sarà finita riposerò, Calogiuri. O meglio, quando avrò fatto tutto quello che si poteva fare. Oggi è la giornata decisiva e-”

 

Un rumore di passi annunciò l’arrivo di Mancini, rapido come al suo solito.

 

“Dottore, com’è andata con Coraini? Ci sono novità?”

 

“Non ancora, dottoressa, ma sto aspettando a chiamare De Luca: non tutti sono mattinieri come me. Ma ora credo di poterlo disturbare e-”

 

Una suoneria non familiare lo interruppe e Mancini estrasse un telefono dalla tasca interna della giacca.

 

“Pronto?” chiese e poi, dopo qualche attimo, sorrise, in un modo pienamente soddisfatto che raramente gli aveva mai visto. Se non forse rivolto a lei, nei tempi buoni.

 

“Posso parlarle per ringraziarla?” pronunciò poi e lo sentì lanciarsi in una serie di lodi sperticate, seguite da una sfilza di domande e da altri complimenti che, in confronto, quelli che le faceva una volta erano niente.

 

Poi mise giù.

 

“Era proprio De Luca con la sua collega. Missione compiuta: è riuscita a mettere diverse cimici in casa di Coraini, mentre lui dormiva. Sono di ultima generazione, quindi neanche per uno come lui dovrebbe essere facile rintracciarle. Ora non ci resta che aspettare. Dottoressa, ha finito con la dichiarazione?”

 

Gliela passò, sollevata dalla notizia, ma allo stesso tempo in apprensione per cosa sarebbe avvenuto dopo.

 

“Dottoressa, è perfetta! Non capisco perché si ostini a non voler avere a che fare con i media.”

 

“Perché dal vivo e non per iscritto mi conosco, dottore, e fatico a tenere un cecio in bocca,” si schernì, anche se quel complimento le faceva veramente piacere, dopo tutto quel tempo di tensione tra loro.


Forse fin troppo.

 

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“Inviato!”

 

Quella singola parola di Calogiuri fu come un macigno ed una liberazione insieme.

 

Il post, corredato da una sua foto alla scrivania con il computer sul quale era visibile l’inizio del testo del messaggio appena pubblicato, per non dare dubbi che si trattasse di un fake, era apparso sul profilo creato per l’occasione.

 

Calogiuri lo condivise sul suo di profilo, che ormai aveva stuoli di follower - soprattutto donne, ovviamente - e poi attesero.

 

“Arrivano notifiche di ricondivisione, dottoressa. Frazer e pure il canale per cui lavora e… e la signora Diana?”

 

“E chi è?” chiese Mancini, confuso.

 

“La mia cancelliera di Matera, dottore. E pensare che, quando le dicevo che stava troppo attaccata al telefono, si arrabbiava pure!” ironizzò, un po’ commossa dalla premura di Diana, anche se si chiese se per caso Calogiuri l’avesse avvertita, visto che a quanto pare erano amici sui social.

 

Notifica dopo notifica, il post acquisì like e risonanza ad una velocità che mai si sarebbe aspettata. Ed un sacco di gente aveva iniziato a seguirla, anche se il termine la faceva rabbrividire e pensare ad una massa di stalker che le correvano dietro coi forconi.

 

Ripromettendosi che non avrebbe mai più pubblicato niente, se non in caso di emergenza, si chiese se fosse il caso di leggere alcuni dei commenti che stavano arrivando, mentre Mancini, dalla sua postazione, annunciava, “bene, ora è il momento di entrare in azione. Alpha, Beta, Chi, Gamma, mi sentite?”

 

Spostò lo sguardo verso gli altri monitor, da dove si vedevano le riprese dagli elmetti protettivi di De Luca, Brian, Mariani e Conti, che stavano già appostati da un po’ in due furgoni di fronte e sul retro del condominio di Giuliani.


Una serie di “ricevo, passo!” invasero la stanza, finché Mancini diede l’ordine di entrare in azione.

 

Il fiato in gola ed un senso di mal di mare per le telecamere che ondeggiavano al ritmo della corsa dei loro proprietari, vide come si avvicinarono ai due ingressi e, annunciando la consegna di un pacco, si fecero aprire dai vicini.

 

E poi corsero su per le scale, ad una velocità di cui Mancini doveva andare fiero e che provocò il fiatone persino a lei.

 

Il cuore le fece un balzo nel petto quando sentì il rumore di una porta che si apriva e vide Mariani voltarsi bruscamente verso sinistra, pronta al peggio.

 

Ma era solo una signora che usciva dal suo appartamento, con un trolley della spesa in mano che le cascò per terra.

 

“Tranquilla,” sentì dire da Mariani, che poi si girò nuovamente e riprese la salita.

 

Sperava che non avessero sulla coscienza l’infarto della povera anziana.

 

Ed, infine, anche se in realtà era passato forse nemmeno un minuto da quando erano entrati, De Luca, Mariani e Brian si incrociarono sul pianerottolo che avevano individuato in quelle giornate di appostamento. Il cicalio dell’ascensore annunciò l’arrivo di Conti, che lo tenne bloccato al piano, per evitare una possibile via di fuga secondaria.


Le telecamere, che inquadravano ormai praticamente la stessa identica immagine, si fermarono davanti ad una porta con scritto sul campanello “N.G.”

 

Suonarono, una, due volte, ma niente. E poi, dopo un’altra sbandata da vertigine alla telecamera, De Luca e Brian sfondarono la porta, mentre Mariani entrava, con la pistola spianata.

 

“Nicola Giuliani, esci fuori, sei in arresto!” gridarono, ed una specie di tonfo rimbombò nei microfoni.

 

Dopo una corsa sfrenata, tutti nella stessa direzione, lo trovarono in camera da letto, franato per terra in dei boxer striminziti che, purtroppo per lui, non nascondevano niente, le gambe ancora avvolte nelle lenzuola, nonostante fossero quasi le quattordici.

 

Altro che BigBoy! Di muscoli, forse!


“Troppa vita notturna fa male, Giuliani! A lei e a noi che dobbiamo guardarla. Le manette!” sentì De Luca ordinare, con il suo solito umorismo al vetriolo.

 

Nonostante tutto, non si rilassò fino a che Giuliani, ancora in mutande, non fu caricato sulla camionetta di Mariani e De Luca.

 

Fino a lì, per una volta, tutto era andato secondo i piani.

 

*********************************************************************************************************

 

“Vale…”

 

Sollevò la testa dal cuscino, guardando verso la porta della camera da letto, dalla quale si era appena affacciata Penelope.

 

“Sono… sono invasa da notifiche sui social, ho dovuto staccare il telefono. E non so come sto, se è quello che vuoi sapere.”

 

Lo sapeva che forse era fin troppo dura con Penelope, che le sembrava veramente preoccupata. Ma non le serviva a niente la sua pietà, intervallata dai momenti di mutismo.

 

“Almeno hai visto cosa ha scritto tua madre?” le chiese, avvicinandosi a lei e sedendosi sul letto, come erano giorni che non faceva,

 

“No. Non so se… se lo voglio vedere, almeno per ora, tanto me li immagino i commenti.”

 

“In realtà i commenti non sono così male, almeno alcuni. E poi... secondo me dovresti leggerlo, Vale.”

 

“Ma sarà la solita retorica da PM! La giustizia, non piegarsi ai ricatti e tutte queste storie qua.”

 

“C’è un po’ pure di quella: è sempre un magistrato,” sorrise Penelope, porgendole il telefono, “ma non c’è solo quello.”

 

“Te l’ho mai detto che sei di coccio quasi peggio di mia madre, a volte?” le chiese, prendendo il cellulare.

 

“Senti chi parla, Vale!”

 

Fece scorrere la foto di sua madre, ritratta con un’obbrobriosa giacca leopardata in una posa che definire ingessata era dire poco, ed arrivò al testo.

 

Ho pensato molto prima di pubblicare queste righe, ma ho sempre creduto che la verità e l’onestà rendessero liberi, e continuo a pensarlo. Qualche giorno fa mi sono arrivate delle foto che ritraevano mia figlia, mentre faceva il bagno di mezzanotte con delle sue amiche in Spagna. Come la maggior parte dei ragazzi di quell’età che fanno il bagno di mezzanotte alle Baleari, erano nude, visto che non è vietato. Solo che mia figlia, a differenza della maggioranza dei ragazzi di quell’età, ha un magistrato come madre e qualcuno ha pensato bene di barattare la sua serenità con un ricatto. Mi hanno chiesto dei soldi e, successivamente, quando con i miei colleghi ho finto di cedere al ricatto e li ho pagati, cominciando ad avanzare richieste riguardanti il mio lavoro e le notizie riservate che sono in mio possesso.

Abbiamo motivo concreto di sospettare che non si tratti solo di un ricatto, che già di per sé sarebbe gravissimo, ma che dietro ci sia ben altra volontà. Di imbavagliarmi o magari di controllarmi e di influenzare il mio lavoro.

Non lo avrei mai permesso, ovviamente, così come non lo permetterebbe mai mia figlia. Per questo ho deciso di chiarire con questo scritto cosa sta succedendo, proprio io che sono allergica ai social. Voglio dire chiaramente che chiunque compri quelle foto e le pubblichi, sta di fatto finanziando un’attività criminale. Oltre alla curiosità più che discutibile di vedere delle immagini private di una ragazza che si è sempre tenuta lontano da un certo tipo di attenzioni, che non ha scelto di essere un personaggio pubblico.

A lei vanno le mie scuse ed i miei ringraziamenti per essere la figlia che è. Sono molto orgogliosa di lei, per la donna indipendente e libera che sta diventando, in una società che si scandalizza ancora oggi molto di più per un po’ di pelle scoperta o per un ballo in discoteca, che verso chi compie crimini che danneggiano tutti noi. Anzi, queste persone spesso vengono lodate come quelli furbi.

Non farò altre dichiarazioni su questa vicenda, confido nei miei colleghi che si stanno occupando di questo caso ed in tutti quei giornalisti che credono ancora nella verità e nell’etica professionale.

Imma Tataranni

 

Una specie di macchia arcobaleno colorò il display: una lacrima. La sua.

 

“Grazie…” sussurrò, sollevando lo sguardo verso Penelope e cedendo all’impulso di abbracciarla.

 

E la sentì ricambiare, senza più l’imbarazzo degli ultimi giorni.

 

Le sembrò di essere finalmente tornata a respirare, per tante ragioni, anche se la più importante ce l’aveva tra le braccia.

 

*********************************************************************************************************

 

“Non ne so niente.”

 

“Ha recuperato lei i soldi e stavano ancora a casa sua, sotto il suo letto, da quanto mi dicono gli agenti. Come fa a dire che non ne sapeva niente?”

 

Ma Giuliani continuava a fare scena muta tra “non so” e “non parlo”, nonostante gli sforzi di Mancini.

 

“Lei si rende conto che, se non ci dice qualcosa, rischia una serie di denunce che vanno dallo stalking all’estorsione, alla tentata corruzione di pubblico ufficiale. Vuole dirmi che le foto in Spagna le ha scattate lei? Sappiamo benissimo che non si è mosso dall’Italia negli ultimi mesi.”

 

“Vi ho già detto che non parlo,” continuò a ripetere, ostinato, anche se sembrava pure un po’ spaventato.

 

Del resto Giuliani poteva pure giocare a conciarsi come uno dei Narcos, ma restava un pesce piccolo. Ed i pesci piccoli vengono mangiati da quelli grossi, in quei begli ambientini che frequentava lui. Avrebbero dovuto tenerlo d’occhio costantemente, per non rischiare che ci scappasse il morto.

 

Ma, per il momento, dovevano solo trattenerlo abbastanza da spaventarlo e da piazzargli cimici in casa ed in auto.

 

Col Mancuso sarebbe stato più complicato: non volevano rischiare, per due microfoni, di fare la fine dell’arresto al Mazzocca. C’era da sperare che intercettare due uomini su tre sarebbe bastato.

 

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“Finalmente!” esclamò, mollando con sollievo le scarpe già nell’ingresso e passeggiando a piedi nudi sul pavimento, reso caldo dalla temperatura estiva.

 

Si voltò e vide Calogiuri ancora sulla porta, che sembrava quasi uno zombie. Erano ventiquattr’ore che lavorava non stop.

 

“Calogiuri, vuoi mangiare qualcosa o vuoi andare dritto a dormire?”

 

“Non ho fame… vado… vado a letto,” rispose, di nuovo con quel tono degli ultimi giorni, come se, novello Atlante, si portasse sulle spalle tutto il peso del mondo.

 

“Calogiuri…” provò a chiamarlo, ma lui proseguì verso la stanza da letto e non si sentì di entrare in una possibile discussione, con lui in quelle condizioni.

 

Doveva riposare, i chiarimenti potevano pure attendere l’indomani.

 

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Si svegliò di colpo, una sensazione di freddo improvviso.

 

“Ca- Calogiuri?” chiese, non sentendolo accanto a sé nel letto.

 

Guardò l’orologio: non erano nemmeno le cinque di mattina.

 

Una lama di luce le causò una fitta alla testa, quando la porta che dava sul corridoio si aprì e ne riemerse lui.

 

Il sollievo lasciò lo spazio all’ansia quando si accorse che non era più vestito da notte - se boxer e maglietta potevano definirsi tali - ma che aveva indosso una tuta ed ai piedi le scarpe da ginnastica.


“Che fai?” gli chiese, confusa, “è… è successo qualcosa in procura?”

 

“No, no,” rispose lui, scuotendo il capo ed avvicinandosi leggermente di più, ma rimanendo a distanza di sicurezza, “è che… ormai mi sono abituato a dormire di giorno e stare sveglio la notte e… non riesco più a riaddormentarmi, quindi ho pensato di andare a correre.”

 

“Non mi diventerai un fissato della corsa come-” si interruppe, prima di pronunciare la parola Mancini ma, a giudicare dall’espressione di Calogiuri, aveva capito benissimo a chi si riferisse.

 

“Tu riposati. Vado e torno in tempo per la colazione,” rispose, dopo un attimo di silenzio, avviandosi verso il corridoio.

 

Il panico, per qualche assurda ragione, la spinse ad urlare un “Calogiuri!” che lo fece fermare e voltare sui suoi passi.

 

“Ho… ho sentito Pietro, ormai l’altroieri. Per la storia di Valentina e del post.”

 

Calogiuri annuì, con l’espressione da se non c’è altro io andrei! che detestava dalla prima volta che gliel’aveva vista in faccia a Matera.

 

“Gli ho raccontato che mi era arrivata la convocazione per l’udienza di divorzio. L’aveva ricevuta pure lui e gli ho detto che-”

 

“Che, vista la situazione, era meglio rinviare?” la interruppe, come se non potesse sopportare oltre le sue esitazioni.

 

Da un lato lo capiva, anche se le veniva lo stesso il nervoso.

 

“No, gli ho detto che è meglio se divorziamo legalmente il prima possibile. Quindi andrò all’udienza di mercoledì, salvo qualcuno dei Mazzocca, o chi per loro, ne combini qualcun’altra prima di allora.”

 

Fu come se le nuvole si fossero diradate improvvisamente: Calogiuri le sorrise in quel modo che gli illuminava il viso e le faceva bene al cuore.

 

L’abbraccio da cui si trovò avvolta fu come tornare a casa dopo giornate nelle quali, per tanti motivi, erano dovuti stare lontani e non solo fisicamente.

 

“Lo hai già detto a Mancini? Per… per i giorni di permesso. Io non ne ho molti ma-” disse, interrompendosi quando, probabilmente, notò la sua espressione, “che c’è?”

 

Non voleva dirglielo, una parte di lei non voleva dirglielo ed infrangere forse di nuovo quel momento di serenità completa. Ma sapeva che fosse la cosa più giusta da fare per tutti quanti.

 

“C’è che… ci voglio andare da sola, Calogiuri.”

 

“Co-come?” le chiese, incredulo, e con un’espressione ferita che le fece malissimo.

 

“Non voglio che… non voglio che si mischino le cose, Calogiuri, e-”

 

“Cioè non vuoi che si mischi la tua vita a Roma con me, con quella a Matera con il tuo ex marito?” le chiese, amarissimo, mentre un misto tra incazzatura e panico le saliva alla gola.

 

“Ma no, Calogiuri! Ma che cosa dici?! No, è che… questo divorzio è un problema mio, che riguarda me e Pietro. Al massimo forse Valentina, che dovrò avvisare, anche se spero se ne stia a Milano. Questo matrimonio l’abbiamo iniziato in due ed in due dobbiamo chiuderlo. E non voglio che si pensi che è per colpa tua, o-”

 

“Se permetti, visto che sono il tuo compagno, o fidanzato, o come mi vuoi chiamare, credo che riguardi pure me, no?” esclamò, sempre più arrabbiato.

 

“Sì, certo, ma… non è solo per te che divorzio, Calogiuri, te l’ho già detto. Lo faccio per me, lo capisci? Lo so che ti preoccupi, ma è una cosa che devo fare da sola.”

 

“Non dico di venire in tribunale come un cane da guardia, Imma. Ma potrò almeno aspettarti a casa… a casa di tua madre, no? C’è pure tutta questa storia coi Mazzocca. Non è il caso che te ne stai in giro da sola e poi-”

 

“E poi a Matera conosco un sacco di gente, Calogiuri: c’è Diana, c’è Capozza, volendo, e-”

 

“Appunto!” disse, prima di trafiggerla con un’occhiata che la fece tremare, da quando era carica di troppe cose, “ho l’impressione che… che tu non vuoi proprio che ci metto piede a Matera perché ti… ti vergogni di noi due.”

 

“Ma che sei scemo?! Ma se lo sa tutto il mondo di me e di te! Pure in televisione siamo andati e-”

 

“Ma non siamo mai stati a Matera, non da quando si sa di noi due, almeno. Imma, ti conosco: a te dell’opinione degli sconosciuti… sì, importa, ma meno. Ma quella delle persone che conosci bene, anche se non le sopporti… è… è un’altra cosa. A volte ho l’impressione che… sì, sei venuta qui a Roma anche perché io non mi potevo trasferire ma… soprattutto perché non volevi dover affrontare tutti loro ed i loro giudizi. Che… qui con me hai una specie di vita parallela, dove tanto non conosci quasi nessuno, ma… ma-”

 

“Ma io non posso credere che tu possa anche solo pensarlo, dopo tutto quello che ho fatto per te, per noi due! Ho combattuto con il mondo per stare con te e lo sto ancora facendo!”

 

“E io no?! Ma io ti porterei a Grottaminarda pure domani, non fosse che non ti voglio infliggere mia madre, ed invece tu con Matera continui a rinviare il momento! Lo so che verresti con me all’altro capo del mondo, Imma, ma perché proprio a Matera no?”

 

Imma si ammutolì, chiedendosi se almeno una piccola parte di lei non stesse davvero scappando, se non dalla realtà, almeno da quella realtà. Da quella Imma, scassapalle ma integerrima, che si era lasciata alle spalle a Matera. Ma no, non aveva senso, lei non era più quella Imma già allora e-

 

Sollevò lo sguardo, ma Calogiuri era già di fronte alla porta, “vado a correre e poi al lavoro. Ci vediamo in procura.”

 

Sapeva che sarebbe stato inutile fermarlo. E forse, prima che non si fosse del tutto schiarita lei le idee per prima, era meglio così.

 

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“Vale, che c’è?”

 

“Niente… mia madre mi ha scritto che… lei e papà hanno l’udienza di divorzio mercoledì, a Matera.”

 

“Beh… ormai è da un po’ che si sono separati, no? Lo sapevi che questo momento sarebbe arrivato.”

 

“Sì, ma… ma non è quello. Da un lato mi pare che sia passata una vita, dall’altro che sia successo ieri.”

 

“Beh, visto il tuo atteggiamento col maresciallo in vacanza, direi proprio che non è successo ieri, Vale. Mi ricordo com’eri quando mi parlavi di lui.”

 

Rise, non poté evitarlo, perché Penelope sapeva sempre come sdrammatizzare la situazione. E perché aveva quasi temuto di non poterlo più fare, non così.

 

Ma di quanto era successo la sera del sushi non aveva più fatto cenno, nonostante si fossero riavvicinate, e questo le faceva male, forse più di quanto volesse ammettere anche a se stessa.

 

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“Un permesso di due giorni, dottoressa?”

 

“Sì… ho… ho la causa divorzio, dottore. Devo andare a Matera.”

 

Mancini annuì, anche se apparve un attimo sorpreso, “dottoressa, non le farò la predica, come direbbe sua figlia, sul basso profilo, perché mi rendo conto di come siano i tempi della giustizia italiana. Ma stia attenta, lei ed il maresciallo, mi raccomando! Certo che con due persone in meno-”

 

“No, dottore. Il maresciallo rimane qui. Quindi mancherò solo io.”

 

Mancini parve sbigottito.

 

“Ma da sola? Con tutto quello che sta succedendo, non-”

 

“Lo so, dottore, me l’ha detto anche Calogiuri. Ma… credo sia meglio così, anche per non esasperare le cose con il mio ex marito. E poi là, volendo, ho tutta una caserma pronta ad aiutarmi.”

 

“Va bene, dottoressa, ma, a maggior ragione, cerchi di essere prudente! Che la conosco ormai!”

 

Ed in effetti era vero, più di quanto potesse o volesse ammettere.

 

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“Calogiuri!”

 

Lo chiamò, ma lui era già sceso dall’auto.

 

In quei giorni era stato sempre taciturno: si alzava presto ed andava pure a dormire presto, che manco fossero in caserma.

 

Del resto neppure lei era riuscita più a parlargli, ma non era facile per lei dover fare il primo passo. Con Pietro non era quasi mai servito, ma Calogiuri era completamente diverso: quando si arrabbiava seriamente non gli passava da solo, se non dopo chissà quanto tempo. Fin dai tempi in cui avevano un rapporto solo professionale.

 

Però l’aveva accompagnata alla corriera e mo le stava pure recuperando il borsone dal bagagliaio.

 

Glielo prese dalle mani e rimasero per istanti interminabili fermi così, a guardarsi, come se ognuno volesse incitare l’altro a dire qualcosa, a pochi passi dalla scaletta del veicolo.

 

DI solito a quell’ora si sarebbero già baciati, per salutarsi e per cercare di farsi forza a vicenda. L’ultima volta lo avevano fatto perfino con Valentina presente, anche se si era coperta gli occhi, schifata.

 

E invece… invece niente.

 

“Se… se succede qualcosa chiamami,” le disse infine, ed Imma quantomeno si consolò a sapere che, più dell’arrabbiatura, potesse la preoccupazione.

 

Ma, in fondo, anche quello era così da sempre e non era quindi poi così tanto un buon segno.

 

“Anche tu,” rispose, indecisa se provare a fare il primo passo, in tutti i sensi, verso di lui o meno.

 

Ma Calogiuri annuì e si voltò, tornando verso la macchina, senza guardarsi indietro.

 

*********************************************************************************************************

 

“Imma!”

 

Una voce inconfondibile le fracassò quasi il timpano e si trovò Diana praticamente appiccicata alla sua destra, non appena scesa dalle scale della corriera.

 

“Diana?” chiese, stupita, perché non le aveva detto che sarebbe tornata, né con quale corriera, visto che oltretutto doveva trattenersi solo due giorni. E non era manco sola!

 

“Capozza?”

 

“Eh sì, Imma, mi ha accompagnato che sai… così siamo più comode con i bagagli. Sei sicura di voler andare a casa di tua madre? Perché da noi, nella stanza di Cleo, c’è posto e-”

 

Rabbrividì al solo pensiero della stanza, anzi, del mausoleo dedicato a Cleo, di cui aveva pure visto qualche foto. Diana l’aveva preservato esattamente com’era prima che la figlia si trasferisse a Londra. Era già infantile per una ragazza di diciott’anni, figuriamoci mo. O per una della sua età.

 

Ma poi un pensiero si fece strada su tutti gli altri, facendo per fortuna svanire il mausoleo.

 

“Ti ha avvisata Calogiuri, non è vero?”

 

“Imma… e dai! Quel povero ragazzo è così preoccupato che ti succeda qualcosa, con tutti i casini che c’hai. E lo capisco pure! Ma perché non sei venuta con lui? E l’ho sentito così triste al telefono, c’è qualche problema o-?”

 

Se la abbracciò, riuscendo nell’intento di zittirla, prima che superasse il record mondiale di apnea, detenuto sempre da lei medesima.

 

Ma, quando si ritrovò quasi stritolata e dovette trattenere a fatica le lacrime, capì che non era solo per quello che l’aveva fatto. Di un’amica ne aveva terribilmente bisogno, anche se le scocciava ammetterlo.


E Diana era insostituibile, pure se doveva avere una convenzione con gli otorini e con i produttori di apparecchi acustici, per quanto era assordante.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua alla conclusione del capitolo quaranta. Mi scuso per la pubblicazione a tarda sera, ormai è praticamente lunedì, ma è stato più lungo da terminare del previsto, perché volevo arrivare almeno a questo punto ed il tempo purtroppo in questi giorni, a causa del lavoro, è molto ridotto.

Questo è stato un capitolo che segna, per certi versi, una chiusura del cerchio. Imma sta affrontando una fine importante, che potrebbe pure essere un nuovo inizio ma… Calogiuri comincia a mostrare insofferenza verso certe decisioni di Imma e la sua pazienza potrebbe ormai essere agli sgoccioli. D’altro canto Imma è tra l’incudine e il martello, trovandosi in una posizione personale e professionale per nulla facile.

Che succederà a Matera? Sarà causa di ulteriori problemi? Nel prossimo capitolo ci attendono molti ritorni che metteranno a dura prova entrambi i protagonisti, mentre il giallo prosegue, tra Matera e Roma.

Grazie ancora di cuore per avermi seguita per quaranta capitoli, lo so che non è affatto scontato dopo tutti i mesi che sono passati. Spero che questa storia possa continuare a piacervi e a sorprendervi, e che non risulti pesante o noiosa, visto che dopo tanti capitoli so che il rischio c’è.

Vi ringrazio tantissimo fin da ora se vorrete farmi sapere che ne pensate con una recensione. Le vostre parole mi fanno sempre molto piacere e mi danno una carica che non vi immaginate. Grazie a chi ha messo la storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo arriverà domenica due agosto.

Grazie ancora di cuore!

 

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Capitolo 41
*** Tensione ***


Nessun Alibi


Capitolo 41 - Tensione


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Allora?”

 

“Allora non devi andare al lavoro pure tu? Che farsi bagnare il naso da Capozza è un disonore, Diana!”

 

Dopo che l’avevano portata a casa di sua madre, Capozza se ne era andato dicendo che non poteva fare tardi o chi la sentiva la D’Antonio.


Diana invece l’aveva accompagnata a fare colazione al bar di fronte e poi di nuovo a casa, manco fosse una guardia del corpo.

 

“Mi sono presa mezza giornata di ferie, Imma, che è una vita che non parliamo e domani c’hai l’udienza e poi te ne scappi di nuovo a Roma!”

 

“Perché devo lavorare, io, Diana,” rispose, sarcastica, ma la sua ex cancelliera si limitò a sollevare gli occhi al soffitto e a sedersi ostinatamente sul divano, “e poi non mi sembra che io e te abbiamo mai parlato molto, no?”

 

“Appunto! Infatti è proprio da una vita che non parliamo se non di lavoro, Imma, che sono sempre io a doverti cavare le cose di bocca. Allora? Come va con Ippazio? Era così mogio che quasi mi sono spaventata che ti fosse successo qualcosa! Quello sta proprio perso, Imma! Come diceva la buonanima di mia madre, ti porterebbe l’acqua con gli orecchi se glielo chiedessi!”

 

“Che schifo, per carità!” esclamò Imma, che quel proverbio l’aveva sempre detestato, “e poi che mi diventi pure Frate Indovino, mo?”

 

“Imma, non cambiare discorso! E allora, perché sei venuta da sola? Ci sono problemi?!”

 

“Per caso Vitali ti ha assegnata a fare gli interrogatori dopo che me ne sono andata, Diana? Una volta, sì, eri impicciona, ma dopo un po’ la mollavi la presa.”

 

“Solo perché se no me l’avresti fatta pagare sul lavoro, che non ti conosco? Ma domani torni a Roma, quindi non ho niente da perdere. Allora?”

 

Imma sospirò, indecisa per un attimo se mandare a quel paese Diana, andare a sistemare alla meno peggio casa e poi a farsi un pisolino, o se in fondo, per una volta, non andasse pure a lei di confidarsi. Certo, Diana non era riservata quanto Sabrina, ma in tutti quei mesi che aveva saputo in anteprima di lei e Calogiuri non aveva mai fatto scappare un fiato.

 

“Se te ne parlo mi prometti che non dici una parola finché non ho finito di spiegare? Che vorrei terminare prima dell’udienza di domani!”

 

“Va bene, va bene! Che pazienza che ci vuole con te, Imma! Quel ragazzo è un santo!”

 

“Guarda che sarebbe bastato non chiedermi niente - e non continuare a starmi alle calcagna come una specie di segugio - e la pazienza non ti ci voleva!” esclamò, guadagnandosi un’altra occhiata al soffitto ed un sopracciglio alzato.

 

Che sentitamente ricambiò.

 

*********************************************************************************************************

 

“Calogiuri!”

 

Fece un salto dalla sorpresa, che solo per un soffio non rovesciò il cappuccino a terra.

 

“Do- dottoressa? Che… che ci fate qui?”

 

“Che accoglienza, Calogiuri!”

 

“No, scusate, ma è che… non dovreste essere ancora in ferie?”

 

“Sì, rientro lunedì ma… sono tornata a Roma ieri e ne ho approfittato per venire a recuperare due carte urgenti, che non mi voglio trovare sommersa al rientro ufficiale. Jenny, un-”

 

“Il matcha latte alla dottoressa lo offro io, Jenny!” si inserì, prima che lei potesse protestare, ma si beccò lo stesso un “Calogiuri!” di rimbrotto.

 

“Grazie…” gli sussurrò poi, mentre la barista preparava quella specie di brodaglia verdastra che le piaceva tanto, “e ti ricordi pure cosa prendo!”

 

“Non è difficile, visto che lo bevete praticamente solo voi, dottoressa.”

 

“Ma che fai, sfotti? Anche se… mi sa che fa molto milanese, non è vero? Ma preferisco il tè al caffè, poi il tè verde fa molto bene. Dovresti provarlo pure tu, Calogiuri: ti dà energia e ti tiene sveglio, che con quelle occhiaie sembri uno zombie!”

 

Sospirò, perché aveva passato quasi tutta la notte in bianco in quel letto vuoto, pensando ad Imma in corriera e, soprattutto, al fatto che non l’avesse voluto con lei. Chissà se avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare i materani con lui o se….

 

“Calogiuri, ma sei ancora addormentato?” la voce di Irene per poco non gli fece fare un altro salto.

 

“No, no, scusate, è che-”

 

“Invece che scusarti, vieni con me al tavolo, già che hai offerto tu,” proclamò, avviandosi verso uno dei tavolini con la tazza in mano e prendendo posto, per poi chiedergli a bassa voce, non appena si sedette, “che ti succede, Calogiuri?”

 

“No… niente… è che…”

 

“Con quelle occhiaie normalmente penserei ad una notte di fuoco, ma ho visto che Imma è in ferie per due giorni. E tu stai qua. E allora?”

 

“No… è che… è andata a Matera per l’udienza di divorzio,” spiegò, altrettanto sottovoce, anche se sicuramente la voce in procura si era già sparsa.

 

“Ho capito, Calogiuri, non serve che mi dici altro,” ribatté, scuotendo il capo e bevendo un altro sorso di schiuma verde, “senti… perché non vieni con me a vedere uno spettacolo stasera? Teatro all’aperto, Shakespeare. In italiano, non ti preoccupare, che già è difficile così.”

 

“Ma sei sicura di poter uscire stasera?” le sussurrò e lei sorrise ed annuì.

 

Probabilmente con Bianca c’era Maria.

 

Sapeva che Imma non sarebbe stata entusiasta all’idea che lui uscisse con Irene mentre lei non c’era. Ma, prima di tutto, era stata lei stessa a dirgli che non è che dovesse chiedere il permesso per uscire con i suoi amici, Irene inclusa. Capo secondo, lei se ne era andata a Matera senza di lui per sua scelta: non poteva certo pretendere che lui rimanesse a casa da solo a rodersi il fegato mentre lei non c’era.

 

“Va bene, a che ora ti passo a prendere?”

 

*********************************************************************************************************

 

“Imma, ma che t’è saltato in testa? Ci credo che quel poveretto se l’è presa!”

 

“Neanche tu mi pare che sbandierassi la tua storia con Capozza mentre dovevi separarti, o no?”

 

“Imma, e su, non vorrai paragonarmi le due situazioni? Mio marito mi ha dichiarato guerra, tanto che chissà quando riuscirò ad averlo il divorzio, coi tempi della giustizia italiana! Che ci sto perdendo una fortuna in avvocato, ma non avevo scelta! Ma sono andata lo stesso a vivere con Capozza, alla faccia di mio marito, e mica ci nascondiamo! Ormai di te e Calogiuri lo sanno pure i sassi - non che non se lo immaginassero pure prima - che aspetti a portarlo qua, Imma? Proprio tu, che te ne sei sempre fregata del giudizio delle persone e ora-”

 

“E ora ho i giornalisti alle calcagna, Pietro che già è quasi sul piede di guerra ed una figlia chiusa in casa a Milano, che nemmeno una latitante. Forse me ne sono fregata fin troppo, Diana, e mo ne pago le conseguenze. Ma non volevo peggiorare le cose con Pietro e… e rischiare che saltasse l’udienza. E nemmeno che Calogiuri venisse qui a prendersi le frecciatine di tutti quanti. E non voglio che la gente pensi che è per lui che divorzio, che è colpa sua, perché la decisione è mia, e la responsabilità è mia soltanto.”

 

“Imma, ascolta,” sospirò Diana, mettendole una mano sull’avambraccio e prendendola di sorpresa, “la gente tanto lo penserà lo stesso, e poi la maggior parte della colpa la danno comunque a te, perché sei più grande d’età e perché sei una donna. Che cambia tra mo ed in futuro? Lo sai che i commenti ci saranno sempre. O pensi di non metterci mai più piede qui con Calogiuri?”

 

“No, ma-”

 

“Imma, quel ragazzo è stato già tanto paziente! Quanto tempo ti ha aspettata tra Roma e Matera, quando stavate insieme di nascosto? Sapessi quante volte vi ho beccati insieme! Ma sicuramente era da ben prima che me ne accorgessi,” le fece notare ed Imma si sentì in imbarazzo al solo ricordo della loro clandestinità, “ed è giovane, è bello, è gentile... figurati quante ne ha che gli ronzano intorno. Non tirare troppo la corda, Imma, che se poi si spezza….”

 

I cocci saranno i suoi! - le sovvenne la frase di Vitali, forse perché in fondo stavano a pochi chilometri l’uno dall’altra.

 

Fin da quando aveva deciso di lasciare Pietro e di provare ad iniziare una storia con Calogiuri, Roma le era sembrata la soluzione ideale. Per proteggere il loro rapporto e Calogiuri dalle inevitabili pressioni e difficoltà che la vita a Matera avrebbe comportato. Certo, forse l'aveva fatto anche per proteggere se stessa. Con i giornalisti ed i Mazzocca di mezzo, Roma ormai non era più quel porto sicuro di totale anonimato, ma sapeva benissimo che a Matera tutto era moltiplicato almeno per cento, se non per mille.

 

Però se era Calogiuri a volerlo, a voler affrontare tutto quello… forse doveva fidarsi della sua capacità di reggere la situazione. In fondo aveva già affrontato sua madre, che doveva essere lo scoglio più grosso per lui.

 

Ma poteva lei per prima accettare di farsi guardare dall’alto in basso da tutti quelli che in quella città non vedevano l’ora, da sempre, di coglierla in fallo?

 

Non era facile lasciare del tutto andare quell’immagine di sé che si era costruita in quarant’anni di vita nella città dei Sassi.

 

Per niente.

 

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Sono a teatro con Irene. Stacco il telefono per un paio d’ore. Se hai bisogno lasciami un messaggio.

 

Una sensazione tremenda di fastidio le morse lo stomaco nel leggere quel messaggio. La cara Irene non perdeva tempo, come sempre quando lei non c’era. E Calogiuri ovviamente mica si tirava indietro, forse anche per ripicca nei suoi confronti.

 

Ma poi non doveva stare in ferie la gattamorta?

 

Sapeva però di non potergli fare nessuna recriminazione: non solo gli aveva detto lei stessa che non doveva chiederle il permesso per uscire con la cara Irene - chissà cosa le era saltato in mente quel giorno! - ma, per come si erano salutati, sapeva che ulteriori discussioni per telefono sarebbero state probabilmente la goccia che avrebbe fatto traboccare il maledetto vaso.

 

Ciò non toglieva che, con l’udienza che incombeva l’indomani, dover avere pure quella preoccupazione prima di andare a letto fosse l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Ed una parte di lei era delusa che Calogiuri non lo capisse, per quanto fosse stato forse sempre fin troppo comprensivo.

 

Ma non su Irene.

 

Sto per andare a dormire. Che cosa vedrete?

 

Messaggio neutro, non troppo indagatorio o geloso. Sicuramente parecchio bugiardo, perché altro che dormire! Sarebbe stato un miracolo prendere sonno.

 

Sogno di una notte di mezza estate.

 

Almeno aveva risposto.

 

Un po’ fuori stagione, ormai. Salutami la collega.

 

Dovette fare uno sforzo quasi sovrumano per non chiedergli di scriverle al rientro a casa. Non voleva sembrare disperata, non voleva dargli quella soddisfazione. Soprattutto se fosse uscito con Irene proprio per infastidirla.

 

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“Imma?”

 

“Sì… ti… ti saluta,” pronunciò, anche se lui stesso faticava a credere a quelle parole.

 

“Sì, me lo immagino, Calogiuri!”

 

“No, veramente, guarda!”

 

Le mostrò il display ed Irene scoppiò a ridere.

 

“Posso sentire il tono sarcastico di Imma fin da qui, Calogiuri, pure se sta a Matera!”

 

E che poteva dirle? C’aveva ragione.

 

“Irene….”

 

“Senti, Calogiuri, tanto l’ho capito che avete litigato perché se n’è andata a Matera da sola. Vi conosco abbastanza ormai, soprattutto te. Ora però spegni il cellulare e concentrati sullo spettacolo, che poi ti interrogo!”

 

Sorrise, nonostante tutto, perché era un sollievo non dover spiegare nulla e perché quelle serate con Irene gli erano veramente mancate più di quanto avrebbe mai pensato.

 

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“Allora, ti è piaciuto lo spettacolo?”

 

“Era… era un po’ complicato da capire il linguaggio… un po’ antico.”

 

“Allora è perfetto per te, Calogiuri, che sei all’antica,” lo prese in giro, salendo in auto al posto del passeggero.

 

Si mise alla guida. Per fortuna il traffico non era molto intenso.

 

“Pure la storia era complicata perché… a tutti piaceva qualcuno che non li ricambiava. E poi il filtro d’amore, con tutti che si innamoravano a caso, e quello strano spettacolo nello spettacolo… era un po’ un casino.”


“Eh, Calogiuri, perché i rapporti amorosi nella realtà non sono un casino? E non si tende quasi sempre ad innamorarsi di chi non ci ricambia o di chi ci fa stare sulle spine e ci fa soffrire?”
 

Si voltò rapidamente per incrociare il suo sguardo ed era più che eloquente.

 

“Parli di te o di me?”

 

“Di tutti e di nessuno, Calogiuri. Ma se ti senti preso in causa, forse c’è un problema, visto che ultimamente con Imma mi sembravi molto felice, a parte i problemi coi giornalisti e Mancini.”

 

“No, è che… temo che… temo che una parte di lei si… si vergognerà sempre di stare con me. Almeno nei confronti di Matera e delle persone che… che la conoscono da prima che…” ammise, anche se gli faceva male, perché aveva bisogno di un consiglio.


E Mariani e Conti difficilmente avrebbero capito, non del tutto almeno.

 

“Calogiuri… e che vuoi che ti dica? Imma… Imma ha già fatto molto di più di quanto mai avrei ritenuto possibile, tra il trasferimento a Roma, l’aver detto tutto a Mancini, il divorzio che comunque mi sembra stia procedendo e-” si interruppe, guardandolo divertita, “perché fai quella faccia stupita?”

 

“No, è che… stai dando ragione a lei? Di solito-”

 

“No, Calogiuri, no, non è quello. Lo sai che… che su te ed Imma non avrei scommesso un euro, no, quando è venuta qui a Roma la prima volta? Diciamo che… per esperienza personale, su questo genere di relazioni ho aspettative bassissime. E finora Imma le ha di gran lunga superate.”

 

“Quindi mi stai dicendo che devo… che devo essere paziente e vedere il bicchiere mezzo pieno?”

 

“Ti sto dicendo che devi mettere su un piatto della bilancia le cose positive e negative, Calogiuri. L’importante per me è che tu sia felice. Essere felice al cento per cento è un’utopia ma… dovresti esserlo almeno per la maggior parte del tempo che sei con lei. Se no non ha senso. Capisci che voglio dire?”

 

“Sì… credo… credo di sì,” sospirò, anche se non sapeva bene cosa dire.

 

Dopo un paio di minuti trascorsi in silenzio arrivò di fronte al palazzo di Irene. Il teatro non era molto distante.

 

“Allora grazie per la compagnia, Calogiuri. Ci vediamo domani,” si congedò, mettendo una mano sulla maniglia della portiera.


“Aspetta!” gli uscì, d’istinto, ed Irene si voltò, sorpresa, “ti andrebbe se… se domenica venissi a trovare Bianca?”

 

“Se non è solo una ripicca verso Imma,” ribatté, con un’altra di quelle occhiate che parevano leggergli dentro.

 

“Non dirlo nemmeno per scherzo! No, è che... ho qualcosa da darle che… le ho preso in vacanza.”

 

Venne stritolato in un abbraccio a morsa e poi avvertì un tocco leggermente umido su una guancia, vicino all’orecchio.

 

“Imma è matta se ti lascia scappare,” sentì sussurrare, poi la morsa si sciolse, infine due dita sulla guancia, “scusa, ti ho lasciato il rossetto.”

 

“N-non fa niente,” fece in tempo a balbettare.

 

Un occhiolino d’intesa ed Irene aveva già aperto e richiuso la portiera, sparendo nell’androne del suo condominio.

 

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Si rigirò sul fianco destro ma le doleva quanto il sinistro.

 

Sembrava non riuscire a trovare pace, e dire che era riuscita a dormire persino in tenda senza problemi.

 

Ma il sonno non ne voleva sapere di arrivare, mentre si immaginava alternativamente sia cosa poteva succedere l’indomani con Pietro, sia Calogiuri in giro chissà dove con la gattamorta.

 

Guardò l’ora: erano le tre di notte e manco un messaggio le aveva mandato.

 

Sicuramente era tornato a casa, o almeno se lo augurava, perché se no….

 

In automatico prese il cellulare dal comodino, la luce che l’accecò momentaneamente, e controllò i messaggi.

 

Niente ma… ma Calogiuri sembrava essere online.

 

Con chi poteva starsi scrivendo a quell’ora? O anche lui non riusciva a dormire ed attendeva un suo messaggio?

 

No, era lui ad essere uscito ed era lui al limite a doverle scrivere. Di sicuro non si sarebbe messa a chiedergli dove si trovasse e perché fosse ancora collegato al cellulare.

 

D’altro canto… se fosse stato in buona compagnia di sicuro non avrebbe avuto il tempo di starsene online.

 

Stava per chiudere l’applicazione quando un messaggio le si aprì sul display e ci cliccò inavvertitamente sopra.

 

Sono a casa già da un po’. Cerca di riposare che ti sei fatta la notte in corriera e pure domani devi viaggiare.

 

Quella sensazione al petto, come se volesse esploderle, tornò, più forte che mai, insieme a quella di essere completamente a nudo.

 

Alla fine la preoccupazione, come sempre, aveva prevalso su tutto e lui la conosceva forse meglio di quanto lei conoscesse se stessa.

 

Si chiese se avesse ragione pure su Matera, sentendosi inadeguata di fronte a tutto quell’amore incondizionato, come non le capitava quasi più da quando l’aveva raggiunto a Roma definitivamente.

 

E tu che ci fai ancora sve-

 

Si bloccò nel mezzo della frase, che suonava troppo come un interrogatorio.

 

Cerca di dormire anche tu. Ti faccio sapere dopo l’udienza. Grazie del messaggio.

 

Forse non era la risposta più romantica del mondo, ma sperava che lui capisse, come sempre.

 

Anche se avrebbe dovuto imparare a non darlo più per scontato, perché non lo era, affatto.

 

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Sospirò leggendo quel messaggio, chiedendosi se avesse fatto bene o no a cedere e a scriverle.

 

Ma, dopo averla trovata online quattro volte nel giro di un’ora, alle tre del mattino….

 

Avrebbe dovuto dormire ed invece era lì a controllare se lei stesse bene o meno, come il cretino che era sempre stato.

 

Stava per posare il cellulare quando sentì una vibrazione tra le dita.

 

Magari Imma stavolta era riuscita a scrivere qualcosa di vagamente simile a delle scuse? O almeno qualcosa di più affettuoso e non solo implicitamente?

 

Sbloccò il display e si stupì di fronte ad un nome familiare.


Melita Baleari

 

Che ci fai sveglio a quest’ora in settimana? Sei ancora in ferie? Tutto bene?

 

Non avrebbe saputo dire se lo stupisse più il contenuto o il messaggio in sé: dopo che se ne era andata da Maiorca non l’aveva più sentita.

 

Aprì la chat, indeciso su cosa rispondere e notò che Melita stava scrivendo nuovamente.

 

Scusa se mi impiccio a quest’ora, ma sei l’unico dei miei contatti online e col mio lavoro non è un buon segno per te.

 

Gli venne spontaneo sorridere: in effetti tutti i torti non ce li aveva.

 

E tu stai lavorando?

 

No, stasera ho riposo, la stagione è quasi finita. Ma ormai vivo di notte. Turno di notte o insonnia?

 

Non voleva certo dirle di Imma e quindi adottò quella che in fondo non era del tutto una scusa.

 

Insonnia dopo troppi turni di notte.

 

Ci fu un attimo di pausa e stava per rimettere il telefono sul comodino, quando arrivò un ulteriore messaggio.

 

Ho letto la storia del ricatto ad Imma e ho visto le vostre foto da internet. Alla fine siete la coppia più VIP che ho incontrato questa stagione ;). Spero che vi lasceranno in pace presto.

 

In effetti ce l’aveva tra gli amici sui social, quindi sicuramente il post di Imma l’aveva visto da lì, quando lo aveva ricondiviso. Non sapeva bene cosa rispondere, ma Melita era andata offline e quindi probabilmente non si aspettava alcuna risposta.

 

Le scrisse un semplice, “grazie!”, posò il cellulare e sperò di riuscire a dormire almeno un paio d’ore.

 

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“Dottoressa! Mi pareva di aver letto il suo nome nelle udienze di oggi!”

 

“Le pareva, eh?” sibilò, con un sopracciglio alzato.


Nicoletti Rocco, uno dei cancellieri più anziani e più impiccioni del tribunale. La aspettava al varco e sicuramente aveva pure già allertato tutto il tribunale della sua presenza, visto che non teneva la bocca chiusa manco per mangiare, da come sbocconcellava sempre quelle volte in cui lo aveva incrociato al bar.

 

“Suo marito, anzi, il suo ormai quasi ex marito non è ancora arrivato,” proseguì, confermando che stava lì di vedetta e non di certo per caso, “certo che è un peccato: eravate proprio una bella coppia lei ed il signor De Ruggeri. Lui poi sempre tanto gentile, sa che abbiamo fatto pure delle partite di calcetto insieme, fino a che mi sono ritirato? Eh, un signore pure in campo! Sentendo come parlava di lei non avrei mai pensato di trovarvi in tribunale per un divorzio. E invece… eh… è difficile competere con uno come il maresciallo, almeno fisicamente. Poi di testa-”

 

“Poi di testa il maresciallo la memoria ce l’ha buona, e non solo per spettegolare, e non ci impiega mesi per ritrovare i fascicoli, Nicoletti. E non è stato a grattarsi la pancia per anni all’università dando un esame, come ha fatto lei, prima che la buonanima di sua madre le trovasse questo lavoro da cancelliere. Vuole che prosegua su come ci prova spudoratamente con tutte le poverette che fanno il tirocinio qui - e che ovviamente la ignorano - o mi vuole dire qual è l’aula dell’udienza e se il presidente sarà puntuale?”

 

Nicoletti sembrava avere appena inghiottito un rospo. Quanto le era mancato sapere vita, morte e miracoli di tutti quelli che incontrava e poter ribattere colpo su colpo quando alzavano un po’ troppo la cresta. A Roma non lo poteva fare.

 

“L’aula è la solita al quarto piano. E non ha altre udienze prima, quindi-”

 

“Quindi si prenderà il solito quarto d’ora di ritardo. Buona giornata a lei!” si congedò, non aspettando il saluto e procedendo a passo marziale verso l’ascensore.

 

Vide chiaramente alcune teste che si sporgevano dagli uffici, alcune familiari, altre meno, a ricordarle che mancava da lì da quasi un anno ormai. Almeno fisicamente, perché pure quelle facce giovani e sconosciute sussurravano “la Tataranni!” manco lei fosse sorda e non potesse sentirli.

 

Si chiese se la fama fosse dovuta al maxiprocesso, al suo pessimo carattere o ai giornali.

 

Ma tirò dritto per la sua strada e, quando l’ascensore arrivò al piano, ci si infilò dentro, decisa ma senza fretta: non voleva far sembrare che stesse fuggendo.

 

Stava per premere il pulsante col numero 4, quando sentì una voce familiare chiedere, “sono qui per una causa di divorzio, mi può dire l’aula? De Ruggeri, Pietro.”

 

Bloccò l’ascensore prima che si chiudesse. In quel momento Pietro alzò gli occhi ed i loro sguardi si incrociarono. Rimasero per qualche istante fermi, quasi a studiarsi, poi lui fece un cenno a Nicoletti e si avvicinò all’ascensore.

 

Era elegante, elegantissimo, come erano forse anni che non lo vedeva. Completo giacca e pantaloni scuro, camicia bianca, cravatta, taglio fresco di barbiere: pareva più pronto per un matrimonio che per un divorzio.

 

“Imma…” esordì, salendo in ascensore, civile ma asciutto.

 

“Pietro,” rispose, schiacciando finalmente il bottone, le porte che si richiusero con un cigolio poco rassicurante ma al quale era abituata.

 

Dopo qualche attimo di silenzio, carico di un sacco di cose, si sentì di commentare, “come mai ti sei vestito così? Sei elegantissimo!”

 

“Tu invece sei… come al solito,” ribatté lui, ma non c’era più quell’affetto con il quale commentava sempre le sue mise animalier.

 

Non era nemmeno una presa in giro, più una constatazione.

 

Del resto, con il suo vestito tigrato sfigurava rispetto a lui, ma non si era voluta mettere in nero. Alla fine il loro matrimonio era finito già da tanto tempo e quella era solo l’ultima firma su un atto compiuto, di fatto, ben più di un anno prima. Ma ora, a vederselo così, si sentiva ancora più un pesce fuor d’acqua, pur essendo in tribunale, il suo elemento.

 

Finalmente l’ascensore arrivò al piano e si affrettò a scendere, sperando di spezzare quell’atmosfera così opprimente.

 

Si avviò verso l’aula a loro designata, fermandosi poco davanti, in attesa dei comodi del presidente del tribunale. Pietro la raggiunse con più calma.

 

“Non lo hai riconosciuto, vero?” le chiese all’improvviso ed Imma lo guardò, confusa.

 

“Che cosa?”

 

“Il mio completo. Era quello dei nostri dieci anni di matrimonio, mi va bene ancora.”

 

Spalancò gli occhi, mentre una sensazione stranissima la prese in pancia. Era il vestito più elegante che avesse mai avuto Pietro, messo solo quella volta. Più elegante anche di quello del matrimonio: erano giovani, con pochi soldi e con la madre di lui che rinfacciava qualsiasi cosa, dalla cerimonia al buffet, troppo povero per lei. Per l’anniversario dei dieci anni, invece, Pietro aveva insistito e, oltre alla cerimonia celebrata da Don Mariano, si erano concessi una cena con tutta la famiglia in un ristorante fin troppo elegante e poi un viaggio a Parigi insieme a Valentina. Uno dei pochissimi che avevano fatto al di fuori da Metaponto.

 

I vent’anni non erano arrivati a festeggiarli, si erano separati prima.

 

“Sai… quando l’ho comprato… dopo dieci anni bellissimi, pensavo davvero che sarebbe stato per sempre e che noi due qua non ci avremmo mai messo piede. Pensa che… avrei voluto metterlo per i nostri vent’anni di matrimonio,” pronunciò, sembrando leggerle nel pensiero, “ed invece… mi sembrava giusto usarlo un’ultima volta per… per chiudere definitivamente questo capitolo.”

 

Un nodo in gola, annuì perché non sapeva che altro fare. Non c’era rabbia in Pietro, solo amarezza e rassegnazione.

 

“A proposito di… tigrato... “ continuò, guardando il vestito di lei, “le cose tue che stanno ancora a casa mia… la statua e tutto il resto… potresti portarle a casa… di tua madre? Sto pensando di rinnovare un po’ i mobili, sai come si dice, vita nuova….”

 

Lo guardò negli occhi, ma non sembrava una ripicca. Forse Pietro veramente stava provando a voltare pagina. Se perché deluso da quanto successo con Valentina negli ultimi mesi o se perché quello che provava per lei fosse realmente passato o mutato… in ogni caso era giusto così.

 

Ma una botta di malinconia la prese comunque, nonostante fosse pure un sollievo che lui stesse guardando avanti. Era una sensazione agrodolce e, ancora più della firma di quel giorno, simboleggiava la chiusura totale di più di vent’anni di vita insieme.

 

“Va bene… solo che… alcuni di quegli oggetti sono pesanti. Devo organizzarmi con qualcuno per spostarli, Pietro.”

 

“Non può darti una mano il tuo maresciallo?” le domandò, con una punta di sarcasmo, anche se sembrava pure sorpreso.

 

“Faresti venire Calogiuri a casa… a casa tua? E poi… in ogni caso, al momento è a Roma, quindi mi dovrei organizzare.”

 

“A Roma?” chiese, ancora più stupito, “e comunque… come se non ci fosse mai venuto in quella casa! E si è portato via qualcosa a cui tenevo giusto giusto un poco di più che ad una tigre in ceramica.”

 

“Pietro…” sospirò, anche se se l’era pure un po’ cercata, “e no, Calogiuri non ci ha mai messo piede in… quella che era casa nostra. Al massimo si è fermato sulla soglia quando mi ero fatta male.”

 

“Sì, come i vampiri. Va beh… almeno quello, anche se tanto il mobilio è da cambiare comunque. Ed organizzati come vuoi, però al massimo entro natale, se no mi tocca farli mettere in un deposito.”

 

“Va bene, va bene,” acconsentì, anche perché non era convinta nemmeno lei di volerli quegli oggetti ed i ricordi che rappresentavano.

 

“De Ruggeri Pietro, Tataranni Immacolata.”

 

La voce solenne di un altro cancelliere la portò a guardare verso la porta dell’aula, che si era aperta.

 

Conosceva pure questo, naturalmente, che li fissava come se fossero una coppia di animali allo zoo. O almeno come se lo fosse lei.

 

Si voltò verso Pietro e lui annuì, avviandosi verso il cancelliere.

 

“Signor De Ruggeri, dottoressa,” li salutò il presidente del tribunale, formalissimo, una volta che furono entrati, e poi iniziò con la procedura di rito, verificando i loro documenti e chiedendo loro conferma che fossero entrambi concordi sia nel divorziare che sull’accordo di separazione a cui erano addivenuti l’anno prima.

 

“Sì, guardi, concordo su tutto. Mi dice solo dove devo firmare, così la facciamo finita?” chiese Pietro, non appena il presidente ebbe finito di parlare.

 

Fu uno schiaffo morale, anche perché il presidente, nonostante conoscesse molto meglio lei di Pietro - o forse proprio per quello - gli rivolse un’occhiata più che comprensiva, come di sostegno quasi, e rispose, “capisco, signor De Ruggeri. Ma io devo espletare tutte le formalità, è il mio lavoro, non che poi ci siano contestazioni anche se in questo caso… ne dubito.”

 

Lo sguardo che la trafisse fu più che eloquente, pareva un tanto lo so che sei tu quella rompiballe, ma che questo divorzio sei tu che lo vuoi più di tutti!

 

Chiaramente pure il presidente del tribunale leggeva i giornali. E poi a Matera chissà che voci giravano su lei e Calogiuri.

 

Scartabellò fino ad arrivare alla pagina giusta e poi porse la penna a Pietro, che non perse tempo ad afferrarla e a posarla sul foglio.

 

Imma notò un lieve tremore, quasi impercettibile da chi non lo conosceva bene, ma firmò con tanto di svolazzi e poi mollò la penna, senza nemmeno guardarla in faccia. Se perché gli fosse tornata l’arrabbiatura, o se perché non se la sentisse, non l’avrebbe saputo dire e forse, in fondo, non aveva nemmeno importanza.

 

Prese a sua volta la penna tra le dita, il metallo che ancora tratteneva il calore della mano di Pietro. Firmò, come al suo solito, senza orpelli, provando un’emozione fortissima, paragonabile quasi a quella del giorno del matrimonio, seppur completamente diversa.

 

Il suo matrimonio era realmente finito, anche di fronte alla legge. Non era più una donna sposata, non era più la signora De Ruggeri - non che qualcuno l’avesse mai chiamata così.

 

Se il lutto era stato già superato, pur avendolo provocato lei stessa a tutti e due, non poteva evitare di commuoversi, pensando alla Imma ventiseienne - vestita per una volta di bianco, anche se con un abito poverissimo - che firmava tremante l’atto di matrimonio. Con i fiori - altrettanto poveri - ancora stretti nella mano sinistra, tanto che sua suocera non aveva perso tempo a farle una battuta sul fatto che poteva pure mollarli, tanto non glieli avrebbe rubati proprio nessuno, brutti com’erano.

 

Lasciò la penna e si voltò verso Pietro, che però continuava a tenere gli occhi bassi. Era emozionato pure lui e si vedeva.

 

Rimasero per un attimo così, come sospesi, finché il cancelliere non tornò con le copie dell’atto, porgendole al presidente che gliele consegnò, proclamando, “queste sono vostre. Il cancelliere provvederà domani stesso a fare la comunicazione all’ufficiale di stato civile. In ogni caso, da questo momento siete ufficialmente divorziati.”

 

“Grazie,” rispose Pietro ed Imma si limitò ad un cenno del capo, perché non si fidava della sua voce e perché tutte quelle cose le sapeva già benissimo, ovviamente.

 

Si congedarono, il presidente che strinse la mano e diede una pacca sulla spalla a Pietro, come se fosse un vecchio amico - che ci giocasse pure con lui a calcetto? - mentre a lei rivolse un saluto molto formale.

 

Non fiatarono finché giunsero sull’ascensore. Poi, col sincronismo che avevano una volta, allungarono entrambi la mano per pigiare il tasto del piano terra. Nessuna scossa, nessun brivido, almeno finché i loro sguardi infine si incontrarono e fu vinta dalla commozione, nel vedere quegli occhi azzurri brillare dalle lacrime trattenute.

 

Si rese conto di essersi mossa solo quando lo teneva già tra le braccia. Lo sentì irrigidirsi per un secondo ma poi ricambiò l’abbraccio, stringendola forte come era da una vita che non faceva più. Dopo qualche istante interminabile, fu come se la situazione in cui si trovavano fosse tornata improvvisamente chiara alla mente di entrambi. Fu lui a staccarsi per primo e, oltre alla commozione, ora c’era soprattutto stupore.

 

“Questo… questo non cambia nulla su ciò che penso della situazione con Valentina,” le disse dopo un po’, quasi a conferma che avesse capito anche lui che si trattava di un gesto di addio.

 

“Lo so…” gli rispose, il cicalino dell’ascensore che interruppe del tutto il momento.

 

Si affrettò verso l’uscita, non vedendo l’ora di poter essere a casa da sola, anzi, di essere sul bus del ritorno verso Roma, dopo tutte quelle emozioni contrastanti.

 

Udì i passi più calmi e lenti di Pietro dietro di lei.

 

Fece in tempo ad aprire la porta del tribunale e a farlo passare, onde evitare che gli si richiudesse in faccia, quando un “amore, amore mio!” la portò a voltarsi verso il marciapiede, chiedendosi chi fosse che urlava come una pescivendola di fronte al tribunale.

 

Cinzia Sax, con tanto di sua ex suocera al seguito.

 

L’amore suo diede un colpo di tosse e parve un poco in imbarazzo, prima che Cinzia lo travolgesse in un abbraccio, che per poco Pietro non finiva addosso ad una delle guardie.

 

“Cinzia…” provò a bofonchiare, mentre lei non lo mollava peggio di una sanguisuga, afferrandoselo per un braccio anche dopo aver allentato leggermente la stretta.

 

“Allora? Tutto a posto?” gli chiese, guardandolo con un sorriso ad ottocento denti e Pietro assentì flebilmente. Lei non perse tempo e lo abbracciò per una seconda volta, proclamando, “allora adesso sei tutto mio!”

 

“Veramente era tutto tuo già da prima,” non potè evitare di rimarcare Imma, perché d’accordo tutto, ma la pazienza sua aveva un limite pure in quelle circostanze.

 

“Di sicuro non era più tuo! Per fortuna, che la Santa Maria Vergine ci ha fatto la grazia!” si inserì la sua ex suocera, tagliente come sempre, facendosi il segno di croce.

 

“Dubito che la Santa Maria Vergine approvi i divorzi, almeno secondo quanto sostiene la Chiesa Cattolica, se non mi sono persa qualche cosa,” ribatté, perché la signora De Ruggeri gliele tirava proprio fuori dalla bocca.

 

“Ma questo non è un divorzio, è una liberazione, dopo tutto quello che hai fatto passare al mio povero figlio! A proposito, il tuo giovane carabiniere non ti fa da guardia del corpo oggi?”

 

Il mio giovane carabiniere sta a Roma a lavorare, anche perché non sembrava opportuno a nessuno dei due che venisse qua in tribunale,” spiegò, pure se era una mezza bugia, ma era sicura che comunque Calogiuri la figura di Cinzia Sax non l’avrebbe mai fatta, piuttosto si ammazzava, discreto com’era.

 

“Ed invece era opportuno che si infilasse nel vostro talamo coniugale quando eravate ancora sposati, immagino?”

 

“Mamma!” provò ad intervenire Pietro, mentre Cinzia se la rideva sotto i baffi, ma lei sollevò una mano, come a dirgli che non faceva niente.


“Veramente l’unica che ha provato ad infilarsi nel talamo coniugale - per fortuna non in tutti i sensi - ogni volta che io mi dovevo allontanare anche solo per un giorno per lavoro, eravate proprio voi, con la scusa di fare compagnia a Valentina! Ma, fortunatamente per voi e per me, quei giorni sono finiti. Mo te la sopporti tu, Pietro, e anche tu Cinzia, buona fortuna che ne avrai, anzi ne avrete molto bisogno!”

 

E, con un ultimo sguardo eloquente, tra il mortificato di Pietro, lo scandalizzato di Cinzia e della di lei futura suocera e quelli divertiti delle guardie, girò sui tacchi ed attraversò la strada, senza guardarsi indietro.

 

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Tutto fatto. Rientro domattina come previsto. Mi passi a prendere tu alla stazione?

 

A quel tutto fatto il cuore gli aveva fatto un balzo nel petto. Imma era una donna libera, il suo matrimonio era ufficialmente finito.

 

Eppure… eppure c’era qualcosa che gli impediva di essere felice quanto avrebbe pensato, persino di fronte a quella notizia così tanto attesa e sperata. Perché Imma poteva pure essere libera per la legge dai vincoli del matrimonio, e forse lo era pure mentalmente. Ma da altri vincoli no, come testimoniava il fatto che Matera per lui rimanesse off limits.

 

E quindi quel traguardo non gli sembrava poi così importante. Era una vittoria vuota se poi, in fondo, certi limiti e paletti restavano in piedi, impedendole ed impedendogli di viversi il loro rapporto senza condizionamenti.


Sapeva che non era facile per lei, ma nemmeno per lui lo era, eppure non aveva esitato ad inimicarsi pure la sua famiglia per starle accanto. Lei invece… sì, aveva affrontato l’opinione pubblica, soprattutto da quando erano uscite quelle foto ed erano diventati - almeno per il momento - relativamente noti. Ma affrontare Matera, che era stato e restava il mondo di Imma, molto più di Roma, quello sembrava non riuscire proprio a farlo.

 

“Calogiuri! A che punto sei con quel rapporto? Che se stai al cellulare non si scrive da solo!”

 

Santoro. Simpatico come sempre, ancora di più da quando aveva saputo di lui e di Imma.

 

“Ho quasi finito, dottore. Glielo invio tra poco.”

 

Con uno sguardo da ti tengo d’occhio! Santoro riprese a lavorare, lanciandogli ancora qualche occhiata di tanto in tanto.

 

Anche per quello si affrettò a rispondere ad Imma con un laconico:

 

Sì. A domani.

 

E proseguì a lavorare.

 

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Manco un telegramma sarebbe stato tanto sintetico.

 

Lei aveva appena chiuso vent’anni di vita coniugale e lui le rispondeva in quel modo? Sapeva che fosse arrabbiato con lei ma… cominciava veramente ad irritarsi.

 

Finì di buttare le ultime cose nel borsone, si assicurò di avere spento, staccato e chiuso tutto ed uscì di casa, per andare a piedi alla stazione delle corriere.

 

O almeno ci provò, perché un “Imma!” familiare dall’altro lato della strada la fece avvedere che Diana era passata a prenderla con l’auto. Stavolta senza Capozza.

 

“Diana, ma pure per il ritorno mi devi controllare? Ordini del maresciallo?” ironizzò, buttando il borsone nel sedile posteriore e poi salendo dal lato del passeggero.

 

“Non è solo per il maresciallo, che comunque è preoccupato per te e fa bene ad esserlo, con tutto quello che è successo! Volevo… volevo sapere come stavi dopo….”

 

Non pronunciò la parola divorzio, ma non fu necessario.

 

“Come sto? Non lo so… è una sensazione strana, Diana, ma… le mie preoccupazioni principali al momento sono altre.”

 

“Ippazio lo hai avvertito? Che sarà stato sulle spine tutto il giorno!” le chiese, mentre avviava la macchina con una lentezza estenuante, forse per trattenerla il più possibile a parlare.

 

“Sì, gli ho scritto che era andata bene e se mi veniva a prendere. E lui mi ha risposto letteralmente con tre parole. Sì, a domani.”

 

“Ma tu che gli hai scritto, Imma? E poi una telefonata potevi pure fargliela, e su!”

 

“Ma era al lavoro e poi… sì, sono stata stringata pure io, ma…”

 

“E allora di che ti lamenti? E dai, Imma, cerca di essere un po’ più… oddio, forse romantica è impossibile per te. Ma perché non gli fai capire che ci tieni a lui e che non ti vergogni, magari con un gesto, se con le parole ti viene difficile, che ti conosco e tu per dire quanto ci tieni a qualcuno bisogna cavartelo di bocca!”

 

Forse Diana aveva ragione, anche se con Calogiuri era già migliorata tantissimo nell’esprimere ciò che sentiva. Ma… ma lui glielo aveva fatto capire in ogni modo, a parole e a gesti, che la amava. Lei invece….

 

Il problema era che non sapeva nemmeno da che parte iniziare: una vacanza romantica non sarebbe servita a niente, a parte che le ferie ed i fondi scarseggiavano e c’erano sempre i giornalisti tra i piedi.

 

Doveva farsi venire un’idea, anche perché temeva che parlare, in ogni caso, non sarebbe bastato.

 

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“Imma!”

 

Incrociare gli occhi azzurri di Calogiuri, nonostante fossero stanchi e con delle occhiaie da far spavento - o forse proprio per quello - le causò un tuffo al cuore.

 

Era tanto bello quanto triste e le sembrava un miraggio dopo una notte insonne sulla corriera. Si sentiva esausta, come doveva esserlo lui, e li aspettava una giornata intera di lavoro.

 

Si avvicinò, con l’intento di abbracciarlo, ma lui si abbassò, le prese di mano il borsone con una rapidità da mariuolo e si voltò dicendo, “la macchina è da questa parte.”

 

Altro che gli schiaffi morali ricevuti da Pietro! Quello sì che era uno schiaffo vero, tanto che rimase per un attimo stordita sul marciapiede, incredula.

 

Persino quando era stata solo il suo capo l’aveva salutata con molto più calore di così. Ricordava ancora quando Calogiuri aveva accompagnato per la prima volta lei e sua madre alla corriera. Sua madre - ma pure lei - se lo era mangiato con gli occhi, mentre si allontanava tutto felice, dopo aver ricevuto gli ordini. Sembrava di ripensare ad un mondo diverso, per tanti versi più semplice, anche se la sua vita non lo era mai stata.

 

Sapeva per esperienza che Calogiuri quando si impuntava su una cosa, poteva essere tremendo anche se, almeno quella volta, glielo aveva detto chiaramente perché se la fosse presa.

 

E quindi in teoria toccava a lei parlare, cercare di spiegare, ma era difficile quando lei per prima faticava del tutto a capirsi, a capire perché Matera no. Stanca com’era poi, era proprio impossibile.

 

Si limitò quindi a salire sull’auto di servizio e, quando lui le chiese, “vuoi che andiamo direttamente in procura o preferisci passare da casa?”, esitò un attimo prima di rispondere.

 

“In procura,” decise infine, perché non avrebbe potuto dormire in ogni caso. E stare da sola con lui avrebbe significato soltanto altri silenzi, come quello che riempì l’abitacolo, lasciandole addosso una sensazione fredda, nonostante il caldo di settembre.

 

Avevano appena superato il Tevere, mancava poco all’arrivo, quando le venne spontaneo dire, “stasera sono troppo stanca ma… dovremmo festeggiare il mio divorzio, no? Che ne dici se… se facessimo qualcosa questo fine settimana?”

 

Calogiuri rimase un attimo immobile, muto come un pesce, ma poi si voltò e le spiegò, con un tono stranissimo, “domenica ho promesso ad Irene che sarei andato a trovare Bianca.”

 

“Ah…” si limitò a rispondere, chiedendosi se lo avesse fatto apposta per infastidirla.

 

Ma no, Calogiuri non avrebbe mai usato una bimba in quel modo e lui a quella piccoletta ci teneva davvero.

 

“Ma sabato sarai libero, no?”

 

“Sabato non torna Valentina? Dobbiamo andarla a prendere alla stazione e poi… non so se sia il caso che attiriamo le attenzioni dei giornalisti, no?”

 

Come aveva potuto dimenticarsene? Era vero che era talmente stanca da non distinguere né il giorno né l’ora, ma come aveva fatto a scordarsi del ritorno di Valentina, che aveva un esame da dare quel lunedì?

 

Ma la risposta non era da Calogiuri, affatto, pur con tutta la preoccupazione del mondo. Normalmente le avrebbe come minimo proposto di festeggiare a casa - in più di un senso - o le avrebbe organizzato una sorpresa delle sue.

 

Avrebbe dovuto pianificare qualcosa lei ma non c’era tempo, tra il lavoro e Valentina, e poi sarebbe servita ben di più di una cena fatta in casa per fargli cambiare umore.

 

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“Vale, tutto bene?”

 

Alzò gli occhi dal portatile, che teneva sulle ginocchia sul letto, e vide Penelope sulla porta della stanza. In effetti era da quella mattina che non ne era più uscita ed era già tardo pomeriggio.


“Niente… ho… ho confermato il biglietto per Roma per sabato. Tanto ormai… se doveva uscire qualcosa sui giornali, probabilmente sarebbe già uscito.”

 

Penelope rimase in silenzio, anche se sembrava un poco delusa, ma magari era solo la sua immaginazione che le giocava brutti scherzi.

 

Come quando si era convinta di poterle piacere.

 

“Pensi di… di tornare ancora qua o… rimarrai definitivamente a Roma?”

 

“Stai tranquilla, torno a Roma, non ti darò più disturbo,” rispose, forse più dura di come avrebbe voluto, ma la situazione degli ultimi giorni era stata terribilmente frustrante.

 

“Ma che disturbo, Vale! Ma che scherzi?!” esclamò, con un tono dispiaciuto che le sembrava sincero.

 

“Sono giorni che ci parliamo a fatica e…” si interruppe, cercando di fermare quello sfogo che non sarebbe servito a niente, ma non riuscì proprio a mordersi la lingua, “insomma, come ti sentiresti se… se avessi aperto il tuo cuore ad una persona e le avessi detto qualcosa che magari non ti è stato facile ammettere neanche a te stessa, e questa persona facesse finta di niente, come se non fosse successo nulla?”

 

Ecco, le era uscita fuori di getto, come al suo solito, e Penelope restò per un attimo di sasso.

 

“Vale, un bacio da ubriaca non mi pare sia aprire il tuo cuore. E non è che faccio finta di niente, tanto che appunto non ci parliamo molto, ma perché sei tu per prima che mi sembri sempre incazzata!”

 

Si aspettava qualsiasi reazione ma quella no.

 

“Vorrei vedere te al posto mio, quando… quando una persona a cui tieni e che pensavi che ci tenesse a te, anche solo in amicizia… sottovaluta così quello che provi e… e non ti crede!”


“Vale-”

 

“Non ti ho solo dato un bacio, porca miseria! A parte il fatto che non ero per niente ubriaca, ma ti ho detto che mi piaci e che è da tanto che ci penso a… a quello che provo per te. Forse ti è sfuggito o forse hai preferito fare finta di non sentirlo e-”

 

Una mano sulla sua, alzò lo sguardo e trovò Penelope in piedi accanto a lei, che poi si sedette sul bordo del letto.


“Vale… non è che… che volevo sottovalutare, ma se sono prudente è anche per te. E poi… se non ne ho più parlato è perché pensavo che anche tu non ne volessi parlare, che magari te ne fossi pentita e-”

 

“No che non me ne sono pentita! Anche se avrei sperato… in una reazione diversa,” ammise, abbassando lo sguardo per l’imbarazzo.

 

“E… da quando sarebbe che hai… questi dubbi su me e te?”

 

“Qualche… qualche pensiero mi era venuto già a Capodanno ma… era una cosa indefinita. E poi nell’ultimo periodo si è fatta sempre più chiara, ma non è perché mi sono lasciata con Samuel o perché siamo state tanto tempo insieme. Cioè… forse stare tanto con te mi ha dato la conferma che… che sono attratta da te, ma-”

 

“E come?”

 

“Cioè… dovrei spiegarti in che modo sono attratta da te?” le chiese, incredula, e sentendosi in imbarazzo quasi più che a baciarla, “perché i sintomi sono sempre gli stessi, anzi, diciamo che… che quello che ho provato mentre mi facevi il ritratto… e poi quando ci siamo baciate… non l’ho mai provato prima, non così forte e-”

 

La frase le morì in gola quando sentì qualcosa di morbido sulle labbra, insieme ad una scossa elettrica, e si rese conto che stava baciando Penelope, anzi, che Penelope l’aveva baciata. E poi non capì proprio più niente, mentre sembrava che il suo corpo andasse col pilota automatico, che non aspettasse altro da una vita.

 

Si trovò distesa sul letto, con un corpo morbido sotto il suo, mentre le mani vagavano e sentì tessuto tra le dita e poi pelle e poi-

 

“Vale, Vale!”

 

La voce di Penelope la bloccò completamente. Aprì gli occhi la guardò, temendo di avere esagerato, o che Penelope non provasse un’attrazione forte come la sua, e di stare per beccarsi l’ennesimo due di picche.

 

“Calma, Vale, abbiamo tutto il tempo!” si sentì invece sussurrare sulle labbra, una carezza sul viso che le provocò un altro brivido.

 

“Non abbiamo tutto il tempo, visto che tra due giorni parto e che ne abbiamo già sprecato troppo!” ribatté, ricambiando il sorriso di Penelope.

 

“Almeno per la prima volta potresti lasciarmi guidare, no? Di solito sono tutte timide ed insicure, tu invece-”

 

“Potresti evitare di parlarmi di com’erano a letto le altre, mentre ci stai con me?” le chiese, un poco infastidita.


“Ma che sei gelosa?”

 

“Non mi conosci?”

 

“Vale…” sussurrò, scuotendo il capo, ma poi si sentì baciare nuovamente e si ritrovò con la schiena sul materasso, il cuore a mille, come forse mai in vita sua.

 

La prospettiva di lasciarsi guidare, almeno per il momento, non era poi così male.

 

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“Vuoi una mano?”

 

Forse per la stanchezza, forse per la sorpresa, la gonna che aveva in mano e che stava levando dal borsone le cascò sul pavimento.

“Calogiuri!” esclamò, voltandosi verso la porta della stanza da letto.

 

Era ancora più distrutto di quella mattina, pareva quasi malato, non che lei fosse messa molto meglio, dopo un’intera giornata di lavoro.

 

“Non ti preoccupare, ho quasi finito. La gonna la butto a lavare e… e poi ci sono solo più queste….”

 

Estrasse la cartellina con le carte del divorzio, che aveva lasciato sul fondo, protette da tutti i vestiti.

 

Calogiuri alternò lo sguardo tra la sua mano ed il suo viso e poi annuì.

 

“Credevo… credevo che saresti stato più felice, Calogiuri. Era da tanto che… che lo aspettavi, ma-”

 

“Ma le carte non bastano, Imma. A me importa quello che… quello che pensi e senti tu. E… e a volte non lo capisco e… ho paura che non lo capisca neanche tu cosa provi, non del tutto.”

 

“Calogiuri, ma come fai a dubitare di quello che provo per te? Ho terminato un matrimonio ventennale per stare con te e-”

 

“Ma non era una decisione soltanto tua in cui io non c’entravo?” la interruppe, con un tono ed un’espressione familiari, perché glieli aveva insegnati lei nei controinterrogatori.

 

E fin troppo bene aveva imparato!

 

“Sì, ma… io non sono tanto brava a parole, Calogiuri, ma sto andando contro tutto il mondo per stare con te e lo sai.”

 

“Ma ti pesa. Per te… per te non è facile stare così al centro dell’attenzione, Imma, ti conosco. Ora sopporti perché… perché mi ami o comunque provi per me qualcosa di forte. Ma nel tempo… mi ci vedi davvero nella tua vita, a… ad invecchiare insieme a Matera?”

 

“Veramente io invecchierò, tu sarai ancora giovane, mannaggia a te!” provò a stemperare la tensione con una battuta, ma Calogiuri rimase serissimo.

 

“Non sviare il discorso. Mi ci vedi accanto a te a Matera o no?”

 

“E tu? Davvero vorresti finire la tua carriera a Matera, con tutte le opportunità che hai in una grande città?”

 

“Se fossi con te sì, Imma. A me basta fare bene il mio lavoro e stare con te, te l’ho già detto. Tu invece ancora non mi hai risposto,” le fece notare, con uno sguardo che le fece malissimo, “e comunque almeno metterci piede a Matera, pure senza invecchiarci, sarebbe già un passo avanti. Va beh… vado a farmi una doccia, che è tardi, ed è meglio se ce ne andiamo a dormire.”

 

“Calogiuri…” provò a chiamarlo, ma si era già chiuso in bagno.

 

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“Pentita?”

 

Sollevò la testa ed incontrò due occhi azzurri che la studiavano, un po’ in apprensione.

 

“Ti sembro pentita?” chiese con un sorriso, allungando le dita per sfiorarle una guancia, “o è la versione femminile del ti è piaciuto? dei maschi?”

 

“No, no, per carità!” rise Penelope, ricambiando la carezza.

 

“Che poi dovrei chiederlo io a te, visto che avevo zero esperienza in materia.”

 

“Diciamo che impari in fretta, Vale, fin troppo!” la punzecchiò. facendole l’occhiolino.

 

“Ma posso imparare ancora meglio con un po’ più di pratica…” le soffiò in un orecchio, approfittando della distrazione per spingerla sul materasso.

 

“Vale! E poi dicevi di tua madre! Anche se almeno so da chi hai preso!” rise, facendole il solletico sulla vita.

 

“Potresti evitare di nominare pure mia madre in certi momenti?” le chiese, prendendole le mani per ripararsi dall’assalto, ma Penelope divenne improvvisamente seria.

 

“Che c’è?”

 

“Lo… lo sai che… che non sarà facile se… se decidessi di… di dire alla tua famiglia che… che stai con me?”

 

“Quindi stiamo insieme?” le domandò, mentre il sollievo si alternava alla preoccupazione, perché sapeva benissimo che Penelope aveva ragione.

 

“Vale, dopo che hai insistito così tanto lo spero, o-”

 

La zittì con un altro bacio e le sorrise sulle labbra, ma Penelope si staccò nuovamente, “Vale, te lo ripeto, lo sai che non sarà facile, vero?”

 

Sospirò, capendo che non c’era modo di affrontare il discorso in un altro momento, “sì, lo so, mica sono scema! Ma a me più di tutto preoccupa la distanza. Ho già provato ad avere una relazione così e… e da un lato forse mantiene più a lungo quella voglia di vedersi in continuazione ma… ma non ci si conosce mai davvero.”

 

“Beh… ma io e te già ci conosciamo di più di te e Samuel quando avete iniziato la vostra storia, no? E poi… da Roma a Milano sono tre ore di treno. Possiamo vederci quasi tutti i weekend che non sei a Matera.”

 

“Ad avere i soldi…” sospirò Valentina, perché i treni ad alta velocità non erano così economici.

 

“E va beh… basta organizzarsi con le offerte e poi… e poi mio padre mi può pure finanziare qualche abbonamento o convenzione.”

 

“Beata te! I miei al massimo mi finanziano la corriera per Matera e-”

 

“E poi, se ti muovessi tu, dovresti spiegare loro perché vieni spesso a Milano, no?” le chiese, con un’altra occhiata che valeva più di mille parole.

 

“Senti… gliene voglio parlare, davvero, ma… ti dispiace se aspettiamo qualche mese prima di… di fare l’annuncio? Che non voglio averli col fiato sul collo fin da subito.”

 

“Se fossi un ragazzo saresti corsa ad annunciarlo in famiglia?” domandò, con uno sguardo strano.

 

“Sinceramente? Visto come sono fatti i miei no,” rispose ed era soltanto la verità.

 

Penelope rise ed annuì, “va bene… prenditi il tempo che ti serve. Ma ti avviso che io la fidanzata clandestina, che finge di essere l’amica del cuore, non la faccio a vita.”

 

“Lo so. Ma… ma tu sei anche la mia amica del cuore. Che poi amica del cuore pare una cosa da tredicenni!”

 

“Ed infatti vorrei che ti facessi più amicizie a Roma, Vale. Non perché ora… stiamo insieme…” pronunciò, in un modo come se non potesse credere alle sue parole, “ma perché non voglio che stai da sola a Roma, e che aspetti solo me per non avere una vita sociale da settantenne.”

 

“Va bene, te lo prometto. Almeno non sei troppo gelosa!” scherzò, anche se sentiva un mezzo nodo in gola per la preoccupazione di lei.

 

“Se dovessi essere gelosa di tutte le ragazze ed i ragazzi che incontri non vivrei più, Vale!”

 

“Io invece… sono gelosa. Ma ti va bene che ho preso più da mio padre che da mia madre in questo, se no altro che i carabinieri appostati qua fuori di vedetta!”

 

Risero insieme e Valentina si sentì felice e leggera come non le capitava più da troppi mesi, per non dire da più di un anno, come minimo.

 

Allungò il collo per baciare Penelope e la spinse di nuovo sul cuscino, decisa a recuperare il tempo perduto e a fare molta pratica prima che si dovessero salutare.

 

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Si svegliò avvolta da un piacevole tepore, con un cuore che batteva ritmicamente sotto al suo orecchio.

 

Anche nella penombra riconobbe i lineamenti addormentati di Calogiuri. La sera prima era crollata dalla stanchezza e forse pure lui. E, nonostante il clima freddo che si respirava tra loro, evidentemente nel sonno dovevano essersi cercati ed abbracciati.


Quanto le era mancato in quei giorni stare così, sentire la sua pelle ed il suo profumo. Maledisse la sveglia che, inevitabilmente, avrebbe interrotto quel momento da lì a poco, almeno a giudicare dalla luce che filtrava dalle imposte.

 

Sarebbe voluta rimanere così per sempre ma-

 

Ma puoi rimanere così per sempre, Imma! Basta che ti svegli e che ti decidi! Di che hai paura ancora?!

 

La Imma interiore, dopo un lungo periodo di latitanza, era tornata a farsi sentire con la voce di Diana.

 

In fondo, darle retta l’aveva portata, al netto di tutti i casini, ad essere più felice di quanto avrebbe mai potuto sognare. Doveva soltanto capire come agire ed in fretta, prima che la situazione con Calogiuri degenerasse ulteriormente.

 

Lo sentì muoversi leggermente e stringerla: chissà cosa stava sognando esattamente.

 

“Im-ma,” bofonchiò, gli occhi ancora chiusi.


Ed Imma non resistette: gli accarezzò una guancia e gli diede un bacio, provando un sollievo immenso quando fu ricambiato, prima con tenerezza, poi con passione.

 

Si staccò leggermente per riprendere fiato, aprì gli occhi e trovò Calogiuri che la guardava con occhi scuriti, forse dal sonno, forse dal desiderio.

 

Stava per baciarlo nuovamente quando la sveglia, stramaledettamente puntuale, trillò in tutta la sua cacofonia.

 

Lo sentì irrigidirsi ancora prima di notare come l’espressione di lui fosse mutata. Più triste, più malinconica.

 

“Meglio… meglio che ci alziamo mo… che se no facciamo tardi,” proclamò, lasciandola andare.

 

Sapeva che aveva ragione e che non c’era molto tempo per rendersi presentabili ed arrivare in ufficio.

 

Ma le veniva lo stesso da piangere.

 

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“Dottoressa!”

 

“Mariani! Come va? La vedo un po’ stanca! Quando avrà le ferie?”

 

“Ad inizio ottobre, dottoressa, sa… con i turni… andrò a Capo Verde, che è ancora caldo per fortuna.”

 

“Bene, se lo è meritato dopo tutto il lavoro di queste settimane. Allora, ha qualche novità per me?”

 

“Sì, dottoressa.”

 

“Le intercettazioni di Coraini?”

 

“No, dottoressa. C’è una novità sul caso Spaziani.”

 

Non se lo aspettava quasi più: Galiano era ormai a casa in attesa del processo, già da un po’, e Chiara Latronico non la sentiva da quell’ultima telefonata. Forse era soddisfatta che il figlio quantomeno non fosse in carcere.

 

“Che è successo?”

 

“La lista dei medici della clinica da cui è stata sottratta l’insulina. Ho dovuto fare parecchie ricerche ed il tempo in questo periodo è stato poco ma… ho scoperto che uno dei medici di turno in quelle sere, un certo Renato De Carolis, era il medico curante della signora Spaziani. Cioè, la prima signora Spaziani, quella che era ricoverata presso quella clinica prima di morire. Infatti è stato lui a firmarne il certificato di morte. L’ho notato mentre facevo le ricerche patrimoniali su Spaziani ed il nome mi era parso familiare.”

 

“Sì, ma potrebbe essere una coincidenza, no? Parecchie persone che lavorano in quella clinica conoscevano Spaziani madre, padre e figlio.”

 

E Spirito Santo! - le venne spontaneo aggiungere tra sé e sé, dandosi della cretina per la scelta di parole.

 

“Sì, ma… ho fatto altre ricerche su questo medico. E ho trovato delle foto di lui con Amedeo Spaziani, il figlio della vittima, guardi.”

 

Le piazzò davanti un tablet e fece scorrere le foto: effettivamente c’era Spaziani Jr. insieme ad un uomo di mezza età, belloccio, dall’aria molto curata. Erano ritratti con una coppa, vestiti da tennis, e poi c’era un’altra foto di loro due insieme, molto eleganti, ad una cena di gala, con la fidanzata di Spaziani e, presumibilmente, la compagna del medico.

 

“Ho anche scoperto che Spaziani figlio è stato operato ad un ginocchio proprio presso quella clinica. Ed indovini chi l’ha operato?”

 

“De Carolis?” chiese e Mariani annuì, con sguardo soddisfatto.

 

“Mariani, ha fatto un ottimo lavoro, brava!” si complimento, guadagnandosi un altro sorriso fiabesco, prima però di dover fare l’avvocato del diavolo, “il problema è che con solo questi elementi in mano non abbiamo prove che possano reggere nemmeno ad un’udienza preliminare. Teniamolo più sott’occhio però. Sia il figlio che questo medico. Cerchi di avere tutti i tabulati e le informazioni che può trovare. Con la receptionist dello studio legale dove lavora Galiano come va?”

 

“Dottoressa, effettivamente il giorno prima a quello in cui è stata piazzata l’insulina nell’ufficio di Galiano, la receptionist ha ricevuto una chiamata da un numero che l’aveva già contattata diverse volte nelle settimane precedenti. Ho fatto controllare ma…”

 

“Un prestanome?”

 

“Un numero svizzero, di quelli prepagati. Ho cercato di capire a chi fosse intestato ma a quanto pare è stato preso in un supermercato e… nessuno ha controllato bene i documenti.”

 

“Svizzero? O è un criminale professionista o uno che viaggia per lavoro: la Svizzera non è esattamente dietro l’angolo.”

 

“No, dottoressa.”

 

“Ed uno come Amedeo Spaziani, nonostante le sue finanze non siano solide quanto vuole far credere, sicuramente viaggia spesso per lavoro. Dobbiamo capire se se ha fatto dei viaggi in Svizzera di recente e se lui e la receptionist si conoscono.”

 

“Vuole interrogarla, dottoressa?”

 

“No, prima voglio provare a capire se si frequentino ancora, sempre se la chiamata è di Spaziani. Falla seguire la sera e nei finesettimana e vediamo che succede.”

 

“Chi mando, dottoressa?”

 

“Rizzuto o Palermo, non Carminati, per carità, che la receptionist è una bella ragazza e non le voglio male fino a questo punto.”

 

“Va bene, dottoressa, provvedo subito,” fece per congedarsi ma si fermò quando era quasi sulla porta, rivolgendosi a lei, un po’ in apprensione, “dottoressa… sia lei che Calogiuri mi sembrate molto… stanchi. Non avete una bella cera. Se vi serve che vi aiutiamo di più con la storia del ricatto… sia io che Conti siamo disponibili.”

 

“La ringrazio Mariani, ma avete già fatto tantissimo. E poi non voglio spremerla troppo in quest’ultima settimana che le resta prima delle ferie. Passi un buon fine settimana.”

 

Non voleva certo approfittarsi della disponibilità degli amici di Calogiuri. Anche perché la stanchezza aveva ben poco a che fare con le indagini.

 

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“Sei sicura che non vuoi che ti accompagni?”

 

La faccia da funerale di Penelope doveva assomigliare alla sua. La verità era che era stata molto tentata di rimandare l’esame alla sessione invernale e rimanersene lì fino all’inizio delle lezioni, Ma i suoi genitori le avrebbero fatto troppe domande.

 

“No, meglio di no. Tanto vado in taxi e… e non so se ce la farei a salutarti senza… senza poterlo fare come vorrei, per via dei giornalisti e-”

 

“E non solo dei giornalisti, Vale. Per carità, Milano è una delle città dove è meno peggio non essere etero in Italia, ma a baciarsi in pubblico in certi posti c’è ancora rischio, purtroppo. Te l’ho detto che non sarà semplice.”

 

“Lo so, ma ne vale la pena, no?” le chiese, prima di prenderle il viso e di darle proprio un bacio di saluto, “dopo l’esame devo tornare da mio padre a Matera, che se no chi lo sente, ma il prossimo fine settimana sono libera.”

 

“E allora vengo io da te. Anche se ci dovremo nascondere dai giornalisti. Potrei vestirmi da brava ragazza di buona famiglia, così non mi riconoscerà nessuno!”

 

“Ma tu sei una brava ragazza di buona famiglia.”

 

“Non facciamolo sapere troppo in giro, che mi rovino la reputazione!” scherzò Penelope, dandole un altro bacio.

 

Non avrebbe voluto staccarsi mai ma doveva farlo: il taxi già era sotto che attendeva.

 

“Ci vediamo presto e fai la brava!”

 

“Pure tu, Vale! Anche se non ho i carabinieri con cui controllarti io!”

 

Un ultimo bacio, prese dalla valigia ed uscì da quell’appartamento, che aveva sentito molto più casa sua in pochi giorni, che quello che divideva con Samuel in quasi un anno.

 

Ma era ora di tornare alla vita di tutti i giorni.

 

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“Valentì! Sono qua!”

 

“Mà! Ma come ti sei conciata?”

 

“Ma come? Per una volta che sono tutta vestita di nero!”

 

“Appunto! Che è, sei in lutto?”

 

“No, è che… è per non dare nell’occhio con i giornalisti. Sai… i miei abiti soliti si notano parecchio e non volevo che ti accogliessero pure loro qui a Roma.”

 

“Quindi devo ringraziare i giornalisti, se per una volta non fai sanguinare gli occhi col tuo abbigliamento? A saperlo dovevi diventare famosa prima, tipo quando venivi ai miei colloqui a scuola, anche se per fortuna ci veniva più spesso papà!”

 

“Stare a Milano non so se ti abbia fatto bene o male, signorina, Ma ti vedo in forma, sembri… quasi raggiante.”

 

“Eh… lontana da te e da papà, un sogno praticamente, nonostante fossimo quasi rinchiuse in casa!”

 

Scosse il capo, di fronte all’ennesima frecciatina affettuosa della figlia. C’era qualcosa di diverso in Valentina, in meglio. Nonostante tutto quello che era successo, sembrava serena e spensierata come era da tanto che non la vedeva.

 

Forse l’amicizia con Penelope le faceva pure meglio del previsto.

 

“Tu invece sembra che sei uscita da un film di Halloween, a parte il nero, c’hai delle occhiaie! Notti di fuoco col tuo maresciallo per festeggiare il divorzio?”

 

“Valentì!” esclamò, sentendosi avvampare un poco, anche se una parte di lei non poté fare a meno di pensare un magari fosse!

 

“Andrò da papà qualche giorno dopo l’esame. Sembrava… diciamo che non sembrava molto felice che me ne fossi andata a Milano senza chiedergli il parere prima. E non sembrava molto felice neanche con te.”

 

“Eh, lo so, Valentì. Dobbiamo… dobbiamo cercare di includere di più papà nelle decisioni che ti riguardano, nonostante la distanza geografica ed il fatto che sei maggiorenne.”

 

“Agli ordini, dottoressa!” sospirò, mentre finalmente uscirono dalla stazione ed individuarono l’auto di servizio.

 

Calogiuri non perse tempo e si precipitò a scendere dall’auto, prendere la valigia di Valentina, metterla nel bagagliaio e rimettersi al volante.

 

“Certo che pure tu come occhiaie… sei quasi messo peggio di mamma! Ma che fate la notte esattamente, anche se forse non lo voglio sapere? Manco alle Baleari eravate così stravolti!”

 

“No, è che… Calogiuri sta facendo i turni di notte per la storia delle foto ed io devo ancora riprendermi dal viaggio a Matera,” tagliò corto, perché non voleva certo far capire a sua figlia che erano in lite.

 

“In realtà anch’io devo ancora riprendermi dal viaggio di tua madre a Matera,” si inserì Calogiuri, sarcastico, ma Valentina rise, probabilmente pensando che gli fosse mancata, e non di certo tutto il casino che era successo.

 

Lo guardò in tralice ma Calogiuri continuava a fissare la strada, come sempre quando c’era tensione tra loro.

 

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“Ma… ma è bellissima!”

 

Bianca aveva gli occhi che le brillavano mentre si abbracciava la scatola della Barbie che le aveva comprato in Spagna: mora e vestita con un abito rosso e nero da flamenco.

 

“Da parte mia e di Imma,” aggiunse, anche se non era del tutto vero, ma Bianca sapeva che erano stati in vacanza insieme, perché glielo aveva detto prima di partire.

 

“Sarebbe bella Imma vestita così!” esclamò la piccola con tono innocente ed entusiasta.

 

Ma Calogiuri notò con la coda dell’occhio come Irene si trattenesse dal ridere.

 

“In effetti ce la vedo Imma con questo vestito. Poi, visto quanto vi piace ballare, è proprio adatto, Calogiuri,” lo prese in giro, facendogli l’occhiolino.

 

Un poco gli dava fastidio per Imma, ma alla fine che si vestisse in modo particolare era un dato di fatto ed Irene non lo diceva con cattiveria.

 

“Come mai non è venuta anche Imma?” gli chiese poi Bianca e Calogiuri si scervellò per trovare una risposta.

 

“Doveva stare con sua figlia, che poi deve tornare a Matera dal papà. Però, se hai piacere a vederla, possiamo invitarla la prossima volta, no?” chiese, rivolto a Irene, che annuì.

 

“Bianca, perché non vai ad aprire la scatola della bambola, che poi ci giochiamo tutti insieme? Sai, continua a ripetere quanto sei più bravo di me a giocare e non solo con le bambole, quindi devo carpire i tuoi segreti!”

 

Bianca sorrise, si alzò in piedi e corse verso la sua stanza.

 

“Sei ancora… in lite con Imma?” gli sussurrò, non appena Bianca fu sparita dalla vista.

 

“Sì…” ammise, perché sarebbe stato inutile negare.

 

“Per… per la storia che non ti porta a Matera con sé?” gli domandò poi, con uno sguardo indecifrabile.

 

Calogiuri assentì, prima di rivolgere lo sguardo, un po’ in apprensione, verso la stanza di Bianca.


“Senti… non… non ti ho trattenuto qui solo per farti il terzo grado su Imma. Il prossimo fine settimana hai già degli impegni? Perché… Romaniello ha assunto un altro legale, uno che ha tirato fuori di galera pure gente che tutti avrebbero pensato che, come minimo, avrebbero buttato via la chiave. Uno di Milano che conosco dai… dai tempi del maxiprocesso là. E… avrei bisogno del tuo aiuto per fare un po’ di ricerche e… dovremmo andare a Milano. Da sola non me la sento e… e sei l’unico della PG che conosce tutta la mia storia, nonché l’unico di cui mi fido davvero. Partiremmo il venerdì sera e torneremmo il lunedì sera, così non rubo troppi giorni all’indagine che stai facendo con Mancini ed Imma sul ricatto fotografico.”

 

“E… e dovrebbe essere proprio il prossimo fine settimana?” le chiese, perché il lunedì subito dopo, come giorno, ed il martedì, come data, ricorreva l’anniversario di quando aveva raggiunto Imma a Matera ed avevano iniziato una relazione a tutti gli effetti.

 

Ed essere via proprio in quei giorni… con Irene poi… Imma difficilmente l’avrebbe presa bene.

 

Ma del resto ne andava della sicurezza di Irene, visto quello che le era successo a Milano. Il lavoro era lavoro e lo sapeva anche Imma. E poi… e poi non era dell’umore adatto per organizzarle delle sorprese e sicuramente Imma manco ci pensava, tra l’orgoglio ed il fatto che non era tipo da ricorrenze.

 

“Sì, perché poi diventa troppo tardi: si avvia l’appello e con Mancini devo prendere delle decisioni importanti prima di tornare in tribunale.”

 

“Va bene… ne parlo con Imma ma… va bene,” cedette, perché sapeva che fosse la cosa giusta da fare, ed Irene lo guardò di nuovo in un modo strano, diverso dal solito.

 

Anche se non riusciva a capire come o perché.



 

Nota dell’autrice: Mi scuso innanzitutto per la pubblicazione di lunedì invece che di domenica, ma purtroppo queste ultime settimane con il lavoro sono state pienissime ed il tempo per scrivere scarseggia.

Imma e Calogiuri sono in un momento di grande tensione che rischia di far scoppiare tutto. Chissà che succederà nel fine settimana del loro primo anniversario ma, soprattutto, chissà come la prenderà Imma la decisione di Calogiuri di passarlo a Milano con Irene?

Nel prossimo capitolo ci saranno altri ritorni e… parecchi casini da risolvere.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e vi ringrazio tantissimo per avermi seguita fin qui per tutti questi mesi. Le vostre recensioni mi fanno sempre molto piacere e mi danno una grande carica per continuare, nonostante tutti gli impegni, quindi se vorrete farmi sapere che ne pensate vi ringrazio di cuore.

Grazie mille a chi ha aggiunto questa storia tra i seguiti o i preferiti.

A causa delle vacanze estive, il prossimo capitolo arriverà non questa domenica ma la successiva, il sedici di agosto.

Grazie ancora e buone vacanze!

 

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Capitolo 42
*** Partenze e Ritorni ***


Nessun Alibi


Capitolo 42 - Partenze e Ritorni


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Allora, le è piaciuto il regalo poi?”

 

Calogiuri era tornato da poco, dopo essersi fermato a cena dalla gattamorta. Glielo aveva anticipato, quindi si era costretta a leggersi un libro e ad aspettarlo a letto e non in piedi, come se la cosa non la disturbasse più di tanto.

 

Alla fine c’era pure la bambina e alla gelosia doveva metterci un freno, anche se questo non le impediva di sparare qualche battuta qua e là.

 

“Sì, sì, molto,” confermò, mentre si sfilava i vestiti, aggiungendo con un sorriso, “pensa che Bianca ha detto che il vestito da flamenco della Barbie ti starebbe bene.”

 

Era una delle conversazioni più rilassate che avevano avuto da quando gli aveva annunciato che sarebbe andata a Matera da sola.

 

“E c’ha ragione! Se mai torneremo in Spagna, mi devo tenere uno spazio in valigia per portarmene a casa uno,” ironizzò, ma se ne pentì immediatamente quando notò l’espressione di lui rabbuiarsi.


“A me basterebbe andare a Matera, prima che in Spagna o chissà dove.”

 

Si maledisse per averglielo ricordato e per avergli servito quella battuta su un piatto d’argento. Quando ci si metteva Calogiuri era pure peggio di lei.

 

“Vado in bagno, se mi aspetti ti devo parlare di… di una cosa importante,” proclamò poi, avviandosi verso il corridoio.

 

Come se avrebbe mai potuto addormentarsi dopo un annuncio simile! Di solito parlare di cose importanti significava guai grossi, da che esistevano le relazioni sentimentali.

 

Sperò solo che non fosse ciò che temeva di più. Ma no… non ce lo vedeva Calogiuri a chiederle una pausa di riflessione per la storia di Matera. Ma doveva sbrigarsi ad agire, prima che fosse troppo tardi.

 

*********************************************************************************************************

 

“E quindi… Irene mi ha chiesto di andare con lei a Milano questo fine settimana, cioè quello che viene, che oggi è domenica e-”

 

“E l’ho capito Calogiuri, mica sono rincoglionita ancora, anzi!”

 

L’aveva raggiunta a letto e le aveva spiegato tutto: via il dente via il dolore. Se i denti non glieli spaccava tutti direttamente lei.

 

“Lo so, ma… è che… so pure che non ne sarai felice e… e lo sapevo quando ho accettato ma-”

 

“E quindi cosa sarebbe? Una ripicca? Io vado a Matera da sola e tu te ne vai a Milano con la cara Irene?” gli domandò, con un’espressione indecifrabile, che non capiva del tutto. Non era rabbia, non solo almeno, c’era pure altro.

 

“No, no, non è una ripicca, anche se evidentemente continui a ritenermi un ragazzino infantile, che se litiga con te si butta tra le braccia della prima che trova, ma-”

 

“Non ho mai detto questo, Calogiuri! Anche se Irene non è certo la prima che trovi e… tenere il punto come fai tu ed ignorarmi, o dire quattro parole in croce, per giorni, quando sei arrabbiato, non è che sia proprio il comportamento più maturo del mondo, mi sembra!”

 

“Perché, tu quando ti arrabbi invece che fai, a parte urlare e saltare alle conclusioni, esagerando? E non solo con me! Come se mi dicessi facilmente cosa pensi! Sono giorni che aspetto una spiegazione credibile sul perché non mi hai voluto a Matera con te! Ma non è questo il punto. Il punto è che, se vado a Milano con Irene, è perché non posso lasciarla da sola dopo tutto quello che è successo a lei e Bianca a Milano. E nessun altro a parte te e Mancini sa di questa storia e… il lavoro è lavoro.”

 

Imma rimase per un attimo in silenzio, sempre con quell’espressione strana. Non sentendola rispondere, gli venne spontaneo proseguire, “e… e poi sarò di ritorno per martedì, sempre se ti ricordi che giorno è."

 

"Eh certo che me lo ricordo, Calogiuri! La memoria ce l'ho ancora buona ed è passato un anno, mica una vita!"

 

"A volte mi sembra il contrario e penso che, per certi versi, ero più libero di stare con te allora. Almeno a Matera ci potevo mettere ancora piede. E qui a Roma non dovevamo tenere il basso profilo.”

 

Imma sospirò e scosse il capo incrociando per un attimo le braccia al petto e guardandolo a lungo, occhi negli occhi, senza dire niente.

 

“Ti fidi di me o no? Io mi sono fidato nel viaggio tuo a Milano con Mancini che… che lasciamo perdere! Irene è un’amica e basta. E non mi interessa farti ingelosire o fare una ripicca, anche perché non servirebbe a niente. Io voglio che tu sia convinta di noi due veramente e non solo perché… perché ti ci senti costretta o magari perché hai paura di perdermi. Te l’ho già detto un anno fa, anche se forse te ne sei scordata.”

 

“Calogiuri…” gli sussurrò e vide la commozione nei suoi occhi e nel suo sorriso. Sentì una mano sul viso, in una carezza, ma le prese le dita tra le sue, bloccandola.

 

“Io voglio tutto Imma, voglio una storia vera, voglio la certezza che non ti senti a disagio a farti vedere in giro con me. E non solamente dove non ci conosce nessuno. Voglio fare parte di tutta la tua vita, fino in fondo. E se… se non è possibile… forse dobbiamo capire se questa storia può funzionare veramente.”

 

“Perché questa non è una storia vera, mo?!” gli domandò lei, ben più rabbiosa di quando gli aveva annunciato di Irene, “il mondo intero sa di noi due, Calogiuri, e… ed io sono molto orgogliosa di stare con te, molto, anche se non lo vuoi capire!”

 

“Hai uno strano modo di dimostrarlo, Imma!”

 

“Se non ti ho portato con me a Matera è perché c’è tutta questa storia dei giornalisti e poi… e poi perché c’era la causa di divorzio. Altrimenti ti avrei chiesto di accompagnarmi, senza problemi.”

 

“E quando succederà, allora? Per natale? O vuoi ancora passarlo con… con il tuo ex marito oltre che con tua figlia e… non vorrai mischiare le cose?”

 

“Presto, Calogiuri, presto. E no, non passerò il natale con Pietro, considerato anche com’è andata a pasqua.”

 

“Presto vuol dire tutto e niente, Imma. E pure dirmi che non lo passerai con Pietro, se non so se lo vorrai passare con me. Ed è questo il problema, e non soltanto per natale,” esclamò, amaro, perché era quello che lo tormentava da giorni.

 

“Calogiuri, se ti ho detto presto è presto. Te lo prometto,” ribatté, decisa come raramente l’aveva mai vista, e gli prese le mani e ripetè, dritta negli occhi, “ti fidi di me o no?”

 

“Lo sai che mi sono sempre fidato di te, Imma, sempre. Ma la fiducia bisogna mantenerla con i fatti, e spero davvero di poter continuare ad avere fiducia in te ed in noi due, soprattutto. E che ce l’abbia pure tu.”

 

“Certo che ce l'ho, Calogiuri!”

 

“Pure per Milano? Non starai male e non starai in ansia se io parto?”

 

“Questo… questo non so se posso promettertelo, Calogiuri. Perché dipende da come tu ti comporterai. Ma… ma se non mi sono già messa ad urlare, come mi rinfacci tu, nonostante tu abbia accettato di andare a Milano con Irene, senza parlarmene, proprio prima del nostro anniversario… vuol dire che mi fido e che so che il lavoro è lavoro. Ma, anche in questo caso, la fiducia bisogna poi mantenerla con i fatti, Calogiuri.”

 

“Lo so… e comunque ho detto a Irene che te ne avrei parlato ma… sei stata tu a dirmi che non ti devo chiedere il permesso. E poi.... io non ti impedirei mai di fare una trasferta di lavoro, Imma. E… conoscendoti, volevo sperare che non me lo avresti impedito.”

 

“No, Calogiuri. La tua carriera per me è più importante pure della mia in questo momento, anche se non te lo vuoi mettere in testa. Perché sarebbe uno spreco enorme se non facessi il percorso che ti meriti. Ma il lavoro è una cosa, il rapporto con la cara Irene un’altra. Ma anche lì… se preferissi una come lei a me… a parte l’estetica… non potrei farci molto. Siamo completamente diverse, praticamente in tutto. E tanti cari auguri a farti dire da lei che cosa pensa veramente, Calogiuri!”

 

“Veramente a me lo dice, quasi sempre, a costo di essere sgradevole,” ribatté, perché gli venne spontaneo difenderla anche se… anche se una parte di lui sapeva benissimo che Irene era la persona più misteriosa e riservata che avesse mai incontrato.

 

Però c’era un motivo se era così ed era certo che non dipendesse da lui, ma dal suo passato, e con lui si era già aperta tantissimo ultimamente.

 

“Sullo sgradevole mi trovi perfettamente d’accordo, Calogiuri,” rimarcò, con quell’espressione di quando aveva appena sentito una cosa ovvia, “allora… sai già a che ora parti?”

 

“No, i treni li prenoterà Irene. Ma per lunedì sera sarò di ritorno,” le disse, con uno sguardo eloquente, sperando che lei cogliesse l’occasione magari per proporre qualcosa per il martedì o, quantomeno, per esprimere il desiderio di fare qualcosa, qualsiasi cosa, quel martedì.

 

Non che avrebbe cambiato il problema di base che avevano o che gli avrebbe chiarito tutti i dubbi. Ma sarebbe stato almeno un passo, al di là del basso profilo e dell’orgoglio, per dimostrargli che non solo ci teneva alla loro relazione, ma anche che quelle promesse che gli aveva fatto l’anno precedente intendeva mantenerle sul serio.

 

“Va bene… allora mo dormiamo, Calogiuri. Che abbiamo una settimana di lavoro e poi… e poi il fine settimana dubito che sarà esattamente di riposo,” pronunciò, dandogli un bacio su una guancia e distendendosi meglio sul cuscino.

 

Si diede dello stupido per la delusione che provava. Imma era così, era sempre stata così: orgogliosa e testarda e, in fondo, era quello il suo bello. Ma se si era innamorato di lei era anche per quella vulnerabilità che tirava fuori in certi momenti e perché, almeno con lui, non sentiva sempre il bisogno di fingere di essere invincibile.

 

E invece… quando si trattava del loro rapporto, quando litigavano soprattutto, era così maledettamente difficile per lei ammettere di poter avere avuto torto. Pure per lui non era facile, per niente, ma non poteva essere sempre lui quello comprensivo e conciliante.

 

Si distese e spense la luce, i dubbi sul futuro che gli pesavano sullo stomaco che manco dopo una cena di quelle di sua madre, quando tornava a Grottaminarda dopo una lunga assenza.

 

Rimase immobile, cercando di prendere sonno. Udiva chiaramente il respiro di Imma ed era ancora troppo veloce: anche lei non stava dormendo.

 

Improvvisamente un brivido lungo la schiena: il fiato di lei gli faceva solletico al collo. Si sentì abbracciare da dietro, il viso di lei che si rifugiava contro la sua spalla.

 

Per un attimo, gli ricordò il loro primo viaggio in moto.

 

Era un primo passo, anche se fisico, senza parole, e del resto il loro rapporto per tanto tempo non ne aveva avuto bisogno: contavano più i gesti, gli sguardi, da sempre.

 

Ma, per quanto quel contatto lo facesse sentire bene e per quanto la amasse da impazzire, forse non bastava a risolvere tutti i problemi e a chiarire tutti i dubbi.

 

Non più.

 

*********************************************************************************************************

 

“Calogiuri, più passano i giorni e più sembri uno zombie. Vuoi fermarti per un caffè o far guidare me?”

 

“No, no, tranquilla. Sono sveglio,” la rassicurò, mentre uscivano dal maledetto raccordo anulare, di ritorno da un sopralluogo.


“Lo spero, Calogiuri, che nei prossimi giorni devi essere in forze!” ironizzò e c’era qualcosa di strano nel modo in cui lo disse, che non capì del tutto.

 

“Temi che… che a Milano possiamo avere problemi?”

 

“Meglio essere pronti ad ogni evenienza, Calogiuri…” rispose, sempre in quel modo enigmatico.

 

Gli vennero in mente per un attimo le parole di Imma su Irene. Quando faceva così, tutti i torti non li aveva.

 

“A proposito, che vestiti mi devo portare per Milano?”

 

“Come?”

 

“Sai… a Milano… sono sempre tutti eleganti, non voglio fare o farti fare brutta figura!”

 

“Calogiuri, mi sa che hai visto troppi programmi televisivi su Milano. C’è in giro un po’ di tutto, dal più al meno elegante. Comunque… non so… vestiti normalmente, magari portati giusto una cosa più elegante, che non si sa mai. Anche se dubito i vestiti avranno molta importanza.”

 

“No, lo so che andiamo lì per lavorare. Ma tu sei elegante sempre, pure in casa. Non ti ho mai vista con i jeans o una maglietta.”

 

“Perché sono molto più scomodi i jeans dei pantaloni a palazzo che metto in casa, Calogiuri. Ma voi uomini non avete il problema delle curve, quindi non potete capire, temo.”

 

Sentì un poco di calore al viso, anche se era stupido imbarazzarsi per un commento simile.

 

“A che ora partiamo poi esattamente? Ti passo a prendere a casa o-?”

 

“No, Calogiuri, meglio che andiamo in taxi tutti e due, che almeno non lasciamo l’auto di servizio in stazione e non dobbiamo parcheggiare. E sull’orario… partiamo nel primo pomeriggio dalla procura, verso le quattordici.”

 

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“E dove pensi di andare così elegante, mo?”

 

Stava ritirando nel trolley l’unico completo buono che aveva, quando Imma era entrata e si era piazzata sulla porta della stanza con le braccia incrociate.


“Irene mi ha suggerito di portarmi un completo elegante, in caso servisse. Ma starò vestito normale tutto il tempo, credo.”

 

“Altre cose che ti ha suggerito di portarti? Che so… un costume da bagno se ci fosse la piscina, con l’hotel che si sarà scelta, conoscendola.”

 

“In realtà non so l’hotel come si chiami e se abbia una piscina, Imma, ma no, niente costume. Ed Irene ai vestiti manco ci pensava, sono stato io a chiederle cosa portarmi.”

 

“Ma bene… pure i consigli di moda chiedi mo alla cara Irene. Non che sull’argomento non sia ferrata, ma tu sei bello così come sei, semplice, con la maglietta o i maglioni ed i jeans.”


Per un attimo si chiese se Imma avesse fatto mettere una cimice anche sulla sua auto, oltre che a casa del Coraini, perché gli ricordava tremendamente il discorso fatto con Irene, anche se al contrario.

 

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“Calogiuri, ci sei? Guarda che rischiamo di fare tardi!”

 

“Sì, scusatemi ma… stavo cercando la dottoressa Tataranni per salutarla, ma mi hanno detto che è via per un sopralluogo. Grazie Asia,” si congedò, chiudendo la porta dell’ufficio di Imma e rivolgendosi verso Irene che lo attendeva con un trolley già in mano.

 

“Dai, Calogiuri, forza, veloce, come direbbe Imma,” lo schernì, precedendolo ad un passo incredibile, considerati i tacchi, anche se meno estremi di quelli di Imma.

 

Scese le scale il più in fretta possibile, recuperò il suo bagaglio ed uscì, trovandosi di fronte ad un taxi in attesa, il tassista che già stava caricando la valigia di Irene in auto, guardandola come se fosse un’apparizione celeste.

 

La sua espressione mutò decisamente quando lo vide avvicinarsi con l’altra valigia e si chiese se Irene lo avesse notato o meno, ma era già salita in auto.

 

Una volta che pure lui ebbe richiuso la portiera, il tassista partì fin troppo a razzo, ma almeno sarebbero arrivati in anticipo.

 

Appena superato il Tevere però, notò che l’autista, invece di andare verso sud, continuava a procedere verso est.

 

“Ma Termini non è in questa direzione…” disse, lanciando un’occhiata un po’ preoccupata verso Irene.

 

“Ed infatti alla Tiburtina dobbiamo andare. O così mi ha detto la sua signora. Signò, non è che vi siete sbagliata?”

 

“No, no, il treno ce lo abbiamo dalla Tiburtina, grazie,” rispose Irene con un sorriso, per poi chiarire, “ho trovato un’offerta migliore su un treno che partiva da lì, Calogiuri. E poi, col traffico, forse è pure meglio che andare fino a Termini.”

 

Annuì, tranquillizzandosi un attimo dalle sue paranoie. Forse stare troppo con Imma lo aveva fatto diventare sospettoso di natura ma, dopo tutto quello che stava succedendo con la storia dei Mazzocca e di Valentina, non poteva fare a meno di essere prudente.

 

E di nemici ne aveva fin troppi pure Irene, soprattutto dove stavano per andare.

 

Il resto del viaggio trascorse in silenzio, con Irene che ogni tanto gli lanciava delle occhiate che non capì, come faticava un po’ a capire diverse cose del suo atteggiamento degli ultimi giorni.

 

“Eccoci qua, fanno ventiquattro euro.”

 

Irene allungò venticinque, dicendogli, “tenga pure il resto!” e scese dal taxi.

 

La seguì, prendendole la valigia non appena il tassista risalì in auto, ed Irene corse avanti a lui, facendo strada.


“Ma… non si entra da di qua?” le chiese, vedendola proseguire nel parcheggio oltre la porta.

 

“Tranquillo, Calogiuri, conosco una scorciatoia per i binari dell’alta velocità. Seguimi,” ordinò e lui eseguì, anche se continuava ad essere dubbioso.

 

Costeggiarono i bus ed avvertì una fitta al petto quando notò quello, inconfondibile, per Matera, parcheggiato poco più avanti.

 

Irene si bloccò di colpo, toccandosi una tasca, tanto che evitò per poco di finirle addosso.

 

“Calogiuri, devo aver dimenticato il cellulare sul taxi. Vado a vedere se c’è ancora il taxista, se no-”

 

“Vado io, aspettami qua, faccio prima!”

 

“No, Calogiuri, resta tu qua con le valigie, tranquillo. Al peggio chiamiamo la centrale dei taxi e ce lo facciamo passare,” mezzo gridò, perché si era già avviata praticamente di corsa - di nuovo si chiedeva come fosse possibile con quei tacchi - verso il parcheggio.

 

“Cercavi me?”

 

La voce, ad un centimetro dalle sue spalle, gli fece fare un salto, tanto che il suo trolley finì a terra.


“I - Imma?!” domandò, voltandosi di scatto, chiedendosi se stesse allucinando e rimanendo a bocca aperta quando se la vide davanti, “che ci fai qua? Ho provato a venirti a salutare ma… mi hanno detto che te ne eri già andata.”


“Sei tu che sei un po’ in ritardo, Calogiuri. Dai, forza, che abbiamo l’autobus che parte tra quindici minuti ed i posti migliori se li sono già belli che presi.”

 

“L’a- l’autobus?” chiese, disorientato, non capendoci più nulla.


“Sì, l’autobus per Matera, Calogiuri,” rispose, con un sorrisetto, come se fosse la cosa più normale del mondo.

 

Si chiese se per caso stesse sognando, ma era tutto troppo assurdo per poterselo essere inventato.

 

“Ma che vuoi fare, un rapimento?” le chiese invece, conoscendola e conoscendo la sua avversione verso Irene, “perché va bene che voglio andare a Matera con te, ma mica posso mollare qua Irene. Dobbiamo partire tra poco, mi ha pure lasciato qua il bagaglio e-”

 

Ma Imma si mise a ridere, scuotendo il capo, con l’espressione che aveva i primi tempi della loro conoscenza, quando lui non capiva qualcosa o si confondeva.

 

“Calogiuri… va bene che di Irene sai cosa ne penso, ma secondo te ti rapirei da un viaggio di un lavoro soltanto perché sono gelosa?” gli domandò, scuotendo il capo, prima di allungare una mano ed afferrare la valigia di Irene, appoggiarla sull’asfalto ed iniziare ad aprire la zip.

 

“Ma che fai, io-”

 

“Guarda qua!” esclamò, spalancando il trolley e Calogiuri si trovò davanti ad un misto di leopardato, zebrato e tigrato.

 

“Ma… ma… sono i tuoi vestiti?” le chiese, sentendosi improvvisamente uno stupido ed Imma rise di nuovo.

 

“Sicuramente non sono i vestiti della Miss Eleganza in Procura questi, Calogiuri. E-”

 

“Ma questa non è una delle tue valigie.”

 

“Infatti me la sono fatta prestare dalla Ferrari: temevo avresti mangiato la foglia, se magari notavi che mancava la mia valigia o il mio borsone.”

 

“Ma… ma…” balbettò, non capendoci più niente, finché sentì il cellulare vibrargli in una tasca.

 

Lo estrasse e, come pensava, c’era un messaggio di Irene.

 

Goditi il viaggio a Matera, Calogiuri, e ricorda ad Imma che mi deve più di un favore e che, se non ti tratta bene, al ritorno se la vedrà con me. Ah, e di trattarmi bene pure la valigia che è quasi nuova.

 

“Ma… ma allora…” dedusse, incredulo, alzando lo sguardo verso Imma e mostrandole il messaggio, “eravate d’accordo? Ed il viaggio a Milano era… era solo una scusa?”

 

“Diciamo che… che volevo farti una sorpresa, Calogiuri, e non volevo rischiare che, nonostante l’arrabbiatura, organizzassi pure tu qualcosa per questo fine settimana. Sapevo che un viaggio di lavoro era l’unica soluzione per tenerti impegnato e quindi… ho chiesto un favore alla cara Irene, anche se credo me lo rinfaccerà a vita mo,” spiegò, leggendo il messaggio, “e comunque… il viaggio a Milano c’è veramente. Ma tra due settimane. La cara collega me lo ha preannunciato solo dopo che le ho chiesto il favore, ovviamente, che aveva intenzione di chiedertelo.”

 

L’espressione di Imma era uno strano misto tra soddisfazione e fastidio, probabilmente per la richiesta di Irene. Il rapporto che c’era tra alcune donne era una cosa che non avrebbe mai capito forse del tutto, e quello tra Imma ed Irene era uno di questi.

 

“E comunque rispondile che, con tutti i favori che le ho fatto durante il maxiprocesso, al massimo massimo siamo pari. Ma dopo che siamo saliti in corriera, che tra un po’ ci lasciano qua e ci tocca prendere quella notturna.”

 

“Imma…” sussurrò, ancora mezzo sconvolto e, prima di rendersene, conto la stava abbracciando più forte che poteva e lei rideva sul suo collo.

 

“Grazie… grazie…” le sussurrò, non riuscendo a trattenere l’emozione.

 

“Aspetta a ringraziarmi quando saremo tornati da Matera, Calogiuri, che non sarà facile, lo sai, vero?”

 

“Non mi importa. A me importa solamente di quello che pensi tu e che tu ne sia convinta,” sussurrò, staccandosi leggermente per prenderle il viso e guardarla negli occhi.

 

“Lo sono, Calogiù, lo sono. Ma mi viene il dubbio che non lo sia tu, visto che stai facendo di tutto per farci perdere questa benedetta corriera,” ironizzò, con un sopracciglio alzato.


“Fossi matto! Vieni!” esclamò, richiudendole la valigia a tempo di record, afferrando entrambi i bagagli con una mano, il braccio di imma con l’altra e correndo con lei verso il bus.

 

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Il suo respiro vicino all’orecchio le faceva solletico.

 

Alzò gli occhi ed ebbe conferma che Calogiuri alla fine si era addormentato, probabilmente esausto per le notti precedenti in cui entrambi si erano rotolati nel letto peggio di cotolette panate, non riuscendo a prendere sonno, presi da tutti i problemi ed i non detti.

 

Vederlo dormire era sempre un regalo per lei. Soprattutto quando era così tranquillo e quando lo faceva avvinghiandosi a lei, che altro che un koala!

 

Si sentiva soddisfatta come non mai della sorpresa che gli aveva organizzato. Sia perché era stata realmente una sorpresa per lui, nonostante Calogiuri nelle indagini ormai fosse veramente molto bravo, sia perché aveva ottenuto l’effetto sperato. Avevano passato tutto il tempo sulla corriera abbracciati stretti stretti, nonostante le occhiatacce di una vecchietta seduta nei posti affianco ai loro. E Calogiuri aveva un sorriso meraviglioso che non gli si levava dalle labbra, nemmeno nel sonno: sembrava veramente un bimbo la mattina di natale.

 

Ne era valsa la pena, pure di dover chiedere un favore alla gattamorta. Ma, visto che era tanto amica di Calogiuri, come si proclamava, non aveva potuto rifiutare, e così l’aveva praticamente costretta a contribuire alla sua riappacificazione con Calogiuri. Certo, la cara Irene le aveva estorto il silenzio assenso sulla trasferta milanese, non che si aspettasse di meno da lei, ma si sarebbe assicurata in quei giorni di dare a Calogiuri un sacco di buone ragioni per non avvicinarsi troppo alla cara collega nemmeno per sbaglio. Cosa che invece avrebbe forse rischiato, se fosse partito deluso ed arrabbiato come negli ultimi tempi, con quella che non aspettava altro e che sicuramente avrebbe fatto di tutto per metterglielo contro.

 

Si era presentata da lei in ufficio il venerdì precedente, di sera, sapendo che Calogiuri era impegnato con un’udienza per quel simpaticone di Santoro.

 

“Imma? Hai bisogno di qualcosa? Se cerchi Calogiuri è all’udienza con-”

 

“Con Santoro, lo so, Irene,” le aveva risposto, sforzandosi di non dare un’inflessione troppo sarcastica al nome di lei, per forza dell’abitudine di tutti i discorsi fatti con Calogiuri, “no, veramente volevo parlare con te.”

 

“Con me? E di che cosa? Se è per il maxiprocesso e l’appello, io-”

 

“Si tratta di Calogiuri,” aveva proclamato, godendosi l’espressione di stupore mista a panico della collega.

 

“Calogiuri?”

 

“Sì… gli sto organizzando una sorpresa per il nostro anniversario,” aveva esordito, non riuscendo a resistere dal sottolineare la parola anniversario.

 

“Ah sì? E quando sarebbe? E poi anniversario di che cosa? Della vostra relazione ufficiale o di quella… ufficiosa?” le aveva rimpallato la gattamorta, con uno dei suoi sorrisi migliori, nonché più finti.


“Un anno che stiamo insieme,” proseguì, imperturbabile - col cavolo che le dava soddisfazione!

 

“Beh, buon per voi, ma io che cosa c’entro? Dubito tu voglia fare una festa con altra gente, no?”


“No, no, per carità. Ma tra una settimana, venerdì, voglio prendere il pomeriggio libero per tutti e due, portarlo con me a Matera e stare via pure il lunedì. Ma gli voglio fare una sorpresa, quindi mi servirebbe che tu ti inventassi un impegno di lavoro per il fine settimana, in modo che Calogiuri si tenga libero e non organizzi nulla.”

 

“Matera, eh? E l’idea ti è venuta prima o dopo la reazione di Calogiuri quando ci sei andata per l’ennesima volta senza di lui, per il divorzio? Va bene che meglio tardi che mai, ma-”

 

“Ma che te ne frega a te di quando ho avuto l’idea, scusa?!” aveva esclamato, pentendosi già di aver fatto l’azzardo di parlargliene, “ma poi insomma… visto che siete così amici, dovresti essere contenta se lui è felice, o no? E sono sicura che questa sorpresa lo farà molto felice.”

 

Sì, era stato un po’ da stronza incastrarla in quel modo, ma Irene era la regina dell’incastrare la gente con la gentilezza a fare quello che voleva lei, quindi non si sentiva troppo in colpa.

 

“Lo spero, visto com’è ridotto negli ultimi giorni, che pare pronto per un film di Dario Argento! E comunque va bene, anche se in realtà non mi devo inventare poi granché. Volevo parlarne a Calogiuri tra qualche giorno: ho appena avuto la conferma definitiva da Mancini che posso fare una trasferta a Milano per… testare un po’ le acque sul nuovo avvocato assunto da Eugenio Romaniello. Volevo chiedere a Calogiuri di accompagnarmi. Immagino che pure tu sarai d’accordo, no, Imma? Visto che ti fidi praticamente solo di lui per questo caso.”

 

La lingua le rimase appiccicata al palato, non sapendo se essere più infastidita o più ammirata. Non c’era niente da fare: su queste cose la Ferrari era su un altro livello rispetto a lei, in stronzaggine non sarebbe mai riuscita a batterla.

 

Ma tanto non avrebbe comunque potuto opporsi a quel viaggio di lavoro ed almeno una prima vittoria l’aveva ottenuta lei.


E non sarebbe stata l’ultima! - si ripromise, tornando al presente quando, ad una curva, Calogiuri le finì ancora più addosso, schiacciandola quasi tra il sedile ed il finestrino.

 

“Imm- ma? Scusami, ti sei… ti sei fatta male?” bofonchiò, rimettendosi più dritto.

 

O almeno provandoci, perché fu il turno di lei di aggrapparglisi alla spalla.


“Dormiamo, dai, che in questi giorni devi essere in forze, Calogiuri,” gli sussurrò, sentendo il battito accelerargli lievemente sotto il suo orecchio.

 

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“Mi era mancata Matera! C’è un’aria diversa qua.”

 

“Non dirlo a me, Calogiuri!”

 

Camminavano fianco a fianco, ognuno trascinandosi dietro il suo trolley, nonostante si fossero già beccati molti sguardi curiosi da gente che conosceva di vista - per fortuna non abbastanza da doversi fermare a parlare.

 

Almeno fino a quando lei andò verso sinistra e Calogiuri verso destra ad un incrocio.

 

“Casa di tua madre non sta da questa parte?” le chiese, con uno sguardo confuso che le strappò un altro sorriso.

 

“Sì, casa di mia madre è da quella parte. Ma c’è un altro posto dove ti voglio portare, Calogiuri.”

 

“Che cos’hai in mente, dottoressa?” le domandò ed Imma quasi voleva saltare di gioia perché quel dottoressa, più di tutto il resto, segnalava che tra lei e Calogiuri non era solo tornato il sereno, ma molto di più.

 

“Seguimi e lo scoprirai. Veloce, dai, che è già tardi ed è buio ormai!”

 

“Mi mancavano pure i tuoi veloce a Matera, dottoressa. A rischiare di rompermi il collo sui sanpietrini per starti dietro!”

 

“Non ti lamentare, che mo ho la valigia e sono rallentata, Calogiuri, ma da domani si torna al mio solito ritmo!” gli gridò, già avanti a lui di parecchi passi, godendosi il modo in cui si affrettava per raggiungerla.

 

Camminò ancora per un po’, in silenzio, facendo strada, guardandosi ogni tanto indietro e vedendo Calogiuri sempre più frastornato.

 

Infine, girarono su una strada che sicuramente gli era familiare e lui disse, “ma qui c’era-”

 

“C’era e c’è ancora, Calogiuri.”

 

Si voltò e lo sguardo di lui passò dall’incredulità alla commozione.

 

“Vuoi dire che…?”

 

Continuò a camminare e si trovò davanti ad un uomo sulla sessantina, subito fuori da un portone che per tanto tempo aveva significato momenti di incredibile felicità e tranquillità, in mezzo ad una marea di sensi di colpa.

 

“Signor Di Lecce?” lo udì domandare, in un modo che le strappò un altro sorriso.


“Maresciallo, che bello rivederla! Dottoressa, ecco qua le chiavi. Ricordando quanto era ordinato il maresciallo non credo di dovermi raccomandare su come lasciare l’appartamento.”

 

“Eh, io sono un poco meno ordinata, signor Di Lecce, ma glielo lasceremo come uno specchio o quasi, vedrà,” rispose, riprendendosi quelle chiavi che aveva potuto tenere per troppo poco tempo.

 

E pure stavolta sarebbe stata solo una cosa a breve termine, ma almeno il rapporto con Calogiuri non lo era più e sperava non lo sarebbe stato mai più.

 

“Buona serata e buon riposo che la corriera non perdona!” esclamò l’uomo, avviandosi a passo svelto dall’altra parte della strada.

 

“Imma…” le mormorò sul collo e si sentì abbracciare da dietro.

 

“Dai, entriamo, Calogiuri. Fai tu strada, che sicuramente ti ricordi qual è la chiave giusta meglio di me?” gli domandò, porgendogli il mazzo di chiavi.

 

Le fece un altro sorriso da scioglimento e, in pochi istanti, erano su quell’ascensore che aveva segnato alcuni dei momenti più belli e più brutti dei loro mesi di clandestinità a Matera.

 

Calogiuri aprì la porta ed accese la luce. Imma non perse tempo ad infilarsi nell’appartamento, come ai vecchi tempi.


“Ma… ma…”

 

“I mobili sono ancora i tuoi, Calogiuri, c’è qualche piccola differenza ovviamente, anche perché non ci stanno tutte le tue cose, ma… a quanto pare l’appartamento è sfitto da un paio di mesi, quindi… ne ho approfittato.”

 

“Ma… ma…”

 

“Che ti sei incantato, Calogiù?”

 

“No… è che… come ti è venuto in mente di….” continuò a balbettare e pareva sull’orlo delle lacrime.

 

“Non so… sarà che… mi sono sentita molto più a casa qua con te che… tutti i mesi a casa di mia madre,” proclamò, aggiungendo, per stemperare la commozione, “e poi almeno qui possiamo sfruttare tutta la casa.”

 

Si trovò sollevata da terra in un abbraccio a morsa e poi si sentì sussurrare all’orecchio, “e per fare che cosa, esattamente?”

 

“Tutto quello che vuoi, Calo-”

 

Non riuscì nemmeno a finire la frase prima di finire sul divano, avvinghiata in un bacio che fu un secondo ritorno a casa, dopo tanti giorni di freddo tra loro.

 

Ma mo altro che calore… si sentiva quasi in fiamme ovunque lui toccasse, il cuore che rimbombava nelle orecchie, mentre entrambi lottavano per levarsi gli indumenti.

 

“Vuoi fare... un remake... della nostra prima volta, Calogiù?” riuscì soltanto a dire, prima che lui le levasse il vestito da sopra la testa.

 

“Non proprio: ho molta più esperienza di allora, dottoressa,” rispose, con lo sguardo da impunito, ed era verissimo: il Calogiuri di due anni prima sarebbe morto di vergogna a dirle una cosa del genere.

 

“Sarò io a giudicare, Calogiuri, quindi applicati che poi ti dò la valuta-”

 

La parola si sciolse sulle labbra di lui. E poi le usarono entrambi per fare di tutto tranne che parlare.

 

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“Ci alziamo, Calogiù? Che c’abbiamo ancora il letto da fare.”

 

Avevano nuovamente battezzato almeno la zona giorno della casa, tra il divano, il tavolo ed il muro.

 

Del resto, dopo settimane di astinenza, la passione era esplosa senza freni.

 

“Possiamo farlo pure dopo,” rispose lui, con tono assonnato ed un po’ pigro, solleticandole la spalla con un soffio ed un bacio.


“Calogiuri… se andiamo avanti così il signor Di Lecce non sarà felice di avermi lasciato la casa e ci farà pagare il rinnovo dei mobili.”

 

“Se non si sono distrutti due anni fa non lo faranno stasera, dottoressa.”


“Abbiamo altre due notti oltre a questa, Calogiuri, si torna lunedì sera,” gli ricordò, voltando il capo per guardarlo negli occhi, e pareva uno a cui avevano appena annunciato di aver fatto sei al superenalotto.

 

“E va beh… vorrà dire che cercherò di contenermi, ma non garantisco,” ribatté, dandole un altro bacio e poi, facendosi più serio, le chiese, “ma come lo hai trovato il signor Di Lecce?”

 

“Calogiuri… lo sai che a Matera ho le mie conoscenze e pure la sede locale dei servizi segreti.”

 

“La signora Diana?”

 

“Eh, chi altri se no?! Che, se aspetto l’amico tuo, figurati che trovo!”

 

“Povero Capozza… anche se per come ti ha quasi fatta sfracellare al suolo un poco se lo merita.”

 

Rimase ammutolita per un attimo: sembrava una vita precedente, quando avevano scoperto il cadavere di Giulio Bruno. Ed invece non erano passati nemmeno due anni….

 

“Che c’è? Ti ricordi della caduta?”

 

“No, ma mi ricordo di te che mi hai presa al volo, come sempre!” rispose, girandosi del tutto ed attaccandosi al suo collo, “a parte quando quasi ci facevi sfracellare sulla valigia con le provviste di mamma tua.”

 

Manco l’avesse invocato, parlando di cibo, sentì l’inconfondibile lamento dello stomaco di Calogiuri e le venne da ridere.


“Non c’ho il ben di dio che ti faceva mamma tua, Calogiù, ma il signor Di Lecce qualcosa nel frigo dovrebbe avermela lasciata.”

 

Si sciolse dall’abbraccio e camminò verso la zona cucina, sorridendo sotto i baffi al, “se mi giri nuda per casa altro che mangiare!” decisamente frustrato che la raggiunse.

 

“Allora… qua ci stanno spaghetti, pomodorini, olive, basilico e dei nodini. Pensi anche tu a quello che penso io?” gli chiese, girandosi e trovandolo già a pochi passi da lei.

 

“Spaghetto dell’appuntato?” domandò con un sorriso quasi commosso.

 

“E caprese. Lo spaghetto lo fai tu, la caprese la faccio io.”

 

“Agli ordini! Ma prima rivestiti che mi distrai!”

 

“Guarda che sei tu più a rischio di me a cucinare nudo, che almeno la caprese è fredda!”

 

“Imma!” ruggì - mentre lei andava a recuperare il vestito abbandonato sul pavimento - in un modo che le fece intuire che sarebbe stato un pasto molto ma molto veloce.

 

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“Buongiorno!”

 

“Mmm… ma che ore sono?”

 

“Le undici. Ti ho portato la colazione. Il mio solito bar c’è ancora,” annunciò, piazzando un vassoio sul letto.

 

“Cappuccini, bombolone alla crema e… quello è il tuo cornetto all’arancia?” gli domandò con un sorriso, sentendosi realmente proiettata indietro di un anno.


“Eh, pure quelli mi erano mancati, non sai quanto!”

 

“Ah, mo ho capito perché insistevi tanto per tornare a Matera! Per i cornetti!” scherzò, prima di allungarsi per scoccargli un bacio sulle labbra, “e comunque pure a me sono mancati, soprattutto baciarti dopo che li hai mangiati.”

 

“Allora provvedo subito!” esclamò, prendendosene un bel morso, per poi torturarle le labbra con le sue.

 

Il sapore era pure meglio di come lo ricordava.

 

“Dai, Calogiù, che se andiamo avanti così i cappuccini ci diventano gelati.”

 

“Sei tu che provochi sempre! Non dare la colpa a me!”

 

Sorrise e si prese il suo bombolone alla crema. Quanto amava il cibo di quel bar e, in generale, tutto di quell’appartamento, forse anche perché ci erano legati dei ricordi incancellabili.

 

“Che vuoi fare oggi, se riusciamo ad uscire da qua?”

 

“Ci manca che non usciamo da qua, Calogiù, con tutte le storie che hai fatto per venirci a Matera!” rispose e lui sorrise e scosse il capo, con quella felicità contagiosa che amava così tanto, “e comunque domani e lunedì mattina, che il pomeriggio si riparte, facciamo tutto quello che ti pare a te. Oggi però avrei già un paio di cose in mente.”

 

“Tipo?”

 

“Tipo che spero che tu non abbia messo in valigia solo abiti eleganti per fare bella impressione sulla cara Irene e sui meneghini, perché mo c’è un po’ da camminare. Mi sono portata perfino le scarpe da ginnastica prese a Maiorca, quindi….”

 

“Quindi stasera avrò i piedi distrutti, ho capito. Ma dove vuoi andare esattamente?”

 

“Voglio farti visitare Matera, Calogiù, sia i luoghi storici più per i turisti - che scommetto per la maggior parte non c'hai mai avuto il tempo di vedere - sia… una prospettiva diversa sulla città, di chi la conosce da ahimé troppi anni rispetto a te.”

 

“Quindi mi fai da guida?”

 

“E certo! Gratis, solo per oggi. Però dobbiamo muoverci, che lo sai che questa guida c’ha poca pazienza. E poi… e poi stasera ho prenotato un ristorante, quindi ti tocca il vestito buono, Calogiù, e pure le scarpe. Cerca di preservare i piedi.”

 

“Agli ordini!" esclamò, prima di stamparle un terzo bacio al sapore d’arancia e caffè.

 

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“E dai, Calogiuri, forza, che qua si fa notte tra un po’!”

 

La seguiva mentre scendeva un vicolo a scalini dei Sassi. Erano appena stati a visitare le chiese rupestri di Santa Lucia alle Malve, Santa Maria De Idris e San Giovanni In Monterrone e stavano percorrendo il Sasso Caveoso, in direzione del Sasso Barisano.

 

“Senza tacchi starti dietro è una sfida persa in partenza!”

 

“E meno male che corri tutte le mattine o quasi, Calogiù!”

 

“Sì, ma evidentemente fare le scale sui tacchi funziona di più per tenersi in allenamento!”

 

Si voltò e lo attese, sentendo dalla voce che era stanco: i Sassi tra salite e discese non perdonavano.

 

“Dai, che ci manca ancora almeno un posto da vedere. Non è un’altra chiesa, tranquillo.”

 

“Ma non dirlo nemmeno per scherzo: erano bellissime! Grazie per avermici portato, le avevo soltanto viste da fuori e alcune nemmeno quello,” rispose, raggiungendola, con un poco di fiatone.

 

“Bene. Questo posto invece penso proprio che tu non l’abbia mai visto nell’esercizio delle tue funzioni e non credo nemmeno in privato, se non mi sono persa qualche cosa.”

 

Lo vedeva che era curioso e lei sentiva una strana sensazione in pancia, un’attesa che virava dall’emozione all’ansia.

 

Risalì per stradine sempre più familiari, i passi di Calogiuri che la seguivano a ritmo con i suoi, finché finirono in un cortiletto, circondato da alcuni ingressi nella pietra, che davano su altrettante abitazioni nel tufo.

 

Indicò verso l’entrata centrale alla loro destra e disse, uno strano miscuglio di orgoglio e imbarazzo nel petto, “lì è… è nata mia madre, Calogiuri. E ha vissuto qua fino a che li hanno sfollati verso le case popolari, che già tredici anni teneva.”

 

“Imma….”

 

Incrociò i suoi occhi, lucidissimi, talmente tanto che brillavano sotto il sole.

 

“Di solito è chiuso, ma oggi sono riuscita a farmelo aprire dal custode: sai qua è ancora proprietà del demanio, non lo hanno modificato più di tanto. Dovrebbe essere qua a momenti.”

 

“Dottoressa, sto già qua! Conoscendola sono arrivato in anticipo!”

 

Giuseppe Nicoletti, un ometto basso e dalla pancia prominente, oltre ad una stempiatura che ormai gli arrivava quasi in cima alla testa, uscì proprio da quella porta.

 

“Sono entrato per accertarmi che fosse in buono stato, che se vi fate male chi vi paga?”

 

“Tranquillo, signor Nicoletti, il maresciallo ed io siamo andati in posti ben più pericolosi di questo.”

 

“Eh, ma… vedere queste abitazioni, quelle non ancora ristrutturate, fa capire quanto siamo fortunati, dottoressa. In quanti erano nella famiglia di sua madre?”

 

“Sette figli ebbero i miei nonni, ma alla vecchiaia solo mia madre ci è arrivata. Ci sono stati al massimo in sei in quella casa, più il mulo e le galline,” spiegò, rivolta al custode tanto quanto a Calogiuri, che pareva sempre ad un soffio dallo scoppiare in lacrime.

 

“Quindi tre sono morti da piccolissimi, dottoressa?”

 

Almeno sapeva fare i conti Nicoletti.

 

“Sì, nel primo anno di vita.”

 

“Pure mio padre veniva da una situazione simile, dottoressa, ma mia nonna otto figli ha avuto. Vi lascio alla visita, quando avete finito sto al bar accanto alla casa cisterna, che qua oggi al sole fa caldo. C’avete presente, no?”

 

“Sì, Nicoletti, c’ho presente. A dopo allora!”

 

Nicoletti si avviò a passo un po’ claudicante, sparendo presto dalla loro vista.

 

“Imma….”

 

“Sei tornato col disco rotto, Calogiù?” lo sfottè, per stemperare un po’ l’atmosfera quasi solenne.

 

Lui scosse il capo, tirando su col naso, e lei gli fece strada, prima che potessero mettersi a piangere entrambi senza concludere niente.

 

Lo aveva visto solo una volta quel buco di casa, parecchi anni prima, quando sua madre aveva iniziato ad avere la demenza e - contravvenendo alla sua regola di non chiedere mai niente per non dovere favori a nessuno - era riuscita ad avere, tramite il suo amico che lavorava al museo, il permesso di portarcela, prima che la memoria se ne andasse del tutto.

 

A parte la polvere, che la fece tossire, era buio, lungo, stretto e claustrofobico come se lo ricordava, pure senza mobili.

 

“Qua dentro… ci vivevano in sei?” mormorò Calogiuri, la voce che gli si spezzava, mentre entrambi facevano luce col cellulare.

 

“Quattro bambini, due adulti, più mulo e galline d’ordinanza, Calogiuri. Facevano i contadini e questo tenevano.”

 

“Se penso alla casa dei miei genitori… ma pure dei miei nonni… mi pare una reggia a confronto e siamo sempre stati poveri. I miei nonni, mio padre e le mie zie dormivano tutti nella stessa stanza. Ma non avevano solo quella stanza… e… come respiravano qua dentro?”

 

“Male, Calogiuri, male. Infatti tra l’umidità, la mancanza d’aria e sole… quasi quattro bambini su dieci morivano piccolissimi. Mia mamma non mi ha mai voluto raccontare esattamente com’erano morti i suoi fratelli e sorelle, ho dovuto scoprire la data di morte per conto mio. Certe cose non me le diceva perchè si intristiva e… e così la loro memoria è stata persa per sempre. Come in quel film della Disney che mi hai fatto vedere, Calogiù.”

 

Si trovò nuovamente sollevata da terra - senza tacchi la sovrastava ancora di più - ed abbracciata in un modo che rese impossibile non cedere alle lacrime.

 

“Grazie…” sentì mormorare, mentre le baciava il collo con una delicatezza assurda, che peggiorò la commozione, “ora capisco ancora di più tante cose e… ci hai mai portato Valentina?”

 

“No, mia madre non voleva, si vergognava. Pure io ci sono stata solo una volta con lei, da sole. Sai, la famiglia di… di Pietro era benestante in confronto alla nostra e… mia madre non voleva che vedessero in che condizioni vivevano qua.”

 

“Quindi… a parte te e tua madre… sono il primo che-”

 

“Che mette piede qui, Calogiuri, sì. Ma so che tu… che tu puoi capire, fino in fondo, che significa.”

 

“No, pensavo di poter capire tua madre e te ma… pure io risparmierei i centesimi se fossi cresciuto in un ambiente così. E capisco perché… perché tua madre era tanto esigente con te, anche se non era giusto. Ma dovresti farlo vedere a Valentina, prima che lo restaurino.”

 

“Forse… magari mi risparmierei qualche battuta sulla tirchiaggine. Ma già mia madre mi ha cresciuta a pane e senso di colpa, e pure io tante volte con Valentì ho rischiato di fare lo stesso errore,” ammise, staccandosi leggermente da lui per asciugare le lacrime e vedendo che faceva lo stesso.


“Grazie e… e scusami se… sono stato uno stupido nelle ultime settimane, ma-”

 

“Calogiuri, tu c’avevi… c’avevi ragione che… che fosse giusto che… che ti facessi entrare in tutta la mia vita e non solo nella… mia vita nuova con te. E la persona che sono diventata parte da qua e… ed è giusto che lo sapessi e forse… era giusto che me lo ricordassi pure io. Però mo andiamo, che c’è ancora un posto dove ti voglio portare.”

 

“Mi basteranno i fazzoletti, o rischio di andare a cena conciato peggio di uno uscito da uno spot contro la droga, dottoressa?” le chiese, sfregandosi gli occhi e le guance per asciugarle del tutto.

 

“Tra le occhiaie e gli occhi rossi non garantisco, Calogiuri, ma tanto di clienti con… problemini… ne avranno visti parecchi al ristorante dove andremo.”

 

“Ma dobbiamo fare una cena o un’indagine, dottoressa?”

 

“Cena, Calogiuri, cena. Dai, forza, che dobbiamo pure riconsegnare le chiavi a Nicoletti, prima che si mangi tutto il bar!”

 

Si sentì prendere sottobraccio ed uscirono insieme, respirando a pieni polmoni l’aria che non le era mai sembrata tanto pulita.

 

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“Ma questo è….”

 

“Sì, è il quartiere di Serra Venerdì, Calogiuri. Vieni che ci siamo quasi."

 

Arrivò di fronte ad un palazzone di case popolari molto familiare: bianco, anche se un poco ingrigito dal tempo, le scale esterne che salivano come un serpente e tanto cemento.

 

"Qua sono nata e cresciuta io invece, Calogiuri. Là al terzo piano c’era l’appartamento dei miei nonni materni, che lo avevano ricevuto dopo lo sfollamento dai Sassi. E che poi è passato a mia madre. Per un po’ di anni ci abbiamo vissuto tutti insieme, anche con mio padre, visto che i miei nonni paterni erano messi pure peggio ed avevano un appartamento ancora più piccolo. Qua però non possiamo entrare, che non so chi ci viva ora.”

 

Si sentì stringere forte da dietro alla vita e si lasciò andare, appoggiandosi al petto di lui.

 

“Grazie….” le sussurrò di nuovo: quel giorno era veramente un disco rotto Calogiuri, ma lo capiva e non poteva non emozionarsi pure lei di quanto lo fosse lui.

 

“Quindi… in questo giardino ci giocavi tu da piccola?” le chiese, indicando con una mano le aiuole ed i pochi alberi di fronte al condominio.

 

“Sì, anche se andavo pure spesso verso i Sassi e giù al fiume, quando ero un poco più grande. Ma… quasi sempre da sola, in disparte dagli altri bambini. Pure allora faticavo tanto a fare amicizia, Calogiuri. Anzi, pure più di oggi, forse.”

 

Un bacio vicino all’orecchio che le diede un brivido, stava per girarsi per dargli un bacio vero, quando una voce arrochita dal tempo esclamò, “Immacolat’? A’ fuggh d’ Vrìnella e d’ Rocchì Tataranni?!”

 

Notò una vecchietta, incurvata dal tempo, che poteva avere più o meno l’età che avrebbe avuto la buon’anima di sua madre se fosse stata ancora viva. Calogiuri la lasciò andare immediatamente. Vedeva persino con la coda dell’occhio che era un poco imbarazzato e le venne da sorridere: certe cose per fortuna non cambiavano mai.

 

“Sì, signora, lei invece è...?”

 

“Vrìn Paolicelli, a momm d’ Gianvito e Melina.”

 

Spalancò la bocca, riconoscendo in quei lineamenti segnati dal tempo una delle vicine di sua madre, l’ennesima Bruna, che a quell’epoca in tantissime si chiamavano così. Di Gianvito, nonostante il nome particolare, aveva pochi ricordi, era più grande di lei di qualche anno. Di Carmela detta Melina, invece, purtroppo, si ricordava benissimo.

 

“Assà era che non apparàscev’ ddàj! Da’quonn vanndiste ches!”

 

“Eh, sì, signora, dopo che abbiamo venduto la casa di mamma sono tornata qualche volta per lavoro ma… ci siamo trasferite più in centro. E poi mo in realtà sono un po’ di mesi che vivo a Roma.”

 

“N’zèmm affdèt tìj! U carbnìr! Bèll assà è! V’addjvsè n’ televisione,” esclamò la signora, rivolgendo a Calogiuri uno sguardo che definire di apprezzamento sarebbe stato riduttivo: se lo ammirava manco fosse un attore dei film.

 

Calogiuri le fece un cenno, chiaramente confuso dal dialetto stretto materano, che non aveva mai imparato.

 

“Dice che mi sono trasferita con il mio fidanzato che fa il carabiniere ed è bello assai. Che c’ha visto in televisione,” spiegò, facendogli l’occhiolino, per poi rivolgersi alla signora, “e c’avete ragione, c’avete, signora.”

 

“Brèv! Dalla’bbìndìch! Tàness’ l’età tij!”

 

Le venne da ridere: hai capito la signora Bruna?

 

“Dice che ho fatto bene e che se avesse la mia età, pure lei…” spiegò a Calogiuri, che divenne quasi fosforescente nel giro di pochi secondi.

 

“Mà, mà, addò stai?”

 

La signora si voltò verso una donna pure lei un poco incurvata. La riconobbe a fatica: il volto, una volta tanto bello, era segnato già da profonde rughe, sebbene non avesse nemmeno cinquant’anni, ed il fisico sformato, forse dalle gravidanze, sicuramente da una vita non certo priva di fatiche.

 

“Imma Tataranni?”

 

“Melina…” rispose, anche perché l’espressione dell’altra donna era tutt’altro che amichevole.

 

“Che ci fai accà?”

 

“Due passi, Melì,” rispose, stando sul vago, perché non erano affari suoi. Vide che tutta l’attenzione di lei si spostò su Calogiuri ma, a differenza della madre, lo guardava in un modo che pareva quasi rabbioso.

 

“Ah, il tuo nuovo fidanzatino ti portasti. Cos’è, vuoi fargli vedere che vita disgraziat’ tànev’, che noi anghèr tàniam’?” le sibilò, amara, ed Imma, pur nel fastidio, la capì forse per la prima volta, perché probabilmente avrebbe provato lo stesso al posto suo.

 

Nella ritrosia, ereditata da sua madre, a rivisitare - letteralmente e figurativamente - il suo passato, c’era non solo un senso di vergogna per le proprie origini, ma pure una specie di senso di colpa verso chi non era riuscito a migliorare la sua vita ed era rimasto lì a lottare per arrivare a fine mese con il pane in tavola.

 

“Che accà non tàniam’ u temp’ e la ferz di farci u’ toyboy!”

 

Calogiuri, da fosforescente che già era, indurì i lineamenti in un’espressione infastidita, ma lei gli fece un cenno come a dire che andava tutto bene. Certo, sapere che l’espressione toyboy, pure grazie a loro, fosse stata sdoganata tra chi parlava più il dialetto materano che l’italiano non era una cosa che avrebbe mai pensato di vedere nella sua vita.

 

“Pure io c’ho i miei impegni, Melì, e Calogiuri è tutto tranne che un giocattolo, anzi uno sc’quaril, come si diceva una volta.”

 

“Ah, allora m’nzen a tutte le tue parole da gran signora, u’ dialètt anghèr t’o ricordi.”

 

“Certo che me lo ricordo, Melì. Mi ricordo bene tutto ciò che è successo qua,” le rispose, con un’occhiataccia eloquente, di quelle che facevano tremare i malviventi.

 

Melina invece, pur rimanendo per un attimo presa in contropiede, evidentemente sapendo a cosa si riferisse, si riprese molto in fretta, tornando ad una maschera di indifferenza.

 

Melina era stata una delle bimbe e poi delle ragazzine più belle del quartiere, sicuramente la più bella del condominio. Imma invece era sempre stata quella strana, che tutti prendevano in giro o per i ricci, o perché da bimba era un poco tracagnottella, e poi crescendo perché se ne stava per conto suo e le piaceva studiare. Melina e le sue amiche tante gliene avevano fatte passare, facendole spesso scherzi di pessimo gusto. Come una volta che le avevano messo un messaggio nella buca delle lettere, fingendo che fosse di un ragazzo del quartiere che le piaceva tanto ma poi, quando si era presentata all’appuntamento, con l’unico vestito decente che aveva, ci aveva trovato loro. L’avevano derisa fino a farla scappare per non far vedere loro che stava piangendo.

 

Solo che poi lei, a furia di studiare, aveva trovato un buon lavoro e fatto carriera. Melina, che si era fermata alla terza media, si era sposata a diciasett’anni e a diciotto aveva cominciato a sfornare figli, tra un lavoro di pulizie e l’altro. Aveva avuto una vita decisamente molto dura.

 

Quando faceva incontri come quello, che sembravano davvero appartenere ad un altro mondo rispetto anche solo alla Imma del liceo, le pareva di essere dentro la canzone Un Giudice di De Andrè. Solo che, per quanto la Tataranni fosse considerata da tutti una stronza, non era stronza fino a quel punto. E, se da un lato Melina aveva un poco raccolto quello che aveva seminato - e pure se all’epoca l’aveva detestata e non cordialmente - d’altro canto era difficile prendersela con a chi nella vita le era toccato un fazzoletto di terreno duro, riarso ed infertile sul quale provare a seminare. Soprattutto rispetto a chi magari si era trovato una distesa di campi sterminata e pure un giardiniere, per risparmiargli il lavoro.

 

“Nun me pare, che manco tàness’ a vrivègn di fatt’ bdè con un' che tàne l’età di mì fuggh!”

 

“Melì!” la rimproverò sua madre, anche se, fatti due conti, effettivamente ormai il primo figlio di Melina doveva avere giusto giusto un anno in meno di Calogiuri.

 

“Non fa niente, signora. E no, non me ne vergogno, affatto, anzi, visto che non è mio figlio ma il mio fidanzato, che stiamo su suolo pubblico e non facciamo male a nessuno,” rispose, decisa, pure mentre si chiedeva perché le signore oltre ad una certa età sembrassero paradossalmente reagire meglio alla storia sua e di Calogiuri di quanto facessero le sue coetanee, “mo leviamo il disturbo però. Signora Bruna, è stato un piacere rivederla. Melì con te un po’ meno, ma non ci siamo mai prese noi due. Stammi bene!”

 

Si voltò e fece un cenno verso Calogiuri che, dall’espressione scura, aveva faticato un poco a seguire il discorso ma a grandi linee lo aveva capito.

 

“Signora, è stato un piacere pure per me, purtroppo il dialetto di Matera non lo capisco molto bene, ma cercherò di farmelo insegnare,” si congedò Calogiuri con un sorriso e poi si rivolse a Melina, con il tono e lo sguardo che aveva molto raramente, quando ne stava per combinare una, “e comunque mi dispiace che abbiate questi pregiudizi, signora Melina, ma sono sicura che vostro figlio, se ha la mia età, invece mi capirebbe molto bene, visto che da Imma è impossibile non rimanere affascinati.”

 

La povera Melì aprì e chiuse la bocca, che pareva un pesce. Imma lottava tra lo sconvolgimento e la voglia di scoppiare a ridere, mentre la signora Bruna rise e basta, proclamando un, “chep’tust tànite. Stat’ ben’ ‘nzèmm! Jiòmm’n, Melì!”

 

Si prese la figlia sotto braccio, che ancora pareva l’imitazione di un pesce rosso, mentre Imma afferrò la mano di Calogiuri e lo trascinò via con sé. Fatti pochi passi e girato l’angolo, non potè fare a meno di cedere alle risate.

 

“Calogiù, ma come… ma come ti è saltato in mente?!” gli chiese, una volta ripreso un attimo di fiato

 

“E va beh… dottoressa, me lo hai insegnato tu che la migliore difesa è l’attacco, no? E poi non volevo fare la figura da toyboy zitto e muto, pure se capivo poco. Ma tra l’altro che ha detto la signora Bruna alla fine?”

 

“Che teniamo la capa tosta tutti e due, Calogiù e che stiamo bene insieme. E c’ha ragione, a parte quando ci impuntiamo tutti e due e ci teniamo il muso,” sospirò e si sentì stringere più forte la mano, ma poi Calogiuri gliela lasciò e le mise direttamente il braccio intorno alle spalle, stringendola ancora più a sé.

 

Calogiuri, come lei del resto, aveva proprio imparato a rispondere a tono con gli anni e con l’esperienza, anche se si capiva che ancora faticava, perché nella sua educazione ed un po’ nella sua natura c’era essere cortese, gentile e per questo accondiscendente. Ma il carattere era tosto, quando sentiva di stare subendo un torto.

 

Forse… forse se la sarebbe cavata pure meglio del previsto, se fossero tornati a Matera, anche se la carriera di lui esigeva una città più grande e lo sapevano entrambi.

 

“E mo dove mi porti, dottoressa?”

 

“A casa, cioè, a casa tua, Calogiù, che ci dobbiamo preparare per cena e-”

 

“Attenti!”

 

Si trovò con una cosa bianca a pochi centimetri dal viso, seguita da una macchia rosa e dal rumore di un impatto.

 

Le ci volle un attimo per rendersi conto che si trattava di un pallone, che le era quasi arrivato addosso, e che Calogiuri aveva per fortuna deviato con la mano.

 

“Scusate! La palla è nostra, ci è sfuggita!

 

Due bambini biondi corsero verso di loro, mentre un altro bimbo, una bimba dai capelli scuri ed una dai capelli rame rimasero più indietro.

 

Li riconobbe immediatamente, pure se erano passati più di due anni ed erano un po’ cresciuti: i gemelli del caso di Stacchiuccio.

 

Quando arrivarono a poca distanza, allungando le mani per cercare di prendere il pallone che Calogiuri nel frattempo aveva preso sotto braccio, si bloccarono con uno sguardo che le fece capire che pure loro l’avevano riconosciuta e parvero a disagio.

 

Scambiò un’occhiata con Calogiuri: nemmeno lui li aveva dimenticati e del resto sarebbe stato impossibile, sia per quanto li aveva colpiti quella storia terribile, sia per tutto quello che era successo tra loro in quei giorni.

 

“Dovete fare più attenzione però con la palla. Perché non giocate nel campo che è recintato e che sta qua vicino, se non ricordo male, invece che in piazza?” domandò loro Calogiuri, porgendo il pallone.

 

“Perché ci sono dei ragazzi più grandi e quindi non ci possiamo entrare,” rispose uno dei due gemelli, prendendo la sfera anche se con un poco di diffidenza, “e poi è colpa di Nicolas che voleva fare il cucchiaio e non ci riesce, che la palla gli parte troppo veloce!”

 

Guardò il ragazzino che era rimasto indietro ed era effettivamente Nicolas, anche se con una pettinatura diversa. Sembrava quasi impietrito. Le bimbe erano Brunella ed un’altra che avevano già visto ma di cui ignorava il nome.

 

“Il cucchiaio? Come Totti?” chiese Calogiuri, avvicinandosi a loro con gentilezza, “Nicolas, perché non provi con me, che sono più alto? Ma non è un tiro facile.”

 

“Ma tu giocavi a calcio?” gli chiesero i gemelli, mentre Imma osservava ancora incredula.

 

“Da ragazzino nei campetti di quartiere o a scuola, niente di professionale. Dai forza, Nicolas!”

 

Il bimbo si riprese il pallone, un poco dubbioso, ma poi si posizionò davanti a Calogiuri - che si era piazzato volutamente lontano da qualsiasi cosa di anche solo lontanamente frangibile - e provò a fare il tiro.

 

La palla schizzò in alto ma Calogiuri la prese al volo.

 

“Il cucchiaio lo devi tirare col collo del piede, cioè questa parte qua,” fece vedere a Nicolas, ridandogli il pallone, “ma guarda che è davvero difficile da fare e tu a tirare sei bravo, hai molta forza nelle gambe. Anche se è meglio che la usi nel campo e non in piazza.”

 

“Sì…” rispose il bimbo, con un sorriso.


“Dai, proviamo ancora qualche volta, ti dispiace, Imma?” chiese, rivolto a lei, ma Imma era già talmente sciolta che altro che dispiacersi.

 

Lo guardò mentre facevano altri tiri ed altre parate e, ancor prima che alla fine Nicolas riuscisse a fare una specie di cucchiarella un poco storta, il risultato era stato raggiunto: i bimbi sembravano nuovamente tranquilli e a loro agio.

 

“Mo però ve lo devo rubare, che se no arriviamo tardi a cena,” intervenì alla fine, avvicinandosi a lui, perché i bambini non lo mollavano più - non che non li capisse!

 

“Sì, scusatemi ragazzi, sarà per un’altra volta,” rispose Calogiuri, rivolgendole un sorriso meraviglioso - come faceva a farne di così belli ogni volta non lo avrebbe mai capito! - e ridando la palla proprio a Nicolas.

 

“Ma voi due siete quelli che si sono fidanzati, che c’erano le foto sui giornali e in televisione? Perché mia mamma ne parlava col mio babbo!” si inserì Brunella, che era come sempre la più sfacciata del gruppo, insieme ai gemelli, mentre la bimba mora li guardava con occhioni curiosi ma intimiditi.


“Eh sì, ci siamo fidanzati. Che uno che usa così bene il cucchiaio sia a calcio che in cucina, mica me lo potevo lasciar scappare, no?” ironizzò e vide che Calogiuri si toccò la nuca, un poco imbarazzato.

 

“Ma cucinare è roba da femmine!” proclamò scandalizzato uno dei gemelli ed Imma sospirò: pure la nuova generazioni di madri italiane stava tirando su figli maschilisti. Per non parlare dei padri.

 

“Guarda che i maschietti che sanno cucinare piacciono tantissimo alle donne, vanno a ruba. Quindi, se vuoi avere successo quando sarai grande, è meglio che impari, vero ragazze?” chiese rivolta alle due bimbe, che risero.

 

“Ma tu non sei più grande di lui? Anche se siete tutti e due già vecchi!” pronunciò Brunella, impietosa, e per la prima volta le venne di nuovo da sorridere: eh certo, con dei bimbi di quell’età perfino Calogiuri doveva sembrare quasi con un piede nella fossa!

 

“Sì, ma dopo una certa età la differenza non conta tanto, conta solo se si sta bene insieme. Però, se prima che c’avete minimo minimo diciott’anni, ma diciamo pure venticinque, vi si avvicina qualcuno molto più grande che vuole stare con voi, scappate a gambe levate e se serve chiamate pure la polizia, chiaro?” specificò, soprattutto rivolta alle due bimbe.

 

“Tanto a me i vecchi non piacciono!” rispose Brunella, implacabile, mentre l’altra bambina sembrò intimidirsi ancora di più.

 

“E allora stai a posto, stai. Noi mo andiamo veramente, però!” concluse, rivolgendosi a Calogiuri, il cui sorriso si era trasformato in quello sguardo mezzo esasperato che adorava.

 

Se lo riprese sotto il braccio e, tra i saluti dei bambini, si allontanarono dalla piazza.

 

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“Che c’è, Calogiuri?” gli chiese, perché si era bloccato ad un passo dalla porta del ristorante.

 

“Ma… ma questo….”

 

“Lo so, Calogiuri, e per inteso offro io stasera, mi sono messa già d’accordo con il proprietario del ristorante, quindi non ci provare nemmeno.”

 

“Ma… ma… cioè… non è da te venire in un posto simile, Imma!” mormorò, manco l’avesse portato in uno strip club.

 

In effetti era pure peggio: se dallo strip club uscivi spennato, da questo ristorante manco la pelle ti rimaneva.

 

Ma, capo primo, dovevano ancora festeggiare divorzio ed anniversario come si doveva, capo secondo, era uno dei ristoranti più in di Matera ed il sabato sera c’era mezza città che contava.

 

“Almeno ti leverai dalla testa che mi vergogno di te, Calogiuri. Domani tutti sapranno che sei stato qua con me.”

 

Calogiuri le fece un sorriso enorme, sussurrandole, “tu sei tutta matta!”, ma poi si rabbuiò un attimo.


“Che c’è?”

 

“Che ora di domani sapranno pure tutti che hai pagato il conto, se vuoi offrire tu, e farò ancora di più la figura del toy boy mantenuto.”

 

Normalmente non gli avrebbe dato peso, lanciandosi in proclami sull’emancipazione femminile e sul fatto che fosse perfettamente legittimo che chi invitava e sceglieva il ristorante pagasse il conto. Pure lui l’aveva fatto molte volte.

 

Ma la verità era che c’aveva ragione e non lo faceva per maschilismo, ma perché conosceva benissimo i materani.

 

“Allora mo ti dò i soldi e poi fai il gesto di offrire tu, va bene?”

 

“No, offro veramente io e poi al massimo massimo facciamo a metà. L’anniversario è di tutti e due o sbaglio? E tu hai già offerto il viaggio in Spagna.”

 

“Ma tu avevi già offerto il precedente anniversario, Calogiuri!”

 

“Non cose costose come questo ristorante più il viaggio andata e ritorno Roma - Matera e l’affitto della casa.”

 

“Calogiuri, va bene, ma a metà, che sei giovane e non puoi buttare tutti i tuoi soldi appresso a me.”

 

“E tu invece puoi?”

 

“Beh, posso già iniziare a guardare alla pensione, io!” scherzò, ripensando ai discorsi dei bimbi e di Melina quel pomeriggio.
 

“Ma se ti mancano almeno vent’anni, altro che pensione!” esclamò lui, dandole un bacio su una tempia.

 

E poi, prendendole la mano, le aprì la porta, la fece passare per prima e si avviò con lei nel ristorante.

 

“I signori desiderano?” chiese il maître, dopo poco che furono entrati, guardandola un poco sospettoso, nonostante il tubino nero con il pizzo sul corpetto, semitrasparente sulle braccia e sulla schiena, che restava in parte scoperta, comprato nel negozio di fiducia della cara Irene e pagato non poco, pure in saldo. Ma, del resto, il precedente lo aveva sfruttato tantissimo e non poteva continuare a presentarsi a Calogiuri con lo stesso vestito. A parte scarpe e borsa leopardate, era molto sobria rispetto al suo solito. Calogiuri era elegantissimo, pareva uscito da una rivista di moda maschile.

 

“Ho prenotato per due a nome Immacolata Tataranni,” spiegò, perché, con la diffusione del suo cognome a Matera, prenotare solo con quello non sarebbe bastato.

 

“Sì, certo, venite,” le rispose, sollecito, facendo strada verso la sala.

 

Al loro passaggio, si voltarono praticamente tutti, mentre sentì alcuni bisbiglii che suonavano chiaramente come “la Tataranni.”

 

Il cameriere li portò fin sulla terrazza. Per fortuna la temperatura, aiutata da alcune stufe di design, era ancora accettabile, anche se da lì a pochi giorni sarebbe sicuramente arrivato il freddo. C’era una vista meravigliosa sul Sasso Caveoso e si pagava pure quella, ovviamente, oltre al ristorante stellato.

 

“Allora, ne sei ancora convinto, Calogiuri?” gli chiese con un sorriso, quando il cameriere portò ad entrambi il menù con i prezzi da capogiro, almeno per i suoi standard.


“Certo che sì! E qui… è bellissimo… tu sei bellissima, quel vestito ti sta... meravigliosamente.”

 

Gli vide le guance farsi un poco rosate, perfino alla luce delle candele e delle torce, piazzate strategicamente intorno alla balconata per non rovinare la vista di Matera.


“Pure tu non sei messo male, Calogiuri,” scherzò, anche se le faceva sempre un piacere immenso ed era un’incredibile botta di autostima sentirglielo dire.


E quel giorno gliene aveva già date parecchie.

 

E poi Calogiuri le prese la mano e se la portò alle labbra, senza toccarle, in un baciamano da vero gentiluomo.

 

“Calogiuri, dov’è che hai imparato tutte queste smancerie? Che mi devo preoccupare?” gli chiese con un altro sorriso, perché gli ambienti raffinati sapeva bene con chi li frequentava di solito.

 

“No, no. Però... “ sussurrò, sporgendosi verso di lei, “ho un problema col menù, con tutte queste parole in francese. Tu capisci che significano?”

 

Era assurdo, ma quella cosa la rese ancora più felice, se possibile: il suo Calogiuri di Grottaminarda stava ancora lì e nessuna Irene Ferrari poteva cambiarglielo del tutto.

 

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“Oltre che bello da vedere, devo dire che è tutto ottimo veramente.”

 

In effetti toccava ammetterlo pure a lei: i prezzi ed i nomi erano ridicoli, le porzioni pure, ma fino a lì le era piaciuto tutto moltissimo. L’impronta materana nei piatti si sentiva, pur rielaborati per modernizzarli. Non che ne avessero bisogno, ma il risultato non era affatto male.

 

Stava per arrivare loro il dolce e stavano quasi per finire la bottiglia di vino - che con quello che costava, piuttosto si ubriacava ma non ne avrebbe avanzato una goccia! - quando sentì una voce che per poco non glielo fece sputare.

 

“Imma! Ma che ci fai qua?! Non ci posso credere! Imma Tataranni in un ristorante stellato?!”

 

“Ma- Maria?!” balbettò, voltandosi, sperando che le sue orecchie le stessero giocando un brutto scherzo, nonostante i decibel emessi ed il fatto che ormai tutti in quel ristorante, pure i quattro gatti che non leggevano i giornali, non vedevano i tg e non ascoltavano i pettegolezzi di paese - turisti, magari - avessero scoperto chi era.

 

Ma no, Maria Moliterni, in uno dei suoi soliti tubini da lasciarci uno stipendio - altro che il suo! - con prefetto al seguito, elegantissimo, ovviamente.

 

“Ah, ma adesso ho capito chi ha fatto il miracolo!” esclamò poi con un sorriso più grande, avvicinandosi a Calogiuri e mettendogli una mano sulla spalla, manco fosse un vecchio amico - gliel’avrebbe mozzata, gliel’avrebbe! - e aggiungendo, “Calogiuri, ti trovo bene, nonostante ti tocchi sopportare Imma quasi ventiquattr’ore su ventiquattro!”

 

“Signora Moliterni, signor prefetto,” salutò Calogiuri, cortese pur nell’imbarazzo, “e se mi trovate bene è soltanto grazie ad Imma, anzi, se potessi allungherei le giornate per stare più tempo insieme!”

 

Imma si sentì avvampare, che altro che il vino, mentre la Moliterni la guardava con un misto di invidia ed incredulità ed il prefetto di incredulità e basta. Come gli uscivano a Calogiuri certe frasi da Baci Perugina, facendole suonare sincere e disarmanti oltretutto, era una cosa che non avrebbe mai capito.

 

“Imma, un giorno mi dovrai dire come hai fatto!” esclamò Maria, ironica ma ancora incredula, “e comunque vieni a Matera e non dici niente? Già ho saputo che ci sei stata pure due settimane fa.”

 

La notizia del divorzio evidentemente era circolata, del resto procura e tribunale vivevano quasi in simbiosi.

 

“Sì, Maria, ma… sono rimasta solo due giorni e pure stavolta rientriamo lunedì. E so quanto ti rattrista pensare al lavoro nel fine settimana.”

 

“Ma per te e Calogiuri che tornate a Matera faccio un’eccezione, Imma. Peccato che abbiamo già finito di cenare e dobbiamo andare a casa, altrimenti potevamo mangiare insieme e parlare un poco.”

 

“Dubito che volessero compagnia a questa cena, cara,” rispose il prefetto, tra l’ironia e… si era immaginata solo lei o c’era pure una certa riprovazione?

 

Del resto Vitolo era amico di Pietro, giocavano ancora insieme, a quanto le risultava.

 

“Eh già… i primi tempi, l’amore, il romanticismo… ah, che nostalgia! Ma… perché non venite con noi domani? Andiamo al club del golf, vicino a Bernalda. Così, tra una buca e l’altra, chiacchieriamo un po’, che tanto di tempi morti ce ne sono moltissimi!”

 

Il prefetto pareva avere ingoiato un rospo ed Imma lo capiva benissimo, solidarietà con Pietro o meno. Lanciò un’occhiata a Calogiuri che sembrava nel panico.

 

“Maria, ti ringrazio tanto, veramente, ma a parte che non ci so giocare a golf, poi domani ho… ho già preso un impegno con Diana e Capozza,” si inventò di sana pianta, perché era l’unica scusa credibile che potesse avere.

 

“E va beh, Imma, e che problema c’è? Invita pure loro, no? Sono sicura che Diana sarà contentissima!”

 

Scacco matto.

 

Non poteva protestare oltre e dire di no: chiunque conoscesse anche solo un minimo Diana sapeva che sarebbe stata non solo felice, ma estatica dell’invito.

 

Le toccò annuire, con un sorriso tirato tanto quanto quello del prefetto, lanciando uno “scusami” non verbale a Calogiuri.

 

Ma, del resto, se voleva sperimentare come sarebbe stata la vita di coppia a Matera, non c’era forse prova del fuoco maggiore di quella.

 

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“E ora?”

 

Erano usciti da poco dal ristorante - il dolce sinceramente le era un poco rimasto sullo stomaco, pur senza colpe dello chef - quando Calogiuri, reduce da un pagamento con carta di credito a due zeri, le aveva fatto la fatidica domanda.

 

“E mo chiamiamo Diana e preghiamo che sia impegnata domani, anche se dubito rifiuterà mai un invito del genere.”

 

Compose il numero, che erano già le ventitré passate ed erano fuori tempo massimo.

 

“Pronto? Imma?” rispose, con un fiatone che le fece immaginare scenari vietati ai minori tra lei e Capozza, che era un miracolo se non le si riproponeva tutta la cena e non soltanto il dolce, “che c’è, problemi a casa di Calogiuri?”

 

“No, Diana, scusami per l’orario, ma mi servirebbe un favore.”

 

“E tanto per cambiare! Dimmi.”

 

“Senti, tu domani c’hai impegni?” domandò, pregando che le dicesse di sì e di potersi inventare qualcosa col prefetto e la Moliterni.

 

“No, io e Capozza volevamo andarcene magari un salto al mare, ma avrei tanta voglia di chiacchierare un po’ con te, Imma. Perché non venite con noi?”

 

E te pareva!

 

“Perché al ristorante di stasera c’erano pure la Moliterni ed il prefetto. Ci hanno invitati a giocare a golf domani e-”

 

“Beata te, Imma!” esclamò Diana, con voce sognante.

 

“Ed allora è il tuo giorno fortunato, Diana, perché io per cercare di svicolare ho detto che dovevo vedermi con te e con Capozza. E… e hanno invitato pure voi. Quindi dovreste domattina alle dieci presentarvi di fronte al golf club vicino a Bernalda.”

 

Diana rimase per un attimo in silenzio, tanto che pensò ci fossero problemi sulla linea.

 

“Grazie, Imma! Grazie!” urlò improvvisamente, facendole prudere un timpano, “vuoi che vi passiamo a prendere? Che la mia macchina non sarà il massimo, ma in confronto alla tua è da signori.”

 

“No… a noi… a noi ci vengono a prendere i Moliterni, probabilmente Maria voleva scongiurare un mio tentativo fuga. Ma in auto in sei, sette con l’autista, non ci stiamo.”

 

“E va beh, Imma, poco male, vorrà dire che ci vediamo domani! Grazie ancora!”

 

Si affrettò a chiudere, prima che Diana la stordisse con altre chiacchiere.

 

“E allora?”


“E allora almeno una persona domani sarà felice, Calogiuri. Mi spiace per… per averti incastrato in questa cosa.”

 

“Ma no, figurati… più che altro, come ci si veste in un golf club?”

 

“Con tanti soldi, Calogiù, con tanti soldi!” esclamò, facendolo ridere e poi si sentì stringere a braccetto, forte forte.

 

“Sei sicura che non vuoi la mia giacca e non hai freddo?”

 

“Tranquillo, Calogiù. Tra il vino, i coniugi Moliterni e la chiamata mi sono scaldata fin troppo. E poi lo sai che il contatto che scalda di più è quello del corpo? Anche se sarebbe meglio pelle a pelle ma… mi devo accontentare, per ora,” gli sussurrò, soffiandogli leggermente nell’orecchio e facendolo rabbrividire.

 

“Imma!” esclamò, prima di trascinarla in un bacio che chissenefregava del basso profilo, i giornalisti potevano pure farle un book fotografico, per quello che la riguardava. E poi erano in un vicolo talmente stretto che, o si erano appostati sui tetti, o doveva fare loro i complimenti se riuscivano a passare inosservati.

 

Almeno fino a che non sentì due colpi di tosse ed uno, “scusate, ma dovremmo passare!” un poco scocciato alle loro spalle.

 

Quasi fece un salto, sciogliendo rapidamente il bacio. Non tanto per lo spavento, ma perché quella voce l’aveva riconosciuta benissimo.

 

“Pie- tro?” bofonchiò, girandosi, ancora tra le braccia di Calogiuri che la teneva per la vita, ed avendone la conferma quando incontrò due occhi tra il ferito e l’incredulo.

 

“Imma?! Ma che ci fai qua? Non eri rientrata a Roma?” le chiese, mentre sentì i muscoli di Calogiuri irrigidirsi leggermente, e la lasciò andare.

 

Sempre un galantuomo Calogiuri, altro che ragazzino! - pensò, guardandolo con gratitudine, prima di rivolgersi di nuovo a Pietro e, soprattutto, notare accanto a lui una donna con una specie di zaino in spalla, pur se vestita elegantissima. Ce ne aveva uno uguale pure Pietro, e anche lui era altrettanto in tiro, come avrebbe detto Valentina.

 

Almeno non era il completo dell’anniversario... e del divorzio.

 

“Sì, ma sono tornata per il fine settimana. Cinzia, ci sei pure tu!?” domandò, prima di rivolgersi verso Calogiuri e proclamare, “il maresciallo Ippazio Calogiuri. Non penso vi siate mai incontrati.”

 

“Ippazio? Che nome strano!” esclamò Cinzia Sax, per poi porgergli la mano, “Cinzia Gaudiano, la fidanzata di Pietro.”

 

Sottolineò quel fidanzata in un modo quasi comico, tanto che Imma notò più quello del fatto di avere appena appreso finalmente, dopo tre anni, il suo cognome.

 

“Ah, piacere,” rispose Calogiuri, stringendole la mano.

 

“A voi non c’è bisogno di chiedere se siete fidanzati, e non solo per i giornali,” ironizzò Cinzia, prima di aggiungere, con un tono che sembrava sincero e pure compiaciuto, “siete proprio una bella coppia, anche se noi due di più, non è vero, amore?”

 

Pietro aveva un’espressione che in confronto la sua di fronte all’invito della Moliterni al golf doveva essere stata nulla.

 

“Sai, veniamo da un concerto alla Casa Cava, simile a quello al quale eri venuta pure tu, sempre se ti ricordi qualcosa, tra il cellulare ed il fatto che dormivi,” proseguì Cinzia, con un sorriso che avrebbe reso orgogliosa la cara Irene.

 

“Eh, sì, purtroppo la musica classica mi è sempre stata un poco indigesta.”

 

“Eh, ho visto che sei più tipo da musica latina,” ironizzò Cinzia, prima di aggiungere, stringendo Pietro per un braccio, “però stasera era una serata speciale, perché Pietro per la prima volta ha suonato con me ed una mia amica. Ormai è diventato bravissimo, potrebbe quasi farlo di professione!”

 

“Mi fa piacere per lui e per voi!” rispose, pensando solo che ringraziava il cielo che mo tutte le prove di Pietro se le beccava Cinzia Sax.

 

Perché, bravo o non bravo, sentirsi lo stesso brano ottocento volte avrebbe dato sui nervi pure ad un santo. E lei era tutto tranne che santa.

 

“Dovremmo invitarli una volta ad un concerto, no?” chiese poi a Pietro, che pareva voler sprofondare fino alla Gravina per quanto era in imbarazzo.

 

“Eh, ma purtroppo noi di solito stiamo sempre a Roma.”

 

“A proposito, ma da dove venite? Che non ti ho mai vista così elegante, Imma!” esclamò Pietro, all’improvviso, guardandola in un modo che la mise ulteriormente in imbarazzo.


Vide chiaramente che Calogiuri si era teso come una corda di violino.

 

“Dal ristorante, Pietro.”

 

“Così elegante? Ma in che ristorante siete andati, Imma?”

 

“Uno che dà sul Sasso Caveoso,” rispose, cercando di stare sul vago.

 

“Ma quello stellato?!” chiese Pietro, ancora più incredulo che per tutto il resto, per poi sembrarle scocciato, “con me tra un poco nemmeno in pizzeria volevi andare!”

 

“Esagerato! E comunque… per un’occasione speciale si può pure fare.”

 

“E quale sarebbe?”

 

“Tra pochi giorni è… è il primo anniversario mio e di Calogiuri ed è la prima volta che torna a Matera dopo tanto tempo,” spiegò, perché in fondo lei e Pietro erano divorziati ormai, un anno prima già separati erano, e non poteva né doveva nascondersi a vita.

 

“Il primo in quale sistema numerico, Imma?” ironizzò Pietro, prima di aggiungere, sarcastico, l’imbarazzo per le battute di Cinzia evaporato del tutto, “e allora buon anniversario! Ah, e per quegli oggetti tuoi che stanno ancora a casa mia, li potete passare a prendere prima di tornare a Matera o-?”

 

“Domani temo saremo impegnati tutto il giorno, Pietro e… dovrei noleggiare un furgoncino, che sulla mia auto non ci sta niente. Ti dispiace se li recupero sotto natale, che non penso torneremo qua prima di allora?” gli chiese e, stavolta, il sorriso di Calogiuri lo vedeva chiaramente pure in tralice, in penombra nel vicoletto buio.

 

“A natale?” ripeté Pietro, il sarcasmo sparito, sostituito da un misto di malinconia e rassegnazione.

 

“Sì, a natale. Tanto avevamo già deciso di dividerci cenone e pranzo con Valentì, no?” gli ricordò e Pietro annuì, l’aria di chi un’altra festività come le precedenti se la voleva evitare.

 

“Magari lasciate a noi il pranzo? Che la madre di Pietro almeno è più comoda?” si inserì Cinzia, serafica, Pietro che pareva sorpreso dalla notizia più di lei e che forse realizzava in quel momento che c’era perfino di peggio di una moglie ed una suocera che non si sopportavano.

 

Una fidanzata e una suocera che erano complici, troppo.

 

“Per noi, non c’è problema, no, Calogiuri?” gli domandò, giusto per cortesia, perché dallo sguardo di lui capiva benissimo che era talmente contento che avrebbe accettato di fare il cenone pure alle quattro del mattino, se glielo avesse chiesto.

 

Ed infatti scosse il capo con un sorriso smagliante.

 

“Va beh… noi mo andiamo che si fa tardi e domani sarà una giornata lunga. Buona serata!” salutò, tornando a prendere Calogiuri a braccetto e si avviò con lui non appena il “buona serata!” di risposta di Cinzia giunse alle sue orecchie.

 

Sapeva che pure Pietro doveva proseguire, almeno per un pezzo, nella stessa direzione loro, ma non udì alcun rumore di passi. Forse era rimasto bloccato con Cinzia.

 

“Grazie…” le sussurrò Calogiuri, per l’ennesima volta quel giorno, mentre continuavano a camminare a passo svelto verso casa.

 

“No, Calogiuri, grazie a te, per tutto, anche perché domani ci tocca una giornata non facile, lo sai, sì?”

 

“Non m’importa niente, a me basta sapere che sei convinta di noi due e posso affrontare pure dieci prefetti e dieci Maria Moliterni.”

 

“Io pure, Calogiuri, ma non garantirei di non fare una strage e che dovresti venire con le arance a trovarmi in galera,” scherzò, guadagnandosi un’altra risata ed un bacio sui capelli, che spazzò via pure l’aria frizzantina della notte.

 

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“Buongiorno, signori.”

 

L’autista del prefetto, impeccabile in giacca e cravatta, li venne a prendere sotto casa della madre di Imma - che col cavolo che dava loro l’indirizzo di quella di Calogiuri! - ed aprì loro la portiera sul retro.

 

Sbirciò nella vettura e vide che il prefetto era seduto al posto del passeggero, mentre Maria stava dietro di lui, attaccata al finestrino.

 

“Imma! Buongiorno, ma come ti sei vestita?”

 

“Da equitazione, Maria, sai com’è, era l’unica cosa sportiva che mi ero portata dietro per questi due giorni,” rispose, non sapendo se la Moliterni fosse sorpresa dal completo - indossato ovviamente senza la giacca - o dal fatto che non ci fosse nulla di animalier o di variopinto, per una volta, tranne le scarpe da ginnastica.

 

“No, è che… vederti vestita di bianco e beige è… inusuale. Anche se non quanto la notizia che fai equitazione,” commentò, levandole il dubbio, “Calogiuri invece tu sei sempre impeccabile, quando ti devi vestire per un’occasione.”

 

In effetti Calogiuri di polo ne aveva una marea e per fortuna si era pure portato in valigia un paio di pantaloni casual neri che non erano jeans.

 

“Grazie, signora Moliterni,” replicò, dopo aver chiuso la portiera.

 

Era talmente grossa quell’auto che pure seduti in tre dietro c’era spazio a sufficienza per stare più che comodi.

 

Partirono ed Imma vide chiaramente, dallo specchietto retrovisore, che il prefetto aveva un’espressione tutt’altro che felice. E molto probabilmente non solo per i complimenti a Calogiuri.

 

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“Scusatemi, ma qua con i jeans non si può entrare da regolamento.”

 

L’elegantissimo addetto alla sicurezza dell’ingresso aveva bloccato Capozza, nonostante si fosse impegnato a mettersi una polo, invece delle solite magliette da rockettaro ventenne. Ma probabilmente non aveva nemmeno un paio di pantaloni decenti, se non quelli della divisa.

 

Diana invece, con tanto di cappellino con visiera, aveva un vestitino che un altro po’ non era pronta per il golf ma per un matrimonio.

 

Per certi versi erano quasi più una strana coppia di lei e Calogiuri ma, chissà perché, funzionavano.

 

“Sono con me,” proclamò il prefetto, seppure con tono non propriamente entusiasta ed il giovane si mise praticamente sull’attenti.

 

“Signor prefetto, buongiorno, non immaginavo, scusatemi,” li fece passare subito il ragazzo, tutto ossequioso.

 

Percorsero varie stanze, elegantissime, ovviamente, finché arrivarono all’aperto e un caddy li raggiunse con in spalla tutta l’attrezzatura necessaria.

 

Era un bel ragazzo, giovane, biondo, occhi azzurri, ovviamente abbronzato, visto il lavoro che svolgeva.

 

“Signor prefetto, signora Moliterni, che piacere rivedervi!” salutò, cordialissimo - evidentemente il prefetto era uno dei clienti migliori - ed Imma dovette mordersi le labbra per non ridere, quando notò il modo in cui la Moliterni se lo guardava. Altro che bonbon!

 

“Credo di non avervi mai visto qui prima d’ora? Jonathan Fanelli, piacere,” si presentò ed Imma si dispiacque immediatamente per il povero ragazzo, costretto ad un nome inglese probabilmente da una madre che guardava troppa televisione.

 

“La dottoressa Imma Tataranni, il maresciallo Calogiuri, la signora Diana De Santis ed il brigadiere Capozza,” chiarì il prefetto, facendo le presentazioni.

 

Il ragazzo strinse le mani a tutti, che manco un attore dopo lo spettacolo e poi chiese, “a che livello siete con il golf?”

 

“Mai giocato in vita mia e presumo neppure gli altri, giusto?” rispose Imma e tutti scossero il capo.

 

“Va bene. Allora, mano a mano che facciamo le varie buche, vi spiegherò le basi. Mi scuso già con voi,” disse poi rivolto ai coniugi Moliterni, “temo che dovrete pazientare un po’.”

 

“Non è colpa tua, Jonathan, siamo noi che ce li abbiamo portati,” rispose il prefetto, pronunciando il noi in un modo che faceva capire chiaramente quanto non fosse stata una sua idea.

 

Non fosse stato il prefetto, Imma avrebbe già più che volentieri tolto il disturbo - che se lui non ne aveva voglia lei manco per idea! - ma toccava sopportare almeno per qualche ora.

 

Si stavano avviando tutti insieme verso la prima buca, quando incontrarono un’altra coppia di golfisti, sulla cinquantina, con caddy al seguito, una ragazza stavolta.

 

Vitolo, Maria!” esclamarono, prodigandosi in abbracci e baci da vecchi amici.

 

Poi li guardarono, un poco sorpresi, ed alla fine la signora si rivolse con un sorriso verso Calogiuri, “ma è Matteo vostro? Quanto è cresciuto! Ti sei fatto proprio bello!”

 

Tra Vitolo, la Moliterni e Calogiuri era una gara a chi fosse più in imbarazzo, non che non ci si potesse includere pure lei. Matteo loro era Matteo Moliterni, il figlio ormai ultraventenne che da qualche anno studiava e viveva negli Stati Uniti, in qualche università di cui aveva scordato il nome ed il luogo. In effetti era moro - come il padre una volta - e con gli occhi chiari - come la madre - ma a suo avviso come bellezza con Calogiuri non c’era proprio paragone. Era un ragazzo normale, come tanti.

 

“No, Giusy, questo non è nostro figlio,” spiegò la Moliterni, con l’aria di chi avrebbe voluto uccidere la cara amica per la sola insinuazione di poter avere prole dell’età di Calogiuri, prima di procedere nuovamente con le presentazioni.

 

“Ecco perché mi pareva familiare!” esclamò la signora, dopo la spiegazione, con l’aria che definire curiosa sarebbe stato come definire Diana un poco logorroica, “voi due siete quelli che stavate sui giornali ed in televisione, vero?”

 

E te pareva!

 

“Sì, per il maxiprocesso, soprattutto, sa, abbiamo dato una bella ripulita a Matera. E voi, che mestiere fate, esattamente?” chiese Imma, con un sorriso volutamente fintissimo, tanto per assicurarsi non solo il silenzio da altre battute, ma anche che Maria ci avrebbe pensato mille volte prima di invitarla nuovamente da qualche parte.

 

“I- imprenditore edile,” balbettò l’uomo, che chiaramente qualche scheletruccio nell’armadio ce lo doveva avere, da come si agitava, “va bene, allora… vi lasciamo al golf, noi ora ci andiamo a rilassare un poco, no, cara?”

 

E sparirono alla velocità della luce, mentre Diana pareva mortificata, Calogiuri stava trattenendosi dal ridere e la Moliterni pure. Vitolo, chissà mai perché, sembrava quasi pronto all’omicidio.

 

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“L’obiettivo è tirare la palla, Imma, non arare il campo.”

 

Fece una risata forzata e sarcastica alla battuta di Maria. Ce l’aveva invitata lei a golf e mica era colpa sua se non era capace.

 

Erano alla quarta buca soltanto ma già aveva szollato mezzo campo ancora un po’. Sperava che non le facessero pagare un extra per la manutenzione.

 

Si consolava solamente perché Diana e Capozza pure erano messi malissimo. Calogiuri invece, sportivo come al suo solito, dopo un paio di tiri a vuoto all’inizio, pareva aver capito come si faceva e non solo riusciva a centrare la pallina, ma pure a direzionarla più che discretamente.

 

“Aspetti, le mostro di nuovo come si fa,” si offrì il caddy, piazzandosi stavolta dietro di lei e prendendole le mani, per guidare il movimento.

 

Magari era paranoica, forse era la sua impressione, ma lo sentiva fin troppo vicino, il petto che le toccava la schiena.

 

Ma del resto, se doveva guidarle le mani, non è che potesse stare a chilometri di distanza, salvo avere le braccia telescopiche.

 

Si avvide, con la coda dell’occhio, che Calogiuri guardava l’istruttore non solo in cagnesco, ma da fare invidia al suo di zoo.

 

Le venne da sorridere di fronte a tanta gelosia ma, proprio in quel momento, l’istruttore infine completò il movimento e la sua pallina schizzò dritta dritta verso la buca.

 

“Ovviamente questo tiro non vale,” precisò il prefetto, che prendeva quella specie di gara molto seriamente, anche se gli piaceva decisamente il vincere facile,

 

“Ovviamente…” rispose Imma, ringraziando il caddy e riprovando da sola ad imitare il movimento.

 

Quantomeno non centrò il terreno stavolta, ma la pallina fece una parabola ridicola, che giusto giusto per il cucchiaio poteva andare bene, o al minigolf, ed atterrò a pochi metri da loro, lontanissima dalla buca.

 

Toccava poi a Calogiuri ma, forse per nervosismo, forse per distrazione, se nelle buche precedenti aveva tenuto abbastanza testa al prefetto, sbagliò clamorosamente, facendo finire la pallina in un laghetto lì vicino.

 

Vitolo sembrò molto soddisfatto, ovviamente, pure mentre l’istruttore rispiegava anche a Diana e Capozza come tirare. Imma si convinse di essersi immaginata l’eccessiva vicinanza del ragazzo, visto che, d’accordo, Capozza non faceva testo, ma con Diana manteneva comunque una distanza assolutamente professionale.

 

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“Vino?”

 

Si erano fermati per pranzo dopo la nona buca, che già erano quasi le due del pomeriggio, a causa della loro lentezza.

 

Il ristorante del club, sorprendentemente, proponeva piatti tipici lucani e pugliesi con dosi non da fame, anzi.

 

Ma il prefetto continuava a versare vino a Calogiuri, che ormai cercava di berne il meno possibile, visto che non poteva rifiutare.

 

Alla nona buca Calogiuri era in netta rimonta e a poca distanza dal prefetto che, essendo oltretutto Calogiuri alle prime armi, evidentemente non l’aveva presa bene.

 

“Fallo vincere, Calogiù, prima che ti mandi in coma etilico,” gli aveva sussurrato in un orecchio, non appena il prefetto fu distratto da una conversazione con altre due coppie, elegantissime, di amici suoi e della Moliterni che si erano unite a loro per il pranzo.

 

Calogiuri si coprì la bocca con la mano per mascherare una risata, almeno fino a quando una delle signore, una certa Mariagrazia, saltò su e, rivolta a lei, le chiese, “se eri nella stessa scuola di Maria, hai fatto anche tu il liceo classico, giusto?”

 

“Sì, certo, e pure Diana. Noi due eravamo in classe insieme, Maria credo fosse già diplomata quando noi abbiamo iniziato la prima ginnasio,” rispose con un sorriso, divertendosi un mondo a lanciare frecciatine alla Moliterni, nella speranza che un’idea così malsana non le tornasse mai più.

 

Maria tossì ma poi il prefetto si inserì con un, “la dottoressa è un’esperta di citazioni dal latino. Quasi imbattibile. Vediamo se riesce a completare questa, dottoressa. Homines nihil agendo…”

 

Agere consuescunt male,” concluse con un sospiro, perché già aveva detestato quel giochetto la prima volta, “gli uomini, non facendo nulla, si abituano a fare malamente. Molto adatto per la procura, che ne dici, Maria?”

 

Maria continuò con l’attacco di tosse, prima di ribattere con, “a proposito di procura, com’era, diligite iustitiam….”

 

Qui iudicatis terram?” intervenì Diana, evidentemente felicissima quando la citazione risultò corretta.

 

Continuarono ancora per un poco, mentre lei stava seriamente rimpiangendo persino la giornata trascorsa dalla gattamorta con l’afternoon tea - almeno Bianca era simpatica!

 

“E lei, maresciallo, perché non la propone lei una citazione?” chiese il prefetto con un gran sorriso, che Imma gli avrebbe voluto levare con una piattata in faccia.

 

Sicuramente sapeva che cosa avesse studiato e non studiato Calogiuri, visto che era arrivato a Matera come appuntato e non era quindi evidentemente laureato, nonostante la sua intelligenza.

 

“Veramente… purtroppo ho fatto le scuole tecniche, non ho mai studiato il latino,” ammise Calogiuri, parendo un poco mortificato, di fronte agli sguardi di superiorità degli astanti, tranne del povero Capozza e di Diana, ovviamente.

 

“Ah, beh, capisco, del resto bravi nello sport, un po’ ciucci a scuola,” intervenne con una risata uno dei due uomini presenti, un commercialista.


“E poi, come si suol dire, gli opposti si attraggono,” rimarcò l’altro maschietto, un architetto dai capelli palesemente tinti e che parevano leccati da una mucca.

 

Imma allungò una mano per stringere le dita di Calogiuri sotto al tavolo, furiosa come raramente si era mai sentita: se alcune donne ce l’avevano su con lei, manco avesse tradito tutta la morale, cattolica e pure laica, gli uomini sposati oltre ad una certa età parevano avere una specie di risentimento intrinseco verso Calogiuri, nemmeno avesse portato via la loro di moglie. Che poi erano di solito gli stessi che, una volta soli e senza consorte, se ne lamentavano, dipingendo la moglie come l’origine di tutti i mali della loro vita. Magari la cornificavano pure, ma non l’avrebbero lasciata manco sotto tortura e guai se l’avesse fatto lei.

 

“Ne ho una io per voi, di citazione,” sibilò Imma, fulminandoli tutti con lo sguardo, “anche se è troppo breve per poter essere inclusa in questa... gara. Asinus asinum fricat.”

 

Un asino gratta - cioè loda - un altro asino,” proclamò il prefetto con un sorriso, prima che si rendesse conto di cosa aveva appena tradotto e che sulla tavola scendesse un silenzio a dir poco tombale.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua alla fine di questo capitolo molto materano, invece che milanese ;), leggermente più lungo del solito, per compensare le due settimane tra un capitolo e l’altro. Spero che “i ritorni” e l’anniversario vi siano piaciuti, nel prossimo capitolo vedremo sia come si concluderà il viaggio a Matera, sia come proseguiranno i gialli ancora aperti, sia magari una certa trasferta in Lombardia, con buona pace di Imma.

Una piccola nota per i materani e lucani che fossero alla lettura: le frasi in dialetto ho cercato di costruirle con l’aiuto di un vocabolario, con parecchie licenze personali specialmente sulle coniugazioni verbali, quindi mi scuso per gli errori che inevitabilmente ci saranno.

Grazie di cuore per aver seguito la mia storia fino a qua, spero che continui a mantenersi interessante. Le vostre recensioni sono davvero un’enorme motivazione per me, oltre ad aiutarmi a capire cosa mi riesce meglio e cosa è da rivedere, quindi se vorrete farmi sapere che ne pensate ve ne sarò grata fin d’ora.

A causa delle vacanze, il prossimo capitolo arriverà esattamente tra due settimane, domenica 30 agosto.

Grazie mille ancora, buona seconda metà di agosto e buone vacanze per chi le farà!

 

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Capitolo 43
*** Eredità ***


Nessun Alibi


Capitolo 43 - Eredità


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

Il silenzio in tavola rimase totale e carico di imbarazzo per un minuto buono, mentre lei sfidava con lo sguardo chiunque a dire di nuovo qualcosa. Calogiuri la guardava con una gratitudine mista ad ammirazione che le ricordava i loro primi tempi insieme, Maria pareva stranamente divertita, i maschietti tra il mortificato e l’incazzoso, le loro consorti semi scandalizzate.

 

“Vino?” chiese il prefetto all’improvviso, direzionando la bottiglia verso lei e Calogiuri.

 

“No, signor prefetto, la ringrazio ma credo proprio che abbiamo già bevuto troppo. Meglio non rischiare, che poi ci tocca camminare al sole e non siamo tutti giovani ed in forze come Calogiuri,” sottolineò volutamente, bloccandolo prima che li spedisse tutti in coma etilico e rigirando il dito nella piaga.

 

Se lui ed i suoi amichetti erano insicuri di fronte ad un bel pezzo di figliolo come Calogiuri, tanto da fare i bulletti che manco alle medie, che si rosolassero ancora un poco.

 

Il prefetto rimase in contropiede, probabilmente non sapendo bene che cosa dire, poi posò la bottiglia e saltò su con un, “avete visto la nuova collezione temporanea che arriverà al MUSMA? In prestito dalla Galleria Nazionale.”

 

Il Museo della Scultura Contemporanea, gli avevano dato un acronimo che faceva figo, come il MOMA di New York.

 

E poi il prefetto iniziò a snocciolare una serie di nomi di scultori che per lei era peggio che parlare in ostrogoto: non che disprezzasse l’arte contemporanea, ma non se ne intendeva proprio e preferiva comunque i musei con sculture e quadri più antichi.

 

“Ho visto alcune sue opere alla Galleria Nazionale. L’uso del bianco e del nero che fa è veramente incredibile, ipnotizza quasi. Sapete quali verranno portate qui?”

 

Rimasero nuovamente tutti ammutoliti, ma per motivi diversi: a parlare era stato Calogiuri, con nonchalance, come se stesse discutendo del tempo.

 

“Non- non lo so,” ammise il prefetto, che probabilmente della mostra temporanea aveva visto giusto giusto la locandina, mentre Calogiuri si lanciò in una spiegazione sulle sue opere preferite dello scultore in questione, che dovevano assolutamente vedere se fossero state portate a Matera o se fossero andati a Roma.

 

I galletti al tavolo erano con le bocche cucite, le signore, ovviamente, mo si guardavano Calogiuri come se fosse una torta di ricotta. Maria pareva non essersi mai divertita tanto da che la conosceva.

 

“Invece avete sentito della stagione teatrale dei Teatri Uniti di Basilicata?” intervenne l’architetto, elencando alcuni spettacoli che lui e consorte avevano intenzione di andare a vedere.

 

Il Padre? Di Zeller, vero?” chiese loro Calogiuri, mentre i commensali lo guardavano come fosse un alieno, “purtroppo mi manca, ma ho visto sia La Menzogna che La Verità. Ha un modo di scrivere molto particolare, pungente, cinico.”

 

Imma si godette il mutismo generalizzato, si prese la bottiglia e si versò un poco di vino.

 

Le toccava pure ringraziare la Ferrari, mo, anche se non lo avrebbe mai ammesso manco morta. Ma il pregiudizio del toyboy senza cervello e senza cultura forse, almeno tra i commensali, era finalmente stato debellato.

 

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“Congratulazioni, signor prefetto, vittoria meritata!”

 

Erano all’ultima buca e Vitolo alla fine aveva vinto, anche se di poco. Calogiuri gli aveva fatto venire strizza fino all’ultimo ed Imma si chiese se alla fine lo avesse lasciato vincere o meno.

 

Di sicuro era molto sportivo nel congratularsi, soprattutto dopo i momenti passati a tavola.

 

“Grazie, maresciallo,” rispose il prefetto, stringendo la mano che gli venne porta, anche se con un poco di esitazione.

 

“Giocare con Calogiuri ti fa bene, caro, hai battuto il tuo record in assoluto. Non è vero, Jonathan?” rimarcò la Moliterni, guardandosi il caddy con concupiscenza.

 

“Sì, signora Moliterni, è il migliore risultato di sempre per suo marito. Invece i vostri punteggi…” proseguì, guardando verso lei, Diana e Capozza, elencando dei numeri bassissimi, nonostante gli handicap di punteggio molto alti che avevano magnanimamente deciso di applicare loro dopo le prime buche. Ma avevano dovuto fare un numero spropositato di tiri ogni volta.

 

“Va beh… come si dice… sfortunato al gioco, fortunato in amore,” proclamò Capozza, dando un bacio a Diana, che se lo abbracciò.


“Dubito qua la fortuna c’entri molto, Capozza,” sospirò Imma, ringraziando il cielo di aver già digerito dopo tutto quel moto.

 

Non ci si sarebbe forse mai abituata del tutto a vederli insieme.

 

“Per essere la prima volta non ve la siete cavata tanto male, soprattutto lei, dottoressa. Dalle prime alle ultime buche ha avuto un buon miglioramento. Se volesse tornare per un corso, anche di poche lezioni, sono sicuro che migliorerebbe moltissimo.”

 

“Sì, perché peggiorare è difficile,” scherzò, anche se c’era qualcosa nel modo in cui glielo aveva detto che la metteva in imbarazzo, “e poi noi stiamo a Roma, quindi… sono un po’ troppi chilometri per giocare a golf.”

 

Il fatto che sarebbero stati anche un po’ troppi soldi se lo tenne per sé, ma col cavolo che lei e Calogiuri potevano permettersi certe cifre annuali, pure se lui era portato.

 

“Potreste trovare un club a Roma, così vi allenate e quando tornate qui ci giochiamo la rivincita,” propose Maria, ed Imma si chiese se lo facesse apposta.

 

“Eh, Maria, già c’abbiamo l’equitazione ed il tempo libero è quello che è, almeno per chi lavora sodo,” ironizzò, sperando che desistesse da ulteriori inviti.

 

“Effettivamente mi pareva un abbigliamento da equitazione...” commentò Jonathan ed Imma ebbe l’impressione di sentire Calogiuri sibilare un “ce ne eravamo accorti!” stizzito.

 

“Scommetto che è bravissima: ha il fisico ideale per andare a cavallo,” proseguì il ragazzo con un sorriso ed un tono che, di nuovo, le parvero strani e le fecero venire il dubbio che ci stesse a provare.

 

Ma sicuramente faceva così con le clienti donne, soprattutto over-anta - vedi la Moliterni - per cercare di ingraziarsele ed aumentare il business.

 

Calogiuri però sembrava molto infastidito e la Moliterni pure aveva smesso di avere quel sorriso a trentacinque denti perenne.

 

“Andiamo che poi io e Vitolo abbiamo un impegno per cena?” chiese Maria ed Imma, per la prima volta in quella giornata, quasi se la sarebbe abbracciata.

 

“Allora io e Calogiuri possiamo tornare con Diana e Capozza, Maria, così non dovete perdere tempo a riaccompagnarci,” si affrettò a proporre, prima che cambiasse idea.

 

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“E dai, venite a cena con noi! C’è un ristorantino di pesce a Marina di Pisticci che è la fine del mondo, vero, amore?”

 

Imma guardò Calogiuri, come a chiedergli che ne pensasse: del loro fine settimana dell’anniversario la maggior parte era passato in mezzo ad altra gente.

 

Ma lui le fece un cenno che era un se per te va bene… non verbale ed Imma sapeva che oggettivamente di tempo con Diana nell’ultimo anno non ne aveva praticamente avuto. E magari pure a Calogiuri faceva piacere parlare un po’ con Capozza.

 

“Va bene, ma torniamo presto che domani c’abbiamo la corriera e martedì si lavora.”

 

Diana, entusiasta, disse a Capozza di deviare verso il mare, con un tono manco fossero in un film di spionaggio e lui James Bond, e poi attaccò a parlare a macchinetta, come al suo solito.

 

“...E Cleo non torna quasi più, se ne sta sempre a Londra con il suo attore. Che poi fa sempre ruoli piccoli, nei musical, quelli che cantano e ballano dietro al cast principale. E lei ci vuole pure andare a vivere insieme, che come minimo toccherà pagare tutto a lei, e cioè a me. Ma ti rendi conto?”

 

“E va beh, Diana, comunque è da un po’ che stanno insieme, no? Se vogliono convivere che c’è di male? E poi non faceva pure altri lavori lui?”

 

“Mo fa il barista, in un caffè a tema sul teatro, sì.”

 

“Ed allora qualche soldo lo guadagnerà, no? Ed intanto dividono l’affitto e se non dovesse funzionare… meglio saperlo ora che dopo. Valentì con Samuel ci ha dovuto sbattere la testa ma è maturata tanto.”

 

“Eh, speriamo, con tutto quello che ha sofferto con la separazione e suo padre che mi fa la guerra. Povera figlia!”

 

Imma notò persino dal retrovisore che Capozza si era un poco irrigidito al solo nominare il quasi ex marito di Diana.

 

Uomini!

 

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“Dai, Imma, vieni con me!”

 

Si sentì trascinare per un braccio da Diana sulla sabbia: dopo la lauta cena aveva proposto loro due passi al mare, per smaltire.

 

Aveva gambe e piedi abbastanza distrutti dopo due giorni di scarpinate ma lo Ionico le mancava e poi… effettivamente dopo tutto quello che si erano spazzolati ci voleva.

 

Solo che mo Diana tirava peggio di un cucciolo al guinzaglio, allontanandola da Capozza - e fin lì non è che fosse una perdita! - ma pure da Calogiuri.

 

“Che fai?”

 

“Voglio parlare un poco che è da tanto che non lo facciamo, Imma, discorsi da donne.”

 

“Veramente io mi ricordo dei discorsi pure abbastanza recenti….” le fece notare, seguendola però, la sabbia fresca tra le dita.

 

“E non sono serviti, Imma? Calogiuri mi pare felicissimo e pure tu mica scherzi!”

 

“Va beh, Diana, che c’entra? E poi mo non c’ho problemi nuovi da sottoporti… che faccio, me li invento?”

 

“No, per carità che ce ne stanno già abbastanza! E poi un problema ce l’ho io, mo, da sottoporle, dottoressa!” ironizzò ma poi, giunta nei pressi di una scogliera, rallentò e si fermò per guardarla negli occhi, pure se erano illuminate solo dalla luce delle stelle e della luna.

 

“E che è successo, mo?” chiese, assai preoccupata, non solo per Diana ma perché, di solito, quando la sua ex cancelliera aveva dei problemi erano delle tragedie e gli sfoghi delle lamentele infinite.

 

“Capozza…”

 

“E ti accorgi solo mo che è un problema, Diana?”

 

“Molto spiritosa, dottoressa! E comunque il problema non è Capozza in sé, ma che… è un periodo che continua a venire in argomento figli, o meglio, bambini. Cioè, non è che me l’ha detto proprio esplicitamente che vorrebbe un figlio, ma ogni volta che vediamo famiglie con bambini si scioglie tutto e fa un sacco di commenti su come sono belli e ti riempiono la vita e poi… ha trovato un mio album con foto di Cleo da bimba e continuava a commentare su quanto fosse bella lei e pure io, che avevo una luce diversa - e in quelle foto parevo uno zombie, Imma, che lo sai che la mia Cleo con il sonno teneva un po’ di problemi!”

 

Che era come dire che Jack Lo Squartatore con le prostitute teneva un po’ di problemi: Cleo non aveva dormito decentemente fino tipo ai quattro anni, se lo ricordava bene, e pure dopo aveva fatto fatica per parecchio tempo.

 

“Ho capito, ho capito, Diana,” la interruppe, mentre continuava a raccontare episodi di Capozza che, in confronto, Pietro quando voleva convincerla a fare il secondo figlio era stato la persona più discreta e meno insistente del mondo, “qua il problema non è che ne pensa Capozza, ma che ne pensi tu.”

 

“E che ne penso, Imma? Non tengo più vent’anni e manco trenta, e ormai ho superato abbondantemente pure i quaranta. Tu sai che avere Cleo mi è costato lacrime e sangue, no? Tre anni ho dovuto provare prima di restare incinta ed ero molto giovane. Che speranze posso avere, mo?”

 

Imma sospirò, perché all’epoca lei e Diana si erano perse di vista: Diana si era sposata non molto dopo aver finito il classico, mentre aspettava di fare il concorso pubblico. Imma aveva fatto l’università nel frattempo, poi si era sposata pure lei e si era trasferita per lavoro. Certo, questo spiegava il perché Diana avesse avuto solo Cleo e fosse così ossessiva con lei.

 

“Diana, al di là se sia biologicamente possibile o meno, devi valutare se te la senti fisicamente. Il corpo è il tuo, non di Capozza.”

 

“Lo so, Imma, lo so… è che… da un lato mi piacerebbe ovviamente immaginare un figlio nostro, col suo spirito libero e-”

 

“E stiamo freschi!” sussurrò Imma, pregando che, in caso, il pargolo o pargola prendesse tutto o quasi da Diana.

 

“E dai, Imma! Dall’altro però… è un grande impegno e… non c’ho più il fisico e la resistenza di una volta. E poi… ovviamente ho paura di cosa potrebbe succedere. Sia di non riuscire a rimanere incinta, sia se… se dovessi farcela ma poi la gravidanza dovesse andare male, cosa assai probabile.”

 

“E allora parla a Capozza con sincerità e spiegagli che il tuo treno ormai è passato da quel punto di vista. E poi, volendo, ci sono altri modi per essere genitori, no? Pure se capisco la grave perdita di non trasmettere il patrimonio genetico di Capozza alla posterità.”

 

“Imma!” esclamò, dandole un colpo sul braccio, “e comunque… pure se Capozza fosse d’accordo con l’adozione, bisogna essere sposati o conviventi da anni per poter tentare. Ed io ora che otterrò sto maledetto divorzio… sarò ancora più vecchia e pure Capozza. Chi vuoi che ci diano in adozione alla nostra età?”

 

“Un bambino di qualche anno, Diana. Che magari non vuole adottare nessuno proprio per quello.”

 

“E lo sai poi quanti problemi avrà ad affezionarsi, no, Imma?”

 

“O magari ti sarebbe grato per averlo tolto da una situazione tremenda, pure se so che prendersi cura di qualcuno che ha subito un abbandono non è facile, per niente.”

 

“Non so se… se è quello che Capozza vorrebbe e poi-”

 

“E poi conta quello che vuoi tu, Diana, te l’ho già detto! Certe cose si devono sentire in due o è un disastro.”

 

“Lo so, Imma, è che… temo che si trovi una più giovane, che possa renderlo padre e-”

 

“E se lo fa è uno stronzo e non ti ama, Diana. Insomma… potrei forse capire Calogiuri, che non c’ha manco trent’anni ed oggettivamente si sta limitando per me e… in futuro potrebbe sentire più forte l’istinto di paternità. Ma Capozza gli anta li ha passati da un po’ e fino a pochi mesi fa giocava a fare il ragazzetto in discoteca. Se mo sente l’istinto paterno fuori tempo massimo non può farne una colpa a te, soprattutto visto che quando ha iniziato a frequentarti sapeva benissimo quanti anni tenevi, Diana.”

 

Diana sospirò e annuì, anche se poi pronunciò malinconica, “certo che sarebbe bello però… ormai Cleo è grande e mi manca fare la mamma, anche se non credo reggerei più quei ritmi.”

 

“A parte che potrebbe e dovrebbe darti una mano pure Capozza, ma poi… potresti vivere anche l’essere madre in modo un poco più rilassato che con Cleo, che volevi essere onnipresente. Però deve essere una scelta tua, Diana. Hai visto cos’è successo con Giuseppe, no? Un figlio non garantisce che una relazione prosegua, anzi, e non sarebbe giusto farlo solo per paura di restare sola.”

 

“Hai ragione, Imma… è che… tu hai sempre vissuto il legame con Valentina appunto in modo più… rilassato, come dici tu. Io sono diversa da te.”

 

“Ma fra me e te ci sta pure una via di mezzo, Diana,” le fece notare, anche se un poco si sentiva ferita quando qualcuno, pure senza cattiveria, sosteneva che lei fosse stata troppo poco presente nella vita di Valentina.

 

Anche se tutti i torti non li avevano, soprattutto dall’adolescenza in poi, ma Pietro era stato così bravo e presente, mentre lei non sembrava riuscire a capirla e farsi capire. E poi perché i padri potevano fare carriera, lavorare gli orari che dovevano lavorare ed essere considerati dei buoni padri lo stesso, mentre le madri no?

 

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“Chissà di cosa staranno parlando….”

 

“Cose di donne, Calogiuri. O magari proprio di noi due, che ne sai?”

 

Erano rimasti indietro per non disturbare ma un poco era curioso, lo doveva ammettere. Forse stare tanto tempo con Imma lo aveva reso più impiccione.

 

“Perché? La signora Diana avrebbe motivo di lamentarsi di te, Capozza?” chiese, semiserio, e Capozza non rispose ma fece un sospiro che lo preoccupò assai.

 

“Capozza, che hai combinato? Ti rendi conto che un’altra come la signora Diana non la trovi più e-”

 

“E che non lo so? E comunque… non ho combinato nulla adesso. Da quando sto con Diana ho sempre rigato dritto: niente discoteche, niente locali, niente donne, che non voglio rischiare di perderla, mo che l’ho trovata dopo tanti anni, ma-”

 

“Il ma mi preoccupa, Capozza. Che è successo? Se sei… un fidanzato modello come dici di essere?”

 

“Eh… succede che a volte il passato torna per fare i conti, Calogiuri. E… e forse è meglio che Diana sia andata a parlare con la dottoressa, così magari mi dai un consiglio. Però mi devi promettere che non lo dici ad anima viva, chiaro? Nemmeno alla dottoressa!” esclamò, voltandosi verso di lui, serio come forse non l’aveva mai visto - trattandosi di Capozza.

 

“Imma ed io ci siamo promessi di non nasconderci niente, Capozza, e comunque se lo faccio mi becca subito, hai presente com’è, no? Ma, se non hai fatto niente di grave nel presente, non lo andrebbe mai a dire alla signora Diana, non è tipo da immischiarsi nei rapporti degli altri, se non per le indagini.”

 

“Eh… ma… secondo me questo correrebbe a dirglielo invece. E se Diana non lo scopre da me sono ancora più spacciato.”

 

“Senti, Capozza, se non me lo volevi raccontare non mi avresti nemmeno accennato nulla, no? Dimmi di che si tratta, che non ho proprio voglia di mettermi a fare interrogatori fuori servizio,” gli intimò e Capozza lo guardò in un modo stranissimo, “che c’è?”

 

“C’è che… somigli sempre di più alla dottoressa, Calogiuri, pure nelle battute.”

 

“Chi si somiglia si piglia, Capozza. Allora?”

 

“E allora… si è rifatta viva qualche settimana fa Cristina. Te la ricordi?”

 

“Ma chi? Quella sposata con cui stavi di nascosto-”

 

“L’estate e l’autunno prima di stare con Diana, sì.”

 

“Son passati tre anni, Capozza, praticamente. Che è successo? Non ti aveva mollato lei per riprovarci col marito?”

 

“Sì… da un giorno all’altro o quasi. Solo che… che mo ho capito perché voleva riprovarci col marito, Calogiuri.”

 

“E cioè?”

 

“Perché… era incinta. Non mi ha detto niente ma… credo si fosse convinta che fosse del marito, in fondo noi abbiamo sempre usato il preservativo... e… e invece-”

 

“EH?!” esclamò e vide Diana ed Imma girarsi, pure a distanza. Urlò, per salvare il salvabile, “mi è finita una conchiglia tra le dita, sto bene!”

 

Loro scrollarono le spalle e continuarono a camminare.

 

“Calogiuri….”

 

“Che Calogiuri e Calogiuri!” sibilò, cercando di tenere la voce bassa, “cioè… tu e Cristina… avreste un figlio?”

 

“Una figlia. Assuntina, detta Tina, come la nonna paterna. O meglio, quella che si pensava fosse la nonna paterna. Sai, tradizioni del sud.”

 

“Scusa, ma… ma sei sicuro che…?”

 

“La bambina ha il gruppo sanguigno non compatibile con quello del… marito di Cristina.”


“E soltanto mo ci sono arrivati a capirlo?”

 

“Un paio di mesi fa… la bimba ha dovuto fare un intervento alle tonsille, perché respirava male la notte. Hanno chiesto ai genitori il gruppo sanguigno per capire se, in caso di necessità, potevano donarle sangue e… lui non se lo ricordava. Quando hanno fatto il test a tutti… il suo è risultato essere 0 positivo, che sarebbe stata pure una buona notizia per la trasfusione. Solo che la bimba è AB è positivo e a quanto pare è impossibile, visto che la mamma è A positivo. E quindi… quel poveraccio ha visto la faccia del medico ed ha fatto due più due. Hanno fatto il test del DNA e hanno avuto conferma. Il marito l’ha lasciata, ovviamente, ed è sparito, mollando però pure la figlia. Cristina quindi mi ha cercato, dice che non vuole obbligarmi a niente, ma… ma che vorrebbe che sua figlia avesse un padre e che pensava che era giusto che lo sapessi.”

 

In effetti Cristina l’aveva fatta grossa ma che il marito arrivasse ad ignorare una bimba che si era cresciuto come una figlia per due anni… Calogiuri quello non lo poteva capire, non del tutto. Pure se il tradimento doveva essere stato terribile ed aver fatto ancora più male, proprio perché la bugia riguardava pure la figlia.

 

“E tu saresti del gruppo B, scommetto?”

 

“Sì… B negativo, rarissimo. Lo so perché… ho donato il sangue per un periodo. E… e comunque ho detto a Cristina che volevo fare il test del DNA prima di… di stravolgere la mia vita ma… ma ho visto delle foto della bambina, Calogiuri, e somiglia tantissimo a mia sorella da piccola.”

 

Calogiuri si passò una mano sugli occhi, non sapendo che dire o fare.

 

“Ho i risultati del test tra… tra pochi giorni. Per intanto ho provato a preparare un poco Diana: quando vediamo dei bambini cerco di… tastare il terreno. E poi a lei manca tanto la figlia… e allora ho pensato-”

 

“E che hai pensato, Capozza? I figli mica sono sostituibili. Neanche se aveste una figlia vostra, figuriamoci se è di un’altra donna. Devi parlarle chiaramente, Capozza, prima che lo scopra da sola, che Matera è piccola e la gente mormora. Sai come l’ha soprannominata Imma, la signora Diana? I servizi segreti di Matera.”

 

Capozza si fermò, scompigliandosi i pochi capelli rimastigli, “sono spacciato, vero?”

 

“Se le parli con sincerità magari no, Capozza. Ma, finché non lo fai, non puoi sapere come la prenderà, nemmeno se tasti il terreno da qua a natale.”

 

“Natale… ti rendi conto che potrei avere una figlia a cui fare il regalo a natale? Chissà a due anni a cosa giocherà!”

 

“Ha più o meno l’età di mia nipote, Capozza. Se serve ti posso dare consigli. Ma se non vuoi finire a fare il padre single, cerca di darti una mossa appena saprai con certezza i risultati.”

 

“La fai facile tu, Calogiuri, sei giovane e… alla tua età è più facile essere coraggiosi.”

 

“Sarà… ma la signora Diana è stata coraggiosa a voler divorziare. Imma non ne parliamo, che è coraggiosissima. E sono molto più vicine all’età tua che alla mia Capozza.”

 

“Ma sono donne, Calogiuri. E le donne su certe cose sono sempre state più coraggiose di noi uomini.”

 

“Solo perché ci fa comodo usare questa scusa per non esserlo, Capozza, come tante altre che usiamo per scaricare la responsabilità su di loro, con l’alibi che è sempre stato così.”

 

“Ma che mi sei diventato una femminista, Calogiuri? A te stare troppo con la dottoressa t’ha fatto male!”

 

“Sono solo realista, Capozza, e non pieno di pregiudizi cretini su cosa può e non può o deve o non deve fare un uomo. E poi… è meglio il rischio di perdere la signora Diana o la certezza, se non le dici niente subito?”

 

Capozza annuì, anche se dall’espressione e da come abbassava le spalle pareva un uomo distrutto. Certo, non era in una situazione facile. Per niente.

 

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“Stanca?”

 

Imma si era appena seduta sul letto, ancora in accappatoio, i capelli raccolti in un turbante.

 

“Più che altro c’ho i piedi distrutti, Calogiù. Mi servirebbe un bel massaggio…” proclamò, girandosi verso di lui, che già era in maglietta e pantaloncini, e lanciandogli un’occhiata eloquente, “ma solo ai piedi, perché dopo le ultime due notti e la sfacchinata di oggi… temo di aver bisogno di dormire.”

 

“Va bene, dottoressa. Sia per il massaggio che per… la localizzazione del massaggio. Però poi potresti ricambiare, che pure io ho i piedi che non li sento più o quasi.”

 

“Se non mi addormento col massaggio più che volentieri, Calogiuri. Anzi, vuoi che lo faccio io per prima a te?”

 

“Prima le signore…” rispose, guardandosi intorno, “ma ce l’hai l’olio?”

 

“E che non mi conosci? Nel mio nécessaire,” spiegò, indicandogli l’oggetto oblungo di plastica leopardata che stava su una mensola.

 

Lo aprì, trovò la boccetta e raggiunse di nuovo Imma, che nel frattempo si era distesa sul letto, con l’espressione soddisfatta di quando otteneva qualcosa che le piaceva molto.

 

Si sedette ai suoi piedi, aprì l’olio, lo versò, cercando di non sporcare, ed iniziò col massaggio. Ormai con Imma ed i suoi dolori da tacchi alti era diventato un esperto a farli.

 

“Mmmm… mmm…”

 

I mugolii di Imma lo raggiunsero, dopo qualche attimo di silenzio, trascorso con gli occhi chiusi, facendogli il solito effetto, per fortuna e purtroppo.

 

“Imma… se fai così non mi aiuti, lo sai.”

 

“Mica è colpa mia se sei così bravo a farli i massaggi,” rispose, aprendo pigramente un occhio, “e comunque allora distraimi con qualcosa… parliamo un po’.”

 

“E di che cosa?”

 

“Tipo… di cosa confabulavate tu e Capozza stasera?” gli domandò, con un sorrisetto, e gli prese un colpo, “Calogiù, ti si sono contratte le mani. Di che parlavate, esattamente, per avere una reazione così? E non mentire che ti becco, che le mani sono tipo la macchina della verità.”

 

“Sei… sei impossibile, lo sai?” le chiese, scuotendo il capo: lo aveva incastrato per bene, “e comunque allora io ti dovrei chiedere di cosa stavi parlando con la signora Diana.”

 

“Ed io non avrei problemi a dirtelo, Calogiuri, così magari lanci qualche segnale a quell’idiota del tuo amichetto, che è delicato come un caterpillar, proprio.”

 

“E cioè?” domandò, non potendo evitare di prendersi un altro colpo, ma se la signora Diana l’avesse saputo, l’avrebbe già ucciso a Capozza, no?

 

“Cioè che… sta facendo di tutto per far capire alla povera Diana che vorrebbe figliare e diffondere i suoi orrendi geni. Ma mi sa che si è perso le lezioni di anatomia e riproduzione a scuola, Calogiù, perché ovviamente Diana c’ha un’età in cui non è che sia facile per lei rimanere incinta. Ha tante paure e si sente molto pressata. Magari potresti fargli qualche bel discorso al tuo amichetto? Se no, se prosegue così, lo chiamo io personalmente per fargli un cazziatone che non se lo scorda finché campa.”

 

Calogiuri rimase ammutolito: gli doleva dare ragione ad Imma ma Capozza era davvero un idiota. Altro che tastare il terreno, aveva fatto solo che peggio!

 

“E allora, che grandi segreti c'aveva Mister Delicatezza da raccontare?”

 

“E che ne sai che i segreti erano di Capozza e non i miei?”

 

“Perché hai urlato un EH!? che t’hanno sentito fino in Sicilia, Calogiuri, come minimo. E poi… e poi spero vivamente che tu non sia così disperato da farti consigliare da Capozza.”

 

Rise, perché non poteva evitarlo: quanto la adorava quando faceva così!

 

“Imma… ascolta… effettivamente è una cosa di Capozza che… che mi avrebbe chiesto di tenere il segreto. Io gli ho detto che non potevo prometterglielo, che noi due ci raccontiamo tutto ma-”

 

“E bravo, Calogiuri! Ottima risposta!” lo interruppe, rimettendosi a sedere ed allungandosi per posargli un bacio sulle labbra e dargli un pizzicotto ad una guancia.

 

“Però… se ti dico questa cosa, mi prometti che non la dirai alla signora Diana? Anche se penso che pure tu concorderai che non sia il caso.”

 

“O dio mio! Che ha combinato mo, Capozza? Non dirmi che c’è un’altra abbastanza pazza da voler stare con lui?”

 

“No, no… è… è più complicato….”

 

“Oh Gesù! Complicato quanto?”

 

“Talmente tanto che faccio prima a raccontartelo, dottoressa.”

 

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“E quindi attende i risultati dei test e… e poi se… se sarà come pensa, lo dirà alla signora Diana.”

 

Si lasciò cadere indietro sul cuscino dalla botta. Altro che massaggio rilassante! Non osava immaginare come si sarebbe sentita Diana!

 

“Non… non dirai niente alla signora Diana, vero?”

 

“A parte che puoi pure chiamarla Diana, che non lavorate più insieme e non è un tuo superiore. Ma certo che non le dirò niente, Calogiuri, ma che sei matto?! Deve essere Capozza a dirglielo e magari pure a cambiare marca di preservativi!”

 

Calogiuri rimase per un attimo immobile, poi scosse il capo, chiaramente incredulo della sua reazione.

 

“Però se il tuo amico non ne parla a Diana entro… diciamo entro un mese, vado io da lei e glielo dico, chiaro? Che non può non sapere una cosa del genere.”

 

“Imma, se Capozza non si decide, quasi quasi ti accompagno,” rispose, ed era ironico ma fino ad un certo punto, “però… però magari alla fine non è sua figlia, no?”

 

“Ma se ha detto che il gruppo sanguigno c’è e pure la somiglianza con la sorella. Che, per il bene di quella povera creatura, spero somigli il meno possibile a Capozza.”

 

“Sei tremenda!” rise Calogiuri, sembrando però sollevato.


“E dai, Calogiuri, lo sai che sdrammatizzo in certe situazioni! Almeno Diana non dovrà preoccuparsi di una nuova gravidanza ma… sarà una botta tremenda per lei.”

 

“Se… se ci fossimo noi due al loro posto, tu che faresti?” le chiese ed Imma si rizzò immediatamente seduta, puntandogli un dito al petto.

 

"Non è che c’hai da dirmi qualcosa, Calogiuri?”

 

“Non dirlo nemmeno per scherzo! Io con poche donne sono stato nella mia vita e ho la certezza assoluta di non avere lasciato figli in giro, per fortuna.”

 

“Visto chi sono le altre donne di cui sono a conoscenza, Calogiuri, direi proprio. Fortuna tua e di quelle povere eventuali creature!” rispose, pensando a Maria Luisa, a Lolita e pure a quella grandissima stronza di Matarazzo.

 

Non che le altre non fossero definibili con gli stessi aggettivi. Lei tutto sommato, in confronto, era tranquilla e gentile.

 

“Ribadisco: sei tremenda!” rise, e poi proseguì, “secondo te c’è speranza che la signo- insomma, che Diana lo perdoni?”

 

“Calogiuri, non lo so… alla fine è successo prima che stessero insieme, no? E Diana… pure lei nel frattempo stava ancora con Giuseppe. Quindi… se fossi in lei credo che lo capirei a Capozza, se vorrà fare la cosa giusta, anche perché molto probabilmente è la sua ultima possibilità di avere una figlia. E poi Diana è contrarissima ai padri e madri che se ne fregano dei figli. Però… credo che io al suo posto temerei molto il rapporto che si potrebbe instaurare tra questa Cristina e Capozza. Un figlio unisce per sempre, Calogiuri, come tu ben sai, visti tutti i casini di Pietro ai quali ti sei trovato in mezzo.”

 

“Lo so… ma… alla fine per essere bravi genitori non bisogna stare insieme necessariamente, no? Anzi, è solo peggio se non ci si ama più.”

 

“Lo so, Calogiuri. Ed infatti Valentina, sarà pure la fine dell’adolescenza, ma… abbiamo un rapporto migliore mo di quanto l'abbiamo avuto mai. Forse… forse perché sono felice come non lo sono mai stata e quindi… riesco ad essere una madre migliore. O meno peggio, secondo i punti di vista.”

 

“Sei una madre bravissima, altroché!” esclamò, e si trovò stretta in un abbraccio.


“Pure tu… saresti un papà bravissimo, Calogiuri. Come ieri con quei disgraziati di Serra Venerdì. Anche se-”

 

“Imma, te l’ho già detto,” la interruppe, forse perché aveva udito il suo nodo in gola, “se avrò un figlio o figlia con te va benissimo, se no… ci sono tanti disgraziati al mondo da aiutare. E poi non ho fretta. Sto benissimo con te e basta.”

 

“Pure io, Calogiù, pure io. Ma… se ti prendesse l’istinto paterno… promettimi che me lo dirai chiaramente e non con… metodi alla Capozza, almeno!”

 

“Su quello non c’è pericolo, dottoressa!” rise ancora, dandole un bacio sulla guancia e lasciandola andare, “e mo finiamo questo massaggio o no? Che poi tocca a me!”

 

Si riaccasciò sul cuscino, più che felice di lasciargli il campo libero. Solo che il sonno era passato del tutto. E quindi si ripromise che, se il massaggiatore si fosse comportato bene, non si sarebbe limitata soltanto ai piedi.

 

In fondo in quella casa avevano sempre fatto tutto tranne che dormire.

 

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“Calogiù, dobbiamo sbrigarci, che è tardi!”

 

Afferrò il trolley della gattamorta, lo aprì ed iniziò a buttarci dentro tutto quello che aveva lasciato in giro nei giorni precedenti.

 

“Non è colpa mia se qualcuna mi ha fatto fare le ore piccole e poi siamo rimasti addormentati!” le fece notare, con uno sguardo che le faceva venire voglia di ricominciare tutto da capo.

 

“Proprio la pistola ti ho puntato, Calogiù!” replicò, dandogli un buffetto su una mano, prima di ordinare, “dai, che dobbiamo lasciare l’appartamento prima di mezzogiorno.”

 

“Agli ordini!” sbuffò, ma poi lo vide afferrare il suo borsone ed iniziare a levare gli abiti usati da entrambi per il golf, che erano ancora rimasti lì dentro, “il completo da equitazione lo prendi tu? Che se no-”

 

Si interruppe improvvisamente, estraendone un foglietto di carta, ripiegato in due. Imma rimase un attimo sorpresa, perché non si ricordava di essersi portata dietro nulla per scrivere e l’agendina Calogiuri se la teneva sempre in tasca o al massimo, fuori servizio, sul comodino, come in quel momento.

 

Il modo torvo in cui gli si aggrottarono le sopracciglia non lasciava presagire niente di buono ed Imma temette qualche minaccia. Ma come avevano fatto a farla finire nel borsone senza che né lei né Calogiuri se ne accorgessero?

 

“Che succede?” gli chiese e Calogiuri, per tutta risposta, buttò il bigliettino sul letto, tra il borsone ed il trolley, manco fosse immondizia.

 

Una potenziale prova non l’avrebbe mai maltrattata in quel modo. Allungò le dita per afferrare la carta, ormai incuriosita, e quello che ci trovò la lascio completamente incredula.

 

Mi piaci da impazzire e vorrei conoscerti meglio. Jonathan

 

E c’era un numero di cellulare, scritto preciso preciso in fondo al foglietto al centro. Sentì caldo alle guance: a certe cose non era abituata a vent’anni, figuriamoci a quaranta!

 

Allora forse non se l’era immaginata quell’eccessiva vicinanza in alcuni momenti, mentre la aiutava a tirare.

 

“Dovevo immaginarmelo, visto che ha passato più tempo a guardarti il culo che il green.”

 

“Calogiuri!” esclamò, scioccata, ancora di più per il termine usato che per la notizia in sé: di quello non si era proprio minimamente accorta.

 

“Scusami, ma quando ci vuole ci vuole, e quello è proprio un maiale!”

 

“Ma… ma allora… è per quello che hai fatto quel commento, tipo ce ne siamo accorti, quando mi ha chiesto se fossi col completo da equitazione?”

 

“E certo! Per carità, posso pure capirlo, che… che con i pantaloni attillati e senza giacca si nota di più… e oggettivamente hai un… lato B perfetto, ma c’è modo e modo.”

 

“Un lato B perfetto, eh?” gli chiese, avvicinandosi e cingendogli la vita, prima di dargli un pizzicotto proprio lì, “pure tu non stai messo male, anzi!”

 

“Imma! Non dobbiamo fare la valigia?”

 

“C’hai ragione. Ma a casa recuperiamo!”

 

“Va bene, ma… ma veramente non ti sei accorta che quello ci stava provando?”

 

“Mi era sembrato un po’ troppo vicino in alcuni momenti, ma poi vedendolo con gli altri ho pensato di essere paranoica. Alla fine gli istruttori fanno spesso i gentili con le clienti per le mance.”

 

“Sì, quello altro che le mance voleva!”

 

“E invece manco quelle si becca, lo lascio volentieri alla Moliterni,” proclamò, prendendo il bigliettino e buttandolo nel cestino vicino al letto, “e poi ho sempre preferito i mori. Soprattutto uno.”

 

Gli piantò un bacio sulle labbra dischiuse in un sorriso e riprese a ritirare le ultime cose rimaste. Pantaloni da equitazione incriminati inclusi.

 

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“Un caffè doppio ed offro io alla dottoressa.”

 

“Calogiuri! Sei tornato! Altro che caffè doppio ti serve: c’hai l’aria stravolta!”

 

Irene lo guardava con un mezzo sorrisetto ed un sopracciglio arcuato, prima di bersi un altro sorso della sua amata brodaglia verde.

 

“Eh… sono state giornate fisicamente molto intense-” esordì, prima che Irene scoppiasse in un attacco di tosse, facendolo avvedere del doppio senso. Le diede un paio di pacche sulle spalle, mentre chiariva con un, “intendo che abbiamo camminato tanto e poi il viaggio in bus è sempre infinito.”

 

“Calogiuri, te possino, come dicono qui a Roma!” proclamò, tra gli ultimi colpi di tosse, “un giorno mi farai prendere un colpo! E comunque immagino ci sia stato pure un altro genere di intensità fisica, vedendo come sei contento, ma non voglio dettagli, grazie!”

 

“E va beh…” si schernì, toccandosi il collo, prima di prendere la tazzina del caffè, ignorando l’occhiata divertita della barista, e berlo tutto d’un sorso.

E poi si sentì afferrare per il gomito ed Irene, che ormai aveva finito pure lei, lo trascinò fuori dal bar, “e allora, sei pronto pure per la nostra di trasferta, Calogiuri? Quella vera?”

 

“Sì, sì. Però ti volevo ringraziare, insomma, per avere aiutato Imma a-”

 

“L’ho fatto per te, Calogiuri, perché non ne potevo più di vederti sempre triste. Ma spero che Imma ti tratti meglio da ora in poi, gliel’ho già detto pure a lei.”

 

“Forse… forse stavolta avevo esagerato pure io. Mi sono fatto prendere dai dubbi e dalle paure… ma non ne avevo motivo, veramente. Imma me lo ha dimostrato in tutti i modi.”

 

“Di nuovo non voglio sapere quali, Calogiuri,” sospirò, prima di aggiungere, in tono basso, “non abbiamo neanche due settimane per preparare questa trasferta, Calogiuri, e ovviamente, stavolta che facciamo sul serio, dobbiamo arrivarci preparati. Se vieni nel mio ufficio ti spiego cosa ho raccolto, che ho bisogno che mi aiuti nelle ricerche preliminari su quell’avvocato e poi… su un paio di altre cose. In queste due settimane preparati che faremo tardi quasi tutte le sere. Non possiamo permetterci errori a Milano.”

 

“Va bene…” rispose, sentendosi già stremato e ringraziando il cielo di avere un fine settimana libero prima di quello a Milano.

 

Se Irene non glielo riempiva, naturalmente.

 

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“Buongiorno, dottoressa, la trovo bene!”

 

“Grazie, Conti. Ha novità per me?”

 

Conti fece una faccia dispiaciuta, tanto che Imma si preoccupò, “che succede, Conti?”

 

“Niente, dottoressa. Nel senso che i pedinamenti alla receptionist dello studio legale dove lavorava Galiano sono risultati in un nulla di fatto. Non volevo disturbarla in vacanza per dirglielo ma… la receptionist non ha visto o sentito nessuno di sospetto.”

 

Imma sospirò: e certo, mica poteva essere tutto così semplice. Il caso Spaziani era un casino enorme fin da quando era cominciato. Forse non restava che una soluzione, arrivati a quel punto.

 

“Conti, sa dove la signorina va a pranzo abitualmente?”

 

“Sì, dottoressa, in un bar vicino allo studio legale. Perché?”

 

“Perché ci dobbiamo andare pure noi a pranzo. Dobbiamo parlarle ma senza attirare troppo l’attenzione e non voglio rischiare di convocarla in procura, che magari ha il tempo di mettersi d’accordo con chiunque sia l’autore delle strane chiamate.”

 

“Va bene, dottoressa, ricevuto.”

 

“Novità sui viaggi in Svizzera di Spaziani Jr.?”

 

“No, dottoressa. Nessun aereo per la Svizzera ma… va spesso per lavoro a Milano. Da lì non ci vuole molto a prendere un’auto e ad arrivarci. E i controlli sono quello che sono.”

 

“Ma non abbiamo prove. Va bene, Conti. A questo punto dobbiamo solo sperare che la receptionist parli. Non ci restano molte altre soluzioni.”

 

“D’accordo, dottoressa. Mi avvisa lei quando vuole partire?”

 

“Sì, a dopo,” si congedò, vedendolo uscire e rimpiangendo parecchio i bei tempi del lavoro con Calogiuri.

 

Anche se pure Conti, superata la fase iniziale in cui le aveva dato sui nervi con il suo volersi mettere in mostra, si stava rivelando un investigatore capace. Mariani era pure meglio, ma se ne stava probabilmente su qualche spiaggia tropicale al momento, beata lei!

 

Ma ora doveva concentrarsi sul lavoro: non voleva lasciare irrisolto proprio quel caso. Doveva levarsi il dubbio dell’innocenza di Galiano una volta per tutte e non voleva rischiare brutte sorprese in futuro.

 

Sperava solo che la receptionist non fosse del tutto in combutta con Spaziani, se no… provare la sua colpevolezza sarebbe stato impossibile e le indagini si sarebbero probabilmente arenate ancor prima di arrivare al rinvio a giudizio.

 

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“Benvenuti, signori! Se volete un tavolino c’è qualche minuto di attesa e-”

 

“Guardi, la ringrazio, ma c’è un’amica che ci attende,” rispose, dirigendosi, decisa, verso il tavolo dove stava la giovane centralinista.

 

“Laura!” la salutò, quando fu a due passi, e la ragazza alzò lo sguardo verso di lei e la fissò, confusa, con l’aria di quando qualcuno ti saluta e non hai idea chi sia.

 

E poi spalancò gli occhi, avendo probabilmente capito.

 

“Dobbiamo farti qualche domanda sull’indagine che tu sai. Rimani seduta che stai già ad un buon tavolo,” le sussurrò, sedendosi accanto a lei. Conti, dopo essersi accertato che la ragazza non se la desse a gambe levate, prese l’ultima sedia disponibile.

 

“Non mi avevi detto che avevi amici oggi, Laura. La tua solita insalata arriverà tra poco. Che cosa vi porto?”

 

“Come Laura, grazie,” rispose Imma, tagliando corto, perché non erano certo lì per mangiare.

 

“Non aspettavi nessun altro, spero,” disse alla ragazza, una volta che il cameriere si fu allontanato.

 

“No, no, ma… ma di solito non dovreste convocare in procura? Mi pare sia quella la procedura.”

 

La ragazza, evidentemente, a furia di stare in mezzo agli avvocati qualcosa lo aveva imparato.

 

“Infatti. E se vuoi ti ci portiamo subito in procura ma… pensavo che magari avresti preferito parlarne qui… visto che, con quello che hai combinato, sarebbe imbarazzante dover spiegare allo studio legale il motivo della tua assenza.”

 

“Che vuol dire?”

 

“E vuol dire che è anche per merito tuo, per così dire, se Andrea Galiano è finito nei casini. E hai rischiato di compromettere la sicurezza dell’intero studio legale.”

 

“Che vuol dire?” ripeté la ragazza, sbiancando e mordendosi il labbro.

 

“Che il venerdì prima che ci arrivasse la soffiata anonima e che trovassimo l’insulina nell’ufficio di Galiano, qualcuno si era dimenticato di inserire l’allarme andando via. E qualcun altro ne ha approfittato per entrare indisturbato, con tanto di chiavi, proprio quella sera. L’ultima ad andarsene senza attivare l’allarme sei stata tu. Ed abbiamo modo di sospettare che le chiavi al misterioso personaggio le abbia sempre fornite tu, Laura. La coincidenza è troppo sospetta ed io non credo alle coincidenze.”

 

La receptionist ormai era un cencio, tanto che, quando arrivò il cameriere, con un’insalata variopinta quanto striminzita, che Imma si pentì amaramente di aver preso uguale, le chiese, “Laura, ma che c’è, non ti senti bene? Vuoi che ti porto un po’ di zucchero, altro che l’insalata, che mangi sempre troppo poco?”

 

“No, no, sto bene, Lucio. Solo un calo di zuccheri, forse, ma con l’insalata vedrai che mi riprendo.”

 

“Ti porto pure ‘na foccaccella però, al posto del pane. E non provare a dire di no. Pure per voi?”

 

“Sì, grazie,” rispose Imma, perché quell’insalata probabilmente non avrebbe saziato nemmeno la nipotina di Calogiuri, figuriamoci lei.

 

“Non è come pensa lei, dottoressa,” mormorò la giovane, sembrando sull’orlo del pianto, “io… io quel giorno non l’ho potuto inserire l’allarme, ma per un errore stupido.”

 

“In che senso?” le chiese, mentre arrivarono le focaccelle e pure le loro tristissime insalate.

 

“Che… che mi ero scordata le chiavi con attaccato l’aggeggio per accenderlo. E l’allarme manualmente non lo so attivare. Lo so che dovrei saperlo fare ma… non ho mai imparato bene, tanto non mi è mai servito. E allora sono uscita per andare a recuperare le chiavi dove le avevo lasciate.”


“E dove le avevi lasciate?”

 

“A… a casa di un tipo da cui ero stata la sera prima e… insomma… ci avevo passato la notte e poi… probabilmente le chiavi mi saranno cadute dalla borsa, non lo so, sa… con la passione.”

 

“E chi sarebbe questo tipo?”

 

“Un certo Fabrizio, l’avevo conosciuto in un locale qualche settimana prima, un bel tipo. Siamo usciti qualche volta ma… ma dopo quella sera, che sono tornata da lui e mi ha ridato le chiavi, è praticamente sparito. Aveva già ottenuto quello che voleva, immagino.”

 

Eh sì che aveva ottenuto quello che voleva. Ma, se aveva ragione, per una volta nella storia del genere maschile, non era portarsi a letto Laura - che era pure una bella figliola! - o almeno, non solo.

 

“Per caso questo...Fabrizio ti aveva chiamata la sera prima?”

 

“Beh, certo, per chiedermi di uscire.”

 

“E per riprenderti le chiavi non lo hai chiamato?”

 

“Ma no, ci siamo mandati qualche messaggio su una app ma… ma poi penso che abbia cancellato il profilo o mi abbia bloccata perché non sono riuscita più a scrivergli.”

 

“Aveva un numero svizzero, giusto?”

 

“Sì, dottoressa, ma come lo sa? Mi ha detto che lavorava molto con la Svizzera, che ci viveva buona parte dell’anno. Infatti quando è sparito pensavo fosse tornato in Svizzera e invece….”

 

“Ma questo Fabrizio com’era? Me lo puoi descrivere?”

 

“Alto, moro, molto elegante.”

 

“Hai una sua foto per caso?”

 

“No, no. Non ci siamo mai fatti selfie e… e la sua foto profilo era di un cane, che diceva essere il suo. Avrei dovuto capire che erano tutte scuse. Come minimo sarà stato sposato!”

 

“E l’indirizzo a cui lo sei andata a trovare?”

 

“Ho scoperto poi che era… un appartamento di quelli in affitto temporaneo. Sa, tramite internet. Quando l’ho capito ho lasciato perdere. Mi aveva detto che era casa sua a Roma. Effettivamente era un po’... vuota, senza foto o altro, ma pensavo che fosse perché la sua casa principale era in Svizzera.”

 

Imma sospirò e fece cenno a Conti che estrasse il tablet e fece scorrere per un po’ sullo schermo, prima di porgerlo alla ragazza dicendole, “ho un po’ di foto da farle vedere. Mi dica se riconosce qualcuno.”

 

La receptionist fece come le era stato chiesto e, mentre Imma tratteneva il fiato, si bloccò proprio di fronte ad una foto di Amedeo Spaziani.

 

“Ma è… questo è Fabrizio!”

 

“Ne sei sicura?”

 

“Al cento per cento! Mica vado a letto con tanta gente, io, che crede?”

 

“Non volevo dire questo,” sospirò Imma, prima di aggiungere, scuotendo il capo, in fondo un poco intenerita, “anche se te li scegli proprio male, Laura. Lo sai che cosa rischieresti sia sul lavoro che… non solo?”

 

“Dottoressa, io… lo so, ho sbagliato, ma non volevo ammettere di aver lasciato lo studio senza allarme.”

 

“E perché non sei tornata ad inserirlo una volta riavute le chiavi?”

 

“Perché… Fabrizio non mi ha ridato solo le chiavi… se ci siamo capiti. E mi sono addormentata a casa sua. E poi il giorno dopo tornare in studio avrebbe solo destato più sospetti. Ho sperato che lo accendessero in automatico quelli della società d’allarme.”

 

“Ed in effetti così è stato. E… quella notte quindi Fabrizio sarebbe rimasto con te tutto il tempo?”

 

“Non lo so, dottoressa. Mi sono addormentata molto profondamente, subito dopo che… che abbiamo finito, insomma. Dovevo essere stanchissima. E mi sono svegliata solo la mattina, ancora un po’ intontita.”

 

Si guardò con Conti. Altro che stanchezza, come minimo c’era di mezzo un sonnifero.


“Avevi bevuto qualcosa prima di dormire?”

 

“Sì, Fabrizio mi aveva portato un bicchiere di prosecco e poi… e poi dopo poco mi sono addormentata.”

 

Alcol e sonnifero, un mix infallibile per stendere qualcuno.

 

“E quindi Fabrizio era rimasto tutto il giorno con le chiavi, giusto?”

 

“Beh, sì, ma… le ho riprese subito, dottoressa. Lei non penserà mica che-?”

 

“Penso, penso, cara la mia Laura. Mo tu finisci la tua insalata con focaccia e poi vieni dritta con me in procura che mi devi firmare la deposizione che hai appena dato.”

 

“Ma e col lavoro?”

 

“Non c’hai appena avuto un calo di pressione?” le chiese, perché anche se sulla sicurezza la ragazza lasciava molto a desiderare, non voleva certo che perdesse veramente il posto.

 

“Va… va bene…” mormorò, prendendo il suo cellulare e digitando un messaggio che Imma, per sicurezza, lesse, con tanto di destinatario. Non che avvisasse il caro Fabrizio.

 

E poi si costrinse a mangiarsi quelle foglie di erbetta, temendo che sarebbe stato l’unico pasto da lì a chissà quante ore.

 

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“Un caffè doppio.”

 

“Due ed offro io alla dottoressa.”

 

“Calogiuri!” esclamò, facendo quasi un salto perché, stranamente, non lo aveva sentito arrivare. Di solito percepiva la sua presenza, la sensazione piacevole che si creava nell’aria.

 

“Caffè doppio alle quattro del pomeriggio. Giornata difficile?” le chiese ed Imma prese la sua tazzina e si diresse verso uno dei tavolini - a quell’ora ce n’erano tanti liberi - si accomodò e aspettò che lui la raggiungesse.

 

“Difficile ma produttiva. Sto aspettando che arrivi Amedeo Spaziani: se tutto va come spero oggi chiudiamo il caso, Calogiuri. E per fortuna Galiano sembra essere definitivamente scagionato. Un pensiero in meno.”

 

“Ma perché hai quell’espressione, allora? Non sembri soddisfatta come al tuo solito.”

 

“Non lo so, Calogiuri… forse sarà che… pensare che un figlio uccida il padre solo per soldi o per vendetta e poi cerchi di rovinare la vita ad uno che nemmeno conosce, con questo accanimento. Siamo proprio fatti male noi umani, Calogiuri.”

 

“Tu sei fatta benissimo,” le sussurrò, pianissimo, avvicinandosi leggermente a lei, in modo che non lo udisse nessuno. Imma si sentì come se le avessero piazzato un phon davanti al viso, oltre alla leggera fitta al cuore.

 

“E tu sei tutto matto, per mia fortuna,” rispose, trattenendosi a stento dall’allungare una mano per accarezzargli una guancia, che non era proprio il luogo adatto. Poi però le venne in mente una cosa importante, “Calogiuri… mi sa che stasera farò tardissimo. Lo so che… tecnicamente il nostro anniversario è oggi, ma….”

 

“Ma lo abbiamo già festeggiato ampiamente, no? Non ti preoccupare. E poi pure io dovrò lavorare fino a tardi e non solo stasera. Irene mi ha dato un sacco di ricerche da fare in preparazione di Milano.”

 

Imma sospirò: sapeva che alla fine era lavoro e la cara collega non aveva torto nel voler arrivare preparata alla trasferta. Ma chissà perché aveva l’idea che, non si fosse trattato di Calogiuri, tutto questo zelo lo avrebbe avuto in forma decisamente più ridotta.


“Non ti preoccupare nemmeno tu, Calogiuri,” rispose però con un sorriso: alla fine la dedizione al lavoro di Calogiuri era una delle cose che l’avevano fatta innamorare di lui.

 

E poi il maxiprocesso era e restava una loro creatura ed era solo che felice che lo seguisse lui e così bene.

 

Pure se c’era di mezzo la gattamorta.

 

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“Vorrei capire i motivi di questa convocazione d’urgenza. I suoi agenti mi hanno praticamente trascinato via da un meeting d’affari molto importante.”

 

“Hanno solamente fatto il loro lavoro, signor Spaziani, e temo che il suo meeting dovrà essere spostato a data da destinarsi:”

 

“Che vuol dire?”

 

Almeno una cosa in comune Spaziani e la receptionist ce l’avevano.

 

“Voglio dire che abbiamo una testimonianza, signor Spaziani, confermata da numerose prove raccolte, che ci dice che è stato lei a piazzare la boccetta di insulina nell’ufficio dell’avvocato Galiano. Insulina che, presumibilmente, si è procurato tramite qualche medico compiacente, sul quale stiamo indagando e-”

 

“Ma che sta dicendo? Io non ho fatto niente!”

 

“Ah no? Quindi lei non ricorda di aver abbordato in un locale Dionigi Laura, receptionist presso lo studio di avvocati per cui lavora il Galiano? Che la Dionigi è stata con lei la sera prima che qualcuno entrasse con le chiavi nello studio, approfittando del fatto che la Dionigi, avendo perso le chiavi mentre stava con lei - anzi, con Fabrizio, come si è fatto conoscere - non era riuscita ad inserire l’allarme? Che la sera dei fatti, quando la Dionigi è andata da lei per riprendersi le chiavi, dopo aver bevuto un bicchiere di prosecco da lei offerto, la ragazza è caduta in un sonno profondo fino alla mattina successiva, risvegliandosi intontita? E lei in quelle ore è entrato nello studio, ha piazzato l’insulina, è tornato nell’appartamento che spacciava come suo, ma che in realtà aveva preso solo per quelle due notti, e poi è sparito. Probabilmente avrebbe voluto fare una copia delle chiavi e basta e poi sparire. Ma si deve essere reso conto che quel tipo di chiavi non sono facilmente duplicabili se non dal produttore e che bisogna identificarsi ed avere l’autorizzazione per farlo. La pianificazione accurata degli eventi, dall’adescamento della receptionist, al numero di cellulare da lei usato, comprato in Svizzera anonimamente, alla sparizione delle chiavi dalla borsetta della Dionigi, è un’ulteriore aggravante dei reati da lei commessi. E perché avrebbe dovuto darsi tutto questo disturbo per incolpare il Galiano, se non per distogliere i sospetti da se stesso? Abbiamo già appurato che l’insulina è in grado di procurarsela, signor Spaziani, in un modo o nell’altro. Se decide di collaborare ed ammette le sue colpe ne terremo conto in fase processuale, altrimenti... tra l’omicidio premeditato con l’aggravante dei vincoli di parentela, il furto, aggravato dall’aver stordito la vittima somministrandole sonniferi senza il suo consenso, l’effrazione presso lo studio legale... se vuole proseguo ma capirà da lei che il prossimo meeting che farà rischia di essere nell’oltretomba o nella prossima vita, se crede alla reincarnazione."

 

Amedeo Spaziani era diventato terreo, che altro che il pallore della Dionigi ed il suo calo di zuccheri. Sembrava invecchiato di dieci anni in pochi minuti.

 

Sapeva di esserci andata giù con l’artiglieria pesante, senza dargli modo di controbattere. Del resto manco sapeva di essere indagato e lei gli aveva spiattellato praticamente tutto quello che aveva combinato negli ultimi mesi. Sperava solo di riuscire a farlo confessare prima che si riprendesse dalla botta, perché di prove non testimoniali ed oggettive non ne avevano molte. Ed i processi indiziari, specie contro qualcuno di buona famiglia, per quanto in difficoltà economiche, non erano per niente facili da portare in giudizio, figuriamoci ad una sentenza di colpavolezza.

 

“No- non è come pensa,” esordì e, non fosse stata la frase più comune tra criminali, traditori e fedifraghi della peggior specie, ci sarebbe stato qualcosa di ironico nella reazione di nuovo praticamente identica dello pseudo Fabrizio e di Laura.

 

“Ah no? E allora come sarebbe?”

 

“Ho… ho messo io l’insulina nell’ufficio di Galiano, è vero, ma non ho ucciso mio padre, non avrei mai potuto. A mio padre volevo bene e la sua morte mi ha distrutto. E proprio per questo, non volevo che Galiano e la… la moglie di mio padre la facessero franca. Lei gli ha fornito l’insulina e lui ha eseguito, dottoressa, è chiarissimo.”

 

“Sa che cos’è la proiezione signor Spaziani? In psicologia si chiama così la tendenza di vedere negli altri, trasferendoli su di loro, sentimenti, stati d’animo, problematiche che non vogliamo ammettere di avere. Ma questa è una proiezione di un altro livello, signor Spaziani. Qua l’unico che ha avuto per le mani l’insulina è lei, oltre ad aver architettato un piano degno di un libro giallo. Ed io dovrei credere che ha fatto tutto questo solo per un desiderio di giustizia? Anzi, diciamo pure di vendetta?”

 

“Perché mai avrei dovuto uccidere mio padre? Era l’unica famiglia che mi era rimasta. E, morendo quando è morto, metà dell’eredità sarebbe finita a quella là.”

 

“Non se quella là fosse stata ritenuta colpevole del suo omicidio, anche in veste di mandante. Ed in ogni caso ho visto i conti della sua società, i prestiti che ha richiesto. L’azienda di famiglia è in crisi, Spaziani, e rischiava di chiudere da qui a qualche anno al massimo. Le servivano disperatamente fondi ed il patrimonio personale di suo padre era molto consistente, pure diviso a metà. Inoltre la sua morte le avrebbe dato la possibilità eventualmente di vendere la società, cosa che suo padre in vita non avrebbe probabilmente mai approvato, dico bene?”

 

Spaziani ammutolì completamente, mentre la fronte cominciava ad essere imperlata di sudore. Sembrava uno che stava vedendo la morte in faccia.

 

“Dottoressa, io… è vero l’azienda di mio padre, cioè... la mia azienda non sta andando benissimo. Ma non avrei mai ucciso mio padre per questo, mai!”

 

“Ma non lo ha detto a nessuno di navigare in cattive acque, Spaziani. Nemmeno alla sua fidanzata e-”

 

“E non potevo dirglielo! Viene da una famiglia molto abbiente ed è abituata ad un certo standard di vita. Temevo mi lasciasse o mi ritenesse comunque un incapace. Speravo di recuperare con l’azienda in qualche mese e-”

 

“E come pensava di riuscire ad avere questo recupero miracoloso? Forse con un’eredità cospicua?” lo interruppe, sbattendo i palmi sul tavolo ed inclinandosi verso di lui, che sobbalzò.

 

“No, no, dottoressa, glielo ripeto io… sì, è vero, ho sbagliato a cercare di incastrare Galiano ma… tutto per me portava a lui e a quella disgraziata di Barbara! Ma non avrei mai ucciso mio padre, mai, avrei preferito finire sotto un ponte piuttosto!”

 

Era un osso duro lo Spaziani. Forse cercava di scagionarsi dall’accusa più grave e consistente come pena, ammettendo almeno quelle minori.


Sarebbe stato un interrogatorio infinito.

 

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“Sono a casa!”

 

Le faceva ancora un poco effetto dirlo, anche perché molto spesso rientravano insieme lei e Calogiuri o comunque se lo trovava nelle vicinanze dell’ingresso

 

Invece stavolta era tutto buio, c’era una luce che filtrava dalla camera da letto, comprensibilmente visto che erano ormai le ventitrè.

 

Interrogare Spaziani era stato estenuante ma non ne aveva cavato niente di più: se ammetteva il resto, sull’omicidio del padre non schiodava di un millimetro dalla sua posizione.

 

Alla fine aveva dovuto arrendersi e predisporre per lui il fermo, sperando che il GIP confermasse la misura cautelare, visto l’enorme pericolo di inquinamento delle prove.

 

Ma ci avrebbe pensato nei giorni seguenti, voleva solo mettere sotto i denti qualcosa di tranquillo ed andare a dormire.

 

Da Calogiuri nessuna risposta, forse si era addormentato già e del resto aveva il sonno di pietra, anche se non era il massimo della sicurezza per uno che faceva il suo mestiere.

 

Si levò i tacchi, per fare meno rumore possibile, e si avvicinò piano piano alla porta quando, all’improvviso, si sentì afferrare per la vita da dietro e cacciò un urlo.

 

“Imma….”

 

“Calogiù, ma sei impazzito?!” gli chiese, voltandosi, e trovandolo a sorriderle nella penombra, “un colpo mi hai fatto prendere!”

 

“E dai, dottoressa, se vuoi andare a rinfrescarti ti aspetto in cucina, che la cena è pronta.”

 

“A quest’ora?”

 

“Cena fredda. Sempre se non hai già mangiato, ma di solito quando interroghi non ti fermi.”

 

Ed Imma si sciolse, nonostante il mezzo infarto: erano queste premure che per lei facevano la differenza, il fatto che la conoscesse così bene, ancora più di tutto il resto.


“Allora mi faccio una doccia e arrivo,” disse, sentendo il bisogno di lavare via tutto ciò che aveva accumulato durante la giornata.

 

Entrò in camera da letto e trovò già disteso sul coprimaterasso il suo completo da notte e la sua vestaglia preferiti, oltre che le ciabatte leopardate accanto al letto.

 

Altro che scioglimento!

 

E quando, rilassata dal getto caldo dell’acqua e dal tessuto morbido della vestaglia, arrivò in cucina, la scena che le parò davanti segnò la resa definitiva alla commozione.

 

In centro al tavolo c’era una piccola candelina e Calogiuri la aspettava sì vestito da casa, ma con una rosa rossa in mano.

 

“Manca mezz’ora ormai ma… è ancora il nostro anniversario, no?”

 

Se lo abbracciò fortissimo e poi notò, mentre gli prendeva dalle mani la rosa, che la tavola era apparecchiata per due.


“Ma ancora non hai mangiato?”

 

“Poco, ma la cena vera volevo farla con te. Anche se è solo una pasta fredda, niente di eccezionale,” si schernì, in quel modo che la inteneriva sempre tanto.

 

“Sei tu che sei eccezionale, Calogiuri, altro che la pasta!” esclamò, piantandogli un bacio, prima di andare verso uno degli armadietti e cercare un vaso per la rosa: che già fin troppe ne avevano uccise nel corso degli anni.

 

“Ma a che cos’è il sugo?” chiese, incuriosita dal colorito rosa, dal quale vedeva spuntare dei gamberetti e delle zucchine.

 

“Gamberetti, zucchine e stracchino, ho trovato una ricetta su internet da fare con quello che avevamo in frigo.”

 

Se ne prese una forchettata, incuriosita, ed era veramente buona.

 

“Allora?”

 

“Allora come sempre un ottimo lavoro, Calogiuri!” ironizzò, mentre lui stappava con un botto una bottiglia che aveva levato dal frigo.

 

“Non è champagne ma prosecco, però… un brindisi ci voleva,” proclamò, passandole uno dei due bicchieri da tavola che aveva riempito quasi fino all’orlo.

 

“Vuoi farmi ubriacare, Calogiuri? Che il prosecco può essere molto rischioso, come ho scoperto oggi.”

 

“In che senso?”

 

“Una lunga storia, poi te lo racconto, ma per stasera niente lavoro!”

 

“Ne sono onorato, dottoressa,” la sfottè, facendole l’occhiolino e proponendo, “facciamo un brindisi?”

 

“Va bene. Alla fiducia, al rispetto e all’amore, Calogiuri, che non ci manchino mai! Pure se sembra il titolo di uno di quei telefilm orrendi con Gabriel Garko che piacevano tanto a Diana.”

 

“Imma…” rise, scuotendo il capo: ma lei era fatta così, non ce la faceva a non sdrammatizzare.

 

Certo, se pensava che solo un anno prima gli aveva finalmente confessato quanto l’amasse, le sembrava fosse passata una vita intera da allora.

 

E, mentre si godeva un bacio al sapore di prosecco, sperò sinceramente che, seppure magari in modo diverso, ogni anno con lui fosse sempre una meravigliosa sorpresa come lo era stato quell’ultimo.

 

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“Quasi pronto?”

 

“Sì, anche se ho dovuto un po’ cambiare la scelta dei vestiti, dalle polo estive a quelle pesanti, che in queste due settimane è arrivato il fresco.”

 

“Meglio che stai più coperto, Calogiuri, che non si sa mai!”

 

Il sorriso e l’occhiolino di Imma lo rassicurarono che non era realmente gelosa. Fino a qualche mese prima gli avrebbe fatto una testa così per quella trasferta ed invece negli ultimi giorni era stata inaspettatamente tranquilla, anche se erano entrambi talmente impegnati che non si erano visti moltissimo.

 

“Che c’è? Ti aspettavi una scena degna di Otello, Calogiù?” gli chiese, con un altro sorriso, avvicinandosi di più a lui e dandogli un rapido bacio.

 

“Forse… almeno qualche raccomandazione, ecco….” ammise, toccandosi il collo, ed Imma rise.

 

“Le cose che ti ho detto quando stavi per partire due settimane fa, pure se ho esagerato parecchio per non farti mangiare la foglia, le pensavo veramente. La Ferrari è completamente diversa da me e se preferissi lei a me sono affari tuoi, Calogiù. Perché se tradisci non perdono, per citarti, e confido che tu voglia ancora stare con me e non con una fidanzata che è peggio della Sfinge, che poi la gattamorta sempre un felino è.”

 

“Imma!” esclamò, anche se gli venne da ridere: era tremenda quando ci si metteva.

 

“Quindi niente raccomandazioni, se non di fare bene il tuo lavoro, come so che lo sai fare, che la sorte del maxiprocesso in questi giorni è nelle tue mani, va bene? Ah, e a proposito di raccomandazioni, c’è un ristorante tipico milanese buonissimo dove mi aveva portata Mancini - e non fare quella faccia!” lo intercettò, dandogli un pizzicotto su una guancia, “dubito la cara Irene ci voglia mettere piede, che sarà troppo calorico per lei, ma ti mando il nome per messaggio, se non vuoi passare un fine settimana a mangiare piatti dai nomi inutilmente in francese o inglese.”

 

“Va bene… anche se dubito avremo molto tempo per fare… i turisti, anzi.”

 

“Dovrete pur mangiare, no?”

 

“Lo spero. E poi guarda che Irene quando ci si mette mangia parecchio, anche se ama cose… più leggere di te.”

 

“Per compensare la sua pesantezza, Calogiuri,” ribatté, non perdendo un colpo.


“Lo sai che un sacco di gente lo direbbe di te, vero?”

 

“Sì, ma almeno io non faccio finta di essere una Fata Turchina e vado orgogliosa della mia pesantezza, alimentare e non.”

 

“Eppure in certe cose sei così leggera, come una piuma,” rispose, approfittando della vicinanza di lei per prenderla di sorpresa e sollevarsela su una spalla.

 

“Calogiuri che fai?!” rise, mentre se la trascinava in bagno.

 

“Ultimo risparmio energetico prima del viaggio?”

 

“In effetti ultimamente abbiamo consumato un po’ troppa acqua, maresciallo, con tutte le docce in solitario!”


Fece un salto che per poco non la faceva cascare: qualcosa gli aveva appena pinzato il posteriore.

 

“Imma!”

 

“Sei tu che hai iniziato col lato B, Calogiu-” provò a protestare, almeno fino a che la spinse nel box doccia e la zittì con un bacio ed un getto d’acqua gelato.

 

Di calore ne avrebbero già prodotto fin troppo.

 

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“Calogiuri! Ti sei incantato? Guarda che hanno annunciato il binario! Meglio che andiamo.”

 

“No, no, è che….”

 

Non si era sbagliato, le due ragazze che si stavano abbracciando vicino all’ingresso al binario erano proprio Valentina e Penelope.

 

“Ma… ma quella è la figlia di Imma?”

 

Irene aveva occhio, come sempre.

 

“Sì, con una sua amica che penso sia appena arrivata da Milano,” spiegò ed Irene fece un’espressione strana.


“Che c’è?”

 

“No, niente, Calogiuri, non ti preoccupare. Andiamo?”

 

Stava per assentire quando, proprio in quel momento, Valentina e Penelope si staccarono dall’abbraccio e Valentina lo notò subito, almeno a giudicare dall’espressione.

 

“Calogiuri,” lo salutò, avvicinandosi a lui insieme a Penelope, che trascinava un piccolo trolley.

 

“Maresciallo. E lei è?” chiese Penelope, guardando Irene con aria circospetta, ma pure Irene aveva sempre quell’espressione indefinibile.

 

“Irene Ferrari, magistrato, Calogiuri ed io stiamo andando in trasferta a Milano.”

 

Valentina sollevò un sopracciglio: forse sapeva o intuiva della gelosia materna nei confronti di Irene ma non disse niente.

 

“Noi ora dobbiamo andare che il treno non aspetta. Buon divertimento, ragazze!” si congedò Irene, con un mezzo sorriso ed un tono strano quanto l’espressione.

 

“Buon lavoro!” rispose Valentina, prima di avvicinarsi a lui e sussurrargli un, “e solo quello, Calogiuri, se no mia madre ti fa cantare nelle voci bianche. E, se non ci dovesse riuscire, ci penso io a darle una mano.”

 

Gli venne da ridere: Valentina su certe cose era fin troppo simile ad Imma.

 

E poi le salutò e seguì Irene che si era già avviata verso il binario.

 

Trovarono la carrozza corretta, salirono e presero posto. Erano nella classe migliore, c’era un sacco di spazio tra un sedile e l’altro e non c’era abituato.

 

Arrivò subito un cameriere, tutto formale, ad offrire loro un calice di vino e portare stuzzichini di aperitivo.

 

Quando se ne fu andato, Irene alzò il calice verso di lui, si sporse per raggiungerlo, nonostante la distanza, e gli disse, “brindiamo a che questa missione sia un successo?”

 

Sorrise, fece toccare i loro calici e poi bevve, almeno fino a che Irene aggiunse, “e, se vuoi, brindiamo anche alla speranza che tu possa non diventare il nuovo Farinelli alla fine del viaggio.”

 

“Chi?” chiese, confuso, ed Irene si fece una risata.

 

“Il più famoso cantante castrato della storia, Calogiuri.”

 

Sentì le guance pulsare da quanto dovevano essere diventate rosse, ma Irene continuò a ridere, aggiungendo poi, facendogli l’occhiolino, “conosco un buon negozio sportivo a Milano. Possiamo farci un salto a comprarti delle protezioni, per sicurezza.”

 

Si infilò in bocca un salatino perché non sapeva come rispondere, mentre Irene aveva tutta l’aria di starsi divertendo un mondo.

 

E forse era proprio questo strano mescolarsi di riservatezza, mistero e di altri momenti in cui era invece così diretta e senza peli sulla lingua a piacergli di lei.

 

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“Secondo te Calogiuri ha capito che… noi due….”

 

“Ma figurati! Ingenuo com’è il maresciallo di tua madre! Non ti preoccupare, Vale!” la rassicurò con un sorriso e sentì una mano sulla spalla mentre si incamminavano verso casa, dopo il viaggio in metro, “piuttosto mi è venuto il dubbio che la collega di tua madre possa aver capito qualcosa. Ci guardava in modo… strano… non so... ho avuto un vibe diverso da lei.”

 

“Sei proprio diventata milanese, con questi termini in inglese,” ironizzò, anche se era un po’ preoccupata: della collega di mamma non sapeva molto, se non che sua madre era terribilmente gelosa del rapporto tra lei e Calogiuri. Probabilmente si sarebbe fatta i fatti suoi, certo c’era sempre la possibilità che ne parlasse con Calogiuri o con sua madre. In caso sarebbe stato un disastro ma… era improbabile oggettivamente, anche perché non le sarebbe venuto in tasca niente.

 

“Comunque secondo me non ti devi preoccupare, Vale. Piuttosto si dovrebbe preoccupare tua madre, che quella lì è proprio figa.”

 

“Ah sì?” rispose, piccata, sentendo una fitta di gelosia e non potendo fare a meno di fulminare Penelope con lo sguardo.

 

“E dai, Vale, non dirmi che sei gelosa! E poi è solo una constatazione oggettiva, ma non è il mio tipo. A parte che è troppo grande ma poi… mi ci vedi con una così, che pare pronta ad un invito della regina Elisabetta?”

 

“E quale sarebbe il tuo tipo?”

 

“Beh… tipo te,” le rispose, abbracciandola del tutto, di lato.

 

Valentina ebbe l’istinto fortissimo di baciarla, dopo due settimane di separazione. Si bloccò appena in tempo, pensando ai giornalisti ed al fatto che non poteva rischiare che i suoi lo scoprissero in quel modo.

 

Ma era durissimo doversi trattenere sempre: capiva cosa doveva aver passato sua madre quando si era innamorata di Calogiuri ed avevano dovuto nascondersi da tutti.


Certo, almeno lei e Penelope erano entrambe libere e non facevano male a nessuno. Ma purtroppo una buona fetta della popolazione non l’avrebbe affatto pensata così.

 

E sperava vivamente che i suoi genitori, almeno, facessero eccezione.

 

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Stava mettendosi in bocca l’ultima forchettata di pasta tonno, olio, aglio e peperoncino, quando un dito che pigiava smodatamente sul campanello le fece andare di traverso gli spaghetti.

 

Guardò l’orologio ed erano quasi le ventidue: con il fatto che Calogiuri era via con la gattamorta ne aveva approfittato per smaltire del lavoro arretrato, invece che tornare subito a casa da sola.

 

Chi poteva essere a quell’ora di venerdì sera? L’unica ipotesi era qualcuno della procura, ma perché non telefonare prima?

 

“Chi è?” chiese, non facendo nulla per celare il tono scocciato.


“Imma! Sò io, aprimi per favore che diluvia!”

 

Lanciò un’occhiata verso la finestra, avendo conferma che in effetti aveva iniziato a piovere e pure di gran lena, mentre una parte di lei si chiese se fosse in un sogno bizzarro.

 

Eppure quella era proprio la voce di-

 

“Diana, Imma, sò Diana, aprimi per piacere!”

 

Si riscosse dal torpore e, se il meteo non avesse appena deciso di scaricare tutta l’acqua mancata nell’estate precedente, avrebbe fatto ulteriori domande, ma si limitò a premere il pulsante di apertura porte, mentre un presentimento si fece strada, fino a diventare una certezza lampante.

 

Capozza ed il DNA.

 

Quando si trovò davanti Diana, bagnata dalla testa ai piedi, che le si buttò in braccio disperata, quasi peggio di quando le aveva confessato il tradimento di Giuseppe con la collega di Trieste, maledisse Capozza, i suoi spermatozoi troppo attivi, la marca di preservativi da lui usata ed il giorno in cui lei aveva deciso di dare l’indirizzo di casa a Diana in caso di emergenza.

 

Diana stava pure provando a spiegare, ma piangeva talmente tanto che l’unica cosa che riusciva a capire era qualcosa che finiva in -ardo e che, non trattandosi di lei, evidentemente non era leopardo ma bastardo.

 

“Diana… Diana…” provò a calmarla, anche perché si stava infradiciando pure lei e rischiavano che tutti i vicini venissero a conoscenza della neo paternità di Capozza, “Diana, vieni dentro mo. Vai in bagno, ti fai una doccia calda, prima che ti pigli un accidente, ti cambi e poi parliamo, va bene?”

 

Forse per il tono di comando e la deformazione professionale da tanti anni alle sua dipendenze, Diana singhiozzò ancora una volta e poi annuì, consentendole di tirarla dentro casa insieme alla valigia e chiudere finalmente la porta d’ingresso.

 

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“Dottoressa, bentornata! Da un po’ che non avevamo il piacere di averla come ospite.”

 

Il receptionist, vestito in uniforme, elegantissimo, accolse Irene come se fosse una di famiglia. Erano in un hotel a cinque stelle, sicuramente uno dei più cari di Milano, e Calogiuri si sentiva intimidito già solo dall’ingresso, con gli uomini che gli avevano preso la valigia. Non era mai stato in un posto del genere, neanche alla lontana.

 

“Grazie, Enrico. Eh sì, ultimamente ho sempre meno necessità di venire a Milano, anche se resto meneghina nel cuore e nell’anima.”

 

“Milano è sempre Milano, dottoressa. Sono lieto di vederla in compagnia, stavolta,” rispose con un sorriso, rivolgendosi a lui, “signor Calogiuri, sarà l’uomo più invidiato dell’hotel.”

 

Provò a rispondere, ancora più in imbarazzo, ma il receptionist proseguì con un entusiastico, “dottoressa, dato che l’hotel è pieno ed abbiamo terminato le doppie, vi abbiamo fatto l’upgrade ad una delle suite.”

 

“Come una suite?!” chiese Irene, aggiungendo, all’occhiata sorpresa del receptionist, “cioè, Enrico, la ringrazio molto per la premura ma… avevo prenotato due stanze, mentre immagino la suite sia una sola. Calogiuri è un mio collega, siamo in viaggio di lavoro.”

 

“Si tratta di una suite con due stanze da letto, salotto e bagno in comune. Con chi ha fatto la prenotazione? Purtroppo avevano segnato solo una stanza doppia executive. Mi dispiace moltissimo per l’inconveniente.”

 

“Va beh, dottoressa, posso cercare un posto in un hotel qua vicino, no? E-”

 

“E non lo troverà. Forse qualcosa di libero c’è solo dall’altro lato di Milano, in periferia. Qua in zona ed in centro siamo tutti pieni. C’è la fiera della tecnologia e ci sono visitatori ed espositori da tutto il mondo, soprattutto Est Asia e Stati Uniti.”


“L’ho fatta al telefono la prenotazione, Enrico… non ricordo con chi... e comunque… ci saremo capiti male. Ormai quello che è fatto è fatto. Calogiuri, che ne pensi? In ogni caso ognuno ha la sua stanza, no? E di te voglio proprio sperare di potermi fidare.”

 

“S- sì, sì,” balbettò, maledicendo il rossore che sentiva uscirgli sulle guance.

 

Ma alla fine aveva già dormito sul divano di casa di Irene una notte. Sarebbe stata la stessa cosa, in fondo, solo più comodo, avendo un letto a disposizione.

 

Certo, forse Imma non sarebbe stata della stessa idea.

 

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“Diana! Tutto bene? Se non mi rispondi subito, io entro!”

 

Aveva pazientato ma, dopo più di mezz’ora da che era sparita in bagno - senza alcun rumore di phon che avrebbe potuto giustificare la tempistica prolungata - cominciava a preoccuparsi seriamente.

 

Nessuna risposta e quindi girò la maniglia ed aprì di poco la porta. Si trovò di fronte la stanza ancora calda ed umida di condensa, Diana avvolta nel suo accappatoio di riserva e con un asciugamano a turbante in testa, che piangeva silenziosamente seduta sul water.

 

“Diana…” sospirò, avvicinandosi, “per piangere da sola in bagno potevi farlo pure a Matera, senza farti più di quattrocento chilometri e-”

 

“Imma!”

 

Se la ritrovò aggrappata alla vita, che piangeva con la testa nascosta nella sua pancia. Per un attimo le ricordò Valentina e le fece tenerezza.

 

“Diana… mo ti cambi e poi parliamo con calma, va bene?” le chiese, sollevandola quasi a forza e portandola verso la camera da letto, dove le aveva piazzato il bagaglio.

 

Diana sembrava spaesata, confusa, tanto che alla fine le dovette aprire la valigia, selezionare un completo intimo, un pantalone ed un maglioncino che ci aveva appallottolato dentro alla rinfusa - Diana normalmente non lo avrebbe mai fatto - e metterglieli praticamente in mano perché si risvegliasse e iniziasse a slacciare l’accappatoio per rivestirsi.

 

“Ti aspetto in salotto. Se non ti vedo entro cinque minuti ti vengo a riprendere a forza.”

 

Diana annuì, il viso distrutto, ed Imma uscì dalla stanza per lasciarle un po’ di privacy.

 

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Due rintocchi sul legno lo fecero sobbalzare, mentre si infilava una maglietta dopo la doccia. La stanza era piacevolmente calda, a differenza della temperatura esterna, molto più frizzante che a Roma.

 

“Sì?”

 

“Ci è arrivata la cena, Calogiuri. Mi sono permessa di ordinare pure per te, che è tardi e immagino avrai fame.”

 

“La cena?” domandò, sorpreso, finendo di rivestirsi ed andando ad aprire la porta: effettivamente in treno avevano giusto spizzicato un po’.

 

Come la porta si spalancò del tutto e la vide, il sangue gli finì tutto in viso: Irene indossava una canotta ed un paio di pantaloncini di seta, bordati di pizzo, che le arrivavano a metà coscia, oltre alle ciabatte dell’hotel.

 

E basta.

 

“Sai… pensavo di essere sola in stanza e… so che qui fa sempre caldo, tranne d’estate che c’è l’aria condizionata. Se… se ti mette a disagio mi metto qualcosa da giorno, ma non ho portato molti cambi,” spiegò, sembrando pure lei un poco imbarazzata.

 

“N- non ti preoccupare, e non volevo metterti io a disagio… è che… non me lo aspettavo.”

 

“Nemmeno io, Calogiuri,” rispose con un sorriso, lanciando un’occhiata alla sua maglietta bianca, effettivamente abbastanza attillata. Per fortuna si era portato un paio di pantaloni della tuta e non solo i boxer come faceva a casa, “dai, vieni che è pronto, anche se non si fredda.”

 

“In che senso? Perché fa caldo in stanza?” scherzò, per cercare di allentare la tensione, seguendola nella zona living, come l’aveva definita il ragazzo in livrea che aveva mostrato loro la suite.

 

Non potè fare a meno di notare che Irene aveva delle gambe chilometriche, soprattutto quando si sedette sul divano e le accavallò: di solito vestiva in modo elegantissimo sia d’estate che d’inverno, quindi al massimo lasciava scoperto il ginocchio. Che fosse bella era innegabile.

 

Se Imma li avesse visti in quel momento probabilmente lo avrebbe ucciso. Ma nasconderle la cosa della suite sarebbe stato ancora più pericoloso.

 

“Ti piace, Calogiuri?” gli chiese all’improvviso, ridestandolo dai suoi pensieri, e altro che avvampare.

 

“Co- come?”


“La poké con salmone ed avocado ti piace, Calogiuri?” ripeté, con un sorrisetto divertito, “Il sushi mi pareva lo apprezzassi….” 

 

“Ah… non… non lo so, non ho mai provato,” balbettò, indirizzando lo sguardo al piatto fondo che aveva davanti, che pareva effettivamente un sushi fatto a mo di insalata.

 

“Sotto c’è il riso. L’ho preso bianco classico per te. Un goccio di vino? Rosato frizzante, è di una cantina di un’amica che rifornisce l’hotel,” spiegò, versandogli un calice senza attendere risposta e porgendoglielo, sempre con quel mezzo sorriso.

 

Lo afferrò quasi in automatico e poi Irene sollevò il suo per un brindisi silenzioso, prima di chiedergli, mentre stava sorseggiando il vino, che effettivamente era buonissimo, “che c’è? Stai già pensando a quanti strati di protezioni dovrai comprare per essere al sicuro al nostro rientro a Roma?”

 

Il vino gli andò di traverso ed iniziò a tossire, cercando di prendere un respiro. Sentì delle pacche sulle spalle, mentre Irene, ironizzava, imperterrita, “guarda che sei tu che dovresti fare da guardia del corpo a me in questa missione, Calogiuri, non il contrario.”

 

E, quando alla fine tornò a respirare ed Irene si riprese la mano e si allontanò leggermente da lui, sedendosi con le gambe ripiegate, alla giapponese, sul suo lato di divano ed iniziando a mangiare, si impose anche lui di fare lo stesso.

 

Non sapeva se fosse di più il terrore di sporcare il costosissimo divano in pelle, tra le bacchette e le mani che ancora un poco gli tremavano o quello di come spiegare ad Imma la situazione nella quale si trovava.

 

Altro che protezioni!



 

Note dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo capitolo. Come avete visto si preannunciano casini, tra Imma impegnata con una Diana disperata giunta in cerca di conforto e Calogiuri che si ritrova a dover dividere l’alloggio con Irene… con le possibili conseguenze del caso. Si proseguirà inoltre coi gialli e… forse scopriremo finalmente qualcosa di più sul passato della Ferrari.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, nonostante quest’ambientazione un po’ particolare in tre città diverse. Vi ringrazio di cuore per avermi seguita fin qui e, come sempre, sapere cosa ne pensate mi aiuta tantissimo anche a tarare meglio i capitoli, quindi vi ringrazio tantissimo fin da ora se vorrete lasciarmi una recensione.

Grazie mille a chi ha aggiunto la storia nei preferiti e nei seguiti.

Il prossimo capitolo arriverà domenica 13 settembre e spero di riuscire poi a riprendere con la pubblicazione settimanale. In caso non sia possibile vi farò sapere come sempre a fine di ogni capitolo.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 44
*** Confidenze ***


Nessun Alibi


Capitolo 44 - Confidenze


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“E c’ha una figlia, Imma, una figlia!! Ti rendi conto?!”

 

E sì che se ne rendeva conto! - soprattutto visto che la sua povera camicia da notte leopardata ormai era inondata dalle lacrime di Diana, per non parlare di quanto tirava. Ne avrebbe dovuta comprare una nuova, molto probabilmente. Sempre se Diana l’avrebbe mai lasciata andare, perché erano almeno quindici minuti buoni, se non venti, che parlava e piangeva.

 

“Diana, Diana, cerca di calmarti però mo, che va bene sfogarsi, ma così rischi di sentirti male,” le disse, dandole due colpi sulle spalle per cercare di consolarla.

 

E fu in quel momento che Diana alzò finalmente il capo dal suo seno ma, quando due occhi azzurri la guardarono sospettosi, capì che c’era qualcosa che non andava.

 

“Che c’è?”

 

“C’è che non mi sembri affatto stupita, dottoressa,” sibilò Diana, staccandosi del tutto, “io ti dò una notizia bomba e tu mi dici di calmarmi?! Nemmeno una battuta su Capozza?”

 

“Diana, e dai, su, fare battute su Capozza in questo momento è come sparare sulla crocerossa! Che poi, più che sperare che quella povera creatura non abbia preso niente da lui che posso fare?” ironizzò, sperando di confondere le acque.

 

“Tu già lo sapevi, non è vero?” le chiese, prima di intimarle, con un dito puntato al petto, “non mentire che se no….”

 

“E se no che, Diana? Mi pugnali con un dito?” le chiese, prendendole mano e dito con un sospiro, “comunque tutta questa capacità intuitiva quando lavoravi per me non ce l’avevi.”

 

“Facevo finta di non averla, che tu certe cose preferivi pensare che non le capissi, ma-”

 

“Diana, ascolta,” la esortò con un altro sospiro, riprendendosi il tono di autorità che con la sua ex cancelliera funzionava sempre, “Capozza si è confidato con Calogiuri che… lo sai che lo becco subito se prova a nascondermi qualcosa, no? Ma Capozza non aveva ancora il risultato del test, era soltanto un sospetto. Calogiuri ed io gli abbiamo intimato di dirtelo in caso… fosse positivo, ma… era giusto lo facesse lui, Diana. Se non lo avesse fatto, sarei venuta personalmente a Matera a trascinarlo per le orecchie, pure se avrei dovuto disinfettarmi le mani dopo, ma-”

 

Un singhiozzo la interruppe e si ritrovò di nuovo Diana tra le braccia, che pareva miagolasse.


“Diana, Diana, hai appena finito di piangere. Che ricominci mo?”

 

“Ti… ti voglio bene,” la sentì sussurrarle in un orecchio e le pizzicarono gli occhi, mentre le veniva spontaneo stringerla più forte.

 

“Pure io, che se no ti avrei lasciata fuori sotto la pioggia, che non mi conosci?” rispose, strappandole una breve risata, anche se amara, “dai, Diana, che è tardissimo, andiamo a dormire mo.”

 

“Come tardissimo, ma che-?” disse Diana, guardando l’ora, “mezzanotte?! Di già?! Scusami, Imma, ci credo che vuoi dormire e… ma Calogiuri dove sta?”

 

“E te ne accorgi solo mo che Calogiuri non c’è, Diana?” sospirò, scuotendo il capo, “e comunque… è in missione a Milano fino a lunedì sera, con la Ferrari.”

 

“Ma chi? Quella del maxiprocesso?”

 

“Sì, Diana, è proprio per il maxiprocesso che stanno a Milano,” rispose e vide Diana che faceva una smorfia, “che c’è?”

 

“C’è che… ma tu ti fidi veramente che Calogiuri stia da solo con quella? Che pare uscita da un film per quanto è bella, e poi come si veste… che per un capo suo mi ci vuole uno stipendio! Non sei un po’ gelosa?”

 

“Diana, sei di grandissimo sostegno, proprio, commovente, guarda!” esclamò, sarcastica, mentre Diana asciugava le ultime lacrime, “e comunque io di Calogiuri mi fido. Mi ha detto mille volte che la gattamorta non gli interessa e… e quella sono due anni che lo tampina ancora un po’.”

 

“Ed è ancora viva?”

 

“Temo di non poter uccidere una collega, Diana, sarebbe troppo sospetto. Ma una ex cancelliera che non sa quando è il momento di tacere e che ancora nessuno sa che si trovi a Roma, magari sì,” rispose, con un’occhiata eloquente e Diana sospirò.

 

“Va bene, va bene. Senti, Imma, lo so che è all’improvviso ma… io non ho prenotato niente, ho preso la prima corriera appena… appena ho saputo di-”

 

“Sì, Diana, ho capito,” la interruppe, prima che si rimettesse di nuovo a piangere e dovessero ricominciare tutto da capo, “puoi dormire qua, tranquilla, tanto appunto sto da sola. Posso prepararti il divano letto, se ti alzi.”

 

“Imma…” sussurrò, guardandola in un modo che avrebbe quasi rivaleggiato con le occhiate imploranti di Calogiuri, “che ne diresti se… se dormissimo insieme? Non voglio stare da sola stanotte, per favore!”

 

“Che c’hai paura del buio, mo, Diana?” sospirò nuovamente, ma in fondo era un letto in meno da rifare e lenzuola in meno da lavare, “va bene, ma se russi-”

 

“Grazie, grazie!” praticamente urlò, stritolandola in un abbraccio.

 

Ed Imma già sapeva che se ne sarebbe pentita amaramente.

 

*********************************************************************************************************

 

Alzò gli occhi al soffitto: tra il respiro sul collo e le braccia strette a morsa intorno alla vita avrebbe faticato non poco ad addormentarsi.

 

Allungò una mano verso il cellulare e controllò, trovandoci un messaggio che non aveva sentito, con tutto quello che era successo, ed avvertendo una fitta di senso di colpa.

 

Tutto bene? Vorrei essere lì con te.

 

Era ancora online. Scostò i capelli corvini dal suo petto, liberò gambe e braccia e scese dal letto.

 

Chiuse la porta della stanza ed avviò la chiamata, sperando di non svegliarla ora che si era addormentata.

 

“Pronto? Finalmente, cominciavo a preoccuparmi!”

 

“Scusa, Calogiù, ma è successo di tutto e pure di più!” rispose, non potendo evitare di sorridere al tono di lui.


“Ma perché sussurri?”

 

“Perché c’ho Diana che si è finalmente addormentata dopo non hai idea di quanto tempo passato a piangere e sfogarsi e-”

 

“La signora Diana è lì? Non mi avevi detto che ti sarebbe venuta a trovare. Ma sono contento che non sei da sola.”

 

“Io meno, Calogiuri. Mi è piombata in casa tra capo e collo e-”

 

“Capozza. Il test è positivo, vero?” chiese, col tono di quando in realtà sapeva benissimo la risposta ed Imma annuì, prima di rendersi conto che lui non poteva vederla, e pronunciare un, “sì.”

 

“Immagino che sarà sconvolta. Mi dispiace che sei lì ad affrontare tutti questi casini da sola e-”

 

“Tranquillo, Calogiuri. E poi… forse è meglio che Diana si sfoghi di questa cosa soltanto con me e… non avrei comunque voluto infliggere pure a te la sua valle di lacrime.”

 

“Quando torno però, se hai bisogno di sfogarti pure tu, recuperiamo, va bene?”

 

Sorrise, perché era impossibile non farlo quando lui era così tenero.

 

“Va bene. Però basta parlare di Diana, mo. Tu come stai? Tutto bene? Com’è andato il viaggio?”

 

Sentì un sospiro ed una pausa che la fecero preoccupare.

“Che succede? Avete già avuto problemi?”

 

“No, no… è che… c’è una cosa che ti devo dire, Imma, e so che non ti piacerà. Ma ti garantisco che di me ti puoi fidare ciecamente.”

 

Le parole erano pure peggio del tono con cui erano state pronunciate, “Calogiuri, di solito, quando uno dice una cosa del genere, vuol dire che ti ha già fregato tre volte. Allora?”

 

“Che… che ne dici se facciamo una video chiamata? Così mi puoi guardare in faccia e ti renderai conto di quanto sono sincero.”


“Calogiuri… mi stai solo facendo preoccupare di più così, lo sai, sì?” gli chiese, il cuore che le martellava nel petto, mentre un brutto presentimento le rivoltava il tonno nello stomaco.

 

Ma Calogiuri mise giù e poi la richiamò dall’app.

 

“Sarà meglio che ti spieghi, veloce!” gli intimò, dopo aver premuto il pulsante con la telecamerina ed aver incontrato il viso preoccupato di lui.

 

*********************************************************************************************************

 

“Che cosa?!”

 

“Ognuno ha la sua stanza, Imma, come vedi sono da solo. Ma l’albergo era al completo e, a quanto pare, Milano è completamente piena di gente per una fiera. Non potevo lasciare Irene da sola e stare dall’altra parte della città: se ci fosse qualche pericolo nella notte lo sai che non la raggiungerei mai in tempo.”

 

La vide mordersi il labbro inferiore, la fronte corrugata tra il ragionamento e l’irritazione, guardandolo senza nemmeno sbattere le ciglia.

 

“E… questo… errore di prenotazione… chi l’avrebbe fatta la prenotazione, tanto per capire?”

 

“Irene. Io non avrei mai scelto un hotel così costoso, ma-”

 

“Ma guarda caso, che sfortunato errore che le è capitato! Che coincidenza! Chissà quanto si sarà disperata la cara Irene.”


“Veramente ha protestato col receptionist, ma-”

 

“Sì, per cinque lunghissimi secondi, immagino. Ti ha incastrato, Calogiuri, che tu lo voglia capire o meno.”

 

“Ma, pure se fosse, a meno che tu non pensi che mi possa saltare addosso di notte, immobilizzandomi, sta a me tenere le distanze e-”

 

“E questo discorso lo abbiamo già fatto ottocento volte, Calogiuri, e non è quello il punto. Il punto è che lei gioca sporco e tu invece continui a credere alle coincidenze. Ma va bene, ho deciso di fidarmi di te, Calogiuri, e mi fido, ma… ricordati che diceva Celentano.”

 

“Pure tu però, dottoressa, ricordati pure tutte le altre parole della canzone, non soltanto quelle.”

 

La vide annuire e poi sorridere. Tirò un sospiro di sollievo, ancora prima che dicesse, “e come faccio a scordarmele? Però stai attento, va bene? In tutti i sensi. E… se succedesse qualcosa di serio, sia che si tratti della gattamorta, sia che sia per il lavoro, mi avviserai, vero? Che se no sto in pensiero.”

 

“Pure tu, Imma. Quanto si fermerà la signora Diana? Per capire come fare al mio ritorno.”

 

“Credo solo per il fine settimana, ma al peggio le troviamo una stanza, Calogiuri. E mo tu riposati che è tardissimo e domani devi essere lucido, che si prospetta un fine settimana pericoloso, in tutti i sensi.”

 

“L’unica pericolosa sei tu, dottoressa,” le ricordò, con un sorriso, e lei fece un sorrisetto soddisfatto.

 

“Oh, puoi dirlo! Anche se pure tu non scherzi!”

 

*********************************************************************************************************

 

“Imma! Ma che fai?!”

 

“Faccio che stare in casa a compatirti non serve a niente, Diana.”

 

“No, l’ho capito, ma… ma andare fare shopping? Non è da te, Imma!”

 

“Senti, Diana, per quanto io odi il consumismo, tu sei bellissima, mannaggia a te, ma… perché ti ostini con questi completi da suora laica? Qualche vestito nuovo e magari ti ricorderai che sei pure troppo per Capozza e che devi farti valere.”

 

“Imma Tataranni che mi dice che non mi vesto bene! Ci manca soltanto la Moliterni che rimprovera perché non lavoro abbastanza e poi altro che farmi valere!”

 

“E dai, Diana, su, non ti dico di vestirti come me-”

 

“E ci mancherebbe, Imma!”

 

“Ma almeno qualcosa che… ti valorizzi di più. Fossi io bella come te!”

 

“Ma se c’hai un sacco di uomini bellissimi che ti corrono dietro! Io invece… solo bastardi ho trovato!”

 

“A parte che te li sei scelti tu, Diana, ma Capozza tutto sommato non-”

 

“Eh no, eh, basta, non me lo nominare più!” le intimò Diana, bloccandosi davanti a una vetrina, per poi aggiungere con un sorrisetto, “e hai ragione, voglio farlo schiattare voglio! Che se lo merita proprio!”

 

“E brava Diana!” esclamò, almeno prima che Diana le ordinasse, con un tono che non era da lei, “però pure tu devi scegliere qualche abito più… sobrio, dottoressa, per par condicio!”

 

Ma perchè toccavano tutte a lei?

 

*********************************************************************************************************

 

“Tutto chiaro, Calogiuri?”

 

“Sì, sì, il registratore è pronto ma… questo non renderà le testimonianze-”

 

“Inutilizzabili in tribunale? Se qualcuno ha qualcosa di interessante da dire, chiederemo di fare una deposizione ufficiale. Conto sulla tua capacità persuasiva, Calogiuri: non ti ho assegnato l’ex fidanzata e l’ex praticante di quello squalo per niente,” gli rispose, sorridendogli, e poi si sentì afferrare e schiacciare le guance, che avvamparono all’istante, mentre lei proclamava, con un altro sorriso, “con quei begli occhioni potresti far sciogliere chiunque, Calogiuri. Mi raccomando!”

 

E poi Irene si staccò, gli fece l’occhiolino e si avviò verso un bar lì vicino, dove lei aveva i suoi di appuntamenti, per interrogare un ex partner in affari dell’avvocato ed il suo ex autista.

 

Sospirò ed entrò nel bar a lui assegnato. Riconobbe immediatamente la ragazza della foto che gli aveva passato Irene. Capelli di un rosso acceso chiaramente tinto, occhi azzurri, bellissima. Sicuramente al massimo poteva avere la sua età, volendo essere generosi.

 

Certo, non era lui a poter giudicare storie con persone molto più grandi, anzi, ma l’avvocato aveva sessantadue anni che si notavano dal primo all’ultimo, oltre al fisico tutt’altro che prestante. E poi, se era la ex, un motivo ci doveva essere stato.

 

“Giovanna Rossitti, piacere!”

 

Le strinse la mano, pensando a quanto fosse ironico il cognome, rispetto alla tinta.

 

“La ringrazio per aver accettato di parlarmi, signora Rossitti, io-”

 

“Per favore, chiamami Giovanna, che non ho neanche trent’anni. Signora a chi?” rispose la ragazza, facendogli segno di sedersi ed accavallando le gambe, strette in jeans mezzi strappati.


Le donne a Milano, soprattutto le più giovani, sembravano immuni al fresco per com’erano vestite, a parte i tacchi che avrebbero fatto invidia ad Imma.

 

“Va… va bene… ascoltami, sai perché siamo qua, no?”

 

“Sì, ma niente nomi, per favore,” gli rispose, guardandosi un attimo in giro, come se fosse sospettosa.

 

Glielo aveva raccomandato pure Irene, di non nominare l’avvocato Bruno Villari nemmeno per sbaglio. Troppo conosciuto e, forse, troppo pericoloso.

 

“Non c’è problema. Vorrei… vorrei solo capire com’era, cioè com’è, per come lo hai conosciuto. Se ci siano stati episodi… particolari.”

 

“Particolari?” gli chiese la ragazza, arcuando un sopracciglio in un modo che lo fece nuovamente imbarazzare.

 

“Intendo… intendo… di violenza o… o altre cose sospette.”

 

In quel momento arrivò un cameriere con due aperitivi, ovviamente alcolici.

 

“Ho ordinato pure per te, se non ti spiace.”

 

“No, ma… che cos’è?”

 

“Negroni sbagliato. Meno forte del negroni normale, tranquillo. Qua lo fanno buonissimo.”

 

“Va… va bene…” sospirò, guardando gli stuzzichini e sperando bastassero a ridurre l’effetto dell’alcol. Non era nemmeno ora di pranzo, almeno per i suoi orari.

 

“Allora?”

 

“Su di me… no, anche se… non è che mi abbia mai trattato bene. Uno di quelli con la puzza sotto il naso, che guarda tutti dall’alto in basso. Per lui ero un trofeo ma… lo sapevo dall’inizio. Avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse ad entrare nella Milano che conta e così è stato, almeno per i mesi che sono stata con lui, non mi ha fatto mancare niente: regali, feste, viaggi….”

 

“E allora perché hai accettato di parlare con me?”

 

“Perché… quando sono scaduta - sai, ormai ero più verso i trenta che i venti…  - mi ha fatto terra bruciata intorno. Sto pensando di andarmene da qua: nessuno vuole stare con una sua ex, non tra la gente che conta. Hanno tutti paura.”


“E di cosa?”

 

“Non lo so… con me non è che parlasse molto di lavoro, anzi, non parlavamo proprio,” sorrise, facendogli l’occhiolino, e Calogiuri provò un’altra ondata di imbarazzo, “ma… alcuni amici che aveva… erano strani. Gente che viaggia sempre con una sfilza di persone a protezione. E non sto parlando di magistrati o di gente che ha la scorta ufficiale. Clienti e non solo. Le voci girano e… conviene che ti fai le tue ricerche. Io non posso dirti di più, nomi non ne faccio, ma non è difficile da scoprire.”

 

La voglia di vendetta era mista alla paura, era evidente anche dal volume bassissimo in cui sussurrava ogni frase. L’avvocato doveva essere davvero molto potente.

 

“Perché non mi scrivi qui nome e numero di telefono?” le chiese, a voce più alta, sperando capisse, passandole un tovagliolino di carta e una penna, per poi aggiungere, a bassa voce, “scegli tu, ma almeno un nome da cui partire. Questo colloquio è informale, tranquilla.”

 

La ragazza si morse leggermente il labbro e poi scarabocchiò qualcosa, passandogli rapidamente il tovagliolo, su cui c’erano scritti un paio di nomi. Sentì che c’era qualcosa sotto il tovagliolo, come un cartoncino più rigido, lo girò e ci trovò un biglietto da visita.

 

“Se stai a Milano per qualche giorno… non mi dispiacerebbe vederti… fuori servizio,” gli sussurrò, facendogli l’occhiolino, poi bevve l’ultimo sorso del cocktail, si alzò, dicendo, “offri tu, naturalmente?” ed uscì, lasciandolo lì, prima che potesse dire qualsiasi cosa.

 

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“Se è venuto qui c’è un motivo, qualcosa che mi vuole dire.”

 

A giudicare dal sudore e dal modo in cui gli occhietti dell’uomo roteavano per il bar, sì, c’era qualcosa che voleva dirle, ma ne aveva pure paura: pareva un topo preso in trappola.

 

Del resto, l’avvocato Villari era un single incallito, con una processione di fidanzatine a scadenza. Non la stupiva affatto che avesse scelto un ometto piccolo, pauroso, insignificante come autista. Non voleva concorrenza lo pseudo tombeur de femmes. Non che magari qualcuna scoprisse di preferire qualcuno meno ricco ma pure più avvenente e, possibilmente, meno stronzo.

 

Era l’ora di sfoderare la carota, non il bastone, magari intingendola prima nel miele.

 

Mise una mano sulla spalla dell’ometto, per cercare di tranquillizzarlo.

 

“Senta, mi rendo conto che non sia facile, per niente, ma quello che mi dirà rimarrà da fonte anonima. Ho bisogno di indirizzi, nomi, qualcosa. Lo accompagnava ovunque, no? Qualche posto dove andava sovente, magari senza un motivo apparente? O in orari strani o con… bagagli strani. Non mi serve molto, solamente una base su cui partire. Se vuole può scriverlo qui,” gli spiegò, porgendogli il cellulare di riserva già aperto sulle note.

 

L’uomo la guardò un attimo negli occhi e poi annuì, cominciando a digitare qualcosa.

Sperava che anche Calogiuri avesse avuto la stessa fortuna.

 

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Altro giro, altro bar, per fortuna i locali a Milano non mancavano.

 

Vide una ragazza fargli un cenno: capelli castani raccolti, vestita elegante, probabilmente veniva dal lavoro.


“Buongiorno dottoressa Comazzi, la ringrazio per aver accettato questo incontro.”

 

La ragazza sorrise e scosse il capo: pure lei doveva avere al massimo trent’anni ed era stata praticante di Villari fino all’anno precedente.

 

“Si figuri, maresciallo, sono felice se… se qualcuno finalmente prende in considerazione quello che ho da dire. Sarebbe una novità.”


“In che senso?” le chiese, notando perfettamente l’estrema amarezza nella voce di lei.

 

“Nel senso che per colpa di… di chi lei sa… non solo ho buttato via il praticantato ma sono finita nel dipartimento legale di un’azienda dove devo fare la passacarte di tutti, perché tanto sanno che altri tipi di lavoro non ne posso trovare. Volevo fare l’avvocato ma… a Milano mi ha fatto terra bruciata intorno, per non dire in tutto il Nord Italia.”

 

“Che vuol dire? E… perché non prova al Centro o al Sud, allora?”

 

“A parte che non so se… se non abbia conoscenze pure lì, almeno nelle grandi città. E poi… e poi i miei genitori sono abbastanza anziani e non stanno bene. Potrei andare all’estero ma… secondo lei è giusto che debba sradicarmi per potere lavorare perché… perché un maiale ha deciso che non lo posso più fare?”

 

Si sorprese del contrasto tra l’atteggiamento della dottoressa e quello di Giovanna. Era decisa, evidentemente agguerrita e parlava con tono deciso, fin troppo.

 

“Va bene, ma forse sarebbe meglio parlare più piano. Sa, per prudenza.”

 

“Va bene…” assentì, per fortuna, visto che in quel momento arrivò il cameriere, “che vuole prendere per pranzo? Qua fanno delle michette buonissime con salumi tipici della zona.”

 

Tirò un sospiro di sollievo: aveva decisamente più bisogno di mangiare che di bere.

 

“Faccia lei, mi fido.”

 

Dopo le ordinazioni, riuscì finalmente a tornare in argomento.

 

“Allora, mi vuole spiegare meglio che cos’è successo?”

 

“La storia più vecchia del mondo. Uscita con centodieci e lode dall’università, sono stata presa in questo studio che è forse il più prestigioso di Milano, almeno per i penalisti. Un anno di praticantato e passa e, proprio quando l’esame si avvicinava, il porco ci ha provato, una sera che eravamo rimasti da soli nello studio. L’ho spinto via e me ne sono andata ma, forse per paura che lo denunciassi, ha iniziato a far girare voci su di me e mi ha cacciata. Nessun altro studio mi ha più presa, nessuno vuole una praticante problematica e… e poi di lui hanno tutti paura. Se te la giura sei finito, almeno in quell’ambiente, ma non solo.”

 

“Sarebbe pronta a denunciarlo se servisse? E avrebbe qualcosa in mano su… su di lui?”

 

“Se servisse? Certo! Ma… senza prove in mano, mi demolirebbe come una ex praticante pericolosa e vendicativa. Però… posso darle molti nomi di gente con cui stava lavorando, anche se ovviamente io non mi occupavo dei casi. Ma spesso mi faceva trascrivere e… potrei aver conservato alcune di quelle trascrizioni. Ci sono stati un paio di episodi interessanti. Di solito ai colloqui più delicati c’era solo lui o un partner ma… ogni tanto sono saltate fuori inaspettatamente alcune cose da appuntamenti che dovevano essere tranquilli.”

 

“E le trascrizioni le ha con sé?”

 

La ragazza sorrise e gli passò una chiavetta USB, “è tutto qua dentro. Se… se riusciste a fare qualcosa contro di lui, un sacco di gente vi sarà grata, io per prima.”

 

Ricambiò il sorriso: la dottoressa era sveglia, molto sveglia.

 

“Ha mai pensato di fare il concorso per entrare in magistratura?” le venne da chiederle, “potrebbe esserci molto portata, secondo me.”

 

“La ringrazio ma… temo che anche su quello avrei delle difficoltà, almeno qui in zona, e poi… e poi c’è da girare molto, soprattutto i primi anni.”


“Ci pensi. Come mi ha detto una persona molto saggia, la vita è troppo breve per sprecarla a fare qualcosa che non ci piace fare. Salvo non ci siano alternative, ma non mi pare il suo caso.”

 

La dottoressa gli sorrise e, così rilassata, sembrava ancora più giovane.

 

E l’idea di dare una lezione a Villari era sempre più allettante. Irene non aveva affatto esagerato a descriverlo: uno di quelli che si sente un dio, superiore alla legge e alle persone.

 

Ma, come gli aveva insegnato Imma, più stai in alto, più farà male lo schianto quando poi cadi.

 

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“Ho ordinato anche per lei, spero non le dispiaccia.”

 

E sì, che le dispiaceva, non tanto per la linea, che in viaggio poteva pure mangiare di più, ma perché detestava gli uomini che sceglievano per lei, e non solo sul mangiare.

 

Ma non poteva certo dirlo, doveva tenersi buono l’avvocato per la testimonianza, e quindi scosse il capo e ringraziò la cameriera per il piatto misto che le mise davanti.

 

“Allora, voleva parlarmi?”

 

“Sì, avvocato. Ed immagino sappia perfettamente di cosa, quindi… non giriamoci intorno. Ha qualcosa per me?”


“Per lei? Più di una cosa, dottoressa, più di una cosa,” rispose, con un sorrisetto che le fece prudere le mani.

 

Gli uomini erano già quasi tutti maiali di loro - Calogiuri era forse, almeno al momento, una delle pochissime eccezioni - ma gli avvocati di solito erano ad un altro livello. Potere e soldi danno alla testa e l’avvocato Gattoni non faceva eccezione, pur avendo subito un deciso contraccolpo alla sua carriera di recente. Che era il motivo per cui le toccava doverselo sopportare a pranzo.

 

“Avvocato, suvvia, se ha accettato di vedermi avrà qualcosa da dire, no? So che… che recentemente si è messo in proprio ed ha abbandonato il penale puro. Una scelta… insolita per uno che da assistente è diventato partner del maggiore studio penalista della città, e che per oltre vent’anni si è specializzato primariamente in quello. Allora?”

 

L’avvocato si guardò intorno, come se per accertarsi che non ci fosse nessuno di sospetto. Come se avrebbero potuto intercettarlo, pure se così fosse. Villari chissà quanti uomini aveva a disposizione.

 

“Dottoressa, lei si rende conto di che cosa rischio a parlare con lei, vero?”

 

“Certamente, avvocato, e so che se ne rende conto anche lei. Quindi immagino che… al di là del piacere della mia compagnia,” rispose, sporgendosi leggermente in avanti, il giusto per sottolineare la scollatura, decidendo che era di nuovo giunto il momento di usare un po’ di carota, pure se quello che aveva davanti non era un equino ma un suino, “se lei è qui, è perché ha deciso che il gioco vale la candela. Allora?”

 

“Beh… potrebbe valere una cena a lume di candela, con lei, stasera, che ne dice?”


“Purtroppo ho già impegni pregressi, avvocato, ma per intanto che ne dice se ci concentriamo sul pranzo e sul motivo per il quale ha voluto vedermi? Sperando che non fosse soltanto questo: detesto chi mi fa perdere tempo, avvocato, e tendo a cancellare queste persone definitivamente.”

 

“No, no, dottoressa, non è soltanto questo,” si affrettò a specificare, ed Irene colse un attimo di panico, prima che tornasse a pronunciare, composto, “anche se… il piacere della sua compagnia è stato un grande incentivo, naturalmente.”

 

Uomini!

 

Banali, prevedibili, tutti uguali o quasi, con le loro battutine che ritenevano intelligenti, pure se era dall’epoca delle scuole medie, quando le era cresciuto il seno, che sentiva quasi sempre le stesse. Magari in termini diversi, in apparenza meno volgari, ma era sempre la stessa solfa.

 

Pochi facevano eccezione: Mancini, Calogiuri, che si imbarazzava ancora se solo lei si avvicinava un poco di più, e poi… era meglio non pensarci in quel momento, doveva concentrarsi sul lavoro.

 

“E quindi?”

 

“E quindi… ha ragione lei che… la mia scelta di carriera è… inusuale ma… quando… quando si sfiorano certi ambienti e diciamo che… il mio ex partner ci sguazzava proprio… se si tiene ai soldi quanto alla propria incolumità… i soldi non bastano più e… ci si vuole soltanto allontanare il più possibile.”

 

“Quali ambienti?”

 

“Lo sa anche lei, dottoressa, quali ambienti. Di criminali ne ho visti una marea ma… diciamo che Bruno… secondo me si è un po’ fatto prendere la mano. Mio padre mi diceva sempre che, superata una certa età, ci si sente invincibili e la si paga cara. Lui con un infarto, per fortuna non mortale, Bruno… ha la sindrome di Icaro… ormai è vicinissimo al sole e non ha intenzione di fermarsi. Mi sono fermato io prima che fosse troppo tardi. I soldi ed il potere piacciono pure a me, dottoressa, ma non te li puoi portare nella tomba.”

 

Forse lo aveva sottovalutato: maiale sì, ma con una discreta cultura e pure conoscenza della psiche umana, almeno quella maschile. Su quella femminile, invece, aveva moltissimo da lavorare.

 

“Ho bisogno di qualcosa di più concreto, però. Nomi, casi, date… cosa l’ha spaventata tanto, magari, se c’è stato un evento scatenante.”

 

“Più una serie di campanelli d’allarme, dottoressa, ma… sì, uno in particolare mi ha fatto capire che era ora di andarmene.”

 

“E cioè?”

 

L’avvocato si guardò di nuovo intorno e poi si avvicinò al suo orecchio, fin troppo, tanto che dovette trattenersi dal ritrarsi, e sussurrarle, “veramente speravo di… di potergliene parlare in privato.”

 

E ti pareva che non insisteva!

 

“Come le ho già detto, oggi ho una giornata piena di impegni e comunque in realtà in pubblico si dà meno nell’occhio. Allora?”

 

L’avvocato sospirò, tanto che le arrivò una zaffata di alcol, e non era piacevole per niente. Poi si infilò una mano sotto la giacca e, per un breve secondo. temette che fosse d’accordo con Villari e che avesse un’arma. Ma colpire un magistrato in pieno giorno, davanti a decine di testimoni... avrebbe dovuto essere scemo.

 

Invece estrasse un taccuino in pelle, tipo quelli che usava sempre Calogiuri, e lo tenne in mano, facendole un cenno.

 

“C’è tutto qua dentro e… ho preferito non scriverlo a computer, per motivi che credo lei capirà. Ma... mi deve garantire che non farà il mio nome, salvo sia indispensabile o… o che mi succeda qualcosa. In quel caso lo scritto autografo dovrebbe aiutarla.”

 

Sapevano entrambi che l’anonimato era difficile da garantire, ma sul timore per la propria incolumità l’avvocato era serissimo. Non vedeva l’ora di leggere il contenuto di quel taccuino, ma prima avevano altre cose da sbrigare e si sarebbe dovuta accertare di metterlo sottochiave, dopo averlo fotografato con l’apparecchiatura che Calogiuri si era portato dietro.


“Va bene. Cercherò di tenerla fuori, avvocato, anche se tutto dipenderà da quanto e cosa troverò con le informazioni che mi fornirà, lei questo lo sa meglio di me.”

 

L’uomo annuì e le passò il taccuino. Le loro dita si sfiorarono e si chiese se l’avesse fatto apposta, ma poi lui le strinse la mano e le chiese, in quella che pareva una supplica, “lo fermi prima che sia troppo tardi, dottoressa. Ma… se può… non gli faccia del male. Gli devo molto, anche se ultimamente faticavo a riconoscerlo.”

 

“Avvocato,” pronunciò, sfilando la mano: detestava il contatto fisico non cercato, anche se l’addestramento da carabiniere e lezioni di recitazione l’avevano abituata, “senta, lo sappiamo tutti e due chi difendeva il suo mentore, pure trent’anni fa. Dipingerlo come un santo, traviato dalle cattive compagnia, mi sembra ben poco credibile.”

 

“Ma c’è difendere e c’è… fare un patto col diavolo, dottoressa,” le sussurrò ed Irene sentì un brivido, anche se non sapeva perché: era soltanto una metafora oppure… c’era uno che si faceva chiamare Il Diavolo nell’inchiesta di Imma a Matera, se non ricordava male.

 

E di sicuro non era del genere che pareva uscito da un catalogo di moda di Armani ed aveva un nightclub a Los Angeles, come andava di moda ultimamente.

 

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“Devi prenderlo, Imma! Ti sta benissimo!”

 

“Dì pure che è noiosissimo…” sospirò, guardandosi nello specchio, con indosso un completo giacca, top e pantaloni blu scuro in raso. Elegantissimo, per carità, ma che non era da lei.

 

“Se vuole c’è anche in un bel tono di fucsia, molto elegante!” si inserì la commessa, evidentemente ansiosa di prendersi l’ordine e presumibilmente la commissione, con quello che costavano le marche che indossava Diana.

 

Per carità, non quanto quelle della Moliterni o della Ferrari.

 

“E proviamo questo fucsia,” concesse, prima di guardare verso Diana, “almeno una concessione fammela, mo, Diana. Tu il vestito animalier lo hai rifiutato.”

 

“Che tra l’altro l’animalier, il leopardato soprattutto, quest’anno è di gran moda. Almeno un accessorio,” si inserì la ragazza, portandole una massa di stoffa brillante e decisamente più promettente.

 

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“E mo che facciamo?”

 

Avevano fatto un salto in hotel, giusto il tempo di ritirare il taccuino in cassaforte, dopo averlo debitamente fotografato, ed Irene già si avviava verso la porta.

 

“Andiamo a farci un giro in Via Montenapoleone, Calogiuri.”

 

“Vuoi fare acquisti?” le domandò, sorpreso, immaginando già i prezzi assurdi di quella zona. Roba che ad Imma sarebbe venuto un infarto solo guardando le vetrine.

 

“No, Calogiuri, voglio fare un po’ di pesca….”

 

“Che vuol dire?”

 

“A quanto pare Villari è solito frequentare quelle zone di sabato. Sai… shopping, aperitivo… a volte con la fortunatissima donna - anzi, ragazzina - del momento, a volte da solo. Dobbiamo vedere se riusciamo ad intercettarlo. Senza farci notare ovviamente. Voglio capire che fa.”

 

“Va… va bene…” annuì, seguendola oltre la porta.

 

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“Diana, non so come hai fatto a convincermi!”


“Ma se stai benissimo! E poi pure io sono in giro con un vestito non da suora laica, come diresti tu.”

 

“Ma sempre un po’ troppo noioso per i miei gusti,” le rispose con un sospiro, guardando il tubino bicolore che aveva preso Diana. Ma almeno era abbastanza attillato e dava finalmente giustizia alla sua figura.

 

Soltanto che Diana aveva insistito perché uscissero dal negozio con gli acquisti nuovi, i vestiti che indossavano prima dentro al sacchetto, ed Imma si sentiva un po’ strana a girare tutta elegante per le strade di Roma, manco fossero nella Dolce Vita. Ma almeno la sua ex cancelliera si era distratta un po’, non era più scoppiata a piangere da quando erano fuori casa, e non aveva ripetuto la litania di Capozza - Bastardo - DNA che la tormentava dalla sera precedente.

 

“E mo che facciamo, Imma?”

 

“Basta spese che ne ho abbastanza, Diana. Se vuoi andiamo a vedere piazza di Spagna ed il tramonto dal Pincio e poi torniamo a casa.”

 

“Va bene, agli ordini, dottoressa!” la sentì sospirare, i tacchi che picchiavano sui sanpietrini dietro ai suoi.

 

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“Eccolo, è lui. A distanza e con discrezione, Calogiuri. Dobbiamo sembrare una coppia interessata solo allo shopping.”

 

Il fiato di Irene nell’orecchio gli fece il solletico, mentre lei lo stringeva di più a braccetto, direzionandolo verso l’obiettivo.

 

Un uomo sulla sessantina, basso e un po’ tarchiato ma vestito elegantissimo, si stava incamminando dal duomo verso la Galleria Vittorio Emanuele. Era solo ma non c’era da escludere che ci fosse qualche bodyguard che lo osservava da distante.

 

Irene si avviò, quasi tirandolo con sé, e Calogiuri cercò di starle al fianco, senza che si notasse che uno dirigeva l’altro. L’avvocato si fermò infine davanti ad un negozio di uno stilista, che aveva soltanto sentito nominare per quanto era caro, e pure Irene si bloccò davanti ad un’altra vetrina, descrivendo con dovizia di particolari ed entusiasmo una specie di borsetta che a lui pareva una trapunta ripiegata, ma che costava quasi come un anno di affitto suo.

 

“Calogiuri, è entrato,” gli sussurrò poi, smettendo la recita.

 

“Che facciamo?”

 

“Meglio non dare ancora troppo nell’occhio. Entro io, fingendo di cercare qualcosa. Tu stai fuori dal negozio e fingi di guardare il cellulare, annoiato, come tutti gli uomini trascinati dalle fidanzate a fare shopping.”

 

Non gli sarebbe stato difficile, in effetti, anche se… fare compere con Imma gli piaceva tantissimo, ma più che altro perché poteva vederla in qualche nuovo abito dei suoi e, almeno quando l’accompagnava lui, prendeva sempre cose che lo facevano impazzire.

 

“Calogiuri, hai capito?”

 

“Va… va bene,” annuì tornando al presente e piazzandosi vicino all’altro negozio, come da ordini.

 

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“Certo che siete proprio fortunati tu e Calogiuri. Roma è davvero la città più bella del mondo!”

 

Ma Matera è tutta un’altra cosa! - non potè fare a meno di pensare, mentre insieme a Diana scendeva dal colle del Pincio e si riavviava a piedi verso casa.

 

Stavano costeggiando il Tevere per poi attraversarlo, quando sentì un rumore strano, come un motore che andava troppo piano e vide, con la coda dell’occhio, una macchina scura che aveva rallentato accanto a loro.

 

Il cuore che le batteva all’impazzata, iniziò a visualizzare le facce dei Mazzocca, a pensare a come ripararsi in caso di sparatoria, ma non c’era niente da quel lato del marciapiede, salvo pensare di scavalcare la paratia e gettarsi verso la banchina del fiume e morte certa.

 

Diana fece appena in tempo ad avvedersene e a guardarla come a chiedere cosa stesse capitando, quando arrivò il rumore di frenata, di un finestrino che si abbassava e poi…

 

“Dottoressa, vi serve un passaggio?”

 

La voce di Mancini fu un sollievo incredibile, anche se lo avrebbe strozzato per averle fatto prendere un colpo. Si girò e lo vide al volante, che sorrideva, elegante come sempre.

 

“Dottore…” rispose, prendendo tempo, mentre Diana le dava di gomito e le sussurrava, “chi è?”

 

Mancini guardò nello specchietto e poi scese dall’auto, raggiungendole e presentandosi, con il suo solito fare cavalleresco, porgendo la mano a Diana, “Giorgio Mancini, molto piacere.”

 

“Il procuratore capo, Diana,” specificò e Diana sembrò quasi imbambolata.

 

“Lei è Diana De Santis, la mia cancelliera a Matera.”

 

“Ed amica della dottoressa, anche se questa parte la salta sempre,” ironizzò Diana, che sembrava essersi ripresa, stringendogli la mano a sua volta, e Mancini rise.

 

“In effetti… diciamo che la dottoressa non mi sembra molto il tipo da stringere amicizie sul luogo di lavoro.”

 

“Ma neanche fuori dal luogo di lavoro, dottore. Solo che ci conosciamo dai tempi del ginnasio, quindi c’è stata costretta, praticamente.”

 

Stava per fare notare loro che era lì pure lei, quando Mancini la guardò negli occhi e disse, con un sorriso, “mi sarebbe piaciuto vederla ai tempi del liceo, dottoressa, da adolescente.”

 

Qualcosa nel modo in cui lo pronunciò la fece arrossire.

 

“Guardi, dottore, ero sfigata e passavo tutto il tempo a studiare, quindi non si è perso niente. Invece scommetto che lei era molto popolare,” rispose, tenendosi per sé il soprattutto tra le studentesse che aveva sulla punta della lingua.

 

“In realtà… cambiando spesso non solo città ma proprio nazione… era difficile mantenere le amicizie. Comunque, posso darvi un passaggio, che vi vedo cariche di borse?”

 

“Ma certamente!” rispose Diana, prima che lei potesse dire alcunché, piazzandosi sul sedile posteriore.

 

Mancini sorrise e circumnavigò di nuovo l’auto, per rimettersi al volante.

 

Imma, che non voleva certo far fare al procuratore capo la figura dell’autista, lasciò le borse a Diana e si accomodò sul sedile del passeggero.

 

“La porto a casa, dottoressa? E la sua amica?” le chiese con un sorriso, non appena si fu seduta. Era fin troppo vicino.

 

“Stiamo entrambe a casa mia, dottore.”

 

“Ah, giusto che il maresciallo è via con Irene. La sua amica è stata gentile a venire a farle compagnia!” proclamò con l’ennesimo sorriso, immettendosi nel traffico.


“Gentilissima!” ironizzò, guardando Diana di sottecchi.

 

“Siete elegantissime. Dovete andare da qualche parte stasera?”

 

“Come no, ad un ricevimento, dottore!” esclamò, per poi specificare, alla sua espressione sorpresa, “faremo una cena casalinga tranquilla, come al solito.”

 

“Ma allora, visto che siete già pronte, oltretutto, perché non venite a cena con me e Brian? Se lo ricorda, no? Ci troviamo in un agriturismo sui colli, con vino di produzione propria e piatti tipici.”

 

“Soltanto voi due? Niente... accompagnatrici?” 

 

“Doveva essere una serata tra amici ma… sono sicuro che anche a Brian farà piacere rivederla, dottoressa.”

 

Imma esitò: va bene che c’erano pure Diana e Brian, ma uscire a cena con Mancini proprio mentre Calogiuri se ne stava a Milano… Calogiuri non l’avrebbe presa bene e lo capiva pure.

 

Stava per inventarsi qualche scusa, quando Diana saltò su con un, “mi sembra un’ottima idea, Imma! Poi se questo Brian è gentile come lei, dottore….”

 

E come poteva dire di no, mo? Mannaggia a Diana! Ma che le era preso?

 

“Se volete vi accompagno comunque a casa, così posate le borse ed avete un attimo per rinfrescarvi.”

 

“La ringrazio, dottore, mi sembra la cosa migliore,” rispose, prima che Diana potesse intervenire di nuovo.

 

Voleva capire a che gioco stesse giocando, proprio lei che fino a quel pomeriggio pareva una madonna addolorata, possibilmente prima di quella cena che si prospettava un campo minato.

 

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“E mo che facciamo?”

 

“Un aperitivo, Calogiuri, un aperitivo. Non lo sai che è il nuovo cibo tipico milanese?” scherzò, trascinandolo per il gomito in un bar di fronte a quello dove si era appena seduto, da solo, l’avvocato.

 

L’avevano seguito per un sacco di tempo ed era carico di diverse buste di vestiti ed accessori extralusso. Come minimo ventimila euro di valore, a sentire Irene che se ne intendeva di più. E poi era venuto in una viuzza secondaria e si era seduto ad un bar.

 

“Prego signori,” disse il cameriere, ma Irene lo convinse a dare loro un tavolino più vicino alla strada anche se, secondo il ragazzo, era più rumoroso e meno privato.

 

Gli venne un colpo a guardare i costi dei drink ma, vista la zona, oggettivamente non c’era alternativa. Non voleva certo addebitarli ai contribuenti, come avrebbe detto Imma, ma sapeva benissimo che Irene stava pagando un sacco di cose di tasca sua e pure quello non è che gli facesse piacere, anzi, si sentiva in debito con lei, che era sempre così gentile e generosa.

 

“Due negroni sbagliati,” ordinò Irene ed a quanto pare era veramente il cocktail tipico milanese, anche se lo spritz era più diffuso, a giudicare dagli altri tavoli, “la scelta di bar è strana, Calogiuri. Un tipo così che ama… spantegare come si dice qui a Milano, me lo vedevo più da Terrazza Martini.”

 

“Da cosa?”

 

“Insomma un bar più esclusivo, dove mostrare a tutti quanto è ricco. Qui è molto più defilato come posto,” gli spiegò e poi si concentrarono sulle mosse dell’avvocato, mentre fingevano di parlare del più e del meno.

 

Ad un certo punto arrivò una donna bionda, elegantissima ed estremamente appariscente. La videro entrare nel bar e salutare con i tipici due baci sulle guance l’avvocato, che sovrastava, tra tacchi ed altezza, almeno di una testa. Poi si sedette con lui.

 

“Fai foto, Calogiuri, senza farti notare.”

 

“Ma… non possiamo sentire cosa si dicono.”

 

“Non importa. Dobbiamo capire chi è questa donna e stare nello stesso bar sarebbe troppo rischioso. Per intanto fai foto,” disse, spostandosi dal lato strada e sollevando il suo bicchiere, mettendosi in posa, come una turista o una di quelle influencer che si facevano fotografare ovunque.

 

Fingendo di riprenderla, riuscì a scattare qualche immagine zoomata della strana coppia.

 

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“Ma che ti è saltato in mente, Diana?”

 

“Come che mi è saltato in mente? Un bell’uomo tutto elegante ci invita a cena, è pure il procuratore capo, che vuoi che non accetto? Stasera faccio foto e le pubblico sui social, voglio farlo schiattare a Capozza!”

 

“Diana… ma che dici, ma come parli? Manco Valentina tra un po’ fa queste cose, e su. E poi Capozza comunque non ti ha mai tradita, Diana, pur con tutti i difetti che potrà avere. Pensaci bene prima di fare cose di cui ti potresti pentire!”

 

E poi… sinceramente l’idea di Diana con Mancini un poco la infastidiva, al di là di Capozza.

 

Per non parlare del fatto che avrebbe dovuto avvisare Calogiuri, che aveva l’amicizia con Diana e se scopriva della sua cena con Mancini da una foto pubblicata… sarebbe stata una tragedia.

 

E non avrebbe potuto nemmeno dargli torto più di tanto.

 

“Senti, io avviso Calogiuri, tu fatti una doccia fredda magari, già che abbiamo un po’ di tempo.”

 

“Non dirmi che Calogiuri è geloso del procuratore capo… in effetti è proprio bello, pare quasi un attore!”

 

“Sì, per te tutti sembrano attori o attrici, Diana,” sospirò, chiedendosi se rivelarle dell’avvicinamento pericoloso a Milano o meno.


“Sembra molto gentile con te, Imma. Non so se si interesserebbe a me, che siamo tanto diverse!”

 

“Da come lo dici, Diana, non pare proprio che tu mi stia facendo un complimento!”

 

“Ma questo Brian è… bello e gentile pure lui?”

 

“Se ti piace il genere americano mascelluto sì. Sulla gentilezza… almeno al lavoro era molto professionale.”

 

“Benissimo! Allora vado a rifarmi il trucco… così Capozza si mangerà il fegato e magari finalmente gli viene un po’ di strizza di perdermi, che se lo merita! E pure Calogiuri!”


“E che c’entra Calogiuri mo?”

 

“Beh… visto che sta con la strafiga… gli uomini a volte hanno bisogno di un po’ di pepe… insomma... nel posteriore, per tenere viva l’attenzione.”

 

“A parte che alle condizioni del posteriore di Calogiuri ci tengo e non lo vorrei rovinare, Diana, ma, in caso dovesse combinare qualcosa che non va, altro che pepe, un bel calcio ci vuole. Ma non ho quindici anni e pensare di tenersi un uomo con la gelosia fa solo finire in una spirale di ripicche infinite. O non ricordi come sono iniziati moltissimi dei delitti passionali su cui ho indagato a Matera?”

 

“Sì, Imma… mo per una cena a quattro vai a scomodare i delitti passionali! E comunque non bisogna mai farsi dare per scontate! Io quell’errore ho fatto, prima con Giuseppe, poi con Capozza e hai visto il risultato.”

 

Imma sospirò, vedendola sparire in bagno. Per lei non farsi dare per scontate voleva dire ben altro e con ben altri metodi. Ma, del resto, Diana pure quando era in crisi con il marito ed aveva scoperto del suo tradimento si era consolata dopo poco con Capozza. Per carità, Brian Martino era mille volte meglio del brigadiere ma… chiodo scaccia chiodo era una pessima idea, pure se il vecchio chiodo era storto ed arrugginito.

 

Sospirando, provò a chiamare Calogiuri, sperando che non fosse ancora impegnato in qualche missione - anche se con la Ferrari il termine era opinabile - ma niente, il telefono squillava libero ma a vuoto.

 

Non le restava che mandargli un messaggio.

 

Mi tocca andare a cena con Mancini e Diana, poi ti spiego. Ci dovrebbe essere pure il suo amico dell’Interpol. Ti mando un messaggio quando sono a casa. Buon lavoro!

 

Il buon lavoro! forse era un poco sarcastico ma di quello si trattava, in fondo. E si augurava che fosse per lavoro che era così irraggiungibile in quel weekend, se non in orari assurdi.

 

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“Sta uscendo.”

 

La donna era rimasta al tavolo, mentre Villari si era alzato, aveva pagato e stava varcando la soglia del dehors del bar.

 

“Che facciamo?” le chiese, ma Irene pareva su un altro pianeta, mentre fissava l’avvocato, “lo seguiamo o no?”

 

“C’è qualcosa di diverso…” mormorò, quasi tra sé e sé e poi spalancò la bocca e sussurrò, “manca un sacchetto, Calogiuri.”

 

“Come?”

 

“Uno dei sacchetti, quello del negozio più caro, non ce l’ha più. E non conviene seguirlo ora: è tardi e rischiamo che ci becchi, probabilmente a breve rientrerà a casa. Aspettiamo di vedere che combina la signora.”

 

Rimasero in attesa finché, dopo cinque minuti, la donna bionda si alzò ed uscì anche lei dal bar con in mano….

 

“La borsa ce l’ha lei.”

 

“Fotografa, Calogiuri!” gli ordinò e lui si affrettò a fare come richiesto, “seguiamola, ma a distanza.”

 

La donna stava per girare l’angolo quando Irene si alzò in piedi e lo trascinò verso la strada, mezzo a braccetto.

 

Seguirono la bionda con estrema cautela, ma l’inseguimento durò poco, perché salì su un taxi davanti al duomo.

 

“E ora?”

 

“E ora… direi che per oggi quello che potevamo fare l’abbiamo fatto, Calogiuri. Dobbiamo analizzare tutto quello che abbiamo raccolto e capire chi è questa donna. Sembra un poco più grande delle… conquiste solite dell’avvocato.”

 

“Ma per darle un regalo di un valore simile…”

 

“Oltre cinquemila euro Calogiuri, più verso gli ottomila, se ho visto giusto al negozio.”

 

“Insomma… sarà… un’amante? Se non ho visto male mentre li fotografavo, la signora aveva la fede.”

 

“E bravo, Calogiuri!” esclamò Irene, dandogli una pacca sulla spalla e sorridendogli, prima di fargli l’occhiolino e proclamare, “del resto, tu di fedi altrui te ne intendi.”

 

Gli venne da tossire, mentre lei rideva e poi lo tirò nuovamente, a braccetto, anche se in quel momento, volendo, non c’era motivo di farlo, “dai, vieni che torniamo in hotel, ci cambiamo, ti metti il vestito buono e poi ti porto in un posto, che te lo sei meritato.”

 

“A cena? Perché sono abbastanza sazio, tra due aperitivi ed il pranzo.”

 

“Diciamo… cibo per l’anima, Calogiuri. Di quello non si è mai sazi, no?” gli chiese, facendogli un altro occhiolino e riprendendo a trascinarlo in direzione di Via Monte Napoleone e verso l’hotel.

 

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“Siete bellissime, non è vero, Brian?”

 

“Con tutto il rispetto, paragonato ad una cena solo con te mi è andata proprio bene, Giorgio,” rispose il Martino, col suo accento americano ed un sorriso che pareva uscito da una puntata di Beautiful, insieme alla mandibola.

 

Diana fece una risatina che si vergognò per lei, mentre Brian le faceva il baciamano e si presentava. Iniziava benissimo la serata, proprio.

 

“Sono andato a prendere Brian, che con un’auto sola siamo più comodi per il parcheggio. Per i posti a sedere….”

 

“Davanti va una signora, naturalmente,” rispose l’agente dell’interpol, con cavalleria, e si chiese se lui e Mancini fossero andati alla stessa scuola di buone maniere - oltre che di elegante provolonaggine.

 

“Allora mandiamo davanti la dottoressa, che è superiore in grado,” scherzò Diana, occhieggiandosi Brian in un modo che prometteva malissimo, soprattutto quando l’uomo le aprì la portiera per farla salire.

 

Ovviamente Mancini non perse tempo e fece altrettanto per lei, per poi annunciare, una volta messosi al volante, “ci vorrà un po’, temo, ma vedrete che ne varrà la pena.”

 

“Ne sono sicura!” esclamò Diana, proseguendo con quell’atteggiamento da quindicenne in calore che le dava sui nervi.

 

Mentre Mancini era impegnato alla guida, estrasse il cellulare ma niente, di Calogiuri ancora nessuna notizia.

 

Il messaggio lo aveva visualizzato ma non aveva risposto.

 

Il che non era di certo un buon segno, purtroppo.

 

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“Calogiuri che c’è? Dai che facciamo tardi!”

 

Leggeva e rileggeva il messaggio di Imma e quasi non ci poteva credere. Ma che ci faceva con Mancini, con tutto quello che aveva combinato il procuratore capo? Per carità, c’erano pure la signora Diana e quel Brian con loro ma… che poteva essere successo per andare a cena tutti insieme? Che c’era da spiegare?

 

“Calogiuri… guarda che se arriviamo in ritardo è un disastro, tutto bene?”

 

“S- sì,” balbettò perché, quando alzò gli occhi verso la voce di Irene, la trovò con un vestito di un verde particolarissimo - forse petrolio, dalle sue scarse conoscenze di moda - e, soprattutto, di un’eleganza incredibile.

 

“Calogiuri?”

 

“M- ma… ma… dove andiamo? Sei ancora… più elegante del solito,” rispose, guardando il suo completo buono che, al confronto, era proprio da poveraccio.

 

“Vai benissimo, Calogiuri, non ti preoccupare,” gli sorrise, leggendogli nel pensiero, e poi si sentì di nuovo afferrare per il braccio, con un, “ed andiamo in un posto dove non sono ammessi ritardi, quindi march!”

 

Fece appena in tempo a ritirare il telefono in tasca. Forse era meglio così, perché non sapeva veramente cosa rispondere ad Imma e non vedeva l’ora di essere di ritorno in stanza per sentirla al telefono.


Sperando che non sarebbe rientrata troppo tardi, vista la compagnia.

 

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“Ma è bellissimo qui!”

 

In effetti le toccava dare ragione a Diana: lo stabile era meraviglioso, probabilmente una vecchia casa padronale d’epoca, forse addirittura nobiliare, rimessa a nuovo. Ed avevano fatto appena in tempo a vedere la fine del tramonto sulle vigne. Per fortuna la cena, invece, sarebbe stata all’interno, perché faceva decisamente più fresco che in città.

 

“Diana…” proclamò Brian, estraendo la sedia dal tavolino per farla accomodare, mentre lei, di nuovo, faceva quella risatina imbecille.

 

Aveva già passato tutto il viaggio ridendo delle battute di Martino manco fosse il comico migliore del mondo, mentre lei e Mancini ogni tanto si scambiavano sguardi imbarazzati e parlottavano di lavoro.

 

Il tavolo era fin troppo piccolo per i suoi gusti, troppo intimo, ma del resto dovevano essere in due a quella cena e probabilmente quelli del ristorante si erano adattati all’ultimo per quattro. E così lei era finita seduta di fronte a Mancini, attaccata a Diana, che stava di fronte a Brian.

 

Arrivò il cameriere con vino, bianco per iniziare, e Mancini non perse tempo a versarglielo, per poi servirlo agli altri commensali.

 

“Un brindisi alle belle sorprese ed agli incontri inattesi!” esclamò Brian, sporgendo il suo bicchiere soprattutto verso Diana, con uno sguardo eloquente.

 

Cercò di evitare gli occhi di Mancini, mentre sorseggiava il vino che effettivamente era buonissimo.

 

Ma doveva rimanere lucida quella sera, prima di andarsi di nuovo ad infilare in situazioni pericolose.

 

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“Ma questo è veramente…?”

 

“Il teatro alla Scala, Calogiuri. Non ce ne sono altri.”

 

Si guardò intorno nel foyer, incantato ed intimorito al tempo stesso.

 

Aveva visto tante volte al telegiornale le persone che andavano alla Prima della Scala e che sembravano appartenere ad un mondo distantissimo da lui. Un mondo dove qualcuno poteva permettersi più di un suo stipendio per un biglietto a teatro.

 

“Ma… ma ti sarà costato una follia, io… non posso accettare,” balbettò, rivolto ad Irene che scosse il capo con un sorrisetto.

 

“A parte che i biglietti ormai non sono rimborsabili, ovviamente, Calogiuri, quindi devi accettare ma… al di fuori della Prima… i prezzi sono cari sì, ma più… abbordabili. E poi… non potevo portarti a Milano con me e non venire qui. Sai… l’opera o si ama o si odia e… non so se ti piacerà, ma questo è decisamente il miglior posto in Italia, se non del mondo, per scoprirlo.”

 

“Ma… ma….”

 

“E poi… erano anni che ci volevo tornare. Anche se per la prima volta vedrò lo spettacolo dalla platea e non da uno dei palchi, vieni,” gli ordinò, prendendolo di nuovo sotto braccio e tirandolo verso uno degli elegantissimi addetti che, dopo aver controllato i loro biglietti, li accompagnò verso i loro posti a sedere, quasi a metà platea e abbastanza centrali.

 

“Qua c’è lo schermo per seguire il testo, Calogiuri. L’opera spesso è difficile da comprendere se non si conosce il libretto,” gli spiegò, mentre si accomodavano.

 

“Ma… ma quindi tu ci sei già venuta qua, diverse volte?” le chiese, realizzando ancora di più la differenza abissale di stile di vita che c’era tra loro due.

 

“Mia madre era appassionata di teatro, Calogiuri, soprattutto d’opera. E mio padre… forse un poco per tenersela buona, aveva un abbonamento ad un palco, tutti gli anni. Prezzo scontato per le autorità. Il palco era quel- lo,” balbettò stranamente, mentre indicava uno dei balconcini laterali alla loro sinistra.

 

E poi si voltò rapidamente verso di lui e gli sembrò pallida, nonostante il trucco.

 

“Tutto bene?” le domandò, preoccupato.

 

“S- sì, sì… solo… un po’ di emozione….” rispose, ed effettivamente pareva turbata, gli occhi  lucidi.

 

Non sapeva se e cosa dirle, ma la voce di una signora che doveva passare oltre a loro li fece alzare in piedi, prima che potesse decidersi.

 

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“E poi che è successo?”

 

“L’abbiamo catturato in una specie di catapecchia vicino alla spiaggia ma c’era il problema dell’estradizione. Per fortuna la moglie dell’ambasciatore mi aveva preso in simpatia e allora… forse per levarmi dai piedi… alla fine l’ambasciatore ha fatto il miracolo con il governo e siamo riusciti a farlo portare in Italia.”

 

“E ci credo che ti aveva preso in simpatia,” rise Diana, bevendo un altro goccio di vino, l’ennesimo quella sera, mentre ascoltava rapita - o fintamente tale - le gesta di Brian in giro per il mondo, “certo che fai un lavoro proprio affascinante e sei davvero bravo. Non come certi carabinieri che conosco, che il massimo dell’azione nella loro vita è stato alzarsi dal divano per prendere il telecomando.”

 

Imma sospirò e sollevò gli occhi al cielo all’ennesima frecciata su Capozza che, ovviamente, era l’unica a poter comprendere. Ancora un po’ e Diana glielo faceva quasi stare simpatico il brigadiere, che era tipo uno dei segni dell’apocalisse.

 

“Tutto bene, dottoressa?”


Alzò lo sguardo verso Mancini, non potendolo più evitare: sembrava in pensiero.

 

“La vedo… preoccupata. Non è che è per via della missione del maresciallo?”


“No, dottore, non è solo per quello, anche se… ovviamente ci penso, pure se non dovrebbe, mi auguro, essere pericolosa.”

 

“Eh… le missioni a Milano possono essere molto pericolose, purtroppo, dottoressa, lei lo sa bene,” le rispose, con un misto di imbarazzo e malinconia. Imma sentì un poco caldo, ma magari era il vino - ormai erano passati al rosso.

 

“Mi scusi, sono stato inopportuno. Vuole altro vino?”


“Non-”

 

“Io molto volentieri, grazie!” esclamò Diana, facendosi versare un calice pieno ed ormai Imma aveva perso il conto di quanti se ne era scolati.

 

“La sua amica è… molto espansiva,” le disse poi Mancini, a voce più bassa, mentre Diana era impegnata a mangiare, bere e ridere, “non le somiglia molto, anzi.”

 

E fu in quel momento che, forse per preservare la dignità di Diana, forse per salvare la sua di faccia, forse perché veramente preoccupata, si sporse verso Mancini e gli sussurrò, “dottore, le spiacerebbe… se andassimo un attimo fuori, io e lei?”

 

Mancini spalancò la bocca e diventò di un colorito che fece temere ad Imma che avesse frainteso il tutto, quindi si affrettò ad aggiungere, “le devo parlare di una cosa... importante e riservata.”

 

“V- va bene,” balbettò, mentre lei si alzò, avviandosi verso il giardino.

 

Diana e Brian manco sollevarono il capo, tanto erano persi nel loro mondo etilico.

 

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“Allora? Che ne pensi?”

 

“Che… è bellissimo… sono bravissimi anche se… ogni tanto fatico un po’ a seguire, pure con lo schermo. Forse mi dovresti poi fare tu il riassunto stavolta, perché ho un paio di dubbi. Ma la recitazione… mi pare diversa dal solito.”

 

“La recitazione dell’opera è molto più esagerata, Calogiuri, come si faceva una volta. E le trame pure… a volte hanno dei punti che possono apparire poco sensati, con i canoni di adesso. Ma per il riassunto non c’è problema, basta che non sia una scusa per non seguire negli altri atti.”

 

“Ma perché? Quanti atti sono?”

 

“Quattro atti, Calogiuri, l’Aida sono quattro atti. Siamo solo al primo.”

 

“Allora… dovrei andare ai servizi e magari… prendere un po’ d’acqua. Tu vuoi qualcosa?”


La vide esitare un attimo, con di nuovo quell’espressione strana, “tutto bene?”

 

“S- sì, sì. Vengo pure io, Calogiuri, qua le consumazioni si possono fare solo al bar.”

 

Uscirono dalla sala, con un poco di fatica, vista la folla, e Calogiuri vide un uomo che vendeva dei libricini.

 

“Il libretto dell’opera, Calogiuri. Dai che lo compriamo: il ricordo della tua prima opera va conservato.”

 

“E pure l’ultima, almeno qui dentro, credo,” rispose, perché con quei prezzi né lui né Imma ci sarebbero mai più venuti. Bloccò Irene e si piazzò tra lei e il venditore, “due libretti, grazie!”

 

“Calogiuri!”

 

“Almeno questi li offro io,” rispose, porgendogliene uno dopo aver pagato.

 

“Ma non serviva, io-”

 

“Irene?”

 

Calogiuri alzò lo sguardo e vide, alle spalle di Irene, qualche metro più indietro, un uomo abbastanza anziano, alto, magro a parte un po’ di pancia, elegante e con i capelli bianchissimi.

 

“Irene?”

 

“Forse dice a te?” le chiese, dato che l’uomo si stava avvicinando.

 

La vide chiudere gli occhi, sbuffare e poi voltarsi, le spalle che le si irrigidirono. Gli ricordava quella volta in cui avevano fatto irruzione insieme ed era pronta al pericolo.

 

“Che ci fai qua a Milano? Perché non mi hai avvertito?” chiese l’uomo, con un tono di autorità che, in confronto, Imma era remissiva.


“Perché sono qui solo un paio di giorni per un’indagine.”


“Sulla Scala?”

 

“No, ora sono fuori servizio, ovviamente. E poi… e poi sinceramente non sapevo nemmeno se avresti avuto voglia di vedermi, considerando come sono andate le cose l’ultima volta che ci siamo incontrati.”

 

L’uomo strinse le labbra, in un’espressione stranamente familiare e poi guardò dritto verso di lui, “e questo chi è? Non dirmi che è il tuo nuovo fidanzato? Sei passata dal troppo grande al troppo giovane? Almeno questo spero non abbia già famiglia a carico.”

 

Non sapeva chi fosse sto tizio: pareva troppo anziano per essere un ex di Irene ma magari lavorava con lei in passato, visti i modi militareschi. In ogni caso gli stava già sull’anima.

 

“No, io ed il maresciallo Calogiuri siamo solo colleghi, mi ha accompagnata perché collabora con me al caso di cui mi sto occupando.”


“Maresciallo, eh? Dell’Arma, immagino. Ormai prendono cani e porci! E in quanto a te… come se non avessi già dato spettacolo con i colleghi in passato! Ma del resto ormai… non c’è più disciplina, fibra morale, e-”

 

“Ma come si permette di parlarle così?!” intervenne, perché non ne poteva più, mettendosi leggermente avanti per fare da scudo tra i due.

 

“Mi permetto eccome, visto che sono suo padre! Come ti permetti tu, piuttosto! Sono il colonnello Ferrari.”


“In pensione, papà, e fuori servizio,” gli ricordò Irene, girandosi verso di lui per lanciargli un’occhiata grata.

 

“Potrebbe pure essere un generale ma questo non la autorizza a trattare sua figlia in questo modo. E comunque la dottoressa è forse la più corteggiata in procura a Roma, ma tiene sempre le distanze da tutti, è integerrima e professionale. E quindi, a maggior ragione, non si deve permettere di parlare così di lei.”

 

“Corteggiata pure da te, visto quanto ti scaldi a difenderla?” rispose il colonnello, guardandolo in modo sprezzante, come se fosse uno scarafaggio.


“No, papà. Calogiuri è già impegnato con una donna molto fortunata, per quanto è cavaliere. Tu invece le buone maniere te le sei scordate, per come stai dando spettacolo e proprio qui, oltretutto! Che cosa penserebbe-”

 

“Non ti permettere neanche di nominarla! Con tutte le preoccupazioni che le hai dato!”


“Io?! Non… non cambierai mai! Non stupirti se non faccio i salti di gioia all’idea di rivederti e-”

 

In quel momento partì l’avviso che segnalava che a breve lo spettacolo sarebbe ricominciato.

 

“Andiamo, Calogiuri!” proclamò, trainandolo via, incurante delle proteste del padre.

 

“Mi dispiace…” gli sussurrò poi, quando furono quasi ai loro posti, “non pensavo che ci venisse ancora alla Scala e… ti avrei risparmiato l’incontro.”

 

“A me dispiace per te. Pensavo mia madre fosse il peggio ma… pure tuo padre non scherza," rispose ed Irene, stranamente, sorrise.


“Non ti preoccupare, ci sono abituata. Ormai quello che mi dice entra da un orecchio ed esce dall’altro. Ma grazie per aver preso le mie difese, pure se mi hai dipinto come una specie di Santa Maria Goretti, che è un po’ poco credibile.”

 

“Ma è vero. Non esci mai con nessuno che c’entra col lavoro, anzi… non mi hai mai raccontato di nessuno, proprio.”

 

“Perché non c’era niente di importante da raccontare, Calogiuri,” rispose, facendogli l’occhiolino e rimettendosi a sedere.

 

Si chiese che cosa volesse dire con quell’importante.

 

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“Insomma… Diana sta avendo un po’ di problemi personali e… non è molto in sé in questi giorni. Vorrei evitarle di fare qualche sciocchezza con… con Brian, per quanto sia molto meglio dell’uomo a cui si accompagna adesso. Se mi potesse aiutare, dottore, visto che lei lo conosce meglio di me….”

 

“Non deve dire altro, dottoressa. Le fa molto onore, preoccuparsi così della sua amica,” rispose, con un sorriso sincero.


“Suvvia, dottore, sto solo facendo quello che farebbe chiunque abbia un minimo di coscienza al posto mio.”

 

“Comunque non si preoccupi: Brian è un po’ un… provolone ma… non vorrebbe mai approfittarsi di qualcuno che non sta bene, figuriamoci della sua amica. Ci penso io a chiarirgli la situazione.”

 

Mancini aveva lo strano potere di essere rassicurante anche solo con due parole, come se davvero potesse risolvere tutti i problemi del mondo.

 

Ma, almeno quello, era più che alla sua portata.

 

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“Sei ancora commosso, Calogiuri?”

 

“U- un po’...” balbettò, sentendosi stupido ma era stato tutto così… bello anche se surreale.

 

“Allora l’opera ti piace. Ne sono contenta, pure se non è il mio genere preferito, ma ha un posto speciale nel mio cuore. E ora, dopo aver nutrito lo spirito, pensiamo a nutrire il corpo. Siamo arrivati,” disse, entrando in un edificio molto antico.

 

“Ma… ma sembra una libreria….” proclamò, stupito, mentre procedevano in sale storiche fino a giungere di fronte ad una con un cameriere, che prese il loro nome e li portò ad un tavolo già prenotato.

 

“Sì, c’è anche una libreria in questo edificio. Ed un museo, una galleria d’arte. Uno dei palazzi storici più belli di Milano e si mangia benissimo.”

 

E ci mancherebbe altro! - fu il suo pensiero, guardando i prezzi sul menù. Imma sarebbe già svenuta.

 

“Dottoressa! Che bello rivederla! Sa già cosa volete ordinare? E lui è-”

 

“Un collega, il maresciallo Calogiuri. E fate voi. Qualcosa di leggero, visto che è tardi.”

 

“Naturalmente, vedrete che saremo molto rapidi anche con il servizio.”

 

“Il proprietario. Lo conosco da un po’ di anni, poco dopo che hanno aperto,” gli spiegò, non appena si fu allontanato.

 

“Ma conosci veramente tutti a Milano!” esclamò, ammirato, perché era tipo Imma con Matera, solo che Milano era enorme.


“Tutti no, Calogiuri. Diciamo… la gente che conta e che si è stabilita qua da un po’. Quelli che hanno le mani in pasta ovunque e non necessariamente per cose legali. Poi negli ultimi anni mi sono persa un po’ ma… cerco di tenermi aggiornata sulla situazione qui, per motivi che potrai dedurre.”

 

Bianca, sicuramente.

 

“Tra l’altro, scusami per averti trascinato via da teatro, magari volevi goderti ancora un po’ l’atmosfera della Scala, ma-”

 

“Volevi evitare tuo padre, lo capisco. Pure io… lo eviterei volentieri, al posto tuo.”

 

“Sai… mio padre non mi ha mai perdonato sia la scelta di non entrare nell’Arma, sia poi… avere avuto una relazione con un uomo sposato, più grande di me. Non ha preso bene nemmeno la mia decisione di chiedere in affidamento Bianca ed infine la scelta di trasferirmi a Roma. E meno male che non ha scoperto pure tante altre cose della mia vita ma… già queste gli sono bastate.”

 

“Ma… ma hai fatto una carriera incredibile e… e la tua decisione di prendere con te Bianca e di proteggerla… chiunque ne sarebbe orgoglioso, immensamente!”

 

“Chiunque tranne mio padre. Sai… è un uomo all’antica, legato moltissimo a quell’idea dell’Arma come composta da persone che non devono avere nessuna macchia sulla loro reputazione. Per lui quello che la gente pensava e pensa di lui e della sua famiglia è sempre stato più importante di tutto il resto. Ed ha idee molto arretrate su cosa sia giusto e cosa sbagliato. è sempre stato rigido e marziale ma… da quando è morta mia madre è pure peggiorato, purtroppo.”

 

“N-non sapevo di tua madre. Mi dispiace.”

 

“Non ti preoccupare,” gli sorrise e si sentì stringere una mano sopra al tavolo, “è morta qualche anno fa, dopo una breve malattia. Mio padre… mi ha sempre fatto sentire in colpa, sia perché non ho chiesto l’aspettativa per assisterla - ma ero in mezzo al maxiprocesso, non potevo! - sia perché poi ho deciso di trasferirmi. Sai, essendo figlia unica e femmina, non sposata, si aspettava che rimanessi ad accudirlo ma… ho scelto la mia salute fisica e mentale e quella di Bianca. E, a parte tutto il resto, lui è stato una delle motivazioni per non farla crescere qui, non che sarebbe stato possibile.”

 

Rimase per un attimo ammutolito, non sapendo bene cosa dire.


“Che c’è?”

 

“C’è che… non parli mai così tanto della tua vita privata, solitamente.”

 

“Sarà l’atmosfera di Milano che mi porta alla mente molti ricordi, Calogiuri. Ma ora godiamoci il presente e la cena, alla faccia di mio padre. Alla salute!” proclamò, alzando il calice, appena riempito dal cameriere, e facendolo tintinnare con il suo.

 

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“Ovviamente ognuno paga il suo, dottore, insisto.”

 

“Neanche per idea, dottoressa, io e Brian vi abbiamo invitato e paghiamo noi, vero?”

 

“Certo! Anche se il piacere della vostra compagnia è... priceless….”

 

Sì, come mastercard! - pensò Imma, mentre Diana si esibiva in una pacca sul braccio di Brian e nell’ennesimo risolino, sussurrandogli, “ma come parli bene!”

 

“Va bene, va bene,” concesse, perché le bastava riportarsi Diana a casa.

 

Gli uomini tornarono, dopo aver saldato il conto, e Brian disse, “allora adesso-”

 

“Adesso accompagnamo la dottoressa e la signora Diana a casa, che con tutto questo vino abbiamo tutti bisogno di una bella dormita,” intervenne Mancini che, all’espressione di protesta di Brian, gli rivolse un’occhiataccia di cui Imma fu parecchio orgogliosa, per poi sussurrargli, “ti spiego dopo.”

 

Mancini era veramente un gentiluomo, non c’era che dire.

 

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“Ah, finalmente!”

 

La vide liberarsi dei tacchi non appena entrarono nella suite, massaggiandosi i piedi.

 

“Non capirò mai perché voi donne vi sottoponete a questa tortura. Soprattutto quando siete alte, come te o come Imma,” commentò ed Irene fece un’espressione strana.

 

“Calogiuri… alla Scala con questo vestito, che scarpe volevi che mettessi? Vi strozzerei quando vi lamentate delle vostre scarpe eleganti, giusto perché sono un poco rigide. Comunque domani scarpe comode assolutamente, che abbiamo ancora parecchio da camminare.”

 

“Adesso che vuoi fare? Analizzare le prove raccolte?”

 

“No, Calogiuri, a quest’ora non ci penso nemmeno. Piuttosto ci svegliamo presto domattina ed iniziamo a lavorarci mentre facciamo colazione. Domani l’obiettivo però è seguire Villari e vedere che combina. Il lavoro di fino lo facciamo a Roma, al limite possiamo sempre programmare un altro viaggio a Milano, se necessario, anche se mi sa che dovrò trovare qualcuno che se ne occupi da qua, se usciranno cose consistenti.”

 

“Va bene… allora… vuoi usarlo prima tu il bagno?”

 

A quella domanda, Irene fece un sorriso indefinibile e poi rispose, “sai che ti dico, Calogiuri? Che avrei bisogno di un massaggio, ma a quest’ora mi accontento di un idromassaggio. C’è una SPA bellissima qua in hotel: idromassaggio, piscina. Ti va di venirci? Così ci rilassiamo un po’. Tanto abbiamo cenato leggero.”

 

Fin troppo… la cena era stata buonissima, ma Imma si sarebbe lamentata per giorni delle porzioni, fosse stata lì con loro, visto il prezzo, poi.

 

“Guarda… non ho il costume….” rispose, con un poco di imbarazzo.


“E che problema c’è? Chiediamo al concierge e te lo procura sicuramente. E dai, Calogiuri, non mi puoi lasciare da sola a quest’ora, no?” gli chiese, facendogli l’occhiolino, e, forse per l’adrenalina a mille dopo opera, cibo e vino, forse perché Imma non aveva mandato alcun messaggio e quindi pure lui poteva tardare ancora un poco….

 

E poi non c’era niente di male a farsi una nuotata con un’amica.

 

“Va bene….” acconsentì, ed Irene si affrettò ad afferrare il telefono sul tavolo lì vicino ed a chiamare la reception.

 

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“Mi scusi ancora, dottore, sono mortificata, veramente.”

 

“Ma si figuri, dottoressa. Schiaccia lei per il piano?”

 

Erano pressati nell’ascensore, mentre reggevano tra loro Diana che, dopo aver vomitato pure l’anima nell’auto del procuratore capo, era in uno stato di mezza incoscienza.

 

Premette il pulsante e gli disse, “spero che l’auto si riesca a lavare, dottore. Vorrei contribuire alle spese di pulizia e-”


“Ma non ci pensi nemmeno! E poi non è colpa sua, ma della sua amica, che è maggiorenne e la responsabilità è sua e non trasferibile.”

 

“Mica è un reato penale, dottore.”

 

“Non fa niente, davvero,” rispose, con un aplomb quasi da santo perché, se Diana l’avesse fatto sulla sua di macchina, soprattutto su una costosa come quella di Mancini, le avrebbe fatto vedere i sorci verdi.

 

Mentre Mancini sosteneva Diana, aprì la porta di casa e lo aiutò a portarla dentro. Poi, al suo sguardo interrogativo, disse, “meglio che la portiamo a letto, dottore, che io da sola come la sposto?”

 

Gli fece strada verso la stanza ed, infine, con un mezzo tonfo, Diana finì sul copriletto, a russare peggio di un ubriacone all’Oktober Fest.

 

“Grazie…” ripetè, ma si bloccò quando si rese conto che Mancini si stava guardando in giro.

 

In particolare, lo sguardo gli si fermò su una sedia dove c’era una tuta di Calogiuri, ben ripiegata come al suo solito, e sul comodino, dove Imma si era portata la cornice digitale con le loro foto, per guardarsela prima di dormire.

 

“Dottore….”

 

“Forse… è meglio che io ora vada, dottoressa. Però se avesse bisogno di qualunque cosa, mi può chiamare a qualsiasi orario, va bene?”

 

La frase era stata pronunciata in maniera apparentemente innocente, riferita a Diana ed al suo stato di salute, ma si chiese se solo lei ci leggesse pure dei sottotesti, anche se molto velati.

 

“Va bene… la accompagno.”

 

Stavano percorrendo il corridoio quando Mancini si fermò di fronte alla statua del leopardo e sorrise, “un appartamento arredato con gusto, complimenti!”


“Ma che fa, sfotte, dottore?”

 

“No, no,” rise, prendendo in mano la statuetta, “pure il suo tocco… personale non è male, dà calore a questo ambiente così moderno.”

 

“Sarà… ma non c’è paragone con casa sua.”

 

“Infatti…” sussurrò, amaro, “questa casa è vissuta, si vede, mentre casa mia… a volte mi sembra un museo, almeno in certe stanze.”

 

C’era qualcosa nel tono di voce, nello sguardo, che le fecero venire un istinto fortissimo di abbracciarlo. Ma si artigliò i palmi e si trattenne: poteva essere frainteso, soprattutto a quell’ora ed in quel luogo.

 

“Allora… buonanotte, dottoressa.”

 

“Anche a lei, dottore,” si congedò, richiudendo con un sospiro la porta dietro di lui.

 

Scuotendo il capo, prese la borsa, la aprì e ne estrasse il telefono.


Calogiuri ancora non aveva scritto nulla, probabilmente era incazzato con lei per la storia di Mancini.

 

Sono a casa. Facciamo una chiamata che ti devo spiegare un po’ di cose? Un bacio.

 

Aspettò qualche minuto, col fiato sospeso, ma niente: Calogiuri non era nemmeno online e da parecchie ore. Si costrinse a spegnere il display ed a tornare in camera da letto, sperando che Diana non vomitasse peggio della bimba dell’Esorcista pure lì.

 

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“E dai, Calogiuri, che non hai mai visto una donna in costume?”

 

Non potè evitare di arrossire ancora di più. Irene aveva un costume intero, per carità, bianco, ma con una scollatura davvero profonda anche se stretta, che arrivava ben sotto al seno. Gli ricordava un vecchio film di James Bond con una donna che usciva dall’acqua, anche se quello forse era un bikini, dai suoi ricordi di ragazzino.

 

E poi Irene si sedette sul bordo della piscina e ci si buttò dentro, riemergendo dopo, poco, coi capelli bagnati, e sfottendolo con un, “ti devo dire Marcello, come here?! o entri in acqua prima che sia ora di andare a dormire?”

 

“Che cosa?”

 

La Dolce Vita, Calogiuri, la scena della fontana, hai presente?”

 

“Vagamente…” replicò, il viso in fiamme.

 

“E dai, Calogiuri, che siamo in piscina e non in sauna, che hai da essere così rosso? Buttati!”

 

Terribilmente in imbarazzo, fece come richiesto, quasi automaticamente, ma poi, come se potesse smaltire l’imbarazzo, iniziò a nuotare, pure senza occhialini, in stile libero, macinando vasche.

 

Non c’era forse nulla che gli schiarisse di più la mente e lo tranquillizzasse così tanto. A parte Imma, naturalmente.

 

“Sei velocissimo, Calogiuri!” esclamò Irene, sembrando impressionata, quando finalmente si fermò per tirare il fiato.
 

“Eh… ho fatto qualche anno di nuoto, ma ormai sono lento.”

 

“Sulla terraferma, magari,” lo prese in giro e gli venne una fitta di nostalgia.


“Che c’è?”

 

“Niente… è che… me lo dice sempre anche Imma.”

 

L’espressione di Irene si fece nuovamente strana, mentre scosse il capo ed iniziò ad avvicinarglisi, forse troppo vicino.

 

Sentì qualcosa che gli scompigliava i capelli e si rese conto che erano le dita di lei.

 

“Parli sempre di Imma…” commentò, ritirando la mano ma rimanendogli vicina, “ogni occasione è buona per nominarla o pensare a lei. Un po’ ti invidio, sai? Riuscire ancora ad innamorarsi in questo modo… io non ne sono forse più capace. Anche se mi evito tante delusioni.”

 

Non sapeva che rispondere, né come interpretare la situazione, poi balbettò un, “qu- quindi una volta anche tu eri così?”

 

Irene gli sorrise e nuotò verso la scaletta. Si voltò appena prima di salire con un “questo è un discorso da idromassaggio, Calogiuri!”

 

Se era già rosso prima, non osava immaginare come dovesse essere in quel momento, perché, con l’acqua ed il movimento, il costume di Irene si era un poco spostato, diventando ancora più sgambato e non lasciando quasi niente all’immaginazione.

 

E, anche se la malizia sta nell’occhio di chi guarda, Imma lo avrebbe ucciso se li avesse visti così.

 

Forse non poteva nemmeno darle del tutto torto.

 

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“Scusami, Imma, scusa-”

 

Non riuscì a finire la frase perché vomitò di nuovo nel secchio che le aveva portato - e che dopo avrebbe probabilmente dovuto buttare.

 

Diana si era svegliata e piangeva e vomitava, vomitava e piangeva.

 

Un delirio completo.

 

“Scusati di meno ma centra il secchio, grazie,” rispose, un poco sarcastica, ma non ci poteva fare niente.

 

“Ma… è che… ti ho fatto fare una figuraccia col tuo capo e-”

 

“Al limite la figuraccia l’hai fatta tu, Diana, non io. Poi Mancini per fortuna è un gentiluomo, quindi non me lo farà pesare.”

 

“Perché sei tu. Quello è pazzo di te, Imma, ma che non ti sei accorta di come ti guarda? Certo che hai proprio tutte le fortune! Non so come fai ad attrarre uomini belli e pure così gentili.”

 

“Forse perché non vomito loro in auto, Diana. Sai, aiuta.”

 

“Molto spiritosa, dottoressa!” esclamò, passandosi però una mano sulla fronte, palesemente mortificata, “e pure Brian… dopo che ho vomitato di fianco a lui, non mi vorrà più vedere.”

 

“E quello, forse, con tutto il rispetto per Brian, non è un male. Chiodo scaccia chiodo è una pessima idea, Diana. E poi… per Capozza... questa… figlia…” e dovette fermarsi perché Diana prese a piangere, ricominciando con i miagolii, “Diana, questa bimba è stata concepita prima che Capozza e tu… iniziaste una relazione. Per non parlare del fatto che eri ancora sposata, all’epoca. Non ti ha tradita e quindi-”

 

“E quindi mo lo difendi pure, Imma?!” gridò, muovendo il secchio in modo pericoloso, ed Imma non avrebbe saputo dire se la spreferisse meno piangente, vomitante o rabbiosa, “cosa faresti se… se al posto di Calogiuri ci fosse Capozza, eh?”

 

Dopo Calogiuri, pure lei ci si metteva a farle quella domanda. Ma con Diana poteva essere ancora più onesta.

 

“Vuoi la verità? Se… se Calogiuri avesse messo incinta qualcuna prima di stare con me… ovviamente terrei paura, Diana, come la tieni tu, del legame che una creatura può creare tra due genitori, e lo sappiamo tutte e due. Ma… ma se lui volesse comunque stare con me e… e sapesse mettere dei bei paletti - e non necessariamente in petto alla madre della creatura - diciamo che… che in fondo sarei… una parte di me sarebbe felice per lui e che… non debba rinunciare del tutto ad essere padre per colpa mia e della mia età anagrafica.”

 

Un ululato più forte degli altri e se la ritrovò praticamente in braccio, che piangeva come un vitello.


“E perché piangi mo?”

 

“Perché… tu a Calogiuri lo ami proprio tanto e… sei tanto buona per davvero, Imma!” esclamò, stringendola forte tra un singhiozzo e l’altro, “io… io non so se sono come te, se ce la faccio.”

 

“Diana,” ribadì, staccandosi per prendere il viso e guardarla negli occhi, “a parte che io c’ho Calogiuri e non Capozza, quindi non è del tutto merito mio se mi viene più facile che a te, però… se per motivi, come sempre per me inspiegabili, tu con Capozza ci stai bene, che senso avrebbe buttare via tutto senza aver nemmeno provato se… se può funzionare o meno, pure se lui ha questa storia della paternità. Che poi prendersi le sue responsabilità è la cosa meno peggio che Capozza abbia fatto da quando lo conosco. Che avresti preferito che si rifiutasse di riconoscere o fare parte della vita di sua figlia?”

 

E Diana si fermò un attimo, finalmente, e scosse il capo, il viso ancora bagnato dalle lacrime, “no, no… tieni ragione. Non vorrei… non vorrei stare con uno che non ne vuole sapere di sua figlia, che già Giuseppe mi è bastato, per quanto se n’è sempre fregato di Cleo e-”

 

“E allora torna a casa, parla con Capozza e cercate di affrontare questa cosa insieme. Senza alcol e vomito, possibilmente.”

 

Diana fece un altro singhiozzo e si trovò stritolata nel suo abbraccio. La tenne così, come se fosse una bambina, finché si rese conto, dal russare, che si era addormentata.

 

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“Sai… era iniziato tutto molto gradualmente. Sapevo che aveva una moglie ed un figlio e per me gli uomini sposati erano sempre stati off limits. Ma piano piano, lavorando fianco a fianco, mi sono innamorata quasi senza accorgermene. Un giorno, dopo un blitz difficile, in cui ha rischiato di lasciarci la pelle, ci siamo baciati: l’adrenalina fa fare molte stupidaggini.”

 

Irene raccontava guardando dritta davanti a sé, c’era molta amarezza nella sua voce.

 

Per certi versi gli ricordava la storia sua e di Imma e… se Imma non avesse lasciato il marito e non si fosse presentata a Roma probabilmente anche lui sarebbe stato così disilluso.

 

“Ci abbiamo pure provato a trattenerci, dopo, ma niente. All’inizio ho cercato di vivermela giorno per giorno, senza promesse, ma ero sempre più innamorata. E poi… e poi lui ha fatto la cosa peggiore che potesse fare.”

 

“E cioè?”

 

“Probabilmente si è reso conto che ci stavo male. Mi ha invitata fuori e mi ha detto che non si poteva più continuare così, che aveva preso una decisione e-”

 

“E ti ha lasciata per il tuo bene?” chiese, ricordando ancora con dolore quel giorno in cui Imma lo aveva piantato in asso.

 

“No,” sorrise, anche se l’amarezza rimaneva, “quello sei tu, Calogiuri. No, mi ha… mi ha detto che ormai per la moglie non provava più niente, che non aveva senso rimanere con lei e che voleva stare con me. Io non ci potevo quasi credere: ero felice come non lo ero mai stata, pure se mi sentivo un po’ in colpa verso moglie e figlio.”

 

“Ma perché è stata la cosa peggiore, allora?” domandò, confuso.

 

“Perché mi ha illusa, Calogiuri. Per un paio di mesi è pure venuto a vivere da me, essendo andato via di casa, e… ci ho creduto veramente a quel punto, senza riserve. E ho fatto male. Un giorno rientro dal lavoro e trovo un biglietto in cui mi dice che tornava dalla moglie. Non ha avuto nemmeno il coraggio di dirmelo in faccia. E poi, dopo qualche tempo, scopro che lei era incinta. Lui ovviamente mi aveva raccontato le solite balle nell’ultimo periodo che stava con lei: che il matrimonio era finito, che ormai non avevano più rapporti. La storia più vecchia del mondo, ma si crede sempre a quello che si vuole credere. E a me faceva comodo crederci, evidentemente.”

 

“Che stronzo!” gli uscì, senza quasi rendersene conto. Irene rise ed annuì.

 

“Puoi dirlo, anche se non è da te usare certe parole, Calogiuri. Però… era ed è bravissimo a fare il suo mestiere. Per un po’ abbiamo provato a mantenere almeno i rapporti lavorativi, c’era pure il maxiprocesso di mezzo ma… l’atmosfera era pesantissima. Dopo qualche mese lui ha chiesto il trasferimento in Puglia, regione d’origine sua e della moglie e… mi ha lasciato in dono una visione decisamente più cinica e disillusa della vita, ma anche un po’ di furbizia in più, per fortuna.”

 

“Quindi… era Ranieri, giusto?”

 

“Giusto,” confermò, con un sospiro.


“Ma… dopo non ti sei più innamorata? Cioè mai?”

 

“Mi è piaciuta qualche persona, Calogiuri ma… quella capacità di fidarsi al cento per cento, di lasciarsi andare, forse l’ho persa per sempre. Mentre invece tu ti fidi ancora, fin troppo, ed è una di quelle cose che da un lato dovresti perdere, per il tuo bene, ma dall’altro spero che non ti capiti mai.”

 

“Diciamo che… ho avuto una relazione, prima di Imma, con… una ragazza che sembrava collegata solo marginalmente ad un caso, ma che poi si è rivelata un’assassina. Dopo di quello, per un periodo sono stato cinico, disilluso, non credevo più a niente, ma… alla fine ho capito che se tengo ad una persona mi devo fidare, fino a prova contraria. Non tutti sono uguali e non ha senso vivere rapporti a metà, per paura.”

 

“Beh… sei molto coraggioso, Calogiuri, come si vede anche dal rapporto con Imma, ma… il problema del fidarsi delle persone sbagliate, per chi fa un mestiere come il mio o il tuo, non è solo personale, incide anche sul lavoro. E non solo se si tratta di malintenzionati o assassini. Per colpa di quello che era successo tra noi a livello personale, Ranieri si è trasferito nel bel mezzo del maxiprocesso ed era il migliore che avevo in squadra. E poi ero distrutta, per lui, per mia madre, ero meno lucida del solito e… insomma, è stato allora che è stata uccisa la madre di Bianca. Forse… forse se Ranieri fosse rimasto, le cose sarebbero andate diversamente e non posso non pensarci.”

 

“Ma non è colpa tua, non devi nemmeno pensarlo!”

 

“Non penso che sia colpa mia, Calogiuri, ma che… quando ero ragazzina e leggevo i libri di Sherlock Holmes, mi sembrava assurdo quando sosteneva che chi fa l’investigatore non si dovrebbe innamorare, perché rende irrazionali, ed invece bisogna esserlo. Non dico che sia sempre così ma-”

 

“Ma, anche se ora non possiamo lavorare più insieme, Imma ed io abbiamo lavorato benissimo pure dopo aver iniziato la nostra relazione e poi-”

 

“E poi che succederebbe se finisse? Ti sei trasferito pure tu, Calogiuri, quando lei ti ha… lasciato, se così si può dire. Lo so perché c’ero io a sentirli i tuoi sfoghi e me li ricordo ancora, tutti. Non dico che non possa andare bene, rare volte, ma… se non funziona è un problema, capisci cosa voglio dire?”

 

Sospirò, perché doveva ammettere che Irene tutti i torti non li aveva. Ma….

 

“In ogni caso Imma mi ha reso e mi rende un investigatore migliore e… nel mio piccolo anche io l’ho aiutata. E… se pure un giorno dovesse mai finire tra noi, quello che abbiamo fatto insieme resta e non ce lo toglie nessuno. Quando si è felici si lavora meglio e pure tu ti meriti di essere felice.”

 

Irene sorrise e scosse il capo, “che fai, il contraddittorio, Calogiuri? Proprio con me? E comunque… la felicità è un’utopia, mi basterebbe essere serena. Però ti ringrazio per la preoccupazione.”

 

Era mezza distesa nell’idromassaggio ma si voltò verso di lui, lo guardò per qualche secondo senza parlare, e poi si rimise seduta vicino al bordo della vasca, accanto a lui.

 

Improvvisamente, si trovò stretto in un abbraccio e si sentì avvampare perché, poco vestiti com’erano, si sentiva fin troppo.

 

“Forse è meglio se ce ne torniamo in camera, ora,” gli disse, staccandosi, mentre lui ancora tratteneva il fiato, immobile, e di nuovo si sentì scompigliare i capelli con un, “ah, Calogiuri, se fossero tutti come te!”

 

Si alzò ed uscì dalla vasca, come se niente fosse, andando verso l’accappatoio che si era portata dalla stanza, lasciandolo lì, scombussolato e tremendamente in imbarazzo.

 

*********************************************************************************************************

 

Allungò una mano per controllare il display. Niente. Calogiuri non le aveva scritto ed ormai erano le due di notte.

 

Ma che stava combinando?

 

Diana le si era di nuovo aggrappata a morsa e pareva un motore ingolfato per quanto russava. Insomma, un sabato di merda, per dirla alla francese.

 

E poi, finalmente, dopo ore in cui il cellulare pareva non averlo preso in mano manco per sbaglio, apparì la scritta online sotto al cognome di lui.

 

Si sentiva un poco stalker ma era preoccupata, per più di un motivo, e non ci poteva fare niente.

 

Vide che stava digitando.

 

Alla buon’ora!

 

Sono arrivato adesso in camera. Cosa ci fai ancora sveglia?

 

Cosa ci faccio io sveglia?! Potrei chiedere lo stesso di te. Che eravate in missione fino a quest’ora? Non mi hai risposto prima ed ero preoccupata. E comunque sono qua con Diana che russa e… ti devo dire un po’ di cose.

 

Pure io. Posso chiamarti?

 

Quel pure io la preoccupò non poco, sia se si fosse trattato di lavoro - ma difficilmente ne avrebbe parlato in dettaglio al telefono, per prudenza - sia se si fosse trattato di altro, anzi di altra.

 

Con non poca fatica, si sciolse dall’abbraccio da orso in letargo di Diana, che stritolò il suo cuscino lasciato libero, quasi in sostituzione.

 

Sperando di riuscire a recuperarlo dopo e meditando la possibilità di dormire sul divano, si infilò le ciabatte, chiuse la porta e, una volta in corridoio, selezionò direttamente la videochiamata. Certe cose era meglio spiegarle guardandosi in faccia.

 

Quando lo vide, provò un misto tra tenerezza ed una botta ormonale: aveva i capelli bagnati ed aveva un asciugamano sulle spalle, a petto mezzo nudo. Ma c’era qualcosa, forse l’espressione, che lo faceva sembrare un misto tra un pulcino bagnato ed un koala incazzoso.

 

“Ma ti sei fatto la doccia mo? Che hai fatto fino a quest’ora?”

 

“Poi ti racconto, ma tu che ci facevi con Mancini? Che cosa mi dovevi spiegare?” le chiese, ed il koala incazzoso prevalse decisamente, “perché ci sei uscita proprio mentre ero via? Lo sai che quello non vede l’ora, no?”

 

“Per farla breve, Calogiuri, lo abbiamo incontrato con Diana mentre tornavamo a casa e ci ha offerto un passaggio. Diana, la conosci, con il procuratore capo di Roma, figurati se si tira indietro! E poi Mancini ci ha invitato ad una cena sui colli con Brian e, di nuovo, vuoi che Diana dicesse di no? Comunque Mancini è stato un gentiluomo, veramente: Diana si è ubriacata, era fuori di sé, tra un po’ si buttava addosso a Brian. Mancini mi ha aiutato a riportarla a casa sana e salva, gli ha pure vomitato in macchina, figurati!”

 

Vide che Calogiuri passò dallo sconvolto ad un mezzo sorrisetto, che l’avrebbe menato.

 

“Calogiuri!”

 

“Imma, mi dispiace per la signora Diana che stava male e per te che te la sei sopportata, ma sul vomito….”

 

“Ha pure vomitato in camera nostra, dal tuo lato del letto, se è per questo, Calogiuri,” lo interruppe ed il sorrisetto gli si levò, con un’espressione disgustata che le strappò una risata, “in un secchio… anche se… dovrò disinfettare tutto, che non ti dico l’odore! Si è addormentata non molto tempo fa. Per fortuna forse ha deciso di evitare di spappolarsi il fegato e di parlarne con Capozza.”

 

“Mi… mi dispiace che… che ti sei dovuta subire tutto questo, da sola. Avrei voluto esserci io lì, al posto di Mancini.”

 

“Per farti vomitare nell’auto di servizio?”

 

“No, per darti una mano,” rispose, in un modo così disarmante che le passò la voglia di essere sarcastica.

 

Almeno per qualche secondo.

 

“E tu? Che hai combinato fino a quest’ora?

 

Il pulcino bagnato tornò preponderante e lo vide un po’ in apprensione.

 

Non era un buon segno.

 

“Abbiamo interrogato un po’ di testimoni potenziali, poi abbiamo fatto un pedinamento e poi-”

 

“Un pedinamento in notturna?”

 

“No, no, è solo che… Irene mi ha portato alla Scala a vedere l’Aida. Quando mi è arrivato il tuo messaggio stavamo uscendo, che rischiavamo di fare tardi, e poi non sono più riuscito a rispondere, anche perché la storia di Mancini la volevo sentire per bene.”

 

Rimase per un attimo ammutolita. La gattamorta ci andava giù con l’artiglieria pesantissima.

 

“Cioè… tu sei andato nel teatro più caro d’Italia a vederti l’Aida?! Ma ti rendi conto del valore economico dei… dei regali che ti fa la cara Irene?”

 

“Ma per lei credo sia una cosa abbastanza normale: pensa che i suoi genitori erano abbonati alla Scala. Forse suo padre lo è ancora,” le rispose e poi lo vide azzittirsi, come se stesse omettendo qualcosa.

 

“Che altro c’è, Calogiuri?” gli chiese, stringendo gli occhi.


“Niente… è che… Irene mi ha raccontato delle cose personali ma… non so se sarebbe corretto parlartene, di sicuro non al telefono.”

 

Sentì un’ondata di irritazione morderle lo stomaco.

 

“Scusa, le confidenze di Capozza me le hai raccontate e quelle della gattamorta no? E che ti avrà mai rivelato? Il terzo segreto di Fatima?”

 

“No, ma… è una cosa che riguarda il suo passato qui a Milano, la sua infanzia. Non c’entra niente con noi due. Tu come ti saresti sentita se avessi rivelato a qualcuno quello che mi avevi confidato, pure quando non… non avevamo ancora una relazione?”

 

Sospirò, perché una parte di lei non poteva dargli torto: l’infanzia era una nota dolente ed il passato… era il passato.

 

Il problema era che Irene era una spina nel fianco nel presente e temeva si fosse inventata qualche storia da piccola fiammiferaia straricca per intortarsi Calogiuri.

 

Ma, in fondo, il silenzio di lui gli faceva onore. E Calogiuri era un ragazzo di altri tempi, anche da questo punto di vista.

 

“Va beh… in ogni caso… che avete fatto per stare in giro fino alle due di notte? Salvo fosse una versione moderna dell’Aida ambientata in una discoteca, di solito gli spettacoli teatrali prima di mezzanotte sono belli che finiti.”

 

“Sì, ma… siamo andati a cena in un ristorante vicino alla Scala e poi…” proseguì, prendendo un respiro che non le piacque per niente, “e poi Irene mi ha proposto di andarci a fare una nuotata ed un idromassaggio nella SPA dell’hotel. Eravamo tutti e due un po’ indolenziti e quindi-”

 

“E quindi hai pensato bene di andartene in costume - anzi, non ce lo avevi neanche il costume, non te lo sei portato dietro!” esclamò, immaginandosi Calogiuri in mutande nella piscina dell’hotel, con Irene abbigliata chissà in che modo.


“Me l’hanno fornito quelli dell’hotel. E comunque… non è successo niente di che. Cioè… ci siamo fatti una nuotata, poi abbiamo parlato un po’ e-”

 

“E che vuol dire che non è successo niente di che? Quindi qualcosa è successo?” lo interruppe, perché a lei questi dettagli da interrogatorio non sfuggivano.

 

“No… cioè… dopo che si è confidata, mi ha abbracciato, ma per poco tempo e-”

 

“Ed Irene in tutto questo com’era… diciamo vestita?” domandò, il sangue che le ribolliva nelle vene.

 

Calogiuri deglutì, altro pessimo segno.


“Con un costume intero.”

 

Almeno non era un microbikini! - pensò, anche se la cosa non è che la consolasse molto.

 

“Quindi questa mezza nuda ti si spalma addosso e tu dici che non è niente di che?!” non potè fare a meno di alzare la voce, perché la gelosia stava prendendo piede sempre di più e pure la voglia di strozzare la gattamorta con la fibbia di una delle sue borse di lusso.

 

“Ma si è staccata quasi subito e siamo tornati in camera e poi… e poi stavamo parlando anche di te.”

 

“Ah beh, sai te che enorme consolazione se parli di me mentre stai tête-à-tête, anzi, più che altro tetta a tetta con un’altra!”

 

“Imma!” esclamò e lo vide benissimo che si tratteneva dal ridere.

 

“Guarda che non c’è niente da ridere, Calogiuri! La faccenda è grave e-”

 

“Ed abbiamo parlato di te perché Irene mi ha fatto notare che ti nomino in continuazione, che ti penso sempre, qualsiasi cosa mi succeda mi viene da pensare a te, ed è vero. Mi viene da immaginare cosa faresti tu e poi… e poi abbiamo parlato di quanto mi piace lavorare con te e… di quanto sono fiero di tutto quello che abbiamo fatto insieme io e te, da quando ci conosciamo e soprattutto da quando… siamo diventati una coppia ufficialmente.”

 

Sentì una fitta al cuore. Mannaggia a lui, ma come faceva a trovare sempre le parole giuste al momento giusto e a sembrare così sincero, soprattutto?

 

“Veramente, avrebbe potuto pure essere nuda, ma a me non interessa, mi interessi solo tu. E lo sa benissimo pure lei… solo che… abbiamo alcune esperienze sentimentali in comune, per così dire, e quindi credo che si senta a suo agio a confidarsi con me. Lo sai com’è fatta, e che per lei non è facile parlare di sé, quindi… credo mi abbia abbracciato per quello.”

 

Rimase per un attimo in silenzio, guardandolo in faccia mentre lui aveva un’espressione come quando aveva atteso il verdetto di una sua risposta o azione i primi tempi che si conoscevano. Come faceva a restare arrabbiata con lui? Soprattutto visto che non aveva fatto niente e le sembrava sincero, anche se veramente troppo ingenuo.

 

“Senti, Calogiuri,” disse dopo un po’, “sulle motivazioni per le quali Irene ti ha abbracciato in costume da bagno non saremo mai d’accordo ma… mi fido di quello che mi hai detto e mi voglio continuare a fidare. Però cerca di svegliarti e di non metterti in situazioni spiacevoli. Milano da questo punto di vista è pericolosa.”

 

“E che non me lo ricordo?” sospirò lui, con un lampo di gelosia negli occhi e non le riuscì più di trattenere il sorriso, “comunque ci starò attento, tranquilla, dottoressa.”

 

“Sarà meglio per te! Ed ora forse è meglio che ce ne andiamo a dormire, che domani, tra un teatro e una SPA, dovresti pure lavorare.”

 

“Imma…” lo vide scuotere il capo, esasperato.

 

“E cerca di mantenere un po’ le forze perché quando torni dobbiamo recuperare i giorni persi, con gli interessi, altro che SPA!”

 

“Però una volta ci potremmo andare noi due, insieme, come a Maiorca.”

 

“Tu organizza, Calogiuri, e sai che non ti dico di no. Pure se… preferisco il mio massaggiatore personale.”

 

“Pure io la mia massaggiatrice, dottoressa. L’unica autorizzata,” scherzò, facendole l’occhiolino.

 

Come si faceva a non amarlo?

 

Il problema era che pure a qualcun’altra, quasi sicuramente, non risultava difficile. Affatto.

 

*********************************************************************************************************

 

“Lo vedo!”

 

“Dov’è, Calogiuri?”

 

“Sta uscendo di casa e sta camminando verso… verso il Duomo ma… ma ha in mano i sacchetti di ieri.”

 

“Che cosa?”

 

“Sì, sembrano pieni.”

 

“Dovremmo capire se… se contengono ancora gli oggetti di lusso o qualcos’altro ma… sarà difficile: anche se fosse, se non è scemo, avrà tenuto tutto inscatolato o imbustato.”

 

“Che devo fare?”

 

“Seguilo da lontano, avvisami dove si dirige che ti raggiungo una volta che c’è più folla.”

 

“Va bene.”

 

Fece come gli era richiesto, continuando a dare istruzioni dal microfono e riceverle dall’auricolare.

 

Alla fine, in zona Vittorio Emanuele fu di nuovo raggiunto da Irene, che se lo riprese a braccetto.

 

Dopo la sera precedente la cosa lo imbarazzava ancora di più, assurdamente, pure se sapeva che era solo per copertura.

 

O almeno lo sperava, perché le parole di Imma continuavano a rimbombargli in testa e pure quell’abbraccio.

 

Camminarono a distanza di sicurezza da Villari, finché l’avvocato si infilò in un’altra viuzza laterale a Via Monte Napoleone e si fermò, stavolta in un caffè.

 

“Pure questo è un caffè abbastanza frequentato ma non uno dei più blasonati, Calogiuri, più popolare tra i turisti, diciamo, che vogliono il caffè all’americana o quegli intrugli dolcissimi che vanno tanto di moda adesso.”

 

“E quindi?”

 

“E quindi forse sta cercando di evitare posti dove può incontrare gente che conosce, tranne chi vuole lui.”

 

“Che facciamo ora?”

 

“Aspettiamo un attimo, qua non ci sono altri bar abbastanza vicini. Speriamo che non ci noti e… guarda!”

 

Videro Villari sedersi ad una delle poltroncine esterne e fu raggiunto quasi immediatamente da un altro uomo, sulla quarantina, con in mano una di quelle confezioni di plastica enormi per il caffè.

 

“E ora?”

 

“Fai una foto ed aspettiamo, non possiamo entrare al bar senza farci notare.”

 

Per fortuna l’altro uomo si alzò quasi subito: del resto era un bar ed il caffè era fatto per l’asporto.

 

Ma, oltre al caffè, nell’altra mano aveva qualcosa che non c’era prima.

 

Una delle borse da shopping di Villari.

 

“Ma…”

 

“Fotografa!” gli sussurrò Irene all’orecchio e lui obbedì.

 

Stava per chiudere la fotocamera ed abbassare il cellulare, quando vide gli occhi dell’avvocato guardare praticamente dritto nell’obiettivo.


Ebbe un momento di panico: in quella via non c’erano molte altre persone o scuse per essere lì a fotografare.

 

Li aveva beccati e-

 

Si sentì voltare il viso con due mani, che gli stringevano le guance, e poi un tocco morbido e caldo sulla bocca.

 

L’esclamazione di sorpresa venne mangiata dalle labbra di lei.




 

Nota dell’autrice: Sì, lo so, vi ho lasciato ad un punto cattivissimo ;) ma diciamo che già così il capitolo è lungo tipo una volta e mezza un mio capitolo normale, quindi spero che questo compenserà l’attesa dal precedente e l’attesa per il successivo.

Irene ha fatto parecchie mosse in questo capitolo e… chissà come reagirà Calogiuri e come reagirà Imma, se e quando saprà quello che è successo. Nel frattempo Mancini incombe e… ci saranno un po’ di altri casini nel breve futuro. In più manca ancora un enorme casino nel futuro non immediato, la fine del giallo Spaziani, il maxiprocesso con l’appello ed un intero giallo ex novo.

Insomma, di carne al fuoco ce n’è ancora un po’, anche per via della mia prolissità, in questa quarta ed ultima parte della storia, che sta venendo più lunga pure del previsto. Spero si possa mantenere interessante e coinvolgente e farvi compagnia nell’attesa per la seconda stagione. Come sempre, ogni vostra recensione è graditissima per farmi sapere come sta andando la scrittura e mi dà una grandissima motivazione, quindi vi ringrazio di cuore se mi farete sapere che ne pensate.

Ringrazio tantissimo chi ha messo questa storia tra i preferiti o i seguiti.

Il prossimo capitolo arriverà puntuale tra due settimane, il ventisette di settembre. Purtroppo non mi riesce ancora realisticamente di riprendere a pubblicare ogni settimana, anche perché appunto questo capitolo è stato molto lungo da scrivere, ma vi farò sapere come sempre le mie previsioni a riguardo.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 45
*** Contatti ***


Nessun Alibi


Capitolo 45 - Contatti


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

Dopo qualche istante di shock, provò a staccarsi ma lei lo teneva bloccato per la nuca con una mano, per una guancia con l’altra.

 

E poi quelle labbra morbide si sollevarono di poco dalle sue per sussurrare un, “shhh, fermo!”

 

Infine, mentre era ancora sconvolto, sentì vibrare sulla bocca, “fingi un selfie.”

 

In qualche secondo capì tutto: Villari li aveva visti ed Irene voleva che facessero finta di essere una coppietta pronta a scattarsi una foto ricordo milanese. E con la mano lei copriva quasi metà dei loro visi, forse per cercare di evitare che Villari li potesse riconoscere.

 

Alzò, un poco tremante, il braccio che gli era cascato sul fianco nello scombussolamento generale, socchiuse un occhio e finse di stare facendo qualche foto, mentre lei muoveva la testa per simulare un bacio appassionato, le labbra che sfioravano le sue.

 

Il cuore gli rimbombava nel petto, sicuramente doveva essere più rosso dei peperoni cruschi.

 

Non era minimamente paragonabile a quello che provava baciando Imma ma… non era di piombo e non era un attore, gli era difficile rimanere impassibile di fronte ad una cosa del genere.

 

Finalmente, la udì mormorare, “abbracciami di lato, guarda verso di me, così non ti vede in faccia, e leviamoci di qua.”

 

Si staccò dal finto bacio, ancora mezzo scioccato, fece come Irene gli aveva ordinato, stringendola a sé fino ad avere la testa di lei appoggiata alla sua spalla, le braccia di lei che gli si allacciavano di lato alla vita. Iniziò a camminare verso Via Monte Napoleone con la testa rivolta verso di lei, che ancora gli prese il viso e gli sfiorò l’angolo della bocca come se fossero intenti in un ultimo bacio.

 

“Sei riuscito a fare le foto, vero?” gli chiese infine, continuando però a rimanergli abbracciata.

 

“Sì, sì,” rispose, con voce un poco tremolante per imbarazzo, prima di chiederle, quasi temendo la risposta, “e mo che facciamo?”

 

“Torniamo in hotel e cerchiamo di capire chi ha incontrato ed analizzare le testimonianze, Calogiuri. Sarebbe troppo pericoloso seguirlo ancora.”

 

“Va bene…” le rispose, un incredibile sollievo che gli riempiva il petto perché, almeno lì, avrebbero potuto tenere le distanze di sicurezza.

 

Già così sarebbe stato un casino: Imma gli aveva fatto promettere di dirle tutto ma… come faceva a spiegarle una cosa del genere, soprattutto a distanza, senza che fraintendesse o che pensasse al peggio?

 

*********************************************************************************************************

 

“Beviti un caffè, mo, che dovrebbe aiutare.”

 

“Imma, basta, ti prego!”


“Che cosa?” le chiese, sorpresa, perché Diana si teneva la testa peggio di lei quando Pietro aveva ripreso in mano il sax.

 

“Il cucchiaino. Mi scoppia la testa!”

 

Stava soltanto rigirando lo zucchero nella tazza e Diana reagiva manco ci fosse stata un’esplosione.

 

“Ti sei presa una sbronza da manuale, proprio,” sospirò, passandole il caffè doppio fatto con la moka.

 

Diana se lo prese e bevve, facendo delle smorfie, ma meglio quelle del vomito.

 

“Dio mio, Imma, che vergogna!” esclamò poi, coprendosi gli occhi con una mano.

 

“Dai, che il peggio è passato mo. E spero che ti serva di lezione a non rifare più una cosa del genere, che non c’abbiamo più vent’anni, Diana.”

 

Il sospiro di Diana si trasformò in un mugolio di dolore per una banalissima notifica di un cellulare. Imma allungò la mano verso il comodino e sì, era il suo.

 

Mancini.

 

Temendone un po’ il contenuto, lo aprì, ma quando lesse le poche parole, non potè evitare un moto di tenerezza.

 

Come sta Diana? Avete bisogno di qualcosa?

 

Sta meglio. La ringrazio per la premura ma siamo a posto, veramente. Mi scusi ancora per ieri sera.

 

“Certo che tutti i gentiluomini soltanto tu li trovi.”

 

“Diana!” esclamò, prima che il grido di dolore dell’amica la portasse ad usare un tono più basso, “che mi spii i messaggi, mo?”

 

“No, ma… mi è caduto l’occhio. E poi comunque non è che dei gentiluomini si è perso lo stampo, è che te li intercetti tutti tu, Imma. Pietro, Calogiuri, pure il procuratore capo.”

 

Si sentì un poco in imbarazzo anche se era vero: le era andata sempre bene con i pochi uomini che l’avevano corteggiata.

 

“A proposito, con Calogiuri come va? Si è fatto sentire? Spero di… di non averti creato problemi con questa storia della cena e-”

 

“E nessuno è il custode di nessuno, Diana. E poi Calogiuri alle due del mattino è rientrato, quindi non si può proprio lamentare.”

 

“E non ti preoccupi?”

 

“Certo che rigiri sempre il dito nella piaga, tu,” sospirò, prima di rendersi conto che, in fondo, era meno preoccupata di quanto si aspettasse, soprattutto dopo quanto si erano detti la sera prima, “Diana, mi ha fatto praticamente la telecronaca della sua serata, non lo avrebbe fatto se c’aveva qualcosa da nascondere.”

 

“E ci credo. Lo avrai terrorizzato, quel povero ragazzo!”

 

“Diana, ti rendi conto che stai dicendo due cose opposte nel giro di due frasi, sì? Peggio di un politico stai diventando!”

 

“Ma no, Imma che c’entra. Io capisco che tu possa essere preoccupata, però allo stesso tempo non devi fare troppi interrogatori a Calogiuri. Se no mo abbozza, tra qualche tempo magari si stufa e fai solo peggio.”

 

“Lo so, Diana, lo so. E comunque per i miei standard mi sto già fidando tantissimo.”

 

“Ah su quello non c’è dubbio, ma non ci vuole molto, dottoressa!” ironizzò, ed Imma quasi fece un salto, sentendo un pizzicotto ad un fianco.

 

“Diana! Che ti è passato il mal di testa?” le chiese e Diana scosse il capo.

 

Ricambiò il pizzicotto e nel giro di qualche secondo si trovò sul letto a fare una lotta a base di solletico, con Diana che dopo poco proclamò “mi arrendo, mi arrendo!”

 

Si fermò un attimo, tra una risata e l’altra, perché una strana botta di commozione l’aveva presa in pieno.

 

“Che c’è? Ti ho fatto male?” le chiese Diana, visibilmente preoccupata.

 

“No, figurati, è che…” fece una pausa, cercando di identificare quella strana sensazione.

 

E poi capì.

 

“Sai che è… è la prima volta che dormo con un’amica, ma da sempre. Non ho mai fatto quelli che mo chiamano pigiama party o serate con le amiche da ragazza. Tu sì, ci scommetto, con la Guarini e le altre.”

 

“Va beh… comunque su con chi dividere il letto… finora non è che ti è andata poi così male, dottoressa,” scherzò Diana, ma Imma sentiva e vedeva che era commossa.

 

E poi si ritrovò stritolata in un abbraccio che non fece che incrementare quel senso di piacevole dolenza al petto.

 

*********************************************************************************************************

 

“Guarda, l’ho trovata.”

 

Passò il computer portatile ad Irene, prima che potesse sporgersi troppo verso di lui.

 

Erano seduti sul divano nel salone e c’era, almeno da parte sua, ancora una certa tensione ed imbarazzo. Oltre ad un senso di colpa latente verso Imma, anche se era stato solo lavoro e non aveva potuto sottrarsi.

 

Irene prese il portatile e non disse nulla, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che gli fece dubitare che avesse intuito il suo stato d’animo.

 

“Allora… Roberta Carretta, moglie dell’assessore alla sanità Guido Carretta - i genitori dovevano proprio volergli male,” commentò Irene e gli venne da ridere, “sposati da otto anni e qui risulta che abbiano una figlia. Il marito non è esattamente un adone ma in confronto a Villari gli piace il vincere facile. Economicamente dovrebbe essere messo bene, vista oltretutto la posizione che ricopre.”

 

“Quindi l’ipotesi che sia amante di Villari non ti convince.”

 

“Diciamo che… il regalo fatto all’altro uomo me ne fa un poco dubitare. Per carità, Villari potrebbe essere bisessuale ma… l’altro uomo non dà l’idea del prototipo di amante di uno di potere. Vista anche l’età media che Villari sembra gradire: uno che come ti passano gli ultimi residui dell’acne giovanile ti pianta in tronco. Dobbiamo capire chi è pure lui, Calogiuri.”

 

Gli venne da sorridere, perché Irene quando voleva sapeva essere tagliente quasi quanto Imma.

 

Al solo pensiero lo prese una nuova fitta di senso di colpa, pure se era da stupidi. Si riprese il computer e si concentrò sullo schermo e sulla ricerca per immagini, finché, finalmente, ebbe un risultato che gli sembrò compatibile, anche se in quell’immagine era con la barba.

 

“Che te ne pare?”

 

Stavolta non fece in tempo a passarle il computer ed Irene gli si sporse sulla spalla.

 

Guardava la foto ma sembrava perfettamente tranquilla, impassibile.

 

Forse si stava facendo veramente troppe paranoie.

 

“Mi pare che l’hai trovato, Calogiuri. Matteo Ambrosoli, consigliere regionale ai lavori pubblici. E qualcosa in comune, più o meno, l’abbiamo trovato.”

 

“La politica.”

 

“Già....”

 

“Ma perché un avvocato dovrebbe… voler corrompere dei politici?”

 

“Proviamo a scoprirlo, Calogiuri: questi due sono di due partiti diversi ma alleati in coalizione, sia in comune che in regione. E… hanno competenze dove la corruzione è all’ordine del giorno, Calogiuri, e pure gli interessi economici, enormi. Vediamo se per caso Villari si sta occupando di qualcosa del genere.”

 

La osservò mentre gli prendeva il computer ed eseguiva, rapidissima, alcune ricerche, con nomi di politici e presumeva industriali di cui lui ignorava totalmente l’esistenza.

 

E poi fece una risata di trionfo, “ecco l’anello mancante, Calogiuri.”

 

“L’ex consigliere regionale alla sanità Fumagalli esce dal tribunale con l’avvocato Villari. Il pubblico ministero ha formulato i capi d’accusa di riciclaggio di denaro sporco, corruzione in appalti pubblici e trasferimenti illeciti di fondi pubblici,” lesse, osservando la foto di un uomo alto, magro, con un’abbronzatura tendente all’arancione, i capelli tinti di un improbabile color marrone scuro.

 

“Fumagalli è di un partito alleato a quello di Ambrosoli e di Carretta, Calogiuri e ha lavorato con Ambrosoli.”

 

“Ma quindi… potrebbe star cercando di evitare che possano uscire testimonianze scomode? Tenerseli buoni?”

 

“O cercare di ottenere testimonianze favorevoli, Calogiuri. Il punto è che in queste situazioni è facile fare da scaricabarile persino tra colleghi di partito, se si arriva ad un certo punto. Prima si vuole stare tutti compatti, per tutelare il nome del partito per le future elezioni ma poi… se si mette male… mors tua vita mea, come è successo con Lombardi. Non escluderei però che Villari stia cercando di corrompere pure altre persone coinvolte nelle indagini in modo più attivo, dalla parte delle forze dell’ordine. Purtroppo le mele marce ci sono sempre.”

 

“Ma un avvocato di successo veramente rischierebbe tanto? Andando pure di persona a farli i ricatti?”


“Calogiuri… con le cifre che guadagna Villari non c’è troppo da stupirsi e per questo genere di lavori devi farli di persona o diventi ricattabile a tua volta. Salvo uno abbia dietro di sé un’organizzazione tipo Romaniello, allora sì che fai sporcare le mani agli altri. Ma Villari non è a quel livello e… e anzi potrebbe, visto il genere di clientela che ha, temere moltissimo una sconfitta, se capisci che intendo.”

 

“Ma… l’ex consigliere regionale è così pericoloso?” domandò, sorpreso.


“Magari lui no, o molto probabilmente non l’avrebbero beccato, Calogiuri. Ma quelli che hanno beneficiato di tutte le sue attività secondarie, quelli che hanno vinto appalti o riciclato denaro… sono quasi sicuramente della criminalità organizzata.”

 

“Pensi a….” le chiese, ma non sapeva come formulare la domanda.


“A parenti di quelli che hanno ucciso la madre di Bianca? Non lo so, Calogiuri, la mafia è come un’idra: tu tagli una testa e ne ricrescono molto spesso altre due. E qui a Milano principalmente fanno gli imprenditori, riciclano denaro, si impadroniscono di aziende una volta lecite. Di sicuro comunque dietro ad un sistema come quello di Fumagalli ci sta qualcuno che queste cose sa come organizzarle, Calogiuri, molto meglio di quanto può essere in grado di fare uno che, prima di finire in regione, faceva il sindaco di un piccolo comune.”

 

“E potrebbero essere queste persone quelle di cui l’ex partner di VIllari ha paura?”

 

“Molto probabile. Quando entri in certi giri, Calogiuri, finché fai comodo fai la bella vita, ma se sgarri… ti devi guardare sempre le spalle. Anche perché quelli hanno la memoria lunga e non dimenticano. E Villari… se sta dentro giri del genere capisco ancora di più perché Romaniello l’abbia scelto. Magari glielo ha consigliato qualche… collega di Milano.”

 

“Immagino che non intendi i giudici.”

 

“No, Calogiuri, no, anche se… non sono di certo una categoria insospettabile, purtroppo,” rispose, con un sorriso amaro.

 

“E… e ora che vuoi fare?”

 

“Penso che siamo sulla strada giusta, Calogiuri ma… dobbiamo trovare più informazioni e… mi ci vuole qualcuno di fiducia ad indagare qui a Milano, ma non sarà facile.”

 

“Non conosci più nessuno di cui ti fidi qua?”

 

“Non abbastanza per questa cosa, Calogiuri. Te l’ho detto, il migliore purtroppo ora sta in Puglia. E potrebbe volerci parecchio tempo di indagine, non basta qualche giorno come abbiamo fatto io e te. Comunque, ci penserò: prima di tutto devo riferire a Mancini e coordinarmi con lui.”

 

“E con Imma anche… visto che coinvolge comunque il maxiprocesso,” gli uscì, quasi in automatico, ed Irene scosse il capo e fece un sorrisetto.


“Naturalmente, Calogiuri. Allora, che ne dici se adesso ce ne andiamo a cena? Un locale tipico, di quelli che piacciono a te, ma che fa anche cose più tranquille, per me.”

 

“Ma… come mi devo vestire?”

 

“Beh casual ma da sera, Calogiuri, visto l’orario. Poi se facciamo in tempo volevo farti fare un giro per Brera, che merita.”

 

“V-va bene,” annuì, pensando che, tutto sommato, sembrava un programma relativamente tranquillo.

 

E poi una parte di lui temeva molto il momento della chiamata serale con Imma, per quanto avesse voglia, come sempre, di sentire la sua voce.

 

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“Diana, mi raccomando, non fare stupidaggini!”

 

“Imma!” esclamò e le si aggrappò al collo un’altra volta, prima di prodursi in una litania di, “grazie, Imma, grazie, sei una vera amica! E scusami ancora per tutto il casino. Scusati pure con Mancini e con Brian, se lo vedi.”

 

“Va bene. Mo però sali, che se no perdi la corriera,” le ordinò, staccandosi da lei prima di potersi commuovere di nuovo.

 

In effetti, se c’era una cosa che le mancava di Matera, era proprio un’amica come Diana, pure se la faceva dannare.

 

La porta del bus si richiuse ed Imma si riavviò verso la fermata della metro, per tornare a casa.

 

Fu in quel momento che sentì lo squillo e la vibrazione di un messaggio. Estrasse il telefono dalla borsa, sperando di avere notizie da Calogiuri.

 

Buonasera, dottoressa. Pensa di avere bisogno di ferie per domani? Vista la situazione con la sua amica?

 

Mancini, di nuovo, e sempre gentilissimo.

 

Buonasera, dottore. No, la ringrazio ma Diana è appena ripartita per Matera. Domani sarò in procura come al solito.

 

Vide che Mancini stava scrivendo qualcosa ma non apparve niente. Forse aveva cambiato idea.

 

Rimise il telefono in borsa e riprese la marcia verso i tornelli.

 

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“E va bene, Calogiuri, mi hai convinta. Dividiamo un risotto ed una cotoletta alla milanese. Tu vuoi qualcos’altro?”

 

“Magari un antipasto,” rispose, soddisfatto di averla fatta cedere almeno su questo punto, scorse l’elenco e poi la guardò, sconvolto, “cervella? Nervetti? Ma sono nervi veramente?”

 

“Sono zampe e ginocchia di vitello cotte molto a lungo, Calogiuri. Sai… il nord una volta non è che fosse molto ricco, soprattutto fuori dalle grandi città. La carne era un lusso e non si buttava via niente.”

 

“Forse mi eviterò l’antipasto allora,” ironizzò, ma Irene scosse il capo.

 

“Prova il tomino alla milanese, credo che apprezzerai. Beati voi giovani, che riuscite a mangiare pure i sassi.”

 

“Ma pure tu sei giovane.”

 

“Sempre meno di te, Calogiuri,” rispose, chiamando il cameriere con un cenno della mano e procedendo con le ordinazioni.

 

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Aprì il frigorifero e ci trovò la desolazione: con l’improvvisata di Diana non aveva avuto neanche il tempo di fare la spesa.

 

Un’altra pasta al tonno sarebbe stata forse troppo. Si decise per aglio, olio e peperoncino. Tanto, purtroppo, fino alla sera successiva non avrebbe baciato nessuno.

 

Stava per aprire la confezione della pasta quando suonò il campanello.

 

Temendo che Diana avesse compiuto una pazzia, e fosse scesa dalla corriera per tornare a sfogarsi da lei, andò al citofono.

 

“Chi è?”

 

“Consegna a domicilio, sushi.”

 

“No, guardi, non ho ordinato niente, magari ha sbagliato interno.”
 

“Il sushi è per una certa Tataranni, non è lei? Il cognome sul campanello corrisponde.”

 

Il campanello al quale dovevano decidersi di aggiungere il nome di Calogiuri, ma il timore di giornalisti e curiosi li aveva sempre fatti desistere e quindi, al momento, c’era solo il suo.

 

“Mi scusi ma lei di che azienda è? Chi avrebbe fatto quest’ordine?” chiese, da un lato chiedendosi se Calogiuri le avesse voluto fare una sorpresa, dall’altro lato però temendo di incontrare o far salire uno sconosciuto.

 

Era in casa da sola ed il finto fattorino era uno dei trucchi più vecchi del mondo. E col mestiere che faceva lei e tutta la storia coi Mazzocca e Romaniello….

 

“Guardi, c’è un cellulare di accompagnamento, in caso non l’avessimo trovata. Se vuole glielo leggo,” rispose il rider, come li chiamavano adesso, con tono un poco scocciato.

 

“E me lo legga.”

 

Le dettò dei numeri che lei digitò nel suo di telefono, non riconoscendoli immediatamente.

 

Ed un nome le venne suggerito nel display.

 

Mancini.

 

Sapeva che era a casa da sola e… le aveva fatto una sorpresa.

 

La verità era che non se le meritava tutte quelle premure ed attenzioni, che le facevano molto piacere, ma la imbarazzavano tremendamente.

 

Perché le sembrava sempre di approfittare e perché non poteva ricambiare come Mancini avrebbe voluto.

 

“Allora?”

 

La voce innervosita del ragazzo la fece ritornare al presente.

 

“Scendo. Un attimo.”

 

Rientrò in casa dopo poco con un sacchetto colmo di ogni ben di dio, riconosceva il nome del ristorante di fiducia di Mancini.

 

Gli doveva essere costato non poco.

 

Ancora prima di mangiare, prese il telefono e gli mandò un messaggio.

 

Dottore, la ringrazio moltissimo per il sushi ma non doveva disturbarsi. Già ha offerto la cena di ieri e lo sa che non mi piace essere in debito.

 

Nessun debito. Avrei voluto invitarla a cena di persona ma non volevo metterla a disagio. Spero che il sushi sia di suo gradimento. Si rilassi che se lo merita dopo tutto quello che è successo in questi giorni. A domani.

 

Ecco cosa voleva scriverle quando era alla Tiburtina. In effetti proporle una cena da soli l’avrebbe messa in enorme imbarazzo, anche perché avrebbe dovuto rifiutare. Mancini era proprio un gentiluomo, niente da dire.

 

Ma Calogiuri era Calogiuri e… non avrebbe rischiato di perderlo per niente al mondo. Sempre se si fosse comportato bene pure lui, ovviamente.

 

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“Allora, ti piace?”

 

“Sì… è molto diverso da Roma, ma è bello.”

 

“Beh… Roma è Roma, Calogiuri, la città più bella del mondo. Ma Milano ha un fascino particolare, se la si conosce, anche se ti ho portato principalmente in posti più turistici. E ora, se sei pronto, ci beviamo qualcosa,” gli disse, indicando l’ingresso di quello che, dall’insegna, era un hotel di una nota marca di moda di lusso.

 

“Ma costerà tantissimo, non-”

 

“Ma no, Calogiuri, se ci beviamo qualcosa non è molto peggio di altri locali in centro a Milano ed i cocktail meritano.”

 

“Allora offro io.”

 

“Calogiuri, le possibilità non mi mancano e con Bianca esco poco e viaggio poco. Potrò spenderli come mi pare o no?” ribatté, e si sentì di nuovo prendere per un braccio, prima che aggiungesse, “vorrà dire che quando avrai una meritata promozione e salirai di grado offrirai tu.”

 

“Ma non sono laureato, non-”

 

“Ci sono pure i concorsi riservati ai sottufficiali, Calogiuri, più altre occasioni che sicuramente ti si presenteranno, se continui a lavorare bene e non fai cavolate. Dai però, entriamo, o devo dirti veloce come farebbe Imma?”

 

“N- no, anche perché nessuno lo dice come lei,” scherzò, ma Irene fece un’espressione indefinibile e poi lo trascinò dentro l’hotel e verso al bar.

 

Si sentiva un po’ fuori posto in un luogo tanto elegante. Irene invece pareva a casa e si sedette proprio al bar, chiedendogli se si fidasse di lei per ordinare e poi prendendo due cocktail alla Hemingway.

 

“Ma lo scrittore?” domandò, sorpreso.

 

“Sì, Calogiuri, ha vissuto a Milano e ha passato molto tempo proprio qui a Brera, ovviamente non in questo hotel che è molto più recente. Ed il cocktail è cubano di origine ma… qui lo fanno molto buono.”

 

Lo assaggiò e gli venne da tossire.

 

“E dai, Calogiuri, non mi dirai che è troppo forte per te?”

 

“N-no,” balbettò, anche se effettivamente lo era: non era abituato ai superalcolici, anche se c’era pure il succo di qualche agrume a diluire

 

“Vorrà dire che digerirai la cena, almeno,” ironizzò lei, sollevando il calice e proclamando, “grazie per tutto il tuo lavoro di questi giorni, Calogiuri, e per la compagnia, naturalmente.”

 

“Grazie a te per la fiducia,” rispose, ricambiando il brindisi, “e per tutte le cose che mi hai offerto e che dubito potrò mai ricambiare.”

 

“Mai dire mai, Calogiuri!” esclamò, di nuovo con un’espressione inintelligibile, per poi bere in silenzio.

 

Stava cercando ancora di capire come fare a non diventare brillo con il cocktail, quando una voce per poco non glielo fece rovesciare, prendendolo di sorpresa.

 

“Irene! Ma sei tu? E non avverti?!”

 

Temeva fosse un altro parente di Irene, simpatico quanto il padre, ma si voltò e vide un uomo elegantissimo sulla cinquantina che le veniva incontro con un enorme sorriso.

 

“Jean!” lo salutò lei e Jean se la abbracciò e poi le diede due baci sulle guance, come se fossero vecchi amici.

 

“Che ci fai qui?”

 

“Beh, potrei chiederlo io a te. Va bene l’attaccamento al lavoro, ma vieni qua pure fuori servizio?”

 

“No, è che abbiamo una cena di lavoro stasera.”

 

“Ma non è già finita da un po’ la settimana della moda?”

 

“Sì, infatti abbiamo qua alcuni buyer internazionali in vista della collezione successiva. Sai, i mesi passano in fretta,” rispose l’uomo, con un vago accento francese, mentre Calogiuri ci capiva sempre meno. E, proprio in quel momento, nemmeno avesse sentito il suo pensiero, l’uomo si voltò e lo fissò, dietro ai suoi occhialetti dal bordo scuro, “e chi sarebbe questo bel giovane? Il buon gusto del resto non ti è mai mancato.”

 

“Ti ringrazio ma è un collega, un maresciallo dei carabinieri. Mi ha accompagnata perché sono venuta a Milano per lavoro,” chiarì, prima di spiegare, “Calogiuri, ti presento Jean Paul Bernard, il designer principale ed uno dei top manager di questo marchio.”

 

“Non dell’hotel, però,” precisò l’uomo, estendendogli la mano in una stretta decisa, “devo dire che è quasi un peccato che sia un carabiniere. Avrebbe potuto fare tranquillamente il modello, no, Irene?”

 

“Eh, me lo vedo proprio a posare con orologi, profumi ed occhiali da sole, con sguardo finto annoiato,” rise Irene, dandogli una pacca su una spalla.

 

“Io di moda non ci capisco niente,” ammise, mentre il viso, forse per la vergogna, forse per l’alcol, si faceva caldo.


“Ma è anche timido? Ma è meraviglioso, Irene: questo sei pazza se non te lo prendi! Per lui puoi pure farla un’eccezione alla regola del niente uomini!”

 

Gli andò di traverso un sorso, che per poco non soffocava.

 

“Il lavoro è lavoro, Jean,” rispose Irene, mentre si sentiva colpire leggermente la schiena e vide che era la mano di lei che cercava di aiutarlo a respirare, “e comunque… Calogiuri è già impegnato e quindi non disponibile ad essere preso.”

 

“Con tutto il rispetto per la fidanzata, nessuna può essere meglio di te,” rispose lo stilista e Calogiuri stava per protestare, quando gli si avvicinò e gli fece l’occhiolino, sussurrandogli, “se fossi etero l’avrei già corteggiata allo sfinimento, anche se probabilmente mi avrebbe dato picche. Pensaci bene.”

 

“Ve-veramente io-”

 

“Monsieur Bernard,” sentirono una voce: una giovane elegantissima che lo chiamava dalla porta del bar.

 

“Scusate, ma il dovere mi chiama. Ovviamente offre la casa, prendete tutto quello che volete.”

 

“Ma no, non serve, sai che non possiamo, siamo pubblici ufficiali. E poi abbiamo già bevuto abbastanza,” rispose Irene, sembrando a sua volta un po’ in imbarazzo.


“Ma questa non è la vostra giurisdizione, no?”

 

“Non siamo negli Stati Uniti, Jean.”

 

“Suvvia, un po’ di champagne, per lavarvi la bocca dai cocktail. Il migliore, ovviamente. Buona serata e fatti sentire la prossima volta!” si congedò, dando ancora due baci a Irene e sparendo rapidamente oltre la porta.

 

“Scusa, Calogiuri, ma Jean è abituato a comandare e-” spiegò, ma si interruppe quando vide il barman estrarre una bottiglia di champagne, “no, per favore, non è il caso.”

 

“Come ha detto lei stessa, monsieur Bernard è abituato a comandare. Non mi crei problemi,” rispose il ragazzo con un sorriso.

 

“E che può fare, controllare le telecamere per vedere se abbiamo bevuto?”

 

“Se avete bevuto non lo so, ma se vi ho servito sicuramente.”

 

“Allora almeno uno champagne meno caro di quello. Non che siano economici qua, ma il meno caro della lista.”

 

“Monsieur Bernard ha detto il migliore.”

 

“Ma dopo lo puoi richiudere?”

 

“No, ma vi posso lasciare la bottiglia, tanto di voi mi posso fidare, no?” rispose il ragazzo, stappando con il botto una bottiglia con un nome che pareva quello di un prete, mettendoci sopra uno strano tappo e piazzandola sul bancone davanti a loro, “visto che dovete ancora finire il cocktail, aspetto a versarvi lo champagne.”

 

“Ce lo versiamo noi, non ti preoccupare!” lo rassicurò Irene con un sorriso, prima di porgergli una mano con dentro qualcosa, “almeno la mancia però te la lascio.”

 

“Grazie, dottoressa.”

 

Il ragazzo, visibilmente felice, si allontanò verso un’altra coppia che era all’altro lato del bancone.

 

“Va beh, Calogiuri, ci tocca pure lo champagne - e che champagne! Finisci il cocktail che con questo non c’è paragone.”

 

“Ma dobbiamo berci una bottiglia intera?” chiese, in apprensione, perché già si sentiva abbastanza allegro così ed aveva orrendi ricordi dell’ultima volta in cui aveva bevuto troppo.

 

“Dai, almeno un paio di bicchieri, Calogiuri, al limite il resto ce lo portiamo in hotel e ce lo beviamo domani. Buttare questo champagne sarebbe un crimine! Abbi pazienza, ma Jean sono anni che prova a farmi regali e non ci riesce e quindi… mi ha incastrata così.”

 

“Ma… ma come mai?” chiese, finendo l’ultimo sorso del cocktail e sperando di non pentirsene.


“Mi ero occupata di un brutto caso di spionaggio industriale… e sono riuscita a fargli recuperare tutto prima che finisse in mano ad altri. Sai, ormai chi si specializza in falsi è sempre più abile e… sarebbero arrivati in contemporanea con il lancio ufficiale. Da allora mi è molto grato, siamo pure diventati amici ma… appunto ha questa mania dei regali e finché ero a Milano sono riuscita a rifiutarli. Non pensavo di trovarlo qui, poi a quest’ora.”

 

Non sapeva bene che dire, mentre lei gli versava un calice di champagne e poi se ne serviva uno a sua volta.

 

“Ci vorrebbe qualcosa per lavare il palato dai superalcolici, ma assaggia.”

 

Se lo portò alla bocca e al secondo sorso spalancò gli occhi: era buonissimo, niente a che vedere non solo con prosecchi e spumanti economici a cui era abituato lui, ma nemmeno con lo champagne che avevano offerto loro sul treno.

 

“Quanto costa questa bottiglia?” chiese, quasi in automatico, sentendosi un po’ come Imma.

 

“Troppo, Calogiuri, troppo. Per questo sarebbe un crimine buttarla.”

 

Annuì, chiedendosi se e quanto avrebbe potuto reggere, pur avendo mangiato abbondante.

 

“Comunque… scusa Jean per l’invadenza sul… personale. Ma sai, mi ha conosciuta quando lavoravo ancora con… tu sai chi e quindi… mi ha vista quando non stavo molto bene e da allora cerca di piazzarmi, per così dire.”

 

“Come se avessi problemi a trovare un uomo, se soltanto lo volessi,” rispose ed Irene, stranamente, sembrò quasi arrossire, anche se magari era il vino o una sua impressione, “che c’è? Ho detto qualcosa di sbagliato?”

 

“No, Calogiuri… è che da te… certi complimenti non me li aspetto. Forse è il primo che mi fai da quando ti conosco.”

 

“E va beh… che sei bella lo sai, no?” si schernì, toccandosi il collo e sentendosi a sua volta un po’ a disagio.

 

“Sentirselo dire è un’altra cosa. Soprattutto da uno di poche parole come te, Calogiuri.”

 

L’imbarazzo non fece che aumentare, tanto che cercò disperatamente un argomento per fare conversazione e gli uscì un, “ma in che senso hai messo una regola niente uomini? Pensavo che… che avessi avuto altre… relazioni dopo… tu sai chi... da quello che mi hai detto ieri.”

 

Irene spalancò gli occhi e poi sorrise sopra al bordo del bicchiere, “e bravo, Calogiuri, sei attento, vedo. Ma… qua si nota la tua ingenuità. Una cosa non esclude l’altra, anzi.”

 

E gli fece l’occhiolino.

 

Rimase per un attimo confuso, senza capire che volesse dire, e poi sentì come un forno in faccia, “c-cioè… vuoi d-dire che….”

 

Irene rise, con l’aria di chi si stava divertendo tantissimo, mentre finiva il bicchiere di champagne.

 

“Calogiuri… e dai… siamo nel ventunesimo secolo… un po’ di apertura mentale. Che c’è da stupirsi?”

 

“Ma quindi s-sei?”

 

“Bisessuale, sì. Lo sapevo pure prima di… di ferirmi col fuoco, eh. Ma con le donne ci si capisce meglio e siamo in media più oneste di voi uomini. Solo che me lo tengo per me… che col mestiere che faccio, sai è un ambiente molto maschile e… ti lascio immaginare che commenti ci sarebbero. E poi per via di Bianca… insomma… ce l’ho solo in affidamento e… in realtà ultimamente non sto frequentando nessuno anche per lei, perché è molto complicato e mi prende quasi tutto il tempo libero che ho. Però… i giudici non apprezzerebbero, ecco, e non voglio rischiare di perderla. Ed è una delle cose che mio padre non sa di me e che quasi nessuno sa di me: Jean Paul lo ha capito perché… ha occhio su queste cose. Quindi se lo dici a qualcuno sei morto, Calogiuri.”

 

“N-no, no,” balbettò, sentendosi ancora completamente in contropiede.


“Guarda che le persone bisessuali esistono e non solo nei filmetti per uomini sbavanti.”

 

“No, no!” ripetè, mortificato, “cioè, lo so, è solo che… non avevo mai conosciuto nessuno di bisessuale prima d’ora e non me lo aspettavo, veramente.”

 

“Calogiuri, Calogiuri...” sospirò lei, e si sentì nuovamente scompigliare i capelli, “forse semplicemente non te ne sei mai accorto. Beata innocenza!”

 

“I-in che senso?”

 

“Dai, bevi, che se no le bollicine se ne vanno ed è un peccato,” rispose, facendogli l’occhiolino e finendo il suo calice, prima di versarsene un altro.

 

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Lo stomaco pieno di sushi, sentendosi un poco in colpa anche se in fondo non aveva fatto nulla di male, prese il telefono in mano per mandare un messaggio a Calogiuri.

 

In effetti ormai era tardi, poteva essere in hotel, ma ancora non si era fatto sentire.

 

Io sono a casa, Diana è andata via. Mandami un messaggio quando sei in hotel. Un bacio.

 

Aspettò un poco ma niente, nessuna risposta.

 

Si costrinse a mollare il telefono e recuperare il libro che stava leggendo, per cercare di distrarsi per un po’ in un mondo senza gattemorte.

 

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“Sei ancora rosso, Calogiuri, tutto bene?”

 

Erano appena entrati in stanza ed Irene aveva calciato via le scarpe dal tacco chilometrico sulle quali riusciva a camminare nonostante l’alcol bevuto.

 

Si sentiva un poco ovattato, anche se non ubriaco. Si erano finiti tutto lo champagne ma per fortuna il cibo tipico milanese doveva avere aiutato.

 

“Sì… sai… abbiamo bevuto un po’ e quando bevo divento rosso.”

 

“Basta che non mi vomiti nella suite, Calogiuri, poi rimani rosso finché vuoi,” gli rispose con un sorriso, facendogli l’occhiolino, e Calogiuri pensò immediatamente a Diana e ad Imma, soprattutto, con un vago senso di colpa.

 

“E dai, Calogiuri, spero proprio che tu lo regga un poco meglio di così l’alcol, nonostante i tuoi… episodi pregressi.”

 

Si sentì avvampare ancora di più e non c’entrava il bere: si era scordato di aver raccontato ad Irene del casino combinato con Matarazzo.

 

“Eh va beh… diciamo che stasera non riuscirei proprio a nuotare, ma a stare in piedi ancora ci riesco,” scherzò ed Irene rise.

 

“Già… niente piscina stasera ma… per contrastare gli effetti dell’alcol… che ne dici se ci facessimo un bagno turco? C’è tutto il necessario qui, senza dover uscire dalla suite.”

 

“Cioè fare il bagno? Ma non c’è solo la doccia?” chiese, non capendo.

 

Irene rise ancora di più. Una risata diversa dal solito, più rumorosa. Forse anche lei risentiva un poco della bevuta.

 

“Ma no, Calogiuri. Il bagno turco è simile alla sauna, ma a temperature molto più basse ed è umido, quindi c’è meno il rischio di surriscaldarsi. Si suda e si eliminano le tossine. Che ne dici?”

 

“Cioè… ma… io e te insieme?” le chiese, perché una parte di lui gli suggeriva che non fosse una buona idea: già doveva raccontare ad Imma del bacio di quel pomeriggio, pure se solo di copertura.

 

“Ma mica nudi, Calogiuri!” continuò a ridere e sentì un’altra botta di calore, altro che bagno turco, “cioè, in Finlandia si fa nudi ma… possiamo decisamente starcene in asciugamano o in costume come ieri, anche se l’asciugamano sarebbe meglio, che sono fibre naturali.”

 

Irene ne parlava con una tranquillità assoluta, come se stesse discutendo di quale dei suoi completi indossare. Paradossalmente, quello, unito alle sue rivelazioni sul niente uomini, lo tranquillizzò. Ma poi pure dopo quella specie di finto bacio era rimasta imperturbabile.

 

Evidentemente lo vedeva come un amico e basta, forse si era solo fatto suggestionare dalle paure di Imma e da alcuni avvicinamenti degli ultimi giorni ma… in fondo proprio quella vicinanza fisica, così naturale, doveva stare a significare che non c’era attrazione né malizia da parte di lei, se no avrebbe dovuto essere almeno un minimo in imbarazzo, no?

 

Forse per quello o forse per il vino ancora in circolo, gli venne da pensare - ma che c’è di male? Perché no? - e si trovò ad annuire senza quasi rendersene conto.

 

“Va bene, Calogiuri. Bisognerebbe farsi una doccia prima ed ovviamente dopo. Vai tu o-”

 

“Prima le signore,” rispose, con un sorriso.

 

“Signora a chi, Calogiuri? Guarda che ti faccio rapporto!” lo sfottè, facendogli l’occhiolino, per poi sparire oltre la porta della sua stanza.

 

Percorse i pochi passi che lo separavano dalla sua di camera ed estrasse il telefono dalla tasca della giacca.

 

Sorrise nel leggere il messaggio di Imma e selezionò il suo numero quasi automaticamente, mentre si levava la giacca, facendo partire una videochiamata.

 

“Calogiù!”

 

Il viso sorridente di lei, i ricci sparpagliati come la chioma di un leone sul cuscino, gli fecero venire uno strano senso di qualcosa alla gola: era assurdo quanto gli mancasse quando non la vedeva anche solo per poche ore.

 

“Stasera sei più puntuale! E vestito, soprattutto. Niente SPA?” gli chiese con un sorriso, colpendo subito nel vivo - del resto Imma aveva un intuito fuori dal comune - e proseguì, “ma come mai sei così rosso? Stai poco bene?”

 

“Veramente… è che un amico di Irene ci ha offerto un cocktail ed una bottiglia di champagne: ne abbiamo bevuta mezza a testa e sai che divento subito rosso. E… e per la SPA… Irene in realtà mi ha invitato a fare un bagno turco con lei, per smaltire un poco l’alcol, ma prima avevo voglia di sentirti.”

 

Imma fece un’espressione che era tutto un programma, le sopracciglia che le si perdevano nei ricci, “scusa, Calogiuri, ho capito bene? Tu mo te ne andresti a fare una sauna con la cara Irene? Dopo che hai pure bevuto un po’ troppo?”

 

“E dai, Imma, diciamo che… che alcune cose che sono successe oggi mi hanno dato la conferma che… Irene non è attratta da me, veramente.”

 

“Sì, e io sto vedendo un ciuccio volare dalla finestra qua fuori, giusto mo. Gli dico di venire a Milano a trovarti, già che c’è.”

 

“Imma!” rise. scuotendo il capo: quanto la adorava quando faceva così! Pure più del solito.

 

“Quali sarebbero questi eventi, sentiamo? Perché non capisco come tu possa avere la certezza assoluta di una cosa del genere, a meno che tu non le sia saltato addosso e lei ti abbia respinto,” proseguì lei, imperterrita, in tono solo in parte ironico.

 

“No, ma… cioè, in realtà-”

 

“Cioè in realtà che?!” chiese, spalancando gli occhi e alzando la voce in un modo molto pericoloso.

 

“Non le sono saltato addosso, Imma, ovviamente, e non ci penso nemmeno, Ma… diciamo che è successa una cosa durante il pedinamento e poi… stasera mi ha raccontato delle cose, ma non te ne posso parlare al telefono, anzi, diciamo che quello che mi ha detto non te lo dovrei proprio riferire, per correttezza, ma…. Va beh... te lo spiego domani quando ci vediamo, così magari ti tranquillizzi, se mi prometti che non lo dici a nessuno, però.”

 

Rimase un poco senza fiato, perché aveva pronunciato tutto quanto di corsa, per paura che lei lo interrompesse. Ma Imma rimase in silenzio, guardandolo fisso negli occhi in un modo che lo preoccupò.

 

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Lo guardò negli occhi perché da un lato le faceva tenerezza, agitato com’era, ma dall’altro la innervosivano tutti questi misteri.

 

“E dopo il terzo c’abbiamo pure un quarto mistero di Fatima, esclusiva della gattamorta. E va bene per domani, ma lo sai che se mi racconti storie ti becco subito, Calogiù.”

 

“Lo so, lo so,” sospirò lui e poi le sorrise e le chiese, “allora la signora Diana è andata via? Sei sola nuovamente?”

 

“Sì, sono sola,” rispose, valutando per un secondo se dirgli del sushi di Mancini ma decidendo di starsene zitta, non volendo infierire o impensierirlo.


Glielo avrebbe raccontato il giorno dopo pure lei, a quel punto.

 

“Vorrei esse-” stava dicendo lui ma un “Calogiuri, il bagno è libero!” lo interruppe.

 

Lo vide voltarsi e, soprattutto, visto che era seduto dando le spalle alla porta, intravide una macchia di bianco che si mise a fuoco e si rivelò essere la gattamorta in persona.

 

Vestita - se così si poteva dire - solo con un asciugamano che le copriva il minimo indispensabile.

 

Si artigliò i palmi, mentre stava per partirle l’incazzatura, quando la cara Irene fece un sorriso fintissimo, si avvicinò al letto ed esclamò, “Imma! Come va a Roma?”

 

“Sicuramente meglio che a Milano,” rispose, sarcastica, cercando di misurare le parole, “anche se qua non c’è l’hotel cinque stelle lusso.”

 

“E va beh… ma ogni tanto bisogna pur concedersi qualcosa, Imma.”

 

“Che cosa concedermi e non concedermi lo decido da sola, grazie. Come Calogiuri, del resto,” replicò, sperando che Calogiuri comprendesse il messaggio sottinteso.

 

Fa quello che vuoi ma poi i cocci saranno i tuoi, se non stai attento! - come avrebbe detto Vitali.

 

Irene, per tutta risposta, continuò a sorridere.

 

“Calogiuri, se vuoi prendertela un po’ più comoda fai pure. Avvisami quando sei pronto. Imma, buonanotte, ci vediamo martedì.”

 

E, sempre con quel sorriso detestabile, uscì dalla stanza.

 

“Alla faccia del bagno turco. A me quella pare più che altro pronta a fare cose turche ma di ben altro genere!” non potè fare a meno di commentare, “e secondo te non è minimamente attratta o interessata?”

 

“No, Imma, no. Anche perché se no… non pensi che si imbarazzerebbe a fare certe cose con me, se le piacessi?”

 

“Calogiuri mio, ma che pensi che tutti quanti sono come te?” sospirò, non potendo quasi credere a tanta innocenza, con tutto quello che gli era già capitato, e di nuovo la tenerezza si mischiò alla frustrazione, “o imbranate come me all’epoca? E dai, su! E poi… va bene fidarmi di te, ma ti rendi conto che mi stai chiedendo di fidarmi tantissimo, sì? Che penseresti se mo mi spuntasse alle spalle Mancini in asciugamano?”

 

“A parte che sarebbe a casa nostra e non in albergo, e quindi sarebbe tutta un’altra cosa. E poi… Mancini è interessato a te sicuramente. E… sulla reazione... mi preoccuperei per te ma pure un poco per lui, viste le tue minacce di far cantare la gente nelle voci bianche.”

 

Le venne da ridere, nonostante tutto.

 

“E, per quanto riguarda Irene, le cose turche le voglio fare soltanto con te, dottoressa. Anzi, preparati per domani sera.”

 

“Pure tu, maresciallo, ma solo se farai il bravo. Non farmi pentire dell’enorme fiducia che ti sto dando che… lo sai che per me non è facile, no? E che se la perdo, non mi ritorna più.”

 

“Lo so e ti garantisco che farò sempre di tutto per meritarmela la tua fiducia. Se ci sei ti richiamo quando ho finito, mo vado che non posso fare aspettare Irene tre ore.”

 

“Ah, fosse per me potresti farla aspettare pure per tre anni, Calogiuri. Ma certo che ci sono. E sarà meglio per te!”

 

Un ultimo sorriso e la comunicazione si interruppe, mentre una parte di lei si chiedeva perché non gli avesse intimato di evitare qualsiasi cosa di anche solo vagamente riconducibile all’antica Anatolia.

 

Ma, oltre al discorso sulla fiducia, c’era pure il non voler dare soddisfazioni a quella… meglio non definirla... di Irene. Doveva essere Calogiuri a capire perché certe cose non fossero opportune e non soltanto perché glielo imponeva lei. Doveva essere lui a mettere dei paletti e non lei. 

 

Anche se non aveva mai desiderato quanto in quel momento di essere una discendente di Van Helsing.

 

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“Bisogna farsi lo scrub, rende il vapore più efficace. Tieni.”

 

Gli passò un barattolo che sembrava sale da cucina, lei ne prese un altro e poi, come se nulla fosse, iniziò a spalmarsi il sale sulle parti del corpo lasciate libere dal costume, stavolta un bikini, sempre bianco, sempre parecchio scollato e che sembrava uscito pure quello da un film di James Bond.

 

Si sforzò a concentrarsi sul barattolo perché si sentiva nuovamente in imbarazzo, anche se era da stupidi, tanto che si grattò forse la pelle con fin troppa forza, che diventò rosa.

 

“Sei troppo sensibile, Calogiuri,” lo schernì lei e poi gli fece un altro occhiolino e aggiunse, “se hai finito ci sciacquiamo con l’acqua calda ed iniziamo il bagno turco vero e proprio.”

 

Distolse lo sguardo mentre lei si faceva la doccia, poi si sbrigò a sciacquarsi dal sale - e pensare che quelle poche volte che era stato al mare da bimbo, sua madre se non se lo lavava via subito dalla pelle faceva storie che chissà che danni gli avrebbe fatto, ed invece c’era gente che pagava per spalmarselo addosso - e poi si infilò insieme a lei nel cubicolo già pieno di vapore.

 

Se già era bagnato dalla doccia, si sentì nel giro di pochissimo tempo come se gli stesse piovendo addosso, ma si rese conto che era il suo stesso sudore.

 

Si sedette accanto a lei, cercando sempre di guardare ad altezza viso e di non abbassare gli occhi manco per sbaglio.

 

“Calogiuri, il bagno turco è fatto per rilassarsi, non per farti venire il torcicollo,” scherzò lei, all’improvviso, e si sentì, se possibile, ancora più caldo. E poi, di nuovo, una mano tra i capelli, “e dai! Tanto mi hai già vista in costume, no?”

 

E come faceva a dirle che, capo primo, il costume intero copriva di più, capo secondo, tra doccia, caldo e sudore… pareva quasi uscita da uno di quei concorsi dove le ragazze si bagnano le magliette bianche. E, se a lei la cosa non faceva né caldo né freddo, lui non riusciva a non imbarazzarsi.

 

“Preferisci che vado a mettermi un asciugamano?” chiese poi lei, sorridendogli, “pensavo fossi più a tuo agio col costume, vista la reazione di prima in camera tua.”

 

“N-no, va bene, ma… possiamo cambiare argomento?”

 

“Quando fai così sei adorabile, Calogiuri!” proclamò, non facendo altro che metterlo ancora più a disagio, “ma va bene. Anzi, a proposito di prima e per cambiare argomento… spero di non averti causato problemi con Imma. Non l’ho vista troppo… felice, diciamo.”

 

Non troppo felice era un eufemismo ma Imma lo aveva veramente stupito in positivo sulla gestione della gelosia. Anche se un poco la capiva, anzi la capiva pure molto, ma sicuramente quando le avrebbe spiegato tutto, avrebbe capito che non c’era niente da temere da Irene.

 

“No, no, Imma sa che di me si può fidare al cento percento.”

 

Ed Irene rise.

 

“Al cento percento? A parte che non mi suona molto da Imma ma… secondo me nessuno dovrebbe mai fidarsi al cento percento di nessuno. Nemmeno se si tratta di te, Calogiuri, che sei molto ma molto più affidabile della media.”

 

“Quindi tu non ti fidi di me?” le chiese, sentendosi un poco ferito, perché in quei giorni gli aveva dato veramente moltissime dimostrazioni di fiducia ed invece….

 

“Diciamo al novanta percento, Calogiuri, e solo fino a prova contraria. Sono un magistrato, come Imma, non scordartelo,” ribattè, prima di fargli l’occhiolino ed aggiungere con tono più dolce, “e comunque per i miei standard è tantissimo. Sei l’unico a parte Mancini di tutta la procura con cui mi sarei fidata a dividere la suite. Va beh… il povero Conti sarebbe morto d’infarto, quindi magari avrei potuto fidarmi anche di lui.”

 

“Ma proprio non ti interessa Conti?”

 

“E che ti devo dire, Calogiuri? Sai… io non sono una da colpo di fulmine, le persone mi piacciono a poco a poco, prima le devo scoprire. In senso letterale e figurato, soprattutto,” scherzò e Calogiuri capì che, come Imma, pure Irene si divertiva a metterlo in imbarazzo, “ma… diciamo che il tempo per il povero Conti è abbondantemente trascorso e non mi è proprio scattato alcunché. Però spero che gli passi e si trovi una brava ragazza, che se lo merita. Così come spero che faccia Mariani, che è decisamente troppo per quel narcisista di Santoro.”

 

Almeno in quanto all’opinione sulla gente, Irene ed Imma concordavano quasi sempre, paradossalmente.

 

“E dovresti trovare qualcuno o qualcuna anche tu. O… hai una… ragazza al momento?”

 

“E guarda come mi sei diventato curioso, Calogiuri! E pure bravo negli interrogatori: mi hai fatto dire un sacco di cose in questo fine settimana. Proprio vero che l’acqua cheta….”

 

“Scu-scusa, non volevo essere invadente, ma-”

 

Irene rise nuovamente e si sentì passare una mano tra i capelli, “guarda che se non voglio rispondere a qualcosa non rispondo. E comunque te l’ho già detto, al momento né uomini né donne: Bianca è la mia priorità e poi… vorrei fare entrare nella mia vita solo qualcuno che se lo meriterà veramente.”

 

“Co- comunque… sono felice che tu mi abbia raccontato tutte queste cose. Non me lo aspettavo.”

 

“Nemmeno io, Calogiuri. Ma se scopro che l’hai detto ad anima viva, ti ci mando io a cantare nelle voci bianche, senza neanche bisogno del contributo di Imma,” gli intimò, estraendogli la mano dalla chioma in un modo che gli fece leggermente male, per poi sedersi meglio sulla panca di legno e chiudere gli occhi, “dai, rilassiamoci adesso.”

 

Cercò di imitarla ma faceva veramente troppo caldo e non capiva in che modo sudare come un maiale dovesse tranquillizzarlo o ridurre i sintomi dei drink.

 

Anzi, a tratti gli sembrava quasi che gli girasse la testa, a parte che era tutto rosato, che pareva un’anatra cotta al forno.

 

Un trillo improvviso per poco non gli fece prendere un colpo e guardò verso Irene che aprì gli occhi, sembrando mezza addormentata, e gli sorrise, “è ora di uscire, Calogiuri.”

 

Sollevato all’idea di tornarsene al fresco, si alzò e si sentì girare nuovamente un poco la testa. Per fortuna riuscì a reggersi al muro.

 

Irene gli lanciò uno sguardo interrogativo e si sollevò pure lei.

 

Fu questione di secondi: la vide sbandare e fare un mezzo urlo prima di cascare all’indietro.

 

Riuscì a prenderla per un braccio, d’istinto, ma, sbilanciato com’era, sentì la terra mancargli sotto ai piedi e cadde di schiena, picchiando contro al legno del pavimento, poco prima che qualcosa di caldo, morbido ed umido gli crollasse addosso.

 

Gli si levò il fiato dai polmoni per la botta, fino a quando il peso gli si sollevò leggermente dal petto.

 

Alzò lo sguardo, per accertarsi che lei stesse bene, ma il fiato gli si levò nuovamente per motivi diversi: nella caduta la parte sopra del bikini si era spostata e… si trovò davanti il seno di Irene.

 

Nudo.

 

Dopo un attimo di paralisi, incrociò lo sguardo di lei, sentendosi mortificato. Lei invece lo osservava interrogativa, dopo abbassò lo sguardo e forse arrossì - difficile dirlo per via della sauna - ed infine lo fulminò dritto negli occhi.

 

Rimasero così, per qualche secondo, come in sospeso, e non sapeva come uscirne, aveva il terrore di muoversi. Lo fece lei, leggermente, solo che il movimento non fece che acuire quanto gli fosse spalmata sopra. Pure .

 

Non ci capiva più molto, anche perché non era un manichino e tutti e i cinque sensi gli funzionavano più che bene.

 

Ma, improvvisamente, il viso di Imma gli si parò davanti agli occhi: tutte le volte che si erano ritrovati in quella posizione - anche se vestiti - con lei che gli diceva, più o meno scherzosamente, quanto fosse pericoloso.

 

E, quasi d’istinto, mentre sentiva il fiato di Irene sulle labbra, voltò la testa ed afferrò con una mano l’asciugamano bianco che era rimasto sulla panca.

 

“Tieni,” le offrì, porgendoglielo, mentre guardava ancora verso il pavimento.

 

Per un attimo non successe niente, poi la sentì muovere nuovamente e, finalmente, un peso gli si sollevò dal petto, in tutti i sensi, e sentì la stoffa dell’asciugamano tirare.

 

La lasciò andare e, con la coda dell’occhio, la vide che se lo avvolgeva addosso, per poi risistemarsi il costume - e di nuovo buttò gli occhi sul pavimento.

 

“Calogiuri, ho finito,” gli disse ed incrociò il suo sguardo, proprio mentre lei gli lasciava libere le gambe, afflosciandosi quasi sul pavimento.

 

“Tu- tutto bene?” le chiese dopo qualche attimo, vedendo che lei non si muoveva.

 

“Un calo di pressione, Calogiuri, dobbiamo uscire da qua, che più aspettiamo e più è peggio.”

 

Non aveva mai concordato con una frase tanto quanto in quel momento e provò piano piano ad alzarsi, anche se si sentiva ancora le gambe molli. E poi allungò una mano per aiutarla a tirarsi in piedi.

 

Lei sbandò di nuovo pericolosamente, ma per fortuna stavolta non cadde, solo che gli si appoggiò contro, quasi a peso morto.

 

“Ce- ce la fai a camminare?” le chiese e lei annuì.

 

Piano piano, cercando di concentrarsi solo sul rimanere in piedi e sul pavimento, arrivò ad aprire la porta del cubicolo e l’aria fresca fu quasi uno schiaffo, ma anche un sollievo incredibile insieme.

 

Sentì Irene che rabbrividiva addosso a lui.

 

“Dovremmo farci una doccia o comunque coprirci con… qualcosa di caldo, per lo sbalzo di clima. Mi potresti accompagnare in stanza?”

 

Annuì, perché era l’unica cosa da fare, e la portò piano piano fuori dal bagno, e poi in corridoio, che non gli era mai sembrato tanto lungo.

 

Erano a pochi passi dalla stanza quando la sentì scivolare e la afferrò più saldamente, ma nel movimento l’asciugamano cadde e si trovò ad afferrarla per la vita, sulla pelle nuda.

 

Non osando nemmeno più guardarla in faccia, finalmente aprì la porta della stanza e con un immenso sollievo la fece sedere sul materasso. Lei ci si lasciò cadere, con la testa sul cuscino.

 

“Hai bisogno di qualcosa? Vuoi che… ti copra con le lenzuola?” le domandò, ma lei gli indicò l’accappatoio che stava appeso all’armadio e lui glielo porse e la aiutò ad infilarselo.

 

Poi la vide sporgersi verso la bottiglia d’acqua sul comodino. Gliela passò e lei bevve a piccoli sorsi, e poi, con sua sorpresa, si bagnò tempie, collo e polsi.

 

“Dovresti farlo pure tu, Calogiuri. Aiuta a far tornare normale la temperatura.”

 

“Lo… lo farò dopo. Ti gira ancora la testa?”

 

“Un po’... forse… forse avevamo bevuto troppo, Calogiuri. Mi… mi aiuteresti a sollevare le gambe?” gli chiese, con uno sguardo strano, anche se, dagli insegnamenti di primo soccorso, sapeva che fosse la prassi in questi casi.

 

Solo che….

 

Cercando di guardare ovunque tranne che , la prese per le caviglie e gliele alzò, tenendogliele in aria, anche se ormai altro che imbarazzo!

 

Come aveva fatto ad infilarsi in una situazione del genere?!

 

“V- va meglio?” le chiese, dopo un po’, continuando a guardare in alto, ed Irene pronunciò un “sì, puoi pure lasciarmi andare….” che gli suonò ancora più strano.

 

Quando le riappoggiò le caviglie al copriletto, tirò un sospiro di sollievo.

 

“Se… se va meglio io… andrei a dormire. Se… se hai bisogno di qualcosa però chiamami al telefono, non ti devi alzare, va bene? Vuoi che… ti aiuto col lenzuolo e ti passo… insomma… il completo da notte?”

 

“No, tranquillo: ce l’ho sotto al cuscino e a sollevare un lenzuolo senza scendere dal letto sono capace,” rispose lei, con uno sguardo indefinibile, alzando il cuscino accanto al suo ed estraendone in effetti gli indumenti in seta.

 

“Allora… allora io vado,” proclamò, cercando di sollevarsi dal materasso ma lei lo bloccò per un braccio, “cosa c’è? Non stai ancora bene?”

 

“No, è che… sei veramente un santo, Calogiuri,” gli rispose, mettendosi piano piano seduta. Si sentì sfiorare una guancia da dita un po’ tremolanti, mentre con l’altra mano ancora lo teneva per il polso, e poi gli sussurrò, “di te, forse, potrei fidarmi pure al cento percento.”

 

Stava cercando una risposta, perché non sapeva bene che dire, chiedendosi se stesse lui di nuovo immaginando significati nascosti o se ci fossero veramente, quando qualcosa di umido lo toccò sull’altra guancia, e all’angolo della bocca.

 

Tirò indietro la testa, d’istinto, tanto che sentì male al collo, ma lei, dopo quella specie di mezzo bacio, lo lasciò andare del tutto e si ributtò sul cuscino, sempre con quello sguardo indefinibile.

 

Le gambe che parevano di budino, si alzò rapidamente, forse fin troppo, dal materasso, ignorò la testa che girava e se non corse verso la sua stanza poco ci mancò.

 

Si chiuse la porta alle spalle, con sollievo, e poi vide una macchia nera sul suo copriletto e si sentì in colpa tremenda.

 

Imma.

 

Doveva chiamarla ma… non sapeva bene cosa dirle, anzi, come dirglielo, perché era stato un cretino.

 

E, come per il bagno turco, più aspettava e peggio era.

 

Guardò l’ora: era già passata quasi mezz’ora dall’ultima chiamata, tra una cosa e l’altra.

 

Con un sospiro, avviò la videochiamata, perché se avesse fatto una telefonata normale sarebbe stato peggio e si sarebbe preoccupata di più.

 

“Calogiuri, finalmente, ma... ma come sei conciato?!” esclamò, alzando un poco la voce, e si chiese se potesse leggergli in faccia cosa era successo.

 

“I-in che senso?

 

“Sei tutto rosso a chiazze, Calogiù. Mi sembri la Pimpa, anche se mi sa che sei troppo giovane per sapere chi è. Ma stai bene?”

 

Si guardò allo specchio ed effettivamente era un disastro.

 

“S- sì… diciamo che… è l’effetto del bagno turco. E poi non ho fatto in tempo a farmi una doccia ancora.”

 

“Ma allora che hai fatto con Irene per mezz’ora? Se si sta tutto quel tempo in un bagno turco ti chiamano l’ambulanza.”

 

“Lo so, Imma, ma… è complicato… Irene in realtà non si è sentita bene e… ti spiego meglio cos’è successo quando ritorno,” provò ad abbozzare perché non era il caso di raccontarle in dettaglio senza poterle parlare davvero di persona, senza poterla raggiungere subito. 

 

Sapeva che non l’avrebbe presa affatto bene e torto non glielo poteva pure dare, perché se fosse successo a lei e Mancini….

 

“E mo sta bene, Irene?”

 

“Sembrerebbe che stia meglio, sì.”

 

“E tu le devi ancora fare da infermiere, Calogiuri, o-”

 

“No, no,” le rispose, sentendosi avvampare al pensiero di quanto successo mentre le faceva da infermiere.

 

“Va bene la fiducia, Calogiuri, ma… insomma… tra il tempo che è trascorso… poi ti presenti sudato, mezzo nudo, rosso, col fiatone, come ti nomino la cara Irene arrossisci ancora di più, che devo pensare io?”

 

“Imma, lo capisco ma ti garantisco che non ho fatto niente di male e, almeno da parte mia, non c’è nessuna malizia con Irene e-”

 

Almeno da parte tua? E da parte sua?” gli chiese, con lo sguardo di quando trovava una contraddizione in un interrogatorio.

 

Sospirò perché Imma lo conosceva troppo bene ma, forse, era meglio così.

 

“Non lo so,” rispose, perché era la cosa più onesta che potesse dirle in quel momento, con tutti quei chilometri di distanza ed uno schermo di mezzo.


Imma rimase per un attimo a bocca aperta, ed era sorpresa veramente, si vedeva. Ma poi lo fulminò con una di quelle occhiate che gli avrebbero potuto leggere dentro pure cosa aveva combinato in prima elementare.

 

“Calogiuri, ti rendi conto che, quando ne abbiamo parlato mezz’ora fa, tu garantivi che la cara Irene non aveva alcuna malizia - che tra un po’ ti considerava un essere asessuato per come ne parlavi! - e mo mi dici non lo so?! Ma allora qualcosa deve essere successo, Calogiuri, non mi prendere per scema. E se non è da parte tua-”

 

“Non lo so, Imma, non ho la certezza che sia nemmeno da parte sua. Però… forse avevi ragione che… non mi dovevo mettere in certe situazioni imbarazzanti. Ma ne possiamo parlare con calma domani?”

 

“Calogiuri, lo sai che così mi fai solo preoccupare - e pure incazzare - di più, sì? Altro che calma!”

 

“Lo so ma… te ne voglio parlare faccia a faccia, a casa nostra. Non voglio che mi fraintendi: non ti tradirei mai e non vorrei mai fare niente che possa farti star male anche se… se forse con Irene avrei dovuto mettere più paletti prima, come li chiami tu, ed ho sbagliato a non farlo.”

 

Imma rimase di nuovo ammutolita e lo guardò in un modo strano, che lo preoccupò moltissimo.

 

“Non so se voglio strozzarti o abbracciarti in questo momento, Calogiuri, ma se non stai attento domani sera potrebbe decisamente prevalere la prima opzione.”

 

“Lo… lo so.”

 

“Cerca almeno, qualsiasi cosa sia successo, di non fare altre cazzate - o non farle fare alla gattamorta da qua a domani sera. E di piantarli questi maledetti paletti, pure meglio di quelli della tenda, che non te la cavavi male.”

 

Sorrise: non era ancora tutto a posto, e quando le avrebbe raccontato quello che era successo sicuramente avrebbe sudato più che in dieci bagni turchi messi insieme, ma Imma era almeno disposta ad ascoltarlo, che era già più di quanto si aspettava.

 

E forse, più di quanto si meritava, per essere stato così idiota.

 

“Lo farò, te lo prometto, Imma, al di là di tutto.”

 

“Me lo auguro, Calogiuri! Ma pure per te, oltre che per me. E mo vatti a fare questa doccia o almeno infilati qualcosa che prendi freddo.”

 

“In realtà… la temperatura qui nelle stanze è molto calda.”

 

“Immagino! Come minimo Irene avrà alzato al massimo il termostato per avere la scusa buona di starvene mezzi nudi.”

 

Gli venne da ridere: come faceva a non amarla, o a desiderare qualcuna che non fosse lei?

 

Non c’era paragone tra lei e nessun’altra, era in tutta un’altra categoria e sperava solo di non essere stato così stupido da giocarsi la sua fiducia e da rischiare di perderla, perché gli sarebbe stato insopportabile.

 

“A che ora arriverai domani sera?”


“Penso verso le ventuno a Termini. Massimo per le ventidue dovrei essere a casa.”

 

Imma si limitò ad annuire, senza aggiungere altro.

 

“Non vedo l’ora di vederti, dottoressa, nonostante l’interrogatorio che mi aspetta.”

 

“Vedremo se sarai della stessa idea domani sera, Calogiuri,” gli rispose, secca, ma lo sguardo era leggermente più dolce di prima.

 

Sperava che pure lei sarebbe stata ancora della stessa idea.

 

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Si avviò a passo svelto verso la procura, pentendosi di non aver messo il cappottino più pesante.

 

L’aria cominciava a farsi frizzante, anche col clima relativamente clemente di Roma.

 

Si sentiva stanchissima: dopo la telefonata di Calogiuri, che c’aveva un’aria terrorizzata che nemmeno un cerbiatto davanti ai fari, non aveva potuto non preoccuparsi.

 

Irene aveva sicuramente combinato qualcosa e Calogiuri le doveva molte spiegazioni, anche perché gli scenari che nella notte le si erano creati nella mente, facendola svegliare in continuazione, erano tutti a luci rosse: da Irene che se lo baciava in sauna a loro che in sauna facevano tutt’altro, con tanto di manata sul vetro coperto di vapore, degna di un film.

 

Ma il modo in cui Calogiuri ne aveva parlato le faceva pensare a qualche assalto della gattamorta, suo malgrado. Certo, dipendeva sempre da cosa aveva fatto o non fatto lui in risposta.

 

Sperando che sta benedetta spiegazione faccia a faccia le levasse tutti i dubbi e non gliene facesse venire di più - o peggio, che alcuni dubbi diventassero certezza - entrò in procura, facendo un cenno agli agenti di guardia ed avviandosi verso le scale.

 

Aprì la porta del suo ufficio, ancora immersa nei suoi pensieri, e per poco non le prese un colpo quando ci trovò Mancini, in piedi di fronte alla sua scrivania, in mezzo alle due sedie.

 

“Do- dottore. Ma è successo qualcosa?” gli chiese, perché un agguato nel suo ufficio, senza bussare prima, non glielo aveva mai fatto.

 

Mancini alternava lo sguardo tra lei ed il pavimento, in un modo che le ricordava tantissimo Calogiuri, paradossalmente.

 

“S- sì, dottoressa. Ho bisogno di parlarle urgentemente. Può… può venire nel mio ufficio?” le chiese, facendo segno verso la porta che separava il suo ufficio da quello di Asia.

 

Un senso di terrore la invase.

 

Quel mattino non aveva ancora sentito Calogiuri. E se… se gli fosse successo qualcosa di grave? A Milano, in fondo, Irene non era esattamente al sicuro e lui era lì per proteggerla.

 

E se….

 

“Nessun morto o ferito, dottoressa, stia tranquilla,” la rassicurò, leggendole nel pensiero, come sapeva fare sempre più spesso, per poi aggiungere, quasi tra sé e sé, “almeno finora.”

 

Mentre un altro genere di presentimento la coglieva, come una lama al petto, si rassegnò a seguirlo fuori dalla porta e verso il suo elegantissimo ufficio.

 

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Guardò l’ora: erano quasi le nove.


Di solito Irene per le otto al massimo lo buttava giù dal letto, ma niente.


Era pure già arrivata la colazione, che evidentemente Irene aveva preordinato, ma di lei nessuna traccia e rischiava di freddarsi tutto.

 

E poi, cominciava a preoccuparsi, visto come stava lei la sera prima.

 

Vestito di tutto punto, come se dovesse già uscire, alla fine osò bussare alla porta di lei.

 

Finalmente, dopo qualche minuto d’attesa. Irene emerse, ancora in accappatoio, con i capelli tutti arruffati, l’aria di chi aveva dormito fino a pochi secondi prima.

 

“Ma che ore sono, Calogiuri?” gli chiese, preoccupata.

 

“Le nove, c’è la colazione.”

 

Irene si passò una mano sugli occhi e sulla fronte, “ricordami di non bere mai più come ieri sera, Calogiuri. Champagne o non champagne. Non ci sono più abituata.”

 

E poi uscì dalla stanza, seguendolo verso la zona giorno dove era stato tutto perfettamente apparecchiato dal cameriere.

 

Irene si sedette, un po’ tremolante, e la vide che guardava il cibo con aria nauseata.

 

“Caffè? Dovrebbe aiutare in questi casi.”

 

“Doppio Calogiuri: altro che matcha stamattina!” sospirò lei, porgendogli la tazza.

 

Calogiuri mangiò in silenzio, un peso sullo stomaco che non c’entrava niente con l’alcol, perché c’era un discorso da affrontare e non sapeva come fare.

 

La osservò prendere a fatica alcuni bocconi di un cornetto e di pane tostato con marmellata e poi si fece forza, posando la tazza.

 

“Senti, Irene… io… ti devo dire una cosa e… spero che non te la prenderai e che… questo non influenzerà il nostro lavoro, ma….”

 

“Che c’è, Calogiuri?” gli chiese, sorpresa.

 

“C’è che… certe situazioni… mi fanno sentire a disagio e… e poi non voglio mancare di rispetto ad Imma, perché… se ieri in sauna ci fosse stata Imma con un collega, non l’avrei presa bene. Lo so che ora mi darai dell’uomo del sud, e lo sai che ci tengo a te e alla nostra amicizia ma...preferirei che da ora in poi evitassimo certi… contatti e certe attività, ecco.”

 

Gli era uscito tutto d’un fiato. Irene lo guardava, a bocca mezza spalancata, senza parlare. E poi scosse il capo e fece un sorriso strano, come agrodolce.

 

“Calogiuri…” sospirò lei, bevendosi un’altra sorsata di caffè ed appoggiando la tazzina, “lo so che sei un bravo ragazzo ed un compagno fedele. E dovrebbe saperlo anche Imma. Quindi se me lo chiedi per te, perché ti senti a disagio, va bene - ed era pure ora che me lo dicessi -, se lo fai perché se no Imma si arrabbia, non-”


“Lo faccio per me. Imma ancora non sa cosa è successo e… gliene parlerò stasera. Ma… non voglio che ci siano fraintendimenti non solo con Imma,  ma nemmeno con te. Lo so che forse… per te certe cose in amicizia sono normali, ma per me no e non me la vivo bene.”

 

Lei si morse il labbro e poi sorrise, “va bene, messaggio ricevuto. E comunque se qualcosa ti mette tanto a disagio devi imparare a dirlo prima, Calogiuri. In amore, in amicizia, sul lavoro.”

 

“Qu- quindi non ti sei offesa?” le chiese, sollevato.

 

“Se questo non cambia il nostro lavoro e la nostra amicizia, pur con le... distanze di sicurezza, no, Calogiuri. Ora però andiamo a cambiarci, che vorrei andare a parlare con il collega che si occupa del caso Fumagalli. E dobbiamo lasciare la stanza, Calogiuri.”

 

La vide alzarsi da tavola ed camminare verso la stanza.

 

Si sentì sollevato, come se si fosse appena tolto un enorme peso.

 

Anche se il peso più grande si sarebbe sciolto solo dopo aver parlato con Imma.

 

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“Dottore, che succede?”

 

“Succede che… mi ha chiamato De Luca, per le intercettazioni di Coraini. Gli uomini che se ne occupano le stanno ascoltando in tempo reale o quasi: in vista del maxiprocesso ho detto loro che dobbiamo dare un’accelerata.”

 

“E… e allora? Ci sono novità?”

 

“Sì, dottoressa, ma… non buone temo e… molto delicate.”

 

“Vogliono fare uscire le foto di Valentina, alla fine?” chiese, sentendo la testa che girava, e sedendosi quasi con un tonfo sulla sedia di fronte alla scrivania del procuratore capo.

 

Mancini si morse il labbro e si sedette di fianco a lei, con l’aria di chi stava per darle una notizia terribile.

 

“Che succede, dottore? Valentina è in pericolo?”

 

“No, no… diciamo che in pericolo c’è… la reputazione di questa procura e… e pure la missione che Irene e Calogiuri stanno svolgendo a Milano. E forse pure un poco la credibilità del maxiprocesso.”

 

“E… e che vuol dire?”

 

“Non… non vorrei doverglielo dire io, mi creda, ma… Irene ed il maresciallo sono ancora irraggiungibili e… e la notizia potrebbe uscire da un momento all’altro e non vorrei che lo sapesse da internet o dai giornali. Purtroppo temo di non riuscire a bloccarla, stavolta”

 

“E… e cioè?”

 

“Un fotografo amico di Coraini ha… ha scattato una foto ieri a Milano. Lo ha chiamato e gli ha chiesto come la volesse usare, se volesse magari provare a venderla, ma lui gli ha detto di pubblicarla pure. Visto il contenuto della foto… ho chiesto un favore a Frazer, se lo ricorda, no?”

 

“E come potrei dimenticarmelo!” esclamò, perché un armadio del genere, con quei capelli poi, era proprio indimenticabile.

 

“E insomma… tramite un suo ex collega che ora si occupa di più di gossip, Paul è riuscito ad averne una copia in anteprima. Probabilmente oggi uscirà su internet e domani sui giornali.”

 

Imma ormai aveva un presentimento che era quasi una certezza.

 

Ma quando Mancini le passò il suo cellulare e si trovò davanti una foto di Calogiuri, avvinghiato alla gattamorta in un bacio appassionato, il telefono le cadde dalle mani lo stesso, poco prima che un senso di nausea la travolgesse così forte da costringerla a tirarsi in piedi, in una corsa disperata verso il bagno.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo quarantacinquesimo capitolo. Vi ho lasciato su un punto un po’ cattivello, lo so, ma se no che gusto c’è ;)?

Nel frattempo sono iniziate pure le repliche di Imma, sperando che comincino presto le riprese della seconda stagione. Quasi non ci credo che sia passato già un anno dalla messa in onda, anche se in questi mesi è successo di tutto.

Vi ringrazio di cuore per aver seguito questi miei scritti per tutti questi mesi, e spero che continuino a mantenersi un appuntamento piacevole per voi.

Come sempre, le vostre recensioni, oltre a farmi tanto piacere, mi danno anche indicazioni importantissime su come sta andando la storia e se c’è qualcosa da correggere, quindi ogni commento, positivo o negativo, è graditissimo.

Un grazie particolare a chi ha inserito questa storia nelle preferite o nelle seguite.

Il prossimo capitolo, dove accadrà di tutto e di più, arriverà puntuale tra due settimane, domenica 11 ottobre.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 46
*** La Pantera, il Pitbull ed il Toyboy ***


Nessun Alibi


Capitolo 46 - La Pantera, il Pitbull ed il Toyboy


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Grazie per aver accettato di incontrarmi.”

 

“Si figuri, dottoressa! Lei è una mezza leggenda qua in procura, è un piacere conoscerla di persona.”

 

Il dottor Mazzetti - un cinquantenne dai capelli brizzolati scolpiti in una pettinatura quasi perfetta e dall’aria di chi ha un’altissima opinione di se stesso - strinse la mano ad Irene con entusiasmo, mentre a lui non rivolse nemmeno un cenno di saluto.

 

Irene si accomodò e gli fece segno di sedersi accanto a lei, lui eseguì, pronto col taccuino a segnare qualsiasi informazione importante.

 

“Di cosa voleva parlarmi, dottoressa?”


“Del processo su Fumagalli. Di come sta andando il procedimento e chi saranno i testimoni, in particolare.”

 

“E perché lo vorrebbe sapere?” le chiese, con aria stupita.

 

“Per vari motivi, tra i quali il fatto che a breve avrò a che fare con l’avvocato Villari nel mio processo a Roma.”

 

“Beh… che Villari sia l’avvocato più temuto qua a Milano già lo sa, immagino.”

 

“Certamente, o non sarei qui. Vorrei capire… il suo modus operandi. E, se lei mi aiuterà, potrei avere in mano a breve informazioni che potrebbero esserle utili anche per il suo processo.”

 

“A breve quando?”

 

“Diciamo… nel giro di qualche settimana al massimo, se mi aiuterà. Sarebbe disponibile al limite a venire a Roma per un incontro? Sa… meno orecchi indiscreti.”

 

“Beh… una trasferta romana, poi con una collega come lei… non mi dispiacerebbe affatto, dottoressa,” proclamò Mazzetti e Calogiuri notò come lo sguardo di Irene si indurì leggermente, “le farò avere tutte le informazioni di cui ha bisogno, non si preoccupi.”

 

Irene sorrise ma percepiva distintamente quanto fosse tesa.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottore, aveva bisogno di me?”

 

Il sorriso di lei, dolce e gentile come sempre, gli sembrò quasi dissonante in mezzo a quel disastro, ma fu pure stranamente un conforto.

 

“Sì, Mariani. La dottoressa Tataranni è… è chiusa in bagno da un po’. Può verificare che non si sia sentita male? Io non posso entrare nel bagno delle donne, come può immaginare.”

 

“V-va bene, dottore. Ma la dottoressa non stava bene?”

 

“Problemi di stomaco, credo, Mariani,” rispose, stando sul vago, perché non voleva rivelare a tutti delle foto, almeno finché non fossero uscite.

 

Mariani annuì e la vide entrare in bagno. Trattenne il fiato mentre si sentiva diviso tra la voglia di strozzare il maresciallo, non appena ce lo avesse avuto davanti, e la preoccupazione per quello che stava passando Imma.

 

Se mai gli avesse dato una possibilità, una sola, lui non l’avrebbe mai fatta soffrire.

 

Ma lei era innamorata di quel cretino e, lo sapeva bene, i sentimenti non svaniscono da un giorno all’altro, purtroppo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa?”

 

Per poco non fece un salto.

 

Mariani.

 

Era chiusa in uno dei cubicoli dei bagni. Dopo aver vomitato aveva preso a piangere, senza riuscire a frenarsi, e non voleva farsi vedere in quel modo.

 

“Dottoressa, tutto bene?”

 

“S- sì, Mariani. Aveva bisogno di me?” chiese, maledicendosi per la voce che si spezzava a tradimento.

 

“No, ma… c’è il dottor Mancini che è preoccupato. Mi ha detto che non stava bene di stomaco. Ha bisogno di qualcosa?”

 

Mancini.

 

Sempre premuroso, sempre solerte, sempre discreto.

 

“No, Mariani. Tra… tra un attimo esco, ma è che… sono un po’ un disastro. Credo che il trucco sia da buttare.”

 

“Se vuole ho delle salviette umide che vanno bene anche come struccante.”

 

Provò un moto di tenerezza: Mariani pure era premurosa, solerte e discreta.

 

Aggettivi che, almeno una volta, avrebbe rivolto pure a qualcun altro. Ma il solo pensarlo era un pugno in piena pancia, quindi si costrinse a ragionare su come uscire da lì con quel poco di dignità che le era rimasta ancora intatta.

 

“Va bene, Mariani, se può… la ringrazio.”

 

“Torno subito, dottoressa!”

 

Aspetto di sentire la porta richiudersi e poi uscì dal cubicolo, affrettandosi a lavare mani e viso, prima che le lacrime sembrassero troppe pure per una che aveva appena vomitato l’anima.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa. Vuole che la riaccompagni a casa? Grazie, Mariani.”

 

Mariani colse immediatamente il congedo implicito nel tono di Mancini e, dopo averle lanciato un ultimo sguardo preoccupato, si allontanò.

 

“Non- non lo so, dottore. Lo sa che… che non amo assentarmi,” gli rispose, a fatica, notando come anche il procuratore capo sembrasse molto in apprensione.

 

“Dottoressa, lo so, ma… ma se dovessero uscire oggi certe notizie, forse è meglio che lei non si trovi qui e che stia a casa, al sicuro, prima che… arrivino frotte di giornalisti.”


“Sa anche che non mi piace scappare dai problemi, no?”

 

“Lo so, ma… diciamo che è un ordine, dottoressa. Stia a casa, al riparo, finché non capiamo come affrontare… quello che ci arriverà addosso. Anche come procura.”

 

Imma sospirò. Sapeva che Mancini aveva le sue ragioni ed i suoi problemi e lei… si sentiva ancora uscita da una lavatrice, oltre che come se l’avessero presa a cazzotti. Non sarebbe stata in grado di affrontare i giornalisti a testa alta, non quel giorno.

 

Sull’affrontare lui… la sola idea di rivederlo le procurava rabbia e nausea insieme.

 

Se pensava a tutti i giuramenti che le aveva fatto, guardandola negli occhi, che non l’avrebbe mai tradita.

 

E invece… era diventato bravo a mentire, anche se in quello lei gli aveva fatto da maestra.

 

Forse era il karma: chi di corna ferisce….

 

“Dottoressa, allora, mi permette di riaccompagnarla?”

 

“Ha sentito il… il maresciallo e la Ferrari?” gli domandò di rimando, non riuscendo nemmeno a pronunciare il suo cognome.

 

“No, purtroppo no, risultano sempre non raggiungibili. Magari sono di nuovo impegnati in qualche appostamento.”

 

“Immagino… o in qualche altro… limone,” sibilò, amara, trattenendo nuove lacrime che minacciavano di uscire insieme alla rabbia, “va bene… me ne torno a casa, dottore, ma solo a patto che lei faccia di tutto per cercare di bloccarle quelle foto.”

 

Non tanto per lei o per Calogiuri, che a quel punto si meritava qualunque figuraccia - pure se la più derisa per la sua hybris sentimentale sarebbe stata lei - ma anche e soprattutto per il processo.

 

Se la sua vita personale era allo sfascio, almeno quella professionale voleva cercare di salvaguardarla.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma… ma perché…?”

 

“Shhh, non dobbiamo farci scoprire, Calogiuri.”

 

Deglutì, tornando in silenzio e continuando il pedinamento di Mazzetti.

 

Lo seguirono a distanza, con discrezione, finché lo videro varcare l’inconfondibile ingresso della Procura di Milano.

 

“Va bene, Calogiuri, non possiamo proseguire oltre. Quantomeno è realmente tornato in procura, anche se potrebbe incontrarci pure Villari. Ma per ora dobbiamo aspettare.”

 

“Tu quindi temi… che potrebbe essere pure lui in combutta con Villari?” domandò, stupito.


“Non è che lo temo, Calogiuri, diciamo che… facendo questo mestiere, e soprattutto per questo tipo di inchieste, non bisogna fidarsi di nessuno. Nemmeno di PM o giudici. Ma per ora… vediamo che combinerà Mazzetti nelle prossime settimane e se mi farà avere o meno le informazioni che gli abbiamo chiesto.”

 

Annuì, pensando che Irene quasi era più paranoica di Imma, e poi la seguì mentre si incamminava verso la zona dell’hotel.

 

“Che vuoi fare ora?”

 

“Niente, Calogiuri. Torniamo al bar dell’hotel e possiamo continuare a consultare le informazioni che abbiamo raccolto, prima che giunga l’ora di andarcene a prendere il treno per Roma. Anzi, a proposito, chiama Roma e senti se ci sono novità sull’autopsia del canoista ritrovato morto nel Tevere, che doveva essere pronta stamattina. Almeno vediamo se ci togliamo un’incombenza o se dovremo occuparcene nei prossimi giorni.”

 

“Va bene,” annuì, estraendo il cellulare e togliendo la modalità aereo che aveva inserito per il colloquio con Mazzetti e poi per l’inseguimento.

 

Vide che anche Irene faceva lo stesso.

 

Pochi secondi ed il telefono cominciò a vibrare senza sosta.

 

Una sfilza di chiamate perse: Mancini e Mariani.

 

Mancini aveva persino lasciato un messaggio in segreteria.

 

Pure il cellulare di Irene sembrò come impazzito e si guardarono per un attimo.

 

“Mancini e Mariani,” le disse, in una domanda implicita.


“Mancini,” rispose lei e Calogiuri sentì un tuffo al cuore.

 

Mancava un nome all’appello, che in caso di emergenza solitamente gli intasava il telefono di notifiche.

 

Imma.

 

Col terrore che fosse lei l’emergenza, che le fosse successo qualcosa, in automatico selezionò il suo contatto e provò a chiamarla.

 

Uno, due squilli e poi il cellulare ammutolì.

 

Gli aveva staccato la chiamata.

 

Sempre più preoccupato, stava per richiamarla, quando il telefono riprese a vibrare.

 

Il sollievo durò il tempo di leggere il nome sul display.

 

Mariani

 

“Pronto?” rispose, trattenendo il fiato e preparandosi al peggio.

 

“Dove sei?! Che stai combinando?! Come hai potuto, ma sei scemo?!”

 

La sfilza di domande gli perforò quasi il timpano: non aveva mai sentito Mariani parlare con quel tono così concitato e furioso.


“Eh? Io… che stai dicendo?”

 

“Che sto dicendo?! Ho sentito Mancini ed Imma parlare, anche se loro pensavano non li sentissi. Usciranno foto che credo coinvolgano te, la Ferrari ed un limone… di che pensi che sto parlando, eh?!”

 

“Un limone?” chiese, stupito, non capendo cosa c’entrassero gli agrumi.

 

“Un bacio, Calogiuri, appassionato, c’hai presente, sì? Ed immagino tu sappia di cosa parlo meglio di me.”

 

Sentì il sangue precipitargli nei piedi, la testa che gli girava.

 

Non era possibile… non potevano averli fotografati proprio in quel momento!

 

Lanciò un’occhiata ad Irene, che lo guardò, preoccupata, “ti senti bene, Calogiuri?”

 

“Imma… Imma ho provato a chiamarla ma non mi risponde….” disse, quasi più tra sé e sé che rivolto a qualcuno.

 

“E ci credo che non ti risponde!” ribattè però Mariani, sempre più arrabbiata, “ma ti rendi conto del casino che scoppierà qui se esce una cosa del genere sui giornali? Cosa ti è saltato in mente?! Come hai potuto?!”

 

“Chiara, non è come pensi, era… era solo lavoro, mi devi credere. Poi ti spiego.”

 

“Lavoro?! E che lavoro sarebbe? E comunque non devi pensare a spiegare a me e a farti credere da me, ma devi farlo con Imma, che stava malissimo, pure se faceva finta di niente. Ora è a casa, vedi di muoverti e spero che tu una spiegazione ce l’abbia davvero, Ippazio, e non una di quelle cose cretine che dite voi uomini per giustificarvi.”

 

“Ce l’ho, ce l’ho. Io Imma non la tradirei mai e poi mai.”

 

“Ecco, magari una frase più originale con lei, Calogiuri, che questa è una delle scuse più vecchie del mondo, insieme al non è come pensi e al posso spiegarti tutto.”

 

Silenzio.

 

Mariani aveva messo giù.

 

“Cos’è questa storia di tradire Imma e del limone?” gli domandò Irene, guardandolo però con l’aria di chi aveva più o meno già capito.

 

“I giornalisti devono averci fotografati mentre… insomma… mentre mi baciavi per copertura e… e ora Imma non risponde e….”

 

Irene sospirò scuotendo il capo e passandosi una mano sulla fronte, in un modo che non lo rassicurava per nulla.

 

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“Dottoressa, vuole che rimanga un po’ qui o preferisce che le chiami qualcuno? Sua figlia, magari… in caso si… si sentisse male di nuovo.”

 

Si era mezza accasciata sul divano e Mancini appariva quasi a disagio, tanto che stava ancora in piedi come un soldatino.

 

E come sempre i pensieri la riconducevano a lui, mannaggia a lei!

 

“No, dottore, non si preoccupi. Non avrò altri malesseri e me la cavo da sola. Voglio soltanto starmene un poco per conto mio e non sentire né vedere nessuno.”

 

“Senta… è… è sicura di non voler parlare nemmeno con il maresciallo?” le domandò ed Imma spalancò la bocca dalla sorpresa perché quella frase da lui non se la sarebbe mai aspettata. Mancini sembrò ancora più in imbarazzo, “mi scusi ma… ho visto il suo nome sul display e che lei ha rifiutato la chiamata.”

 

“In questo momento no, dottore, voglio solo un po’ di silenzio. Ci parli lei, se vuole, per il lavoro, e magari pure con la cara dottoressa Ferrari. Io ci penserò più avanti.”

 

“Va bene… se ha bisogno di qualsiasi cosa però… il mio numero ce l’ha,” concluse Mancini, con aria esitante.

 

Ma, dopo un attimo, fermo in silenzio come uno stoccafisso, si voltò e se ne andò verso la porta d’ingresso.


Attese che se la fosse richiusa alle spalle, poi si avviò, ancora un poco tremante, verso la camera da letto, intenzionata a restarci distesa al buio fino a che avrebbe potuto. La testa le scoppiava, insieme a tutto il resto.

 

Fece in tempo a chiudere la porta quando li vide, sulla sedia lì vicino: i pantaloni e la felpa della tuta di di lui.

 

Una furia la prese. In due falcate, aprì l’armadio e ce li buttò dentro, per toglierseli dalla vista.

 

Poi si voltò verso il letto - per fortuna aveva cambiato le lenzuola per Diana - e la cornice sul comodino la salutò, beffarda, con la foto di loro due insieme che si baciavano al Pincio.

 

Ci si avventò quasi, la afferrò e stava per scagliarla contro al muro - e chi se ne fregava dell’intonaco! - quando la foto di loro due insieme, i visi sporchi di fuliggine delle castagne, le arrivò come una doccia d’acqua gelata.

 

La rabbia sparì, sostituita dal dolore, dalle lacrime e dai singhiozzi, dalla delusione, non sapeva se più verso di lui o verso se stessa.

 

Era lei quella più adulta, avrebbe dovuto essere anche la più razionale e capire che a lui una storia con lei non sarebbe potuta bastare per sempre, giovane e bello com’era. Certo, proprio con la peggiore delle gattemorte doveva cedere, ma… in fatto di donne aveva sempre avuto gusti terribili. Avrebbe dovuto impedirgli ed impedirsi di rivoluzionare le loro vite per una storia senza futuro.

 

Ma lo amava talmente tanto che non ce l’aveva fatta, non dopo le emozioni che le aveva fatto provare, per la prima volta in vita sua.

 

E forse pure per l’ultima.

 

Quante donne aveva conosciuto, con partner più giovani, che si tenevano strette il compagno, fingendo di non sentire il fascio di corna che si portavano in testa, pur di non perderlo, di non perdere il bello che comunque dava loro.

 

Ma, a parte che per lei sarebbe stato impossibile ormai non vedere, non era il tipo da accettare compromessi del genere. La sua dignità ed il suo amor proprio, per quanto feriti, venivano prima di tutto.


E poi Calogiuri le aveva mentito guardandola negli occhi, solo la sera prima, e… e questo lei non lo avrebbe mai potuto perdonare, ancora di più del tradimento fisico.

 

Aprì il cassetto del comodino e ci infilò dentro la cornice. Mentre lo richiudeva, pensò che avrebbe dovuto chiudere così anche il suo cuore, finché fosse stato necessario.

 

Anche se non era per niente facile.

 

Si lasciò andare sul cuscino, le lacrime che ancora scorrevano: avrebbe sfogato ora tutte le emozioni che provava, prima che lui tornasse.

 

*********************************************************************************************************

 

Ormai la mano non è che solo gli tremasse, vibrava non stop per via delle telefonate.

 

Mancini

 

L’ultima persona che avrebbe voluto sentire in quel momento.

 

Non servì nemmeno avvicinare il cellulare all’orecchio per sentire quanto fosse incazzato.

 

“Maresciallo, alla buonora! Non so quante telefonate ho fatto a lei e alla dottoressa Ferrari. Stanno per uscire foto vostre su internet e domani saranno sui giornali, non sono riuscito a bloccarle. Vi ritraggono mentre vi baciate e… devo dire altro?”

 

“Dottore-”

 

“Lei è un irresponsabile che evidentemente la professionalità non sa cosa sia, ma neanche un minimo di furbizia o di decenza. Da quando la conosco ci sono già stati troppi casini in questa procura a causa sua! L’Arma molto probabilmente aprirà un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Ed io non sono affatto sicuro di voler tenere nella mia squadra un elemento che è più sui giornali per le cronache rosa che per quelle gialle o nere e che sta avendo relazioni con mezza procura!”

 

Mancini pareva un fiume in piena, non smetteva di urlare. Mariani in confronto era stata pacata.

 

Non sapeva se fosse più forte il senso di colpa o l’irritazione nel sentirsi fare la predica proprio da Mancini. Ma era il capo e non poteva perdere il controllo con lui: come minimo aspettava solo quello.

 

“Imma come sta?” chiese infine, perché era il suo primo pensiero e l’unica cosa che lo preoccupasse veramente, ancora prima di spiegarsi o giustificarsi.


“E come vuole che stia, maresciallo?! Sta malissimo, ovviamente, e questa pugnalata da lei non se la meritava. Ma del resto lei non se la merita una donna come la dottoressa!”

 

Calogiuri non ci vide più, stava per rispondere con un e voi invece pensate di meritarvela?! ma fece in tempo appena a pronunciare, “e voi invece-?” che Irene gli prese il telefono di mano e mise il vivavoce.

 

“Giorgio, scusami, ti ho messo in vivavoce, ma ti devo spiegare che-”

 

“Irene? Ma che t’è saltato in testa?! Siamo in una procura, non in una soap opera e da te mi aspettavo una prudenza diversa, soprattutto dopo quanto è successo in passato, e sai di cosa parlo.”

 

Irene sembrò colpita, come se le avessero tirato uno schiaffo. In effetti il tono di Mancini era duro, non quanto lo era stato con lui, ma non l’aveva mai sentito rivolgersi a lei in quel modo.

 

“Giorgio, lo so, ma non è come pensi. Era solo un bacio di copertura, per lavoro.”

 

“In che senso?”

 

“Non posso raccontarti i dettagli al telefono ma stavamo facendo un appostamento e la persona che seguivamo ci aveva quasi individuati a fotografarlo. Allora ho baciato Calogiuri, per non destare sospetti.”

 

“Ma con tutto quello che potevate fare proprio baciarvi?! Non stiamo in una fiction poliziesca!”

 

“Giorgio, che ti devo dire… è stato il primo istinto che mi è venuto sul momento. Ma è stata un’idea mia, Calogiuri lo ha solo subito e me ne prendo la piena responsabilità,” ribadì lei, decisa, e Calogiuri provò un moto di gratitudine nei suoi confronti per la veemenza con la quale lo difendeva, “e comunque a questo punto è evidente che siamo stati pedinati dai giornalisti ed è gravissimo. Tu come lo hai scoperto?”

 

“Tramite le intercettazioni a… tu sai chi… il fotografo lo ha chiamato per chiedergli se volesse comprargli le foto o cosa ne dovesse fare.”

 

“Ma allora tutto il lavoro di questi giorni può essere andato in fumo! Tu sai chi o i suoi fotografi potrebbero aver avvisato chi stavamo seguendo!”

 

“La credibilità di tutto il processo, anzi della procura può essere in fumo, Irene, non solo il lavoro degli ultimi giorni. Te ne rendi conto, voglio sperare?”

 

Vide Irene sospirare e passarsi nuovamente una mano davanti agli occhi.

 

“A questo punto anticipiamo il rientro, Giorgio: prendiamo il primo treno disponibile. Immagino che sia meglio fare una dichiarazione preventiva? Prima che escano le foto? Ma sai che non ho profili social e che non posso averne, per ovvi motivi.”

 

“Cercherò di organizzare una conferenza stampa per stasera qua in procura. Ma dovete essere pronti perché è probabile che le foto escano da un momento all’altro. Verrete sicuramente massacrati con le domande e dovrete essere molto convincenti. Confermami l’orario in cui arriverete a Roma che vi passo a prendere.”

 

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Un trillo fastidioso la riscosse da quella specie di catatonia in cui galleggiava.

 

Calogiuri

 

Il nome su display fu una mazzata. Rifiutò la chiamata nuovamente. Poteva capirlo pure da solo che non lo voleva sentire.

 

Il cellulare squillò un’altra volta e stava per incazzarsi ancora di più verso di lui. Ma stavolta il nome che lampeggiava era quello di Valentina.

 

Un peso nello stomaco, capendo che la notizia doveva per forza essere uscita e non poteva non parlarle.

 

Anche se una parte di lei avrebbe solo voluto nascondersi.

 

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“Niente?”

 

Scosse il capo, un senso di panico che quasi gli faceva girare la testa.

 

Imma aveva rifiutato la chiamata di nuovo. Non voleva parlargli e cominciava a temere di non riuscire nemmeno a spiegarsi, a spiegarle.

 

Capiva che fosse incazzata e delusa, certo che lo capiva, e la paura di perderla cresceva ogni minuto di più.

 

Finalmente le porte del treno si aprirono e ci salirono, raggiungendo la carrozza di prima classe ed i loro posti a sedere.

 

Il cameriere, solerte come sempre, arrivò per offrirgli loro il benvenuto e qualcosa da mettere sotto i denti, ma aveva tutto tranne che fame.

 

“Calogiuri, devi mangiare qualcosa, che poi chissà a che ora finiamo stasera, con la conferenza stampa.”

 

Sollevò gli occhi ed incrociò lo sguardo di Irene. Era molto preoccupata pure lei, si vedeva, lei che di solito era quasi imperturbabile. E questo non lo confortava di certo.

 

Rimasero per un attimo in silenzio, mentre il cameriere portava loro il solito finger food ed un bicchiere di champagne che gli provocò nausea al solo vederlo.

 

E poi il cellulare di Irene vibrò.

 

“Merda!”

 

Quelle due sillabe, pronunciate da lei, sempre così posata, furono il segnale definitivo.

 

“Sono… sono uscite le foto?” le chiese, il cuore in gola, ed Irene gli passò il telefono, con aria sdegnosa.

 

La Pantera, il Pitbull ed il Toy Boy.

Triangolo in Procura a Roma

 

Altro che sdegno: gli veniva voglia di dare un pugno al titolista.

 

E poi le foto, che pareva uno di quei fotoromanzi che leggeva sua sorella Rosa da ragazzina.

 

Un paio di scatti del bacio e poi loro che si allontanavano a braccetto.

 

Non sapeva nemmeno se leggere la spazzatura che sarebbe stato il breve articolo o lasciar perdere.

 

“Mi dispiace, Calogiuri. Non pensavo che… ti potessero riconoscere e seguire pure insieme a me. Sai, Imma nel bene o nel male si nota subito, pensavo che io e te insieme risultassimo più… anonimi.”

 

“No, è anche colpa mia,” ammise, amaro, perché era stato un cretino, “avrei dovuto evitare certe cose di partenza ed avrei dovuto cercare di spiegare subito per telefono quanto era successo ad Imma.”

 

“Calogiuri, ma un conto è per il… privato… un conto è qualcosa che è successo per lavoro. Nelle operazioni questo genere di cose può succedere, e tu non hai fatto niente di male, anzi, ti sei sempre comportato da gentiluomo in questi giorni. Mi dispiace per averti creato problemi.”

 

Sospirò. Creato problemi era un eufemismo ma le cose si facevano in due ed era stato lui imprudente per primo. Avrebbe dovuto dare retta ad Imma e mantenere le distanze di sicurezza e non lo aveva fatto.

 

“Se non fossi stata con me ma con un altro collega quelle foto non ci sarebbero state. Quindi… spiace anche a me di averti coinvolto in tutto questo casino con i giornalisti,” ammise poi, perché alla fine era solo l’ennesimo colpo in una battaglia contro di lui ma soprattutto contro Imma, “ma ora l’unica cosa che mi interessa veramente è parlare con Imma, chiarirmi con lei, e non buttare via tutto il lavoro che abbiamo fatto in questi anni per il maxiprocesso. Poi se mi dovrò prendere le conseguenze sul lavoro me le prenderò.”

 

Irene scosse il capo e sembrò intenerita, ma poi gli intimò, perentoria, “non ci pensare nemmeno! Non ti permetterei mai di buttare via la tua carriera per una decisione mia. E sono sicura che pure Imma, al di là della rabbia e delle delusioni personali che potrà provare ora, penserebbe lo stesso.”

 

“Io spero solo che Imma non stia troppo male perché non lo sopporterei, sapendo che è anche colpa mia,” rispose, un nodo in gola, mentre si costringeva a leggere quell’immondizia di articolo che avevano scritto.

 

*********************************************************************************************************

 

“Valenti…” esordì, stando sul generico, giusto giusto in caso si trattasse di una coincidenza.

 

Anche se lei alle coincidenze non aveva mai ma proprio mai creduto.

 

“Ho visto le foto.”

 

Un colpo al cuore. Ma del resto Valentina era sempre stata diretta, a volte anche brutalmente.

 

Una delle cose che aveva preso da lei.

 

“Se becco quello stronzo lo ammazzo! Come stai? Hai bisogno di qualcosa?”

 

Gli occhi le pizzicarono nuovamente, ma stavolta per la commozione: Valentina era davvero cresciuta tantissimo.

 

Ma restava pur sempre sua figlia e lei sua madre.

 

“Valentì, non ti devi preoccupare, veramente. Ed ucciderlo al limite spetta a me,” le rispose, cercando di tenere un tono di voce il più possibile neutro.

 

“Sta ancora a Milano con quella?”

 

“Sì, dovrebbero rientrare stasera,” le spiegò, e la voce si incrinò al solo pensiero di doverlo affrontare.

 

“Farebbero meglio a sparire e non farsi più vedere!” sibilò invece Valentina, con un tono quasi degno di lei, “vuoi che venga lì? O venire tu qua?”

 

“Voglio solo stare da sola, Valentì. Te l’ho già detto, non ti devi preoccupare,” ribadì, mentre non poteva fare a meno di pensare che tanto non sarebbe cambiato niente: o lì o da Valentina tutto le avrebbe comunque ricordato di Calogiuri, quindi tanto valeva, “pensa a te stessa, all’università ed alle tue di relazioni, che ci manca che i ruoli si ribaltino.”

 

“Ti ho già detto che ti preferisco quando sei umana, mamma. Non serve fare la recita con me.”

 

“Insomma, mi preferisci quando soffro?” ironizzò, ed il sospiro le arrivò nitido pur al telefono.

 

“Ti voglio bene.”

 

Le lacrime se ne erano definitivamente scappate fuori e chi le fermava più. Tre parole a cui non era più abituata.

 

“Ti voglio bene pure io, Valentì. E ti ringrazio per la preoccupazione e soprattutto per non avermi detto te l’avevo detto!

 

Mise giù, prima che Valentina potesse rispondere: meglio non tentare troppo la sorte in quel giorno.

 

Ma il telefono riprese a trillare, che per poco non l’assordava.

 

Pietro

 

La nausea tornò prepotente: non era pronta ad affrontarlo perché lui, quasi sicuramente, non si sarebbe risparmiato con le frecciatine.

 

Respinse la telefonata e spense il telefono, lasciandosi cadere sul cuscino.

 

Per almeno qualche ora voleva solo il silenzio.

 

*********************************************************************************************************

 

“Che c’è?”

 

Irene doveva aver letto il terrore nel suo sguardo alla vista di quel nome.

 

Valentina

 

Non poteva non risponderle, ma sapeva già che non sarebbe stata una telefonata piacevole, anzi.

 

“Pro- pronto?” domandò, un po’ esitante, venendo subito travolto da un muro di decibel che neanche in discoteca.

 

“Sei uno stronzo! Bastardo! Ti avevo pure dato la mia fiducia! Ma sei uno di quelli che fa tutto il finto santo e poi invece… sei uno stronzo!”

 

“Valentina, non è successo quello che credi,” cercò di spiegarle, inserendosi nella sfilza di insulti.

 

“Quindi io e tutta Italia stiamo avendo allucinazioni visive su internet?”

 

Il sarcasmo di Imma. Pure nel panico, non poteva non sciogliersi al solo sentirlo.

 

“No, Valentina ma… era solamente lavoro, veramente, non… non tradirei mai tua madre. Mi… mi fa male solo a dirlo,” spiegò, la voce che gli cedeva, sperando che lei capisse e gli credesse.

 

“Lavoro? Quindi tra i compiti dei carabinieri adesso c’è anche infilare la lingua in gola a tutte le PM? Mi pare una novità!”

 

“No, no, era un bacio finto, ci siamo appena sfiorati. Non posso spiegarti nel dettaglio al telefono, ma se vuoi in privato-”

 

“Tu non hai capito che se ti becco di persona, altro che cantare nelle voci bianche!” lo interruppe, con un tono che gli fece capire che non scherzava affatto.

 

“Lo capisco che sei arrabbiata, Valentina, e… e mi sento uno schifo per tutto il dolore che sto dando a te e… e soprattutto a tua madre. Ma io la amo tantissimo e non farei mai niente che possa farle del male, non volontariamente, almeno.”

 

“Fai bene a sentirti uno schifo! E per il resto non contano le parole ma i fatti.”

 

“Hai… hai sentito tua madre? Sto provando a chiamarla da un po’ ma… mette sempre giù e sono molto preoccupato di come possa stare.”

 

“Dovresti più preoccuparti di come potrai stare tu e mamma vuole soltanto essere lasciata in pace.”

 

“Non posso lasciarla in pace, perché devo dimostrarle di non averla tradita, Valentina,” rispose, sperando, nonostante tutto, di riuscire a farsi credere.

 

“Se non ne hai le prove, e pure schiaccianti, tanti auguri!” ribattè, sarcastica, e Calogiuri sapeva che, conoscendo Imma, tutti i torti non li aveva, “e se veramente tu non l’avessi tradita, sarà meglio che fai di tutto e di più per spiegarglielo e per evitarle non solo di stare male ma pure l’umiliazione pubblica che le stanno dando e che le daranno.”

 

La telefonata si interruppe ma forse aveva una flebile speranza: era solo un se, al momento, ma forse avrebbe convinto Valentina, prima o poi.

 

Anche se la cosa più importante era che gli credesse Imma.

 

*********************************************************************************************************

 

“Salite, in fretta!”

 

Mancini aveva parcheggiato con la sua auto proprio all’uscita di Termini, in seconda fila pure - anche se era in buona compagnia - e non aveva perso mezzo secondo ad intimare loro di muoversi.

 

Calogiuri inserì rapidamente le valigie sua e di Irene nel bagagliaio e poi si infilò di corsa nel sedile posteriore. Irene era già seduta su quello del passeggero.

 

Mancini sgommò via, che per poco non finiva contro al sedile e ci lasciava il naso. Si allacciò la cintura, pregando di non lasciarci pure le penne.

 

“Ho fissato la conferenza stampa per le venti. Dobbiamo concordare su cosa dire e non dire. Vi porto subito in procura.”

 

Sapeva che contestare qualsiasi cosa al procuratore capo in quella condizione sarebbe stato più deleterio del solito, ma mancavano quasi tre ore e c’era una cosa che non poteva rimandare.

 

“Dottore, secondo me basta dire la verità, senza entrare nei dettagli dell’indagine, anche se lascio ovviamente a voi le valutazioni da fare. Ma… prima vorrei dirla ad Imma la verità. Non ci metterò molto e poi verrò in procura a piedi, il più rapidamente possibile.”

 

“Maresciallo, forse non mi ha capito. Non sono il suo autista, anzi, sono un suo superiore e dove andiamo lo decido io, visto che siete entrambi ancora in orario di servizio. Dovrebbe ringraziarmi che sto cercando di salvarvi la faccia e salvare la faccia della procura, dopo tutto quello che avete combinato!”

 

“Dottore, anch’io per primo voglio tutelare la procura ed il maxiprocesso, ci tengo tantissimo, veramente, ma prima di tutto devo tutelare Imma. Non voglio che abbia una spiegazione da una conferenza stampa. Almeno questo glielo devo.”

 

“Beh poteva pure pensarci prima, Calogiuri, a darle la spiegazione e magari a darla pure a me,” sottolineò Mancini, durissimo, gesticolando in un modo che gli fece temere potesse perdere il controllo del veicolo.


“Volevo parlare ad Imma di persona, guardandola negli occhi, lo avrei fatto stasera stessa, indipendentemente da quelle foto,” rispose, la pazienza che cominciava ad esaurirsi di fronte al tono e all’insistenza del procuratore, manco dovessero metterci tre ore per concordare una conferenza stampa con delle domande comunque imprevedibili, “o non sarà che tutta questa vostra insistenza sull’andare in procura subito deriva dal fatto che non aspettate altro che io ed Imma ci lasciamo, e sapete benissimo che Imma lo prenderebbe come un ulteriore tradimento da parte mia? Se davvero ci tenete al bene di Imma-”

 

I freni stridirono e si trovò proiettato in avanti mentre la macchina inchiodava. Per fortuna aveva le cinture, anche se gli fecero male al petto.

 

Sentì un clic metallico: Mancini si era tolto la cintura e si trovò abbrancato per il maglione, il procuratore capo che si era quasi arrampicato oltre il sedile per raggiungerlo.

 

Aveva gli occhi che erano una fessura, dietro gli occhiali. Non l’aveva mai visto tanto incazzato, nemmeno con lui.

 

“Di sicuro al bene di Imma ci tengo più di lei, maresciallo, visto tutto quello che ha combinato! E non mi faccio dare lezioni da un ragazzino incosciente ed irresponsabile! Da quando conosco la dottoressa Tataranni, non ha fatto altro che metterla in situazioni che possono comprometterle la carriera e farla stare male.”

 

Ma come si permetteva?!

 

Una furia cieca lo invase, la stessa che quasi lo aveva portato a menare quel maiale di Romaniello.

 

Allungò le mani per afferrarlo a sua volta per il bavero, quando qualcosa picchiò contro le braccia sue e di Mancini, frapponendosi tra loro.

 

“Ma siete scemi?!” gridò Irene, il busto tra il suo e quello del procuratore capo, “ci manca che escano queste di foto sui giornali e poi altro che conferenza stampa! O che vi presentiate pieni di lividi dopo esservi presi a sganassoni.”

 

Gli finì tutto il sangue al viso, mentre ringraziava il cielo che lo avesse fermato per tempo, prima di perdere pure il posto di lavoro.

 

“Giorgio, porta Calogiuri a casa. Nel tempo che stiamo qui a discutere poteva già essersi chiarito con Imma e ci serve che sia concentrato alla conferenza stampa, lucido, e così non lo potrebbe essere.”

 

Vide l’espressione di Mancini, tra l’imbarazzato e lo sbigottito.

 

Ma poi annuì, riallacciò la cintura e si rimise al volante.

 

*********************************************************************************************************

 

Buio.

 

Era completamente buio.

 

Silenzio.

 

Sembrava quasi surreale, non si sentiva volare una mosca.

 

Surreale, rispetto al caos che c’era di solito quando rientrava e che tanto amava, con lei che stava appostata sul divano o, a volte, vicino alla porta, per prenderlo di sorpresa.

 

“Imma?!” chiamò, accendendo le luci, ma non ebbe alcuna risposta.

 

La chiamò un’altra volta ma ancora niente.

 

Eppure il cappotto era appeso all’ingresso e c’era la sua borsa leopardata da lavoro buttata subito sotto.

 

Si avviò verso la stanza da letto, provò ad aprirla ma la trovò chiusa a chiave.

 

“Imma? Imma?!” la chiamò, bussando sul legno, preoccupato, “Imma, lo so che sarai furiosa ma… fammi almeno un cenno, che non ti sei sentita male, se no devo sfondare la porta.”

 

“Se ci provi ti denuncio!”

 

Un sibilo, durissimo, nonostante fosse attutito dalla barriera tra di loro.

 

Al sollievo per il fatto che fosse cosciente, si sommò un’ondata di dolore per quello che percepiva nella voce di lei.

 

Era roca come raramente l’aveva mai sentita, solamente dopo aver pianto tanto.

 

Fu come una lama dritta al cuore, che si torceva tra il senso di colpa e l’insultarsi da solo per aver contribuito a ridurla così.

 

“Imma, ti devo spiegare: è stato tutto un equivoco. Mancini ha fissato una conferenza stampa per le venti, per parlarne ma… volevo chiarirmi prima con te, raccontarti cosa è successo.”

 

“E cosa mi devi raccontare, eh? Come ti sei limonato - e chissà che altro! - la tua cara amica Irene? Ma che mi prendi per scema?! Quelle foto sono chiarissime e non c’ho proprio nessuna voglia, nessuna, di sentirmi raccontare altre fandonie da te.”

 

“Ma Imma-”

 

“Parlane con chi vuoi: con la stampa, vai in televisione, parlane pure con il papa o padreterno, se ci credi, ma lasciami in pace!”

 

Oltre alla durezza nella voce c’era un cinismo ed una disillusione che gli facevano malissimo. Forse era dalla sera in cui le aveva raccontato una palla per incontrare Valentina in segreto e c’era stata quella sparatoria che non la sentiva così.

 

Se mai l’aveva sentita così.

 

“Imma, ti prego, apri questa porta e lasciami spiegare, guardandoti in faccia. Se poi quello che ti dico non ti starà bene me la puoi pure spaccare la faccia. Per favore.”

 

“Non puoi proprio chiedermi nessun favore, maresciallo,” ribattè, usando il suo titolo come un insulto, come faceva quando era veramente furiosa, “non ti voglio vedere, mi dai il voltastomaco!”

 

Altro che spaccare la faccia! Fu un gancio netto e preciso, di quelli da knockout.

 

Avrebbe voluto guardarla negli occhi per capirla e farsi capire: da sempre comunicavano meglio con gli sguardi che con le parole.

 

Ma sapeva ormai con certezza che quella porta non si sarebbe aperta a breve.

 

“Imma, lo so che suona malissimo, ma non è come pensi: è stato un bacio finto, per lavoro e-”

 

“Non mi pare che l’esplorazione del cavo orale delle colleghe sia uno dei tuoi compiti. A meno che tu sia diventato un dentista!”

 

Nonostante la paura, anzi, il terrore che aveva di perderla, non riuscì a trattenere un sorriso: lei e Valentina si somigliavano davvero tantissimo, era incredibile!

 

“Stavamo pedinando Villari e ci ha visti che lo fotografavamo. Irene mi ha baciato per copertura.”

 

“Sì, si dice così mo. Altro che copertura! A parte che c’erano mille altre cose che potevate fare e che dovreste avere imparato entrambi al corso da carabinieri, ma tu potevi pure rifiutarti ed inventarti qualcos’altro.”

 

“Non ce n’è stato il tempo: è successo tutto in pochi secondi, mi devi credere.”

 

“Ah sì? In pochi secondi sono riusciti a scattarvi più foto in posizioni diverse? E pure il camminare avvinghiati è successo in pochi secondi?!”

 

“No, quello no, ma era solo per levarci di lì, veramente: a quel punto dovevamo proseguire con la recita.”

 

“Metodo Stanislavskji, immagino, visto che la recita mi pare sia proseguita pure molte ore dopo, fino in sauna. Che immedesimazione, complimenti! E tu non mi hai detto niente! Chiaro sintomo che c’avevi una coda di paglia lunga come la Salerno - Reggio Calabria!”

 

Nonostante la durezza ed il sarcasmo, il fatto che Imma, pure con una porta di mezzo, alla fine stesse litigando con lui, era già più di quanto avrebbe osato sperare, conoscendola.

 

“Veramente ti ho detto che era successo qualcosa durante il pedinamento, ma che volevo parlartene di persona e l’avrei fatto stasera se-”

 

La porta si spalancò, di botto, tanto che per poco non le cadde addosso, visto che ci si era appoggiato contro.

 

Il sollievo durò giusto un secondo, perché Imma lo fulminò con due occhi rossi di pianto e tanto dilatati da apparire quasi neri, spingendolo indietro con una forza sorprendente.

 

Qualcosa?! Limonarti un’altra me lo chiami qualcosa?!” gli urlò contro e Calogiuri capì che non solo non si era calmata, ma che anzi era ancora più fuori di sé e proprio per quel motivo era uscita, per affrontarlo di persona.

 

“No, ma non c’è stato… insomma… è stato un bacio finto, ci siamo appena sfiorati le labbra e-”

 

“E non voglio sapere i dettagli, grazie!” gli soffiò contro, ricordandogli quel non voglio sapere altro!, di quando le aveva dovuto confessare di Lolita, “e dalle foto non mi pare proprio, anzi!”

 

“Se le guardi bene, vedrai che sono a disagio. Mi conosci, Imma, e-”

 

“Veramente a me sembravi solamente sorpreso, con quell’espressione da pesce lesso che c’avevi pure quando ti baciai io per la prima volta. E sappiamo bene come è andata a finire, no? Mo proprio nel senso letterale del termine.”

 

Il solo accenno alla fine fu un secondo schiaffo, ancora peggiore del primo. Il panico lo stava soffocando.

 

“Imma… n-non… ero sorpreso e a disagio ma per motivi diversi che con te, completamente! Se guardi le foto io nemmeno l’ho sfiorata, te lo giuro, mentre con te… subito dopo… altro che starmene fermo! E lo sai pure tu. Se fosse successo di più, i giornalisti avrebbero scelto quelle foto, visto che scelgono sempre le più compromettenti.”

 

Imma si bloccò per un attimo, sorpresa, poi scosse il capo ed alzò gli occhi al soffitto.

 

Lui ne approfittò per estrarre il cellulare ed aprire l’articolo, “guarda, è come ti ho detto!”

 

Imma lo fulminò con lo sguardo e poi scosse di nuovo la testa, “non so se sei più coraggioso o più scemo a mostrarmi di nuovo questo… questo schifo!”

 

Ed improvvisamente, Calogiuri notò un dettaglio, un piccolo dettaglio che, preso dalla disperazione, non aveva nemmeno visto.

 

“Ho il telefono in mano!”

 

“E grazie al cavolo! Gli occhi ce li ho, e pure il cervello funzionante, e-”

 

“No, non mo, nella foto. Ho il telefono come se io e… ed Irene ci stessimo scattando un selfie, ma in realtà stavamo facendo foto a Villari, come ti ho detto. Ma secondo te, se io mai… se io mai volessi tradirti, sarei così scemo da scattarmi una foto mentre lo faccio? Con il mio cellulare oltretutto?”

 

Imma di nuovo rimase come ammutolita ed una flebile speranza si fece largo in lui.

 

“Puoi controllare tutte le foto e-”

 

“E l’avrai già cancellata, in caso, se non sei proprio scemo, Calogiuri.”

 

Lo aveva chiamato Calogiuri. Forse c’era veramente qualche possibilità che gli credesse.

 

Fece scorrere tutte le immagini sul suo cellulare ed arrivò a quelle di Villari.

 

“Stavamo scattando queste. Puoi confrontare il giorno e l’ora con quelle inviate ai giornali e-”

 

“E sono foto digitali, Calogiuri, non c’è alcuna prova certa di data e ora e-”

 

“Ma l’angolo di Milano è lo stesso, puoi verificare,” replicò, sembrandogli stranamente di stare in procura a discutere di un caso, e poi la implorò, guardandola negli occhi, “Imma, tu mi conosci, ma pensi davvero che… che io sarei capace di tradirti in questo modo?”


La vide esitare e c’era un qualcosa nello sguardo, qualcosa di lievemente più dolce rispetto a prima.

 

“Puoi verificare, puoi chiedere conferma pure a Irene e-”

 

Capì dall’occhiataccia di lei, che poteva uccidere, di avere appena commesso un enorme passo falso.

 

“Secondo te io mi abbasserei a fare gli interrogatori alla cara Irene?” sibilò, nera, “e comunque mi avresti dovuto dire subito tutto, non mo, se veramente… non aveva significato niente per te.”

 

“Ma non ha significato niente! Ma non potevo parlare di dettagli sensibili del caso al telefono, me lo hai insegnato tu!”

 

“Non dovevi spiegarmi per filo e per segno tutti i particolari dell’inseguimento, Calogiuri, solo che c’era stato questo… bacio. E dai!”

 

Lo guardava fisso, con le braccia incrociate al petto.

 

Sospirò, perché forse tutti i torti non li aveva.

 

“Lo so, ma… temevo la tua reazione, Imma, che fraintendessi, e volevo parlartene di persona, guardandoti negli occhi, per farti capire che non c’era niente di cui preoccuparsi, veramente.”

 

“Guardandomi negli occhi?! Ma se mi hai garantito, guardandomi negli occhi, anche se in video, dopo che c’era già stato questo bacio, che Irene non fosse interessata a te e ci sei pure andato in sauna, mezzi nudi! E sei tornato come sei tornato che... lasciamo perdere!”

 

“Lo so, ma… dopo il bacio, effettivamente, pure io mi sono sentito… a disagio e… ho pensato di allontanarmi e di mettere i famosi paletti. Solo che… Irene mi ha raccontato, pregandomi di non dirlo a nessuno, di… di essere bisessuale e che negli ultimi anni è stata solo con donne. E allora… diciamo che mi sono rassicurato che non fosse interessata a me.”

 

Imma spalancò gli occhi ma poi scosse di nuovo il capo, una mano sulla fronte.

 

“Calogiuri, ma qual è il tuo problema?” domandò, con un tono esasperato, “va bene che sul latino non sei molto ferrato, ma almeno che cosa significhi bi dovrebbe esserti chiaro, spero! E comunque non oso nemmeno immaginare come siate arrivati ad un argomento del genere!”

 

“Per una battuta dello stilista amico di Irene che ci ha offerto lo champagne e-”

 

“E comunque poi, nel giro di mezz’ora in sauna, improvvisamente il significato di bi ti è stato chiaro, dopo mesi e mesi e mesi nei quali sostenevi che la cara Irene ancora un po’ ti vedeva come il suo fratellino. Che cosa ha provocato questa miracolosa conversione, che neanche San Paolo sulla via per Damasco?”

 

Lo stava fissando in un modo che avrebbe colto ogni sua esitazione, seppur minima. E la verità era che gli mancavano le parole per spiegare, perché già sapeva che si sarebbe incazzata ancora di più.

 

E come non capirla.

 

“Quando… quando abbiamo finito la sauna e ci siamo alzati in piedi… Irene ha avuto… un calo di pressione e… stava cadendo. Io l’ho presa al volo ma… mi è caduta addosso e… siamo finiti a terra e... me la sono trovata addosso… mezza nuda.”

 

“Mezza nuda?! Intendi in costume o…”

 

Il tono era quello degli interrogatori, del momento decisivo nel quale stava per inchiodare un sospettato e… e Calogiuri si sentiva proprio così: inchiodato al muro, in trappola.

 

“Sì, ma…” la voce gli si ruppe, si sentiva il viso bollente per la vergogna, la paura che gli contorceva le viscere, “le è… le è uscito il seno.”

 

“Che cosa?!” gridò Imma e si trovò di nuovo spintonato all’indietro, e mo era inchiodato al muro non solo metaforicamente ma pure letteralmente, “cioè te la sei trovata spalmata addosso praticamente nuda, con tutto di fuori?”

 

“S-sì… era caduta sopra di me e quindi-”

 

“Certo che tu sulle cadute fortuite sei un esperto, Calogiuri! Pure con me, no?!”

 

“Credo che Irene non si sentisse veramente bene e… e forse non è stato niente ma… ma mi è rimasta addosso forse un po’ troppo a lungo e… e poi, quando l’ho riaccompagnata in camera, mi ha accarezzato il viso e mi ha dato un bacio quasi sulle labbra, cioè, all’angolo della bocca, dicendomi che, a differenza che con gli altri uomini, di me si poteva fidare al cento percento e quindi-”

 

Lei forse si può fidare al cento percento, io per niente!” gli urlò contro e, al di là dell’incazzatura, aveva gli occhi che le si facevano lucidi.


Si sentì uno schifo.

 

“Ma mi sono allontanato subito e-”

 

Subito?! Per il subito sei in ritardo di quasi due anni!”

 

“Stamattina a colazione le ho detto chiaramente che volevo… che lei da ora in poi tenesse le distanze, fisicamente, e che evitassimo alcune attività, per rispetto a te e perché mi sentivo a disagio. Ho messo i famosi paletti, e questo prima che sapessi delle foto e-”

 

“E grazie al cazzo! Letteralmente!” esclamò, sardonica, “ancora un po’ che aspettavi a piantarli questi maledetti paletti, ci mancava solo che lei, sempre per caso, ti cadesse addosso altrove, nudi, e poi sai com’è, che tu mica ti potevi spostare, ed avevate fatto tutto!”

 

Il calore alle guance non fece che peggiorare, mentre si sentiva uno schifo, il terrore che ormai gli faceva male al cuore, “Imma, non lo farei mai, mi devi credere! Non ti tradirei mai, io-”

 

“Dipende da cosa intendi con tradimento, Calogiuri. Magari con la cara Irene non ci avrai fatto…. sesso,” sputò fuori, la voce che le si incrinò leggermente, “ma ti sei comunque lasciato spupazzare per bene, le hai permesso di avvicinarsi quasi in ogni modo possibile, in continuazione, le hai permesso di prendersi libertà che un’amica mai avrebbe dovuto prendersi, soprattutto se uno è impegnato. Ti eri incazzato con me perché non avevo fermato Mancini dopo qualche complimento ed UN tentativo di bacio, mai andato in porto, mentre tu ti strusci sulla gattamorta e va tutto bene?! Dimmi almeno la verità, che te la sei goduta tutta questa ambiguità, tutte queste attenzioni, fino a che hai potuto!”

 

Fu l’ennesimo schiaffo, per quanto meritato, e non riuscì a trattenere le lacrime che gli bruciavano gli occhi, “n-non è vero! Io-”

 

“Non è vero, eh?! E quindi mi puoi giurare, guardandomi negli occhi, che la cara Irene non ti attrae e non ti fa nessun effetto?!”

 

Ebbe solo un attimo di esitazione, il viso ancora in fiamme, perché quando gli si era strusciata contro qualcosa lo aveva sentito.

 

Bastò quello ed il viso di Imma si trasfigurò in una maschera di rabbia.

 

E, nel giro di un secondo, Imma arretrò e, prima che potesse raggiungerla, si trovò di nuovo la porta chiusa in faccia, che per un millimetro non ci finì addosso.

 

“Imma! Non in quel senso! Irene… è… è una bella donna ma non è per me e-”

 

“Come non lo era Matarazzo prima che ci finissi a letto?!”

 

“Ma nonostante fossi mezzo ubriaco e mezzo nudo non ho fatto niente con Irene, pure se me la sono trovata addosso mezza nuda che… è chiaro che un poco di effetto me lo può fare. Ma non è minimamente paragonabile a quello che provo per te e certe cose desidero farle solo con te, veramente.”

 

“Peccato che io mo abbia tutto tranne che il desiderio di farle con te e che, se qualcuno mi finisse addosso mezzo nudo, l’unico effetto che mi farebbe sarebbe l’istinto di tirargli un bel calcio dove lo avrei dovuto tirare pure a te, già dai tempi di Matera, probabilmente!”

 

“Imma, io-”

 

“Imma un corno! Vattene dalla tua cara Irene a farvi la vostra bella conferenza stampa e lasciami in pace: non ti voglio né vedere né sentire!”

 

“Imma, ma io non-”

 

“Se sai cosa è meglio per te e pure per me, mo mi lasci in pace, Calogiuri.”

 

“Imma, ti prego! Io amo solo te e… mi dispiace di averti ferita ma non volevo farlo, veramente e-”

 

“Come la cara Irene che non voleva caderti addosso mezza nuda. Proprio bene hai imparato, complimenti! Vattene e lasciami in pace, o devo chiamarla veramente la polizia?”

 

Era serissima, almeno su quest’ultimo punto. Si sentiva impotente, le lacrime che gli allagavano il viso, la gola ed il naso.

 

Non poteva finire così!

 

“Imma ma… ma come faccio… con i vestiti e… con tutto il resto?” provò almeno a ragionare, perché sapeva che in quel momento era inutile insistere.

 

“C’hai quelli usati nel weekend a Milano, se la gattamorta non te li ha strappati tutti di dosso. Per qualche giorno ti basteranno e sicuramente non vedrà l’ora di ospitarti.”

 

“Non andrei mai a dormire da lei, Imma, e mi fa male che tu possa anche solo pensarlo!”

 

“Meglio che tu non sappia esattamente cosa sto pensando di te in questo momento, Calogiuri!” lo colpì nuovamente, mandandolo ancora di più nel panico, “vai dove vuoi, fai quello che ti pare, ma non voglio trovarti qui quando esco da questa camera!”

 

Rassegnato, con un macigno sul cuore, Calogiuri fece l’unica cosa che poteva fare.

 

Prese il borsone, recuperò il cappotto ed uscì da quella che ormai per lui era casa ma che temeva davvero, mai come prima, che non avrebbe più potuto considerare tale.


Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo quarantaseiesimo capitolo. Non è stato facilissimo da scrivere, soprattutto la scena finale di Imma e Calogiuri, quindi è leggermente più corto del solito.

Che succederà alla conferenza stampa? Dove finirà a dormire Calogiuri? Imma potrà perdonarlo? Come reagiranno altri personaggi molto attesi alla scoperta del presunto tradimento del maresciallo ed alle giustificazioni pubbliche che dovranno dare? Nel frattempo il giallo procederà e arriveremo alla fine del caso Spaziani, finalmente.

Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento e che la storia continui a mantenersi interessante.

Vi ringrazio tantissimo per le vostre recensioni: sono veramente uno stimolo enorme a cercare di migliorare sempre e adoro discutere di questa storia e di questi personaggi che tanto amiamo con voi, in attesa della seconda stagione.

Un ringraziamento a chi ha messo la mia storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo arriverà tra due settimane, domenica 25 ottobre.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 47
*** La Dignità ***


Nessun Alibi


Capitolo 47 - La Dignità


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Dottoressa, come lo giustifica quel bacio?”


“E lei, maresciallo? Già aveva una relazione con la dottoressa Tataranni, non pensa di stare non solo disonorando la divisa che porta ma anche violando le norme più basilari di condotta sul luogo di lavoro?”

 

“Per favore, silenzio! Avrete tutto il tempo per le domande, prima permettete alla dottoressa e al maresciallo di chiarire quanto successo senza continue interruzioni!”

 

Mancini era intervenuto, deciso, mentre erano sepolti dalle grida dei giornalisti.


Guardò verso Irene e lei gli fece un cenno del capo che era un parlo io! ed iniziò a spiegare.

 

“Il maresciallo ed io eravamo a Milano per motivi di lavoro e, quando sono state scattate quelle foto, stavamo facendo un appostamento. La persona che seguivamo ci ha notati e ho preso l’iniziativa di baciare il maresciallo, per fingere di essere una normale coppia in giro per la città. Purtroppo però un fotografo evidentemente ci stava pedinando e, con la pubblicazione di queste foto, rischia di compromettere un’indagine ed un’operazione di polizia e-”

 

“E da quando i magistrati fanno gli appostamenti?” intervenne un giornalista, con chiaro sarcasmo.


“Da quando non possiamo mandare mezza procura in trasferta e si cerca di tutelare il più possibile la riservatezza su casi particolarmente delicati. Peraltro chi mi conosce sa che ho fatto l’addestramento da carabiniere prima di decidere di entrare in magistratura, quindi sono più che qualificata per farlo.”

 

“E quindi il corso da carabinieri insegna a baciarsi con i colleghi in caso di appostamenti?” chiese una donna sulla quarantina, un’espressione scettica assurdamente simile a quella di Imma.

 

“No, ma insegna a ragionare in fretta e questa era l’unica soluzione praticabile in quell’occasione. Si hanno pochi attimi per decidere il da farsi e non potevamo certo immaginare che si sarebbe scatenato tutto questo putiferio per un bacio, peraltro finto, durante un’operazione di servizio.”

 

“Ed era un’operazione di servizio o un appostamento pure quello alla Scala di Milano? Sono appena uscite foto vostre anche lì.”

 

Calogiuri sudò freddo mentre Mancini lanciò un’occhiataccia sia a lui che a lei.

 

“No, eravamo due colleghi in trasferta - e, in quel momento, fuori servizio - che vanno a vedersi un’opera a teatro, in amicizia. Alla Scala ci vado da quando ero bambina e volevo far vivere questa esperienza ad un amico, per una volta che eravamo nella mia città natale. Non vedo cosa ci sia di male.”

 

Irene era asciutta, decisa, in apparenza imperturbabile.

 

Era una cosa che le invidiava moltissimo, questo sangue freddo incredibile non solo nell’azione ma anche sotto un fuoco di fila di domande.

 

“Ed avrebbe pagato lei o il collega? Perché la Scala con lo stipendio di un maresciallo dei carabinieri….” intervenne il primo giornalista, dispregiativo ed insinuante.

 

“A parte che è di pessimo gusto fare i conti in tasca a me o al maresciallo, e che non capisco a cosa possa servire, se abbiamo speso soldi nostri e non pubblici, ma questa domanda denota soltanto il sessismo di chi la fa. Se io fossi stato un magistrato uomo, più grande d’età, e quindi con mezzi maggiori rispetto ad un maresciallo donna, qualcuno mi avrebbe mai chiesto una cosa simile? O sarebbe sembrato strano il contrario?”

 

L’ometto rimase un attimo interdetto, ma la soddisfazione ed il sollievo che provò morirono rapidamente quando la giornalista lo chiamò “maresciallo!” e poi con la delicatezza tipica della categoria professionale, gli domandò a bruciapelo, “come pensa di fare con la dottoressa Tataranni, che immaginiamo non sia felice delle immagini che sono uscite? Che ne pensa la dottoressa Tataranni di questo triangolo in procura? Anche in vista del maxiprocesso, che ricomincerà a breve.”

 

Irene lo guardò e pure Mancini gli lanciò un’altra occhiataccia. Vide che il procuratore capo stava per intervenire per togliergli le castagne dal fuoco, ma proprio questo lo fece decidere a parlare.

 

“Non posso parlare a nome della dottoressa Tataranni ma posso dire che non c’è proprio nessun triangolo e che né io né la dottoressa ci faremmo mai influenzare da vicende private sul lavoro. Ovviamente, né io né la dottoressa possiamo essere felici degli articoli che sono usciti, visti i titoli ed il clima quasi persecutorio nei nostri confronti negli ultimi mesi, con giornalisti in agguato ovunque, rischiando di compromettere seriamente il nostro lavoro, al di là della nostra vita privata. Ma la dottoressa mi conosce e spero sappia che non la tradirei mai, in nessun senso del termine, anche perché è l’unica donna che io abbia mai amato davvero e per me nessun’altra è e sarà mai paragonabile a lei.”

 

Sperava che Imma lo stesse vedendo e che capisse il messaggio. Un paio di giornaliste presenti sembrarono addolcire gli sguardi alla dichiarazione. Quella che aveva fatto la domanda, invece, parve ancora più scettica. Si voltò verso Irene, che però sembrava sempre non scomporsi minimamente, Mancini, al contrario, pareva a disagio.

 

“Dottor Mancini, che provvedimenti pensa di prendere nei confronti di questi… legami poco appropriati tra suoi sottoposti?” gli chiese il primo giornalista, palesemente per nulla convinto dal suo proclama di amore per Imma.

 

“Nessun provvedimento disciplinare mi pare necessario. La dottoressa Tataranni ed il maresciallo Calogiuri, che sono gli unici ad avere una relazione… extralavorativa… già da mesi collaborano insieme solo al maxiprocesso, che non fa comunque più capo alla dottoressa Tataranni. Per il resto gestiscono casi separati, proprio per evitare possibili spiacevoli fraintendimenti o dubbi etici, che comunque non dovrebbero sussistere. Tra la dottoressa Ferrari ed il maresciallo c’è semplicemente un’ottima intesa professionale, che ci sta consentendo di raggiungere risultati importanti. Inoltre conosco la dottoressa Ferrari da molti anni e, oltre al suo curriculum, che è sotto gli occhi di tutti, so bene quanto non abbia paura di entrare in azione quando serve. Ed è uno dei suoi punti di forza che le ha permesso di diventare la professionista che è. Quindi la sua iniziativa a Milano non mi sorprende affatto. Ci sono altre domande?”

 

I giornalisti sembravano un poco intimoriti dalla presenza di Mancini e dalla sua decisione. Calogiuri si chiese se sarebbe mai stato in grado di avere un’autorevolezza anche solo paragonabile.

 

A volte nei confronti del procuratore capo si sentiva veramente piccolo, ignorante ed insignificante.

 

Forse era anche per questo che lo infastidiva così tanto con i suoi atteggiamenti verso Imma.

 

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Ma la dottoressa mi conosce e spero sappia che non la tradirei mai, in nessun senso del termine, anche perché è l’unica donna che io abbia mai amato davvero e per me nessun’altra è e sarà mai paragonabile a lei.

 

Una fitta al petto, inevitabile. Forse per quelle parole, forse per il modo deciso in cui erano state pronunciate - da uno timido e riservato come Calogiuri, poi! - forse perché, per fortuna, non aveva dato ai giornalisti la soddisfazione di sapere quanto lei fosse stata ferita da quello che era successo.

 

Ma lo restava, ferita, profondamente.

 

Ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva le immagini di quel bacio, vero o finto che fosse, e mo si immaginava pure Calogiuri a terra con la gattamorta spalmata sopra, nuda.

 

La fitta questa volta fu di rabbia e gelosia.


Spense la tv di scatto, che tanto Mancini, col suo solito savoir-faire, aveva azzittito i giornalisti.

 

Menomale che almeno su di lui poteva sempre contare.

 

Ma, purtroppo per lei, era di un altro che era innamorata, era un altro che le faceva sanguinare il cuore come mai prima, anche se era tanto più giovane e a volte lo sembrava ancora di più, con quella sua maledetta e benedetta ingenuità.

 

Che però, in certi casi, le pareva quasi un alibi. Come con la gattamorta ed i suoi avvicinamenti, che persino un bambino li avrebbe capiti.

 

Si era, per la prima volta, chiesta se Calogiuri ci era o ci faceva.

 

In ogni caso Calogiuri si doveva svegliare o… o la loro storia non poteva avere un futuro: non poteva passare la vita a guardarsi le spalle da altre donne, a dover ingoiare l’orgoglio di fronte alle espressioni, alle parole e ai gesti di gente come la cara Irene. A subirne le umiliazioni.

 

Calogiuri avrebbe dovuto imparare la lezione o… o lei avrebbe dovuto imparare a vivere senza di lui, anche se le faceva male.

 

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“Come mai il borsone?”

 

“Chiederò a Mariani di accompagnarmi in caserma.”

 

Irene lo guardò con un sopracciglio alzato: non era una risposta e lo sapeva, ma c’era anche Mancini, che non sembrava affatto dispiaciuto alla notizia, e non voleva divulgare più del necessario i fatti suoi e di Imma.

 

Anche perché sperava davvero di poter presto tornare a casa. L’alternativa gli faceva troppo male anche solo a pensarla.

 

“Stia attento con Mariani: non dovete far notare che lei pernotta in caserma, perché questo solleverebbe ulteriori dubbi sul rapporto tra lei e la dottoressa Tataranni e che vi siate lasciati. Vanificando la conferenza stampa.”

 

“Purtroppo per lei non ci siamo lasciati, dottore,” non riuscì a trattenersi dal ribattere, perché Mancini, dietro l’aria dispiaciuta, aveva un’espressione che pareva un mezzo sorriso, forse inconscio, ma che gli dava tremendamente sui nervi, “ma volevo lasciare ad Imma i suoi spazi, mentre le dimostrerò la mia buonafede.”

 

Mancini lo guardò come se fosse un insetto fastidioso, poi scosse il capo e disse alla Ferrari, “Irene, vieni nel mio ufficio? Dobbiamo finire di sistemare le ultime cose.”

 

Irene annuì e, dopo avergli lanciato un ultimo sguardo che gli parve preoccupato, seguì il  procuratore capo.

 

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Sono in caserma. Dormirò qui. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, il telefono è sempre acceso.

 

Premette il pulsante di invio e si rese conto che quello di lei, invece, doveva essere ancora staccato.

 

Il messaggio non era stato nemmeno ricevuto.

 

O l’aveva bloccato, come quella volta che era venuta a cercarlo a Roma e aveva pensato che lui convivesse con una donna che aveva una figlia.

 

Almeno stavolta lo aveva lasciato spiegare ma… ma non era bastato e adesso doveva capire come fare a farsi perdonare e, soprattutto, a rassicurarla su di lui ed Irene e sul fatto che, da quel momento in poi, avrebbe mantenuto sempre le distanze di sicurezza.

 

Con lei e con tutte le altre.

 

Il suono di qualcuno che bussava alla porta, forte e deciso, interruppe i suoi pensieri.

 

Chiedendosi se Mariani si fosse dimenticata di qualcosa, andò ad aprire e si trovò di fronte Conti.

 

“Ciao! Mariani ti ha detto che dormo qu-?”

 

La parola ed il fiato gli si tranciarono, trovandosi violentemente spinto all’indietro.

 

Due impatti: la schiena contro il muro ed una botta tremenda alla guancia, la testa che gli finiva all’indietro, picchiando sulla parete, il cervello che sembrava rimbombargli nel cranio.

 

“Sei un bastardo!” si sentì urlare addosso, mentre veniva quasi sollevato per la camicia, “lo sapevi cosa provo per lei! E te ne sei fregato! Una PM non ti bastava, eh?!”

 

Nonostante fosse ancora sotto shock - come aveva fatto a non prevedere la reazione di Conti? La verità era che, preso da tutto quello che era successo, non ci aveva nemmeno pensato - cercò perlomeno di trattenere le braccia dell’amico, onde evitarsi altri colpi.

 

“Ma non hai visto la conferenza stampa? Tra me e la Ferrari non è successo niente e-”

 

“E non me ne frega niente della scusa ufficiale che vi siete inventati con Mancini! Come se non lo avessi visto come ti guarda! E pure alla Scala ti ha portato, e a cena fuori, e chissà che altro, quando non vi vedeva nessuno! Quello che conta sono i fatti!”

 

“L’unico fatto è che non ho tradito nessuno: né Imma, né te. Non lo farei mai e, se davvero pensi questo di me, allora non mi conosci per niente!” ribatté, riuscendo finalmente a liberarsi dalla sua presa.

 

“Forse sarebbe stato meglio non conoscerti proprio. Stammi alla larga!” intimò Conti, con un’occhiata di disprezzo che gli fece malissimo.
 

Con un boato, la porta si richiuse alle sue spalle.

 

Fece in tempo ad andare allo specchio e vedersi la guancia, rossa su tutto lo zigomo, in quello che si preannunciava come un livido grosso veramente, quando ribussarono alla porta.

 

Temendo di beccarsi il bis di botte, aprì, un po’ esitante, ma si trovò di fronte Mariani, che spalancò gli occhi e la bocca in un modo che la faceva sembrare un pesce.

 

“Ma che hai fatto? Ho sentito le urla, mi sono preoccupata! Ma ti fa male?” gli chiese, in sequenza rapidissima, quasi peggio della signora Diana con Imma, facendolo indietreggiare e chiudendo la porta alle loro spalle.


“Beh… diciamo che non mi fa bene….” rispose, non sapendo che altro dire.

 

“Ma è stato Conti, vero?”

 

Non disse nulla: non voleva metterlo nei guai.


“E dai, Calogiuri, l’ho visto che usciva da qua e vi ho sentiti! Si può sapere che avete combinato?”

 

Si lasciò cadere seduto sul divano, la testa che ancora gli rimbombava, la guancia che pulsava. Chiuse gli occhi per cercare di arginare il male.

 

“Mi odi pure tu?” le domandò, sforzandosi di alzare lo sguardo verso di lei.

 

Per tutta risposta, Mariani si sedette accanto a lui e scosse il capo, sospirando, “ma no che non ti odio! E poi ti conosco: sei un po’ troppo ingenuo ma… se avessi voluto, con la Ferrari avresti potuto averci una storia mesi e mesi fa, con tutte le volte che siete usciti insieme. Ma devi capire Conti: non è facile vedere la persona di cui sei innamorato con un altro, anche se non hai speranza.”

 

“Lo… lo so bene,” sospirò e si sentì trascinare in un mezzo abbraccio, mentre cercava di tenere la testa sollevata il più possibile.

 

“Forse è meglio se non stai troppo nella mia camera, non che si inventino qualcos’altro!” le disse poi, staccandosi da lei.


“Sì, ci manca solo quello! Dai, vado a prenderti un po’ di ghiaccio. Dovrebbe esserci quello secco in infermeria.”

 

Si mise disteso sul letto, la testa che un poco gli girava, quando gli arrivò il suono del suo cellulare, che gli pareva ancora più fastidioso del solito.

 

Si precipitò ad afferrarlo, sperando fosse Imma.

 

Ma no, non era lei. E qualcosa gli diceva che il suo mal di testa sarebbe solo peggiorato.

 

“Ma sei scemo?! Che stai combinando?! Ringrazia che non posso venire lì a prenderti per le ‘recchie di persona!”

 

“Rosa….” sospirò, anche se si sarebbe stupito di una reazione diversa da lei, “non hai visto la conferenza stampa? Non è come-”

 

“Non me ne frega niente della conferenza stampa! Che devo chiamare il tuo agente mo, per parlare con mio fratello? Che devo venire a scoprire le cose da internet?”

 

“No, no, ma non c’è stato il tempo di avvisarti e-”

 

“Il tempo per sbaciucchiarti quella snob con la puzza sotto il naso, che fa la gattamorta, però lo hai trovato, mi pare! Un’altra come Imma tu non la trovi più - e no, non sarebbe una benedizione, come direbbe mammà!

 

“Lo so, lo so, ma-”

 

“C’è mezzo paese che parla di te! Mi hanno mandato messaggi pure le mie compagne delle superiori che non vedevo da una vita. C’è mamma imbufalita per la vergogna e Noemi mi ha appena chiesto cos’è un ciangolo, a furia di sentirglielo ripetere!”

 

“Rosa, non c’è nessun triangolo, veramente: è stato solo un bacio finto. Io amo solo Imma e voglio solo Imma.”


“Eh, tanti auguri! Come l’ha presa? Sarà furiosa mo, conoscendola.”

 

“E va beh… diciamo che-”

 

“Ecco il ghiaccio!”

 

Mariani era rientrata, rapidissima, con in mano la confezione del ghiaccio secco. Si bloccò vedendolo al telefono.

 

“Grazie, Chiara, lascialo pure qua, poi ci penso io.”

 

La vide mimare con la bocca, “è Imma?” ma scosse il capo e rispose, “mia sorella.”

 

“Allora vi lascio, fammi sapere se hai bisogno,” si congedò, chiudendo nuovamente la porta alle sue spalle.

 

“E questa chi sarebbe mo? Non mi pare né la voce di Imma, né quella della Regina Elisabetta dei poveri.”

 

“Una mia collega. Sono in caserma, almeno per stanotte.”

 

“E allora ho capito come l’ha presa Imma! E il ghiaccio per che cos’è? Se ti ha mollato un ceffone ha fatto solo bene!”

 

“Rosa!” esclamò, anche se da un lato gli veniva da sorridere per tutta quella solidarietà femminile. E che Rosa si fosse affezionata tanto ad Imma gli faceva un piacere immenso, nonostante tutto.

 

“Beh, è vero! E se non ti fai perdonare da Imma e soprattutto se osi metterti con quella specie di ciao povery! Noemi ed io non ti parliamo più, altro che mammà! Chiaro?”

 

Al di là dell’ironia, c’era una minaccia reale e non troppo velata.

 

“E ti devi svegliare e capire quando una ci sta a provare con te, che quella ci sta a provare e non da mo, se non lo hai ancora capito! Che come minimo non vedeva l’ora di avere la scusa buona per attaccarsi a te come un polipo!”

 

“Rosa!” ripeté e non riuscì a non ridere: gli sembrava di sentire Imma.

 

Certo, quando non era incazzata con lui come ora.

 

“E non ridere!”

 

“E dai, come faccio? Ma ti garantisco che con Irene ho già messo tutti i paletti e le distanze di sicurezza. E farò di tutto per farmi perdonare da Imma. Quando avremo fatto pace, voglio rivedervi a te e alla piccoletta, assolutamente!”

 

“Me lo auguro!”

 

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Si svegliò di scatto.

 

Guardò l’orologio ed erano le otto.

 

Chi poteva essere a quell’ora?

 

Si era addormentata alle quattro del mattino. Una fitta di mal di testa la fece traballare per qualche secondo.

 

Si era quasi disabituata all’insonnia e alle emicranie… ma ora… le avrebbero probabilmente fatto compagnia per un po’.

 

E, di nuovo, un’altra scampanellata.

 

“Chi è?” chiese, da un lato sperando e dall’altro temendo che fosse Calogiuri.

 

Ma aveva le chiavi, perché scampanellare in quel modo?

 

“Tua figlia.”

 

Il tono di Valentina le causò un qualcosa nello stomaco: le ricordava la Valentina adolescente e sarcastica, ma c’era un nonsoché di diverso.

 

“Che ci fai qua a quest’ora?”

 

“Ti ho portato la colazione.”

 

“Ti avevo detto che non volevo vedere nessuno,” le rispose, con un sospiro, e fu in quel momento che capì perché il tutto era familiare ma diverso al tempo stesso.

 

Le ricordava Valentina chiusa in camera sua, dopo una delle sue crisi adolescenziali, e lei che le bussava alla camera per farsi aprire. Valentina le chiedeva sempre “chi è?”, pure se lo sapeva benissimo, da come bussava, in modo molto diverso da quello pacato di Pietro. E lei le rispondeva, invariabilmente, “tua madre!”, che irritata era dire poco.

 

Solo che ora le parti si erano invertite.

 

“Ieri era ieri, oggi è un altro giorno e non puoi stare rinchiusa qua da sola.”

 

Aprì la porta, si trovò davanti Valentina con un sacchetto di carta in mano e se la strinse fortissima in un abbraccio.

 

“E meno male che non volevi vedere nessuno! Ancora un po’ mi soffochi!” esclamò, Valentina, una volta che si fu sciolto l’abbraccio, ma le sorrideva.

 

“Vieni, dai, ti faccio un caffèlatte,” si offrì, prendendole il sacchetto di mano ed avviandosi alla cucina.

 

“Hai un aspetto terribile!”

 

“Grazie, le botte di autostima che mi dai tu, Valentì, nessuno!” replicò, anche se sapeva che aveva ragione.

 

Fecero colazione in silenzio, mentre Imma si sforzava di inghiottire la brioche alla crema, nonostante la nausea da troppe ore a digiuno.

 

“Dov’è lui?” chiese infine Valentina, dopo aver bevuto pure l’ultimo sorso.

 

Non serviva certo chiedere di chi stesse parlando.

 

“Non lo so… ieri sera gli ho detto che qua non ce lo volevo. Non so stanotte dove è stato.”

 

“Ma non ti ha neanche mandato un messaggio?” chiese Valentina, tra l’arrabbiato e il stupito.

 

“Il cellulare!” si ricordò improvvisamente, correndo verso la stanza da letto.

 

Lo aveva spento e poi si era scordata di riaccenderlo, non era da lei. Sperava solo non fosse successo niente di grave nel frattempo e, soprattutto, di non trovarlo intasato di messaggi e chiamate.

 

Se la speranza è l’ultima a morire, questa defunse prestissimo, perché il cellulare prese a trillare e vibrare manco fosse posseduto.


Tanto che si bloccava di continuo. Tra un congelamento e l’altro, intravide i nomi di Diana, di Pietro e pure di lui.

 

Come la cacofonia vibrante si stoppò, sbloccò il telefono, aprì il programma di messaggistica istantanea e fece scorrere una sfilza di numeri e nomi con messaggi da leggere.

 

Ma in quel momento ce n’era solo uno che la interessava, anche se il solo pensare a lui la faceva arrabbiare.

 

Sono in caserma. Dormirò qui. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, il telefono è sempre acceso.

 

Almeno era lontano dalle gattemorte e da tutto il casino coi giornalisti. Ma tutta la procura, a breve, avrebbe sicuramente saputo che lui non aveva dormito a casa e che erano in crisi. E forse la notizia sarebbe arrivata anche a quegli avvoltoi che li seguivano ormai da mesi.

 

Non sapeva se la cosa le facesse piacere, per la sua dignità ferita, o se aggiungesse altro sale alle ferite.

 

Ma non poteva fare altro: era troppo arrabbiata e non ce la faceva ad affrontarlo, non ancora. O, peggio, a perdonare tutto e far finta che non fosse successo niente.

 

“Allora?” le chiese Valentina, dalla porta della camera.

 

“Ha dormito in caserma.”

 

“Comunque… per quel che vale… a me nella conferenza stampa è sembrato sincero su quel bacio. Non è uno molto capace di mentire, mamma: è praticamente un semaforo vivente per come diventa rosso.”

 

“Il problema non è solo il bacio, Valentì, è… è tutto il resto.”

 

“Il resto cosa? Ci ha fatto altro con quella?!”

 

“Più che quello che ha fatto è quello che non ha fatto, Valentì, cioè saper mettere dei paletti e dire di no,” spiegò, perché non voleva che Valentina avesse reazioni pericolose non solo nei confronti di Calogiuri, ma pure della gattamorta, conoscendola.

 

“Ma è per questo che lo tieni in esilio? Per insegnargli una lezione?”

 

“Anche, ma soprattutto perché in questo momento sono ancora molto ma molto arrabbiata e non ho voglia di vederlo.”

 

“Però… però con la mia compagna di università altro che paletti ha messo. Quindi se una ci prova apertamente, sa dire di no. Magari però… lo sai che è molto ingenuo, no? Vede sempre il bene nelle persone. E lo sapevi pure quando te lo sei scelto che… va beh… non rivanghiamo tutto quello che è successo e che hai lasciato pure papà per stare con lui. Non è che può cambiare del tutto mo.”

 

“Ma che fai mo, lo difendi?” domandò, sorpresa, e anche un po’ colpita dalla frecciata su separazione e tradimento.

 

“No, ma… va bene fargli imparare la lezione e va bene la rabbia, ma se ci devi stare male tanto anche tu…. Insomma… se ti avesse tradito, andrei io di persona a dargli calci non ti dico dove, ma così… lo so che lo ami comunque tanto e voglio soltanto che tu non stia male e che non esageri con le lezioni, che ti conosco.”

 

“Da che pulpito, Valentì!” esclamò, ma poi se la strinse di nuovo più forte che poteva, nonostante le proteste, “che fai mo, oggi? Vai in università?”

 

“Ho lezione nel pomeriggio.”

 

“E allora perché non stai qua e ci passiamo la mattina insieme? Facciamo quello che pare a te,” le propose, senza sapere bene perché, proprio lei che fino a poco prima non voleva vedere nessuno.

“Ma non vai al lavoro?” le chiese, sorpresa.

 

“E va beh, Valentì, un altro giorno a casa posso pure prendermelo, con tutto quello che è successo.”

 

“No, va beh, mà, questo mi preoccupa più di tutto il resto!” scherzò Valentina, ma vide che era realmente in pensiero e se la strinse di nuovo, buttandola sul letto e prendendo a farle il solletico per fargliela pagare.

 

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“Sei sicura che non si nota?”

 

“Meglio che senza niente, Calogiuri. Per fortuna non ho mai dovuto mascherarli i lividi, soprattutto nella vita privata, quindi più di così non so fare.”

 

Gli venne un poco di magone a pensare a quante donne erano invece esperte a cammuffarli i lividi.

 

E non solo per evitare di mettere nei guai un amico che aveva un attimo perso la testa e per evitare che i giornalisti lo notassero e ci costruissero chissà che storia sopra.

 

Temendo che cosa ci avrebbe trovato, entrò dalla porta della PG.

 

“Calogiuri! Il nostro latin lover è tornato!”

 

“Carminati…” sibilò, vedendoselo spaparanzato, con tanto di piedi sulla scrivania.

 

La sua.

 

“La tua scrivania ce l’hai. Leva quei piedi!” gli intimò, non avendo nessuna voglia di quei giochetti.

 

“Eh… ma pensavo che fossi impegnato oggi, con una delle dottoressa, visto che te le sei fatte proprio tutte. Anzi, se hai bisogno di una mano, che non so se riesci a starci dietro e-”

 

“Sta zitto! Io non mi sono fatto proprio nessuna ed è un modo squallido di parlare delle donne! E che ti sono pure superiori, in tutti i sensi! Io sto con Imma e basta.”

 

“Ed è per quello che sei finito a dormire in caserma?”

 

Il sorrisetto trionfante su quella faccia da maiale lo fece incazzare ancora di più.

 

“Non sono affari tuoi!”

 

“Veramente sono pure affari nostri, perché ora capiamo perché ci scavalchi sempre in tutti i casi più importanti. Perché oltre a scavalcare… cavalchi pure….”

 

Strinse i pugni. L’istinto di dargli una lezione era fortissimo, ma avrebbe fatto solo il suo gioco.

 

“O forse perché lavoro tanto, Carminati, invece di passare il tempo a fare battute sessiste, e quindi le colleghe non devono avere paura ad andare in trasferta con me o a darmi un bacio sotto copertura, perché non salterò loro addosso come un maiale.”

 

“Stronzo!” urlò, levandogli finalmente i piedi dalla scrivania, ma solo per scattare in piedi e sbilanciarsi per dargli un pugno.

 

Per fortuna però, rispetto a Conti era molto più lento e prevedibile e riuscì a scansarsi, prima di beccarsi un pugno pure sull’altra guancia, e sentì il maiale urlare quando la mano gli si schiantò contro il muro.

 

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“Dottoressa! Dottoressa, una dichiarazione!”

 

I giornalisti appostati di fronte alla procura sembravano sorpresi di vederla.

 

Da un lato lo era pure lei ma, finito il pranzo con Valentina, aveva deciso sul momento di tornare al lavoro.

 

Non voleva dare l’impressione di stare scappando: Imma Tataranni non era mai fuggita di fronte a nulla e non avrebbe iniziato nemmeno quel giorno.

 

“Fatemi passare! Non c’ho niente da dichiarare!”

 

“Dottoressa, lei crede alla versione data dal maresciallo e dalla dottoressa Ferrari?”

 

“No comment! Fatemi passare!” ripetè, ma quelli erano compatti, tipo un muro tra lei e l’ingresso. Lanciò uno sguardo verso il portone, sperando che le guardie le dessero una mano.

 

Improvvisamente, si sentì prendere per un braccio. Stava per voltarsi e dare un pestone sui piedi - per non dire altrove - a chiunque avesse osato farlo, quando una voce familiare la bloccò, per fortuna appena in tempo.

 

“La dottoressa non ha dichiarazioni da aggiungere rispetto alla conferenza stampa di ieri. Fateci passare!”

 

Mancini.

 

Incrociò i suoi occhi, che le parevano furiosi, e poi, sempre a braccetto, per tenerla riparata, con il suo fisico imponente fece loro largo tra la folla, varcando finalmente la soglia della procura.

 

“Perché non ha chiamato qualcuno per farsi venire a prendere? E speravo che si prendesse pure oggi come giorno di riposo. Non deve mettersi a rischio così!”

 

Sembrava irritato, ma pure preoccupato, mentre lei si liberava dalla sua stretta.

 

“Dottore, un giorno e mezzo a non fare niente è il massimo che posso tollerare. E poi non voglio darla vinta ai giornalisti e, soprattutto, a Coraini e agli amici suoi.”

 

“Lo so, dottoressa, ma deve essere prudente. Mi promette di non strafare?”

 

“Stia tranquillo, dottore, cercherò di farmi accompagnare per quanto possibile. Ma mi conosce ed il mio carattere non lo cambio mo dopo più di quarant’anni.”

 

“D’accordo….” sospirò il procuratore capo, prima di salutarla e salire rapidamente le scale, verso il suo ufficio.

 

Stava per fare anche lei il primo gradino, quando udì una porta aprirsi.

 

Si voltò e si trovò davanti lui che usciva dalla PG.

 

“Imma!” la chiamò, facendo un passo verso di lei, dopo un attimo nel quale entrambi rimasero come paralizzati.

 

Ma lo ignorò, salendo rapidamente le scale e raggiungendo ancora più velocemente il suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle.

 

Al solo vederlo le tornavano addosso ancora tutta la rabbia e la delusione. E sperava che non avrebbe osato seguirla fin lì, con Asia nell’ufficio accanto e tutta una procura che non aspettava altro che farsi i fatti loro.

 

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Carte, carte e ancora carte.

 

Era incredibile quanto lavoro si accumulasse in nemmeno due giorni di assenza. Ma almeno, per quanto fosse terribilmente noioso, era pure una distrazione dai troppi pensieri.

 

… la testimonianza, raccolta in data venticinque ottobre alle ore quindici...

 

Si bloccò: c’era qualcosa che non le tornava con quei numeri.

 

Aprì il cassetto, per cercare l’agenda, ed un bagliore luminoso rosso la accecò per un secondo.

 

E poi vide sì rosso, ma in un altro senso.

 

Un triangolo di quelli che si mettono per strada, dietro le macchine in panne, era stato infilato nel suo cassetto.

 

Carminati.

 

Non poteva essere altro che lui che, oltre a fare scherzi di pessimo gusto, aveva pure osato aprire i suoi cassetti. Era gravissimo.

 

Prese il pezzo di plastica catarifrangente e si precipitò in PG, come una furia.

 

Spalancò la porta e si trovò di fronte Calogiuri, seduto alla sua scrivania, che balzò immediatamente in piedi.

 

Lo fulminò con un’occhiata glaciale e si rivolse all’ominide che stava sulla scrivania alla sua destra, sbattendogli il triangolo sul tavolo, anche se glielo avrebbe volentieri buttato in faccia.

 

“Carminati, è già stato avvisato una volta. Un’altra di queste… goliardate… e le faccio rapporto, chiaro?! E se si azzarda anche solo a rimettere le sue manacce nei miei cassetti, io-”

 

Si fermò bruscamente, perché lo sguardo le era andato istintivamente verso le manacce ed una era completamente fasciata.

 

La destra.

 

“Che ha fatto alla mano?” gli chiese, anche se una parte di lei pensava fosse il karma che entrava in azione.

 

“Mi… mi sono fatto male in allenamento,” rispose Carminati, parendo stranamente tranquillo.

 

Troppo.

 

D’istinto si voltò verso Calogiuri, ma lui non disse niente, si limitò a ricambiare lo sguardo.

 

Qualcosa non le tornava ma, alla fine, Carminati, qualsiasi cosa fosse successa, se l’era meritata.

 

Riprese il triangolo e lo infilò intorno al polso fasciato di Carminati con un “almeno magari sta più attento ai pericoli! Ma se rimette le mani nei miei cassetti se le troverà tranciate, altro che fasciatura!”

 

E poi se ne andò, pestando sui tacchi più che poteva.

 

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“Dai, Calogiuri, hai finito?”

 

“Sì, sì, arrivo!”

 

Raggiunse Mariani che era già oltre la soglia della PG. La mascella ancora gli faceva un po’ male, nonostante gli antidolorifici. Ma almeno nessuno si era accorto di niente.

 

“Dottoressa, lo vuole un passaggio?”

 

La voce familiare ed odiosa di Mancini lo portò a guardare verso la scala e c’era Imma, sull’ultimo gradino, e Mancini che se la guardava in un modo che gli faceva ribollire il sangue.

 

Imma sembrò esitare per qualche istante e Calogiuri trattenne il fiato, chiedendosi se avrebbe accettato il passaggio dal procuratore capo che, ovviamente, approfittava della loro crisi per continuare a provarci.

 

“Non mi pare il caso, dottore, altrimenti qua dal triangolo passiamo al quadrato, coi giornalisti in agguato,” gli rispose e Calogiuri tirò un sospiro di sollievo.

 

“Ma non può andare a piedi, proprio per quello, dottoressa.”

 

Imma parve dubbiosa, poi si guardò in giro ed incrociò il suo sguardo. Lui ricambiò come a dirle un ti posso accompagnare io! non verbale.

 

Ma lei tornò a rivolgersi a Mancini e gli disse, “mi può accompagnare Mariani, se è disponibile.”

 

“Certo, dottoressa, non c’è problema,” rispose Chiara, allontanandosi da lui e raggiungendo Imma.

 

Le due donne uscirono insieme, lasciandosi dietro lui e Mancini, come due pesci lessi.

 

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“Scusi, dottoressa, ma stasera non ci mollavano. Ora la accompagno a casa: dovremmo averli seminati.”


“Ma si figuri, Mariani, mi scusi lei per tutto questo giro dell’oca.”

 

La principessa Disney le fece uno dei suoi inconfondibili sorrisi. Si chiedeva come facesse ad essere sempre così gentile e di buonumore.

 

Però, oltre al sorriso, c’era qualcos’altro: non era la prima volta in quel tragitto che sembrava sul punto di dirle qualcosa, ma poi rimaneva in silenzio.

 

“Eccoci qua, dottoressa!” annunciò infine, accostando davanti a casa.

 

“Grazie mille, Mariani, anche se… c’era qualcosa che voleva dirmi?”

 

“In che senso, dottoressa?”

 

“Mi pareva che volesse dirmi qualche cosa e… essendo amica di Calogiuri… magari perorare la sua causa, immagino?”

 

Mariani fece un’espressione stupita.

 

“Dottoressa, è vero che io e Calogiuri siamo amici ma… è stato stupido e deve darsi una svegliata, anche se… effettivamente non credo fosse in cattiva fede o che l’abbia fatto con malizia, anzi. Però essere ingenuo non è un alibi e si deve svegliare, pure per il suo bene.”

 

Sorrise: Mariani le era veramente simpatica, cosa rarissima, soprattutto con le donne.

 

“Domattina la passo a prendere io, dottoressa?” si offrì poi, mentre stava scendendo dalla macchina.

 

“Se può, molto volentieri Mariani.”

 

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Aveva appena finito di lavare il piatto della tristissima pasta in bianco che si era appena sbocconcellata, quando squillò il telefono.


Un messaggio.

 

Ci aveva messo un’ora buona a leggere tutti quelli arretrati, quindi si obbligò a prendere l’aggeggio maledetto e a controllare di chi fosse.

 

La cosa che mi fa più male è sapere che ti ho fatto soffrire, ma farò di tutto per dimostrarti che di me ti puoi fidare e che ti amo, non solo con le parole, ma con i fatti.

Sempre e solo tuo.

Calogiuri

 

Era di poche parole, sì, ma quando voleva le sapeva usare fin troppo bene. Solo che non le bastavano più.

 

Per ora vedo solo parole, Calogiuri, per i fatti sto ancora in attesa!

 

Vide che lo aveva letto immediatamente e che cercava di scrivere qualcosa ma poi si interrompeva e poi riscriveva.

 

Stava per mollare il cellulare, quando le squillò tra le mani.

 

Diana

 

Non poteva ignorarla un’altra volta.

 

“Pronto, Diana?”

 

“Imma!! Come stai? Dove sei? Stai bene?! Ho visto tutto, Imma! Che disgrazia, che disgraziato! Sti uomini, tutti uguali sono! Se ti serve posso venire da te a darti una mano o puoi venire tu qua per qualche giorno, così ricambio pure la tua ospitalità, dopo tutto quello che hai fatto per me e-”

 

“Diana, frena, che mi fai venire il mal di testa!” la bloccò, chiedendosi come mai Diana non si fosse mai iscritta alle olimpiadi di apnea, col fiato che teneva, “io sto bene, non ti preoccupare. Tu pensa a te e a Capozza e ai vostri di casini, che io me la cavo. Gli hai parlato poi?”

 

Diana rimase per un attimo senza fiatare, poi dopo l’ennesimo “Imma!” che le frantumò i timpani, spiegò, “sì, come sono tornata qua a casa ci ho parlato con Capozza e… mi ha detto che devo stare tranquilla, che ama solo me e che lo ha detto pure alla madre della bimba. Figurati che tra qualche giorno dovrebbe farmela conoscere e poi conoscerò pure la creatura. Per il momento lei ci presenterà come amici suoi, sai per non traumatizzarla dicendole subito che Capozza è… suo padre… e poi vedremo in base a come reagirà la bambina.”

 

“Bene, Diana, questa signora mi pare ragionevole, mi pare. Vedrai che andrà bene!” la rassicurò, pensando in cuor suo che, pur avendo pure lei gusti pessimi in fatto di uomini, magari non voleva fare la guerra per un torsolo di mela come Capozza, “mi raccomando, Diana, non fare altri casini, eh! Forza!”

 

“Pure tu, Imma, pure tu! E comunque Calogiuri alla conferenza stampa mi sembrava proprio sincero, Imma, quindi pure tu non fare cavolate e non darla vinta a quella specie di gattamorta griffata, che solo quello aspetta!”

 

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“Imma! Aspetta!”

 

Una scarica di rabbia la prese dritta allo stomaco e alla spina dorsale. Si girò sui tacchi, bruscamente, e si trovò davanti la gattamorta, con la sua espressione da santarellina.

 

“Irene,” rispose, asciutta, lanciandole strali che avrebbero incenerito pure un sasso.

 

“Ho bisogno di parlarti. Puoi venire un attimo nel mio ufficio?” le domandò, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

La rabbia repressa minacciava di ebollire ma non voleva darle la soddisfazione di farle capire quanto fosse ferita ed incazzata. E non voleva passare dalla parte del torto.

 

Annuì con un minimo gesto del capo, e poi la seguì nel suo regno, freddo ed impersonale come la sua casa.

 

“Accomodati!” offrì, prendendo posto alla sua scrivania, in un modo che le fece dubitare fosse in procinto di tirare fuori il set da tè con qualche miscela dal prezzo da infarto.

 

Aveva una faccia tosta da primato, proprio!

 

“Che cosa vuoi?” domandò, tagliando i preamboli, impaziente di levarsi da lì-

 

“Volevo dirti che mi dispiace per… per il malinteso del bacio. Ma è stato realmente tutto finto e Calogiuri è sempre rimasto al suo posto. Oltretutto l’iniziativa del bacio è stata mia e-”

 

“E non solo quella, mi pare!” la interruppe, non riuscendo a contenere il sarcasmo.

 

“”Che vuoi dire?”

 

“Che Calogiuri mi ha raccontato pure di quanto è successo prima in SPA e poi nel bagno turco e dopo il bagno turco.”

 

Sparò la bomba così, decisa ma sempre con un tono basso e in apparenza tranquillo.

 

Irene si bloccò con le mani a mezz’aria, sembrando terribilmente in imbarazzo, presa in contropiede.

 

“Eh sì. Calogiuri mi ha raccontato tutto: mi racconta sempre tutto.”

 

“Se sei così tranquilla e sicura di te e di voi, perché lo hai esiliato in caserma?” le chiese, con un sopracciglio alzato e lo stesso identico tono.


Maledetta! Aveva sempre la risposta pronta e non mollava mai.

 

“Ma come lo sai?” le chiese, odiando quella procura e i pettegoli che ci lavoravano.

 

“Imma, lo sanno tutti. Qua in procura le voci galoppano e lo sai benissimo anche tu. Devi preoccupartene perché-”

 

“E perché, invece di preoccuparti di me non ti preoccupi di te stessa, magari?” le chiese, aggiungendo, di fronte alla sua espressione confusa, “al posto tuo, se mi fossi buttata in ogni modo su di un uomo con tutta la mercanzia di fuori e lui, pure mezzo nudo e mezzo ubriaco, mi avesse rifiutata, mi farei due domande sulle mie priorità, sulle mie relazioni e soprattutto sui miei metodi di seduzione. E pure molto seriamente.”

 

La bocca di Irene si spalancò in un’espressione tragicomica.

 

Approfittò di quel momento per uscire dalla stanza, gettandosi la porta alle spalle, con passo da bersagliere.

 

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“Dottoressa, menomale che l’ho trovata. C’è una cosa che potrebbe essere urgente!”

 

Era appena tornata dal bar della procura, dove si era mangiata controvoglia un panino - uscire non se ne parlava, con alcuni giornalisti ancora in agguato - ed aveva dovuto evitare gli sguardi ed i bisbiglii delle persone presenti, quando Asia l’aveva intercettata sulla porta, facendole quasi prendere un colpo.

 

“E che cosa sarebbe questa cosa urgente?”

 

“C’è un uomo che continua a chiamare cercando di lei. Lo aveva già fatto mentre lei era… assente nei giorni scorsi, ma-”

 

“Sarà un giornalista o un curioso. Meglio lasciarlo nel suo brodo!” replicò, facendole segno con la mano di pure andare.

 

“L’ho pensato pure io, dottoressa. Però oggi, quando gli ho ripetuto che lei non c’era, ha detto di avere informazioni urgenti sul caso Spaziani, ma che non può venire a riferirgliele di persona.”

 

“In che senso non può?” le chiese, le antenne che si erano sollevate al solo menzionare il caso Spaziani.

 

Che in teoria era chiuso, certo, ma c’era sempre un qualcosa che non la convinceva al cento percento, come una nota stonata.

 

“Mi ha detto di avere un problema di salute e che per questo è bloccato a casa. Si è identificato come un notaio, un certo Rodolfo Torregalli.”

 

“E non poteva dirmelo prima che era un notaio, signorina Fusco, invece di fare tutto questo panegirico con il signore? Abbiamo le qualifiche, usiamole!” esclamò, forse un po’ con troppa veemenza, perché l’ossigenata cancelliera ne rimase quasi spaventata, “Torregalli… cognome di origine nobiliare. Ha lasciato un recapito?”

 

“Sì. Sta ai Parioli, dottoressa. Ora le mando l’indirizzo esatto.”

 

Asia non perse tempo a sparire oltre la porta.

 

Sospirò: in quel periodo era una corda di violino e lo sapeva, ma il suo carattere era quello che era. Soprattutto quando c’era di mezzo Calogiuri.

 

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“Mariani o Conti dove stanno?”

 

Era entrata in PG senza nemmeno salutare, ma del resto c’erano solo Calogiuri, che era scattato in piedi manco c’avesse una molla sotto al deretano, e poi Carminati e Rosati che va beh… il saluto manco se lo meritavano.

 

Per questo aveva fatto una domanda in generale, guardando tutti e nessuno.


“Mariani è appena uscita con Santoro. Conti è con… con la dottoressa Ferrari.”

 

Quell’esitazione sul cognome della cara collega le causò un’altra fitta di irritazione, ma le toccò guardare verso Calogiuri, che aveva parlato.

 

“Sai quando saranno di ritorno?” domandò, brusca.


“No, no. Ma temo ci vorrà un po’. Mariani doveva testimoniare ad un’udienza di Santoro e la Ferrari e Conti hanno un sopralluogo sul Tevere con la scientifica per una ricostruzione. Non so se rientreranno prima di sera.”

 

Imma ci ragionò su un attimo. Se questo notaio continuava a chiamare dicendo che fosse urgente, evidentemente lo era. E se aveva problemi di salute… prendersela comoda probabilmente non era una buona idea.

 

E poi il caso Spaziani era delicatissimo per lei, per ovvie ragioni.

 

Troppo delicato per portarci Carminati o Rosati a cui, potendo, non avrebbe affidato neanche un furto di caramelle.

 

“Dottoressa, posso darle una mano io!” si inserì, ironia della sorte, proprio Carminati.

 

“No, grazie, Carminati, che di mano ne ha già solo una a disposizione e, nel suo caso, meno le usa le mani e meglio è. Calogiuri, se sei libero puoi accompagnarmi in un posto?” si sforzò di domandare, anche se le costava fatica.

 

“Certo, dottoressa, naturalmente. Vado a preparare la macchina?”

 

Il modo in cui aveva pronunciato la frase, ed il modo in cui si precipitò fuori dalla porta non appena lei annuì, dicendogli che avrebbe nel frattempo avvisato Mancini, le ricordò il Calogiuri di Grottaminarda, quello dei primi tempi a Matera.

 

Con un gusto dolceamaro in bocca, si avviò verso l’ufficio del procuratore capo.

 

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“Non se ne parla nemmeno, dottoressa! Qua fuori ci sono i giornalisti e abbiamo appena detto loro che lei non lavora più col maresciallo, se non al maxiprocesso.”

 

“Dottore, capo primo i giornalisti non possono sapere per quale caso stiamo lasciando la procura. Capo secondo, potrebbero sempre pensare che usciamo prima per tornarcene a casa. Anzi, almeno magari loro e pure i nostri colleghi la piantano di fare insinuazioni sul fatto che il maresciallo ed io ci saremmo lasciati, perché lui dorme in caserma. Questo anche per rafforzare quanto detto ieri in conferenza stampa. Se questo notaio ha da dirmi qualcosa con così tanta urgenza ed è malato, non posso rinviare oltre. Ed il maresciallo Calogiuri ha seguito il caso Spaziani agli inizi. Mi creda che pure io non ne sono entusiasta, dottore, ma non c’è alternativa.”

 

Mancini sospirò ed annuì, non sembrando affatto sorpreso alla notizia di dove stesse passando le notti Calogiuri.

 

Lo sapevano proprio tutti.

 

“Dovrete registrate tutto, dottoressa, ogni parola. Se c’è solo il maresciallo con lei, non possiamo rischiare che poi l'avvocato della difesa cerchi di invalidare la testimonianza. Mi raccomando!”

 

“Naturalmente, dottore. Se non c’è altro….”

 

“No, anzi, sì,” le rispose Mancini, bloccandola mentre era quasi alla porta, “dottoressa, come sta?”

 

Alla sua espressione da ma secondo te?! si affrettò ad aggiungere, “cioè… immagino come possa stare ma… se ha bisogno di qualcosa, se posso fare qualcosa per lei… la mia porta è sempre aperta e sono sempre raggiungibile al telefono.”

 

“Non si preoccupi, dottore: mi ha già aiutata molto. Me la so cavare da sola, come ho sempre fatto.”

 

Mancini le rivolse un ultimo sguardo preoccupato e malinconico mentre usciva dalla stanza.

 

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Il silenzio si poteva tagliare con un coltello.

 

Ogni tanto provava a lanciarle qualche occhiata, per cercare di capire a cosa stesse pensando, ma Imma guardava fissa davanti a sé, le braccia incrociate, impettita sul sedile, che pareva un palo per quanto era rigida.

 

Arrivò all’indirizzo che gli aveva dato e cercò di trovare un posto per l’auto di servizio.

 

Non appena spense il motore, Imma non perse tempo a slacciare la cintura di sicurezza e ad aprire la portiera.

 

“Imma!” la chiamò e, forse perché erano in servizio e poteva trattarsi di qualcosa di lavoro, non lo ignorò, ma ciò non le impedì di fulminarlo nel voltarsi, “Imma, lo so che… sei ancora... furiosa con me e che è solo perché era un’emergenza che sto qui ma… sono felice di lavorare di nuovo con te, come ai vecchi tempi, pure se è solo per oggi.”

 

Imma esitò un attimo, un sopracciglio alzato e poi sibilò un “non farmene pentire, Calogiuri, anche se speravo che, dai vecchi tempi, ti fossi un poco più svegliato. E invece….”

 

E poi scese e sbattè la portiera con tanta forza che l’auto traballò tutta.

 

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“Il notaio è da questa parte. Vi stava aspettando.”

 

Una cameriera, con tanto di grembiule nero e bianco, che sembrava uscita da un film dell’Ottocento, non fosse stato che era chiaramente dell’Est Europa, forse Ucraina, li accompagnò ad una porta chiusa.

 

La ragazza bussò, la aprì e ad Imma sembrò ancora di più di essere in una pellicola.

 

Un uomo, con una vestaglia sopra a quelle che poteva solo definire vesti da camera, stava su una sedia a rotelle, dietro ad una enorme scrivania in ebano.

 

Lo studio pareva preso paro paro da un libro di Sherlock Holmes: una libreria con tomi vecchissimi circondava la scrivania, alcune poltrone antiche ed un canapè abbinato, di fronte ad un tavolino più basso, di metallo finemente lavorato, in stile liberty.

 

Solo il contenuto di quella stanza valeva come la sua casa a Matera, anzi, probabilmente pure di più.

 

“Dottoressa! Sono… felice che… che sia venuta.”

 

L’uomo faticava non soltanto a parlare, ma pure a respirare. La voce era flebile e cavernosa al tempo stesso, probabilmente conseguenza della tracheotomia di cui il notaio portava ancora i segni sul collo.

 

“Mi hanno detto che mi voleva parlare urgentemente. Questo è il maresciallo Ippazio Calogiuri. Trascriverà e registrerà la nostra conversazione. Spero non abbia nulla in contrario.”

 

“So… chi è: vi ho visti… al… tg,” enunciò, scuotendo il capo come a dire che non c’erano problemi sulla registrazione.

 

Imma si sentì avvampare, pensando con sconforto che ormai era più conosciuta per questa specie di soap opera che le avevano montato attorno che per il suo lavoro.

 

Il notaio però non sembrava sprezzante, anche se, visti i problemi di voce, sarebbe stato difficile da valutare. Alzò una mano tremolante e fece segno loro di accomodarsi sulle poltrone imbottite che stavano di fronte alla scrivania.

 

“Allora, signor notaio, che cosa ha da dirmi in proposito del caso Spaziani?” tagliò corto, visto che sembrava fare un’estrema fatica a comunicare.

 

“Avrei… dovuto.... parlarle già… molto tempo fa, dottoressa… ma… come vede… ho avuto un infarto. Mi hanno… ripreso per i capelli e…. sono stato in coma e poi… mezzo incosciente. Sono tornato… a casa da… pochi giorni e….”

 

“Non si preoccupi e non si sforzi. Mi dica solo cosa mi deve riferire riguardo al caso.”

 

“Non posso, io… devo spiegare… capirà il perché,” ansimò l’uomo, tanto che lanciò uno sguardo preoccupato verso Calogiuri, temendo ci rimanesse secco prima della fine della testimonianza, “quando sono… arrivato a casa… ho scoperto che… che avevate arrestato Amedeo Spaziani.”

 

“Sì. Abbiamo scoperto che ha cercato di incastrare un altro uomo  con una fiala di insulina che si era procurato. E tutti gli indizi portano a lui, anche perché aveva un forte interesse economico nell’eliminare il padre. Lei per caso… ha un nuovo testamento di Spaziani?” gli domandò - perché cos’altro poteva volerle dire un notaio? - ma lui scosse la testa.

 

“No, no. Magari fosse… solo quello…” esalò a fatica e poi le dita nodose afferrarono una busta, che fino a quel momento era rimasta sotto alle sue mani giunte, e gliela porse, nonostante paresse scosso da un terremoto, “la… legga… capirà… tutto.”

 

Imma, non sapendo più che pensare e francamente un po’ inquietata dall’atmosfera e dalle circostanze, prese in mano la carta, spessa e lucida, di quelle da gran signori, e ne estrasse un foglio scritto a computer ma con sotto una firma enorme e tremolante, che sembrava la stessa del testamento di Ferdinando Spaziani che aveva consultato qualche mese prima. Ma ancora più deformata, segno evidente dell’impietoso avanzamento della malattia dell’imprenditore.

 

Scorse le prime righe, ma un nodo le si piantò in gola, insieme ad una sensazione di gelo nello stomaco, mentre il suo cervello metteva insieme tutto, anche se forse una parte di lei avrebbe preferito non sapere.

 

Avrebbe dovuto leggerla, ad alta voce, perché risultasse nella registrazione, ma non ce la faceva. La voce se ne era andata, nonostante i tentativi di schiarirla.

 

Guardò verso Calogiuri, che pareva preoccupatissimo, e gli porse la lettera, facendogli un cenno come a dire puoi leggere tu?

 

Lui annuì, sembrando ancora più turbato, ma la prese in mano.

 

Le loro dita si sfiorarono per qualche istante, dandole una breve sensazione di calore in mezzo a tutto il gelo.

 

Quegli occhi azzurri, già grandi di loro, divennero enormi e lucidi.

 

Anche Calogiuri aveva capito: del resto era sempre stato sveglio, almeno sulle indagini.

 

Pure lui si schiarì un paio di volte la voce ma poi lesse, un poco tremante.

 

Barbara, Amedeo,

 

se leggete queste righe vuol dire che non ci sono più e che uno di voi due è stato incolpato per la mia morte. Mi dispiace per i problemi che vi ho causato e per essermene andato così, ma non ce la facevo più a sopravvivere in questo stato. Nel pieno delle mie facoltà mentali, ho chiesto ad un medico che è specializzato in eutanasia di raggiungermi ed aiutarmi ad andarmene con dignità.

Barbara, tu mi sei sempre stata vicina ma sei giovane, sei bella, hai una vita davanti e ti meriti di viverla pienamente. Mi hai regalato degli anni bellissimi, grazie a te sono stato felice dopo tanto, troppo tempo passato solo a sopravvivere, per senso del dovere e per il senso di colpa, e non ti ringrazierò mai abbastanza per questo. Ora viviti la tua vita con qualcuno che possa darti ciò di cui hai bisogno, possibilmente meno vecchio di me, e, te ne prego, senza sensi di colpa. Non fare i miei stessi errori.

Amedeo, lo so che non sei stato d’accordo su tante scelte che ho fatto in questi ultimi anni, ma spero che tu capirai ed accetterai sia questa mia decisione così difficile, sia le mie disposizioni testamentarie. Lascio a Barbara ciò che le consentirà di vivere senza problemi e spero di poter fare lo stesso per te. Ultimamente quando ti ho visto eri sempre preoccupato, ansioso. Lo so che l’azienda non è in ottime acque, anche se pensavi che non me ne fossi accorto. Quello che ti posso dire è di fare la cosa giusta, per te e per chi lavora per te. Non devi dimostrare niente a nessuno: segui ciò che ti rende felice ma fallo prima che sia troppo tardi e ne debbano fare le spese pure gli altri.

Vi voglio bene e mi dispiace per tutto il dolore che vi ho dato e che vi sto dando, ma ho sempre amato la vita ed ho deciso di andarmene alle mie condizioni, prima di arrivare ad odiarla.

Vostro,

Ferdinando Spaziani

 

Quando finì di leggere, Calogiuri aveva un paio di lacrime che gli solcavano le guance e lei pure.

 

Quanto dolore, quanta disperazione, quanta umanità e quanta dignità in poche righe.

 

Era una tragedia, una vera tragedia, comunque la si guardasse.

 

“Ferdinando mi aveva… chiamato in clinica qualche giorno prima che… che si spegnesse. Mi aveva dato questa lettera, dicendo... di consegnarla alla polizia e… ad Amedeo e Barbara, qualora... qualcuno avesse indagato sulla… sua morte e… ed imputato un innocente.”

 

“Ma… ma perché non gli ha detto niente, perché… non ha provato ad impedirglielo?”

 

“Perché… c’è il segreto… professionale e poi… e poi… ho provato pietas, dottoressa. E… e poi… due settimane dopo che… che è morto… sono finito… così… quindi. Forse… è… il karma.”

 

“Ma perché Spaziani voleva tutta questa segretezza sulle circostanze della sua morte?”

 

Era stato Calogiuri ad intervenire. Lo guardò e lui quasi si scusò per averlo fatto, ma lei gli fece cenno di non preoccuparsi: che facesse bene il suo lavoro non poteva certo darle fastidio.

 

“Perché…  non voleva che… che la moglie ed il figlio si… sentissero in colpa o… o avessero problemi con la giustizia. O che… avesse problemi… il medico che… lo avrebbe aiutato. Sperava che… sarebbe sembrata una… una morte naturale.”

 

“Perché avrebbero dovuto sentirsi in colpa? Il figlio forse per la lite e per i problemi economici ma la moglie per-” ragionò a voce alta Imma, prima di realizzare, un altro blocco di ghiaccio che le scese nell’esofago, “Ferdinando Spaziani sapeva… sapeva pure che la signora Spaziani aveva una relazione extraconiugale, non è vero?”

 

Il notaio si limitò ad annuire con quello che forse sarebbe stato un sospiro, avesse avuto più fiato, prima di aggiungere, “ma non… non fraintenda, dottoressa. Ferdinando era… era felice per lei, che… si rifacesse una vita. E… non voleva essere… un peso.”

 

Imma rimase ammutolita e, di nuovo, ebbe uno sguardo di intesa con Calogiuri. Era sconvolta di fronte a tutto questo amore e tutta questa disperazione, che dovevano aver portato Spaziani a fare quello che aveva fatto.

 

La colpiva profondamente, per tanti motivi.

 

“Sa… sa chi fosse il medico?”

 

“No. Ferdinando non… me lo ha voluto dire. Diceva che… che era svizzero e… anziano ma… non mi ha detto altro.”

 

La Svizzera tornava nuovamente, dopo il cellulare di Amedeo Spaziani.

 

Ma c’era qualcosa che non le tornava ancora. Anche se non avrebbe saputo dire cosa.

 

“La ringrazio, dottore. Lei rimane a disposizione per… per firmare la sua deposizione, una volta che sarà trascritta?”

 

Il notaio annuì, si vedeva che era affaticato.

 

Si alzò e si congedò, non volendo farlo sforzare oltre misura. Sentì i passi di Calogiuri dietro di lei e quasi non si rese conto di quanto velocemente uscì da quell’appartamento e da quel palazzo.

 

Solo quando arrivò all’auto di servizio le sembrò di poter tornare a respirare.

 

Aprì la portiera, prima che potesse farlo Calogiuri, e si buttò sul sedile.


Lo vide mettersi al volante: aveva gli occhi ancora appannati e le guance umide. Si asciugò gli occhi con una mano e ad Imma prese un colpo.

 

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“Che hai combinato?!”

 

Il tono di Imma era acuto, strano. La guardò, dopo essersi sfregato di nuovo gli occhi, e si affrettò a ribadire, “Imma, non ho fatto niente con Irene, te lo giuro, io-”

 

“Non intendo con la gattamorta. Intendo che cosa hai fatto qua!” esclamò e non riuscì a trattenere un mugolio di dolore quando si sentì sfregare sulla guancia, proprio sul livido.

 

Lanciò un’occhiata allo specchietto e si rese conto che, tra le lacrime e l’asciugarsi gli occhi, un poco di correttore si era spostato, lasciando intravedere il livido. Ed ora Imma aveva completato il lavoro.

 

“Qualcuno ti ha picchiato? Chi è stato?! E chi è che ti ha truccato così?!”

 

Imma sembrava arrabbiata e forse pure preoccupata, mentre lo tartassava di domande.

 

“Non ti devi preoccupare, non è niente,” le rispose, perché non voleva mettere nei guai né Conti né Mariani.

 

“Tranquillo che non mi preoccupo, Calogiuri, anzi, ma mi devi dire chi è stato. Anche perché darti un cazzotto, dopo tutto quello che hai combinato, al limite doveva essere una mia esclusiva!” esclamò, prima di aggiungere, guardandolo dritto negli occhi, “Carminati?”

 

“No, no, non è stato lui,” la rassicurò, capendo che aveva fatto il collegamento tra la mano fasciata ed il livido.

 

“Ma chi è stato, Calogiuri? Che sei tu che non ti fidi di me, mo? Che dovrebbe essere il contrario, dovrebbe!”

 

“Imma, non è che non mi fido… è che… non voglio mettere nei casini nessuno. Mi prometti che rimane tra noi?”

 

“E va bene. Ed io le mie promesse le mantengo, Calogiuri,” lo freddò lei, ma se l’era cercata.

 

“Conti. Mi ha dato un pugno in un momento di rabbia due sere fa. Ma poi ci siamo sempre evitati: credo sia ancora arrabbiato con me, ma so che non lo rifarà.”

 

“Conti?! Hai capito le acque chete!” esclamò, a bocca spalancata, “che poi dovrebbe ringraziarti, se gli hai evitato di perdere altro tempo dietro a quella gattamorta!”

 

Gli venne da sorridere: gli sembrava tornato tutto alla normalità tra loro. Ma l’espressione di lei si fece nuovamente serissima, illeggibile e si rimise la cintura.

 

Tutto normale non era.

 

Per niente.

 

“La truccatrice è Mariani, immagino?” gli chiese poi, mentre riavviava la macchina.

 

“Gliel’ho chiesto io. Non volevo dare problemi a Conti o che i giornalisti se ne accorgessero.”

 

Imma sospirò e tornò al mutismo, incrociando di nuovo le braccia davanti al corpo.

 

Ma mentre guidava, spiò la sua espressione ed un paio di volte la beccò a ricambiare, anche se distoglieva immediatamente lo sguardo.

 

Alla fine però, purtroppo, arrivarono sotto casa.

 

Purtroppo perché avrebbe voluto stare ancora con lei, pure senza dire una parola. E purtroppo perché quel portone, quella casa gli mancavano tantissimo.

 

La vide allungare la mano verso la portiera ed aprì pure la sua.

 

Lei si voltò di scatto e lo trafisse con uno sguardo che valeva più di mille parole.

 

“Volevo… volevo solamente aiutarti con la portiera,” balbettò, temendo anche solo di muovere un muscolo e giocarsi quel minimo disgelo che avevano avuto.

 

Imma sospirò ma non disse nulla e nemmeno scese dal veicolo, limitandosi ad incrociare le braccia, in attesa.


Cautamente, sentendosi come uno di quei personaggi dei film che incontrano un orso e si muovono con estrema lentezza per non agitarlo, finì di aprire la portiera, girò intorno alla macchina e la fece scendere.

 

Rimasero per un attimo fermi, con la portiera a fare da scudo tra loro, occhi negli occhi.

 

Cercò di capire a cosa stesse pensando Imma, ma lo sguardo di lei era indefinibile.

 

“Allora… io-” esordì, con intenzione di congedarsi, perché sapeva che non poteva tirare troppo la corda.


“Allora tu, visto che stai già fuori dalla macchina, mo vai a recuperare il borsone e a parcheggiare decentemente e poi puoi pure salire,” pronunciò, indicando con un cenno del capo la finestra del loro appartamento.

 

Il cuore che gli scoppiava di gioia e di sollievo, la voglia di saltellare come un deficiente, fece per avvicinarsi ad abbracciarla ma si ritrovò spinto indietro dalla portiera, lei che ci si rifugiava ancora di più.

 

“Questo non significa che ti ho perdonato, Calogiuri, ma soltanto che puoi dormire sul divano, a patto che ti fai vedere il meno possibile e che mi lasci in pace. E non mi devi toccare!”

 

Fu uno schiaffo in pieno viso, almeno per qualche istante, ma poi… in fondo era un punto di partenza, un primo spiraglio, anche se minimo.

 

“Va…. va bene. Farò come vuoi, ma ti dimostrerò che puoi avere fiducia in me e che… non te ne pentirai.”

 

“Io temo che invece lo farò, Calogiuri, ma… diciamo che lo faccio per evitarti di dover diventare un makeup artist, come si dice adesso, per coprire tutti i cazzotti, e soprattutto perché in procura ci sono fin troppe domande sul perché tu dormi in caserma.”

 

Era tagliente, freddissima, ma… ma c’era qualcosa che gli faceva sperare che non fossero quelle le uniche ragioni, che mo a parlare per Imma fosse l’orgoglio.

 

Non si sarebbe mai tenuta in casa un uomo che non voleva né vedere né sentire. Né per i pettegolezzi della caserma - che tanto ormai! - né per evitargli altri lividi.

 

Ma non potè fare altro che annuire e risalire in auto, sperando di riuscire, col tempo, a trasformare quel piccolo spiraglio in qualcosa di molto di più.

 

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“Dove vai col borsone?”

 

“Torno a casa.”

 

Si ritrovò stretto in un abbraccio: non servivano altre parole per capirsi.

 

“Lo sapevo che ti avrebbe perdonato, ma adesso stai attento a non fare più il cretino!” gli intimò Mariani con uno dei suoi sorrisi luminosissimi.

 

“In realtà… dovrò ancora lavorare parecchio per farmi perdonare. Ma è un primo passo.”

 

“Imma fa solo che bene a tenerti sulle spine, almeno magari la prossima volta ti dai una svegliata!”

 

Sospirò e se la abbracciò di nuovo: purtroppo, Mariani aveva solo che ragione.

 

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Buio.

 

Silenzio.

 

Si chiese come fosse possibile: non erano neanche le nove di sera.

 

Accese la luce e si guardò intorno, spaesato.

 

Il cappotto e la borsa di Imma erano al loro posto.

 

Ma, appeso al gancio a cui lui di solito attaccava il giubbotto, c’era un foglio di carta.

 

Ho già cenato e sono in camera.

Preparati quello che vuoi. Ti ho lasciato le lenzuola pulite sul divano.

Domattina se riesci a prepararti e a fare colazione prima che mi alzo, mi fai un favore.

 

Quel mi fai un favore era praticamente un ordine.

 

Sospirò: Imma veramente non lo voleva né vedere, né sentire al di fuori del lavoro.

 

Almeno per un altro po’.

 

Sarebbe stato ancora più difficile del previsto. Ma si ripromise di fare di tutto e di più per riconquistarla e, soprattutto, per riconquistare la sua fiducia.

 

Perché la fiducia e la stima di Imma erano le cose a cui teneva di più al mondo. E non si sarebbe mai perdonato per averle perse.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qui alla fine di questo quarantasettesimo capitolo. Mi rendo conto che siamo in un periodo molto difficile, purtroppo, ma spero che la lettura possa aiutarvi a distrarvi un po’, come a me aiuta scrivere.

In questo capitolo, come avrete visto, Calogiuri sta cercando piano piano di riavvicinarsi ad Imma. Lei è in modalità “ghiacciolo”, anche se… ogni tanto ha qualche cedimento. Calogiuri riuscirà, dopo ad aver rimesso piede a casa, pure a far terminare del tutto questa “guerra fredda”? Il giallo Spaziani sarà veramente finito?

Spero che la storia continui a mantenersi interessante. Nei prossimi capitoli ci attendono un giallo completamente nuovo e parecchi scossoni, oltre ad alcuni momenti più sereni.

Ringrazio tantissimo tutti coloro che hanno speso del tempo per lasciarmi una recensione: oltre a farmi un piacere immenso mi sono utilissime per capire come prosegue la scrittura e se quello che scrivo vi convince o meno.

Un grazie anche a chi ha messo la mia storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo arriverà tra due settimane, domenica 8 novembre.

Grazie di cuore!

 

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Capitolo 48
*** Pali e Paletti ***


Nessun Alibi


Capitolo 48 - Pali e Paletti


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“E taci!”

 

Premette compulsivamente il pulsantino del cellulare per spegnere la sveglia.

 

Come minimo si sarebbe ritrovata con ottocento foto, anzi screen, come li chiamava Valentina, della schermata di avvio del suo cellulare, ma era esausta.

 

Si era addormentata nuovamente dopo le quattro e la stanchezza cominciava ad accumularsi. Del resto, avere Calogiuri così vicino ma così lontano non era facile neanche per lei.

 

Si chiese se fosse ancora in casa.

 

Da un lato era ancora molto arrabbiata con lui e non lo voleva vedere. Un’altra parte di lei però sentiva la sua mancanza.

 

Del suo sorriso, dei suoi occhi e del suo abbraccio la notte.

 

Ma era proprio per quello che doveva essere forte, vederlo il meno possibile e non farsi infinocchiare un’altra volta da quegli occhioni azzurri da cucciolo spaurito. Non avrebbe ceduto finché lui non le avesse dimostrato di aver capito i suoi errori e di essersi svegliato.

 

Se non lo avesse fatto… sperava veramente di non doverlo cacciare nuovamente di casa e stavolta definitivamente.

 

Anche se forse… forse sarebbe stato per il bene di entrambi.

 

La storia del notaio del giorno prima l’aveva molto turbata. Il pensiero di essere un peso per lui in futuro, una zavorra, ovviamente non era la prima volta che la coglieva, anzi. Ma leggere la disperazione di Ferdinando Spaziani nelle parole che aveva lasciato alla moglie era stato uno schiaffo, una botta di realtà. Allo stesso tempo, però, vedere Calogiuri tanto commosso l’aveva fatta un poco sciogliere.

 

E poi le piaceva ancora tanto, troppo, lavorare con lui.

 

Per carità, sapeva che Calogiuri doveva scegliere da solo quale fosse il suo bene e non pretendeva da lui la maturità assoluta di colpo, come insinuava Valentina. La sua innocenza era pure il suo bello. Ma non se diventava stupidità, un alibi o un motivo per mancarle di rispetto. E mancarsi di rispetto.

 

Se no sarebbe stato meglio senza di lei e lei senza di lui, perché vedere quella foto di lui che si baciava con Irene l’aveva distrutta. L’aveva fatta sentire stupida e patetica come mai prima. Per non parlare di quando si era immaginata la scena della sauna.

 

E non poteva permettersi altri contraccolpi del genere.

 

Lentamente, aprì la porta della camera, guardandosi intorno, per capire come fosse la situazione.

 

La casa era silenziosa ed ancora mezza in penombra. Aprì il bagno e non c’era nessuno. Si avviò verso la zona giorno e trovò il divano perfettamente richiuso. 

 

Non sapeva se fosse più sollevata o più delusa.

 

Si guardò intorno e notò che la tavola era già apparecchiata per la colazione. Si avvicinò e trovò, nell’ordine, un cartoccio bianco contenente un bombolone alla crema, la moka sul fornello, pronta da accendere, e, soprattutto, un biglietto al centro della tovaglietta, con la scrittura ordinata e precisa di Calogiuri.

 

Sono uscito a correre presto, mi cambio in procura prima che arrivino gli altri.

Ti amo, anche se forse non ci credi più, ma io non smetterò mai di credere in noi due.

 

Mannaggia a lui, mannaggia! Aveva questo potere, pericoloso, di dire e scrivere cose che avrebbero squagliato pure il Polo Sud.

 

Non era il momento di cedere alla commozione.

 

Però prese il biglietto, se lo portò in camera, se lo richiuse nel comodino, sopra alla cornice con le foto di loro due, ancora ribaltata, e poi si avviò a fare colazione, sentendo che avrebbe avuto un poco più appetito dei giorni precedenti.

 

*********************************************************************************************************

 

“Buongiorno.”

 

Alzò gli occhi immediatamente, sentendo la sua voce.

 

E balzò in piedi, mentre cercava di coglierne l’umore.

 

Non sembrava arrabbiata ma era comunque illeggibile: una maschera di professionalità, un po’ brusca, come era sempre.

 

Anche se non con lui.

 

“Calogiuri, puoi seguirmi da Mancini? Dobbiamo riferire su quanto scoperto ieri.”

 

“Naturalmente, dottoressa,” rispose, sollevato che, quantomeno, si rivolgesse direttamente a lui, pure guardandolo negli occhi, senza ignorarlo come i giorni precedenti.

 

“Portati dietro la registrazione e la copia della lettera.”

 

“Dottoressa, se vuole posso stampare la trascrizione, ci metto un attimo, veramente.”

 

“Hai già fatto la trascrizione?” gli chiese, sembrandogli sorpresa e forse un poco colpita.

 

“Sì, ho avuto un poco di tempo stamattina e quindi…” rispose, in quello che era un messaggio in codice tra loro.

 

Effettivamente era arrivato in procura un’ora prima di tutti gli altri, almeno, per non essere a casa quando Imma si sarebbe svegliata, come gli aveva ordinato.

 

“Bene. Allora stampala e portala con te. Per intanto dammi la copia della lettera. Ti aspetto da Mancini,” proclamò, prima di afferrare la cartellina, girarsi e sparire oltre la porta della PG.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa, si accomodi. Voleva parlarmi?”

 

“Sì, dottore, volevo aggiornarla sul caso Spaziani. Siamo ad una svolta,” spiegò, sedendosi sulla poltrona di fronte alla scrivania del procuratore capo.

 

“In che senso?”

 

Sentendosi ancora male al solo rivederla, Imma estrasse la copia della lettera dalla cartellina e gliela passò.

 

“Ho già disposto per una perizia grafologica sulla firma dell’originale, dottore. Se… se risulterà compatibile con la scrittura di Ferdinando Spaziani, vorrei disporre l’immediata scarcerazione di Amedeo Spaziani.”

 

Mancini non disse niente ma, mentre leggeva, i suoi occhi si spalancarono e parve completamente sconvolto.

 

Non che non lo capisse, anzi.

 

“Dottoressa, io-”

 

In quel momento bussarono alla porta e la segretaria di Mancini annunciò, “dottore, il maresciallo Calogiuri.”

 

Mancini guardò verso Imma, sembrando ancora più sorpreso, e facendole segno come a chiederle se la presenza di Calogiuri le fosse gradita o meno.

 

“Ho chiesto al maresciallo di raggiungerci perché ha la registrazione e la trascrizione dell’incontro di ieri col notaio, in caso volesse consultarle.”

 

Mancini sospirò e fece segno alla segretaria di farlo passare. Calogiuri comparve sulla porta, un’altra cartellina in mano, e la passò a Mancini.

 

I due uomini si fissarono in un modo che non prometteva niente di buono ma poi Calogiuri si sedette accanto a lei, rigidissimo, e Mancini, con un altro sospiro, iniziò a leggere la trascrizione.

 

Attese fino a quando ebbe finito, guardando dritta davanti a sé, anche se percepiva le occhiate di Calogiuri, pur senza poterle vedere.

 

“Dottoressa, che vorrebbe fare ora?” le domandò poi Mancini, una volta che ebbe terminato la lettura, incrociando il suo sguardo.

 

“Come le ho detto, se la perizia grafologica rivelerà che quella firma è realmente di Ferdinando Spaziani, vorrei predisporre la scarcerazione immediata di Amedeo Spaziani, dottore. Il notaio, oltre ad essere un professionista, mi è sembrato sincero pur nella… difficoltà nell’esprimersi a voce. E, in ogni caso, mi pare una storia troppo… dolorosa… per essere inventata, per favorire il giovane Spaziani, magari.”

 

Mancini rimase un attimo immobile, ma poi chiuse gli occhi ed annuì.

 

“Immagino lo sappia meglio di me, dottoressa, ma questa si configura come eutanasia vera e propria, non come suicidio assistito, secondo la sentenza della Cassazione. Il medico che l’ha praticata andrebbe perseguito. Che pensa di fare?”

 

“Come ha letto, dottore, il notaio sostiene di non conoscere l’identità del medico e che si tratti di un professionista svizzero. Come lei sa meglio di me, in Svizzera l’eutanasia non è un reato. Certo, praticarla in Italia lo è, ma… possiamo fare ulteriori ricerche, ma ritengo improbabile riuscire ad individuare il dottore, o almeno averne le prove definitive. Sa che è molto facile muoversi tra l’Italia e la Svizzera senza essere individuati e chiedere l’estradizione non è semplice, soprattutto visto che è un atto con rilevanza penale in Italia ma non in Svizzera. Comunque la terrò aggiornata.”

 

Mancini annuì e li congedò, sembrando ancora un poco scombussolato.

 

Calogiuri si alzò, le aprì la porta e la fece passare per prima, come da copione ormai consolidato.

 

La accompagnò fino alle scale e poi la guardò per un attimo, con un misto di dolore e di... senso di colpa?, finché con un “se avete bisogno di me, sono in PG.” si voltò e scese le scale.

 

Ma lei quasi non lo sentì nemmeno.

 

Perché in quel momento tutto le fu chiaro.

 

*********************************************************************************************************

 

“Buonasera. Calogiuri, se non tieni cose urgenti da fare, andiamo?”

 

Si era appena tirato in piedi e per poco non ricascò sulla sedia. Vide Mariani sorridere dalla sua scrivania e fargli l’occhiolino. Carminati invece aveva un’espressione che non prometteva niente di buono, ma non disse niente.

 

“Sì, certo che posso venire,” rispose, spegnendo di corsa il computer, afferrando la sua giacca e raggiungendola, mentre notava che erano solamente le diciassette e trenta.


Presto per lei per rientrare. Si preoccupò che stesse poco bene, ma sembrava camminare al suo solito passo marziale.

 

Non appena uscirono, vennero accecati dal flash di uno dei fotografi rimasti a presidio, ormai giusto un paio. Come al solito, le fece da scudo, la aiutò a salire in auto e si mise al volante.

 

Partì rapidamente, per evitare di essere seguiti.

 

“Faccio un giro un poco più largo e ti riporto a casa. Ma come mai così presto questa sera?”

 

“Perché non andiamo a casa, Calogiuri,” rispose lei, semplicemente, picchiettando sul cellulare, “ti dò un indirizzo. Lo imposti sul navigatore, appena ci siamo allontanati un po’?”

 

“V- va bene,” acconsentì, sorpreso ed intrigato da tutta quella segretezza.

 

Una parte di lui sperava che magari Imma lo avesse perdonato e fosse una sorpresa per fare pace. Un’altra parte però, conoscendo Imma, e sapendo di essere lui stesso a dover fare ammenda, dubitava che, al limite, lei si aspettasse che fosse lui ad organizzarle qualcosa.

 

Guidò in silenzio per qualche minuto, poi Imma annunciò, “dobbiamo andare a fare una visita non ufficiale, Calogiuri. Per questo non mi sono portata dietro Mariani: uscendo con te nessuno avrebbe sospettato che fosse per lavoro.”

 

La guardò, ma lei era sempre concentrata sulla strada.

 

Da un lato era deluso, che quella non fosse l’apertura che sperava, il ricominciare a tornare a casa insieme. D’altro canto, era comunque un gesto di fiducia nei suoi confronti, anche se solo lavorativamente parlando.

 

Ma con Imma era già tantissimo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma questa è….”

 

Calogiuri aveva la bocca spalancata in un modo quasi comico. Non se lo aspettava proprio.

 

La scritta Villa Mughetto era incisa sul cancello e su alcuni cartelli che indicavano il parcheggio e dove fosse la reception.

 

“La clinica dove è morta la moglie di Spaziani, sì,” confermò, non perdendo tempo a scendere dall’auto, “forza, Calogiuri, veloce, che è già tardi, se no rischiamo di non trovare più nessuno!”

 

Lui le sorrise e si affrettò a raggiungerla. Lei scosse il capo e si infilò tra le porte automatiche dell’ingresso.

 

“Buonasera. Ho bisogno di parlare urgentemente con il dottor Renato de Carolis.”

 

“Ha un appuntamento, signora…?”

 

“Sostituto Procuratore Immacolata Tataranni ed il maresciallo Ippazio Calogiuri. Non abbiamo un appuntamento, a meno che il dottore non voglia seguirci in procura. Se lo può chiamare… gli dica che ci manda il notaio Torregalli.”

 

La ragazza sbiancò, poi divenne rossa da far concorrenza a Calogiuri, ed infine si mise a digitare rapidamente sul telefono interno.

 

“Dottore, sì, c’è qua una certa dottoressa Tataranni, un magistrato, con un carabiniere. Dice che la manda il notaio Torregalli. Che cosa-? Va bene, va bene, riferisco.”

 

“Potete passare,” proclamò la ragazza, dopo aver messo giù il telefono, “quarto piano, terzo studio sulla sinistra.”

 

“Grazie…” sospirò, avviandosi il più rapidamente possibile all’ascensore.

 

Il rischio di fuga di De Carolis era minimo - e del resto dove poteva andare? - ma meglio affrettarsi.

 

Scesi al piano, fece un cenno d’intesa a Calogiuri e lui la precedette, una mano sulla fondina, in caso di guai.

 

La porta era chiusa e Calogiuri bussò.

 

“Avanti!”

 

Calogiuri spalancò la porta ed Imma si trovò di fronte all’uomo che aveva visto nella foto con Spaziani, forse leggermente invecchiato.

 

Di sicuro con un’espressione sorpresa e spaventata.

 

“Dottoressa,” sospirò, alzandosi dalla scrivania, prima di fare un cenno verso le sedie di fronte a lui.

 

“Immagino lei sappia perché stiamo qua, dottore.”

 

“Rodolfo ha parlato, non è vero?” sospirò nuovamente, sembrando rassegnato, “Amedeo Spaziani non c’entra niente, dottoressa, quella dell’insulina è stata un’idea mia.”

 

“In realtà il notaio non ha fatto il suo nome, dottore, ma era chiaro che ci fosse lei dietro a tutta questa vicenda.”

 

De Carolis spalancò e poi chiuse la bocca, di scatto, infine si lasciò cadere sulla poltrona.

 

“Senta, facciamo così. Io le dico cosa è successo e lei mi conferma se è giusto, va bene?” gli chiese Imma, vedendolo provato, ed il dottore annuì flebilmente.

 

“Lei aveva già aiutato la prima signora Spaziani a morire, non è vero?” iniziò e De Carolis immediatamente parve ancora più sorpreso e ancora più rassegnato.

 

Annuì una volta, chiedendole, “ma come…?”

 

“Nel leggere l’ultima lettera di Ferdinando Spaziani, una cosa mi ha colpito. Parlava di essere rimasto tanto tempo da solo per il senso di colpa e raccomandava alla consorte ed al figlio di non fare i suoi stessi errori. Barbara ed Amedeo Spaziani avevano i loro scheletri nell’armadio, belli grossi pure, ma mi chiedevo perché Ferdinando Spaziani dovesse sentirsi tanto in colpa verso una moglie morta per una malattia incurabile, per tutti quegli anni, poi. Non era solamente il senso del dovere nei confronti del figlio, no, lui parlava proprio di senso di colpa. Lo rimarcava più volte. E allora mi sono chiesta… e se la morte della signora Spaziani non fosse stata così… naturale? E se Spaziani si fosse sentito in colpa per aver assecondato il desiderio di lei di morire, magari aiutato da un medico compiacente e che entrambi conoscevano molto bene?”

 

De Carolis non disse niente: era proprio ammutolito.

 

“Poi, quando anche Spaziani ha contratto una malattia terribile ed è arrivato ad un punto in cui era in uno stadio avanzato, ha pensato bene di chiederle aiuto, sia per smettere di soffrire, sia per risolvere il problemi della moglie e del figlio. E lei ha accettato di aiutarlo, no, dottore? Entrambi speravate che, viste le condizioni di salute di Spaziani, la sua morte sarebbe stata classificata come naturale. Ma, purtroppo per lei e per lui, il figlio di Spaziani ha fatto fuoco e fiamme, odiando la matrigna e ritenendola capace di uccidere il padre. E quindi c’è stata un’inchiesta ed un’autopsia e… lei ha rischiato che si scoprisse tutto quanto. Il figlio di Spaziani è stato implicato e lei… ha pensato bene di aiutarlo, fornendogli l’insulina per incastrare il povero Galiano.”

 

Un altro sospiro ed il medico finalmente parlò.

 

“Sì, dottoressa, con Amedeo ci eravamo visti al club e… ero preoccupato per lui. Sa, io l’ho visto crescere, l’ho incontrato che era un ragazzino, un adolescente. E pensare che ora Amedeo ha l’età che avevo allora, più o meno. Non… non avevo nulla contro Barbara, dottoressa, ma Amedeo mi aveva detto che lei aveva un alibi e lui no e che era sicuro fosse stato l’amante di lei, ma non sapeva come fare a provarlo e a scagionarsi. Io… mi sentivo in colpa nei suoi confronti, dottoressa, e allora… mi sono offerto di procurargli l’insulina.”

 

“Si è offerto lei di procurargliela o Amedeo Spaziani l’ha manipolata per farsela offrire da lei, dottore?” gli chiese, perché era stato un rischio enorme per il medico fare una cosa simile.

 

“Non… non lo so, dottoressa. Ma sono stato io a fare l’offerta e… Amedeo ha accettato. Lo sapevo di stare facendo una cosa sbagliata, dottoressa, ma almeno sia Barbara che Amedeo sarebbero stati salvi, che era la cosa che Ferdinando voleva più di ogni altra. E…”

 

“E chi se ne frega se un povero cristo si sarebbe fatto la galera, da innocente, no? Tanto lui non lo conosceva da quando era adolescente,” esclamò, incazzata nera, anche se non avrebbe saputo bene dire il perché, “sarebbe bastato che lei ammettesse quello che aveva fatto, se realmente non voleva coinvolgere nessuno.”

 

“Lo so, dottoressa, lo so, ma… mi creda, ho pensato diverse volte di costituirmi, ma… temevo di finirci io in galera e di non poter più fare il mio lavoro, dottoressa, aiutare chi ha bisogno di me. Ho sperato che prima l’avvocato e poi Amedeo riuscissero alla fine a scagionarsi, se no mi sarei presentato spontaneamente prima della fine del processo.”


“E lei pensa che stare in galera fino alla fine del processo sia una passeggiata di salute, dottore?”

 

“No, no, ma… speravo che Amedeo riuscisse a ottenere presto gli arresti domiciliari, vista la sua posizione e gli avvocati che si può permettere. Mi rendo conto che può sembrare egoista, dottoressa, ma per me il mio lavoro è una missione e viene prima di tutto.”

 

“Quale lavoro? Salvare vite o toglierle?” sibilò, non riuscendo a nascondere il tono sprezzante, davanti a tanta faccia tosta, “se lo ricorda il giuramento di Ippocrate, dottore? Primum non nocere.”

 

De Carolis balzò in piedi, sporgendosi verso di lei, tanto che Calogiuri lo imitò e stava per afferrarlo, quando Imma lo bloccò per un braccio, sollevandosi a sua volta per affrontare il medico.


“Lei pensa di sapere cosa vuol dire nuocere, dottoressa? Mi spieghi lei cos’è più nocivo, se aiutare un paziente a smettere di soffrire, dandogli una morte serena, o costringerlo a cure per tenerlo in vita artificialmente con dolori atroci. Oppure costringerlo a morire di fame, o sete, o senza respirare, per potersene andare senza violare le leggi. Io questa scelta l’ho fatta molti anni fa, dottoressa, dopo aver visto in che condizioni queste persone sopravvivono, anzi, sono costrette a sopravvivere arrivate ad un certo punto. E perché? Perché ci deve essere un valore nella sofferenza, neanche fosse un merito? In molti stati l’eutanasia è legale, dottoressa, ma in Italia no, c’è solo il suicidio assistito. Ma se un uomo ha i problemi che aveva Spaziani, che non riesce neanche a tenere in mano una penna, come deve fare ad andarsene da solo, senza aiuti? Mi dica lei se questa sua legge è giusta, dottoressa, se è giusto costringere delle persone a vivere soltanto perché la medicina può tenerle in vita.”

 

Imma rimase senza parole, di fronte a tanta veemenza e disperazione.

 

Sulla condotta riguardo ad Amedeo Spaziani e all’insulina, il dottore aveva sbagliato completamente ma su questo… poteva veramente lei giudicare? Poteva una legge giudicare?

 

“Io non so cosa sia più giusto in questo caso, dottore, ma non spetta a me deciderlo. Io devo fare rispettare le leggi, che però si possono cambiare, se ingiuste.”

 

“E quando, dottoressa?! Ci è voluta una sentenza della Cassazione per avere uno spiraglio minimo. Ma a lei pare giusto che un giudice possa decidere se un medico che aiuta un paziente ad andarsene ha compiuto un omicidio o un suicidio assistito secondo una minima differenza procedurale? Che legge sarebbe questa?”

 

“Dottore, già gliel’ho detto. Le leggi si possono pure cambiare e penso che questa storia potrebbe aiutare a farlo, che la sua esperienza potrebbe aiutare a cambiare le cose, invece di continuare a fare tutto sottobanco. Le dò ventiquattr’ore per costituirsi. In caso lo faccia spontaneamente, cercherò in ogni modo di perorare la teoria che sia stato un suicidio assistito e quindi legale. Naturalmente però le resteranno le imputazioni per aver aiutato Amedeo Spaziani nel tentativo di incastrare Galiano per la morte di suo padre. Nonché per aver sottratto illegalmente l’insulina da questa clinica.”

 

“Dottoressa…” sospirò lui, accasciandosi nuovamente sulla sedia.

“Non me ne faccia pentire, dottore,” gli intimò, guardandolo dritto negli occhi, che gli si riempirono di lacrime, e De Carolis annuì.

 

“Andiamo, Calogiuri?” gli chiese poi, voltandosi verso di lui e notando che pure lui di sicuro non ce li aveva asciutti.

 

Non che lei fosse messa meglio.

 

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“Pensi che si costituirà veramente? E che non avrà problemi?”

 

Erano appena saliti in macchina e stava avviando il motore, ma non poteva più trattenersi dal domandarglielo.

 

“Lo spero, Calogiuri. E, ovviamente, qualche guaio con la giustizia ce l’avrà e pure con l’Ordine dei Medici - e giustamente, con quello che ha combinato a Galiano! - ma… sempre meglio di un’imputazione per omicidio, no?”

 

Partì, non riuscendo ad evitare di essere preso da tanti pensieri, confusi e contrastanti, su quella storia.

 

“A che pensi?” gli chiese all’improvviso e si voltò, trovandola ad osservarlo, con curiosità e forse un po’ di preoccupazione.

 

“A che… che sono orgoglioso di te, moltissimo,” le rispose, temendo per un attimo che lei reagisse male, essendo lui più giovane ed un sottoposto. Invece le labbra le si tesero in quello che pareva quasi un accenno di sorriso, “e poi… e poi che… non so cosa farei se… mi trovassi in una situazione simile. Sia se… se fossi io il malato, sia se fossi uno dei parenti. Il figlio, magari.”

 

Imma abbassò gli occhi, sospirò e poi riprese a guardare la strada.

 

Rimase deluso, pensando che la conversazione fosse già finita, ma invece lei riprese a parlare, come se stesse ragionando anche tra sé e sé, “non lo so, Calogiuri. Credo che in certe situazioni bisogna trovarcisi per sapere come si reagirebbe ma… so solo che, anche se la sua morte improvvisa è stato uno shock, sono felice di non essere arrivata a quel punto con mia madre. Se invece toccasse a me essere… condannata ormai a morte e sofferente… credo che non vorrei soffrire all’infinito o essere un peso per gli altri.”

 

“Non potresti mai essere un peso, Imma, non dirlo nemmeno per scherzo!” non potè trattenersi dall’esclamare, ma lei fece una risata amara e lo guardò in un modo che gli fece malissimo.


“Certo che lo potrei essere, invece: non prendiamoci in giro, Calogiuri! C’ho sedici anni più di te. È molto facile che io possa un giorno diventare non autosufficiente, mentre tu sarai ancora giovane!”

 

“Sedici anni non sono trenta, Imma, e se… se tu soffrissi troppo… è un conto ma… se si ama si ama sempre, pure se uno è malato o non si può muovere. Finché c’è vita e… e appunto non si soffre tremendamente, per me c’è speranza, lo sai, no? A parte che potrebbe pure capitare a me, col lavoro che faccio, e lo sai. E poi… e poi le donne vivono in media cinque anni più di noi uomini, quindi, alla fine se ci pensi resta una decina d’anni, forse neanche, visto come sei fatta tu.”

 

“E da quando saresti un esperto della speranza di vita alla nascita, Calogiuri?” gli chiese, alzando un sopracciglio, con un’espressione indefinibile.


Accostò l’auto, ricambiò lo sguardo e le disse, “da quando non so immaginare la mia vita senza di te.”

 

Le uscì dalla gola un suono strozzato, che gli fece una tenerezza incredibile, e poi vide gli occhi di lei riempirsi nuovamente di lacrime, mentre una le sfuggiva sulla guancia.

 

Si sentì stringere la mano, un calore che gli si irradiò lungo il braccio, mentre il cuore gli batteva fortissimo, di felicità. Dopo un attimo di esitazione, non solo ricambiò la stretta ma, con l’altra mano, le sfiorò la guancia, per asciugarle le lacrime.

 

Imma, per fortuna, non si ritrasse e-

 

E in quel momento un trillo rimbombò nell’abitacolo ed Imma si staccò bruscamente, finendo di asciugarsi il viso da sola.

 

Maledicendo il tempismo di chiunque lo avesse cercato, prese il telefono dal suo posto sotto la radio e lesse quel nome.

 

Irene

 

In tralice, vide Imma irrigidirsi sullo schienale, le braccia incrociate al petto, e capì che l’aveva visto pure lei.

 

“Tieni, leggilo tu, non ho niente da nascondere,” si affrettò a dirle, passandole il cellulare.

 

“Non stiamo alle elementari e non è necessario, Calogiuri. Il problema non sono certo due messaggetti, è tutto il resto il problema.”

 

“Va bene, ma comunque pure i due messaggetti non hanno segreti per te. Leggi,” ripetè, mettendole praticamente il telefono in grembo.

 

Temette per una frazione di secondo che glielo spaccasse da qualche parte - in faccia, per non dire altro - ma poi Imma sospirò, sbloccò lo schermo e lesse con un sopracciglio alzato.

 

E poi gli mostrò il display.

 

Lo so che non è il momento migliore e che dobbiamo tenere le distanze, ma sabato è il compleanno di Bianca e mi ha chiesto se ci sarai alla sua festicciola che faremo qua a casa. Ci saranno un paio di mie amiche e le loro figlie. Se ti andasse di venire sarebbe un regalo bellissimo per lei, ma capisco se non te la senti. Scusami ancora.

 

Si rivolse ad Imma ma lo fulminò con un, “non guardare me, Calogiuri! Ovviamente non ti impedirei di andare al compleanno di una bambina.”

 

Ma capì sia dal tono che dalla postura quanto l’atmosfera fosse radicalmente mutata.

 

Erano tornati all’Era Glaciale.

 

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“Vado in camera. Tanto non c’ho fame.”

 

Aveva gettato cappotto e borsa all’ingresso e si stava avviando a falcate rapide verso il corridoio.

 

“No, Imma, non puoi non mangiare. Esco io a comprarmi qualcosa sotto casa.”

 

Imma si voltò, fulminandolo con lo sguardo. Era già arrivata troppo vicina a cedere ma, per fortuna, il messaggio della gattamorta l’aveva riportata alla realtà.

 

Non aveva nulla contro Bianca, anzi, ma era uno dei motivi per i quali Calogiuri difficilmente si sarebbe staccato da Irene e lei avrebbe continuato con i suoi assalti più o meno ambigui.

 

“Ti ho già detto che non ho fame, Calogiuri!”

 

“Non se ne parla, sei già abbastanza magra, non puoi digiunare. Non ho problemi ad andarmi a prendere qualcosa,” ribatté, decisissimo, ed Imma sapeva che quando era così non c’erano santi, quindi non disse niente, mentre si rinfilava il giaccone e metteva una mano sulla porta d’ingresso.

 

Si fermò, però, e le disse, guardandola negli occhi, “perché… perché non vieni anche tu al compleanno di Bianca?”

 

Scoppiò a ridere, perché le sembrava paradossale, “Calogiuri, non ho niente contro Bianca, anzi, ma ci manca solo il tutti insieme appassionatamente con la cara Irene, ci manca! E poi abbiamo proprio fatto tutto!”

 

“Ma qua non si tratta di Irene, si tratta di Bianca. E, da quando ti ha conosciuta, ogni volta che la vedo chiede sempre di te. E comunque da solo non ci vado: o vieni con me, o niente. Decidi tu ed in base a quello risponderò ad Irene.”

 

Rimase bloccata per un secondo, sorpresa da tanta veemenza: sembrava ancora più convinto di quando la rimproverava sul non mangiare.

 

E lui uscì prima che potesse fermarlo, anche se forse era meglio così.

 

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“Maresciallo.”

 

Stava tornando dal bar e per poco non gli venne un colpo quando si ritrovò davanti a De Carolis, che aveva la faccia di un morto che cammina.

 

“Dottor De Carolis.”

 

“Volevo… parlare con la dottoressa Tataranni. Per fornire una dichiarazione spontanea.”

 

“Sì, certo, seguitemi,” gli rispose, precedendolo lungo le scale e poi verso l’ufficio di Imma.

 

Bussò.

 

“Avanti!” lo raggiunse l’urlo di lei, con quel tono che gli strappava sempre un sorriso.

 

“Dottoressa, c’è qua il dottor De Carolis che vuole conferire con voi.”

 

Vide l’espressione sorpresa e poi sollevata di Imma.

 

“Sì, fallo pure passare, Calogiuri. Mi andresti a chiamare Mariani, per prendere la deposizione?” gli chiese, con uno sguardo eloquente che era non te la prendere, sai perché è meglio che lo faccia Mariani!

 

“Naturalmente, dottoressa. Dottor De Carolis,” lo salutò, avviandosi a passo svelto verso la PG.

 

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“Io vado, dottoressa. Buon finesettimana!”

 

Fece un cenno con la mano verso Asia che uscì dal suo ufficio, alla gran di corsa. Magari aveva qualche appuntamento.

 

Guardò l’ora: erano già le diciotto ed effettivamente si sentiva stanchissima.

 

La deposizione di De Carolis aveva richiesto un paio d’ore di lavoro almeno e l’aveva spompata quasi quanto quella del giorno prima.


Sentire quella storia era come incontrare uno di quei lenzuoli ambulanti dei libri di Harry Potter che leggeva Valentina: ti toglieva ogni gioia, ogni energia.

 

Con uno scatto, chiuse il fascicolo a cui stava lavorando e decise che poteva pure attendere lunedì.

 

Si infilò il cappotto e si avviò verso le scale, mentre ragionava se farsi accompagnare da Mariani o da Calogiuri.

 

“Dottoressa, aspetti!”

 

Mancini era uscito dal suo ufficio in quel momento e l’aveva chiamata.

 

“Ha bisogno di qualcosa, dottore?” gli chiese, mentre lui si avvicinava, “sto andando a casa.”

 

“No, volevo solo dirle che… mi ha sorpreso molto che De Carolis si sia presentato spontaneamente, dopo che il notaio ha parlato. Sarebbe stato molto difficile risalire a lui. Lei c’entra qualcosa, per caso?” le domandò, con un’occhiata che indicava che aveva intuito benissimo cosa fosse successo.

 

“Ho solamente fatto il mio mestiere, dottore. Ed il caso Spaziani, almeno per quanto riguarda le indagini, è veramente chiuso, non crede?”

 

Mancini scosse il capo ma le fece un sorriso,

 

“Lo vuole un passaggio fino a casa, dottoressa? I fotografi forse si sono arresi, ma meglio non rischiare.”

 

Imma si morse il labbro e poi scosse il capo, “dottore, la ringrazio molto ma… penso che tornerò a casa con Calogiuri, che tanto dobbiamo andarci entrambi.”

 

“Dottoressa, il maresciallo non c’è. Questo pomeriggio è stato via con Irene ed immagino che saranno poi andati direttamente a casa, se hanno finito, o comunque che ormai non torneranno qui in procura.”

 

Una fitta di gelosia la colpì proprio dietro lo stomaco.

 

Cercò però di trattenerla: Calogiuri con la Ferrari ci lavorava e già non poteva collaborare con lei, non voleva certo impedirgli di farlo con la procuratrice che aveva i casi più importanti.

 

Una parte di lei era tentata, molto tentata, di accettare la proposta di Mancini e tornare a casa con lui. E magari fare un poco poco rodere qualcuno.

 

Ma sarebbe stato infantile e poi non voleva rischiare assolutamente di passare dalla parte del torto, perché una mancanza di rispetto non ne giustifica mai un’altra, né in positivo, né in negativo.

 

“Allora vorrà dire che mi farò accompagnare da Mariani. Dovrebbe essere ancora qua, visto che abbiamo lavorato insieme fino a poco fa.”

 

Il volto di Mancini sembrò farsi infinitamente più triste.

 

“Dottoressa, ma è… è soltanto per i giornalisti o sono io ad aver fatto qualcosa che non va?” le chiese, con un tono chiaramente ferito.

 

“Dottore, lei è sempre gentilissimo ed ultimamente mi ha aiutata molto ma… sappiamo entrambi quali sono i… pregressi tra di noi, no? E, vista la situazione, non voglio essere io a creare ulteriori fraintendimenti, in nessuno,” rispose, guardandolo negli occhi e sperando che capisse che in quel nessuno c’era compreso anche lui, oltre a Calogiuri e ai giornalisti.

 

“Dottoressa, lo capisco, ma… le ho già detto una volta che… non ci avrei più provato con lei e non avrei tentato altri… avvicinamenti, salvo sia lei a fare la prima mossa. Anche perché non vorrei mai essere un ripiego o una ripicca nei confronti del maresciallo. Mi dispiace se non si sente a suo agio a stare da sola con me, pensavo che quella fase l’avessimo superata. Ma la capisco e… allora le auguro buona serata ed un buon finesettimana.”

 

“Anche a lei…” riuscì giusto a pronunciare, perché Mancini se ne andò rapidamente, forse a leccarsi le ferite in privato.

 

Una parte di lei non poteva che dispiacersi per lui: le faceva tenerezza e poi era sempre così incredibilmente gentiluomo. Ma, d’altro canto, sarebbe stato peggio illuderlo, perché lei al momento, purtroppo, rimaneva innamorata di un altro, pure se si comportava da idiota.

 

Stava per avviarsi pure lei - due passi non le avrebbero fatto male! - quando, con la coda dell’occhio, notò una macchia chiara vicino alla porta della PG.

 

Mariani, che la guardava a bocca mezza aperta.

 

“Ha sentito tutto, immagino?”

 

Mariani si impanicò e balbettò un, “s-sì, dottoressa. Ora ho capito perché Calogiuri sembrava sempre avercela tanto con Mancini.”

 

“Mariani, se si fa sfuggire qualcosa…!” le intimò, col suo tono più minaccioso.

 

“Stia tranquilla, dottoressa. E a chi dovrei parlarne? A parte a Calogiuri, che tanto già lo sa e non mi pare il caso di rigirargli il dito nella piaga in questo momento.”

 

“Sarà meglio!”

 

“Però… dovrebbe svelarmi il suo segreto, dottoressa. Io i due di picche li prendo sempre e non li dò mai.”

 

“Il segreto? Migliorare i suoi gusti in fatto di uomini, Mariani. Gli stronzi possono attirare quando si è giovani, ma dopo un poco bisogna capire che gli uomini che non devono chiedere mai e che non si esprimono, non è che abbiano chissà quale mistero o profondità da svelare. In realtà è perché non hanno proprio niente da offrire e da dire.”

 

Per un secondo temette di essere stata troppo diretta e brusca, ma Mariani sorrise ed annuì con un, “ha ragione. Ma al cuore non si comanda, dottoressa.”

 

“Lo so. Ma ad un certo punto si comanda, se ciò che ci suggerisce ci rende infelici.”

 

“Però bisogna pure ascoltarlo, no? Se non farlo ci rende infelici,” ribattè Mariani ed Imma si sentì colta in fallo.

 

Mariani non era affatto ingenua, anzi.

 

“Mi scusi, lo so che non sono affari miei, dottoressa e lei fa bene a tenere Calogiuri sulle spine, eh, ma… ieri sera ho sperato che vi foste riconciliati.”

 

Ed era pure coraggiosa, parecchio.

 

“Diciamo che dovrà darmi qualche dimostrazione pratica, Mariani, di aver capito i suoi errori. Ma ci stiamo lavorando. Ora però, mi potrebbe accompagnare a casa?”

 

“Certamente, dottoressa, porto l’auto qua davanti, in caso ci fossero ancora i fotografi.”

 

La vide sparire oltre il portone.

 

Era felice che Calogiuri avesse un’amica così. Ma di un’amica così forse avrebbe avuto bisogno pure lei, con Diana tanto distante.

 

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Ti ho lasciato purè e polpette in frigo, solo da scaldare.

Io ho già mangiato e sono andato a fare un poco di spesa.

Avvisami quando posso rientrare e se hai bisogno che compri qualcosa in particolare.

Sempre e solo tuo,

Calogiuri

 

Imma rifletté sullo strano potere che aveva da sempre Ippazio Calogiuri su di lei. Se con il resto dell’umanità, figlia compresa, doveva sforzarsi per non perdere la pazienza, con lui doveva sforzarsi per rimanere in collera.

 

Altro che pericoloso era!

 

Estrasse le vaschette dal frigo e le mise a scaldare in microonde.

 

Stava mangiando la seconda polpetta - doveva farsi dare la ricetta! - quando, d’istinto, prese il telefono ed iniziò a comporre un messaggio.

 

Non fare lo scemo e rientra, mica sei in esilio e

 

Riuscì a scrivere giusto quello, perché il telefono iniziò a vibrare e squillare, cadendole sul tavolo.

 

Stava già maledicendo chiunque fosse - per fortuna il cellulare era robusto - quando il nome sul display le fece chiudere lo stomaco.

 

Non poteva rifiutare di nuovo la chiamata, ma non ne aveva assolutamente voglia.

 

“Pronto, Pietro?”

 

“Imma! E finalmente! Sono giorni che provo a chiamarti e tu non rispondi! Ero preoccupato, ho pure chiesto notizie a Valentina per capire se stessi bene.”

 

“Sto bene, Pietro, sto bene, sono solamente stata intasata da telefonate di gente che, appunto, voleva sapere se stessi bene. E lo sai che ho una pazienza molto limitata.”

 

“Ma c’abbiamo una figlia in comune, Imma, abbiamo condiviso vent’anni di vita, direi che, rispetto a tutte le altre telefonate, una priorità, almeno piccola, dovresti pure concedermela, o no?”

 

Imma sospirò e si sfregò gli occhi: effettivamente se fosse successo qualcosa a Pietro, se lei lo avesse cercato e lui non le avesse risposto, si sarebbe incazzata e non poco.

 

“La prossima volta cercherò di risponderti prima, Piè, ma pure tu, però, non mi cercare subito, cinque secondi dopo che escono le notizie. Puoi capirlo che sarò impegnata, no?”

 

“Va bene. Ma hai una voce strana. Sei sicura di stare bene?”

 

“Stavo mangiando, Pietro, sarà per quello.”

 

“Lui è lì? Per questo sei strana? I giornali prima dicono che lo hai cacciato di casa, poi che avete fatto pace, non è facile capire che succede nella tua vita.”

 

I buoni propositi svanirono e l’irritazione la prese di nuovo.

 

“Pietro, con tutto il rispetto, sono affari miei.”

 

“Allora non lo hai perdonato, visto il tuo tono e-”

 

“Visto che ci tieni tanto a saperlo, Calogiuri non è qui ma a fare la spesa, dopo che mi ha preparato la cena. Immagino che tornerà tra poco. Se vuoi ti passo la ricetta delle sue polpette al sugo, già che gliela devo chiedere pure io. Meritano assai.”

 

“Imma, ma perché reagisci così? Sono solo preoccupato per te!”

 

“Perché sei umano, Piè, e so benissimo che non è solo per preoccupazione che mi chiami, ma anche perché una parte di te non vedeva l’ora di dirmi, magari non esplicitamente, ma tra le righe, che me lo avevi detto, che Calogiuri è un ragazzino, che mi lascerà o mi tradirà eccetera, eccetera, eccetera….”

 

“Veramente volevo solamente accertarmi che non stessi troppo male, Imma. Ma buon per te se al tuo maresciallo perdoni un bacio appassionato con una collega dopo due giorni. Una volta eri diversa.”

 

“Sì, sono diversa, ma un bacio con un’altra col cavolo che lo perdonerei, pure a Calogiuri! Ma quello era solamente lavoro.”

 

“Sei proprio cambiata, Imma! Se sta bene a te, buon per te. Volevo proporre a Valentina di rimanere lì domani, per starti vicina, invece che venire da me, ma a questo punto, visto che stai bene, non mi pare il caso. E, se reagisci in questo modo ogni volta che mi preoccupo per te, eviterò di farlo in futuro.”

 

La linea si interruppe bruscamente. Le aveva chiuso il telefono in faccia.

 

L’irritazione ormai era debordata in incazzatura. Si infilò in bocca in rapida sequenza le due polpette ed il poco purè rimasti, buttò tutto nella lavastoviglie ed andò in camera.

 

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Non avrebbe dovuto mangiare così in fretta e poi mettersi a letto.

 

Le sembrava di avere un cinghiale sulla pancia, peggio di una nota pubblicità, ma erano le polpette che le nuotavano nello stomaco.

 

Si alzò, decidendo di andare in bagno e poi a farsi una limonata calda, sperando che risolvesse.

 

Uscendo dalla stanza, notò subito che era tutto buio.

 

Effettivamente non aveva sentito alcun rumore, mo che ci pensava.

 

Calogiuri non era né in bagno né in salotto. Ma dov’era finito?! Erano le ventitré passate.

 

La limonata poteva attendere. Prese il telefono e gli inviò immediatamente un messaggio.

 

Ma la spesa sei andato a farla a Grottaminarda? Dove sei finito?!

 

Lui lo lesse immediatamente e vide che prese a rispondere. Voleva proprio capire che scusa si inventava mo!

 

Veramente aspettavo un tuo messaggio per rientrare, come ti avevo detto. Per fortuna non ho comprato i surgelati. Sto nel bar sotto casa.

 

Alle polpette si aggiunse una fitta di senso di colpa: presa dalla rabbia nei confronti di Pietro, si era completamente scordata di inviargli il messaggio.

 

Lo ripescò e lo completò.

 

Non fare lo scemo, rientra! Mica sei in esilio che devi aspettare il mio permesso!

 

La frase “sta scrivendo…” rimase attiva molto a lungo, ma alla fine le giunsero solo due parole.

 

Va bene.

 

Era incazzato, era evidente.

 

Ed un poco lo capiva pure.

 

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Sentì la porta d’ingresso aprire e poi richiudersi.

 

Lo vide liberarsi del giubbotto e poi, senza una parola, poggiare le buste della spesa di fronte al frigorifero.

 

Cominciò a ritirarla, sempre senza parlare, con una rapidità che non era da lui, tanto quanto quel genere di silenzio, pur essendo uno di poche parole.

 

“Calogiuri….” gli sussurrò, ma lui continuò a infilare le verdure nell’apposito scomparto, “Calogiuri, io-”

 

“Imma, lo capisco che sei arrabbiata con me, lo capisco,” proclamò improvvisamente, mollando i gambi di sedano per voltarsi, e lesse chiaramente la rabbia ed il dispiacere trattenuti in quegli occhi azzurri, “posso pure capire che non mi vuoi vedere. Lo so che ho sbagliato e che mi devo fare perdonare. Ma basta che me lo dici e mi attrezzo per cenare fuori e tornare solo per dormire, invece di rimanere da qualche parte come uno scemo ad aspettare per ore che tu ti degni di darmi un cenno. Ti amo e farei quasi qualsiasi cosa per dimostrartelo, ma non sono un cagnolino che sta fuori in giardino ad aspettare che gli apri.”

 

Imma rimase a bocca spalancata. Un senso di qualcosa, tra la colpa e l’orgoglio, le si mosse nel petto.

 

Quanto le piaceva quando tirava fuori il carattere!

 

“Hai ragione,” le toccò ammettere, con un sospiro, “e ti chiedo scusa ma… ho ricevuto una chiamata di Pietro e mi sono così arrabbiata che il messaggio mi è proprio passato dalla capa.”

 

“Pietro? Ma che è successo? Che ti ha detto?” le chiese, l’incazzatura che sembrava essergli svanita all’istante, trasformandosi in preoccupazione.

 

Sul mettere da parte l’orgoglio in caso di emergenza erano molto simili, pur essendo due testoni.

 

“Tranquillo, non è successo niente. Diciamo che si aspettava di trovarmi disperata ed in crisi, ma non gli ho voluto dare soddisfazione. E quindi abbiamo discusso e mi ha attaccato il telefono in faccia.”

 

“Mi- mi dispiace. Lo so che tutto questo casino è colpa mia. Ma l’ultima cosa che avrei mai voluto era che qualcuno potesse dubitare di quello che provo per te. Soprattutto tu.”

 

Il cuore le si sciolse peggio dei surgelati che Calogiuri non aveva comprato. C’era qualcosa di così disarmante nel modo in cui aveva pronunciato quelle parole, dritto negli occhi.

 

Ma finì di ritirare la spesa e lui la aiutò, in silenzio.

 

Poi la guardò, come a chiederle il da farsi.

 

Forse un permesso.

 

“Il… il bagno è libero, l’ho già usato. Se hai bisogno di farti una doccia è tutto tuo.”

 

Lui parve un poco deluso ma annuì e con un “allora, buonanotte...” si avviò verso il corridoio.

 

“Aspetta!”

 

La lingua si era mossa più rapidamente del suo cervello. Era stato il cuore a parlare per lei e Calogiuri si voltò nuovamente, fissandola in un modo speranzoso che le faceva male.

 

“Sì?”

 

Lottò contro se stessa per qualche interminabile istante.

 

“Per… per il compleanno di Bianca.... se Irene mi vuole tra i piedi, ci vengo pure io.”

 

Non era quello che avrebbe voluto dirgli, o meglio, non solo. Le era mancato il coraggio.

 

Ma lui le regalò un sorriso bellissimo e sembrò quasi commosso nel dirle, “se non ti vuole non ci vado neanche io, te l’ho già detto.”

 

“Ma non è giusto nei confronti di Bianca, Calogiuri.”

 

“Sarebbe Irene a farle un torto in quel caso, non io.”

 

La commozione e l’orgoglio ormai le scoppiavano nel petto, mentre qualcosa dentro di lei urlava di abbracciarselo, lì, subito.

 

E non solo quello.

 

Ma, mentre combatteva la sua battaglia invisibile, Calogiuri pronunciò un altro “buonanotte!” e, prima che quasi se ne accorgesse, la porta del bagno gli si richiuse alle spalle.

 

Meglio così! - le suggerì una voce.

 

Ma ne era sempre meno convinta.

 

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Diede un pugno al cuscino e si voltò di nuovo, come una cotoletta.

 

Di dormire non se ne parlava. Continuava a pensare a lui: al suo sorriso, al suo sguardo, perfino a quando le aveva tenuto testa.

 

Alle sue braccia, alle sue mani, alle-

 

Troncò quel pensiero, che stava prendendo una deriva molto pericolosa.

 

Del resto era una donna, non era una santa.

 

Prima quasi di rendersene conto, si trovò in piedi, la mano sulla maniglia della porta.

 

Rimase in stasi, per qualche secondo, mentre cuore - e ormoni - lottavano contro la ragione.

 

Ma poi si costrinse a mollare la presa e tornare a letto: se lo avesse visto non sarebbe riuscita a controllarsi ed era chiaro come sarebbe finita.

 

La attendeva una notte in bianco, in tutti i sensi, in compagnia dei bollenti spiriti.

 

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Aprì la porta, sentendosi più stanca quasi di quando era andata a dormire.

 

Se cinque ore di sonno potevano essere definite dormire.

 

Si incamminò verso la cucina, con l’idea di farsi un caffè doppio, notando il silenzio perfetto che c’era in casa e chiedendosi se Calogiuri fosse uscito a correre o chissà che altro.

 

E fu in quel momento che se lo trovò davanti ed il sonno le passò di colpo.

 

Era disteso sul divano letto, tutto avvolto nel lenzuolo, tanto che sembrava un bozzolo. Forse aveva fatto sogni agitati, la fronte era corrugata e dormiva profondamente.

 

Dio, quanto era bello!

 

Si avvicinò piano piano, per non svegliarlo e godersi ancora un poco quei momenti in cui poteva ammirarselo, non vista.

 

Quanto le era mancato osservarlo dormire! Anche se di solito aveva un’espressione molto più tranquilla e serena.

 

Sempre piano, per quanto fosse - poco - capace di essere delicata, si sedette sul bordo del letto, in uno spazietto lasciato libero dalle braccia di lui.

 

Rimase per un attimo come ipnotizzata, ma poi la sua mano si mosse da sola e si ritrovò ad accarezzargli una guancia.

 

“Im-ma, Imma…” lo sentì sussurrare nel sonno.

 

Almeno sognava lei e non la gattamorta, era già qualcosa!

 

Aveva appena sollevato le dita dalla pelle di lui, quando incrociò due occhi azzurri che la guardavano sonnacchiosi.

 

E poi li spalancò di scatto e si mise a sedere, balbettando, “scu- scusami, non devo avere sentito la sveglia, ma-”

 

“Ma oggi è sabato, Calogiuri, è per quello che non hai sentito la sveglia: non c’è,” lo interruppe, intenerita dal panico di lui.

 

“Con tutto quello che è capitato me ne sono dimenticato!” le disse e, dopo essersi passato una mano sugli occhi ed una tra i capelli, fece per avvicinarsi all’altro capo del letto, come per alzarsi.

 

“Dove pensi di andare, maresciallo?” gli chiese, abbrancandolo per il braccio e lui la guardò, un poco confuso.

 

Si morse le labbra per trattenere un sorriso, ma continuò a fissarlo, dritto negli occhi.

 

L’espressione di lui mutò dalla confusione alla speranza, ma pareva anche come intimorito.

 

Le faceva una tenerezza immane: le ricordava il Calogiuri dei primi tempi della loro relazione clandestina che, quando non la buttava al muro in un bacio appassionato, sembrava aver sempre paura che lei non gradisse i suoi contatti e che potesse respingerlo da un momento all’altro.

 

“Ma perché sei sempre così ingenuo?” gli chiese con un sospiro.

 

“In- in che senso?”

 

“Nel senso che quando una ci sta a provare con te non lo capisci proprio!” gli rispose, dandogli un pizzicotto al braccio.

 

Calogiuri spalancò occhi e bocca e poi le chiese, con un sorriso a ottocento denti, “ma intendi che-”

 

E proprio in quel momento, squillò il telefono di Calogiuri.

 

Una chiamata e, chiunque fosse, era pure insistente.

 

Allungò il collo e lesse il nome sul display.

 

Irene

 

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Il cuore, dallo scoppiargli per la felicità, pareva all’improvviso schiacciato in una morsa tutt’altro che piacevole.

 

Spiò l’espressione di Imma e la vide mutare dal giorno alla notte.

 

Certo che Irene aveva un tempismo che neanche il signor De Ruggeri ai tempi!

 

Il telefono smise di squillare ma ci fu ancora il trillo di un messaggio.

 

Rassegnato, prese il telefono e lo passò ad Imma, facendole segno di leggerlo.

 

“Leggilo pure tu, Calogiuri. Ti ho già detto che non stiamo alle elementari.”

 

Scusami ma vorrei solo sapere se alla fine riesci ad esserci oggi pomeriggio, almeno preparo Bianca se non puoi venire, che non ci rimanga troppo male.

 

Sospirò e mostrò il testo ad Imma, perché non aveva niente da nascondere.

 

Poi, davanti a lei, digitò la risposta.

 

Vorrei portare anche Imma con me. Spero che non ci siano problemi, altrimenti non mi pare il caso di venire, con quello che è successo.

 

Imma rimase impassibile, un sopracciglio alzato, mentre attendevano la risposta.

 

Non c’è problema, ovviamente, ma non voglio discussioni alla festa di Bianca, quindi se vieni con Imma spero che lei non sarà sul piede di guerra.

 

“Ma mi prende per scema?! Secondo lei per ripicca a lei rovinerei il compleanno di una bambina?!” esclamò, visibilmente incazzata, “e comunque a che ora sarebbe questa festa?”

 

“Alle quindici.”

 

“Il regalo lo hai già comprato?”

 

“N-no, no… non sapendo se ci sarei andato… non ancora.”

 

“Allora dobbiamo sbrigarci ad andare a prendere qualcosa, prima che i negozi chiudano per la pausa pranzo. E scrivi alla cara collega che, se lei non si mette a scoccare frecciatine peggio di Robin Hood, io sarò più che civile.”

 

Un’ultima occhiata ed Imma si alzò, sparendo nel corridoio, verso la sua stanza.

 

Sospirò: qualsiasi cosa avesse voluto dire o fare prima di quel messaggio, ormai l’atmosfera era rovinata.

 

Digitò poche parole, sperando che Irene capisse il messaggio.

 

Imma è bravissima con i bambini. Non ci saranno problemi, a meno che non li crei tu.

 

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“Ha bisogno di qualcosa? Per un regalo immagino?”

 

Una moretta sui venticinque anni si era fiondata su Calogiuri che guardava gli scaffali poco distante da lei.

 

“Beh sì, sono un poco grande per i giocattoli ormai,” le rispose, passandosi una mano sulla nuca, in evidente imbarazzo.

 

“Non è detto: ci sono giocattoli per i piccoli, è vero, ma alcuni che piacciono pure ai più grandi, specialmente a voi uomini,” scherzò la ragazza, sorridendogli in quello che era un palese tentativo di flirtare.

 

Sentiva già l’incazzatura salire di nuovo, dopo che si era appena calmata dai messaggi della gattamorta.

 

Ma Calogiuri, di colpo, si girò verso di lei, la raggiunse e la prese sottobraccio, dicendo alla ragazza, “cerchiamo un regalo per una bimba di sette anni.”

 

La commessa si rimangiò il sorrisetto seduttivo e li guardò con il solito stupore che suscitava la rivelazione che lei e Calogiuri fossero una coppia.

 

Almeno non era una che leggeva i giornali spazzatura.

 

Poi però si riprese con un, “vostra figlia?” pronunciato con un sorriso evidentemente forzato, per rimediare alla figura fatta.

 

Imma lanciò uno sguardo a Calogiuri e vi lesse la stessa malinconia che stava provando lei.

 

Chissà se avrebbero mai avuto una figlia loro, o un figlio.


Probabilmente no.

 

“No, è la figlia di un’amica,” chiarì poi Calogiuri e la commessa annuì.

 

“A quell’età… di solito gradiscono le bambole, i peluche o le costruzioni, almeno alcune bambine. Altrimenti ci sono i giochi da tavolo.”

 

“No, guardi, deve essere qualcosa con cui può giocare da sola.”

 

“Va bene. Seguitemi: le bambole ed i peluche sono da questa parte. Se non trovate niente che vi convinca, le costruzioni sono due scaffali a sinistra. L’età consigliata è scritta su ogni confezione, anche se a sette anni il rischio di soffocamento non dovrebbe più esserci.”

 

Dopo aver finito la spiegazione, la ragazza sparì dietro un altro scaffale, probabilmente ancora un po’ mortificata.

 

Imma decise di ignorarla, si staccò dal braccio di Calogiuri e si guardò un poco intorno.

 

E poi la vide. Incontrò gli occhi di Calogiuri e, dal sorriso di lui, capì che anche lui l’aveva notata.

 

“Questa è perfetta!” commentò lui, prendendola dallo scaffale, “e pago io, visto che Irene era me che aveva invitato.”

 

“Non se ne parla, Calogiuri: facciamo a metà!” gli urlò dietro, inseguendolo perché lui si era già avviato con inattesa celerità verso le casse.

 

Dopo aver dovuto cedere almeno temporaneamente le armi - Calogiuri aveva estratto la carta di credito manco fosse il tesserino in una situazione di emergenza - Imma uscì con lui dal negozio e gli infilò la metà dell’importo nella mano che non reggeva la borsa col pacco regalo.


“Imma! Ma non potevi aspettare a casa?”

 

“Sì, se aspetto a casa va a finire che i soldi non te li dò più. Guarda che è un ordine, maresciallo! Altrimenti nel tuo futuro ci sarà solamente il divano per un tempo indeterminato.”

 

Calogiuri sospirò ma si infilò in tasca le banconote.

 

Soddisfatta, lo prese per il braccio libero e gli disse, “comunque, apprezzo il tuo mettere i paletti, Calogiuri, ma basta che fai capire che non sei interessato, non è necessario che sottolinei ogni volta che stiamo insieme.”

 

“Veramente io sono soltanto che orgoglioso che sappiano che stiamo insieme. Ma se ti dà fastidio che lo dica in pubblico, io-”

 

“Ma che non mi conosci, Calogiuri?” gli domandò, facendogli l’occhiolino e stringendogli di più il braccio.

 

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“Ippazio!”

 

Calogiuri barcollò un poco all’indietro, placcato per la vita.

 

“Bianca! Tanti auguri!” le rispose, sollevandola un poco e facendola ridere.

 

Come la mise giù, Imma si trovò stritolata pure lei in un abbraccio, con Bianca che sorrideva e le diceva: “che bello che ci sei anche tu!”

 

“Non potevo mancare per la festeggiata. Allora, quanti anni compi, signorina? Che diventi sempre più alta, diventi!”

 

“Sette.”

 

“Allora speriamo che tu non sia troppo grande per questo mo,” ironizzò, dandole il sacchetto col regalo.

 

“Calogiuri, Imma, benvenuti!” sopraggiunse Irene, con l’aria da padrona di casa dei film in costume di una volta.

 

“Irene, hai visto che mi hanno fatto un regalo? Posso aprirlo?” le domandò la bimba, con aria implorante.

 

“Va bene, ma lo apri ora davanti a loro e poi lo porti subito in camera. Che, quando si ricevono regali da tante persone tutte insieme, è buona educazione aprirli in privato e non davanti a tutti. Capito?”

 

“Sì,” rispose Bianca, iniziando obbedientemente a scartare un poco di nascosto.

 

Certo che la gattamorta quando ci si metteva era la regina del bon ton. Si immaginava Valentina alla sua età: avrebbe già strappato tutto, anche perché Pietro l’avrebbe appoggiata in toto. E poi lei non aveva il problema di invitati multipli ai quali non far vedere i regali.

 

“Ma è bellissima: sembra te, però bionda!” esclamò la piccola, entusiasta, estraendo leggermente dal sacchetto la Barbie Fashionista che le avevano comprato.

 

Aveva una gonna leopardata ed una maglia a righe rosse e nere. Impossibile resistere.

 

Irene, come vide la bambola, fece un’espressione che pareva un oh signore! ma si riprese rapidamente, sorrise e si raccomandò, “bene, ora ringrazia e corri a ritirarla.”

 

Mentre Bianca li ringraziava, un poco timida, Imma pensò che, fosse stato per Irene, la bambola sarebbe stata ritirata sì, ma in un buco nero.

 

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“Tu sei Imma, giusto?”

 

“Sì,” rispose, mentre si versava un calice di vino: ne avrebbe avuto bisogno.

 

La gattamorta - o la sua donna di servizio - aveva organizzato una specie di buffet con tartine varie, un succo multicolore per le bimbe e nemmeno spumante ma addirittura champagne per loro.

 

Quando lo aveva visto, Calogiuri era parso voler sprofondare ed Imma si era chiesta se fosse una frecciata implicita della cara Irene.

 

Una delle due amiche presenti, una brunetta minuta con un caschetto sbarazzino - l’altra era una biondona dall’aria algida, tanto che nella sua mente Imma le aveva già ribattezzate le Ricche e Povere - si presentò con un, “io sono Giulia. E lui deve essere il famoso Calogiuri, giusto?”

 

“Famoso?” domandò Imma, alzando un sopracciglio.

 

“Sì, vi ho visti sui giornali, li hai visti anche tu, Amalia?”

 

“E come no! Manco io ci sono mai finita sui giornali, che faccio l’attrice.”

 

“Ah, e che lavori ha fatto? Ammetto che non seguo molto né il cinema né la televisione, con il mio lavoro non c’ho tempo,” spiegò Imma, cercando di deviare il discorso.

 

“Non mi ci avrebbe vista comunque: lavoro a teatro. Shakespeare, soprattutto, ed i classici. Dicono che sono portata per la tragedia.”

 

Per quello ahimé ci sono portata pure io! - sospirò Imma tra sé e sé, rivolgendosi alla brunetta con, “quindi attrice anche lei?”

 

“No, gallerista. Ho procurato ad Irene un paio dei quadri che vedi esposti qui, è così che ci siamo conosciute. Ma ti prego, diamoci del tu.”

 

Imma si sforzò a sorridere, pensando che a casa sua la stampa più cara era costata dieci euro, cornice compresa, e chiedendosi quanto valessero quelle opere astratte e candide che decoravano la casa di Irene.

 

“Comunque non pensavo di vederla qui, visto quanto è successo, almeno secondo quanto dicono i giornali,” proclamò poi l’attrice, con un mezzo sorrisetto, “non è che siete una coppia aperta? Perché, in caso….”

 

Imma per poco non sputò fuori il vino e prese a tossire. Stava cercando di parlare quando Calogiuri si mise letteralmente in mezzo, le diede due pacche sulla schiena e rispose, “no, siamo una coppia chiusa, chiusissima.”

 

“Chiusissima,” confermò Imma, squadrando con gelosia la tipa bionda che ebbe la faccia tosta di esclamare un, “peccato: ci stavo facendo un pensierino!”

 

“Ma io no: per me c’è solo Imma!” ribadì Calogiuri e ad Imma venne da sorridere dentro il bicchiere, perché lo spaghetto dei giorni prima evidentemente gli era servito.

 

Fece l’errore di bere un altro sorso, proprio quando Amalia esclamò con un sorrisetto, “ma mica su di te!” e poi si voltò verso di lei e le fece l’occhiolino.

 

Imma riprese a tossire.

 

“Lasciatela perdere: adora mettere in imbarazzo le persone!” intervenne la gallerista con un sospiro.

 

“Senti chi parla!” replicò la bionda, ridendo, prima di allontanarsi verso Irene, Calogiuri che la guardava con le fiamme negli occhi.

 

“Calogiuri, non dirmi che sei geloso pure di lei? Lo sai che le donne non mi attraggono, o almeno non mi è mai capitato.”

 

“Io sono geloso di tutto, lo dovresti sapere,” le ricordò con un sorriso.

 

“Comunque sei diventato bravo a metterli i paletti, Calogiuri, anche se qua li avrei dovuti mettere io.”

 

“Eh va beh… meglio un paletto in più di uno in meno, no?” rispose, facendole l’occhiolino e prendendosi una tartina al salmone.

 

*********************************************************************************************************

 

“... tanti auguri a Bianca, tanti auguri a te!”

 

“Dai, soffia sulle candeline!”

 

Su esortazione di Irene, la festeggiata, ancora un poco timorosa - a quanto pare il fuoco non le piaceva - spense le sue sette candeline.

 

“Brava! Allora, Victoria Sponge Cake per tutti?” chiese poi Irene, con un coltello in mano, indicando la torta.

 

“Per me una fettina piccola. Che mi hanno già preso le misure per il nuovo spettacolo e se non entro nei costumi mi uccidono.”

 

“Per me normale!”

 

Imma annuì, chiedendosi cosa fosse quella specie di torta, anche se immaginava che la Victoria a cui era dedicata fosse la regina.

 

L’amore di Irene per le cose british era proprio una costante.

 

Dopo aver constatato che si trattava semplicemente di un pan di spagna alto con marmellata e panna, le toccò ammettere che era molto buona.

 

Pure Calogiuri se la mangiava a quattro palmenti.

 

Si rese conto in quel momento che sulle torte non aveva proprio idea dei gusti di Calogiuri: lei si era sempre rifiutata di festeggiare il compleanno, sia perché lo trovava ridicolo alla sua età, sia perché, soprattutto ora che stava con Calogiuri, non faceva che ricordarle la vecchiaia avanzante. Sapeva che Calogiuri compiva gli anni durante le festività natalizie, anche se non glielo aveva detto esplicitamente, quindi non erano mai riusciti a festeggiarlo insieme.

 

Si accomodarono su divano e poltroncine per mangiare più comodamente e, ad un certo punto, la bionda, che ogni tanto le lanciava qualche occhiata che un poco la metteva in imbarazzo, chiese a Calogiuri, “allora, ti era poi piaciuto il nostro ultimo spettacolo? C’eri anche tu con Irene, no?”

 

Calogiuri rimase a bocca spalancata, evidentemente in panico, poi le chiese, con tono un poco dubbioso, “ma… intendi Sogno di una Notte di Mezza Estate?”

 

“Bravo! E non ti preoccupare: lo so che senza la parrucca ed il costume da Titania sono un po’ diversa.”

 

“Sì, ma… la tua interpretazione mi è piaciuta. Moltissimo. Anche se Shakespeare per me è ancora complicato.”

 

“Dai, non fare il modesto, Calogiuri, che stai imparando. E poi l’italiano antico per te dovrebbe essere una passeggiata,” ribatté Irene, facendogli l’occhiolino in un modo che le fece andare quasi un pezzo di torta di traverso.

 

Ma come si permetteva?! Quelle battutine a Calogiuri poteva farle soltanto lei, al limite!

 

“Beh, magari con l’italiano dell’ottocento ti viene più facile. Ci sarete alla prima di mercoledì, non è vero?”

 

“La prima?” chiese Calogiuri.

 

“Sì, Rosmersholm di Ibsen. Più drammatico di così non si può, sono nel mio elemento,” rispose Amalia con un sorriso.

 

“Ibsen… avevamo già visto qualcos’altro di Ibsen, come si chiamava?”

 

Casa di Bambola?” gli chiese l’attrice, spiegando, quando lui annuì, sorpreso, “tranquillo, non c’ero nel cast, ma è forse l’opera più popolare di Ibsen. Lo hanno fatto e rifatto in tutte le salse.”

 

Calogiuri annuì, sollevato di essersi evitato una figuraccia.

 

“Allora, ci venite?” chiese nuovamente Amalia, alternando lo sguardo tra Calogiuri e la cara Irene.

 

Imma trattenne il fiato, curiosa di sapere cosa avrebbe detto Calogiuri. Da solo a teatro con la gattamorta proprio non ce lo voleva, dopo quello che era successo, ma non poteva di certo impedirglielo.

 

E pure Irene lo stava fissando: aveva una faccia tosta incredibile!

 

“Guarda, con tutto quello che stanno scrivendo sui giornali… non mi pare il caso di venire a teatro da solo con Irene. Non voglio che ci siano altre voci inventate su di me e su di lei. Non è che, pagando il biglietto, ovviamente, potrebbe venire anche Imma? Se le va, naturalmente,” le propose, guardandola negli occhi.

 

Imma dovette trattenere un sorriso, soprattutto perché Irene sembrò aver inghiottito un rospo e si bevve una sorsata di champagne.


“Una persona in più fa sempre piacere. Questa in particolare,” ironizzò Amalia, facendole un occhiolino che era tutto un programma, “certo, non so se vi rendete conto che i giornalisti  così potrebbero pure ipotizzare che siate una coppia apertissima, invece che chiusissima, ma se ci portate un po’ di pubblicità allo spettacolo mica ci dispiace!”


“Veramente quel tipo di pubblicità, con tutto che sai quanto ti apprezzo come attrice, me la eviterei, Amalia. Ma se Imma vuole venire… perché no? Anche se forse non è l’opera migliore per i triangoli.”

 

“E perché?” chiese Calogiuri.


“Perché uno degli angoli del triangolo è morta già prima di iniziare, Calogiuri!” spiegò Imma, con un sospiro, sibilando allo sguardo stupito di Irene, “beh, che c’è? Magari in gioventù non avrò avuto la possibilità di andare per teatri, che a Matera non ci sta la scelta che c’è a Milano e Roma, non che avrei avuto i soldi per farlo, ma ho fatto studi classici e chi è Ibsen lo so da me.”

 

“Che carattere! Se cambi idea sull’aprire, mi metto in lista,” si inserì Amalia ed Imma si sentì avvampare.

 

Essere corteggiata era sempre lusinghiero, poi lei non ci era per niente abituata se non negli ultimi anni, ma vedeva benissimo quanto ne fosse geloso Calogiuri, dal modo in cui stringeva la forchetta - che pareva volerla pugnalare la Torta della Regina Vittoria - e non voleva tirare la corda.

 

Soprattutto non dopo che Calogiuri a piantare paletti stava diventando meglio di Van Helsing.

 

*********************************************************************************************************

 

Era andata un attimo in bagno ma, al ritorno, non vide Calogiuri.

 

Irene per fortuna era con le sue amiche, ma erano sparite pure Bianca e le bambine.


Sentì dei risolini ed un “come sei buffo!” e si avvicinò piano piano alla stanza di Bianca.

 

Le trovò tutte sedute a terra, in cerchio, a giocare con le Barbie, intorno a Calogiuri che aveva in mano sia un Ken che una Barbie.

 

Sempre beato tra le donne lui, pure con le bambine, e mica sceme!

 

“Perché non prendi anche il Ken Biondo? Piace di più alla mia Barbie!” disse una delle bimbe.

 

“No, con i capelli scuri è più bello!” rispose Bianca, stranamente decisa.


E come non capirla!

 

“Allora oggi decide la festeggiata e tre mani purtroppo ancora non le ho,” scherzò Calogiuri, facendo prendere al suo Ken la mano della Barbie nuova che teneva in mano Bianca e fingendo in qualche modo un baciamano, vista la rigidità delle bambole.

 

Bianca rise, anche se un po’ timidamente, e ad Imma fece una tenerezza infinita. Poi, all’improvviso, sollevò lo sguardo e le disse, “Imma, ma ci sei anche tu?”

 

Beccata!

 

“Sì, non vi vedevo più e allora….”

 

“Perché non vieni a giocare anche tu con noi?” le chiese Bianca e anche le altre bambine annuirono.

 

“Veramente… non sono mai stata molto brava a giocarci con le bambole. Facevo giochi diversi, da maschiaccio.”

 

Il fatto che erano pure le uniche cose che sua madre si poteva permettere lo tenne per sé.

 

“E dai, Imma!” le disse Calogiuri, con sguardo implorante ma anche furbetto.

 

Questa gliela pagava!

 

Su un coro di “e dai Imma!” non potè fare altro che avvicinarsi e sedersi nel posto che Bianca le aveva liberato accanto a lei, allargando il cerchio.

 

“Che personaggio può fare?” chiese una delle bimbe.

 

“Il Ken biondo! Lei le mani libere le ha, no?”

 

“Meglio che li evito i bambolotti maschi, va! Non sono la mia passione, anche se in parecchi lo pensano,” ironizzò Imma, dando un’occhiata a Calogiuri, “una Barbie non ce l’hai?”

 

“Allora puoi fare Imma!” rispose Bianca con entusiasmo.


“Effettivamente di solito sono capace a fare me stessa.”


“Imma è la bambola nuova di Bianca. L’ha battezzata così,” chiarì Calogiuri, sorridendo, e Bianca fece per passarle la Barbie Fashionista.

 

“Ma figurati, ma continua pure tu a giocarci, che è il tuo regalo! Ma non farle passare troppi guai, che già ce ne ha abbastanza la Imma reale, va bene?”

 

“Va bene,” sorrise Bianca, prima di girarsi verso la cesta dei suoi giochi ed estrarne una bambola dalla chioma rossa ed il vestito verde, “allora puoi fare Anna, che ha i capelli rossi come te.”

 

“Anna di Frozen?” chiese Imma, un poco incerta, perché di quel cartone aveva ricordi parecchio confusi di quando Valentina l’aveva costretta a sorbirselo.


Ricordava solo che per le protagoniste ogni scusa era buona per cantare e che Anna aveva gusti pessimi in fatto di uomini, almeno all’inizio.


Anche se… il montanaro in apparenza un poco tonto… forse qualcosa del carattere di Calogiuri ce lo aveva.

 

“In questo periodo Elsa è molto più adatta,” proclamò Calogiuri, di nuovo con quel sorrisetto che gli avrebbe molto volentieri levato dal viso e senza rischio di ematomi, ma con ben altri metodi.

 

“Allora può fare sia Anna che Elsa!” decise Bianca ed Imma si ritrovò in mano pure la platinatissima principessa.

 

Chissà se pure lei si mangiava la Victoria Sponge Cake.

 

“Ma che c’entrano Anna ed Elsa con Imma e le nostre bambole?” domandò la bimba che voleva il Ken biondo.

 

“Possiamo essere anche noi delle principesse venute in visita da un regno più moderno,” si inventò sul momento Bianca.

 

“Dove ci sono molti leopardi!” rise l’altra.

 

“Ma che scherziamo? Elsa ed Anna con i leopardi al massimo cantano canzoni smielate su quanto sia bella la natura, non ci fanno mica le pellicce!” ironizzò Imma, prima di guardare Calogiuri, “quindi lui, dato che è moro, sarebbe quel simpaticone del principe?”

 

“Hans? Sì! Allora però prendiamo il Ken biondo che fa Kristoff!”

 

“Elsa invece può fidanzarsi con una delle principesse!” proclamò Bianca, con un grande sorriso.

 

Imma si sorprese un attimo ma l’altra bambina intervenne, “non lo sai? Ad Elsa piacciono le ragazze. Lo ha detto la Disney.”

 

“Sono rimasta al primo film. Ma allora spero per la mia Elsa che le piacciano le bionde platino come lei, che con le Barbie o è così o le tocca restare single!” scherzò: le principesse sembravano uscite da uno di quei film sulle riccone americane, almeno per il colore della chioma.

 

“E che le Barbie siano abituate a rimanere chiuse fuori dal castello ed abbiano molta pazienza, visto il caratterino di Elsa,” si inserì Calogiuri, l’aria di chi si stava divertendo un mondo.

 

“Sta zitto Hans, che non mi sei mai piaciuto!” lo rimproverò, facendo dare da Elsa uno sganassone al Ken moro.

 

Le bimbe risero tantissimo, ed iniziarono ad inventarsi storie incredibili, mentre decidevano chi dovesse fidanzarsi con Elsa.

 

*********************************************************************************************************

 

“Kristoff è il mio fidanzato e sono assai gelosa. Se non lo lasci subito, mia sorella ti trasforma in un ghiacciolo, di quelli alla granatina, che avanzano sempre nel congelatore perché non piacciono proprio a nessuno e-”

 

“Imma?!”

 

Si voltò e vide Irene che la guardava dalla porta, a bocca spalancata.

 

Dal calore che sentì in viso, temette di essere diventata peggio di Kristoff e Calogiuri messi insieme.

 

Forse si era un po’ troppo lasciata trascinare nel gioco e nella narrazione dalle bambine, che però sembravano divertirsi un mondo, per non parlare di Calogiuri, soprattutto visto che ogni tanto lanciava qualche frecciatina che poteva capire solo lui.

 

“Perché, a te la granatina invece piace?” le chiese poi, riprendendosi in corner, alzando un sopracciglio come a dirle prova a dirmi qualcosa e ti ci affogo nella granatina.

 

“Non particolarmente ma… sono venuta ad avvisare Carlotta e Letizia che le loro mamme stanno preparandosi per andare via. Ormai è tardi.”

 

Imma guardò l’ora e le prese un colpo: erano le diciannove passate.

 

A furia di giocare ad inventare storie cretine avevano perso il senso del tempo.

 

“Mi sa che è meglio se ce ne andiamo pure noi mo, Calogiuri, che siamo in moto,” gli disse, dopo che le bimbe furono uscite, facendo per alzarsi in piedi, ma Bianca la trattenne per una manica.


“Ma non finiamo il gioco?”

 

“Un’altra volta. Tanto con quelle temperature resistono tutti surgelati ancora per un bel po’,” la salvò Calogiuri, con il suo sorriso più da scioglimento.

 

“Allora però torni pure tu, Imma?” le chiese ed Imma percepì, ancora prima di vederla, l’espressione di Irene.

 

Che soddisfazione!

 

“Perché no? Ma mo ci tocca tornare a casa.”

 

“Ma vivete insieme?” le chiese Bianca ed Imma annuì, “ma tanto distante?”

 

“No, non tantissimo. Diciamo che è vicino a dove lavoriamo io ed Irene.”

 

“Allora non ci posso venire, perché dove lavora Irene non ci posso andare,” rispose la bimba, con tono mogio mogio.

 

Imma sentì una stretta al petto: vedendo Bianca così serena quel pomeriggio si era quasi scordata del fatto che dovesse sempre stare attenta a quei galantuomini che avevano ucciso sua madre.

 

“Cioè… vuoi dire che vorresti andare a casa loro?” le domandò Irene con un tono incredulo e commosso che le fece provare un moto di empatia perfino per la gattamorta.

 

“S- sì, credo di sì.”

 

A giudicare dagli occhi lucidi di Irene, evidentemente non doveva essere una cosa molto comune per Bianca.

 

“Non ci si autoinvita a casa degli altri, signorina. Ma, se loro ti invitano, in qualche modo si può fare, penso.”

 

“Ma certo che è la benvenuta a casa nostra, no?” le chiese Calogiuri ed Imma, per tutta risposta, diede un rapido abbraccio alla bimba.

“Puoi venire quando vuoi…” le sussurrò, scompigliandole i capelli riccissimi come aveva voluto fare fin da quando era arrivata.

 

Perché poteva pure detestare la cara Irene, ma Bianca era un’altra cosa.

 

*********************************************************************************************************

 

Prese il casco dalle mani di Calogiuri e se lo infilò: ormai era diventata un’esperta.

 

Calogiuri salì in moto e si sedette dietro di lui, abbracciandolo stretto come faceva sempre quando viaggiavano sulle due ruote.


Calogiuri diede gas un paio di volte e poi accese il motore.

 

Si aspettava di partire da un momento all’altro ma, improvvisamente, Calogiuri si voltò verso di lei e la guardò in un modo strano.

 

“Tutto a posto, Calogiuri?” gli domandò, preoccupata che ci fossero problemi col motorino.

 

“Sì, sì, ma… ma mi chiedevo se… insomma, cosa vuoi per cena?”

 

“Qualcosa di salato che compensi tutto il dolce della Torta della Regina Vittoria della cara Irene.”

 

“Sei tremenda!” rise, scuotendo il capo, poi però prese un respiro e le chiese, “ti… ti andrebbe di andare a mangiare qualcosa da qualche parte? Se no possiamo ordinare qualcosa a casa, magari la pinsa, come ai vecchi tempi.”

 

L’agitazione di lui era adorabile: sembrava tornato alle primissime uscite - ancora clandestine - insieme.

 

“Calogiuri, sono stanchissima, quindi meglio mangiare a casa. E vada per la pinsa!”

 

Lui annuì e, con un sorriso, partì improvvisamente, tanto che lei gli si strinse più forte per non cadere.

 

Quell’impunito era dal suo primo viaggio a Roma che usava questo metodo!

 

Non che se ne sarebbe mai lamentata.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ecco qui: che ne dici se ci guardiamo un film mentre le mangiamo?”

 

Calogiuri, portando in mano i cartoni delle pinse, le appoggiò sul tavolino davanti al divano.

 

Imma ci pensò un attimo: non era sicura che fosse una buona idea abbassare del tutto gli scudi, non ancora, ma… quel giorno si erano già avvicinati parecchio, era innegabile, e poi Calogiuri con Irene aveva costruito una bella recinzione di paletti, tipo quella intorno al castello di Vlad L’Impalatore.

 

“Va bene. Ma pretendo qualcosa di leggero, Calogiuri, che non c’ho la testa per film tristi o pesanti stasera.”

 

“Allora ti va un film d’animazione?”

 

“Non con principesse canterine però, Calogiuri, che per oggi di principesse, principi e regine ne ho avuto abbastanza!”

 

“Agli ordini, dottoressa!” proclamò lui, estraendo anche le birre dal frigo, togliendo i tappi e piazzandole accanto alle pinse.

 

Prese posto pure lei sul divano, tenendo però una distanza di sicurezza, e si bevve una sorsata di birra mentre Calogiuri faceva scorrere icone con personaggi variopinti.

 

“Ti andrebbe di guardare Cattivissimo Me? Rosaria mi ha detto che Noemi lo adora e quindi almeno mi preparo sui personaggi.”

 

“Ma quel tizio col nasone che sembra una maschera contro la peste sarebbe il protagonista?”

 

“Sì.”

 

“E quei bitorzoli gialli?”

 

“A quanto ho capito sono i suoi collaboratori, i Minions, quelli che piacciono tanto a Noemi.”

 

“Diciamo che a me, rispetto a Nasone, è andata leggermente meglio come collaboratori,” ironizzò e Calogiuri sorrise così tanto che le venne da ridere e da precisare, facendogli l’occhiolino, “guarda che tu ormai non sei praticamente più un mio collaboratore, Calogiuri. Io parlavo di Mariani, non montarti la testa!”

 

Calogiuri le regalò uno sguardo felice ed esasperato al tempo stesso ed avviò il film, mentre lei apriva le scatole di cartone, affamata nonostante tutto.

 

*********************************************************************************************************

 

“L’ultima fetta alla mortazza la vuoi tu?”

 

“No, per carità, Calogiuri, te la lascio! Mi prendo quella con le acciughe, che sto già piena così.”

 

“Che ne pensi del film?” le domandò, afferrando con cautela la fetta per non rischiare un disastro sul divano.

 

“E che ne penso? Nasone mi sta più simpatico del previsto, Calogiuri, che tra i piedi non ci vuole nessuno. E la bimba più piccola mi ricorda qualcuna….”

 

“E chi?”

 

“Tua nipote. Mo ho capito perchè le piace tanto sto film, a parte per quei cretini gialli utili come Capozza, ma più simpatici. Il peggio è il medico, che mi ricorda Taccardi, mi ricorda.”

 

Rise: sentire le opinioni di Imma sui film era la cosa più bella di guardare un film insieme, a parte il poterle stare vicino.

 

Anche se… vicini vicini non erano. Le distanze si erano un poco accorciate, tra fette di pinsa e sorsate di birra, ma… non c’era ancora quel contatto che normalmente c’era tra loro.

 

Vedendola concentrata sul film, con un poco di apprensione alzò un braccio e, piano piano, lo appoggiò allo schienale del divano, appena sopra di lei.

 

Imma non reagì.

 

Allora, sempre con molta delicatezza, abbassò la mano, fino a toccare la spalla di lei, in un mezzo abbraccio.


Nel giro di due secondi, si trovò con due occhi marroni che lo fissavano con un sopracciglio alzato.

 

Ritirò rapidissimamente la mano, portandosela in grembo con uno, “scusami, io-”

 

Ma Imma, per tutta risposta, scoppiò a ridere.

 

“Calogiuri, va bene che non me l’ha mai fatta nessuno in adolescenza, ma non siamo un po’ troppo vecchi per fare la manomorta come i ragazzini al cinema? Eddai!”

 

“Hai ragione, scusami, io-”

 

“Piantala di scusarti e dammi un abbraccio come si deve, maresciallo!” lo interruppe, facendogli l’occhiolino in un modo che fu la sua fine.

 

Senza farselo ripetere due volte, se la strinse tra le braccia, più forte che poteva, sentendola ridere e poi abbandonarsi tra le sue braccia, stritolandolo quasi.

 

Rimasero così per non avrebbe saputo dire quanto, a godersi la vicinanza ed il calore di cui aveva sentito terribilmente la mancanza in quei giorni.

 

“Ti amo…” le sussurrò all’orecchio e lei lo strinse più forte, anche se non rispose.

 

“Mo però finiamo di vedere questo film che già ce ne siamo persi un pezzo!” gli ordinò lei, staccandosi leggermente, ma poi si sentì stringere di lato, la testa di lei che gli si appoggiava su una spalla.

 

“Agli ordini, dottoressa!”

 

Continuarono a guardare il film, finché ad un certo punto sentì il viso di Imma ciondolare sul suo collo, il corpo a peso morto su di lui.

 

Notò che aveva gli occhi chiusi. Anche dal respiro era chiaro che si era addormentata.

 

Aveva un’espressione dolce e rilassata che aveva veramente temuto di non rivedere mai più, almeno non rivolta a lui.

 

Capendo quanto dovesse essere stanca, spense la televisione e poi, il più delicatamente possibile, se la prese in braccio per portarla a letto.

 

Tenerla nuovamente in quel modo era un’emozione indescrivibile per lui: aveva un nodo in gola e sentiva il cuore martellargli nel petto.

 

Arrivò in camera, aprì la porta con un piede e, piano piano, poggiò Imma sul letto.

 

Fece per risollevarsi per cercare qualcosa con cui coprirla, quando si sentì tirare per la maglietta.

 

“Dove pensi di andare?” gli chiese, aprendo a fessura gli occhi, appannati dal sonno.

 

“A prenderti una coperta. E poi sul divano, a dormire.”

 

Ma lei scosse il capo e gli sussurrò, “resta qua. A dormire però, che ho sonno.”

 

Fu come se un peso gli si fosse tolto dal petto, mentre il nodo in gola si faceva enorme e gli occhi gli pungevano da matti.


“Ne… ne sei sicura?”

 

“Sta zitto e vieni a letto, o ti faccio un livido dall’altra parte, pure!” gli intimò, per poi infilarsi sotto la coperta, buttare per terra il vestito, seguito dalle calze, e ridistendersi del tutto, chiudendo gli occhi.

 

Deglutendo, all’idea di averla di nuovo vicina con addosso soltanto la vestaglietta leopardata che aveva intravisto mentre si spogliava, si liberò dei pantaloni della tuta e la raggiunse.

 

Un poco timoroso, ma facendosi coraggio con quanto era successo sul divano, la abbracciò da dietro, come faceva sempre quando dormivano insieme, anche se mantenendo un po’ di spazio tra i loro corpi: non voleva esagerare.

 

Ma Imma indietreggiò fino ad appoggiarsi completamente al suo petto e gli accarezzò leggermente un braccio.

 

Non potendo quasi credere a quanto fosse fortunato, le posò un bacio leggero sulla nuca e, con i ricci di lei che gli solleticavano il collo ed il viso, se la guardò a dormire più a lungo che riuscì, prima di cedere anche lui al sonno.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine del quarantottesimo capitolo. Finalmente il ghiaccio si è un poco sciolto ed Imma ha riammesso Calogiuri in camera da letto, anche se solo per dormire. Chissà se e come si avvicineranno di più e chissà come andrà la sera a teatro in trio con Irene. Ci sarà presto anche un salto temporale e… succederanno alcune cose abbastanza attese.

Spero la storia continui a piacervi e che lo sviluppo psicologico ed emotivo dei personaggi risulti credibile. Ormai è passato un anno esatto da quando l’ho cominciata e vi ringrazio per l’assiduità con cui la seguite.

Vi ringrazio di cuore per le vostre recensioni, mi motivano un sacco e mi sono utilissime per capire come sta andando la scrittura e cosa vi piace di più o di meno.

Ringrazio anche chi ha messo questa storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo arriverà tra due settimane, domenica 22 novembre.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 49
*** La Famiglia - Parte Prima ***


Nessun Alibi


Capitolo 49 - La Famiglia - Parte Prima


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Calogiuri.”

 

“Dottoressa, mi cercavate?”

 

“Sì, Calogiuri, ho dei nuovi elementi che vorrei valutare con te. Accomodati.”

 

Guardò, con un poco di stupore, mentre Imma faceva segno verso una sedia vuota di fronte a lei, davanti alla scrivania.

 

Di solito per fare quei lavori si sedevano fianco a fianco, di fronte alla scrivania appunto. Ma magari voleva ancora tenere le distanze. Si sbrigò a fare come richiesto, non volendo contrariarla ulteriormente.

 

“Che cosa volevate farmi vedere, dottoressa?” le domandò ed Imma fece un sorrisetto che gli provocò un brivido.

 

“Diverse cose, Calogiuri, diverse cose,” rispose, in un modo che non fece nulla per far diminuire la sensazione.

 

Ma doveva rimanere impassibile finché non sarebbe stata lei a dargli un segnale più chiaro, lo sapeva.

 

Imma aprì una cartelletta e ne estrasse dei fogli. Era un rapporto, scritto fitto fitto.

 

Fece per prenderlo, per capire, ma in quel momento sentì qualcosa toccargli il polpaccio destro e si rese conto che era il piede di Imma.

 

“Dotto-” cercò di dire, ma la voce gli morì in gola quando sentì il piede di lei percorrergli la gamba, sempre più in alto, fino a toccarlo .

 

“Imma…” sussurrò, sconvolto ed allo stesso tempo eccitatissimo, finché senti il fiato di lei sul collo e poi….

 

“Imma!” esclamò, trovandosi di colpo nel suo letto, ancora in penombra, sentendo ancora il cuore a mille e soprattutto altri effetti del sogno.

 

Ma soprattutto gli sembrava ancora di sentire quelle sensazioni e… e poi la vista si adattò meglio al buio e percepì, ancor prima di vedere, che Imma nel sonno si era abbracciata a lui, con il viso nell’incavo del suo collo, i capelli e il fiato di lei che gli facevano il solletico e, soprattutto, che aveva la gamba mezza piegata ed il ginocchio appoggiato proprio lì.

 

Sembrava dormire serena, tranquilla, almeno lei.

 

Da un lato avrebbe voluto rimanere a guardarla per sempre, temendo che, al suo risveglio, potesse di nuovo allontanarsi da lui, tornare più fredda, nonostante il grande avvicinamento avvenuto il giorno precedente,

 

Dall’altro lato, però, rimanere in quella posizione per lui era una vera tortura e temeva che se lei lo avesse trovato… in quelle condizioni… avrebbe potuto pensare che a lui importasse solo di una cosa ed arrabbiarsi o sentirsi troppo pressata.

 

Con uno sforzo sovrumano, quindi, le posò un bacio sulla fronte e cercò di staccarsi da lei senza svegliarla.

 

Era appena riuscito a liberare almeno le gambe - e l’essenziale! - e stava cercando di spostare pure il braccio e la spalla, quando si sentì afferrare per la nuca e vide gli occhi di Imma spalancarsi, mentre pronunciava un “dove pensi di scappare mo?” un poco sonnacchioso.

 

“In bagno e poi a prepararci la colazione,” rispose, in quella che, in fondo, era la verità, con solo qualche piccola omissione.

 

“Ma che scherzi? Te la preparo io la colazione, Calogiuri!” proclamò, passandogli una mano nei capelli in un modo che non fece che peggiorare la situazione, prima di dargli un lieve bacio sulla bocca: era da quando l’aveva buttato fuori di casa che non si erano ancora scambiati un bacio vero. Poi si mise seduta e sollevò il lenzuolo per scendere dal letto.

 

Ma si bloccò di colpo e lo guardò con aria divertita, mordendosi le labbra. Il problema era che lo fissava proprio.

 

Beccato!

 

“Calogiuri….”

 

“Scusami ma… è che ho fatto un sogno e-”


“E con chi lo avresti fatto questo sogno?” lo interruppe, il tono e l’occhiata pericolosi.

 

“Con te, con te!”

 

“E, di preciso, che cosa succedeva in questo sogno?”

 

Si sentì avvampare, perché non sapeva come spiegarglielo… come descriverglielo. Poi in un luogo per lei quasi sacro come la procura e, soprattutto, il suo ufficio.

 

“Calogiuri, con quello che abbiamo combinato io e te in questi anni, che ti imbarazzi per un sogno mo? A meno che non fossimo soli e che non fosse un sogno chiusissimo.”

 

“No, no, era chiusissimo, chiusissimo!” specificò, cercando le parole per spiegare e non trovandole, “è che… eravamo nel… nel tuo ufficio. E, mo che ci penso, era l’ufficio di Matera.”

 

Imma si limitò a fissarlo, con l’aria di chi non avrebbe mollato la presa.

 

“E insomma… mi facevi sedere di fronte a te, alla scrivania e poi… mentre mi mostravi un rapporto… con il piede… insomma…” balbettò, sentendosi bollente e guardando anche lui verso il basso, per farle capire senza doverlo dire esplicitamente.

 

Silenzio e poi la sentì prendere un forte respiro. Alzò gli occhi, per cercare di capire se si fosse arrabbiata, cercando di giustificarsi con un, “scusami ma… lo sai che… che mi fai un certo effetto e-”

 

Uno “stai zitto!” sibilato vicino all’orecchio e si trovò letteralmente travolto in un bacio famelico, tanto che cadde all’indietro sul materasso e per un soffio si evitò di sbattere contro la testiera del letto.

 

In un attimo, la sentì sopra di sé, a cavalcioni, che si muoveva in un modo da infarto e poi dita sotto la maglietta, la pelle nuda all’aria, e poi labbra morbide e calde sul petto e poi più giù, sempre più giù.

 

“Im-ma, ma che… che fai?” riuscì a pronunciare, stordito da quell’assalto.

 

Nel giro di un secondo, le labbra di lei gli diedero tregua e, anche se con la vista un poco appannata, incrociò il viso di lei contratto in una smorfia, mentre proclamava, guardandolo negli occhi, “se non ci arrivi da solo, maresciallo, ti butto fuori di casa di nuovo e questa volta definitivamente!”

 

Gli venne da ridere e provò ad afferrarla per la vita, per ricambiare, ma lei gli diede due colpi sulle mani e si sentì scoppiare il cuore quando gli intimò, “se ti azzardi a muoverti saranno dolori, maresciallo. Ti tengo in pugno, in tutti i sensi.”

 

L’ultimo pensiero coerente si dissolse nel delirio di sensazioni, insieme ad un grido.

 

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I polmoni gli bruciavano, mentre cercava di riprendere fiato: forse per tutti i giorni di astinenza, ma aveva ancora come un formicolio in tutto il corpo, dopo una vera e propria esplosione che gli aveva mandato i sensi in tilt.

 

Imma invece era ancora sopra di lui, con un sorriso soddisfatto, del gatto che si è appena mangiato il topo.

 

“S- sei, sei….”

 

“Che ti ho fatto tornare di poche parole, Calogiù?” lo sfotte, dandogli un pizzicotto sul petto che lo fece quasi sobbalzare, era ancora sensibilissimo.

 

“Sei… incredibile e… e matta… ma è per questo che ti amo.”

 

Imma prese un altro respiro e scosse il capo, pronunciando, con una voce roca che fu per lui l’ennesima mazzata, “è il cuore a parlare, mo, o è qualcos’altro, Calogiuri? E non parlo del cervello, vista la faccia da pesce lesso che ti ritrovi e-”

 

Non la fece terminare: la prese per i gomiti e la fece rotolare fino a intrappolarla sotto al suo corpo.

 

“Te lo faccio vedere io, mo, il pesce lesso!”

 

“Magari non troppo lesso è meglio, Calogiuri!”

 

“Imma!” ruggì, prima di farle solletico in vita, mentre con le labbra le sollevava la vestaglia, per renderle pan per focaccia, godendosi le risate che si tramutarono in gemiti.

 

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Si lasciò cadere sul cuscino, sentendosi pienamente e totalmente soddisfatta, come era da troppo che non succedeva, i muscoli che erano di gommapiuma.

 

Forse per l’astinenza autoimposta, ma le era sembrato ancora più incredibile del solito e, visto come la faceva sentire già normalmente Calogiuri, era tutto dire.

 

Si voltò per lanciargli un’occhiata e lo trovò riverso pure lui, con aria stremata.

 

“Che c’hai bisogno di energia, Calogiù? Uno zabaione doppio, oltre ad un caffè doppio?” lo prese in giro e lui sorrise, coprendosi gli occhi.

 

“Tu un giorno mi manderai al creatore, altro che speranza di vita!

 

“E ti lamenti? Se vuoi il divano letto ancora fatto sta e a tua disposizio-”

 

Dovette trattenere un urlo perché si trovò stretta in un abbraccio sul petto di Calogiuri, che le riempì le guance, le palpebre, il mento, la bocca, il naso, con una serie di baci talmente delicati da farle venire un rimescolamento nel petto, per non parlare di come le accarezzò le guance.

 

Si godette per un attimo quegli occhioni azzurri, dilatati al punto da sembrare quasi neri, poi se lo abbracciò forte forte.

 

“Mo vado a farmi una doccia, però, che qua ce n’è bisogno, e a prenderci la colazione,” si costrinse infine a staccarsi, ma lui provò a trattenerla per un polso.

 

“Ci vado io a prendere la colazione, non-”

 

“Guarda che è un ordine, maresciallo, al massimo ti concedo di fare il cappuccino!” esclamò, liberandosi dalla presa ed alzandosi dal letto, stiracchiandosi un poco: sentiva tutti i muscoli piacevolmente indolenziti.

 

Si avviò pigramente verso il bagno. Aveva appena abbassato la maniglia della porta quando sentì dei rumori rapidi e sordi alle sue spalle. Le venne da sorridere, ancora prima di essere ghermita per la vita e trovarsi con i piedi per aria a percorrere gli ultimi metri fino alla doccia.

 

“Ma non eri stremato? E la speranza di vita?!”

 

L’unica risposta fu un mezzo grugnito, delle labbra sulla nuca e una sensazione di freddo al petto quando fu schiacciata contro la parete.

 

Le scappò un urlo, sia per il getto d’acqua fredda che le schiaffeggiò il viso, sia perché il bacio divenne un morsetto.

 

“E che sei diventato Dracula?”

 

“Mi hai trasformato tu in un vampiro, con tutti i tuoi morsi, e quindi mo non puoi lamentarti,” le mormorò in un orecchio, prima di mordicchiarle pure il lobo, costringendola a soffocare un grido nelle piastrelle.

 

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Sorrise nell’udire la porta aprirsi e si affrettò a versare il caffè e la schiuma di latte - anche se non perfetta come quella che faceva di solito Calogiuri - nelle tazze.

 

Lui le scoccò un bacio su una guancia, mentre le porgeva il sacchetto di carta, da cui prese avidamente un bombolone.

 

“Per te ne hai comprati due, almeno, Calogiuri? Che devi recuperare le energie!”

 

“Avrò ancora bisogno di molte energie per il resto della giornata?” domandò, con lo sguardo da impunito, finendo di lavarsi le mani e prendendo a sua volta la sfera di impasto morbido.


“Chissà…”

 

Finì l’ultimo morso di bombolone -  teneva una fame tremenda dopo tutto quel movimento! - quando Calogiuri le chiese, “che cosa vuoi fare oggi?”

 

“Tu cosa vorresti fare, Calogiuri? A parte usare le energie residue, ovviamente.”

 

“Sei… sei mai stata a Villa Pamphili? Mi hanno detto che è bellissima, il più bel parco di Roma. E oggi c’è il sole e penso che saranno le ultime giornate così, prima dell’inverno. Poi potremmo pranzare in una trattoria e dopo… magari fare un giro per negozi. Che te ne pare?”

 

“Mi stai dicendo che ho bisogno di vestiti nuovi, Calogiuri?” gli domandò, sollevando un sopracciglio.

 

“No, ma se andiamo avanti così potrei averne bisogno io!” scherzò, prima di aggiungere, più serio e quasi imbarazzato, “e poi… lo sai che mi piace vederti provare tutte quelle cose che piacciono a te….”

 

“E allora non solo a me,” gli fece notare, stringendosi di più nell’accappatoio.

 

Aveva il potere di farla sentire bellissima, pure con il turbante ancora in testa e doveva ammettere che le piaceva da morire come la guardava mentre provava i vestiti.

 

E poi… voleva comprare un abito - per quanto economico - che facesse schiattare la cara Irene a teatro. E Calogiuri, ovviamente, anche se in tutt’altro modo.

 

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“Allora, ti piace qui?”

 

“Molto, molto! Avevi proprio ragione: è pure più bella di Villa Borghese. Ma mo dopo la villa che cosa c’è da vedere?”

 

“Un laghetto, dovremmo quasi esserci, ecco qua!”

 

Aveva una strana felicità nel petto: non era mai stata una grande appassionata della natura, se non a cavallo, ma vedere tanto verde nel cuore di una città come Roma le scaldava il cuore. Poi però le prese un dubbio.

 

“E chi è che to lo avrebbe consigliato questo parco?”

 

“Mariani. Mi ha detto che ci viene spesso a correre, che è il suo preferito tra i parchi romani.”

 

Imma annuì, sollevata che si trattasse di lei e non di qualcun’altra.

 

“Signò, che lo volete un poco di mangime per le oche? Ne vanno pazze!”

 

L’uomo che gliel’aveva offerto era anziano, un poco malridotto. Probabilmente arrotondava le pensione vendendo briciole di pane raffermo insacchettate ai turisti.

 

Le braccia di Calogiuri che la tenevano per la vita si irrigidirono. I loro occhi si incrociarono e capì benissimo che temeva che lei facesse all’ambulante un panegirico sull’abusività e sullo sporcare potenzialmente il suolo pubblico.

 

E forse la Imma di Matera, almeno nelle giornate in cui era più incazzosa e pignola, lo avrebbe pure fatto.

 

La Imma di Roma pensò solo che non aveva mai dato da mangiare agli animali nei parchi, anche perché da bambina le era stato insegnato che il cibo non si buttava e di non spendere denaro inutilmente.

 

In fondo, perché no?

 

Aprì borsa e portamonete e diede due euro all’uomo, notando benissimo, con la coda dell’occhio, lo stupore di Calogiuri.

 

Prese uno dei sacchetti e si diresse, sempre mezzi abbracciati, verso la riva, poi cominciò a buttare il pane per terra.

 

Un gruppo di oche giunse alla gran di corsa, sbattendo le ali e starnazzando in modo quasi assordante, iniziando a lottare per il cibo.

 

“Calma, calma, ce n’è per tutti!” disse Calogiuri, ma le oche, a differenza della maggioranza degli animali che avevano incontrato da quando si conoscevano, non furono nemmeno scalfite dalla gentilezza del maresciallo e continuarono ad azzuffarsi per procacciarsi più briciole possibile.

 

“Sono proprio assatanate queste oche! Ma almeno puntano al pane e non a te, al contrario di quelle che ti starnazzano intorno di solito!” ironizzò e Calogiuri le diede un pizzicotto e sussurrò un “Imma!” esasperato, prima di scoppiare a ridere.

 

Stava gettando ancora il pane, sperando di placare i volatili, quando udì come un mugolio ai suoi piedi. Dubitando che un’oca potesse produrre un suono simile, guardò verso la punta del suo stivaletto leopardato e ci trovò un micino piccolissimo, tigrato, che miagolava, cercando di avvicinarsi al pane e guardandola con due occhioni azzurri che potevano rivaleggiare con quelli di Calogiuri e del gatto di Shrek.

 

Le venne da sorridere per la ruffianaggine. Prese una manciata di pane e la posò ai piedi suoi e del gattino ma capì subito, da una specie di sibilo, peggio di quello di un serpente, di avere fatto un errore. Le oche, soffiando in un modo di cui non le avrebbe ritenute capaci, si avventarono contro il pane ed il micetto.

 

D’istinto, si abbassò per prenderlo in braccio e fece appena in tempo a rialzarsi prima di venire beccata.

 

“Ma sei matta?! Potevi farti male!” esclamò Calogiuri e, mentre il gattino le si rifugiava nel cappotto, infilandocisi mezzo, si sentì sottrarre il sacchetto del pane dalle mani e Calogiuri buttò tutte le briciole rimanenti un poco distante. Le oche ripresero a fare baruffa ma dirigendosi verso quel punto.

 

“Mo ho capito: queste al Campidoglio i Galli li hanno cacciati da sole, altro che i romani!” scherzò, anche se si era agitata. Un solletico al collo la fece avvedere che il micino si era arrampicato fino a lì e ora si strusciava appena sotto al suo mento, facendo le fusa.

 

Calogiuri si stava trattenendo dal ridere ed Imma sbottò, “ma che ti ridi?! Mi ricorda te quando non stai bene, che fai così pure tu, fai!”

 

E stavolta Calogiuri rise e lei non potè evitare di ricambiare, mentre cercava di intercettare il gattino prima che le salisse in testa.

 

Riuscì infine ad afferrarlo, evitandosi graffi, e se lo portò all’altezza del viso, per guardarlo meglio, anche se a distanza di sicurezza dagli artigli.

 

“Chissà di chi sarà: quanto è piccolo! Anzi, piccola,” si corresse, notando che mancava qualcosa all’appello e c’erano invece altre cose che un gatto maschio, a regola, non avrebbe dovuto avere.

 

“Sì, è una femmina,” confermò Calogiuri, sorridendo, “ed ha pochi mesi, anche se magari sembra più piccola di quanto sia in realtà perché è un poco malnutrita. Possiamo mettere un annuncio sui social per vedere se qualcuno l’ha persa… ma magari è anche stata abbandonata. Però, nel frattempo….”

 

Imma fece un sospiro ed alternò lo sguardo tra la micia e Calogiuri, che le stavano facendo gli occhi da gatto di Shrek in Dolby Surround.

 

“Nel frattempo, immagino che tu la voglia tenere, maresciallo?”

 

“Veramente, per come ti sta attaccata, mi sa che non abbiamo molta scelta, dottoressa,” le fece notare ed, effettivamente, la gattina le aveva praticamente abbrancato un polso tra le zampe e ci stava aggrappata fortissimo.

 

Già sapeva come sarebbe andata a finire.

 

“Ma come facciamo? Non ho mai avuto un animale domestico, Calogiuri, nemmeno un gatto e non ho idea di come si faccia, poi è talmente piccola….”

 

“Sì, ma sembra comunque avere un’età dove è già svezzata e può mangiare normalmente. Sai, da noi in campagna… ho avuto tanti animali, anche qualche gatto randagio che è venuto a rifugiarsi da noi. Dobbiamo solo passare da un supermercato a comprare le cose essenziali e magari domani la porto un salto da un veterinario in pausa pranzo, che oggi saranno tutti chiusi.”

 

Ecco, appunto!

 

“Però prima di andare al supermercato magari possiamo passare dalla trattoria che ho già prenotato. Se ci fanno problemi per lei, posso chiedere se ci danno l’asporto.”

 

“Ma come facciamo a portarla con noi in moto?” chiese Imma, sapendo benissimo che le toccava arrendersi all’inevitabile.

 

“Potresti… potresti mettertela in borsa, no? Tanto ha la cerniera: la lasci con il muso fuori, ovviamente. Ti lego la borsa in vita e la tieni tra noi due, andrò pianissimo.”

 

Presa da mille paure, dallo schiacciarla al farla cadere, si avviò con lui verso il motorino.

 

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“Come va?”

 

“Mi pare un poco agitata, Calogiù, ma al posto suo lo sarei pure io!” gli gridò, mentre procedevano lenti nel traffico domenicale romano, “spero solo che non si agiti troppo, se no la borsa mi tocca buttarla.”

 

Calogiuri rise e lei si trattenne dal dargli un pizzicotto al fianco, perché ci mancava solo che sbandasse. La micia se ne stava con le orecchie basse ed il muso piantato nel suo stomaco, come per non vedere, ed ogni tanto miagolava lamentosa.

 

Dopo minuti che le sembrarono interminabili, Calogiuri fermò il motorino in un posto per lei stranamente familiare.

 

Calogiuri si levò il casco e gli permise di fare lo stesso con lei, mentre cercava di tenere buona la creatura miagolante.

 

E poi riuscì a guardarsi meglio intorno e le prese una botta di commozione quando capì.

 

Mentre accarezzava la guanciotta della piccola, per tranquillizzarla, seguì Calogiuri, quasi ipnotizzata, fino ad arrivare alla loro trattoria.


Quella della prima cena insieme.

 

“Buongiorno, c’avete una prenotazione?” chiese il cameriere, un uomo sulla cinquantina che Imma aveva già visto nelle visite precedenti, e che sembrava essere il cameriere più anziano.

 

“Sì, un tavolo per due, a nome Calogiuri. Ma… c’è un problema… abbiamo un’ospite e non so se sia gradita. L’abbiamo trovata in un parco,” spiegò Calogiuri, e si sentì passare un braccio intorno alle spalle, mentre indicava la borsa da cui faceva capolino un musetto tigrato, “se è possibile fare asporto, noi-”

 

“Ma che scherzi?! Tanto il tavolo ce lo avete all’aperto, l’importante è che sta con voi e non se ne va in giro.”


“Con il cibo non garantisco, mi sa che è affamata,” disse Imma, che ancora la stava coccolando per tenerla ferma.

 

“E che problema c’è?! Se ve sedete le faccio preparà qualcosa di speciale,” rispose il cameriere, indicando loro un tavolino più vicino alla strada e ad Imma venne un altro colpo perché era il loro tavolo, quello della prima volta, “la gatta l’avrà scambiata per su’ madre, signò, con tutto sto leopardo!”

 

Imma si trattenne dal rispondere male, perché il cameriere, in fondo, era stato molto gentile.

 

“Sapete già che cosa volete prendere?” domandò, mentre Calogiuri la aiutava ad accomodarsi, da vero cavaliere, prima di prendere posto di fronte a lei.

 

Calogiuri iniziò ad elencare una sfilza di piatti che erano, nuovamente, gli stessi della prima cena: carciofi alla giudia, fiori di zucca ripieni, cacio e pepe….

 

Si ricordava proprio ogni dettaglio.

 

“E poi ci aggiunga un piatto di puntarelle, che è stagione”, precisò e il cameriere si allontanò dopo aver segnato tutto su un taccuino.

 

Un altro ragazzo in uniforme, più giovane, portò una caraffa di vino bianco.

 

“Questo è pericoloso, Calogiù, poi con la moto!” scherzò, anche se era realmente un po’ preoccupata, visti i precedenti.

 

“Vorrà dire che berrai di più tu, dottoressa!” esclamò lui, versandole un bicchiere quasi colmo e poi riempiendo il suo.

 

Stava per proporre un brindisi, quando la micetta prese a miagolare tantissimo, guardandola nuovamente con gli occhi del collega di Shrek.

 

“Ti ci manca solo il vino a te, ti ci manca!” esclamò, grattandola sotto un orecchio, come aveva notato piacerle molto, e lei prese a sfregarsi sulla sua mano, facendo di nuovo le fusa.


Ruffiana!

 

“Vuoi darle un nome?” domandò Calogiuri, all’improvviso, ed alzò gli occhi verso di lui, che la guardava tra il divertito e l’intenerito.

 

“Forse è meglio accertarsi prima che non sia di qualcuno, Calogiuri. Dando un nome ci si affeziona troppo.”

 

“Perché in effetti così non ci si affeziona proprio per niente!” la sfottè lui, guardando la mano di lei che ancora faceva le coccole alla micia, che continuava a borbottare, mentre si rotolava nella borsa in grembo a lei.

 

“Scemo!” rise, dovendo però ammettere che era difficile resisterle: a lei gli occhioni azzurri l’avevano sempre fregata.

 

“Non c’è dubbio che è una femmina, no? Anche se stranamente non ti si è ancora buttata addosso,” scherzò e Calogiuri scosse il capo ed annuì, “stiamo al Portico di Ottavia... e se la chiamassimo Ottavia?”

 

“Mi pare un nome bellissimo!” le rispose, sorridendole, per poi aggiungere, “comunque metterò gli annunci per capire se qualcuno l’ha persa.”

 

Imma sentì una strana sensazione allo stomaco, ancora prima che giungesse un profumino meraviglioso e di trovarsi davanti un piatto fumante con un mega carciofo e dei fiori di zucca.

 

Il cameriere servì anche Calogiuri e le toccò trattenere le zampe di Ottavia che cercavano disperatamente di allungarsi verso il carciofo. L’uomo le mostrò un piatto di quello che pareva macinato, “carne macinata cotta con l’ovo, signò, i gatti ci vanno matti. Glielo metto qui per tera?”

 

Imma, un poco in apprensione, fece segno di sì ed abbassò la borsa in modo che Ottavia fosse vicino al piatto. La micia ci si buttò a capofitto, letteralmente, mangiando con avidità.

 

Sperava solo che non stesse male ingozzandosi troppo.

 

“Ammazza, c’aveva proprio fame, c’aveva! Che c’avete il necessario a casa o-”

 

“Veramente no, pensavamo di passare in un supermercato per prenderle le prime cose. Sa se ce n’è uno aperto qua vicino?”

 

“Guarda, c’ho un amico che tiene un negozio per animali e fa pure consegna a domicilio. Ce posso mettere na buona parola di portavve quello che ve serve pure oggi, anche se è domenica, che è n’emergenza.”

 

“Spero che pure i prezzi del suo amico non siano da emergenza,” intervenne Imma, perché sapeva che Calogiuri aveva il viso da buono e temeva che volesse approfittarne un po’.

 

“Ma che se crede signò? Che ce faccio ‘a cresta?!” chiese il cameriere, ridendo, mentre Calogiuri pareva voler sprofondare, “stia tranquilla che l’amico mio è onesto e ce se troverà bene. E comunque altro che leopardo: ‘na tigre è!”

 

“Facciamo un brindisi?” le chiese Calogiuri, una volta che furono di nuovo soli, e aveva gli occhi un po’ troppo lucidi.


“A cosa vorresti brindare, Calogiù?”

 

“Alla pace fatta, magari?” domandò lui, speranzoso.

 

“Perché, chi ti dice che abbiamo fatto la pace, Calogiuri?” lo sfottè, facendogli l’occhiolino, ma poi lasciò tintinnare i loro bicchieri ed allungò il collo per baciare quelle labbra, rese ancora più irresistibili dal vino bianco.

 

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“Buona serata! E se c’avete problemi, chiamatemi!”

 

Chiuse la porta alle spalle del ragazzo del negozio di animali con un sospiro di sollievo.

 

“Ma tutta sta roba serve veramente?” chiese poi, guardando il mucchio di scatole in salotto.

 

“La lettiera serve per forza, anche se mi sa che dovremo insegnarle ad usarla. Il lettino ci vuole, il cibo e le ciotole pure ed i giochi per non farla sfogare sui mobili con gli artigli.”

 

“Tra un po’ qua entra lei ed usciamo noi, Calogiù!” sospirò, ma poi si sentì solleticare le caviglie, ci trovò Ottavia che faceva lo slalom e di nuovo sentì quella strana sensazione al petto.

 

Pure questa era pericolosa, non solo Calogiuri, mo!

 

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“Qua altro che energie residue, Calogiuri!”

 

Si era appena infilata nel letto ed era esausta. E non solo per l’attività fisica di prima mattina, o la passeggiata, ma soprattutto perché avevano passato due ore a cercare di insegnare alla micia ad usare la lettiera e quel coso che Calogiuri chiamava tiragraffi.

 

Ringraziò il cielo di non avere molti tappeti o il parquet, ma sperava di salvare il divano.

 

Il telefono sul comodino squillò e lesse il nome di Valentina.

 

Erano le ventitrè passate e le venne un colpo.

 

“Pronto, Valentì, che succede?!”

 

“Niente mà, niente, sta tranquilla! Volevo dirti che sono arrivata a casa qua a Roma e volevo sapere come stavi.”

 

Che Valentina si preoccupasse per lei, per la sua situazione con Calogiuri, fu il più bel regalo che potesse desiderare. Una volta non sarebbe successo.

 

“Qui tutto-” fece per rispondere, ma sentì dei miagolii che parevano quasi dei ruggiti ed un grattare insistente alla porta.


“Tutto…?”

 

“Meglio se ignoriamo, se no se si abitua che se fa così le apriamo, e lo farà sempre,” spiegò Calogiuri, avendo notato la sua esitazione.


“Ma quella è la voce di Calogiuri? Allora lo hai perdonato? Ma chi è che vuole entrare in camera da letto? Un’altra gattamorta?”

 

“No, una gatta viva, Valentì, vivissima.”

 

Manco si fosse sentita nominare, Ottavia riprese a miagolare fortissimo.

 

“Ma sono dei miagolii? Cioè… c’è davvero una gatta lì?”

 

“Sì, abbiamo trovato una micetta di pochi mesi al parco oggi, era affamata e stava per essere assalita da delle oche. Pure quelle oche vere, Valentì, non metaforiche. Stiamo cercando se ha dei proprietari, ma nel frattempo non potevamo lasciarla là a morire di fame.”

 

“Ma proprio tu, che quando ti imploravo per avere un cagnolino o un gattino mi hai sempre fatto storie?! Non ci credo!” esclamò Valentina e, improvvisamente, la comunicazione si troncò.

 

Chiedendosi se il non averle preso un animale domestico fosse un altro dei traumi che Valentina le avrebbe rinfacciato a vita, Imma rimase in ansia per qualche istante, finché vide di nuovo il nome della figlia sul display, ma stavolta per una videochiamata.

 

Diede una controllata a Calogiuri ed era tutto sommato vestito decentemente e lei… va beh… Valentina l’aveva vista in vestaglia un sacco di volte.

 

“La voglio vedere. Subito!” intimò Valentina, non appena ebbe accettato la chiamata.

 

Di fronte a quell’ordine, ad Imma scappò da ridere. Si scambiò uno sguardo con Calogiuri, che andò ad aprire la porta. La micia cercò di buttarsi verso il letto ma Calogiuri la intercettò, prendendola in braccio, e poi la portò vicino ad Imma, mostrandola nella telecamera del telefono a Valentina.

 

“Pure tigrata? Ci mancava che fosse leopardata e poi eravate in coordinato! Comunque la voglio conoscere assolutamente: preparatevi che il prossimo fine settimana vi vengo a trovare!”

 

“Va bene, anche se… bisogna vedere se non troviamo prima il padrone o la padrona.”

 

“Trovare di chi è un randagio a Roma? Tanti auguri!” rispose Valentina ed Ottavia prima inclinò la testa per guardarla, un poco stupita, poi però si allungò, pur essendo trattenuta da Calogiuri, e prese a leccare lo schermo.

 

“Ma che fa?!”

 

“Lecca il cellulare, Valentì, credo ti mandi i suoi saluti.”

 

“Almeno è più gentile di te. Va beh… ho capito. Buonanotte e fate i bravi! Che me la traumatizzate!” si raccomandò Valentina - quell’impunita! - mettendo giù la comunicazione.

 

Ottavia però continuò imperterrita a miagolare e a cercare di sfuggire a Calogiuri per saltare sul letto.

 

“Dobbiamo farla stancare un poco, che si addormenti nel suo lettino, se no vorrà dormire qua tutte le sere e ce l’avremo sempre nel letto,” le spiegò, facendo per alzarsi in piedi, ma Imma lo bloccò con un “che sei geloso, maresciallo?”

 

L’espressione di Calogiuri si fece incredula e tremendamente comica. Imma allungò il collo e lo baciò, sussurrandogli in un orecchio, “tranquillo: l’unico micetto sonnacchioso che voglio nel letto sei tu!”

 

“Te lo faccio vedere io il micetto, dopo!” ribattè lui, prima di alzarsi in piedi ed avviarsi verso il salotto.

 

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“Vuoi provare anche tu?”

 

La voce di Calogiuri quasi le fece prendere un colpo: era rimasta come ipnotizzata a guardarlo giocare con Ottavia ed una specie di bastoncino con delle piume attaccate ad un filo.

 

“Devi solo agitare un poco il bastoncino, è facile!”

 

“E grazie al cavolo, Calogiuri! Che non ci arrivo da sola?” rispose, prendendogli il legnetto dalle mani ed iniziando pure lei a muovere il polso.

 

Ottavia subito si avventò sulle piume, con quel genere di scatto che era stato definito felino mica per niente.

 

“Ti vuoi prendere una rivincita su quelle oche, eh, Ottà? Che ti capisco, eccome se ti capisco!” scherzò, ma la micia continuò a giocare con un’energia invidiabile, “ma è instancabile!”

 

“E va beh… è tutto nuovo per lei, vedrai che tra poco si stancherà.”

 

In effetti, dopo ancora qualche minuto di gioco, Ottavia iniziò a sembrare più lenta e poi si allontanò dalle piume, quasi schifata, e prese a strusciarsi sulle gambe di entrambi.

 

“Qualcuna ha sonno e vuole le coccole… ora se la accarezziamo, piano piano, dovrebbe addormentarsi. Poi i gatti diventano più indipendenti da grandi, anche se va a carattere, ma alcuni ti cercano pochissimo,” provò a tranquillizzarla Calogiuri, ma la verità era che, in fondo, non era certa di volere che Ottavia la ignorasse del tutto, anche se non ci poteva dedicare tutte le sue giornate.

 

“Così di solito li rilassa molto,” continuò a spiegare Calogiuri, accarezzando la piccola con dei movimenti lenti e circolari.

 

Imma lo imitò e, dopo poco, si trovò con Ottavia spalmata su una sua coscia, che ronfava della grossa.

 

“Si è proprio attaccata tantissimo a te, in tutti i sensi!” commentò lui, con uno sguardo che definire pericoloso era un eufemismo, facendole segno di metterla nel lettino.

 

Staccarla, zampa per zampa, non fu facile, ma poi riuscì a poggiarla sul cuscino peluscioso e Calogiuri pose vicino alla micia un pupazzetto a cui si abbracciò subito, pure nel sonno.

 

C’era qualcosa nel bisogno di affetto o comunque di calore di Ottavia, per quanto fosse l’istinto, che la toccava tantissimo.

 

Il più silenziosamente che potevano, si alzarono e si avviarono verso la camera da letto.

 

Le ricordava quando doveva addormentare Valentina, soprattutto dopo averle dato il latte: come la posava nella culla, si svegliava e frignava tanto da spaccare i timpani.

 

Sulla porta della stanza da letto incontrò gli occhi di Calogiuri e la prese una specie di morsa al cuore: sarebbe stato un papà incredibile. Era dolce, sì, e buono, ma, inaspettatamente, almeno con Ottavia, aveva pure una disciplina notevole, pur essendo giocoso, cosa che a Pietro era sempre mancata. Non avrebbe dovuto fare solo lei il generale di ferro un’altra volta, se mai avessero avuto un figlio loro.

 

Chiedendosi per l’ennesima volta se mai ci sarebbero riusciti o se sarebbe dovuta vivere con la consapevolezza di aver contribuito a privarlo di qualcosa per il quale era evidentemente molto portato, si trovò trascinata in un bacio dolcissimo ed in una carezza sul viso da lui, che la guardava commosso.

 

Come sempre l’aveva capita, senza parole.

 

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Aprì gli occhi, di scatto, e dopo qualche istante, ancora rimbambito, capì il perché.

 

Miagolii e il rumore di unghie sul legno.

 

Guardò l’orologio sul comodino ed erano le sei di mattina.

 

Con un sospiro, ritrasse le mani che ancora stringevano Imma nel sonno e poi tentò di alzarsi.

 

“Ma dove vai? Che ore sono?” bofonchiò Imma, voltandosi per guardarlo.


“Le sei. Ottavia gratta la porta, mi sa che ha fame o vuole attenzioni. Ci penso io e poi vado a correre, tu dormi,” si offrì, dandole un bacio.

 

“Guarda che è l’unica femmina a parte me a cui sei autorizzato a darle, le attenzioni!”

 

“Agli ordini!” esclamò, baciandola un’ultima volta, prima di alzarsi definitivamente, andando verso la porta con uno strano groppo in gola.

 

Stare con Imma e con Ottavia, prendersene cura insieme lo faceva pensare a come sarebbe stato avere un figlio o una figlia loro. Imma era molto più dolce e materna di quanto lei stessa pensasse, anche se faceva la dura e nonostante il suo carattere tosto. Era e sarebbe stata ancora una mamma fantastica, ne era certo.

 

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Un lamento quasi disperato l’accompagnò alla porta, mentre Ottavia le si piazzava tra i piedi, nel vero senso del termine.

 

Forse aveva capito che doveva uscire.

 

Assurdamente, sentì una fitta di senso di colpa all’idea di lasciarla lì da sola.

 

Con l’età si stava proprio rammollendo e pure un poco rincoglionendo!

 

“C’ho da lavorare, Ottà, che il cibo per gatti mica cresce sugli alberi!” scherzò, anche se, in effetti, sugli alberi forse i gatti qualcosa da mangiare l’avrebbero trovato eccome.

 

Si impose infine di ignorare lo sguardo degno di Calogiuri e chiuse la porta, avviandosi verso le scale.

 

In strada passò davanti ad una vetrina e si ricordò che, con tutto quello che era successo il giorno prima, non aveva poi comprato un abito per il teatro.

 

Si ripromise di recuperare in pausa pranzo, che tanto Calogiuri sarebbe stato dal veterinario. Così sarebbe stata ancora di più una sorpresa.

 

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Stava finendo di prepararsi in bagno, perché Imma lo aveva cacciato dalla stanza da letto, dicendogli che se si faceva vedere prima che fosse pronta avrebbe dormito sul divano o, peggio, nel lettino di Ottavia.

 

Manco gli leggesse nel pensiero, udì un miagolio ed un grattare ormai molto familiari. Se andavano avanti così avrebbero dovuto ridipingere le porte.

 

Aprì, tanto era pronto, ed una palla di pelo gli si buttò alle caviglie, cominciando a tracciare degli otto.

 

Nomen omen - una delle poche frasi di latino che sapeva.

 

“Allora, quando non c’è la mamma disponibile, ti vado bene pure io? O approvi il vestito?”

 

“E c’ha ragione, c’ha! Con quel vestito stai fin troppo bene, visto chi c’abbiamo appresso stasera!”

 

Alzò gli occhi verso la voce e per poco non gli venne un coccolone: prima vide un paio di scarpe con un tacco da capogiro, nere, e poi… Imma aveva indosso un vestito molto attillato, con la gonna che si stringeva ulteriormente appena sotto al ginocchio ed una specie di bustino retto da spalline. Tutto interamente leopardato.

 

Anzi no!

 

Imma si era voltata, in un modo che lo faceva impazzire, ed il retro era in parte nero, di un tessuto elasticizzato che le stava come un guanto, sottolineando tutto quello che c’era da sottolineare, fin-

 

“Troppo?” gli domandò e Calogiuri si chiese se lo aveva detto ad alta voce, ma poi lei aggiunse, in un modo quasi timido che fu la sua rovina definitiva, “pensi che sia troppo pure per me?”

 

“Troppo sì, ma nel senso che sei troppo bella e mo… altro che di andare a teatro avrei voglia!” rispose, prendendola per la vita e stringendola a sé.

 

Ma lei gli mise due mani sul petto, recuperando un poco di distanza di sicurezza, “per le tue voglie mo ti tocca aspettare dopo il teatro, Calogiuri, che non c’ho tempo di prepararmi di nuovo e se mi rovini il vestito….”

 

“Va bene, va bene,” sospirò, alzando le mani in segno di resa, “allora ci chiamo un taxi, che vestiti così in motorino non ci possiamo proprio andare.”

 

Imma gli sorrise e sparì di nuovo verso la stanza per poi tornare, mentre lui era ancora al telefono, con indosso una giacchetta nera tipo di raso e, soprattutto, il suo inconfondibile cappotto leopardato.

 

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“Vieni.”

 

Afferrò la mano di Calogiuri che, come un gentiluomo d’altri tempi, aveva circumnavigato il taxi per aiutarla a scendere.

 

“Sei bellissima…” le sussurrò, mentre chiudeva la portiera e salutava con un cenno il taxista.

 

“E tu sei più ruffiano di Ottavia…” gli rispose, perché gliel’aveva già detto tre volte quella sera.

 

Non che se ne sarebbe mai lamentata, anzi.

 

Si guardò intorno: tanti cappotti neri, anche se non c’era una vera e propria folla.

 

E poi notò una macchia bianca ed inquadrò Irene, con un cappotto lunghissimo, candidissimo ed elegantissimo, che pareva uscita da uno spot dell’acqua minerale. Non li aveva ancora notati.

 

Si avvicinò e capì immediatamente, dall’espressione di Irene, quando finalmente si acccorse di lei.

 

“Calogiuri, Imma…” li salutò, fissando il suo cappotto in un modo quasi incredulo.

 

E non aveva ancora visto niente!

 

“Ho già preso i nostri biglietti, possiamo andare al guardaroba e poi entrare, che qui non è che faccia caldissimo,” spiegò, porgendo loro i cartoncini fustellati e facendo loro strada in quello che era un teatro non grandissimo e che pareva abbastanza antico.

 

Non appena si sfilò il cappotto, per passarlo al guardarobiere, gli occhi di Irene si spalancarono ancora di più e la squadrò dalla testa ai piedi.

 

Ed Imma ricambiò perché, per carità, il vestito lungo in raso rosso scuro di Irene sarà pure stato elegantissimo, ma aveva uno spacco che lasciava scoperta la gamba sinistra ben sopra al ginocchio.

 

Se si vestiva sempre così per uscire con Calogiuri…!

 

“Andiamo a prendere posto,” propose Irene, fin troppo rapidamente, l’aria di chi si stava trattenendo dal commentare il suo outfit.

 

Calogiuri, che aveva giusto giusto fatto un cenno di saluto alla gattamorta quando erano arrivati, pareva muto come un pesce e molto a disagio.

 

I posti a loro assegnati erano in seconda fila, abbastanza centrali.

 

Irene si infilò subito ed Imma fu per un attimo indecisa sul da farsi.

 

“Vai prima tu,” propose Calogiuri, evidentemente per non sedersi a fianco ad Irene e non rischiare di contrariarla.

 

“Ma no, Calogiuri, vai pure prima tu,” ribattè, perché voleva proprio vedere cosa avrebbe combinato, seduto accanto alla cara collega.

 

Lui, con l’aria di chi stava andando al patibolo, fece come gli fu chiesto ed Imma prese posto alla sua sinistra.

 

Lanciò un’occhiata verso il palco ed una verso la gattamorta, intenta a risistemarsi la gonna e lo spacco in un modo che le faceva ribollire il sangue.

 

Ma si sentì stringere una mano ed incrociò gli occhi di Calogiuri che sorridevano a lei e solo a lei, mentre le faceva l’occhiolino e le sussurrava, “qua la mano morta te la posso fare?”

 

“Sei autorizzato, anzi, autorizzatissimo, Calogiuri!” mormorò di rimando e si godette l’espressione della cara Irene quando lui le passò un braccio intorno alle spalle e la strinse leggermente a sé.

 

Che si rodesse pure il fegato quella, con quella faccia che era tutto un programma!

 

“Il programma!” disse Irene ed Imma si chiese se lei e Calogiuri quella sera si erano messi d’accordo per ripetere i suoi pensieri.

 

“Come?”

 

“Il programma è nello spazio della poltroncina di fronte a voi. Dà molte informazioni sullo spettacolo, gli attori e-”

 

“E cos’è un programma teatrale lo so da me, grazie!” la interruppe, prendendo il foglio A4 ripiegato che fungeva da libretto ed aprendolo per leggere.

 

Oltre ai nomi del cast, dei registi e di chi lavorava dietro le quinte, notò una foto di Amalia con un uomo che presunse essere il protagonista, nei costumi di scena.

 

“Certo che è proprio bella…” commentò, non potendo non invidiarle un poco quell’aspetto da nobildonna nordeuropea.

 

Ma sentì subito il braccio di Calogiuri irrigidirsi.

 

“Qualcuno è geloso?” gli chiese e, mentre Calogiuri si schiariva la voce, la gattamorta alzò gli occhi al soffitto, chiaramente esasperata.

 

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“E dimmi prima un'ultima cosa: sei tu che mi segui, o sono io che seguo te?”

 

Maledizione alle lacrime che scendevano, per quei due deficienti poi! - pensò Imma, mentre assisteva all’ultimo atto del dramma, in tutti i sensi.

 

Mentre cercava di asciugarsele, prima che tornasse la luce, si trovò quasi schiacciata al petto di Calogiuri, che la stringeva fortissimo.

 

Gli ultimi istanti, il rumore di caduta nell’acqua, l’anziana che gridava ed era tutto finito.

 

Le luci improvvise l’accecarono, mentre la platea si esibiva in un applauso scrosciante, soprattutto considerate le dimensioni ridotte del teatro, a cui si unì calorosamente: se lo meritavano proprio.

 

“Allora, vi è piaciuto lo spettacolo? Sempre se lo avete visto,” ironizzò Irene, con un’occhiata eloquente.

 

“Moltissimo,” rispose e Calogiuri la abbracciò fortissimo e le fece eco con un, “moltissimo, anche se è un po’ un pugno allo stomaco.”

 

“Certo che tutti gli spettacoli che abbiamo visto insieme finora, finiscono con i protagonisti che si ammazzano. Scegli sempre cose allegre, Irene,” commentò ed Irene sembrò stupita.

 

“Sì, le ho… l’ho portata insieme a me a rivedere Due Donne Che Ballano.”

 

Lo sguardo di Irene divenne strano, indecifrabile: Imma non capiva se fosse gelosia, disappunto o solo stupore.

 

“Dobbiamo… dobbiamo andare a salutare Amalia, se no non mi perdonerà mai, conoscendola,” propose Irene, cambiando discorso ed alzandosi, “mi ha detto che ci fa passare per i camerini.”

 

Calogiuri pareva ancora un poco rigido: era adorabile quando faceva il geloso!

 

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“Irene!”

 

Amalia, ancora truccata e con la retina della parrucca in testa, anche se vestita in abiti moderni, si abbracciò l’amica.

 

Si chiese come facesse ad essere bella pure conciata in quel modo.

 

“Allora, che ne pensi?”

 

“Mi è piaciuto molto, ma è piaciuto anche a loro: sei riuscita perfino a fare commuovere Imma, che mica è facile!”

 

“No, ma non è giusto! Questa è istigazione a delinquere, dottoressa!” esclamò Amalia, squadrandola in un modo che la fece arrossire, “sei di una bellezza indescrivibile!”

 

Il calore alle guance aumentò esponenzialmente. Calogiuri tossì di nuovo, pure mentre, insieme con lei, faceva i complimenti per la performance.

 

“Amalia, sei quasi pronta?” chiese un uomo che riconobbero come il protagonista, già struccato e rivestito, “ma chi sono? E lei chi è? Una collega? Sei vestita divinamente! Che cos’è? D&G?”

 

“No, qualcosa di infinitamente meno caro,” rispose Imma, decidendo che, in fondo, questi attori le stavano proprio simpatici, “e non sono una collega, anche se con persone che recitano c’ho a che fare tutti i giorni .”

 

“Agenti di spettacolo?”

 

“Avvocati. Sono un magistrato,” rispose, assaporando l’occhiata stupita ed un poco intimorita che accompagnava sempre quella rivelazione, “questo invece è il maresciallo Ca-”

 

“Ma certo! Ecco dove vi avevo già visti! Voi siete quelli del triangolo. E ci sono pure tutti e tre gli angoli! Ma siete una coppia aperta?”

 

“Chiusissima!” pronunciarono all’unisono lei e Calogiuri e poi scoppiarono a ridere.

 

“Va beh… i giornali sapeste quante se ne inventano! C’è di buono che di noi attori di teatro se ne fregano. Sentite, ma perché non venite pure voi a cena con noi, per festeggiare la prima? Amalia, gli altri ci aspettano.”

 

“Sì, dai, venite con noi!”


“Guardate, un’altra volta magari volentieri ma… abbiamo un tornado a casa e vorremmo ritrovarla ancora una casa al rientro.”

 

“Tua nipote?” chiese Irene a Calogiuri, con un sorriso ed un tono zuccherini che le diedero sui nervi.

 

“No, Ottavia, una micetta. L’abbiamo salvata in un parco domenica e non è ancora molto abituata a stare a casa, specialmente da sola.”


“Calogiuri ci sa fare tantissimo con gli animali,” spiegò Irene ed Imma ebbe un moto di fastidio ad avere l’ennesima conferma quanto lo conoscesse bene.

 

“Veramente è Imma che l’ha salvata da uno stormo di oche. Per poco non si faceva mozzare un dito per recuperarla,” spiegò lui, guardandola orgogliosissimo, mentre Irene faceva nuovamente quella faccia strana ed Amalia la guardava come lei guardava Calogiuri e i bomboloni alla crema.

 

“Non rovinarmi la reputazione, Calogiuri!” si schernì lei, procedendo poi a fare i saluti per levarsi dall’imbarazzo.

 

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Aprì la porta e per poco non inciampò: miagolando a decibel inauditi, Ottavia tentò di arrampicarsi sui suoi collant, con ovvi risultati.


Per fortuna erano economici.

 

“Manco Valentina da bimba quando tornavo da lavoro faceva tutte queste scene!” esclamò, prendendola in braccio, nel frattempo che Calogiuri chiudeva la porta, ridendo.

 

“Giochi, divano, coccole e poi a letto?” chiese Imma, nella loro routine ormai consolidata serale.

 

“Sulle coccole e sul letto sarei interessato pure io, dottoressa!” proclamò, dandole un pizzicotto sul sedere che per poco non lasciava cadere Ottavia.

 

“Calogiuri!”

 

“Come ha detto Amalia, sei da istigazione a delinquere, dottoressa!” le rispose, con uno sguardo che le fece salire gli ormoni a mille.

 

Ma prima dovevano addormentare la belva.

 

Anche se… almeno un pizzicotto, pure due, poteva anticiparglielo anche lei.

 

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“Signor giudice, mi chiedo quale credibilità possano avere l’accusa e i testimoni principali di questo procedimento, considerato quanto trapelato dai giornali su possibili… rapporti a tre, e non dico altro.”

 

“Signor giudice, non solo l’avvocato sta dando un’opinione sulla mia persona, che esula da questo procedimento e dalla mia attività professionale, arrivando all’insulto, seppur velato, ma, soprattutto, il maresciallo Calogiuri e la dottoressa Tataranni - perché, avvocato, facciamoli i nomi e cognomi! - sono solo due dei moltissimi testimoni di questo processo. Inoltre, quello che è uscito sui giornali, ed immagino si riferisca alla nostra serata a teatro, dimostra che tra noi c’è sempre e soltanto stato un rapporto di amicizia e collaborazione, smontando quanto emerso nelle foto rubate durante il nostro appostamento a Milano. Se la dottoressa Tataranni fosse stata tradita o se ci fosse tra noi un rapporto torbido e da nascondere, di sicuro non saremmo andati tranquillamente ad una prima teatrale, tutti insieme. E mi permetta di dire che, pure se tra noi ci fosse quello che sta insinuando lei - cosa assurda per chiunque conosca un minimo il maresciallo e la dottoressa, soprattutto, ed il suo carattere! - non vedo come questo inficerebbe le decine, decine e decine di testimonianze e prove raccolte.”

 

Imma si sforzò per rimanere impassibile. La gattamorta era brava in tribunale, le toccava ammetterlo, e l’avvocato era un viscido della peggiore specie. Pure in tralice, vide chiaramente che Calogiuri, al solo menzionare dei rapporti a tre, era diventato fucsia e sembrava in imbarazzo mortale. Quasi peggio di quando avevano visto quell’articolo, intitolato Pensiero Stupendo! che mostrava foto di loro tre a teatro, insinuando che avessero preso molta ispirazione dalla canzone di Patty Pravo.

 

“Avvocato, la prego di essere più rispettoso nei confronti della dottoressa ed evitare attacchi personali che esulano da questo procedimento, altrimenti sarò costretto a prendere provvedimenti.”

 

Ed Irene, in qualche modo, se l’era cavata anche questa volta.

 

Almeno nel gestire il dibattimento le era superiore, questo le toccava riconoscerlo.

 

Ma solo in quello.

 

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“Nulla di fatto, direi, poteva andare meglio, ma poteva anche andare peggio.”

 

Erano in un’aula secondaria, dove la cara collega si stava levando la toga, dopo aver avuto il rinvio all’udienza successiva a marzo.

 

Doveva ammettere anche che nell’analizzare il suo lavoro era molto lucida.

 

E quindi non poteva non esserlo pure lei.

 

“Hai fatto quello che hai potuto: quell’avvocato è peggio pure del precedente, cercherà di distruggerti e distruggerci.”

 

Irene spalancò gli occhi, meravigliata, ma poi le sorrise.

 

“Ed è per questo che… va beh… forse meglio non rivangare quanto successo a Milano, ma… sto facendo calmare le acque, perché dubito che al momento il collega che abbiamo incontrato Calogiuri ed io mi vorrebbe aiutare. E, coi tempi della giustizia italiana, purtroppo e per fortuna, è inutile accelerare ora, rischiando di compromettere tutto. Ma sto lavorando per avere un aiuto lì e… avere informazioni da lui. Se l’avvocato vuole giocare col fuoco, la benzina non mi manca.”

 

L’aveva affermato in un modo talmente deciso che Imma provò un misto di ammirazione ma pure di timore.

 

La gattamorta, quando tirava fuori gli artigli, altro che un Pitbull era!

 

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Una lama di luce negli occhi la costrinse a svegliarsi da un sogno stupendo: c’erano lei e Calogiuri in Giappone, a baciarsi e… non solo quello... su uno di quei pavimenti tipici giapponesi.

 

Non lo sentì addosso, però, cosa insolita, ed allora allungò un braccio per toccarlo, alla cieca, ma sentì solo il letto vuoto, e pure già un poco freddo.

 

“Calogiù?!” chiamò, ma non le rispose nessuno.

 

Manco Ottavia che grattava alla porta.

 

Silenzio.

 

Provando un senso di inquietudine, scese dal letto, si infilò le sue ciabatte pelose leopardate, la vestaglia coordinata e si avviò, in punta di piedi, verso la porta, quasi tentata di prendere un oggetto contundente, ma non ce lo aveva.

 

Se fosse stata ancora con Pietro, avrebbe potuto dare il sax in testa a qualcuno. Che sarebbe stato solo che un bene per tante persone.

 

Aprì la porta e c’era ancora un silenzio perfetto, ma una luce proveniva dalla zona cucina. Afferrò la prima cosa che le venne tra le mani, ovvero la statuetta da leopardo in ceramica, e si avviò, quatta, quatta.

 

Vide un’ombra e stava per sferrare un colpo, quando un “ma che sei matta?!” la bloccò prima che fosse troppo tardi.

 

“Calogiù?! Ma sei tu che sei matto! Un colpo mi hai fatto prendere!” urlò, appoggiando la statuetta a terra, una mano sul cuore, che galoppava.

 

“Volevo farti una sorpresa.”

 

Si guardò intorno e ci trovò diverse scatole ed alcune cose colorate sparse sul divano.

 

“Ma… ma….”

 

“Oggi è l’otto dicembre, il tuo onomastico, e poi… è il giorno per decorare casa per natale.”

 

Se avesse avuto un euro per tutte le volte in cui l’aveva fatta commuovere, sarebbe stata più ricca della gattamorta.

 

“E che volevi farlo senza di me, Calogiù?” gli chiese, fintamente arrabbiata, ma poi gli buttò le braccia al collo e gli saltò in braccio.

 

“Imma… se fai così… qua altro che decorazioni!”

 

“Pure quello potrebbe essere un regalo per il mio onomastico, no? Anche se non proprio disinteressato da parte tua!” esclamò, staccandosi però a forza per guardare gli addobbi che erano appoggiati sul divano, in attesa di essere appesi, “ma la belva dov’è?”

 

“In bagno, con ciotola e giochi, prima che distruggesse tutto ancora prima di appenderlo. Credimi, i gatti vanno pazzi per le decorazioni natalizie. Un anno il gatto che avevamo a Grottaminarda ha tirato giù l’albero, che per poco non ci rimanevano sotto lui e mia madre.”

 

Si trattenne dal dire che, tutto sommato, il gatto avrebbe sacrificato una delle sue sette vite per una buona causa.

 

“E infatti l’albero lo hai evitato, Calogiù? Che non lo vedo.”

 

“No, non l’ho evitato… è solo che… volevo prima sistemare il resto e levare le scatole, che lo spazio è quello che è,” spiegò, aprendo la porta di ingresso dove c’era un altro scatolone, il più grosso.

 

“Allora mo ci facciamo colazione, che la festeggiata c’ha fame, e poi sistemiamo tutte queste cose che hai preso!”

 

Stava per avviarsi quando il contenuto di una scatola la fece fermare sui suoi passi.


“Palline di natale leopardate? Ma dove le hai trovate?!” gli domandò, perché manco lei era mai arrivata a tanto.

 

“Internet, dottoressa.”

 

“Sei sempre stato bravo a fare le ricerche, Calogiù, ma occhio a cosa ci cerchi su internet,” lo prese in giro, puntandogli un dito al petto, prima di baciarlo rapidamente e correre verso la cucina, inseguita da passi rapidi che promettevano molto di buono per lei.

 

In fondo le decorazioni un’altra ora potevano pure attenderla!

 

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“Mi sembra che sia venuto proprio bene, Calogiù! Peccato per le lucette.”

 

“Eh ma coi gatti, avere fili in giro è un invito al disastro… e poi mi sembra già abbastanza... decorato così.”

 

In effetti era pieno di palline paillettate e leopardate, a sfondo dorato o nero, più le classiche monocolore rosse e dorate. Persino il puntale era un tripudio di lustrini.

 

Non poteva ancora crederci che Calogiuri avesse veramente comprato delle cose simili, soltanto per farla contenta.

 

Lo vide piazzare una specie di cancelletto tutto intorno alla base dell’albero, che andava oltre ai rami più bassi e poi estrarre delle bombolette spray.

 

“Che cos’è? Neve finta?”

 

“Aroma alla citronella ed uno all’arancia. Dicono che i gatti odino questi odori, almeno evita di arrampicarsi e farsi male, anche se in teoria l’albero dovrebbe essere ben fissato al soffitto e al muro.”

 

“E se fa schifo pure a noi, oltre che a Ottavia?”

 

“E va beh… vorrà dire che terremo le finestre aperte per un po’ e lo spray alla citronella lo ricicleremo come antizanzare per questa estate.”

 

Lo spruzzò abbondantemente su tutti i rami e le decorazioni e in effetti l’odore non era poi così male, grazie soprattutto all’arancia, che faceva molto natale.

 

“Mo però liberiamo la belva, che ne dici?”

 

“Prima ho un regalino per lei e per te,” proclamò ed Imma non sapeva più che pensare: come poteva ripagare tanta generosità?

 

Le porse un pacchettino un poco allungato ed Imma lo aprì e ci trovò uno di quei bastoncini che Ottavia amava tanto, ma con una striscia leopardata al posto delle piume.

 

“Almeno magari si distrae dalle decorazioni e poi… quando l’ho visto, non ho resistito.”

 

In un secondo gli era di nuovo in braccio, forse con troppa foga, perché si sentì cadere in avanti, ma per fortuna finirono seduti sul divano.

 

“La più pericolosa sei tu, dottoressa, decisamente, almeno per la mia salute,” le sussurrò, accarezzandole il viso.

 

“C’hai un’idea di quanto ti amo? Mannaggia a te!”

 

Gli occhi di Calogiuri brillarono ancora più del solito e fu stretta in un abbraccio a morsa.

 

“Grazie… grazie... ti amo da impazzire,“  le sussurrò, in un modo che era a dir poco straziante.

 

Si rese conto solo in quel momento che, in effetti, dopo gli eventi di Milano non glielo aveva più detto, nemmeno in risposta alle sue bellissime dichiarazioni.

 

Non perché non lo pensasse, anzi, ma forse per un poco di paura residua.

 

Ma con Calogiuri era proprio impossibile mantenere qualsiasi barriera.

 

Altro che lo spray alla citronella!

 

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“Non so se la distrazione funzionerà, Calogiuri!”

 

Ottavia si era pure interessata al giochino nuovo ma, da quando aveva visto l’albero, dopo essercisi fiondata, per poi ritrarsi, con quello sguardo schifato degno di lei, continuava comunque a girarci intorno, tipo lo squalo, anche se a distanza di sicurezza.

 

“Ci si abituerà. O almeno spero. Dovremo giocare di più con lei nei prossimi giorni.”

 

E che gli poteva dire? Sarebbe stato veramente un padre incredibile!

 

Forse gli animali coi quali era cresciuto lo avevano reso più sensibile e, allo stesso tempo, gli avevano dato il polso necessario per non farsi mettere le zampe in testa, almeno da loro.

 

Anche se, pure con gli umani, stava molto migliorando.

 

“Peccato solo che non saremo qua a natale!” sospirò, perché una gran parte di lei non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte.

 

Ma Valentina si meritava delle feste con entrambi i genitori presenti e non a cinquecento chilometri di distanza.

 

“In che senso?” le chiese lui, con uno sguardo strano.

 

“Io devo essere a Matera, Calogiuri, lo sai e… e non fraintendermi, vorrei tanto che ci fossi pure tu ma… se dovessi decidere di andare a Grottaminarda lo capirei. Insomma c’è la tua famiglia e-”

 

“La mia famiglia sta già qua,” proclamò in un modo che la ridusse in pappa per l’ennesima volta quel giorno, “Noemi e Rosa posso pure vederle in un altro momento. E gli altri… peggio per loro! Io il natale quest’anno lo faccio con te e non si discute!”

 

Gli finì di nuovo in braccio e poi lo baciò, senza fretta, dolcemente, ignorando i miagolii un poco gelosi che le arrivavano da vicino ai piedi.

 

Lo squillo del cellulare di Calogiuri interruppe quel momento magico.

 

Lo vide estrarlo dalla tasca e poi fare un’espressione di chi teme un’esplosione.

 

“Irene?” gli chiese e Calogiuri annuì.

 

Era peggio di Pietro ai tempi, ma veramente!

 

“Rispondi, dai. In fondo è raro ormai che ti chiami fuori servizio.”

 

Dopo il teatro tutti insieme, l’articolo di giornale e l’udienza, Irene aveva mantenuto le distanze di sicurezza e non aveva più invitato Calogiuri ad altre uscite culturali.

 

“Pronto?” le chiese e Imma vide, ancora prima di udire, che la mise subito in vivavoce.

 

Aveva proprio imparato per bene la lezione, Calogiuri.

 

“Ti disturbo?”

 

“No, in realtà… stavamo finendo con Imma di decorare casa per natale.”

 

Le venne da sorridere, immaginando il travaso di bile della gattamorta.

 

“Proprio per questo ti chiamavo. Cioè, non per le decorazioni natalizie, ma perché… Bianca vorrebbe tanto venirvi a trovare prima di natale, per darvi un regalo. E me lo chiede in continuazione.”

 

Calogiuri la guardò, come a domandarle il da farsi.

 

Imma spinse il pulsantino per mettere in muto il microfono del cellulare e poi rispose, “ma certo che può venire, Calogiù, però avvisala che ci sta pure Ottavia e… non vorrei che Bianca si spaventasse.”

 

Il sorriso ed il bacio di Calogiuri furono i regali più belli, e poco importava se avrebbe dovuto sopportare la gattamorta a casa sua.

 

Anzi, a casa loro.

 

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“Benarrivate!”

 

Calogiuri, ospitale come sempre, fece passare Bianca, abbigliata con un adorabile vestitino rosso a quadri che faceva tanto natale. Pure Irene indossava un abito simile, con una giacca dello stesso colore.

 

Erano bellissime, mannaggia a loro! Sembravano uscite da una pubblicità.

 

“Ciao…” sussurrò Bianca, un poco intimidita, guardandosi intorno.

 

Imma aveva cercato di riordinare il più possibile - con l’aiuto di Calogiuri, ovviamente - ma il loro appartamento non era certo lontanamente paragonabile a quello della gattamorta.

 

“Vieni… vuoi accomodarti sul divano?” le chiese, facendole l’occhiolino ma, in quel momento, ci fu un miagolio e si trovò afferrata per le gambe, Bianca che si nascondeva dietro ai suoi polpacci, mentre Ottavia si avvicinava, stiracchiandosi in modo regale e guardando verso la bimba, con il musetto inclinato.

 

“Buona, Ottavia: non essere impaziente come al tuo solito, mo!” la redarguì, abbassandosi per darle due carezze, mentre la micia, per fortuna, rallentava nell’avvicinamento.

 

“Chissà da chi ha preso sull’impazienza!” commentò Irene e sentì Calogiuri ridere.

 

Ma su quello, almeno, non poteva dare loro torto.

 

Poi la prese in braccio, in modo che non potesse sfuggirle, continuando ad accarezzarla per tenerla tranquilla.

 

Sentì, dopo poco, che la morsa ai polpacci si allentava e Bianca guardò verso di lei, sembrando a sua volta curiosa.

 

“La vuoi accarezzare pure tu? Basta fare piano,” le spiegò, mostrandole come si faceva.

 

La bimba fu un attimo indecisa ma poi allungò una mano, talmente tremante che le ricordava quasi le prime dolcissime carezze che le aveva fatto Calogiuri.

 

Trattenne il fiato, sperando che Ottavia non ne combinasse una delle sue, ma alla fine Bianca riuscì a toccarla. La micia le sfregò prima la testa sulla mano e poi prese a leccargliela, facendo le fusa.

 

Per fortuna restava sempre una ruffiana!

 

“Ma è ruvida!” esclamò Bianca, ridendo, la lingua di Ottavia che evidentemente le faceva il solletico.

 

Poi la bimba, presa confidenza, si guardò intorno ed Imma vide i suoi occhi illuminarsi di fronte all’albero, miracolosamente sopravvissuto agli assalti di Ottavia di quella settimana.

 

“Ma è bellissimo!” esclamò, entusiasta, “non è vero, Irene?”

 

La cara collega fece un’espressione di chi stava trattenendosi tantissimo dal fare qualsiasi commento e poi annuì.

 

“Senti, Bianca, se… se te la senti… ti lascerei qui con Imma e con Calogiuri ed andrei a fare un paio di commissioni. Ti va ? In qualsiasi momento ovviamente mi puoi chiamare.”

 

Imma rimase un attimo sorpresa da quell’iniziativa e si chiese se fosse per testare le acque con Bianca su cosa riuscisse a fare da sola, o se perché Irene preferiva evitare di stare troppo tempo lì con loro.

 

Bianca li guardò un attimo, a turno, e poi annuì.

 

Irene sorrise e se la abbracciò fortissimo, prima di dirle, “se hai bisogno mi chiami ed arrivo subito subito.”

 

E poi con un sorriso ed un grazie! che sembrò veramente sentito, sparì fuori dalla porta.

 

Imma si scambiò uno sguardo con Calogiuri: e che facevano mo?

 

Bianca pure li guardava, sembrando intimidita ed un poco in apprensione.

 

“La vuoi una cioccolata calda? E poi abbiamo una cosa per te,” propose Calogiuri, mostrandole il pacco regalo a lei destinato.

 

Bianca sorrise e se lo abbracciò, ridendo ancora di più quando la prese in braccio.

 

“Ho capito, la cioccolata la faccio io. Voi però mi curate questa signorina,” propose Imma, poggiando Ottavia per terra, che subito saltò addosso a Calogiuri, volendo pure lei un po’ di coccole.

 

Imma quasi non poteva credere ai propri occhi: quando aveva conosciuto il timidissimo appuntato di Grottaminarda, dagli occhi enormi ed azzurri sempre piantati al pavimento, mai e poi mai avrebbe pensato di potere un giorno vivere un momento simile con lui.

 

Se qualcuno gliel’avesse detto, gli avrebbe consigliato di andare a farsi fare una bella perizia psichiatrica.

 

Eppure… eppure era tutto vero e non avrebbe potuto essere più felice di così.

 

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“Buonissima, grazie, Imma!”

 

Sorrise, intenerita, perché Bianca era educata, educatissima, tanto che pareva molto più grande.

 

Non fosse stato per quegli adorabili baffetti di cioccolata calda che le ricordavano che, in fondo, aveva solo sette anni.

 

Le passò un tovagliolino di carta, facendole segno di pulirsi e poi Bianca aprì la borsettina nera che aveva a tracolla - e che chissà quanto costava! - e ne estrasse un pacchettino.

 

“Questo è per voi… non è molto, ma la mia maestra mi ha detto che i regali più belli sono quelli fatti da noi.”

 

Guardò Calogiuri, più squagliato di un pupazzo di neve a primavera, e si chiese se anche lui pensasse al fatto che Bianca avesse ancora un’insegnante privata, a casa, visto che non riusciva ad uscire.

 

Non sapeva bene perché, ma le venne in mente Clara di Heidi.

 

Prese il pacchettino, lo aprì con delicatezza e ci trovò, nell’ordine, un disegno che, con tratti adorabilmente infantili, ritraeva quelli che dovevano essere Bianca, Irene e loro due tutti insieme a giocare con le bambole. Bianca le aveva dettagliate al punto che si riconoscevano Elsa, Anna e pure la bambola Imma.

 

E poi, sotto la carta, trovò delle decorazioni natalizie fatte a mano: degli alberelli realizzati con nastrini colorati, delle stelle di bottoni e delle palline di lana a pompom.

 

“Grazie! Le appendiamo subito all’albero, vero, Calogiù?” gli chiese, e lui, per tutta risposta, se le abbracciò entrambe, Bianca che rideva ed Ottavia che gli era saltata sulla testa.

 

Dopo aver messo il tutto in posti ben visibili, passarono a Bianca il suo di pacchetto.

 

La bimba cercò di scartarlo ordinatamente, ma Imma le disse, “strappa pure, dai, è solo carta!”

 

Bianca fece un risolino - probabilmente non c’era abituata a poter fare confusione - e strappò con entusiasmo, finché vide il regalo e rimase come ammutolita, immobile.

 

“Che c’è? Non ti piace?” chiese Imma, preoccupata, mentre la bimba continuava a fissare il castello di Frozen che le avevano comprato.

 

“No, cioè… è… è bellissimo!” esclamò Bianca, e scoppiò a piangere, abbracciandola di nuovo.

 

Imma non sapeva che dire e manco Calogiuri, che pareva pure lui sull’orlo delle lacrime.

 

Continuò a tenerla stretta, finché Bianca stessa non si staccò.

 

“Però… però lo lascerei qua, così… posso venire a giocarci con voi,” propose poi Bianca e fu il colpo di grazia.

 

“Tu qua puoi venirci quando voi, hai capito? E con tutti i giochi che ti pare. Però con Ottavia in giro… mi sa che il castello è meglio se lo tieni tu al sicuro, prima che ci faccia la cuccia. E poi possiamo venirti a trovare pure noi.”

 

Mentre Bianca di nuovo si faceva abbracciare, Imma si sentì passare un braccio intorno alle spalle ed un “ti amo!” tremolante che le venne sussurrato all’orecchio.

 

Posò la mano su quella di Calogiuri e si appoggiò al suo collo, chiedendosi se fosse troppo sognare che, un giorno, momenti come quelli potessero essere la normalità per loro, tra un casino e l’altro.

 

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“Dottoressa, io avrei finito. Voi a che punto siete?”

 

“Al punto in cui mi chiedo perché mi dai ancora del voi quando non ci sta nessuno in giro, Calogiuri,” rise, finendo di sistemare le ultime cose sulla scrivania ed alzandosi, “Asia è già andata, chissà che doveva fare questo weekend!”

 

“E allora… possiamo andare pure noi?” le domandò, speranzoso, ed Imma si avvicinò e, dopo essersi accertata che fossero soli, gli piantò un bacio sulle labbra.

 

“Sì, Calogiuri, anche perché se no chi la sente a Valentì!”

 

Imma aveva deciso di fare una cosa per lei inconcepibile fino solo ad un paio di anni prima: aveva anticipato le ferie natalizie di un paio di giorni, in modo di poter già arrivare di venerdì sera a Matera.

 

Avevano un sacco di cose da sistemare ed in sospeso, innanzitutto prendere le sue cose da… da casa di Pietro. Non ne aveva voglia, affatto, ma… sapeva di non poter più rinviare.

 

Si infilò il cappotto, la borsa e stavano per avviarsi sulle scale, quando una voce, ben poco amata, li fermò.

 

“Imma, Calogiuri, aspettate!”

 

Irene.

 

Mancini stranamente non si era fatto vedere, aveva solo fatto una faccia un poco strana quando gli aveva chiesto ferie per sé e per Calogiuri per quei due giorni, un paio di settimane prima.

 

Ma gliele aveva concesse, senza fiatare, pure troppo.

 

“State per partire per Matera?”

 

“Sì, sì,” rispose Calogiuri, mentre Irene divenne intelliggibile e gli passò una busta, “Bianca mi ha raccomandato di darvela, prima che partiste.”

 

Incrociò lo sguardo di Calogiuri e gli fece segno di pure aprirla.

 

Ci trovarono un altro foglio A4, ripiegato in due, ed aprendolo videro un disegno, con lo stile inconfondibile di Bianca, che raffigurava di nuovo loro quattro e pure Ottavia, stavolta, con dietro delle specie di quadrati bianchi e grigi che si arrampicavano su una montagna.

 

I Sassi, anche se semplificati e un po’ deformati, com’era ovvio per una bimba di quell’età.

 

Si maledisse perché non voleva mettersi a piangere davanti alla gattamorta, ma pure lei sembrava abbastanza provata e colpita.

 

“Allora… buone vacanze!” augurò loro, allontanandosi a passo rapidissimo, prima che potessero dire qualsiasi cosa, sparendo nel suo ufficio.

 

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“Ma fa sempre così casino? La sento pure con le cuffie!”

 

Figurati noi! - pensò Imma, voltandosi verso il sedile posteriore del furgoncino che avevano noleggiato per tornare a Matera e fare poi il famoso trasloco.

 

C’era Valentina, con un sopracciglio che le arrivava fino all’attaccatura dei capelli, tra un po’, ed il trasportino con dentro Ottavia che si lamentava.

 

“Sai, è la prima volta che la portiamo a fare un viaggio così lungo, magari potresti coccolarla un po? Tenendola col guinzaglio, però, non che ci salti qua davanti, che è pericoloso,” propose Calogiuri, guardandole dal retrovisore.

 

“Pure la cat sitter mi tocca fare?” sospirò Valentina, ma fece come chiesto e Ottavia, non appena fu liberata, cercò di proiettarsi, come da lui predetto, verso Imma.

 

“Questa gatta ti somiglia fin troppo, mà,” rise Valentina, mettendosela in grembo e cominciando ad accarezzarla.

 

Dopo poco, la micia smise di protestare e si spaparanzò a pancia in su sulla sorellona, per farsi coccolare meglio.


A volte sembrava un cane, più che un gatto.

 

“Quante ore mancano ancora all’arrivo? Giusto per capire se ho speranza di arrivarci intera a Matera.”


“Almeno quattro ore, Valentì, porta pazienza!” sospirò Imma, anche se una parte di lei sperava che quei momenti tutti insieme non finissero mai.

 

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“Io ho la stanza che era tua, mà, vero?”

 

L’espressione quasi spaventata di Valentina la intenerì tantissimo.

 

“Tranquilla, Valentì, la camera di nonna ce la prendiamo io e Calogiuri. E poi comunque immagino vorrai stare anche qualche notte da tuo padre, per par condicio.”

 

“Non lo so, mà, dipende se ci sta Cinzia Sax o no. Sai che la reggo poco e li reggo poco, soprattutto. Mi chiedo perché papà ci stia ancora insieme e non ne cerchi un’altra.”

 

“Signorina, tuo padre è più che adulto e non sta a noi giudicare perché stia o non stia con Cinzia Sax. Ma resta tuo padre e a natale avete entrambi tutto il diritto di passare un poco di tempo insieme.”

 

“Lo so e… voglio stare anche con papà, ovviamente, è solo che… vorrei vederlo felice!” esclamò, ed Imma avvertì nettissima una fitta di senso di colpa, mentre Calogiuri guardava intensamente una piastrella vicina al divano, “non ce l’ho con voi, lo so che… che tu e papà non lo eravate più, felici. Ma non ci sarà mica solo sta Cinzia al mondo, no?”

 

E poi Valentina sparì in camera, Ottavia che, stranamente, la seguì, invece di attaccarsi a loro.

 

“Prepariamo pure noi il letto, Calogiù?” gli domandò, perché era tardissimo e doveva essere esausto, dopo un’intera giornata di lavoro e più di sei ore al volante.

 

In silenzio e con il cuore in gola, entrò in quella che era stata la camera di sua madre.

 

Si sentì subito abbracciare forte forte da dietro.

 

“Tranquillo, Calogiuri, mi fa… mi fa meno impressione di quanto credevo, forse perché ci siete tutti voi,” lo rassicurò e si stupì nel constatare che era vero.

 

Anche se… forse avrebbe dovuto cambiare tutti i mobili ma… ma non ne aveva la testa, non con tutto quello che c’era già in ballo.

 

Ma sentiva che nelle braccia di lui avrebbe potuto affrontare ogni fantasma.

 

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Si svegliò di colpo, confusa, non capendo dove si trovasse.

 

E poi mise a fuoco e si rese conto di essere nella stanza di sua madre.


Sarà stata la stanchezza ma… si era addormentata quasi di sasso, abbracciata a Calogiuri.

 

Si rese conto subito però che proprio lui mancava all’appello.

 

Ed, improvvisamente, quella stanza tornò a farle un poco di effetto, un brivido che le corse lungo la schiena.

 

Dei rumori e delle risate, però, le scaldarono il cuore e si affrettò ad infilarsi vestaglia e ciabatte e raggiungerli.

 

“Ti sei svegliata, finalmente, mà!”

 

Il tono birichino di Valentina la accolse e li vide insieme ad una scatenata Ottavia, che cercava di raggiungere un mini albero di natale posto sopra ad un mobile in salotto e che Calogiuri stava già fissando con abbondante nastro adesivo.

 

Ma, soprattutto, la colpirono le decorazioni: quelle di Bianca e qualche pallina pailettata e leopardata.

 

“Non è come l’originale ma… almeno un poco di casa ce l’abbiamo anche qui!”

 

“Vorrai dire che non è un pugno nell’occhio come l’originale, giusto un buffetto nell’occhio,” li sfottè Valentina, ma Imma era troppo felice per provare anche solo a replicare.

 

Finalmente, dopo tanti anni, sarebbe stato davvero un natale in famiglia.

 

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“Cominciavo a temere non veniste più.”

 

Il tono di Pietro era asciutto, tirato, come la sua espressione, quegli occhi azzurri che apparivano appannati.

 

“Scusa ma… non è stato facile trovare posto al furgone: la piazza è piena per le compere di natale. Forse fare questo lavoro di sabato non è stata una buona idea.”

 

“Ormai… via il dente e via il dolore, no?” pronunciò lui, con l’aria di chi però non credeva ad una sola parola di quello che aveva appena detto.

 

E poi notò che guardava verso Calogiuri, che se ne stava ancora fuori, alle sue spalle, l’aria di chi avrebbe preferito qualsiasi cosa al trovarsi lì.

 

“Si accomodi, maresciallo. Immagino che tanto… saprà la strada….” ironizzò Pietro, e Calogiuri dire che fosse mortificato sarebbe stato un eufemismo.

 

“Pietro!” ruggì, infastidita.

 

“Veramente io… io qua non ci ho mai messo piede, signor De Ruggeri. Dove… dove sono le cose pesanti che devo trasportare?” gli chiese, alzando per un attimo lo sguardo, per affrontarlo, in un moto di fierezza di cui Imma fu orgogliosissima.

 

Pietro parve incassare il colpo ma c’era una tensione tale, compressa nell’ingresso di quella che una volta era casa sua, che Imma sperò che i colpi rimanessero solo figurati e di non dover iniziare le feste di natale al pronto soccorso.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine del quarantanovesimo capitolo. Il prossimo sarà il cinquantesimo e non mi par vero di avere scritto così tanto!

Come avete visto, con questo capitolo ci avviamo ad atmosfere più natalizie e siamo giunti a Matera. Ma non temete, perché la parte più “sdolcinata” del natale è abbastanza conclusa (anche se ci saranno ancora diversi momenti dolciosi) e nel prossimo capitolo, complice l’essere a Matera… succederà di tutto, anche slegato dalle festività in sé. Dopo la parte piacevole dello stare in famiglia, nel prossimo… chissà ;).

Spero che questo capitolo, anche se dalle atmosfere particolari, vi sia piaciuto e vi ringrazio tantissimo per avermi seguita fin qui.

Un grazie enorme a chi mi ha lasciato una recensione: mi fanno sempre tanto piacere e sono uno stimolo incredibile per me nel proseguire e nel correggere le cose che vanno meno. Un grazie anche a chi ha messo la mia storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo arriverà tra due settimane, domenica 6 dicembre.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 50
*** La Famiglia - Parte Seconda ***


Nessun Alibi


Capitolo 50 - La Famiglia - Parte Seconda


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“T’ho messo qui le cose che sono sicuramente tue e che non ho intenzione di tenere.”

 

Pietro mostrò loro alcune scatole ed oggetti, ammassati nella zona che dava sul salone.

 

Imma riconobbe, oltre alla sua tigre di ceramica, alcune borse e vestiti più vecchi, che non si era portata dietro, non avendo molto spazio a disposizione. Il suo diploma del liceo classico e poi quello di laurea, con centodieci e lode, alcuni soprammobili nel suo stile ed i pochi souvenir che aveva accumulato negli anni, foto di lei in occasioni ufficiali. Il resto avrebbe dovuto passarlo in rassegna una volta a casa di sua madre.

 

“Se volete farvi un giro nelle stanze, puoi vedere se trovi altro che ti vorresti portare via. Io vado in camera di Valentina a suonare, tanto lì non ci sta niente di tuo. Se hai bisogno, chiamami ed avvisami se vuoi prendere altro, e comunque prima di andare via.”

 

Sembrava un discorso preimpostato, che si era preparato già da prima, perché a malapena la guardò negli occhi e poi si ritirò, come annunciato, dietro la porta di Valentina.

 

Per fortuna, a giudicare dall’assenza di rumore, stava usando il sax con le cuffie.

 

Una volta che si fu accertata che Pietro non sarebbe uscito, si guardò intorno. Le sembrava quasi surreale essere di nuovo lì, dopo tanto tempo e, soprattutto, esserci con Calogiuri.

 

Lo vedeva che era a disagio, sembrava non sapere dove guardare.

 

“Che c’è, Calogiù?” gli domandò, un poco preoccupata.

 

“Niente, è che... “ si fermò, come timoroso di proseguire, ma poi aggiunse, con un sospiro, “è che ho immaginato tante volte la tua vita familiare e… e te insieme a tuo marito e… e mi fa strano ora vedere questi posti e pensare alla… alla tua vita qua.”

 

Gli sorrise, intenerita, e gli accarezzò una guancia, “anche a me fa strano, Calogiuri. Sembra… sembra qualcosa di una vita precedente. Un’altra Imma, che è stata parte di me ma che… che ora non è più me. Se ti senti tanto a disagio, però, posso mettere da parte le cose più pesanti ed il resto posso portarlo io nel furgone.”

 

“Non dirlo nemmeno per scherzo! E poi… e poi se dovremo essere una… famiglia allargata… o prima o dopo qui dovrò metterci piede, quindi… come ha detto Pietro, via il dente, via il dolore.”

 

E poi, stranamente, Calogiuri rise.


“Che c’è da ridere?”

 

“Niente… stavo guardando la tigre: è proprio enorme. Mi è andata bene che a Roma ti sei accontentata di statuette più piccole!”

 

“Stupido!” lo redarguì, piantandogli un rapido bacio, prima di ricordarsi dove si trovasse.

 

Ma si stupì di non sentirsi in colpa, non come avrebbe pensato.

 

Entrò del tutto nel salotto. Era esattamente come se lo ricordava. L’unica differenza era una foto di Pietro con Cinzia che faceva capolino su uno dei mobili. Cinzia sembrava raggiante, mentre il sorriso di Pietro non gli raggiungeva gli occhi.

 

A giudicare dalla stanza intorno a loro, dai vestiti e dai sax, dovevano essere state scattate dopo un concerto.

 

Si sforzò poi di analizzare con calma ogni angolo della stanza, ma non ci trovò nulla che volesse, nulla che sentisse ormai più suo.

 

Tenendo d’occhio Calogiuri, che sembrava a dir poco spaesato, passò dalla sala alla zona cucina.

 

Vide ancora attaccata all’armadietto una foto di lei, Pietro e Valentina, ma la sua parte di foto era stata parzialmente coperta da uno scatto di Cinzia che suonava il sax.

 

Si chiese se fosse stata un’idea di Pietro o della stessa Cinzia.

 

Calogiuri non disse niente, limitandosi ad attendere che lei finisse l’ispezione.

 

Fu poi la volta del bagno, del corridoio e, infine, giunse davanti alla stanza da letto che per quasi vent’anni era stata l’alcova sua e di Pietro.

 

Calogiuri, che scemo non era ed aveva capito benissimo quale stanza mancasse all’appello, rimase qualche passo indietro.

 

Imma aprì la porta.

 

Tutto era, ancora una volta, quasi fermo a quando se n’era andata.


Certo, mancavano la maggioranza delle foto sue e di Pietro e… e c’era una vestaglia di seta nera su una delle sedie, che di sicuro non era di Pietro e che lei non avrebbe mai indossato.

 

Lanciò un altro sguardo a Calogiuri, che pareva in conflitto tra il cercare di non guardare troppo e, allo stesso tempo, l’essere quasi ipnotizzato da quella stanza. L’espressione addolorata però era inconfondibile.


Del resto pure lui, come Pietro, aveva sofferto tanto, anche se per motivi diversi. Il dolore che aveva causato ad entrambi, per troppi mesi, era una di quelle cose che non si sarebbe mai perdonata del tutto. Ma il passato ormai era veramente passato e, in fondo, l’aveva portata ad essere felice come mai avrebbe nemmeno lontanamente sperato.

 

E poi la vide: una foto sul comodino dal lato di Pietro.

 

Non c’era Cinzia, stavolta, ma loro due insieme con una Valentina piccolissima, il giorno del suo battesimo.

 

Si avvicinò ed afferrò la cornice, non potendo distogliere lo sguardo da quella scena. Notò quanto erano felici, nonostante le occhiaie tremende che si ritrovavano, per i problemi di sonno di Valentina.

 

Le prese di nuovo quella strana sensazione allo stomaco, che le diceva che forse quelle sensazioni poteva di nuovo provarle, che era ancora in tempo. E che, con Calogiuri - e con molta consapevolezza in più - si sarebbe goduta tutto in maniera diversa e… sarebbe stata ancora più felice. Con Valentina spesso non erano mancati i sensi di inadeguatezza, soprattutto verso Pietro, che era un genitore praticamente perfetto. Mentre lei non lo era, anzi: aveva sempre preferito inseguire un caso urgente, piuttosto che giocare con Valentina.

 

La verità era che una parte di lei non se ne era sentita capace.

 

Forse ora, invece, con Calogiuri che insisteva a coinvolgerla in tutto e con la leggerezza che le avevano donato, oltre a lui, i suoi quarant’anni ed il non dover più dimostrare niente a nessuno, sarebbe stato diverso e sarebbe riuscita meglio a conciliare il suo amore per il lavoro e le sue passioni - che restavano per lei irrinunciabili - con una famiglia.

 

Ma non poteva costringere Calogiuri a bruciarsi le tappe e le occasioni, prima di essersi sistemato lavorativamente come avrebbe meritato, solo per colpa del suo orologio biologico e della strana botta di tenerezza che le avevano causato prima Ottavia e poi Bianca.

 

“Eri… eri ancora più bella, sembravi raggiante!” sentì mormorare dietro al suo orecchio.

 

Si voltò e ci trovo Calogiuri che pareva pure lui quasi rapito da quell’immagine.

 

“Al massimo sembravo uno straccio, Calogiuri. Ero stanca morta,” si schernì e poi lasciò la foto e gli accarezzò di nuovo il viso, sussurrandogli, “e comunque nessuno mi aveva mai detto che sembrassi raggiante, se non da quando sto con te, che me l’hanno detto in tanti.”

 

“Non sarò mai geloso dell’amore che hai per Valentina, anzi, ma… a volte mi chiedo se potrò mai darti tutto quello che ti ha dato lui,” ammise Calogiuri, con un sorriso un poco amaro.

 

“Pietro mi ha dato tanto, Calogiuri, mi ha… mi ha salvata dalla solitudine e dall’idea di non poter piacere mai a nessuno. Mi ha dato un amore incondizionato per vent’anni. E una figlia che ha cresciuto benissimo. Ma… ma tu mi hai ridato me stessa, Calogiuri, la vera me, che avevo tenuto a freno per tutta una vita. E pure un rapporto più sereno con mia figlia, perché… sono più felice e soddisfatta e… e mi rendo conto soltanto ora di quanto invidiassi Valentina, la sua adolescenza, il suo… poter avere tutto quello che non avevo mai avuto. E non era giusto, né nei suoi, né nei miei confronti.”

 

Calogiuri non disse niente,  ma la stritolò in un abbraccio fortissimo, nel quale si lasciò andare completamente.

 

“Scu- scusami… forse qua non è il caso…” sussurrò poi Calogiuri, staccandosi quasi bruscamente da lei.

 

Ma Imma non sentiva nessuna colpa. La verità era che quella stanza, ormai era solo un ricordo - bellissimo, per tanti anni, ed orribile negli ultimi mesi, anche se per colpa sua e della sua vigliaccheria.

 

E pure gli oggetti… sì, alcune cose le faceva piacere rivederle ma… non provava il magone che aveva pensato di provare.

 

Era pronta, era finalmente pronta a riprenderseli, come probabilmente non era stata durante le visite precedenti a Matera.

 

“Non scusarti, Calogiuri. Non stiamo facendo niente di male. E comunque possiamo andare: non vedo altro, ho già tutto quello che mi serve,” gli disse, facendogli l’occhiolino e stringendogli la mano, per poi lasciarla ed avviarsi verso la porta di Valentina.

 

Bussò.

 

Dopo poco, uscì Pietro, il sax in mano ed una strana espressione in viso. Pareva avere gli occhi rossi, più di prima e sembrava come se gli fosse passato sopra un treno.

 

Ma poi si distrasse a guardare la camera di Valentina, che era la più impressionante: identica in tutto e per tutto a com’era prima che lei se ne andasse.


Era Valentina ad essere cambiata.

 

“Non ho preso altro, Pietro. Ci portiamo via gli scatoloni e la tigre e ce ne andiamo. Però un’altra cosa la vorrei. Qualche foto di Valentina negli anni, che non ne ho praticamente nessuna. Anche solo il file, se sono quelle digitali.”

 

Pietro sospirò ma annuì, dicendo, “sì, è giusto. Vuoi selezionarle tu o… o ti fidi della mia scelta?”

 

“Come sei più a tuo agio, Pietro. Al limite posso ripassare prima della fine delle vacanze di natale, fammi sapere.”

 

Pietrò annuì di nuovo e poi le chiese, “allora, è confermato che tu hai la vigilia e io il pranzo di natale con Valentina?”

 

“Sì, certo.”

 

Nel frattempo che parlavano, Imma iniziò ad avviarsi verso dove c’erano depositate tutte le loro cose e Calogiuri e Pietro la seguirono.

 

“Inizio a portare via le scatole. La tigre la imballo nella plastica e poi… forse è meglio che la mettiamo in piedi nell’abitacolo del furgone, che se cade è un disastro.”

 

Calogiuri, una maschera di solerzia e professionalità, cominciò a caricarsi in spalla cartoni e ad avviarsi lungo i ripidi gradini che portavano alla piazza.

 

“Volete una mano con quella?” chiese infine Pietro, in quello che le sembrò uno sforzo immane, indicando la statua di ceramica, “so quanto pesa, purtroppo.”

 

Calogiuri sembrò sorpreso, ma poi rispose con un, “se per voi non è un disturbo….”

 

Pietro aveva l’aria di chi si stava mordendo la lingua per non rispondere con una battutaccia. Ma poi sospirò ed afferrò la tigre per la parte del collo, mentre Calogiuri si abbassava per afferrarne le zampe.

 

Imma li seguì, un poco in apprensione, in una specie di surreale processione giù dalle scale.

 

“Non pensavo che ci fosse ancora il… trasloco in corso.”

 

La voce di Cinzia, giunta all’improvviso alle loro spalle, mentre stavano caricando la tigre sul furgone, per poco non fece prendere un colpo a lei e non diede il colpo di grazia alla tigre, che Calogiuri salvò in corner da una caduta rovinosa.

 

Si voltò e guardò verso la ex rivale. C’era qualcosa nel suo sguardo e nel suo tono di voce che le dava l’idea che non fosse realmente sorpresa di trovarli lì, affatto.

 

E poi Cinzia stampò un bacio a Pietro e, abbracciandoselo, commentò, “dove lo avete preso il furgone? Forse anche noi dovremmo noleggiarne uno, che nei prossimi giorni dobbiamo andare a comprare mobili. Vero, amore?”

 

Pietro annuì, pur non sembrandole molto convinto.

 

“Lo abbiamo noleggiato a Roma in realtà, ma sono sicura che ne potrete trovare uno pure qua a Matera.”

 

“Lo spero. Ah, ti sei presa pure la statua della tigre? Sai, cominciavo quasi a farci l’abitudine, ormai, ma sapessi quante volte mi sono spaventata o ci sono quasi inciampata di notte!” rise Cinzia ed Imma si chiese se fosse lei malfidata a vedere frecciatine e marcature del territorio ovunque o se ci fossero davvero.

 

“Se ti mancherà così tanto te la lascio, che tanto non la posso portare con me a Roma, viste le dimensioni che ha,” le rispose, con un sorrisetto, sapendo benissimo che Cinzia lo diceva solo per essere sarcastica.

 

E, infatti, fece un’espressione quasi terrorizzata che era tutto un programma.

 

“Ti ringrazio ma… se si libera spazio all’ingresso potremo finalmente farci un angolo per metterci tutti i nostri strumenti musicali. Che ne dici, amore?”

 

Pietro, nuovamente, si limitò ad assentire col capo.

 

Quasi le faceva tenerezza: Cinzia, per il decidere per gli altri, sembrava quasi ai livelli della sua ex suocera.

 

“Mi raccomando, però, usate sempre le cuffie, che ricordo ancora le lamentele dei vicini quando Pietro ha ricominciato col Sax. E se non ci vediamo prima, buon natale!” si congedò poi Imma, facendo un cenno a Calogiuri, “andiamo?”

 

Calogiuri non se lo fece ripetere due volte e, dopo pochi minuti, erano già per strada, guidando lentamente per evitare di uccidere la tigre.

 

*********************************************************************************************************

 

“Pensi che questa piacerà a Diana, Calogiù?”

 

“Dottoressa, di borse non me ne intendo molto. Ma mi sembra più… tranquilla delle tue.”

 

Gli mollò un colpo al braccio, “meno orribile delle mie, vuoi dire?”

 

“Lo sai che mi piace moltissimo come ti vesti, se no non saresti tu. Ma… non sai a che negozio va la signora Diana di solito? Magari puoi chiedere alle commesse cosa potrebbe piacerle e che cosa non ha.”

 

“Sì, così mi rifilano le cose più care o invendibili, Calogiuri.”

 

“Non se non vogliono perdere la cliente o trovarsi con un cambio, dottoressa,” le spiegò, con un sorriso, “sai, ho fatto pure il commesso per un periodo ad Avellino, per pagarmi i corsi.”

 

“Immagino che avrai fatto guadagnare un sacco di clienti donne al negozio.”

 

“Eh… non so quali erano le clienti prima e quali sono rimaste dopo.”

 

“Te lo dico, io, Calogiù, te lo dico io. E… se non ricordo male dai sacchetti da shopping che ho visto più spesso a Diana, temo vada dal negozio più caro di Matera, che sta nella via qua affianco. Sai che c’ha la mania dell’alta società, no?”

 

“Al limite puoi prenderle una cosa più piccola. Ma per una volta che le fai un regalo….”

 

“Forse c’hai ragione, mannaggia a te!” sospirò Imma, uscendo con lui dal negozio e percorrendo i pochi metri che la separavano da IL negozio di Matera.

 

Quello frequentato da tutte le signore della Matera Bene che odiava tanto.

 

Neanche l’avesse invocata, fece in tempo ad aprire la porta e guardarsi intorno, mentre la proprietaria la squadrava manco fosse stata un animale raro, quando sentì un “Imma! Ma che ci fai a Matera?! E poi non ti ho mai vista in questo negozio!”

 

La Guarini.

 

“Carmela…” sospirò, detestando già il suo sorriso fintissimo ed il tono di scherno con il quale sottolineava come lei non potesse permettersi di comprare lì.

 

La realtà è che, con moderazione, forse avrebbe anche potuto, ma non voleva permetterselo.

 

“Ah, ma c’è pure il famoso maresciallo! Non ci presenti, Imma?!” esclamò la Guarini, guardandosi Calogiuri da capo a piedi in un modo che le causò fastidio per un altro motivo, per poi rivolgere lo sguardo a lei in un modo che era un ma come diavolo hai fatto?! non verbale.

 

“Il maresciallo Ippazio Calogiuri, Carmela Guarini una mia ex compagna di scuola ai tempi del liceo classico.”

 

“Molto piacere!” rispose Calogiuri, con un sorriso, sembrando ignorare il tono di quella vipera di Carmela, per poi rivolgersi a lei, “ah, allora andava a scuola anche con la signora Diana? Magari ci può dare una mano, allora,”

 

“Eh, ma ultimamente si frequentano meno, Calogiuri, se non alle cenette.”

 

“Eh beh, certo, da quando Diana si è messa con quella specie di brigadiere… si vede sempre di meno. Del resto pure portarlo in società… come si veste, che pare scappato da un campo profughi! Almeno tu te ne sei scelta uno che è un bel vedere e non si veste neanche male, anzi.”

 

“Carmela, con tutto il bene, non mi pare che tu sia sposata con Richard Gere. Per carità, i suoi completi saranno pure eleganti, ma ad un certo punto bisogna farci pure altro,” rispose Imma con un sorrisetto paro paro a quello dell’altra e, quando lei fece un’espressione scandalizzata, aggiunse, “ma che hai capito, Carmè? Con Calogiuri e perfino con Capozza non mi è mai capitato di addormentarmi mentre mi parlavano. Tu, a quanto ne so, hai bisogno di molta caffeina a casa.”

 

Carmela rimase a bocca aperta. Evidentemente non pensava che lei avesse sentito quelle confidenze fatte alla famosa cenetta di classe, quando aveva raccontato alle sue amichette di una volta quanto il marito la facesse addormentare e non solo a letto.

 

“Imma! Certo che la lingua altro che biforcuta ce l’hai!”

 

“Ho imparato dalle migliori, Carmela!” le sorrise, mentre vedeva che pure Calogiuri si tratteneva dal ridere.

 

Carmela lanciò uno sguardo d’aiuto alla proprietaria, che si avvicinò lestamente per salvare quella che doveva essere un’ottima cliente.


“Dottoressa, che bello vederla qui! Sa già cosa cerca o vuole dare un’occhiata in giro?”

 

“Sto cercando un regalo per la signora Diana De Santis. Una borsetta magari. So che acquista spesso qui, quindi….”

 

Carmela fece un’espressione basita, manco avesse appena annunciato di voler fare una rapina.

 

“C’è una borsa che la signora De Santis ha adocchiato spesso, le ultime volte che è venuta. Aspetti che gliela vado a prendere.”

 

“Che c’è, Carmela?” le chiese, con un sopracciglio alzato, come a sfidarla a dire quello che pensasse.

 

“Sarà l’aria di Roma o il nuovo amore ma… mi sei diventata generosa, Imma?”

 

“Imma è sempre stata generosa, con chi se lo merita e con le persone che a lei tengono davvero.”

 

Carmela spalancò gli occhi, guardando verso Calogiuri, ancora più sconvolta.

 

“Come avrai notato, Carmela, Calogiuri parla poco, ma quando lo fa è impossibile addormentarsi,” rimarcò Imma, prendendolo sotto braccio e dandogli pure un rapido bacio.

 

La proprietaria ritornò e Carmela ne approfittò subito per smarcarsi con un “devo proseguire con le compere natalizie. Buone feste!” e si dileguò fuori dalla porta.

 

Imma fece l’occhiolino a Calogiuri e poi guardò la borsetta che le veniva proposta.

 

“Guardi, si tratta di una borsa tote, in pelle di vitello martellata blu scuro. Normalmente verrebbe cinquecentocinquanta euro, ma trattandosi di un fine serie ed essendo la signora De Santis una cliente affezionata, posso fargliela a quattrocento.”

 

“Un affare proprio!” commentò Imma, guardando Calogiuri, che stava usando il cellulare.

 

“Su alcuni siti la vedo a trecento euro, in offerta. Non può arrivare almeno a trecentocinquanta? Una piccola differenza è comprensibile, trattandosi di una realtà locale, ma cento euro sono un-”

 

“Un venticinque percento in meno, mica poco. Un trentatre percento in più, se consideriamo i prezzi sugli altri siti,” intervenne Imma, sapendo che Calogiuri sui conti traballava un poco e volendo contribuire a quel momento meraviglioso.

 

Non solo aveva asfaltato il tentativo di far passare quel prezzo come un grande affare, ma aveva pure sottolineato come quel negozio, che dalle signore Materane veniva considerato la mecca dello status symbol, fosse alla fine quello, una realtà locale, di cui nessuno fuori da Matera conosceva l’esistenza, pure se la proprietaria se la tirava manco fossero una casa di moda internazionale.

 

Se le occhiate avessero potuto uccidere, Calogiuri sarebbe già morto, ma almeno la signora non avrebbe più pensato che fosse un bello ma scemo. Peccato solo che non lo avrebbe sicuramente raccontato alle sue altre clienti.

 

“Credo che… si possa fare anche trecento, ma con la speranza magari che tornerà nel nostro negozio, dottoressa, abbiamo anche marchi... più nel suo stile.”

 

Sì, se al suo stile avessero aggiunto, minimo minimo, uno zero.

 

“Ne terrò conto quando sarò a Matera, ma sa, ormai qua ci vengo poco. Mi può incartare questa borsa per cominciare?”

 

La signora si arrese e si avviò verso la cassa, mentre Imma sperò che Diana non si aspettasse ogni anno un dono di quel valore.

 

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“E bravo, Calogiuri! Allora internet serve pure per risparmiare!”

 

“Normalmente non mi sarei azzardato, ma certi atteggiamenti mi danno fastidio veramente, lo sai.”

 

“Come ti capisco! Che dici se mo ci andiamo a fare un poco di spesa, prima che ci sia il delirio. Tanto la maggior parte delle cose che devo prendere per la vigilia un paio di giorni resistono.”

 

“Va bene. Però, in mezzo a tutte le cose materane, mi devi permettere di prepararti anche qualcosa di Grottaminarda.”

 

“Ah, se mi dai una mano in cucina lungi da me lamentarmi, Calogiuri, anzi, e-”

 

“Imma?”

 

Il suo nome, pronunciato a Matera, presagiva sempre o disgrazie o rotture di scatole infinite.

 

Ma quella voce… era infinitamente più complicato di così.

 

Si voltò e si trovò davanti a Chiara Latronico, con diversi sacchetti di carta tra le mani.

 

“Non ero sicura che tornassi a Matera per natale. Vedo che hai fatto acquisti pure tu.”

 

“Meno di te.”


“Eh, lo so, ma… sono gli ultimi che poi… sai, negli ultimi anni il natale l’ho sempre passato in una casa un po’ fuori Bari, in campagna ma vicino al mare. Luca, l’altro mio figlio, mi verrà a trovare qualche giorno e… meglio lì che qui pure per lui.”

 

Imma sospirò, perché non è che non li capisse, anzi. Ma ciò non toglieva che la situazione coi Latronico… fosse quella che era.

 

“Senti, Imma, ora che… che Andrea è stato scagionato, e tra l’altro ti devo ringraziare ancora tantissimo per-”

 

“Ho solo fatto il mestiere mio, come sempre.”

 

“Lo so, ma… mi piacerebbe parlare un po’ con te, ora che è tutto chiarito, almeno per quanto riguarda mio figlio.”

 

“Matera è piccola e la gente mormora, e lo sai. Se andassimo a parlare da qualche parte io e te, come minimo il giorno dopo lo saprebbe tutta la città. E c’è ancora il maxiprocesso in corso.”

 

“Col quale noi però non c’entriamo niente.”

 

“No, ma pure il procedimento per direttissima contro Spaziani e De Carolis non è ancora finito e sono il magistrato incaricato.”

 

“Lo so, ma… senti, Imma, se… se non mi vuoi parlare lo posso capire ma… perché non mi venite a trovare a Bari? La mia casa sta tra Cozze e San Vito, un posto bellissimo. Lì non ci vedrebbe nessuno e… e potremmo chiacchierare un po’, con calma. E poi, se è una bella giornata, c’è tanto da vedere nei paesi vicini, pure se non ti vuoi fermare molto da me. Ci penserai?”

 

Imma guardò Calogiuri, ma lui aveva quell’espressione da devi fare come ti senti!

 

“Ci penserò. Ma non ti prometto niente.”

 

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“Sei sicura di volerlo fare?”

 

Sembrava preoccupato, ma pure in parte felice. Che poi era esattamente quello che provava lei: apprensione mista ad eccitazione.

 

“Tanto ormai la Guarini lo avrà detto a tutta la città, quindi, meglio prendere il toro per le corna.”

 

Calogiuri annuì e voltarono l’angolo, percorrendo gli ultimi metri che li dividevano da un portone molto familiare.

 

“Dottoressa?”

 

Le guardie all’ingresso le fecero l’attenti e la guardarono sorpresi, e lei con un “comodi, comodi!”, augurò loro buone feste e, dopo che Calogiuri, in quello che era un antico rituale, le aprì la porta, varcò la soglia della Procura di Matera.

 

“Weeeeee maresciallo, ma che ci fai qua? Dottoressa, c’è pure lei?”

 

“Capozza…” sospirò, vedendo il brigadiere, abbigliato con una felpa ed una giacca di pelle improbabili, che stava vicino all’ingresso con un bicchierino di caffè in mano, “certo che lei in PG non ci sta mai, sempre in giro. Gli anni passano ma lei non cambia.”

 

“Manco lei cambia, dottoressa, che pure se non è più il capo mi riprende lo stesso!” scherzò lui, avvicinandosi di più a loro, “e comunque domani è la vigilia di natale, in questo periodo è tutto tranquillo, lo sa pure lei.”

 

“Insomma… non tutti i criminali si fanno le vacanze di natale, Capozza. Immagino lei non sarà di turno?”

 

“No,  no, per fortuna: largo ai giovani!”

 

Imma sospirò, scuotendo il capo, col pensiero che forse i giovani avrebbero fatto un lavoro migliore, ma poi Capozza aggiunse, in un sussurro, dopo essersi guardato in giro, “comunque la volevo ringraziare per… insomma per aver parlato con Diana. Non so come farei a vivere senza di lei.”

 

“Veda di meritarsela, Capozza! Che Diana se solo si guarda in giro, sa quanti ne trova! Quindi uomo avvisato…” lo minacciò, anche se, da un lato, l’attaccamento reciproco di quella coppia tanto improbabile la toccava molto.


Forse alla fine erano proprio le coppie improbabili a funzionare di più.

 

“Lo so, lo so.”

 

“Capozza, hai preso tu il fascicolo su- dottoressa?”

 

“Matarazzo…” sibilò, vedendo la giovane, completamente bloccata a pochi passi dalla PG dalla quale era appena uscita.

 

“Maresciallo...  c’è anche lei. Non ditemi che state qua per il maxiprocesso pure a natale…” ironizzò l’agente, in un modo che le diede sui nervi. Ma Matarazzo sui nervi le dava in generale, considerando che per colpa sua si erano dovuti trasferire entrambi.

 

Ma forse, col senno di poi, era stato meglio così e-

 

“No, siamo qua solamente per fare gli auguri di natale.”

 

La voce di Calogiuri la sorprese e si voltò verso di lui, vedendolo fiero esattamente come il tono che aveva usato, quasi ad osare sfidare Matarazzo a dire qualcosa.

 

“Quindi passerete le feste qua a Matera?”

 

“E lei, Matarazzo, le passerà in Sicilia?”

 

“No, dottoressa, a me tocca restare disponibile per le emergenze. Sa, sono giovane e non ho santi in paradiso,” rispose la giovane con un sorrisetto, che le fece venire voglia di mollarle un ceffone, anche se in estremo ritardo rispetto a quando avrebbe dovuto farlo, per l’insinuazione, “magari allora ci incroceremo ancora per Matera.”

 

“Dubito che frequenteremo gli stessi posti durante queste vacanze, Jessica.”

 

“Già,” aggiunse Imma, dando supporto a Calogiuri.

 

“E chi lo sa… lei i guai li attira come le mosche, dottoressa, e pure il maresciallo non scherza. Mo però devo andare, che se non chiudo i file per la D’Antonio prima delle feste una tragedia sarà. Capozza, il raccoglitore dove lo hai lasciato?”

 

“Dovrebbe essere nel primo cassetto. Vengo a vedere. Spero anche io che ci rivedremo ancora prima della fine delle vacanze. Maresciallo, fatti sentire!” si congedò Capozza, seguendo Matarazzo che continuava a guardarli in un modo che da un lato la innervosiva, ma dall’altro era un’enorme soddisfazione.

 

Non le era ancora andata giù del tutto di essere stata spreferita a lei, figuriamoci ora vederli arrivare belli belli, tranquilli tranquilli, a fare gli auguri di natale, senza niente da nascondere.

 

“Mi spiace, Imma, io-”

 

“A me per niente, Calogiuri,” rispose lei, facendogli l’occhiolino, “alla fine tutti i casini che ha fatto non sono serviti a niente, anzi, e lo sa pure lei.”

 

Calogiuri le sorrise in un modo bellissimo e stava per proporgli di salire le scale e cercare Vitali - dal quale non poteva non passare - e Diana, quando un “Imma!” carico di sorpresa la bloccò.

 

“Maria…” sospirò, guardando la bionda che, ancora più elegante del solito, si esibiva in uno di quei sorrisetti da schiaffi.

 

“Imma! E c’è pure Calogiuri! Ma che cosa ci fate qua? Non dirmi che vuoi farci lavorare pure oggi, perché qua domani chiude tutto quello che non è necessario, lo sai.”

 

Si rese conto che, al di là del sarcasmo della Moliterni e di Matarazzo, nessuno si aspettava realmente che lei potesse andare in procura soltanto per fare un saluto e gli auguri.

 

“Tranquilla, Maria, non turberò il tuo immeritato riposo dopo tutto l’estenuante lavoro che avrai dovuto fare in questi mesi; poi dopo che io me ne sono andata, figuriamoci! Siamo venuti a fare gli auguri di natale.”

 

“Imma, ma non è che hai preso l’influenza? Dicono che quest’anno sia particolarmente brutta e possa causare pure deliri per la febbre.”

 

“Purtroppo per te sto benissimo, Maria, ma se i nostri auguri non li vuoi-”

 

“No, no, è che… mi sorprende, Imma, sia per la gentilezza, che non è da te, sia per il coraggio. Calogiuri ha fatto proprio un miracolo!”

 

Calogiuri si schernì un poco mentre lei alzò gli occhi al cielo.

 

“Va beh, allora auguri, Imma. A sapere che venivi magari ti facevo un regalino, che ho saputo che sei diventata molto generosa!”

 

La Guarini in un solo giorno aveva  già suonato la tromba e pure le grancasse.

 

“Non avrai detto a-”

 

“Tranquilla, Imma, non rovinerei mai la sorpresa a qualcuno. Anche se… una sorpresa così, dopo tutti questi anni… la povera Diana rischia l’infarto. A proposito, se sopravvivete, perché non venite da noi all’ultimo dell’anno? L’ultima volta al golf alla fine ci siamo divertiti, no? E poi… e poi finalmente potrai evitare di imbucarti da qualche parte col cellulare alla mezzanotte!”

 

Imma si sentì avvampare, mentre Calogiuri la guardava, confuso.


“Ah, non lo sai, Calogiuri? Due capodanni fa la dottoressa era da me quando ti ha telefonato per farti gli auguri. Che l’ho dovuta salvare in corner prima che il povero Pietro se ne accorgesse. Ah, bei tempi! Ma ora dovrebbe essere pure più divertente!”

 

Calogiuri nel giro di tre secondi era passato dal pallore al colore peperone crusco, Imma si schiarì la gola e rispose, “non lo so, Maria, poi tuo marito non so se apprezzerebbe.”


“E chissenefrega! Di andare al ristorante non se ne parla e l’alternativa è passare il capodanno da soli.”

 

“Ma come? La moglie del prefetto non ha già una sfilza di invitati per un’occasione del genere?”

 

“Tutti noiosi o che vogliono favori, Imma. Tu almeno su quello, non te ne è mai importato niente. Diana già mi ha dato più problemi ma… dopo come è andato a finire il favore che mi ha chiesto l’ultima volta, mi sa che non ne chiederà un altro per un bel po’.”

 

In effetti….

 

“Ci… ci penseremo, Maria. Ti facciamo sapere…” svicolò Imma, con un, “ora, se non ti dispiace, vorrei andare a salutare Vitali, prima che gli dicano che sto qua in procura e si offenda.”

 

“Troppo tardi, dottoressa, troppo tardi! Ho riconosciuto la sua voce sobria ed il suo passo felpato.”

 

Vitali era in cima alla scala, che pareva una diva di altri tempi pronta a fare il suo ingresso trionfale e, sotto ai suoi inconfondibili baffetti, aveva un sorriso che le faceva intuire che aveva sentito tutto o quasi.

 

“Venite con me nel mio ufficio, ci faccio portare un caffè dal bar? Poi ho delle pastarelle che avevo giusto giusto portato per fare gli auguri in procura, tanto ce ne stanno sempre di più, con tutta questa mania delle diete. E non mi dica che i dolci napoletani le sono indigesti, che quelli avellinesi invece mi sa che li apprezza e non è che ci sta tutta sta differenza.”

 

“E invece ci sta una bella differenza, dottore,” ironizzò, come era ormai solito fare tra loro, “ma vada per le pastarelle.”

 

Arrivarono in silenzio all’ufficio di Vitali, attirando alcune occhiate sorprese, anche dalla sua segretaria, e poi si accomodarono di fronte alla scrivania.

 

Si guardò in giro mentre Vitali ordinava i caffè e ritrovò i suoi oggetti scaramantici e la famosa statua di Pulcinella. In fondo, un poco poco le era mancato.

 

“Allora, dottoressa, a che devo questa visita? Non mi dica che è venuta qua soltanto per gli auguri di natale.”

 

“Se vuole non glielo dico, dottore, ma è proprio così,” ribadì e Vitali sembrò stranamente deluso.


“Sa, speravo che magari ci fossero buone nuove su un suo possibile trasferimento… ma in effetti con l’appello del maxiprocesso ancora in corso….”

 

“Non è solo per quello, ma anche perché Calogiuri ancora almeno per un anno non si può muovere, lo sa.”

 

“Eh… lo so, lo so….”

 

“E poi… non so che opportunità ci sarebbero qua, anche per lui. Sa, a Roma ci sono molte più opportunità di carriera e se le merita.”

 

“Lo sai che non mi dispiacerebbe per niente tornare qua,” si inserì Calogiuri, con un sorriso.

 

“Per carità, sono tutte considerazioni molto giuste da fare. Ma pensateci bene perché… io non so per quanti anni ancora sarò qui e poi… potrebbe essere più complicato il rientro. E per quanto riguarda lei, maresciallo, girano voci che si prepari un concorso interno all’arma per diventare ufficiali. Per ora sono solo voci ma… fossi in lei comincerei a stare in campana.”

 

“Ci… ci penserò, grazie!” rispose Calogiuri, lanciandole un’occhiata e lei ricambiò con una che era un se c’è quel concorso lo devi fare assolutamente! non verbale.

 

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“Avanti.”

 

“Si può?”

 

“Imma!!!”

 

Fece appena in tempo a sentire il solito tono di Diana quando era contenta e si trovò stretta in un abbraccio a morsa, prima che potesse rendersene conto.

 

“Imma!!! Ma che sorpresa! Mica pensavo che venivi qua in procura, anche se speravo che ci saremmo viste nei prossimi giorni, che se no ti toglievo il saluto!”


“Addirittura! E poi a chi li spaccavi i timpani?”

 

“Imma!” esclamò, stavolta fintamente arrabbiata - appunto! - e poi guardò alle sue spalle e sorrise, “Ippazio, ma ci sei anche tu! Bravi! Che chissà quanti ne avete fatti schiattare se vi hanno visti!”

 

“Ci hanno visti, ci hanno visti. Ci manca solo la D’Antonio, in effetti, tra i simpaticoni.”

 

“E non la vedrai, perché la signora è da venerdì scorso che sta in ferie.”

 

“Pure io, Diana, in realtà….” ammise, un poco imbarazzata.

 

“Qualcuno qua ha fatto proprio un miracolo!” esclamò Diana, con una risata, facendo l’occhiolino a Calogiuri, “e comunque, Imma, tu fai bene, che terresti tipo vent’anni di ferie arretrate da recuperare.”

 

“Sì, ma non funziona così. E comunque… a proposito di miracoli… non ti ci abituare, ma… un ringraziamento per tutto quello che hai fatto in questi anni. Mi raccomando!” le intimò, aprendo la shopper enorme leopardata che si era portata dietro apposta ed estraendone la scatola impacchettata dal negozio.

 

Diana rimase a bocca aperta, senza nemmeno prendere il pacco.


Per un attimo temette che si fosse sentita male.

 

“Ma… ma è per me?”

 

“No, è per la D’Antonio! Ma certo che è per te! Dai, prendilo, se no sono ancora in tempo ad andare a restituirlo!”

 

Diana, come in trance, afferrò la scatola e poi spalancò gli occhi.


“Ma… ma questo negozio?! Non avevi detto che era un negozio per cretine che pensano di essere eleganti solo perché pagano un vestito più di una rata di un mutuo?”

 

Imma sospirò. In effetti suonava come una frase da lei. Vide che Calogiuri si stava mordendo il labbro per non ridere.

 

“E infatti ti ho detto di non abituartici. Ma so che a te sta roba piace, quindi….”

 

Gli occhi di Diana si fecero lucidi, e poi, con mano un poco tremante, poggiò il pacco sulla scrivania e lo aprì.

 

Quando ne estrasse un sacchetto e poi la borsa che c’era contenuta, fece un suono che pareva uno squittio e poi Imma per poco non si trovò lunga sul pavimento, visto che la abbracciò di nuovo con una foga da stritolamento.


“Imma! Grazie, Imma, grazie!” continuava a ripetere Diana ed Imma sentiva che stava piangendo.

 

Le venne da commuoversi pure a lei, mannaggia a Diana!

 

“E va beh, su Diana, diciamo che sono vent’anni di regali arretrati.”

 

“Venti?! Dì pure trenta, come minimo!” rispose Diana, staccandosi da lei con un sorriso ancora un poco umido.

 

“E va beh! Dobbiamo proprio sempre ricordare quanto siamo vecchie?”

 

“Vecchia sarai te! Che poi vecchia e vecchia, ma intanto guarda chi hai accalappiato!” esclamò Diana, rivolgendosi a Calogiuri, “Ippazio, ti devo ringraziare, veramente. Sono sicura che c’è anche il tuo zampino.”

 

“Veramente il regalo l’ha fatto Imma, non ho contributo, insomma, economicamente,” precisò lui, in quel modo che aveva di schernirsi quando qualcuno gli attribuiva meriti che non sentiva come suoi.

 

“Magari economicamente no, ma psicologicamente tantissimo, considerato che è il primo regalo vero che vedo in trent’anni di conoscenza! Non è che magari daresti qualche consiglio pure a Capozza? Che lui ci si impegna ed è pure generoso ma… sui regali abbiamo un po’ i gusti diversi.”

 

“Completi intimi? Una giacca di pelle ed una maglietta di qualche band metal o un completo per sembrare usciti dall’Oktober Fest?” ironizzò Imma e Diana sospirò.

 

“Eh… più o meno….”

 

Imma si scambiò uno sguardo ed un sorriso con Calogiuri: certo che era stata proprio tanto, ma tanto fortunata.

 

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“Si può? Sappiamo che non abbiamo prenotato ma….”


“Imma! Ippazio!”

 

Imma si trovò stretta in un altro abbraccio - anche se meno travolgente di quelli di Diana, più timido - e poi la ragazza diede una pacca sulla spalla e due baci sulle guance a Calogiuri.

 

Ma lei poteva fare quello che voleva, non le dava fastidio.

 

“Che bella sorpresa! Siete tornati per le vacanze?”

 

“Eh sì… natale in famiglia, nel bene e nel male.”

 

“Immagino… poi le famiglie del Sud… non tornare per natale è un disonore!””

 

Calogiuri cambiò espressione ed Imma si chiese se stesse pensando alla sua di famiglia e di mammà, dalla quale stavolta non sarebbe tornato. L’affronto massimo, ma era stata lei a scegliere di tagliare i ponti.

 

“Allora, che pensate di fare? Ormai non ho più clienti oggi, potremmo farci una cavalcata insieme, ma dovete smetterla di venire d’inverno che non si può andare nel bosco.”

 

“Eh, lo so… ma quest’estate siamo andati altrove. E lo faremo pure quella prossima. Però ti abbiamo preso una cosa.”

 

Calogiuri andò verso il bagagliaio e tornò con un sacco regalo.

 

“Ma non dovevate, grazie!” esclamò Sabrina, aprendo il sacco ed estraendone delle strisce di cuoio e tessuto coloratissime.


“Sono le decorazioni tipiche dei cavalli a Minorca, per le feste tradizionali. Per ringraziarti che senza di te… non avremmo passato una vacanza così bella, nonostante il finale.”

 

“Grazie! Sono bellissime! Sono sicura che le cavalle si ingelosiranno molto su chi può indossarle,” scherzò Sabrina, prima di aggiungere, “io per voi purtroppo non ho niente ma… che ne dite di andare a cavalcare e fare un bel ripasso? Gratis, ovviamente. Tanto ho appena finito con l’ultimo cliente prima di natale.”

 

“Non serve, non-” provò a intervenire Calogiuri, ma Sabrina lo bloccò.

 

“Ma lo voglio fare. E poi così avete un incentivo a tornare a Matera a fare un’altra lezione, stavolta per il bosco, che ne so… a pasqua.”


“Va bene,” sospirò Imma, non riuscendo però a non sorridere: Sabrina le era mancata un sacco ed era uno dei motivi per cui le dispiaceva non abitare più a Matera.

 

“Sabrina, allora io vado. Buon natale!”

 

A salutarla era stato un ragazzo, che poteva avere più o meno l’età di Valentina. Bruno, belloccio, l’aria da ricco per com’era vestito, ma con un sorriso gentile che, a differenza di altri ragazzi di buona famiglia che aveva visto a Matera, pareva più sincero.

 

E pure questo doveva già averlo visto, perché le pareva familiare, ma non ricordava quando e dove. Di sicuro non di recente.

 

“Grazie Carlo, pure a te!” lo salutò Sabrina, ricambiando il sorriso ed il ragazzo, dopo essersi un attimo bloccato, lanciando verso lei e Calogiuri uno sguardo strano, si avviò verso la sua macchina. Una bella auto dalla linea sportiva.

 

Probabilmente lui invece sapeva chi fossero lei e Calogiuri. A Matera era difficile aspettarsi altro, del resto, soprattutto dopo che erano finiti ripetutamente sui giornali, non solo locali ma pure nazionali, pure se prevalentemente di giornaletti si trattava.

 

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“Allora, le strazzat’ le ha fatte Valentina, le frittelle di peperoni cruschi stanno pronte, ancora belle calde. La pasta-”

 

“Il sugo alle vongole è quasi pronto, poi la buttiamo all’ultimo.”

 

“Bene. Le scarole, com’è che si chiamano?”

 

“‘Mbuttunate.”

 

“Ecco, a che punto stanno?”

 

“Ancora due minuti a rosolare e poi possono riposare fino a che è ora di mangiarle, che è meglio.”

 

“Il baccalà fritto è pronto da ripassare al forno. Altro?”


“I dolci sono pronti da mo, sempre se avremo ancora fame, dopo tutto questo ben di dio!” rise Calogiuri e lei gli diede una gomitata.

 

“Guarda che le donne di casa Tataranni sulla fame non hanno mai scherzato, che ti credi? E mo ce n’è pure una in più.”

 

Come se l’avessero chiamata, dai loro piedi giunse un miagolio lamentoso ed un poco stizzito.

 

Imma abbassò lo sguardo e vide Ottavia che, per la millesima volta quel giorno, faceva lo sguardo da Gatto di Shrek, cercando di ottenere qualcosa. Già si era messa come un avvoltoio in zona piedi, di vedetta, in caso cascasse loro qualcosa.

 

“Ottà, il fritto ti fa male. Per te però c’abbiamo un poco di baccalà normale, va bene?”

 

La gatta miagolò pigramente e con uno sguardo che le ricordava i suoi “sarà meglio!” e poi Imma si rivolse a Calogiuri e aggiunse, “dobbiamo sfamare la belva e poi chiamiamo Valentì che è pronto e-”

 

“E non serve, che sto già qui!”

 

Imma si voltò e trovarono Valentina sul divano, che li guardava, divertiti, “facevate un casino tale, che pareva di stare ad un’esercitazione militare, più che alla cena della vigilia, e allora-”

 

“Perché? Tu l’avresti mai fatta un’esercitazione militare, signorina?”

 

“No, dottoressa, ma ho idea che chi dà i comandi per le missioni abbia il tuo tono quando ripassi i piatti. No, Calogiuri? Tu che l’addestramento l’hai fatto.”

 

“Posso avvalermi della facoltà di non rispondere?” scherzò lui, prima di proclamare, “allora dò da mangiare alla micia e poi è il nostro turno.”

 

“Bene. Anche perché mi è parso di sentire che ci sono dei piatti nuovi. Tipo la scarola.”

 

“Sì, sono ricette avellinesi, che ha preparato Calogiù. Par condicio. In realtà pure gli spaghetti li ha fatti con la ricetta sua di famiglia.”

 

“Allora preghiamo di non avvelenarci. Che già mamma, rispetto a papà, è più a rischio!” ironizzò la ragazza, prendendo posto a tavola.


“Dai, Valentì, che i piatti di papà tuo e nonna tua domani li potrai mangiare,” rispose Imma, fulminandola con uno sguardo, perché non voleva che facesse sentire Calogiuri in competizione.

 

“Va beh… e comunque, Calogiuri, già è un miracolo che ti abbia fatto entrare in cucina: di solito con papà facevano a turni, più che altro quando cucinava lei, che non vuole mai nessuno tra i piedi,” abbozzò Valentina, parendo aver colto il messaggio non verbale.

 

“Eh, ma con Calogiuri siamo abituati a lavorare insieme.”

 

“Sei abituata a fare il generale di ferro, vorrai dire.”

 

“Non sempre, Valentì, non sempre. Che sulle sue di ricette, Calogiuri mi ha fatto ‘na capa tanta!”

 

“E allora meno male che a me non è toccato cucinare, se non un dolce.”

 

Dopo aver lasciato un’Ottavia felice a divorare il suo baccalà sfilacciato, si sedettero a tavola, per iniziare con i fritti - pettole con vari ripieni, i lampascioni ed i peperoni cruschi pastellati e rifritti - Imma provò un qualcosa allo stomaco. E non era solo il languorino per il profumo illegale che mandava tutto quel ben di dio.

 

No, era che… ritrovarsi così, ad un tavolo, tutti e tre insieme, a celebrare il natale… era qualcosa che pareva impensabile fino a solo pochi mesi prima.

 

Calogiuri versò il vino bianco frizzante che avevano scelto per gli antipasti ed Imma si sorprese da sola proponendo un brindisi.

“Brindiamo? Al natale e che sia solo il primo di molti natali insieme!” sorrise, sollevando il bicchiere.

 

Risposero subito sia Calogiuri, che pareva toccato dalle circostanze quanto lei, sia Valentina, che invece, pur aderendo al brindisi, precisò con un, “anche perché vorrà dire che non siamo morti intossicati!”

 

Ma, del resto, era figlia sua, e l’essere dissacranti era parte della loro natura.

 

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“Ancora un poco di struffoli? Che freschi sono più buoni. La pastiera invece se riposa è pure meglio.”

 

“Calogiù, ti ringrazio, ma non mi sta uno spillo in più!”

 

“Manco a me! Voi siete matti! Dopo tutte quelle cose salate, pure gli struffoli, le strazzat’ e perfino la pastiera!”

 

“E va beh, Valentì… è tradizione!”

 

“Anche se devo dire che, almeno sui dolci, mi spiace per le nonne ma i dolci campani vincono.”

 

Tu quoque?! Se ti sentisse Vitali non vivrei più!” esclamò Imma, volutamente drammatica, prima di dover ammettere, “però in effetti, almeno sui dolci, la tradizione campana è imbattibile. Ma sul salato ci siamo difese, dai.”

 

“Sì, anche se devo dire che la pasta con le vongole bianca mi piace molto di più. E pure la verdura non era niente male. Te li sei scelta tutti bravi a cucinare, mà. Ma non cuochi di professione. Mica scema!”

 

Imma rise, anche se si sentì un poco in imbarazzo.

 

Ma forse, la spontaneità di Valentina, il suo saper parlare anche di Pietro, senza imbarazzo, rendeva l’argomento meno un tabù anche per lei e Calogiuri.


E poi… e poi comunque, per fortuna, aveva più che elogiato la cucina di lui e, almeno su quella, non aveva fatto un confronto con quella paterna, al massimo con la materna.

 

“Per i regali ci tocca aspettare la mezzanotte? Che ormai manca un quarto d’ora.”

 

“Direi che ci prendiamo il vin santo, pure senza le strazzat’, che tanto lo stomaco è sufficientemente pieno, e ci mettiamo sul divano per fare l’apertura ufficiale.”

 

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“Questo è per te, Valentì!”

 

“Una busta?” domandò, allungando la mano verso la madre.

 

“Sì….”

 

Percepiva che Imma fosse un po’ in apprensione, per come avrebbe reagito la figlia.

 

Valentina aprì la busta e ci trovò il bigliettino che Imma aveva scritto e che non aveva fatto vedere manco a lui. Ma lo sguardo gli parve sempre più commosso, fino a vedere il regalo vero e proprio.

 

“Un buono per una vacanza dove mi pare in Europa?”

 

“Sì, per questa estate. Ovviamente c’è un budget massimo e… con criterio, Valentì, come ti  ho scritto.”


“E senza la scorta stavolta?” scherzò, ma dietro il sarcasmo si percepiva che ne fosse rimasta colpita.

 

“No, anche perché… io e Calogiuri in quel periodo staremo in Giappone,” spiegò Imma, dopo aver preso un forte respiro ed avergli lanciato un’occhiata per avere supporto, “è un anno che Calogiuri risparmia per questo e-”

 

“E ho capito allora perché mi mandi da un’altra parte, mà! Se no i risparmi non bastano!” rise Valentina, ma poi diventò più seria e aggiunse, “grazie mille per il regalo e per la fiducia e… mi auguro che, almeno in Giappone, i giornalisti vi lasceranno stare!”

 

“Eh, speriamo, Valentì, speriamo!” esclamò Imma, stringendo la figlia in un abbraccio.


“A- anche io ho qualcosa per te, Valentina,” disse, un poco timidamente, porgendole un pacchettino.

 

Valentina parve sorpresa ma poi lo prese e lo aprì.

 

“Un… un braccialetto?” gli domandò, ancora più stupita.

 

“Mi hanno detto che… piacciono molto alle ragazze giovani e-”

 

“E tu a fare i regali alle ragazze giovani non sei abituato,” scherzò Valentina e lui si sentì avvampare, mentre Imma la rimproverò con un “Valentì!”, dandole un paio di pizzicotti, che Valentina ricambiò.

 

Poi però prese in mano il braccialetto ed analizzò i pendenti o charms, come li avevano chiamati quelli del negozio.


“Allora… ma questo è… è Stitch?”

 

“So da tua mamma che i film Disney ti piacevano tanto.”

 

“E qui c’è… un albero di natale… e poi un… family?” gli chiese, trafiggendolo con quegli occhi tanto simili a quelli di Imma per intensità, pure se anche tanto diversi.

 

“Sì… allargata nel mio caso, ma… insomma è il primo natale che….”

 

“E poi… un cuore con su scritto thank you?”

 

“Per… per avermi dato più di una possibilità di… di fare parte anche della tua vita, oltre che di quella di tua mamma.”

 

Per un attimo Valentina si zittì e temette di avere detto qualcosa che non andava, ma poi si trovò con due paia di occhi scurissimi e lucidi che lo fissavano e, subito dopo, stretto in un abbraccio collettivo.

 

“A- aspetta, che non ho ancora finito,” disse Valentina, quando si staccarono, “ma quanto hai speso?”

 

“Ma che, mi fai pure tu i conti in tasca come tua madre, mo?”

 

“No, ma è che… non me l’aspettavo…” ammise lei, prima di guardare gli ultimi charms, “ma questi sono… i Doni della Morte di Harry Potter?”

 

“So che ti piaceva pure quello.”

 

“E poi… il mappamondo? Ma tu e mamma vi siete messi d’accordo?”

 

“Sapeva del mio regalo ma… non ha letto il biglietto e io non avevo idea che ti avrebbe regalato qualcosa,” rispose Imma, la voce rochissima.

 

“Ed infine… due cuori con su scritto mother e daughter? Ma che fai, l’intercessione per interposta persona?”

 

“No, no... “ sussurrò, imbarazzato, grattandosi un poco la nuca, “è che… poi ho pure questo….”

 

Passò un pacchettino uguale anche ad Imma, che lo aprì e ne estrasse un altro bracciale.


“Ma non era soltanto per le giovani?” lo punzecchiò, facendogli l’occhiolino.


“Non ho detto questo e poi tu sei giovane, che non riesco neanche a starti dietro, e lo sai.”

 

“Sì, va beh… sei più ruffiano di Ottavia! Che menomale che dopo la cena ronfa, se no con tutti questi cosi ci va a nozze. Allora… c’ho pure io Stitch, giusto? Poi u… una micia? L’albero di natale e… family e poi….”

 

Le si ruppe la voce e Calogiuri sorrise, incredibilmente felice che la sorpresa l’avesse emozionata così tanto.

 

“E poi la casa di Up,” finì per lei, facendole l’occhiolino.

 

Mother e daughter pure per me… certo che co tutto sto inglese, pare di stare a Milano mo!”


“Così ce li avete simili, pure se un po’ diversi. E poi potete aggiungere quelli che preferite.”

 

“E questo rosa cos’è?”

 

“Sono tanti infiniti intrecciati.”

 

“Calogiù, tu sei matto ma-”

 

“Aspetta!” la bloccò, mettendole un dito sulle labbra prima che dicesse altro o si avvicinasse troppo, “quello è… l’antipasto. Per collegarci a questo.”

 

E dalla tasca interna della giacca prese un altro cofanetto, più grande,

 

“Calogiuri, ma….”

 

“Aprilo almeno, prima di protestare, dottoressa!”

 

Imma, con mano un poco tremante, aprì il cofanetto, dove c’era una catenina in oro bianco con su un ciondolo, “ma… ma questo è….”

 

“Il simbolo dell’infinito con un cuore in mezzo. Lo so che forse… è un po’ sdolcinato, o da ragazzini, ma-”

 

Non riuscì a finire di parlare perché Imma gli piantò un bacio sulle labbra, anche se breve, visto che c’era pure Valentina.

 

“Ma… ma questo è… è oro vero? E questi sono diamanti?” gli chiese poi, guardandolo in quel modo che non gli faceva capire se volesse abbracciarlo o fargli un cazziatone.

 

“Sì, il braccialetto no ma… ma questo sì, oro bianco per l’infinito e oro rosa per il cuore. I diamanti sono piccolini: non posso permettermi quelli più… importanti ma….”

 

“Ma sei matto già così! Troppo hai speso!”

 

“No, era il minimo e… e poi volevo regalarti qualcosa che rimanesse nel tempo.”

 

“Ma… ma ci hai inciso pure le iniziali? I. e… e C.?”

 

“Non mi hai mai chiamato Ippazio, mica dovremo cominciare su un’incisione, no, dottoressa?”

 

Si trovò travolto da un altro bacio, stavolta più lungo, anche se sempre delicato, le loro labbra che si accarezzavano teneramente, finché un “i limoni dovevi metterci sul bracciale per mà!” li fece staccare, imbarazzati.

 

“Se pensi che questi siano limoni, ti consiglio vivamente di scegliere meglio al prossimo fidanzato, Valentì!”

 

Valentina, per tutta risposta, divenne colore dei peperoni cruschi che si erano spazzolati quella sera, facendo invidia perfino a lui.

 

“E mo, il mio regalo per te, Calogiuri. O meglio… una prima parte del tuo regalo.”

 

Si trovò di fronte anche lui ad una piccola scatolina, impacchettata però con cura. La aprì e ci trovò delle chiavi ma….

 

“Ma queste sono chiavi di una… di una moto?” le domandò ed Imma sorrise, passandogli una busta.

 

La aprì e ci trovò una foto di una moto meravigliosa, vera, di quelle da turismo, di un blu metallizzato scuro che gli ricordava il mare di sera.

 

“Ma…” il cuore gli andava a mille, mentre gli sembrava di non saper formare le parole.

 

“Sta a Roma, in buone mani. La andremo a ritirare quando rientriamo. Naturalmente la moto è usata ma… mi sono fatta dare una mano da qualcuno che se ne intende più di me e mi ha garantito che è in un ottimo stato e che non ha fatto tanti chilometri.”

 

A quel qualcuno che se ne intende più di me, gli venne spontanea una fitta di gelosia, per quanto fosse da deficiente,.

 

“Ma chi...?”

 

“Che sei geloso, maresciallo?”

 

“Sempre!”

 

“Comunque si tratta di Mariani. La tua amica se ne intende e pure parecchio.”

 

“Dovrò ringraziarla e… e non so cosa dire per ringraziare te… e poi ti lamentavi di quanto ho speso per una collanina e un ciondolo?!”

 

“E che c’entra, tu stai ancora risparmiando per il Giappone e… e poi con questa potremo viaggiare di più qui in Italia, anche nei fine settimana.”

 

Se la strinse più forte che poteva, commosso, rubandole un ultimo bacio, alla faccia dei limoni!

 

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“Mangia, creatura, mangia! Che chissà ieri sera che l’è toccato a sta povera ragazza!”

 

“Veramente ho mangiato bene, fin troppo. Oggi non posso fare tutti i bis nonna, se no scoppio!”

 

“Quindi tua madre ha cucinato, per una volta?”

 

“Veramente Imma cucinava pure prima, mà, dai, che facevate la lotta su chi preparava più piatti,” intervenne a sorpresa suo padre, guardandola come per darle supporto.

 

Cinzia, invece, appollaiata al fianco di lui, fece un’espressione che le parve infastidita.

 

“Ma quella roba che produceva non poteva essere definito cucinare, figlio mio! Che avrebbe preparato ieri, Valentì? Che quella col pesce non c’ha mai preso!”

 

“Forse non ci avrà mai preso, ma almeno non ha mai mandato papà all’ospedale per intossicazione alimentare,” non riuscì a trattenersi dal dire, e Cinzia prese a tossire che per poco non si strozzava con gli spaghetti con salsiccia e cime di rapa.

 

Si scambiò uno sguardo con suo padre, che diede alcuni colpetti sulla schiena a Cinzia ma, se da un lato pareva volerla rimproverare, dall’altro Valentina vedeva benissimo che non era arrabbiato con lei, anzi.

 

In alcune cose restava il papà che tanto amava, pure se ultimamente era davvero difficile stargli vicino.

 

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“Qua c’abbiamo da mangiare per un reggimento, Calogiù!”

 

Erano sul divano a gustarsi gli avanzi ed un film, mentre Ottavia, tra loro, puntava alternativamente al cibo ed al suo braccialetto, “mi sa che il tuo dono ha avuto troppo successo, Calogiuri!”

 

La verità era che, se ci ripensava, ancora si commuoveva. Non solo per quello che aveva regalato a lei, ma pure a Valentina, studiando ogni cosa nei minimi dettagli. E la cosa bella era che sapeva che non era una cosa fatta per compiacere lei, o per obbligo, ma perché Calogiuri una specie di famiglia con lei e Valentina la voleva davvero e ci teneva a sua figlia, anche se, per l’età che avevano, di sicuro non sarebbe mai stata una figura paterna per lei. Ma, forse, il loro rapporto funzionava proprio per quello. Ed Imma non avrebbe potuto sentirsi più schifosamente felice e fortunata di così.

 

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“Pronto?”

 

“Amore! Come stai?”

 

“Hai una domanda di riserva?” chiese con un sospiro, tenendo il cellulare con una mano intirizzita, mentre l’aria fredda le schiariva i pensieri.

 

“Così tremendo il natale con i tuoi?”

 

“Più che con i miei il problema è nonna… pensa che ha lanciato talmente tante frecciate su mamma che perfino papà l’ha difesa.”

 

“Beh, allora magari le frecciatine in un certo senso possono pure servire, no?”

 

“Preferirei senza, lo sai. Tu, com’è andato il natale con tua madre? Domani sei libera?”

 

“Bene e sì, domani sono tutta tua, anche se… potremo fare poco qua a Matera, lo sai.”


“Perché? Di solito non sei tutta mia?”

 

“Scema! Sei più gelosa di tua madre con quel poveraccio del maresciallo!”

 

“No, guarda, tu non hai visto niente della gelosia di mia madre. E comunque magari potremmo farci un giro in qualche posto più tranquillo di Matera, dove ci va poca gente.”

 

“Ti mancano i miei baci, eh?”

 

Rise: adorava quando Penelope la provocava così.

 

“Mia madre mi ha detto che devo fare pratica sui limoni… una storia lunga… quindi, preparati!”

 

“Non so se voglio sapere come siete entrate in argomento, ma mi offro molto volentieri! Anche se te la cavi già più che bene!”


“Più che bene soltanto?!” esclamò, fintamente offesa, fermandosi sotto casa per rubare gli ultimi attimi al telefono.

 

“Preparati che domani ti dò il voto, De Ruggeri!”

 

“E pure io a te!”

 

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“Allora, come sta Penelope?”

 

Sua figlia fece un’espressione strana. Era rossa in faccia, rossissima: chissà quanto freddo si erano prese in giro per Matera!

 

“Bene, mà. Ma… per Capodanno vorremmo andare da lei a Milano: partiamo dopodomani.”

 

Imma ci rimase un poco male: non sarebbero state quasi mai insieme.

 

“Ma… ma Penelope sta così poco con sua madre?” chiese, per dissimulare e lanciare, almeno all’inizio, un messaggio più implicito.

 

“La madre di Penelope domani parte per le Canarie con il suo nuovo compagno e quindi Penelope sarebbe a casa da sola. Per tanto così… almeno a Milano c’è più vita.”

 

E brava la madre di Penelope!

 

Pure a lei un po’ di sole e mare non sarebbe dispiaciuto affatto.

 

“Ma tu qua c’hai non solo me, ma pure tuo padre che ti vede sempre poco. Perché… perché… non inviti Penelope a stare qua con noi? Almeno fino al primo dell’anno, poi andate dove vi pare. Tanto in camera tua c’è il letto matrimoniale e dove stiamo in tre stiamo pure in quattro.”

 

“Penelope qua?” ripetè Valentina, sembrando ancora più rossa.


“Sì. Così Penelope passa almeno qualche giorno di festa in famiglia e tu puoi vedere un po’ tuo padre, prima che mi faccia una capa tanta che stai sempre troppo poco a Matera.”

 

Valentina rimase un attimo a bocca aperta.


“Guarda che ti entrano le mosche!” ribattè, come avrebbe fatto la sua di madre un po’ di anni prima.

 

“Va… va bene… sento Penelope che ne pensa, ma non ti prometto niente,” le rispose infine, sembrando stranamente esitante e pure in imbarazzo.

 

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“Buongiorno, dottoressa. E grazie per l’invito!”

 

Imma ne fu stranita: Penelope, oltre a sembrare improvvisamente la sorella perduta della cara Irene come cortesia, pareva pure in imbarazzo.

 

Proprio lei che era sempre stata così easy, come diceva Valentina.

 

“Ma che dottoressa e dottoressa! E figurati! Poi sulle vacanze insieme ormai un poco di esperienza ce l’abbiamo, no? Anche se per qualche giorno dovrai sopportarci più da vicino, a me, a Calogiuri e pure a Valentina, che mica è una passeggiata!”

 

“No, infatti!” ribattè, pronta, Penelope, sembrando rilassarsi.

 

“Ci manca che vi coalizzate e poi me ne torno a Roma!” si inserì Valentina, anche se non sembrava realmente dispiaciuta.

 

“Ciao Penelope! Mi fa piacere rivederti!”

 

“Sei sicuro? Ogni volta che ci vediamo dopo poco succede un casino coi giornalisti.”

 

“Perché? Vi siete visti dopo Maiorca?” domandò a Calogiuri, stupita.


“Sì, le ho incrociate prima di partire per Milano,” ammise, un poco a disagio, probabilmente temendo la sua reazione.

 

“E va beh! Peggio per i giornalisti, allora, visto che qua il massimo dell’azione sarà la cena di capodanno dalla Moliterni. Sai te che scoop!"

 

“A proposito, Vale, per capodanno sono riuscita a prenotare in discoteca. Il nuovo compagno di mia madre è uno che conosce tutti qua a Matera, quindi….”

 

“Però il primo dell’anno vi voglio tutte e due qua a pranzo. Cucina tipica Materana.”

 

“Va bene, volentieri,” assentì subito Penelope con un sorriso e vide chiaramente che Valentina le lanciava uno sguardo sorpreso, “che non sono mai riuscita ad assaggiare i piatti dei tutorial di Vale e… mia madre non è una gran cuoca.”

 

“Bene. Allora, Valentina ti può mostrare la vostra stanza. Per i pasti ci possiamo mettere d’accordo. Se volete stare fuori qualche volta a pranzo o cena basta che mi avvisate per tempo, va bene?”

 

“Signorsì, generale!” esclamò Valentina, mettendosi sull'attenti, ma decise di sorvolare.


“I mobili purtroppo non sono un granché. Erano quelli di mia madre e non ho ancora avuto occasione di cambiarli. Però la vostra stanza è stata rifatta di recente.”

 

“Ma si figuri! Anzi, sa più di famiglia così, e poi… e poi mi ricordo con piacere sua madre, quelle poche volte che sono venuta a trovarla con Valentina.”

 

“Non… non lo sapevo che l’avessi conosciuta,” disse Imma, sentendo quella specie di garbuglio di sensazioni che accompagnavano sempre il ricordo di sua mamma.

 

Non la stupiva che Penelope le fosse piaciuta: sua madre sulle persone, paradossalmente ancora di più da quando aveva la demenza, teneva una specie di sesto senso.

 

“Dai, ti accompagno in camera!” si offrì Valentina, ma proprio in quel momento si sentì un forte miagolio ed Ottavia sbucò da dietro il corridoio, guardò per un attimo Penelope e poi scappò via.

 

“Fa la timida, ma non ti fare ingannare: se le fai due coccole non te la leverai più dai piedi, letteralmente,” le spiegò Valentina, mentre lei e la sua amica sparivano nella loro stanza.

 

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“Scusami per… per l’invadenza di mia madre ma… lo sai com’è fatta.”

 

“Ma figurati, Vale! Anzi, mi fa molto piacere di essere… stata accolta in famiglia. Almeno per ora.”

 

“In che senso?”

 

“Che… quando tua madre saprà di noi… potrebbe essere decisamente meno accogliente,” le sussurrò, un po’ preoccupata.

 

“Se fosse meno accogliente le rinfaccerò il mio supporto col suo maresciallo in tutti questi mesi. Se ho potuto essere aperta mentalmente io, lo può essere pure lei.”

 

“Lo spero per te… e per noi…” sospirò Penelope, dandole un abbraccio fin troppo rapido.

 

Valentina le prese il viso e la baciò, anche se si costrinse a staccarsi prima di quanto avrebbe voluto. Poi le sussurrò, mentre erano ancora vicine, “purtroppo più di così qua non possiamo fare. Che i muri sono sottili e si sente tutto, lo so per esperienza, purtroppo. Spero che tu abbia le cuffiette o i tappi per la notte. Io con mia madre ci sono abituata.”


“Ho proprio capito da chi hai preso, allora!” rise Penelope, facendole l’occhiolino, “anche se, magari, se sono impegnati a darci dentro, non ci sentirebbero.”

 

“E dai!” rispose, buttandola sul letto per punirla con il solletico..

 

Almeno quello potevano farlo.

 

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Si buttò sul cuscino, esausta ma felice.

 

“Stanca?”

 

“Un po’. Non ero più abituata ad avere tanta gente per casa,” ammise, allungando una mano per fargli una carezza, “tra l’altro, spero che non ti dispiaccia dell’invito a Penelope.”

 

“Ma che scherzi? No, anzi! Sono solo felice di… di essere stato incluso in famiglia. E poi Penelope mi è simpatica.”

 

“Sì, Valentina è fortunata ad aver trovato un’amica così, invece di quelle snob che frequentava al liceo classico.”

 

Calogiuri stava per risponderle quando le squillò il telefono.

 

Era strano ricevere un messaggio a quell’ora e quindi controllò, temendo un’emergenza.


Scusami per l’orario, ma ci ho messo un po’ a trovare il coraggio di scriverti e non volevo disturbarti con una telefonata. L’invito è sempre valido. Perché non vieni qua domani o dopo? Come ti ho già detto, se vuoi puoi pure fermarti anche solo cinque minuti, ma dammi una possibilità di spiegarti un po’ di cose.

 

Chiara Latronico.

 

Porse il telefono a Calogiuri, per mostrare il messaggio pure a lui, chiedendogli implicitamente consiglio.

 

“Dipende da cosa ti senti di fare tu, lo sai.”

 

“Lo so, ma… tu che ne pensi?”

 

“Penso che se non volessi proprio vederla già le avresti detto di no, fin da subito o quasi. Con la capa tosta che hai. Se sei in dubbio è perché, almeno un po’, pure tu vuoi vederla e parlare di nuovo con lei.”

 

Sospirò e gli si strinse al collo, abbracciandolo forte, finendo sopra di lui.

 

Calogiuri la conosceva benissimo.

 

Solo che, in quel preciso istante - pensò mentre gli posava un bacio sulle labbra - altro che di parlare aveva voglia!

 

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“Dovrebbe essere questa.”

 

Imma rimase a bocca aperta, fissando la casetta che le stava indicando Calogiuri. Era una bellissima masseria nella campagna, a pochi minuti dal mare che avevano intravisto fino a poco prima nel percorrere la strada indicata dal navigatore.

 

Teneva tanta terra, tanta! Otto massarie teneva!

 

Le parole di sua madre, pronunciate sul bus in quel giorno d’agosto, dopo che Calogiuri le aveva accompagnate e se ne era andato - e se lo erano ammirato per bene - le tornarono improvvisamente alla mente.

 

Che poi, stando a quanto aveva detto Chiara, questa masseria non doveva essere ricompresa in quelle otto. Sempre se non erano state nel frattempo vendute.

 

Un altro mondo rispetto a quello in cui era stata cresciuta. Si chiese per un attimo come sarebbe stata la sua vita a crescere in mezzo ai Latronico e ringraziò il cielo che non fosse successo.

 

“Imma!”

 

Vide Chiara uscire dalla porta principale, con un gran sorriso. Calogiuri parcheggiò il furgone nel vialetto sterrato e ne scesero entrambi.

 

“Sono proprio felice che sei venuta! Vi faccio strada,” si offrì Chiara, con un altro sorriso.

 

E fu in quel momento che Imma sentì inconfondibile un odore, oltre che un rumore.

 

“Ma… ma ci sono cavalli qui?”

 

“Non ti sfugge mai niente, eh? Sì, sul retro c’è una stalla ed uno spazio per farli sgambare. Ne ho tre per l’esattezza: uno è mio, gli altri dei miei figli, anche se ormai ci vengono raramente qua.”

 

“Ma quindi… cavalcate?”

 

“E come no, ma certo! Da sempre è stata una delle mie più grandi passioni. Ma perché? Non dirmi che anche tu….”

 

“Sì, mi… mi diletto con l’equitazione anche se ho cominciato da pochi anni e… non c’ho molto tempo da dedicarci. Diciamo che me la cavo.”

 

Si sentiva turbata, molto turbata, anche se forse non in modo del tutto spiacevole. Ma si chiese se pure la passione per l’equitazione l’avesse presa dai Latronico, insieme a quella per la legge - anche se non esattamente dallo stesso lato della barricata.

 

“Allora magari possiamo farci una cavalcata qui intorno che, per fortuna, rispetto a Matera c’è tutta un’altra temperatura e la terra non è gelata. E così possiamo parlare in modo più rilassato.”

 

“Solo se può venire pure Calogiuri, però,” specificò Imma, che di restare da sola con Chiara, almeno per il momento, non ne aveva proprio voglia.

 

“Se cavalca anche lui può usare la mia cavalla, che è più giovane. Quelli dei miei figli sono un poco anziani ormai e non mi fido a fare reggere loro il suo peso.”

 

“Va- va bene, non c’è problema.”

 

“Posso prestarti uno dei miei completi da equitazione, Imma, tanto più o meno avremo la stessa taglia. Così non ti rimane l’odore addosso. E per lei, maresciallo, credo che uno di quelli dei miei figli dovrebbe andarle bene. Forse erano un po’ meno muscolosi di spalle rispetto a lei ma… l’importante sono i pantaloni.”

 

“Va bene, la ringrazio,” rispose Calogiuri, sempre gentilissimo, “ma mi dia pure del tu e non mi chiami maresciallo, per favore.”

 

“Solo se pure tu mi dai del tu, però.”

 

“Va bene,” ripetè lui ed Imma non riuscì a trattenere un sorriso, vedendo chiaramente quanto fosse a disagio e quanto gli sarebbe stato difficile.

 

Se solo avesse saputo quanta forza le dava, invece!

 

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Prendere le misure con il cavallo, dal nome altisonante di Velluto - probabilmente in onore del bellissimo manto nero - non era stato semplice, per niente.


Era anzianotto, sì, ma testardo, e voleva portarla dove gli pareva a lui.

 

In fondo, era di famiglia pure quello.

 

Ma, finalmente, dopo un po’ di tentativi di farlo andare al passo, lei e Chiara procedevano fianco a fianco, cercando di mantenere la passeggiata per la campagna il più tranquilla possibile.

 

Sentiva gli zoccoli della cavalla montata da Calogiuri poco distante da loro, dietro. Chissà perché lei con lui non aveva fatto storie. Il suo ascendente sul genere femminile, umano o animale, si riconfermava in pieno.

 

Al di là di tutto, però, apprezzava molto questa discrezione di Calogiuri, questo volerle lasciare spazio, pur guardandole, letteralmente, le spalle.

 

Lanciò un’occhiata in tralice a Chiara, notando ancora la somiglianza con Valentina, almeno in alcune cose, perfino in un paio di espressioni. Le vennero in mente tutte le ricerche studiate al corso di criminologia su quanto facesse la genetica e quanto l’ambiente in cui si era cresciuti.

 

Chiara la guardò di rimando, avendo percepito gli occhi su di lei.

 

Imma sospirò: non potevano proseguire in silenzio per sempre, dovevano parlare, prima o poi.

 

“Allora, che cosa volevi dirmi?”

 

Chiara sospirò a sua volta, sembrando un poco incerta.

 

“Volevo… volevo innanzitutto ringraziarti per Andrea e-”

 

“E ti ho già detto che ho soltanto fatto il mio lavoro. Non l’ho fatto né per te, né per lui. Se fosse stato colpevole, non avrei esitato a chiedere il rinvio a giudizio e la giusta condanna.”

 

“Lo so, lo so, considerando che non ci hai neppure più voluti né vedere né sentire. Ma sono sicura che quasi chiunque altro ci fosse stato al tuo posto, con le prove contro di lui che c’erano, avrebbe chiuso lì l’indagine. Mentre tu hai continuato a lavorarci su.”

 

“Se qualcosa non mi torna non mollo, posso metterci anni ma non mollo. Pure se, alla fine, c’è voluta una confessione per capire del tutto quale fosse la verità.”

 

“Secondo te… sono una cattiva persona se… se non mi riesco troppo a dispiacere per il tempo che Amedeo Spaziani ha passato in galera?” le chiese Chiara all’improvviso, dopo qualche momento di silenzio.

 

Ne apprezzò l’onestà.

 

“No, sei umana, visto che ha provato a incastrare tuo figlio. Se qualcuno lo avesse fatto a Valentina, probabilmente, pur di non sentirmi più, sarebbe andato in galera spontaneamente e avrebbe gettato da solo la chiave.”

 

Chiara rise. E pure nella risata c’era un qualcosa di familiare.

 

“Andrea… si sta riprendendo da quello che ha passato e… sta trascorrendo le feste con Barbara, a Roma. Lei è ancora sconvolta dalla notizia che… che suo marito abbia scelto l’eutanasia.”

 

“Quindi il loro rapporto sta proseguendo?” domandò Imma, mentre una parte di lei, invece, si domandava perché la notizia le avesse dato una sensazione positiva al petto.

 

“Sì. Sai… avevo e ho un poco di paura per Andrea che… sembra veramente tanto preso da lei. Barbara invece… è vedova da poco, ha passato degli anni terribili. Facendo il medico so benissimo che non è raro aggrapparsi a qualcuno quando si soffre. Non per cattiveria, ma per istinto di sopravvivenza. Quindi spero che… che tra un po’, quando starà meglio, non… non me lo faccia soffrire.”

 

“Questo non lo possiamo sapere, ma… Barbara per Andrea era pronta a finire in galera. Ha confessato per cercare di evitargli problemi. Quindi qualcosa la prova, oltre alla gratitudine. Poi ci vuole tempo per queste cose.”

 

“Lo spero…” sospirò Chiara, mentre tirava leggermente le briglie del suo cavallo che stava andando troppo in avanti, “scusalo, ma… gli piace comandare.”

 

“Di famiglia pure lui,” commentò Imma, e Chiara divenne rossa, facendola un poco pentire del commento sarcastico.

“Ascolta, Imma, io… io mi rendo conto di venire da una famiglia disgraziata, ma… mi piacerebbe tanto poterti conoscere meglio, che ci vedessimo ogni tanto. Per dimostrarti che non siamo tutti così. E poi… e poi sento molto la mancanza di una famiglia, di una famiglia di cui non vergognarmi. Tranne i miei figli, che però sono sempre lontani. Capisco che… che tu possa sentirti… sradicata e… che non mi possa vedere come una sorella mo che ho cinquant’anni passati, di cui per più di quaranta non ci siamo conosciute ma… ma anche io sento di non avere più radici e… mi andrebbe bene anche un’amicizia, con qualcuno che, almeno in parte, può capire quello che provo.”

 

“Non lo so se lo posso capire veramente quello che provi tu…” rispose Imma, onestamente, cercando di cambiare argomento, con un dubbio che le stava a cuore, “ma… ma quindi questa casa, queste terre, non erano di tuo padre?”

 

“No, no. Papà aveva tante terre e poderi tipo questo, ma… erano tutti a Matera o vicino a Matera. Sai, voleva mantenere il più possibile il controllo sul territorio. Questo posto l’ho trovato quando i ragazzi erano piccoli: venivamo spesso al mare qua in zona e mi è piaciuto da subito. Mio padre però mi ha dato della stupida perché secondo lui avevo speso troppo, sia per comprare la masseria che per risistemarla, ma… ma io me ne ero innamorata e… di passioni nella vita già ne ho avute poche. Ogni tanto un colpo di testa mi ci voleva.”

 

Imma, di nuovo, ebbe come una fitta al petto. Perché si riconosceva in quella descrizione più di quanto avrebbe voluto ammettere. E perché capiva fin troppo bene Chiara.

 

“Sai, in un certo senso ero la pecora nera di famiglia. Bianca, anzi. Per fortuna, essendo donna, mio padre al massimo da me si aspettava un buon matrimonio. E sono riuscita ad evitarmi i delinquenti figli degli amici suoi con i quali mi voleva sistemare. Ma tante volte, soprattutto in questi ultimi anni, mi sono chiesta a che sia servito tutto quel rigore, lo staccarmi dalla mia famiglia e cercare di farmi una vita per conto mio, se alla fine per tutti resto solo la figlia del Demonio di Matera.”

 

Sull’essere considerata malissimo dall’opinione pubblica, indipendentemente da tutti i suoi sforzi, ne aveva esperienza pure lei, non poca. Ma certo, almeno non era ritenuta figlia di un assassino, di un criminale così efferato. E sperava di non esserlo mai. Forse era anche per quello che avvicinarsi a Chiara la spaventava tanto.

 

“Per natale ho… ho sentito mio fratello…” proseguì Chiara, che ormai sembrava quasi stare parlando tra sé e sé, come in uno sfogo, per liberarsi, “sta ancora in galera, anche se conta di uscire col programma protezione testimoni tra non molto tempo. E, forse, sono di nuovo una sorella terribile ma… spero solo che se ne stia il più lontano possibile sia da Matera sia da Roma. Almeno Luca vive all’estero e… non me ne devo preoccupare.”

 

“Col maxiprocesso in corso a Roma sicuramente sarà mandato molto distante dalla capitale. E da Matera figuriamoci! Non ti devi preoccupare.”

 

“Sai, è strano… lo so che… per tante cose siamo completamente diverse, ma… per altre ti sento più simile a me di quanto lo sia mai stato mio fratello. Lui è sempre stato più freddo, come mamma, mentre papà… stranamente era più affettuoso, pure se molto disturbato, indubbiamente, ma… era un uomo di grandi passioni, fin troppo. Forse per questo ho sempre cercato di starne alla larga dalle passioni, mi facevano paura.”

 

“Io dalle passioni invece ci stavo a distanza un po’ perché loro stavano a distanza da me, un po’ perché non me le potevo proprio permettere. Poi col mestiere che faccio, ne ho viste troppe di finite malissimo.”

 

“Lo so… però… sai… tua madre te l’ho un po’ invidiata, quando veniva da noi a servizio. Avrei voluto tanto una mamma come lei e invece-”

 

“E invece forse con te e con… con tuo fratello era più buona perché non eravate figli suoi, non vi doveva educare. Con me… la ringrazierò sempre per tutto quello che mi ha dato e ha fatto per me e… so che mi voleva bene da morire ma… ma non è stato sempre facile avere a che fare con il suo essere così esigente. E pure io ho avuto lo stesso problema con Valentina,” si stupì di ammettere, ma parlare con Chiara le veniva fin troppo facile.

 

E questo la spaventava molto.

 

“Io invece… più che altro ho fatto di tutto perché i miei figli crescessero lontani da mio padre, ma… alla fine si sono allontanati pure da me perché… io Matera non riesco proprio a lasciarla, per quanto la odi. Come non ero riuscita del tutto a tagliare i ponti con mio padre, finché era vivo. Tu sei stata coraggiosa a ricominciare tutto a Roma.”

 

“Forse… ma era l’unica cosa che potevo fare.”

 

“Posso… posso chiederti com’era tuo padre? Cioè, il padre che ti ha cresciuta?”

 

Imma si sorprese un attimo e Chiara si affrettò ad aggiungere, “se non ti va di parlarne non-”

 

“Avrai sentito le voci a Matera, no?” le domandò, con un sopracciglio alzato.

 

“Beh sì… cioè… che… che aveva problemi di alcolismo ed il fegato non gli ha retto. Cirrosi epatica, da come me ne hanno parlato. Però… una diagnosi non spiega tutto di una persona, no? E nemmeno una dipendenza.”

 

Forse lo diceva per salvarsi dalla sua ira, forse perché, da medico, era abituata a trattare certi argomenti, ma… la sensazione di fastidio e di sentirsi giudicata sparì. Era una domanda onesta e diretta, forse meglio di tutti quelli che, invece, di nominare suo padre non si erano mai più osati, ma poi ne sparlavano alle spalle.


“Non mi ricordo moltissimo: ero molto piccola, ma… non era… non era un uomo cattivo. Fortunatamente non era un violento, nemmeno da ubriaco. Ma… è stato quasi come non avercelo un padre. Era assente. Prima per il lavoro e poi… per la malattia. Stava in un mondo tutto suo.”

 

“Il mio invece è stato fin troppo presente,” sospirò Chiara, aggiungendo dopo qualche istante di esitazione, “ci pensi mai a tornare a Matera? Intendo stabilmente. Lo so che per la vostra relazione è meglio Roma….”

 

Chiara si voltò indietro e lanciò uno sguardo a Calogiuri. Imma fece lo stesso.

 

Stava cavalcando, semplicemente, e ricambiò lo sguardo tranquillamente. Ma Imma, conoscendolo, vedeva che gli occhi azzurri erano un po’ troppo brillanti.

 

“Roma non è meglio soltanto per la nostra relazione ma… ci sono più opportunità anche sul lavoro. Poi nella vita… cosa succederà non si può sapere.”

 

“Lo capisco. E capisco anche che… finché non finirà il procedimento a carico di Spaziani e di De Carolis… sarà difficile vederci a Roma. Ma… spero davvero di poterlo fare ogni tanto. O lì o qua.”

 

“Vedremo….”

 

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“Questa è una specialità di Bari, soprattutto in questo periodo. Riso, patate e cozze.”

 

La teglia era più che abbondante, il vino bianco buonissimo e Chiara sembrava stranamente a suo agio.

 

Almeno lei.

 

“Non… non immaginavo che ti piacesse la cucina tipica. Poi col fatto che sei un medico.”

 

“Ho imparato per reazione a mia madre, che mi teneva a stecchetto. E, anche se di solito mangio sanissimo, alle feste mi è sempre piaciuto preparare cose più sostanziose. Si vive una volta sola, no? A te piace cucinare?”

 

“Guarda, meglio che non ti dico cosa ci cuciniamo di solito io e Calogiuri, se no ci spedisci a fare le analisi del sangue. Ma sì, mi piace cucinare i piatti della tradizione, almeno per le feste comandate, che di solito chi c’ha il tempo?”

 

“Ho visto che… che pure Valentina è molto brava a cucinare.”

 

Ad Imma cascò la forchetta nel piatto, con un clangore metallico che rimbombò per tutto il salone.

 

“Scusami, non volevo metterti a disagio, ma… ho visto i suoi video, anche se… sono di qualche anno fa. Sai, c’era pure tua madre e quindi… mi hanno incuriosita.”

 

Sospirò. In fondo quei video li aveva visti mezza Matera, non c’era niente di male.

 

“Valentina non ha più molto la passione per la cucina. Cioè, se la cava abbastanza bene, però penso sia ancora in ricerca di una cosa che l’appassioni veramente.”

 

“Eh, non è facile trovare la propria strada. E… e che cosa ne pensa Valentina di… insomma… della situazione con… con me e con i Latronico?”

 

“Valentina ci pensa poco. C’ha altri pensieri al momento in testa, altri interessi. Sa di voi e della storia della paternità ma… non la voglio coinvolgere. Valentina comunque dei nonni ed una famiglia li ha avuti ed ha già i suoi problemi, legati alla sua età.”

 

“Sì, capisco che… incontrarci potrebbe turbarla ma… in futuro mi farebbe piacere, ma capisco se non te la sentirai.”

 

“Valentina ti somiglia, sai? Di lineamenti intendo. Il carattere, quello l’ha preso un poco da me e un poco da suo padre.”

 

“Il carattere del tuo ex marito non ce l’ho presente, ma… se ha preso da te non dev’essere male. E meglio che non abbia il mio di carattere: alla fine, come vedi, sono sola, pure se è un po’ per scelta mia.”

 

“Ma come mai? Non penso che ti manchino i corteggiatori. Sei una bella donna e sei ancora in un’età per rifarti una vita,” le fece notare, anche se non capiva bene cosa la spingesse a parlare.

 

“Sai, essendo benestante… è facile trovare gente interessata solo a quello. Mentre magari uomini più onesti non mi considererebbero per le mie parentele. E di uomini sbagliati ne ho già visti fin troppi in famiglia.”

 

“Beh, noi almeno quel problema non ce l’abbiamo, no, Calogiù? Nessuno starebbe con noi per interesse economico!” ironizzò e Calogiuri rise ed annuì, con un, “anche se con te si finisce sempre a fare a gara su chi deve offrire.”

 

Chiara fece una faccia talmente stupita da trasfigurarle quasi il viso.

 

“Che pensavi che mi tenessi i soldi nascosti?”

 

“No, no, anzi, è che… insomma… la tua parsimonia è cosa nota a Matera, Imma. E quindi mi stupisce che voglia offrire tutto tu.”

 

“Diciamo che sono parsimoniosa, ma con chi se lo merita ed è generoso so essere generosa pure io. Anche se nei limiti del mio budget limitato.”

 

“Ancora un poco di riso?” domandò poi Chiara, visto che avevano finito di mangiare, “come dolce ho fatto le cartellate. Sono immancabili per il natale Barese.”

 

“Riso no, ma al dolce non si nega mai una possibilità. Tu, Calogiuri?”

 

“Idem.”

 

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Dopo caffè e ammazzacaffè - un liquore al mandarino che poteva risuscitare i morti - Chiara era andata a ritirare le ultime cose in cucina.

 

Ma era già passato un po’ di tempo e non tornava.

 

Stava cominciando ad inquietarsi, quando la vide varcare la soglia, con una scatola di velluto in mano.

 

“Tieni,” le disse, porgendogliela.

 

“Non… non posso accettare regali. Poi col processo ancora in corso non-”

 

“Sì che potresti, visto che Andrea non è più indagato, ma non è questo il punto. Non è un regalo, non da parte mia, almeno. Aprila.”

 

Un poco confusa, Imma lanciò uno sguardo a Calogiuri, che però le fece segno di aprire.


Del resto, fosse stata una cosa pericolosa, sarebbero finiti malissimo tutti, Chiara compresa.

 

Le dita le sembravano di piombo. Ma la aprì.

 

Una collana in oro giallo e rubini. Stranamente familiare.

 

“Quando… quando papà è morto, prima di morire mi prese da parte e mi disse che questa collana dovevo darla a mia sorella.”

 

Imma tirò un rapido respiro, la testa che girava, mentre faceva il collegamento: era praticamente uguale al bracciale, anche se molto più in grande. Dovevano fare parte di una parure.

 

“All’epoca non ci ho fatto caso. Sai, nonostante tutto ero… ero disperata per la sua morte. Poi… gli ultimi giorni era semi incosciente… non capiva più molto bene dove fosse e con chi. E… e ho pensato che si riferisse a sua sorella, ormai morta. O che pensasse di essere con mio fratello e che volesse darla a me.”

 

Imma annuì, perché era successo lo stesso a lei per tanto tempo con sua madre e Garibaldi, ma… si sentiva impietrita lo stesso.

 

“Sembra antica. Ho domandato al gioielliere che l’ha venduta a mio padre e… e mi ha detto che era degli anni Settanta. Per precisione un anno dopo che sei nata tu. E il gioielliere mi ha detto pure, in confidenza, che tu eri andata qualche anno fa a chiedere di un braccialetto molto simile, che mio padre invece aveva comprato… intorno a quando sei nata tu.”

 

Imma rimase a bocca aperta, ed andò in panico allo stesso tempo.

 

“Non ti preoccupare. Il gioielliere ha pensato che… che fosse per le indagini del maxiprocesso sulla nostra famiglia e… pure io gliel’ho fatto intendere. Lui me ne ha parlato come avvertimento, sai, siamo suoi clienti da tanti anni e… voleva mettermi in guardia.”

 

“Certo che pure tu hai indagato, e pure parecchio,” commentò poi Imma, passandosi una mano sugli occhi e sulla fronte e cercando di nuovo lo sguardo di Calogiuri.


“Forse il mistero, l’incognito, sono passioni di famiglia, anche se… in modo molto diverso.”

 

“Comunque questa… collana non la posso e non la voglio accettare. Anzi, ti dovrei ridare pure il braccialetto, mo che sai che esiste.”

 

“Ma figurati, Imma! Io… lo so che ti potrà sembrare assurdo, ma… vorrei rispettare almeno in questo le volontà di mio padre. Questa collana era per te e mi sentirei una ladra a tenerla io. E poi… non ha nemmeno più un grande valore economico, tra la foggia e l’età che ha. Ma… penso che mio padre avesse intenzione di contribuire, almeno economicamente, ma poi… per tua fortuna deve avere desistito dall’avvicinarsi troppo a te e a tua madre.”

 

In effetti se la collana era un dono per il suo primo compleanno, forse voleva contribuire, come diceva Chiara, o, più realisticamente, continuare a comprare il silenzio di sua madre, temendo potesse rovinarlo un giorno.

 

“Secondo me… il fatto di avere un’altra figlia e non poterla frequentare, conoscere, deve essere stato un grande rimpianto per lui. Anche se a te, sinceramente, è andata meglio così.”

 

“E questo grande rimpianto lo desumi da una collana, comprata quando tenevo un anno e mai consegnata?” sibilò, sarcastica e di nuovo a disagio.


Va bene che Latronico era pur sempre il papà di Chiara e ogni scarrafone è bello a figlia sua, ma….

 

“No, è che… ho trovato pure questi, quando ho sistemato soffitta di casa di papà,” rispose, prendendo stavolta quella che pareva una vecchia scatola di biscotti, di quelle di latta, appoggiata sul comò lì vicino, e piazzandogliela davanti.

 

Imma, curiosa nonostante l’inquietudine, la aprì e ci trovò una pila di carta. Ritagli di giornale, di tutte le forme.

 

Li fece scorrere e vide che erano tutti casi suoi, dei quali si era occupata lei, fin dai primissimi quando era giovane. Alcuni pure di quando non era ancora a Matera.

 

“Sai… quando l’ho trovato, tanti anni fa, non ci ho fatto caso. Papà aveva l’abitudine di tenere tutto quello che… che lo riguardava in cronaca nera. Pensavo che fossero casi in cui in qualche modo c’entrava pure lui. Però mi è tornato in mente qualche mese fa, perché ricordavo che c’erano delle foto tue nelle immagini dei ritagli. E… e riguardandole, credo che… insomma ti tenesse d’occhio, che seguisse i tuoi casi e la tua carriera. Perché… alcuni di questi ritagli si riferiscono a cose in cui difficilmente poteva c’entrare mio padre, pure fuori regione, fatti che sembrano più delitti privati.”

 

Imma continuò a sfogliare, vedendo in effetti delle immagini sgranate e ingiallite della se stessa dei primi anni 2000. Una PM alle prime armi, che iniziava ad osare con l’abbigliamento, ma che aveva ancora i capelli castani e tante rughe e tanti anni in meno.

 

Percepì un alito sul collo e seppe, pure senza bisogno di girarsi, che Calogiuri si era sporto per vedere quelle foto di lei da giovane. E la cosa la intenerì molto, pure in mezzo all’inquietudine.

 

“Non… non ti voglio sconvolgere ma… volevo solo che sapessi che… che papà a modo suo ti pensava, ecco. So che magari sarebbe stato meglio tacere ma… so anche che il rifiuto, anche se da parte di… del peggiore dei genitori… comunque può essere una ferita che rimane, pure se si scopre tardi. E-”

 

“E magari invece tuo padre,” la interruppe Imma, sottolineando volutamente il tuo, “mi seguiva perché temeva fossi un pericolo per lui. Che un giorno avrei potuto ricattarlo, se magari mia madre si fosse fatta sfuggire qualcosa. O mettergli i bastoni tra le ruote.”

 

Ma la verità era che, di nuovo, sentiva quella strana sensazione al petto.


“Imma, con papà tutto può essere, specie le cose peggiori, ma… era uno di quegli uomini strani, che potevano compiere le cose peggiori fuori dalla famiglia, ma per cui la famiglia era sacra. Con la sua visione distorta del sacro, ovviamente. Ho… ho fatto molta fatica ad accettare che… che pure un mostro o un demonio… possa avere dei lati belli, anche se questo non giustifica quelli brutti. Ma l’esistenza di quelli brutti… non rende per forza falso quel poco di bello che c’era. O forse è solo una spiegazione che mi sono data col mio psicologo per cercare di fare pace con la mia infanzia, anche se è praticamente impossibile, visto che non ci sono mai riuscita del tutto.”

 

Imma si sentiva come se fosse stata infilata in una botte e buttata giù da una rupe: completamente scombussolata.

 

Incrociò gli occhi di Calogiuri, quasi con disperazione, in un e mo che faccio?! non verbale.

 

Il modo in cui lui le stringeva la mano, le fece capire che doveva essere lei a decidere, ma che lui comunque le sarebbe stato vicino, come sempre.

 

E fu così che una strada da percorrere, magari non per sempre ma almeno per i primi tempi, si fece chiara in lei.


“Per ora terrò la collana. Ma solamente a scopo di indagine. Sempre se ti va bene lasciarmela, visto cosa penso di farne.”

 

“La collana in ogni caso per me è tua, quindi puoi farne tutto quello che vuoi,” rispose Chiara, passandole di nuovo l’astuccio, mentre Imma chiedeva a Calogiuri di fare foto di quei ritagli di giornale.

 

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“Imma! Benarrivati!”

 

“Maria…” sospirò lei, accettando il mezzo abbraccio e i due baci - rigorosamente in aria - della Moliterni, che prese il pacco che le aveva porto, “una torta di ricotta, Maria. Diciamo che la ricotta è un poco un nostro cavallo di battaglia, no, Calogiuri?”

 

Calogiuri sorrise ed annuì, probabilmente pensando che lei si riferisse alla pastiera.

 

Ah, se solo avesse saputo che la ricotta con lui era tutt’altra cosa!

 

“Grazie, Imma, non dovevi!” rispose Maria, con uno sguardo che lasciava intendere come non necessitasse di altri dolci per cena, poi però si offrì con un, “se mi date i cappotti, così li metto da parte.”

 

Imma tolse il suo cappottone marrone, il più pesante che teneva - col freddo che faceva e come era vestita sotto! - e Maria strabuzzò gli occhi, squadrandola da capo a piedi.

 

“Beh, che c’è? A Capodanno ci si veste di rosso, no?”

 

Aveva indossato il vestito leopardato comprato per il teatro con la cara Irene, ma con una giacca di raso rossa presa per l’occasione in saldo.

 

Di rosso sì,” sottolineò più che volutamente Maria, mentre ritirava i loro cappotti.

 

“Dottoressa, maresciallo,” li accolse il prefetto, con aria poco entusiasta.

 

“Signor prefetto,” risposero quasi all’unisono, si guardarono e sorrisero.

 

“Imma!”

 

Vide Diana, talmente elegante che pareva pronta per un matrimonio, alzarsi dal divano sul quale era accomodata, insieme ad un Capozza che, per il suoi standard, era tirato a lucido: addirittura una camicia bianca ed un maglione blu, su pantaloni che non erano jeans. Da non crederci!

 

Notò che Diana stringeva in mano il manico della borsa che le aveva regalato e che sembrava sfoggiare con orgoglio.

 

Stava per rispondere al saluto quando un “buonasera a tutti!” alle sue spalle la gelò.

 

Sperò che fosse solo una similitudine vocale o un’allucinazione uditiva dovuta alle festività. Ma, a giudicare dall’espressione di Calogiuri, mentre si voltava, seppe di non esserselo immaginato.

 

All’ingresso, accanto a Maria che pareva guardarla mortificata - sta stronza! - c’erano nientepopodimeno che Pietro, con un completo elegantissimo, che le pareva lo stesso dei concerti con Cinzia, e Miss Sax, attaccata al suo braccio peggio di una cozza. Pure lei elegantissima, anche se, come sempre, di nero vestita.

 

“Imma?” domandò Pietro, in un modo che le fece pensare che nemmeno lui avesse idea del fatto che ci fosse pure lei.

 

“Pietro. Cinzia,” li salutò, lanciando poi un’occhiataccia alla Moliterni, che aveva l’ardire ancora di sembrare dispiaciuta.

 

“Imma. Maresciallo. Che sorpresa…” rispose Pietro con un sospiro, guardando invece verso Vitolo.

 

“Benvenuti. Ci siamo tutti, no, cara? Possiamo cominciare con gli aperitivi?”

 

Vitolo con una nonchalance invidiabile - e detestabile - si avvicinò alla Moliterni che annuì e fece segno verso la cameriera, che accorse in cucina, per prendere le cose da servire.

 

Le venne in mente sua madre, che spessissimo lavorava pure nelle festività. Chissà che avrebbe pensato vedendola lì.

 

Dopo pochissimo la povera cameriera - sicuramente pagata troppo poco per quello che faceva! - portò un carrello che faceva tanto film d’epoca ed iniziò a proporre champagne o un cocktail analcolico.

 

Imma decise che solo l’alcol poteva rendere leggermente meno insopportabile quella bella seratina.

 

E poi la cameriera giunse con un vassoio di vari salatini e tartine con salmone e quello che pareva caviale.

 

La Moliterni ed il prefetto non avevano badato a spese.

 

Prese due cose, giusto per attutire l’effetto dell’alcol - che meno depressa sì, ma sbronza no! - e Calogiuri fece lo stesso, quando si ritrovò a scontrarsi con una mano e si rese conto che era quella di Pietro, che si era allungato a prendere la stessa tartina al patè di qualche cosa.

 

Pietrò levò subito la mano, come se si fosse scottato, e le disse “prendila pure tu.”

 

“Ti ringrazio, Pietro, ma ce ne stanno tante altre uguali, per fortuna!”

 

“Già. Magari fosse tutto come le tartine nella vita!” commentò lui, con un sospiro, prendendone un’altra e mettendosela in bocca, forse per evitare di parlare, “foie gras. A te non piace, no, Imma?”

 

“Sì, grazie, ti lascio pure quella che volevi in origine, mi sa. E me ne prendo un’altra al salmone,” rispose, lanciando un’occhiata a Calogiuri che le era accanto e che stava come mezzo paralizzato col piatto in mano.

 

Bastò incrociare i suoi occhi per un secondo, perché lui prendesse a sua volta una tartina al salmone e poi bevesse un sorso di vino. Cercò di trasmettergli quanto le dispiacesse per quella situazione e per lui, nel poco tempo che aveva perché gli altri non se ne avvedessero. Non voleva dare soddisfazione a nessuno. E avrebbe voluto che nemmeno lui la desse loro.

 

Ma, a giudicare da come si prendeva pure una tartina col patè e se la assaggiava, per poi esclamare un, “ma sa di fegato!” che le fece scappare una risata, si erano capiti perfettamente.

 

“E menomale che sa di fegato, Calogiù, visto che è fatto col fegato d’oca!” gli spiegò, fregandosene di Pietro e recuperando un tono più normale e scherzoso.

 

Ringraziava il cielo per la semplicità di Calogiuri, nel senso migliore del termine, che le faceva sempre guardare il mondo da una prospettiva migliore.

 

“Ma… ma è quel patè che prima fanno mangiare le oche fino a farle scoppiare?” le domandò, spalancando gli occhi, e guardando la tartina come con pentimento.

 

“Esatto,” confermò, non sorprendendosi ormai più che lui sapesse quello ma non cosa fosse il foie gras: la cultura di Calogiuri, in perenne formazione, era imprevedibile.

 

“Le oche avranno pure un brutto carattere, ma così è troppo,” rispose Calogiuri, finendo la tartina con un, “solo perché non mi piace buttare il cibo.”

 

“Non sapevo che avesse un animo da ambientalista, maresciallo,” intervenne Pietro, sembrando però stavolta più lui in imbarazzo.

 

“Non sono vegetariano o vegano e sono cresciuto in una casa dove, quando ero piccolo, ancora si ammazzavano i conigli e i maiali, purtroppo, ma… almeno farli vivere dignitosamente e non farli soffrire quando giunge l’ora, ecco.”

 

“Io invece penso che o tutto o niente. Se ci si vuole fare scrupoli bisognerebbe farseli sempre, se no è da ipocriti,” rispose Pietro, ed Imma si chiese se ci fosse una frecciatina poco velata, per poi aggiungere, scuotendo il capo, “comunque… non avevo idea che… ci sareste stati pure voi stasera. E… immaginavo di passarlo diversamente questo capodanno.”

 

“Pure noi, Pietro, credici.”

 

“Vorrà dire che almeno qualcosa in comune questa sera ce l’avremo,” sospirò di nuovo Pietro, bevendosi un sorso di champagne fin troppo abbondante, poi notò che la squadrava un attimo.

 

Forse avendo capito di essere stato beccato, le chiese, “ma è nuovo? Non ricordo che avessi abiti così… attillati… almeno non quelli che usavi per uscire.”

 

Percepì nettamente il tendersi dei muscoli di Calogiuri, pur con la coda dell’occhio.

 

Il suo gelosone!

 

“Un acquisto recente, sì. E mi pareva l’occasione giusta per sfoggiarlo.”

 

“Se volevi fare una protesta silenziosa per l’invito, direi che ci sei riuscita in pieno,” ironizzò Pietro e sì, la conosceva molto bene pure lui.

 

Anche se la scelta del vestito era stata pure a beneficio di Calogiuri ma… ci godeva a presentarsi ancora più estrosa del solito, quando si trattava della Moliterni, non c’era niente da fare.

 

“In effetti è perfetto per Capodanno. Anche se devo dire che mi pare che a te il rosso, Imma, piaccia pure in altre occasioni. Ricordo ancora com’eri vestita quando siete venuti a vederci in concerto la prima volta,” intervenne Cinzia, comparendo con un calice in mano e riprendendo Pietro a braccetto, in un’immagine quasi speculare, in effetti, del loro primo incontro, ma a parti invertite.

 

“Io invece con tutti i completi neri che metti, Cinzia, purtroppo tendo a confondermi,” replicò, con un sorriso, e seppe subito, dal modo in cui Calogiuri muoveva il viso, che si stava trattenendo dal ridere.

 

Ma pure Pietro non le parve contrariato, anzi.

 

“Imma, non abbiamo neanche fatto in tempo a salutarci come si deve!” saltò su all’ìmprovviso Diana, inserendosi tra loro e dandole i canonici due baci, nonostante il pericolo rappresentato dai calici di vino, poi si voltò verso l’altra coppia e disse, “Pietro, ti trovo in forma. E lei è?”

 

Ad Imma venne da sorridere, perché figuriamoci se una come Diana, che bagnava il naso pure a Lucania News, poteva non sapere chi fosse Cinzia.

 

“Cinzia, la compagna di Pietro. Effettivamente non ci siamo mai incrociate. Lei è un’amica di Imma?”

 

“Diana De Santis. Amica ed ex cancelliera,” rispose Diana, con nonchalance, ed Imma si chiese se avesse fatto apposta a intervenire per levarli dall’imbarazzo ed evitarle altre battute delle sue.

 

“Ah quindi lavora anche lei in procura?”

 

“Sì, esatto, mentre lei invece?”

 

“Suono il sassofono ed insegno musica.”

 

“Bello! Io facevo piano in gioventù ma non c’ero molto portata.”

 

“Io invece suonavo la chitarra, in una band hard rock. Che ricordi!”

 

Tutti si voltarono verso Capozza, che teneva in una mano un piatto colmo di stuzzichini, manco ci fosse prevista una carestia, e nell’altro lo champagne.

 

“Ma da queste parti? Perché le band locali me le ricordo abbastanza, almeno quelle di un po’ di anni fa.”

 

“Ma lei è troppo giovane, signorina,” rispose Capozza a Cinzia, “e comunque no, stavo vicino a Napoli. Ma i Rockos hanno lasciato il segno!”

 

“Immagino,” mormorò Imma, bevendosi un altro sorso di vino mentre cercava di levarsi l’immagine mentale di Capozza in pantaloni di pelle attillati.

 

“Diana, posso dirle che è elegantissima? Ed invidio moltissimo la sua borsa,” commentò Cinzia, forse per cercare di conquistarsi la sua cancelliera o forse per rigirare il coltello nella piaga con lei.

 

“Ah, la ringrazio, ma è un regalo.”

 

Immediatamente, di nuovo, Cinzia e Pietro si voltarono stupiti verso Capozza.

 

“No, ma non è un regalo mio.”

 

“No, infatti è un regalo di Imma,” spiegò Diana con un grande sorriso, di quelli che faceva pure sul lavoro quando non reggeva qualcuno ma doveva essere gentile.

 

Le espressioni di Cinzia e, soprattutto, di Pietro, divennero ancora più comiche

 

“Eh, la nostra Imma ci sta diventando generosa. Se continua così tra un po’ ci offrirà lei la cena!” si inserì la Moliterni, con un sorrisetto, mentre il prefetto sembrava ridere sotto ai baffi.

 

“Non ho una casa sufficientemente grande, Maria, e poi non potrei mai eguagliare la bravura della tua cuoca,” sottolineò, godendosi sia la faccia della Moliterni, sia il sorriso malcelato della sua persona di servizio.

 

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“Complimenti, tutto ottimo.”

 

“Sì, complimenti alla cuoca,” ribadì Imma con un sorriso: pure se la ragazza era ucraina, la era ferratissima nella cucina italiana e perfino materana.

 

“I dolci li assaggiamo dopo con il brindisi. Anzi, cominciamo a predisporre il terrazzo?” chiese la Moliterni e la ragazza annuì.

 

“Ne approfitterei un attimo, allora, Maria,” disse Imma, alzandosi dalla sedia.

 

“Vieni, che ti accompagno,” si offrì l’altra, da perfetta padrona di casa, conducendola in un paio di corridoi, fino al bagno.

 

Ma poi, inaspettatamente, ci si chiuse dentro con lei.


“Maria….”

 

“Imma, ascolta, lo sai che… mi piace punzecchiarti, come piace a te, ma… Vitolo mi ha detto all’ultimo dell’invito a Pietro e Cinzia, se no ti avrei avvertita. Mi dispiace molto per la situazione, ma sai… quello è amico di Pietro e… credo non gli sia andata giù che vi ho invitati senza consultarlo prima.”

 

“Diciamo che avrei preferito senza, Maria, ma… ormai stiamo in ballo e balliamo.”

 

“Lo so, è che… credo si identifichi più in Pietro, lo sai, anche se… magari c’avessi uno come Calogiuri!” sospirò Maria, scuotendo il capo.

 

“Senti, Maria, lungi da me incitare all’infedeltà coniugale o al divorzio, anche perché non è che siano passeggiate di salute, ma se sei infelice, perché continui a starci insieme?”

 

“Perché tu sei stata fortunata, Imma, ma io rischio soltanto di trovare di peggio. Al massimo ci può stare qualche distrazione… ma… sono la moglie del prefetto… non voglio rischiare voci, che sai, qua la gente con un niente sa gli affari di tutti quanti. Mi sono rifatta solo qualche volta in vacanza,” le sussurrò, in una confidenza che la stupì non tanto per i contenuti ma per il fatto che  l’avesse fatta a lei.

 

Certo che se si era rifatta in vacanza come si era rifatta in faccia… i lidi italiani chissà quante fiamme della Moliterni tenevano!

 

“Guarda, Maria, a me un amante è bastato e avanzato.”

 

“Eh ma tu te lo sei preso buono subito, Imma, così non vale. Ma sai che pure il caddy del club mi ha chiesto di te qualche volta?  Vorrei capire davvero qual è il tuo segreto. Sarà il leopardato?” le domandò, guardandola dalla testa ai piedi.

 

Un poco le faceva piacere sapere di aver colpito, lo doveva ammettere.

 

“Forse il non fare nulla per provarci o, nel caso dell’insegnante di golf, i miei cinque minuti di celebrità.”

 

“Sarà….” sospirò Maria, non sembrando convinta.


“Marì, senti, mo, però, apprezzo l’atmosfera da liceo, ma avrei veramente urgenza, se non ti dispiace….”

 

“No, no, scusa, hai ragione!” esclamò Maria, lasciandola finalmente da sola ed in pace.

 

Anche se solo per pochi secondi.

 

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Sospirò nel bicchiere di vin brulé che era stato offerto per scaldarsi in attesa della mezzanotte e del nuovo brindisi con lo champagne.

 

Per fortuna aveva cercato di contenersi con gli alcolici, perché i Moliterni ci andavano giù pesanti con il bere, tra champagne, vino bianco, vino rosso e poi mo pure questo.

 

Si chiese dove fosse finita Imma, perché lui si sentiva a disagio con tutti, tranne Diana e Capozza che però erano già un poco brilli e mo Capozza era impegnato dall’altro lato del terrazzo con il prefetto e il signor De Ruggeri - che tanto sobri non sembravano manco loro - a cantare The Final Countdown, mimando la chitarra in aria.

 

Ma lui si sentiva a disagio con il prefetto ed il signor De Ruggeri: per motivi diversi sapeva di non rientrare nelle loro simpatie e quindi se ne era rimasto in un angolino in disparte.

 

“Mi vuoi dire cosa ci trovate?”

 

La voce alle sue spalle lo fece sobbalzare, che per poco non gli cascava il bicchiere - ci mancava solo quello per farsi odiare ancora di più! - si voltò e si trovò di fronte a Cinzia, con un bicchiere in mano pure lei.

 

“Come?”

 

“Cosa ci trovate in lei? In Imma,” chiarì lei, con la voce di chi non era magari ubriaca ma sicuramente alticcia, “perché siete tutti così… persi per lei? Pure se vi ha fatto soffrire, pure se c’ha un carattere di merda e racconta un sacco di palle. Perché? Io sono più giovane, più bella, ho un carattere migliore ma no, tutti appresso a lei e ai suoi vestiti da battona!”

 

Calogiuri solitamente aveva molta pazienza, raramente si arrabbiava, ma sentì come un interruttore scattare in lui, una vena sulla tempia che gli faceva male, mentre l’incazzatura e l’indignazione se lo mangiavano.


“Ma come ti permetti?! Non ti permetto di parlare di Imma in questo modo! Non vali un centesimo di quello che vale lei, anzi, non vali proprio niente!”

 

“Che succede?”

 

Alzò gli occhi e vide Pietro, il prefetto e Capozza che avevano smesso con il karaoke e si erano avvicinati.

 

Cinzia si voltò a sua volta e ancora un poco si buttò al collo del signor De Ruggeri, iniziando a gridare e piangere, “mi ha insultata! Mi ha detto che non valgo niente!”

 

L’ex marito di Imma lo fulminò con un’occhiata forse più furente di tutte quelle che gli aveva mai rivolto, ed era tutto dire, considerati i rapporti tra loro.

 

“Ma come ti permetti, eh? Chi ti credi di essere?! Ma che uomo sei? Non sei un uomo sei un vigliacco!” urlò Pietro, avvicinandosi a lui e spintonandolo, tanto che il bicchiere del vino gli sfuggì di mano e si ruppe a terra con un rumore fragoroso.

 

“Ma che sta succedendo?” urlarono Imma e la Moliterni, che erano appena accorse sul balcone, insieme alla signora Diana.

 

“Succede che il tuo caro maresciallo si è messo ad insultare Cinzia e ad urlarle contro! Dovrebbe vergognarsi, sempre se lo sa cos’è la vergogna!” ululò Pietro, lanciando sguardi di fuoco sia a lui che a Imma, ma almeno smettendo di spintonarlo.

 

“No- non è vero! Ha cominciato lei, che-”

 

“Ma se sei tu che mi hai aggredita! Sei un cafone!” lo interruppe Cinzia, e Calogiuri dovette ammettere che, purtroppo per lui, era molto brava a fingere.

 

“Vigliacco! Almeno prenditi la responsabilità delle tue azioni, per una volta, se ne sei capace!” si inserì di nuovo Pietro, che non stava certamente parlando solo di Cinzia.

 

“Basta! Non voglio discussioni a casa mia! Soprattutto non in un giorno di festa. Visto che l’abbiamo sentita chiaramente urlare, maresciallo, mentre non abbiamo sentito Cinzia dire nulla, la prego di andarsene e anche a lei, dottoressa.”

 

Calogiuri sentì tutto il sangue andargli alla testa, che gli girava pure vorticosamente. Cacciati dalla casa del prefetto, anzi, Imma cacciata dalla casa del prefetto, per colpa sua. Avrebbe voluto che la terra lo inghiottisse.

 

“Dai, Calogiuri, andiamo,” disse Imma, con un tono ed uno sguardo furiosi, seguiti da un sarcastico, “buon proseguimento di serata!”

 

La seguì, mortificato, mentre a passo marziale percorreva casa della Moliterni, che la inseguiva, pure sui tacchi.

 

“Mi dispiace…” sussurrò la moglie del prefetto, porgendo loro i cappotti, sulla porta.

 

Imma scosse la testa, come a dire di lasciar stare ed in quel momento sentirono la voce di Diana, a sua volta seguita da Capozza, “Imma, veniamo con voi!”

 

“Diana, ma che sei matta?! Pensa al lavoro, dai!” rispose Imma, in un sussurro, anche se la Moliterni poteva sicuramente sentirla, “buon anno, che se il buon anno si vede dall’inizio….”

 

E poi aprì la porta e lui si affrettò a correrle dietro, prima che lo piantasse lì.

 

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“Ragazzi, preparatevi per la mezzanotte!! Passeranno ora le nostre ragazze con un bicchiere di spumante per voi. Per intanto, tenetevi stretta le vostre di ragazze, che fino alla mezzanotte è l’ora dei lenti e poi ci scateniamo!!”

 

“Nel senso che poi dovresti ballare con una ragazza immagine?” urlò Valentina a Penelope, che rise, e si trovò stretta in un forte abbraccio.

 

“Hai sentito che cosa ha detto il DJ, no? Ti devo tenere stretta!”

 

“Spero pure dopo la mezzanotte!” ironizzò Valentina, ricambiando però l’abbraccio e cominciando a ballare.

 

“Spero anche io per te, Vale! E pure per tutto l’anno nuovo, almeno!”

 

“Cos’è? Mi fai le proposte serie?” rise, invasa da una felicità che non aveva mai provato prima, neanche nei momenti migliori con Samuel.

 

“Perché? Hai in progetto di mollarmi prima?” scherzò Penelope, anche se, perfino con la musica a palla, percepiva che fosse un poco in ansia per la risposta.

 

“No, anzi!” gridò, per farsi sentire, prima che una consapevolezza nuova le diede la conferma ad un’idea che la tormentava da tempo, e che dalle labbra le uscisse, prima che se ne potesse rendere conto, “voglio… voglio dire di noi due ai miei!”


Nota dell’autrice: Ed eccoci non solo alla fine di questa seconda parte del rientro a Matera ma, soprattutto, alla fine del cinquantesimo capitolo.

Mi sembra quasi impossibile di avere scritto così tanto e di avere ancora un bel po’ da scrivere, vi ringrazio per la costanza con la quale seguite la mia storia, spero davvero che continui a piacervi, nonostante la lunghezza. Lo so che questi due ultimi capitoli sono stati, in parte, più sul dolcioso ma, come avrete visto, il prossimo si prospetta pieno di casini e vi anticipo che siamo solo all’inizio da quel punto di vista: negli ultimi giorni a Matera succederà di tutto, tra cui alcune rivelazioni molto attese e numerose tragedie greche familiari. E non mancherà la parte gialla.

Ringrazio tantissimo chi mi ha lasciato una recensione: mi motivano sempre un sacco e sono utilissime per capire come va la scrittura.

Un grazie anche a chi ha inserito la mia storia nei seguiti o nei preferiti.

Il prossimo capitolo, la terza e ultima parte di questa full immersion in famiglia, giungerà il 20 dicembre, tra due settimane esatte, giusto in tempo per farci gli auguri in questo natale così particolare.

Grazie ancora! 

 

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Capitolo 51
*** La Famiglia - Terza ed Ultima Parte ***


Nessun Alibi


Capitolo 51 - La Famiglia - Terza ed Ultima Parte


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Il freddo gli schiaffeggiava il viso ma era lo schiaffo morale a fargli più male.

 

Cercava di tenere il passo con Imma, che camminava per la strada mezza gelata talmente veloce da fargli temere che scivolasse, con quei tacchi.

 

“Imma, aspettami, io… mi dispiace!”

 

Imma si fermò bruscamente e si voltò, ancora accigliata e tesa, ma non disse niente.

 

“Se ce l’hai con me lo posso capire, ma-”

 

“Non ero mai stata buttata fuori da casa di qualcuno. E lo sai che ci possiamo scordare un trasferimento a Matera, no, Calogiuri, almeno finché ci starà Moliterni come prefetto?” lo interruppe, con un tono e uno sguardo indefinibili.


“Se sei arrabbiata hai tutte le ragioni del mondo, ma ti garantisco che è stata Cinzia a cominciare, io le ho soltanto risposto.”

 

“E che cosa ti avrebbe detto Cinzia, per farti gridare così?” gli domandò, con le braccia incrociate.

 

Rimase per un attimo in silenzio, perché non voleva farla rimanere male, ma lei gli chiese, “ha detto qualcosa su di me?”

 

Calogiuri rimase a bocca spalancata ed Imma sorrise, un poco amara.


“Ma… ma allora mi credi?” le domandò, sollevato.

 

“Ma certo che ti credo!” esclamò lei, scuotendo la testa, “capo primo, mi fido molto più di te che di Cinzia Sax. Capo secondo, lo so come ti comporti con le donne, pure con quelle che ti stanno sull’anima, quindi lo so benissimo che non avresti mai urlato contro Cinzia a caso.”

 

“Imma…” sospirò, sollevato, stringendola in un abbraccio.


“Allora, si può sapere che ti ha detto?” gli domandò e sentì le dita gelate di lei sulla guancia.

 

“Niente… niente… è che… credo che sia molto gelosa del fatto che… che Pietro sembra tutt’oggi più preso da te che da lei, purtroppo. E da un lato posso pure capirla, eh, ma… se la prende con la persona sbagliata.”

 

“In realtà dovrebbe prendersela con se stessa, più che con Pietro, se continua a rimanerci insieme pur essendo consapevole del… chiamiamolo non grande entusiasmo di lui, va! E spero solo che Pietro si svegli e faccia la cosa giusta ma… sono l’ultima persona che può dargli consigli sentimentali in questo momento. E pure in futuro. Ma proprio non mi vuoi dire che ti ha detto esattamente?”

 

“E dai, Imma, tanto che cambia?”

 

“Cambia che so con che genere di persona sta il mio ex marito e che genere di persona deve frequentare mia figlia.”

 

Calogiuri sospirò: forse Imma aveva ragione, al posto suo, pure lui avrebbe voluto saperlo.

 

“Però mi devi promettere che non ci darai peso, perché quella parla soltanto perché è gelosa. Me lo prometti?”

 

“Va bene, Calogiù, te lo prometto.”

 

“Insomma… ha… si chiedeva che ci trovassi io in te e perché Pietro fosse così tanto preso da te… invece che da lei, che si ritiene più giovane, più bella e-”


“E su quello torto non ce l’ha, e-”

 

“Ma che scherzi?! Più giovane magari sì, ma più bella proprio no. Il tuo fisico se lo scorda e-”

 

“E tu che ne sai del fisico di Cinzia Sax?”

 

“Ho fatto il commesso, ricordi?”


“E quindi aver fatto il commesso ti donerebbe la capacità di fare i raggi X alle donne?” gli chiese, con un sorrisetto.

 

“No, ma-”

 

“Che li avevi fatti pure a me, quando ti ho conosciuto?”

 

“Non… non mi sarei mai permesso, lo sai. Almeno finché… ti ho vista in costume.”

 

“Va beh… diciamo che te la dò buona, maresciallo. E che altro ha detto, Cinzia, a parte che lei è molto più figa? Perché di commenti sulla mia estetica ce ne hanno fatti parecchi, Calogiuri, e non hai mai reagito così. Per fortuna.”

 

“Sì, è che… ha fatto un commento sul tuo modo di vestirti, che mi ha fatto sbottare.”

 

“Tipo? Se è che mi vesto male, Calogiù, lo dice tutta Matera. Che vuoi urlare dietro a tutta la popolazione?”

 

“No, no, ma… insomma… lo ha paragonato a quello di… delle professioniste di ti lascio immaginare quale settore… ecco.”

 

Sentì Imma irrigidirsi un poco nel suo abbraccio, “non so perché a volte voi donne siate così cattive le une con le altre, quando c’è un uomo di mezzo si va sempre a parare lì.”

 

“E che non lo so, Calogiuri? Ma… pure tua madre me lo disse, no? E forse… forse questo abito è davvero un po’ troppo.”

 

“Ma che scherzi?! Non ti ricordi cos’hanno detto gli amici di Irene? Stai benissimo: perfino quel simpaticone del prefetto l’ho beccato a lanciarti qualche occhiata, quando gli davi le spalle.”


“Sì, mo tutti gli uomini mi vogliono, proprio!”

 

“Ti garantisco che, ahimé, invece apprezzano e pure parecchio. E poi… come mi ha insegnato qualcuna… certi commenti qualificano solamente chi li fa.”

 

La sentì ridere sul suo collo, prima di posarci un bacio e stringerlo più forte.

 

Si staccò leggermente da lei e le chiese, “e mo che facciamo?”

 

“Direi che festeggiamo il fatto di poter festeggiare da soli. Non tutti i mali vengono per nuocere, Calogiù! Che ore sono?”

 

“Mancano… dieci minuti alla mezzanotte… a tornare a casa non so se facciamo in tempo.”

 

Imma si guardò intorno e vide un ristorante nelle vicinanze, ovviamente aperto e quasi illuminato a giorno per il cenone in corso.

 

“Aspettami qua, Calogiù!” gli ordinò, avviandosi di nuovo con quel piglio da bersagliere verso l’ingresso.

 

Calogiuri, un poco confuso, rimase lì ad attenderla, chiedendosi cosa stesse combinando.

 

Passò qualche minuto, tanto che temette che sarebbe arrivata la mezzanotte con lui lì da solo ed Imma scomparsa chissà dove, ma la vide tornare, con un sorriso trionfante ed una bottiglia di spumante in mano, chiusa.

 

“Ma… ma….”

 

“Lo spumante più caro della mia vita, Calogiù, che si meriterebbero la Finanza, si meriterebbero, quei ladri! Ma mo non pensiamoci. Non potevano darmi i bicchieri, che di plastica non li avevano, ma, possiamo fare senza, no? E poi guarda che vista che c’abbiamo! Altro che quella del prefetto!”

 

Calogiuri rise, incredulo, mentre lei gli porgeva la bottiglia: in effetti il muretto della strada sui cui erano dava direttamente sui Sassi, in uno scorcio da mozzare il fiato. Matera sembrava realmente un presepe, anche se era la solita frase scontata per i turisti.

 

Sentirono i primi rintocchi del campanile, che indicava la mezzanotte ormai vicina e si affrettò a levare l’alluminio e la gabbietta, per poi iniziare stappare quando partì il conto alla rovescia di quelli del ristorante, usciti sulla terrazza.

 

“Cinque… quattro… tre… due… uno… buon anno!” li sentì urlare, riuscendo a sincronizzarsi esattamente al momento giusto.

 

Uscì un fiotto di spumante, che cadde sul marciapiede, mentre Imma rideva, “qua pare di stare al Gran Premio!”

 

I fuochi colorarono il cielo, le strade e le case sottostanti, rendendo tutto ancora più magico.

 

“Prima tu!” le offrì, porgendole la bottiglia ed Imma, dopo un’altra risata, se ne bevve una sorsata, per poi passarla a lui.

 

“Il tuo turno, Calogiù, che qua se ci vede qualcuno pensa che siamo degli ubriaconi!”

 

Lui sorrise e bevve a sua volta, prima di proporre, “dobbiamo fare un brindisi però, dottoressa. Hai espresso un desiderio?”

 

“E certo! Ma non posso dirlo, lo sai, se no non si avvera. Tu?”

 

Una sola immagine gli venne in mente, l’unica cosa che poteva desiderare più di quello che aveva già. Ma, per mettere in cantiere quel progetto, doveva essere un uomo su cui Imma potesse veramente contare, emotivamente ed economicamente, qualcuno di cui essere orgogliosa.

 

E forse era quello il suo desiderio più grande dopo quello di stare per sempre con lei.

 

“Fatto?” gli chiese e lui sorrise ed annuì, “e allora buon anno, maresciallo!”

 

Imma si prese la bottiglia ed un altro sorso, prima di porgergliela nuovamente.

 

“Buon anno, dottoressa! Che sia un anno fortunato!”


“Se sarà felice la metà di quello che è passato sarà fortunatissimo!” gli rispose, in un modo che lo fece sciogliere, tanto da avere bisogno di un altro po’ di vino.

 

“Nonostante tutti i casini?” le chiese poi, non potendo trattenere un sorriso.


“Sempre!” gli sussurrò, e sentì la fronte calda di lei sulla sua, il suo respiro sulle labbra ed un bacio al sapore di bollicine.

 

E poi fu trascinato per un braccio - mentre ancora si scaldavano con il vino e camminando stretti stretti, e sopra di loro esplodevano i colori - trovandosi, senza quasi nemmeno rendersene conto, davanti alla porta di casa.

 

Perché pure quella era casa, ormai: bastava la presenza di Imma a renderla tale.

 

Salirono le scale di corsa, ignari di tutto: i rumori dei botti, dei vicini che festeggiavano.

 

Aperta la porta, riprese a baciarla, mentre arrancavano verso la stanza da letto, alternando i baci al vino rimasto, fino a cascare sul materasso, ridendo come due ragazzini.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma… ma sei sicura?”

 

“Questa è la quarta volta che me lo chiedi. Non è che sei tu a non essere sicura?” scherzò, anche se ne era un poco preoccupata davvero.

 

“No, è che… non so se ti rendi conto di cosa capiterà.”

 

“Sì, ma… non voglio vivere di bugie o omissioni. Almeno questo da quello che è successo ai miei l’ho imparato. E sono sicura che non voglio lasciarti scappare.”

 

Penelope le sorrise, in un modo dolce che quasi non sembrava da lei, e poi Valentina sentì dita sulle guance e si trovò trascinata in un bacio da fiatone.

 

Il primo del nuovo anno.

 

Il primo, sperava, di una lunghissima serie.

 

“EHI, BELLE!”

 

Un urlo vicino all’orecchio, talmente forte da sentirsi pure sopra la musica da lento sparata ad alto volume, e dei fischi, la fecero staccare bruscamente.

 

E ciò che vide le piazzò il cuore in gola: quattro ragazzi le avevano praticamente accerchiate, continuando a fischiare e a guardarle in un modo che le faceva schifo.

 

“Belle! Perché non vi divertite pure un po’ con noi?” chiese uno biondino, vestito da fighetto, col tono da ubriaco.

 

L’alito, quando si avvicinò troppo, era pure peggio.

 

“Venite con noi che stasera ci divertiamo!” aggiunse il terzo, che ciondolava un poco sui piedi.


“Lasciateci stare!” urlò Penelope, e la vide stringere i pugni, l’aria di quando era pronta a fare un casino.

 

“E dai, non fate le preziose!”

 

“Non facciamo le preziose, è che gli uomini non ci interessano!” gridò di nuovo Penelope, e Valentina si sentì stringere più forte da lei, come per protezione.

 

“Solo perché non avete mai provato!” rise il quarto ragazzo, avvicinandosi sempre di più.

 

Penelope lo spinse indietro ed i suoi amici presero ad urlare e a cercare di afferrarla.

 

“Lasciatele stare!”

 

Una figura nera si infilò tra loro e gli ubriachi, buttandone due a terra e bloccando il braccio al terzo che provò a tirargli un pugno, torcendoglielo dietro la schiena.

 

Gli altri provarono a rialzarsi ma il ragazzo urlò, “tra due minuti arrivano polizia e carabinieri. Volete una denuncia e farvi capodanno in cella?”

 

“Non ne vale la pena!” urlò il biondino agli altri, alzandosi a fatica, “ma papino non può proteggerti per sempre!”

 

Il ragazzo lasciò andare l’unico che era rimasto in piedi e che si toccò il braccio, con aria dolorante.

 

Con toni e gesti minacciosi, pure gli altri si rimisero in piedi e sparirono tra la folla.

 

“Grazie! Grazie davvero!” gli urlò, quando si sentirono nuovamente al sicuro.

 

Il ragazzo si voltò e le sorrise.


Le era stranamente familiare, doveva averlo già visto in giro per Matera, magari a scuola.

 

“Ma figurati! Almeno gli anni di judo sono serviti a qualcosa. State bene?”

 

Lei annuì e lo stesso fece Penelope.

 

“Io sono Carlo, piacere!” disse poi il ragazzo, porgendo loro la mano.

 

“Valentina!” rispose, ricambiando il gesto.

 

“Penelope.”

 

“Lo so che è presto ancora ma… avete la macchina? Se no vi dò un passaggio fino a casa che… non vorrei che quelli ci riprovassero ancora.”

 

“Ti ringrazio ma… mia madre mi ha insegnato a non accettare passaggi dagli sconosciuti.”

 

“E tua madre ha ragione ma… mio padre è il procuratore capo qua a Matera. Puoi controllare e puoi avvisare i tuoi che sei con me. Carlo Vitali, se vuoi cercarmi sui social.”

 

Una seconda ondata di panico la assalì. Vitali, l’ex capo di sua madre. Ecco dove lo aveva già visto, Carlo: su un terrazzo alla festa della Bruna. Lo aveva notato perché non somigliava per niente al padre ma… quella sera era stata troppo presa dalla partenza di Samuel per ricordarselo.

 

Lanciò un’occhiata a Penelope che le fece segno di stare tranquilla.

 

Sapeva di non poter rifiutare il passaggio a quel punto, che sarebbe sembrato più sospetto. Doveva solo capire come levarsi da quella situazione.

 

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Si appoggiò sul suo petto, ancora con il fiato corto.

 

Altro che il Capodanno dai Moliterni!

 

“Perché ridi?” sentì la domanda vibrarle addosso, il torace di Calogiuri che ancora si solleva più del solito, mentre pure lui riprendeva il respiro.


“Se pensi che sia per la tua performance, ti tranquillizzo subito,” ribattè, facendogli l’occhiolino, e si beccò un pizzicotto sul sedere, “Calogiuri!”

 

“E allora perché ridi?”

 

“Niente, sto pensando a Diana, Capozza, e gli altri che saranno ancora lì a sentirsi i latrati del prefetto al karaoke. Mentre noi abbiamo avuto un inizio d’anno decisamente migliore.”

 

“Dottoressa….”

 

“E poi… come si dice… chi fa l’amore a Capodanno, lo fa tutto l’anno, quindi preparati coi ricostituenti, maresciallo!” gli intimò, ricambiando il pizzicotto, con grande soddisfazione.

 

“Ahia!” si lamentò lui, facendo un mezzo scatto, forse aveva un poco esagerato con la foga, “allora dovrò chiedere a Rosa com’era la ricetta di nonna per l’uovo sbattuto. Ce lo faceva sempre a merenda, col cacao, sai tenendo le galline….”

 

“E mo ho capito perché c’hai tutta quest’energia! Devo ringraziare a nonna!”

 

“Eh, purtroppo non c’è più, ma… era una tosta, proprio come Rosa. Credo che ti sarebbe piaciuta.”

 

“Ma forse io non sarei piaciuta a lei….”

 

“Invece io penso di sì. Alla fine l’unica a cui non piaci - e solo per i suoi stupidi pregiudizi, perché mica ti conosce! - è mia madre ma… purtroppo mio padre e mio fratello sono sempre stati troppo deboli con lei, per quieto vivere.”

 

“Ho presente il genere!” sospirò, accarezzandogli il viso, ma poi tutto finì sottosopra, mentre si trovava con la schiena al materasso.

 

“Dobbiamo pure iniziare da qualche parte con i ricostituenti, no? Per una volta che abbiamo casa libera!”

 

“Non mi sembra che abbiamo praticato la castità nelle notti scorse, Calogiù. O vuoi farmi proprio gridare?”

 

Il sorrisetto di lui le provocò una scossa elettrica - per non dire che altro! - e cacciò un urlo quando sentì un liquido freddo sulla pancia, rendendosi conto che quell’impunito ci aveva appena versato un poco dello spumante rimasto, con un “sarebbe uno spreco, se no!” che era da denuncia.

 

Consapevole che sarebbe stato solo il primo di molti altri gridi, Imma sperò che i vicini fossero impegnati in qualche pallosissimo festeggiamento, prima di beccarsi una denuncia.

 

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“Puoi lasciarci qui.”

 

Valentina si scambiò un’occhiata sorpresa con Penelope: non erano davanti a casa di sua nonna, ma almeno a un centinaio di metri di distanza. Ma ringraziò il cielo per la prudenza di lei.

 

“Va bene. Mi raccomando, state attente. Purtroppo qua a Matera… su alcune cose sembra di stare ancora nel Medioevo, o quasi.”

 

“Non credere, pure nelle grandi città non è che siamo messi meglio,” rispose Penelope, con un sorriso amaro, “ma grazie per il passaggio e per averci difeso, prima che mi mettessi in un casino.”

 

“Ma figurati! E se avete bisogno, sapete come trovarmi coi social. Tra l’altro… Valentina, lo sai che mi sembra di averti già visto da qualche parte?”

 

“Eh… chissà… magari a scuola,” rispose, un poco in panico.

 

“Può essere… anche se qua a Matera ho solo fatto l’ultimo anno, ma… magari ci siamo visti per i corridoi. Allora buon anno!”

 

“Buon anno a te!” si affrettò a salutarlo, scendendo dall’auto insieme a Penelope e non perdendo tempo a richiudere la portiera.

 

Carlo, da bravo gentiluomo qual era, rimase fermo con la macchina, evidentemente aspettando di vederle entrare dal portone.

 

Impanicata, Valentina notò che il condominio davanti al quale si erano fermate aveva uno studio medico.

 

Suonò e, per fortuna, il cancelletto si aprì automaticamente.

 

Con un ultimo saluto a Carlo che, finalmente, sgommò via, finsero di entrare e poi, accertatesi che si fosse allontanato, si avviarono a passo rapido verso casa.

 

“Mamma mia che freddo!” commentò Penelope, tremando un poco, “dicono tanto di Milano ma fa quasi più caldo che qua, anche se è pure merito dello smog.”

 

Valentina si sforzò di fare un sorriso ma la verità era che era preoccupata, preoccupatissima.

 

Se Carlo avesse fatto mente locale su chi era… come minimo tutta Matera avrebbe saputo di lei e Penelope in tempo zero.

 

“Devo… dire a mia madre di noi due, subito, prima che lo scopra da qualcun altro,” disse, senza quasi rendersene conto e Penelope si fermò bruscamente.

 

“Vale, è l’una di notte passata ed è Capodanno, ti garantisco che parlare ora a tua madre sarebbe una pessima idea e, in generale, i coming out durante le festività sarebbero proprio da evitare.”

 

“Va beh... non glielo dico adesso ma… ma domani glielo voglio dire. Dopo il pranzo, che magari è rallentata dal troppo cibo,” ironizzò, anche se sentiva una morsa allo stomaco dalla paura.

 

“Facciamo così: ora ci dormi sopra e poi domattina vediamo come ti senti, va bene?”

 

“Va bene…” sospirò lei, mentre finalmente arrivavano davanti al portoncino giusto.

 

Girò la chiave nella toppa, fecero le scale ed entrarono nell’appartamento di nonna.

 

Sentì delle risate che però si zittirono bruscamente.

 

Mentre cercavano ancora al buio di raggiungere la loro stanza, la luce l’accecò completamente. Le ci volle qualche secondo per vedere sua madre in vestaglia e Calogiuri in boxer che guardavano verso di loro, con aria preoccupata.

 

“Ma siete voi! C’avete fatto prendere un colpo, c’avete!” esclamò sua madre, paonazza, ma Calogiuri era, se possibile, pure peggio, “mi avevi detto che saresti tornata tardi!”

 

“E ti lamenti? Dovresti essere felice che sono rientrata presto. Anche se immagino in quale attività foste impegnati…” si divertì a metterli ancora di più in imbarazzo e, dalle loro arie colpevoli, c’era riuscita perfettamente.

 

“Valentì, non fare la furba con me. Ma che è successo qualcosa?”

 

“No, no, tranquilla, è solo che….”

 

“Ci annoiavamo. Sa, dopo aver visto i locali in città, questi sono un po’ dei buchi. E pure la musica, terribile!” intervenne Penelope, con un sangue freddo invidiabile.

 

“Per me è tutta terribile!”


“Ma se c’ho le prove che sei stata tutta la notte in discoteca a Maiorca!”

 

“E va beh, ma che c’entra, Maiorca è Maiorca e-”

 

“E quindi ci stai dando ragione, mà,” le fece notare e sua madre incrociò le braccia e sbuffò, ma poi sorrise.

 

“Meno male che non hai fatto l’avvocato, va! Allora a letto, signorine, che domani vi aspetta un pranzo coi fiocchi!”


“Sì, i fiocchi del digestivo che dovremo bere dopo!” la sfotté ed evitò per un soffio un cuscino del divano che sua madre le tirò addosso.

 

Stava per ritirarsi in camera quando si udì un miagolio.

 

“Era stata santa fino ad ora, manco per i botti si è lamentata!” sospirò Imma, avviandosi verso la porta del bagno.

 

“La portiamo in camera con noi,” si offrì Valentina, che tanto con Penelope più che dormire non poteva fare.


“Sì, così poi la viziate e tocca a noi fare i cattivi quando le diremo di no a casa.”

 

“E va beh, mà, tanto a fare quella severa ci sei abituata, no?”

 

Le fece l’occhiolino e sua madre annuì.

 

Ottavia, non appena si aprì la porta, le si buttò in braccio peggio della protagonista di un film romantico e, sotto lo sguardo di sua madre che le sembrava quasi orgoglioso, si ritirò con lei e Penelope in camera, sperando che la notte avrebbe davvero portato consiglio.

 

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“Valentì, ma che non ti piace? Non voglio fare tipo le tue nonne ma stai mangiando poco!”

 

“Mà, qua tra salumi, formaggi, peperoni cruschi, poi la pasta al forno con le polpettine, la salsiccia con la zuppa di lenticchie e mo per finire le cartellate, me lo chiami poco?”

 

“Ma hai preso giusto un assaggio di tutto, della pasta al forno ne hai data metà a Penelope, che menomale almeno lei c’ha appetito. Sei sicura di stare bene?”

 

Sospirò: sua madre era un’investigatrice nata, non c’era modo di nasconderle niente.


E poi tanto ormai il pranzo era finito.

 

Guardò Penelope, stringendole la mano sotto al tavolo e lei annuì. Invidiava la sua tranquillità, forse perché ci era abituata o forse perché, alla fine, la madre non era la sua.

 

“Mamma… io… ti dovrei parlare,” pronunciò, cercando il coraggio di guardarla negli occhi, e le parve ancora più preoccupata.

 

“Parlare?”


“Sì, è… è una cosa importante ma… vorrei parlartene da sola,” finì di spiegare, perché, anche se non aveva nulla contro Calogiuri, non se la sentiva di aprirsi di fronte a tanta gente.

 

“Vado a fare due passi per smaltire il pranzo, allora, che sei un attentato alle coronarie, dottoressa!” rispose subito lui, alzandosi in piedi, e Valentina provò un moto di gratitudine, che non diminuì nemmeno quando lo sentì benissimo sussurrare nell’orecchio a sua madre, “in tutti i sensi.”

 

“Io… vado un salto a casa di mia madre, così sistemo le ultime cose per la partenza di domani,” aggiunse Penelope, alzandosi in piedi a sua volta.

 

Fu tutto rapidissimo: presto sentì la porta d’ingresso richiudersi, ma era troppo impegnata a guardare sua madre, che non aveva smesso di fissarla negli occhi.

 

“Ci mettiamo sul divano?”

 

“Che è una cosa che devo mettermi seduta, Valentì?” le chiese, facendo però come le aveva chiesto.

 

“Forse…” sospirò, prendendo posto all’altro capo del divano, a distanza di sicurezza.

 

“E allora? Che qua mi si sta riproponendo pure il cenone di natale. Che succede?”

 

“Io… io… mi sono innamorata, mamma. Come… come forse non mi è mai successo e… sono veramente felice: mi sento capita e amata come… come non mi sono mai sentita prima.”

 

Sua madre da un lato tirò un sospiro di sollievo, ma poi aggiunse, con l’aria di chi stava attendendo una fucilata, “ma…?”

 

“Ma… se non te l’ho detto prima è perché… avevo paura di come avresti reagito ma… ma io sono veramente convinta, anche se… anche se non sempre è facile e se non sarà facile, per niente, anche se so che forse penserai che mi potrebbe rovinare la vita, ma… ma non voglio più doverti nascondere una parte di me. Di quello che sono. Io… io amo Penelope e anche lei mi ama e… non mi sono mai sentita così prima, mai e lo so che magari mo sarai sconvolta, ma… è la mia vita e io sono felice, tanto.”

 

Sua madre rimase per un attimo immobile, con gli occhi spalancati, poi la vide - e sentì - accasciarsi all’indietro sul divano, le mani sulla faccia, a coprirle gli occhi.

 

Ecco, è la volta buona che ci è rimasta secca! - pensò, mentre provò a chiamarla, preoccupata, “mà, ma?! Ti senti male?”

 

Ma, per tutta risposta, sua madre iniziò ad essere scossa come da dei tremiti, e fu come un pugno nello stomaco pensare che stesse piangendo, e poi-

 

E poi la sentì ridere.

 

“Mà? Ma che stai ridendo?” le domandò, confusa, mentre sua madre finalmente si tolse le mani dalla faccia e sì, stava proprio ridendo, “ma è una risata isterica?!”

 

“Ma che isterica e isterica!” esclamò, dandole un colpo sul braccio e scuotendo il capo, mentre ancora si passava una mano sulla fronte, “mi hai fatto venire un colpo, mi hai fatto! Che mi pensavo che eri incinta! Mannaggia a te!”

 

E a quel punto venne da ridere pure a lei, non potendo credere alla reazione di sua madre: si sarebbe aspettata tutto tranne che quello.

 

“No, mà, quello è proprio l’unico rischio che non corro! Ma come ti è saltato in mente?”

 

“Ieri siete tornate presto, sono giorni che sembri strana, preoccupata, oggi non tenevi fame. E poi l’ho visto che eri felice negli ultimi periodi, che pensi che non me n’ero accorta che tieni quegli occhi, quella faccetta di quando sei innamorata e con la testa sulle nuvole? Pensavo che avevi conosciuto qualcuno a Roma o a Milano, visto che ci andavi spesso!”

 

“Beh in effetti… qualcuno a Milano c’era e-” provò a dire, perché si ritrovò trascinata per un braccio e finì stesa sopra a sua madre, che la abbracciava fortissimo, prima di sentire dita sulle guance e trovarsi a guardarla negli occhi, a pochi centimetri di distanza dai suoi.

 

“Ma perché non me lo hai detto? Che ti pensavi? Che tenevi una madre omofoba? A me basta che sei felice e poi… lo sai che Penelope mi sta simpatica, no?”

 

“Sì, lo so, ma… come dice Penelope, sono tutti meno omofobi con i figli degli altri.”

 

“E Penelope tiene ragione, ma… io al massimo mi posso preoccupare perché… la gente è cattiva, lo sai. Hai visto già come sono con me e Calogiuri. Ma non ti rimproverò mai se segui il tuo cuore, anzi, sono molto fiera di te, Valentì, moltissimo! Ci vuole coraggio a volte a fare ciò che ci rende felici, ma è la cosa più giusta: la vita è troppo breve. Me lo disse pure tua nonna, sai, l’ultima volta che l’ho vista viva. E c’aveva ragione, c’aveva!”

 

Le prese un nodo in gola, le veniva da piangere, per la gioia, per il sollievo, per tutto.


“Ti voglio bene!” sussurrò e si sentì stringere ancora più forte, come quando era bambina, sua madre che le baciava i capelli.

 

“Pure io, Valentì, pure io!”

 

“Voglio… anzi devo dirlo a papà. Ma ho paura che… che non la prenda bene.”

 

“Beh… tuo padre non è mai stato omofobo neanche lui, Valentì, ma… lo sai che su Penelope ha sempre avuto un po’ di riserve, vai a capire te perché. Ma vedrai che basta che gli dai il tempo di metabolizzare.”

 

“Lo spero….”

 

“Però magari… evita di dirglielo davanti a nonna tua, ecco, che lo sai già come la prenderà, vero?”

 

“Lo so, lo so. E infatti pensavo di andare a trovare papà oggi e di dirgli tutto. Anche se… anche se forse lo scoprirà pure nonna.”

 

“Tuo padre mica è scemo, Valentì: non dirà niente a nonna, devi stare tranquilla!”

 

“No, non è quello… è che… ieri sera… sai che mi hai chiesto come mai siamo tornate presto?”

 

“Sì, e tu mi hai propinato la scusa della musica noiosa.”

 

Le venne da ridere: a sua madre proprio non la si faceva.

 

“Il problema era che… a mezzanotte io e Penelope… ci siamo baciate e… alcuni ragazzi hanno iniziato a fare i cretini, a dire che volevano unirsi a noi.”

 

“Valentì! E non mi hai chiamato e siete tornate da sole?! Ma sei matta?!”

 

Era proprio da sua madre: per il coming out tranquilla come una pasqua, invece mo l’avrebbe potuta uccidere.

 

“No, mà… un ragazzo ci ha difeso e ci ha dato un passaggio e-” la bloccò con un dito sulla bocca, prima che partisse con uno dei suoi panegirici, “e… era il figlio di Vitali, Carlo.”

 

“Cioè… il figlio di Vitali il mio ex capo?” le domandò, preoccupata.

 

“Sì. Non mi ha riconosciuta, ma sapeva di avermi già visto. E se ricollegasse… siamo scese dalla macchina ad una certa distanza da qua, ma-”

 

“Calma, Valentì, calma!” la bloccò, prendendola di nuovo per il viso, “senti, non so come sia questo Carlo ma… se vi ha difese e accompagnate, mi pare un bravo ragazzo, il figlio di Vitali. Pure se ti riconoscesse, dubito che andrebbe a suonare la tromba per tutta Matera, non credi?”

 

“Sì, ma se lo dice al padre, magari….”

 

“Vitali c’ha tanti difetti, Valentì, ma i segreti se li sa tenere e sa benissimo com’è fatta Matera. E poi, pure se impazzissero tutti e due e si mettessero ad urlarlo dal campanile, in ogni caso tu stai a Roma e delle voci di Matera te ne devi fregare, hai capito?”

 

“Sì, ma non sarebbe peggio se nonna lo sapesse da altri?”

 

“In caso nonna potrebbe solo chiedersi perché non ti sei sentita di dirglielo subito, Valentì. E comunque parlane con papà, che la conosce da più anni e che ha già provato l’ebbrezza di doverle annunciare un fidanzamento molto poco gradito”

 

“Ma questo sarà peggio, no, mamma?”

 

Sua madre non rispose, ma le accarezzò di nuovo il viso ed i capelli.

 

Del resto, Valentina la conosceva benissimo la risposta, pure da sé.

 

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“Sei sicura, mà?”

 

“E certo che sono sicura! Ti accompagno e ti aspetto fuori, tanto Calogiuri sta in giro a piedi.”

 

“Sì, ma sei sicura di riuscire a guidare il furgoncino?”

 

“Non è colpa mia se la mia macchina è a terra. E poi basta andare piano, mo staranno ancora tutti a dormire dopo ieri, in giro non ci sarà nessuno.”

 

Valentina fece uno sguardo non troppo convinto e parecchio preoccupato e salì al posto del passeggero.

 

“Mo come si avvia sto coso?” mormorò, riuscendo alla fine ad accendere il motore.

 

Provò a partire, ma arrancò e si spense subito.


“Mà, sei sicura di sapere quello che stai facendo?”

 

“Ah, Valentì, quando c’avrai la patente potrai parlare. Mo fammi guidare senza il fiato sul collo.”

 

“Almeno sai cosa prova la gente che viene interrogata da te… familiari compresi.”

 

Le diede un colpo sul ginocchio e, dopo qualche tentativo, riuscì a partire, seppure a velocità bassa.

 

Cercò di fare mente locale sul percorso che aveva fatto Calogiuri qualche giorno prima, per evitare le strade più strette.

 

Dopo una serie di urli di Valentina, di “attenta!”, di “prendila più larga la curva!” e di “se vuoi uccidermi prima che riesca a fare coming out con papà, sei sulla buona strada!”, la sua ex casa le apparve davanti come un miraggio.

 

“Siamo arrivate, almeno la pianti di spaccarmi le ‘recchie!”

 

“E chissà da chi avrò preso!” le ritorse contro e le venne spontaneo abbracciarla forte. Ma poi tornò più seria, “senti, Valentì, io ti aspetto qua fuori. Però… quando saremo a casa… lo sai che non mi piace tenere segreti da Calogiù… quindi, se te la senti….”

 

“Mà, tre coming out in un giorno, no, dai. Non puoi dirglielo tu a Calogiuri?”

 

“Valentì, la vita è la tua, e penso sia più corretto che glielo racconti tu, non ti pare? Poi Calogiù è giovane, su certe cose sarà pure all’antica ma hai visto anche tu che sui sentimenti c’ha una mentalità apertissima. Non penso proprio che tu possa temere la sua reazione, no?”

 

“Va beh… per intanto pensiamo a papà… poi vediamo. Ma non ti prometto niente. A parte che… stasera c’avrete di meglio da fare tu e il tuo maresciallo… non so se c’avrete tempo per me, tra un rotolamento e l’altro!”

 

“Valentì!” urlò, sentendosi avvampare, “ma che ne sai te?” Come se tu e Penelope invece-” si bloccò, mentre un altro pensiero le si fece largo nella mente, “ma quindi nelle scorse sere voi due….”

 

“Ma no, mà, ti pare? Le pareti di casa di nonna sono sottili, si sente tutto. Se avessimo fatto qualcosa ci avreste sentite come noi abbiamo sentito voi!”

 

“E avvisami, no, se si sente?!”


“Lo sto facendo! E comunque… mo che sai tutto… stasera Penelope ed io potremmo pure recuperare!” le disse, con un tono scherzoso che era tutto un programma.


Allungò le mani oltre al cambio e le fece solletico alla vita, prima di rispondere, più seriamente, “Valentì, va bene tutto, ma magari certi dettagli ce li possiamo risparmiare a vicenda, no?”

 

Valentina annuì e poi allungò una mano verso il portellone.

 

“Se hai bisogno… basta che mi fai uno squillo ed io qua sto.”

 

“Grazie, mà… alla fine fai il generale di ferro, ma sulle cose importanti non sei così male, in fondo.”

 

Per tutta risposta, prese la punta del naso di Valentina e le diede un pizzicotto, come quando era bambina. E si guadagnò un ahia e un bacio sulla guancia prima di vederla uscire dalla macchina, percorrere i pochi metri della piazzetta, e salire quelle scale sulle quali Imma tanti tacchi aveva consumato.

 

La sua bambina era proprio cresciuta, ed era onesta e coraggiosa più di quanto avrebbe osato sperare. Certo, era preoccupata per lei, tanto: conosceva la cattiveria della gente, specialmente a Matera, ma poi alla fine tutto il mondo era paese per certe cose, purtroppo.

 

Sperava solo che Pietro, al di là dell’antipatia personale per Penelope, che indubbiamente era indipendente dal genere di quest’ultima, reagisse, anche in questa circostanza, come l’uomo buono che sapeva di avere sposato e con cui aveva condiviso una vita.


Anche se si trattava della sua bambina adorata e di una potenziale futura nuora che non gli andava a genio. Si stupiva invece, tutto sommato, che sia Samuel che Penelope le fossero stati simpatici. Conoscendo il suo carattere, aveva sempre pensato che sarebbe stata una suocera da incubo e invece… forse aveva sottovalutato i gusti di Valentina ed il suo saper scegliere le persone, a parte l’odiata Bea.

 

Tenendo il cellulare in mano, si preparò ad una delle attese più dure della sua vita. E lei sulle attese non aveva mai avuto pazienza.

 

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“Valentì? Che bella sorpresa!”

 

Suo padre la accolse con un sorriso ed un abbraccio, che furono una fitta al cuore. Chissà come avrebbe reagito da lì a poco.

 

“Dai, accomodati. Ti posso offrire qualche cosa?”


“No, grazie, che ho mangiato tanto a pranzo,” rispose, e suo padre fece un’espressione un poco dispiaciuta: sicuramente pensava ancora ai pranzi in famiglia per il capodanno con mamma, quando erano tutti e tre insieme.


“Sono felice che sei riuscita a passare a vedermi prima di andare a Milano,” le disse poi, sedendosi vicino a lei sul divano, “tra l’altro, mi raccomando, Valentì, su Milano, stai attenta… più che altro con le frequentazioni di Penelope.”

 

“Penelope ha frequentazioni tranquillissime. Sono persone creative, mica dei criminali! E poi Penelope vive in una zona bellissima di Milano!”

 

“Non ne dubito, però insomma… sappiamo come sono gli ambienti creativi, no? Non farti influenzare su fumo o… altro….”

 

“Papà, ma ce l’hai ancora su con la storia del fumo? Guarda che da quella sera non ho più fumato e pure Penelope lo fa raramente e se ci sono io mai, lo sa che mi dà fastidio l’odore. E poi sono grande ormai e so ragionare con la mia testa.”

 

“Va bene… io mi preoccupo soltanto per te, perché voglio che tu stia bene.”

 

Le aveva dato l’assist perfetto. Ora non poteva più tirarsi indietro. Anche se aveva avuto la conferma che a suo padre Penelope stava sul gozzo.

 

“Papà. Io sto bene. Molto. Sono in un periodo molto felice per me, come non sono mai stata.”

 

Suo padre parve stupito, ma poi le fece un sorriso, “ne sono felice per te, Valentina. Ma come mai? Non dirmi che….”

 

“Mi sono innamorata, sì. Tanto. Non mi sono mai sentita così, neanche con Samuel i primi tempi.”

 

“Bene!” esclamò, con un altro sorriso, anche se pareva un poco velato da malinconia, “anche se lo sai che sono un poco geloso, ma sono contento che finalmente guardi avanti dopo Samuel. E chi sarebbe il fortunato? Un ragazzo di Roma?”

 

“No… non è di Roma e non è nemmeno un ragazzo.”

 

Suo padre aggrottò la fronte, confuso.

 

Prese un respiro: o allora o mai più.

 

“Si tratta di Penelope. Stiamo insieme da… da qualche mese.”

 

“Cioè… insieme nel senso che… che state insieme insieme?” le chiese conferma, sembrando incredulo, e lei annuì, “ma dici veramente?”

 

“Sono serissima, papà! Che pensi che scherzerei su una cosa del genere?” domandò, alzando la voce e sentendosi già incazzata o forse delusa o forse entrambe le cose.

 

“No, no, ma… ma è che ti sono sempre piaciuti i ragazzi… pure quando tenevi i poster in camera tua, quindi…. ma quindi sei…?”


“Lesbica? Non è una parolaccia, papà! E comunque no, sono bisessuale, anche se ci ho messo un po’ di tempo per capirlo.”

 

“Ma sei proprio sicura? Cioè… magari è una fase… la solitudine… tutti gli eventi degli ultimi mesi. In fondo alla tua età tanta gente sperimenta ma-”

 

“Perché, tu hai sperimentato, papà?” gli domandò, la delusione che virava decisamente verso l’incazzatura.

 

“No, ma… che c’entra?!”


“Niente, appunto! Ognuno è fatto a suo modo e a me Penelope piace, punto e basta. Non so se durerà per sempre e sarà la storia della mia vita, anche se spero di sì, o se in futuro mi piacerà un’altra ragazza o un ragazzo o nessuno, ma con Penelope sto bene e la amo. E soprattutto mi sento amata e capita come non è mai successo prima.”

 

“Ma magari ti capisce meglio perché è una ragazza, no? Se ti senti delusa dai ragazzi non-”

 

“Non è una delusione o un ripiego. A me Penelope piace, in tutti i sensi papà, e ne sono innamorata. Se si stesse con qualcuno solo perché ci capisce… tu non ti saresti innamorato di mamma, no? Diversi come siete. L’amore non si spiega.”

 

“Valentì, lo so, è che… non so cosa dire. Ma con tutte le ragazze che ci sono… proprio Penelope?”

 

“Hai già detto fin troppo!” sospirò, delusissima, alzandosi dal divano, ma suo padre provò a trattenerla per una mano.

 

“Tua… tua madre già lo sa?”

 

“Sì, gliel’ho detto poco prima di venire qua. Ma l’ha presa bene, molto meglio di te, e mi ha capita, almeno lei.”

 

“Va beh, Valentì, tua madre è proprio l’ultima che può fare prediche sugli amori degli altri.”

 

“Manco tu le puoi fare, visto che stai con una di cui palesemente non te ne frega più di tanto e invece, se ti innamorassi davvero, magari torneresti il padre allegro e moderno che ho sempre conosciuto e non questo… vecchio triste e bigotto che stai diventando tra Cinzia e nonna!”

 

Suo padre fece un’espressione come se gli avesse appena dato uno schiaffo, ma pure lei si sentiva uguale e quindi non provò senso di colpa.

 

“A proposito di nonna… come…?”

 

“Se puoi per ora evitare di dirlo a lei e pure a Cinzia, che sono culo e camicia, sarebbe meglio.”

 

“Forse è meglio… prima che le venga un colpo…” sospirò lui… abbassando la testa.

 

Valentina approfittò di quel momento, si sciolse dalla sua mano e si avviò verso la porta di ingresso, sbattendola alle sue spalle.


Sapeva che, tutto sommato, rispetto a racconti di coming out di altri che le aveva fatto Penelope, non le era poi andata così male, ma… ma da suo padre si era sempre aspettata di più. Lo aveva considerato perfetto per tanti anni.

 

E mo le toccava fare i conti con la realtà.

 

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“Finalmente, ma dove eravate finite?”

 

Sorrise, vedendo Calogiuri in piedi a poca distanza dall’ingresso, manco fosse stato di guardia, con un’aria preoccupata.

 

Penelope era poco dietro, sul divano, con un’espressione di chi attendeva una sentenza. Evidentemente sapeva che Valentì voleva dirle tutto ma forse non ancora come fosse andata.

 

“Siamo… siamo andate da mio padre,” sentì Valentina spiegare alle sue spalle, ma poi le girò intorno e proseguì, avvicinandosi a Penelope, “mamma mi ha voluta accompagnare - per fortuna il furgoncino è ancora intero! - perché… perché ho confessato anche a lui che… che mi sono innamorata di te.”

 

Nel giro di un secondo vide nell’ordine: Calogiuri a bocca aperta, che manco i primi tempi quando lei gli spiegava qualche cosa - tipo chi era Giuseppe Verdi - e Penelope che, con un sorriso commosso, si alzava dal divano e si abbracciava sua figlia, che ricambiava in un modo tenerissimo.

 

Entrambe guardarono poi verso di lei, che fece un sorriso ed annuì e, infine, si rivolsero a Calogiuri, che stava ancora con la bocca spalancata.


“Mo… mo capisco tutto!” balbettò, scuotendo il capo e dandosi un colpo in fronte, mentre scoppiava a ridere.

 

“In che senso?”

 

“No, che… quando vi ho viste a Roma che stavo con… va beh con Irene,” spiegò, lanciandole un’occhiata, evidentemente temendo solo a pronunciare quel nome, “aveva fatto una faccia strana però poi non mi aveva voluto dire niente. Mi sa che lei aveva capito, non come me che su ste cose sono un poco tonto.”

 

“Ma perché pure lei è…” chiese Penelope, con un sorrisetto.

 

“Bisessuale, sì,” confermò Calogiuri e Penelope saltò su con un “lo sapevo!” soddisfatto.

 

“Ma che ti importa se quella è bisessuale?!” chiese, piccata, Valentina e ad Imma venne da ridere perché era gelosa tanto quanto lei, ancora prima che Calogiuri le sussurrasse, “tale madre… tale figlia.”

 

“E dai, Valentì, su, che già una gelosa della gattamorta in famiglia basta!” ironizzò, facendo l’occhiolino alla figlia e poi a Calogiuri.

 

“E non potrete più prendere in giro me ed Imma perché siamo sdolcinati, non dopo questa scena,” si inserì Calogiuri, con un sorrisetto da schiaffi.

 

Valentina, per tutta risposta, smise di abbracciare Penelope e gli diede un paio di colpi sul braccio.

 

“Ahia, ma questa è una congiura! C’avrò i lividi peggio che all’addestramento alla fine di questa vacanza!”

 

Un miagolio ed una macchia tigrata saltò in spalla a Calogiuri, continuando a farsi sentire a tutto volume.

 

“Quattro femmine contro uno, non è giusto!” rise Calogiuri, mentre Imma pensò, con sollievo, che forse almeno quelle riunioni di famiglia, da quel momento in poi, non sarebbero state poi così male.

 

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“Come stai, dottoressa?”

 

Si era appena infilata nel letto e, dopo averle dato un bacetto, Calogiuri aveva fatto quella domanda che, se di solito la infastidiva, pronunciata da lui aveva tutto un altro significato. Perché sapeva quanto gli importasse sinceramente della risposta.


“Eh… è stata una giornata lunga… e… sono un poco preoccupata che Valentina possa trovarsi a subire cose di gran lunga peggiori di quelle che abbiamo subito noi due. Ma con Penelope la vedo serena e che si amano tanto si nota, quindi… sono contenta per lei. Trovare un amore così grande è una fortuna, anche se forse sono ancora in un’età in cui si cambia molto e difficilmente gli amori sono per sempre. Ma, almeno per ora, spero possano viversela senza troppi problemi.”

 

Si sentì abbrancare per le spalle e si trovò circondata dal braccio di Calogiuri, “sei… sei fantastica! Valentina è fortunata ad avere una mamma come te, fortunatissima!”

 

C’era tanto amore nel suo tono di voce, ma anche una certa malinconia.

 

“Stai pensando alla tua di mamma?”

 

Lui annuì, guardando fisso davanti a sé, come faceva quando era molto concentrato su qualcosa, ma poi la fissò negli occhi e le disse, deciso, anche se sempre con quella tristezza di fondo, “non devi pensare che io abbia rimpianti, però, perché non ne ho nessuno.”

 

Lo strinse forte per la vita e gli baciò una guancia, “nemmeno io ne ho, Calogiù, ma mi dispiace che tu sia stato costretto a questa scelta. E molto.”

 

“A me no. E ti sceglierei ancora un milione di volte, anzi un miliardo!”

 

E che gli si poteva dire?

 

Niente, quindi lo baciò, stavolta più seriamente.

 

Ma, quando dopo poco, si trovò spalmata sul materasso, sotto a fasci di muscoli e a dita che iniziavano a vagare, le toccò dargli un paio di colpetti alle mani.


“Che c’è? Sei stanca?” le chiese, sorpreso, staccandosi leggermente da lei.

 

“Per questo difficilmente sono troppo stanca, Calogiù, ma… Valentì mi ha rivelato che… lei e Penelope ci hanno sentiti negli ultimi giorni.”

 

Calogiuri divenne color Babbo Natale e si ributtò sul materasso dal suo lato del letto.

 

“Dovremmo insonorizzare le stanze allora, pure nel nostro appartamento a Roma,” scherzò poi, facendole l’occhiolino, anche se era ancora un fuoco in viso.

 

“Quando ristrutturerò questa casa sarà la prima cosa, Calogiù! E comunque tranquillo che domani recuperiamo con gli interessi!”


“Allora mi dovrò proprio ripassare la ricetta di nonna dell’uovo sbattuto!” le sussurrò in un orecchio, abbracciandola come facevano sempre prima di dormire.

 

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Aprì gli occhi di colpo.

 

La luce filtrava dalle imposte e, soprattutto, c’era una specie di musica di sottofondo che proveniva da non troppo distante.

 

Forse era stata quella a svegliarlo.

 

Allungò un braccio, non sentendo la presenza di Imma ma il lenzuolo era già freddo. Guardò l’ora ed erano le otto di mattina. Si preoccupò perché lei in vacanza prima delle nove non si alzava e, di solito, lo svegliava sempre almeno con un bacio.

 

E poi… dopo tutto quello che avevano combinato il giorno prima, una volta che avevano accompagnato Valentina e Penelope alla stazione dei bus - che altro che ricostituente gli sarebbe servito! - si aspettava che Imma avrebbe voluto dormire ancora più a lungo.

 

“Imma?!” provò a chiamarla, mentre scostava il lenzuolo e cercava di alzarsi, ma, in quel momento, la porta della stanza si aprì.

 

Riconobbe la canzone, che veniva dal cellulare che Imma teneva nella mano sinistra: era Happy Birthday.

 

Nella destra c’era una torta con due candeline a forma di un 3 e di uno 0.

 

Ed Imma si mise a cantargli buon compleanno, aggiungendo alla fine, “buon compleanno, Calogiù, che stiamo in Italia e non in America. E non siamo nemmeno di Milano come la gattamorta, anzi deadcat!”

 

“Sei tremenda, dottoressa!” rise, scuotendo il capo, incredulo.

 

L’incredulità si trasformò in emozione quando Imma si avvicinò di più, mostrandogli la torta - una crostata di frolla e marmellata - ed annunciando, “scusa se la torta è un poco storta, ma la crostata con la marmellata di arance non l’ho trovata in pasticceria e quindi… ho fatto da me. Spero che ti piaccia.”

 

La prese per la vita e la fece sedere sulle sue ginocchia, dandole un bacio e sussurrandole, “e certo che mi piacerà, moltissimo! Come te.”

 

“Prima è meglio che l’assaggi Calogiù. Spegni le candeline che hai un altro desiderio da esprimere.”

 

E lui chiuse gli occhi, soffiò via i suoi vent’anni e diede il benvenuto ai trenta, tanto attesi, e sperò davvero che il desiderio già espresso a Capodanno potesse realizzarsi.

 

“E mo come la tagliamo la torta?”

 

“Aspetta qua che vado a recuperare il resto delle cose per la colazione. Se provi ad alzarti dal letto il trentesimo compleanno sarà pure l’ultimo, chiaro?”

 

“Agli ordini!” rispose, facendo il gesto dell’attenti.

 

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“La torta è buonissima, me la mangerei tutta!” proclamò, dandole un bacio non appena lei ebbe finito di bere il caffelatte, per poi chiederle, ancora stupito, “ma come hai fatto?”

 

“La tua fiducia nelle mie doti culinarie è commovente, Calogiuri!” ribattè lei, facendo l’offesa.

 

“Ma non intendo per la torta! Che tu cucini benissimo, altroché! Avrò preso non so quanti chili in questa vacanza. Ma è che… è che… non ti ho mai parlato del mio compleanno e-”

 

“E secondo te dopo tutti gli anni che ci conosciamo e lavoriamo insieme, potevo forse non sapere quando sei nato? Tra carte, documenti e tutto il resto? Ed i trent’anni vanno festeggiati, anzi, quando torni a Roma dovresti organizzare una festa con Mariani, Conti e gli altri, tu che sei giovane e te lo meriti!”

 

“Conti dubito che vorrà festeggiare con me…” sospirò e si sentì accarezzare il viso.


“Dai, vedrai che farete pace! Che mica è colpa tua se deadcat preferisce te a lui. Non che su questo non la capisca, con tutto il bene per Conti, eh!”

 

“Eh… speriamo… ma quello che conta è festeggiare con te, dottoressa. Anzi, potremmo andare in discoteca noi due, no? Stasera pure.”

 

“Qua a Matera?” gli chiese, con una risata.


“E perché no?”

 

“Sì, così poi il figlio di Vitali deve salvarci pure a noi!” commentò e lui la guardò stupita, “è una storia lunga, Calogiù, poi ti spiego. Ma prima… ti voglio dare questa.”

 

E tolse dalla tasca dell’accappatoio di seta, il suo preferito a fiori, quella che sembrava una busta un poco spessa.

 

“Ma è il mio regalo?” le chiese, lanciandole un’occhiata interrogativa.

 

“Una parte.”

 

“Che c’è pure qui una foto?” le chiese, aprendola e trovandoci invece, “un portachiavi?”

 

Era d’argento, a forma di casa e incisi dentro la casa c’erano un omino e una donna stilizzati, con un micio in mezzo. Dietro c’erano le iniziali I. & C..

 

E, attaccate all’anello, c’erano già alcune chiavi, ma non gli sembravano quelle di casa e nemmeno quelle della moto che aveva ricevuto a natale.

 

“Sono le chiavi di questa casa, Calogiù, perché mo è pure casa tua.”

 

Gli occhi gli si appannarono completamente e la abbracciò più forte che poteva, mentre non riusciva a trattenere le lacrime.

 

“Eddai, Calogiù, non mi fare la fontana prima di averlo visto tutto il regalo!” gli sussurrò all’orecchio, accarezzandogli i capelli e lui si staccò, sorpreso, “guarda meglio nella busta.”

 

Si asciugò occhi e guance, lo fece e ci trovò un foglio di carta bianco, ben ripiegato, che non aveva notato. Lo aprì e c’era un disegno con degli stecchi che dovevano essere un uomo, una donna ed una bambina, circondati da un cuore un poco tremolante e sbilenco. La donna, visti i capelli rossi, doveva essere Imma, l’uomo, dagli occhi che erano due puntini azzurri, lui.

 

“Un altro disegno di Bianca?”

 

“Bianca disegna un po’ più da grande, Calogiù, la fase degli stecchi già l’ha passata da mo.”

 

Un secondo e si trovò a bocca spalancata, mentre un pensiero impossibile gli si faceva largo in testa, incrementando la commozione e solo in quel momento notò qualcosa, anzi, qualcuno che mancava, “ma dov’è Ottavia? La porta della stanza è aperta e tra la torta e il regalo è strano non vederla.”

 

“Eh già… MA DOV’È OTTAVIA?!” gridò Imma, ridendo, e in quel momento, alla porta si affacciò una figura tremendamente familiare.


“Rosa?!” chiese, gli occhi che ormai gli facevano difetto per via delle lacrime, ma quella era proprio sua sorella, che reggeva con un braccio Noemi e con l’altro Ottavia che miagolava come un’ossessa.

 

“Sorpresa!!!” urlò, mettendo a terra sia la bimba che la micia e si trovò travolto da manine che gli stringevano le gambe e una palla di pelo che gli saltava in grembo e poi sulle spalle.

 

“Zioooo, ziooooooo!” ululava Noemi, facendogli segno di prenderla in braccio e lui subito lo fece, notando con ulteriore commozione che non storpiava più la zeta.

 

Mamma, quanto era cresciuta!

 

Sorrise a sua sorella, che gli faceva l’occhiolino e poi guardò verso Imma, che aveva lo sguardo di quando si stava trattenendo dal piangere. Allungò una mano a stringere la sua e la tirò verso di sé, in modo che si sedesse accanto a lui.

 

“Grazie… grazie… ti amo!” le sussurrò, dandole un rapido bacio.

 

“Eccallà! Sempre sdolcinati voi due! Menomale che almeno l’arancio è un poco amaro, con tutto sto dolce” ironizzò Rosa, sedendosi dall’unico lato rimasto libero.

 

“Ma… come siete arrivate qua?” le chiese, ignorando la battutina.

 

“Ci ha portate mio marito presto presto col camion, che poi doveva proseguire fino a Brindisi. Torna a prenderci lunedì.”


E poi si trovò sotto al naso un pacchettino quadrato.

 

“Da parte nostra per voi due. Natale e compleanno insieme che… le spese purtroppo sono quelle che sono.”

 

Calogiuri lo aprì e ci trovò un cofanetto per un weekend rilassante, tutto compreso.

 

“Così puoi portarci Imma… magari in una bella SPA.”

 

Si sentì avvampare al solo sentire pronunciare quella parola, lanciando un’occhiata timorosa ad Imma che lo guardò in cagnesco.

 

Ma poi, tre secondi dopo, scoppiò a ridere.


“Eddai, maresciallo, che la SPA con me e solo con me presente la puoi fare. E, anzi, dovremmo andarci tutti insieme in una SPA. Qua a Matera mi hanno sempre detto che ce n’è una bellissima, ma non c’ho mai avuto tempo.”

 

“Ah, io non dico di no, che di rilassare i muscoli, con questa scimmietta che si arrampica ovunque, ne avrei proprio bisogno!”

 

“Però prima vi dobbiamo fare vedere la città e i Sassi, assolutamente.”

 

“E certo! Che dopo averne tanto sentito parlare, mi aspetto che mi facciate da guida turistica!” scherzò Rosaria, per poi allungare pure lei la mano e stringere la mano libera di Imma con un, “seriamente, grazie mille per l’invito e per l’ospitalità!”

 

“E figurati, che un letto si è liberato giusto mo. E comunque aspettatemi qui che c’ho pure io qualcosa per voi.”

 

E tornò con una scatola tutta incartata che porse a Noemi.

 

Gli occhi di sua nipote si illuminarono e, in un battito di ciglia, aveva già strappato tutta la carta, urlando, “bella! Bella!! Tata!!” mentre brandiva tra le mani una scatola con dentro una Barbie.


Sempre con un vestito leopardato, ma stavolta con anche una giacca di pelle nera.

 

“Pare un incrocio tra te e la D’Antonio!” le sussurrò, beccandosi un pizzicotto su una guancia.

 

Poi però, gli venne in mente un grande, grosso, enorme problema, “Rosa… io… non ho pronto nessun regalo per voi… non immaginavo che ci saremmo visti e....”

 

“Ed è colpa mia, che ti ho voluto fare la sorpresa. Quindi questi sono da parte di tutti e due,” proseguì Imma, producendo un’altra busta dalla camicia da notte e dandola a Rosa.

 

Sua sorella la aprì e spalancò gli occhi. E pure i suoi, stavolta, diventarono lucidi, mentre chiedeva, “un… un carnet di biglietti Napoli-Roma e ritorno con l’alta velocità?”

 

“Così ci potete venire a trovare più spesso. Anzi, dovete, visto che i viaggi dovete prenotarli entro sei mesi, e dovete usarli entro fine anno.”

 

Si trovò in mezzo ad un abbraccio tra Imma e sua sorella, mentre sua nipote già saltellava per il letto, facendo gli agguati con Ottavia, che pareva divertirsi un mondo.

 

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“Ho sete! Ho sete!”

 

“Noè,  ma se siamo appena partite!” sospirò Rosaria, che se la teneva in spalla, visto che sarebbe stata una lunga camminata.

 

“C’è un supermercatino qua all’angolo, puoi prenderle un poco d’acqua,” la rassicurò Calogiuri, portandole verso il loro pizzicagnolo di fiducia per le emergenze.

 

Noemi battè le mani con entusiasmo e Rosaria sospirò, “la peste al supermercato e pericolosa!”

 

“E va beh, che problema c’è? La teniamo noi, così fai pure più in fretta!” le rispose, guadagnandosi uno sguardo stupito da Calogiuri ed uno grato da Rosaria, che la mise giù.

 

Subito le presero una manina per parte, prima che, discola com’era, scappasse chissà dove, e Noemi prese a saltellare.


Si lanciò uno sguardo con Calogiuri e la sollevarono per aria tra loro, le gambotte che si muovevano tipo bicicletta e lei che rideva come una matta.

 

“Ma che tenete pure una criatura, mo?”

 

Quella voce fu come una doccia gelida, ed Imma sollevò lo sguardo, incontrando il sopracciglio alzato della signora De Ruggeri, tutta impellicciata e con un sacchetto di carta in mano.

 

Probabilmente anche lei era appena andata a fare la spesa.

 

“Ti è?” domandò Noemi, che evidentemente con le c ancora aveva un po’ di problemi.

 

“La mia ex suocera…” sospirò, spiegando, quando la vide confusa - del resto era in un’età in cui alle suocere manco doveva pensare, beata lei! - “insomma, ero sposata con suo figlio prima di stare con lo zio.”

 

“Che fosse proprio prima è molto opinabile,” ribattè l’altra, con lo sguardo di fuoco che le riservava sempre.


“Cosa vuole die?”

 

“Vuol dire che suo figlio è il papà di Valentina,” rispose, ignorando la battutina e Noemi battè le mani, contenta.

 

“Cioè… la criatura conosce a mia nipote?!” chiese la sua ex suocera, con aria sconvolta.

 

“Sììììì!” gridò Noemi, col suo solito entusiasmo, “simpatica Vaentina!! Io ci voio bene!”

 

“Ma che succede?”

 

Dal supermercatino era uscita pure Rosaria, che li guardava, stranita.

 

“Mamma!! Quetta è la nonna di Vaentina!”

 

Rosaria, a differenza di Noemi, aveva decisamente capito che non fosse una bella notizia.

 

“Quindi lei sarebbe la sorella del maresciallo? In effetti un poco vi somigliate,” commentò la De Ruggeri, con il naso sollevato per aria, prima di sibilare un, “mi chiedo se non si vergogna ad avere un fratello sfasciafamiglie? O pure lei sta senza un marito, visto che non lo vedo?”

 

“Mio marito sta al lavoro, signora, che non c’ha il tempo di spettegolare, lui. La cosa che mi chiedo io invece è se voi ce l'abbiate un marito, visto che pure lui non lo vedo e dovrebbe essere un santo a sopportarvi. E se mia suocera fosse come voi, non mi sarei manco sposata, anche se devo dire che su questo Imma c’ha molta pazienza ed è più accecata dall’amore di me!”

 

“Accecata sì, visto che ha lasciato un gentiluomo come il mio Pietro per quel cafone di suo fratello, anche se il mio Pietro nel cambio ci ha guadagnato. Ma si vede che la cafonaggine è di famiglia: sapesse che figura ha fatto fare a tutti il caro maresciallo qui, a casa del prefetto addirittura, come ha trattato male quella santa donna della nuova fidanzata del mio Pietro!”

 

Signora,” sibilò Rosaria, con l’aria di chi avrebbe voluto mollare uno sganassone alla signora, mentre Noemi fissava la scena con occhi spalancati, “se permettete, mio fratello lo conosco da quando è nato ed è la persona più educata che conosco, soprattutto con le donne. Fin troppo, come dimostrato dal fatto che non vi sta ancora mandando a quel paese. Se c’è stata qualche discussione con questa santa, deve avere fatto qualcosa lei per prima:”

 

“Cinzia ha detto… delle cose orribili su Imma, io l’ho soltanto difesa!” intervenne inaspettatamente Calogiuri, deciso, ed Imma provò un altro moto di orgoglio.


“Cose orribili?! Avrà solamente detto la verità!” ribattè la De Ruggeri, sempre con la puzza sotto al naso.

 

“Mà, Imma! Ma che è tutto sto casino? Che vi sentiranno da in cima al campanile, vi sentiranno! E… e loro chi sono?” domandò, rivolgendosi verso Rosaria e Noemi.

 

“Lui è Pietro, il mio ex marito, insomma, il papà di Valentina. Loro Rosaria, la sorella di Calogiuri, e sua figlia Noemi.”

 

“Quindi sei tu te eri sposato con Imma pima te si fidanzasse co lo zio?”

 

Pietro parve un attimo sorpreso, probabilmente cercando di tradurre la frase, ma poi annuì.

 

“Ma… ma sei gande!!” esclamò, sorpresa, ed era chiaro a tutti che intendesse vecchio.

 

“Forse è lo zio che è un po’ troppo piccolo,” rispose Pietro, non perdendo un colpo, anche se con tono ironico.


“No! Zio è vecchio!” proclamò Noemi, in un modo deciso - e senza storpiature stavolta - che fece ridere tutti, perfino Pietro - tranne la sua ex suocera, ovviamente.

 

“In effetti alla tua età dobbiamo sembrarti tutti decrepiti, mannaggia a te!” le disse, dandole una carezza sui capelli.

 

E poi Noemi si staccò dalla sua mano e si avvicinò di più a Pietro ed al sacchetto della spesa che aveva in mano, guardandoci dentro.

 

“Ma sono dei lettaletta?” gli chiese, fissandolo con occhi degni di Ottavia e Rosaria la prese per una mano e la tirò indietro.

 

“Mi scusi, ma… questa è un pozzo senza fondo ed è golosissima. Non si guarda nelle borse degli altri, signorina!”

 

“Ma lui è gande, pecché li compra?”

 

“Per mia figlia,” spiegò lui, per fortuna bloccandosi prima di lasciarsi scappare che fossero per la calza della Befana che Pietro ancora religiosamente le faceva tutti gli anni.

 

“Ma pue lei è gande!”

 

“Per certe cose non si è mai troppo grandi!” rispose lui con un sorriso e poi tirò fuori una delle due confezioni dei leccalecca, la aprì e gliela porse, chiedendole, “che gusto vuoi?”

 

“Fagola!” commentò lei, battendo le mani e dicendo, “gazie, sei popio gentile! Popio come zio!”

 

Calò un silenzio imbarazzatissimo.

 

“Eh va beh… gli uomini me li sono sempre scelti bene,” commentò poi Imma, cercando di buttarla sull’ironia.

 

“Ma sei proprio senza vergogna!” sibilò sua suocera, con l’aria di chi voleva ricominciare con la tirata, ma Pietro la prese per un braccio e con un “andiamo, mà!” la iniziò ad allontanare da loro, mentre li salutava con una mano.

 

“Un poco mi spiace per lui… sembra proprio una brava persona!” commentò Rosaria con un sospiro ed Imma annuì, mentre Calogiuri sembrava imbarazzato.

 

“Lo è.”

 

“Certo che tu gli uomini te li saprai pure scegliere, ma le suocere proprio no. Tra la vecchia e la nuova è una dura lotta.”

 

Imma rise ma, mentre proseguivano la passeggiata e Calogiuri era corso un poco più avanti con la peste sulle spalle, sussurrò a Rosaria, “senti, ma… per vostra madre… non è che c’è qualche speranza che voglia riallacciare i ponti con tuo fratello? Non è giusto che debba stare lontano da tutti voi solo per lei.”

 

“Mia madre per ora è rimasta sulle sue posizioni, purtroppo. Figurati che al cenone ha fatto finta di niente, neanche un commento sul fatto di avere un posto in meno. C’ha la testa dura!”

 

“Non solo lei!”


“Eh… ma io e soprattutto il fratellino abbiamo preso pure la bontà di papà. Mio fratello ne ha presa fin troppa, invece.”

 

Capendo che fosse un argomento molto delicato, Imma annuì e poi corse pure lei in avanti verso Calogiuri, promettendosi di concentrarsi solo sulla visita turistica.

 

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“Ma che t’è saltato in mente, di trascinarmi via così ed essere tutto gentile con quelli? Con tutto quello che ci hanno fatto!”

 

“Mà, al limite con quello che mi hanno fatto, ma comunque la sorella e la nipote del maresciallo non c’entrano niente: è una bambina!” sospirò, preparandosi all’ennesima lavata di capo materna.

 

Mentre sua madre, infatti, ricominciava con la solita tiritera, si estraniò come faceva sempre per sopravvivenza e la mente andò, inevitabilmente, alla scena a cui aveva assistito, mentre era ancora dentro al supermercato che caricava la spesa sul rullo e sua madre stava uscendo. Aveva notato immediatamente che subito fuori c’erano Imma ed il maresciallo con una bambina.

 

Era stato letteralmente un colpo al cuore, soprattutto quando li aveva visti sollevarla per aria e farla giocare. E poi la bimba aveva gli stessi occhi del maresciallo, sembrava quasi che potesse essere figlia loro ed improvvisamente quella domanda gli era balzata in mente, senza volersene andare.

 

Si era chiesto, per la prima volta, se Imma avrebbe avuto un altro figlio o figlia con il maresciallo. Certo, Imma non era più una ventenne e… e quando ci avevano provato loro ad allargare la famiglia dopo Valentina non era andata bene. Ma il maresciallo era ancora giovane e forse avrebbe voluto diventare padre. E la verità era che gli avrebbe fatto malissimo vederli con un bimbo o una bimba che somigliava ad entrambi, perché quella era l’unica cosa che ancora lo legava ad Imma in modo esclusivo, l’unica che il maresciallo non aveva.

 

Però poi aveva sentito che i toni si stavano alzando e gli era toccato pagare di corsa ed uscire, prima che ci fosse stato un altro disastro, dopo quello successo a Capodanno.

 

Ed era allora che aveva ascoltato la versione del maresciallo, sul fatto che Cinzia avesse detto qualcosa di brutto su Imma. E, pure se non avrebbe voluto farlo, una parte di lui aveva iniziato a chiedersi se fosse vero. Non che si fidasse della parola del maresciallo, per carità, ma… sapeva che Cinzia non aveva una grande opinione di Imma, soprattutto dopo i vari pranzi e cene trascorsi con lei e sua madre durante le festività. Ed il maresciallo, in effetti, solitamente era in apparenza educatissimo e gentilissimo, anzi, gli aveva sempre dato sui nervi proprio per quello.

 

E, non per la prima volta in quei giorni, si chiese che cosa fosse più giusto fare con Cinzia.

 

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“Semba pesepe!”

 

Quel commento, in particolare, normalmente le faceva scattare istinti omicidi nei confronti del turista molto originale che lo pronunciava.

 

Ma l’incanto di Noemi di fronte a Matera, soprattutto ora che il sole era tramontato, con tutte le luci, la inteneriva e basta. I suoi “bello, bello!” che avevano sostituito gli storici “beo! Beo!” li avevano accompagnati per tutto il giro, fatto portandosela a turno in braccio o in spalla, prevalentemente, anche se un poco aveva pure camminato.

 

Il risultato era che Noemi era felice come ‘na pasqua, mentre loro tre erano esausti e si stavano avviando stancamente verso casa, Calogiuri che faceva lo sforzo di portarla in spalla anche per l’ultimo tratto di strada.

 

Finalmente si parò loro davanti, come un miraggio, il condominio di sua madre, anche se c’era un’auto parcheggiata subito sotto, malissimo, che ingombrava la via.

 

Calogiuri e pure Rosa inchiodarono bruscamente sui loro passi ed Imma li guardò, stranita, “che c’è? Vi siete incantati?”

 

Un “nonna!” gioioso di Noemi le fece venire un moto di nausea - ma tutto quel giorno?! - e, voltandosi, riconobbe effettivamente la madre di Calogiuri che scendeva dall’auto, dal lato del passeggero, mentre da quello del guidatore emergeva un signore con i capelli sale e pepe e gli occhi azzurrissimi, dall’aria buona buona, le spalle un poco curve e la pelle cotta al sole, che doveva essere il padre.

 

“Mà, ma che ci fai qua?” domandarono all’unisono sia Calogiuri che Rosaria.

 

“Ca’ accoglienza, eh, grazie assai!” rispose la sua futura suocera, “nun me ‘o avevi dett’ mica che venivi accà, da chisto fetent’ e metti pure ‘e foto ca’ tutto o’ pais vere ca’ ca’ staje!”

 

“E quindi per questo qua stai? Perché ho messo una foto con loro sui social?!” domandò Rosaria, con tono incredulo.

 

Effettivamente si erano fatti una foto ricordo tutti insieme con alle spalle i Sassi, scattata da un turista, e probabilmente Rosaria doveva averla postata, come avrebbe detto Valentina.

 

Certo che il tutto era avvenuto poche ore prima e Grottaminarda non era proprio dietro l’angolo, quindi la reazione della signora Calogiuri era stata di una rapidità da primato.

 

“No, pecché nun me facite fessa a me! Mo tutti sanno che stai ospite di chista! Nun ‘o posso accettare!”

 

“Mà, e perché quando vado a Roma, secondo te, da chi sto ospite? Che cambia?!”

 

“Nun staije da chill disgraziat de frate’tò?”

 

“Mà, guarda che Imma ed io sono mesi che conviviamo. Ma, visto che sei stata tu che hai voluto tagliare i ponti, non mi è parso il caso di fare annunci.”

 

Per tutta risposta, la madre di Calogiuri si artigliò il petto, con aria melodrammatica, che poteva veramente essere uscita da qualche melò napoletano tradizionale. Gli altri parevano tutti imbarazzati, tranne la povera Noemi che non capiva.

 

“Hai sentito?!” esclamò, rivolta al marito, “convivon’ into peccato! Fori dal matrimonio! Poi cu na’ che è sposata!”

 

“Veramente è qualche mese che sono pure divorziata, signora,” intervenne, mentre non sapeva se ridere o se piangere.

 

I De Filippo sarebbero stati orgogliosi della signora Calogiuri.

 

“E ca’ cambia? Pure se vi dovist’ sposare, nun putiss farlo in chiesa! Quindi nel peccato state! Sta cosa non tiene rimedio!”

 

“Ma pue noi viviamo tutti insieme. Ma alloa è pettato?” saltò su all’improvviso Noemi, con tono serio e confuso, facendoli nuovamente scoppiare tutti a ridere.

 

Tranne, come sempre, la suocera.

 

“Meno male che ci stai tu!” le sussurrò, dandole una carezza sul viso e la bimba si sporse dalle braccia di Calogiuri per farsi prendere in braccio da lei.

 

Pur temendo un poco la reazione della carissima suocera, se la prese più che volentieri.

 

“Pure ‘a criatura te sì portatì ‘a parte toja mo? Nun t’è bastat’ arretire a miè figli?”

 

“Tosa vuol die aetie?”

 

“Non vuol dire niente, Noè, credo che nonna intendesse irretire. E vuol dire che mi sono conquistata tua mamma e tuo zio, che mi vogliono bene,” le rispose, togliendosi qualche sassolino dalle scarpe leopardate.

 

“Pue io ti voio bene, tanto tanto!” esclamò Noemi, abbracciandola, e la signora Calogiuri, ove possibile, fu ancora più furente.

 

Pareva quasi fumare dalle orecchie, che altro che Maga Magò nel film Disney con quel cretino di Semola!

 

“Aia’ sta lontan’ ra mia nipote! Rosa, aia’ scegliere! O nuje o loro!”

 

Fu un macigno nello stomaco, mentre ebbe un senso fortissimo di dejavu. Era esattamente come ormai quasi un anno prima, ma molto peggio.

 

“Mà, se non vuoi più vedere tua nipote, non devi fare altro che dirlo!” sibiò Rosaria, con i pugni stretti, mentre Calogiuri era impietrito e suo padre pure.


“Ti non dobbiamo vedee?”

 

“Tu vuoi vere anco’ a nonna, sì?”

 

“E sì!” esclamò Noemi, confusa, guardando verso mamma e zio, mentre la suocera aveva un’aria trionfante.

 

“Ma vuoi vedere pure lo zio e Imma, vero?” le chiese Rosa, non perdendo un colpo.


“Cetto!! Vojo vedee zio e tata!” proclamò e le si aggrappò ancora di più al collo.


“Mà, come hai visto tua nipote vuole bene a tutti quanti voi. Ed io non accetto ricatti, lo sai. Se non la vuoi vedere, ti ripeto, sono affari tuoi, ma io a vedere mio fratello non ci rinuncio.”

 

“E comm pens’ e fa’ cu ‘a criatura, eh? Che manco ‘na casa tieni!”

 

“Se vai avanti così, mà, una casa me la cerco e sai che ti dico? Me la cerco a Roma. Tanto mio marito gira sempre e c’avrei pure più opportunità di lavoro!”

 

“E cu’ quali soldi? E a’ criatur’ chi ‘a tien?”

 

“Per i soldi posso trovarmi un lavoro, mà, e pagarmi pure una babysitter e poi tra poco Noemi potrà andare all’asilo. Non ti conviene sfidarmi e lo sai! E non esiste che rinuncio a Ippà soltanto perché te sei rimasta al medioevo!”

 

“Si ‘e cose stanno accussì ce ne putimme pure ì!” urlò la madre, prendendo per mano il marito, trascinandolo verso la macchina, “chisti svergognat si arrangiasser tra è loro!”

 

“Ma e Noemi?!” provò a domandare il pover’uomo, con aria disperata.

 

“Papà, se ti importa davvero di tua nipote ti devi svegliare! Non potete permettere a mamma di comandare pure per voi! Pensate con la testa vostra!” intervenne Calogiuri, con una decisione che la commosse profondamente.

 

“Jamme!” urlò ancora più forte la donna, continuando a trascinarlo.

 

“Pecché nonna ulla? Non capisco!”

 

“Non c’è niente da capire, Noè, non ha senso!” rispose Rosaria, accarezzando la testa della figlia, mentre le portiere si richiudevano.

 

La macchina partì, anche se con un poco di incertezza e non si sarebbe mai dimenticata il momento esatto in cui i due fratelli, l’uno lo specchio dell’altra, si guardarono e si abbracciarono, scoppiando in lacrime.

 

Il “pecché piangono?” di Noemi fu l’ultima stretta al cuore, mentre pensava che Rosaria avesse ragione: non c’era una risposta del perché gli esseri umani facessero delle cose del genere in nome di convenzioni stabilite da loro stessi.

 

E, mentre vedeva le vicine in agguato alle finestre, a spiare la scena, non sapeva se fosse più forte la voglia di strozzare la madre di Calogiuri o la preoccupazione ed il senso di colpa su come fare mo ad aiutare lui e Rosaria.

 

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“Finalmente si è addormentata.”

 

Stavano sul divano, in attesa di Rosa che, dopo una rapida cena, in cui Noemi era stata l’unica ad avere appetito, aveva messo a letto la bimba.

 

Li raggiunse e si mise sulla poltrona.

 

“Cosa pensi di fare?” chiese Calogiuri alla sorella.

 

“Io a farmi ricattare non ci penso nemmeno. A casa di mamma non ci torno, voglio vedere se magari le viene un poco di strizza e si sveglia!”

 

“Però non voglio che tagliate i legami con la famiglia e vi mettiate nei casini per me,” intervenne, perché sapeva che fosse la cosa giusta da fare, “Rosa, tu tieni pure una bimba piccola, un marito, pensaci bene.”

 

“Ci ho pensato bene e non è colpa tua, ma di mà. Che stiamo in una dittatura? Se nessuno le dice mai di no sarà sempre peggio. E non voglio che pure Noemi cresce con l’idea che è giusto che una madre tratta i figli in questo modo o farsi trattare in questo modo. Parlerò con mio marito e… in qualche modo faremo. In ogni caso, per ora a Grottaminarda non ci torno. Magari posso trovarmi un bed and breakfast economico a Roma e cercare un appartamento e….”

 

“Ma non se ne parla nemmeno! Se vieni a Roma sei nostra ospite finché non trovi un alloggio definitivo!” sentenziò, sapendo benissimo oltretutto le condizioni economiche di Rosaria, “e nel frattempo lo cerchiamo e-”


“Ma io non voglio starvi addosso per troppo tempo. Non è giusto: voglio pagarmi vitto e alloggio. Devo cercarmi un lavoro ed un appartamento nostro, pure solo un monolocale andrebbe bene.”

 

Si guardò con Calogiuri: chiedere a Valentina di rinunciare al suo monolocale ed alla sua indipendenza non sarebbe stato giusto. Dovevano trovare un’altra soluzione.

 

“Purtroppo non ho molte conoscenze a Roma, ancora, quindi potrebbe volerci un poco, ma mi posso informare e-”

 

“Non con Mancini!” intervenne Calogiuri, con un tono geloso che da un lato le faceva piacere, ma le dava pure un poco sui nervi.

 

“E allora tu non con la gattamorta!”

 

“Ma conosce un sacco di gente, lo sai.”

 

“E pure Mancini, allora! E dai, Calogiuri, domandare per un appartamento non è un reato, no? Sul lavoro da estetista, mi sa che la gattamorta invece è più ferrata.”

 

“Considerato quanto si cura il procuratore capo, non è detto,” ribattè Calogiuri, non perdendo un colpo.

 

“Non voglio che discutete per me! E tu, se ti avvicini ancora a quella Ciao Povery sei morto!” intimò al fratello, “e poi un lavoro me lo posso cercare pure da me. Roma non è Grottaminarda ed io mi adatto, lo sai.”

 

“Lo so, ma troveremo una soluzione. E nel frattempo sei nostra ospite. Magari mà rinsavisce pure e ti farai solo una breve vacanza a Roma.”

 

Imma sorrise ed annuì, sperando veramente che così fosse, anche se, vista la testardaggine dei componenti della famiglia Calogiuri che aveva conosciuto, un poco ne dubitava.

 

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“Siamo qui!”

 

La voce squillantissima di Diana le provocò una fitta di mal di testa.

 

Lei e Calogiuri non avevano quasi chiuso occhio e non per motivi piacevoli, ma per la preoccupazione sulle sorti di Rosaria e della sua famiglia.

 

Rosaria aveva pure sentito il marito che però non pareva molto convinto della scelta della moglie e questo non aveva che peggiorato il loro stato d’animo.

 

Calogiuri si era rigirato come una cotoletta nel letto e pure lei, finché si erano abbracciati ed erano rimasti così, immobili, cercando di riposare il più possibile.

 

E mo le conseguenze si sentivano, nonostante l’aria frizzante della Murgia ed il bel tempo per la stagione. Ma non poteva cancellare questo appuntamento con Diana, anche perché non era da sola.

 

“Maresciallo! Dottoressa!” li salutò Capozza, tenendo per mano una bimba che, per sua fortuna, sembrava avere preso pochissimo dal padre, almeno esteticamente.

 

Pareva un poco timida e gli stava appiccicata.

 

“Ciao!” le sorrise Calogiuri, come sempre bravissimo con i piccoli, accovacciandosi davanti a lei, “questa è Imma, questa mia sorella Rosa e questa è mia nipote Noemi. C’avete più o meno la stessa età.”

 

“Tao!!” esclamò Noemi, che invece teneva l’argento vivo addosso, sorridendo e dando la manina all’altra bimba, “sono Noemi, come ti tiami?”

 

“Tina.”

 

Dopo una stretta di mano da scioglimento, Noemi le chiese, “e loro ti sono?”

 

“Gianni e Diana, amici della mia mamma!”

 

Ad Imma venne un poco una stretta al cuore di fronte all’espressione di Capozza: evidentemente ancora non le avevano svelato che fosse suo padre.

 

Noemi diede la manina pure a loro, e poi saltellò come al suo solito, mentre Calogiuri aggiungeva, “e amici nostri.”

 

“Allora, pronte per la visita alla Murgia? Ci sono un sacco di posti bellissimi, chi vuole vedere le grotte?” chiese Diana, che con le bimbe si trasformava proprio, quasi peggio di Calogiuri.


“Sììììì!!!!” fu il solito ululato di Noemi, a cui però si aggiunse anche uno assai più mite di Tina.

 

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“Meno male che vanno d’accordo!”

 

“Noemi va d’accordo quasi con tutti, è una giocherellona!”

 

“Eh, Tina invece è un poco timida, poi sta in un periodo particolare… ma è una storia luuuunga!” rispose Diana con un sospiro.

 

“Però mi sembra che vi voglia bene e si sia affezionata a voi,” provò a rassicurarla Imma e Diana annuì, mentre osservavano con attenzione le due bimbe - ed i due bimbi un poco troppo cresciuti - che giocavano ad acchiapparella vicino a delle grandi rocce poco distanti.

 

“Sì, ma… sono stati dei mesi molto difficili,” sospirò nuovamente Diana, “e lo saranno ancora di più quelli a venire, quando Tina scoprirà la verità, povera figlia!”

 

“Ma non lo so… ha due anni… a quell’età i bambini non hanno tutti i pregiudizi che abbiamo noi. Certo, le mancherà il suo papà originale ma… secondo me sarà meno peggio di quello che pensi. Vedo com’è Noemi: non c’ha filtri e tante cose su cui noi facciamo tragedie semplicemente per lei non hanno senso.”

 

“Eh, speriamo, guarda!”

 

“Comunque pure per noi saranno mesi tosti…” commentò poi Rosa ed Imma non potè fare a meno di provare un’altra fitta di preoccupazione, “non so se Imma ti ha accennato a cosa è successo con mia madre.”

 

“No, che è successo?”

 

“Che, dopo aver tagliato i ponti con mio fratello, mo voleva lo facessi pure io. A cedere ai ricatti non ci sto e quindi le ho detto che avrei trovato casa altrove, finché lei non avesse cambiato atteggiamento. Ma io e Noemi vivevamo a casa dei miei, quindi… mo devo capire come fare a cercarmi un posto dove stare e magari un lavoro a Roma.”

 

“Pensiamo di ospitarle finché non avranno una sistemazione,” precisò Imma, sorprendendosi un poco di queste rivelazioni di Rosaria a Diana, dopo così poco che si conoscevano. Ma del resto le persone normali ci mettevano poco a fare amicizia, non come lei che per trovarsi definitivamente con Diana le ci erano voluti trent’anni.

 

“Ma tu che lavoro fai a Grottaminarda?”

 

“Mo la mamma. Prima facevo l’estetista, sono diplomata per quello. Avevo ancora ogni tanto qualche cliente da cui andavo a casa, se teneva bisogno, ma… sono quasi tre anni che non lavoro veramente.”

 

“Pure crescersi una figlia non è che non sia un lavoro! E comunque… ma perché non resti qua, almeno finché non trovate una soluzione a Roma? Qua una casa ce l’avresti, no, che tanto Imma tiene casa libera. No, Imma?”

 

“Beh, sì, certo,” rispose, sorpresa da quella proposta, “ma dovrebbe stare qua da sola con Noemi, che suo marito è sempre in giro coi camion e-”

 

“E che problema c’è? Possiamo vederci noi, quando vuole, anzi, che se Tina ha un’amica sarebbe pure meglio per lei, povera creatura! Per l’estetista, sai che sono molto amica di quella da cui vado di solito, che tiene il centro estetico più grosso di Matera-”

 

“Sì, ‘na beauty farm di fama internazionale, mo!” rise Imma: Diana era sempre esagerata nelle descrizioni.

 

“E dai, Imma, su, tiene comunque tante clienti, no? Posso chiedere se hanno bisogno di una persona in più!”

 

“La ringrazio ma… le raccomandazioni mi hanno sempre imbarazzata tanto!” rispose Rosa ed Imma avrebbe voluto abbracciarla.

 

“Ma che raccomandazioni! Peggio di Imma sei! Alla fine sarebbe una prova, no? Se sei brava ti tengono, se no, no. Altrimenti posso vedere tra le amiche mie, se qualcuna ha bisogno di qualche trattamento a casa-”

 

“Con regolare partita IVA, ricevute fiscali e tutto, immagino, Diana? Che qua ci manca solo lo scandalo della sorella di un maresciallo dei carabinieri, di questo maresciallo in particolare, che evade il fisco, e stiamo a posto!”

 

“Ovviamente! Certo che tu, Imma, un cecio in bocca mai, eh?!” le chiese, picchiandosi il pugno su una mano, come a dire che aveva la testa dura, ma Rosa scoppiò a ridere.

 

“Tranquilla, Imma: non voglio mettere il fratellino nei guai. E comunque… se Imma si fidasse a lasciarmi qua da sola a casa sua… ci potrei pensare… così non peserei troppo su di voi, finché non trovo qualcosa a Roma.”

 

“Ma certo che mi fido, ma che scherzi!” esclamò, anche perché i mobili erano quasi tutti da rinnovare, quindi la peste non avrebbe potuto scassarli più di tanto, “pensaci bene pure con tuo marito, che tanto abbiamo ancora un paio di giorni prima di dover rientrare a Roma.”

 

“Però se lavoro dovrei trovare anche qualcuno che mi tenga la bimba.”

 

“E che problema c’è? Se all’asilo non la fanno accedere ho due mie amiche che tengono un nido privato, ci metto una buona parola, non sono care. E se invece fai giusto qualche ora qua e là ti posso consigliare una baby sitter fantastica!”

 

“Diana è meglio del Gazzettino di Matera, altro che annunci economici!” ironizzò Imma, scuotendo il capo.

 

“Sei molto gentile, davvero, non so cosa dire…” esclamò Rosaria, un poco in imbarazzo.


“Ma che gentile! Sono interessata! Sia per le bambine, che si sono trovate, sia perché, se magari ti innamori di Matera e decidi di stare qua, Imma c’ha un motivo in più per tornarci definitivamente.”

 

“Diana!” esclamò, dandole un pizzicotto sul braccio, ma poi se la abbracciò, incurante dei presenti: la verità era che sapere che Diana le volesse così bene era, insieme a Calogiuri e al rapporto ritrovato con Valentina, la cosa più bella di quegli ultimi anni pieni di cambiamenti.

 

*********************************************************************************************************

 

Sospirò, componendo quel numero.

 

Sapeva di rischiare: un rifiuto, una delusione, l’ennesima.

 

Ma non poteva più evitarlo.

 

Era pomeriggio e… un orario in cui pure una sua chiamata non gli avrebbe dovuto creare problemi e litigi con lei, nonostante il periodo festivo, in cui era molto probabile che fossero insieme pure in quel momento.

 

Selezionò il nominativo ed il telefono squillò.

 

Una, due, tre volte.


Stava per mettere giù, quando una voce inconfondibile e molto sorpresa gli chiese, “Irene?”

 

“Lo so che non ti avrei dovuto chiamare ma… ho bisogno d’aiuto e tu sei l’unica persona a cui posso chiedere.”

 

Un attimo di silenzio, quello che le sembrò un misto tra un sospiro ed un sorriso. Poteva quasi vederlo, con l’espressione esatta che stava facendo.

 

“Sei con lei?”

 

“No, no. Posso parlare. Solo che… non mi aspettavo questa telefonata.”

 

“Neanche io. Neanche io.”




 

Note dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo capitolo. Come avete visto sono successi un po’ di casini e il prossimo si aprirà con un salto temporale, un po’ di giallo e… un’altra bella dose di casini da risolvere, oltre al proseguimento di alcuni iniziati in questo capitolo ma le cui conseguenze potrebbero estendersi a macchia d’olio.

Vi ringrazio tantissimo per avermi letta fin qui, spero che la storia si mantenga interessante, vi preannuncio che i prossimi capitoli saranno pieni di salti temporali, fino ad arrivare all’ultimo giallo e ad un Grande Casino che scuoterà questa storia ed i personaggi nel profondo, che altro che montagne russe! Ma nel frattempo ci saranno anche alcuni momenti più sereni.

Come sempre, i vostri pareri mi sono preziosissimi per capire come sto andando e quindi se vorrete farmi sapere come va e, soprattutto, se i capitoli sono ancora coinvolgenti, vi ringrazio di cuore fin da ora.

Il prossimo giungerà esattamente tra due settimane, domenica 3 gennaio, quando ci saremo finalmente lasciati questo 2020 alle spalle. Potrebbe però, esserci una sorpresa natalizia domenica 27 dicembre. Sarà una cosa a se stante da questa storia, quindi se riuscirò a terminarla per tempo la troverete cliccando sul mio profilo di autrice.

Grazie mille ancora e auguro a tutti voi e ai vostri cari un buon natale e un anno nuovo che ci possa portare a dei mesi più sereni di quelli appena trascorsi.

 

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Capitolo 52
*** La Costruzione di Un Amore ***


Nessun Alibi


Capitolo 52 - La Costruzione di un Amore


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Ma… ma… lei è la sorella del maresciallo, giusto?”

 

Se l’era trovata davanti tra pelati e sottoli. Gli era sembrata subito familiare, ma poi l’aveva riconosciuta definitivamente dagli occhi, così simili a quelli del fratello, e soprattutto dalla bimba scalmanata nel seggiolino del carrello.

 

“Il marito - cioè l’ex marito di Imma!” rispose la ragazza, parendogli un poco in imbarazzo, “Pietro, giusto?”

 

“Sì, e lei Rosaria?”

 

“Mi dia del tu, per favore, che il lei qua non serve,” rispose, guardandosi però in giro, soprattutto in un punto alle sue spalle.


E fu allora che Pietro capì e gli venne da sorridere.


“Se è per mia madre, oggi non c’è. Faccio la spesa per me,” le spiegò e Rosaria sembrò immediatamente sollevata, “però allora dammi pure tu del tu, che va bene che sono vecchio ma-”

 

“Ma che vecchio e vecchio! E poi-” provò a dire, perché la piccoletta saltò su e la interruppe, tirandolo per il cappotto con un, “tao, hai letteletta?!” che lo fece ridere.


“Noemi! Non si chiedono le cose se non vengono offerte e poi non è questo il modo di salutare. Scusala, ma se potesse mangerebbe sempre. E solo dolci.”


“Eh, c’ho presente… tanti anni fa ho avuto pure io una bimba di quell’età. Ma forse è meglio di quando poi arriva l’adolescenza e non vogliono più mangiare, o per la linea, o per protesta, o perché sono tristi,” sospirò, ricordando bene le serate passate a bussare alla porta di Valentina con un piatto in mano, mentre Imma minacciava di sfondarla la porta.

 

E poi però il pensiero, da Valentina passò a un’altra cosa.


“Ma come mai sei qui? Che non è mica periodo di ferie questo. Imma e… e tuo fratello sono in città?”

 

“No… è che… è qualche settimana che sto a casa di Imma, cioè della madre di Imma… va beh insomma… sto qua da lei, in attesa di trovare una sistemazione più stabile e un lavoro a Roma. Imma e mio fratello però mo saranno ancora al lavoro nella capitale.”

 

“Ma scusa, ma… prima dove vivevi? Non sono affari miei, lo so, ma… per trasferirti di colpo a Matera, da sola….”

 

“Diciamo che è una storia lunga ma… stavo a Grottaminarda, a casa di mia madre. Sai… come avrai capito la nostra famiglia non è che navighi nell’oro. Non avere l’affitto da pagare ci faceva comodo ma… vivere con mia madre stava diventando pesante, che è quasi peggio della tua, con tutto il rispetto.”

 

Gli venne di nuovo da ridere: effettivamente sua madre quel giorno con Rosaria e la figlia aveva dato il peggio di sé.

 

“Non so come sia tua madre, ma… ti capisco. Non vivo con la mia ormai da tanti anni, ma ormai mi si presenta a casa ogni due per tre, con qualsiasi scusa. Quando… quando stavo ancora con Imma, che non si sopportavano, veniva di meno, ma mo sta più a casa mia che a casa sua.”

 

“E allora basta che ti trovi una fidanzata che tua madre non gradisce e il problema è risolto!”

 

Dovette trattenere l’ennesima risata: Rosaria era simpatica, senza peli sulla lingua, molto diversa da quel posapiano del fratello.


“Diciamo che… mi frequento già con una persona, che però a mia madre piace fin troppo.”

 

“La famosa Cinzia?” gli chiese e vide chiaramente il volto di lei scurirsi e come un lampo negli occhi azzurri.

 

“Sì.”


“Senti, sta Cinzia deve piacere a te ma… capisco che tu ce l’abbia con mio fratello, pure io al tuo posto ce l’avrei con lui, credo, anche se alla fine la decisione è di Imma, ma… sta Cinzia perché deve fare tutte ste sceneggiate e mettere mio fratello nei guai? Che c’entra lei?”

 

“Tu sei sicura che sia andata così?”


“Senti, mio fratello c’ha tanti difetti, ma con le donne è talmente educato che figurati che tutte le vecchiette di Grottaminarda, se lo beccavano per strada, gli facevano fare tremila commissioni, che lui non sapeva dire di no. Non alzerebbe mai la voce con una donna, se non fosse successo qualcosa di grave. Con nostra madre, dopo anni di essere trattato di merda, ha sbottato solo quando gli ha toccato Imma… quindi….”

 

Sospirò: effettivamente era sempre più convinto che Rosaria avesse ragione. Poi se sta madre era così terribile… sapeva bene anche lui come si cresce timorosi e timorati nei confronti del genere femminile, con una madre del genere.

 

E la verità era che si chiedeva sempre più anche lui che c’entrasse Cinzia con lui, a parte la passione per il Sax.

 

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“Mi sa che siamo l’argomento del giorno.”

 

Erano appena usciti dal supermercato, carichi di spesa, e dalla cassiera alle signore in fila, tutti li fissavano.

 

“Eh… qua è peggio che stare in vetrina. Mi conoscono e… se vedono qualcuno di qua con una persona nuova, soprattutto dell’altro sesso, scatta subito il pettegolezzo.”

 

“Grottaminarda è uguale. Certo, Matera è più grande, mi aspettavo fosse meglio.”

 

“Ma qua alla fine si conoscono tutti, siamo solamente un paese un po’ troppo cresciuto,” sospirò, prima di estrarre dal sacchetto una confezione di leccalecca ed una di cioccolatini che aveva comprato di nascosto, mentre Rosaria era distratta con Noemi. Li porse alla piccola, prima che la madre potesse protestare.


“Questi sono per te. Ma devi sempre ubbidire alla mamma e mangiare solo quelli che ti dice lei, promesso?”

 

“Sìììììììììì!!” urlò, con quell’entusiasmo che solo a quell’età si poteva avere e si sentì afferrare per un polpaccio, con lei che gli si attaccava tipo baby koala.

 

Provò come una specie di strana sensazione al petto: i bimbi erano proprio meravigliosi, sempre.

 

E gli mancava tantissimo averci a che fare.

 

“Non dovevi, veramente!” lo redarguì Rosaria, ma lui scosse il capo.

 

“Diciamo che è un regalo di benvenuto a Matera.”

 

La ragazza spalancò gli occhi, come se fosse colpita, “non è da tutti essere così gentili… soprattutto non quando di mezzo c’è un matrimonio finito male.”

 

“Le colpe dei fratelli non ricadano sulle sorelle. O quelle degli zii sulle nipoti. Più o meno diceva così, no?”

 

“Più o meno…”

 

“Ascolta, ma c’hai qualcuno che ti dia una mano qua a Matera? Conosci qualcuno, se succede qualcosa?”

 

“A parte te e tua madre?” ironizzò lei, facendolo di nuovo sorridere, “ci sono Diana e Capozza che sono molto gentili, ci vediamo almeno una volta a settimana, pure di più. In caso di emergenza, mi hanno detto che posso chiamarli a qualsiasi orario.”

 

“Bene!” le sorrise, rassicurato che Imma non l’avesse mollata lì senza alcun aiuto, pur mentre si chiedeva dove fosse il di lei marito.

 

Ma alla fine non erano affari suoi.

 

Quindi si congedò, dopo che la bimba gli ebbe stritolato per un’ultima volta il polpaccio.

 

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“Amore! Che cucini di buono?”

 

Si sentì abbracciare da dietro e si irrigidì. Si voltò e vide i suoi occhi azzurri, confusi.

 

“Non mi avevi detto che venivi stasera,” fece notare, provando un senso di fastidio che non avrebbe saputo spiegare.

 

“Perché, ho bisogno del permesso ora per vederti?” ribatté, con aria scherzosa.

 

“Mo ho preparato solo per me. Dovresti avvisarmi, almeno.”

 

“E va beh, che sarà mai? Tanto qualcosa di buono si cucina in fretta, no?”

 

Tentò di abbracciarlo nuovamente, ma si ritrasse.

 

“Pietro, si può sapere che ti succede stasera?” gli domandò, preoccupata.

 

“Dimmi la verità. Hai insultato tu per prima Imma, non è vero?” le chiese, perché aveva bisogno della risposta.

 

“Ma di che stai parlando?”

 

“Di capodanno, a casa del prefetto. Il maresciallo ha reagito in quel modo con te perché tu avevi insultato Imma, non è così?”

 

Per un secondo, lesse nello sguardo di Cinzia che aveva ragione, ma poi lei rispose subito, “e chi te l’ha detto, eh? Imma? O il maresciallo? Lui racconta quello che gli fa comodo e lei lo difende sempre, lo sai.”

 

“No, un testimone oculare,” bluffò, perché che altro poteva dire.

 

“E chi? Quello stordito del brigadiere, che è amico del maresciallo? Si coprono a vicenda, è chiaro!”

 

“No, ma ci stavamo registrando al karaoke,” mentì di nuovo, chiedendosi da dove gli venisse quella capacità. Forse a furia di vivere con sua madre prima, con Imma poi, e mo di avere a che fare con Cinzia, qualcosa aveva imparato, “mo è stata recuperata la registrazione e-”

 

“Avevo bevuto troppo e… non sono riuscita a trattenermi!”

 

Ecco, l’aveva ammesso.

 

Un macigno gli si mise sullo stomaco, insieme ad un senso di rabbia. Non sapeva più se verso di lei o verso se stesso per esserci cascato prima e per non esserne stupito ora.

 

“Ma che c’entra il maresciallo, mo? Gli hai fatto fare la figura del violento con il prefetto. Quello è il lavoro suo che ci va di mezzo, non è giusto.”

 

“Non è giusto?! Ed è stato giusto farsela con quella che era tua moglie di nascosto, prenderti in giro? Io l’ho fatto per te! Lo so che lo odi e pensavo di farti un favore!” esclamò lei, scavando nuovamente nelle ferite mai del tutto rimarginate.

 

Ma non le credeva più.

 

“Io non lo odio. Mi dà fastidio vederlo con Imma, ma Imma se n’è andata con le gambe sue, mica ce l’ha costretta. E al massimo, se qualcuno può fare colpi di testa nei confronti del maresciallo sono io, non di certo tu! Dimmi la verità, perché lo hai fatto?”

 

“La colpa è solo tua!” gridò Cinzia, incrociando le braccia, “tua che pendi sempre dalle labbra di Imma, ogni volta, pure quella sera! Che pensi che non mi sono accorta di come la guardavi? Dopo tutto quello che ti ha fatto?! E allora gliel’ho chiesto al maresciallo, che cosa ci trovasse in lei. E sì, ho criticato il modo in cui si veste, che sfiora l’indecenza. Ma se tu non mi continuassi a farmi dubitare di noi due, mi comporterei diversamente. Per te ho fatto di tutto in questi anni, ti sono stata vicino ogni volta che avevi bisogno, e tu mi ripaghi così… sbavando sulla tua ex come la vedi?!”

 

Sentì una fitta di senso di colpa perché sì, Imma quella sera era bellissima, con un abito che sottolineava tutto e che gli aveva fatto ricordare le sottovesti che una volta indossava solo per lui, in casa. E l’occhio qualche volta poteva essergli caduto, anche se sapeva benissimo che quella volta non si era vestita così per lui, purtroppo. E che non l’avrebbe fatto mai più.

 

Ed in effetti Cinzia con lui era stata paziente - al di là di quando si alleava con sua madre - molto paziente, a sopportare tutte le sue titubanze ed il suo malessere per un’altra donna, che non era ancora passato del tutto.

 

“Ma al limite puoi prendertela con me e sfogarti con me, non con persone che non c’entrano niente!” le disse, con tono però più calmo.

 

“Lo so. E la prossima volta lo farò,” gli disse, con un tono che era a metà tra una promessa e una minaccia, “e non metterò più altre persone in mezzo.”

 

Gli piaceva quando tirava fuori il carattere, anche se lo faceva troppo raramente.

 

Sospirò e con un, “dai, mettiti a tavola, che ti preparo qualcosa!” chiuse la discussione, ricevendone in cambio un sorriso com’era da tanto che non ne vedeva da Cinzia ed un bacio che però non gli faceva l’effetto che gli faceva all’inizio. E, soprattutto, quello che gli avevano fatto altri baci in passato, con quella che aveva pensato fosse la donna della sua vita.

 

Ma ormai si era rassegnato che non avrebbe mai più potuto provare per nessuna quello che aveva provato per Imma.

 

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“Fisso la prossima udienza per il dieci settembre.”

 

Sei mesi! Sei mesi di rinvio. Non che fossero tanti, per la giustizia italiana, purtroppo ma… questo appello si preannunciava lunghissimo, una battaglia di nervi e di resistenza.

 

L’avvocato di Romaniello puntava principalmente a far invalidare le testimonianze di chi aveva confessato, sostenendo che fossero state estorte dopo una lunga persecuzione, in cambio di riduzioni di pena.

 

Certo, c’erano pure tutte le prove documentali, che a logica sarebbero state schiaccianti ma… in Italia l’incertezza processuale era altissima, specie quando c’erano di mezzo grandi avvocati e tanti soldi.

 

Irene si difendeva bene, ma le ci voleva qualcosa per tornare all’attacco e per mettere a tacere la difesa.

 

Si guardò con Calogiuri, che pareva preoccupato, e a ragione.

 

Uscirono dall’aula e raggiunsero l’ufficio usato dalla cara collega per cambiarsi, venendo fatti passare dalla guardia.

 

La vide entrare dopo poco, regale nella toga svolazzante. Sembrava un misto tra una regina di un film in costume ed un’insegnante di Harry Potter. Solo più giovane e bella.

 

“Il giudice la sta tirando troppo per le lunghe. Non mi piace per niente. Anche se… questo potrebbe giocare a nostro favore.”

 

“In che senso?” le domandò, notando come il tubino che indossava sotto la toga diventasse ancora più corto e ancora più attillato sul petto quando se la levò.

 

Ma, per fortuna, Calogiuri, sembrava più concentrato sul prenderle la toga ed appenderla che altro.

 

“Nel senso che… l’asso nella manica di cui vi parlavo… purtroppo il procuratore di Milano è ancora reticente ma… ho altre strade da percorrere, che stanno già venendo percorse.”

 

La Sfinge in confronto era diretta come Noemi.

 

“Cioè?” ripetè, cercando di contenere l’irritazione.

 

“Cioè… ho mandato qualcuno a indagare a Milano, in modo discreto. Normalmente lo avrei proposto a te,” disse, rivolgendosi a Calogiuri, “ma ormai con quelle foto ti sei bruciato. Quindi ho chiesto al capitano Ranieri, ve lo ricordate, no? Lui Milano la conosce benissimo e ci ha spedito qualcuno di cui si fida, sotto copertura. E credo che prossimamente ci andrà pure lui. Sono sicura che sul processo di Milano potremmo aprire… altro che il vaso di Pandora! E a quel punto un altro cambio di avvocato… difficilmente Romaniello potrebbe permetterselo, arrivati a questo punto, a livello di opinione pubblica. L’importante è resistere fino ad allora e… o troviamo qualcosa in questi sei mesi o non la troviamo più.”

 

“E noi che possiamo fare?” le chiese Calogiuri, che però pareva stranamente preoccupato.

 

“Intercettazioni. In molti casi non ufficiali ma… utili a capire come muoverci. Ne avremo molte da ascoltare.”

 

“Se serve posso farlo pure io… possiamo dedicarci pure qualche serata, se sono cose che è meglio non ascoltare in procura,” si offrì, sia perché lo avrebbe fatto in qualunque caso, sia per ricordare alla cara collega con chi Calogiuri tornava a casa la sera, in caso ci fosse bisogno, dopo tutto quello che era successo.

 

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“La vuoi una mano con la spesa? Che ho visto che c’hai tante bottiglie, è pesante!”

 

Gli sorrise, mentre gli passava una sporta dell’acqua, Noemi che gli si aggrappava ai pantaloni, chiedendogli un leccalecca. Ormai se ne portava sempre uno quando andava al supermercato.

 

“Grazie! Sei proprio gentile! Però mo c’hai il peso della tua spesa più la mia.”


“E va beh… tanto ho roba leggera. Non ce l’hai una macchina?” le chiese, avendo notato che era sempre a piedi, mentre si incamminava con lei per la breve distanza verso la casa di Imma.

 

“No, purtroppo no. Cioè, Imma mi ha lasciato la sua, ma c’è da far cambiare un po’ di cose perché funzioni in sicurezza e… diciamo che devo tenere i soldi da parte per Roma, che se troviamo appartamento ci sono le caparre da dare.”

 

“Eh sì, Imma se l’era presa proprio scassata la macchina, poi dopo anni senza usarla, è un miracolo se non è da rottamare!” commentò, pensando che Imma non aveva mai capito come il detto spendere di più per spendere di meno, in alcuni casi fosse valido. Poi però gli uscì una domanda che erano un paio di mesi che voleva farle, “senti, lo so che non sono affari miei, ma… tuo marito dove sta? Che fa? Perché non l’ho ancora mai visto in giro.”

 

“Fa il camionista ed è più via che a casa, da sempre. E ultimamente… è complicato,” sussurrò, lanciando un’occhiata verso la figlia, come a dirle che non poteva parlarne di fronte a lei.

 

Noemi però - beata lei! - ignara di tutto, saltellava felice tra di loro.

 

Arrivarono finalmente di fronte a quel portoncino terribilmente familiare.

 

“Senti, visto che mi hai accompagnata… perché non ti fermi a cena? Che poi metto a dormire la peste e così chiacchieriamo un po’.”

 

La proposta arrivò inaspettata - in quei mesi si erano limitati ad interagire al supermercato o subito fuori - e si sentì un poco in imbarazzo. Ma di parlare meglio con Rosaria ne avrebbe proprio avuto voglia.

 

“Sììììììì, a tena!!” gridò Noemi, stringendoglisi di nuovo, come per non lasciarlo andare.

 

“Mi… mi piacerebbe, ma…” mormorò, indicando con lo sguardo verso le finestre, dove alcune vicine stavano già appostate, “non vorrei crearti problemi, con le malelingue, che qua ce ne stanno tante.”

 

Ma lei, per tutta risposta, rise.

 

“Se vogliono costruire su una puntata di Beautiful facciano pure, sai a me che me frega!”

 

“Che cos’è bruttifù?” saltò su la bimba, confusa, e stavolta scoppiarono a ridere entrambi.

 

“Dai, sali! Salvo ti causi problemi con sta famosa Cinzia, naturalmente,” gli offrì di nuovo, mentre spalancava il portoncino.

 

“Cinzia è l’ultima che può lamentarsi se ceno da un’amica,” le rispose, pensando alla tragica prima cena a casa di lei, “niente pesce crudo o molluschi crudi, però!”

 

“Perché?” gli chiese Rosaria, sembrando confusa.

 

“Una storia lunga. Se teniamo tempo dopo cena magari te la spiego, pure se non ci faccio una gran figura.”

 

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“Che pensi di fare per pasqua?”

 

“Come mai ti viene in mente, mo?” gli chiese, sorpresa, sedendosi accanto a lui sul divano, porgendogli una bella tazza di camomilla fumante: era stata una giornata campale, soprattutto per lui, a spulciare ore di intercettazioni all’avvocato della difesa per il maxiprocesso.

 

Avevano appena fatto addormentare la belva, dopo un venti minuti buoni di giochi, e ora finalmente avevano un momento tutto per loro.

 

“Perché è tra due settimane. Allora, che pensi di fare? Vuoi tornare a Matera?”

 

“Beh… a Matera mo ci sta pure tua sorella, però… alla fine c’abbiamo giusto un paio di giorni di ferie, se ci va bene. Sarebbe una sfacchinata e poi Valentì dovrebbe scegliere con chi passare il pranzo di pasqua. La lascerei andare da suo padre, che da gennaio si sono visti poco o niente, che lei sta ancora arrabbiata, e magari inviterei qua tua sorella, che se sta qualche giorno in più possiamo farle vedere un po’ di appartamenti. Che ne pensi?”

 

“Davvero rinunceresti alla pasqua con Valentina?” le domandò, e vide chiaramente che era sorpreso.

 

“Visti i precedenti, preferisco non rischiare di accavallare le cose con Pietro… finché non terremo un rapporto più civile. E poi posso sempre invitarla a cena a pasquetta, che tanto c’ha l’università e qua deve tornare. E a pasqua terremo già abbastanza bocche da sfamare, se viene tua sorella, soprattutto quel terremoto di tua nipote.”

 

“Ah, sui dolci soprattutto Noemi sarebbe capace di spazzarsi tutto quanto da sola!” rise e si sentì stringere forte in un abbraccio, “però almeno per la festa della Bruna quest’anno a Matera ci torniamo assolutamente!”

 

“Eh certo! Quest’anno ce la vediamo dal vivo, altro che streaming!” concordò, dandogli un bacio, prima di sussurrargli, “che dici se mo ci facciamo un ripasso della nostra festa della Bruna?”

 

“E la camomilla?” le domandò, con tono sornione.


“Fredda sarà buonissima!” esclamò, poggiando entrambe le tazze sul tavolino, prima di trovarsi schiacciata sul divano, tra solletico, risate e baci.

 

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“Finalmente si è addormentata! Se ci sono ospiti non sta ferma un attimo. Poi con te… ti ha preso tanto in simpatia.”

 

“A me o ai leccalecca?” ironizza, godendosi il suo sorriso mentre si sedeva sul divano accanto a lui.

 

Era proprio bello quel sorriso. Schietto, aperto. Come era da troppo tempo che non ne vedeva, se non con lei.

 

Dai tempi felici con Imma, pure se era completamente diverso.

 

La tigre in ceramica richiamò nuovamente la sua attenzione da un angolo della stanza. Era così strano vederla lì, in mezzo alle cose della buonanima della sua ex suocera. E riconosceva pure altre cose che Imma si era portata via il dicembre precedente, sparse qua e là.

“Non… non ci avevo pensato che qua… ci stanno le cose di Imma. Se ti senti a disagio, io-”

 

Si voltò verso Rosaria, stupito di come l’avesse capito al volo.

 

“No, no, meno di quanto avrei creduto. Ce li ho avuti per tanto tempo a casa ma… alla fine, sono solo oggetti,” le rispose e si stupì di constatare che lo pensava veramente.

 

“Certo che se ci pensi è strano, che siamo diventati amici…” commentò Rosaria, scuotendo il capo, “però ne sono felice. Pensavo che non avrei fatto altre amicizie qua a Matera, a parte Capozza e Diana.”

 

“Eh… non è facilissimo fare amicizie qua, quando sei forestiera, ma non impossibile. Come va con la ricerca a Roma?”

 

“Mi hanno trovato qualche appartamento, ma… sono tutti o troppo cari o invivibili. Per carità, mi adatto, ma voglio che Noemi possa avere una stanza sua, mo che diventa grande, che se si abitua sempre a stare in camera da letto con me è la fine. Per intanto continuo a mettere i soldi da parte e a mandare curriculum ai centri estetici. E poi…” la vide esitare, come se non sapesse se proseguire o meno, ma poi lo fece, “e poi non so come andrebbe con Salvo. Mio marito. Già non è felice all’idea di Matera, per niente, e… dice che a Roma sarebbe più complicato con il camion, col traffico che c’è. E poi… non mi ha ancora perdonato il fatto di avere deciso da sola di venire a vivere qui, anche se ci sono praticamente stata costretta.”

 

“Come costretta?” le domandò, preoccupato, mentre si diceva che sto Salvo doveva essere proprio uno scemo a non apprezzare una moglie come Rosaria.

 

“Non… non so se sia il caso di parlarne con te…” ammise lei, mordendosi il labbro.


“C’entrano tuo fratello ed Imma?”

 

“In un certo senso…. Mia madre… mia madre da quando ha saputo di Imma ha fatto tragedie. Mio fratello sarà un anno che è in esilio, volontario, eh, perché nostra madre gli ha chiesto di scegliere tra lei ed Imma. E a natale ha chiesto pure a me di scegliere tra lei e mio fratello e… io non mi faccio ricattare, a costo di ricominciare tutto da capo.”

 

Sentì come un qualcosa stringersi nel petto. Rosaria era coraggiosa, coraggiosissima. Ma pure il maresciallo… non era da tutti fare una rinuncia del genere. Qualche cosa di buono ce l’aveva pure lui, e forse era meglio così, sapere che Imma non si era fatta abbagliare solo dal fisico, dagli occhioni e dallo stacanovismo lavorativo molto poco disinteressato.

 

“Hai fatto bene. Io con mia madre… ammetto di non essere mai stato proprio un grande esempio di coraggio. Ma quando mi sono fidanzato con Imma, lei mi ha dato un aut aut e… me la sono sposata lo stesso. E alla fine mia madre ha dovuto tollerarla, anche se piacerle non le è mai piaciuta.”

 

“E perché non lo ritrovi pure mo sto coraggio?”


“In che senso?”

 

“Per Cinzia. Si vede che non sei felice con lei. Perché ci stai ancora insieme?” gli chiese, guardandolo dritto negli occhi, in un modo che lo fece sentire in difetto in confronto a lei.

 

“Perché… Cinzia c’è stata in tanti momenti difficili, quando mi sono lasciato con Imma… anche se forse… non è l’argomento migliore di cui parlare con te,” ammise, passandosi una mano tra i capelli.

 

“Si vede che… che eri tanto innamorato di Imma. E forse lo sei ancora. E… mi dispiace che la felicità di mio fratello sia arrivata a spese tue, che proprio non te lo meritavi, anche se per mio fratello è stata ‘na benedizione, che prima di Imma teneva proprio dei gusti di merda sulle donne!”

 

Gli venne da ridere.

 

“Che c’è?”

 

“No, niente… pensavo… che forse è proprio per questo che mi trovo bene a parlare con te. Perché non devo parlare bene di Imma per forza, ma nemmeno parlarne male, come fanno sempre mia madre e Cinzia, che si arrabbiano pure se dico loro di smetterla.”

 

“Ma Imma è la madre di Valentina. Tua madre e pure Cinzia dovrebbero essere felici se hai un rapporto civile con lei. Certo, Cinzia può essere gelosa, ma forse perché pure lei percepisce che c’è qualcosa che non va.”

 

“Lo so, c’hai ragione, ma… Cinzia mi ama, teniamo tante passioni in comune. E poi è giovane, è bella. Dove ne trovo un’altra? Non c’ho più vent’anni, e manco quaranta.”

 

“Ma buono e gentile come sei, poi bravo coi bambini, di sicuro di donne che apprezzano ne troveresti eccome. Ma fino a quando non ti guardi in giro e stai con sta Cinzia e con mammà appiccicate… è chiaro che girano alla larga, no? E poi non fai un favore manco a Cinzia, che magari può trovare qualcuno più… preso di te.”

 

Sospirò, perché, di nuovo, Rosaria teneva ragione.

 

“Lo so, ma… io ti ammiro molto, che stai bene da sola e te la cavi, ma io non sono mai stato così.”

 

“Eh va beh, col mio carattere, forse è meglio se sto da sola. Mica è facile sopportarmi. Però quando-”

 

Rosa si bloccò bruscamente, parendo a disagio e mordendosi letteralmente le labbra.

 

“Che cosa volevi dire?”

 

“No, niente, niente,” cercò di dissimulare lei.

 

“Se c’entra di nuovo Imma puoi parlarne, anzi, devi parlarne. Devo farci il callo e se no non ce lo farò mai, se tutti si comportano diversamente con me, quando ci sta di mezzo lei.”

 

Rosa sospirò, buttando fuori, con una velocità degna di sua figlia quando voleva un dolcetto, “quando vedo coppie felici e che… che stanno tanto bene insieme pure per ore o per giorni interi, un poco mi chiedo come sarebbe. Perché io una cosa così non l’ho avuta mai.”

 

“Mentre Imma e tuo fratello sì?” le chiese per conferma, e fu un altro colpo al cuore, perché pure lui ed Imma quello non l’avevano avuto mai.


“Scusami, è che-”

 

“No, no. Mo sono quasi due anni, sai, che ci siamo separati e… devo guardare in faccia la realtà. E… la verità è che io ed Imma siamo stati molto bene, io benissimo, lei non lo so a questo punto, per vent’anni, ma… uno dei segreti del nostro rapporto era pure che c’avevamo poco tempo per noi e, quando c’era, era speciale. Ma quando eravamo in vacanza insieme… io di solito stavo da una parte e lei dall’altra. Non abbiamo mai avuto passioni in comune o… o tante cose di cui parlare. Quindi vedersi poche ore al giorno aiutava molto.”

 

“Nel mio caso però sono poche ore la settimana, anzi, al mese. E… io e Salvo ci conosciamo da una vita e… mi è sempre andata bene ma… ma non so più se sia normale o no.”

 

“La normalità non esiste. L’importante è trovare un equilibrio che funzioni e che stia bene a te.”

 

“Il problema è che non lo so più se mi sta bene…” sussurrò lei, come se fosse tra sé e sé.

 

E provò di nuovo una stretta al petto: sapeva che il marito di Rosaria era via per lavoro e che dovevano tirare avanti a fatica la baracca, ma… con una famiglia così era un vero peccato viversela poco o niente.

 

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“La messa è finita, andate in pace!”

 

“Rendiamo grazie a dio!” pronunciò, in modo molto sentito, perché non ne poteva più, ma sua nonna, se si fosse persa la messa di pasqua, non glielo avrebbe perdonato.

 

Anche se, forse, era meno peggio che starsene da sola con suo padre, con il quale era ancora incazzata per la reazione al suo coming out e per non aver avuto le palle, in quei due giorni, per chiederle scusa come si doveva e magari dirle che era felice per lei e Penelope, pure se non lo pensava davvero.

 

Uscirono dal banco, camminando rapidamente verso l’entrata della chiesa, quando quasi si scontrarono con un’altra famiglia che stava lasciando libero il proprio di banco.

 

“Signor De Ruggeri!”

 

Lo stomaco fece due giri di lavatrice. Riconobbe immediatamente il procuratore capo, con i baffetti e la pelata, la moglie e, soprattutto, il figlio.

 

“Valentina?” chiese il ragazzo, salutandola, “come stai?”

 

“Ah, ma vi conoscete?” chiese l’ometto al figlio, che però non disse niente, “ah, sì, è vero! Alla festa della Bruna, quando la dottoressa Tataranni lavorava ancora qua. Ma non pensavo che te ne ricordassi, sei fisionomista, bravo! Tutto suo padre!”

 

Carlo nuovamente non disse nulla, prendendosi il buffetto paterno, anche se spalancò un poco gli occhi.

 

A Valentina venne proprio da vomitare: aveva capito chi era, era fregata.

 

“Certe cose, anzi certe persone, sarebbe meglio dimenticarle,” commentò sua nonna, con il naso rivolto all’insù, mentre Cinzia rise sguaiatamente, e suo padre alzò gli occhi al cielo, anzi, alla volta della chiesa.

 

“Dai, mà, è meglio che mo andiamo. Dottore, è stato un piacere rivederla, e pure alla sua famiglia. Buona pasqua!” lo sentì esclamare, prendendo sua madre per un braccio, mentre il nonno, che pareva pure lui imbarazzato, lo seguiva subito dietro, forse per evitare che lei protestasse.

 

Incrociò un’ultima volta lo sguardo con Carlo e poi seguì di corsa il resto della famiglia fuori dalla chiesa.

 

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“Certo che il figlio del prefetto è proprio un bel ragazzo, Valentina! E si ricorda ancora di te! Fossi in te lo cercherei su uno di quei cosi sociali che usate voi giovani e non me lo farei scappare!”

 

Rimase a bocca aperta, dopo l’ennesima uscita di sua madre, Valentina che faceva roteare gli occhi e sembrava pronta all’esplosione.


Del resto sua madre non sapeva niente del coming out di Valentina e pure con lui… quando lui cercava di parlarle, si chiudeva in stanza come faceva ormai da giorni. Sapeva che ce l’aveva ancora con lui per la reazione che aveva avuto quando aveva saputo di Penelope, ma non aveva idea di come fare per rimediare. Sempre se c’era un modo di rimediare.

 

Pure se sta Penelope continuava a non piacergli ma… non voleva perdere Valentina, già si erano tanto allontanati in quegli ultimi due anni.

 

“Eh va beh, mà, Valentì c’ha i suoi interessi. Poi che fa, si mette con uno che sta qua a Matera e che non vede mai?”

 

“Ma che! Quello pure sta a Roma, che non lo sai? Studia giurisprudenza alla Sapienza. Che quello è già avviato a fare la carriera del padre!”

 

“In effetti è veramente bello. Sareste una coppia bellissima!” intervenne Cinzia, dando manforte a sua madre e Pietro notò che i lampi negli occhi di Valentina stavano raggiungendo livelli che giusto Imma aveva mai raggiunto.

 

“E quindi solo perché uno è bello e ricco dovremmo essere una coppia bellissima? Magari è uno stronzo figlio di papà, viziato e con la puzza sotto al naso. Ma a voi che ve frega, che guardate solo le apparenze e giudicate tutti, mentre non sapete niente?!”

 

Ecco appunto!

 

“Valentina!” urlò sua madre, con aria scandalizzata, “come ti permetti di parlarmi così, sono tua nonna!”

 

“E perché, tu come ti permetti di parlarmi così di mia madre, che è sempre mia madre, di fronte a tutti, pure al suo ex capo?!” gridò a sua volta Valentina, alzandosi da tavola, per poi rivolgersi a Cinzia, che era come pietrificata, “e tu, invece, che la spalleggi e dici peste e corna di mia madre, quando tu sei la prima che sbavava dietro a mio padre quando era ancora sposato! Pensi di essere migliore di lei?”

 

“Valentina! Chiedi subito scusa!” urlò sua madre, alzandosi a sua volta, “ma del resto non è colpa sua, è l’influenza di quella, che ce la mette contro!”

 

“Veramente siete voi che fate di tutto per mettermi contro mia madre. Mentre lei di voi non ha mai detto niente di male, ha voluto lei che venissi qua a fare pasqua con papà, che dice che lo vedo troppo poco. Ma del resto c’ha una vita felice, lei, a differenza della vostra, che deve essere proprio triste, visto come sprecate il vostro tempo a sparlare e cercare di gestire quelle degli altri.”

 

Sua madre divenne rosso fuoco e pure Cinzia.

 

Sapeva che sarebbe dovuto intervenire, ma non sapeva che dire, manco Imma aveva mai affrontato sua madre in quel modo.

 

E poi Valentina spostò la sedia e se ne andò, dicendo, “mi è passata la fame!”, seguita dai “Valentina!” di sua madre, che ancora urlava.

 

D’istinto, si alzò in piedi pure lui, e sua madre lo fulminò con un’occhiataccia, chiedendogli, “dove pensi di andare?”

 

“Da mia figlia!” le rispose, prendendo il coraggio a quattro mani e mollando lì lei e pure Cinzia, che ancora teneva la bocca spalancata, e correndo a infilarsi lo spolverino per inseguire Valentina.

 

La vide che aveva già percorso diversi metri e dovette correre per andarle dietro, che ultimamente non andava più a calcetto e non ci era abituato.


“Valentì, aspetta!” le gridò, ma lei non si girò, “Valentì, aspettami!”

 

Di colpo, la vide bloccarsi e girarsi verso di lui, i pugni serrati ai fianchi, “e per dirmi che cosa, eh? Che devo chiedere scusa?”

 

“No, no,” le rispose, riuscendo finalmente a raggiungerla, “sono io… sono io che ti devo chiedere scusa. Per Penelope e… e perché avrei dovuto dire qualcosa io a tua nonna, ma… non mi ha mai dato retta. E mi dispiace che lo abbia dovuto fare tu al posto mio.”

 

Valentina rimase per un attimo con la bocca aperta, poi rilassò i pugni e, senza parole, ricominciò ad avviarsi verso casa.

 

Non era un perdono ma… conoscendola, era un inizio.

 

La seguì, camminandole vicino, anche se un passo indietro.

 

Improvvisamente, si fermò di nuovo, che per poco non le finiva addosso, e si voltò verso il muretto, che dava sui Sassi.

 

“Che succede?” le chiese, preoccupato.

 

“Carlo… il figlio di Vitali… non mi ha riconosciuta per la Bruna, ma perché… a capodanno ha difeso me e Penelope, da alcuni ragazzi che… ci stavano molestando, dopo averci viste baciare alla mezzanotte.”


Rimase senza parole, mentre gli veniva un’immensa rabbia in corpo: quegli stronzi!

 

“E mo sa chi sono, oltre a sapere di me e Penelope e… temo che esca fuori di noi due e-”

 

“E non ti devi preoccupare!” le disse, deciso, mettendole una mano sulla spalla, “se vi ha difese vuol dire che non è un cretino, e perché dovrebbe mettervi in difficoltà mo, raccontando i fatti vostri? E se lo facesse comunque tu non devi preoccuparti di niente, quello che dovrebbe vergognarsi in caso è lui, tu devi andare a testa alta, sempre.”

 

Incrociò lo sguardo di Valentina e, miracolosamente, gli sorrise.

 

“Non ti ho ancora perdonato. Ma devo dire che mi sembri migliorato in questi ultimi mesi, nonostante nonna e Cinzia. Sei meno insopportabile di prima.”

 

E, malgrado tutto, gli venne da ridere.

 

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“Ancora un poco di pastiera?”

 

“Sììììììì!!”


“Noè, hai già mangiato troppo per oggi. La mangi un’altra volta.”

 

La bimba si produsse in un’espressione corrucciata assolutamente adorabile, le braccia incrociate sul petto.

 

“Voi ne volete?” chiese a Rosaria e Salvatore, che era tutto il pranzo - anzi, a dir la verità da quando erano arrivati a Roma il giorno prima - che stava con una faccia che quasi faceva concorrenza a quella della figlia mo. Era rigido, un’ombra perennemente sul volto.

 

E, infatti, scosse il capo.

 

“La pastiera la fai veramente buona, fratellì, hai imparato bene, bravo!” rispose Rosaria, dandogli un pizzicotto sulla guancia, “ma meglio se pure io rimando, che non c’ho più lo stomaco per il bis, dopo tutto quello che avete preparato.”

 

“Eh… le cucine avellinese e materana insieme non perdonano: è una combinazione pericolosa!” scherzò, beccandosi un pizzicotto sul fianco da Calogiuri, a cui rispose con un bacio sulla guancia, che lui rilanciò schioccandogliene uno sulle labbra.

 

Sentì un rapido colpo di tosse e notò immediatamente come provenisse da Salvo, che sembrava ancora più contrariato, lanciando sguardi tra loro e la figlia.

 

Si dovette trattenere dal dirgli che mica avevano messo in scena un porno: era giusto un bacetto! E infatti Noemi era letteralmente tranquilla come una pasqua, a parte il modo concupiscente con cui si ammirava la pastiera.

 

Decise di levarla da tavola.

 

Aveva appena finito quando le suonò il telefono, segnalando l’arrivo di una chiamata.

 

Sperò che non fosse qualche scocciatore: ma perché chiamavano tutti in orario di pranzo?

 

Calogiuri, solerte come sempre, le ripescò il cellulare che era finito in un angolo della casa, tra un preparativo e l’altro.

 

Il display annunciò una chiamata di Valentina. Ma mica una chiamata normale no, una videochiamata.

 

“Come sto?” chiese a Calogiuri, facendo segno alla faccia: dopo tutto quello che si erano scofanati chissà in che condizioni era.

 

“Sei bellissima!” le rispose lui, in quel modo sincero in maniera disarmante, solo che probabilmente glielo avrebbe detto pure se avesse avuto il viso sporco di cibo ed il trucco colato in modo irreversibile.

 

“Va beh…” rispose, decidendo di credergli ed avviando la chiamata.

 

“Mà! Calogiuri!”

 

Vide Valentina, nella sua camera da ragazza - strano che non fosse ancora da nonna a pranzo! - che sembrava stranamente sorridente.

 

“Valentì, auguri! Come va?”

 

“Io e papà abbastanza bene. Voi? Avete finito il vostro menù, che sarà stato sicuramente leggerissimo?”

 

“Ed era pure buonissimo. Pasqua prossima lo assaggerai!” le rispose, mentre notava con la coda dell’occhio che anche Calogiuri la salutava con la mano, in un modo adorabile.

 

“Valentì, hai detto qualcosa?”

 

Sentì la voce di Pietro, pure se un poco attutita dalla distanza, prima che comparisse nell’inquadratura, mentre Valentina diceva, “sto facendo gli auguri a mamma.”

 

Le sembrò un poco imbarazzato, ma poi guardò dritto in camera e le disse “auguri, Imma! Maresciallo.”

 

Nonostante il titolo usato per Calogiuri, il tono le pareva meno sarcastico che in passato.

 

Udì uno scalpiccio ai suoi piedi e poi sentì manine che le afferravano le ginocchia, mentre Noemi saltellava, urlando, “tao! Tao!”

 

“Mi sa che vuole farvi gli auguri pure qualcun’altra…” sorrise, mentre Calogiuri si abbassava per prenderla in braccio.

 

“Tao Vaentina! Tao Pietto!” esclamò la bimba, entusiasta.

 

Rimase un poco sorpresa, che si ricordasse pure il nome di lui, e scherzò, “e brava! Ti ricordi ancora il leccalecca?!”

 

“Eh sì! Me li regala sempe!” esclamò, battendo le mani con un sorriso.

 

Lanciò un’occhiata stupita verso Rosaria, che parve stranamente imbarazzata.

 

“Io e Pietro facciamo la spesa nello stesso supermercato, quindi abbiamo fatto amicizia,” spiegò, alzandosi da tavola, ed avvicinandosi a loro, arrossendo un poco, anche se mai quanto faceva di solito il fratello, chiedendole poi, con aria preoccupata, “per te è un problema?”

 

“No, per me no,” rispose, ancora stupita, scambiandosi uno sguardo con Calogiuri, sbigottito più di lei.

 

“Ciao Rosa…” la salutò Pietro, sembrando in imbarazzo, mentre pure Valentina aveva uno sguardo meravigliato, “buona pasqua a te e a Noemi!”

 

Un rumore di sedia strascicata sul pavimento e Salvatore li raggiunse, con aria torva e un po’ infastidita, prima di spiare lo schermo.

 

“Questo è Salvatore, mio marito,” spiegò Rosa, forse avendo notato lo sguardo interrogativo di Pietro, una volta che Salvo era entrato nell’inquadratura, “e questo è Pietro, l’ex marito di Imma, con loro figlia Valentina.”


“Ah, piacere!” disse Pietro con un sorriso, ma Salvatore si limitò ad annuire e tornare verso il tavolo, senza altre parole.

 

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“Perché non mi hai detto che ti vedi con un altro uomo?!”

 

“Capo primo non è un altro uomo ma l’ex marito di Imma. E comunque non ci sta niente di male ad avere amici uomini!”

 

Sentivano le voci provenienti dalla zona giorno fin dalla stanza da letto, dove si erano ritirati per la notte insieme a Noemi, che aveva voluto a tutti i costi dormire con loro. Di rimando, Ottavia dal bagno dov’era chiusa per la notte si produceva in miagolii incazzosi verso chi osava turbare la quiete notturna.

 

Scambiò uno sguardo preoccupato con Calogiuri: marcava male.

 

“Io mi sono sempre fidata di te, anche se stai sempre in giro. Che sono ste scenate di gelosia, mo?”

 

“Che sono?! Sono che mi dispiace che un uomo frequenti casa nostra e nostra figlia senza che io lo so!”

 

“A parte che non è casa mia o casa tua. Ma comunque, se dovessi farti il resoconto di chi vede tua figlia, visto che non ci sei mai, passeremmo quelle poche ore in cui ci vediamo a fare la cronaca.”

 

“Forse ci sarei più spesso, se tu non ti fossi messa in capa di vivere a Roma, con tutte le spese, e ce ne rimanevamo a casa di tua madre, che almeno quelle principali erano pagate e-”

 

“E non possiamo dipendere da mà per sempre! E dovresti essere felice: nessun uomo tranne te vuole vivere con la suocera in casa!”

 

Imma alzò un sopracciglio, mentre dava mentalmente supporto a Rosa: su quello c’aveva ragione, c’aveva.

 

“Comodo per te, che tanto non vai tu in giro con il camion ad orari assurdi! Già a Matera con le strade è un casino. Mo a Roma dovrei svegliarmi ancora prima, per non restare imbottigliato nel traffico. Ma tanto tu a me non ci pensi!”

 

“E tu a me, alla mia felicità e alla mia indipendenza economica non ci pensi!”

 

“Ma ci sto io!  Avevamo già tutto quello che ci serviva, tu c’hai già tanto da fare con Noemi, a che serve mo sta storia del lavoro?”

 

“Io non voglio fare la mamma casalinga a vita! E se lo pensavi ti sei sbagliato di grosso!”

 

E poi sentirono sbattere una porta, non capendo se se ne fosse andata Rosa oppure lui, anche se speravano la seconda visto l’orario.

 

“Pecché mamma e papà ullano?”

 

La voce sonnacchiosa di Noemi, che si sfregava gli occhietti in mezzo a loro, fu un colpo per lei.

 

“Niente… discussioni tra marito e moglie… a volte si litiga, succede,” cercò di minimizzare, dandole una carezza sul viso, “dormi mo, che è tardi. Se no domani niente bis di pastiera.”

 

Noemi fece un’espressione che manco le avessero fatto un affronto, ma poi sentì un bacetto sulla guancia e manine che le si aggrappavano al collo, mentre la piccoletta cercava di riaddormentarsi.

 

Fece un cenno a Calogiuri, di andare a vedere che era successo e, soprattutto, dove fosse la sorella.

 

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La vide che piangeva sul divano letto, mentre Ottavia continuava a miagolare e grattare la porta del bagno.

 

Con un sospiro la lasciò uscire, prima che la micia distruggesse tutto ed Ottavia si fiondò con una falcata da pantera verso la sorella, saltandole sulle spalle e cominciando a darle colpetti con la zampa e con la testa.

 

“Mi sa che non vuole che piango…” commentò Rosa, afferrando la belva e mettendosela in grembo.

 

“La capisco… ma devi fare quello che ti senti,” rispose, inginocchiandosi di fronte a lei, mentre spiava preoccupato la sua espressione.

 

“Scusatemi per… per tutto. La mia vita è un casino!”

 

“E che la mia no?” ribatté, prendendole la mano libera dalle coccole feline, per poi commentare, un poco amaro, “certo che le feste insieme ci portano proprio male. Forse è meglio che la prossima volta le facciamo separati.”

 

“Non sono le feste, è Salvo che… che su certe cose è rimasto al medioevo. E io speravo che fosse diverso, visto che mi ha sempre lasciato tanta libertà. Ma forse solo perchè ci stava mammà con me.”

 

“Ascolta, forse… forse sul fatto che si sia arrabbiato perché hai deciso da sola di vivere a Matera e poi a Roma… su quello non gli do torto, ma sul resto… hai tutto il diritto di avere le tue soddisfazioni, pure lavorative!”

 

Si sentì abbracciare, mentre Ottavia miagolava tra di loro.

 

“Su… sul fatto che sono in amicizia con Pietro… non hai problemi?” gli domandò e la verità era che manco lui sapeva bene come si sentiva in proposito.


“Mi fa un poco strano ma… io non c’ho nulla contro al Signor De Ruggeri, se non passasse la vita a prendersela con me, pure se lo capisco, quindi… se con te e con Noemi è gentile, ne sono contento.”

 

“Sì, molto,” rispose Rosaria, staccandosi dall’abbraccio.

 

“Se volete restare qualche giorno in più, finchè sto litigio non si risolve, sono sicuro che pure Imma vi ospiterebbe volentieri.”

 

“Lo so. Ma voglio vedere gli appartamenti e poi tornare a Matera, che almeno la peste c’ha il nido e… anche se lo sono sempre, credo d’avere bisogno di starmene un poco per conto mio a riflettere.”

 

L’abbracciò di nuovo, preoccupato dall’amarezza che percepiva nella sua voce. Ed il peggio era che non sapeva come aiutarla.

 

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“E insomma… potrebbe uscire fuori di noi due.”

 

“Vale, lo sai che per me non è un problema, si stupirebbero se scoprissero che ho una relazione con un ragazzo,” scherzò Penelope, facendole l’occhiolino, “senti, ti va di venire a Milano per qualche giorno?”

 

“Mi piacerebbe, ma mamma mi ha invitata per la cena di pasquetta e poi c’ho un preappello da fare questa settimana.”


“E allora vengo io a Roma.”

 

“Ma come fai con i corsi?”

 

“Per un paio di giorni l’accademia può fare a meno di me e-”

 

“No, dai, ci vediamo il prossimo fine settimana, non ti preoccupare. Che so quanto ci tieni alla pittura.”

 

“Ma tengo più a te,” le rispose Penelope e Valentina sentì un tuffo al cuore.

 

In quel momento, le arrivò una notifica.

 

“Chi è che ti scrive a quest’ora?” le chiese subito Penelope, con un tono un poco piccato.


“Che sei gelosa?” le domandò, ma il sorriso le sparì dal volto.


“Vale, che succede?”

 

“Carlo Vitali mi ha appena chiesto l’amicizia…”

 

“E guarda che ti vuole dire, no?” le disse Penelope, ma sentiva che era preoccupata pure lei, “noi ci sentiamo dopo, fammi sapere!”

 

Salutò Penelope ed aprì la notifica, accettando la richiesta di amicizia. Tanto avrebbe sempre potuto bloccarlo.

 

Vide immediatamente i tre pallini di qualcuno che stava scrivendo.

 

Ciao Valentina! Volevo solo dirti che non ti devi preoccupare: non dirò niente a nessuno. Ma finalmente ho capito dove ci eravamo già visti. Spero che tu stia bene e pure Penelope, anche se non l’ho vista oggi. Salutamela!

 

Sorrise: era proprio un bravo ragazzo il figlio di Vitali.

 

Ciao Carlo. Io sto abbastanza bene, grazie. E grazie per averci aiutate a dicembre. Penelope fa pasqua con suo padre che sta a Milano. Te la saluterò.

 

Eh… pure a me tocca… anche se non vedo l’ora di tornare all’università.

 

Giurisprudenza alla Sapienza, giusto?

 

Vide che per un attimo non rispose niente e temette di avere esagerato, passando da stalker. Ma la divertiva fargli pensare che sapesse molto di più su di lui di quanto lui sapesse di lei, anche se era il contrario.

 

E tu come lo sai?

 

Sottovaluti il Gazzettino dI Matera.

 

Eh… lo so… infatti sono contento di stare a Roma. E tu dove studi?

 

Roma pure io. Assistente sociale.

 

Allora magari qualche volta possiamo farci un’uscita romana, anche con Penelope. Fammi sapere. E buona pasqua!

 

Sorrise: la verità era che l’idea non le dispiaceva affatto.

 

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“Ehi, ciao, come va? Che è un po’ che non ci vediamo al supermercato!”

 

La vide fermarsi e voltarsi verso di lui, Noemi in braccio ed un sorriso un po’ tirato sul volto.

 

“Tutto bene?” le chiese, preoccupato, mentre Noemi si sporgeva verso di lui, salutandolo con un “tao Pietto!” entusiasta.

 

Dall’espressione di Rosaria, intuì che non andava affatto tutto bene.


“Hai avuto problemi per pasqua? Imma o tuo fratello ti hanno fatto storie?”

 

“No, no, né mio fratello né Imma mi hanno fatto problemi, erano soltanto sorpresi,” gli rispose con un sospiro, mentre cercava di trattenere il piccolo terremoto, per poi aggiungere, con un mezzo sorriso, “speravi che Imma fosse gelosa? Dì la verità.”

 

Sentì un calore tremendo al viso.


“No, no… cioè… normalmente forse sapere che è ancora gelosa di me non mi dispiacerebbe, ma non se ci vai di mezzo tu e non voglio darti problemi con tuo fratello, che già ce li hai con il resto della famiglia.”

 

“Eh… appunto… è il resto della famiglia che è il problema,” sospirò di nuovo, chiedendo infine, “scusa, me la puoi tenere tu? Che non la trattengo più.”


“Ma che scherzi? Certo!” rispose, prendendo in braccio Noemi, ignorando gli sguardi curiosi dei passanti lungo Via XX Settembre, “ma che è successo? Ancora tua madre?”

 

“No. Mio marito. Dopo quindici anni insieme ha deciso di fare il geloso, che non gli ho detto niente della nostra amicizia. E normalmente non gli darei soddisfazione, ma… non voglio neanche io metterti di mezzo ai nostri casini familiari.”

 

Si sentì arrossire ancora di più. In un certo senso era lusingato che un marcantonio trentenne come il marito di Rosaria potesse considerarlo un rivale. Ma gli spiaceva per lei.

 

“Ma mi ha visto bene nella videochiamata? Ha visto quanto sono vecchio?”

 

“Ma che vecchio! Che stai benissimo. Certo, magari se svecchiassi un po’ il look staresti ancora meglio,” commentò Rosaria e Pietro si guardò e si chiese cosa c’avesse il suo look che non andava, “e comunque mio marito, per quanto se ne sta in giro, c’avrebbe poco da parlare. Io di lui mi sono sempre fidata, che potrebbe avere una fidanzata in ogni porto.”

 

“In caso sarebbe proprio stupido,” le rispose, deciso, mentre Noemi gli si aggrappava di più al collo e poi gli tirava un orecchio.

 

“Gli sei mancata,” gli fece notare Rosa, con un sorriso.

 

“Io o i leccalecca?” si schernì, pentendosene subito quando Noemi si illuminò e urlò, “lettaletta?!” perché non ne aveva uno con sé.

 

“Senti, perché non vieni a cena da noi stasera. Così le porti il leccalecca. Noemi, non ce l’ha mo, stai buona!”

 

“Ma non ti creo altri problemi con tuo marito? Perché non venite da me, invece? Che a casa mia ancora non ci sei mai stata.”

 

“E non ti creo io problemi con la famosa Cinzia?”

 

“Cinzia non può proprio lamentarsi, che è diventata insopportabile. A pasqua tra lei e mia madre hanno fatto arrabbiare Valentina, con le loro frecciatine su Imma, che mi è toccato inseguire mia figlia che ha preso e se n’è andata. E non le posso neanche dare tutti i torti.”

 

“Ti ho detto mille volte che te ne devi trovare un’altra! Che poi sai, magari una nuova, non dovendo vivere la separazione con Imma, la vedrà meno come una rivale, anche se dipende pure da te.”

 

“Eh… prima Imma devo togliermela del tutto dalla capa, anche se mi sembra di notare dei miglioramenti negli ultimi mesi.”

 

“E menomale!” esclamò Rosa, dandogli una pacca sulla spalla, “e non solo perché sono di parte, che c’è di mezzo mio fratello, ma perché te lo meriteresti proprio di essere felice. Se fossimo a Grottaminarda ti presenterei a qualcuna delle mie amiche.”

 

“Ma sarebbero troppo giovani per me, no?” le chiese, sentendosi però sempre più lusingato e con un termosifone sulla faccia.

 

“E figuriamoci, che sarà mai!”


“Ma io sono un po’ più vecchio di Imma, se non si nota.”

 

“E le mie amiche sono un po’ più vecchie di mio fratello, così sareste quasi pari. E a te, essendo un uomo, non farebbe problemi nessuno, beato te!”

 

Sospirò, dovendo ammettere che aveva ragione. Ma avrebbe fatto molto strano a lui, pure se Rosaria non era più ventenne e neanche le sue amiche.

 

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“Cos’è sta storia di una ragazza a casa tua?”

 

“Ciao Cinzia, sì sto bene, tu come stai?” proclamò sarcastico, perché già aveva suonato come un’ossessa, poi gli era piombata in casa dopo che lui la evitava da pasqua, senza nemmeno avvisare.

 

“Male! Visto che oggi sono venuta a sapere che è venuta un’altra donna a cena da te. Con pure una pupa al seguito.”

 

“Non è un’altra donna, è un’amica. E appunto c’aveva pure la figlia appresso, quindi niente di rock and roll.”

 

“Te lo do in testa il rock and roll! Chi sarebbe sta amica mo? Una del lavoro?”

 

“Non sono affari tuoi, e ti garantisco che comunque è l’ultimo dei nostri problemi.”

 

“Ma come non sono affari miei?! Sono la tua fidanzata, Pietro!”

 

“Magari se giudicassi di meno le persone e le mie scelte, mi sentirei più libero di parlarti delle mie amicizie.”

 

“Se è per la storia di pasqua-”

 

“No, non è per la storia di pasqua, Cinzia. Sono due anni che tu e mia madre mi fate una testa così e decidete pure per me e io non ne posso più. Sarò bravo e forse pure un poco scemo, ma non sono un burattino!”

 

“Non rigirare la frittata, Pietro! Che sei tu quello che forse mi sta mettendo le corna e mo non puoi incolpare me e tua madre pure di questo. O mi dici chi era sta tizia o me ne vado e non mi vedi più!”

 

“Quella è la porta!” esclamò, provando un immenso senso di liberazione, quasi di trionfo, nel riuscire a pronunciare quelle parole.

 

Cinzia sembrò sull’orlo di scoppiare a piangere o di mollargli un ceffone, ma poi girò sui tacchi e sbattè la porta con una forza tale da far tremare i muri.

 

Fu come se un peso gli si fosse levato dal petto e dalle spalle e si sentì leggero com’erano anni che non gli succedeva.

 

Avrebbe dovuto aprire il vino buono, ma, prima di farlo, doveva fare una cosa più importante.

 

Afferrò il cellulare e compose un messaggio.


Cinzia mi ha appena fatto una scenata di gelosia per la nostra cena qua e sono riuscito finalmente a dirle quello che penso e a lasciarla. Non ha capito chi sei, ma potrebbe scoprirlo. Avvisami se ti dà problemi.

 

Dopo poco, vide che Rosaria era online e stava scrivendo.

 

Mi spiace per la scenata, ma se ho contribuito involontariamente a farti decidere di mandare a quel paese sta Cinzia, ne sono felice.

 

Gli venne da sorridere.

 

Per circa due secondi, perché dopo vide una chiamata.

 

Mà.

 

Sapeva di non potere evitare quella telefonata.

 

“Pronto, mà?”

 

“E mo chi sarebbe sta svergognata? Ho sentito Cinzia, che è disperata! Ma sei matto?!”

 

“Ciao mà, si sto bene, noto pure tu visti i decibel. E non ci sta nessun’altra, è Cinzia che è troppo ossessiva e non la reggo più. Lasciarla è la cosa migliore per lei e per me. E se mi vuoi bene, devi piantarla di essere sempre più dalla parte sua che dalla mia.”

 

“E certo che sto dalla parte sua, Piè! Una brava ragazza, giovane, bella, intelligente, di buona famiglia. Un’altra così all’età tua non la trovi più!”

 

“E menomale!” esclamò, facendo una cosa che non aveva mai avuto il coraggio di fare, cioè chiudere la comunicazione per primo con sua madre.

 

Che soddisfazione!

 

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“Ma ne sei proprio sicura?”

 

“E dai, Pietro, è dalla prima volta che ti ho visto che lo voglio fare.”

 

“Ma è che… mi imbarazzo… mi sento nudo e poi… e se poi mi pento?”

 

“E se ti penti aspetti, come fanno tutti!”

 

Un brivido gli corse lungo la schiena mentre sentiva le dita di lei ed il fiato sul viso, e-

 

Zac!

 

Sentì i suoi baffi accorciarsi drammaticamente sotto un paio di colpi di rasoio ben assestati.

 

“Fatto! Ci voleva tanto?! Mo ti devi solo far crescere un poco la barba, che poi ti faccio vedere come tenerla curata. E diamo una sistemata pure a sti capelli! Un taglio più moderno ti ci vuole!”

 

Udì uno sforbiciare e sentì le dita di Rosa sollevargli e sfiorargli i capelli. Un altro brivido, forse la tensione.

 

“Ma sei sicura di essere capace, sì?”

 

“Sono estetista diplomata e ho fatto pure un corso da parrucchiera. Stai tranquillo, rilassati! Che poi facciamo pure una bella pulizia del viso e vedrai che domani fai girare la testa a tutta Matera!”

 

“Ma è che… non ci sono mai andato dall’estetista!”

 

“E va beh… c’è una prima volta per tutto!” gli sussurrò all’orecchio, e ci fu l’ennesima sensazione, come di una scossetta alla spina dorsale.

 

Doveva soltanto rilassarsi, solo rilassarsi.

 

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“Tataaaa!!!”

 

L’ululato di Noemi le spaccò quasi un timpano, mentre le abbracciava le cosce. Cresceva sempre di più, mannaggia!

 

La prese in braccio, ma a fatica, che oltre ad essere più alta era pure più pesante, finché con uno “ziooooo!!!” si buttò anche in braccio a Calogiuri, che di sicuro c’aveva più forza nelle braccia.

 

“Non vedeva l’ora di vedervi! Mi fa una capa tanta da tutta la mattina!” sorrise Rosaria, trascinandola in un abbraccio.

 

“Eh, devi dare la colpa ai bus, Noè, che sono lenti!”

 

Avevano avuto pure l’idea di venire in moto, che con il sole e l’aria calda era una meraviglia, ma poi Valentina aveva accettato di andare con loro ed in tre era impossibile.

 

“Imma!!!”

 

Ed ecco la spaccatimpani principale, al cui confronto Noemi era un sussurro: Diana, che ancora un po’ la buttava a terra, per come la abbracciava.


“Certo che avete fatto proprio un comitato di accoglienza!” commentò, vedendo pure Capozza, che si stava avvicinando a Calogiuri per ammollargli una pacca sulle spalle.

 

“E va beh, Imma! State qua pochi giorni, dobbiamo approfittarne! E dateci le valigie, che Capozza le mette in macchina!”

 

“Sperando che guidi meglio di come mi ricordo,” commentò con un sospiro, “ma poi come ci stiamo tutti in macchina?”

 

“E va beh… Noemi sta in braccio a sua madre e tu puoi stare in braccio a Calogiuri, che tanto sei leggera!”

 

“Ringrazia il cielo che non posso farti un verbale, Diana!” sospirò, ammollando però il trolley al brigadiere, stranamente solerte, mentre Ottavia, dal suo trasportino, le faceva chiaramente capire che se provava a mollare pure lei, si sarebbe vendicata sentitamente una volta uscita di lì.

 

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“Ecco il caffè. Napoletano però.”

 

“Grazie! E sei diventata brava con la cucina materana, altroché!” le sorrise, mentre Rosa si sedeva accanto a lei, con un’altra tazzina in mano.

 

Diana e Capozza se n’erano appena andati, dopo il lauto pranzo preparato da Rosaria, a base soprattutto di ricette tipiche materane. Calogiuri aveva accompagnato la peste a fare un pisolino e Valentina era andata da suo padre, che la attendeva con ansia.

 

“Anche se mo forse dovrai fare pratica con quella romana. Abbiamo trovato un appartamento che secondo me non è niente male. Certo, sta a Roma sud, che col tuo budget vicino a noi è impossibile, ma è vicino alla fermata della metro e forse è più comodo pure per tuo marito con gli spostamenti. E abbiamo trovato pure un paio di annunci promettenti per centri estetici in zone che dovresti raggiungere facilmente. Se ci vieni a trovare a breve, possiamo vedere se ti piace, così lo fermiamo e possiamo pure cominciare a informarci per l’asilo, se magari ti trasferisci dal nuovo anno scolastico.”

 

Rosaria sorrise, ma era un sorriso incerto, quasi tirato.


“Che c’è? Se non sei convinta, perché vuoi stare più vicino a noi non-”

 

“No, no, non è quello… è che… stavo cominciando ad abituarmi a Matera. Pure a tutte ste discese e salite: non c’ho mai avuto gambe così toniche, mo capisco il tuo segreto!”

 

Le venne da ridere, ma poi aggiunse, più seria, “se ti trovi bene qua a Matera… mica devi venire a Roma per forza. Posso lasciarti l’appartamento o aiutarti a trovarne un altro in affitto, se preferisci, e-”

 

“E non potrei continuare a stare qua senza pagare, non è giusto.”


“Beh… potrei pure farti pagare un affitto equo, ma mi pare assurdo mo, in famiglia. Al limite potresti pagarmi le tasse, le spese condominiali e le manutenzioni, se servono, e basta.”

 

“Non… non lo so… vediamo prima questo appartamento a Roma e poi… e poi decido.”

 

“Ma sì, parlane pure con tuo marito, con comodo,” le consigliò, perché la discussione di pasqua se la ricordava ancora.

 

“Eh… mio marito… ultimamente lo vedo due volte al mese, se va bene. Torna solo per vedere Noemi, è ancora arrabbiato con me, ma… Noemi ha bisogno di suo padre e non lo vede mai! Ma il signorino sta dalla parte di mia madre, gli faceva comodo vivere tutti insieme!”

 

“Sulla piaga dei mariti mammoni ti capisco fin troppo bene.”

 

“Ma almeno Pietro era mammone con la sua di madre, non con quella degli altri!” sbottò Rosa - e non potè darle tutti i torti - per poi proseguire, con un sorriso, “anche se ultimamente mi pare migliorato.”

 

“In che senso?”

 

“Eh… a Pietro non racconto i fatti tuoi e a te non posso raccontare quelli di Pietro,” le rispose, decisa.


“Va bene, è giusto. Sono contenta che Pietro abbia trovato un’amica come te. Almeno magari la smette di odiare Calogiuri.”

 

“Su quello ci sto lavorando.”

 

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“Dobbiamo trovare un posto da dove si possa vedere, ma senza finire schiacciati dalla folla.”

 

Stava percorrendo Piazza Vittorio Veneto, che cominciava a popolarsi per la festa, anche se mancavano ancora diverse ore allo strazzo. C’avevano pure Noemi con loro, quindi non potevano rischiare.

 

Valentina era ancora con suo padre, che stava da solo, stranamente senza Cinzia e mammà appresso, mentre Diana e Capozza, che aveva pure provato ad invitare, erano andati a festeggiare a casa della madre di Tina, che c’aveva un balcone che dava su una delle vie principali della processione.

 

Da un lato almeno avrebbe potuto godersi meglio Calogiuri, che era pure il loro anniversario, quello vero. Anche se era strano: era tutto il giorno che aveva l’aria corrucciata e un poco preoccupata. Forse pure lui temeva la combinazione di Noemi con la folla.

 

“Dottoressa!”

 

Si voltò, a quella voce inconfondibile, e si trovò di fronte Vitali, che camminava con moglie e figlio al seguito a poca distanza da loro.


“Sono felice che sia tornata per la festa della Bruna, dottoressa! Pure io me ne sono innamorato, immagino lei che a Matera c’è nata.”

 

“Eh sì… e poi volevo farla conoscere a un po’ di altra gente che viene più dalle sue parti, dottore. Questa è Rosa, la sorella di Calogiuri, e questa è sua figlia Noemi.”

 

“Molto piacere! Siete della provincia di Avellino, giusto?” chiese Vitali, porgendo la mano a Rosa e allungando poi le dita per dare una carezza a Noemi, che però lo afferrò per il naso.

 

“Noemi! Lascia andare il signore!” gridò Rosaria, prendendo le ditina della figlia, per farle mollare la presa, e lei non potè evitare di scoppiare a ridere, insieme alla moglie di Vitali. Calogiuri invece pareva mortificato come la sorella.


“Eh, l’imprinting, dottore!” commentò, mentre Noemi si beccava la sgridata di Rosa e Vitali si massaggiava il naso.

 

“Va beh… so’ criature, non serve che la sgridi! E poi so di avere un naso che… attira l’attenzione,” concesse il procuratore capo, con una pazienza ammirevole, per i suoi standard, “ma come fate mo con questa bimba in mezzo alla folla, col caldo? Perché non venite con noi sulla balconata della procura? Tanto lo spazio c’è.”

 

Si sentì un poco in colpa per avere riso, perché Vitali ultimamente era sempre davvero gentile con lei.


“Dottore… non lavoriamo più qua, ormai, non so se è il caso e-”

 

“Ma io sì, e poi rimanete sempre stimati colleghi, pure se di un’altra procura. Forza, dottoressa, non si faccia pregare che-”

 

“Imma?!”

 

Lei, insieme a Vitali e a tutti i presenti che non erano già in quella direzione, si voltarono, trovandosi davanti Pietro con Valentina.

 

“Pietro!” lo salutò, prima che Noemi esclamasse un “Pietto!!”, sporgendosi verso di lui, tanto che per poco non cascava dalle mani di Rosa.

 

Ma non era solo quello a stupirla, era pure il… il suo aspetto.

 

C’aveva una barba non troppo lunga, col pizzetto, ben curata. Pure i capelli erano più corti, in un taglio preciso, sale e pepe come la barba. Completo blu scuro, camicia bianca. Dimostrava almeno almeno una decina di anni in meno rispetto all’ultima volta che l’aveva visto.

 

“Hai visto come si è fatto figo il mio papà? Che finalmente non pare più un pensionato!” esclamò Valentina, senza malizia, ma come una constatazione.


“Eh sì… c’ho avuto… una consulente di immagine…” esclamò lui, imbarazzato, ed Imma si chiese se si trattasse di Cinzia che mo sindacava pure sul look di Pietro.


Anche se c’aveva avuto ragione, in caso.


“Stai molto bene, Pietro, veramente!” rispose, pure lei come se fosse un dato di fatto, lanciando però un’occhiata rassicurante a quel gelosone di Calogiuri, prima che pensasse male.

 

Ma il suo maresciallo sembrava francamente soltanto sorpreso, fissando più che Pietro in sé Noemi, che gli si era arrampicata su una spalla.

 

“Volete vedere pure voi la parata qua dalla piazza?”

 

“Veramente mi ha invitato Vitolo, che c’ha uno dei balconcini… sai, essendo il prefetto…” rispose Pietro, lanciando un’occhiata a Calogiuri che Imma non capì, perché non pareva di risentimento, come al solito.

 

“Imma!”

 

Lupus in fabula.

 

“Maria!” esclamò, vedendo spuntare dalle spalle di Pietro la chioma bionda della Moliterni.

 

“Pietro,” salutò invece Vitolo, secco, lanciando occhiate di fuoco verso Calogiuri.

 

“Va beh… noi forse è meglio che andiamo…” lo sentì proclamare, chiaramente volendo evitare un’altra discussione col prefetto, o di venire nuovamente cacciato.


“E perché?” domandò Vitali, stupito, che evidentemente non sapeva di cosa fosse successo tra Calogiuri e Vitolo - e, conoscendo Maria, la cosa la stupì parecchio - prima di aggiungere, dando una pacca sulla spalla al prefetto, “che tanto ci stanno tre balconcini, c’è posto per tutti! Poi mo, che mi pare di cogliere come un’armonia ritrovata, una bella famiglia allargata! Sia la vostra, che quella delle procure che rappresentiamo!”

 

Sempre poco melodrammatico, Vitali. Avrebbe potuto andare d’accordo con la signora Calogiuri.

 

Vitolo, ti dovrei parlare un attimo. Noè, perché non vai un po’ da mamma?” chiese Pietro, porgendo la bimba a Rosa, che spalancò gli occhi, lanciando un’occhiataccia a Vitolo.

 

“Cioè lui è il famoso prefetto che-”

 

Vitolo, vieni con me!” lo invitò Pietro, interrompendola - prima che probabilmente potesse mandare Vitolo nel posto dove pure lei lo avrebbe voluto mandare, e ormai da anni! - prendendo per un braccio il prefetto ed allontanandosi con lui tra la folla, pure se sempre sotto lo sguardo vigile della scorta.

 

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“Piè, ma che fai? Non dirmi che ti sei ammorbidito con quel cafone!”

 

Vitolo pareva molto contrariato e temette di essersi preso troppe libertà. Poteva essere un amico, ma primariamente restava sempre il prefetto.

 

“No, è che… che non è un cafone. A capodanno stava soltanto difendendo Imma da Cinzia, che sai com’è… la gelosia. Ha detto delle cose poco carine sul conto di Imma al maresciallo.”

 

“Come? E chi è che ti ha raccontato sta storia?”

 

“Cinzia, l’ha ammesso pure lei. Non voleva fare una figuraccia e allora… ha dato la colpa a lui, che era il bersaglio più facile. Non è un santo, Vito, ma non è il demonio, ecco.”

 

“Se… se lo dici tu… quindi mi vuoi dire che c’hai fatto pace mo col maresciallo?”

 

“Diciamo una tregua. Con Imma c’ho una figlia e… è la cosa migliore pure per Valentina.”

 

“Se è quello che pensi veramente, a me va bene. Ma non se ti senti in obbligo per via di Vitali e-”

 

“No, no, nessun obbligo. Era da un po’ che te ne volevo parlare, ma… ultimamente non ci siamo più visti.”

 

“Eh, sì, che bigi sempre calcetto. Ma ti capisco: ho sentito che ti sei lasciato con Cinzia, e che a quanto pare te ne sei presa una ancora più giovane, bravo!” esclamò Vitolo, dandogli un leggero pugno sul petto.

 

“Non mi sono preso nessuna, è Cinzia che è paranoica. Sono da solo, anzi single, come si dice mo, ma francamente è stata una liberazione.”

 

“Sì, libero di volare di fiore in fiore!” rise il prefetto, assestandogli un’altra pacca da sfondamento, “ma bravo, Pietro! Goditi la vita, tu che puoi!”

 

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“Inizia! Inizia!”

 

Il carro era quasi arrivato alla piazza, circondato dalle forze dell’ordine e dai Cavalieri della Bruna, per evitare che facesse una brutta fine anzitempo. 

 

Passò rapidamente in rassegna il balcone e notò che Vitolo ancora lanciava qualche occhiataccia a Calogiuri, che stava di fianco a lei.

 

Maria, invece, pareva molto divertita e confabulava con Rosa da una balaustra all’altra dei due balconcini.


Sua figlia continuava a scambiarsi sguardi con Carlo, e si chiese se fosse preoccupata che potesse uscire fuori la storia di Penelope.

 

L’urlo della folla la portò a concentrarsi sulla piazza: il carro era giunto a destinazione e le guardie si erano levate, lasciandolo alla furia della gente che avrebbe fatto di tutto per portarsene a casa un pezzo, come portafortuna.

 

Sentì un familiare formicolio sul viso ed alzò lo sguardo verso Calogiuri, che infatti la stava fissando.

 

Con la coda dell’occhio, si rassicurò che Pietro e Vitolo fossero impegnati a guardare lo strazzo e se lo abbracciò di lato, come aveva desiderato da tutta la sera, ma non voleva tentare troppo la sorte.

 

“Ancora non ci credo… che sto su questo balcone con te… se penso a com’è stato gli anni scorsi… e pure tre anni fa… che al massimo ti potevo guardare dall’altro lato della strada!”

 

Lo strinse più forte, commossa, ma, come faceva sempre in quei casi, deviò con l’umorismo, “se non mi ricordo male, tre anni fa già facevi ben altro che guardare, mannaggia a te! Pure se in privato!”

 

Lo sentì ridere e, dopo essersi accertata che la buoncostume fosse ancora distratta, gli afferrò il viso e gli diede un bacio. Calogiuri rimase un attimo stupito, ma le sorrise sulle labbra e la baciò di rimando, anche se rapidamente, per poi stringerla più forte.

 

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“Mo capisco, perchè vi piace tanto questa festa: è proprio bella!”

 

Sorrise a Rosa, che aveva vicino, pure se stavano su due balconi diversi, Noemi in braccio che urlava, “bello, bello!” ad ogni colpo dato al carro.

 

“Occhio che, se prende esempio, chi la ferma più…” scherzò, pensando che perfino Valentina in confronto era tranquilla.

 

“Già… certo che pensare a tutto quel lavoro… distrutto in poco tempo. Un po’ dispiace.”

 

“Ma forse la lezione è proprio questa: che le cose si distruggono per ricostruirne di più belle,” riflettè, stupendosi delle sue stesse parole.

 

“Mi fa piacere, sentirti così!” esclamò Rosaria, sorridendogli.

 

“Anche a me,” rispose, sinceramente, ricambiando, almeno fino a che notò, in tralice, Imma ed il maresciallo che si baciavano e poi si abbracciavano teneramente.

 

Si scambiò uno sguardo con Rosa, che gli parve molto preoccupata.


“Tranquilla. Te l’ho già detto, ci devo fare il callo,” la rassicurò e si sorprese di nuovo nel constatare che non lo diceva solo per lei.

 

La verità era che gli faceva ancora un po’ male, sì, ma molto, molto meno di qualche mese prima.

 

Forse stava finalmente guarendo ed iniziando a guardare avanti.

 

Si sentì stringere all’altezza del gomito e vide che era Rosaria che, di nuovo, aveva un sorriso bellissimo.

 

Le prese la mano, di rimando, anche se per pochi secondi, e si stupì di sentire uno strano calore.

 

E non era solo la calura estiva.

 

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“E mo è finita la festa?”

 

Rosa, con gli occhi che brillavano, nonostante dovesse reggere il peso di Noemi, profondamente addormentata, voleva sapere di più.

 

“Ci stanno ancora i fuochi ma sono verso mezzanotte e mezza,” le spiegò, intenerendosi di fronte all’espressione così tranquilla di quell’adorabile uragano, che somigliava tanto allo zio.


“Io devo andare, papà: con i miei amici ho appuntamento per vedere i fuochi da casa di Giampiero.”

 

Carlo Vitali, sempre in apparenza gentile ed educato.


Fin troppo, che o era tipo Calogiuri, o di nascosto doveva essere un serial killer. Poi con un padre così!

 

“Eh… va bene… lo so che sei giovane e noi diventiamo vecchi!” rispose Vitali, con un sospiro.

 

“Valentina, per caso vuoi venire anche tu? Così vediamo i fuochi e facciamo un po’ di festa.”

 

Valentina parve esitare un attimo, guardandola con occhi spalancati.

 

“Se vuoi andare vai, Valentì, che ormai sei grande, ma non vecchia!” le disse, anche se effettivamente forse avrebbe dovuto chiederlo prima a Pietro, con il quale era venuta.

 

“E dai, Valentì! C’avessi io la vostra età: beati voi! Fino a domani mattina alle otto mi trovavate a ballare!” esclamò Vitali ed Imma dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere all’immagine mentale del procuratore capo conciato come Tony Manero.

 

“Va… va bene,” annuì Vale, congedandosi insieme al ragazzo.

 

Lei gli fece cenno di chiamarla se aveva bisogno.

 

“Forse è meglio che me ne torno a casa pure io…” intervenne Rosa, con un sorriso, “che se questa peste si sveglia è la fine e i fuochi… non li abbiamo mai visti così da vicino, non vorrei che si spaventasse. Pure se fa più casino lei di sicuro.”

 

“Va bene, allora torniamo a casa e-”

 

“No, Imma, no!” la bloccò subito, decisa, “tu ed il fratellino state pure qua a vedervi i fuochi. Tanto è pieno di gente, che sarà mai? E ormai la strada la conosco!”

 

“Posso accompagnarle io!”

 

La voce di Pietro la colse di sopresa, e non fu l’unica, visto che pure Vitali, la Moliterni e Vitolo se lo guardarono come se gli fosse uscita un’altra testa.

 

“Tanto sto da solo… così voi potete godervi la festa fino alla fine. Io ormai so’ vecchio, meglio che me ne vado a dormire!” si schernì Pietro, facendo cenno a Rosa, che sembrò super entusiasta alla proposta.


“Va bene, va bene! Allora buona serata!” esclamò, lanciando un’ultima occhiata a lei e al fratello e non perdendo tempo ad uscire dal balcone, con Noemi ancora crollata addosso.

 

“Buona serata!” le fece eco Pietro, squagliandosela rapidamente, mentre la Moliterni faceva un sorrisetto a dir poco felino e mormorava un “hai capito…?!”

 

“In realtà… se non vi dispiace… questa è la prima festa della Bruna che io ed Imma passiamo insieme qua a Matera e… dottor Vitali, vi dispiace se ci andiamo a fare un giro?”

 

Guardò Calogiuri, meravigliata, pure se piacevolmente, da quella iniziativa e da quella botta di coraggio - poi con tutto quello che era successo col prefetto!

 

“Ma certo che no, maresciallo! Che mica vogliamo fare i reggimoccolo, vero cara?” chiese alla moglie, che sorrise, “beati voi! Godetevi la serata, e mi raccomando, ricordatevi dei discorsi che ci siamo fatti qualche mese fa.”

 

Calogiuri annuì e pure lei e, nel giro di pochi secondi, e dopo qualche saluto, Vitolo che non si capiva se fosse più sollevato o più irritato, si sentì trascinare da Calogiuri fuori dal balconcino e dentro i corridoi della procura.

 

“Calogiù!” esclamò, ridendo, perché era veloce come non lo era stato mai, e perché le ci volle poco per realizzare che l’uscita della procura non era in quella direzione, “dove mi stai portando?!”

 

“In un posto speciale!” le rispose, continuando la sua marcia, fino a che Imma riconobbe il pianerottolo ed il corridoio del suo ufficio.

 

E proprio lì finirono: era pure aperto, in barba alle misure di sicurezza!

 

“Ma sei matto?! Se ci beccano!” gli sussurrò, ma lui chiuse la porta dietro di loro e sorrise.


“Tranquilla, dottoressa, lo so a cosa stai pensando. Mi sono fatto aiutare da Diana e Capozza, che me lo hanno fatto trovare aperto. Poi passano a richiuderlo quando li avviso, quindi non ci scoprirà mai nessuno. Che a quest’ora tutta Matera sta con il naso all’insù. Pensavo di… di entrare in procura dopo lo strazzo e prima dei fuochi ma… ho temuto per un attimo che Vitali ed il prefetto facessero saltare tutto.”

 

“Che cosa hai in mente, maresciallo?” gli chiese, non riuscendo a trattenere un sorrisetto.

“Tante cose, dottoressa, tante cose…” rispose lui, con il tono e lo sguardo da impunito, tanto che dovette trattenersi dal saltargli addosso subito: doveva darsi un contegno, “ma comunque ho rispetto per la sacralità del luogo.”

 

“Mo ti è venuto il rispetto?!” lo sfotté, buttandogli le braccia al collo e piantandogli un bacio come si doveva, prima di sussurrargli, “buon anniversario, maresciallo!”

 

“Buon anniversario, dottoressa!” mormorò, dandole un altro bacio, dolcissimo ma troppo breve.

 

Eh no! I festeggiamenti o si facevano bene o non si facevano!

 

Gli prese il viso e lo baciò fino a levarlo e levarsi il fiato, spingendolo con decisione verso il mobile sotto alla bacheca e buttandocelo addosso, godendosi il suo “Imma!” stupito e sussurrandogli, mentre gli mordicchiava il labbro, “sono tre anni che devo prendermi la rivincita, maresciallo!”

 

Lo baciò, ancora e ancora, fino a che si trovò spinta via a sua volta, procedendo alla cieca per l’ufficio, atterrando infine sul tavolone vicino alla porta, il peso di Calogiuri sopra di lei, e poi-

 

E poi, improvvisamente, il peso si levò. Aprì gli occhi, vedendolo ritrarsi e sorrise: pure lei poteva farlo quel gioco. Lo prese per il colletto della camicia bianca e lo tirò a sé, ridendo quando si sentì afferrare per i polsi e poi-

 

E poi Calogiuri la tenne a distanza di sicurezza, senza fare niente.

 

“Calogiuri, se mi vuoi fare impazzire, sappi che la tua salute è molto a rischio stasera!” gli intimò, semiseria, ma notò immediatamente, dallo sguardo di lui, ancora prima che scuotesse il capo e che pronunciasse, col fiatone, un “Imma! Imma, aspetta!” che c’era qualcosa che non andava.

 

“Calogiù, questo è l’anniversario del nostro primo bacio, non del tuo primo due di picche volontario,” gli ricordò, cercando di nuovo di scherzare, anche se era preoccupata.

 

Si rassicurò un minimo quando lo vide sorridere.

 

“Sembra… sembra incredibile… come se fosse passata una vita da allora,” commentò lui, continuando però a tenerla e tenersi fuori dalla sua portata, “è che… ho bisogno che… che chiudi gli occhi per un attimo.”

 

Una botta di sollievo la prese: chissà che cosa voleva fare, quell’impunito!

 

E va bene, se voleva avere il completo controllo, almeno per un po’, il giorno dell’anniversario poteva concederglielo.

 

“Che c’hai in mente?” gli domandò di nuovo, mordendosi il labbro.

 

“Se chiudi gli occhi lo scopri, dottoressa,” ribattè, con sguardo sornione, “e non barare!”

 

Decise di fare come le era stato chiesto, immaginandosi da lì a poco da venire travolta da un bacio e… da chissà che altro di ancora più piacevole.

 

Attese uno, due, tre, quattro, cinque, dieci interminabili secondi. Ma non successe niente, anzi, Calogiuri non lo sentiva proprio più.

 

“Puoi aprirli mo!” lo sentì mormorare, con un tono strano e li spalancò, guardandosi intorno, ma non lo vide.

 

Finché noto come uno scintillio, sotto di lei, e fu allora che lo vide.

 

In ginocchio, di fronte a lei - che ancora stava seduta sul tavolo - ma non per quello che pensava lei.

 

In mano teneva un cofanetto, con un anello, che brillava nell’ufficio, riflettendo la scarsa luce che veniva da fuori.

 

E le mancò di nuovo il fiato, lo stomaco che le faceva le capriole, mentre si sentiva tremare dall’emozione.

 

Due pensieri: che avrebbe voluto buttargli le braccia al collo e baciarlo.

 

Ma che forse non sarebbe stato giusto e che fosse ancora troppo presto per lui, per prendersi un impegno simile.

 

Anche se lo avrebbe desiderato tantissimo.



 

Nota dell’autrice: lo so, è lunedì e doveva essere domenica, ma spero che, leggendo questo capitolo, oltre a non volermi uccidere per il finale, avrete capito perché era così impegnativo da scrivere. E il prossimo lo sarà ancora di più ;). Chissà quale sarà la risposta di Imma? Per non parlare di cosa potrebbe avvenire tra altre persone ;). Questa festa della Bruna sarà indimenticabile per molti, nel bene e nel male.

Chi conosce Matera avrà notato che, come nella fiction, ho spostato la procura nel Palazzo dell’Annunziata, che mi pare che fosse pure lo stesso dei balconcini a fine della sesta puntata. Questa licenza poetica mi serviva a scopo della storia, quindi pure in caso di errore rispetto alle ambientazioni della fiction, chiedo venia.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto e che la storia continui ad essere interessante. Come sempre, vi ringrazio tantissimo per le vostre recensioni, che mi fanno un enorme piacere e mi spronano a cercare di migliorarmi sempre.

Come forse saprete, il diciotto dovrebbero ricominciare le riprese di Imma, quindi non manca più tantissimo alla tanto attesa seconda stagione!

Nel frattempo, se vorrete, noi ci rileggiamo domenica 24, con un capitolo decisivo, sotto molti aspetti.

Infine, se ve la foste persa e se voleste recuperarla, nelle precedenti due domeniche ho scritto una storia prequel su Imma e Calogiuri, agli inizi, ancora prima di quando li abbiamo visti nella fiction.

Ecco il link al primo capitolo https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3953946

Grazie ancora!

 

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Capitolo 53
*** La Paura ***


Nessun Alibi


Capitolo 53 - La Paura


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Che c’hai in mente?”

 

“Se chiudi gli occhi lo scopri, dottoressa,” le rispose, cercando di non far trapelare l’ansia che sentiva in quel momento e di sopravvivere all’assalto di lei, riuscendo a fare quello che si era prefissato di fare da mesi ormai, “e non barare!”

 

Fu un sollievo quando la vide chiudere gli occhi.


Che però durò giusto due secondi.

 

Perché il cuore iniziò a martellargli in petto, la saliva azzerata, mentre si pentiva amaramente di non essersi procurato una bottiglietta d’acqua.

 

Doveva inginocchiarsi ma gli tremavano le gambe.

 

Calmati, non fare lo scemo, calmati! - cercò di imporsi, mentre si abbassava, che per poco non scivolava.

 

In qualche modo, riuscì a mettersi nella posa canonica, con un ginocchio a terra e l’altro piegato. E poi iniziò a frugare nella tasca interna della giacca che, nonostante il caldo, aveva indossato per l’occasione e anche per nascondere l’astuccio dell’anello.

 

Finalmente, riuscì ad estrarlo, con dita tremanti, e ad aprirlo, controllando che l’anello fosse ancora al suo posto, con quanto lo aveva sballottato.

 

E poi prese un respiro, sapendo che a breve gli sarebbe mancato del tutto, e le disse, con la poca voce che teneva, “puoi aprirli mo!”

 

Quegli occhi scuri brillarono per un attimo al buio, confusi, mentre si guardava intorno.


E poi i loro sguardi si incrociarono e la vide spalancare gli occhi e la bocca e prendere un respiro.

 

Leggeva sorpresa, felicità, ma anche un poco di panico: tremava come una foglia.

 

Ed ebbe paura, paura delle paure di Imma, la mente che gli si svuotò completamente.

 

Ma doveva dire qualcosa, doveva essere un uomo per lei, arrivare fino in fondo.

 

“Dottoressa… Imma,” esordì, cercando di prendere tempo, “mi ero… mi ero preparato tutto un discorso nella mia testa, che mi sembrava bellissimo, ma… ma mo non mi ricordo più niente.”

 

Lei si morse il labbro, con quello sguardo che c’aveva quando tratteneva il fiato, ma non sapeva se fosse un segno buono o cattivo.


“Ma… tutto è cominciato qua e non soltanto tre anni fa, alla festa della Bruna quando… quando mi è successo un vero miracolo, ma… conoscerti, lavorare insieme a te, fianco fianco, per tante ore, che però mi sembravano sempre volare, prima perché mi sono innamorato di questo lavoro, grazie a te, e poi perché mi sono innamorato di te.”

 

Prese una pausa, perché gli mancava il fiato e spiò l’espressione di lei, ma, a parte l’emozione, non capiva a cosa stesse pensando. Fece un lungo respiro.

 

“Quando… quando ci siamo incontrati, lo sai, mi facevi un po’ paura, mi sembravi questo mito, irraggiungibile e… e tutto avrei pensato tranne che di innamorarmi di te e, soprattutto, che tu potessi mai innamorarti di uno come me. Ma per fortuna è successo, anche se ancora non so bene come e… come ho fatto a meritarmi una donna come te. E lo so che non sono ancora alla tua altezza, che devo crescere e che… che potrai pensare che è troppo presto - che hai divorziato da neanche un anno - o che sono troppo giovane e… lo so che hai sempre paura di limitarmi e che un giorno io mi possa pentire, ma… non c’è nessuna che mi ha mai reso libero come te, di fare le mie scelte, pure quando non ti convenivano. Nessuno che ha mai creduto in me come hai fatto tu, ed è… ed è proprio perché tu hai creduto e credi in me, che pure io mo riesco a credere in me stesso e… nel fatto che so che posso renderti felice e che posso diventare sempre di più un uomo capace di stare esattamente al tuo fianco, né un passo avanti, né un passo indietro, per tutta la vita, se tu lo vorrai e mi vorrai.”

 

Lo aveva detto tutto d’un fiato, in apnea, ma Imma sembrava come paralizzata, gli occhi lucidi e, esattamente come tre anni prima, non sapeva che avrebbe fatto, sapeva solo che doveva finire di liberarsi da tutte le parole che gli sgorgavano dal cuore.

 

Infilò una mano nell’altra tasca della giacca, estraendone un foglio spiegazzato e un poco malconcio per il caldo e l’umidità. Per poco non rischiò di farlo cadere, ma lo aprì e glielo mostrò.

 

“Questa è… la mia iscrizione al corso ufficiali. E… pure se accetterai di sposarmi, ti prometto che farò di tutto per passare il concorso e il corso prima delle nozze. Anche se io vorrei sposarti domani, perché non ho mai amato nessuna come amo te e dopo tre anni sento di amarti sempre di più, anche se non so com’è possibile, e… e voglio sempre e solo continuare a sentire il tuo respiro durante la notte, finché avrò fiato e-”

 

Qualcosa gli tappò le labbra ed erano le dita di Imma, che gli tremavano sulla pelle.

 

“Questo ufficio e questa festa ti rendono proprio logorroico, maresciallo, altro che fiato!” proclamò, ironica, ma vedeva chiaramente le lacrime che le rigavano il volto, e gli venne da sorridere, almeno prima che lo stomaco gli finisse in gola al suo “mo parlo io!”

 

*********************************************************************************************************

 

“Ce la fai?”

 

“Sì, pure se tutti i leccalecca si sentono,” scherzò, posando Noemi sul suo lettuccio.

 

Rosa le levò le scarpe e la mise rapidamente sotto a un lenzuolo, che tanto faceva caldo, e poi uscì con lui dalla stanza.

 

“Grazie, sei stato gentilissimo, come sempre!”

 

“Ma figurati! Spero che la festa della Bruna ti sia piaciuta. Sei sicura di non volerli vedere i fuochi, manco dal balcone? Che da qua dovrebbero vedersi e sono bellissimi.”

 

“Perché non resti e li guardiamo insieme? Almeno ci facciamo compagnia finché non iniziano.”

 

“Va bene,” le sorrise: sempre meglio di starsene in mezzo alla folla per strada e almeno avrebbe potuto chiacchierare ancora un po’ con lei.

 

“Che ne dici di un poco di vino e magari due stuzzichini? Dopo tante ore in piedi.”

 

“Ma non serve che ti disturbi.”

 

“Nessun disturbo. Siediti comodo sul divano che torno tra poco!” proclamò lei con un sorriso, avviandosi verso la cucina.

 

*********************************************************************************************************

 

Deglutì la saliva che non aveva, mentre attendeva il verdetto della sua dottoressa, che gli levò la mano tremante dalle labbra e scese dal tavolo, mettendosi in piedi davanti a lui.

 

Pure questo non sapeva se fosse un buono o un pessimo segno.


“Quando… quando ho visto l’anello… il mio primo pensiero, oltre all’emozione, è stato che… che forse è ancora troppo presto perché tu ti leghi in maniera così definitiva a me, Calogiuri, pure da un punto di vista legale e-”

 

Il panico gli prese la gola, mentre sentiva il mondo crollargli sotto le ginocchia e aprì la bocca per protestare con un “Imma, io-”

 

Ma lei gliela tappò di nuovo, stavolta con tutta la mano.


“Fammi finire, mo!” gli ordinò, in quel tono che, lo sapeva benissimo, significava che a parlare avrebbe fatto solo peggio.

 

“Calogiuri… pure io ho ancora un poco timore di non essere alla tua altezza, all’altezza delle tue potenzialità e di non meritarmi tutto quello che mi dai. Che un giorno tu ti possa pentire e desiderare una vita diversa, perché non solo sei giovane, sei bello, sei buono, ma soprattutto sei l’uomo più intelligente che io conosca. E… ti amo… ti amo come non ho mai amato nessuno, come non pensavo nemmeno di essere capace. E mi fai amare di più me stessa, per quella che sono: mi hai fatto fare pace con il mio passato e con il mio presente e guardare al futuro con un poco meno di pessimismo di quello che c’ho di solito. Quindi… un conto è se vuoi fare il corso per te, un conto è se lo vuoi fare per me. Perché, anche se forse sono un’egoista, ti sposerei pure se fossi ancora un appuntato, mannaggia a te!”

 

Gli occhi che gli si appannavano, quello che Imma gli aveva appena detto gli risuonò in testa due o tre volte, prima che capisse del tutto, riuscendo finalmente di nuovo a respirare.

 

“Ma allora…”

 

“Ma allora mi vuoi mettere questo benedetto anello sì o no?” esclamò lei, ridendo, e facendogli l’occhiolino.

 

La prese per la vita e la mise a sedere sul suo ginocchio. La sentiva tremare come una foglia, pure mentre rideva e piangeva, tutto insieme, come del resto stava facendo pure lui.

 

Faticò ad estrarre l’anello dal supporto, talmente le dita se ne volevano andare per conto loro. Le prese la mano sinistra, che era gelata tanto quanto la sua, nonostante il caldo di luglio, e glielo infilò.

 

Tirò un sospiro di sollievo quando constatò che la misura era perfetta.


Imma sollevò la mano, studiandoselo un attimo e poi gli chiese, “ma come hai fatto ad azzeccare la taglia così bene? E non dirmi che hai fatto il commesso pure in un negozio di gioielli!”


“No, no. Mi sono fatto aiutare da mia sorella Rosa. Per fortuna avevi lasciato qua-”

 

“La fede!” esclamò lei, scuotendo il capo e sorridendogli, mentre, con la mano destra, gli accarezzava la nuca, provocandogli un brivido, “forse… forse questo è meglio che tua sorella non lo dica a Pietro, se no altro che amicizia!”

 

Risero, insieme, e forse quella era una delle conquiste più grandi di quegli ultimi mesi: poter parlare liberamente del passato di lei, senza che facesse più male e senza sentirsi a disagio.

 

La vide intenta ad analizzare meglio l’anello, con la fronte corrucciata dalla concentrazione, proprio come l’aveva vista mille volte in quell’ufficio, sull’ultimo caso su cui indagare.

 

“L’anello in sé è fatto con due anelli d'oro bianco che si incontrano più volte, per formare tanti segni dell’infinito, pure se un poco schiacciati, mentre-”

 

“Questa pietra cos’è?” gli chiese, indicando la gemma più grande che stava in mezzo all’anello e alla voluta centrale.


“Un diamante giallo, circondato da tanti diamantini classici, più piccoli,” le spiegò, cercando di capire se le piacesse o meno, “lo so che… che forse avresti preferito un diamante normale… ma quando ho visto quelli gialli in negozio, ho pensato subito a te, che sei… che sei unica, diversa da tutte le altre. E… e poi il giallo sta bene con il leopardato.”

 

“Ahia!” esclamò, dopo essersi beccato un pizzicotto alla nuca, mentre Imma rideva di nuovo, di gusto.


“Ma… ma vuoi dire che… che questo è un anello fatto fare apposta?”

 

“Beh… sì… cioè normalmente è fatto coi diamanti normali ma… volevo che fosse qualcosa che avevi solo tu e nessun’altra.”

 

La vide afferrare il cofanetto della gioielleria da terra.

“Ma questa è la gioielleria di Matera, quella-”

 

Quella, sì,” le rispose, perché era proprio la stessa da cui venivano i gioielli di Latronico che Imma aveva lasciato lì a Matera, insieme alla fede nuziale.

 

“Ma da quanto è che… che progettavi tutta questa cosa? Pure… pure la collana a natale, col simbolo dell’infinito…” gli chiese, mentre si asciugava le guance con il dorso della mano.


“Sarà da un anno che ci penso, dottoressa, da quando hai accettato di vivere insieme a me. Ma dovevo mettere più soldi da parte e quindi... l’anello l’ho prenotato a natale, quando eravamo qua insieme. Poi per fortuna c’avevo Rosaria per il controllo qualità, che deve avere fatto una testa così ai gioiellieri, per quanto l’ha fatta a me.”

 

“Dovrò ringraziare pure lei. Mo ho capito perché si è defilata stasera! E comunque tra questo e il Giappone avrai speso una follia!”

 

“Basta mettere un poco da parte ogni mese, dottoressa, lo sai. E poi… e poi spero che sarà un investimento a lungo, anzi a lunghissimo termine.”

 

“Ah, ci puoi scommettere! Pure se… ma sei proprio sicuro di voler organizzare un matrimonio mentre prepari il concorso e fai il corso? No perché… ti ricordo che la volta scorsa non è che ti abbia portato molta fortuna, eh!”

 

“E invece mi ha portato fortuna eccome, una fortuna incredibile, visto che mo sono qua con te!”

 

L’ultima cosa che vide chiaramente fu il sorriso di Imma.

 

Poi si trovò travolto da un bacio, che per poco non finivano sul pavimento tutti e due.

 

Il peso di Imma svanì dal suo ginocchio, e si sentì afferrare per una mano e tirare in piedi.
 

Almeno per qualche secondo, perché le mani di lei lo spinsero indietro, fino a farlo arrivare contro alla scrivania, seduto, per non cascare. Se la trovò in braccio e finì disteso sul legno, divorato da un bacio famelico, dita che gli insinuavano nel colletto, sbottonandoglielo, il fiato di lei che gli sussurrava sulle labbra, “erano anni che lo volevo fare, Calogiù!” prima di rifilargli un morsetto.

 

“Im- ma, Im-ma!” provò a bloccarla, tra un bacio e l’altro, finché gli rimaneva un briciolo di lucidità, che stava rapidamente scomparendo, “s-se, se ci becca qualcuno!”

 

La sentì sollevarsi bruscamente e tirò il fiato, mettendosi seduto, mentre lei scendeva dalla scrivania, probabilmente avendo recuperato pure lei il lume della ragione.

 

O forse no! - pensò, quando la vide trascinare le due sedie di fronte alla scrivania davanti alle due porte che davano verso il corridoio e l’ufficio della signora Diana, decisa e fiera, manco fosse la cosa più normale del mondo.

 

“Tanto, come hai detto tu, stanno tutti con il naso all’insù ad aspettare i fuochi d’artificio!” gli sussurrò, con una voce che era istigazione a delinquere, prima di ritrovarsela nuovamente addosso, con tanta foga che per poco non dava una testata alla scrivania, “e mentre loro li aspettano, noi… li facciamo.”

 

Si chiese per un secondo se Imma non si sarebbe trovata vedova ancora prima di sposarsi, se andava avanti così, ma poi le labbra e le dita di lei azzerarono ogni pensiero, a parte lo sbilanciarla per farla finire sotto di lui e mettere in pratica nei minimi dettagli quello che su quella scrivania aveva potuto fare solamente in sogno.

 

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“Avevi ragione, valeva la pena aspettare sveglia! Anche se spero non sveglino pure la peste!”

 

“Non so, magari s’è stancata abbastanza oggi e la Madonna della Bruna ti fa la grazia!”

 

“Eh… magari… che qua… altro che grazia ci vorrebbe!” sospirò Rosaria, con aria un poco pensierosa, ma poi sorrise e si girò verso di lui, “non mi aspettavo che mi avresti accompagnata stasera, mi hai stupito.”

 

“Una volta che se ne è andata Valentì… il mio posto non è più accanto a Imma. E poi… non volevo che ti perdessi questo spettacolo, che a Matera mica capita tutti i giorni.”

 

Percepì di nuovo un tocco sul braccio e poi, inaspettatamente, una botta pazzesca di calore quando si trovò stretto in un abbraccio.

 

Ricambiò, anche se timidamente, che non sapeva bene dove fosse appropriato mettere o non mettere le mani.

 

Dopo poco si staccarono e, mentre si stava ancora ritraendo, incrociò lo sguardo di lei.

 

Non avrebbe saputo dire cosa successe, se fu lui o lei, ma si sentì come trascinato in avanti da una corrente e si ritrovò con due labbra carnose e soffici sulle sue, il cuore impazzito ed il calore che diventava un fuoco.

 

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“Mi sa che mi è saltato un bottone. Anzi due. Sei un attentato al guardaroba, dottoressa!”

 

“Senti chi parla! Che sto vestito non sarà mai più lo stesso! E vedi di raccoglierli tutti e non lasciare indizi sulla... scena del crimine!”

 

“Agli ordini, dottoressa!” ribatté lui, facendole il saluto militare e sbattendo i tacchi, in un modo assolutamente ridicolo visto che i pantaloni, ancora slacciati, gli ricaddero sulle caviglie.

 

Rise: la verità era che sentiva di poter scoppiare di gioia, anzi di felicità, quella vera, piena, che prima di conoscere lui non aveva forse mai provato, almeno non in coppia. E poi si era appena levata una soddisfazione che erano giusto tre anni che voleva levarsi, anzi, pure di più.

 

Quando aveva conosciuto l’appuntato Calogiuri, timido, goffo e lento, mai avrebbe immaginato che sarebbe diventato l’uomo che aveva di fronte, pure conciato così - non che lei fosse messa molto meglio.

 

Né che un giorno sarebbe potuta diventare Calogiuri pure lei - anche se col cavolo che avrebbe mai usato il cognome di qualcun altro al posto di Tataranni!

 

Anche perché per lei di Calogiuri ce n’era uno solo.

 

E neanche le sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello che avrebbe mai infranto la sacralità del luogo per farci cose assai profane.


Cercò di rimettersi in sesto il vestito, nonostante una delle due spalline avesse ceduto, in quel momento un lampo illuminò la stanza - il segnale che annunciava i fuochi che sarebbero giunti di lì a poco - e la foto del Presidente della Repubblica sul muro, che pareva guardarli con un misto tra severità e complicità.

 

“Lavoro di squadra, presidente, lavoro di squadra!” esclamò, facendo ridere Calogiuri, che ormai aveva finito di rivestirsi e, intascati i bottoni, si era avvicinato per abbracciarla da dietro.

 

“Effettivamente ha seguito la maggior parte delle tappe principali della nostra storia. Dovremmo scrivergli perché lo celebri lui il nostro matrimonio,” scherzò, mentre le riempiva le guance di baci.

 

“Sì… e magari pure il Papa, Calogiuri, che pure se sono divorziata farà un’eccezione solo per noi sicuro,” ribattè, voltandosi per dargli un bacio come si doveva, “mo però leviamoci di qua, che stanno per cominciare i fuochi e non possiamo farci trovare ancora in procura.”

 

Come se i fuochisti l’avessero sentita, uno scoppio alle sue spalle annunciò la prima tornata.

 

Si avviò verso una delle sedie, per rimetterla al suo posto, ma lui, da vero cavaliere, la precedette e le sistemò entrambe con una precisione certosina.

 

Lo prese per mano e, ancora ebbra di sensazioni, adrenalina, endorfine e tutti gli ormoni possibili ed immaginabili, richiuse la porta di quell’ufficio, che per lei sarebbe sempre rimasto il suo ufficio, dietro alle spalle, correndo giù per le scale come due ragazzini che cercano di bigiare la scuola non visti, fino ad arrivare in strada, accolti da quel tripudio di luci, colori e folla che era la festa della Bruna.

 

I fuochi, vicinissimi, parevano sollevarsi in aria e venire loro addosso nella ricaduta.

 

E mentre sentiva l’abbraccio di Calogiuri e lo tirava a sé in un altro bacio, pensò che la madonna della Bruna una grazia gliel’aveva fatta veramente.

 

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“Ehi, Carlo! Finalmente sei riuscito a mollare i tuoi! E lei chi è? Conquista nuova?”

 

Vide Carlo arrossire pure nelle luci da discoteca che illuminavano il salone per la festa. Erano in una villa bellissima, in collina, dalla quale si vedeva tutta la città.

 

“No, no! Lei è Valentina, un’amica, ed è figlia di una collega di mio padre, quindi occhio a come parli!”

 

“Sì, che ogni cosa potrà essere usata contro di te,” intervenne, da un lato divertita, dall’altro lato un poco scocciata di essere definita una conquista.

 

Maschi.

 

“Ho capito… ho capito. Spero che ti piacerà la festa: dopo i fuochi balliamo, io faccio il deejay. Anzi, sto cercando una vocalist per la serata. Per caso tu canti?”

 

“No, no, perché?”

 

“Niente, peccato!” rispose Giampiero, allontanandosi.

 

“Non farci caso: lui fa conquiste così, chiede alle ragazze di fargli da vocalist e poi col fatto che stanno tutta la serata vicino a lui… fa un corteggiamento serrato.”

 

Le venne da ridere: le ricordava la trama di un horror che aveva visto di recente e che faceva veramente orrore ma per le ragioni sbagliate.

 

“Tanto con te non c’è speranza. Io lo so, ma lui no,” rise anche Carlo, avendo frainteso.

 

“No, non c’è speranza, ma non per i motivi che pensi tu, ma semplicemente perché sono molto innamorata.”

 

“Beata te! Io di solito mi innamoro di chi non mi ricambia e le ragazze a cui piaccio spesso non mi interessano.”

 

“Ma se Giampiero ti descrive come uno che fa conquiste!”

 

“Ma no… era solo il suo modo per indagare se tu fossi off limits o no,” chiarì con un sospiro, prima di aggiungere, quando sentirono uno scoppio da fuori “perché non usciamo in terrazzo, che i fuochi sono già iniziati?”

 

Annuì e lo seguì oltre la porta finestra: la vista era davvero meravigliosa e lo spettacolo pirotecnico pure.

 

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Si sentiva come se si fosse finalmente svegliato dopo un lungo torpore, i sensi riattivati, tra quella bocca calda, le dita fresche sulla guancia ed i capelli soffici, spessi e folti che gli scorrevano tra le dita.

 

E poi, all’improvviso, le dita gli lasciarono le guance, le labbra si staccarono dalle sue e si sentì spingere leggermente indietro con un “aspetta!” che lo bloccò completamente.

 

Il fiato corto, la vide respirare a fatica, le labbra ancora più carnose del solito, i capelli mezzi scompigliati.

 

Per colpa sua.

 

“Pietro… io… non… non possiamo! Io sono sposata, tu non hai ancora del tutto superato la storia con Imma e… e c’hai già abbastanza problemi con mio fratello così, non voglio peggiorare la situazione tra di voi.”

 

Se avesse potuto sprofondare, lo avrebbe fatto: che gli era saltato in mente?! Niente, perché non aveva pensato, aveva agito d’istinto.


“S- scusami, io, non so che cosa mi sia preso, ma-”

 

“Non ti devi scusare: ti ho baciato pure io e… non so cosa sia preso neanche a me, non me lo aspettavo,” mormorò, e stavolta era pure più rossa del fratello quando si imbarazzava.

 

“Neanch’io…” sospirò lui, perché, nonostante ultimamente trovasse il contatto con Rosa piacevole, non avrebbe mai pensato di esserne attratto in quel modo.

 

O non ci aveva voluto pensare.


“Forse...forse dobbiamo smettere di vederci, finché siamo in tempo di fermarci, che qua sembra di stare in Beautiful!”

 

Non sapeva cosa dirle, perché gli sarebbe dispiaciuto tantissimo allontanarsi da lei, ma sapeva bene anche lui che, quando c’era attrazione, a continuare a frequentarsi il disastro era dietro l’angolo. E gliel’aveva insegnato Imma… e pensare a quanto aveva fatto il moralista con lei, per le storie con grande differenza d’età, e mo si era baciato la cognata. Per non parlare di quanto si era risentito con il maresciallo per aver insidiato una donna sposata. E questa non solo era sposata, ma era pure sua sorella!

 

“Potrei… potrei accettare la proposta di andare a Roma. Mio fratello ed Imma a quanto pare avrebbero trovato un appartamento per me. Mi cercherò un lavoro. Così magari, vedendoci meno… potremo prima o poi tornare amici e basta senza questi… impulsi.”

 

Fu come se una pietra gli si fosse tuffata nello stomaco. L’idea che lei fosse così distante, di non poterle più parlare, né confidarsi con lei, gli faceva malissimo. E poi in quel bacio aveva provato sensazioni che era dai bei tempi con Imma che non provava, pure se era stato anche molto diverso.

 

“Se… se te ne vai da Matera soltanto per me, non me lo perdonerei mai. Possiamo smettere di vederci, posso tenere le distanze, non serve che cambi città.”

 

“In realtà… eri una delle ragioni principali per restarci a Matera. Mi… mi mancheranno le nostre chiacchierate,” gli rispose, con un sorriso malinconico, e capì che nessuna rassicurazione le avrebbe fatto cambiare idea.


“Anche… anche a me. Molto.”

 

“Comunque mica è un addio. A trasferirmi ci metterò un po’, quindi magari ci incroceremo ancora al supermercato e… prima o poi ci saranno pure eventi di famiglia, anche se probabilmente tu speri di no.”

 

E invece, si rese conto che l’idea non gli dispiaceva così tanto, anzi. Certo, non che facesse i salti di gioia a vedere Imma e il maresciallo insieme, ma… quella sera non era stata poi così male.

 

“Allora… io vado,” disse, facendo segno verso l’interno dell’appartamento e lei annuì e, in silenzio, lo accompagnò alla porta.


“Allora… buona fortuna. Io non… non ti cercherò più se tu non vorrai ma… se hai bisogno di aiuto, finché sarai ancora a Matera… io ci sono e insomma….”


“Lo so che sei un gentiluomo, Pietro. E lo stesso vale per te, naturalmente,” gli rispose, ed era chiaro da quanto brillavano quegli occhi azzurri, che costava a lei quanto a lui, “posso… posso salutarti con un abbraccio?”

 

Non se lo fece ripetere due volte e la strinse forte, godendosi per quei pochi secondi il calore che gli dava, anche se lo sapeva che non avrebbe dovuto provare quelle sensazioni.

 

Ma almeno aveva scoperto di essere in grado ancora di provarle, era già qualcosa.

 

Si costrinse a staccarsi e la sentì accarezzargli il viso e piazzargli un bacio sulla guancia.

 

“Grazie di tutto…” gli sussurrò, con un sorriso malinconico.

 

“Grazie a te!” mormorò di rimando, obbligandosi ad uscire dalla porta e a non voltarsi indietro mentre la sentì richiudere dietro di sé.

 

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“Allora, sei pentita di essere venuta qua o i fuochi hanno compensato un po’ il padrone di casa?”

 

Gli sorrise, mentre versava un po’ di birra dal barilotto che c’era su un lato della stanza e ne offriva prima un bicchiere a lei.

 

“I fuochi non erano male e il fatto che il padrone di casa sia bloccato dietro alla console con un’altra vocalist pure. Che però se questa canta lo potevo fare pure io, anzi, persino mia madre e la sua voce melodiosa!”

 

“Se vuoi sei ancora in tempo, secondo me Giampiero accetterebbe il cambio di corsa,” ironizzò lui, facendola sorridere: finalmente sembrava essersi un poco sciolto dalla parte di bravo ragazzo, figlio di buona famiglia e soccorritore di pulzelle in pericolo ed era simpatico. Aveva preso la vena comica del padre.

 

“No, grazie.”

 

“Scusami,” li interruppe un altro ragazzo, biondo e con gli occhi verdi, effettivamente molto carino, “se voi non lo fate… ti va di ballare?”

 

Carlo la guardò e lei decise rapidamente il da farsi: va bene che in un ballo non c’era niente di male, ma voleva avere la coscienza pulita con Penelope ed il ragazzo era fin troppo avvenente.

 

Non che Carlo fosse brutto, anzi, ma la cosa era diversa.

 

“Ho già promesso di ballare a lui, la birra è per riscaldarci,” rispose quindi e, dopo un’altra sorsata, prese la mano libera di Carlo e lo trascinò verso la pista.

 

“Guarda che… non sono un granché a ballare.”

 

“Manco io! Basta che guardi dove metti i piedi, che ho i sandali!” gli gridò, prima di mettergli la mano libera su una spalla e Carlo iniziò a muoversi, pure se un poco goffamente.

 

Evidentemente dal padre non aveva preso non solo l’estetica ma nemmeno il lato da Febbre del Sabato Sera.

 

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“Eccoci qua!”

 

Le veniva ancora da ridere, mentre, a braccetto di Calogiuri, raggiungevano finalmente il pianerottolo dell’appartamento di sua madre. Non sentiva quasi più i piedi ma la sensazione come di ubriachezza non l’abbandonava e sovrastava pure l’indolenzimento.

 

Estrasse la chiave dalla borsa e stava per aprirla quando Calogiuri la bloccò, facendole un cenno.

 

Ne seguì le pupille, dilatatissime, e si rese conto della spallina staccata, che penzolava: se ne era scordata.

 

Si coprì meglio le spalle con la giacca, che le aveva prestato lui non appena si erano allontanati dal calore della folla, sperando che non si notasse. Ma magari Rosaria già dormiva… alla fine era da un po’ che lei e Pietro erano rientrati.

 

Sperando di essere tanto fortunata, girò la chiave nella toppa e venne accolta da una luce molto fioca: la televisione e Rosaria era seduta sul divano, con una tazza di quella che pareva camomilla in mano, anche se lo sguardo era perso nel vuoto, strano, non da lei.

 

“Rosà, tutto bene?”

 

La ragazza fece un mezzo salto sul divano, tanto che le finì un poco di camomilla sui pantaloncini del pigiama.

 

“Oddio! Tutto bene, non-”

 

“Tranquilla: ormai è fredda,” le rispose, appoggiando la tazza sul tavolino, sembrando ancora un poco nelle nuvole, tanto che li guardò in modo distratto, sembrando per fortuna non accorgersi né della spallina, né dei bottoni mancanti all’appello.

 

Poi però, nel giro di qualche secondo, scosse il capo e parve riscuotersi, domandando, rivolta al fratello, “e allora? Com’è andata?”

 

Le venne da sorridere per come era stata formulata la domanda: abbastanza neutra da non rivelare di che cosa stesse parlando, se Calogiuri per qualche motivo la proposta non l’avesse fatta, o se fosse andata male.

 

Calogiuri divenne praticamente fucsia, aprì bocca, ma era visibilmente emozionatissimo. E allora Imma lo tolse dall’impaccio, sollevando la mano sinistra con il dorso rivolto verso Rosaria.

 

Un gridolino che le parve un ultrasuono le forò quasi un timpano e, prima di rendersene conto, si trovò Rosaria che l’abbracciava e le diceva “congratulazioni!”, per poi buttarsi addosso a Calogiuri con un “e bravo il fratellino! Ormai mi stai diventando adulto! Vedi di non fartela scappare, che le bomboniere a sto giro te le tiro in testa!” ed infine trascinarli in una specie di morsa di gruppo.

 

Percepì però un tremore alla schiena e non era il suo, e nemmeno di Calogiuri, ma il braccio di Rosa. Quando si staccarono, per quanto fosse stato tutto velocissimo, non potè non notare che aveva gli occhi lucidi ed un paio di lacrime sulle guance.

 

Le ricordava il modo silenzioso di piangere del fratello, mannaggia a lei, ed il pianto dei Calogiuri era da sempre un’arma letale per Imma.

 

“Che c’è?” le chiese, di nuovo preoccupata, ma Rosaria scosse il capo.


“Niente… è che… mi sono commossa. Sono davvero felice per voi: ce l’avete fatta, nonostante tutto e tutti. Ve lo meritate di essere felici!” rispose, dando un pizzicotto al fratello.

 

Ma c’era qualcosa che non le tornava: non le sembravano lacrime di felicità quelle.

 

E non era nemmeno triste per loro, anzi, che fosse felice del fidanzamento - inspiegabilmente - era palese ma… le mancava qualche pezzo.

 

“Calogiù… inizi tu ad andare in bagno, che così poi ci facciamo una bella dormita?” gli chiese, perché dopo quello che era successo nel suo ufficio altro che doccia ci voleva, ma nel frattempo voleva confermare un suo sospetto.

 

Calogiuri le sorrise e le diede un rapido bacio, apparentemente ignaro di tutto, sparì in camera da letto e poi dopo poco lo vide entrare in bagno con un accappatoio sotto braccio. Entrò pure lei in stanza, giusto il tempo di levarsi il vestito rovinato ed infilarsi in una delle sue camicie da notte, prima che Rosaria si potesse accorgere di quanto era successo in procura, oltre alla proposta di matrimonio.

 

Tornò in sala e la trovò ancora lì, a bersi la sua camomilla o quello che ne rimaneva.

 

“Calogiuri mi ha detto che hai aiutato con l’anello. E poi va beh… pure stasera che ti sei dileguata peggio degli esponenti della Matera bene quando arriva la finanza. Grazie,” le disse, un poco per rompere il ghiaccio, come era sua deformazione professionale fare negli interrogatori ed un po’ perché le era veramente grata, moltissimo.

 

“Figurati! Si vede che mio fratello è felice con te e a me questo basta. E poi sarai la prima della famiglia, pure se allargata, ad avere una laurea,” scherzò, anche se ci sentiva un sottotono di rimpianto in quelle parole.

 

“La cultura e l’intelligenza sono due cose molto diverse. E l’intelligenza sicuramente non manca nella vostra famiglia, anzi, almeno nella vostra generazione. E sono io che ti ringrazio per volere una come me come cognata: di solito i potenziali parenti acquisiti mi odiano tutti, in parte pure a ragione, ma tu per fortuna fai eccezione.”

 

“Se parli di mia madre… considerando che le piaceva Maria Luisa, starle antipatica è un complimento!”

 

“Puoi dirlo!” concordò, ma poi si fece più seria, perché, nonostante i toni giocosi, c’era sempre come un velo negli occhi di Rosaria.

 

Ed era decisamente troppo giovane per soffrire di cataratta.

 

“Mi vuoi dire che ti succede? E non provare di nuovo a rifilarmi la storia della commozione, che gli stati d’animo della gente mi tocca leggerli per mestiere.”

 

Rosaria sospirò, le spalle che le si incurvarono visibilmente. C’era come una resa nel suo sguardo, cosa che la preoccupò, perché Rosaria era sempre battagliera, un caterpillar forse pure più di lei. Ma ci lesse anche timore, spavento, che non capì.

 

Prese posto vicino a lei, sul divano, cercando di esercitare la poca pazienza che aveva e non forzare la mano.

 

“Ci ho riflettuto molto in queste ore e ho… ho deciso di venire a vedere l’appartamento che mi proponete e di trasferirmi a Roma il prima possibile.”

 

Un’affermazione decisa ma che non spiegava per nulla il suo stato d’animo.

 

“Va bene le lunghe attese per la Bruna ma… eri così dubbiosa prima. Sei sicura?”

 

“Sì, sì, è la cosa migliore per tutti. Qua non ho nessuno di famiglia e… a Roma ci siete voi e… e magari più possibilità per il futuro.”

 

“Ma… ma è per il trasferimento che sembri così triste? O non è solo per questo?”

 

Rosa teneva gli occhi bassi e si tormentava il labbro inferiore con i denti.

 

“Sei sicura di essere contenta che tuo fratello si sposi? Magari una parte di te pensa che sia troppo presto, e lo capirei se tu fossi preoccupata e-”

 

“No, no, Imma, figurati!” esclamò, rialzando gli occhi e guardandola in un modo che non lasciava spazio proprio a dubbi, “io… io sono felice che il mio fratellino è felice, te l’ho detto. Che ha trovato qualcuno che ama davvero e che lo ama davvero. Ma… vedervi così felici mi fa pensare al mio di matrimonio e che… che sono sola. Non mi ha mai pesato prima ma… sento improvvisamente che mi manca qualcosa. E lo so che non è giusto avere questi pensieri, né nei confronti di Salvo, né di Noemi, ma-”

 

“E perché non è giusto? Tutti i rapporti vanno mantenuti, alimentati, se no si perdono. Salvo, magari non per colpa sua, ma è tanto assente, poi state insieme da una vita e… lo so com’è. Anzi, io di anni ne tenevo ventiquattro, quando ho conosciuto Pietro,” commentò, notando come Rosa abbassasse di nuovo lo sguardo, “tu manco maggiorenne eri. Mi sembra normale che… che si cambi. Ma mi sembra pure normale che il vostro rapporto non sia come quello di tuo fratello con me, che alla fine sono pochi anni che mi deve sopportare.”

 

“Lo so, ma… ma non siamo mai stati così io e Salvo. E… non dico che dovremmo essere da diabete come voi ma… ma vorrei passare più tempo con lui, parlarci veramente, almeno avercelo un rapporto. Vedo più spesso il pizzicagnolo all’angolo di mio marito e… e non so più se mi va bene, ma poi mi chiedo se sia giusto avere questi pensieri mo. Quando l’ho sposato sapevo che mestiere faceva e-”

 

“Ma forse era comunque più presente?”

 

“Sì… da quando abbiamo litigato per il trasferimento ci vediamo sempre meno e… quando c’è pare sempre che non c’abbiamo niente da dirci, se non recriminazioni sui sacrifici che fa, su quanto si stava bene da mammà e su come non mi riconosce più.”

 

Sospirò: almeno su alcune cose il discorso le era familiare, fin troppo, anche se con Pietro era stata lei a mollare il colpo, ad allontanarsi, per motivi diversi.

 

“Senti, Rosà, te lo dico come una che c’è passata e comunque ne ha sofferto, pure se magari non sembra, e soprattutto ha visto quanto è brutto fare soffrire qualcuno che si è amato per tanti anni,” esordì e Rosa, di nuovo, abbassò gli occhi, “Valentì era grande e, nonostante quello, mi sono fatta mille scrupoli per lei e per me. Lo so che Noemi è piccola e… una separazione dei genitori non è mai facile, anzi. Ma Valentì era attaccatissima a Pietro e… lui era sempre presente, molto più di me. Qua mi pare che Noemi sia abituata a vedere il papà solo alcuni giorni e che-”

 

“Che forse alla fine non cambierebbe niente per lei? Ci ho pensato anche io e… ed è la cosa che mi fa più rabbia e mi mette più tristezza di tutta questa situazione.”

 

“Niente niente non lo so e… pensaci molto bene, prova a parlarne con lui, che dopo tutti questi anni ve lo dovete, di provare almeno a parlarne e cercare una soluzione. Ma se poi non sei felice… sei giovanissima, ed hai diritto di esserlo, pure per Noemi che si merita una madre che si voglia bene e le insegni a volersi bene. Chiaro?”

 

Si trovò con Rosa tra le braccia, che per poco non la soffocava, e poi le sussurrava “puoi… puoi non dire niente ad Ippà? Già tiene tanti pensieri, non voglio rovinargli il momento felice, che starà al settimo cielo!”

 

“Io sto pure all’ottavo, se è solo per quello! E va bene, però guarda che pure lui lo vede che qualcosa non va, mica è scemo! Non pensare che non se ne sia accorto.”

 

“E tu non pensare che non mi sono accorta di come stavano messi i vostri vestiti quando siete rientrati a casa,” si sentì sussurrare in un orecchio ed il viso le andò a fuoco, pure prima che Rosaria si rimettesse seduta, ridendo soddisfatta, “ma beati voi! Che io ancora un po’ e non mi ricordo neanche più come si fa!”

 

Nonostante l’imbarazzo di essersi fatta beccare, non potè evitare di ridere e pensare a quanta fortuna avesse avuto sia con il futuro marito, sia con la futura cognata.

 

Il resto… non ci sono rose senza spine, in fondo.

 

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“Vuoi un altro po’ di schiuma?”

 

“Sìììììììììì!”

 

Noemi, che aveva barba e baffi per la schiuma del cappuccino, peggio di Babbo Natale, era talmente piena di energia da farle invidia.

 

Ma, del resto, era andata a dormire presto lei, non come loro e non aveva fatto tutto il loro… movimento il giorno prima.

 

Sentì qualcosa sfiorarle la caviglia e vide che era Ottavia, ruffiana come sempre, che la guardava implorando un pezzetto di qualcosa, ma non voleva rischiare che stesse male.

 

E poi per poco non le cadde il cucchiaino di mano perché il tavolo vibrò.

 

“Il tuo,” le disse Calogiuri, mentre si sedeva accanto a lei.

 

Lanciò un’occhiata allo schermo e ci vide il nome di Diana.

 

“No, Diana, a colazione no!” sospirò, rifiutando la chiamata: sicuramente era curiosa di com’era andata la sera prima, ma poteva pure aspettare un’altra mezz’ora per il pettegolezzo del giorno.

 

Stava addentando il cornetto all’arancia - il cui gusto ormai le dava nostalgia - quando un altro trillo annunciò un messaggio in arrivo.

 

Moliterni

 

Sospirò: che voleva Maria a quell’ora?

 

Per un attimo le venne il dubbio che i loro… festeggiamenti nel suo ufficio non fossero stati visti soltanto dal Presidente oppure che, in qualche modo, avesse già scoperto del loro fidanzamento.

 

Ma non le scriveva quasi mai, era meglio scoprire subito che rogne portava e levarsi il pensiero, sperando che non fosse una nuova uscita con Vitolo, che avrebbe in ogni caso sentitamente rifiutato.

 

Non voglio impicciarmi e-

 

Già l’esordio del messaggio prometteva benissimo, proprio!

 

Non voglio impicciarmi e ho già provato a contattare Vitali, ma penso sia giusto che lo sappia anche tu. Ho Carlo Vitali tra gli amici sui social e… stamattina mi è apparso questo.

 

Al messaggio, breve per gli standard della Moliterni, seguì un link.

 

Lo toccò e le uscì un post, si chiamavano così, con due foto affiancate in cui riconobbe immediatamente Valentina. In quella di sinistra si baciava con Penelope, in un posto che pareva una discoteca, forse a capodanno. In quella di destra Valentina che ballava con Carlo, presumibilmente alla festa della sera prima.

 

Il titoletto sotto le foto la fece incazzare ancora di più.

 

Quando sei così tanto una femminuccia che giusto a una lesbica puoi piacere!

 

L’autore del post era un certo Vins Il Mignottaro. Vincenzo, presumibilmente.

 

Un poeta, sicuramente.

 

Toccò la foto, per capire meglio e balzarono fuori alcuni nomi. Quelli di sua figlia, di Carlo e di un certo Giampiero, probabilmente l’organizzatore della festa.

 

Con le dita che le tremavano, toccò il nome della figlia ed aprì il suo profilo. Aveva pubblicato solo una foto dei fuochi d’artificio, ma il numero spropositato di commenti sotto a quell’immagine non prometteva niente di buono.

 

Li aprì e ciò che lesse la fece incazzare come non si era mai incazzata nella sua vita.

 

Da insulti, a commenti sulle dimensioni dei subumani che sostenevano che non avesse mai provato un vero uomo come loro - e per fortuna! - a proposte indecenti di vario tipo, fino a qualche sua ex compagna di classe di cui riconosceva i nomi che commentava che l’ho sempre saputo che la De Ruggeri è lesbica.

 

“Imma?”

 

Si sentì toccare il braccio e per poco non fece un salto. Si rese conto dallo sguardo preoccupato di Calogiuri che stava tremando di rabbia.

 

Gli passò il telefono perché non sapeva neanche cosa dire, avrebbe soltanto voluto urlare ed andare da quei deficienti e prenderli a ceffoni a due a due, finché non diventavano dispari, ma non si poteva e sarebbe stato comunque inutile.

 

Vide lo sguardo furioso di lui, ma pure confuso, mentre chiedeva, “ma come-?”

 

Riprese il telefono e gli mostrò il post mandatole dalla Moliterni. Lo vide stringerle il telefono con tanta forza che le nocche gli diventarono bianche e poi glielo ripassò, sussurrando, “che vuoi fare?” con una voce roca che quasi era irriconoscibile.

 

Non l’aveva mai visto così incazzato, se non quando era lei in pericolo.

 

“Devo sentire Valentina, subito,” realizzò in quel momento, alzandosi da tavola e selezionando già il numero, mentre udiva Noemi esclamare “te ha tata?”

 

Beata innocenza!

 

Niente. La signorina dalla vocetta metallica le annunciò che Valentina non era raggiungibile e che si pregava di richiamare più tardi.

 

Col cazzo!

 

Fece scorrere fino al contatto di Pietro.

 

Per fortuna almeno quel telefono prese a squillare e lo sentì rispondere con un “Imma?!” che le sembrò molto spaventato.

 

Forse sapeva tutto.

 

“Hai già sentito di Valentì?”

 

“Valentina?” domandò, lui, confuso.

 

“Valentì dove sta, Pietro?”

 

“In camera sua sta, a dormire, che ieri sera è rientrata che… che praticamente era stamattina. Ma che succede?”

 

“Succede che dei cretini hanno fatto uscire sui social delle foto di Valentina con Penelope, per colpire Carlo Vitali, più che altro, ma… tra poco di Valentina e Penelope lo saprà tutta Matera.”

 

Un attimo di silenzio tombale.

 

“Vado a svegliare Valentì e l’avviso.”

 

“No, aspetta!” lo interruppe, d’istinto, ancora prima di rielaborare del tutto il perché, “vengo lì pure io. Voglio che glielo diciamo insieme, Piè.”

 

“Va… va bene…” lo sentì sospirare, anche se le parve pure sollevato di non doverlo fare da solo.

 

Non che sarebbe servito a qualcosa, purtroppo.

 

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“Stavo per chiamarla io, per esprimerle ovviamente tutta la mia solidarietà, dottoressa, a lei e a sua figlia.”

 

“Purtroppo della solidarietà temo mia figlia se ne farà molto poco, dottore.”

 

Aveva telefonato a Vitali prima di uscire di casa, presa di nuovo da un impulso. Alla fine era anche colpa della meravigliosa festa e del suo rampollo se Valentina si trovava in quella situazione.

 

“Lo capisco, dottoressa, lo capisco. Mi creda, sono mortificato e molto arrabbiato, ma mai quanto lo è mio figlio. Che per colpire lui c’è andata di mezzo sua figlia ed il suo sacrosanto diritto alla privacy e questo è inaccettabile.”

 

“Non è colpa di suo figlio, dottore, ma dovrebbe rivedere le sue amicizie.”

 

“Ma quelli non sono amici suoi, dottoressa! Sono dei bulli che gli danno noia da quando è arrivato da Napoli, perché è ricco ed ha una famiglia… in vista. Hanno trovato le foto della festa sul profilo di chi l’ha organizzata e… hanno colto l’occasione.”

 

“E magari invece di subirli questi bulli si poteva fare qualcosa, no?”

 

“Dottoressa, almeno fino ad ora non hanno fatto niente di illegale. Sono tutte foto scattate in luoghi pubblici o rese pubbliche da qualcuno. Quindi che potrei fare? Lo sa che a finire dalla parte del torto con un’accusa di abuso di potere è un attimo.”

 

“Senta, dottore, mo devo andare a parlare con mia figlia, poi magari ne riparliamo.”

 

Chiuse la chiamata, sapendo che Vitali non avrebbe potuto fare niente.


E neanche lei. Ed era quella la cosa che le faceva più rabbia.

 

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Si sentiva ancora intontita. Non era più abituata a fare l’alba, anche perché pure con Penelope… di solito avevano di meglio da fare ad una certa ora, che starsene in giro a ballare.

 

Si decise ad uscire dalla stanza: necessitava di molto caffè. Percorse il corridoio un poco alla cieca e quando arrivò in cucina si svegliò di colpo.

 

Sua madre e suo padre erano seduti al tavolo che la aspettavano.


Si chiese se stesse per caso sognando la sua adolescenza - ogni tanto ancora le capitava - ma poi notò che suo padre aveva il suo nuovo look, sebbene con un poco più di barba del solito.

 

“Mamma?” chiese, stupita e un poco preoccupata, “che… che ci fai qui? Cos’è sto comitato di accoglienza a colazione?”

 

“Non ti preoccupare, Valentì, è che… ti dobbiamo parlare.”


“E come faccio a non preoccuparmi? Che è successo mo?” domandò, prendendo la sedia di fronte a suo padre e lasciandocisi cadere, perché le energie ancora non c’erano.

 

“Un paio di cretini… probabilmente quelli di capodanno… hanno capito chi sei da alcune foto fatte alla festa di ieri e… hanno pubblicato una foto di te e Penelope che vi baciate, con il tuo nome pure. Quindi… tra poco di te e Penelope lo saprà mezza Matera.”

 

Non ci poteva credere, non ci poteva credere: lo stomaco le si chiuse immediatamente, dalla paura e dalla rabbia.

 

Recuperò il cellulare dalla tasca e riattivò i dati. Prese a vibrare come impazzito e le ci volle un po’ prima di riuscire a farlo funzionare, perché era tutto bloccato. Aprì il suo profilo e vide alcuni commenti sotto la sua ultima foto che le fecero venire il vomito. E poi trovò una notifica di un tag ed il famoso post di cui parlava sua madre.

 

“Sì… è uno di quelli di capodanno!” confermò, guardando la foto profilo di Vins che, per qualche motivo, proclamava con orgoglio nel suo nome utente di doverle pagare le donne per andarci.

 

Non che la cosa la sorprendesse.

 

E poi sullo schermo comparvero una sfilza di notifiche di messaggi in arrivo, di gente che aveva il suo telefono. Aprì rapidamente il programma di messaggistica istantanea, per levarsele di torno, e ci vide compagne di scuola che non sentiva da una vita, una dell’università che doveva avere letto il tutto sui social, ma soprattutto, notò Carlo Vitali.

 

Non sapendo bene come sentirsi nei suoi confronti, aprì la conversazione.

 

Non sai come mi sento male per tutto quello che sta succedendo, anche per colpa mia. So che non c’è modo di rimediare, ma se posso fare qualcosa per aiutarti, qualsiasi cosa… basta che lo dici e lo farò.

 

Stranamente, notò che non era arrabbiata con lui. Non c’entrava niente: era una vittima anche lui, alla fine.

 

Non puoi fare niente ma grazie per il pensiero. Non è colpa tua, ma di quei deficienti e di tutti gli altri sfigati che hanno visto troppi porno. Mo devo avvisare un po’ di persone che magari ancora non lo sanno, ma non darla vinta neanche tu a quegli stronzi.

 

“Devo… devo avvertire Penelope. E… c’è da dirlo a nonna, se non lo sa già,” si rese conto, alzando lo sguardo verso i suoi che tenevano un’espressione che le confermava chiaramente come sarebbe andata.

 

Ma meglio saperlo da lei che dai pettegoli e-

 

Il suono di un campanello interruppe quel pensiero.

 

E purtroppo il modo di suonare, che pareva una mitragliata, era molto familiare.

 

Lupus in fabula…”

 

Il commento di sua madre confermò il suo pensiero.

 

“Che devo fare? Vuoi che apro o no?” domandò invece suo padre e Valentina provò un moto di orgoglio.

 

“Veramente lasceresti nonna fuori casa?”

 

“Se non sei pronta a parlarle sì,” rispose, come se fosse la cosa più normale del mondo, e il sorriso che gli fece sua madre rifletteva il suo.

 

“Lo so che state in casa! Se non mi aprite uso la chiave!”

 

E sì, era proprio sua nonna, che pareva pure più incazzosa del solito.

 

“Spiegatele che si chiama violazione di domicilio, se si entra in un appartamento senza il consenso del proprietario o del locatario, pure se si hanno le chiavi.”

 

“Lo capirà che è una frase tua e non mia o di Valentì!”


“Tanto ho sentito benissimo, con la voce delicata che ti ritrovi, Imma! Fatemi entrare! Quella non può più dettare legge qua: non è più casa sua!”

 

“Ma neanche vostra, signora, e siete voi che state facendo una piazzata!”

 

“Va beh, dai, facciamola entrare, che tra poco esce tutto il vicinato a vedere che succede! E tanto prima o poi le dovevo parlare!” esclamò, perché a quel punto era inutile rinviare: via il dente via il dolore.

 

Andò verso la porta e l'aprì.

 

“Finalmente! Mo ho capito: è perché sei tornato pappa e ciccia con questa che ti sei lasciato con Cinzia?”

 

“Ti sei lasciato con Cinzia?!” esclamò, in perfetto unisono con sua madre, mentre entrambe guardavano suo padre con un misto di sorpresa e sollievo nello sguardo.

 

“S- sì.”

 

“Era ora!” commentò, soddisfatta: non aveva mai capito cosa suo padre ci trovasse in quella ed il peggio era che non sembrava averlo capito manco lui.

 

“Cinzia è una bravissima donna, di buona famiglia, dai grandi valori. E parli proprio tu, che mo ti metti in relazioni contro natura, anche se ti sono sempre piaciuti i ragazzi, ma del resto ormai è di moda essere gay!”

 

“Veramente gli omosessuali esistono ovunque in natura e comunque non sono lesbica ma bisessuale.”

 

Lo sguardo di sua nonna si fece talmente confuso da risultare quasi comico.

 

“Vuol dire che mi possono piacere sia i ragazzi che le ragazze, nonna.”

 

“E allora lo vedi, lo vedi che è un capriccio? E perché non ti scegli un bravo ragazzo, di buona famiglia, invece di una che sembra che dorme nelle stazioni?”

 

“La famiglia di Penelope economicamente sta messa meglio di tutte le nostre messe insieme, ma magari non va in giro a sbandierarlo perché sa che ci sono cose più importanti nella vita. E comunque non si sceglie chi si ama, e io amo Penelope.”

 

“Lo sapevo: è tutta colpa tua!” urlò sua nonna, voltandosi di scatto verso sua madre, “sei tu che hai messo in testa a Valentina che tutto si può fare, pure stare con uno che può essere tuo figlio o decidere che va bene tutto, uomini o donne, e chi se ne frega dei valori!”

 

“Veramente io sono molto orgogliosa dei valori di Valentina, che è cresciuta sapendo che non bisogna discriminare. E soprattutto del fatto che è una donna libera. La vita è una e bisogna essere felici, e non farsi condizionare dagli altri e da una morale che pare uscita dal medioevo! Perché, anche se magari non lo sapete, l’omosessualità e la bisessualità non sono un reato e non sono considerati una malattia dal 1990. Quindi, dopo trent’anni, potreste aggiornarvi pure voi!”

 

“E tu non dici niente? Ti va bene questa follia? Ti fai ancora condizionare da lei?”

 

La nonna si era rivolta a papà, probabilmente capendo che tanto con mamma non c’era speranza, e suo padre aveva l’aria di essere ad un passo dall’esplodere.

 

“Veramente l’unica che ha sempre cercato di condizionarmi sei tu e non ne posso più!”

 

Sia sua madre che sua nonna rimasero a bocca aperta, come lo era pure lei, del resto.

 

“Ho sempre sopportato, e sopportato, e sopportato, perché ti voglio bene, mà, ma sono un padre pure io e non accetto che nessuno provi a far sentire mia figlia sbagliata. Nemmeno tu. E pure io sono molto ma molto orgoglioso di Valentì!”

 

La vista le si appannò: le veniva da piangere.

 

Gli buttò le braccia al collo e lo abbracciò.

 

“Pure io sono molto orgogliosa di te, pà!” gli sussurrò, mentre si sentiva stringere forte, come quando era bambina.

 

Udì un rumore di una porta che sbatteva e, quando sciolse l’abbraccio, sua nonna non c’era più. In compenso c’era mamma con gli occhi lucidi e che sorrideva.

 

Le sembrava una scena di così tanto tempo prima, ma la verità era che non era mai successo niente di simile.

 

E le pareva quasi un miracolo.

 

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“Com’è andata?”

 

Lo sguardo preoccupatissimo di Calogiuri, in piedi in salotto, le strappò un sorriso.

 

“Bene… la madre di Pietro ha fatto irruzione, praticamente, ma lui le ha tenuto testa, cosa che non mi aspettavo. Quindi… direi che tutto sommato è andata bene,” si sorprese ad ammettere, godendosi il sorriso sollevato di lui, “ma… Rosa e Noemi? Dove stanno?”


“Noemi non riusciva più a stare ferma, lo sai com’è fatta, quindi Rosaria è uscita con lei per farla sfogare un po’.”

 

“Beata lei che c’ha tutte ste energie!” sospirò, perché, passata l’adrenalina, la stanchezza del giorno prima tornava a farsi sentire.

 

Si sentì stringere forte da dietro, un bacio sulla nuca che le faceva il solletico e si lasciò andare tra le braccia di lui.

 

“Posso fare qualcosa?” le sussurrò all’orecchio, ma lei sospirò e scosse il capo.

 

“Valentina ce l’avrà durissima a Matera e non solo ma… non credo si possa fare niente.”

 

“Gliela spaccherei la faccia a tutti quei maiali che hanno mandato quei messaggi!” pronunciò lui, deciso, e le venne da sorridere, mentre si voltava per guardarlo negli occhi.


“Ecco, quello te lo devi proprio scordare, Calogiuri: non voglio che ti cacci nei guai. Però….”

 

“Però potremmo almeno denunciarli, no, per quello che hanno scritto? Almeno quelli che ci sono andati giù pesante.”

 

“L’unico risultato sarebbe fare felici gli avvocati e scatenare un altro polverone e lo sai. Anche se… almeno agli stronzi che hanno messo in giro le foto e che hanno molestato Valentina e Penelope a capodanno, una bella lezioncina vorrei proprio darla!”

 

“E come?”

 

“Non lo so ancora, Calogiuri. Ma non voglio rischiare di passare dalla parte del torto, quindi… ci dobbiamo pensare, nel frattempo niente colpi di testa, va bene?”

 

Lo vide annuire e poi percepì il calore della fronte che si appoggiava sulla sua, in quello che era il loro modo di farsi forza a vicenda.

 

I piedi e lo stomaco che si lamentavano la costrinsero a staccarsi troppo presto. Andò in camera da letto per levarsi le scarpe e lo scintillio sul comodino la fece bloccare.

 

L’anello di fidanzamento: quella mattina non aveva nemmeno fatto in tempo a reindossarlo, non che sarebbe stato il caso.

 

E questo la portò ad un’altra consapevolezza, mentre lo prendeva tra le dita, pensando che fosse una delle cose più belle e commoventi che aveva mai visto in vita sua.

 

Si voltò a guardare Calogiuri negli occhi, perché glielo doveva, e trovò il coraggio di chiedergli, “ti… ti dispiace se… se aspettiamo un poco a dare la notizia a Valentina e… e a tutti quanti?”

 

Non serviva specificare quale notizia. Lo vide fare un sospiro, ma non parve sorpreso.


“A me basta che… che non cambi idea sulle nozze, per il resto… lo sai che so aspettare, no?”

 

“Fossi matta, Calogiù!” esclamò, afferrandogli il viso e baciandolo dolcemente.

 

Si staccò solo quando sentì un “ahia!” e si rese conto che gli aveva quasi conficcato l’anello nella guancia.

 

Prima di fare altri danni, slacciò la catenina che le aveva regalato e che teneva sempre al collo e ce lo infilò, come un ciondolo, nascondendo poi il tutto sotto il vestito, vicino al cuore.

 

Lo vide sorridere in un modo così da denuncia che stava per baciarlo nuovamente, quando un trillo a dir poco fastidioso interruppe il momento.

 

Estrasse il cellulare dalla borsa.


Diana.

 

“Scusami ma… devo avvisare lei e Capozza di tenersi la storia del fidanzamento per loro, Calogiù! Poi dovremo dirlo pure a tua sorella.”

 

“Con Rosa ci parlo io, anzi, la chiamo, mentre tu stai al telefono con la signora Diana,” si offrì, prendendo il suo cellulare dal comodino.

 

“Almeno per quando ci saranno le nozze riuscirai a chiamarla solo Diana, Calogiù?”

 

“Non prometto niente!” esclamò lui, facendole l’occhiolino, ed avviandosi fuori dalla stanza, come faceva quasi sempre quando lei doveva parlare al telefono.

 

E, mentre si preparava a perdere ancora un poco di udito, e selezionava la cornetta verde, pensò che era soltanto uno dei tanti motivi per cui lo amava.

 

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“So già tutto.”

 

“Mi… mi dispiace… ma… ho dormito fino a tardi e poi è arrivata nonna e-”

 

“Calma, Vale, calma! Ho detto che so già tutto, mica che sono arrabbiata. Non è colpa tua, ma di quegli stronzi di capodanno! E comunque ti voglio vedere, non ti lascio da sola: domani torni a Roma, no?”

 

Il sollievo fu grandissimo, anche se da Penelope non si aspettava niente di diverso. Come avrebbe mai potuto non innamorarsene alla follia?

 

“Sì, ma-”


“E allora scendo pure io. Lo so che tu devi studiare, ma io non ho più esami e… spero di non distrarti troppo ma-”

 

“Ma io invece voglio che mi distrai. Almeno in alcuni momenti. Anche se mo, altro che lo studio c’ho in testa!”

 

“Lo so, Vale, ma non devi permettere a nessuno di condizionarti la vita. E comunque… in certi momenti ti distrarrò più che volentieri!”

 

Sorrise: come la distraeva Penelope non l’aveva mai distratta nessuno. Ma mo doveva rimanere ben ancorata alla realtà e fare quello che si era prefissata di fare.

 

“Penelope… io… io voglio fare un post.”

 

“Come?”

 

“Se… se c’è qualcosa che ho imparato da tutti i casini che sono successi a mia madre e a Calogiuri è che a nascondersi si fa peggio. Voglio fare un post pubblico, magari mettendo una foto di noi due insieme. Non so se vuoi farlo anche tu, ma-”

 

Si interruppe perché la sentì ridere.

 

“Vale, a me basta che non finiamo con un profilo di coppia, e poi mi va bene tutto.”

 

“Non c’è pericolo!”

 

“Quale foto vorresti mettere? Ormai ne abbiamo un po’ insieme.”

 

“Non lo so ma… una in cui ci baciamo, anzi, magari più di una, come a dire che non c’è nessuno scoop e niente di strano e-”

 

“Mi stai diventando esibizionista, De Ruggeri?” si sentì prendere in giro, ma percepiva dalla voce di Penelope che le faceva piacere, “dammi qualche ora per organizzare le foto che ho in giro e… per preparare qualcosa. Va bene?”

 

“Va bene. Io intanto scrivo il testo,” concordò, chiudendo la chiamata.

 

*********************************************************************************************************

 

“Tutto bene?”

 

Incrociò lo sguardo di Calogiuri che, come sempre, aveva colto il suo stato d’animo.


Erano a letto, pronti per dormire, dopo due giornate campali.


“Valentina mi ha scritto che vuole rispondere agli stronzi. Sono un po’ preoccupata di che può combinare.”

 

Calogiuri prese il telefono e ci armeggiò un poco. Poi però sorrise e glielo porse.

 

Sua figlia aveva appena pubblicato qualcosa: vide subito una foto bellissima di lei e Penelope che si baciavano, con i navigli di Milano come sfondo. E poi, facendo scorrere, un’altra foto di un loro bacio, di sera, su una terrazza da cui si vedeva il Cupolone di sfondo, poi una foto abbracciate in tenda, probabilmente alle Baleari, ed infine un ritratto, anche se un poco stilizzato, schiena contro schiena, le teste appoggiate una all’altra, che le ricordava moltissimo il primo regalo che Penelope aveva fatto a Valentina, tanti anni prima.

 

A chi dice che stare con te non è normale, dico che ha ragione: è straordinario. Grazie per avermi insegnato cosa voglia dire davvero amare ed essere amati, senza condizioni, senza riserve, senza lacci. L’amore non si sceglie, capita, ma io mi sento fortunatissima che mi sia capitato con te.

 

Le venne un nodo in gola: la sua bambina era proprio una donna ormai.

 

“Certo che scrive bene, Valentina,” commentò Calogiuri e le toccò annuire.

 

“Sì, non è niente male! Almeno tutti gli anni al classico a qualcosa sono serviti! Quasi quasi meglio pure quelli di Mancini.”

 

L’espressione di Calogiuri divenne così adorabilmente gelosa da farla sorridere.

 

“E dai, Calogiù, che tu Mancini lo batti sempre, lo sai. Magari lui sarà pure bravo nello scritto, ma nell’orale non ti batte nessuno!” scherzò, facendogli l’occhiolino.

 

Dalla gelosia, l’espressione si trasfigurò nell’impunitaggine più totale.

 

“Calogiù!” fece in tempo ad esclamare, prima che sparisse sotto al lenzuolo, “non intendevo in quel-”

 

Il fiato di lui sulla pelle le fece scappare da ridere e poi, mentre era ancora senza fiato per il troppo riso, dovette tapparsi la bocca per soffocare un grido.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ti rendi conto che tua sorella e magari pure Noemi ci avranno sentito, sì?”

 

“Noemi, anche se avesse sentito qualcosa non può capire, ma tanto starà dormendo. E mia sorella è abituata a vivere con una famiglia numerosa quindi… non si può proprio scandalizzare, dopo tutto quello che ho dovuto sentire io. E poi sei stata brava a trattenerti, rispetto al solito!”

 

“Non di certo grazie a te, che ti ci sei messo d’impegno per farmi perdere il controllo, disgraziato!” esclamò, dandogli un colpo sul petto e ridendo di nuovo quando si sentì afferrare per i polsi e stringere in un abbraccio, “dai, Calogiù, che mo dobbiamo dormire, che domani si torna a Roma con pure due pesti al seguito.”

 

“Spero che l’appartamento piaccia a Rosa.”

 

“Io spero più che altro che ci si trovi bene a Roma: non so quanto sia convinta del trasferimento.”

 

“E va beh… sarebbe bello averla più vicino, ma… voglio solo che sia serena. E magari che risolva le cose con Salvo, che mi pare vadano pure peggio che a pasqua. O comunque che sia felice, in qualche modo.”

 

Si morse la lingua perché aveva promesso di tenerselo per lei, ma il matrimonio di Rosa le sembrava molto seriamente compromesso.

 

E c’era ancora qualcosa che non le tornava sulla decisione improvvisa di Rosa di scapparsene a Roma.


Perché era quello che le sembrava: una fuga.

 

*********************************************************************************************************

 

“Mi ha fatta chiamare?”

 

“Sì, dottoressa, si accomodi.”

 

Mancini, stranamente abbronzato rispetto a qualche giorno prima, le fece segno verso una delle poltrone di fronte alla scrivania.

 

“Ho… ho sentito di sua figlia,” esordì, una volta che si fu seduta, “mi dispiace molto per quello che le è successo. Se posso fare qualcosa….”

 

“Ma… ma come ha fatto a saperlo?” gli domandò, mentre si rese conto che probabilmente, come lui, tutta la procura ne era a conoscenza, compresi quei maiali di Carminati e Rosati.

 

“Non si preoccupi, dottoressa, non sono uno stalker dei profili social di sua figlia ma… dopo quello che è successo con i ricatti, ho cercato di far monitorare internet, non che uscisse qualcosa su di lei, tipo le foto di nudo e quindi-”

 

“E quindi chi la segue in procura?” gli domandò, irritata che non le avesse parlato di questa sorveglianza.

 

“Nessuno, dottoressa, nessuno. Se ne occupa Brian Martino, con discrezione. Lo sa quanto è riservato, no?”

 

Sospirò: effettivamente Martino era più che affidabile.


“Posso fare qualcosa per lei e per sua figlia, dottoressa? Anche se devo dire che se l’è già cavata molto bene, con quel post.”

 

Si sentì arrossire, pensando alla storia dello scritto e dell’orale con Calogiuri, ma scosse il capo, “no, dottore. Cioè, mi piacerebbe pure, eh, dare una bella lezione a quegli stronzi che hanno pubblicato le foto, che non lo facciano più e che la smettano pure di tormentare il figlio di Vitali, ma-”

 

“Ma cosa?” la interruppe, con un sorriso, prima di farsi più serio e sporgersi in avanti, sussurrando, “dottoressa, io non le ho mai detto quello che sto per dirle, ma… ho un’idea, anche se assolutamente non ufficiale. Si fida di me?”

 

Rimase per un attimo a bocca aperta, senza sapere che pensare.

 

“Lo sa che di lei mi fido, dottore, ma… di che si tratta?”

 

Lui però scosse il capo ed alzò una mano.

 

“No, dottoressa. Non voglio coinvolgerla e metterla nei guai con questa… iniziativa personale. Ma le posso garantire che non si tratta di nulla di violento.”

 

“Guardi, dottore, pure due sganassoni a quei cretini non mi sarebbero dispiaciuti, eh, ma… non voglio mettere lei nei guai, poi per una cosa mia.”


“Si figuri, dottoressa! E poi sono loro gli stupidi a prendersela con i figli di due magistrati. Anche se… Vitali è molto più attento alle procedure e restio ad usare… metodi alternativi rispetto a me. Ma non si deve preoccupare: sarà una lezione indimenticabile e molto, molto istruttiva.”

 

*********************************************************************************************************

 

“Sì, Rosa, tranquilla, lo sento io l’idraulico. Va bene. Va bene. Anche Imma ti manda un saluto.”

 

A lei e alla peste gli fece segno con il labiale e lui sorrise e ripeté paro paro alla sorella.

 

Alla fine Rosa aveva confermato l’appartamento e quindi le stava dando una mano ad organizzare il trasloco, che era fissato per settembre, ed anche i lavori nella nuova casa, che necessitava di qualche revisione.

 

Mise giù il telefono e si sedette accanto alla sua dottoressa, che stava digitando al computer, la fronte corrugata: quanto era bella!

 

Ma lei si bloccò, gli sorrise, si guadagnò un rapido bacio e poi il computer gli venne smollato sulle gambe.

 

“Che almeno su questo sei più veloce, Calogiuri!”

 

Era quasi mezzogiorno di un sabato di fine luglio, erano ancora a letto, lei in camicia da notte, lui in boxer - il minimo sindacale per non morire di caldo ma riuscire a combinare qualcosa senza distrazioni - che trascrivevano e spulciavano le intercettazioni fatte per il maxiprocesso.

 

Si sentiva talmente felice da non poterlo quasi spiegare a parole. Era tutto quello che aveva sempre sognato e, come gli ricordava il diamante giallo che scintillava sul petto di Imma, la sua vita avrebbe potuto essere così, per sempre.

 

“Facciamo ancora un’ora di trascrizioni, poi ti metti a studiare per il concorso e continuo da sola, va bene?” gli intimò lei, indossando gli auricolari per riavviare la registrazione e dettargliela più lentamente, “che poi tra pochi giorni partiamo e per qualche settimana i libri non li puoi toccare.”

 

“Agli ordini, dottoressa! Ma non-”

 

Non riuscì a finire la frase, perché suonarono alla porta. Un trillo prolungato, a cui ne seguì un altro.

 

“Ma chi è mo, a quest’ora? Che sia Valentì?”


“In ogni caso, vado io ad aprire,” si affrettò a specificare, afferrando una maglietta dalla sedia vicino al letto: col cavolo che la faceva andare alla porta vestita così.

 

“Ah… l’uomo del sud che ritorna! Ma probabilmente è Valentì, Otello!”

 

“Eh va beh… in caso mi ha già visto vestito così e pure a te…” replicò, avviandosi rapidamente fuori dalla stanza e verso l’ingresso, perché ci fu un’altra scampanellata, “arrivo, arrivo! Chi è?”

 

“Sono io. Sotto era aperto e… lo so che non ho annunciato la mia visita, ma-”

 

Si fermò: la voce era familiare, familiarissima, anche se era da un po’ che non la sentiva - e l’aveva sentita sempre poco in generale.

 

Aprì e si trovò di fronte a suo fratello Modesto, un’aria incerta, imbarazzata ed un piccolo borsone in mano.


Istintivamente, guardò oltre le spalle del fratello.

 

“Non c’è nessuno, sono… sono venuto da solo. In realtà… i nostri genitori non lo sanno dove sto. Posso entrare?”

 

Stava per rispondergli quando il “chi è?” di Imma lo raggiunse e si voltò, trovandola - ovviamente! - ancora in camicia da notte, che faceva capolino dalla sala, coperta solo in parte dal muro.

 

Si sentì avvampare e notò, tornando a rivolgersi verso l’ingresso, che Modesto era messo pure peggio di lui.

 

“Ma… ma è tuo fratello?” chiese Imma, all’improvviso, e la guardò come a dire come hai fatto?

 

“Avete gli stessi occhi. E diventate pure fucsia uguali!” scherzò, ed effettivamente era vero, anche se come lineamenti erano un po’ diversi: Modesto aveva preso di più da mamma, mentre lui e Rosa più da papà, “e fallo entrare, no?”

 

“S- sì, sì!” balbettò, levandosi dalla porta e facendo spazio a Modesto, che però camminò tenendo gli occhi bassi, bassissimi.

 

“Va beh… ho capito, mi vado a cambiare. Anche se è destino che conosca i tuoi parenti conciata così, Calogiù,” gli disse, facendogli l’occhiolino e sparendo oltre l’angolo del corridoio.

 

“Che ci fai qua?” chiese poi al fratello, una volta che finalmente rialzò lo sguardo, “cioè… mi fa piacere vederti ma… è successo qualcosa a casa?”

 

“No, Ippà, o almeno, non ancora, ma… è proprio per questo che ti devo parlare.”

 

“In che senso non ancora?”

 

Lo sguardo di Modesto, che gli parve terrorizzato, lo inquietò ancora di più. E poi lo vide sbirciare verso il corridoio e la stanza nella quale era sparita Imma.

 

“Se… se vuoi parlarmi da solo, guarda che Imma i segreti li tiene per mestiere e-”

 

“Lo so, ma… ti devo raccontare una cosa che… che mi è molto difficile raccontare e… non so se me la sento di farlo davanti a qualcuno che non conosco e-”

 

In quel momento, la porta della stanza si aprì di nuovo e ne uscì Imma, con uno dei suoi vestitini estivi che lo facevano impazzire, in equilibrio sopra alle sue solite zeppe vertiginose.

 

“Vado a fare un poco di spesa, Calogiù, che qua scarseggia… se c’abbiamo pure un ospite poi. Ci metterò un po’, avvisatemi solo di cosa volete per pranzo o se preferite mangiare fuori.”

 

Non fece in tempo a dire nient’altro che già la porta di ingresso le si era richiusa alle spalle.

 

Quanto la amava!

 

“Allora, mi vuoi dire che succede mo? O che deve succedere?”

 

Modesto si accasciò sul divano e lui lo seguì.

 

“Mà….”

 

“Che ha combinato mo?”

 

“Mi ha… mi ha presentato una ragazza del paese, che tiene quasi trent’anni e… vuole sposarsi a tutti i costi, in fretta, per fare figli. Per… per una specie di matrimonio combinato.”

 

Sentì chiaramente la mascella cascare: sapeva che sua madre voleva che pure Modesto si sistemasse ma non pensava sarebbe arrivata a proporre una cosa del genere.

 

“Continua… continua ad insistere e… io sono quasi tentato di dirle di sì, perché… una famiglia e dei figli li vorrei pure io, fratellì, ma tanto per me è impossibile. E almeno questa ragazza non è interessata a me e… non farei soffrire nessuno, ma non so se-”

 

“Aspetta!” lo interruppe, prima che diventasse peggio della signora Diana con Imma, “in che senso è impossibile? Sei ancora giovane, certo che puoi avere dei figli, una famiglia!”

 

“E invece no, fratellì. E invece no.”




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua finalmente con questo cinquantatreesimo capitolo. Mi scuso per la settimana extra di tempo per la pubblicazione ma… è stato un capitolo molto complicato e delicato, sotto tanti aspetti, e purtroppo la vita reale mi ha preso quasi ogni momento libero questa settimana.

Come avete visto, Imma ha risposto di sì, ma al momento lo sanno in pochissimi. Valentina si trova in mezzo al ciclone, Pietro pure, tra sua madre e il rapporto con Rosaria da cui si è dovuto allontanare per non correre rischi. Rosaria stessa non sta messa bene e… Modesto ha delle rivelazioni molto difficili da fare. In tutto questo, c’è ancora un maxiprocesso che sta per dare nuovi grattacapi, un viaggio in Giappone e… un Grande Casino che aleggia all’orizzonte, sempre più vicino. Il prossimo capitolo avrà parecchi salti temporali e… stiamo per salire sulle montagne russe, tra eventi belli e catastrofici.

Spero che la storia possa continuare ad essere di vostro interesse e a distrarvi in questo periodo ancora così complicato. Le riprese della seconda stagione sono finalmente iniziate e… tra pochi mesi potremo goderci nuove avventure di Imma, nel frattempo spero di riuscire a farvi compagnia fino ad allora.

Il prossimo capitolo arriverà tra due settimane, giusto in tempo per San Valentino.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 54
*** Il Coraggio ***


Nessun Alibi


Capitolo 54 - Il Coraggio


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Come non puoi avere figli? Ma che tieni qualche problema di salute?”

 

“Per nostra madre immagino di sì. E pure per parecchie altre persone.”

 

Era confuso e preoccupato: non capiva dove volesse arrivare Modesto ma l’idea che potesse avere qualche malattia, magari di quelle che peggiorano con gli anni, lo spaventava molto.

 

“Lo so da… da tanti anni ormai, ma non ho mai avuto il coraggio di parlarne con nessuno,” spiegò e fu come un pugno allo stomaco, confermando i suoi timori peggiori, “però… forse con te ne posso parlare, se prometti che non lo dirai ad anima viva.”

 

“Modesto, certo che non lo dirò a nessuno ma… ma se sei malato ti devi fare curare, mica ti puoi arrendere così!”

 

“E invece sì, perché per questa malattia, se così si può chiamare, non credo ci sia una cura. Ho… ho scoperto da un po’ di anni di…. di non essere attratto dalle donne, ma dagli uomini. Anche se non ho mai avuto il coraggio di farci niente, eh, perché in paese si saprebbe subito e allora….”

 

Non avrebbe saputo dire se fosse più forte lo sbalordimento, il sollievo o la voglia di menare Modesto per avergli fatto prendere un colpo e non avergli mai detto niente.

 

“Da… da un po’ di anni? Ma da quanto lo sai?”

 

“Ho… ho avuto i primi dubbi ai tempi… ai tempi degli scout ma non riuscivo ad accettarlo. Poi… poi quando è arrivato Beppe, non so se te lo ricordi, quel lavorante a stagione, l’ho capito definitivamente, ma-”

 

“Ma Beppe me lo ricordo pure io, saranno passati… dieci anni? Cioè ti sei tenuto questo segreto per tutto questo tempo?”

 

“Sì. Se sei arrabbiato con me lo capisco, ma-”

 

“Sì, sono arrabbiato, molto. Ma non perché sei gay, ma perché hai passato tutti questi anni ad essere infelice e perché non ti sei fidato a dirmelo, che sono tuo fratello e dovresti conoscermi e sapere che ti avrei aiutato!”

 

“Lo so, ma… ma la mentalità di famiglia è quella che è. Lo so che non sei come… come mammà, ma sei sempre un carabiniere, che ti piacciano le donne non c’è dubbio - e mo lo sa pure tutta Italia - e… non ero sicuro di come l’avresti presa. Alla fine ci ha cresciuto nostra madre, con certe idee. Ma… ma poi ho sentito di quello che è successo alla figlia di Imma e… e ho letto il tuo commento di sostegno sotto al post dove si baciava con la sua ragazza e… e allora ho capito che forse mi potevo fidare a dirtelo.”


“Ma certo che ti puoi fidare! E ti potresti pure fidare di Rosaria. Ma che credi, che viviamo nel medioevo? E comunque non ci devi nemmeno pensare a questa storia di sposarti per finta: devi vivere la tua vita, liberamente!”

 

“Per te è facile parlare, fratellì, ma… pure tu per vivere la tua vita liberamente te ne sei dovuto andare da Grottaminarda. Addirittura la tua Imma se n'è dovuta andare da Matera e siete comunque un uomo e una donna. Ma a me… a me fare il contadino piace, coltivare i campi… è l’unica cosa che so fare bene e… non mi ci vedo proprio a vivere in città.”

 

“Modè, parliamoci chiaramente: i nostri genitori i soldi per pagare un lavorante per fare tutto quello che fai tu non ce l’hanno. E sei l’unico figlio che è rimasto a casa e che vuole continuare con l’azienda di famiglia. Non conviene manco a loro impedirti di fare il tuo mestiere, poi con papà che è sempre messo peggio con la schiena.”

 

“Lo so ma… mà mi renderebbe la vita impossibile, lo sai, e non solo lei, ma tutto il paese. Te lo ricordi, no, il professore di lettere che avevamo alle medie… che quando si è scoperto che era gay… lo hanno praticamente costretto a trasferirsi, con tutto quello che gli facevano.”

 

“Ma… ma erano pure altri tempi, Modè e poi… e poi una soluzione la dobbiamo trovare per forza, perché non c’è niente di peggio di essere incastrati in una vita che non si vuole, con qualcuno che non si ama. Per me è stato un inferno un mese scarso di fidanzamento con Maria Luisa, figuriamoci se me la fossi sposata!”

 

“E quale sarebbe la soluzione? Per certi problemi non c’è una soluzione, non c’è e basta.”


“Finché c’è vita c’è speranza, me l’hai insegnato tu, no?” gli ricordò, perché Modesto era quello che riusciva a far resuscitare anche piante che sembravano ormai morte.

 

“Ma io non sono una pianta, fratellì.”

 

“Appunto! E comunque… che ne dici se ne parliamo pure con Imma? Insomma… lei che cosa vuol dire avere una figlia che fa coming out lo sa e… magari può darci qualche idea. Che c’ha una testa meglio della tua e della mia messe insieme.”

 

“Non ci vuole molto, Ippà!” lo prese in giro suo fratello, bloccandolo quando provò a dargli un lieve pugno sul braccio.


Come quando erano ragazzini.

 

Solo che era cambiato tutto, o meglio, forse lui suo fratello non l’aveva mai conosciuto davvero.

 

*********************************************************************************************************

 

“E quindi insomma… sono gay. O penso di esserlo perché in realtà… non ho esperienze vere, ma….”

 

Il boccone di pinsa che aveva in bocca per poco non le andò di traverso: non se lo aspettava, per niente, anche se, dal poco che sapeva di Modesto dalle rare volte in cui Calogiuri lo aveva nominato, effettivamente molte cose così avevano più senso.

 

La guardò in apprensione, in un modo che le ricordava tantissimo il Calogiuri dei primi tempi, che pareva sempre attendesse una sentenza da lei. Ma era pure tanto diverso: gli occhi erano uguali, azzurrissimi e buoni, e pure la capacità di diventare color gambero nel giro di cinque secondi. Ma per il resto… dimostrava almeno almeno una decina di anni in più del fratello, anche se dovevano essere al massimo cinque. Probabilmente la vita che faceva, nei campi, che non perdona.

 

Vide Calogiuri che le fece segno come a dire ma non dici niente?! e si rese conto di essere stata fin troppo a lungo in silenzio.

 

“Che dire… mi immagino l’espressione di vostra madre quando glielo dirai,” scherzò, per stemperare l’atmosfera, ma poi specificò, più seria, “perché glielo devi dire, assolutamente.”

 

“Non è possibile, non capirebbe mai e… non avrei più una casa, un lavoro e-”

 

“E io c’ho provato a stare pochi mesi accanto ad un uomo che non amavo più, pure se l’ho amato molto, per tanti anni, ed è stato un inferno. Figuriamoci sposarsi con qualcuno che non conosci. Ma veramente vorresti crescere degli eventuali figli in una bugia? Perché ti garantisco per esperienza che capiscono tutto. E poi cosa capiterebbe se uno di voi due un domani incontra qualcuno di cui si innamora davvero?”


“Lo so, ma… ma non è facile. Dovrei rinunciare a tanto.”


“Ma potresti guadagnarci tanto. E poi… insomma, spero che prima o poi pure l’Italia si aggiorni su affidi o adozioni per coppie gay. E comunque, quando c’è l’amore e si sta bene con una persona, si può essere felici pure senza prole al seguito,” proclamò, lanciando un’occhiata a Calogiuri, che le sorrise ed allungò una mano a stringere la sua.

 

Anche se… l’idea di fargli rinunciare ad essere padre le pesava molto ma… non era quello di sicuro il momento di entrare in certi discorsi.

 

“Imma ha ragione, Modè. La vita è una e… devi darti almeno una possibilità di vivere una vita vera, di essere felice, se no avrai sempre rimpianti.”

 

“E col lavoro come faccio? Rosa almeno c’ha i soldi che le passa Salvo ma io….”


“Se i tuoi genitori ti impedissero di lavorare puoi venire a Roma pure tu, no? Una volta che tre figli su tre si saranno allontanati, se non vostra madre, di certo vostro padre dovrà svegliarsi per forza e capire che qualcosa non va nel rapporto con voi. E un lavoro lo si trova. Che hai studiato?”

 

“Agraria.”

 

“E allora ci stanno tanti negozi di giardinaggio, vigne, gente che ha bisogno di giardinieri. Peccato che stai fuori età per il concorso in forestale, se no te lo avrei proposto. Ma qualcosa si può trovare e poi comunque dovrebbe essere solo una soluzione temporanea. Ti avrei offerto la casa di Matera, visto che tra poco tua sorella se ne va, ma… non è che come luogo sia esattamente l’ideale per chi vuole vivere una vita alla luce del sole.”

 

“Io… ci devo pensare… non lo so.”


“E intanto che ci pensi, perché non te ne rimani qualche giorno qui da noi? Posso chiedere a mia figlia se conosce qualche locale gay, almeno esci, conosci gente.”

 

Percepì persino con la coda dell’occhio lo sguardo sbigottito di Calogiuri.

 

“Che c’è? Ho provato cosa vuol dire perdermi tutta la giovinezza e le esperienze che sono fondamentali e che sto recuperando mo, fuori tempo massimo. Magari tuo fratello può farlo ora e non quando c’avrà la mia età.”

 

“No, è che… è che non so se ne sono capace, se mi sentirei a mio agio… e poi… e poi non so se voglio far sapere a vostra figlia che… insomma….”

 

“Prima di tutto dammi del tu, che se no mi fai sentire vecchia, che io e Calogiuri una figlia purtroppo non la teniamo,” ironizzò, anche se faticò molto a nascondere una punta di vera emozione che aveva sentito a quel vostra figlia, anche se non era riferito a loro due, “e allora… Calogiù, ma se chiedessimo a Bruno, l’istruttore di equitazione? Lui è gay ed è dovuto venire da Matera a Roma per vivere più liberamente, sicuramente ti può capire e probabilmente conosce più l’ambiente gay maschile di quanto possa fare Valentina. E poi è un tipo molto discreto.”

 

“Non lo so… è che… Ippà lo sa… io con gente che non conosco ho sempre fatto molta fatica, da solo poi….”

 

“Guarda, mi offrirei pure di accompagnarti,” esordì, guadagnandosi un altro sguardo tra lo stupito e il commosso di Calogiuri, “ma ci manca che qualche giornalista ci becca e poi finisci sui giornali pure tu, che altro che l’outing pubblico di mia figlia.”

 

“Va… va bene… ci penserò… starei volentieri qualche giorno qua ma… non vorrei dare disturbo e….”

 

“E nessun disturbo! Ormai questo divano letto è abbonato agli ospiti, e poi tra un po’ volendo c’è l’appartamento di Rosa, se ti va bene dormire in un mezzo cantiere, lei sono sicura che non avrebbe niente in contrario. E le devi parlare, fratellì.”

 

“Lo so, ma… una cosa alla volta,” sospirò Modesto, in un modo che le fece comprendere chiaramente quanto fosse timoroso e combattuto su cosa fare.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ciao! Sono Bruno! Imma e tuo fratello mi hanno parlato di te, piacere!”

 

“C-ciao…”

 

Era così strano salutare qualcuno che sapeva chi era realmente. Bruno gli fece un gran sorriso e gli strinse la mano.

 

“Mi hanno detto che… insomma non hai mai detto a nessuno di essere gay, né frequentato locali gay, giusto?”

 

Si sentì avvampare: era come un pesce fuor d’acqua.


“S-sì, s-sì, se non vuoi avermi tra i piedi lo capisco e-”

 

“Ma che! Però ecco… forse un locale gay potrebbe essere un impatto troppo forte per te la prima sera. Ho alcuni amici che fanno un aperitivo, un locale tranquillo, niente di che, e poi ci possiamo andare a mangiare qualcosa in una buona trattoria romana. Che ne dici?”

 

“V- va benissimo!” esclamò, improvvisamente sollevato e felice di aver dato retta a suo fratello e soprattutto ad Imma, che quando si metteva una cosa in testa sapeva essere più insistente di Rosaria e di sua madre messe insieme.

 

Ma dirlo a loro… quello sarebbe stato infinitamente più difficile, forse impossibile.

 

*********************************************************************************************************

 

“Come va? Ti vedo provato!”

 

“Un po’...” ammise, lasciandosi quasi cadere sulla poltroncina di fronte alla sua scrivania, “tra il trasloco di mia sorella… le intercettazioni… poi mo abbiamo pure ospitato mio fratello per un periodo.”

 

“Insomma… Imma ha conosciuto tutta la famiglia,” pronunciò, con un sorrisetto, “e comunque dovevi dirmelo che c’era tuo fratello, che dal poco che mi hai raccontato di lui… ero curiosa di conoscerlo, questo fratello così… misterioso, anche se forse Imma non avrebbe gradito, che so che ce l’ha ancora con me per Milano.”

 

Sospirò - la verità era che pure lui un poco ce l’aveva ancora con lei per Milano - ma poi fu forse qualcosa nello sguardo di Irene, qualcosa nel tono, ma ebbe la nettissima impressione che lei avesse capito perfettamente il mistero di Modesto e da ben prima di lui.

 

“Tu… della figlia di Imma… lo avevi già capito, non è vero?” chiese invece, perché quello almeno era di dominio pubblico.

 

Irene sorrise, scuotendo il capo e sporgendosi in avanti verso di lui.

 

“Calogiuri… Calogiuri… tu a poker non ci potresti proprio giocare. Ma sì, avevo capito di Valentina, da quando l’abbiamo vista con la sua ragazza… Penelope, giusto?” gli domandò e lui annuì, per poi aggiungere, in tono ancora più basso, “e ti rassicuro che avevo pure intuito di tuo fratello, non so se lo avessi già intuito anche tu. Ma pure se non lo avessi fatto… il collegamento mentale ti tradisce, Calogiuri, devi stare più attento, su. A meno che volessi che fossi io a dirlo apertamente e a levarti le castagne dal fuoco.”

 

Sospirò, ma si sentì pure stranamente sollevato.

 

“Tuo fratello è in un bel casino, Calogiuri, vista la mentalità dei tuoi genitori. Ma reprimersi è la cosa peggiore che si possa fare, ti rovina l’esistenza. Quindi… stagli vicino… magari cercando di essere un poco più sottile di così.”

 

Si sentì avvampare, ma gli venne pure da sorridere, “ci… ci proverò. Per… per cosa mi avevi fatto chiamare?”

 

“Sulla sottigliezza ci dobbiamo decisamente lavorare, pure nei cambi d’argomento. Comunque… ci sono delle novità. Ranieri mi ha chiamata e mi ha detto che, dalle intercettazioni che sta spulciando lui, ha scoperto che l’avvocato ha una nuova fiamma qua a Roma. Sai… una fidanzata in ogni porto e in ogni tribunale. Visto che qua a Roma dai sicuramente meno nell’occhio, che mica possono seguirti sempre, vorrei che scoprissi qualcosa in più su di lei. Chi è, cosa fa. Ho un numero di telefono e una foto del suo profilo di messaggistica istantanea.”

 

Gli passò il tablet e per poco non gli cascò di mano.

 

“Ma… ma questa è Melita!” esclamò, incredulo.

 

“Chi? Non dirmi che è una famosa!”


“No, no. L’abbiamo… l’abbiamo conosciuta a Maiorca, io ed Imma. Faceva la ragazza immagine in uno dei locali più grossi dell’isola. Era stata importunata da alcuni tipi poco raccomandabili, insomma… criminali locali. L’abbiamo aiutata a tornare a casa sana e salva e poi era volata subito in Italia. Ma… ma mi sembra strano che possa stare con uno come l’avvocato. Cioè… per come aveva reagito quella sera… mi sembra una che ballare va bene, magari pure un poco… discinta… ma altro no.”

 

“Discinta?” ripetè Irene, alzando gli occhi al soffitto e poi sorridendogli, “Calogiuri, Calogiuri, tu sei troppo ingenuo, anche se sei migliorato un poco ma… troppo ingenuo resti! Magari l’avvocato fa abbastanza gola a Melita, indubbiamente non per le sue doti fisiche. Con due regalini dei suoi… se ti giochi bene le carte… guadagni come una stagione sul cubo, per non dire un anno. Melita potrebbe essersi fatta un calcolo costi - benefici, tra il dover avere a che fare con bavosi tutto l’anno, che allungano le mani se non provano a fare di peggio, e dover aver a che fare con l’avvocato per qualche ora al mese.”

 

“Non… non so… ma… ma non mi sembra proprio il tipo, ecco,” ribadì, convinto, anche se si chiese se stesse prendendo un granchio, come con Lolita, “comunque ho l’amicizia con lei sui social. Ci siamo scritti un paio di volte, mi voleva ringraziare per quello che avevamo fatto per lei.”

 

“E allora non ti devi bruciare questa possibilità, Calogiuri. Per ora… prima di contattarla, cerchiamo magari di capire quanto buoni sono i suoi rapporti con l’avvocato e poi… e poi le puoi scrivere, con discrezione.”

 

“V- va bene,” acconsentì, anche se, come con Lolita, c’era quella sensazione sgradevole di essere un infame.

 

Ma alla fine non stava indagando su Melita e se l’avvocato era pericoloso come sembrava… poteva essere pure un modo per proteggerla, tenerla sott’occhio.

 

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“Lo sai, Calogiuri, Melita non pareva nemmeno a me il tipo da… accompagnarsi ad uomini anziani e ricchi. Ma alla fine l’abbiamo conosciuta per pochi minuti e mi tocca concordare con la cara Irene che non possiamo avere la certezza assoluta di come sia e che cosa sia disposta o meno a fare. Però stai attento e non prendere iniziative senza consultarti prima con Irene e, a seconda delle iniziative, pure con me, va bene?”

 

Lo vide deglutire e capì che aveva compreso benissimo di che tipo di iniziative parlasse.

 

“Va- va bene. Lo sai che non ho segreti con te su questo genere di cose.”


“Sarà meglio!” sospirò, anche se effettivamente dopo il casino successo a Milano sembrava rigare dritto, drittissimo, “a proposito di questo genere di cose… sono un poco preoccupata per tuo fratello, che se n’è tornato a casa senza sbilanciarsi più di tanto. Sì, è uscito un paio di volte con Bruno ma… non so se posso chiedergli qualcosa, di come l’ha trovato, ma forse non è il caso. Non vorrei che facesse finta di niente ed accettasse il matrimonio combinato.”

 

Si sentì abbracciare di lato, si accoccolò meglio sul divano, addosso a lui, dopo poco imitata da Ottavia che, ripreso in pieno il possesso della casa, marcava il territorio peggio di un cane ed era la loro ombra.

 

“Imma… non sai cosa significa per me sapere che ti preoccupi così tanto per mio fratello, veramente, ma non posso invadere così la sua vita privata e non lo posso obbligare. Come mi hai insegnato tu ai tempi di Maria Luisa, la gente ci deve arrivare da sola a capire cosa è giusto o cos’è sbagliato per la sua vita.”

 

“Lo so, ma… contavo sulla tua intelligenza e poi… e poi non potevo certo dirti di mandare a quel paese un matrimonio, che per farlo non ero proprio nessuno. Ma tuo fratello è abituato a dire sempre di sì, ancora più di te quando ti ho conosciuto.”

 

“Lo so… ma… non ci resta che aspettare e sperare che decida per il meglio.”

 

Gli sorrise e gli accarezzò i capelli, “sono orgogliosa di te! Pure se sei il fratello più piccolo, a volte sembri il maggiore, anche se magari è l’effetto di stare con una babbiona come me!”

 

“Sia mio fratello che Rosa sarebbero soltanto che fortunati a stare con dei babbioni come te,” scherzò lui, facendole l’occhiolino.

 

“Ah… quindi lo ammetti che sono vecchia?!” finse di arrabbiarsi, dandogli un colpetto sul braccio.

 

“Ci seppellirai tutti, dottoressa!” ribattè quell’impunito, prima di trascinarla in un bacio.

 

Udì il miagolio scandalizzato di Ottavia che le saltò via dalle ginocchia, giusto in tempo perché Calogiuri la inchiodasse al divano, levandole il fiato come sapeva fare solo lui.

 

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“Sono qui!”

 

“Come stai?”

 

“Dovrei chiederlo io a te,” le rispose, con uno sguardo un poco mortificato.

 

“Abbastanza bene… certo, non so quando potrò tornare a Matera senza che tutti mi guardino come se fossi un’aliena e… i primi giorni ho beccato qualcuno che ha provato a farmi delle foto ma… forse poteva andarmi pure peggio, a parte mia nonna che non mi parla. Ma quello forse non è poi così tanto un male.”

 

“Mi… mi dispiace veramente, per tutto quanto.”

 

“Lo so ma… non è colpa tua e probabilmente prima o poi sarebbe saltato fuori comunque. Allora, che mi racconti di bello? Ci prendiamo qualcosa da bere?”

 

“Certo, certo. E offro io, ovviamente, e non provare a dirmi di no, che dopo tutto quello che è successo è il minimo.”

 

Sorrise: Carlo era proprio un gentiluomo, anzi un gentilragazzo. A tratti in alcune cose le ricordava stranamente Calogiuri. Si chiese che educazione dovessero avergli impartito Vitali e sua madre.

 

Ordinarono due spritz e poi, ammirando il panorama del Pincio d’estate, nonostante il caldo, iniziarono a mangiare qualche tartina.

 

“Sai… non invidio la posizione in cui ti trovi ma… invidio molto il tuo coraggio. Io non so se ce l’avrei, al posto tuo.”

 

“Ma se a capodanno hai rischiato le botte per difendere me e Penelope. Certo che sei coraggioso pure tu! Si vede che hai preso il senso di giustizia di famiglia.”

 

“Forse sì ma… non sono certo di essere all’altezza di mio padre e poi… tutti mi danno sempre del raccomandato, pure all’università, se prendo un buon voto, a prescindere dalle mie capacità. Pensano tutti che sia per via di mio padre.”


“E allora devi solo dimostrare con i fatti che si sbagliano. E poi almeno tu sai cosa vuoi fare nella vita. Io… non sono certa di avere intrapreso il percorso giusto. Vorrei aiutare gli altri ma… non sono sicura di volerlo fare così, ma non so nemmeno come lo vorrei fare.”

 

“Non lo so… però vorrei avere la tua capacità con le parole. Si vede che sei figlia di un PM. Il post che hai fatto era scritto benissimo.”


“Forse sono più brava nello scritto che nel contraddittorio però. Anche perché, col mio carattere, mi scalderei troppo, a volte sono peggio di mia madre. E a differenza sua non ho tutta questa passione per regole e procedure. Vorrei essere più libera.”

 

“Ti capisco ma… non dirlo a nessuno, se no non mi fanno laureare,” scherzò, facendole l’occhiolino.

 

Le venne da ridere.

 

Carlo le era veramente simpatico: forse almeno una cosa buona da tutto il delirio degli ultimi mesi era uscita.

 

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“Ti ricordo che stavolta le ore di volo sono tredici e che vorrei ancora avere una mano all’atterraggio.”

 

“Scemo!” gli sussurrò, ma non poteva farci niente: l’idea del volo la metteva in agitazione. Poi tutte quelle ore di fila!

 

“Sono un poco preoccupata pure per Ottavia. Chissà se starà bene… non siamo mai stati lontani da lei per così tanti giorni.”

 

“Ottavia con mia sorella e con la peste si divertirà tantissimo. Forse mia sorella un poco meno, ma Ottavia e la peste di sicuro.”

 

In effetti… per certi versi non invidiava affatto Rosaria, che era stata veramente gentilissima ad offrirsi di stare a casa loro a Roma per quelle due settimane e a curare la micia, con l’occasione di andare avanti con i preparativi per il trasloco.

 

“Concentrati sul fatto che tra poco arriveremo, dopo un anno e mezzo che progettiamo questo viaggio,” le sussurrò e le venne una specie di nodo in gola.


Se pensava che stavano insieme da pochissimo quando lui le aveva fatto quel regalo. E mo invece….

 

“Che ne dici di guardarci un film, per distrarci? Che ultimamente a casa non c’abbiamo mai tempo. E poi c’è pure la coperta….”

 

Il modo sornione con il quale aveva enunciato quelle parole la portò a mordersi il labbro, mentre le veniva anche una botta di nostalgia.

 

“Che c’è?”

 

“Niente… sto pensando al nostro primo viaggio insieme… anche se qua ci sta un poco più di tecnologia che su Lucania Bus.”

 

“I vantaggi della coperta però sono gli stessi,” le sussurrò all’orecchio, facendole il solletico con il fiato.


“Dai, scegli il primo film, maresciallo, te lo concedo.”

 

Lui parve stupito ma si mise al lavoro alacremente e lei ne approfittò per fare una cosa che era da troppo tempo che voleva fare.

 

“Che ne dici di Hachiko? Parla di un cane che viveva a Tokyo. C’è pure la statua non troppo distante dal nostro hotel.”

 

“Va bene…” sospirò lei, temendo già la noia di un film sugli animali, ma l’importante era altro.

 

E infatti di lì a poco sentì il braccio di Calogiuri cingerle le spalle e gli si appoggiò contro, godendosi il calore, in contrasto con l’aria condizionata fin troppo forte.

 

Lo sentì cercare la sua mano, ricambiò la stretta e percepì la vibrazione di stupore nel petto ancora prima che lui pronunciasse “ma…”

 

“Sì, ho messo l’anello,” confermò, soddisfatta dal modo in cui lui si illuminò, “almeno in Giappone voglio sperare di poterlo indossare senza che nessuno ci faccia caso e senza fotografi. E poi così le giapponesi non si mettono strane idee in testa!”

 

Fu quasi stritolata in un abbraccio, mentre all’orecchio un “no, perché stavolta pure quando finirà il viaggio e scenderemo dall’aereo sarai soltanto mia!” la fece commuovere, tanto che gli prese il viso e se lo baciò.

 

Si costrinse a staccarsi solo perché erano comunque in un luogo pubblico e notò immediatamente gli sguardi tra l’incuriosito ed il disapprovante di una coppia giapponese nei sedili dall’altra parte del corridoio.

 

“Ho letto che nella cultura giapponese non ci si tocca quasi mai in pubblico, neanche tra fidanzati. Noi essendo stranieri... dovrebbero essere più tolleranti nei confronti delle nostre strane abitudini ma….”

 

“Insomma… peggio che a Matera.”

 

“Più o meno….”

 

“Ma qua siamo ancora in territorio internazionale, Calogiù, quindi posso abbracciarti tutto il tempo che voglio. Dai, fai partire questo film!”

 

“Non chiedo di meglio, dottoressa.”

 

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“Mannaggia a te, Calogiuri, che dopo il tuo film quello della dogana avrà pensato che mi ero fatta di tutte le sostanze che abbiamo beccato all’ultimo raid antidroga. Quasi non sento gli occhi!”

 

Hachiko doveva essere vietato per proiezione in pubblico, con quanto faceva piangere. Poi avevano guardato cose più leggere, ma ormai la frittata era fatta.

 

Per tutta risposta, quell’impunito le diede un rapido bacio.

 

“E le tradizioni giapponesi da rispettare, Calogiù?” gli chiese, nonostante fosse più che soddisfatta, spingendo la valigia verso la zona del treno che doveva portarli a Tokyo.

 

“E va beh…. Fuori dall’aeroporto magari possiamo rispettarle meglio. Qua è ancora pieno di turisti.”

 

“Meglio ma non troppo, Calogiuri!”

 

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“Dio mio, Calogiù, sono tutta lavata che sembra che mi sono fatta una doccia! Non mi lamenterò mai più del caldo in Italia!”

 

C’erano 30 gradi ma con un’umidità da far spavento. Pareva che l’aria stessa fosse bagnata.

 

“Preparati perché Kyoto sarà pure peggio, dottoressa.”

 

E poi la colpirono i rumori e i colori.

 

Gente, gente ovunque, più che alla festa della Bruna, anzi, a dieci feste della Bruna messe insieme. Ma tutti che procedevano ordinati e precisi, in fila perfino per il semaforo. File che sembravano tracciate col righello, per quanto erano dritte.

 

Proprio come in Italia.

 

E poi i colori dei grattacieli, pieni di led, ed i rumori delle pubblicità, che sovrastavano quelli della folla, stranamente silenziosa, tanto che tutto era come un brusio, che le ricordò un immenso alveare.

 

“Questo è l’incrocio più affollato del Giappone, dottoressa.”

 

Si guardò intorno e vide un’altra fila di gente, ma in mezzo alla piazzetta dove stavano, appena usciti dalla stazione di Shibuya.


E lo vide: Hachiko e la fila di gente era in attesa ordinata di poter fare una foto con la sua statua.

 

“Mannaggia a te!” sospirò, anche se una parte di lei una foto con un simile esempio di fedeltà, in fondo in fondo, l’avrebbe voluta.

 

“Che ne dici se mo ce ne andiamo in albergo, lasciamo le valigie, ci riposiamo un po’ e poi torniamo a fare foto e non solo qua?”

 

Sorrise a Calogiuri, che ormai le leggeva nel pensiero, annuì e, attenta a non perderlo tra la folla - anche se sovrastava tutti tranne i turisti di un venti centimetri buoni - si avviarono verso l’hotel.

 

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“Questo dovrebbe essere il quartiere dell’elettronica, per i patiti di tecnologia, videogiochi e cose del genere.”

 

“Insomma, ideale per me, proprio!” ironizzò, bloccandosi di colpo quando venne travolta da uno strano mix di vocine all’elio - ma come facevano le giapponesi a parlare così? - luci ed un odore di dolciumi che proveniva da uno stand di quelle che sembravano delle grosse frittelle a forma di pesce.

 

“Ne vuoi assaggiare una?”

 

“E perché no! Ma prima facciamoci un giro, Calogiuri, che qua non si può camminare mangiando, e poi trovare un cestino è più difficile che trovare un politico onesto in Italia.”

 

SI sentì prendere a braccetto - alla fine almeno quello i giapponesi potevano concederglielo! - e procedere a fatica nella folla. Superarono negozi di videogiochi che le sembrarono vecchissimi, quasi dei suoi tempi, di elettronica più svariata, e poi notò delle ragazze vestite da camerierine sexy o da quelli che presumeva essere personaggi di qualche cartone animato, con gonne che coprivano a malapena ciò che c’era da coprire, che distribuivano volantini.

 

Lanciò un’occhiata a Calogiuri e gli disse, “occhio a dove guardi, maresciallo!”

 

“Ma dai, dottoressa,” le sorrise, scuotendo il capo, “e poi sembrano delle ragazzine!”

 

“Giusto, che tanto a te vecchie piacciono!”


“Scema!” si sentì sussurrare e poi stringere più forte in quello che era un mezzo abbraccio, “a me piaci tu e basta, mi saresti piaciuta a vent’anni come a sessanta.”

 

“Magari non dirlo troppo forte, Calogiuri, che ti prendono per un gerontofilo, ma tanto qua ti va bene che nessuno ti capisce.”

 

Nonostante ciò, notò presto un paio di ragazzini occhialuti che li fissavano.

 

Pure in Giappone. Probabilmente era ancora più evidente la differenza d’età, perché aveva imparato in quei pochi giorni che le donne giapponesi dimostravano quasi tutte molto ma molto meno dei loro anni.

 

E poi uno dei due si avvicinò.

 

“Pikucha, pikucha?” le chiese, giungendo le mani in una specie di preghiera e lei si guardò con Calogiuri, non capendo.


“Io l’unico che conosco è pikachu ma non credo che c’entri qualcosa!”

 

E poi il ragazzo fece un gesto come di scattare una foto e lei ci capì ancora meno.

 

“Do you want to take a picture of us?” provò a chiedere Calogiuri.

 

“Serufi!” rispose il ragazzo facendo segno a lei e lui.

 

“Ho come l’impressione che voglia un selfie con te. Mi sa che per capire l’inglese qua bisogna aggiungere vocali dappertutto.”

 

“Meglio dei vecchietti di Matera quando lo pronunciano, insomma. Tutto il mondo è paese, bene. Ma perché vuole una foto con me?”

 

“Kosupure!” rispose il ragazzo con un sorriso.

 

“Eh? Che c’entra il purè mo?”

 

Calogiuri scoppiò a ridere e, dopo che lei lo fulminò, cercò di mettersi serio e le rispose, “credo intenda cosplay, cioè pensa che tu sia travestita come un personaggio di qualche cartone giapponese, quindi vuole una foto con te.”

 

“Bene… non so se preferire essere vista come un cartone animato, o i commenti che mi becco in Italia.”

 

Ma poi vide il ragazzo, che pareva intimidito e la guardava con occhi mezzi adoranti e decise che, in fondo, almeno qua era considerata esotica in modo positivo.

 

“Serufi ok,” gli rispose, sperando che capisse e lui si illuminò ed estratte un cellulare, Calogiuri che gli fece pure segno se voleva che la prendesse lui la foto.

 

E poi, alla faccia del distanziamento dei giapponesi, si trovò stretta in un abbraccio laterale, fin troppo, tanto che gli sibilò un “lukku ueru yu puttu yuru hendsu!” sperando che la pronuncia maccheronica dell’inglese, le u aggiuntive, oltre che allo sguardo omicida, bastassero a farsi capire.

 

Per fortuna il ragazzetto levò la mano, prima che gliela tagliasse.

 

Pure Calogiuri lo squadrò un po’ male e lui, dopo un paio di inchini, corse via.

 

“Mo mi chiedo a che personaggio dovrei somigliare però!”

 

“Tu sei tu e basta.”

 

“Sì, pure tu sei tu e basta: un ruffiano e basta!” ribattè, proseguendo con la passeggiata, finché giunsero di fronte a un negozio che aveva insegne che occupavano un intero palazzo ma che sembrava diverso dagli altri, non c’era merce esposta.

 

Intravide però dei costumi, dalle parti trasparenti dell’entrata scorrevole.

 

“Chissà che vendono qua? Forse costumi per il purè? Vuoi entrare?” chiese a Calogiuri e lui assentì.

 

Ed in effetti sì, vendevano costumi ma… altro che purè.

 

Al massimo per la ricotta.

 

Riconobbe ben presto gli oggetti esposti come vestitini e giochi destinati ad un pubblico più che adulto. Erano finiti in un sexy shop immenso, un cartello che annunciava anche in inglese l’oggettistica presente su ogni piano.

 

Si voltò verso Calogiuri che teneva la bocca spalancata e pareva più rosso dei gamberi in tempura che si erano mangiati la sera prima.

 

Le venne da ridere.

 

“Se vuoi sperimentare, maresciallo, magari potremmo comprarci qualcosa,” lo punzecchio, adorando il modo in cui il rossore gli giunse fino alle mani.

 

“Calogiuri, è bello vedere che gli anni passano ma certe cose non cambiano mai, ma proprio mai…” sospirò, prendendolo a braccetto e trascinandolo fuori, prima che gli venisse un coccolone.

 

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“Certo che questi sacerdoti devono essere alcolisti! Ma è incredibile la pace ed il silenzio che c’è qua, rispetto al traffico di fuori.”

 

Erano andati a vedere il santuario più grosso di Tokyo, in un parco enorme, tanto quanto i barili di sakè, birra e pure vino che c’erano come da tradizione impilati all’entrata del santuario. Doni per i sacerdoti, a quanto dicevano le poche scritte in inglese.

 

L’unico rumore era il brusio dei turisti e della natura, e pensare che a pochi minuti a piedi c’erano la folla ed il traffico ad attenderli.

 

Tornarono a piedi per il sentiero, incrociando gente vestita in modo normale o con abiti tipici, e poi arrivarono di fronte alla stazione, dove da un lato c’era un vecchietto che si esibiva in quelli che presumeva essere canti tradizionali - e che facevano invidia ai neomelodici - dall’altro un ragazzino con una pettinatura improbabile che saltellava e cantava una roba pseudo rap, sparando ogni tanto qualche parola in inglese.

 

“Qua ci dovrebbe stare una via dello shopping molto famosa tra i più giovani, vuoi dare un’occhiata?”

 

“Allora giusto tu ci potresti comprare qualcosa, anche se pure io ormai con la regressione adolescenziale sto a posto.”

 

Percorsero a fatica la strada, perché c’era una folla che in confronto veramente la Bruna era un deserto. Incrociarono gente che si mangiava crepes talmente ripiene di qualsiasi ingrediente da farti venire il diabete solo a vederle ed enormi nuvole di zucchero filato arcobaleno che pure lì, manco a parlarne.

 

Ma poi, in mezzo ai negozi più strani, si illuminò quando vide una vetrina.

 

C’erano alcuni abiti che sembravano usciti dai concerti rock degli anni Ottanta, ma anche un kimono rosso e tigrato ed un vestito lungo zebrato che trovava bellissimi.

 

“Dai, entriamo!” la precedette Calogiuri con un sorriso.

 

La commessa si produsse nei soliti suoni ad elio di benvenuto, ma poi chiese, come se fosse la cosa più naturale del mondo, in un inglese semplice ma comprensibile, “for you or for him?”

 

Imma lanciò un’occhiata intorno e gli abiti erano tutti da donna, Calogiuri divenne più fucsia dell’abito con maniche a sbuffo giganti in vetrina, che pareva uscito da un video di Madonna, e la commessa precisò, “costume for performer. Old tradition, men play women.”

 

Insomma, a quanto pareva la vecchia tradizione del teatro inglese di far fare tutti i ruoli agli uomini c’era pure qua. Anche se con questi vestiti… la drag di Maiorca ci sarebbe andata a nozze.

 

Fece segno verso se stessa e verso l’abito zebrato e la commessa annuì e ne prese uno uguale da dentro il negozio, mentre Calogiuri continuava a sembrare imbarazzatissimo.

 

“Comunque secondo me saresti bello pure vestito da donna, mannaggia a te!” gli disse, solo in parte per sfotterlo, perché, considerando la somiglianza con Rosa….

 

“Su questo preferisco mantenere un poco di mistero, dottoressa, prima che decidi che non mi vuoi sposare più.”

 

“Ti garantisco che nessun vestito in questo negozio potrebbe farmi cambiare idea in proposito, Calogiuri. I risvoltini invece….”

 

Si beccò un pizzicotto sul fianco, prima di seguire la commessa verso i camerini.

 

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“And here Onsen, public bath.”

 

Erano finiti in una locanda di quelle tradizionali, con le acque termali. Imma aveva i piedi distrutti dopo una camminata per il Monte Fuji. Ma ne era valsa la pena: non aveva mai molto amato la natura o le scampagnate, ma tutto quel silenzio dopo tanti giorni di caos, nonostante fosse pieno di turisti pure lì, era stato quasi commovente.

 

La donna della locanda, vestita in abiti tradizionali, fece loro un inchino e li fece entrare nella stanza.

 

Seguì tutta una cerimonia per estrarre dall’armadio quelli che le sembrarono dei piumini giusto un poco più imbottiti e preparare i loro letti.

 

Per terra.

 

“Qua addio schiena, Calogiù, altro che la tenda!” gli sussurrò, per fortuna era solo per una notte.

 

Poi mostrò loro delle specie di accappatoi e ciabatte tradizionali e delle istruzioni scritte in inglese e si dileguò.

 

Imma lesse e rilesse, comprendendo che nel bagno termale bisognava entrarci completamente nudi e che gli accappatoi servivano appunto per arrivare fin lì, con tanto di spiegazione su come allacciarli correttamente e non in un modo che portava sfortuna.

 

Guardò alle sue spalle e Calogiuri era di nuovo di un colorito tra il gambero e la carpa koi.

 

“Va beh… Calogiù… a quanto dice qui uomini e donne sono separati, a differenza che coi naturisti. Vuoi provare?”

 

“Cioè… tu lo faresti veramente?” le chiese, in un modo così scioccato da essere comicissimo.

 

“E perché no? Tutte donne io, tutti uomini tu… e poi qua nessuno ci può fotografare. E tu sei giovane, ma le mie ossa di un bagno caldo ne avrebbero proprio bisogno, visto il… giaciglio che ci aspetta.”

 

Si trovò trascinata in un bacio.

 

“Che c’è?” gli mormorò sulle labbra, non più del tutto così convinta di non voler testare se nonostante il giaciglio… certe cose non potessero metterle in pratica lo stesso, in modo soddisfacente.

 

“Che… che mi sorprendi sempre. Sei… sei… ti amo!”

 

Gli e si concesse un altro bacio, il cuore che le scoppiava di gioia, prima di decidersi a malincuore di staccarsi e prepararsi per il bagno.

 

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Levare la vestaglia fu imbarazzante e liberatorio insieme. Entrò in una stanza molto grande, dove alcune donne, tutte giapponesi, tutte nude come lei, stavano lavandosi ad una delle docce alle pareti.

 

Si sentì osservata, tanto per cambiare, ma poi si avviò verso una doccia libera, cercando di capire cosa dovesse fare.

 

Sentì un “gomen…” sussurrato, che aveva capito essere il loro modo di chiedere scusa e attirare l’attenzione. La ragazza vicino a lei - o forse era una signora, difficile dirlo - le mostrò a gesti dov’era il sapone e come fare tutta la procedura.

 

Stranamente, fu come se l’essere nude in un certo senso sparisse e le sembrò tutto assurdamente naturale.

 

E poi, accompagnata da due delle signore, entrò nella zona del bagno e si immerse nell’acqua caldissima, piazzandosi, come facevano loro, un asciugamano imbevuto di acqua fredda piegato sopra la testa.

 

All’inizio ci fu solo silenzio e relax, ma poi vide che la donna di prima la guardava e le fece cenno come a chiederle se volesse dire qualcosa.

 

In quei giorni aveva avuto conferma definitiva di quanto funzionasse bene la comunicazione non verbale, se la conoscenza con Calogiuri non gliene avesse già dato prova.

 

“Ueru aru yu frommu?” le chiese, di nuovo ricordandole straordinariamente la buonanima di sua madre quando provava a dire qualche cosa in inglese.

 

“Italia,” spiegò, perché aveva pure imparato in quei giorni che era più chiaro di Italy.

 

“Sugoku! Ueru?”

 

“Matera,” si trovò a dire spontaneamente, per poi aggiungere, di fronte allo sguardo spaesato, “I live in Roma.”

 

Tutte le giapponesi si produssero in un “ah! Sugoi!” estasiato e lei voleva dire loro di provare a vedere Matera che Roma sì, era la città più bella del mondo… ma Matera era tutta un’altra cosa.

 

“Ueru go?” chiese facendole segno di dopo.

 

“Kyoto?” rispose, sperando di aver capito, e quando la donna si illuminò ne ebbe la conferma.

 

Era incredibile come le fossero più comprensibili questi gesti e poche parole che quello che le dicevano certi agenti, tipo quel fenomeno di La Macchia o Carminati mo.

 

“My…” provò a dire la donna e dopo consultazione con le altre saltò su con “dotaaaa, gaido in Kyoto. Itariago gaido.”

 

Di nuovo ci mise un attimo a capire, avendo la conferma che la ragazza una ragazza non poteva essere, se aveva una figlia che faceva la guida turistica per italiani a Kyoto.

 

La Moliterni in Giappone sarebbe morta di invidia, chissà qual era il segreto di questa eterna giovinezza.

 

Poi la donna le fece segno di chiamare e capì che voleva darle il numero della figlia.

 

Sperò che i prezzi amici in Giappone fossero meglio di quelli in Italia.

 

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Rientrò in stanza, rilassata e divertita dalle chiacchiere stentate tra donne e si trovò davanti Calogiuri, ancora in vestaglia, talmente rosso da essere bollito, e con un’aria un po’ abbacchiata.

 

“Com’è andata?”


“Bene, Calogiù, bene: forse ho trovato una guida turistica per Kyoto che parla italiano, se non costa troppo. Le signore sono state molto gentili. Tu?”

 

“Penso di avere trovato soltanto insulti in giapponese: mi guardavano tutti malissimo e parlottavano tra loro, fissandomi.”

 

“In caso, Calogiù, è tutta invidia, fidati!” gli sorrise, non dubitando che gli altri uomini fossero stati gelosissimi di lui, “se ti vedevano le signore altro che guida turistica: ti ci accompagnavano direttamente loro a Kyoto!”

 

E poi, per consolarlo, visto che aveva il muso peggio di Ottavia quando faceva la finta disperata, gli diede una carezza sul collo ma lui si produsse in uno strano mugolio.

 

“Mi sa che con l’acqua calda… ho la pelle sensibilissima,” spiegò, toccandosi la nuca ed emettendo un altro pigolio.

 

“Questo potrebbe avere risvolti MOLTO interessanti, maresciallo…” sussurrò, mordendosi il labbro, mentre parecchie idee le scorrevano in testa.

 

“Imma…” provò a obiettare lui, anche se si vedeva che gli scappava da ridere.

 

Lei gli poggiò le mani sul petto, godendosi l’ennesimo suono gutturale, e gli aprì la vestaglia, prima di spingerlo sul famoso futon ed iniziare a torturarlo il più lentamente possibile.

 

Forse si sarebbe trovata con le ossa rotte, ma ne sarebbe decisamente valsa la pena.

 

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“Buoni sti sottaceti, o pikurusu come li chiamano loro. Che questo c’ha qualcosa dei lampascioni sottaceto. Come si chiamava?”


“Daikon mi pare.”

 

“Certo… mangiarsi riso e pesce di mattina presto non è che sia il massimo ma temevo peggio, sinceramente. Invece a te fa bene, tutte proteine, e c’è pure questa frittata soffice, che devono avere capito che ti serviva l’equivalente locale dello zabaione.”

 

“E per forza! A sapere che dormire sul pavimento ti faceva questo effetto, prenotavo solo in posti così.”

 

“Mi fa questo effetto perché dormirci è difficile, Calogiuri. Meglio dedicarsi a… altre attività.”

 

“Non chiedo di meglio… anche se questo ritmo tutte le notti potrei non reggerlo, dottoressa.”

 

“Mangia il tamagotchi o come cavolo si chiamava quel coso con l’uovo e stasera ne riparliamo,” gli ordinò, e lo vide deglutire l’omelette con un misto tra apprensione ed anticipazione.

 

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“Il bus è in ritardo. Mi pare incredibile, fino a qua tutto puntualissimo.”

 

“Eh va beh, dottoressa… con gli autobus dipende dal traffico. Però purtroppo qua a Kyoto la metro non c’è ovunque. E poi la guida dovrebbe aiutarci.”

 

Scesero. Imma si sentiva già completamente fradicia: in confronto Tokyo era gelida.

 

Dovevano incontrare la guida davanti alla stazione centrale e alla Kyoto Tower, una roba che le sembrava un misto tra una torre di controllo ed un birillo per il traffico gigante.

 

“Imma-sama?”

 

Guardò verso la fonte della voce e ci trovò una ragazza giovane, in jeans, maglietta e quelle specie di lunghissimi manicotti che le giapponesi indossavano per non abbronzarsi.

 

“Yukari?” chiese, sperando di ricordarsi correttamente il nome della ragazza.

 

“Hai! Benvenuti a Kyoto. Spero vi piace città. Se seguire me, fare tour.”

 

La seguirono su e giù da un altro bus, fino ad un tempio buddhista, che dava sull’intera città, pieno di fontane d’acqua, che parevano una cascata, con file enormi di gente per berla o bagnarsi.

 

“Kiyomizudera. Da mizu, acqua, acqua pura,” spiegava la guida e, a parte il panorama incantato e la bellezza del luogo, Imma fu molto incuriosita da alcune giovani che camminavano ad occhi chiusi da una pietra verso un’altra pietra, rischiando pure di farsi male.

 

“Se… arrivano senza vedere, grande amore in loro vita.”

 

“Io credo di essere già stata abbastanza fortunata così,” rispose Imma, prima di sdrammatizzare, di fronte alla commozione di Calogiuri, “se tu invece vuoi provare, maresciallo!”

 

“Potrei arrivarci a occhi chiusi, ma perché ho già un grande amore nella mia vita.”

 

Lo guardò come a sfidarlo a provarci e lui, come se fosse la cosa più normale del mondo, aspettò che l’ultima ragazzetta si levasse, si tappò gli occhi con una mano ed iniziò a camminare, sotto i risolini delle giapponesine che gli facevano foto.

 

Calogiuri era lento, e a volte imbranato, ma forse proprio per quello era preciso. Fece un passo dopo l’altro e, piano piano, arrivò a toccare la seconda pietra, che per poco non ci si schiantava contro.

 

“Hai barato, dì la verità!” lo redarguì ma lui mise una mano sul cuore e rispose con un “no, te lo giuro!” che era terribilmente sincero.

 

“Spero che sia per me e non per qualcun’altra che attende nel tuo futuro!” scherzò, e lui la spiazzò con un, “perché non lo fai pure tu? Così abbiamo la riprova!” che sapeva di sfida.

 

Dopo aver lasciato ad altre tre ragazze l’onore di provare a farlo, una che tra poco finiva addosso a Calogiuri, altro che roccia - sempre se non l’aveva fatto apposta! - ci provò pure lei, ringraziando il cielo almeno di avere addosso le sue amate scarpe da ginnastica di Maiorca e non i tacchi.

 

Chiuse gli occhi, coprendoli come aveva fatto Calogiuri per non avere la tentazione di barare e cercò di andare più dritta possibile, una gamba davanti all’altra, ma veloce, che lei ad andare piano proprio non ce la faceva.

 

Toccò presto qualcosa di caldo e morbido ed un “ferma!” le fece aprire gli occhi.

 

Era arrivata pure lei davanti alla pietra e Calogiuri l’aveva stoppata prima che ci inciampasse.

 

“Voi grande amore, grande!” proclamò felice Yukari, “come Volo!”

 

Annamo bene! - pensò Imma, per il paragone, stringendosi però felice a Calogiuri, tra sguardi di invidia delle ragazzette.

 

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Avevano appena finito di vedere il Kinkaku-ji, un tempio buddhista dorato dal parco bellissimo, dopo aver visitato il palazzo imperiale, quando uno di quei portali di legno rosso che annunciavano i santuari, anche se piccola, le si parò davanti. C’era una processione di gente che, ordinatissima, ci camminava sotto: alla testa quelli che presumeva essere sacerdoti, poi una tipa vestita di bianco con un buffo copricapo che le pareva un fungo, ed un uomo in quella che pareva una specie di gonna pantalone enorme più kimono.

 

“Matrimonio,” spiegò Yukari, con un sorriso.

 

“Questo… è un santuario shinto, giusto?” chiese, perché ormai aveva capito che la differenza, oltre alle figure del buddha, la facevano la presenza o assenza delle porte rosse.

 

“Sì, sì. Shinto per matrimoni. Buddha per funerali. Shinto non crede in vita dopo morte.”

 

La capacità di taglia e cuci religioso dei giapponesi era paradossale, anche se in un certo senso ammirevole.

 

Però era davvero affascinante vedere quella fila di gente, che ora stava purificandosi all’acqua del santuario - altra cosa che quasi tutte le religioni stranamente avevano in comune.

 

“Non si può assistere, immagino?” chiese, sorprendendosi da un lato, ma era curiosa di tutte quelle usanze.

 

“No, privato.”

 

“Anche noi stiamo organizzando il nostro matrimonio, cioè lo organizzeremo. Ci sposeremo tra un anno o due, credo,” spiegò Calogiuri, guardandola come a sondare il terreno su una data.

 

Gli sorrise intenerita, ma il peggio fu che lo fece anche la guida.

 

In Giappone Calogiuri sarebbe andato via come il pane, anzi, il riso, pure più che in Italia.

 

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“Noto che andare al mercato comporta l’assordamento pure in Giappone.”

 

Erano al mercato di Nishiki, che stava per chiudere, una serie di vie con degli sgabbiotti fissi da cui i negozianti proponevano soprattutto cibo - pesce fresco in prevalenza, visto l’odore. Tanto erano silenziosi i cittadini, quanto urlavano i negozianti. La differenza la facevano le massaie, ordinatissime, tanto che riuscirono a passare senza troppi problemi tra una fila e l’altra.

 

“Cerchiamo un posto dove cenare, dottoressa? Qua vicino c’è Gion, uno dei quartieri più antichi, dove ci sono ancora molte geishe.”

 

“Allora non sono del tutto sicura di volerci andare, Calogiù,” scherzò, ma poi si avviò insieme a lui nella folla.


Ad un certo punto notò un ristorantino davanti al quale c’era una bella coda, cosa che di solito era un buon segno, ma che sembrava comunque scorrere.

 

Si avvicinò e sentì un profumino invitantissimo di cose alla piastra, e vide che sembravano delle specie di frittelle cosparse di pesce, carne o qualsiasi altra cosa.


“Okonomiyaki!” annunciava la ragazza che prendeva l’ordine d’arrivo delle persone ed il numero del gruppo.

 

Un ricordo di gioventù l’assalì: la prima televisione che avevano avuto a casa ed un cartone animato, con protagonista una stordita di nome Licia, a cui piacevano molto uomini dalle pettinature improbabili che suonavano musica che definire rock era come definire Gigi D’Alessio metal.

 

Eppure a lei era piaciuto, anche se non lo poteva guardare spesso, che doveva fare i compiti. Non solo a lei, visto che poi ne avevano tratto una serie televisiva recitata in un modo che faceva sembrare Garko Robert De Niro.


Ma il padre di quella Licia faceva delle frittelle, che le parevano proprio queste.

 

Chissà come si chiamavano in realtà quegli assurdi  personaggi.

 

“Vuoi provare questi?” le chiese Calogiuri, con aria tutt’altro che dispiaciuta: il profumino era da denuncia.

 

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Dopo essersi divisi una frittella col maiale, una coi gamberi, ed una con gli spaghetti, tutte eccellenti, si avviarono, puzzando tremendamente di piastra, verso sto famoso quartiere.

 

Era bellissimo, molto tranquillo, al di là dei vari localini aperti, poche luci, un altro mondo rispetto ai grattacieli.

 

E poi le vide, come da copione, tre geishe, vestite di tutto punto e truccate di bianco, che uscivano in gruppo da uno dei ristoranti.

 

Erano stranissime e bellissime allo stesso tempo.

 

La prima si fermò un attimo e lo fecero anche le altre, e le vide chiaramente lanciare uno sguardo a Calogiuri, una gli sorrise pure, prima di ripararsi in maniera civettuola dietro un ventaglio.

 

Ma poi ricominciarono a camminare, sui loro sandali rumorosissimi, entrando in un altro stabile lì vicino.


Guardò in tralice Calogiuri, che sembrava un poco imbambolato.

 

“Calogiù, se stai con me la donna geisha te la scordi proprio, lo sai, vero?”

 

“Ma con le vestaglie giapponesi stai benissimo, anzi, con le vestaglie in generale,” si salvò subito lui, sussurrandole, “e poi lo sai che il tuo carattere mi fa impazzire, oltre a… tante altre cose. Dove la trovo un’altra come te?”

 

“Ecco, appunto! Tienilo bene a mente! E se farai il bravo… magari ora della fine di questa vacanza potrei aggiungere qualche altra vestaglia al mio guardaroba.”

 

Si guardò intorno, accertandosi che non ci fosse nessuno e gli pinzò per un attimo il sedere, prima di proseguire in avanti, soddisfattissima dal modo in cui venne pronunciato quel “Imma!” che la raggiunse.

 

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“Ma questo non è un santuario: è una montagna! Per carità, forse il più bello che abbiamo visto fino a mo, che è tutto dire, ma con 38 gradi… faremo fuori tutte le macchinette automatiche.”

 

“Lo so, dottoressa, ma abbiamo molte ore, possiamo prendercela con calma. E poi… ormai quasi tutti i turisti ci hanno rinunciato, è come se ci fossimo solo io e te.”

 

Era vero: il santuario shintoista Fushimi Inari era enorme e gettonatissimo, anche per via della quantità spropositata di portali rossi - che aveva scoperto chiamarsi torii - uno in fila all’altro a delineare tutto un percorso per la montagna.


All’inizio era pieno di turisti impegnati a farsi i selfie, ma ormai pareva realmente di essere in un mondo tutto loro, fatto di verde, arancio, campanelli che suonavano in lontananza e piccoli tempietti sparsi ovunque.

 

Piano piano, mano nella mano, allontanandosi ogni tanto dalla salita per esplorare qualche altro angolo bellissimo, arrivarono in cima, tutta Kyoto davanti ai loro occhi. Le venne da piangere per la bellezza di tutto quello che stava vivendo e vedendo.

 

“Non mi scorderò mai di questo viaggio, Calogiù: è stato il regalo più bello che potessi farmi. A parte l’anello, ovviamente,” gli sussurrò, fregandosene dell’etichetta e che in fondo fosse un luogo sacro e dandogli un bacio.

 

Del resto lo spirito di una volpe dalle molte code e che veniva rappresentata come una donna, peraltro vestita di rosso, al massimo massimo poteva approvare, ne era sicura.

 

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“C’è un chioschetto qua, vuoi prendere qualcosa?”

 

“E me lo chiedi, Calogiù? Mi sto sciogliendo!”

 

Si erano appena fatti a piedi la bellissima foresta di bambù, dopo aver visto le scimmie nel vicino parco, che le erano parse assai più intelligenti della maggior parte dei suoi sottoposti.

 

“Che vendono qua?”

 

Calogiuri fotografò la scritta con google translate e venne fuori “kakigori”. Il che non diceva molto, a parte che il nome prometteva malissimo sugli effetti collaterali della consumazione.

 

Ma poi intravide cosa c’era oltre la folla: una donna che grattava via ghiaccio da un blocco e ci metteva su sciroppo.

 

“Na grattachecca, Calogiù!” esclamò, e le venne da ridere: il mondo era proprio piccolo, in fondo.

 

E poi provò come una fitta allo stomaco, che non distinse subito, ed un’altra ancora.

 

E fu allora che se lo ricordò, preciso, come se ce lo avesse davanti agli occhi mo: le mani di un uomo con una lama in mano che correvano su una lastra di ghiaccio, raccogliendo quello grattato via in un bicchiere e mettendoci su uno sciroppo verde. Menta probabilmente.

 

La voce di sua madre che ringraziava e lei che la prendeva e la mangiava avidamente.

 

Ma quell’uomo… quell’uomo non era suo padre.

 

O per certi versi lo era, perché il volto che le apparve, offuscato dai ricordi, era quello di Cenzino Latronico.

 

Le girò la testa, tanto che Calogiuri la prese per un braccio e le chiese se andava tutto bene, seguito da diverse donne giapponesi che esclamavano cose tipo “genki?” o “byouki?” che doveva essere qualcosa sui generis di “ti senti male?”

 

La fecero accomodare su una panchina lì vicino e, dopo un poco, il mondo tornò a farsi chiaro ai suoi occhi.


“Ok, ok. Too hot!” cercò di spiegare, indicando il sole e guadagnandosi dalla negoziante, uscita in mezzo alla folla, una bottiglietta del loro equivalente del gatorade, più una granita gigante per lei e una per Calogiuri, con su litri di sciroppo.

 

Pure mentre mangiavano, piano piano, per evitare una congestione, Calogiuri continuava a fissarla, preoccupato, ma lei cercò di rassicurarlo. La verità era che non aveva idea se quello che aveva scatenato il capogiro fosse un ricordo o solo una suggestione della sua mente, ma non se la sentiva di affrontare quell’argomento lì ed in quel momento.


Se mai se la sarebbe sentita.

 

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“Oggi è l’ultimo giorno qua a Kyoto.”

 

Già… era l’ultimo giorno e… la verità era che quella città le sarebbe mancata tantissimo, più di Tokyo con tutte le sue luci e tecnologia.

 

I templi, la pace, la tranquillità, il cibo che era inaspettatamente buono…. Tutto tranne il clima.

 

“Che vuoi fare oggi, maresciallo? Mi sono persa quale fosse il programma.”

 

Calogiuri, al di là del giorno con la guida, aveva pianificato tutto in maniera certosina, ma per quel giorno non le aveva detto niente.

 

“C’è un posto in cui ti voglio portare. Una sorpresa. Ti conviene metterti vestiti leggeri e comodi.”

 

“Un’altra scarpinata, Calogiù?” domandò, preoccupata, perché, anche se le avrebbe rifatte tutte mille volte, ancora un po’ e non sentiva più i piedi.

 

“Non proprio, dottoressa, anche perché ieri col colpo di calore lo hai fatto venire a me un colpo. Ti fidi di me o no?”

 

“Quando fai questa domanda sei particolarmente pericoloso, Calogiuri. Ma va bene, mi fido!”

 

Si infilò un vestitino leggero, le scarpe da ginnastica, e si preparò a spalmarsi e spalmarlo di crema solare, che già lui aveva un paio di zone rosse sul collo che non volevano saperne di andarsene.

 

E, per una volta, non per colpa sua.

 

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Scesero dal bus già accaldati, Calogiuri la condusse per un pezzetto a piedi e si trovò davanti ad un santuario shinto abbastanza grande, ma molto più semplice e meno scenografico di altri dove erano stati.

 

“Che c’è in questo santuario, Calogiù?” gli domandò, presumendo che magari avesse un giardino bellissimo - anche se quelli erano di solito i templi buddhisti - o qualcos’altro di particolare ma nascosto.

 

“Imma-sama, Karojuuri-san!”

 

“Yukari?” le chiese, sorpresa di vederla lì, non provando nemmeno a ricordare che suffisso avrebbe dovuto usare con lei - aveva scoperto che i giapponesi erano più fissati con le gerarchie dei carabinieri - per poi lanciare un’occhiata interrogativa a Karojuuri-san.

 

Che aveva combinato con la guida, alle sue spalle peraltro?

 

“Tu non detto niente a lei?” chiese Yukari, dandole manforte.


“No, no, volevo fosse una sorpresa,” spiegò lui, bordeaux, ma tanto ormai con il caldo e il sole lo era quasi perennemente, “Imma… se… se vuoi… possiamo… possiamo fare un rito di matrimonio shinto, come quello che abbiamo visto qualche giorno fa.”

 

Sentì la mascella schioccare, tanto che fu un miracolo se non se la slogò.

 

“Non… non ha alcun valore legale in Italia, non ti preoccupare,” si affrettò a precisare, “però… sarebbe una promessa tra noi due, una cosa soltanto nostra. Se… se ti va. Se non te la senti, lo capisco e-”

 

Gli prese il viso e gli stampò un bacio, perché, da sempre, era l’unica risposta possibile quando Calogiuri era… era Calogiuri.

 

Sentiva già il nodo in gola e il bruciore agli occhi che annunciavano lacrime imminenti ma si trattenne, mentre si staccava prima di dare troppo scandalo.

 

“Va bene… ma… sono struccata, tutta sudata… come…”

 

“Se tu seguire me, io spiegare tutto,” rispose Yukari, battendo le mani e facendo un saltello dalla contentezza, come aveva notato facevano molte ragazze giapponesi.


Le ricordavano Noemi.

 

E, su quel pensiero assurdo, si lasciò trascinare verso una delle porte laterali del santuario.

 

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“Kimono bianco o colori?”

 

Come vide l’altro kimono, rosso e pieno di decorazioni a fiori, non ebbe dubbi: che, poteva fare un matrimonio vestita così, e non ne approfittava?

 

“Colorato.”

 

“Questo cappello tradizione,” spiegò poi Yukari, mostrandole il cupolone che già aveva visto indosso all’altra sposa, “significa calma e… e…. obbedienza! Vuoi?”

 

Le venne da ridere.


“Grazie, ma sarei molto poco credibile,” rispose e, allo sguardo confuso della ragazza chiarì, “no, grazie.”

 

E poi dopo un po’ di inchini e salamelecchi, due ragazze che presumibilmente lavoravano nel santuario le presero i capelli e li acconciarono in un raccolto con fiori ed altre decorazioni che le sembrarono magnifiche.

 

Nel frattempo Yukari le spiegava come funzionava la cerimonia.

 

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Sentì un rumore di passi e la vide, davanti a Yukari e a due vestali del santuario, vestite con la gonna pantalone rossa ed il kimono bianco che aveva visto spesso nei cartoni giapponesi.

 

Rimase senza fiato: era bellissima.

 

I colori del kimono, la pettinatura, sembravano essere stati creati apposta per lei, era luminosa come non l’aveva mai vista.

 

Gli si appannavano già gli occhi ed erano solo all’inizio.

 

E finalmente lei sollevò lo sguardo, ormai a pochi metri da lui, incrociò il suo, e vide benissimo che si tratteneva dal ridere.

 

“L’abito tradizionale è così…” le sussurrò, appena fu abbastanza vicina, avendo capito benissimo perché lo trovasse buffo: del resto aveva su una specie di gonna pantalone grigia, che però sembrava una gonna, a parte la vestaglia nera sopra, che non era niente male.

 

“Non ci posso credere che ti sei vestito così per me,” gli rispose, sorridendogli in un modo che lo rese orgogliosissimo, “ma sei bellissimo pure così, sei bellissimo sempre, mannaggia a te!”

 

Sentirono un colpo di tosse e si voltarono verso il sacerdote. Si zittirono prima di rischiare di essere cacciati dal loro stesso matrimonio.

 

Procedettero in fila con il sacerdote, le vestali, Yukari e alcuni presenti, quasi tutti giapponesi, che presumeva dai gesti il sacerdote avesse invitato ad unirsi a loro, verso la fontana del santuario per il rito di purificazione.

 

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Le sembrò tutto velocissimo, surreale e bellissimo allo stesso tempo.

 

Ma ogni volta che incrociava gli occhi di Calogiuri, talmente lucidi che pareva uno con una rinite allergica, sapeva che stava succedendo davvero.

 

Come da istruzioni, bevvero tre sorsi di sakè - che, con tutto il bene, a lei sembrava liquore annacquato - da tre tazze di dimensioni diverse, poste sull’altare insieme a frutta, sale e riso.

 

E poi arrivò il momento del giuramento e toccò prima a Calogiuri, a cui venne dato, come a lei, un foglio con la traslitterazione in alfabeto occidentale. Ma saper pronunciare tutta quella roba era un altro discorso.

 

Il sacerdote disse la prima frase e Calogiuri la ripetè, “watakushi wa kono josei to kekkonshi.”

 

Fu un poco un parto, tra Calogiuri che era emozionato, balbettava e si interrompeva ogni due per tre e le frasi in giapponese. E poi Calogiuri chiese con un “Itariago?” se poteva ripeterlo in italiano e il sacerdote assentì.

 

“Sposo questa donna e d’ora in poi saremo una coppia. Qualunque sia il nostro stato di salute, l’amerò, la rispetterò, la consolerò, l’aiuterò, fino alla fine della mia vita, essendole sempre fedele. Lo giuro.”

 

Sul lo giuro finale le venne da ridere e da piangere al tempo stesso.

 

Tanto che mormorò un “fedele nei secoli!” per sdrammatizzare.

 

E poi fu il suo turno di ripetere il tutto, Calogiuri che ormai aveva gli occhioni enormi, rossi ed il volto tutto bagnato - e non solo per il sudore con addosso tutta quella roba - lei che probabilmente ormai doveva sembrare un panda, la voce che se le si spezzava in continuazione e le mani che tenevano il foglio che tremavano… come foglie.

 

“Sposo quest’uomo e d’ora in poi saremo una coppia. Qualunque sia il nostro stato di salute, l’amerò, lo rispetterò, lo consolerò, lo aiuterò, fino alla fine della mia vita, essendogli sempre fedele. Te lo giuro, Calogiù!” non resistette ad aggiungere, godendosi la risata di lui.

 

E poi il prete fece qualche proclamazione e si voltò verso la piccola folla che ormai assisteva alla cerimonia. Imma notò che Yukari pareva commossa e pure alcuni dei solitamente impassibili giapponesi, soprattutto i più anziani.

 

E fu il turno dei presenti di avvicinarsi per bere il sakè - in un momento stranamente familiare - e poi si avviarono verso il santuario più interno, dove diedero loro un ramoscello sempreverde a testa, e, cercando di ricordare le prove, si inchinarono due volte, batterono due volte le mani, si inchinarono un’ultima volta per poggiare il ramo, donandolo alla divinità del santuario.

 

Il sacerdote pronunciò altre parole con cui li proclamava marito e moglie ed Imma non sapeva bene cosa fare, visto che in teoria ci si poteva toccare pochissimo.

 

Ma poi sentì un “kissu! kissu!” venire dal pubblico - chissà chi era stato - seguito da altri ed il sacerdote fece segno che potevano farlo.

 

Afferrò le guance di Calogiuri, umide e bollenti, e fu ben felice, per una volta, di accontentare qualcuno.

 

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Un fotografo, ingaggiato da Yukari, aveva appena finito di tormentarli con un servizio fotografico degno di quei cretini degli influencer. Si stava letteralmente sciogliendo ma doveva ringraziare qualsiasi cosa ci fosse dentro al trucco che le avevano applicato, perché non solo non sembrava un panda, ma era ancora quasi perfetto.

 

Ogni tanto, tra una foto e l’altra, qualche giapponese si avvicinava con inchini, a chiedere una “pikucha!” con loro.

 

La più bella era stata quella con alcune bambine, vestite in un modo assolutamente adorabile, perfino per lei che non aveva esattamente un istinto materno strabordante.

 

E poi c’erano state alcune ragazzette che si erano strette un po’ troppo a Calogiuri… mica sceme!

 

Avevano appena salutato il fotografo che Imma, con tutto il bene, sperava di non rivedere mai più, ma da cui avrebbe dovuto prendere lezioni su come dare ordini e torturare i sottoposti, quando si fece avanti una signora anziana ed un poco curva - il che significava che doveva essere molto anziana - e disse qualcosa a Yukari, mentre sorrideva loro.

 

“Signora dice che vuole fare regalo a voi, souvenir di santuario. Scegliere voi ciò che preferire.”

 

Provò in qualche modo ad esprimere la sua gratitudine tra inchini e “arigatou!” e guardò cosa offriva il negozietto.

 

La colpirono delle piccole frecce di legno, con attaccato un foglietto di carta con un disegno di quella che presumeva essere una divinità.

 

Ne afferrò una e l’anziana sorrise e le fece segno verso la pancia.

 

“Quello amuleto per proteggere donne che aspettano bimbo o che vogliono bimbo,” spiegò Yukari ed Imma si sentì ancora più accaldata, se possibile, “principessa, divinità di santuario vicino, quasi la prende freccia. Lei raccoglie freccia e dorme con freccia e così nasce figlio, dio di questo santuario.”

 

“Magari bastasse una freccia…” mormorò Imma, sentendo una fitta di malinconia.

 

Incrociò lo sguardo di Calogiuri, altrettanto malinconico, ma anche pieno di una felicità e di un desiderio inespressi, ma che gli si leggevano chiaramente in faccia.

 

“La prendo.”

 

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Si erano tolti gli abiti matrimoniali, più pesanti ed assai più costosi, ma avevano fornito loro degli yukata molto simili ma estremamente più leggeri, di cotone.

 

Erano quindi usciti dal santuario, dove li attendeva un taxi e mo erano scesi vicino al fiume e a quello che riconosceva come l’antico quartiere delle geisha.

 

“Calogiù, dove mi staresti portando? Ti ricordo che hai promesso di essermi sempre ma proprio sempre fedele, quindi le tue care geisha….”

 

“Tu sei la più bella di tutte. Con le vestaglie sei illegale da che ti conosco, dottoressa,” le fece solletico al collo col fiato, abbracciandola, “e comunque… dovremo pur farci una bella cena per festeggiare questo... matrimonio, no?”

 

Sentì chiaramente come la voce gli si rompeva sulla parola matrimonio. Anche per lei era ancora surreale anche solo pensarci: erano sposati.


Certo, non legalmente, ed era un qualcosa che si sarebbero tenuti solo tra loro ma… la promessa c’era stata e lei non faceva mai promesse che non aveva intenzione di mantenere. E sapeva che lo stesso valeva per lui, quindi… da quel momento in avanti sarebbe stato suo marito, almeno nel suo cuore, in attesa che lo fosse anche per tutto il resto del mondo.

 

Arrivarono in uno di quei ristoranti antichi, con tanto di tendina bianca davanti. Una cameriera, pure lei in abiti tradizionali, li accolse, e Calogiuri le disse, “Tanaka Yukari.”

 

La cameriera si illuminò ed esclamò un “kekkon! Omedetou gozaimasu!”

 

A furia di sentirselo ripetere quel pomeriggio, avevano capito che kekkon fosse il matrimonio e il resto una specie di congratulazioni.

 

Ringraziarono pure loro e vennero portati in un angolo un poco riparato di un bancone, dove li attendeva lo chef.

 

“Qua lo chef ti prepara il sushi su richiesta e in base alla sua fantasia. Dovrebbe parlare inglese.”

 

“Calogiù… ma quanto hai speso? Cioè, non solo per lo chef, ma per tutta questa giornata?”

 

“Yukari mi ha fatto un buon prezzo e comunque molto ma molto meno di quanto ci costerà il matrimonio in Italia, dottoressa.”


“Tu mi sottovaluti, maresciallo!” ribatte, facendogli però l’occhiolino.

 

“E poi… e poi almeno provi che cos’è il vero sushi!”

 

Il modo in cui aveva pronunciato quella frase la fece sorridere, “maresciallo… maresciallo… sbaglio o ci noto una frecciatina un po’ poco velata?”

 

Lui, ovviamente, fece la faccia da impunito e poi l’aiutò ad accomodarsi.

 

Se il sushi mangiato in Italia non le era dispiaciuto, questo era proprio delizioso, una cosa completamente diversa, che neanche la ricotta di Matera rispetto a quella che si trovava al nord.

 

Di nuovo, le venne da ridere.

 

“Che c’è, dottoressa?”

 

“C’è che… non solo il sushi non tiene proprio paragoni, ma neanche tu… anche se mo c’hai gli occhi peggio del gambero che hanno appena lessato.”

 

Si sentì stringere la mano sotto al tavolo, il massimo che potevano fare in un locale pubblico, ma poi arrivò la cameriera, portando loro del sakè freddo.

 

“We did not order this…” provò a spiegare Imma, ma cameriera scosse il capo e sorrise.

 

“Foru weddingu. Omedetou!”

 

“Free from the house,” spiegò lo chef con un sorriso e poi, spiegò ai presenti, “kono hitotachi-wa kyo kekkonshimashita-yo!”

 

In quel momento capì due cose: che l’alcol aveva il potere di trasformare anche il popolo più riservato e che fornire alla gente una scusa buona per berne altro rendeva molto più simpatici agli occhi della gente suddetta.

 

Gli astanti - altri due turisti, un gruppetto di quelli che sembravano businessmen ed una coppia più anziana - si prodigarono in una serie di congratulazioni e brindisi tra birra e saké da far invidia a chiunque.

 

Per fortuna il loro di sakè era meno annacquato dei precedenti, forse di qualità migliore.

 

Ma, mentre portavano a lei e Calogiuri una minitorta nuziale da dividere - tanto piccola quanto da diabete immediato, con tanto di sposini finti sulla cima - pensò che, stranamente, festeggiare con dei perfetti sconosciuti, di cui capiva sì o no a stento due parole, un matrimonio che nessuno tranne loro avrebbe mai conosciuto o riconosciuto, era assai più bello del ricevimento infinito e noiosissimo del suo primo matrimonio con Pietro ed i parenti e gli amici di lui - anzi di sua suocera.

 

Per essere perfetto mancavano solo Valentina, Diana ed i fratelli di Calogiuri, anche se con loro avrebbero potuto festeggiare per bene al matrimonio ufficiale.

 

Quel pensiero però inevitabilmente la portò a Valentina, alla quale non aveva ancora detto nemmeno del fidanzamento con Calogiuri.

 

E, forse, al suo ritorno, era proprio giunto il momento di farlo.

 

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“E mo dove mi porti, maresciallo?”

 

Si sentiva piacevolmente sazia, felice in un modo inimmaginabile. E quasi sicuramente il sakè che si erano scolati c’entrava solo in minima parte.


Finalmente la temperatura - il sole ormai calato da un po’ - era leggermente meno afosa ed era quasi piacevole passeggiare.

 

“Yukari ci ha prenotato una suite matrimoniale in un hotel specializzato. Dovrebbe già averci portato in stanza i nostri vestiti di stamattina, così poi le lasciamo lì questi.”

 

“Sempre se sopravvivono, conoscendoti….”

 

“Veramente l’attentatrice sei tu, c’è di buono che qua non c’è neanche un bottone da far saltare.”

 

“Com’è girare in gonna, Calogiù?”

 

“Come girare in accappatoio. Fresco e qua non c’è da sentirsi in imbarazzo. Certo… forse a Roma non lo indosserei per venire al lavoro, ecco!”

 

“Ci mancherebbe altro! Se no la gattamorta torna alla carica e non ti molla più!” esclamò, perché Calogiuri, conciato in quel modo, era adorabilmente tenero ma allo stesso tempo stranamente sexy.

 

La combinazione più letale per lei e per il resto del genere femminile dotato di vista funzionante.

 

E infatti, manco a chiamarle, vide alcune ragazze, pure loro in yukata, camminare dall’altro lato della strada, lanciando occhiate e risolini a Calogiuri.

 

Il lieve ruggito che ancora ogni tanto le si affacciava in petto, però, fu bloccato dal rendersi conto che le ragazze erano solo le prime di una fila di persone che si stavano recando ad un santuario lì vicino.

 

Piccolino, a giudicare dal torii, ma sembrava che ci fosse in corso come un mercatino, una specie di sagra.

 

“Dovrebbe essere un matsuri. Sono tipici dell’estate.”

 

“Insomma… una sagra in un luogo religioso. Certo che i nostri antenati in tutto il mondo dovevano avere molta poca fantasia,” ironizzò, però la folla di gente e i profumi la incuriosirono.

 

“Che ne dici se ci facciamo un giro? Tanto poi abbiamo tutta la notte!” propose, con uno sguardo che avrebbe mandato ai matti chiunque.

 

Gli prese la mano e se lo trascinò verso la calca di gente, che ormai non la turbava più.

 

C’erano cibi fritti ed alla piastra di ogni tipo, dolci, frutta - che in Giappone costava come un rene - e pure dei giochini per catturare i pesciolini rossi o vincere dei pupazzetti.

 

E poi notò una fila di gente davanti ad una specie di cassetta piazzata al lato del santuario. Estraevano un foglietto da un contenitore che shakeravano e poi o lo tenevano o lo appendevano.

 

“L’ho visto in qualche cartone. Penso siano tipo predizioni sulla fortuna futura.”

 

“Dubito di poter essere più fortunata di così, Calogiù, ma proviamo, al massimo lo teniamo come ricordo.”

 

Fecero tutta la fila - ormai avevano fatto più file in quei giorni che in una vita tra banca e posta - ed insieme estrassero il foglietto.

 

Lo aprì, curiosa, ma era scritto in caratteri giapponesi e non c’era alcuna traduzione in inglese.

 

Dovevano aspettarselo, in fondo: il santuario era piccolo e non turistico.

 

“Possiamo farcelo tradurre, dottoressa,” la rincuorò lui e, intascato il foglietto, diedero i loro omaggi a qualunque fosse lo spirito lì venerato e si incamminarono verso l’entrata.

 

Fu allora che lo vide: accanto al banchetto dei pesci rossi, talmente piccolo che non arrivava al bancone, un bambino in yukata che piangeva disperatamente.

 

All’inizio pensò che magari avesse perso il pescetto: sapeva per esperienza con Valentina che i bimbi sapevano fare tragedie per delle piccolissime delusioni.

 

Ma, mentre stavano ancora andando avanti a passo da lumaca, nessuno si avvicinò al bambino, né per consolarlo né per portarlo via di lì. In effetti era in una zona d’ombra e gli altri non sembravano nemmeno accorgersi della sua presenza.

 

D’accordo la disciplina delle mamme giapponesi, che magari non assecondavano i capricci, ma c’era qualcosa che non andava.

 

Bloccò Calogiuri con una sola mano davanti al petto, come faceva ai vecchi tempi, e al suo sguardo interrogativo, fece cenno verso il bambino e poi lo trascinò verso di lui.

 

Il problema era come avvicinarsi ed accertarsi che stesse bene senza spaventarlo o, peggio, finire in galera per molestie a un bimbo.

 

“Come si dice tutto ok in giapponese e dov’è sua mamma? Cerca un po’ su quel coso, Calogiù,” ordinò, perché il traduttore, seppur imperfetto, li aveva salvati in molte occasioni.

 

Il bambino li notò ed Imma temette per un attimo che volesse scappare, quindi si inginocchiò ed esclamò “matte!” una delle poche parole che aveva imparato e che voleva dire aspetta.

 

Poi prese il cellulare dalla mano di Calogiuri e fece partire le frasi impostate dallo schermo.

 

“Daijoubu desuka? Anata no haha-wa, doko desuka?” disse la vocetta ad elio, seppur metallica.

 

“Okaasan-ga mistukaranai, mitsukaranai!” pianse il bambino e per fortuna Calogiuri riuscì in qualche modo a registrare e a tradurre con un “non riesco a trovare mia mamma.”

 

“Calogiù… qua è difficile farsi capire. Non siamo passati davanti ad uno dei chioschi della polizia poco fa? Potremmo portarlo lì, loro sapranno trovare sua madre, spero.”

 

“Eh, ma come lo convinciamo a venire con noi senza che si spaventi?”

 

“Puoi usare il distintivo, Calogiuri? Magari capisce?”

 

“Menomale che mi sono portato dietro il portafoglio!” sospirò lui, aprendo la borsa di stoffa nera che gli avevano dato - del resto dove altro avrebbe potuto infilare telefono e portafoglio? - e ne tirò infine fuori il distintivo.

 

Il bambino lo guardò, confuso.

 

“Cerca come si dice poliziotto in giapponese.”

 

“Keikan,” lesse, cercando di spiegarsi al bambino, che però pareva sempre confuso e poi così dal nulla, gli si illuminò il viso e disse “Zenigata.”

 

“Rupan Sansei?” chiese il bambino e Calogiuri annuì e disse.


“Watashi, Zenigata. Keikan. Police.”

 

Il bambino sorrise e chiese, “kanojo-wa keikan desuka?” indicando lei.

 

Calogiuri scosse il capo ma cercò altro sul cellulare e mostro al bambino l’immagine di un tipo dai capelli grigi e vestito con un mantello viola che perfino lei trovava ridicolo e specificò, dopo un’altra ricerca su translate, “kensatsukan.”


“Chiedigli di venire con noi alla stazione di polizia,” tagliò corto Imma e Calogiuri di nuovo cercò la frase.

 

“Watashitachi-to issho-ni, kouban-ni, kite kudasai,” pronunciò la signorina che si era ingoiata un palloncino.

 

Il bimbo sembrò un attimo incerto ma poi prese con una mano lei e con una lui e si lasciò accompagnare.


“Muoviamoci, Calogiù, prima che qua ci fermano e ci arrestano!” esclamò, anche se nella folla era difficilissimo procedere rapidamente e non era il caso di attirare di più l’attenzione su di loro.

 

Finalmente uscirono dal giardino del santuario e la folla si diradò. Ma Imma sapeva che così era ancora più pericoloso, perché potevano dare nell’occhio ed erano due stranieri con un bimbo palesemente giapponese.

 

Camminarono più in fretta che potevano, ma il bimbo ad un certo punto si fermò e fece una lamentela, con una faccia degna di Ottavia, Noemi e zio messi insieme, alzando le braccina nel segno universale per farsi prendere in braccio.

 

Pure peggio.

 

Calogiuri, dopo un’occhiata, se lo sollevò e se lo mise in spalla, ed il bambino rise, urlando “takai, takai!” qualsiasi cosa significasse.

 

Stavano già attirando qualche occhiata, ma per fortuna il chiosco della polizia apparve, come un miraggio, si avvicinarono rapidamente allo sgabbiotto e videro uno degli agenti uscire.

 

“This child lost,” cercò di spiegare all’agente - che aveva un’aria sveglia degna quasi di Capozza - ma il tipo si riaffacciò e ne uscirono altri due agenti, che non li guardarono bene, anzi, tutt’altro.

 

“This child got lost, can’t find mother. Can you help?” chiese, cercando di tenere l’inglese semplice, mentre Calogiuri provava a fare scendere il bimbo dalle spalle, che però gli rimase aggrappato.

 

Prese la borsa di Calogiuri e stavolta ne estrasse lei il distintivo, “Italian police, carabinieri!” provò di nuovo a spiegare, non essendo affatto certa che capissero.

 

Uno degli agenti fece qualche domanda al bambino, che però rimase aggrappatissimo al collo di Calogiuri. Un baby koala con un koala, praticamente. Per fortuna, dopo le parole del bimbo, i poliziotti sembrarono distendersi visibilmente, anche se fecero segno loro di entrare nello sgabbiotto. Che per fortuna aveva l’aria condizionata.


Seguirono minuti nei quali, mentre un poliziotto prendeva un giochino per il bimbo, che però restava ostinatamente in braccio a Calogiuri, assisterono a delle telefonate incomprensibili, lasciarono i loro documenti e alla fine, quando ormai temeva di passare la prima notte di nozze in compagnia dei Capozza giapponesi, la porta del chioschetto si aprì ed entrò una donna in yukata e completamente in lacrime, che esclamò, “Hiroshi!”

 

“Okaa-chan!” urlò il bimbo, staccandosi finalmente da Calogiuri e correndole incontro, abbracciandosela forte.

 

Un uomo, il padre presumibilmente, fece anche lui capolino dalla porta.

 

E poi, dopo gli abbracci, Hiroshi si prese una reprimenda che non necessitava di alcuna traduzione, sicuramente sul non allontanarsi da solo nei luoghi affollati, ma alla fine pure un altro abbraccio.


E poi la madre guardò verso di loro.

 

Imma temette per un attimo una denuncia ma i poliziotti dissero qualcosa e la donna senza neanche alzarsi, si avvicinò a loro e fece un inchino che praticamente toccava a terra, ringraziandoli in un modo imbarazzante.

 

Il padre si limitò ad un inchino più lieve, restando in piedi.

 

Uomini… pure in gonna dovevano tenere alta la loro virilità.

 

La donna si alzò e prese per mano il piccoletto e fece per accompagnarlo fuori, ma lui si staccò e corse verso loro due, facendo un inchino tenerissimo e poi abbracciando forte prima Calogiuri e poi lei.

 

“Sayonara, Zenigata-San,” disse il bimbo e, in mezzo alle risate di tutti i presenti, uscì con i genitori.


“Ma cos’è sto Zenigata?”

 

“Un poliziotto un po’ imbecille, che dà la caccia a Lupin III, un cartone giapponese, dottoressa.”


“Non potevi sceglierti almeno un poliziotto intelligente, Calogiù?”

 

“Di tutti i cartoni che ho visto quando eravamo bambini io e i miei fratelli… i poliziotti erano sempre tutti scemi.”

 

“Comincio a capire il perché…” commentò, lanciando un’occhiata ai tre volponi che ridiedero loro i documenti e li salutarono con aria ancora divertita.

 

L’adrenalina ancora in circolo, si riavviarono verso l’hotel ed erano appena passati davanti al santuario quando un botto esplose nell’aria e si scatenarono i fuochi artificiali.

 

“A noi i fuochi artificiali portano bene, dottoressa,” lo sentì sussurrare, mentre la abbracciava da dietro.


“Sì, anche se… quello che stavamo facendo l’ultima volta coi fuochi, mo non lo possiamo fare qua, Calogiù, ma tra poco recupereremo”, mormorò di rimando, voltandosi per dargli un bacio, approfittando, come sempre, di tutto il mondo distratto con il naso all’insù.

 

“Certo che con i bambini sei bravissimo!” gli sussurrò poi, mentre ammiravano i fuochi, “l’idea dei paragoni con i cartoni animati è stata geniale!”

 

“Almeno averli visti, a differenza di quanto sosteneva mia madre, è servito a qualcosa,” si schernì lui, toccandosi il collo come al suo solito.

 

Non seppe dire se fosse lo sguardo di Calogiuri, la tenerezza del piccolo Hiroshi e delle bambine che avevano incontrato quel giorno, il sakè che abbassava leggermente i freni inibitori o quella freccia, e soprattutto lo sguardo di Calogiuri di fronte a quella freccia, ma le parole le uscirono da sole, prima che potesse fermarle.

 

“Saresti un papà meraviglioso ed io-”

 

Lo vide andare in panico, totalmente.

 

“Imma, no, cioè… lo sai che ti amo e sono felice con te, felicissimo, pure se non avremo figli non-”

 

Le fece tenerezza: certo, dopo avergli detto che sarebbe stato un padre meraviglioso, una volta lo aveva lasciato.

 

Anche se le e gli aveva fatto male quasi da impazzire.

 

Gli posò un dito sulle labbra, prima che andasse in iperventilazione.

 

“Calogiù, respira! Volevo dire che… che se tu lo vuoi io… io ho visto la tua espressione oggi pomeriggio, con la freccia e….”

 

“Sì, ma non mi importa niente di una freccia, non ti devi sentire in obbligo di niente.”

 

Gli prese il viso tra le mani e gli stampò un bacio.

 

“Lo so, maresciallo, e neanche tu, ma… se vuoi… visto che ormai siamo sposati… pure se non ufficialmente… dopo il matrimonio legale, se vuoi, possiamo pensare all’adozione, che intanto stiamo accumulando abbastanza anni di convivenza e poi… nel frattempo… potremmo… potremmo informarci se… se posso ancora avere figli biologicamente e provarci. Che con i tempi che ci vorranno… meglio informarsi mo che dopo.”

 

“E perché non cominciamo a provare da mo? Cioè… non qua,” precisò lui, facendola sorridere, “senza impegno, facendo le cose come… come le facciamo già normalmente, vista la frequenza….”

 

Gli diede un colpo sul braccio e gli disse, “ma tu c’hai il concorso e il corso ufficiali da preparare, Calogiù. Cioè… è praticamente impossibile che io rimanga incinta in poco tempo, anzi, sarà un po’ un miracolo che capiti proprio, ma-”

 

“Ma per me andrebbe benissimo sia se succedesse domani, sia se non succedesse mai. L’importante è che tu te la senta, anche fisicamente, che stia bene e serena, qualunque cosa accada.”

 

Se lo abbracciò forte forte e poi gli sussurrò, “portami in hotel, maresciallo, che non c’avrò neanche il problema dell’orario della pillola stasera.”

 

Sentì il singhiozzo di lui e si rese conto solo quando si sentì accarezzare le guance che pure lei stava piangendo come una cretina.



 

Nota dell’autrice: Ci ho messo un poco più del previsto ma, come avrete potuto notare, se avete letto fino a qua, è stato un capitolo lungo e ricco di molti eventi.

Mi auguro che il viaggio non sia risultato pesante e noioso, ho cercato di alternare cose più da viaggio appunto, con eventi importanti per i nostri protagonisti, ma aspetto di sapere cosa ne pensate. Spero che i dialoghi italo-anglo-giapponesi siano abbastanza chiari, in caso contrario fatemelo sapere che posso aggiungere ulteriori note. Dal prossimo capitolo si torna in Italia e… dopo tutti questi momenti teneri e romantici… il Grande Casino si avvicina sempre di più e colpirà durissimo.

Imma ha un po’ di cose da raccontare a Valentina e… alcune parti menzionate in questo capitolo avranno conseguenze non da poco nei prossimi.

Come sempre, vi ringrazio di cuore per avermi letta fin qui e se vorrete farmi avere una recensione, oltre a farmi tantissimo piacere, mi motivano un sacco a cercare di fare sempre meglio e mi aiutano a limare quello che non va.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 28 febbraio.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 55
*** Il Ghiaccio ***


Nessun Alibi


Capitolo 55 - Il Ghiaccio


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Addio ai petali ed alle composizioni floreali! Qua tutto abbiamo distrutto, Calogiù. Almeno i vestiti si sono salvati!”

 

“Chissà perché, però, nonostante la distruzione, hai un tono stranamente soddisfatto,” la punzecchiò, pure lui con un sorrisetto più che soddisfatto ed uno sguardo che... altro che impunito!

 

Gli diede una cuscinata, anche se effettivamente aveva ben donde di essere orgoglioso: l’aveva fatta impazzire, mannaggia a lui!

 

“Menomale che questo cuscino è di piume. Con quello degli hotel tipici mi avresti spaccato il naso!” scherzò lui ed Imma rise, ricordando come in un incubo lo scomodissimo cuscino con dentro i noccioli di chissà quale pianta, “un altro calice di vino, dottoressa? E un altro po’ di frutta?”

 

“Con quello che costa qua?! Manco un acino d’uva dobbiamo sprecare, Calogiù!” esclamò, gustandosi insieme a lui i resti del benvenuto e degli auguri dell’hotel.

 

Si accoccolò sul suo petto, godendosi la pelle d’oca che gli si formava toccandolo con le dita ghiacciate e poi, forse per la rilassatezza, le uscì spontaneo un, “voglio parlare a Valentina quando torno. Non… non magari della cerimonia di oggi, ecco, ma di tutto il resto sì. Soprattutto del fatto che… che stiamo provando ad avere un bimbo. Voglio che si senta coinvolta e che sia pronta, anche se, purtroppo, probabilmente non succederà niente.”

 

Lo guardò e lui aveva un sorriso incredibile.


“Mi sembra giusto: è tua figlia! E poi… lo sai che sono soltanto che felice che si sappia che un giorno, si spera non lontanissimo, sarai mia moglie.”

 

“Contento te…” rise e aggiunse, più seria, “e poi… lo voglio dire anche a Pietro. Mi pare giusto che lo sappia da me. E dopo… insomma… penso che potrò finalmente continuare ad indossare questo anello, che ormai mi ci sono abituata.”

 

“Vuoi dire che…” le chiese lui, e altro che sorridere, sembrava irradiare luce talmente era felice.

 

“Sì. Lo dirò in procura, Calogiuri, a Mancini per primo e poi… chi lo scopre lo scopre, e chissenefrega.”

 

Si sentì quasi stritolare in un abbraccio che un poco di vino finì sulle lenzuola, a parte che tanto ormai….

 

“Non vedo l’ora di vedere la faccia di Mancini,” sussurrò lui, e lei esclamò un “Calogiuri!”

 

“Perché? Tu non vedi forse l’ora che lo sappia Irene?”

 

In effetti… non c’aveva torto, l’impunito.


“Ma Mancini è il capo, Calogiù. E lo sai che dipende da lui se possiamo stare nella stessa procura.”

 

“E tanto se passo il concorso devo restare a Roma per forza, dottoressa: Mancini può dire tutto quello che vuole, ma finché ho il corso non mi può spostare.”

 

“Hai pensato a tutto, eh, Calogiù?” gli chiese, piacevolmente impressionata.

 

“Abbastanza. Io… lo vorrei dire anche a Modesto. E poi a Mariani. Il resto… come hai detto tu: chi lo scopre lo scopre.”

 

“Con Conti ancora in lite siete?” sospirò, che già Calogiuri c’aveva pochi amici.


“Eh… è un testone. Speriamo gli passi, prima o poi.”

 

“Speriamo. Nel frattempo, lo sai che quando torniamo a Roma ti farò una capa tanta per lo studio, sì?”

 

“Ma a me piace imparare da te, lo sai. E poi… se le lezioni andranno bene…  magari la professoressa potrà darmi qualche… incentivo allo studio.”

 

Gli mollò un’altra cuscinata, gridando, “mo abbiamo finito, Calogiù, mo!”.

 

E stavolta, se ne beccò una di risposta, ma si lasciò schiacciare ben volentieri sul materasso.

 

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“Che vuoi fare oggi?”

 

“Mi tocca comprare i souvenir, Calogiuri. Che se no mia figlia e Diana chi le sente. E poi dobbiamo regalare qualcosa a tua sorella, che ci ha tenuto Ottavia.”

 

“Eh pure a me tocca.”


“Che ne dici se ci dividiamo, Calogiù? Che almeno facciamo prima. Ci troviamo più tardi per fare un ultimo giro e poi a cena. Per festeggiare, sushi, in un altro locale di quelli buoni e stavolta offro io.”

 

“Ma… sei sicura di voler girare da sola?” le chiese, un poco preoccupato, ed anche stupito da quella richiesta.

 

“Calogiù, a Tokyo ormai mi so muovere. La criminalità qua, nonostante i Zenigata, è quasi zero e che mi può accadere? Al peggio ti telefono, ti mando la mia posizione e mi raggiungi.”

 

Sorrise: glielo aveva insegnato all’inizio del viaggio, in caso si perdessero, e pregava che Imma si ricordasse come fare.


“Guarda che lo so a cosa stai pensando, Calogiù. Ma è colpa tua che ti sei scelto una fidanzata vecchia generazione!”

 

Si beccò un pizzicotto ed un bacio sulla guancia, e poi Imma si avviò verso la stazione, camminando in quel modo che aveva solo lei e che faceva girare persino i giapponesi, nella loro frenesia.

 

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Gli lanciò un’occhiata e non avrebbe dovuto farlo.

 

Calogiuri aveva quell’espressione da cucciolo triste che l’aveva fregata dagli inizi della loro storia, rendendole impossibile tenerlo troppo lontano.

 

Altro che illegale: era da spaccare il cuore.

 

“Prima o poi ci vorrei tornare in Giappone…” gli sussurrò, perché anche lei sentiva la stessa malinconia, “per vedere altri posti. Anche se… dovremo risparmiare per un bel po’.”

 

“Ti prometto che viaggeremo ancora tanto, dottoressa, frecce permettendo,” le garantì e, alla menzione delle frecce, si aggiunse un altro motivo di commozione, “e pure con le frecce… possiamo viaggiare lo stesso.”

 

“Ah, beh, Calogiù, in Italia tutti viaggiano con le frecce. Tranne per Matera, che ci toccano ancora i bus scassati.”

 

La voce registrata annunciò che il volo sarebbe decollato a breve.

 

Gli prese la mano, come faceva sempre per partenze ed atterraggi, e se la sentì sollevare, e poi lui ci piantò un bacio.

 

“Mi… mi ero abituato a sentirlo questo anello…”

 

“Pure io, Calogiù. Ma magari non ci dovremo disabituare troppo. E mo scegli un film. Allegro stavolta.”

 

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“Mamma!!”

 

Un grido e si trovò travolta da un abbraccio.

 

Strabuzzò gli occhi, trovandosi davanti Valentina e, subito dietro di lei, Penelope, abbronzatissime dopo la vacanza nelle isole greche.

 

“Ma che ci fate qua?”

 

“Ah, grazie per l’entusiasmo, mà!”


“Eddai, Valentì, è chiaro che mi fa piacere vederti ma… non mi aspettavo quest’accoglienza.”


“Lo so. Ma è che io e Penelope abbiamo noleggiato un’auto, sai per girare un po’ qua per il Lazio, in giornata, finché stiamo in vacanza e… abbiamo deciso di venirvi a prendere.”

 

Se la abbracciò lei, stavolta.

 

Fino a qualche anno prima una cosa del genere sarebbe stata impensabile.

 

Forse più di una cosa buona l’aveva fatta davvero.

 

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“Eccoci qua.”

 

“Grazie ragazze. Penelope, guidi proprio bene, brava! Meglio della maggior parte dei carabinieri che ho avuto come autisti. Tranne te, naturalmente,” specificò, mica che quel gelosone di Calogiuri se la prendesse.

 

Poi però raccolse il coraggio e annunciò, “Valentì… io… ti dovrei parlare di una cosa importante. Che domani a pranzo sei libera?”

 

Valentina e Penelope si guardarono e la ragazza di sua figlia annuì.

 

“Va bene ma… mi devo preoccupare?”

 

“Non più del solito, credo.”

 

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“Siamo a casa!”

 

Si trovarono davanti un salotto decisamente incasinato e Rosa e Noemi che stavano facendo giocare Ottavia con una delle sue amate cannette con piuma attaccata.

 

L’odio per i volatili permaneva.

 

“Tata!!!!! Zioooooo!!!”

 

Un piccolo uragano corse loro incontro, gettandosi addosso per farsi prendere in braccio da qualcuno ed Imma sorrise, mentre lo zioooooo provvedeva ad accontentare la nipote.

 

“Bentornati!” sorrise Rosa, avvicinandosi pure lei, “non vi aspettavamo così presto.”

 

“Eh, abbiamo trovato un passaggio, sorellì.”

 

Imma guardò verso Ottavia, che se ne stava ancora vicina al divano ed al gioco abbandonato, ma la micia fece uno sguardo sdegnoso, sollevò il muso in aria e si voltò, camminando a passo regale verso il corridoio e, presumibilmente, il bagno.

 

“Mi sa che qualcuna è offesa per essere stata lasciata a casa…” commentò Calogiuri, con una risata.

 

“Ogni tanto sembrava un poco triste, che guardava la porta, ma ha giocato tantissimo con la peste e si è divertita un sacco, quindi è proprio una drama queen.

 

“Eh… speriamo che ci perdoni presto,” sospirò Imma, perchè a lei il rifiuto di Ottavia, che le era sempre stata attaccatissima, faceva molto male, per qualche strana ragione.

 

“Se ha imparato da te, ne dubito,” scherzò Calogiuri, guadagnandosi un colpo sui reni e poi un abbraccio.

 

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“Allora noi andiamo!”

 

“Posso pottare bambola nuova?” chiese Noemi, saltellando mentre brandiva il regalo che le avevano portato dal Giappone, insieme ad un videogame portatile: una bambola in abiti tradizionali.

 

“Sì, ma occhio a non rovinarla, signorina, che mica possono tornare in Giappone a ricomprartela,” la avvertì Rosa, avviandosi con lei fuori dalla porta.


“Vedrai che andrà tutto bene, dottoressa. Chiamami appena sai…”

 

Gli diede un bacio e chiuse la porta alle sue spalle.

 

Con la scusa dei lavori all’appartamento di Rosa, l’avevano lasciata sola per il pranzo con Valentina.

 

Vide qualcosa muoversi in un angolo ed era Ottavia, ma la miciotta di nuovo la squadrò malissimo e poi se ne andò per i fatti suoi.

 

“Sei pure più capa tosta di me, Ottà,” sospirò, mentre si preparò ad un’attesa sfibrante.

 

Per fortuna, dopo poco suonarono alla porta e ben presto Valentina era davanti a lei, con un’aria preoccupata.

 

“Dai, se ti lavi le mani poi a tavola è pronto.”

 

“Sì, mà!” sospirò, alzando gli occhi al soffitto ma obbedendo e tornando dopo poco.

 

“T’ho fatto l’insalata di pasta, quella che ti piaceva di più,” spiegò, servendo una porzione a sua figlia e una per sé.


“Mà, senti… è inutile che ci giriamo intorno. Prima che la pasta mi vada di traverso, che mi devi dire?”

 

Deglutì: Valentì era quasi più diretta di lei, quando ci si metteva.

 

Sapendo che il momento era giunto, si levò il grembiule, portò di nuovo le mani alla nuca per aprire la catenina, ne sfilò l’anello e se lo mise al dito, per poi mostrarlo a sua figlia.

 

Che spalancò occhi e bocca in un modo comicissimo, non fosse stato un momento serissimo.

 

“Ma… ma….”

 

“Calogiuri mi ha chiesto di sposarlo e… e ho accettato,” confermò, affrettandosi poi ad aggiungere, “lo capisco che per te potrebbe non essere una cosa facile da digerire, Valentì, ma io Calogiuri lo amo moltissimo e non è che ci sposeremo subito. Lui prima c’ha un concorso e si spera un corso da fare, quindi organizzeremo con calma. Ma volevo che lo sapessi prima che la cosa potesse venire fuori.”

 

Trattenne il fiato, perché Valentina pareva ‘na sfinge, pareva.

 

“L’unica cosa difficile da digerire qua sarà sta pasta, con tutto quello che ci hai messo!”

 

Le parole ed il sorriso di Valentina furono come se un peso le si fosse levato dal cuore. Incurante delle proteste della figlia, girò intorno al tavolo e se la abbracciò, sedendosi in braccio a lei.

 

“Certo che il tuo maresciallo non ha proprio badato a spese,” disse poi Valentina, sollevando la mano per guardarle l’anello, “almeno la tirchieria non ce l’avete in comune.”

 

Le diede un colpetto sul braccio ma poi si rese conto che c’era ancora una parte importante di discorso da fare ed il peso tornò, pure aumentato.

 

“Valentì, ascolta, c’è pure un’altra cosa che ti devo dire.”

 

“Perché ho l’impressione che menomale che sto già seduta?”

 

“Abbiamo… abbiamo pure deciso che… che vorremmo avere un figlio o una figlia. E quindi dopo le nozze tenteremo con l’adozione ma nel frattempo… insomma… è molto improbabile che io possa rimanere incinta ma… ho deciso di smettere con la pillola e… se verrà, verrà, ma è quasi impossibile.”

 

Valentina, di nuovo, le parve un pesce bollito per l’espressione che le fece e la sentì irrigidirsi come un palo.

 

“Lo capisco se… se la cosa non ti rende felice… ma… Calogiuri sarebbe un padre fantastico, è giovane, e non voglio privarlo di questa gioia, senza nemmeno provarci, soltanto perché io ho già dato e il mio orologio biologico sta per farmi gli ultimi saluti.”

 

Valentina rimase ancora un attimo bloccata, poi richiuse la bocca di scatto e fece un sospiro.

 

“Mà… e che ti devo dire? Un poco me lo aspettavo che prima o poi… però mi farebbe strano avere un fratellino o una sorellina, così tanto più piccoli poi. Ma che c’era nell’aria in Giappone?”

 

L’umorismo era comunque un buon segno e le venne da sorridere.

 

“Comunque… se ne sei veramente convinta e se lo volete tutte e due… che vi posso dire… basta che non me lo o la appioppate a fare da babysitter, e poi fate come volete-ééé!”

 

Valentina si lamentò perché praticamente la stava stritolando, ma sapeva benissimo che, nel linguaggio di Valentina, quella era una specie di benedizione e si sentì leggera come non mai.

 

“Però voglio essere la prima a saperlo, a parte il tuo maresciallo ovviamente.”

 

“Ma certo che sì! In caso lo saprai subito e-”

 

“Ma vuoi dirlo a papà?” la interruppe, sembrando improvvisamente preoccupata.

 

“Del matrimonio sì, Valentì, del figlio… potrebbe non venirne niente ed è inutile farlo magari star male per nulla.”

 

“Papà mi verrà a trovare tra tre giorni. Si ferma qualche giorno qua a Roma, che sai che per me tornare mo a Matera…. Magari potresti….”

 

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“Grazie ancora eh, per avermi aiutato a lasciare Imma da sola.”

 

“Ma figurati, con tutto quello che mi avete aiutato voi! Spero solo che Valentina la prenda bene. Ma è una ragazza sveglia e poi… con tutto quello che ha passato dovrebbe essere comprensiva, no?”

 

“Lo spero… ma… c’è pure un’altra cosa che ti devo dire, ma che rimanga tra di noi. Non devi dire neanche ad Imma che te l’ho detto.”

 

“Che hai combinato, mo, fratellì?” gli chiese, mollando il rullo con il quale stava ridipingendo una parete.

 

“Con Imma… abbiamo deciso di provare ad avere un bambino e-”

 

Lo squittio che seguì per poco non lo assordò e si trovò con Rosa appesa al collo e, a giudicare dalla sensazione umida, pure col collo ridipinto.

 

“Ma è una cosa meravigliosa e-”

 

“E molto difficile. Le probabilità che Imma rimanga incinta sono basse ma… ci proveremo. E se no proveremo ad adottare. Chiederemo un consulto medico ma… non so bene cosa posso fare per… per starle vicino e… non voglio che si senta in colpa o che stia male se non ci riusciamo. E che… magari questo possa rovinare il nostro rapporto.”

 

Rosa gli sorrise, in un modo quasi materno, stranamente.
 

“Fratellì, sei proprio cresciuto. Ma con Imma non puoi fare altro che continuare a starle vicino e farle capire che la ami e che con lei stai bene, con o senza figli. Certo che… deve amarti proprio tanto… per prendersi il rischio e la fatica di una gravidanza all’età sua. Sono felice che hai trovato una donna come lei. Beato te!”

 

“Come va con Salvo? Ma è mai venuto a vedere l’appartamento?”

 

“Ancora no… e… non so più cosa pensare, fratellì. Una volta che ci sarà il trasloco definitivo vedremo come andrà. Però tu mo pensa solo al concorso e ad Imma, che al mio matrimonio ci penso io.”

 

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“Pietro?!”

 

Il cuore gli rimbombò nel petto.

 

Quella voce… quella cadenza… possibile che?

 

Si voltò e sì, era proprio Rosa, con aria stanchissima, ma comunque sempre bellissima, Noemi in braccio ed in fila con altri per salire sul bus per il viaggio di ritorno dopo il cambio di autista.

 

Un attimo di imbarazzo, le parole che non gli venivano e pure a lei, mentre la vedeva arrossire.


“Pietto!!”

 

L’urletto della bimba lo riscosse dalla paralisi e lo fece sorridere, mentre si proiettava verso di lui, come al solito, e Rosa, non riuscendo a trattenerla, gliela mise in braccio.


“Petté non ti vediamo più?” gli chiese, con un faccino triste che lo fece sentire in colpa.

 

“Pietro ha avuto tanto da lavorare, Noè….”

 

“Come papà?”

 

Il senso di colpa svanì, sostituito da rabbia nei confronti di quel demente del marito di Rosaria.

 

“N-no, sono due cose diverse,” balbettò Rosa, diventando ancora più fucsia.

 

Noemi annuì e poi esclamò un, “lettaletta?!” speranzoso che lo fece sorridere.

 

“Noè, dai: Pietro come fa ad avere i leccalecca, che-”

 

“Puoi tenerla tu?” la interruppe, passandole la piccola, nonostante le proteste, e poi si abbassò, aprì una tasca del trolley e ne estrasse un sacchetto di leccalecca.


“Mo si saranno un poco squagliati, con questo caldo, ma….”


Li porse a Noemi che, per tutta risposta, gli si ributtò al collo ed iniziò a riempirlo di bacini su di una guancia, esclamando poi “babba uvida!”

 

“Ma… ma…” chiese Rosa, con gli occhi pieni di lacrime.


E pure lui non stava messo bene.

 

“Sapevo che stavate a Roma e allora… metti caso che ci incontravamo… mi sono premunito.”

 

“Eh… però noi mo torniamo a Matera per… le ultime cose prima del trasloco definitivo.”

 

Quelle ultime due parole furono come un macigno per lui, ma sapeva che la realtà era quella e che fosse inevitabile.

 

“C’è… c’è già una data?” le chiese, perché forse sapere era meglio di immaginare e basta.

 

“Sì… il dodici settembre torniamo definitivamente a Roma, che così Noemi può iniziare l’asilo con gli altri bambini.”

 

Un altro pugno nello stomaco.

 

Ma tanto ormai poco cambiava.


“Allora… spero che riuscirai ad organizzare tutto per tempo. Se hai bisogno di una mano… io ci sono, lo sai.”

 

“Lo so,” confermò lei con un sorriso, “Pietro, io-”

 

“Ah, signò, se ha finito di tubare con su marito... capisco la creatura che deve salutare a papà, ma qua ce dovemo movè!”

 

Rosa ormai era color peperone, pure lui si sentì arrossire, almeno finché Noemi si guardò intorno speranzosa chiedendo “dov’è papà?” e gli venne di nuovo rabbia.

 

Come si faceva ad avere una famiglia del genere e a trascurarla? Per dare ragione a quell’arpia della suocera poi!

 

“Mo dobbiamo andare signorina, dì ciao a Pietro,” esclamò Rosa e, dopo altri due bacini, riuscì a rimettergliela in braccio.

 

“Dai, che c’hai i leccalecca durante il viaggio,” le disse, facendole l’occhiolino, visto che aveva un faccino delusissimo, e Noemi annuì.

 

Le salutò, anche se a fatica, mentre salivano sul bus e vedeva la porta richiudersi.

 

La verità era che aveva voglia di vedere Valentina, certo, ma in quel momento l’istinto - sbagliatissimo - sarebbe stato di salire insieme a loro e farsi almeno un viaggio tutti insieme.

 

Gli mancavano ancora di più di quanto credesse, soprattutto Rosa.

 

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“Pà!”

 

“Valentì! Ma sei ancora più bella!” 

 

“Pure tu! Stai benissimo, sembri sempre più giovane!”

 

Gli faceva piacere sentirselo dire, da sua figlia poi. Anche se Valentina lo aveva sempre trovato bello, ma… mo stava cercando di mantenere il look che gli aveva fatto Rosaria, seppur andando dal suo solito barbiere.


“Buongiorno.”

 

“Penelope,” salutò, un poco in imbarazzo, perché non era stato gentilissimo con lei i primi tempi della loro conoscenza, affatto.

 

“Allora, ragazze, che cosa volete fare oggi?” chiese, per cercare di togliersi le castagne dal fuoco.

 

“In realtà… prima dobbiamo aspettare qualcuno.”


“E chi?” domandò, sorpreso dalle parole della figlia, ma in quel momento suonò il campanello.

 

Valentina aprì e vide comparire la chioma rossa ed inconfondibile della sua ex moglie.

 

“Imma?”

 

“Pà, Penelope ed io dobbiamo andare a comprare un paio di cose. Avvisateci quando avete finito, così ce ne andiamo a pranzo. Fate i bravi!”

 

Nel giro di due secondi, sua figlia e Penelope erano sparite ed era da solo con Imma.

 

“Ma… ma che succede?” chiese, preoccupato, “che è, un agguato?”

 

Imma rise.

 

“Scusale ma… è che avevo bisogno di parlarti da soli, di una cosa importante ma… non sapevo se saresti stato a tuo agio a farlo a casa mia… e… e quindi.”

 

“Mo altro che preoccupato sono! Che succede?” ripetè e, quando Imma si sedette sul divano, facendogli segno di accomodarsi, non fece che inquietarlo di più.

 

La vide aprire la borsa, cercare qualcosa al suo interno e poi si voltò di nuovo verso di lui.

 

Non avrebbe saputo dire cosa fu, ma d’istinto gli occhi gli caddero sulle mani di lei e lo vide.

 

Un anello fin troppo bello, all’anulare della mano sinistra.

 

“Calogiuri mi ha chiesto di sposarlo e… e ho accettato. Non so se sarà l’estate prossima o quella dopo ancora, dipende da tante cose di lavoro ma… pensavo fosse giusto che lo sapessi da me, Piè, prima che la cosa diventi di dominio pubblico.”

 

Si sentiva come paralizzato, il tempo che andava al rallentatore. Era come se ci fossero tante sensazioni forti dentro di lui che facevano a pugni tra loro, lasciandolo senza parole.

 

“D- di dominio pubblico?” balbettò, perché era la prima cosa che gli venne in mente, “in che senso?”

 

“Non è che indiremo una conferenza stampa, Pietro, ovviamente, ma… non lo nasconderemo ecco….”

 

“Valentina già lo sa, immagino?”

 

Imma annuì.

 

“E chi altri lo sa?”

 

“La sorella di Calogiuri,” esordì e, al solo pensiero di Rosa, sentì un altro pugno allo stomaco, “e poi Diana e Capozza, ma soltanto per motivi logistici, Piè. Tu sei il primo dopo Valentina a cui l’ho detto.”

 

“Non… non so che cosa dire…” ammise, perché era la verità, “insomma… Imma, non posso dirti che sono contento per te, perché sarebbe una bugia ma… apprezzo almeno che tu mi abbia voluto avvertire e… senza il tuo maresciallo presente.”

 

Imma sembrò quasi sgonfiarsi, in un sospiro di sollievo.

 

Lui era ancora troppo scombussolato per definire esattamente ciò che sentiva.

 

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Buttò la chiave sul comodino e si buttò sul letto.

 

Era uscito a pranzo con sua figlia e Penelope, ma si sentiva ancora come in una specie di bolla, come ovattato.

 

Di impulso, prese il telefono e selezionò un numero che era da tanto che, purtroppo, non contattava più.

 

Un po’ di squilli, temeva sinceramente che non gli rispondesse, ma poi sentì un, “pronto, Pietro?” sorpreso.


“Scusami, lo so che… forse non ti dovrei chiamare, ma è che… mi è successa una cosa ed ho bisogno di parlarne con qualcuno e tu sei l’unica con cui lo posso fare. Sei a casa?”

 

“Sì, sono arrivata da poco. Che è successo?”

 

“Ho parlato con Imma e….”

 

“E ti ha detto del matrimonio?” gli chiese, intuitiva come sempre, sembrando preoccupata.

 

“Sì.”

 

“E… come ti fa sentire?”

 

“Non… non lo so. Forse è questo il problema. Da un lato sono triste, da un altro provo come… un rimpianto e un po’ di risentimento. Da un altro ho capito ancora di più che devo andare avanti e poi… c’è come una parte di me che non sente niente.”

 

“Pietro, è normale che sei sconvolto. Ma mo devi pensare a te e alla tua vita. E poi avrai tanti mesi per preparati all’idea di questo nuovo matrimonio, a quanto mi ha detto mio fratello.”

 

“Lo so, ma… Matera mo sarà ancora più un inferno. Era da pochi mesi che mi lasciavano in pace, con le battute su come fossi cornuto e mo-”

 

“E mo devi solo far vedere a tutti che sei andato avanti e che la cosa non ti tocca, pure se non è vero.”

 

“Come hai fatto tu con tua madre?” gli uscì, anche se non sapeva nemmeno lui bene il perché.

 

“Sì, come ho finto di fare io con mammà.”

 

“Mi… mi manca parlare con te, al di là di tutto,” ammise, la lingua che stupidamente parlava prima del cervello.

 

“Anche a me.”

 

“Come va con tuo marito? Cioè non per saperlo per me, ma perché… dai commenti di Noemi….”

 

“Con quello che è successo tra noi non so se è giusto parlarne con te, Pietro. Ma… diciamo che non ci sono novità. Continuo a vederlo pochissimo, perché finito il lavoro lui va più spesso a Grottaminarda di quanto viene qua a Matera. Vedremo se mo con Roma… le cose cambieranno in meglio o in peggio.”

 

“L’importante per me è che sei serena e pure Noemi.”

 

“Lo so. Ma mica è facile per me essere serena, mo, Pietro. Ma… in qualche modo spero di riuscirci, soprattutto per mia figlia.”

 

Gli venne come una fitta al petto: quanto avrebbe voluto poterla abbracciare.

 

“Mà, mà!”

 

L’ululato di Noemi si sentiva pure al di là della cornetta, come se stesse lì.

 

“Mo devo andare. E comunque tre leccalecca si è mangiata durante il viaggio, tre! Il dentista prima o poi ti strozzerà.”

 

Gli venne da ridere, ma poi dovette salutarla, anche se con tanta malinconia.

 

Rimase imbambolato sul letto, a fissare il soffitto, non sapendo dire se gli dispiacesse di più del matrimonio di Imma o il pensiero di non poter più vedere e sentire Rosa.

 

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La Cara Irene?”

 

“Devo rispondere, dottoressa,” sospirò, anche se la sua gelosia, in fondo, gli faceva piacere.

 

Almeno finché non creava problemi tra loro.


“Pronto?”

 

“Calogiuri. Spero tutto bene con le ferie, tra poco si torna al lavoro, lo sai.”

 

“Lo so, tu, tutto bene?”

 

“Abbastanza. Ascolta, lo so che stai ancora in vacanza ma… devi tenermi d’occhio i movimenti di Melita, soprattutto sui social, dobbiamo capire se e come contattarla e non ci resta molto tempo.”


“Da Milano ancora niente?”


“L’avvocato è molto furbo, Calogiuri, e chissà quanti telefoni ha. Mo ci giochiamo il tutto per tutto con questa pista. Mi raccomando!”

 

“Va bene, mi metto subito al lavoro,” acconsentì, notando come Imma si mise subito seduta più dritta sul letto, pronta anche lei all’azione.

 

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Si fermarono all’ingresso, subito dopo aver salutato gli agenti e richiuso la porta dietro di loro.

 

Calogiuri, che ancora le teneva la mano sinistra nella sua, le chiese, “sei sicura di volerlo fare da sola?”

 

Lei gli sorrise, grata, ma annuì e, dopo un’ultima stretta, gli lasciò le dita.


“Mi sembra la cosa più giusta da fare, Calogiuri. Pure se normalmente non sono proprio il tatto fatto persona ma….”

 

Annuì pure lui, rassegnato, e con un, “fammi sapere subito com’è andata, però!” si avviò verso la PG.

 

Coprendo la mano sinistra con la borsa e sentendosi un poco come una novella Giovanna d’Arco, pronta per il patibolo, salì le scale, a passo marziale, e, fiera e decisa come non si sentiva affatto, raggiunse l’ufficio di Mancini, dove la sua segretaria stava prendendo posto alla scrivania.

 

“Il procuratore capo è già arrivato?” le domandò, ma la donna non fece in tempo a rispondere, perché la porta si aprì e ne uscì Mancini, abbronzatissimo e con un sorriso sulle labbra.


“Dottoressa. Appena tornata dalle ferie e già al lavoro, vedo? Ha bisogno di me?”

 

“Sì, dottore, le dovrei parlare con urgenza.”

 

“Va bene, si accomodi. Vuole un caffè?” le chiese e, al suo diniego, chiuse la porta.

 

“Allora, mi dica… la trovo bene.”

 

“Pure io a lei, dottore: è andato al mare?”

 

“Sì… a Capri. I miei genitori avevano una casa lì e… insomma… sole, nuoto, immersioni, aria buona. E lei, dottoressa? Com’è andata… in Giappone, giusto?”

 

“Giusto. E… in Giappone è andata molto bene, anzi, benissimo, anche perché spero almeno lì i fotografi non ci abbiano raggiunto,” scherzò, prima di prendere un respiro e specificare, “però, a proposito di questo, dottore, c’è… c’è qualcosa che dovrei dirle.”

 

“A proposito dei fotografi?”

 

“No… di… di una decisione maturata di recente,” gli disse, non facendo più nulla per tenere la mano nascosta e, come Pietro, pure Mancini sembrò avere un radar, perché lo sguardo gli finì subito lì.

 

Nonostante l’abbronzatura, lo vide sbiancare.

 

“Il maresciallo Calogiuri mi ha chiesto di sposarlo e… ed io ho accettato. E non ho intenzione di nasconderlo, dottore, quindi… pensavo che fosse giusto che lei lo sapesse prima che... si sparga la voce.”

 

Mancini quasi si accasciò sullo schienale della sedia: si vedeva che doveva essere stato un duro colpo per lui e provò una fitta di senso di colpa, perché non si meritava di stare male per lei.

 

Ma non poteva farci niente.

 

Nel giro di qualche secondo però, si era ricomposto, una maschera professionale sul volto.

 

“Chi lo sa fino ad ora?”


“Soltanto familiari stretti, dottore.”

 

Mancini sospirò, passandosi una mano sulla fronte.


“Non lavorando ormai a casi insieme non cambia molto da un punto di vista lavorativo ma… potrebbero esserci problemi col maxiprocesso, o meglio, potrebbe essere un’ulteriore arma della difesa.”

 

“Lo so, dottore, ma… di fatto il rapporto tra me e il maresciallo resta lo stesso di prima. Già conviviamo.”

 

“Insomma… dottoressa… cambia eccome, e lei lo sa. E comunque, se non sbaglio, il maresciallo ha fatto domanda per il concorso da ufficiali e… tra quello e le nozze… spero che tutte queste cose non lo distraggano e che non compromettano la performance lavorativa di nessuno dei due.”

 

“Dottore, le nozze in ogni caso non saranno a breve, che Calogiuri deve studiare, ma ho già lavorato con il maresciallo in passato, quando era ancora appuntato e stava studiando per il concorso da sottufficiale e le garantisco che non è mai mancato ai suoi impegni, anzi, lavorava perfino oltre l’orario necessario.”

 

Mancini fece un’espressione che fu un e te credo! non verbale, per non dire altro, ma poi annuì.

 

“Va bene, dottoressa. C’è altro?”

 

Il tono era molto freddo, ma del resto non poteva aspettarsi altrimenti.

 

Non se lo fece ripetere due volte ed uscì, salutando con un cenno della mano la segretaria e per poco non scontrandosi con una figura che avanzava nel corridoio.


“Imma!”

 

La gattamorta, in tutto il suo splendore, con un tubino leggero che sembrava cucito su di lei.

 

“Bentornata! Spero la vacanza sia andata bene. Anche Calogiuri è già arrivato? Che ho bisogno urgentemente di lui.”

 

E te pareva!

 

“Sì, dovrebbe essere in PG. E comunque la vacanza è andata benissimo, grazie!” sottolineò volutamente, ma non fece in tempo a lanciare altre frecciate, perché beccò una chioma bionda che, furtiva, appariva sopra le scale.

 

“Signorina Fusco!” la riprese, che già di dieci minuti era in ritardo, e a lei non la si faceva.

 

“Buongiorno, dottoressa!” sospirò la platinata cancelliera, le spalle abbassate e l’espressione da ma non potevi startene di più in vacanza?

 

“La puntualità, la puntualità è fondamentale, glielo dico sempre! Che mica la pago io, ma i contribuenti! E comunque mo andiamo a lavorare, subito!” le intimò, ma sentì un altro “dottoressa!” ad ultrasuoni, che manco le giapponesi.


Si voltò per fulminarla con lo sguardo, ma Asia le indicava la mano, “ma… ma è...?”

 

La gattamorta strabuzzò gli occhi e, per sua immensa soddisfazione, scoppiò in un attacco di tosse.

 

“Un anello di fidanzamento, sì,” fu più che felice di confermare.

 

“Congratulazioni, dottoressa!” esclamò la ragazza, avvicinandosi come per darle un abbraccio e due baci ma bloccandosi, probabilmente alla sua occhiataccia.

 

Di nuovo, guardò verso la Cara Irene, che però, finito l’attacco di tosse, aveva un sorrisetto stampato sul volto.


“Devo dire che mi hai sorpresa, Imma: non pensavo che… ti volessi di nuovo impelagare nelle beghe legali di un matrimonio. Tanti auguri!”

 

E, mentre la gattamorta rientrava in ufficio, il sorrisetto sempre sul volto, si chiese quante probabilità ci fossero che quegli auguri non fossero sarcastici.

 

Probabilmente le stesse che quel tubino non fosse firmato.

 

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“Mi cercavi?”

 

“Sì, Calogiuri, accomodati. E… ho saputo della novità.”

 

Si sentì avvampare, ma sorrise, orgogliosissimo, “sì, io ed Imma ci sposeremo.”

 

“Sapevo che tu fossi tipo da matrimonio, su Imma avevo molti dubbi ma… immagino che le congratulazioni siano d’obbligo. Anche se spero che questo non interferisca con il concorso, né il maxiprocesso.”

 

“No, assolutamente. Anche perché il matrimonio sarà tra un anno o forse pure due, vogliamo fare le cose per bene. Anzi, sono ancora più motivato di prima, sia a chiudere bene il maxiprocesso, che a salire di grado.”

 

Inaspettatamente, Irene gli fece un sorriso e gli sembrò quasi… intenerita?

 

“Calogiuri… Calogiuri… alla tua età anche io sognavo il matrimonio. Poi è successo di tutto ed ora l’idea di legarmi legalmente a qualcuno mi provoca l’orticaria ma… se ti aiuta ad impegnarti di più e soprattutto a credere più in te stesso, ne sono felice per te.”

 

“Grazie…” sussurrò, colpito da quanto Irene lo conoscesse bene.

 

“Ma ora concentriamoci sul lavoro, che qua l’udienza si avvicina. Hai informazioni su Melita?”

 

“Sì, sì. Effettivamente ha postato un paio di foto di recente, in locali in cui c’era pure l’avvocato, anche se mai insieme. E poi… ho notato che in una foto ha una di quelle borse dai prezzi folli, quelle che sembrano un piumino che abbiamo visto a Milano.”

 

Irene scoppiò a ridere.


“Coco si starà rivoltando nella tomba, Calogiuri, ma non hai del tutto torto. E a questo punto la devi contattare, Calogiuri: è ancora estate e dà meno nell’occhio se lo fai ora. Però dobbiamo trovare una scusa credibile.”

 

“Ho visto che frequenta spesso un locale, una specie di ristorante che fa anche drink e musica dal vivo fino a tarda notte, molto di moda. Pensavo magari di provare ad incontrarla lì, per caso, lei di solito ci va di venerdì sera.”

 

“Sì, mi sembra una buona idea, ma come pensi di andarci, da solo?”

 

“No, credo che sembrerebbe strano… pensavo di andarci con Mariani, magari.”

 

“No, Calogiuri. Due colleghi… è troppo sospetto, specialmente se ora frequenta l’avvocato e non ti ha mai visto lì. O se qualcuno ti tenesse d’occhio.”

 

“Allora… allora potrei chiedere a mia sorella, che tanto fa avanti e indietro da Roma per il trasloco. E così passa una serata diversa, invece di starsene sempre con mia nipote.”

 

“Meglio non coinvolgere parenti, Calogiuri, soprattutto se hanno figli piccoli, fidati.”

 

“E allora… e se ci andassi con Imma? Alla fine è normale che usciamo insieme, no? E Melita conosce pure lei e… potremmo dire che… che stiamo festeggiando il fidanzamento.”

 

Irene fece un’espressione incredula, ma poi sospirò, “potrebbe essere un disastro o… o potrebbe funzionare, effettivamente. Anche perché Imma non è certo nuova alle nottate in bianco… in discoteca.”

 

Il volto gli divenne caldissimo, mentre si chiese se solo lui ci notava un doppio senso o se fosse voluto.


“Comunque, devi trovare il modo per attaccarci bottone, da solo, mi raccomando, e gettare l’amo per i contatti successivi.”

 

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“Che non mi dici niente?”

 

“Chiara!”

 

Gli aveva teso un agguato appena rientrato in PG e lo squadrava tra il finto offeso e l’ironico.

 

“Chiara niente! Ti fidanzi e non mi avvisi? Che l’ho dovuto sapere da quel viscido di Carminati!”

 

La voce si era già sparsa a macchia d’olio, evidentemente.

 

“Ha… ha fatto commenti spiacevoli su Imma?” le domandò e Chiara sospirò.


“Non più del solito. Ma che te frega di quel cretino! Congratulazioni!”

 

Si trovò stretto in un abbraccio ma poi un, “dovrei passare!” lo portò a scostarsi.

 

Conti.

 

Si guardarono per un attimo, il collega che scosse il capo con un sospiro.

 

“E dai, Conti! Ci si sposa pure con la sua Imma. Con la Ferrari non c’è mai stato niente, lo hanno capito tutti tranne te. Per quanto ancora gli vuoi tenere il muso?!

 

Si voltò verso Chiara, stupito, ma lei aveva le braccia incrociate in un modo che stranamente gli ricordò Imma.

 

“Va beh… ma ora che ti devi sposare… spero starai alla larga dalle altre donne! Soprattutto da una!” gli disse con un tono di avvertimento, prima di sospirare di nuovo, dargli una pacca sulla spalla ed aggiungere un, “congratulazioni!” che gli sembrò sentito e pure un poco sollevato.

 

Non erano esattamente delle scuse e non sapeva se fosse una riappacificazione, ma era qualcosa.

 

“Già, congratulazioni al Signor Tataranni! Pensi di cambiare cognome dopo il matrimonio?”

 

“Carminati!” sibilò, perché quell’idiota non si smentiva mai, “e comunque la battuta sul signor Tataranni ormai è vecchia, devi rinnovare il repertorio, che sei diventato noioso! E ci sono da archiviare i rapporti compilati nell’ultimo mese. Che ci pensi tu?”

 

Carminati digrignò i denti, ma non poteva rifiutarsi: era pur sempre un suo superiore.

 

E non si sarebbe fatto mai mettere più i piedi in testa

 

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“Speriamo in bene, Calogiuri. Sei sicuro che stia qua, sì?”

 

“Sì, dottoressa, dovrebbe stare qua. Almeno secondo i suoi post.”

 

Il locale era bello, aveva l’aspetto di un bar inglese di quelli antichi ed eleganti, da film.

 

“Abbiamo prenotato per due. Calogiuri.”

 

“Sì, prego, accomodatevi al bancone, in attesa che vi liberiamo il tavolo.”

 

Seguirono il cameriere fino al bar e si sedettero sugli scomodissimi sgabelli ma, proprio in quel momento, vide una ragazza uscire dal bagno.

 

Era ancora più bella di quanto la ricordava: fasciata in un abito dorato, pareva quasi una divinità egizia. Si era diretta, decisa, verso la sala lì accanto, prendendo posto ad un tavolo centrale.

 

Quello accanto sembrava libero, ma aveva su un cartellino di riservato.

 

“Mi scusi, quel tavolo è prenotato?” chiese al cameriere, lanciando un’occhiata di intesa a Calogiuri.


“In realtà… sì… c’è un nostro cliente affezionato che predilige quel tavolo e quindi….”

 

“Ma tra quanto dovrebbe venire? Perché… potrebbe darlo a noi e dare a lui il nostro tavolo,” insistette, guadagnandosi un’occhiataccia sia dal cameriere che dal barman.

 

“No, è che… siamo qua per festeggiare il nostro fidanzamento,” intervenne, a sorpresa, Calogiuri, “e, insomma… vorrei che fosse una serata indimenticabile.”

 

Capendo l’andazzo, fece un altro cenno a Calogiuri e si allontanò leggermente, fingendo di dover andare in bagno, e riuscì chiaramente ad udire il cameriere dire, “così giovane già ti vuoi inguaiare? E poi con una che mi sembra molto più grande di te e pure con un bel caratterino!”

 

“Appunto. E non voglio sfigurare con lei. Per favore, di solito non glielo chiederei mai, ma-”

 

Aveva appena messo la mano sulla maniglia del bagno, quando il cameriere rispose, “e va bene, dai, sono stato giovane pure io! Se avvisi la tua… fidanzata, vi lascio il tavolo.”

 

“Imma!” si sentì chiamare, e si voltò rapidamente, incrociando il sorriso sulle labbra e negli occhi di Calogiuri.

 

Una volta non avrebbe mai osato: quanto era diventato bravo!

 

Seguirono il cameriere, che li squadrava in modo evidentissimo, fino al tavolo.

 

Stavano per sedersi quando Melita alzò la testa ed i loro occhi si incrociarono.

 

“Imma? Ippazio?” chiese, sembrando molto stupita, e pure lei esclamò un “Melita!” che sperò suonasse meravigliato.

 

“Ma vi conoscete?” chiese il cameriere, il cui volto, all’assenso della ragazza, si aprì improvvisamente in un sorriso, “ma dovevate dirlo che siete amici di Melita! Che il tavolo ve lo liberavo pure prima!”

 

Lo avrebbe voluto strozzare, che poteva distruggere la copertura, ancora prima di iniziare, ma, non appena si allontanò verso il bar, spiegò a Melita, “sai, ci aveva prospettato un’attesa lunga e... abbiamo dovuto insistere per avere questo tavolo, che era già libero.”

 

“Eh, qua spesso si siede un onorevole… mi sa che lo tengono riservato per lui.”

 

“Ma quindi lo frequenti spesso questo locale?” le chiese, sperando che non le si leggesse, come sempre, la verità in faccia e che gli anni di menzogne a Pietro fossero serviti a qualcosa.

 

“Sì, sì, è uno dei miei preferiti e poi ci collaboro come PR. Voi invece? Non vi ho mai visti qua.”

 

“Eh no, è stata un’idea di Calogiuri….”

 

“Sì, ne ho sentito parlare molto bene e… cercavo un posto speciale, per una serata speciale, che abbiamo molto da festeggiare.”

 

Imma, per non sbagliare, mostrò l’anello: ormai si sentiva peggio di Kate Middleton dopo il fidanzamento. Sperava quantomeno che fosse l’ultima volta che le toccava farlo.

 

Melita spalancò gli occhi e fece un’espressione strana, ma poi sorrise ed esclamò un “congratulazioni! Ah, questi sono Matteo, Jonathan e Sonia. Loro sono Imma ed Ippazio e… mi hanno aiutata a Maiorca.”

 

Capì dall’accento che erano tutti de Roma. Pure Jonathan, a dispetto del nome.

 

“Immagino che stasera vorrete starvene in pace, giusto?” chiese poi Melita, ed Imma non avrebbe saputo dire se fosse per educazione, o se realmente avrebbe avuto piacere a passare la serata con loro.

 

“Magari per la cena sì… ma poi… so che qua si balla e se non dobbiamo farlo da soli, che mi vergogno e mi sento fuori età, sarebbe pure meglio!”

 

“Ma se stai benissimo!” esclamò, lanciando uno sguardo di approvazione all’abito, quello leopardato ed attillatissimo che aveva comprato per il teatro con la Cara Irene, “e poi te la cavi eccome a ballare, Imma! Che a Maiorca avete fatto chiusura!”

 

“Consigli per il menù?” chiese poi Calogiuri, con un tono che le sembrò naturalissimo.

 

“Sì, anche se forse non sono molto romantici… il tris di primi romani: cacio e pepe, amatriciana e carbonara. E poi i cocktail qua sono buonissimi.”

 

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“Tutto quanto una squisitezza era, grazie del consiglio!”

 

Sollevò il calice di vino verso il tavolo accanto e Melita sorrise: effettivamente i primi erano deliziosi, una poesia proprio.

 

Il cameriere, solerte, arrivò a sparecchiare. Poi però piazzò davanti a loro delle posate piccole.


Lanciò un’occhiata a Calogiuri perché, dopo i fritti d’antipasto, non avevano ordinato il dolce.

 

Ma, in quel momento, vide arrivare un altro ragazzo con una torta rossa, a forma di cuore.

 

“Calogiù, ma sei matto?!” gli chiese, un po’ imbarazzata.

 

“Veramente non l’ho ordinata io…”

 

“E infatti offre la casa, con tanti auguri!” spiegò il primo cameriere, mentre il secondo portava loro pure due bicchierini a testa, una bottiglia di sherry ed una di porto.

 

“Non potevate festeggiare senza la torta! E la red velvet che hanno qua è una bomba.”

 

Si voltò verso Melita, che alzò di nuovo il calice e fece loro l’occhiolino.

 

“Grazie ma… la torta per solo noi due è enorme. Perché non la dividiamo?” propose, cogliendo al volo l’occasione per proseguire con l’avvicinamento serrato.

 

Fecero il brindisi e spazzolarono il dolce, che era davvero eccellente. Si sentì un poco in colpa, per la finzione nei confronti di Melita, che era così gentile.

 

“Scusate….”

 

Un rumore fastidiosissimo di dita picchiate su un microfono la fece voltare verso la band della serata.

 

Tre uomini, sulla quarantina, l’aria molto radical chic, con chitarra, basso e batteria.

 

“Stasera è una serata speciale per due persone che festeggiano il loro fidanzamento. E quindi la prima canzone è per voi!” annunciò, rivolto a loro due.

 

Avrebbe voluto che la terra la inghiottisse.

 

O che inghiottisse la band.

 

“Che vi suoniamo? Siamo una band rock ma eccezionalmente possiamo fare anche qualcosa di più pop, pure italiano.”

 

Ammazza, che sforzo!

 

L’emozione non ha voce di Celentano. Oppure E ti vengo a cercare di Battiato.”

 

Incrociò gli occhi di Calogiuri come a dire, ma che stai a fare?, anche se la scelta dei brani fu un tuffo al cuore.

 

“Canzoni un poco… vintage. Ma almeno è pop di qualità. Allora, sapete che vi dico? Proviamo a farle tutte e due, anche se non garantiamo!”

 

La band smanacciò un po’ sui tablet e, senza quasi rendersene conto, si trovò abbracciata a Calogiuri a ballare sulle note di Celentano, nell’imbarazzo più totale.

 

“Chiudi gli occhi e non pensare agli altri,” si sentì sussurrare, ma, per fortuna, pure altre coppie si alzarono e si unirono, riducendo la sensazione di essere un pesce - pure un bel po’ vintage - in un acquario di pesciolini troppo giovani.

 

“Sta copertura sta venendo fin troppo bene, Calogiù,” mormorò, e, per tutta risposta, lui la strinse più forte.

 

“E va beh, dottoressa. Almeno festeggiamo come si deve pure in patria.”

 

Nemo propheta in patria, Calogiù,” gli ricordò, ma poi si lasciò zittire più che volentieri con un bacio.

 

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Nonostante la situazione, non riusciva a smettere di sorridere.

 

Stavano ballando sulle note di una canzone rock che non conosceva, insieme anche a Melita e ai suoi amici, ed Imma, dopo essersi sciolta, ormai era scatenatissima.

 

Ma era anche per quello che la amava: perché alla fine se ne fregava dei giudizi degli altri e faceva sempre ciò che si sentiva.

 

La fece roteare su se stessa, per farla cadere poi nel suo abbraccio. Stava per darle un altro bacio, quando una sua occhiata ed un “guarda!” lo fecero avvedere che Melita era andata a sedersi al tavolo, aveva fatto un segno ad un cameriere per un cocktail e si stava massaggiando un polpaccio.


“Vai!”

 

Annuì, obbedendo all’ordine, e pure lui si staccò da Imma, che riprese a ballare con Jonathan, come se niente fosse.

 

Ignorò la leggera fitta di fastidio quando lui le prese le mani e raggiunse Melita al tavolo.

 

“Posso?” le chiese, prima di sedersi accanto a lei, che sembrò presa in contropiede, “volevo ringraziarti: la mia serata con Imma non sarebbe potuta andare meglio di così, ed è soprattutto grazie a te.”

 

Melita fece un’espressione indefinibile, ma poi sorrise con un, “dovevo ancora sdebitarmi per Maiorca, in fondo.”

 

“E mo che fai? Sei più tornata alle Baleari?”

 

“No, sono stata qua a Roma. Faccio più che altro la PR, per locali come questo, attiro i clienti. E poi faccio ancora feste, animazioni, e… diciamo che sto cercando di guardarmi intorno, che non rimarrò giovane e bella per sempre.”

 

Si chiese se nel guardarsi intorno ci fosse ricompreso anche l’avvocato ed i suoi regali.


“E che cosa ti piacerebbe fare lo sai?”

 

“Sì, vorrei aprire un locale tutto mio, un posto tipo questo, ovviamente non all’inglese ma… ci vogliono molti soldi, quindi al momento è solo un sogno.”

 

“Ti auguro di riuscirci. Pure io sto cercando di migliorare la mia carriera, sai?” le disse, per cercare di far sembrare il tutto meno un interrogatorio, “tenterò un concorso per passare di grado.”

 

L’espressione di Melita si fece di nuovo incomprensibile, per qualche secondo, ma poi gli sorrise e disse, “sono sicura che andrà bene!”, poi guardò verso Imma, ancora scatenatissima, fin troppo - che a quel Jonathan, se proseguiva a stringerla così, le mani gliele avrebbe mozzate - e poi commentò, “faccio fatica ad immaginarvi tutti seri nella vostra professione, anche se so che Imma ha fama di essere severissima.”


“Lo è. Ma sa anche divertirsi, quando può farlo.”

 

“E… quando pensate di sposarvi?” gli domandò, bevendosi un sorso del cocktail multicolore che le avevano portato.

 

“Non lo so. D’estate sicuramente ma… fosse per me lo farei pure domani, ma voglio che sia tutto perfetto.”

 

Melita sorrise, in modo un poco malinconico, “piacerebbe pure a me, trovare un amore così grande ma… nel frattempo… ci si prende quello che c’è.”


“E che cosa ci sarebbe?” incalzò, perché era l’apertura che cercava per parlare dell’avvocato.

 

“C’è che è complicato…” svicolò però Melita, prima di aggiungere, in un chiaro tentativo di cambiare discorso, “non sarà gelosa Imma, se stai così tanto a parlare con me?”


“Imma è gelosissima, ma non di te.”

 

E di nuovo quell’espressione strana.

 

“Non so se prenderlo come un complimento o se offendermi,” rise Melita, ma poi si alzò, il cocktail in mano, per tornare a ballare e pure lui non potè fare altro che raggiungere Imma, provando una certa soddisfazione nel picchiettare sulla spalla del caro Jonathan e farlo spostare.

 

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“Calogiù, ma casa non è per di qua! Dove mi stai portando, maresciallo?”

 

“Un poco di pazienza, dottoressa, se non sei troppo stanca per una sorpresa.”

 

“Calogiù, qua ormai sono le tre di notte passate, la stanchezza… addio.”

 

“Non hai freddo, vero?”

 

“No, no, sto benissimo,” rispose, stringendosi di più a lui, godendosi l’aria fresca della notte estiva, coperta dalla giacca antivento che lui aveva estratto dal baule della moto.

 

Il tempo sembrò trascorrere velocissimo: lasciarsi trasportare da Calogiuri l’aveva sempre rilassata tantissimo ed in moto era pure meglio.

 

In men che non si dica, il cartello Ostia annunciò che erano arrivati al mare.

 

“Non potevamo festeggiare senza il mare, dottoressa,” proclamò infine lui, fermando la moto vicino ad un chioschetto che già vendeva i bomboloni caldi caldi, per i giovani usciti dai locali notturni e che attendevano l’alba.

 

Si misero in fila e con sacchetto di carta e tazze di plastica in mano, si trovarono un angolino un poco riparato, per godersi la prima colazione. Sicuramente, dopo la dormita, ce ne sarebbe stata una seconda.

 

“Alla fine è stata una bella serata, no, dottoressa?”

 

“Fin troppo, Calogiù, mi sono sentita quasi in colpa verso Melita. Hai scoperto qualcosa da lei?”

 

“Mi ha detto del suo lavoro, che vuole aprire un locale notturno e quindi-”

 

“E quindi le servono soldi,” concluse per lui, che annuì.


“Su… sull’amore… mi ha solo detto che in attesa del grande amore ci si prende quello che c’è. Ma quando ho provato a chiedere dettagli ha svicolato ed è tornata a ballare. E non potevo insistere troppo.”

 

“No, no, hai fatto bene,” confermò, dopo l’ennesimo boccone di crema, “ascolta, devi scriverle con la scusa di ringraziarla. Domani, anzi, ormai oggi. E poi… non so prova ad attaccare bottone, magari con la scusa di rivedere lei ed i suoi amici, visto che ci siamo trovati bene.”

 

“Va bene. Anche se… mi sento pure io un poco stronzo, a prenderla in giro. Lei è stata tanto gentile.”

 

“Ti ci abituerai, Calogiù. E comunque, la stiamo levando dalle mani di un tipo pericoloso, pensiamo a questo e andiamo avanti. Se proprio deve trovarsi uno più grande e ricco, che almeno sia uno con una parvenza di onestà e che al massimo abbia commesso la classica e prevedibile evasione fiscale.”

 

Lui rise e la strinse in un mezzo abbraccio.

 

“Tu sei l’unico che se l’è scelta vecchia e povera, Calogiuri.”


“Rispetto a me sei ricchissima, dottoressa e poi… stando con te mi sento il più ricco del mondo.”

 

A rieccolo, con ste frasi sdolcinate che però la facevano sciogliere per come erano pronunciate.


“Pure io, Calogiù, pure io,” gli confermò, stringendosi di più a lui e stampandogli un bacio - e un poco di crema - su una guancia.

 

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“Papà, c’è una donna che ti fissa da un po’.”

 

“Magari guarda te.”

 

“Sì, certo… mica ce l’ho scritto in fronte che sono bisex. Prova a voltarti, con discrezione, è al tavolo dietro alla tua destra.”

 

Lo fece e vide una donna bellissima, sulla quarantina, bionda, molto elegante, che gli fece un sorriso, non appena incrociò il suo sguardo.

 

Lui non sapeva bene che pesci pigliare ma la donna si alzò e si avvicinò al loro tavolo.

 

“Hi. Is this your girlfriend or-”

 

“No, no, daughter,” specificò, ripescando il poco inglese che sapeva e notando che la donna aveva accento americano.

 

“Oh, so you are married?”

 

“Divorced!” specificò subito Valentina, per suo stupore, e la donna sorrise.

 

“I am sorry to bother you, but… your father is the most attractive man I have seen during these holidays and I was wondering if we could go out one of these days.”

 

Non capiva tutto, ma essere definito attraente da una donna del genere e che gli chiedesse pure un appuntamento… era una novità per lui.


“I am in Rome for little time.”

 

“Me too, only a few days. But when in Rome….”

 

Non capì molto ed era esitante ad accettare, ma Valentina saltò su con un, “of course he can go out with you!”

 

E quindi si trovò con il numero dell’americana - Juliet - scritto su un tovagliolo.

 

“Valentì, ma-”

 

“Ma che? Capo primo, almeno è una diretta e non una gattamorta. Capo secondo, mà tra un po’ si sposa e dopo quel macigno di Cinzia hai bisogno di un po’ di leggerezza e di capire che la vita va avanti.”

 

“Ma questa tra qualche giorno se ne torna in America!”


“Appunto. Magari è di questo che hai bisogno, qualche uscita senza impegno. E non posso credere che devo fare io questo discorso a te! Insomma, goderti un poco la vita da single, senza fare il patetico che ci prova con le ragazzine, però.”

 

Sospirò, chiedendosi se Valentina avrebbe considerato Rosa una ragazzina.

 

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Grazie per la serata, spero ci saranno altre occasioni di vederci, ci siamo divertiti moltissimo.

 

Il messaggio fu letto dopo pochi minuti - del resto ormai era pomeriggio, pure loro si erano svegliati che era mezzogiorno passato - e per un po’ non ricevette risposta, tanto che temette di aver fatto un buco nell’acqua.

 

La vibrazione del cellulare gli fece venire un colpo, ma le prime parole lo tranquillizzarono.

 

Perché no? Mi sono divertita pure io ed ho un bel po’ di locali da far conoscere a te e ad Imma.

 

Volentieri!

 

L’amo era stato lanciato.

 

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“My god, the food here is so good! I wonder how you can be in such a good shape with all this delicious food!”

 

Stava riaccompagnando Juliet all’hotel e, a furia di sentirla parlare, qualcosa in più capiva. E, se non aveva capito male, gli aveva fatto un complimento sulla sua forma fisica.

 

“Not eat like that every day,” spiegò, e lei sorrise e lo prese a braccetto.

 

Bella era bella, elegante, poi aveva un profumo speziato inebriante.

 

“This is my hotel,” gli disse infine, giunta di fronte ad un albergo bellissimo e sicuramente carissimo, “would you like to come up?”

 

Le guance gli andarono a fuoco, mentre cercava conferma a gesti di aver capito bene e lei gli sorrise ed annuì.

 

Non era da lui, non era mai stato tipo da cose di una notte, nemmeno da ragazzo. Ma… forse Valentina aveva ragione e magari era un modo per levarsi qualcuna dalla testa.

 

Quindi annuì, un poco timidamente, e si sentì prendere a braccetto e trascinare verso la hall.

 

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“If I come back to Italy, maybe we can do this again. Thank you for the wonderful night.”

 

Si beccò un bacio e poi uscì dalla stanza d’albergo, lasciandoci Juliet, in camicia da notte, bellissima, e sembrava pure essere rimasta soddisfatta dalla serata.

 

Lui… gli era piaciuto, innegabile, poi dopo tutti i mesi di astinenza. Ma… c’era qualcosa di strano, come un tarlo che non lo lasciava in pace. Si sentiva come se avesse appena tradito qualcuno. Se Rosa o se se stesso difficile a dirsi.

 

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“Imma? Ci sei?”

 

Era tutto buio e la cosa lo fece immediatamente preoccupare, perché sì, era tornato più tardi perché doveva lavorare con Irene, ma di solito quando al rientro trovava la casa così… era un pessimo segno.

 

Un movimento e per poco non gli venne un colpo, gli occhi di Ottavia che gli saettarono davanti.

 

Almeno lei al buio ci vedeva.

 

Notò una fioca lama di luce provenire dalla camera da letto ed ebbe un senso orribile di deja-vu.

 

Raggiunse la porta, spinse la maniglia col cuore in gola, ma per fortuna si aprì. Il sollievo però lasciò spazio alla preoccupazione quando trovò Imma già a letto, un libro in mano ma un’aria mogia mogia sul volto.

 

“Imma…” sussurrò ed il fatto che lei si fosse accorta della sua presenza ma non lo guardasse negli occhi lo impensierì ancora di più, “che succede?”

 

“Mi è… mi è arrivato il ciclo,” pronunciò lei infine, abbandonando il libro sulle gambe e finalmente incrociando il suo sguardo, “lo so che… sarebbe stato strano il contrario ma… un poco ci speravo.”

 

Se la abbracciò forte, dandole due baci sul collo, per poi mormorare, “però non ci devi rimanere male, dottoressa. Io voglio che tu vivi questa cosa serenamente. Te l’ho già detto, se viene bene, se non verrà, faremo in altro modo e comunque stiamo benissimo così, almeno io sto benissimo con te.”

 

“Pure io, Calogiù, ma… vorrei tanto poter fare questa esperienza insieme a te. Nonostante le nausee, i gonfiori ed il fatto che probabilmente vorrò uccidere chiunque per nove mesi, te per primo.”

 

Sorrise: quando sdrammatizzava con l’umorismo era un buon segno.

 

“Comunque… voglio andare da un ginecologo, per capire che possibilità ci sono, così… non ci facciamo illusioni. Solo che bisogna trovarne uno bravo e… a Roma non conosco nessuno.”

 

“Beh, potremmo chiedere a-”

 

“Alla Cara Irene?” lo interruppe, fulminandolo con un’occhiataccia da manuale.

 

“Beh, di sicuro non possiamo chiedere a Mancini,” ribattè, beccandosi un colpo sul petto ma pure una risata, “e dai, dottoressa, tanto c’è il segreto professionale, no? E poi Irene sceglie sempre il meglio, lo sai.”


“E infatti aveva provato a prendersi pure te, Calogiuri.”

 

“Ma io non sono prendibile, se non da te,” la rassicurò, trovandosi trascinato in un bacio.

 

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“Irene.”

 

La cara collega si voltò, la tazzina del caffè ancora in mano, e le chiese, professionalissima, “cosa c’è Imma, hai qualche novità sul maxiprocesso?”

 

In effetti era rarissimo che la cercasse per prima, se non per cose lavorative.

 

“No, in realtà… avrei bisogno di un consiglio.”

 

“Se è per il matrimonio, io sono proprio la persona meno indicata di tutte: il mio romanticismo è al minimo storico.”

 

Perché di sicuro i consigli per il matrimonio li andava a chiedere alla gattamorta!

 

“No, non c’entra il matrimonio. E per quello me la cavo benissimo da sola, grazie,” precisò, con una punta di orgoglio, “ma… tu per caso conosci un bravo ginecologo o una brava ginecologa?”

 

Irene inarcò entrambe le sopracciglia, “perché, c’è qualche problema?”


“No, no, ma… c’ho i controlli annuali e… sai… non è che posso tornare a Matera tutte le volte.”

 

“Beh… ti posso dare il nome della mia ginecologa che è bravissima. Dille che ti mando io, che c’ha una lista d’attesa infinita, se no!”

 

E te pareva che la gattamorta non avesse pure la ginecologa più richiesta della capitale!

 

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“Dottoressa Tataranni! Piacere di conoscerla e mi scusi per l’attesa per l’appuntamento ma… sono tornata ieri dalle vacanze estive.”

 

“Si figuri!” rispose, perché era stata fin troppo veloce, che detto da lei….

 

Poteri della cara Irene!

 

“Mi saluti tanto la cara Irene!” esclamò la dottoressa e per poco non le scoppiò a ridere in faccia, anche se per l’altra donna il cara sicuramente non era sarcastico, “allora, mi diceva Irene che aveva bisogno di un check-up di routine, giusto?”

 

Ecco… e mo arrivava la parte difficile, imbarazzante e forse pure un poco mortificante.

 

“Vede, in realtà… ho un compagno più giovane di me e-”

 

“Sì, vi ho visti sui giornali con Irene,” rise la dottoressa, ed Imma si chiese se non avesse fatto un errore madornale ad andare da lei, “allora? Mi dica pure.”

 

“Beh… insomma… noi… noi vorremmo tentare di avere un figlio o una figlia ma… all’età mia… lo so che non è facile. Ho smesso la pillola da un po’ di settimane, sicuramente prima dell’ovulazione ma… purtroppo niente. E avevo già provato qualche anno fa, con il mio primo marito, ad avere un secondo figlio, ma anche lì niente.”

 

La ginecologa sospirò e poi annuì, “dottoressa, alla sua età le probabilità di concepimento e, soprattutto, di portare a termine la gravidanza, sono basse, immagino che lo sappia già. Ma non è impossibile. Ci sono modi per incrementare queste probabilità. Innanzitutto dovremo fare tutta una serie di analisi ed esami, per capire com’è lo stato del suo apparato riproduttivo ed i suoi livelli ormonali. Vorrei sottoporre ad alcuni test anche il suo compagno, seppur giovane: non si sa mai ed è meglio avere la certezza che non ci siano problemi da parte sua.”

 

“Va bene. Cioè, per me va bene e penso che neanche Calogiuri, cioè, il mio compagno, avrà obiezioni. Ma… riguardo ad Irene….”

 

“Stia tranquilla, dottoressa,” la rassicurò la ginecologa, con un sorriso, “capisco che questo sia un argomento molto delicato ed io sono professionale e discreta. E comunque, sono riuscita a fare diventare mamma più di una donna anche quasi sulla cinquantina. Quindi non prometto niente ma… se è possibile, è venuta dalla persona giusta.”

 

Sperava che alla sicurezza verbale della dottoressa seguissero pure i fatti. Anche se dipendeva soprattutto da lei e lo sapeva.

 

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“Grazie!”

 

“S- si figuri!”

 

Aveva aperto la porta per una signora che doveva uscire dalla posta, come da sua abitudine, ma questa gli aveva lanciato uno sguardo molto diverso dal solito - non sembrava solo di gratitudine - anche se forse era la sua immaginazione.

 

Come magari era solo nella sua testa il fatto che più donne sembrassero guardarlo per strada, salutarlo, o provare ad attaccare bottone.

 

Di sicuro non ci era abituato. Cioè, per la carità, le fidanzate non gli erano mai mancate, pure prima di Imma le sue esperienze se l’era fatte ma… le aveva conquistate col tempo, non di sicuro al primo sguardo.

 

Ma, mentre la venditrice di lupini all’angolo gli lanciò pure lei un’occhiata strana, pensò che non voleva proprio andarsi ad infilare in un’altra relazione con qualcuna di Matera. Non voleva di nuovo il peso di aspettative che non poteva realizzare, né di avere qualcuno a cui rendere conto di ogni sua mossa.

 

Però… però doveva levarsi dalla testa Rosa e forse… e forse Valentina c’aveva ragione.

 

“Excuse-moi!”

 

Si voltò e si trovò davanti una turista francese, con un caschetto sbarazzino nero ed un bel sorriso, che gli mostrava una mappa sul cellulare e gli chiedeva come andare al “Sassò Barisanò!”

 

“Se vuole l’accompagno,” si offrì ed il sorriso compiaciuto della turista gli fece capire che era proprio ciò che sperava.

 

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“Allora, dottoressa, per il suo compagno tutto a posto, anzi, ha valori ottimi, sopra la media.”

 

Eh, certo! - pensò Imma: che Calogiuri fosse ben sopra alla media pure in quello non la sorprendeva.

 

“Lei invece… i suoi valori per la sua età non sono così male e a livello strutturale è tutto in ordine. Ma… le consiglierei una terapia ormonale ed alcuni integratori, sia per incrementare la probabilità di concepimento, sia soprattutto per ridurre la probabilità di aborti spontanei nel primo trimestre. Inoltre dovrà fare il test di ovulazione, per essere sicura di tentare nei giorni più fertili e… consiglio a lei e al suo compagno di… contenervi nei giorni precedenti all’ovulazione, in modo da poter tentare al massimo del potenziale per entrambi.”

 

Le venne da sorridere: quello sarebbe stato veramente, ma veramente difficile, per tutti e due.

 

“Quanti mesi ci vorranno per… per avere qualche effetto?”


“Dipende. Può succedere già dal primo mese, ma non c’è una regola. Le fornirò le compresse ormonali e dovrà attendere l’arrivo delle prossime mestruazioni per assumerle e poi dovrà tenersi pronta per l’ovulazione.”

 

Per lei fare l’amore era sempre stato un piacere, mentre parlare di conti ed orari lo faceva diventare quasi un esame ma… sperava soltanto che funzionasse.

 

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“Rosa?”

 

Gli era sembrata quasi un miraggio, tra lo scaffale dei sottaceti e quello del caffè, ma la ragazza che si girò era proprio lei.

 

Ed era da sola, senza nessuna piccola peste in braccio o che corresse avanti e indietro tra gli scaffali.

 

Era sorpreso di vederla: erano mesi che doveva avere cambiato orari e che non la incontrava più.

 

“Pietro…” gli rispose con un mezzo sorriso.


Era giovedì dieci settembre, due giorni dopo ci sarebbe stato il trasloco definitivo e non l’avrebbe più vista, se non magari a qualche festa comandata. Forse al braccio di quel cretino del marito.

 

“Come stai?”

 

La domanda lo prese alla sprovvista ed avvertì una specie di fitta di senso di colpa per l’avventura con l’americana e pure con la francese, anche se loro non stavano insieme e mai lo sarebbero stati.

 

“Abbastanza… e tu? Dov’è Noemi?”

 

“Con Capozza e Diana. Me la stanno tenendo in queste sere, che almeno riesco a finire le cose per il trasloco, che con lei che corre per le stanze….”

 

Gli venne da ridere: poteva immaginarsela chiaramente, a fare disastri tra gli scatoloni e gli oggetti da spostare.

 

“Ma stai facendo tutto da sola?” le chiese, preoccupato che non si facesse male.


“Non è che avessi tante cose qui, in realtà, ma… domani sera verranno il fratellino ed Imma a darmi una mano a caricare tutto sul furgone.”

 

Una lama al cuore: ormai era veramente questione di ore.

 

Arrivarono alla cassa, pagarono, parlando del più e del meno, e lui non sapeva se trovare il coraggio per offrirsi di aiutarla con la spesa o se avrebbe solo fatto peggio.

 

Ma lei continuò il discorso sull’asilo di Noemi - che già temeva sarebbe stata la più discola della classe e si sarebbe fatta subito riconoscere - e lui la seguì, guardandosi bene dal dire qualcosa in proposito.

 

“Mo… mo che starai a Roma e che staremo tanto lontani fisicamente e… non c’è più pericolo… magari possiamo ricominciare almeno a sentirci per telefono?” provò a chiederle, quando lei finì il suo discorso, perché gli piaceva tantissimo parlare con lei.

 

Rosa si bloccò un attimo e si morse il labbro.

 

“Pietro, lo sai che… mi mancano le nostre chiacchierate ma… non lo so… perché per me tu pure a distanza sei pericoloso.”

 

Rimase un attimo di sasso, non sapendo se essere più dispiaciuto o più lusingato da quell’ammissione che… che anche a lei quello che c’era stato tra loro non era ancora passato.

 

“Pure tu per me, assai,” le disse, affrettandosi per raggiungerla, “ma… ma spero che tu sappia che… non farò più niente per metterti in imbarazzo e crearti problemi.”

 

“Lo so, Pietro. Ma i problemi ci stanno lo stesso e devo risolverli da sola.”

 

Ormai erano arrivati sotto casa della mamma di Imma. I momenti con lei stavano per finire.

 

Rosa aprì il cancelletto e non fece cenno a riprendersi le borse, quindi salì con lei per le scale, fino ad arrivare di fronte alla porta dell’appartamento.

 

“Forse… forse mo è meglio che vado…” le disse, perché non si fidava di se stesso ad entrare di nuovo in quell’appartamento.

 

“Sì, è meglio,” confermò lei, con uno sguardo malinconico.

 

Poi la vide chiudere gli occhi, sentì un tonfo - la spesa di lei che cadeva sul pavimento - e si trovò stretto in un abbraccio fortissimo.

 

Un altro tonfo, stavolta erano le sue di sporte che finivano a terra e ricambiò l’abbraccio, più che poteva.


Quanto gli erano mancati quel calore, quel profumo, che gli ricordava i panni stesi, asciugati al sole, da bambino!

 

Gli veniva da piangere, come un cretino, all’idea che sarebbe stato l’ultimo contatto. Rosa si staccò, bruscamente, e vide che pure lei aveva gli occhi colmi di lacrime.

 

Rimasero per un attimo come paralizzati, poi finì contro al muro, travolto da un bacio appassionato che lo lasciò senza fiato, una specie di fuoco che gli bruciava dentro.

 

E, di colpo, non la sentì più, se non per due dita sul viso.

 

Sconvolto, ancora più sconvolto che dopo il primo bacio, non potè fare altro che seguire la mano di lei mentre gli lasciava la guancia.

 

La porta si aprì e, con un ultimo sguardo, lei era già sparita, lasciandolo da solo, sul pianerottolo, con le sporte della spesa mezza rotta ancora ai piedi.

 

Altro che turiste! Stava di nuovo da capo a dodici, stava.

 

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“Imma, lì ci stanno le cose tue… non ci ho mai messo niente, ma se magari ti vuoi prendere qualcosa da portare a Roma, già che abbiamo il furgone.”

 

“C- ci penso grazie!”

 

Rosa le sorrise ed uscì da quella che era stata la stanza da letto di sua madre, seguita da Ottavia, che le trotterellava intorno alle caviglie, dopo aver lanciato ad Imma l’ennesima occhiataccia.


Tre settimane erano passate ormai, pure di più, e ancora così stava.

 

Capa tosta!

 

Si avvicinò al comò ed aprì il bauletto delle poche gioie di sua madre. Ci trovò dentro il cofanetto di velluto con la collana regalatale da Latronico, dove aveva riposto anche il braccialetto.

 

Lo aprì, per guardarli, chiedendosi che senso avessero avuto, anche se i gesti di Latronico per pulirsi la coscienza probabilmente un senso non ce l’avevano.

 

In quel momento, sentì qualcosa alle caviglie ed un’ombra le piombò davanti agli occhi, spaventandola.

 

Il cofanetto le cadde di mano, aperto, e si schiantò a faccia in giù, mentre la collana ed il bracciale rotolarono sul pavimento.

 

“Ottà!” sospirò, vedendo la micia che, con fare quasi orgoglioso, si leccava le zampe sopra al comò: va bene che era incazzata con lei, ma mo pure gli agguati era troppo.

 

Si chinò per raccogliere il tutto, sperando che non si fosse rotto niente, anche se non avrebbe saputo dire il perché le importasse. Per fortuna collana e bracciale erano ancora interi.

 

E poi prese il cofanetto, che non era stato altrettanto fortunato: la parte superiore, imbottita, si era staccata e penzolava.

 

Stava per cercare di incastrarla nuovamente, quando notò che, dietro alla cornice, oltre al bianco c’era del blu.

 

E non era stoffa, né plastica, ma carta.

 

Il cuore in gola, staccò del tutto il pezzo in plastica e stoffa e le mancò per un attimo il respiro.

 

A Mia Figlia Imma

 

Quello c’era scritto, in lettere un poco tremolanti, in inchiostro blu, su una piccola busta bianca.

 

La estrasse con cautela, chiedendosi se fosse il caso di chiamare Calogiuri prima di aprirla, ma ormai la curiosità aveva deciso per lei e non poteva rischiare che venisse pure Rosa e poi… avrebbe dovuto aspettare quella sera per leggere.

 

Spezzò il sigillo dei Latronico ed estrasse un foglio, ripiegato quattro volte per farlo stare nella busta.

 

Nonostante ciò, c’era ancora un peso, oltre che nel suo cuore pure in mano, e vide che in fondo alla busta c’era una chiave, di quelle per casseforti o cassette di sicurezza.


Imma,

 

se hai in mano questa lettera vuol dire che… che ho avuto abbastanza coraggio, se non di dirti la verità, almeno di farti avere questo regalo.

Tante volte avrei voluto rompere il ghiaccio con te, ma non ci sono mai riuscito, se non in alcuni rari momenti, quando eri bambina, ma non credo che tu lo possa ricordare. Questo è il mio modo di cercare di romperlo finalmente questo ghiaccio.

Non so se sarei stato un buon padre per te, ma… volevo che tu conoscessi le tue origini e che sapessi che non ti ho mai voluta abbandonare.

Non avrei potuto riconoscerti, questo no, nella Matera degli anni Settanta poi, vi avrei fatto più male che bene. Ma… quando avevi un anno, ho comprato questa collana, per donarla a tua madre, in modo che… che potesse rivenderla o, magari, si sperava, dartela quando saresti stata adulta. Avrei voluto esserci, se non come tuo padre, almeno come uno zio, un amico di famiglia e festeggiarli tutti i tuoi compleanni. Ma… in quel periodo ho avuto dei problemi con gente senza scrupoli, mi seguivano sempre, in ogni mia mossa, e… non volevo metterti in pericolo avvicinandomi a te. E quando ho avuto la possibilità di farlo, ormai era troppo tardi, per tutto.

Vorrei dirti di più ma non vorrei che questa lettera finisse nelle mani sbagliate. So che sei brava con le indagini e quindi ti lascio questa chiave, nella speranza che tu riesca ad andare oltre questo muro di ghiaccio che ci ha sempre diviso, trovare le risposte che meriti di avere e a fare luce sul mio passato e su quel frammento, troppo breve, che è stato pure nostro.

Parla con tua madre, lei è custode del nostro segreto.

 

CL

 

CL… ovviamente non si era firmato per esteso, in caso la lettera cadesse in mani ancora più sbagliate di quelle del mittente.

 

Parlare con sua madre! Una seduta spiritica le ci sarebbe voluta, purtroppo!

 

“Imma?”

 

Si girò di scatto verso la porta, tanto che quasi perse l’equilibrio, ed incrociò gli occhi di Calogiuri.

 

Per fortuna era da solo.

 

Gli fece segno di chiudere la porta ed avvicinarsi, in quel linguaggio non verbale che ormai avevano perfezionato in tutti quegli anni di conoscenza. E poi, quando lui fu vicino, la fronte corrucciata dalla preoccupazione, gli passò il foglio.

 

Calogiuri lo lesse, con occhi e bocca spalancati e poi le chiese, palesemente in ansia, “che pensi di fare?”

 

“Indagare, Calogiuri. Pure se è un’indagine vecchia di quasi dieci anni ormai. Chiederò a Mancini qualche altro giorno di ferie, che tanto ne ho ancora un po’.”

 

“E allora accompagno Rosa a Roma, ma poi torno subito qua e-”

 

“E non se ne parla, Calogiuri! Capo primo, c’hai il concorso e devi studiare. Capo secondo, sei nel bel mezzo dei contatti con Melita e manca poco all’udienza. Anzi, così c’hai pure la scusa buona per avvicinarla da solo, che magari se non ci sto io avete più occasione di parlare e si apre di più.”

 

Calogiuri sembrò sorpreso ed anche un po’ preoccupato, ma poi le fece un sorriso grato.

 

“Che c’è? Lo sai che mi fido di te, no? In che lingua te lo devo dire, maresciallo? E pure tu ti devi fidare di me. Questa è una cosa che devo affrontare e forse è più giusto che lo faccia da sola, anche per dare meno nell’occhio.”

 

“Ma se succede qualcosa o se hai bisogno, lo sai che basta che mi chiami e da Roma torno subito?”


“Lo so…” gli sussurrò, grata, abbracciandoselo, “ma non credo che sarà necessario.”

 

“E… e per le frecce?” le chiese poi, con un poco di esitazione.


“Tanto il ciclo ancora mi deve venire, Calogiù, e le pastiglie le posso prendere pure da me, e poi… dobbiamo aspettare per l’ovulazione. Così quando torno, tu sarai prontissimo.”

 

“Fin troppo, dottoressa, fin troppo!”

 

*********************************************************************************************************

 

“Buongiorno, mi scusi, avrei bisogno di alcune informazioni su… su alcuni gioielli....”

 

“Dottoressa! Che piacere vederla! E congratulazioni!” esclamò la commessa, facendo segno verso l’anello.


“Gra- grazie,” rispose, un poco in imbarazzo.

 

“Sono felice che la proposta del maresciallo sia andata bene. Sa, era agitatissimo quando è venuto qua, faceva tenerezza: si è studiato ogni minimo dettaglio. Lui e la sorella sono due perfezionisti, ma spero che il risultato finale sia valso la pena.”

 

“Certo, è un anello bellissimo, sicuramente il gioiello più bello che ho mai avuto,” si complimentò, perché bisognava dare a Cesare quello che era di Cesare, mentre una parte di lei saltellava dalla contentezza come le giapponesi alla conferma di quanto ci si fosse impegnato Calogiuri.

 

“Bene. Allora… per caso è interessata ad abbinarci qualcosa?” incalzò la commessa, in piena modalità venditrice.


“No, in realtà… avrei bisogno di informazioni su alcuni gioielli degli anni Settanta. Il titolare mi aveva già aiutato una volta al riguardo. Per caso c’è?”

 

La commessa fece un’espressione delusa e poi impensierita, ma annuì ed andò nel retrobottega, da cui uscì dopo poco con il proprietario della gioielleria.


“Dottoressa, che piacere vederla! Congratulazioni per le future nozze! Mi dica, cosa aveva bisogno di sapere?”

 

Era una maschera di studiata professionalità ma sapeva benissimo, da quello che le aveva detto Chiara Latronico, che probabilmente lui già sapeva di che gioielli volesse parlargli.

 

“Si tratta non solo di questo bracciale, che già le ho mostrato in passato, ma anche di questa collana. So che sono state entrambe comprate da Cenzino Latronico negli anni Settanta.”

 

“Sì, sì. Ma posso chiederle da dove ha avuto la collana? Si tratta di un’indagine ufficiale?”

 

“La collana me l’ha consegnata spontaneamente Chiara Latronico e… diciamo che si tratta di un’indagine ma non sono qui in veste ufficiale. Voglio capire di più degli investimenti e dei movimenti patrimoniali di Latronico,” mentì, almeno in parte, perché le interessavano veramente, “per caso… aveva acquistato altre cose del genere, negli anni successivi?”

 

Il canuto gioielliere sembrò rifletterci un attimo, “con i rubini e l’oro giallo aveva comprato anche un paio di orecchini ed un anello… ma… più di recente… intorno al 2000, più o meno, l’anno esatto non lo ricordo.”

 

Più o meno il periodo in cui si era sposata con Pietro ed aveva poi avuto Valentina, anche se magari era solo una coincidenza.

 

“Altro? Altri rubini? O altri pezzi particolari, magari?”

 

“No, rubini no. Il cavalier Latronico era un affezionato cliente, ma era principalmente un collezionista di diamanti, sfusi, come investimento.”

 

“Diamanti? Non ricordo menzione di diamanti nei documenti patrimoniali ed ereditari dei Latronico. Lei sa dove li tenesse?”

 

“Dottoressa, come posso sapere una cosa del genere? Cosa ne facesse una volta uscito dal negozio, non era affar mio.”

 

“Mi scusi, ma uno viene qua, bello bello, e compra diamanti sfusi regolarmente e lei non pensa di denunciare l’accaduto?” chiese, sforzandosi di non alzare troppo la voce.

 

“E perché mai, dottoressa? Il cavalier Latronico pagava con regolari assegni bancari, mica in contanti, come i mafiosi. Come quei soldi fossero arrivati sul suo conto corrente non era certo mio compito stabilirlo, e a quell’epoca era uno stimato e rispettato imprenditore, tanto che appunto l’avevano pure fatto cavaliere.”

 

Imma sospirò, trattenendosi dall’alzare gli occhi al cielo: come se non ci fossero già voci sulla fortuna dei Latronico a Matera. Ma effettivamente non era compito del gioielliere indagare.

 

“Va beh… e a parte i diamanti, altre cose particolari?”

 

“Ma… guardi… la signora Latronico aveva gusti molto classici: gioielli raffinati e discreti, seppur di grande valore. E lui comprava principalmente quelli. Però una volta ha comprato qualcosa di molto stravagante, ora che ci penso: una spilla di Cartier, di un valore enorme, a forma di pantera. In platino, tempestato di diamanti, onice e smeraldi.”

 

“Valore?” chiese, preparandosi a sentirsi male per la risposta.

 

“Il valore dell’epoca glielo posso reperire, ma diciamo che a valore di mercato di oggi, tranquillamente oltre i centomila euro.”

 

Ad Imma prese un colpo: il costo di una casa, praticamente.

 

“Per caso ha una foto da mostrarmi?”

 

“Venga,” fece segno, camminando verso una vetrina, piena di oggetti a forma di pantera - o di leopardo - “era simile a questa, ma questa è molto meno preziosa, non avendo i diamanti ed essendo più leggera.”

 

Si chiese come si potesse spendere una cifra del genere per un gioiello.

 

“Vede, è una cosa molto diversa da quello che il cavalier Latronico comprava abitualmente, molto vistosa. Non mi era parso come qualcosa del gusto di sua moglie.”

 

“E lei che ne ha pensato di questa… stranezza?”

 

“Dottoressa, noi siamo noti per la nostra discrezione. Sapesse in quanti vengono qua a comprare sia per la compagna ufficiale che per quella o quelle ufficiose. Avevo pensato ad un’amante, sicuramente molto amata per regalarle una cosa del genere.”

 

“Si ricorda in che anno era?”

 

“No, ma se mi aspetta qua, questi gioielli hanno un registro online. Vado a consultarlo e glielo dico.”

 

“Va bene.”

 

Lo vide sparire nel retrobottega: alla fine sembrava essere abbastanza collaborativo, nonostante le desse i nervi l’ossequiosità che aveva nei confronti di Latronico con quel cavalier.

 

Mentre era in attesa, vide che la commessa aveva come una specie di sorrisetto.

 

Temette per un attimo che avesse capito del motivo dell’interesse per Latronico, anche se era impossibile.

 

“Che c’ha da ridere?”

 

“Niente, dottoressa,” corresse il tiro, le labbra nuovamente in una posizione neutra.

 

“Vuole che la faccio arrestare per reticenza?”

 

“Ma se non è qui in veste ufficiale.”


“Senta, è chiaro che c’aveva qualcosa da dire. La dica.”

 

“Ma no, è che… sa… a volte le coincidenze… qualche anno fa un certo maresciallo è venuto qui a comprare un anello di fidanzamento. Che, se quando è venuto per quello che indossa lei ora, sapeva vita morte e miracoli di come lo voleva, lì… si figuri che lo aveva fatto scegliere a me. Mi aveva messo una tristezza, come tutti quelli che si sposano troppo giovani con la prima fidanzatina che poi… si sa già come va a finire.”

 

“E allora?” Che c’entra mo? chiese Imma, sebbene fosse ben felice di sapere che Calogiuri fosse più entusiasta di sposare lei che quella scema di Maria Luisa.

 

“C’entra, perché… prima di uscire dal negozio è passato davanti a questa vetrina e ha sorriso, guardando i gioielli, soprattutto un bracciale simile a questo,” le spiegò, indicandole il monile che scintillava alla luce artificiale, “ovviamente era di molto al di fuori del suo budget ma… mi rincuorò un poco, perché pensavo che sorridesse pensando alla sua fidanzata e invece… mi sa che probabilmente pensava già a qualcun’altra.”

 

“E allora?!” ripeté, un sopracciglio alzato, perché, se una parte di lei era lusingatissima, un’altra ci notava una ben poco velata frecciata al loro rapporto da amanti.

 

Anche se all’epoca ancora non esisteva.


“Niente, ma… mi è sembrata una strana coincidenza, che per indagine lei anni dopo sia venuta a chiedere di un gioiello della stessa collezione. Anche perché, dottoressa, diciamoci la verità, tra il costo e… il gusto particolare che ci vuole per indossarli… ne vendiamo pochissimi.”

 

“E allora?!” ribadì, il sopracciglio che ormai aveva raggiunto la cima della fronte, come la pazienza il suo - scarso - limite.

 

“E allora… va beh… questo è il suo stile, dottoressa, però… di solito non sono cose che compra chi è ricco di famiglia, come i Latronico. Più gente che si è arricchita da poco e vuole fare scena. E poi… è un regalo strano per un’amante: molto costoso, molto impegnativo e soprattutto che dà tanto nell’occhio.”

 

Le toccò ammettere che la commessa tutti i torti non li aveva, anzi, e pure che avrebbe potuto fare la detective, con le doti di osservazione e di memoria che aveva.

 

“Guardi, dottoressa, ho qua il numero di serie. Acquistato da noi ad inizio novembre del 2004.”

 

Afferrò il foglio che le stava porgendo il gioielliere. Il cuore le saltò un battito, perché l’undici novembre del 2004, lei aveva compiuto trent’anni.

 

Poteva essere anche quella soltanto una coincidenza?

 

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“Porzia!”

 

“Imma! E che bella sorpresa! Che ci fai qua? Che non ti si vede mai!”

 

“Ma se stavo qua alla Bruna! E comunque ti conviene che non mi si vede mai.”

 

Le aveva teso un agguato all’uscita dalla parrucchiera. Porzia ci andava sempre ogni settimana, stesso giorno e stessa ora. Era un rituale a cui non rinunciava nonostante non navigasse nell’oro ed il lavoro che faceva non fosse certo l’ideale per mantenere intatta la messa in piega.

 

“In che senso?” le chiese, confusa.

 

“Che ce li hai due minuti per venire un salto da me?”

 

A quell’ora, per via della bella giornata di settembre, il centro di Matera era ancora pieno di gente e non era una cosa di cui potesse arrischiarsi a parlare in pubblico.

 

“V- va bene,” sospirò Porzia, sembrando però stranamente titubante e preoccupata.

 

Mica scema!

 

In silenzio, arrivarono a casa di sua madre e Porzia, nell’entrarci, sembrò ancora più esitante.

 

“Mi fa… mi fa ancora un poco di effetto tornare qua e… e pensare che la buonanima di tua madre non ci sta più.”

 

“Eh, pure a me, Porzia, pure a me. Accomodati. Ti posso offrire qualcosa?”

 

“Un bicchiere d’acqua, magari,” rispose l’altra, schiarendosi la voce.

 

Tornò con l’acqua, due bicchieri e la sua migliore aria da interrogatorio ed esordì, volutamente, con un “Porzia, mo però la devi piantare di raccontarmi palle su mia madre. In che rapporti era veramente con Latronico?”

 

“In… in che senso?” deglutì Porzia, il bicchiere che le tremolava in mano.

 

“Nel senso che… mo c’ho pure dei ricordi su di lui, di quando ero piccolissima. Con lui e con mia madre.”

 

“Imma! Ma perché vuoi rivangare questa storia che può portarti solo dolore? Il passato è passato ormai.”

 

“Il passato può avere pure un presente, visto che Latronico sarà anche morto, ma i suoi figli no. Allora?”

 

“E va bene…” sospirò Porzia, passandosi una mano tra i capelli, “sì, tua madre all’epoca si confidò con me, anche perché… insomma… con tuo padre rapporti ne avevano avuti per anni ma figli niente e poi… sta con Latronico e puff, rimane subito incinta. Ma lo scandalo… figuriamoci. Pensa che la più grande paura di tua madre era che potessi nascere con gli occhi azzurri, come a Latronico, che nella famiglia sua e quella dei Tataranni… occhi azzurri non ce ne stavano. Poi quando sei nata, un poco si è rassicurata, che magari fosse tutto a posto e che tu fossi figlia di Rocchino. Certo… quando poi ha visto quanto ti sei fatta alta, qualche dubbio le è venuto, ma ormai tu eri grande.”

 

“Ma che è successo tra mia madre e Latronico dopo il braccialetto?”

 

“E che è successo… niente, Imma… tua madre pensava che era un gesto giusto per lavarsi la coscienza e che Latronico ci avesse rinunciato. Ma quando era in giro con te nella fascia, spesso lo incontrava. Lui cercava sempre di parlarle con discrezione, le diceva che voleva farti un regalo per il tuo primo anno di vita, che voleva essere presente in qualche modo. Ma poi, all’improvviso, sparì. Tua madre pensò che erano state tutte chiacchiere, magari un modo per capire se lei aveva intenzione di dargli problemi o per tenersela buona.”

 

Imma, che aveva letto la lettera, capì invece il perché: tutto quadrava con la versione di Latronico.

 

“E quindi poi non si è fatto più vedere? Perché i ricordi che ho-”

 

“Aspetta, Imma, aspè! Passò qualche anno, ma… dopo l’incidente sul lavoro di papà tuo, Latronico riapparve. Disse a tua madre che non voleva che una figlia sua facesse la fame, inoltre aveva saputo che papà tuo teneva qualche problema con… con il bere… ed era preoccupato che vi trattasse male. Ma tua madre non volle soldi da lui, orgogliosa com’era e poi… temeva da dove venivano quei soldi. Figurati che quando papà tuo è morto, Latronico le propose pure una casa per voi, in campagna, a tenere una delle sua massarie, ma tua mamma ebbe paura di perdere la sua indipendenza, delle malelingue e… del pericolo di finire isolata a casa di un uomo del genere. E quindi rifiutò.”

 

Le venne da sorridere: sua madre alla fine, nonostante avesse avuto un pessimo gusto per gli uomini, i suoi principi non li aveva traditi.

 

“Ma io come mai ho ricordi di lui, allora?”

 

“Perché Latronico ti voleva conoscere e… insistette tanto che alla fine tua madre cedette, ma a patto che fosse solo finché tu eri abbastanza piccola da non ricordare. Ti aveva portato qualche volta da lui, non so dove esattamente, soprattutto negli ultimi tempi quando tuo padre… stava messo peggio. Era anche un modo per farti svagare e… non farti vedere alcune cose.”

 

Allora non erano solo suggestioni! E forse proprio in quei ricordi c’era la chiave di tutto, non solo nella lettera di Latronico.

 

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“Non sai quanto sono contenta che mi hai chiamata!”

 

Due braccia un poco ossute la stritolarono in un abbraccio, che un poco la mise a disagio.

 

“Chiara, non… non sono qui soltanto per una visita di cortesia,” specificò, prima che la Latronico si facesse strane idee.

 

Chiara sciolse il contatto e apparve un poco delusa, ma anche come rassegnata, e le fece cenno di entrare.

 

“Che succede? Spero non ci siano altri problemi con mio fratello o per la nostra famiglia.”

 

“No, non proprio, almeno, ma è che… mi sono tornati dei ricordi con tuo padre.”

 

Chiara spalancò gli occhi, chiedendo poi, emozionata, “c- cioè?”

 

“Quello più chiaro è di me e lui, con mia madre, in una stanza, con un tavolone di legno con sopra un blocco di ghiaccio. Lui preparava tipo la grattachecca con la menta e me la offriva.”

 

Vide come gli occhi di Chiara si fecero lucidi.

 

“Sì, nostro padre amava i gelati e le granite. A volte li preparava pure a me e ad Angelo quando eravamo bambini.”

 

“E dove?”

 

“A casa sua, cioè a casa di mio padre, ovviamente. Tenevamo una ghiacciaia in cantina una volta, poi l’abbiamo rinnovata.”

 

“Mi… mi ci potresti portare? Vorrei capire se… se è il luogo che ricordo.”

 

“S-sì, sì, dammi solo qualche minuto che allerto i custodi, che aprano e… poi ci lascino il campo libero. Immagino tu non voglia che ti vedano, no?”

 

“No, infatti,” confermò, grata a Chiara per l’assenso e per quella premura.

 

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“Allora?”

 

“No… niente… non vedo niente di familiare.”

 

Si sentiva un po’ delusa anche se, in fondo… che poteva aspettarsi andando alla ricerca di un ricordo di più di quarant’anni prima?

 

“Ora che ci penso però… c’avevamo pure un’altra ghiacciaia, in una masseria in campagna dove andavamo spesso d’estate. Non è tanto distante, un venti minuti al massimo in auto. Se vuoi….”

 

“Va bene,” acconsentì, anche se le sembrò di stare andando, letteralmente, a caccia di fantasmi.

 

Ma non poteva lasciare niente di intentato.

 

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“E qua c’era la cucina e le stanze del personale di servizio.”

 

Si bloccò di colpo, un brivido lungo la schiena: il tavolone della cucina era lo stesso, ma pure le piastrelle, le ceramiche, alcune sbeccate, le sembrava di aver già visto tutto quello in un sogno.

 

Si mosse per la stanza, quasi ipnotizzata, e poi guardò verso la zona di servizio e sì, pure quella, con i divanetti consunti, il tavolino con quattro sedie attorno e quello con la macchina da cucire… facevano tutti parte di quella specie di visione, che veniva a galla lentamente.

 

Guardò poi fuori dalla porta finestra, che dava su un cortile e, pure attraverso i vetri sporchi, notò delle stalle, appena oltre il prato, ormai tenuto malissimo e pieno di erbacce.

 

Mani… mani grandi e forti, ma non ruvide, intorno alla vita.


Il nitrito di un cavallo e… crine biondo tra le dita.

 

Una voce che le diceva di tenersi forte e poi un urletto di una bimba, felice, che le ricordava uno di quelli di Noemi.

 

Le mani e la voce… erano le stesse del ricordo della grattachecca.

 

“T- tuo padre… teneva i cavalli qui?”

 

Chiara parve sconvolta.

 

“Sì, sì, avevamo i cavalli qua: è qua che ho imparato a cavalcare, da bambina.”

 

E forse non era stata la sola.

 

La cavalcata con la figlia dei signori per cui sua madre faceva le pulizie, che ricordava chiaramente, andando già alle elementari all’epoca, forse non era stata affatto la prima.

 

Si rese conto, di colpo, del perché le fosse sembrato così familiare.

 

“Imma, va tutto bene?” le chiese Chiara, preoccupata, “sembri un lenzuolo da quanto sei pallida. Ti vuoi sedere?”

 

“No, no, sto bene… è che… forse ci ho cavalcato pure io qua… con tuo padre e… e pure questa cucina mi pare quella del mio ricordo.”

 

Lo sguardo di Chiara si aprì in un sorriso, colmo di curiosità, eccitazione e pure un poco di commozione.

 

“Ha senso, in effetti, che non vi abbia portate a casa… dove ci stava anche mia madre. E poi… se vi avessi viste sono sicura che mi sarei ricordata di voi. Qua invece… ci venivamo d’estate appunto ma non così spesso, di solito in giornata. Sai… la masseria essendo molto vecchia all’epoca non era stata ancora ristrutturata e… non era neanche del tutto collegata alla corrente elettrica e con l’acqua. C’avevamo il pozzo e il ghiaccio appunto, in ghiacciaia.”

 

Un altro brivido.

 

Il ghiaccio!

 

Nella lettera quel rompere il ghiaccio tornava spesso. Troppo spesso per essere soltanto una metafora, come quelle che Calogiuri pensava fossero un insulto, in quella che sembrava essere una vita precedente.

 

“Senti ma… questa ghiacciaia ci sta ancora?”

 

“Sì, sì… cioè, come puoi vedere la casa è da un po’ che è disabitata, da quando è morto l’ultimo custode. Facciamo fare giusto la manutenzione, ma niente di che. Papà aveva voluto mantenere la cantina, che ci teneva molti dei suoi vini, e la ghiacciaia intatte, anche se aveva fatto rifare gli impianti… qualche anno prima di morire. Ma perché ti interessa?”

 

“No, niente… è che… sarei curiosa di vederla… sai… magari altri ricordi.”

 

“Col freddo che ci faceva dubito ti ci avrebbe portata, però… se non sei allergica alla polvere posso cercare le chiavi e possiamo scendere.”

 

Sì, potevano scendere… ma lei quella ghiacciaia voleva potersela studiare per bene, da sola.

 

Nel frattempo erano tornate in salotto e notò su un tavolino tra due finestre un vecchio telefono, di quelli a rotella.


“Chiara… non è che avresti un bicchier d’acqua, prima? Tengo un poco la gola secca e….”

 

“Dovrebbe esserci ancora una cassa d’acqua in dispensa, sai per chi viene a fare i lavori. Vado a vedere.”

 

Non appena si fu allontanata, alzò la cornetta e sentì il suono che segnalava che la linea era attiva.

 

Compose il numero del suo stesso cellulare, per avere quello della massaria.

 

E poi lo copiò in un messaggio per Calogiuri, a cui aggiunse:

 

Non ti posso spiegare mo, ma quando te lo scrivo, aspetta cinque minuti e poi chiama questo numero. Fingiti chi ti pare a te, con la voce modificata se puoi, e tieni Chiara al telefono il più possibile.

 

Pregò che lo leggesse, perché chiamarlo sarebbe stato troppo rischioso.

 

Per fortuna, poco dopo, comparvero le spunta blu e la risposta.

 

Ma che stai combinando? Mi devo preoccupare? Comunque sono in procura, predispongo tutto.

 

In quel momento, tornò Chiara, con un bicchiere in mano, che si sbrigò a bere, fingendo di avere molta sete.

 

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Calogiuri, 5 minuti.

 

Aveva inviato il messaggio prima di scendere in cantina, temendo lì non prendesse la linea, poco dopo che Chiara era tornata con le chiavi, di quelle vecchie, enormi e pesantissime.

 

Con il cuore in gola, scese i gradini che parevano scavati nella pietra e raggiunse prima la cantina, ormai praticamente vuota, a parte le ragnatele e qualche bottiglia mai portata via da lì, e poi, finalmente, Chiara aprì una porta molto spessa, in pietra, e si trovò in una stanza tonda, anch’essa ricavata dalla roccia.

 

Isolamento termico come si faceva anticamente.

 

C’era una specie di pozzetto centrale in legno, dove probabilmente si teneva la maggior parte del ghiaccio, e la parete circolare era completamente ricoperta da scaffalature impolverate.

 

Chissà che ben di dio ci doveva essere una volta lì, mentre quasi tutta Matera faceva la fame. Altro che grattachecca!

 

“Ti viene in mente qualcos’altro?” chiese Chiara ed Imma cercò di prendere tempo, guardandosi intorno attentamente, anche per facilitare il lavoro successivo, finché squillò un telefono in lontananza.

 

Per fortuna si udiva con le porte lasciate aperte.

 

“Che strano! Qua non chiamano mai!”

 

“Magari è qualcuno che ti cerca, che il cellulare qua mi sa che non prende. Vai pure, io intanto sto qua con la polvere a vedere se mi viene in mente qualcosa.”

 

“Va bene, torno subito, se hai bisogno chiama!”

 

Come no! - pensò, mentre Chiara correva oltre la porta e sentiva i suoi passi su per le scale.

 

No, la ghiacciaia non le aveva portato alla mente alcun ricordo, era quasi sicuramente la prima volta che ci metteva piede in vita sua.

 

Ma ci doveva essere qualcosa, se lo sentiva!

 

Estrasse il cellulare, avendo conferma che non ci fosse campo, attivò la torcia ed iniziò a fare luce tutto intorno, sperando di fare davvero luce su qualcosa.

 

Un bagliore, come uno scintillio, la fece fermare. Spostò di nuovo la torcia, tornando indietro e lo rivide, nella piccola intercapedine tra due scaffali.

 

Non c’era abbastanza spazio per infilarci le dita e, a differenza delle eroine dei telefilm, non aveva forcine o limette a disposizione.

 

Tastò gli scaffali, da una parte e dall’altra, per capire se ci fosse qualcosa di strano.

 

Stava perdendo le speranze quando il retro del penultimo scaffale si mosse leggermente. Fece più forza ed il legno si spostò, rivelando una leva dall’aria arrugginita e vecchia.

 

Pregando che funzionasse ancora, la spinse con tutta la forza che aveva e quella sezione della scaffalatura si aprì, a cerniera, talmente bruscamente che dovette fare un balzo indietro per non trovarsela addosso.

 

Dietro c’era un buco.

 

Ci diresse la torcia e ci vide una stanzetta, poco più di un ripostiglio, forse un rifugio segreto per il boss, nel caso le cose si fossero messe male.

 

Altro che i pizzini qua!

 

E poi, in fondo a quella specie di sgabuzzino, l’origine dello scintillio: la porta blindata di una cassaforte.

 

Il fiato quasi azzerato, si avvicino, notando subito il foro di una toppa.

 

Con mano tremante, aprì la borsa ed estrasse da una tasca interna LA chiave che aveva trovato nel cofanetto della collana.

 

La infilò nel pertugio e quasi non riuscì a trattenere un’esclamazione di trionfo quando non solo entrò perfettamente, ma girò e si aprì, rivelando…

 

Una seconda porta blindata, stavolta con un tastierino numerico.

 

Mannaggia a te! - pensò, che Latronico pure da morto le dava problemi.

 

Ma in quella cassaforte doveva esserci davvero qualcosa di incredibile, per darsi tanto disturbo.

 

Pensa, Imma, pensa! - si spronò, perché la combinazione doveva essere da qualche parte, ma dove?

 

Nella lettera non c’erano numeri, salvo ci fosse un codice cifrato, magari fosse stata ancora viva sua madre, ma-

 

A quel pensiero si paralizzò.

 

Mamma era stata la custode del segreto.

 

Le venne in mente, come se ce l’avesse davanti agli occhi, la foto di lei bambina, appesa per tanto tempo in bacheca a casa di mamma, e quelle parole scritte sul retro.

 

“Cenzino Latronico, 5543!” esclamò, premendo, con dita tremanti, per due volte i tasti centrali e poi quello accanto e subito sotto.

 

E, come in un film di spionaggio, o nella storia di Aladino, la chiusura scattò e la porta blindata si spalancò.

 

Quello che ci vide dentro, la lasciò del tutto senza fiato.

 

Non ci poteva credere! Non ci poteva credere!

 

Forse per quello, si accorse tardi dei passi che rimbombavano alle sue spalle, ormai troppo vicini.





 

Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo luuungooo capitolo con parecchio giallo oltre a parecchio rosa.

Imma è in una situazione estremamente rischiosa e delicata e… chissà come andrà a finire e che cosa ha scoperto in quella cassaforte. Calogiuri inoltre è nel bel mezzo delle uscite con Melita per il maxiprocesso… e… diversi eventi di questo capitolo ci stanno conducendo verso il Grande Casino, anzi, i Grandi Casini, che ormai sono praticamente alle porte e che romperanno tutti gli schemi e tutti gli equilibri.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che la lettura continui a mantenersi interessante. Vi garantisco che ci attendono capitoli pieni di eventi e di colpi di scena, quindi… spero vorrete seguirmi anche durante lo tsunami che si prospetta. Alla fine ovviamente c’è sempre il… lieto fine… ma nulla sarà scontato, anzi.

Come sempre, le vostre recensioni oltre a farmi un piacere immenso mi motivano tantissimo e mi aiutano a capire come sta procedendo la scrittura, quindi grazie fin da ora se mi farete avere i vostri commenti.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare puntuale il 14 marzo.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 56
*** Figlia del Demonio ***


Nessun Alibi


Capitolo 56 - Figlia del Demonio


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Maledizione, rispondi!

 

Continuava a richiamare il numero di Imma, ma niente, non era raggiungibile.

 

Aveva chiamato Chiara Latronico, come gli aveva chiesto, ma quando aveva sostenuto di essere dell’ENEL, citandole pure tutti i dati e il numero di fornitura, grazie al database, gli aveva comunque riattaccato in faccia e, con tutti i suoi tentativi di richiamarla, non rispondeva più.

 

Solo che non sapeva come avvisare Imma ed il peggio era che non sapeva nemmeno il perché dovesse distrarre la Latronico, e se ora Imma potesse essere in pericolo.

 

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Si voltò, di scatto, ed un brivido la scosse dalla testa ai piedi.

 

Chiara Latronico era sulla soglia dello stanzino, bloccandole il passaggio, gli occhi scuri che brillavano come quello che Imma aveva appena versato sulla sua mano.


Un sacchetto di diamanti purissimi. Molta gente era stata ammazzata per un centesimo del valore che dovevano avere e non riusciva a decifrare l’espressione di Chiara.

 

“Allora è per questo che sei qui?” pronunciò, con un tono duro, quasi metallico.

 

“Per i diamanti?” domandò di rimando, stupita e spaventata.

 

“No, per un’indagine. Stai ancora indagando sui Latronico? Magari pure su di me?”

 

“Sto indagando, sì, ma sul mio passato,” rispose, che, in fondo, era la verità anche se… se avesse trovato qualcosa che c’entrava con le indagini o con risvolti penali, mica poteva ignorarla.


Chiara, con quello sguardo quasi fisso, si avvicinò, un passo alla volta, sempre più vicina, troppo.

 

La vide sporgersi verso di lei e, mentre ragionava su cosa avrebbe potuto fare per difendersi, in caso di attacco, Chiara emise come un suono strozzato ed allungò una mano, ma verso la cassaforte.

 

Imma fece un passo di lato, per cercare di recuperare distanza e per studiare le mosse della Latronico. La vide sfiorare i lingotti d’oro, ammassati nella cassaforte ed aprire un altro sacchetto di velluto che, come quello che ancora teneva tra le dita, conteneva altri diamanti.

 

In tutto ci doveva essere un valore di svariati milioni di euro, indubbiamente.

 

“Come… come facevi a sapere di questa stanza?”

 

“Perché? Tu lo sapevi?” chiese a Chiara, col fiato in gola.

 

“No, no, figurati e non credo lo sapesse nemmeno Angelo se no… sarebbe già sparito tutto.”

 

“Tuo padre ha lasciato degli indizi molto vaghi e li ho seguiti fino a qui.”

 

Chiara per un attimo non disse niente, ma poi allungò la mano ed estrasse una busta, dall’aria un po’ ingiallita.

 

Si voltò verso di lei e, secca, le disse, “leggila, è per te.”

 

Le dita le tremarono terribilmente, mentre si costringeva ad allungare una mano verso quella di Chiara per afferrarla. Ad ogni gesto le sembrava di camminare su un filo sottile, sottilissimo e che sarebbe bastato un minimo passo falso a condurla nel baratro.

 

Prese la carta rovinata dall’umidità, anche quella con su scritto A mia figlia Imma, spezzò l’onnipresente sigillo dei Latronico e la aprì.

 

Imma,

 

se sei arrivata fino a qua, vuol dire che non mi sbagliavo sulle tue capacità investigative e sul tuo intuito.

Questa è la fetta di eredità che ti spetterebbe e che ti ho tenuto da parte, piano piano, mano a mano che il mio patrimonio cresceva. Sta a te decidere cosa farne. Ti lascio anche un dossier su alcuni casi che non sei riuscita a risolvere in passato. Non mettere di mezzo gli altri miei figli, se puoi, soprattutto Chiara, che è sempre stata lontana dagli affari di famiglia. Consideralo un mio regalo di addio per te, anche se non ci siamo mai conosciuti davvero.

Tante volte avrei voluto avvicinarmi a te e dirti la verità, soprattutto dopo che Rocchino Tataranni è morto e che ho visto in che difficoltà eravate, e poi quando eri più grande, e forse avresti potuto di più comprendere le ragioni della mia distanza. Ma temevo di metterti in pericolo e non volevo leggere il disprezzo nei tuoi occhi. So che sei integerrima e che non avresti mai potuto accettare un padre come me.

Ma, anche se ti potrà sembrare assurdo, sono fiero di ciò che sei diventata, da sola, senza aiuti, e, se sei arrivata fino a qua, se c’è qualcuno che merita di riuscire a scardinare certi giri della Matera Bene sei tu. Volevo che sapessi che non hai mai inseguito fantasmi sul tuo lavoro, anzi, l’unico fantasma ero proprio io.

Con il bene che ti ho sempre voluto,

 

Cenzino Latronico

 

C’aveva come un nodo in gola che non andava né su né giù.

 

Alzò gli occhi, leggermente appannati, e fece un salto: Chiara era a qualche centimetro da lei ed aveva uno sguardo febbrile, che non si sarebbe mai scordato.

 

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“Maledizione!”

 

“Calogiuri, che c’è?”

 

Fece un segno verso Chiara, che lo guardava preoccupato, ma non aveva tempo di spiegare. Imma era ancora irraggiungibile e si sentiva ormai nel panico più totale.

 

Pensa, non fare il cretino, pensa! - si intimò: doveva agire e in fretta, per lei, non poteva andare nel pallone.

 

Digitò nel database il numero di telefono che Imma gli aveva fornito e trovò l’indirizzo di un casolare poco fuori Matera, intestato a Chiara Latronico.

 

Prese il cellulare e selezionò il contatto di Capozza, sperando che gli rispondesse e che non fosse impegnato.

 

“We, maresciallo!! Come va la vita ora che hai pure la sorella a Roma e un matrimonio da organizzare?”

 

“Va che ho bisogno di un favore, Capozza. Mo ti mando un indirizzo, devi andarci subito, con discrezione però, ed accertarti che Imma stia bene.”

 

“Imma? Ma perché, ancora qua sta la dottoressa?”

 

“Capò, non c’è tempo. Imma potrebbe essere in pericolo!”

 

“Ma tranquilli voi mai, eh! Va bene, mandami l’indirizzo che ci vado subito.”

 

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Chiara le era praticamente addosso. Con la coda dell’occhio la vide sollevare le braccia e le mani verso il suo collo. In due secondi le vennero in mente le poche nozioni di autodifesa imparate, ma quasi tutte implicavano di colpire un uomo.


E una donna dove si colpisce?

 

Non fece in tempo ad avere una risposta, perché si trovò stretta a morsa, sì, ma in un abbraccio che fu tanto inatteso quanto di sollievo. Anche se una parte di lei continuava a temere una pugnalata alle spalle, letteralmente.

 

“Grazie….”

 

La voce di Chiara, roca e bassa, le solleticò l’orecchio.

 

“E di che?” chiese, completamente spiazzata.

 

“Grazie perché mo ho avuto la prova che mio padre, in fondo in fondo, qualcosa di buono ce l’aveva davvero e che… pure i miei ricordi belli con lui non sono fantasmi.”

 

Le tornò il nodo in gola, ma ancora peggio. Perché una parte di lei capiva benissimo Chiara e non solo per Latronico ma anche per l’uomo che aveva chiamato papà. Il temere che i bei ricordi fossero solo sogni, sepolti com’erano sotto a quelli di suo padre che manco si reggeva in piedi e se ne stava chiuso nel suo mondo.

 

Diede due pacche sulle spalle a Chiara, che si staccò leggermente, e poi specificò, “comunque tutta questa… fortuna… se così la vogliamo chiamare, non-”

 

“Imma, è tua. E non voglio sentire discussioni.”

 

“Chiara, sapendo come è stata ottenuta, non posso accettarla, lo sai benissimo.”

 

“Devi accettare, così come devi usare quei dossier. Anche se mi sa che… il grosso del lavoro di pulizia a Matera lo hai già fatto, pure senza papà. Poi dei soldi… ne puoi fare quello che vuoi, pure buttarli per strada, non mi riguarda.”

 

“Chiara, di sicuro con il mio stipendio non posso andare in giro a dispensare diamanti ed oro a destra e manca senza spiegare da dove provengono.”

 

Chiara sospirò ma poi le strinse più forte le spalle con un “effettivamente… dovresti dare spiegazioni. Raccontare tutto.”

 

Ed accadde una cosa che le era capitata poche volte nella vita, per la maggior parte con Calogiuri: seppe istintivamente che lei e Chiara avevano avuto la stessa folle idea.

 

“Chiara, lo sai che è una pazzia, sì? Veramente saresti disposta a farlo?”

 

“Sì, a parte che io già sono la figlia di un criminale, Imma, quella che ha più da perdere sei tu. E poi… dopo aver letto questa lettera, penso che in fondo sia quello che avrebbe voluto papà, con la buona pace di Angelo. E, pure se il cognome Latronico è legato a tanto male, io sarei orgogliosa di far sapere a tutti che almeno una cosa buona papà l’ha fatta: tu.”

 

“Pure te, pure te…” rispose, commossa, venendo di nuovo stretta in un modo in cui non era abituata.

 

Le ricordò sua madre e Valentina negli ultimi anni. E, in modo diverso, gli abbracci di Calogiuri.

 

La mente le viaggiò a mille all’ora, calcolando costi e benefici derivanti, da un lato, dall’usare la parte di quei soldi che non si sarebbe tenuta - giustamente - il fisco, per beneficenza, e dal fare uscire quei dossier. Dall’altro canto, i problemi che tutto ciò avrebbe causato al maxiprocesso. Ma poteva davvero tenere tutto sepolto, un’altra volta?

 

Si staccò da Chiara e guardò meglio il contenuto della cassaforte, trovando il faldone con i dossier. Lo aprì e, in una busta di plastica attaccata agli anelli, vide un piccolo cofanetto.

 

Rimase senza parole, riconoscendo perfettamente la marca.

 

Lo aprì e si trovò di fronte la famosa spilla. Un brivido le corse lungo la schiena, pensando che stava tenendo in mano il valore di una casa praticamente.

 

Dietro, incise nel metallo prezioso c’era incisa una I - senza nessun cognome però, né una T, né una L - e poi Per i tuoi trent’anni.

 

Lo richiuse di scatto, lo ripose nella cassaforte e cominciò a sfogliare rapidamente le cartelline rilegate.

 

Nomi, nomi a lei molto familiari, casi vecchi, fin dall’inizio della sua carriera a Matera. La maggior parte tutt’ora irrisolti.

 

Vide un altro raccoglitore, posò quello che aveva in mano ed aprì pure quello.

 

Ma, al posto dei nomi di casi che si aspettava di trovarci, vide invece delle fotografie.

 

Quelle di quando era piccola le riconosceva, perché pure la buon’anima di sua madre ne teneva una copia. Forse ne mandava un’altra pure a Latronico quando le stampava. E poi… altre prese per strada, all’aperto, dall’infanzia all’adolescenza, di cui non sapeva se essere inquietata o meno. C’erano perfino alcune foto di suoi convegni fatti a Matera e dintorni, quindi Latronico doveva essere venuto a vederla parlare.

 

Un rumore forte ed improvviso, come un botto, le fece cascare il raccoglitore di mano. Guardò Chiara: il rumore proveniva da sopra, dalla casa.

 

“Aiutami a richiudere tutto, veloce!” le disse, perché preservare quelle prove per lei era la cosa essenziale e, soprattutto, nascondere il movente per cui qualcuno potesse volersi introdurre lì con loro presenti.

 

Stavano infilando dentro tutto alla rinfusa nella cassaforte e l’aveva appena finalmente chiusa quando un, “c’è nessuno?! Identificatevi!” molto familiare le fece tirare un sospiro di sollievo.


“Capozza…” mormorò e poi, realizzando chi lo aveva chiamato, sorrise tra sé e sé.

 

Calogiuri era veramente il suo angelo custode.

 

Si avviò verso la tromba delle scale, urlando, “Capozza, tutto bene!” e, salendole, si trovò davanti il brigadiere, vestito come sempre come se fosse appena uscito da un concerto rock anni Ottanta, che la guardò come se avesse visto un fantasma.


“Dottoressa!”

 

“Ma avevi già chiamato i carabinieri?”

 

La voce di Chiara, alle sue spalle, la sorprese talmente tanto che per poco non perdeva l’equilibrio sul gradino. Aveva un tono ed un’aria feriti.

 

“No, no,” cercò di spiegare, mentre faceva gli ultimi scalini e tornava insieme a Capozza alla luce solare, “ma è che-”

 

Non fece in tempo a dire altro, perché il suo telefono cominciò a vibrare fortissimo nella tasca, come impazzito.

 

Lo estrasse e ci trovo un sacco di chiamate perse.

 

Calogiù

 

“Calogiuri deve avere provato a cercarmi. Sapeva che stavo qua e… non sentendomi più si è preoccupato, che là sotto non si è raggiungibili.”

 

Chiara sospirò.

 

“Non si fida di me. E nemmeno tu.”

 

“Chiara, la fiducia va conquistata e tu mo lo hai fatto e mi fido e… spero che ti possa fidare pure tu di me.”

 

Chiara sembrò un poco esitante ma poi annuì.

 

“Comunque sono qua da solo eh, Calogiuri mi aveva dato istruzioni precise di usare la massima discrezione.”

 

“Vedi?” rispose Imma con un sorriso, “lo devo chiamare mo e… forse c’è pure qualcun altro che dovremmo chiamare.”

 

“E chi?”

 

“Oltre ad avvisare Calogiuri che sono viva e… parlare con mia figlia di… di quello di cui abbiamo parlato lì sotto… devo anche avvisare il dottor Vitali. Se per te va bene. Può fare una cosa… discreta per l’appunto e magari darci pure un consiglio su come procedere.”


“Va bene. Se va bene a te, sta bene pure a me.”

 

“Dottorè, io però non ci sto capendo niente!”

 

“E dove starebbe la novità, Capozza?!”

 

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“Calogiuri, ma che hai? Non stai fermo un attimo e tremi pure.”

 

Si guardò le mani e Mariani teneva ragione ma… ancora nessuna notizia da Imma e nemmeno da Capozza.

 

Cominciava a temere veramente il peggio.

 

La vibrazione in tasca per poco non gli fece prendere un colpo. Estrasse alla velocità della luce il telefono, pregando che fosse o Imma o Capozza e maledicendo già chiunque altro fosse.

 

Dottoressa

 

Quel nome sul display fu come aria nei polmoni.

 

“Imma?! Dov’eri? Mi è preso un colpo, mi è preso!!” esclamò, ignorando l’occhiata stupita di Mariani ed allontanandosi per parlare più liberamente.

 

“Scusami, ma è che… sotto là non prendeva il telefono e… ti dirò… pure a me ha preso un colpo ma tutto bene, tranquillo, pure senza la cavalleria. Anche se ti ringrazio per il pronto intervento, pure se… la qualità delle truppe scarseggia un poco.”

 

Sorrise: Imma era sempre Imma, anche se c’aveva un tono strano, pareva preoccupata, più che spaventata.

 

“Che succede, dottoressa?”

 

“Succede che ti devo parlare, maresciallo.”

 

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“E quindi… penso che… forse è giusto uscire allo scoperto mo, anche se… già so che mi massacreranno.”

 

Silenzio.

 

Un silenzio che le sembrò eterno. Immaginò che Calogiuri volesse dirle che era folle, pazza a volersi tuffare in un altro scandalo e a trascinarci pure lui.

 

“Per me… per me va bene, Imma, in un senso o nell’altro. Puoi decidere solamente tu che cosa è giusto in questo caso, non sta a me o a nessun altro.”

 

Sentì una fitta di commozione: Calogiuri sapeva sempre trovare le parole giuste al momento giusto.


“Lo sai che… che questo potrebbe provocare problemi al maxiprocesso, sì? E pure a te. E che… potrebbero farmi rientrare a Matera o spedirmi chissà dove?”

 

“In qualche modo faremo, dottoressa, come abbiamo sempre fatto. E non saresti tu se non facessi quello che ritieni giusto, pure se non ti conviene.”

 

“Calogiuri….”

 

Ma quanto era fortunata?

 

“Ti posso raggiungere: prendo la macchina ed arrivo in nottata, così non stai da sola e-”

 

“No, Calogiù: stasera c’hai l’uscita da solo con Melita ed i suoi amici, no? E non puoi non andarci. Ne va del maxiprocesso e del tuo lavoro.”

 

“V-va bene. Però fammi sapere subito se succede qualcosa e… e come stai.”

 

“Va bene. Buon lavoro, maresciallo!” lo salutò, orgogliosa di lui come raramente prima.

 

Ma non poteva perdersi troppo a pensare a Calogiuri ed al suo abbraccio di cui in quel momento avrebbe avuto tanto bisogno. Perché doveva assolutamente avvertire Valentina.

 

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“E quindi… lo so che, essendo tu sangue del mio sangue e quindi… molto alla larga pure del suo, questo potrebbe procurare casini pure a te, ma… per me mo parlare è la cosa più giusta per tutti.”

 

“Cazzo!”

 

Non sapeva se fosse stato meglio il silenzio di Calogiuri o questo.

 

“Valentì, lo capisco che sei sconvolta, ma io-”

 

“Mà, altro che sconvolta! Cioè questo ti ha lasciato tipo una caccia al tesoro con il caveau alla fine, che manco in un film di spionaggio? Mo ho capito perché sei matta e paranoica: è genetica.”


“Guarda che la genetica vale pure per te, signorina!” le ritorse contro, ma si sentiva molto sollevata dal tono di Valentina, che sdrammatizzava pure nello sconvolgimento.

 

“Comunque mà… non è che mi faccia piacere che si sappia in giro che c’avevo un nonno non solo famoso ma pure famigerato. Che almeno quello alcolista era innocuo. Però… tanto a Matera già non ci posso tornare per il momento, che tutti mi fissano manco c’avessi tre teste, una cosa più o una in meno… via il dente e via il dolore. E poi… mo lo so come ci si sente a dover nascondere una parte importante di chi si è, quindi… se vuoi dire a tutti che c’ho un nonno uscito dal Padrino, per me va bene, se va bene a te. E poi… per come si è comportata… sta bene pure a nonna beccarsi il consuocero della Matera bene ma criminale.”

 

Le venne da sorridere: Valentina era proprio tale e quale a lei su certe cose. Tanti giri di parole e frecciatine, ma alla fine le aveva detto più o meno quello che le aveva detto Calogiuri.

 

Era davvero fortunatissima!

 

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“Dottoressa, lei ne è proprio sicura?”

 

Vitali stava con le braccine conserte, il baffetto che vibrava nell’aria della sera di fine estate Materana.

 

“Scoppierà un macello, lo sapete, sì? Ed io non potrò più proteggervi, visto che… questi dossier riguardano reati avvenuti in gran parte qua, sui quali lei ha indagato, dottoressa. E che, pure se riapriremo, temo dovranno essere necessariamente passati ad altri per il… conflitto di interessi.”

 

“Lo so, dottore, ma lei al posto mio che farebbe?”

 

“Non lo so, dottoressa… non lo so. Io non ho il suo coraggio, o forse dovrei dire la sua incoscienza. Ma sicuramente chi aspetta giustizia per questi casi le sarà grato, così come chi riceverà i frutti della sua beneficenza… pure se bisogna vedere quanto sopravvive all’Agenzia delle Entrate. Comunque… potremmo almeno sostenere che… che la scoperta della sua paternità sia più recente, dottoressa, sempre se Angelo Latronico non ci smentisce. Che la dottoressa Latronico lo ha scoperto mo per via del cofanetto della collana e poi, aprendo il caveau, avete avuto la conferma definitiva.”

 

“Se Angelo ci regge il gioco e se qualcun altro non lo sa, sì. Ho… ho un po’ di paura di come la prenderà mio fratello… sia per i soldi che… per il nome di famiglia.”

 

“Eh beh, certo, sia mai che possa essere tacciato di avere una sorella onesta, anzi, onestissima!” ironizzò Vitali, per poi precisare, allo sguardo addolorato di Chiara, “cioè, non intendevo dire che-”

 

“Non si preoccupi, dottor Vitali. Lo so che la coscienza di Imma è assai più specchiata della mia. E comunque… sarebbe possibile avvisare Angelo, che non faccia idiozie?”

 

“Ci penserò personalmente a parlare con lui. Immagino che l’ormai ex avvocato voglia mantenere la buona condotta per arrivare il più presto possibile a misure alternative al carcere. Quindi… ci penso io,” si impegnò Vitali ed Imma in quel momento lo ammirò molto, pure più di quanto fosse arrivata a fare quando lavorava per lui, anche se ci era voluto molto tempo.

 

Non era coraggioso come lei o come Mancini, ma alla fine, quando c’era da rimboccarsi le maniche e tenere il punto su qualcosa di importante, lo sapeva fare.

 

“Dottoressa, prima di tutto questo però, lei ne deve parlare subito con Giorgio. Io posso tenere la vicenda riservata per qualche giorno, tra me, il brigadiere qua presente e poco altro ma… non posso tenere questo ritrovamento nascosto per sempre, anche perché questi beni di immenso valore vanno tenuti in debita custodia.”

 

“Eh… magari evitando che il deposito delle prove finisca in fumo pure stavolta!” esclamò, senza riuscirsi a trattenere, “e comunque voglio parlare a Mancini tra poco, lo chiamerò e-”

 

“Dottoressa, dia retta a me… per fargli digerire una simile patata bollente a Mancini, meglio che gli parli di persona, a quattr’occhi. Ed è meglio che non sia qui, anzi che non siate qui quando uscirà la notizia. Consiglio anche a lei, dottoressa Latronico, di andare in un posto tranquillo, lontano dal clamore.”

 

“Dottore, io non voglio dare l’impressione di scappare. E poi quei dossier-”

 

“Glieli terrò al sicuro, dottoressa, stia tranquilla. Ed eviterò di assegnare i casi riaperti a gente non di sua fiducia. Ma qua non si tratta di scappare, si tratta di non gettarsi inutilmente in pasto ai leoni, che è diverso.”

 

“Io… potrei andarmene nel mio casolare in Puglia….”

 

“Veramente, preferirei che venissi a Roma da tuo figlio. Almeno gli uomini di Mancini ti possono tenere d’occhio, che non ti succeda niente.”

 

Le parole erano state pronunciate così, senza pensare, e se ne stupì, mentre Chiara sorrise in un modo brillantissimo che le ricordava i pochi sorrisi pieni di Valentina, pre e post adolescenza.

 

“Sono d’accordo con la dottoressa Tataranni.”

 

“Io… è… è bello sapere che… che ti preoccupi per me e che non ti dà più fastidio che io stia a Roma.”

 

“Avrei detto lo stesso pure se al posto tuo ci fosse stato qualcun’altra, Chiara, ma-”

 

“Appunto. Qualcun’altra ma non io, fino a qualche mese fa, anzi, forse fino a qualche ora fa,” le fece notare, puntuta e con uno sguardo che, di nuovo, le ricordò tremendamente sua figlia.

 

Ed il peggio era che non c’aveva torto.

 

“Va beh… diciamo che… l’idea che stai a Roma è… meno peggio che qualche tempo fa.”

 

La risposta fu l’ennesimo abbraccio da boa constrictor. Ma che muscoli c’aveva Chiara in quelle braccia così minute?

 

“Che bello vedere una famiglia così riunita, al di là di tutto!”

 

Guardò Vitali, trovandolo commosso, gli lanciò un’occhiata come a dire ma che davvero?!

 

Ma, forse, era giunto il momento, finito tutto il polverone che le avrebbe investite, di dare a Chiara una possibilità vera di farsi conoscere e di conoscerla.

 

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“Ottà… ti capisco, eccome se ti capisco, ma porta pazienza che quasi ci siamo!”

 

Vedeva due zampe che cercavano di artigliare la grata del trasportino, mentre due occhi gialli la fissavano come a dire questa me la paghi!

 

Già era ancora incazzosa dal Giappone, figuriamoci mo.


“Capozza! Che non può guidare meglio?! Che dopo aver quasi fatto vomitare me chissà quante volte, il vomito di gatto se lo pulisce lei dai tappetini, se andiamo avanti così!” urlò, picchiando sul finestrino posteriore.

 

Sentì Chiara, seduta accanto a lei, ridere - almeno il mal d’auto non ce l’avevano in comune - mentre Capozza si voltò con un, “dottorè, se dobbiamo arrivare in fretta da sto Mancini….”

 

“Veloci magari sì, ma vivi! Guardi la strada, Capozza! Ottà, ringrazia che Calogiù guida bene, va, almeno lui!”

 

“Calogiuri è troppo prudente, dottoressa: un po’ di guida sportiva non ha mai fatto male a nessuno!”

 

“La invito a rivedere le statistiche delle morti per incidenti stradali causati dall’alta velocità, Capozza!”

 

“E comunque siamo a Roma!” annunciò lui, orgoglioso, puntando verso il cartello dell’autostrada che indicava l’uscita.

 

“A quest’ora ci stavamo pure con Calogiuri e senza aver voglia di vomitare pure il cenone di natale scorso, Capozza. Mo però rallenti un attimo, che devo chiamare il procuratore capo e vorrei evitare di fargli sentire i miei conati, grazie.”

 

Estrasse il cellulare, cercando di tranquillizzare Ottavia che fischiava come na pazza - e come non capirla? - e poi selezionò il contatto del procuratore capo.

 

Bastarono giusto un paio di squilli, nonostante fosse ormai l’una di notte passata, e Mancini subito rispose.


“Dottoressa?” le domandò, la voce assonnata ma pure preoccupata, “è successo qualcosa a Matera? Ci sono problemi?”

 

“In realtà sono a Roma, dottore, sto per arrivare a Tiburtina. Avrei bisogno di parlarle urgentemente di alcuni fatti che sono emersi.”

 

“Si tratta di qualcosa di grave, dottoressa, immagino?”

 

E mo era solo preoccupato.

 

“Sì, dottore. Ma per certi versi forse pure risolutivi. Ho bisogno di parlargliene in privato.”

 

“Può venire a casa mia, se vuole. Nel tempo che arriva da Tiburtina cerco di rendermi presentabile.”

 

Ci pensò un attimo. Erano quasi le due di notte e Calogiuri forse non ne sarebbe stato felice. Ma era solo lavoro.

 

“Va bene, dottore. A tra poco. Capozza, vada all’indirizzo del figlio di Chiara. Poi mi accompagna da Mancini e, mentre sto dal procuratore capo, mi riporta Ottavia a casa, prima che distrugga tutto.”

 

“Agli ordini, dottoressa!”

 

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“E dai, vieni a ballare! O senza Imma non balli?”

 

Melita gli sorrideva, i denti bianchissimi che contrastavano ancora di più con la pelle scura e la penombra del locale sulla spiaggia dove lo avevano portato lei ed i suoi amici.


“No, è che… da solo un poco mi vergogno. Mi hanno sempre detto che ballo in un modo strano.”

 

Sebbene fosse una scusa, alla fine era la verità: a parte i commenti terribili di Maria Luisa, ma perfino sua sorella tanti anni prima gli aveva detto che si muoveva come un orango.

 

“E allora balla con me, che in coppia lo sai fare, no? Poi mica sono balli lenti, che Imma si può ingelosire.”

 

“Va beh, ma Imma di me si fida, te l’ho detto,” rispose, decidendo di lasciarsi trascinare perché alla fine, ballando con lei, magari poteva parlarle senza che gli altri sentissero, grazie alla musica.

 

“A Maiorca me la ricordavo un poco più gelosa, ma devi essere stato bravo a rassicurarla allora,” rise Melita, prima di mettergli le braccia sulle spalle ed iniziare a muoversi in una specie di reggaeton, “io fossi in lei, lontana da qua, sarei molto gelosa di saperti a ballare. Ma sarà che ho sempre avuto ragazzi fin troppo gelosi. Sai, gli spagnoli in questo sono anche peggio degli italiani, quindi….”

 

“Immagino! Ma pure io sono geloso di Imma, eh, gelosissimo, solo che… mi fido di lei e la fiducia è ancora maggiore della gelosia.”

 

“Quando la guardavi ballare con Jonathan non mi sembravi così tanto zen,” lo punzecchiò, facendogli l’occhiolino, e si sentì arrossire.

 

Se ne era accorta allora.

 

“Ma tu non ti stanchi mai?” le chiese, per cambiare discorso, “è tutta la sera che balli, dove la trovi tutta questa energia?”


“Sono fuori allenamento in realtà ma… la spiaggia, i locali all’aperto… se mi concentro solo sulla musica e sul mare mi sembra di essere tornata a Maiorca.”

 

“Ti manca tanto?”

 

“Diciamo che… ci ho lasciato un pezzo di cuore… e forse pure un pezzo di me….”

 

Era malinconica, improvvisamente, tanto da sembrargli quasi sull’orlo di scoppiare a piangere. E poi la sentì inciampare e se la trovò addosso, riuscendo a tenerla appena in tempo, a peso morto, prima che cadesse sulla sabbia.

 

“Melita! Melita?!” gridò, accasciandosi insieme a lei e toccandole il viso.

 

Niente, era svenuta.

 

Per fortuna era un locale all’aperto e non erano schiacciati come in una discoteca normale.

 

Si guardò intorno, cercando gli amici di Melita.

 

Ma li vide dall’altra parte della pista, intenti a broccolare con due ragazze.

 

Sospirando, si caricò Melita in braccio e si avviò verso il bordo della pista, notando con disgusto che neanche uno della security si preoccupò che avesse una ragazza incosciente addosso.

 

Avrebbe potuto essere il peggiore dei criminali e nessuno avrebbe mosso un dito.

 

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“Dottoressa!”

 

Mancini le aprì, in jeans e polo.

 

L’informalità la mise ancora più in imbarazzo, perché le ricordò la sua visita precedente in quella casa.

 

“Si accomodi,” la invitò a passare, chiudendole la porta alle spalle, “ma che è successo? Sembra che abbia visto un fantasma e mi pare stanchissima, persino più di quando faceva i turni di notte.”

 

“Lo so, dottore, ma… è complicato ed è una storia lunga.”

 

“E allora vorrà dire che me la racconterà dall’inizio. Lo vuole un caffè? Ha cenato prima di venire da Matera?”

 

“No, non ho fatto in tempo, dottore, ma non voglio niente, tengo lo stomaco chiuso.”

 

E poi temeva sinceramente che, dopo aver saputo tutto quello che c’era da sapere, piatti e tazzina Mancini avrebbe voluto tirarglieli in testa, altro che cenetta.

 

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“Siamo quasi arrivati, forza!”

 

Stava provando a far salire Melita in ascensore ma lei barcollò e gli finì addosso. Alla fine riuscì col proprio peso a farle fare gli ultimi due passi necessari per richiudere la porta scorrevole.

 

Tenendola per le braccia, la condusse alla porta, cercò le chiavi di lei nella borsa, la aprì e si guardò intorno.


Per fortuna poco distante c’erano il salotto ed il divano.

 

Sempre a forza di braccia, ce la portò e provò a farla stendere, ma lei di nuovo inciampò e sul divano ci finirono tutti e due. Lui seduto con lei in grembo.

 

E poi notò, con ancora maggiore imbarazzo, che la profonda scollatura del vestito di lei si era spostata ed un seno era scappato fuori. Per fortuna aveva una specie di strana roba di plastica a coprirle il capezzolo, ma si sentì comunque tutto il sangue andargli in faccia.

 

“T-ti puoi coprire?” le chiese, non volendo certo toccarla lì e lei, sembrando ancora un po’ fuori fase, annuì e ripose il seno al suo posto, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

Forse però per lei lo era: in fondo a Maiorca molte ragazze immagine ballavano praticamente in topless.

 

Se la sollevò da in braccio e la aiutò a stendersi, prendendola poi per le caviglie e alzandole le gambe, facendo attenzione che la gonna rimanesse al posto suo.

 

“Sei sicura di non volere proprio andare in ospedale? Non è normale continuare a sentirsi svenire così.”

 

“Ma no… sarà solo un calo di pressione… forse non ho mangiato abbastanza.”

 

“Hai la macchinetta per misurare la pressione?”

 

“No, mica ho ottant’anni!” ribattè lei, con un sorriso debole.

 

“Dove lo tieni lo zucchero?”

 

“Nell’armadietto accanto al frigo.”

 

Annuì, le rimise le gambe sul divano e si avviò verso la cucina, aprendo l’anta che gli aveva indicato.

 

Oltre allo zucchero, c’erano alcuni integratori e medicine, ma nulla di utile per uno svenimento.

 

Prese due bustine di zucchero e tornò da Melita.

 

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“E quindi… per usare quei dossier e poter dare quel denaro in beneficenza, devo necessariamente rivelare da dove provengono e… la mia paternità.”

 

Mancini stava a bocca spalancata, ma notò ben presto un cambio netto nell’espressione e nel clima che irradiava.


Dalla preoccupazione e incredulità, pareva incazzato, anzi, proprio nero.

 

“Da quanto è che sa di questa storia che Latronico è suo padre, dottoressa?”

 

Rimase per un attimo interdetta, ma Mancini non era uno stupido, questo da mo lo aveva capito.

 

“Se lo avesse scoperto oggi, o pure solo da pochi giorni, sarebbe ancora sconvolta e di sicuro non penserebbe ai dossier e alla beneficenza.”

 

C’aveva ragione, c’aveva, la mente che le andava al pomeriggio passato a piangere a casa di Calogiuri a Matera, attaccata a lui.

 

“Dottore… ufficialmente, per quanto suggerirebbe Vitali, da mo… ufficiosamente… diciamo che questo fatto era emerso durante le indagini a Matera ed è uno dei motivi per cui ho chiesto che venisse trasferito il processo e di non occuparmi più io primariamente della difesa, oltre che per le ramificazioni di Romaniello nelle istituzioni locali.”

 

Mancini si levò gli occhiali, si massaggiò gli occhi e si passò una mano tra i capelli.


“Ma perché non me lo ha detto?!”

 

“Dottore… era una cosa che non doveva mai uscire, e che nessuno che ne era a conoscenza aveva alcun interesse a fare uscire. Latronico non l’ho mai conosciuto, se non quando ero troppo piccola per avere ricordi coerenti. E, con tutto il rispetto, quando mi sono trasferita di sicuro non volevo raccontare una cosa del genere e mettere la mia vita in mano ad uno sconosciuto, per quanto amico di Vitali.”

 

“Va bene, all’inizio, magari. Ma dopo lei avrebbe dovuto sapere di potersi fidare di me, con tutto quello che ho fatto per lei! E doveva rifiutare il caso in cui c’era coinvolto il figlio della Latronico: ora rischia di essere invalidato pure quello!”

 

“Quando mi ha assegnato il caso non sapevo del coinvolgimento di Galiano e poi… che dovevo fare? Venire da lei a dire che rinunciavo al caso? E con quale giustificazione? Inoltre si è trattato di un suicidio assistito, quindi non c’è un bel niente da invalidare. Ed io non ho mai in alcun modo favorito il Galiano, che si è pure fatto diversi mesi in carcere. Non ho mai frequentato Chiara Latronico, nemmeno successivamente, se non in rare volte che ci siamo viste mentre indagavo sulla mia… paternità. E quando ho capito di potermi fidare di lei, ormai il caso era chiuso, non c’era nessun reale colpevole, almeno non per la morte di Spaziani e… non aveva senso riaprire questa cosa che non aveva più nemmeno rilevanza.”

 

“Peccato che il maxiprocesso non sia finito, dottoressa, e perché farlo uscire ora? Per i soldi?”

 

“I soldi, come le ho già detto, se mi rimarrà qualcosa, li destinerò a qualche causa benefica. Ma i dossier… sa quante persone potranno avere finalmente giustizia? Magari troppo tardi ma….”

 

“Ma intanto ci andranno di mezzo tutte le persone coinvolte nel maxiprocesso e non rischiano di avere giustizia neanche loro!” esclamò Mancini, ancora furente, “e pure chi se ne occupa, tipo la dottoressa Ferrari e-”

 

Si bloccò, sembrando ancora più incazzoso.


“Il maresciallo Calogiuri sapeva già tutto, presumo?”

 

“La scelta di omettere questa vicenda personale è solo mia, dottore, come quella ora di uscire allo scoperto. Lasci Calogiuri fuori da questa storia!”

 

“Sarà difficile lasciarlo fuori, visto che si occupa tutti i giorni del maxiprocesso, dal quale dovrebbe essere rimosso e-”

 

“Mi posso fare io da parte, dottore,” lo bloccò, perché non voleva assolutamente che Calogiuri avesse problemi al lavoro per lei.

 

Ah, quello è sicuro, dottoressa, ma il suo rapporto con il maresciallo ed il suo lavorare nella stessa procura dove si svolge il processo…. Per intanto si tenga i giorni di ferie che si è già presa e poi vedrò come fare riguardo alla sua posizione e a quella del maresciallo. Su di lui dovrà decidere anche Irene, visto che la sta aiutando molto.”

 

Sospirò: aveva già capito, dal tono e dal modo di fare di Mancini, che lei stava fresca ma… Calogiuri magari una possibilità ancora ce l’aveva.

 

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Aprì la porta di casa e trovò soltanto il buio.

 

“Calogiuri?” chiamò, ma l’unica risposta fu un miagolio un poco incazzoso e due occhi che brillavano.

 

“Ottà! Che non è ancora tornato Calogiù?” le chiese, accendendo la luce e la micia rispose con un sopracciglio alzato che pareva un secondo te? non verbale, prima di allontanarsi con aria ancora offesa.

 

Del resto, dopo la guida di Capozza, altro che offesa poteva essere!

 

Guardò l’ora: ormai erano quasi le quattro del mattino.

 

Decise di chiamarlo, preoccupata, pure se era in missione.

 

Qualche squillo e sentì la voce stanca di lui dire, “pronto?”


“Calogiù! Ma dove stai?” gli domandò e sentì una voce femminile chiedere, “ma è Imma?”

 

“Sto da Melita, a casa sua. Si è sentita male, è svenuta e pure adesso sembra molto debole. Sto cercando di convincerla ad andare al pronto soccorso, ma lei niente, è di coccio.“

 

Sentì una mezza fitta di gelosia, ma alla fine Calogiuri aveva risposto subito e poi… sapeva quanto fosse professionale e pure la sua smania da crocerossino. La reticenza di Melita ad andare in ospedale però era strana.

 

“Ascolta,” gli disse in un sussurro, perché Melita non potesse sentire nemmeno vagamente, “devi cercare di parlarle non appena si sente un poco meglio. Un’occasione del genere probabilmente non si ripresenterà più.”

 

“Va… va bene,” lo sentì rispondere e udiva chiaramente che fosse felice e sollevato.


“Lo sai che mi fido di te, maresciallo. Ma torna presto che… sono qui a Roma e ti devo parlare molto, ma molto seriamente.”

 

“Mo mi preoccupo, però. A dopo.”

 

Mise giù la chiamata e sospirò.

 

In un secondo, nel silenzio e nella calma di quell’appartamento, fu come se le arrivasse addosso tutto insieme. Comprese le lacrime.

 

Per la sua carriera e la sua reputazione che sarebbero andate ancora di più in frantumi. Per il futuro di Calogiuri. Perché forse si sarebbero dovuti dividere nuovamente, proprio mo che speravano in un figlio. E poi… perché su due padri che avrebbe potuto avere, di fatto non ne aveva avuto nessuno. E forse era stato meglio così, anzi, sicuramente era stato meglio così ma… avrebbe voluto parlare con sua madre, sfogarsi, chiederle tante cose, e non poteva più farlo.

 

Un tocco sul polpaccio la fece sobbalzare. Abbassò gli occhi ed era Ottavia, che la fissò per un attimo, con i suoi occhioni gialli, e poi, con un balzo felino, il suo peso le finì in grembo.

 

Le vibrazioni ed il rumore delle fusa sulla pancia, come non gliele faceva da prima del Giappone.

 

Se la accarezzò e poi si distese, piazzandosela sul petto, “tu capisci tutto, eh, Ottà?” le chiese, occhi negli occhi, “mannaggia a te! Che ci voleva tutto sto casino per farci fare pace?”

 

Per tutta risposta, se la trovò appallottolata al collo e le venne ancora di più da piangere, ma di commozione.

 

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“Spero di non averti creato problemi con Imma.”

 

“No, no, come ti ho già detto si fida di me.”

 

“Ma, se si fida, come mai è sveglia a quest’ora?”

 

“Soffriamo entrambi un poco di insonnia quando non stiamo insieme,” buttò lì, perché era la prima scusa che gli era venuta in mente e, in fondo, era pure la verità.

 

Melita fece un’altra di quelle espressioni indefinibili e poi il volto le si contrasse in un lamento.

 

“Senti, è chiaro che non stai bene. Perché non vuoi andare al pronto soccorso? A quest’ora ce la caviamo in fretta. Se ti succede qualcosa è una mia responsabilità che ero con te e non ti ho soccorso adeguatamente, sia eticamente che da un punto di vista lavorativo: sono sempre un pubblico ufficiale.”

 

“De- devo andare in bagno!” esclamò lei e, con un sospiro, ce la portò praticamente in braccio e si assicurò che fosse seduta prima di uscire per lasciarle la sua privacy.

 

Ma alla fine il lavoro era lavoro e quindi, anche se si sentiva un poco un maniaco, si mise ad origliare.

 

Melita aveva aperto l’acqua ed i suoni erano molto ovattati, ma gli parve che stesse parlando al telefono.

 

Il flusso d’acqua si interruppe e la sentì chiamarlo.

 

Aprì la porta con un poco di esitazione e per fortuna era vestita, per quanto succintamente.

 

“Va bene… portami al pronto soccorso. Ma non sarà niente, già te lo dico.”

 

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Sono al pronto soccorso, Melita è a farsi visitare e la sto aspettando. Mi puoi dire che succede?

 

No, Calogiuri, devo farlo di persona. Anche se forse già te lo puoi immaginare. Ti aspetto a casa. Ti amo.

 

Quel ti amo da un lato lo sollevò, che sicuramente ciò di cui doveva parlargli non fosse qualcosa di successo per colpa sua, d’altro canto però… lo preoccupò ancora di più. Imma non era una che lo diceva sovente o con leggerezza, scriverlo ancora meno.

 

Il fatto che fosse venuta di corsa a Roma, dopo quello che era successo a Matera… non prometteva bene.

 

“Ippazio.”

 

Sollevò lo sguardo e trovò Melita, ancora un poco grigia in volto ma che sembrava molto più tranquilla, “tutto a posto, niente di grave.”

 

“Ma che ti è successo?” le domandò, sapendo che non poteva certo parlare con il medico ed accertarsi che lei dicesse il vero.

 

“Cose… cose da donne….”

 

Si sentì avvampare, però pure sua sorella era svenuta una volta in quel periodo del mese.

 

“Va bene, dai, ti riaccompagno a casa.”

 

“Ma no, tanto ormai è mattina, il taxi posso prendermelo pure da sola, così tu te ne prendi uno per casa.”

 

“No, ti riaccompagno, non che stai di nuovo male, pure se è una cosa che si risolve da sola.”

 

Per fortuna sembrava molto meno traballante e riuscì a camminare senza aiuti fino al taxi che aveva chiamato.

 

Diede al tassista l’indirizzo di Melita e, dopo poco che il taxi procedeva nelle strade sgombre - ancora per poco - della capitale sentì qualcosa sulla spalla.

 

Guardò Melita, temendo che fosse svenuta, ma pareva dormire.

 

“Ehi…” la toccò su un braccio, per accertarsi che fosse solo quello.

 

“S- scusa ma… mi hanno dato un antidolorifico e… sono un po’ intontita.”

 

“Tranquilla, e poi siamo quasi arrivati.”

 

La strada dell’appartamento di Melita gli apparve poco dopo. Pagò il tassista e la aiutò nuovamente a salire le scale e la accompagnò fino al divano, dove lei si lasciò cadere, esausta.

 

“Hai… hai bisogno di aiuto per metterti a letto? Cioè… non in sensi strani e-”

 

La sentì ridere, ma scosse e il capo e gli fece segno accanto a lei sul divano.

 

Si sedette, chiedendosi se fosse finalmente giunto il momento di parlare o se, con le medicine, si sarebbe di nuovo addormentata.

 

“Lo so. Sei un bravo ragazzo tu. Sei sicuro che ad Imma non abbia dato fastidio che siamo stati tutta la notte insieme, vero?”

 

“No, no. Si fida di me e… e pure di te.”

 

Melita fece una smorfia.


“Che c’è, hai ancora male?”

 

“Un po’. Ma… più che altro ti invidio, vi invidio, tanto… ad avercelo un rapporto così! E invece io-”

 

“Bella come sei c’avrai la fila.”

 

“Sì… come no: la fila di maiali. E pure tra i maiali riesco sempre a scegliermi quello sbagliato. Ma le scelte si pagano. Care. E alla fine intorno c’hai solo terra bruciata.”

 

“In che senso? Ma i tuoi amici?”

 

“Amici? Conoscenti, che è diverso. Io non so quasi nulla di loro e loro non sanno quasi nulla di me. Ma è meglio così.”

 

“Perché? Che succederebbe se… se sapessero qualcosa di te?”

 

Melita si morse il labbro, come se fosse terribilmente indecisa se parlare o no, l’espressione di chi stava ad un bivio.

 

“Sei… sei finita in qualche brutto giro?”

 

Melita scoppiò a ridere, ma era una risata amara.


“Brutto è dire poco. Ma se entri non ne esci più, non sulle tue gambe almeno.”

 

Provò come una morsa allo stomaco, la voglia di strozzare l’avvocato o chi per loro.

 

“Se mi dici di che si tratta ti posso aiutare, ti possiamo proteggere.”

 

“Non penso che mi potete proteggere, nessuno lo può fare.”

 

“Imma ha scardinato un’organizzazione criminale che comandava a Matera da secoli, certo che può farlo.”

 

Di nuovo quell’espressione strana, poi Melita si passò una mano davanti agli occhi e sospirò.

 

“Mi… mi sto frequentando con uno potente. Un avvocato. Credo che tu ed Imma lo conoscete, lavora proprio al processo su Matera. Ci siamo incontrati in un locale, una sera che non stavo lavorando da un po’ e… avevo bisogno di lavoro e di soldi. Diciamo che… è uno che sa usare gli argomenti giusti e poi… non gli si può dire di no.”

 

“Ma quindi ti obbliga a… a stare con lui?”

 

“Diciamo che… ho sentito alcune cose che non avrei dovuto sentire e….”

 

“Se sai cose su di lui, Imma ed io, e pure la PM che si occupa del maxiprocesso, ti possiamo dare ancora più protezione. Non permetterò che ti succeda niente di male, te lo prometto,” le garantì, prendendole le mani e guardandola negli occhi.

 

Per tutta risposta, Melita scoppiò a piangere. Gli venne spontaneo abbracciarla: sembrava una bambina, con la testa bassa ed il corpo scosso dai singhiozzi.

 

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“Bel lavoro, Calogiuri, sarò lì tra poco! Meglio non farla venire in procura, per la sua sicurezza.”

 

Chiuse la chiamata con Irene e selezionò il contatto di Imma. In fondo, per le parti importanti del maxiprocesso, era stata sempre presente anche lei.

 

“Calogiuri? Ma stai ancora al pronto soccorso? Come va?”

 

“No… no… siamo a casa e… se vuoi venire qua… Melita ha bisogno di... parlare.”

 

“Parlare? La gattamorta lo sa?”

 

Gli venne da ridere che Imma, pure nel conversare in codice, non si trattenesse dalle frecciatine su Irene.

 

“Sì, lo sa. Ci raggiunge.”

 

“Bene. Allora ti aspetto a casa, Calogiù, mo non posso proprio venire.”

 

“Come non puoi?”

 

“Ne parliamo a casa, non ti preoccupare. Sono fiera di te.”

 

Di nuovo, non avrebbe saputo dire se fosse di più la contentezza o la preoccupazione.

 

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“Già da poco dopo che ci siamo conosciuti… ho notato che mi faceva seguire, che mi controllava spesso. Che non gradiva che facessi alcuni tipi di lavori. E… a quel punto sono rimasta con lui per paura, sperando che si stancasse presto di me. Ma poi… da quando ho assistito a un incontro tra di lui e… alcune persone poco raccomandabili… ne ho avuta ancora di più e le cose sono peggiorate.”

 

“E chi sarebbero queste persone poco raccomandabili?” chiese Irene, con un sopracciglio alzato.

 

“Gente potente che sta a Milano. Noi ci vedevamo a Roma perché a Milano lui si sentiva troppo controllato.”

 

Ecco perché tutte le intercettazioni ed il lavoro di Ranieri non avevano portato a quasi nulla!

 

“Va bene, ascolti, io adesso le mostro delle foto, deve dirmi se riconosce qualcuno.”

 

Irene estrasse il suo tablet, mentre lui ancora scriveva la deposizione e mostrò a Melita alcune foto.

 

Prima dei politici coinvolti nel caso di Milano e poi di membri della famiglia malavitosa locale, quella che c’entrava con chi aveva ammazzato la madre di Bianca.


“Lui e… lui e lui,” disse Melita, decisa.

 

“Ne è sicura?” chiese Irene, lanciandogli un cenno di intesa.

 

Perché una delle tre foto era del figlio del Boss.

 

Sarebbe stato un colpo incredibile per loro.

 

“Sì.”


“Di cosa avete parlato? E come mai l’avvocato l’ha voluta presente in un colloquio così… delicato?”

 

“Il problema era proprio questo. Lui non voleva che ascoltassi, anzi, ma… sono arrivati all’improvviso in un locale, qua a Roma. Stavamo nel privè. Ci hanno praticamente accerchiati al tavolo e si sono seduti con noi. E hanno iniziato a parlare. Ho capito poco ma… discutevano di un processo a Milano e hanno detto all’avvocato che doveva far condannare il suo cliente ma solo lui o avrebbe fatto una brutta fine.”

 

“Il capro espiatorio, insomma,” sospirò Irene, che non sembrò sorpresa del metodo, facendogli di nuovo un cenno col capo.


“Non so ma… da lì lui ha iniziato a minacciarmi, dicendo che dovevo dimenticare quello che avevo sentito e che se non stavo zitta… mi ci avrebbe fatto stare lui zitta e per sempre. E io avevo paura. Paura di lui, paura di… di quei tizi di Milano perché poi… ho capito chi erano esattamente e… praticamente mi costringeva ad uscire con lui e controllava ogni mia mossa.”

 

“Ma allora come mai non ha avuto obiezioni alle sue uscite con il maresciallo?”

 

“Perché la prima volta è successo per caso e… poi gliel’ho dovuto dire ovviamente. Mi ha lasciato uscire di nuovo con Calogiuri ma voleva un rapporto dettagliato di… di quello che ci dicevamo… insomma… gli dovevo fare la spia.”

 

Lo sguardo di Melita era carico di dispiacere e di nuovo di qualcosa di strano ma lui cercò di rassicurarla, “non ti preoccupare, lo capiamo che c’avevi paura. Ti terremo sotto scorta e presto l’avvocato non potrà più fare niente.”

 

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Aprì piano la porta, per non rischiare di svegliare Imma, anche se ormai erano le dieci di mattina.

 

Fece due passi e la vide distesa sul divano, la testa poggiata sopra ad un braccio.

 

Non riusciva ancora a capacitarsi di quanto fosse bella.

 

Si avvicinò, con l’intenzione di portarla a letto, ma lei aprì gli occhi, che tradivano una stanchezza incredibile, mentre una pallotta di pelo si alzò dal suo fianco, stiracchiandosi.

 

“Dovevi andare a letto.”

 

“Eh… come facevo a dormire? E non solo per te ma… ti devo parlare,” gli rispose, mettendosi anche lei a sedere con un movimento felino quasi come quello di Ottavia, che le toccava la mano col muso.


“Avete fatto pace?”

 

“Sì, l’unica buona notizia di oggi.”

 

“Non l’unica: Melita collaborerà e ha confessioni risolutive da fare sia per il caso di Milano che per quello di Roma.”

 

Si trovò seduto sul divano senza quasi accorgersene, Imma che lo abbracciava forte, “bravo, Calogiuri, anzi, bravissimo! Però… ho purtroppo delle brutte notizie da darti e-”

 

“E non possono aspettare dopo qualche ora di sonno?”

 

“No. Io… ho detto tutto a Mancini e… e mi ha detto che per ora me ne sto in ferie e poi deciderà. Ma sicuramente non potrò più occuparmi del maxiprocesso, neanche alla lontana. Su di te valuterà il da farsi ma… per me la vedo grigia, Calogiù. Dubito che mi permetterà di continuare a stare qua a Roma.”

 

Fu come una doccia gelida, anche se era già consapevole che la possibilità ci fosse. Ma che mandassero via Imma, come se fosse una criminale, non lo poteva accettare.

 

“Ma non può e-”

 

“Sì che può. Forse… forse avrei dovuto dirgli prima di Latronico e ho sbagliato ma… la verità era che temevo non accettasse il mio trasferimento qui, anche se solo temporaneo, di non poterti raggiungere. E poi… non volevo separarmi da te. Ma mo….”

 

“Se te ne vai tu, me ne vado anche io e-”

 

“No. Tu a Roma devi stare, Calogiuri, per il concorso ed il corso: è un ordine! Io troverò una soluzione, vedrai. Mo però portami a letto, maresciallo. Solo per dormire,” precisò, con un sorrisetto.

 

“Dopo stanotte, anche volendo, non credo avrei la forza per fare altro, dottoressa.”

 

“Non mi sfidare che poi sai che succede… ma meglio che ci facciamo una bella dormita prima.”

 

La prese in braccio e, quando lei si strinse forte al suo collo, provò la stessa assurda tenerezza che aveva provato la prima volta che lo aveva fatto, ormai diversi anni prima.

 

Ed era certo che, almeno quello, non sarebbe cambiato mai.

 

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“E quindi ora Melita sta in un luogo protetto, almeno finché non avrà testimoniato.”

 

“Bene! Sono contenta! Sia per il processo che per lei che… si è tirata fuori dai guai. E tu sei stato bravissimo a farla parlare.”

 

“Grazie…” le sussurrò, toccandosi il collo: era incredibile come, nonostante tutti gli anni passati, fosse ancora così felice ed imbarazzato ad ogni riconoscimento lavorativo che gli dava.

 

“Oggi devi andare in procura?” gli chiese, prendendo un morso del bombolone che lui aveva cavallerescamente procurato.

 

“No, no. Il weekend ce lo dovrei avere comunque libero e-”

 

Una specie di esplosione di trilli, notifiche e vibrazioni lo interruppe.

 

Imma guardò il cellulare suo e poi quello di Calogiuri. Erano impazziti entrambi.

 

“Guardi tu o guardo io?” le domandò lui, preoccupato, perché sapeva esattamente, come lo sapeva lei, cosa doveva essere successo.

 

“Guarda tu. Io non so se c’ho la forza,” sospirò, lasciandosi andare sulla testiera del letto.

 

“Vitali e Mancini… hanno fatto un comunicato ufficiale. C’è un articolo sul sito del corriere. Vuoi che ti leggo?”

 

“E leggi….”

 

Il dottor Vitali ed il dottor Mancini hanno indetto un’ora fa una conferenza stampa congiunta per rivelare che è stato scoperto un caveau nelle campagne di Matera, in un’abitazione appartenente a Cenzino Latronico, imprenditore edile accusato di essere stato uno dei cardini del clan malavitoso che dominava su Matera e buona parte della Basilicata. Il dottor Vitali ha dichiarato che, da alcuni elementi rinvenuti nel caveau, appare evidente come Cenzino Latronico ritenesse che la dottoressa Imma Tataranni fosse in realtà sua figlia, seppur illegittima e mai riconosciuta. Il ritrovamento è stato possibile grazie alla collaborazione di Chiara Latronico con la dottoressa Tataranni e poi con la squadra di Matera. Il dottore ha dichiarato che i beni ritrovati nel caveau, insieme ad importanti incartamenti, saranno conservati in attesa di accertare, tramite test del DNA, la fattiva paternità della dottoressa Tataranni. Alle domande su dove si trovasse la dottoressa, il dottore ha risposto che, a seguito di vicende così scioccanti, la dottoressa starebbe vivendo un momento di ritiro e riposo. Ai dubbi sollevati al dottor Mancini su come queste rivelazioni scottanti potranno influire sul maxiprocesso, in cui ricordiamo che Angelo Latronico, presunto fratello della dottoressa, è uno dei testimoni ed imputati principali, il dottor Mancini ha risposto che la dottoressa si è immediatamente offerta di non occuparsi più, neppure come consulente, del maxiprocesso. E che finito il suo periodo di riposo, si valuterà il da farsi, perché, a detta del dottor Mancini, il primario interesse di tutti, compreso quello la dottoressa, sarebbe non compromettere il maxiprocesso per un legame di sangue ancora da accertare con un uomo che, secondo quanto asserito dal procuratore capo, la dottoressa non ha mai frequentato né conosciuto da che ne ha coscienza e che risulta quindi un perfetto estraneo per lei. Cosa che, a quanto pare, sarebbe confermata dai documenti rinvenuti nel caveau. Stanti le parole pronunciate in conferenza stampa, ci chiediamo quindi se questo processo realmente potrà non risultare irrimediabilmente viziato nella fase investigativa e se, oltre alla dottoressa, anche il suo giovane compagno, anzi, promesso sposo, secondo alcune voci raccolte negli ambienti della procura, si farà da parte.

 

“E chissà di chi sono ste voci raccolte negli ambienti della procura! E comunque Vitali e Mancini hanno salvato il salvabile ma… se già questo giornale è così, figuriamoci gli altri,” Imma era amara, disillusa, e questo gli fece malissimo, “e poi non… non avrei voluto che il nostro fidanzamento uscisse fuori in… in questo modo. Che le reazioni sarebbero state pessime lo sapevo ma… non voglio che ti mettano in mezzo a questa storia di mio padre.”

 

Vide Calogiuri spalancare gli occhi e non capì.

 

Fino a che realizzò di aver chiamato Latronico mio padre.

 

“Va beh… tecnicamente è quello che è. In realtà non è stato un vero padre, ma non lo è stato nemmeno Rocchino Tataranni, quindi… per fortuna c’ho avuto mamma. Ma… credo di capire mo, molto alla lontana, il conflitto di Chiara nei confronti di… di nostro padre. Era il demonio di Matera, ma era pure un essere umano, con delle idee in testa sulla morale, sull’etica e sulla famiglia completamente assurde. Ma pur sempre umano era.”

 

“Beh… io gli sono grato soltanto perché ti ha messa al mondo, per il resto tu sei tu e sei quello che sei soltanto grazie a te stessa.”

 

“In buona parte sì ma… se sono quello che sono oggi, rispetto a quattro anni fa, il merito un poco è pure tuo, Calogiuri.”

 

“Eh… sai che merito… che rischi di perdere il lavoro!”

 

“Ma sono felice e non ho più paura di chi sono davvero. E questa libertà vale più di tutto il resto, pure del mio lavoro.”

 

Si sentì stringere forte forte.

 

Ma poi squillò il maledetto cellulare.

 

Avrebbe voluto non rispondere, ma era Mancini.

 

Mise il vivavoce.

 

“Pronto, dottore?”

 

“Dottoressa, non so se ha visto le dichiarazioni mie e di Vitali e le reazioni dei media.”

 

“Le dichiarazioni le ho appena lette, dottore, le reazioni dei media, no ma posso immaginarle.”

 

“Ecco, appunto. Ho chiesto un test del DNA di urgenza. Oggi pomeriggio alle ore quindici deve recarsi presso l’istituto di medicina legale, per il tampone.”

 

Mancini era meccanico, gelido, pure più di prima.

 

“Va bene, dottore, sarà fatto.”

 

“Per il resto vi consiglio di stare il più possibile in casa e di non farvi vedere in pubblico, a lei e al maresciallo. C’è una folla di giornalisti fuori dalla procura ancora adesso, probabilmente sperano di vedervi arrivare.”

 

“D’accordo. Grazie per… il consiglio. A fare il tampone andremo in moto, dovrebbe essere più difficile bloccarci.”

 

“Dica al maresciallo che sto leggendo la sua trascrizione delle ultime dichiarazioni rese. Ne parleremo lunedì nel mio ufficio. La saluto.”

 

Ammazza che freddezza!

 

“Hai sentito?”

 

“Sì, e ovviamente ti accompagno dottoressa. E lunedì sentirò che ha da dirmi.”

 

“Vediamo ste reazioni della stampa, Calogiù, tanto non lo possiamo evitare.”

 

I titoli erano i più fantasiosi da Latronico o Tataranni? a La Pantera di Matera cambia cognome e non solo per le nozze a La Pantera, Il Toyboy ed il Demonio fino ad un simpaticissimo Tataranni figlia del Demonio! ad opera di Zazza e Lucania news.

 

“Ci mancava un fotomontaggio di me con la bimba dell’Esorcista e stavamo apposto.”

 

“Veramente lo hanno fatto ma con Rosemary’s baby, che a quanto pare è una storia su-”

 

“Sì, una incinta del demonio. Andiamo bene, proprio, e-”

 

Squillò di nuovo il telefono, ma stavolta era quello di Calogiuri.

 

Lo vide sbiancare, che già era pallido di suo.

 

“Che c’è? Mancini?”

 

“No, molto peggio!” rispose lui, mostrandole il display.

 

Mamma

 

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“Ca' davvèr te fidanzàst cu chella senzà ricere nientè? Disgraziat’ si!”

 

“Mà…” sospirò, alzando gli occhi al soffitto, “non ho bisogno del permesso per fidanzarmi, che trent’anni tengo. E poi, con quello che è successo l’ultima volta che ci siamo visti, non pensavo proprio che volessi sentirmi.”

 

“Eh certò ca' nun te volevò sentirè! Ppe me tu nun esistì cchiu'!”

 

E si sentì attaccare il telefono in faccia.

 

“Ha saputo del fidanzamento e non l’ha presa bene?”

 

Imma lo guardava da mezza distesa sul letto, e poi gli porse la mano e lui gliela strinse.

 

“Diciamo di sì, dottoressa. Ma peggio per lei.”

 

Si sentì tirare giù e finì con la testa sul petto di Imma, il solletico dei suoi baci tra i capelli.

 

Quanto era fortunato!

 

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“Fammi sapere come va con Mancini. Subito, mi raccomando!”

 

“Tranquilla, dottoressa. Appena ho notizie ti chiamo.”

 

Un bacio e Calogiuri sparì dietro alla porta.

 

Ottavia la guardò, confusa, e le girò tra le caviglie.

 

“Eh… non sei abituata a non vedermi andare al lavoro, eh, Ottà? Temo che ci dovremo abituare tutte e due.”

 

Nemmeno l’avesse chiamato col pensiero, il suo cellulare squillò, il nome di Mancini che fu una botta d’ansia.

 

Che la chiamasse prima di parlare con Calogiuri… poteva essere un ottimo o un pessimo segno.

 

“Dottore, mi dica.”

 

“Ho ricevuto in anteprima i risultati del test del DNA, dottoressa, che confermano quello che lei si immagina.”

 

Mancini pareva sempre più un automa nelle sue telefonate, o quella scassapalle della signorina di google.

 

“Capisco. Ma immagino non sia questo l’unico motivo della chiamata.”


“No, infatti. Dottoressa… in seguito alle dichiarazioni di Melania Russo, in arte Melita, è stato deciso il rinvio della prossima udienza qua a Roma, a febbraio, in attesa che la Russo possa testimoniare al processo a Milano e per dare tempo alla difesa di prepararsi, visto che molto probabilmente l’avvocato verrà sospeso dall’incarico.”

 

“E questo… era prevedibile, dottore, ma non è un cattivo segno, se la fanno testimoniare a Milano, pure se chiunque l’avvocato sceglierà per sostituirlo le preparerà un plotone di esecuzione.”

 

“No, infatti. Probabilmente si avvarrà del suo braccio destro, più giovane ma assai tosto… come bisogna essere per lavorare in quello studio legale.”

 

“Capisco. Quello che non capisco è perché mi sta dicendo tutto questo, visto che devo tenermi lontana dal maxiprocesso, a quanto ho capito.”

 

“Ed è proprio per questo che glielo anticipo, dottoressa. Il maresciallo Calogiuri, per quanto lei sa che non approvo in tutto i suoi metodi ed ho spesso dubitato di lui, ha probabilmente portato a casa non uno ma due processi con la testimonianza della Russo. Irene insiste che deve continuare ad occuparsi del caso, che è il suo braccio destro e quindi… nonostante il vostro legame personale, non lo rimuoverò dal maxiprocesso.”

 

Prima una botta di sollievo. Ma sapeva che c’era un ma nell’aria.

 

“Ma….”

 

“Ma sarebbe meglio per tutti se lei tornasse a Matera, dottoressa. Non può più occuparsi del maxiprocesso e, visto il legame con il maresciallo, la sua presenza in procura è ormai….”


“Scomoda?” sospirò, i suoi peggiori timori che diventavano realtà.

 

Ma erano giorni che ci pensava e sapeva cosa doveva fare.

 

“Dottore, ho… ho intenzione di chiedere l’aspettativa. Dopo tutti i miei anni di servizio mi spetta. Capisco che la mia presenza geografica a Roma possa comunque suscitare delle critiche ma… starò ben lontana dalla procura, salvo mi sia richiesto, glielo garantisco.”

 

Silenzio dall’altra parte della linea.

 

“Va bene, dottoressa, è un suo diritto. Sta arrivando il maresciallo. Le consiglio di evitare di venire in procura a ritirare i suoi effetti personali almeno per qualche giorno. Sarebbe preferibile glieli riportasse il maresciallo.”

 

Ammazza, pareva un’appestata, pareva!

 

“Va bene,” acconsentì, perché sapeva di non poter fare altrimenti, e chiuse la comunicazione.

 

*********************************************************************************************************

 

“Che cosa?!”

 

“La dottoressa Tataranni ha chiesto l’aspettativa, maresciallo. Mi invierà documentazione ufficiale ovviamente. Immagino che lei non sia sordo.”

 

Strinse i pugni ai fianchi, non solo per la battutina, ma perché Imma in aspettativa… non ci poteva credere!

 

“Ma… ma non è da lei e-”

 

“L’alternativa era il ritorno a Matera, maresciallo. In ogni caso non le sarebbe stato possibile tornare a lavorare qui.”

 

“E perché?! Perché è stata onesta, invece di nascondere tutto sotto la sabbia?!” esclamò, furioso.

 

Onesta. Onesta con un paio di anni di ritardo, maresciallo. E, in ogni caso, le consiglio di rivedere il suo tono e di essere grato di avere la possibilità di continuare a prestare servizio qui e a lavorare al maxiprocesso. In condizioni normali le avrei dovuto togliere il caso. Ma devo ammettere che con la Russo è stato bravo. Non butti la sua carriera per niente.”

 

“Imma non è niente!”

 

“La dottoressa ha fatto la sua scelta, sicuramente anche per lei. Poi se vuole farsi sospendere pure lei, maresciallo, non ha che da dirmelo e provvederò con molto piacere.”

 

Contò fino a dieci, perché aveva una voglia matta di saltare addosso a Mancini e spaccargli la faccia. Ma Imma poi gliel’avrebbe spaccata a lui e non voleva dargli soddisfazione a quello stronzo. Come minimo, se Imma ci fosse stata con lui e se non avesse sfoggiato l’anello di fidanzamento, col cavolo che a quest’ora le avrebbe impedito di stare lì.

 

Ma doveva parlare con Imma, perché non poteva accettare che lei si sacrificasse in quel modo per lui, a costo di farsi Matera - Roma in bus ogni fine settimana.

 

*********************************************************************************************************

 

“Non puoi fare questo per me e-”

 

Alzò una mano per fargli segno di starsene zitto un attimo, perché era tornato dalla procura come una furia e le aveva fatto una capa tanta da farle venire il mal di testa.

 

Era tenero, da un lato, ma la sua pazienza non era infinita, nemmeno con lui.

 

“Calogiù, tu mi conosci, lo sai che quando prendo una decisione quella è, no?”

 

“Sì, ma non sei mai stata senza lavorare!”

 

“E mica mi sto licenziando, Calogiuri. Sarà questione di qualche mese. Tu ti fai il concorso e si spera il corso, così potrò aiutarti con lo studio e… potremo concentrarci sulle frecce. Magari nel frattempo, se tutto va bene, avrò la possibilità di prendere la maternità e, dopo che avrai passato il corso, decideremo insieme dove andare a stare.”

 

“Ma io ti conosco, dottoressa. Tu a casa non ci resisti, già hai faticato in questo periodo e-”

 

“E mica devo restare murata viva come la monaca di Monza! Ho comunque i processi già avviati da portare a termine, tranne il caso Spaziani, ovviamente. Nel frattempo ho sentito Vitali, spiegandogli la mia posizione - anche se praticamente lui già la sapeva da Mancini - e, in via non ufficiale, mi farà contribuire ai casi trovati nel dossier, perché dovrò istruire chi verrà incaricato ufficialmente. E poi… in qualche modo faremo. Ma di sicuro non voglio stare tutti questi mesi senza di te e, soprattutto, non voglio mollarti qua da solo con tutti i casini, con il maxiprocesso, il concorso ed il corso. Mal che vada, vorrà dire che organizzerò il matrimonio nei minimi dettagli.”

 

Per tutta risposta, Calogiuri rise e la guardò in quel modo amorevolmente esasperato che adorava.


“Non ti ci vedo proprio a fare la Wedding Planner, dottoressa. A perdere ore per scegliere le bomboniere e tutte quelle robe lì.”

 

“Ah, nemmeno io mi ci vedo… e scordati il matrimonio in grande stile ma… almeno tu hai più tempo di pensare allo studio, se ti fidi del mio gusto, naturalmente…” lo provocò, con un sopracciglio alzato.


Si trovò aggrappata in un mezzo abbraccio.

 

“A me basta sposarti, dottoressa, pure se mi dovessi tappezzare la sala comunale di drappi leopardati.”

 

“Scemo!” gli disse, dandogli un colpo, “ma ti amo lo stesso, mannaggia a me!”

 

“Pure io, dottoressa. E non dimenticherò mai quello che stai facendo per me.”

 

*********************************************************************************************************

 

“Che cos’è Calogiuri, la tua bella non ha più il coraggio di farsi vedere qui e devi farle tu le pulizie di primavera?”

 

Guardò verso la porta dell’ufficio di Imma.

 

Lui ed Asia stavano raccogliendo gli oggetti personali di lei e già era incazzato nero all’idea che non potesse nemmeno farlo lei di persona, anche se da un canto si era risparmiata l’umiliazione.

 

Ma vedere il sorrisetto di quel cretino di Carminati era pure peggio.

 

“La dottoressa ha più coraggio di dieci di te messi insieme, Carminati. Sul cervello non ne parliamo, perché uno zero moltiplicato per qualsiasi numero uno zero resta.

 

“Mo che non c’è più lei a coprirti le spalle, dovrai abbassare la cresta, maresciallo. Che mo non sappiamo neanche se diventerai il signor Tataranni o il signor Latronico.”

 

Strinse i pugni ma non voleva dargli soddisfazione.

 

Si avvicinò a Carminati, lentamente, guardandolo dritto in faccia e vide un lampo di paura in quegli occhietti da topo.

 

“Forse non hai capito, Carminati. Io non ho alcuna cresta da abbassare o alzare. Sono il tuo superiore e tu mi devi trattare con rispetto. Alla prossima battuta di questo genere, ti faccio rapporto, includendo un elenco dettagliato di tutto ciò che hai detto e fatto in questi mesi, e vediamo dove finisci a lavorare. E mo torna al lavoro che il tuo turno non è finito e oggi sei pure entrato dieci minuti dopo.”

 

Carminati sbiancò e si levò di torno.

 

Non ci sperava del tutto che la piantasse, ma… doveva reggere il fortino anche per Imma.

 

“E bravo, Calogiuri! Vedo che sei migliorato nel farti rispettare!”

 

Si voltò verso la porta e sorrise.

 

*********************************************************************************************************

 

Suonarono alla porta.

 

Strano. Aspettava Calogiuri di ritorno dal lavoro e… con gli effetti personali che aveva lasciato in procura.

 

Da un lato si era risparmiata l’umiliazione, dall’altro… neanche un addio aveva potuto dare a quel posto dove aveva trascorso quasi due anni di vita.

 

I più belli, oltre che i più assurdi.

 

Guardò dallo spioncino e si trovò di fronte una chioma biondissima.

 

“Mariani?!” chiese, sorpresa, aprendo la porta, per poi esclamare, vedendoci meglio, “Conti? Che ci fate qua? Vi ha mandato Mancini?”

 

“No, no, ci siamo mandati da soli e… abbiamo i suoi effetti personali, dottoressa, il resto è in macchina e lo sta portando su Calogiuri, possiamo entrare?”

 

Ancora sorpresa, li fece passare e, dopo poco, sentì i passi un poco goffi di Calogiuri salire le scale.

 

Fece entrare pure lui e chiuse la porta.

 

“Che… che è questa rimpatriata?”

 

Mariani mollò i sacchetti che aveva in mano e, mentre gli altri due facevano lo stesso, estrasse da uno una bottiglia di spumante.

 

“Lo so che… non c’è molto da festeggiare, dottoressa, ma… volevamo darle un saluto come si merita e poi… dobbiamo ancora farvi le congratulazioni per le nozze. E… volevamo farle sapere che ci siamo, dottoressa, per qualunque cosa.”

 

“Sì, siamo dalla sua parte, dottoressa,” confermò Conti, con una decisione talmente inusuale per lui che la fece commuovere.

 

“E non perché siamo amici di Calogiuri, eh. Che Conti qua ogni tanto fa pure ancora l’offeso ma… non si merita quello che le sta capitando e spero davvero che possa tornare presto al lavoro.”

 

“Ne dubito, Mariani, ma… vi ringrazio ragazzi, non so cosa dire….”

 

“E allora nel dubbio stappiamo lo spumante ed apriamo i pasticcini,” ribattè Mariani e le venne voglia di abbracciarla.

 

La vecchia Imma si sarebbe trattenuta.

 

Lei lo fece, nonostante la bottiglia che le finì dritta dritta sulla schiena, facendole un male cane.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua. Il primo dei Grandi Casini è scoppiato ma siamo solo all’inizio: nel prossimo capitolo scoppierà pure tutto il resto. Avrei voluto arrivare a IL Grande Casino principale ma… sarebbero venuti due capitoli insieme e ho pensato fosse meglio dividere. Imma deve starsene a casa, ma riuscirà veramente a stare lontana dalle indagini? E, soprattutto, come andrà a finire con Melita e Milano e Roma? Sarà realmente tutto finito o… siamo solo all’inizio?

Dal prossimo capitolo entriamo nel vivo dell’ultimo vero giallo di questa storia, che sconvolgerà tutto e tutti, minando tutto alle fondamenta. Il rosa… ci sarà ma… dopo il dolce sta arrivando l’amaro, quindi preparatevi, sapendo che comunque il finale sarà lieto ma… prima ci sarà molto ma molto da faticare.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che la storia continui a mantenersi interessante. Vi ringrazio per avermi seguita fin qui, ringrazio chi ha recensito la mia storia e chi l’ha messa nelle preferite o nelle seguite.

Come sempre le vostre recensioni e i vostri pareri oltre a farmi un piacere enorme e a motivarmi tantissimo mi aiutano a capire cosa c’è da correggere nella scrittura.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 28 marzo. In caso di ritardo di qualche giorno, avviserò sulla mia pagina autore qua su EFP.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 57
*** Le Frecce ***


Nessun Alibi


Capitolo 57 - Le Frecce


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Allora, ti piace l’appartamento?”

 

“N- non lo so. Sinceramente sono spaventata, che me ne frega dell’appartamento?”

 

Sospirò: non poteva darle torto.

 

Aveva appena accompagnato Melita, dopo giri e depistaggi infiniti, nell’alloggio dove sarebbe stata sotto protezione.

 

Alla fine avevano deciso che era meglio Roma di Milano e che nella città sarebbe stato più difficile trovarla che in un paesello, visto che non sarebbe passata esattamente inosservata dalle comari di provincia.

 

“Devi stare tranquilla. Avrai sempre un agente di guardia in portineria, lo sai, qualsiasi cosa lo chiami. E….”

 

“E mi tocca stare in prigione. A me e non a quegli stronzi!” esclamò lei, incrociando le braccia e sembrando sull’orlo del pianto.


“Lo so, ma… ma vedrai che presto staranno quasi tutti dentro e poi…”

 

“E poi ci sarà l’appello a Milano e… e comunque dovrò continuare a guardarmi le spalle.”

 

“Non per sempre. Una volta che ci sono le sentenze… sarai più libera, vedrai. E… lo so che non è facile stare sempre chiusi in casa, ma… magari potrai poi andare in Spagna, no? O all’estero, da qualche parte. Se hai paura dell’italia.”

 

“Forse…” sospirò lei, non sembrandogli molto convinta.

 

Del resto Melita era intelligente, molto, e sapeva benissimo le conseguenze della sua confessione.

 

“Ma… a parte l’agente qua sotto… dovrò sempre stare da sola o… tornerai pure tu a trovarmi?”

 

“Non dipende da me ma… penso che ci rivedremo ancora per le varie deposizioni e poi, se hai bisogno, il mio numero ce l’hai.”

 

“Sì, sul mio cellulare nuovo, irrintracciabile, niente social. Mi sembra di essere diventata un fantasma.”

 

“Lo so, ma è per la tua sicurezza. Mi raccomando!”

 

“Agli ordini, maresciallo!” gli rispose, ironica, prima che lui si congedasse.

 

*********************************************************************************************************

 

“Pronto?”

 

“Che è sto tono formale, Calogiù? Non sei solo?”

 

“No, infatti.”

 

Guardò Irene che ricambiò in modo incuriosito.


“C’è la cara Irene?”

 

“Sì.”

 

“Allora…” gli sussurrò, in un modo che gli mise un brivido, perché erano giorni che stavano in astinenza forzata, con l’approssimarsi dell’ovulazione, “puoi tornare in pausa pranzo? Ho fatto il test e… è ora.”

 

Da un lato era un’ottima notizia, sia perché Imma pareva avere un’ovulazione abbastanza regolare, secondo i conteggi, sia perché… non vedeva l’ora pure per altri motivi ma… mo come faceva a spiegare questo rientro improvviso ad Irene, che le pause pranzo se le faceva sempre in ufficio per tornare prima la sera, se poteva?

 

“Irene… scusami ma… ci sono problemi per te se oggi vado a casa in pausa pranzo?”

 

Irene fece un’espressione strana ma scosse la testa, “no, fai pure. E se è Imma, salutamela!”

 

“Hai sentito?” chiese ad Imma e lei sospirò e si congedò con un “ossequi alla cara ex collega!” prima di chiudere la conversazione.

 

“Ti… ti saluta pure lei.”

 

“Sì… immagino come…” rise Irene, prima di aggiungere, più seria, “non resiste tutto il giorno da sola? Perché la capirei: io impazzirei senza il lavoro.”

 

“Imma ha parecchie cose di cui occuparsi e… e ogni tanto mia sorella le appioppa pure Noemi, quindi….”


“Non ce la vedo Imma a fare da baby sitter. Ma Noemi la adora ed è una bambina molto sveglia. A proposito, Noemi e tua sorella come stanno? Si stanno ambientando?”

 

“Bene, grazie. Mia sorella è in prova in un centro estetico e Noemi è all’asilo e poi appunto, ogni tanto viene da Imma e me. Per fortuna fa amicizia facilmente.”

 

“Eh… beata lei!”

 

“Come va con Bianca?”

 

“Un poco meglio ma… non ancora abbastanza da mandarla a scuola con gli altri bimbi.”

 

“Potremmo farla frequentare con Noemi, no? E magari poi con le sue amichette. Alla fine si erano state simpatiche. Se ti va bene….”

 

“A me andrebbe pure bene, ma non so se vada bene a tua sorella o a Imma, che non credo mi voglia per casa.”

 

“E va beh… alla fine c’è pure altra gente e comunque Imma mo si fida di me molto di più di prima.”

 

“E menomale! Che se non si fidasse ancora, con tutto quello che stai facendo per lei, sarebbe proprio paranoica!” esclamò, facendogli l’occhiolino.

 

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“Mamma mia!”

 

Le mancava il fiato: era stato tutto velocissimo, del resto tra lei e Calogiuri… cinque giorni di astinenza sembravano un’eternità, anche perché pure prima avevano potuto stare insieme molto meno del solito, con tutti i casini successi.

 

E mo quell’impunito la guardava con un sorrisetto e si avvicinava per darle un bacio, mentre sentiva una mano scenderle lungo il fianco, facendole il solletico.

 

“Che fai?”

 

“Come che faccio? La pausa pranzo è ancora lunga, dottoressa, e abbiamo gli arretrati da recuperare!” le rispose, in un modo che le fece maledire la ginecologa, tutte le nozioni apprese e le fece per un attimo pensare di mandare tutto a quel paese.

 

“Aspetta!” lo bloccò, fermandogli le mani, “mo non si può. Devo… devo stare ferma e… con le gambe sollevate. E non per quello che piacerebbe a te!” precisò, notando come l’espressione di lui, da ringalluzzita che era, passò al confuso.

 

“Per aumentare le possibilità di concepimento, Calogiuri. Non possiamo fare il bis mo. Magari domani.”

 

La faccia di lui le ricordò tantissimo quella di Noemi quando le veniva negata la seconda porzione di dolce. Le venne da ridere, ed un poco si intenerì, “mi dispiace, ma-”

 

“Va bene, dottoressa. Per le frecce questo e altro. Ma nei prossimi giorni recuperiamo con gli interessi!” le sorrise infine, dandole un bacio e alzandosi dal letto, “meglio che mi vado a fare una doccia gelida mo… che a vederti così non aiuta. Poi ti faccio il pranzo e te lo porto qua?”

 

“Va bene…” annuì, dandogli un’ultima carezza.

 

Era un santo, il suo Calogiuri.

 

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“Quali sono le diverse fattispecie che può assumere il reato di omicidio?”

 

“Allora… omicidio colposo, omicidio doloso, omicidio preterintenzionale, poi… infanticidio in condizioni di… di abbandono morale e materiale-”


“Sarebbe materiale e morale, per la precisione. E poi?”

 

“E poi… e poi….”

 

“Dai, Calogiuri.”

 

“Istigazione al suicidio e… omicidio del consenziente!”

 

“Bravo, Calogiuri! Anche se pure un poco meno entusiasmo, visto l’argomento!” lo sfottè, facendogli l’occhiolino.

 

“Mo però possiamo fare un poco di pausa, dottoressa?”

 

“Sì, ma lo sai che non posso darti il solito premio… ancora per qualche giorno.”

 

Pure il mese prima era andato a vuoto, nonostante le cure, e la ginecologa si era raccomandata di stare in astinenza pure una settimana prima dell’ovulazione presunta e poi di farlo di più nei giorni subito successivi.

 

Non vedeva l’ora arrivasse st’ovulazione, perché non ne poteva più di fare test e, soprattutto di dover negare a se stessa e a Calogiuri uno dei pochi piaceri che ancora erano loro concessi. A lei soprattutto, che a casa friggeva e, dopo aver fatto le pulizie autunnali, aver sistemato tutto il sistemabile e letto tutti i dossier di Vitali, smaniava per avere più cose da fare.

 

“Va bene, agli ordini! Che vuoi fare?”

 

“Ci guardiamo un film? Niente scene d’amore però! Che qua stiamo già messi male!”

 

“Possiamo guardarci un film Disney allora, dottoressa, o un film horror.”

 

“Meglio di no, che in quelli spesso gli adolescenti ingrifati fanno di tutto prima che inizino gli omicidi e gli squartamenti. La disney è più sicura. Ah, prima di scegliere il film… ho guardato un po’ di opzioni per le nozze e… avrei trovato un posto, credo. Ti va bene se… se fisso una data per quest’estate?”

 

“Lo sai che io ti sposerei pure domani, dottoressa!”

 

“Non prima che il corso sia finito, maresciallo!” gli ricordò, piantandogli un dito nello sterno.

 

“Sempre se passo l’esame…” sospirò lui.

 

“Ma certo che lo passi! Se continui a studiare così, però! E poi… almeno se con le frecce non andasse bene… possiamo tentare prima con l’adozione, che i tempi sono lunghissimi.”

 

“Ma tu non ti devi scoraggiare dopo un paio di tentativi andati male, lo sai.”

 

“Lo so ma… non è facile, Calogiù. Anche perché so che sto chiedendo diversi sacrifici pure a te!”

 

“A me basta stare con te, lo sai. E... vorrà dire che avrò più tempo e motivazione per lo studio nei giorni di… pausa.”

 

Se lo abbracciò e gli diede un bacio.

 

Era più che santo, il suo Calogiuri.

 

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“Eccoci qua.”

 

Trattenne la voglia di alzare gli occhi al soffitto che aveva sempre quando sentiva quella voce.

 

“Ciao!”

 

Si concentrò sulla seconda voce e le venne invece da sorridere: due occhioni la guardavano nascosti tra i capelli ricci ricci.

 

“Ciao Bianca! Ti posso prendere la giacca?”

 

La bimba annuì, si sfilò il giaccone autunnale con un’eleganza degna di Irene, e glielo passò con una timidezza adorabile.

 

Sentì un miagolio e qualcosa tra le caviglie e vide Ottavia che si faceva avanti.

 

Trattenne il fiato ma Bianca si illuminò, si abbassò ed Ottavia le saltò in braccio.

 

Bianca non fece una piega e se la coccolò, ridendo. Imma incrociò gli occhi di Irene che sembrava sbalordita. In effetti lo era pure lei.

 

“Dai, venite sul divano, che tra poco dovrebbero arrivare Noemi e Rosa e-”

 

“Si può?”

 

Nemmeno l’avesse invocata, Rosa bussò alla porta aperta e ci fece capolino.

 

E poi un uragano la superò e le si buttò in braccio con un “Tataaaa!!!!”

 

“Noè…” rispose, cercando di sollevarla, perché era sempre più pesante, anzi pesantiella, come avrebbe detto Vitali.

 

“Tio dov’è?”

 

“A comprare i pasticcini per voi pozzi senza fondo,” spiegò, rimettendola a terra e facendole l’occhiolino.

 

“Biantaaa!!”

 

Nel giro di due secondi, Noemi si era aggrappata anche a Bianca e a Ottavia, che saltò in spalle alla cuginetta giusto in tempo prima di finire schiacciata.

 

Imma stava per prendersi un colpo, ma Bianca di nuovo rise e si abbracciò all’altra bimba.

 

“Andiamo a giotae mentre tonna tio?” le chiese poi, con un tono deciso che era decisamente di Rosa ma non di Calogiuri.

 

“Va bene…” sorrise Bianca, lasciandosi prendere per mano e trascinare via verso il salotto, dove Noemi aveva lasciato un po’ di giochi per quando stava da loro.

 

“Grazie per… per l’invito. A Bianca stare con Noemi fa proprio bene.”

 

Stranamente, Irene le parve sincera. Ma, del resto, che volesse un bene dell’anima a Bianca non l’aveva mai dubitato.

 

“Figurati, sai che non ho alcun problema con Bianca. Intanto che torna Calogiuri… vuoi qualcosa da bere?” si obbligò ad essere civile, facendole segno verso la cucina, “non ho il tè, io, ma ho il caffè. Decaffeinato però. Se no, ci sono le bibite per le bimbe: aranciata, gazzosa ed il tè freddo.”

 

“Va bene il decaffeinato,” rispose Irene, con un tono un poco strano, sedendosi al bancone vicino alla cucina.

 

Imma si mise a preparare il caffè - che a lei e a Calogiuri le robe delle cialde non piacevano, per non parlare poi di quella marca che appestava la questura a Matera e stava ovunque, che ormai al solo sentirla nominare le veniva l’orticaria.

 

“Ma… state provando ad avere un bambino?”

 

Le cadde il misurino dalla mano, la polvere che si sparse per mezza cucina. Si voltò di scatto e la fissò.

 

“La ginecologa?” chiese, sapendo benissimo che le amiche, specie nei circoli della cara Irene, non si sapevano tenere un cecio in bocca.

 

“Ma figurati! No, è che ho visto le pillole sul bancone. Le prendeva pure una mia amica, quando lei e la sua compagna dovevano andare a fare l’inseminazione in Spagna.”

 

“No, ecco, qua i soldi per l’inseminazione in Spagna non ci stanno,” sospirò, cercando di tagliare corto, “ma sì, ci stiamo provando, perché, è un crimine?”

 

“No, anzi, ma… da te non me lo aspettavo, Imma. Ma tante cose non mi sarei aspettata da te…” commentò Irene, con un tono ed un’espressione strani.

 

E poi, mentre beveva il caffè e finché non arrivò Calogiuri, la beccò a guardarla diverse volte, in modo strano, pensieroso, quando non stava ad osservare le bimbe che giocavano.

 

*********************************************************************************************************

 

“Sono a casa!”

 

Nessuna risposta. Strano, ma la luce era accesa.


Andò in cucina e vide Imma che era al bancone che impastava qualcosa, sbattendo la pallotta sul legno con una tale forza che ne percepiva la vibrazione fin sul pavimento.

 

“Che t’ha fatto di male quella pasta?”

 

“Niente: sto facendo le orecchiette, che almeno tengo qualcosa da fare! Tra mezz’ora è pronto e poi studiamo, che siamo indietro sulla tabella di marcia!”

 

“Agli ordini, dottoressa!” rispose, ironico, ma lei lo fulminò con una mezza occhiataccia e poi continuò a impastare.

 

Fece i conti mentalmente se potesse esserle giunto il ciclo, cosa che incideva molto sul suo umore ultimamente, rendendola particolarmente rabbiosa o triste, anche se negli ultimi mesi era molto irritabile in generale. Ma no, ancora doveva arrivare l’ovulazione… il motivo non poteva essere quello.

 

E poi si ricordò che era inizio novembre. Già l’anno prima Imma era stata un poco di cattivo umore all’avvicinarsi del suo compleanno, tanto che non aveva nemmeno osato accennarglielo.

 

Sospirò ed andò in camera, intenzionato a levarsi tutto e farsi una doccia, ma ci trovò Ottavia, arrotolata sotto una sedia, con un musetto un po’ preoccupato.

 

“Mamma è troppo incazzosa pure per te? E dai, che ci hai tenuto il muso per più di un mese tu, signorina!”

 

Ma la micia si produsse in un suono lamentoso e poi gli si buttò in braccio.

 

Ruffiana che era!

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma quando arriviamo?”

 

“Dobbiamo fare un giro lungo, lo sai. Tra poco però ci siamo.”

 

La sentì sospirare, dal sedile posteriore.

 

Melita era dovuta andare in procura per mettere a verbale una deposizione da inviare ai colleghi di Milano e lui stava facendo di tutto per accertarsi che non fossero seguiti.

 

“Ma sei sempre così prudente?”

 

“Ti ho promesso che non avrei permesso che ti accadesse nulla, no?” le ricordò, guardandola dallo specchietto e lei sorrise.

 

E, finalmente, furono davanti al condominio di lei. Mise l’auto nel garage a lei riservato e salirono insieme con l’ascensore interno.

 

Le aprì la porta dell’appartamento, accertandosi prima che non ci fosse nessuno e poi, ignorando la sua occhiata al soffitto, la fece entrare.

 

“Se non hai bisogno di altro, mo vado e….”

 

“Veramente avrei bisogno di sapere che c’hai.”

 

“Come?”

 

“Ti vedo giù di morale: di solito sei sempre sorridente, oggi sembri… spento. Ci sono problemi?”

 

Si stupì: Melita oltre che intelligente, coglieva proprio tutto.


“No, è che… sono un po’ stanco e poi… Imma è un poco nervosa, col fatto che, non so se lo sai, ma non può lavorare, e altre cose….”


“Eh, la capisco, pure io mi sento in gabbia. Ma perché non è tornata a Matera? O non si fida a saperti lontano?”

 

“No, no, si fida, ma è che…”


“Che?”

 

“Niente… è una storia lunga.”

 

“E ho tutto il tempo di ascoltarla, che non c’ho nient’altro da fare. Allora?”

 

Non poteva dirle dei tentativi di avere un figlio, anche se… a chi avrebbe potuto raccontarlo Melita? All’agente di guardia? Ma non voleva nemmeno dire una bugia.

 

Quindi le disse una mezza verità.

 

“Ti ricordi il concorso che ti dicevo, per passare di grado? Imma mi sta dando una mano a studiare e… e poi tra il corso, se mi prendono, e il maxiprocesso, saranno mesi molto pieni per me e… voleva starmi vicino per darmi una mano. E poi sta preparando il matrimonio, anche se non so ancora dove, che mi sta facendo una sorpresa.”

 

L’espressione di Melita si fece strana, ma poi gli occhi le diventarono lucidi lucidi.

 

“Che c’è?”

 

“No, niente… è che… forse sarà che sto tanto chiusa qua, ma sono più sensibile del solito. Vai da Imma e stalle vicino. E non ti preoccupare.”

 

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“Allora, Calogiuri? Quanti libri ha il codice di procedura penale? Dai che stasera sei pure rientrato tardi e stiamo ancora più indietro sul programma di studio!”

 

Con i numeri a memoria era tremendo, lo sapeva, ed Imma pure. Le norme erano meglio, perché lei gli spiegava la ratio legis, come la chiamava lei, e se le ricordava più o meno… ma tutte ste cifre….

 

“Dodici?”

 

“Sì, mo, come gli apostoli Calogiuri! No! E dai, concentrati! Questa è la quarta volta che te lo chiedo in questi giorni!”

 

Il tono di Imma quasi lo fece sobbalzare: era dall’inizio della loro collaborazione e da quando era incazzata con lui per Matarazzo che non la sentiva così sarcastica con lui su qualcosa di lavoro.

 

“Tredici?”

 

“Se… con Gesù Cristo! Chi offre di più? Mica stiamo dal salumiere!”

 

“E allora dimmelo tu!” sbottò, perché il tono di lei cominciava a dargli sui nervi.

 

Ma, in effetti, era da quando era tornato quella sera che Imma rispondeva a monosillabi e sembrava incazzosissima, pure più dei giorni precedenti. Faticava a studiare con lei così: gli ricordava le sue insegnanti peggiori e si bloccava.

 

“Undici, Calogiuri! Undici! Possibile che non riesci a farti venire in mente niente per ricordartelo?”

 

“Sì, il tuo compleanno, che è tra due giorni, l’undici undici. E che probabilmente è il motivo per cui stai così, ma a me non me ne frega niente della tua età, non sono il tuo pungiball e non ne posso più!”

 

Imma si bloccò e lo guardò, mentre lui si tappava la bocca, perché alla fine era sbottato.

 

Si aspettava un’esplosione. Imma invece scoppiò a piangere, lasciandolo spiazzato.

 

E poi facendolo sentire una merda.

 

“Imma, io… scusami, ma….” le disse, alzandosi e girando intorno all’isola della cucina per avvicinarsi a lei, anche se un poco temeva a toccarla.

 

“No, scusami tu….”

 

Quelle tre parole lo preoccuparono ancora di più.

 

E poi la toccò sulla spalla e se la trovò tra le braccia.


“Lo so che… non è giusto sfogarmi con te… ma mi sento… mi sento così inutile e vecchia e-”

 

“Non sei vecchia e, se tu sei inutile, tutto il resto dell’umanità non ha speranza, dottoressa.”

 

La sentì sorridergli sul collo.

 

“Come posso farmi perdonare? Che certe cose non le possiamo fare… a parte che... per quel che serve trattenersi….”

 

“Devi permettermi di festeggiare il tuo compleanno. Ormai sono passati un po’ di mesi dalla storia di… di tuo padre, i giornalisti si saranno stufati e direi che un’uscita ce la meritiamo. Andiamo in un bel locale e festeggiamo come si deve. Che ne dici?”

 

“Per me c’è poco da festeggiare ma… va bene. In effetti è da tanto che non usciamo più.”

 

“E mi devi promettere che vivrai tutta questa cosa più serenamente. A me basta stare con te e non so più come fartelo capire. Se avessi un figlio ma non avessi te, non sarei felice, anche se lo amerei moltissimo e farei di tutto per farlo crescere bene. Con te sono felice invece, senza bisogno di altro.”

 

“Ora, ma-”

 

“Dottoressa, questo discorso lo abbiamo già fatto tante volte. E ti ha detto pure la ginecologa che devi essere serena, che se no ti blocchi psicologicamente. Non voglio vederti star male. Piuttosto puoi tornare a Matera, così puoi riprendere a lavorare e… possiamo provare poi con più calma dopo il matrimonio.”

 

“Perché posso riprendere a lavorare o perché non mi sopporti più?”

 

Il tono era ironico, ma ormai riconosceva quando l’umorismo di Imma nascondeva un’insicurezza.

 

“Lo sai che non mi staccherei mai da te. Tranne quando esageri, che non posso starmene zitto, ma basta che te ne rendi conto e-”

 

“E che non divento la nuova Maria Luisa?” gli chiese e finalmente si staccò dal suo collo e, nonostante gli occhi lucidi e il tono un poco amaro, sorrideva.

 

“Non credo che ci sia il pericolo, neanche alla lontana.”

 

“Lo so ma… fai bene a mettermi un freno quando esagero. E comunque… se mi puoi ancora sopportare… io da qua non mi muovo. Ce ne andremo insieme quando sarà il momento.”

 

E si sentì appoggiare la fronte sulla sua.

 

La loro promessa.

 

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“Sveglia, dottoressa!”

 

Lo guardò e poi guardò l’ora: erano le otto di mattina.

 

Ultimamente dormiva male e quindi si svegliava tardi.

 

“Ma che ci fai ancora qua? E il lavoro?”

 

“Oggi niente lavoro, ma ti devi preparare che ti porto in un posto.”

 

“Calogiuri…” sospirò: era l’undici novembre e lei compiva quarantasette anni.

 

Altro che voglia di festeggiare aveva.

 

“Dottoressa, hai promesso!”

 

“Va bene, va bene, ma… pensavo… una cena… mica una colazione.”

 

“Basta che ti vesti comoda, al resto ho già pensato a tutto io,” le disse, mostrando i due trolley piccoli pronti in fondo alla stanza.

 

“Ma quando...? Che sto sempre in casa?”

 

“Beh non quando meni la pasta o sei in bagno, dottoressa.”

 

“Ma Ottavia?”


“Stiamo via per una notte sola e… viene mia sorella con Noemi a farle compagnia.”

 

Gli sorrise e decise di andarsi a preparare, in fondo in fondo molto curiosa di dove sarebbero andati.

 

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“Calogiuri, ma….”

 

Avevano girato in una stradina sterrata, nelle campagne laziali e ora vedeva una specie di masseria e, soprattutto, dei cavalli che vagavano in un recinto.

 

“Allora, vediamo se ti piace il programma della giornata: cavallo, poi la spa che mi hanno detto che è molto bella e infine la cena. Che ne dici?”

 

“Che è il compleanno più bello della mia vita, Calogiù, mannaggia a te che mi fai commuovere!” esclamò, allungando il collo per dargli un bacio e chiedendosi come avesse fatto a meritarsi tutto questo amore e tutta questa pazienza.

 

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“Vedo che avevi appetito!”

 

“Ma che scherzi? Tra il cavallo e poi massaggi e idromassaggi… morivo di fame, Calogiù. E poi tutta questa roba tipica, genuina, anche se ho visto che hai rispettato i dettami della dottoressa e niente salumi.”

 

“E va beh, dottoressa… lo sai che sono ligio. E sono felice che la cena ti sia piaciuta e che ti sia ritornato il tuo solito appetito!”

 

Le venne un poco una fitta al petto: era vero, per via della dieta della ginecologa e con tutto lo stress, mangiava con molto meno piacere di prima. Ma lì era tutto buonissimo.

 

“A proposito di appetito… e mo che c’è di dolce?”

 

Calogiuri fece un segno alla cameriera e, dopo poco, si trovò con davanti una torta con sopra una sola candelina - cavaliere sempre, Calogiuri! - e con un groppo in gola.

 

“Non sapevo bene cosa ti piacesse, allora nel dubbio ho fatto fare una torta con la crema pasticcera e la meringa, che so che ti piacciono.”

 

“Na botta di zuccheri, insomma! Ma stasera ci sta tutto! Anzi, facciamo pure il brindisi, che ne dici?” decise, buttando al vento le paranoie.

 

Alla fine manco era in ovulazione, e comunque le probabilità non sarebbero cambiate di molto.

 

Vide Calogiuri sorridere felice e fare segno per una bottiglia di spumante.

 

“Al primo compleanno tuo che sono riuscito a festeggiare con te, dottoressa, spero il primo di molti!”

 

“Lo spero pure io… e… grazie per… per avermi tirata un po’ fuori, Calogiuri. Ne avevo bisogno.”

 

Fece toccare i loro calici e bevve.

 

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“Calogiù… Calogiù… che fai?!”

 

Erano tornati in camera, lei si era messa in camicia da notte e aveva raggiunto Calogiuri a letto, ma mo lui era sparito sotto al lenzuolo.

 

“Usa la fantasia, dottoressa!” si sentì sussurrare nell’incavo del ginocchio, prima che l’impunito ci piantasse un bacio, “io per qualche giorno non posso, ma tu sì.”

 

“Calogiù!” gridò, ridendo per il solletico, prima di mordere il cuscino, per soffocare un altro genere di grida che sapeva sarebbe venuto di lì a poco.

 

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“Buon compleanno ancora, dottoressa!”

 

L’impunito era appena riemerso dalle lenzuola, con uno sguardo soddisfatto che era punibile in tutte le sedi civili, penali ed amministrative.

 

Ma mo… ci pensava lei, ci pensava!

 

Con le mani lo spinse sul materasso e gli finì addosso a cavalcioni.

 

“Ma… ma che fai?”

 

“Usala pure tu la fantasia. E poi è il mio compleanno e tu almeno in una cosa sei veloce, come ti ha detto l’andrologo, quindi… pure se facciamo un’eccezione… direi che non cambierà molto le cose!”

 

Lo vide ridere e lo azzittì con un bacio, come era da troppo che non succedeva.

 

Si promise di tornare ad essere più spontanea e rilassata, che fare l’amore tornasse ad essere un piacere e non solo fonte d’ansia, per tutti e due.

 

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“Pietro! Tutto bene?”

 

Era da parecchio che non le telefonava e quindi ovviamente si preoccupava che fosse successo qualcosa.

 

“Sì, ti… ti volevo dire che… che non so se quest’anno tu pensavi di scendere qua a Matera per Natale ma immaginavo di no e-”
 

“E infatti immaginavi giusto, Piè, che non è ancora il caso. Se vuoi sapere dove vuole stare Valentina, lo devi chiedere a lei.”

 

“No, è che… lo so che io mi sono già preso la pasqua e… allora pensavo di venire a Roma io. Così magari ci dividevamo cenone e pranzo, no?”

 

“A Roma? E mammà?” domandò, sbigottita, perché veramente era un evento inaudito.

 

“Mammà si arrangia, finché non chiede scusa a Valentina e un po’ pure a me può cuocere nel suo brodo.”

 

“Piè, guarda che già ci stanno tanti problemi al mondo, mo provocare l’apocalisse mi pare troppo.”

 

“Noto che l’umorismo non ti è cambiato. E comunque… diciamo che… con la separazione e poi la storia di Cinzia… e quella di Valentina… ho avuto modo di ragionare su un po’ di cose.”

 

“Ne sono veramente contenta, Piè, non sai quanto!” esclamò, ed era quello che sentiva davvero.

 

Forse per quello, forse per l’idea della tristezza di un pranzo o cenone in albergo, ma le scappò un, “ma perché non vieni a fare il cenone con noi? Cioè…  magari mo ci possiamo riprovare, senza che sembri la guerra fredda.”

 

“Cioè… il cenone con te, il maresciallo e Valentina?” 

 

“Beh, non solo. Ci saranno anche Penelope, Rosa e Noemi. E forse pure il marito di Rosa, se non è uccel di bosco.”

 

Silenzio, tanto che ebbe il dubbio che Pietro avesse riattaccato.

 

“Se sta bene a Valentina… perché no?”

 

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“Andiamo a prendere i dolci?”


“Sìììììììììììììì!”

 

Gli venne da sorridere: Noemi con i dolci era veramente un pozzo senza fondo.

 

Si scambiò uno sguardo con Rosaria, che però guardò subito il tavolo, come aveva fatto da quando si erano incrociati e gli era toccato stringere la mano a quel cretino del marito di lei.

 

Sembrava quasi arrabbiata con lui.

 

“Noi intanto scendiamo a fare due botti, che dici, Noè?”

 

“Ma è illegale e-” provò a protestare Imma, ma quel Neanderthal di Salvo la zittì con un, “da noi è tradizione! Già che ci tocca fare il natale qua e non a Grottaminarda!”

 

Rosa diventò fucsia e gli lanciò un’occhiataccia, ma lui si prese Noemi, mise i cappotti e dopo averle chiesto se non venisse pure lei ed essersi beccato un “no, grazie!”, si chiuse la porta di ingresso alle sue spalle.


“Scusate ma…” disse Rosa, rivolta però solo a Imma e al fratello, lui manco lo degnò d'uno sguardo.

 

“Non ti preoccupare. Noi andiamo a finire di preparare i dolci e i regali, no, Calogiù? Che Noemi mi sa che fino a mezzanotte non regge. Voi ragazze che fate?”

 

“Andiamo a controllare che Noemi non ci lasci le dita per la tradizione?” chiese Valentina, mentre Penelope rise.

 

Era felice, anzi, felicissimo, che pure Valentina pareva non sopportare Salvo.

 

“Papà, tu che fai?”

 

“Sapete che i botti li ho sempre odiati. I fuochi… quelli... sono tutta un’altra cosa….” disse, guardando verso Rosa che arrossì leggermente.

 

“Come vuoi… a dopo, si spera!”

 

Nel giro di pochi secondi, erano spariti tutti e lui era da solo con lei.

 

Che però pareva guardarlo male, con molta freddezza.


“Che c’è? Guarda che… è Imma che mi ha invitato e… e io non pensavo ci stesse pure lui, visto che non ci sta mai. E se vuoi mo me ne posso pure andare.”

 

“Adesso sarebbe peggio! Ma ho capito perché agisci così: hai deciso di fare succedere quello che non deve succedere!”

 

Senza sapere come, si trovò la mano in tasca e ne estrasse una lettera, con un sigillo arzigogolato ed una scrittura molto familiare.

 

“Hai ragione: è mia madre. Vuole sapere perché non vado a passare il natale con lei,” gli uscì, senza sapere manco bene il perché.

 

“E perché non sei partito?”

 

“Embè, quanno parli così me fai ascì pazzo! Insomma, io per te non so’ niente chiù? continuò, come se avesse il pilota automatico.

 

“Piè, io nun saccio io stessa c’aggia dicere!”

 

E poi lei lo guardò in quel modo e, prima di rendersene conto, quelle labbra erano sulle sue, il fuoco in corpo e quel sapore che gli mancava tanto, quel profumo di lenzuola stese al sole e-

 

“Tu si n’omm ‘e niente!”

 

Un colpo, un colpo dritto in faccia e si trovò a terra, Salvo che stava per scagliarsi di nuovo contro di lui, mentre Rosa si metteva in mezzo e sentiva Noemi piangere e Salvo che urlava, “scinne abbascio! Mo e’ scennere abbascio!”

 

Rosa urlò, “no!”, e poi udì dei rumori di passi alle sue spalle e si trovò davanti ad Imma e Calogiuri con gli struffoli, le cartellate e le strazzate.

 

“Beh, che succede mo? Che ci fai a terra, Piè?” gli chiese Imma.


“Salvo, che succede? Rosa?”

 

“Questa è sorretà! A vedi? Difende l’innamorato suo e voi sapevate tutto! Ruffiani!”

 

Vide Imma spalancare la bocca, aprirla e richiuderla un po’ di volte. Sentì il rumore dell’aria che si spostava mentre il maresciallo si scagliava contro di lui e poi l’infrangersi dei piatti ed il tonfo secco di Imma che cadeva a terra, svenuta, e Valentina che gridava, “papààà! Papààààà!” mentre Calogiuri lo strattonava e poi-

 

“Papààààà! We, ma ti vuoi svegliare o no?!”

 

Aprì gli occhi di scatto, tirando un profondo respiro: si trovò davanti a Valentì, che lo guardava, preoccupata, con su uno dei suoi pigiamoni invernali.

 

“Valentì!”

 

Si guardò intorno e si rese conto di essere nell’appartamento di Valentina, sul divano letto. Penelope sarebbe scesa quel giorno, in tempo per natale, e poi lui si sarebbe trasferito nel bed and breakfast, almeno fino a che non se ne sarebbero ripartite per capodanno.

 

“Ma che c’avevi? Un incubo? Che urlavi, dicevi delle cose strane, tipo su nonna, una lettera, e poi parlavi boh… sembrava napoletano.”

 

Si sentì avvampare: per fortuna che aveva capito solo quello. Meno che non conoscesse Natale in Casa Cupiello, che il suo inconscio, colpevole, gli aveva riproposto, con giusto qualche variazione sul tema.

 

“No, è che…”

 

“Che c’è?”

 

“Non so è che… stavo pensando che forse ad andare da mamma stasera… la metterò in imbarazzo, no?”

 

“Ma se ti ha invitato lei. Poi se non te la senti tu, è un altro discorso, ma proprio mo che state andando più d’accordo, non puoi non venirci!”

 

“Eh… tieni ragione, tieni…”  sospirò, sperando che non fosse un sogno premonitore.

 

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“Valentì! Penelope! Pietro! Auguri! Entrate e datemi i cappotti!”

 

“Mà, sei proprio in modalità casalinga perfetta, vedo! Anche se il tono resta un poco militare!”

 

“Tu invece sei proprio in modalità manco a Natale non sono sarcastica, vedo! Dai, forza, venite!” esclamò, per poi chiedere, con un poco di imbarazzo, mentre le porgeva il cappotto, “Pietro, come stai?”

 

“Eh… bene, grazie dell’invito…” le rispose, forzandosi di sembrare naturale, nonostante la situazione fosse strana e la preoccupazione per il sogno, “ti ho portato questo. L’abbiamo fatto io e Valentì!”

 

“Le strazzat’! Ottimo, che noi c’abbiamo cartellate, struffoli e un po’ di altre cose! Ma non stare lì impalato, vieni in salotto.”

 

E lui in salotto ci andò, con il fiato in gola, e la vide.


Ancora più bella del solito, tutta elegante, in un abito dorato. Lei lo guardò e poi subito abbassò lo sguardo.

 

Come nel suo sogno.

 

Forse aveva fatto male ad accettare l’invito, ma era convinto che Salvo non ci sarebbe stato.

 

Ed invece accanto a lei c’era proprio l’uomo che sembrava uscito dal paleozoico, vestito con un jeans, una maglietta ed una giacca di pelle tamarrissimi - anche se almeno si capiva da chi avesse preso ispirazione per gli outfit il cognato, seppur almeno evitando borchie, catene e strappi - e con una faccia da funerale.

 

In braccio a lei Noemi che, come lo vide, ululò “Piettto!” e si lanciò dalle gambe di sua madre per raggiungerlo ed abbracciargli le ginocchia, facendogli segno di prenderla in braccio.

 

Notò immediatamente sia l’imbarazzo di Rosa, sia l’occhiata omicida di Salvo.

 

Ma mica poteva deludere una bimba per non dare dispiacere a lui e quindi si abbassò e la sollevò, godendosi il suo risolino e poi, l’immancabile, “Pietto! Leccalecca?”

 

Per poco non gli cascò di braccia, talmente grande fu la sorpresa. E poi gli si appannò la vista, un po’ per l’orgoglio, un po’ perché si rese conto ancora di più da quanto tempo non la vedeva, la piccola ingorda.

 

“Hai imparato a dire la C?” le chiese, con un sorriso.


“Sìììì, sììììì! Me lo ha imparato Bianta!” esclamò Noemi e lui scoppiò a ridere, insieme a tutti i presenti, tranne Salvo.

 

“E brava Bianca, anche se magari un ripassino ogni tanto…”

 

“Ma chi è sta Bianca? La maestra?” chiese Salvo e calò il gelo sulla stanza, interrotto solo da Noemi che chiese, “allora, leccalecca?”

 

“Magari dopo coi regali, che questa sera ci sono tantissimi dolci da mangiare e pure salati,” le spiegò, facendole l’occhiolino e rimettendola per terra, cercando di non farsi corrompere troppo dal suo faccino deluso.

 

“Dai Noè, vuoi venire a vederli i dolci? Così vedi che Pietro non dice bugie.”

 

Un anno prima avrebbe risposto ad Imma con un “almeno io!” sarcastico.

 

Ma la verità era che, per quanto ovviamente una parte di lui avrebbe sempre amato Imma e per quanto il tradimento gli avrebbe sempre bruciato, ormai rivangare il passato non aveva più importanza per lui.

 

Il presente è più importante! - pensò, guardando Noemi che saltellava dietro ad Imma e Rosa, seduta sul divano più rigida di un palo, Salvatore che pareva sempre più irritato.

 

E poi lo vide alzarsi e venire verso di lui. Per un attimo si immaginò che volesse tirargli un pugno, come nel sogno.

 

“Noi ci siamo visti solo al telefono, anche se tenevi il baffo da Birra Moretti. Sono Salvo, il marito di Rosa ed il padre di Noemi,” si presentò, sottolineando gli ultimi punti.

 

“Io invece sono Pietro, l’ex marito di Imma ed il padre di Valentina,” ribatté, non perdendo un colpo, che col cavolo che si faceva intimidire dalla posa da bulletto di Salvo.

 

Rimasero per un attimo a fissarsi, tanto che Pietro cominciò a immaginarsi in testa la musichetta di mezzogiorno di fuoco, ma poi Salvo fece come un cenno e si girò verso Rosa, stringendola in un abbraccio dal quale lei però si scrollò dopo poco con un, “vado a vedere se hanno bisogno di una mano in cucina.”

 

Vide Valentina e Penelope affiancarlo immediatamente, in un modo stile bodyguard che lo fece molto sorridere, e trascinarlo sul divano in mezzo a loro, Valentina che guardava Salvo per la serie ma che problema c’hai?

 

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“Buonissimo, Imma, complimenti! Poi mi devi dare la ricetta di questa pasta! L’hai fatta a mano?”

 

“Sì, i fusilli col ferretto e poi… è solo mollica e peperoni cruschi. Quelli sono un po’ più complicati da trovare buoni qua a Roma, ma si possono fare quando è stagione e conservarli.”

 

“Sarà, ma io preferisco gli scialatielli con le vongole. La cucina campana non tiene paragone! Questa è troppo pesante!”

 

“E io che pensavo che i commenti sarcastici sulla cucina senza nonna ce li saremmo risparmiati!” gli sussurrò Valentina in un orecchio e gli venne da ridere, da un lato, anche se dall’altro gli veniva rabbia per Imma, per l’orgoglio Lucano e pure per Rosa e per sto carciofo che si era scelta.

 

Rosa sembrava sull’orlo di esplodere già dai commentini sull’antipasto, che il baccalà in insalata fatto dal cognato non era sufficientemente degno per lui, e le frittelle di peperoni cruschi ed i lampascioni fritti troppo pesanti.

 

“Eh certo, perché invece i fritti e i dolci che facciamo ad Avellino leggeri sono! E comunque Imma, era tutto buonissimo, veramente. Purtroppo se qualcuno non è mai uscito dalle mura del paese suo, e quando lo fa poi va a mangiare negli autogrill, ha una visione un poco ristretta della cucina italiana.”

 

“Magari se qualcuna capisse che siamo nati in un paradiso, invece di voler stare in mezzo al traffico e allo smog, che già ci sto tutta la settimana e-”

 

“Passiamo al secondo?” esclamò il maresciallo, alzandosi da tavola e proclamando, squadrando il cognato come a sfidarlo di dire qualcosa, “abbiamo fatto il baccalà fritto alla avellinese, ma con i lampascioni e fave e cicoria ripassate alla lucana.”

 

“Quando aiva dolce?” chiese Noemi, innocentemente.

 

Menomale che c’era lei!

 

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“Bello!!! Grazie Tata! Grazie zio!”

 

Noemi si stringeva forte forte una scatola che conteneva un set per fare la casa di Barbie.

 

“Menomale che c’è lei. Io che mi preoccupavo che tu facessi battutine infelici, ma tanto ci ha pensato qualcun altro!”

 

Scambiò uno sguardo con Valentì e che doveva dirle… c’aveva ragione c’aveva.

 

Per una volta che loro erano più o meno rilassati, Salvo sembrava essere venuto appositamente per rovinare il natale a tutti.


“E ora… vediamo se c’è qualche altro regalo per Noemi... “ proclamò Imma, con l’aria che aveva giusto alle ricorrenze con sua madre, di chi avrebbe voluto essere ovunque tranne lì, anche se fece un sorriso alla bimba, che le saltellava davanti battendo le mani, “c’è questo… da parte di… Pietro.”

 

Notò subito l’occhiata di Salvo, ma la bimba, felice, prese il pacco ed iniziò a strappare la carta come l’uragano che era, estraendone un coso viola dai capelli dritti, che pareva aver messo le dita nella presa di corrente, ed uno giallo con un occhio solo, grandi quasi come lei. E l’immancabile confezione di leccalecca.


“Minion!!!” ululò, felice, abbracciandoseli e poi correndo verso di lui e buttandoglisi in braccio, dandogli un sacco di bacini sulla guancia, “grazie Pietto!”

 

“Eh… ho saputo che ti piacciono e allora…” si schernì, perché lo sguardo di Salvo era sempre più omicida, mentre Rosa sembrava un poco commossa.


Del resto dell’amore di Noemi per i minion lui e Rosa avevano parlato molto, ma molto tempo prima, quando ancora… non era successo quello che era poi successo... ma… non aveva dimenticato quasi nulla dei discorsi fatti con lei.

 

E la reazione di Noemi al regalo di suo padre - una cucina giocattolo - era stata decisamente più tiepida. Le piaceva mangiare ma non cucinare, giustamente, mica scema!

 

“E ora… andando per età… c’è Valentina…” annunciò Imma con un sorriso, “e mi sa che questo è il primo regalo che vuoi scartare.”

 

Sua figlia si alzò, prese un tubo e lo aprì, srotolando una tela per trovarci un suo ritratto, in cui si abbracciava le ginocchia, appoggiandoci sopra il viso.

 

Era veramente bellissimo.

 

“Finalmente l’ho finito,” le disse Penelope, facendole l’occhiolino. E poi, attaccato al tubo, c’era pure un sacchettino e sua figlia lo aprì, estraendone due orecchini che, in modo molto stilizzato e con fili di metallo, sembravano rappresentare ognuna una donna seduta, con le gambe ripiegate. Visti insieme erano schiena contro schiena, capo contro capo.

 

“Li hai fatti tu?” chiese sua figlia, con voce spezzata.

 

“Sì… così puoi metterli ognuno su un orecchio o sullo stesso orecchio….”

 

E pure Valentina corse ad abbracciare Penelope, strette strette, e poi le pianto un bacio molto tenero e rapido sulle labbra.

 

Doveva dire che non gli dava più fastidio vedere la sua piccola in questo genere di effusioni, certo i limoni, come li chiamava Valentina, se li risparmiava volentieri. Però… erano veramente dolci insieme, si era dovuto ricredere su Penelope e-

 

“Ma insomma! Va bene tutto, ma certe cose fatele in privato! Con una bambina presente, che rimane traumatizzata!”


Salvo si era alzato dal divano, evidentemente molto irritato, e Valentina e Penelope avevano fatto un mezzo salto e parevano spaventate, tanto che Valentina aveva fatto cadere gli orecchini.

 

“Che vò dire tamarrizzati?” chiese Noemi, sempre, fortunatamente per lei, ignara di tutto.


“Che è quello che succede a chi rimane nel medioevo!” ribatté lui, alzandosi in piedi, mentre il maresciallo faceva lo stesso.

 

“Se hai qualcosa da dire! Questa è mia figlia!” alzò la voce Salvo, avvicinandoglisi di nuovo in modo minaccioso.

 

“E questa è mia figlia, quella che stai trattando come se avesse commesso un crimine e-”

 

“E due femmine non si dovrebbero baciare così, non è normale!”

 

“Ma io dò i baci a mamma, e a Imma, e a Bianta, e alle mie amiche. Pecché non si può?”

 

“Ecco! Vedete! Vedete che confusione che c’ha in testa?!” sbottò Salvo, rivolgendosi a Rosaria, “c’aveva ragione tua madre, che ormai qua è tutto concesso e che l’educazione di Noemi… in mano a sta gente, non-”

 

“Magari potresti lamentarti dell’educazione di nostra figlia se contribuissi, e se ti vedesse più spesso di una volta al mese o neanche. Ma, visto le idee che c’hai, forse meglio così!”

 

“Ma pecché litigate?” chiese Noemi, con l’aria tristissima, di chi stava per piangere.

 

“Salvo, andiamo a casa mo,” disse Rosa, con uno sguardo deciso.

 

Lui fece per abbassarsi a prendere la figlia, ma Rosa si mise in mezzo e la prese per mano, rivolgendosi verso Imma, “potete… potete tenerla qui per stanotte? Almeno finisce di festeggiare come si deve.”


“Ce- certo che possiamo, ma…” sussurrò Imma, con aria preoccupata, lanciando un’occhiata a Salvo ed una al maresciallo.

 

“Non ti preoccupare e-”
 

“Vi posso accompagnare e-”
 

“No, fratellone, tranquillo, è giusto così!”

 

Il maresciallo sembrava sull’orlo di un’altra obiezione, ma poi Rosa prese per un braccio Salvo e quasi lo trascinò fuori, dopo aver recuperato i giacconi.

 

Sentì un’ansia potentissima impadronirsi di lui, il battito a mille.

 

“Ma mica potete davvero lasciarla da sola! Se succede qualcosa!” esclamò, guadagnandosi le occhiate sorprese da tutti i presenti.

 

“Andrò in moto e… starò fuori dalla porta di casa, tanto le chiavi di riserva le ho, se… se ci fosse bisogno di intervenire,” proclamò il maresciallo, avviandosi verso l’appendiabiti all’ingresso.


“Vengo pure io!”

 

Di nuovo, tutti lo guardarono come se gli fosse cresciuta un’altra testa.

 

“Meglio non essere da soli, no, se succede qualcosa? Pure se… non sono forzuto ma… anche solo come testimone.”

 

“Va bene. Grazie!” acconsentì il maresciallo, prima di chiedergli, mentre si infilava il suo giaccone, “ci siete mai stato in moto?”

 

“Veramente no ma… se lo fanno tutti i ragazzetti non sarà così difficile, no?”

 

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“Potreste stringere un poco meno? Non respiro!”

 

“Potresti andare un poco più piano?” rispose, aprendo gli occhi a fessura, sentendo che stava per rinvenirgli tutto quello che aveva mangiato quel giorno.


“Se dobbiamo arrivare prima di loro per nasconderci no, che c’è poco traffico, che stanno tutti a fare il cenone tranne noi! Sto già andando piano!” 

 

“Quindi con Imma ci vai così in moto?” gli domandò, incredulo che potesse sopportare tutto quello, lasciandosi scappare un urlo quando beccarono una buca ed aggrappandosi più forte.

 

“No, andiamo più veloci, ovviamente. Potete lasciarmi un poco, prima che svengo e ci schiantiamo?”

 

Imma era pazza, era ufficiale!

 

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“Ma sì impazzita? Nun te riconosc’ cchiù! Davvèr bbuo' buttàr diciòtt annì e' relaziòn into cessò ppe da' rettà a fràtetò e a' vìtà e' cìttà?”

 

“Si tu ca' li aie buttàt into cessò ppe dar ragiòn a mammà. Mammà mia, nun mammata! Si te ne bbuo' sta' a Grottaminardà, te libero dal dovertèn venirè a Roma, sperànd almeno te degnì ognì tantu e' bberè figlià toja. Mo' prendìt a' valigià toja e vattèn!”

 

“Mia figlià in chistu manicomio nun a' lascio! Voglio l’affido!”

 

“Accomodàt purè! Ca' e' sicuro nun toglierebbèr a' figlià a na' madre ppe nu' ca' nun c’è maje e mancò tiene na' casa!”

 

“E tu comm piens e' mantenèrl a' casa?”

 

“Col fatic miò! Ca' forsè te sarèst accòrt ca' sto lavorànd si sul fossì turnato cchiu' spesso! E salutàm a mammeta, anzì, mammete, ca' na' nun te bastàv a trentàtrè annì!”

 

Si sentì tirare per un braccio e finì dietro l’angolo del pianerottolo appena in tempo, perché la porta di casa di Rosa si aprì e Salvo uscì come una furia, sbattacchiando il trolley per tutto il pavimento, prima di sparire nell’ascensore.

 

Udirono un boato. La porta che si richiudeva.

 

E poi il maresciallo gli fece un segno, come di andare con lui e si riavvicinò alla porta. Potevano sentire chiaramente Rosa che piangeva.


Gli si strinse il cuore. Avrebbe voluto suonare il campanello, entrare e consolarla, anche se una parte di lui si sentiva in colpa perché… era pure quella parte che era felice che finalmente si fosse decisa a mollare quello stronzo.

 

“Controlliamo che Salvo se ne sia andato e poi andiamocene, che Rosa ha bisogno di stare un po’ da sola,” gli sussurrò il maresciallo e gli toccò annuire e scendere con lui dalle scale, perché teneva ragione teneva.

 

Per fortuna il camion di Salvo non ci stava più.

 

“Che volete fare? Torniamo da Imma, che magari stiamo in tempo per il dolce, o vi porto in albergo?”

 

“Se Valentina sta ancora da Imma preferisco tornare con te che… le voglio parlare… con tutto quello che è capitato.”

 

“Mi dispiace per… per avervi coinvolto in questo casino della nostra famiglia. E vi ringrazio per avermi accompagnato. Non mi aspettavo da voi tutta questa solidarietà per Rosa.”

 

“In che senso?” gli chiese, preoccupato dal tono strano di Calogiuri - mica aveva capito che…?

 

“Eh… visto che… insomma… ha lasciato il marito….”

 

Per un secondo gli venne da incazzarsi per il paragone, ma il maresciallo lo guardò con quegli occhioni azzurri e successe una cosa tremenda.

 

Si rese conto che non gli riusciva più di incazzarsi con lui, perché quello sguardo… gli ricordava Rosa e gli faceva tenerezza.

 

Doveva essere impazzito, doveva!

 

“Ma che scherziamo? Rosa ha fatto bene! Quello è… è un troglodita e, se io fossi stato come Salvo, Imma avrebbe dovuto essere pazza ad arrivarci a vent’anni di matrimonio!”

 

Il maresciallo rise, ma poi si fece più serio, quasi malinconico.

 

“Lo so che… che siete sempre stato un marito perfetto e… so anche che non ve lo meritavate quello che è successo con Imma e con me ma… al cuore non sono proprio riuscito a comandare e… mi dispiace che ci siate andato di mezzo voi.”

 

Di nuovo quegli occhi, ed il peggio era che si vedeva che era sincero. 

 

No, anzi, il peggio era che lo capiva pure… perché mo anche lui….

 

“Diciamo che è acqua passata. Ormai sono tanti anni e… ed è meglio guardare avanti, tutti quanti. L’importante è che continui a trattarmi bene Imma e pure Valentina, che se no… non sarò forzuto ma qualche colpo ancora lo so tirare!”

 

Per tutta risposta, il maresciallo sorrise e si guardarono per un attimo.

 

Non sapendo manco bene lui perché, gli porse la mano, e se la sentì stringere con fin troppa forza - altro che colpi! Menomale che non ci siamo mai menati!

 

Una pacca sulla spalla, un “e piantala di darmi del voi, che mi fai sentire vecchio!” e si ritrovò con il casco in mano, sperando di arrivarci vivo a casa di Imma.

 

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“Mi raccomando!”

 

“Mà, andiamo a Berlino, mica in capo al mondo, tranquilla!”

 

“Mi raccomando lo stesso! Che a Capodanno… con tutti gli ubriachi che ci stanno.”

 

“Non che il resto dell’anno non ci siano, anzi,” rise Penelope, che però sembrava tranquillissima, “non si preoccupi, ci sono stata parecchie volte, so come muovermi.”

 

“Dai, mà che il taxi ci aspetta. Pà, tu non dici niente?”

 

In effetti era rimasto silenzioso, ma tanto ci aveva già pensato Imma a fare tutte le raccomandazioni del caso.


“Niente… divertitevi ma… in modo responsabile, va bene?”

 

“Sembri uno spot contro la droga. E comunque tranquilli, che al massimo ci facciamo di mentine!”

 

Con un occhiolino a sua madre, che scosse il capo ed alzò gli occhi al cielo, Valentina e Penelope salirono sul taxi diretto all’aeroporto.

 

“E tu mo che fai, Piè? Torni a Matera?” gli chiese Imma, lanciando un’occhiata al trolley che teneva in mano.

 

“No, starò qualche giorno qua a casa di Valentì. Tanto a Matera non tengo niente da fare. Farò un po’ il turista, qua a Roma.”

 

“Ma e stasera? C’hai qualcosa di organizzato? Non dirmi che te ne stai da solo?”

 

“E tu non dirmi che il capodanno lo vuoi festeggiare?” ribattè, conoscendo l’odio di Imma per le festività.

 

“In realtà… abbiamo organizzato una cena con dei colleghi di Calogiuri. Perché non vieni pure tu?”

 

L’invito lo sorprese quasi quanto il saperla a fare una cenetta con colleghi.

 

Ma poi notò una cosa.

 

“E Rosa?”

 

“E Rosa che?”

 

“Non è con voi? Come sta dopo… quello che è successo a natale?”

 

“Eh… l’abbiamo invitata ma ha detto che non se la sente di festeggiare e che Noemi fatica ad arrivare alla mezzanotte. Poi, con quello che è successo, capisco pure che non c’ha voglia di festeggiamenti anche se, per me, si è scansata un fosso.”

 

“Altro che fosso!” esclamò, aggiungendo poi, allo sguardo stupito di Imma - effettivamente ci aveva messo un po’ troppo enfasi -, “insomma… so che non c’era mai e, se quando c’era era come la sera di natale….”

 

“Sì, ho quasi rivalutato i natali con tua madre,” ironizzò lei e non poté darle torto.

 

"Comunque… ti ringrazio tanto per l'invito, Imma, ma… un conto è natale, che ci stava pure Valentì, ma così mi farebbe troppo strano."

 

Lei annuì e poi sorrise, "però sono contenta dei progressi che abbiamo fatto quest'anno, Pietro. Davvero."

 

"Anch'io! Tanto!" confermò, stupendosi nel ritrovarsi in un abbraccio e soprattutto dell'effetto molto diverso che gli fece, rispetto a una volta.

 

C'era un che di dolceamaro.

 

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I supermercati erano quasi chiusi ma… doveva fare in tempo.

 

Per fortuna c’era il minimarket vicino a casa delle ragazze.

 

Fece la fila tra i ritardatari dell’ultimo minuto, come lui, e pagò uno sproposito cose che normalmente sarebbero costate assai meno.

 

Ma ne sarebbe valsa la pena.

 

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“Pietro?!”

 

Rimase per un attimo senza parole: Rosa gli aveva aperto la porta, vestita con una tuta ed i capelli mezzi raccolti in un mollettone.

 

Ma la trovava ancora più attraente, così, forse perché gli dava l’idea di un’atmosfera più intima.

 

Si rese conto, dal modo in cui lo guardava, di essere rimasto imbambolato e aver probabilmente fatto la figura del cretino.

 

Sollevò i sacchetti che aveva in mano.

 

“Imma mi ha detto che… che non andavi con loro a capodanno e allora… ti ho preparato un po’ di piatti tipici di Matera per la ricorrenza,” le spiegò, passandole le sporte, per poi porgerle l’ultimo sacchetto, “e qua ci sono i leccalecca per Noemi. Mo vado via, non ti preoccupare.”

 

Rosa aprì la bocca, come per rispondergli, ma un “Piettoooooo!!” e si ritrovò placcato per le gambe.

 

“Ciao, signorina. I leccalecca li ho già dati a tua mamma.”

 

Noemi rivolse uno sguardo implorante verso Rosa. Quanto era adorabilmente ruffiana!

 

“Guarda che Pietro ci ha portato un sacco di cose buone per la cena. Prima quelle e poi dopo i leccalecca.”

 

“Che bello! Grazzie Pietto!” saltellò lei, felice, battendo le mani come al suo solito, prima di chiedere, innocentemente, “allora cenamo tutti inseme?”

 

“Veramente io-”

 

“Se non hai già altri impegni per capodanno…” lo interruppe Rosa, con un sorriso un poco timido.

 

Il cuore gli andò a mille.


“N-no, nessun impegno.”

 

“E allora entra, che queste buste pesano e non vorrei che qualcuna si spazzolasse tutto prima dell’ora di cena.”

 

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“Veramente ottima la cena. Chi ha scelto il locale?”

 

“Io, dottoressa!” rispose Mariani, un poco intimidita, come del resto lei e Conti erano stati per tutta la sera.

 

“Ma che dottoressa e dottoressa. Ormai tanto non lavoriamo più insieme. Imma va bene e diamoci del tu, che se no mi sento vecchia.”

 

Conti spalancò gli occhi e pure Mariani sembrò un poco sorpresa, “va bene, do- Imma, anche se ci vorrà un po’ per abituarsi.”

 

“Pure io ci ho messo mesi,” intervenne Calogiuri, con una mezza risata.

 

“Ad abituarti ad altro però ci hai messo molto meno,” gli sussurrò in un orecchio, godendosi come gli andò di traverso la saliva e il colorito fucsia.

 

“Come?” chiese Conti, innocentemente.


“Niente… balliamo?” chiese a Calogiuri, per levarlo dall’imbarazzo e lo trascinò in pista.

 

Conti e Mariani rimasero a fissarli in modo incredulo per un po’, ma alla fine Mariani sorrise e si alzò pure lei per ballare, seguita da Conti.

 

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“E poi la principessa buttò la sua treccia e-”

 

“Mi sa che dorme….”

 

Il sussurro di Rosa nell’orecchio gli provocò un brivido, ma guardò Noemi nel suo lettuccio e sì, era proprio crollata.

 

Del resto, con tutto quello che si era spazzolata….

 

Chiuse il libro di fiabe e, piano piano, insieme a Rosa, uscirono dalla camera della bimba e richiusero la porta.

 

“Grazie! Ci sai proprio fare tu, sia coi bimbi che in cucina!”

 

Non avrebbe saputo dire perché ma il complimento, oltre a riempirlo di orgoglio, lo imbarazzò tantissimo.

 

“Eh, giusto in quello….”

 

“Non è vero. Che ne dici se, in attesa della mezzanotte, ci facciamo due chiacchiere, che è tanto che non parliamo?”

 

“Volentieri!” esclamò, felice che la serata proseguisse nonostante l’assenza della piccoletta.

 

E poi confidarsi con Rosa gli era mancato tantissimo.

 

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“Tre, due, uno, buon anno!!!!”

 

Mentre nel locale c’era una musica infernale e scintille ovunque - che si chiese se tutte le norme antincendio fossero state rispettate - Calogiuri stappò con un botto la bottiglia di spumante e ne versò a lei e poi a Mariani e Conti.

 

Il brindisi di rito e, prima di bere, Calogiuri le sussurrò, “hai espresso un desiderio?”

 

Eh sì, che lo aveva espresso, ed era quello di riuscire a dargli un figlio. Non poteva dirlo ad alta voce, secondo la tradizione, ma sapeva che lui lo aveva capito dal modo in cui la abbracciò e le diede un bacio sulla fronte.


“E tu, maresciallo, hai espresso un desiderio?”

 

“Sì, anche se… questo è stato l’anno più bello della vita mia, perché i miei desideri si sono esauditi quasi tutti. E quello che verrà lo sarà ancora di più, ne sono sicuro, perché ci sposeremo, vero?”

 

“Eh, certo! Ti ho già detto di tenerti pronto per l’estate, no?”

 

“Ma non mi vuoi proprio dire quando, dottoressa?”

 

“No. Lo saprai quando partiranno gli inviti, per intanto devi dirmi soltanto chi vuoi invitare.”

 

“Eh… poca gente, dottoressa, poca gente,” sospirò lui.

 

E fu allora che lei espresse il secondo desiderio: che Calogiuri facesse pace con suo fratello e suo padre.

 

Per sua madre… non sapeva neanche lei cosa desiderare.

 

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“Scusa, è finito dappertutto!”

 

“Porta bene!” rise lei, prendendo un goccio di spumante dalla bottiglia traboccante e mettendoselo sul collo e poi facendo lo stesso con lui.

 

Un altro brivido, fortissimo, e non solo perché era gelido.

 

“Va beh… brindiamo!” propose poi, in imbarazzo, versandole e versandosi il vino e facendo il brindisi.

 

Per fortuna lei non gli chiese se avesse espresso un desiderio, perché ormai erano mesi che aveva un unico desiderio che lo tormentava, ma… era impossibile.

 

Fuori scoppiarono i fuochi, e li guardò per un secondo, ma poi si ritrovò a cercare gli occhi azzurri di lei e la beccò a fissarlo.

 

Rimasero in silenzio per un attimo, continuando a guardarsi, la tensione che si poteva tagliare con un coltello ed il cervello che gli andava in cortocircuito.

 

“I… i fuochi per noi sono pericolosi,” ironizzò, cercando di stemperare la situazione e lei sorrise, ma non distolse lo sguardo.

 

E neanche lui.

 

“Forse… forse è meglio che me ne vado mo, prima che… che siano troppo pericolosi e-”

 

Non riuscì a dire altro perché se la trovò aggrappata alla schiena, in una stretta che fu tenerezza, fuoco e…

 

Bagnato?

 

Si rese conto che la sensazione sulla schiena non erano soltanto i brividi, ma che nella foga gli aveva rovesciato lo spumante sulla giacca.


“Oddio, scusa, scusa, io-” esclamò lei, provando a staccarsi, ma lui la abbracciò a sua volta, dicendole, “porta fortuna, no?”

 

La verità era che gli avrebbe potuto svuotare la bottiglia in testa e non se ne sarebbe lamentato.

 

“Tu sei troppo buono, Pietro,” si sentì mormorare nell’orecchio, lei che lo stringeva ancora più forte, “ma… pure se mo ho lasciato Salvo, devo capire come fare con la separazione e l’affido… che lui ha promesso battaglia… e come la prenderà Noemi e-”

 

“Lo so, lo so,” la rassicurò, accarezzandole la schiena, “ma so aspettare, posso darti tutto il tempo che vuoi.”

 

Ma le braccia di lei si allentarono e poi lo spinse leggermente via, anche se continuava a stringergli forte le spalle, “lo so ma… pure aspettando tutto il tempo del mondo, tu resti sempre l’ex marito di mia cognata e questo non cambia.”

 

“Lo… lo so che è strano e che… se penso alle possibili parentele incrociate, mi pare una puntata di una soap, ma… al cuore non si comanda, no? Me lo ha detto pure tuo fratello, qualche giorno fa.”

 

“Sì, per lui ed Imma. Mo aspetta che sappia di me e di te e non so se sarebbe così entusiasta. Che già hai rischiato con Salvo. E rischi ancora.”

 

“Vorrà dire che farò un corso di arti marziali allora. E a tuo fratello direi che chi è senza peccato, scagli la prima Pietra, che io pure Pietro mi chiamo….”

 

Lei rise, con quella risata bellissima, che sembrava riempire la stanza.

 

“Quello che voglio dire è che… se tu lo vuoi, io ci sono, con i tuoi tempi, e lo so che non sarà facile ma… per me ne vale la pena.”

 

Rosa si morse il labbro, annuì e, senza capire come, finì nuovamente al muro, in uno di quei baci il cui ricordo lo teneva sveglio la notte.

 

“Buon anno, Pietro!” gli sussurrò poi sulle bocca, ed aggiunse, accarezzandogli il viso, “mo però è meglio che vai.”

 

“Io vado ma… mi prometti che ci penserai?”

 

“Pure volendo… non potrei non pensarci…” gli rispose, diventando color fragola e scatenandogli una voglia pazza di baciarla ancora.

 

Ma non voleva rovinare tutto e quindi, dopo aver ricambiato la carezza, aprì la porta dell’appartamento e ne uscì, sperando che quello fosse soltanto l’inizio e non solamente di un anno nuovo.

 

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“Ma dove la trova tutta quest’energia?! Peggio di quel brigadiere di Matera!”


“Ma chi, Capozza?” chiese, ridendo, “guarda che, se Imma ti sente paragonarla a lui, non ti parla più.”

 

“Mamma mia… non sento più io le gambe e lei che ancora balla.”

 

Imma stava ballando con Conti, che per metà serata aveva fatto da tappezzeria e sembrava in terribile imbarazzo.

 

“Va beh, almeno di Conti con questa procuratrice non ti devi preoccupare.”

 

“Eh… ma io spero che gli passi con Irene.”

 

“Non ha speranza, lo so, e lo sa pure lui, credo. Ma c’ha la testa dura. Dobbiamo farlo uscire più spesso, fargli conoscere altre ragazze.”

 

“Agli ordini!”

 

In quel momento, la musica finì ed il dj annunciò che la serata era conclusa, ringraziando i presenti.

 

Imma e Conti, col viso di un colore a tema col capodanno, tornarono verso di loro.

 

“A questo punto… volete andare a farvi bombolone e cappuccino?” propose Mariani, con un sorriso.

 

“Al Pincio però, che c’è il chiosco più buono ed è più vicino a casa,” concordò Imma, a sorpresa.

 

Dopo la loro mini vacanza in agriturismo, ogni tanto si prendeva delle eccezioni alla dieta ferrea della ginecologa ed anche ai calcoli, e sembrava in generale più serena, per fortuna.

 

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“Allora, secondo te Mariani e Conti vorranno ancora uscire con noi?”

 

“Se si riprendono forse sì: li hai stesi!”

 

“Mi mancavano le nostre serate fuori, ballare, il cibo dei chioschetti.”

 

“Anche a me… ma soprattutto mi mancava vederti così spensierata. Che per me è la cosa più importante.”

 

Si guadagnò uno di quei sorrisi che Imma faceva solo a lui ed un bacio.

 

“Mo però mi sa che è meglio che dormiamo.”

 

“Vai pure tu prima in bagno, dottoressa. Io cerco di rispondere agli ultimi messaggi di auguri.”

 

“Se poi c’hai voglia, risponderesti pure ai miei? Almeno a quelli di a te e famiglia?” ironizzò lei, prendendo la camicia da notte ed avviandosi verso il bagno.

 

Prese il cellulare e fece scorrere i tanti messaggi, molti appunto generici, ai quali avrebbe inviato una risposta altrettanto generica.

 

Finiti gli ultimi, decise di guardare le notifiche sui social, per vedere se ci fosse qualcosa di importante, a parte i post di Capozza che tracannava lo spumante, che aveva intravisto in precedenza.


E fu allora che notò una notifica da parte di Modesto Calogiuri.

 

Stranissimo: suo fratello era ancora più riservato di lui coi social, non li usava praticamente mai ed il suo ultimo post, a sua memoria, risaliva a tipo due anni prima.

 

Chiedendosi cosa potesse aver fatto a capodanno per meritare un simile evento, aprì il post e vide che Modesto in realtà era stato taggato da una certa Enrica Spagnuolo, ma compariva anche sulla sua pagina.

 

E per poco non gli cadde il telefono di mano.

 

“Non è possibile!” esclamò, fissando la foto, la didascalia, lo stato, tutto.


“Calogiù, tutto bene?” lo chiamò Imma ed alzò lo sguardo e la vide sporgere, mezza nuda, dalla porta del bagno.

 

Ma era talmente sconvolto che non gli fece nemmeno il solito effetto.


“Che succede? Pare che hai visto un fantasma!” disse lei, preoccupata, avvolgendosi in un asciugamano, per poi dire, “qualcuno ha fatto un incidente?!”

 

Ma le parole non gli venivano, per la rabbia, per la tristezza, per lo sconforto, per tutto.

 

Percepì Imma alle sue spalle e sentì la sua esclamazione di sorpresa, “ma… ma… questo è tuo fratello? Fidanzato ufficialmente con Enrica Spagnuolo dal 31 dicembre 2021?!”

 

E sì, l’anello al dito della ragazza che lo abbracciava non mentiva.

 

Così come la faccia di Modesto, che, più che un fidanzato felice, pareva un uomo pronto per il patibolo.

 

“Ma… ma è matto! Calogiuri, dobbiamo fare qualche cosa! Devi andare a Grottaminarda, a parlargli e-”

 

“E a che servirebbe?!” gridò, con tanta forza che Imma fece un sobbalzo, “scusa, ma… sono arrabbiato con lui, con me stesso, con nostra madre ma… ma non servirebbe a niente!”


“E che ne sai?”

 

“Le occasioni le ha avute, gli abbiamo detto in tutti i modi che… un posto qua per lui c’era. Ma non possiamo obbligarlo a fare scelte per cui non è pronto. Hai visto cos’è successo con Salvo, no? Alcuni il paese e mammà… non riescono proprio a lasciarli andare.”

 

“Ma Salvo da tua madre veniva servito e riverito, tuo fratello sgobba come un mulo e si sta costringendo alla castità eterna praticamente, a parte per… va beh… compiere i doveri, come li chiamano quei gruppi di mamme e future mamme sciroccate che ho trovato su internet, che credono ancora ai riti della fertilità.”

 

Quantomeno gli venne da ridere.

 

“Non c’è niente da ridere! Guarda che tuo fratello rischia di fare quella fine e che un giorno su uno di quei gruppi ci troviamo tua cognata, che si chiede perché tuo fratello preferisca spargere letame, piuttosto che compiere i doveri con lei per avere l’ottocentesimo figlio.”

 

“Dottoressa, e che dovrei fare allora? Andare a Grottaminarda e costringerlo a fare coming out? Portarlo a Roma con la forza, che manco il ratto delle Sabine? Possiamo solo sperare che ci ripensi, prima di rovinarsi del tutto la vita, lo sai anche tu.”

 

“Ma… mi fa rabbia per te… non poter fare niente! O saranno tutti sti ormoni che mi tocca prendere! Non c’ho manco più sonno!”

 

“In realtà c’è una cosa che possiamo fare!”

 

“Se intendi quello, Calogiuri, sei incorreggibile e-”

 

“Veramente intendevo smettere di leggerti i post delle mamme sciroccate. Ma pure quello… tutto sommato…“ la provocò, facendole l’occhiolino e trovandosi steso sul materasso, sotto un attacco di solletico e di baci.

 

A parte suo fratello, quell’anno si apriva sotto i migliori auspici.

 

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“Sei nervosa? Devi solo dire quello che sai e andrà tutto bene, vedrai. Se il nuovo avvocato della difesa ti mette in difficoltà, interveniamo io e il collega.”

 

Melita pareva un fascio di nervi, continuava a camminare per l’ufficio assegnato ad Irene e a lui.


Stavano tutti insieme in trasferta a Milano, con tanto di scorta: era giunto il momento della testimonianza di Melita.

 

Il PM milanese pareva capace, ma l’assistente dell’avvocato era un osso duro, lo avevano già visto dalle prime battute del dibattimento.

 

Bussarono alla porta ed era il cancelliere incaricato di informarli che la seduta stava per ricominciare.

 

Con il fiato in gola, seguì lei, Irene e il PM assegnato al caso fino in aula.

 

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“E riconosce gli uomini che vi hanno minacciato a quel tavolo?”

 

Melita annuì ed indicò chiaramente col dito i tre del clan presenti, “lui, lui e lui.”

 

In aula ci fu un boato.

 

“Conferma di nuovo le parole che hanno detto?”

 

“Sì, hanno chiesto all’avvocato Villari di far condannare il suo cliente, ma solo lui, di quelli coinvolti al processo a Milano. E poi l’avvocato ha cominciato a minacciare me, di stare zitta, a farmi seguire e-”

 

“Signor giudice, non vedo come possiamo dar credito ad affermazioni gravissime non supportate da prove, di una persona oltretutto dal passato alquanto discutibile e-”

 

“Signor giudice, con tutto il rispetto per la difesa e per il suo maestro, di accompagnarsi ad una persona dal passato alquanto discutibile - che poi di che parliamo, di due balli in discoteca? - lo ha scelto proprio l’avvocato Villari, non io. Se era così discutibile, perché ha continuato a frequentarla e a tampinarla ovunque? E cosa verrebbe in tasca alla signorina Russo a mentire, mettendo a repentaglio la sua incolumità, oltretutto, e rinunciando ai regali che l’avvocato Villari le faceva, evidentemente come tentativo di tenerla zitta, insieme alle minacce? E in più, deve pure subire denigrazioni e frasi discriminatorie, soltanto perché svolge un lavoro onesto come tanti altri, nemmeno fossimo nel medioevo.”

 

“Avvocato, l’accusa ha ragione. Moderi i termini ed eviti di esprimersi sulla moralità della teste, che non è in discussione. Per quanto mi riguarda, visti gli sviluppi che ha preso questo caso, chiedo che della difesa degli imputati si occupi da ora in poi un altro studio legale, indipendente dallo studio Villari. L’avvocato Villari verrà inserito ufficialmente nell’elenco degli imputati, per i reati desumibili dalla testimonianza della signorina Russo, che verranno a loro volta aggiunti alla lista dei reati giudicati in questo procedimento.  Vi avviso che la prossima udienza sarà quella definitiva e poi si arriverà a sentenza: mi sembra che la situazione che si sta delineando sia più che chiara. L’udienza successiva viene fissata a settembre, un tempo più che congruo per dare modo agli imputati di organizzarsi per la difesa e all’accusa di proseguire con le attività di indagine, riguardo a quanto emerso oggi.”

 

Vide Irene abbracciare il collega, al fianco del quale era seduta, e poi voltarsi verso di lui con un sorriso trionfale: ce l’avevano fatta.

 

Villari ed il suo pupillo invece, avevano delle espressioni che non gli piacevano per nulla. Per non parlare dei gentiluomini del clan, che fissavano Melita in un modo che gli dava i brividi.

 

Lei parve terrorizzata e poi i loro occhi si incontrarono e fece uno sguardo che fu un pugno allo stomaco, un misto di paura e tristezza così profondi da non poter essere definiti a parole.

 

L’avrebbe protetta a tutti i costi.

 

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“S- sei sicuro che non ci ha seguiti nessuno?”

 

“Tranquilla, un giro più lungo di così e ti portavo a Napoli,” scherzò, per stemperare l’atmosfera.

 

Aveva riaccompagnato Melita a casa, dopo un giro dell’oca infinito per depistare chiunque, aveva parcheggiato in garage e le aveva appena aperto la portiera.

 

“Puoi… puoi salire un attimo per controllare l’appartamento?”

 

“Certo!” la rassicurò, accompagnandola fino alla porta di casa e facendo l’ispezione di routine.

 

Stava per congedarsi, ma vide che era ancora molto spaventata: tremava.

 

“Guarda che sei al sicuro. Sei sotto sorveglianza continuamente, non devi avere paura.”


“Ma fino a settembre… e poi c’è l’appello e…”


“Lo so, ma, noi faremo di tutto per farti stare al sicuro. Mi sono impegnato personalmente, no?”

 

Lei fece un’espressione strana.

 

“Che c’è?”


“No, niente, ma… tu mo probabilmente passerai di grado, Imma qua non ci può più lavorare e… dubito che resterai qua per sempre.”

 

“No, ma… se ti fa stare più serena… potremmo spostarti dove andremo a stare, o meglio, nelle vicinanze. Non sappiamo ancora dove però, decideremo dopo il matrimonio ma… mica ti abbandoniamo!”

 

Per tutta risposta, Melita scoppiò a piangere.

 

Prese un pacchetto di fazzoletti dalla tasca, chiedendosi cosa avesse detto di male e come fare per consolarla. Vederla così a pezzi gli faceva male, anche perché effettivamente la aspettavano anni da prigioniera, senza aver commesso nessun reato.

 

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“Calogiuri… non pensavo te lo avrei mai detto, ma statti fermo, mi fai girare la testa.”

 

Era agitatissimo, lo vedeva chiaramente, mentre ripassava gli schemi già fatti.

 

“Eh ma… domani-”

 

“Domani farai il meglio che potrai, Calogiuri, ed in ogni caso sarò fiera di te e dell’impegno che ci hai messo. Mo basta ripassare, che ti metti solo più in confusione, vieni qua,” lo invitò, estendendogli la mano e, quando lui la afferrò, tirandolo sul letto accanto a lei.

 

“Dobbiamo trovare un modo per distrarti qualche ora e farti stancare…” gli disse, con un sorriso, e lo vide illuminarsi e ricambiare con uno di quei sorrisetti che erano da mandare ai matti, “non quello che stai pensando, Calogiuri, che domani devi essere riposato, tipo i calciatori prima delle partite.”

 

“Dottoressa, sei tu che provochi e poi ti tiri indietro!”

 

“Io?” chiese, fintamente innocente, “e comunque pensavo che potevamo guardarci un film, di quelli che piacciono a te, niente polizieschi però o cose di tribunale. E poi domani sera, in ogni caso, recuperiamo il resto con gli interessi. Anzi, tu aspettami qui che vado a farci una bella camomilla, per una volta che posso ricambiare io.”

 

Finì stritolata in un abbraccio, dal quale non fece nulla per liberarsi. La camomilla ed il film potevano aspettare. Stare stretti stretti con Calogiuri, senza dire niente, era il metodo migliore per rilassarsi che avesse mai conosciuto.

 

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Sentì la porta di casa aprirsi, il cuore che le fece un balzo nel petto.


Corse verso l’ingresso, sapendo che avrebbe capito alla prima espressione com’era andata.

 

Ma ci trovò un mazzo di rose gigante con due gambe e mezzo busto sotto.

 

“Calogiuri?” chiese, stupita.

 

E poi le rose si abbassarono, mentre gliele porgeva, lo vide sorridere, e tirò un sospiro di sollievo.

 

“Per la mia professoressa preferita. Ho risposto a tutto e… ho una buona sensazione che-”

 

Prese le rose ma solo per metterle a terra, gli si lanciò in braccio e gli riempì il viso di baci: se Calogiuri diceva di avere una buona sensazione, voleva dire che l’esame era andato benissimo.

 

Lo sentì ridere sulle labbra.

 

“Che c’è?”

 

“Mi chiedo perché mi ostino a comprare le rose, visto la fine che gli fai fare, dottoressa!”

 

“Ma se sono stata delicata stavolta! Ma… prima di metterle in un vaso… che ne dici se festeggiamo come ti avevo promesso?”

 

“Eh… non lo so… l’esame mi ha un poco sfinito mentalmente,” rispose lui, serio, tanto che per un attimo si preoccupò.

 

Ma soltanto finché non sentì dove stavano vagando le mani di quell’impunito e vide il suo sorriso sornione.

 

Altro che festeggiamenti si meritava!

 

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“Che cosa?! Ma com’è potuto succedere?! Dopo questa manco a dirigere il traffico finisci! Arrivo subito!”

 

“Che succede?” gli domandò, preoccupata.

 

Erano già a letto a guardare un film, visto che l’ovulazione sarebbe stata da lì a poco e non si poteva fare altro, quando gli era squillato il telefono ed era saltato giù dal letto, vestendosi furiosamente.

 

“Melita non si trova. A quanto pare la guardia è andata a prenderle la cena che aveva ordinato alla pizzeria lì vicino, ma quando è tornato non l’ha trovata. Quel cretino che ha lasciato il posto!”

 

“Ma come mai ha fatto una cosa del genere? Non poteva far venire uno della pizzeria?”

 

“Ha detto che Melita ha insistito perché quello della pizzeria non poteva. Se lo becco, altro che pizza!”

 

“Ma… ma non è che si è allontanata volontariamente?” gli chiese e lo vide bloccarsi.

 

“Ma perché avrebbe dovuto farlo? Ha paura, è terrorizzata e-”

 

“Ed è giovane, attiva, e mo vive in prigione praticamente. Potrebbe essere che ha fatto una fuga per la libertà, la sera. Bisogna cercarla nei locali della zona, dai retta a me.”

 

“Dici?”

 

“Dico. Vuoi una mano?”


“No, dottoressa, che… metti che invece non si sia allontanata volontariamente. Ci divideremo io, Irene e i ragazzi. E quell’imbecille può scordarsi di fare l’agente!”

 

“Stai diventando quasi peggio di me, Calogiuri. Bravo!” gli sorrise, prima di raccomandarsi, più seria, “appena hai notizie, fammi sapere subito, ok?”

 

Lo vide annuire e sparire dietro la porta.

 

Sperava davvero che il suo istinto non sbagliasse.

 

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Entrò nel pub: ormai era da un’ora che la cercavano tra tutti e disperava di trovarla, stava facendo setacciare le telecamere di sicurezza ed effettivamente sembrava essersi allontanata da sola ma… chissà dove.

 

Si precipitò nella sala interna, tanto da guadagnarsi un’occhiataccia dal barman, ed i polmoni finalmente gli si riempirono di aria.

 

Ad un tavolo all’angolo c’era Melita, che beveva un cocktail, due tizi che la tacchinavano ma non sembravano pericolosi, soltanto ingrifati.

 

“Melita!” la chiamò, avvicinandosi, ed i due tizi lo guardarono malissimo, ma disse loro, “come vedete è già accompagnata, grazie.”

 

“Davvero stai con sto qua?” le chiese uno dei due tizi; lei annuì stancamente e finalmente si levarono di mezzo.

 

“Ma che ci fai qua? Sei matta?! Sai che è pericoloso!” le sussurrò, sedendosi accanto a lei.

 

“Lo sho… ma… non c’ho più niente da perdere.”

 

“E la tua vita allora? Quella non vale niente per te?” le chiese, sentendo una rabbia che gli saliva da dentro, “dai, ti riporto a casa.”

 

“In prigione vuoi dire…” rispose lei, ma poi, probabilmente alla sua occhiataccia, disse, “va bene, va bene.”

 

Ma, come fece per alzarsi, la vide ricadere sul divanetto.

 

“Ma quanto hai bevuto?”

 

“Un po’... mi mancavano i cocktail….”

 

“E se me lo dicevi te ne preparavo qualcuno io, che qualcosa da quando ho fatto il barista ancora me la ricordo. Dai, forza!” esclamò, mettendole un braccio intorno alle spalle e sostenendola per farla uscire dal pub.

 

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“Dai, che ci siamo….”

 

Sospirò, mentre l’aiutava a scendere dalla macchina. Finalmente stavano per rientrare a casa sua. L’agente di vedetta era sparito, probabilmente avendo intuito la sua sorte. Avrebbero dovuto trovarne un altro o sarebbe dovuto rimanere lui lì tutta la notte, ma di organizzare quello se ne stava occupando Irene, ora che Melita era stata ritrovata.

 

“Dai, ancora uno sforzo!”

 

“Sh- shei arrabbiato con me?” gli chiese Melita, improvvisamente, bloccandosi, che per poco non le inciampava addosso e cascavano tutte e due.

 

“Se ti metti in pericolo di nuovo sì, ma mo pensa solo ad arrivare a casa.”

 

“Tu… tu shei così buono con me e io… invece… shono cattiva con te…” esclamò lei, con una mezza risata amara, guardandolo in un modo che, di nuovo, non capì.

 

E poi, nel giro di tre secondi non vide più niente ma sentì chiaramente qualcosa di morbido sulle labbra e il gusto di alcol in bocca, e dita che gli tiravano i capelli.

 

“Mmmm…” mugugnò, riuscendo per fortuna quasi subito a spingerla via, tanto che lei si sbilanciò e la recuperò appena in tempo prima che finisse con il sedere per terra.

 

E poi lei scoppiò a piangere.

 

“Dai, sei ubriaca, non sai quello che fai, vieni che ti porto a casa.”

 

Gli ultimi passi fino all’ascensore del garage gli parvero infiniti.

 

Fecero in tempo ad arrivare all’appartamento di lei che Melita vomitò una roba rossastra sulle piastrelle dell’ingresso.

 

Ma quanto si era bevuta?

 

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“Calogiù! Allora?”

 

Si trovò accecato dalle luci del salotto, Imma in camicia da notte e vestaglia che lo aspettava sul divano.

 

“Tutto bene, l’abbiamo trovata! Scusami se non ti ho avvertito prima, ma è successo di tutto.”

 

“Ma dov’era?”

 

“In un pub, ubriaca marcia, l’ho trovata dopo un’ora, non so cosa si fosse bevuta. Figurati che ha pure tentato di baciarmi mentre la riportavo a casa e-”

 

“Che cosa?!” esclamò, gli occhi che le si fecero di fuoco.

 

“E poi quasi mi ha vomitato addosso. Non è successo niente, stai tranquilla. Si è pure messa a piangere dopo, tra un vomito e l’altro, e si è scusata.”

 

Trattenne il fiato per un attimo, temendo la gelosia di Imma.

 

Ma per fortuna lo sguardo di lei sembrò rilassarsi, la tigre si era acquietata.

 

“Lo so che sei onesto, Calogiuri, e lo sai che mi fido di te, e per fortuna mo le cose me le racconti subito. Ma… forse è meglio se da Melita non ci vai più da solo… sai… tu sei appetibile già normalmente, figuriamoci dopo mesi di castità forzata e l’alcol, che pure Capozza potrebbe tenere qualche speranza. E devi avvisare subito pure la cara Irene di quello che è successo, anche se lei potrebbe andare da Melita a stringerle la mano.”

 

“Sei tremenda, dottoressa!” rise, tirando un sospiro di sollievo, soprattutto quando si lasciò abbracciare, “e comunque Irene l’ho già avvertita. Lo so che forse avrei dovuto avvisare te per prima ma… non volevo ci fossero problemi, se qualcuno ci avesse visti. Le ho scritto subito un messaggio, come mi hai insegnato tu.”

 

“Bravo, Calogiuri! Scripta manent!” esclamò, rassicurandolo ulteriormente che, per fortuna, gli credesse e sapesse anche lei che con Melita non ci avrebbe mai fatto niente, “e che ti ha detto?”

 

“Quello che mi hai detto tu, più o meno, al netto della gelosia. Lo sai che Irene si fidava poco degli altri agenti ma… visto quello che ha combinato Melita, da ora in poi avrà più persone a sorvegliarla quindi… non saremo più da soli comunque. Nemmeno in due ma pure in tre.”

 

“Meglio così…” approvò lei, e poi si sentì accarezzare il viso e quasi soffocare in un bacio che era meglio e peggio di un corso d’apnea.

 

“E mo che un bacio come si deve per stasera l’hai avuto, andiamo a letto, maresciallo!”

 

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“Mi sembra incredibile… fino a qualche mese fa sarebbe stato impossibile.”

 

Lanciò un’occhiata di sbieco ad Irene, che era in piedi accanto a lui al parco giochi, intenta ad osservare Noemi e Bianca giocare con uno di quei cosi che vanno su e giù.

 

Erano da soli: Rosa ne aveva approfittato per fare un turno extra al lavoro, che i soldi le facevano comodo, ed Imma aveva sentenziato che ormai si fidava e che si sarebbe presa il pomeriggio per fare alcune cose riguardanti il matrimonio.

 

Se avesse realmente da fare o meno non lo sapeva ma… di sicuro era una grande prova di fiducia e significava tantissimo per lui.

 

Mentre… vedere Bianca giocare così, all’aperto, in mezzo ad altri bambini, doveva significare tantissimo per Irene, che aveva gli occhi lucidi.

 

Un bimbo dell’età di Noemi si avvicinò alla giostrina di Bianca e Noemi e le salutò.

 

Trattennero il fiato ma Bianca si alzò e lo fece sedere, esclamando un adorabile “così siete bilanciati meglio!” che menomale che non c’era Imma a sentirlo.

 

Ma che le faceva studiare Irene?

 

La guardò di nuovo, ma, oltre alla felicità, lesse nei suoi occhi come malinconia.

 

“Che c’è? Sei preoccupata per il bimbo?”

 

“No, no… che con tua nipote dovrebbe essere preoccupato lui!” ironizzò Irene, ma continuò ad essere pensierosa per tutto il tempo in cui furono insieme al parco.

 

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“Non lo so se ho il coraggio di guardare.”

 

“Calogiù, clicca su sta pagina che se no ci clicco io!” gli intimò, perché la verità era che si sentiva agitata quasi peggio di quando ce l’aveva avuto lei il concorso per entrare in magistratura.

 

Ma alla fine sentì un clic e una pagina si caricò.

 

La graduatoria.

 

Fece scorrere rapidamente la vista ed il petto le si riempì d’orgoglio.

 

Calogiuri non solo era passato, ma era primo in graduatoria, su tutta Italia.

 

Manco gli inevitabili raccomandati avevano potuto niente.

 

La vista che le traballava un poco, si voltò verso di lui e lo vide a bocca spalancata, che guardava lo schermo con aria da pesce lesso.

 

“Calogiù?” gli chiese, mettendogli una mano sulla spalla e lui alzò piano la mano, pure più lento che agli inizi della loro conoscenza, ed indicò il suo nome, pronunciando, con tono incredulo, “ma… ma sono io?”

 

“Dubito ci siano altri marescialli Ippazio Calogiuri in Italia, e in caso, potreste sempre fare una class action e chiedere risarcimento alle famiglie.”

 

Lo sentì ridere e finì seduta sulle sue gambe, con lui che la abbracciava che altro che koala!

 

“Grazie, grazie!”

 

“E di che mi ringrazi, Calogiù? Guarda che hai fatto tutto tu: hai studiato tu e alle domande tu hai risposto, mica io.”

 

“Sì, ma, nessuno ha avuto un’insegnante come te. Ancora un po’ e potevo dare gli esami corrispondenti a giurisprudenza, potevo.”

 

“Leva l’ancora un po’, Calogiuri,” rise, perché effettivamente gli aveva fatto una capa tanta, soprattutto su diritto processuale penale, “e comunque guarda che tu giurisprudenza la potresti fare tranquillamente, nonostante il tuo odio per memorizzare i numeri.”

 

“Non credo ma… per intanto almeno il corso da ufficiale lo potrò fare!”

 

“Lo sai che mo ti farò una testa così pure per lo studio del corso, vero? Però prima dobbiamo festeggiare! Ma questo fine settimana, che tra due giorni c’è il maxiprocesso.”

 

“Agli ordini, dottoressa!”

 

Stava per rispondergli per le rime, quando realizzò una cosa.

 

“Che c’è?”

 

“No, niente, pensavo che… a breve non potrò più chiamarti maresciallo… dovrò abituarmi a chiamarti capitano, pure in certi momenti. Che pare quel film con Robin Williams, O Capitano! Mio Capitano!”

 

“Almeno tu resterai sempre la mia dottoressa.”

 

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“Imma….”

 

Si svegliò di soprassalto e guardò verso Calogiuri. Era ancora buio e lui era vestito per la corsa.

 

“Ma che succede?” gli chiese, perché di solito lui la mattina la lasciava dormire, da quando non aveva gli orari del lavoro.

 

E, salvo fosse impazzita, l’udienza del maxiprocesso era il giorno dopo.

 

“Succede che sono uscite queste e volevo che lo sapessi da me. Irene e la procura stanno già controbattendo con il mio rapporto di quella sera, e stiamo provvedendo a spostare Melita, visto che evidentemente mo i giornalisti sanno dove si trova, ma….”

 

Guardò il cellulare e c’era una foto del bacio. O meglio, si vedeva chiaramente che Melita stava praticamente saltando addosso a Calogiuri, ma ovviamente la parte in cui lui l’aveva respinta non c’era. Il titolo, prevedibile, era Il maresciallo toyboy e playboy colpisce ancora! La pantera tirerà fuori gli artigli?

 

“Questa foto è…”

 

“La telecamera di sicurezza del parcheggio, sì. Se becco come l’hanno avuta la registrazione! Altro che società di sicurezza!”

 

“Ma per Melita avete già trovato un luogo più sicuro?”


“Secondo Irene sì, ma… pure questo pensavamo fosse sicuro e invece….”

 

“Forse con la fuga ha attirato l’attenzione? Ma mi chiedo come mai non abbiano colpito diversamente, invece che limitarsi a due foto sui giornali per screditarti. Forse… forse, se succedesse qualcosa a Melita, sarebbe troppo sospetto nei confronti di Villari e del clan di Milano?”

 

“Forse… non lo so… per fortuna non è successo di peggio ma… il processo è domani e… e mo ci sarà pure questa gatta da pelare per Irene.”

 

“Va beh, Calogiù, stavolta ti sei comportato da manuale. Vedrai che Irene riuscirà a smontare anche questa foto. E poi… ci sarò pure io, che devo testimoniare.”

 

“Appunto! E già devi pensare alla storia della paternità e a Romaniello e… questa non ci voleva!”

 

“Non ti preoccupare. Tu mo vai al lavoro e vedete di gestire bene la situazione dei giornali. E domani faremo tutto il possibile, vedrai,” lo rassicurò, accarezzandogli il viso, “anzi, mo ti vai a sistemare e a fare la barba, che pungi, e io ti preparo la colazione, già che sono sveglia.”

 

Un sorriso, un bacio e, sebbene fosse più preoccupata di quanto volesse dargli a vedere, si avviò per iniziare quella che si prospettava come una giornata di fuoco.

 

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“Dottoressa Tataranni! Ha visto le foto? Una dichiarazione!”

 

Era appena uscita dal supermercato e ci aveva trovato un giornalista, giovane, con tanto di cinepresa al seguito. Pareva una cosa più locale che nazionale, probabilmente uno agli inizi.

 

Ebbe l’istinto di rientrare nel supermercato e chiamare il taxi, cosa che avrebbe comunque dovuto fare dopo ma… forse era giunto il momento di prendere in mano la narrazione.

 

“Se non la tagli sì. Ti avviso che mi riprendo pure io e, in caso di tagli, la metto online, a scanso di equivoci.”

 

Il ragazzetto spalancò la bocca, sorpreso e annuì, “non si preoccupi, niente tagli, a meno che non sia una cosa troppo lunga.”

 

“No, è brevissima. Se vuoi riprendere. Senza far vedere dove siamo però.”

 

Il giornalista fece segno al cameraman e poi iniziò con la sua tiritera, “e per Lazio News, sono con la dottoressa Imma Tataranni, che ha accettato di rilasciarci una dichiarazione, riguardo alle foto che vedono il suo fidanzato ripreso a baciarsi con una testimone chiave del maxiprocesso, che avrà una nuova udienza domani. Non è la prima volta che viene beccato a baciare altre donne, ricordiamo la foto con la dottoressa Ferrari, che si occupa del maxiprocesso, che ha da dire in proposito?”

 

“In proposito ho da dire che la foto con la dottoressa Ferrari, com’è già stato ampiamente chiarito, era stata scattata durante un pedinamento, quindi in un momento di lavoro e-”

 

“Ed è lavoro anche baciare le testimoni?”

 

“No, ma Melita - Melania Russo - era ubriaca, come si può notare persino dalla foto, per quanto era sbilanciata. La foto è stata ottenuta da una telecamera di sorveglianza, e non sarà difficile provare cos’è successo prima e dopo, anzi, immagino che le immagini verranno rilasciate a breve dalla procura. Oltretutto questo fatto è successo diversi giorni fa ed il maresciallo Calogiuri ne ha subito fatto parola e rapporto ai superiori, oltre a dirlo a me personalmente. Quindi non c’è proprio niente in quelle foto, se non la violazione gravissima della sicurezza di una persona sotto protezione, che si è trovata in grave pericolo. Non ho altro da dichiarare.”

 

Il ragazzetto sorrise e stoppò il filmato ed Imma gli disse, “mi raccomando! E se ti rivedo qua davanti, per la mia prossima dichiarazione dovrai fare una seduta spiritica, perché col cavolo che ti dò un’altra possibilità.”

 

“V- va bene. Ma posso lasciarle il mio biglietto da visita? Se avesse altre dichiarazioni da fare…” disse il giornalista, porgendole un tristissimo biglietto da visita che le ricordò tremendamente quello della povera Donata Miulli, con Matera, Roma, New York.

 

Edoardo Bruno - giornalista - Rome, Paris, London

 

Le fece un po’ pena. Per quello lo prese, anche se per le dichiarazioni ufficiali in pompa magna, c’era già Frazer, che era sicuramente più affidabile.

 

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“Dottoressa, che le è saltato in mente di rilasciare una dichiarazione senza consultarmi?”

 

Era tornata a casa da poco, dopo un lunghissimo giro, e Mancini l’aveva chiamata, evidentemente furente.

 

“Dottore, dal momento che non lavoro più in procura, credo di poter rilasciare dichiarazioni liberamente. In ogni caso, l’ho fatto soltanto per dare più credito a ciò che sicuramente lei e la dottoressa Ferrari produrrete in giudizio e per smontare le voci sul nascere prima di domani. Se ho fatto male, me ne assumo la responsabilità, ma sareste folli a non far uscire tutto il filmato delle telecamere di sicurezza.”

 

“Ed infatti lo faremo uscire, dottoressa, ma a questo punto volevamo tenercelo per il processo. In ogni caso lei, professionalmente, a parte per i casi in essere e per domani che deve testimoniare, non mi deve più nulla ma, visto che in procura ci lavora il maresciallo con le labbra più attira baci d’Italia, che è pure il suo fidanzato, magari consultare me ed Irene prima-”


“Ma non è colpa di Calogiuri se Melita è scappata, e non l’ha chiesto lui di occuparsi di lei personalmente, ma è stata la cara Irene. Che oltretutto è stato sempre grazie a lei e alle sue brillanti idee di copertura, se il maresciallo si è preso la reputazione di attira baci. Quindi di queste cose vada a lamentarsi con lei e non con me, che sto solo cercando di preservare la reputazione della procura, del processo e di Calogiuri, che non ha fatto niente di male, se non ritrovare Melita prima che foste tutti quanti nella merda, e mi scusi il francesismo.”

 

Sentì silenzio dall’altra parte e pensò che Mancini avesse buttato giù il telefono.

 

“Domani venga in tribunale puntuale,” disse invece Mancini, con un tono strano, quasi sconfitto.

 

E solo allora la linea si interruppe.

 

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“Dottoressa, ha altre dichiarazioni? Come mai è qui oggi? Deve testimoniare o non si fida del suo fidanzato?”

 

“Dottoressa, sappiamo che ha perso il lavoro, come mai, nonostante questo e la sua parentela con uno degli imputati, è qui?”

 

“La dottoressa non ha perso il lavoro, ha scelto volontariamente di prendere un periodo di aspettativa per non creare problemi al maxiprocesso. E quanto successo tra il maresciallo e Melania Russo mi sembra sia stato chiarito dai video e dalle dichiarazioni rese ieri e verrà ulteriormente chiarito in sede di dibattimento. Ora fateci passare.”

 

Mancini, tanto era incazzoso con lei ieri, tanto sembrava protettivo davanti alle telecamere. Se l’era trovato in auto insieme a Mariani ed aveva insistito per scortarla personalmente. Calogiuri e la cara Irene già stavano in tribunale, insieme a Melita e al resto del team dell’accusa.

 

“La dottoressa veramente non ha altre dichiarazioni?”

 

“Quello che avevo da dire l’ho detto ieri. Mo fateci passare!”

 

Alla fine, con l’intervento di alcuni degli agenti e l’aiuto di Mancini e di Mariani, riuscì a varcare la soglia del tribunale.

 

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“Ed ora la difesa chiama al banco dei testimoni il maresciallo Ippazio Calogiuri.”

 

Scambiò uno sguardo con Imma, seduta accanto a lui, e lei strinse ancora più forte la sua mano e poi gliela lasciò andare, con un cenno di incoraggiamento.

 

Fino ad allora era andato tutto bene, ma erano soltanto all’inizio.

 

Si alzò, arrivò al banco dei testimoni e fece il classico giuramento.

 

“Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza.”

 

L’avvocato annuì e, dopo un attimo di pausa, volutamente snervante, fece la prima domanda.


“Maresciallo Calogiuri, è vero o non è vero che ha una relazione di tipo… sentimentale e fisico con la signorina Melania Russo?”

 

“Signor giudice!” obiettò subito Irene, sporgendosi in avanti sul banco del magistrato, “non vedo cosa c’entrino queste insinuazioni e questi pettegolezzi, peraltro già ampiamente chiariti con tanto di video e rapporti scritti, con il procedimento ora in corso.”

 

“C’entra eccome, visto che il maresciallo è uno dei principali fautori delle rivelazioni della Russo, nonché la persona che più di tutte si è occupata della parte di indagini su questo processo. Chiedo che siano messe agli atti delle foto da poco emerse riguardanti il maresciallo e la Russo.”

 

“Veramente quelle foto le hanno viste tutti e-”

 

“Non parlo delle foto uscite ieri, ma di altre foto che sono state portate alla nostra attenzione. Risalgono all’estate scorsa, per precisione alla notte che ha di poco preceduto la testimonianza resa dalla Russo sull’avvocato Villari.”

 

Irene lo guardò come a chiedere ma cosa? e poi l’avvocato porse delle foto al giudice.

 

Il giudice guardò l’avvocato, poi guardò Irene e le disse di avvicinarsi per vedere anche lei le foto. Irene lo fece e sospirò ma annuì, proclamando, “per me non c’è problema che queste foto vengano messe agli atti, visto che ero già al corrente dei fatti che le riguardano.”

 

Un incaricato del tribunale prese le foto e le proiettò perché le vedessero tutti i presenti. Si vedeva lui che teneva in braccio Melita, davanti a quello che una volta era il suo appartamento.

 

“Maresciallo, cosa ha da dire su queste foto?”

 

“Che stavo riportando la signorina Russo alla sua residenza dell’epoca, dopo che si era sentita male.”

 

“E come mai lei era uscito con la Russo?”

 

“Ci eravamo incontrati qualche settimana prima, con anche presente la dottoressa Tataranni. La signorina Russo ci ha invitati nuovamente ad uscire, ma la dottoressa Tataranni non poteva presenziare, trovandosi a Matera. La stessa Russo ha ammesso che l’invito di quella sera fu caldeggiato dall’avvocato Villari, in quanto la Russo doveva riportargli informazioni su di me e sulla dottoressa. Ma si è sentita male durante la serata e l’ho riaccomapagnata a casa e, successivamente, al pronto soccorso.”

 

“Certo che queste immagini sembrano tradire una certa… confidenza tra voi due-”

 

“Non direi, lei come la riaccompagnerebbe a casa una persona che non si regge in piedi?”

 

“Ad esempio chiamando immediatamente l’ambulanza. Ma questo magari avrebbe contrastato con i suoi scopi, cioè di approfittare di un momento di vulnerabilità della Russo per convincerla a testimoniare.”

 

“L’ho portata al pronto soccorso appena lei me lo ha consentito, dato che non volevo obbligarla proprio a niente, e comunque-”

 

“E comunque mi pare molto conveniente che la principale testimone sia una persona che lei e la dottoressa già conoscevate, e soprattutto che tutte queste donne continuino a gettarlesi addosso senza motivo, maresciallo. Come nel bacio della foto di ieri, cosa che, di nuovo, tradisce una grande confidenza nei suoi confronti.”

 

“A me pare una coincidenza molto più conveniente il fatto che ci sia sempre qualcuno appostato a fare foto, qualcuno evidentemente informato della mia uscita con la Russo di quella sera, o ad ottenere illegalmente immagini di una telecamera di sorveglianza, violando la sicurezza di una persona sotto protezione e svelandone il domicilio,” ribattè, senza perdere un colpo, e vide che Irene annuiva e pure Imma, “tra me e la signorina Russo non c’è assolutamente nulla, tanto è vero che posso affermare con certezza che non esistono sicuramente altre foto.”

 

“Non di eventi… particolari, no ma… analizzando i filmati delle telecamere di sicurezza, abbiamo potuto notare come, nelle occasioni in cui lei riaccompagnava la Russo, da solo, trascorrevano svariati minuti prima che lei tornasse in auto, almeno quindici, una volta anche quasi mezz’ora. Ci chiediamo che cosa succedesse in quei minuti.”

 

“Succedeva che facevo il giro della casa della Russo, per accertarmi che non ci fosse nessuno, e poi lei mi esprimeva le sue preoccupazioni riguardo alla sua condizione e all’andamento del processo. Io le parlavo e la rassicuravo. La signorina Russo pativa ovviamente molto sia le minacce contro la sua persona, che l’ingiusta perdita della libertà di movimento che aveva prima. E quindi parlavamo e cercavo di rassicurarla su cosa sarebbe successo e sul fatto che l’avremmo tenuta protetta.”

 

“Eppure la signorina Russo, che doveva sentirsi così minacciata, ha cercato di fuggire spontaneamente alla sorveglianza, la sera in cui hanno ripreso quel bacio.”

 

Calogiuri si sorprese per un attimo che avessero quell’informazione.

 

“Avvocato, queste sono, di nuovo, informazioni riservate e sensibili e che possono incidere sulla sicurezza della Russo,” intervenne prontamente Irene, “è vero, la signorina Russo si è allontanata volontariamente, perché psicologicamente provata dalla sua nuova condizione di vita. Ma questo non sminuisce il suo sentirsi minacciata, anzi, riprova il grande impatto emotivo e sulla sua psiche che ha avuto la vicenda degli ultimi mesi.”

 

L’avvocato ignorò Irene e si rivolse nuovamente a lui, “quindi, maresciallo Calogiuri, lei continua a sostenere che tra lei e la Russo non ci sia mai stata una relazione… sentimentale e che non abbiate mai avuto rapporti intimi?”

 

“Ovviamente no, io e la Russo abbiamo mantenuto un rapporto professionale, sempre.”

 

“Maresciallo, le ricordo che è sotto giuramento,” insistè l’avvocato.

 

Ma dove voleva arrivare?


“Lo so, ma non ho alcun problema a giurarlo, perché è la verità,” ribadì, deciso, perché appunto era soltanto la pura e semplice realtà dei fatti.

 

Ma notò che Irene aveva un’espressione preoccupata e, subito dietro di lei, pure Imma pareva molto inquietata.

 

“Non ho altre domande….”

 

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Non le piaceva, non le piaceva per niente.

 

Tutta quell’insistenza, quelle ripetizioni, quel portare Calogiuri a ribadire il giuramento. C’era qualcosa che non andava, che le sfuggiva.

 

Irene si voltò verso di lei e, per una volta, si capirono immediatamente. Anche lei era palesemente preoccupata e le fece un segno come a dire non mi piace.

 

Fu raggiunta da Calogiuri che la guardò come a chiederle che avesse, lei gli fece cenno di sedersi e gli stritolò la mano, pregando di sbagliarsi.

 

“La difesa chiama a testimoniare la signorina Melania Russo.”

 

E pure questa sequenza di testimonianze non le piaceva.

 

Melita, che stava vicino a Mariani e Conti, qualche fila dietro a loro, si alzò ed iniziò ad andare verso la postazione dei testimoni. Si vedeva che tremava.

 

Ed una sensazione dentro di lei, mentre Melita faceva il giuramento, continuava a dirle che stava per succedere qualcosa che non le sarebbe piaciuto.

 

“Signorina Russo, è vero o non è vero che lei ha avuto una relazione con il maresciallo? Le ricordo che è sotto giuramento, anche se lei è abituata a mentire in tribunale.”

 

“Signor giudice, l’avvocato mina la credibilità della teste con affermazioni senza fondamento.”

 

“Obiezione accolta: avvocato si contenga!”

 

“Signor giudice, io mi posso anche contenere, ma le mie affermazioni non sono affatto senza fondamento e voglio chiedere alla signorina Russo se si rende conto di cosa rischia penalmente proseguendo con questa condotta, per un uomo che continua a rinnegarla, oltretutto, e che si sta per sposare con un’altra donna.”

 

Melita scoppiò a piangere. E poi i loro sguardi si incrociarono e la vide chiaramente scuotere il capo e sussurrare un “mi dispiace!”, rivolto sia a lei che a Calogiuri.

 

“Avvocato, ha visto come ha ridotto la teste e-”

 

“L’avvocato ha ragione.”

 

Melita aveva interrotto Irene, d’improvviso, nonostante la voce le tremasse e continuasse a piangere, “è vero, io e… ed il maresciallo Calogiuri abbiamo una relazione, che va avanti ormai da diversi mesi.”

 

Ci fu un boato in aula. La mano di Calogiuri stritolò ancora di più la sua, lo guardò e lo vide in panico totale, che le sussurrava, “non è vero!”

 

Cercò di rassicurarlo, ricambiando la stretta: sapeva che non fosse vero, ma la difesa doveva avere in qualche modo convinto Melita a ritrattare tutto o… o potevano essere d’accordo fin dall’inizio.

 

“Quindi è stato il maresciallo a convincerla a giurare il falso sull’avvocato Villari? Magari per fare carriera, cosa a cui evidentemente tiene particolarmente, visto che ha appena passato un concorso per ufficiali.”

 

“Signor giudice, le affermazioni che sta facendo l’avvocato, oltre ad imbeccare la teste, sono passibili di diffamazione e non vedo come fare un concorso per aumentare di grado sia segno di un’ambizione sfrenata, invece che una cosa normale che provano quasi tutti a fare, specialmente se giovani come il maresciallo.”

 

“Dottoressa, obiezione accolta. Avvocato, non suggerisca le motivazioni alla teste e si attenga ai fatti, senza giudizi personali di merito sull’operato altrui.”

 

“Allora lo lascio dire alla teste. Che è successo esattamente tra lei ed il maresciallo in questi mesi?”

 

“Il… il maresciallo… ha… ha saputo che mi frequentavo con l’avvocato Villari che… che avevamo una relazione e… e quella sera, quando… non sono stata bene, mi ha… mi ha portata a casa e… e poi in ospedale e… poi mi ha riportata a casa e… era stato così gentile, così premuroso con me e... e abbiamo fatto l’amore. E poi mi ha convinta a… a raccontare quella storia che… che lui mi ha suggerito perché così… avrebbe avuto il merito di aver vinto due processi importanti, a Roma e Milano e… sarebbe diventato un eroe. Io… a me lui piaceva… ero molto presa da lui, e lui l’aveva capito e… e ho accettato. Anche perché era così buono con me e… e poi… e poi abbiamo continuato ad avere una relazione, e mi aveva promesso che, se avessi continuato ad aiutarlo, finito il corso da ufficiali avrebbe lasciato la dottoressa e ce ne saremmo andati insieme da qualche parte e, quando sarebbero finiti i processi, saremmo potuti uscire allo scoperto.”

 

Sentì una rabbia fortissima dentro di lei, verso Melita: non era una scema o un’ingenua e manco il Calogiuri di Grottaminarda avrebbe potuto credere ad una promessa e ad una storia del genere. Era chiaro pure ad un bambino che Calogiuri, se l’avesse convinta a testimoniare il falso per lei, non avrebbe mai e poi mai potuto avere successivamente una relazione pubblica con lei. Stava cercando di incastrarlo e si chiese il perché e da quanto.

 

Si sentì stritolare la mano e lo guardò: aveva gli occhi pieni di lacrime e le fece una tenerezza incredibile.


“Io non… io non avrei mai-”

 

“Lo so, non ti devi preoccupare per me,” gli sussurrò, mentre Irene, talmente protesa in avanti che tra un po’ cascava, cercava di metterci una pezza.

 

“Signor giudice, la teste ha già testimoniato di essere stata minacciata dall’avvocato e dai suoi… amici di Milano. Dalle foto è evidente solo una cosa, cioè che la posizione della teste era nota non solo a noi, ma anche ad altre persone. Questa è una ritrattazione assurda: nemmeno una principessa appena uscita dalle fiabe avrebbe potuto credere alle promesse a cui la teste sostiene di aver creduto. Mi pare evidente che sia stata sottoposta a minacce e a pressioni, per convincerla a ritrattare tutto e ad inventarsi questa storia.”

 

“Signor giudice, la dottoressa non ha prove delle affermazioni gravi che sta facendo e-”

 

“Perché? Lei o la teste ne avete delle prove delle affermazioni gravissime che state facendo?”

 

L’espressione dell’avvocato fu il momento esatto in cui le si spezzò il cuore.

 

Aveva un’aria di trionfo. Irene si voltò rapidamente, verso di loro, chiaramente in panico, ancora prima che l’avvocato dicesse, “signorina Russo, ha delle prove di ciò che afferma?”

 

Melita prese un respiro e poi ricominciò a piangere, e stavolta non guardava nessuno, se non l’avvocato o il pavimento, come del resto era stato da quando aveva cominciato ad accusare Calogiuri. Ma annuì.

 

“Il… il maresciallo è stato molto attento a non lasciare prove ma… ha… ha dei nei, in una zona… molto intima… tre nei, che sembrano una freccia… che punta verso il basso e verso… insomma… e ne ha pure uno più grande, ovale... come una voglia, posteriormente a sinistra.”

 

Un conato di vomito, fortissimo, ed un capogiro, perché quei nei….

 

“Non… non so come lo sappia… non ho fatto niente… te lo giuro.”

 

Il sussurro - o forse era un grido? - si perse in mezzo al ronzio delle orecchie che fischiavano ed ebba la netta impressione di stare per svenire. Ma non poteva, non poteva e-

 

“Non ho altre domande. Chiamo al banco dei testimoni la dottoressa Tataranni.”

 

La voce dell’avvocato le arrivò ovattata, al rallentatore.

 

Si sentiva pietrificata, come se potesse percepire tutto insieme e niente allo stesso tempo. Ma il cervello, quello ancora funzionava e… e sapeva, sapeva cosa le avrebbe chiesto l’avvocato, quale sarebbe stata l’unica domanda.

 

Non c’era scampo. Per lei, per lui.

 

Per loro.

 

Improvvisamente, le dita che stringevano le sue fino allo stritolamento sembrarono ustionarla.

 

Strappò via la mano, con così tanta forza che sentì una fitta fortissima alla spalla destra, insieme al “Imma, non-”

 

“La dottoressa non è in condizioni di testimoniare.”

 

La voce di Irene, netta, decisa, che sovrastava tutte le altre e la nebbia che le avvolgeva ancora gli occhi.

 

“Signor giudice, possiamo aspettare qualche minuto ma-”

 

Si alzò, perché sapeva che sarebbe stato inutile fare altrimenti. Sentì ed intravide appena il “Imma, sei sicura di-?” di Irene e quegli occhi scuri che la guardavano, preoccupati.

 

Il secondo “Imma!” le sue orecchie non lo vollero sentire, perché veniva da lui.

 

Imbecille, cretina, deficiente! - si disse da sola, incamminandosi in mezzo all’ovatta verso il patibolo e la sentenza.

 

Non avrebbe saputo dire in che modo o con quali forze, ma ci si sedette.

 

Ed improvvisamente, ed in modo lancinante, il mondo tornò chiaro, troppo chiaro, i suoi occhi non avrebbero voluto vedere e le sue orecchie sentire. La lingua non avrebbe voluto parlare, ma non poteva evitarlo.

 

Ripeté il giuramento a macchinetta, come le vecchiette che recitano il rosario e le orazioni a memoria.

 

“Dottoressa, è vero o non è vero che il maresciallo ha quei… segni distintivi, nei posti elencati dalla signorina Russo? Le ricordo che è sotto giuramento e che non può non saperlo.”

 

Il tono ed il sorriso di trionfo sul viso da topo dell’avvocato le fecero schifo. Ma non più di tutto il resto.

 

“Signor giudice, a me sembra inutilmente crudele sottoporre la dottoressa a questo interrogatorio. Basterà un accertamento medico e-”

 

“Signor giudice, l’avvocato Villari ha già sofferto abbastanza per le infamità che gli sono state rivolte. E con lui tutti gli imputati di questo processo, evidentemente viziato. Chiedo che la dottoressa risponda alla domanda e chiarisca tutto!”

 

“Questa domanda non chiarisce un bel niente, signor giudice!” sbottò, non sapendo nemmeno lei con che forza, “il… il maresciallo…” faticò a dire, con il gelo nella voce, “non chiederebbe mai a qualcuno di testimoniare il falso in tribunale per lui, neanche se ci avesse avuto… rapporti intimi.”

 

Vide la sorpresa di Irene. Luilui non lo voleva vedere, non ne aveva la forza.

 

“Chi è traditore nel poco, lo è anche nel molto. Una frase della Bibbia che lei stessa ha citato in un processo, una volta. Quindi le rifaccio la domanda, alla quale non ha mai risposto. Il maresciallo ha quei segni distintivi sul corpo, in punti normalmente ben nascosti alla vista?”

 

Le venne da piangere, pure mentre l’incazzatura le montava. Con una sillaba avrebbe buttato nel cesso anni di lavoro, almeno due carriere e due reputazioni, la giustizia di così tante persone che non ci sarebbe mai stata, mentre i soliti noti l’avrebbero fatta franca ancora una volta. Romaniello Sr., dalla sua gabbia, aveva uno sguardo che non si sarebbe mai scordata.

 

Le diceva chiaramente che alla fine era riuscito a schiacciarla, come lo scarafaggio che era, che l’ordine delle cose non sarebbe mai cambiato.

 

Ma, nonostante quello, con tutta la fierezza che non aveva più, pronunciò la sua stessa condanna, chiuse sul suo collo la trappola che chissà da quanto tempo era pronta a scattare.

 

“Sì.”



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo capitolo, che avrebbe potuto anche intitolarsi “Il Grande Casino”, perché… è scoppiato definitivamente tutto e, come potete intuire benissimo, la “confessione” di Melita rischia di distruggere tutto e tutti, non solo da un punto di vista sentimentale, ma pure lavorativo, specialmente Calogiuri.

Imma finora si è fidata molto di Calogiuri, ma di fronte ad una prova così apparentemente schiacciante…

Calogiuri d’altro canto non l’ha tradita, ha sempre cercato di rispettare le procedure e si è visto crollare il mondo addosso ma… mica sarà facile per lui dimostrare la sua innocenza e non solo a lei.

Dal prossimo capitolo quindi salteranno molti equilibri e ci saranno parecchi eventi drammatici ma… vi voglio rassicurare fin da ora che ciò che non distrugge fortifica e che questa è davvero l’ultima, grande, prova finale da superare e l’ultimo giallo da risolvere prima della conclusione di questa storia, in cui sia Imma che Calogiuri dovranno mostrare quanto si sono evoluti e quanto sono maturati in questi capitoli e lottare per arrivare alla verità.

Spero che continuerete ad avere fiducia in me e a seguirmi, vi prometto che oltre al brutto ci attendono anche parecchie cose belle, oltre al lieto fine che già sapete.

Grazie mille per avermi letta fin qui, ringrazio chi ha messo la mia storia nei preferiti o nei seguiti ed un ringraziamento enorme a chi prende il tempo di lasciarmi una recensione, che mi fanno sempre moltissimo piacere.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica undici aprile, in caso contrario vi aggiornerò tramite la mia pagina autore qua su EFP.

Grazie mille ancora e buona pasqua a tutti voi!

 

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Capitolo 58
*** La Vecchia Imma ***


Nessun Alibi


Capitolo 58 - La Vecchia Imma


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Il boato fu assordante, come se dentro l’aula di tribunale una bomba fosse esplosa letteralmente e non solo in maniera figurativa.

 

Il “non ho altre domande!” dell’avvocato la raggiunse mentre il mondo di nuovo si ovattava e le veniva da piangere ma doveva trattenersi, non voleva dare a nessuno quella soddisfazione.

 

Udì il richiamo al silenzio del giudice e la seduta fu aggiornata a data da destinarsi, visti i gravissimi sviluppi.

 

Tutto come da copione.

 

Si alzò, subito, prima che i giornalisti potessero raggiungerla, e vide Irene farlesi vicino, sentì il braccio intorno alle spalle. Avrebbe voluto rifiutarlo e protestare, ma le gambe non glielo consentirono: a fatica si reggeva in piedi.

 

“La dottoressa non ha niente da dichiarare!” la sentì pronunciare al posto suo, mentre superavano le porte e gli agenti appostati di guardia.

 

*********************************************************************************************************

 

Si sentiva come se la testa gli stesse esplodendo, le gambe paralizzate ed il panico che gli contorceva lo stomaco.

 

Non ci poteva credere, non ci poteva credere!

 

Ma soprattutto, come avrebbe potuto credergli lei?

 

Quel pensiero fu puro terrore ed infine lo fece scattare in piedi, per cercare disperatamente di raggiungere Imma, che stava sparendo oltre le porte dell’aula, ma si trovò bloccato da una folla di giornalisti.

 

Non demorse, perché non poteva, facendosi largo quasi a spintoni - che scrivessero pure quello che volevano! - fino a lanciare un’occhiata implorante agli agenti che si guardarono e lo fecero passare.

 

Il cuore in gola, corse fino alla stanza assegnata ad Irene e, di nuovo, incrociò lo sguardo della guardia che sospirò e gli fece cenno di procedere.

 

Come aprì la porta, con le dita che pareva avesse il Parkinson, si trovò davanti Irene ed Imma sedute sul divanetto in fondo alla stanza, Imma che stava bevendo avidamente da una bottiglietta d’acqua.

 

Un battito del cuore e gli occhi di Imma furono nei suoi, gelidi e furenti come neanche nei momenti peggiori, quando lo aveva mandato via da casa dopo Milano.

 

Un altro battito ed il rumore di plastica accartocciata e di acqua che cadeva: Imma aveva stretto la bottiglietta talmente forte da rovesciarsene mezza addosso.

 

Ma non fece una piega, continuando a fissarlo in quel modo che lo faceva sentire peggio di un insetto schifoso, la bottiglia cadde per terra con un tonfo sordo, lei si alzò in piedi.

 

“Imma, devi stare seduta e-” provò a protestare Irene, ma Imma spinse via la mano che le porgeva, prima di stringerle entrambe a pugno e marciare verso di lui, fermandosi a pochi passi, troppo lontano per toccarla ma abbastanza vicino da sentire il respiro affannoso di lei schiaffeggiargli il viso.

 

“Imma, non ho-”

 

Imma non ho cosa?! Sei un imbecille! Ecco di chi mi sono innamorata: di un imbecille che non è manco capace di tenerselo nei pantaloni! O almeno di selezionare bene con chi tenerselo nei pantaloni!”

 

Altro che uno schiaffo fu. Proprio lei, l’unica che aveva sempre creduto che non fosse scemo come dicevano tutti, anzi.

 

“Non ho fatto quello che dice Melita, io-”

 

“Ma lo so benissimo che Melita si è inventata quasi tutto!” lo interruppe, ancora più incazzata, alzando le mani verso il cielo, “lo so che non l’hai costretta a dire proprio niente e posso pure immaginarmi che tutta la storiella romantica di lei innamorata di te e delle promesse che le avresti fatto è una palla, ma che ci sei andato a letto è evidente e ti sei fatto incastrare dall’avvocato come uno scemo! Almeno c’avessi avuto le palle di ammetterlo e invece hai pure giurato il falso in tribunale, complimenti! Hai distrutto tutto per una scopata, tutto! Ti sei rovinato la vita e l’hai rovinata pure me, che sono stata così scema da fidarmi delle promesse di uno più scemo di me! Anni e anni di lavoro e la speranza di una città intera di avere giustizia, buttati nel cesso! Spero almeno che sia stata più di una botta e via e che ne sia valsa la pena! ”

 

Più parlava e più urlava, ormai sempre più vicina, gocce di saliva che gli colpivano la faccia ad ogni sibilo: se pensava di avere visto Imma furente, non aveva visto nulla, mentre al terrore per loro, si aggiunse il terrore per lei, che le prendesse un colpo.

 

“Imma, non ti ho mai tradita, MAI, mi devi credere!” la implorò, cercando di prenderle le mani, ma lei le schiaffeggiò via, sibilando un “non mi toccare!” che gli gelò il sangue nelle vene.

 

“Ah, no?! E allora cosa ci facevi le mezz’ore da Melita, di cui non sapevo niente, eh?! E com’è che, tra un po’, sa disegnare la mappa di tutti i tuoi nei? Che se li è sognati? Una veggente è?!”

 

“Non lo so come fa a saperlo, non lo so!” urlò, disperato, non sapendo nemmeno come farsi credere, ma doveva trovare un modo, “mi fermavo da lei per parlarle, per tranquillizzarla perché… mi diceva di essere terrorizzata e di non sopportare la vita sotto scorta, ma non ci ho mai fatto niente, MAI, e-”

 

“E se almeno avessi le palle di ammetterlo mo, invece di continuare a negare pure l’evidenza e a prendermi per scema! Che… mentre io ho rinunciato al mio lavoro per te, mentre mi imbottivo di medicine per darti un figlio e progettavo il nostro matrimonio… siccome ero intrattabile e da me non beccavi, hai beccato altrove e pure di nuovo da una coinvolta in un caso! Che è? Il nome che finisce in ita che le rende così irresistibili? Non hai imparato niente, niente!”

 

Uno, poi due pugni sul petto, ma le parole erano come pugnali, i colpi quasi non li sentiva, la delusione di Imma era la cosa che gli faceva più male di tutto.


“Imma, stai calma!” urlò Irene, che provò ad afferrarle le braccia da dietro, beccandosi quasi una gomitata in pancia, “se vai avanti così entrano le guardie, e pure i giornalisti sentono tutto.”

 

Imma si bloccò, di sasso. La furia aveva lasciato spazio al gelo più totale, uno sguardo vuoto, assente.

 

Si guardò le mani e fece una smorfia, come se le venisse da vomitare.

 

Come al rallentatore, la vide sfilare l’anello, sentì l’impatto del metallo contro una guancia e poi il tintinnio mentre cadeva a terra.

 

“Mo tu te ne vai a casa mia, perché da oggi quella è soltanto casa mia,” gli sibilò in faccia, talmente roca che faceva fatica a capire le parole, ma lo sguardo non se lo sarebbe scordato mai, “ti prendi le tue cose, che ti bastino per parecchio tempo, e quando torno non ti voglio vedere neanche in fotografia!”

 

“Imma, ti prego, non ho fatto niente, te lo giuro e-”

 

Non giurare più!”

 

Il grido fu terrificante e sentì di nuovo pugni sul petto, finché Irene in qualche modo la trattenne.

 

“Ora è meglio che vai, Calogiuri, è un ordine,” gli intimò, con un’espressione che non ammetteva repliche, l’aria di chi stava facendo una fatica immane a tenere calma Imma, “non fai che peggiorare le cose così.”

 

Purtroppo, come sempre, aveva ragione.

 

Le lacrime gli appannarono la vista ma, dopo un’ultima implorazione silenziosa nel gelo delle iridi di Imma, si arrese, si chinò a prendere l’anello, segno di tutti i sogni e delle speranze ormai in macerie, si voltò e, in qualche modo, uscì dalla stanza.

 

Fece per avviarsi verso l’uscita della procura ma si trovò davanti Conti, con una faccia che non prometteva niente di buono.

 

“Conti, io-”

 

“Sei un coglione, questo sei! E io che mi ero fidato di te e ti avevo dato di nuovo la mia amicizia! Ma che ci trovano le donne in te, eh?!”

 

Gli si avvicinò minaccioso, ma sentì passi rapidi ed udì una voce familiare esclamare, “ma siete scemi?! Ci manca solo questo, adesso! Calogiuri, preparo la macchina, ti aspetto fuori dal tribunale entro cinque minuti.”

 

Rimase senza parole, vedendola sparire oltre la porta, ma si affrettò ad uscire dal corridoio, prima che a Conti venissero altre idee, procedendo verso l’ingresso, dove ci trovò, di nuovo, una folla di giornalisti pronti ad assaltarlo.

 

Gli urlarono addosso di tutto, da chi gli chiedeva se sapeva che ora sarebbe stato imputato, da chi gridava il maresciallo playboy, a chi gli chiedeva se era veramente corrotto.

 

Che era una di quelle domande talmente sceme e surreali, come quando a chi gli era appena morto qualche parente domandavano come si sentiva.

 

Cercò di farsi largo il più possibile, senza cedere all’istinto di menarne qualcuno, con i loro sorrisetti e le loro telecamere schiaffate in faccia, e alla fine riuscì in qualche modo ad emergere dal mare di corpi e a correre verso l’auto di servizio di Mariani.

 

Ci si buttò dentro, chiuse la portiera e lei partì con una sgommata da manuale.

 

“Grazie…" le sussurrò, dopo essersi infilato la cintura.

 

“Non mi ringraziare. Lo faccio solo perché voglio evitare un’altra umiliazione ad Imma e altri casini alla procura. Dove ti porto? Che, al posto di Imma, non ti vorrei a casa manco dipinto, conoscendola poi.”

 

Fu l’ennesimo cazzotto, dritto in pancia.

 

Pure Mariani ce l’aveva con lui.

 

“Non ho tradito Imma, non-”

 

“Le scuse risparmiale per lei. Tutti uguali siete voi uomini: due tette, un po’ di stacco di coscia e non ragionate più col cervello ma con altro. Allora, dove ti porto?”


“A… a casa… devo prendere le mie cose e poi-”

 

“E poi ti aspetto e mi dici dove portarti,” concluse lei, secca, continuando a guidare e facendo, come da prassi, un giro molto largo.

 

Era tutto surreale e, allo stesso tempo, gli veniva da vomitare.

 

*********************************************************************************************************

 

Infilava intimo, pantaloni, magliette, maglioni dal collo alto alla cieca dentro la valigia grande. Avrebbe voluto portarsi solo un borsone, ma Imma era stata chiarissima e non voleva peggiorare ancora la situazione.

 

Anche se… peggio di così.

 

Ogni cosa che entrava nel bagaglio e svuotava il suo lato dell’armadio era un colpo al cuore.

 

Sentiva miagolii interrogativi intorno ai suoi piedi ma come poteva spiegarle?

 

Non riusciva a spiegarselo nemmeno lui quello che era successo, come poteva spiegarselo Imma?

 

La paura fottuta di averla persa davvero, per sempre, non lo mollava da quando lei aveva pronunciato quel “sì!” in tribunale.

 

La delusione, il tradimento che leggeva in lei erano quasi inappellabili. E non riusciva a darle torto, pure se… se non aveva fatto niente di quello che lo accusavano.

 

Le lacrime gli appannarono di nuovo la vista e le sfregò via fino ad avere male agli occhi e, dopo aver aggiunto qualche paio di scarpe, chiuse la valigia, sentendo lo scatto metallico finale come fosse quello della ghigliottina pronta a cadergli in testa.

 

Vide sul comodino la cornice digitale, uno dei primi regali, con immagini bellissime di loro due che scorrevano come pugnalate.

 

Ce n’erano pure del matrimonio in Giappone, con Imma stupenda e raggiante che lo guardava innamoratissima.

 

Sentì l’anello, che teneva in tasca, e si chiese se avrebbe mai visto di nuovo quello sguardo, che ne sarebbe stato di lui, di loro.

 

Estrasse la solita agendina, sulla quale annotava tutto, e cominciò a scrivere, non sapeva bene neanche lui cosa, parole di scuse, di spiegazione, cercando di ribadire come avrebbe preferito morire piuttosto che tradirla e che non avrebbe mai potuto farlo, che non gli era mai passato nemmeno per la mente.

 

Sapeva che la scrittura era orrenda e tremolante, ma non riusciva a fare di meglio.


Strappò le pagine dall’agendina e le lasciò sul comodino, sotto la cornice.

 

Anche se… da un lato avrebbe voluto portarsela con lui, ma quelle foto già le aveva nel cellulare e nel cuore e voleva che pure Imma avesse un ricordo di com’erano insieme, di quanto lui l’amava.

 

Prese la valigia e si avviò verso l’ingresso, per recuperare il giaccone, quando il telefono gli vibrò in tasca.

 

Lo estrasse di corsa, sperando che fosse Imma, che magari ripensandoci un attimo fosse riuscita a credergli o che fossero uscite fuori altre cose, stavolta positive.

 

Mancini

 

L’ultimo che voleva sentire in quel momento: poteva immaginarselo a godere delle sue disgrazie e delle disgrazie con Imma. A dirgli che aveva avuto ragione su di lui, a non fidarsi.

 

Ma non poteva evitarlo e quindi accettò la chiamata.

 

“Pronto?”

 

“Maresciallo. La chiamo per comunicarle ufficialmente che è sospeso dal servizio fino a che la sua posizione non si sarà chiarita. Non si sogni nemmeno di andare in caserma o di venire in procura, deve tenere la massima distanza da noi e dalla procura, ha capito?”

 

“Da noi chi?” gli uscì, spontaneo, pure in mezzo al dolore.

 

“Da tutte le persone che ha praticamente rovinato oggi, maresciallo, con il suo comportamento irresponsabile e sì, soprattutto da una. Le avevo dato il beneficio del dubbio, maresciallo, le avevo consentito di lavorare e di occuparsi della parte più delicata del maxiprocesso, nonostante tutto e invece… non era di certo dai legami di parentela della dottoressa Tataranni che mi dovevo guardare. Spero sinceramente di non rivederla più.”

 

E gli fu attaccato il telefono in faccia.

 

E mo dove poteva andare con così poco preavviso?

 

Fece scorrere la rubrica fino ad un altro nome familiare.

 

Che rispose dopo qualche squillo.

 

“Sorellì, ti chiamo perché sono disperato, ho bisogno di una mano, non ho un posto dove stare e-”

 

“Non mi chiamare sorellì! Si sciem si! Comm tuttì e' ommn ca' ragionàn col cazz’! C’avevi tutto, t’eri trovato pure na fidanzata che ti amava, intelligente, con gli attributi e ti sei perso dietro l’ennesima stronza, tipo a Maria Luisa, solo che questa oltre che stronza è pure zoccola!”

 

Aveva un orecchio che gli fischiava e gli pulsava, per le urla. In confronto mammà era niente, era.

 

“Non ho mai tradito Imma, te lo giuro, sorellì, e non ho dove andare e-”

 

“Risparmiati i giuramenti, per quello che valgono. E mo hai fatto la cazzata e la risolvi, che non sei più un uagliuncello! Trent’anni tieni e ti devi prendere la responsabilità di quello che combini! Io c’ho già i problemi miei con la separazione e con Noemi e non ne voglio altri, ma soprattutto non ti voglio come esempio per Noemi. Si si nu' omm e nun nu' quaquaraquà, tieni che dimostrarlo!”

 

E, per la seconda volta, il telefono gli fu attaccato in faccia ma gli fece mille volte più male.


Rosa era sempre stata dalla sua parte, c’era sempre stata, pure quando non aveva approvato le sue scelte ma mo… lo schifava pure lei.

 

Non gli restava che andare da Mariani e sperare di trovare una soluzione per la notte.

 

Riprese in mano la valigia, la trascinò fino alla porta, o almeno ci provò, perché Ottavia gli si piazzò davanti ai piedi, miagolando come un’ossessa e poi saltò su, artigliandogli pantaloni e maglione, fino a costringerlo a prenderla in braccio, e mettendosi a mo di ciambella sul suo collo, continuando a miagolare disperatamente.


“Sei intelligente tu, eh, Ottà? Non come me che sono un ciuccio! Tu tutto da mamma hai preso,” sospirò lui, accarezzandola, e la micia fece dei lamenti strazianti, non avrebbe mai pensato di sentire un gatto piangere, “io mo devo andare, non posso restare, pure se lo vorrei tanto. Quindi mi devi lasciare il collo, se no mamma quando torna il collo me lo taglia, hai capito?”

 

Si sentiva un poco deficiente pure a parlare con una micia, ma Ottavia inarcò la schiena, spingendogli le zampe sul collo e lo guardò in un modo che sembrò aver capito tutto meglio di quanto lo avesse capito lui stesso.

 

Ne approfittò per riprenderla in braccio, le fece due ultime carezze e poi si costrinse a metterla a terra.

 

Ottavia provò a bloccare la porta, parandocisi davanti, ma lui la guardò e le disse “vai in bagno mo e… e stai vicina a mamma, hai capito?”

 

Un altro miagolio straziante, il solletico di una coda e di una testolina pelose sulle caviglie ed Ottavia si fece da parte, lasciandolo uscire, anche se richiudersi la porta alle spalle fu come tirarsi addosso un macigno.

 

Senza neanche sapere bene come, superò anche il portone d’ingresso e raggiunse Mariani in auto.

 

Caricò la valigia nel bagagliaio e poi si sedette accanto a lei che sembrava sempre molto sulle sue.

 

“Mi ha chiamato Mancini e mi ha detto che non posso andare in caserma,” le spiegò, vergognandosi da morire.

 

“Eh… lo immaginavo. Io però sto in caserma, lo sai. Magari possiamo trovare un bed and breakfast a poco, finché non trovi un appartamento.”

 

Sospirò ma sapeva che non aveva altra scelta: prese il telefono in mano ed iniziò a cercare.

 

*********************************************************************************************************

 

Doveva uscire, lo sapeva che non c’erano alternative, ma la folla di giornalisti non demordeva ed era spaventosa.

 

Non che avesse fretta di tornarci a casa, anzi, una parte di lei non avrebbe mai più voluto vedere quelle stanze ma… era casa sua e non avrebbe mai più mollato proprio niente per un uomo, già troppe rinunce aveva fatto per lui, che non era da lei e… quello era il risultato.

 

“Dottoressa.”

 

Si voltò di scatto e vide Mancini con Irene, che probabilmente provenivano dall’ufficio del procuratore capo.

 

“Ho visto l’assedio dei giornalisti. Meglio che la accompagni io a casa.”

 

Rimase spiazzata dalla proposta di Mancini, visto che negli ultimi mesi l’aveva trattata peggio di un’appestata.

 

Però a piedi da sola non poteva di certo tornare, quindi annuì.

 

Uscì in mezzo al procuratore capo e alla Ferrari, che la scortarono fianco a fianco, alti e imponenti come due corazzieri.

 

In quei momenti riconosceva l’addestramento militare di Irene: come teneva le spalle, le braccia, la schiena, tutto la rendeva imponente e minacciosa.

 

I giornalisti tentarono comunque l’assalto, urlando il suo nome e domande senza vergogna, tipo cosa si prova ad avere la prova delle corna davanti a tutta Italia? o perdonerà ancora il maresciallo o stavolta non chiuderà un occhio? o il matrimonio è annullato? fino ad un si è mai chiesta se sia attratta dal maresciallo perché inconsciamente le ricorda il suo vero padre? di una che si definiva criminologa ma che manco un omicidio di Cluedo sarebbe riuscita a risolvere.

 

Fulminò tutti con occhiatacce, facendo volare no comment come i pugni che avrebbe voluto mollare a tutti quanti, finché non fu finalmente seduta dal lato passeggero dell’auto di Mancini, la portiera sorvegliata da Irene fino a quando lui non si mise al volante e, dopo due o tre tentativi a vuoto, che per poco qualche giornalista gli finiva sotto le ruote, riuscirono a levarsi da lì.

 

“Dobbiamo fare un giro largo, dottoressa, ci vorrà un po’ a seminarli.”

 

Le prime parole giunsero dopo qualche minuto interminabile di silenzio ed incroci presi a tutta velocità.

 

“Non si preoccupi, dottore, tanto non è che abbia tutta questa fretta di tornarci a casa.”

 

Ci fu un altro attimo di silenzio, ma lei continuò a guardare fuori dal finestrino, perché non aveva voglia di sostenere lo sguardo di Mancini e l’inevitabile glielo avevo detto! che ci sarebbe stato sottinteso.

 

“Per la cronaca, il maresciallo comunque non ci sarà, non si deve preoccupare.”

 

Quell’affermazione la sorprese abbastanza da voltarsi di scatto a guardarlo, ma aveva un’espressione neutra dietro gli occhiali, “e lei come lo sa?”

 

“Perché l’ho chiamato, per dirgli che ovviamente era ed è sospeso.”

 

“Eh… come me… immagino che muoia dalla voglia di dirmi che me la sono cercata e-”

 

“Dottoressa, la mia sfiducia verso il maresciallo è nota, ma io sono rimasto soprattutto molto ferito dalla sua sfiducia nei miei confronti e…” fece una pausa, sospirando, mentre svoltava ad un altro incrocio, “insomma… forse sono stato un po’ eccessivo nell’impedirle di continuare a lavorare in procura. Ma tra il legame con il maresciallo e quello con i Latronico, non volevo che ci fossero dubbi per nessuno che lei non si stava più occupando del maxiprocesso. Ma, visto che tanto ormai è andato tutto a puttane-”

 

Per poco non fece un balzo sul sedile: Mancini, che era sempre un lord, per usare un termine del genere… ma che ci fossero ormai poche speranze di salvare il maxiprocesso era chiaro.

 

“Insomma… sarà quasi impossibile riprendersi da questa batosta. Quindi… almeno lei può rientrare al lavoro, ora che il maresciallo è sospeso e che è chiaro a tutti che lei non c’entra con quanto accaduto negli ultimi mesi.”

 

Non ci poteva credere: la prospettiva le sembrava completamente surreale in quel momento, come una cosa lontanissima che d’improvviso ti si para di fronte.

 

“Non può starsene a casa tutto il giorno da sola, dottoressa, se un poco la conosco. Lavorare le farà bene, ovviamente su casi indipendenti dal maxiprocesso, anche perché il maresciallo avrà svariati capi di imputazione a suo carico, come lei ben si immagina.”

 

Non avrebbe saputo dire se fosse più la gioia all’idea di poter tornare a fare ciò che sapeva fare meglio al mondo, alla sua vita, o… o la rabbia nei confronti di Calogiuri e non solo perché l’aveva tradita, ma anche e soprattutto per aver tradito i suoi principi, la giustizia e per essersi rovinato da solo, come un cretino.

 

“Ovviamente per via dei giornalisti sconsiglio un rientro nell’immediato, ma di attendere qualche giorno, nell’attesa che si calmino le acque. E poi rientra, è un ordine. A meno che non preferisca andarsene per un po’ a Matera da Vitali.”

 

Lo guardò e provò molta gratitudine ed un poco di tenerezza: lo vedeva che era sinceramente preoccupato per lei e per la sua salute, fisica e mentale.

 

“Guardi… Matera sarebbe pure peggio, con tutto il bene per Vitali, Roma almeno è più grande ed è più facile passare inosservati se serve. La… la ringrazio per l’opportunità, dottore.”

 

Mancini annuì ma non disse altro, continuando a guidare.

 

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Percepire il profumo, non appena passata la soglia, fu il primo colpo al cuore.

 

Perché le ricordava di lui, di loro.

 

La rabbia ed il dolore facevano a pugni dentro al suo petto, ad ogni oggetto che avevano comprato insieme che le passava davanti agli occhi, ricordandole quello che non ci sarebbe stato mai più e, soprattutto, quanto ci aveva creduto, quanto ci aveva sperato, quanto si era lasciata andare fino in fondo.

 

E mo il fondo lo aveva proprio toccato, anzi, ci si era schiantata.

 

Appese il cappotto e mollò la borsa cercando di guardarsi in giro il meno possibile, decisa ad andare dritta a letto, stendercisi e rimanerci, salvo esigenze improrogabili, fino al giorno dopo.

 

Fece il corridoio quasi alla cieca, aprì la porta e lì il profumo di lui era ancora più forte. E non solo quello della colonia che gli aveva regalato e che metteva in pochissime occasioni, tra cui quella mattina.

 

Ma la stanza sapeva di lui, del suo bagnoschiuma, del suo shampoo, della sua pelle.

 

E le era insopportabile.

 

E poi la vide.

 

La cornice sul comodino faceva scorrere, come una serie di prove implacabili della sua imbecillità, foto di loro due insieme, sorridenti e felici.

 

Lei non aveva mai sorriso in quel modo a nessuno, mai, da quando era troppo piccola per ricordarlo.

 

Un sapore salato in bocca, gli occhi le si appannarono e poi arrivò la mazzata finale.

 

Il tripudio di colori del kimono da sposa, lo scambio di quelle promesse che non valevano niente - e non solo agli occhi della legge, che evidentemente era sempre più saggia di lei - ma nemmeno per lui.

 

La cornice non fece in tempo a mostrarle l’immagine di loro che sorridevano con una bimba giapponese in braccio, perché afferrò la plastica e la fece volare contro l’armadio, con un tonfo sordo e secco.

 

Notò il bianco appena sotto. Fogli del dannato taccuino, che era stata una delle prime cose che avevano abbassato le sue difese nei confronti di lui, che le aveva fatto provare quella strana tenerezza che era stata la sua rovina, letteralmente.

 

C’era qualcosa di scritto con quei caratteri tondi e regolari, quasi femminili. Altre scuse, sicuramente, altre parole al vento, pure se scripta manent.

 

“Ma questa non manent,” sussurrò tra sé e sé, afferrando i fogli e strappandoli, prima di gettarli in una pila sopra la cornice.

 

Il dolore diventò rabbia, anzi furia: si piegò verso il letto e strappò via tutto, lenzuola, copriletto, federe, tutto quello che aveva quell’odore che voleva cancellarsi pure dai pori della pelle, facendoli raggiungere il resto del mucchio davanti all’armadio.

 

Ci avrebbe fatto un falò se ne avesse avuto le energie e se non fosse stato illegale, oltre che pericoloso.

 

Ed invece dovette accontentarsi di cancellare tutto buttandosi sul materasso a faccia in giù, il dolore al naso quasi impercettibile in mezzo al bruciore delle lacrime ed al dolore lancinante che sembrava pulsarle in tutto il corpo.

 

Si lasciò andare ai singhiozzi e pure alle grida, picchiando i pugni sul materasso fino a farsi male, colpendo per sbaglio il legno, con un ultimo grido, fregandosene dei vicini, di tutto e di tutti, tanto tutto il mondo sapeva, sapeva quanto era stata imbecille, quanto non avesse voluto vedere, accecata dall’amore che le bruciava più di tutto il resto.

 

Le lacrime le andarono di traverso, soffocata dai colpi di tosse che la scuotevano, quando, all’improvviso, un peso morbido e caldo sulla nuca ed un qualcosa che vibrava fin dentro al cuore.

 

Si voltò leggermente e si trovò con una cosa ruvida ed umida sulla guancia ed una testolina pelosa che pareva accarezzarla.

 

“Menomale che ci sei tu!” sussurrò, abbracciandosela più forte, e le sembrò assurdamente che pure lei piangesse.

 

Almeno non era sola.

 

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Girò la chiave nella toppa e l’odore lo colpi come un pugno.

 

Una puzza di sudore e di qualcosa che stava lentamente marcendo.

 

I mobili col legno sbeccato, macchie sul copriletto che era decisamente meglio ignorare, il termine giusto per definire quel posto era squallido.

 

Ma era quello che si poteva permettere per più di qualche giorno, zona stazione, una delle peggiori.

 

Mollò la valigia e si lasciò andare su una sedia cigolante.

 

Pure lui si sentiva così, cigolante, pronto a rompersi in ogni momento.

 

Aveva perso tutto e non sapeva per colpa di chi, a parte di Melita.

 

Avrebbe voluto urlare e spaccare coi pugni qualcosa, qualsiasi cosa, ma ci mancava l’accusa di danneggiamenti e la reputazione di violento per completare la situazione.

 

E poi gli vibrò la tasca.

 

La speranza di leggere quelle due sillabe.

 

Ed il terrore quando sul display invece gli apparve Valentina.

 

Non poteva ignorare la chiamata, ma già si aspettava un’altra valanga di insulti.

 

E infatti, quando la avviò, lo travolse una trafila dallo stronzo, al bastardo, al puttaniere, al traditore che Imma ne sarebbe stata orgogliosa.

 

E quel pensiero gli fece ancora più male.

 

“Mi sono fidata di te! Pure dopo le foto con quella gattamorta con le arie da sonostocazzo, e ho fatto male! Sei un bastardo e menomale che tu e mamma non lo avete fatto un figlio a questo punto! Lei è stata pure a casa dal lavoro per te, non l’ha mai fatto neanche per me, e tu-”

 

“Valentì, io te lo giuro che non l’ho mai tradita a tua mamma. Lo so che non mi puoi credere ma è così. Mi taglierei un braccio piuttosto che darle un dispiacere e-”

 

“Dovevi tagliarti qualcos’altro, non il braccio! E, a meno che sta Melita in realtà è la tua dermatologa, no, non ti posso credere, vai a raccontarla ad un’altra. E stai lontano da mamma, che non si merita uno come te!”

 

Il suono si interruppe bruscamente.

 

Ormai era abbonato ai telefoni attaccati in faccia.

 

Ma sapere di aver perso la fiducia della persona più importante al mondo per Imma gli faceva un male cane.

 

E si rendeva sempre più conto che Imma, stavolta, non lo avrebbe mai perdonato.

 

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“Pietro?”

 

“Scusami per il disturbo, ma-”

 

“Se vuoi fare il terzo grado a mio fratello, non sta da me.”

 

Gli venne da sorridere all’idea che fosse stato il suo primo pensiero.

 

“No, no, ma… volevo capire com’era la situazione lì, prima di provare a sentire Imma, che come minimo pensa che lo faccio solo per dirle te l’avevo detto.”

 

“Vuoi dire che non stai almeno un poco gongolando per quello che è successo? Veramente?”

 

Il tono di Rosa era ironico, del resto lo conosceva bene e con lei non aveva bisogno di mentire, almeno non su quello.

 

“No. Cioè… lo so che è tuo fratello, ma vorrei spaccargli la faccia ma… di sicuro non sono felice per quello che sta passando Imma. Ho provato che cosa vuol dire essere cornuto per tutta Matera, figuriamoci a livello nazionale e con tutti quei dettagli intimi in piazza… e poi sono preoccupato per lei e per Valentina, molto.”

 

“Purtroppo non so niente, perché mio fratello l’ho mandato a stare altrove, non so dov’è. E… Imma non ho osato provare a sentirla ovviamente, essendo la sorella del… corpo del reato.”

 

Gli venne da ridere, senza poterlo evitare.

 

“Grazie….”

 

“E perché?”

 

“Perché sai sempre come sdrammatizzare.”

 

E udì quella risata che tanto gli piaceva, come risposta.

 

“Non so come mi sia venuta. Mi sa che ho passato troppo tempo con Imma e con quel cretino di mio fratello. Però… a parte farti ridere non so come aiutarti.”

 

Lui lo sapeva eccome come lo avrebbe potuto aiutare, ma non era quello il momento per certe battute.

 

“Provo… provo a sentire Valentina, magari. Sono preoccupato se nessuno sta vicino ad Imma, dopo una botta così.”

 

“Sei troppo buono, Pietro, ma… fammi sapere come va, se la senti.”

 

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Alla fine le toccò alzarsi per andare in bagno e perché aveva la lingua incollata al palato ed un bisogno improrogabile di bere.

 

Si trascinò in cucina, a prendere l’acqua che stava in frigo, e l’occhio le cadde sui blister e sulle boccette colorate sul bancone.

 

Un pugno allo stomaco e poi di nuovo rabbia: aprì lo sportello con la pattumiera e ci buttò tutto dentro.

 

Le ci volle qualche istante per calmarsi, prese l’acqua e tornò verso la stanza da letto.

 

E solo allora si rese conto del casino allucinante addosso all’armadio.

 

Mollò tutto sul comodino e si costrinse a buttare in lavatrice quelle lenzuola che sapevano di lui.

 

E poi vide che la cornice stava ancora lì, beffarda, con le foto che scorrevano.

 

Non si era rotta, nemmeno ammaccata.

 

Con un sospiro, la prese insieme ai pezzi di carta sparsi per il pavimento e la infilò nel cassetto di quel comodino che tanto non avrebbe più usato.

 

Rifece il letto alla cieca, perché nel frattempo le erano tornate pure le lacrime agli occhi - cretina che era! - e poi si infilò sotto al lenzuolo ed al copriletto storti, una ciambella pelosa che subito le si accoccolò sulla pancia.

 

Ma udì anche un altro tipo di vibrazione. E veniva dal cellulare abbandonato sul comodino.

 

Lo guardò e c’erano una miriade di messaggi e chiamate perse, soprattutto da Valentina e da lui.

 

Premette il tasto di blocco, senza leggere niente, e poi aprì il messaggio di sua figlia.

 

Lo so che forse vuoi startene per conto tuo, ma tra qualche giorno ti verrò a stanare, preparati.

 

Le venne di nuovo da piangere, ma stavolta di commozione.

 

Ti voglio bene, ma ho bisogno di starmene da sola per un po’. Ma non ti devi preoccupare: mamma tua è tosta.

 

E poi c’era Diana, ma non aveva voglia di essere travolta da un fiume di parole, che manco quei due miracolati che avevano vinto Sanremo.

 

Il nome successivo in lista la stupì: Rosa.

 

Che volesse difendere il fratello? Ma Rosa non le sembrava il tipo, era più sveglia di così.

 

Aprì per curiosità il messaggio, tanto era sempre in tempo a bloccare pure lei.

 

Volevo solo dirti che sono dalla tua parte. Lo so che probabilmente non mi vorrai più vedere, ma se hai bisogno io ci sono e pure la peste.

 

Non sapeva nemmeno lei come si sentiva nei confronti di Rosa, ma… dubitava sarebbe stata pronta a breve a vedere gli occhi suoi e della piccoletta, anche se le sarebbero mancate da morire.

 

E quindi non rispose, spegnendo il cellulare, lasciandosi ricadere sul cuscino e dedicandosi alle coccole allo scaldino vivente che le reclamava.

 

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Si lasciò cadere sull’ennesima sedia mezza arrugginita e cigolante, il cuore in gola.

 

Ormai erano giorni che cambiava hotel, uno più squallido e dall’aria irrancidita dell’altro, perché i giornalisti puntualmente lo assediavano.

 

Del resto, gli alberghi decenti non se li poteva permettere.

 

Doveva cercare un appartamento o un residence ma… non ce la faceva, non aveva la testa. Anche perché trovarlo avrebbe reso tutto ancora più definitivo e non ci riusciva proprio ad affrontare quell’idea, che quella che per lui era casa non lo sarebbe mai più stata.

 

Imma… aveva provato a mandarle messaggi, a chiamarla, ma l’aveva bloccato. E sapeva benissimo, conoscendola, che ad andare di persona avrebbe fatto solo peggio.

 

Il telefono vibrò: un messaggio, una email per la precisione, sul suo indirizzo personale.

 

Strano.

 

La aprì ed il mittente fu un’altra mazzata.

 

L’Arma.

 

Con una sfilza di paroloni formali lo informavano che, essendo stato sospeso dal servizio e considerati i recenti gravi fatti che lo avevano visto coinvolto, non avrebbe potuto partecipare al corso da ufficiale, pur avendo passato il concorso.

 

Gli venne per qualche secondo da piangere, per l’ennesima ingiustizia ma… ma poi fu come se qualcosa si attivasse in lui, come un interruttore, e non sentì più niente.

 

Tanto che, quando il telefono squillò, non corse più a rispondere nella speranza che fosse Imma.

 

E, infatti, non lo era.

 

Irene

 

Non l’aveva più sentita dall’udienza e sicuramente non erano buone notizie.

 

“Pronto?”

 

“Calogiuri. Ti devo parlare molto seriamente. Dove stai?”

 

Era brusca, pareva pure lei rabbiosa. Evidentemente ce l’aveva con lui.

 

Ma non poteva evitarla: dopo quello che era successo lavorativamente un confronto glielo doveva.

 

E quindi le diede l’indirizzo, dicendole di fare attenzione, che i giornalisti lo seguivano ovunque.

 

E poi l’ennesimo telefono attaccato in faccia.

 

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Bussarono alla porta e corse a guardare dallo spioncino.

 

Una chioma bionda e degli occhi azzurri. Ma non era Mariani.


“Chi è?” domandò, preso in contropiede.

 

“Sono io, apri!”

 

La voce era inconfondibile.

 

“Irene?” chiese, sorpreso, spalancando la porta.

 

Aveva una parrucca a caschetto, bionda, e le lenti a contatto azzurre. Ed era vestita con un abitino nero attillato ed un giacchetto di pelliccia rosa che Imma le avrebbe invidiato.

 

“Ma-”

 

“In questo genere di hotel è il metodo migliore per passare inosservata. E sì, ci sono in giro i giornalisti, e ci manca che mi riconoscano e pensino che ci vediamo. Mi fai entrare, prima che conciarmi così non sia servito a niente?”

 

La fece passare, richiuse la porta dietro di lei e la vide fare una faccia tra lo schifato e il perplesso.

 

“Ma proprio in un posto così dovevi andarti a infilare? Qua anche gli acari muoiono per la puzza che c’è.”

 

“Lo so, ma… è quello che mi posso permettere.”

 

Irene sospirò e scosse il capo, poi gli fece cenno di sedersi su una delle sedie e, dopo un attimo di esitazione, prese posto sull’altra, “meno male che ho i collant! Se mi prendo qualche malattia ti riterrò responsabile e-”

 

“Lo so… lo so che sei incazzata con me e lo capisco. Per come è andato il processo e… mi dispiace che ci sei andata di mezzo anche tu ma… io non ho fatto niente, non ho mai tradito Imma e con Melita ho sempre cercato di comportarmi da manuale, a parte l’essere da solo con lei, e-”

 

“E ti credo, Calogiuri,” lo interruppe, e lui per un attimo proseguì a parlare, a giustificarsi, prima di rendersi conto di cosa aveva appena detto lei e spalancare la bocca, “ti credo. Sono arrabbiata con te, sì, perché ti sei fatto incastrare come un pollo ma… ti credo, sia sul fatto che ti hanno messo in mezzo, sia che… che non hai mai tradito Imma. Che c’è? Perché sei tanto sorpreso?”

 

“No, è che… è che non mi crede nessuno e-”


“Ma io so per esperienza personale quanto sei fedele a Imma,” gli ricordo, facendogli l’occhiolino, e lui si sentì avvampare, “e poi… c’ero quando le hai parlato dopo il processo e… o sei un grande attore o eri sincero. E di nuovo, so per esperienza che ti si legge tutto in faccia, quindi….”

 

“Io, io….”

 

“Ho sbagliato anch’io, a mandarti solo con Melita, ma… sembrava che tu fossi l’arma vincente per farla aprire… e invece altro che aprirsi! Quella ci ha fregato. E adesso, oltre a cercare le prove di quello che la cara Melania ha confessato la prima volta, che secondo me era in gran parte vero-”

 

“Come vero? Quindi pensi che abbia ritrattato per paura?”

 

“No, Calogiuri. Tutto… tutto si è incastrato troppo alla perfezione. Non potendo screditare le prove, dovevano screditare chi le aveva raccolte. Imma… Imma ormai era lontana dal processo e dalla procura e poi, nonostante la storia di Latronico, è una sveglia ed è difficile prenderla in fallo. Forse se fosse rimasta in procura avrebbero coinvolto pure lei. Ma tu ormai… hai una certa reputazione - anche per colpa mia, lo so - e… penso abbiano progettato tutto dall’inizio.”

 

“Ma quindi perché dici che pensi che Melita abbia detto la verità durante la prima confessione?” ripeté, non capendo.

 

“Perché il modo migliore per nascondere la verità è giocare d’anticipo, portarla alla luce per primi, e poi renderla non credibile. Non hai mai letto Testimone d’Accusa di Agatha Christie? Dovresti farlo.”

 

“Ma quindi mo come facciamo?”

 

“Oltre a cercare le prove con Ranieri, su quanto detto da Melita, dobbiamo cercare quelle per scagionarti. Devono averti visto nudo, in qualche modo. Non so… sei mai andato in bagno a casa di Melita o ti sei dovuto levare i vestiti per qualche motivo?”

 

“No, no… parlavamo e basta.”

 

Irene sospirò, “speravo che ci fosse una telecamera in bagno o qualcosa di simile.”

 

Per poco non gli prese un colpo.

 

“A casa… a casa mia e di Imma… non è che?!” esclamò, col terrore che potessero aver beccato anche lei nuda.

 

“Ci ho pensato e ho fatto controllare subito, prima ancora che Imma ci tornasse, ma no… niente telecamere nascoste. Solo la vostra gatta che ha preso d’assalto gli agenti, quindi….”

 

Tirò un sospiro di sollievo, mentre gli venne da sorridere e poi un’ondata di malinconia: Ottavia… quanto gli mancava! Ma gli mancava tutto di quella casa e della sua vita con Imma.

 

“Visite mediche recenti? Piscine? Mare? Posti dove ti puoi essere levato i vestiti?”

 

Per fortuna, le domande di Irene deviarono il pensiero da quei terreni troppo pericolosi.

 

E ci pensò.

 

“Nell’ultimo anno… a parte l’andrologo per… insomma… per me e per Imma… l’ultima volta che mi sono spogliato del tutto in pubblico è stato nel bagno termale di un paesino di montagna in Giappone. Ma c’erano solo giapponesi intorno, pure anziani, ed era tutto circondato da muri molto alti. Poi sono stato in un agriturismo con SPA con Imma ma… avevamo la stanza, quindi mi sono cambiato sempre lì, sia prima che dopo. E ci siamo stati un giorno solo e ho prenotato all’ultimo minuto e non c’eravamo mai andati prima, quindi….”

 

“Quindi è improbabile che possano essersi organizzati per tempo. Ma verificheremo. Controlleremo l’andrologo, ovviamente e… il Giappone lo escluderei. Se era un paesello di montagna, qualcuno non del posto avrebbe dato nell’occhio e la vedo difficile che abbiano contatti addirittura fino a là, ma verificheremo.”

 

“E poi quelli dei clan hanno i tatuaggi e con i tatuaggi nelle terme giapponesi non si può entrare.”

 

“Almeno i tatuaggi te li sei evitati… se ti fossi evitato pure i nei sarebbe stato meglio, ma quello è la genetica che ti frega. Per il resto… foto, o video, o chiamate… particolari?”

 

Il viso divenne un forno.

 

“N-no, n-no, poi con Imma, figurati, non ci saremmo mai e poi mai presi un rischio così.”

 

“Lo immaginavo,” sospirò lei e gli sembrò sconsolata e preoccupata.

 

Non era un buon segno.

 

Ma poi parve risollevarsi e gli chiese, dritto negli occhi, “da quant’è che non fai una doccia e non mangi un pasto decente? Che questa stanza puzza peggio di una cripta e mi sembri dimagrito.”

 

“Mangio, tranquilla,” le mentì, perché la verità era che aveva lo stomaco chiuso e non riusciva a mandare giù quasi niente.

 

Lei gli lanciò un’occhiata dubbiosa ma fece un altro sospiro.

 

“Ti ospiterei ma… tra Bianca e i giornalisti, faremmo solo peggio. Però posso darti un po’ di contanti per trovarti un posto migliore, almeno per un po’.”

 

“Lo sai che non lo posso accettare, assolutamente.”

 

“L’orgoglio… quello che frega voi uomini. La mancanza di orgoglio invece, troppo spesso, è quello che frega noi donne. Comunque l’offerta è sempre valida. E… ho… ho saputo del corso.”

 

Gli venne un’altra risata amara.


“Forse lo hai saputo prima tu di me. A me la comunicazione è arrivata poche ore fa ma… me l'aspettavo."

 

Irene si morse il labbro ed annuì, prima di fare un’espressione preoccupata ed aggiungere, “non so se ti aspettassi pure questo ma… ovviamente sta venendo aperta un’inchiesta su di te, sia interna che… che penale. Ti dovrebbe arrivare un avviso di garanzia a breve, dal PM che è stato incaricato.”

 

“Tu?”

 

“Ma figurati! Lo sanno che… che a te ci tengo.”

 

“Vuoi dire che Mancini lo sa,” dedusse, i pugni che gli si stringevano.

 

“Mancini sta facendo il suo lavoro, Calogiuri. E comunque dell’indagine su di te si occuperà Santoro. Credo firmerà l’avviso di garanzia quanto prima.”

 

Santoro… giusto lui ci mancava, che ce l’aveva avuto con lui e con Imma da quando gli avevano levato i casi collegati al maxiprocesso.

 

“Imma l’hai sentita?”

 

Quello di Irene era stato quasi un sussurro, evidentemente era una domanda che aveva paura a porgli.


“No. Mi ha bloccato ovunque, non mi vuole parlare e… non ho osato andarla a cercare, con tutti i giornalisti che mi seguono, non voglio fare ancora peggio. Però… magari puoi dirglielo tu, no, quello che pensi?”

 

“Io?!” rispose, con una mezza risata incredula, “secondo te mi darebbe retta o farebbe appunto solo peggio, che chissà che andrebbe a pensare?”

 

Aveva ragione, purtroppo.

 

“Dai, ora io e Ranieri proviamo a sistemare questa patata bollente. Ma tu devi stare in forze, che sulla parte informatica delle indagini puoi darci una mano. Non devi perdere le speranze, hai capito?”

 

Come se fosse facile….

 

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Stava obbligandosi a finire i biscotti per la colazione: si era addormentata tardissimo ed era quasi mezzogiorno. Ormai aveva gli orari completamente sballati, ma non voleva rischiare di fare di nuovo male al suo corpo, lo aveva già fatto troppo in passato, anche se lo stomaco era in sciopero.

 

Il telefono vibrò, segnalando l’arrivo di un messaggio.


Era sabato e si chiese se fosse Valentina che annunciava un’imminente visita. Ma di solito le si presentava alla porta e basta.

 

Il nome Caterina fu come un colpo al cuore sferrato a tradimento.

 

Era così che aveva salvato il catering del… non riusciva neanche a pensarlo. E tutto per fare una sorpresa a….

 

Aprì il contatto, finendo per sbaglio sulla pagina del Bistrot 2.0 - così veniva pubblicizzato. Solo per quello non l’avrebbe mai scelto, ma Diana le aveva garantito che fosse ottimo per eventi di quel tipo.

 

E poi finalmente le riuscì di aprire il messaggio.

 

Scusatemi, dottoressa, ma… mi chiedevo se volevate ancora vedere una nuova bozza di menù oppure no.

 

L’imbarazzo era evidente, persino per messaggio.

 

Sospirò: avrebbe dovuto avvisare pure gli altri, non era giusto tenerli in ballo, ma non ne aveva avuto le forze.

 

Consideri tutto annullato e se deve tenersi la caparra, se la tenga.

 

Non era da lei, ma l’ultima cosa di cui aveva voglia in quel momento era discutere di cose che le facevano ricordare quello che doveva essere, e che invece non sarebbe mai stato.

 

Ma meglio averlo capito prima che dopo le nozze.

 

Stava per spegnere il display quando notò un messaggio di Pietro, di qualche ora prima. Era strano che non si fosse ancora fatto sentire, ma forse aveva imparato dopo le volte precedenti.

 

Lo so che puoi pensare che a me faccia piacere questa situazione, ma non è così. Io e Valentina siamo preoccupati per te. Verrò a Roma il prossimo weekend, fammi sapere se posso fare qualcosa.

 

Pietro…

 

La sua premura la commuoveva sempre e si chiese perché non fosse rimasta innamorata di lui, perché non lo fosse mai stata come di qualcun altro.

 

Ma il cuore è uno stronzo con pessimi gusti e fa quello che vuole.

 

Tranquillo, Piè, sono forte, lo sai. Sentirò Valentina ma state tranquilli, che io me la caverò, come sempre.

 

Inviò il messaggio ed un peso sul ginocchio, più una vibrazione, annunciarono il ritorno di Ottavia.

 

Non era mai stata una coccolona, non da quando non era più cucciola, ma negli ultimi giorni sembrava sempre percepire quando fosse particolarmente giù di morale. Ed arrivava subito a consolarla e a beccarsi le coccole.

 

Avrebbe voluto dedicarsi solo a quello ma il telefono le vibrò in mano.

 

Ed il nome non prometteva niente di buono.


Mancini

 

“Pronto, dottore?”

 

“Dottoressa, volevo solo annunciarle che la pressione qua in procura da parte dei giornalisti pare essere calata, quindi se vuole da lunedì può tornare al lavoro. La manderò a prendere da Mariani.”

 

Non le pareva vero: almeno una buona notizia in tutto quel dolore!

 

“V- va bene, dottore, e la ringrazio.”


“Non mi ringrazi, dottoressa, anche perché mi aspetto da lei che stia lontana dal maxiprocesso, ma sugli altri casi che sia pronta a tornare a pieno regime.”

 

Eh… la faceva facile lui.


“Darò il massimo, dottore, anche se forse mi sono un poco arrugginita.”

 

“Conoscendola, credo che sia fatta di un metallo ben più nobile del ferro, e che non corra alcun pericolo. Ma questa è la sua ultima possibilità qua a Roma, non la butti via.”

 

Non sapeva che pensare di quel commento, ma tanto la telefonata era già finita.

 

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Ritornare a varcare quella soglia fu quasi surreale, con il cartone in mano con le poche cose che… le aveva riportato qualcuno dall’ufficio.

 

Per fortuna fuori era rimasto solo un giornalista di una testata minore, e lo aveva scansato facilmente.

 

“Dottoressa! Se le serve un… sostituto per il maresciallo, io sono disponibile.”

 

Carminati, tanto per cambiare.

 

“Per fortuna i miei standard sono un poco più alti di così, Carminati, anche se con lei almeno non correrei il rischio di tradimenti, anzi, dovrei pagare qualcuna perché mi liberi di lei. Immagino che abbia da lavorare, no? E allora lavori, che il suo turno è appena iniziato e già se ne sta a bivaccare in corridoio!”

 

Mariani, che stava alle sue spalle, rise e aggiunse, “dai, Carminati, fila, che per oggi ti sei già reso ridicolo a sufficienza.”

 

E quel viscido si avviò furente verso la PG.

 

“Grazie, Mariani.”


“Ma di che? Ha fatto tutto lei. Se ha bisogno sono in PG. Ah, e per inciso, io sto dalla sua parte, dottoressa, in tutto.”

 

E con un occhiolino Mariani seguì il percorso fatto da Carminati, per fortuna non scivolando sull’unto che aveva trasudato.

 

Salì le scale e decise di andare prima in ufficio, a mollare almeno cappotto e borsa, poi sarebbe passata da Mancini ad informarlo del suo ritorno in servizio.

 

“Dottoressa!!!”

 

Asia, sempre più platinata ma per fortuna meno gialla - doveva aver trovato uno shampoo migliore - la accolse con un entusiasmo letteralmente incredibile.

 

“Non mi dica che è contenta di vedermi, signorina Fusco,” ironizzò, levandosi tutto e mettendosi a sedere.

 

“E invece sì. Lei non se lo meritava di essere lasciata a casa e poi… senza di lei qua era una noia. Pure se c’erano anche dei lati positivi.”

 

Aveva ironia Asia. Non l’avrebbe mai detto.

 

Stava per ribattere ma bussarono alla porta.


“Avanti!” urlò, sentendosi come se fosse tornata improvvisamente in sé, pure se parecchio acciaccata e piena di lividi e ferite che chissà se mai si sarebbero rimarginate del tutto.

 

Ma la vecchia Imma, quella che l’aveva protetta in tanti anni di prese in giro, derisioni e porte in faccia, fino all’età adulta e… e a lui… era tornata a farle da armatura.

 

“Dottoressa, mi fa piacere vederla già al lavoro.”

 

“Dottore!” esclamò, alzandosi in piedi, sorpresa del fatto che l’avesse subito cercata, “non… non mi aspettavo quest’accoglienza, sarei venuta io tra poco nel suo ufficio e-”

 

“Non è solo per i convenevoli che sono qui, dottoressa. Abbiamo un nuovo caso e credo ci voglia un magistrato donna. E voglio assegnarlo a lei. Una denuncia di stupro. Se la sente?”

 

“S- sì, certamente!” rispose, anche se… le violenze sessuali erano sempre uno strazio per lei, pure più di alcuni omicidi.


“Allora faccio accompagnare qua la ragazza, chi vuole per il caso?”

 

“Mariani,” rispose, senza esitazioni.


“Mi pare la soluzione migliore.”

 

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“Siediti… ti posso dare del tu?”

 

Sapeva che non era da protocollo, ma le venne spontaneo: la ragazza era molto, troppo giovane, pareva minorenne.

 

Controllò i documenti ed effettivamente Giulia Angelucci, così si chiamava, aveva diciotto anni ma compiuti solo da qualche mese.

 

Annuì, abbassando le lunghe ciglia su due occhioni scuri scuri.

 

Le ricordò per un attimo Milena, del caso di Nova Siri.

 

“Allora, che ti è successo?”

 

“L’ho… l’ho già detto ai poliziotti e-”

 

“Lo so che non è facile da ripetere, ma… ho bisogno di sentire da te come è andata, per avere più dettagli possibili che ci aiutino a capire che è stato.”

 

La ragazza annuì di nuovo, gli occhi lucidi.

 

“Sono… sono andata ad una festa con delle mie amiche, compagne di scuola e… da un certo punto in poi non ricordo più niente. Mi sono svegliata la mattina dopo su un letto di una delle stanze della casa e… non mi ricordavo come ci ero arrivata ma… ho sentito… insomma… ho sentito qualcosa di strano, di… di umido e… mi sono resa conto che… che… dovevo essere stata con qualcuno ma… non mi ricordo niente, niente di niente.”

 

“Avevi bevuto molto?” le chiese, attenendosi alle domande di rito.

 

“No, non al punto di stare messa così. Due cocktail ma… erano passate ore tra uno e l’altro, ho bevuto di più altre volte in discoteca ma… non mi ero mai sentita così.”

 

Imma sospirò: ma perché i minorenni si imbottivano già di alcol, perché?

 

“Quando ti sei svegliata chi c’era con te?”


“Nessuno, ero sola.”

 

“E le tue amiche?”

 

“Stavano… con dei ragazzi e… e ho cercato di capire da loro se… se mi hanno vista con qualcuno, ma loro erano già andate… insomma… a letto, ancora prima di quando io non mi ricordo più niente. E… e poi… mi hanno detto che secondo loro mi ero ubriacata e basta, ma io lo so che non è vero, che è successo qualcosa!”

 

“E tutto questo quando è avvenuto?”

 

“Tra sabato e domenica. Non ieri, settimana scorsa, ma… ci ho messo un po’ prima di… di trovare il coraggio di denunciare e-”

 

“Tranquilla, lo capisco,” rispose Imma, vedendo che la ragazza si giustificava e immaginando che si fosse sentita chiedere il perché non avesse subito sporto denuncia già dai poliziotti.

 

E quante volte se lo sarebbe sentito ripetere, dalla difesa, pure da diversi giornalisti, sempre se beccavano chi le aveva fatto questo.

 

Ma dovevano prenderlo.

 

“Hai fatto accertamenti medici?” domandò, pregando che almeno su quello la risposta fosse sì, ma dubitandone seriamente.

 

“No, no. Cioè ci sono andata ma… due giorni fa. E mi hanno detto che oramai era tardi per capire se… se mi avevano drogata… almeno con la maggior parte delle droghe e… ovviamente a capire se qualcuno… insomma… se c’era stato qualcuno che….”

 

“Va bene, ho capito. Le indagini servono proprio a questo anche se, visto che c’hai diciotto anni e mi sembri una ragazza sveglia, non ti voglio nascondere che non sarà facile. Ma non è impossibile ed io ci proverò fino in fondo, va bene, Giulia? Ma tu mi devi aiutare.”

 

La ragazza scoppiò a piangere e, dopo un po’, visto che non le passava, girò intorno alla scrivania per darle un fazzoletto e posarle una mano sulla spalla e se la trovò abbracciata.

 

Sì, era maggiorenne, ma era ancora così giovane e immatura, per tanti aspetti, come tutti ormai a quell’età.

 

“Mariani, bisogna fare un sopralluogo sul luogo della festa,” disse, prendendo poi il viso di Giulia per guardarla negli occhi, “tu però ci devi dire chi c’era a quella festa, almeno di chi ti ricordi. E poi… dovrai accompagnarci dove… dove è successo tutto, per farci capire meglio le dinamiche. Va bene?”

 

“Non… non so se ce la faccio a tornare là… ma… ci provo.”

 

“Bene. I vestiti di quella sera che ne hai fatto? Li hai lavati?”

 

“No… no… non li volevo più vedere, mi vergognavo e… li ho buttati sul fondo dell’armadio.”

 

Il disordine adolescenziale almeno in una cosa tornava utile.

 

“Va bene. Mariani, allora come prima cosa, si occupi di recuperare i vestiti e passarli alla scientifica. Io intanto predispongo per il sopralluogo.”

 

“Agli ordini, dottoressa!”

 

Mariani uscì con Giulia, ancora piangente, ed Imma si lasciò cadere sulla poltrona. Le era mancato il lavoro ma… tutta quella sofferenza no, non le era mancata. Gli occhi le caddero sulle pareti, sulla scrivania, sulle sedie, e, anche se non era come l’ufficio di Matera, per fortuna, tutto le faceva tornare comunque alla mente lui. Quello che avevano fatto insieme e… cosa poteva stare facendo in quel momento.

 

Lo aveva bloccato ma, una parte di lei si aspettava quasi che lui ricomparisse, da un momento all’altro, con altre scuse e altre storie.

 

Era decisamente meglio così anche se… al di là di tutto, si dispiaceva per la sua carriera, per l’enorme spreco di talento e potenziale.

 

Ma se l’era cercata lui, andando per l’ennesima volta con qualcuno coinvolto nelle indagini. E lei non ce la faceva più a parargli i colpi, a giustificarlo, non un’altra volta.

 

*********************************************************************************************************

 

“Che ne pensa, Mariani?”

 

Già si era fatta un’idea ben precisa, solo entrando nella lussuosa villa sui colli romani.

 

Ma voleva capire se pure Mariani aveva avuto lo stesso pensiero.

 

“Tutto pulito, troppo. Pare nuovo quasi. Vediamo che dice la scientifica ma… c’è un forte odore di detergenti, credo anche candeggina o ammoniaca."

 

“Sì… neanche una sala operatoria è così asettica tra un po’. Temo che non troveremo niente, ma proviamoci,” sospirò, rivolgendosi agli agenti della scientifica, “cercate ovunque, soprattutto i bicchieri e nella stanza che la ragazza indicherà.”

 

E poi andò a prendere Giulia, che tremava, tanto che le passò un braccio intorno per sorreggerla.

 

“Allora, che mi dici di questa sala?”

 

“Quel… quel divano… ero seduta lì ed è… l’ultima cosa che mi ricordo. Stavo bevendo un cocktail.”

 

“Controllate benissimo pure il divano!” ordinò Imma, prima di rivolgersi di nuovo a lei, “altre cose?”

 

“No… no… c’era tanta gente… musica alta… ballavano ma… niente di particolare.”

 

“Qualche ragazzo che si è avvicinato troppo?”

 

“No… solo uno a inizio serata a chiedermi di ballare ma poi… me ne sono rimasta per conto mio. Sa… mi ero lasciata da poco e… ero venuta a questa festa per distrarmi ma… il pensiero non mi mollava mai e ora… ho altri pensieri ma… avrei preferito evitare.”

 

Sui pensieri la capiva fin troppo bene, sul resto per fortuna non la poteva capire fino in fondo.

 

“Dai, mostrami la stanza.”

 

Salirono le scale e Giulia camminò piano piano verso una porta. Fece cenno a quelli della scientifica di aprirla.

 

L’odore di detergente e di candeggianti era ancora più forte e lei indicò il letto e disse “ecco, è qua che mi sono svegliata.”

 

“C’era qualcosa di diverso nella stanza? Cerca di ricordare.”

 

“Non… non lo so… ero sconvolta ma… a parte le lenzuola… mi pare che c’erano dei soprammobili in più e… in cima all’armadio c’era qualcosa ma non ricordo cosa.”

 

“Va bene, va bene. Allora fotografate tutti gli oggetti, anche delle altre stanze, così poi ci dici se riconosci qualcosa, va bene?”

 

E la portò fuori prima che svenisse, perché era pallida peggio del coprimaterasso bianco che sembrava guardarle beffardo dal letto disfatto.

 

*********************************************************************************************************

 

“Arrivo!! Arrivo!”

 

Uno scampanellio talmente forte da essere assordante: Valentina, quasi sicuramente, ormai riconosceva la sua delicatezza.

 

Ma è di famiglia Imma! La tua! - le ricordò la voce della sua ex suocera.

 

Aprì la porta e si trovò davanti non uno ma due scampanellatori: oltre a Valentina c’era pure Pietro, con un’aria imbarazzata ed un pacchetto in mano.

 

“Gli sporcamuss’, dritti dritti dalla tua pasticceria materana preferita. Dovrebbero essere sopravvissuti al viaggio in auto.”

 

“Lo spero proprio, che non mi vuoi intossicare! Dai, entrate!” fece segno, non potendo evitare di sorridere, “certo che mi avete fatto una bella imboscata!”

 

“Eh, ho imparato da te, Imma. Ma questi li tieni per la merenda, perché a pranzo ci vieni con noi, vero Valentì?”

 

“Sì, sì, è un ordine.”

 

“Ma i giornalisti-”


“Papà ha la macchina e… li seminiamo non ti preoccupare.”

 

“Ma mica è-” le venne da dire e si bloccò appena in tempo, aggiungendo in corner, “uno stuntman.”

 

“Eh va beh… ma qualche trucchetto ancora pure io ce l’ho. Dai, niente scuse, che ti abbiamo lasciata a cuocere nel tuo brodo pure troppo.”

 

“Almeno il tempo di cambiarmi me lo date, sì?”

 

“Eh beh certo, che l’outfit da casa è troppo sobrio!” la sfottè sua figlia, facendole l’occhiolino.

 

Per certe cose le sembrava di essere tornata ai vecchi tempi, anche se era cambiato proprio tutto.

 

*********************************************************************************************************

 

“Allora io vado! Che Penelope tra poco è in stazione, finalmente!”

 

Valentina scappò di corsa, dopo un bacio rapido ad entrambi.

 

“Ah, l’amore!”

 

“Tu dove stai, Pietro?” gli chiese, mentre indugiavano all’ingresso dell’appartamento

 

“Un b&b in zona, ormai ci ho fatto l’abbonamento,” rispose lui, sembrandole incerto sul da farsi.

 

“Imma… mi… lo so che non puoi crederci ma… mi dispiace per te, davvero, anche perché-”

 

E si fermò, pure lui in corner, ma Imma aveva capito lo stesso.

 

“Perché sai cosa provo, non è vero? Lo hai provato pure tu. Forse è il karma che mi ha colpito.”


“No, è che il maresciallo è scemo. E se lo becco-”

 

“Sì, vi ci manca pure questa, una denuncia per rissa, giusto per finire su tutti i giornali. Non fare scemenze, Pietro!”

 

“Tranquilla… lo sai che… non sono un tipo d’azione. Anche se la faccia gliela spaccherei sul serio… gli avevo pure dato fiducia, gli avevo dato!”

 

“Eh… hai detto bene… la fiducia… è quello il problema. Non è solo il tradimento in sé perché… ammetto che in certi momenti non sono stata semplice da sopportare, e chi meglio di te lo può sapere!” sospirò, mentre Pietro sorrideva, “sai, credo… credo che sia stata una cosa da una botta e via… ma… ma la cosa che mi fa incazzare più di tutte è che… che non vuole ammetterlo.”

 

“Lo capisco, Imma, perché pure a me… la cosa che ha bruciato di più è stato il sentirmi preso in giro, come uno scemo, per tutti quei mesi. Anche se… ti amavo così tanto che… che ti avrei ripresa lo stesso, se mi avessi dato un’altra possibilità.”

 

“Io… non sono come te, Pietro: se mi viene a mancare la fiducia… non ce la faccio ad andare avanti, per quanto… per quanto lui mi possa mancare. Ma… non è un discorso che dovrei fare con te.”

 

“E perché no? Per l’appunto, ti capisco, Imma.”

 

“E poi… ha giurato il falso non soltanto con me, ma anche in tribunale, e quello per me è pure peggio di un tradimento,” esclamò, e non scherzava, ma Pietro rise.

 

“Sei proprio una PM nell’anima.”

 

“Ti vuoi sedere un po’?” offrì poi lei, indicandogli il divano e piazzandosi al posto accanto quando lui si accomodò, “tu come stai? Ti trovo sempre in forma e… ti vedo meglio, in generale.”

 

“Sì, va meglio,” le confermò, in un modo che non fece che acuire un sospetto che aveva da un po’.

 

“E questo meglio tiene un nome e un cognome?”

 

Bastò l’espressione di Pietro, tra lo scioccato ed il colpevole, assurdamente, per capire che sì, c’era qualcuna.

 

E pure lui comprese immediatamente di essere stato beccato.

 

“Ma come…?”

 

“Piè… e che ti devo dire. Da un po’ è che ho notato che… mi guardi in un modo diverso da prima… oltre al fatto che… non sembri più… rancoroso. Quindi mi sono chiesta se… se ti fosse soltanto passata o se ti fossi innamorato di qualcun’altra e stavolta veramente e non come con Cinzia.”

 

“E… e ti dispiacerebbe?”

 

“Non lo so… beh… dipende da com’è questa, che se è come Cinzia… chi la sopporta un’altra così? Spero manco tu!” esclamò, facendolo ridere di nuovo anche se in realtà era serissima, “però… forse un poco mi farà strano sempre, Pietro, ma… non ho proprio la posizione per dispiacermi o per farti la morale. Anche se mi chiedo perché tutto questo mistero.”

 

“Perché… effettivamente c’è una persona che mi interessa ma… non stiamo insieme. Lei-”

 

“Non ricambia?” gli chiese, anche se le sembrava strano l’atteggiamento di Pietro, che pareva ringiovanito, in quel caso.

 

“No, cioè… per ricambiare ricambierebbe pure ma… si sta separando e… ed è mamma e quindi… non voglio fare il rovina famiglie e poi… è più giovane e-”

 

“Più giovane di… del maresciallo?”

 

Pietro scoppiò in un attacco di tosse fortissimo.

 

“Piè, che c’è? Vuoi un goccio d’acqua?”

 

“No, no… è che… non mi aspettavo l’interrogatorio, sei sempre un mastino sei! E comunque no… è un po’ più grande di… di lui.”

 

“Beh, bene, allora direi che non è più una ragazzina, no? Se… se tu sei innamorato e… se lei ti ricambia… magari va bene aspettare per il bene di ste creature e se c’ha un processo in corso. O è consensuale?"

 

“Imma!”

 

“Va bene, lo so, non sono affari miei, ma deformazione professionale. Comunque… se non fosse consensuale, magari potete aspettare un poco, ma... l’amore non si sceglie e al cuore non si comanda, io lo so bene. E bisogna viversela, meglio i rimorsi dei rimpianti, come mi ha insegnato la buon’anima di mia madre, pure se troppo tardi.”

 

“Quindi… non te ne sei pentita?” le domandò, e non sembrava rancoroso, solo… curioso.

 

“Anche se forse non è bello da dire con te… e… pure se… se forse me ne rendo conto soltanto mo che lo dico… no, non sono pentita. O meglio, alcune cose sì, non le rifarei, tipo mollare il posto a Roma e… e fidarmi troppo ciecamente, non vedere i segnali, ma… della storia in sé con… con Calogiuri,” disse, riuscendo a pronunciarne il nome finalmente, “no, comunque quello che ho provato non me lo toglie nessuno e… tra noi due ormai da parte mia era finita del tutto, quando ti ho lasciato.”

 

Lui sorrise, un po’ amaro.

 

“Che c’è?”

 

“Sai… se… se tutto questo fosse successo anche solo un anno fa, avrei fatto di tutto per riconquistarti, ma… ma la vita è strana.”

 

“Sarebbe stato molto comodo pure per me, Piè, troppo!” gli disse, ritrovandosi stretta in un abbraccio, “ma non sarebbe stato giusto, soprattutto nei tuoi confronti. Le cose quando finiscono non si possono forzare.”

 

“No… e mo credo di averlo capito pure io,” mormorò lui, facendole solletico all’orecchio con la barba e i baffi, che non ci era più abituata, prima di staccarsi leggermente da lei e fare un’espressione strana.


“Che hai?”

 

“Niente è che… non pensare male ma… visto che non sei impegnata e quindi non facciamo torto a nessuno, mi chiedevo se… se potevo darti un bacio, rapido, eh, un bacetto, solo per capire se, se sono-”


“Se sei ancora vittima della Sindrome di Stoccarda o ti è passata definitivamente?”

 

“Eh… più o meno….”

 

La richiesta era sorprendente ma… lo vedeva che non era una scusa per altro, anzi, che era proprio forse la prova definitiva di cui Pietro aveva bisogno.

 

E… era suo dovere fornirgliela, per quanto lo aveva fatto stare male.

 

E poi, appunto, non avrebbe tradito nessuno.

 

Quindi gli afferrò il viso, come aveva fatto migliaia di volte nei loro quasi vent’anni insieme e posò le labbra sulle sue, il solletico dei baffi che le fece strano e tenerezza insieme.

 

Un bacio breve, anche perché non se la sentiva certo di approfondire, mentre lui era immobile.


“Allora?” gli chiese, quando si fu staccata.

 

Pietro pareva incredulo.

 

“Allora… ho… ho provato… molta tenerezza ma… non quel… quella cosa allo stomaco che provavo una volta. Quasi… quasi come se fossi… una sorella. Cioè, non proprio proprio una sorella ma-”

 

“Lo capisco cosa vuoi dire, Piè, perché è la stessa cosa che è successa a me con te negli ultimi tempi in cui eravamo insieme e… mi aveva fatto malissimo, credimi.”

 

“Sì… è… è come… rendersi conto di aver perso qualcosa… pure ora… figuriamoci con me che… che insistevo per…” lasciò cadere la frase, imbarazzato.

 

“Sono stata anche io codarda, a non lasciarti quando avrei dovuto, Pietro. Non è solo colpa tua se… se abbiamo trascinato le cose. E comunque… visto che mo c’hai avuto pure la prova del nove… mi devi promettere che non ti lascerai scappare quest’occasione di esser felice, Piè. Che se è andata male a me… mica deve andare male pure a te per forza.”

 

Fu trascinata in un altro abbraccio, ancora più forte del precedente.

 

“Sei cambiata tanto, Imma, in meglio. Pure se mi costa molto ammetterlo.”

 

Costava pure a lei, ma era vero. La vecchia Imma era un’armatura, una corazza, preziosissima, per carità ma niente di più.

 

Ma da quel momento in poi, la vera Imma l’avrebbe mostrata solo a chi se la meritava davvero.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo capitolo che da scrivere è stato peggio di un parto, soprattutto la parte iniziale. La bomba è scoppiata ed ha travolto tutti e… ora Imma deve leccarsi le ferite, mentre Calogiuri è disperato perché ha perso tutto e non sa come dimostrarlo. Vedremo nei prossimi capitoli come faranno per ritrovarsi e, soprattutto, per ritrovare la fiducia che è la cosa fondamentale, oltre che cercare di capire come, da chi e perché Calogiuri è stato incastrato. Pietro ed Imma nel frattempo hanno fatto pace con il loro passato insieme e… chissà se questa consapevolezza di essere “guarito” dalla Sindrome di Stoccarda (cit.) porterà ad altri eventi e ad altri casini.

Spero che la storia continui a piacervi fin qua, questo è l’ultimo grande ostacolo prima del finale. I prossimi capitoli avranno molto giallo, rosa ed anche angst, che però voglio rassicurarvi non sarà infinito, anche perché come vedete cerco di alternare sempre un po’ i toni dei capitoli.

Ringrazio di cuore chi ha recensito la mia storia, non avete idea della motivazione che mi date ogni volta e di quanto i vostri consigli mi siano preziosi. Grazie anche a chi l’ha inserita tra i preferiti o i seguiti.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 25 aprile, in caso di problemi vi avviserò per tempo sulla pagina autore qua su EFP della data di pubblicazione definitiva.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 59
*** Lividi ***


Nessun Alibi


Capitolo 59 - Lividi


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“E quindi, dottore, che ha da dire sulle indagini in corso nella sua abitazione?”

 

Si bloccò di botto, mentre stava cambiando compulsivamente canale senza realmente vedere nulla, tutto pur di non pensare ossessivamente a qualcuno - Ottavia che, sentendola scattare, le fece un mezzo balzo sulle ginocchia, sulle quali era stata mollemente sdraiata per le coccole, come era ormai da qualche giorno la loro routine serale.

 

Riconosceva il volto dell’uomo intervistato al TG: era il proprietario della villa dove c’era stata la festa durante la quale Giulia era stata violentata.

 

Il padre di uno dei ragazzi presenti nonché un commercialista molto benestante, uno di quelli con un giro di clienti importante.

 

“Ho da dire che le indagini e le ispezioni sono state un’inutile violazione della mia abitazione e della vita privata non solo mia, ma anche e soprattutto di mio figlio e dei suoi amici, per niente. La ragazza ha solamente bevuto un po’ troppo o forse è in cerca di pubblicità o di soldi. Ma non li avrà: non è successo niente quella sera e sfido chiunque a provare il contrario! Mio figlio ed i suoi amici sono dei bravi ragazzi ed erano pure loro in buona compagnia, quindi… non avevano di certo bisogno di andare con qualcuna contro la sua volontà, con tutte le belle ragazze che corrono loro dietro.”

 

“Che schifo!” esclamò, ed Ottavia fece un altro mezzo salto, mentre lei spegneva il televisore e buttava pure il telecomando, che rimbalzò dal divano schiantandosi per fortuna sul tappeto.

 

Brutto schifoso!

 

Aveva tirato fuori tutto il repertorio dei parenti dei bravi ragazzi quando venivano beccati.

 

Il peggio era che effettivamente prove concrete in mano al momento non ne avevano e tanta gente, comprese donne, avrebbe creduto a lui e a quei ragazzi così fighi che le donne dovevano scansarle.

 

Come se lo stupro fosse una questione di necessità fisica e non di controllo, di potere e-

 

I miagolii insistenti di Ottavia ed il suo picchiarle la testa sul seno interruppero l’incazzatura che stava crescendo.

 

Gli occhioni sembravano dirle - non ne vale la pena!

 

“E c’hai ragione c’hai!! concordò, grattandole dietro le orecchie, che era uno dei punti che la ruffiana più gradiva, “è inutile arrabbiarsi. Domani mi rimetto al lavoro con Mariani e… ride bene chi ride ultimo, Ottà!”

 

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“Pietto!!!”

 

Gli venne da sorridere ancora prima di vederla, anzi, di vederle.

 

Era all’ingresso di una specie di piccolo parco divertimenti con tanti giochi per bimbi dell’età di Noemi: gonfiabili, tappeti elastici, vasche piene di palline colorate e giostrine tranquille.

 

Ancora ricordava come il cuore gli era andato a mille quando gli era arrivato il messaggio con il quale Rosa accettava la sua proposta di andarci insieme.

 

Si abbassò appena in tempo per prenderla in braccio e, al suo ormai tradizionale “leccalecca?” rispose estraendone uno dalla tasca del giaccone e venendo travolto, come accadeva sempre più spesso ultimamente, dall’assalto di bacini sulla guancia.

 

“Però lo mangi dopo. Prima vai sulle giostre, se no poi vomiti!” intervenne Rosa, prendendole il leccalecca con un, “te lo conservo per dopo!”

 

“Ma io non gomito!” protestò Noemi, indignatissima, con le braccia incrociate in un modo che stranamente gli ricordava Imma.

 

Chissà se passavano ancora del tempo insieme ultimamente.

 

“Dai, che se fai la brava magari prendiamo qualcosa qua al parco,” sospirò Rosa, sorridendo però, non vista, quando Noemi iniziò a invocare lo zuccheo filato.

 

“Grazie per… per l’invito… anche se potresti pentirtene prima della fine del pomeriggio,” scherzò Rosa, sedendosi accanto a lui su una panchina mentre osservavano Noemi che saltellava come una cavalletta in mezzo ad altri bimbi, tra un tappeto elastico e le palline, “ma come lo hai trovato questo posto?”

 

“Internet. E poi con tutta l’energia che brucerà altro che zucchero filato! Che, lo confesso, piace pure a me. Molto,” le disse, guardandola negli occhi, e le guance di Rosa si fecero rosse come quelle della giostra a forma di clown poco distante.

 

“E allora lo prenderemo doppio. Per i bambini. Che tanto si sa che voi uomini non crescete mai!”

 

“Magari! Che in alcune di queste giostre vorrei entrarci pure io, ma le sfonderei!” scherzò, guadagnandosi un altro sorriso bellissimo ed un tocco sul braccio che gli fece venire una voglia assurda di provare ad abbracciarla almeno di lato.

 

Ma non voleva esagerare e spaventarla, in pubblico poi.

 

*********************************************************************************************************

 

Plic

 

Una goccia, ma chiara, udibile, pure con lo scroscio in sottofondo dell’acqua per la doccia nella quale si accingeva ad entrare.

 

Plic

 

Guardò per terra, d’istinto, e vide il rosso e stavolta non era per la furia.

 

Fu come un pugno dritto alla pancia.

 

A quella pancia che era vuota e vuota sarebbe rimasta.

 

Si fece due calcoli mentali ed aveva ritardato di quasi una settimana. Lo stress, sicuramente, oltre all’età che non aiutava.

 

Mentre si lasciava cadere sulla tavoletta del water, si rese conto che una parte di lei, inconscia, forse se n’era resa conto.

 

E, se il suo cervello ne era sollevato - la Imma razionale - c’era una parte di lei invece che sanguinava, e non solo letteralmente, per quell’ennesimo sogno impossibile infranto. Che ci aveva sperato e che quella creatura l’avrebbe cresciuta e amata troppo, anche se forse male, con o senza di lui.

 

Ma era meglio così, era sicuramente meglio così. La natura era stata saggia, molto più saggia di lei.

 

*********************************************************************************************************

 

“Allora, ti piace, signorina?”

 

Due occhioni azzurri andarono su e giù, Noemi che annuiva senza riuscire a parlare, mentre masticava un boccone enorme di zucchero filato dai colori dell’arcobaleno.

 

Sentì lo stecco che teneva in mano venire tirato e beccò Rosa prenderne un bel po’ e poi anche lei se lo portò alle labbra, emettendo un lieve mugolio soddisfatto e poi leccando le dita dai residui di zucchero.

 

E sentì pure un qualcosa dentro di lui che mo però se ne doveva stare buono. Chiuse gli occhi, cercando di perdersi nello zucchero e di ignorare tutto il resto, che con Rosa doveva aspettare e lo sapeva, anche se… i mesi di astinenza post parentesi internazionale iniziavano a farsi sentire.

 

Ma non voleva quello da lei, non solo quello almeno, e quindi si concentrò sulle facce buffe di Noemi, che aveva uno sbaffo arcobaleno fin sopra la fronte, cercando di guardare Rosa il meno possibile.

 

*********************************************************************************************************

 

Aveva gli occhi che gli bruciavano ma non poteva arrendersi.

 

Stava cercando tutto il cercabile sull’agriturismo in cui erano stati lui ed Imma, prima che Irene ci facesse un sopralluogo.

 

Movimenti bancari, conti, proprietari. Però, in apparenza, non sembrava esserci nulla di strano. Un’azienda familiare, come tante, un podere agricolo diventato agriturismo e maneggio dopo il boom degli anni Duemila.

 

Un altro pizzicore agli occhi, non ne poteva più, ma doveva riuscire in qualche modo a scagionarsi, a dimostrare a tutti, soprattutto a lei, la sua innocenza.

 

Gli sembrava quasi di sentire la sua voce, incazzosa, gridare ordini e-

 

E realizzò di colpo che la voce c’era sul serio.

 

E veniva dalla camera accanto alla sua.

 

La speranza che fosse realmente lei durò il tempo di un secondo, prima di realizzare che si trattasse della televisione, una presentatrice che interveniva per dire qualcosa.

 

Andò in automatico sul canale online dove sapeva che stavano trasmettendo il telegiornale, ignorò la diretta e fece ricominciare da capo il video, fino ad arrivare a pochi minuti prima.


Gli occhi gli bruciarono sì, ma gli si appannarono pure, al vederla, bellissima e fiera come sempre, anche se con gli occhi stanchi, cerchiati e la fronte sempre corrugata, che diceva ai giornalisti di farle fare il suo mestiere, e di occuparsi di più e meglio di cronaca, invece che di pettegolezzi come i giornaletti.

 

Gli venne da sorridere ed un magone tremendo solo ad udire l’accento mentre pronunciava quella parola.

 

Riuscì ancora a vederla qualche secondo, sparire in auto, scortata da Mariani e da…

 

Da quello stronzo!

 

Sperava che almeno Mariani, anche se ce l’aveva con lui, gliela tenesse al sicuro, da tutti i pericoli, compreso qualcuno che evidentemente stava già cercando di approfittarsene.

 

Prima che Imma si giocasse la carriera per aggressione al procuratore capo, conoscendola.

 

*********************************************************************************************************

 

“Pietto….”

 

L’aveva appena posata sul lettuccio, Rosa che cercava di metterla in pigiama senza svegliarla, quando aveva aperto gli occhi azzurri sonnacchiosi e lo aveva guardato in un modo strano.

 

“Dormi adesso, che è tardi,” le disse, facendole l’occhiolino.

 

“Mi sono divettita tanto. Ci tonniamo?” domandò, tra uno sbadiglio e l’altro.

 

Lanciò un’occhiata a Rosa che sorrise e annuì.

 

“Quando vuoi. Ora dormi però,” le ripetè e lei sorrise e gli afferrò l’indice della mano destra, lo tenne per poco, stretto stretto, e poi crollò a dormire con la bocca aperta.

 

Rosa sorrise e gli fece segno di alzarsi. Lui, piano piano, lo fece e la seguì fuori dalla stanza, osservandola mentre chiudeva pianissimo la porta.

 

Quanti ricordi delle nottate passate appresso a Valentina!

 

“Grazie… per la pazienza. Era da tanto che non la vedevo così contenta, anche se sembra sempre felice ma… lo so che sente che c’è qualcosa che non va.”

 

“Mi sono divertito anche io. E poi ci ho guadagnato lo zucchero filato.”

 

“Mica tanto… tra me e l’ingorda ce lo siamo mangiate quasi tutto,” rise lei, toccandosi una tasca ed estraendone il contenuto, “tanto che si è pure scordata di questo.”

 

Il leccalecca.

 

Lo zucchero filato gigante e poi il trancio di pizza avevano prodotto la dimenticanza quasi miracolosa.

 

“Sai che sono curiosa? Sono secoli che non li mangio. Quasi quasi…” proclamò Rosa, facendo per aprirlo, ma in quel momento, alla sola immagine mentale che ne conseguì, tutto il sangue gli finì in un punto ed allungò la mano per bloccarla con un “no, aspetta!” quasi disperato.

 

Rosa fece un mezzo salto e lui ritrasse subito la mano, perché si era preso pure una scossa, e ci mancava solo quella per peggiorare la situazione.

 

Lo guardò stupita e sorrise con un, “ma che non ne tieni altri? Capisco il non voler togliere il pane di bocca all’ingorda, ma….”

 

E fu in quel momento che avvenne il disastro. Come diceva quel cretino di Freud - che c’aveva solo una cosa in testa ma teneva sempre ragione teneva - gli occhi gli caddero in basso… all’origine del problema.

 

Li rialzò subito, ma era già troppo tardi: perché nel frattempo li aveva abbassati pure Rosa e poi li aveva spalancati ed era diventata più rossa dell’incarto del maledetto leccalecca alla fragola.

 

Pure lui percepì il sangue residuo finirgli nelle guance, tanto che gli girò la testa.

 

Un attimo infinito di silenzio e di panico.

 

“Va beh… forse è meglio che vado,” proclamò alla fine, ritrovando la voce, mortificato, desiderando solo levarsi da quella situazione.

 

Non fece in tempo a voltarsi che di nuovo il calore troppo forte di una mano che tratteneva la sua.

 

“Aspetta!”

 

I loro sguardi si incrociarono e negli occhi di Rosa c’era ancora imbarazzo, ma non sembrava arrabbiata, anzi, pareva quasi divertita.

 

“Anche se… anche se strozzerei mio fratello, una cosa buona da tutto sto casino è venuta,” gli sussurrò, incrociando le dita con le sue, “mo non ci stanno più legami di parentela acquisita e quindi….”

 

“E quindi?” ripeté, con voce strozzata, perché Rosa era sempre più vicina e non riusciva a staccare gli occhi da quelle labbra carnose.

 

“E quindi ci ho pensato, te l’avevo promesso, no?”

 

Il rumore di qualcosa sul pavimento ed unghie sulla barba, che gli causarono l’ennesima scossa.

 

Non ce la faceva più.

 

“E-”

 

“E mi vuoi baciare o devo sempre fare tutto io?!”

 

Gli venne per un secondo da ridere, ma non se lo fece ripetere due volte e praticamente ci si buttò su quelle labbra, che ancora sorridevano.

 

La strinse più forte che poteva, ora che poteva farlo veramente, senza più remore, le mani che se ne andavano per conto loro, dopo essersi trattenute per tanti mesi, e non sapeva se amasse di più farla ridere o quando faceva quei mugolii che… altro che lo zucchero filato!


Si sentì trascinare nell’unica stanza della casa nella quale non era ancora stato, e non perse tempo a chiudere la porta con un piede ed a buttarsi con lei sopra il materasso.

 

Non aveva mai provato niente del genere, forse per i mesi di astinenza, forse perché Rosa era allo stesso tempo rossa molto più del fiore da cui prendeva il soprannome, ma con uno sguardo da assassina.

 

Era giovane, come gli ricordava la pelle rosata e le curve che scopriva con meno lentezza di come avrebbe voluto, ma non poteva fare altrimenti. Ed era ancora più bella di come si era immaginato nei sogni, che erano stati il suo unico sfogo per troppo tempo.

 

Ma era anche una donna, passionale, molto passionale: il modo in cui lo baciava senza tregua, in cui gli levava del tutto il fiato, bloccandolo sul materasso per strappargli di dosso i vestiti con ancora più impazienza di quella che aveva avuto lui.


Si chiese come ci sarebbe tornato a casa di Valentina e se sarebbe sopravvissuto alla nottata, che mica c’aveva più vent’anni, ed il cuore gli batteva all’impazzata. Ma, dopo l’ennesimo sguardo provocante di lei, ribaltò la situazione, con solletico misto a baci, deciso a vendere cara la pelle fino all’ultimo e a provocare quei gemiti che lo facevano diventare pazzo, ancora, ancora e ancora.

 

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Era distrutto, completamente distrutto, ma ne era valsa la pena anche se… sperava che fosse stato lo stesso pure per lei.

 

Non riusciva a smettere di sfiorare quella pelle morbidissima con la punta delle dita e si trovò stretto più forte per la vita, un risolino sul collo.

 

Cercò lo sguardo di lei nel buio della stanza, per chiederle perché ridesse - che va bene che il suo segreto con le donne era sempre stato quello di farle ridere, ma non in certi momenti.

 

“No, niente… meglio che non te lo dico,” gli sussurrò, ridendo di nuovo, ma poi si fece più seria, forse avendo notato la preoccupazione di lui, “che c’è?”

 

“No… è che… tu ridi spesso, dopo aver fatto l’amore?”

 

“E chi se lo ricorda più?!” esclamò lei, facendo un’altra risata, che però poi diventò un sospiro, “non dirmi che hai paura che non mi sia piaciuto?”

 

Lui non disse niente ma lei sospirò ancora di più e alzò gli occhi al soffitto, con un “uomini!” prima di trovarsela seduta a cavalcioni sopra di lui che, se non fosse stato stremato… era una visione irresistibile.

 

“Se proprio lo vuoi sapere… anche se non volevo parlare di lei mo… stavo pensando che Imma è matta ad averti mollato per quel carciofone di mio fratello!”

 

Le guance gli ritornarono bollenti, e faticò pure lui a trattenere una risata, nonostante sì, forse non era il momento migliore per ripensare ad Imma e a… a quel cretino del suo cognatino, che già si immaginava come l’avrebbe presa di lui e Rosa.

 

“No, è che… insomma… sei tanto più giovane, quindi… insomma… temevo di non riuscire ad essere all’altezza che… che chissà a che cos’eri abituata e-”

 

Si trovò soffocato da un altro bacio.

 

“Niente che si avvicini, ma manco alla lontana: due pianeti diversi, proprio!” gli mormorò, praticamente nella bocca, e poi non la sentì più ma la vide accasciarsi sul suo lato del materasso, con sguardo effettivamente molto soddisfatto.

 

Il sollievo e l’orgoglio gli riempirono il petto in egual misura.

 

“Beh, ancora di meglio posso fare, se mi ci applico…” le disse, dandole un pizzicotto e lei rise di nuovo e poi si voltò a guardarlo, “non vedo l’ora ma… mi sa che tra poco è meglio vai, non che la peste si svegli e poi….”

 

Sospirò ma sapeva che aveva ragione: non era il caso che Noemi sapesse di loro, non ancora almeno.

 

“E… e quindi come facciamo mo?”

 

“Con la separazione e… tutto quello che sta accadendo con mio fratello… forse è meglio che ce lo teniamo per noi due, almeno per un po’. Ti… ti dispiace?” gli domandò, con uno sguardo che lo intenerì tantissimo.

 

Lo sguardo dei Calogiuri era indubbiamente una delle armi più letali del mondo.


“Va bene… allora vorrà dire che… avrò un’altra ottima ragione, oltre a Valentina, per farmi più fine settimana romani.”

 

Il bacio di lei fu talmente travolgente che… forse forse, in fondo, l’energia per un ultimo encore ce l’aveva.

 

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“Ci sono novità?”

 

“La casa purtroppo era ripulita davvero benissimo. Nessuna traccia di DNA. Probabilmente hanno usato la candeggina.”

 

Imma sospirò: come previsto.


“Questo è già sospetto: quando si è mai sentito che dopo una festa di ragazzi si igienizzi tutto tipo sala operatoria? A meno che il commercialista sia un maniaco dell’igiene, ma non mi sembra proprio il tipo.”

 

“Sì, è molto sospetto, dottoressa. Ma ovviamente ora il dottor Luciani sosterrà ancora di più che la ragazza si sia inventata tutto.”

 

“I vestiti? Hanno dato riscontri?”

 

“Sì, dottoressa, una traccia di DNA.”

 

“Ma?” chiese, perché Mariani non aveva l’espressione esultante che avrebbe dovuto indossare per una notizia del genere.


“Non corrisponde a nessuno dei sospettati, dottoressa.”

 

“Allora magari… potevano esserci altri ragazzi a quella festa, qualcuno che Giulia non ha visto. Certo non è facile. Dobbiamo ricontrollare le telecamere del traffico vicine alla villa, controllare anche internet… magari qualcuno ha fatto dei filmati alla festa e li ha pubblicati lo stesso, nonostante quello che è successo.”

 

“Va bene, dottoressa, procedo subito.”

 

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“Ci sono ancora giornalisti, dottoressa?”

 

Si voltò di scatto e si trovò di fronte Mancini, con la valigetta in mano, pronto al rientro a casa dopo la fine della giornata.

 

“Un paio: non si arrendono,” sospirò, spiando la strada.

 

“Non si preoccupi: l’accompagno,” cercò di rassicurarla con un sorriso.


“Dottore… magari chiedo a Mariani e-”

 

“Mariani è fuori per un sopralluogo con Santoro, dottoressa. Non si preoccupi, lo sa che non è un disturbo.”

 

Ed era proprio quello il problema, in realtà.

 

Mancini era molto gentile e premuroso con lei ultimamente, ma non voleva fraintendesse. Però non era un discorso da fare lì in procura.

 

E quindi annuì e si lasciò accompagnare fino all’auto del procuratore capo, che partì poi rapidamente, seminando i due scalzacani rimasti.

 

“Facciamo un giro un poco più ampio e poi la riporto a casa.”

 

Il sorriso di Mancini e la sua gentilezza la facevano sentire in colpa assurdamente, non sapeva se verso di lui o se, peggio, verso qualcun altro. Che non si meritava proprio nessun senso di colpa, anzi. Gli sarebbe stato solo che bene, gli sarebbe stato, provare un po’ della sua stessa medicina, per una volta.

 

Ma lei non era così e… e poi Mancini non si meritava di essere preso in giro.

 

E quindi la lingua parlò prima del cervello, “dottore….”


“Sì?”

 

“Io la ringrazio moltissimo per la sua gentilezza di questi giorni ma… considerati i… precedenti tra noi… lei lo sa che… insomma… cioè, magari nel frattempo le è pure passata, cosa che sarebbe comprensibile, ma… se così non fosse… io al momento non posso ricambiare nessun tipo di interesse che vada oltre ad una collaborazione lavorativa.”

 

Mancini rimase con gli occhi fissi sulla strada per un attimo, ma poi si girò verso di lei e le sorrise, con quel suo modo rassicurante, “dottoressa, lo so benissimo che donna è lei e… non mi aspettavo altro da lei. Non è per… quel motivo che le sto vicino, almeno non solo per quello. Il mio interesse per lei non l’ho mai nascosto, ma posso aspettare tutto il tempo che serve, senza impegno da parte sua, ovviamente. Nel frattempo… oltre alla collaborazione lavorativa, che non è in discussione, mi piacerebbe se potesse considerarmi almeno come un amico, un supporto in questo periodo difficile. Prima di… insomma, prima di Milano, mi sembrava che i presupposti almeno per quello ci fossero, no?”

 

Sentì una specie di fitta al petto: Mancini era gentile, intelligente, colto, sensibile, un vero gentiluomo.

 

Insomma l’uomo perfetto.

 

Perché non si era innamorata di lui, invece che di quel cretino?

 

“Dottore, col mio carattere… ho pochissimi amici, lo sa. Ne è proprio sicuro? Io non glielo consiglio!” scherzò, anche se c’era più di un fondo di verità nelle sue parole ed il procuratore capo rise.

 

“Vorrà dire che correrò questo rischio, dottoressa.”

 

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“Mi vedete e mi sentite fino a qua?”


“Forte e chiaro!”

 

“Ecco, ora vado nella SPA, quindi levo la telecamera, ma tengo l’audio, prima che tu ti distrai e lui mi sviene!”

 

Si sentì arrossire, un colpo di tosse che quasi lo assordò nelle cuffie: Ranieri, in collegamento da Bari dove era dovuto tornare per lavoro, sembrava pure lui parecchio in imbarazzo.

 

Lo aveva visto sempre e solo tramite una telecamera ultimamente… del resto non volevano attirare l’attenzione su dove si trovasse lui con più visite del necessario.


Ma non poteva fare a meno di chiedersi che rapporto ci fosse tra il capitano e Irene. Sapeva che lei ce l’aveva con lui e molto, quando l’aveva conosciuta, ma ultimamente stavano collaborando spesso.

 

Irene era all’agriturismo, per indagare di più sui dipendenti e sui proprietari.

 

La telecamera si spense effettivamente, appena in tempo prima di sentire lo sfrusciare del tessuto.

 

Gli venne in mente la famosa sauna e… tutto quello che ne era conseguito con Imma.

 

Doveva assolutamente trovare il modo di farsi credere da lei, fosse stata l’ultima cosa che faceva.

 

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“La ringrazio per il passaggio, dottore.”

 

Lui le sorrise, ma non si affrettò a scendere dall’auto per aprirle la portiera, come aveva fatto le sere precedenti.


“Senta… le andrebbe se andassimo a cena da qualche parte? In amicizia, ovviamente. Conosco un ristorante qui vicino che cucina il pesce in modo eccezionale. Atmosfera molto informale, stia tranquilla.”

 

Esitò: forse non era il caso, anzi, sicuramente non era il caso.

 

Ma perché avrebbe dovuto rinunciare ad una serata diversa dal restarsene chiusa a casa a coccolare Ottavia e a disperarsi per tutto quello che le era successo?

 

Alla fine non stava facendo nulla di male, e le cose con Mancini le aveva messe in chiaro.


“Va bene, dottore, ma solo se facciamo alla romana.”

 

“Lo sa che è contrario a tutta l’educazione che mi è stata impartita far pagare una signora, sì?”

 

“E lei lo sa che, o così, o di andare a cena con me se lo scorda, dottore? E signora a chi?” ribatté, ironica ma con un reale avvertimento, e lui sembrò in imbarazzo, ma anche un poco divertito.


“Va bene, ha vinto. Però… a patto che la smettiamo con dottore e dottoressa e ci diamo del tu, almeno fuori dal lavoro.”

 

Di nuovo, un attimo di dubbio: il lei ed i titoli erano un modo per mantenere una distanza, un rigore.

 

Anche se con qualcuno manco tutti i titoli del mondo ed il voi erano serviti a niente, in fondo.

 

“Mi ci dovrò abituare, quindi non prometto niente,” rispose, ma lui sorrise lo stesso e fece ripartire l’auto.

 

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Trattenne il fiato, anche se era assolutamente inutile farlo, mentre osservava il corridoio in penombra andare su e giù con ogni passo che prendeva Irene.


Era ormai notte e stava andando verso gli uffici, che aveva individuato durante il giorno, per fare un’ispezione ai documenti, di nascosto.

 

Il modo in cui scassinò la serratura, di precisione, dopo essersi nascosta da due cameriere notturne che passavano, era da manuale.

 

Sarebbe stata un’ottima carabiniera dei reparti speciali o forse pure dei servizi segreti: ce la vedeva benissimo in un film di spionaggio.

 

E alla fine fu negli uffici e prese a scartabellare documenti per memorizzarli sulla telecamera, e poi ad accedere al computer del direttore e a farne una copia su chiavetta.


Sapeva che si stava prendendo un rischio enorme e soltanto per scagionarlo.

 

Lanciò un’occhiata a Ranieri sull’altro schermo, e pure lui sembrava molto in apprensione ma… pur conoscendolo poco, aveva sul viso uno sguardo di ammirazione completa, quasi adorante.

 

Ma, quando Irene parlò per chiedere se avessero individuato altro da cercare, l’espressione di Ranieri tornò serissima e professionale, mentre dava indicazioni su angoli che lui a malapena aveva notato, col buio che c’era.

 

Era proprio bravo Ranieri, e si rese conto di non essere al suo livello e che, se mai avesse riavuto il suo lavoro, per essere davvero un capitano degno di questo nome, avrebbe dovuto lavorare un sacco.

 

Ma prima doveva pensare ad Imma, che stava malissimo per colpa sua e doveva provarle che non solo non l’aveva tradita, ma che non era più l’ingenuo ragazzo di Grottaminarda, che poteva e doveva tirarsi fuori dai guai.

 

Certo, non proprio da solo, ma si ripromise di leggere subito i file che Irene gli avrebbe inviato, a costo di farsi la nottata in bianco.

 

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Stava cercando di pulire il meraviglioso misto di crostacei e frutti di mare che Mancini aveva ordinato per entrambi.

 

I prezzi almeno non erano da usura, il locale molto carino ed il vino ed il pesce ottimi. Ma lei era abituata a posti ancora più terra terra, soprattutto per quel genere di cose, e con forchetta e coltello era un poco in difficoltà.

 

“Se non le dispiace… anzi… se non ti dispiace… i frutti di mare vanno colti con le mani.”

 

Sollevò gli occhi, stupita, verso Mancini, che aveva preso in mano un gamberone dall’aria invitantissima.

 

Le venne da sorridere, grata, ed annuì, abbandonando forchetta e coltello e prendendo una delle cozze - cotte per fortuna, come tutto il resto di quel ben di dio.

 

“Che c’è? Da me non se lo aspettava? Cioè non te lo aspettavi?”

 

“In pubblico? No, dottore. Spero solo non si macchi il completo,” rispose, visto che Mancini indossava ancora l’abbigliamento da lavoro, che tra giacca, camicia e pantaloni doveva costare non poco.

 

“In caso, ne sarà valsa la pena e ho un’ottima tintoria,” ribatté lui, facendole l’occhiolino e poi mangiando avidamente i frutti di mare, prima di pulirsi le mani e sollevare il calice di vino bianco, “alle cose inattese della vita, che sono pure le più belle.”

 

Si pulì a sua volta nella salvietta umidificata e ricambiò il brindisi, dovendo ammettere che questo lato di Mancini, più genuino, non era niente male, affatto.

 

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“Arriva qualcuno!”

 

Irene si era abbassata sotto la scrivania: effettivamente si sentiva rumore di passi.

 

Le luci si accesero all’improvviso ed udirono una voce maschile, forse il direttore, che si chiedeva dove avesse lasciato le chiavi della macchina.

 

Il respiro di Irene gli sembrò fortissimo nel microfono. Se si fosse avvicinato alla scrivania….

 

Gli venne in mente che lui il cellulare del direttore lo aveva, nell’elenco dei contatti controllati.

 

Con il cuore in gola, compose il numero da un account anonimo di messaggistica istantanea, pregando ce lo avesse pure lui.


Sentì il telefono squillare ed il “pronto?” del direttore sia al pc che nella registrazione.

 

E mo che si inventava?

 

“Direttore! Abbiamo trovato le sue chiavi, le devono essere cadute nel parcheggio!” disse, cercando di camuffare la voce e pregando che lo scambiasse per uno degli addetti dell’agriturismo.

 

“Ma chi parla? Antonio, sei tu?” chiese, ma lui mise giù subito.

 

“Ci mancava anche questa…” lo sentì sospirare dal microfono di Irene, e poi il rumore di una porta che si chiudeva e la luce si spense.

 

“Grazie…” la udì mormorare, la voce bassa rispetto al solito, mentre Ranieri era bianco come un lenzuolo, ma gli disse un, “ottimo lavoro, Calogiuri! Ha avuto una prontezza incredibile!” che gli parve realmente sincero e gli ridiede un po’ di orgoglio, dopo tante batoste.

 

“Irene, esci da lì, subito!” ordinò poi il capitano, e lei non se lo fece ripetere due volte, spegnendo il computer, riforzando la serratura dall’interno e poi richiudendola dall’esterno, prima di avviarsi molto rapidamente verso la sua stanza.

 

Per fortuna era andata bene.

 

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Lo osservò scendere dall’auto e fare il giro intorno, per farla scendere.

 

Le faceva strano, pure se non era una novità, anzi, ma l’orario e le circostanze erano diverse.


Uscì dalla macchina e se lo trovò un po’ troppo vicino, visto che teneva la portiera, quindi fece un paio di passi indietro per ripristinare le distanze di sicurezza.

 

“Allora la ringrazio… ti ringrazio,” si corresse, notando lo sguardo di lui.

 

Era tutta la sera che alternavano tra il lei ed il tu.

 

“Figuriamoci, visto che hai voluto pure pagare la tua parte, non ho fatto niente. Grazie a te della compagnia, spero che… magari potremo ripetere qualche volta.”

 

“Magari…” rispose lei, senza fare promesse ma nemmeno respingere del tutto l’idea.

 

Perché era stata una serata piacevole e l’aveva distratta dai suoi casini.

 

“Allora buonanotte, a domani,” si congedò, avviandosi rapidamente verso il portoncino ed aprendolo, vedendo poi Mancini salutarla con la mano e rimettersi al volante.

 

L’ascensore per fortuna era già lì, ed arrivò rapidamente davanti alla porta di casa.

 

Si sentiva un poco in colpa, anche se mica aveva fatto niente di che, e qualcuno non se lo meritava proprio che lei rimanesse tutto il tempo a disperarsi pensandolo.

 

Ma, tant’è, neanche due minuti che era da sola e ci pensava lo stesso. A che cosa stava facendo, a dov’era, a come stava.

 

Scosse la testa, girò la chiave nella toppa e stava per accendere la luce, quando si trovò assaltata da una cosa pelosa e miagolante.

 

“Ottà?” chiese, trovandosi con i collant a brandelli e le gambe graffiate prima di riuscire a prenderla in braccio ed accendere la luce.

 

La guardò ed Ottavia miagolò fortissimo, poi le mise la testa nel vestito e poi riprese a miagolare, sembrando incazzosissima.

 

“Che c’è? Senti l’odore del pesce?” le chiese, divertita e un po’ stupita, ma Ottavia miagolò ancora più forte e poi, con aria offesa, le saltò giù da in braccio e si avviò verso il corridoio dandole le spalle.

 

“Ottà, guarda che non è un posto da cui mi potevo portare gli avanzi!” cercò di spiegarle, chiudendosi la porta alle spalle, ma la testona proseguì imperterrita verso il bagno.

 

Che ci si metteva pure lei a fare l’offesa, mo?

 

Sospirando nel vedere com’erano ridotte le sue gambe e le calze leopardate, che giusto per un concerto punk ormai potevano essere usate, andò in camera, si mise il pigiama e poi andò in bagno per cercare di stanarla.

 

“Eddai, ti sei offesa? Non potevo portare gli avanzi, te l’ho detto!”

 

Certo che stava proprio messa male, a giustificarsi con una micia.

 

Ma Ottavia continuò a miagolare forte, fece pure due soffi e poi le ridiede le spalle.

 

“Se è perché sono tornata tardi, lo sai che può capitare. Dai, non vuoi venire nel letto con me?” le chiese, lavandosi rapidamente i denti e poi lasciando la porta del bagno e della stanza aperte.

 

Stava per arrendersi e prendersi in mano il libro su cui era ferma da settimane, quando uno spostamento d’aria ed un peso sui piedi le segnalarono che qualcuna si era decisa.

 

Ma le rimase sulle caviglie, acciambellata, senza andarle al collo, come faceva ultimamente.

 

“Va beh… come vuoi, buonanotte!” sospirò, spegnendo la luce e cercando di prendere sonno, ma non riuscendoci, tanto per cambiare.

 

Dopo un po’ di rigiri nel letto, peggio di una cotoletta, si trovò con qualcosa di caldo, morbido e pulsante attaccato alla schiena.

 

Sorrise tra sé e sé, si voltò e l’abbracciò, il ronzio delle fusa che le conciliò finalmente il sonno.

 

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“Allora, signor...?”

 

“Raniero.”

 

La voce di Ranieri era imbarazzata, del resto, per dove si trovava, lo capiva pure. Niente telecamera stavolta, per ovvi motivi, solo il microfono.

 

“C’è un motivo in particolare per la visita? Dolori, qualche sintomo?”

 

“In realtà… ho tre figli e vorrei evitare di averne altri. Stavo valutando la possibilità di una vasectomia, ma volevo capire le conseguenze.”

 

Spiò l’espressione di Irene, seduta accanto a lui, che però alzò soltanto un sopracciglio.


Era una buona scusa, effettivamente, per evitare procedure invasive.

 

“Dipende dal suo stato di salute generale. Devo farle una visita e le prescriverò alcune analisi del sangue.”

 

Ecco, come non detto!

 

Lanciò di nuovo un’occhiata ad Irene e la vide fare un mezzo sorrisetto soddisfatto.

 

Probabilmente, nonostante tutto, un poco di risentimento ancora c’era.

 

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“Allora, è andata bene la visita?”

 

Il tono di Irene era molto ironico.

 

Il capitano aveva staccato l’audio mentre il dottore lo visitava, poi aveva ripreso e ora era uscito dallo studio dell’andrologo.

 

“Mai più!” le rispose, con un tono che gli fece venire da ridere, “comunque ho visto dove tiene i documenti e credo anche di avere la sua password, da quando è entrato nel suo account. Ho fatto un calco delle chiavi, ora vado a farne una copia. Ed il sistema d’allarme è molto semplice, non sarà un problema.”

 

“Va bene. Allora stanotte entriamo,” rispose Irene, senza fare una piega, “gli orari della sicurezza li abbiamo, e prima capiamo se possa essere lui e meglio è, visto che l’agriturismo è stato un buco nell’acqua.”

 

“D’accordo. Ti aspetto al luogo e all’orario convenuti allora, a dopo.”

 

Sentì addosso un’agitazione fortissima: dopo che l’agriturismo si era rivelato un’attività tranquillissima e manco particolarmente redditizia, con un giro di email e documentazioni assolutamente nella norma, al di là di qualche errore contabile, forse volontario, forse no, questa era la sua ultima speranza concreta.

 

Il Giappone… la locanda dove erano stati lui ed Imma era centenaria ed avevano telecamere di sicurezza lungo tutto il perimetro proprio per evitare maniaci. Avevano pure scomodato i corrispondenti locali di Brian Martino, ma dai filmati non era emerso niente e neanche dai nominativi delle persone ospiti nella locanda quella sera. Tutta gente tranquilla, padri e madri di famiglia in ferie per l’o-bon.

 

“Adesso devo andare, Calogiuri. Tu tutto bene? Hai un’espressione….”

 

“Voglio solo riuscire a capire chi mi ha incastrato e come….”

 

“E noi ci stiamo provando. Ma tu devi tenere il morale in alto, va bene? E stai mangiando? Che a parte la puzza di sta stanza, ma mi sembri sempre più magro.”

 

“Mangio… mangio… tranquilla…” sospirò lui, anche se, tra il poco moto e l’ansia di riuscire a scagionarsi e di come poteva stare Imma, lo stava facendo poco e male.

 

Sperò davvero che l’andrologo fosse l’anello mancante della catena, doveva esserlo, se no non sapeva più che pesci pigliare.

 

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“Valentina!”

 

Per poco non le cascarono i libri di mano.

 

Si voltò e non si era sbagliata: Carlo Vitali.

 

“Carlo? Che ci fai qui?”

 

Era nel corridoio dell’università, pronta per andare in pausa pranzo.

 

“Avevo un paio di ore libere e oggi sono alla sede qua di fianco. E allora sono passato per vedere se c’eri,” le spiegò, toccandosi i capelli, “ti andrebbe di andare a mangiare qualcosa insieme?”

 

“Volentieri! Avviso le mie compagne e andiamo!”

 

Le faceva sempre piacere chiacchierare con Carlo, forse perché capiva bene la sua vita da figlia di PM ed aveva presente l’ambiente materano, o forse perché era uno dei pochi con cui se la sentiva di confidarsi riguardo a Penelope, dato che conosceva entrambe.

 

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“Avete trovato qualcosa?”

 

La domanda di Irene aveva un tono che faceva presagire che non si aspettasse nulla di buono dalla risposta.


“Purtroppo no. Niente che colleghi l’andrologo ad attività sospette. Pure qua un po’ di evasione fiscale, incrociando gli appuntamenti con le fatture fatte, ma niente che faccia pensare ad altro.”

 

La risposta di Ranieri non era altro che la conferma di quello che già temeva.

 

“Neanch’io ho trovato niente. I contatti che ha avuto nelle ultime settimane, sembra tutta gente incensurata: clienti, colleghi, amici e familiari,” ammise, le ultime speranze che ormai se ne erano già andate.

 

“Lo temevo. Ma Calogiuri, non ti devi abbattere! Dobbiamo cercare più indietro nel tempo, più ad ampio raggio.”

 

“Più andiamo indietro nel tempo e più è difficile trovare qualcosa, lo sai anche tu, figuriamoci dimostrarlo!” esclamò, forse con un po’ troppa forza, perché Irene fece un mezzo balzo e pure Ranieri, da remoto, parve stupito.

 

“Usa questa energia per cercare di ricordarti tutti i posti in cui possono averti visto nudo, invece che a disperarti. Io non ti mollo, chiaro?”

 

Sentì il tocco di Irene sulla spalla ed annuì, perché sapeva che lei stava facendo il possibile e pure l’impossibile per lui, ma… non era il tocco che avrebbe voluto, e quella frase avrebbe tanto voluto ascoltarla ma da una voce roca che gli mancava da morire.

 

“Possiamo mandare qualcuna sotto copertura con l’avvocato, nel frattempo. Magari ora che pensa di aver vinto, ha abbassato un po’ la guardia. E credo di avere la persona adatta.”

 

Si voltò verso lo schermo perché era stato Ranieri a parlare ed aveva uno sguardo un poco strano.

 

“Cioè?” chiese Irene, lasciandogli la spalla e girandosi anche lei verso il pc.

 

“Una collega che è stata nei reparti speciali per molti anni, in polizia. Ora è tornata in questura qua a Bari. Potrebbe essere un poco fuori età per l’avvocato, ma… c’ha la fila e di solito nessuno le resiste,” spiegò Ranieri e a Calogiuri sembrò come se un interruttore ad alta tensione si fosse appena acceso nella stanza, e ci fosse qualcosa nell’aria.

 

“E come sarebbe questa collega, per essere così irresistibile?” domandò Irene, incrociando le braccia, con un sopracciglio alzato.

 

“Bella, mora, mediterranea, molto formosa e si veste in un modo… appariscente, quando non è sotto copertura. E poi… insomma è una che con gli uomini ci sa fare, sa come prenderli.”

 

“Immagino!” ribatté lei, sembrando un poco irritata, “comunque per me va bene, se oltre ad essere irresistibile è anche brava nel suo lavoro. E discreta soprattutto, anche se magari non nell’abbigliamento.”

 

“Bravissima, almeno a giudicare dalle missioni che ha fatto in passato.”

 

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“Vale!!!”

 

Era appena rientrata dalla pausa pranzo con Carlo: alla fine se l’era presa un po’ più lunga ed aveva perso la prima lezione, tanto era una materia di puro studio.

 

Ma si era ritrovata con le compagne di università appostate dietro la porta.

 

“Che c’è? Sono stata via di più, ma-”

 

“Eeeeeh… che chissà che ci combini con quel bel ragazzo… beata te! Dev’essere una cosa di famiglia attirare così tanto, qual è il vostro segreto?” rispose Laura, con aria sognante e un po’ invidiosa.

 

“Di famiglia? E io comunque sono fidanzata e fedele, Carlo è un amico e basta!”

 

“Sì, un amico da pause pranzo di tre ore,” rise Ludovica, agitando all’indietro la chioma mora.


“Avevamo molto da raccontarci, perché era da un bel po’ che non ci vedevamo. Ma che c’entra la mia famiglia? Se è ancora per la storia di mia madre e del maresciallo, non-”

 

“No, macché, il maresciallo è una storia vecchia! Poi, dopo che ha fatto quello che ha fatto! Ma tua madre recupera subito, non molla il colpo! Certo, questo è un po’ vecchio per me, ma ha quell’aria da Richard Gere in Pretty Woman….”

 

“Ma chi? Di che cosa state parlando?”

 

“Ma tua madre non ti ha detto della sua nuova conquista? Guarda!” disse Ludovica, mostrandole il telefonino con su la cover costosissima di una nota influencer che Ludovica sperava di eguagliare prima o poi.

 

La Pantera di Matera graffia ancora! Nuovo triangolo in procura?

 

La Pantera di Matera, accantonato il toyboy, si dà ad uscite romantiche con una vecchia volpe

 

La Pantera di Matera e lo scapolo d’oro della procura. Straordinari d’amore?

 

Il terzo titolo le fece domandare se avessero assunto una scrittrice di Harmony come titolista.

 

Le sarebbe venuto da ridere, se le foto sotto i titoli non avessero ritratto sua madre a cena ed in auto con un bell’uomo, alto e brizzolato.

 

Il procuratore capo.

 

“Va beh, è il capo di mia madre… staranno lavorando…” cercò di minimizzare lei, sebbene sapesse quanto sua madre fosse allergica alle cenette con i colleghi.

 

Tranne uno a cui meno pensava e meglio era, che si era un poco pentita di non essere andata a tirargli un calcio ben assestato dove non batteva il sole, prima che sparisse.

 

“Qua dicono che escono dalla procura tutte le sere insieme, ed una sera sono pure andati a cena. Poi… ma hai visto quanto è figo per l’età che deve avere? Pace all’anima sua! E c’ha pure un fisico!”

 

“E questo lo noti da due foto in auto con mia madre?”

 

“Ma no!” disse Laura, mostrandole a sua volta il suo telefono, “ma dicono che è un triatleta, allora l’ho cercato su google, e guarda che foto.”

 

Effettivamente c’erano alcune immagini di Mancini che correva all’ultima gara di thriatlon a Roma e poi che nuotava e… il fisico c’era, eccome.

 

Ma sua madre non era una che assorbiva così facilmente le batoste e lei quel pirla lo amava molto, lo sapeva.

 

A meno che non avesse deciso di fargliela pagare in quel modo, per orgoglio.

 

Avrebbe dovuto sentirla quella sera.

 

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Controllò il cellulare, come faceva ormai di rado, perché aveva perso le speranze che l’unica persona da cui avrebbe voluto ricevere un messaggio lo sbloccasse.

 

Ci trovò un sacco di messaggi persi.

 

Giornalisti, maledetti!

 

Ultimamente sembrava averli seminati davvero, anche grazie all’aiuto di Irene che gli evitava di dover uscire per le cose di prima necessità.

 

Ma chissà che volevano ora, tutti insieme… che Melita ne avesse sparate ancora altre delle sue?

 

Aprì il primo messaggio, a caso, e ci trovò un link e la domanda:

 

Qualcosa da dichiarare? Si è consolata in fretta, mi pare! Forse ha già fatto troppo la vittima, no? Perché non ci dà la sua versione?

 

Rimase per un attimo senza parole, ma poi notò due cose in contemporanea.

 

Che la foto profilo era di quello stronzo di Zazza.

 

E che il link aveva un’immaginetta con una foto in piccolo e il titolo

 

La Pantera di Matera e la sua nuova preda

 

Il cuore gli finì nello stomaco ma aprì subito, in automatico.


E si trovò davanti una foto di Imma con quel maiale di Mancini, a cena insieme in un posto che non riconosceva, intenti a fare un brindisi col vino bianco.

 

Fu peggio di un cazzotto in faccia: non ci poteva credere, che ci faceva con quello?! Dopo tutto quello che aveva fatto!

 

Guardò le altre foto ed erano di loro in auto, che se ne andavano dalla procura.

 

Cercò di calmarsi, anche se aveva il battito a mille, un magone tremendo e le mani gelide.

 

Magari Mancini insisteva sempre per accompagnarla ed aveva insistito anche per la cena. Ma non c’erano foto più intime e, se ci fosse stato qualcosa di più, lo avrebbe pubblicato.

 

Ma non poteva lasciare che Mancini si approfittasse così della situazione e del dolore di Imma e non poteva perderla senza combattere.

 

Non aveva niente in mano, era vero, ma doveva riuscire a farsi ascoltare da lei, una volta per tutte.

 

Dopo tutti gli anni insieme almeno di starlo a sentire glielo doveva, nonostante tutti i casini successi.

 

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“Che vergogna! Vergogna!!”

 

Asia fece un balzo sulla sedia dove era accomodata per fare le trascrizioni, e le disse un timoroso “dottoressa, se per stasera abbiamo finito, io andrei!” che le ricordò un poco Diana.

 

“Vada! Vada!” la congedò con un cenno della mano, concentrandosi sull’articolo di giornale che aveva davanti e bollendo nuovamente per l’indignazione.

 

C’era una foto di Giulia che usciva dalla scuola, piangendo, e poi venivano intervistate le sue compagne ed i suoi compagni, che sostenevano che era esagerata e che a quella festa non era sicuramente successo niente.

 

La preside aveva inoltre comunicato ufficialmente che Giulia si era ritirata.

 

E, seppure fosse solo un articolo scritto, lo vedeva dalla faccia di quella megera che doveva essere stato un sollievo per lei, che la patata bollente se ne fosse andata.

 

Le avevano sicuramente reso la vita talmente impossibile da costringerla a mollare la scuola.

 

Prese il telefono e provò a chiamarla, ma era staccato.

 

Doveva parlarle assolutamente. Chiamò la PG per chiedere di Mariani, ma le fu riferito che già era andata a casa.

 

Le sarebbe toccato aspettare il giorno dopo, purtroppo.

 

Il rumore di nocche alla porta.

 

“Avanti!” gridò, più forte del necessario, ma era troppo arrabbiata, e vide comparire Mancini, con aria preoccupata.

 

“Dottoressa! Tutto bene? La vedo… alterata ecco. Se è per gli articoli che sono usciti su noi due-”

 

“Ma che vuole che me ne freghi di quelli! Ci sono abituata!” esclamò, perché gli articoli le erano ovviamente arrivati, cortesia di tutti i giornalisti, Lucania News in primis, e pure di Diana e la Moliterni che si erano fatte sentire.

 

La prima per dirle che Mancini era un grande acchiappo ma se era proprio sicura, che chiodo scaccia chiodo non sempre funziona, la seconda per congratularsi sul suo gusto in fatto di uomini, e che non pensava che sarebbe tornata in sella così presto.

 

A Diana aveva scritto un ma che non mi conosci?! e alla Moliterni non aveva risposto, che era già una risposta.

 

Una fitta dritta al petto quando le venne in mente lui davanti alla caserma di Matera, che aveva appena mollato quella scema di Maria Luisa.

 

“Allora non ce l’ha con me?”

 

La voce di Mancini la riportò al presente e scosse il capo, non solo come diniego ma anche per levarsi dalla testa quei pensieri, “no, no, che quelli con me ce l’hanno! Ma tanto scriverebbero comunque, almeno non sono più la povera cornuta ferita, è già qualcosa, suppongo.”

 

Mancini sorrise leggermente e poi, dopo un attimo di esitazione, aggiunse, “allora le va se l’accompagno a casa? Mariani è già andata.”

 

“Sì, me l’hanno detto. E va bene, dottore, ma a patto che prima mi accompagni in un posto.”

 

“E dove?”

 

Imma gli passò il giornale e disse “a casa di Giulia Angelucci.”

 

Mancini fece scorrere rapidamente l’articolo, poi annuì e le aprì la porta, con il suo solito modo cavalleresco, senza dire nient’altro.

 

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Si strinse di più nella felpa con il cappuccio, infilando la bocca nel dolcevita che si era infilato in tutta fretta.

 

Ma, pure con quegli strati più il cappotto, sentiva freddo, molto più del solito.

 

Forse perché non era più abituato all’aria aperta, o forse perché aveva perso peso.

 

Si sentiva idiota ed in colpa al tempo stesso ad aspettare Imma sotto casa, manco fosse un maniaco o un criminale, ma sapeva che era l’unico modo di avere una possibilità di parlarle.

 

Solo che… ormai erano quasi le otto di sera ed Imma ancora non si vedeva.

 

Sapeva che lavorava fino a tardi ma… cominciava ad essere strano pure per lei.

 

Mille scenari gli passarono per la mente, di Imma con quello stronzo di Mancini, che magari erano a fare un’altra cena, a brindare insieme alla faccia sua, mentre lui stava lì a surgelarsi.

 

Ma non poteva arrendersi e doveva sapere la verità, a tutti i costi, per quanto potesse fargli male.

 

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“Giulia, tu non devi permettere a quegli stronzi di condizionarti il futuro, hai capito? Puoi andare in un’altra scuola, ma non devi mollare!”

 

“E che senso ha? Tanto quelli non ci sono, è vero, ma tutti… tutti comunque mi tratterebbero solo come quella che si è inventata palle sui giornali.”

 

“Ma noi cercheremo di dimostrare a tutti che non ti sei inventata niente,” ribadì Imma, mettendosi quasi in ginocchio davanti alla ragazza, che stava seduta sul divano, sua madre silenziosa in un angolo della stanza.

 

Il padre non pervenuto, ma a quanto pare erano divorziati da anni.

 

“Senti, ci sono pure i corsi a distanza, no? Almeno non perdi lezioni e poi, quando questa storia sarà risolta, puoi andare in un’altra scuola più serenamente.”

 

“I corsi privati costano molto e non ce lo possiamo permettere,” si inserì la madre di Giulia, con aria di chi, alla fine, del fatto che sua figlia andasse o meno a scuola fregava relativamente, “io non ho il diploma e lavoro lo stesso. Con tutti i laureati che ci sono in giro a spasso oggi-”

 

“Sua figlia ha degli ottimi voti, o li aveva, e se ci sono a spasso tanti laureati, figuriamoci con la terza media. Possiamo fare una borsa di studio per sua figlia, sono sicura che in molti contribuirebbero,” intervenne Imma, col desiderio di strozzare la signora.

 

Aveva la netta impressione che manco a lei credesse alla figlia e che la denuncia fatta da Giulia fosse per lei una scocciatura ed un inconveniente.

 

“Certamente! Conosco una fondazione che assegna borse di studio per persone meritevoli con situazioni di emergenza, sono certo che potranno pagare la retta a sua figlia entro pochi giorni.”

 

Guardò Mancini, stupita: che era sta storia della fondazione, mo?

 

“Allora? Se troviamo il modo di pagare la retta, mi prometti che frequenterai i corsi da casa?”

 

Giulia si morse il labbro e poi annuì. Vide chiaramente che la madre sollevò gli occhi al soffitto ma poi disse “come volete! Basta che non mi tocca pagare, che qua già arriviamo a fatica a fine mese con le spese!”


Almeno una piccola vittoria l’aveva ottenuta.

 

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“Dottore, ovviamente mi aspetto la mia parte del conto.”

 

“Come?” chiese Mancini, guardando però dritto davanti a sé.

 

Gli era molto grata ed aveva colto al volo l’occasione per convincere Giulia, ma mica era nata ieri.


“Sta fondazione, non esiste, vero? O c’ha un solo socio, lei.”

 

Mancini la guardò e le sorrise con un, “ma non ci davamo del tu? E comunque non ti sfugge niente, lo so. Ma posso permettermi tranquillamente di pagare la retta per quella ragazza e-”

 

“E io no? O facciamo una fondazione cinquanta e cinquanta o scordati che io risalga di nuovo in auto con te!” lo minacciò, sapendo che fosse la cosa più efficace.

 

Ma Mancini di nuovo sorrise.


“Imma,” pronunciò, in un modo affettuoso che le fece stranissimo, così come il sentirsi chiamare per il nome di battesimo, “lo so che sei indipendente ed orgogliosa, e fai bene ad esserlo. Ma hai una figlia a carico ed un appartamento in affitto. Io non ho nessuno e posso tenermi praticamente tutto lo stipendio. Posso permettermelo, poi sarà per pochi mesi. Al massimo un settantacinque - venticinque, se vuoi contribuire.”

 

Sospirò, sapendo che Mancini era un osso duro sui conti.

 

“Va bene,” acconsentì, anche perché erano quasi arrivati davanti al suo condominio.

 

Infatti accostò l’auto e le sorrise.


“Bene… allora domani faccio predisporre le carte per la donazione. E non mi chiedere di dividere anche i costi notarili, che il notaio è un amico e per beneficenza sicuramente mi fa un favore.”

 

Sospirò: non sapeva se crederci ma aveva già tenuto il punto, quindi annuì.

 

Mancini sorrise e scese dall’auto, come al suo solito, girandoci intorno per aprirle la portiera.

 

Mise i piedi sull’asfalto e pronunciò un “allora grazie per tutto… è… sei stato provvidenziale.”

 

“Ma figurati! E poi… lo sai che mi fa piacere. Ti accompagno alla porta, che è tardi? Ti avrei proposto di mangiare qualcosa ma… considerando gli articoli sui giornali….”

 

“Sì, meglio evitare per un po’,” concordò e le venne da sorridere per la premura di lui: era sempre solertissimo, pure troppo.

 

Però almeno poteva risparmiarsi le scuse per sottrarsi ad altre cenette nel futuro prossimo: le faceva piacere passare del tempo con lui ma… non voleva dargli illusioni e non era pronta per altro, finché c’aveva in testa soltanto una persona.

 

Mancini richiuse la portiera ed attraversò insieme a lei la strada, quando si parò davanti al portone una figura alta e scura. All’inizio le parve un barbone, poi pensò ad un giornalista.

 

Ma, quando si avvicinò di più e vide quegli occhi, il cuore le rimbombò fortissimo nel petto, un qualcosa che le rimescolò lo stomaco.

 

“Non ci posso credere! Ho visto i giornali ma… non ci potevo credere, e invece!”

 

Maresciallo?” domandò Mancini, gelido, bloccandosi sui suoi passi, stupito.

 

“Calogiuri, non-” provò a dire, anche se non aveva alcun motivo di giustificarsi con lui, anzi, era lui che era in torto marcio e non poteva pretendere niente, mo.

 

Ma non fece in tempo, perché Calogiuri ignorò completamente il procuratore capo e si rivolse diretto a lei, come un fiume in piena.

 

“Non mi hai nemmeno voluto ascoltare! Ma mo mi ascolti! Se pensi che… che posso davvero averti tradita in quel modo, dopo tutto quello che abbiamo passato insieme, dopo tutto quello che ho fatto per stare con te… dopo tutto quello che tu hai fatto per stare con me… mi fa malissimo perché… vuol dire che non mi conosci, per niente. Che non hai neanche un poco... nemmeno di stima, ma di considerazione per me, zero. Capisco che sia stata un’umiliazione tremenda per te, e ti giuro che avrei preferito morire che vederti stare così male, ma non ti ho mai tradita, MAI, e mi hanno incastrato, fino in fondo. E tu, invece di credermi e di aiutarmi a provare la mia innocenza, come stanno facendo altri, che di me se ne sarebbero pure potuti fregare, non hai perso tempo a farti corteggiare da uno che ancora un po’ voleva farti perdere il lavoro e che non ha esitato un attimo a vendicarsi, di te e di me, finché gli faceva comodo e-!”

 

“Ma come si permette?!”

 

Mancini si era messo in mezzo, letteralmente, come una furia, ma lei riusciva soltanto a guardare gli occhi di Calogiuri, che continuava a fissare unicamente lei, occhi negli occhi, come una volta.

 

Si rese conto che una parte di lei forse ci aveva sperato, che lui aggirasse i blocchi che gli aveva messo e che lottasse, che venisse da lei a dirle quello che le stava dicendo ma… poteva davvero credergli?

 

“Come si permette di parlarmi così!”

 

Calogiuri infine ruppe il contatto visivo, rivolgendosi a Mancini, che gli era sempre più vicino, e pure lei guardò il procuratore capo, che pareva incazzatissimo.

 

Merda!

 

“Non è più il mio capo! E mi permetto eccome, perché si sta approfittando della situazione, come il vigliacco che è ed è sempre stato!”

 

Un secondo, una specie di grido da parte di Mancini, e precipitò tutto.

 

Vide il procuratore capo spintonare Calogiuri, che barcollò all’indietro, fino a finire contro al portone.

 

Ma poi si spinse in avanti con le mani e, prima che lei potesse anche solo muoversi, sentì il rumore di carne contro carne, ossa contro ossa, in un destro da manuale che finì dritto in faccia a Mancini.

 

Occhiali che volarono e si infransero sul marciapiede e poi un urlo di dolore, ma stavolta di lui, perché Mancini aveva risposto con un sinistro dritto in pancia e, con un tonfo tremendo, Calogiuri finì di schiena sul marciapiede.

 

Vide Mancini, il volto trasfigurato in una smorfia di furia, sollevare di nuovo un pugno in aria, flettere le ginocchia e-

 

“Basta!” urlò, i piedi che si erano praticamente mossi in automatico, spingendo indietro Mancini, e mettendosi tra di loro, le braccia tese ai lati, facendo da scudo a Calogiuri, che stava ancora in terra, “basta!”

 

Mancini si bloccò, sembrando all’improvviso mortificato e spaventato - o almeno così le pareva per la metà del viso ancora buona, perché il lato sinistro era già rosso e stava rapidamente gonfiandosi e diventando blu.

 

E poi si voltò verso di lui, che era ancora fermo a terra, il cappuccio caduto dal viso, mentre si teneva la pancia in una smorfia di dolore.

 

“Ma sei impazzito?! Ti ci manca solo questo, ti ci manca!” esclamò, inginocchiandosi davanti a lui per aiutarlo a sollevarsi, e capire se si fosse fatto molto male, provando ad allungare una mano verso lo stomaco, che ancora si toccava.

 

Ma lui le bloccò la mano, spingendogliela via e mettendosi da solo a sedere, con un, “io non ho fatto niente! Ma tu ancora non mi credi, non è vero?”

 

Quegli occhi disperati erano di nuovo nei suoi ed avrebbe voluto credergli fino in fondo, lo avrebbe voluto tanto, ma una parte di lei, quella indurita e ferita da quarantasette anni di delusioni e fregature, continuava a darle il tormento.

 

“Lo sapevo…” sussurrò lui, in un modo deluso che fu peggio dei pugni che erano appena volati.


“Ti credo su tante cose, Calogiuri, e lo so che ti hanno incastrato ma… sul tradimento… come faccio a crederti? Se almeno mi avessi detto subito la verità, io-”


“Ma ti ho detto la verità, te l’ho sempre detta, tutta! Ma se credi di più a quelli che mi hanno incastrato che a me, dopo… dopo tutto quello che ti ho dimostrato in questi anni… giusto uno come lui ti meriti!” le sibilò contro, gelido, fulminando poi Mancini con lo sguardo e tirandosi in piedi, seppur barcollante, dando loro le spalle ed iniziando ad allontanarsi.

 

Balzò in piedi, con l’istinto di seguirlo, di parlargli, ma qualcosa la trattenne per il polso. Si voltò ed era Mancini, l’occhio sinistro che era messo sempre peggio, ormai ridotto ad una fessura.

 

“Meglio di no: è chiaro che ha dei problemi, e grossi pure, e-”

 

“E la prego- ti prego di non dargliene altri,” lo interruppe, rendendosi improvvisamente conto fino in fondo di quali potevano essere le conseguenze per Calogiuri, se Mancini lo denunciava.

 

Mancini sospirò, facendo poi una smorfia di dolore, probabilmente avendo mosso qualche muscolo del viso che era stato coinvolto dal pugno, “se lo faccio, lo faccio solo per te.”

 

Imma annuì e comprese in quel momento che non poteva mollare Mancini, conciato così, per strada.


Gli occhiali gli si erano pure rotti e giacevano infranti tra il marciapiede e la ruota di un motorino.

 

“Non sono un granché come infermiera ma… posso medicarti e poi chiamarti un taxi, che senza occhiali non puoi guidare,” propose, sapendo che fosse la cosa migliore da fare, per tutti, soprattutto per Calogiuri.

 

Il procuratore capo annuì leggermente, con un’altra smorfia di dolore, ed Imma con un sospiro recuperò le chiavi dalla borsa e gli fece strada.

 

Dopo un viaggio sull’ascensore a dir poco imbarazzante, in un silenzio tombale, aprì la porta di casa e si trovò accolta da una coda tra le caviglie.

 

Ottavia fece pure un accenno di fusa, ma la sentì bloccarsi ed irrigidirsi ed udì una specie di fischio tipo pentola a pressione.

 

Guardò verso le caviglie ed Ottavia stava fissando Mancini, il pelo sulla schiena alzato e gonfio, che sembrava tre volte più grossa di quella che era, la coda dritta dritta.

 

“Ottà… sta buona…” sospirò, abbassandosi per prenderla in braccio ed ignorando la grattata con gli artigli di avvertimento, che di solito precedeva la zampata vera e propria.

 

La ricambiò con uno sguardo dei suoi e le disse, “fai la brava, che abbiamo un ospite da medicare, su!”

 

Ottavia, come risposta, si rivolse direttamente a Mancini, con un altro soffio fortissimo, le zanne di fuori.


“Ma fa sempre così?” chiese lui, preoccupato.

 

In realtà no, ma mica poteva dirglielo, quindi si limitò ad un, “a volte con gli estranei è sospettosa, vieni!”

 

Trattenendo Ottavia, chiuse la porta alle loro spalle e si avviò verso il bagno, “accomodati sul divano, torno subito!”

 

Ignorò le proteste della micia, la mise nella sua cuccetta, dicendole “ma che ti prende, mo? Mancini è un ospite e si è fatto male, ed è il mio capo.”

 

Ma Ottavia fece un altro soffio e la guardò in modo incazzoso.

 

“Va beh, ho capito, non ti va proprio a genio…” sospirò, aprendo l’armadietto con le cose di primo soccorso ed estraendone una busta di ghiaccio secco, una pomata per i lividi, bende, garze, disinfettante e cotone.

 

Le venne un poco di magone perché di solito quelle cose le usava lui.

 

Si avviò verso la sala, chiudendo la porta del bagno alle sue spalle, e trovò Mancini sul divano, che si guardava intorno toccandosi la guancia.

 

“Bella casa! Ora che la posso vedere con più calma!” si complimentò lui, con lo sguardo puntato verso la statua di un leopardo.

 

“Grazie per la bugia,” ironizzò Imma, sedendoglisi vicino ed armeggiando con cotone e disinfettante.

 

“No, dico davvero. Si vede che è tua: c’è il tuo tocco in ogni cosa.”

 

Un’altra fitta di magone, perché non c’era solo il suo di tocco in ogni cosa, anzi, ma la ignorò e poggiò il cotone sulla guancia di Mancini, dove aveva l’abrasione principale, e lui fece un mezzo salto.

 

“Per fortuna la ferita non è particolarmente profonda, qualche giorno e penso non si vedrà più. Il livido invece…” sospirò, dopo aver finito con garza e cerotto, dando un pugno al ghiaccio secco, prima di porgerglielo, “ora ti metto una pomata apposita, ma devi tenere il ghiaccio il più possibile, con le dovute pause.”

 

“Lo so. Qualche… qualche momento di azione l’ho avuto pure io nella mia carriera ed in gioventù. Certo, a quest’età non pensavo più mi sarebbe servito.”

 

Provò a mettergli la pomata sulla guancia e lui fece una specie di mugolio di dolore e poi lo vide mordersi le labbra, probabilmente per non lamentarsi.

 

“E mo, il ghiaccio,” ordinò, prendendo la borsa per piazzargliela sulla guancia, ma si trovò con la mano afferrata in quella di Mancini, che ancora teneva il ghiaccio, e poi incastrata tra la borsa del ghiaccio e la mano di lui, sulla sua guancia.

 

Si sentiva in forte imbarazzo e non sapeva come uscirne - non era per quello che lo aveva invitato a salire, anzi -, quando Mancini piantò un urlo e mollò mano e ghiaccio.

 

Si alzò dal divano, spaventata, e lo vide afferrarsi il polpaccio, guardando verso il pavimento.

 

Notò due cose allo stesso tempo: la gamba del pantalone, che nella parte finale pareva fatta di stelle filanti, ed un filo rosso appena sotto.

 

E poi un fischio fortissimo: Ottavia, che stava sul piede di Mancini, ancora a terra, e fischiava.


E poi… una pozza gialla che si allargava sotto di lei e sopra, sotto e probabilmente dentro la costosissima scarpa di pelle del procuratore capo.

 

Vide Ottavia risfoderare gli artigli e prepararsi al salto, e si chinò appena in tempo per intercettarla, prima che... altro che il polpaccio… a finire sfilettato fosse ben altro.

 

“Ottà! Buona! Buona! Ma che è! Sta calma!” cercò di trattenerla, ma mica era facile, e per poco non si beccò un’artigliata pure lei.

 

“Forse… forse è meglio che vado…” disse Mancini, che parve improvvisamente terrorizzato, “che la sua micia… altro che qualche momento di azione! Potrebbero usarla al posto dei cani poliziotto. Di sicuro è un’ottima guardia del corpo.”

 

Da un lato era mortificata e temeva la reazione di Mancini. Dall’altro però… Ottavia le aveva levato le castagne dal fuoco, ma fin troppo.

 

“Dottore… mi dispiace… disinfetti almeno il polpaccio, mentre la tengo ferma. E se vuole… qualche paio di scarpe da ginnastica dovrei avercelo, numero 46.”

 

“Troppo grande per me,” rispose Mancini con un sospiro, prima di darsi giusto una rapida disinfettata ed alzarsi, “non si preoccupi: tengo sempre un cambio nel bagagliaio, per ogni evenienza.”

 

Imma sospirò di rimando ed annuì, continuando a tenere ferma la piccola palla di pelo soffiante.

 

“Allora ci vediamo domani, dottoressa.”


“Mi dispiace ancora, dottore e… per quanto riguarda… quello…” disse, indicandogli con un cenno l’occhio, dove lui ancora teneva il ghiaccio.


“Non si preoccupi, non sporgerò denuncia contro al maresciallo. Non mi è mai piaciuto sparare sulla Croce Rossa. Però lei stia attenta, dottoressa, non si metta in pericolo, mi raccomando! A domani!”

 

E, con un ultimo sguardo ed un ultimo soffio di Ottavia di risposta, Mancini uscì dalla porta principale. In quel momento, Ottavia si sgonfiò proprio visibilmente, fece un’espressione soddisfatta che manco quando le metteva davanti la sua scatoletta preferita, quella carissima al salmone, e le si voltò in braccio, leccandole il polso e facendo le fusa.

 

“Seee… le fusa mo. Ma che t’è preso? Quello è il mio capo, Ottà, ancora un po’ e mi fai licenziare.”

 

Ma Ottavia continuò a leccarle la mano, e si rese conto che era quella che aveva trattenuto Mancini e che Ottavia la stava pulendo.

 

“Ho capito: ti sta proprio antipatico, eh?” le chiese, con un mezzo sorriso, ed Ottavia la guardò in un modo, come a dire ma ovvio!

 

Qualcuno sarebbe stato orgoglioso di lei, molto.

 

E, come il pensiero tornò a lui, le venne una fitta al petto: chissà come stava… Mancini l’aveva preso alla pancia ma… ma Calogiuri era forte, muscoloso, aveva visto di peggio.

 

Ma ciò non toglieva nulla alla preoccupazione, anzi, e poi… e poi quello che le aveva detto… come glielo aveva detto. Non solo la delusione, e poi la rabbia, il modo in cui aveva tirato fuori il carattere, con quella decisione che l’aveva fatta innamorare di lui, insieme alla dolcezza e alla timidezza. Ma, soprattutto… le era sembrato così maledettamente sincero!

 

Mentre Ottavia si spostava dalla mano, arrampicandosi per farle le fusa sul collo, un qualcosa in lei si smosse, sentendo l’urgenza, anzi no, la necessità assoluta, di trovare Calogiuri, di parlargli.

 

Ma chissà dove stava mo.

 

Si risedette sul divano, lontano dalla pozza di urina che avrebbe dovuto pulire - menomale che avevano le piastrelle e non il parquet! - estrasse il cellulare dalla tasca del cappotto, andò sulla rubrica e sbloccò Calogiuri.

 

Provò a chiamare, ma finì direttamente in segreteria, una, due, tre volte.

 

Provò a mandargli un messaggio e scoprì di essere stata bloccata pure lei.

 

Calogiuri non lo aveva mai fatto, mai, neanche quando era incazzosissimo per Lolita o per Milano.

 

Doveva proprio essere furente.

 

Ma doveva parlargli, assolutamente. E quindi fece scorrere i contatti in rubrica fino alla M.

 

“Mariani? Mi scusi per il disturbo a quest’ora ma… lei sa dove si trova Calogiuri?”

 

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Sentì come qualcosa rimbombargli nel cranio.

 

Prese un’altra sorsata di vodka, orribile, il gusto gli faceva schifo, ma almeno soffocava il dolore alla pancia, e soprattutto al cuore, sotto al bruciore alla gola ed allo stomaco.

 

La testa gli scoppiava, ma non gli importava, non gli importava più di niente.

 

E poi, di nuovo, come un qualcosa che gli bussava nel cranio.


“Ca… ri!”

 

Udì una voce prima lontana, poi più vicina, poi lancinante, un “Calogiuri!” che quasi gli perforò il cranio.


Capì che a venire bussato non era il suo cranio, ma la porta.

 

Provò a tirarsi in piedi, ma non era facile, per niente, la stanza che sembrava ballargli tutto intorno.

 

“Calogiuri!”

 

Un altro grido da trapanargli il cervello.

 

“A- aivo!” provò a dire, ma la bocca era impastatissima, nonostante tutto quello che aveva bevuto.

 

Con mano tremante, girò la chiave, spalancò la porta e se la trovò davanti, bella come sempre, i capelli rosso fuoco ed un vestitino tigrato.

 

“I- Imma?”

 

“Ma che ti sei bevuto? Puzzi d’alcol da morire! Va bene che l’abbigliamento potrebbe essere pure azzeccato - se Imma avesse deciso di cambiare mestiere, però. Dai, fammi entrare!”

 

“I- rene?” realizzò improvvisamente e sì, la voce, anche se rimbombata ottocento volte, non era quella roca di lei.

 

Del resto, perché avrebbe dovuto stare lì? Come minimo era a godersi la serata con quello.

 

Cercò di farla passare ma per poco non cascò di faccia sul pavimento.

 

Si sentì afferrare e poi mettere di peso su qualcosa di morbido - il letto.

 

“Ma quanto ti sei bevuto? Ma che è successo per ridurti così? Se è per le indagini non-”

 

“Ma che me ne f- fega delle in- indagini. Non c’ho più niente, niente!”

 

“Ma non è vero. Io e Ranieri stiamo lavorando per tirarti fuori e-”


“Ma lei no!” gridò, facendosi male da solo, perché gli parve che una mandria di cavalli impazziti gli galoppasse nella testa.

 

“Imma?”

 

“L’ho vis- ta con… con quel maiale!”

 

“Quel maiale?” gli chiese, e si sentì prendere per una spalla, “ma chi? Mancini? I giornali si inventano le cose, lo sai. La sta solo riportando a casa e-”

 

“Ma oggi stavano per entrare... a casa, insieme, e… e lei gli dava del tu e… e non mi crede e… e lui mi ha spinto, ma io l’ho picchiato, solo che poi-”

 

“Frena, frena! Tu hai picchiato Mancini?” gli domandò, e riusciva a percepire pure nella nebbia il suo tono preoccupato.

 

“Un bel destro, sì, che erano anni che lo volevo fare! Ma poi lui e lei-”

 

Gli venne come una fitta allo stomaco, che lo fece piegare in due, il fiato che gli si levò completamente.

 

E poi un bruciore fortissimo, caldo e freddo e-

 

“Ma che c’hai allo stomaco? Sei tutto blu!”

 

“L’amico tuo…” rise, cosa che gli fece ancora più male, ma ormai non gli importava di niente, “e lei… lei ancora non mi crede, non mi crederà mai. Io me ne sono andato e… non mi ha seguito, è rimasta con lui. Di me non gliene frega niente, niente!”

 

“Calogiuri…” l’ennesimo rimbombo, mentre si sentiva prendere per le spalle, “non so quanto hai bevuto ma ti porto da un medico, subito.”

 

“Non mi serve un medico… tanto sono già morto e-”

 

Stavolta il cranio gli rimbombò ma perché la faccia gli si girò dall’altra parte: Irene gli aveva tirato uno schiaffo.


“Non lo dire nemmeno per scherzo! Non ti puoi ridurre così! Sei giovane, c’hai una vita davanti! Sai quante ne troverai ancora, se pure Imma non ti vuole?”

 

Non avrebbe saputo perché, ma gli veniva da piangere. Ed infatti scoppiò in singhiozzi, che gli causarono ulteriori fitte.

 

“Ti ho fatto male?” la sentì chiedergli, preoccupata, dita sulla guancia che un poco gli pulsava e si trovò occhi negli occhi con lei, a pochi centimetri.

 

“No, anzi. Tu… tu sei l’unica che… che mi vuole bene, che mi crede!” esclamò, mentre il peso di quella realizzazione gli esplose dentro.

 

“Calogiuri…” la sentì sospirare con un sorriso intenerito, quegli occhi che lo guardavano non schifati, ma come se fosse qualcosa di importante, di bello, mentre gli accarezzava ancora la guancia, “non-”

 

Non avrebbe mai saputo cosa stesse per dire, perché, d’istinto, le afferrò a sua volta le guance e, dopo aver scontrato il naso con il suo - che vedeva ancora tutto un po’ storto - le tappò la bocca con un bacio.

 

Cercò di baciarla con tutta la rabbia, il dolore, l’affetto che provava, ma la sentì rimanere immobile, anche quando provò ad approfondire il bacio.

 

E poi gli apparve davanti il viso di lei che gli diceva che aveva ragione su di lui, che era un traditore, inaffidabile.

 

Gli salì un conato fortissimo, spinse via Irene, si voltò verso il pavimento, afferrò appena in tempo il cestino dell’immondizia e vomitò fuori pure l’anima, mentre piangeva dal dolore, non solo fisico.

 

I conati a secco, che gli fecero malissimo ai lividi, e poi sentì una mano sulla spalla ed un qualcosa di fresco e profumato sul viso.

 

“Menomale che c’ho sempre dietro le salviette per quando Bianca non sta bene,” gli sospirò nell’orecchio e si voltò verso Irene, che lo guardava preoccupata, mentre estraeva un’altra salvietta dalla borsa, “poi pensiamo ad andare in bagno a pulire sto casino. Bene che hai vomitato, ma meglio che non ti alzi per un po’.”


“S- scusami, io… non so che mi è preso e… vorrei solo dimenticarla ma… ma non ci riesco, proprio fisicamente non ci riesco, e lei invece pensa che-”

 

“Lo so, non mi devi spiegare niente,” lo rassicurò, mentre gli passava la salvietta pulita, “io… se uno mi piace non mi faccio problemi ad andarci a letto, ma a te ci tengo davvero e non voglio rovinare il nostro rapporto, e soprattutto non voglio che tu faccia scemenze di cui poi ti pentirai. E non soltanto con me.”

 

Gli venne di nuovo da piangere e poi un altro conato di vomito e le mani di Irene che gli reggevano le spalle mentre vomitava bile ed acqua nel cestino.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ah signò, ma è proprio sicura che è qua che deve venire? Perché… là dentro ce sta de tutto, a quest’ora poi… meglio che nun ne parlamo proprio!”

 

Guardò a bocca spalancata l’edificio squallido e fatiscente dell’hotel che Mariani aveva trovato, grazie ad una ricerca incrociata di posizioni di cellulari e di utilizzo di carta di credito che non aveva capito come funzionasse, e che quasi sicuramente non era legale, ma non era il momento di preoccuparsi di quello.

 

Ma che ci fai qua, Calogiù? - si chiese, sconvolta: quello era uno di quegli alberghetti frequentati soprattutto da professioniste e dai loro clienti.

 

“Signò, che volete fare? Stiamo ancora a tempo per andare da n’altra parte e-”

 

“No! Va benissimo, scendo qua. Mi dica quanto le devo, naturalmente con regolare ricevuta fiscale.”

 

Il tassista sbuffò ma alla fine le staccò il foglietto e lei gli diede i soldi della corsa.

 

Uscì rapidamente dal taxi e si avviò quasi di corsa verso l’hotel.

 

Andò alla reception e chiese di Calogiuri. Il tizio la guardò interrogativo.

 

“Un… un bel ragazzo sulla trentina. Alto, moro, occhi azzurri. Dovrebbe stare qua da pochi giorni.”

 

“Aaah, sì, mo ho capito! Certo che ci dà proprio dentro il ragazzo!” esclamò poi, guardandola dall’alto in basso, dicendole con un sorrisetto, “secondo piano, stanza 247.”

 

Avrebbe voluto chiedergli che volesse dire, ma il modo in cui la guardava la metteva a disagio. Quindi non perse tempo e si avviò al secondo piano, usando le scale che, in un posto del genere, erano indubbiamente più sicure dell’ascensore.

 

Se l’hotel le era sembrato squallido da fuori, dentro era pure peggio: moquette scrostata e macchiata, muffa visibile in diversi punti.

 

Che ci fai in un hotel così, Calogiù? - si chiese, rendendosi però anche conto che non potesse permettersi un hotel di fascia buona per tanti giorni.

 

Ma avrebbe potuto almeno andare in un residence, che, per quanto triste, lo sarebbe stato sicuramente meno di quel posto.

 

Contò i numeri delle camere e stava per arrivare alla 247, quando vide una porta spalancarsi. Si nascose di riflesso dietro ad un angolo del corridoio, dato l’orario - erano le quattro del mattino - ed in quel momento tre cose le balzarono agli occhi.

 

La porta che si era aperta era proprio quella della 247. Chi ne era uscito però non era Calogiuri, ma una che sembrava fare il mestiere più antico del mondo, con una parrucca rossa ed un vestitino tigrato, talmente corto ed attillato che sarebbe stato troppo pure per lei, più una pelliccia rosa che le ricordò Lolita.

 

Per un attimo, assurdamente, pensò fosse lei, ma la donna si voltò abbastanza da riconoscerne il volto.

 

La Cara Irene.

 

Che, evidentemente, di notte usava un guardaroba molto diverso che di giorno.

 

“S- sei sicura di poter tornare da sola?” udì la voce di Calogiuri chiederle, anche se era coperto dall’anta della porta.

 

“Sì, non ti preoccupare. Tu ora fatti una doccia e cerca di riposarti, che dopo stanotte… ne avrai bisogno,” rispose lei, facendogli l’occhiolino.

 

Vide due mani, terribilmente familiari, allungarsi verso le spalle di lei e trascinare Irene oltre il legno sbeccato della porta.

 

Rimase per un attimo impietrita, come se il cervello non volesse rielaborare quelle informazioni, che gli occhi e le orecchie le inviavano in modo inequivocabile.

 

Bastardo! - fu il primo pensiero.

 

Scema, cretina, deficiente! - fu il secondo.


Come aveva potuto essere così idiota da credergli ancora, da lasciarsi convincere da due occhioni blu e dalle solite parole al vento?

 

E lei che si era sentita in colpa anche solo a far entrare Mancini in casa, mentre lui… prima le faceva le scenate di gelosia e poi… si consolava, altroché se si consolava!

 

Scema lei ad essersi preoccupata!

 

Ma non sarebbe più successo, mai più!

 

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“Signorina Fusco! Dove pensa di andare?!”


“A… a casa, dottoressa… sono le diciotto passate.”

 

“Saranno pure le diciotto passate, ma lei il fascicolo sul caso Angelucci non me l’ha aggiornato come le avevo chiesto!”

 

“Ho quasi finito, dottoressa, ma terminerò domattina. Ora devo proprio andare: avrei un appuntamento e-”

 

“E gli appuntamenti li può prendere pure più tardi, che questo è il suo lavoro, non un hobby, per cui viene retribuita coi soldi dei contribuenti! E, se deve uscire con un uomo, dovrebbe concordare un orario consono a non intralciare le sue funzioni!”

 

Era nera, nera! E dire che Asia ultimamente qualche punto lo aveva guadagnato, ma restava una lavativa.

 

“Veramente… ho appuntamento dal dentista. Mi sono già fatta dare l’orario più tardi possibile, per non intralciare le mie funzioni, ma non posso certo farlo lavorare di notte per me. Ed ora vado, a domani!”

 

Rimase a bocca aperta, vedendola uscire dall’ufficio, i tacchi che sbattevano sul pavimento quasi peggio dei suoi.

 

Si lasciò cadere sulla sedia.

 

In effetti negli ultimi giorni forse aveva un po’ esagerato, e non solo con Asia, ma… la rabbia non la mollava mai, e a sentire parlare di appuntamenti galanti, poi….

 

Per fortuna non aveva ancora incrociato la gattamorta, che era sempre in giro ultimamente, e chissà come mai….

 

Il rumore secco di nocche sul legno.

 

Non sapeva chi fosse il malcapitato o la malcapitata, ma marcava proprio male, malissimo.

 

“Avanti!!!”

 

“Dottoressa, buonasera.”

 

Mancini. Con il suo solito sorriso gentile, nonostante mezza faccia fosse ancora tra il blu ed il verde.

 

Aveva raccontato a tutti di un incidente a tennis con il lanciapalle, ma dubitava in molti ci avessero creduto.

 

“Le andrebbe un passaggio? Mariani è fuori con Santoro, e quindi….”

 

Pareva un poco timoroso, forse visto quello che era successo l’ultima volta con Ottavia.

 

“Il polpaccio si è ripreso, dottore?” gli chiese, in fondo in fondo intenerita.

 

“Abbastanza. L’orgoglio un poco meno. Ha una vera tigre in casa, altro che le statue in ceramica!”

 

“Eh lo so….”

 

“Se ha preso da lei la combattività, non mi stupisce.”

 

“E le scarpe?” gli chiese, ignorando il complimento, anche se ovviamente le faceva molto piacere.

 

“Temo quelle siano irrecuperabili. Ma non si preoccupi, per fortuna ne ho parecchie paia ancora integre. Allora, posso accompagnarti?”

 

Il passaggio al tu la coglieva sempre di sorpresa.

 

Da un lato temeva per lui e Ottavia ma… perché no? Perché avrebbe dovuto dirgli di no, dopo tutto quello che combinava qualcun altro?

 

“Va bene. Dammi due minuti, che spengo e arrivo.”

 

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“Senti… non voglio insistere ma… che ne diresti di andare a mangiare da qualche parte?”

 

Erano quasi sotto casa, quando Mancini le aveva fatto la fatidica domanda.

 

L’istinto le diceva di dire di no. Qualcos’altro, che le bruciava la gola e il petto, le diceva che non c’era motivo di non rispondere sì.

 

E per cosa? Per chi?

 

Per qualcuno che solo una lezione si sarebbe meritato e pure bella grossa!

 

“Per me va bene,” acconsentì quindi, zittendo la parte di lei che protestava, “ma… visto che i fotografi sono sempre in agguato… perché non sali? Ti preparo qualcosa.”

 

Mancini spalancò la bocca, chiaramente preso in contropiede.

 

Del resto, non se lo aspettava manco lei fino a pochi minuti prima.

 

“Che… che ne dici se andassimo a casa mia?” propose lui, in un modo che le fece venire da ridere.


“Paura degli artigli di Ottavia?”

 

“Non solo, ma è che… magari da me saresti più a tuo agio, no?”

 

Doveva riconoscergli che aveva ragione, ed apprezzò molto la sensibilità del gesto.


“Va… va bene.”

 

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“Com’è il sushi?”

 

“Sempre buonissimo,” si complimentò, anche se la verità era che… rispetto a quello mangiato in Giappone, non c’era paragone proprio.

 

Ma non poteva certo dirglielo e non voleva più pensare a qualcuno.

 

“Un altro po’ di champagne?” propose poi lui e lei sorrise ed annuì, bevendosi il calice quasi di un sorso, che ne aveva proprio bisogno.

 

“Allora… che mi racconti? E non di lavoro. Tua figlia, come sta? Tutto bene?”

 

Imma si stupì della scelta di argomento.

 

“Valentina sta bene, grazie, anche se… ultimamente è un po’ triste perché le manca la sua fidanzata, che è molto impegnata con l’accademia a Milano. Tu?”

 

“Le solite cose… sveglia presto, corsa mattutina, lavoro, cena… anche se almeno ultimamente in ottima compagnia,” le rispose, facendole uno sguardo che chissà quante donne aveva steso. Letteralmente.

 

Mancini continuò a parlare di politica, di alcune sue esperienze lavorative, dei luoghi in cui aveva vissuto, tra un gunkan, un nigiri, un uramaki e molto champagne prima, e dopo con un passito a dir poco delizioso, gustato sul divano con degli ottimi biscotti fatti in casa. Imma non potè che rimanerne impressionata.

 

Aveva proprio tutto, mannaggia a lui, tutto: era bello, ricco, colto, affascinante, generoso, intraprendente, interessante.

 

L’uomo perfetto.

 

Fisicamente non le dispiaceva affatto, anzi, era inutile negarlo - del resto a chi non sarebbe piaciuto? - e… e doveva buttarsi tutto alle spalle, soprattutto qualcuno.

 

Lo vide sporgersi verso di lei, toccandole il braccio, mentre faceva una battuta su come, “il passito dà a questi semplici biscotti al burro tutto un altro sapore. Mi ricorda molto te e… non soltanto per il colore ambrato.”

 

“Ah no? Ah, giusto: perché è maturo fino quasi al limite del marcire!” si schernì, un poco imbarazzata, anche se ovviamente tutti quei complimenti le facevano piacere, “ma è troppo dolce per assomigliarmi.”

 

“Ma tu sei dolce, in fondo, in fondo. E poi è maturo, sì, corposo,” le sussurrò, e si sentì accarezzare il braccio da cima a fondo con due dita, “ed infatti fa girare la testa, proprio come te!”

 

E pure a lei stava un po’ girando la testa: non sapeva se per tutto l’alcol o se perché Mancini era così vicino da sentirne il respiro e… ci sapeva proprio fare!

 

Il braccio le pizzicava piacevolmente.

 

Perché no? - si chiese di nuovo, e non trovò una risposta.

 

E quindi chiuse gli occhi, allungò la mano per tenergli la guancia buona e poi il collo, fino a catturare quelle labbra ancora semi aperte con le sue.

 

Sentì l’esclamazione di sorpresa fino in bocca, e poi un mugolio di dolore. Aprì gli occhi per guardarlo, preoccupata, e vide che gli occhiali nuovi gli erano finiti contro la zona mezza tumefatta del volto.

 

Stava per chiedergli se gli avesse fatto male, quando Mancini si staccò leggermente, levò gli occhiali in un unico gesto, buttandoli sul tavolino, e poi si trovò travolta da un altro bacio, stavolta vero, verissimo.

 

Cercò di staccare i pensieri e di perdercisi dentro, e non le fu difficile, perché… il procuratore capo ci sapeva fare pure in quello. Sapeva esattamente come muoversi, quando e come toccare, sfiorare, accarezzare.


Tanto che si trovò con le mani di lui sotto il maglione e le sue che gli slacciavano giacca e camicia, senza quasi rendersene conto, persa in quelle sensazioni piacevoli e nella nebbia da cui si sentiva avvolta.

 

Prese un forte respiro quando la bocca abbandonò la sua, soltanto per iniziare a tormentarle il collo, giù, sempre più giù, le mani sotto al maglione che invece salivano sempre più su.


E poteva forse lei starsene con le mani in mano? No! Gli levò la cravatta e gli aprì del tutto la camicia, scoprendo la muscolatura da atleta, sebbene la pelle morbida tradisse gli anni e non fosse soda come quella di-

 

Un pensiero improvviso, mentre labbra e mani smettevano di solleticarle la pelle, per farle passare il maglione sopra alla testa.

 

Freddo e brividi, quando dita abili ed esperte le si infilarono sotto al laccio del reggiseno, sganciandoglielo in un’unica mossa.

 

Ma non erano brividi di piacere, anzi: si sentì nuda e corse a tenere ferme le coppe con le mani, rendendosi improvvisamente conto del tutto di quello che stava facendo.

 

E, mentre una mano ancora teneva il reggiseno, l’altra spinse indietro sul petto di Mancini, forte, mentre urlava un “no!”

 

Mancini finì di schiena sul divano - la camicia slacciata ed uno sguardo prima stupito e poi preoccupato.

 

“No,” ripetè lei, allacciandosi il reggiseno e coprendosi come poteva col tessuto del maglione, “mi dispiace, ma… ma non ce la faccio!”

 

Vide il dolore e lo spavento sul viso di Mancini, ancora prima di notare pure altro… un po’ più in basso e... quanto era stata vicina a… e, anche se non sapeva del tutto perché, scoppiò a piangere.


“Imma, io… io non volevo… mi dispiace, io…” balbettò lui, mentre si sentì coprire le spalle e realizzò che era la giacca di Mancini, “credimi, io non-”

 

“No, dottore, è… è pure colpa mia, ma… non ci riesco…. Fisicamente mi piaci ma… resto innamorata di quel cretino e... non ce la faccio.”

 

“Ho sbagliato anch’io… forse ho accelerato troppo le cose… dovevo darti più tempo, ma... è che… non è facile resisterti, per niente!” le disse in un modo che, nonostante tutto, le strappò un sorriso, “ma posso darti tutto il tempo che ti serve e-”

 

“Temo che ne servirà troppo, veramente troppo.”

 

“Non ti devi preoccupare. Se… se vuoi usare il bagno e… e poi ti riaccompagno a casa, che ormai è tardi per i taxi.”

 

Annuì e non perse tempo ad alzarsi dal divano, quasi correndo fino in bagno, ansiosa di levarsi da lì e da quella situazione che si era fatta insopportabile.


Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo capitolo, che è stato tostissimo da scrivere, veramente. Imma e Calogiuri hanno provato a lasciarsi tutto alle spalle, spinti dalla rabbia, ma… non ci sono riusciti, solo che pensano che l’altro li abbia traditi. Riusciranno a chiarire tutti i malintesi che si sono accumulati? Prometto che questo è stato l’ultimo capitolo più duro, dal prossimo le cose cominceranno pian piano a tornare più serene, anche se Imma e Calogiuri hanno ancora molti scogli da superare, ma chissà che non possano arrivare a farlo insieme.

Vi ringrazio per avermi seguita fin qui, quasi non posso credere che il prossimo capitolo sarà il numero sessanta, e spero che la storia continui ad appassionarvi e ad intrattenervi, oltre a risultare credibile.

Ringrazio di cuore chi mi ha lasciato una recensione, che mi fanno sempre molto piacere e sono fondamentali per capire come va la scrittura ed il vostro gradimento o meno della storia.

Un grazie anche a chi ha messo la mia storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo arriverà in teoria domenica 9 maggio. In caso di ritardi sarà mia premura avvisarvi, come già fatto domenica, alla mia pagina autore.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 60
*** Ossa ***


Nessun Alibi


Capitolo 60 - Ossa


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Aprì la porta di casa, richiudendola dietro di sé rapidamente, sollevata di essere finalmente lì: il viaggio di ritorno con Mancini, trascorso in un silenzio tombale, era stato a dir poco imbarazzante.

 

Si levò il cappotto, gettò la borsa per terra e si diresse decisa verso il bagno: voleva buttare tutti i vestiti in lavatrice e poi farsi una doccia infinita, che ne aveva bisogno.

 

Si sentiva sporca, voleva lavare via tutto, soprattutto i pensieri.

 

Ma, come aprì la porta del bagno, due occhi gialli ed un fischio la colsero di sorpresa, mentre si trovò Ottavia in braccio.

 

Fece appena in tempo ad accendere la luce che la micia le annusò il maglione e riprese a soffiare e a gonfiarsi, incazzosissima, come non lo era mai stata con lei.

 

Per un attimo temette che le balzasse in faccia e la graffiasse.

 

Ma no, Ottavia smise di fischiare, la guardò in un modo che sembrò dirle so che cosa hai fatto! e poi saltò regalmente per terra e, altrettanto regalmente, le diede il sedere e se ne uscì dal bagno, facendo l’offesa.

 

Ma, prima di inseguirla, aveva proprio bisogno di levarsi quell’odore di dosso, e non solo per evitare gli artigli della testona.

 

Si strappò quasi via i vestiti, li mise nella lavatrice, la avviò e poi si piazzò sotto al getto ancora ghiacciato, che piano piano divenne caldo, ma i brividi non passavano.

 

Senza quasi rendersene conto, all’acqua si mischiarono le lacrime. Tirò un paio di manate alle piastrelle, fino a farsi male.

 

Non sapeva se fosse più arrabbiata con se stessa per aver ceduto alla rabbia ed alla sete di vendetta, o se per il senso di colpa che provava verso di lui.

 

Con Pietro non era stato così, mai. Certo, i sensi di colpa l’avevano tormentata per tutti i mesi di clandestinità e, ogni volta che si vedevano, poi doveva cancellare le prove ma… le era sempre dispiaciuto doversi levare di dosso l’odore di lui ed invece mo… il profumo di Mancini le dava la nausea.

 

Che c'aveva, per ridurla così, pure quando non c’era, dopo tutto quello che le aveva fatto? Mentre, come minimo, se la stava a spassare con la cara Irene, travestita da chissà che.

 

Ma lei ci soffriva lo stesso e capiva sempre di più Pietro, purtroppo.

 

Ci sarebbe voluta una vita per dimenticarlo, e forse non ci sarebbe mai riuscita, non del tutto almeno, ma doveva farlo per forza. C’aveva una figlia a cui pensare, una vita, e sua madre le aveva insegnato a resistere a tutto, a non spezzarsi mai.

 

Uscì dalla doccia quando ormai la pelle delle mani era praticamente lessa, ricordando le urla delle suore della colonia dove andava da piccola, che la levavano dall’acqua di mare a forza, mostrandole proprio le dita raggrinzite.

 

Si coprì con l’accappatoio ed un turbante messo stortissimo, ma più di così non riusciva.

 

Si infilò direttamente a letto, perché non aveva la testa per nient’altro, e le lacrime bastarde tornarono a scorrere.

 

E sentì un peso sulle caviglie, che poi le zampettò lungo il corpo, fino a leccarle le dita che ancora si coprivano il viso.

 

“Ottà…” sospirò, accarezzandola e stringendola forte, mentre Ottavia le asciugava le lacrime con musate tenere, “c’avevi ragione su Mancini, sai? Ma… pure io non è che ho fatto di meglio, anzi. Ma non ti preoccupare: qua non ci metterà più piede.”

 

Ottavia si produsse in una miagolata che poteva solo definirsi come soddisfatta, come se avesse capito tutto, ma proprio tutto. E poi le si mise sul petto ed iniziò a farle le fusa, in quel modo che la tranquillizzava sempre tantissimo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Calogiuri… ma stai mangiando qualcosa? Sei magrissimo ed hai un colorito tremendo: sembri grigio!”

 

“Non riesco a mangiare tanto: ho male allo stomaco… e non solamente per i lividi… ma non ti devi preoccupare!” le rispose con un sospiro, facendola passare.

 

“Quello che ti ho portato adesso è leggero e lo devi finire. Non ti puoi lasciare andare così!”

 

“Ma non abbiamo niente per scagionarmi, niente! E... mi è arrivata quella!”

 

Irene prese in mano la lettera che le stava indicando.


“L’avviso di garanzia?” sospirò, riappoggiandola sul tavolino sbeccato, “Calogiuri, c’è ancora tempo per capire che cos’è successo, e controbattere a tutte le accuse di Santoro prima che si finisca a processo.”

 

“Tempo per cosa?! Ormai è quasi impossibile capire chi è stato! E pure se lo dovessimo capire, come le troviamo le prove mo, magari dopo anni? Sono spacciato e lo sai pure tu: perderò tutto, anzi, ho già perso tutto.”

 

“Ed io e Ranieri chi siamo allora? Lo so che… che non siamo Imma… ma noi ce la stiamo mettendo tutta e devi mettercela anche tu!”

 

Lo sapeva e si sentiva in colpa verso di lei ed il capitano, ma… non riusciva più a credere a niente, a sperare a niente.

 

Si sentiva come in un buco nero, dal quale non sarebbe mai riuscito ad uscire.

 

*********************************************************************************************************

 

Si sentiva stanchissima: nonostante il calore di Ottavia, non aveva quasi chiuso occhio.

 

Almeno, per fortuna, non aveva incrociato il procuratore capo per i corridoi.

 

Richiuse la porta dell’ufficio dietro di sé con forse troppa forza, mollò il cappotto sull’appendiabiti e si lasciò cadere sulla sedia.

 

Le ci volle un attimo per mettere a fuoco la scrivania, ma, quando lo fece, vide una busta posta al centro, che fino alla sera prima non ci stava.

 

Chiedendosi di cosa si trattasse, la aprì e riconobbe immediatamente l’incipit delle… letterine d’amore che preferiva.

 

Strano: non ricordava di avere chiesto un nuovo avviso di garanzia.

 

Distese il foglio ed il nome Ippazio Calogiuri fu come un pugno.

 

Merda!

 

Fece scorrere i fogli, gli occhi che saltarono da un capo di imputazione all’altro, fino ad arrivare alla firma di Santoro.

 

Lo sapeva che Calogiuri avrebbe dovuto subire un’inchiesta ma… il caro collega ci era andato giù pesante, pesantissimo, non si era risparmiato su niente, anzi.

 

E, per quanto potesse essere arrabbiata e delusa da Calogiuri, prima per la storia di Melita e mo pure per la cara Irene… non si meritava quello.

 

Doveva fare qualcosa, ma non sapeva che cosa. Non poteva esporsi lei in prima persona, anche perché non voleva rendere ancora più incazzoso Santoro - al cui confronto Ottavia era poco vendicativa - e peggiorare ulteriormente la posizione di Calogiuri.

 

Selezionò un contatto sul cellulare.

 

“Mariani? Oggi a pranzo è libera? Va bene, allora si consideri prenotata fin da ora.”

 

*********************************************************************************************************

 

“Come mai è voluta venire a pranzo qui?”

 

“In privato ci davamo del tu, no?” le ricordò Imma, tirando fuori dal sacchetto il panino che aveva appena preso al parco.


Faceva ancora freddo, ma c’era il sole a scaldarle e poi… era più al sicuro da orecchi indiscreti.

 

“Oggi ho trovato in una busta sulla scrivania l’avviso di garanzia che Santoro ha firmato nei confronti di Calogiuri. Tu ne sai niente?”

 

Mariani spalancò gli occhi.

 

“Dell’avviso di garanzia… sapevo che stava per arrivare anche se… Santoro non mi fa molto partecipare a quell’indagine, per via dell’amicizia con Calogiuri, preferisce Conti,” spiegò, dando anche lei un morso al suo di panino, “però non l’ho messo io sulla scrivania, se è questo che vuole- che vuoi sapere.”

 

Imma sospirò: chissà chi poteva essere stato.

 

“Appena hai finito il panino posso fartelo leggere ma… ci mancava solo che accusasse Calogiuri del riscaldamento globale, dei terremoti e della fame nel mondo, e poi eravamo al completo.”

 

Mariani fece un’espressione strana.


“Che c’è?”

 

“No… è che… pensavo fosse- cioè fossi arrabbiatissima con Calogiuri.”

 

“E lo sono, ma… un conto sono le cose personali ed il nostro rapporto, un conto è… vederlo accusato di cose che sicuramente non ha commesso. Forse… forse la carriera ormai se l’è giocata ma… che finisca in galera accusato delle peggiori infamità… non se lo merita, pure se è stato a letto con quella.”

 

“Ma io cosa posso fare?”

 

“Puoi cercare di capire come procedono le indagini di Santoro, e farmi sapere che cosa ha in mano. E, se senti Calogiuri-”

 

“No, non l’ho più sentito… dopo quello che ha fatto… pure io sono molto arrabbiata con lui. Ma… cercherò di farle- di farti avere le informazioni che vuoi.”

 

Sorrise: a parte il tu che non riusciva a darle, Mariani era proprio sempre una salvezza. Anche se era molto stupita dal fatto che avesse tagliato i ponti con Calogiuri.

 

Ma, tanto, lui c’aveva già chi lo consolava e pure molto bene.

 

*********************************************************************************************************

 

Stava per uscire dalla procura quando vide una figura, purtroppo familiare, uscire dalla PG.

 

Santoro.

 

Lui la notò e le lanciò un’occhiata a dir poco trionfante. Non solo, ma divenne pure più impettito, che pareva uno scimmione, pareva: ci mancava solo che si battesse il petto coi pugni.

 

“Buonasera, dottoressa. Giustizia finalmente comincia ad essere fatta, qua dentro, ma chissà che prima o poi non venga fatta del tutto…” pronunciò, tagliente e viscido allo stesso tempo.

 

“Credo che abbiamo due concezioni diverse di giustizia, dottor Santoro. E le consiglio di rilassarsi un poco, prima che le salti qualche bottone. Buona serata!”

 

Sentì le imprecazioni di lui fino a dopo aver superato le guardie, che sorridevano palesemente sotto i baffi.

 

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“Dottoressa….”

 

Alzò gli occhi verso la porta dell’ufficio e si trovò davanti Mariani, talmente pallida che pareva trasparente, un’espressione sconvolta sul viso, gli occhi rossi e tremante come una foglia.


“Mariani, che le è successo?” chiese, alzandosi in piedi ed andando verso di lei, preoccupatissima.

“Ho… ho delle novità su-”

 

“Calogiuri?” la interruppe, il cuore che le finiva in gola, la pelle improvvisamente umida di sudore gelido.


“No.”

 

Bastò quella sillaba per tranquillizzarsi, ma evidentemente qualcosa doveva essere accaduto e di molto grave.


“Si sieda, Mariani,” disse, facendola accomodare su una poltrona e prendendo posto sull’altra, “vuole… vuole qualcosa da bere? Un po’ di acqua e zucchero? Che sembra che abbia visto un fantasma.”


“Eh, magari, dottoressa, sarebbe stato molto meglio quello!” esclamò, facendo un attimo di pausa e poi aggiungendo, a fatica, “ho… ho trovato un video che… che pare proprio essere di Giulia ma… è molto forte e… quasi sono svenuta e… non so se sia il caso che lei lo veda.”

 

“Ma era con qualcuno? Nessuno l’ha aiutata?”

 

“No, no, volevo… volevo vederlo da sola ed ho fatto bene. Ci mancavano Carminati o Rosati con una cosa così e Conti oggi era via con Santoro.”

 

“Ormai sono pappa e ciccia, insomma. Però, tornando a quel video, non importa quanto sia duro da vedere… lo devo fare. Dove sta?”

 

Mariani estrasse il tablet dalla borsa, ci smanettò per un poco e poi glielo porse, insieme alle cuffie.

 

Capì subito perché fossero necessarie… mentre alla voglia di vomitare si unì una rabbia straripante.

 

Giulia era chiaramente incosciente sul letto della stanza incriminata, e c’erano due uomini con il volto mascherato che abusavano di lei, che si lamentava in quella specie di sonno innaturale, mentre loro le dicevano e facevano le peggio cose.

 

“Sono uomini,” disse a Mariani, mettendo il video in pausa, perché aveva visto più che abbastanza per desiderare di evitare tutto il genere maschile, ed al resto ci avrebbero pensato i periti.

 

“Beh, certo, il DNA sui vestiti della ragazza è maschile e-”

 

“Non in quel senso, Mariani. Sono due uomini adulti: i ragazzini non lo tengono questo tipo di fisico, pure se fossero fuori forma.”

 

“Sì, è vero, ha ragione. Quarantenni, come minimo.”

 

“Ed ecco perché il DNA non torna! Dobbiamo capire chi c’era a quella festa, oltre ai ragazzi. Ma dove ha trovato il video?”

 

“Su… su un’app di messaggistica… in un gruppo dove… ci sono uomini che condividono foto e video di ragazze minorenni, o comunque molto giovani. Alcuni dicono persino che… che sono video delle figlie. L’ho trovato tramite i social e sono riuscita ad entrare, spacciandomi per un uomo.”

 

Lo schifo, se possibile, incrementò ancora, anche se sapeva benissimo che al peggio non c’era mai fine.

 

“E com’è che sta gente che scrive queste cose sta ancora a piede libero?”

 

“Eh, dottoressa, a volte quelli della postale ci provano a chiudere i gruppi, tracciare gli IP a tappeto e a denunciare ma… questi gruppi sono come i funghi. Chiudi uno, ne apre subito un altro.”

 

Le venne un brivido, mentre un pensiero le esplose nella testa.


“E… e se quella dei padri di famiglia non fosse solo una storia, almeno non del tutto?”

 

“Che… che vuol dire?”

 

“Magari… magari si tratta del padre di uno dei ragazzi, magari lo stesso commercialista, che la casa la conosce benissimo: è casa sua.”

 

“Ma… in questo caso il DNA sui vestiti avrebbe dovuto essere compatibile con almeno uno dei DNA dei ragazzi. Nessuno di loro risulta adottato - certo magari qualcuna delle madri potrebbe avere avuto una storia parallela, ma il figlio del commercialista e il commercialista si somigliano molto di viso. Anche se non è detto, magari-”

 

“Prima di pensare a figli illegittimi… probabilmente uno dei due uomini è il padre, ma chi ha lasciato il DNA è qualcun altro. Un amico suo, forse. Certo, dobbiamo procurarci il DNA del commercialista ma… secondo me dobbiamo allargare il cerchio, ma agli amichetti suoi, non a quelli del figlio.”

 

“Ma non vedendo i volti… come facciamo?”

 

“Per intanto cerchi di avere più notizie possibile su chi le ha passato questo video. IP, tutto. E poi… se capiamo chi è… potrebbe provare a fingersi una ragazzina, sui social o in un altro gruppo e vedere se la contatta.”

 

“Dottoressa, io ci provo ma… potrebbe anche averlo trovato altrove e averlo soltanto ripostato. Ma faremo una ricerca accuratissima, glielo prometto.”

 

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Avrebbe preferito bussare alla porta di casa della sua ex suocera che a quella, ma sapeva che non si poteva più evitare.

 

Aveva scansato miracolosamente Mancini per tutti i giorni precedenti ma… gli doveva riferire gli sviluppi dei casi e chiedergli le nuove autorizzazioni. Non poteva rimandare per sempre, ne andava del suo lavoro e della sua professionalità.

 

“Avanti!”

 

Come la vide, Mancini sembrò sorpreso e pure imbarazzato.


“Dottoressa… come mai qui? Si accomodi, prego.”

 

Il tono di Mancini era esitante, timoroso, ma lei richiuse la porta alle spalle e si sedette su uno dei posti riservati ai visitatori.

 

Dire che l’atmosfera fosse pesante sarebbe stato un eufemismo, ma doveva rimanere calma, lucida e professionale.

 

“Ci sono alcuni sviluppi sul caso Angelucci, dottore. Ho qualcosa da mostrarle che… che Mariani è riuscita a reperire ma… dopo le spiego meglio. E le consiglio di usare le cuffie.”

 

Mancini avviò il video e prima spalancò gli occhi, poi divenne di un color rosso scuro che pareva gli sarebbe pigliato un colpo. Mise in pausa quasi subito, lasciando cadere il tablet sulla scrivania.


“Ma è-”

 

“La stanza è quella, dottore, con alcuni particolari che ricordava Giulia ed alcuni oggetti che abbiamo reperito in altre stanze, anche se in effetti alcuni sembrano mancare all’appello. La ripresa è stata fatta dall’alto. Giulia ricordava qualcosa sopra all’armadio. Probabilmente era il posto dove era posizionata la telecamera.”

 

“E… e come avete ottenuto questo video?”

 

Imma gli spiegò per filo e per segno tutto quanto e come pensava di procedere.

 

“Per me va bene, dottoressa. E faccia i miei complimenti a Mariani, anche se glieli farò personalmente, la prossima volta che la vedo. Ha avuto delle intuizioni davvero brillanti, sebbene ovviamente non paragonabili con le sue, dottoressa. Ma… è bello sapere che abbiamo anche dei marescialli di valore in questa procura.”

 

La frecciatina era stata assolutamente palese e l’espressione sul suo viso doveva esserla stata altrettanto, perché Mancini parve per un attimo spaventato e poi ancora più in imbarazzo.

 

Ma, in fondo, visto lo stato della sua faccia, poteva capire che Mancini non fosse esattamente il fan numero di uno di Calogiuri in quel momento. Per fortuna non l’aveva denunciato!

 

“Come va l’occhio, dottore? Il livido mi pare quasi sparito.”

 

“Molto meglio, per fortuna. Anche se ho fatto fare gli straordinari al mio oculista.”

 

E quella parola, oculista, le fece venire in mente Chiara Latronico. Sapeva che stava a Roma col figlio ma… non l’aveva più cercata ultimamente, a parte un messaggio dopo il casino al processo per dirle che se aveva bisogno lei c’era, ma capiva che forse non fosse ancora il caso di vedersi.

 

Avrebbe dovuto affrontare la situazione, prima o poi, tanto ormai tutto il mondo sapeva della loro parentela.


“Dottoressa?”

 

La voce di Mancini la riportò alla realtà.

 

“Tutto bene?”

 

“Sì, dottore, è... un periodo di… tanti pensieri. Ho finito col rapporto, se… se non ha altro da chiedermi.”

 

“In realtà… mi chiedevo, visto l’orario, se ti potevo accompagnare. E magari ci potevamo mangiare qualcosa, in un locale stavolta, che… che è meglio.”

 

Si sentì un poco avvampare, anche se non sapeva se, da un lato, apprezzare il coraggio di Mancini, o se esserne infastidita.

 

“Dottore, credo che… che sia meglio che evitiamo passaggi e cene nel prossimo futuro e… e forse pure oltre. Mi dispiace ma… non mi sentirei a mio agio.”

 

Mancini sospirò ma annuì, “dispiace anche a me, dottoressa, soprattutto di… di averla messa a disagio. Può andare ma… magari si faccia accompagnare da Mariani, se è ancora qua, o da qualcun altro.”

 

“Me la cavo anche da sola, lo sa. E poi i giornalisti hanno un poco mollato la presa ma… vedrò se Mariani è disponibile.”

 

E, con un ultimo saluto, si congedò da quell’ufficio, tirando un sospiro di sollievo non appena oltrepassò la soglia.

 

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“Si può?”

 

“Irene… finalmente! Finite le tue ferie?”

 

Era chiaro che, molto probabilmente, Giorgio sapesse, se non perfettamente, almeno a grandi linee, che stava lavorando con Ranieri e forse pure per quale motivo.


“Sì. Tu? Tutto bene? A parte l’occhio, ovviamente.”

 

“Noto che non ne sei sorpresa.”

 

“Eh, Giorgio, lo sai com’è… su cose come questa… le voci corrono. Dovresti stare molto più attento alle palle,” ironizzò, perché, come facevano da sempre, a questo giochetto potevano giocarci in due.

 

Ed, infatti, Giorgio smise di fare il finto tonto e giunse al punto.

 

“Se sei in contatto con… con il quasi ex maresciallo… devi stare attenta a non rovinarti la carriera! Rischi che ti tolgano il maxiprocesso e-”

 

“E forse tra noi due quella che si sta rovinando - e non solo la carriera - non sono io,” lo interruppe, avvicinandoglisi poi, per sedersi sulla scrivania accanto a lui, come aveva fatto mille volte, a parte nei primissimi anni della loro conoscenza, quando ancora non si osava, “lo sai che… che ti voglio bene, ma, quando sono arrivata a perdermi e a perdere la mia dignità per i sentimenti, tu mi hai avvertito quando stavo passando il limite. Di pensare a me stessa e alla mia carriera, che niente e nessuno valgono il tradire se stessi. Ti ricordi che cosa mi avevi detto? Che chi ti vuole te lo fa capire chiaramente, che non si possono forzare i sentimenti, altrimenti è come forzare aperta una cozza. L’unica cosa che ottieni è un mal di stomaco, se non peggio.”

 

Giorgio abbassò gli occhi - o almeno ci provò, con quello mezzo tumefatto. Sembrava in imbarazzo, colto in fallo, come non l’aveva forse mai visto.

 

“Me lo ricordo sì. Anche se… non sono sicuro che tu l’abbia imparato del tutto.”

 

“Ed invece sì, forse pure troppo. Ma ora lo dico a te: vai oltre e smettila di stare dietro a chi non ti può dare quello che vuoi, quando fuori c’hai la fila.”

 

Le sorrise, ma amaro, “come se non ce l’avessi anche tu la fila. E… invece… stai appresso ad uno che mi ha pure ridotto così.”

 

“Guarda che quello che provo per Calogiuri è molto diverso da quello che tu provi per Imma. E non ti devi preoccupare per me: io me la cavo sempre, lo sai.”

 

“Lo dice anche Imma.”

 

“Eh… visto che voi uomini passate il tempo a menarvi, invece che a risolvere i problemi, che ci tocca fare, se non cavarcela da sole? E comunque… mi sa che io ed Imma abbiamo due idee un poco diverse sul cavarcela.”

 

Quanto avrebbe avuto voglia di dirgliene quattro, ma pure otto, ad Imma, nonostante capisse fin troppo bene quanto si sentisse ferita. Ma la verità era che Imma uno come Calogiuri non se l’era mai meritato  e… non poteva sopportare che lui si riducesse così per lei e, soprattutto, il modo in cui lei lo aveva abbandonato a se stesso.

 

E poi... come si faceva a non credergli?

 

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Stava uscendo dall’ufficio per andare a casa.

 

Era un po’ prima del suo solito - quindi un orario normale per gli altri - ma cominciava davvero ad essere esausta, con tutta la stanchezza accumulata, e poi, oggettivamente, non c’erano novità o cose urgenti che le richiedessero di rimanere oltre.

 

Aveva fatto appena due passi quando la porta dell’ufficio della cara Irene si aprì e ne uscì proprio lei, come sempre bella come il sole.

 

Si voltò di scatto e la notò, lanciandole uno sguardo che sembrava volerla fulminare.

 

Certo che c’aveva un gran coraggio, con tutto quello che stava facendo e con chi, soprattutto!

 

Ricambiò con la sua occhiata peggiore, mentre notava che nemmeno il trucco impeccabile della gattamorta riusciva a nasconderle del tutto le occhiaie.

 

Un nucleo di rabbia le esplose dentro, perché immaginava benissimo, per esperienza personale, da che cosa fossero provocate.

 

E, quella sfrontata - per non dire tutti gli insulti ben peggiori che le stavano passando per la mente - si avvicinò pure, con un sopracciglio alzato e le braccia incrociate.

 

“Beh, allora? Passate bene le vacanze? Non mi sembra che siano state molto riposanti.”

 

“Avevo parecchie cose di cui occuparmi,” le rispose, con una nonchalance che le veniva voglia di strapparle i capelli uno ad uno.

 

“Immagino. E credo che… c’abbiamo parecchio di cui parlare noi due, o no?”

 

Irene parve per un secondo sorpresa, ma poi annuì e si riavviò verso il suo ufficio, senza dire altro.

 

Avrebbe voluto averlo lei il vantaggio di campo, ma tanto con la gattamorta non le serviva.

 

L’unica gatta contro cui poteva perdere era viva, vivissima, e dagli artigli molto affilati.

 

E mo era giunto il momento di prendere esempio.

 

Entrò pure lei nell’ufficio bianco ed impersonale di Irene e chiuse la porta dietro di sé, con molta energia, di proposito, fino a farla vibrare sui cardini.

 

Poi, con passo tranquillo, mentre Irene continuava a guardarla con quell’espressione da schiaffi, da dietro la scrivania, le si piazzò davanti, appoggiando le mani sulla superficie lucida ed immacolata, come lei non lo era mai stata, a dispetto del nome.

 

“Accomodati.”

 

“Non serve. E poi… non ti vorrei trattenere troppo a lungo, che chissà che impegni c’avrai stasera.”

 

“Bianca negli ultimi mesi sta andando meglio e posso pure rimanere un po’ di più.”

 

“Non sto parlando di Bianca, e lo sai benissimo,” sibilò, proiettandosi più in avanti, “non mi prendere per scema!”


“In che senso?”

 

“Nel senso che lo so benissimo che sei vicina, molto vicina, ad un certo maresciallo.”

 

Irene rimase perfettamente imperturbabile, in un modo che la fece incazzare ancora di più, ma poi la fulminò e mormorò, bassa e tagliente, “sto soltanto facendo quello che dovresti fare tu.”

 

“Ma per carità! Te lo puoi tenere e farci tutto quello che vuoi, ma-”

 

Irene, per tutta risposta, rise, rise - che voleva cavarle gli occhi se non la piantava subito! - ma poi scosse il capo.

 

“A parte che, anche se fosse come pensi tu, non avresti nulla da potergli recriminare, visto che lo hai mollato tu e che poi ti sei fatta scorazzare, fotografare e... non voglio sapere cos’altro da Giorgio, per tutto questo tempo. Ma, in ogni caso, sei proprio fuori strada, completamente.”

 

Ah, sì? Ma se ti ho vista con i miei occhi, uscire ad un orario improponibile dalla sua stanza, la mattina dopo che c’è stato lo scontro con Mancini, e non eri di certo vestita come se fossi in servizio, anzi, a meno che tu non abbia cambiato mestiere! Certo, con il leopardato e i capelli rossi… vai sul sicuro, no?!”

 

“Ma come ti permetti?! Io-”

 

“E poi ho sentito pure che parlavate della nottata appena trascorsa... e lui ti ha trascinata dietro la porta, presumo per un ultimo avvinghiamento. Che mi vuoi fare fessa a me?!”

 

“No, visto che tanto ci pensi già da sola! Che fai tutta la paladina della giustizia e della verità e poi, quando si tratta della persona che, fino a poco tempo fa, dicevi addirittura di voler sposare, ti fermi alle apparenze. Calogiuri mi stava solo abbracciando, per ringraziarmi. E, se mi hai vista ad orari improbabili quella sera, era perché Calogiuri, dopo lo scontro con Giorgio, è stato malissimo: si è ubriacato ed aveva l’addome che era tutto un livido. E sta ancora male, anzi, sta sempre peggio ed è colpa tua, che lo hai abbandonato nel momento del bisogno, pure se lo sai benissimo che è innocente e che sta perdendo tutto! Almeno io sto cercando di aiutarlo a scagionarsi, tu invece che hai fatto, eh?!”

 

Fu come uno schiaffo, perché si, stava lavorandoci su con Mariani ma… si era fatta accecare dalla rabbia e dal dolore forse troppo a lungo. Almeno su quello.

 

“Capisco l’orgoglio ferito ma, se in questi anni, piano piano, avevo cambiato idea su di te, in meglio - perché dopo aver saputo quanto avevi fatto soffrire Calogiuri a Matera, non ti davo un euro - ora devo tornare a pensare che la mia prima idea su di te era quella giusta. Che sei un’egoista e che Calogiuri non lo ami, tu ami solo te stessa. Perché, se metti prima il tuo orgoglio della salute fisica e mentale dell’uomo con il quale volevi, in teoria, passare la vita, non lo ami davvero, anzi, non gli vuoi neppure bene!”

 

Il secondo schiaffo: perché in parte poteva avere pure ragione ma… da che pulpito veniva la predica e come si permetteva anche solo di pensare che lei Calogiuri non lo amasse?

 

“Tu non sai niente di quello che provo io! Niente! Ed è facile mo, sputare sentenze e lavarti la coscienza dandomi addosso tutte le colpe, quando questo casino è in gran parte colpa tua, della tua brillante decisione di mandarlo sempre da solo con Melita e, soprattutto, della tua grandissima idea di copertura a Milano. Che è per colpa di quel bacio se Calogiuri si è fatto una certa reputazione e se lo hanno voluto incastrare! E voglio vedere cosa avresti fatto tu, al posto mio, sapendo che un’altra donna ha la mappatura dei nei del tuo uomo e poi trovandolo in piena notte in un hotel squallidissimo, con una che ci ha provato con lui in tutti i modi, vestita col filo interdentale!”

 

Irene fece una risatina amara e scosse il capo.

 

“Sull’ultima parte non raccolgo perché sono una signora, perché farsi criticare sull’abbigliamento da te è un complimento e perché, se solo ti ci sforzassi un attimo di essere razionale, capiresti come in un hotel del genere quello era il modo migliore di passare inosservata. Mentre sul resto… non lo so che cosa penserei trovandoci il mio uomo, ma so per certo che Calogiuri non ti tradirebbe mai. E poi... è così sincero, che non potrebbe fare neanche il ladro di merendine, figuriamoci mentire a te o sotto giuramento in tribunale. E, se lo so io, dovresti a maggior ragione saperlo tu, se solo non ti facessi accecare dalla gelosia! E ora me ne torno da Bianca, che sicuramente merita il mio tempo più di te, quindi, se mi vuoi scusare!”

 

Era nera, nera, livida, ma… ma strinse i pugni e, a passo marziale, uscì, sbattendo con ancora più forza la porta, il boato che rimbombò per tutti gli angoli della procura.

 

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Si liberò di giacca e borsa ed andò dritta verso la stanza da letto, per cambiarsi: da un lato era ancora furiosa - e poi detestava non avere l’ultima parola! - dall’altro però… c’era una parte di lei, una vocina interiore, che le dava il tormento ripetendole le parole della cara Irene.

 

Davvero non c’era niente tra lei e Calogiuri? In effetti… quando avevano parlato, subito prima e dopo lo scontro con Mancini… su Melita le era parso davvero sincero.

 

Era ormai in intimo e calze, quando l’occhio le cadde sul cassetto dove aveva infilato la cornice con le loro foto e la lettera che lui le aveva scritto.

 

Le aveva ignorate per tutto quel tempo, volutamente, ma in quel momento non riuscì più a trattenersi e, dopo un paio di rapide falcate, lo aprì e ne estrasse i pezzetti di quello che ormai era un puzzle.

 

La cornice però no, la lasciò a faccia in giù nel cassetto.

 

Con mano un poco tremante - forse perché in casa faceva un po’ fresco per come non era vestita - rimise insieme i pezzettoni, finché non ne ottenne un foglio stropicciato con la scrittura tondeggiante e dolce di Calogiuri, anche se molto più tremolante del solito.

 

Non l’aveva vista così dai primi tempi in cui lo conosceva, che a volte si agitava e scriveva tutto storto, lui che era sempre tanto preciso.

 

Imma,

 

lo so che sarai furiosa con me e credimi che avrei preferito morire, o finire in galera subito, che farti subire l’umiliazione che hai subito oggi.

 

Ma io ti giuro sulla mia vita e su quello che ho di più caro, cioè noi due, che con Melita non ho mai fatto niente, non mi è nemmeno passato di mente. Non so come sappia di quei nei, ma non c’è mai stato niente tra di noi e non mi sono mai spogliato davanti a lei.

 

Non ti tradirei mai, mai, perché sarebbe come tradire me stesso e perché voglio solo te e non avrei mai rischiato di perdere te, il nostro rapporto, la fiducia che hai in me e l’amore che mi hai dimostrato, per nessuna ragione al mondo, mai.


Ed invece sta succedendo lo stesso e questo mi terrorizza, come mi terrorizza vederti stare così male. Ma ti prometto che farò di tutto per scagionarmi e capire chi mi ha messo in questa situazione, e anche per salvare il maxiprocesso, che so quanta fatica ti è costato e quanto significa per te. E anche per me.

 

Spero che tu possa credermi, nonostante tutto, e darmi una mano a trovare la verità, insieme, come abbiamo sempre fatto.

 

Sempre e soltanto tuo,


Calogiuri

 

Deglutì a fatica, e poi sentì un brivido alle dita e si rese conto che una lacrima le era caduta sulla mano, ed ora stava scorrendo sul foglio.

 

Non sapeva definire il misto di sensazioni che lottavano nel suo petto e nel suo stomaco, ma era certa che doveva assolutamente vederlo e parlargli, faccia a faccia, guardandolo negli occhi.

 

Come avevano sempre fatto.

 

Di nuovo bagnato ma sull’altra mano, che stava sul materasso. Si voltò e trovò Ottavia che gliela leccava.

 

La accarezzò dietro le orecchie per un attimo, per ringraziarla per esserci sempre stata quando ne aveva bisogno.

 

Mentre lei… forse Irene tutti ma proprio tutti i torti non li aveva.

 

Ma era arrivato il momento di rimediare, in ogni caso, qualsiasi cosa fosse successa o non successa con Calogiuri, quell’aiuto glielo doveva e soprattutto glielo voleva dare.

 

Si alzò dal letto, aprì l’armadio e le balzò agli occhi il loro maglione rosso.

 

Se lo infilò, insieme ad una gonna leopardata lì vicina ed agli stivali, e si avviò verso la porta, seguita dai miagolii interrogativi di Ottavia.

 

Si girò sulla porta e le fece l’occhiolino, “tranquilla, Ottà, farò la brava. Falla pure tu, mi raccomando!”

 

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“Ma è sicura? Non è un bel posto, signò, non so se me la sento di lasciarla lì da sola. Tra poco stacco il turno, ma posso portarla in un altro hotel.”

 

La tassista che l’aveva accompagnata sembrava, comprensibilmente, ancora più preoccupata del collega maschio della volta precedente.

 

“Non si preoccupi: non sarò da sola.”

 

“Ma a me lei non sembra una che in un posto così ci lavora…” proclamò la donna, facendola ridere e scuotere il capo.

 

“No, ma conosco uno degli ospiti.”

 

“Nun me dica su marito, che se serve vengo a corcarlo di botte insieme a lei.”

 

“No, no, io-”

 

“Su fijo? Pure peggio!”

 

“No. Una persona che non si può permettere un alloggio migliore di questo e che voglio aiutare. Non si preoccupi, me la so cavare molto bene,” la rassicurò, allungandole i soldi e cercando di uscire dal taxi, ma la donna la fermò e si trovò con uno spray al pepe nella fessura del vetro tra la parte anteriore e quella posteriore del taxi.

 

“Ne tengo sempre uno di riserva, che non si sa mai!”

 

Tutta quella solidarietà femminile la fece sorridere, tanto che le passò anche, ad occhio, il costo dello spray al pepe, zittendo le proteste ed augurandole un buon riposo.

 

“Stia attenta!” fu l’ultima raccomandazione, prima di scendere e correre di nuovo verso l’ingresso ed oltre quel viscido del receptionist - che tanto ormai la stanza la conosceva e Mariani le aveva confermato che da lì non si era più spostato.

 

Fece nuovamente le scale a piedi ed arrivò con un poco di fiatone al secondo piano. Era ancora più squallido di quanto ricordasse.

 

Sentiva le gambe un poco molli ed instabili - per fortuna c’aveva gli stivali! - e non c’entravano i tacchi, ma l’agitazione, mano a mano che si avvicinava alla stanza 247.

 

Alla fine, si trovò davanti alla targhetta sbeccata ed alla porta, che ancora portava il segno di un pugno, o forse di un calcio, a metà altezza.

 

Sollevò la mano, esitando per un secondo, il cuore che le batteva all’impazzata e la bocca che pareva un deserto, prima di decidersi a bussare.

 

Tre volte, in modo deciso.

 

Niente, silenzio.

 

Poteva essere uscito?

 

Forse avrebbe dovuto chiedere a quello della reception, ma Mariani le aveva detto che il cellulare di Calogiuri, da quando aveva iniziato a controllarlo, non si era praticamente mai mosso da là.

 

E quindi bussò di nuovo, più forte ancora, per cinque volte.

 

E fu allora che sentì un “arrivo!” in una voce che le sembrò quella di Calogiuri, ma molto più flebile.

 

Forse le stanze erano, inaspettatamente, ben insonorizzate e-

 

Ed il pensiero si bloccò, insieme al respiro, quando la porta si aprì e vide… vide….

 

Oh madonna santa!

 

Pareva un barbone, pareva: barba e capelli lunghi, la pelle grigia, tirata sugli zigomi, una puzza tremenda di alcol e di chiuso ma… ma quegli occhi… erano gli occhi del suo Calogiuri, inconfondibili.

 

Solo che sembravano trapiantati sul viso di un altro.

 

Quelle iridi azzurre si spalancarono, ma lui rimase immobile, senza dire niente, e poi si sfregò le palpebre e la guardò in un modo talmente incredulo che fu un altro pugno nello stomaco.


“Imma? Ma… ma sei davvero tu o-”

 

“Ma certo che sono io! Ma che non mi vedi? Mi vedi, sì?” gli domandò, preoccupatissima, che c’avesse pure problemi di vista.

 

Per tutta risposta, lui scoppiò in un singhiozzo e due lacrime gli scesero dagli occhi fin dentro alla barba incolta.

 

Sentì un rumore alle sue spalle, una porta che si apriva, con una professionista che usciva da una stanza lì vicino, un uomo grasso ed orribile che le diede una pacca sul sedere, prima di allungarle dei soldi.

 

“Mi fai entrare?” lo esortò, in quello che però era quasi un ordine, e lui fece due passi troppo barcollanti di lato, facendola passare, e lei non perse tempo a chiudersi la porta alle spalle.

 

Il lieve sollievo durò il tempo di un secondo, il necessario per vedere le condizioni della stanza.

 

Non solo era tutto mezzo rotto e sbeccato, pieno di muffa ma… era anche pieno di sacchetti di carta appallottolati - probabilmente avanzi di cibo - lattine di birra vuote, qualche brick di pessimo vino, spacciato come delizioso da gente vestita come Romaniello, in pubblicità improbabili.

 

Il classico kit da alcolizzato.


Ed, in effetti, la stanza puzzava peggio di una distilleria.


“Ma… ma sei ubriaco?” gli chiese, perché era talmente instabile sulle gambe che… forse quasi c’era da sperare che lo fosse.

 

“No, no, sono giorni che non bevo… non…  non ci riesco più,” le rispose, e lei si avvicinò un attimo e, effettivamente, l’alito non puzzava di alcol ma… aveva l’odore di quello di sua madre, quando lei era piccola e saltava i pasti per non togliere il pane di bocca a lei.

 

“Da quant’è che non mangi?!” domandò, sempre più preoccupata, anzi, spaventata.


Calogiuri, per tutta risposta, scosse il capo e lei cercò di avvicinarsi di più, ma lui sbandò e, prima che riuscisse a fare qualsiasi cosa, cadde all’indietro.


“Calogiuri!”

 

Per fortuna, alle sue spalle c’era il letto, dove finì steso per metà, invece che schiantarsi a terra.

 

Provò ad afferrarlo per il braccio, per aiutarlo a tirarsi seduto, ma lui lo ritrasse e si mise a sedere da solo, guardandola in un modo che le causò un brivido, e non di quelli che le provocava di solito Calogiuri.


“E tu perché sei qua? Non… non lo sai quanto ti ho aspettata ma… ma non venivi mai, mai, e… perché adesso?!”

 

Sospirò e cercò di sedersi pure lei sul letto, ma lui allargò le braccia, per impedirglielo, di nuovo.

 

“Ho… ho parlato con Irene,” esordì e lui sembrò preoccupato, stranamente, “e… e ho letto la tua lettera, finalmente, e-”

 

“E quindi mi credi mo? Mi credi che non ti ho mai tradito?!” esclamò, guardandola in un modo febbrile, prima di esplodere in colpi di tosse fortissimi che lo scossero completamente.

 

“Ma che hai fatto?!” mormorò, ormai quasi terrorizzata, inginocchiandosi davanti a lui, visto che non poteva sedersi, per prendergli il viso e guardarlo negli occhi - che sembravano ancora più enormi in quel viso così magro - per poi urlargli, “ma lo vuoi capire o no che non me ne frega più niente se mi hai tradito o no?! Tu non ti puoi ridurre in queste condizioni per nessuno, nemmeno per me. Devi stare bene! Del resto non mi importa! Da quanto è che non ti fai una doccia, che non mangi, e-”

 

“E tanto a che serve!” gridò lui, levandole le mani dal viso con così tanta forza che lo graffiò inavvertitamente su una guancia, ma lui sembrò non rendersene nemmeno conto, nonostante il graffio cominciasse a sanguinare, “non ho più un lavoro, la mia vita è distrutta, tu non mi credi e c’hai pure un altro e-”

 

“E, pure se tutto quello che stai dicendo fosse vero, non è un buon motivo per ridursi così. Tu devi combattere, per te stesso, devi metterti al primo posto, sempre! Mo prendiamo le tue cose e vieni a casa con me, che devi curarti, subito e-”


“E io non la voglio la tua pietà!” urlò, allontanando le mani che lei, di nuovo, aveva provato a mettergli sulle spalle e quasi spingendola via, “non me ne faccio niente! Se non mi credi, lasciami in pace e tornatene pure da quel maiale di Mancini!”

 

Rimase per un attimo immobile, a guardarlo negli occhi, rabbioso come non lo aveva mai visto.

 

Non sapeva se fosse più la preoccupazione, la frustrazione o l’orgoglio per quel carattere che, pure in quelle condizioni, tirava sempre fuori.

 

“C’hai la testa più dura persino della mia,” sospirò, scuotendo il capo, continuando a guardarlo negli occhi e sperando che capisse tutto quello che non riusciva ancora a dirgli, perché non lo capiva del tutto nemmeno lei stessa.


“Sai che cosa mi fa più male?! Che… che non ci riesco nemmeno a tradirti, a stare con un’altra, neanche volendo! Ci… ci ho pure provato, quando… quando ho avuto lo scontro con Mancini e… e tu invece di preoccuparti per me, te ne sei rimasta con lui. Ero… ero ubriaco e… e arrabbiatissimo e… ed è arrivata Irene a soccorrermi e ho provato a baciarla.”

 

Fu peggio di uno schiaffo, mentre il ruggito della gelosia tornava a farsi sentire e-

 

“Ma… non ci sono riuscito, ad andare oltre a quello - a parte che è già tanto che non mi ha tirato un ceffone - ma… mi veniva da vomitare. E non perché ero ubriaco, ma perché mi sei venuta in mente tu e… e non ce l’ho fatta! E tu invece-”

 

Il ruggito si acquietò - mentre una parte di lei si annotò mentalmente che questa cosa la cara Irene non gliel’aveva detta, e che avrebbe dovuto capirne il motivo in un secondo momento - e fu investita da un’altra ondata di tenerezza e… e di amore, perché quello era, per quegli occhi lacrimanti e rabbiosi e-

 

“Ti credo,” pronunciò, senza quasi rendersene conto, interrompendolo, e Calogiuri spalancò gli occhi e si zittì, ancora prima che ribadisse, guardandolo negli occhi, “ti credo, veramente. Non serve che mi dici altro, ti credo.”

 

Qualche secondo di silenzio e poi Calogiuri emise un altro singhiozzo e scoppiò a piangere, che pareva una fontana, le lacrime che gli si mischiavano al rivolo di sangue del graffio sulla guancia.

 

Presa da un impulso ormai irrefrenabile, si sollevò leggermente e si proiettò in avanti per abbracciarlo, sospirando di sollievo quando lui non si ritrasse e glielo permise. Tanto che gli finì in braccio, a stringerlo per le spalle ed accarezzargli i capelli, la testa sulla sua spalla, sentendosi avvolta a sua volta in una stretta, ma meno forte del solito, e-

 

Ossa.

 

Le percepì improvvisamente, nelle braccia che la cingevano, sotto le dita, mentre scendeva sempre più in basso con le mani, non più solo per accarezzarlo ma per sentirgli la schiena, i fianchi.

 

Si staccò di botto e lui la guardò, preoccupato, ma lei lo ignorò, gli sollevò la felpa col cappuccio che aveva addosso e le mancò il respiro.

 

Non solo l’addome era ancora mezzo viola e verde - un’esplosione di rabbia verso Mancini che le torse lo stomaco - ma… era quasi pelle ed ossa, le costole visibili come non lo erano mai state.

 

“Amore mio… ma come ti sei ridotto?!” sussurrò, il senso di colpa e la paura come una morsa nel petto, alzando gli occhi per incontrare il suo sguardo, e poi sollevare le mani per prendergli il viso, “scusami, scusami, sono stata una stupida, scusami!”

 

Gli occhi di Calogiuri si spalancarono, come se fosse incredulo.


“Che c’è?”

 

“Che cosa hai detto?” le domandò, con voce roca e tremolante.


“Va bene che non lo faccio spesso, chiedere scusa, anzi, quasi mai, ma-”

 

“N-no, prima. Come mi hai chiamato?”

 

Solo in quel momento realizzò e si sentì avvampare, mentre una specie di strana sensazione, un misto tra gioia ed imbarazzo, le riempì il petto. Dopo tutti gli amò pronunciati a ripetizione con Pietro, finché quella parola aveva praticamente perso di significato… non le era mai più riuscito di chiamare Calogiuri così, ma in quel momento le era proprio uscito dal cuore, senza neanche accorgersene.

 

“Eh… eh va beh… è quello che sei,” gli rispose, sorridendo e commuovendosi all’incredula felicità di lui, “ma se provi di nuovo a ridurti in questo stato per chiunque, ti uccido io con le mie mani prima, e-”

 

Non riuscì a finire perché si ritrovò zittita da un rapido bacio e poi stritolata in un abbraccio che, ossa o non ossa, sapeva di casa, di sollievo e di-

 

Merda!

 

Si rese conto, nel giro di un secondo, che Calogiuri era stato del tutto sincero con lei, fino in fondo, mentre lei… lei aveva qualcosa che doveva dirgli, per forza.

 

“Calogiuri…” sussurrò, sollevando il viso dalla sua spalla e spingendolo leggermente all’indietro - mamma quanto era magro! - fino a riuscire a guardarlo di nuovo negli occhi.

 

La preoccupazione che ci lesse la intenerì di nuovo tantissimo e la fece sentire ancora di più in colpa.

 

“Ascoltami… tu sei stato sincero con me e voglio esserlo pure io con te. Riguardo a Mancini… non c’è niente tra me e lui ora, ma-”

 

“Ci credo, non ti devi giustificare,” le disse in un modo che… altro che senso di colpa, un macigno proprio.

 

“Ma… ma qualcosa c’è stato,” trovò il coraggio di dire e sentì le braccia di Calogiuri, che ancora la stringevano per la vita, irrigidirsi e poi lasciarla andare.

 

Andò in panico, e cercò di spiegargli, anche se la voce andava e veniva, “quando… quando vi siete picchiati… io… io volevo seguirti subito ma… ma sono rimasta con Mancini, perché volevo calmarlo e non volevo che ti denunciasse. E poi, dopo averlo medicato, lui è tornato a casa e… e ho provato a chiamarti, ma ho scoperto che mi avevi bloccato pure tu, e… e alla fine ce l’ho fatta a trovarti. Sono venuta qua, era piena notte, e… ho visto Irene che usciva dalla tua stanza, vestita che… va beh, lo sai pure tu com’era vestita, e poi… tu che la trascinavi in quello che ho pensato fosse un bacio, ma-”

 

“No, no, la stavo solamente abbracciando, come ringraziamento, perché mi ha aiutato mentre stavo male,” la interruppe lui, di nuovo preoccupato.

 

“Lo so, mo lo so, ma… ero arrabbiata, furiosa, pensavo che… che mi avevi tradito, non solo con Melita, ma pure con lei, di essere stata una scema a venirti a cercare e… mi sono fatta prendere dalla rabbia e… lo so che questo non mi giustifica ma… ma Mancini mi ha invitata a cena e… e sono andata a casa sua e….”

 

Il dolore e la delusione che lesse sul viso di Calogiuri furono peggio del pugno allo stomaco che si era preso per lei: si sentì una merda.

 

“L’ho baciato, nella rabbia, mi volevo vendicare, e stavamo per-”

 

“Non voglio sapere altro!” sputò fuori lui, lo sguardo basso e duro, come il tono di voce, allontanandosi ulteriormente da lei ed incrociando le braccia al petto.

 

Il panico che non fece altro che peggiorare, urlò, “ma non c’è altro! Non ce l’ho fatta, non ci sono riuscita ad andare fino in fondo. Mi sembrava di tradirti e… mi veniva piangere, e mi ha fatto schifo, tutto quanto, e… e da allora ho sempre tenuto le distanze da lui. Ma ho sbagliato e non voglio nascondertelo e… e se ce l’hai con me lo capisco, ma-”


Si trovò stretta in un altro abbraccio da levarle il fiato, il sollievo e poi i singhiozzi che non riusciva più a trattenere, così come le lacrime.

 

“Siamo due stupidi,” si sentì sussurrare all’orecchio e le venne da ridere, perché c’aveva ragione, c’aveva, mentre lo stringeva ancora più forte, bloccandosi però quando sentì un mugugno di dolore e staccandosi leggermente per accarezzargli il viso: parevano essersi presi un acquazzone tutti e due, tanto avevano le guance bagnate.


“Sì, proprio stupidi. Mo però, paghiamo sta stanza e vieni a casa con me, che devi mangiare, dormire e-” ignorò la vocetta di Diana nella sua testa che le disse e non diciamo che altro! ed aggiunse, “e farti una bella doccia.”

 

“Agli ordini, dottoressa,” la sfottè lui, ma il sorriso commosso non mentiva e le faceva capire che, per fortuna, pure lui non aspettava altro.

 

Non se lo meritava, forse, anzi, sicuramente non se lo meritava un uomo come Calogiuri, ma se lo abbracciò di nuovo e gli accarezzò i capelli.

 

Sì, aveva proprio bisogno di una doccia, pure due.

 

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Incespicò a fatica sul pianerottolo, reggendo in parte il peso - fin troppo lieve - di Calogiuri, che faticava molto a stare in equilibrio.

 

“Mi dispiace,” le sussurrò lui, per l’ennesima volta, tanto che lei si voltò per fulminarlo con un, “se osi ancora scusarti mi arrabbio davvero. Devi scusarti sì, ma con te stesso, non con me.”

 

Calogiuri abbassò il capo e si appoggiò al muro, per lasciarle la mano libera, per cercare la chiave nella borsa. Finalmente la trovò ed aprì la porta, trovandosi davanti alla più totale oscurità.

 

Accese la luce, rimanendone quasi accecata, e sentì un miagolio preoccupato ed un po’ rabbioso ai suoi piedi, due occhi gialli che le corsero incontro.


“Ottà, aspetta un attimo,” le disse, prima che potesse saltarle in braccio, “che le braccia mi servono libere e forse pure a te le zampe. Guarda chi c’è.”

 

Si voltò verso il pianerottolo e diede il braccio a Calogiuri che, sempre appoggiandosi al muro prima, e allo stipite poi, rimise finalmente piede a casa.

 

Guardò Ottavia, certa che gli sarebbe saltata in braccio, festosa - o, al massimo, avrebbe fatto l’offesa, per poi recuperare con le coccole più tardi - ma Ottavia prima emise un fischio da pentola a pressione, poi un balzo tremendo e cadde indietro sulla schiena. Infine, si rialzò di corsa e diede loro il sedere, ma non per allontanarsi regalmente, come faceva di solito, ma proprio scappando a gambe levate fin oltre l’angolo, roba da primato di velocità.

 

“Ottà! Che c’hai?” la chiamò, guardando Calogiuri e rendendosi conto, insieme a lui, che pareva mortificato, di quale fosse il problema.

 

“Ottà, ma che non mi riconosci?” le chiese Calogiuri, facendo qualche altro passo insieme a lei per chiudere la porta d’ingresso alle loro spalle, “Ottavia?”

 

Dopo il secondo richiamo, videro una testolina tigrata spuntare, le orecchie prima tutte indietro e poi tese. Poi il musetto si inclinò, come se lo stesse studiando. Dopo sbucò il corpo e, piano piano, diffidente ed un poco impaurita, si avvicinò a loro due, continuando a guardarlo fisso. Lo annusò, scarpe e pantaloni, e poi….

 

Una specie di squittio ripetuto, come un lamento, che era chiaramente un pianto, le spezzò il cuore, pure mentre la vedeva balzare sulle zampe posteriori e lanciarsi in aria verso Calogiuri - che per poco non persero l’equilibrio tutti e due - ma riuscì fortunosamente a prenderla in braccio, prima che cadesse all’indietro lei e pure loro.

 

Definire strazianti i lamenti di Ottavia sarebbe stato riduttivo, con lei che lo annusava e piangeva, piangeva e lo annusava, e poi gli si buttò al collo facendogli le fusa.

 

Calogiuri era una valle di lacrime e pure lei - mannaggia ad Ottavia, che avevano appena finito!

 

“Mi sa che a qualcuna è mancato molto papà,” cercò di sdrammatizzare, allungando la mano libera per accarezzarle la testolina ed incrociando le dita di Calogiuri, che faceva lo stesso.

 

E poi Ottavia smise di fare le fusa, si sollevò sulle zampe, per guardare in viso Calogiuri, ed iniziò a leccargli una guancia.

 

“Gli dai i bacini?” si intenerì, ma poi notò che il leccare divenne sempre più intenso, quasi furioso, come quando si-


“Mi sa che ti sta pulendo…” realizzò e Calogiuri sembrò ancora più desolato, guardandola in un un modo come a dire - ma sto messo così male?

 

Sospirò e prese Ottavia per la collottola, mettendosela in braccio, “mo papà si fa una bella doccia, stai tranquilla!”

 

La ruffiana però, testona come sempre, continuava a provare con le zampe ad attaccarsi a Calogiuri. E quindi, per evitare casini, con Ottavia di nuovo in braccio a lui, la valigia di lui in una mano e lui aggrappato all’altro braccio, andarono verso la loro stanza.


Finalmente.

 

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“Mamma mia!”

Le uscì con voce strozzata: non sapeva se fosse più forte il senso di colpa, la rabbia verso se stessa o verso di lui per essersi ridotto così.

 

Lo stava aiutando a spogliarsi per fare la doccia e… era sempre stato snello ma muscoloso, ora invece… le ossa sporgevano veramente in troppi punti.

 

“Mo ti dò una mano con la doccia e poi chiamiamo un medico.”


“Non serve: la doccia me la so fare da solo, il medico non è necessario e-”

 

“Non voglio sentire storie! La doccia insieme l’abbiamo già fatta, no? Anche se qua… altro che risparmio energetico!” esclamò, levandogli la felpa col cappuccio e buttandola sul pavimento, destinazione lavatrice, o forse inceneritore.

 

“E va beh… dottoressa… spesso iniziava così, no?” scherzò lui, facendole l’occhiolino e poi, quando provò a slacciargli i pantaloni della tuta - il cui laccio era strettissimo probabilmente per non farli cascare - si trovò attaccata a lui, che la baciò voracemente, in modo quasi disperato.

 

Per un secondo si scordò di tutto, presa da quelle sensazioni che solo lui le dava, da quel mondo parallelo in cui era sempre stato capace di farla perdere.

 

Ma poi lo sentì sbandare e riuscì a malapena a reggerlo, reggersi al muro e farlo sedere sulla toilette.

 

“Prima devi pensare a stare in piedi, maresciallo. Poi dopo ci possiamo preoccupare di che cosa fare stando in piedi. Che qua... altro che zabaione ti ci vuole!” gli sussurrò, scompigliandogli i capelli e spogliandosi a sua volta, prima di aiutarlo con i pantaloni e l’intimo ed entrare in doccia insieme.

 

Assurdamente, con tutto quello che ci avevano combinato in quel box, non si era mai sentita tanto in imbarazzo e, da come la guardava, con il viso basso ma gli occhi all’insù, era certa che anche per lui fosse lo stesso.

 

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“E allora, dottore?”

 

Era preoccupata, preoccupatissima, come poche volte in vita sua.

 

“E allora deve ricominciare piano piano a mangiare di più, in modo che il corpo non abbia una reazione peggiore, di rifiuto. Adesso le invio una dieta che consiglio di solito in casi come questo, c’è da aumentare di poco le quantità ogni giorno,” spiegò, rivolgendosi prima a lei e poi a Calogiuri, “e, maresciallo, deve smetterla di fare idiozie con il suo corpo. Vi manderò i risultati del prelievo di sangue ma… stava arrivando al limite del sottopeso normale, verso il sottopeso grave. Per qualche giorno almeno, segua la terapia e riposo assoluto. E, finché non si riprende, niente alcolici e niente caffeina.”

 

“Degli alcolici c’ho già la nausea,” sospirò Calogiuri ed il medico annuì con un “meglio così!”

 

Accompagnò il dottore alla porta, che si raccomandò di fargli rispettare la dieta alla lettera e, soprattutto, di farlo rimanere a letto finché non avesse ripreso le forze. E di cercare di fare in modo che non fosse da solo in quei primi giorni.

 

E poi se ne andò, lasciandola con un’ansia tremenda.

 

Tornò da Calogiuri, che le sembrò improvvisamente così piccolo in quel letto, nonostante l’altezza. Le fece un sorriso, ma si vedeva che era stanco.

 

Gli si sedette accanto.

 

“Mo ti riposi ed io aspetto le istruzioni del medico e faccio la spesa. Devi stare a letto per qualche giorno almeno, il più possibile.”

 

“E dove sta la novità?” sospirò lui, amaro.

 

Un’altra fitta di senso di colpa.


“Ed il fatto che ci sto pure io non conta niente?”

 

“Ma tu c’hai il lavoro e-”

 

“E domani è venerdì e posso prendermi un giorno di ferie, e poi nel fine settimana non vado da nessuna parte. Finché non ti rimetti un minimo in forze e non ti reggi in piedi non ti mollo. E ora aspettiamo di vedere sta dieta e-”

 

In quel momento lo squillo di due cellulari, sia il suo che quello di Calogiuri, la bloccò.

 

Era il medico.


Fece scorrere la dieta, e dire che fosse ospedaliera era dire poco. Le ricordava quella di Pietro dopo l’intossicazione alimentare, ma ancora più graduale nelle dosi.

 

“Ma… ma sono tutte cose tristissime!” commentò lui, ricordandole improvvisamente Noemi quando la si costringeva a mangiare le verdure al posto dei suoi amati dolci.

 

“Almeno la prossima volta ci pensi non due, ma dieci volte, prima di ridurti così!” esclamò, accarezzandogli però poi i capelli e stringendolo in un abbraccio, “mo vado a fare la spesa - e tu non ti muovi dal letto - e poi-”

 

Il suono di qualcosa di metallico ed un miagolio insistente la portò a staccarsi e a guardare verso il pavimento dal lato del letto di Calogiuri, da cui provenivano quei rumori.

 

E si trovò con Ottavia che spingeva con la testa una lattina al salmone, che chissà come aveva recuperato dalla dispensa, portandola sempre più vicina a Calogiuri, miagolando fortissimo, per poi ricominciare a spingere.

 

“Persino lei si preoccupa e ti vuole far mangiare!” commentò, incrociando lo sguardo di lui e vedendo che era commosso quanto lei.

 

Le scatolette al salmone erano le preferite di Ottavia, ma non gliele davano spessissimo perché erano pure le più care. Per offrirle a Calogiuri, gli doveva veramente volere un bene dell’anima e doveva pure essere preoccupatissima, a modo suo, ovviamente.

 

Calogiuri se la prese in braccio, accarezzandola e riempiendola di baci, mentre lei le grattò la testa con un, “tranquilla, Ottà, puoi tenere la scatoletta, mo lo compro io da mangiare a papà e per te… stasera salmone, doppia razione.”

 

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“Pronto?”

 

“Finalmente! Dove stai?! Non ti ho trovato e mi hanno detto che te ne sei andato e-”

 

Una fitta allo stomaco, e non di quelle che lo avevano preso nei giorni precedenti quando aveva cercato di mangiare un poco di più.

 

Irene

 

Si era completamente scordato di avvertirla, ed aveva appena notato le diverse chiamate perse, ma aveva messo il cellulare silenzioso per non svegliare Imma, che, finalmente, dormiva accanto a lui, e pure della grossa.

 

“Scusami, ma-”

 

“Ma perché sussurri? O c’hai qualcosa alla voce?”

 

“No, no,” la tranquillizzò, parlando però sempre più piano che poteva, “è che sono a casa, con Imma, che… che mi crede finalmente, mi crede. E mo sta dormendo, perché sono giorni che sta sveglia per aiutarmi e farmi mangiare.”

 

Sentì un sospiro dall’altro capo del telefono e poi Irene gli disse, in un tono un po’ strano, “sono sollevata che sia andato tutto bene e che abbiate smesso di fare i cretini. Ora riprenditi, che poi parleremo più seriamente del caso, anche con Imma.”

 

E mise giù.

 

Appoggiò il telefono, ripromettendosi di fare qualcosa per ringraziarla di tutto l’aiuto che gli aveva dato e per scusarsi dello spavento che le aveva fatto prendere.

 

Ma poi una cascata di ricci rossi si mosse a pochi centimetri dal suo viso ed Imma si voltò verso di lui.


Si preoccupò che si fosse svegliata, che non aveva dormito quasi niente ed aveva bisogno di riposare, ma per fortuna gli occhi erano ancora chiusi ed i ricci se li trovò sul petto, a fargli solletico al collo.

 

La abbracciò delicatamente, per non svegliarla, deglutendo il groppo in gola. Se sentirla chiamarlo amore era stata una delle emozioni più indescrivibili della sua vita, erano quelli i momenti che gli erano mancati più di tutti. I loro momenti, le cose semplici, di tutti i giorni, che lo facevano innamorare sempre di più di lei e della vita che avevano costruito insieme.

 

E che pensava di aver perso per sempre e invece… invece erano ancora lì, nonostante tutto e tutti.

 

Tanto che tutto il resto, pure l’idea di perdere il lavoro, del processo, stranamente non lo spaventavano più, perché con lei tutto diventava più semplice e si sentiva più tranquillo e più sereno, da sempre.

 

Le posò un bacio sulla fronte e poi chiuse gli occhi, inspirando il profumo dei suoi capelli e lasciandosi andare alla stanchezza.

 

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“Mo prova a camminare avanti e indietro.”

 

“E che devo fare, il modello?”

 

“Mi sa che sei troppo magro pure per quello mo. Dai, prova a stare in equilibrio su un piede solo.”

 

“Sì, e mo pure l’alcol test!”

 

“Fai meno lo spiritoso, maresciallo!” gli intimò, anche se l’umorismo era un ottimo segno, insieme alla camminata più stabile, che Calogiuri si stesse riprendendo - e poi le erano mancati tantissimo i loro battibecchi scherzosi.

 

Sull’alcol test però, Calogiuri sbandò un poco e dovette appoggiarsi al muro.

 

L’ironia lasciò lo spazio all’apprensione.

 

Si avvicinò, per aiutarlo a sedersi, ma lui, orgoglioso come sempre, sollevò una mano per fermarla e poi fece da solo.

 

“Sei sicuro di poter stare qua da solo? E se caschi?”

 

“A camminare non casco, e non devo mica mettermi a fare ginnastica, dottoressa.”

 

“Ci manca solo quello, ci manca! Il pranzo è in frigo e-”

 

“E il microonde lo so usare da me. E pure il forno. Tranquilla. E poi ho il cellulare e se ho bisogno ti chiamo. E pure la guardia del corpo.”

 

Ottavia li fissava dalla porta, preoccupata: nelle ultime notti era quasi sempre voluta rimanere con loro, ai piedi del letto e letteralmente sui piedi di Calogiuri, e non aveva avuto la forza di tenerla lontana.

 

Ma ora, sembrava agitata, forse perché l’aveva vista cambiarsi per andare al lavoro.

 

“Dai, dottoressa, che per me hai già saltato fin troppi giorni di lavoro. Vai e stendili tutti… anzi no, tranne uno - se non con un pugno, allora ti autorizzo.”

 

Le venne da ridere, ma si sentì di nuovo un po’ colpevole, per quanto successo con Mancini.

 

Ma, per fortuna, Calogiuri, nonostante ogni tanto facesse l’uomo del sud, era stato più che comprensivo e maturo - sicuramente più di quanto lo era stata lei al posto suo - le aveva creduto e l’aveva perdonata.

 

Perdonare se stessa sarebbe stato molto, ma molto più difficile.

 

“Va bene… ma se hai bisogno, qualsiasi cosa, mi chiami, chiaro?”

 

“Promesso!” garantì lui, con una mano sul cuore e lei rise e poi gli diede un ultimo bacio, prima di infilarsi le scarpe con il tacco ed avviarsi all’ingresso.

 

Come si mise il cappotto, Ottavia iniziò a miagolare fortissimo.

 

“Tranquilla, Ottà, vado solo al lavoro, mica scappo!” cercò di rassicurarla, prendendola in braccio per farle due coccole, “tu tieni d’occhio papà, va bene?”

 

Ottavia sembrò capire perché fece un miagolio prolungato, le leccò la mano e poi saltò giù e si avviò verso il corridoio della camera da letto.

 

La sua famiglia! - pensò, mentre gli occhi le pizzicavano.

 

Quanto le era mancata!

 

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Salì rapidamente le scale, cercando di fare meno casino coi tacchi del solito. Con la coda dell’occhio vide Mancini appena fuori dal suo ufficio, che parlava con la sua segretaria. Si avviò a passo spedito verso l’ufficio, sperando non l’avesse notata, perché non poteva e non voleva dirgli di Calogiuri, viste le indagini in corso, e sperava che avesse capito dall’ultimo incontro tra loro che preferiva tenere le distanze.

 

La speranza si infranse quando sentì alle sue spalle gli inconfondibili passi di Mancini, decisi ed atletici come il procuratore capo.

 

Aveva raggiunto la porta dell’ufficio e, se si fosse trattato di qualcun altro, gliel’avrebbe chiusa in faccia.

 

Ma non poteva farlo con il procuratore capo, purtroppo.

 

Quindi si voltò, con un “dottore…” che sperò risultasse sufficientemente freddo da farlo desistere, salvo si trattasse di cose di lavoro.

 

Mancini parve un poco sorpreso, ma la salutò e chiuse la porta alle loro spalle, lanciando poi un’occhiata verso la porta dell’ufficio di Asia, che però era chiusa.

 

Come minimo, quella scansafatiche ancora non era arrivata! Quando serviva di più non c’era mai.

 

“Dottoressa,” esordì Mancini con un tono ed uno sguardo tristi che ridussero un poco l’irritazione - anche perché ce l’aveva più con se stessa che con lui.

 

“So che venerdì ha preso un giorno di permesso, che non è da lei. E… e mi sembra chiaro che sta cercando di evitarmi. Capisco che… voglia tenere le distanze in ambito personale, ma almeno in ambito lavorativo… non vorrei che… che quello che è successo a casa mia… influisca negativamente sul suo lavoro e che non si senta a suo agio qua in procura.”

 

Sospirò, perché Mancini aveva sicuramente corso troppo e, sì, si era un po’ approfittato della situazione, ma… era stata lei ad invitarlo a casa sua, a voler fare la cenetta e poi a baciarlo, per rabbia. Pure lei lo aveva usato e non andava bene.


Ma non poteva dirgli il motivo reale né del permesso, né del perché lo preferisse tenere a distanza anche al lavoro, cioè che c’era una cosa enorme di cui non poteva parlargli. E lei a mentire ed omettere era diventata pure brava, ma non era una cosa che le piacesse fare, anzi.

 

“Dottore, ascolti, non ho mai lasciato che i problemi personali influissero sul lavoro e non vedo perché dovrei cominciare a farlo mo. Quindi collaborerò con lei, sulle questioni professionali, come ho sempre fatto, ma, come ha detto lei stesso, per il resto preferisco mantenere le distanze. Quindi... ha qualcosa di lavoro di cui parlarmi?”


“No, no, cioè… questo che le ho appena detto… ma… volevo dirle che… non deve temere altri inviti o… gesti da parte mia, salvo sia lei a dirmi esplicitamente che li gradisce. Io, come le ho già detto, posso aspettare tutto il tempo che serve e… mi dispiace per… per aver corso troppo.”

 

Per un secondo si mise nei suoi panni e… ed era proprio innamorato Mancini - anche se chissà che ci trovava in lei, dopo tutti i due di picche che gli aveva dato.

 

Ma, lo aveva imparato per esperienza, mica è facile levarsi qualcuno dalla testa, specie se ci hai a che fare costantemente.

 

Forse era giunto il momento di essere più decisa, più brutale, ma era la cosa più onesta da fare.

“Dottore, forse… non sono stata abbastanza chiara, ma non le voglio fare perdere tempo. Non si sceglie chi si ama, purtroppo e per fortuna e… se con Calogiuri all’epoca non sono riuscita a resistere, pur essendo impegnata… mentre con lei, pur essendo tecnicamente libera, non sono riuscita a lasciarmi andare, un motivo c’è.”

 

Mancini parve avere preso un altro cazzotto e deglutì un paio di volte.

 

“La… la ringrazio per la schiettezza, anche se… una parte di me spera ancora che, magari col tempo e… quando si sentirà libera davvero e non soltanto tecnicamente… possa tenermi in considerazione. Ma non la importunerò più, stia tranquilla.”

 

Lo vide voltarsi ed andarsene, ed il passo non era più baldanzoso, sembrava quasi un animale ferito.

 

L’amore era veramente pericoloso, anzi pericolosissimo.

 

Per fortuna con Calogiuri era arrivata in tempo o… non poteva nemmeno pensare all’alternativa, perché… un conto era sopravvivere senza Calogiuri, pensandolo comunque vivo, pur se con un’altra, un conto era….

 

Non sapeva se sarebbe riuscita ad andare avanti.

 

E, proprio in quel momento, in tutta la sua regale eleganza diurna, le apparve davanti Irene, che stava uscendo dal suo ufficio insieme a Conti, il quale la guardava sempre come se fosse una divinità scesa in terra, a graziare i comuni mortali, lui compreso.

 

Non era una dea, per lei, ma non era neanche il demonio e c’erano molte cose che aveva bisogno di sapere da lei.

 

Ma, come se le avesse letto nel pensiero, Irene le rivolse un, “Imma! Devo uscire con Conti ora ma… appena posso risolviamo quel discorso in sospeso, non ti preoccupare.”

 

Se fosse una promessa o una minaccia… quello era tutto da vedere. Ma nell’ambiguità nella quale Irene era una maestra a giostrarsi, di una cosa, una sola era sicura: la collega voleva bene a Calogiuri, davvero, moltissimo.

 

E questo la rendeva da un lato una potenziale alleata, dall’altro ancora più pericolosa.

 

Anche perché aveva un debito eterno di gratitudine con lei, per averlo aiutato e per averla spronata a credergli, a dargli una possibilità.

 

Imma aveva sempre odiato avere debiti con chiunque, in questo caso ancora di più. Ma la cosa che odiava di più era... non poterla più odiare, come aveva fatto in passato, anche se le stava ancora sul gozzo. Ma non riusciva più a pensare a lei solo come la gattamorta, o la cara Irene.

 

A volte rimpiangeva la vecchia Imma, che vedeva il mondo o bianco o nero, prima che arrivassero due occhi azzurri e teneri a sconvolgerle la vita, a farla cambiare senza rendersene conto.

 

Ma Calogiuri non le aveva insegnato solamente a vedere le sfumature di grigio - che per quelle di un certo tipo si sarebbe dovuto riprendere ancora parecchio - ma anche, e soprattutto, tutti quei colori bellissimi che si era sempre persa.

 

E questo valeva tutti i pericoli, i conflitti interiori e persino dover forse rivalutare una certa gattamorta.

 

L’amore era veramente pericolosissimo.

 

Ma la stava piano piano rendendo una persona migliore.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo sessantesimo capitolo, che è stato veramente un parto da scrivere. Mi scuso ancora per il ritardo, ma la vita reale ci si è messa di mezzo e ci tenevo tantissimo a questo capitolo e a scriverlo bene, e spero di esserci riuscita.

Imma e Calogiuri si sono finalmente ritrovati ma… ora hanno molti ostacoli da superare, insieme, per scagionare Calogiuri, risolvere il maxiprocesso, e da affrontare nella loro vita di coppia. Nel prossimo capitolo ci sarà molto giallo, molto rosa e… parecchie grane da risolvere e misteri da svelare.

Non posso credere di aver scritto sessanta capitoli, e vi ringrazio tantissimo per avermi seguita fin qui con così tanta costanza e passione. Spero che anche quest’ultima fase della storia, che ci porterà verso il tanto agognato lieto fine, possa piacervi e continuare ad essere interessante per voi.

Ringrazio tantissimo chi ha recensito e recensirà la mia storia: i vostri commenti sono un grande sprone per me, mi fanno un sacco piacere e mi aiutano sempre a capire come sta andando la scrittura e cosa c’è da limare.

Un grazie particolare anche a chi ha messo la mia storia nei seguiti o nei preferiti.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica 30 maggio. In caso di ritardi vi avviserò, come sempre, nella mia pagina autore.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 61
*** Pelle ***


Nessun Alibi


Capitolo 61 - Pelle


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Purtroppo il video era già stato ripostato diverse volte, dottoressa. Risalire a chi lo abbia postato per primo sarà impossibile, temo, e credo non ci convenga per ora compiere azioni contro i membri del gruppo e far saltare la mia copertura. Anche se probabilmente non servirà a niente.”

 

Sospirò: Mariani non aveva proprio buone notizie, anzi.

 

Ma, del resto, internet era come un gigantesco pagliaio in cui loro stavano cercando un ago minuscolissimo, di quelli da insulina.

 

“Capisco. Mi cerchi le foto del commercialista, Mariani: più ne trova e meglio è! Dalla corporatura magari riusciamo a capire chi è nel video, e a fare altre deduzioni.”

 

“Dottoressa, non ha molto sui social purtroppo… e… alla conferenza stampa c’erano foto solamente del volto. Però… mi pare di averlo visto in qualche video, ripreso dai giornalisti. Mi faccia verificare.”

 

Mariani si mise a lavorare alacremente col suo tablet e poi fece un sorriso e glielo porse, “ecco, qua si vede non proprio a figura intera ma fino alle ginocchia.”

 

Imma fece partire il video.

 

C’erano il commercialista ed un altro uomo che uscivano da quello che, a giudicare dalla targhetta accanto al portone, era lo studio.

 

Un giornalista gli fece le domande di rito sul figlio e sulle accuse a suo carico, ma ad Imma si bloccò il fiato in gola e non lo sentì più, anzi, non sentiva più niente.


Riusciva solo a vedere il linguaggio del corpo del commercialista e dell’altro uomo: il modo in cui camminavano e si muovevano, mentre cercavano di evitare il giornalista. La corporatura che si intravedeva sotto i cappotti costosissimi e semi aperti.

 

Erano familiari, troppo familiari.

“Mariani, fermi il video!” esclamò e la marescialla per poco non le fece un salto dallo spavento.


“Ha notato qualcosa, dottoressa?”

 

“Qualcosa? Tutto! Mi rifaccia vedere l’inizio del video con Giulia. In un altro schermo però, fianco a fianco.”

 

Mariani usò il suo computer per proiettare il video del giornalista ed il tablet per quel filmino che mai avrebbe voluto rivedere, ma le toccava farlo.

 

E per poco non si accasciò sulla sedia.


“Non nota niente, Mariani? La cadenza dei passi, il modo in cui muovono le braccia, come quest’uomo ha l’abitudine di toccarsi spesso il mento?”

 

Sentì come un sibilo anche da Mariani: aveva capito pure lei.

 

“L’altro uomo è quello che stiamo cercando Mariani, quello del DNA, ci potrei scommettere, pure se non c’abbiamo niente in mano! Sappiamo chi è?”

 

“Sì, è l’altro socio dello studio, dottoressa. Era nelle foto del sito dello studio appunto. Ma, come dice lei, non abbiamo niente in mano. Come facciamo a chiedere il DNA? A meno di usare modi poco legali ma poi… inutilizzabili in tribunale.”

 

“Mo ci penso, Mariani. Ed invece, ci pensa lei ad avvertire il dottor Mancini degli sviluppi? Che io devo tornare a casa presto stasera.”

 

Mariani sembrò sbigottita: in effetti per lei rientrare in orario era un evento, e lo era ancora di più in quelle ultime settimane, che aveva cercato di buttarsi sempre di più sul lavoro.

 

Ma ora Calogiuri aveva la priorità assoluta e saperlo a casa da solo, debole com’era ancora, non la faceva stare tranquilla.


E poi… e poi tutto sommato, l’idea di evitare Mancini non le dispiaceva affatto, anzi.

 

*********************************************************************************************************

 

Aprì la porta con il fiato un poco in gola e… niente, tutto silenzioso e tranquillo.

 

Si liberò di cappotto, borsa e scarpe ed andò verso la camera da letto.

 

Aprì la porta e lo trovò seduto a letto, che muoveva una cannetta con su una piuma per far giocare Ottavia, che gli rotolava felice tutto intorno.

 

Ma, come la sentirono arrivare, si bloccarono e le rivolsero due sguardi stupiti.

 

“Che ci fai qui a quest’ora?”

 

“Anche io sono felice di rivederti, Calogiuri: se sono di troppo torno dopo. E comunque il medico ti ha detto che non ti devi stancare!”

 

“Muovere il polso dubito sia un movimento così stancante, dottoressa,” le sorrise lui e, quando lo faceva, notava ancora di più quanto fosse smagrito in viso, “e comunque… non è da te tornare così presto!”

 

“Lo è da stasera, finché non stai meglio, e poi per oggi avevo finito,” ribatté, sedendosi sopra al letto, accanto a lui, e trovandosi la belva in grembo, che faceva le fusa, “che ruffiana che sei!”

 

Poi però le prese un sorrisetto e si voltò verso di lui, che la guardava come a dire che c’hai in mente, e gli sussurrò, “e comunque… dipende dal movimento di polso, Calogiuri!”

 

Un attimo di confusione e poi il respirone che prese, le fece capire che si erano intesi.

 

“Vado a farmi la doccia e dopo preparo la cena,” aggiunse, con un sorrisetto, lasciandosi alle spalle una gatta confusa ed un viso paonazzo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Papà!”

 

Sorrise, a quelle due sillabe che l’avevano sempre reso l’uomo più felice ed orgoglioso del mondo, le si avvicinò e se la abbraccio, incurante delle proteste perché stavano in pubblico.

 

“E dai, papà!”

 

“Già ci vediamo poco!”

 

“Ma se ci vieni sempre più spesso a Roma nei weekend! Altro che poco!”

 

Il viso gli divenne caldissimo, senza poterlo evitare, quindi prolungò per un altro secondo l’abbraccio, per darsi il tempo di riprendersi: Valentina non poteva e non doveva ancora sapere che mo… di ottimi motivi per andare a Roma ce ne aveva ben due. Anzi tre.

 

Alla fine però dovette staccarsi, prima che Valentina gli staccasse sì ma la testa, e si sedettero ad un tavolino del bar.

 

“Allora, come va? Ti trovo sempre più in forma, papà!”

 

“Eh… diciamo che… sto cercando di fare più attività fisica. Ho anche ripreso col calcetto,” le spiegò, non potendo ammettere che il motivo principale del suo… ringiovanimento c’aveva un nome ed un cognome molto familiari e che, pure per starle dietro fisicamente, si stava allenando più spesso, “tu, invece?”

 

“Io-”


Il rumore di un messaggio li interruppe e Valentina guardò rapidamente il telefono, ma poi fece uno sguardo deluso.

 

“Che c’è?”

 

“Niente… è Penelope ma… ultimamente ha spesso da fare nel weekend, per l’accademia, e scende poco. Mi ha detto che teme di non farcela neanche settimana prossima, perché sono in alto mare con il progetto.”

 

“E perché non ci vai tu, allora?”

 

“Ma è impegnata tutto il giorno e possiamo stare insieme solo la sera.”

 

“Eh va beh, ma quando ci si ama… anche una sera o due insieme valgono tantissimo, no?”

 

“E tu che ne sai?” gli chiese Valentina, all’improvviso, e gli prese un colpo, a maggior ragione quando aggiunse, con un sorriso, “ah, mo ho capito!”

 

“Valentì, non-”

 

“Ti riferisci a quando mamma stava in Sicilia, vero? Che tornava poche ore al fine settimana.”

 

Dire che fosse sollevato era dire poco.

 

“Eh, certo! Erano poche ore ma… erano spese bene. E, nonostante quello, direi che alla fine poi non ce la siamo cavata così male, no? Per tanti anni. Anche se è finita com'è finita.”

 

“Già… e poi mo… è finita com’è finita pure tra mamma e quello stronzo! Sai, sono un poco preoccupata per lei. Oggi l’avevo invitata ma… mi ha detto che non se la sentiva. Anche se non sembrava triste come le altre volte, più… strana, ma-” si bloccò, facendo un poi un’espressione colpevole, “scusa, forse non è un argomento di cui parlare con te.”

 

“E perché? Capisco come sta tua madre, Valentì, ed io e lei ci vogliamo ancora bene e ce ne vorremo sempre, anche se… l’amore è finito. E comunque poi la sento pure io, non ti preoccupare. Tua madre è tosta, è una che non molla mai. Ne ha passate tante e… passerà pure questa.”

 

“Speriamo!” sospirò Valentina, non sembrandogli molto convinta.

 

*********************************************************************************************************

 

“Pietto!!!”

 

Rise, trovandosi abbrancato per le ginocchia in una vera e propria morsa. Le porse il leccalecca che teneva nella mano sinistra, prima che lei potesse anche solo domandarlo, e la vide saltellare, per farsi prendere in braccio.


“Prima dò anche queste a mamma,” le rispose lui, alzando lo sguardo verso Rosa, che gli sorrideva in un modo che gli rimescolava tutto dentro, e porgendole tre rose rosse che aveva comprato dal fioraio vicino a casa di lei.

 

“Ma… ma non dovevi!” esclamò, afferrandole con un sorriso e lanciando poi uno sguardo verso Noemi.

 

“E va beh… è il tuo nome, no? E poi un poco ti somigliano… quando diventi rossa,” rispose lui, abbassandosi per prendere in braccio Noemi, che fece un risolino.


“Veo! Ose belle, come mamma!” esclamò lei, nella sua ingenuità, e Rosa, manco a dirlo, era di nuovo diventata color porpora, ma lo fece passare e chiuse la porta alle sue spalle, sembrando sollevata.

 

Del resto, sapeva benissimo che i bimbi dell’età di Noemi avevano ancora una beata innocenza.

 

“Cos’è questo profumino buonissimo?” chiese poi, avvicinandosi alla zona della cucina.

 

“Ho trovato la pietra da mettere nel forno per fare la pizza. Per intanto sto facendo un po’ di pizzelle di prova. Se ti lavi le mani, ci mettiamo a tavola.”

 

“Andiamo insieme a lavarci le mani?” chiese a Noemi, che quasi lo assordò con uno dei suoi “sììììììì!” pieni di entusiasmo.

 

Scambiandosi un ultimo sorriso con Rosa e sentendo un peso dolce sul petto che non c’entrava con la piccola peste, o meglio, non direttamente, andò verso quella che ormai sapeva essere la porta del bagno.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma ne sei proprio sicura? Non lo posso fare da me?”

 

“No. C’hai ancora le mani troppo tremanti e questa barba va levata. Prima rasoio elettrico e poi lametta!” proclamò, decisa, accendendo il rasoio elettrico che aveva comprato per l’occasione, visto che sia lei che Calogiuri normalmente usavano quello manuale, e cominciando a scorciare i ciuffi più lunghi.

 

Lo sentì sospirare ma anche cercare di rimanere fermo immobile, mentre continuava con il lavoro. Tremava comunque un poco, ma il tremolio gli peggiorava quando lo accarezzava per sollevare i ciuffi, quindi dedusse che non fosse soltanto la debolezza e le venne da ridere sotto i baffi.

 

Era bello sapere di fargli effetto pure quando in quelle condizioni.


Finita la prima rasatura, che già le restituì un uomo più simile al suo Calogiuri, prese il contenitore della schiuma da barba e se ne spruzzò una dose generosa sulla mano destra.


“M- ma sei… insomma… sei davvero sicura che…” le chiese e c’aveva uno sguardo quasi terrorizzato, mentre gli spalmava la schiuma su tutte le guance, mento e collo.

 

“Tranquillo, Calogiù, sono capace eccome! Figurati che ho usato anche il rasoio a lama a mano libera con-” esordì, ma si bloccò, rendendosi conto di cosa stava dicendo e dei ricordi che quell’occasione le riportava alla mente.

 

“Con Pietro?” dedusse lui, ma non le sembrò infastidito, solo incuriosito.

 

Per fortuna la gelosia, almeno nei confronti di Pietro, sembrava essere praticamente sparita. Era bello poterne parlare, in modo quasi rilassato.


“Sì, sì. Tra l’altro… per un attimo c’avevo avuto la tentazione di fare come Sweeney Todd, figurati!”


“Chi?” le domandò, con una confusione che la fece sorridere, perché le ricordò Noemi.

 

“Se non lo hai mai visto… c’abbiamo un film molto istruttivo da recuperare una di queste sere. Praticamente parla di un barbiere che uccideva i suoi clienti tagliando loro la gola con il rasoio. Zac!” esclamò, mentre toglieva il coprilame e gli afferrava il mento per tenerlo fermo.

 

“Menomale che questo ha la sicura!” esclamò lui, sembrando ancora un poco intimorito e facendola ridere, mentre lei dava il primo colpo di lametta e poi proseguiva in modo delicato sulla guancia destra.


Ma poi lui le prese il polso per fermarle la mano e si staccò leggermente.

 

“Scusa ma… ma perché volevi uccidere Pietro?”

 

Si rese improvvisamente conto che di quella cosa lei e Calogiuri non avevano mai parlato.

 

“Già… non te l’ho detto all’epoca perché… non mi pareva il caso e poi… non era il caso comunque, con tutto quello che ho combinato io. Ma… ti ricordi quando Pietro c’ha avuto l’intossicazione alimentare?”


“E come dimenticarmelo! Che… che ti avevo fatto quella carezza, dopo la grotta, e poi… e poi lui è stato male e poi tu… sembravi quasi avercela con me.”

 

“E tu mi hai pure fatto la scenata in ufficio! Che nessuno aveva mai osato, tranne Diana!” rise, ripensando a quei ricordi dolceamari che le erano rimasti nel cuore, “comunque… comunque ecco… diciamo che Pietro la sera delle cozze, mi disse che andava a cena con un suo collega. Ma quando si sentì male, chiamai il collega per sapere cosa avessero mangiato e lui cascò dal pero e… e poi scoprì che era stato a cena con Cinzia e che le cozze crude gliele aveva preparate lei.”

 

“Ma… ma quella Cinzia?” le chiese, sembrando sbalordito.

 

“Sì. Proprio quella Cinzia. Col senno di poi, probabilmente non era successo niente ma…” si fermò, perché Calogiuri aveva un’espressione strana, “che c’è?”

 

“Ma… ma è per questo che… che mi hai baciato?” le domandò, in un modo un poco ferito, che forse era proprio uno dei motivi per cui non gliel’aveva detto prima.


“No, no, figurati! Anzi, è proprio perché… perché mi sentivo debole e… e non volevo prendere decisioni affrettate per ripicca che… che ti ho tenuto così lontano in quei giorni. E poi, nonostante tutto, mi sentivo pure un po’ in colpa verso Pietro. Sai… quando si teme di essere stati traditi e si prova a stare dall’altra parte….”

 

“Eh… diciamo che in questo periodo mi ci sono sentito dall’altra parte.”


“E pure io. Ma… l’idea del tradimento di Pietro non… non mi ha fatto male come l’idea di essere stata tradita da te. Non lo so perché… e dire che per lui ci avrei sempre messo la mano sul fuoco.”

 

“Ma perché non me lo hai mai detto dopo?”

 

“Perché… perché forse una parte di me temeva appunto che tu pensassi alla ripicca e poi… e poi non ne avevo il diritto, di trovarmi e di trovarci un alibi e di incolpare Pietro, quando io per prima….”

 

Si sentì stringere in un abbraccio, un po’ di schiuma da barba che le finì sulla guancia e sul collo, facendole il solletico.

 

“Almeno Pietro è un poco meno perfetto di come l’ho sempre immaginato. Anche se… mo mi vorrà strozzare di nuovo, proprio ora che avevamo fatto una tregua.”

 

“Ci parlerò io con Pietro, Calogiù, non ti devi preoccupare! Anzi, visto che sta a Roma… magari almeno a lui e a Valentina possiamo dirlo che siamo tornati insieme, no?”

 

“No, no! Non… non mi voglio far vedere da Pietro in queste condizioni e neanche da tua figlia.”


“Va bene. Agli ordini, maresciallo! Certo che sei proprio orgoglioso!” proclamò, sorridendogli e staccandosi da lui.

 

“Ho imparato da te!”

 

“Ma non è vero! Eri già capatosta geneticamente, come facilmente dimostrabile, conoscendo il resto della famiglia!”

 

“Ma tu hai peggiorato la situazione!” la sfottè, dandole un pizzicotto, che presto si trasformò in un attacco di solletico vero e proprio, e si trovò sotto di lui, che non le dava tregua e poi, senza quasi sapere come, travolta da un bacio e dalla schiuma da barba, che cercavano di levarsi a vicenda dal viso, per riuscire a respirare.

 

Lo spinse fino a finirgli sopra e-

 

E sentì qualcosa.

 

Si bloccò, rendendosi conto di quello che stavano facendo, e si sollevò a sedere sulle gambe di lui, facendo forti respiri per riprendersi dal deficit d’ossigeno.

 

“Che c’è?” le domandò lui, tra un respiro e l’altro, con aria preoccupata.

 

“C’è che… che forse sei ancora troppo debole per… questo,” gli disse, perché era passata solo una settimana da quando era rientrato a casa, ed aveva preso qualche chilo ma ancora poca roba.


Lui sospirò ma poi le sorrise, pronunciando, con lo sguardo da impunito, pur in mezzo a tutta la schiuma mezza spalmata per la faccia, “il corpo sta mandando chiari segnali, dottoressa, e bisogna ascoltarlo, no?”


“Sì, bisogna ascoltarlo solo quando fa comodo a te!” ironizzò, dandogli un pizzicotto sul fianco e facendosi scappare un mezzo urlo quando si trovò di nuovo sotto di lui, avvinghiata in quello che definire bacio sarebbe stato come dire che il big bang era stato una miccetta.

 

Le mani di quell’impunito le parevano essere ovunque: tra i capelli, sotto e sopra la vestaglia - che aveva tenuto proprio per non tentarlo troppo - e la camicia da notte.

 

Mentre le mani di lui scendevano alternativamente sempre più giù e sempre più su, decise che, se era in grado di farla impazzire in quel modo, poteva reggere fisicamente pure il resto e, se no ci avrebbe pensato lei a… portare a termine la missione.

 

Lo rispinse sulla schiena, notando mentalmente quanto fosse più facile farlo rispetto a prima che succedesse tutto quello che era successo, e ripromettendosi che sarebbe stata questione ancora di poco tempo. Ma poi lui le sfilò la vestaglia, le unghie che le sfiorarono la pelle, sicuramente molto volontariamente, dalle spalle ai polsi, e tutte le voci si spensero, mentre gli levava senza troppe cerimonie la maglietta bianca, ormai piena di schiuma da barba.

 

Un secondo e si trovò di nuovo con la schiena sul materasso, e sentirlo pelle contro pelle, dopo tanto tempo, fu una scossa elettrica che le ricordò quasi la loro prima volta.

 

Si perse nei baci sulle guance, sul collo e poi….

 

E poi aprì gli occhi, perché Calogiuri sembrava improvvisamente immobile. Spalancò gli occhi, preoccupata che non stesse bene, ma trovò due iridi azzurre che la guardavano in quel modo in cui solo lui l’aveva mai guardata, come se avesse davanti il tesoro più prezioso e fragile dell’universo.

 

Ed anche questo le ricordò della loro prima volta, o meglio, della seconda, dopo la furia della passione.

 

“Che c’è?” gli sussurrò, la voce decisamente più roca del suo solito.

 

“Non sai quante volte ho sognato di poter di nuovo fare l’amore con te, qua, nel nostro letto, ma poi… ma poi tu sparivi sempre e… e mi dicevi che mi odiavi e che non mi volevi più vedere.”

 

Fu un po’ una stilettata allo stomaco, ma sollevò una mano per accarezzargli una guancia ancora umida di schiuma da barba, e lo vide chiudere gli occhi, e rifugiarcisi, in un modo che le ricordava assurdamente Ottavia.

 

“Pure io ti ho sognato sai? Tante volte,” le uscì d’istinto e lui rispalancò gli occhi e la guardò incuriosito, “ma… più che fare l’amore… diciamo che… ti punivo, maresciallo.”

 

Gli occhi di lui si fecero ancora più enormi, diventò color peperone crusco e poi… si ringalluzzì ancora di più, e le venne da ridere.

 

“Calogiuri… per certe punizioni ti devi riprendere ancora un poco, prima…” gli sussurrò e lui fece una faccia tra l’impunito ed il deluso ma poi le sorrise e fece quell’espressione, quella delle grandi dichiarazioni che solo lui sapeva fare.

 

“A me basta sapere che sei qua con me e che non sparisci più.”

 

Un groppo in gola tremendo.


“E dove vuoi che vado, con te che mi placchi così?” gli chiese, dandogli un’altra carezza.

 

E poi un bacio tenero ed un altro ed un altro ancora.

 

Gli ultimi indumenti sparirono, mentre si baciavano e si accarezzavano, lentamente, senza fretta, godendosi ogni istante, senza tralasciare nemmeno un centimetro di pelle, facendola sentire desiderata ed amata, venerata, come solo lui la faceva sentire.

 

E lei… non aveva mai amato nessuno così tanto, e lo amava sempre di più, e non capiva come fosse possibile.

 

Ma certe cose non serviva spiegarle, bastava viverle, e si perse in quelle sensazioni che le levavano il fiato e le facevano scoppiare il petto, fino alla fine.

 

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“E allora la Sirenetta, che aveva i capelli rossi come il fuoco-”

 

“Come Tata?”

 

Una domanda innocente, ma che gli fece pigliare un colpo, soprattutto quando fu seguita da uno sguardo verso Rosa ed un, “è da tanto che non vediamo Tata e cio. Domani ci addiamo?”

 

“E… ma c’è Pietro in visita, Noè: la giornata di domani è già tanto impegnata. E poi… Imma e zio hanno molto da fare.”

 

“Come papà?” chiese Noemi, con uno sguardo che dire che fosse una pugnalata era poco.

 

“Hanno un lavoro diverso.”

 

“E quando finisce?”

 

“Eh, non lo so. Spero presto,” rispose Rosa, dandole una carezza, “mo però, ascolta la storia che ti racconta Pietro.”

 

“Pietto, ma pecché alla Sienetta piaceva tanto il pincipe? Lo ha vitto una volta. Era come i leccalecca?”

 

Gli venne da ridere ed anche a Rosa.

 

“Eh… diciamo che i personaggi nelle fiabe spesso si innamorano al primo sguardo. Serve per far sbrigare le cose e perché l’amore dei grandi è più complicato, e poi non finirei mai di leggerti una storia in tempo.”

 

“E quiddi tu non ti sei mai innamoato al primo sguaddo?”

 

“No, no. A me piace il carattere, la testa, e mi sono sempre innamorato di donne con la capatosta,” le spiegò, lanciando un’occhiata a Rosa che arrossì un poco, “pure tu, mi raccomando, cerca uno che ti ami non solo perché sei bella, ma per quello che hai dentro, va bene?”

 

“Ma se è dento come fa a vedello?”

 

“I veri principi lo vedono, Noè. Altro che i rospi delle fiabe!” le sussurrò Rosa, facendole una carezza e mettendogli di nascosto una mano sulla schiena.

 

Si sentiva assurdamente felice.

 

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“Allora, come va?”

 

“Bene, a parte che sono un poco preoccupata per mia madre per… va beh i motivi li sai pure tu. E tu? Tutto bene?”

 

“Sì, sì, io sì. Ma è che… ti vedo un po’ spenta, negli occhi.”

 

Quella frase la stupì tantissimo: erano al pub per una cena tardiva ed erano pure in penombra.

 

Non sapeva come avesse fatto a notarlo, che i suoi occhi a malapena si vedevano. Ma Carlo era sempre bravo a capirla, in modo quasi straordinario, per essere un maschio.

 

“Eh… diciamo che… mi manca Penelope. Negli ultimi tempi, tra lo studio e i lavori che ha da portare poi agli insegnanti e deve fare in gruppo… ci vediamo molto poco.”

 

“Vi ammiro, sai? Io con una storia a distanza… non so se ce la farei. Ma voi sicuramente supererete tutto, ne avete passate tante!” la incoraggiò con un sorriso.

 

“E tu? Ancora niente fidanzate all’orizzonte?”

 

“Lo sai che non è facile che mi piaccia davvero tanto qualcuna. Ma aspetto, tanto non c’ho fretta. E poi… almeno ho più tempo per l’università, per la gioia di mio padre.”

 

Rise: si immaginava perfettamente Vitali a decantare le prodezze accademiche del figlio.

 

“Allora dopo il pub… che ne dici se andiamo al cinema? Così ti distrai un po’. O se no a ballare. Stavolta senza amici scemi. Scegli tu.”

 

“Ballare. Saranno mesi che non ci vado!” decise, d’istinto, “ma un posto dove facciano musica decente, non solo roba da discoteca.”

 

“Va bene, va bene!”

 

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“Ti amo…”

 

Quelle due parole, sussurrate all’orecchio, gli diedero una gioia indescrivibile a parole, che gli si fermarono in gola.

 

Si staccò leggermente da lei per guardarla, bella come forse mai prima, pure con i capelli madidi tra sudore e schiuma da barba, che parevano di un rosso ancora più intenso, gli occhi che le brillavano in un modo che per lui era sempre come un miracolo riuscire a suscitare in lei.

 

E stavolta non ci sperava proprio più… e invece….

 

La baciò, dolcemente, e poi la abbracciò forte e le accarezzò le braccia, la schiena, i fianchi, mentre pure lei faceva lo stesso, in quello che era un solletico piacevole: si sentiva in pace, tranquillo, sereno e soddisfatto come gli sembrava che fosse da una vita che non gli succedeva.


E si sentiva pure un poco stanco, ma non voleva cedere al sonno. Voleva godersi ancora un po’ il momento con Imma.

 

Lei gli sorrise e gli diede un bacio sul collo. Si sentì appoggiare il viso sul petto e poi la sentì accarezzare più in basso, sempre più in basso… che se continuava così… altro che dormire!

 

Ma poi la mano di lei si bloccò. Guardò prima le sue dita e poi gli occhi e vide che erano puntati sui famosi nei.

 

E gli prese un colpo.

 

“Imma, non-”

 

“Shhh, tranquillo!” gli sussurrò lei, sollevando di scatto lo sguardo e fissandolo in un modo quasi colpevole, che non era da lei. Ma poi si fece seria, decisa e proclamò, “troveremo chi ti ha incastrato, te lo prometto, Calogiù. Fosse l’ultima cosa che faccio!”

 

“E allora chi mi ha incastrato non ha scampo, dottoressa. E manco io, per altri motivi.”

 

Si sentì stringere fortissimo in un altro abbraccio, che non riuscì a ricambiare con la forza che avrebbe voluto.

 

Ma si sarebbe rimesso al cento per cento. Anzi, sarebbe diventato ancora più forte, in tutti i sensi, per lei e per se stesso.

 

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“E poi la Sirenetta vide il principe con una donna che aveva la sua voce e-”

 

“E si è addormentata. Prima di sentire il finale, e per fortuna che quello della Disney è meglio!”

 

“Mi sa che mi dovrò trovare fiabe per principesse più moderne ed emancipate,” le sorrise, perché, in effetti, la maggior parte delle storie tradizionali avevano relazioni di coppia che, in confronto, la sua con Cinzia era stata una passeggiata di salute.

 

Sempre se erano definibili come relazioni.

 

“Per intanto però… la Sirenetta e la pizza hanno fatto la magia,” si sentì sussurrare in un orecchio, causandogli un piccolo brivido.

 

Non poté evitare di sorriderle, lo sguardo da impunita di lei che gli causò una voglia matta di baciarla e non solo.

 

Piano piano, si alzò dal lettuccio di Noemi, spense la lucetta sul comodino e, con una lentezza incredibile ed una silenziosità invidiabile, arrivarono fino alla porta e la richiuse alle loro spalle.

 

Non fece in tempo a voltarsi verso di lei che si trovò contro al muro in un bacio che… se quello era l’inizio… sperava le coronarie gli reggessero.

 

Arrivarono a tentoni fino a quella stanza, che ormai si sognava quasi tutte le notti, e si tuffò insieme a lei sul materasso, pronto per un’altra notte indimenticabile, per vendere cara la pelle e darle tutto quello che una donna come lei si meritava.

 

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“Certo che abbiamo fatto un gran casino! C’è schiuma da barba ovunque! Credo di averne pure nelle orecchie!”

 

Il letto pareva un campo di battaglia: tutto stropicciato e pieno di residui di schiuma.

 

Ma, accoccolata a lui, non le importava niente, anche se le sarebbe dovuto toccare di cambiarlo tutto, da cima a fondo.

 

“Rimedierò.”

 

“Ma che rimedierò e rimedierò! Qua rimedio io, che tu devi stare a riposo… che… altro che riposo già hai fatto!” esclamò, non potendo trattenere un sorriso, perché Calogiuri, anche quando era lento e dolce, la mandava ai matti. Anzi, forse pure di più proprio per quello, che c'aveva avuto più tempo di torturarla, l’impunito.

 

Ed infatti lui fece proprio quello sguardo, sollevando la testa dal cuscino, ed Imma non potè evitare di scoppiare a ridere.

 

“Che c’è?”

 

“C’è che… guardati allo specchio. Mi sembri una di quelle scarpe sportive, mi sembri!”

 

Lo vide sollevarsi di schiena, guardare lo specchio dell’armadio ed arrossire.

 

La guancia dove era riuscita a rasargli qualcosa aveva una linea dritta di barba mancante poco sotto la cima, e poi una specie di sbaffo che andava all’insù, di quando lui le aveva fermato il polso.

 

“Eh va beh… dottoressa… posso rimediare pure a questo. Insomma… se sono riuscito a fare… quello che abbiamo fatto stasera… dovrei riuscire pure a rasarmi, no?”

 

“No, non c’hai ancora la mano abbastanza ferma, Calogiuri. Ed io le tue mani le conosco bene,” gli sussurrò, prendendogliene una tra le sue.

 

“Mo ti raso come si deve, poi ci facciamo una doccia e dopo cambio le lenzuola.”


“Agli ordini, dottoressa!” esclamò lui con un sorrisetto.


“E non farti strane idee nella doccia, Calogiuri!”

 

“E allora mi sa che la doccia ce la dobbiamo fare separati, dottoressa,” proclamò, mentre lei ritrovava schiuma da barba e rasoio - che menomale che non si erano tagliati! - pronta per terminare il lavoro.

 

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“D...i… la  mu…. le.”

 

“EH?!” gli urlò, perché non aveva capito niente.

 

Stavano ballando in un locale molto figo in centro, con vari DJ che mettevano musica di tutti i generi e, in quel momento, stava andando una canzone di Lauro, sulla quale stavano saltellando in un modo che le ricordò quell’epico concerto con sua madre.

 

Carlo provò di nuovo a dirle qualcosa ma lei fece cenno di non sentire.

 

E poi si trovò con un solletico nell’orecchio - che non erano solo i decibel di troppo - e si sentì urlare, “dai, la musica non è male, no?!”

 

Forse fu quello, forse le dita sulle spalle, ma ebbe come una sensazione strana, non sgradevole ma strana.

 

Lui si staccò per guardarla negli occhi, lei annuì e la sensazione passò.

 

Ma poi le ultime parole di Thoiry finirono e partì una canzone molto più lenta. Dopo qualche secondo di incertezza, sentì le mani di Carlo di nuovo sulle spalle, mentre lui la guidava in un lento a una distanza, oggettivamente, abbastanza di sicurezza.

 

Ma lei provò di nuovo quella strana sensazione e fu nel preciso istante in cui riconobbe le prime parole di Penelope - sempre di quello che si chiamava come una nave da crociera - che la colpì un’immensa fitta di senso di colpa e tutto le fu chiaro.

 

Era attratta da Carlo. Non pensava potesse succederle, ma era successo.

 

Si staccò di più da lui e quando lui la guardò, un po’ stupito, gli disse “ho bisogno di andare un attimo in bagno!” e lui annuì e, cavallerescamente come sempre, la accompagnò fino alla porta del bagno delle donne.

 

Doveva riprendersi e fare finta di niente, non doveva farne una tragedia.

 

Anche se si sentiva uno schifo.

 

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“Ecco qua! E mo fila a lavarti che cambio le lenzuola.”

 

“Posso almeno darti una mano?” le chiese, con il suo sguardo da cucciolone che usava sempre quando voleva qualcosa.

 

Tra lui ed Ottavia si erano insegnati a vicenda tutti i trucchi, mannaggia a loro!


“No, che già farti la doccia da solo è un altro sforzo. E comunque… poi dovremo pensare a questi capelli…” sospirò, perché erano ormai un po’ troppo lunghi e gli ricadevano sul viso, “io però… o te li faccio corti col rasoio elettrico o… con le forbici temo il disastro. Ma potremmo chiedere a tua sorella, no? Non hai detto che è parrucchiera, pure?”

 

“No, no, non voglio farmi vedere da Rosa così. E poi… manco mi voleva vedere, è arrabbiata con me.”

 

“Appunto! Così le spieghiamo com’è andata e fate pace, no? Da quanto è che non vedi lei e la peste?”

 

“Eh… da prima dell’udienza ma… non voglio farmi vedere da lei e da Noemi ridotto così, veramente. No.”

 

“E va bene, testone che non sei altro!”

 

“E poi… e poi io mi fido di te e delle tue mani, che le sai usare molto bene,” ironizzò lui, e stavolta fu lei a trovarsi abbrancata per una mano e seduta in grembo a lui.

 

“Stupido che sei!” gli sussurrò, prima che la bocca le fosse tappata con un altro bacio, decisamente meno tenero e più urgente dei precedenti.


“Calogiù, no!” esclamò, spingendolo sulle spalle per bloccarlo e scendendo dalle sue gambe, “non è proprio il caso di fare il bis stasera e poi devi mangiare un altro po’.”

 

“E allora… e allora mentre tu sistemi qua… io dopo essermi lavato… posso preparare qualcosa per tutti e due.”

 

“E che cosa?”

 

“Una bella cioccolata calda dici che la posso mangiare? Con panna che-”

 

“Sì, che altro che schiuma da barba! Che non ti conosco? Vada per la cioccolata, ma senza panna, che ce la siamo proprio meritati. E pure i biscotti. Ma se non ti sentissi bene….”

 

“Ti chiamo, non ti preoccupare!” sospirò lui, dandole un ultimo bacio e rimettendosi in piedi, per poi avviarsi verso la porta.

 

Come la aprì, una palla di pelo tigrata schizzò dentro, miagolando a gran voce, in tono di protesta.


“Mi sa che non è più abituata ad essere chiusa fuori. Colpa mia,” sospirò Imma, che aveva dovuto tenere Ottavia fuori dalla stanza per evitare incidenti col rasoio.

 

La miciotta le rivolse uno sguardo incazzoso, poi fece per saltare sul letto ma, non appena ci fu atterrata, emise un miagolio di spavento e si ributtò per terra, rivolgendo prima a lei e poi a Calogiuri due occhiate a dir poco schifate.

 

Con incedere regale e con un’aria di superiorità, uscì dalla stanza e si rifugiò in bagno, in un modo che le ricordò sua madre quando le aveva appena fatto un cazziatone e si allontanava per farla riflettere.

 

“Va beh… almeno forse abbiamo risolto il problema di riabituarla a dormire in bagno,” ironizzò Calogiuri, facendole l’occhiolino e sparendo poi dietro la porta.

 

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Si godeva il calore ed il profumo dei capelli di lei, gli uccellini che volavano liberi nel cielo. E poi uno si avvicinò, sulla coperta da picnic sulla quale erano distesi. Lui allungò la mano per sfiorarlo e-

 

Zac!

 

Gli afferrò il dito e glielo tirò prima piano, poi più forte, e lui non sapeva più come liberarsi e-

 

“Pietto!”

 

Si svegliò di soprassalto, il dito che gli faceva male.

 

“Pietto!”

 

Si sentì morire quando realizzò, nel tempo di un battito e di due occhioni vispi che lo guardavano, tre cose fondamentali: si era addormentato nel letto di Rosa, Noemi li aveva beccati - era lei che gli tirava il dito - e, soprattutto, era ancora completamente nudo sotto al lenzuolo e alla coperta.

 

Si sentì paralizzato, nel panico più totale - e mo come la spiegavano una cosa del genere a Noemi? Chissà come era sconvolta e-

 

“Posso dommire anche io con te e mamma?”

 

La domanda di Noemi fermò i pensieri che stavano andando a ottomila all’ora e, se da un lato fu sollevato dal fatto che - beata innocenza! - non avesse capito ovviamente nulla, dall’altro restava il fatto che era nudo e pure Rosa lo era.

 

Doveva farsi venire in mente qualcosa e in fretta, prima di causare altro che traumi.


“Ascolta… perché… perché non vai a prendere qualcuno dei tuoi peluche? Così ci facciamo un pigiama party come si deve!” le propose, sperando che il repertorio di scuse che aveva affinato per Valentina, per quanto arrugginito, ancora funzionasse.

 

“Sììììì!” esclamò lei, saltellando, felicissima, e correndo fuori dalla stanza.


“Rosa! Rosa!” chiamò subito, prendendole una spalla e quasi scuotendola - ma che sonno di pietra aveva? Beata lei! - finché finalmente la vide aprire gli occhi e chiedergli, con tono lamentoso, “Pietro? Che c’è?”

 

“Devi vestirti subito. Noemi vuole dormire con noi e sta per tornare. Non ci ha ancora visti nudi ma-”

 

Vide chiaramente che Rosa era in panico quanto lui.

 

Riuscì a fatica a rinfilarsi l’intimo ed i pantaloni - la camicia e la giacca chissà dove stavano! - e lei la camicia da notte, quando Noemi ritornò, saltellando come un uragano, quasi coperta di peluche da quanti ne aveva in braccio.

 

Li buttò sul materasso, serissima, e poi allungò le braccine per farsi sollevare sul letto.


Lanciando un’occhiata in tralice a Rosa, e verificando che anche lei fosse presentabile, la accontentò e, nel giro di un secondo, Noemi si era infilata gattonando tra loro due e sotto le coperte.

 

“Mamma, hai visto che bello, che facciamo pigiama patty? Posso stare tra di voi, vero?” le chiese, con due fanali imploranti al cui confronto la madre non era niente.

 

“S- sì, sì,” rispose Rosa, che pure nel buio della stanza era bordeaux.

 

“Pietto, mi puoi leggere un’alta storia? Ma più bella, con pincipessa meno siema!”

 

“Non sta bene definire qualcuno così!” la redarguì Rosa, anche se vedeva chiaramente che le scappava da ridere.

 

Si scervellò tra i film e le storie che aveva letto con Valentina e gli venne in mente, “e allora ti racconto la storia di Mulan. La conosci?”

 

Noemi fece segno di no con la testa e poi si afferrò i peluche, porgendogli quello viola, “sono quelli che mi hai egalato tu! Uno pe uno!”

 

“Non è un po’ tardi per le storie, Noè?” provò a convincerla Rosa, ma Noemi scosse di nuovo il capo, incrociando le braccia in un modo che fece capire chiaramente che, senza storia, non avrebbe dormito, “e va bene. Pietro, puoi raccontarle questa storia?”

 

“Tutte quelle che vuole!”

 

“Sìììì!”

 

“Non esageriamo, mo. Vuoi un po’ di latte caldo con il miele?”

 

“Sìììì!”

 

In effetti quello era un portento per far addormentare i bimbi.


“Lo vuoi anche tu, Pietro?” gli chiese con un sorriso, grato, sembrandogli un poco più tranquilla.

 

“Perché no? Grazie!”

 

Rosa si era appena tirata in piedi quando Noemi si lanciò in un, “se fate pigiama patty peò la possima votta me o dovete die pima, che invito anche Bianca!”

 

Rosa ricadde sul letto e prese a tossire, mentre pure lui sarebbe voluto sprofondare.


“Poi vediamo, Noè, poi vediamo!” esclamò infine Rosa, in quella che era la scappatoia in extremis standard di tutte le mamme del mondo.

 

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Sentì qualcosa che le faceva solletico al collo. 


“Calogiù, domani dobbiamo proprio tagliarli sti capelli!” gli disse, accarezzando le mani che la abbracciavano da dietro, nel dormiveglia dopo la cioccolata ed i biscotti.

 

Lo sentì ridere e poi un, “non sono io, dottoressa.”

 

Si girò e si trovò con Ottavia, appollaiata regalmente sui cuscini, appena sopra le loro teste, la coda che si muoveva lentamente in mezzo a loro.

 

“Ottà!” esclamò, incredula, mentre la micia sbadigliava, come se non fosse successo niente, “mi sa che abbiamo parlato troppo presto sul farla dormire in bagno. Le ho dato delle brutte abitudini, proprio.”

 

Ottavia miagolò, come segno di protesta.

 

“Senti, se vuoi dormire con noi va bene, ma sui piedi, ok?” le disse, grattandola dietro le orecchie e facendole segno verso il fondo del letto.


Ottavia si produsse in un’espressione come di chi stava per fare una grande concessione, ma poi diede una leccata a lei, una a Calogiuri, e, a passo felino e tranquillo, arrivò fino ai piedi di entrambi, sui quali si acciambellò, con un’aria da guardate che vi tengo d’occhio!

 

“Dobbiamo cercare di farle perdere l’abitudine prima dell’estate, se no i miei piedi chi li sente?” ironizzò, abbracciandolo però lei stavolta.

 

E, tra la vibrazione pulsante sui piedi ed il battito di Calogiuri sotto l’orecchio, il sonno non tardò a venire.

 

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“Allora, a quando la prossima uscita?”

 

Stava scendendo dall’auto di Carlo e quella domanda, per la prima volta, la lasciò spiazzata.

 

“Non… non lo so… ho parecchio da studiare nelle prossime settimane. Ti faccio sapere!” gli rispose, chiudendo la portiera, salutandolo ed affrettandosi a raggiungere il portoncino di casa.


Si sentiva un po’ in colpa pure verso di lui a mentirgli ma… non era proprio il caso che si vedessero, non a breve almeno.

 

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“Buongiorno!”

 

Il solletico all’orecchio e al viso gli fece aprire gli occhi e percepì una macchia rossa, labbra sulle sue e poi il sorriso di Imma, che piano piano riuscì a mettere a fuoco.

 

“B- buongiorno… ma… ma che ore sono?”

 

“Tardi, Calogiù, tardi. Quindi ti ho preparato la colazione. Da campioni, con tutto quello che abbiamo bruciato ieri.”

 

Gli mise sulle gambe un vassoio con caffelatte - anche se decaffeinato - pane tostato, marmellate, miele, frutta ed un sacco di altro ben di dio.

 

Da un lato gli faceva un sacco piacere ricevere tutte queste attenzioni da parte di Imma, dall’altro lato….

 

“Non dovevi disturbarti, lo sai che mi piace prepararti la colazione.”

 

“Appena ti riprendi recupererai, maresciallo, con gli interessi. Mo però mangiamo che poi oggi pomeriggio lo sai che viene il medico.”

 

Sospirò: non ne poteva più di sentirsi malato, anche se era indubbiamente debole.

 

“Calogiù…” la sentì sussurrare, una mano sul braccio che stava spalmando la marmellata sul pane, “lo so che… che non è facile per te… non sentirti in forze e doverti fare aiutare. Ma sarà solo per poco tempo. E poi almeno appunto ci pensi bene prima di rimetterti in una situazione così.”

 

“Lo so, ma… tu al posto mio come staresti?”


“Male, Calogiù, male, lo sai che ferma non ci so stare. Ma diciamo che… se fossi tu a tenermici a letto, per un tempo breve e limitato, potrei pure resistere.”

 

Gli venne da sorridere, nonostante tutto: gli piaceva quando Imma si esponeva un po’ di più, anche se con l’umorismo.

 

Ultimamente lo stava facendo più spesso del solito. Lui invece… la amava da morire ma… aveva sempre un poco paura che tutto quanto gli svanisse sotto le dita. Anche perché… rischiava pure la galera, se non riuscivano a controbattere alle accuse di quello stronzo di Santoro.

 

“Calogiù… senti… se… insomma… visto che mi pare che stai un po’ più in forze, perché non mi aggiorni su cosa avete trovato tu ed Irene per scagionarti? Dopo il piacere, il dovere!”

 

E non potè di nuovo evitare di sorridere: Imma sembrava leggergli nel pensiero. E poi… parlare di lavoro, pure se lo riguardava personalmente, era quello che gli ci voleva per distrarsi e sentirsi di nuovo utile in qualcosa.

 

“Niente… posso dirti cosa non abbiamo trovato.”

 

Le spiegò su cosa avevano indagato insieme ad Irene e vide Imma con quello sguardo concentrato che la rendeva irresistibile, da sempre.


“Potrebbe pure essere stato qualcuno che ti ha visto nudo prima di un anno fa. E a quel punto, chi ci sarebbe?”


“Beh… quelli delle piscine che ho frequentato ed i colleghi di spogliatoio, al corso e nelle caserme, anche se raramente ci spogliavamo proprio del tutto. Più che altro quelli del corso. E va beh… lo sai quando ci siamo spogliati noi due in pubblico, no, dottoressa? Ma non avrebbero già fatto uscire le foto?”

 

Le guance di Imma si fecero un poco rosate e prese un altro sorso di caffelatte.

 

“Forse… dubito che abbiano messo in piedi questa cosa prima delle foto tue e della cara Irene a Milano, che-”

 

Si bloccò, in quel modo che aveva, che le mancava solo la lampadina che le si accendesse sopra la testa.


“Avete pensato a… a qualcosa di molto più personale, Calogiuri? Una ex magari. Chi è che ti ha visto nudo?”

 

E fu il suo turno di imbarazzarsi un poco, più che altro perché temeva la gelosia di Imma.

 

“A parte te… solamente Maria Luisa, Matarazzo e… e Lolita.”

 

“Ma quindi qua a Roma, prima che arrivassi io, proprio niente niente? Manco una notte di follia, che ne so?”

 

“No, no. Dopo quello che era successo con Matarazzo… figurati!” ribadì e lei prima gli sorrise ma poi lo guardò di nuovo in quel modo vagamente colpevole, che proprio non era da lei.


“Va bene. Allora… Matarazzo, Maria Luisa e Lolita. Tre donne che ce l’hanno tutte a morte con te.”

 

“Sì, ma… a Maria Luisa non ce la vedo, veramente. Va bene che ce l’ha con me e che voleva vendetta ma… non è mai uscita da Grottaminarda. Tu ce la vedi ad avere a che fare con la gente che deve avere organizzato tutto questo?”

 

“Pur non avendo mai avuto il dispiacere di conoscerla, no, Calogiuri. E sinceramente neanche a Matarazzo ce la vedo. Sì, era ossessionata da te e ci ha denunciato, che quasi ci faceva sospendere, ma… sono passati tanti anni, ormai, mi auguro per lei che si sia rifatta una vita e… rischiare di perdere il suo di lavoro, immischiandosi con certi soggetti. Mi sembra troppo pure per lei.”

 

“E quindi resterebbe…”


“Lolita. Che invece sta in galera e quindi per lei… la vita si è fermata, Calogiuri. E ci starà per altri vent’anni, salvo sconti di pena, per via dell’aggravante dei futili motivi. Quando uscirà dal carcere… sarà più vecchia di me mo. Direi che se c’è un ottimo movente per covare del rancore, mi pare proprio questo.”

 

“E sta in galera a Matera, no?” esclamò lui, chiedendosi come avesse fatto a non pensarci prima, “e quindi-”

 

“E quindi lì i Romaniello sicuramente c’hanno ancora qualcuno a libro paga, Calogiù, nonostante il repulisti che abbiamo cercato di fare. E molti degli… ospiti della struttura sono stati affiliati a loro in passato. Poi magari pure qualche avvocato amico, compiacente…. Dobbiamo controllare le visite di Lolita, anche se è probabile che sia stata già contattata all’interno delle mura del carcere. Capire chi frequenta. Anche se è solo un’ipotesi, eh, Calogiuri. E non dobbiamo nemmeno trascurare le ipotesi di Matarazzo e di Maria Luisa che… che quelli… o con le buone o con le cattive… sono capaci di comprarsi quasi chiunque.”

 

“Allora… dovrei avvisare Irene, se… se per te va bene.”

 

Per fortuna, lei gli sorrise in modo rassicurante, prima di proclamare, “se è per scagionarti, sono disposta a lavorare con tutte le gattemorte del mondo.”

 

“Per te… sarebbe un problema se la facessi venire qua? Non voglio farmi vedere in giro conciato così, e poi con i giornalisti-”


“No, no, anzi. E a te… e a te dispiacerebbe se per ora in procura continuassimo a non far sapere niente di noi due, e del fatto che stiamo lavorando insieme e non solo? Visto che pure Irene non mi pare abbia coinvolto… insomma Mancini.”

 

E stavolta vide lei in apprensione, nel pronunciare quel nome, che in effetti gli fece andare il sangue alla testa.

 

Ma mo non era il momento di pensare alla gelosia. E poi lì con Imma ci stava lui e non quel beccamorto.

 

“E va bene. Tanto ancora non posso uscire, dottoressa. Meglio così, per tutti.”

 

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“E mo come facciamo? Che ci ha visti… e se lo dice a qualcuno?”

 

Visto che tanto ormai Noemi li aveva beccati, aveva passato la notte da loro ed avevano fatto anche colazione e pranzo insieme. Ma mo era ora di andare a prendere la valigia al b&b, se voleva arrivare a Tiburtina in tempo per il bus per Matera.

 

Ma le ore passate con Rosa e Noemi non lo avevano rilassato come al solito: era preoccupato, anzi, terrorizzato, all’idea di quello che poteva succedere se li avessero scoperti in quel modo, “forse è… è meglio se li preveniamo e lo diciamo noi?”

 

Rosa si morse il labbro ma poi scosse il capo.


“Per ora no, Pietro. Tanto al momento il fratellino né lo vedo né lo sento, finché non si fa perdonare. Imma, se non si fa sentire lei, io non la posso contattare. E quindi Noemi non li sta vedendo. E poi… pure Salvo sono settimane che non si vede. Lui è l’unico che mi preoccupa veramente ma… magari possiamo aspettare un altro po’, quando sarà necessario.”

 

“Veramente io mi preoccupo pure di tuo fratello, che quello, se mi mena….”

 

“Ippà dovrebbe soltanto starsene zitto, con tutto quello che ha combinato lui! Se prova a dire qualcosa, vedi! E delle mie scelte non devo rendere conto a nessuno: né a mio fratello, né al resto della famiglia… che per come hanno trattato me e Ippazio...!”

 

Gli venne da ridere: Rosa a volte era quasi più temibile perfino di Imma.

 

Ma, del resto, a lui piacevano le donne forti. Anche se Rosa aveva pure una dolcezza che Imma non aveva mai avuto. E priorità di vita molto più simili alle sue.

 

“Allora… allora… possiamo continuare a vederci nei fine settimana? Pure con Noemi?” le chiese, perché era quella la sua seconda più grande paura, a parte la reazione del resto delle famiglie, Calogiuri, De Ruggeri e Tataranni: il dover stare lontano da lei.

 

“E certo! Provaci soltanto a non venire più a Roma e ti vengo a prendere a Matera pe’ ‘na recchia!”

 

Rise e la strinse più forte che poteva: i giorni di distanza erano sempre più lunghi e difficili da sopportare.

 

Ma per Rosa e Noemi si sarebbe fatto pure tutta Italia in bus due volte a settimana.

 

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“Sono a casa!”

 

Poter di nuovo ripetere quella frase e non sentire soltanto un miagolio come risposta la faceva sempre sentire più leggera, nonostante la giornata passata sui tacchi.


“Sono sul divano!”

 

Mollò scarpe, borsa e cappotto e lo vide, seduto per fortuna, con il computer sulle gambe ed Ottavia accoccolata sui piedi.

 

“Proprio ai tuoi piedi è!” rise, perché da quando Calogiuri era tornato a casa era quasi sempre lì che si metteva, “mi sa che lo ha capito pure lei che non deve farti muovere!”

 

“E però due contro uno non è giusto!” sbuffò lui, ma poi sorrise e ci fu un attimo di silenzio.

 

E poi fece quell’espressione, quell’espressione di quando era orgogliosissimo di un’idea che aveva avuto e non vedeva l’ora di dirgliela, anche se con vari dubitativi come premessa.


“Che c’è? Hai trovato qualcosa?”

 

“Sì, sì, vieni!” la invitò, facendole segno accanto a lui sul divano e lei ci si lasciò cascare più che volentieri, appoggiandosi al braccio di lui, che era ancora troppo esile, ma che le dava tutto il calore di cui aveva bisogno.


“Allora?”

 

“Penso proprio che… Lolita una volta avesse l’amicizia con Melita sui social. Guarda questa foto!”

 

Girò lo schermo verso di lei e c’erano quattro ragazze vestite in modo molto striminzito, che circondavano quello che riconosceva come un ex calciatore ormai in pensione, ma evidentemente con ancora la passione per i party e per le belle ragazze.

 

Nonostante il trucco pesante, era indubbio che due delle ragazze fossero Melita e Lolita.


“Il post è sulla pagina di Lolita. L’avevo pure visto quando indagavamo sulla povera Donata ma….”

 

“Ma ovviamente per te Melita era un’altra sconosciuta ed in questa foto Donata non c’è. Ma… ma sei sicuro che si conoscessero? Magari avevano fatto solo una serata insieme, non è molto significativa come prova.”


“Lo so, ma… come vedi, qua sotto Melita Spaniolita ha commentato la foto di Lolita e non era taggata. La foto era aperta soltanto agli amici e quindi all’epoca doveva avere l’amicizia per poter commentare. Capisci?”

 

“No, non ci capisco niente, Calogiù,” ammise, grattandosi la testa, perché per lei i social rimanevano un mondo oscuro, “ma mi fido.”

 

“Almeno di questo…” lo sentì mormorare a mezza bocca, mentre gli occhioni azzurri continuavano a saettare sullo schermo.

 

“Ehi…” gli sussurrò, allungando la mano fino a cingergli le spalle, e, come lui si girò verso di lei, lo strinse in un abbraccio a morsa.

 

“Scusami, scusami, scusami ancora!” gli disse, riempiendogli il viso di baci, finché lo sentì sciogliersi un po’ e poi si staccò leggermente per guardarlo negli occhi, “lo so che c’ho la capatosta e che non mi fido mai di nessuno ma… ma di te mi fido Calogiuri. Da ora in poi, pure nonostante una prova contraria, te lo prometto. Non ti mollo più.”

 

Calogiuri si lasciò scappare una specie di singhiozzo strozzato e poi fu lui a stringerla, e si lasciò andare tra le sue braccia.

 

Le sembrava a volte di essere ritornati all’inizio del loro rapporto non clandestino, quando lui temeva sempre che lei sparisse. Ma c’era anche qualcosa di diverso, Calogiuri era più tosto di allora, seppur smagrito, più ombroso.

 

Ci sarebbe voluto tempo per recuperare tutto e guarire le ferite che si erano inferti a vicenda, soprattutto lei a lui, ma doveva farcela, assolutamente.

 

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“Entra!”

 

Gli occhi della gattamorta le sembrarono un poco impensieriti, nel varcare la soglia di casa sua e di Calogiuri.

 

Del resto non ci era mai venuta senza Bianca al seguito.

 

Le prese il cappotto, di un bianco schifosamente immacolato, e le fece strada verso il salotto.

 

“Calogiuri!” la sentì esclamare, vedendolo sul divano, e poi sorrise in un modo che le parve sollevato, “ti trovo meglio! Anche se ancora un po’ magrolino e con questo taglio che sembri pronto per i marines. Mi raccomando!”

 

“Tranquilla: Imma non mi dà tregua sul mangiare e, se vado avanti così, potrò cominciare di nuovo a muovermi un poco, che i muscoli qua oramai sono andati!”

 

“L’importante è che stai bene, chi se ne frega dei muscoli!” proclamò Irene, sedendosi sull’altro divano, mentre lei prendeva posto accanto a Calogiuri.

 

“Infatti, quelli dovrai recuperarli per il rientro in servizio,” intervenì lei, aggiungendo, al loro sguardo sorpreso, “perché qua dobbiamo scagionarti del tutto, senza se e senza ma, Calogiù.”

 

Lui le regalò un sorriso bellissimo, ma poi si voltò verso la cara Irene, “a che punto sono le piste che state seguendo con Ranieri?”

 

“Purtroppo non ci sono molte novità. Ma l’amica di Ranieri sta frequentando i locali preferiti dall’avvocato a Milano e a Roma. Speriamo di beccarlo.”

 

“Chi è l’amica di Ranieri?” chiese, incuriosita, anche perché ci aveva notato una nota strana in quelle parole.

 

“A quanto pare una vamp mangiauomini con la quinta di reggiseno e che fa girare la testa a tutti, oltre ad essere stata nei reparti speciali.”

 

Ammazza!

 

Si chiese se fosse più figa perfino di Irene.

 

“Menomale che sei chiuso in casa mo, almeno non possono attribuirti una storia pure con questa!” ironizzò e lui fece una mezza risata ma si vedeva che per lui era un argomento sensibile.


“In effetti… anche perché a quanto pare… diciamo che è una a cui piace molto far conquiste. Ma speriamo che ci conquisti l’avvocato, anche se l’acne giovanile l’ha superata da un po’, se mai l’ha avuta.”

 

Le venne da ridere: in fondo l’umorismo della gattamorta non era poi così male, quando non era rivolto a lei.

 

“Comunque sono felice di vedervi scherzare. E che mi sembra che abbiate ripreso tutti e due a ragionare, finalmente!”

 

Ecco la stilettata, rivolta soprattutto a lei.

 

Ma, in fondo, un po’ se la meritava.

 

“Allora, Calogiuri, mi hai detto che avevate delle nuove piste. Che avete scoperto?”

 

“Abbiamo scoperto un collegamento tra Melita e… e Lolita Tiger.”

 

“Chi??” chiese Irene, confusa, e poi spalancò gli occhi, “ma quella Lolita?”

 

Lolita non compariva nelle carte del maxiprocesso quindi… Calogiuri doveva averne parlato ad Irene, probabilmente nel periodo in cui lui era a Roma da solo e lei stava cercando di separarsi da Pietro.

 

La cosa un poco le diede fastidio, ma alla fine erano discorsi che ci stavano pure tra amici.

 

“Per fortuna non ne conosco altre,” ribattè lui, ma poi le fece uno sguardo di quelli ammirati dei suoi, che le davano sempre una botta all’autostima, e proclamò, toccandole l’avambraccio, “ma l’intuizione originaria di indagare su Lolita è stata di Imma.”

 

“Ma il collegamento su internet lo hai scoperto tu, che io non ci capisco niente!” obiettò, posando la sua mano su quella di lui.

 

Un attimo di silenzio ed udirono un sospiro e poi videro Irene alzare gli occhi al soffitto.

 

“Che c’è?”

 

“Che c’è? C’è che siete tornati ad essere terribilmente sdolcinati! Se volete esco un attimo e torno dopo,” ironizzò, Imma si sentì avvampare e notò che pure Calogiuri era sul fucsia andante.

 

Un’esclamazione di sorpresa, ma non veniva da lui ma da-

 

Ottavia?!

 

Irene aveva fatto quella specie di suono buffo, perché Ottavia le era balzata in grembo, e pareva guardarla negli occhi.

 

Per un secondo temette - o sperò - che facesse come con Mancini.

 

Ed invece, udì il rumore inconfondibile delle fusa e vide che Ottavia si strusciava sulle braccia e sulla pancia di Irene, facendole dei miagolii dolci, che raramente riservava agli estranei, se non a Noemi e Bianca.

 

Traditrice! - pensò, per un secondo chiedendosi se Ottavia avesse scambiato la gattamorta per una felina viva.

 

“Scusa… di solito… non salta così sugli ospiti. Ma non è nemmeno così affettuosa,” spiegò Calogiuri, evidentemente stupito quanto lei.


“Magari mi ricollega a Bianca, o sente il suo odore,” ipotizzò Irene, alzando lentamente la mano e dando ad Ottavia una grattata dietro le orecchie.

 

E fu allora che ci fu la Caporetto: Ottavia si spaparanzò pancia all’aria per farsi accarezzare ed Irene lo fece, con movimenti lenti e circolari, che parevano quasi ipnotici.

 

Nel giro di poco, pochissimo, Ottavia si addormentò in un’assurda posizione sul pantalone - bianchissimo pure quello, o forse non più - di Irene.

 

“O magari sente che di te si può fidare,” le toccò ammettere - anche perché la cara Irene si profumava e cambiava così spesso che l’unico odore che si poteva sentire sui suoi vestiti era quello di qualche costoso profumo e della lavanderia a secco, “Ottavia di solito sa giudicare bene le persone, forse meglio di me.”

 

Irene la guardò, sorpresa, mentre Calogiuri ancora un po’ le sputò addosso il sorso d’acqua che aveva appena preso.


Ma lei continuò a fissare la collega, in quella che era una tacita tregua.

 

*********************************************************************************************************

 

“Chi è?”

 

“Dottore, sono io. Mi scusi se la chiamo da un altro telefono, ma è una cosa riservata.”

 

“Dottoressa?!” esclamò lui, stupito, “ma come va? So di tutte le grane che ha avuto, è successo qualcos’altro?”

 

“Sì, cioè… niente di negativo, dottore. Ma ho bisogno di fare una cosa il più riservata possibile. Coinvolgerei soltanto Diana e Capozza, che comunque mi pare affidabile. Dovete cercare nelle visite ricevute in carcere da Maddalena Bartoli - insomma, Lolita Tiger - e chi frequenta in quelle mura.”

 

“Ma che c’entra mo? Il suo processo si è chiuso ormai definitivamente e sta scontando regolarmente la sua pena, mi pare.”

 

“Sì ma… c’entra perché qualcuno è stato incastrato, ne sono sicura,” disse, tutto d'un fiato, sperando che Vitali - che sapeva della relazione tra Calogiuri e Lolita - capisse.

 

“Ma… ma vuole dire che...?”

 

“Esattamente. Può fare questa ricerca?”

 

“Eh… dottoressa… nel nostro mestiere gli… errori di valutazione si pagano cari, a volte pure dopo anni,” rispose lui, facendole capire che sì, aveva compreso appieno la situazione, “va bene, l’aiuterò, Ma lei cerchi almeno di sentire la signora Diana, che è sempre più preoccupata da quando è successo tutto quello che è successo lì a Roma.”

 

“Va bene, dottore, non si preoccupi, la sentirò personalmente. La ringrazio, significa davvero molto per me.”

 

“Si figuri e… spero di avere buone notizie per lei a breve.”

 

Chiuse la chiamata e, dopo un attimo di incertezza, selezionò il contatto di Diana. Non era del tutto pronta ad essere travolta da un fiume di parole ma… via il dente, via il dolore.

 

Uno squillo e rispose.


Tipico di Diana.

 

“Imma?! Finalmente! Che non ti sei fatta sentire ed ero così preoccupata, cioè, sono così preoccupata e-”

 

“Diana, Diana!” la bloccò, perché era proprio questo il motivo per cui non l’aveva chiamata prima, “scusami ma… non c’avevo voglia di parlare e di confidarmi, avevo bisogno di starmene da sola. Lo sai come sono fatta, no?”

 

“Sì, sei fatta male, sei fatta! Se non c’avessi la testa dura che c’hai, magari vivresti meglio e pure da mo, ma tu niente, proprio, di coccio, sempre, che bisogna andare a stanarti per farsi dare retta!”

 

“Diana, così sono e se non sono cambiata in quarantasette anni è difficile che lo faccia mo.”

 

“Lo so, lo so,” sbuffò Diana, facendo un rumore tremendo nel microfono del telefono, “ma allora come stai? Che con tutto quello che è successo, e poi-”

 

“Meglio, Diana, sto meglio, grazie.”

 

“Ma davvero non c’è niente tra te e Mancini? Che sempre i più fighi ti toccano, beata te, e-”

 

“Diana, te l’ho già detto, che non mi conosci?”

 

“Sì, ti conosco, ma ti ho pure vista nel tuo ufficio con Calogiuri mentre… ancora con Pietro stavi, quindi mo non fare tu la Santa Maria Goretti con me!”

 

Si imbarazzò per un secondo, perché era vero.

 

“Eh… ma Calogiuri… Calogiuri era un’altra cosa.”

 

“Eh… lo so Imma, ma a volte non è mica facile capirti. Però… sì, da come eri presa per… va beh… per Ippazio, un poco mi avrebbe sorpreso ma… Mancini è proprio figo, ma figo-”

 

“Ma non basta essere fighi per far innamorare qualcuno. Come dimostrato perfettamente dal tuo innamoramento inspiegabile nei confronti di Capozza.”

 

Un altro sospiro.

 

“Però ti sento… serena… stranamente… non me lo aspettavo.”

 

“Più o meno, Diana, più o meno… perché… finalmente ho capito molte cose.”

 

“E che cosa?”

 

Prese un respiro: era il momento della verità e sperava che Diana la capisse dalle poche parole che aveva intenzione di pronunciare.

 

“Ho già avvertito Vitali ma… tu e Capozza - con discrezione stavolta! Massima discrezione! - dovete controllare tutte le visite a Maddalena Bartoli e chi frequenta in carcere.”

 

“Ma chi? Lol-”

 

“Esatto!” la bloccò, prima che chiedesse troppo.

 

Silenzio, tanto che temette fosse cascata la linea - o Diana.

 

“Ma… ma non crederai che…?” domandò, sconvolta, per poi aggiungere, in un tono miracolosamente basso che non era da lei, “però in effetti… cioè-”

 

“Diana, ci siamo capite.”

 

“Sì, sì.”


“Allora, me la dai una mano?”

 

“E va bene, Imma. Anche se sono un poco offesa che mi chiami solo quando ti servono favori. Ma sono felice che ti fidi di me e pure di Capozza, anche se me lo maltratti sempre. Ma lo so che, in fondo in fondo, gli vuoi bene.”

 

“Sì, ma molto, ma molto in fondo!” ironizzò, nonostante le toccasse ammettere che Diana con il brigadiere sembrava felice più di quanto fosse mai stata con quel cretino dell’ex marito.

 

“Senti, Imma, ma… Pietro lo hai visto ultimamente?”

 

“Piè? Sarà più di un mese che non lo vedo, perché?”

 

“Perché, Imma, non so se sarà che vale il detto mal comune mezzo gaudio, ma nell’ultimo periodo è sempre più giovanile, pare un altro! Figurati che ho sentito tre mie amiche che lavorano in regione commentare quanto è affascinante e bello e impossibile!”

 

“Oddio, Pietro c’ha sempre avuto il suo fascino e non è mai stato brutto, anzi, però bello e impossibile forse mi pare un po’ troppo!”

 

“Appunto, Imma, appunto! Pietro è stato sempre più un... prodotto di nicchia, con tutto il bene, eh, ma mo va via come il pane. O andrebbe via come il pane, perché lui niente, a quanto pare, le rifiuta tutte.”

 

“Dopo me e Cinzia… se avesse deciso di darsi alla vita monastica lo capirei pure, Dià,” scherzò, mentre si chiedeva chi fosse la famosa donna di cui Pietro era così innamorato da rifiutare tutte queste pretendenti e rifiorire in questo modo.

 

Magari ce l’aveva fatta ed era per quello che era così ringalluzzito. Avrebbe dovuto indagare, la volta successiva in cui si sarebbero visti. Ma per un po’ non se ne parlava proprio.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ci sono novità sulla violenza di gruppo avvenuta qualche giorno fa al parco, diamo la linea al nostro inviato-”

 

Sentì le spalle di Imma tendersi, sotto al braccio che ci aveva appoggiato. Le lanciò un’occhiata e notò che i lineamenti erano contorti in una smorfia.

 

“Sono proprio dei bastardi!” le sussurrò, ma lei fece come uno scatto, come se fosse stata altrove col pensiero, e poi incrociò i suoi occhi.

 

“Non è questo, Calogiù. Cioè si, sono dei bastardi ma… sto pensando ad un caso che sto seguendo con Mariani. Ci sono due uomini che hanno stuprato una povera ragazza. E io so chi sono, ne sono sicura, ma non so come provarlo. Ho solo il presunto DNA di uno dei due, ma l’unico interrogabile è l’altro.”

 

“E quando mai questo ti ha bloccato prima? Bluffa, no?” le suggerì, perché era stata proprio lei ad insegnargli come fare.

 

“Eh… ma quello che posso interrogare mica è scemo, e poi c’aveva su il preservativo e-”

 

Imma di nuovo si bloccò, con gli occhi spalancati, e si sentì schioccare un bacio sulle labbra, “sei un genio, sei!”

 

“Sì, che è? Il complimento al ciuccio?”

 

“No, no! Sei veramente un genio, Calogiù! Ti dispiace se chiamo Mariani e lavoro per un po’? Che devo organizzare una cosetta….”

 

Il tono e lo sguardo di lei gli strapparono un sorriso, mentre sentì un qualcosa smuoversi dentro, “no, anzi. Mi manca tantissimo lavorare con te e vederti in azione tutti i giorni. Se ti posso aiutare, lo faccio volentieri!”

 

“E allora al lavoro, Calogiuri!”

 

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“Dottore. Devo farle i complimenti, lo sa? E pure le congratulazioni!”

 

“Ah sì?”

 

Era un osso duro il commercialista, aveva risposto a questa boutade senza scomporsi.

 

“Sì. Devo dire che è stato molto bravo a ripulire tutto e a cercare di non lasciare prove. Ma una prova vivente, purtroppo per lei, l’ha lasciata.”

 

“Che vorrebbe dire? Non la seguo.”

 

“Voglio dire che Giulia è incinta e che, dai test del DNA sul feto, hanno chiaramente rilevato che il profilo genetico è estremamente compatibile con quello di suo figlio. Fratelli, per la precisione. Quindi… facendo due più due….”

 

Pregò che l’uomo non sapesse quante settimane di gestazione ci volessero in realtà per fare un test del DNA fetale.

 

Lo vide sbiancare, poi diventare di tutti i colori ed iniziare a sudare copiosamente, “non è possibile, ci deve essere un errore, non è possibile!”

 

“Il DNA non sbaglia mai, dottore, certo che è possibile e-”

 

“No, non è possibile, le dico! Avevo il preser-”

 

Si era bloccato di scatto, tappandosi la bocca, ma ormai era troppo tardi.


“Il preservativo, dottore? Eh, lo sappiamo. Ma sappiamo pure che non era da solo. Mariani!”

 

Ad un cenno, Mariani proiettò il filmato dello stupro sul telo che aveva fatto srotolare apposta.

 

“Quel deficiente!” lo sentì sussurrare a bassa voce.


“Eh, dottore, il suo caro collega ed amico, oltre a non essersi saputo tenere il filmato per sé, non è manco riuscito a tenersi il DNA per sé. Sappiamo tutto. Se mo ammette e confessa quello che è successo, ha qualche speranza di cavarsela con meno anni. Se lo fa prima il collega….”

 

“Se… se confesso... è possibile che la mia famiglia non ne sappia niente?”

 

“Ovviamente no, visto che ha stuprato una ragazza e non ha rubato un pacchetto di caramelle. Ma ne terremo conto sulla pena da scontare e mi creda, le conviene. Se no almeno diciott’anni non glieli leva nessuno, vista anche l’aggravante dell’uso di narcotici e della diffusione di materiale pornografico. Se confessa dimezza la pena, anche se io gliela farei scontare tutta. In carcere con quelli come lei ed il suo amico… non ci vanno giù leggeri. Magari può avere l’isolamento, almeno per un po’, e poi altri benefici. Anche perché… come abbiamo trovato questo video… possiamo trovarne molti altri delle sue feste precedenti.”

 

Il commercialista, o quello che rimaneva, era ormai una specie di lenzuolo grigio e sudato.


“Va… va bene… confesso. Lasciavo la casa a mio figlio e… le attrezzature per i festini, ma… a volte partecipavamo pure noi.”

 

“E suo figlio ovviamente lo sapeva.”

 

Si chiese se avrebbe tradito pure lui o se almeno sul figlio avrebbe provato a negare.

 

“Sì, sì….”

 

Ecco, vigliacco e traditore pure col sangue del suo sangue, dopo averlo cresciuto così bene, poi.

 

“Mio figlio ci portava spesso ragazze nuove, conosciute da poco. Poi i ragazzi andavano nelle loro stanze, con le loro conquiste e… e noi uscivamo quando avevamo campo libero e… insomma. Ma non deve pensare che siano sempre state violenze, anzi, nella maggior parte dei casi le ragazze erano consenzienti, in cambio di soldi o di regali.”

 

“Vista l’età di suo figlio e delle ragazze che frequenta, ho un’altra idea di consenso, ma vada avanti.”

 

“Stavolta… stavolta quel cretino di Lucio-”

 

“Il suo socio?”

 

“Sì. Lucio si era fissato con questa ragazza, Giulia. Bella, per carità, ma che se ne è stata sempre in disparte per tutta la sera. A lui… a lui piacciono di più quelle così.”

 

Se pensava di aver raggiunto l’apice dello schifo, sapere che il fatto che Giulia fosse più timida e riottosa l’aveva resa una vittima ancora più appetibile, fu pure peggio.

 

Ma del resto lo stupro era basato sul controllo, il sesso in sé c’entrava solo in minima parte.

 

“E come facevate a vedere tutte queste cose, visto che stavate nell’altra stanza?”

 

“Con le telecamere. Le abbiamo tolte prima che voi arrivaste ma… le teniamo sempre per sicurezza e per controllare le feste. Abbiamo fatto in modo che… che le mettessero del GHB nel cocktail.”

 

“Chi?”

 

“Il ragazzo che stava al bar. Lui e mio figlio sono sempre stati d’accordo. E poi… quando gli altri si sono ritirati, l’abbiamo portata in camera. Ma quel cretino di Lucio, oltre a fare le riprese, non ha voluto mettersi il preservativo, a tutti i costi, e quindi-”

 

“E quindi la ragazza si è accorta del rapporto sessuale,” concluse, nauseata, facendo un cenno a Mariani, “dobbiamo convocare l’altro socio per interrogatorio e DNA. E pure suo figlio. Del resto… con un padre come lei… come poteva diventare? Anche se magari almeno lui è ancora in tempo a rendersene conto e a cambiare. Mariani, lo accompagni fuori, è ufficialmente in stato di fermo.”

 

“Ma… ma… e… e il bambino… veramente è… è mio?”

 

“Per fortuna sua e del suo socio, non c’è nessun’altra creatura innocente in mezzo a questo schifo. Solo delle tracce di pessimo DNA, che se non fosse mai stato trasmesso ai posteri, sarebbe stato decisamente meglio. Mariani, lo accompagni fuori!”

 

“Con molto piacere, dottoressa!” esclamò Mariani, mettendogli le manette e poi tirandolo su per le braccia.

 

Per Giulia almeno probabilmente ci sarebbe stata giustizia anche se… la sua vita non sarebbe mai stata quella di prima.

 

Sperava davvero non gliel’avessero rovinata per sempre e che sarebbe riuscita a combattere, alla faccia di quei maiali.

 

*********************************************************************************************************

 

“E allora, avete trovato qualcosa?”

 

Fece un cenno a Gianni - che le parve un poco titubante - di procedere prima lui col computer che aveva in mano.


Era sempre così insicuro e modesto, il suo Capozza.

 

Ed infatti piazzò il laptop davanti a Vitali senza dire niente.

 

“Sì, dottore,” si inserì, perché le toccava a sto punto, per non fare una figuraccia, “il brigadiere Capozza ieri ha riconosciuto uno degli uomini che sono andati a fare visita alla Bartoli l’estate scorsa. Ed ora glielo mostra.”

 

Almeno su quello, Gianni si decise e fece vedere al procuratore capo il filmato.

 

“Questa faccia mi è familiare…” annuì Vitali, concentrato.


“Sì, è un nipote di ‘Ndrina Mazzocca, dottore. Sicuramente un affiliato, anche se non lo abbiamo mai beccato.”

 

Sandra, detta ‘Ndrina, era la matrona del clan.

 

“Si chiama Giosef Montemurro, scritto con la G e la F,” chiarì Capozza, che era dal giorno prima che si rallegrava che sua figlia non si fosse vista appioppare nomi strani del genere.

 

“Insomma… un crimine pure contro l’anagrafe e l’onomastica internazionale. In effetti la coincidenza pare alquanto sospetta. Altro?”

 

“Sì, dottore, questo video è di un mese prima che Melita cominciasse a frequentare l’avvocato - per fortuna dopo quanto successo con i Romaniello teniamo le registrazioni molto più a lungo ed in un posto più sicuro - e guardi a questo punto la mano,” continuò a spiegare il suo Gianni, in un modo che la riempì d’orgoglio, facendo zoom sulla mano di Lolita e su quella del Montemurro.

 

“Ma questo… ha qualcosa in mano.”

 

“Sì, probabilmente un pizzino. Lei lo passa a lui e lui se lo nasconde nella manica. E chissà che c’era scritto sopra.”

 

“La posizione di alcuni nei, magari?” dedusse Vitali, facendogli un sorriso, “e bravo Capozza! E ovviamente a lei, signora De Santis. Purtroppo non abbiamo prove di cosa ci fosse scritto ma… è un’altra conferma ed un punto di partenza. Dobbiamo avvertire la dottoressa, con discrezione.”

 

“Non si preoccupi, dottore, mi sto mettendo d’accordo con il maresciallo per una linea criptata sulla quale passarci i documenti. Saremo discretissimi.”

 

“Eh, speriamo, che qua ne sono già successe troppe, brigadiere. E, se fa uno sbaglio, la dottoressa ci taglia la capa a tutti e tre.”

 

*********************************************************************************************************

 

“Non è una prova, ma almeno abbiamo stabilito un altro legame oltre all’amicizia sui social e alle frequentazioni in comune.”

 

Irene, dopo aver visionato il filmato, sembrava più prudente di lei e Calogiuri, ma Imma sapeva di essere sulla pista giusta.

 

“Dobbiamo rintracciare Melita per avere un confronto con lei.”

 

“Imma, lo sai che di Melita si sta occupando Mancini: io per conflitto di interessi non me ne posso più occupare. Non so dove si trovi al momento e, in ogni caso, non sarebbe saggio che tu o Calogiuri aveste altri contatti con lei. Al massimo io.”

 

“Lo so, ma… proprio per questo penso sia giunto il momento di avvertire Mancini. Non è ancora una prova schiacciante, ma due indizi di questo tipo è difficile che siano una coincidenza. E più aspettiamo a coinvolgerlo e più sarà difficile farlo: già così temo molto la sua reazione.”

 

“Per una volta siamo d’accordo, Imma. Perché non lo invitiamo qua? Almeno possiamo parlargli in privato, visto che Calogiuri in procura non ci può mettere piede.”

 

Esitò per un istante: Mancini a casa sua le portava alla mente cose che era decisamente meglio scordare e che la mettevano molto in imbarazzo.

 

E poi….

 

“Ma non gli sembrerà un agguato?” le domandò ed Irene fece una faccia meravigliata.


“E da quando ti fai i problemi a fare gli agguati alle persone, Imma? Pure al capo?” la punzecchiò, ed il peggio fu sia l’aria rabbuiata che assunse Calogiuri, sia il fatto che Ottavia scelse quel momento per saltare di nuovo in braccio a Irene, con uno sguardo di approvazione.

 

Ottavia… anche lei era un altro problema… visto quanto aveva in simpatia Mancini.

 

“Eh… con questo capo è giusto farseli i problemi, invece,” esclamò Calogiuri, con le braccia incrociate.


Temeva moltissimo a cosa stesse pensando.

 

“Cosa c’è? Mancini ancora non si è rassegnato, Imma?”

 

Il commento di Irene la prese in contropiede.

 

“Ma come-”

 

“Giorgio non mi ha mai parlato della sua… propensione nei tuoi confronti… chiamiamola così. Ma lo conosco da una vita e… so riconoscere perfettamente quando è preso da qualcuno, visto che non capita quasi mai. Gli ho detto di lasciar perdere ma… su di te gli uomini hanno una testa particolarmente dura, Imma, per qualche strano motivo.”

 

Si sentì le guance calde, immaginando con orrore Mancini e la gattamorta che disquisivano di lei. Anche se Irene, a quanto pare, le aveva pure fatto un favore.

 

“Diciamo che… gli ho ribadito un paio di volte ultimamente che… non c’è trippa per gatti,” spiegò, ed Ottavia fece un’espressione schifata della serie - la trippa te la mangi te! - e poi cercò di chiarire, senza rivelare troppi dettagli ad Irene, che non era il caso, “ma… il fatto che mi sono lasciata con Calogiuri - e che ufficialmente ancora non siamo tornati insieme - oltre… ad alcuni miei errori di valutazione… gliele hanno riaccese le speranze. E non so se si siano spente del tutto, anche se mi auguro di sì.”

 

“Le speranze di Giorgio in ogni caso sono un problema suo,” replicò Irene, con una decisione inattesa, visto l’affetto per il procuratore capo, “non devono influire sul lavoro, né sul giudizio riguardo a ciò che abbiamo raccolto. Per arrivare a Melita dobbiamo passare da Giorgio, non si scappa. So che tra lui e Calogiuri non è mai corso buon sangue… soprattutto dopo che si sono messi a tirare di boxe… ma… Giorgio non è una persona irragionevole ed ha a cuore la giustizia più di ogni altra cosa. Devi chiamarlo e convincerlo a raggiungerci qui, Imma, sono certa che capirà. Avrà i suoi difetti, ma lo sai anche tu che scemo non è, anzi.”

 

Calogiuri non pareva esattamente entusiasta della proposta e manco lei ma… che poteva fare?

 

Non c’erano alternative, senza il rischio di una fuga di notizie.

 

Con un sospiro, prese il cellulare e selezionò il contatto del procuratore capo.

 

Uno squillo e sentì un “pronto?” affannato - che quasi batteva il record di rapidità di risposta di Diana.

 

“Dottore? Tutto bene?”

 

“Sì, sì, mi scusi ma mi stavo allenando. Mi dica: è successo qualcosa, per chiamarmi di sabato?”

 

“Sì. Le devo parlare. Potrebbe… potrebbe venire a casa mia? Urgentemente, se possibile?”

 

Non udì nulla per un po’ se non il respiro affannoso di Mancini e pensò che stesse per mandarla a quel paese.

 

“Mezz’ora e sono da lei!” rispose invece, mettendo giù la chiamata.

 

“Che ha detto?” chiese subito Irene, mentre Calogiuri era rintanato nel suo angolo del divano.

 

“Mezz’ora ed arriva.”

 

“Visto?” le chiese Irene con un sorriso, ma Calogiuri era tutt’altro che sorridente, anzi.

 

*********************************************************************************************************

 

Il campanello per poco non la fece saltare sul divano.


Era già quello dell’appartamento: come minimo qualcuno, tanto per cambiare, aveva lasciato aperto il portoncino di sotto.

 

Irene le fece un cenno ed annuì, perché doveva essere lei a rispondere alla porta, per ovvi motivi.

 

Ottavia era stata messa in bagno e Calogiuri era ancora con quell’aria ombrosa - che le ricordava pure quella del periodo di Lolita - seduto rigido come un palo.

 

Si alzò ed andò verso l’ingresso, chiedendosi come avrebbe fatto a spiegare e a farsi ascoltare. E pure se c’avrebbe ancora avuto un incarico dopo quella sera.

 

Afferrò la maniglia, girò la chiave nella toppa ed aprì.


“Buonasera!”

 

Non avrebbe saputo dire cosa fosse peggio: se il sorriso smagliante di Mancini, se il suo tono entusiasta, se il completo elegantissimo, se il mazzo di rose rosse che le stava porgendo o se la magnum di champagne che reggeva nell’altra mano.

 

Merda!


Nota dell’autrice: Ed eccoci qua, alla fine di questo nuovo capitolo. Imma e Calogiuri stanno cercando di recuperare loro stessi e la loro quotidianità, ma ovviamente quello che è successo sta avendo ancora un po’ di ripercussioni sul loro rapporto. Ora Mancini si è presentato lì, convinto che la telefonata fosse un via libera di Imma e… vedremo come reagiranno tutti, soprattutto Calogiuri, in questa situazione imbarazzantissima.

Nel prossimo capitolo ci saranno ancora molto rosa e molto giallo, con molti colpi di scena, mentre Imma e Calogiuri cercano di fare luce su chi lo ha incastrato e sui punti oscuri del maxiprocesso, ma non sarà facile.

Spero che la storia continui a piacervi e ad intrattenervi e vi ringrazio tantissimo per avermi letta fin qui. Grazie di cuore a chi mi ha recensito e mi recensirà: i vostri commenti mi danno sempre una grande carica e motivazione, oltre ad essere preziosi per capire come sta procedendo la scrittura e le cose da limare. Un grazie speciale anche a chi ha inserito la mia storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 13 giugno: in caso di problemi e ritardi vi farò sapere sulla pagina autore.

Grazie mille ancora!

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Capitolo 62
*** L'Assalto ***


Nessun Alibi


Capitolo 62 - L’Assalto


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Do- dottore….”

 

E mo che faccio? E mo che faccio?!

 

Era nel panico più totale: Mancini che sorrideva, bello bello, conciato come George Clooney in uno spot di bevande da aperitivo - soltanto più ricco, visto il costo della marca di champagne che recava in dono - ignaro di quello che sarebbe successo di lì a poco. Non solo della figuraccia tremenda che stava per fare lui, ma pure di quanto la stava per inguaiare, che Calogiuri chissà che avrebbe pensato.


Ed il tutto sotto gli occhi della cara Irene.

 

“Allora, non mi fai entrare?” le chiese, ed il passaggio al tu la preoccupò ancora di più.

 

Aveva frainteso tutto il fraintendibile, mannaggia a lui!

 

Sentì un rumore dalla sala, si voltò d’istinto e Mancini le chiese “non dirmi che la tua gatta è ancora sul piede di guerra, se no a saperlo venivo con i parastinchi.”

 

“No, ma… ma forse sarebbe stato meglio,” sospirò, sapendo che non c’erano alternative, anche se la scusa di Ottavia incazzosa le sembrò improvvisamente molto allettante.


Ma dovevano parlargli per scagionare Calogiuri, e non c’era un motivo credibile per cui Mancini fosse arrivato fino a lì senza poi entrare, da raccontare a Calogiuri e ad Irene,

 

“Prego…” gli fece segno, prendendo il mazzo di rose e provando anche ad afferrare la magnum, per sicurezza, ma lui scosse il capo e proclamò con un sorriso, “è pesante. Tranquilla, la metto io sul banco-NE?”

 

Dall’esclamazione, e dal modo in cui si era bloccato all’improvviso, che tra un po’ non gli pungeva la schiena con le rose - che solo quello ci mancava! - Mancini si era evidentemente accorto di chi c’era in salotto.

 

Fu una scena surreale, quasi al rallentatore: vide la magnum cascare dalla mano di Mancini, mentre Calogiuri si alzò, con uno sguardo prima incredulo e poi di quando prometteva guai, guai seri. Irene balzò in piedi accanto a lui, con l’aria di chi non sapeva se ridere o se piangere, il tutto mentre lei urlò, cercando di buttarsi verso la bottiglia - prima di trovarsi il corridoio allagato da champagne! - le rose che caddero a terra.

 

Ma la magnum finì lo stesso sui piedi di Mancini, che lanciò un urlo, e le riuscì infine di afferrarla, prima che rimbalzasse sul pavimento.

 

E poi il rallenty si concluse, con lei in ginocchio per terra, con una bottiglia pesantissima in braccio, Mancini che continuò a lamentarsi, tenendosi i piedi, e Calogiuri che si diresse verso di loro, ma che venne bloccato da Irene, che si frappose fisicamente fra Calogiuri e lei e Mancini, piazzandosi all’ingresso del corridoio.

 

Ci fu un attimo di perfetto silenzio, in cui il procuratore capo smise con le esclamazioni di dolore e tornò dritto, rigido come un palo, ed in cui Irene lanciò un’occhiata a Calogiuri come a dirgli non fare lo scemo.

 

Ma Calogiuri stava guardando lei, solo lei, e quello sguardo tra incredulità, rabbia e delusione fu peggio che se la magnum le fosse finita direttamente sullo stomaco.

 

Era dai tempi di Lolita che quello sguardo non prometteva niente di buono, anzi, ma così deluso non l’aveva mai visto. Forse soltanto quando non lo aveva portato con sé a Matera prima e durante il divorzio, anche se in modo diverso, ovviamente.

 

E poi Irene ruppe il silenzio e l’immobilità, abbassandosi per toglierle la magnum dalle mani, raccogliendo i fiori da terra e rivolgendosi a Mancini con un “niente di rotto, spero?”, per poi, al diniego un poco incerto di lui, voltarsi verso Calogiuri e fargli un cenno che voleva passare. Quando lui si spostò, andò diretta al bancone per appoggiarci la magnum ed i fiori mezzi andati. Infine, come se nulla fosse successo, si sedette sul divano.

 

Calogiuri di nuovo si voltò a fissarla, poi lanciò uno sguardo in tralice a Mancini, che stava con la bocca ancora mezza aperta, di nuovo la guardò e le porse la mano, per aiutarla a tirarsi in piedi, visto che stava ancora in ginocchio.

 

Lei gli afferrò le dita e si lasciò aiutare, non riuscendo ad evitare una smorfia di dolore quando le ginocchia si fecero sentire con due fitte da capogiro - l’attendevano dei bei lividi, come minimo!

 

Calogiuri la sorresse e le parve preoccupato, con un “stavolta ci mettiamo subito il ghiaccio!” che la riportò dritta dritta a quando Angelo Latronico aveva tentato di sparare loro addosso nel capannone a Matera.

 

“Tranquillo, non è niente,” lo rassicurò, intenerita, ma percepì immediatamente, dalla tensione del braccio che teneva il suo e dall’ombra nell’espressione di lui, che la preoccupazione e l’emergenza erano una cosa, il fatto che fosse nero come la pece con lei e con Mancini un’altra.

 

Ma, alla fine, lui si avviò piano piano verso il divano, e lei ci si lasciò accompagnare e, quando ci si fu quasi accasciata, notò due cose: che Calogiuri continuava a fissare alternativamente bottiglia, rose e Mancini e che quest’ultimo era ancora bloccato all’ingresso.

 

“Giorgio, riesci a camminare fino a qua? Non restare lì impalato!” esclamò Irene, sempre con una nonchalance invidiabile, come se fosse tutto quanto normalissimo, un ritrovo serale come tanti altri.

 

Si chiese se fosse la scuola di recitazione, gli anni di studio come carabiniere prima e PM poi, o gli insegnamenti della sua famiglia altolocata.

 

Mancini fece un mezzo salto, come se si fosse riscosso da un’ipnosi e, seppure con un’aria un poco dolorante, fece qualche passo verso di loro, fermandosi però ad una certa distanza dal divano.


“Che significa?” chiese poi, rivolto a lei e ad Irene, sembrando ignorare o quasi Calogiuri, anche se si stava chiaramente riferendo a lui.

 

“Me lo chiedo pure io….”

 

Era stato solo un sussurro, ma l’aveva sentito forte e chiaro, come aveva percepito benissimo il tono di Calogiuri, che definire irritato e deluso sarebbe stato riduttivo.

 

Lo guardò, ma lui pareva fissare un punto sul pavimento di poco davanti a lui. Le braccia incrociate al petto.

 

Marcava malissimo, marcava!

 

“Non devi prendertela con Imma, convocarti qua è stata un’idea mia,” intervenne Irene, con un tono conciliatorio.

 

“Un’idea tua? Non sapevo che… che ora andaste così d’accordo, tutti e tre, più che altro.”


“Ci sono alcune cose che non sai e che dobbiamo raccontarti, ora che c’abbiamo le prove. Dai, siediti che ti spieghiamo,” lo invitò nuovamente Irene e se, normalmente, Imma si sarebbe incazzata tantissimo a vedere un’altra fare la padrona di casa a casa sua, in questo caso era più che grata per l’aiuto, se serviva a sciogliere un minimo la tensione e a farsi ascoltare da Mancini.

 

Il procuratore capo sospirò, poi la guardò in un modo, pure lui tra l’incredulo, il deluso ed il ferito - anche se sembrava pure parecchio imbarazzato - ed, infine, prese posto sull’ultima poltrona disponibile.

 

“Allora, che significa? Che ci fa lui qua?” chiese, in tono più composto, indicando con un cenno del capo Calogiuri, ma senza guardarlo realmente, per poi rivolgersi a lei con un’occhiata a dir poco penetrante, “mi sa che mi sono perso un po’ di cose, dottoressa.”

 

“Calogiuri è qua perché questo è il posto suo,” rispose, decisa, lanciando di rimando uno sguardo di sfida a provare a dire il contrario, e vide come Mancini si sgonfiò quasi subito, l’imbarazzo ed un’aria sofferente che presero il posto a tutto il resto, “ed è il suo posto perché mi fido di lui e perché mi ha dimostrato che posso fidarmi di lui. E mo abbiamo le prove, e non solo delle supposizioni, che lui è stato incastrato del tutto, da Melita, dall’avvocato e dalla cupola. E sappiamo pure come, ma abbiamo bisogno del suo aiuto, perché dobbiamo parlare urgentemente con Melita, che è in pericolo pure lei, anche se magari non se ne rende conto.”

 

Qualche attimo di silenzio totale e lanciò uno sguardo a Calogiuri ma lui, anche se pareva meno rigido di prima, guardava comunque verso il procuratore capo, con anch’egli un’aria quasi di sfida.

 

Forse per quello, forse per le sue parole, ma il volto di Mancini si trasfigurò di nuovo in una smorfia di rabbia.

 

“Quindi avreste fatto delle indagini, di nascosto, tutti e tre insieme?! E-”

 

“Di nuovo, la responsabilità è principalmente mia. Conosco la tua posizione, Giorgio, ma conosco anche bene Calogiuri, ed ero certa che non avrebbe mai potuto né mentire in tribunale, né tradire Imma. Abbiamo iniziato un’indagine io e lui, come tu avevi sicuramente già capito settimane fa, ma poi… anche Imma, passata la comprensibile rabbia iniziale, ha capito. E per fortuna, visto che è grazie alle sue intuizioni se abbiamo avuto le svolte che abbiamo avuto.”

 

“Oltre alle ricerche informatiche di Calogiuri, che sono state fondamentali,” precisò lei, ignorando il modo in cui Mancini la fulminò ancora di più: era pronta a vendere cara la pelle, fino in fondo, anche perché non c’era solo la sua di pelle in gioco.

 

Notò lo sguardo stupito di Calogiuri, ma, come i loro occhi si incrociarono, lui voltò di nuovo il capo e tornò a fissarsi in cagnesco con Mancini.

 

“Visto che ormai l’agguato me lo avete fatto…” pronuncio quest’ultimo, rivolgendosi soprattutto a lei e ad irene, “vi ascolto, tanto orm- AHIIII!”

 

Accanto a lei, Calogiuri fece un balzo per la sorpresa, mentre, al solo sentire l’urlo di dolore del procuratore capo… lei… altro che sorpresa!

 

Guardò verso i piedi di Mancini, temendo e sapendo già cosa ci avrebbe trovato. Ed infatti ci vide Ottavia che, chissà come, non solo era evasa dal bagno, ma gli si era avvicinata quatta quatta, tanto che non si erano accorti di lei fino all’ultimo - alla faccia dell’agguato!

 

I costosissimi pantaloni del completo erano un’altra volta ridotti a stelle filanti, il polpaccio che aveva i segni dei graffi nuovi, accanto a quelli dei precedenti, che ancora si vedevano leggermente.

 

“Ottà!” esclamò, saltando in piedi per cercare di afferrarla, ma non riuscendoci.

 

Ottavia - con un balzo che mica chiamavano felino per niente! - si gettò infatti in braccio a Mancini, iniziando a menare graffiate a destra e manca, mentre lui cercava di ripararsi non solo al viso ma pure lì.

 

“Ottà!” urlò, tentando di prenderla in braccio, ma invano, guadagnandosi pure lei una graffiata sul braccio come danno collaterale.

 

E fu allora che sentì un “Ottavia!”, secco e deciso, vicino al suo orecchio e che vide un lampo blu allungarsi verso la micia ed abbrancarla per la collottola.


Ottavia, di botto, si bloccò, come paralizzata, ed Imma si voltò verso Calogiuri che, con un’aria in apparenza severa - ma sotto sotto soddisfattissima, che non lo conosceva? - stava tirandola a sé, sempre tenendola per la collottola, rassicurandola, “tranquilla, non succede niente…” prima di guardarla dritto negli occhi e aggiungere, “se ti prendo in braccio normalmente stai tranquilla? Guarda che hai fatto alla mamma!”

 

E la voltò, sempre per la collottola, verso di lei, avvicinandola col muso al braccio graffiato. Poi se la mise nell’incavo del gomito ed Ottavia immediatamente si riebbe, guardando prima lui in un modo che, in confronto, il Gatto con gli Stivali di Shrek era un principiante e poi voltando il muso verso di lei, facendole occhioni ancora più teneri e cercando di leccarle il braccio ferito.

 

“Mi medico da sola, mo, e mi sa che non sono la sola da medicare!” la rassicurò Imma, pentendosene immediatamente quando Ottavia si girò di scatto verso Mancini e prese a soffiare, ringhiare e gonfiarsi tra le braccia di Calogiuri, fino a sembrare tre volte tanto.

 

Mancini, oltre a sembrare uscito da un servizio di moda punk, pareva terrorizzato.

 

“Ottavia!”

 

Bastò di nuovo la parola di Calogiuri perché Ottavia si fermasse e si voltasse a guardarlo, con un’aria finta angelica che manco Valentina da bimba con Pietro dopo averne combinato una delle sue.

 

“Va bene, basta così!” le disse, sedendosi insieme a lei sul divano, tenendola sempre ferma in braccio, ma facendole anche due coccole per tranquillizzarla, “vedi, siamo tutti qui tranquilli, non succede niente!”

 

“Insomma…” udì il sussurro di Mancini e poi una specie di fischio, che però non proveniva da Ottavia stavolta, ma dalle sue spalle.


Si voltò e c’era Irene che stava chiaramente cercando di trattenersi disperatamente dal ridere, ma, quando incrociò il suo sguardo, scoppiò in una risata così sonora che quasi non credeva potesse venire dalla regina del bon ton.

 

“Irene…” esclamò Mancini, ferito, e lei rise ancora di più e poi, con voce mezza rotta, gli disse, “scusami, Giorgio, ma… non ce la faccio! Dovresti vederti!”

 

E poi si rivolse a Calogiuri e ad Ottavia e aggiunse, “per fortuna con me non hai fatto così, signorina. Ma ti dovremmo reclutare: altro che i reparti speciali!”

 

Ottavia proruppe in un miagolio prolungato e soddisfatto e poi, dopo un paio di leccate a Calogiuri, fece per proiettarsi verso Irene, ma lui la trattenne, preoccupato.

 

“Dai, che io ed Ottavia ci capiamo. Vero che gli artigli per oggi li hai rinfoderati? Tanto l’orgoglio di Giorgio l’hai già distrutto abbastanza, credimi!”

 

Ed Ottavia fece un altro miagolio soddisfatto e quando Calogiuri - che palesemente stava cercando pure lui di evitare di scoppiare a ridere, ma sembrava più orgoglioso di Pietro quando Valentina lo chiamava il papà più bello del mondo - la lasciò libera, lei subito si fiondò tra le braccia della gattamorta, facendo le fusa in un modo schifosamente affettuoso.

 

“Ma come hai fatto?” le domandò Mancini, parendo ancora più distrutto, se possibile.

 

“Più che altro come non ho fatto, Giorgio,” lo punzecchiò lei, facendogli l’occhiolino ma lanciandogli poi uno sguardo molto più serio, che pareva quasi un cazziatone non verbale.

 

Mancini non rispose ma, dal modo in cui deglutì, aveva colto perfettamente ed Imma si chiese sempre di più come funzionassero le dinamiche tra lui ed Irene. Aveva capito da tempo che lui per lei fosse una specie di figura paterna ma… a quanto pareva a volte i ruoli si invertivano.

 

“Vado a prendere del disinfettante.”

 

Calogiuri.

 

Lo guardò, presa completamente in contropiede, mentre si rialzava dal divano e, dopo averle analizzato la ferita al braccio, disse, “meglio disinfettare subito, che non si sa mai.”

 

E fu il turno di lei di ricadere sul divano, osservandolo allontanarsi, sempre con quella rigidità nei passi, chiedendosi cosa sarebbe successo.

 

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“Ecco qua.”

 

L’aveva medicata in un modo accuratissimo, che manco al pronto soccorso, ma percepiva in tutto, anche nelle dita che la sfioravano, seppur delicatamente, la tensione che le faceva capire che non era comunque tutto a posto.

 

E poi per poco non si strozzò quando Calogiuri sollevò gli occhi verso Mancini e gli disse, “dottore, lo so che non si fida di me, ma… ho fatto un corso di primo soccorso. Posso medicarle almeno le ferite che sanguinano.”

 

Mancini parve mortificato e lo vide diventare nettamente più piccolo nella sua poltrona.

 

Quella sensazione di orgoglio le invase il petto, tanto forte che poteva scoppiarle.

 

Calogiuri era veramente un uomo, in tutti i sensi, anzi, un signore. E la signorilità non la davano lo champagne, il sushi ed i modi da esperto del galateo, ma il sapere esattamente come reagire in queste situazioni, come trasformare la cortesia nell’arma più letale di tutte. Certo, il primo istinto era stato magari quello di reagire diversamente ma… ma nonostante tutte le provocazioni alla fine sapeva sempre come far prevalere l’intelligenza e anche quella diplomazia che a lei mancava totalmente.

 

Tutto rimase nuovamente in sospeso per un attimo, Mancini che esitò, ma alla fine annuì, perché probabilmente sapeva di non potersi tirare indietro.

 

Calogiuri si mise al lavoro pure sul suo polpaccio e dopo sulle braccia e sull’addome. Mancini era quasi immobile, ma ogni tanto faceva una smorfia di dolore ed un lieve mugolio. Imma notò perfettamente che Calogiuri, sotto sotto, era più che soddisfatto, come notò altresì che, per carità, non è che ci stesse andando giù pesante, ma di sicuro non era delicato come lo era stato con lei.

 

Ad ogni mugolio di dolore seguiva un miagolio soddisfatto. Imma lanciò un’occhiata verso Ottavia che se ne stava spaparanzata, bella bella, a farsi coccolare e a godersi la scena, mentre Irene stava ancora fallendo nel tentativo di non sorridere.

 

“Ho finito con la medicazione. Visto lo stato dei vestiti… se vuole posso darle una delle mie tute.”

 

Mancini parve ancora più in imbarazzo ma scosse il capo con un, “non serve: ho sempre un cambio in auto e, a maggior ragione, quando vengo in questa casa.”

 

Calogiuri si rizzò in piedi, i pugni che gli si contrassero sulla bottiglia di disinfettante che aveva in mano, al punto tale che Imma temeva sarebbe esplosa.


“In che senso?” sibilò, con un tono pericoloso, guardando prima verso Mancini, ma subito dopo verso di lei.

 

“Nel senso che già ha avuto un incontro ravvicinato con Ottavia. Che non li hai visti i graffi più vecchi sulle gambe?” si affrettò a precisare lei e Calogiuri abbassò nuovamente lo sguardo, anche se ormai Mancini era mezzo fasciato ed incerottato, strinse la mascella, deglutì, ma poi annuì.

 

Ottavia, al solo nominarla, si produsse in un altro miagolio orgoglioso e poi in un rapido fischio in direzione di Mancini, con un’espressione che sembrava dire ti tengo d’occhio!

 

Il procuratore capo si schiarì la voce e poi, dopo essersi slacciato il primo bottone della camicia, chiese, “allora, quali sarebbero queste prove?”

 

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“Sorpresa!”

 

La vide fare un salto e mettersi una mano sul cuore, per poi strabuzzare gli occhi ed esclamare,  “ma sei scema?! Mi hai fatto prendere un colpo! Che ci fai qua?”

 

Non era la reazione in cui aveva sperato quando aveva deciso di prendere il treno alta velocità all’ultimo ed arrivare da lei, per aspettarla a casa.

 

Era già sera, ormai, aveva fatto tardi veramente.

 

“Se non mi vuoi qua, me ne posso pure tornare a Roma!” esclamò, ferita.

 

“Ma che sei scema davvero, Vale? Ma certo che ti voglio qua! Ma… mi hai fatto prendere un infarto, pensavo ci fossero i ladri, o peggio, in casa!”

 

Lo sguardo ed il tono di Penelope, così sinceri, la calmarono subito ed avvertì una fitta di senso di colpa. E non solo per avere dubitato.


“Scusa ma… ti volevo fare una sorpresa!”

 

“Ed è riuscita, ma magari la prossima volta sorprendimi di meno,” ironizzò, facendole l’occhiolino, per poi aggiungere, “però non mi hai ancora accolta come si deve!”

 

Non se lo fece ripetere due volte, la prese per il viso e la baciò, come erano da settimane che voleva fare, e provò, come sempre, quella specie di rimescolio che Penelope le causava. Per fortuna, perché aveva temuto che dopo Carlo….

 

“Che c’è?” le sussurrò Penelope, staccandosi di poco da lei e guardandola negli occhi.


“In che senso?”

 

“No, è che… mi sembri strana, Vale. Di solito quando ci baciamo sei più… rilassata. Ma è successo qualcosa?”

 

Le pigliò un colpo: Penelope la conosceva troppo ma troppo bene e probabilmente, pensando a Carlo, si doveva essere tesa, senza accorgersene.

 

“No, no. Ma è che… è da così tanto che non ci vediamo.”

 

“E lo so, Vale, ma ti prometto che quando arriverà l’estate e mi laureerò avrò più tempo.”

 

Sospirò: lo sapeva, ma non era facile. Anche perché pure lei aveva ormai pochi esami e poi la laurea ma… più andava avanti e meno sapeva cosa avrebbe voluto fare veramente nella vita, mentre Penelope lo sapeva perfettamente, e questo a volte un po’ glielo invidiava.

 

“Va bene. Ma adesso ci prendiamo una serata tutta per noi. Possiamo ordinare qualcosa e-”

 

L’espressione di Penelope si fece improvvisamente imbarazzata.

 

“In realtà... ho già promesso ad alcuni del corso che saremmo andati a mangiarci qualcosa ai Navigli e poi a sentire un concerto di un gruppo di uno di loro da quelle parti. Ci tiene tanto e gliel’ho promesso da settimane, anche perché è un contest e spera di vincerlo. E non voglio litigarci, che ho un sacco di lavori in gruppo con lui questo semestre. Ti dispiacerebbe se… se andassimo là? Non dovrebbe essere male come musica e possiamo stare da sole dopo il concerto e domani.”

 

“Sì, ma io domani ci sono solo la mattina, poi parto,” sospirò, delusa. Ma del resto, era lei che non l’aveva avvertita per tempo, “e va bene… ma… non so se ho un vestito adatto per un concerto.”

 

“Ed è qua che entra il gioco il vantaggio di avere una fidanzata con la tua stessa taglia e che ha un armadio pieno di cose che forse sarebbero adatte solo per un concerto, ma che si mette lo stesso tutti i giorni.”

 

Le sorrise, perché Penelope la metteva sempre di buonumore quando ci si metteva, e le diede un bacio.

 

In fondo, magari, questo concerto non era poi così male.

 

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“E questo è il filmato, dottore.”

 

Imma aveva appena finito di raccontare tutto e stava porgendo a Mancini il tablet con il filmato.

 

Come si sporse un poco verso il procuratore capo, partì una sequela di soffi dalla direzione di Ottavia.

 

Quanto era orgoglioso di lei! Orgogliosissimo! Però sapeva che ora dovevano lavorare, e quindi la guardò come a dire adesso mo basta! e lei fece un’espressione innocentissima e riprese a farsi accarezzare da Irene, che sembrava sempre più divertita.

 

Almeno lei!

 

Gli occhi gli caddero automaticamente sulla bottiglia e sulle rose, abbandonate sul bancone della cucina, e gli tornò quella rabbia che lo aveva preso non appena le aveva viste in mano a quel beccamorto.

 

Chissà che si credeva quello stronzo!

 

Ma forse, se se lo credeva, c’era un motivo, no? - gli sussurrò la vocetta interiore della sua gelosia, che aveva il tono di Irene.

 

Spiò Imma, accanto a lui, e la vide di nuovo attaccata allo schienale del divano, imbarazzata. Come sempre, Imma parve percepire il suo sguardo, i loro occhi si incrociarono. Capì che fosse dispiaciuta e gli sembrò pure un poco intimorita ed in colpa.

 

Ma quella colpa non gli piaceva per niente, mentre spostò subito l’attenzione verso Mancini, intento a guardare il video.

 

Chissà che cos’è successo veramente tra loro due? - si chiese e gli chiese nuovamente quella voce.

 

La verità era che gli faceva male anche il solo pensarlo, ed in testa gli si proiettavano scenari sempre peggiori, tra la reazione di Ottavia, la storia del cambio d’abito e come Mancini sembrava praticamente certo sul tipo di serata e soprattutto di fine serata che avrebbe passato con Imma, nonostante lei gli avesse fatto una chiamata in apparenza molto professionale.

 

Imma gli aveva solamente detto che aveva provato a lasciarsi andare con Mancini, ma non era riuscita ad arrivare fino in fondo. Ma… quanto fondo era quel fondo? Che, prima del fondo, ci potevano stare talmente tante di quelle cose che mo, a ripensarci, gli facevano andare il sangue al cervello.

 

E poi gli aveva garantito di avere messo i paletti con Mancini e invece… altro che paletti! Quello gli unici paletti che vedeva erano quelli della porta dove era convinto di poter andare a segno liberamente.

 

Scosse il capo: doveva concentrarsi sul caso, ne andava del suo futuro, della sua libertà, della sua reputazione e di tutto il maxiprocesso.

 

Per la gelosia ci sarebbe stato tempo pure dopo, fin troppo tempo.

 

“Ho visto il video,” proclamò il procuratore capo, appoggiando il tablet sul tavolino e guardando prima lui e poi Imma in un modo che gli fece ancora più rabbia, come se fossero tutti scemi, “ma non prova nulla, se non che questa Lolita ha passato un pizzino ad un pregiudicato in carcere.”

 

“Lo so che non prova niente da solo, dottore, ma Lolita e Melita già si conoscevano, erano nello stesso giro. Melita aveva l’amicizia con Calogiuri dai tempi di Maiorca e, pure se non sono uscite foto con lei, magari è da allora che l’hanno vista con noi, e se la sono tenuti buona per l’occasione giusta. Se qualcuno voleva invalidare l’accusa, l’arma migliore era rendere la verità poco credibile. Ed ormai Calogiuri si era fatto, immeritatamente,” sottolineò, guardando verso Irene e poi tornando a fissare Mancini, “la reputazione da donnaiolo. Quindi quale modo migliore per incastrarlo e far cadere la legittimità di tutta l’accusa?”

 

Da un lato gli riempiva sempre il petto di orgoglio quando Imma lo difendeva così, a spada tratta - per non parlare della soddisfazione per la reazione che questo provocava in Mancini! - ma dall’altro lato… questa difesa era arrivata tardi. E l’entrata di Mancini, conciato in quel modo, non aveva fatto altro che ricordarglielo.

 

“Dottoressa, capisco il suo ragionamento, ma è tutto molto fumoso e non c’è niente che dimostri realmente che sia andata così.”

 

“Ed è per questo che abbiamo bisogno di te, Giorgio. Perché dobbiamo avere prove definitive e sono sicura che Calogiuri non abbia mai tradito Imma, ci posso mettere la mano sul fuoco, né che sia capace di commettere un crimine.”

 

“E pure io ce la metto la mano sul fuoco, anche se ci ho messo un po’, presa dalla rabbia,” aggiunse Imma, e si sentì prendere per la mano in una forte stretta, incrociando di nuovo gli occhi di lei, che lo guardavano in un modo che alleviava un poco quella morsa allo stomaco, “mi fido di Calogiuri e non soltanto ad occhi chiusi, ma pure ad occhi aperti, apertissimi, perché mi ha dimostrato in ogni modo quanto è sincero, e so che uomo è, e che si farebbe ammazzare piuttosto che tradirmi e tradire il nostro lavoro in quel modo.”

 

Quando Imma ci si metteva, sapeva proprio come colpirlo dritto al cuore, nonostante la rabbia, e Mancini si fece nuovamente piccolo piccolo sulla poltrona.

 

“Ma che ci fa alle donne, maresciallo?” gli chiese poi, scuotendo il capo, prima di aggiungere, “come potevano sapere di Lolita e che il maresciallo aveva quei segni distintivi?”

 

“Di Lolita lo sanno diverse persone a Matera, ed è probabile che pure lei in carcere non ne abbia fatto mistero, del motivo per cui sta in galera. E Calogiuri è pieno di nei, che potesse averli pure in punti più… intimi era probabile. Avranno fatto un tentativo: in carcere a Matera i Romaniello hanno molti amici, non deve essere stato difficile contattarla e farsi dire quello che sapeva.”

 

Imma era decisa, decisissima, ancora più del solito, e Mancini sospirò di nuovo.


“Dottore, non si fida più del mio intuito? Lo sa che molto raramente mi sbaglio, pure se si tratta, come in questo caso, di vicende in cui sono coinvolta anche personalmente. E se qualcuno scopre che siamo arrivati a Lolita, anche se l’abbiamo fatto con la massima discrezione, Melita come unica persona che può smentire questa storia può essere in grave pericolo, o meglio, sono mesi che sta in grave pericolo, anche se forse non lo capisce.”

 

“La Russo non è più sotto protezione, visto che Santoro e tutti gli altri hanno ritenuto che non avesse alcuna associazione criminale da cui difendersi, ma soltanto un maresciallo con manie di grandezza. E quindi il prefetto mi ha chiesto di toglierle la scorta e non mi sono potuto opporre, anche perché la Russo stessa non la voleva.”

 

“La dobbiamo trovare, dottore, subito!” ribadì Imma, sembrandogli realmente molto preoccupata.

 

“Possiamo provare al suo ultimo domicilio, ma se non fosse lì e se dovremo far partire le ricerche… devo dare una motivazione valida.”

 

“Dobbiamo coinvolgere anche Mariani, dottore, di lei ci si può fidare. E pure Conti, nonostante la vicinanza con Santoro, è una persona affidabile.”

 

“Va bene. Partiamo dalla casa della Russo e, se non fosse lì, oltre a me e ad Irene coinvolgeremo i due marescialli e pure De Luca, se è disponibile.”

 

“Beh, pure noi possiamo-”

 

“No, dottoressa. Voi da qua non vi dovete muovere: se la trovaste voi, qualunque cosa vi dicesse sarebbe sicuramente invalidata in tribunale. Ci pensiamo noi. Dateci una lista dei luoghi che frequentava abitualmente, i locali notturni, se magari hanno delle stanze per gli ospiti….”

 

Fu il suo turno di sospirare, insieme ad Imma, ma sapeva che non c’era un’altra soluzione.

 

“Va bene, dottore, va bene. Ho fatto una lunga ricerca su dove lavorava Melita quando dovevamo prendere contatto con lei per chiederle dell’avvocato. Posso darle quell’elenco, più i nominativi di alcuni suoi amici o pseudo tali che abbiamo conosciuto io ed Imma.”

 

Mancini annuì e Calogiuri si alzò per prendere il computer e mettersi al lavoro.

 

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“Allora? Non sono bravissimi?”

 

Abbozzò un sorriso, ma lei quella specie di musica tutta grugniti - o growl come li chiamava Penelope - non la capiva proprio.

 

“Avete visto l’ultima installazione alla Triennale?”

 

“Quella su Aymonino?” chiese Penelope al compagno di corso, un certo Edoardo, che si era avvicinato con una bottiglia di birra dal nome impronunciabile.

 

“Sì, sì. L’argomento è Fedeltà al Tradimento, molto interessante, no?”

 

E lo aveva chiesto a lei, sì proprio a lei, che per poco non si strozzava.

 

Anche perché non aveva la minima idea di chi fosse sto tizio di cui parlavano, poi l’argomento, figuriamoci!


“I- immagino…” rispose, perché non sapeva che altro dire.

 

“Ma non lo conosci? Perché sei di Matera, giusto? E Aymonino ha lavorato tantissimo lì! Ha fatto il Rione Spine Bianche e Piazza del Mulino.”

 

A lei il Rione Spine Bianche e Piazza del Mulino erano sempre sembrati dei casermoni di rara bruttezza, ma magari era lei che non ci capiva niente di architettura ed arte, quindi annuì con un “ho presente, sì!”

 

Edoardo iniziò ad attaccare un papiro infinito su sto architetto e sugli stili che aveva usato, di cui lei non capiva niente.

 

L’unico motivo per cui non riusciva ad addormentarsi era il fracasso tremendo nelle orecchie, che cominciava a capire come si doveva essere sentita sua madre al concerto di Achille Lauro.


Forse non era abbastanza colta ed alternativa per gli amici di Penelope e si sentì completamente fuori luogo, come un pesce fuor d’acqua.

 

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Silenzio.

 

Quello che la circondava era il silenzio.

 

Quel silenzio che tanto aveva sempre amato con lui, quei suoi silenzi timidi, intelligenti e bellissimi, dietro ai quali si nascondeva un mondo da scoprire.

 

Ma ora l’aria era più pesante che quella di Kyoto ad agosto, in mezzo al cemento. 

 

Mancini ed Irene se n’erano andati, Ottavia dormicchiava, orgogliosa e molle, sulla poltrona appena lasciata libera dall’altra gatta, forse meno morta di quanto l’avesse sempre considerata.

 

E, quando era tornata in salotto, dopo averli accompagnati alla porta, aveva trovato Calogiuri in piedi davanti al divano, con le braccia incrociate, che guardava verso la magnum e le rose con uno sguardo che, se avesse potuto, avrebbe frantumato la prima in mille pezzi e fatto avvizzire istantaneamente le seconde.

 

Gli era sembrato leggermente meno rabbioso nell’ultima parte dell’incontro con Mancini ma… Calogiuri aveva la capa tosta e mica era così facile che gli passasse, quando stava così.


E, tutto sommato, non riusciva neanche a dargli tutti i torti, perché se si fosse trovata lei al posto suo e la cara Irene si fosse presentata in quel modo….

 

In realtà forse ci si era trovata, in passato, dopo Milano, tutte le volte che aveva dubitato, erroneamente, della fedeltà di Calogiuri, ma ora… ora era lei a doversi riguadagnare la sua fiducia.

 

E pure trovarsi in quel ruolo non era facile e piacevole, per niente.

 

Senza altre parole, andò verso il bancone, prese il mazzo di rose, un poco ciancicato, aprì la porta della pattumiera e ce le buttò dentro.

 

Sollevò lo sguardo verso di lui, che però rimase con uno sguardo indecifrabile, poi prese la magnum e disse, “questa la vogliamo buttare nel lavandino o la rimando a Mancini?”

 

“Per me puoi pure berla tutta quanta o farci il bagno dentro,” la freddò lui, secco, prima di aggiungere un, “metto in carica il computer ed il cellulare, in caso trovino Melita.”

 

Stava per dirigersi in camera da letto, quando lei d’istinto mollò la bottiglia sul bancone, con un tonfo, e lo chiamò, preoccupata, “Calogiuri!”

 

Lui si fermò e lei lo raggiunse, sempre più in ansia, perché si voltò verso di lei con un’espressione che non avrebbe saputo dire se fosse più rabbia, delusione o stanchezza.

 

E soprattutto quella le faceva paura, perché non aveva niente a che vedere con la stanchezza fisica.

 

“Che ti succede?” gli chiese, anche se in fondo lo sapeva benissimo.

 

“Che mi succede? Mi succede che mi hai fatto una testa così per tutti questi anni su pali, paletti, barriere. E io ci ho messo un po’, forse, perché sono buono - o un po’ ciuccio - ma li ho messi. Mentre qua… Mancini è chiaro che non solo ci sperava, ma che era sicuro di poter… concludere la serata con te in un certo modo. Quindi, o Mancini è matto o-”

 

“Ma li ho messi i paletti e sapessi quanti pali gli ho dato, Calogiù, ma lui non so perché non si rassegna! L’ultima volta che gli ho parlato… gli ho detto chiaramente che non provavo niente per lui e che ero ancora innamorata di te, ma non potevo certo dirgli che eravamo tornati insieme. Lui mi aveva garantito che non mi avrebbe più importunata ma, in caso avessi cambiato idea col tempo, avrebbe aspettato un mio cenno. Io gli avevo ribadito che non c’era proprio niente da aspettare ma… deve aver interpretato la mia telefonata di stasera come il famoso cenno.”

 

Calogiuri scosse il capo e non sembrò rassicurato, per niente.

 

“Ma pure se non sapeva che eravamo tornati insieme, ed aspettava un tuo segnale… qua è chiaro che il segnale per lui non era di possiamo riprendere a vederci, ma che era un via libera a tutt’altro. E, per quanto non sopporti Mancini, non mi sembra così stupido da farsi un’idea del genere senza motivo. Che è successo con lui?”

 

“Ma che vuoi che sia successo? Visto il luogo, il giorno e l’ora si sarà fatto un film nella testa e-”

 

“E immagino benissimo che genere di film. Imma, non svicolare. Che è successo veramente con Mancini? Fino a che punto siete arrivati, esattamente? Perché questa non mi pare la reazione di qualcuno che ha giusto avuto qualche bacetto, o magari pure qualcosa in più di qualche bacetto, ma-”

 

“Ma che senso avrebbe dirtelo?” gli domandò, in panico completo per quella domanda a cui sperava davvero di non dover rispondere, perché qualsiasi risposta sarebbe stata solo peggio, “perché ti devi fare del male così, Calogiuri? Non è successo niente che abbia alcun significato per me, niente di serio e-”

 

Ha senso, invece, perché la fantasia per me è peggiore della realtà, ormai, te lo garantisco.”

 

“Ma non-”

 

“Imma.”

 

Il modo in cui aveva pronunciato il suo nome, il modo perentorio in cui la fissava, senza darle scampo. Sapeva di non poter fare altro che rispondere.


Ed il peggio era che quelle tecniche le aveva imparate da lei, mannaggia a lei e a lui! Non era piacevole trovarsi dall’altra parte, affatto.

 

“Ci… ci siamo baciati, una sera soltanto, Calogiuri, è successo tutto una sola sera. E poi… avevo bevuto… e... tra quello e la rabbia, gli ho permesso di cominciare a spogliarmi e... gli ho tolto la camicia ma… quando… quando l’ho sentito slacciarmi il reggiseno e… e quando ho sentito i suoi muscoli che non erano i tuoi… mi sei venuto in mente tu e… mi sono sentita uno schifo e l’ho bloccato prima che potesse togliermelo.”

 

Le era uscito non sapeva come e vedeva Calogiuri da un lato forse impercettibilmente sollevato, ma poi gli occhi gli si riempirono di lacrime in un modo che le fece ancora più male di tutto il resto.

 

“E allora… e allora capisco perché mo sperava di arrivare fino in fondo, no? E menomale che almeno tu non hai nei di cui può raccontare agli altri.”

 

Nonostante l’ironia, era gelido, rigido, distante.

 

“Calogiuri, io-”

 

“Lo so che… che tecnicamente non stavamo insieme… e che… che eri arrabbiata con me. Ma io da quando stiamo insieme ufficialmente, e pure da prima, non ho mai toccato un’altra, mai, al massimo le ho dato un bacio, pure da ubriaco, mentre tu e lui…. Lo so che forse è stupido, e da immaturo, ma… ho bisogno di starmene da solo per un po’. Mi prendo il divano per stanotte. Se vuoi andare in camera, ti avviso se ci sono notizie.”

 

Fu come una doccia gelida, un macigno nello stomaco. No, non era proprio bello trovarsi dall’altra parte di quel muro. Ed il peggio era la civiltà con cui Calogiuri stava dicendo tutto quello, la freddezza. Avrebbe preferito mille volte sentirlo urlare, in una sfuriata delle sue.

 

“No. Tu non sei ancora del tutto in forma e non puoi dormire sul divano letto. Ci dormo io al massimo e, pure se mo stai arrabbiato, almeno su questo non voglio discussioni. Hai già trascurato troppo la tua salute, pure per colpa mia.”

 

“Non mi piace che dormi in salotto. La camera da letto è più sicura. Ed il divano letto è comodissimo.”

 

“In che senso più sicura?” gli domandò, stupita.


“Se dovesse mai entrare qualcuno… il salotto è subito di fronte. Con il lavoro che facciamo… non posso non pensarci.”

 

Le venne una botta tremenda di magone, perché lei no, non ci aveva mai pensato, e perché lui comunque metteva l’incolumità di lei prima di tutto, pure se era arrabbiato.

 

“Calogiuri, capisco che sei deluso e ferito ma… c’abbiamo pure da attendere la chiamata per capire se trovano Melita o no. Non è meglio se stiamo insieme? Il letto è grande e possiamo stare ognuno al posto suo. Siamo adulti, no? Almeno per stanotte.”

 

Lui fece un mezzo sorriso amaro.

 

“Lo sai che non funziona così, dottoressa, e che non ci riesco a stare troppo lontano da te. E… ho bisogno di stare da solo coi miei pensieri, come tu hai avuto bisogno di stare da sola con i tuoi.”

 

Non era una ripicca, non solo. Ma tutta quella calma la spaventava, anche se… era almeno sollevata di sapere di fargli comunque effetto sempre, al di là di tutto. Sapeva che non era in discussione quello che Calogiuri provava per lei ma… poteva essere in discussione molto ma molto di peggio: la fiducia.

 

Perché così rassegnato e deluso, no che non lo aveva mai visto.

 

“Allora, se succede qualcosa mi chiami: sei morto se non lo fai! Ottavia la lasciamo sulla poltrona e vediamo dove preferisce dormire?”

 

Calogiuri annuì e, in quella pace solo apparente ed in realtà ricolma di tensione, si avviò verso quella stanza da letto che aveva veramente sperato di non dover affrontare più da sola.

 

Ma almeno era con lei, sotto lo stesso tetto. E rispetto a quello che era successo a lui era già tanto, in fondo, tantissimo.

 

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“Vale, tutto bene?”

 

Spalancò gli occhi: alla fine nemmeno il death metal aveva potuto nulla, si era addormentata durante l’ennesimo discorso su un vernissage di non ricordava più quale pittore, a lei completamente sconosciuto.

 

“S- sì… scusami… ma… tra il viaggio e tutto sono un po’ stanca,” abbozzò, perché era l’unica scusa che potesse non offendere nessuno.

 

“Eh, lo vedo! Ad addormentarti con questa musica ce ne vuole. Dai, ce ne torniamo a casa?” propose Penelope e dire che la proposta la entusiasmasse sarebbe stato dire poco.

 

Si affrettò quindi ad annuire, ma quel rompiscatole di Edoardo chiese a Penelope, “allora domani proseguiamo col lavoro di gruppo?”

 

“Domani pomeriggio, domani mattina c’è Valentina,” obiettò per fortuna lei, mettendole una mano sulla spalla.


“Ma se perdiamo la mattina rimaniamo indietro e lo sai, che sull’anatomia femminile sei tu la più esperta.”

 

La voglia di dirgli e ti credo, per come sei noioso! fu straripante, ma si trattenne, prima di sembrare sua madre.

 

“Lo so ma… una mezza giornata non sposta molto, no?”

 

“Rischiamo di non finire in tempo per la consegna, dobbiamo tenerci almeno un giorno di margine, lo sai, se c’è qualcosa da rifare.”

 

Penelope sospirò e la guardò.

 

Valentina era incredula: voleva strozzare questo stronzo di Edoardo, ma anche Penelope perché non si imponeva di più? Lei che era sempre così tosta e senza peli sulla lingua.

 

E invece… la guardava come a chiederle il permesso.


E che poteva dirle di no?

 

“Sono arrivata io all’improvviso. Va bene, però mo andiamo a casa che non ce la faccio più.”

 

Si sentì stritolare in un abbraccio e Penelope era molto felice.

 

Lei assai meno.

 

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Niente, nemmeno lì, niente.

 

Uscì dall’ennesimo locale notturno, ogni passo che gli sembrò pesare di più di quando arrivava alla fine del triathlon e le gambe erano sull’orlo di cedere ma lui non mollava.

 

E non poteva mollare neanche in quel momento, anche se si sentiva a pezzi, e non solo fisicamente.

 

Si era fatto un film in testa tutto suo, si era illuso, mentre Imma… anzi forse avrebbe dovuto ricominciare a pensare a lei come alla dottoressa Tataranni… era ancora innamoratissima di quel cretino e lo sarebbe forse stata sempre. Lui le piaceva, la lusingava magari, ma niente di più. E non aveva voluto capirla, perché gli capitava raramente di innamorarsi e, quando succede, si fa di tutto per rimanere aggrappati a quell’ultimo filo di speranza.

 

Ma ormai la speranza era sepolta sotto neanche un macigno, ma un monte intero.

 

E poi quel cretino alla fine ha avuto molto coraggio. E ci ha fatto più bella figura di te!

 

La voce della sua coscienza gli ricordò fastidiosamente quella di Irene e la figura di merda epocale che aveva fatto.


Perché non poteva essere definita in altro modo.

 

Ma ora doveva pensare solo al lavoro, soltanto al lavoro, a trovare la Russo, prima che si spargesse la voce che la stavano cercando e magari ci arrivasse qualcuno prima di loro.

 

E doveva assolutamente togliersi dalla testa Imma, in qualche modo, in ogni modo, anche se non sarebbe stato facile, dovendola vedere tutti i giorni per lavoro.

 

E poi dove la trovava un’altra che potesse anche solo lontanamente paragonarsi a lei? Al suo carattere, alla sua intelligenza, a quella bellezza insolita, ma proprio per quello affascinante, che la caratterizzava.

 

Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare. Guardò il monitor dell’impianto dell’auto.

 

Mariani.

 

“Pronto, Mariani, ci sono novità?” le chiese, perché non immaginava altro motivo per quella telefonata.

 

“Sì, dottore, l’ho… l’ho trovata.”

 

Capì immediatamente, dal tono con il quale erano state pronunciate quelle parole, che non era una bella notizia.

 

“Che è successo?”

 

“Ho… ho chiamato prima l’ambulanza e poi subito lei, dottore. Melita è… è in condizioni che… io non so se ce la farà, anche se respira flebilmente. Le stanno dando i primi soccorsi e poi la porteranno d’urgenza all’ospedale, dicono che deve essere operata.”

 

Merda.

 

“Ma… ma che le è successo? Che tipo di ferite?”

 

“L’hanno praticamente massacrata di botte, dottore: se non avesse avuto i tatuaggi… quasi non si riconosceva.”

 

Merda! Quei bastardi!

 

“Mariani, mi dia la sua posizione.”

 

“Sono nel locale dove Melita ha rincontrato per la prima volta la dottoressa Tataranni e il maresciallo. Quello in stile inglese. Le mando l’indirizzo e-”

 

“Non serve, Mariani, ho presente, ma-”

 

“Ma probabilmente è un segnale, dottore. Ed un modo per tirare dentro Calogiuri.”

 

“Arrivo subito, mi aspetti lì, Mariani.”

 

“Devo dare la notizia agli altri, dottore? Posso chiamare la dottoressa Ferrari e-”

 

“No, la sento io la Ferrari: mando lei in ospedale. Lei mi aspetti lì, Mariani, visto che è stata la prima ad intervenire. E, per quanto riguarda la dottoressa ed il maresciallo, li avvertiremo solo una volta che avremo chiara la situazione. Non che facciano colpi di testa, lei capirà benissimo che devono stare il più lontano possibile da quella scena del crimine.”

 

“Va bene, dottore, ai comandi! La aspetto!”

 

“Dieci minuti e sarò lì!”

 

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“Vado prima io in bagno o vuoi andarci tu?”

 

“Vai pure prima tu, Vale, che lo vedo che sei stanca.”

 

Valentina sospirò ed annuì: non era soltanto stanca fisicamente, ma pure mentalmente, dopo quella serata tremenda.

 

Si fece una doccia rapida, si lavò i denti e poi tornò in camera.

 

E trovò Penelope nel letto.

 

Addormentata.

 

Sapeva che aveva avuto una settimana tremenda ed aveva lavorato anche tutto quel giorno, ma un’ondata di delusione e quasi di rabbia la assalì.

 

Era tentata di svegliarla, ma a che sarebbe servito?

 

Si infilò nel letto accanto a lei, ma sotto la coperta, spense la luce e, cercando di trattenere la voglia di piangere, provò a dormire, cosa che, dopo quella serata disastrosa, non le fu difficile.

 

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Sbarrò gli occhi, guardando verso la sveglia sul comodino.

 

Niente: erano le tre di notte ed il sonno proprio non ne voleva sapere di arrivare.

 

Vide il cuscino vuoto dal lato di Calogiuri. Sentì una fitta al petto ed un magone alla gola. Non era più abituata a dormire da sola, poi mo solissima proprio, perché Ottavia non l'aveva raggiunta.

 

Forse era rimasta addormentata sulla poltrona, dopo l’effetto sonnifero della gattamorta.

 

Sapeva che l’idea di dormire era un miraggio.

 

Con un sospiro, d’istinto, si alzò di scatto, si infilò ciabatte e vestaglia che faceva freddo e si avviò verso il salotto.

 

Piano, pianissimo, più che poteva - che non era proprio il suo forte - percorse il corridoio, fino ad intravedere la figura che protrudeva dal divano letto.

 

Il magone le peggiorò e rimase a fissarla come ipnotizzata, perché non solo c’era Calogiuri, mezzo rannicchiato, che quasi pareva un bimbo, gli occhi chiusi ed un braccio che penzolava giù dal divano, ma, all’altezza del suo addome, si distingueva pure un’altra silhouette pulsante.

 

Ottavia.

 

Non sapeva se essere offesa da questo tradimento e di essere stata, per l’ennesima volta, spreferita a papà da una creatura, o se commuoversi, perché Ottavia sembrava da un lato proteggerlo e dall’altro inchiodarlo al letto, come per accertarsi che non andasse via.

 

Quanto li amava, tutti e due! Però con Calogiuri aveva sbagliato e molto: non gli aveva dato fiducia ed aveva tirato tanto la corda. Ed ora temeva sempre di più che la corda, anzi, quel filo sottile ma resistentissimo, quasi indistruttibile, che li aveva sempre uniti, si stesse per rompere del tutto.

 

Una mano si mosse, istintivamente, tentata di accarezzargli i capelli, ma si bloccò appena in tempo e virò su Ottavia, dandole una rapida grattatina.

 

La micia spalancò un solo occhio e la fissò, con uno sguardo che sembrava quasi dirle tu hai fatto sto casino e mo tu rimedi, subito!

 

A volte si chiedeva se sul serio Ottavia non fosse, alla fine, più intelligente di tutti loro messi insieme.

 

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“Mariani. Che è successo? La Russo?”

 

“L’hanno appena portata via, dottore: sembra che siano riusciti a stabilizzarla quanto basta per il tragitto verso l’ospedale.”

 

Si guardò intorno, in quella stanza dal letto circolare, che pareva uscita da un boudoir, e notò la macchia di sangue sul pavimento ed alcune che punteggiavano la parete rosa.

 

Gli agenti della scientifica erano impegnati nei rilievi.


“Si sa qualcosa di più sulla dinamica dei fatti? In che condizioni era la vittima?”

 

“Ho fatto delle foto, dottore, guardi lei stesso.”

 

Le immagini di quella ragazza una volta bellissima, col volto completamente tumefatto ed il corpo pieno di lividi, scattate evidentemente mentre i paramedici l’assistevano, gli fece mancare un attimo il fiato: era abituato alla violenza, ma chiunque fosse stato, era stato davvero brutale.

 

“Una brutalità tremenda, dottore,” proclamò Mariani, accanto a lui, “e questo, purtroppo, farà sembrare il crimine personale. Molto personale. Di questo caso si occuperà Santoro o la Ferrari?”

 

Sospirò: Mariani era sveglia, sveglissima, ed aveva già capito perfettamente come rischiavano di andare le cose.

 

“A logica Santoro, Mariani. Ma… vedremo….”

 

La verità era che avrebbe dovuto valutare molto ma molto bene i rischi e i benefici di ogni opzione, perché c’era in gioco la credibilità di tutta la procura.

 

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Si sforzò di tenere gli occhi chiusi, anche se la tentazione di aprirli era fortissima.

 

Il sonno non ne aveva voluto sapere di arrivare, anche perché qualcuna gli si era praticamente gettata sulla pancia, che gli sembrava di avere una borsa dell’acqua calda, di quelle che sua madre gli dava da bambino quando stava poco bene.

 

Era proprio nel dormiveglia che aveva sentito dei passi, inconfondibili, anche se alleggeriti dalle ciabatte di tessuto, e che l’aveva intravista, tra le ciglia socchiuse.

 

Si era imposto di non farla avvedere che fosse sveglio, perché la verità era che non era pronto ad affrontarla ed aveva bisogno di riflettere davvero, seriamente, senza farsi condizionare da quello che lei gli suscitava. E non soltanto l’attrazione, ma il fatto che quando l’aveva vicino… tutto il resto passava sempre in secondo piano.

 

Ma stavolta no: stavolta c’erano troppe cose che gli facevano male e che aveva bisogno di digerire, da solo.

 

Ma lei glielo voleva proprio rendere difficile, perché l’aveva sentita avvicinarsi a lui, non solo per i passi, ma perché ne avvertiva la presenza nell’aria. E poi aveva percepito la carezza che aveva fatto ad Ottavia, come se l’avesse fatta a lui.

 

L’istinto di aprire gli occhi, tirarla sé ed abbracciarla fu intensissimo.

 

Ma la visione di Mancini, tutto tronfio con le rose ed il vino e, soprattutto, le immagini mentali che gli arrivavano, di Imma e lui quasi nudi, a casa di quel maiale, prevalevano su tutto il resto.


Sperava soltanto che Imma tornasse presto a letto, anche se, da un lato, quella presenza silenziosa sembrava accarezzarlo. Ma, se normalmente ci si sarebbe beato in quelle carezze, ora si sentiva come se avesse ogni nervo scoperto, sensibilissimo, e gli era quasi insopportabile, pure se gli scaldava il cuore.

 

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“Che ci fai qua?”

 

Si voltò di scatto e, purtroppo, non si era sbagliata: era Santoro, in tutta la sua insopportabile supponenza.

 

“Mi ha detto il dottor Mancini di venire qua, visto che Melita è una testimone chiave anche del maxiprocesso.”

 

Santoro parve preso in contropiede.

 

“Pensavo che fosse chiaro a Mancini che non dovessi più avere contatti con la Russo.”

 

“Vista la tua gestione della Russo e a cosa hanno portato le tue decisioni? Ne dubito,” rispose, perché con Santoro la diplomazia era inutile ed avrebbe lottato con le unghie e con i denti con Mancini per avere assegnato a lei quel caso.

 

E non solo perché Santoro aveva già il nome del suo colpevole scritto in faccia, senza nemmeno sapere nulla, come dimostrato dal suo, “le mie decisioni? Non pensavo l’amichetto tuo arrivasse a tanto!”

 

“Calogiuri non è l’amichetto mio e non hai la minima idea di come siano andate le cose. E se davvero pensi che sarebbe capace di ridurre una donna così...” rispose, lanciando un’occhiata a Melita, da dietro il vetro della terapia intensiva.

 

Stavano ultimando gli ultimi esami prima di un intervento d’urgenza. Il medico aveva detto che avrebbe sicuramente perso un rene, che pure l’intestino poteva essere compromesso, e che, soprattutto, dovevano assolutamente cercare di ridurre l’emorragia cerebrale in corso.

 

Se fosse sopravvissuta, le possibilità che tornasse ad una vita autosufficiente erano molto poche, ma anche solo che non rimanesse in uno stato vegetativo. Ed avrebbero dovuto farle un intervento di ricostruzione del naso e della mascella per consentirle respirazione e masticazioni normali.

 

Ne aveva viste di vittime ridotte male, ma Melita era forse quella ridotta peggio in assoluto tra quelle sopravvissute, cosa che era già un miracolo di per sé. Ma non era affatto detto che fosse una benedizione, anzi.

 

“Il maresciallo è un violento. Non dirmi che hai creduto alla storia della palla da tennis di Mancini! E Melita lo ha denunciato e quindi….”

 

“Se avessi studiato un minimo di psicologia, sapresti pure tu che Calogiuri, tra tutti gli agenti che abbiamo, è il meno violento, a parte Mariani. E quindi secondo te, dopo settimane e settimane dalla denuncia, e senza novità rilevanti, Calogiuri avrebbe tentato di uccidere Melita, giusto per attirare tutti i sospetti su di sé? Non solo non ha senso e non aveva nessun interesse a farlo, ma perché non farlo prima allora, se doveva essere il raptus di un uomo violento?”

 

“La verità è che voi vi fate tutte incantare dal fatto che è giovane e bello. Ma per fortuna a me non la fa e anche Mancini non lo sopporta. Vedremo a chi assegnerà il caso e a chi darà ragione!”

 

“Forse a chi ha prove concrete di quanto asserisce, invece di sparare nel mucchio?”

 

“Mi sembri la dottoressa Tataranni. Ti facevo più professionale e meno stupida.”

 

“Potrei dire lo stesso di te,” gli rispose, e poi, per fortuna, arrivò un medico facendo cenno ad entrambi di far silenzio mentre, dietro al vetro, due infermieri portavano via Melita, verso la sala operatoria.

 

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“Irene?”

 

“Giorgio, finalmente! Qua c’è Santoro che fa il bello ed il cattivo tempo: è convinto che avrà lui il caso e-”

 

“E lo avrà, almeno per ora.”

 

Fu come una doccia gelida, mentre le montava l’indignazione: non ci poteva credere, non ci poteva credere!

 

“Cosa?! Giorgio, lo sai benissimo che Santoro è già convinto che Calogiuri sia colpevole. Ci va a nozze, con l’indagine che già ha aperto nei suoi confronti e-”

 

“Lo so, Irene, lo so, ma-”

 

“E poi lo sai benissimo che Calogiuri non è colpevole: eravamo insieme quando è avvenuta l’aggressione e-”

 

“Appunto, Irene, appunto. Eravamo tutti insieme, tutti. Tranne Santoro.”

 

Rimase per un attimo a bocca spalancata, avendo capito perfettamente dove volesse andare a parare Giorgio, ma una parte di lei non ci voleva credere.


“Lo sai anche tu che non c’è un’alternativa, Irene. Lo so che hai capito.”

 

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La telefonata la fece scattare sul materasso: era tornata a letto da poco, dopo essere rimasta per un tempo indefinibile a controllare Calogiuri ed il suo sonno, che pareva però tranquillo, quasi fin troppo.

 

Si era arresa a tornarsene in camera quando la tentazione di svegliarlo con un abbraccio stava per diventare irresistibile.

 

E mo sto squillo infernale, che non prometteva niente di buono.

 

Irene.

 

Erano ormai quasi le cinque di mattina - ma quanto tempo era stata a guardare Calogiuri dormire? - e sperava che fossero buone notizie, ma c’era qualcosa che le si torceva dentro, che le faceva capire che difficilmente sarebbe stato così.

 

“Pronto?”

 

“Imma. Abbiamo poco tempo. Abbiamo trovato Melita, massacrata di botte. La stanno operando e… non so se ce la farà e, pure se ce la farà, è difficile che riprenda coscienza del tutto. Mancini ha deciso per il momento di affidare il caso a Santoro. Stanno per venire a prendere Calogiuri per interrogarlo.”

 

Un pugno gelido le strinse il cuore, ancora prima che Irene aggiungesse, “l’aggressione è avvenuta molto probabilmente quando con Calogiuri c’ero anche io, oltre a te, ma non Mancini. Ma… Mancini vuole che per ora non diciate nulla del nostro incontro, Imma.”

 

“Ma… ma è l’alibi di Calogiuri e-”

 

“Lo so, Imma, lo so, ma-”

 

“E il mio di alibi non varrà nulla, e già lo sai e-”

 

“E vuoi che ci esautorino tutti dal caso, tranne Santoro? Cercherò in ogni modo di farmi assegnare il caso Imma, te lo prometto, ma se tutti ci schieriamo come alibi di Calogiuri-”

 

“Sembrerà che vogliamo coprirlo per salvare la faccia della procura?” sospirò, perché, effettivamente, sapeva che per i giornali sarebbe stato così.

 

“Esatto, Imma. E, pure se riuscissimo ad evitare le accuse a Calogiuri, resterà per sempre il dubbio che sia stato tutto insabbiato e la sua reputazione non ne uscirà mai pulita. Dobbiamo scagionarlo del tutto, da tutte le accuse, ma non possiamo farlo se siamo tutti esautorati dal caso e se ci tolgono il maxi processo.”

 

Aveva ragione, lo sapeva che aveva ragione, ma-


“Imma, lo so che non hai molta stima di me, ma… fidati di me e di Giorgio. Lo conosco bene e… per quanto non ami Calogiuri ed in alcuni momenti non sia stato professionale - e si sia reso pure parecchio ridicolo - si è impegnato con me ad aiutarci a scagionarlo. E quando prende un impegno, Giorgio lo mantiene, sempre.”

 

“Al momento mi fido più di te che di lui e-”

 

“Ed è tutto dire?”

 

Le venne da sorridere, nonostante la situazione: alla fine la cara Irene, quando non ci provava con Calogiuri, in fondo, non era poi così male.

 

“Spiegherò tutto a Calogiuri, anche perché abbiamo poco tempo, ma… sta a lui decidere, ovviamente, visto che c’è la sua di vita in ballo.”

 

“Va bene. Ma ho preferito chiamare te, perché… so che conosci, anche se non condividi, certi meccanismi meglio di quanto possa farlo Calogiuri.”

 

“Ne parlo a lui e… saprete com’è andata quando arriverà in procura. Ma se provate a fregarci-”

 

“Lo so, Imma, lo so. Ma tu lo dovresti sapere quanto tengo a lui, no? Fidati almeno di questo!”

 

E le toccò ammettere che era vero: la gattamorta aveva sempre protetto Calogiuri con le unghie e con i denti, peggio di Ottavia.

 

Chiuse la chiamata, il cellulare che le sembrò pesare più del suo primo telefono in assoluto, uno di quei portatili inizio anni duemila, che di portatile non avevano niente, e che le avevano assegnato per via del suo incarico - che lei col cavolo che avrebbe speso soldi, per essere poi rintracciabile e scocciabile, oltretutto!

 

Si alzò di forza dal letto, considerò la possibilità di rivestirsi - ma no, non potevano far capire che fossero stati avvertiti! - si infilò la vestaglia e si costrinse a non correre verso il divano letto, perché non doveva sembrargli insicura o spaventata.

 

Doveva fargli coraggio lei mo.

 

Lo vide, ancora addormentato, Ottavia che ormai praticamente ci aveva fatto la cuccia sulla sua pancia, e decise il da farsi.

 

La accarezzò, ma meno delicatamente di prima, finché non aprì di nuovo una palpebra.


“Ottà, devo parlare con papà,” le sussurrò, facendole cenno verso il pavimento.

 

Ottavia fece un’espressione strana, ma poi, dopo averla inchiodata con un’occhiata intensissima, si stiracchiò leggermente e, con la sua regale felinità, balzò a terra.

 

E mo arrivava il momento più difficile.


“Calogiuri, Calogiuri…” lo chiamò, cedendo alla fine all’impulso e toccandogli una spalla, mentre gli accarezzava i capelli con l’altra, “Calogiù, ti devi svegliare, è urgente!”

 

Alla fine, lo vide aprire gli occhi azzurri e sonnacchiosi: le sembrò quasi un bimbo indifeso e le si strinse il cuore.

 

Ma poi, lo sguardo gli si fece più duro, e si scostò leggermente dal suo tocco, mettendosi a sedere, serissimo.

 

Altro che bimbo! Un uomo era, e pure dalla capa tosta, tostissima.

 

“Che succede?” le chiese, stropicciandosi per un attimo gli occhi, prima di bloccarsi e domandarle, “Melita?”

 

“L’hanno trovata, Calogiù,” disse, e bastò uno sguardo per capirsi.

 

“Morta?”

 

“No, ma quasi. L’hanno riempita di botte, è in condizioni critiche all’ospedale, la stanno operando. Non sanno se ce la farà e… pure se ce la facesse….”

 

Calò il silenzio, non serviva dire altro. Lo sapevano entrambi cosa significava.

 

“Stanno arrivando, vero?”

 

Il modo in cui glielo aveva chiesto, rassegnato, era peggio di un pugno allo stomaco.

 

“Sì, ma solamente per interrogarti. Irene mi ha avvisato che Mancini ha assegnato il caso a Santoro e-”

 

“Quello stronzo mi vuole far finire in galera, Imma! E ci sta riuscendo! Altro che aiuto!”

 

“Irene mi ha detto di no, che le ha promesso che ti aiuterà, e-”

 

“E tu gli credi?”

 

“No, ma Irene gli crede e… e lo conosce meglio di tutti noi. E lo sai che sta facendo di tutto per scagionarti.”

 

“Almeno lei…” lo sentì sussurrare e fu un altro cazzotto, ma per ragioni diverse.

 

“Ascoltami. Mi ha detto che… che non devono sapere che noi sappiamo e che… che quando Melita è stata aggredita qua con noi c’erano anche lei e Mancini.”

 

“Che cosa?!”

 

“Ti fornirò io un alibi, Calogiuri, ma-”

 

“Ma il tuo alibi non vale niente, dottoressa, lo sai! Mancini sta provando a fregarci e-”

 

“Calogiuri. Se ti fornisco un alibi, e te lo fornirò, verrò sospesa, sicuramente, o chiederò di nuovo aspettativa. Ma se te lo fornissimo tutti e dicessimo che ci stavamo incontrando in segreto…”

 

“Ho capito…” sospirò lui, e sapeva con certezza, dal modo in cui deglutiva, dallo sguardo angosciato che aveva negli occhi, che aveva veramente capito tutto, “l’alibi di tutti voi varrebbe ancora meno, vero?”

 

“Calogiù-”

 

“Capisco che vuoi dire, Imma, ma io sono ancora convinto che Mancini se ne approfitterà, per cercare di fregarmi. Lo so, me lo sento. Pure se tu ed Irene-”

 

“Non lo permetterò, Calogiuri. Lo so che… che ti ho lasciato solo, per troppo tempo, ma… lotterò fino all’ultimo per scagionarti. Stiamo sulla strada giusta, dobbiamo capire chi… chi ha passato le informazioni a quelli che hanno fatto questo a Melita. Vedrai che ce la faremo, te lo prometto!” lo rassicurò, anche se pure lei si sentiva tutto tranne che sicura, ma doveva farsi vedere forte per lui.

 

“Imma… ti ricordi cosa mi avevi promesso, tanti anni fa?”

 

“Che cosa?” gli domandò, presa in contropiede.

 

“Che non mi avresti mai fatto promesse che non eri certa di poter mantenere.”

 

La disperazione nello sguardo e nella voce non se la sarebbe mai scordata. Ed un impulso le prese, irresistibile, pure più di quelli che una volta la prendevano in presenza di Calogiuri. Gli buttò le braccia al collo e lo strinse più forte che poteva.

 

Lui si irrigidì, e le fece malissimo, ma non era il momento di pensare a se stessa.

 

“Allora ti prometto questo, Calogiù: non ti mollo, qualsiasi cosa succeda non ti mollo più. E lo sai che quando prometto qualcosa vado fino in fondo, che la capa tosta quella non me la leva nessuno. E non devi mollare neanche tu, chiaro?”

 

Percepì nel petto il singhiozzo di Calogiuri ancora prima di udirlo. E poi le si sciolse tra le braccia, letteralmente, ricambiando la stretta tra le lacrime.

 

Per un secondo, nonostante tutto quello che stava accadendo, provò una strana pace dentro.

 

Ma proprio in quel momento suonò il campanello.

 

Maledizione!

 

Suonò una seconda e una terza volta, seguito da un bussare incessante.

 

“Carminati…” sospirò Calogiuri, e sentì la stretta allentarsi e poi lasciarla, lui che la spingeva delicatamente per le spalle per allontanarla.

 

Lo guardò, ma teneva gli occhi bassi, di nuovo quella maschera rigida sul volto, nonostante fosse bagnato dalle lacrime.

 

“Devi asciugarti, Calogiù. Vado io a rispondere.”

 

“No. Non ti lascerei mai rispondere alla porta a quest’ora, dottoressa. Vado io: è meglio così.”

 

E di nuovo altre scampanellate ed il bussare sembrava una carica di gnu.

 

“Aprite, carabinieri!”

 

Sì, era proprio Carminati. E ci mancava solo che svegliasse tutto il palazzo, ci mancava!

 

“Arrivo! Sto arrivando!” urlò lui, fortissimo, alzandosi dal letto, in maglietta bianca e pantaloni della tuta, mentre si asciugava rapidamente il viso con le mani.

 

Una parte di lei avrebbe voluto che non arrivasse mai a quella porta, ma sapeva che era inevitabile.

 

Sperava veramente che, con tutto quello che aveva imparato in quegli anni insieme, non si facesse fregare durante l’interrogatorio di Santoro.

 

Fece per raggiungerlo, ma lui le fece segno con la mano di fermarsi, all’inizio del corridoio.

 

E poi aprì, il cigolio della porta che le parve un boato.

 

Subito ci si infilò un piede, e poi intravide la faccia suina di Carminati.

 

Fosse stata un’altra circostanza gli avrebbe contestato la violazione di domicilio, ma non poteva.


“Calogiuri Ippazio, ci deve seguire, subito!” proclamò tutto impettito quel maiale, con l’aria di chi ci stava godendo tantissimo - e del resto giusto quel tipo di godimenti poteva permettersi!

 

Quasi come se avesse sentito il suo pensiero, si voltò verso di lei e le lanciò uno sguardo che definire lascivo sarebbe stato un eufemismo.

 

Del resto aveva ancora la camicia da notte e la vestaglia leopardate, non cortissime ma ben sopra al ginocchio.

 

Come in un lampo, vide lo sguardo di rabbia di Calogiuri e si affrettò, prima che facesse qualche idiozia, a interromperli con un, “Carminati, cos’è questa storia?”

 

“Non posso riferirle nulla, dottoressa,” le rispose, con l’aria di chi ci stava godendo doppiamente, “Calogiuri, mi deve seguire subito. E dovrò riferire naturalmente che si trovava qua, dottoressa. Per fortuna il receptionist dell’hotel dove sapevamo che soggiornava, se la ricordava benissimo, chissà come mai!”

 

“E riferisca pure, Carminati! Qua non c’abbiamo niente da nascondere!”

 

“No, infatti.”

 

Il modo in cui vennero pronunciate quelle due parole, seguite da uno sguardo dal basso verso l’alto, le fece venire un moto di nausea.

 

Vide i pugni di Calogiuri contrarsi e gli lanciò un’occhiata come a dire manco per sogno! Stai calmo!

 

Per fortuna, lui capì e fece palesemente uno sforzo per calmarsi.

 

“Allora, andiamo?” chiese anzi Calogiuri a Carminati, che rimase sorpreso.

 

“Magari prima mettiti qualcosa di più pesante, Calogiuri, che fuori fa freddo. Immagino che debba soltanto interrogarlo, Carminati, visto che non sta esibendo alcun mandato di arresto, e che quindi possa prendersi qualche minuto per rivestirsi.”

 

Il maialetto - in tutti i sensi - si limitò ad annuire e non potè controbattere, primo perché quella che stava dicendo era soltanto la verità, secondo perché di procedura penale ne aveva, in ogni caso, capito sempre pochissimo.

 

Avrebbe voluto seguire Calogiuri fino in camera e lui le fece cenno di accompagnarlo, per non lasciarla da sola con Carminati, ma lei scosse il capo: non si sarebbe mossa di lì, col cavolo che dava a Carminati libero accesso alla casa!

 

Calogiuri infine si rassegnò, sapendo che non avrebbe cambiato idea. Passò qualche minuto interminabile con lei ferma come un gendarme al suo posto, mentre quello schifoso la guardava, che manco fosse stata una di quelle brioche di cui amava ingozzarsi a tutte le ore.

 

Percepì un solletico alle caviglie e vide Ottavia, che gliele circondava, e che iniziò a sollevare pelo e coda verso Carminati.

 

Stava per abbassarsi per prenderla in braccio, prima che facesse casino, quando udì i passi di Calogiuri, stranamente decisi e veloci, che la raggiunsero e le passarono oltre.

 

“Andiamo,” disse a Carminati, deciso, lanciandole soltanto un’ultima occhiata.

 

Il problema era che, oltre alla decisione, ci leggeva pure una rassegnazione che no, non andava affatto bene.

 

Carminati lo afferrò per un braccio, per tirarlo fuori dalla porta, ed emerse pure un altro braccio, quello di Rosati, che evidentemente se ne era stato di guardia fuori dalla soglia per tutto il tempo.

 

Ma, come fecero per strattonare Calogiuri, udì un fischio assordante e, nel giro di due secondi, un urlo lancinante.

 

Carminati si scrollava il braccio, dove si era aggrappata Ottavia, che lo stava mordendo e graffiando allo stesso tempo.

 

“Maledetta schifosa!” lo sentì urlare e lo vide che sollevava l’altro braccio, per darle un pugno.

 

Ma il pugno venne bloccato dalla mano di Calogiuri e lo vide fare una smorfia di dolore.

 

Una volta non sarebbe successo, ci sarebbe riuscito tranquillamente.

 

“Vengo con voi, ma non vi azzardate a toccarla!” sibilò, in un modo che la rese ancora più orgogliosa di lui di quanto già fosse.

 

Si affrettò a raggiungerli e prese Ottavia per la collottola, come le aveva insegnato lui.

 

“Buona, Ottà. Papà va solo a parlare con questi signori ma torna presto.”

 

“Io non ci giurerei,” ribatté il maiale, ma, dopo una sua occhiataccia e dopo avergli piazzato Ottavia davanti alla faccia, ebbe il buon senso di rimanere zitto.

 

E così, con un’ultimo sguardo, Calogiuri sparì oltre la porta, accompagnato dai due ex colleghi, che richiusero il legno con violenza, quasi a spregio.

 

“Mi prometti che te ne stai calma se ti lascio andare?” chiese ad Ottavia, pure se si sentiva morire dentro, ma non voleva che si facesse male.

 

Ottavia la guardò con quegli occhi spalancati ed Imma con un sospiro la prese in braccio e le mollò la collottola.

 

Ma, come lo fece, Ottavia saltò giù e si lanciò verso la porta, iniziando a graffiarla disperatamente.

 

Avrebbe così tanto voluto farlo pure lei, ma le toccò di nuovo afferrarla per la nuca e portarla via di lì, prima che si distruggesse gli artigli, mentre cercava di rassicurarla con un “papà torna presto!” che sperava vivamente non fosse l’ennesima promessa che non avrebbe potuto mantenere.


Nota dell’autrice: E finalmente ce l’ho fatta! Mi scuso moltissimo per il ritardo ma sono state settimane piene di impegni imprevisti che non mi hanno consentito di scrivere. Spero che il capitolo abbia ripagato le attese.

Imma e Calogiuri stanno affrontando la prova più difficile, sia a livello di coppia che a livello legale e professionale. Non sarà facile arrivare alla verità ed alle prove per scagionare Calogiuri, e bisognerà capire cos’hanno in mente Mancini e Irene, oltre che Santoro. Nei prossimi capitoli ci sarà tanto giallo e tanto rosa, mentre ci avviamo sempre di più verso le parti finali di questa storia.

Grazie mille per avermi seguita fin qui, per il vostro supporto costante. Un grazie in particolare a chi ha messo la mia storia tra i seguiti o i preferiti.

Le vostre recensioni mi sono sempre preziosissime per capire come sta andando la scrittura e cosa vi convince e cosa no, quindi grazie di cuore fin da ora se vorrete farmi sapere che ne pensate.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica 11 luglio. In caso di ritardi vi avviserò come sempre nella bio qua in pagina.

Grazie mille!

 

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Capitolo 63
*** La Rabbia ***


Nessun Alibi


Capitolo 63 - La Rabbia


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Allora, dove si trovava ieri sera dalle diciotto in poi?”

 

Santoro, col tono più duro che aveva, lo aveva iniziato a riempire di domande da quando era stato accompagnato nella sala interrogatori da Carminati e Rosati.

 

“Non ho chiesto un avvocato, cosa che sarebbe un mio diritto, ma voglio che questo interrogatorio venga registrato e che sia presente anche il maresciallo Mariani come testimone, visti i pregressi tra di noi, dottore.”

 

“Non è nelle condizioni di porre condizioni, Calogiuri e-”

 

“E o è così o parlerò solo in presenza di un avvocato. Decida lei cosa preferisce, dottore. Ma è un mio diritto ed intendo esercitarlo, se questo interrogatorio non avverrà almeno in condizioni minime di tutela nei miei confronti.”

 

Le vene di Santoro parvero volergli esplodere sulle tempie, ma si impose di ricambiare lo sguardo fisso del magistrato, senza cedimenti, seguendo sia gli insegnamenti di Imma, sia quelli dello studio per il concorso da capitano.

 

Alla fine Santoro fece un cenno verso Carminati e quel maiale uscì, anche lui palesemente furente, tornando dopo un po’ con Mariani - che fu come un’oasi nel deserto, nonostante gli parve anche parecchio preoccupata - ed un registratore.

 

“Allora, dov’era ieri sera dalle diciotto in poi?”

 

“A casa. Cioè, a casa mia e della dottoressa Tataranni, con la dottoressa Tataranni. Da quando sono tornato lì non sono mai più uscito, vista la situazione coi giornalisti,” rispose e vide Mariani registrare e prendere nota.

 

“Quindi mi vuole far credere che lei non è uscito per…” esordì Santoro, consultando poi un tabulato, “sedici giorni?”

 

“No.”

 

Alla sua risposta secca e decisa, Santoro sembrò perdere ancora di più la pazienza e, dopo un attimo di esitazione, gli gettò davanti un fascicolo aperto.

 

Un conato di vomito lo scosse, la testa che gli girava.

 

“Oh mio dio! Ma mo come sta, è ancora viva?!” chiese, senza poterlo evitare, perché quella maschera di sangue non gli sembrava neanche Melita.

 

“E lei come fa a sapere di chi si tratta, maresciallo? Questa donna è irriconoscibile!” obiettò Santoro e Calogiuri si diede dello scemo da solo: lo sapeva ma non avrebbe dovuto saperlo. E questo poteva farlo sembrare colpevole.

 

Pensa, stupido che non sei altro, pensa!

 

“A parte che, visto che sono stato fermato proprio io, è chiarissimo di chi si tratti, e poi l’attaccatura dei capelli ed il segno sul sopracciglio sono inconfondibili.”

 

Santoro, che era stato proiettato verso di lui, con aria trionfante, emise una specie di grugnito e si sgonfiò, tirandosi leggermente indietro, come se stesse pianificando la mossa successiva.

 

Lanciò un’occhiata a Mariani, che lo squadrò come a dire non fare lo scemo!

 

Doveva pesare ogni parola, doveva essere più prudente, non doveva farsi fregare.

 

Per se stesso, per Imma e anche per Melita, che, per quanto lo avesse incastrato, non si meritava di finire così.

 

Chi ti ha fatto questo? E come ti ci hanno tirata dentro in questa storia? - le chiese e si chiese, silenziosamente, sperando che si salvasse e, soprattutto, che potesse ancora avere una vita degna di essere definita tale.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa!”

 

Non era il solito saluto un poco annoiato: gli agenti di guardia all’ingresso della procura erano palesemente sorpresi di vederla.

 

Del resto era comprensibile: era domenica, giorno libero, salvo emergenze, ed inoltre sicuramente sapevano quello che stava succedendo con Calogiuri.


Si limitò però a rispondere con un cenno del capo ed entrò, più decisa che poteva: nessuno le poteva impedire di stare lì, almeno fino a che Mancini non l’avrebbe, prevedibilmente, sospesa. E doveva capire cosa stava succedendo, come procedeva l’interrogatorio di Calogiuri e-

 

“Dottoressa.”

 

Questa volta non c’era sorpresa, ma il suo titolo era stato declinato in quel modo viscido e greve tipico di…

 

“Carminati, che c’è?”

 

L’agente si avvicinò sembrandole sempre più un roditore, un topo, anzi, una pantegana.

 

“Ho l’ordine di portarla subito in una sala interrogatori, dottoressa. Mi segua.”

 

Ci stava godendo come un riccio, e non faceva manco niente per nasconderlo. Evidentemente Santoro lo aveva piazzato lì a farle l’agguato, nel caso si fosse fatta vedere.

 

Avrebbe potuto opporre mille proteste, ma, in fondo, se giocava bene le sue carte, poteva aiutare Calogiuri testimoniando anche lei. Pure se difficilmente le avrebbero creduto.


E poi magari avrebbe ottenuto qualche informazione in più, anche se carpita tra le righe, di come stesse andando lui nel rispondere alle domande.

 

Quindi, per una volta nella sua vita, seguì Carminati senza troppe proteste, pur mantenendo la distanza di sicurezza, che con lui era ancora più ampia che con il resto dell’umanità.

 

Finì nella sala interrogatori numero due, chiedendosi se nella uno ci fosse il suo Calogiuri. Ma tanto erano così insonorizzate che, salvo miracoli, non avrebbe potuto capirlo.

 

E poi Carminati uscì.


Attese.

 

Uno, due, cinque, dieci minuti, mezz’ora, cinquanta minuti.

 

Santoro lo stava facendo apposta, era evidente, per snervarla e per prendersi qualche rivincita, tipica di un maschio omega che si credeva un alpha.

 

Chiunque la conoscesse almeno un minimo sapeva perfettamente che una delle cose che detestava di più in assoluto, insieme ai maleducati, agli impiccioni e agli evasori fiscali, era proprio perdere tempo.

 

Gli avrebbe concesso ancora una decina di minuti al massimo e poi l’avrebbero sentita, molto più di quanto avrebbero voluto.

 

*********************************************************************************************************

 

“E quindi in queste settimane lei è rimasto tutto il tempo a casa della dottoressa Tataranni, nessun contatto con il mondo esterno?”

 

“Visto come mi sta trattando il mondo esterno, ne facevo volentieri a meno, grazie, dottore.”

 

Santoro ormai era paonazzo, si era pure slacciato i primi bottoni della camicia. Gli sembrava di essere lì dentro da un tempo infinito, a rispondere grossomodo sempre alle stesse domande. Quello stronzo sperava di beccarlo in qualche contraddizione, a furia di ripetizioni, ma alla fine, a parte omettere delle indagini parallele con Imma, Irene e per ultimo il beccamorto, stava semplicemente dicendo la verità.

 

“Senta, Calogiuri, parliamoci chiaro, lei è l’unico che può avere interesse a vedere Melita morta!”


“E no, dottore, anzi. Perché mai avrei dovuto ucciderla proprio mo, che tutti avreste subito pensato a me? Chi ha fatto questo è chi ha cercato e sta cercando di incastrarmi, probabilmente per distruggere il maxiprocesso, e l’ha messa a tacere prendendo pure due piccioni con una fava. Toglie di mezzo a me e a lei.”

 

“Ancora con le sue fantasie e le sue manie di grandezza, Calogiuri? Ma che pensa davvero di essere così importante?” lo derise Santoro, in un modo sprezzante, talmente vicino che sentiva le gocce di saliva sul viso.

 

Cercò in ogni modo di trattenersi, per l’ennesima volta quel giorno, di non dargli quello che voleva, di non cedere alle provocazioni e-

 

E la porta si aprì, rivelando il muso suino di Carminati.

 

“Carminati, che c’è?” chiese Santoro, irritato, ma Carminati gli fece cenno di avvicinarsi e gli bisbigliò qualcosa.

 

Santoro fece un mezzo sorrisetto che non prometteva niente di buono e con un “Rosati, lo tenga d’occhio!” uscì insieme al porco.

 

Erano proprio un’accoppiata perfetta.

 

*********************************************************************************************************

 

“E alla buonora!” esclamò, incrociando lo sguardo di Santoro, che si era finalmente degnato di presentarsi, dopo più di un’ora di melina, con il porchettaro appresso.


“A differenza sua, dottoressa, avevo e avrò ancora molto da lavorare, io.”

 

Bastardo!

 

Il puro godimento che leggeva negli occhi del caro collega nel girare il dito nella piaga e nel ricordarle che, presumibilmente, sarebbe ben presto stata sospesa, le fece montare una rabbia tremenda di fronte a tutta quella ingiustizia. Che uno così potesse spadroneggiare e fare del suo lavoro una vendetta personale, mentre chi davvero provava a cambiare le cose, si trovava schernito, incastrato, nei guai, a doversi difendere colpo su colpo.

 

Ma se pensava di farle perdere il controllo e di fregarla, non sapeva ancora chi era Imma Tataranni.

 

“Dov’era ieri dopo le diciotto?”

 

Dritto al punto. Ma pure lei lo sarebbe stata.

 

“Santoro, parliamoci chiaro: non risponderò ad alcuna domanda in presenza soltanto di lei e Carminati. Voglio che sia presente anche il dottor Mancini.”

 

“Il dottor Mancini è molto impegnato e lei non è nella posizione di dettare legge-”

 

“O è così o chiamo un avvocato, Santoro.”

 

“Suo fratello magari? Ah, no, purtroppo è agli arresti! Però le rimane suo nipote.”

 

Le unghie ancora un po’ le spaccarono i palmi: quanto avrebbe voluto tirargli un pugno! Ma per uno così non serviva sporcarsi le mani, anzi.

 

“Santoro, l’ho già aspettata per più di un’ora, cosa che normalmente non farei mai, proprio perché non ho niente da nascondere e voglio collaborare. Ma non sono nata ieri e voglio farlo con persone imparziali e che non abbiano un grave pregiudizio nei miei confronti che, con queste affermazioni, lei non fa altro che confermare. Anche perché non ho avuto proprio nessuna convocazione ufficiale e non sono tenuta a stare qui. Quindi a lei la scelta. Posso sempre andare a parlare con il dottor Mancini non appena uscita da questa stanza.”

 

Il volto di Santoro si contorse in una maschera di rabbia e pure i suoi palmi non dovevano essere messi meglio dei suoi, anzi, ma quasi si lanciò fuori dalla porta, lasciandola sola con quel porco di Carminati.

 

“Devo dire che sta molto meglio vestita da casa, dottoressa. E pensare che avevo regalato un completino a Calogiuri, che secondo me lei avrebbe molto apprezzato, visti i suoi gusti, ma non lo ha voluto. Ma tanto ci ha già pensato da sola.”

 

Eccalà! Non perdeva tempo per fare le sue battute da maniaco.

 

Avrebbe potuto zittirlo, sarebbe bastata una frase ben piazzata, cretino com’era, ma lo lasciò volutamente proseguire, sapendo benissimo che quelle che stava facendo erano configurabili come molestie sessuali e sperando che Mancini arrivasse prima che Carminati si facesse abbastanza furbo da serrare quella fogna che teneva al posto della bocca.

 

“L’altro giorno ho visto una vestaglietta tigrata che sarebbe perfetta, magari la prossima volta che passo dalle sue parti gliela porto e-”

 

“Carminati!”

 

Il porco fece un salto, mentre lei si dovette trattenere dal ridere: Mancini era arrivato, silenzioso come al suo solito, e lo aveva beccato in pieno. Ed era assolutamente furioso.

 

“Do- dottore, non è come-”

 

Per tutta risposta, lei estrasse il suo telefono dalla tasca, proclamò “nel dubbio che non stessero registrando loro, mi sono premunita io!” e fece sentire a Mancini esattamente cosa era uscito sia dalla bocca di Santoro che da quella di Carminati.

 

Mancini la guardò mortificato, manco le avesse dette lui quelle schifezze, e poi si rivolse a Santoro e Carminati in un modo che entrambi gli uomini - se così si potevano definire! - fecero un passo indietro.

 

“Dottore, è la dottoressa che mi ha provocato e comunque registrare gli interrogatori senza avvisare è illegale e-”

 

“Ed invece condurre un interrogatorio in questo modo, a maggior ragione ad una collega, secondo lei è legale Santoro? Sulla parte di Carminati neanche mi esprimo, perché sarebbe come sparare sulla crocerossa.”

 

“Carminati, esca e poi facciamo i conti dopo. L’avevo pure avvertita, ma qua un provvedimento disciplinare non glielo toglie nessuno, oltre al fatto che sentire certe affermazioni mi fa vergognare non solo di essere il suo superiore, ma anche di appartenere al genere maschile.”

 

“Ma… ma dottore.”

 

“Esca!” gridò Mancini, puntando il dito verso la porta e Carminati, capendo che marcasse male, non se lo fece ripetere due volte.

 

“In quanto a voi due,” proseguì il procuratore capo, alternando lo sguardo tra lei e Santoro, “visti i… conflitti in essere tra di voi, assisterò all’interrogatorio. Ma interverrò solo qualora lo riterrò necessario, intesi?”

 

“Per me va benissimo, dottore,” accettò, perché sapeva che lasciare condurre le domande da Santoro era fondamentale per non sembrare che fossero concordate tra di loro.

 

E pure al collega toccò accettare.

 

“Allora, dottoressa, le ripeto la domanda: dove si trovava ieri dalle diciotto in poi?”

 

Imma prese un respiro, guardando Mancini in quella che era una richiesta non verbale di sapere se Calogiuri avesse mantenuto la versione concordata.

 

Mancini fece un cenno quasi impercettibile del capo, ma capì dall’espressione che si erano intesi.

 

“Ero a casa, con il maresciallo Calogiuri.”

 

“Qualcuno che lo può confermare?”

 

“Non credo... ma credo potreste avere conferma, dai controlli incrociati che sapete fare meglio di me, che il maresciallo era da praticamente due settimane che non usciva da casa nostra. Da quando ci è tornato, per essere precisi.”

 

“E come mai non ha detto a nessuno che il maresciallo fosse rientrato… presso la vostra residenza? Considerando anche il grave conflitto di interessi….”

 

Si voltò verso il procuratore capo, perché era stato lui a farle quella domanda, e la delusione che gli percepiva nella voce non era affatto una recita. Sperava fosse un modo di Mancini di reggere la parte con Santoro e non dare l’idea di favorirla in alcun modo, perché, se avesse provato a fregarla….

 

“Perché ero convinta e sono convinta che Calogiuri non c’entri proprio niente con le accuse che gli hanno rivolto e che lo stiano incastrando. E, comunque, non mi stavo più occupando del maxiprocesso, anzi, e…e vorrei capire che è successo mo, per avermi trascinata qua dentro e per essere venuti a prenderlo in quel modo, manco fosse un ladro.”

 

SCIAFF

 

Guardò la foto che Santoro le aveva letteralmente schiaffato sul tavolo e le mancò il respiro: pur sapendo che Melita fosse in condizioni gravi, era messa ancora peggio di come avesse anche solo potuto immaginare.

 

“E voi pensate veramente che Calogiuri avrebbe… avrebbe potuto mai fare una cosa del genere?! Non solo era a casa con me, ma non sarebbe mai capace di commettere una violenza simile, non è proprio nella sua natura! E poi-” esitò per un attimo, sapendo che quello che stava per dire Calogiuri forse non glielo avrebbe mai perdonato, ma ne andava della sua vita e della sua libertà, “e poi, per quanto posso intuire da queste foto, Calogiuri non è nemmeno in condizioni, neanche volendo, di… di poter ridurre qualcuno in questo modo.”

 

“Che vuol dire?” intervenne Santoro, con tono di sfida, “il maresciallo è addestrato, ha una notevole forza fisica e-”

 

Aveva una notevole forza fisica, Santoro. Aveva. Mo è parecchio sottopeso: quando è tornato a stare a casa nostra era in condizioni tali da richiedere assistenza medica praticamente costante e… e, pure se piano piano si sta riprendendo, non ha le forze necessarie per poter commettere un’aggressione di questo tipo.”

 

“Ma che sta dicendo? Ci ho parlato fino a poco fa e-”

 

“E non mi stupisce che Calogiuri, orgoglioso com’è, non abbia voluto farvi notare il suo stato di salute. Ma ho tanto di prescrizioni mediche e di referti delle visite, delle ultime due settimane, che testimoniano in che condizioni era ed è, a seguito del linciaggio mediatico che ha ricevuto. Fatica… fatica ancora a reggersi in equilibrio, se deve fare movimenti più complessi del camminare o di cose da tutti i giorni, ed ha molta meno forza nelle mani, oltre che coordinazione. Qualunque medico potrebbe confermarlo.”

 

Santoro non ribatté, preso in contropiede, ma anche Mancini aveva un’espressione sconvolta, tanto che parve chiederle se fosse la verità o meno. Proprio non se lo aspettava.

 

E non se lo sarebbe mai aspettata nemmeno lei, di dover in un certo senso tradire la riservatezza e la fiducia di Calogiuri in quel modo. Sapeva già che l’avrebbe odiata per quello. Ma era l’alibi migliore che potesse dargli, forse l’unico in qualche modo dimostrabile.

 

“Il maresciallo è sempre stato magro, mi pare,” riuscì infine ad obiettare Santoro, “e non mi è sembrato così debilitato, proprio per niente. Mi paiono tutte scuse, anche perché lei non è un medico e di sicuro non può misurare la forza fisica di una persona. Ma verificheremo. Dottore?”

 

Mancini annuì e, dopo un ultimo sguardo verso di lei, che le parve un spero che non si sia inventata niente! sparì oltre la porta, insieme al caro collega.

 

*********************************************************************************************************

 

Un mezzo boato e la porta si aprì.

 

Ne entrarono Santoro, con l’aria di essere ancor più sul piede di guerra, seguito dal beccamorto.

 

Ci mancava solo lui, ci mancava!

 

Come minimo lo voleva fregare, aspettava solo quello, lo stronzo! E sì che lo aveva pure detto ad Imma!

 

“Calogiuri, si spogli.”

 

Si sarebbe aspettato di tutto, ma proprio di tutto, ma non quello, tanto che si chiese se non avesse capito male.


“Come?”

 

“Si spogli: si levi maglione e, se ce l’ha sotto, la maglia e pure i pantaloni. L’intimo ovviamente lo può tenere, ma il resto no.”

 

“E in base a che cosa?!” esclamò, l’indignazione che montava e gli si espandeva nel petto, “non avete alcun diritto! A meno che non mi stiate arrestando, ed in quel caso l’ispezione me la faranno in carcere. Pure se non c’avete niente in mano, niente!”

 

“Maresciallo,” intervenne Mancini, e si chiese se l’usare quel titolo che praticamente gli avevano tolto o quasi non fosse un modo per blandirlo e, di nuovo, per fregarlo, “non è in arresto e non dobbiamo perquisirla. Ma dobbiamo verificare alcune cose, per motivi strettamente legati all’indagine.”

 

“Se vi serve sapere se ho segni di difesa, vi accontento subito,” disse, levandosi il maglione ma rimanendo con la t-shirt bianca che ci indossava sempre sotto, sperando con tutte le sue forze che non si notasse troppo quanto fosse dimagrito e che il non avere segni sulle braccia fosse sufficiente per chiudere la questione.

 

“Non basta,” esclamò Santoro, perentorio, distruggendo ogni speranza in tal senso, “si tolga anche la maglia e i pantaloni.”

 

“Le conviene, maresciallo, mi creda,” si inserì nuovamente Mancini, con uno sguardo quasi gentile ed un tono che gli diede ancora più sui nervi.

 

Era finto, fintissimo!

 

Ci pensò per qualche istante. Avrebbe potuto aspettare che avessero un mandato. ma prima o poi lo avrebbero visto comunque e… e non era il caso di tirare troppo la corda e dare loro altri motivi per sospettare di lui.

 

E quindi, con un sospiro, si levò la maglietta e si slacciò i pantaloni, abbassandoli fino alle caviglie, rialzandosi e guardandoli con aria di sfida e con tutta quella dignità che gli stava venendo tolta, anche se dentro di sé tremava dalla rabbia, dall’ingiustizia.

 

E fu allora che vide la cosa peggiore che avrebbe mai potuto vedere: Santoro sembrò sorpreso, molto sorpreso, ma Mancini… lo guardava con un misto di senso di colpa e, soprattutto, quasi di pietà che gli era insopportabile.

 

“Come si è procurato quel livido?”

 

“Dottor Santoro, mi pare evidente che si tratti di un livido vecchio, ormai quasi scomparso. Dobbiamo cercare segni recenti.”

 

Sì, Mancini era decisamente in imbarazzo e non poco. Per quello gli aveva levato le castagne dal fuoco, perché le stava levando anche e soprattutto a se stesso. E poi di nuovo quella specie di pietismo che lo fece incazzare ancora di più.

 

“Comunque sì, magro è magro, ma non mi pare così debilitato e privo di forze.”

 

“In che senso privo di forze?” gli scappò, mentre un’ipotesi, una sola, gli veniva in mente, ma non ci poteva credere, che lei gli avesse fatto pure quello.

 

“Se non lo sa lei, Calogiuri, lo deve chiedere alla sua bella, che sostiene che praticamente non è più in grado di fare nulla.”

 

“Il suo bimbo adorato!” lo derise Rosati, mentre pure Santoro si lasciò scappare una risata.

 

Non ci vide più. Fece per fare un passo ma non ci vide di più del tutto e sentì qualcosa tirarlo giù, fino a picchiare contro le piastrelle dure e fredde della stanza.

 

Si rese conto, mentre la vista gli si appannava per le lacrime di rabbia, che era inciampato nei suoi stessi pantaloni.

 

E poi la mano elegante, ben curata, di quello stronzo di Mancini, e tutta quella maledetta commiserazione dietro a quegli occhialetti nuovi. Che avrebbe tanto voluto far fare loro la fine dei precedenti.

 

“No, grazie!” sibilò, provando a tirarsi in piedi, raggranellando gli ultimi sprazzi di dignità che gli erano rimasti, ma quando dall’essere accovacciato provò a estendere le ginocchia, gli cedettero e finì di nuovo per terra, riuscendo a malapena a pararsi il colpo con le mani.

 

Si sentì afferrare per le spalle e, prima di poter protestare, mentre le guance gli bruciavano di rabbia e di umiliazione, si trovò praticamente tra le braccia di Mancini e poi di nuovo seduto.

 

“Non si muova da qua, che ci manca che cada di nuovo. Le mandiamo un medico. Rosati, pure lei non si muova ed eviti le battute, che oggi non è giornata e non ci metto niente a sospenderla. Santoro, venga con me.”

 

Il magistrato gli sembrò voler ribattere ma Mancini lo fulminò in un modo che rivaleggiava con quello di lei - ed il solo pensiero gli fece ancora più male delle cadute - e, in fretta e furia, sparirono nuovamente, lasciandolo lì a leccarsi le ferite, letteralmente.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottore?”

 

Non era tanto stupita dal ritorno di Mancini che anzi, se lo aspettava pure, ma dal fatto che fosse da solo.

 

Sperava che fosse un buon segno.


“Dottoressa…” esordì lui, sedendosi poi davanti a lei in un modo quasi imbarazzato che no, non prometteva niente di buono, “ovviamente la devo sospendere dal servizio, finché la posizione del maresciallo Calogiuri non si sarà chiarita. Ma immagino lo avesse già intuito.”

 

Si limitò ad annuire perché sì, aveva sperato nel contrario ma era giusto quella, una speranza, molto improbabile per giunta.

 

“Può andare nel suo ufficio a recuperare le sue cose e poi la faccio riaccompagnare a casa, che qua fuori già ci stanno i giornalisti.”

 

“Manco avevo fatto in tempo a rimettercele le mie cose. Non mi ci vorrà molto. I giornalisti invece, sempre sul pezzo noto. Ma da chi le prendono le informazioni?!”

 

“Non lo so, dottoressa, non lo so. Ma mi creda, mi piacerebbe scoprirlo quanto e forse pure più di lei.”

 

“Va beh…” sospirò, perché non era il caso di perdere tempo in convenevoli, “Calogiuri come va? Sta ancora sotto interrogatorio?”

 

Vide Mancini darsi un’occhiata in giro e poi guardarla fisso negli occhi, pronunciando, deciso, “lo sa bene che non posso darle questo tipo di informazione.”

 

“Ma non penserete di fermarlo?!” esclamò, indignata e pure disperata, perché Calogiuri, per come era ridotto, la galera mo non se la poteva proprio permettere, “non tenete niente in mano, niente!”

 

“Dottoressa, per evitare… l’inquinamento di prove, il dottor Santoro ha chiesto il fermo cautelare, fintanto almeno che verranno terminati tutti i rilievi.”

 

“Ma Calogiuri è debilitato, dottore, lo ha visto pure lei, immagino!” protestò, tirandosi in piedi, non riuscendo a trattenersi più dall’alzare la voce, “ci manca solo che finisca in una cella! Se volete farlo morire del tutto-!”

 

Il procuratore capo, a sua volta, si alzò, dritto come un fuso e proclamò, in un tono che le parve una sentenza incontrovertibile, “farò quello che devo fare, dottoressa, nell’interesse delle indagini e di tutte le persone coinvolte.”

 

Si sporse in avanti, la rabbia che le ribolliva nello stomaco, fino a sentire la bile in bocca, e sussurrò, “non mi faccia pentire di essermi fidata di lei, dottore, che se no qua faccio un casino. E lo sa come sono fatta, che non mollo il colpo, fosse l’ultima cosa che faccio!”

 

“Ed invece lei lo ha già fatto diverse volte, dottoressa. Farmi pentire di essermi fidato di lei, intendo. Ma agirò in modo professionale, come ho sempre fatto.”

 

Le venne da ridere, ma era una risata dura, amara.


“Come ha sempre fatto?! Dottore, o lei soffre di amnesia selettiva o… mi pare che in alcune circostanze la professionalità se la fosse proprio scordata, o mi sbaglio?”

 

Mancini scoppiò in un attacco di tosse e divenne rosso peggio di un peperone crusco.

 

Ma, dopo uno sguardo strano, che poteva voler tutto e niente, il peggio ed il suo contrario, se ne andò e la piantò lì, senza dire un’altra parola.

 

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“Tu?”

 

“Alzati e seguimi.”

 

Il tono duro e secco non lo stupì, affatto. Ritrovarsi davanti a Conti, peraltro da solo, lo sorprese moltissimo invece.

 

Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma sapeva benissimo non solo che non fosse il momento migliore per farlo, ma anche che, visto quanto era testa dura Conti, non sarebbe servito a molto.

 

Quindi si alzò e fece come gli era stato chiesto, passando davanti, nel corridoio stretto e buio, a Santoro, che lo guardò malissimo, e a Mancini, impettito accanto a lui, e pure lui non scherzava. La pietà si era sostituita ad uno sguardo quasi omicida.

 

Ma forse era meglio così.

 

Uscirono per una porta laterale e Conti praticamente lo buttò in auto, mentre intorno a loro una folla di giornalisti gridava il suo nome.

 

Temeva di sapere dove lo avrebbero portato ma, allo stesso tempo, era stranamente rassegnato al suo destino.

 

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Valentina pareva fulminarla con lo sguardo come a dirle te l’avevo detto!

 

“E lo so, Valentì, lo so. Quando sono venuta a Roma sapevo che sarebbe stato tutto più difficile. Forse non mi immaginavo così tanto,” sospirò, decidendosi a ritirare la cornice nello scatolone, insieme ai suoi pochi altri effetti personali.

 

Anche perché parlare con una foto era decisamente insensato, e le ci mancava solo che qualcuno dubitasse della sua salute mentale.

 

Chiuse lo scatolone, incastrandone i lembi meglio che poteva, ma il “dottoressa!” alle sue spalle per poco non le fece cascare tutto.

 

“Signorina Fusco!” esclamò, voltandosi e trovandosi di fronte alla sua bionda ormai quasi sicuramente ex cancelliera, “mi ha fatto prendere un colpo, mi ha fatto prendere! Che ci fa qua?”

 

Era domenica ed era quindi giorno libero per lei.

 

“Ho sentito le notizie e… e volevo capire se avesse bisogno di qualcosa e… e poterla almeno salutare stavolta.”

 

Nonostante la chioma tinta male ed il completo attillato, che voleva fare Ferrari dei poveri ma che la faceva soltanto sembrare una commessa di un negozio di abbigliamento low cost, provò un inatteso moto di tenerezza verso Asia.

 

Non era poi così male, anzi, e, per qualche motivo inspiegabile, sembrava esserle più affezionata di quanto si aspettasse. E di quanto si meritasse, visto come la trattava.

 

“Quindi è venuta ad accertarsi che questa volta me ne vada per davvero?” ironizzò, perché non era tipa da smancerie e perché poteva essere l’unica ipotesi logica.

 

Asia sorrise.

 

“Diciamo che… non è facile lavorare con lei, dottoressa, ma sicuramente sono stati degli anni indimenticabili, nel bene e nel male.”

 

Le si piantò un nodo in gola e gli occhi le si fecero maledettamente umidi. Asia era più intelligente di quanto le avesse mai dato credito e sapevano tutte e due che quello, almeno lavorativamente parlando, era un addio.

 

“Le auguro che il mio successore sia indimenticabile solo nel bene. Ma, visti i colleghi che ho conosciuto negli anni, non glielo garantisco,” ribattè quindi, per poi congedarsi con un, “grazie di tutto, veramente!” ed un rapido abbraccio che si guadagnò un mugolio di sorpresa.

 

E poi, cercando di inghiottire la commozione, si avviò verso la porta, pronta a lasciare quella procura, nella quale non sarebbe più tornata se non per qualche processo, si sperava non da imputata.

 

“Imma!”

 

“Ma che c’avete stasera?!” esclamò, perché di nuovo per poco non le era cascato tutto dalle mani.

 

Ma stavolta la colpevole dell’attacco alle sue coronarie era nientepopodimeno che la gatta morta.

 

“Puoi venire un attimo nel mio ufficio, prima di andare?” le chiese, in un tono abbastanza basso da essere indice di un discorso da fare lontano da orecchie indiscrete.

 

Non se lo fece ripetere due volte e ci entrò, aspettando giusto giusto che la porta si richiudesse alle loro spalle, prima di chiederle “dov’è Calogiuri? Che sta succedendo?!”

 

E fu allora che la gattamorta le mise le mani sulle spalle che, se non c’avesse avuto il cartone in mano, se le sarebbe scrollate di dosso subito.

 

“Imma, adesso devi soltanto andare a casa e cercare di rimanerci il più possibile nei prossimi giorni: è la cosa migliore che puoi fare, anche per lui.”

 

“Ma le indagini-”

 

“Appunto! Devi lasciarci lavorare, Imma, da soli. Perché, se scoprissero delle ingerenze ora, sarebbe fatale per te e per Calogiuri. Vai a casa e cerca di fidarti di me per una volta!”

 

Il tono e lo sguardo di Irene le sembrarono stranamente sinceri, e poi si trovò schiacciata in un mezzo abbraccio, il cartone che le si infilava tra le costole.

 

Sperando che non fosse l’abbraccio di Giuda!

 

“Ti accompagno, che fuori ci sono già i giornalisti appostati e non puoi tornare a piedi.”

 

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Girò la chiave nella toppa e la serratura blindata scattò, la porta che si girò sui cardini.

 

Buio.

 

Silenzio.

 

Fu un colpo trovarla così, anche se se lo aspettava, come si aspettava la palla di pelo che le saltò sulle gambe, travolgendola, che ancora un po’ le sfuggiva di mano la scatola e ci finiva schiacciata sotto.

 

I giornalisti erano scatenati, pure più delle altre volte e… e il fatto che Calogiuri ancora non fosse rientrato non era un buon segno, affatto.

 

Come che non avesse avuto sue notizie.

 

Mollò il cartone all’ingresso - che tanto quelle cose per un bel po’ non le sarebbero servite - si levò i tacchi e, massaggiandosi i piedi doloranti, saltellò fino al divano, dove afferrò il telecomando.

 

Doveva capire che cosa stava succedendo e non si sarebbe affatto stupita se i maledetti reporter fossero stati più informati di lei.

 

Stava per schiacciare il tasto rosso, quando suonarono alla porta e stavolta il telecomando le cadde di mano, cascandole pure su un piede.

 

Trattenendo un mugolio di dolore, si avviò a fatica verso l’ingresso, che chiunque ci fosse stava bussando violentemente alla porta.

 

“Arrivo!” urlò, spaventata, sapendo che quello era un altro pessimo segno.

 

Si infilò le scarpe e preparò sottomano la borsa, temendo che volessero fermare anche a lei.

 

E poi, in mezzo a quel delirio, le toccò pure abbrancare Ottavia per la collottola, che stava già grattando alla porta come un’assatanata.

 

“Chi è?!” gridò, a pieni polmoni.

 

“Sono io, apra!”

 

“Conti?” domandò, sorpresa, anche se effettivamente quel porco di Carminati era fuori gioco ormai, almeno per un po’.

 

Aprì di poco il legno, incrociando lo sguardo di Conti e poi…

 

Azzurro.

 

Non perse altro tempo e spalancò la porta, incredula e allo stesso tempo felice come non lo era forse mai stata, di vedere anche Calogiuri accanto all’altro maresciallo.

 

Pure lui sembrava meravigliato quanto lei. Ma, quando i loro sguardi si incrociarono, notò una strana durezza.

 

Era ancora incazzoso, e certo!

 

“Calogiuri deve restare a disposizione, e anche lei, dottoressa. Per ora non hanno disposto il fermo cautelare, ma a patto che stia, anzi che stiate qua in casa il più possibile, altrimenti Mancini potrebbe rivedere la sua posizione.”

 

Sospirò, ed era in egual parte frustrazione e sollievo.

 

Alla fine Mancini non l’aveva fregata. E forse era stata un po’ troppo dura con lui ma, quando si trattava di Calogiuri, non ci capiva più niente e non riusciva proprio a trattenersi.

 

Con un cenno a Rosati, che stava all’angolo del pianerottolo, Conti se ne andò, freddo, meccanico e preciso come era stato fino ad allora.

 

Probabilmente avevano lasciato qualcuno sotto casa a tallonarli, su quello poteva scommetterci tranquillamente qualsiasi cifra.

 

“Calogiù, entra, dai!” esclamò, facendo per prenderlo per un braccio ma lui si scostò bruscamente e quello le fece perdere per un attimo l’equilibrio e la presa su Ottavia che, riscossasi dalla paralisi, si buttò addosso a papà suo con altri mugolii che avrebbero dovuto essere vietati dalla convenzione di Ginevra.

 

E per poco non cascò all’indietro pure Calogiuri, ma si appoggiò alla porta e ricambiò le coccole e le fusa, accarezzandola per cercare di tranquillizzarla.

 

Quanto l’avrebbe voluta pure lei una carezza, una sola le sarebbe bastata, sia per accertarsi che non fosse un sogno e che lui fosse veramente ancora lì con lei, almeno per il momento, sia per sapere che le cose tra loro non erano messe così male. Ma invece, quando riprovò ad avvicinarsi, Calogiuri si allontanò di nuovo, ed entrò in casa mantenendo una distanza di sicurezza, oltre che un’aria cupa e nera come la pece, che per lei erano una coltellata.

 

Le cose erano messe così male.

 

“Come stai? Come ti hanno trattato? Che è successo?” gli chiese, perché, incazzato o no, non poteva trattenere la sfilza di domande alle quali era da ore che cercava disperatamente una risposta.

 

Ma Calogiuri si limitò ad avvicinarsi al divano, un poco tremolante sui piedi. Troppo, nonostante Ottavia non aiutasse, per quanto si muoveva.

 

“Ma hai mangiato qualcosa? Mo ti preparo la cena e-”

 

“Smettila, Imma! Non sei mia madre!”

 

Aveva gridato talmente forte che Ottavia si buttò a terra e si nascose per un attimo dietro al divano, per poi guardarlo preoccupata.

 

“Ma che c’entra questo mo, Calogiuri?! E certo che non lo sono, che ci mancherebbe altro, ci mancherebbe! Anche perché, visto com’è mamma tua! E-”

 

“E non fa niente, perché tu così mi tratti: come un bambino! Sempre! Che ancora un po’ ci manca solo che mi dai pure il biberon e stiamo a posto, per tutto quello che hai fatto nelle ultime settimane! E mo non me ne sono accorto soltanto io, ma lo vedono benissimo pure gli altri”

 

“Ma che dici?! E gli altri chi?! Che stavamo sempre soli?” esclamò, completamente presa in contropiede, perché si sarebbe aspettata una sfuriata per Mancini o… o per altro, ma non questo, mai.

 

E fu allora che Calogiuri le fece uno sguardo che era puro tradimento, peggio ancora di quando gli aveva chiesto di incastrare Lolita.

 

E bastò quello per capirsi, per capire che lui sapeva benissimo quello che aveva dovuto fare per averlo lì con lei invece che in galera.

 

“Ma perché?” le chiese, e non era più un urlo, anzi, teneva la voce rotta che pareva sull’orlo del pianto, “perché lo hai dovuto fare, Imma? Perché mi hai dovuto umiliare così? Non era già abbastanza, eh? Tutto quello che avevo dovuto subire con Mancini, Santoro, Carminati e tutti quegli altri stronzi?!”

 

“Calogiù…” sussurrò, sentendosi comunque una merda, anzi, una cloaca intera, “lo so, ma… ma era l’unico modo, l’unico appiglio che avevo per tenerti fuori da una cella. E lo sai che, nelle tue condizioni, stare in carcere è l’ultima cosa di cui hai bisogno e-”

 

E lo dovrei decidere io di cosa ho bisogno, IO, e non tu! E invece, lo vedi che mi continui a trattare come un bambino? Come… come se fossi troppo debole per decidere da solo! Ed è così che mi hai fatto sentire: debole! Mi sono dovuto spogliare, Imma, davanti a tutti! Pure a quello stronzo di Mancini che, dopo tutto quello che mi ha fatto, mi ha pure guardato con pietà, neanche fossi un povero invalido. E lo sapevi che lo avrebbero fatto. E lo sapevi che non avrei mai voluto che nessuno mi vedesse ridotto così e-”

 

“E pure se sono tutti degli stronzi, Calogiuri, e pure se ti giuro che li strozzerei tutti con queste mani, uno a uno, Mancini compreso, preferisco mille volte che tu stai qua, odiandomi, piuttosto che saperti là dentro, con la gente che ci sta là dentro, e che hai contribuito pure tu a mandarci là dentro.”

 

Una specie di misto tra un singhiozzo ed un ghigno amaro e poi Calogiuri la pugnalò con un, “e invece io avrei preferito forse stare in galera. Almeno là avrei potuto dimostrare di essere capace di difendermi da solo. E sicuramente mi avrebbero trattato di merda, e sarei stato in pericolo, ma mi sarei evitato tutta questa… pietà che non sopporto più!”

 

Peggio che se le avesse mollato un ceffone. Anche se non lo avrebbe mai fatto. Ma a ferire con le parole lo aveva imparato da lei.

 

“Pietà?!” gli urlò di rimando, perché non poteva e non voleva credere a quello che stava sentendo, a quello che gli stava uscendo dalla bocca, “non è pietà, ma amore, Calogiuri, amore! E mo stai esagerando!”

 

“Amore?” ripeté, pronunciando quella parola, la parola che per lei era più difficile pronunciare in assoluto, in un modo quasi sprezzante, “per te l’amore è controllare tutto e tutti, Imma. Ma io non sono Valentina e non sono Pietro, non funziona così! E mo, se mi vuoi scusare, ho bisogno del bagno, perché, se ti interessa saperlo per annotartelo sulla cartella clinica, no, non ci sono ancora andato oggi!”

 

E si voltò e se ne andò, lasciandola lì appesa come un salame, Ottavia che da dietro al divano la guardava malissimo, anche mentre sentiva la porta del bagno venire sbattuta con tanta forza da rimbombare per tutta la casa.

 

Si lasciò cadere sul divano, lasciandosi andare alle lacrime e menando due pugni al cuscino.

 

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“È ora?”

 

Quegli occhioni azzurri lo guardavano in un modo che avrebbe voluto solo poter stare lì per sempre. Ma il dovere chiamava - e pure la prudenza.

 

“Sì. Se non mi avvio perdo la corriera,” sospirò, alzandosi dal divano dov’era seduto con lei e con Noemi, che guardava i cartoni, ed avviandosi per recuperare cappotto e valigia, ignorando due paia di occhi tristi che erano una pugnalata.

 

Ed estrasse pure il cellulare di tasca, che aveva silenziato per godersi il momento con loro, in quel rito che ormai ogni domenica segnava il ritorno al mondo reale.

 

Ma fece quasi fatica a sbloccarlo, perché lo trovò intasato di notifiche: messaggi, chiamate perse, e per un attimo gli prese un colpo che fosse successo qualcosa a Valentina o a Imma.

 

Tirò un sospiro di sollievo quando si rese conto che loro due erano invece proprio tra i contatti che non avevano inviato nulla.

 

Almeno fino a che notò che, oltre ai colleghi e ai compagni di calcetto, ci stava pure un messaggio di Vitolo.

 

Hai visto che era davvero un violento? E tu che ti sei pure scusato!

 

C’era sotto un articolo e ci cliccò sopra per vedere una foto del fratello di Rosa, scortato da altri agenti e, facendo scorrere rapidamente il testo, scoprì che la ragazza che aveva testimoniato contro di lui in tribunale era stata trovata pestata a sangue e che quindi lui era il principale sospettato. Secondo l’articolo, probabilmente sarebbe stato arrestato da lì a poco.

 

“Pietro!”

 

Gli bastò incrociare lo sguardo di Rosa, bianca come un cencio, pure lei con il cellulare in mano, per capire che anche a lei era già arrivata la notizia.

 

“Persino nostra madre mi ha scritto! Per dirmi di non farci vedere più, dopo che abbiamo disonorato la famiglia! Ma… Ippà sarà pure un po’ scemo, ma non è un violento, non farebbe mai una cosa così.”

 

“Lo so,” la rassicurò, e si stupì nel constatare che non era solo un modo per consolarla, ma che lo pensava realmente, per quanto avesse potuto odiare il maresciallo in passato.

 

Pure se non stava a casa sua - purtroppo! - afferrò il telecomando e, nonostante le adorabili proteste della peste, girò sul primo canale di notizie che trovò.

 

Dovettero attendere poco, giusto il tempo dei risultati delle partite pomeridiane, e le parole “nuovo scandalo alla Procura di Roma!” e un “Tata! Iene!” che veniva da vicino alle sue ginocchia, annunciarono la comparsa di Imma, accompagnata da una collega, che uscivano dalla questura. Imma aveva in mano uno scatolone che diceva più di mille parole.

 

“Dottoressa Tataranni, è stata sospesa dal servizio?”


“Dottoressa Tataranni, è vero che il maresciallo è stato trovato a casa sua?”

 

“A casa nostra! ” sibilò Imma, sottolineando l’ultima parola con orgoglio misto ad indignazione, “e comunque il maresciallo Calogiuri è innocente e lo dimostreremo. Ma sicuramente non qua a voi, ma nelle sedi competenti. E mo lasciateci passare!”

 

Le grida dei giornalisti si fecero ancora più forti ma Imma, scortata dall’altra PM e da un’agente donna bionda, si fece strada tra loro quasi a spintoni, salì su una macchina elegantissima e se ne andò.

 

Si voltò alla sua destra e capì subito che pure lei era terrorizzata quanto lui. Non solo per il casino inimmaginabile e gravissimo che stava succedendo, ma perché… evidentemente Imma e suo fratello erano tornati insieme.

 

E mo sarebbero stati ‘azzi amari, anzi, amarissimi, pure per loro.

 

“Che dicono chelli? Che fa Tata? Che c’enta cio?”

 

Spense rapidamente la TV, prima che Noemi li travolgesse con altre mille domande, si guardò con Rosa, che pareva sull’orlo dello svenimento, e gli venne spontaneo abbracciarla forte.

 

“Non ci torno a Matera stasera,” proclamò, decidendolo mentre le parole gli si formavano in bocca.

 

“Come non torni a Matera?” esclamò lei, stupita.

 

“Chiederò qualche giorno di ferie e nessuno me le può negare, con tutto quello che sta succedendo. Rimango qua a Roma, finché non ci si capisce qualcosa di più.”

 

“Ma potrebbe… potrebbe essere ancora più rischioso e-”

 

“E lo faccio pure per Valentina, mica solo per te,” la rassicurò, facendole l’occhiolino, anche se lo sapeva pure lui che stava rischiando grosso - altro che pestaggio! - per poi aggiungere, più serio, “e comunque, in una situazione così, qua da sola non ti ci lascio.”

 

Gli mancò letteralmente il fiato perché si trovò stritolato in un abbraccio, che ricambiò meglio che poteva.

 

Almeno fino a quando delle manine che gli picchiavano sul fianco lo fecero staccare per prendere in braccio Noemi, che stava praticamente cercando di saltare loro addosso per venire inclusa nell’abbraccio, mentre continuava a chiedere di Tata e Cio.

 

“Noè, che non sei contenta che Pietro rimane ancora un poco qua?”

 

La mitragliata di domande si fermò per un attimo e Noemi gli chiese, con un entusiasmo che in altre circostanze lo avrebbe commosso tantissimo, “davveo stai qua?”

 

“Diciamo che sto a Roma un poco di più, anche se stasera mi sa che devo andare a parlare con Valentì. Ma prima, che ne dici se cuciniamo noi qualcosa per la mamma?”

 

“Sììììì! Pizza! Pizza!”

 

E, così, tra gli ululati di Noemi, la accompagnò a lavarsi le mani, sperando di riuscire in qualche modo ad uscirne da quella situazione.

 

Tutti interi, possibilmente.

 

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Chiuse la porta alle sue spalle, l’aria del corridoio che gli sembrò gelida rispetto all’umidità del bagno.

 

Uscito da quella bolla in cui si era rifugiato, per cercare in qualche modo di sfogare il dolore e la rabbia che lo mangiavano dentro, alle sue orecchie giunsero, chiare e nitide, delle urla scomposte che si accavallavano, in un frastuono infernale.

 

Riconobbe di sottofondo la musichetta ansiogena tipica dei telegiornali e, temendo cosa potesse significare, si avviò verso la sala, dove ci trovò Imma, ferma impalata sul divano, il telecomando in una mano ed il cellulare nell’altra. Un’espressione che pareva fatta di pietra.

 

Ignorò il rimescolio di emozioni nello stomaco, al vederla così, e si voltò verso il televisore.

 

E ci trovò quello che si aspettava, ma che non avrebbe mai voluto trovare, schiaffato su un canale nazionale di news ventiquattro ore.

 

Si rivide trascinato in procura e poi scortato fuori, in mezzo alla calca. Pure così, pure in tutto quel casino, riusciva chiaramente a notare quanto fosse malconcio. E la cosa gli faceva una rabbia incredibile.

 

“Dottor Santoro! Qual è la posizione del maresciallo Calogiuri? Resta il principale sospettato?”

 

Santoro non aveva risposto, ma aveva fatto una specie di ghigno che era già una risposta.

 

“Il maresciallo Calogiuri che, secondo voci di corridoio, non sarebbe nuovo ad episodi violenti, non è stato fermato, ma il cerchio intorno a lui sembra stringersi sempre di più.”

 

Secondo voci di corridoio.

 

Chissà di chi erano le voci che aveva sentito il giornalista, se di Carminati, di Rosati o dello stesso Santoro.

 

E poi la botta finale: il volto di Melita, o quello che ne rimaneva, coperto di sangue - che chissà da chi l’avevano avuta quei bastardi quella foto! - affiancato al suo.

 

D’istinto, allungò la mano per afferrare il telecomando dalla mano di Imma, che non poteva sopportare di sentire altro, ma, nello sporgersi, sentì tutto il sangue andargli verso i piedi e gli girò la testa.

 

Si trovò mezzo abbracciato da Imma, che lo sorreggeva e lo aiutava a sedersi.

 

Si allontanò subito da lei, rintanandosi nell’angolo del divano: in quel momento quel contatto gli faceva troppo male, lo faceva sentire inutile ed era l’ennesima umiliazione per lui.

 

Gli venne di nuovo da piangere e cercò di trattenersi, mentre dava pugni al cuscino: uno, due e-

 

E si trovò la mano bloccata prima di poter sferrare il terzo.

 

“Basta! Ci manca solo che ti trovano con lividi sulle mani, mo.”

 

Imma, che gli teneva le dita tra le sue, lo guardava con occhi pieni di preoccupazione, ma il tono era quasi severo.

 

Gli venne ancora più rabbia, si liberò la mano e gli uscì un, “non sono un cretino! Lo so benissimo! Ma in qualche modo mi devo pure sfogare e-”

 

“E allora sfogati con me, parlami, Calogiuri, maledizione, parlami! E lo so benissimo che non sei un cretino e non mi sembra di averti mai trattato come tale, anzi,” gli urlò quasi, e si sentì picchiare un dito sul petto, “e non ti ho mai trattato come un bambino, o come un figlio - se non forse ai primi tempi che ti ho conosciuto, che c’avevamo un rapporto un poco più ambiguo da quel punto di vista, ma pure tu mi trattavi come una figura quasi materna allora.”

 

In effetti era vero, ma-

 

“Ma poi le cose sono cambiate, per fortuna: tu hai iniziato a vedermi come una donna e io… se non ti avessi visto come un uomo, non avrei mai rivoluzionato tutta la mia vita per stare appresso a te e di sicuro non avrei mai e poi mai accettato di sposarti e… di cercare di avere un figlio da te.”

 

Le ultime parole erano cariche di un dolore quasi lancinante ed ebbe l’ennesima conferma di quanto quel figlio mancato fosse una ferita ancora aperta e viva per lei.

 

“Però forse potrei cominciare a pensarlo mo, se continui a comportarti come… come un adolescente incazzato, roba che manco Valentina faceva queste sceneggiate!”

 

Fu come uno schiaffo dritto in faccia, stava per protestare ma lei continuò a premergli sul petto e concluse con un, “ho fatto quello che avresti fatto pure tu, se ci fossi stata io al posto tuo. E, se soltanto riuscissi per un attimo ad essere razionale, lo sapresti anche tu.”

 

Io? Tu pensi veramente che ti avrei costretta a spogliarti davanti a… a che ne so, a Irene e a Matarazzo o alla D’Antonio?”

 

“Se l’alternativa fosse stata farmi finire in galera dove ci stanno gli affiliati dei Mazzocca e dei Romaniello? Voglio proprio sperare di sì!”

 

“Ma te lo avrei chiesto Imma, te lo avrei almeno chiesto prima di farlo, ne avrei parlato con te e-”

 

“E pure io ne avrei parlato con te e te lo avrei chiesto, se ne avessi avuto il tempo. Ma quando avrei potuto farlo, eh, Calogiù, me lo dici quando?! Che ti hanno portato via e non sapevo se e quando ti avrei più rivisto?”

 

Forse fu la disperazione negli occhi di lei, che parevano quasi neri e brillavano di lacrime e di rabbia.

 

Forse fu che una parte di lui si mise per un attimo nei suoi panni e sapeva che… che tutti i torti non li aveva. Che… al solo immaginarla in galera, avrebbe smosso mari e monti per impedirlo e-

 

“Ma che pensi che non lo capisco come ti senti? Ma lo sai almeno quante umiliazioni ho subito io, quanti rospi ho dovuto ingoiare io? Ma ho sempre tirato avanti e sto ancora qua, a lottare. E, se vuoi dimostrare a tutti che sei un uomo, è questo che devi fare: lottare, senza lasciarti andare! E lo so che lo puoi fare!”

 

Gli venne come un groppo in gola, mentre provava un qualcosa che manco lui riusciva bene a spiegare.


Ed Imma, fiera e bella in quel modo impossibile che aveva soltanto lei, si alzò in piedi e con un “a proposito, devo sentire Valentina mo, prima che lo sappia dai giornalisti, se non lo sa già!” si allontanò, lasciandolo lì con qualcosa che bruciava nel petto, appena sotto a dove percepiva ancora il calore delle sue dita.

 

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“Ma che è?!”

 

Notò con imbarazzo che alcuni altri passeggeri intorno a lei si voltarono, forse prendendola per matta, ma poi proseguirono lungo i binari, verso le uscite.

 

Lei invece rimase piantata lì, perché quando era scesa dal treno, dopo aver fatto un pisolino di qualche ora - per recuperare in parte la notte semi insonne dalla rabbia e frustrazione - si era trovata un botto di messaggi e notifiche.

 

Ignorò per un attimo i social ed aprì l’app di messaggistica dove c’erano le persone a lei più vicine. Notò subito che pure Carlo le aveva scritto.

 

Pensare a lui le diede una sensazione un poco strana. Forse per quello non seppe resistere e aprì il suo contatto.

 

Mi dispiace tantissimo! Se hai bisogno io ci sono e spero che si risolva tutto in fretta. Posso chiamarti quando te la senti?

 

Le prese un colpo: le parve quasi un messaggio di condoglianze, anche se, a quanto pare, qualsiasi cosa fosse successa forse era risolvibile.

 

In quel momento, le squillò il telefono in mano.

 

Papà

 

“Pronto?”

 

“Hai sentito tua madre?”

 

La concitazione che aveva nella voce decisamente non era normale, soprattutto per lui che era sempre così tranquillo.

 

“No, ma che succede?”

 

“Sei ancora in giro? Dove sei?”

 

“Sono appena arrivata a Roma, pà, e mi sono trovata con un botto di messaggi. Ma è successo qualcosa? Mi devo preoccupare?”

 

“Mamma probabilmente è ancora impegnata,” ribattè lui, e Valentina non potè fare a meno di notare come, per l’ennesima volta, non avesse risposto alla sua domanda, “ma io sto… sto arrivando a Roma.”

 

“A Roma? Di domenica sera? Ma che succede? Il nonno? La nonna?”


“Ma va, no! Non preoccuparti per nonna, che è immortale!” ironizzò lui, ma a lei tutto veniva tranne che da ridere, “ma mi devi promettere che mi aspetti prima di leggere i messaggi, va bene? E prova a chiamare tua madre, soprattutto.”

 

“Ma sei sul bus?”

 

“S- sì, sì.”


“Strano c’è poco rumore e-”

 

Proprio in quel momento, sentì grida e urletti di un bimbo.

 

“Ecco, mo sì che la riconosco la Marozzi!”

 

“Devo andare mo, Valentì. Che qua c’è poco campo. Aspettami a casa, va bene?”

 

“Va bene,” rispose, ancora più scombussolata.


Fece appena in tempo a mettere giù che si trovò con altre due notifiche di chiamate perse.

 

Mamma

 

Con la certezza ormai che fosse successo qualcosa di grave, per non dire una disgrazia, provò a richiamarla ma la linea era occupata.

 

“Maledizione!” imprecò, beccandosi qualche altra occhiata in cagnesco.

 

Stava per arrendersi, ritirare il cellulare e cercare in qualche modo di tornare a casa per aspettare papà, quando il telefono di nuovo si mise a squillare.

 

Mamma

 

“Pronto?! Ma si può sapere che succede?!”

 

“Valentì, finalmente!”

 

Sua madre le parve quasi senza fiato, oltre che agitatissima, cosa che non era lei.

 

“Scusami, ma non ho proprio potuto chiamarti prima. Dove stai? Hai già visto le notizie?”

 

Era da quando pensava che fosse scomparsa a Maiorca che non la sentiva così.

 

“Sto a Termini, mà, e no, non ho visto le notizie ma ho tipo tremila messaggi da leggere e papà mi ha appena chiamato che sta venendo a Roma. Si può sapere che cazzo è successo?!”

 

Silenzio.

 

Manco un rimprovero per la parolaccia, niente.

 

Mo aveva veramente paura.


“Aspetta un secondo solo, Valentì,” la sentì sussurrare e poi come un borbottio in lontananza, ma non riusciva a capire che stesse dicendo e a chi.

 

“Ci stai ancora?” udì infine, col tono melodioso di sua madre che per poco non le spaccò un timpano, visto che aveva alzato completamente il volume per cercare di carpire qualcosa.

 

“E dove vuoi che stia mà? Ma si può sapere che succede? Mi stai facendo paura!”

 

“Lo so, Valentì, ma… se sta arrivando pure papà tuo… appena arriva venite qua, subito.”

 

“Ma a casa tua?” le domandò, sorpresa, visto che nelle ultime settimane era stata molto restia a vedere gente.

 

“Sì, sì. Devo parlarvi, a tutte e due.”

 

“Lo sai che così non mi tranquillizzi, sì?”

 

“Lo so, ma… non sono cose di cui posso parlare al telefono, Valentì.”

 

“Va bene. Va bene. Avviso papà ed arriviamo.”

 

*********************************************************************************************************

 

Sospirò, chiudendo la telefonata, ed alzò lo sguardo verso quegli occhi azzurri, così preoccupati.

 

“Grazie… grazie della comprensione, Calogiù,” sospirò di nuovo, lasciandosi ricadere sul divano, perché si sentiva stremata e la giornata non era ancora finita, anzi, “lo so che… lo so che non volevi farti ancora vedere da Valentì e soprattutto da Pietro ma-”

 

“Ma tanto a che serve? Ormai mi hanno visto tutti. Tanto vale! E poi… e poi non voglio che tu abbia problemi in famiglia per causa mia.”

 

Quella frase ed il modo in cui la pronunciò le fecero tenerezza e rabbia insieme.

 

“La mia famiglia?” gli domandò, voltandosi del tutto verso di lui, che se ne stava ancora arroccato nel suo angolo del divano, “anche tu sei la mia famiglia, Calogiù! E quindi, se non mi vuoi dare problemi….”

 

Lui si morse le labbra e fece un’espressione strana, ma poi si tirò in piedi, anche se era ancora un poco barcollante, facendole però segno di non seguirlo e, visto che era tutto sommato stabile, se ne guardò bene.


“Vado… vado a cambiarmi, che mica posso accoglierli in accappatoio,” proclamò, avviandosi verso la loro stanza da letto.

 

Oltre all’ansia, le ci mancava solo il magone mo!

 

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Nonostante fosse fissa dietro la porta da mezz’ora ormai, il suono del campanello la fece sobbalzare lo stesso.

 

Spalancò subito, trovandosi davanti a Valentina e Pietro. Lui che c’aveva delle occhiaie tremende, ma tremende proprio - ma mica era partito di notte? - ma pure Valentina non scherzava - anche se lei probabilmente le teneva per un motivo più piacevole, beata gioventù!

 

“Ma si può sapere che succede? Cos’è tutto questo mistero?! Non ne posso più!” sbottò subito sua figlia, con quel tono di voce che perforava i timpani e che, come minimo, era già stato udito da tutto il palazzo.

 

“Entrate, su!” li invitò, prendendo la figlia per un braccio e facendo spazio a Pietro, per poi richiudere subito il portoncino.

 

“E allora?!”

 

“E allora mo ti spieghiamo. Pietro, tu sai già tutto, immagino, visto che stai qua e non a Matera?”

 

Pietro si limitò ad annuire con un sospiro.

 

“Va beh, datemi i cappotti e poi sedetevi sul divano, che vi dobbiamo spiegare.”

 

“In che senso dovete?” chiese Valentina, mentre le mollava il giaccone, guardando tra lei e suo padre.

 

“Non io e papà, Valentì,” chiarì, prendendo un respiro e lasciando cadere i cappotti su una delle sedie libere, prima di prendere un secondo respiro, ancora più lungo del precedente, e decidersi a chiamare, “sono arrivati! Vieni!”

 

La porta della loro stanza da letto si aprì e ne uscì Calogiuri, vestito con un maglione e dei jeans che avrebbero dovuto mascherarne la magrezza, ma che si vedeva subito che erano troppo grandi per lui.

 

“Che cosa?! Che cosa ci fa qua questo stronzo?!”

 

Era stata Valentina ad urlare, e si era tirata in piedi, incazzosa peggio di lei quando proprio le girava male, e stava marciando verso Calogiuri.

 

“Valentì, aspetta!” gridò, riuscendo ad abbrancarla per un braccio, pure se lei cercava di divincolarsi, che a Calogiuri per come stava messo mo, sua figlia lo stendeva che non ci metteva niente.

 

“Aspetto che cosa, eh, mà, che cosa?” le urlò lei, in faccia, strattonandole via il braccio - ma che era una moda, mo? - per poi gridarle, sprezzante, “se te lo sei ripreso, puoi evitare tutta questa pantomima! Che tanto non lo accetterò mai! Ma che sei scema e-”

 

Stava per cedere all’impulso di tirarle un ceffone quando per fortuna Pietro si mise in mezzo, come ai vecchi tempi, tenendo Valentina per le spalle, “Valentì, e su, dai. Lasciamoli almeno parlare!”

 

“Che cosa?! Non dirmi che sei d’accordo pure tu! Che questo bastardo-!”

 

Ed in quel momento preciso avvennero due cose, più o meno nello stesso istante.

 

Valentina si voltò verso Calogiuri, che era a pochi passi da loro, con l’aria di chi era pronta all’assalto, ma poi si bloccò, mentre lo guardava dall’alto in basso.

 

“Ma… ma come ti sei conciato?” gli chiese, finalmente con un tono che non raggiungeva gli ultrasuoni, stupita e turbata, “e che hai fatto ai capelli? E ai vestiti?”

 

“I capelli glieli ho dovuti tagliare io, Valentì, e lo sai che non sono un granché come parrucchiera, e per il resto-”

 

“Diciamo che… che ho avuto un po’ di problemi di stomaco e ho perso peso, ma sto cercando di riprendermi,” intervenne Calogiuri, mortificato.

 

“E quindi soltanto perché c’ha avuto problemi di stomaco,” riprese Valentina, con un sarcasmo che le fece capire quanto la minimizzazione di Calogiuri, ovviamente, non l’avesse convinta, “te lo sei ripreso in casa?”

 

“No, Valentì, no, non è solo perché… perché Calogiuri è stato male. Ma perché c’ho avuto svariate conferme e prove che non mi ha tradita e che è stato incastrato. Mo non ti posso spiegare, non vi posso spiegare, perché sarebbe rischioso, ma… ma diciamo che quelli che lo hanno incastrato devono aver scoperto che stavamo arrivando vicini alla verità, perché… perché…”

 

“Perché hanno ridotto Melita - la ragazza che ha testimoniato contro di me - in fin di vita, con un pestaggio,” si inserì Calogiuri, levandole le castagne dal fuoco, e Valentina spalancò la bocca e lo guardò quasi con paura.


“Valentì, sta cosa è successa ieri e Calogiù stava qua con me: sono due settimane che sta qua con me e che non è mai uscito. Ma il collega che si occupa delle indagini ce l’ha su a morte con noi, con me soprattutto, e… e quindi vuole farcela pagare e sta indagando su Calogiuri. E pure io sono stata sospesa e… e mo meno usciamo e meglio è, ma… volevo mettere subito in chiaro con voi che lui non c’entra niente.”

 

“E che ne sai, eh?!” esclamò Valentina, fulminandolo con un’occhiataccia e poi guardandola, preoccupata, “che con lui c’hai i prosciutti sugli occhi, mà, da sempre e-”

 

“E Calogiuri non è un violento e non sarebbe mai stato capace di… di fare quello di cui lo accusano. Ti garantisco che… che ci vogliono uno stomaco ed una violenza non comuni, per fortuna.”

 

Valentina non disse più niente ma prese in mano il cellulare e, prima che glielo potessero impedire, aprì uno degli innumerevoli link che le erano arrivati.

 

Le uscì un conato, e divenne ancora più pallida del solito, mentre si metteva una mano davanti alla bocca e poi guardava lei, e poi lui, fisso fisso. Calogiuri non distolse lo sguardo, anche se lo vedeva che tremava come una foglia.

 

“Ok, ok, non… non ti ci vedo a… non è possibile,” pronunciò infine Valentina e sia lei che Calogiuri tirarono un sospiro di sollievo.

 

Almeno fino a che Valentina non si rivolse di nuovo a lei e disse, “ma il tradimento, mà? Quello… quello invece… altro che crederci! Che quella… anzi, questa poveraccia, ancora un po’ poteva fargli la radiografia.”

 

“Valentì, ti ho già detto che non ti posso e non vi posso spiegare mo, perché sono cose che riguardano un’indagine delicata e, come avrai notato, pericolosa, molto pericolosa. Ma quei… quei dettagli intimi di Calogiuri li hanno scoperti in un altro modo e li hanno riferiti a Melita. E mo, per evitare che lei potesse ammettere di aver mentito in tribunale….”

 

“Ma… ma se sapete tutte queste cose, perché lui sta ridotto così e non è stato scagionato e a te ti hanno sospesa?”

 

“Perché le prove che abbiamo sono ancora deboli, Valentì, e… e non ci metterebbero niente a smontare tutto e far sparire quelle che possiamo ancora raccogliere. Ma ti devi fidare di me, Valentì,” la pregò, prendendole il viso tra le mani e guardandola dritta negli occhi, “devi fidarti di me e del fatto che non starei mai e poi mai con un traditore, figuriamoci con un violento!”

 

Valentina sospirò.

 

“Sul violento ti credo. Sul traditore… diciamo che se non hai mollato papà dopo Cinzia Sax....Va beh che pure tu lo hai cornificato e quindi eravate pari.”

 

Sia Calogiuri che Pietro scoppiarono in colpi di tosse, in stereo praticamente.

 

Uomini!

 

“Voglio vederti le braccia!” esclamò Valentina all’improvviso, girandosi verso Calogiuri, di nuovo serissima.

 

“Ma Valentì, non-”

 

“Ti ricordo che sto studiando da assistente sociale e mi stanno insegnando a… a riconoscere i segni di violenza, sia ricevuta che data. Fammi vedere le braccia.”

 

Stava per protestare nuovamente, ma Calogiuri le fece cenno che non c’erano problemi e si tirò su le maniche.

 

“Va bene. Ti… ti credo, vi credo. Anche se non so come fate sempre ad infilarvi in tutti questi casini!”

 

“E sapessi quanto me lo chiedo pure io, Valentì!”

 

“Ma… ma allora… sono due settimane che siete tornati insieme? Perché non mi hai detto niente?”

 

Eccallà: come sembrava essersi calmata, tornava con il tono da inquisizione.

 

Lo aveva preso da lei, però, quindi non poteva lamentarsene troppo.

 

“Era per questo che non mi volevi mai vedere? Mi hai presa per il culo un’altra volta?!”

 

“Valentì, e su!” intervenne Pietro, prima che potesse farlo lei, “mi pare evidente che, vista la situazione, dovessero essere prudenti, pure per non metterti in pericolo.”

 

Di nuovo, la solidarietà di Pietro la sorprese - roba che manco ai vecchi tempi aveva tutto sto coraggio con sua figlia! - ma la sorpresa finale doveva ancora venire.

 

“Se tua madre non ti ha detto niente è stata solo colpa mia, Valentina. Come… come hai notato non sono messo bene e… e non volevo farmi vedere da nessuno nelle condizioni in cui stavo. E poi… e poi volevamo trovare più prove possibili, prima che si scoprisse che eravamo tornati insieme e che chi ha fatto tutto questo mangiasse la foglia e-”

 

“E mo invece della foglia, si sono mangiati tutta l’insalata,” concluse Valentina, passandosi una mano sulla fronte e poi sugli occhi, “del resto la discrezione non è proprio una dote tua e di mamma.”

 

Il sarcasmo non mancava mai, ma almeno non sembrava più furiosa e pareva aver capito veramente.

 

Per un attimo calò un silenzio denso, nessuno che osava fare la mossa successiva, ma poi Imma notò che Pietro teneva un’espressione strana.


“Che c’è Piè?”

 

“Niente, Imma, è che… lo so che avete fatto… quello che avete potuto ma… eravamo tutti molto preoccupati per te e mo lo siamo ancora di più. Avresti potuto fidarti almeno di me, lo sai che sulle tue indagini sono sempre stato una tomba.”

 

“Ma tutti chi?” gli chiese Imma, non capendo.

 

A Pietro partì un altro colpo di tosse, prima che pronunciasse un, “beh, pure Diana, ad esempio, stava molto in pensiero per te!”

 

Si morse la lingua perché non poteva certo dirgli che Diana sapeva già tutto. Ma quindi di chi stava parlando Pietro? Qualcosa non le tornava, ma che cosa?

 

“Va beh… forse mo è meglio che andiamo e che vi lasciamo riposare, che avrete avuto una giornata non facile,” pronunciò lui, prima che lei potesse dire qualsiasi altra cosa.

 

Ma doveva ammettere che teneva ragione: si sentiva allo stremo delle forze, e Calogiuri era sempre più tremante.

 

“Va bene. Non… non potremo vederci ancora per un po’. Siamo sotto sorveglianza, sicuramente vi avranno visti entrare e… e non vogliamo coinvolgervi troppo nei nostri casini.”

 

“Per quello è un po’ tardi mà: avresti dovuto pensarci prima di decidere di fare la PM e di mettermi al mondo!”

 

Una fitta di senso di colpa, perché il suo fondo di verità Valentina ce l’aveva e… e perché non era l’unica creatura che aveva pensato di coinvolgere in quell’enorme casino che era la sua vita.

 

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“Allora, papà, vieni a stare da me?”

 

Valentina lo guardava curiosa, alla luce fioca del lampione vicino a casa di Imma.

 

Esitò per un attimo.

 

“Per… per questa notte va bene, ma poi vado al b&b, che l’appartamento è piccolo e non ti voglio disturbare, che c’hai da studiare!”

 

Doveva capire come dividersi tra Valentina, Rosa e Noemi.

 

E come non farsi beccare, soprattutto, che va beh che il fratello di Rosa gli era sembrato molto debilitato ma… non era proprio il momento per aggiungere pure quello a tutto il resto.

 

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Silenzio.

 

Valentina e Pietro si erano portati via con loro il frastuono e li avevano lasciati nel silenzio più totale.

 

Che però continuava a non essere confortevole, anzi.

 

Alla fine cedette e si girò verso di lui, trovandolo ad osservarla sempre con quello sguardo indefinibile.

 

“Puoi andare pure prima tu in bagno. Che tanto io la doccia già l’ho fatta.”

 

Sospirò: non era esattamente quello di cui sperava di parlare, anzi.

 

Ma il peggio fu quando Calogiuri si avviò verso il divano ed iniziò a riaprirlo, per estrarre la parte letto.

 

“Aspetta!” lo fermò, toccandogli un braccio, finché non si voltò nuovamente a guardarla, “ma che vuoi veramente dormire qua? Con tutto quello che sta succedendo? Dovremmo stare insieme, uniti.”

 

Nel pronunciare l’ultima parola, gli aveva preso pure la mano, ma Calogiuri deglutì e scosse il capo, “Imma, non lo capisci che è proprio per… per tutto quello che è successo, che ho bisogno di starmene un po’ da solo mo?”

 

Sospirò, delusa e di nuovo con quel nodo in gola.


“La capa tosta non te la leva nessuno, eh?” gli chiese, amara.

 

“Senti chi parla.”

 

“Va beh,” proclamò, dopo il tempo necessario perché la voce non le si spezzasse, lasciandogli mano e braccio, “me ne vado in bagno e a letto. Se cambi idea, sai dove trovarmi.”

 

Di sicuro non lo avrebbe pregato oltre.

 

Si avviò verso il corridoio, con una fortissima voglia di piangere e di urlare, che però contenne, anche se a fatica.

 

Entrò e sentì come un mugolio che proveniva dall’armadietto sotto il lavandino.

 

Lo aprì e ci trovò Ottavia, arrotolata tra la carta igienica ed i flaconi dei detergenti.

 

Si chiese come ci si era infilata dentro e, soprattutto, come aveva poi richiuso l’anta.

 

“Ma che fai? Giochi a nascondino mo?”

 

Ottavia la guardò in un modo che pareva dirle dammi torto!

 

“Eh che non lo so, Ottà, che tu sei furba, sei? Di sicuro più di me! Tieni più istinto di conservazione!” le toccò ammettere, abbassandosi per prenderla in braccio, “ma mo se ne sono andati tutti, tranquilla. Ci sta solo papà che fa l’offeso.”

 

Ottavia le diede una leccata ed una musata alla guancia e poi balzò per terra, con quella regalità che tanto le invidiava, ed uscì dal bagno, chiaramente per correre da papà suo.

 

Femmine!

 

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“A chi scrivi?”

 

Fece un mezzo salto e gli cascò il telefono sul lenzuolo.

 

Un pessimo segno.

 

“Una donna?” lo incalzò, sentendo una fitta di fastidio.

 

“Mi hai spaventato, Valentì!” esclamò lui, recuperando il cellulare.

 

“Non mi hai risposto, papà!” gli fece notare, avvicinandosi per squadrarlo meglio, che a lei mica la si faceva fessa.

 

Suo padre sospirò e parve esitare un attimo e poi le rispose, “stavo scrivendo a Rosa. Rosaria.”

 

“La sorella di Calogiuri?” domandò, confusa, “ma vi sentite ancora?”

 

“S- sì, sì, diciamo di sì,” le rispose, in un modo che le fece dubitare che fosse tutta una palla e che non stesse affatto scrivendo a lei, ma a un’altra, “voleva sapere come… com’era la situazione di suo fratello e di Imma, prima di provare ad andarli a vedere di persona, che mo con la bimba non ci riesce.”

 

Le pareva tutto molto strano.

 

“E come mai ti scrive a quest’ora?” gli fece notare, visto che era tardissimo, ed un orario per tutto un altro genere di messaggi.

 

“Presumo perché Noemi dorme e mo tiene le mani libere, finalmente.”

 

Le venne un poco da ridere, ripensando a quel piccolo tornado, che in effetti non si poteva perderla d’occhio manco un minuto o chissà che combinava.

 

“Sai che un poco mi manca Noemi? Alla fine, a piccole, anzi, piccolissime dosi, è tenera.”

 

Suo padre sembrò quasi meravigliato: in effetti lei non aveva mai avuto un particolare amore per i bambini urlanti, anzi.

 

“Magari… quando si sistemano un poco le cose… possiamo fare un altro pranzo in famiglia. Tipo a pasqua? Visto che tanto ormai mamma e Calogiuri sono tornati insieme e mi sa che ci resteranno pure, se stanno resistendo a tutto sto casino.”

 

Per tutta risposta, suo padre esplose in un paio di colpi di tosse e le parve molto a disagio all’idea.

 

Sospirò.

 

“Ma che è, papà? Non dirmi che ancora non ti è passata la gelosia per mamma. Mi sembrava che l’idea di vedere… il maresciallo… come lo chiami tu, non fosse più così tremenda, no?”

 

Suo padre fece una mezza smorfia ed un’espressione strana che non capì.

 

“Diciamo che… i pranzi di famiglia sono sempre imbarazzanti e poi… ogni volta succede un casino.”

 

Le venne da ridere, perché era vero, purtroppo.


“Va beh… ma mo che quel cretino del marito di Rosa non ci sta più, magari per una volta possiamo farci un pranzo in pace. Sempre se non vengono ad arrestare qualcuno, che non si sa mai,” scherzò, infilandosi sotto le coperte dal suo lato del letto e buttandogli le braccia al collo per abbracciarlo forte forte.

 

“Valentì…” si sentì sussurrare nell’orecchio, in un modo stupito e commosso.

 

“Pure questo mi era mancato, lo sai papà?” ammise, mentre tutto le ricordava di quando stava male da bimba, ma pure da ragazzina, e si rifugiava tra mamma e papà nel lettone e lui la stringeva forte, facendole passare ogni paura.

 

E, anche se sapeva benissimo che suo padre non aveva quel potere di proteggerla da tutto, si sentì comunque in pace, come era da tanto che non le succedeva.

 

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Allungò una mano ed afferrò il cellulare.

 

Erano le tre del mattino.

 

Si sentiva esausto ma non riusciva a prendere sonno: stava troppo male e, come chiudeva gli occhi, gli sembrava di venire di nuovo strattonato e portato via.

 

L’unica consolazione era Ottavia, che gli si era addormentata sulla pancia, tipo scaldino.

 

Ma gli mancava Imma, il suo calore al suo fianco, il profumo dei suoi capelli. Anche se, quando lo toccava, gli veniva d’istinto di irrigidirsi.

 

Non capiva come si sentiva nei suoi confronti ed era arrabbiato sia con lei che con se stesso per questo.

 

Un rumore improvviso e poi un altro e, anche nella penombra, vide un movimento nel corridoio e mise infine a fuoco Imma.

 

Il fiato gli si bloccò in gola, quando notò come non era vestita: indossava la camicia da notte fucsia, con quegli spacchi profondi che lo avevano sempre fatto impazzire.

 

Lei si bloccò - lo aveva sentito! - e quindi non poté più far finta di stare dormendo.

 

Si guardarono, occhi negli occhi, e rimasero così, come bloccati, per attimi che gli sembrarono interminabili.

 

“A- avevo bisogno di un po’ d’acqua,” mormorò infine lei, con voce rochissima, camminando verso il frigorifero.

 

La vide aprirlo e poi spalancare l’anta dell’armadietto sopra al lavabo, mettendosi sulle punte per prendere un bicchiere, visto che era a piedi nudi.

 

Deglutì: era un’arma impropria, una vera e propria tortura, da denuncia era!

 

Ma Imma richiuse tutto e, col bicchiere in mano, si voltò verso di lui e bevve, lentamente, troppo lentamente, mannaggia a lei, continuando a fissarlo dritto negli occhi.

 

E lui non riusciva a distogliere lo sguardo, si sentiva come ipnotizzato.

 

La tentazione di dire qualcosa, anzi, di fare qualcosa era fortissima, ma non poteva cedere solo perché a lei non riusciva a resistere.

 

Doveva ragionare stavolta, non col cuore o con altro, ma con la testa.

 

Pure nel buio vide chiaramente un paio di gocce sfuggire dal bicchiere e scenderle sul collo.

 

Stava per mandare tutto a quel paese e cedere le armi, quando lei abbassò il vetro, ormai vuoto, lo appoggiò nel lavandino e, dopo un ultimo sguardo fiero, se ne tornò verso il corridoio e la stanza da letto, a passo lento e quasi felino, fino a sparire dalla sua vista, lasciandolo lì, ancora più confuso e scombussolato di prima.

 

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“Giorgio, che succe- de?”

 

Già la convocazione di primissima mattina l’aveva messa in allerta.

 

Trovarsi davanti, oltre che a Giorgio, quell’idiota di Santoro, non migliorò le cose, per niente.

 

“Che ci fa lei qua?” ebbe pure l’ardire di domandare, quel cafone.

 

“Potrei chiedere la stessa cosa di te. E allora?” chiese, rivolgendosi di nuovo a Giorgio, perché le doveva più di qualche spiegazione.

 

“Allora vi ho convocato perché… considerati i pregressi che avete col maresciallo Calogiuri e quanto successo negli ultimi giorni, ho deciso che del caso di aggressione alla Russo me ne occuperò personalmente, anche per evitare tensioni in procura e garantire la massima imparzialità possibile.”

 

Spalancò gli occhi: quello non se lo aspettava proprio e neanche Santoro, che infatti si alzò ed iniziò a protestare ma Giorgio lo bloccò con il cenno d'una mano.

 

“Dottor Santoro, lo sa anche lei che non ci andrò affatto leggero nei confronti del maresciallo, anzi. E a lei resterà l’indagine riguardo alla corruzione nei confronti della Russo e sulle testimonianze falsate al processo, mentre a te, Irene, resterà ovviamente tutto quello che riguarda il maxiprocesso. Dobbiamo collaborare tutti, fare fronte comune.”

 

Le fece un cenno alla fine, impercettibile da chi non lo conosceva più che bene, che la tranquillizzò, come la tranquillizzò il notare che Santoro pareva essersi calmato.

 

Giorgio era riuscito a non fargli tenere il caso ed era quella la cosa più importante. Per il resto doveva solo lavorare sodo, insieme a lui, per cercare di togliere Calogiuri dai guai.

 

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“Prego, prego.”

 

“Grazie, dottore.”

 

Era finalmente solo, dopo aver in qualche modo evitato l’ennesima crisi in procura, e poteva finalmente ricevere Mariani che era in attesa da un po’, secondo quanto riferitogli dalla sua segretaria.

 

“Mi dica, Mariani, ci sono novità? Aggiornamenti sulle condizioni della Russo?”

 

“Melita… cioè la Russo è stabile, dottore. Non è peggiorata ma non sta neanche migliorando. Rimane in coma, anche perché l’emorragia cerebrale deve ancora riassorbirsi e poi… avrà bisogno degli altri interventi, se riesce a superare questa fase.”

 

Annuì: sarebbe stato un miracolo se avesse mai ripreso conoscenza e, soprattutto, coscienza piena di sé e di quello che le era successo.

 

“Inoltre la scientifica sta proseguendo con le analisi sui campioni di DNA rinvenuti, ma per ora sappiamo solo con certezza che i frammenti di pelle trovati sotto le unghie della Russo non sono di origine umana. Un giaccone di pelle, probabilmente, o qualche altro indumento o accessorio di pelletteria.”

 

Sospirò, prendendosi per un attimo il naso tra le dita, per poi riposizionarci gli occhiali: ci aveva sperato, ma sarebbe stato troppo facile.

 

“Allora dovremo verificare tra gli oggetti personali del maresciallo Calogiuri: se c’è qualcosa di simile, con dei graffi, o se manca qualcosa.”

 

Mariani annuì, con una professionalità ammirevole, considerata l’amicizia tra lei ed il dannato maresciallo, e poi proseguì, “inoltre… inoltre è uscita fuori un’altra cosa, dottore, anche se non so se abbia rilevanza con tutta questa storia.”

 

“Cioè?”

 

“I medici mi hanno detto che… che sembra che Melita abbia avuto una gravidanza in passato, perché ha il segno di un cesareo o… o di un’interruzione di gravidanza in uno stadio molto avanzato. Non è recentissima, ma non parrebbe nemmeno così ben cicatrizzata. Secondo i dottori, non ha più di un anno, al massimo.”

 

Merda!



 

Nota dell’autrice: Ebbene sì, finalmente ce l’ho fatta a finire di scrivere e a postare un nuovo capitolo! Mi scuso tantissimo con voi per l’assenza lunghissima, ma sono intervenuti impegni, le vacanze ed un blocco dello scrittore molto più ostinato del previsto.

Ora sembra che l’ispirazione sia tornata e spero che questo capitolo non abbia deluso troppo l’aspettativa e sia valso la lunga attesa. Da ora in poi spero davvero che le pubblicazioni possano tornare costanti.

Imma e Calogiuri sono immersi in tutto questo enorme casino, ora si è anche scoperto che forse Melita era incinta e la situazione si complicherà sempre di più. Allo stesso tempo, nel prossimo capitolo ci saranno alcuni avvenimenti e rivelazioni fondamentali, sia per il giallo che per la vita personale dei nostri personaggi.

Vi ringrazio tantissimo per l’affetto con cui avete seguito questa storia e spero continuerete a farlo pure dopo questa lunga pausa. Vi ringrazio per tutti i messaggi di sostegno che ho ricevuto in queste settimane, davvero mi avete incoraggiata tantissimo a continuare e a cercare in ogni modo di superare il mio blocco.

Un grazie particolare a chi ha aggiunto questa storia nei preferiti o nei seguiti e a chi mi ha lasciato una recensione: le vostre opinioni mi sono preziosissime per capire come vanno le cose, e mai come questa volta vi chiedo di farmi sapere che ne pensate, in positivo e negativo, per capire se sono ripartita col piede giusto o meno e in cosa posso migliorare.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica 17 ottobre, sperando nel frattempo di avere anche più notizie sulla nuova stagione di Imma.

Grazie ancora! 

 

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Capitolo 64
*** Amore e Psiche ***


Nessun Alibi


Capitolo 64 - Amore e Psiche


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Dobbiamo parlare con il maresciallo, vista l’ipotesi che sia stato amante della Russo. E così verifichiamo anche per gli indumenti e gli effetti personali. Se è libera ora, ci andiamo insieme.”

 

Notò gli occhi azzurri e tondi di lei spalancarsi ancora di più.

 

“Andiamo… ma quindi… non lo vuole convocare qua?”

 

“No. Tra i giornalisti e tutto il resto… meglio evitare.”

 

“D’accordo, dottore, allora vado a preparare l’auto e-”

 

“Ma no, Mariani, non serve, andiamo con la mia auto.”

 

Di nuovo gli parve sorpresa ma anche… c’era un velo nei suoi occhi, quasi come di delusione.

 

Gli ci volle qualche attimo ma capì: Mariani, come tutte le altre agenti di PG donne, doveva aver sempre subito parecchi pregiudizi sia dai colleghi, che pure probabilmente da qualche magistrato, sulle sue abilità alla guida.

 

Non ci aveva pensato e si sentì in imbarazzo.

 

D’istinto, prese le chiavi dalla tasca interna della giacca e gliele porse, tirando un sospiro di sollievo quando la vide sorridere.

 

*********************************************************************************************************

 

“E dai, Calogiù, così però mi fai il solletico, mannaggia a te!”

 

Quell’impunito la stava facendo morire dal ridere e di pelle d’oca, con quei baci sulla guancia, tra il fiato caldo e quella lingua così… così…

 

Ruvida?

 

Aprì gli occhi di scatto e le ci volle un attimo per mettere a fuoco la macchia scura che aveva davanti agli occhi.

 

E no, non erano i capelli di Calogiuri, ma il manto tigrato di un’altra impunita.

 

Alla delusione cocente, nel realizzare che era stato tutto solo un sogno e che lei e Calogiuri erano ancora in crisi nera, si unì un poco di commozione per l’affetto con il quale quella peste di Ottà le aveva fatto da sveglia - pure se la notte, per intanto, se l’era passata da papà suo.

 

“Ottà!” esclamò, dandole una grattatina dietro alle orecchie, in modo che la smettesse di lavarle la guancia e la guardasse,  “dove sta papà? Già sveglio?”

 

Ottavia, ovviamente, non rispose perché non poteva farlo, ma guardò verso la porta.

 

Gli altri sensi, che piano piano si riattivarono, le fecero udire dei rumori di ceramica e metallo.

 

E poi un odore di caffè.

 

Qualcuno si stava preparando la colazione - buon segno, se almeno mangiava!

 

Prese in braccio Ottavia, si infilò giusto giusto le pantofole e, nonostante l’uscita dal calduccio delle coperte fosse stata traumatica, evitò di proposito di indossare la vestaglia.

 

Che non lo aveva visto come l’aveva guardata qualcuno quando era andata a bere?

 

Almeno sapeva di fargli ancora effetto, e pure parecchio.

 

“Che bisogna fare per farsi perdonare da quel testone di papà tuo, eh, Ottà?” le chiese con un sospiro, e la micia si limitò ad alzare regalmente un ciglio, mentre uscivano insieme dalla stanza e si avviavano verso il salotto.

 

Non appena girò l’angolo lo vide: intento a spadellare le uova, come gli aveva prescritto il medico.

 

E poi aveva già fatto il pane tostato e preparato marmellata, frutta, succo e quant’altro sul bancone.

 

Fu un lieve sollievo notare che era stato apparecchiato per due, e la dose di cibo del resto era troppa solo per lui.

 

“Come sapevi che mi sarei svegliata mo?” gli domandò e se ne pentì subito, perché Calogiuri fece un salto e la padella con le uova gli cascò dalle mani, per fortuna sui fornelli e non a terra, anche se un po’ di uova rapprese si sparsero sul piano cottura.

 

Si guardarono per un attimo. Lo vide chiaramente prendere fiato, deglutire una volta e riprendere fiato, mentre la squadrava da capo a piedi.

 

Sì, gli faceva ancora decisamente effetto.

 

Ma poi lui emise uno di quei sospiri che tanto odiava fin dai tempi post Lolita, perché significavano solo guai, scosse il capo e, riprendendo a mescolare le uova, le spiegò, senza più voltarsi, “non lo sapevo, ma tanto le uova a te non piacciono e il resto non si raffredda. Cappuccino?”

 

Stava per rispondergli che era così meccanico che le pareva un barista, le pareva, quando una scampanellata fece saltare pure lei.

 

CLANG! SPLAT!

 

Stavolta le uova non si erano salvate: erano finite spalmate sul pavimento e sui piedi di Calogiuri, che per fortuna c’aveva su le ciabatte e non stava a piedi nudi.

 

“Ti sei bruciato?” gli chiese comunque, facendo qualche passo verso di lui, rassicurandosi quando lui scosse il capo, uscendo da quella specie di palude melmosa.

 

Il sollievo durò il tempo della seconda scampanellata, ed era sicura che il terrore sul volto di Calogiuri fosse specchio del suo.

 

Non potevano portarglielo via di nuovo! Stavolta no!

 

E invece possono, Imma, lo sai che possono! - le ricordò, chissà perché, la vocetta fastidiosa della Moliterni.

 

“Vado ad aprire,” pronunciò infine, ma lui subito la bloccò con un’occhiata che valeva più di qualsiasi gesto, e che le ricordò quanto poco fosse vestita.

 

“Vado io. E… e converrebbe che ti vestissi un po’ di più quando ti alzi dal letto, no?”

 

Si bloccò, perché Calogiuri, per quanto fosse geloso di tutto, non le aveva mai consigliato o imposto nulla su come e quanto vestirsi o meno.

 

Anche perché, in caso contrario, sarebbero durati poco, pochissimo.

 

“Converrebbe a chi?” gli chiese quindi, sfidandolo con lo sguardo per fargli capire che aveva capito benissimo, ma che non gli avrebbe reso le cose più semplici, anzi.

 

Lo vide deglutire, beccato in pieno, ma poi ci fu pure la terza scampanellata.


“E un attimo!” urlò, più forte che poteva, per poi puntare un dito al petto di Calogiuri ed ordinare, col tono che era da parecchio che non usava con lui, “vatti a cambiare ciabatte e pantaloni, io mi infilo la vestaglia ed apro.”

 

“E se è quel maiale di Carminati? Non me ne frega niente dei pantaloni! Col cavolo che ti lascio da sola!”

 

Non fece nemmeno in tempo a ribattere - evidentemente gli ordini non funzionavano proprio più! - che Calogiuri, dopo essersi levato le ciabatte, si avviò bello bello verso la porta, a piedi nudi, sebbene le dita delle mani gli tremassero ancora come rami secchi al vento, chiedendo “chi è?”

 

“Mancini!”

 

La risposta e la voce del procuratore capo furono inizialmente sorpresa e sollievo.

 

Ma poi Calogiuri si voltò verso di lei e l’espressione ferita e rabbiosa di lui fu un pugno allo stomaco.

 

Lo sguardo gli si abbassò di nuovo verso la sua vestaglia e stavolta fu il suo turno di sospirare, cedere le armi ed avviarsi verso la camera da letto a cambiarsi. Che ci mancava solo di peggiorare ancora le cose tra loro.

 

Per fortuna, mentre si stava infilando in tutta fretta il primo maglione che le capitò tra le mani e la gonna leopardata del giorno prima, udì anche il saluto di Mariani.

 

Menomale che ci sta lei!

 

Ritornò di corsa in salone, giusto in tempo per trovarci Calogiuri che, rigido come un palo e con in braccio Ottavia che fischiava e soffiava come una matta, faceva accomodare Mancini e Mariani sul divano.

 

E poi lo sguardo di Mancini incrociò il suo e ci lesse un notevole imbarazzo e pure un velo di rimpianto - e menomale che non gli aveva aperto in camicia da notte! - così come notò la tensione nelle spalle di Calogiuri.

 

Mancini parve ancora più a disagio, ma non stava più guardando lei, ma i piedi ed i pantaloni di Calogiuri.

 

Avevano notato le uova rovesciate.

 

“Sì, scusate, ma è suonato il campanello all’improvviso e ho fatto un po’ un macello con le uova: sono finite ovunque,” si inserì, d’istinto, senza quasi pensarci, e Calogiuri si voltò verso di lei, incredulo, “io ho fatto in tempo a cambiarmi ma Calogiuri no. Se vuoi andarci mo, così chiudi pure Ottavia, immagino non abbiate nulla in contrario, no?”

 

Era una domanda retorica ed ovviamente Mancini e Mariani scossero il capo.

 

Sapeva che molto probabilmente avevano capito benissimo com’erano andate in realtà le cose, ma non voleva che Calogiuri subisse altre umiliazioni, se glielo poteva evitare.

 

“Intanto posso offrirvi qualcosa. Un caffè pure se state in servizio lo potete bere, sì?”

 

“Dottoressa, la ringrazio ma… proseguite pure con la colazione, possiamo farvi le domande dopo. E per me va bene il caffè. Mariani, lei lo gradisce?”

 

L’offerta di Mancini la sorprese molto, Calogiuri invece parve ancora più offeso.

 

Era troppo orgoglioso, troppo, anche se pure lei… mo era il bue che stava dando del cornuto all’asino, lo sapeva.

 

Non appena Calogiuri, dopo l’ennesimo sospiro, si avviò verso la loro stanza da letto, lei si mise a fare il caffè, ringraziando il cielo che Calogiuri avesse già richiuso il divano letto prima di prepararsi la colazione e che quindi almeno quelle domande se le sarebbero risparmiate.

 

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Non sapeva più che pensare: di Imma, di se stesso, di tutto.

 

Ed il peggio era trovarsi nuovamente quel beccamorto in casa: il solo vederlo gli faceva una rabbia che non sarebbe mai stato in grado di descrivere del tutto.

 

Almeno c’era pure Mariani, che alla fine per lui - a parte la disapprovazione dopo quello che era emerso al processo - c’era sempre stata quando le aveva chiesto aiuto.

 

Imma… Imma invece non c’era stata sempre e forse era quello che gli bruciava di più, oltre all’ennesima umiliazione che lei aveva pure provato ad evitargli, in un modo che non sapeva se gli avesse fatto piacere o se fosse stata solo l’ennesima volta in cui si sentiva trattato come un bimbo fragile e bisognoso del soccorso della mammina.

 

Maledetto Rosati, maledetto Carminati, maledetti tutti!

 

Mancini in testa, lui e la sua commiserazione, dopo tutto quello che gli aveva fatto, che aveva cercato di togliergli.

 

Ma il peggio era sapere che Imma… che Imma glielo aveva quasi permesso.

 

Ed era quello che bruciava più di tutto, sapere quanto fosse arrivato vicino a perderla, quanto tempo ci fosse voluto perché lei si fidasse di lui, nonostante lui si sarebbe fatto letteralmente ammazzare per lei, nonostante lei fosse tutta la sua vita da così tanto tempo che non si ricordava nemmeno più come fosse non avere la sua felicità, il suo sorriso, come primo pensiero.

 

Invece, di colpo, si era trovato completamente solo e non aveva retto.

 

Forse, alla fine, era quello che lo tormentava veramente: il non essere riuscito a rimanere a galla, l’essere stato così debole, rispetto a lei che era sempre così forte, che non mollava mai.

 

Lui invece aveva quasi mollato ed era per quello che lei e tutti gli altri mo lo trattavano con commiserazione.

 

Non era stato all’altezza.

 

Ma nemmeno lei lo era stata e nel modo peggiore. Aveva quasi ceduto pure lei, ma con il beccamorto.

 

Se lui non era stato all’altezza di lei, lei non era stata all’altezza di loro due, di quel legame che li aveva sempre uniti, o che aveva sempre creduto che li unisse.

 

Lui non ci riusciva nemmeno a pensare di spogliare qualcuna che non fosse lei, di lasciarsi spogliare da mani che non fossero quelle piccole e forti di cui conosceva ormai ogni dettaglio, meglio che delle sue.

 

Mentre lei… lei ci era riuscita, pure se aiutata dall’alcol, dalla ripicca, dalla disperazione. Ma c’era riuscita.

 

E, anche se poi si era fermata, e anche se poi lo aveva cercato, e anche se poi gli aveva creduto, tutto quello che c’era stato in mezzo… gli dava il tormento.

 

Forse era da immaturo, ma così si sentiva e mo stava lì, in camera loro, con il maglione ancora in mano, a farsi torturare, mentre là fuori si stava giocando la sua vita, il suo futuro e la sua libertà.

 

Scosse il capo e si infilò il dolcevita, controllandosi allo specchio di essere impeccabile, pur se tutto era almeno di due taglie di troppo.

 

Avrebbe dimostrato a tutti chi era e quanto valeva, a lei e ancora prima a se stesso.

 

E poi forse ce l’avrebbe fatta, a trovare un senso a ciò che provava e ad uscire da quella specie di labirinto nel quale si sentiva intrappolato.

 

Evitare che Ottavia lo seguisse, con quei suoi occhioni teneri ed incazzosi al tempo stesso, fu assai complicato, ma alla fine gli riuscì di chiudere la porta a chiave.

 

La scena che gli si parò di fronte, una volta tornato in cucina, fu surreale: Imma, il beccamorto e Mariani, con la tazzina di caffè in mano, Imma che si voltava verso di lui e gli offriva la tazza caffelatte decaffeinato, triste ma dell’esatto colore che piaceva a lui.

 

Quella cortesia apparente, quella familiarità, stridevano e gli provocavano ancora più fastidio.

 

Gli ricordavano per l’ennesima volta che solo per un soffio il beccamorto non stava lì al posto suo, a fare gli onori di casa, con un pigiama che costava come tutto il suo guardaroba messo insieme.

 

L’unica consolazione fu il pensiero che Ottavia glielo avrebbe già ridotto in brandelli.

 

Imma ovviamente lo notò e lo guardò come a chiedergli che ci fosse di divertente in tutta quella situazione.

 

E, almeno in quello, stavano ancora sulla stessa lunghezza d’onda.


Si costrinse a mangiare, nonostante lo stomaco chiuso, perché non voleva dare la soddisfazione a Mancini di vederlo stare male, Imma che addentava svogliamentamente il pane con la marmellata, il beccamorto che la guardava con un rimpianto che era per lui soddisfazione e rabbia insieme.

 

Si scambiarono uno sguardo lui e il procuratore capo, uno solo, e Mancini prese a fissare la tazza del caffè come se ne dovesse leggere i fondi, come faceva la buonanima di sua nonna.

 

Mariani pareva non vedere l’ora di levarsi da lì e la capiva benissimo.

 

Finì di mangiare in un silenzio quasi surreale, Imma che ancora sbocconcellava la stessa fetta di pane, guardando fissa il piatto, quando non la beccava a lanciargli un’occhiata di sbieco.

 

“Sentite, perché siete qua?” chiese, tagliando corto, perché non ne poteva più di tutta quella pantomima.

 

Mancini si pulì la bocca con un tovagliolino di carta, in un modo elegantissimo che gli diede ancora più sui nervi, poi si alzò e fece cenno verso il divano.

 

Si guardò con Imma, che aveva la fronte corrugata come quando era concentratissima, pronta alla battaglia, e si accomodarono tutti nella zona salotto, Mariani accanto a Mancini che estraeva il tablet per prendere nota.

 

Di nuovo un momento di silenzio imbarazzante e poi Mancini recuperò tutta la melina fatta fino a quel momento, sganciando un, “Melita ha segni di una gravidanza recente. O portata a termine o finita con un aborto in fase avanzata di gestazione. Lei ne sa qualcosa maresciallo?”

 

Fu come se una bomba fosse esplosa nella stanza.

 

Udì chiaramente Imma prendere un respiro forte, quasi un rantolo. Cercò i suoi occhi, ma erano piantati al pavimento.

 

Lo sapeva che quello era un argomento sensibile per lei, sensibilissimo.

 

Ragiona, cretino, ragiona, non andare in panico!

 

“No. Sicuramente non era incinta - in uno stato avanzato, poi! - negli ultimi mesi, da quando l’abbiamo rivista. Ce ne saremmo accorti, no?” si affrettò a dire, prima che potesse esserci anche solo il minimo dubbio che-

 

“Ma quando l’abbiamo incontrata per la prima volta, al locale, effettivamente era un poco più… morbida del solito. Non grassa, assolutamente, ma con meno muscoli, più curve.”

 

L’intervento di Imma lo spiazzò ma lo rassicurò anche, così come il suo sguardo, sul fatto che almeno di quello non avesse proprio il minimo dubbio.

 

“Credevo che fosse perché era da un po’ che non lavorava e non ballava tutti i giorni ma se-”

 

“Se avesse smesso di lavorare perché non poteva lavorare nelle sue condizioni?” concluse per lei, perché ora che ci pensava aveva senso.

 

“Dottoressa, apprezzo il suo intervento ma la prego di lasciare rispondere il maresciallo il più possibile,” intervenne il beccamorto - e te pareva! - mentre Mariani prendeva nota di tutto.

 

“In ogni caso… io non c’entro con la gravidanza di Melita, dottore, se è questo che vuole sapere: nemmeno ci frequentavamo all’epoca, e spero che almeno su questo non ci siano dubbi,” affermò, deciso, guardando Imma, chiedendosi come la facesse sentire il pensiero di un bambino suo con un’altra, dopo tutte le fatiche fatte, le visite mediche, le medicine prese e-

 

“Gli integratori!”

 

Mancini e Mariani lo guardarono interrogativi e fu solo per quello che si rese conto di aver pronunciato l’ultima parte ad alta voce.

 

Ma si sentiva con quell’adrenalina addosso, quella di quando tanti pezzi del puzzle si incastravano, tutti insieme.

 

È per momenti come questi che lavoriamo, è vero?

 

Gli tornò in mente quella frase, pochi istanti prima del suo primo, indimenticabile e miracoloso bacio con Imma.

 

Ed era ancora così.

 

Come una droga.

 

Improvvisamente la sua mente era chiarissima, sgombra da tutti i pensieri, i dubbi, le paure, concentrata solo su una cosa, su quell’intuizione che prendeva sempre più forma concreta nella sua mente.

 

“Che vuoi dire?”

 

Sentì la mano di Imma sull’avambraccio e non gli venne l’istinto di ritrarsi, anzi, la guardò dritto negli occhi e le disse, sapendo che avrebbe capito, anche se sarebbe pure stato come riaprire vecchie ferite, “Melita… quando si è sentita male, in spiaggia, e l’ho riportata a casa, ho aperto il suo armadietto delle medicine e… ci stavano delle boccette di integratori. All’epoca non ci ho fatto caso… non… non sapevo a cosa servissero ma… ripensandoci mo, erano fluoro e vitamina K.”

 

Si sentì stringere ancora più forte, mentre lei spalancava gli occhi.

 

“Scusate, fate capire pure a noi?”

 

Gli toccò girarsi verso Mancini che non era solo confuso ma… c’era pure qualcos’altro nel suo sguardo, che non capì.

 

“La vitamina K ed il fluoro sono integratori che si prendono durante la gravidanza e l’allattamento,” chiarì Imma per lui e, in quel momento, come un altro flash gli passò davanti agli occhi e si sentì avvampare.

 

Dire quello che aveva appena ricordato avrebbe forse peggiorato ancora di più la sua posizione, non tanto di fronte alla legge ma di fronte ad Imma sicuramente, ma doveva farlo.

 

“Sempre… sempre quella sera, quando Melita stava malissimo, ad un certo punto è praticamente svenuta e... nel metterla sul divano… il vestito che aveva… insomma è sceso leggermente e… le è uscito il seno.”

 

“Calogiuri!”

 

Lo sguardo di Imma era puro tradimento, perché sì, questo non gliel’aveva riferito, ma se n’era sinceramente dimenticato in tutto il casino. Trattenne un soffio di dolore, perché ormai quella al braccio era praticamente una morsa.

 

“Con tutto quello che è successo dopo quella sera, me ne sono scordato, anche perché non ho visto praticamente nulla, o quasi-”

 

“Immagino!” sibilò Imma, per niente convinta, mentre, pure di lato, notò l’imbarazzo di Mariani e lo sguardo omicida del beccamorto.

 

“No, veramente, cioè… aveva su dei cosi di plastica a coprirle… insomma… i capezzoli e si è subito tirata su il vestito, immediatamente.”

 

“Ma già da lì dovevi capire che ti voleva sedurre, avresti dovuto dirmelo e magari ci saremmo risparmiati tutto il resto!”

 

“Lo so che ho sbagliato a non dirtelo ma… ma…” si fermò, perché era come se gli ultimi frammenti del ragionamento avessero fatto clic in quell’istante, “ma secondo me non voleva sedurmi, anzi, non in quel momento almeno, si è coperta subito e… pareva quasi spaventata. E… e mo che ci penso… io credevo che quelli fossero quelle cose che usava per lavoro, quando ballava, ma… mo che ci penso… somigliavano tantissimo a quelli che usava mia sorella quando allattava Noemi.”

 

La presa dal braccio svanì del tutto: Imma aveva capito dove voleva andare a parare.

 

Prese il telefono, cercò e trovò delle foto di quelli che, a quanto pare, venivano chiamati tecnicamente, paracapezzoli per allattamento e li mostrò ad Imma e poi a Mariani e Mancini.

 

“Non so voi, ma, pur non essendo una grande esperta dei copricapezzoli per ragazze immagine e spogliarelliste, non sono di certo fatti così. Questi a una cosa servono: a parare il latte. Cosa che quelli normali non fanno.”

 

Mariani annuì, mentre Mancini parve ancora più in imbarazzo e Calogiuri si chiese se il procuratore capo invece a riguardo avesse più esperienza, pure se si divertiva tanto a fare il lord.

 

“Lo so che è soltanto la mia parola, mo, ma vi garantisco che è vero.”

 

Si trovò con la mano stretta in quella di Imma, mentre lei annuiva, anche se, conoscendola bene, notava ancora un fondo di irritazione per l’omissione.

 

E su quello non poteva darle proprio torto: era stato scemo, troppo fiducioso, troppo leggero. Ma da quel momento in poi non avrebbe mai più ripetuto errori simili, né nelle indagini, né in privato.

 

“Allora… se Melita stava allattando, vuol dire che il bambino o la bimba… insomma è nato vivo.”

 

Era stata Mariani a parlare e si guardarono tutti, perché questo portava alla domanda successiva.

 

“Vi garantisco però anche che quella sera a casa di Melita non ci stava alcun bambino e manco dopo, quando l’abbiamo messa sotto protezione, ovviamente.”

 

“Mariani, anche se lo ritengo improbabile, soltanto per scrupolo, può sentire i dottori che hanno in cura la Russo, se ha segni di allattamento ancora visibili?”

 

Mariani annuì, prese il telefono e si allontanò leggermente per fare la chiamata.

 

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“No, se Melita ha allattato, ha smesso da parecchi mesi ed è impossibile risalire a se lo abbia fatto o meno.”

 

Il responso di Mariani non la stupiva affatto, anzi.

 

Per il resto… non avrebbe saputo dire come si sentiva… per lei l’argomento gravidanza era ancora tosto, tostissimo da affrontare. C’era come una dolenza, una specie di magone, un’amarezza latente che le riempiva la gola.

 

Ma mo doveva pensare a tirare fuori Calogiuri dai guai, sebbene la sua estrema ingenuità e fiducia nel genere umano, così dure a morire, oltre al suo bello fossero state anche la sua rovina.

 

“Va beh… questo però era già ovvio, mi pare,” intervenne, alternando lo sguardo tra Calogiuri e Mancini, “Melita non avrebbe potuto tenere un bambino nascosto mentre stava sotto protezione e l’allattamento va fatto spesso o il latte se ne va.”

 

“Ma… quindi.... se subito prima di finire sotto protezione aveva ancora quelle cose in casa e addosso… voleva dire che fino a poco prima questo bimbo ci doveva essere. Quindi-”

 

“Quindi dov’è finita quella creatura?” finì lei per Calogiuri, in quella specie di ping pong di intuizioni che le era mancato più di quanto avrebbe mai potuto immaginare, così come il lavorare con lui.

 

E poi il viso gli si illuminò e lo sentì esclamare, “i referti del pronto soccorso!”

 

“Maresciallo, come ha già sentito da Mariani, dai referti non è possibile risalire a-”

 

“Non i referti di mo, quelli di quella sera, quando Melita è stata male.”

 

Calogiuri aveva osato interrompere Mancini e non sapeva se essere più orgogliosa di quello o dell’intuizione che aveva appena avuto.

 

Diventava sempre più bravo nelle indagini, ogni giorno che passava, mannaggia a lui!

 

“L’ho portata al pronto soccorso e, se stava ancora allattando, magari i medici lo avevano notato e ne è rimasta traccia nei referti di allora.”

 

“Ti ricordi come si chiamava il medico?” gli chiese, senza sforzarsi nemmeno di trattenere l’orgoglio ed il sorriso che le veniva sempre spontaneo, quando lui era così.

 

“No, no, purtroppo no, ma lo avevo scritto nel mio rapporto e sicuramente non è difficile risalire a chi fosse.”

 

“E, arrivati a questo punto, abbiamo tutti i motivi per chiedere di visionare le cartelle cliniche,” si inserì Mancini, voltandosi verso Mariani e chiedendole, “se ne occupa lei?”

 

“Certamente, dottore. Se vuole chiamo subito.”

 

“Lo possiamo fare una volta tornati in procura, Mariani, non si preoccupi.”

 

“Ora che ci penso meglio… pure sui social Melita era quasi sparita nei mesi prima che la rivedessimo, quando mi avevi fatto fare il controllo, ti ricordi?”

 

Era stato di nuovo Calogiuri a parlare ed annuì, anche se le toccò ammettere, “su cosa c’era o non c’era sui social hai più memoria tu, che lo sai che ci capisco poco.”

 

“Quindi tutto tornerebbe con il tentativo di mantenere nascosta la gravidanza. Ma perché tenerla così nascosta?” chiese Mariani, pronunciando quello che era anche il suo pensiero, “magari lo si fa se si pensa di voler dare il bimbo in adozione ma… se poi ha allattato….”

 

“Credo che sia inutile fare altre ipotesi ora, Mariani. Non appena torniamo in caserma, procediamo con le verifiche ed avremo maggiori informazioni sulle quali basarci. Per intanto… maresciallo, dobbiamo visionare tutti gli indumenti di pelle in suo possesso.”

 

Sentì la mano di Calogiuri irrigidirsi nella sua: Mancini era tornato nella parte da PM, in tutti i sensi.

 

“Presumo che quindi… abbiate ritrovato sotto le unghie di Melita tracce di pelle animale?” chiese subito, affrettandosi a chiarire, prima che Calogiuri potesse anche solo dire qualcosa, “se l’avete confusa con pelle umana… doveva essere color carne, ma Calogiuri è amante del nero, a differenza mia, e le cose che tiene di pelle sono praticamente tutte nere.”

 

“Sì, è vero, almeno quelle che ho visto io,” confermò Mariani ed Imma le rivolse uno sguardo carico di gratitudine.

 

“In ogni caso non c’è problema che controlliate: non ho niente da nascondere,” affermò Calogiuri, deciso, lasciandole la mano, dopo un’ultima stretta, “ma… potrebbe accompagnarmi Mariani? Visto che… la stanza non è solo mia.”

 

Sentì calore alle guance e notò che anche Mancini era nuovamente in imbarazzo. E poi il procuratore capo guardò fisso Mariani per un attimo e pronunciò un, “mi fido di lei, mi raccomando!” che la sollevò immensamente.

 

Almeno prima che aggiungesse, una volta che Calogiuri e Mariani ebbero richiuso la porta della camera da letto dietro di loro, lasciandoli soli, “dottoressa, se vuole andare anche a lei a verificare, visto che per l’appunto è anche camera sua. Io posso attendere qua.”

 

L’istinto la portò sulla difensiva: non le piaceva l’idea di lasciarlo lì da solo, in casa sua. Per niente.

 

Mancini ovviamente lo notò e parve ancora più ferito di quanto già non fosse da quando si era presentato lì.

 

“Dottoressa, la sua sfiducia nei miei confronti mi fa male, molto male.”

 

“Se non mi fossi fidata di lei, dottore, non avrei mai consigliato a Calogiuri di non dire della presenza sua e di Irene qua l’altro giorno. Lo sa benissimo.”

 

“E così l’indagine è passata a me invece che rimanere a Santoro. Mi sembra che sto mantenendo la mia parte, o no?”

 

Lo guardò ancora negli occhi, in quegli occhi che la guardavano sempre in quel modo che la faceva sentire in colpa, ma che ora le stavano chiedendo fiducia, senza spostarsi dai suoi.

 

Sospirò e si voltò per raggiungere la camera da letto, sperando di non pentirsene.

 

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“E quindi mo se ne staranno chiusi a casa per un po’.”

 

Era con Rosa, sul divano di casa di lei, approfittando di quelle ore nelle quali Valentina stava in università e Noemi all’asilo. Aveva appena finito di aggiornarla meglio sui dettagli sensibili di ciò che si erano detti il giorno prima con Imma e suo fratello.

 

“Allora mo ci penso io ad andare dal fratellino, appena posso. Tu stasera dove dormi?”

 

Sospirò, perché avrebbe voluto tanto poter stare con lei, ma Valentina veniva prima di tutto e la notte precedente gli aveva chiaramente fatto capire quanto le mancasse.

 

“Tranquillo, lo capisco,” lo rassicurò subito, avendo compreso, senza bisogno di parole, e gli strinse la mano.


“Però, se tu hai bisogno, lo sai che-”

 

“Lo so. E poi io ti ho già qui mo. Anzi… a proposito…”

 

Le labbra sulle sue zittirono ogni risposta possibile, che non fosse lasciare che fossero i baci, le mani ed il corpo a parlare per lui, godendosi ogni istante passato con lei.

 

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“Dottore!”

 

“Mariani, ci sono novità?”

 

“Sì, sì. Ho avuto le cartelle cliniche di Melita e anche il dottore che l’ha assistita mi ha confermato che aveva un segno recente di cesareo e che Melita era in allattamento. Non le aveva chiesto la data precisa del parto, anche perché non sembrava pienamente cosciente, ma, da com’era messa la cicatrice, si era segnato sul referto che il parto doveva risalire al massimo a tre mesi prima. E tutto torna anche con i social, come diceva Calogiuri e-”

 

Si bloccò un attimo, temendo di avere fatto una gaffe, visti i rapporti tra Ippazio e il dottore, ma lui le fece segno di proseguire.

 

“Insomma… nei mesi precedenti sui social Melita ha postato pochissime foto e quelle che c’erano erano tutte o primi piani o foto dal seno in su. Chiaramente per non mostrare la pancia ma… il viso effettivamente era diventato mano a mano più… morbido nei lineamenti. E ho cercato nel periodo risalente a circa tre mesi prima dalla visita al pronto soccorso e Melita è stata del tutto assente dai social, proprio come attività, per circa una settimana. Credo la data del parto debba essere stata in quei giorni.”

 

Mancini le sorrise, “ottimo lavoro, Mariani! Dobbiamo scoprire dove possa aver partorito. Sicuramente in una clinica privata, visto che non hanno registrato il bambino o la bambina, in un ospedale pubblico non credo sia possibile. Dobbiamo capire se il giro dei Romaniello, dei Mazzocca e degli altri coinvolti in questo caso si rivolga abitualmente a qualche clinica compiacente.”

 

“Va bene. Ma… se lei è d’accordo, dottore, vorrei consultarmi sia con la dottoressa Ferrari, che… con la dottoressa Tataranni e con Calogiuri, ovviamente con discrezione, visto che hanno una visione sul maxiprocesso e sui giri di Melita e di… tutti quei gentiluomini, migliore della mia.”

 

Temette per un attimo un secco no e magari pure un rimprovero ma Mancini di nuovo annuì.

 

“Va bene, Mariani, mi fido di lei, come le ho già detto, quindi, mi raccomando, non solo discrezione, ma massima cautela, va bene? Non possiamo permetterci altri errori.”

 

“Certo, dottore.”

 

“Sta facendo veramente un lavoro eccezionale, Mariani, continui così, d’accordo? Non mi deluda anche lei.”

 

L’ultima frase era stata pronunciata con un’amarezza che le fece un poco di tenerezza. Sapeva benissimo che la situazione tra Mancini, Calogiuri e la dottoressa era molto complicata, ma alla fine il procuratore capo si stava dimostrando una persona corretta e professionale, al di là delle antipatie personali.

 

“E neanche lei, dottore, con tutto il rispetto,” gli rispose però, perché, con tutto quello che stava succedendo in procura, la mano sul fuoco non ce l’avrebbe più messa per nessuno o quasi.

 

Lui parve sorpreso e, di nuovo, temette una sfuriata, ma si limitò a sorriderle e ad annuire, con un “è giusto!” che la fece sorridere di rimando.

 

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“Dottoressa… dottoressa… Imma.”

 

Aprì gli occhi: le sembrava di aver dormito per secoli, e si trovò a pochi centimetri da due occhi azzurri e da due labbra che le fecero saltare un battito.

 

Non sapeva come fosse possibile che, dopo tutto quel tempo, le facesse ancora quell’effetto.


“Calogiù?” chiese, incredula ma felice di trovarlo lì, soprattutto quando si sentì accarezzare il viso con delicatezza, e poi un bacio, e poi un altro, e poi le dita che picchiettavano sulla sua guancia, e poi-

 

“Ahia!” esclamò, aprendo gli occhi di scatto, di nuovo.

 

E di Calogiuri non c’era più traccia, solo di una certa micia che, oltre a menare zampate come un’ossessa, stava iniziando a metterci una punta di artiglio, quello che basta per grattare senza graffiare.

 

Tutto intorno era buio.

 

La afferrò per la collottola per levarsela dal viso e guardò l’ora: erano le quattro del mattino.

 

“Ottà, ma che c’hai? Sei impazzita?” le chiese, mettendosela in grembo e lasciandola andare ed Ottavia prese a miagolare tantissimo e poi le pigliò coi denti la parte finale della camicia da notte e cominciò a tirare.

 

“Ma che sei impazzita veramente?” le chiese, risollevandola prima che gliela rompesse, anche perché era una delle sue preferite - e forse la preferita in assoluto di Calogiuri.

 

E fu a quel punto che fece il collegamento.

 

“Ma che è successo qualcosa a papà?” le chiese e, per tutta risposta, Ottavia balzò giù dal letto e corse fino alla porta, miagolando.

 

La seguì e, arrivata al corridoio, udì, oltre al miagolio furibondo, anche come dei lamenti.

 

Si avvicinò, prima piano e poi sempre più veloce, e si trovò davanti a una specie di groviglio bianco in movimento.

 

“Calogiù!” lo chiamò, preoccupata, sia per come si muoveva, scalciava e si divincolava, sia per come si lamentava.

 

“No! … No! … Basta, non potete, non potete!”

 

Era quello che biascicava, tra un lamento e l’altro, e si rese conto che stava sognando di essere ancora sotto arresto, forse di star venendo portato via in manette.

 

“Calogiù, Calogiuri!” esclamò, toccandogli una spalla, per cercare di farlo svegliare, “Calogiù, svegliati non-”

 

E fu il suo turno di mugolare dal dolore, perché si ritrovò col polso stritolato, mentre Calogiuri si strappava la sua mano da dosso, urlando un altro “no!” disperato, che però, per fortuna, gli fece aprire gli occhi.

 

Il terrore che ci lesse le fece assai più male del polso, perché se lo immaginò, spaventato e solo, nella sala interrogatori e poi in una cella, con quei bastardi intorno che ci godevano ad umiliarlo.

 

“Calogiù, stai tranquillo, sei a casa mo,” provò a calmarlo, e lui sembrò finalmente riconoscerla e poi guardò la mano che ancora la stava afferrando e la lasciò immediatamente, con un “scusami, Imma, scusami, ti ho fatto male?”

 

“Non ti preoccupare per me, tu stai meglio mo?” gli chiese, sedendosi accanto a lui e provando un poco di sollievo quando lui non si allontanò e si limitò ad annuire, riprendendole il polso per controllare di non aver fatto troppi danni.

 

“Scusami… ti verrà un livido e… forse dobbiamo metterci un po’ di ghiaccio, scusami e-”

 

“Shh!” lo bloccò, mettendogli un dito sulla bocca, perché quando si impanicava così era l’unico modo, “non mi hai fatto niente e… è normale che… che con tutto quello che ti è successo, tu c’abbia gli incubi.”

 

Lui abbassò il viso, sfuggendole dalle dita, letteralmente.

 

“Magari… magari quando tutto questo casino sarà finito, potresti andare da un professionista, che almeno ti dà una mano ad affrontare quello che ti è successo e-”

 

“E non sono matto!” esclamò lui, di nuovo incazzosissimo ed indignato, peggio di Ottavia.

 

“Ma mica si va dallo psicologo perché si è matti, Calogiù. E quello che hai passato metterebbe a dura prova chiunque. Per chi fa il nostro mestiere è previsto poter avere un supporto in certi momenti, è importante.”

 

“Come se tu ci fossi mai stata dallo psicologo!” le fece notare, con un sopracciglio alzato, e a lei venne in mente la disastrosa terapia di coppia con Pietro, ma lì oggettivamente non è che ci si fosse impegnata, dovendo mentire dal principio.

 

“Ma non mi è mai capitato tutto quello che è capitato a te nelle ultime settimane. E lo so che sono una capatosta ma… se servisse a me, a te, a noi due, sarei più che disposta ad andarci. Pensaci, va bene?”

 

Calogiuri le sembrò sbigottito. Lo era pure lei, in un certo senso, perché le era uscito senza nemmeno rifletterci, dal cuore, come le succedeva sempre con Calogiuri. E, come le succedeva sempre con Calogiuri, si rese conto che lo pensava veramente.

 

Per Calogiuri aveva fatto e avrebbe continuato a fare così tante cose che non aveva mai fatto per nessuno, mai. E non le sarebbe pesato, anzi.

 

“Lo sai che… che ora comunque è impossibile. Mi ci manca solo quello e che lo scoprano i giornalisti o l’Arma, per perdere ogni possibilità di salvarmi e di salvare il lavoro. Lo sai come lo dipingerebbero.”

 

“Lo so, ma non sarà per sempre così, Calogiuri, farò di tutto perché non sia sempre così,” cercò di rassicurarlo, tentando di cingergli le spalle per abbracciarlo, ma i muscoli sotto le sue dita si contrassero.

 

I loro sguardi si incrociarono di nuovo e poi lo vide, fissarle la camicia da notte, prima di chiudere gli occhi, scuotere il capo e dirle, “è meglio se torni a dormire mo.”

 

“Meglio per chi?” gli chiese, con tono di sfida, come aveva già fatto quel pomeriggio.


“Per tutti,” rispose lui, laconico e di nuovo distante, rimettendosi disteso e voltandosi per darle le spalle.

 

Fu l’ennesimo schiaffo di quella giornata, da un lato le veniva da piangere, dall’altro le montò un’incazzatura incontenibile, perché mo stava proprio esagerando.

 

“Fai come vuoi!” sibilò quindi, alzandosi dal letto e risistemandosi la camicia da notte, “sto solo cercando di aiutarti e continuerò ad aiutarti. Ma non ti devi proprio preoccupare su cosa è meglio per me, perché, se ti comporti così, certe voglie me le levi proprio tu per primo, che mi sembri Valentina quando teneva quindici anni. E mo me ne vado a dormire pure io!”

 

Non aspettò nemmeno di vedere se lui avrebbe reagito o meno, perché non se lo meritava proprio, si avviò a passo marziale verso la camera da letto, i piedi nudi che picchiavano sulle piastrelle fino a farle male, gli occhi pieni di lacrime, e richiuse la camera da letto con un boato che forse avrebbe risvegliato tutto il condominio.

 

Peggio per loro!

 

*********************************************************************************************************

 

Spalancò gli occhi con un sospiro: era inutile, per quanto ci provasse non gli riusciva proprio di tornare a dormire.

 

Allungò un dito per dare una carezza ad Ottavia, che gli stava appollaiata sul petto, ma, per tutta risposta, lei lo guardò malissimo, tutta corrucciata in un modo che gli ricordava tantissimo Imma.

 

Ed il pensiero di lei si accompagnò ad una fitta di senso di colpa.

 

“Forse ho esagerato davvero con mamma, eh, Ottavia?” le chiese, grattandole il mento e la micia si esibì in quello che era un chiarissimo vedi un po’ te non verbale.

 

Sì, aveva preso quasi tutto da Imma, veramente.

 

Con un altro sospiro, si tirò prima a sedere e poi in piedi, proclamando con Ottavia, che era ormai il ritratto di una gatta sorniona, “vado solo in bagno, Ottà, è inutile che mi guardi così.”

 

Seguito dai miagolii di protesta, si incamminò verso il corridoio ma, non appena superata la statua del leopardo in ceramica, si fermò.

 

C’era un rumore, lievissimo ma costante.

 

Imma

 

Andò verso la porta della stanza da letto e la trovò socchiusa, l’aprì il più silenziosamente possibile, quanto bastava per intravedere la figura sottile che tremava sotto le lenzuola.

 

Un colpo al cuore ed un’altra fitta.

 

Stava piangendo, era evidentissimo, anche se aveva la testa sotto al cuscino ed era tutta coperta.

 

Dire che si sentisse una merda sarebbe stato come dire che Mancini gli stava lievemente antipatico.

 

Spalancò la porta e lei, ovviamente, lo sentì, perché si bloccò improvvisamente. O almeno ci provò: un poco di tremolio si distingueva ancora, tra un respiro e l’altro che sollevavano il copriletto.

 

“Imma…” sussurrò, avvicinandosi piano piano, avendo paura di spaventarla e forse di farle ancora più male.

 

Ma lei rimase sepolta dal cuscino, senza fare il minimo cenno di volerne uscire.

 

“Mo sei tu che fai la testona, dottoressa,” sospirò, sedendosi piano sul bordo del letto e poi afferrando il cuscino, costringendola a scoprirsi e a guardarlo, anche solo per cercare di riprenderselo.

 

Le guance e le ciglia bagnate e quegli occhi grandi, talmente lucidi da essere nerissimi, furono l’ultimo colpo: si sentì nudo, senza difese, senza quella corazza che aveva cercato disperatamente di mantenere con lei.

 

La mano si mosse prima che potesse fermarla e si trovò a cercare di asciugarle le lacrime con dita tremanti.

 

“Scu- scusami,” gli uscì, anche se la lingua gli sembrava incollata al palato, “ho esagerato, scusami. Ma… ma è che… mi sento… mi sento sempre così arrabbiato… forse perché… sento di non riuscire a fare mai abbastanza, che tutto mi è sfuggito di mano e-”

 

Le dita di lei afferrarono le sue, bloccandogliele sul viso ancora bagnato, le parole che gli si persero in bocca, solo per il modo in cui lo guardava, rabbioso e disperato.

 

“Non è vero: io qua sto e non vado più da nessuna parte, hai capito? E non è vero nemmeno che non fai mai abbastanza, anzi! Ma non ti rendi conto delle intuizioni che hai avuto oggi?! Potresti avere svoltato il caso, mannaggia a te! Perfino… perfino Mancini è rimasto impressionato da te!”

 

E, anche se gli fece male sentirglielo nominare, allo stesso tempo quell’orgoglio che le lesse negli occhi, così sincero, pure nell’incazzatura, lo fece sentire… come solo lei lo faceva sentire.

 

“Non c’è niente che non puoi fare, Calogiuri, niente! E non so più come fartelo capire!”

 

Rimase per un attimo in silenzio, cercando di deglutire il groppo enorme che c’aveva in gola.

 

Mannaggia a lei, che riusciva sempre a ridurlo così!

 

“Quella sei tu, dottoressa…” riuscì infine a mormorare, sfiorandola con l’unico dito rimasto libero, il pollice.

 

“No, non è vero! Non è vero! Perché non riesco più ad aiutarti, a supportarti e… e... a farti capire quanto ti amo, maledizione e… e non ce la faccio più a vederti stare così male e-”

 

Ci mise qualche secondo a realizzare che la stava abbracciando, più forte che poteva, ma neanche lui ce la faceva più a vederla così e…  e mo non vedeva proprio più niente. E non solo perché aveva il viso sepolto nei suoi ricci, il calore del fiato di lei che sembrava penetrargli dritto nell’anima, attraverso la maglietta bagnata di lacrime, fino al cuore che gli batteva all’impazzata.

 

Per poco non ci si soffocò pure lui nelle sue stesse lacrime, mentre cercava di ritrovare il respiro, avvolto nel profumo di lei, che piano piano lo tranquillizzava e lo faceva sentire stranamente in pace, come solo lei sapeva fare.

 

Siamo proprio due scemi! - pensò, rimanendo aggrappato a lei e lei a lui come fosse l’ultima cosa che avrebbero mai fatto in vita loro.

 

Alla fine si staccò leggermente, i muscoli che gli bruciavano come i polmoni, e quelle ciglia e quegli occhi furono nei suoi.

 

E la baciò, o forse fu lei che baciò lui: non ci capiva più niente, stordito dal bisogno di sentirla vicina, sempre più vicina, di ritrovare quella parte di sé che aveva perso con lei.

 

Il mondo finì sottosopra, mentre rotolava insieme a lei, drogato dal sapore delle sue labbra e dalla morbidezza della pelle che gli scivolava sotto le dita. Rabbrividì nel sentire le mani di lei sotto la maglietta, che salivano sempre più su e, d’istinto, afferrò i lembi di quella camicia da notte che era illegale, era, sollevandola per levargliela in un solo gesto, accecato dal bianco della sua stessa maglia che gli veniva sfilata da sopra la testa.

 

Un brivido, il seno di Imma sul suo petto e-

 

Davanti ai suoi occhi, chiaro e nitidissimo, gli si parò Imma con quello stronzo, in quella stessa identica posizione, lei che gemeva proprio come faceva con lui e-

 

Una secchiata di ghiaccio.

 

Si staccò bruscamente da lei, il gelo che gli era arrivato al cuore, stringendoglielo fino a piegarlo in due.

 

“Calogiù, che hai, ti senti male?”

 

La preoccupazione nella voce di lei peggiorò solamente le cose e si divincolò dalle mani che gli avevano preso le spalle con un “lasciami!” talmente forte che si spaventò da solo.

 

Rimasero per un secondo come paralizzati, a guardarsi, lei con le mani ancora sollevate in aria, gli occhi di nuovo pieni di lacrime.

 

“Scu- scusami, ma… non ce la faccio… continuo a pensare… a te e a lui e… non ce la faccio!”

 

Il singhiozzo di Imma fu l’ultima cosa che udì prima di lanciarsi quasi giù dal letto e correre in bagno, gettandosi sotto la doccia gelata ma mai quanto il suo cuore, sfregandosi il viso fino a farsi male, pur di scacciare quelle immagini che erano peggio di qualsiasi tortura.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo capitolo, un po’ più breve del solito. Ma è stato un parto da scrivere, per via di quello che è successo nelle ultime scene, e ho ritenuto che questo fosse il punto più giusto dove terminarlo.

Calogiuri ed Imma si amano moltissimo e lui razionalmente l’ha anche perdonata, ma c’è una parte irrazionale che non ce la fa proprio, almeno per ora. Nel prossimo capitolo vedremo la reazione di Imma a quanto appena successo e le indagini proseguiranno a pieno ritmo, mentre Imma e Calogiuri cercano di capire se è possibile non solo salvare lui, ma anche il loro rapporto.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che la storia, anche dopo la lunga pausa, stia continuando ad intrattenervi. In ogni caso, le vostre recensioni mi sono utilissime per capire cosa ne pensate e se quello che scrivo vi piace o meno e cosa può essere migliorato. Quindi vi ringrazio tantissimo se vorrete farmi sapere come sta andando.

Un grazie particolare anche a chi ha messo questa storia nelle preferite o nelle seguite.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica 31 ottobre, giusto in tempo per Halloween, sperando non faccia orrore :D anche perché di santi in questa storia non ce ne stanno proprio ;).

E nel frattempo dovrebbe anche essere iniziata la seconda stagione di Imma, finalmente! Spero che continuerete comunque a seguire questa storia anche se sarà in una realtà “parallela” a quella della fiction, ma penso che ormai i personaggi siano così avanti come fase del loro rapporto, rispetto a quanto realisticamente potremo vedere in una seconda stagione, che credo le due cose possano continuare passo passo senza generare troppa confusione.

Se invece preferiste una pausa da questa storia fino alla fine delle prime quattro puntate di Imma, per poi riprendere in attesa della seconda e ultima parte della stagione, fatemelo sapere pure nelle recensioni.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 65
*** In Azione ***


Nessun Alibi


Capitolo 65 - In Azione


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Maledizione, devi smetterla di piangere mo!

 

Se non se lo fosse detto mentre si aggrappava alle sue stesse ginocchia, cercando di non tremare come una foglia, forse il suo ordine a se stessa sarebbe risultato più credibile.

 

Sentì come dei tocchi sulla gamba e sollevò leggermente gli occhi, per trovarci Ottavia che le dava musate e le leccava il polpaccio. In un impulso disperato, se la prese e se la strinse al petto, continuando a piangere nel suo pelo morbido.

 

Ma nemmeno lei, col suo calore e le sue fusa, riusciva a levarle di dosso quella mano che le stringeva lo stomaco ed il cuore, quella voce che le ripeteva che forse qualcosa in Calogiuri si era rotta per sempre. Che non sarebbero mai riusciti a recuperarla, pure se si amavano.

 

E quello la terrorizzava più di qualunque altra cosa e non c’era proprio niente che potesse farla sentire meglio.

 

*********************************************************************************************************

 

Un rumore di passi gli fece aprire gli occhi ed alzare leggermente la testa dal cuscino. Gli sembrò pesare un macigno, dopo la notte praticamente insonne.

 

Era Imma, con gli occhi rossissimi, ma per il resto vestita di tutto punto, come per andare al lavoro.

 

“Ma… ma devi uscire?” le chiese, sorpreso.

 

“No,” rispose lei, semplicemente, secca, lanciandogli un’occhiata prima di infilarsi nell’angolo cucina, “mo ho bisogno di un caffè, o pure due, ma dopo dobbiamo parlare, Calogiuri. Le uova le fai tu? E pure il cappuccino, che io preparo il resto.”

 

Il tono di lei era quello che aveva sentito mille volte in procura: professionale, senza inflessioni, e non si era più girata a guardarlo.

 

Sospirò e si alzò dal letto: probabilmente era arrabbiata con lui per quanto era successo e non successo, e non poteva darle torto, ma… non era solo rabbia, c’era qualcosa di diverso.

 

Si avvicinò lentamente e fece quello che gli era stato chiesto, mentre lei era concentratissima sul pane da tostare e su tutte le cose da mettere sul bancone.

 

Si sedettero ancora in totale silenzio, lei che fece un cenno del capo per ringraziarlo del cappuccino e mangiò ad ampi bocconi, per poi tracannarsi il cappuccino.

 

CLANG

 

Il rumore della tazza mollata sul piattino quasi lo spaventò, nel silenzio che c’era.

 

La vide pulirsi le labbra col tovagliolo e poi gli occhi di lei, decisi, decisissimi, anche se iniettati di sangue, furono nei suoi.

 

“Calogiuri…” esordì, come aveva fatto mille volte quando lavoravano insieme, mordendosi le labbra ma non schiodando gli occhi dai suoi, “ti amo, moltissimo, probabilmente troppo e forse pure male. E questo non è in discussione. Ma… ho provato ad essere dove stai tu mo, anche se per motivi diversi.”

 

“In che senso?” chiese, non capendo e guardando verso la sedia ma lei scosse il capo con un sospiro.

 

“Giusto… non ne abbiamo mai parlato. Nel… nell’ultimo periodo del matrimonio con Pietro, prima di separarmi da lui… Pietro voleva delle cose da me, anche fisiche, che io non riuscivo più a dargli.”

 

La bocca gli si spalancò, senza poterlo evitare: non avrebbe mai pensato che Imma avesse mai….

 

“Nel mio caso era perché mi ero innamorata di te e… non soltanto non ero più attratta da Pietro, ma mi sentivo pure in colpa nei tuoi confronti. Nel tuo caso… pure se lo sento che… che anche da parte tua l’amore, anzi, il bene, non è in discussione, in un rapporto se manca la fiducia manca tutto. E, se non riesci più a fidarti di me, qua non andiamo da nessuna parte, Calogiuri.”

 

Si aspettava tutto tranne che quello e provò a protestare ma lei lo zittì con una mano alzata e con quello sguardo che gli paralizzava la lingua.

 

“Come ti ho promesso, continuerò a lottare, Calogiuri, insieme a te, per dimostrare la tua innocenza. E dopo, quando sarai libero, se vorrai e se te la sentirai, come ti ho già detto, sono disposta ad andare in terapia con te. Ed ovviamente puoi stare qua per tutto il tempo che ti serve. Ma…” prese fiato e lo sguardo ed il tono che aveva dopo erano decisi come forse mai, perfino per lei, “ma non mi avvicinerò più a te… in quel senso. E ti chiedo di non farlo nemmeno tu, finché non sarai più che sicuro di essere riuscito ad andare avanti. E… se questo non dovesse succedere… una volta che sarai libero di fronte alla legge, lo sarai anche nei miei confronti. Ti lascio libero di andartene per la tua strada, Calogiuri. Non… non ti voglio tenere legato a me, se non c’è futuro e se finiamo solamente per farci del male a vicenda. Pure se ti amo e se lo so che… che anche tu in qualche modo mi ami ancora. Ma l’amore senza la fiducia non serve a niente.”

 

Avrebbe voluto dirle tante cose, ma la lingua era sempre incollata al palato, il cuore che gli faceva male, come se avesse ricevuto un pugno. Imma era bellissima, fiera e triste come non l’aveva mai vista. Avrebbe voluto urlarle quanto voleva disperatamente riuscire ad andare avanti, quanto l’amava ancora, ma niente… la lingua non voleva saperne di collaborare.

 

E gli toccò osservare in silenzio anche quando Imma si alzò e cominciò a mettere piatti e posate nella lavastoviglie.

 

Riuscì solamente ad aiutarla, senza dire una parola, la paura fottuta di aver perso per sempre qualcosa e la voglia lancinante di abbracciarla.

 

Ma non lo fece.

 

*********************************************************************************************************

 

“Mariani, mi dica che ci sono buone notizie.”

 

Sorrise alla dottoressa e le spiegò per filo e per segno i risultati delle analisi su Melita.

 

“Ed adesso, d’accordo col dottor Mancini, stiamo cercando cliniche private compiacenti.”

 

“Qualche risultato?”

 

“No, purtroppo ancora, no, dottoressa, ma, come ho già detto al dottor Mancini, volevo confrontarmi anche con la dottoressa Tataranni e con Calogiuri, che di questo caso ne sanno più di me.”

 

“E pure più di me,” ammise a sorpresa la Ferrari, “ascolti, Mariani, organizziamo una videochiamata sulla solita linea criptata. Qua dobbiamo agire in fretta e mi pare la cosa più efficiente da fare, e speriamo anche la più efficace.”

 

“D’accordo, dottoressa. Domattina può andare bene per lei?”

 

“Certo. Prima è e meglio è, Mariani. Complimenti per l’ottimo lavoro che sta facendo.”

 

“Grazie, dottoressa.”

 

*********************************************************************************************************

 

“E quindi… il parto è avvenuto in estate. A giugno dell’anno scorso, per essere precisi.”

 

“Esatto, Calogiuri,” confermò Irene, con un sorriso.


Erano in videochiamata con lei, Mancini, Mariani e Ranieri ed almeno sembrava finalmente che cominciassero ad avere qualcosa di concreto su cui indagare, anche se mancavano ancora tanti, troppi elementi.


“Capire chi sia il padre sarebbe di grande aiuto, ai fini delle indagini,” intervenne, perché quello era uno dei punti cruciali per capire il movente di Melita e di tutto il mistero che circondava questa gravidanza.

 

“Sì, Imma, è vero. Anche perché… quello potrebbe essere un problema aggiuntivo.”

 

“In che senso, Irene?”

 

“Nel senso che… facendo tutti i conti… probabilmente Melita è rimasta incinta poco dopo essere tornata a Roma da Maiorca e quindi-”

 

“E quindi in quel periodo c’erano stati alcuni messaggi di ringraziamento tra me e Melita. Questo vuoi dire?”

 

Il cuore le finì nello stomaco, perché Calogiuri aveva avuto l’intuizione corretta, ma quella era una pessima notizia, purtroppo.

 

“Sì. Anche se, dalla testimonianza di Melita stessa, voi sareste stati amanti solo da dopo che vi siete rivisti ad agosto. Ma… c’è il rischio che qualcuno tiri fuori pure questi messaggi, quando noi proveremo a far emergere il punto della gravidanza.”

 

“Santoro o l’avvocato?”

 

“Entrambi, Imma. Entrambi.”

 

Vide Calogiuri accasciarsi sul divano: era stato un duro colpo per lui.

 

“In ogni caso, se mo conosciamo la settimana presunta del parto, dobbiamo guardare indietro, non solo sui profili social di Melita, ma anche sui social e sulle intercettazioni di tutta la gente coinvolta. Coraini, Giuliani eccetera.”

 

“Di quello ce ne occuperemo noi, Imma, non ti preoccupare,” la rassicurò Irene, anche se pure lei sembrava tutt’altro che tranquilla, “al momento voi meno fate e meglio è. Ma tenetevi a disposizione, se abbiamo bisogno di altri meeting.”

 

“E tanto che altro c’abbiamo da fare?” rispose, sarcastica.

 

Ma che c’aveva di male la parola riunioni? Con tutto sto inglese!

 

*********************************************************************************************************

 

Il suono del campanello provocò un salto sul divano, all’unisono.

 

Almeno in qualcosa erano ancora in perfetta sintonia.

 

Avevano appena smesso con la chiamata, quindi non poteva essere qualcuno mandato da Mancini. Si augurò che non fosse qualcuno mandato da Santoro.

 

“Chi è?” domandò, alzandosi dal divano e avviandosi verso l’ingresso.

 

“Sono io fratellì, mi puoi aprire?”

 

“Rosa?” domandò, stupito, perché era da quando si era lasciato con Imma che non si erano più visti.

 

Aprì la porta e ci trovò proprio sua sorella, con uno sguardo preoccupato, da sola.

 

“Noemi sta all’asilo, allora ne ho approfittato per venire a parlarti. A parlarvi, se ci sta anche Imma.”

 

La fece entrare, chiuse immediatamente la porta e provò a spiegarle, “Rosà, non è vero niente. Né che ho avuto una storia con Melita, né che l’ho aggredita e-”

 

“Lo so, fratellì, ti credo,” lo interruppe, con uno sguardo carico d’affetto ma pure di imbarazzo che gli fece mollare il respiro che stava trattenendo, “ti credo… e mi dispiace di essere stata così dura con te prima. Ma sai… solidarietà femminile.”

 

“Dai, vieni,” le offrì, prendendole il cappotto e portandola verso il salotto.

 

“Imma!” esclamò Rosa, esitando un attimo, ma poi Imma le si avvicinò e le diede un abbraccio, così, in quel modo naturale che aveva lei, che sapeva essere tanto affettuosa quanto dura, a seconda delle circostanze.


“Vado… vado a lavarmi i capelli e a rifarmi la tinta, che mo sti capelli gridano proprio vendetta. Voi state pure qua tranquilli, a dopo!” proclamò poi Imma, facendogli un sorriso ed uno sguardo di intesa.

 

E lui provò di nuovo quella cosa dentro al petto, che provava sempre e solo con lei, perché sapeva benissimo che era soltanto una scusa per lasciarli da soli a parlare.

 

“Dovevo capirlo che non avresti mai tradito Imma,” gli disse Rosa, quando Imma si fu chiusa in bagno, accomodandosi con lui sul divano, “e che non avresti mai voluto farla soffrire. Ma è che… dopo Maria Luisa… sei così fortunato ad avere una come lei al tuo fianco e… ho finito per fare come mamma con Maria Luisa e prendere le sue parti e non le tue. Ma mo ho capito che non avrei dovuto prendere le parti di nessuno, ma ascoltarti.”

 

“Non fa niente, Rosa, lo capisco… pure io al posto tuo mi sarei menato da solo. Anzi, a volte mi menerei da solo pure mo,” sospirò, passandosi una mano sugli occhi, “e lo so che sono fortunatissimo ad avere una donna come Imma e… vorrei tanto non farla mai soffrire, ma purtroppo non ci riesco più.”

 

“In che senso?” gli domandò Rosa, e si trovò col viso sollevato per guardare in quegli occhi uguali ai suoi.

 

Prese un attimo di tempo, perché non voleva certo raccontare a Rosa i fatti privati di Imma con Mancini.


“Diciamo che… in queste settimane io ed Imma ci siamo fatti male… tanto male, pur non volendolo. E mo non è facile perdonarsi a vicenda ed andare avanti.”

 

“Se ti fai scappare una come Imma per orgoglio ti meno, fratellì, e pure Noemi!” esclamò Rosa, anche se vedeva che era ironica, ma anche con un sorriso malinconico, “seriamente, lo sai che ti voglio bene e ti prometto che da ora in avanti sarò sempre dalla parte tua, qualunque cosa tu decida e con chiunque tu stia o non stia. Ma quello che avete tu ed Imma è difficilissimo da trovare e… quando lo si trova va difeso con le unghie e con i denti, se si riesce.”

 

Gli venne un singhiozzo e la strinse forte a sé, come quando erano bimbi e lei lo consolava dopo l’ennesimo rimprovero di mamma.

 

E quello gli fece venire in mente un altro problema.


“Mamma l’hai sentita?”

 

Rosa si irrigidì e mollò un poco l’abbraccio.

 

“Mamma è un disco rotto, fratellì. Continua a dire che abbiamo disonorato la famiglia, che non ci vuole più vedere, che siamo degli svergognati, eccetera eccetera. Ma peggio per lei che per orgoglio si sta perdendo gli anni più belli di Noemi. E del resto la capa tosta da qualcuno l’avemo pure presa no?”

 

Gli venne da ridere e l’abbracciò di nuovo, forte forte, prendendola in giro con un “allora lo sai che sei pure tu una testona!”

 

Non si accorsero degli occhi marroni ed umidi che li stavano osservando, né del sorriso dolce, solo lievemente malinconico, che aveva sul viso.

 

*********************************************************************************************************

 

“Valentina!”

 

Per poco non le pigliava un colpo. Non solo perché l’aveva presa di sorpresa, ma perché riconosceva la voce.

 

“Carlo?” chiese, voltandosi e trovandolo vicino all’aula dalla quale era appena uscita.


“Scusami per l’improvvisata, Valentina, ma… ero un po’ preoccupato. Ti posso offrire il pranzo?”

 

E mo che faccio?

 

Si sentiva in agitazione e non sapeva bene come fare, ma le sue carissime compagne li salutarono con un “vi lasciamo soli!” che le avrebbe ammazzate, le stronze!

 

Sospirò e guardò Carlo, che ricambiò in modo interrogativo.

 

“Se ti va bene ci prendiamo un panino ed andiamo su una panchina,” offrì, perché almeno avrebbero fatto prima che andare al bar o al ristorante.

 

“Va bene. Se non hai troppo freddo.”

 

“Ma no, con questo sole si sta bene!” rispose, avviandosi il più rapidamente possibile verso il chioschetto fuori dall’università.

 

Mangiarono in silenzio, sotto ai raggi tiepidi che annunciavano che l’inverno stava ormai volgendo al termine, per lasciare posto alla primavera.

 

“Come va?” le domandò all’improvviso, in una domanda che poteva avere tanti significati.

 

“Non posso dirti molto, per ovvi motivi, ma… mi sono chiarita con mia madre e con Calogiuri,” gli spiegò, cercando di dare l’interpretazione più neutra possibile, “e, pure se sono preoccupata, so che mia madre ha la testa sulle spalle e che gestirà tutto come deve. E poi… mio padre ultimamente mi sta rimanendo molto vicino e questo mi aiuta molto. Mi mancava un po’.”

 

“Lo immagino…” rispose lui con un sorriso, “anche a me fa piacere ogni tanto tornare a farmi coccolare a casa. Anche se mio padre mi fa sempre una capa tanta sullo studio. E… e mi era mancato anche parlare così con te.”

 

Sentì il viso farsi caldo ed ammise, “anche a me!” prima di rendersene conto.

 

“E Penelope?” domandò, che tra poco le andava di traverso il panino, “non l’hai più nominata.”

 

Era vero, e non era solo per… quello che aveva scoperto di provare per Carlo. Ma Penelope era stata tra le ultime persone a contattarla quando era uscita la storia dell’aggressione a Melita, perché troppo presa a lavorare con gli amici suoi. Tanto per cambiare.

 

“Diciamo che… le cose non vanno proprio benissimo. Ma forse non è il caso che ne parlo con te.”

 

“E perché? Mi sembra che abbiamo sempre parlato di tutto, no?” obiettò lui, con aria confusa e un po’ ferita, per poi chiedere, preoccupato, “non è che… non è che Penelope è gelosa di noi, vero?”

 

Le venne da ridere, anche se era una risata amara.

 

“Ma va! Penelope in questo periodo sta da tutt’altra parte, in tutti i sensi, ma-”

 

“Ma?” la interruppe e si rese conto in quel momento di essersi fregata da sola.

 

Complimenti, Valentina, brava!

 

Ma forse era meglio così.

 

“Ma… l’ultima volta che siamo usciti, che siamo andati a ballare… non so bene come sia successo ma… mi sono accorta di essere un po’ attratta da te,” ammise, e, di fronte agli occhi spalancati di Carlo, proseguì, tutto d’un fiato, “lo so che per te sono solo un’amica, e non è che nemmeno io voglio altro. Anche perché devo chiarire tutta la situazione con Penelope... però… come faccio a parlarti di lei finché non sono sicura di quello che provo? E per questo forse è meglio che, finché non mi sono chiarita le idee, non ci vediamo più neanche come amici. Anche perché mi sento in imbarazzo e non voglio metterti a disagio.”

 

Oltre agli occhi, Carlo aveva pure la bocca spalancata, tipo pesce.

 

“Grazie per il panino, io vado!” si affrettò a dire, anche se ne doveva ancora mangiare più di metà e, afferrando lo zaino, corse verso l’ingresso dell’università, dandosi da sola della scema per essersi infilata in quella situazione.

 

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Si girò sul fianco destro. Una fitta e ritornò sul sinistro.

 

Si sentiva stanchissimo, sfinito, ma non c’era verso di dormire realmente, continuava a svegliarsi.

 

Ottavia ad una certa ora lo aveva abbandonato e l’aveva vista zompettare verso la stanza dove stava Imma.

 

E non le dava manco torto.

 

Si sentiva stupido, ma non sapeva come fare. Non riusciva a controllare quello che sentiva, anche se lo avrebbe tanto voluto.

 

Però gli mancava avere Imma accanto a lui, gli mancava tremendamente. Gli mancavano il suo calore, il suo respiro, tenerla abbracciata, senza fare l’amore necessariamente, ma rimanendo insieme, semplicemente.

 

E poi… e poi Imma quel giorno lo aveva stupito per l’ennesima volta, ed era così maledettamente bella quando tirava fuori le unghie.

 

Una parte di lui avrebbe solo voluto alzarsi, raggiungerla e stringerla forte, fino a perdere il fiato. 

 

Ma non voleva farlo altro male, perché vederla triste era sempre una pugnalata per lui e perché lei quella mattina era stata chiara, chiarissima.

 

E quindi toccava a lui mo, capire cosa sentiva veramente, prima di fare altri casini e di darle altro dolore.

 

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“Allora, Ranieri, ci sono novità?”

 

La voce di Irene era speranzosa.

 

In effetti, che il capitano avesse convocato questo nuovo meeting all’improvviso e con urgenza, poteva essere un buon segno.

 

“Sì. Quando abbiamo parlato l’ultima volta mi era già venuta in mente una cosa, ma non volevo darvi false speranze. Ma ho ricontrollato e forse è come pensavo, anche perché i tempi coincidono con quelli dedotti da Mariani.”

 

“Cioè? Può arrivare al punto?” gli domandò, forse un poco brusca, ma già stava friggendo e non voleva sentirsi tre ore di preamboli.

 

Ranieri sorrise, scuotendo il capo, ed esclamò, “lo so che lei è molto diretta e veloce, dottoressa. Comunque, dalle nostre intercettazioni emerge che a giugno dell’anno scorso l’avvocato di Romaniello e Coraini, quello dell’agenzia fotografica, si sono scambiati una telefonata in quello che mi era parso anche allora un codice. All’epoca avevo pensato si parlasse di uno scambio di droga, visto che lì ne gira parecchia, ma il messaggio preciso era ‘la pagnotta è stata sfornata’. Ora, alla luce di quanto emerso e della coincidenza delle date, probabilmente non si annunciava un pacco di droga da ritirare ma-”

 

“Ma la pagnotta era il figlio di Melita,” lo interruppe, pure se lo avrebbe voluto abbracciare, anche da distanza, perché sì, quello era uno sviluppo importantissimo.

 

“Ma allora… poteva essere figlio dell’avvocato?” domandò Mariani, dalla sua postazione a casa sua.

 

“Diciamo che… non è chiaro quando Melita e l’avvocato si siano conosciuti,” si inserì Calogiuri, seduto accanto a lei, mentre consultava alcune cose sul suo tablet, “ma le foto di loro che abbiamo sono uscite molto più tardi.”

 

“Secondo me è poco probabile che già si conoscessero, o che comunque l’avvocato sia il padre. Prima di tutto è avvocato e non avrebbe mai lasciato in giro un suo erede vivo, se indesiderato, visto che conosce benissimo le conseguenze legali ed economiche di un eventuale riconoscimento, anche richiesto unilateralmente dalla madre con il DNA. Credo che il padre sia qualcun altro, ma prima di tutto dobbiamo capire dove l’hanno partorita sta creatura, per avere qualche elemento in più. E per capire quello e capire chi sia il padre bisogna guardare più indietro nei messaggi di Melita, di Coraini e dell’avvocato.”

 

“Va bene. Allora ognuno spulcia la sua parte di intercettazioni e tabulati e ci riaggiorniamo tra qualche ora?” propose Mancini e tutti annuirono.

 

Osservò Calogiuri chiudere il collegamento e prese in mano il primo faldone di carte, sperando di trovarci qualcosa.

 

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“Ranieri, mi dica che ci sono altre buone notizie.”

 

Era stato lui a far partire la chiamata di gruppo e vedeva Imma quanto fosse agitata, da come la gamba le andava su e giù, oltre che dal tono con il quale gli aveva praticamente ordinato di darle buone nuove.

 

“Sì, dottoressa. Per fortuna le intercettazioni di Coraini si stanno rivelando una miniera, pure se quasi tutta in codice. Ho pensato di andare più indietro, cercando altri riferimenti a forni e panificazioni e ho trovato un paio di messaggi tra Coraini ed un numero che appartiene, da verifiche, ad un ginecologo che lavora in una clinica privata sui colli romani. Si parlava di ‘passare insieme dal forno’ e cose del genere. Poi potete leggerli, ma credo stessero fissando gli appuntamenti medici che riguardavano Melita e la data del parto. Perché c’è un messaggio che dice ‘dobbiamo metterci d’accordo su quando la pagnotta verrà sfornata’.”

 

“E c’erano risposte?”

 

“Sì. Date di appuntamenti, credo. E presumibilmente del cesareo, che coincide con la data in cui la pagnotta è stata sfornata.”

 

“E certo… se volevano fare tutto di nascosto, non potevano correre il rischio di un parto naturale e che Melita si sentisse male da qualche parte e venisse portata in un altro ospedale. Grazie Ranieri, veramente, ha fatto un lavoro eccezionale.”

 

Provò un’assurda fitta di gelosia ma sentì la mano di Imma stringere la sua, da sotto al tavolo della cucina, dove avevano messo il pc.

 

La guardò ed il sollievo e la commozione che le lesse in faccia furono un’altra stilettata dritta in petto.

 

E poi gli sorrise e lui non potè evitare di sorriderle di rimando, stringendole più forte la mano.

 

“Ed ora che facciamo?”

 

Era stata Irene a porre la domanda.

 

“Io un’idea ce l’avrei…” proclamò Imma, le dita che si intrecciarono con le sue.

 

Il sorriso si trasformò in una mezza risata: quando Imma aveva una delle sue idee, non ce n’era per nessuno.

 

Sempre.

 

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“Che c’è?”

 

Avevano appena finito la videochiamata, anzi la videocall, come avrebbe detto Irene, si era voltata e aveva trovato Calogiuri con quello sguardo, come se lei fosse la madonna.

 

“C’è che… che avrei tanta voglia di abbracciarti. Tanta.”

 

Non avrebbe saputo dire se fosse stato più illegale lo sguardo, il tono, o l’aria timida e imbarazzata con la quale glielo aveva detto.

 

Per certi versi, le sembrava tornato il Calogiuri dei primi tempi. Anche se non lo era, affatto.

 

“E allora?”

 

“E allora non so se… se posso farlo o no.”

 

Sospirò e gli sorrise, prendendogli di nuovo la mano, “guarda che non è che mi devi chiedere il permesso, Calogiuri. Se lo vuoi fare e ne sei sicuro, fallo. Anche perché, per un abbraccio, non credo ci siano proble-”

 

Non fece in tempo  a finire che si trovò stritolata a morsa, il rumore ritmico del cuore di lui sotto al suo orecchio che le dava tranquillità e pace, nonostante tutto.

 

“Grazie… non… non sai cosa significa tutto questo per me e… e scusami se…” si sentì sussurrare nell’orecchio, prima che lui facesse una pausa, deglutisse saliva, e finisse con un “lo sai che non vorrei mai farti soffrire, vero?” che era ancora più da scioglimento.

 

“Lo so, Calogiuri, lo so,” lo rassicurò, accarezzandogli i capelli, “e spero che tu sappia che lo stesso vale per me.”

 

“Lo so, ma… ma è che il cervello a volta fa strani scherzi, e pure il cuore.”

 

E che non lo sapeva? Con tutti quelli che aveva combinato a lei!

 

Ma non disse niente e si limitò a continuare ad abbracciarlo, rimanendo così, stretti stretti, per un tempo che non sarebbe mai durato abbastanza.

 

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“Valentì!”

 

Erano nel letto e si era trovato abbrancato per la vita in un abbraccio da stritolamento.

 

Per carità, gli faceva piacere che Valentina, nonostante l’età, volesse ancora così tanto bene al suo papà, ma erano un paio di giorni che pareva ancora più bisognosa di coccole del solito.


“Che c’è, Valentì? Sei strana. Vuoi dire che è successo, a papà?”

 

Sua figlia si bloccò un attimo, ma poi sollevò il capo e teneva gli occhi pieni di lacrime.

 

L’arma più letale del mondo per lui: le lacrime di sua figlia.

 

“Papà… ho fatto un casino!” esclamò, prima di buttarglisi a piangere sul petto.

 

“Valentì… Valentì… calma. Perché non mi spieghi con calma, dall’inizio?”

 

Valentina per un po’ non rispose, mutismo totale, ma poi chiese, con voce flebile, “papà… secondo te… secondo te è possibile amare una persona ma essere attratta da un’altra?”

 

“E che è, una domanda a trabocchetto?” ironizzò, ma sapeva benissimo quanto fosse realmente pericoloso andarsi ad infilare in certi discorsi.

 

“No, papà, niente giudizi sul passato. Allora, secondo te è possibile?” incalzò, decisa, sollevando il capo e guardandolo con quegli occhi ai quali avrebbe concesso tutto.

 

“Beh… diciamo che… effettivamente quando stavo ancora con mamma tua… da Cinzia ero stato attratto, lusingato, diciamo. Forse più dalle attenzioni che mi dava che da lei, mentre a volte mamma tua era più distante in quel periodo. Però alla fine con Cinzia non è successo niente fino a dopo che è finita con mamma tua. E non perché fossi un santo, eh, ma anche perché… evidentemente di tua madre ero innamorato, di Cinzia no.”

 

“Grazie al cavolo! E che ti ci volevano tutti quei mesi per capirlo? E comunque non so se questo mi aiuta.”

 

“Ma ci stanno problemi tra te e Penelope?” si azzardò a chiedere allora.

 

Valentina, di tutta risposta, rise, amarissima.

 

“Sai che c’è, papà? C’è che vorrei averli i problemi con Penelope, perché almeno vorrebbe dire che ci vediamo, che ci parliamo, che facciamo qualcosa. Mentre invece niente: Penelope sta sempre impegnata, è assente e ci vediamo sempre di meno. E l’ultima volta che ci siamo viste, dopo un sacco che non ci vedevamo, ha dato priorità ai suoi amici dell’accademia. E anche solo per chiedermi come va ultimamente arriva sempre tardi, quando arriva.”

 

“Senti, Valentì,” sussurrò, accarezzandole i capelli, “nessuno meglio di me può capire come sia difficile stare con una persona che mette prima il lavoro.”

 

Stavolta la risata di Valentina era più genuina.

 

“Lo sai che io e mamma tua siamo stati lontani anche quando eri piccolina, se te lo ricordi?”

 

“Sì. Mi ricordo che mamma mi era mancata tantissimo.”

 

“E pure a me. Ma comunque abbiamo sempre resistito, sempre, perché ne valeva la pena e perché ci amavamo molto. Mo devi capirlo pure tu, se ne vale la pena. Anche perché mo fai l’università, ma presto pure a te toccherà lavorare, Valentì, e stare impegnata per la maggior parte della giornata. E se riuscite a venirvi incontro, non soltanto metaforicamente, ma pure ad abitare più vicine, magari potrà funzionare, no?” le chiese, ma Valentina gli parve dubbiosa, “certo, se poi invece magari hai già incontrato qualcun’altra che ti piace di più….”

 

Valentina sembrò sorpresa, abbassò il capo e mormorò, “un altro.”

 

“Un altro?” ripeté, a dir poco stupito.

 

Ma almeno Valentina rise di nuovo.

 

“Sei l’unico padre al mondo che pare quasi deluso che alla figlia possa piacere un maschio.”

 

“A parte che dipende dal maschio, Valentì, ma poi… a me le novità mi destabilizzano, lo sai. Ci metto un poco a digerirle.”

 

“Un poco? Un sacco!” lo sfottè Valentina, dandogli un pizzicotto al fianco.

 

Ma non poteva negarlo.

 

“Ma questo maschio… cioè… ricambia?”

 

“No, non penso: è un amico e basta. E proprio per questo mi è toccato dirgli la verità, cioè che sono attratta da lui. Perché attratta sì… innamorata non lo so proprio.”

 

Deglutì e Valentina gli sorrise.


“Che c’è? Ho superato il limite di tolleranza del padre moderno?”

 

Scosse il capo e la abbracciò.

 

“Valentì, pure se certi particolari… insomma… preferisco non pensarci, ma… devi soltanto darti del tempo e lo capirai, ne sono sicuro. Alla fine lo capisci, da quanto sei disposto a fare per avere una persona nella tua vita. Da che emozioni ti dà, a parte l’attrazione fisica, che cosa ti fa provare nella pancia e nello stomaco. Quindi prenditi tempo e pensaci bene, mi raccomando!”

 

La sentì annuire sul suo petto, mentre lo stritolava un’altra volta, che le sue costole protestavano.

 

“E invece tu, papà?”

 

“E invece io cosa?”

 

“Niente donne all’orizzonte?”

 

Per poco non gli prese un colpo, anche perché lo stava fissando in un modo che era tutta Imma quando faceva gli interrogatori.

 

“Ti… dispiacerebbe così tanto se ce ne fosse una?”

 

“Beh… non so… l’importante è che sia meglio di Cinzia. Anche se non ci vuole molto.”

 

Gli scappò da ridere e disse, “ah, è meglio sicuro.”

 

E fu in quell’istante che capì di essersi incastrato da solo.

 

“Ah! Ma quindi c’è!”

 

Tra come lo stava guardando ed il dito che gli puntava al petto, sapeva di non poter mentire.

 

“S- sì, una persona c’è. Ma… è una cosa delicata perché non dipende soltanto da me. Pure lei ha una storia familiare alle spalle, complicata. Anche se mo è separata, tranquilla,” si affrettò a specificare, perché Valentina aveva già uno sguardo omicida.

 

“Basta che non ti prenda in giro. Se no dovrà vedersela con me!” proclamò infatti, in un modo che gli fece temere seriamente per l’incolumità di Rosa, “e comunque appena puoi voglio sapere chi è, assolutamente. E conoscerla, per vedere se merita il sigillo di approvazione.”

 

“Appena si può lo farò, Valenti,” la rassicurò, con un sospiro, sapendo già che difficilmente sarebbe andata bene.

 

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“Allora, signor?”

 

“Raniero.”

 

Almeno stavolta lo avevano spedito non da un andrologo, ma da un ginecologo.

 

“E la sua compagna è?”

 

“Yulia,” rispose Mariani, seduta accanto a lui, fingendo un forte accento slavo.

 

“Diciamo che… che non è la mia compagna. Io sono sposato.”

 

“Come sa c’è il segreto professionale, e non è certo mio compito giudicare le vite extraconiugali delle mie pazienti. Se è qui immagino il figlio sia suo?”

 

“In un certo senso.”

 

Il ginecologo lo guardò, interrogativo.

 

“Senta… mia moglie è sterile e… ed è da molto che cerchiamo di avere un bambino ma… non è possibile. E quindi… Yulia si è offerta di lasciarci il suo e di farlo risultare come figlio naturale mio e di mia moglie. E… mi hanno detto che… che lei avrebbe potuto aiutarmi, in proposito.”

 

Il ginecologo parve allarmato.


“Non so chi le abbia detto una cosa del genere, ma è illegale e contrario ad ogni etica professionale e morale e-”

 

“Coraini. Coraini mi ha fatto il suo nome,” lo interruppe, prima che si mettesse anche a nominare madonne, santi e bambinelli.

 

Il dottore si bloccò, guardandolo con interesse ma anche con sospetto.

 

“Devo… devo fare una verifica con… con il nostro comune amico.”

 

“Ma certo. Non c’è problema,” lo rassicurò, sperando che dal microfono gli altri stessero sentendo tutto e che riuscissero a deviare il telefono del medico, intercettando il messaggio prima che giungesse veramente a Coraini.

 

Qualche secondo che gli parve infinito, mentre si guardava con Mariani, pronti ad entrare in azione, in caso qualcosa fosse andato storto.

 

Ma il ginecologo sorrise, affabilissimo, e trattenne a fatica un sospiro di sollievo: ce l’avevano fatta.

 

“Va bene. Allora… allora possiamo fissare un cesareo, per sicurezza, un poco prima della data stimata del parto. Poi faremo risultare che Yulia abbia abortito e invece che sua moglie abbia partorito. Va bene? La prossima volta però dovete venire anche con lei. Ora se volete posso visitarla, per capire come procede la gravidanza.”

 

Mariani si mise d’istinto le mani sulla pancia finta e lo guardò.

 

“Guardi, per la visita ora non abbiamo tempo, anche perché mia moglie sarà impaziente di ricevere la bella notizia. Se fissiamo un appuntamento tra un paio di settimane?”

 

Il ginecologo annuì e prese l’agenda, dando dati e disponibilità.

 

Si accordò su una a caso, dopo aver consultato l’agenda sul cellulare, per non destare sospetti.

 

Forse finalmente c’erano quasi.

 

Avevano due settimane di tempo per dare un’occhiata ai registri della clinica, vedere se ci appariva il nome di Melita, ed incastrare il ginecologo e tutti gli altri, prima che mangiassero la foglia.

 

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“Valentina!”

 

Le saltò un battito, anche perché ebbe un senso di déjà vu tremendo.

 

Carlo era di nuovo lì, nello stesso posto, tanto che si chiese se stesse sognando.

 

Ma no… alcune cose erano diverse: lui sembrava imbarazzato, imbarazzatissimo.

 

Si sentì avvampare.


“Senti, Valentina, possiamo parlare?”

 

“Vale, noi andiamo.”

 

Le sue amiche non persero tempo, come sempre, e si dileguarono, lasciandoli soli.

 

“Facciamo due passi?” le propose e lei annuì.

 

Di sicuro non voleva affrontare quel discorso tra i corridoi affollati.

 

Uscirono dal portone principale e si incamminarono per il parco lì vicino, mentre lei teneva lo sguardo a terra e le mani piantate nelle tasche, per cercare di non fare del tutto la figura della scema.

 

Ma camminavano, camminavano, camminavano e lui non si decideva a parlare e non ne poteva più e….

 

“Come mai sei venuto?” gli chiese infine, cedendo al fare la prima mossa, “non pensavo che ti avrei più rivisto, dopo tutto l’imbarazzo dell’altra volta.”

 

“Ma se non mi hai neanche dato il tempo di reagire, Vale, e sei scappata via!”

 

Sospirò: era vero, effettivamente.

 

“Va beh… e pure se non fossi scappata, che sarebbe cambiato? Che ti ho visto che eri in panico.”

 

“Ero sorpreso, non in panico,” ribatté lui, deciso, fermandosi di colpo, tanto che toccò anche a lei fermarsi e guardarlo, “non… non ci avevo mai neanche pensato a… a te e a me… in quel senso, anche perché lo sapevo che eri impegnata con Penelope e pensavo fossi felice con lei. Ma… ma in questi giorni non ho fatto altro che pensare a quello che mi hai detto e… penso che anche tu mi piaci, e pure tanto. E non solo come amica.”

 

Sentì tutto il sangue finirle nelle guance, che le andarono a fuoco.

 

Non se lo aspettava, non se lo aspettava proprio.

 

E mo che faccio?

 

Ci fu un attimo lunghissimo di silenzio e poi si sentì accarezzare una guancia e le labbra di Carlo a pochi centimetri dalle sue. Ma lo spinse indietro.

 

“Ho corso troppo?” domandò lui, imbarazzato.

 

“No, cioè sì… cioè… io sono ancora fidanzata con Penelope e… e devo chiarirmi le idee e chiarirle con lei, prima di…. Non voglio fare le cose di nascosto, alle sue spalle, non dopo tutto quello che ho passato con il divorzio dei miei.”

 

“Capisco,” sospirò lui, scompigliandosi un poco i capelli neri, “va bene, ti lascio il tempo che ti serve. Però… possiamo almeno darci un bacio? Per capire se ha senso fare tutto sto casino o no. Perché se non funziona quello… non funziona nemmeno il resto.”

 

Gli sorrise ma c’era qualcosa in lei che la faceva esitare, “sarebbe comunque un tradimento.”

 

“Ma no, sarebbe più… un test. Non è che dobbiamo fare chissà che limone.”

 

Le venne da ridere.

 

“Però… l’innamoramento non c’entra solo con l’attrazione fisica.”

 

“Lo so, ma… se manca quella… difficile che da un’amicizia si passi ad altro, no? Almeno un dubbio ce lo togliamo.”

 

Aveva ragione. Era inutile scombinarsi la vita se poi… se poi era stata tutta una suggestione magari.

 

Ignorando la fitta di senso di colpa, lo afferrò per le guance ed appoggiò le labbra sulle sue, in un bacio tenero, delicato, che le lasciò una sensazione strana dentro. Come un filo invisibile che le tirava lo stomaco. Ma era anche diverso da quello che provava con Penelope, anche se non avrebbe saputo definire come e se in meglio o in peggio.

 

Si staccò, prima di approfondire troppo.

 

“E allora?”

 

“E allora per me la prova è superata, Vale, in pieno.”

 

“Mica è un esame!” rise, cercando di nascondere l’imbarazzo, anche se le faceva pure molto piacere, “allora… allora parlo con Penelope e… e ti farò sapere che cosa abbiamo deciso. Mo forse è meglio se torno a lezione.”

 

Carlo annuì e, dopo averla salutata con la mano, iniziò ad avviarsi nella direzione opposta a dove erano venuti.

 

Sospirò: la sua vita era veramente un casino.

 

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Destra. Sinistra. Destra. Sinistra. Schiena. Destra. Sinistra. Destra. Sinistra. Schiena.

 

Spalancò gli occhi e li sollevò al soffitto.

 

Era inutile: per quanto ci si sforzasse non trovava una singola posizione comoda. E non c’entrava il materasso del divano letto, lo sapeva bene. Aveva dormito su letti ben peggiori tra addestramenti, caserme e poi gli squallidi alberghetti che aveva dovuto frequentare negli ultimi mesi.

 

Si tirò seduto e poi in piedi, decidendo di andare in bagno e dopo magari leggersi qualcosa riguardante il caso.

 

Almeno distraendosi e stancandosi forse sarebbe riuscito a tornare a dormire.

 

“Che devo fare?”

 

La voce di Imma lo raggiunse all’improvviso, anche se la porta della stanza da letto era chiusa.

 

Pensando che lo stesse chiamando, che magari avesse sentito i passi, si avvicinò ma un “Ottà, che devo fare?” lo fece arrestare.

 

No, non parlava con lui.

 

“Ottà… lo so, lo sappiamo tutte e due che papà tuo tiene la testa dura. Ma… ma non so più che fare, ormai. Se… se non riesce a perdonarmi… dovrò capire come fare ad andare avanti senza di lui.”

 

Sentirle pronunciare quelle parole fu come un gancio dritto all’ombelico. Ottavia miagolò in un modo straziante.

 

“Ottà, lo capisco… manco io mi riesco ad immaginare una vita senza di lui. Ma… forse piano piano mi tocca iniziare ad abituarmi all’idea. E pure tu, anche se, come minimo, vorrai stare con papà, che ti conosco.”

 

Era ormai in apnea, mentre Ottavia si esibiva in un altro miagolio triste.

 

“E se no… che ne pensi di Matera? Perché… forse per me avrebbe più senso tornarci, se a Roma non ci sta più niente per me, a parte Valentina, che ormai tiene la vita sua. E poi… e poi a Roma non ci posso più lavorare, in ogni caso.”

 

Era come se il cuore gli si fosse spaccato in due: il solo pensiero di Imma a Matera, da sola, senza di lui….

 

Il primo istinto fu quello di aprire la porta, raggiungerla, e dire che a Matera ci sarebbero tornati sì, ma insieme.

 

Ma strinse la mano a pugno, subito prima di raggiungere la maniglia.

 

Imma lo aveva implorato di essere sicuro, prima di riavvicinarsi a lei. E la verità era che non sapeva come avrebbe reagito, se fossero stati di nuovo troppo vicini.

 

Non voleva peggiorare ancora di più le cose: sarebbe stata la fine.

 

Con un sospiro, si obbligò ad andare in bagno, rassegnato ad un’altra notte semi insonne.

 

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“Di qua!”

 

Gli fece un cenno per confermargli di avere capito e si mosse, appena dietro di lui, voltandosi spesso per guardargli le spalle, come ai vecchi tempi.

 

Ogni tanto si sentiva qualche lamento e qualche rumore di passi, ma in lontananza. Per fortuna gli archivi erano lontani dai reparti.

 

C’era un qualcosa di spettrale negli ospedali e nelle cliniche di notte, tra il puzzo di malattia e di cibo scadente, coperto da litri di disinfettante, che arrivava fino a lì, dove i malati, in teoria, non transitavano mai.

 

Ranieri era veloce come lo ricordava, ma prudente, più di quanto ricordasse. Forse l’esperienza.

 

D’improvviso, una lama di luce, una torcia.

 

Gli afferrò la mano alla cieca, pure di spalle, e lui si fermò. Capì dal respiro che, dopo essersi voltato, l’aveva vista anche lui. Qualcuno li stava raggiungendo, un custode, probabilmente. Si guardò intorno, poche stanze, probabilmente chiuse e che non avrebbero avuto il tempo di scassinare. L’ascensore era da escludere: c'era sicuramente una telecamera.

 

E poi, come un miraggio, il simbolino di un triangolo con sopra un cerchio e di un altro cerchio con sotto un triangolo, stavolta rovesciato.

 

Strattonò il braccio di lui, che non oppose resistenza, e si lanciò, alla massima velocità possibile senza farsi udire, verso il bagno.

 

Aprì la porta e la chiuse alle loro spalle, mettendocisi addosso di peso. E pure lui fece lo stesso, braccio contro braccio, spalla contro spalla.

 

Il rumore di passi si fece vicinissimo e poi, piano piano, sparì.

 

C’era mancato poco.

 

Lo guardò e lo vide che le sorrideva, orgoglioso, come ai vecchi tempi.

 

Ma lei non era più fresca di laurea e dei vecchi tempi non era rimasta che la cenere.

 

Si staccò dalla porta, rendendosi conto di quanto fossero vicini, e lui la riaprì.

 

Con cautela, schiena contro schiena, arrivarono fino a dove, almeno secondo le piante catastali, doveva essere l’archivio.

 

Ed infatti lo trovarono. Ed aveva un accesso con una chiave magnetica, come previsto.

 

Ranieri estrasse dal marsupio una macchinetta ed una carta neutra, e la collegò al lettore, mentre lei controllava che non arrivasse nessuno.

 

Certe volte, tra ladri e sbirri non c’era poi tutta quella differenza.

 

Un beep che le sembrò assordante, in quel silenzio spettrale, e poi uno scatto, annunciarono che la porta era aperta. Assicurandosi che il passamontagna fosse ben calzato, inserì uno specchietto, cercando di capire dove stesse la telecamera.

 

Per fortuna, una era sopra alla porta, e bastò un tocco con un marchingegno apposito per mandarla temporaneamente in tilt. L’altra era più distante, ma abbastanza vicina da lanciarci un peso, per farla spostare. Ed infatti, con un clack, la telecamera si abbassò. Cercò di calcolare quanto fosse grande l’angolo cieco, ma per sicurezza si abbassò e strisciò per terra, e sentì che Ranieri la seguì, fino ad essere al riparo, dietro le scaffalature.

 

Si tirò in piedi, le ginocchia che si lamentarono molto di più dell’ultima volta che aveva dovuto farlo: non aveva più l’età per quelle cose.

 

Con un cenno, si divisero gli scaffali, cercando di capire come fossero archiviati i documenti.

 

Per fortuna era un semplice ordine alfabetico, e presto fu davanti alla R di Russo. Ranieri la raggiunse e fu lui il primo ad individuare il nome Melania.

 

Appoggiata alla sua spalla con la torcia, per vedere meglio, lesse la cartella clinica, che citava un aborto spontaneo all’ottavo mese di gravidanza. Scattò due foto, che non si sapeva mai, e rimise tutto al suo posto.

 

E poi fece un altro cenno a Ranieri, che si mise in ginocchio - purtroppo non per chiederle scusa per tutto quello che le aveva fatto passare - e lei piantò un piede sopra le mani di lui, che le diede la spinta per arrivare in cima all’ultimo scaffale in fondo, accanto al muro. Ci piazzò una cimice ed una telecamera.

 

Lo stesso fecero in un altro paio di punti.

 

Si avvicinò alla telecamera spostata, la bloccò con la scarica elettrica e la rimise più o meno come l’avevano trovata.

 

E poi uscirono rapidamente e la porta si richiuse con un altro beep.

 

Le telecamere si sarebbero riattivate di lì a poco, ma probabilmente sarebbe sembrato semplicemente un breve sbalzo di corrente.

 

Si affrettarono a ripercorrere la strada fatta, a ritroso, piazzando di tanto in tanto qualche cimice qua e là.

 

La finestra dalla quale erano entrati le parve un miraggio e, dopo una rapida occhiata che non arrivasse nessuno, saltò fuori, atterrando nell’erba del giardino.

 

Ranieri la raggiunse con un tonfo ed un mugolio di dolore che la preoccuparono un attimo, ma le fece segno che andava tutto bene.

 

Del resto, se lei non c’aveva più l’età, figuriamoci lui.

 

Lo vide richiudere la finestra e poi corsero verso il muro perimetrale, ripercorrendo i passi già fatti, e, di nuovo, lui la aiutò ad issarcisi sopra e lei gli porse la mano per aiutarlo a salire.

 

Un altro attentato alle ginocchia e poi corse con quanto fiato le era rimasto fino al furgone con il quale erano arrivati, sentendo i passi inconfondibili di lui che si muovevano all’unisono con i suoi.

 

Salì dalla parte del guidatore, mise in moto e, come lui fu salito, partì, non sgommando, che avrebbero fatto rumore, ma ad una velocità comunque discreta, tanto che, dopo pochi minuti, arrivarono alla strada provinciale. Accostò alla prima piazzola, sentendo il bisogno di riprendere fiato.

 

Lo guardò, la faccia ed i capelli madidi di sudore, dopo essersi levato il passamontagna.

 

Si rese conto solo in quel momento che ce l’aveva ancora addosso e se ne disfò subito, un brivido che le corse lungo la schiena per il sudore gelido che le scese lungo il collo.

 

Le era mancato tutto quello, tantissimo, più di quanto avrebbe mai potuto ammettere.

 

E sapeva perfettamente che era lo stesso per lui, tanto che gli si trovò stretta addosso, in un abbraccio impregnato di sudore, adrenalina e liberazione, senza capire chi avesse ceduto per primo.

 

Ma ne era valsa la pena: c’erano quasi! C’erano quasi, finalmente!

 

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Spostò lo sguardo dallo schermo, provando quel moto di disagio che si sente quando si assiste a qualcosa di intimo e privato, che tale avrebbe dovuto rimanere.

 

Si voltò verso di lui e trovò quei benedetti e maledetti occhioni che la fissavano, tra la tenerezza ed il sollievo.

 

D’istinto, si proiettò in avanti e lo abbracciò fino a farsi male alle spalle e pure lui ricambiò nella stessa maniera.

 

“Ci siamo quasi, hai visto che ce l’abbiamo fatta?” gli sussurrò, vincendo l’arrochimento inesorabile della voce, dopo tutte quelle emozioni, tutte insieme.

 

“Sì…” il fiato di lui nell’orecchio le provocò solletico ed un brivido, “ed è tutto merito tuo, dottoressa.”

 

“No, Calogiuri. Il merito è in gran parte tuo e pure di tutti gli altri. Lavoro di squadra,” gli ricordò, accarezzandogli i capelli.

 

“Ma è che… è che quando sono con te… sento che non c’è niente che non posso fare.”

 

Se già dall’abbraccio si stava sciogliendo, era proprio liquefatta mo.

 

“Pure io, Calogiù, pure io,” ammise, prima che la voce la abbandonasse del tutto, deglutendo commozione e tutti quei sentimenti che lui le provocava.

 

Rimasero per un attimo così, senza parlare, appiccicati.

 

Ma poi, piano piano, mano a mano che sentiva il fiato di lui sul collo e i muscoli - che stava recuperando - sotto alle dita, si rese conto di che ora fosse e, soprattutto, di in quale posizione fossero.

 

Erano le tre di notte passate e, tra il freddo e la lunga attesa, Calogiuri aveva aperto il divano letto per assistere all’operazione più comodamente, sotto le coperte.

 

E quindi mo si trovava avvinghiata a lui, a letto.

 

Sapeva per esperienza quanto fosse pericoloso.

 

Quindi si sforzò di staccarsi, anche se tutti i recettori nervosi protestarono, reclamando a gran voce quel calore che aveva perso, il freddo dell’aria amplificato cento volte da quello che stava dentro di lei.

 

Gli fece un accenno di sorriso, per stemperare l’imbarazzo, piazzò i piedi sul pavimento e gli disse, “allora buonanotte, Calogiuri.”

 

Le dita sul polso le fecero quasi fare un salto. Lo guardò, stupita.

 

“Perché… perché non rimani qua a dormire?”

 

Dire che fosse sorpresa sarebbe stato un eufemismo.

 

“Soltanto se ti va, ovviamente. Se non te la senti lo capisco, ma… vorrei dormire insieme a te. Dormire e basta. E vedere come va. Perché… mi manca tanto, tantissimo.”

 

Il nodo in gola non se ne voleva andare, anche perché la saliva si era azzerata.

 

Le ci volle un attimo per riuscire ad articolare, di fronte a quelle armi improprie che erano gli occhi di lui, “qua sul divano?”

 

Lui annuì.


“Meno pressione?” gli chiese, con un sorriso, e lui confermò di nuovo.

 

Piano piano, sollevò le coperte e ci si rimise sotto, cercando di allentare la tensione con un, “se domani mi sveglio col mal di schiena, mi senti e sono fatti tuoi!”.

 

Lui sorrise e lei non potè fare altro che ricambiare.

 

E poi si distese, dandogli la schiena perché non era sicura di riuscire a reggere ancora a lungo l’essere occhi negli occhi.

 

Anche lui si sistemò e riusciva a percepire il calore di lui, centimetro per centimetro, pure senza che si toccassero minimamente.

 

“Ahia!” esclamò, quando qualcosa le piovve in testa.

 

Alzò gli occhi ed incrociò quelli gialli e felini di Ottavia che, facendo le fusa in un modo schifoso, si stava appollaiando nello spazio tra le loro teste.

 

E quindi si voltò, verso di lei e Calogiuri che pareva molto divertito, ma pure un po’ toccato dal gesto.

 

“Ottà, se vuoi dormire con noi, sui piedi, lo sai,” le fece cenno e la micia, con una stiracchiata ed un miagolio regali, zompettò fino ad acciambellarsi dove le era stato indicato.

 

Si scambiò un sorriso con Calogiuri e poi serrò gli occhi, perché il cuore le stava già andando all’impazzata.

 

“Posso…?”

 

Era stata solo una parola, due sillabe sussurrate, ma che le fecero comunque riaprire gli occhi, mentre sentiva la mano di lui che le tremava sul fianco.

 

“Se mi chiedi di nuovo il permesso, giuro che ti ammazzo, Calogiuri!” rispose, commossa e sollevata, e si trovò di nuovo stritolata tra le sue braccia, e poi, dopo qualche istante, appoggiata sul suo petto, in quella che era da sempre una delle loro posizioni preferite per dormire.

 

Avrebbe voluto poterci rimanere per sempre. Ma sapeva benissimo che non era ancora tutto a posto, anzi.

 

Ma si sarebbe goduta quei momenti, fino in fondo, pure se fossero stati gli ultimi.

 

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Lanciò un’occhiata alla sua destra, per vedere se arrivavano macchine da quel lato ed incrociò gli occhi stanchi di Ranieri, che però avevano pure un qualcosa di strano.

 

“Siamo quasi arrivati. Ti lascio davanti all’albergo o preferisci, per sicurezza, qualche isolato più in là?” gli chiese, mentre cercava di maneggiare il furgone tra le stradine romane.

 

Per fortuna a quell’ora erano praticamente deserte.


“Perché invece non ci andiamo a bere qualche cosa e poi a fare colazione? Come ai vecchi tempi.”

 

Le ci mancò poco di inchiodare, tanto grande fu la sorpresa ed il colpo al cuore.

 

Da quando si erano rivisti non aveva mai osato proporre nulla di simile e si chiese il perché e perché in quel momento.

 

E che importa alla fine? Tanto non cambia nulla.

 

Per fortuna, la voce della sua coscienza era decisamente più saggia di qualche anno prima.

 

“Dai vecchi tempi sono cambiate tante cose. Non mi pare il caso,” rispose quindi, continuando a guardare la strada.

 

“Sono cambiate molte più cose di quello che pensi, Irene, e proprio per quello sarebbe il caso di berci qualcosa insieme e parlare.”

 

Sospirò, stringendo il volante e fissando l’incrocio che stava per arrivare.


“Prima chiudiamo questo caso, poi puoi provare a ripropormelo. Ma non ti prometto niente.”

 

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“Fermi tutti! Carabinieri! Non muovetevi!”

 

Si guardò intorno, nella reception della clinica: lei era entrata dalla porta principale, altri agenti erano appostati vicino a quelle secondarie.

 

“Che significa tutto questo?” chiese un uomo sulla sessantina, uscito da un ufficio dietro il banco delle receptionist, che parevano spaventatissime.

 

Uno dei soci della clinica.

 

“Significa che dobbiamo fare un’ispezione e nessuno si deve muovere. Abbiamo regolare autorizzazione. Quindi tutti fermi dove siete finché verrà il vostro turno di interrogarvi.”

 

Era stato Mancini a parlare, subito dietro di lei, e le fece un cenno verso le scale.

 

Lei annuì e, lasciando gli uomini a presidiare entrate - e uscite - salirono insieme, dirigendosi verso il secondo piano, dove c’era l’ufficio dello stimatissimo ginecologo.

 

Procedettero fianco a fianco per un paio di metri, finché giunsero di fronte all’ufficio. Rimanendo di guardia con la pistola spianata, calciò la porta e…

 

E niente. L’ufficio sembrava vuoto.

 

Per accertarsene, fece un paio di passi all’interno e stava per voltarsi per ritornare in corridoio quando sentì qualcosa di metallico addosso alla testa e qualcosa che le tirava la giacca della divisa d’assalto.

 

Notò lo sguardo spaventato di Mancini, mentre si trovò addosso a qualcosa, anzi a qualcuno, che la teneva stretta al collo.

 

E quella che ora aveva puntata alla tempia era una pistola.

 

“Dottor Gasparini, non faccia sciocchezze,” disse Mancini, con un tono calmo e conciliatorio tipico di quel genere di situazioni.

 

Quel bastardo si era nascosto dietro la porta!

 

“Se mi fate passare non succederà niente, se no… la ragazza qua si becca un bel proiettile. Yulia, eh? Avrei dovuto capirlo che mi volevate fregare!”

 

“Il maresciallo stava soltanto facendo il suo lavoro, come tutti noi. Ma che pensa di ottenere facendo così? Pensa realmente di riuscire a scappare a lungo? O che i suoi amichetti la proteggeranno? Quando ormai è stato scoperto e c’è rischio che parli? Metta giù quella pistola e si consegni, che conviene anche a lei.”

 

Provò un moto di gratitudine e di ammirazione per Mancini, per come stava gestendo la situazione, ma il dottore non mollò, continuando a tenerla sotto tiro e stringendole ancora più il collo, forse per il nervosismo.

 

Fece un cenno a Mancini perché, se andava avanti così, avrebbe faticato a respirare. Con gli occhi guardò verso la pistola e con la mano fece dei gesti, verso l’alto e verso il basso, sperando che Mancini capisse e distraesse il medico.

 

“Dottore, le ripeto, facendo così non solo peggiora la sua posizione, ma mette a repentaglio la sua vita. Il reato che ha commesso lei è grave ma non a livello di un rapimento o di un omicidio. Non passerebbe la vita in carcere. Perché buttarla via così? Mi dia la pistola.”

 

Fu un attimo, un attimo di esitazione in cui, per un istante, forse senza nemmeno rendersene conto, la punta della canna della pistola si levò dalla sua tempia e ne sentì il fianco, ancora freddo.

 

Con tutta la forza che aveva, spinse in alto il gomito del dottore, poi gli pestò il piede, mentre si voltava e gli menava un pugno alle parti basse, seguito da un calcio, il rumore metallico della pistola che cadde a terra, insieme a Gasparini.

 

E poi un boato: era partito un colpo.

 

Si guardò e guardò Mancini, preoccupata, controllò i piedi e a terra, ma, per fortuna, vide il bossolo sul pavimento accanto alla porta ed il proiettile piantato nel muro.

 

C’era mancato poco che prendesse Mancini.

 

Gasparini provò ad alzarsi ma lei lo ributtò a terra e fu in quel momento che ci fu un movimento e Mancini si mise tra lei ed il dottore, bloccandolo per le spalle, e vide il pugno che si alzava, pronto a colpire.


“Dottore!” lo fermò, tenendogli la mano con tutta la forza che aveva.

 

Mancini si irrigidì e poi guardò prima il medico e poi lei, il viso che gli si ricomponeva in una maschera professionale.

 

“Ha ragione, Mariani. Sta bene?”

 

“Sì, sì. Tutto bene. Lei, dottore?”

 

“Starò meglio quando questo gentiluomo sarà in carcere. Mi aiuti a metterlo su una sedia, che dobbiamo interrogarlo.”

 

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Espirò il fiato che stava trattenendo da quando Mariani era stata presa, mentre vedeva, attraverso le telecamere che Mariani e Mancini avevano addosso, che il caro dottore stava venendo fatto accomodare in modo molto poco cerimonioso sulla sua stessa sedia, dietro quella scrivania che probabilmente non avrebbe mai più rivisto.

 

Quello che aveva fatto, a parte essere reato, era anche da radiazione, ma come minimo.

 

Vide Calogiuri muoversi leggermente e si guardarono. Era ancora più pallido del solito, sicuramente si era preso uno spavento grosso almeno quanto il suo.

 

“Menomale che Mariani è stata pronta, per un attimo ho pensato al peggio,” ammise, mentre si sfregava gli occhi azzurri ed arrossati.

 

“Mariani è bravissima. Però pure Mancini… a fare il suo lavoro è bravo, questo glielo dobbiamo riconoscere,” rispose e lo vide fare una smorfia di disgusto ma poi annuire.

 

“Sì. Che poi… visto come mena… se pure gli tirava un paio di pugni al medico, per una volta che poteva essere utile...”

 

Ad Imma venne da ridere da un lato, ma poi si bloccò, gli prese la mano destra, lo guardò e gli disse, “quando ti ha tirato quel pugno e poi… quando ho visto che livido ti aveva lasciato… lo avrei picchiato io. Mi credi?”

 

Lui ci mise un attimo ma poi annuì con un sorriso agrodolce.

 

Sapeva che era un campo minato quello, ma non potevano evitare l’argomento Mancini per sempre, specie se volevano superarlo.

 

“Mi confermate che state trattenendo tutti e che avete tolto i cellulari?”

 

La voce di Mancini, che proveniva dal pc, li fece voltare nuovamente verso lo schermo.

 

Lo videro annuire, mentre parlottava con il resto della squadra che era in collegamento tramite auricolare e videocamera. E poi si piazzò di fronte al dottore e Mariani si mise accanto a lui, dopo aver ammanettato il medico alla sedia.

 

“Allora, a parte… Yulia… per la quale abbiamo la prova registrata che lei era più che disponibile ad essere complice in una compravendita di esseri umani, sappiamo che questa… pratica non le era nuova anzi. Vogliamo che ci racconti tutto quello che sa su Melania Russo e sulla sua di gravidanza e di parto.”

 

“Non… non so di cosa state parlando, non ricordo chi sia,” rispose il medico, balbettando e parendo non più solo preoccupato ma proprio terrorizzato.

 

“Dottore. Ci sono tanto di cartelle cliniche che testimoniano che la Russo è stata una sua paziente, me lo hanno appena comunicato i ragazzi. Pure se queste cartelle dichiarano il falso, cioè che ha abortito all’ottavo mese. Inoltre Melania Russo, in arte Melita, è stata al centro della cronaca nera e processuale negli ultimi mesi. Dubito seriamente che qualcuno che l’avesse conosciuta prima, abbia poi potuto scordarsi di lei, dopo che è stata in tv e sui giornali per settimane.”
 

“Ahhh… quella Melania…” provò a svicolare il medico, con una recitazione ben poco credibile, “sa… con tutte le pazienti che ho… e comunque confermo che ha abortito, purtroppo, non c’è stato niente da fare.”

 

Sentì Calogiuri sbottare in una specie di riso amaro.

 

“Sì, è proprio una merda, Calogiù,” concordò, scuotendo il capo, “alla faccia del giuramento di Ippocrate!”

 

“Senta, Gasparini, parliamoci chiaro,” intervenne Mariani, con un piglio da rimanerne ammirata persino lei, “abbiamo referti medici che testimoniano come la Russo, oltre ad avere il segno di un cesareo, abbia allattato. E per diversi mesi dopo la data del presunto aborto. E di sicuro non si è messa a fare la nutrice. Quindi o ci dice la verità o, se va avanti così, non se la cava più.”

 

“Infatti. Tra il tentato rapimento e tentato omicidio di Mariani, più il falso in atti pubblici, più il traffico di bambini… se non collabora, la aspetta una vita in carcere. Ci dica che fine ha fatto quel bambino o quella bambina. Questa è la sua ultima possibilità di collaborare ed avere una pena più mite, oltre che la protezione da… dagli amici suoi. Tanto prima o poi ci arriveremo, perché non può avere fatto tutto da solo. Quindi qua chi parla prima….”

 

“Va bene, va bene, parlo.”

 

Ebbravo Mancini! - pensò, pur non potendolo dire ad alta voce, che non era il caso di tirare troppo la corda con il gelosone.

 

“Era… era un bambino, un maschio. Anzi è, perché credo sia ancora vivo. Ma io l’ho lasciato a… a Melita e al fotografo.”

 

“Dottore, può chiedere al medico se sa se il padre fosse Coraini?” domandò, accendendo il microfono, e Mancini le fece un cenno col capo.

 

“Il padre quindi era Coraini?” domandò Mancini per lei ed Imma trattenne il fiato.

 

“Io test del DNA non ne ho fatti ma… ma non credo. Il bimbo aveva tratti più ispanici ed era più scuro sia della Russo che di Coraini con le lampade. Figuriamoci senza. Pareva… mulatto.”

 

Un altro sguardo con Calogiuri e stavano pensando la stessa cosa: forse Melita il bimbo lo aveva avuto da qualcuno di Maiorca allora. I tempi potevano starci.

 

“Dottore, può chiedere se sa dove si trovi ora il bambino?” disse quindi di nuovo nel microfono.

 

“Dov’è ora questo bambino?”

 

“Non… non lo so… l’unico che può saperlo è Coraini e gli amici suoi.”

 

Sospirò: il medico era un osso duro, ma c’era qualcosa che non tornava.


Quando Mancini lo aveva minacciato che il primo che avrebbe parlato sarebbe stato l’unico ad avere sconti di pena, Gasparini si era affrettato a cantare, e pure tutta un’aria intera.

 

Qualcun altro in quella clinica sapeva e magari sapeva pure di più.

 

“Dottore, può chiedere se qualche collega si è mai occupato del bimbo dopo? Magari qualche pediatra. Un neonato le visite le deve comunque fare, per mesi, e Melita in ospedale non ci poteva andare.”

 

Vide Mancini sorridere pure attraverso lo schermo. Guardò Calogiuri, temendo un’altra reazione stizzita, ma pure lui la stava guardando di nuovo in quel modo, che manco la Madonna della Bruna meritava così tanta devozione.

 

“Ma qualcuno di questo bambino deve essersi occupato dopo che è nato. Di tutte le visite. Chi è? Ce lo dica, Gasparini, prima che lo veniamo a scoprire da soli, che qua dubito abbiate un reparto di pediatria immenso. Allora?”

 

A Gasparini cascò il capo, quasi si accasciò sulla sedia.


“Laura. Cioè… la dottoressa Zoffi.”

 

Udì Mancini trasmettere ordini ai ragazzi all’ingresso e, dopo poco, lo vide andare verso la porta, facendo un cenno a Mariani che lo seguì.

 

“Ma… ma mi lasciate qui?” domandò il medico, in panico.

 

“Tra poco arriverà un altro agente a… a farle compagnia, Gasparini. Noi intanto verifichiamo quello che ci ha detto e, se non ci ha raccontato delle storie, ha appena fatto l’unica cosa intelligente di tutta la giornata. Anzi, forse di tutta la sua vita.”

 

Ammazza se era incazzoso, Mancini!

 

Del resto, quasi si era preso un proiettile, ma non lo aveva forse mai visto così.

 

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“Allora, dottoressa, lo sappiamo che si occupava lei del bambino di Melania Russo, detta Melita. Il suo collega ha parlato e quindi le conviene collaborare, che qua si va da rapimento e traffico di minori a peggio, se il bambino nel frattempo fosse morto.”

 

La dottoressa, i capelli biondi raccolti in uno chignon e l’aria aristocratica, si tradì con uno sguardo di puro terrore, dietro agli occhiali dalla montatura elegante e sicuramente firmata.


“No, è vivo,” precisò subito e le venne da ridere: ce li avevano, ce li avevano finalmente, erano così vicino a scagionare Calogiuri!

 

Che continuava a guardarla come la Madonna, quando non era concentratissimo sullo schermo.

 

Del resto c’era in ballo la sua vita.


“E dov’è?”

 

“Lo… lo hanno dato ad una coppia che… insomma… che non poteva avere figli.”

 

Le venne un brivido: per quanto lei e Calogiuri avessero tentato di avere un bambino, non riuscendoci, e per quanto quello fosse ancora un argomento estremamente difficile per lei… mai e poi mai sarebbe arrivata a quel punto.

 

A trattare una creatura come un pacco, come una merce di scambio, come qualcosa che si può comprare.

 

“I nomi di questa coppia? Li conosce, immagino, visto che immagino sempre che il certificato di nascita fasullo lo abbia redatto lei.”

 

Era stata Irene, che era giunta da poco sul posto, a fare quella domanda, le braccia conserte ed un’aria forse pure più schifata di quella che doveva avere lei.

 

“S- sì, sì. Sono… è… è complicato.”

 

“Questo lo lasci giudicare a noi. Ce lo spieghi dall’inizio, senza trascurare niente,” la incalzò Irene, non mollando il colpo.


“All’inizio… all’inizio la Russo era intenzionata a tenere il bambino. Veniva lei in visita qui, con il bambino, e c’era sempre anche Coraini o un certo… Mancuso mi pare.”

 

“Chiedi se è Stefano Mancuso,” si affrettò ad ordinare, o quasi, nel microfono e Irene ripetè la domanda.


“Sì, sì, mi pare che si chiamasse Stefano, sì.”

 

Il cugino di Kevin Mazzocca. L’anello che collegava il clan a Coraini e a tutto quel giro di ricatti, rapimenti e chissà che altro.

 

“Quindi all’inizio le visite erano con la Russo. E poi che è successo?”

 

“E poi… ad un certo punto io lei non l’ho più vista. E toccava a me andare a visitare il bambino, a domicilio. Era una casa verso Fiumicino, e di solito c’era sempre o Coraini o appunto Mancuso, quindi pensavo fosse di uno dei due.”

 

“E poi?”

 

“E poi un giorno mi hanno chiesto di fare un certificato di nascita fasullo, predatandolo, ovviamente, fingendo che fosse andato perso in una svista del sistema informatico. E… e dopo di quello sono andata ancora qualche volta a visitare il bambino, da una famiglia ai Parioli. Gianluigi e Maria Giovanna De Angelis. Gente molto ricca, a giudicare dalla casa.”

 

“Dobbiamo andarci, subito! Che se qualcuno sta mangiando la foglia potrebbero essere in pericolo!” esclamò, un’ansia che la prese, quell’ansia che di solito non sbagliava.

 

“Mandiamo subito delle volanti, tranquilla,” la rassicurò Irene, a bassa voce, mentre pure Mancini annuiva.

 

Ma la maggior parte della squadra, degli agenti capaci almeno, stava sui colli e ad arrivare ai Parioli ci avrebbero messo un po’.

 

Loro invece… erano vicini, vicinissimi.

 

Chiuse il microfono e lanciò un’occhiata a Calogiuri che le disse, “Imma….”

 

“Imma niente, Calogiù. Qua c’è in ballo non solo la vita tua ma pure quella di questo bambino. Andiamo a vedere almeno che non stia succedendo niente di strano. Rimaniamo in moto, coi caschi. Va bene?”

 

Lo vide esitare per un istante.

“Almeno in questo ti fidi ancora di me o no?!” lo provocò, disperata e rabbiosa.

 

“Sempre. Ma… ma non voglio metterti in pericolo e io… e io non so se sono in grado di proteggerti, per come sto ora.”

 

“Calogiuri…” intimò ed implorò insieme e lui sospirò ed annuì, alzandosi dalla sedia, infilando il portatile ed il microfono dentro uno zaino, insieme ad altra attrezzatura del mestiere e poi correndo insieme a lei verso l’ingresso.

 

“Andiamo, Calogiuri, veloce!” gli ordinò, mettendosi il cappotto e vedendolo e sentendolo ridere.

 

Come ai vecchi tempi.

 

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Si aggrappò più forte a Calogiuri, che rallentò bruscamente, ben prima dell’incrocio.

 

“Che c’è?” gli chiese, preoccupata, cercando di guardarsi intorno.

 

“Cosa non c’è piuttosto. Traffico. Non ti pare strano? E l’incidente che abbiamo deviato prima…”

 

Un colpo allo sterno.

 

Aveva capito. La cosa grave è che non l’avesse capito prima. La cosa che la rendeva tremendamente orgogliosa era che l’avesse capito lui.

 

Poche strade prima avevano per poco evitato un ingorgo, causato in apparenza da un tamponamento ad un incrocio.

 

Ma questo metodo… non era nuovo. E, sebbene i Parioli fossero un quartiere signorile, c’era troppo silenzio lì intorno. Troppo, per quell’ora.

 

“Calogiuri,” pronunciò e presto trovò i suoi occhi chiari sotto al casco integrale che avevano messo per sicurezza, di più di un tipo.

 

“Imma, è troppo pericoloso, dobbiamo avvisare e chiamare i rinforzi.”

 

“Avvisare, chiamare i rinforzi ed andare a vedere che succede, se la strada è bloccata o altro. Non dico di fare pazzie, Calogiuri, ma almeno possiamo anche dare indicazioni agli altri, prima che arrivino, su cosa fare.”

 

Lo vide esitare, lo sguardo che era un no di quelli che non diventavano sì manco ad ammazzarlo.

 

Sapeva che lo faceva per lei, perché aveva paura per lei.

 

“Calogiuri, abbiamo i caschi integrali, nessuno ci può riconoscere.”

 

Gli occhi di lui finirono sulla sua gonna leopardata.

 

“Va beh… se siamo in corsa chi vuoi che la veda? Anzi, diamo meno nell’occhio, non sembriamo professionisti. Facciamo un giro rapido e cerchiamo un punto da cui riuscire a vedere sta maledetta villa. E ti prometto che, esclusivamente, e soltanto per questa volta, seguirò tutti i tuoi ordini. Va bene?”

 

Il casco si abbassò e lo udì sospirare. E poi si guardarono di nuovo e lo vedeva chiaramente che era tra l’esasperato, il preoccupato e il che devo fare con te?!

 

“Reggiti, forte, dottoressa!”

 

Furono le uniche parole, prima di partire, veloci ma non troppo, come solo Calogiuri sapeva fare.

 

Gli si tenne incollata alla schiena, l’adrenalina a mille, mentre cercava di guardarsi in giro con discrezione. C’erano macchine parcheggiate, pareva tutto normale. Ma poi tre SUV neri con i vetri scuri, accostati male poco più avanti. Si sporse leggermente per leggere il numero civico e mormorò un, “le targhe.”

 

Cercò di sfruttare la sua memoria fotografica al massimo, anche se Calogiuri proseguì oltre, a velocità media.

 

“Ce le hai?”

 

Calogiuri ripetè la combinazione di lettere e numeri, ad alta voce, ed anche lei lo fece, per tenerle a mente, finché ebbero girato un paio di incroci e si fermarono per un attimo, per segnarsele e guardarsi in giro.

 

La villetta aveva un giardino, ma era circondata da mura.

 

“Andiamo in alto, dottoressa, sei pronta? Mi selezioni il numero di Mancini che riferiamo le targhe?”

 

“Agli ordini maresciallo!” lo sfottè, divertita, prendendo il telefono dalla tasca di Calogiuri con una mano e, mentre si reggeva con l’altra, chiamando il contatto più recente.

 

“Dottore, siamo vicino alla villetta dei De Angelis.”

 

Pure con il rumore riuscì a sentire dal brusio che Mancini era incazzoso, incazzosissimo.

 

“Sì, io ed Imma. Non si preoccupi, giriamo alla larga ma abbiamo le targhe di veicoli sospetti e ci sono degli incidenti che bloccano il traffico, all’incrocio tra-”

 

Trattenne un grido quando una buca le fece fare un sobbalzo, stringendosi ancora più a lui, meravigliata ma non stupita di quanto fosse cresciuto, in tutti i sensi.

 

E, anche se non si sarebbe mai fatta dare gli ordini da nessuno nella vita di tutti i giorni, nel lavoro di quelli di Calogiuri si fidava, ciecamente. Aveva un istinto ed una capacità di pensiero strategico non comune, che miglioravano sempre di più.

 

Altro che Garibaldi poteva fare!

 

Intanto che Calogiuri forniva tutti i dettagli a Mancini su come dirigere i rinforzi, arrivarono in una delle strade appena sopra alla villa e Calogiuri fece segno verso un condominio dotato di terrazza.


Non era un quartiere dove era facile farsi aprire con i soliti trucchetti, ma Calogiuri parcheggiò la moto e corse verso il citofono.

 

“Consegna, sushi,” proclamò, levandosi il casco per farsi vedere dalla telecamera.

 

Notò che aveva selezionato un contatto a nome di una donna.

 

Il disgraziato! Aveva imparato bene, aveva imparato! E chissà l’idea del sushi da chi l’aveva presa!

 

“N- non ho ordinato nulla,” rispose la voce di donna dall’altra parte, ma non le parve ostile.

 

“Ma a me hanno dato questo indirizzo e il suo cognome, se non consegno mi danno problemi. C’è qualcun altro qua che abbia un cognome simile? Che magari si sono confusi?”

 

Pure di profilo, riconosceva lo sguardo che c’aveva Calogiuri, quello con gli occhioni al cui confronto Ottavia era una principiante e pure Noemi.

 

“Forse… forse al terzo piano, io sono Rocca, c’è un Rocco. Puoi suonare a lui?”

 

“Non vedo il cognome sul campanello,” rispose, ed effettivamente non c’era.

 

“Forse ha le iniziali o il numero.”


“Non è che mi può aprire almeno? Così gli suono direttamente alla porta o glielo lascio lì?”

 

Di nuovo, lo sguardo implorante.

 

“Va… va bene. Ma per quale servizio di delivery lavori?”

 

Di nuovo con questo benedetto inglese!

 

Calogiuri fece il nome di un noto servizio dal quale anche loro ogni tanto avevano ordinato l’asporto, specie nelle ultime settimane.

 

“E come ti chiami?”

 

“Giorgio. Sono specializzato nelle consegne di sushi, soprattutto. E di fiori.”

 

Dovette tapparsi la bocca per trattenere una risata: quando ci si metteva era altro che tremendo!

 

Pure se era anche una frecciatina nei suoi confronti.

 

“Bene, Giorgio, allora magari la prossima consegna la farai a me,” rispose la signora, civettuolissima.

 

“Magari! Sarebbe un vero piacere!” rispose lui, sornione.

 

E mo non entrare troppo nella parte però! - pensò, perché il ruolo da seduttore ormai gli veniva fin troppo bene.

 

Sentirono il cancello aprirsi e, dopo un saluto alla signora che, sicuramente, stava per ordinare quintali di pesce crudo e fiori, entrarono e presero l’ascensore fino all’ultimo piano.

 

Calogiuri aveva un sorrisetto soddisfatto, forse perché aveva notato lo sguardo un poco geloso di lei.

 

Trovarono una serie di porte, quelle degli attici, e poi una rampa di scale che andavano fino al terrazzo superiore.

 

La porta era chiusa, ma Calogiuri la scassinò con facilità ed arrivarono ad un bel terrazzo signorile, pieno di vasi di fiori, con una jacuzzi coperta in un angolo e con alcune sedie sdraio dove probabilmente i condomini andavano a prendere il sole d’estate.

 

Calogiuri si buttò verso il lato del condominio che dava sulla villa.

 

E poi estrasse dallo zaino il binocolo che si era portato dietro, insieme alla pistola e ad altra attrezzatura.

 

“Che vedi, Calogiuri?”

 

“Guarda,” rispose, passandole il binocolo, mentre lui inforcava la macchina fotografica con lo zoom.

 

“Io vedo tre persone. Tre uomini.”

 

“A me sembrano quattro, dottoressa. Ce n’è uno più dietro, vicino alla piscina.”

 

Controllò ed effettivamente aveva ragione.

 

Bravo Calogiuri!

 

“Che armi hanno in mano?” chiese, perché, che fossero armati e pure con pezzi da novanta, era indubbio.

 

“Mi sembrano dei fucili semiautomatici, di quelli che possono fare da mitraglietta, per brevi momenti.”

 

“Ah però! Ci vanno giù pesanti. Che facciamo?”

 

“A parte le foto? Avvertiamo Mancini ma dobbiamo capire in quanti sono dentro. Queste sono solo le vedette, sicuramente.”

 

C’aveva ragione, c’aveva: su quei SUV… potevano stare pure in quindici, volendo.

 

“Allora chiamiamo Mancini e-”

 

Il colpo di uno sparo le fece mordere la lingua, letteralmente.

 

“Merda!” urlò, e non solo per la lingua, tornando a guardare, ma nessuno degli uomini fuori aveva sparato.


“No, questa è una pistola, Imma, non un semiautomatico. Ed il rumore era attutito. Hanno sparato dentro la casa.”

 

Le parole di Calogiuri non fecero che confermare i suoi dubbi.

 

Lo guardò e vide la frustrazione e la disperazione in quegli occhi che tanto amava, mentre diceva, “qua, ora che arriviamo i rinforzi, rischiamo un massacro e che i testimoni siano tutti morti.”

 

“Calogiuri…”

 

Ma poi lui divenne deciso, decisissimo, e proclamò, “devo andare, Imma. Devo almeno  provare a fare qualcosa.”

 

“Ma sei matto! Quelli hanno i fucili e tu una pistola e manco del tutto carica! E poi nelle tue condizioni-”

 

Si sentì afferrare per le spalle e lo guardò. C’era così tanto dolore ma la decisione non cambiava.

 

“Dottoressa, lo so che tu faresti lo stesso al posto mio. Sei tu che sei voluta venire qua, no? E mo non posso starmene fermo senza fare niente, come non ne sei capace nemmeno tu.”

 

Deglutì ed annuì, perché aveva ragione ma… ma non sapeva se fosse più forte l’ammirazione che provava per lui o la paura di perderlo.

 

“Tu resti qua, ci teniamo gli auricolari e mi tieni d’occhio gli uomini, mi guidi. Se mi dici dove sono ce la posso fare a neutralizzarli, uno per uno, non sono tanti.”

 

“E una volta dentro la casa? Lì io non posso vedere, Calogiuri.”

 

“Nel frattempo magari sono arrivati i rinforzi e poi possiamo sempre bluffare, se gli uomini fuori sono fuori servizio. Ti fidi di me?”

 

“E che è mo? Il Titanic? Mi fido di te, Calogiuri, mi fido. Ma cerca di fare una fine migliore di quel cretino in quel film tremendo!”

 

Lui fece un mezzo riso, perché sapeva benissimo che era solo un modo per stemperare la tensione.

 

E poi si trovò stritolata a morsa ed avvinghiata in un bacio che non si sarebbe scordata mai, tanto era intenso e disperato.

 

La lasciò lì, con il binocolo ed il cellulare in mano ed un macigno sul cuore.

 

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Cercò di non fare rumore, nonostante i muscoli e le giunture gli facessero un male atroce: se ne usciva vivo da lì, doveva ritornare ad allenarsi, medico o non medico.

 

Per fortuna, nonostante fosse indebolito, era pure più leggero e riuscì lo stesso a scalare il muro, nel punto in cui Imma gli aveva indicato non ci fosse nessuno.

 

“Puoi saltare giù, Calogiuri, magari riparati dietro quell’albero davanti a te, alle ore tre per te.”

 

L’impatto col suolo fu un altro impatto con la realtà di quanto il suo fisico fosse andato a farsi benedire - ed era già migliorato! - ma, con la forza dell’adrenalina, corse dietro al nocciolo che gli aveva consigliato a lei.

 

“E mo?” sussurrò, guardandosi intorno.

 

“Ci sta una guardia vicino al muretto, a ore nove per te. Se ti avvicini da destra e non si volta puoi prenderlo da dietro. Mi raccomando!”

 

Individuò la testa dell’uomo armato, la nuca per precisione, e strisciò quasi fino a lì, piano piano, facendosi scudo col muretto al quale lui era seduto.

 

Sapeva di avere una sola occasione per fare un lavoro pulito.

 

E quindi gli diede un colpo, secco, col calcio della pistola, mentre gli tappava la bocca.

 

L’uomo gli si accasciò tra le braccia. Lo legò con la sua stessa cintura e gli legò sulla bocca la sciarpa che per fortuna portava al collo.

 

Lo lasciò in una posizione nella quale avrebbe potuto respirare, disteso sul fianco, e chiese ad Imma “e mo?”

 

“C’è l’altro uomo, da solo, vicino alla piscina, ma guarda dalla tua parte, devi distrarlo in qualche modo.”

 

Rimanendo nascosto, vide che vicino alla piscina c’erano anche dei ciottoli. Tornò verso il muro esterno e lo costeggiò a carponi, cercando di mimetizzarsi il più possibile. Prese il ciottolo più vicino e, ricordando i giorni passati con Rosa e Modesto a tirare sassi nel canale vicino a casa, lo lanciò verso la piscina.

 

Lo splash fece fare un salto al tirapiedi, che gli diede le spalle.

 

Gli si buttò addosso, tappandogli la bocca con la mano e, di nuovo, colpendolo alla nuca.

 

Gli ci vollero un paio di colpi stavolta, ma alla fine cadde a terra.

 

Ringraziò la voglia di ostentare della banda, che, tra cinture e sciarpe firmate, gli forniva gratis corde e bavagli di lusso.

 

“E ora?” domandò, col fiato corto, dopo aver nascosto l’uomo dietro a un albero.

 

“Rimangono due uomini, Calogiuri, ma sono insieme, li devi far dividere in qualche modo. Stanno a ore dodici da te, vicino all’ingresso.”

 

Un altro sparo, sempre dentro la casa.


“Tra quanto arrivano i rinforzi, maledizione?”

 

“Aspetta…” gli sussurrò e poi, dopo un attimo di pausa, “Mancini dice che tra dieci minuti massimo ci sono, ma ci sono parecchi incidenti nei dintorni.”

 

Dieci minuti erano troppi, e lo sapeva. Sempre se in quella casa c’era ancora qualcuno da salvare.

 

Prese un lungo respiro e, cercando di rimanere accovacciato, nonostante i muscoli delle gambe cominciassero a bruciargli, si avvicinò al punto dove stavano i due uomini.

 

Erano lì, fissi davanti all’entrata e stavano parlottando tra loro della partita della Roma di qualche giorno prima.

 

Sentì che uno dei due chiamava l’altro Michè.

 

Michele probabilmente.

 

Tornò indietro, a distanza di sicurezza, fino a girare l’angolo opposto della casa e poi urlò, cercando di riprodurre un accento romano e mascherare la voce “Miché, che poi venì n’attimo?!”

 

“Ah, Francé, sei tu?”

 

“Te movi?!” esclamò di nuovo, pregando che funzionasse e che non si muovessero entrambi.

 

Ma, per fortuna, udì una sola coppia di passi, sempre più vicini, e si tenne pronto.

 

“Francé, ‘ndo stai?” furono le sue ultime parole, prima che gli tappasse la bocca e desse pure a lui un colpo netto, fino a vederlo crollare.

 

Stava per cercare di legare ed imbavagliare anche lui quando un “Miché, tutto bene?” lo fece avvedere che stava arrivando anche l’ultimo uomo. Trascinò Miché giusto giusto finché fu fuori dalla visuale, dietro al muretto, vicino al primo uomo che aveva messo a terra.


E poi, con una forza data probabilmente solo dalla disperazione, riuscì a placcare e a stordire anche l’ultima guardia.

 

“Imma?” domandò, mentre legava ed imbavagliava gli ultimi due uomini.

 

“Calogiù. Sei… sei stato… incredibile. Non sai quanto sono orgogliosa di te, quanto!”

 

La voce di lei tremava come le sue mani, e sentì il cuore non solo caldo, ma bollente.

 

“Ora manca l’interno. Vedi altri?”

 

“No, ma… non puoi entrare da solo, Calogiuri, è troppo pericoloso!”

 

“Dottoressa, comincio a guardare dalle finestre e poi, se riesco, entro. Tu avvisami dei rinforzi e accertati che non arrivi nessuno, va bene?”

 

“Calogiuri…” fu l’unica risposta e lo sapeva come si sentiva Imma, lo sapeva benissimo.

 

Ma aveva scelto di fare quel lavoro anche per quello, per proteggere le persone.

 

E, anche se quella famiglia aveva fatto una cosa terribile, lì dentro c’era un bimbo innocente.

 

E poi trovarlo ed avere le testimonianze dei genitori adottivi era l’ultima speranza per scagionarsi.

 

Cercò di spiare dalle finestre, una ad una, ma riuscì solo a vedere due uomini armati in salotto, cosa che riferì ad Imma. Trovò la finestra di quella che pareva essere la lavanderia e, con un po’ di sforzo, gli riuscì di scassinarla.

 

Per fortuna i serramenti non erano nuovissimi, di quelli antiscasso e antisfondamento.

 

Entrò, scavalcando la lavatrice, e cercando di fare meno rumore possibile.

 

E fu allora che, finalmente, riuscì ad udire più chiaramente cosa stava accadendo all’interno. C’erano i due uomini in salotto sì, ma si sentivano come dei gemiti, quasi dei mugolii di dolore, provenire da distante, probabilmente dal piano superiore. Ed un uomo, sempre distante, che diceva “dove sta il pupo? Se non parli il marito tuo si piglia un’altra pallottola, e stavolta in testa e non in quella testa di cazzo che si ritrova!”

 

Udì una donna piangere e singhiozzare, continuando a dire, “ve l’ho già detto, è fuori con la tata.”

 

“Nun raccontare più fesserie, che la tata la conosciamo e sta alla Garbatella a farsi i fatti sua.”

 

Un altro uomo.

 

Due sotto e due sopra, probabilmente. Otto in tutto.

 

Pochi per tre macchine, ma forse volevano tenersi lo spazio per caricarci la famiglia.

 

Stava per controllare le altre stanze, prima di lanciarsi in salotto, ma udì dal piano di sopra “senti, abbella, io mo conto fino a dieci. Se al dieci non la smetti di contare fregnacce, c’avrai il cervello di tuo marito come nuova carta da parati.”

 

E sentì partire il countdown e un “Calogiuri non-” nelle orecchie, ma sapeva di non avere altro tempo. E quindi si buttò verso il salotto, tra le mani il semiautomatico che aveva preso da uno degli uomini fuori e, brandendolo come una mazza da baseball, colpì alla testa prima uno e poi l’altro, che per fortuna gli davano le spalle.

 

Ma uno di loro emise un mugolio di dolore, prima che potesse tappargli la bocca e che perdesse i sensi.


“Che succede? Tutto bene lì sotto?”

 

Lo avevano sentito, ma almeno il conto alla rovescia era terminato.

 

E fu allora che decise di giocarsi il tutto per tutto.

 

“Ce sta qualcuno fori. Ha preso Michè! E pure gli altri so ‘nnati, forse!” urlò, la bocca dentro la sciarpa, sperando che la bevessero.

 

“Ma che stai a dì?” esclamò una voce da sopra, quello del conto alla rovescia e delle minacce, e sentì una porta aprirsi e passi sulle scale, “Giovà, ‘ndo stai? Che stai a dì?”

 

Non appena vide un paio di anfibi spuntare attraverso il corrimano, saltò e ci si aggrappò con tutta la forza che non aveva più e, con un urlo, lo sentì, ancora prima di vederlo, ruzzolare giù dalle scale.

 

Gli si buttò addosso, per stordirlo del tutto. Gli aveva appena mollato il colpo alla nuca, quando sentì un clic inconfondibile alle spalle ed un “e tu chi cazzo sei?!” che gli fece venire un brivido.

 

Si voltò e trovò un uomo, anzi, un ragazzo, poco più che ventenne, che stava venendo da una di quelle stanze che non aveva controllato.

 

E poi udì la porta di sopra aprirsi ed un uomo ci fece capolino.

 

Era incastrato in mezzo a due fuochi, letteralmente.


“Chi cazzo sei, eh? Chi ti manda?!” chiese il ragazzo, mentre l’altro uomo fu visibile sulla scala, e non solo visibile, ma riconoscibile.


Stefano Mancuso.

 

“Maresciallo Calogiuri! Ma è ancora maresciallo?” chiese, puntandogli pure lui una pistola contro e cominciando a scendere i gradini, “che bella sorpresa! Questo ci rende le cose più facili, molto più facili. Un maresciallo fuori di testa che, per vendetta, uccide la coppia che teneva il figlio di quella che lo ha incastrato ed il bambino e poi si uccide. Suona bene, no?”

 

La rabbia gli ribolliva dentro, anche se doveva rimanere calmo e lucido ma… ma pensava solo che, qualunque cosa avesse fatto, uno dei due gli avrebbe sparato. E questi tenevano la mira buona, tenevano e….

 

E poi pensò ad Imma, e pregò che non stesse più ascoltando, che… non dovesse sentire i suoi ultimi momenti.

 

“Paolì, che ci pensi tu?” chiese poi Mancuso, rivolgendosi al ragazzo - e certo, il boss, se poteva, le mani non se le sporcava mai - e Paolì puntò ancora più in alto la pistola e fece per premere il grilletto ma-

 

“Carabinieri, siete circondati! Gettate le armi!”

 

Pure nel casino, riconobbe la voce di Imma, amplificata però, e poi una sventagliata di colpi, che provenivano dal giardino. Fu questione di un secondo: Paolì si girò verso la lavanderia e Calogiuri gli si lanciò addosso, prendendolo alle spalle, evitando per un soffio un proiettile di Mancuso, che gli rimbombò vicino all’orecchio, e riuscendo ad atterrare il ragazzo e a levargli la pistola.

 

Si voltò, rimanendo seduto sul ragazzo, puntando in avanti la pistola - che il fucile era finito più avanti - e beccando appena in tempo Mancuso che stava correndo giù dalla scala, a pistola spianata.

 

Sparò, senza pensarci, sparò, verso le gambe, e, con un urlo di dolore, Mancuso cascò pure lui dalle scale, sopra al suo compare. Diede un ultimo colpo a Paolì, per stenderlo definitivamente, e corse verso Mancuso.

 

Ma il boss si era ripreso e vide la pistola sollevarsi. Si gettò a terra appena in tempo, prima dello sparo.

 

O lui o me! - pensò, ma Mancuso serviva vivo e quindi cercò di coprirsi alla meglio, dietro all’angolo del sottoscala, un altro proiettile che gli finì vicino ai piedi.

 

Non potevano stare così per sempre: sentiva le urla dal piano di sopra, una voce di donna che implorava “vi prego, mio marito sta morendo!”

 

Stava per alzarsi dalla copertura - e andasse come doveva andare! - quando udì un lamento ed una porta che si apriva.

 

“Butti giù l’arma, Mancuso, se non vuole finire come uno scolapasta. E, se pensa che non ne sia capace, le ricordo chi era mio padre e che quando una donna con un semiautomatico incontra un uomo con la pistola, l’uomo con la pistola è morto.”

 

Gli venne da trattenere una risata ed un singhiozzo insieme.

 

Imma! Ma era pazza del tutto?

 

“Ma se non è neanche capace di usarlo.”

 

“Mi sembra che la scarica qua fuori sia funzionata benissimo. Ora, devo esercitarmi pure su di lei o vuole decidersi a buttare la pistola? Tanto siete circondati.”

 

“E da chi, eh? Che voi manco lavorate più per la procura e-”

 

Per fortuna un rumore di sirene, che neanche all’accademia ne aveva sentite così tante tutte insieme, azzittì Mancuso.

 

Udì un suono metallico, ancora prima di vedere la pistola che finiva a terra.

 

Si alzò dal suo nascondiglio, la sua di pistola spianata e quello che vide gli sembrò talmente assurdo, spaventoso e straordinario al tempo stesso, che gli parve uscito da un film.

 

Imma stava lì, mezza in penombra, nella cornice della porta, il fucile in mano, puntato alla testa di Mancuso. Bella e fiera come non mai.

 

Lui che, pieno di lividi e con una gamba sanguinante, tremava sotto di lei.

 

“Dottoressa…” sussurrò, incredulo, riuscendo a fatica a trattenere le lacrime, e sapeva che anche per lei era lo stesso, perché lo guardava… come se avesse appena visto un miracolo.

 

Ma prima veniva il dovere: calciò via la pistola di Mancuso, gli prese la cintura e gli legò le mani e poi si strappò una manica della camicia, ignorando il “Calogiuri, che fai?” di Imma e gliela legò alla gamba, sopra alla ferita.

 

Anche se lo avrebbe per certi versi voluto ammazzare, non era un assassino.

 

“Aiuto! Aiuto! Mio marito sta male, non respira!”

 

L’urlo da sopra arrivò insieme a grida da fuori, un coro di “carabinieri mani in alto!” da far spavento.

 

Vide Imma nell’atto di girarsi, istintivamente, ed afferrò appena in tempo il fucile, prima che lo facesse.


“Siamo noi! Calogiuri e la dottoressa Tataranni! Dovremmo averli bloccati tutti, venite all’ingresso!” urlò a pieni polmoni, prima di sussurrare ad Imma, strappandole via il fucile, “ma che sei matta? Ti volevi fare ammazzare?”

 

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Sentì le gambe tremare, rendendosi conto del tutto solo in quel momento non solo di cosa aveva fatto, ma che aveva pure rischiato di farsi sparare addosso da fuoco amico.

 

Per fortuna, si ritrovò tra le braccia di Calogiuri che, come sempre, era prontissimo a prenderla, quando lei stava per cadere, metaforicamente e letteralmente.

 

I loro occhi si incrociarono di nuovo, quegli occhi che aveva per un attimo temuto di non vedere mai più, tanto da buttare la prudenza al vento e raggiungerlo non appena gli uomini fuori erano stati tutti storditi ed era sparito dentro la casa.

 

Aveva una voglia tremenda di baciarlo, ancora e ancora, tanto che lo sguardo le cadde sulle labbra di lui. Lo sentì prendere un forte respiro e-


“Aiuto!!”

 

Le grida dal piano superiore la fecero riscuotere appena in tempo, sia per evitare che Mariani e Ranieri, che stavano arrivando alle loro spalle, li beccassero, sia per evitare altri casini dati dalla foga del momento.

 

L’adrenalina giocava brutti - o bellissimi - scherzi, ma Calogiuri doveva volerla a mente lucida e non soltanto perché preso dall’ubriacatura di ormoni.

 

E quindi si staccò e salì le scale, riconoscendo i passi di Calogiuri dietro ai suoi e poi altri passi.

 

Spalancò del tutto la porta e quello che ci vide le gelò il sangue: un uomo ed una donna, distesi sul letto, che una volta era bianco, ma ora c’era una pozza di sangue che si estendeva da… da quelli che una volta erano stati i gioielli di famiglia di lui.

 

Era lì che gli avevano sparato, una o due volte.

 

L’uomo era pallidissimo, la moglie che cercava di fermargli il sangue.

 

“L’ambulanza arriva?” domandò, voltandosi verso Ranieri e Mariani, che pure loro avevano un’espressione che era tutta un programma.

 

“Sta arrivando, sì, è solo che gli ingorghi...” rispose il capitano che, come Calogiuri, aveva l’aria di chi stava quasi per svenire dal dolore, anche solo per l’immedesimazione.

 

“Mariani, se mi dai una mano… proviamo a tamponare il sangue e fare un po’ di primo soccorso.”

 

“Vi prego, non respira!”

 

“Mariani, tu tamponi, io faccio la respirazione bocca a bocca. Il battito è basso ma presente. Ranieri, può riferire all’ambulanza?”

 

Non avrebbe saputo dire se fosse più orgogliosa della prontezza di Calogiuri nell’aiutare gli altri, sempre, o se del fatto che, preso dall’azione, desse senza problemi ordini pure al capitano.

 

Ma, dopo qualche secondo, le si pose la domanda più importante, fondamentale anzi.

 

E quindi guardò la donna che tremava ancora accanto al marito e le disse, “il bimbo di Melita, dove sta?”

 

Gli occhi della donna passarono dal panico alla paura e poi ad un odio profondo, profondissimo.

 

“Non… non so di cosa state parlando.”

 

“Il bambino che avete finto di aver partorito qualche mese fa, ma che avete comprato da questi gentiluomini, che mo sono tornati per cancellare le prove. Dove sta? E non ditemi con la babysitter o che è uscito, che già i gentiluomini avevano capito che non era vero. Dov’è?”

 

La donna si chiuse a riccio, le braccia piantate al petto.

 

“Senta, io lo capisco che lo volevate proteggere da… da questi uomini. Ed è evidente che dovete amarlo molto, se suo marito era disposto a farsi ammazzare per lui,” disse, cercando di empatizzare con quella donna e con la disperazione estrema che dovevano aver provato lei ed il marito, anche se una parte di lei non ci sarebbe mai riuscita fino in fondo, ma il muro contro muro non serviva a niente, “ma ora suo marito deve andare all’ospedale, lei ci dovrà seguire, perché quelli che avete commesso sono dei reati gravi, e se c’è un bimbo qua… nascosto da qualche parte, non possiamo lasciarlo qua da solo. Ci dica dov’è-”

 

E si guardò in giro e notò un bavaglino con su scritto Ludovico.

 

Nome da ricchi.

 

“Dov’è Ludovico?”

 

“Ludovico è figlio nostro. Non so cosa avete sentito ma è figlio nostro.”

 

“Abbiamo le testimonianze dei medici, signora, e ci basterà un test del DNA sugli oggetti del bimbo. Non peggiori la situazione.”

 

Era stato Ranieri a parlare, mentre Calogiuri e Mariani erano ancora impegnati nel primo soccorso.

 

Ma la donna tappò la bocca e si chiuse ancora di più e capì che non avrebbe parlato mai, piuttosto si sarebbe fatta ammazzare.

 

E quindi, se il bimbo stava lì, in casa, c’era solo un metodo.

 

“Ludovico! Ludovico?!” si mise ad urlare, sperando che fosse in un punto dove poteva sentirla e non in una stanza insonorizzata ma niente, non si sentiva nulla.

 

“Che succede?”

 

Irene e Mancini erano finalmente arrivati pure loro, Mancini che, come tutti i maschietti presenti, guardò l’uomo sul letto come se fosse l’incarnazione di tutti i dolori del mondo.

 

“Non ci vuole dire dove sta il bambino,” spiegò Imma, mentre, finalmente, arrivarono pure i paramedici e si dovettero spostare per lasciarli lavorare, uscendo dalla stanza, Calogiuri che spiegava cosa aveva fatto mentre cercava di pulirsi le mani insanguinate.

 

“Dobbiamo cercare in tutte le stanze,” rispose Irene, dando ordine agli uomini tramite una radiolina, mentre Imma stessa cominciava a guardarsi intorno, sul ballatoio.

 

C’era qualcosa di strano, ma cosa?

 

“Non ci sono troppe poche stanze qua sopra?”

 

Era stato Mancini a parlare e teneva ragione, teneva.

 

C’era qualcosa nella planimetria della casa che non tornava, il piano di sopra era troppo piccolo rispetto a quello sotto e alla grandezza della casa.


“Ci dev’essere una stanza nascosta,” confermò. Il problema era come trovarla, a parte picchiando su tutti i muri, “ho provato a chiamare il nome del bambino ma non mi rispond-”

 

E fu in quel momento che le venne un’idea.

 

Un’idea assurda, forse, ma che c’avevano da perdere?

 

“Mariani. Può chiamare gli uomini che tengono Gasparini e la Zoffi e chiedere qual era il nome originale di… Ludovico? Dubito Melita gli avesse appioppato un nome del genere.”

 

“Subito dottoressa!”

 

La udì parlare per un po’ al telefono e poi esclamare un, “Francesco! Si chiamava Francesco!”

 

“Francesco!” gridò quindi, cercando di percorrere tutto il ballatoio, vicino ai muri, “Francesco! Francè!”

 

E fu allora che, flebile come una piuma, udì un gemito e poi un pianto.

 

“Lo sentite anche voi?” domandò e gli altri annuirono e lei continuò a gridare il nome del piccolo, provando a capire da dove provenisse.

 

“Qua secondo me è più forte, dottoressa,” disse Mariani, indicando il muro all’estremità sinistra del pianerottolo.

 

Di sicuro Mariani l’udito ce l’aveva più buono del loro, essendo più giovane e non avendo dovuto subire gli strilli di una figlia adolescente per anni.

 

Mancini picchiò sulla parete ed era cava. Ma non c’era traccia di una porta, di niente.

 

“Vediamo a cosa corrisponde!” proclamò quindi lei, rientrando nella camera da letto, che era la porta più vicina, scartando la parete che dava sul bagno, che era dalla parte sbagliata, e trovandone una con una libreria.

 

“Questa libreria, si deve spostare!” esclamò, mentre medici e paramedici caricavano il ferito in barella e lo portavano fuori, “signora, lo sappiamo che qua dietro c’è qualcosa. Ci dica come si sposta questa libreria: è la sua ultima possibilità.”

 

Ma la donna, ostinatamente, mantenne il silenzio.

 

Si guardò intorno, cercando il segno di una cerniera, di un meccanismo, di qualcosa e notò infine un paio di volumi messi a testa in giù, come se fossero stati rinfilati troppo velocemente.

 

Del resto, quando era arrivato il commando, i coniugi dovevano avere avuto poco tempo per nascondere il bimbo.

 

“Che hai notato?”

 

La voce stanca di Calogiuri fu nel suo orecchio e se lo trovò alle spalle.

 

“Quei libri?” le chiese, forse perché aveva capito cosa stesse guardando, forse perché li aveva notati pure lui, e le loro mani si scontrarono per un attimo mentre cercavano di prenderli.

 

“A te l’onore, dottoressa,” le disse, passandole il guanto che teneva in mano, per non compromettere ulteriormente la scena, e lei se lo infilò e levò i volumi.

 

Dietro c’era un interruttore, piccolissimo e piatto.

 

Lo premette.

 

Lo scatto di un meccanismo ed una delle scaffalature ruotò su se stessa e dentro quella che era, a tutti gli effetti, una nursery clandestina.

 

Pareti azzurre, giocattoli ovunque… probabilmente l’avevano costruita per i primi tempi nei quali il bimbo non era ancora ufficialmente loro.

 

“Francesco!” esclamò ed il pianto divenne fortissimo.

 

Corse dentro e, in fondo a sinistra, riparato alla vista, c’era un lettino ed un bimbo che piangeva disperato.

 

“Francé…” sussurrò ed il bimbo smise per un secondo di piangere e la guardò, con due occhi scuri come la notte e bellissimi, prima di ricominciare a piangere.

 

Buttò la prudenza al vento e se lo prese in braccio, cercando di cullarlo un poco per calmarlo.

 

E fu lì che avvenne il miracolo.


Silenzio, silenzio totale.

 

Il piccoletto la guardò di nuovo, incuriosito. Le venne spontaneo sorridergli e lui ricambiò, con un sorrisone sdentato che era un’arma impropria.

 

Si voltò ed incrociò un’altra arma impropria, gli occhi di Calogiuri, che lo erano ancora di più del solito.

 

Lo vide levare la coperta dal lettino e lo aiutò a metterla intorno al bimbo, che non avesse freddo, in un sincronismo perfetto, come se non avessero fatto altro che quello in vita loro.

 

Calogiuri pareva devastato dall’emozione.

 

Le parole non servivano e per fortuna, perché in quel momento non sarebbe stata in grado di pronunciarne nemmeno una.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua, alla fine di questo lungo capitolo, pieno di azione. Imma e Calogiuri, dopo aver rischiato entrambi la vita, hanno ritrovato il bimbo di Melita (il cui nome non è un tentativo di autocelebrazione ma un omaggio ad una figura fondamentale per Imma la serie tv). Che succederà ora? Riusciranno a riavvicinarsi e Calogiuri a vincere le sue paure, al di là dell’adrenalina e della commozione estrema del momento? Che fine farà il piccolo? E Calogiuri riuscirà ad essere scagionato?

Alcune delle risposte a queste domande arriveranno nel prossimo capitolo che avrà parecchio giallo e parecchio rosa e che dovrebbe essere un capitolo fondamentale ai fini della storia.

Vi ringrazio tantissimo per avermi seguita fin qui e per tutti i riscontri e gli incoraggiamenti che mi avete dato in queste settimane.

Spero davvero che la storia continui ad appassionarvi, anche ora che è iniziata la seconda stagione e questo è diventato definitivamente un universo parallelo (non che non lo fosse da sempre, ovviamente).

Siccome diverse persone mi hanno chiesto se scriverò qualcosa sulla seconda stagione, il mio obiettivo primario è finire questa storia dopo due anni e non lasciarla e lasciarvi in sospeso. Ma, tempo ed ispirazione permettendo ed anche a seconda di come andranno le prossime puntate, potrei fare qualche fanfiction più breve credo a cavallo tra la prima e la seconda parte di stagione, in modo che ci sia un po’ di carne al fuoco su cui scrivere, e poi post fine seconda stagione, sperando ovviamente che il finale non ci lasci con l’amaro in bocca, anzi.

Detto questo, vi ringrazio ancora tantissimo, ringrazio chi ha recensito questa storia e chi l’ha messa nei preferiti e nei seguiti.

Un grazie enorme se vorrete farmi sapere che ne pensate, soprattutto se la storia continua ad essere interessante e a prendervi, anche perché questo capitolo è stato tanto d’azione ed è un genere di scene sulle quali ho sempre parecchia apprensione.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica 14 di novembre.

Grazie mille ancora e buon Halloween e buone feste!

 

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Capitolo 66
*** Il Peccato Originale ***


 

Nessun Alibi


Capitolo 66 - Il Peccato Originale


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

Dopo avergli aggiustato meglio la copertina, non riuscì a resistere e sfiorò con un dito la guanciotta del bimbo, che gli sorrise, e con il resto della mano il collo di Imma che era così assurdamente bella, nella sua emozione, che altro che la madonna gli sembrava.

 

Avrebbe tanto voluto baciarla di nuovo, come avrebbe già voluto fare poco prima, all’ingresso.

 

Ma non erano soli e non era né il momento né il luogo adatto.

 

Gli fece un cenno ed un sorriso un po’ malinconico e la vide voltarsi e, piano piano, incamminarsi, sempre con il bimbo in braccio, verso la stanza da letto.

 

La seguì e riemerse dalla stanza segreta giusto in tempo per sentirla dire, rivolta alla signora De Angelis, “se continua a sostenere che sia figlio suo e di suo marito siete morti, letteralmente, e non per colpa nostra ma degli uomini che ci stanno ancora là fuori, oltre al commando di oggi. Collabori, le conviene.”

 

E poi si girò verso Mariani ed ordinò, “Mariani, predisponga subito tutto per la comparazione del DNA tra questo bimbo e Melita.”

 

Gli venne da sorridere, ancora di più quando Imma stessa si bloccò e proclamò verso Irene e Mancini, “scusate… abitudine.”

 

Risero tutti, in un momento liberatorio nel quale, assurdamente, si sentì davvero parte di una squadra, provando gratitudine e rispetto verso tutti, perfino nei confronti del beccamorto.

 

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“Che cosa facciamo con il bambino? Dovrebbe essere affidato ad una struttura apposita ma… potrebbe essere ancora in pericolo e poi… mi sa che da qualcuno non si vuole proprio staccare.”

 

Era stata Irene a parlare, dando il colpo di grazia alla commozione che già provava e dovette abbassare il viso per cercare di nascondere una lacrima, trovando il faccino adorabile di Francesco e, di nuovo, quel sorriso, le manine che le si stringevano di più nel maglione.

 

Aveva provato a lasciarlo a Mariani e ad Irene per poter rientrare in procura, dove stavano in quel momento, ma il bimbo aveva iniziato a piangere ed ululare da far concorrenza a Noemi dei tempi d’oro - e pure un poco a Valentina, anche se sua figlia c’aveva dei polmoni da primato - e quindi alla fine era dovuta tornare in auto, insieme a Mariani e Ranieri. Calogiuri li aveva seguiti in moto.

 

“Per quanto il bambino si sia evidentemente attaccato tantissimo, e letteralmente, alla dottoressa, al momento affidarlo temporaneamente a loro risulterebbe troppo in conflitto di interessi e non possiamo rischiare di compromettere le indagini ed il processo.”

 

Era stato Mancini a parlare, e la guardava in un modo dispiaciuto e che pareva quasi in imbarazzo.


Bloccò con un cenno del capo Calogiuri, che lo vedeva che voleva protestare, ed intervenne con un, “Calogiuri, in questo momento la priorità assoluta è quella di scagionarti. E ci siamo quasi. Ma tenere noi il bimbo di Melita, prima che sia accertata sia la tua non paternità, che soprattutto il fatto che non siete stati amanti e che non l’hai aggredita tu, darebbe adito a troppe speculazioni. Il dottore ha ragione, purtroppo.”

 

Lo vide annuire, rassegnato.

 

“Lo terrei con me ma… temo che con Bianca… non so come la prenderebbe.”

 

“Io vivo in caserma ed ovviamente non mi pare il caso,” intervenne Mariani, dando una piccola carezza ai piedini di Francesco.

 

“Potrei tenerlo io… tanto coi bimbi ho esperienza, fin troppa.”

 

Era stato Ranieri a parlare, a sorpresa.

 

“Ma devi anche lavorare. E che fai? Lo lasci in hotel? Non mi pare sicuro,” ribatté Irene, con un sospiro.

 

“E allora perché non lo tieni tu? Secondo me a Bianca stare con un bimbo così piccolo non farebbe male. E poi hai anche la babysitter, no? Se vuoi ti posso accompagnare a casa, così vediamo come va e, se non funziona, lo riporto con me in hotel, in attesa di una soluzione migliore. Tanto si spera sarà solo per qualche giorno.”

 

Vide Irene sospirare e poi i loro sguardi si incrociarono.

 

Da un lato, non avrebbe mai voluto lasciarle il piccolo, anzi, lasciarlo a chiunque che non fosse Melita qualora si fosse ripresa. Dall’altro, alla fine Irene forse non era la madre dell’anno - non che lei lo fosse mai stata - ma con Bianca aveva fatto un ottimo lavoro.

 

Quindi annuì e provò a passarle Francesco, delicatamente, ma il bimbo cominciò a strillare così forte che quasi c’era da rivalutare il confronto con Valentì.

 

“Pure lui preferisce te a me… come tutti gli uomini ultimamente,” ironizzò Irene, tenendolo in braccio a fatica, perché lui si divincolava tantissimo.

 

“Ma se hai la fila! E poi vedrai che piano piano lo conquisterem- cioè lo conquisterai,” si corresse Ranieri, in un modo che le fece sempre più pensare che quei due non la contavano giusta.

 

“Sei sempre stato troppo ottimista!” proclamò Irene, mentre provava disperatamente a cullare il bimbo, che non pareva affatto pronto ad essere conquistato, anzi.

 

E poi Francesco si voltò verso di lei e la guardò, dritta negli occhi, come a dire perché mi abbandoni anche tu? e sentì una fitta tremenda di senso di colpa e poi una mano di Calogiuri sulla schiena, come a cercare silenziosamente di farle forza.

 

“Francé, fai il bravo,” si raccomandò, il bimbo smise per un attimo di piangere e la osservò, confuso, ma poi la sirena antiaerea accompagnò Irene e Ranieri finché uscirono dalla stanza.

 

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“Tutto bene, Mariani?”

 

Avevano appena lasciato Calogiuri e la dottoressa che se ne stavano tornando a casa, ed erano rimasti da soli lei ed il dottore.

 

Lo guardò, confusa.

 

“Sicura di stare bene? Ha comunque subito un’aggressione. Le fa male da qualche parte?”

 

Con tutto il casino che era successo, quasi si era scordata del ginecologo e di quanto avevano rischiato.

 

“Sì, dottore, tutto bene, anche grazie a lei. Anche se… per un attimo ho temuto che lo ammazzasse Gasparini.”

 

Mancini fece un’espressione strana e si chiese se si fosse presa troppa confidenza.

 

“Diciamo che… un paio di pugni se li sarebbe proprio meritati. Ha fatto bene a fermarmi, perché avrei fatto il suo gioco ma… non sopportano quelli che toccano-”

 

“Le donne?” gli domandò, un po’ delusa, perché non ne poteva più di essere trattata dagli uomini come una specie protetta, ma solo in certe circostanze, solitamente quando conveniva a loro.

 

Mancini spalancò gli occhi e deglutì, forse aveva capito: il procuratore capo rispetto al maschio medio era più percettivo, non che ci volesse molto.

 

“Anche ma, in generale, non sopporto chi tocca le persone che stimo e a cui tengo. E lei ha una grande carriera davanti a sé, Mariani, e sarebbe stato doppiamente un crimine se avesse dovuto finirla così.”

 

Si sentì avvampare, senza capire bene perché, ma ai complimenti non c’era molto abituata.


“Grazie a lei per avermi dato fiducia, dottore.”

 

“No, sono io che devo ringraziarla, Mariani, per avermi supportato e soprattutto sopportato in questo periodo: non ero proprio dell’umore migliore. E per avermi restituito un po’ di fiducia nei miei collaboratori.”

 

Il viso ormai era un forno.

 

“Beh… per quello non è merito mio… dopo quello che è successo oggi, si sarà reso conto che siamo un team fortissimo, no?”

 

Mancini annuì e le sorrise e lei ricambiò, pur nell’imbarazzo.

 

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Dire che fosse rimasto impressionato da Mariani sarebbe stato riduttivo.

 

Non solo per la sua bravura ma per il suo carattere: non capiva come riuscisse ad essere così timida e dolce, ma poi, quando c’era una situazione di pericolo o quando si arrabbiava, così feroce al tempo stesso.

 

Menomale che c’era lei! Anche se li attendeva ancora una serata ed una nottata lunghissime.

 

“Ci aspetteranno un sacco di interrogatori, Mariani. E dovremo rafforzare la sicurezza sulla Russo, all’ospedale.”

 

“Già fatto, dottore. Ora è piantonata da tre agenti, costantemente.”

 

Le sorrise: che efficienza!

 

“Grazie, Mariani. Senta, che ne direbbe se, prima di infilarci nella sala interrogatori - che non so quando ne usciremo - ci mettessimo qualcosa sotto i denti?”

 

“Sì, ma una cosa veloce, dottore, che ho ancora l’adrenalina in corpo e, finché c’è, sento poco la fame e pure la stanchezza, per fortuna.”

 

“Conosco un buon bar qua vicino, che ne dice?”

 

“Dico che, se si fida di me, ho in mente qualcosa di meglio. Più semplice e veloce.”

 

Non capiva cosa ci potesse essere più veloce di un bar, ma annuì e seguì Mariani fuori dalla procura - dall’uscita sul retro per evitare eventuali giornalisti - e fino al parco lì vicino, dove Mariani si fermò, davanti ad uno di quei camioncini che vendevano panini dal dubbio rispetto delle norme igienico sanitarie.

 

“Ma vuole mangiare qua?”

 

“Questo è uno dei migliori zozzoni della città, fa dei panini buonissimi. E che si aspettava, dottore, col mio stipendio? Ostriche e champagne? Che nemmeno mi piacciono poi. E con tutto il moto di oggi ci vuole proprio.”

 

“Temo che il mio stomaco sia un po’ fuori età per questo tipo di cibo, Mariani. Ma va bene, proviamo, tanto difficilmente avrò il problema di dover dormire stanotte,” accettò, temendo di pentirsene ma non volendo sembrarle ancora più vecchio e snob di quanto probabilmente lo considerava già.

 

Prese un semplice hot dog, che era la cosa più tranquilla, e si sedette sulla panchina vicina, dove dopo poco si accomodò anche Mariani, addentando il panino alla porchetta con un gusto che lo fece sorridere.

 

In quello somigliava ad una certa dottoressa, ed un poco pure nel caratterino, ma al contrario - Imma era un caterpillar dall’inattesa dolcezza e sensibilità, in certi momenti, Mariani era una principessa che, all’occorrenza, diventava una guerriera. Per il resto erano diversissime, come il giorno e la notte. Ma capiva finalmente perché andassero così d’accordo.

 

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Il tonfo della borsa di Imma che cadeva a terra e poi degli stivali, gettati molto poco cerimoniosamente subito accanto, segnalarono il ritorno a casa, insieme ad una fitta al cuore.

 

Per alcuni momenti aveva veramente creduto che non ci avrebbe mai più messo piede, né lì né in nessun altro luogo.

 

Incrociò gli occhi stanchi ma soddisfatti di lei e, non riuscendo più a resistere, se la strinse al petto in un abbraccio liberatorio, sentendola aggrapparsi a lui con altrettanta foga, tanto che la sollevò da terra, anche se faceva ancora un po’ di fatica a farlo. Ma aveva soltanto bisogno di sentirla vicina, il più possibile, ed il bruciore ai muscoli poteva andarsene pure al diavolo.

 

“Quasi ci siamo, Calogiù! Tra poco sarai libero veramente!” si sentì sussurrare all’orecchio e, preso dalla commozione, la rimise a terra e le diede un bacio sulla fronte.

 

E poi la guardò di nuovo negli occhi e ci lesse un velo di tristezza che non capì.

 

“A che stai pensando, dottoressa?”

 

“A che… sai già che cosa farai, una volta libero? Ci stai pensando?”

 

“E tu, ci stai pensando?” le chiese di rimando, sperando che ammettesse anche con lui quello che aveva detto ad Ottavia o, ancor meglio, che gli eventi di quella giornata le avessero fatto cambiare idea.

 

“Così non vale, Calogiuri!” fu invece la sua risposta e sapeva di non poter insistere oltre.

 

E quindi la abbracciò di nuovo e le disse, “al momento vorrei solo stare qua così con te, andarci a fare una bella dormita, insieme, e poi… e poi so solamente che non riesco ad immaginarmi il mio futuro senza di te.”

 

La sentì sciogliersi un poco nelle sue braccia, ma poi le mani di lei lo spinsero leggermente indietro, sul petto, e la trovò di nuovo a guardarlo dritto negli occhi.

 

“Neanche io riesco a immaginarmi una vita senza di te, Calogiuri, ma… ma non mi accontento solo del bene. Io voglio tutto, come disse una volta qualcuno,” proclamò, decisissima, e gli venne un’altra fitta al petto - mentre gli occhi erano ormai del tutto appannati - che lei si ricordasse ancora di quel momento di ormai così tanti anni prima.

 

“Ed io vorrei dartelo Imma, vorrei darti tutto quello che meriti e pure di più. E non sai quanto… quanto vorrei baciarti in questo momento e fare l’amore con te per tutta la notte. Ma non voglio più sbagliare con te,” le rispose ed Imma gli sorrise, malinconica, “però almeno un bacio posso-?”

 

Per tutta risposta, si trovò con le labbra stampate sulle sue, in un bacio così carico di disperazione e di amore che quello di quel pomeriggio in confronto non era stato niente. E poi Imma si staccò e gli sorrise, chiedendogli, “allora, apriamo di nuovo il divano?”

 

Ma lui scosse il capo, se la riprese tra le braccia e, anche se gli tremavano ancora un poco, così come le gambe, se la portò fino in camera da letto, pure se soltanto per dormire.

 

Forse.

 

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“Irene! Ma perché sei tornata così tardi?”

 

La domanda di Bianca la colse di sorpresa: tra una cosa e l’altra lei e Ranieri avevano fatto soste in farmacia per procurarsi il necessario per il bimbo, oltre ad un rapido stop per prendersi una pinsa d’asporto per loro, quindi ormai era oltre l’orario della nanna di Bianca.

 

“Mi scusi, dottoressa, ma non sono riuscita a metterla a letto: continuava ad alzarsi,” disse Maria, ma le fece un cenno del capo che era tutto ok.

 

E poi la porta alle sue spalle si richiuse ed anche Bianca notò Ranieri, con il bimbo in braccio che ancora si lamentava. Aveva pianto talmente tante volte in macchina che aveva le orecchie che le facevano male.

 

“Ma… ma chi è questo bimbo? E chi sei tu? Il suo papà?” 

 

Bianca si era fatta avanti, incuriosita, cosa che l’aveva colta di sorpresa: di solito davanti agli sconosciuti al massimo indietreggiava e se la dava a gambe.

 

“No. Ranieri, cioè Lorenzo è un collega. Ed il bimbo non è suo ma… è figlio di una donna che al momento sta tanto male e non se ne può occupare. E, siccome lui e la sua mamma sono coinvolti in un’indagine che stiamo facendo, rimarrà qua con noi per qualche giorno, se non ti dispiace, in attesa di capire a chi possiamo lasciarlo.”

 

Per tutta risposta, il bimbo riprese a piangere tipo sirena e, sapendo quanto Bianca odiasse i rumori forti, le pigliò un mezzo colpo.

 

Ma Bianca, inaspettatamente, non fece una piega e guardò il bimbo con ancora più curiosità, mentre Ranieri si prodigava per calmarlo - le toccava ammettere che con i bimbi era davvero bravissimo.

 

“Ma perché piange? Gli manca la sua mamma?” domandò Bianca, in un modo che la fece sciogliere come solo lei sapeva fare.

 

“La mamma non la vede da un po’, perché sta male, ma… forse avrebbe preferito stare con altre persone, ma non si poteva.”

 

“Ma la sua mamma… è come la mia mamma che è volata in cielo?”

 

La voce le si strozzò in gola e tossì, perché Bianca la sorprendeva sempre e… e quando si entrava in argomento di sua madre e di quello che le era successo, era così tremendamente difficile per lei.

 

Ma Bianca la guardava con tanto di occhioni curiosi, quindi le toccava rispondere.

 

“No, no, la sua mamma… è tipo la Bella Addormentata: dorme, dorme e non sappiamo se si sveglierà e quando, speriamo presto.”

 

“Ma con un bacio?”

 

Le venne da sorridere: ah, che bella l’ingenuità dei bambini!

 

“No, nel mondo reale è un po’ più complicato di così.”

 

Bianca annuì e poi, per il suo stupore, si avvicinò piano piano a Ranieri ed al bimbo e gli mise una mano sulla schiena. Piano piano, si mise ad accarezzarlo, fino alla testa.

 

“Com’è morbido!” 

 

“Vero. Però stai attenta a non toccare troppo qua,” si raccomandò Ranieri, indicando verso la zona della fontanella, ma con un tono così dolce che Bianca gli sorrise, “che qua per qualche mese è ancora molto delicato, va bene?”

 

Bianca fece sì con la testa e poi gli chiese, a bruciapelo, “ma sei un papà? Perché sei proprio bravo con i bambini.”

 

Eh già… se ne era accorta pure lei.

 

“Sì, ho figli, alcuni già grandi.”

 

“Ma… ma come mai non ti ho mai visto prima?” gli chiese, rivolgendosi però poi anche a lei, con sguardo curioso e quasi di rimostranza.

 

“Perché Ran- Lorenzo vive lontano, con la sua famiglia,” rispose, perché quella era la realtà ed avrebbe fatto sempre bene a ricordarsene anche lei.

 

Lui parve in imbarazzo, ma si inserì con un, “i miei figli stanno lontani, sì, ma… ma io in realtà ti ho già vista, anche se non te lo puoi ricordare, perché eri piccola piccola.”

 

“Quando… quando c’era ancora la mia mamma?” domandò Bianca, con due occhi spalancati che erano una pugnalata.

 

“Sì.”

 

Ci fu un attimo di silenzio, in cui si chiese come l’avrebbe presa, ma Bianca sorrise ed esclamò, “che bello! Non ci sono tanti che si ricordano della mia mamma!”

 

Un nodo alla gola, gli occhi le bruciarono e vide che pure lui era commosso.

 

Ma Bianca continuò ad accarezzare Francesco, ignara forse di tutto, e dopo un po’ Irene si rese conto che, straordinariamente, quelle carezze lo tranquillizzavano un po’.

 

“Adesso però devi andare a dormire, signorina,” si decise infine a dire, quando la voce le ritornò.

 

“Posso dormire con il bimbo? Anzi, come si chiama?”

 

“Francesco,” rispose, ancora più sorpresa che addirittura ci volesse dividere il letto, lei che aveva paura di quasi tutti, “ma no, non è il caso: è ancora molto piccolo e delicato e rischiamo di fargli male dormendo con lui. Vai nel tuo lettino, tranquilla, che lo rivedi domattina.”

 

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“Spengo la luce?”

 

Sorrise di rimando al volto stanco di Imma e con un clic ci fu il buio.

 

La sentì rimettersi distesa e, con mani un po’ tremanti, le cinse i fianchi e la strinse a sé, la schiena di lei contro il suo petto, i capelli che gli facevano il solletico.

 

Li baciò, godendosi l’aroma dello shampoo e quel profumo che era solo di Imma, e che gli era tanto mancato.

 

Imma non solo non si ritrasse, ma gli prese le mani tra le sue, intrecciando le loro dita, forte forte.

 

Era tentato, tremendamente tentato, di baciarle pure il collo e poi… e poi non fermarsi solo lì.

 

Ma aveva paura, una paura tremenda di bloccarsi di nuovo e di rovinare tutto quel riavvicinamento che avevano avuto. Di farla stare di nuovo male e….

 

Che uomo sei se ti fai bloccare dalla paura?

 

La voce che gli stava parlando suonava tantissimo come Imma. Soprattutto la Imma dei primi tempi.

 

Già… doveva essere uomo per lei, non poteva perderla per colpa delle sue paure.

 

E quindi cedette all’impulso e le baciò il collo. Imma emise un suono, come un piccolo gemito, e stava per baciarla di nuovo, magari sulla spalla, e-

 

“Meeeeow!”

 

Invece che baciare Imma, si trovò con le labbra piantate nel pelo, tanto che gli venne da tossire.

 

Ottavia! Tanto per cambiare si era infilata tra loro.

 

“E dai, Ottà, vai sui piedi!” udì Imma esclamare, divertita, e la belva obbedì.

 

“Tutto bene, Calogiuri?”

 

Gli occhi di Imma erano nei suoi e lui fece cenno di sì, e poi si beccò un bacio sulla guancia e lei disse, “bene, allora dormiamo mo, che la Regina è sul suo trono.”

 

Sospirò ma assentì, chiudendo gli occhi e tornando a stringerla forte, la stanchezza ed il sonno arretrato che presto ebbero il sopravvento.

 

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“E su, dai, tranquillo, sei al sicuro ora.”

 

“Almeno lui!” ironizzò, perché ormai aveva i timpani distrutti e Francesco continuava a piangere e a disperarsi, con solo qualche attimo di pausa.

 

Ed erano già le due del mattino.

 

La cosa ironica era che erano nella sua camera, seduti sul letto, ma le urla avevano eliminato in partenza qualunque imbarazzo in tal senso.

 

Anche perché Francesco sarebbe stato un ottimo spot per gli anticoncezionali, se continuava così!

 

“Se chiamassimo Imma?” chiese infine, perché nemmeno con Bianca aveva avuto tutti quei problemi.

 

“Dai, con la giornata che hanno avuto lei e il maresciallo. Lasciamoli dormire.”

 

Sospirò: Ranieri aveva ragione e non è che manco lei avesse tutta quella voglia di rinunciare all’orgoglio e di chiedere aiuto ad altri.

 

Ma era preoccupata anche per Bianca, con tutto quel casino.

 

“Irene, perché il bimbo continua a piangere?”

 

Ecco, appunto!

 

“Eh… è tutto nuovo per lui… deve abituarsi a stare qua,” rispose Ranieri, facendo un sorriso a Bianca che aveva fatto capolino dalla porta.

 

Bianca entrò del tutto e si avvicinò al letto, piano piano, “Francesco, perché piangi? Guarda che Irene è brava: ha curato sempre anche me, da quando la mamma non c’è più.”

 

Un altro groppo in gola e pure Ranieri sembrava star trattenendo il pianto.

 

“Bianca…” sussurrò, accarezzandole la schiena ed il viso.

 

Bianca le fece uno di quei sorrisi rarissimi, ma proprio per quello preziosi, e poi lei, a sua volta, fece lo stesso al piccolo Francesco.

 

Che, finalmente, smise di piangere, almeno finché Bianca lo accarezzava.

 

“Forse è il caso di farli dormire insieme: almeno dormiremmo. Bianca tanto è molto attenta a non fargli male, vero Bianca?”

 

“Sì, sì… posso dormire con Francesco, Irene?”

 

E che poteva dire? Non solo lo sguardo ed il tono di Bianca erano irresistibili ma, soprattutto, per il miraggio di un po’ di sonno e silenzio avrebbe fatto quasi di tutto.

 

“Va bene, mettetevi qua in centro al letto, che almeno non rischia di cadere,” acconsentì, infilando prima Bianca e poi il piccolo nel letto, in una posizione che minimizzasse il rischio di soffocamento.

 

La tenerezza e la cura con le quali Bianca gli stava accanto, toccandogli solo una manina, erano indescrivibili ed incredibili.

 

Aspettarono un po’ di minuti, per accertarsi che dormissero tranquilli, e poi si voltò verso Ranieri che sorrideva, tra il commosso e il sollevato.

 

“Allora… visto che qua è risolto… io andrei…” sussurrò lui, e ci sentì pure un poco di imbarazzo.

 

In effetti, una volta che la sirena era stata azzittita, l’atmosfera era nettamente mutata e l’essere insieme, di notte, in un contesto così intimo….

 

Agli occhi degli estranei sarebbero potuti sembrare una famiglia, e invece….

 

“Irene?”

 

Si rese conto di essersi persa via nei suoi pensieri e che pure lui lo aveva capito, a giudicare dal sorrisetto che gli era spuntato.

 

E non se lo poteva proprio permettere.

 

Si alzò, ricomponendosi, e propose, con un tono neutro che non corrispondeva affatto a quello che sentiva, “è tardi, c’è il divano letto. Anche tu hai avuto una giornata pesante. Vieni.”

 

Si avviò verso il corridoio ma non udì passi e quindi si voltò, temendo che lui stesse tramando chissà che, conoscendolo dai vecchi tempi, ma no, anzi: era diventato rosso come un peperone e pareva molto a disagio.

 

“Che c’è? Prima fai tutti gli inviti e adesso ti imbarazzi per un divano letto - sul quale dormirai da solo, per inciso?”

 

Lui si morse le labbra in un modo da omicidio e sussurrò un “va bene, grazie per l’ospitalità…” che però le parve sempre imbarazzato.

 

“Si può sapere che cos’hai?” gli domandò, mentre andavano verso il salotto.

 

“No, è che… è che mi viene in mente l’ultima volta che abbiamo dormito insieme nello stesso posto. Non me lo scorderò mai e… non pensavo che sarebbe mai ricapitato, anche se in circostanze molto diverse.”

 

Sospirò: il maledetto ci andava giù pesante, pesantissimo, a rivangare certe cose che anche lei - era inutile negarlo a se stessa, a lui lo avrebbe negato fino alla morte - non si sarebbe mai dimenticata.

 

“Almeno tu lo sapevi che sarebbe stata l’ultima volta. Io no,” gli buttò quindi addosso, dura, forse troppo, ma era meglio che farsi vedere vulnerabile.

 

“In realtà non lo sapevo nemmeno io,” la sorprese, soprattutto perché non le sembrò che stesse mentendo.

 

“In che senso?” domandò, prima di potersi trattenere.

 

“È… è un discorso lungo e… questo non è il momento adatto ma… quando finiscono queste indagini dobbiamo parlare, assolutamente.”

 

“Non ti devo proprio niente,” ribatté, secca.

 

“Già, è vero, ma….”

 

“Va beh…” sospirò, perché era esausta e no, quello non era il momento buono proprio per niente, e lui le sembrava già abbastanza mortificato così, “diciamo che… se mi dai una mano con Francesco, tutto sommato posso pensarci. Ma comunque i vecchi tempi non possono tornare, Lorenzo, e non voglio assolutamente tornare alla persona che ero allora.”

 

“E nemmeno io, te lo garantisco.”

 

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“Vale!”

 

Senza neanche rendersene conto, finì tra le braccia di Penelope, stretta stretta.

 

“Mi sei mancata!” si sentì poi sussurrare nell’orecchio e, nel giro di un secondo, fu travolta da un bacio da rimescolarle tutto dentro.

 

Una fitta di senso di colpa, se verso Penelope, verso Carlo o entrambi non avrebbe saputo dirlo.

 

Un altro secondo ed il bacio finì e Penelope la guardava, preoccupata, “che c’è, Vale? Sei strana.”

 

La conosceva veramente alla perfezione.

 

Sospirò, perché era lì anche per quello, per affrontare l’argomento, ma non era facile.

 

“S- sì, è che… ti devo parlare.”

 

Lo sguardo di Penelope le fece capire che aveva capito o, quantomeno, aveva compreso che non sarebbe stata una conversazione facile.

 

“Questa frase di solito non promette niente di buono. Comunque va bene. Avevo organizzato aperitivo e cena per noi, ma chiamo e annullo, così stiamo qua a parlare.”

 

Un’altra fitta di sensi di colpa, ma ormai doveva andare fino in fondo.

 

Ascoltò Penelope cancellare aperitivo e cena nei suoi locali preferiti. Forse voleva farsi perdonare per l’ultima volta?

 

Si sedette sul divano e Penelope la raggiunse, mettendosi di fianco a lei, ma non vicina come al solito.

 

“Allora?” le chiese, guardandola in un modo tra il preoccupato ed il rassegnato che la fece sentire ancora di più una merda.

 

“Allora… non reggo più la distanza, Penelope, il fatto che ci sentiamo sempre di meno e non ci vediamo quasi mai, non ce la faccio più.”

 

Penelope sospirò ma parve anche un poco sollevata, “se è solo per quello… tra poco mi laureo, Vale, e poi… potremmo capire come fare, se venire io a vivere a Roma, magari, o tu a Milano e-”
 

“E non è solo quello,” la interruppe, perché non ce la faceva più a tenersi tutto dentro, “è che… è che ho scoperto di essere attratta da Carlo. Carlo Vitali. Non è colpa sua, eh, non ha fatto niente ma… è successo.”

 

Penelope abbasso occhi e capo e la vide stringere le labbra fortissimo.

 

Ma poi rialzò la testa e furono di nuovo occhi negli occhi.

 

“Ti sei innamorata di lui?” le chiese, in un tono strano ma decisissimo.


“No, cioè… non lo so. So solo che… tu non ci sei mai e Carlo fisicamente mi piace… ed è gentile e… non so più cosa fare, perché non voglio prendere in giro nessuno, ma così non ce la faccio più e per questo ti dovevo parlare e dirti tutto.”

 

Un altro sospiro ed un attimo di silenzio, Penelope che si sfregava gli occhi e la fronte, non sapeva se per cercare di calmarsi o per quale altro motivo.

 

E poi di nuovo quello sguardo, che la trafisse al divano.

 

“Ascolta, Vale, lo so che… che non ci sono stata abbastanza ultimamente, e che forse tra la distanza e tutto il resto ci siamo un po’ perse ma… io sono ancora innamorata di te, anche se forse non te l’ho dimostrato abbastanza.”

 

“Penelope…” provò a dire, ma le fece segno di lasciarla parlare.

 

“Però se hai dei dubbi è giusto che tu te li risolva, anche perché… essendo bi, a maggior ragione lo sapevo che c’era il rischio che questo momento sarebbe arrivato prima o poi e-”

 

“Ma non è che voglio stare con te e con lui insieme, ma che non capisco più cosa provo.”

 

“E proprio per questo, anche se mi fa molto male, forse è meglio che… esplori la situazione con Carlo, visto quanto siamo distanti io e te, e poi… una volta che ti sei chiarita le idee, mi fai sapere che hai deciso.”

 

Fu una specie di schiaffo, perché non si aspettava minimamente una reazione del genere.

 

“Ma non è giusto nei tuoi confronti! E poi… ma allora te ne frega così poco di me, di noi due, che non vedi l’ora di buttarmi tra le braccia di Carlo? Se è una scusa per liberarti di me-”

 

“Vale!”

 

Il tono e gli occhi di Penelope erano seri, serissimi, e la mano che stringeva la sua tremava un po’, mentre quasi gliela accartocciava.

 

“Vale, non capisci che è proprio perché ci tengo tantissimo alla nostra relazione e… e al fatto che possiamo avere un futuro vero, che…? E poi… e poi io voglio che tu stai bene. Al momento, non è che mi vado a cercare altro, che non ho neanche il tempo, anche se non è che posso aspettarti per sempre, ovviamente. Ma ti dò il tempo fino a dopo la mia laurea per pensarci e capire cosa vuoi fare. Che poi… come ti ho già detto magari ci potremmo pure avvicinare ma… a questo punto, se tu non sei sicura, non ha senso ed è meglio che ti levi ogni dubbio adesso, che rimani con me non convinta.”

 

“Io… io non so se ti capisco, Penelope. Non so se al posto tuo io… riuscirei a fare lo stesso,” ammise, sentendosi ancora più confusa di prima.

 

“Ma siamo diverse da sempre, Vale, ed è anche per questo che abbiamo sempre funzionato, no? Ma Carlo forse è più simile a te e… devi capire cosa vuoi e chi vuoi.”

 

Annuì, perché Penelope aveva ragione.

 

“Allora… allora forse è meglio che vado adesso,” propose, perché stare due giorni lì così… le sembrava terribilmente imbarazzante.

 

“Se… se vuoi stare fino a domani, puoi dormire nell’altra stanza e… e magari se passiamo qualche ora insieme ti cominci a chiarire un po’ le idee, no?”

 

Si sentiva tremendamente a disagio, ma forse Penelope aveva ragione: alla fine da qualche parte per capire doveva pur cominciare.

 

E quindi acconsentì.

 

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“Portatelo via!”

 

Come la porta fu richiusa, si accasciò sulla sedia, le spalle che gli facevano malissimo, un principio di mal di testa all’attaccatura dei capelli.

 

Stavano proseguendo con gli interrogatori, senza quasi mai fermarsi, ormai dal giorno prima, ma si stavano rivelando abbastanza inutili. Aveva proceduto coi fermi, naturalmente, ma quasi tutti tacevano e se ne stavano zitti e muti. Coraini e Mazzocca in primis.

 

Il rumore di nocche sulla porta del suo ufficio fu così amplificato che gli parve perforargli il cranio.

 

“Chi è?”

 

“Sono Mariani, dottore, posso?”

 

“Prego,” la invitò, e la porta si aprì e pure Mariani sembrava distrutta.

 

Ma c’era anche una specie di eccitazione nel suo sguardo che prometteva bene, molto bene.

 

“Ha buone notizie? Mi dica di sì!”

 

Gli sorrise.

 

“Sì, dottore. Sono arrivati i risultati dell’analisi del DNA, richiesta con urgenza, e… confermano che il bambino è il figlio di Melita.”

 

Sospirò, levandosi gli occhiali per massaggiarsi un attimo occhi e tempie: finalmente una buona notizia!

 

“E per quanto riguarda la paternità? Avete confermato se il DNA è compatibile con altri?”

 

“Su quello ci stanno ancora lavorando, dottore. Sa, è il fine settimana e… ci sono meno persone nei laboratori. Ma speriamo di avere presto i risultati.”

 

“Va bene. L’importante è avere finalmente le prove del traffico di minori, così possiamo confermare i fermi di tutti, in attesa si spera di avere ancora più elementi.”

 

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“Va bene che nei film dell’orrore sono sempre tutti imbecilli, ma questi vincono il primato!”

 

Rise, prendendo con le mani un altro pezzo di sushi - buonissimo, quanto le era mancato il sushi di Milano! - e poi bevendo un sorso di birra.

 

In effetti Penelope aveva ragione, i personaggi di The Mist sembravano fare proprio di tutto per farsi ammazzare, tutti quanti.

 

Anche i suoi commenti ai film le erano mancati, come il guardarli insieme, sedute sul divano.

 

Tanto che, se ad inizio serata erano a distanza di sicurezza, in quel momento, verso la fine del film, Penelope le teneva un braccio intorno alle spalle ed erano appoggiate comodamente, testa contro testa, come ai vecchi tempi.

 

Provava così tante emozioni dentro, che però non sapeva definire bene, nella confusione che ormai c’era nella sua mente e nel suo cuore.

 

Nel frattempo, il film finì, confermando l’idiozia totale dei personaggi, e Penelope, dopo averlo stoppato, la guardò e le chiese, “vuoi vederne un altro?”

 

Solo che erano vicine, così vicine: il viso di Penelope e, soprattutto, le sue labbra, a due centimetri dalle sue, a dire tanto.

 

“Posso baciarti?” le uscì, prima quasi di rendersene conto, tanto che si affrettò ad aggiungere, allo sguardo sorpreso di Penelope, “cioè… per capire cosa provo. Ma se non te la senti lo capisco e-”

 

Non riuscì mai a terminare la frase, perché si trovò avvolta in un bacio che le fece perdere completamente l’uso della parola e pure del cervello. Il cuore che le andava all’impazzata e le mani che parevano muoversi per conto loro, così come quelle di Penelope, che sapevano sempre farla diventare matta, quanto e forse più di prima.

 

Senza quasi capire come, erano nude, completamente, a fare l’amore tra il divano, il tappeto ed il tavolino, in un modo così intenso, folle e struggente che si ritrovò a cercare disperatamente di riprendere aria, la testa sul tappeto e le gambe sul divano, Penelope accanto a lei, che sembrava malinconica ma soddisfatta insieme.

 

“Se deve essere un addio… anche se spero di no… che sia il migliore possibile, no?” la sentì proclamare poi, col fiato ancora corto, e pure a lei venne da ridere ma anche un magone tremendo, tutto insieme.

 

Si sentiva travolta da sensazioni che non riusciva a spiegare.

 

E poi riprese a baciarla: se era l’ultima volta insieme, se la sarebbe vissuta in pieno, fino all’ultimo minuto.

 

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“Può portarlo via.”

 

Il mal di testa ormai era diventato una vera e propria emicrania: non ce la faceva più, aveva bisogno di riposare, ma doveva portare a termine tutti gli interrogatori, per confermare gli ultimi fermi.

 

Anche se nessuno parlava, nemmeno con la prova del DNA, che era schiacciante.

 

“Dottore.”

 

Fece un salto: la voce di Mariani gli sembrò amplificata mille volte, colpa del mal di testa, sicuramente.

 

“Dottore, non è forse il caso che… si prenda una pausa? Non ha una bella cera, se mi posso permettere.”

 

Sospirò, e perfino quel suono gli sembrò quasi un boato.

 

Aveva ragione, ma dovevano terminare, non poteva lasciare nessuno in libertà per vizi di procedura.

 

“Sono quasi in fondo, Mariani, poi mi prenderò un po’ di ore di riposo. Lei piuttosto, non si è mai fermata… va bene che, beata lei, ha la forza tipica della sua età, ma-”

 

“Ma ho fatto un paio di pisolini, quando potevo. Funzionano abbastanza bene. L’ho imparato quando dovevo lavorare e studiare per il concorso da sottufficiali. Perché non prova anche lei?”

 

“Perché se mi fermo, altro che pisolino, mi sveglio lunedì.”

 

“Posso almeno portarle qualcosa? Un antidolorifico per il mal di testa?”

 

“Ma come…? Si nota così tanto?”

 

Mariani annuì e gli toccò cedere le armi: “va bene, Mariani, mi porti pure un cachet.”

 

La risata di Mariani fu tipo un’esplosione nel cranio e lei si tappò la bocca e disse, “scusi, mi scusi, ma… cachet… era dai tempi della scuola, quando studiavo letteratura, che non lo sento.”

 

“Se vuole farmi sentire vecchio, Mariani, ci sta riuscendo benissimo,” scherzò, anche se, in effetti… Mariani tutti i torti non li aveva.

 

“Ma no, dottore, non è vecchio, anzi, diciamo vecchio stile, più che altro. Ma se no non sarebbe lei. Vado a prenderle il cachet. Poi faccio entrare la signora De Angelis?”

 

Annuì: se l’era tenuta per ultima, sperando che, almeno lei, di fronte a quello che era successo al marito - che stava in coma in prognosi riservata ed in condizioni gravissime - e la prova del DNA che confermava che non erano i genitori naturali di Francesco, avrebbe collaborato.

 

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“Allora… allora aspetto tue notizie. Fai buon viaggio.”

 

Il magone che l’aveva accompagnata da quando si erano svegliate quella mattina, fino lì in stazione centrale, era ormai quasi insopportabile.

 

Lo sguardo triste di Penelope era una coltellata e c’era una parte di lei che avrebbe voluto restare lì per sempre, mentre un’altra parte si chiedeva se l’avrebbe mai più rivista.

 

Le stampò un ultimo bacio, incurante degli sguardi della gente intorno e poi si costrinse a fare l’ultimo gradino, salire sul vagone ed entrarci, senza guardarsi indietro.

 

Non erano in un film, e si era già fatta abbastanza male così.

 

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“Dottore, buongiorno!”

 

“Buongiorno, Mariani, come sta? La trovo meglio.”

 

Avevano finito alle tre di notte, con la confessione della De Angelis e, dopo sei ore di sonno scarse, alle undici di domenica mattina erano di nuovo lì.

 

“Grazie, anche io lei, dottore, si vede che il cachet ha fatto effetto.”

 

Rise: non era da tutti i suoi sottoposti azzardarsi a fare umorismo con lui e di lui, per fortuna, da un lato.

 

Ma Mariani non lo faceva con cattiveria, anzi, e gli faceva piacere che si sentisse ormai così a suo agio con lui da poterlo fare.

 

Anche perché l’unica altra persona con la quale aveva quella confidenza era Irene, ma in quei giorni con il piccolo Francesco di cui occuparsi era sempre impegnatissima.

 

“Visto che è di buonumore, Mariani, mi auguro che lo sia perché ci sono altre buone notizie, magari?”

 

Mariani sorrise ed annuì, mentre raggiungevano insieme il suo ufficio e chiudeva la porta alle loro spalle.

 

“Riguardo alla paternità del bimbo di Melita-”

 

“Sappiamo chi è il padre?” la interruppe, perché quella sarebbe stata la svolta.

 

“No, purtroppo no, ma… nessuno degli arrestati è il padre, e per fortuna nemmeno Calogiuri, ma non c’è nemmeno una parentela con il campione di DNA.”

 

“Quindi è improbabile che sia qualcuno del clan.”

 

“Già… a meno che sia qualche affiliato… però… forse dovremmo fare un altro incontro con tutti, per scambiarci un po’ di idee. Che ne pensa?”

 

“Mi sembra una buona idea, Mariani. Convochi tutti per una videochiamata tra… facciamo alle quattordici, che è pur sempre domenica. E noi intanto cerchiamo di smaltire tutti i documenti degli interrogatori di ieri. Va bene?”

 

“Va bene, dottore, procedo subito.”

 

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“Quali saranno le novità? Speriamo siano buone, almeno!”

 

“Dai, dottoressa, cerca di stare tranquilla, che già non hai mangiato niente!”

 

Buttò fuori l’aria e si massaggiò le tempie: Calogiuri aveva ragione, ma… se la giornata precedente, il sabato, era trascorsa quasi interamente in un letargo per recuperare gli strapazzi del giorno precedente e cercare di far riprendere i muscoli che ancora protestavano, dopo i momenti d’azione - purtroppo non il tipo di azione con Calogiuri per il quale di solito aveva i muscoli doloranti - quella mattina era iniziata con un vago senso di attesa, che sfiorava l’ansia.

 

Sapeva che stavano lavorando in procura e che erano vicini alla risoluzione del caso ed a scagionare Calogiuri. Ma mancavano ancora degli elementi e non vedeva l’ora di sapere se li avessero acquisiti dagli interrogatori o se avrebbero dovuto, un’altra volta, cercarseli da soli.

 

“Eccoli!”

 

Guardò lo schermo dove, piano piano, apparvero tutti i quadratini, anzi, meno quadratini del solito, visto che Mancini e Mariani erano insieme nell’ufficio del procuratore capo e Ranieri ed Irene erano entrambi a casa di lei. Tra tutti era difficile dire chi avesse un’aria più stravolta, forse Ranieri ed Irene, ed era tutto dire.

 

“Francesco non vi fa dormire?” non resistè a chiedere, perché o era quello o quei due si erano dati a quel tipo di azione che a lei mancava terribilmente per due giorni di fila, senza pause.

 

“Fosse solo quello. Continua a piangere, tranne quando sta con Bianca,” rispose Irene e, infatti, puntuale come il mal di denti, sentirono tutti un pianto talmente forte da far sfarfallare le casse del computer.

 

“Ora potete godervelo pure voi,” ironizzò Irene, e la vide piegarsi e Francesco apparve sullo schermo, bello come il sole, anche se era una fontana.

 

“Ammazza, che polmoni! Quasi batte il record di mia figlia Valentina e-”

 

Si fermò, perché anche il pianto si era interrotto e Francesco si era voltato verso la telecamera, incuriosito.

 

“Che c’ha?” chiese e, per tutta risposta, Francesco iniziò a picchiare sulla telecamera e, presumibilmente, sullo schermo.

 

“Cerca di toccare la tua faccia,” commentò Irene e ad Imma prese una botta di malinconia e… e amore… che era indescrivibile. Anche quando Irene lo allontanò leggermente, lui iniziò a protestare ed Irene sospirò, “un giorno mi dovrai spiegare il tuo segreto con i maschi.”

 

“E allora... dottoressa magari provi a tenerlo distratto, anche se da distanza, così almeno possiamo fare il nostro meeting,” intervenne Mancini, con un’aria strana.

 

“E che devo fare mo?” domandò, ma bastò quello e Francesco, di nuovo, fece un risolino.

 

Sentì dita stringere le sue, sotto al tavolo, e guardò Calogiuri, che aveva due occhi talmente lucidi che parevano fatti d’acqua.

 

“A quanto pare basta che parli, dottoressa.”

 

“E allora parlo, dottore, molto volentieri. Che novità ci sono?”

 

Mancini fece un breve riassunto di quanto avvenuto da quando si erano lasciati due giorni prima.


“Però tutto sommato… ha senso, se ci pensiamo, che il bimbo di Melita non sia figlio di nessuno di quei galantuomini,” ragionò ad alta voce, e non solo per tenere zitta la sirena, “alla fine… se fosse stato figlio di uno del clan, non lo avrebbero mai dato via, una volta nato. Quelli sono criminali spietati, ma hanno un senso dei legami di sangue e della famiglia assolutamente distorto ma anche radicale. E un figlio, maschio poi, è forse IL legame di sangue per eccellenza per loro. Almeno fino a che non cresce abbastanza da fare uno sgarro, naturalmente.”

 

“Già… non ha torto, dottoressa. Ma questo ci lascia con il dubbio di chi possa essere il padre. Magari, visto anche l’aspetto del bambino, qualcuno conosciuto in Spagna?”

 

“Sì, dottore, ritengo che sia la cosa più probabile. Probabilmente quando l’abbiamo conosciuta io e Calogiuri, Melita era già incinta, da pochissimo, e quasi sicuramente non lo sapeva. Credo abbia scoperto della gravidanza soltanto dopo il rientro in Italia ma, a quel punto, bisogna capire perché non abbia mai avvertito il padre biologico. O, se l'abbia fatto ma lui se ne sia fregato. Ma, soprattutto, il perché abbia poi tenuto tutto nascosto. Dobbiamo risalire ai messaggi di Melita, nei primi mesi dal suo rientro in Italia. Anche perché ad un certo punto devono essere entrati in gioco i Mazzocca. Forse la tenevano d’occhio, insieme a Coraini e ai suoi uomini, da quando l’abbiamo aiutata a Maiorca, e… e una volta scoperto che era incinta l’hanno contattata e l’hanno ricattata.”

 

“Sì, Imma, mi sembra uno scenario molto probabile,” confermò Irene, mentre il piccolo tra le braccia continuava a sporgersi verso lo schermo.


“Però… però una cosa è strana…” proclamò Calogiuri, col tono di quando aveva appena fatto un lungo ragionamento, “perché Melita a quel punto non ha nemmeno provato ad andarsene, ma è rimasta qua a Roma a farsi ricattare? Va bene che i Mazzocca sono potenti ma… lei è giovane, abituata a viaggiare, poteva almeno provare ad andare in un posto dove loro sono meno presenti. Tanto non è che abbia una famiglia qua a Roma. E invece… e invece è rimasta. Cos’avevano in mano su di lei?”

 

Sorrise, perché le intuizioni di Calogiuri miglioravano sempre, come il vino buono.

 

“Dobbiamo scoprirlo. Mariani, si occupa lei di coordinare queste ricerche?” domandò Mancini e lei annuì.

 

“Vorrei darvi di più una mano ma… tenere Francesco è già un lavoro a tempo pieno,” commentò Irene e provò un moto di solidarietà femminile verso tanta disperazione.


“Anche io controllerò, dalle mie fonti,” si offrì Ranieri.

 

“E anche io naturalmente farò la mia parte di lavoro,” concluse Mancini, in quella che fu anche, in un certo senso, la conclusione del meeting.

 

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“E certo! Come no!”

 

Era appena uscito dal bagno, dove si era fatto una bella doccia, prima di dormire - che poi, la notte prima, a stare accanto ad Imma senza trovare il coraggio di fare niente, mica aveva dormito molto - quando sentì la sua voce inconfondibile dalla camera da letto.

 

Magari sta parlando di nuovo con Ottavia! - pensò, e quindi si avvicinò il più silenziosamente possibile, perché voleva capire se fosse ancora dell’idea di andarsene o-

 

“A Matera? Tra due giorni? Beh, sì, è possibile, certo.”

 

Gli venne da vomitare.

 

Altro che cambiare idea! E non stava parlando con Ottavia ma era al telefono. Con Vitali, presumibilmente, visto che parlavano di vedersi direttamente in procura.

 

Era finito… era tutto finito! Imma si era stancata della sua indecisione e… ma come aveva potuto decidere tutto così, senza dirgli niente?!

 

Nemmeno quello si meritava, dopo tutto quel tempo insieme?!

 

Mentre la delusione ed il dolore lo sommergevano, piano piano, cercò di allontanarsi dalla porta, per raggiungere il divano letto e buttarcisi, fino a riprendere un minimo di lucidità.

 

Ma, forse per gli occhi appannati, toccò dentro alla maledetta statua del leopardo che presidiava il corridoio.


“Calogiuri? Sei tu? Tutto bene?”

 

E no che non va tutto bene! - al dolore si aggiunse la furia e, forse per quello, fece inversione di marcia ed entrò in camera, pronto ad affrontare Imma.

 

“Calogiuri, tutto bene? Vieni a letto, dai, che è tardi!”

 

Ma lui di dividere il letto con lei non ne aveva alcuna voglia, zero, proprio.

 

“Ma che tieni?” gli chiese, con sguardo e tono preoccupati.

 

“Niente…” abbozzò, perché no, non era pronto ad affrontarla, non ancora, rischiava di dire delle cose terribili in quel momento e non voleva farlo.

 

“Come niente?! Calogiuri, ma che ricominci coi silenzi, con i non detti, con il tenerti tutto dentro? Se devi fare così, puoi pure andartene sul divano!”


“Con molto piacere!” esclamò, perché non riusciva a tenersi dentro la delusione e, per sottolineare la sua decisione, si prese il suo cuscino, pure se il divano letto ne aveva già un altro.

 

Fece due passi verso la porta ma poi no, dire solo quello non gli bastava e si voltò verso Imma, che lo guardava in un modo così ferito che gli parve ancora di più una presa per il culo e sbottò, “e comunque non sono l’unico che non dice le cose qua, anzi.”

 

“Che vuoi dire?”

 

Niente, sempre quel tono da finta tonta. Voleva proprio farlo uscire di testa.


“Chi era al telefono mo, eh?”

 

Imma rise. Rise!

 

“Vitali, Calogiù, Vitali. Non mi dirai che mo sei geloso pure di lui?” gli domandò, con una nota divertita nella voce che lo mandò ancora di più in bestia.

 

“Il problema non è Vitali, ma quello che vi siete detti.”
 

“Ah, allora hai sentito?” domandò lei, sembrando per un attimo colpita, “cioè… per carità, lo so che non ti ho detto niente prima, e che forse mi sarei dovuta consultare con te-”

 

“Forse?!”

 

“Cioè… di sicuro ma… non pensavo che per te fosse tutto sto problema venire a Matera con me.”

 

Fu come se gli fossero piovuti addosso tre secchi d’acqua, tutti insieme.

 

La furia se ne era andata, sostituita dalla confusione e pure da un po’ di imbarazzo.

 

Si trovò seduto sul letto: le gambe gli avevano ceduto, tra il sollievo e tutto il resto.


“A… a Matera con te?” ripeté, non capendoci più niente.

 

“Sì, Calogiuri. C’è da andare a interrogare Lolita e Mancini ed Irene ritengono che, se la interroghiamo noi due, avremo più risultati.”

 

“Io e te insieme?” gli uscì, non perché non avesse capito ma perché-

 

“Ma che sei diventato sordo, Calogiuri? O sei tornato ai vecchi tempi? Di sicuro non ci dobbiamo andare io ed Ottavia - con tutto il rispetto, Ottà, che lo so che faresti un gran lavoro con quella gattamorta! - ma-”

 

Il viso di Imma mutò improvvisamente, si guardarono negli occhi e capì che aveva capito.

 

“Ma… ma Calogiuri…” sospirò lei, con tono amareggiato, amareggiatissimo, “ma non dirmi che pensavi veramente che io volessi tornarmene a Matera definitivamente senza di te. E senza nemmeno avvertirti?”

 

“Lo so… ma è che… è che lo so che… che stai ragionando sul tuo futuro e… e che tra le opzioni possibili c’è Matera e… e mi avevi detto che volevi lasciarmi libero e quindi-”

 

“Ma ovviamente ne parlerei prima con te, Calogiuri, anzi, ne parlerò con te. E di sicuro non ti mollerei mai qua da solo finché non verrà accertata del tutto la tua innocenza. Ma per chi mi hai presa?! E, in ogni caso, dovremo parlarne insieme e decidere insieme cosa vogliamo fare. Chiaro?!”

 

Era così decisa, così fiera che… che non potè resistere e l’abbracciò e poi le riempì le guance di baci, mentre non riusciva più a controllare neanche le parole, che gli uscivano così, tra un “scusami, scusami!” e un “è che ho tanta paura di perderti! Non sai quanta!”

 

“Calogiuri…” un soffio nell’orecchio, che lo calmò, “qua il problema non è perdermi, ma se vuoi avermi davvero. Al cento percento.”

 

Nascose il viso nel petto di lei, per nascondere due lacrime che se ne volevano uscire a tradimento, e la strinse ancora più forte.

 

Non l’aveva mai amata quanto in quel momento, più di così, mai ma… non sapeva come fare ad avvicinarsi a lei di più, a colmare quel cento percento, senza che la mente gli giocasse altri brutti scherzi.

 

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Per rilassarsi c’era chi andava alla SPA, chi si faceva fare i massaggi, chi praticava lo yoga.

 

Ma lei non si era mai sentita tanto rilassata come in quel preciso istante, dopo quasi cinque ore attaccata alla schiena di Calogiuri, mentre la moto sfrecciava veloce nel buio, prima sull'autostrada e poi nelle stradine semideserte che li avevano riportati a Matera.

 

Avrebbero dovuto fare più viaggi lunghi in moto e si ripromise di proporglielo, una volta che sarebbe stato scagionato del tutto, sperando di essere ancora insieme.

 

C’era da dire che gli avvicinamenti degli ultimi giorni facevano molto ben sperare in tal senso, anche se lui sembrava ancora un poco bloccato e intimorito. Ma almeno erano sempre più vicini e a loro agio, quasi perfino di più che ai tempi migliori, e pure durante quel viaggio aveva sentito Calogiuri completamente rilassato, anche se concentrato sulla strada. Aveva beccato la sua espressione qualche volta con i retrovisori e teneva sempre un sorriso bellissimo.

 

Per non parlare della sosta alla stazione di servizio, per rifornire la moto ed andare in bagno. Le aveva comprato, a sorpresa, oltre al suo amato bombolone alla crema e al cappuccino, anche una scatola di cioccolatini. Al peperoncino.

 

E al suo “di buon auspicio, Calogiuri?”, tutto rosso, le aveva risposto con un “eh… l’aria di Matera…” da mangiarsi lui a morsi, altro che i cioccolatini.

 

Ma purtroppo, prima che potesse mantenere il proposito, erano sopraggiunti anche Mancini e Mariani che, essendo in auto, erano decisamente più lenti. E va bene che il procuratore capo sembrava stare cercando di andare avanti e non essere più rancoroso, ma il dito nella piaga era meglio evitare di girarlo.

 

E quindi i cioccolatini erano rimasti nella loro scatoletta ed il bacio nella bocca, insieme con l’amaro.

 

“Come va? Sei stanca? Quasi ci siamo!”

 

Il grido di Calogiuri la riportò al presente.

 

“E che non lo so, Calogiuri? Ti ricordo che conosco Matera e le sue meravigliose infrastrutture stradali da un po’ più di tempo di te,” lo sfottè, facendogli l’occhiolino quando lui si girò per due secondi per guardarla, con quell’aria adorabilmente esasperata che amava tanto, “e comunque no, non sono stanca. Tu, piuttosto, che ti sei fatto più di quattrocento chilometri?”

 

“Con te che mi abbracci così… è impossibile sentire la stanchezza.”

 

Eccallà!

 

Una delle micidiali dichiarazioni di Calogiuri, che ti buttava lì con quel tono tra l’esitante e l’ovvio e che ti riducevano in poltiglia, fin da quella primissima dichiarazione nel suo ufficio.

 

Ma doveva rimanere in stato solido per non cadere dalla moto e Calogiuri dovette subito tornare a guardare avanti, per non schiantarli entrambi.

 

“Dovremmo farlo più spesso… qualche bel viaggio lungo in moto,” aggiunse poi, il petto che gli vibrava sotto le sue dita, “mi sento… quasi rinato… non so… non so come spiegarlo, ma è così.”

 

“Anche per me è lo stesso, Calogiuri. E quando vuoi. Ma prima il dovere e poi il piacere!”

 

“Agli ordini, dottoressa!”

 

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Sentì bussare alla porta. Si era appena fatta una doccia, che ne aveva proprio bisogno, anche se il relax in quella stanza era fuori discussione. Magari era qualcuno dell’hotel che aveva dimenticato qualcosa, tipo di averla infilata in uno sgabuzzino.


“Chi è?” domandò, stringendosi di più nell’accappatoio.

 

“Mancini. Mi scusi il disturbo, Mariani, ma… volevo accertarmi sulle condizioni della sua camera.”

 

Ok, forse non era stata l’unica ad essere stata infilata in uno sgabuzzino.

 

Aprì la porta e Mancini divenne rosso come uno di quei peperoni che c’erano appesi vicino alla hall.

 

“Scusi ma… ho appena finito la doccia…” abbozzò, imbarazzata: dai tempi dell’accademia era abituata a farsi vedere in costume o accappatoio dai colleghi maschi, ma Mancini era così vecchio stampo.

 

Su quello era simile a Calogiuri, ma solo in quello - oltre che nella passione per la dottoressa Tataranni.

 

“No, scusi lei… di solito non è mia abitudine fare un’improvvisata nelle stanze delle colleghe…” chiarì, che quasi balbettava, “ma… ma volevo chiederle se anche la sua stanza, come la mia, è un po’...”

 

Sorrise e spalancò la porta, in modo che verificasse di persona. E poi fu il suo turno di imbarazzarsi.

 

“Come vede… immagino di sì. Mi dispiace, dottore: quando ho fatto le prenotazioni avevo visto che era un vecchio monastero ma… non pensavo che… che le stanze sembrassero uscite da Il Nome della Rosa.”

 

Mancini rise.

 

“In effetti più che Chiara, sembra Santa Chiara in cella,” ironizzò Mancini, guardandosi intorno.

 

“Le dovrei dire che allora lei sembrerà San Francesco ma… lei il voto di povertà non si può proprio dire che l’abbia fatto, dottore, con tutto il rispetto.”

 

Lui si grattò la nuca e parve un poco mortificato.

 

“Spero di… spero che la mia situazione economica non la metta troppo a disagio, Mariani.”
 

“Non più di tanto, dottore. Ed è divertente guidare la sua auto di lusso ma… ma se non vuole mettermi a disagio, che ne dice se andiamo a mangiarci qualcosa in un locale alla mia portata, sempre se c’è ancora qualcosa di aperto? Anche perché se sto troppo in questa stanza, a furia di stare piegata, mi anchiloso qualcosa. Lei non so come fa, alto com’è!”

 

“Mi allenerò molto con gli squat in questi giorni,” ironizzò lui, sembrando però sollevato, “e va bene, andiamo a vedere se c’è ancora qualcosa di aperto. Tra dieci minuti nella hall?”

 

“Va bene.”

 

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“Mi sembra una vita che non ci venivo qua.”

 

“In un certo senso lo è…”

 

Le toccò assentire: dopo l’outing a Valentina e da quando sua figlia e la sua ex suocera non facevano più le feste insieme, non aveva più avuto motivi di tornarci, se non per le indagini.

 

Certo, l’ultima volta che erano stati a Matera insieme… era stata assolutamente indimenticabile, con quella proposta di matrimonio che le venivano ancora i brividi ed il groppo in gola solo a pensarci.

 

Ma erano capitate talmente tante cose che, anche se non era passato nemmeno un anno, le pareva realmente una vita precedente.

 

E pure la casa della buonanima di sua madre era diversa: c’erano ancora alcune tracce della permanenza di Rosa e di quell’uragano di Noemi.

 

“Che dici, Calogiù, proviamo a dormire? Che domani sarà una giornata lunga.”

 

“Agli ordini, dottoressa, vediamo se ricordo ancora dove tieni le lenzuola.”

 

“Più che altro se Rosa non le ha spostate,” ironizzò lei, seguendolo fino alla camera da letto rifatta ai tempi in cui ci aveva vissuto nel suo periodo da single post separazione, e che era stata usata prevalentemente anche da Rosa e Noemi, “ma ti dò una mano, ci mancherebbe.”

 

Ci si misero di buona lena e si chinò per infilare sotto al materasso le lenzuola ed il copriletto col piumone - che a Matera ancora freddo faceva - quando vide qualcosa di bianco e piatto sotto al letto.

 

Lo estrasse, curiosa, e la prese un altro nodo di emozione.

 

“Che cos’è?” le chiese Calogiuri, avvicinandosi, e lei gli mostrò un disegno di Noemi, appena ritrovato, in cui la piccola artista, aveva ritratto, seppur in modo molto astratto, se stessa, Rosa, lo cio e pure lei ed Ottavia.

 

“Ti manca la peste, eh?” lo sentì sussurrare e di nuovo non servirono parole, perché era una domanda retorica.

 

“Quando tutto questo casino sarà finito… in ogni caso la devi rivedere, dottoressa, assolutamente, perché ormai sei di famiglia, lo sai.”

 

La commozione fu inevitabile - mannaggia a lui! - ma lei con Calogiuri voleva non solo essere famiglia, ma coppia, nel senso pieno del termine e-

 

Quel pensiero si dissolse, insieme a tutti gli altri, perché si trovò con la schiena al muro, Calogiuri che la baciava con una passione tale da levarle il fiato, bloccarle i neuroni e far correre troppo veloce tutto il resto.

 

Altro che il cioccolato al peperoncino, che manco avevano mangiato!

 

Gli si aggrappò alle spalle, istintivamente, spalmandosi su di lui, sempre più vicino, e poi… e poi sentì le mani di Calogiuri sotto il maglione, sopra al reggiseno e-

 

“Aspetta!” esclamò, spingendolo leggermente indietro per riprendere fiato.

 

“Che… che succede?”

 

Lo sguardo di Calogiuri era spaventato e quasi addolorato, ma soprattutto impaurito. Forse temeva che in quel momento ad essere in blocco fosse lei? O a pensare ad altri?

 

“Succede che… tra poche ore dobbiamo essere a interrogare Lolita e… e per quanti arretrati c’abbiamo da recuperare, sempre se… ti sei sbloccato, Calogiuri, rischiamo di arrivarci senza nemmeno un minuto di sonno e distrutti completamente. Dobbiamo essere lucidi, Calogiuri: ne va della tua vita, ed è quella la priorità mo. Manca così poco! Anche se l’aria di Matera ti fa proprio bene!” proclamò, facendogli l’occhiolino, anche per rassicurarlo.

 

Lui sospirò e pure lei, perché lo sentì staccarsi del tutto e dire che fosse frustrata in quel momento sarebbe stato come dire che la Moliterni era un po’ poco attaccata al lavoro.

 

Ma prima il dovere, poi… il piacere. O almeno si sperava.

 

“Va bene… allora… allora però forse è meglio che vado a dormire nell’altra stanza: niente tentazioni almeno.”

 

“Eddai, Calogiuri, è tradizione che dormiamo insieme, prima di momenti chiave come questo, o no? Magari ognuno nella sua metà del letto.”

 

“E allora mi andrò a fare una lunga doccia fredda, lunghissima,” decise lui, iniziando già a levarsi i vestiti. Vederlo così era una tortura, un crimine contro l’umanità, soprattutto perché piano piano ricominciava a prendere un po’ di massa e qualche muscolo cominciava a fare capolino sotto la pelle.

 

Forse il disgraziato notò lo sguardo di lei, perché, prima di andare in bagno, le si avvicinò e le sussurrò, in un modo che le causò un brivido lungo la schiena, “e comunque l’aria di Matera fa bene pure a te, dottoressa, molto. E poi Matera è tutta un’altra cosa.”

 

E la lasciò lì, scombussolata e commossa, a cercare di cambiarsi in qualcosa di non troppo tentatore, e a dubitare seriamente di riuscire a dormire, con tutta quell’elettricità nell’aria, che sembrava di stare in una sauna.

 

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“Come temevo è quasi tutto chiuso, nonostante al sud si mangi più tardi.”

 

“Ma… ma forse quel locale è aperto?”

 

Guardò dove indicava Mariani ed effettivamente c’era un ristorantino, anzi un bistrot, come proclamava l’insegna, con ancora le luci accese ed un paio di avventori ai tavoli.

 

E però, davanti c’era pure una volante dei carabinieri, con tanto di lampeggianti che andavano, per fortuna niente sirena.

 

“Aperto sembra aperto… basta non sia per una retata…” commentò quindi, ma a quel punto la sua curiosità e la deformazione professionale erano state sollecitate.

 

Quindi fece segno a Mariani e si avvicinò.

 

Aveva appena raggiunto la volante quando dal locale uscì un uomo in divisa - un maresciallo, se non vedeva male nel buio - con le braccia cariche di una cesta piena di prodotti caseari.

 

“Ci sono problemi?” chiese quindi al maresciallo e, al suo sguardo interrogativo, estrasse il tesserino e disse, “procuratore capo Mancini. Procura di Roma.”

 

“Ma quindi voi siete il capo della Tataranni! O ex capo!” esclamò il maresciallo, aprendosi in un sorriso quasi comico, mentre mollava le mozzarelle nel bagagliaio e poi tornava a rivolgersi a lui, porgendogli la mano, “maresciallo capo Antonio LaMacchia, di stazione qua a Matera. Modestamente parlando, dottore, io e la dottoressa Tataranni eravamo una squadra fortissima! Pensate che abbiamo risolto insieme l’omicidio di Nunzio Festa, che è stato il primo caso in cui abbiamo scoperto dei rifiuti tossici interrati e che poi ha portato al maxiprocesso che ora tenete voi. Modestamente, anche per merito delle mie intuizioni e della mia capacità di mettere i criminali sotto torchio.”

 

Si morse le labbra per non ridere e, con la coda dell’occhio, vide che pure Mariani faceva lo stesso: sia perché che quel maresciallo riuscisse a mettere sotto torchio qualcosa - che non fossero le olive - gli pareva assai improbabile, ma anche perché sembrava esattamente il prototipo di persona che Imma detestava. Oltre al fatto che non glielo aveva sentito nominare nemmeno una volta e non era mai comparso neanche negli atti processuali del maxiprocesso.

 

“Bene, bene. Ma come mai è qua, maresciallo? Ci sono problemi in questo locale?”

 

LaMacchia fece uno sguardo quasi scandalizzato, “problemi?! In questo locale?! Ma si figuri, dottore, anzi! Questo è il miglior ristorante di tutta Matera: cibo buono, genuino, in una chiave moderna. Se volete cenare, dovete provarlo assolutamente.”

 

“In realtà sì ma è tardi e-”

 

“E qua noi siamo gran lavoratori, che mica solo quelli del nord tengono l’esclusiva! We, frate’, vien’!”

 

Dal locale uscì un quasi sosia del maresciallo, solo più giovane, ed il carabiniere li introdusse con un, “questo è il procuratore capo di Roma, il dottor Mancini e… come si chiama la sua signora?”

 

Si sentì arrossire e notò che pure Mariani era in imbarazzo.

 

“No, no, sono una collega, una collega sua ed una sottoposta del dottore. Maresciallo Chiara Mariani.”

 

LaMacchia la squadrò per un attimo dalla testa ai piedi, in un modo che gli diede un po’ fastidio, “eh… magari avessimo pure qua colleghe belle come lei! Che sembra un’attrice! Non è che magari vorrebbe trasferirsi qua a Matera, prima o poi? Si troverebbe bene, glielo garantisco personalmente.”

 

“Non ne dubito, ma-”
 

“E comunque, frate’, te li lascio che vogliono cenare. Mi raccomando, trattamento speciale, eh.”

 

“No, no, nessun trattamento speciale, che siamo comunque ufficiali pubblici e-”

 

“E lo sono pure io. Ma siamo tutti una grande, bella, anzi, bellissima famiglia, no? E mi saluti tanto la dottoressa Tataranni, se ancora la vede. Ma certo che la vede, per il processo, no? E poi dopo tutti i casini degli ultimi giorni! Certo… chissà se quel Culugiuri è davvero innocente! Che quello, zitto zitto, bello bello, è sempre stato un furbone! Chissà che ci ha trovato la dottoressa!”

 

“Calogiuri. E comunque sono certo che proveremo pienamente l’innocenza del maresciallo, che è un uomo di gran valore.”

 

LaMacchia sembrò mordersi letteralmente la lingua e vide lo sguardo sconvolto di Mariani. In effetti ne era quasi sconvolto lui stesso, di aver pronunciato quelle parole. Ma toccava dare al maresciallo quello che era del maresciallo e tra l’investigazione e l’azione a casa dei De Angelis, nell’ultimo periodo era stato assolutamente impeccabile, ben oltre quello che ci si poteva aspettare da un carabiniere del suo grado.

 

“Va beh, e indand’ che si prova la sua innocenza, io vi lascio in buone mani. I miei ossequi!”

 

E, dopo aver fatto il saluto militare e chiuso il bagagliaio, il maresciallo partì, sempre con i lampeggianti in funzione, che ci sarebbe stato da fargli una multa solo per quello.

 

Ma non ebbe tanto il tempo di ragionarci su, perché si trovò senza capire come seduto ad un tavolo insieme a Mariani e, nel giro di un altro minuto, davanti a loro c’era un antipasto freddo di salumi, formaggi, quelli che forse si chiamavano lampascioni più quei peperoni essiccati, che ci sarebbe voluta una maratona per smaltire tutto, anche se effettivamente pareva tutto di ottima qualità.

 

E poi due calici di vino rosso, un primitivo a giudicare dall’etichetta.

 

Mariani lo guardò e poi scoppiò a ridere, proclamando, “non mi era mai capitato niente di simile!”

 

“A me sì, ad Atene, all’Acropoli, ma… ma pure qua si difendono bene. Anche se l’Arma non mi pare così incorruttibile.”

 

“Mi sembra di sentire la dottoressa Tataranni,” lo prese in giro Mariani, bonariamente.

 

“Diciamo che capisco un po’ di più la sua inflessibilità, visto l’ambiente con il quale ha dovuto avere a che fare. Ma ora non pensiamo alla dottoressa e concentriamoci sulla cena e sulla digestione.”

 

“Mi sembra una buonissima idea, dottore,” sorrise Mariani, alzando il calice, e lui fece lo stesso, toccandolo col suo, anche se per galateo non avrebbe dovuto.

 

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“Menomale che sei venuto! Io non ce la faccio più. Neanche con Bianca smette di piangere stasera e mi spiace pure per lei.”

 

Era accorso dall’hotel, pure se era mezzanotte. Irene era stravolta, in camicia da notte e vestaglia bianchissime.

 

Si chiedeva come facesse ad essere così bella pure così distrutta.

 

Si levò il giaccone ed andò verso la camera da letto, dove c’era Bianca che si tappava le orecchie mentre chiedeva al bimbo di non piangere.

 

Quando lo vide, gli fece un sorriso bellissimo e disse a Francesco, “hai visto che c’è anche Lorenzo? Dai che siamo tutti qua, non devi avere paura.”

 

Quella bambina era una meraviglia: avrebbe fatto venire l’istinto paterno pure ad Erode. Guardò di sbieco Irene e pure lei era commossa.

 

Prese Francesco in braccio e ci provò a calmarlo, sincerandosi con Irene che avesse già mangiato, fatto il ruttino e tutti gli altri bisogni. E non sembrava nemmeno avere le coliche.

 

Le tentò tutte: cullarlo, farlo giocare, tenerlo attaccato a sé, ma niente, piangeva, piangeva piangeva.

 

“Ci vorrebbe Imma qua!” sospirò Irene, sfregandosi gli occhi, “e proprio mo che sta a Matera.”

 

“Ma esistono i telefoni, no?” le ricordò e guardarono insieme l’ora, “lo so che domani ha un’udienza importante, ma dubito stiano già dormendo. Magari puoi mandarle un messaggio?”

 

“Sei un genio!” esclamò Irene, sorridendogli in quel modo che… avrebbe fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, per vederla sempre sorridere così.

 

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“Dottoressa, ti è arrivato un messaggio mentre eri sotto la doccia.”

 

Era appena uscita dal bagno, con su il pigiama leopardato e la vestagliona a stelle, che erano la cosa meno tentatrice che possedesse, e Calogiuri era a letto, seduto praticamente su una delle sponde, che la guardava a mo di interrogatorio.

 

Le venne da ridere ma si trattenne e si mise pure lei dal suo lato del letto, ma bella bella, comoda comoda, in mezzo. E poi recuperò il cellulare ed effettivamente c’era un messaggio.

 

Francesco non ne vuole sapere di dormire. Non è che possiamo fare una breve videochiamata? Anche solo un vocale. Magari con la tua voce si calma di nuovo.

 

Sorrise, immaginando Irene che ancora un po’ si strappava i timpani per non sentire i pianti. Anche se, dall’altro lato, provava pure una certa solidarietà.

 

“Chi è che ti scrive a quest’ora?”

 

Lanciò un’occhiata a Calogiuri, che era con le braccia incrociate ed un’espressione quasi offesa tenerissima. Probabilmente averla vista sorridere aveva peggiorato la situazione, gelosone che era!

 

Gli passò il cellulare, che leggesse lui.

 

Lo vide sgonfiarsi, letteralmente, e grattarsi il collo, come faceva sempre quando era in imbarazzo, per poi chiederle, “che pensi di fare?”

 

“Diciamo che non voglio morti sulla coscienza, Calogiuri, e neanche TSO,” gli rispose, avviando una videochiamata con la ex gattamorta.

 

“Pronto? Imma? Finalmente! Scusami ma qua non ce la facciamo più!”

 

“E te credo!” rispose, perché di sottofondo alle parole di Irene, che sembrava una discendente dei panda per le occhiaie che teneva, c’era una sirena che manco durante i bombardamenti, “dove sta Francesco?”

 

“Aspetta!”

 

Irene fece segno verso il bordo dello schermo ed apparve Ranieri, con in braccio un Francesco tutto rosso in viso ed incazzosissimo.

 

“Capitano!” esclamò, avendo l’ennesima conferma che sì, quei due non la contavano proprio giusta.

 

“Sono venuto a dare una mano ad Irene ma… non è servito a niente.”

 

Excusatio non petita…

 

“Ma siete sicuri che non stia male?” domandò Calogiuri, con gli occhioni sbarrati, che le sarebbe venuto da dirgli - eh, bello mio! E manco hai visto niente! - non fosse stato che, se non avrebbe mai forse visto niente in vita sua, era anche colpa di lei.

 

“Non ha né febbre né nulla,” rispose Irene, cercando di fargli delle carezze sulla schiena, “Imma, non è che puoi dirgli qualcosa?”

 

“Francesco? Francè!” lo chiamò e, al secondo richiamo, la sirena cessò per un attimo e lo vide girarsi, con quegli occhi neri meravigliosi pieni di lacrime, la manina che andava verso il telefono.

 

Ma poi riprese a piangere.

 

“Prova a parlargli di più… magari gli puoi raccontare una storia?”

 

“E che storia gli racconto mo?” si chiese: l’esperto lì era Calogiuri e pure con Valentina di quelle cose solitamente si occupava Pietro. Si guardò in giro, cercando tra i suoi vecchi libri, che non erano stati buttati ma erano stati riposti in una piccola scaffalatura vicino al letto.

 

E si illuminò: sì che ce l’aveva lei la soluzione.

 

Afferrò il vecchio e polveroso tomo di diritto processuale penale e, sotto allo sguardo sbigottito di Calogiuri, lo aprì ed iniziò a leggere ad alta voce, dalla prima pagina, “la legge penale definisce “i tipi di fatto” che costituiscono reato e le sanzioni previste per coloro che li commettono. La legge processuale penale regola il procedimento mediante il quale si accerta se è stato commesso un fatto di reato, se l’imputato ne è l’autore e, in caso positivo, quale pena debba essergli applicata.”

 

Fece una breve pausa per riprendere il fiato e guardò verso lo schermo: il piccoletto aveva gli occhioni spalancati, incuriositi e, soprattutto, aveva smesso di ululare.

 

Continuò quindi a leggere, snocciolando definizioni sul sistema inquisitorio, il sistema misto, fino alle leggi di procedura penale secondo la costituzione e, mano a mano che proseguiva, gli occhioni si rimpicciolivano, sempre di più, finché, dopo un paio di sbadiglioni, Francesco si accasciò in braccio ad un sollevatissimo Ranieri.

 

“Proviamo a metterlo nel letto…” sussurrò Irene, facendo cenno verso di lei, “per sicurezza puoi rimanere in linea ancora un attimo?”

 

Fece cenno di sì di rimando, tenendo il tomo aperto per scaramanzia, ma il piccoletto fu accomodato accanto a Bianca, che pareva distrutta pure lei, povera creatura, tanto che chiuse gli occhi quasi subito.

 

“Grazie Imma… non so come hai fatto ma…” sussurrò Irene, con un’aria che dire che fosse grata era dire poco.

 

“Come ho fatto? Se non si addormentava con questo, ci voleva il gas!” ironizzò e Calogiuri al suo fianco rise.

 

Ma era commosso, si vedeva, e pure lei, sentiva quella specie di calore al cuore che di solito le provocava solo lui.

 

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“Credo che non mangerò più niente fino al ritorno a Roma!”

 

Gli venne da ridere e se ne pentì subito, perché lo stomaco, strapieno, protestò con una fitta tremenda.

 

Dopo gli antipasti era arrivato il primo di pasta con la salsiccia, poi costolette d’agnello con i lampascioni ed infine dolci ed un passito da rimanerci stesi.

 

Tutto buonissimo ma nemmeno a natale mangiava così tanto ed era pure tardissimo e… di sicuro lo attendeva una notte insonne nella cella monastica. Ed il giorno dopo era decisivo.

 

“Credo che neanche per il ritorno a Roma avrò finito la digestione, Mariani.”

 

“Eh… nemmeno io. Perché non ci facciamo due passi, dottore, prima di rientrare? Non dovrebbe essere ghiacciato e almeno magari un poco ci si libera lo stomaco, prima di rientrare in cella.”

 

“Va bene, mi sembra una buona idea, anche se è notte fonda e ormai non c’è in giro nessuno.”

 

“Meglio così, no? Almeno abbiamo la città tutta per noi.”

 

Sorrise, non riuscendo ad evitarlo: Mariani vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno, una qualità rara. Specie per chi faceva il loro mestiere.

 

E così camminarono, lentamente perché appesantiti da tutto quel ben di dio, piano piano, faticando sulle salite e cercando di non scivolare per le discese, in quel panorama che sembrava uscito da un film d’epoca e poi quasi lunare, ai bordi della città.

 

Stavano risalendo, dopo aver ammirato la Gravina di notte, quando sentì un mezzo urlo e vide, come al rallentatore, Mariani, che era sul gradino appena sopra al suo, scivolare all’indietro.


D’istinto si sporse in avanti e la afferrò per la vita, prima che cadesse del tutto, e per fortuna riuscì poi a mantenere l’equilibrio per entrambi, appoggiandosi con la schiena alla parete di roccia lì di fianco.

 

Tirò un paio di sospiri di sollievo, e pure lei, finché si rese conto, di colpo, di stare tenendo ancora Mariani stretta a lui, petto contro schiena, e la lasciò andare, subito, travolto dall’imbarazzo e da una sensazione un poco strana ma che non avrebbe saputo definire.

 

Mariani si voltò e anche al buio notò che aveva le guance scurissime.

 

“Tutto bene, Mariani?” si sincerò e lei annuì, anche quando lui aggiunse, per levarsi dall’imbarazzo, “forse è meglio che rientriamo in cella?”

 

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Teneva gli occhi chiusi, sbarrati, cercando di rimanere in equilibrio sul bordo del letto, tutto pur di non toccare Imma e non farsi toccare da lei, perché se no… rischiava grosso. Già gli ci era voluta una doccia infinita per calmare la situazione ma poi ad avercela così vicina da sentire il suo respiro… gli istinti tenuti a bada così a lungo si erano risvegliati con una forza tale da rendere difficilissimo controllarli, figuriamoci riposare.

 

Un tocco sul fianco e per poco non fece un salto.

 

E poi, nel giro di pochi secondi, due braccia che gli cingevano la vita, le mani che gli davano tormento all’addome ed il seno di Imma attaccato alla sua schiena, il fiato sul collo, letteralmente.

 

Prendendo un forte respiro, che gli mancava l’aria gli mancava, torse il collo e la vide apparentemente addormentata, tranquilla - almeno lei! - e con un sorriso dolce sul viso.


Forse pensava di essere ancora in moto con lui, ma quella era una tortura, una vera tortura.

 

Altro che riposare prima dell’interrogatorio.

 

Questo è il karma, bello mio! - la voce della sua coscienza, che suonava sempre più come Imma, gli ricordò: chi di notti in bianco (in tutti i sensi) feriva… di notti in bianco periva.

 

Era tentato, tentatissimo, di voltarsi e… altro che bianco… ma Imma aveva il diritto di riposare, almeno lei.

 

E quindi, piano piano, per non svegliarla, sciolse l’abbraccio, rimettendole le mani sui fianchi, anche se lei si era attaccata che neanche Francesco con lei, e poi si affrettò a correre in bagno, definitivamente rassegnato all’insonnia ed a un’altra doccia fredda.

 

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Scendere al piano sotterraneo della procura, percepirne il freddo entrarle nelle ossa, l’odore di umido ed ammuffito, la svegliò di colpo, nonostante le poche ore di sonno.

 

Guardò Calogiuri che le aprì la porta e poi camminò accanto a lei e si chiese se stessero pensando la stessa cosa.

 

Quel luogo… era lì che aveva interrogato Melita per la prima volta e sempre lì, nella stessa identica stanza, l’aspettava ora, per quel faccia a faccia dal quale dipendeva la sorte di Calogiuri e del processo.

 

“Dottoressa, come vuole procedere?”

 

La vocetta di Vitali, alle sue spalle, la portò a guardare verso il suo ex capo, ancora più basso e dal baffetto tremante. Le parve un topo in quel sotterraneo.

 

Mancini e Mariani erano rimasti al piano di sopra, a guardare tramite la telecamera, e sarebbero intervenuti per raccogliere la deposizione formale di Melita, se fossero riusciti a convincerla a parlare.

 

“Vorrei… vorrei entrare prima solo io. Un faccia a faccia tra donne, come l’ultima volta. Poi, se serve, al mio cenno entri anche tu, Calogiuri, e… e che qualcuno ce la mandi buona, anche se con tutto quello che ci è capitato… altro che santi a cui votarci.”

 

“Eh… dottoressa… purtroppo in questo paese chi… pesta piedi sensibili… la paga cara. L’ho avvertita, mi pare, più di una volta,” le ricordò Vitali e lei sbuffò, anche se era vero, purtroppo, ma poi il procuratore capo si avvicinò leggermente e le sussurrò, “ma, detto tra noi, sono felice che non mi abbia dato retta, dottoressa. Nonostante tutto.”

 

Gli sorrise: Vitali era un brav’uomo. Un po’ Don Abbondio, ma un brav’uomo. Che era già tantissimo anche e soprattutto nel loro lavoro.

 

Con un ultimo sguardo a Calogiuri, che le fece un mezzo sorriso, di quelli di quando voleva farle forza, afferrò la maniglia ed entrò.

 

Vide subito un movimento, qualcuno che si tirava in piedi, e guardò dritto in faccia Lolita, anzi, Maddalena Bartoli, per la prima volta dopo tantissimo tempo.

 

L’espressione strafottente c’era ancora, o almeno ci provava a farla, a reggere il suo sguardo, ma della Lolita con i sogni da starlette e mangiauomini era rimasto forse solo quello. Il carcere non perdonava, e quella davanti a lei di una Lolita non aveva nulla. Era invecchiata di botto: qualche capello bianco, nonostante la giovane età, più curva, vestita in modo dignitoso per carità, ma banale. Una maglietta, un golfino ed un paio di jeans di almeno una taglia troppo stretti.

 

Il carcere faceva male, lo sapeva.

 

“Maddalena,” esordì, perché le venne naturale e forse anche un po’ per destabilizzarla, “lo sai perché stiamo qua, immagino.”

 

E fu lì che riemerse un poco della Lolita di un tempo, perché Maddalena alzò gli occhi al soffitto, che neanche Valentina in adolescenza, incrociò le braccia e si rimise a sedere, senza dire una parola, con quello sguardo di sfida.

 

“Maddalena, e dai,” insistette, sedendosi a sua volta, di fronte a lei, “sappiamo tutto. Tutto. Fai prima a parlare e collaborare, così, invece di aumentarti la pena, magari puoi pure avere una riduzione per la tua cooperazione. Ne terremo conto. Se no… ci saranno nuove imputazioni a tuo carico.”

 

Ma Lolita sbuffò e, se avesse potuto avere una cicca in bocca, probabilmente ci avrebbe pure fatto un palloncino, per restare ancora di più in personaggio.

 

Provò ancora per un po’, a cavarci qualcosa, ma niente, manco le aveva sentito la voce.

 

Era il momento.

 

Fece un cenno verso la porta e, come da intese, si aprì e Calogiuri fece il suo ingresso, con uno sguardo deciso di cui fu tremendamente orgogliosa.

 

Un rumore tremendo di metallo strisciato sul pavimento e Lolita balzò in piedi, caricando a testa bassa verso di lui, tanto che entrò Capozza a bloccarla, prima che lo potesse raggiungere, urlando “bastardo! Stronzo! è tutta colpa tua se sto qua, bastardo!”

 

“E calmati!” esclamò Capozza, cercando di tenerla ferma e di ammanettarla al tavolo, prima che sfuggisse di nuovo.

 

Calogiuri era molto colpito, si vedeva, da tutto quell’odio, anche se, come lei del resto, per certi versi già se lo aspettava.

 

Ma sembrava veramente che per Lolita, mentalmente, non fosse passato un solo giorno dall’arresto, da quando gli aveva sputato addosso, letteralmente, tutto il suo disprezzo.

 

“Maddalena,” provò ad inserirsi Imma, risiedendosi, mentre Capozza ancora trafficava per tenerla ferma, “quello che ti è successo… non è colpa del maresciallo Calogiuri. Innanzitutto, all’epoca ha solamente eseguito i miei ordini. Ed ho pure dovuto insistere, se proprio lo vuoi sapere, abbiamo pure litigato per un periodo, perché lui non era d’accordo sul… sul fatto di essere lui a procurare le prove della tua colpevolezza.”

 

Maddalena - perché per un istante, dallo sguardo, era di nuovo Maddalena - si bloccò di colpo ma Imma vide che non era affatto convinta e infatti sibilò, “e secondo lei io ci credo? Che ovviamente vi difendete a vicenda. E comunque alla fine la trappola me l’ha fatta lo stesso, il bastardo!”

 

“Maddalena,” ripeté, con un sospiro, allungando il suo nome di proposito, “in ogni caso, la colpa del fatto che tu stai in carcere, non è né mia, né del maresciallo, né di nessuno che ha contribuito al tuo arresto. La colpa, se così si può definire, è solo ed esclusivamente delle tue azioni e ti ritengo troppo intelligente per non capirlo. Noi stavamo facendo il nostro lavoro, Maddalè, tu una scelta ce l’avevi, ce l’hai avuta, se spingere giù Donata o meno. E lo hai fatto. Lo hai fatto tu, non noi.”

 

Fu come se ci fosse un crack visibile nella stanza.

 

La maschera sul viso di Maddalena crollò e la ragazza guardò in basso, con gli occhi lucidi.

 

“Ascolta, ci sta Melita in coma. Lo so che vi conoscevate. E ci sta pure un bambino, innocente, che rischia di finire in un orfanotrofio.”

 

“Come un bimbo?” domandò Maddalena, finalmente con la sua voce vera, sollevando lo sguardo e sembrando sinceramente stupita.

 

“Melita era incinta e ha partorito un bambino la scorsa estate. Non lo sapevi?”

 

“No… no…”

 

Maddalena sembrava davvero molto colpita.

 

“Pure noi lo abbiamo scoperto da poco, perché Melita la gravidanza l’ha tenuta nascosta. Gli unici che lo sapevano erano quei gentiluomini che… che l’hanno ridotta come l’hanno ridotta. E mo lei sta in coma ed il bambino rischia di crescere in un orfanotrofio, anche perché non si sa nemmeno chi sia il padre. Tu hai qualche idea in proposito?”

 

“No… no… io Melita è da prima di… di entrare in carcere che non la sento. Non vedo perché chiedete a me.”

 

“Perché sappiamo che i gentiluomini che l’hanno ridotta così,” esordì, tirando fuori le foto di Melita dopo il pestaggio e buttandole sul tavolo, una a una, “li conosci pure tu.”

 

Maddalena prese un respiro che parve quasi un rantolo.

 

“Maddalè, parliamoci chiaro, Questi non ci mettono niente a far fare la stessa fine pure a te, appena scoprono che siamo arrivati a te e che abbiamo capito tutto. Soprattutto in carcere qua a Matera, che c’hanno ancora molto potere. Ammetti quello che hai fatto e ti possiamo proteggere. O oltre a Donata e Melita, vuoi pure un bimbo sulla coscienza? Lo so che sei cresciuta senza un padre.”

 

Maddalena si morse le labbra, quasi da cavarci il sangue e due lacrime le scesero sul viso, mentre si sgonfiava del tutto. Era ancora così giovane, in fondo. Uno spreco tremendo.

 

“Mi hanno… mi hanno contattata qua in carcere. Giuseppina Mazzocca. Mi ha detto che… che se facevo quello che mi diceva, poteva procurarmi un ottimo avvocato che… che sarebbe riuscito a riaprire il mio caso e a farmi scarcerare. E che potevo pure vendicarmi… che… che dovevo soltanto fornire qualche indicazione su… su Calogiuri nell’intimità.”

 

Maddalena ora stava guardando dritta verso di lui e Calogiuri parve un po’ a disagio, forse perché c’era pure lei presente, ma resse lo sguardo in un modo ammirabile.

 

“Mi hanno mandato un avvocato, amico loro. Gli ho passato un disegno con la posizione dei nei di Calogiuri. Sei sfortunato, sai?” gli chiese, con tono amarissimo, “e invece sono stata fortunata io, o così credevo, che avevi quei nei così strani. Perché se no non me li sarei mai ricordati. Tu mi avevi distrutto la vita e… e volevo solamente vendicarmi.”

 

“Maddalena…” sussurrò lui, ed era la prima volta che parlava da quando era entrato, ed era dispiaciuto e dolce, ma pure deciso, “mi dispiace di… di averti presa in giro. Ma Imma aveva ragione e ha ragione: stavamo solamente facendo il nostro lavoro. Io ho… ho sbagliato allora ad avere un coinvolgimento con te, anche se non pensavo che… che potessi essere un’assassina, ma solo quello è stato il mio errore. Ho sperato fino all’ultimo che fossi innocente, che non avessi fatto quello che hai fatto. Ma sei giovane ancora e se tieni una buona condotta hai ancora tempo di uscire da qua e rifarti una vita. E ho capito in questi giorni che il rancore uccide solo chi lo cova.”

 

Deglutì il raspo in gola, chiedendosi se, a riguardo del rancore, stessero pensando entrambi alla stessa cosa.

 

“Predisporremo il trasferimento ad un’altra struttura penitenziaria, più sicura e lontana dai Mazzocca, va bene?” intervenne lei, dopo un silenzio che parve infinito.

 

Maddalena non disse più niente, ma annuì, sconfitta, ma forse anche in qualche modo pacificata.

 

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Uscire dalla sala interrogatori fu come respirare aria fresca, anche se sempre nei sotterranei stavano ed era viziata, viziatissima.

 

Sbirciò verso Calogiuri e lo trovò invece pensieroso, pensierosissimo, con quella piega adorabile che gli veniva sulla fronte, le labbra corrugate.

 

“A che pensi?” gli domandò, incuriosita, chiedendosi se le accuse di Lolita lo avessero destabilizzato più di quanto avesse fatto intravedere.

 

Le parve sorpreso e la guardò in un modo indefinibile, ma intensissimo, che le diede un brivido.

 

Notò che oltrepassò Vitali e che si allontanò leggermente, facendo segno di raggiungerlo.


“Che c’è?”

 

“C’è che… ti ricordi quando ci siamo guardati, proprio qui, dopo il tuo primo interrogatorio a Lolita? Ed io… ero arrabbiatissimo, delusissimo.”

 

Un colpo al cuore: e certo che se lo ricordava, ci aveva pensato proprio prima ed era da un lato felice che lo avesse fatto anche lui. Dall’altro… non capiva dove volesse andare a parare e questo la preoccupava, vista la situazione molto delicata tra loro.

 

“E come potrei non ricordarmene, Calogiù? Me lo ricordo sì, me lo ricordo: non ti avevo mai sentito così distante prima.”

 

“Ma alla fine… è stato solo l’inizio di una fase diversa del nostro rapporto, no? Una fase più profonda. E magari… magari potrebbe essere così pure mo, no?”

 

Non sapeva come potesse suonare così timido e così sicuro allo stesso tempo, così fanciullesco e così maturo.

 

Ma lo amava proprio per quello, perché in lui si conciliava l’impossibile e quindi ogni momento con lui non era mai scontato, banale, prevedibile.

 

“Magari…” mormorò, cercando di evitare che la voce le si spezzasse, e gli strinse forte la mano, augurandosi che sarebbe davvero stato così.

 

Si sorrisero, insieme, che non si capiva se fosse stato prima lui o prima lei, ma non importava. E quello, invece, era il loro bello, e le sembrava a volte di essere tornata ai primi tempi, ma con una maturità ed una consapevolezza diversa, per entrambi.

 

Senza bisogno di parole, salirono insieme le scale ed arrivarono al piano terra, procedendo verso l’ingresso e la scalinata principale, per raggiungere Vitali che, in un momento di discrezione, si era già avviato verso il suo ufficio.

 

Sentì dei passi ed alzò gli occhi verso la figura che stava scendendo verso di loro.

 

Si bloccò e percepì immediatamente la mano nella sua irrigidirsi. Stava per lasciargliela, per evitare casini, ma lui gliela strinse ancora più forte, sfidando con lo sguardo la persona davanti a loro a dire qualcosa.

 

“Tranquilli… non ho intenzione di fare scenate. Anzi, probabilmente vi devo delle scuse perché… so che in passato ho esagerato.”

 

Spalancò la bocca, senza poterlo evitare: Matarazzo non solo sembrava effettivamente non rabbiosa, anzi, un po’ mortificata, ma sembrava stare facendo un discorso maturo.

 

I miracoli potevano avvenire, evidentemente.

 

“Ma è che… mi ero sentita presa in giro per mesi. Anche se una parte di me lo ha sempre saputo che voi due…. Però… non era facile per me accettare che preferissi un’altra a me… anche perché c’ero così abituata, a conquistare sempre tutti. Ma mo ho capito che l’amore è un’altra cosa, rispetto alla cotta e all’ossessione che c’avevo nei tuoi confronti. Senza offesa, eh.”

 

Ahpperò! Capito Matarazzo, com’era cresciuta?

 

“Per quanto mi riguarda le scuse sono accettate, Matarazzo. Ma la parte più lesa è stata Calogiuri, quindi spetta a lui,” rispose, incrociandone gli occhi azzurri che le sorridevano.

 

“Per me va bene. Il passato è passato, Jessica. E sono felice che siamo tutti andati avanti.”

 

Jessica annuì e poi fece segno oltre a loro, dicendo, “ora, se mi volete scusare, devo andare in PG.”

 

Si misero di lato per lasciarla passare e poi, la mano di Calogiuri sempre nella sua, salirono le scale.

 

“Chissà se c’ha qualcuno la Matarazzo… che sembra così serena e soddisfatta, capisci a me.”

 

Calogiuri rise.

 

“Non lo so, lo spero per lei, ma l’unica cosa importante per me è che non ci dia più casini.”

 

“A proposito… meglio che ci affrettiamo a parlare con Vitali. Che qua altro che casini!”

 

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Erano in attesa di fronte all’ufficio di Vitali che, da quanto diceva la sua segretaria, era rimasto un attimo bloccato in una telefonata dell’ultimo minuto.

 

Spiava di tanto in tanto l’espressione di Imma, che pareva determinata ed un poco ansiosa. E la capiva benissimo.

 

Però, per fortuna, sembrava che l’incontro con Matarazzo non avesse peggiorato la situazione tra loro. Anzi, almeno nel suo caso, lo aveva fatto riflettere e molto.

 

Effettivamente… effettivamente pure lui aveva ceduto con Matarazzo, quando aveva pensato che con Imma non ci fosse più niente da fare. Che non lo amasse veramente, che non lo avesse mai amato e che non lo avrebbe mai amato. Che lo aveva soltanto preso in giro ed ammollato con una scusa.

 

La delusione era stata così forte che… che aveva fatto una cazzata, un po’ per l’alcol, un po’ per cercare stupidamente un modo per andare avanti e per non affondare, un po’ forse per ripicca, anche se inconsciamente.

 

E pure se per lui la loro storia non si era di fatto mai interrotta, da quando lei lo aveva raggiunto a Roma e, in un momento per lui indimenticabile ed indelebile, oltre che miracoloso, gli aveva detto per la prima volta che lo amava, e per quel motivo quanto successo tra Imma e Mancini era stato come un tradimento... per Imma invece….

 

Imma si era sentita tradita con Melita, mentre cercavano un figlio oltretutto, si era sentita altro che presa in giro e… e anche se gli faceva male che non gli avesse creduto subito… effettivamente tutte le prove erano state contro di lui e… e ci stava che Imma avesse dubitato, che avesse pensato che fosse tutto finito che, peggio ancora, fosse stata tutta solo un’illusione con lui. E che per disperazione avesse commesso uno sbaglio con Mancini. Ma, a differenza sua con Matarazzo, si era pure fermata in tempo.

 

“Come… come hai fatto a perdonarmi per… la cosa con Matarazzo?”

 

La domanda gli era uscita così, senza quasi pensarci. Imma lo guardò, confusa e un po’ stupita.

 

“A parte il fatto che… che tecnicamente non stavamo insieme e quindi non potevo recriminarti niente ma… ma questo non mi ha impedito di rimanerci male, molto male ovviamente, mi conosci,” gli sussurrò, per non farsi sentire dalla segretaria, in quel modo così schietto che aveva solo lei, “però… ho capito che avevi fatto del male prima di tutto a te stesso, a parte che io stavo ancora con Pietro, ufficialmente, pure se stavamo in crisi da mesi, quindi… c’avevo le mie colpe e sapevo cosa… cosa avevi dovuto mandare giù, Calogiuri, che io… non so se ne sarei stata capace al posto tuo. E poi… e poi ho capito che l'avevi fatto per disperazione e che non aveva significato niente per te. Ed alla fine eri stato sincero con me, nello spiegarmi quello che era successo, e per me quello contava. Più di tutto.”

 

Fu come un colpo al cuore.

 

Cosa contava davvero? Per lui, cosa contava veramente?

 

Imma… Imma aveva avuto quel momento con Mancini, era vero, per fortuna bloccandosi quando si era bloccata. Ma pure se fosse arrivata fino in fondo… era chiaro che non lo avrebbe certo fatto per Mancini, perché presa da chissà quale attrazione o sentimento o passione nei suoi confronti. Anzi. Era evidente che per Imma quel momento con Mancini non avesse significato nulla, se non che era stato uno sbaglio, in un momento di disperazione e di fragilità. In quelle settimane Imma di interesse per Mancini non ne aveva dimostrato per niente, proprio, anzi.

 

Non fare lo scemo, fratellì, non buttare via tutto per orgoglio! - la sua coscienza stavolta aveva la voce di Rosa.

 

E Rosa aveva ragione. Perché… perché Imma aveva dimostrato con i fatti, in tutti i modi, che cosa e chi contasse veramente per lei. Glielo stava dimostrando ogni giorno, in tutto quello che faceva per lui: aiutandolo a riprendersi, a riprendere in mano la sua vita, la sua dignità, credendo in lui e lottando con lui, fino in fondo. Per aiutarlo aveva accettato persino la sospensione dal lavoro, da quel lavoro che per lei era la vita. E… ed avrebbe dato la vita per lui, come lui per lei, letteralmente.

 

Quelle erano le cose importanti, e non erano mai cambiate, né per lui né per lei, da così tanto tempo, da…forse addirittura da prima del loro primo bacio.

 

Anzi, erano cambiate, ma in meglio: il legame tra loro si era sempre più rafforzato, era diventato più… più maturo, più consapevole, tanto da riuscire a resistere a tutto quello che gli altri avevano buttato loro addosso. In quanti, al posto loro, sarebbero stati ancora lì, in quel momento, a tenersi per mano? E-

 

“Dottoressa, maresciallo, se volete entrare, ho finito la telefonata. Scusate per l’attesa ma il prefetto voleva aggiornamenti e ho ritenuto più opportuno tranquillizzarlo subito, prima che ci potessero essere altri spiacevoli fraintendimenti.”

 

“Naturalmente, dottore, ha fatto bene,” confermò Imma, alzandosi in piedi ma non mollandogli affatto la mano.

 

E lui la imitò, come da sempre faceva, anche se ormai era difficile dire quanto fosse imitazione e quanto i gesti di lei fossero ormai i suoi e viceversa.

 

Ma anche quello, alla fine, non importava, non in confronto al sorriso di Imma nei suoi confronti, o al modo deciso in cui quelle dita piccole e forti stringevano le sue. Deciso, ma mai opprimente. Forte, ma sempre lasciandogli la possibilità di sciogliere il contatto in qualsiasi momento.

 

Ed era forse questa, più di tutto, la cosa che l’aveva fatto innamorare così tanto di lei.

 

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“Dottore, al di là di com’è andato l’interrogatorio con la Bartoli… c’è un’altra cosa che mi preoccupa e molto.”

 

“Uh maronn’... così mi fa spaventare. Che è successo mo?”

 

La reazione preoccupata e teatrale di Vitali quasi la fece ridere - quasi - in fondo in fondo le era mancato. Anche se… da ridere non c’era proprio niente, anzi.

 

“Dottore, quando… quando sono arrivate notizie da qua riguardo a Lolita e noi siamo andati a cercare Melita, subito, l’hanno trovata prima gli altri. Ora, è chiaro che il momento scelto per aggredirla, dopo mesi e mesi, non può essere casuale, quindi… qualcuno sapeva che stavamo arrivando a Lolita e a lei ed ha avvertito Coraini ed i Mazzocca. Chi ne era a conoscenza qua?”

 

Il viso di Vitali crollò. Sapeva anche lui cosa voleva poter dire e perché gliene avesse voluto parlare di persona e non al telefono.

 

“Dottoressa… qua… qua ufficialmente lo sapevamo solo io, la signora De Santis ed il Brigadiere Capozza. E non credo che possiamo dubitare di loro, no?”

 

“Spero proprio di no!” esclamò, perché su Diana ci metteva la mano sul fuoco. Su Capozza… in caso lo avrebbe ucciso, più per Diana che per tutto il resto.

 

“Ma è sicuro che… non ufficialmente magari, non lo sapesse pure qualcun altro?”

 

“Dottoressa… in quel carcere i Romaniello tengono più occhi e orecchie della mitologica Idra, lei lo sa bene. E magari pure qua. Abbiamo cercato di agire con la massima discrezione ma… magari qualcuno ha colto i nostri movimenti. Proverò ad indagare ma le garantisco che abbiamo fatto il massimo possibile per essere discreti, anche nel reperire la documentazione al RE.GE, senza coinvolgere nemmeno la Moliterni.”

 

Sospirò: quasi doveva sperare in una spia esterna anche se… anche se a quel punto pure l’interrogatorio di quel giorno a Lolita e quello che si stavano dicendo con Vitali poteva già essere di loro conoscenza.

 

Per fortuna Maddalena stava già venendo trasferita altrove e… e per il resto c’erano quasi, dovevano arrivare alla fine, anche non potendo contare sull’effetto sorpresa.

 

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“Arrivederci dottoressa, maresciallo. Spero tornerete presto!”

 

“Grazie!” si congedò, salutando con un raro sorriso le guardie appostate all’ingresso.

 

Era sempre surreale tornare a Matera: per certi versi come entrare in una vita precedente, per altri, le sembrava di non averla lasciata mai, come se non fosse passato nemmeno un giorno.

 

Avevano fatto giusto due passi quando vide, davanti a lei, di nuovo Matarazzo che però stavolta non guardava loro, anzi, presa com’era a salire sulla moto sportiva di un tipo tra i venti ed i trenta, capelli scuri, occhiali da sole e che poteva essere definito soltanto come figo. Molto figo.

 

Hai capito, Matarazzo, brava! - pensò, avendo la conferma definitiva di come mai fosse stata così zen con loro.

 

Stava per commentare con Calogiuri quando il figo si voltò verso dove stavano loro e, pure con gli occhiali da sole, lo vide illuminarsi.


“Dottoressa!” esclamò, tutto felice e, soprattutto, con un accento sardo che ancora si distingueva molto bene.

 

“Puddu?!” realizzò, in shock completo, perché il giovane carabiniere era praticamente irriconoscibile: pareva uno di quelli in quei programmi televisivi che ti prendono e ti trasformano che neanche i tuoi familiari ti distinguono più.

 

Cosa che a volte non sarebbe una disgrazia.

 

Puddu disse un paio di cose alla sua bella e poi mise la moto sul cavalletto e ne scese, seguito da Matarazzo, avvicinandosi a lei per stringerle la mano, in un modo molto meno umidiccio ed incerto che all’epoca. Anche se la stretta che aveva Calogiuri, pur nella sua timidezza, era un’altra cosa.

 

“Dottoressa, che bello vederla! Menomale che sono passato a prendere Jessica, che oggi non stavo di servizio, se no me la perdevo. Maresciallo, noi non ci siamo mai incrociati, penso. Sono stato il suo sostituto, quando è andato a Roma, quindi ho avuto l’onore di collaborare con la dottoressa solo per pochi mesi.”

 

“Bene, bene,” rispose Calogiuri, con un sorriso che però le parve un po’ tirato e che lo divenne ancora di più quando Puddu aggiunse, “però ho sentito molto parlare di lei, maresciallo!”

 

“Dubito cose belle, con tutto quello che si è detto su di me,” rispose Calogiuri, guardando anche Jessica, che parve un poco imbarazzata.

 

“Ma lo so che quelle sono tutte voci. La verità è che non è stato facile reggere il confronto con lei, maresciallo, anzi. Anche se mi ci sto molto impegnando.”

 

“Immagino…”

 

Il tono di Calogiuri, in apparenza gentile, era però tutto un programma.

 

“Ma Angelo è bravissimo! Non sei secondo proprio a nessuno tu, anzi!” replicò Jessica, facendogli una carezza sul petto, un po’ per rassicurarlo, un po’ forse come una frecciatina, ma meglio che per Matarazzo non lo fosse, anzi, che rimanesse primo per sempre e lei ne sarebbe stata più che felice.

 

“Quindi state insieme?”

 

“Sì, sì. Per fortuna Vitali è stato comprensivo e basta che siamo discreti in procura e non ci ha costretti a dividerci.”
 

“Ne sono felice per voi,” affermò, e lo era davvero.

 

“Allora, andiamo? Che se no facciamo tardi per l’aperitivo?” si inserì di nuovo Jessica e Puddu scattò quasi sull'attenti.

 

“Va bene. Dottoressa, noi andiamo: è stato un piacere rivederla. Maresciallo!”

 

E, nel giro di qualche secondo, erano risaliti in moto e ripartiti, con una sgasata da manuale.

 

“Quindi quello era il mio sostituto? Com’è che non mi hai mai parlato di lui?”

 

Si voltò verso Calogiuri che aveva quell’aria e quel tono un po’ gelosi che solitamente erano adorabili. Ma, visto il periodo che stavano già passando, lo erano assai meno, anzi la preoccupavano e basta.


Le cose finalmente stavano andando meglio e ci mancava solo la gelosia per Puddu mo.

 

“Perché non c’era molto da dire, Calogiuri, perché Puddu ti garantisco che era ben poco memorabile, anzi.”

 

“Eh, si vede proprio!” esclamò lui, il viso corrucciato e le braccia incrociate.


“Eh, va beh, perché tu lo vedi mo, che non so se sia stata Matarazzo a fare il miracolo ma… quando l’ho conosciuto io… sembrava un po’ uno di quei nerd, come li chiamerebbe Valentina.”

 

“Sapere che non ne eri attratta allora ma che potresti esserlo mo non mi rassicura molto, dottoressa. Specie se hai idea di tornare a Matera,” ribattè Calogiuri, sempre con le braccia incrociate, lo sguardo da sfinge.

 

“Eddai, Calogiù! Non dirmi che sei geloso pure di Puddu, mo? Ma veramente?”

 

Per tutta risposta, Calogiuri sorrise, in un modo che le fece tirare un sospiro di sollievo ed aggiunse, con lo sguardo da impunito che le era mancato da morire in quelle settimane, “chissà. Per intanto, per farti perdonare dell’omissione… visto che c’è ancora un po’ di tempo prima di dover rientrare… ci verresti in un posto con me?”

 

“E dove?” domandò, incuriosita, il cuore che prese a batterle forte perché, oltre allo sguardo, anche la proposta in sé era un ottimo segno.

 

“Se sali in moto con me lo scopri, dottoressa.”

 

Non se lo fece ripetere due volte: che manco lei era scema, anzi!

 

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“Mi ci voleva proprio un po’ di aria fresca.”

 

“Anche a me, Mariani. Non so lei ma… sto ancora digerendo la cena di ieri sera e la cella non ha aiutato.”

 

Mariani rise ed annuì, continuando a camminare affianco a lui.

 

Ma non era solo per evitare l’abbiocco che, finito di raccogliere la deposizione della famosa Lolita, le aveva proposto una passeggiata per la Gravina, alla luce del giorno.

 

No, aveva bisogno di parlarle e molto seriamente, senza orecchi indiscreti intorno.


“Dottore, c’è qualcosa che non va? E non parlo della digestione,” gli domandò infine Mariani, percettiva come sempre.

 

“Sì, Mariani, è… è complicato. In realtà è da un po’ che avevo intenzione di parlargliene ma… ma è un argomento delicato e che non ritenevo prudente discutere in procura.”

 

“E cioè?” gli domandò, con uno sguardo un po’ strano.

 

“Diciamo che… è una cosa che penso da un po’ ma… ma gli ultimi giorni me ne hanno dato conferma. Chi ha avvertito i Mazzocca? Sia quando è stata aggredita Melita che… che qualche giorno fa. All’inizio ho quasi sperato in una talpa qua a Matera ma… ma sono sempre più convinto che ci sia qualcuno a Roma che passa le informazioni.”

 

Mariani si fermò, bruscamente.

 

“Ma… ma dottore… quella sera di Melita… a parte la dottoressa Ferrari e la dottoressa Tataranni, a Ranieri e Calogiuri, lo sapevamo solo io e lei e…”

 

“Già.”

 

“Ma non può sospettare di Conti!” esclamò lei, indignata, così forte che ci fu un’eco per mezza Gravina, “non è possibile, dottore! Conti non è un traditore, non lo farebbe mai!”

 

“Mariani, neanche io ce lo vedo ma… ma se non avesse agito in malafede, ma pensando anzi, magari, di stare facendo per il meglio?”

 

“In che senso, dottore?”

 

Mariani era confusa e… e sapeva che per lei quello sarebbe stato un rospo più difficile da digerire ancora che l’idea di Conti ma… ma più ci pensava e più ne era convinto. Anche perché, come insegnava Sherlock Holmes, una volta che hai escluso l’impossibile, quello che resta, per quanto improbabile, quasi sicuramente è la verità.

 

“Che… che probabilmente era convinto della colpevolezza di Calogiuri. Come lo ero io all’epoca, anzi, forse anche di più. E magari… qualcuno lo ha convinto a collaborare per provarla, insieme.”

 

Gli occhi di Mariani si spalancarono e poi si fecero umidissimi.


“Sa- Santoro?” gli chiese, con il tono di chi sperava di non trovare affatto conferma della sua intuizione.

 

“Se Conti si è confidato con qualcuno, in buona fede, deve essere stato proprio con il dottor Santoro. Conti ad andare da Coraini, dai Mazzocca o dai Romaniello proprio non ce lo vedo. Ma lui e Santoro ultimamente hanno legato molto, collaborano spesso e Santoro si fida ormai quasi solo di lui.”

 

Non voleva girare il dito nella piaga, ma mano a mano che i suoi sospetti aumentavano e che si convinceva di potersi fidare di Mariani, voleva anche metterla in guardia, in prima persona.

 

“Mi… mi dispiace, Mariani.”

 

“In- in che senso?” gli chiese, imbarazzata.

 

“Nel senso che… che non è esattamente un mistero in procura che a lei il dottor Santoro… insomma…” balbettò, perché non era un argomento facile da affrontare.

 

Mariani divenne più rossa del primitivo della sera prima, ma poi risollevò gli occhi verso i suoi, decisa, “diciamo che… negli ultimi tempo purtroppo o per fortuna l’ho dovuto rivalutare, dottore. Soprattutto per come si è comportato con Calogiuri e con il processo, ma… pensare che potrebbe… che potrebbe addirittura stare collaborando con dei criminali….”

 

“Lo so, Mariani. Per questo anche io ho esitato molto a dirglielo ma… ma so che di lei mi posso fidare. Il dottor Santoro è un uomo intelligente ma molto ambizioso, troppo rispetto al suo talento che… che c’è ma… ma non è commisurato al suo ego, per essere proprio franchi, Mariani. E… e a volte l’ambizione disattesa porta a fare brutti scherzi. Ci rende vulnerabili a tentazioni pericolose.”

 

Mariani rimase ancora un po’ in silenzio, poi le chiese, “e allora che vuole fare, dottore? Perché, se me ne ha parlato, qualcosa vuole fare, giusto?”

 

Annuì, sollevato sia dal fatto che Mariani stesse considerando le sue ipotesi, sia del fatto che avesse capito senza bisogno di troppi preamboli.

 

“Per ora… per ora innanzitutto preferirei che non ne parlassimo con nessuno, Mariani. Non voglio reazioni di pancia, né da parte del maresciallo Calogiuri, né da parte di altri. Ma… se è disposta a darmi una mano per trovare la verità-”

 

“Ma certo, dottore! Mi dica cosa vuole fare. Per me è una questione di principio oramai.”

 

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“Ma… ma questa strada… è...!”

 

Non era riuscita a trattenersi dall’esclamare per l’emozione: aveva riconosciuto benissimo l’ultimo incrocio e stavano dirigendosi verso il maneggio di Sabrina.

 

Calogiuri non disse niente, ma si voltò velocemente, con un sorriso che avrebbe solo voluto riempirlo di baci, non avessero rischiato di spaccarsi l’osso del collo.

 

E dopo poco vide il maneggio, quel luogo quasi magico dove aveva scoperto - anzi, come aveva poi capito, riscoperto - quella grande passione, lei che un hobby vero non ce l’aveva mai avuto. Dove aveva capito definitivamente di amare Calogiuri e quanto lui la amasse, troppo, e… e dove aveva avuto il coraggio di sognare sempre di più una vita insieme, alla luce del sole, anche se era stato assai più complicato del previsto.

 

Ma stavano ancora lì, insieme, pure se le cose non si erano del tutto sistemate ma… ma Calogiuri non l’avrebbe mai portata lì se… se non fosse stato….

 

“Imma! Ippazio!”

 

La voce di Sabrina la raggiunse prima di poter finire quel pensiero, mentre Calogiuri spegneva il motore.

 

E la trovò, sempre bella come il sole, che non pareva invecchiata un giorno - beata lei! - proprio in mezzo all’ingresso, con un grande sorriso sul volto.

 

Si affrettò a passare il casco a Calogiuri, che pure lui sorrideva, come era tanto tempo che non riusciva più a fare. Ed era sicura che anche lei… che anche lei stesse sorridendo come le veniva solo con lui, da sempre.

 

Scesero dalla moto e si incamminò a passo rapido verso Sabrina, trovandosi, a sorpresa, stretta in un abbraccio a morsa.

 

E poi Sabrina la guardò, come a chiederle il permesso, ed alla sua risata abbracciò pure Calogiuri, esclamando poi un “vi trovo bene! Mi ha fatto piacere la tua telefonata. Se mi volete seguire… è tutto pronto.”

 

“Tutto pronto cosa? Ma quando hai organizzato questa cosa?” chiese a Calogiuri, perché erano stati giorni di fuoco ed anche per quello era ancora più sorpresa dalla sua iniziativa, oltre che per il periodo non semplice.

 

“Quando sono andato in bagno, dottoressa. Per fortuna Sabrina è più veloce di me,” ironizzò, facendole l’occhiolino e lei gli disse uno “scemo!” e gli piantò un bacio sulla guancia, sentendosi abbracciare di lato.

 

“Noto che siete sempre affiatatissimi, mi fa molto piacere. Vi sento un po’ come… come se vi avessi visti nascere, in un certo senso, e mi è molto spiaciuto quando ho sentito che vi eravate lasciati. Anche se non ho mai creduto alle voci dei giornalisti, che la carta stampata va bene giusto per tirare su quello che producono i cavalli.”

 

Rise di nuovo, perché Sabrina era coraggiosa nell’affrontare l’argomento, schietta, come lo era sempre stata. E sui giornalisti… concordava con lei al cento percento.

 

Le era mancata, più di quanto avesse pensato. Così come le era mancato tutto dell’equitazione, persino l’odore dei cavalli.

 

“Vi ho preparato un cambio adatto nello spogliatoio, appena siete pronti i cavalli vi aspettano, che sicuramente anche a loro farà piacere rivedervi.”

 

E così entrarono nello spogliatoio che, visto che c’erano solo loro due, era lo stesso. Calogiuri cominciò a levarsi i vestiti e si chiese se quell’impunito lo stesse facendo lentamente di proposito, o se fossero solo i suoi ormoni che le facevano sembrare tutto al rallentatore. Del resto pure quella notte… che lui si pensava che non l’aveva sentito, andarsene in bagno, ad un certo punto?

 

Ma nemmeno per lei era stato facile, per niente, ma c’erano delle priorità e per fortuna le avevano rispettate ed era andata pure molto bene. Ma mo, dopo il dovere….

 

E quindi si cambiò pure lei con voluta lentezza, vedendolo deglutire e poi voltarsi, un po’ imbarazzato, anche perché i pantaloni da equitazione avevano un enorme svantaggio e nascondevano ben poco, in tutti i sensi.

 

E se il buongiorno si vedeva dal mattino, anzi, dal pomeriggio ormai… la gita prometteva molto ma molto bene.

 

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“Minerva? Impeto?”

 

Rivedere i loro cavalli fu quasi più emozionante persino di rivedere Sabrina, soprattutto perché entrambi alzarono le orecchie al suo richiamo e si produssero in nitriti ed una specie di paio di saltelli - che le ricordavano un poco Noemi - prima di avvicinarsi a lei e a Calogiuri, per prendersi due carote e un po’ di grattatine al collo e sul muso.

 

“Si ricordano di voi!” esclamò Sabrina, con quel suo sorriso bellissimo che le prendeva tutto il viso.

 

“O vogliono solamente le carote?” rise Imma ma Sabrina scosse il capo.

 

“No, no, vi garantisco che vi riconoscono. Non fanno così con tutti e sapete che non lo dico tanto per.”

 

“E va beh… del resto con tutto quello che abbiamo combinato qua, dottoressa, saremo stati indimenticabili,” ironizzò Calogiuri, facendola ridere, anche se… anche se… al solo ripensarci mo….

 

Tipo quando Pietro quasi li aveva scoperti e per poco lei e lui non si erano rotti l’osso del collo, sulla povera Minerva.

 

Per certi versi le sembrava quasi fosse stata la vita di un’altra a volte, talmente era strano ripensarci mo che, per fortuna, con Pietro avevano pure ricostruito un bellissimo rapporto.

 

Ma in effetti… che i cavalli si ricordassero di loro come di tre poveri cretini umani… era assai probabile, ed avevano pure tutta la sua comprensione.

 

“Allora, Minè, che ce lo facciamo un giro?” chiese e Minerva fece un altro nitrito e poi si posizionò di traverso rispetto a lei, piazzandole la sella di fronte.

 

Trattenendo l’emozione, salì, anche se era un po’ arrugginita e quindi fece più fatica delle ultime volte, ma per fortuna Calogiuri era sempre pronto ad aiutarla. E poi anche lui montò su Impeto - dal cui nome il suo maresciallo aveva preso sempre più esempio, nel corso degli anni - e fecero un paio di giri di prova nel recinto, mentre Sabrina recuperò la sua cavalcatura usuale.

 

“Dato che finalmente siete venuti qua che è primavera… e che è ormai pomeriggio e quindi la terra ha avuto tempo di riscaldarsi… possiamo fare finalmente il famoso giro nel bosco. Anche se partiamo con qualche giro qua intorno, giusto per scaldare i cavalli e scaldarvi un po’, che mi sa che a cavallo è un po’ che non ci andate.”

 

“Se è per quello… con tutto quello è successo tra un po’ manco a piedi siamo andati ultimamente….”

 

“No, infatti… ma Imma sull’azione si è comunque tenuta allenata,” la prese in giro Calogiuri, facendole l’occhiolino, forse riferendosi alla sua irruzione a fucile spianato - che grazie al cielo che non l’aveva dovuto usare!

 

“Certi dettagli magari possono anche restare un mistero.”

 

La battutina di Sabrina, ed il tono con il quale era stata pronunciata, la fecero un po’ arrossire, mentre si guardava con Calogiuri, con un’espressione che era un eh, magari fosse!

 

Calogiuri però, dopo l’imbarazzo iniziale, ricambiò l’occhiolino e di nuovo c’aveva lo sguardo da impunito.

 

Il cuore le rimbalzò nel petto, tanto che Minerva forse lo notò ed emise un altro nitrito, ma la tranquillizzò subito.


Calma, Imma, calma, che devi tornarci viva da sta gita. E poi non ti devi fare troppe illusioni, lo sai! - si impose, cercando di richiamare la sua parte più razionale che però tra i cavalli e Calogiuri difficilmente riusciva a prevalere.

 

Ma la verità era che… era che tutto prometteva così bene che… che forse per quello da un lato le faceva più paura, perché se fosse andata male pure così….

 

Calogiuri non ci sarebbe mai venuto qui, se non si fosse sentito pronto! - ribattè alla Imma interiore, finché un “Imma, tutto bene?” di Sabrina la riportò alla realtà e, dopo un’altra grattatina a Minerva ed uno sguardo a Calogiuri per dirgli di non preoccuparsi, la seguirono fuori dal recinto.

 

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“Devo dire che, per essere due che non vanno a cavallo da un po’, non siete così tanto arrugginiti, bravi! Ma dovreste andarci più spesso!”

 

“Eh, se… se riusciamo a sistemare tutti i casini che c’abbiamo… magari!” sospirò, perché sì, la rilassava quasi quanto andare in moto con Calogiuri.

 

Si ripromise che, risolto il caso, se tutto fosse andato bene tra di loro, se le sarebbe concessa, anzi, se le sarebbero concesse più spesso, entrambe le cose.

 

“Visto che fino a qua siete andati bene… io vi lascerei proseguire da soli, tanto da qui basta seguire il sentiero, non si può sbagliare. Se avete problemi, ovviamente, chiamatemi.”

 

Aveva appena appena realizzato quanto detto da Sabrina, che la ragazza era già al galoppo e si stava allontanando da loro fino a sparire.

 

Lasciandoli soli.

 

Un altro colpo al cuore, tanto che stavolta prevenne subito, accarezzando Minerva prima che si agitasse.

 

Si guardò con Calogiuri che le sorrise, anche se pure lui sembrava quasi intimidito dalla situazione, per certi versi come il Calogiuri dei primi tempi.


“Andiamo? Segui me o vuoi condurre tu?”

 

E no, che non era il Calogiuri dei primi tempi. Il modo in cui glielo aveva chiesto era deciso, sicuro, sicurissimo.

 

“Vado avanti io. Ma solo perché sicuramente a cavallo sono ancora più lenta di te, Calogiù. E almeno se ho qualche problema mi vedi,” replicò e Calogiuri si lasciò scappare un, “allora dovremmo applicare lo stesso criterio quando stiamo a piedi!” che la fece molto ridere.

 

Ma, in effetti, già lo applicavano. Sapeva benissimo che Calogiuri le guardava le spalle, letteralmente, sempre.

 

Diede due colpetti ai fianchi di Minerva che ripartì e, ad un ritmo rilassato, proseguirono lungo il sentiero, in un silenzio bellissimo che, come quello sulla moto, era tornato ad essere il loro silenzio.

 

Quello che era meglio per lei di qualunque tecnica di rilassamento, sebbene, trattandosi comunque di cavalli, un poco all’erta bisognava sempre rimanere.

 

Continuarono a cavalcare, a volte lei davanti, a volte fianco a fianco, fino a che intravide un cascinale poco distante, collegato al sentiero da un viottolo più piccolo. Il cartello annunciava che si trattava di un’azienda agricola.

 

Calogiuri si fermò e lei lo imitò, guardandolo interrogativamente.

 

“Qua c’è la prima tappa, dottoressa,” spiegò, saltando giù da cavallo e legando Impeto alla staccionata lì vicino, per poi aiutarla a scendere e fare lo stesso con Minerva. E dopo estrasse da un borsone due ciotole per dare l’acqua ai cavalli.

 

“Non sapevo fosse tipo un tour, Calogiuri.”

 

“Eh, dottoressa, ma lo sai che la vita è piena di sorprese…”

 

“Quanto è vero!” esclamò, sorridendo e lasciandosi prendere per mano ed accompagnare, ma non all’azienda agricola, bensì ad una specie di grotta poco distante.

 

Provò una fitta di eccitazione ed anche di apprensione, che le grotte… non avevano mai osato, ma… temeva che la sua schiena non avrebbe retto tanto.

 

Ma, come ci entrò, quel genere di pensiero se ne andò, sostituito dalla meraviglia: erano in una specie di chiesetta rupestre, con le caratteristiche pitture.

 

Con tutti gli anni che viveva a Matera, se l’era persa.

 

“Ma… ma che cos’è?”

 

“La Cripta del Peccato Originale, dottoressa,” chiarì lui, serissimo e professionale, che manco veramente una guida turistica.

 

“Insomma… la prima occasione - ma non l’ultima - in cui voi uomini c’avete avuto la scusa buona per dare a noi donne la colpa di tutti i mali del mondo.”

 

“Imma…” lo sentì ridere, e poi fu stretta in un abbraccio così forte che altro che ridere… manco più il fiato teneva, “nessuno è perfetto, dottoressa. Ma chi è senza peccato….”

 

“Quello era giusto un qualche centinaio di migliaia di anni dopo, Calogiuri, e pure un po’ di libri dopo.”

 

“Lo so, ma… ma è per dire che… che dagli errori possono anche uscire cose bellissime, no?”

 

“Quindi per te questo mondo sarebbe bellissimo?” gli domandò, stupita e un po’ colpita da tanta fiducia nell’umanità dopo quello che gli era successo, staccandosi per guardarlo negli occhi.

 

“Il mondo in generale? No. Il mondo con te? Sempre.”

 

Per fortuna mo non stava su Minerva, perché se no… altro che imbizzarrirsi. Il cuore le pareva una grancassa, mannaggia a lui!

 

Che riusciva sempre, con così poche parole, a dire così tanto, a farla squagliare.

 

“E… se non avessimo mai fatto sbagli e… e casini… non saremmo nemmeno mai stati insieme, no? Anche se… anche se ho pure capito che devo farmi più furbo e certi casini li devo prevenire.”

 

Rimase per un attimo muta, la bocca che si chiudeva e riapriva, senza emettere un suono.

 

Ma la voce non ne voleva sapere di collaborare.


E così se lo riabbracciò, stretto stretto, e infine riuscì a sussurrargli, “lo sai quanto sono orgogliosa di te, vero? Sei… sei….”

 

“Aspetta a parlare, dottoressa, che siamo solamente all’inizio!” la interruppe, cosa che concedeva solo a lui, da sempre.

 

Se quello era solo l’inizio… no che non ci sarebbe tornata intera a Matera. Sicuramente non con la voce funzionante.

 

Uscirono infine e tornarono a recuperare i cavalli, passando però prima dal cascinale, dove trovarono un anziano ed un giovane che li aspettavano con un paio di ceste ed un fiasco in mano.

 

“Il vino… insomma… magari non è il caso…” gli disse, anche perché dopo quello che gli era successo era forzatamente astemio.

 

“Ma sto meglio mo, dottoressa, tranquilla. Se riesco pure ad andare a cavallo….”

 

“Appunto! Che poi con i cavalli ci dobbiamo pure tornare.”

 

“Al peggio chiamiamo Sabrina o lascio condurre te, dottoressa. Lo sai che mi piace, no?” le sussurrò in un modo che era da denuncia per attentato alla salute - non pubblica ma privata, privatissima, in questo caso.

 

I contadini, che si esprimevano in un dialetto ancora bello marcato, li guardarono comunque come se avessero capito tutto. Che per quello mica l’italiano ci voleva.

 

E, dopo un paio di raccomandazioni di lasciare i vuoti a “S’bbrì”, nella tipica abitudine tutta materana di rendere ogni nome un codice fiscale, ritornarono finalmente a Minerva e Impeto, che parvero loro un po’ annoiati, dopo essersi fatti fuori l’acqua.

 

Con l’aiuto di Calogiuri risalì a cavallo, si divisero le ceste e poi proseguirono la passeggiata, seguendo il corso del torrente Gravina.

 

Finché, il rumore d’acqua si fece diverso, più lento, dove il Gravina incrociava il Bradano e, poco più avanti, si estendeva il lago di San Giuliano con la diga.

 

Era una vita che non ci veniva da quelle parti.

 

E stavolta passò davanti Calogiuri e lei lo seguì, fino ad uno spiazzo tra gli alberi, dal quale si intravedeva il lago, ma che rimaneva comunque ben riparato.

 

“Ma Sabrina ha organizzato tutto questo mentre stavi in bagno?” gli domandò, stupita.

 

“Diciamo che… diciamo che è da un po’ che avevo l’idea di fare questa gita con te, dottoressa, da prima di… di tutto. Ma non ce n’è mai stata la possibilità, quindi Sabrina mi aveva già dato un po’ di dritte e… e non c’è voluto molto per metterci d’accordo. Però… però forse è stato meglio così, no? Che… che ce la siamo conservata per… per questa occasione.”

 

La voce ormai se n’era sparita e quindi riuscì solo a fare sì col capo, mollando il cesto a Calogiuri e scendendo da Minerva, che aveva già chiaramente percepito il suo stato d’animo, per come picchiava gli zoccoli.

 

Le sarebbe servita in procura come macchina della verità, altroché!

 

Aiutò Calogiuri a legare i cavalli ad un albero e a lasciare loro cibo ed acqua, che potessero riprendersi in tempo per il ritorno, e poi lo osservò mentre preparava la coperta e tutto il necessario per un picnic: formaggi e salumi locali, il buonissimo pane che ormai tutta l’Italia invidiava a Matera e, soprattutto, il vino.

 

Forse per lo sforzo fisico, l’aria frizzante, o forse perché venivano da un periodo di magra, in tutti i sensi, ma a lei sembrò il cibo più squisito mai mangiato ed il vino… il vino scorreva piacevolmente, fin troppo, tanto che dovette frenarsi. Per fortuna però Calogiuri si frenò da solo, dopo un paio di bicchieri, ed al suo sguardo di approvazione rispose, “voglio essere sobrio, dottoressa, per godermi questo momento fino in fondo, e per ricordarlo per sempre.”

 

Le dichiarazioni di Calogiuri erano pure più micidiali del vino, tanto che si trattenne a fatica dal gettarglisi addosso, buttarlo sulla coperta e baciarlo fino a perdere i sensi.

 

Ma voleva vedere dove voleva arrivare, l’impunito.

 

Calogiuri armeggiò per un po’ col cestino e poi ne estrasse una sfera rossa.


“Una mela?!” esclamò, incredula, mentre le venne di nuovo da ridere.

 

“Non solo perché è buona col formaggio, ma perché… così questa volta è l’uomo ad essere tentatore, almeno spero. E me la prendo io la colpa.”

 

Se lo sarebbe mangiato a morsi lui, mica la mela, ma l’afferrò e le diede la simbolica rosicchiata, prima di passarla a lui, che fece altrettanto.

 

E poi Calogiuri mollò la mela sul tovagliolo e si fece serio, serissimo, tutto di botto, tanto che quasi si preoccupò.

 

“Imma… se ti ho voluta portare qui è perché… è perché forse il cavallo è stata la prima cosa che ci ha uniti così tanto, fuori dal lavoro. Che… che mi ha fatto pensare che… che potessi avere qualche speranza di una vita con te, e non soltanto come amanti. Che… che mi ha fatto conoscere quella Imma bambina, capace ancora di meravigliarsi davanti alle cose, e che nascondi sempre a tutti. Anche a te stessa.”

 

Oltre che la voce, voleva levarle pure la vista, mannaggia a lui! Perché c’aveva gli occhi che le pizzicavano tremendamente e le toccò asciugarseli.

 

“In questi anni… abbiamo fatto così tante cose insieme, cose che mai e poi mai avrei immaginato di poter fare. Tanti casini ma anche così tante cose belle, bellissime, che non mi scorderò mai. E… e forse per questo… c’avevo questa idea in testa del nostro rapporto… questa perfezione che pretendevo da me, da te, da noi due. Ma mo ho capito che pretendevo troppo che… che la perfezione non esiste ma che… che tu per me sei sempre quello che più ci somiglia, dottoressa. E… e pure se tengo la capatost’, come mi dici sempre tu, io non voglio la perfezione o… o tenere ragione sempre… io voglio essere felice. E… e non ci riesco ad esserlo se nella mia vita non ci sei tu.”

 

Dire che si fosse liquefatta era dire poco. Buttò la prudenza al vento e bevve un’altra sorsata di vino, a canna, cercando di ritrovare il fiato e le parole.

 

“Pure… pure per me è lo stesso, Calogiuri. E lo sai. Ma… ma sei sicuro che sei riuscito ad andare avanti e a perdonarmi? Perché… perché qua in discussione non c’era e non ci sta l’amore, ma la fiducia.”

 

“Ma non c’è niente da perdonare, Imma. L’ho capito un po’ tardi, ma l’ho capito.”

 

Il modo in cui si sentì stringere la mano, il suo sguardo, così limpido e deciso, ancor più delle sue parole, le fecero tirare un enorme sospiro di sollievo, come se tutto il peso del mondo le si fosse alzato dalle spalle.

 

“Per me… per me praticamente la nostra storia è iniziata il giorno della Bruna e-”

 

“E pure per me, lo sai. Anche se… anche se ci ho messo un po’ a… a fare quello che era giusto.”

 

“Lo so, ma… ma quello che volevo dire è che… insomma… ho fatto le mie cavolate, con Matarazzo, soprattutto, perché mi sono sentito tradito e… e ferito e… e ho capito che pure tu puoi avere avuto un attimo di cedimento e di debolezza. Minore del mio perché… perché io rispetto a te sempre un poco ciuccio rimango.”


“Ma non è vero!” esclamò, sporgendosi per accarezzargli il viso, “però… però anch’io nella testa sono sempre stata con te, sempre, anche… anche se in certi momenti avrei così tanto voluto odiarti o… o dimenticarti. E… e quella sera ho sbagliato anche nei confronti di me stessa, Calogiuri, perché… perché forzandomi con Mancini ho tradito me stessa e quello che sentivo.”

 

“Lo so… lo so…” si sentì sussurrare sulle labbra, mentre lui ricambiava le carezze, “però mo non pensiamo più al beccamorto, va bene?”

 

Il tono di Calogiuri la fece scoppiare a ridere ma aggiunse, più seria, “veramente l’unico che ci pensava eri tu, Calogiuri, perché io… quella sera mi sono praticamente dovuta stordire con l’alcol per non pensarci. Non ci ho proprio mai pensato. Mentre con te… pure quando stavo ancora con Pietro… con te il problema è sempre stato riuscire a levarti dalla mia testa, almeno per qualche minuto. Ma temo proprio di non aver ancora capito come si fa.”

 

Calogiuri deglutì così forte che lo udì come se lo avesse fatto lei, e poi i suoi occhi diventarono due laghi, che altro che la diga ci voleva.

 

Del resto non era da lei fare dichiarazioni, ma le era uscita così, senza sapere come - certe volte le parole escono da sole, ma in quel caso… altro che sbagliate erano!

 

Rimasero così, a guardarsi per quanto potevano, con la vista appannata, a stringersi le mani fino a stritolarsele, per un tempo infinito e-

 

E dei nitriti, fortissimi, li fecero sobbalzare e guardare verso i cavalli, non che fosse successo loro qualcosa.

 

Ma i cavalli le parvero soltanto molto annoiati e Minerva si produsse in un altro richiamo.

 

“Mi sa che… mi sa che mi vogliono chiedere se mi decido a baciarti o no…” esclamò lui, facendola ridere, e si voltò e sì, aveva di nuovo la benedetta faccia da impunito.

 

Finalmente.

 

“E c’hanno ragione, c’hanno e-”

 

La frase le rimase in gola, insieme al cuore, perché altro che bacio!

 

Si trovò con la schiena sulla coperta, ad esclamare un “ahia!” quando si beccò la mela tra le costole, ma la buttò verso i cavalli di fronte allo sguardo prima preoccupato e poi divertito di Calogiuri.

 

Un altro di quei sorrisi sornioni da denuncia e stavolta era lei a baciarlo e a farlo finire di schiena sulla coperta, mentre le mani andavano da sole e gli slacciavano alla bell’e meglio i dannati pantaloni che erano troppo stretti erano, e le venne da ridere sulle labbra di lui, all’unisono, avvertendo dalle mani e dal ruggito frustrato di lui che pure lui stava avendo lo stesso problema.

 

Non fossero stati a noleggio e, soprattutto, non fossero stati in mezzo ad un nulla dal quale dovevano pure rientrare, li avrebbe strappati li avrebbe, ma alla fine con un grugnito di soddisfazione riuscì a sfilargliene una gamba e pure lui a lei e poi il mondo finì di nuovo a testa in giù, stordita da un altro bacio, la frenesia che non lasciava tempo e spazio al ragionamento, dopo tanta attesa. Si lasciò scappare un grido, uno solo, che fu insieme vittoria, liberazione, sollievo, lasciarsi andare a quell’amore immenso che per tanto tempo non aveva potuto esprimere del tutto, a quella passione che le bruciava dentro e fuori, consumandola, consumandoli.

 

Fino ad un altro grido, questa volta di lui o forse di entrambi, mentre tutto esplodeva e si ricomponeva allo stesso tempo, il fiato che non arrivava, mai abbastanza, mentre si lasciava andare del tutto, molle e quasi liquida, perdendosi insieme a lui.

 

La prima cosa che notò, quando il fischio nelle orecchie si zittì, lasciando posto ai rumori, quando gli occhi ripresero a vedere il cielo grigio e non soltanto uno sfarfallio indistinto, fu il nitrito fortissimo dei cavalli.

 

Si riebbe del tutto e incrociò lo sguardo preoccupato di Calogiuri, e poi si voltò verso gli animali, spaventata e-

 

E scoppiò a ridere.

 

Il riso di Calogiuri le vibrò dentro, e si guardarono di nuovo, un po’ imbarazzati, ma anche divertiti dalla loro stessa follia, osservando i cavalli che davano loro il sedere mo, con un atteggiamento che manco la buoncostume, lamentandosi scandalizzati.

 

“E perché chissà cosa farete mai voi, quando stai in calore, eh?!” esclamò, beccandosi un altro soffio risentito di Minerva.

 

Che probabilmente aveva preso più dalla professoressa di Harry Potter, che pareva la signorina Rottermeier, che dalla dea dalla quale derivava il suo nome. Anche se pure lei… ma perché poi la saggezza, l’intelligenza e la giustizia, non potevano conciliarsi pure con i sani piaceri della vita?

 

E che cavolo!

 

“A che pensi?”

 

Il bacio di Calogiuri sulla spalla e sul collo la portò alla realtà, e a due occhi azzurri che brillavano divertiti e maliziosi.


“Che dovremo pagare i danni a Sabrina per il trauma arrecato. Ma che non mi pento di niente, proprio!”

 

Il bacio che la travolse, pure mentre ridevano, cementò ancor di più il suo proclama e la sua convinzione.

 

“Senti…” lo udì poi sussurrare, con quel tono da impunito che non prometteva niente di buono, ma tanto di ottimo, “visto che tanto… che tanto ormai… traumatizzati per traumatizzati… che ne dici se…. Anche perché… insomma… è stato tutto così veloce e-”

 

“Per fortuna non troppo veloce, Calogiuri,” lo sfottè, facendogli l’occhiolino, “e comunque… approvo in pieno la mozione, maresciallo. Accolta! Ma stavolta stai ai miei ordini, eh!”

 

“Ah, sì?” le chiese e, prima che potesse aggiungere altro, si trovò di nuovo placcata sulla coperta, le labbra tappate in un bacio stavolta dolce, lento, tenero ed allo stesso tempo appassionato.

 

Come solo Calogiuri sapeva essere.

 

Ora che la fame arretrata era stata un minimo saziata, si prese il suo tempo quello sfrontato, a levarle piano piano i vestiti, che finalmente cooperavano i maledetti, facendoli volare ad uno ad uno per la radura.

 

E lei poteva forse farsi bagnare il naso?

 

Ma manco per idea! Quindi ricambiò, baciando ogni centimetro di pelle che scopriva, sopra quelle ossa che finalmente erano sempre meno pronunciate, i muscoli che si facevano sentire, sotto le labbra, in quello che era sia un sollievo, sia un modo di ricordarle quanto fosse stato vicina a perderlo per sempre.

 

Trattenendo la commozione, lo baciò sul cuore e poi nel giro di un secondo si trovò di nuovo con quelle labbra carnose sulle sue, ed erano umide, umide di lacrime, non avrebbe saputo dire di chi ormai.

 

Fu dolcissimo, in ogni istante, senza fretta, nonostante le circostanze, come gli incoscienti che forse erano sempre stati, perché l’amore è così. E Calogiuri ogni volta le insegnava cosa fosse fare l’amore davvero, senza filtri, senza limiti, lasciarsi andare completamente, corpo, mente e cuore.

 

Perché con lui poteva farlo, poteva essere se stessa, fino in fondo. Con lui e soltanto con lui. 

 

Sempre.

 

E dopo i baci, i sospiri, le carezze, dopo aver di nuovo perso e ritrovato i sensi, distesa tra quelle braccia che erano casa, un solletico all’orecchio e-

 

“Hai un’idea di quanto ti amo?”

 

Il cuore si stoppò per un attimo e poi prese a galoppare, più dei cavalli, un singhiozzo trattenuto, mentre gli si rifugiava nel petto e glielo riempiva di baci e lacrime.

 

“Imma… che… che cos’hai?”

 

La preoccupazione di lui, la tenerezza, sollevò il viso e lo baciò, dritto sulle labbra, pizzicandogli una guancia.

 

“No… è che… da… dopo Melita… non me lo avevi mai più detto.”

 

E forse solo in quel momento, mentre la faceva sentire così leggera, così grata, così viva, si rendeva conto di quanto quella mancanza le fosse pesata.

 

“Sono stato uno stupido, lo so…” fu la risposta di lui, con quegli occhi lucidi e sinceri e quella voce tremante che le chiese, “puoi perdonarmi?”

 

“Non c’è niente da perdonare, Calogiuri, come hai detto tu… forse… forse dobbiamo perdonare noi stessi per la nostra stupidità e per tutto il tempo perso…” ammise, accarezzandogli di nuovo il viso, per poi aggiungere, dritto negli occhi, “hai un’idea di quanto ti amo, io, almeno? Perché forse non sono brava ad esprimerlo, o a dimostrarlo ma-”

 

“Ma che dici? Se in questi giorni… in queste settimane… me ne hai date così tante di dimostrazioni, di conferme che… che forse manco me le meritavo e me le merito, ma-”

 

“No, Calogiuri. Ci meritiamo proprio a vicenda, perché siamo due testoni da primato, siamo,” lo interruppe, perché il cuore le stava veramente per scoppiare e lo baciò e se lo strinse più forte che poteva.

 

Ma poi… piano piano… il freddo cominciò a farsi sentire e le toccò sollevarsi leggermente, per guardarsi intorno, tra quel cielo sempre più grigio e scuro e l’azzurro dei suoi occhi.

 

“Si è fatto tardi, dobbiamo rientrare,” palesò lui per lei quella che era la realtà, il ritorno alla realtà, anche se sarebbe rimasta volentieri lì per sempre.

 

Ma la realtà che li attendeva dopo, forse, poteva essere pure meglio, come lo era sempre, inspiegabilmente, quando stava con lui.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua alla fine di questo lunghissimo capitolo ma ho deciso che fosse giusto lasciarlo intero, anche per compensare un po’ la lunga attesa per le nuove puntate della fiction.

Imma e Calogiuri si sono finalmente riconciliati ma… non è mica finita qui. Hanno ancora parecchi casini da affrontare, sia lavorativi che personali, prima di poter cantare vittoria. Nei prossimi capitoli vedremo sia come proseguiranno il giallo e il maxiprocesso, cosa succederà con Melita e suo figlio, che capiterà con Valentina e Carlo, Rosa e Pietro e le altre “quasi coppie” che vanno delineandosi ma, soprattutto, cosa ne sarà di Imma e Calogiuri, perché ora hanno parecchie decisioni da prendere ma bisogna anche vedere se riusciranno a rispettarle poi e ad affrontare tutto quello che pioverà ancora loro addosso. Perché chi trama nell’ombra… mica si arrenderà tanto facilmente.

Spero la storia continui a piacervi e ad intrattenervi, siamo nella fase conclusiva ma ci sono ancora un po’ di capitoli, credo che arriveremo tranquillamente fino alla seconda parte della seconda stagione almeno. Nel frattempo, ispirazione permettendo, credo farò qualche one shot sulla seconda stagione,  quindi se vi fa piacere leggerle, vi consiglio di controllare il mio profilo autrice di tanto in tanto, se già non mi seguite.

Grazie mille a chi ha messo questa storia tra i preferiti e i seguiti e un grazie di cuore a chi mi lascia e mi lascerà una recensione. I vostri pareri mi sono sempre di enorme motivazione e preziosissimi per capire come va la scrittura e se la storia continua a piacervi o meno, oltre a cosa vi convince di più o di meno e ai vostri suggerimenti e ipotesi che sono sempre utilissimi per me.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 28 novembre.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 67
*** Contrappasso ***


Nessun Alibi


Capitolo 67 - Contrappasso


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Come va, Mariani? Stanca?”

 

“Un po’. Anche se almeno stavolta non avremo il problema della digestione, anzi.”

 

Rise, perché effettivamente non poteva darle torto. Vitali e signora li avevano invitati a cena, anche perché Imma e il maresciallo erano praticamente spariti - e li capiva benissimo, con il senno di poi - e quindi erano rimasti lui e Mariani a fare le veci della procura di Roma.

 

Vitali aveva tanto insistito, quindi non era stato possibile sottrarsi, e li aveva portati in un locale elegantissimo, con vista sui Sassi, bellissimo e con uno chef stellato davvero in gamba. Avevano mangiato benissimo ma le porzioni erano da nouvelle cuisine ed effettivamente, non fosse stato ancora distrutto dalla cena precedente, avrebbe forse avuto ancora appetito, dopo la lunga giornata appena trascorsa.

 

“Spero non l’abbia messa a disagio la cena, Mariani.”

 

“Diciamo che… non sono molto abituata a questo genere di ristoranti. Per fortuna mi ero portata dietro almeno un abito elegante. Lo avevo preso per la prossima festa della procura, ma è tornato utile prima del previsto. Spero non si scandalizzerà se lo riciclerò, dottore.”

 

“Non lo dirò a nessuno, Mariani, parola d’onore,” scherzò, anche perché… il vestito blu elettrico che aveva indossato le stava veramente bene, oltre a risaltare tantissimo i suoi occhi, quindi rivederla così non le sarebbe poi dispiaciuto, anzi.

 

Si bloccò un attimo: e quel pensiero da dove era venuto ora?

 

“Tutto bene, dottore?”

 

Mariani lo guardava preoccupata.

 

“Sì, sì. Non si preoccupi Mariani. E non si preoccupi nemmeno per la cena, perché se l’è cavata egregiamente, sia col dottore che con la signora.”

 

La vide diventare un poco rosa, anche alla luce del lampione.


“Menomale. Anche se il dottor Vitali è un chiacchierone. Su questo… apprezzo la sua riservatezza, dottore. Sicuramente è più riposante.”

 

“Mi sta dicendo che la faccio dormire, Mariani?” la prese in giro, volutamente, per stemperare la tensione.

 

“Non mi permetterei mai e-”

 

Mariani si fermò di colpo. Confuso, si chiese per un secondo il perché, ma poi guardò verso dove stava guardando lei e vide una moto ferma sul lato della strada, un po’ più avanti, e soprattutto chi ne stava scendendo.

 

Imma stava passando il suo casco al maresciallo, che lo ritirava insieme al suo sotto la sella, giusto in tempo perché lei lo trascinasse in un bacio che… se quello era come lei baciava veramente, lui non aveva proprio visto quasi niente di lei.

 

Per fortuna non si accorsero di loro - e come potevano, che praticamente erano incollati, che più che baci erano quasi dei preliminari quelli - e finalmente, dopo che lei si liberò per un attimo e riuscì ad usare le chiavi, tra un risolino e l’altro, sparirono dietro al portoncino del palazzo.

 

“Tutto bene, dottore?”

 

La voce di Mariani lo riscosse dalla paralisi nella quale per chissà quanto tempo doveva essere rimasto e la guardò, un po’ confuso.

 

Non tanto dalla domanda ma da se stesso.

 

“Sì, Mariani, tutto sommato sì,” ammise, sorprendendosi perché era vero: non è che gli avesse fatto piacere, anzi, ma rispetto a quanto stava male di solito quando vedeva Imma con il maresciallo, in atteggiamenti decisamente meno compromettenti, peraltro, non gli aveva causato quel dolore lancinante che si sarebbe aspettato.

 

Mariani però alzò un sopracciglio, con aria scettica.

 

“No, Mariani, veramente... forse… forse mi sono reso conto di essermi fissato per tanto tempo su una cosa che non esisteva. E, adesso che ho accettato la realtà, sta andando un po’ meglio.”

 

“La sa una cosa, dottore? Pure per me… pure per me è lo stesso e me ne rendo conto solo adesso che ne parliamo.”


“Santoro?” le chiese, sperando che la risposta fosse affermativa, visto quello che avrebbero dovuto fare.

 

“Sì. Ormai è da un po’ che ci sto facendo i conti ma… non è la persona che credevo fosse. E quindi… e quindi va meglio.”

 

“Ne sono felice, Mariani, veramente. A proposito, visto che… su Santoro dovremo lavorare e molto, non appena rientrati a Roma, che ne dice se ora andiamo a riposare? Che ci attendono giornate molto lunghe, anche più di queste.”

 

“Va bene, dottore. Almeno stavolta spero di prendere sonno subito nella cella e di non sbattere la testa sul soffitto.”

 

Rise ed annuì, avviandosi con lei per l’ultimo pezzo che mancava per raggiungere l’hotel.

 

Se così poteva essere definito.

 

*********************************************************************************************************

 

Calciò la porta alle sue spalle, senza smettere di baciarla, non solo perché non voleva, ma perché non riusciva a staccarsi da lei.

 

Dopo tutta la stupidissima distanza autoimposta… ora… ora non riusciva più a farne a meno: di Imma, delle sue labbra, del suo respiro nel suo, dei suoi mugolii di piacere, della sua pelle.

 

Avrebbe recuperato tutto il tempo perso e con gli interessi.

 

La sollevò, mentre continuavano a baciarsi, le gambe di Imma che gli si allacciavano alla vita. E miracolosamente non caddero, ma la camera di letto era troppo, troppo lontana.


Quindi, continuando a baciarla, si buttò con lei sul divano e-

 

“Ahia!”

 

Si staccò immediatamente, preoccupato, magari di essere atterrato con troppa foga, “ti sei fatta male?”

 

Imma aveva il viso in una smorfia di dolore ma scosse il capo e si toccò dietro la schiena, “ma che c’è qua mo? Un’altra mela?” chiese, con tono ironico, e la vide scavare sotto al cuscino.

 

Ne estrasse un quadrato di plastica, probabilmente parte di un set di cubi appartenenti a Noemi, che chissà da quanto tempo stava lì.

 

“Menomale che mia sorella doveva aver sistemato casa prima del trasloco. Se andiamo avanti così troveremo reperti di Noemi per anni…” ironizzò, mentre Imma lanciava il cubo sul tappeto.

 

Imma, per tutta risposta, fece un sorrisetto di quelli suoi, che preannunciavano guai, e gli rispose, “e va beh, Calogiù, meglio che troviamo noi quello che Noemi può aver lasciato sotto i cuscini del divano, che Noemi trovi quello che ci possiamo lasciare io e te, capisci a me!”

 

Si sentì avvampare, il fiato che gli si spezzava in un colpo di tosse. Mannaggia a lei!

 

“Sei incorreggibile, dottoressa!” sibilò, ritrovando il respiro.

 

“Perché? Vorresti che mi correggessi?” gli chiese, con un sopracciglio alzato.


“Fossi matto!” rispose, ricominciando a baciarla e a levarle i vestiti, che almeno questi erano assai meno stretti di quelli da equitazione, accompagnato dal pigolio di qualche altra diavoleria di Noemi, nascosta chissà dove.

 

Ma in quel momento c’erano cose assai più importanti ed urgenti da scoprire.

 

Urgentissime.

 

*********************************************************************************************************

 

“Come va? Vuoi che facciamo una sosta?”

 

L’urlo di Calogiuri era arrivato forte e chiaro nell’autostrada poco trafficata di mattina presto.

 

Erano partiti alle sei del mattino, non solo per arrivare presto a Roma, ma anche per evitare di dare troppo nell’occhio.

 

Mancini e Mariani li seguivano, ma erano sicuramente più indietro.


“No, Calogiù, non ti preoccupare! Arriviamo a Roma, che ormai è vicina. Anche perché poi dobbiamo fare la videochiamata con gli altri, mo che abbiamo di nuovo la linea criptata.”

 

Non si erano visti con Mariani e Mancini la sera prima, anche perché sarebbe stato imbarazzante - a parte che avevano avuto di molto meglio da fare - ma, al momento, meno si facevano vedere in procura e meglio era, quindi si sarebbero coordinati con tutta la squadra con quelle cavolo di call come le chiamava Irene.

 

“Sicura? Guarda che da qua c’è ancora più di un’ora. E abbiamo dormito poco!”

 

“Eh, chissà per colpa di chi…” ironizzò, perché Calogiuri… l’aveva quasi ammazzata con tutto il recupero arretrati che avevano fatto.


Che lì, altro che mangiare per recuperare peso avrebbero dovuto fare! Zabaione a litri gli ci voleva!

 

“Per quel che mi ricordo, dottoressa, direi che c’è stato come minimo un concorso di colpa, se non proprio una complicità piena,” ribattè lui, guardandola rapidamente con l’espressione da impunito.

 

In effetti… pure lei non è che non ci avesse messo del suo, anzi, ma… era sempre colpa di lui che era così irresistibile, mannaggia a lui!

 

“Allora fermiamoci… un altro bombolone alla crema ce lo siamo proprio meritati, in effetti.”

 

“Se no ci restano i cioccolatini al peperoncino, dottoressa,” la sfottè lui e non si trattenne e gli diede un pizzico sul fianco, anche se erano in autostrada, ma per fortuna la moto lui la teneva più che bene.

 

“Sì, ci mancano quelli ci mancano, e poi finiamo direttamente al creatore, Calogiù!”

 

“Se non ci fai finire tu prima, dottoressa!”

 

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“A te l’onore, dottoressa!”

 

Gli sorrise quando le passò le chiavi di casa, perché quello era un ritorno a casa in tutti i sensi, ad una casa vera, piena, condivisa, alla loro famiglia.

 

La girò nella toppa e subito sentì un miagolio prolungatissimo e semi incazzoso e poi si trovò con Ottavia tra le braccia che un po’ protestava, un po’ le dava le capocciate tenere al seno, un po’ riprotestava, un po’ faceva le fusa, tutto insieme.

 

“E dai, Ottà, siamo stati via pochissimo. E poi c’avevi le babysitter, no?” le chiese, perché Rosa l’aveva tenuta per quei pochi giorni e le aveva scritto poco più di mezz’ora prima per confermare che l’aveva riportata a casa.

 

Ma Ottavia, da vera regina del melodramma, roba che Valentina adolescente in confronto non era niente, continuava con le sue proteste, miste a manifestazioni di sollievo ed affetto.

 

Dopo averla accarezzata ancora per un po’, la passò a papà suo, che se la godesse un po’ anche lui. E con lui, ovviamente, la ruffiana protestò meno e se lo allisciò di più.

 

E te pareva! Femmine!

 

“Dai, entriamo,” gli disse, sollevando lei il borsone con il loro scarso bagaglio, visto che lui c’aveva le mani impegnate e tanto era leggero.

 

Ma lui si mise Ottavia su una spalla e subito glielo prese, premurosissimo, chiudendo pure la porta alle loro spalle, mentre Ottavia si appollaiava in un modo che praticamente gli faceva da cappello, quasi.

 

“Che fai, mo? Il gentiluomo del sud? Ti è bastata l’aria? Guarda che lo riesco a portare da me.”

 

“Lo so ma… che ci sta di male se ti voglio viziare un po’? Almeno per qualche giorno che… che è da tanto che non lo potevo più fare.”

 

Le venne un nodo perché pure lei… altro che di viziarlo c’aveva voglia, pure se era esausta mo.

 

Così, senza pensarci, si avvicinò e gli piantò un bacio e… e si dovette staccare subito perché fu assordata da un miagolio che pareva quasi un ululato.

 

“Che mi sei diventata della buoncostume pure tu mo, e non solo i cavalli?” chiese ad Ottavia, ancora appallotolata a Calogiuri, ma Ottavia prima fece un altro miagolio, poi leccò la guancia di Calogiuri e poi saltò addosso a lei e cominciò a farle feste, tra leccate, capocciate e miagolii che esprimevano un entusiasmo commovente.

 

Letteralmente.

 

E poi risaltò in braccio a Calogiuri e lo fece pure con lui.

 

“Mi sa che qualcuna è felice che abbiamo fatto pace, dottoressa. E che non dovrà scegliere se stare con mamma o con papà,” sorrise lui, anche se c’era pure un qualcosa in quel tono, forse la consapevolezza di quanto erano stati vicini a perdersi sul serio.

 

“Anche perché avremmo applicato il metodo di Salomone,” ironizzò Imma e Calogiuri la guardò confuso, mentre Ottavia fece quasi un miagolio spaventato.

 

A volte dubitava davvero che i gatti sapessero tutto, ma non solo tutto quello che succedeva mo, ma tutto quello che era successo da secoli, alla faccia dei complottisti.

 

Di sicuro ad Ottavia non la si faceva.

 

E per fortuna.

 

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“Certo che potremmo fare una gara a chi ha le occhiaie peggiori. Ma che cosa avete combinato a Matera?”

 

Era stata Irene a parlare e sì, tra lei e Ranieri sembravano due discendenti dei panda, Francesco che continuava periodicamente a lamentarsi e piagnucolare, ma per fortuna la sua voce ancora funzionava nel calmarlo.

 

Cosa che la straniva tantissimo, visto che di solito la sua voce delicata aveva tutt’altri effetti sulla gente.

 

“Noi abbiamo dormito in celle monastiche fatte per persone alte al massimo 1.50. Colpa mia che ho scelto male l’hotel,” chiarì Mariani, sembrandole un po’ in imbarazzo.

 

“Può succedere, Mariani, non si preoccupi. Ma l’albergo magari la prossima volta lo prenoto io,” ironizzò Mancini, non sembrandole però di cattivo umore, nonostante la stanchezza.

 

Mo ste celle le avrebbe proprio volute vedere.

 

O magari no, che… con tutto quello che avevano combinato lei e Calogiuri, in un posto del genere un trauma cranico non glielo avrebbe levato nessuno.

 

“Forse a voi è meglio che non chiedo oltre,” esclamò Irene, mordendosi le labbra e guardandoli in un modo che faceva capire che, come sempre, aveva intuito tutto.

 

Ma che c’aveva, il radar?

 

Guardò lo schermo di Mancini e Mariani, molto preoccupata, ma il procuratore capo aveva un’espressione imperscrutabile e di sicuro non sarebbe stata lei a rigirare oltre il dito nella piaga.

 

“Va beh… insomma… che facciamo mo?” tagliò corto, virando decisamente sulle questioni di lavoro.

 

“Mi rendo conto che la situazione in cui vi trovate non sia facile, soprattutto lei, maresciallo,” esordì Mancini, con un tono che le fece dubitare che quello che doveva dirle non le sarebbe piaciuto, “ma se vi fidate ancora per un po’ di noi… preferirei aspettare a rendere tutto pubblico, fino a che non avremo capito chi ha aggredito materialmente la Russo, e non avremo prove in tal senso.”

 

Lanciò uno sguardo a Calogiuri, che aveva la mascella rigidissima. Gli prese la mano da sotto al tavolo e lo guardò come per chiedergli che ne pensava. Ma lui sospirò ed annuì.

 

“Ha senso non scoprire troppo le carte ora, e lo capisco. Ma… che succede se non scoprissimo chi sono gli aggressori materiali?” chiese, con un tono professionale che la rese orgogliosissima.

 

“In quel caso ovviamente lasceremmo trapelare quanto rivelato dalla Bartoli e le scoperte su DNA e paternità. Ma spero vivamente che avremo le informazioni che ci servono a breve.”

 

“Dottore, pure io concordo con lei,” si inserì, perché purtroppo quel caso le aveva insegnato che cantare vittoria e scoprire le carte presto era un errore, “secondo me sono stati Mancuso e Giuliani, magari anche con altri. Ma primariamente loro due.”

 

“Sì, dottoressa, lo ritengo probabile ma… dobbiamo trovare prove schiaccianti, perché al momento restano solo il traffico e la compravendita di minore, oltre all’aggressione ed al tentato omicidio a lei e al maresciallo, ovviamente. Dobbiamo fare altre verifiche e capire come collegarli in modo inequivocabile all’aggressione di Melita.”

 

“E noi intanto che facciamo? Dobbiamo rimanere sempre murati in casa?” domandò Calogiuri, esprimendo anche quella che era la sua paura.

 

“Direi che… che potete uscire più liberamente, ma con prudenza. E meglio che ancora per un po’ non vi avviciniate alla procura, se non convocati.”

 

Sospirò: se l’era aspettato ma era sempre più difficile resistere.

 

“E che facciamo con Francesco?” domandò Irene, con un tono quasi disperato, “continua a lamentarsi e a piangere e… e Imma è l’unica che riesce a calmarlo veramente.  A parte Bianca a volte. Immagino che Imma e Calogiuri non possano ancora venire a trovarci o viceversa?”

 

Le venne un poco da commuoversi ma anche da sorridere, perché si vedeva che Irene era quasi all’esasperazione.


“Per ora è meglio di no, Irene. Anche se almeno abbiamo chiarito che non è figlio del maresciallo ma… finché non c’è la prova definitiva che non abbia aggredito lui la Russo…. E dopo… in caso… non so se la dottoressa sarebbe disposta a prendersene cura, almeno per un po’.”

 

Incrociò di nuovo gli occhi azzurri di Calogiuri e lui le sorrise in un modo così dolce che era altro che da denuncia, da infarto proprio.

 

“Dipende da te, dottoressa, ma per me non ci sarebbero problemi.”


“E neanche per me, con tutto quello che ha passato quella creatura,” gli confermò, prima di rivolgersi di nuovo allo schermo, “ma basta che dopo non dobbiamo fare videochiamate ad Irene e Bianca per tenerlo calmo. Pure se io c’ho l’arma segreta!”

 

“E sarebbe?” domandò Mancini, confuso.

 

“Il manuale di diritto processuale penale. Infallibile per addormentare chiunque.”

 

Calogiuri rise, Irene e Ranieri idem, mentre Mancini spalancò gli occhi.

 

“Non invidio sua figlia, dottoressa,” scherzò, anche se pareva realmente un po’ basito.

 

Meglio così, almeno magari avrebbe capito che tutto sommato ci aveva guadagnato a non avere una relazione con lei. Mentre a Calogiuri i suoi metodi piacevano, eccome se piacevano.

 

“Dottore… visto che tra poco sarà pasqua… possono venirci a trovare amici e parenti? In quantità moderata, che non ci teniamo nemmeno noi,” specificò, guadagnandosi un’altra risata ed un’altra stretta di mano di Calogiuri.

 

“Per quello penso non ci siano problemi, dottoressa. L’importante è che non incontriate ancora chi è coinvolto nelle indagini e può avere conflitto di interessi.”

 

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“Mariani, aspetti un attimo.”

 

In effetti si stava alzando in piedi, visto che la videochiamata era conclusa, ma tornò a sedersi, guardando incuriosita il procuratore capo.

 

“Qualcosa che non va, dottore?”

 

“No, ma… dobbiamo iniziare con discrezione quell’indagine di cui le parlavo. E lei in questo potrebbe essere fondamentale.”

 

Spalancò la bocca, avendo capito. Forse non si aspettava di dover agire così in fretta.

 

“Io? A me non dà retta.”

 

“No, ma… qualcuno che le è amico… potrebbe parlarle, confidarsi.”

 

Stava parlando di Conti, era chiaro.

 

“Ma… ma sa che sono amica pure di altri, dottore,” rispose, sottolineando l’altri per indicare Imma e Calogiuri, “non si tradirebbe mai.”

 

“Magari… facendo leva sul senso di colpa o… cercando di metterlo in una condizione più… vulnerabile.”

 

“Dottore, il mio amico un tallone d’Achille ce l’ha, uno solo, ma non sono io,” rispose, con uno sguardo più che eloquente e lo vide spalancare a sua volta la bocca ed annuire, “però… non sarebbe un po’ una… bastardata… sfruttare questo ascendente?”

 

“Forse lo è, Mariani, ma… vista la situazione… se davvero ha fatto quello che ha fatto… tutto sommato non mi farei troppi scrupoli, no? E allora devo avvertire anche il tallone d’Achille, sperando sia disponibile. Potremmo organizzare qualcosa anche con lei.”
 

“Non un appuntamento galante, però. Che primo sarebbe troppo da bastardi, anzi da stronzi,” osò esprimere, perché, traditore o no, Conti comunque era innocente fino a prova contraria e di vedersi preso in giro in quel modo non lo meritava nessuno, manco il peggiore dei nemici, “e poi… sarebbe strano se di punto in bianco… si interessasse a lui no?”

 

“Sì, però... potremmo fare in modo magari che vada a casa sua… per qualche motivo professionale. Così, con presente anche qualcun altro… ci sarebbero ancora più motivi di senso di colpa, no?”

 

Stava parlando chiaramente di Francesco e sì… vedere il figlio della donna che forse aveva contribuito a ridurre in fin di vita… poteva essere ancora più efficace delle curve e delle ciglia della Ferrari.

 

“Va bene, dottore, ma dobbiamo cercare di rendere il tutto il più credibile possibile e dobbiamo ragionare bene su come fare, prima di agire, che qua una possibilità abbiamo e se si insospettisce….”

 

“Ha ragione, Mariani. Ci ragioniamo su e vediamo come fare. Magari ne possiamo ridiscutere uno di questi giorni a pranzo. Tutto sommato l’hot dog non l’ho digerito poi così male ed il parco è bello in questa stagione.”

 

Sorrise ed annuì, perché sì, parlarne all’aperto era la cosa migliore e più sicura.

 

Per tutti.

 

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Era appena uscita dal bagno dopo essersi fatta una lunga doccia e trovare Calogiuri già seduto a letto, con la sua solita t-shirt bianca che spuntava da sopra le lenzuola, le fece ancora di più realizzare che quella finalmente sarebbe stata di nuovo la straordinaria normalità della sua vita.

 

Si tolse la vestaglia ed una specie di singulto la fece voltare verso Calogiuri che la guardava in un modo… come se la volesse divorare.

 

In effetti, per la prima volta dopo il Gran Rifiuto, aveva indossato senza remore qualcosa di più sensuale della flanella. La famosa camicia da notte fucsia, spacchi e tutto.

 

“Vuoi proprio farmi morire?” le chiese lui, in un modo che le fece immediatamente accelerare il battito.

 

“No, no, che mi servi vivo e… attivo, soprattutto.”

 

Gli fece l’occhiolino e si infilò sotto le coperte, la tensione che si tagliava con un coltello, nonostante la stanchezza ed il fatto che la notte prima avessero già recuperato un bel po’ di arretrati.

 

Ma altri ne avevano da recuperare, molti altri, e lei era sempre stata per la promozione assoluta dell’efficienza.

 

E quindi non protestò affatto, anzi, manco per sogno, quando Calogiuri la baciò in un modo quasi furioso, e poi la tirò a sè, a cavalcioni su di lui, sempre più vicino e-

 

“Alla faccia del rigor mortis, Calogiù,” non riuscì a trattenersi dall’ironizzare, facendogli l’occhiolino, e Calogiuri tossì due volte, poi fece una specie di ruggito e si trovò placcata sul letto a baciarsi come due cretini, le mani di Calogiuri che andavano ovunque, la stoffa fucsia che volava sul pavimento e-

 

Meeeeeoooooow!

 

Si voltarono entrambi, verso il pavimento, dove la camicia da notte si mosse e ne uscì Ottavia che li fissò per un attimo, con uno sguardo che… se avesse avuto un’adolescenza normale, e la buonanima di sua madre l’avesse mai beccata a fare certe cose, l’avrebbe guardata più o meno così.

 

Un soffio schifato ed Ottavia fuggì dalla stanza, a zampe levate.

 

“Magari si riabitua a stare in bagno, no?”


“Ne dubito ma… almeno in certi momenti si dilegua, mica scema!”

 

“Tu invece non vai proprio da nessuna parte, dottoressa,” le sussurrò dandole un morsetto sul collo, come erano secoli che non osava fare.

 

“Se vuoi darti al vampirismo sai che con me perdi, Calogiuri,” lo sfidò, ribaltandolo di proposito e dedicandosi a tormentargli la pelle appena sotto l’orecchio con grande impegno.

 

Quanto le era mancato! Tutto!

 

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“Dormi?”

 

“Non ancora… troppa adrenalina anche se… dovrei essere stremata. Domani però colazione da campioni, pranzo da re e cena pure.”

 

“Imma…” sospirò, baciandole una tempia, mentre le accarezzava il braccio, “va bene, ma… a patto che preparo tutto io. Ti voglio viziare per un po’, te l’ho detto.”

 

“E va bene. Posso sopportare questo enorme sacrificio, almeno per qualche giorno, poi non garantisco.”

 

Gli aveva appena fatto un pizzicotto e riso con lui quando udirono un miagolio ed un peso le si posò sui piedi.

 

“Vedi? Questa mica si schioda facilmente!” proclamò, guardando Ottavia che si acciambellava ai loro piedi, come al solito.

 

“Ottà, lo sai che siamo ancora nudi, vero?” domandò Calogiuri, sollevandosi leggermente e lei fece lo stesso ed Ottavia si buttò sul pavimento, subito.

 

Ma, invece di uscire dalla stanza, la vide risalire con in bocca la sua camicia da notte.

 

“Sì, c’abbiamo la buoncostume c’abbiamo. Anche se forse è meglio che ci vestiamo, prima che ci venga la tentazione del bis e pure del tris, conoscendoti.”

 

“Dubito che questo genere di abbigliamento sia un deterrente, dottoressa,” la prese in giro e le sorrideva in un modo così sornione che altro che Ottà.

 

“Senti, Ottà, che pensi di stare vestita tu?” chiese quindi alla gatta che fece un altro miagolio un po’ offeso, “quindi, se ti sta bene, dormi sui piedi, se non ti sta bene, c’è il bagno che è tanto accogliente.”

 

Ottavia la squadrò e poi, con l’aria di chi stava facendo loro una grande concessione, si acciambellò di nuovo sui loro piedi, sbadigliando lungamente e poi chiudendo gli occhi.

 

Almeno lei, che… con quell’impunito accanto, nudo, le ci sarebbe voluto un po’ per prendere sonno.

 

Ma forse, dopo un po’ di risvegli, Ottavia si sarebbe rassegnata al bagno.

 

O così sperava.

 

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“Vale!”

 

Per poco non le prese un colpo e si voltò, trovando il viso di Carlo, che le sorrideva.

 

“Ehi! Ma è da tanto che aspetti?” gli chiese, perché per colpa del bus era arrivata un po’ in ritardo.

 

“No, no,” le rispose, in un modo imbarazzato che le fece quasi tenerezza, “però ci ho già preso i biglietti e prenotato i pop corn, se no il film inizia e noi stiamo ancora qua.”

 

“Voglio dividere il conto però, sia chiaro,” esclamò, decisa, anche se tutte quelle premure le facevano molto piacere, era proprio un ragazzo d’altri tempi.

 

“Dai, il film l’ho scelto io, quindi è giusto che paghi io, metti che non ti piaccia…”

 

“E se invece mi piacesse?” gli domandò, chiedendosi se stessero ancora parlando solo del film.

 

“E allora poi ce ne potremmo andare a cena e da lì ragionare su come fare, no?” le chiese in un modo che sì, altro che film, si stava parlando di quel gran casino che era la sua vita sentimentale.

 

Annuì, provando una sensazione strana quando lui la prese sottobraccio e, dopo essere passati a ritirare bibite e popcorn, entrarono insieme in sala, prendendo due posti centrali in fondo.

 

“Non è che ti sei fatto strane idee?” gli chiese, perché il luogo era tattico, lo sapeva bene.

 

“Solo se te le sei fatte pure tu.”

 

Sorrise ma voleva forse ancora farsi un po’ desiderare e poi c’era qualcosa, tipo un’ansia, che le diceva di attendere.

 

Cercò di rilassarsi nella poltrona, mangiando popcorn ipersalati e bevendo la coca, finché, verso metà del primo tempo, si trovò di nuovo abbracciata di lato e stretta a Carlo.

 

Era una sensazione strana, diversa, forse perché di solito in quella posizione ci stava sempre con Penelope ma… era tutto diverso. Né bello, né brutto, diverso.

 

Provò a tranquillizzarsi, anche se il film era di tensione e poi… e poi quel qualcosa dentro restava.

 

E poi, di botto, un’esplosione, sangue ovunque e si trovò istintivamente a stringersi di più a Carlo, per cercare di calmarsi.

 

Lo guardò e notò che sorrideva.


“Dì la verità che lo hai scelto apposta il film,” gli sussurrò e lui sorrise ancora di più.

 

“Chissà…” le rispose, mentre con un dito le accarezzava una guancia, dandole un brivido, il fiato di lui sulle labbra.


E poi la baciò, meno timidamente stavolta, mentre le teneva con una mano il mento e con l’altra le accarezzava i capelli.

 

Fu strano… diverso da tutto quello a cui era abituata. Cercò di perdersi nel bacio, di goderselo fino all’ultimo, senza sensi di colpa, ma… ma quel qualcosa nello stomaco continuava ad esserci, anche se Carlo ci sapeva fare, eccome, specie dopo aver preso confidenza.

 

La luce improvvisa li fece staccare: era finito il primo tempo.

 

Si guardarono e lei si staccò ancora di più, perché si sentiva un po’ in imbarazzo lei ora.

 

“Allora, che dici? Possiamo vedere anche il secondo tempo e poi andare a cena?” le chiese, in quella che era una domanda carica di tanti significati.

 

“Direi che ci posso pensare sì,” rispose, anche se invece di avere tutto più chiaro, si sentiva soltanto più confusa.

 

Ma forse ci sarebbe voluto un po’ di tempo per capire, e del resto erano solo all’inizio.

 

Non ci fosse stato quel nodo allo stomaco, sarebbe stato tutto più semplice.

 

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“Imma! Tutto bene? Ma che è successo qualcosa?”

 

“Anch’io sono felice di sentirti, Piè,” ironizzò, perché gli aveva telefonato ma lui non sembrava così entusiasta, anzi.

 

“No, no, Imma, ma che scherzi? Mi fa piacere! Solo che… non mi chiami quasi mai e quindi… e quindi mi preoccupo che sia successo di nuovo qualche cosa. Di grave.”


“No, no, Piè, non ci sono novità. Negative almeno. Ascolta, visto che fra poco è pasqua e qua c’abbiamo avuto il parere positivo a ricevere le visite dei parenti… se il pranzo di pasqua lo facessimo di nuovo qua a casa mia e di Calogiuri? Inviterei te e Valentina, e ovviamente Rosa e Noemi.”

 

Ci fu un attimo di silenzio, tanto che pensò la linea fosse caduta.

 

“Piè, Piè, mi senti?”

 

“S- sì, ti sento. Ma… ma hai già chiesto a Valentina che ne pensa?”


“No, l’ho chiesto prima a te, non che fossi a disagio ma… ma mi sembra che le ultime volte che ci siamo visti non è andata poi così male, no?”

 

“No, no, infatti,” ammise lui dopo un po’, con uno strano sospiro, “va bene. Senti tu gli altri, immagino?”

 

“Eh beh, certo, Piè. Che ti chiedo di fare gli inviti a casa mia mo?”

 

“Va bene… allora ci vediamo a pasqua. Magari porto un po’ di cose da Matera, allora. Tradizione lucana. Mo che non ci dobbiamo più preoccupare del purista della cucina campana.”

 

Le venne da ridere perché sì, l’ultimo evento in famiglia con presente Salvo era stato un disastro.

 

Forse per una volta sarebbe stata una festività tranquilla.

 

Forse.

 

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“Allora, ti è piaciuto il film?”

 

“Il film sì. Il resto, se me lo chiedi, partiamo male,” ironizzò e Carlo arrossì un poco.

 

“No, no, io il film intendevo.”

 

“Non male, un po’ troppo splatter. Mi sa che ormai mi sono abituata ai filmoni impegnati con-”

 

“Con Penelope?” le chiese, avendo intuito perché si fosse interrotta.

 

Annuì, perché non voleva nominarla, ma tant’era.

 

“Va beh. Allora, ci vieni a cena con me?”

 

“E vada per la cena. Che cosa proponi?”

 

“C’è un ristorante indiano meraviglioso qua vicino. Se ti piace il piccante,” esordì, ma poi lo vide deglutire ed imbarazzarsi, “cioè il cibo piccante, eh.”

 

Rise, perché a volte non capiva se lo facesse apposta con i doppi sensi o se fosse veramente così bravo ragazzo.


“Va bene. Vada per il piccante.”

 

Carlo deglutì di nuovo e provò un moto di tenerezza, anche quando le offrì il braccio in un modo ultraformale e si incamminò con lei verso sto famoso ristorante.

 

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“Piè, come stai? Tutto bene a Matera? Questo weekend ci vieni a trovare?”

 

La voce di lei lo metteva sempre di buonumore, nonostante tutto.

 

“Sì, questo fine settimana ci vengo a Roma ma… hai sentito Imma o sono riuscito a chiamarti prima di lei?”

 

“Imma?” gli domandò, con tono stupito che lo fece ben sperare, “no, è da qualche giorno che non la sento. Perché?”

 

“Perché… ci vuole invitare a pasqua a pranzo. Cioè a me, in quanto padre di Valentina e a te e Noemi perché parenti del maresciallo, è chiaro. Io non me la sono sentita di dirle di no, per Valentina, ma…”

 

“E quindi vorresti che io e Noemi ci facciamo pasqua da sole?” gli chiese, con un tono che lo fece immediatamente andare nel panico.


“No, no, no, ma che scherzi, Rosa? No. Solo che… che dobbiamo mettere in conto che c’è il rischio di… insomma… forse non è meglio dirgliela prima la verità, almeno a loro?”

 

Silenzio. Non prometteva bene.

 

“Quindi tu saresti disposto ad affrontare le ire di mio fratello per me?”


“Eh certo! O meglio, non credo che c’abbiamo molte alternative mo, ma-”

 

“Ma non è detto che questa storia esca a pasqua, Pietro e… e tra poco ho la prima udienza per la separazione, lo sai. Secondo me… secondo me è giusto tenercelo per noi ancora per un po’. Non è che il fratellino sia venuto subito a dirmi quando stava con Imma, quindi può pure essere comprensivo.”

 

“Se… se ne sei proprio sicura. va bene.”

 

“Anche perché c’è pure tua figlia di mezzo ed è pasqua. Cerchiamo di passarla serenamente e poi al momento giusto lo diremo. Che ne dici?”

 

“Va bene. Ma mo ti chiamerà Imma e quindi…”

 

“E quindi le dirò che vengo, ovviamente, che Noemi non vede l’ora di rivedere lei e il fratellino. E comunque venerdì sera ti aspetto, eh, puntuale.”

 

“Contaci.”

 

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“Ma sei sicura, Vale?”


“Sì, dai, pago la mia parte, è giusto. Che se no secoli di emancipazione femminile… e mia madre mi uccide.”

 

“Ah, beh, allora…” cedette lui, accettando la sua parte di conto al ristorante, “almeno il cibo è stato di tuo gradimento?”

 

“Sì, buonissimo, poi anche il locale bellissimo, con quest’atmosfera…” rispose, perché erano seduti a terra tra i cuscini, l’aroma speziato nell’aria, le luci soffuse, la musica di sottofondo… tutto creava un’atmosfera quasi magica.

 

Si trovò trascinata in un altro bacio, che ricambiò, le labbra di lui che sapevano del lassi al mango.

 

E poi lui si staccò un attimo e le chiese, “che ne dici se usciamo di qua?” e lei annuì, perché forse era meglio.

 

Tornarono insieme alla macchina di lui, una citycar di quelle che si riuscivano a parcheggiare perfino a Roma e lui la guardò come a chiederle che fare. Gli diede l’indirizzo di casa sua.

 

Il viaggio trascorse in un silenzio un po’ nervoso e carico di imbarazzo, Carlo che approfittava del cambio automatico per tenerle la mano.

 

E poi furono sotto casa.


E lui la guardò, in un’attesa carica di aspettative.

 

Lo baciò di nuovo, forse per spezzare la tensione e per capire il da farsi, se pronunciare la fatidica domanda.

 

In fondo, sì, era il loro primo vero appuntamento, ma si conoscevano da tanto.

 

Si staccò da lui e, con un fiato più stabile di quello che avrebbe pensato di avere, d’istinto gli disse, “allora… grazie della bella serata. Buonanotte.”

 

Lo vide che ci era rimasto male ma… ma non se la sentiva ancora di….

 

“Ma… ma quando ci rivediamo? Ci rivediamo, vero?”

 

Gli sorrise perché sì, la conoscenza meritava di essere approfondita, ma….


“Direi… direi dopo pasqua ormai. Che tanto tu scendi, no? Scusa… ma è che… mi sento ancora confusa e… e voglio andare per gradi, per essere sicura. Ti dispiace?”

 

Carlo le sorrise e scosse il capo.

 

“No, no… hai… hai appena terminato una storia importante e… ed è chiaro che ci vuoi andare piano. Lo capisco. E poi meriti l’attesa, De Ruggeri.”

 

Rise e gli diede un ultimo bacio, anche se breve, e poi scese dall’auto, un altro moto di commozione quando lo vide rimanere lì, di guardia, finché non aprì il portone e non fu entrata, salutandolo con un cenno di mano.

 

Solo allora ripartì.

 

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“We! Auguri!”

 

“Pietro! Valentì! Benvenuti!” esclamò e si trovò trascinata in un abbraccio da Pietro, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

E in effetti, dopo molto tempo, finalmente lo era di nuovo.

 

Mentre strappava un mezzo abbraccio svogliato pure a sua figlia, lanciò un occhio a Calogiuri ma lui sembrava assolutamente tranquillo, ed anzi, avanzò verso Pietro e gli prese le cose che aveva nelle mani, poggiandole sul bancone della cucina, e poi il cappotto, invitandolo ad accomodarsi sul divano, da perfetto padrone di casa.

 

Pietro, per tutta risposta, sorrise e gli strinse la mano, dandogli una pacca sulla spalla.

 

Era un miracolo, un vero miracolo!


Una festività serena, senza suocere rompipalle, senza discussioni, un miracolo: era praticamente la prima volta in assoluto che succedeva.

 

E chi l’avrebbe mai detto, fino anche solo ad un anno prima?

 

Quasi come se avesse percepito l’atmosfera di armonia, udì un miagolio festoso ed Ottavia balzò verso Vale-

 

Pietro? - si chiese, notando con stupore come la micia avesse deviato verso di lui, strusciandoglisi sulle scarpe in modo, letteralmente, da leccapiedi, e poi saltellando sulle sue gambe e, quando lui si abbassò per prenderla, gli si appallottolò alla spalla, dandogli testate amichevoli e pure un paio di leccatine.

 

E che era tutta sta confidenza mo?

 

Anche Valentina, che era accanto a lei, parve sorpresa.

 

“Con gli uomini fa la ruffiana…” sospirò, scuotendo il capo, facendo per prenderle il giaccone ma non riuscendoci perché il “tranne che con uno!” molto soddisfatto di Calogiuri la fece scoppiare a ridere.

 

“Ottavia non ha molto in simpatia il procuratore capo,” spiegò a Valentina e Pietro, che la guardavano incuriositi, e Valentina rise e disse “e ci credo, quello faceva il marpione! Papà, avessimo avuto anche noi una gatta da guardia… come minimo Calogiuri finiva all’ospedale!”

 

Calogiuri si grattò il collo, un poco imbarazzato, ed Imma stava per protestare alla battuta poco opportuna ma sia Pietro che Calogiuri le fecero segno che era tutto a posto.

 

E, in fondo, poter scherzare su quelle cose era un altro segno che le ferite erano ormai guarite.

 

“Va beh…” cambiò comunque volentieri argomento, recuperando il giaccone di Valentina che, esaurito il momento tragicomico, a differenza di suo padre, pareva assai meno di buon umore, tanto che le sussurrò, “tutto bene, Valentì? Tieni una faccia!”

 

“Diciamo che… è complicato. Ma oggi voglio solo godermi il pranzo e poi andarmene a casa tranquilla.”

 

Il campanello suonò di nuovo e Imma ironizzò, “eh, qua la tranquillità mo mi sa che te la scordi proprio!”

 

Non le servì nemmeno chiedere chi fosse, perché gli urletti eccitati di Noemi si udivano pure con la porta chiusa.

 

Con un poco di magone - quanto le era mancata la piccola peste! - spalancò la porta e si trovò davanti gli occhi sorridenti di Rosa e, subito sotto, la faccina adorabile di Noemi che aveva occhioni e boccuccia spalancatissimi.

 

Per un paio di secondi ci fu un silenzio perfetto, poi un mega sorriso, due lacrimoni sulle guance e Noemi ululò un “Tata!!” così emozionato che se la trovò tra le braccia senza quasi capire come, a stringerla forte forte e coccolarsela, mentre Noemi la riempiva di bacetti e lei ricambiava per quanto riusciva, cercando di trattenere la commozione.

 

“Mi sei mancata tatto tatto tatto!” la assordò quasi, ma non le importava: era sempre più una meraviglia, era.

 

Quando si furono un poco calmate, sbirciò Rosa che pareva pure lei emozionata e poi si voltò verso dove stava Calogiuri, i cui occhioni erano ancora più grandi ed acquosi di quelli della nipote e che le guardava con un amore tale che sentiva quasi il cuore esploderle.

 

“Cioooooo!”

 

La posò a terra, prima che le spaccasse qualcosa nell’entusiasmo, e Noemi corse pure verso di lui, che si chinò ad afferrarla al volo in un abbraccio enorme, facendola girare tutto intorno e facendola ridere, mentre lei ululava contenta.

 

La commozione a mille, le venne da sorridere quando notò Ottavia, quatta quatta, allontanarsi ad una distanza di sicurezza.

 

“Cio, mi sei mancato anche tu! Tatto tatto! Tu e Tata avete finito di lavoae sempre come papà?”

 

Guardò Rosa, rendendosi conto che aveva adoperato quella scusa pure per loro.

 

Ma, del resto, che altro poteva dire a una bimba di quell’età?

 

“Diciamo che… c’abbiamo ancora molto da lavorare, Noè, ma… ma mo dovremmo riuscire a vederci un po’ più spesso, sei contenta?”

 

“Sìììììììììììì!”

 

Noemi ormai emetteva ultrasuoni praticamente, tanto che Ottavia si lamentò un poco, fuggendo sopra un mobile, al riparo dall’agitazione della bimba.

 

E poi Noemi si voltò e strillò un “Pietto!!!” tutto felice e fece segno a Calogiuri di lasciarla andare in braccio a Pietro, che se la prese e, pure lui, la fece volare un poco, anche se rispetto a Calogiuri si vedeva che faceva più fatica con le braccia.

 

“Leccalecca?” gli chiese, speranzosa, e Pietro rise ma scosse il capo con un, “alla fine, che ci stanno il cioccolato, i dolci e tantissime altre cose buone da mangiare prima.”

 

Noemi protestò un poco ma poi gli piantò un bacione sulla guancia, ridendo ed esclamando un, “eh sìììììì, tu cucinato tatto tatto, quasi più di mamma!”

 

Vide Pietro spalancare gli occhi e pure Rosa e li guardò, stupita. Ma Pietro sorrise e chiarì, “eh… al b&b la cucina non ci sta, quindi Rosa molto gentilmente mi ha prestato la sua. Che non volevo venire qua a fare il terzo incomodo…”

 

“... Sì… anche perché… almeno Pietro mi ha pure dato una mano con le ricette avellinesi: è bravo a cucinare quasi più di me.”

 

“Ehhhh… mamma gli uomini se li è sempre scelti bene, mica scema! Pure io ne dovrei trovare uno che faccia tutto lui in casa,” esclamò Valentina e di nuovo Pietro e Calogiuri si guardarono con un risolino imbarazzato.

 

Anche se… il parlare di un uomo e l’assenza di Penelope… le davano sempre più da pensare.

 

“E va beh… ognuno fa la sua parte, l’importante è quello. Allora… Rosa, se mi dai quel sacchetto e il cappotto… poi ci possiamo mettere a tavola!!”

 

“Sìììììììì!”

 

“Qualcuna mi sa che ha fame…” rise Pietro, lasciando poi andare Noemi che corse a salutare Valentina con un “Vale!!!” tenerissimo.

 

Sorprendentemente, Valentina, invece di fare il solito atteggiamento un po’ scostante, se la prese in braccio volentieri, e le diede pure un bacio.

 

Si guardò con Calogiuri, che ormai era sempre più vicino a lei, e gli strinse la mano, sorridendo.

 

Sì, i miracoli a volte avvenivano sul serio. E sarebbe stata una pasqua bellissima, una vera e propria risurrezione, in tutti i sensi.

 

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“Volete un altro po’ di u'sciarscidd? L’ho pronunciato bene? Due lampascioni? O un altro pezzo di pizza chiena?”

 

Calogiuri stava facendo gli onori di casa alla perfezione, mannaggia a lui!

 

Si sentiva così felice, finalmente: dopo tutto quello che era successo negli ultimi mesi, tutto sembrava andare nel verso giusto e si sentiva parte di una famiglia vera, anche se allargata. Proprio lei che aveva sempre detestato le festività e ancora un po’ le odiava ma… la strana armonia nella stanza rendeva tutto non solo sopportabile ma quasi emozionante.

 

E poi… vedere Calogiuri che senza remore prendeva le redini, senza timore di raffrontarsi con Pietro o di mostrare che quella era a tutti gli effetti casa loro e ne erano entrambi padroni allo stesso modo… non aveva prezzo.

 

Pietro, forse perché impegnato insieme a Rosa a tenere a bada Noemi ed il suo amore folle per il cibo - del resto lui con i bambini ci sapeva fare tantissimo e anche su quello lui e Calogiuri erano simili, seppur Calogiuri ci tenesse di più alla disciplina - sembrava tranquillo, a parte alcuni momenti in cui lo aveva visto leggermente in imbarazzo.

 

Ma, vista la situazione, era pure normale e stava già andando ben oltre le aspettative.

 

“Cio, ma quando aiva docce?” chiese Noemi, a cui Rosa aveva appena pulito le guance, che praticamente nel suo pezzetto di pizza chiena ci aveva buttato tutta la faccia.

 

“Subito dopo, promesso!” garantì Calogiuri, con un sorriso, “allora, qualcuno vuole il bis?”

 

“Io se mangio ancora scoppio e ci mancano pure i dolci!” si sottrasse Pietro, slacciandosi la giacca indossata per l’occasione.


“Anche io sono a posto fratellì”.

 

“Io pure. Passiamo ai dolci che comincia a diventare tardi?” chiese Valentina, che la scarsissima pazienza per i lunghi eventi l’aveva presa da lei.

 

Annuì e si alzò per andare a prendere la pastiera e l’uovo di pasqua per Noemi, oltre ai taralli dolci, mentre Calogiuri sparecchiava per cambiare i piatti, con fare da cameriere provetto.

 

Mo che stava recuperando la forza nelle braccia sapeva di nuovo fare praticamente tutto, sempre mannaggia a lui!

 

Si sorprese nel vedere Calogiuri estrarre dal frigo l’incriminatissima magnum di champagne di Mancini.


“Almeno non rischiamo di diventare alcolizzati e non la sprechiamo. Anche perché per le cenette tra noi due col cavolo che la tiravo fuori!” chiarì lui, in un modo che la fece ridere.

 

“Eh beh… per le cenette… tu hai di molto meglio da tirare fuori,” gli sussurrò, dandogli una pacca sul sedere.

 

Calogiuri fece un salto, tossì e ci mancò pochissimo che la magnum non finisse schiantata a terra.


Forse era quello il suo destino, dopotutto.

 

Ma, dopo averla salvata in corner ed essersi beccata un rapido bacio che le fece venire una voglia folle di passare a ben altro tipo di dessert, del genere che le calorie te le fa consumare, in tutti i sensi, tornarono verso la zona pranzo.

 

Posarono tutto sul tavolo e Noemi si avventò quasi subito sulla pastiera, a nulla valsero i tentativi di Rosa di contenerla.

 

“Buono, buono! Cio, la pastiea è propio buona!”

 

“Grazie, Noè, ma mangia piano che ti soffochi!” rise lui, cercando di pulirle di nuovo le guanciotte, prima di offrire una fetta a tutti.

 

“Sì, è veramente buona. Mamma, ma per caso fai il provino da chef - non professionista per carità, che quelli professionisti poi a casa sono una sola - prima della selezione ufficiale?”

 

“Eh… più o meno…” abbozzò, guardandosi con Calogiuri e chiedendosi se anche lui stesse pensando alla sera della loro meravigliosa prima volta, ed agli indimenticabili spaghetti di Calogiuri, dell’appuntato o del maresciallo che fossero.

 

Ma, visto quando era avvenuta, era meglio sorvolare, molto in alto, in altissimo proprio.

 

“Diciamo che… a volte ho dovuto cucinare anche in servizio, per mettere a proprio agio dei testimoni a casa loro, o per distrarli, quindi che sapevo preparare almeno le cose di base l’ha visto subito.”

 

“E che non spezzava gli spaghetti! Altrimenti lo avrei incriminato immediatamente,” scherzò lei, sorridendogli di nuovo. In effetti, la sua grande capacità ed empatia con i bambini, gli anziani - oltre che, purtroppo, l’effetto che faceva alle donne - erano una delle prime cose che l’aveva colpita di lui.

 

“Cio, posso avere ovo?” chiese Noemi, con gli occhi di famiglia, che menomale che di mestiere non avevano deciso di fare i truffatori, perché avrebbero fatto stragi in caso.

 

“Con calma, Noè, che se no poi come minimo mi vomiti sul taxi!” esclamò Rosa, preoccupata.


“Ma… ma non posso stae qua con cio e Tata quetta notte? Che è tatto tatto che non li vedo!”

 

Era talmente tenera che le avrebbe perdonato forse persino il vomito serale. E, nonostante avesse molta ma molta voglia di darsi al consumo calorico… dall’altro lato… stranamente l’idea di avere Noemi per qualche ora in più, in fondo, non le dispiaceva affatto.

 

Anche perché era veramente passato un sacco di tempo senza vederla ed era cresciuta un sacco, mannaggia pure a lei!

 

“Ma probabilmente Imma e lo zio vogliono festeggiare anche un po’ tra di loro, no? Magari un’altra sera,” provò a convincerla Rosa, che era sempre più che comprensiva e solidale su certi argomenti.

 

Sì, rispetto alla madre di Pietro ed ai suoi cugini e parenti vari aveva fatto decisamente un upgrade, come avrebbe detto Valentina, perché usare parole come miglioramento, o salto di qualità, era troppo difficile.

 

“Ma pecché? Dovete fae pigiama patty anche voi?”

 

Le venne da sorridere: ah beata innocenza!

 

“Eh… più o meno. Perché? Tu e Bianca avete in programma un pigiama party?” le chiese, da un lato sperando per la povera bimba che si risparmiasse almeno una notte di urla di Francesco.

 

“Eh no… la mamma di Bianca ha sempe tatto da lavoae anche lei,” spiegò Noemi, un poco delusa, mentre Pietro e Rosa stranamente per poco non si strozzavano entrambi con lo champagne - ma che era così frizzante?

 

“Pe fottuna peò c’è Pietto che viene sempe a fae i pigiama patty con me e mamma.”

 

Qualche secondo, i neuroni che si attivarono e lo champagne le finì direttamente nel naso, mentre altro che strozzarsi.

 

Con gli occhi che lacrimavano da morire per il quasi soffocamento, alzò lo sguardo un secondo e cercò gli occhi di Pietro e Rosa.

 

Non era possibile! Non era possibile! Eppure mo tutto aveva senso!

 

E infatti… Pietro aveva una faccia quasi più colpevole di quando aveva scoperto la cenetta a base di cozze avariate con Cinzia Sax. Rosa era dello stesso colore del fiocco dell’uovo di pasqua e stava iperventilando.

 

In tutto quello, Noemi li guardava confusi.


“In… in che senso i… i pigiama party? E... sempre?”

 

Si voltò verso Calogiuri, perché era stato lui a parlare, tra un rantolo e l’altro, che aveva sputato mezzo champagne nel piatto.

 

Quella bottiglia portava decisamente sfiga e… e non sapeva manco lei come si sentiva: era tutto così surreale, come un sogno, o trovarsi in una di quelle commedie dei De Filippo, o peggio, in un programma della De Filippi, o in una soap opera di quelle sudamericane che la buonanima di sua mamma amava tanto prima della demenza.

 

Forse provava troppe cose tutte insieme: incredulità, delusione, rabbia, confusione che… che non ci capiva più niente.

 

“Sììììì! Pietto viene sempe a fae pigiama patty con me e mamma, quando non ho asilo.”

 

“Cioè… tutti i weekend?!”

 

E fu allora che sentì qualcosa, cioè un peso enorme sullo stomaco.

 

Perché a parlare era stata Valentina, che aveva uno sguardo deluso e pieno di un dolore che non si sarebbe mai scordata.


“Valentì-” provò a dire, all’unisono con Pietro, ma Valentina si alzò in piedi.


“Manco a me mi venivi a trovare tutti i weekend! A parte… a parte l’ennesima presa per il culo!”

 

“Ma Valentì… tu c’hai la tua vita ormai e non è che mi vuoi vedere tutti i fine settimana. Ma lo sai che sei sempre la mia priorità assoluta, sì? E poi… e poi te l’avevo detto che ci stava qualcuna e-”

 

“Peccato che hai omesso il piccolissimo dettaglio che qualcuna era la sorella di Calogiuri. Che è pure lei Calogiuri e che è la cognata di mamma! Ma che è beautiful?”

 

Valentina era nera, nerissima, peggio di lei nei momenti di incazzatura suprema.

 

Pietro era ormai nel panico totale, oltre che fucsia, Rosa che aveva l’aria di chi voleva sprofondare sotto le fondamenta del condominio, mentre Noemi continuava a chiedere “che succede?”, ignara di perché i patty causassero tutto quel casino, fino a che aggiunse un, “Vale, ma pecché ti aabbi? Guadda che, se voi, sei sempe invitata ai patty!” che causò una nuova esplosione d’asma intorno al tavolo.

 

“Ci manca solo quello!” esclamò Valentina, furente.

 

“Ma… ma sei aabbiata co me?” domandò Noemi, gli occhi grandi ed acquosissimi, tanto che Valentina si bloccò per un attimo, fece un lungo respiro e le disse, “no, Noè, non ce l’ho con te, anzi. Con voi invece ce l’ho eccome, soprattutto con te, papà!”

 

“Lo so, Valentì, lo so. E hai ragione che avrei dovuto dirtelo prima ma… ma la situazione non era mica semplice da spiegare e poi… con tutti i casini che sono successi e-”

 

“Valentina, è colpa mia,” si inserì Rosa, che, pur essendo bordeaux, aveva ripreso un poco della sua solita decisione, “Pietro… Pietro voleva parlartene prima di questo pranzo ma… ma sono nel bel mezzo della separazione, Salvo già minaccia di trascinarmi in tribunale e… e volevo vedere come andava prima di fare uscire tutto e-”

 

“E quindi non sei sicura della relazione con papà?” esclamò Valentina, ancora più nera, se possibile.

 

“No, no… certo che ne sono sicura! Pietro è la cosa più bella che mi sia mai capitata a parte Noemi, ma… ma non era facile da spiegare e-”


“E al cuore non si comanda Valentì,” la fermò Pietro e provò una strana fitta al petto vedendolo allungare una mano, fino posarla sulla spalla di Rosa e a stringergliela. per farle forza.

 

“Ma che c’avete voi Calogiuri? Eh?! Che c’avete per essere così irresistibili?! A parte gli occhioni azzurri? E soprattutto per essere così fissati con la mia famiglia? Che non ci stavano altre persone al mondo? Ci manca solo che io mi fidanzi con vostro fratello e stiamo a posto stiamo!”

 

Le pigliò un altro attacco di tosse e pure a Calogiuri perché… perché almeno da quello, per fortuna, erano salvi, ma… ma Valentina ormai era un fiume in piena e non aveva intenzione di fermarsi.

 

“Allora, papà, che t’è saltato in mente? Con tutte le donne che ci stanno! Ma pure tu Rosa, sei giovane e sei bella, puoi avere tutti gli uomini che vuoi e… anche se papà ultimamente-” si bloccò per un attimo, come se avesse realizzato qualcosa, “ecco perché ti sei messo tutto in tiro, tutto figo, a fare l’uomo che non deve chiedere mai! Per conquistare lei, eh?”

 

“A dire la verità il look me lo aveva rifatto proprio Rosa per conquistare qualcun’altra,” ammise Pietro, imbarazzato, “ma-”

 

“Ma alla fine ha funzionato troppo bene, anche se… anche se quello che mi ha conquistato di tuo padre non è solo il fascino ma… ma che ha un cuore grande, è generoso, buono, a volte troppo. E… e mi è stato molto vicino quando avevo i miei problemi con Salvo e-”

 

“Sì, immagino quanto vicino!” la interruppe Valentina, durissima.

 

“Veramente… veramente lo so che… che è strano e difficile da credere ma… ma non sappiamo neanche noi bene come, ma… tutto era partito come un’amicizia ma… ma ci siamo innamorati. E… e quando lo abbiamo capito, Rosa mi ha allontanato perché non voleva tradire nessuno ma… ma poi con Salvo è finita e… e a quel punto… io mi sono fatto avanti e insomma al cuore non si comanda, Valentì, lo sai pure tu, no?”

 

Valentina sospirò, pure nell’incazzatura, mentre lei… lei si sentiva sempre più in una specie di pallone… anche se… anche se le tornavano in mente le parole di Pietro, quando avevano parlato della donna di cui si era innamorato e… e pure se non sapeva bene cosa provava, almeno di una cosa era sicura: Pietro amava Rosa veramente. Ma… ma col carattere mite e un poco vigliacco di Pietro, con tutto il mondo contro… sarebbe bastato?

 

“E comunque non è tutta colpa di Rosa, se non abbiamo detto niente. Pure io… pure io temevo molto la reazione tua, Valentì, e… e sua.”

 

Pietro, per la prima volta da quando era iniziata la discussione con Valentina, rivolse lo sguardo verso di lui e, in automatico, lo fece pure lei.

 

Calogiuri, pure se ormai era in piedi, come tutti loro, era in apparenza tranquillo, tranquillissimo, ma lo conosceva e sapeva benissimo - e non solo per il modo in cui si stringeva i pugni, tanto da avere le nocche bianche - che era quel tipo di quiete che precedeva non soltanto la tempesta, ma lo tsunami. Che si sentiva tradito, preso in giro, deluso, delusissimo.

 

Per fortuna, almeno per una volta, non da lei ma… ma c’era ben poco di cui consolarsi, anzi.

 

Ci fu un attimo di silenzio perfetto, mentre tutti si concentravano su di lui finché, con un rumore di legno trascinato sulle piastrelle, Calogiuri tirò indietro la sedia e si allontanò di un passo dal tavolo, guardando Pietro dritto negli occhi in un modo che non prometteva niente di buono.

 

D’istinto, gli afferrò il braccio e fece segno verso Noemi, che ci mancava solo che si menassero di fronte a lei.

 

Ma Calogiuri scosse il capo come a dirle di non preoccuparsi, anche se non schiodava gli occhi da Pietro e, dopo essersi liberato dalla sua stretta, proclamò, “scendiamo?” in un modo che era praticamente un ordine.

 

Le tornò in mente Natale in Casa Cupiello, pure se era Pasqua, e vide Pietro impallidire, mentre Rosa si intromise, esclamando un “ma che sei impazzito?!” tra l’incazzato e il terrorizzato.

 

“Questo al massimo dovrei chiederlo io a te. E comunque che non mi conosci? Pure se io non ti conosco, evidentemente, non più. Allora, signor De Ruggeri, scendiamo? Che ci stanno parecchie cose da chiarire, mi pare.”

 

Lo guardò, interrogativa, anche perché il ritorno da Pietro a signor De Ruggeri non prometteva bene, ma i loro occhi si incrociarono per un secondo e quello che ci lesse, pur nel casino, la rinfrancò un poco: Calogiuri non era scemo e nemmeno un violento, lo sapeva.

 

Pietro rimase per un attimo muto e Rosa esclamò “tu non vai da nessuna parte!”, mentre Valentina sibilò un “per me fate come volete! Tanto fate sempre come volete!” con le braccia incrociate al petto che… che se Calogiuri era deluso, lei di più.

 

“Allora?” chiese Calogiuri, con sguardo di sfida, “scendiamo? Che lo so che non avete bisogno della mia approvazione ma… se la volete e se volete il mio supporto in questo casino in cui vi siete infilati… voglio la dimostrazione che a mia sorella ci tiene veramente, e non soltanto magari per ripicca e-”

 

“Fratellì!”

 

“E che tiene abbastanza coraggio, Rosa, abbastanza coraggio per stare accanto a te e proteggere te e Noemi, perché io non sono niente ma proprio niente, rispetto a quello che vi aspetta là fuori.”

 

“E per questo vi dovete menare?” esclamò Rosa, mentre a lei, a parte la preoccupazione, veniva pure un poco di commozione.

 

“Cio e Pietto si piccano? Pecché? Solo bambini cattivi lo fanno!!” saltò su Noemi, in un modo indignatissimo ed adorabile persino in quel momento.

 

“Appunto. E noi non siamo bambini ma uomini, Noè, almeno io lo sono. Quindi scendiamo ed andiamo a chiarire quello che c’è da chiarire.”

 

Il tono di Calogiuri era così deciso ma anche controllato, pur nella rabbia, che al sollievo si mischiò l’orgoglio.

 

Non voleva fare Mezzogiorno - anzi ormai le quattro del pomeriggio - di fuoco, ma… ma che voleva fare?

 

“E che vuoi fare una volta scesi allora?” chiese Rosa, confusa, mentre Noemi aveva la bocca spalancata, Valentina pareva sempre sul piede di guerra, ma pure incuriosita, e Pietro sudava freddo, letteralmente.
 

“Per scoprirlo basta scendere. O non ha abbastanza coraggio? O mi ritenete tutti un pazzo violento e pure scemo, coi guai che già c’ho pendenti?”

 

In effetti teneva ragione teneva e-

 

“E allora scendiamo, sono proprio curiosa!” esclamò Valentina, a sorpresa, evidentemente trascinata dall’arrabbiatura.

 

“Ma quiddi che succede? Non si piccano?”

 

“Purtroppo no, Noè,” le rispose Valentina, in un modo che le strappò un sorriso e fece dire a Pietro un “Valentì!” sconsolato.

 

“Pietro, tu devi fare quello che ti senti!” lo rassicurò Rosa, prendendogli a sua volta la spalla e guardando male il fratello.

 

Ma, forse per orgoglio, forse perché tutti gli altri - lei compresa - erano ormai curiosi di cosa dovesse accadere una volta in strada, Pietro alla fine annuì e, dopo aver stretto la mano di Rosa, che manco un condannato che andava al patibolo, andò verso l’attaccapanni all’ingresso, dove recuperò il suo giaccone.

 

In silenzio, fecero tutti lo stesso, ma notò che Calogiuri, oltre alla giacca di pelle, si infilò la protezione rigida che metteva di solito per i viaggi lunghi in moto, quella con l’airbag, e si chiese il perché.

 

Picchiarsi con su quella cosa era inutile, oltre che difficile, a meno che Pietro non lo avesse buttato a terra ma… ma che senso aveva?

 

Pietro lo guardò un po’ stranito ma non commentò e alla fine scesero tutti in strada, Noemi compresa, che continuava a chiedere “che succede?” in braccio a sua madre.

 

“A saperlo, Noè!” le rispose alla fine, perché pure lei non ci stava capendo più niente. Non riuscire a comprendere i pensieri di Calogiuri la spiazzava e di solito non era un buon segno.

 

Arrivati davanti al condominio, Calogiuri, dopo aver fissato Pietro negli occhi per dei secondi infiniti, inaspettatamente gli diede le spalle e si avvicinò a dove avevano parcheggiato la moto, appoggiando una mano alla sella.

 

“Andiamo a farci due chiacchiere. In moto. Guido io ovviamente.”

 

Eh?

 

Non ci capiva più niente, perché si sarebbe aspettata di tutto tranne quello e pure Rosa e Valentina parevano basite.

 

Pietro invece… sembrava aver di nuovo visto un fantasma.

 

“I-in moto?” chiese, con voce tremante, “ma che non lo possiamo fare qua, sulla terraferma?”

 

“In moto. Se non ha nemmeno il coraggio di salire su una moto per il bene di mia sorella, come può avere il coraggio di fare tutto il resto?”

 

Pietro deglutì, mentre Rosa li guardava, interrogativa.

 

“Diciamo… diciamo che… non amo molto andare in moto e il maresciallo lo sa,” le spiegò Pietro ed Imma ritornò con la mente a quando lui e Calogiuri, il natale precedente - che pareva sempre una vita precedente, e che era l’ennesima conferma che loro le festività comandate avrebbero dovuto abolirle dal calendario - erano andati insieme all’appartamento di Rosa per accertarsi che non avesse problemi con Salvo, che poi aveva lasciato quella sera stessa.

 

Erano andati in moto, effettivamente e… chissà che era successo tra loro… mo era curiosa.

 

“E quindi non ci andresti neanche per me? Metti che c’è un’emergenza e quella c’è…” chiese Rosa, improvvisamente molto meno conciliatoria nei confronti di Pietro, guardandolo in un modo quasi offeso ed incrociando le braccia al petto.

 

“Già… tutto questo al cuore non si comanda e poi per una cazzata così si comanda? Se penso a quello che abbiamo passato io e… e Penelope… neanche un lancio in bungee jumping. E qua tu c’avrai nonna, ma non solo, che non vi lascerà in pace e tu a quel punto spero non ti comporterai come facevi con mamma, che non la difendevi mai e stavi sempre in mezzo, che manco Ponzio Pilato.”


“Valentì…” sussurrò Pietro, ferito.

 

“Eh papà… allora ero piccola e faceva comodo pure a me a volte ma... mo con nonna hai già fatto grossi progressi ma… ma il coraggio lo devi avere con tutti, perché non puoi evitare tutti come fai con lei.”

 

Era orgogliosa di Valentina, orgogliosissima, e vide che pure Calogiuri le sorrideva.

 

“Esattamente. E io non voglio rischiare che mia sorella rimanga sempre in una storia clandestina o che venga mollata sul più bello a prendersi tutte le colpe, che si sa che tutti le danno alle donne le colpe, sempre, basta vedere me con Imma. E ci sta pure nostra madre - che è quasi peggio della sua - la nostra famiglia, Matera tutta… e voglio sapere che mia sorella sta con qualcuno che mette al primo posto lei e non tutto il contorno, dopo quello che è successo con Salvo. E anche che Noemi abbia un buon esempio di una relazione sana.”

 

Ormai erano tutte con le braccia incrociate a guardare Pietro, che era un lago di sudore, e tremava pure un poco.

 

Sospirò: le ricordava il Pietro dei vecchi tempi, quando c’era una discussione con sua madre e-

 

E poi, improvvisamente, Pietro scosse il capo, strinse i pugni e ricambiò lo sguardo di Calogiuri con un’intensità che per poco non ci restava secca, perché non lo avrebbe mai ritenuto capace di uno sguardo del genere.

 

“Per Rosa sono disposto pure ad andare su dieci moto! Magari non contemporaneamente, che le spaccate non le so fare!” esclamò Pietro e, dietro alla sua solita ironia, ci sentiva una grande decisione, “e comunque a Noemi voglio un bene dell’anima e-”

 

“E anche io ti vojo tatto tatto bene, Pietto!” intervenne Noemi, con un tono da scioglimento.

 

“E pure io a te. Però Valentì, questo non toglie niente al bene che voglio a te, chiaro? E se hai voglia di passare più tempo con il tuo vecchio papà, io ci sono sempre, basta che me lo dici, che non ti voglio mica soffocare. E mo… andiamo a farci sto giro in moto. Il casco ce l’ha, immagino?”

 

“Pietro…” sussurrò, incredula e commossa, anche se… anche se il fatto che lui avesse tirato fuori tutta quella cazzimma, come avrebbe detto Vitali, per Rosa e mai con lei, le diede anche un retrogusto dolceamaro.

 

Ma… erano cresciuti tutti moltissimo negli ultimi anni e… e forse Pietro aveva realmente imparato anche dagli sbagli fatti con lei. Come lei dai milioni di sbagli fatti con lui.

 

Calogiuri si morse le labbra in un modo che lasciava trapelare una certa soddisfazione, estrasse i caschi non integrali da sotto la sella e ne passò uno a Pietro, aiutandolo poi ad infilarselo, come aveva fatto con lei i primi tempi.

 

“Ma alloa cio e Pietto vanno in moto? Posso venie acche io?” domandò Noemi, nel suo bel mondo innocente, tutta entusiasta.


“Meglio di no, Noè, che prima dei cinque anni non si può. Quando sei più grande se mamma è d’accordo ci facciamo un bel giro,” le promise Calogiuri e non sapeva se essere più orgogliosa di come se la cavava sempre o se della citazione perfetta al codice della strada.

 

E poi Calogiuri salì a cavalcioni sulla moto e fece cenno a Pietro con un, “stavolta mi sono premunito, ma se riesce a non stritolarmi è meglio, che evitiamo incidenti.”

 

Scoppiò a ridere, immaginandosi la scena, e capendo perché Calogiuri si fosse messo tutte le protezioni e Pietro sospirò e salì, sempre con l’entusiasmo di un condannato a morte.

 

“Ma perché? Tu e Pietro quando mai siete andati in moto insieme?” chiese Rosa, all’improvviso - eh già, lei non sapeva manco quello!

 

Ma Calogiuri scelse proprio quel momento, guarda caso, per dare di gas e partire, Pietro aggrappato dietro che urlava un “pianoooo!” che lo avrebbe sentito tutto il quartiere.

 

Altro che contrappasso! E bravo Calogiuri!

 

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Le urla di Pietro - anche se lo avrebbe chiamato signor De Ruggeri ancora per un po’, per tenerlo sulla graticola - lo assordavano ma non aveva intenzione di rallentare o fermarsi.

 

Se amava veramente Rosa e, soprattutto, se la amava abbastanza da reggere quello che sarebbe arrivato loro addosso, lo doveva dimostrare una volta e per tutte.

 

Che poi neanche stava andando così veloce, in effetti, ma per Pietro era già tantissimo, lo sapeva.

 

Ci aveva goduto per un attimo a fargli credere che lo avrebbe menato, era vero, ma… ma l’aveva un po’ deluso il fatto che sua sorella lo avesse ritenuto capace di tanto.

 

Imma invece… Imma lo aveva capito quasi subito, anche se in quel momento non aveva potuto ancora comprendere il perché della moto, ma era certo che mo concordasse con lui su questa… punizione creativa. Anzi su questo test.

 

“P- puoi rallentare? Che mi viene da vomitare!” sentì urlare alle sue spalle e si voltò leggermente verso Pietro che, effettivamente, era quasi verdognolo per il poco che vedeva dal casco, “guarda la strada!”

 

“Tranquillo, che so cosa faccio,” gli disse, riportando entrambi gli occhi sulla carreggiata, anche se le strade erano quasi deserte, che tutti erano ancora impegnati col pranzo, “e allora?”

 

“E allora cosa?”

 

“E allora che intenzioni ha con mia sorella?”

 

“C- cioè se voglio sposarlaaaaa o-”

 

“Rosa neanche è separata, è chiaro che non vi potete sposare. Intendo cosa ha intenzione di fare quando tutta questa storia uscirà,” gli urlò, tra una curva e l’altra, ringraziando il giubbino protettivo perché se no le sue costole sarebbero già state belle che andate.

 

“St- starle vicinoooo!” gridò Pietro, terrorizzato, “a lei e a Noeeeeemi, finché tua sorella vuole. E… e se serve posso aiutarla con la causa legaleeee e-”

 

“E con Matera? E sua madre? E nostra madre?”

 

“A vostra madreeeee… ho molto da dire pure iooooo!”

 

Per quanto terrorizzato, l’urlo nell’orecchio era stato pure deciso e capiva benissimo che anche Pietro era incavolato e non poco con loro madre.

“E pure a quel cretinoooo di Salvooo. E con mia madreeeee… se noooon accetta Valentinaaaa e Rosaaaaa può starsene solaaaaaa come negli ultimi mesi!”

 

“E Matera?” ribadì, perché era quella la cosa più importante.

 

“E Materaaaaa… sono prontoooo anche a cambiareeee città, a chiedere il trasferimento, se serve, eeee-”

 

“E scappare? Non si può scappare per sempre!” esclamò, frustrato, inchiodando ad un incrocio ed udendo Pietro urlare, poco prima di ripartire una volta che l’auto che stava arrivando li ebbe superati, “che si vergogna di mia sorella?”

 

“Noooo, noooo! Se… se Rosa vuoleeee vuole stare a Materaaaaa, la difenderòòòò da tutti. Ho… ho capito di avere sbagliato in quello con… con Immaaaaa e… e non voglio rischiare di perdere tua sorellaaaa o che stia maleeee. Però mo sto male iooooo!”

 

Fece appena in tempo a fermare di nuovo la moto che Pietro quasi si buttò a terra ed iniziò a vomitare, tra conati tremendi.


Per fortuna non gli aveva fatto mettere il casco integrale!

 

Forse aveva un po’ esagerato.

 

Con un sospiro, mise la moto sul cavalletto e cercò di aiutarlo come poteva, reggendogli la fronte e poi, guardandosi intorno, accompagnandolo fino all’unico bar aperto lì vicino, in modo che potesse pulirsi e prendere un po’ d’acqua fresca.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma che staranno facendo? Non è che fanno un incidente?”

 

La domanda di Rosa esprimeva pure la sua preoccupazione. Sapeva bene che Calogiuri non avrebbe mai fatto male a Pietro volontariamente - anche perché in moto sarebbe stato un suicidio pure per lui - ma per come Pietro era imbranato sulle due ruote… il rischio un po’ c’era sempre.

 

Valentina, invece, non disse nulla, se ne stava a braccia incrociate all’angolo del portone, e pareva ancora arrabbiata, più che altro delusa.


E la capiva benissimo anche se… anche se lei non aveva nulla da recriminare a Pietro, anzi, con tutto quello che aveva combinato lei, ma… ma scoprirlo così… e poi proprio con Rosa.

 

Però Pietro su una cosa aveva ragione: al cuore non si poteva proprio comandare, e lei lo sapeva meglio di chiunque altro.

 

“Cioooo!!! Pietto!!!!”

 

L’urlo di Noemi e il modo in cui si sbracciava ad indicare con una manina la portò a voltarsi verso la strada e vide in lontananza la moto, che si avvicinava, ma quasi a passo d’uomo, che un carro funebre ancora un po’ andava veloce al confronto.

 

Riconobbe Pietro, praticamente aggrappato a Calogiuri che, a non sapere i pregressi, sembravano starla facendo loro la riedizione di Vacanze Romane, per quanto lo stringeva. E Calogiuri aveva un’espressione un po’ sofferente ma, quando incrociò il suo sguardo, le fece un occhiolino e sorrise.

 

E poi la moto, finalmente, si fermò davanti a loro e Pietro non perse tempo a scendere e a buttarsi per terra, che tra un po’ baciava l’asfalto di Roma tipo Colombo la terra americana, mentre Calogiuri parcheggiava.

 

“Piè, tutto bene?” domandò, divertita, mentre Rosa gli si avvicinò e stava per aiutarlo ad alzarsi quando anche Calogiuri lo raggiunse.

 

Pietro alternò lo sguardo tra i due fratelli e poi Calogiuri gli porse la mano destra e Pietro la afferrò con la sua.

 

Nel giro di qualche secondo, non solo Pietro era di nuovo in piedi, ma i due uomini più importanti della sua vita si stavano scambiando pacche sulle spalle, mentre Calogiuri chiedeva “tutto a posto, Pietro?” come se fosse la cosa più normale del mondo e Pietro se ne uscì con un, “sì, Ippà, e grazie per l’aiuto!” che per poco non ci cascava lei a terra.

 

Ippà?? E da dove usciva mo?

 

Si guardò con Rosa, un po’ basita, e Noemi saltò su e, come la voce della verità che era sempre, esclamò, confusa, “ma cio e Pietto no litigano più? Oa si vojono bene? Ma pecché?”

 

“Perché i maschi sono tutti scemi, Noè.”

 

Era stata Valentina a parlare e più che sarcastica, era seria, serissima.

 

“Valentì…” provò a dire Pietro, allungando una mano per toccarle il braccio, ma Valentina si spostò.

 

“Voi vi fate un giretto in moto, testosterone a mille, e mo fate gli amiconi. Con me non funziona così! Mi hai deluso, papà, molto! Dopo Cinzia mi avevi promesso che non mi avresti più nascosto le tue relazioni e invece… e non mi importa se è colpa tua o di Rosa, me lo dovevi dire! E non ti fidi di me!”

 

“Ma certo che mi fido di te, Valenti, ma-”

 

“Ma non lo dimostri! E poi… e poi pensavo che venissi a Roma più spesso per me e invece…”

 

“Ma vengo a Roma più spesso anche per te! Abbiamo passato tanti giorni insieme ultimamente e-”

 

“Ma non quanti ne hai passati con loro! E non lo fai solo per me! E non devo essere io a dirti che voglio passare del tempo con te, papà!”

 

La delusione e la gelosia di Valentina furono un colpo al cuore e poi Valentina eruppe in un “io mo vado a casa, da sola. E non provare a seguirmi, che con me non te la cavi con un giro in moto!”

 

Valentina si allontanò rapidamente, con passo marziale, scomparendo presto dietro l’angolo della strada e Pietro, nonostante quanto da lei appena detto, provò a seguirla ma sia lei che Rosa lo bloccarono, un braccio per una.

 

“Devi lasciarla sbollire mo, lo sai. Ma da domani devi impegnarti a farle capire che ci sei e che al primo posto ci sta sempre lei, chiaro?” gli intimò Imma, mentre Rosa ritraeva il braccio, un po’ a disagio.

 

Evidentemente condivideva con Calogiuri il rispetto quando si trattava di essere genitori: Calogiuri aveva dato consigli sempre solo se richiesto, se no aveva sempre fatto un passo indietro quando si trattava di Valentina, lasciando le decisioni a lei e Pietro.

 

Su questo almeno, e pure su tante altre cose, era assai meglio di Cinzia. Su altro… sarebbe stato uno scandalo enorme ed un altro casino che quasi sicuramente sarebbe ricaduto pure su di loro, purtroppo.

 

“Chiaro… Imma… ti va se parliamo un po’ da soli?” chiese a sorpresa Pietro, guardando anche Calogiuri e Rosa.

 

“Forse avremmo dovuto farlo prima, Pietro, non credi?” rispose, più dura di quanto avrebbe voluto, ma… ma almeno su quello c’era ancora un po’ di delusione.

 

“Lo so ma… ma voglio farlo mo. Non voglio che… che ci siano altri malintesi tra noi, anche per Valentina e per… per la nostra famiglia.”


“Non li definirei come malintesi, Pietro, ma… per me va bene. Ci date qualche minuto?” chiese ai due fratelli e Calogiuri annuì, tranquillo, mentre Rosa le parve ancora più in imbarazzo.

 

Ed era soltanto all’inizio. Calogiuri ormai era forgiato da mille battaglie, Rosa no.

 

*********************************************************************************************************

 

“Allora, che mi dovevi dire?”

 

Erano rientrati in casa, mentre Rosa e Calogiuri avevano portato Noemi al parco.

 

Pietro si guardò un attimo in giro e alla fine lei sospirò e si sedette sul divano, facendogli segno di accomodarsi.

 

Poco dopo quella ruffiana dI Ottavia gli era già in braccio a fargli le fusa.

 

“L’hai corrotta con le scatolette al salmone pure tu?” gli chiese, giusto per spezzare la tensione e lui fece una faccia che le fece capire che sì, Pietro come al solito vinceva facile nel conquistare cuori e stomaci della gente.

 

“Allora, che dovevi dirmi? Che pochi minuti ho detto e pochi saranno, Pietro.”

 

“Niente ma è che… è che volevo assicurarmi che… che tra noi fosse non dico tutto quanto a posto ma… insomma… che…. Mi ha reso molto felice il rapporto che abbiamo ricostruito in questi ultimi mesi, Imma, e... che finalmente le cose andavano meglio e… e non mi perdonerei mai se avessi rovinato tutto mo.”

 

Sospirò: pure per lei era stata una gioia immensa ed un enorme sollievo recuperare un rapporto con Pietro e soprattutto vederlo felice.


“Sei felice con lei, Piè? A me questo basta e che… e che la ami veramente, che prima di tutto Rosa non si merita di essere presa in giro e poi… e poi se va male tra di voi… questo potrebbe creare casini enormi pure a me, a Calogiuri e a Valentina che si troverebbe in mezzo a tutto. E pure Noemi che… già col padre fantastico che ha avuto… è tanto affezionata a te, Piè, ed è una grande responsabilità quella che tu c’hai mo, lo sai.”

 

Pietro annuì e si sentì afferrare per le mani. Fino a pochi mesi prima l’istinto sarebbe stato di ritrarle, ma se le lasciò stringere, mentre Pietro ritornava a guardarla negli occhi e, di nuovo, aveva quella decisione che con lei non aveva avuto mai.

 

“Sono sicuro di amare Rosa, Imma, moltissimo. In modo diverso da come… da come ho amato te, ovviamente ma… ma non di meno e non mi sarei mai più aspettato di poter ancora amare qualcuna così tanto.”

 

Una fitta al cuore, non era gelosia, non solo era… era più che altro malinconia ma anche… sapeva di cosa stesse parlando Pietro, lo sapeva benissimo, anzi… lei con Calogiuri… era pure peggio, perché lei alcune di quelle cose per Pietro non le aveva provate mai. Lui sì, lui l’aveva amata alla follia e lo sapeva e… e si meritava di essere felice.

 

“E poi… e poi a Noemi voglio un bene dell’anima e… lo capisco che mo Valentina è gelosa ma… in effetti è come una seconda figlia per me, anche se a Valentì forse è meglio che non glielo dico.”

 

“Non serve che glielo dici, Pietro, l’ha capito di già. Ed è per quello che è così gelosa,” sospirò, anche se pure lì lo capiva a Pietro, perché Noemi era adorabile e… un uomo paterno come lui… come poteva non venirne rapito?

 

“Lo so… ma… ma questo non toglie niente al bene immenso che voglio a Valentina e… e spero di riuscire a farglielo capire.”

 

“E per quello ti ci devi impegnare, Pietro, giorno dopo giorno. Pure dandole più attenzioni del necessario per la sua età, anche se ti respinge. Del resto… lo sai già come funziona, no? Ci siamo passati sia io che te. Però hai sbagliato a non dirci niente, anzi, avete sbagliato. Se gliene avessi parlato prima… non dico l’avrebbe presa bene, ma credo l’avrebbe presa assai meglio di così, non che ci voglia molto.”

 

Pietro sospirò ed abbassò il capo.

 

“E no, Piè, tu di abbassare il capo non te lo puoi permettere più, hai capito? Testa alta, petto in fuori, deciso, con tutti, che non devi farti vedere debole, se no vi massacreranno ancora di più. Intesi?”

 

Pietro alzò gli occhi ed annuì e lo vedeva che era commosso.

 

“Sì. Grazie, Imma, veramente.”


“E di che?” gli domandò, stupita.

 

“Di come… di come stai prendendo tutta questa cosa…”


“E come la devo prendere, Piè? Con quello che ho combinato io… non posso certo farti la paternale, anzi la maternale, che nel caso tuo è assai peggio,” ironizzò e Pietro rise, “e poi… sul fatto che i Calogiuri abbiano degli occhi da denuncia… lo so meglio di te, anche se… anche se speravo che tu ne fossi più immune di me.”

 

“Eh… lo so, Imma… e… a parte quelli di Noemi, ai quali immunità zero, proprio, pensavo di esserlo ma… non lo so neanche io com’è successo e… e ho provato a combatterlo con tutte le mie forze, ma non ci sono riuscito. E… e credo di averti capita… di aver capito quello che ti è successo con Ippazio… per quanto può valere detto da me mo.”

 

“Vale tantissimo invece,” gli rispose, stringendogli più forte le mani, per poi sdrammatizzare con un, “anche se a sentirtelo chiamare Ippazio… non so se mi ci abituerò molto facilmente.”

 

“Veramente la cosa strana è che tu ancora lo chiami Calogiuri, Imma.”

 

“Eh, lo so, ma… c’abbiamo i nostri motivi, Piè e-”

 

“E i dettagli forse non li voglio sapere, quelli almeno ce li possiamo risparmiare a vicenda, no?”

 

“Se non ci pensa Noemi a spiattellarli sì. Quindi tenete la porta ben chiusa, quando fate i patty, prima che ci piglia un colpo a tutti, grazie!”

 

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“E quindi la principessa entrò, sguainando una spada che aveva preso da uno dei nemici fuori dal castello e la puntò alla gola del perfido capo dei banditi, costringendolo ad arrendersi e salvando il principe e-”


“E mi sa che si è arresa pure qualcun’altra…” sussurrò, con la voce a pezzi, non solo per gli eventi della giornata, o per il modo in cui Noemi le si era addormentata in grembo, ma perché… la nuova fiaba di Calogiuri, molto liberamente ispirata alla loro ultima azione insieme, l’aveva stesa, “e non pensavo di essere una principessa. Che tu fossi un principe invece era scontato, dal primo giorno proprio, mannaggia a te!”

 

Un abbraccio forte forte anche se solo di lato, per non svegliare Noemi, ed un bacio dolcissimo segnalarono la sua resa definitiva allo scioglimento.

 

“Tu non sei soltanto una principessa, sei una regina, dottoressa. E mi sento molto fortunato che tu abbia deciso di essere la mia regina, con tutti i cavalieri che ti ronzano intorno e il cui champagne porta malissimo, che altro che una iattura della strega.”

 

Rise, anche se si tappò la bocca per non farlo troppo forte, e lo baciò di nuovo, prima di chiedergli, “allora, dormiamo?”

 

“E che altro possiamo fare, dottoressa, con la peste che dorme così in mezzo a noi?” ironizzò lui, mentre lei cercava di posizionare meglio Noemi per riuscire a coricarsi e dormire.

 

Finalmente, si trovarono stesi sul lato, uno di fronte all’altra, Noemi in mezzo che ronfava spaparanzata, occupando un sacco di spazio, rispetto a quanto era piccola.

 

Un miagolio ed Ottavia saltò sul letto, ma stavolta si piazzò appena sotto a Noemi, sui suoi di piedini, guardandoli in un modo come a sfidarli a protestare.

 

“Eh mo che è tranquilla ti avvicini, prima ti tieni alla larga. Ad essere furbi come te, Ottà, ci guadagneremmo tutti.”

 

Ottavia si stiracchiò in modo regale e poi si acciambellò e chiuse gli occhi.

 

Guardò Calogiuri che era commosso e… effettivamente… era una scena quasi surreale. Sapeva che entrambi pensavano a quel figlio che molto difficilmente ormai avrebbero mai avuto.

 

“Imma…”

 

Un sussurro e una carezza alla guancia e lei gli strinse le dita nelle sue, si erano capiti come sempre senza parole.

 

“Comunque… oggi sei stato bravo con Pietro. Ammetto che per un secondo ho temuto che lo volessi menare ma… ma la tua punizione è stata assai più creativa ed originale, anche se non ho ben capito cosa sia successo tra di voi per farvi diventare così amiconi.”

 

“Diciamo che… che ho capito che Pietro a mia sorella la ama veramente e pure a Noemi. Per il resto… sono segreti tra uomini… se non ti dispiace.”

 

“Diciamo che te lo concedo, Calogiuri, ma solo perché capisco che lo fai per mantenere l’onore di Pietro e questo fa onore pure a te.”

 

*********************************************************************************************************

 

Era nervoso, molto nervoso.

 

Era il giorno della prima udienza di Rosa per il divorzio e gli aveva chiesto di accompagnarla, per sentirsi più sicura.

 

Era stato un po’ in dubbio se farlo o meno, perché, con il suo nome su tutti i giornali, e non certo per cose positive, temeva che questo potesse incidere negativamente sulla reputazione di Rosa. Ma, del resto, a parte Noemi, non c’era nessun altro che potesse andare con lei. Sperava veramente che Salvo si accordasse per la consensuale ma… se così non fosse stato….

 

Arrivò in tribunale, dove doveva comunque tenersi l’udienza, essendoci una figlia minorenne di mezzo, ed incontrò Rosa ed il suo avvocato, un ometto sulla cinquantina, dalla stretta di mano viscida e che tutto sembrava tranne che un principe del foro. Del resto, sapeva che Rosa non potesse permettersi chissà che avvocato costoso e, per ora, doveva essere più che altro una formalità.

 

Si trovò stretto in un abbraccio e poi Rosa gli chiese, sottovoce, “sai come va con Valentina? Perché Pietro mi sembra sempre preoccupatissimo e….”


“E non è il caso di parlarne mo, Rosa,” le ricordò, guardandosi intorno, che, da quando stava con Imma e dopo tutto quello che era successo loro, stava diventando paranoico forse, ma tant’era, e le sussurrò, “e comunque… Valentina ha la testa dura e voi non vi siete certo aiutati ma… con pazienza vedrai che tornerà tutto a posto, ma non sta a te, lo sai.”

 

Rosa si morse il labbro ma annuì, dicendogli, “non so come hai fatto tu, fratellì, sei più forte di quanto credevo.”

 

“E tu più matta, Rosà, ma… ma va beh… sarà di famiglia.”

 

Il sorriso di Rosa le morì sul volto e si voltò in direzione dello sguardo di lei e ci trovò Salvo, con un completo che doveva forse nelle intenzioni essere elegante, ma che sembrava uscito da un film sulla camorra ed un avvocato che… che non conosceva - del resto lui mica di diritto di famiglia si occupava - ma che aveva un’aria impeccabile, decisa.

 

Insomma… rispetto all’Azzeccagarbugli di Rosa - ricordava ancora con una fitta quando Imma gli aveva dovuto spiegare perché gli avvocati scarsi venissero nominati così - sembrava che Salvo si fosse premunito meglio.

 

Forse troppo.

 

E la cosa non gli piaceva per niente.

 

Cercò di ignorare quella sensazione, la vocetta di Imma nella testa che gli diceva - non mi piace, Calogiù, perché spendere tanto per una consensuale, con i soldi che non ha Salvo? E questo mo chi glielo ha pagato? - ma non ci riuscì.

 

“Che c’è?” gli chiese Rosa, avendo forse notato la sua faccia, ma ignara per il resto di tutto.

 

Scosse il capo, ricambiando lo sguardo sprezzante di Salvo e voltandosi verso di lei per sussurrarle, appena l’avvocato lo trascinò o quasi lontano da loro, “sta attenta, ok? E l’avvocato come lo hai trovato?”

 

“Eh… è lo zio di una mia collega. Quella che fa i piedi. Veniva con poco.”

 

Ecco… quello che temeva.

 

“Causa di separazione Mini- Minichiello - Calogiuri!” proclamò il cancelliere preposto, e notò benissimo l’esitazione sul cognome di Salvo che, in effetti, per chi non era di Grottaminarda e non ne conosceva l’origine ed il significato, non suonava proprio bene.

 

Per fortuna, nonostante la tradizione, visto il debito di gratitudine nei confronti dei Calogiuri, Noemi aveva preso il doppio cognome Calogiuri Minichiello e Rosa usava più spesso il suo. Ma a scuola… quando i compagni lo avrebbero scoperto… probabilmente ce l’avrebbe avuta durissima.

 

Ma non era il momento di pensare a quello, anzi, e si avviò nella piccola aula insieme a sorella e avvocato, provvedendo ad identificarsi nuovamente.

 

Il giudice cominciò con tutte le formule di rito e poi chiese se volessero procedere alla separazione consensuale.


L’avvocato di Rosa provò a dire “sì” ma subito l’avvocato della controparte, un certo Pace, che di pacifico non aveva proprio niente, si intromise con un, “chiediamo la separazione con addebito.”

 

Rosa, anche se non del tutto sorpresa, rimase con la bocca aperta, l’avvocato pure, che pareva un pesce pareva e quindi, dopo che il giudice si rivolse un paio di volte a loro, anche se forse non avrebbe dovuto, intervenne lui con, “conoscendo lo stato d’animo rancoroso del signor Minichiello, non mi stupisco che non concordi con una consensuale ma… con addebito? Sulla base di che cosa? Quando è lui a non essersi praticamente fatto vedere per mesi né da mia sorella, né dalla loro figlia e-”

 

“E lei è un avvocato?” chiese sprezzante Pace, in quella che era palesemente una domanda retorica - si diceva così? - prima di proseguire, “ah no, è, anzi forse dovrei dire era un maresciallo dei carabinieri, quindi faccia silenzio.”

 

“Su chi deve o meno fare silenzio al massimo posso intervenire io, avvocato,” gli ricordò il giudice, sembrandogli un poco irritato, “però in effetti lei, maresciallo, non dovrebbe intervenire. Signora Minichiello-”

 

“Calogiuri. Calogiuri,” lo corresse subito Rosa.


“Signora Calogiuri, che ha da dire in proposito? O lei avvocato?”

 

L’avvocato era ancora semi muto, che si arrabattava a cercare chissà che nelle pochissime carte che aveva, limitandosi a ripetere, quasi paro paro, “non sussistono le motivazioni per l’addebito a carico della mia cliente e anzi, potrebbe essere lei a rivalersi sul Minichiello per abbandono del tetto coniugale e-”

 

“Peccato che la decisione di chiedere la separazione sia stata della sua cliente e-”

 

“Ma solo perché esasperata dall’assenza prolungata del Minichiello, che l’aveva lasciata sola, con la figlia a Roma,” intervenne l’avvocato, che altri argomenti evidentemente non li aveva.

 

“Sola? Non mi pare proprio, collega!” sibilò il Pace, pronunciando l’ultima parola in modo sprezzante, “e il mio cliente non ha proprio abbandonato alcun tetto coniugale, perché anzi, quel tetto era già sovraffollato.”

 

“Che cosa vorrebbe insinuare? Signor giudice, l’avvocato Pace mette in dubbio la reputazione della mia cliente e-”

 

“E ne ho ben donde, avvocato, visto che la sua cliente intrattiene da mesi una relazione extraconiugale, di cui ho prova fotografica, e non con una persona qualsiasi, ma con l’ex marito della compagna del qui presente maresciallo. Una situazione incresciosa, anzi, aberrante.”

 

Un conato di vomito lo prese mentre il rumore di carta schiaffeggiata sul legno precedette le foto che furono buttate sulla scrivania del giudice e che ritraevano Rosa e Pietro, insieme, poco lontano da casa di lei, o a fare la spesa, o con Noemi al parco. E, infine, l’immagine più compromettente di tutti: Rosa e Pietro che si baciavano, vicini alla finestra dell’appartamento di lei.

 

Merda!



 

Nota dell’autrice: Eccoci qua alla fine di questo capitolo. Imma e Calogiuri hanno appena fatto in tempo a fare pace che è scoppiata un’altra bomba a coinvolgere e sconvolgere la loro famiglia. Valentina è sul piede di guerra e Salvo pure. E, nel frattempo, sul lato giallo, Mancini e Mariani stanno preparando la trappola per Conti e Santoro, mentre le indagini proseguono. Nel prossimo capitolo ci saranno sviluppi chiave sia dal punto di vista del giallo che del rosa.

Spero davvero che questa storia continui ad appassionarvi e a risultare scorrevole e piacevole da leggere.

Ringrazio di cuore chi ha inserito la mia storia nei preferiti o nei seguiti.

Un grazie immenso a chi mi ha lasciato e mi lascerà una recensione, che mi sono sempre fondamentali per capire come procede la storia, se continua a piacervi e in che cosa posso migliorare.

Il prossimo capitolo arriverà domenica 12 dicembre.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 68
*** La Giustizia ***


Nessun Alibi


Capitolo 68 - La Giustizia


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Si sentì stritolare l’avambraccio ed incrociò gli occhi sbarrati di Rosa.

 

Sull’aula del tribunale era calato il silenzio più totale, Pace e Salvo che si scambiavano sorrisetti e sguardi trionfanti quanto sprezzanti.

 

L’azzeccagarbugli sembrava sull’orlo di un malore ed incapace di dire o fare qualsiasi cosa, a parte slacciare il primo bottone della camicia.

 

Pensa, maledizione, pensa, cosa farebbe Imma? - si chiese, per cercare almeno di metterci una toppa, in attesa della prima udienza di quella che sarebbe indubbiamente stata una battaglia legale non da poco.

 

Ricordati le domande essenziali, Calogiuri: chi, come, perché, e…

 

“Quando?!” esclamò, d’istinto, notando come gli abiti fossero invernali e parecchio pesanti, più altri dettagli tipo i capelli di Rosa, che erano abbastanza lunghi e li aveva fatti crescere negli ultimi mesi, “a quando risalgono queste foto?”

 

“Non vedo che importanza abbia: il mio cliente e sua sorella non sono nemmeno separati e-”

 

“Ma si sono lasciati ufficialmente il giorno di natale. A parte che non si vedevano da mesi pure prima. Allora, di quando sono queste foto, prima o dopo natale?”

 

“Maresciallo, le ho già detto che lei non è un avvocato e-”

 

“Il maresciallo però ha fatto una domanda lecita, avvocato, risponda,” intervenne il giudice, per fortuna, e Calogiuri tirò un sospiro di sollievo.

 

“Febbraio e marzo, ma si conoscevano già da molto prima ed erano già molto intimi, come testimoniato dal mio cliente, che ha notato una grande vicinanza tra sua figlia e l’amante di sua moglie già da ben prima di natale.”

 

“A parte che il suo cliente vedeva la figlia alle feste comandate, quando andava bene, quindi forse chiunque sarebbe potuto apparirgli più vicino di lui a mia nipote, al confronto, ma l’amicizia pregressa non prova nulla, come non provano nulla queste foto. Semplicemente mia sorella e… e il suo attuale compagno hanno stretto un’amicizia che recentemente, dopo che si era già lasciata con il marito, si è trasformata in altro. E ritengo che dopo mesi e mesi e mesi e mesi di solitudine e di quello che era già di fatto un rapporto finito, ne abbia il diritto e non debba giustificarsene.”

 

Pace rimase un attimo ammutolito, il giudice che lo guardava stupito ma quasi ammirato e pure Rosa, come se gli fosse cresciuta un’altra testa.

 

Certe volte le parole vengono fuori da sole… - proprio vero! Anche se in questo caso non erano sbagliate, anzi.

 

“Ritengo che lei non possa fare discorsi sulla morale, maresciallo, visto che è implicato in un caso di corruzione, aggressione e lesioni gravissime, e che ormai manca poco che sia cacciato dall’Arma. Oltre a quello che ha combinato con la dottoressa Tataranni all’epoca, tradendo quello che ora difende a spada tratta come suo futuro cognato.”

 

“Lei.. lei è il compagno della Tataranni? Ecco dove l’avevo già vista!” esclamò il giudice, aggiungendo con un tono strano, “ora ho capito da chi ha imparato a fare le arringhe.”

 

“Non sono assolutamente al livello della dottoressa, ma se lei fosse qui ora ribadirebbe non solo che in questo paese si è innocenti fino a prova contraria e a sentenza definitiva, che i fatti di cui sono stato accusato non sussistono e lo proveremo in tribunale, che mi hanno incastrato per cercare di deragliare il maxiprocesso. Ma, soprattutto, in ogni caso, ribadirebbe che, pure se io fossi un serial killer, questo non toglie o aggiunge niente al caso di mia sorella ed alla sua moralità. Moralità di cui io non ho mai parlato, né in riferimento a mia sorella, né al suo cliente, mentre è l’avvocato che continua a metterla in discussione. Anche perché la morale è soggettiva, qua si parla d’altro e non c’è nessuna prova che giustifichi un addebito a carico di mia sorella.”

 

“E invece la morale non è soggettiva, ma è anche il cardine che guida le scelte in casi come questo. E sua sorella non avrà commesso alcun reato, forse, ma è indubbio che viva in un ambiente di promiscuità e che questo possa inficiare la serenità, l’educazione e la crescita della figlia. Che si ritrova con uno zio in odore di galera e con una famiglia a dir poco disfunzionale, dove il suo futuro patrigno è anche l’ex della futura zia. Con una potenziale cugina che in futuro potrebbe essere la sorellastra. Ma ci rendiamo conto della confusione che questo potrebbe ingenerare nella sua mente in futuro? Per questo oltre all’addebito chiediamo l’affido esclusivo per il mio cliente.”

 

Sentì il respiro forte di Rosa, che palesemente stava andando sempre più in panico.

 

“A parte che Noemi è una bimba serena e tranquilla, proprio grazie all’affetto e alla presenza costante di mia sorella e, sì, anche del suo nuovo compagno, ma chiedere l’affido esclusivo è una follia. Quale sarebbe l’alternativa? Un padre che vede tre volte l’anno, quando va bene, o al massimo che ci sarebbe nei fine settimana. E poi con chi starebbe tutto il resto del tempo, eh? Che mio cognato non ha nemmeno una casa sua ma sta dai nostri genitori.”

 

“Appunto. Persone dalla spiccata morale, a cui la minore è legatissima e che-”

 

“E che la minore non la vedono nemmeno loro da mesi, per una ripicca nei nostri confronti. E se dalla loro morale specchiatissima saremmo usciti noi, secondo lei così amorali, in che modo potrebbero garantire un’educazione migliore alla nipote di quella data a noi a suo tempo?”

 

Silenzio.

 

Aveva ammutolito l’avvocato, che era rimasto per un attimo a bocca aperta come un pesce.

 

Lo vide però riprendersi e provare a ribattere, quando il giudice lo fermò, prima che potesse farlo.

 

“In ogni caso questa non è sede di dibattimento e lei, maresciallo, effettivamente non è l’avvocato di sua sorella. Anche se mi pare più in grado di sostenere un dibattimento di molti avvocati che ho visto,” proclamò il giudice, lanciando un’occhiata all’attuale legale di Rosa che era tutta un programma, “in ogni caso, questa udienza ha solamente lo scopo di definire se si possa addivenire ad una separazione consensuale e mi pare evidente che questo sia impossibile. Per intanto, quindi, dispongo il rinvio a procedimento giudiziale. Vi verrà comunicata la data dell’udienza quanto prima, anche per darvi modo di preparare le richieste complete nei confronti della controparte. Per oggi chiudiamo qui.”


“E riguardo al mantenimento? Perché finora io non ho visto un euro,” si inserì Rosa, che si era come ripresa, in un moto di orgoglio.


“Anche quello verrà definito in sede giudiziale. Ed, in caso le fosse concesso, le saranno poi dovuti anche gli arretrati.”

 

“Ma non le verrà concesso, in quanto il mio cliente avrà l’affido esclusivo.”

 

“Come ho già detto per oggi abbiamo finito, avvocato. Preparate le richieste che discuteremo unicamente in sede di dibattimento. E ora vi congedo, che ho l’udienza successiva.”

 

Il giudice sembrava irritato con l’avvocato ma… ma sapeva bene che anche la situazione di Rosa era tutt’altro che rosea e che erano solo all’inizio. Le serviva un avvocato vero e pure bravo, al più presto.

 

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“Amore mio!”

 

Quasi non sentì nemmeno l’abbraccio a morsa e la mitragliata di baci sulle guance, talmente quelle due parole lo mandarono in tilt.

 

Tanto che l’assalto finì bruscamente ed incontrò due occhi scurissimi e preoccupati - e pure un poco feriti - che lo guardavano come a chiedere se fosse tutto a posto. Non solo per lui ma anche e soprattutto per loro.

 

Quell’accenno di dubbio, di vulnerabilità, lo fece finalmente sbloccare dalla paralisi e, per tutta risposta, le prese il viso e la trascinò in un bacio che tutto era tranne che un semplice bacio di saluto, stringendola più forte che poteva.

 

E poi, guardandola negli occhi lucidi e sfiorandole le labbra scurite dal bacio, ammise, occhi negli occhi, “è che… non so quando mi abituerò a… a che mi chiami così.”

 

Le guance di lei si fecero più rosee, come se si fosse resa conto lei stessa solo in quel momento di cosa aveva detto. Gli sorrise, sollevata, e poi lo guardò in quel modo affettuoso da ma che devo fare con te?! che usava solo con lui.

 

“Allora, a che cosa devo questa accoglienza? Perché, se le udienze di separazione di mia sorella ti fanno questo effetto, purtroppo e per fortuna mi sa che di accoglienze così ne avrò ancora per un bel po’.”

 

Bastarono un sospiro e un altro sguardo per capire che Imma già lo sapeva.

 

“Ma…?”

 

“Tua sorella. Mi ha avvisata, quasi in diretta. Ha registrato l’udienza, penso col cellulare, e me l’ha mandata con un vocale,” spiegò e, al suo sguardo preoccupato ed imbarazzato proseguì, “le ho già detto che non si potrebbe fare e di non farlo più ma… ma sono felice che lo abbia fatto, Calogiù. Non solo perché almeno tengo un’idea precisa del tipo di avvocato con cui avete a che fare ma perché… perché… hai un’idea di quanto sono orgogliosa di te? Sei stato… sei stato… tu il PM dovevi fare, Calogiuri, mannaggia a te!”

 

Una botta di calore tremenda al viso, tutto il sangue che lì gli finiva, tanto da girargli la testa. Un complimento così, detto da Imma poi… era meglio di qualsiasi dichiarazione d’amore.

 

“Tu… tu sei un po’ di parte, dottoressa,” le ricordò, imbarazzato, mentre gli occhi gli si appannavano.


“Ma che di parte! Hai fatto meglio di molti avvocati che ho conosciuto. Pure il giudice è rimasto colpito, si sente! Tu… non c’è niente che non puoi fare, Calogiuri e… tra qualche anno bagnerai il naso pure a me, se continui così.”

 

“Quello è assolutamente impossibile, dottoressa. Ma…” deglutì, le parole che non gli uscivano, fino a che riuscì a sussurrarle un, “ti amo!” un poco tremolante e si trovò nuovamente stritolato.

 

Rimasero stretti stretti per un po’, in perfetto silenzio, finché dei miagolii insistenti alle loro caviglie lo fecero avvedere di Ottavia che li guardava preoccupata.

 

“Eh… c’hai ragione a stare preoccupata Ottà. Qua bisogna trovare un avvocato bravo per tua sorella, Calogiù. E prepararci per il processo e soprattutto a cosa succede quando questa storia verrà fuori.”

 

“Ma tu pensi che…?”

 

“Ne sono sicura, Calogiuri. L’avvocato di Salvo è uno squalo e pure gli altri gentiluomini con cui abbiamo a che fare.”

 

Quasi come se fosse stato il compimento di una profezia, la vibrazione dei loro cellulari, entrambi, lo riportò del tutto alla realtà, portandolo ad estrarre il telefono di tasca.

 

Due (ex) sposi per due fratelli

 

Così titolava l’articolo di un noto sito di gossip. E sotto c’era la foto di Pietro e Rosa che si baciavano, una di repertorio di lui ed Imma che si baciavano ed infine una foto di Imma con Pietro che, manco a dirlo, si baciavano pure loro.

 

Provò un moto di fastidio, non tanto per il bacio - che di baci tra loro qualcuno ne aveva visto negli anni - ma perché gli sembrava proprio-

 

“Il balcone della festa della Bruna?”

 

Vide Imma imbarazzata ed in panico ed ebbe conferma immediata che era proprio quella festa della Bruna, come se non fossero bastati i vestiti - che come era vestita Imma quel giorno non se lo sarebbe scordato mai, insieme a tutte le altre cose di quella giornata.

 

“Lo so, Calogiù, lo so, ma… ma mi sentivo in colpa e… e pensavo che Vitali mi volesse trasferire e-”

 

“Come che ti volesse trasferire?” la interruppe, perché pure questa gli era nuova.

 

“Sì. Romaniello gli aveva fatto pressioni perché mi trasferissero e me lo avevano appena confermato. E quindi… presa dalla paura e dal senso di colpa ho baciato Pietro, anche per… per cercare di levarmi dalla testa quello che era appena successo con te. Ma… ma poi sei comparso pure tu dall’altro lato della piazza e… e diciamo che ho avuto conferma che dimenticarlo sarebbe stato parecchio difficile, se non impossibile. E lo sai pure tu com’è finita, no?”

 

Annuì, perché certo che lo sapeva e perché… perché il solo pensiero di lei trasferita chissà dove aveva messo non solo in secondo ma in ultimo piano lo stupido moto di gelosia arretrata.

 

“Ma… ma poi con il trasferimento-?”

 

Imma gli sorrise, sollevata, ma soprattutto intenerita, e gli strinse forte le mani.

 

“Vitali mi ha confermato quel giorno stesso che non aveva intenzione di cedere al ricatto, Calogiuri. Se no… sarei potuta finire in qualche procura del nord. Mi ci vedi?”

 

“Tu te la caveresti ovunque, dottoressa ma… come avrei fatto io senza di te? Anzi, ti avrei seguita in capo al mondo, appena possibile, mi sa, sempre se tu mi avessi ancora voluto tra i piedi.”

 

“E certo! E… chissà che al nord non ci tocchi finirci davvero prima o poi. Ma prima dobbiamo pensare a scagionarti del tutto e… e questa cosa non ci voleva. Valentina la prenderà malissimo e… e qua ci dipingono come degli scambisti praticamente. E pure incestuosi, anche se questo più velatamente, ma… questo è un disastro sia per la separazione di Rosa, che per Noemi che… che per il processo.”

 

Sospirò: lui ormai c’era abituato alla diffamazione costante, ma il pensiero di sua sorella e soprattutto di Noemi in mezzo a tutti questi casini…. Noemi era all’asilo, era vero e i bimbi erano ancora piccoli ma… ma i bimbi sapevano pure essere molto cattivi, per non parlare dei genitori.

 

“Dobbiamo trovare un ottimo avvocato per Rosa e… e bisogna capire se e come rispondere e-”

 

Si bloccò perché Imma aveva fatto un’espressione strana.

 

“Che c’è?”

 

La vide deglutire, una, due, tre volte, e poi proclamò, con voce roca, “no, pensavo che… che un ottimo matrimonialista lo conosceremmo pure. Ma non credo che sia il caso.”

 

La confusione durò giusto un paio di secondi e poi capì.

 

Il figlio di Chiara Latronico. Quello che, strano anche solo a pensarlo, era il nipote di Imma.

 

“In effetti forse non è il caso. Ma più che altro perché… dipende se tu te la senti, dottoressa. E anche se i Latronico se la sentono.”

 

Imma fece una mezza risata, amara, “se mi avessero detto che… che un giorno gli eredi di Latronico avrebbero dovuto temere per la loro reputazione di essere associati a noi e non viceversa….”

 

Fu come un macigno, perché era la verità.

 

Ma si ripromise che non sarebbe stato per sempre così, anzi. Dovevano uscirne a tutti i costi, a testa alta.

 

Insieme.

 

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“Allora, ti è tutto chiaro? Sei disposta a-”

 

“Ma c’è anche da chiedermelo? Con tutto quello che mi ha combinato Santoro ultimamente? L’unica cosa importante è non mettere a rischio Bianca o Francesco ma… Conti non mi sembra pericoloso. Solo troppo appiccicoso e ingenuo.”

 

“Bianca può stare con Ranieri, per evitare che si incontrino. E Francesco… in ogni caso siamo pronti ad intervenire, lo sai. Ma credo che Conti lo stenderesti tranquillamente anche da sola.”

 

“Gli piacerebbe!” fu il commento di Irene, con un sopracciglio alzato e gli venne da ridere.

 

“E dai, Irene!”

 

“Se ha contribuito a tutto questo casino solo per ripicca nei confronti di Calogiuri - e mia, indirettamente - si merita questo ed altro. E poi… ma tu hai idea di quanto sia imbarazzante avere un collega che è palesemente cotto di te e non si rassegna anche se tu fai capire in tutti i modi di non essere interessata? Ah… scusa… domanda stupida!”

 

Fu un po’ una pugnalata e sospirò, “la mancanza di sonno ti rende nervosa, noto.”

 

“O forse meno diplomatica. Ma non ti preoccupare, Giorgio, con Conti sarò perfettamente nel ruolo. Quando scatta il piano??”

 

“Quando vuoi e-”

 

“E prima è e meglio è, perché prima scagioniamo Calogiuri, prima forse potrò tornare a dormire.”

 

Gli venne da ridere.

 

“Lo so che non è solo per quello che vuoi scagionare il maresciallo, ma… ti pesa così tanto, tenere Francesco?”

 

“Diciamo che… lo so che non è colpa sua, anzi, e quando è tranquillo è dolcissimo, ma… con i bimbi o ti prendi o non ti prendi. Come nelle storie d’amore. E lui non mi percepisce come figura materna. Quindi prima è, meglio è anche per lui, che potrà essere più felice che con me.”

 

C’era un tono strano nell’ultima frase, una fragilità che raramente sentiva in Irene, sempre così decisa, guardinga, forte.

 

Le mise una mano sulla spalla, che era il loro modo di abbracciarsi, e lei ricambiò.

 

A volte le parole non servivano.

 

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“Valentì, non so se hai visto ma-”

 

“Che cosa? Le foto del tuo limone con la sorella di Calogiuri? Ma secondo te? Mi stanno tempestando di messaggi e-”


“Mi dispiace, ma-”

 

“Sai invece che cosa dispiace a me, papà? Non tanto di trovarmi la mia famiglia sputtanata su tutti i giornali, che tanto ci sono abituata, ma che se non fosse stato per Noemi, probabilmente lo avrei saputo dai giornali, per l’ennesima volta. E certo che con una separazione in corso pure tu e lei discreti, furbi, complimenti!”

 

“Ma non ci siamo mai messi a fare effusioni in pubblico. Eravamo in casa e ci hanno spiato fin lì e-”

 

“E di nuovo dove sta la novità? Esistono le tende, non lo sai? E per il resto, grazie per l’ennesimo casino nella mia vita di cui non avevo proprio bisogno. Mi avete provocato molti più casini tu e mamma di quanti io ne ho provocati a voi, pure in adolescenza. Ma ti pare normale?”

 

Sospirò.

 

No, non era normale, ma niente della loro vita lo era.

 

E Valentina sembrava incazzata come non l’aveva mai sentita e non solo per le foto.

 

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“Conti, mi potrebbe accompagnare sulla scena del caso Rizzoli? Mariani è impegnata con Mancini e-”

 

“Ma certo, dottoressa!”

 

Il tono e lo sguardo entusiasti del maresciallo, che balzò in piedi con la faccia di un bimbo a cui avevano appena donato un sacchetto di caramelle, la fecero per un secondo sentire in colpa.

 

Però, se Conti davvero aveva tradito, anche se in buona fede, la fiducia sua, di Imma, di Calogiuri e aveva, in un modo o nell’altro, provocato l’aggressione a Melita, non c’era niente di cui sentirsi in colpa.

 

Come diceva Imma, anche se in modo molto, troppo ottimistico, male non fare, paura non avere.

 

Non era sempre vero, purtroppo, anzi, ma loro si sarebbero comportati correttamente, a differenza di altri, e se Conti alla fine non c’entrava nulla, non aveva niente da temere.

 

Si avviarono insieme verso l’auto di servizio.

 

Notò alcuni giornalisti, probabilmente ancora speranzosi di trovare Imma o Calogiuri per avere dichiarazioni riguardo allo scandalo sull’ex marito di Imma con la sorella di Calogiuri.

 

Certo che pure loro, non si aiutavano, con tutte queste relazioni incrociate. Ma, per quel poco che aveva visto dell’ex di Imma, aveva fatto un terno al lotto con la sorella di Calogiuri, da fargli i complimenti per la conquista.

 

Salirono in auto, Conti che allontanava i giornalisti, e partirono rapidamente.


Gli diede l’indirizzo a cui recarsi e poi mandò il segnale via messaggio.

 

Dieci minuti dopo circa, mentre erano ancora mezzi incagliati nel traffico, le arrivò una chiamata.

 

“Pronto, Maria? Che succede?” domandò, sperando di saper ancora recitare sufficientemente bene, “come? D’accordo, ho capito, arrivo subito.”

 

“Che succede?” le domandò Conti appena mise giù, preoccupato.

 

“Un’emergenza a casa. Mi può accompagnare, Conti?”

 

Conti, a parte l’ansia, sembrò come un cavaliere appena investito dalla propria regina del suo titolo.

 

Si avviarono verso casa sua con una velocità della quale non avrebbe ritenuto Conti capace, tanto che ci arrivarono pure più in fretta del previsto.


Sperò che fosse tutto pronto.

 

“Conti… può rimanere qua in attesa? Forse potrei avere bisogno dell’auto.”

 

Conti era come un libro aperto: lesse chiaramente da un lato il sollievo che lei potesse avere bisogno di lei, dall’altro la delusione di non essere invitato a salire.

 

E quindi estrasse il cellulare, finse di leggere un messaggio e gli domandò, guardandolo negli occhi, “anzi, forse è meglio se può salire anche lei, Conti. Le dispiace trovare un parcheggio e raggiungermi? Vicino, se possibile.”

 

“Dottoressa, non c’è problema, lascio l’auto col permesso speciale qua di fianco e salgo subito.”

 

“Grazie, Conti. E mi raccomando, acqua in bocca. Mi sto fidando di lei, va bene?”

 

Conti, a parte l’onore, ebbe un lieve momento quasi colpevole che no, non si era sognata.

 

Mancini ci aveva visto giusto, ne aveva sempre di più la conferma, purtroppo e per fortuna.

 

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“E dai, piccolo, che tra poco puoi piangere quanto vuoi!”

 

Gli venne da ridere perché Mariani stava facendo saltellare Francesco tra le sue braccia, cercando di tenerne a bada le urla e il pianto.

 

Ci sapeva proprio fare con i bimbi - del resto sembrava quasi un personaggio delle fiabe, con l’aspetto che aveva - ma il piccolo era veramente un osso duro.

 

Lei però continuava a sorridergli gentilmente e a giocarci, senza arrendersi. Che poi era il suo modo di non arrendersi alle difficoltà in generale.


“Se vuole… se vuole posso provare a tenerlo un poco io. Così si riposa che poi dobbiamo essere in forze per quello che dobbiamo fare oggi.”

 

Mariani gli sembrò incredula quasi, e lui fece cenno come a chiedergli il perché.

 

“Niente, dottore, ma… pensavo non le piacessero i bambini.”

 

“E come mai?” domandò, stupito e un po’ ferito.

 

“No, è che… non ce la vedo molto coi pannolini da cambiare ed un bambino che stravolge la casa. Una compagna sì, ma figli no. Poi va beh… Francesco non è che sia proprio il bimbo più tranquillo del mondo, di quelli che ti inteneriscono.”

 

Sospirò: Mariani lo vedeva elegante, impostato, vecchio stampo. Lo sapeva. E poi forse anche un po’ come uno scapolo incorreggibile.

 

“In realtà… in realtà figli ne avrei voluti ma… mia moglie non poteva averne e poi… e poi non ho più incontrato nessuna con cui avrei voluto farmi una famiglia, figuriamoci figli.”

 

“Neanche la dottoressa?” gli domandò, prima di tapparsi la bocca di scatto, temendo presumibilmente di aver esagerato.

 

Ci pensò per un attimo.

 

“Non so… la dottoressa… non è in età da avere altri figli, Mariani. Quindi… ho desiderato di condividere la vita con lei ma… parlare di famiglia alla nostra età e con matrimoni alle spalle, ha un significato diverso, di solito.”

 

Mariani annuì, pensierosa.

 

“Allora? Non si fida?” chiese, allungando una mano e Mariani arrossì e scosse il capo.


“No, no, dottore, si figuri. Se… se le va, ecco, tenga pure, che mi riposo le braccia.”

 

Si trovò con il bimbo tra le mani che prima lo guardò per un attimo, incerto, e poi riprese ad urlare come un forsennato.

 

“Mi sa che l’unica con cui è tranquillo è proprio la dottoressa Tataranni…” sospirò Mariani, dando una carezza alla pancia di Francesco mentre pure lui lo faceva saltellare e poi gli fece fare un paio di giri in aria.

 

Si sentì trionfante quando Francesco fece una risatina.

 

Molto meno quando alla risatina seguì uno strano rumore e si trovò col vomito sulla camicia.

 

Si guardò con Mariani, che sembrò terrorizzata, ma gli venne da ridere.

 

“Almeno non mi ha graffiato a sangue…” mormorò, tra sé e sé.

 

“Come?”

 

“Niente, Mariani. Sono cose che capitano. Mi sa che dobbiamo fare allenamento tutti e due coi bimbi. Speriamo che Irene arrivi presto, che-”

 

Quasi come se l’avesse ascoltato, la porta di ingresso si aprì e trovò Irene che lo guardò, prima stupita e poi divertita.


“Vorrei dirvi che mi dispiace, ma ora sapete cosa mi tocca sopportare ogni notte. Preparatevi che sta per salire.”

 

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“Dottoressa, posso?”

 

Conti aveva bussato e si era affacciato all’ingresso. Lei fece cenno di sì col capo, mentre teneva in braccio Francesco che, puntuale come un orologio, piangeva come un ossesso.

 

Un attore nato era, perfetto per il ruolo.

 

“Ma… ma… questo bimbo?”

 

“Il figlio della Russo, Conti. Lo sto tenendo finché non si chiarisce del tutto la situazione ma-”

 

“Ma perché piange così? Sta male? Dobbiamo portarlo al pronto soccorso?”

 

Conti aveva gli occhi sbarrati e sembrava preoccupatissimo: del resto, chiunque avrebbe faticato a credere che quelle urla erano normale amministrazione e non frutto di una qualche patologia gravissima.

 

La pediatra, purtroppo e per fortuna, l’aveva però rassicurata che era normale così.

 

“Non so… aspettiamo un attimo. Purtroppo… piange molto spesso. Sai, il trauma di essere prima stato strappato alla madre, poi la famiglia… diciamo adottiva… che prima lo tiene rinchiuso per mesi. La madre… adottiva… che era morbosissima con lui. E poi… avrebbe voluto stare con la dottoressa Tataranni ma… siccome Calogiuri è ancora ingiustamente accusato dell’aggressione a Melita non è stato possibile. E quindi mi sono offerta io ma… questo povero bambino sente di aver subito due o tre abbandoni e questo è il risultato.”

 

Vide chiaramente Conti deglutire, tre volte per precisione, ed un altro chiarissimo lampo di senso di colpa.

 

Ci stava forse andando giù un po’ troppo pesante ma, conoscendo Conti, non era abbastanza scaltro ed era troppo di animo buono da notare la sua strategia. Per fortuna sui sensi di colpa aveva avuto un ottimo insegnante in suo padre.

 

“Mi… mi dispiace… povero bimbo. Com’è che si chiama?”

 

“Francesco.”

 

“Francesco, guarda che sei fortunato a stare con la dottoressa Ferrari,” proclamò Conti, in un modo decisissimo che fece sentire lei un poco a disagio. Ma doveva arrivare alla verità, anche se Conti sarebbe finito nei guai.

 

“Vuole… vuole che provo a tenerlo un pochino io? Così magari si riposa un po’, dottoressa, e poi valutiamo se portarlo al pronto soccorso.”

 

Rimase per un attimo indecisa, ma alla fine Conti, in generale, era abbastanza affidabile ed il contatto col bimbo poteva metterci un altro carico di sensi di colpa.

 

Quindi glielo passò e Francesco fece una cosa inaspettata.

 

Lo guardò per un attimo e si zittì del tutto, squadrandolo con quegli occhioni scuri e pieni di lacrime, fisso fisso, quasi come se lo stesse studiando.

 

E poi riprese a piangere, ma aggrappandoglisi al giaccone, mentre ogni tanto si fermava e tornava a guardarlo.

 

Vide l’espressione di Conti incrinarsi, pareva sull’orlo delle lacrime pure lui.

 

“Io… io vorrei solo sapere chi è stato ad avvisare quei bastardi che stavamo cercando Melita. Anche il dottor Vitali è disperato e sta cercando una talpa a Matera e… ed è sempre brutto dover dubitare dei colleghi ma… ma lo sapevamo in pochissimi e sono stati troppo veloci a trovare Melita, e che sia una coincidenza è impossibile. Quindi ora uno dei brigadieri storici di Matera e la ex cancelliera di Imma rischiano il posto.”

 

Era una bugia, ovviamente, ma doveva aumentare la pressione al limite, tanto che aggiunse, “sai… era una delle poche amiche di Imma. Se fosse stata lei o il suo compagno… sarebbe un colpo durissimo per tutti. Ma del resto, chi altro rimane? Qua lo sapevano solo persone per le quali metterei la mano sul fuoco e-”

 

Un rumore strozzato la interruppe ed incrociò gli occhi di Conti che sì, aveva ceduto al pianto.

 

Lo guardò, senza bisogno di parole o di continuare con la recita: si erano capiti.


“Conti… non… non vorrai dire che-”

 

Per tutta risposta, il maresciallo si sedette sul divano, forse prima che gli cedessero le gambe, e poi le passò Francesco, come se improvvisamente gli fosse insopportabile tenerlo in braccio.

 

Francesco, ovviamente, prese a piangere ancora più forte, almeno per qualche istante, perché poi, come se avesse percepito l’atmosfera nella stanza, si zittì e guardò alternativamente lei e Conti, con gli occhioni spalancati.

 

“Ho… quando mi avete detto di cercare Melita quella sera io… io l’ho riferito a Santoro, che la stavate cercando. Ma… ma non penserà che….”

 

Sospirò, espellendo il fiato che aveva trattenuto fino a quel momento.

 

Ce l’aveva fatta e, purtroppo, Mancini ci aveva visto giusto.

 

“Conti. Non le devo dire cosa penso io, visto che mi pare chiaro che lo pensi anche lei.”

 

Conti si accasciò ancora di più sul divano.

 

“Ma… ma Santoro non può avere fatto una cosa del genere e-”

 

“E altrimenti chi ci rimane? Mariani? Mancini? Io?”

 

Un attimo di silenzio, nel quale non si sentiva volare una mosca. Perfino Francesco era ammutolito, la manina in bocca, mentre fissava Conti, come se capisse la serietà del momento.

 

“Che cosa ho fatto?! Che cosa ho fatto?!” singhiozzò Conti, coprendosi le mani col viso, scosso da tremori.

 

Da un lato lo avrebbe strozzato, dall’altro le faceva un po’ pena. Alla fine era stato sicuramente manipolato per bene da quello stronzo di Santoro.

 

Ma doveva portare avanti il piano, fino all’ultimo.

 

“Le lacrime da coccodrillo non servono a niente! Se veramente si è reso conto di quello che ha fatto, ha un solo modo di rimediare, Conti. Ed è aiutarci a scoprire con chi è in contatto Santoro e che rapporti ha con quella gente.”

 

Il maresciallo si scoprì il volto e la guardò, colpevole e spaventato.

 

“Ma… ma come?”

 

“Santoro di lei si fida, Conti. O pensa di tenerla in pugno. Sono sicura che un modo lo troveremo. Sempre se, almeno in questo, posso ancora fidarmi di lei.”

 

Era la coltellata finale e lo sapeva, tanto che Conti scoppiò in un pianto ancora più disperato, se possibile, continuando a mugugnare dei “mi dispiace!” con voce talmente roca che pareva avere l’asma.

 

Francesco si proiettò verso di lui, toccandogli il braccio, come per accertarsi che stesse bene.

 

Sì, i bambini erano un’arma letale a volte, nella loro innocenza.

 

Conti si bloccò e lo sguardo che rivolse al piccolo non se lo sarebbe mai più scordata, e nemmeno quello che condivise con lei, prima di annuire e di sussurrare un, “va bene.” di cui sì, era certa di potersi fidare, perché Conti aveva l’aria di essere pronto a tutto, pur di rispettare quella promessa.

 

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“Eccoci qua!”

 

Era rientrato finalmente Ranieri, dopo che Giorgio e Mariani se ne erano andati, visto che Conti non aveva rappresentato un pericolo, anzi, si era dileguato con l’aria di chi voleva autoflagellarsi più di un monaco de Il Nome della Rosa.

 

Giorgio era stato tutto sorridente, e con quello sguardo orgoglioso che ormai era più raro le rivolgesse - del resto si conoscevano da una vita e ormai il loro rapporto era decisamente più alla pari che quello mentore/allieva, o per certi versi padre/figlia che avevano avuto a Milano, quando lei era alle prime armi - e che eppure le suscitava sempre qualcosa dentro che era difficile da definire.

 

Sicuramente però c’entrava la troppo scarsa, per non dire inesistente, approvazione di suo padre, quello vero.

 

Mariani invece le era sembrata spaventata, l’aveva guardata come se fosse pericolosa, lei sì, altro che Conti.

 

Ed, in effetti, forse aveva ragione.

 

“Irene!”

 

La voce di Bianca la fece ridestare immediatamente e la guardò, ancora in braccio a Ranieri, che pareva contenta come non l’aveva forse mai vista.

 

“Ti sei divertita?” le venne spontaneo chiederle.


“Sì, tantissimo! Ci possiamo tornare presto sulle giostre, tutti e tre insieme?” le domandò, in quel modo che non avrebbe potuto mai dirle di no.

 

E poi… che riuscisse a stare sulle giostre, tra i rumori, i bimbi e la folla, era un altro risultato incredibile di quella giornata.

 

“Va bene. Ma adesso vai a cambiarti che è ora di andare a dormire, ok?”

 

Bianca annuì e, dopo aver dato un bacio a Ranieri e uno a lei, si avviò in fretta verso la sua cameretta, uscendone dopo poco con tutto il necessario per lavarsi e cambiarsi.

 

Diventava sempre più grande e più indipendente.

 

“Sei sempre la migliore!”

 

Si voltò stupita, trovando Ranieri che la guardava in un modo che le fece accelerare il battito e le provocò un calore alle guance che cercò disperatamente di controllare.

 

Non doveva mostrargli quanto le facesse ancora effetto.

 

“La migliore a fare la stronza?” ironizzò, per deflettere la situazione, ma Ranieri rimase serio e scosse il capo.

 

Aveva seguito l’operazione tramite auricolare, anche mentre era con Bianca.

 

“Sai… la disperazione di quel maresciallo un po’ la capisco. Sia per aver contribuito involontariamente a… a rendere una creatura innocente orfana, o quasi, sia… sia perché è perso per te. Non sei una donna semplice da dimenticare.”

 

Ma perché? Perché? Perché doveva guardarla in quel modo? Dire sempre le parole giuste al momento giusto?

 

Peccato che erano solo quello: parole.

 

Ormai lo sapeva benissimo.

 

“Mi sembra che ci sei riuscito benissimo, per molti anni,” sibilò, anche più dura di quello che voleva essere.

 

Sospirò ed aggiunse, non tanto per rimediare ma perché lo pensava veramente, “e comunque… e comunque non è stata solamente colpa tua, di Bianca. Anche io ero distratta in quel periodo e-”

 

“E non avrei mai dovuto lasciarti sola a Milano, in mezzo a tutto quello che stava succedendo, a lottare da sola. E… e il senso di colpa per averlo fatto… credo mi resterà per sempre.”

 

Più che le parole fu lo sguardo, il modo in cui le aveva dette ma, senza sapere bene come, si ritrovò nelle sue braccia, a stringersi forte, senza staccarsi mai, come non succedeva da….

 

E quegli abbracci, quegli abbracci che per qualche istante le facevano credere davvero che tutto sarebbe andato bene, le erano mancati più di tutto il resto.

 

Non andava bene, lo sapeva, ma avrebbe avuto tempo dopo per rimproverarsene, per ora se lo sarebbe goduto.

 

Ma le mani di lui si abbassarono sulla sua schiena, anche se di poco, ma già troppo, e quindi si costrinse bruscamente a staccarsi.

 

“Ora… ora è meglio che vai….”

 

Sapeva di avergli appena dato una mazzata ma… lei se ne era prese talmente tante in passato e non voleva beccarsi l’ennesima.


Perché, come dicevano saggiamente gli inglesi, se mi freghi una volta, è colpa tua, se mi freghi due volte è colpa mia.

 

Ranieri annuì ma in quel momento una vocina alle loro spalle chiese, “ma vai già via? Non racconti una storia della buonanotte per me e per Francesco?”

 

Bianca….

 

Tra il pigiamino di Frozen, i ricci e gli occhioni spalancati era di una tenerezza che spaccava il cuore.

 

Ranieri le fece un cenno.


Sopirò ed annuì: che poteva fare?

 

“Va bene, adesso arrivo, mettiti nel letto con Francesco.”

 

“Che bello! Grazie! Che le racconti così bene! Anche meglio di Calogiuri!”

 

Ranieri si voltò di scatto, guardandola in un modo quasi accusatorio, del quale non aveva assolutamente il diritto, anzi, ma… si sentì un po’ in colpa lo stesso, purtroppo.

 

“Guarda che tra me e Calogiuri non c’è mai stato niente,” sussurrò, non appena Bianca sparì nella stanza matrimoniale, “non che siano affari tuoi.”

 

“Lo so… ma… è che… ho notato quanto ci tieni a lui. Al punto che rischieresti la carriera per aiutarlo. E… e ammetto che ho provato una certa gelosia nei confronti del maresciallo negli ultimi mesi, anche se non ne ho il diritto, lo so. Ma… ma mi sono chiesto tante volte se… se lui non fosse stato così innamorato di Imma, se….”

 

Le venne da sorridere, anche se in modo amaro.

 

Perché se lo era chiesta pure lei, tante volte.

 

“Ci… ci ho pensato, per un periodo,” ammise, anche se equivaleva pure ad ammettere una sconfitta, ma non nel modo che pensava Lorenzo, o Imma, sicuramente, “che Calogiuri potesse essere in teoria l’uomo perfetto, non solo per me, ma… anche come figura paterna per Bianca. Ma… ma è come se fosse sempre mancato qualcosa, che facesse scattare quel qualcosa in più, per entrambi. Anche se ho cercato di provocarlo un po’... anche per tutelarlo da quella che credevo sarebbe stata una storia dalla quale sarebbe uscito distrutto. Ma poi… ma poi ho capito che… se è andata male a noi due… non deve essere così per tutti. Ed Imma e Calogiuri sono decisamente molto meglio di come eravamo noi all’epoca.”

 

Lo sentì deglutire - quella sera avevano tutti la gola secca - ma, proprio quando stava per rispondere, il “Irene, Lorenzo?” di Bianca interruppe il momento.

 

“Meglio che andiamo, che se si risveglia Francesco non ci salviamo più.”

 

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“Calogiù, che succede?”

 

Erano a letto e, poco prima che potessero dedicarsi ad attività per le quali Ottavia sarebbe fuggita in bagno, gli era arrivato un messaggio ed era sbiancato.

 

Non le era nemmeno venuta la solita fitta di gelosia dei messaggi a tarda sera, tanto sembrava preoccupato.

 

Si trovò con il cellulare di lui in mano e lesse il messaggio di Rosa, che era una foto della lettera dell’avvocato di Salvo, nella quale elencava le sue richieste.

 

Oltre all’affido esclusivo di Noemi e agli alimenti per la bimba, voleva anche un contributo per il mantenimento di Salvo pari praticamente, ad occhio e croce, allo stipendio di Rosa, ed in più un risarcimento del danno alla sua reputazione, provocato dalle foto uscite sui giornali - che chissà chi aveva fatto uscire! - pari a cinquantamila euro.

 

Ammazza!

 

L’avvocato di Rosa - uno dei migliori, o più squali, di Napoli - ci andava giù pesantissimo.

 

“Sta sparando altissimo, per avere meno. Nessun giudice gli concederebbe mai queste richieste, soprattutto considerato la situazione economica di Rosa, ma-”

 

“Ma può veramente chiedere addebito, affido e danni?”

 

“Danni ne dubito, anche perché potremmo chiederli noi, contestando che quelle foto le aveva l’avvocato di Salvo. L’affido spero proprio di no, lo ritengo improbabile ma… ma conta se riusciamo a scagionarti prima che finisca il procedimento di Rosa, cosa che spero ovviamente avvenga. E… l’addebito… quello dipende. Da quanto è maschilista il giudice e da quanto se la giocano bene i due avvocati. Lo sai.”

 

Calogiuri annuì, ma lo vedeva che non era molto rassicurato, anzi.

 

“Senti… posso provare a sentire… Chiara e… e mio nipote. Anche se ci sono i processi in corso, alla fine ormai io sono stata esautorata dal maxiprocesso quindi… non ho procedimenti aperti dove sono coinvolti i Latronico.”

 

Si trovò con la mano stritolata, forte forte, e poi avvolta da un mezzo abbraccio.

 

“Non mi preoccupa il conflitto di interessi, dottoressa. L’importante è… se tu vuoi avere rapporti con Chiara e con suo figlio o meno. Solo questo conta. Per il resto… l’udienza non è mica domani e mia sorella può cavarsela anche in un altro modo. Devi fare ciò che ti senti, va bene?”

 

Eccallà!

 

Calogiuri le aveva piantato l’ennesimo macigno in gola.

 

Se lo strinse ancora più forte e poi gli mordicchiò l’orecchio ed il collo, godendosi il gemito ed il sussulto che gli provocò. Ma lo zittì con un bacio, mettendosi a cavalcioni su di lui e buttandolo di traverso sul materasso.

 

Del resto, l’aveva detto lui che doveva fare ciò che si sentiva.

 

E lei quello avrebbe fatto, con molto, molto, moltissimo impegno.

 

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“Che c’è, Mariani? Tutto bene?”

 

Lo stava riportando a casa - anche se erano sulla sua auto - dopo essere andati a mangiare, su insistenza di lei, in una trattoria tipica al ghetto ebraico.

 

L’amore per i fritti della tradizione ebraico-romana, tra cui i carciofi alla giudia che erano buonissimi, avrebbe comportato una bella visita in lavanderia per tutto il suo abbigliamento di quella sera.

 

A parte la camicia vomitata, che quella… forse conveniva direttamente buttarla.

 

“Sì, dottore… è solo che… so che è amico della Ferrari e… ed è bravissima, per carità, nel suo lavoro almeno, ma… ma a me ogni tanto fa un po’ paura. Si è rigirata Conti come un pedalino e senza scomporsi. Poteva andare nei servizi segreti, altro che PM.”

 

Gli venne da ridere, perché per tanti versi era vero.

 

“Anche lei quando si arrabbia fa un po’ paura. Lo sa, Mariani?” scherzò e la macchina per un secondo sbandò mentre le venne un colpo di tosse e diventò rosso fuoco.

 

“M- mi, mi dispiace io-” provò a balbettare, ma poi i loro sguardi si incrociarono e, capendo che non fosse un rimprovero, anzi, si rilassò e gli sorrise.

 

“E comunque… Irene ha avuto un’educazione che l’ha portata ad essere bravissima a mascherare ciò che prova. Un addestramento militare, in tutti i sensi. Anche se, quando l’ho conosciuta io… mostrava un po’ di più quello che sentiva, non aveva questo sangue freddo ma… ma non era comunque paragonabile agli altri magistrati freschi di concorso. Ma non è cattiva, ed è pericolosa solo con chi se lo merita. Anche se con Conti è stato un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Mi è quasi dispiaciuto per lui, anche se ha messo tutta la procura in guai inimmaginabili.”

 

“Il vero stronzo è Santoro,” esclamò Mariani, con una decisione che lo sorprese, visti i pregressi col magistrato, “ma… ma anche Conti ha le sue colpe. Gli amici non si tradiscono mai, soprattutto se si fidano di te. Poi per carità, un conto è se ci fossero state le prove che Calogiuri era colpevole e allora… prima dell’amicizia viene il dovere morale di non coprire un crimine, ma così… non so se riuscirò mai più a fidarmi di lui.”

 

Eccola, la Mariani tosta, dura, che faceva paura ma che gli piaceva anche molt-

 

Bloccò quel pensiero da dove era venuto, anche perché gli piaceva solo a livello professionale, nient’altro. Era troppo giovane, c’era troppo sbilanciamento di potere, e poi… e poi lei lo vedeva come una specie di vecchietto - e non le dava torto. E gli innamoramenti sul luogo di lavoro li avrebbe evitati accuratamente fino alla pensione, visto quanto successo con Imma.

 

“Ma… avrà conseguenze legali? Conti, dico?”

 

Ed ecco invece il lato più buono e gentile che riemergeva. In fondo la capiva: con Conti c’era un’amicizia da molti anni.


“Sicuramente qualcuna sì, ma… ma se collabora alla fine non ha fatto altro che riferire informazioni ad un diretto superiore, che era a sua volta tenuto al segreto professionale. Credo che potrebbe cavarsela con poco. Certo, con la sua coscienza dovrà vedersela lui.”

 

Mariani annuì ed il resto del viaggio, per quanto breve, trascorse in un silenzio assoluto.

 

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“Come v-”

 

Non gli diede nemmeno il tempo di finire e se lo abbracciò, perché aveva proprio bisogno di contatto umano in quel momento.

 

Lo sentì sorpreso, ma poi si trovò stretta forte forte, anche se le mani erano sempre al posto loro - e bravo! - e si lasciò andare per un attimo in quel contatto.

 

“Mi dispiace, Vale, davvero.”

 

“Anche a me!” esclamò, staccandosi leggermente per guardarlo negli occhi, “ormai ho tolto le notifiche da tutti i social. I miei ex amici di Matera fanno delle battute che… ma anche qua in università c’è qualcuno che fa lo scemo. Pensa che un giorno alcune ragazze mi hanno accolta canticchiando la sigla di Beautiful.”

 

“Non le tue amiche, spero.”

 

“No, ma… ma non capiscono quanto sia difficile. Per loro è divertente. E… e poi sono delusa che mio padre non me lo ha detto prima. E per fortuna almeno non l’ho scoperto dai giornali! Ma poi dico, sai che ti stai per separare, e state attenti, no?!”

 

“Però… però fare foto alla finestra di un’abitazione privata è proprio al limite. Vero che purtroppo, secondo alcune sentenze, se una parte dell’abitazione è visibile da fuori, è lecito scattare foto, ma… siamo proprio sul limite del diritto alla privacy.”

 

Rimase per un attimo ammutolita ma poi le venne da ridere.

 

“Che c’è?”

 

“No, è che… quando fai così mi sembri mia madre!”

 

Carlo le parve imbarazzato e pure un poco ferito.


“E dai, non lo dico con cattiveria ma… la capa tanta che ti fa tuo padre per studiare, evidentemente serve.”


Carlo sospirò e scosse il capo.


“Senti, se per stasera non parliamo dei nostri genitori e soprattutto non ci pensiamo ma ci divertiamo e basta? Balliamo fino all’alba se vuoi.”

 

Sorrise, perché era una vita che non ci andava in discoteca.

 

“Va bene. Anche se fino all’alba regge solo mia ma-” si bloccò appena in tempo, anche se lui aveva capito benissimo.

 

Ma non disse altro ed avviò la macchina, cominciando a guidare nel traffico ormai ridotto della notte romana.

 

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“Ma che hai stasera? Con te i test da sforzo per l’idoneità al servizio attivo non servono.”

 

La vide ridere, soddisfatta, e poi si trovò col petto ricoperto di baci.

 

Nell’ultimo periodo Imma era veramente insaziabile - pure lui, per carità, con tutti gli arretrati da recuperare - ma lei… lo era ancora più dei primi tempi, forse, e non lo avrebbe mai ritenuto possibile.

 

“Non è colpa mia se sei così irresistibile, Calogiù. E ti lamenti pure?”

 

“Mai!” proclamò, deciso, prendendole delicatamente il viso per darle un bacio vero, “ma… ma tra un po’ mi tocca gettare la spugna… sarà che non ho più vent’anni ma… tu che ti preoccupavi della differenza d’età…. Tra un po’ non ce la farò io a starti dietro.”

 

“Scemo! E poi è perché devi ancora riprendere peso e muscoli. Quindi domani di nuovo dieta da campioni.”

 

“Se andiamo avanti così, mangerò più uova in una settimana di un culturista.”

 

“Vorrà dire che le andremo a comprare all’ingrosso, Calogiù!” sospirò lei e dopo poco gli sfuggì un’esclamazione di dolore misto a piacere, all’ennesimo morsetto sul collo.

 

Sì, un giorno di quelli lo avrebbe mandato al creatore, ma non se ne sarebbe mai lamentato.

 

Anzi.

 

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“Due bomboloni alla crema e due cappuccini.”

 

Alla fine avevano davvero fatto l’alba: si era sfogata, ballando con lui senza mai fermarsi o quasi.

 

Anche se… sui balli lenti c’era stato all’inizio un po’ di imbarazzo, ma poi pure tanti baci che… che la facevano sempre sentire in un modo che non capiva bene.

 

Di una cosa sola era sicura: a lei stare con Carlo faceva bene, molto, aveva sempre il potere di farla sentire meglio.

 

La vista dal Pincio era magica, sebbene si surgelasse ancora, i primi raggi di sole che arrossavano la città.

 

“Roma è proprio bellissima.”

 

“Non solo lei,” rispose lui, serio, guardandola in un modo che le fece capire che non era solo una battuta scontata, di quelle da rimorchio.

 

Si sentì le guance che dovevano essere ormai del colore dell’alba, mentre mangiava e beveva avidamente, dopo tutto il moto fatto.

 

E poi si sentì abbracciare, di lato, dolcemente, mentre finivano di guardare il sole farsi sempre più alto in cielo, la luce che tornava luminosa e fredda come le mattinate di primavera.


Infatti, cominciò ad avere un po’ freddo e, al primo brivido, lui le offrì la sua giacca di pelle e la strinse più forte, dicendole, “dai, ti riaccompagno.”

 

Fu un viaggio silenzioso, silenziosissimo, tenendosi per mano, mentre lei ragionava sul da farsi, perché… perché dopo una notte così… c’era una sola conclusione possibile, di solito.

 

Ma c’era anche una parte di lei che esitava, che pensava che fosse troppo presto, dopo Penelope.

 

Ma la mise a tacere perché… perché se non così come avrebbe capito quello che provava davvero per Carlo? E come sarebbe riuscita ad andare avanti? E poi… e poi non era ancora pronta a staccarsi da lui e tornare nel suo appartamento, da sola.

 

Quindi quando lui parcheggiò sotto al suo condominio e la guardò, esitante su cosa dire o fare, lei chiuse gli occhi e, facendosi forza, gli chiese, “ti… ti andrebbe di salire?”

 

Silenzio.

 

Li riaprì, temendo di avere esagerato, ma lui era rosso come un peperone crusco, ma aveva anche un sorriso, pure se un poco timido.

 

Lo vide annuire e si trovò trascinata in un altro bacio.

 

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“Vuoi… vuoi qualcosa da bere o-”

 

Non riuscì a terminare la frase perché le labbra di Carlo le tapparono la bocca in un bacio appassionato che da lui, sempre così dolce, non si sarebbe aspettata, come neanche l’iniziativa.

 

Ci si perse per un po’, mentre si spostavano a caso nel monolocale, finendo sul divano, continuando a baciarsi.

 

Le piaceva baciarlo, ma… ma le faceva sempre provare qualcosa di strano, che non capiva fino in fondo.

 

E poi, timidamente, le dita di Carlo fecero capolino sotto il vestito, sulle sue gambe e poi sempre più su, fino a levarglielo e anche lei, d’istinto, gli tolse la giacchetta ed iniziò a slacciargli quella camicia da bravo ragazzo.

 

Una cosa portò ad un’altra, anche se c’era sempre qualcosa di strano, di diverso - ma forse era perché non era più abituata a fare l’amore con un ragazzo, dopo tutto quel tempo - e si trovò completamente nuda.

 

Per fortuna Carlo era stato previdente con le precauzioni - bravo ragazzo sì, ma mica scemo! - e, nel giro di qualche secondo….


“Ah!” esclamò, ma non era un urlo di piacere, ma una fitta di dolore, tanto che gli spinse sul petto per bloccarlo.

 

Per fortuna Carlo lo fece subito ed incrociò il suo sguardo, preoccupatissimo, “che… che succede?”

 

“Non… non lo so ma… ma mi fa male…” rispose, un po’ mortificata, e l’occhio le cadde e… e oggettivamente non è che ci fosse particolare differenza rispetto a Samuel.

 

Possibile che si fosse disabituata fino a quel punto?

 

“Scusami… forse… forse sono andato troppo di fretta…” balbettò Carlo, in un modo che le fece una tenerezza infinita e… e poi, sempre con enorme dolcezza e lentezza, la rimise distesa e si dedicò con impegno a quelli che di solito si chiamavano preliminari ma che da qualche tempo per lei erano il piatto principale.

 

E fu lì che le fu tutto chiaro, piovendole in testa come un muro di mattoni.

 

La sensazione strana… non era una sensazione diversa era che… era che mancava qualcosa, perché con Penelope a quell’ora… sarebbe stata all’altro mondo, mentre con Carlo… e non per colpa sua, ma… mancava qualcosa.

 

E la verità era che stava molto meglio tra le sue braccia, ad abbracciarsi semplicemente, forte forte, che a baciarsi o a-

 

“Aspetta,” lo bloccò e lui la guardò, e oltre che preoccupato era stavolta lui a sembrare mortificato, “non… non funziona. Non è per colpa tua ma… non funziona.”

 

Si rimise a sedere e cercò in qualche modo di coprirsi, finché lui, gentiluomo come sempre, le passò la sua giacca, anche se sembrava quasi sull’orlo di piangere.

 

“Io… io ti voglio bene e… e mi piaci fisicamente e… e mi piace uscire con te, abbracciarti, le nostre chiacchierate, ma….”

 

“Ma non ti piaccio fino a questo punto,” concluse lui per lei, amaro.

 

“Non è colpa tua e… è colpa mia. Mi attrai ma… ma mi manca quel… quel qualcosa di più profondo che… che avevo con Penelope.”

 

“Non è colpa di nessuno, Vale. Magari possiamo provare a non vederci per un po’ e… a riprovarci come amici anche se… anche se tu mi piaci molto, quindi… quindi magari ci vorrà un po’ di tempo.”

 

Le venne da piangere, perché sentiva di aver rovinato tutto, di aver rovinato un rapporto bellissimo, per niente.

 

“E invece è colpa mia perché… tutto questo casino è partito da me e-”

 

“Ed è stato meglio così. Almeno ci abbiamo provato e… e non avremo rimpianti, no?”

 

Forse per gli occhi, o per il tono o per le parole stesse, ma scoppiò in lacrime e singhiozzi e si ritrovò assurdamente ad abbracciare Carlo, pure se non se lo meritava, mentre continuava a sussurrargli, “ti voglio bene!”, senza riuscire a fermarsi, anche se forse per lui era solo peggio ma… ma quello sentiva e non ci poteva fare niente.

 

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“Buongiorno dottore, ha del lavoro per me?”

 

Stavano seguendo la conversazione tramite il microfono che avevano piazzato addosso a Conti, che non facesse scherzi.


Gli era stato intimato da Mancini e da Irene di stare molto più vicino a Santoro, per cercare il momento buono per carpire una confessione, oltre che per controllarne gli spostamenti.

 

“Ah, Conti, buongiorno. Sì, oggi dobbiamo lavorare al caso Calogiuri. Dopo le foto che sono uscite… possiamo mostrare ancora di più al mondo chi sono lui e la dottoressa Tataranni. Ho notato che cominciano a spostarsi di più, quindi lo dobbiamo seguire, marcare stretto. Ci pensa lei?”

 

“Certo, dottore!” rispose subito Conti e, se da un lato gli diede fastidio, dall’altro mentre Santoro pensava che Conti fosse impegnato a seguire lui, Conti aveva tempo di seguire Santoro.


“C’è altro?”

 

“Sì. Un caso che parrebbe un suicidio, probabilmente ce la caveremo in fretta. Ormai tra suicidi e violenze domestiche, è tutto tremendamente banale. Ma per fortuna qualche caso interessante c’è ancora e poi ne avrò molti di più, di alto profilo. Anzi, ne avremo molti di più.”

 

Strinse i pugni, perché avrebbe voluto spaccargli la faccia a quello stronzo. Per Imma tutti i casi contavano uguale, lo sapeva, dal più povero e spiantato al più ricco della Terra.

 

Santoro invece voleva solo i casi di alto profilo, per fare carriera e per farsi bello agli occhi della stampa e dell’opinione pubblica.

 

“Mi accompagna?”

 

“D’accordo, dottore, andiamo.”

 

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“Allora, abbiamo scoperto qualcosa?”

 

Con la voce di Mancini si aprì il meeting, sempre da remoto.

 

“Io ci ho provato ma… per ora, a parte seguire i casi e farmi pedinare Calogiuri, non ho notato contatti o movimenti strani ma magari li fa quando io non ci sono. E non posso essere sempre presente, o si insospettirebbe.”

 

Conti pareva in estremo disagio - e ne aveva ben donde il cretino! Che se pensava a tutto quello che aveva passato Calogiuri per lui… una rabbia le veniva!

 

“E le intercettazioni? Hanno dato esiti?”

 

“Purtroppo al momento no, dottore, le sto spulciando tutte ma Santoro non sembra aver contattato numeri sospetti, né ora né in precedenza,” rispose Mariani, con i tabulati in mano.

 

“Sicuramente ha un altro telefono,” intervenì, perché era già ovvio dall’inizio, anche se un tentativo era valsa la pena farlo, “Santoro non sarà un genio, ma non è così scemo da usare il suo.”


“E quindi come facciamo?” intervenne Irene, che ormai aveva delle occhiaie circondate da un viso, mentre teneva in braccio Francesco che aveva da poco smesso di urlare.

 

“E se… e se provassimo a controllare i numeri di chi ha chiamato Mancuso, Giuliani, Coraini ed il resto della banda il giorno che è stata aggredita Melita? Magari… troviamo un numero in comune, no?”

 

Il petto stava di nuovo per scoppiarle, e il peggio è che le veniva quasi da commuoversi, per qualche strana ragione.

 

Era stato Calogiuri a parlare e… e ormai era bravissimo. Avrebbe potuto fare quasi tutto da solo, mannaggia a lui!

 

“Sì, mi sembra una buona idea,” concordò Mancini e perfino lui le parve impressionato - che, visti i pregressi con Calogiuri, voleva dire tantissimo, “Mariani, Calogiuri, dottoressa, ve ne occupate voi?”

 

“Certo, dottore!” rispose prontamente Mariani e anche loro annuirono subito.

 

Del resto, era l’unico lavoro che potevano fare da casa, o uno dei pochissimi.

 

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“Allora, avete trovato qualcosa?”

 

“C’è un numero che ha chiamato l’avvocato proprio il giorno dell’aggressione a Melita. E ha chiamato diverse volte anche nelle settimane precedenti. Abbiamo verificato e appartiene all’ennesimo ultraottantenne in RSA, che immaginiamo non ne sappia niente.”

 

Aveva lasciato a Calogiuri l’onore di dare quella notizia perché se lo meritava proprio: l’intuizione era sua.

 

“Dobbiamo controllare le celle, per capire se c’è corrispondenza con i movimenti di Santoro. Mariani, lei è riuscita a verificare?”

 

“Sì, dottoressa.”

 

Le bastò il tono della ragazza, un misto quasi impossibile di soddisfazione e delusione, per avere una fitta allo stomaco: forse… forse c’erano davvero.

 

“E allora?”

 

“E allora… è quasi sempre staccato ma… sì, c’è corrispondenza alla zona dove si trova l’appartamento del dottor Santoro.”

 

Si guardò con Calogiuri, in un sorriso di sollievo e trionfo, ma lui, oltre che sollevato, pareva preoccupato e capì il perché.

 

Mariani….

 

Sembrava, per fortuna, essere andata un po’ oltre la sua infatuazione per il magistrato ma… ma certe botte fanno sempre male. L’idea di aver investito tanto emotivamente su qualcuno che si era rivelato non solo diverso da come ce lo si immaginava, ma… ma un traditore, un criminale.

 

“Inoltre… inoltre… c’è una data in cui ha chiamato da Posillipo e… e mi ricordo benissimo che quel giorno Santoro c’era andato per un convegno.”

 

Le venne un moto di tenerezza infinita nei confronti di Mariani. Per ricordarsi certi dettagli… si doveva proprio essere stati molto innamorati.

 

“Ma a parte quello… mi sembra che andiamo indietro di parecchi mesi. E, ad occhio e croce, mi pare che le telefonate siano avvenute in corrispondenza di soffiate alla stampa sulle indagini e su voi due, soprattutto.”

 

Era stato Mancini a parlare questa volta, mentre consultava il registro insieme a Mariani, “me le ricordo bene perché, purtroppo, poi ho quasi sempre dovuto metterci io una pezza.”

 

“Secondo me, se controlliamo meglio, ci troveremo anche altre soffiate ai Romaniello e ai Mazzocca, altro che stampa!” intervenne Irene, furente come non l’aveva forse mai vista, “certo che erano sempre un passo avanti a noi e sparivano prove e testimonianze, o magari sapevano pure chi stavamo intercettando.”

 

“Ma… ma io… non è da così tanto che passo informazioni a Santoro…” disse Conti, che pareva sempre più disperato.

 

“Non c’entra… lavorando in procura… alcune informazioni se le è procurate lo stesso. E non è da così tanto tempo che abbiamo blindato in questo modo l’indagine. Non mi stupirei se avesse piazzato anche cimici negli uffici. Dovremo fare un controllo a tappeto, ma dopo averli incastrati. A questo punto è importante che non mangino la foglia.”

 

“Ma come procediamo con Santoro? Per farlo confessare? Perché quello conta, prima di tutto. Anche per comprovare che questo telefono sia effettivamente in mano sua.” 

 

Era stato Calogiuri a parlare e capì che la preoccupazione non era solo derivata da Mariani.

 

Erano sembrati così tante volte ad un passo dallo scagionarlo, dal risolvere tutto, e poi era sempre mancato qualcosa o era successo qualcosa che aveva ribaltato tutto.

 

Calogiuri ormai era diventato prudente, prudentissimo, a cantare vittoria prima del tempo, e lo capiva perfettamente.

 

“Io un’idea ce l’avrei,” rispose quindi, sentendosi agguerrita come non mai.

 

Ma chi le toccava Calogiuri, in tutti i sensi, l’avrebbe pagata carissima.

 

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Il cellulare - nonostante non fosse più quello dei narcos e anzi, ne avesse pure cambiato un altro nel frattempo - sembrava pesarle come un macigno in mano.

 

Fissava la foto profilo di Penelope e… e cercava in ogni modo di farsi forza per premere il numero di telefono subito accanto.

 

Voleva sentirla, dirle che cosa aveva capito, di aver compreso che, nonostante la distanza l’avesse fatta dubitare del loro rapporto e l’avesse portata a cercare una presenza e non solo fisica, tangibile, in Carlo… lei di Penelope era ancora innamorata, c’era poco da fare.

 

Certo, non potevano andare avanti così, con una relazione a distanza, perché… perché non ci stava più bene e… e l’amore non deve far soffrire e basta.

 

Ma magari potevano trovare una soluzione, come le aveva proposto Penelope. Alla fine tra poco si sarebbero entrambe laureate e poi… e poi magari si potevano riavvicinare, in tutti i sensi.

 

Ma aveva davvero diritto di rientrare così nella sua vita, di ripresentarsi come se niente fosse successo, dopo tutto il casino che aveva combinato?

 

Aprì il profilo social di Penelope e la vide: alcune foto in giro per locali, con i suoi amici e soprattutto con un paio di amiche che non aveva mai visto prima. Con la prima stava abbracciata in una discoteca, con la seconda a fare le linguacce e le corna ad un concerto della band metal del suo amico.

 

E se le corna non fossero state solo figurative?

 

Sì, e perché tu con Carlo che hai fatto? La suora di clausura? - le ricordò la voce della sua coscienza, che suonava, terribilmente, come sua madre.

 

Forse la verità era che… le sembrava felice, serena e… questo da un lato la portava a chiedersi se fosse giusto ripiombarle tra capo e collo e dall’altro… la faceva dubitare che forse Penelope si fosse, comprensibilmente, stancata e non l’avesse aspettata come aveva promesso.

 

Spense il telefono, lo buttò sul divano e si mise a dare pugni al cuscino, per sfogarsi, perché altro non poteva fare.

 

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“Dottore.”

 

“Conti. Come mai è qui? Ci sono novità su Calogiuri?”

 

“In un certo senso…” rispose Conti, deciso, anche se poteva percepire un leggero arrochimento della voce che palesava il suo nervosismo.

 

Si stavano giocando tutto e lo sapevano, tutti loro che erano collegati per spiare e registrare quel momento, che avrebbe dovuto essere decisivo.

 

E dai, Conti, almeno qua non mi deludere! - pensò, mentre stringeva a morsa la mano di Imma, che aveva avuto l’idea ma che ora, lo sapeva, conoscendola, temeva di aver fatto un azzardo.

 

Ma no, in certi casi, chi non risica….

 

“Nel senso che… mi sono messo a ricontrollare tutte le intercettazioni che potevano incastrarlo ma… ma non ho trovato nulla. E allora ho guardato tutti i tabulati delle persone coinvolte nel caso, per vedere se magari aveva avuto qualche complice o usava qualche altro numero e… e ho notato una cosa interessante.”

 

“E cioè?” domandò Santoro, sporgendosi in avanti sulla scrivania, con aria un poco nervosa.

 

“E cioè… che la sera dell’aggressione alla Russo, Giuliani ha ricevuto una telefonata da Mancuso che diceva hanno mangiato la foglia, la pagnotta è bruciata e-”

 

“E quindi non mi dirà che sospetta di loro e pensa che Calogiuri sia innocente? Mi delude, Conti e-”

 

“E non è tutto. Giuliani, poco prima, aveva ricevuto una telefonata da Coraini, che aveva detto il forno è bruciato. Va smaltito. E, prima di tutto questo, Coraini aveva ricevuto una telefonata da un numero riconducibile all’avvocato che diceva solo ci sono notizie da Matera. E questo… e questo poco dopo la mia telefonata a lei, dottore. Non solo, ma l’avvocato, poco prima, aveva ricevuto una chiamata da un numero sconosciuto, ma che l’ha chiamato diverse volte nel tempo. Non so cosa si siano detti, visto che il numero dell’avvocato non era più sotto controllo, ma… ma la cella da cui chiamava corrisponde alla zona di casa sua, dottore. E ho verificato più indietro e… questo numero ha moltissimi spostamenti in comune con lei, quando è acceso. A parte appartenere al solito prestanome, ormai in casa di riposo.”

 

Santoro strinse gli occhi ed i pugni e fece uno sguardo pericoloso, pericolosissimo e sibilò, “non so cosa si sia messo in testa, Conti, ma se pensa di minacciarmi o di denunciarmi io-”

 

“Voglio una fetta di torta, dottore. Mi sembra di averle dimostrato più e più volte la mia lealtà, anche essendo venuto qua a riferire queste cose a lei, invece di andare direttamente da Mancini. Ma lo stipendio di un maresciallo è quello che è e… e lei ha amici potenti, evidentemente. E, se mi prendo i rischi, voglio anche i benefici.”

 

Conti se l’era proprio imparata bene la parte, complimenti! A parte qualche tremore qua e là, sembrava quasi convincente!

 

Le dita di Imma stritolarono ancora di più le sue, mentre attendevano la reazione di Santoro. Dal negare tutto, ad estrarre una pistola, ad accettare il ricatto.

 

“Va bene…” lo sentirono infine sospirare, scuotendo il capo, “l’avevo sottovalutata, Conti, in molti sensi. Ma… ma questo potrebbe rendere le cose più facili anche per noi.”

 

“Per voi chi?”

 

“Lo sa benissimo, Conti, non me lo faccia ripetere.”
 

“E no. Perché, per sicurezza, certi contatti li voglio anche io. Tipo l’avvocato. Voglio conoscerlo e anche Coraini.”

 

“E avrà modo di parlare con entrambi, Conti, a tempo debito. Intanto… non è che può in qualche modo far… sparire quelle parti di intercettazione? Tanto ormai quella è una pista chiusa, tutti sospettano del maresciallo. Magari uno sfortunato errore digitale.”

 

“Ci… ci posso provare, dottore, ma non è facile, ci vorrebbe qualcuno più esperto di me in informatica. Non conosce qualcuno lei? Che scommetto che l’avvocato conosce tutti.”

 

“In effetti… potremmo provvedere. Ma lei, per intanto, se ha fatto delle copie me le deve dare.”

 

“E perdere la mia assicurazione sulla vita? Pensa davvero ancora che sia così ingenuo, dottore?”

 

“No. No,” rispose Santoro, con un altro sospiro.

 

“Procedete! A questo punto avete la mia autorizzazione d’urgenza, visto il rischio di inquinamento delle prove.”

 

Stavolta era stata la voce di Mancini, che dava ordini a Mariani e Ranieri, che stavano appostati fuori dall’appartamento di Santoro, pronti a fare irruzione per ispezionarlo da cima a fondo, mentre lui era occupato con Conti.

 

Si guardò con Imma: sperava davvero che ci trovassero quello che ci dovevano trovare, perché sarebbe stata la prova regina.

 

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“Però… si tratta bene il… dottore.”

 

Il commento sarcastico di Ranieri rispecchiava anche il suo pensiero. Per carità, i magistrati non facevano la fame, anzi, ma Mancini e la Ferrari erano ricchi di famiglia. La Tataranni non navigava certo nell’oro, anche se non stava messa male economicamente.

 

Ma quell’appartamento era un inno ai mobili di lusso e di design: riconobbe giusto giusto una poltrona sui cui ci aveva lasciato il cuore quando sognava di progettare il suo appartamento personale, una volta che avrebbe avuto abbastanza da parte per lasciare la caserma, e che costava un rene. Per non parlare della cucina, o della tecnologia, con un televisore grosso quasi quanto la sua stanzetta.

 

Sì, Santoro viveva decisamente al di sopra di quelle che avrebbero dovuto essere le possibilità di un magistrato. E, ovviamente, questa roba doveva essersela procurata tramite qualcuno, perché di sicuro i compensi non gli arrivavano sui conti ufficiali e pagare in contanti cose del genere non era possibile, in teoria.

 

Se pensava… se pensava a quante volte aveva sognato di trovarsi lì, a casa di Santoro, con Santoro stesso a fare… e invece… e invece era tutta facciata ed un’enorme delusione. Quel carattere chiuso, che aveva sempre attribuito a chissà quale profondità nascosta, non celava niente, se non lo squallore.

 

“Con tutta questa roba sarà difficile cercare. Ci vorrà un po’ di tempo e di attenzione, che se spacchiamo questi mobili finiamo di pagarli alla pensione.”

 

Le venne da ridere, nonostante tutto: Ranieri sapeva sempre come sdrammatizzare.


Cominciarono a ispezionare, ma niente, di cose concrete nessuna traccia ed il computer ed il cellulare che si portava al lavoro ovviamente li aveva con sé in ufficio.

 

Ma doveva avere un altro cellulare. E dove lo avrebbe nascosto lei al posto suo?

 

“Ci deve essere una cassaforte, ben nascosta, per come è paranoico Santoro.”

 

“Ma qua è pieno di quadri… e a spostarli tutti sarà molto difficile.”

 

Si guardarono in giro, finché arrivarono in camera e Mariani, dopo aver constatato che in quel letto di design nero, che pareva quello di un serial killer, forse era proprio meglio non esserci entrata mai, guardò in giro tra i vari quadri appesi alle pareti, di cui molte foto e ritratti di Santoro stesso, finché notò, dal capo opposto del letto, uno specchio enorme, che neanche in un atelier ancora un po’ c’erano specchi così.

 

Santoro doveva proprio piacersi parecchio e le venne ancora di più rabbia al pensiero di aver contribuito ad alimentare il suo ego, con la sua infatuazione per lui.

 

Lo specchio era immacolato, ma scorse, su un lato, un paio di impronte digitali, proprio sul bordo.

 

Si guardò con Ranieri e gliele indicò.

 

“Ma dice che?”

 

“Con uno specchio così… mi pare strano che lo si tocchi come se lo si dovesse prendere in mano. Probabilmente non si è accorto delle impronte o non ha fatto in tempo a passare la donna delle pulizie ad eliminarle. Magari c’è….”

 

“Un pulsante!” esclamò Ranieri, toccando con mano guantata proprio il punto delle impronte.

 

Un clack metallico e per poco non si beccò lo specchio dritto in faccia, perché girò sui cardini, correndo verso il letto.

 

Fece appena in tempo a buttarsi per terra per schivarlo, mentre Ranieri, nella sua posizione, era al sicuro.

 

Sembrava anche una trappola, oltre che una protezione per la cassaforte a muro, enorme anche quella.

 

Ci trovarono fascicoli, molti fascicoli, che chissà cosa contenevano: avrebbero dovuto analizzarli più tardi.

 

Soldi, molti soldi, che sicuramente provenivano dagli amici di Santoro.

 

Diamanti e qualche lingotto.

 

Ed, infine, un cellulare vecchio modello, di quelli neanche smart, ma del resto la connessione internet non serviva per quello che ne doveva fare Santoro.

 

“Forse ci siamo!”

 

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“Allora, confermate?”


“Sì, il numero corrisponde!”

 

Se non fossero state lontanissime, avrebbe abbracciato Mariani seduta stante: finalmente una prova concreta!

 

“Rientrate subito. Conti, tenga Santoro occupato. Appena tornata Mariani, lo prendete e me lo portate nella vecchia stanza interrogatori ormai dismessa, che abbiamo appena verificato nuovamente non avere cimici. Vi aspetto lì.”

 

“Sì, dottore, agli ordini.”

 

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“Avanti!”

 

Entrò in quell’ufficio, sentendo il batticuore che spesso l'aveva accompagnata al toccare quel legno, nell’attesa di sentire la sua voce, di vederlo.

 

Ma ora il batticuore era dovuto a ben altri motivi.

 

“Mariani, che succede? Non mi sembra di avere casi pendenti con lei,” disse Santoro, che stava in piedi dietro la scrivania, Conti invece vi era seduto davanti. Si voltò verso di lei e si fecero un cenno, come ai vecchi tempi.

 

“No, ma… ma a quanto pare ho io un caso pendente con lei, dottore,” rispose, mentre Conti si alzava e si avvicinava a Santoro, da un lato della scrivania e lei dall’altro, “deve seguirci dottore, non faccia resistenza o sarà solo peggio.”

 

“Seguirci chi?” domandò Santoro, tra lo stupore e la rabbia, prima di ritrovarsi bloccato per un braccio da Conti e per l’altro da lei.

 

“Ci segua, dottore, come ha detto per Mariani. Opporre resistenza è inutile, ormai sappiamo tutto.”

 

“Sapete tutto cosa?! Conti, che dice?! Mariani, non so cosa abbia detto Conti ma-”

 

“Conti non ha detto proprio niente, dottore, ha detto e fatto tutto lei. Ci segua senza fare storie, a meno che voglia proprio un’umiliazione pubblica in piena procura e che i suoi amici sappiano che lei ha parlato. Se non lo sanno già, ovviamente, visto che la procura è piena di microfoni. Ma non solo degli amici suoi.”
 

Santoro provò per un attimo a strattonare via il braccio ma lo trattenne con forza - e pensare che avrebbe voluto sempre toccarlo così, in ben altre circostanze! - ma alla fine sembrò un attimo calmarsi e, cercando di farsi notare il meno possibile, grazie anche all’orario di pausa pranzo, lo accompagnarono fino all’ascensore e poi alla sala interrogatori ormai dismessa da anni ma che, proprio per questo, era la più sicura.

 

La porta si aprì ed incrociò lo sguardo di Mancini che ricambiò con un orgoglio che le diede una botta di calore.

 

Era bello sentirsi apprezzata e vista, finalmente, e Mancini la vedeva, a differenza di qualcun altro.

 

“Dottore, non so cosa le abbiano detto, ma-”

 

“Ma, come ha già detto Mariani, abbiamo sentito tutto dalla sua bocca, Santoro. Entrate!” esclamò, chiudendo la porta alle loro spalle, finché misero Santoro su una sedia, ammanettandolo al tavolo prima che facesse di nuovo casino.

 

“Non è come pensate! Conti mi ha voluto fregare, è lui in combutta con quei criminali! Io l’ho lasciato parlare e ho finto di collaborare con lui oggi per raccogliere informazioni, perché si scoprisse e per denunciarlo per tentata corruzione e-”

 

“Santoro, è inutile che provi a fare questa pantomima. Abbiamo ispezionato casa sua, d’urgenza, visto che lei… altro che inquinare le prove! E abbiamo trovato il telefono. Tutto documentato, minuto per minuto, dalle telecamere. Sul telefono ci sono le sue impronte, come su tutte le cose di quella cassaforte. Inoltre ci sono i fascicoli, di casi che neanche le competevano e che lei ha in qualche modo trafugato e ne tiene copia a casa, oltre che fascicoli di intercettazioni di cui non sapevo niente e che evidentemente sono illegali. La sua assicurazione, Santoro, indubbiamente, nei confronti di certa gente, materiale per ricatti, probabilmente, del resto… ha imparato dai migliori, no? Quindi, se non vuole fare la fine degli altri membri della cupola che si sono fatti beccare dalla polizia, e che non erano parte di qualche famiglia con le spalle coperte, le consiglio di parlare, prima che i suoi amici vengano a scoprire che si è bruciato. Se non lo sanno già, come ha detto sempre Mariani, che ha fatto un lavoro eccellente.”

 

“Lei magari. E tu, eh? Tu, che mi hai passato le informazioni? Solo perché la cara Irene non te la dava e avrebbe preferito darla a qualcun altro, se non gliel’ha pure già data? Pensi di essere migliore di me?” sputò praticamente in faccia a Conti, in un modo che le fece venire lo schifo e nel giro di tre secondi fu braccato sia da Conti che da Mancini, furenti, e toccò e lei bloccarli, prima che facessero una sciocchezza.


“Fermi! Questo è solo quello che vuole! Poter dire che lo abbiamo incastrato e maltrattato.”

 

“Grazie Mariani. Per fortuna c’è sempre lei, pronta a difendermi, come la brava cagnolina che è, anche se ultimamente è diventata una cagna rabbiosa. Ma del resto… chi non arriva all’uva….”

 

Un conato di vomito, insieme ad una rabbia feroce, che le scoppiava dentro, non avrebbe saputo dire se più verso di lui o verso se stessa, per aver mai amato un soggetto del genere. La verità è che lei Santoro non l’aveva mai conosciuto e si era infatuata di un’idea che si era fatta nella sua testa. E sì che non era più una ragazzina.


“Se pensa di farmi perdere il controllo in questo modo, non mi conosce per niente, dottore. Perché i cani sono fedeli, almeno con chi se lo merita. Lei invece… non c’è un animale che meriti di essere paragonato a lei, dottore. Ci dica quello che sa, senza peggiorare la situazione, magari o, come ha detto il dottore, dobbiamo ricordarle di Lombardi, di Bruno e di tutti gli altri gentiluomini che hanno fatto la fine che hanno fatto?”

 

Santoro parve stupito, incredulo quasi - no, non la conosceva affatto, la riteneva una stupida, una debole, una ragazzina innamorata - mentre Mancini… aveva una tale ammirazione nei suoi confronti che quasi, in altre circostanze, si sarebbe commossa.


E anche Conti la guardava con deferenza, come non era mai successo tra loro, che erano sempre stati alla pari, in tutti i sensi.

 

Dopo qualche attimo di silenzio, dopo che tutti si furono allontanati da lui, per squadrarlo fisso, Santoro cominciò a ridere - a ridere! - in un modo che… che le ricordava quasi uno di quei film noir.

 

“Non so cosa ci trovi da ridere, Santoro, ma-”

 

“Che ci trovo da ridere? Che pensate di essere i paladini della giustizia. Ma quale giustizia, eh? Quella giustizia che mi ha permesso negli ultimi mesi di farmi i miei porci comodi senza che ve ne accorgeste? Che ha permesso a voi di farvi i vostri porci comodi e praticamente alla luce del sole? Sì, è vero, io ero in contatto con l’avvocato, anche se… non conoscevo direttamente le loro mosse, ma passavo loro le informazioni. Ma questo non è peggio di quello che avete fatto tutti voi!”

 

“Ma che sta dicendo?” gli chiese, incredula, soprattutto per il tono cinico e sprezzante con il quale si stava rivolgendo a loro, che non lasciava trapelare non solo rimorso, ma nemmeno il più che minimo imbarazzo.

 

“Che sto dicendo? La Tataranni si è infinocchiata il capo per anni, facendogliela annusare senza mai dargliela e-”

 

D’istinto, bloccò Mancini con le braccia, senza quasi vederlo, prima che facesse il gioco di quello stronzo.

 

“La verità fa male, eh, capo? Poi Calogiuri si è infinocchiato la cara Irene, con i suoi occhioni azzurri. E avete lasciato passare tutto, tutto! Il fatto che avessero una relazione, i legami della dottoressa con una famiglia criminale, il conflitto di interessi continuo. Anzi, avete continuato ad assegnare alla dottoressa sempre più casi importanti, mentre io venivo esautorato e messo da parte. Perché io non ho i santi in paradiso, e non era giusto che solo la gente immanicata facesse carriera, alla faccia delle regole, e che vi copriste tutti a vicenda. E a quel punto… io ho reagito ed i santi in paradiso me li sono procurati da solo, anche se per voi sono demoni. Ma che differenza fa?”


“La differenza è che noi abbiamo sempre cercato di fare ciò che è giusto, non ci siamo mai messi in combutta con criminali, contribuendo all’uccisione di persone, o a rendere un bimbo quasi orfano. La dottoressa, Calogiuri, il dottore hanno sempre usato correttamente il loro potere e-”

 

“E chi lo dice cos’è corretto e cosa no? Chi dice chi sono le vittime da tutelare e chi merita la galera, quando la legge non è uguale per tutti, non lo è mai stata, e vince solo il più forte? Ed io mi sono stancato di essere il più debole e… e la cara Melita ha fatto la sua scelta, accettando di collaborare con quelle persone, rimanendoci invischiata, per la vita che faceva. E così anche la carissima dottoressa Tataranni ed il maresciallo, non rispettando le regole. E chi decide quali regole si possono infrangere impunemente, prendendosi al massimo un buffetto di rimprovero. e per quali invece si è dei fuorilegge? Chi lo decide? Voi?”

 

Dire che avesse i brividi era dire poco. Il nichilismo di Santoro era… era spaventoso ed era ormai irrecuperabile. Si augurò di non diventare mai così, mai, nemmeno con gli anni e le fregature che sicuramente si sarebbe ancora presa.

 

Ma quegli occhi gelidi, vuoti, non se li sarebbe mai scordati e, incrociando quelli di Mancini, capì che anche per lui era lo stesso.

 

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I brividi, aveva i brividi, si sentiva gelata, fin dentro le ossa.

 

E quegli occhi azzurri che tanto amava erano sconvolti ed increduli quanto lei.

 

Ma poi le loro pupille si incontrarono e sentì un calore incredibile, mentre le vedeva appannarsi e la realtà di quello che era appena successo suscitò un calore, un sollievo, che fecero sparire il gelo, lasciando solo il posto a braccia che la stringevano, protetta contro il petto di lui, scosso dai singhiozzi che erano pure i suoi e che cercavano di zittire a vicenda con carezze e abbracci.

 

Ma non era disperazione no: quel pianto era liberazione, liberazione pura, dopo mesi da incubo, che solo in quel momento realizzò quanto le fossero pesati, come un macigno sulle spalle e sul cuore, mentre ora… si sentiva così leggera.

 

Si riempirono le guance umide di baci, un altro abbraccio, un altro ancora e poi, finalmente, osò sussurrare, “ce l’abbiamo fatta, Calogiuri. Ci siamo, è quasi finita!

 

“Non… non ce l’avrei mai fatta senza di te…”

 

Quelle parole valevano un mondo intero e le scappò un altro singhiozzo.

 

Ma poi gli prese il viso tra le mani e gli disse, decisa, “e nemmeno io senza di te. Lo sai quanta forza mi dai, sì?”

 

Calogiuri scoppiò di nuovo a piangere e lo strinse più che poteva, lasciandogli tutto il tempo necessario per sfogarsi, dopo tutto quello che aveva subito.

 

Alla fine, tra una carezza ai capelli e l’altra, si calmò, la guardò e con un sorriso che le pareva un arcobaleno dopo il temporale, le disse, “dobbiamo festeggiare, dottoressa.”

 

Gli sorrise di rimando, perché c’aveva ragione, c’aveva e le parole “portami al mare!” le uscirono senza quasi pensarci.

 

Lui le parve stupito.

 

“Oggi è un giorno da mare,” rispose, semplicemente, e lui la capì, come la capiva da sempre, pure quando le sembrava di non capirsi lei per prima.

 

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“Ho bisogno d’aria.”

 

Furono le prime parole che le uscirono, non appena fu fuori dai sotterranei, tanto che si avviò verso l’uscita della procura, senza attendere il permesso di farlo, godendosi lo schiaffo dell’aria ancora leggermente frizzante, rispetto alla temperatura interna, e respirando a pieni polmoni.

 

Si accorse solo dopo un po’ di una presenza alle sue spalle.

 

Si voltò e ci trovò Mancini, preoccupato, ma anche lui con l’aria di chi… di chi aveva bisogno di aria, di aria pulita.

 

“Credo di avere bisogno anch'io di fare due passi,” proclamò lui, scuotendo il capo, “ma non qua. Mi vuole accompagnare? Anche se forse stavolta è meglio che guido io, o che ci prendiamo direttamente un taxi.”

 

Gli sorrise perché la capiva e anche lei lo capiva.

 

“Va bene anche se guida lei, dottore, se se la sente. Ma solo per questa volta!”

 

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“Ma… ma qua è….”

 

Aveva riconosciuto immediatamente non solo il tratto di mare, ma anche quella barca rovesciata, vicino alla riva… sotto alla quale… si erano detti un addio che per fortuna era stato solo temporaneo - anche se i mesi successivi erano stati tra i più difficili di tutta la sua vita.

 

“Che vuoi fare il bis?” ironizzò, mentre scendevano dalla moto, perché si sentiva già troppo commossa così.

 

Un sorrisetto malizioso e si trovò a lanciare un urlo, perché quell’impunito l’aveva presa in braccio a tradimento e, tenendola quasi come una sposa, la stava portando a forza di braccia prima sulla sabbia e poi verso il bagnasciuga.

“Ma sei matto! Rischi di farti male! I muscoli-”

 

“I muscoli si stanno riallenando, anche grazie a te, dottoressa, che mi fai fare tanti di quei piegamenti sulle braccia….”

 

“Calogiù!” urlò di nuovo, anche se le venne da ridere perché effettivamente sì, negli ultimi giorni soprattutto aveva come una fame perenne di… ricotta… che… che altro che gli straordinari gli aveva fatto fare, quasi gli allenamenti olimpici!

 

Fece in tempo a dirgli un “quanto sei scemo!” e a dargli un bacio, prima di finire distesa sulla sabbia, subito dietro la barchetta, l’odore di pesce che ricordava benissimo e che le diede stranamente una botta di commozione, oltre che di ormoni.

 

E poi Calogiuri sollevò un lato del telo della barca e li fece rotolare fin lì sotto, in quella specie di penombra azzurrata.

 

“Che… che questa sia l’ultima volta che… che dobbiamo nasconderci come ladri, Imma.”

 

Un colpo al cuore, anche se di quella dolenza piacevole che ricollegava solo a lui, il fiato corto, mentre capiva la ragione di quel gesto.

 

Perché effettivamente quella era stata l’ultima volta, prima della libertà, anche se poi avevano dovuto proseguire con la clandestinità ancora per un po’.

 

Ma erano stati liberi, liberi di dirsi quello che sentivano, liberi di amarsi senza sensi di colpa.

 

“Anche se… anche se a me… i luoghi un po’ appartati non è che dispiacciano poi così tanto, Calogiù.”

 

Gli fece l’occhiolino, e quello fu l’ultimo tentativo di sdrammatizzare, perché lo trascinò in un abbraccio e gli sussurrò all’orecchio, “finalmente ti posso dire anche qua quello che sentivo allora ma… ma che non potevo dirti ancora. Ti amo. E ti amo infinitamente di più anche se… se non so come hai fatto a ridurmi così, mannaggia a te!”

 

Ci fu un attimo di silenzio, infinito, in cui Calogiuri le parve sull’orlo del pianto un’altra volta.

 

“Ti amo… ti amo… da morire…” lo sentì infine mormorare, con voce che pareva fatta di asfalto, talmente era rotta.

 

“Lo so. Ma se ci riprovi a lasciarti andare, ti ammazzo io con le mie mani la prossima volta.”

 

Un singhiozzo, un abbraccio, un altro bacio e poi… carezze, carezze infinite, dolcissime, sulle guance, sul collo, sulle labbra umide. Carezze che si fecero via via sempre più appassionate, lasciandole la pelle d’oca sotto i vestiti, spostando e togliendo il minimo indispensabile per sentirlo suo e sentirsi sua, in quel casino bellissimo e folle che era la loro vita insieme.

 

E fu allora, in quel preciso istante, mentre si tappava la bocca per non cedere al primo grido, che prese una decisione.

 

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“Ma dove siamo?”

 

Avevano guidato per un bel po’, in silenzio: un finestrino leggermente abbassato nonostante non facesse caldo, ma per il bisogno di ossigeno che ancora sentiva, anzi, sentivano.

 

Si era stupita molto quando avevano lasciato la città, in direzione di quel mare che da un po’ accompagnava il loro viaggio.

 

Un cartello aveva dato loro il benvenuto a Fregene e l’avevano percorsa praticamente tutta, fino a che Mancini non aveva parcheggiato, davanti a una casetta sul lungo mare che sembrava parecchio più antica di quelle che la circondavano, costruite probabilmente dopo il boom degli anni Sessanta e Settanta.

 

Mancini scese dall’auto e lei lo seguì, vedendolo aprire il portone con una chiave che aveva estratto da una tasca interna della giacca, insieme ad altre chiavi.

 

Lo imitò, incuriosita, anche quando si levò le scarpe per andare sulla spiaggetta privata che circondava la casa, insieme ad un paio di palme.

 

Arrivarono infine su un terrazzo - il freddo delle piastrelle che per poco non le fece fare un mezzo salto - e Mancini aprì sia il cancello di metallo che proteggeva la porta finestra di ingresso, sia la porta stessa.

 

“Ma… ma questa casa è sua?” gli chiese, sorpresa, visto che di solito Mancini sulle sue cose private non rivelava mai niente: già era tanto sapere dove abitasse a Roma.

 

“Era dei miei nonni, che poi l’hanno passata ai miei genitori e a me. Quando… quando mi sembra di non farcela più e di non sopportare più nessuno, vengo qua, a scaricarmi e a ricaricarmi. Non d’estate, ovviamente, ma… in questa stagione non c’è praticamente mai nessuno.”

 

“E… e di solito ci viene da solo o-?”

 

Non sapeva come le fosse venuto il coraggio di fare quella domanda, forse appunto perché oltre alla sorpresa, c’era anche un po’ di imbarazzo, che non sapeva bene da dove venisse, ma c'era ugualmente.

 

“No, in realtà… in realtà… ora che ci penso lei è la prima persona dopo la mia povera moglie che ci mette piede, letteralmente.”

 

Altro che il freddo delle piastrelle: si sentì avvampare completamente, dalla testa ai piedi.


Mancini però sembrò non notarlo, perché continuava a guardare fisso verso l’orizzonte, mentre proclamava, “ma immaginavo ne avesse bisogno pure lei oggi, dopo tutto quello che è successo. E… mare o non mare… non so come avrei potuto sopportare la procura in questi mesi, senza di lei. Ho fatto bene a darle fiducia.”

 

E finalmente si voltò ed il modo in cui la guardava, quel sorriso grato e dolce, aperto, senza le solite maschere che aveva Mancini, la portarono a sorridergli di rimando, mentre sentiva qualcosa al petto, come una specie di dolore ma non spiacevole, che non si sapeva spiegare.

 

“Per me… per me è lo stesso, dottore. In effetti, alla fine non mi ha delusa, anzi.”

 

Un ultimo sorriso e poi lui riprese a guardare il mare, le mani appoggiate alla ringhiera dipinta di bianco.

 

Fu l’istinto, ma il suo braccio destro si mosse, senza controllo quasi, fino a sentire il calore leggero di altre dita sotto le sue, che si stringevano in una specie di morsa, mentre continuavano a fissare l’orizzonte ed il sole che cominciava a calare, in un silenzio che stranamente, come quel contatto, non aveva più nulla di imbarazzante.


Affatto.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci finalmente alla fine di questo capitolo che è stato davvero complesso da scrivere perché… tanti nodi sono venuti al pettine e vi anticipo che nel prossimo succederanno cose veramente sconvolgenti e inaspettate, in tutti i sensi.

Il giallo si sta dirigendo verso la fine ma… ci sono ancora cose importanti da svelare e da risolvere, oltre a qualche possibile “colpo di coda” finale.

Mi scuso per il ritardo nella pubblicazione ma il prossimo capitolo, per quanto complesso, dovrebbe arrivare puntualmente, anche grazie ai minori impegni del periodo, rispetto alle scorse settimane.

Spero davvero che la storia continui a piacervi e intrattenervi, ormai siamo alla fase finale ed ai “botti” che ne conseguono, ma ci sono ancora un po’ di capitoli ed alcuni colpi di scena, oltre a cose molto ma molto attese.

Un grazie di cuore a tutti quelli che hanno messo la mia storia nei preferiti o nei seguiti, a tutti coloro che mi hanno chiesto come procedesse la scrittura e mi hanno spronata. Un grazie enorme per le vostre recensioni che, oltre che farmi tantissimo piacere, sono sempre utilissime per capire come procede la scrittura e se vi sta piacendo o meno.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 30 gennaio.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 69
*** L'Ultima Parola ***


Nessun Alibi


Capitolo 69 - L’Ultima Parola


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Allora, dottore, ci sono altre buone notizie, spero?”

 

Mancini aveva convocato un’altra call due giorni dopo la precedente.

 

“Sì. Vero che molte prove sono indiziarie e non sarà semplice ma… abbiamo spulciato di nuovo tutte le registrazioni delle telecamere presenti vicino al locale dove è stata aggredita la Russo. E abbiamo visto due uomini scendere da un’auto in una strada laterale che sembrano proprio Giuliani e Mancuso, anche se hanno il volto parzialmente coperto da una sciarpa. Non solo, ma il cellulare di entrambi è stato spento quella sera, verso l’ora presumibile dell’aggressione, ma Mancuso, quando l’ha riacceso, ha agganciato una cella non molto distante da lì.”

 

“E l’auto? Avete verificato?”

 

“Sì, dottoressa,” rispose Mariani con un sorriso, “auto rubata, ovviamente, per l’occasione. Mai più reperita, forse l’avranno distrutta.”

 

Le scappò un sospiro: non erano scemi, anzi e-

 

“Ma c’è una buona notizia: l’auto era munita di telepass e… in qualche modo non devono essersene accorti. Forse era ritirato in qualche cassetto ma comunque ha funzionato, agganciando un paio di zone a traffico limitato e parcheggi zona blu, più un sensore sul Raccordo. Quindi sappiamo gli spostamenti e… e inoltre il proprietario dell’auto, che ne ha denunciato il furto, proprio il giorno dell’aggressione a Melita, vive ad un paio di isolati dalla casa di Giuliani. L’auto si è recata prima in una zona vicina a casa di Mancuso e poi si è spostata verso quella del locale, per poi finire al di fuori dal centro città, oltre il raccordo, e sparire del tutto.”

 

“Bisognerebbe cercare nelle discariche e nei cimiteri d’auto in zona, sempre se non l’hanno completamente distrutta. A parte che dopo mesi, se è stata al sole o alle intemperie, potrebbe essere difficile cavarne qualcosa.”

 

“Sì, dottoressa, stiamo già provvedendo,” si inserì Mancini, dopo un cenno di intesa a Mariani, “Mancuso è già in carcere, dopo l’aggressione ed il tentato omicidio a voi, oltre al traffico di minori. E, tra pochi minuti, andremo a prendere Giuliani e Coraini, visto il rischio di fuga o inquinamento delle prove. Per l’avvocato sarà più difficile ottenere la custodia cautelare, purtroppo, nonostante la testimonianza di Santoro, visti i precedenti, ma… ma una fuga equivarrebbe a un’ammissione di colpa e… e abbiamo già raccolto abbastanza prove ed indizi.”

 

“E quindi?” domandò, col cuore in gola, perché lei una cosa sola aspettava, una sola.

 

“E quindi… una volta che Giuliani e Coraini saranno sotto custodia, indiremo una conferenza stampa, in cui finalmente usciremo allo scoperto, anche se tenendoci ovviamente le carte migliori per il processo, in sede di dibattimento. Ma confermeremo ufficialmente sia il coinvolgimento di Santoro, sia invece l’estraneità ai fatti del maresciallo Calogiuri. E che l’avvocato, Giuliani, Mancuso, Coraini e gli altri verranno per questo accusati non solo al maxiprocesso, ma anche per il caso di aggressione alla Russo, che a questo punto verrà inserito nel maxiprocesso.”

 

Un mezzo suono strozzato le uscì dalla gola e si voltò verso Calogiuri che pareva incredulo, anche se felice.

 

Gli strinse nuovamente la mano, questa volta sopra al tavolo - e chissenefregava se gli altri vedevano! - e lui le sorrise in un modo che le fece di nuovo appannare la vista, mannaggia a lui!

 

“Quando…?” chiese solo Calogiuri, con voce roca, emozionatissima.

 

“Stasera, se tutto va secondo i piani. Voglio che siate presenti anche voi, per dare un segnale importante alla stampa. Vi avviseremo non appena riusciremo a catturare i due gentiluomini. Tenetevi pronti.”

 

“Sì, dottore, ma… ma… chi andrà a prendere Giuliani e Coraini? Con quello che è successo l’ultima volta coi Mazzocca…” esclamò, preoccupata, perché il modo in cui Calogiuri aveva quasi rischiato il linciaggio non se lo sarebbe mai scordata.

 

“Stia tranquilla, dottoressa, abbiamo avvisato De Luca ed abbiamo anche il supporto di Ranieri e di qualche uomo e donna a lui fidati, abituati ad operazioni speciali. Ci andremo con mezzi blindati, antisfondamento e le persone coinvolte avranno tutte le dotazioni del caso, oltre ai passamontagna. Questa volta prenderemo ogni precauzione, stia tranquilla.”

 

“Dottore, lei lo sa, quando qualcuno mi dice di stare tranquilla mi preoccupo tre volte tanto.”

 

Calogiuri rise e pure Irene con Francesco, stavolta senza Ranieri, che probabilmente era già a prepararsi per l’operazione.

 

“Dottoressa, si fidi di me per questa volta. Di noi. Abbiamo un’ottima squadra, ora che le mele marce sono state estirpate.”

 

Sospirò: lei non aveva mai amato delegare nulla, dover dipendere dagli altri, fidarsi degli altri.

 

L’unico di cui si era sempre fidata pienamente sul lavoro, da sempre, era Calogiuri. E forse sarebbe per sempre stato così.

 

Ma, effettivamente, mentre loro erano stati costretti a rimanere in panchina, le toccava ammettere che, seppur aiutati da loro, la squadra che avevano messo insieme, un po’ per necessità, un po’ per mancanza di alternative, era diventata una squadra sul serio.

 

E senza bisogno di stupide cenette, oltretutto!

 

E di loro si fidava, doveva fidarsi, perché era anche e soprattutto grazie a loro se Calogiuri avrebbe potuto essere di nuovo libero. E se i Romaniello, i Mazzocca e tutti i loro affiliati, forse, stavolta, non l’avrebbero di nuovo fatta franca.

 

“Va bene,” annuì, sentendosi le dita quasi stritolate da Calogiuri che annuì insieme a lei.

 

“Questa è l’ultima volta che stiamo in panchina, Calogiù!” gli sussurrò, anche se, una parte di lei, in fondo era sollevata al non saperlo in azione con quei criminali.

 

Ma Calogiuri era bravissimo, e meritava non solo di giocare da titolare, ma da capitano.

 

Anche per quello, per avergli tolto quell’opportunità, gliel’avrebbero pagata carissima.

 

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“Pronti?”

 

“Sì, dottore. Al vostro segnale.”

 

“Squadra Bravo, anche qua. Al vostro segnale.”

 

Erano stati rispettivamente Ranieri e De Luca a parlare, il primo a capo della squadra Alpha, incaricata di recuperare Coraini, il secondo della Bravo, che doveva catturare Giuliani.

 

Alla fine si era deciso di far scattare le due operazioni insieme, proprio per ridurre al minimo la possibilità che qualcuno mangiasse la foglia.

 

Anche da distanza, notava benissimo la tensione sia di Mancini che di Irene, non che lei non stesse ancora stritolando la mano di Calogiuri.

 

Erano i momenti decisivi e si augurò di vero cuore che, almeno per quella volta, non ci fossero soffiate a rovinare tutto.

 

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“Che fai, Irene?”

 

Si voltò di scatto: Bianca, alla porta, che la guardava tra il curioso e il preoccupato.

 

Del resto era sempre stata capacissima di avvertire la tensione nell’aria, fin troppo.

 

“Lavoro. Cose riservate e-”


“Ma… ma è Lorenzo, quello?”

 

Maledizione!

 

Bianca aveva una vista d'aquila e lo aveva notato subito, nonostante lo schermo del computer non fosse particolarmente grande e nonostante Ranieri fosse già mezzo incappucciato.

 

“Sì, ma… sono cose di lavoro. Quindi…”

 

“Lo so, lo so, riservate,” sospirò Bianca, che per fortuna le regole del suo lavoro le sapeva molto bene, “ma… ma chi è quella?”

 

Provò un misto tra incredulità, orgoglio e fastidio quando Bianca indicò la testa femminile accanto a quella di Ranieri.

 

La famosa collega di Bari, quella che faceva girare la testa a tutti - anche se all’avvocato non abbastanza. Non perché non fosse bella, anzi, era stupenda, le toccava ammetterlo. Ma era più verso i quaranta e l’avvocato era un maiale che amava le giovanissime.

 

Ciò non toglieva, appunto, che fosse bellissima, anche se con quel seno chissà come faceva nelle sparatorie, che già lei aveva faticato in addestramento e, in generale, quando le toccava usare una pistola.

 

“Chi è?”

 

Bianca.

 

Sì, l’aveva decisamente notata anche lei. Aveva il radar.

 

“Una collega di Lorenzo. Partecipano ad un’operazione importante. Proprio per questo però devi andare in camera tua adesso, non puoi assistere, lo sai.”

 

Bianca fece segno di sì con la testa, un poco delusa, e la vide allontanarsi, non prima di aver lanciato uno sguardo truce alla tizia di Bari.

 

Le venne da ridere e ne fu ancora più orgogliosa, anche se, per certi versi, la cosa era molto preoccupante.

 

Il “ora!” di Mancini la riscosse dai suoi pensieri e tornò a guardare verso gli schermi, uno puntato sulla squadra Alpha, uno sulla Bravo.

 

Ma l’occhio… l’occhio le cadeva sempre verso di lui, era inevitabile, ma anche verso la collega, che gli stava ancora più appiccicata, visto che erano schiena contro schiena, mentre facevano irruzione nella palazzina.

 

Sapeva che era lavoro e sapeva che il problema con Ranieri non era certo quella tizia, ma la moglie che lo aspettava a casa e che lui avrebbe sempre scelto, anche se poi quando erano solo loro due… lui sembrava scordarsene e, ogni tanto, aveva avuto la tentazione di farlo pure lei.

 

Ma vedere quell’intesa professionale con qualcuna che non fosse lei, con una di cui lui stesso aveva sottolineato l’avvenenza e quanto fosse irresistibile, le provocava uno strano fastidio alla bocca dello stomaco. E si chiedeva se magari anche con lei ci fosse stato qualcosa o ci sarebbe stato qualcosa.

 

Lei di sicuro se lo guardava in un modo….

 

Li vide piazzarsi ai due lati della porta, mentre un agente più giovane, incappucciato e, come tutti loro, con giubbotto antiproiettile, sfondò la porta, per poi entrare, seguiti da quello che aveva la bodycam.

 

Un urlo la fece saltare sulla sedia, ancora prima che la telecamera inquadrasse un uomo in mutande, con due ragazze a letto con lui, semi svestite e che si stavano coprendo con mani e lenzuolo.

 

“Mani in alto! Mettetevi stesi a terra con le mani in alto!”

 

Era stato Ranieri a dare l’ordine. Le ragazze obbedirono, rimanendo completamente nude, ma la fitta di fastidio sparì quando notò il movimento della mano destra di Coraini che, prima di sollevarsi, fece un lieve movimento verso il cuscino.

 

Le venne d’istinto urlare un “Coraini!”, per cercare di avvisare Ranieri, ma non fece in tempo: vide il lampo della pistola e Coraini puntarsela alla tempia, urlando “se non ve ne andate mi ammazzo! Allontanatevi o mi uccido! Non ho fatto nulla e se mi ammazzo siete finiti, stronzi! Sarete su tutti i giornali come gli assassini che siete!”

 

Un sospiro di sollievo, da un lato: non aveva messo sotto tiro una delle ragazze, come aveva temuto, e neanche Ranieri o un altro degli agenti.

 

Ma Coraini era una volpe, uno che aveva in mano un sacco di giornali e di gente potente in Italia, con i suoi ricatti. Non si sarebbe mai suicidato, mai, certo che no, era troppo narciso per farlo. Ma bastavano segni di violenza o una ferita autoinferta per sollevare chissà quale polverone mediatico.

 

Ranieri si voltò un secondo, un solo secondo verso la telecamera e seppe istintivamente che stava guardando lei, che l’aveva sentita e capita. Ed avrebbe tanto voluto essere lì, per potergli suggerire il da farsi, per-

 

“Fate parlare la collega. Se lo distrae potete farcela a disarmarlo. Ma prima fate allontanare le ragazze. Ditegli che se no la figura da assassino ce la fa lui.”

 

Era stata Imma a parlare. Decisa, senza nemmeno aspettare l’intervento di Mancini che, dal suo schermo, non diede però nessuna reazione negativa, anzi, sembrava solo concentratissimo a fissare un punto in alto a sinistra, forse dove veniva trasmessa la bodycam che inquadrava Coraini.

 

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Perché lei?

 

Quello fu il suo primo pensiero, quando vide che era stata piazzata Mariani a fare da ariete.

 

Ma, conoscendola, se lo avesse espresso, sarebbe stato un uomo morto, tacciato di maschilismo, e non avrebbe sopportato la sua delusione.

 

Ma anzianità o no… perché proprio lei? Perché lei a prendersi quel rischio enorme? Gliene avrebbe dette quattro, otto o pure dodici a De Luca in separata sede.

 

Rimase così, con il fiato sospeso, aggrappato al tavolo di vetro di casa sua fino a quasi farsi male, finché non sentì un boato e la porta cadere con un tonfo secco in avanti e, dopo poco, vide Mariani, De Luca ed un altro agente che non conosceva, oltre a quello che stava riprendendo, buttarsi dentro la stanza.

 

Con il cuore in gola, come forse non mai, li seguì mentre ispezionavano stanza per stanza.

 

Niente, niente, niente, niente.

 

Maledizione!

 

“Eppure l’abbiamo visto entrare ieri sera. E oggi non è uscito, com’è possibile?” chiese al microfono, perché non voleva crederci che fosse sfuggito loro letteralmente sotto il naso.

 

“Scusate, potete inquadrare di nuovo tutte le stanze?” chiese il maresciallo Calogiuri, in collegamento, e l’uomo con la telecamera fece come chiesto, “magari è un’idea stupida, ma… non vi sembra che il soffitto della camera da letto sia troppo basso? Anche se ha quello specchio in cima?”

 

Era vero: c’era un enorme specchio sopra al letto… si poteva immaginare perfettamente per qualche motivo, ma… ma c’era come una pesante soppalcatura, molto ingombrante, lo vedeva meglio ora che Mariani, che non era certo altissima, ci camminava sotto.

 

“Non sarebbe la prima volta che usano degli specchi, no?” ribadì Calogiuri e notò benissimo, anche se solo con la coda dell’occhio, come lo guardava Imma.

 

E come lo deve guardare? Bravo è bravo e pure bello e giovane! Che ti aspettavi? - gli chiese la voce di Irene, ormai da settimane suo Grillo Parlante immaginario.

 

Ma, nonostante tutto, la ferita all’ego fu minore del previsto e anzi, tornò di corsa a guardare lo schermo dove Mariani si stava mettendo le soprascarpe per salire sul letto, insieme a De Luca.

 

La vide fare segno verso i bordi e gli angoli, percorrendoli con mano guantata, e alla fine udì una mezza esclamazione di trionfo ed un rumore meccanico, mentre lo specchio, esattamente come la controparte a casa di quell’imbecille di Santoro, ruotava sui cardini, lasciando posto ad una botola.

 

Trattenne di nuovo il fiato intanto che, con la pistola in pugno, Mariani puntava dritto alla botola. Con lei anche, da quanto poteva vedere, l’agente con la telecamera, che però era ai piedi del letto mentre, per ragioni di altezza, De Luca la aprì.

 

“Butta la pistola!” urlò Mariani, ancor prima che riuscisse del tutto ad inquadrare Giuliani, disteso accanto alla botola, l’arma l’unica cosa che ne emergeva, insieme alle braccia e agli occhi.

 

E puntava dritta alla testa di Mariani.

 

Lo stomaco gli si rimescolò completamente, il cuore stretto in una specie di morsa.

 

Piantala! Che ti succede? Devi restare lucido! - si rimproverò, e due secondi dopo la sentì gridare, decisissima.

 

“Butta la pistola che sei sotto tiro di più persone. E anche l’intero edificio è circondato: non fare cazzate che peggiori solo la situazione!”

 

Ci fu un attimo di estrema tensione, estrema: provò a deglutire ma la saliva era azzerata, mentre gli occhi di Giuliani si stringevano a fessura e la pistola tremava nelle sue mani.

 

Mariani, dal canto suo, lo teneva sotto tiro a sua volta, dritto in fronte, senza cedere di un millimetro.

 

“Giuliani, sei circondato, se spari a lei io sparo a te. Non puoi tenerci tutti sotto tiro.”

 

Giuliani voltò lo sguardo, per un attimo quasi impercettibile, verso De Luca e, dopo pochi secondi, uno sparo.

 

Gli si gelò il sangue nelle vene, il fiato che gli venne a mancare, il filmato che parve andare al rallentatore. Ma udì l’urlo ed era un urlo maschile, era quello stronzo di Giuliani che urlava. Vide la sua pistola cadere sul letto ed un fiotto di sangue che gli partiva dalla mano.

 

E poi Mariani che abbassava la pistola: era stata lei a sparargli, alla mano destra, netta, precisa.

 

“Chiamate l’ambulanza!” gridò poi, mentre la vide sporgersi per afferrare Giuliani per le spalle e tirarlo giù, aiutata, quando già il busto era fuori dalla botola, anche da De Luca.

 

Ma con quello sguardo ferale, il sangue di Giuliani che le era colato su una guancia, pensò che forse ce l’avrebbe fatta anche da sola, a trascinarlo fino all’ambulanza, tanta era l’adrenalina che aveva in corpo.

 

“Giorgio? Giorgio?!”

 

Gli ci volle qualche secondo ed il suo nome ripetuto altre tre volte per accorgersi che a chiamarlo era stata Irene ed improvvisamente notò non solo lo sguardo incuriosito e preoccupato di lei, del maresciallo e di Imma, ma anche che c’era quel porco di Coraini che si puntava una pistola alla tempia, minacciando gesti estremi e le ovvie conseguenze da un punto di vista mediatico.

 

Fu come una doccia gelata: era stato talmente preso da quanto succedeva a Mariani che nemmeno se ne era accorto, non aveva sentito nulla, come se non esistesse nient’altro.

 

“Imma ha dato l’ordine di farlo parlare con la dottoressa… ti va bene oppure no?”

 

“La dottoressa?” chiese, confuso, perché non ci capiva niente, e Irene rispose, “Miss Puglia, Giorgio! Ma tutto a posto?”

 

Il tono di Irene gli fece capire che aveva notato perfettamente che non fosse tutto a posto.

 

“Sì, sì, ero concentrato per un attimo sull’emergenza della squadra Bravo. Se riesce a farlo parlare, sfruttando l’ascendente femminile, perché no? Concordo con la dottoressa, cioè la dottoressa Tataranni, naturalmente.”

 

“Naturalmente,” ripetè Irene, scuotendo il capo, prima di ordinare un “proceda pure!” alla collega barese che gli sembrò stranamente ostile.

 

O forse no, non c’era proprio niente di strano - pensò, notando la vicinanza tra Miss Puglia, come l’aveva definita Irene, e Ranieri.

 

Ma che aveva finito lui e ci ricascava lei adesso?

 

Avrebbe dovuto parlarle, appena possibile, da soli.

 

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“Lasciatemi andare, o mi uccido!”

 

“Senti, lasciaci almeno portare via le ragazze. Che, primo, hanno bisogno di rivestirsi, secondo, se no la figura dell’assassino la fai tu, se le coinvolgi in questa storia.”

 

Miss Puglia, come l’aveva definita Irene - il che era l’ennesima conferma che con Ranieri non tutto era coniugabile al passato - aveva ripetuto paro paro le sue parole, solo con un tono ed in un modo di cui probabilmente lei non sarebbe stata mai capace.


Deciso, ma pure sensualissimo, che pareva pronta per fare la dominatrice in un certo tipo di film. Poi con quel fisico… beata lei! Riusciva ad essere bellissima pure tutta intabarrata e col giubbino antiproiettile, che conteneva a fatica le sue curve esplosive.

 

Ci stava che persino Irene ne fosse gelosa.


Lei invece no, e non solo perché là con lei ci stava Ranieri e non Calogiuri, ma perché quest’ultimo continuava a guardare lei e solo lei manco fosse la Madonna della Bruna, quando non era concentrato sugli schermi.

 

Fedele nei secoli era, veramente, e lei che ne aveva pure dubitato. Quella non l’aveva manco degnata di uno sguardo, concentrato com’era a tenerle la mano e a preoccuparsi di Mariani - che anche lì, quanto l’aveva resa orgogliosa con l’intuizione del soppalco? Quanto?

 

Quasi come se le avesse letto nel pensiero, la guardò di nuovo e le sorrise, nonostante la preoccupazione, continuando a stringerle la mano.

 

“Se me lo chiedi con qualche… strato in meno ci posso pensare.”

 

Coraini, che manco porco lo poteva chiamare, che i maiali non meritavano tale paragone, ovviamente aveva tirato fuori una battuta delle sue. Lui e Carminati avrebbero fatto veramente una coppia perfetta.

 

“Allora, vuoi fare l’eroe oppresso dal sistema o il porco che coinvolge due ragazze che non c’entrano niente e che di sicuro non hai pagato abbastanza per questo? Deciditi, Coraini.”

 

Ammazza se è decisa la barese! - pensò e, dallo sguardo di Calogiuri, pure lui era d’accordo.

 

“Ma sulla cazzimma nessuno ti batte, dottoressa,” le sussurrò, anche se erano mutati, come diceva Irene, facendole ogni volta venire una sincope, e quindi nessuno li poteva sentire.

 

E, facendo tesoro di quanto appreso in quelle settimane interminabili di lavoro clandestino da casa, accecò la telecamera con un dito - che a trovare il pulsante giusto ancora aveva qualche problema - e gli piantò un bacio che doveva essere sulla guancia ma finì sulla bocca, per colpa dell’impunito.

 

Anche se durò giusto pochi secondi, perché Coraini pronunciò un “le lascio andare se ci vieni tu sul letto con me!” che li portò a voltarsi bruscamente verso lo schermo.

 

“Pensavo che Carminati fosse porco, ma in confronto è un chierichetto.”

 

“E tu che ne sai che combinano i chierichetti in privato, Calogiù?” lo sfottè, per poi aggiungere, quando notò il suo silenzio, anche mentre osservava la barese sollevare le due ragazze dal letto e porgere loro delle coperte dove avvolgersi, per poi sedersi lei al posto loro ai piedi del letto, “non dirmi che facevi il chierichetto, Calogiù?”

 

Il rossore fu così forte che lo notò pure con la coda dell’occhio e le venne da ridere, nonostante la situazione.

 

“Menomale che non ti è venuta l’idea di farti prete. Menomale per me!”

 

“E pure per me, dottoressa. Che, se ti avessi conosciuta dopo aver preso i voti, avremmo fatto Uccelli di Rovo.”

 

Alla sua occhiata stupita, che conoscesse quel polpettone vecchissimo, che giusto alla buonanima di sua madre piaceva, spiegò, “lo guardava la buonanima di mia nonna, la madre di mio padre, quando mamma non stava a casa. Non voleva, che diceva che era blasfemo.”

 

Almeno la nonna forse al medioevo non c’era rimasta, peccato appunto che non fosse più in vita.

 

Ma da qualcuno Rosa e Calogiuri la blasfemia, o meglio, un minimo di pensiero indipendente, dovevano averli ereditati.

 

“Coraini, mi ascolti, io-”

 

“Ma dammi pure del tu, bellezza. Come ti chiami?”

 

“Lo sa che non posso dirglielo, Coraini.”

 

“Allora ti dispiace se te lo dò io un nome? Vediamo… che ne pensi di… Moana? Hai proprio il suo fisico. E con quella voce… se anche il viso è bello come immagino, potevo metterti su qualche bella copertina, renderti famosa, altro che morire di fame lavorando per i poteri forti, che tanto sono tutti corrotti. O non lo sai, bambolina?”

 

Notò immediatamente il fastidio di Ranieri e pure di Calogiuri e li capiva: sto schifoso!

 

Voleva umiliarla, era evidente. Forse la riteneva più giovane della sua età reale, e da un lato meglio così, visto che aveva frequentato l’avvocato.

 

“Sarà, ma l’unico che qua rischia di finire in copertina stavolta è lei, che di corruzione certo se ne intende parecchio.”


“Con voi come i miei assassini? Sicuramente. O mi lasciate andare o mi ammazzo.”

 

Continuò così, per minuti infiniti, tra battute da filmetto porno soft, minacce inutili, per giungere al culmine in un momento in cui si abbassò l'elastico degli slip con la mano libera dalla pistola e mostrò… tutto quello che c’era da mostrare.

 

O era folle o era troppo furbo. Già si preparava per la semi infermità mentale. Non che, a giudicare dalle sue pupille, fosse sobrio, anzi, chissà di che si era fatto con le due ragazze.

 

Strinse la mano a Calogiuri a cui già stava partendo la vena, lo aveva sentito benissimo da come si era irrigidito, prima che cercasse di fare il cavaliere o il censore.

 

“Gli dica che ha visto di meglio. Non so lei, dottoressa, ma io di sicuro.”

 

Le era uscito così, spontaneamente, perché quando ci voleva ci voleva. Calogiuri divenne bordeaux ma poi rise e vide chiaramente che stava venendo da ridere pure agli altri in collegamento, a parte a Mancini, che voleva sprofondare.

 

“Sinceramente ho visto di meglio, Coraini. Quindi fossi in lei mi coprirei la mercanzia, scarsa come qualità, prima di farci una figuraccia. Ma contento lei…”

 

Coraini si produsse in uno sguardo rabbioso, mentre stringeva più forte la pistola, quasi come a volerla puntare contro Miss Puglia che, doveva ammetterlo, non si faceva turbare da niente.

 

“Sentite, io a questo punto gli direi che, se vuole uccidersi, si uccidesse pure e lo prenderei in contropiede. Non lo farà mai e, intanto che si decide, lo bloccate. La dottoressa è già sul letto, se Ranieri riesce piano piano a guadagnare qualche passo, in pochi secondi lo placcate… che ne dite?”

 

Ci fu un attimo di silenzio totale. Sì, lo sapeva, i suoi metodi erano a volte sbrigativi e poco ortodossi, ma che quello si togliesse la vita era credibile quasi quanto gli infarti che soleva minacciare la madre di Pietro ogni qualvolta lui osava opporsi al suo volere.

 

“Dottoressa, capisco quello che dice ma… c’è il rischio che parta un colpo e-”

 

“E proprio per quello va bloccato prima che possa succedere. Se siete abbastanza vicini, gli bloccate il braccio e lo spingete sul letto. Poi insomma, la… miccetta l’ha esposta lui, no? Un calcio come si deve e voglio proprio vedere come la regge la pistola.”

 

Un sibilo collettivo e notò come tutti i maschi, da Calogiuri a quelli in collegamento avessero il viso contratto in una smorfia di dolore di riflesso.

 

“Squadra Alpha, pensate di poter procedere? Se sì fate un segno con la mano destra.”

 

Ranieri e Miss Puglia si guardarono e fecero entrambi il cenno con la mano dietro la schiena.

 

“Senta, Coraini, lo sappiamo tutti e due che non ha alcuna intenzione di farla finita. Si e ci risparmi la sceneggiata, che lo vedo che c’ha pure male al braccio ormai. Lei è uno a cui piace il piacere, non il dolore. Non ha ucciso nessuno, non direttamente almeno, e non è quello che ha più da temere del giro. Non ci crei altri problemi e collabori e ne terremo conto.”

 

“Ma che ne sai, eh? Che non mi voglio ammazzare?” urlò Coraini, la mano che gli tremava ancora di più, “che ne sai, eh?! Io mi sparo! Mi sparo! Non ci finisco in galera! Mi sparo!”

 

“E allora fai pure, che tanto le prove che ci servono già le abbiamo. Avanti, cosa aspetti, eh?” lo incitò apparentemente la collega, avvicinandosi piano piano, sempre di più, come a sfidarlo.

 

Ci fu un secondo, un secondo solo, in cui Imma temette di avere fatto una cazzata e che quel cretino alla fine lo avrebbe fatto veramente, quando il dito gli si strinse sul grilletto, ma il tempo di un battito di ciglia e lo lasciò, per quanto quasi impercettibilmente, e fu allora che nelle casse rimbombò un urlo, perché Miss Puglia gli aveva dato una gomitata alla miccetta, e la pistola gli cadde sul materasso, mentre lui si piegava in due e Miss Puglia da un lato, Ranieri dall’altro, lo spingevano a pancia in giù sul letto, probabilmente incrementando solo il dolore.

 

Ma peggio per lui!

 

Si trovò trascinata in un abbraccio, che ricambiò aggrappandosi letteralmente al collo di Calogiuri.

 

Era finita, era finita davvero, almeno la parte d’azione.

 

Certo, ora mancavano la conferenza stampa e poi il processo ma… ma la prigionia era finita, in tutti i sensi.

 

Tanto che nemmeno le urla sconnesse di Coraini, tra un “la vostra carriera è finita!”, un “ma che vi credete, eh?! Io ho in mano roba su tutti, su tutti, anche su di voi, appena capisco chi siete, bastardi!” riuscirono a rovinare quel momento.

 

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“Grazie per essere venuti.”

 

“Ma è sicuro che sia una buona idea, dottore? La nostra presenza, intendo.” 

 

Si era appena levata il cappuccio di lana ed il giubbotto nero che le aveva prestato Calogiuri, per non farsi riconoscere. Del resto, pure lui era tutto intabarrato.

 

Mancini li aveva convocati per la conferenza stampa giusto un attimo prima di avvisare, per l’appunto, la stampa e quindi avevano cercato di evitare i giornalisti già appostati, entrando da un ingresso secondario insieme ad Irene, che era passata a prenderli.

 

C’erano proprio tutti, tutta la squadra, a parte Ranieri, De Luca ed i loro uomini, che sarebbero rimasti in incognito, per ovvi motivi.

 

Almeno, forse, si erano risparmiati l’incontro tra Irene e Miss Puglia, che non prometteva niente di buono.

 

Anche perché la barese era stata bravissima e, se c’era un merito che aveva dovuto riconoscere ad Irene, negli anni, era quello di esser sempre stata la prima a dare a Cesare ciò che era di Cesare, al di là delle simpatie o antipatie personali.

 

“Certo. Entriamo prima noi, poi vi annunciamo e fate il vostro ingresso.”

 

“Sì. E che è? Il festival di Sanremo, dottore? Che dobbiamo pure portare i fiori?” ironizzò, come sempre faceva quando era in tensione

 

“Quelli al massimo ce li offre il dottore, no?”

 

Si morse la lingua ma le scappò lo stesso una risata incredula, voltandosi verso Calogiuri, che sorrideva soddisfatto della battuta appena fatta e la guardava in quel modo che era come dirle beh, che c’è? Ho imparato da te!

 

Mancini arrossì ma non sembrò arrabbiato, più che altro imbarazzato, mentre Irene rideva come l’aveva vista forse solo durante gli assalti di Ottavia al procuratore capo, prima di avvicinarsi a Calogiuri e dargli una pacca sulla spalla, come a fargli i complimenti.

 

Si stupì di non provare gelosia, solo orgoglio per lui, per quanto era cresciuto, per quel carattere che, pur rimanendo buono e rispettoso, sapeva sempre di più tirare fuori quando serviva.

 

Mariani pareva trattenersi a forza, invece, e lanciò uno sguardo a Mancini che Imma non comprese del tutto.

 

Ma del resto, ci stava che la marescialla avesse ancora il timore reverenziale, mentre lei e Calogiuri ormai non lavoravano più per la procura di Roma, almeno non ufficialmente.

 

“Seriamente, cominciamo a spiegare la situazione ma poi ci vuole un vostro intervento. Spontaneo, niente di preparato,” la rassicurò Irene, riavvicinandosi a Mancini.

 

“Voi vi rendete conto quanto è pericoloso darmi un microfono e farmi dire quello che penso in questo momento, sì?” ribadì Imma, perché erano mesi, mesi e mesi che aveva tanto da dire.


“Confido nel suo discernimento, dottoressa, visto che, come ben sa, ci attende il maxiprocesso. Ma un messaggio forte vogliamo darlo, quindi non dovrete risparmiarvi o contenervi, nei limiti del buonsenso che sono certo non manchi né a lei né al maresciallo, nonostante le… intemperanze caratteriali che vi caratterizzano.”

 

“E allora non ci risparmieremo, dottore.”

 

Anzi.

 

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“Dottore, come mai avete convocato questa conferenza stampa? Ma è vero che riguarda il maxiprocesso?”

 

Anche se erano nascosti dietro le porte laterali della grande aula dove Mancini aveva radunato i giornalisti, riusciva a sentire tutto: dalle domande urlate a quella specie di ronzio che facevano, come uno sciame d’api.

 

“Vi chiedo cortesemente di farmi parlare. Le domande saranno accolte ma solo dopo che vi verranno esposti in maniera ordinata e precisa i fatti che mi hanno indotto a chiamarvi qui. Ci sono novità importanti, sia riguardanti il maxiprocesso, sia l’aggressione aggravata ed il tentato omicidio di Melania Russo e-”

 

“Il maresciallo Calogiuri è stato arrestato?!”

 

Qualcuno non aveva rispettato la richiesta di Mancini, anzi, e ci fu un’altra esplosione di brusii.


“Silenzio! Fate silenzio se non volete solamente far perdere tempo a voi e alla testata per la quale lavorate. Se non ci fate parlare e non la smettete con le supposizioni, non rilasceremo dichiarazioni, se non un’ANSA. A voi la scelta.”

 

Era stata Irene a parlare, anzi a urlare prima e parlare poi. E porca miseria se era incazzosa!


Capiva bene perché la povera Bianca fosse praticamente un soldatino.

 

E, infatti, finalmente ci fu silenzio.

 

“Come stavo dicendo, ci sono importanti novità sul maxiprocesso e sul caso di Melania Russo. Il maresciallo Calogiuri non solo non è stato arrestato, ma è risultato completamente estraneo ai fatti e credo si meriti le scuse di molte persone, me incluso che, almeno all’inizio, ho dubitato della sua innocenza ma-”

 

“E che cosa le ha fatto cambiare idea? Mica vorrete insabbiare tutto?!”

 

“Lei sa cosa vuol dire silenzio, mi auguro, se ha il patentino da giornalista, o vuole che questa conferenza stampa finisca qua? Le domande alla fine, altrimenti non si capisce niente,” ribadì Irene che sì, era proprio un pitbull quando voleva.

 

“Non abbiamo insabbiato proprio nulla, anzi. Purtroppo abbiamo scoperto una mela marcia nella nostra procura, che passava informazioni fondamentali al clan Mazzocca, ai Romaniello e ai loro affiliati. Ma non è il maresciallo Calogiuri. Si tratta, con mio enorme rammarico e con quella che sento come una sconfitta personale, del dottor Santoro.”

 

Ci fu un altro boato in sala ma che finì dopo poco, perché Mancini ed Irene rimasero zitti e con le braccia incrociate finché non tornò l’ordine.

 

“Abbiamo scoperto che, quando siamo andati ad interrogare una testimone chiave, una… per così dire ex del maresciallo, che ci ha rivelato che è stata proprio lei a fornire quei dettagli intimi sul maresciallo ad affiliati al clan e-”

 

“E questa chi è? Come fa ad essere credibile che non sia stata corrotta dal maresciallo per scagionarlo, se in passato sono stati intimi?”

 

“Perché questa testimone odia il maresciallo, e non ne ha mai fatto mistero con nessuno, anzi. Ebbero una breve relazione in passato, ben prima che lui iniziasse una relazione con la dottoressa Tataranni. Ma, in seguito, fu sospettata per la morte di una sua amica, delitto del quale alla fine risultò colpevole. Fu proprio il maresciallo ad essere fondamentale nel suo arresto e questa… testimone non glielo ha mai perdonato. Contattata in carcere dal clan Mazzocca, ha quindi fornito loro ben volentieri quei famosi dettagli intimi e-”

 

“E in tutto questo che c’entra Santoro? Ma poi il maresciallo, che se la faceva con una pregiudicata, allora-”

 

“Se non ci continuate a interrompere lo capirete, e comunque la persona in questione era incensurata quando il maresciallo l’ha conosciuta e pareva, per vari motivi, totalmente estranea ai fatti sui quali lui stava indagando. Quando si è scoperto che era presumibilmente colpevole, è stato il primo ad intervenire per consegnarla alla giustizia, a riprova che non è una persona corruttibile. E adesso, se ci fate terminare, di grazia.”

 

Era stata Irene ad intervenire, con l’aria di chi stava perdendo sempre di più la pazienza.

 

Si sentì stringere la mano da Calogiuri e lo vide preoccupato. Del resto, la storia di Lolita avevano fatto in modo di non farla mai uscire pubblicamente: certo tutti lo sapevano in carcere e al tribunale di Matera, ma gli altri no.

 

“Hai fatto un errore di valutazione una volta, basta che lo ammetti serenamente, Calogiù. Non ti fare intimidire, mi raccomando.”

 

Lui annuì proprio mentre Mancini riprendeva a parlare.

 

“Tornando alla testimone, l’operazione per interrogarla era stata condotta col massimo riserbo, per tutelare sia la testimone, che la Russo, che tutte le persone coinvolte. Ma purtroppo un nostro agente, in buona fede, ha riferito quanto emerso dall’interrogatorio al dottor Santoro, non potendo certo immaginarne le conseguenze. Abbiamo poi scoperto, tramite intercettazioni e perquisizioni a casa del dottore, che è stato proprio lui ad avvertire  i clan, tramite l’avvocato e tramite il signor Coraini. Ma non solo, che raccoglieva e custodiva dossier ed intercettazioni, legali ed illegali, su parecchie figure di spicco, evidentemente come arma di ricatto. Oltre che un’ingente quantità di denaro e valori, non giustificabili con i suoi introiti ufficiali.”

 

“Ma quel Coraini?!” urlò un giornalista, sembrando molto spaventato.

 

Un silenzio tombale calò sulla sala.

 

Coraini lo conoscevano e temevano tutti, evidentemente.

 

“Sì, quel Coraini. Che è stato tratto in arresto oggi, insieme ad uno degli aggressori materiali di Melania Russo, cioè Nicola Giuliani. L’altro aggressore, Stefano Mancuso, è stato già arrestato poco tempo fa per traffico di minori e per l’aggressione e il tentato omicidio del maresciallo Calogiuri e della dottoressa Tataranni.”

 

“Traffico di minori? In che senso? E come tentato omicidio? Di questo non se ne sapeva niente.”

 

“Se ci lasciate parlare, vi spiegheremo tutto quello che possiamo spiegarvi in questa sede. Sappiate solo che Melania Russo ha un figlio, partorito clandestinamente per volontà del clan Mazzocca e dei suoi affiliati, che la tenevano sotto ricatto e che sono arrivati a sottrarle il bambino. Proprio per questo la Russo ha accettato di testimoniare il falso contro il maresciallo e a favore dell’avvocato, che faceva e fa parte della banda di coloro che non solo le hanno portato via il figlio, ma che, una volta vistisi scoperti, l’hanno poi quasi uccisa, per non farla parlare, contando sul fatto che tutta la colpa sarebbe ricaduta sul maresciallo. Quel bambino nel frattempo era stato venduto a una famiglia compiacente. E quella famiglia, non appena noi abbiamo scoperto il traffico di minori, sempre per colpa di una soffiata di Santoro, stava per essere uccisa da un commando guidato da Stefano Mancuso. Solo grazie al pronto intervento dei nostri uomini ma, soprattutto, del maresciallo Calogiuri e della dottoressa Tataranni, che erano più vicini di noi al luogo dove stava per avvenire consumarsi la strage, abbiamo evitato altri omicidi. E soprattutto abbiamo tratto in salvo il bimbo, che ora si trova in un luogo protetto. La maternità della Russo è stata confermata tramite analisi del DNA.”

 

“E il padre? Chi è il padre?”

 

“Questo ancora non lo sappiamo, ma di sicuro non è né il maresciallo, né nessuna delle persone finora arrestate. Ci stiamo lavorando. Su questo non possiamo fornirvi altri dettagli. Ma voglio invitare a raggiungermi la dottoressa Tataranni ed il maresciallo Calogiuri, con i quali mi complimento ancora moltissimo per la professionalità dimostrata, rischiando perfino la vita, affinché si scoprisse la verità e non ci fossero altre morti più o meno innocenti. Dottoressa, Maresciallo…”

 

Lanciò un ultimo sguardo a Calogiuri, stritolandogli la mano, e lui le sorrise e provò a lasciargliela, prima di entrare, rispettoso come sempre, ma lei la tenne ben salda e scosse il capo, pronunciando solo un, “insieme.”

 

Lui le sorrise ancora di più, bello come il sole che era, e ripetè, “insieme.”

 

E così spalancarono del tutto la porta dietro la quale erano rimasti fino a quel momento, all’unisono, metà per uno e, sempre in perfetta sincronia, si avviarono verso il procuratore capo, che li guardava tra lo stupito e l’imbarazzato.

 

“Vi lascio la parola. Per favore, fateli parlare, prima di partire con le domande.”

 

“Cioè questi entrano come gli innamorati di Peynet e non dovremmo fare domande subito?”

 

Era stato sempre il solito giornalista a intervenire in modo inappropriato.

 

“A parte che questi hanno pure dei nomi e dei cognomi, che sono fatti per essere usati. Ma, fatemi capire, quando fa comodo a voi, del nostro ruolo professionale ve ne fregate altamente e ci sbattete in prima pagina soltanto per i pettegolezzi da parrucchiera, e poi, quando non fa più comodo a voi, non possiamo nemmeno tenerci per mano? E dove stiamo? Nel medioevo? La verità è che siamo stati attaccati ed inseguiti per mesi, mesi e mesi, soprattutto Calogiuri, in un modo incessante, asfissiante, fino a sfociare nel persecutorio. Ed insieme, con orgoglio e a testa alta siamo qua ora a dire chiaro e tondo che non abbiamo mai fatto nulla di male, anzi, e che, come ha detto il procuratore capo, in tanti ci dovrebbero delle scuse. Ma non vi preoccupate, lo sappiamo benissimo che non arriveranno mai. Ma almeno ci state ad ascoltare mo.”

 

Pure con la coda dell’occhio, vide che Calogiuri aveva quell’espressione tra il divertito e l’ammirato di quando lei ci andava giù dritta, pesante, ma dopo tutti quei mesi era caricata a pallettoni.

 

“Ma se il dottor Mancini ha appena rivelato che il maresciallo ha avuto in passato una relazione con un’indagata e-”


“E quando ha avuto questa relazione, non era un’indagata ma semplicemente una presunta amica della vittima. Fui io stessa a chiedere al maresciallo di contattarla e di conquistare la sua fiducia, al fine di ottenere la sua testimonianza e-”


“E all’epoca ho fatto un errore di valutazione. Ero in un periodo molto particolare della mia vita, dal punto di vista dei sentimenti e, anche se questo non mi giustifica, ho dato fiducia alla persona sbagliata. Poi la dottoressa si è resa conto che questa ragazza poteva essere proprio lei l’assassina e-”

 

“Ed il maresciallo ha accettato di essere messo in una posizione scomodissima pur di incastrarla. Ha fatto il suo dovere e lo ha fatto molto bene. Per me ciò compensò ampiamente quell’errore di valutazione, dato anche dall'inesperienza che aveva ancora all’epoca.”

 

“Ma da allora di esperienza ne ha avuta, fin troppa, in tutti i sensi, no?” incalzò il giornalista ed Imma si chiese se fosse stato assoldato da amici di Coraini.

 

“Da allora in poi, a parte la relazione con me, ha sempre mantenuto un atteggiamento estremamente professionale con tutte le persone coinvolte nei casi. Solamente che ha il difetto, se così può essere definito, di essere non soltanto molto bello ma pure un bravo ragazzo e di avere l’istinto di aiutare le persone, senza pensare che possano essere in cattiva fede. Ed il clan, coadiuvato da Coraini, se ne è approfittato, aiutato proprio da voi, dalla stampa, vorrei farvi notare, per scatenargli addosso quella che molti definiscono macchina del fango, ma più che fango era ben altro. E tutto per colpirlo, per colpirmi, per punirci per aver osato scardinare certi meccanismi malati, per aver toccato quelli che da sempre sono considerati intoccabili. E questi gentiluomini hanno tutti le mani grondanti di sangue, tutti, e vorrei farvi riflettere sul fatto che, chiunque in quel… chiamiamolo fango… ci ha sguazzato, pubblicando a destra e manca articoli diffamatori e facendo partire una caccia all’uomo senza uno straccio di processo e di sentenza definitiva, ha la sua parte di responsabilità. Non fosse altro per il potere dato a Coraini. Per convenienza o per vigliaccheria. In ogni caso, almeno per un po’, si spera che molte persone, più o meno oneste, siano state messe in salvo da quel giro di paura, ricatti, omertà e scambio di favori che Coraini aveva creato. Perché magari a volte a chi le ha comprate, saranno sembrate solo due foto, un bello scoop da sbattere in prima pagina, ma quei soldi sono serviti a ben altro, a finanziare ben altro genere di crimini.”

 

Di nuovo il silenzio, qualche colpo di tosse imbarazzato.

 

“Ci tenevo, infine, ad utilizzare questa opportunità pubblica per farle io delle scuse. A te, Calogiuri,” pronunciò, decisa, voltandosi verso di lui, che spalancò gli occhi, preso in contropiede, “lo so che le faccio rarissimamente, praticamente mai, ma… volevo scusarmi per aver dubitato. Non della tua estraneità a fatti criminosi, che di quello sono sempre stata certa al cento percento, ma della tua fedeltà. Almeno per un po’. Per non averti supportato abbastanza, quando ne avevi più bisogno. Ma se c’è qualcosa di buono che è venuto da questo assalto, su tutti i fronti, è stato che mi ha ancora più dimostrato che uomo sei e quanto sono fortunata ad averti al mio fianco, nella vita e sul lavoro.”

 

Il silenzio si poteva tagliare con un coltello, ma lei vedeva solo Calogiuri, i cui occhi divennero due pozze azzurre, nelle quali si sarebbe potuta perdere per sempre.

 

Lo sentì schiarirsi un paio di volta la voce, prima di farle segno di non dire altro e prendere lui la parola, con voce un poco tremante, ma con lo sguardo che non mollava il suo nemmeno per un secondo, “non hai niente di cui scusarti. Chiunque… chiunque al tuo posto avrebbe dubitato. Ma, come hai detto anche tu, le prove di questi mesi ci hanno resi più forti e sicuramente mi hanno reso meno ingenuo e mi hanno fatto capire moltissime cose sul mondo e sul nostro lavoro. E mi hanno confermato che donna sei: che non molli mai e che lotti fino all’ultimo per ciò in cui credi, con un’intelligenza ed una determinazione che io posso soltanto che ammirare e a cui posso solo sperare un giorno di potermi almeno avvicinare. E sono fortunato ad avere la tua fiducia, la tua stima e… tutto quello che ci lega, dottoressa, fortunatissimo.”

 

La vista si stava appannando pure a lei, mannaggia a lui!

 

“E poi… e poi volevo ringraziare di cuore la dottoressa Ferrari, per aver sempre creduto in me, per non avermi mai mollato e per tutto il lavoro che ha fatto per aiutarci a provare la mia innocenza. Non potrò mai esserle grato abbastanza. I miei colleghi, in particolar modo il maresciallo Mariani, che è una professionista ed un’amica eccezionale. Tutti coloro che non posso menzionare, perché hanno agito in incognito. Ed il dottor Mancini che… che mi ha dimostrato non solo di saper cambiare idea ma anche di tenere alla giustizia e alla professionalità molto di più che alla convenienza o alle simpatie personali.”

 

Ed, infine, mentre l’orgoglio le esplodeva dentro, si girarono verso Mancini che pareva in enorme imbarazzo - e lo credeva bene, dopo tutto quello che era successo! - ma che porse timidamente la mano a Calogiuri, per stringergliela, e lui ricambiò, deciso.

 

“Ma quindi…. ma quindi riprenderete a lavorare a Roma? Tutto finito a tarallucci e vino?” chiese il solito giornalista, polemico come sempre.

 

“Per quanto mi riguarda non ci sono problemi e-”

 

“Ma per noi sì,” intervenne Imma, decisa, interrompendo Mancini e guardandosi con Calogiuri che annuì.

 

“Io e la dottoressa ne abbiamo parlato e… per il bene del maxiprocesso e di tutte le persone coinvolte, riteniamo sia giusto chiedere un trasferimento. Ovviamente, se il dottore lo permetterà, nel frattempo ci occuperemo dei casi ancora aperti ai quali abbiamo già lavorato, ma per il resto… il maxiprocesso lo vivremo come testimoni. Questo caso è troppo importante per noi e non vogliamo offrire nessun appiglio per poter mettere in dubbio la validità delle tesi accusatorie e delle prove raccolte.”

 

Ci fu un altro boato in aula, Mancini ed Irene che li guardavano sorpresi, mentre lei sorrideva a Calogiuri, stringendogli più forte la mano.

 

Perché era giusto così e perché, ovunque fossero finiti, a patto di essere abbastanza vicini da poter convivere, lei si sarebbe sentita a casa.

 

Perfino in capo al mondo.

 

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Fece appena in tempo a sentire il clack della porta che si era richiusa alle loro spalle - ci avevano messo un tempo infinito a rientrare, per seminare i giornalisti insieme a Mariani - quando buttò la borsa a terra e saltò al collo di Calogiuri, stritolandolo e facendolo finire addosso al legno.

 

“Dottoressa…” le sussurrò all’orecchio, facendole il solletico e poi provocandole un gridolino quando le morse il lobo, “ne deduco che tu voglia festeggiare?”

 

“Deduci bene, Calogiuri, benissimo!” sibilò, approfittandone a sua volta per mordergli il punto esatto di giunzione tra collo e mandibola, che sapeva lo faceva impazzire.

 

Tanto che lui si sbilanciò un attimo e lei si trovò appoggiata al muro, per non cadere.


Ma non se ne lamentò, anzi: il muro era perfetto per quello che aveva in mente. Lasciò correre le mani fino a levargli la giacca indossata per l’occasione, buttandola per terra senza troppe cerimonie, e procedette a sbottonargli la camicia a suon di baci.

 

“Al divano non ci arriviamo, ho capito…” mormorò lui, divertito, tra un mugugno di piacere e l’altro, prima che le sue mani, ancora fredde dall’aria esterna, le riempissero di pelle d’oca l’addome, appena sotto al maglioncino che le aveva sollevato giusto giusto il necessario per raggiungere i suoi di punti deboli.

 

Uno ad uno palla al centro.


Ma la battaglia a chi faceva impazzire più l’altro era solo all’inizio.

 

Ed avrebbe necessitato di molte, moltissime rivincite.

 

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“Mamma mia!”

 

Si lasciò cadere sul materasso, completamente soddisfatta ma anche esausta.

 

“E lo dici a me? Con tutte le… ripetizioni che mi hai fatto fare? Altro che la palestra! Dovrò tornare a fare nuoto per allenarmi alla resistenza.”

 

Mosse giusto giusto gli occhi, fino a incrociare quelli sornioni di lui e risero insieme.

 

“Altro che resistenza! Qua tra dieta e… ripetizioni… tra poco sarò di nuovo io a non starti dietro, Calogiù.”

 

“Impossibile. Non fosse altro che io necessito di tempi di recupero e tu no. E quindi mi freghi sempre, dottoressa.”

 

Le venne spontaneo un sorriso felino, che nemmeno Ottavia, ed allungò il collo per posargli un ultimo bacio sulle labbra.

 

Poi si stiracchiò, cercò l’ora e, nel farlo, notò l’assenza del cellulare dal comodino.

 

Ovviamente era rimasto all’ingresso nella borsa.


“Vado a farmi una doccia e a recuperare il telefono, Calogiù, che non si sa mai. Anzi, se vuoi farti la doccia prima tu, che qua se la facciamo insieme ricominciamo tutto da capo e non c’ho le forze.”

 

“Agli ordini, dottoressa!” la prese in giro, avviandosi verso il bagno, completamente nudo.

 

Se non fosse stata stremata, gliel’avrebbe fatta pagare per la provocazione.

 

Ma avevano tutto il tempo del mondo e pure una serenità mentale che erano mesi che non potevano avere.

 

E quindi, nuda pure lei, si avviò verso l’ingresso, recuperò il telefono e vide, come prevedibile, una tonnellata di messaggi e chiamate perse. Tornò in camera, mentre faceva scorrere le notifiche, incrociando Ottavia che fuggì scandalizzata verso la cucina - sì, la buoncostume proprio le ci voleva - e, quando fu di nuovo a letto, in attesa del ritorno di Calogiuri e di poterci andare lei in bagno, notò, tra tutti i messaggi - Valentina, Pietro, Diana, Vitali - un messaggio di Chiara L.

 

Sospirò: era da mesi che non si sentivano, per scelta sua, visti tutti i casini successi ma… ma qualcosa la spinse a toccare il nome del contatto per leggere il messaggio.

 

Ho visto la conferenza stampa. Sono veramente felice e sollevata che tu ed il maresciallo siate riusciti a chiarire tutto, ma non ne avevo dubbi, perché tu non ti arrendi mai. E ti ammiro tantissimo per questo. Se hai bisogno, per qualunque cosa, io ci sono, come sai, e l’offerta è sempre valida. Un abbraccio. Chiara

 

Un altro sospiro.

 

C’era sempre quel tarlo, quel timore latente di prendersi una fregatura con Chiara. Anche se le aveva dimostrato in tutti i modi che di lei ci si poteva fidare ma…

 

Ma forse il problema non è solo la fiducia, no, Imma? Neanche esserti amica è semplice, che respingi tutti, col carattere che c’hai, figuriamoci sorella!

 

Era stata la voce della Moliterni a parlare e, per quanto poco tollerasse Maria, non aveva tutti i torti - del resto non era neanche la vera Maria, ma la sua coscienza a parlare, che scema non era, anzi.

 

Lei per i rapporti umani continuativi non c’era molto portata. A parte Calogiuri e all’epoca Pietro, anche se in modo molto più sporadico. Persino con Valentina non aveva uno di quei rapporti stretti, tendenti al morboso, della maggior parte delle madri italiane. Una volta avuta la certezza che non sarebbe finita su una cattiva strada e che, anzi, si stava costruendo la sua vita e la sua indipendenza, pure tra un casino e l’altro, aveva di molto mollato la presa. Anche Calogiuri in questo l’aveva aiutata.

 

E Diana… pur essendo per tanti versi la sua unica vera amica… non riusciva ancora a confidarsi veramente con lei, non c’era mai riuscita del tutto. L’unico con il quale riusciva a mettersi a nudo, in tutti i sensi, era Calogiuri. L’unico che aveva fatto il miracolo.

 

Ma proprio per quello… la parola sorella la spaventava tantissimo. Per le aspettative che l’accompagnavano, lei che alla fratellanza e alla sorellanza aveva sempre associato virtù degne giusto di San Francesco - e di una Chiara, sì, ma assai più santa della Latronico - ed una gran dose di incoscienza, oltre che di pazienza.

 

Però, alla fine… dell’aiuto del figlio di Chiara aveva bisogno. Di suo nipote, anche se il termine la faceva rabbrividire. E poi… e poi gli ultimi mesi le avevano insegnato che non dover fare tutto da sola non era così male, in fondo, anche se Chiara e suo nipote la sua fiducia avrebbero dovuto guadagnarsela piano piano, che altro che Mancini, Irene, Mariani e Ranieri!

 

E poi… erano due donne adulte… mica dovevano dividersi la cameretta o frequentarsi assiduamente per forza. Quanti fratelli e sorelle si vedevano ogni morte di papa? Per intanto… avrebbe potuto iniziare a conoscerla davvero e da lì… decidere se era il caso di proseguire o se, come diceva De Andrè, è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati.

 

Quasi in automatico, aveva premuto il tasto verde ed avviato una chiamata.

 

Non appena se ne rese conto e si rese conto pure che era quasi mezzanotte, fece per interrompere ma il “pronto?” di Chiara glielo impedì.

 

Quantomeno non pareva assonnata, almeno quel genere di imbarazzo poteva levarselo.

 

“Imma? Tutto bene?”

 

La preoccupazione nella voce di Chiara la sbloccò completamente dalla mezza paralisi: effettivamente chiamarla a quell’ora, dopo mesi di silenzio, oltretutto….

 

“S-sì, sì. Ma è che… ho letto il tuo messaggio soltanto mo e…”

 

“E…?” la incitò Chiara, tra il preoccupato e lo speranzoso.

 

“E… ti volevo ringraziare e dirti che non mi devi ammirare, perché pure tu non ti arrendi mai, evidentemente, nonostante tutte le volte che mi sono allontanata.”

 

“Se… se sono stata inopportuna non-” la sentì andare in panico e quindi si affrettò a bloccarla con un “Chiara!” che le suonò più naturale di quanto avrebbe dovuto.


“Non sei stata inopportuna. Sono io che… un po’ per il lavoro che faccio, un po’ per carattere… non è facile avere un rapporto con me. E… e poi non ti volevo coinvolgere nel casino di questi mesi ma… ma un casino in cui coinvolgerti ce lo avrei, o meglio, in cui coinvolgere tuo figlio. Ma non dovete assolutamente sentirvi in obbligo, e se mi mandate a quel paese francamente vi capisco.”

 

“Quale casino? Ma non avete risolto con la conferenza di oggi? E che c’entra mio figlio? Lo sai che non è un penalista,” le chiese, confusa.

 

“Lo so, lo so e infatti grazie al cielo non ci serve un penalista. Ma un matrimonialista, bravo, per… per la sorella di Calogiuri. Non so se hai sentito pure di quello in questi mesi ma-”

 

“Ma quella che sta con il tuo ex marito?”

 

“Sì, esatto. E… a parte gli articoletti sui giornaletti… il suo di marito ha un avvocato che è uno squalo e che ha fatto una serie di richieste assurde. Lei può permettersi di pagare un avvocato e ovviamente lo farebbe se tuo figlio accettasse l’incarico ma… ma non può permettersi qualcuno con parcelle da capogiro e ha bisogno di qualcuno di cui possa fidarsi, visto che già è stata sbattuta sui giornali e tutto quello che le sta succedendo. Sai che non ho grande stima degli avvocati in generale, ma… ma tuo figlio mi sembra competente ma non uno squalo. Se… se lui volesse prendersi l’incarico… se fosse compatibile con le sue parcelle, ecco, io-”

 

“Imma.”

 

Stavolta fu Chiara a bloccarla, di nuovo in un modo che le sembrò stranamente naturale.

 

“Non posso parlare per mio figlio, lo sai, ma… ma non vedo perché no. E lui fa spesso anche lavoro pro bono e-”

 

“E di quello non se ne parla proprio: il lavoro va retribuito e Rosa non accetterebbe mai di non pagare!”

 

“Non ci capisco molto di queste parentele incrociate, Imma, ma noto che la testa dura è di famiglia, anche acquisita,” rise Chiara, in un modo che le fece sorridere, “e comunque… glielo chiederò, ma non vedo perché no. E poi… di famiglie strane siamo esperti purtroppo, dalla nascita, se no non saremmo noi, anche se per fortuna alla fine il DNA non è tutto, no? Visto che la nostra… altro che strana era….”

 

A differenza di altre volte, non si chiese quasi nemmeno se Chiara con nostra intendesse sua e di suo figlio o ci comprendesse anche lei.

 

Perché un’idea le era balenata in testa, un’idea assurda forse, ma che… che valeva la pena esplorare.

 

“Grazie. Allora aspetto notizie e… e, anche se, conoscendomi, non posso promettere niente, magari… potremmo anche provare a sentirci e a vederci qualche volta, pure senza casini di mezzo.”

 

“Quando vuoi.”

 

Il tono di Chiara, che pareva appena aver ricevuto un regalo bellissimo, la fece un poco commuovere. Mannaggia a lei!

 

La salutò, chiuse la chiamata ed alzò gli occhi dal cellulare, per trovarci Calogiuri che la guardava con un sorriso che… che la commozione da piccola diventò grande.

 

“Sono felice per te, dottoressa,” proclamò, semplicemente, avvicinandosi ed abbracciandola forte forte.

 

Ma, anche se lui aveva giusto un asciugamano addosso e lei era nuda, l’unica cosa che provava in quel momento era un’immensa tenerezza ed un immenso sollievo.

 

Quello di sentirsi capita, fino in fondo, e come sempre senza bisogno di parole.

 

Ma poi, dopo qualche istante, il pensiero che l’aveva portata a chiudere la chiamata con Chiara la colse nuovamente e si staccò leggermente da quella stretta calda e rassicurante.

 

“Devo fare un’altra chiamata, Calogiù,” gli spiegò ed aggiunse, al suo sguardo interrogativo, “mi è venuta in mente una cosa su Melita. Devo chiamare Mancini, visto che è lui che si occupa ufficialmente del suo caso. Lo so che l’orario è quello che è, ma-”

 

“Basta che non fai una videochiamata, dottoressa. Se no… altro che sushi e fiori!” la bloccò, con tono ironico ma con un pizzico di gelosia.

 

Si sentì un poco arrossire, prima di dargli un buffetto su una guancia ed un bacio sull’altra e dirgli un, “ma come sei scemo!”

 

Però, giusto giusto per sicurezza, afferrò la camicia da notte sbattuta a terra nella foga e se la infilò: metti mai che per sbaglio si attivasse la telecamera!

 

“Dottoressa?”

 

La voce preoccupata di Mancini la raggiunse dopo poco. Per fortuna pure lui, nonostante fosse schifosamente mattiniero, non sembrava minimamente assonnato.


Forse l’adrenalina di quel pomeriggio: succedeva anche a lei che ci volevano un po’ di ore per scaricarsi.

 

“Non si preoccupi, dottore, non è successo niente di grave e mi dispiace per l’orario ma ho avuto un’idea e volevo comunicargliela subito, in modo che si potesse eventualmente attivare immediatamente con le ricerche.”

 

“M- mi dica…” balbettò un attimo, stupito.


“Stavo pensando… per la storia di chi sia il padre del bambino di Melita. Noi abbiamo controllato il DNA dei criminali con i quali abbiamo avuto a che fare qua in Italia. Ma… ma se il bambino fosse stato concepito alle Baleari e magari… magari Melita fosse stata invischiata in qualche giro strano già lì? Alla fine quando l’abbiamo conosciuta era tampinata da brutta gente. E se chiedessimo un confronto del DNA con il database spagnolo? Ritiene che sia possibile? Certo, sarebbe una corrispondenza solo parziale, ma-”

 

“Ma mi sembra un’ottima pensata, come sempre, dottoressa. Chiedo subito a Brian Martino se ci può aiutare in tal senso.”

 

“Grazie, dottore, buonanotte,” sorrise, soddisfatta, prima di chiudere la comunicazione.

 

Ma mai come quando si sentì stritolare in un altro abbraccio con Calogiuri che le sussurrò, “hai un’idea di quanto sei bella quando fai così?” che le rimescolò tutto, pure dopo tutti quegli anni insieme.

 

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“Mmm… ma che ore sono?”

 

Aprì gli occhi, vedendo Imma uscire dal letto.


Guardò l’orologio e non erano neanche le nove.

 

Ultimamente, stando a casa, si alzavano assai più tardi, anche perché tra tutta la… ginnastica e le ore piccole….

 

“Tranquillo, dormi tu che puoi. Io… ho un appuntamento.”


“Un appuntamento? E con chi? Ma è successo qualcosa?” chiese, preoccupato, mettendosi immediatamente a sedere.

 

“No, no, non è successo niente ma è che… devo… devo vedermi con Chiara. Chiara Latronico. Sai, per la storia di tua sorella. Glielo devo, gentile com’è stata e poi… e poi voglio vedere come va.”

 

Mollò il fiato che stava trattenendo e le sorrise, sollevato e felice che volesse dare una possibilità a Chiara. Imma si meritava una famiglia tutta sua, o anche solo un’amica, e Chiara gli aveva sempre fatto una buona impressione.


“Sicura che non vuoi che ti accompagni? Cioè, poi vi lascerei sole ma… se ci fossero in giro i giornalisti…”

 

“Tranquillo, che ormai so come non dare nell’occhio. E se ho bisogno ti chiamo. Tu riposati e, mi raccomando, colazione da campioni che quando torno… altro che allenamento cardio, come dici tu.”

 

Il bacio in cui fu trascinato non lasciò spazio a dubbi che non fosse solo una provocazione.

 

Quella mattina doppia razione di proteine, minimo.

 

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“Imma!”

 

Chiara, sempre al solito hotel e al solito tavolo, la salutò con quel sorriso dolce che le ricordava tremendamente Valentina, quelle poche volte nelle quali non era incazzosa.

 

“Sono così felice di rivederti, finalmente!”

 

Senza capire bene come, si trovò trascinata in un abbraccio, ma poi Chiara si staccò bruscamente e le chiese, “troppo?”

 

Le venne da ridere, perché non si conoscevano per niente ma, in fondo, la conosceva più di quanto pensasse.


“Diciamo che… per gradi si può fare. Ho cercato di evitare i giornalisti, spero non ti diano problemi.”


“Ma figurati! Poi se non mi hanno dato problemi per essere figlia di nos- di mio padre.”

 

Apprezzò molto la correzione e la delicatezza di Chiara, tanto che si sedette volentieri con lei e, crepasse l’avarizia, si concesse pure una mega colazione - che con tutto quello che avevano bruciato lei e Calogiuri la notte prima, se la meritava proprio.

 

“Noto che hai appetito stavolta, sono contenta!”

 

“Io in realtà ho sempre appetito, tranne quando-”

 

“Quando sei a disagio?” la interruppe Chiara con un altro sorriso e sì, la conosceva decisamente meglio del previsto, “succede anche a me.”

 

Bevve un’altra sorsata del latte macchiato che si era ordinata e sospirò.

 

“Non ti preoccupare, capisco che… che di solito tu non sia molto a tuo agio con me. Sono felice che lo sia di più oggi. O che qualcuno magari… ti abbia conciliato di più l’appetito.”

 

“Chiara!” esclamò, stupita, ma la Latronico ne rise.

 

“Eh… Imma… vi ho visti insieme alla conferenza stampa. Beata te! Ma non ti preoccupare, non siamo qua per parlare dei dettagli amorosi tuoi e del tuo maresciallo, ma del tuo ex e di tua… cognata. Giusto?”

 

“Per così dire, che certi dettagli su Pietro e Rosa non li voglio sapere manco io e mi auguro di non saperli mai.”

 

“Lo capisco perfettamente. Anzi, non so come fai… a me tutta la situazione farebbe così strano!”

 

“Eh… strano lo fa pure a me, credimi, ma… alla fine sono stata io a lasciare Pietro e ora che lo vedo finalmente felice ed innamorato…. E poi Rosa è veramente una ragazza eccezionale, di carattere. Ma non troppo, come me. Se si sono trovati… mi pare il minimo cercare di sostenerli, soprattutto a Pietro, visto com’è finita tra di noi. E poi ci siamo pure io e Calogiuri di mezzo e, in ogni caso, quando vedo come si comportano certi avvocati, diventa pure una questione di principio.”

 

“Eh… Andrea mi ha detto che il collega assunto dal marito di… Rosa, è un vero squalo. Il più temuto di Napoli. E non costa poco, anzi. Infatti mi stupisco che uno come il marito di Rosa possa permetterselo.”


“Eh… stupisce pure a me ma… non è da solo. Credo abbia chi lo finanzia.”

 

“Ma vuoi dire… la malavita?”

 

“No… credo qualcuno di assai più infido e pericoloso: mia suocera, se così la possiamo chiamare, che avrà rotto il salvadanaio pur di vendicarsi, per il poco che la conosco. Ma sicuramente sulla fonte di questa… disponibilità di denaro ci sarà da indagare. Allora… Andrea… è disposto a…?”

 

“Certo, Imma, certo,” la rassicurò ed Imma tirò un sospiro di sollievo anche se si irrigidì un poco quando Chiara le prese la mano, tanto che l’altra lo percepì e la ritrasse subito, “voleva farlo gratis ma gli ho spiegato che non era cosa. In ogni caso, stai tranquilla: Andrea si sottovaluta ma nel suo campo è bravo. E farà di tutto per aiutare… Rosa e Pietro.”

 

“Basta che faccia di tutto nei limiti della legalità,” sottolineò, perché sapeva bene che alcuni avvocati avevano metodi poco ortodossi a volte e, considerata la famiglia di Andrea - e pure la sua….

 

Chiara sospirò e capì che forse era stata inopportuna, ma era più forte di lei.


“Tranquilla, Imma. Andrea agisce sempre nel rispetto della legge ma, in questo caso, a maggior ragione, con tutti gli occhi puntati addosso, sa benissimo che ogni errore potrebbe costargli carissimo. Sarebbe stupido a non seguire tutte le procedure ed i protocolli alla lettera. E magari su certe cose è stato un po’ ingenuo in passato, ma non è stupido e non è disonesto.”

 

Per quel poco che aveva conosciuto di Andrea durante il caso Spaziani, doveva darle ragione.

 

“Va bene. Allora… allora grazie… a tutti e due. So che altra attenzione sulla… su quella che alla fine è pure la nostra famiglia non è quello di cui avete bisogno, né in questo momento né mai. Quindi grazie.”

 

Chiara le sorrise di nuovo, in quel modo apertissimo di cui lei non sarebbe mai stata capace, se non forse con Calogiuri.

 

La ammirava per quello, per essere così, nonostante il padre che aveva avuto, nonostante l’ambiente che aveva frequentato, l’educazione ricevuta.

 

“Allora… che ne dici di un altro latte macchiato? O di qualsiasi altra cosa? Per festeggiare?”

 

“Magari una bella cioccolata calda,” ammise, stupendosi anche lei del suo appetito ma, del resto, negli ultimi giorni lei e Calogiuri avevano consumato di tutto e di più, in tutti i sensi.

 

“E allora vada per due cioccolate calde, alla faccia della dieta.”

 

Il cameriere fu solertissimo ma, non appena se ne fu andato, prima che le mancasse il coraggio, Imma toccò stavolta lei l’avambraccio di Chiara, per attirare la sua attenzione, guadagnandosi uno sguardo stupito.

 

“No, è che… avrei bisogno anche di un altro favore, in un certo senso. Niente che riguardi tribunali o leggi stavolta.”

 

“V-va bene, dimmi pure,” annuì Chiara, sembrandole curiosa ma anche contenta di quella che, in effetti, era una dimostrazione di fiducia, per quanto piccola.

 

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“Dottoressa, maresciallo. Spero che sia l’ultima volta che vi vediamo così. Come vi ho detto, voglio lasciare ancora passare qualche giorno per i giornalisti, ma poi potete riprendere a frequentare più liberamente la procura. E spero che possiate cambiare idea sull’intenzione di non riprendere con il servizio attivo continuativo, in attesa del trasferimento.”

 

“Dottore, la ringrazio e saremo ben felici di muoverci più liberamente e di venire in procura quando occorre. Ma abbiamo voluto lanciare un segnale importante con la conferenza stampa e non vogliamo che la nostra presenza venga strumentalizzata in alcun modo, come temo avverrebbe, se frequentassimo la procura giornalmente. In ogni caso, visto che dovremo valutare proposte di trasferimento compatibili e che devo chiedere anche conferma al dottor Vitali, essendo io ufficialmente in forze ancora a Matera, in via principale, credo non avverrà in tempi brevissimi. Quindi, se avete bisogno del nostro aiuto, sapete che restiamo a disposizione.”

 

Calogiuri si limitò ad annuire, sorridendole e prendendole di nuovo la mano, che ormai era il loro piccolo gesto rivoluzionario, e non solo di supporto, anche in pubblico, pur dovendo e volendo ovviamente mantenere la professionalità dovuta al contesto.

 

“Allora, ci sono novità, dottore? Spero nuovamente buone, che qua come si tira un po’ il fiato capita un’altra disgrazia.”

 

“No, dottoressa, non sono buone,” rispose Mancini, facendole prendere un colpo, almeno finché sorrise, “sono ottime! Aveva ragione lei, anche stavolta. Brian ha finito il controllo con i colleghi spagnoli ed il database iberico ha effettivamente prodotto un risultato di compatibilità parziale, riconducibile ad un rapporto di tipo padre e figlio.”

 

“Con un pregiudicato locale?”

 

“In realtà non ufficialmente. Ma è schedato perché è immigrato in Spagna dalla Colombia ed il padre è un boss colombiano, molto potente. Sicuramente ha inviato il figlio per gestire i suoi traffici di droga in Spagna e forse pure in Europa, ma il figlio finora si è sempre mantenuto pulito, se così si può dire. Ha attività di facciata in vari posti in Spagna, tra cui dei locali proprio lì alle Baleari. In quello dove siete stati ha una piccola quota di minoranza, ma altri li gestisce direttamente.”

 

“Ed è così che può aver conosciuto Melita!” esclamò, soddisfatta e sollevata.


“Sì. Ecco una foto del… ragazzo in questione.”

 

Un’immagine comparve sullo schermo, di un bel ragazzo mulatto, che poteva essere da poco sulla trentina e dagli occhi identici a quelli del piccolo Francesco, scuri come la notte.

 

Ma non fu per quello che le si azzerò il fiato e la salivazione: guardò Calogiuri e anche lui aveva gli occhi spalancati.

 

“Ma questo… è…”

 

“Uno dei gentiluomini che stavano aggredendo Melita fuori dal locale sì, Calogiuri, ne sono sicura. O meglio, stava con loro, non l’ha aggredita lui direttamente.”

 

“E quindi… se poi Melita è ripartita praticamente subito per l’Italia… forse… forse avevano avuto una relazione, finita non bene,” proseguì per lei Calogiuri, aggiungendo, dopo un attimo di riflessione, “e forse… proprio per questo, oltre che per la famiglia da cui proviene, Melita non avrà voluto dirgli niente della gravidanza, perché un tipo così, se lo avesse saputo, si sarebbe fatto vivo e-”

 

“E potrebbe ancora farsi vivo. Dobbiamo aumentare il piantonamento a Melita anche se… magari lui potrebbe credere che il bimbo sia figlio di altri, se anche gli arrivasse la notizia. Alla fine non abbiamo svelato quando sia nato Francesco. Ma… se fosse così-”

 

“Ecco qual era l’arma del ricatto dei Mazzocca, dei Romaniello e di Coraini,” concluse Calogiuri, sospirando, “probabilmente, scoperta la gravidanza, hanno mangiato la foglia su chi fosse il padre, grazie agli amici di Coraini alle Baleari, e l’hanno ricattata di dire tutto a questo… Alejandro Mendoza?”

 

“E Melita si è trovata tra l’incudine ed il martello, per la sopravvivenza sua e del bambino. Con l’alternativa di sperare che prima o poi i Mazzocca la lasciassero stare, o di far crescere il suo bimbo da una famiglia di narcos. O peggio, se questo Alejandro l’erede non lo avesse voluto.”

 

Le venne una fitta al petto, vedendo Francesco, bello come il sole ed altrettanto incazzoso, che cercava di raggiungere lo schermo - e forse proprio lei - in braccio ad Irene che lo teneva a fatica.

 

La capiva Melita, anche se avrebbe tanto voluto che si fosse fidata di loro, che si fosse confidata, che avesse permesso loro di aiutarla.

 

Ma per un figlio… si fanno follie e Melita evidentemente era stata abituata a doversela sempre cavare da sola e… non poteva biasimarla troppo per non essere voluta andare contro a delle famiglie così potenti.

 

E l’aveva pagata cara, carissima, troppo.

 

Ora toccava a loro proteggere quel bambino per il quale lei aveva quasi dato la vita.

 

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“Buongiorno, dormiglione.”

 

Un solletico all’orecchio, al collo e poi un tocco morbido e caldo sulle labbra lo svegliarono dolcemente dal sonno.

 

Aprì gli occhi e si trovò davanti Imma, vestita di tutto punto e con un vassoio in mano.

 

“Soltanto ed esclusivamente perché ti ho fatto fare gli… straordinari e devi riprendere le forze. Non ti ci abituare, maresciallo,” intimò ma con un sorriso, per poi poggiarglielo sulle gambe, una volta che si fu messo a sedere.

 

C’era cibo per un reggimento quasi. Ma solo una tazza.


“Ma tu hai già fatto colazione? E come mai sei già vestita?”

 

“Sì. E per non indurti in tentazione, maresciallo, che devo uscire.”

 

“Ma è successo qualcosa? Ti posso accompagnare e-”

“No, no, tranquillo, devo vedermi con Chiara. Latronico.”

 

“Ancora?” domandò, stupito, perché era già la terza volta che si vedevano negli ultimi giorni, “ma, se è per mia sorella, non ti devi dare tanto disturbo: si deve arrangiare lei con il figlio di Chiara e-”

 

“No, ma è che… sto provando a conoscerla un po’ meglio. E finché sta a Roma, ne approfitto. Ti dispiace? Non è che sei geloso pure di lei, mo?” gli domandò con un sorrisetto.


“Lo sai che io sono geloso di tutto,” ironizzò, facendole l’occhiolino, anche se un poco veramente lo era, “ma… seriamente… sono felice che ti stai avvicinando a tua… cioè a Chiara, ma… ormai sono abituato a svegliarmi con te e alle nostre lunghe colazioni e… post colazioni. So che quando, si spera presto, potremo tornare a lavorare, dovremo perdere l’abitudine ma… mi sa che mi hai viziato un po’ troppo.”

 

“E pure tu a me, Calogiù.”

 

Un altro bacio, più lento e dolce.

 

“E comunque… se non finiamo in capo al mondo… le colazioni insieme le potremo sempre fare. Certo più… veloci… e pure altro più veloce, ma non troppo. Anzi, tieniti pronto per stasera.”

 

“Agli ordini, dottoressa!”

 

Un ultimo bacio e la vide andare verso la porta, ma poi si fermò e lo guardò con uno sguardo indecifrabile e disse, “e tieniti pronto anche per domani sera. Non in quel senso. Cioè, pure in quel senso,” specificò di fronte al suo sguardo divertito, “ma domani sera ti porto fuori a cena, a festeggiare.”

 

“Abito elegante? Che non so se quelli che ho mi staranno larghi ancora.”

 

“Diciamo… elegante ma anche comodo. Che sarà una lunga, lunga, lunga nottata. Almeno spero.”

 

“Ma con o senza vestiti la lunga nottata?” non resistette al provocarla.

 

“E chi lo sa… domani lo scopri, maresciallo. A più tardi.”

 

Con un sorriso così malizioso che si dovette trattenere a forza dall’alzarsi, raggiungerla ed inchiodarla alla porta con un bacio, Imma sparì, lasciandolo lì con una colazione fumante, i neuroni e gli ormoni in subbuglio.

 

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“Allora, sei pront-”

 

La parola gli morì in un suono strozzato non appena la porta del bagno si aprì del tutto e la vide.

 

Aveva addosso il tubino leopardato, quello attillato che aveva comprato per il teatro con Irene, in quella che sembrava una vita precedente e che le calzava come un guanto, lasciando poco, pochissimo spazio all’immaginazione.

 

L’unico altro indumento, a parte le scarpe col tacco, leopardate anche quelle, era un coprispalle dorato.

 

Imma gli sorrise, soddisfatta e anche un poco imbarazzata, poi gli si avvicinò e percepì le sue dita sul nodo della cravatta, che gliela sistemavano meglio, sussurrandogli, “sei bellissimo pure tu, maresciallo. Anche se non garantisco di farti arrivare a fine serata con la cravatta.”

 

Si sentì avvampare e gli venne da tossire, prima di sospirare “me lo hai detto tu di mettermi elegante!” e di trascinarla in un bacio che però lei tagliò corto quasi subito con un, “se cominciamo così non usciamo più. Forza, Calogiuri, avanti, marche!” 

 

“Imma!” esclamò, non appena percepì l’impatto sul sedere di cinque dita molto familiari.


“Eh va beh, Calogiuri, controllo del peso. Sei ancora leggermente deperito ma siamo sulla buona strada!”

 

E così, senza dire nient’altro, ma con quel sorriso incredibilmente felino, la vide indossare il suo amato cappottone marrone, afferrare una borsa dorata, e la seguì fuori dall’appartamento.

 

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“Posso aprire gli occhi, dottoressa? Che tra poco ci sfracelliamo.”

 

“Che non ti fidi di me, Calogiù? E poi ormai sei più leggero, quindi ti reggo benissimo. Mo non approfittartene per cadermi addosso apposta però, che ti conosco!”

 

Un altro colpo di tosse, le guance sempre più calde, anche se percepiva l’aria piacevolmente fresca della serata primaverile romana.

 

Intorno a lui rumore di traffico, urla in romanesco e in varie lingue più o meno conosciute.

 

Imma aveva insistito per venire in taxi - cosa che non era da lei - e poi, dopo aver fatto fare al tassista un giro dell’oca che non aveva capito - cosa ancor meno da lei, che insisteva sempre per la via più breve, mappa alla mano - era scesa insieme a lui in una specie di viuzza piccola e buia.

 

Per un secondo aveva avuto in mente che volesse fare un certo tipo di follia, ma erano comunque in un luogo troppo frequentato. Ed invece lei gli aveva chiesto di chiudere gli occhi e di darle la mano, che dovevano andare in un posto insieme.

 

Lo aveva anche ironicamente minacciato di bendarlo, ma che poi se li avessero fotografati altro che Cinquanta Sfumature di Grigio. Forse per quello, forse perché alla fine lui se una cosa la prometteva la manteneva pure, aveva giurato di tenere gli occhi serrati e si era affidato completamente a lei.

 

Solo che mo la cosa cominciava ad andare per le lunghe ed era preoccupato che finissero entrambi a terra.

 

Ancora qualche passo fatto con cautela ed un sussurro all’orecchio, “puoi aprirli!”

 

La prima cosa che incontrò furono quegli occhi scuri e stranamente lucidi che lo guardavano con una specie di strano misto tra eccitazione ed ansia.

 

E poi sollevò lo sguardo, anche se in quegli occhi, soprattutto quando lo squadravano in quel modo, così… tenero… ci si sarebbe perso volentierissimo.

 

Ma, quando riconobbe l’insegna che illuminava il buio appena calato su quel piccolo scorcio di Roma, dipingendolo come un quadro nella notte, una botta di commozione lo prese tra la gola e lo stomaco.

 

“Ma… ma siamo….”

 

“Dove tutto è cominciato, Calogiuri. Mi sembrava il posto giusto per stasera.”

 

Invece di cercare una risposta, che tra i neuroni e la gola pieni di cotone non sarebbe mai stata all’altezza, le prese le guance e la baciò, così, semplicemente, e come però non avevano potuto fare per tanto tempo in pubblico, braccati come i peggiori criminali. E quando si staccarono, Imma appoggiò la fronte contro la sua, in quella che era da sempre la loro promessa. Di esserci, di non mollarsi.

 

Ed alla fine ce l’avevano fatta: erano ancora lì, più uniti che mai, nonostante lui si fosse fatto prendere dall’ingenuità prima e dalla gelosia poi. Ma… ma Imma gli aveva dato così tante dimostrazioni in quelle ultime settimane, dimostrazioni che sapeva quanto valessero, quanto pesassero, per una con il suo carattere.

 

A volte gli sembrava ancora impossibile, non solo che lei lo amasse così tanto, in modo così folle e senza riserve, come lui amava lei, ma anche che… che riuscisse ad aprirsi in quel modo, a rendersi così… vulnerabile per lui. Lei, che era sempre così forte, stoica. Che si fidasse di lui completamente, tanto non solo da avergli creduto, nonostante le prove fossero tutte contro di lui, ma anche di essersi giocata tutto per lui - vita e carriera -un’altra volta.

 

“Che dici? Andiamo al tavolo? O ti sei imbambolato?” lo sfotté ma con dolcezza, come solo lei sapeva fare e come faceva solo con lui, dai primi veloce, Calogiuri! che gli aveva urlato appresso, tanti anni prima.

 

“Se mi sono imbambolato è soltanto colpa tua, dottoressa,” le ricordò, piantandole un altro bacio e poi cingendole le spalle, per stringerla a sé più che poteva, mentre si avviavano verso i tavolini.

 

Un cameriere si avvicinò a loro ed Imma disse, quasi in automatico, “ho prenotato per due. Venezia.”

 

“Qua però a Roma stiamo, signò. Che s’è confusa?” ironizzò l’omone, facendo loro l’occhiolino, con quel tono e quei modi tipici dei romani, che parevano sgorgare dal cuore, tanto che alla fine come facevi a prendertela a male?

 

Ed infatti, non solo l’occhiolino non diede fastidio a lui, e neanche la battuta, ma persino Imma si mise a ridere.

 

Nei pochi passi necessari per arrivare al loro tavolino, d’angolo - lontano dalla zona più affollata e vicino ai violinisti e sassofonisti che riempivano di musica la zona del portico per cercare di guadagnarsi da vivere - riconobbe il cameriere come lo stesso che aveva dato loro il cibo per Ottavia quando l’avevano appena ritrovata.

 

Imma si scostò il cappotto, che non faceva così fresco, lasciandolo aperto nel sedersi - forse per farlo impazzire ancora di più, ricordandogli cosa avesse sotto - ed il cameriere esplose in una risata ed esclamò, “ma mo si che ve riconosco! Voi siete quella tutta leopardata, che stavate qua con ‘a micetta, tutta secca secca. Come sta? O non la tenete più voi?”

 

“E certo che la teniamo noi. E Ottà sta benissimo, grazie,” rispose Imma, sempre stranamente divertita, aggiungendo poi, di fronte allo sguardo del cameriere, “sì, l’abbiamo chiamata Ottavia, come il portico qua. Perché? Non si può?”

 

“No, no, signò, anzi, almeno nun l’avete chiamata con uno di quei nomi che piacciono a mi fija, che pensa de stare ad Hollywood e noi invece all’EUR stiamo. Ma va beh… che ve posso portare?”

 

Imma ordinò esattamente le stesse identiche cose della loro prima cena insieme, ma ci aggiunse anche le puntarelle, i carciofi alla giudia e pure due fiori di zucca fritti.

 

Calogiuri si accodò più che volentieri, che anche a lui rivivere quella sera non dispiaceva, affatto, non potendo però fare a meno di provocarla con un, “mi vuoi proprio mettere all’ingrasso, dottoressa?”

 

“Come minimo, Calogiù, come minimo. Ma mica è solo per te. Con tutto il… moto che abbiamo fatto, pure io tengo ‘na fame che nun ce vedo, come dicono qua.”

 

Il cameriere tornò con un’enorme brocca di vino bianco. Si guardarono e risero di nuovo, al ricordo dell’imbarazzo di quella sera e di quanto avevano trincato per cercare, inutilmente, di attenuarlo. Il cameriere, per fare spazio alla brocca ed alle alici marinate alla romana, omaggio della casa, levò il biglietto con su scritto Venezia.

 

“Perché Venezia?” le fece la domanda che gli era passata di mente ma che ora lo incuriosiva di nuovo.

 

“Era il cognome da nubile di mia madre, Calogiù. Uno dei più diffusi a Matera. Vero che abbiamo aspettato qualche giorno, ma meglio non usare i nostri di cognomi ancora per un po’, che qua a Roma sono molto riconoscibili. Non volevo i giornalisti fra i piedi pure stasera.”

 

“Non… non lo sapevo…”

 

“Eh… una volta non si usava, Calogiù. Ti sposavi e il tuo cognome te lo scordavi, come se t’avessero venduta. Forse è anche per questo che io il mio me lo sono sempre voluta tenere ben stretto. Anche se, alla fine, non è nemmeno il mio vero cognome. Però da qua a prenotare come Latronico… credo che prima mi devono ammazzare. Anzi, se mai lo facessi, ti autorizzo ufficialmente a richiedere il TSO immediato.”

 

Le sorrise, perché notava il fondo dolceamaro di quell’ironia.

 

Allungò la mano per stringere quella di lei, ma poi cambiò idea e gliela baciò direttamente, fregandosene dei presenti e godendosi il modo in cui si mordeva le labbra e si imbarazzava ancora un poco, dopo tutti quegli anni, proprio lei che era sempre così spregiudicata, quando voleva.

 

“Tu sei Imma Tataranni, punto e basta, te l’ho già detto. Tata, come direbbe quella peste di Noemi. Tu sei tu.”

 

“Eh… sono e resto Imma Tataranni, è vero. Ma non solo.”

 

“In che senso?” domandò, confuso.

 

Ma, proprio in quel momento, tornò il cameriere, con un mega piatto con su tutti i fritti, più le puntarelle. Imma ci si avventò con appetito e pure lui, ed ebbero di meglio da fare che parlare.

 

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“Posso portarvi ancora qualcosa?”


“No, per carità, tutto buonissimo ma se no non mi alzo dalla sedia!” scherzò Imma e pure lui annuì, che già sentiva quasi il bisogno di slacciarsi il primo bottone dei pantaloni, con tutto quello che avevano mangiato.

 

“Per stasera offro io, niente storie!” intimò Imma, prima che potesse anche solo prendere il portafoglio, e la vide alzarsi ed infilarsi nel locale interno della trattoria, con una rapidità incredibile considerati sia i tacchi che, appunto, tutto quello che avevano consumato.

 

Ma sperava che, ben presto, avrebbero di nuovo consumato tutto, in senso opposto.

 

Dopo pochi minuti, sentì il rumore inconfondibile dei suoi passi, che risuonavano pure in mezzo a quel casino, sollevò lo sguardo e le sorrise con un, “al prossimo giro offro io però!”

 

Invece di alzare gli occhi al cielo e sbuffare, come si sarebbe aspettato, Imma gli sorrise in un modo strano, che gli ricordò assurdamente proprio la fine della loro prima cena insieme. Anche se lì aveva offerto lui.


Gli sembrava nervosa, anche dal modo in cui si tormentava le mani ed ondeggiava leggermente sulle gambe e non c’entrava l’alcol.

 

Quando faceva così, che pareva una bimba, gli provocava un qualcosa nel petto che era impossibile da definire, per quanto era forte.

 

Ma si chiese il perché. Forse… forse perché era il loro primo vero appuntamento, dopo tantissimo tempo?

 

“Che… che ne dici se ci facciamo due passi, Calogiù? Per cominciare a digerire, che ne ho bisogno.”

 

“Va bene. Ma… non è che stai male, no?” domandò, preoccupato che avesse esagerato e che con quel vestitino magari una congestione….

 

“No, Calogiuri, tranquillo,” sorrise, e lo vide che era intenerita, “però… due passi mi ci vogliono proprio.”

 

“Agli ordini, dottoressa!” assentì, tirandosi in piedi e, non appena ebbero salutato il cameriere e furono ad una distanza minima dai tavolini, non perse tempo a prenderla nuovamente sotto braccio, per scaldarla e per sentirla più vicina.

 

Le posò un bacio sulla tempia, sussurrandole un “grazie!” mentre si godeva il profumo del suo shampoo e si lasciò condurre, quasi senza rendersene conto, verso le passerelle che davano sugli scavi storici del portico.

 

“Ti ricordi quando siamo passati da qua e ti ho chiesto se, avendo una relazione con una persona molto più grande, si rischia di essere presi in giro?” le chiese, colto dai ricordi, ed Imma si bloccò e lo guardò in un modo che era illegale, come diceva sempre lei di lui, ma molto molto di più che illegale, “ed invece stiamo ancora qua… e… altro che presa in giro. Proprio vero che dipende dalla persona. E io ho trovato quella giusta!”

 

La vide arrossire, pure nella penombra, e gli venne in mente un’idea, forse folle ma-

 

“Comprare bella rosa a moglie?”

 

La voce alle spalle gli fece fare un mezzo salto e ruppe il momento, mannaggia a chiunque fosse!

 

Si voltò, lasciando andare Imma, anche per pararsi fra di lei e la voce, e riconobbe immediatamente IL venditore di rose, sempre lui, che ancora lì stava. Evidentemente la piazza doveva fruttargli proprio bene.


“Allora, comprare bella rosa a moglie?”

 

Gli venne quasi da ridere ma scosse il capo e disse, “no, guarda, io la rosa te la compro pure, e forse non ti ricordi di noi, ma lei non è mia moglie.”

 

“No, no, tu sbagli. Comprare bella rosa a moglie?” ripetè l’ambulante con un sorriso strano, tanto che per un attimo Calogiuri si inquietò, pensando che magari nel frattempo gli fosse venuto qualche problema di memoria o alla testa, in generale.

 

Ma, prima che potesse fare qualsiasi cosa, si ritrovò con l’intero mazzo di rose in mano e l’ambulante si allontanò a passo spedito, ridendo come un matto e mollandolo lì, con il fascio rosso-verde in braccio e confuso come pochi.

 

D’istinto, si voltò, non che fosse una tattica di distrazione, ed Imma-

 

Panico, panico puro, quando non la vide, non la vide più, tanto che gridò, “Imma!”, mentre gli scenari peggiori gli affollavano la mente e-

 

“So che sei un gentiluomo Calogiù, ma stavolta sei autorizzato a guardare un po’ più in basso che all’altezza degli occhi.”

 

La voce, che veniva dalla sua destra, vicino alle sue ginocchia, gli fece fare un altro mezzo salto e-

 

E poi la vide e fu la volta di un capogiro fortissimo, tanto che dovette aggrapparsi al corrimano della passerella per non cascare, mentre le rose cadevano in terra, con un tonfo sordo.

 

“Le rose con noi questa fine fanno, è proprio destino!” pronunciò Imma, ma udiva chiaramente che aveva la voce roca, che le si spezzò sulla parola destino.

 

Non ci capiva più niente, il fiato che gli mancava, gli occhi che mandavano pochi fotogrammi ai suoi neuroni in tilt.

 

Imma.

 

In ginocchio.

 

Con un astuccio in mano.

 

Con un anello nell’astuccio.

 

“Lo sai che… che non sono molto brava con le parole, Calogiù, almeno con questo tipo di parole. Anche se mi sa che… in questo momento non è che stai messo molto meglio manco te,” la sentì pronunciare a fatica, mentre continuava a deglutire e probabilmente, come lui, aveva la saliva azzerata.

 

“Ma, anche se come mi hai insegnato tu, l’emozione non ha voce… in alcuni casi ce la deve avere, Calogiuri, e… e spero che ste benedette parole mi vengano fuori da sole, come fai sempre tu, mannaggia a te!”

 

Ci fu una pausa, in cui temette per un attimo di svenire o lui o lei, e poi Imma riprese.

 

“Lo so che… che in questi ultimi mesi ci siamo fatti tanto male, non volendolo e… io te ne ho fatto tantissimo, Calogiuri, e… e capisco se fosse troppo presto per te o se… se non te la sentissi più di passare tutta la vita con una col mio caratteraccio e la mia… poca fiducia nel genere umano. Ma… ma se ho capito una cosa in questi mesi non è solo quanto tu mi ami - che… che a volte me lo chiedo ancora come fai ad amarmi così tanto - ma… anche quanto… quanto io ti amo e quanto mi fido di te, pure se magari a volte non sembra. Ma mi fido di te in tutti i sensi, Calogiuri, non solo perché so che… che ti faresti ammazzare prima di darmi un dispiacere - letteralmente, mannaggia a te! - ma anche che… che tu mi capisci, per davvero e che… sei in grado di reggere tutto di me e della nostra vita, il brutto ed il bello. Che con te non ho bisogno di essere sempre forte, ma posso lasciarmi andare, veramente, come non ho mai fatto con nessuno. E… spero di poter riconquistare piano piano del tutto la tua fiducia, in modo che anche tu possa farlo con me, nonostante l’orgoglio e la capa tosta che teniamo tutti e due.”


Gli bruciavano da morire gli occhi e riuscì solo a gracchiare un “già ce l’hai la mia fiducia, sempre…” prima che lei gli sorridesse, si asciugasse gli occhi, tirasse su col naso e proseguisse a parlare.

 

“Come ti ho già detto una volta, lo so che forse è da egoista volerti tutto per me, Calogiù, ma… ma non riesco a immaginarmi un futuro senza di te. Perché… la verità è che ormai sei una parte di quello che sono oggi, Calogiù, e pure di quello che sarò in futuro, comunque vadano le cose tra di noi. Perché anche se, come hai detto tu, io sono e resterò sempre Imma Tataranni - e con la mia testa dura col cavolo che cambio! - tu mi hai fatto scoprire altre Imma che… che non sapevo nemmeno che vivessero dentro di me, o che avevo paura di portare alla luce. E, pure se pensi di essere tu quello che deve crescere ancora, la verità è che in questi anni siamo cresciuti insieme, mannaggia a te, e… e mi hai insegnato così tanto che non ne hai un’idea, proprio. E… voglio continuare a farlo e a… a vedere cosa diventeremo, insieme, finché io sarò una vecchietta rompipalle e tu… tu sarai un affascinante signore con i capelli bianchi e gli occhi azzurri che ancora mi sopporterà, per qualche motivo inspiegabile. E… non posso prometterti che non sbaglierò mai più o che sarò perfetta ma… ma che mi fiderò sempre di te, sempre, e che potrai sempre fidarti di me, sempre, e che… come ti ho già detto una volta, lo so che non sarà un viaggio facile, ma di sicuro non ti potrai mai annoiare, maresciallo, e farò di tutto e pure di più per renderti felice, al massimo delle mie possibilità.”

 

Un’altra pausa, mentre entrambi cercavano di ricomporsi, perché gli sembrava che gli fosse entrato tutto il Mar Ionio negli occhi, mannaggia a lei!

 

“E insomma… se non ti ho convinto fino a mo, non ti convincerò mai più, quindi… mi vuoi sposare? Che sto vestito è leggero ed i sanpietrini me stanno ad ammazzà le ginocchia, come direbbe il cameriere, e-”

 

Un singhiozzo lo fece sussultare dalla testa ai piedi e ci si buttò dritto sui sanpietrini, fregandosene del suicidio alle sue di ginocchia, per raggiungerla, afferrarle il viso e trascinarla in un bacio che gli levò il pochissimo fiato rimasto.

 

Sentì il rumore di qualcosa che cascava a terra ma lo ignorò e continuò a baciarla, finché dovette riprendere fiato, e continuare solo con baci brevi, leggeri. Ma non riusciva a staccarsi da lei, non del tutto.

 

Almeno finché due iridi marroni si piantarono nelle sue, paralizzandolo per un istante, tanto che gli uscì solo un “amore mio…” un poco soffocato e riprese a baciarla.

 

O almeno ci provò, perché Imma scoppiò in una specie di singhiozzo e lo bloccò per le spalle.


“Che c’è?” le domandò, preoccupato, che pareva si stesse strozzando.

 

“Come… come mi hai chiamata tu stavolta? Mannaggia a te!” mormorò rauca, tra uno squittio e l’altro, “mi hai fatto venire pure il singhiozzo, sempre mannaggia a te!”

 

Gli venne da sorridere, come uno scemo, perché solo in quel momento si rese conto di avere pronunciato quelle due parole che non aveva mai osato dire prima, non ad alta voce e non a lei. Non che non le avesse mai pensate, anzi, ma gli erano sempre sembrate così grandi rispetto a lui, rispetto a quello che poteva darle, come se fosse un atto di superbia vocalizzarle.


“Forse perché… perché adesso sento che sei davvero mia, in tutti i sensi…” ammise, un poco imbarazzato ma col petto che gli esplodeva di felicità.

 

“Insomma… non ancora…” rispose Imma, tra un singhiozzo e l’altro, facendolo preoccupare.


“In… in che senso?”


“Nel senso che non mi hai ancora risposto… maresciallo e… - mannaggia a sto singhiozzo! - e… e mi hai pure fatto cadere l’anello, che dove sta mo? Mannaggia sempre a te!”

 

Rise, sia per il sollievo, sia per averle fatto perdere così tanto il controllo, sia perché… era tenerissima quando singhiozzava. Ma non glielo avrebbe mai detto o l’anello glielo tirava in fronte, come minimo.

 

Abbassò il viso per cercarlo ed alla fine lo trovò, ancora nella sua scatola per fortuna, abbandonato di poco alla loro destra.

 

Fece per afferrarlo ma fu Imma a prenderlo per prima con un, “le cose se si fanno si fanno per bene. Allora… mi vuoi sposare? Se sì - sempre mannaggia al singhiozzo - il dito per favore.”

 

Ridendo e piangendo insieme, come lei, porse la sua mano sinistra ed un cerchio di metallo gli si infilò all’anulare, ed era perfetto.

 

“Ma come hai fatto?”

 

“Ti ho misurato il dito nel sonno, Calogiù, che tanto ce l’hai di pietra, ce l’hai, per fortuna per me!”

 

“Ma… ma quando lo hai comprato?” domandò, realizzando poi in un secondo come lo aveva fregato, “ma allora… in questi giorni con Chiara…”

 

“Con Chiara mi sono vista una volta sola. In realtà… in realtà effettivamente l’anello l’ho scelto insieme a lei che… cioè volevo una cosa tipo questa, ma… ma lo so che ho gusti molto più… eccentrici dei tuoi e non volevo metterti in imbarazzo, ma regalarti qualcosa che, spero, potrai indossare quasi sempre.”

 

“E chi se lo leva più! Fossi matto!” proclamò, trascinandola in un altro breve bacio, per poi guardare meglio l’anello.

 

Era leggermente più largo di una fede, pareva quasi uno di quei rocchetti per il filo che usava sua madre. I lati esterni erano bianchi, tanto che splendevano sotto i lampioni, mentre al centro pareva nero, ma c’erano pure tre pietruzze incastonate: una bianca in centro ed una blu e una gialla i lati.

 

“Ma… ma…”

 

“Oro bianco ed un piccolo diamante giallo, per fare coppia con il mio di anello, sempre se c’è ancora - se no lo posso far rifare, a mie spese ovviamente, che sono stata io a lanciartelo dietro,” spiegò lei, sembrando in estremo imbarazzo, ma, stranamente, il singhiozzo non c’era più, ” e poi… in mezzo c’è il carbonio perché… che non potevo metterci qualcosa di nero nel tuo anello, Calogiù? Che non saresti tu altrimenti!”

 

Gli venne da ridere, perché lo conosceva troppo bene.

 

“Il diamante blu invece è come i tuoi occhi, come il nostro mare, e quello classico per… per prometterti che durerà per sempre, nonostante il mio caratteraccio, e perché… perché tu per certe cose sei un uomo vecchio stampo, ma solo per le cose migliori, ed è anche per questo che sei… che sei come sei, Calogiuri, mannaggia a te!”

 

La stava ascoltando ma la verità è che non vedeva più niente, manco l’anello, le lacrime che ormai altro che il mare erano. Si asciugò meglio gli occhi e poi lo rimirò, incredulo.

 

“Ma questo… ma questo è di una marca famosa!” esclamò, ora che lo analizzava con più attenzione, “ma quanto ti è costato?! Sei matta e-”
 

Un altro bacio in bocca lo zittì e poi un dito sulle labbra.


“Che fai? Mi imiti? Dei prezzi posso lamentarmi solo io, Calogiù, e poi sono soldi ben spesi. E, come hai detto tu una volta, questo è un investimento che dura per sempre. Almeno spero. Anche perché non mi hai ancora dato una risposta, in effetti.”

 

Gli occhi di lei, per quanto divertiti, lo fulminarono realmente in quella che era una domanda seria, serissima.

 

“Ma certo che ti voglio sposare! Sì, sì, sì e basta. E se vuoi te lo metto pure nero su bianco sul taccuino, se la mia parola non è sufficiente,” proclamò, tra un bacio e l’altro, guadagnandosi un colpo al petto ed un, “ma quanto sei scemo!” che lo fecero sciogliere ancora di più.

 

“Mo però… che ne dici se ci tiriamo in piedi? Che qua c’avrò le ginocchia a forma di sanpietrino per giorni,” proclamò lei e stava per assecondarla quando un pensiero lo bloccò e la tenne ferma per le spalle, impedendole di alzarsi.

 

“Che c’è mo?” gli chiese, preoccupata, guardandolo come se temesse che avesse cambiato idea.

 

“C’è che… già che stiamo qua… in questa posizione un po’ scomoda, è vero, ma… in questo posto bellissimo che amo quasi quanto amo te e che… che ci rappresenta così tanto…. Io… è da un po’ che… che pensavo al momento giusto per restituirtelo ma… ma temevo fosse troppo presto e allora… allora me lo portavo con me, sperando che… che potesse tornare presto al suo posto.”

 

Si frugò nelle tasche, temendo improvvisamente di averlo perso. E sì che aveva pure pensato, prima che arrivasse l’ambulante, di rifargliela lui la proposta, proprio lì.

 

Ma, per fortuna, Imma l’aveva preceduto, come sempre, regalandogli l’emozione più grande della sua vita.

 

Finalmente sentì il metallo sul fondo della tasca interna della giacca e ne estrasse l’anello, che aveva gelosamente conservato in tutti quei mesi, pure quando aveva toccato il fondo. Ma… ma di liberarsene non ne aveva mai avuto la forza, perché sarebbe stato come gettar via l’unico legame che gli rimaneva con lei.

 

E finalmente poteva di nuovo riportarlo alla luce, davanti agli occhi di lei che brillavano più dei diamanti che le stava offrendo, perché aveva ripreso a piangere in un modo che gli stringeva il cuore, talmente era bella e forte in quella vulnerabilità, in quell’amore che ci leggeva dentro e che, per sua immensa fortuna, era solamente per lui.

 

“Posso?” le chiese, la mano che gli tremava quanto quella di lei, tanto che faticò terribilmente ad infilarglielo ed alla fine le chiese, un poco timoroso, “se non va bene possiamo farlo allargare leggermente e-”

 

“Ma che sei matto?! Va benissimo, è che… mi hai fatto venire le mani sudate, mannaggia a te! E pure io questo anello non me lo levo più: sei definitivamente incastrato con me, maresciallo, preparati!”

 

Stava per risponderle quando si trovò di nuovo labbra bagnate sulle sue, in un bacio che gli fece scordare tutto, persino quasi il suo nome.

 

E quindi le lasciò più che volentieri l’ultima parola: tanto se la sarebbe presa lo stesso.

 

Ma era anche per quello che l’amava da impazzire.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo capitolo che è stato tipo un parto da scrivere, anche per i contenuti. Un capitolo decisivo: è successo qualcosa di atteso ma che spero vi abbia preso di sorpresa e… anche i prossimi capitoli avranno momenti mooolto attesi, ve lo anticipo di già.

Vi ringrazio tantissimo per tutto il supporto che date alla mia scrittura e alla mia storia e per la pazienza con la quale attendete gli aggiornamenti. Purtroppo tra la vita reale, la lunghezza dei capitoli ed il mio cercare di curarli il più possibile, mi rendo conto che ci voglia del tempo e che non sempre riesco a rispettare le date che mi ero prefissata, ma mi auguro che sia valso l’attesa.

Un grazie enorme a chi ha messo la mia storia nei preferiti e nei seguiti e ringrazio immensamente chi ha trovato il tempo di lasciarmi una recensione che, come sempre, non solo mi motivano enormemente ma mi aiutano a capire come procedono le cose con la scrittura.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica 27 febbraio.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 70
*** Calore ***


Nessun Alibi


Capitolo 70 - Calore


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Ca- Calogiù!”

 

Si staccò per prendere un respiro fortissimo, perché era completamente senza fiato.

 

Per fortuna si erano alzati dai sanpietrini ma poi Calogiuri l’aveva intrappolata tra il suo corpo e la ringhiera della passerella e l’aveva baciata in un modo che… altro che le ginocchia! Le gambe le cedevano.

 

Ma lei aveva ben altro in mente.

 

Solo che quell’impunito continuava a riprendere a baciarla. Se ci fossero stati i fotografi avrebbero potuto farci un film intero sopra.

 

Per fortuna erano solo baci ma la stava facendo impazzire e non andava bene, non in quel momento.

 

“Calogiù, e dai… su… che ne dici se mo ci leviamo di qua?”

 

“Come vanno le ginocchia? Perché le mie sono ancora un poco doloranti e deboli…” rispose lui, con lo sguardo da impunitissimo, un sorrisetto che le fece venir voglia di trovare il primo angolo nascosto e fare cose impronunciabili.

 

Ma non avrebbe mai osato, ovviamente, non in centro città.

 

“E dai, Calogiù!”

 

“Tutta colpa tua, dottoressa. Però… se mo andiamo a casa a… proseguire il discorso… forse forse…”

 

“In realtà… la serata è ancora lunga, maresciallo. Sempre che tu sia in… condizioni,” le scappò da ridere, perché lo sentiva benissimo che non lo era propriamente, “se no, possiamo sempre andare a prendere un po’ di ghiaccio secco alla farmacia di turno.”

 

“Imma!” ruggì, in quel modo che causava in lei effetti collaterali ancora peggiori.

 

Ma, almeno in una cosa, c’era una fortuna nell’essere donna.

 

“E dai, maresciallo. Che ti vuoi perdere il resto della sorpresa?”

 

“Non ci arrivo vivo alla fine della sorpresa, dottoressa.”


“In effetti in rigor mortis già ci stai,” lo sfottè, in quella che era una delle sue battute preferite.

 

Calogiuri fece un altro sospiro e scosse il capo, in quel modo che usava solo con lei.

 

“Va beh… ho capito…” borbottò lui, estraendo il telefono dalla tasca - per fortuna posteriore, “troviamo sta farmacia. Ma ci entri tu.”

 

“Ovviamente, Calogiuri, ovviamente.”

 

*********************************************************************************************************

 

“Lorenzo!”

 

Aveva fatto appena in tempo ad aprire la porta e a farlo entrare, che Bianca gli era corsa incontro e gli era saltata in braccio, “ma allora stai bene?”

 

“Perché?” domandò lui, confuso.

 

“Ha… ha visto l’inizio dell’operazione ma non la fine, quindi temeva che non fossi venuto negli ultimi giorni perché ti eri fatto male, credo,” sospirò Irene, scuotendo il capo.

 

La verità era che, per fortuna, sia lei che Lorenzo erano stati impegnatissimi, e da un lato menomale, perché non aveva avuto proprio voglia di rivederlo, subito dopo alla tizia di Bari.

 

“Ma quella che stava con te è tornata a casa sua?”

 

Ecco, ti pareva! La voce dell’innocenza!

 

“Chi?”

 

“Intende la tua collega dei reparti speciali di Bari,” sospirò, non potendo ovviamente fare nomi, “l’ha notata subito pure lei, si nota facilmente, del resto.”

 

“Ah. No, è tornata a Bari giorni fa,” rispose Ranieri, un poco stupito ma anche divertito.

 

“Senti, non sorridere che qua la situazione è drammatica, non lo senti?” cambiò volentieri il discorso, anche perché aveva i timpani quasi rotti.

 

Francesco era da un’ora buona che piangeva interrompendosi pochissimo e, se come minimo i vicini l’avrebbero voluta uccidere, lei figuriamoci, ci si sarebbe quasi prestata volentieri a farsi linciare pur di non sentirlo più.

 

Tanto che aveva dovuto rassegnarsi a chiamare Ranieri.

 

“Dai, non ti preoccupare, vedrai che ce la facciamo a calmarlo.”

 

“Auguri!” sospirò, avviandosi con lui verso la camera da letto, “perché io ho esaurito le idee.”

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma… ma… questo è…”

 

“Il locale di ballo da sala, sì, Calogiuri. Ora che hai ehm… ghiacciato i bollenti spiriti, non vedo modo migliore di farteli ritornare, piano piano, lentamente ma inesorabilmente, che standocene qualche ora appiccicati a ballare, come ai vecchi tempi.”

 

“Tu mi vuoi proprio uccidere prima di celebrare il matrimonio, dì la verità!” scherzò, anche se dire che fosse commosso sarebbe stato riduttivo.

 

Gli piaceva tantissimo organizzare sorprese per Imma. Ma riceverle, con il carattere di lei, era ancora più speciale. E poi… con tutto quello che era successo, era da capodanno che non erano più andati a ballare e comunque non da soli ma con Mariani e-

 

Era meglio non pensare a Conti in quel momento: non voleva rovinarsi la serata.

 

Le prese il viso tra le mani e la baciò, per l’infinitesima volta quella sera ma… ma, per quanto in certe occasioni le parole venissero fuori da sole, non ce n’erano abbastanza per esprimere quello che provava per lei, l’amore, la gratitudine, tutto.

 

“Pure tu non è che ci stia andando giù leggero, Calogiuri. Che io sono pure più vecchia di te, te lo ricordo.”

 

“Sì, e intanto con questa scusa mi sotterrerai, dottoressa…” sospirò, dandole un bacio, stavolta sulla fronte.

 

“Allora, entriamo? Anche se non sono sicura di ricordare bene come si fa. Che qua facevano molto spesso il tango.”

 

“Magari dovevamo accettare la proposta di fare le lezioni.”

 

“Sì, così come minimo tutta la classe avrebbe voluto ballare con te, maestra per prima. Ma che so’ matta? E poi… e poi mi ci vedi a muovermi in un’aula piccola, piena di uomini sudati con la crisi di mezza età e di donne truccatissime per fingere di non avercela ancora?”

 

“Non lo so. Perché quando balliamo insieme, io vedo solo te. Anzi, pure se non balliamo insieme.”

 

“E poi sarei io quella che t’ammazza a te, eh?” gli chiese, con voce roca e gli occhi di nuovo lucidi.

 

Travolto da un bacio veloce ma comunque non di certo un bacetto, anzi, che temeva di dover fare di nuovo una visita d’urgenza alla farmacia, si lasciò trascinare più che volentieri verso l’ingresso.

 

*********************************************************************************************************

 

“Non funziona. Sei qua da un sacco e non funziona!”

 

Cominciava ad essere veramente disperata: anche Ranieri le aveva provate tutte ma Francesco si calmava al massimo per qualche minuto, il tempo per riprendere fiato e voce, e ricominciava.

 

“Proviamo a chiamare Imma?” propose infine lui, in quella che era la resa definitiva.

 

Era tardi, molto tardi, ma erano disperati loro e pure la povera Bianca, che era in camera sua con i tappi a cercare di dormire..

 

Prese il cellulare e selezionò il contatto di Imma.

 

“Il cliente non è al momento raggiungibile, si prega di riprovare più tardi, grazie!”

 

La voce metallica fu il peggiore degli incubi che si materializzava, ma provò l’ultima spiaggia: Calogiuri.

 

“Il cliente non è al momento raggiungibile, si prega di riprovare più tardi, grazie!”

 

Il panico, il panico totale.

 

“Sono tutti e due non raggiungibili,” annunciò, pensando che ora sì che non sapeva più che pesci pigliare, "staranno festeggiando, beati loro!”

 

“Anche noi abbiamo una cena in sospeso, no?” le ricordò lui, con uno sguardo che era tutto un programma e che in passato era stato il suo più grande tallone d’Achille, “ormai Calogiuri è scagionato, il mio lavoro sul maxiprocesso dovrebbe essere finito e… una sera di queste, potremmo-”

 

“Ma a che serve, eh?” sbottò, più brusca di quanto avrebbe voluto essere, ma aveva i nervi a fior di pelle, tra l’orario, il casino e tutto quello che era successo negli ultimi giorni, “tanto tu a breve devi tornartene a Bari e poi chissà quando ci rivedremo. Anzi, sono già sorpresa che stai ancora qua e che non abbiano già reclamato la tua presenza.”

 

Per un secondo ci fu un attimo di silenzio straordinariamente perfetto: Francesco, forse stupito dal cambio repentino di tono, si zittì del tutto, tanto che udì Ranieri deglutire un paio di volte.

 

E poi lo vide aprire la bocca e-

 

“In che senso devi tornare a Bari? Ma con quella là?”

 

Le prese un colpo e si voltò: era stata Bianca a parlare ed aveva evidentemente sentito tutto, a giudicare dal modo in cui le tremava la voce e dalla faccia delusa e triste ma pure arrabbiata, le braccia incrociate in un modo che le ricordava terribilmente se stessa.

 

Altro attimo di perfetto silenzio, Ranieri che pareva molto in imbarazzo, anche se un poco divertito, cosa la fece incazzare triplamente. Non c’era niente di divertente, niente, nel trauma che avrebbero dato a Bianca ed era anche colpa sua, per non aver bloccato prima quella frequentazione.


“Tra qualche giorno devo tornare a Bari, sì, ma perché ci sono i miei figli e alcune cose importantissime da sistemare.”

 

“Ma io e Irene non siamo importanti, allora?”

 

Il tono e gli occhioni di Bianca, pieni di lacrime, furono peggio di ore di urla di Francesco.

 

“Ma certo che siete importanti! Tornerò presto a Roma e-”

 

“E non è vero, ho capito! Sono quelle cose che dite voi grandi, per farci stare buoni. Tu hai i tuoi figli e io e Francesco siamo solo un lavoro per te!”

 

“Bianca, non-”

 

Ma Bianca, con un’aria incazzosissima e i lacrimoni agli occhi, si era voltata e, a passo marziale, era tornata nella sua stanza, sbattendo la porta dietro di sé.

 

Una scena che non avrebbe mai pensato di vedere da lei, almeno non prima dell’adolescenza.

 

“Irene, io-”

 

“Adesso è meglio che vai e… e che in questa casa non ci torni più. Bianca si è affezionata troppo ed è meglio non darle altre illusioni e che si abitui all’idea che… che tu non ci potrai essere, non come la figura paterna che è evidente che a lei manca.”

 

“Ma-”

 

“Niente ma: è la verità e lo sai pure tu. E comunque Francesco adesso è tranquillo e… e credo che tra qualche giorno potremo affidarlo ad Imma e a Calogiuri, che tanto le acque si stanno calmando con i giornalisti e… e loro saranno felici di occuparsene e lui di stare con loro. Quindi… missione conclusa, capitano: torna a casa.”

 

Non avrebbe saputo dire se fosse più la rabbia o la voglia di piangere. E se fosse più arrabbiata con lui o con se stessa per essersi rimessa in quella posizione ed averci coinvolto Bianca, soprattutto.

 

Ranieri rimase un attimo paralizzato e a bocca aperta, poi gli sembrò di vedere una lacrima nei suoi occhi, lui che non piangeva quasi mai, ma non lo avrebbe saputo dire con certezza assoluta, perché dopo un “non finisce qua!”, sparatole deciso, dritto in petto, si voltò e se ne andò, lasciandola con un vuoto in gola e la testa che scoppiava.

 

Non finisce qua, ma intanto te ne sei andato! - pensò, perché alla fine i fatti, solo i fatti contavano. E su quelli Ranieri era sempre stato a dir poco carente, oltre che incoerente.

 

Si voltò e guardò la porta di Bianca, chiusa, chiedendosi se fosse il caso di andare da lei, per accertarsi che stesse bene.

 

Ma Bianca aveva anche bisogno dei suoi spazi, lo sapeva.

 

Quindi si avvicinò piano alla maniglia, la socchiuse e disse, con la voce più calma che riusciva ad avere, anche se tremava comunque un po’ troppo, “se ne è andato. Se vuoi… puoi dormire con me stanotte. Io intanto torno a letto.”

 

Ma Bianca non rispose e quindi, pur lasciando la porta socchiusa, per sentirla meglio, tornò verso la sua di camera.

 

Francesco si era addormentato: assurdo ma vero.

 

O almeno così sembrava, perché, quando si infilò nel letto accanto a lui, aprì quegli occhi scuri, in un modo che le fece presagire un altro giro di urli che non avrebbe sopportato, ma si limitò a starla a guardare, come incuriosito.

 

“Che cos’è? Ti piace quando la gente alza la voce? Ti ricorda Imma?” gli chiese, ironica, non con il tono basso che usava di solito con lui, ma più deciso, e lui fece una specie di sorriso ancora mezzo sdentato e poi li richiuse, tornando a dormicchiare.

 

Forse aveva scoperto l’arma segreta con lui, proprio quando non serviva più.

 

Ma del resto, la totale assenza di tempismo era una costante nella sua vita.

 

Da sempre.

 

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“Mmmm…”

 

Infastidita dalla luce improvvisa, serrò gli occhi, rifugiandosi ancora per un attimo nel petto di Calogiuri.

 

“Mi sa che questo è il segnale che ci dobbiamo levare di torno, dottoressa,” le sussurrò lui, seguendo le parole con un bacio dolce sulla guancia che quasi la fece commuovere, di nuovo, “anche se resterei sempre così, ma-”

 

“Ma ci possiamo stare anche a casa,” concluse lei per lui, aprendo gli occhi e tornando alla realtà, cioè che erano una delle tre coppie ormai rimaste, “prima però… bombolone al Pincio? Che abbiamo già bruciato molto ma bruceremo ancora, Calogiù, in tutti i sensi.”

 

Per suggellare la promessa, gli morse l’orecchio, provocando un gemito buffo quanto tenero.

 

“Per fortuna che siamo in taxi, dottoressa, perché non so se sono in grado di guidare dopo questa nottata.”

 

Le venne da ridere: lo sapeva che lo aveva torturato parecchio, ballando mooolto vicino e mettendocela tutta per cucinarselo a fuoco lento, fino all’ebollizione.

 

“Eh va beh, Calogiù… l’attesa aumenta il desiderio, no?”

 

“Appunto. Mi sa che di bomboloni qua ce ne vorranno due, per darmi le forze.”

 

“Tutti quelli che vuoi, basta che poi non ti abbiocchi, maresciallo, perché potrei ucciderti, se solo ti azzardi.”

 

“Guarda, dottoressa, quello è l’unico rischio che non corro… grazie a te!” ruggì lui, stringendola in un modo che le diede conferma che sì, l’unico rischio che correva il povero Calogiuri era una visita d’urgenza dall’andrologo.

 

“Eddai, maresciallo, ne varrà la pena, te lo prometto! Ne varrà molto la pena, moltissimo.”

 

“Finiremo prima di mezzogiorno o ci conviene prenderli pure d’asporto i bomboloni?”

 

“Chissà… magari pure un paio di maritozzi con la panna per… farne buon uso, capisci a me!”

 

Il ruggito nell’orecchio che presumibilmente era un “Imma!” carico di frustrazione, fu l’ultima cosa che sentì prima di essere sollevata di peso e praticamente trasportata fino al guardaroba, tra una risata ed un “Calogiù!” e l’altro.

 

Quanto le era mancato, tutto!


Anche se, fuori dal locale, non appena chiamato il taxi, sarebbero dovuti tornare alla saggezza e alla prudenza.

 

Ma, per qualche minuto, poteva ancora godersi la profondissima leggerezza che solo lui sapeva donarle.

 

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“Calogiù, Calogiù, se vai avanti così i maritozzi ce li spiaccichiamo addosso ai cappotti, mannaggia a te!”

 

Aveva fatto appena in tempo a posare un piede, anzi un tacco dentro casa che si era trovata spalmata sul muro da Calogiuri, la porta che si chiudeva con un mezzo boato prima che lui iniziasse l’assalto a labbra, orecchio e collo.

 

“Sempre colpa tua, dottoressa,” ringhiò, in quel modo che le causò un altro picco ormonale, ma allontanandosi leggermente per poggiare il sacchetto sulla prima superficie disponibile della cucina.

 

Stavolta lo fece lei il ruggito e stava per raggiungerlo per saltargli addosso quando un miaaoooo ed un soffio schifato la fecero bloccare.

 

Ottavia, che stava all’ingresso del corridoio verso la camera da letto, li guardava peggio di una madre che aveva appena beccato uno dei figli in flagranza di reato, e all’alba per di più.

 

“Ottà, con tutto il bene, te ne stai in bagno per qualche ora mo, che ti conviene pure a te!” proclamò Calogiuri, in un modo che la fece scoppiare a ridere. Prese Ottavia per la collottola e la portò di peso in bagno.

 

Lei gli gridò un “chiudila a chiave, mi raccomando!” prima di essere colta da un’idea, trattenere un sorrisetto malizioso, buttare il cappotto sul divano, seguito dal vestito - che con quello che costava ci mancava rovinarlo, e si sarebbe rovinato sicuramente - e sollevarsi a forza di braccia fino a piazzarsi sulla penisola della cucina, afferrare il sacchetto di carta ed iniziare ad… apparecchiarla come si doveva, più in fretta che poteva.

 

E poi si distese, reggendosi la testa sulle mani, per poter assistere al suo ritorno e godersi lo spettacolo migliore del mondo.

 

Un suono strozzato, un’espressione che mai si sarebbe scordata, mentre Calogiuri diventava prima bianco come un lenzuolo e poi rosso fuoco, un’ondata di tenerezza e di altri ormoni che la colsero mentre lo vide sbandare e reggersi all’angolo del corridoio, per evitare di cascare all’indietro sul povero leopardo in ceramica.

 

Uno a zero, palla al centro! Ed il vantaggio di campo era decisamente il suo!

 

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“E stai buona! Che se no a domani non ci arrivo!”

 

Lo guardò con quegli occhioni furbi ma anche dolci, che lo fregavano sempre, e poi gli diede una nasata sulla mano, seguita da due zampate al petto e si acciambellò nella sua cuccia in bagno.

 

Finalmente!

 

Chiuse la porta a chiave - che non si sapeva mai, e non sarebbe potuto sopravvivere ad un’interruzione, sempre se fosse sopravvissuto a tutto il resto - tornò il più rapidamente possibile verso il salotto e-

 

Gli si mozzò il fiato in gola, mentre tutto il sangue gli confluiva in un punto e la testa gli girava, la vista che gli si annebbiava temporaneamente dandogli un momento di respiro - letteralmente - da quella visione da infarto.

 

“Imma!” pronunciò, in una voce che manco pareva la sua, prima di ritrovare l’equilibrio e non perdere altro tempo a buttarsi su di lei, pronto a punirla come si doveva per tutte le torture che gli stava infliggendo quella sera.

 

“Allora quando vuoi lo sai come essere veloce, CalogiÚÚÚÚ!”

 

Il suo nome trasformato in urlo fu l’ultimo suono coerente, prima di prendersi finalmente la sua rivincita, dolce come la panna ed inebriante più di qualsiasi alcolico.

 

*********************************************************************************************************

 

“Allora, sventoli bandiera bianca, maresciallo?”

 

“Altro che bianca, dottoressa… qua di bianco non c’è proprio niente!” ironizzò lui, spompato quanto lei, facendola ridere, perché c’aveva ragione c’aveva!

 

“E comunque mi sembra che siamo tutti e due allo stremo, dottoressa, quindi che ne dici se ci accordiamo sul pareggio e su un lungo, lungo riposo?”

 

“Posso concedertelo. Ma soltanto per questa volta!” lo punzecchiò, allungando però il collo per dargli un bacio sulla guancia, che cominciava ad essere leggermente pungente per la barba che stava rispuntando. Poi se lo abbracciò di lato, mettendogli la testa sul petto e sentendosi avvolgere dal braccio di lui, che la coprì leggermente con il lenzuolo.

 

“Sei bellissima,” lo udì sussurrare, prima di una serie di baci sulla fronte così dolci da farle quasi tornare il magone, “sei sempre più bella, più luminosa, non so come fai.”

 

“Sei tu che mi fai bene, maresciallo, lo sai.”

 

“E tu a me, anche se… forse un controllo dal cardiologo ed un test da sforzo mi conviene farli prossimamente, se continuiamo così.”


“Eh va beh… Calogiuri, lasciami godere un po’ questi momenti di… recupero, che presto torneremo ad avere ritmi serratissimi, un sacco di cose da fare e-”

 

“E per prima cosa, questa,” sottolineò lui, prendendole la mano sinistra con la sua ed intrecciando le loro dita e i loro anelli, prima di baciarle la mano, “allora, quando ci sposiamo? E dove? Ora che… che non ho più il corso… sono più libero di organizzare insieme a te.”

 

Il riferimento al corso fu un colpo al cuore, perché era una tremenda ingiustizia che non lo avesse potuto fare, con il talento che aveva e con quanto ci si era impegnato per vincere il concorso.


“Come sai… avevo organizzato per questa estate ma… ma è tutto cancellato ormai.”

 

“Ma a me questa estate va ancora bene, anzi benissimo!” esclamò lui e le dita si spostarono sul suo viso, sollevandoglielo fino a farle incontrare quei bellissimi occhi celesti, anche se mezzi socchiusi dalla stanchezza, “mi basta una cosa semplice: noi due e pochi intimi. Per me l’importante è sposarmi con te, dottoressa, tutto il resto non conta.”

 

“E invece pure la tua carriera conta, Calogiù, e tanto. Lo so che… potrai fare il prossimo concorso, ma dobbiamo scegliere innanzitutto dove andare a vivere e a lavorare, in un posto che ti dia le maggiori opportunità di carriera possibili. Magari in due procure diverse, ma vicine, per poter stare insieme ma… evitare tutte le complicazioni di questi anni. In base a quello,  possiamo anche decidere il dove ed il quando del matrimonio, non credi?”

 

“Io credo che, fosse per me, ti sposerei pure domani e che… possiamo progettare entrambe le cose insieme e non c’è momento migliore di adesso che non dobbiamo lavorare tutti i giorni. Ed il permesso matrimoniale ci spetta in ogni caso, ovunque andremo a finire.”

 

Le venne da sorridere, la commozione di nuovo ai massimi livelli, perché… perché lo sentiva quanto lui desiderasse quel matrimonio, con tutte le sue forze, tanto quanto lei. E pure a lei… l’idea di essere ufficialmente la moglie di Calogiuri, anche se da un lato le faceva strano, dall’altro… ne sarebbe stata orgogliosa, orgogliosissima ed il solo pensiero le scatenava uno sciame nello stomaco.

 

“Va bene, Calogiù. Allora… se vuoi posso provare a riorganizzare quello che avevo già in mente, ma… non so se ce la facciamo per tempo.”

 

“Te l’ho detto, a me basta anche una cosa semplice, tanto non avremo molti invitati in ogni caso.”

 

Sapeva che lo diceva per rassicurarla, ma quella fu un’altra fitta di senso di colpa: Calogiuri era uno che piaceva a tutti o quasi, che si faceva volere bene. Ma, anche per via del rapporto con lei, aveva tagliato tanti ponti e… e, soprattutto nel caso della sua famiglia, sicuramente era un dolore che rimaneva, anche se non lo dava a vedere.

 

“Vedremo, maresciallo, vedremo. Io comincio ma non ti prometto niente. Se no… estate prossima?”


“Ma perché ti vuoi sposare proprio in estate?”

 

“Ma vuoi mettere la soddisfazione di ripagare con la stessa moneta tutti quelli che negli anni mi hanno tormentata con cerimonie con fuori quaranta gradi all’ombra?” ironizzò, per non scoprire troppo le carte, e lui scoppiò a ridere e le regalò uno dei suoi, “sei tremenda!” ma poi aggiunse, più serio, “allora, perché?”

 

“Diciamo… perché vero che sposa bagnata sposa fortunata, ma per quello che ho in mente vorrei il sole. E poi… ci sono anche più ferie da usufruire e meno lavoro, di solito. Autunno e primavera c’è il boom degli omicidi… ed in inverno non ho intenzione di diventare un surgelato.”

 

Un’altra risata e poi Calogiuri le piantò un bacio sulle labbra con un, “ti amo!” che la fece squagliare definitivamente, “lo sai… mi era mancato tutto questo, tantissimo!”

 

“Le mie battute pungenti? Non mi sembra di averle lesinate ultimamente, ma posso sempre rimediare!”

 

“No, cioè, su quelle sei sempre una garanzia, dottoressa. Intendevo… progettare il nostro futuro, insieme.”

 

“Anche a me…” le uscì, che pareva più un gracidio che la sua voce, talmente le si stava frantumando in mille pezzi, “anche se ci capitano sempre imprevisti e casini che mandano all’aria tutti i programmi.”

 

“Ma alla fine li abbiamo sempre superati tutti. E, dopo questi mesi. penso che possiamo superare qualsiasi cosa.”


La voce le mancò del tutto, quindi fece l’unica cosa che poteva fare: si rifugiò ancora di più nel suo petto e cominciò a riempirlo di baci e di qualche lacrima, proprio sopra al cuore.

 

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“Buongiorno…”

 

“Mmm, buongiorno… ma allora non ti ho distrutto così tanto. Mi ci dovrò impegnare di più la prossima volta!” ironizzò, trovandosi davanti Calogiuri con un vassoio in mano pieno di ogni ben di dio, “che ore sono?”

 

“Mezzogiorno,” rispose, ponendole il vassoio sulle ginocchia e l’occhio le cadde all’anello sulla mano sinistra di lui ed evidentemente fu lo stesso per Calogiuri perché, quando alzò gli occhi, lo trovò con un sorriso dolcissimo, mentre ammise, “continuo a guardarlo da quando mi sono svegliato, perché a volte ancora non ci credo.”

 

“Che ho speso un mezzo capitale per un anello? Effettivamente tu infici la mia capacità di intendere e di volere, Calogiù, da sempre,” sdrammatizzò nuovamente, anche se stava per commuoversi un’altra volta.


Ma, proprio in quel momento, la commozione evaporò e per poco non rovesciò il cappuccino, perché squillò il suo cellulare.

 

Per carità, non era certo mattina presto, per chi non aveva fatto le ore piccole come loro, ma era comunque strano ricevere chiamate improvvise, se non per qualche notizia su indagini o qualche casino.

 

Mancini

 

Quello era il nome sul display. Lo mostrò a Calogiuri e mise il vivavoce.


“Dottore, mi dica, ci sono novità?”

 

“Sì, dottoressa, in realtà sì. Potrebbe, anzi, potreste venire in procura al più presto? Con abbigliamento formale, possibilmente, cioè… nel suo caso il suo stile di abbigliamento formale.”

 

E che succedeva mo? - si guardò con Calogiuri, non sapendo se essere inquietata, perché pareva proprio una convocazione ufficiale.

 

“Ma giornalisti o peggio?”

 

“Non posso dirvi niente al momento. Raggiungetemi appena potete. A dopo.”

 

E così la chiamata si troncò bruscamente.

 

Scambiò un altro sguardo preoccupato con Calogiuri, che cercò di farle forza con un, “dai, facciamo colazione, anche se praticamente è pranzo, e andiamo a sentire cosa vuole Mancini.”

 

Ma ormai, nonostante avessero bruciato di tutto e pure di più, aveva pochissima fame.

 

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Si strinse più forte a Calogiuri, che frenò la moto giusto giusto di fronte all’ingresso laterale della procura, sollevò la visiera del casco integrale e mostrò il tesserino alla guardia, perché li facesse entrare.

 

Avevano per fortuna evitato i pochi giornalisti ancora in attesa fuori dall’ingresso principale.

 

Dopo aver espletato tutte le formalità del caso, si avviarono verso le scale e le salirono, ignorando le occhiate curiose di chi incontravano.

 

Lei con l’unico tubino nero in suo possesso ed una giacca pitonata, lui in giacca e pantaloni, anche se senza cravatta.

 

Più formale di così sarebbe stato assurdo e ridicolo.

 

Pregando che Mancini non avesse mentito e che non ci fosse in programma un’altra bella conferenza stampa, si avviò verso l’ufficio del procuratore capo, spalla a spalla con Calogiuri, scambiandosi ogni tanto qualche sguardo, come ai vecchi tempi.

 

Bussò e vennero accolti con un sorriso dalla segretaria, che alzò la cornetta e poi fece loro cenno di passare.

 

Proprio in quel momento, si aprì la porta e ne emerse Mancini, che li salutò con un formale, “dottoressa, maresciallo, entrate…” che non prometteva bene.

 

Lo superò e si trovò di fronte ad un altro uomo. Sui cinquanta o sessanta, capelli grigi ben curati, ed un’uniforme nera con una quantità tale di stellette, decorazioni e distintivi che le prese ancora di più un colpo, mentre il primo pensiero fu ammazza!

 

Udì, ancora prima di vederlo, Calogiuri fermarsi al suo fianco e mettersi sull’attenti, con un formalissimo “signor generale!”

 

“Maresciallo. Comodo, comodo,” rispose il generale, in un modo che, almeno in apparenza, non le parve minaccioso.

 

“Il generale Locci,” lo introdusse Mancini, dopo aver richiuso la porta alle loro spalle in un modo che la fece sentire in prigione, “la dottoressa-”


“Tataranni. Non ha certo bisogno di presentazioni, dottore,” lo interruppe il generale, con quel tono neutro che non si capiva se intendesse che fosse famosa o famigerata. O entrambe le cose.

 

“Come mai ci avete convocati con urgenza?” domandò, sapendo che Calogiuri era più legato dai gradi e dalle gerarchie, mentre lei era più libera e ne avrebbe approfittato, se fosse servito, per rimettere al suo posto pure il generale.

 

“Sono stato incaricato dell’inchiesta interna sul maresciallo.”

 

Merda!

 

Ma come potevano? Come potevano perseguitare ancora Calogiuri?

 

Lo sapeva che i carabinieri avevano le loro regole e le loro procedure, spesso più severe delle leggi civili e penali, ma-

 

“Sono pronto a rispondere a tutte le domande, signor generale,” rispose Calogiuri, deciso, impettito, in un modo che fece espandere pure a lei il petto, ma di orgoglio, “non ho nulla da nascondere.”

 

“Ma infatti la posizione del maresciallo già è stata chiarita, non risulta più indagato e non capisco perché l’Arma ritenga ancora necessario-” provò a intervenire comunque, perché le battaglie con Calogiuri le avrebbero sempre combattute insieme e perché, anche se si fidava di lui, sapeva bene che certi procedimenti era meglio evitarli, potendo, vista la discrezionalità di giudizio che poteva portare rogne, anche quando si era innocenti.

 

“Imma non serve e-” si inserì Calogiuri, orgoglioso e testardo come sempre, come lei, ma stavolta fu una mano alzata di Locci a bloccare ogni replica.

 

“Maresciallo, dottoressa. Se mi permettete di terminare il discorso…”

 

Si sentì per un attimo come una scolaretta in punizione: il generale aveva una presenza imponente, in tutti i sensi.


“Stavo per spiegare che non c’è bisogno di rispondere ad alcuna domanda. La burocrazia, come purtroppo spesso accade in Italia, è stata assai più lenta degli sviluppi della giustizia e, quando ho ricevuto l’incarico ufficiale, qualche giorno fa, era già chiaro che ormai la mia visita qui fosse una mera formalità.”

 

E allora perché è venuto a farci prendere un colpo? - si chiese, anche se non poteva certo ripeterlo ad alta voce.

 

“Vi chiederete quindi il motivo della mia presenza qui,” aggiunse il generale, leggendole nel pensiero, “ma, oltre ad essere una formalità che andava in ogni caso espletata, ho avuto modo in questi giorni di parlare con il dottor Mancini, maresciallo, che ha a lungo elogiato le sue doti morali, umane ed etiche, oltre alla sua grande abilità nelle indagini e la sua competenza in servizio. Giudizio confermato anche da altri suoi superiori e colleghi, presenti e passati. E quindi, tenuto in conto quanto riferitomi, nonché il fatto che lei ha superato il concorso da ufficiali arrivando primo in graduatoria nazionale, le comunico ufficialmente che è stato deciso dall’Arma di darle la possibilità di accedere al corso da ufficiali, nonostante sia già iniziato. Ovviamente ci si aspetta da lei che recuperi tutti gli argomenti persi fino ad ora e le attività pratiche, oltre a superare l’esame finale, come tutti i suoi aspiranti colleghi. Di conseguenza, se accetta, la attendono mesi di duro studio e lavoro. Se se la sente però, il posto è suo.”

 

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Non ci poteva credere: stava sicuramente sognando.

 

Prima l’anello e poi… e poi….


Era come se tutti i sogni distrutti si stessero rimettendo insieme, pezzo dopo pezzo, in meno di ventiquattro ore.

 

Era come se il destino beffardo, dopo aver riempito di mazzate sia lui che Imma negli ultimi mesi, stesse rimettendo in qualche modo le cose a posto.


Ma no, non c’entrava il destino: c’entrava il lavoro che avevano fatto tutti, tutti insieme, Imma per prima.

 

La guardò e… e vide anche lei passare dall’incredulità ad un sorriso commosso che gli confermava che sì, era tutto vero e non un’allucinazione.

 

Ma poi la sua espressione si fece severa, quando il generale ripetè, “allora, maresciallo, se la sente?” e capì che gli stava praticamente dicendo prova a rifiutare e ti ammazzo!

 

Dovette trattenersi dal ridere perché… era anche per quello che la amava così tanto.

 

E sapeva benissimo che pure il corso, come il concorso, praticamente lo avrebbero fatto tutti e due, conoscendola, e tutto il discorso sulla carriera del giorno prima… lei era veramente disposta a fare di tutto perché lui si realizzasse.

 

E quella, quella era la prima cosa che gli aveva, poco a poco, fatto perdere la testa per lei. Il modo in cui credeva in lui, incondizionatamente, il modo in cui lo sosteneva sempre. Come non aveva mai fatto nessuno.

 

Ma ora… ora erano in due a sostenersi a vicenda e si ripromise che sarebbe stato sempre così.

 

“Certo che me la sento, signor generale. E vi ringrazio moltissimo per quest’opportunità,” rispose quindi, deciso, guardando il generale negli occhi, faccia a faccia.

 

“Non mi deve ringraziare, maresciallo. Stiamo solamente riparando ad un ingiusto torto che le è stato fatto. Dopo tutto quello che mi ha riferito il dottor Mancini, sono sicuro che sarà un ottimo ufficiale.”

 

Guardò Mancini, incredulo. E, anche se provava sempre un po’ di fastidio nell’incrociare la faccia del beccamorto, era assai meno di una volta e… e doveva riconoscere che, alla fine, se era fuori dai guai era anche per merito suo. Pure se ci era voluto un bel po’ di convincimento di Imma e di Irene ma… Mancini aveva rischiato grosso anche lui, per scoprire la verità. Non tutti lo avrebbero fatto nella sua posizione.

 

“Come ha detto il generale, ho semplicemente voluto porre rimedio ad un grave errore, commesso anche da me. E se c’è una persona che si merita di fare carriera nell’Arma è proprio lei, maresciallo, perché si è dimostrato assolutamente incorruttibile, oltre che dotato di capacità e potenzialità che vanno ben oltre il suo grado attuale. Le auguro di avere la carriera che si merita, maresciallo.”

 

E, se fino a poco tempo prima quelle parole sarebbero state sarcastiche, invece in quel momento erano sincere e lo sentiva benissimo.

 

Mancini gli porse la mano e lui ricambiò la stretta, lanciando uno sguardo ad Imma che sorrideva ancora, commossa.

 

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Si sentiva così felice che le sembrava quasi di galleggiare nell’aria.

 

Le ultime ventiquattro ore erano indubbiamente state le più belle della sua vita e… ed era letteralmente al settimo cielo per Calogiuri, che si meritava tutto quello e pure di più.

 

Lo osservava parlare con il generale, rispettoso sì, come si doveva, ma anche con una sicurezza ed una decisione di cui fino anche solo a pochi mesi prima non sarebbe forse stato capace.

 

Aveva toccato il fondo ma ne era uscito a testa altissima, più forte, più consapevole, più maturo.

 

Era così fortunata ad averlo nella sua vita, fortunatissima. Altro che vincere il superenalotto!

 

Un movimento alla sua destra la fece per un attimo spostare lo sguardo verso Mancini, che si era anche lui allontanato dal generale.

 

Una mossa che non era scontata, per niente, e che apprezzava. Come il suo essersi speso a favore di Calogiuri anche se… sicuramente c’era di mezzo un bel po’ di senso di colpa, in parte giustificato.

 

Mancini si avvicinò ancora di più, fino ad essere quasi spalla a spalla, causandole un momento di imbarazzo, ma poi le sussurrò, “mi dispiace per… per tutti i problemi che vi ho provocato per via dei miei… pregiudizi ingiustificati nei confronti del maresciallo. Spero che questo, anche se in minima parte, possa riparare ai danni che ho fatto.”

 

In alcuni momenti era arrivata quasi a detestarlo Mancini, per i casini che le aveva causato con Calogiuri, anche se era stata primariamente colpa del suo maledetto orgoglio.

 

Ma, alla fine, era stato disposto ad ammettere i suoi errori, cosa rarissima per uno nella sua posizione.

 

“Diciamo che… che forse anche io avrei dovuto essere più diretta con lei, dottore, fin dall’inizio, e… ci saremmo evitati un bel po’ di problemi e di imbarazzi.”

 

Mancini arrossì leggermente, probabilmente ripensando a qualcuno dei due di picche che gli aveva rifilato, ma poi abbassò lo sguardo e lo fissò chiaramente sulla sua mano sinistra.

 

“Sì, ho notato gli anelli,” mormorò, rivolgendo uno sguardo anche a Calogiuri e poi tornando a guardare lei, dritto in faccia.

 

Fu il suo turno di arrossire, ma lui bloccò le sue ansie con un, “non si preoccupi. Mi sono reso conto finalmente che questa… ossessione nei suoi confronti mi è passata. Anche se non è stato facile, con una donna come lei.”

 

“Che non sia stato facile l’ho notato,” le venne da ironizzare, perché era nella sua natura, e Mancini diventò bordeaux, “ma… sono felice che le sia passata, dottore. E sono certa che troverà di meglio. Calogiuri è un santo a starmi accanto.”

 

Mancini fece un’espressione strana, che non capì, come se fosse perso nei suoi pensieri.

 

Ma almeno il discorso cadde e quindi fu meglio così.

 

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Si congedò con un ultimo cenno del capo dal generale e chiuse la porta dell’ufficio.

 

Silenzio, finalmente!

 

Si affrettò verso la scrivania e si lasciò cadere sulla sedia.

 

Non sapeva perché ma… si sentiva esausto.

 

O forse, in verità, lo sapeva benissimo.

 

Il problema era che… quando Imma lo aveva rassicurato ironicamente che avrebbe trovato di meglio, un viso familiare gli si era immediatamente parato di fronte agli occhi.

 

Con due occhi azzurri luminosi come il sorriso ed i capelli color del grano.

 

Mariani.

 

A lei aveva pensato, a tradimento.

 

E non andava bene, non andava bene per niente: Mariani era giovane, bellissima e c’era troppo sbilanciamento di potere tra loro.

 

E poi… e poi aveva già avuto abbastanza casini e non poteva permettersi di nuovo perdere la sua professionalità per un qualcosa che non avrebbe portato a nulla.

 

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“Non fosse che sono ancora stremato, ci starebbe un altro festeggiamento, dottoressa.”

 

Erano appena rientrati a casa e pure lei sentiva protestare muscoli che non aveva mai pensato di possedere, dopo la maratona della notte prima.


“E se festeggiassimo a modo nostro? Pinsa, birra e un bel film?”

 

“Mi sembra un’ottima idea!”

 

Un bacio suggellò l’accordo.

 

Andarono in camera da letto per cambiarsi, seguiti da Ottavia che aveva un’espressione tipo - ma non vorrete ricominciare un’altra volta? - alla quale rispose prendendola in braccio e depositandola poi ai piedi del letto, per cambiarsi.

 

Calogiuri fece lo stesso ed il modo in cui la guardò quando si levò il tubino la fece sbottare, “se vuoi riposare i muscoli, maresciallo, e mantenere la serata adatta ai minori di diciott’anni, non mi guardare così, però, e che cavolo!”

 

“Agli ordini, dottoressa!” sospirò lui, sorridendole e scuotendo il capo.

 

“A proposito. A questo punto tutti i dubbi sono risolti: ce ne stiamo qua a Roma finché non finisce il corso - preparati che ti farò una capa tanta per lo studio! - e poi decidiamo in che procura andare anche in base alle posizioni che ti si apriranno quando sarai capitano.”

 

“Però, pure se devo studiare, il corso finisce per l’estate ed il tempo per il matrimonio ce l’ho lo stesso.”

 

Eccallà!

 

La stava facendo squagliare un’altra volta, con quegli occhioni di quando voleva qualcosa.

 

“Vedremo, Calogiuri, vedremo!”

 

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“Avanti!”

 

“Dottore, ha incarichi per me?”

 

La voce, ancor prima della visione davanti a lui, gli fecero torcere lo stomaco.

 

D’istinto avrebbe detto sì, subito, ma si morse la lingua e, con il tono più professionale che riuscì a produrre, rispose, “no, Mariani, e sono molto impegnato al momento. Perché non va a parlare con la dottoressa Ferrari? Sono sicuro che avrà molto lavoro per lei.”

 

Il sorriso di Mariani scomparve e lo vide che era confusa, forse perfino un poco ferita, ma meglio quello dell’alternativa.

 

“Va bene. Allora mi congedo, dottore,” proclamò, decisa e sì, per come la conosceva, un po’ delusa, prima di sparire oltre la porta.

 

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“Problemi?”

 

Stavano guardando un film d’animazione basato a Genova - che forse, se toccava loro il nord, poteva essere un’idea mica male per un trasferimento, che ci stava il mare almeno, seppure tra il cemento, e poi nessuno avrebbe potuto prenderla in giro per la sua oculatezza - quando a Calogiuri era arrivato un messaggio ed aveva fatto prima un’espressione prima preoccupata e mo sconvolta.

 

Si trovò col cellulare di lui in mano e altro che mancarle l’aria!

 

Potreste venire a casa mia domani pomeriggio? Evitando i giornalisti, ovviamente. Grazie.

 

Irene

 

Si guardò con Calogiuri. In teoria con il maxiprocesso le cose erano risolte e… per chiedere di andare a casa loro….

 

Ma non voleva farsi illusioni e forse neanche lui, tanto che si limitarono ad annuire insieme e, dopo che Calogiuri le ebbe scritto che andava bene, continuarono a guardare il film nel più totale silenzio.

 

Ma stringendosi ancora più forte.

 

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“Ben arrivati. Avete avuto problemi?”


“No, no, non ci ha seguiti nessuno, tranquilla,” la rassicurò Calogiuri, chiudendo la porta dietro di loro.

 

Lasciò la giacca a Irene e Calogiuri fece lo stesso, mentre si guardava intorno: tutto quel bianco la metteva sempre un po’ in soggezione, oltre a tutti i convenevoli.

 

Ma, stavolta, non fecero nemmeno in tempo ad accomodarsi sul divano che un pianto poderoso distrasse Irene dal manuale della perfetta padrona di casa. Imma notò nuovamente le pesanti occhiaie che il trucco cancellava solo in minima parte.

 

Del resto, con delle urla così, non poteva essere altrimenti.

 

“Accomodatevi, torno subito!” proclamò, prima di sparire in quella che presumibilmente era la camera da letto.

 

“Calogiuri? Imma?”

 

Si voltò nuovamente verso il corridoio dal quale era spuntata la faccina di Bianca, che sorrise loro e si avvicinò al divano.

 

Non sapeva mai bene come fare con Bianca, vista la sua timidezza e tutti i problemi che aveva avuto, ma la bimba le diede un abbraccio, anche se rapido, e poi uno più lungo a Calogiuri - ebbrava! - prima di dire, in un modo che non sapeva bene perché ma le provocò una grande tristezza, “sono felice di rivedervi. Mi siete mancati.”

 

“Anche tu a noi. Ma abbiamo avuto un po’ di problemi. Come va con… insomma ora che c’è anche Francesco?”

 

Bianca esitò per un attimo, poi mormorò un, “voglio bene a Francesco…” che però aveva di nuovo un che di malinconico, che non capì.

 

“Ma…?” le chiese quindi, anche se forse non era il caso ma… era deformazione professionale la sua.

 

Bianca aprì la bocca come per rispondere, ma in quel momento il pianto proruppe in modo ancora più forte ed il “Bianca?” di Irene li raggiunse, insieme all’urlo disperato del bimbo.

 

Irene era tornata in salotto e rimasero tutti con il fiato sospeso, alternando lo sguardo tra lei e la faccina tutta rossa di Francesco, sotto ai capelli neri.

 

“Hai visto che c’è Imma?” chiese Irene al bimbo, che aprì quegli occhioni meravigliosi, che guardarono prima Irene e poi verso di loro.

 

E, di nuovo come per un miracolo, Francesco smise di piangere e cominciò a sporgersi per cercare di raggiungerli.

 

“Vuoi prenderlo in braccio?” le chiese Irene, avvicinandosi, mentre Francesco continuava a puntare dritto verso di lei, in un modo che la fece sciogliere.

 

Annuì, perché non si fidava della sua voce, ancor meno dopo aver incrociato gli occhi commossi di Calogiuri, che sembrava aver appena tagliato cipolle.

 

Nel giro di pochi secondi, si trovò con un peso caldo in grembo. Francesco che, mezzo seduto sulle sue gambe, mezzo ancora retto da Irene, la guardava fisso fisso, e poi sorrideva, emettendo un urletto di felicità, e poi….

 

E poi manine attaccate al maglione e al collo, i piedini che puntavano sulle sue gambe, per tirarsi in piedi e tutto il calore le finì sul petto, trovandosi in quello che poteva solo essere definito come un abbraccio, nonostante le braccina di Francesco non riuscissero nemmeno a cingerle il collo.

 

Ma le scappò lo stesso un mezzo singhiozzo, nel sentire i capelli solleticarle il mento, seguiti poi da quello che sembrava una specie di bacino umido sul collo. Lo strinse a sé per sorreggerlo meglio, istintivamente, e Francesco fece un altro gridolino felice e poi si appoggiò del tutto a lei, rimanendo praticamente immobile e, soprattutto, silenziosissimo.

 

Il cuore le stava esplodendo, sotto la testolina di lui, sulla quale posò un paio di baci. Due occhi azzurri furono il colpo di grazia, perché Calogiuri pareva in adorazione, letteralmente, manco avesse visto non solo la Madonna della Bruna, ma tutta la natività proprio e la, anzi li guardava in un modo che era un attentato alle coronarie e che la ridusse in poltiglia.

 

Tanto che si lasciò andare verso di lui, venendo a sua volta cinta in un abbraccio, di lato, Francesco che alzò un attimo la faccina per guardare Calogiuri, studiandolo quasi come a dire e mo chi è questo?!

 

Trattennero il fiato, sia lei che Calogiuri, lo sentiva benissimo, temendo altre urla e pianti. Ma Francesco, dopo averlo squadrato ancora un po’ in un modo che pareva un non ci provare a staccarmi da lei o urlo! si riappoggiò al suo seno e chiuse gli occhi. Dopo poco, il respiro si fece lento e lieve e sì, si era addormentato, abbracciato tra di loro.

 

Scambiò un’altra occhiata con Calogiuri, una lacrima che gli bagnava la guancia destra e, senza pensarci, ignorando il luogo e i presenti, gli diede un rapido bacio sulle labbra, ricambiato da uno sulla bocca e poi uno sulla fronte.

 

“Ehm… ehm…”

 

Irene che si schiariva la voce la riportò alla realtà, trovandola seduta accanto a Bianca, entrambe un po’ imbarazzate, Bianca confusa, Irene che aveva un’espressione indefinibile tra il sollievo e un po’ di malinconia, forse.

 

“Direi che… sia chiaro che Francesco vuole stare con voi. E Mancini e gli assistenti sociali hanno già dato l’autorizzazione.”

 

“Come?” domandò Bianca, passando dal confuso al triste, “ma… Francesco non sta con noi?”

 

Nonostante la commozione, nonostante istintivamente non avrebbe mai voluto lasciar andare quel piccoletto che l’aveva presa per un cuscino, con quel calore e quel profumo che erano così simili e così diversi da quelli di Valentina, tanti anni prima, provò una fitta di senso di colpa verso Bianca.

 

Dopo tutte quelle settimane passate con Francesco, era chiaro che si fosse affezionata e mo….

 

“Bianca, lo so che vuoi bene a Francesco, e gliene voglio pure io. Ma… lo vedi com’è sereno con Imma, no? Ed è con lei che voleva stare da… da quando lo abbiamo trovato. Non voleva staccarsi da lei. Ma non era possibile, mentre adesso finalmente Imma e Calogiuri possono prenderlo con loro. Con me piange sempre, lo sai, e… non vuoi che sia felice?”

 

Bianca spalancò gli occhi, poi si morse il labbro e chiese, “ma quindi… lui con Imma è come… è come me con te quando… quando mi hai trovata?”

 

Un paio di lacrime scesero sul viso di Irene mentre annuì e non poteva certo biasimarla, perché Bianca avrebbe fatto commuovere pure un pezzo di ghiaccio.

 

“Allora… allora va bene. Ma… posso andarlo a trovare?”

 

“Penso proprio di sì… se… se Imma e Calogiuri sono d’accordo. Intendo sia sull’andarli a trovare che… sul prendersi cura di Francesco.”

 

“Se te la senti, dottoressa, per me va bene,” le sussurrò Calogiuri in un orecchio, in un modo che indicava che già sapeva quale fosse la sua risposta.

 

“Eh certo! A patto che un po’ di notti in bianco te le fai pure tu, maresciallo!” esclamò, facendolo sorridere, anche tra le lacrime, per poi aggiungere, più seriamente, “basta che non ti distragga dal corso. Ma, per fortuna a questo punto, per qualche mese posso occuparmene io di giorno e tu mi puoi dare una mano quando torni la sera. E poi vedremo che succederà.”

 

“Non solo non mi distrarrà, ma anzi, è una motivazione per studiare ancora di più. E poi… e poi lo sai che non ti lascerei mai fare tutto da sola, no? Sempre che questo piccoletto mi permetta di staccarlo da te, che mi pare più geloso persino di me.”

 

Le venne da ridere, perché era vero e si trattenne a fatica dal baciarlo di nuovo. Si distrasse, rivolgendo gli occhi verso l’altro divano.

 

“Bianca, quando vuoi: se te lo vuoi sorbire un po’ pure tu, sei solo che la benvenuta, anzi,” ironizzò, facendola sorridere, mentre Irene continuava a guardarla in un modo un po’ strano, non spiacevole ma strano.

 

Ma poi Francesco si mosse leggermente sul suo petto, cambiando posizione della testa, probabilmente per stare più comodo, ed ogni pensiero che non fosse legato a lui, a loro, a se sarebbe stata in grado di occuparsi degnamente di quel piccolo miracolo che le era letteralmente piovuto addosso - sull’istinto paterno di Calogiuri non aveva il minimo dubbio, ma sul suo di istinto materno sapeva che c’era parecchio da opinare, invece! - svanì completamente, come una bolla di sapone.

 

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“Eccoci qua… sei sicura che non pesa troppo?”

 

“No, no! E poi, meglio chiudere la porta prima di provare a mollartelo, non da farci odiare ancora di più da tutto il condominio fin dal principio. Che questo c’ha dei polmoni da cantante lirico.”

 

Calogiuri rise e lei pregò che Francesco rimanesse sempre buono buono, sonnacchioso e silenzioso come era stato sul taxi di ritorno che le era toccato prendere, perché non poteva certo portarlo in moto, mentre Calogiuri li scortava.

 

E mo si trovavano davanti alla porta d’ingresso di casa, circondati da tutto il necessario che le aveva lasciato Irene - dal latte artificiale, agli omogeneizzati, alle medicine, ai biberon; dal passeggino, alle fasce e marsupi, all’ovetto e ai cuscini, in attesa di comprargli un lettuccio, anche se, a detta di Irene, levarlo dal lettone sarebbe stato quasi impossibile; fino ad una scorta abbondante di pannolini e tutto il necessario per cambiarlo, tra vestitini, pomate, fasciatoio portatile.

 

Calogiuri a portarsi su tutta quella roba si era fatto un allenamento di braccia che altro che lei a reggere Francesco.

 

Per certi versi le sembrava di essere tornata a più di vent’anni prima, anche se all’epoca tante di quelle invenzioni moderne per farti spendere più soldi non c’erano e i bambini nascevano e crescevano lo stesso, senza tante storie.

 

Oddio, se potevano servire a farlo venire su meno incazzoso di Valentina… anche se il caratterino prometteva di poterla perfino superare e-

 

Valentina!

 

Avrebbe dovuto avvertirla, subito, prima che succedesse un altro casino, che già stava ancora in silenzio stampa con Pietro.

 

“Che c’è?” le domandò Calogiuri, percettivo come sempre, e lei gli sussurrò un, “Valentina, devo dirglielo. Ma prima sistemiamo questa montagna di roba. Dai, apri la porta, maresciallo!”

 

“Agli ordini, dottoressa!”

 

Non appena Calogiuri ebbe girato la chiave nella toppa, si affrettò ad entrare, seguita da lui con in braccio un po’ di diavolerie voluminose.

 

Fece giusto in tempo ad arrivare in fondo al corridoio e a lasciare un secondo il bimbo a Calogiuri, per levarsi il cappotto, che Francesco aprì gli occhi, che si riempirono di lacrime, e cominciò i singhiozzi che precedevano il pianto, per poi scoppiare proprio in una sinfonia che te la raccomando!

 

“Ehi… ehi… guarda che Imma è qua, mica sparisce,” sentì Calogiuri sussurrargli, mentre lo faceva saltellare e lo voltava per far sì che Francesco la guardasse, “la vedi che è qua? E non va da nessuna parte, se no sono il primo che si unisce alla protesta, promesso.”

 

Si sentì afferrare la mano da quella libera di Calogiuri, che riusciva a bilanciare Francesco su un braccio solo, e poi appoggiare le dita sulla schiena del bimbo, insieme a quelle di lui.

 

Francesco smise di piangere e guardò tra tutti e due, confuso ma con un sorriso che gli spuntava sulle labbra.

 

“Tranquillo, Francé, da qua non ci muoviamo senza di te, almeno per un po’,” concordò ed un tocco umido sulla guancia, un bacetto di Francesco, le provocò un nodo in gola.

 

“Perché non dai un bacetto anche a Calogiuri?” chiese facendogli segno verso di lui, che ancora lo teneva in braccio, ma Francesco si corrucciò in un’espressione imbronciata, si voltò e ne diede un altro a lei.

 

“Preferisce baciare te che me, dottoressa, e non posso dargli torto o dire che non lo capisco,” ironizzò Calogiuri, sempre con quel tono dolce e meraviglioso, per nulla offeso o geloso.

 

Buono, come era sempre, ma con i bimbi era qualcosa di eccezionale. E sperava che continuasse ad esserlo, perché lì altro che la pazienza di Giobbe sarebbe servita e-

 

Un tocco alla caviglia per poco non le fece fare un salto e sentì un miagolio e un borbottio fortissimo vicini ai piedi.

 

Ottavia!

 

Si guardò con Calogiuri, preoccupata: non sapeva se sarebbe stata peggio lei o Valentina.

 

Anche perché non c’era stato tempo di prepararla, sempre se fosse mai stato possibile prepararla.


“Ottà…” la chiamò quindi, dirigendo lo sguardo al pavimento per incrociare i suoi occhi, stretti a fessura.

 

Aveva il pelo ritto sulla schiena e soffiava.

 

“Ottà… tranquilla… non succede niente. Questo è Francesco e starà con noi per… per un po’,” provò a rassicurarla.

 

“Magari sfrega ancora un po’ la mano sulla schiena di Francesco e fagliela annusare, così sente l’odore. E poi tu la prendi in braccio, io sto con Francesco e… proviamo a farli avvicinare sul divano.”

 

“Agli ordini, maresciallo!” rispose, sarcastica, dando più che volentieri qualche altra carezza al piccoletto.

 

E poi si abbassò, piano piano, allungando la mano verso Ottavia che, un pochino più tranquilla e non più in posizione da assalto, la annusò e… fece un’espressione schifata.


“E su, Ottà, che pensi di profumare di rose tu? Fammi capire!” esclamò ed Ottavia fece un miagolio offeso e le diede il sedere.

 

“E dai, Ottà, è stata una cosa improvvisa, non ti abbiamo potuto avvisare ma… come non abbiamo lasciato te alle oche, non potevamo lasciare lui alla gattamorta, pure se a te piace. O a Mancini.”

 

Si sentiva sempre un po’ scema a parlare con una micia ma era convinta che, in fondo in fondo, Ottavia in qualche modo la capisse.

 

E, infatti, al solo nominare il procuratore capo si voltò e soffiò, indignata. Poi guardò in alto, verso Francesco che per fortuna non aveva ripreso a strillare ma le osservava curioso.

 

“Allora, che dici se salutiamo Francesco?” le chiese ed Ottavia si produsse in un’espressione che pareva un se per salutare intendi che gli diciamo addio, va benissimo! che le fece, da un lato, venire da ridere e, dall’altro, capire che sarebbe stato un lungo, lungo, lungo lavoro.

 

Ma, alla fine, Ottavia si lasciò prendere in braccio, anche divincolandosi un poco, e sollevare al livello di Francesco, mentre lei e Calogiuri si avviavano verso il divano e ci si sedevano, per evitare il più possibile incidenti.

 

Ottavia squadrò il piccolo e due occhioni scurissimi la studiarono di rimando. E poi Francesco battè le mani, si esibì in un mezzo gorgheggio che le ricordò Noemi e provò, straordinariamente, ad allungare una manina verso Ottavia.

 

“Piano, piano,” lo istruì Calogiuri, intercettando la manina con la sua, avvicinandosi a Ottavia con una delicatezza a dir poco commovente, fino a far toccare dolcemente le ditina di Francesco con la fronte di Ottavia, per poi ritrarle subito.

 

Ottavia piegò il muso di lato e si avvicinò di più. Un’annusata a Francesco, alla quale seguì un’altra espressione mezza disgustata, ma alla fine gli diede una testata leggera sul petto e poi una leggera zampata sulla fronte, come a tastare il terreno, oltre a ricambiare il gesto di lui.

 

Francesco spalancò gli occhi un attimo e fece una faccia che temette scoppiasse in un altro pianto dei suoi.

 

Invece, lanciò un urletto sì, ma di felicità che, se per lei e Calogiuri era commovente, per la povera Ottavia e le sue orecchie sensibilissime dovette essere un trauma. La micia balzò fino a finirle sulle spalle e poi se la diede letteralmente a gambe, sparendo dentro al bagno, il suo regno.

 

Francesco la guardò, confuso, e poi riprese a singhiozzare e scoppiò di nuovo a piangere.

 

Mannaggia a te, Ottà! - sospirò anche se non poteva darle del tutto torto, anzi, mentre se lo riprendeva dalle braccia di Calogiuri, facendolo saltellare ancora un po’ e cercando di cullarlo per tranquillizzarlo il più possibile.

 

“Cerco di ritirare tutto, dottoressa, che magari coi suoi giochi è più facile distrarlo. E poi dobbiamo pure dargli la cena, secondo gli orari che ci ha lasciato Irene,” si offrì Calogiuri, solertissimo, “non ti preoccupare, preparo tutto io.”

 

“Dopo cena, Calogiù, c’è da chiamare Valentina, lo sai. Le chiedo di venirci a trovare domani.”

 

“Se vuoi le mando un messaggio. Che mi sa che… con questo sottofondo, se la chiami…”

 

E c’aveva ragione c’aveva!

 

Francesco, con i suoi polmoni, era uno spoiler vivente, come li chiamava sua figlia.

 

“Va bene, ma mandaglielo dal mio cellulare, che se no pensa subito a chissà che tragedia - anche se forse per lei lo sarà. Anzi, te lo detto, che tu sei troppo educato e capisce subito che non è farina del mio sacco, se glielo scrivi tu!”

 

Calogiuri rise e le prese il telefono dalla tasca, in un modo che le fece venire un mezzo brivido.

 

Ma con Francesco i bollenti spiriti avrebbero dovuto aspettare, si sperava non per troppo.

 

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“E dai, Francé, mangia, è buono, vedi?”

 

Prese il cucchiaino morbido morbido e finse di mangiare lei stessa un poco di quella sbobba a base di crema di riso, carote ed omogeneizzato di manzo, sforzando un mugugno fintamente soddisfatto che le ricordò gli ultimi mesi con Pietro, quando le era toccato fingere in certe circostanze - malamente perlopiù.

 

E come attrice non doveva essere migliorata di molto, almeno nell’esprimere entusiasmo, perché Francesco non le parve molto convinto.

 

“Tu vorresti una bella bistecca, eh, Francé? Ma è presto, prima devi farti venire tutti i denti e poi ci pensiamo.”

 

“Ma anche questo è buonissimo, vedi?” si inserì Calogiuri, prendendo anche lui il cucchiaino e fingendo assai meglio di lei, tanto che lo guardò, un po’ preoccupata da questa abilità interpretativa.

 

“Anni a dovermi mostrare entusiasta anche quando mamma ci dava le rape fritte, cercando di spacciarcele per patatine,” spiegò Calogiuri, che evidentemente aveva colto tutto.

 

“Beh… sulle patatine… ti sei rifatto dopo, Calogiù. Ma mo varietà fissa, materana, autoctona e DOP da qua all’eternità!”

 

Calogiuri rise, imbarazzato, ed accadde una cosa straordinaria: Francesco lo imitò, ridendo pure lui.

 

Pensò che fosse il momento perfetto per riprovarci, approfittando della distrazione, e gli mise il cucchiaio in bocca, inclinandolo leggermente per farlo mangiare.

 

SPLAT!

 

“Ahia!” esclamò, l’occhio destro che le bruciava da morire.

 

Sollevò la mano, cercando di pulirlo dalla poltiglia disgustosa.

 

Francesco non solo aveva sputato, ma lo aveva fatto con una precisione da cecchino. Mo sembrava un poco dispiaciuto, ma c’aveva anche un mezzo sorrisetto che non prometteva niente di buono.

 

“Francé!” esclamò, afferrando il fazzoletto portole da Calogiuri per ripulirsi del tutto.

 

Inspirò profondamente, scuotendo il capo quando Calogiuri le chiese se potesse provarci lui: ormai era una questione di principio.

 

Riprese il cucchiaino e provò a fare l’aeroplanino, pur sentendosi scema, poi assecondò Calogiuri nel cominciare a fare facce e versi buffi.

 

“E dai che è buono…. gnam!” esclamò, pregando che non ci fossero più cimici in casa loro, perché se no la sua reputazione sarebbe stata distrutta per sempre, posandogli infine il cucchiaino sulle labbra.

 

Ma Francesco, piangendo, diede un colpo di mano al cucchiaino, e poi-

 

SPLAT!!

 

La cosa positiva fu che non si era trattato di uno sputo, almeno.

 

La cosa negativa era che Francesco aveva piantato direttamente due manate nella pappa, facendola schizzare ovunque, tanto che Calogiuri aveva faccia e capelli mezzi coperti di sbobba arancione.

 

Non poteva vedersi ma, a sensazione, anche per lei doveva essere lo stesso. Non solo, ma si erano sporcati pure i vestiti.

 

In tutto quello, Francesco rideva come un matto, mentre li guardava. Per giunta, riprovò a dare un’altra manata ma, fortunatamente, lo bloccò appena in tempo.


“Eh no, Francè, una volta mi freghi, due no!” esclamò, levandogli il piatto, prima che potesse prodursi in altri schizzi, “e comunque mo Irene mi sente, che voglio capire se facevi così anche con lei o se mangiavi.”

 

Francesco, vedendosi togliere il giocattolo, emise un paio di singhiozzi di protesta, ma poi, forse al sentirla così incazzosa, si azzittì e ricominciò a ridere - doveva stare proprio ridotta male!

 

Meooooow

 

Il colpo di grazia glielo diede Ottavia, che si era avvicinata quatta quatta e stava assaggiando la pappa dal pavimento.

 

Un paio di leccate e fece un rumore tipo quando aveva una palla di pelo da sputare, tirando fuori la lingua con un’espressione che rivaleggiava quella di lei quando la portavano in un ristorante stellato.

 

E poi, con un’occhiata del tipo te credo che gli fa schifo! si allontanò di nuovo, con la coda alzata.

 

“Eppure ho seguito tutte le istruzioni, dottoressa. Mi dispiace!” esclamò Calogiuri, mortificato.


“Dubito che sia una questione di esecuzione qua, Calogiù, che è tutta roba pronta, ma delle istruzioni stesse, anzi delle materie prime. Dobbiamo trovare qualcosa che gli faccia meno schifo. Ma intanto che gli diamo?”

 

“Un po’ di formaggio? Magari quello lo mangia e per le verdure ci pensiamo domani. Tanto dopo ha il latte.”

 

“Noemi ti ha insegnato per bene, vedo. Ebbravo Calogiù!” esclamò, cercando di ripulire il più grosso prima di avviarsi con lui ad analizzare il contenuto del frigo, in cerca di qualcosa di più commestibile.

 

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SCIAFF! SCIAFF!

 

“Qua ci vorrebbero gli occhialini da nuoto! Mannaggia a te! Ti piace proprio fare gli schizzi, eh?”

 

Per tutta risposta, Francesco scoppiò in una serie di risolini soddisfatti, prima di provare a dare un’altra manata all’acqua della vaschetta.

 

“Conviene che la prossima volta o io o te ci facciamo direttamente la doccia insieme a lui. Tanto il risultato finale non cambia: siamo lavati uguale. E almeno ci evitiamo l’allagamento.”

 

“Ci volevano i bagni giapponesi qua, Calogiù, che tutto il bagno è una doccia praticamente, a prova di laghi. Ma fammi capire, Francé, facevi così anche con Irene o lo fai solo con noi, per compensare il fatto che urli di meno?”

 

Francesco rise ancora, divertitissimo, anche quando Calogiuri lo sollevò dalla vasca e lo avvolse nel piccolo accappatoio.

 

“Magari alcune cose le faceva la tata e non Irene?”

 

“O magari Irene ha omesso i dettagli meno visibili per timore che non lo prendessimo con noi?” ribatté lei, meno propensa a pensare il meglio delle persone, anche se effettivamente aveva senso che Irene avesse cercato di delegare il più possibile alla tata o a Ranieri.

“E dai, dottoressa, è solo il primo giorno. Ce la faremo!”

 

“E lo dici a me? Manco hai visto niente ancora, maresciallo! Ma, se è come Valentina, per perdere le brutte abitudini gli ci vorrà giusto il tempo per acquisirne altre di peggiori. Vero, Francé?”

 

E lui rise di nuovo, in un modo che, nonostante tutto, le aprì il cuore.

 

Non lo aveva mai visto ridere così e quello, in fondo, considerata la situazione, era già un risultato, anche se probabilmente rideva di loro e non con loro.

 

“Se vuoi fare la doccia, dottoressa, una doccia vera, io intanto asciugo il campione di pallavolo qua, che c’ha una schiacciata micidiale, e se riesco lo porto a letto. Poi è il mio turno.”

 

“V- va bene, ma… ma se piange…”

 

“Se piange lo senti, dottoressa, e comunque piano piano si abituerà a non averti sempre in linea visiva. Magari puoi parlare, così sa che stai ancora qua.”

 

“Sì, facciamo prima a farmi una registrazione audio, Calogiù, per conservare la voce,” ironizzò, dando un’ultima carezza alla testolina bagnata di Francesco, prima di levarsi più che volentieri gli abiti insozzati e bagnati ed infilarsi sotto al getto caldo e ristoratore.

 

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“Eccola qua, lo vedi che non è sparita?”

 

Aveva udito qualche principio di pianto e quindi aveva fatto di corsa, pure se si era dovuta lavare i capelli.

 

Ma mo, turbante in testa ed accappatoio, si lasciò cadere sul letto dove già stava Calogiuri - in boxer mannaggia a lui! - insieme al piccoletto.


“Dai, vai a lavarti, maresciallo, ti aspetto qua!” esclamò, dopo essersi infilata rapidamente la camicia da notte ed aver levato l’accappatoio: se lui la torturava, pure lei poteva fare lo stesso.

 

Ammirò per un secondo Calogiuri allontanarsi - il disgraziato, gliel’avrebbe fatta pagare prima o dopo, che Francesco mica poteva piangere sempre! - e poi si distese accanto al bimbo, che la guardava con quegli occhioni che erano l’esatto opposto di quelli di Calogiuri, ma altrettanto teneri.

 

“Allora, hai intenzioni di lasciarci dormire o no?” gli chiese, accarezzandogli la pancia, e Francesco rise e poi gattonò ancora più vicino a lei, arrampicandosi sulla camicia da notte, fino a stendersi sulla sua di pancia.

 

“Vuoi proprio il contatto fisico, eh?” sospirò, anche se… il peso dolce che sentiva sul petto non era soltanto quello del piccolo.

 

Gli baciò di nuovo la testolina, chiedendosi quale tipo di droga potente la natura mettesse nell’odore dei bimbi piccoli, per renderli così irresistibili e rincretinire uomini e donne a prendersene cura, nonostante la perenne ed irriducibile rottura di scatole.

 

Ma tant’era, si era sciolta lo stesso.

 

Dopo un tempo indefinibile, passato a coccolare e cercare di far addormentare il piccolo schiacciatutto, sentì Calogiuri tornare. Sollevò gli occhi e… quello che lesse in quelle iridi azzurre era la cosa più incredibile, più potente che avesse mai provato. E con Calogiuri era tutto dire.

 

Altro che superenalotto! La fortuna di Bill Gates si era guadagnata a conoscerlo!

 

Calogiuri, finalmente in boxer e maglietta puliti, si infilò nel letto. Imma si voltò leggermente, sia per guardarlo in faccia, che per mettere Francesco più al sicuro, in mezzo a loro, pur continuando ad accarezzarlo, per evitare che piangesse. Del resto, lui le stava schiacciato al fianco, senza far passare un millimetro d’aria, anche se Calogiuri aveva lasciato un certo spazio di sicurezza tra loro.

 

Dita all’altezza dell’anca ed era Calogiuri, che le prese la mano per posarci un bacio dolce, venerante, poi le accarezzò tutto il braccio da cima a fondo, facendoci correre un brivido. Infine un tocco dolce sul viso, prima di un bacio della buonanotte che… gliel’avrebbe fatto scontare, con gli interessi, non appena fossero stati meno stremati e Francesco si fosse fatto un bel pisolino diurno, che non era il caso di rischiare mo, anche perché sembrava essersi addormentato, finalmente.

 

E quindi, in quella specie di mezzo abbraccio, le dita intrecciate, cercarono di trovare pure loro il sonno. Stava nuotando in un dolce dormiveglia quando avvertì un peso sui piedi e ci trovò Ottavia che, mo che Francesco era calmo, si piazzò tra le loro gambe, poco sotto al bimbo, come per fare la guardia a tutti loro, oltre che per marcare il territorio.

 

Una grattatina alle orecchie congiunta con Calogiuri e gli occhi le si appannarono al solo pensiero di quante cose belle stessero accadendo loro. Come se la vita finalmente li stesse ripagando di tutto.

 

Di certo prima o dopo l’avrebbero scontata con altri casini ma… nel frattempo, si sarebbe goduta in pieno quel miracolo che era la sua famiglia.

 

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“Mamma! Ma che è successo? Come mai questa convocazione?”

 

“Non posso solamente voler vedere mia figlia?” chiese, in quella che era una domanda retorica, perché Valentina rispose con un sopracciglio alzato della serie come no!

 

La conosceva troppo bene, del resto ormai erano 21 anni che cercavano, forse senza mai trovarlo del tutto, un equilibrio a quel rompicapo delicatissimo che era il loro rapporto.

 

Manco a farlo apposta, come a sbugiardarla e a farle chiedere se anche con lui il rapporto sarebbe stato così complicato - sempre se fosse rimasto con lei e Calogiuri il tempo necessario per scoprirlo - i singhiozzi di Francesco squarciarono l’appartamento.

 

E certo, l’aveva vista andare alla porta e non tornare per ben un minuto, e già piangeva.

 

Ma non era colpa sua, lo sapeva bene, sballottato com’era stato fin dalla nascita. E, in fondo, che volesse lei e solo lei le faceva bene al cuore anche se… era pure una preoccupazione. Almeno con Calogiuri sembrava comunque abbastanza tranquillo, più che con Irene e Ranieri di sicuro.

 

“Ma… ma cos’è sto pianto? Che avete un vicino con un bimbo piccolo?”

 

“Non proprio… ma dammi il cappotto e… e vieni in salotto, dai, che parliamo meglio.”

 

“E di che cosa dovremmo parlare?” domandò Valentina, confusa, ed Imma non perse tempo a mollare il cappotto sul primo gancio, in modo da precederla nei pochi passi che la separavano dal salone.


“Di… di questo…” proclamò, indicando il divano dove Calogiuri stava cercando di tranquillizzare il piccolo, che si bloccò e guardò prima verso di lei, con un sorrisone, e poi verso Valentina, studiandola con attenzione.

 

“Ma di chi è sto bimbo? Che succede?” chiese Valentina, tra l’incredulo ed il tono che aveva quando sapeva che una notizia probabilmente non le sarebbe piaciuta.

 

“Lui è Francesco e… e che non esca da qua, Valentì, ma… è il figlio di Melita. Non so come mai ma, da quando l’abbiamo trovato, mi ha presa in simpatia e… fino a mo è stato a casa di una collega, ma la stava facendo impazzire, mentre con me è relativamente più calmo. E quindi… ce lo hanno dato in affido, almeno temporaneamente, finché non si capisce se… se sua madre si potrà riprendere o meno… altrimenti…”

 

“Altrimenti… ve lo terreste voi?” le domandò, dritto in faccia, tanto che dovette deglutire per trovare un poco di saliva.


“Diciamo che… è presto per dirlo, Valentì, bisogna vedere come si trova con noi e cosa decidono gli assistenti sociali. Però… se Melita non si riprendesse e Francesco continuasse ad essere sereno con noi… sì, potremmo prolungare l’affido e magari un giorno, dopo che saremo sposati ed avremo tutti i requisiti di legge, chiedere l’adozione. Ma è troppo presto per dirlo.”

 

Fu il turno di Valentina di deglutire, un paio di volte, guardando in basso.


E poi si sentì afferrare la mano sinistra e Valentina commentò, “sposarvi… vedo che l’anello è tornato. E quindi avete già deciso pure per il matrimonio, mo?”

 

“Non sappiamo ancora quando, Valentì, ma sì, ci sposeremo. Ma pensavo che… che tu non fossi contraria. Nemmeno al fatto che… che avremmo provato, in un modo o nell’altro, ad allargare la famiglia.”

 

“Altro che allargare! Questa famiglia ormai sta diventando una squadra di calcio!” ironizzò Valentina, un poco amara, e si chiese se si riferisse a suo padre con Rosa e Noemi.

 

Ma poi Valentina si voltò, guardò fisso verso Calogiuri e gli disse, “a me basta che non me la fai più soffrire. Se no, altro che allargare… al massimo dovrai farti stringere i pantaloni, nella zona del cavallo!”

 

Il segno delle dita, a mo di forbice, fu chiarissimo, tanto che Calogiuri fece una smorfia e rabbrividì leggermente, mentre Francesco la guardava sempre più curioso.

 

“E comunque… devo dire che c’hai avuto coraggio, oltre che una grande dose di masochismo, a chiederle di sposarti di nuovo.”

 

“Veramente… veramente gliel’ho chiesto io, e poi me lo ha richiesto lui,” spiegò, un poco imbarazzata e, di fronte allo sguardo stupito di Valentina, Calogiuri le mostrò l’anello, al quale subito si attaccò Francesco, per giocarci, “insomma… dopo che glielo avevo tirato dietro il mio di anello, e che avevo dubitato di lui… era giusto che fossi io a fare questo passo.”

 

“E l’idea del bimbo, di chi è stata invece?”

 

“Di tutti e due,” pronunciarono, in perfetto unisono, senza nemmeno volerlo, sorridendosi, un poco commossi.

 

“Il diabete è tornato, ho capito!” sospirò Valentina, mettendosi poi a sedere vicino a Calogiuri, e proclamando, scuotendo il capo, “certo che pure tu… veramente vuoi crescere il figlio della donna che quasi ti ha mandato in galera? Io a volte non ti capisco, non vi capisco.”

 

“Ma Melita era disperata e poi… e poi Francesco non c’entra niente. E se vuole stare sempre con tua madre… come posso non capirlo?” scherzò Calogiuri, facendo segno ad Imma di sedersi accanto a lui.

 

E lei lo fece, piantandogli un bacio sulla guancia e dando poi una piccola carezza a Francesco.

 

“Altro che diabete! Da coma proprio!”

 

Ma, nonostante le parole dure di Valentina, o forse proprio per quelle, Francesco fece un risolino ed allungò una manina verso di lei, curioso come una biscia.

 

Valentina sospirò ma poi, col fiato sospeso, Imma la vide porgergli giusto il dito indice e lasciarglielo afferrare, con uno “stringe forte, però!” che forse non era esattamente una benedizione ma le suonava quantomeno come una piccolissima apertura.

 

“Comunque… che vi devo dire? Almeno me lo avete detto prima che lo scoprissi da altri,” commentò Valentina e la frecciatina, anzi la faretra lanciata verso Pietro era lampante, “per il resto, scordatevi che vi faccia da baby sitter, che non esiste proprio. Ma almeno, visto il caratterino che tiene, mi sa che se dovrò venirvi a trovare all’improvviso, non dovrò più preoccuparmi di trovarvi occupati in… certe attività.”

 

Francesco fece un’altra risata e lei si guardò con Calogiuri, appoggiandoglisi con la fronte alla spalla, per farsi forza a vicenda.

 

“Il carattere in questa famiglia non manca proprio, dottoressa, e menomale!” le sussurrò lui, con un orgoglio che le fece davvero credere che sì, sarebbe riuscito a sopportare tutto e a starle sempre accanto, senza stancarsi mai.

 

Lei di lui… come faceva a stancarsi? Era proprio impossibile.

 

E, a dispetto di quanto poteva pensare Valentina… ai momenti in bianco… avrebbe trovato in ogni modo tempo e spazio per affiancare sempre quelli rosso fuoco.

 

Quanto era vero che si chiamava Imma Tataranni.

 

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“Tranquillo, che stai benissimo. I maschietti ti invidieranno tutti e… spero che le colleghe femmine se ne stiano al posto loro, o che ce le rimetta tu.”

 

Calogiuri le sorrise, bello come il sole, dopo aver chiuso anche l’ultimo bottone della camicia.

 

Quella mattina cominciava il corso da ufficiale e lo vedeva che era emozionatissimo, e lo capiva pure.

 

“Il mio posto è solo qua, dottoressa,” le rispose, in quel modo da reato che aveva lui, schioccandole un bacio e poi dando una carezza a Francesco, che stava appollaiato in braccio a lei, da quando si era svegliato reclamando il latte, giusto in tempo per fare loro da sveglia, “anche se… mi sa che qualcuno sarebbe solamente felice di averti tutta solo per sé. Vero, Francè?”

 

Francesco gorgogliò ma lei rispose con un, “ma io no!”, seguito da un altro bacio.

 

“Fatti valere, maresciallo, che così vorrà dire che presto dovrò abituarmi a chiamarti capitano!”

 

“Agli ordini, dottoressa!” rispose lui, decisissimo e fierissimo, prendendo lo zaino con tutto il necessario per il corso ed uscendo di casa con il piglio di chi andava a vincere una battaglia.

 

“Intanto che Calogiù torna, mi dai una mano a sbrigare un po’ di commissioni per il matrimonio? Che qua abbiamo giusto giusto un po’ di potenziali fornitori da assordare, se non ci fanno un buon prezzo. E poi dobbiamo andare a fare la spesa per te, prima che ci fai di nuovo un’altra… maschera di bellezza.”

 

Francesco rise e le rimase attaccato al collo. Pregando che la schiena le reggesse, si mise sul divano, piazzandoselo sulle ginocchia, sopra al cuscino che per fortuna Irene le aveva procurato, ed afferrò il telefono per cominciare una lunga, lunga serie di chiamate.

 

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“Questo è il maresciallo Ippazio Calogiuri. Da oggi si unirà ufficialmente al nostro corso. Lì c’è una sedia libera, maresciallo.”

 

Fece il segnale di saluto all’istruttore, suo superiore, e si avviò verso il posto designato.

 

Ma, se al precedente corso, quello da maresciallo, nessuno si conosceva al primo incontro ed era stato trattato sempre bene da quasi tutti, notava ora benissimo occhiate curiose, alcune ostili, altre maliziose, altre stupite.

 

E sentiva mormorare sottovoce tra i suoi compagni, che neanche le comari del paese, parole come “il puttaniere” o “quello che si è fatto mezza procura” o “quello che sta con quella vecchia” o “il raccomandato” e chissà che altro.

 

No, non era stata proprio un’accoglienza delle migliori, anzi.

 

Pure il suo compagno di banco, un biondino occhi azzurri dal forte accento altoatesino, lo aveva salutato freddamente e si era allontanato ancora di più con la sua sedia, manco fosse contagioso.

 

Il vecchio Calogiuri avrebbe taciuto, subito, subito, subito e solo dopo risposto coi fatti.

 

Il nuovo Calogiuri invece avrebbe risposto coi fatti, certo, e si ripromise di dimostrare a tutti chi era, ma l’idea di subire in silenzio, un’altra volta, non gli passò nemmeno per la testa.

 

E quindi alzò la mano e quando l’istruttore gli chiese, “sì, Calogiuri? Ha bisogno di qualche chiarimento?”

 

“In un certo senso… mi chiedevo, in Italia esistono ancora tre gradi di giudizio e si è considerati innocenti fino a condanna definitiva, giusto? Perché, e ci tengo a chiarirlo a tutti, non sono mai stato rinviato a giudizio e non risulto più nemmeno indagato. Oltre ad aver vinto un concorso per essere qui, come tutti voi. E voglio soltanto che mi sia data la possibilità di studiare e di provare coi fatti che mi merito di stare qua. Se qualcuno però avesse dei dubbi sul mio casellario giudiziale o sulla mia vita privata, può farmeli presente direttamente e sarò felice di rispondervi per quanto posso, che almeno abbiamo pure occasione di conoscerci.”

 

Ci fu un attimo di silenzio tombale. Pure l’istruttore sembrava preso in contropiede e lo guardò in un modo strano.

 

Forse aveva esagerato?

 

"Riguardo all'attitudine al comando comincia bene, maresciallo. Quindi mi limiterò solo a ricordare a tutti che insinuare che l'Arma possa fare favoritismi o raccomandazioni è un insulto alla divisa che rappresentate e a voi stessi, che siete qua per vostri meriti, come il maresciallo. E ora al lavoro. Maresciallo, mi aspetto da lei che, oltre a studiare il materiale nuovo, recuperi tutto il programma perso entro un mese al massimo, perché le servirà per gli argomenti successivi. Ci siamo intesi?"

 

Era arrivato che erano già circa a metà corso, quindi sarebbe stata una vera impresa recuperare tutto in così poco tempo. Ma poteva e doveva farcela, per se stesso, per Imma e per il loro futuro.

 

“Signorsì.”

 

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SPLAT!

 

Si girò appena in tempo perché lo schizzo di crema di tapioca, mista a zucchine e merluzzo frullati, le prendesse la guancia e non di nuovo l’occhio.

 

“Qua dobbiamo procurarci gli elmetti e le tute da saldatore, Calogiù. O quello o legarlo,” ironizzò, perché anche quella pappa, fatta con ingredienti più freschi, era stata completamente schifata da Francesco.


Ma non potevano mica andare avanti a formaggini, latte, riso, semolino e pastina, le uniche cose che sembrava mangiare volentieri.

 

“Forse dobbiamo sentire la tata di Irene, per capire come faceva. Sempre se alla fine per disperazione non gli dava pure lei solo poche cose. E magari portarlo dalla pediatra?”

 

“Prenderò appuntamento…” sospirò Imma, ripulendosi alla meglio, dopo avergli levato il piatto dalla portata di schiaffo, mentre Francesco rideva come una pasqua, almeno lui.

 

Un meooowww ed un rumore di strozzamento la portarono a guardare il pavimento dove, di nuovo, Ottavia aveva fatto il controllo qualità ed era il volto stesso del disgusto.

 

“Ottà, lo capisco, ma non c’ha ancora i denti e-”

 

Ottavia, per tutta risposta, se la diede a gambe levate - eccallà! - e lei si sentì un po’ scema a difendere la sua cucina con una gatta.

 

Ma Valentina aveva sempre mangiato volentieri quasi tutto, Noemi manco a dirlo - quella pure il piatto si sarebbe fagocitata, potendo! - e quindi non sapeva bene come fare.

 

Mentre lei e Calogiuri stavano pulendo il più possibile il disastro, prima dell’ennesima doccia insieme a Francesco - che altro che il risparmio energetico! Tempi gloriosi quelli! - sentirono un rumore strascicato sul pavimento ed Imma si voltò e si trovò davanti Ottavia, che spingeva una lattina di salmone.

 

Le venne da ridere e allo stesso tempo da commuoversi, anche perché Ottavia aveva un’espressione della serie dategli questa che almeno la smette di rompere!

 

“Grazie, Ottà, ma il cibo per gatti non glielo possiamo dare e nemmeno il salmone, ma-”

 

“Ma cose un poco più solide di così, sì. Magari… invece di mischiarle come pappa, possiamo provare se le gradisce di più sminuzzate ma non in brodo? Ho letto che a quest’età si può cominciare a fare. E in effetti non ci abbiamo ancora provato. Ci sono le spigole per noi due… potremmo tenerne un poco da parte per lui e provare, no? Magari gliene faccio un filetto al vapore?”

 

“E quando hai avuto il tempo di leggere tutte queste cose, eh? Che devi studiare!”


“In pausa pranzo, su internet. Stai tranquilla che studio, studio. Dopo che dorme mi ci metto sotto, promesso.”

 

“Ed io ti do una mano, maresciallo. Per il resto, se vuoi fare masterchef accomodati pure, io vado a farmi una doccia con il nostro buongustaio qua. Il palato fino, tieni, eh?”

 

Gli occhioni di Francesco, un bacetto ed un risolino, le diedero la forza necessaria per non perdere troppo la pazienza.


Ruffiano che era, quando voleva!

 

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“E bravo! Allora il pesce ti piace, eh? Ma è la consistenza molliccia che ti fa schifo. Prova pure un pezzettino di questo,” disse Calogiuri, dandogli una lacrima di prosciutto cotto, dopo il mini boccone di branzino, che Calogiuri stesso aveva sminuzzato e deliscato con una precisione ed una cura che erano meglio di qualsiasi dichiarazione d’amore.

 

E Francesco si afferrò pure il pezzetto rosa e lo mangiò con un gusto tale che picchiò sì le manine, ma sul seggiolone, come a dire ancora, ancora!

 

“Prima un poco di riso in bianco con le zucchine,” proseguì Calogiuri, e pure il riso lesso con i pezzetti di zucchina dentro fu mandato giù senza proteste.

 

Calogiuri le lanciò uno sguardo, sollevato ed orgogliosissimo, e non potè fare a meno di sorridere pure lei - anche se per certi versi il fatto di essere stata presa solo lei, letteralmente, a pesci in faccia, le bruciava un poco, e non solo all’occhio.

 

Ma… oltre ad essere un sollievo il fatto che Francesco mangiasse e senza imbrattare mezza cucina, vedere Calogiuri così, tutto concentrato, coperto da un asciugapiatti a mo di paraschizzi, che lo imboccava con una delicatezza e con una soddisfazione a dir poco commoventi… le provocava quel qualcosa al petto che solo lui sapeva smuoverle.

 

Tanto che si trovò, per l’ennesima volta, con la vista un po’ appannata.

 

Calogiuri era un papà perfetto, proprio come se lo era sempre immaginato. E anche Francesco, pur preferendo lei, ne stava piano piano venendo conquistato, non che avrebbe potuto essere altrimenti.

 

Erano diventati genitori senza nemmeno rendersene conto, anche se forse non sarebbe stato per sempre ma… alla fine era come se quel figlio tanto sognato fosse arrivato, pure senza conti e patemi d’animo sull’ovulazione, ed i cicli e-

 

Il pensiero le si bloccò nella mente, perché una specie di interferenza, quella che di solito le forniva qualche rivelazione sulle indagini, precedentemente sfuggita, le aveva quasi fatto fare un salto.

 

Il ciclo!

 

Estrasse il cellulare dalla tasca e cominciò ad andare all’indietro col calendario, perché gli ultimi cicli, tra che erano sempre giunti con molto ritardo ed irregolarissimi, ed il fatto che aveva avuto altro a cui pensare, non li aveva proprio segnati sull’app apposita che si era convinta a scaricare durante tutte le cure, inutili, per rimanere incinta.

 

Riuscì, in base agli impegni di lavoro ed agli eventi, a ricostruire più o meno quando erano arrivati negli ultimi mesi, dopo tutto il casino con Calogiuri, e l’ultimo… l’ultimo era stato ormai sette settimane prima, giorno più giorno meno.

 

O era in enorme ritardo un’altra volta, o sarebbe proprio saltato quel mese.

 

Sospirò: del resto la menopausa si avvicinava inesorabilmente e tutto lo stress di sicuro non aveva aiutato, anzi.

 

Ma, prima di pensare ufficialmente alla menopausa e di allarmare Calogiuri, avrebbe aspettato di vedere che cosa sarebbe successo da lì a qualche settimana.

 

Menomale che c’era Francesco!



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua, alla fine di questo capitolo, il numero settanta. Ancora non ci credo di averne scritti così tanti e, soprattutto, che siate arrivati fino a qua a leggermi, dopo tutto questo tempo e tutte queste vicende che ho cercato di fare del mio meglio per rappresentare.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto e vi abbia intrattenuto e che sia risultato realistico, per quanto possibile, seppur con qualche piccola “licenza” sull’affido, anche se al momento assolutamente temporaneo.

Per chi non amasse le scene con bimbi e pargoli in genere, vi voglio rassicurare che da qua alla fine non si parlerà solo di pappe, pannolini e quant’altro, anzi, ma che ci sono ancora diversi eventi che devono accadere, sia come giallo che come rosa e che la parte “infanzia” sarà solo appunto una piccola parte della narrazione, che cercherò di mantenere sempre il più varia possibile, sia come toni che come temi. Anche nel prossimo capitolo succederanno eventi molto importanti e molto attesi, mentre ci aspettano più salti temporali da ora in avanti.

Ringrazio tantissimo tutti coloro che hanno messo la mia storia tra le preferite e le seguite.

Un grazie infinito a chi ha speso un po’ del suo tempo per lasciarmi una recensione. Come sempre le vostre parole mi sono preziosissime per capire come sto andando con la scrittura e cosa vi piace di più e cosa vi convince di meno. Oltre a darmi la carica per proseguire.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 13 marzo. In caso di ritardo ve lo comunicherò, come sempre, sulla mia pagina autore.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 71
*** I Calogiuri ***


Nessun Alibi


Capitolo 71 - I Calogiuri


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Avanti!”

 

Non sapeva se sperasse o temesse di più di vedere spuntare due occhi azzurri ed una chioma bionda.

 

“Conti?” chiese, invece, stupito, trovandosi davanti il maresciallo, tornato in procura dopo un periodo di ferie caldamente consigliategli.

 

“Dottore io-”

 

“Pronto a riprendere servizio?” gli chiese, e vedendolo in difficoltà lo rassicurò, “stia tranquillo, ho già parlato del suo caso con l’Arma e, considerato il suo aiuto nello smascherare Santoro non avrà conseguenze disciplinari. Inoltre né io né la dottoressa Ferrari abbiamo intenzione di iscriverla nel registro degli indagati, quindi-”

 

“Queste sono le mie dimissioni.”

 

Una lettera schiaffata sulla scrivania lo prese in contropiede.


“Che cosa? Dimissioni? Ma intende…” esordì, aprendo la busta e leggendo il testo, “vuole congedarsi dall’Arma? Ma è impazzito?!”

 

“No, dottore. Ho disonorato la divisa che porto e non mi merito più di fare questo lavoro.”

 

“Conti, non prenda decisioni affrettate. Al limite può sempre chiedere l’aspettativa. Ha sbagliato, è vero, ma ci ha anche aiutati e-”

 

“Non mi farà cambiare idea, dottore. Ci ho pensato tanto in questi giorni e questa è la mia decisione.”

 

“Senta, Conti, facciamo così, lei ora se ne va al bar qua sotto, si prende un caffè, anzi, magari una camomilla, e poi la faccio chiamare io, va bene? E non si azzardi ad andare via o sul provvedimento disciplinare potrei cambiare idea.”

 

Conti sospirò, ma si limitò ad annuire e ad uscire.


Sembrava un palloncino sgonfio. Per carità, Conti non era mai stato esattamente il prototipo di carabiniere Rambo e non avrebbe mai potuto fare il bersagliere, ma così non lo aveva mai visto.

 

E quindi prese il telefono e selezionò un numero interno ormai fin troppo familiare.


“Dottore? Ha bisogno di me?”

 

“Sì, Mariani. Può venire subito nel mio ufficio?”

 

“Certo!”

 

L’entusiasmo in quella sola parola gli causò una fitta al cuore ed una allo stomaco. Una parte di lui ne era felice, felicissimo, l’altra ne aveva una paura tremenda, perché non andava bene, per niente.

 

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“Dottore, mi dica.”

 

Non poté evitare di entrare nell’ufficio di Mancini sorridendo: negli ultimi giorni le era sembrato che la stesse evitando, ma forse era veramente solo stato molto impegnato ed era stata tutta una sua suggestione.


E la verità era che le era mancato lavorare con lui, ma anche solo quelle quattro chiacchiere che si facevano nei momenti morti, o i pranzi allo zozzone del parco.

 

Il sorriso però le si congelò quando notò l’espressione di lui, o meglio la non espressione di lui, che sembrava una statua.

 

“Mariani, l’ho fatta chiamare perché è appena tornato Conti e-”

 

“E pensa che sia da tenere ancora d’occhio?”

 

“Se mi fa parlare, Mariani,” rispose, in un modo un po’ brusco che fu un mezzo schiaffo: era vero che non avrebbe dovuto interromperlo, per una questione di ruoli, ma ultimamente avevano preso più confidenza e non si era mai irritato se lei usciva dal protocollo.

 

“Dicevo, è tornato e mi ha rassegnato le sue dimissioni. Vuole chiedere il congedo dall’Arma. Ho provato a parlargli ma dubito mi ascolti, potrebbe provarci lei? Ora dovrebbe essere giù al bar, se non ha trasgredito all’ordine che gli ho dato.”

 

Alla preoccupazione per lo strano comportamento di Mancini, si sostituì quella per Conti. E poi… che avesse subito pensato a far intervenire lei era un segno di fiducia.

 

“Va bene, dottore. Vado e le faccio sapere,” rispose, non perdendo altro tempo in convenevoli, non che Conti se ne andasse sul serio, ed uscì dall’ufficio.

 

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“Si può sapere che stai combinando?”

 

Vide gli occhi di Conti alzarsi ancora prima del “Chiara…” sospirato che gli uscì dalle labbra.

 

Si sedette di fronte a lui, senza dargli modo di obiettare.


“Ti manda Mancini, immagino?” le chiese, scompigliandosi i capelli e chiudendo e riaprendo le palpebre pesantemente cerchiate, “ma tanto non cambio idea.”

 

“Ma dimmi te che senso ha prendere una decisione così in questo modo? D’impulso! L’Arma è sempre stata la tua vita. Hai sbagliato, è vero, ma hai anche rimediato e-”

 

“Ma se non avessi rimediato? Se non lo aveste scoperto voi di Santoro io… io non avrei mai avuto il coraggio di dire niente. Anche quando ho iniziato ad avere qualche sospetto ho taciuto e… non mi merito la divisa che porto. Non sono stato fedele né a lei, né a voi, né ai principi che credevo di avere e…e poi non sono molto bravo a giudicare le persone, evidentemente, e per uno che fa il mio lavoro-”

 

“Può succedere, non siamo mica infallibili! E allora che dovrei dire io, eh? Con… insomma lo sai cosa pensavo di Santoro, no? Che dovrei fare? Cambiare continente per dimenticarmi di essermi… altro che fidata di lui?”

 

Sentì le guance calde, mentre le parole le uscivano quasi senza rendersene conto, come se per la prima volta le ammettesse anche a se stessa.

 

“Non è la stessa cosa e… anzi… tu, nonostante tutto, hai saputo cambiare idea per tempo. Io no. Tu non sei come me, Mariani, tu gli amici non li hai mai traditi, non è vero? Anche Calogiuri… anche nel momento peggiore non lo hai mai mollato. Io non sono come te, non ci riesco, e non sarò mai come te, come voi. Quindi è meglio se mi congedo, prima di fare altri danni. E ora, se vuoi scusarmi, Mancini mi perdonerà per aver trasgredito all’ordine, tanto non è più il mio capo.”

 

Lo vide alzarsi di scatto e fece per bloccarlo per il polso, ma lui lo strattonò via con tale forza da dare una gomitata alla tazza che c’era sul tavolino.

 

Il rumore portò tutti a girarsi verso di loro e Conti ne approfittò per darsela a gambe, mentre lei rimase lì ferma.

 

Non sarebbe servito a niente parlargli in quel momento, se non a causare una piazzata ed ulteriori imbarazzi a Conti. Forse non sarebbe mai servito.

 

Non l’avrebbe mai ascoltata, non era lei che poteva fargli cambiare idea.

 

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“Convocare il maresciallo? Ma ha il corso da ufficiali e sa benissimo anche lei quante lezioni ha già perso.”

 

“Non dico di convocarlo qua in procura ma che vada a parlare con Conti sì, anche fuori dalla procura, anzi forse sarebbe pure meglio. Mi creda, dottore, se c’è una persona che può convincerlo è lui e solo lui. Questa cosa è iniziata tra loro e tra loro deve finire. E non solo da… dall’arresto di Santoro, ma dai tempi di Milano.”

 

Vide Mancini sospirare, uno sguardo per un attimo indecifrabile, ma poi le fece un lieve sorriso.

 

“Ha ragione, Mariani, ma è che… provo un po’ di imbarazzo a sottrarre io il maresciallo ai suoi studi, per motivi che lei può ben immaginare. Ci pensa lei?”

 

Si accorse di stare sorridendo a ottocento denti solo dopo averlo fatto, annuì vigorosamente, felice della fiducia che le era di nuovo stata data - anche se era pure un modo per Mancini di levarsi le castagne dal fuoco - prese il cellulare e selezionò il contatto di Calogiuri.

 

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“E quindi in una situazione di questo tipo, con le porte tutte sbarrate, come procedereste? Calogiuri, perché non me lo dice lei? So che non potrà essere ancora al passo con le lezioni, ma questo è un caso pratico ed è giusto che cominci a mettersi alla prova.”

 

Si alzò in piedi quando l’istruttore si rivolse a lui e sentì un po’ di commenti e bisbiglii delle persone intorno, tra cui un qualcosa che suonava molto come dottoressa e, per fortuna loro, non aveva capito bene che altro avevano da dire su di lui o su Imma.

 

Come minimo l’ennesima battuta sul fatto che fosse raccomandato e protetto dalle sottane della dottoressa.

 

Che poi… lui con le sottane di Imma… altro che protezione!

 

No, non doveva pensare a quello, non dopo tutte le notti mezze in bianco dovute ad un certo adorabile piccoletto che voleva quasi sempre solo lei - e mica scemo! - e che non dava loro modo di dedicarsi ad altro genere di attività. E non per la gioia di Ottavia, che forse tutto sommato stava quasi rimpiangendo i momenti vietati ai minori, anche se mai come li stava rimpiangendo lui.

 

“Allora, Calogiuri?”

 

Si ridestò da quei pensieri e cominciò ad analizzare la situazione, “con le porte sbarrate il rischio di un’azione diretta è molto grande. Anche perché i sospettati, per come hanno proceduto fino a qua, non sembrano dei veri professionisti o sarebbero già fuggiti, invece di sbarrare anche le possibili vie di fuga ed iniziare uno stallo che non finisce quasi mai bene per loro. Formerei tre squadre: una con lo psicologo ed una delle sottoposte, la più abile nel parlamentare, per distrarre i rapitori. Successivamente, invierei una squadra da un lato a creare una seconda distrazione, quando necessario, e che siano pronti a sfondare una delle porte quando si potrà. Infine l’ultima squadra, con le persone più esperte nell’arrampicata, li farei andare sul tetto, passando dal capannone vicino, più alto, creando un sistema di carrucole e calandosi silenziosamente. Manderei in avanscoperta un solo uomo, per fissare la carrucola, facendolo arrampicare alla parete dall’angolo in fondo a sinistra, il meno visibile, specie a quell’orario, in cui chi è nel capannone, se guardasse fuori in quella direzione, avrà il sole negli occhi, trovandosi verso ovest. A quel punto, farei intervenire gli uomini sul tetto passando dalla canna fumaria e, una volta dentro, dopo aver individuato ostaggi e rapitori, farei loro lanciare dei fumogeni e poi farei intervenire anche il resto della squadra sfondando la porta laterale, che per la conformazione mi pare quella più difficile da sbarrare. In questo modo saranno accerchiati e poi-”

 

Sentì una vibrazione del cellulare e la ignorò.

 

Ma continuava e continuava, e pure quando smise ricominciò dopo poco.

 

“E poi? Fin qua mi sembra una discreta strategia, Calogiuri. Come concluderebbe l’operazione?”

 

“Una telefonata.”

 

“Farebbe una telefonata? E a chi?”

 

“No, signor tenente. Volevo dire che… mi continua a squillare il telefono e…” aggiunse, sbirciando il nome di Mariani, da un lato sollevato che non fosse Imma, dall’altro preoccupato perché non lo disturbava mai nell’orario di lavoro, “e… è la procura di Roma. Non mi chiamerebbero mai se….”

 

“Va bene, maresciallo, può uscire e rispondere. Mi dica solo come avrebbe concluso l’operazione e la lascio andare.”

 

“Una volta messa in sicurezza la struttura avrei fatto entrare i paramedici. Prima per gli ostaggi e successivamente per i rapitori, salvo evidenti casi di crisi respiratorie provocate dai fumogeni, alle quali farei dare la precedenza. Ospedale e supporto psicologico per le vittime, ospedale ed interrogatorio per i sospettati, tenuti separati in modo che non possano confrontarsi sulle versioni da dare. Ovviamente in coordinamento con il magistrato competente e-”

 

Sentì un “ovviamente!” sarcastico da qualche fila dietro la sua.

 

Lo aveva sentito pure l’istruttore, tanto che si produsse in un “silenzio! Calogiuri, ci sono delle cose da rivedere ma in generale mi sembra un buon piano d’azione, soprattutto considerando che non ha potuto partecipare a così tante lezioni e che ha avuto poco tempo per svilupparlo. C’è una certa attitudine alla strategia ed al comando in lei che andrà affinata con lo studio e l’impegno delle prossime settimane. Ora vada a rispondere e, se non è nulla di urgente, rientri subito. Sa che non può saltare molte altre lezioni.”

 

“Ai comandi!” rispose, trattenendo a stento un sorriso prima di correre fuori e di esclamare un “pronto?” un po’ concitato.


“Scusa se ti disturbo ma… Conti vuole lasciare l’Arma. Ho provato a parlargli ma darà retta solo a te, se ti dà retta. Puoi andare con urgenza da lui? Ho paura che… che se se ne va dalla caserma… chissà quando lo rintracciamo e… non vorrei che facesse qualcosa di stupido.”

 

“Chiara…” sospirò, quasi senza fiato, mentre il viso di Conti gli si parava davanti e provava rabbia, rimpianto e pena, tutte insieme.

 

Non solo per lui ma per come era andato a finire il loro rapporto.

 

“Sei sicura che mi ascolterebbe? Lo sai come stanno le cose tra noi, no?”

 

“Proprio per questo è necessario che vi chiarite tra voi. Per favore, Ippazio, sono preoccupata.”

 

“Se mi chiami così però non vale,” ironizzò, perché non lo faceva quasi mai ed il modo in cui lo diceva lo inteneriva molto, “va bene, vado subito in caserma e se non è lì… hai un’idea di dove potrebbe essere? Non ci siamo frequentati molto ultimamente, come sai.”

 

“So che va spesso a correre sul Tevere, sull’argine, dove mettono le bancarelle d’estate.”

 

“Va bene. Ci provo, ma non garantisco niente.”

 

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Stava osservando come procedeva il ragù, che voleva fare una sorpresa a Calogiuri, che poraccio, ultimamente tra il corso, lei che lo tormentava con lo studio la sera ed un certo piccolotto che ogni tot ore si svegliava reclamando cibo-

 

Uno strillo seguito da dei pianti disperati la portò a domandarsi se c’avesse il radar pure lui.

 

Mise al minimo il ragù e si avviò verso il salotto dove lo aveva lasciato nel suo ovetto a dormire, preceduta da Ottavia che la guardava in un modo per la serie lo avete voluto voi, mo fallo smettere o vi sfiletto tutti!

 

Con un sospiro, lo prese in braccio e Francesco smise immediatamente di emettere qualsiasi suono, la guardò con quei suoi occhioni e le fece un sorriso con solo i primi denti che iniziavano a spuntare e che non aiutavano di certo il pianto.

 

Mannaggia a te, che mi freghi sempre, come Calogiù! - pensò, mentre si metteva addosso il marsupio che Calogiuri le aveva comprato, in modo da poter tenere Francesco appiccicato, come voleva lui, ma allo stesso tempo non sfondarsi le braccia e riuscire a fare qualcosa durante il giorno.

 

Calogiuri era proprio il papà fantastico che si era sempre aspettata: era il primo a svegliarsi quando Francesco piangeva e, non fosse stato altro che il bimbo voleva solo lei, se ne sarebbe occupato lui lasciandola dormire, nonostante tutti gli impegni. Ma pure così stava sveglio, abbracciandola per farle compagnia, o le portava latte caldo e spuntini, o le faceva dei meravigliosi massaggi a schiena e spalle.

 

Il solo pensiero le scatenò ben altro tipo di fame che quella per il ragù. Dopo l’overdose da recupero, le ultime sere erano state di un bianco monacale. Ma avrebbe rimediato, quanto era vero che si chiamava Imma Tataranni!

 

Sempre se Francesco non si gettava da solo nel ragù bollente prima, buongustaio com’era.

 

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Ad un passo da jogging, il fiato un po’ corto, stava percorrendo l’argine, visto che in moto sarebbe stato impossibile.

 

Conti ovviamente non era in caserma, ma non solo, non era nemmeno nella zona indicata da Mariani.

 

Nella scelta tra andare verso sud o verso nord, aveva optato per la seconda ipotesi: era zona di canoe e canottieri ma a quell’orario in settimana ci sarebbe stato poco o niente. E le sponde erano più deserte che verso sud, dove ci stava Trastevere e tutto il centro storico.

 

Avrebbe dovuto ricominciare ad allenarsi di più nella corsa, ora che il fisico finalmente si era ripreso quasi del tutto, almeno come peso.

 

Proseguì senza sosta, superando l’ennesima scaffalatura piena di canoe impilate, chiedendosi se avesse senso o se chissà Conti a quell’ora dove stava, spingendosi sempre più a nord.

 

Ad un certo punto, mentre l’argine si faceva gradualmente naturale, sterrato, e riconosceva in lontananza la zona di un piccolo aeroporto destinato principalmente a voli privati e, se non ricordava male, quella del Tufello, notò, a qualche centinaio di metri di distanza, in cima ad un ponte, una singola figura vestita di nero.

 

Si mise a correre più veloce che poteva e riconobbe proprio Conti, che stava appoggiato al parapetto e guardava l’acqua sottostante in un modo che non gli piaceva.

 

Si sbrigò a raggiungere la zona asfaltata e a salire sul ponte. Il rumore dei passi sull’asfalto riscosse Conti da quella specie di ipnosi in cui sembrava essere stato rapito ed i loro sguardi si incontrarono.

 

Lo vide tendersi e stringere più forte le mani al parapetto, mentre pronunciava un secco, “che ci fai qui?”

 

“Potrei chiedere lo stesso a te, Conti. Che ci fai qua? Vieni con me, che ci facciamo due chiacchiere.”

 

“Ti hanno mandato Mancini e Mariani, eh? Per farmi il discorsetto. Faccio pietà a tutti, vero?”

 

C’era una disperazione, un’amarezza che erano più uno schiaffo del vento che mulinava sul ponte.

 

Ed era tutto terribilmente familiare.

 

“Conti…” sospirò, scuotendo il capo, “sai che c’è? C’è che mi sembri me qualche mese fa. Pure io mi ero convinto di fare pietà e pena a tutti. O meglio, a quei pochi che non mi odiavano. Ma alla fine… ho capito che se chiedi aiuto la gente ti tende una mano. Non tutti, ma chi ci tiene a te sì. E… lo so che i nostri rapporti da un po’ erano quello che erano ma… io alla nostra amicizia ci tenevo veramente. Ci tengo veramente.”

 

Conti rimase per un attimo immobile, il viso che gli crollò in una smorfia di disperazione.


“Come… come fai a parlare di amicizia dopo tutto quello che ti ho fatto?”

 

“Dai, andiamo a farci un giro, che da qua al centro città è lunga. Così parliamo un po’. Poi, se non mi vorrai sentire, prometto che me ne vado e che non ti disturberò più.”

 

Conti sospirò e con un “tanto lo so di non avere scelta, che quando ti metti in testa una cosa non molli…” e le mani in tasca, si avviò con lui giù dal ponte e sullo sterrato, iniziando a camminare lentamente verso la città antica.


“Senti, Conti, parliamoci chiaramente. Ultimamente hai sbagliato, è vero, ed in alcuni momenti ti avrei strozzato volentieri, come tu mi avresti strozzato volentieri a me, ma… al di là di tutto, lo so che sei un bravissimo maresciallo e che, soprattutto, sei una persona onesta. Ed è anche per quel senso di onestà che hai sentito tradito che… che hai sbagliato. Pensavi che mi stessero proteggendo, che mi stessero coprendo e-”

 

“E non è solo quello!”

 

Si bloccò bruscamente, non soltanto per il tono disperato, ma perché lo aveva fatto anche Conti. 

 

Provò ad incrociare il suo sguardo ma l’altro maresciallo lo teneva fisso a terra. Lo vide afferrare un sasso, piccolo e liscio e, mentre per una frazione di secondo si preparò a difendersi dal beccarselo in testa, Conti invece lo lanciò nell’acqua, dove affondò sollevando un fiotto d’acqua limacciosa.

 

“Non è stato solo per quello…” ripeté Conti, ma stavolta più tranquillo, anzi, rassegnato, sebbene teneva sempre la testa bassa, guardando dritto verso il fiume, “la verità… la verità è che… che ce l’avevo con te perché… perché ero invidioso. Non è facile reggere il confronto con uno come te.”

 

Per la prima volta, Conti si voltò a guardarlo e negli occhi c’era vergogna, rabbia, dolore, tutto insieme, “il maresciallo Calogiuri. Così bello, così alto, che tutte le donne lo vogliono. E poi pure intelligente, che risolve tutti i casi, che si prende tutti gli incarichi più importanti. Mi sono sempre sentito inferiore a te e… e forse per questo volevo credere che… in realtà tutto quello che tu avevi e io no era solo perché eri immanicato, perché eri bello e le dottoresse stravedevano per te. Ma invece… invece tu sei bravo davvero, tanto che tra poco sarai capitano, e te lo meriti, mentre io invece resterò sempre un povero maresciallo e quindi tra poco sarò inferiore a te pure di grado. E me lo merito. Anzi, non mi merito nemmeno i gradi che c’ho.”

 

Rimase per un attimo senza parole perché… perché non avrebbe mai pensato di poter suscitare non solo invidia ma perfino senso di inferiorità in qualcuno. Se pensava al ragazzo che aveva lasciato Grottaminarda, convinto di non valere niente… gli sembrava assurdo ora, tutto quanto.

 

“Lo sai che invece… quando sono arrivato qua a Roma da Matera, per il corso, ma… ma anche poi dopo, per prendere servizio in procura… mi sentivo io come… come un pesce fuor d’acqua. Sempre sbagliato, sempre meno capace. Ammiravo così tanto te e Mariani, la vostra sicurezza e la vostra professionalità. E comunque… e comunque con Imma… va beh, oltre alla fiducia professionale c’è anche quella personale e umana, è vero, ma con Irene… guarda che lei stimava molto anche a te, solo che… il fatto che non ti ricambiasse da quel punto di vista, mentre con me siamo diventati amici, non vuol dire che sia così con tutte le donne, anzi. E pure sul lavoro, basta impegnarsi e studiare: se ce l’ha fatta un ciuccio come me a superare il concorso, di sicuro puoi farcela pure tu, che nello studio fatichi assai meno di me. Però ci devi provare almeno: finché non ci provi non lo sai come va.”

 

Conti, per tutta risposta, fece una risata, amara.

 

“La sai la verità? Io quel concorso non l’ho fatto perché sapevo benissimo che non sarei mai stato al tuo livello, pure se lo avessi passato. In tutti i sensi. Tu hai un intuito, una capacità naturale di piacere alle persone che… che io non ho e per quelli lo studio serve a poco. E comunque… ormai dopo tutto quello che ho combinato… altro che capitano. Mi sentirei di sporcare la divisa e-”

 

“E a parte che tanto non la portiamo mai…” provò a intervenire, per cercare di alleggerire l’atmosfera, ma Conti fece solo un altro sorriso triste.

 

“Già… ma… ma per colpa mia non solo ci stavi per andare di mezzo tu ma… la Russo è quasi morta, c’è un bimbo che è orfano e… e quegli stronzi stavano per vincere. Ho sbagliato tutto e-”

 

“E c’era una canzone che sentiva sempre la buonanima di mia nonna che diceva ho sbagliato una volta e non sbaglio più. E secondo me c’aveva ragione: proprio perché hai sbagliato mo, così tanto, da ora in poi non farai altri errori e sarai molto più attento, anzi, attentissimo. Un po’ come me con… con la storia di Melita. Penso che non mi avvicinerò mai più da solo a nessuno collegato ai casi, in servizio o fuori. In questi mesi ho toccato il fondo pure io ma… ma poi quando risali, la botta che hai preso ti dà una forza che… che non pensavi di avere. E ti fa capire tante cose. Quello che conta veramente e gli errori da non ripetere. E per questo secondo me da ora in avanti sarai un maresciallo ancora migliore di quello che sei stato. Perché sbagliare è normale, è impossibile non sbagliare mai - tranne forse se sei Imma. E finché non ti succede, rischi di combinare un sacco di casini, nella convinzione di stare sempre nel giusto. Ma è come ti rialzi dopo aver sbagliato che dice che persona sei veramente. Quindi se molli adesso, allora sì che non te lo perdonerò mai e che perderai la stima che ho di te. Mo ce ne torniamo in caserma e da domani torni in servizio, che già io per un po’ non ci posso stare, e dimostri a tutti chi è il maresciallo Conti e quanto vali.”

 

Fece appena in tempo ad udire una specie di singhiozzo strozzato, che gli ricordò Francesco quando gli andava qualcosa di traverso, e si trovò stritolato in un abbraccio - che per fortuna non era più malconcio come qualche tempo prima, così riuscì a ricambiarlo senza farsi levare il fiato.

 

“Invidio molto chi ti avrà come comandante. Sarai un capitano perfetto e… e se non diventi generale, prima o poi, sarai tu a sentirmi.”

 

“Sì, mo, generale, addirittura! Per intanto devo passare questo corso, poi un passo alla volta ci pensiamo e-”

 

Si beccò un colpo sulla spalla che gli fece male più di quanto avrebbe dovuto: no, doveva decisamente allenarsi e molto seriamente.

 

“Calogiuri, dico sul serio. Hai… hai una capacità con le persone che… che pochissimi hanno. Sapresti convincere un pinguino a seguirti nel deserto. Quindi io darò il massimo, ma anche tu, perché se non fai strada tu, tra di noi, non la farà nessuno. E un giorno, sempre se trovo qualcuna che mi sopporta, voglio poter dire ai miei nipoti che il loro nonno era amico del generale Calogiuri.”

 

“Cosa che di sicuro ai tuoi nipoti interesserà moltissimo…” ironizzò, sebbene la voce gli si spezzò un poco: in quei momenti capiva Imma, il suo schernirsi con l’umorismo.

 

Come generale non ci si vedeva proprio, gli sembrava una cosa così lontana da lui. Però, per rendere orgoglioso se stesso, per rendere orgogliosa Imma, la loro famiglia e sì, pure Conti, ce l’avrebbe messa tutta per andare più avanti possibile.


E, soprattutto, per farlo senza tradire mai i suoi principi.

 

“Dai, rientriamo mo. Che tra un po’ qua viene fresco e, se rientro troppo tardi, ci mando te a sentirti Imma al posto mio.”

 

“Chi arriva per ultimo paga all’altro una birra una sera di queste?” rise Conti, cominciando a correre avanti a lui, costringendolo a faticare per tenere il passo.

 

“Per come è la mia vita mo, Conti, diciamo una bella colazione con un caffè triplo, che forse è meglio.”

 

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“Lo sapevo! Lo sapevo che ce l’avresti fatta! Allora riprende servizio domani? Sì, dopo in caserma sente pure a me. Grazie, Ippà, sei il migliore!”

 

Due occhi azzurri trionfanti per poco non lo abbagliarono: Mariani era felice e sollevata come raramente l’aveva mai vista e, di nuovo, quel sorriso fu contagioso.

 

“Intuisco che sia andato tutto bene?”

 

“Sì, dottore, come avrà sentito Conti ritorna domani, e stavolta niente scherzi, a costo di portarcelo io a forza domattina.”

 

Gli venne da ridere perché non dubitava affatto che Mariani ne sarebbe stata capace, anzi.

 

Ma poi, dopo un attimo, il riso finì e calò un silenzio un poco imbarazzato, finché Mariani non pronunciò quelle parole che gli provocarono un nodo allo stomaco, “visto che ormai è tardi e… e oggi di lavoro ne abbiamo combinato poco e dovremo stare ancora qui, che ne dice se ci andassimo a prendere un panino al parco? Ormai la sua digestione dovrebbe essersi abbastanza ripresa, dottore, dopo questo periodo di pausa.”

 

C’erano così tanti sottotesti in quella frase, o forse era solo lui che li percepiva, ma no, Mariani aveva notato il loro allontanamento degli ultimi tempi, anche se sapeva come porre il tutto in modo molto discreto.

 

E però… e però tra il nodo allo stomaco e… e tutto il resto… un panino, oltretutto in orario ormai serale, sarebbe stato decisamente troppo pericoloso per lui. In tutti i sensi.

 

“La ringrazio, Mariani, ma… in realtà proprio perché sono indietro penso di proseguire qui e… al limite mi farò portare qualcosa se proprio ne sento la necessità. Lei invece vada pure: con tutto quello che ha fatto oggi, si è meritata una serata tranquilla. E poi così potrà anche parlare meglio con Conti.”

 

Il sorriso di Mariani le si congelò sul viso. La vide chiaramente deglutire un paio di volte prima di annuire e voltarsi.

 

Ma, quando fu quasi giunta alla porta e lui stava per esalare il fiato che stava trattenendo, sentì il rumore di tacchi sul parquet e la vide fare un dietrofront da manuale.

 

“Ha bisogno ancora di qualcosa, Mariani?”

 

“In realtà sì, dottore,” rispose, scimiottando il suo tono professionale, “avrei bisogno di capire cosa sta succedendo. Come mai ultimamente mi evita e lavora con tutti tranne che con me. A parte oggi e quando è necessario per il maxiprocesso. Se ho fatto qualcosa che non va, io-”

 

“No, no,” la interruppe, perché, dopo il sarcasmo, aveva percepito chiaramente quanto Mariani fosse ferita.

 

E no, non era colpa di Mariani se lui era un imbecille e ultimamente sembrava avere il pallino per fissarsi sulle persone sbagliate. Come nel caso di Mariani, per la quale non avrebbe potuto essere più sbagliato di così.

 

“Lei non ha fatto nulla di sbagliato, Mariani, anzi, ma… ma mi sono reso conto di essermi appoggiato troppo a lei negli ultimi mesi e che non è giusto, soprattutto per lei e per il suo lavoro qua e pure in futuro.”

 

“Anche io mi sono… appoggiata a lei, dottore, e non mi pare che questo mi abbia creato problemi, anzi. Sono molto felice del lavoro che abbiamo fatto insieme e mi piace lavorare con lei e-”

 

“E pure a me, Mariani. Ma… ma sono un suo superiore e questo può crearle molti problemi se… se proseguissimo su questa strada. Le voci in procura sono tremende e… ha visto cosa è successo col maresciallo Calogiuri, no? E non voglio rischiare di danneggiarla, che ha tutta una carriera davanti a lei e-”


“E non mi pare che con qualcun'altra se li sia fatti tutti questi problemi, dottore, anzi. Lì altro che… appoggiarsi ma-”

 

“Ma appunto per questo non voglio ripetere gli stessi errori con lei, Mariani, che è pure in una posizione assai più vulnerabile e…e  più sbilanciata rispetto a me. Non voglio più mettermi in imbarazzo, né mettere in imbarazzo nessuno e-”

 

“E se fossi stata a disagio o in imbarazzo glielo avrei detto, dottore, e glielo direi pure se capitasse in futuro. Con le parole e con i fatti. Ma la verità è che quello a disagio è lei, che chi ha paura qua è lei e non sono io, o forse… o forse a differenza che con la dottoressa, certi… appoggi con me non li desidera. O forse il problema è che… che a differenza della dottoressa, magari con me potrebbe finire diversamente e… non avrebbe più un alibi per non avvicinarsi veramente a qualcuno, per non farsi conoscere veramente da qualcuno. Senza tutte le pose da gentiluomo da manuale che, francamente, non ne ha bisogno. Anzi, sarebbero pure un po’ da aggiornare come repertorio. Ma è più facile così, no? Che mettersi in gioco per quello che si è realmente. Invece io il coraggio ce l’ho, quindi non mi dica che lo fa per proteggere me, perché io mi difendo benissimo da sola, grazie.”

 

E, con un altro stridore di tacchi, era sparita dietro la porta.

 

Non l’aveva nemmeno sbattuta, no: un autocontrollo da manuale ed un coraggio da leonessa.

 

Il nodo allo stomaco si intensificò insieme a una strana sensazione al petto, opprimente ma anche dolce.

 

Mariani era una donna incredibile e dire che fosse impressionato da lei era dire poco.

 

La verità era che lui non era alla sua altezza e… e tutto quello che gli aveva detto… lo aveva colpito in pieno. Colpito e affondato.

 

Ma non era certo di riuscire ad avere altrettanto coraggio, non più, non alla sua età e con tutto quello che aveva passato. E proprio per quello, probabilmente, non se la sarebbe mai meritata una come Mariani.

 

Anche se, mai come in quel momento, lo avrebbe tanto desiderato.

 

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Grrrrrr

 

“Eh lo so, Ottà,” sospirò, guardando la micia che, stavolta, non aveva colpa del ruggito, anzi: era il suo stomaco che protestava così rumorosamente.

 

Ottavia stava fissando con estrema concupiscenza la pasta al forno con ragù e polpettine, uno dei suoi piatti forti preferiti da Calogiuri, ormai sicuramente gelida, lì in mezzo alla tavola.

 

L’orologio da parete zebrato segnava quasi le ventidue e di Calogiuri ancora nessuna traccia.

 

Ma nonostante la fame, i ruggiti allo stomaco e nonostante tutto, avrebbe aspettato che arrivasse, fosse solo per fargli un cazziatone per non averla avvertita del ritardo. Che per carità ci poteva pure stare, anzi, che dovevano venire da lei a parlarle di emergenze? Lei che per anni aveva vissuto di cibo riscaldato, durante il matrimonio con Pietro soprattutto. Ma quando succedeva a lei aveva sempre avvisato, sempre. Oddio, forse con Pietro qualche volta s’era pure scordata ma con Calogiuri mai, anche perché lavorando spesso nello stesso edificio… e poi lo sapeva che lui si preoccupava di ben altre cose di quelle che aveva temuto Pietro ai tempi. Pur essendo molto più forte psicologicamente, Calogiuri era anche assai più consapevole dei rischi che correvano. Proprio per quello entrambi si avvisavano sempre non appena il ritardo si faceva più consistente del solito.

 

Ormai era una questione di principio. E proprio per quello non avrebbe toccato cibo: per tenere ancora di più il punto. Certo, salvare la pasta al forno mica era stato facile, né dalle manine ingorde di Francesco prima - che mica scemo, certe cose se le spazzolava più che volentieri - né dalle zampe e dalle fauci di Ottavia poi.

 

Ma, se ora Francesco dormiva tranquillo e satollo dal suo bel pesciolino nel suo ovetto, qualcun’altra era pronta all’assalto.

 

“Già hai avuto la scatoletta al salmone, Ottà, e dai su! Mica muori di fame tu, non c’è pericolo,” la sfottè un poco, guadagnandosi un’occhiataccia indignata con tanto di coda all’insù e muso girato di sghimbescio.

 

La regina della casa, proprio.

 

Per un attimo pensò che l’avesse sentita pure nei pensieri, perché drizzò le orecchie e si mise in una posa così regale che pareva la sfinge pareva.

 

Ma poi, mentre Ottavia faceva un balzo giù dal tavolo, udì le chiavi girare nella toppa ed un “Ottà?” un poco stupito e molto, molto familiare, seguito da dei miagolii e fusa schifosamente affettuosi.

 

E poi le comparve davanti, con Ottavia arrotolata intorno al collo, che gli leccava il viso mentre lo teneva stretto stretto, lui che cercava di bloccarla più che poteva e, alla fine, i suoi occhi ed il suo sorriso commosso furono nei suoi.


Le bastò un secondo per capire che entrambi avevano pensato la stessa cosa: Ottavia ancora si preoccupava quando non lo vedeva arrivare. Anche se era già migliorata tantissimo rispetto a quando era tornato finalmente a casa dopo il loro ultimo allontanamento, che ancora un po’ gli viveva sui piedi.

 

E, pure se più della preoccupazione potè la pasta al forno, bastò quella scena per farle passare qualsiasi traccia di irritazione, insieme agli occhi teneri e stanchi di Calogiuri che, come sempre, avevano su di lei effetti indicibili.

 

“Ma hai fatto la pasta al forno? Ma non dirmi che non hai ancora mangiato! Non dovevi e-”

 

“E tu potevi pure avvertire. Se non avverti ti aspetto, maresciallo, lo sai. E se non lo sapevi lo sai mo, quindi regolati di conseguenza.”

 

Calogiuri, che era appena riuscito a prendere Ottavia tra le mani, levandosela dalla faccia, scosse il capo e le sorrise in quel modo amorevolmente frustrato che amava così tanto suscitargli e-


“Ti amo.”

 

Quelle due parole, invece, la presero in contropiede, più del bacio dolce che ne seguì, perché… erano ancora così rare e preziose, anche se glielo dimostrava in tutti i modi, tutti i giorni.

 

“Scusami se… se non ti ho avvisata ma… c’è stata un’emergenza con Conti. Un’emergenza per lui, non per me,” la rassicurò, avendo evidentemente notato subito la sua preoccupazione, “e comunque tutto risolto, tranquilla. Il piccoletto dove sta? Che, mo che ci penso, c’è tutto questo silenzio, un miracolo quasi…”

 

“Dorme… per ora, almeno.”

 

Un altro sguardo, uno solo, ed un sorrisetto le si allargò sul viso, perfettamente speculare a quello di lui.

 

“Che dici? In fondo, la pasta al forno è pure più buona riscaldata, no? E se ha aspettato fino a mo, può aspettare pure un altro po’...” 

 

“E poi… oggi ho corso tanto, sono tutto sudato… una bella doccia mi ci vorrebbe proprio e-”

 

“E anche io, sapessi… tra il forno caldo, il ragù bollente… e poi con quello che costa l’acqua di sti tempi…”

 

“Risparmio energetico?”

 

Bastarono quelle sillabe, pronunciate con lo sguardo da impunito massimo per lanciarglisi addosso, facendolo finire contro al muro, in un bacio da impazzire, mentre sentiva dita sulle cosce, i muscoli delle spalle sotto alle sue di dita che si contraevano per prenderla in braccio e-

 

Meooow!

 

“Eh no eh!” lo bloccò giusto in tempo, voltandosi e prendendo per la collottola Ottavia, che già sul tavolo stava a pochi centimetri dall’obiettivo.

 

“Ritiriamola in forno questa, prima che ci tocca portare qualcuna al pronto soccorso veterinario per indigestione,” fece cenno ad un confuso e un poco deluso Calogiuri, che però si riebbe subito.

 

E, nel giro di pochi secondi, uno sportello chiuso e una micia indignata posata sul divano, si trovò letteralmente senza fiato, il mondo sottosopra, sollevata a penzoloni sopra una spalla di Calogiuri, proprio come ai vecchi tempi.

 

Le venne da ridere ma si tappò la bocca, che ci mancava che qualcuno si svegliasse proprio mo e sarebbe potuta impazzire del tutto.

 

Gli lasciò condurre il gioco giusto giusto il tempo di aprire e richiudere la porta del bagno, poi, dalla posizione di favore in cui era, gli assestò un pizzicotto su una natica che lo fece per un attimo traballare e ne approfittò per tornare con i piedi per terra e, afferrandolo per il maglioncino leggero, trascinarlo appresso a sé dentro la doccia, che aprì senza troppe cerimonie, inzuppando i vestiti che facevano a gara a levarsi, tra un bacio e l’altro, tra un morsetto e l’altro sul collo, buttandoli sul pavimento tonfo sordo dopo tonfo sordo, finché non fu finalmente intrappolata tra il calore della pelle sulla sua ed il gelo delle piastrelle, come era da troppo che non succedeva.

 

Ma Calogiuri sembrava tenere botta in tutti i sensi e-

 

Il primo gemito soffocato nell’incavo del collo di lui, un lieve accenno di barba serale che le pizzicava la guancia.

 

E altroché se teneva botta, mannaggia a lui, mannaggia!

 

Ma anche a causa dell’astinenza, fu tutto veloce, velocissimo, grido soffocato dopo grido soffocato, fino a trovarsi sciolta, senza fiato, a scivolare lentamente insieme a lui verso il piatto doccia, respirando vapore acqueo ed endorfine.

 

Spalmata su di lui per riprendere fiato, le mani che si levavano i capelli zuppi dal viso a vicenda, si concessero un bacio lungo, lunghissimo, tra un respiro e l’altro, mo che la fame maggiore era stata saziata.

 

E però, ben presto, tra un bacio e l’altro, una coccola e l’altra… tutti gli arretrati si fecero di nuovo sentire e non solo per lei… notò con una certa soddisfazione, mentre dal collo scendeva sempre più giù con baci e morsi e-

 

Due mani le fermarono il viso, portandola a sollevarlo e a guardare in quegli occhi scuri, scurissimi, le iridi quasi scomparse.

 

“Se dobbiamo fare… veloce… che magari c’abbiamo i minuti contati, non-”

 

“Ma non ti voglio spaccare la schiena e le braccia, Calogiù, quindi mo ti rilassi e-”

 

“E non se ne parla proprio! Qua altro che relax mo!” esclamò lui, deciso, in un modo che fu un altro picco ormonale a tradimento e lo vide sollevarsi e poi si sentì trascinata in piedi insieme a lui e, a sorpresa, dentro e poi fuori dal getto, finché la spugna del tappetino del bagno le solleticò sotto ai piedi.

 

“Ma…” fece in tempo a chiedere, confusa, quando si trovò sollevata a forza di braccia su una superficie asciutta ma tutt’altro che ferma.

 

“La lavatrice, Calogiù?” chiese, divertita, ringraziando il cielo di aver avuto la pensata, durante la lunga attesa, di mettere a lavare i mille panni sporchi di Francesco, che quindi mo stavano giusto giusto alla centrifuga.

 

“Tanto allagamento per allagamento…” proclamò lui, sornione, prima di sussurrarle, “e dopo mi sa che ci servirà pure un’altra doccia, come minimo.”

 

“Sarà meglio per te!” fece in tempo ad esclamare, prima che l’impunito la intrappolasse in una posizione che le levò ogni pensiero, tranne come tapparsi la bocca per non gridare.

 

Mannaggia sempre a lui!

 

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“Stavolta ti sei superata. In tutti i sensi.”

 

Non riuscì a trattenere un sorriso sornione, godendosi l’espressione di totale beatitudine di Calogiuri alla seconda cucchiaiata di pasta al forno che sì, riscaldata e dopo certe… attività estenuanti aveva tutto un altro sapore.

 

Si stiracchiò un poco, i muscoli deliziosamente indolenziti, stringendosi di più a lui, mentre pure lei si ingollava un altro bel morso di pasta, ragù e una polpettina.

 

Erano seduti sul divano, mezzi abbracciati, ancora in accappatoio, i piedi nudi sul tavolino, a mangiare rigorosamente dalla teglia, poggiata giusto giusto su una presina per evitare ustioni, come quei momenti imponevano.

 

Non era sicura che esistesse un paradiso ma, se ci stava, doveva essere molto ma molto simile a quello.

 

Meoooow!

 

“Eccallà!” sospirò, sentendo prima l’inconfondibile gratticchiare della lingua di Ottavia su una caviglia e poi trovandosela accanto sul divano, a guardarla con quegli occhioni da denuncia.

 

“Ottà, già hai mangiato una scatoletta extra di salmone dopo tutta la scena madre che hai fatto per il bagno profanato, mo basta!”

 

Calogiuri scoppiò a ridere e come dargli torto, visto che Ottavia fece di nuovo uno sguardo disgustato prima e di riprovazione poi.

 

Ma mai come quando avevano riaperto il bagno e lei c’era entrata giusto con due zampe, si era guardata intorno in tutto il casino, tra allagamento, oggetti buttati per terra e vestiti zuppi, li aveva fulminati come a dire come avete osato profanare il mio regno?! e, dopo una specie di conato di vomito ed un’occhiata d’avvertimento di pulire ed igienizzare tutto, era scappata, offesa a morte.

 

E quindi, dopo aver risistemato il casino, per tenerla buona mentre si scaldavano le lasagne, le avevano concesso una scatoletta in più.

 

Ma mo li guardava di nuovo implorante, con tanto di zampettata sulla sua coscia, come a dire e a me? E a me? E a me?

 

“Va beh, Ottà, una polpetta, una te la possiamo concedere,” cedette Calogiuri, dopo un’occhiata di intesa con lei, afferrando una polpettina con due dita e porgendola alla gatta, imboccandola con una tenerezza che rivaleggiava quella che aveva con Francé.

 

Weeee weeeee

 

“Eccallà di nuovo! E te pareva! Tu c’hai proprio il radar c’hai!”

 

Dal suo ovetto, come un re sul trono, Francesco, risvegliato forse dalle voci e dai miagolii, forse dal profumo della pasta al forno, aveva non solo ripreso ad esercitare la sua ugola d’oro, anche se ancora a bassi livelli di decibel, ma anche a muovere compulsivamente braccina e piedini come faceva quando voleva farsi prendere in braccio.

 

“Vado io, tanto ci tocca tenerlo in mezzo qua,” propose Calogiuri, dopo averle scoccato un bacio al sapore di polpette, estraendo con infinita delicatezza il piccolo ululatore dal suo giaciglio e poggiandolo in grembo tra di loro, mentre lei aveva spostato la teglia sul tavolino, per sicurezza.

 

Come sempre, Francé smise di piangere non appena le fu addosso ma, a differenza del solito, dopo poco, cominciò a protendersi in avanti, verso l’ambitissimo cibo.

 

Si guardarono e, di nuovo con un altro cenno di intesa, Calogiuri prese la teglia e, con la sua forchetta, divise una polpettina fino a renderla sicura per la boccuccia che tante gioie e dolori dava alle loro notti semi insonni e lo imboccò.

 

Francesco, per tutta risposta, si lasciò cadere addosso ad entrambi, le manine stese tipo papera, uno sguardo di pace e di felicità totali che la fecero ridere e commuovere al tempo stesso.

 

E poi si aggrappò sia a lei che a Calogiuri, guardandoli di nuovo entrambi in un modo che mannaggia a lui… stava imparando tutti i trucchi da Calogiuri e Ottavia.

 

Continuarono così, ad alternare cucchiaiate di pasta al forno per loro a pezzettini per il piccolo buongustaio e sì, il paradiso doveva proprio essere fatto così, senza alcun’ombra di dubbio.

 

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“E quindi mia moglie ha deciso da sola di andare a Roma, senza chiedere il mio permesso.”

 

“Come può sentire, signor giudice, la moglie del mio assistito ha abbandonato unilateralmente il tetto coniugale e-”

 

“E signor giudice, vorrei ricordare al signor Minichiello e all’avvocato Pace, che il tetto coniugale in questo caso altro non era che la residenza dei genitori della mia assistita. Dai quali si è dovuta allontanare per il semplice fatto di aver osato mantenere rapporti con il fratello minore, ostracizzato dal resto della famiglia, come poi la mia assistita. Ci sono fior fior di prove scritte e di testimonianze di come la signora Calogiuri abbia espresso chiaramente che la mia assistita ed il fratello non dovessero più incontrarla, né fossero i benvenuti nella casa di famiglia. Non solo, il signor Minichiello non ha mai posto un’alternativa alla mia assistita, rispetto alla casa dei genitori di lei. Inoltre, sebbene faccia un lavoro che lo porta a viaggiare molto ma quindi anche, a maggior ragione, che possa essere svolto da qualsiasi base di partenza o quasi, il signor Minichiello non ha quasi mai fatto visita alla moglie e alla figlia da quando loro si sono allontanate dalla residenza di Grottaminarda. Né a Matera, né addirittura qua a Roma che, converrà con me, è uno degli snodi principali nel trasporto di merci tra nord e sud. Eppure il signor Minichiello, al di là delle feste comandate e di pochi altri momenti, ha sempre preferito tornare a Grottaminarda. Per non parlare del fatto che, al momento, la mia assistita è l’unica con un lavoro stabile ed una residenza stabile in affitto a suo nome, che le consentono di mantenere ed accudire a sua figlia, nonostante, fino ad ora, non abbia visto un euro di mantenimento da parte del signor Minichiello per la bambina.”

 

“Signor giudice, il mio assistito non ha ancora versato il mantenimento per il semplice motivo che non soltanto desidera lui l’affido della minore, ma che inoltre è convinto, come lo sono io, che la signora Minichiello-”

 

“Calogiuri,” intervenne stizzita Rosaria.


“Calogiuri abbia altri aiuti economici, avendo un compagno che ha già più che introdotto nella vita di sua figlia e questo da ben prima della separazione, già ai tempi in cui risiedeva a Matera. Per questo si chiede l’addebito e-”

 

“E non esiste alcuna prova che la relazione sentimentale tra la mia assistita e il suo attuale compagno sia iniziata da allora, anzi, tutte le prove fotografiche presentate dall’avvocato Pace risalgono a dopo l’avvenuta separazione. La mia assistita avrebbe dovuto essere folle a trasferirsi a Roma da Matera se avesse già avuto in loco una relazione sentimentale in corso, no?”


“E magari invece il trasferimento è stato fatto proprio per confondere le acque, perché le foto tradiscono un affiatamento, un’intimità, che non può essere frutto di poche settimane di relazione. Per non parlare del rapporto tra la figlia del mio assistito e l’amante-”

 

“Compagno-”

 

“Compagno della moglie, che lo tratta come un secondo padre, e questo prova che la relazione tra loro va avanti da molto tempo e-”

 

“Ed infatti un legame tra loro da molto tempo c’è, avvocato, ma quello di amicizia che, come spesso succede nella vita, si è poi trasformato in altro, una volta che la mia assistita è stata libera. E, sinceramente, lo sarebbe stata già una volta che è stata abbandonata di fatto dal marito, a maggior ragione dopo aver annunciato di volere la separazione, esasperata dall’assenza totale del Minichiello. E la familiarità con la figlia della mia assistita prova soltanto che la mia assistita è stata brava ad introdurre il nuovo compagno alla figlia ed inoltre che ha scelto un uomo solido, dal forte istinto paterno, presente e premuroso, nonostante centinaia di chilometri di distanza tra le loro residenze. Che ha saputo riempire il vuoto lasciato dall’assenza e dall’indifferenza protratte ed ingiustificate del padre biologico, che di fatto della figlia conosce ben poco e viceversa. E non certo per colpa della mia assistita che non gli ha mai negato le visite, anzi. Proprio per questo, chiediamo l’affido principale della minore alla mia assistita, naturalmente con possibilità di visite regolari per il padre, e rigettiamo fortemente ogni richiesta di addebito.”

 

Ammazza! Bravo il… nipotino.

 

Guardò Calogiuri, che sembrava soddisfatto quanto lei. Il figlio di Chiara se la stava cavando davvero bene e ringraziò il cielo che, a differenza di zio Angelo, non facesse il penalista. L’abilità nell’argomentare doveva essere di famiglia.

 

Lanciò un’occhiata al cellulare, che non si sapeva mai e temeva tantissimo che la babysitter, prestata da Irene, stesse avendo casini con la piccola peste che, per questioni di sicurezza, avevano preferito portare in tribunale ma in un’aula separata, dove stava con la tata e con Mariani.

 

Per ora niente, per fortuna: voleva seguire il procedimento il più possibile.

 

“E ora chiamiamo il prossimo testimone,” annunciò l’avvocato Pace, in un tono che non le piaceva per niente,”il signor Pietro De Ruggeri.”

 

Pietro aveva una faccia terrorizzata, anche se se lo aspettava, essendo stato convocato. Imma sperava che non si facesse spaventare ed intimidire e che la preparazione fornitagli da Galiano fosse sufficiente.

 

Con sguardo  basso e gambe un poco tremolanti, Pietro si avvicinò alla zona dei  testimoni.

 

E dai Piè, così non va! - pensò, fulminandolo con lo sguardo quando, dopo Rosa e Galiano, cercò il suo, facendogli segno di tirare su il mento e fare un respiro.

 

Se le avessero detto fino a qualche mese prima che si sarebbe un giorno trovata in una situazione del genere con il suo ex marito non ci avrebbe mai creduto.

 

“Signor De Ruggeri, le farò una domanda diretta e le ricordo che è tenuto a dire il vero. Quando ha iniziato la relazione con la moglie del mio assistito?”

 

“Dopo la loro separazione naturalmente e-”

 

“E quindi mi vuole far credere che prima non ci sia stato mai nulla, ma proprio nulla, tra di voi?”

 

Notò subito il pomo d’Adamo di Pietro abbassarsi e alzarsi, nell’atto di deglutire. Una chiara esitazione. Chiarissima per lei, figuriamoci per l’avvocato.

 

“Allora qualcosa c’è stato!” esclamò Pace, trionfante.

 

“Un bacio, un bacio dato da me,” si affrettò a precisare Pietro.

 

“Sì, come no, e noi dovremmo crederci?”

 

E fu li, di fronte al tono sprezzante dell’avvocato, allo sguardo da schiaffi di Salvo e all’aria mortificata di Rosa, che qualcosa cambiò nello sguardo di Pietro.

 

“Sì, perché lo dimostrano i fatti. Dopo che è successo, a Matera, alla festa della Bruna, Rosa mi ha subito allontanato e io l’ho capito. Tanto che è andata a Roma per rispetto del suo matrimonio e non ci siamo praticamente mai visti fino al giorno in cui è avvenuta la separazione di fatto, e solo perché ero stato invitato al pranzo di natale dalla mia ex moglie. Lo può testimoniare chiunque, anche Noemi e-”

 

“E la parola di una bambina tanto piccola, magari imbeccata dalla madre, non ha valore e-”

 

“Ma c’è il fatto che nei mesi successivi non sono praticamente mai andato a Roma, se non per mia figlia, che conosce i  miei spostamenti e con la quale soggiornavo. Ed i miei spostamenti sono facilmente verificabili. Inoltre, non solo Rosa non voleva tradire nessuno ma…neanche io, avendo provato sulla mia pelle quanto sia brutta la fine di un matrimonio. Ma, di fatto, il signor Minichiello era completamente assente dalla vita di Rosa già da molto tempo prima di quel bacio. Proprio perché era sola con Noemi in una città dove non conosceva quasi nessuno, ci siamo avvicinati come amici e poi, senza rendermene conto, mi sono innamorato di lei, piano piano. Ma non è colpa di Rosa, che è una delle persone più corrette e pulite che conosco.”


Ammazza che dichiarazione! Una piccola parte di lei era quasi risentita che Pietro avesse tirato fuori tutta sta cazzimma per Rosa e mai per lei.

 

Ma alla fine meglio tardi che mai.

 

“Il giro in moto è proprio servito,” sussurrò ironicamente a Calogiuri che fece un sorriso soddisfatto e le strinse la mano.

 

“Resta comunque non comprovabile che non abbiate intrattenuto una relazione extraconiugale, anzi, questo lo rende ancora più improbabile e-”

 

“Ma non c’è nemmeno prova del contrario. E l’addebito va comprovato da chi lo richiede. Inoltre penso che proprio l’onestà nella testimonianza del signor De Ruggeri, anche contro gli interessi suoi e della mia assistita, dimostri la sua buona fede e trasparenza.”

 

“Lo vedremo. In ogni caso per ora non ho altre domande. Passerei al prossimo testimone.”

 

Sentì Calogiuri tirare un sospiro di sollievo, in unisono col suo: avevano retto botta. Certo, qualche dubbio al giudice poteva essere sorto, ma sarebbe potuta andare molto peggio.

 

E però, dopo il sollievo, arrivò la confusione, perché si guardò intorno e, nell’aula semivuota, non c’era nessun altro che potesse testimoniare.

 

“La signora Maria Carmela Calogiuri.”

 

La mano di Calogiuri stritolò la sua e lo capì perfettamente, perché quel nome, letto anni prima nel fascicolo di un certo appuntato dagli occhioni azzurri, era quello della suocera e madre dell’anno, anzi del secolo.

 

Ed infatti la porta si aprì e fece ingresso, tutta impettita, proprio la gran signora in questione, che altro che due paroline le avrebbe detto, avesse potuto farlo.

 

Ecco chi finanziava l’avvocato a Salvo, ovviamente, anche se si chiese con quali risparmi.

 

Dopo aver lanciato loro uno sguardo sprezzante e trionfante al tempo stesso, la madre di Calogiuri si sedette al posto dei testimoni, che nemmeno una regina sul trono.

 

“Signora Calogiuri, lei è la madre di Rosaria Calogiuri, corretto?”

 

“Sì.”

 

“E che mi dice del comportamento di sua figlia, come madre e come moglie, nel periodo in cui viveva con il signor Minichiello e la loro figlia presso la sua casa di proprietà?”

 

“Mia figlia, che non riconosco più come tale, è un’irresponsabile: ha tradito non solo quel sant’uomo di Salvatore, un così bravo ragazzo, che ha sempre lavorato duro per non farle mancare niente, ma pure tutti i principi che le avevamo insegnato. Si è messa con un vecchio, che era pure il marito di quella svergognata che ha plagiato il mio figlio minore. Un marito e una moglie che si lasciano e si mettono con due fratelli: un ambiente promiscuo, di perversione assoluta. E poi mio figlio è diventato pure un criminale, è entrato in brutti giri ed è diventato violento. Ma che esempio possono mai dare a una creatura eh? Che tutto è lecito? Scambiarsi le coppie, tutte queste porcherie. Per questo per me Ippazio e Rosaria non sono più i benvenuti a casa mia: una casa di gente semplice, dai sani principi, timorata di dio. E invece Salvo… per me lui è come un figlio, non posso dirne che bene. E quindi è e sarà sempre il benvenuto da noi e merita di avere nostra nipote in affido, che quella disgraziata di Rosa non ci fa più vedere, e noi ce ne occuperemo con amore quando lui deve lavorare. Una vita sana, in campagna, con una famiglia normale, per bene, lontana da tutte queste schifezze.”

 

Ammazza se c’era andata pesante!

 

Guardò Calogiuri, preoccupata dalla sua reazione: in fondo era pur sempre sua madre.

 

“Almeno ha imparato da te che si dice plagiato e non pigiato,” sussurrò lui, in un modo sarcastico che le ricordò assurdamente se stessa, oltre che il primo, tragicomico, incontro tra lei e la sua quasi suocera.

 

“E non solo quello. Tu la conosci meglio di me ma… secondo me è stata imbeccata per bene dall’avvocato. Perversione ancora ancora ma promiscuo?”

 

Calogiuri fece un altro sorriso amaro ed annuì, perché sì, la madre del ragazzo che non sapeva cosa fosse una metafora, quelle parolone non le poteva conoscere.

 

“Signor giudice, come sente dalle parole della testimone, ne va della tutela degli interessi e della crescita sana della minore, del suo diritto di avere una famiglia completa e non solo una madre dalla vita assai discutibile, e-”

 

“E se il resto della famiglia non fa parte della vita della bambina è perché la stessa testimone ha dato alla mia cliente un ultimatum e, per sua stessa ammissione, non la vuole più vedere e, di conseguenza, nemmeno la bambina. Inoltre preciso che il maresciallo Calogiuri non solo non è mai stato condannato, ma anzi non ha più alcuna indagine a suo carico, né a livello penale, né civile, né interno all’Arma. Sta oltretutto frequentando un corso per diventare un ufficiale, con ottimi risultati e referenze da istruttori e superiori. Inoltre, a proposito della tutela della crescita sana della minore, credo sia per lei più sano avere l’esempio di una madre lavoratrice ed indipendente, come la mia cliente, che stare con un padre totalmente assente e che la bambina conosce appena. E venire, di fatto, cresciuta per la maggior parte del tempo da una donna dalla mentalità evidentemente profondamente arretrata sulla figura femminile, sui diritti delle donne e sul concetto di moralità ed etica. Che non potrà offrirle l’educazione familiare, affettiva, psicologica e civica che si merita, per non parlare dell’educazione scolastica. Le opportunità offerte da una città come Roma sono immense.”

 

Però! Ritirava quasi il pensiero di prima. Peccato che il nipotino facesse solo diritto di famiglia perché, tutto sommato, se mai avesse avuto di bisogno di un avvocato per responsabilità civile o penale - se prima o poi qualcuno l’avesse mai denunciata, come le prospettava sempre Vitali - averlo come difesa non sarebbe stato per niente male.

 

Anche Calogiuri pareva molto soddisfatto ed impressionato, mentre le sussurrò, “buon sangue non mente!” e poi fece un’espressione, quella di quando era terrorizzato di aver fatto una gaffe ed aggiunse in un fiato, “cioè non… non nel senso di Latronico e-”

 

“Non ti preoccupare, Calogiù. Se il sangue è pure di Chiara e di Galiano posso andarne orgogliosa. Com’era? Non conta i poteri che si hanno ma come li si usa?”

 

“Mi citi Harry Potter anche tu, mo? Che fai, ti prepari per Francesco?”

 

“Veramente cito un certo maresciallo, tra poco capitano, che è molto saggio, quando non ci si mette di impegno a fare lo scemo.”

 

Lo vide sporgersi leggermente ma poi bloccarsi e darle solo un’altra stretta di mano, ricordandosi esattamente di dove fossero e della sacralità del luogo, oltre che degli sguardi puntati su di loro. Ma avrebbe tanto voluto se non baciarlo almeno abbracciarlo, tantissimo.

 

“Ci sono altri testimoni, avvocato Pace?”

 

“No, signor giudice.”

 

“Lei ha altre domande avvocato Galiano?”

 

“No, signor presidente.”

 

“Allora concludo qui l’udienza di oggi e vi farò avere comunicazione al più presto su quando sarà fissata la prossima. Avvocato Pace, le ricordo che riguardo all’addebito deve essere comprovato da lei e dal suo assistito, quindi mi auguro ci saranno più prove concrete e non solo testimonianze di parte. Per il resto, sul tema dell’affido, predispongo una perizia da parte dei servizi sociali, che valuteranno sia le condizioni di vita attuali della minore con la madre, sia la situazione economica, sociale e familiare del signor Minichiello. La testimonianza della minore ed il suo parere varranno solo come ultima ratio ma mi auguro che si addivenga ad un accordo per un affido condiviso ed invito parti ed avvocati a lavorare in tal senso. Dispongo anche un’indagine economica approfondita sul patrimonio di entrambe le parti al fine di accertare l’entità dell’assegno di mantenimento, qualunque scenario si prospetti. L’udienza è aggiornata.”

 

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“A che pensi?”

 

Adorava sempre quando Calogiuri glielo chiedeva -anche se la maggior parte del tempo era una domanda retorica e lo aveva già capito da solo, ma voleva la conferma - fin dai tempi in cui glielo domandava ancora dandole del voi.

 

“Che la Bruna fa un sacco di casini Calogiù, altro che afrodisiaco!” scherzò, in un sussurro, perché il loro vero anniversario era solo loro e sperava vivamente che sarebbe rimasto tale per sempre, “anzi, direi che per me e Pietro ha fatto proprio miracoli! Che nel cambio ci è andata benissimo a tutti e due.”

 

“Eh no, eh, non sono d’accordo!” esclamò lui, tutto serio, per poi aggiungere, in un modo che la fece sciogliere, “prima di tutto, con tutto il bene per mia sorella e con tutta la felicità che Pietro sia andato avanti, e pure lei, e che stiano bene insieme, tra te e lei non ci sta proprio paragone, minimamente. E poi l’unico miracolo vero lo ha fatto a me. Che ti sei innamorata di uno lento e ciuccio com'ero io quando ci siamo conosciuti. E dove la trovavo un’altra come te?”

 

“E io allora che dovrei dire? Che quando mi paragonavi a tua madre mai avrei pensato che- che col senno di poi dovrei metterti in punizione per qualche giorno solo per il paragone fatto allora, visto il soggetto! Che io sarò pure scassapalle ma lei mi batte.”

 

Calogiuri rise e di nuovo si guardarono. E la voglia di baciarsi era tanta, troppa, e non erano più allenati a dover contenersi ogni giorno al lavoro. Ma tant’era, avrebbero dovuto riprendere l’abitudine ben presto, almeno sperava.

 

“E comunque, ripensandoci, meglio non parlare troppo di miracoli, Calogiù, che se no qua ci scomunicano se ci sentono e-”

 

“Vergogna! Non si vergogna a difendere acchist’?”

 

Eccallà! - pensò, lanciandogli un’occhiata eloquente e facendo segno con due dita, muovendole lateralmente, come a dire, come volevasi dimostrare.

 

Ma vittima dell’assalto stavolta era il povero Andrea - perché a vederlo aggredito dalla sua quasi suocera, che ci mancava solo gli desse le borsettate e poi aveva fatto tutto - le veniva da chiamarlo così. E si rendeva conto di quanto fosse ancora giovane, in fondo.

 

Non più di Calogiuri, Imma, ed è tuo nipote! - le ricordò la voce della coscienza, ma tant’era, ormai ci aveva fatto il callo.

 

“Signora, si calmi o devo far chiamare la sicurezza e mi parrebbe ridicolo, quindi non mi costringa a farlo!”

 

“E che tieni paura di me? Un vigliacco sei: tu, zì tua qua e pure quei disgraziati che na vota chiamavo figli. Figli ‘e ‘ntrocchia sono!”

 

“Mi scusi se glielo faccio notare, signora Calogiuri, ma dalla mia conoscenza di napoletano, non si sta insultando da sola così?”

 

Le venne da ridere e si trattenne a stento e sì, in fondo il nipote era da rivalutare, e di molto, in positivo.

 

Già solo perché si era prestato a infilarsi in quell’enorme casino familiare e pure per il minimo del compenso.

 

“No, perché tanto non sono più figli a me! E te che li difendi pure, ma tanto siete tutti uguali voi della vostra famiglia!” esclamò, guardando prima Andrea e poi verso di lei con fare di disprezzo.

 

“Per fortuna non siete tutti uguali nella vostra, signora,” sibilò Imma, perché quando era troppo era troppo e lei la nuora che stava zitta e si mordeva la lingua già l’aveva fatta a volte con Pietro e mo col cavolo, “e comunque io sono molto orgogliosa di… di mio nipote e di mia sorella. Che sono persone per bene: mi volevano persino riconoscere ufficialmente in famiglia, figuriamoci, se io avessi accettato, pure se economicamente non gli sarebbe convenuto e se gli ho mandato in galera l’unico altro parente in vita. E quindi di sicuro non abbandonerebbero i figli solo perché fanno scelte che non fanno comodo a loro e non sosterrebbero un cavernicolo che sta ancora all’età della pietra. O penserebbero di avere il diritto di crescere una creatura togliendola alla madre che può occuparsene benissimo e per molti più anni di voi. Ma evidentemente tutto l’egoismo della famiglia ve lo siete tenuto voi e ai vostri figli niente, per fortuna per me.”

 

“E sì, perché te fa comodo a te e a quell’altro puorco con cui stavi maritata ca so’ du scem’!” urlò sua suocera, in un modo che le fece temere per un attimo la volesse menare, ma Calogiuri si mise letteralmente in mezzo.


“Basta mo! Che non lo capisci che ti stai rendendo ridicola? E se ti sente il giudice altro che affido ti dà con tutta st’ammuina che stai facendo. Non ti permetto di parlare così ad Imma. E Imma, grazie, ma con mia madre mi difendo da solo, che non ti devi prendere tu le male parole al posto mio.”

 

Dire che ne fosse orgogliosa era dire poco, perché Calogiuri era deciso, decisissimo, e trasmetteva una sicurezza, un’autorevolezza che… il corso gli stava facendo proprio bene, non che non la stesse acquisendo pian piano già da prima.

 

“Sì, dai mamma, cerca di calmarti. Non ti fa bene alla pressione, lo sai.”

 

Era stato Modesto a parlare, con un fil di voce, forse ancora più flebile di quando l’avevano conosciuto.

 

E lo vide e notò anche, incollata al suo braccio peggio di Matarazzo quando si era attaccata a cozza a Calogiuri, convinta di esserne la fidanzata, una tipa che riconobbe come la famosa Enrica, la fidanzata.

 

“Modè, ma che stai a pazzià? Tua madre tiene ragione, tiene. Mica vorrai metterti dalla parte di sti scostumati? Cà noi teniamo i valori, i principi, mica come questi che si credono di fare i signori in città e poi come si sta al mondo manco lo sanno.”

 

“Grazie, cara, tu sì che sei figlia ammè!”

 

Sentì come uno strappo muscolare appena sotto al soppracciglio, che doveva essere giunto ben oltre al limite fisiologico, al solo vedere futura nuora e suocera che si stringevano le mani, che veramente manco in una commedia dei De Filippo o in un Musicarello c’era tanto melodramma - e peraltro perfino questi ultimi erano scritti assai meglio.

 

Del resto, per accettare un matrimonio combinato, anche la famosa Enrica non doveva essere esattamente di mentalità progressita ed emancipata, anzi.

 

Pure se le faceva un po’ pena, nel suo essere così urticante. A volte invidiava chi aveva tutte le certezze nella vita, chi affidava tutto ad un dogma e lo seguiva pedissequamente, senza pensare. Quanti problemi in meno ci stavano a vivere così! Ma poi… lei teneva Calogiuri, Enrica il povero Modesto che magari sarebbe stato pure un ottimo marito, ma per qualcuno che c’aveva pure il cromosoma Y.

 

Il padre di Calogiuri, in tutto quello, stava tre passi indietro la moglie, neanche fosse stato il principe consorte. Evidentemente, più che per rispetto, per timore di attirare attenzione ed urla su di sé.


E fu proprio in quel momento, mentre Modesto provava a dire qualche cosa che non avrebbe mai saputo, mentre Andrea li guardava con commiserazione e pure un poco di preoccupazione - forse temeva cene di famiglia allargatissime in futuro? - e Calogiuri sembrava voler sprofondare da un lato ed incazzosissimo dall’altro, che sentì un altro urlo, ben più incazzoso ed inconfondibile.

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

Francè! - pensò, voltandosi in perfetto sincronismo con Calogiuri verso la fonte dei decibel extra che proprio non mancavano a quel corridoio.

 

Lo vide, scurissimo in faccia, in tutti i sensi, che si agitava in braccio alla povera babysitter mentre Mariani cercava di evitare che cascasse.


“Mi scusi, dottoressa ma… non riesco più a calmarlo e ho paura che si senta male.”

 

Un singolo cenno della mano per dirle di non preoccuparsi - come poteva non capirla? - e con un “Francé, stai calmo, non succede niente, che c’hai mo?” si avvicinò e, ancora prima di prenderlo in braccio, bastò la sua voce perché lui si calmasse un attimo e la guardasse con due occhioni tutti arrossati.

 

Un peso infinito ma dolce sullo stomaco - del resto, Calogiuri era stato il primo a farle scoprire quanto pesasse la tenerezza - lo raggiunse in un paio di ultime falcate e lo sollevò, appoggiandoselo al petto e alla spalla, per cercare di tranquillizzarlo del tutto.

 

Ma lui sollevò leggermente il capo e, guardandola con un sorrisone mezzo sdentato, la afferrò per le guance e le piantò un bacione da scioglimento, seguito però da uno sguardo di rimprovero come a dire non mi lasciare più, se no spacco tutto!

 

Tutti gelosoni i suoi uomini.

 

Sentì un altro peso, molto più leggero ma altrettanto caldo, sulla spalla. Era Calogiuri che le faceva segno se fosse tutto ok e se voleva che lo prendesse lui. Ma Imma sapeva che, per il bene dei timpani e del tribunale, già troppo contaminato da rumori molesti, non era il caso. E quindi scosse il capo, mentre lui fece una carezza a Francesco con quella delicatezza che aveva solo lui, con quella sacralità che aveva nel trattare non solo le persone che amava, ma anche il loro mestiere, che amava quanto lei.


Come avrebbe mai potuto non innamorarsi di lui?

 

“E chi è 'chisto mo?”

 

Alzò gli occhi al soffitto, chiedendo a chiunque potesse sentirla di armarla della pazienza necessaria per non traumatizzare di più il povero Francesco, pure se a lui - come a Noemi da piccola - piaceva quando lei sbottava e cazziava qualcuno.

 

La mano di Calogiuri si strinse di più sulla sua spalla e le fece un cenno come a dirle lascia fare a me, al che lei rispose con quella che era un se esagera però non garantisco e lui le sorrise rapidamente, prima di adottare lo sguardo di quando andava in missione.

 

Si voltarono, di nuovo all’unisono, la mano di Calogiuri che la lasciava solo per un attimo, prima di cingerla ancora meglio per le spalle.

 

“Di chi è sta criatura? Che facesti un figlio e non ce lo dicesti? Ma no, questo è troppo nir’ nir’ ppè essere figlie toje! E poi in effetti a’ signora ‘cca altre criature… campa cavallo ca l'evera cresce, che n’ato po’ tiene l’età mia.”

 

“Mamma!” esclamò Calogiuri, furente come lo era solo quando qualcuno osava toccargli lei - e ora pure il piccoletto.

 

Ma, anche se era una nota dolente, dolentissima, il non aver potuto dare a Calogiuri un figlio naturale e anche se, probabilmente, non sarebbe mai successo, visto che il ciclo pure quel mese aveva saltato e molto probabilmente era già in menopausa… di fronte a tanta ignoranza, non intesa solo come mancanza di cultura ma come povertà d’animo, in fondo, le veniva quasi da ridere.

 

Una matriarca che odiava le donne che volevano farsi la loro vita, quando lei era la prima non solo a decidere della sua di vita, ma pure a tentare di farlo con quelle di tutti gli altri, a comandare tutti a bacchetta.

 

“Prima di tutto Imma è assai più giovane di te, e non solo come anni ma di spirito. E francamente è messa molto meglio di molte ragazze che di giovane hanno solamente l’età anagrafica, in tutti i sensi,” esclamò, lanciando un’occhiataccia ad Enrica che ridacchiava a qualsiasi cosa diceva la futura suocera e che non colse minimamente la frecciata, “inoltre Francesco è un bimbo che abbiamo avuto in affido, per ora temporaneo. Ma potrebbe un giorno diventare definitivo. E comunque i figli sono di chi li cresce e si può essere genitori ed avere una famiglia anche senza alcun legame di sangue o con un colore diverso della pelle - per fortuna di Francè, con tutto quello che mi sono ustionato io nei campi! E si può invece non essere affatto genitori e non volerlo essere pure avendo messo al mondo qualcuno, magari pure più di uno. Perché le criature fanno comodo solo finché sono come oggetti, che non c’hanno l’opinione loro, che magari è diversa dalla tua, no, mà? O finché sono manipolabili con i sensi di colpa, le minacce e gli ultimatum.”

 

E, mentre Calogiuri fulminava non solo la madre, ma pure, sebbene in modo diverso, il padre ed il povero Modesto - che pareva voler sprofondare sempre di più ad ogni secondo che passava - Francesco rise e, straordinariamente, si sporse verso di lui, per farsi prendere in braccio.

 

Forse era stato solo per il tono, ma le piaceva pensare che il piccoletto avesse capito, se non le parole, almeno il loro significato più intimo. E nel modo in cui Calogiuri se lo strinse e se lo baciò, c’erano dentro così tante cose, da lasciarla, per una volta, senza parole.

 

Ma non servirono, perché un’altra voce ruppe l’attimo di silenzio e fu quella di Pietro, che nel frattempo doveva averli raggiunti insieme a Rosa.

 

“Direi che mo ce ne possiamo pure andare, che ne abbiamo già sentite abbastanza e, lo so benissimo, è inutile parlare con un muro, ma mia madre in confronto è quasi pacata.”

 

“Piè, non so se è perché non la frequenti da un po’, o perché non la frequento io da un po’, ma mi tocca quasi darti ragione. Anche se tra tutti e due… è una dura lotta eh. Condoglianze!”

 

Diede giusto una pacca sulla spalla a Pietro ed una a Rosa e poi, seguendo il loro esempio, accanto a Francesco che ridacchiava bello bello, rimbalzando in braccio a Calogiuri, si avviò verso l’uscita, con la babysitter e Mariani di scorta.

 

“Ma che ci trovi in sto vecchio, eh?”

 

Proprio quando stavano per guadagnare la fine del corridoio, era arrivata l’ennesima voce sprezzante, ma stavolta di Salvo che, fino a quel momento, se ne era stato zitto zitto.

 

E invece, nonostante l’avvocato cercasse di trattenerlo - con la matrona non ci aveva nemmeno provato, evidentemente Pace aveva un notevole spirito di conservazione - si stava avvicinando a loro, con quell’atteggiamento tra il bulletto ed il mezzogiorno di fuoco che le dava sui nervi in qualunque essere umano di sesso maschile - perché di solito le donne non camminavano così, mica per altro.


“Si può sapere che ci trovi, eh? Cos’ha baffetto che io non ho, eh? I soldi?”

 

Eccallà! L’ennesimo insulto maschilista.

 

Calogiuri fece per passarle Francesco, per mettersi in mezzo, ma Pietro si parò davanti a Rosa, sempre più coraggioso, almeno finché Rosa non gli mise una mano sulla spalla e si fece a sua volta avanti lei, in un modo che le ricordava tantissimo il fratello quando voleva cavarsela da solo. Cape toste, i Calogiuri.

 

“Troppe cose per elencarle tutte, Salvo. Le prime che mi vengono in mente, la gentilezza, la presenza, il volere la mia felicità, l’istinto paterno, gli attributi.”

 

Però! Manco la sorellina se la cavava male!

 

Lanciò un’occhiata a Calogiuri che pareva molto ma molto orgoglioso.

 

“Se, gli attributi!” ridacchiò Salvo, ignorando tutta la parte prima che, per un uomo non Neanderthaliano, sarebbe stata pure peggio, ma lui no, quello lo aveva punto sul vivo, “ma se con l’età che tiene… manco funzioneranno, che chissà quante pasticche s’à da piglià!

 

“Veramente funzionano benissimo e li sa pure usare molto meglio di te, se è solo per questo.”

 

Per poco non si strozzò ed un colpo di tosse risuonò in unisono al suo: era Calogiuri, che si affrettò a lasciarle Francesco mentre rantolava e poi, dopo qualche colpo alla schiena, le sussurrò, “ma… ma è vero che…?”

 

“Ma che sei geloso di tua sorella o di me?” rise, perché la faccia paonazza e sconvolta di Calogiuri era da incorniciare.

 

“Di tutte e due, più di te, ovviamente ma… insomma… non volevo immaginare… certe cose e poi-”

 

“Manco io, Calogiù, ma… siamo tutti adulti, no? E comunque…” aggiunse in un sussurro all’orecchio che lo sentisse solo lui, “Pietro… non è male per la carità o, mi conosci, non avrei resistito vent’anni di matrimonio ma… tu sei su un altro pianeta proprio. Quindi… Rosa con Salvo doveva proprio stare in carestia e mi sa che lui c’avrebbe bisogno di qualche corso accelerato su come si fa.”

 

Calogiuri scoppiò a ridere e anche Francesco, sicuramente solo per solidarietà - o almeno sperava - ed udì un’altra serie di colpi di tosse, che manco a scuola di Valentina in piena stagione influenzale.

 

Era Andrea che, se ne era resa conto solo in quel momento, stava proprio a fianco a lei, dall’altra parte rispetto a Calogiuri, e doveva aver sentito tutto o quasi.

 

“Sei più pentito di aver accettato il caso o della parentela?” ironizzò, anche se, poraccio anche lui, lo capiva benissimo.

 

Finito l’ultimo colpo, Andrea la guardò, rossastro pure lui, e le disse, “diciamo che… visto il resto della famiglia… meglio far l’amore che la guerra, no?”

 

Le venne da ridere, Calogiuri che esplose in altri colpi di tosse, alla consapevolezza definitiva che Galiano aveva sentito proprio tutto.

 

E sì, niente male il nipotino, per niente.

 

Ora dovevano solo uscire vivi di lì.

 

*********************************************************************************************************

 

“Quali sono le sanzioni disciplinari applicabili ai carabinieri, come si classificano e da chi possono venire richieste o comminate?”

 

“Ci sono le sanzioni disciplinari di corpo e le sanzioni disciplinari di stato. Le sanzioni disciplinari di corpo sono il richiamo, il rimprovero, la consegna e la consegna di rigore. Le sanzioni disciplinari di stato possono prevedere: la rimozione, che comporta la perdita del grado; la sospensione disciplinare dall’impiego o dal servizio; la sospensione disciplinare dalle funzioni o attribuzioni del grado, applicabile solo per chi è in congedo; la cessazione dalla ferma volontaria o dalla rafferma per motivi disciplinari. Purtroppo alcune di queste le conosco molto bene. Vuoi anche che ti dettagli in cosa consistono le singole sanzioni e quando vengono di solito applicate?”

 

Capiva bene il retrogusto amaro nell’esposizione di Calogiuri, visto quanto gli era successo, però era stato impeccabile, parola per parola. Forse, un giorno, le sanzioni sarebbe toccato proprio a lui deciderle. E, ne era certa, sarebbe stato equo, imparziale, ma anche inflessibile qualora necessario.

 

Stavano cercando di recuperare sullo studio, dopo la giornata campale. Anche se, rispetto ai primi insegnamenti che gli aveva impartito ed alle prime interrogazioni - e interrogatori - che gli aveva fatto, il contesto era quanto di più informale, familiare e lontano anni luce da ogni ordine e disciplina possibile.


Erano seduti a letto, dopo essere finalmente riusciti, tra coccole e cibo, ad azzittire gli ululati di Francesco e a farlo dormire: rannicchiato in mezzo a loro, una manina a tenere il pigiama di ognuno, anche se sempre più vicino a lei stava.

 

Ottavia li osservava, annoiata ed acciambellata mollemente ai loro piedi.

 

Avevano stabilito un metodo di studio, pure quello molto poco ortodosso, per il quale alternavano risposte corrette e consultazione dei tomi sulle loro gambe al gustarsi i lampascioni, le olive ed i peperoni cruschi portati da Pietro, insieme alle salsicce, al pecorino e al caciocavallo podolico. Un po’ come compenso per l’aiuto alla causa di Rosa, un po’ probabilmente anche come calumet della pace gastronomico - che mo, oltre all’ex moglie da tenere buona, c’aveva pure il futuro cognato.

 

Però loro se lo stavano spazzando ben volentieri, insieme ad un buon vino dei colli, che tanto la contaminazione enogastronomica ci stava benissimo.

 

“Un altro po’ di vino?” le chiese Calogiuri, ricordandole assurdamente la domanda imbarazzata della loro prima cena insieme.

 

Ma, se allora aveva avuto bisogno di affogare nell’ebbrezza il non saper bene che pesci pigliare - o meglio il sapere bene quale pesce voleva pigliare, ma non come, né se ne avrebbe avuto il coraggio - ora il vino era semplicemente un piacevole accompagnamento al relax serale.

 

Stava per ribattere ironicamente che poi le risposte giuste doveva andarle a chiedere a Irene o a Mancini, se continuavano così, quando per poco non cascò a lei il bicchiere e a lui la bottiglia.

 

Guardò l’ora: le ventitré passate.

 

A quell’ora o era la procura o era sua figlia.


Un casino in ogni caso.

 

Afferrò il telefono ma no, era un numero sconosciuto di Roma.

 

Per un attimo fu tentata di ignorare, ma gli squilli continuavano e poteva essere qualcosa di importante.

 

Preparandosi mentalmente a maledire l’eventuale sventurato ed incauto operatore di call center, premette l’icona verde e portò il telefono all’orecchio con un “pronto?” che non faceva nulla per nascondere la scocciatura.

 

“La dottoressa Tataranni?” domandò una voce femminile, abbastanza giovane ma non troppo, e che sì, aveva ben colto il suo tono.

 

“Chi parla?” chiede di rimando, perché sapeva bene che, prima di identificarsi, era meglio far scoprire le carte al chiamante.

 

“Sono la dottoressa Tulli. Chiamo per informarla che la paziente Melania Russo si è risvegliata dal coma, un paio di ore fa. Fatica un po’ ad esprimersi ed ha capacità motorie limitate, ma pare cosciente e capace di intendere e di volere. Ha chiesto di lei e del maresciallo Calogiuri. Vuole parlarvi urgentemente ed ha insistito tanto che… ho pensato di chiamarvi, nonostante l’orario: non voglio che si agiti e si affatichi ulteriormente e per lei ogni parola in questo momento è una grande fatica.”

 

Fu come un pugno dritto allo stomaco e gli occhi le si inumidirono.

 

Da un lato c’era sollievo, per un incubo che finiva, perché finalmente la verità sarebbe stata dichiarata dalla stessa Melita, in modo incontrovertibile. Dall’altro… non poté fare a meno di guardare il viso tranquillo e sereno di Francesco, la boccuccia corrucciata in modo adorabile nel sonno.

 

Melita era sua madre e… se, come auspicabile, si fosse ripresa a sufficienza, sarebbe stata lei a occuparsene ed il loro affido temporaneo sarebbe finito.

 

E quello, insieme alla quasi certezza della menopausa ed allo sguardo curioso e preoccupato di Calogiuri, fu una mazzata enorme da assorbire, tanto che il telefono le tremò in mano.

 

Era giusto così ma non era giusto per Calogiuri e lo sapeva.

 

“Che succede?” le domandò, con quegli occhi da denuncia e le mani grandi sulle sue spalle, per farle forza.

 

Ma avrebbe dovuto farne anche e soprattutto lei a lui.

 

E non era giusto che lui passasse tutto quello, chissà magari quante volte ancora, solo perché lei… perché lei non poteva dargli un figlio biologico.


“Melita…” sussurrò, la voce di cartavetra, prima di bere d'un sorso il vino rimasto, posare il calice e pronunciare, più decisa, “Melita si è svegliata e chiede di noi.”

 

Non servì altro: il viso di Calogiuri esprimeva tutto meglio che qualsiasi parola.

 

E, mentre la dottoressa le chiedeva se fosse ancora in linea e se potessero andare in ospedale con urgenza, mentre udiva la sua stessa voce pronunciare in modo meccanico che dovevano trovare una babysitter, che l’avrebbero raggiunta il prima possibile e se qualcuno avesse avvertito la procura, la dottoressa Ferrari e il dottor Mancini, che lei non si occupava più del caso, il calore di Francesco, stretto ora più forte alla sua gamba, le bruciava in un modo quasi insopportabile.

 

Ma del resto, per ogni cosa bella c’era un prezzo caro, carissimo da pagare. La vita prima o poi ti presentava il conto e lo sapeva meglio di chiunque altro.



 

Nota dell’autrice: Lo so, è passata una vita dall’ultimo capitolo da me pubblicato ma proprio la vita ci ha messo letteralmente lo zampino, tra impegni di lavoro, viaggi e svariati blocchi nella scrittura.

Spero che il capitolo sia valso la lunghissima attesa e posso anticipare che anche nel prossimo ci sarà un evento atteso, attesissimo, che risponderà a molte delle vostre domande.

Vi ringrazio infinitamente per avermi seguita fin qui, per tutti i messaggi di supporto e per chiedermi quando sarei riuscita a pubblicare, per le recensioni ed i commenti. Grazie a chi ha aggiunto questa storia ai preferiti o ai seguiti.

Grazie fin da ora se vorrete farmi sapere che ne pensate di questo capitolo, dopo tutto questo tempo, se mi sono arrugginita o sto proseguendo nella direzione giusta e se la storia vi prende ancora.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare, nelle intenzioni, tra due settimane, domenica 12 giugno ma, se non fosse possibile, vi avvertirò sulla pagina autore.

Grazie mille ancora di cuore!

 

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Capitolo 72
*** Senza Fiato ***


Nessun Alibi

 


Capitolo 72 - Senza Fiato


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Eccoci qua. Siete sicuri che ve la sentite? Perché se no posso parlarle io ora e voi in un secondo momento. Da quanto ho capito dalla dottoressa, le condizioni sono stabili, anche se ovviamente è molto fragile e debole. Poi i muscoli inutilizzati per così tanti mesi… anche solo enunciare le parole è uno sforzo, ovviamente. Però per ora, a parte le ferite e i danni ad ossa e muscoli, non parrebbe esserci la certezza di danni neurologici definitivi. Che, considerate le sue condizioni dopo il pestaggio, è un mezzo miracolo. Forse pure più che mezzo.”

 

Sospirò, perché da un lato era un’ottima notizia, un miracolo di quelli veri. Dall’altro… sentirsela era una parola proprio.

 

Si guardò con Calogiuri, per una volta accanto a lei nel sedile posteriore dell’auto di servizio assegnata ad Irene, che era invece seduta al lato passeggero.

 

Alla guida c’era Mariani, con i cui occhioni azzurri, riflessi nello specchietto retrovisore, aveva scambiato ben più di un’occhiata. E sapeva che li capiva, anche se non poteva capire del tutto, dal modo dispiaciuto e quasi imbarazzato con il quale reggeva il suo sguardo, prima di rivolgerlo alla strada.

 

Calogiuri invece, proprio come lei, aveva l’aria di uno che non sapeva bene che pesci pigliare, che non sapeva cosa provare e che, sempre come lei, forse non sarebbe mai stato pronto del tutto a quell’incontro.

 

Lui, oltretutto, aveva pure più motivi di lei per essere in conflitto riguardo a Melita, dopo tutte le accuse di lei e dopo che, anche se per costrizione di un ricatto tremendo, gli aveva quasi rovinato la vita.

 

Ma la ragione principale, lo sapeva bene, non stava in quello. Calogiuri era un buono, fino in fondo, e pure se era diventato più cauto, accorto e smaliziato, aveva un’enorme capacità di perdono, come dimostrato da quanto le aveva raccontato del confronto e chiarimento con Conti.

 

No, il nucleo del dilemma stava in quello scricciolo ululante che ora stava a casa loro insieme alla babysitter di Irene e alla povera Bianca che, quando aveva incrociato sul pianerottolo, pareva morta dal sonno.

 

Se quella bimba fosse diventata una serial killer, avrebbe chiesto per lei il minimo della pena, con tutti gli sballottamenti e la pazienza che aveva avuto in quegli anni.

 

“O prima o dopo non cambierebbe niente e… se ha chiesto di noi, con noi forse si aprirà di più, specie se non riesce a dire molte parole.”

 

Le venne da commuoversi al commento di Calogiuri perché lui invece ad usare le parole era diventato capace eccome, superando non limitazioni fisiche, certo, ma questo non rendeva quello che era diventato meno importante.

 

Gli strinse la mano e lui ricambiò, semplicemente, perché bastavano gli sguardi a dirsi tutto.

 

“In ogni caso, ovviamente voi registrerete tutto, immagino? Non che si inventino che l’abbiamo manipolata o minacciata, specie Calogiuri.”

 

“Certo, anzi entrerà Mariani con voi, anche se resterà sulla porta. Sarà tutto documentato nei minimi dettagli, non vi preoccupate. In questo maxi processo le procedure vanno seguite alla lettera e pure di più, ormai è chiarissimo. Ma questo potrebbe essere il tassello mancante per far crollare ogni speranza di difesa residua dei Romaniello, dell’avvocato e di tutto il resto della cupola.”

 

Con un cenno deciso, aprirono le portiere, all’unisono, e scesero dalla macchina, proprio come ai vecchi tempi.

 

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“Mi raccomando di mantenere sempre indosso tutte le protezioni e, qualora vi chiedessimo di lasciare la stanza, di farlo subito. Intesi?”

 

“Eh certo!” rispose intabarrata, come Calogiuri e Mariani, in una specie di tuta verde di quelle che di solito usavano quelli della scientifica, copriscarpe, mascherina e perfino retina per i capelli - che i suoi ricci, come minimo, sarebbero diventati peggio di quando andava in moto con Calogiuri.

 

Aveva pure dovuto rinunciare a tutti i gioielli, anello di fidanzamento incluso. Sentiva ormai una specie di fitta al petto quando lo toglieva, anche quando lo faceva a casa per i pochi minuti necessari per non rovinarlo, ma a maggior ragione nel doverlo consegnare ad estranei.

 

Non ci poteva fare niente, non era mai stata così tanto legata a dei simboli materiali ma, da quando Calogiuri glielo aveva restituito, si sentiva nuda senza e le tornavano in mente le brutte sensazioni di quei mesi orribili.

 

Però capiva le cautele della dottoressa Tulli: Melita era già così fragile e non potevano rischiare infezioni.

 

Quindi assentì, anche se normalmente per levarla dalla stanza di chiunque durante un interrogatorio ci volevano i corazzieri e forse manco quelli, ma sapeva che era importantissimo sentire quello che Melita aveva da dire, metterlo nero su bianco, registrarlo, e quindi dovevano fare tutto il possibile anche per non farla agitare.

 

La dottoressa sbloccò la porta, che si aprì con uno scatto, ed entrò per prima Mariani, da tradizione, seguita poi da lei e Calogiuri, sempre come se fosse una procedura normale.

 

Ma il fiato le si bloccò in gola non appena scorse il viso di Melita e quello che emergeva dei suoi arti, tra un ferro e l’altro per tenerli insieme.

 

Il volto, pure dopo tutto quel tempo, era attraversato da ferite non ancora del tutto scomparse e che probabilmente le sarebbero rimaste come cicatrici. Una le correva sulle labbra, spaccate e poi ricucite, un’altra tra sopracciglio e naso, ed erano solo le più evidenti. Sembrava una reduce di guerra.

 

Le braccia e le gambe erano piene di tiranti e, anche lì, sicuramente sarebbero rimasti segni indelebili, anche ammesso che ne avesse mai recuperato in pieno l’uso.

 

Eppure c’era ancora una bellezza assurda in quel viso, quel tipo di bellezza che paragonava a Matera, alla Lucania: alla sua terra martoriata ma fiera, viva, nonostante tutto.

 

Forse per quegli occhi che si erano aperti all’improvviso e poi spalancati, prima di velarsi di lacrime.


“I… Im… ma?” le chiese, a fatica, un colpo di tosse che vibrò col metallo da cui era trafitta e sembrò quasi un boato nella stanza.

 

La voce non pareva la sua, ma neanche quasi una voce umana: era un qualcosa gutturale di chi a stento ricorda come si fa a produrre suono.

 

Tanto rimase bloccata da tutta quella scena, che Melita la precedette ed enunciò, stavolta senza tossire, ma comunque con una fatica tremenda, “I… Ippa… zio?”

 

Gli occhi di Melita non erano più nei suoi ma guardavano verso Calogiuri che, a sua volta, era paralizzato quanto lei e ricambiava lo sguardo in un modo che… le sarebbe venuto d’istinto di prendergli una mano, per fargli forza. Ma, a parte che erano entrambi guantati, non voleva che sembrasse un gesto di possessività o di sfida e quindi si trattenne a stento, limitandosi ad osservare gli occhi di Calogiuri farsi lucidi e quell’aria tra il dolore ed una traccia di rabbia - se verso Melita, o più probabilmente, verso chi l’aveva ridotta così, difficile da dire con certezza - e poi di nuovo per un attimo confusione, seguita però, nel giro di qualche secondo, da una decisione che sempre più spesso leggeva nel volto di Calogiuri.

 

Si trovò con gli occhi azzurri nei suoi e quella decisione, quasi come a volerla rassicurare, si unì a un come ti senti? non verbale, di quelli che a milioni se ne erano scambiati da quando si conoscevano.

 

Lo tranquillizzò e si rivolse nuovamente verso Melita, i cui occhi erano ormai completamente bagnati.

 

“Melita…” esordì, prendendo un respiro profondo da sotto la mascherina, ringraziando da un lato di avere quella barriera per darle ulteriore forza nel non lasciar trapelare del tutto le sue emozioni, “so che hai chiesto di noi e-”

 

“Im- ma,” provò a interromperla Melita, ma Imma si sforzò di sollevare una mano guantata e di tenerla il più stabile possibile, facendole segno di non parlare.

 

“Ascolta, Melita. Tu c’hai poche forze e ci sono alcune cose che dobbiamo dirti, prima che inizi a parlare. Come forse avrai notato c’è l’agente Mariani alla porta, che assisterà e trascriverà quanto ci dirai oggi. Inoltre sarà tutto registrato ed è giusto che tu lo sappia. Ma è per la sicurezza di tutti, anche la tua, capisci cosa intendo?”

 

“S-sì,” sibilò Melita, quasi in un fischio nei buchi tra i denti bianchissimi che le erano rimasti, con una smorfia tra il dolore, la paura ed un rimorso talmente evidente da farla empatizzare con lei, nonostante tutto quello che aveva combinato, al di là di Francesco, delle ferite, di tutto.

 

Melita capiva, capiva davvero ed era sveglia esattamente come la ricordava, nonostante il coma. Lo sguardo era quello della sopravvissuta ma anche quello di chi è abituata a considerare la propria vita - e non solo la propria - sopra il filo di un rasoio, e da ben prima del tentato omicidio.

 

“Quindi ti va bene che sia tutto registrato?”

 

“V- va… bene, sì,” pronunciò, decisa, nonostante i sibili e la fatica, e poi la vide rivolgersi verso Calogiuri e poi di nuovo a lei e sussurrare un, “mi… dispia…ce… tan…to.”

 

Fu quasi uno schiaffo sentirselo dire, perché le tornarono in mente quelle sillabe mute, mimate ma non vocalizzate, non appena prima della testimonianza che aveva quasi distrutto le vite di tutti e tre.

 

Dal sussulto che fece Calogiuri, era lo stesso anche per lui.

 

Ma la fissò in quel modo risoluto e poi disse a Melita, “lo so. Lo sappiamo. Ci vuoi raccontare quello che è successo? Chi ti ha fatto questo?”

 

Stavolta fu Melita ad alzare le dita della mano destra, per fermarli.

 

“Fra- Fran…ce…sco? Davve…ro… sta… bene?”

 

Imma guardò verso la dottoressa che aspettava fuori dalla stanza e si chiese che cosa avesse detto a Melita sul figlio.


“Sì, sta bene, non ti devi preoccupare. Sta… sta da noi…” ammise, decidendo di essere onesta, perché Melita non doveva agitarsi e perché non avrebbe avuto senso non esserlo.

 

Melita era la prima che voleva proteggere suo figlio: si era quasi fatta ammazzare per lui e quindi quell’informazione non avrebbe potuto essere in mani più sicure. E Mariani era persona di assoluta fiducia e trascrizione e video non sarebbero finiti in mani sbagliate, almeno finché non sarebbero serviti in udienza. E per allora… Francesco magari sarebbe stato già altrove.

 

Si chiese come Melita avrebbe preso la notizia, mentre si scambiava uno sguardo commosso e preoccupato con Calogiuri, che alla fine fu il primo a cedere e a poggiarle una mano guantata sulla spalla, per farle forza. Lei ricambiò perché… perché non avrebbe avuto motivo di non farlo. Alla fine l’interrogatorio non era nemmeno iniziato ancora.

 

Melita parve sorpresa, una smorfia di dolore che però la costrinse a riabbassare il sopracciglio ancora mezzo cucito, ma la guardò senza dire nient’altro.

 

“Lo abbiamo trovato noi e ci ha presi in simpatia, persino a me. C’ha dei gusti strani, insomma, ma a parte quello sta benissimo, è forte e sicuramente non vede l’ora di rivedere la sua mamma.”

 

Su quell’ultima parola, Melita esplose in un altro colpo di tosse che era anche un singhiozzo ed un paio di lacrime le scivolarono sulle guance.

 

“Starà… meglio… con… voi. Con… con quello che… ho… fatto… mi vergogno… e… non me… lo… merito… di essere… sua… mamma.”

 

C’era così tanto rimorso, così tanto dolore in quelle parole che fu un altro schiaffo, anzi, un bel pugno allo stomaco.

 

D’istinto, le venne da mollare la presa su Calogiuri ed appoggiare la mano sopra quella sinistra di Melita, la più vicina a loro, facendo attenzione a non toccare i tubi della flebo.

 

“Melì, ascolta, tu hai fatto degli errori, è vero. Soprattutto hai sbagliato a non fidarti di noi prima, a non dirci che cosa ti stava succedendo. Ma per tuo figlio ti sei quasi fatta ammazzare. Quindi sti discorsi sul non essere una buona madre non li voglio più sentire, chiaro?” ordinò, perché quello era il linguaggio che le veniva più semplice, più della dolcezza che con pochissimi riusciva a far uscire.

 

Ma Melita comprese ancora e le sussurrò un “grazie!” che valse più di tutto il resto.

 

Le lasciò la mano, che dovevano ritornare alla professionalità, per quanto fosse possibile, viste le circostanze, ed aggiunse, “allora, Melita, ci vuoi dire che cosa è successo? Partiamo dall’inizio. Sappiamo chi è il padre del bambino e-”

 

“No!”

 

Melita esplose in colpi di tosse, ma tra un colpo e l’altro il terrore era visibile sul suo viso.

 

“Tranquilla, Melita, tranquilla, è un’informazione che abbiamo in pochissimi e al momento, visti i precedenti, non lo abbiamo fatto contattare. Probabilmente non sa ancora nulla dell’esistenza di Francesco,” si affrettò a rassicurarla, prima che le pigliasse un colpo, maledicendosi per non averlo specificato subito.

 

Aspettò un attimo che Melita si calmasse e poi aggiunse, “però dobbiamo capire cosa è successo e come sei rimasta invischiata con i Mazzocca, i Romaniello, l’avvocato e tutti quei gentiluomini. Non serve che fai un nome ma… è lui vero?”

 

Calogiuri, senza bisogno nemmeno di chiederglielo, stava mostrando a Melita una copia della foto del passaporto del famoso, anzi famigerato, Alejandro Mendoza.

 

“Sì… sì.”

 

C’era un disprezzo ma anche un dolore in quelle sillabe che le arrivava vivo e pulsante come la ferita che doveva ancora essere per Melita.

 

“Era tra gli uomini che ti hanno aggredita al locale quando ti abbiamo conosciuta?” le domandò e Melita nuovamente pronunciò un “sì” colmo di rabbia.

 

Poi però le fece segno con le dita, come a chiederle di fermarsi un attimo con le domande e cominciò a fatica, parola dopo parola a spiegare quanto successo.

 

“L’ho conosciuto a… a inizio stagione. Era… era la prima volta che… che lo vedevo… gli anni… prima non… non c’era lui. Era… era bello, gentile… almeno… almeno all’inizio. Misterioso. Sapeva… sapeva tante cose… mi… mi raccontava… dei viaggi… aveva visto… il mondo. Però… sapeva tutto… anche di me… l’ho capito… piano piano. Mi sono… accorta… che… che c’era sempre… qualcuno che… che mi seguiva. E poi… una sera… è arrivato un… un suo amico… così lo ha chiamato. Un… un collega, capite?”

 

E certo che capivano! Di sicuro non era un ristoratore o un manager, cioè non solo, quantomeno.


“E quindi che è successo poi?”

 

“Questo… collega… era molto… gentile con me. Troppo. Ci ha… ci ha provato… mi ha messo una mano… sulla coscia… quando… quando lui era uscito un attimo dalla stanza. Ho fatto appena in tempo a… scansarlo e a dirgli di… di no che… che lui è tornato. Era nero. Non… non lo avevo mai visto così. Ha iniziato a gridare cose in uno spagnolo stretto che… che non capivo e poi… e poi ha tirato fuori una pistola che… che aveva sempre sotto la giacca. Per… per sicurezza diceva. Ma… ma gli ha sparato ad un ginocchio e… e poi lo ha colpito in testa con… con la pistola e… continuava… e io gridavo di… di smetterla… basta… BASTA e-”

 

“Va bene, Melita, calmati,” la bloccò Calogiuri, guardando preoccupato i battiti del monitor che erano schizzati alle stelle e la dottoressa che già pareva pronta all’intervento.

 

“Dicci solo se… se è morto o…”

 

“Non… non lo so. Lui si è fermato e mi ha guardata… in un modo che… che sono scappata. Ma… ma il locale era anche suo… io… io cercavo di evitarlo ma… ma non potevo e… avevo paura di tutto. Di stare lì… di tornare in Italia. Quella sera… aveva provato a bloccarmi con gli amici suoi… voleva andassi via con lui… ma poi… è intervenuto Ippa-zio e… e anche tu e… e sono scappata. Prima… prima a Ibiza ma… mi sono resa conto… dopo pochi giorni… del ritardo e… e ho preso il test in farmacia e… ero incinta. Sapevo che… che era suo… allora sono tornata a… a Roma. Pensavo di… di abortire… sono anche andata in… una clinica a… informarmi… ma… ma non ce l'ho fatta. Ho deciso di… di tenerlo e di… di tenere la gravidanza nascosta sui social e… di uscire dal giro per un po’... non che lui mi scoprisse ma… un giorno sono uscita di casa e… e mi sono trovata davanti…”

 

“Chi?”

 

“Ste- Stefano. Mancuso.”

 

Le sfuggì un sospiro, da un lato sollievo, dall’altro rabbia.

 

“Mi ha… mi ha presa per un braccio. Ho provato a… a urlare… non sapevo chi… chi fosse… ma lui mi ha detto che… che non mi avrebbe aiutata nessuno e che… se non volevamo fare una brutta fine… dovevo seguirlo. Mi ha… mi ha messo una mano sulla pancia e ho capito che… che sapeva. Mi ha… mi ha portato su una macchina e… e nessuno ha fatto niente… tutti… tutti scappavano e si chiudevano dentro casa. Io… io pensavo fosse uno degli uomini di lui. Che mi aveva… che mi aveva trovata.”

 

“E poi?”

 

“E… e poi… e poi invece mi ha… mi ha spiegato che… che erano colleghi. Che lo conoscevano ma… ma che non gli avrebbero detto niente… e non… non avrebbero ammazzato a me e al bambino… se… se facevo come dicevano. Io all’inizio… pensavo che volevano… insomma… capisci no? Che volevano certe cose da me… che c’è gente che… che per… per certe cose da una donna incinta… paga pure meglio. Io… non l’ho mai fatto ma… ma ero disperata e… e poi però mi ha detto che… che dovevo solo frequentare l’avvocato e… e obbedire agli ordini. Mi controllavano… mi portavano alle visite… seguivano tutto, sapevano tutto. Quando è nato… ogni giorno… veniva qualcuno da me. Avevo sempre una macchina… davanti a casa. E ogni giorno avevo paura che… che me lo portavano via. E poi… stavo ancora male per… per il parto ma… mi hanno detto di… di dovermi avvicinare a te,” spiegò, facendo un cenno verso Calogiuri, “a voi. E… e allora ho capito che… che mi avevano vista con voi… a Maiorca. Non so come.”

 

“Dalle foto, probabilmente,” sospirò Imma, guardandosi con Calogiuri, schifato quanto lei.

 

“E che… che ti dovevo incastrare in un modo o… o nell’altro. Ma tu… tu eri così fedele a Imma e… e non riuscivo a… a… insomma. Quindi… mi hanno detto di… di farmi riprendere dalle telecamere del palazzo che… che sarebbe bastato quello e… e qualche foto. Io… mi sentivo… uno schifo… tu… tu eri così buono… gentile e… e innamorato e… e anche Imma… io non volevo… non volevo ma… ma prima che… che mi avevate messo sotto protezione… si erano presi Francesco e… e non me lo facevano vedere più e… e io avevo paura che… che lo avrebbero… che lo avrebbero…”

 

“Va bene, Melì, abbiamo capito,” la interruppe, la voce che le tremava quanto la mano che aveva poggiato su quel che rimaneva del braccio di Melita, il cuore che le batteva forte quasi quanto quello sul monitor, al solo pensiero di quei bastardi e che avrebbero potuto uccidere, quasi neanche lei riusciva a esprimerlo, neanche a se stessa, quella piccola meraviglia che li aspettava a casa.

 

Ma no, non lo avevano voluto uccidere, non subito almeno. Lo avevano voluto vendere, anzi, lo avevano già venduto all’epoca. Molti più soldi per loro ed un’altra famiglia potente da ricattare.

 

“Io… io quando… quando ho detto quelle cose… contro di te… in tribunale… che… che eravamo amanti che… insomma… avrei preferito morire ma… l’ho fatto per lui. Mi sentivo… mi sentivo una merda ma… loro avevano ancora Francè e… e non me lo facevano vedere e… e io ho cominciato a pensare che… che me lo avevano ammazzato lo stesso e… e non ce la facevo più a tenermi tutto dentro e… stavo pensando anche di… di…”

 

La tosse e le lacrime la ammutolirono completamente e Imma ebbe la sensazione che quello che Melita aveva pensato non fosse di dire tutto, non solo almeno, ma anche qualcosa di molto, molto più terribile e definitivo.


“Ma… ma un giorno sono arrivati dove… dove dormivo al locale e-”

 

“Sono arrivati chi?”

 

“Mancuso e… Nick… non mi ricordo il cognome.”

 

Imma fece di nuovo segno a Calogiuri, che mostrò a Melita una foto di Giuliani, e Melita annuì leggermente con il capo, dicendo, “sì, è lui.”

 

“E… mi hanno detto che… che tu avevi capito tutto… se… se avevo detto qualcosa… ma… ma io ho detto di no… li ho… li ho implorati ma… hanno cominciato a picchiarmi, prima pensavo per… per farmi parlare ma… non si fermavano… non si fermavano e ho capito che… che… che mi avrebbero ammazzata e… ho pensato che… senza Francé e… dopo tutto quello che avevo fatto… me lo meritavo e… e non sono più riuscita a… a lottare.”

 

Melita si accasciò del tutto e scoppiò a piangere, sempre di più, tanto che, al di là dell’odio verso quei bastardi, si preoccupò moltissimo, specie quando vide la dottoressa entrare.


“Forse è meglio che uscite e-”

 

“Melì, ascolta. Tu hai lottato, hai lottato eccome. Non hai mollato fino a mo. Sei sopravvissuta, ti sei svegliata. E mo… e mo devi lottare per… per Francesco, che ti aspetta,” pronunciò, anche se le costava una fatica terribile dover esplicitare con le sue stesse parole quella realtà che tante sofferenze avrebbe dato a lei e a Calogiuri.

 

Ma Melita si meritava un’altra possibilità, con tutto quello che aveva passato per suo figlio.

 

Si sentì stringere di nuovo una spalla da Calogiuri e si appoggiò leggermente a lui, senza nemmeno doverlo guardare. Bastava quel contatto, pure tra mille strati di plastica, per dirsi tutto.

 

“La dottoressa Tataranni ha ragione. Dovrà fare diversi interventi e… e la riabilitazione sarà lunga ma ce la può fare. Anche perché danni neurologici gravi non sembra ce ne siano.”

 

“Pre- prendetevi cura di… di Francé e… e dategli un bacio… anche per me. Va bene?”

 

Annuirono commossi e poi Calogiuri ebbe un’idea ed estrasse il cellulare, anche se coperto dalla plastica pure quello, e mostrò a Melita una foto che aveva scattato al piccolo ululatore seriale nell’unico momento tranquillo, cioè quando dormiva.

 

Melita singhiozzò ma sorrise, nonostante lo vedesse pure lei che i punti sulle labbra dovessero tirarle da morire.

 

“Te ne facciamo avere una copia, va bene?” la rassicurò Imma, facendo segno verso la dottoressa, che annuì.

 

No, non sarebbe stato per niente facile.

 

Ma ciò che era giusto non lo era quasi mai. Eppur ciò non lo rendeva meno giusto, anzi.

 

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Sospirò, quasi buttando i tacchi a terra, ignorando per una volta il rischio che qualcuno si svegliasse.

 

Irene se ne era andata con la babysitter e con Bianca ancora mezza addormentata.

 

Ormai era più mattino che notte e Calogiuri il giorno dopo aveva pure il corso, che già aveva saltato quel giorno per via di Conti.

 

Ma dovevano farcela.

 

Solo che avvicinarsi al letto e trovarselo lì, in mezzo, bello da impazzire, con un ditino in bocca e l’altra mano a stringere il peluche di un leopardo che gli avevano comprato… non era facile, per niente.

 

Perché ormai era chiaro che quel miracolo aveva i giorni contati, che sarebbero trascorsi inesorabilmente e sarebbero finiti troppo presto, che lo volessero o meno.


Le cose belle passano sempre in un battito di ciglia.

 

Forse non tutte - pensò, quando si sentì nuovamente abbracciare da dietro da chi le faceva forza come non gliene aveva fatta mai nessuno e sperava che, in quei mesi difficili che li attendevano, avrebbe saputo fare altrettanto.

 

“Anche a me mancherà, moltissimo…” le sussurrò all’orecchio ed il modo in cui lo disse le strinse il petto, tanto che gli occhi le si appannarono subito.

 

“Però… starà qua con noi ancora per alcuni mesi, no? Visto com’è messa Melita, il recupero sarà lungo. E poi… e poi magari possiamo sempre riprovare ad avere un bimbo nostro, no?”

 

Fu un macigno perché… sì ne avevano parlato di maternità e di paternità ma in generale.

 

E… e c’era qualcosa che non poteva più rimandare di dirgli.

 

E quindi si sciolse dall’abbraccio, perché voleva e doveva guardarlo negli occhi.


“Veramente Calogiù… potrebbe non essere più possibile, non che prima lo fosse ma… insomma… sono tanti mesi che il ciclo salta di palo in frasca, peggio che Diana durante una conversazione,” ironizzò, perché era la sua unica arma in momenti come quello, per non lasciarsi troppo andare, “e… e negli ultimi due mesi non è proprio arrivato e quindi potrei essere in menopausa. Anzi, oramai è quasi sicuro.”

 

Calogiuri spalancò per un attimo gli occhi, ma aveva uno sguardo come inebetito che… che non capiva e poi sussurrò, “ma… ma se non hai il ciclo da due mesi… non è che potresti essere…?”

 

Si era fermato, forse perché anche lui, come lei, quella parola faticava a pronunciarla ad alta voce.

 

“Incinta?” si sforzò però di farlo, anche se la voce le si spezzò e dovette dare un colpo di tosse.

 

“Calogiù… hai visto anche tu che… pure sotto cura… non è stato possibile e… e mo la cura non la sto più facendo. E inoltre… non c’ho nemmeno un sintomo, manco mezzo. Con Valentì… ricordo benissimo che vomitavo per qualsiasi cosa, una nausea tremenda, e poi stavo sempre incazzata, sempre. Cioè pure più del solito. Mentre in questi mesi… mi sento benissimo, Calogiù. E, vista la mia età, con una gravidanza in corso, dubito proprio mi possa essere andata così di culo, no? E poi appunto sono mesi che… che non funziono più bene da quel punto di vista. La menopausa è la cosa più probabile, al novantanove percento, e non voglio che ti fai illusioni.”

 

“Va bene, Imma. Va bene,” la rassicurò lui, sembrandole un poco mortificato, quasi come a chiederle scusa per quella speranza che faceva male più a lei che a lui.

 

“Però… non ti dovresti almeno fare visitare? Per essere sicura di… insomma… della menopausa?”


“Sì, ma… con tutti i casini delle ultime settimane non mi sembrava l’urgenza primaria, Calogiù. E, finché c’è Francesco e tu c’hai il corso, penso possa aspettare.”

 

“Ma cominci almeno a prendere appuntamento che… non può aspettare così tanto. Metti che devi prendere qualche medicina, qualche integratore, è importante. E poi… e poi per come… per come ci siamo affezionati a questo piccoletto, possiamo sempre amare così anche qualcun altro. E una volta che saremo sposati possiamo provare con l’adozione, no?”


“E se non riuscissimo ad avercela mai un’adozione, ma sempre e solo affidi, Calogiù? Che, appunto, ci si affeziona e poi… e poi quando ci si saluta…. Che mo Francesco lo abbiamo tenuto con noi per poco ma… pensa passare anni con un bimbo o una bimba e poi… dover dire addio. Insomma Calogiù, sei ancora sicuro di volermi sposare? Che… che qua le condizioni di… di ingaggio per così dire… sono cambiate.”

 

Calogiuri, per tutta risposta, sembrò spaventato ma poi le prese la mano sinistra nella sua e le mostrò gli anelli, nello stesso identico modo che aveva quando le mostrava una prova inoppugnabile e decisiva.

 

“Eh no, eh. Mo che mi hai chiesto tu di sposarti non puoi mica rimangiarti la parola data!” proclamò, perentorio, come se fosse un dato di fatto, “e poi… e poi da quando ti ho vista con Francè… ho avuto ancora di più la conferma che tu sei l’unica madre che voglio per i miei figli, se ce ne saranno. E quanto sei… quanto sei capace di amare, anche se non lo vuoi mai dare a vedere quasi a nessuno. E, pure se non riuscissimo nemmeno con l’adozione, potremmo fare del bene a tanti bambini o a tanti ragazzi e saremo ancora di più genitori, così. Ma solo se lo vuoi anche tu.”

 

Scoppiò a piangere, stringendolo forte, sciolta nelle sue braccia perché… quando Calogiuri faceva così, quella era l’unica risposta possibile.


“Eh certo che lo voglio! Ti amo. Tantissimo,” gli sussurrò, sentendosi stringere ancora più forte e rimanendo con lui in quella specie di bolla di pace, almeno fino a quando dei gorgoglii che pian piano diventarono urletti e poi urla li fecero tornare alla realtà e agli occhi scuri che li osservavano dal centro del letto.

 

Ed Imma si promise che si sarebbe goduta ogni istante con lui, con loro tre insieme, fino all’ultimo.

 

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Stava scorrendo un po’ annoiata il feed dei social: era un venerdì sera noiosissimo, seguito a una settimana noiosissima e che avrebbe probabilmente preceduto un fine settimana altrettanto noioso.

 

Un po’ perché non aveva voglia lei di uscire, quando continuava a tormentarsi per Penelope, con le sue amiche ancora a chiederle di Carlo, oltretutto.

 

Un po’ perché… senza Penelope, a parte Carlo e una volta Bea, faticava tantissimo a trovare qualcuno con cui si divertiva davvero.

 

In quello doveva aver preso più da sua madre, che non riusciva ad essere amica di chiunque, certo non a quei livelli, ma… non era come suo padre che riusciva a farsi amici pure i sassi.

 

Forse fu per la noia, forse perché, tanto per cambiare, le era tornata in mente, ma alla fine cedette alla tentazione ed aprì il profilo di Penelope, che aveva temporaneamente silenziato per evitarsi di star male come una cretina ad ogni storia o post, ma che non riusciva a resistere dal seguire almeno qualche volta.

 

Ma quella era stata decisamente la volta sbagliata.

 

Le apparve un post proprio di quella sera, in cui Penelope era stata solo taggata, e che era di una certa Jo. Se stesse per Joanna, Giovanna o se fosse semplicemente un omaggio al personaggio di quel libro che aveva tanto detestato quando l’avevano costretta a leggerlo per la scuola, non lo si poteva capire dalla foto.

 

Ma purtroppo altro si capiva eccome, perché Jo e Penelope stavano attaccate come due cozze a ballare - chissà chi l’aveva scattata la foto! - e poi anche in un selfie insieme ad altre ragazze.

 

Riconosceva il locale gay dove stavano e pure una della compagnia, che era del giro dell’accademia.

 

Certo, poteva essere solo qualche foto tra amiche ma si fece ancora più del male ed aprì il profilo di Jo - forse i geni investigativi e da stalker di sua madre un po’ li aveva presi alla fine - e notò che anche in un paio di post precedenti compariva Penelope, che però evidentemente non aveva approvato il tag.

 

Perché prima no e mo sì?

 

Penelope non era certo una che amava molto i social o una di quelle influencer che si lasciavano e si rimettevano insieme a colpi di follow e unfollow ma… ma suonava quasi come un’ufficializzazione il fatto che quel post mo apparisse pure sul suo di profilo.

 

Ma che ti sei rinsciminuta del tutto mo?

 

Le parve di sentire la voce di sua madre, che le dava della scema, e c’aveva pure ragione, le toccava ammetterlo.

 

E non solo perché non aveva ancora trovato il coraggio di dire a Penelope che con Carlo non aveva funzionato, ma perché… perché stava lì a spiare due foto e post e a farci su fantasie, ipotesi e congetture che manco sua madre quando trovava una nuova scatoletta di mentine in camera sua ai tempi dell’adolescenza, invece che fare l’unica cosa logica da fare.

 

D’istinto, si alzò dal letto, con un’energia che non sentiva da un sacco di tempo, aprì il borsone e ci buttò dentro qualche vestito, un poco alla rinfusa, prima di fermarsi ed aggiungere un abitino che a Penelope piaceva tantissimo quando stavano insieme.

 

Perché va bene la fretta, ma era giunta l’ora di sfoderare tutte le armi a sua disposizione.

 

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“Allora, Giorgio, che ci racconti di bello? Quest’anno nessun nuovo acquisto in procura? Che almeno con la Tataranni non ci si annoiava a questi eventi.”

 

“Già, ma, tra l’altro… qualcosa tra voi poi c’è stato o no alla fine? Anche se ora è tornata con il suo toy boy. Ma del resto si sa che una donna con te non dura molto, che le fai fuori tutte.”

 

Sospirò: il prefetto e il questore che, solo per il fatto che era ormai qualche anno che gli toccava frequentarli - per fortuna erano in odore di trasferimento entrambi, che era quasi ora del ricambio - si credevano ormai amici suoi.

 

“Non ho mai avuto una relazione con la dottoressa,” specificò, perché quello che c’era stato, specie col senno di poi, non era stato davvero niente, almeno per lei, “e comunque finché la dottoressa non si trasferisce definitivamente non ci saranno nuovi acquisti, no, e se veniste in procura più spesso lo sapreste.”

 

“E dai, Giorgio, tanto sappiamo che sta in buone mani,” esclamò il questore che, più ancora del prefetto, avrebbe dovuto interessarsi molto ma molto di più di quel che succedeva tra procura e tribunale.

 

Non gli sarebbe mancato, affatto, anche perché si faceva sentire solo quando c’era da prendersi i meriti o quando, secondo lui, non aveva risolto in modo abbastanza veloce qualche grana, prima che arrivasse alla sua di scrivania.

 

“Però… anche senza nuovi acquisti… la serata si fa interessante. Ma chi è? Forse la nuova moglie di qualche pezzo grosso? Beato lui!”

 

“Anche se a me… sembra di averla già vista prima, non so dove,” disse il questore, rispondendo al commento del prefetto.

 

Seguì il loro sguardo, per vedere quale nuova moglie o fidanzata trofeo stessero indicando e tutto il sangue gli finì prima ai piedi, poi in viso, poi altrove, tanto che gli girò la testa.

 

Perché, fasciata in un abito di seta color champagne che la distingueva da tutti i colori scuri in quella stanza e che esaltava tantissimo gli occhi azzurri e quei capelli color oro mezzi raccolti e mezzi lasciati cadere su una spalla, coprendole parzialmente la pelle nuda, era apparsa, come una visione, nient’altro che lei.

 

Lei che tormentava le sue notti insonni.

 

Lei che, vestita così, sembrava uscita dal red carpet di un festival del cinema, per quanto era bella: una diva di Hollywood, tra i lineamenti perfetti e quel corpo in apparenza esile, che nascondeva quasi sempre ma che… che sottolineato dalla seta, era sinuoso come una scultura.

 

Altro che troppo per lui! Era troppo per tutti lì.

 

“Hai capito Mariani!”

 

La voce ed il tono porcini di Carminati furono inconfondibili e si girò per fulminare lui e Rosati con un’occhiataccia, prima che dicessero altro.

 

“Ma il maresciallo Mariani?” domandò il prefetto, scioccato, “neanche la riconoscevo vestita così.”

 

“Eh… se guardi tutto tranne la faccia, Lucio…” sbottò, perché quando ci voleva ci voleva e, al di là di Carminati che era quello che era, pure prefetto e questore fissavano Mariani in un modo sbavante che gli faceva venire il sangue al cervello.

 

“Credo che dovrò rimediare alla mia poca presenza in procura, presentandomi come si deve agli agenti della PG,” ebbe l’ardire di proclamare il carissimo Lucio, facendogli venire un prurito alle mani tremendo, ma era sempre il prefetto.

 

Ma, prima che potesse anche solo obiettare, si era già avviato verso dove Mariani stava salutando Conti e vide benissimo che Carminati e Rosati lo seguirono, ritrovando chissà come mai, un inatteso spirito di corpo.

 

In tutti i sensi.

 

Lanciò un’occhiata al questore, aspettandosi che pure lui facesse altrettanto, ma una voce femminile li raggiunse ed era proprio la moglie del questore, che se lo prese per un braccio ed iniziò una conversazione estenuante su un progetto benefico che stava mettendo in piedi con un’associazione di donne ricche ed annoiate quanto lei. Non che non apprezzasse la beneficenza, ma il progetto era talmente strampalato ed inutile che era solo uno spreco di soldi.

 

Non perse d’occhio il prefetto - la cui moglie lo aveva mollato solo un anno prima, probabilmente stufa delle continue corna, anche se il tutto era stato fatto in maniera molto discreta e non ufficiale - ed il senso di sonnolenza nel sentire gli sproloqui della moglie del questore svanirono del tutto quando lo vide prendere la mano di Mariani, farle il baciamano come un perfetto imbecille, e poi portarla verso il luogo riservato al ballo.

 

Si sentì soffocare, tanto che gli toccò allentare leggermente la cravatta, perché le mani di quel maiale di Lucio sulla parte di schiena lasciata scoperta dalla seta… gliele avrebbe mozzate volentieri.

 

Dov’era la gatta di Imma e del maresciallo quando serviva? Gliene avrebbe scatenate contro un intero branco a quel cretino!

 

E chi ti dice che non ti si ritorcerebbero contro? Che il primo cretino qua sei tu!

 

La voce della sua coscienza, Irene, lo sbeffeggiava, ed in effetti non poteva darle torto.

 

Sì, pure lui aveva certi pensieri su Mariani, era innegabile ma… almeno a differenza degli altri, sapeva come fosse ancora più bella dentro che fuori, quanto fosse intelligente, forte, determinata, ma anche sensibile e-

 

Stai proprio inguaiato!

 

La voce stavolta era, stranamente, di Vitali.

 

Ma sì, stava proprio inguaiato stava, non solo perché era più geloso di Mariani di quanto non lo fosse mai stato di Imma e il maresciallo - e lo era stato molto, moltissimo - ma anche perché… non capiva più se quello che provasse per lei fosse solo un’infatuazione, una di quelle cose passeggere, come aveva sperato o se-

 

Se, stai ‘nguaiato n’ata vota e pure assai!

 

Vitali, di nuovo, se lo immaginava quasi a sbeffeggiarlo vestito da Pulcinella.

 

Forse era meglio smettere col vino.

 

Resistere, doveva resistere, restare calmo e tranquillo, che quella serata sarebbe finita presto.


“Allora, Giorgio, che ne pensi?”

 

La voce della moglie del questore lo riportò alla realtà ed al fatto che si fosse perso tutta l’ultima parte del discorso, da quando Lucio e Mariani avevano iniziato a ballare.

 

“Che è una situazione veramente complessa,” rispose, con una di quelle frasi che possono andare bene per quasi tutto, sperando di non ricadere proprio nella casistica dove non c’entrava nulla.

 

Ma il sorriso della signora ed il suo “molto, molto!” soddisfatti, gli fecero intuire che, anche per quella volta, se l’era cavata.

 

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Il bagliore dei fari la accecò, mentre entrava nel locale.

 

Il solito, quello anche della sera prima.

 

Era passata da casa di Penelope prima, ma non aveva risposto nessuno e ci aveva messo poco a scoprire, dai social, che fosse di nuovo lì.

 

E la cosa le dava doppiamente fastidio: sia perché ci stava con quella, sia perché, quando stava con lei invece, era sempre impegnata e mo… e mo il tempo lo trovava.

 

Per quella.

 

Sapeva che era assurdo prendersela con una perfetta sconosciuta, ma anche solo prendersela con Penelope, visto che era stata lei a chiedere la pausa e poi a non farsi più sentire, ma si era comunque studiata il profilo della rivale con una minuzia che sua madre in confronto sarebbe impallidita, durante tutto il viaggio in treno.

 

Ed aveva scoperto che era una delle famose modelle dell’accademia - e non solo - e che studiava recitazione.

 

Un’artista, proprio come Penelope, oltre che bellissima, con i capelli rosso fuoco - probabilmente tinti, ma stupendi lo stesso - che la facevano sembrare un incrocio tra un’elfa e Jessica Rabbit.

 

Al confronto, si sentiva proprio insignificante, banale, come mille altre ragazze: carina magari, ma niente di che.

 

E però era andata lì lo stesso, spinta da non sapeva bene quale coraggio e, con lo stesso coraggio - o forse più masochismo, quello doveva averlo preso da suo padre, invece - si fece largo tra la folla, cercando di trovare Penelope.

 

Non la vide. Individuò però una chioma infuocata, inconfondibile anche nella penombra e in mezzo a tutto il casino e le luci colorate che distorcevano ogni cosa.

 

E sì, accanto a lei c’era proprio una macchia bionda: Penelope.

 

Si avvicinò, trainata da quella forza inspiegabile, nonostante la parte razionale di lei avrebbe solo voluto andarsene, fino ad essere spinta dalla gente che ballava ed arrivare proprio a due passi da loro.

 

Il cuore le si spezzò del tutto, nel vedere le loro labbra incollate in quello che non era un bacio, nemmeno un limone, ma proprio un agrumeto intero.

 

Gli occhi le si riempirono di lacrime, la testa che le girava, mentre sentiva nelle orecchie un battito ancora più forte di quello della musica.

 

Qualcosa la colpì ad un fianco, facendola quasi cadere e levandole il fiato, mentre una voce femminile urlava “e levati se non balli!”

 

Fece giusto in tempo a vedere un’altra coppia di ragazze, che sembravano parecchio aggressive tra look e atteggiamento e che reclamavano anche quel pezzetto di spazio, perché poi con la coda dell’occhio notò due occhi azzurri che la fissavano, spalancati.

 

Fregandosene delle due fanatiche, si rimise del tutto in piedi e, dritto davanti a sé, trovò il viso di Penelope, che la osservava stupita e… e forse un po’ colpevole?

 

Ma, se almeno la spremuta era finita, stava ancora avvinghiata con quella, che la guardò in cagnesco, si rivolse a Penelope come a chiedere ma chi é questa?  e poi urlò così forte che lo sentì benissimo anche lei, nonostante la musica, “ma è la tua ex?”

 

Ex.

 

Quello era, a tutti gli effetti.

 

Si sentì in imbarazzo, completamente fuori posto, il dolore nel petto che si fece sempre più lancinante, a maggior ragione quando Penelope non disse niente e la rossa proseguì con un “che vuoi fare scenate?” di sfida.

 

No.

 

Non voleva fare scenate, non voleva fare nient’altro che levarsi da lì: era stata stupida, stupida, stupida ad andarci.

 

Ma ci doveva sbattere la testa sulle cose lei, altrimenti non le capiva, non le voleva capire, da sempre.

 

Si voltò, scontrandosi contro le due fanatiche, levandosele di mezzo ricambiando la gomitata e, prima che potessero riprendersi, si buttò nella mischia cercando disperatamente di raggiungere l’uscita, pregando che il fiato ed il cuore non cedessero prima di allora.

 

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“E quindi… ma mi stai ascoltando?”

 

Si voltò di scatto verso Irene, che lo aveva beccato in pieno, perché no, non aveva sentito mezza parola e con lei non poteva bluffare come con gli altri.

 

Anche perché i trucchi del mestiere glieli aveva insegnati lui e lei li conosceva e lo conosceva troppo bene.

 

Ma Mariani era stata richiestissima per i balli ed ora era tornato Lucio a spadroneggiare, mentre quelle mani… quelle mani gliele avrebbe veramente staccate, se avesse potuto.

 

Ed il peggio era che Mariani non lo aveva allontanato. Certo, era il prefetto, non poteva mandarlo a quel paese, lo capiva bene, ma continuava a ballare con lui come se niente fosse.

 

Mentre… mentre a lui non aveva rivolto uno sguardo, nemmeno uno, e sì che era tutta la serata che si perdeva a guardarla mentre lei-

 

“Ma insomma, si può sapere che cos’hai? Ti sei di nuovo distratto, ti conosco. E non è da te. Che cos’ha di così interessante il prefetto stasera? O forse Mariani?”

 

Per poco a quelle parole non gli venne un colpo. E sì, ora Irene aveva tutta la sua attenzione, tutta quanta, e da quegli occhi era difficilissimo sfuggire. Anche quello lo aveva imparato da lui e gli si stava ritorcendo contro completamente, dopo tutti quegli anni.

 

“Mariani?” sussurrò, più bassa, e da un lato le fu grato per la discrezione ma dall’altro l’incredulità ed il disappunto nella voce furono una coltellata.

 

“Mi preoccupo per lei, perché il prefetto… lo sai com’è no? Perché non si può?”

 

“No, no, per carità. Quello si può eccome. Altre cose… meno, ma lo sappiamo tutti e due, no?” sospirò Irene, scuotendo il capo, “e comunque… il prefetto è così da sempre ma non mi sembra che ti sei mai preoccupato tanto della… virtù delle sue potenziali conquiste.”

 

“Ma Mariani è diversa: è capace, intelligente, brillante e… e si merita di meglio, sia per la sua vita privata che per la sua carriera, di quel maiale di Lucio.”

 

“Di meglio tipo te?” gli chiese, senza perdere un colpo, e gli venne un sorriso amaro.

 

“No, no, si merita di molto meglio anche di me,” ammise, perché era la verità, per quanto facesse male.

 

“Giorgio…” sbuffò lei, passandosi una mano sulla fronte, e poi si sentì afferrare per le spalle, “ma si può sapere che combini? Eri proprio tu che predicavi sempre il non mischiare il lavoro con il privato. E invece hai appena finito con Imma - finalmente, lasciamelo dire - e adesso ricominci? Ma che ti succede? Non è da te. E poi, se proprio devi fare chiodo scaccia chiodo, sai quanti chiodi esterni alla procura ti puoi trovare?”

 

“Perché, con te ha mai funzionato?” ebbe la prontezza di domandarle, perché le rimaneva sempre superiore in grado e di età e perché di sicuro Irene, dopo quel cretino di Ranieri, non era mai andata avanti veramente, purtroppo per lei e per Bianca.

 

“No. Ma almeno i chiodi appunto me li sono trovati ben lontani dal lavoro e-”

 

“E Mariani non è un chiodo!” sbottò infine, a volume fin troppo alto, ringraziando il cielo che tra la musica ed il brusio della folla non sembrò che nessuno avesse sentito, almeno a guardarsi intorno.

 

Ma Irene sì ed aveva gli occhi spalancati e ancora più preoccupati.

 

E la capiva perché… perché la storia dell’infatuazione passeggera no, non reggeva proprio più.


“Giorgio…” sospirò, scuotendo di nuovo il capo.

 

“Lo so, lo so: è troppo giovane, troppo bella e… e siamo in una posizione troppo sbilanciata. Ed è tutto sbagliato ma… al cuore non si comanda, no? E appunto lo sai meglio di me.”

 

“Ma almeno lei ricambia? O facciamo di nuovo la fine di Imma?”

 

“Credo… credo di sì, ma… ma lo so che non ci può essere niente, quindi mi sono allontanato e lei-”

 

“E lei ti sta facendo rodere il fegato. E brava Mariani! Ha più coraggio di quanto pensassi, e anche i gusti le sono leggermente migliorati, visto com’era rimasta succube a quel narcisista di Santoro.”

 

“Non è succube, anzi! Devi vederla quando si arrabbia, o quando deve proteggere qualcuno: è una leonessa!”

 

“I felini ti piacciono proprio, eh? A parte la gatta di Imma.”

 

“Irene…”

 

“Giorgio…” lo imitò lei, in quel modo che lo innervosiva e lo consolava al tempo stesso, perché era l’unica che osava affrontarlo in quel modo.

 

L’unica a parte…

 

“Mariani è adulta e pure tu. E di sicuro io non posso fare la morale a nessuno. Non ti posso dire nemmeno cosa fare o cosa non fare. Ma o ti decidi, in un senso o nell’altro, o, se ti vedo di nuovo così al prossimo evento della procura o quando magari lei avrà qualcuno, giuro che ti strozzo.”

 

E, detto quello, si beccò una pacca sulla spalla che gli fece ricordare quanto Irene facesse esercizio fisico, poi la vide finire di bersi il calice di prosecco di un sorso, posarlo sul tavolino lì vicino ed allontanarsi con la sua solita nonchalance. Raggiunse un famoso attore che interpretava un commissario molto conosciuto ed amato in televisione e che, per quel motivo, era stato invitato dal prefetto per fare un discorso.

 

Ma, del resto, Irene tra tutti loro era quella più a suo agio con quel mondo e l’attore sembrava gradirne molto la compagnia - per fortuna almeno lui non si era concentrato su qualcun’altra.

 

Il pensiero, inevitabilmente, tornò a lei, e si voltò e la trovò ancora nel bel mezzo di un ballo col caro Lucio, che si avvicinava sempre di più, ballo dopo ballo, tanto che ormai erano in una posa adatta per un lento.

 

Una furia lo prese, sia nei confronti di lei, sia nei confronti di lui: al di là di tutto, vista l’occasione non era proprio il caso.

 

O ti decidi o non ti lamentare!

 

Cercò di zittire la voce di Irene ma quella imperterrita gli ricordava che quando Mariani avrà qualcun’altro…

 

Si, perché non era questione di se, ma di quando. Mariani era stupenda e, a parte che non si meritava certo di restare sola a vita, in ogni caso, dopo quello che era successo con Santoro era proprio cambiata, si era sbloccata.

 

Per fortuna e sfortuna sue.

 

La sola idea di Mariani con un altro, pure che non fosse il prefetto, gli causava un dolore tremendo al petto e allo stomaco, la gelosia che gli torceva il cuore.

 

Fu un attimo, un impulso.

 

Forse quel pensiero, forse il fatto che vide Mariani, per la prima volta quella sera, spingere leggermente indietro le spalle del prefetto, ma finì anche lui in un’unica sorsata il suo vino. Appoggiò il bicchiere accanto a quello di Irene e, senza neanche sapere bene come, era a pochi passi da lei, subito dietro a Lucio.

 

E, di nuovo per la prima volta quella sera, i loro sguardi si incrociarono e lei parve sorpresa ma anche un po’... sollevata?

 

Toccò la spalla sinistra di Lucio, due e poi tre volte, finché finalmente il prefetto si girò, guardandolo stupito e molto scocciato.


“Giorgio che c’è? Come vedi sto ballando e-”

 

“E Irene mi ha detto che ha bisogno di te. L’attore lo hai voluto invitare tu, ora non puoi sbolognarglielo per tutta la serata,” si inventò, perché non voleva creare problemi a Mariani col prefetto e perché Irene avrebbe capito subito, vedendoselo arrivare.

 

“A me pare che se la stia cavando benissimo!” ribatté il prefetto, guardando verso Irene e l’attore che conversavano amabilmente e ridevano pure.

 

“Lo sai anche tu che Irene se la cava sempre in queste situazioni, ma ha detto che ha bisogno di parlare anche con te, che è importante. Poi, in questo periodo della tua carriera, a maggior ragione ti può fare comodo, no?”

 

Anche se Roma era già uno degli incarichi più importanti che si potessero avere, le sorti di dove sarebbe finito il prefetto e con quale ruolo dipendevano molto anche dalla percezione dell’opinione pubblica, oltre che dalle connessioni politiche.

 

Lucio lo fissò per un attimo ma poi annuì e si congedò da Mariani con un, “se mi può scusare un attimo, Mariani, poi riprendiamo il discorso…” del quale lei, nonostante il sorriso gentile che aveva sempre, sembrò ben poco entusiasta.

 

“In realtà-”

 

“Posso?” le chiese, prima che potesse trovare qualche scusa tipo l’andare in bagno, o a mangiare qualcosa, o la stanchezza, aggiungendo, più per il prefetto che per lei, “così almeno finiamo questo ballo e non lo lasciamo a metà. E poi ho alcune cose di cui parlarle, Mariani, e quindi ne approfitto.”

 

Lucio fece una faccia un poco scura ma si allontanò lo stesso, con una specie di sguardo di avvertimento che era un occhio a quello che fai, a cui lui rispose con un sorriso ancora più di circostanza di quello di Mariani, perché non voleva creare discussioni o altri scandali.

 

Ma poi, una volta che il maiale fu accanto a Irene - sperando che lei lo perdonasse, che era per una buona causa - si concentrò di nuovo su Mariani, che ancora non aveva risposto, tanto che la sua mano stava ancora a mezz’aria, nel gesto di offerta. Quelle di Mariani invece erano piantate sui fianchi di quel vestito da infarto.

 

“Non dovevamo tenere le distanze, dottore? Se mi deve parlare di lavoro-”

 

“No,” sussurrò, interrompendola e chiarendo, anche se sempre a bassa voce, “no, non dobbiamo parlare di lavoro e… lo so che forse dovremmo tenere le distanze e che sarebbe la cosa più giusta da fare ma… non ci riesco.”

 

Lo sguardo di Mariani si ammorbidì leggermente, anche se le mani se ne stavano ancora ben piantate nella seta.

 

“Ma… non sono ancora sicuro se… se i discorsi che potremmo fare le sono veramente graditi Mariani e… non voglio approfittarmi della mia posizione. Quindi… quindi sta a lei…” concluse, sentendosi la voce un poco tremante, così come la mano.

 

Mariani si morse il labbro e scosse il capo.

 

Un macigno nel cuore di fronte a quel rifiuto che significava che tutto era finito ancora prima di iniziare - non che non la comprendesse, dopo tutte le sue esitazioni. Fece per abbassare la mano, per ritirarla e ritirarsi. Magari si sarebbe preso pure qualche giorno di vacanza, per mettere ancora di più le distanze e per… per cercare di riprendersi da quell’ennesima batosta.

 

Ma dita morbide si intrecciarono nelle sue e la mano venne guidata proprio verso uno di quei fianchi, che erano muscolosi e tonici sì, ma dovevano essere anche lisci come la seta che era da tutta la serata che sperava di poter toccare.

 

E non solo quella!

 

“Un ballo glielo posso concedere, dottore,” rispose Mariani, con un mezzo sorriso, che pareva anche un invito, tanto che osò poggiarle l’altra mano sulla spalla e cominciare a muoversi insieme a lei, anche se sempre a distanza più che di sicurezza.

 

Rimasero in silenzio per un attimo, occhi negli occhi, ma poi Mariani si fece più seria, un’ombra a velarle gli occhi, e mormorò, “neanche io ho capito del tutto lei come mi vede, dottore. E… non voglio fare dieci passi avanti e dieci indietro e nemmeno… essere solamente il premio di consolazione o chiodo scaccia chiodo.”

 

“Non è un chiodo!” esclamò, di nuovo forse troppo forte, perché quel termine gli stava sempre più sul gozzo, tanto che Mariani gli fece un mezzo salto tra le braccia per lo spavento.

 

“Mi scusi, Mariani, ma… allora questo discorso varrebbe anche per lei con Santoro. Ma per me quella è acqua passata. Ci ho messo tanto, troppo ma… mi è passata del tutto. Come le ho già detto una volta… forse… mi sono reso conto di aver corso dietro per tanto tempo al niente ma… ma ora mi sono anche finalmente accorto di quello che avevo davanti agli occhi per tutto questo tempo. E non mi riferisco solo a stasera o a questo vestito che… è… sei bellissima.”

 

Le guance le sbocciarono in un color ciliegia matura assolutamente adorabile che, se possibile, la rendeva ancora più bella.

 

“Credo… credo di avere bisogno di una boccata d’aria…” 

 

Quella frase, pronunciata all’improvviso, le mani di lei che gli abbandonarono le spalle ed il passo indietro letterale, furono un’altra coltellata.

 

Forse aveva corso troppo, o forse non era stato abbastanza convincente, troppo banale, come lo aveva accusato in passato e-

 

“Ti aspetto sul balcone tra dieci minuti?”

 

Sentì nitidamente il cuore saltare un battito, tanto che temette gli sarebbe venuto un colpo, anche perché, subito dopo, prese ad andare a mille.

 

Non avrebbe saputo dire se più per il tu, che era la prima volta che lo usava con lui, o per il contenuto della frase e gli scenari che si prospettavano.

 

Deglutì una, due, tre volte, ma la voce e la sicurezza che aveva sempre avuto con le donne parevano essere svanite e quindi si limitò ad annuire, mentre lei, con un sorriso ed un occhiolino che gli fecero finire tutto il sangue dove non doveva proprio finire, si allontanò, come se niente fosse.

 

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Si sentì afferrare per un polso e si voltò, temendo che fossero le fanatiche di prima, ma no, anche se forse era pure peggio.


Era Penelope, con il fiatone ed il rossetto mezzo sbavato, cosa che non fece altro che torcerle di più lo stomaco e il cuore.

 

“Vale…” mormorò quasi, tra un fiato e l’altro, ora che erano fuori dal locale e, a parte le orecchie che rimbombavano ancora un po’, ci sentiva bene, “perché sei qui?”

 

“Menomale che mi davi tempo fino alla laurea!” esclamò, perché le lacrime le uscirono senza volerlo e anche la rabbia e la delusione, “per carità, lo so che me lo merito ma… ma se stai con un’altra… non ha senso che sto qua pure io.”

 

Le dita però non le mollarono il polso, anzi, lo strinsero ancora di più.

 

Ma non le facevano l’effetto solito: le bruciavano ma in un modo che le faceva male all’anima.

 

“Non mi hai ancora detto perché sei venuta qui. Perché adesso. Ormai… non ci speravo più.”

 

Quella parola speravo le diede a sua volta un poco di speranza ma il bruciore non passava, anche quello in gola e al petto.

 

“Perché… perché ho fatto una cazzata, va bene? E non solo a venire qua stasera ma… ma con Carlo. Non… non sono riuscita a farci niente, niente, perché… perché sì mi piaceva, ma pensavo a te. E poi non avevo il coraggio presentarmi di nuovo da te, dopo tutto quello che ho combinato. Ma… ma ho capito che le cazzate si pagano e che… ho aspettato troppo. Mi lasci andare?”

 

Penelope fece un’espressione che… sembrava sull’orlo delle lacrime pure lei, ma non lasciò la presa, anzi, il bruciore proseguì.


“Non… cioè Vale, quella… quella ragazza per me è solo un’avventura e basta. Lo sai che… che siamo diverse, no? Se… se sto qualcuno sono fedele ma se no… non mi faccio problemi a fare cose senza impegno. E ormai pensavo che non ti avrei mai più vista.”

 

“Quindi… quindi con quella ci… ci hai scopato ?” le uscì, senza poterlo evitare, anche se la risposta forse le avrebbe fatto ancora più male del solo immaginarlo.

 

“Sì, ma non significa niente per me e-”


“E non stavamo insieme, lo so,” la interruppe, perché la conosceva e sapeva dove voleva andare a parare. E, razionalmente sapeva anche che Penelope non aveva torto e neanche colpa ma… la razionalità in certi momenti spariva.

 

“Ma?”

 

“Ma non so se riesco a passarci sopra, a non pensarci. Per l’appunto siamo diverse e-”

 

“E io sono stata onesta con te, Vale, sempre. Lo sai chi sono e come sono.”

 

“Ma… ma anche io sono stata onesta con te e… una parte di me… ci sperava che… che mi avresti davvero aspettata.”

 

“Ma dal mio punto di vista ti ho aspettata, Vale, in ogni caso. Non sono andata avanti veramente, non per quello che per me conta,” proclamò, toccandosi il cuore e la testa, “se avessi avuto tue notizie in questi mesi, se avessi avuto un segnale che c’era ancora una speranza, probabilmente non avrei cercato altro, perché so come sei fatta ma… ma in ogni caso per me sono due cose distinte, anche se per te non lo sono.”

 

“Lo so ma… ma è che… non vedevo l’ora di vederti e… e mi ero preparata tutto un discorso per chiederti scusa. Perché comunque mi sono comportata male e lo so, e… ed è colpa mia se stiamo in questa situazione. Ma… ma adesso, anche se lo so che sarà stupido, l’unica cosa a cui riesco a pensare è a voi due che-”

 

“Lo so,” la interruppe di nuovo Penelope e si sentì sfiorare una guancia ma quel contatto non la sollevava come faceva di solito, ma le faceva ancora più male.

 

Penelope se ne accorse, la conosceva troppo bene, e la guancia, che già bruciava, tornò libera.

 

“Ascolta… ormai sei qua a Milano e… vieni da me, nella stanza degli ospiti, solo a dormire. Poi… poi vediamo come va e… se riesci ad andare oltre o no. Io lo so cosa voglio e-”

 

“Ma non è una questione di cosa voglio o no, di chi voglio: quello lo so anche io ma-”

 

“Ma sei più simile a tua madre che a tuo padre,” ironizzò Penelope, per alleggerire la situazione, come sapeva sempre fare lei.

 

Ed era vero, ora che ci pensava, verissimo.

 

Non era gelosa come sua madre ma… non riusciva nemmeno a passare sopra alle cose come suo padre, forse neanche per amore.

 

“V- va bene. Se… se non è un problema avermi a casa. Ma domani torno a Roma. Credo… credo di aver bisogno di pensarci su per un po’ e… di lasciar passare un po’ di tempo per… digerire tutto.”

 

“Basta che stavolta non sparisci, e mi fai sapere cosa avrai deciso,” ribatté Penelope con un’occhiata che la fece sentire piccola piccola.

 

Perché lei non si meritava una persona matura, paziente e intelligente come Penelope che, dopo tutto quello che aveva combinato, ancora era disposta a darle una possibilità, nonostante la sua incoerenza.

 

Ma, anche se non era colpa di nessuno, o forse solo sua, anche se sicuramente Penelope la amava molto, forse fin troppo, e anche se pure lei l’amava… forse erano andate troppo oltre per poter tornare indietro e per potersi ritrovare davvero.

 

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“Mariani?”

 

Sussurrò quel nome nel buio che lo circondava, il cuore che gli batteva all’impazzata, come non aveva smesso di fare da quando lei era uscita.

 

L’aveva raggiunta sul balcone che dava al giardino, come lei gli aveva chiesto, dieci minuti dopo, precisi precisi, non uno di più né uno di meno, accertandosi che Lucio fosse distratto con Irene e l’attore, e che nessuno stesse facendo troppo caso a lui.

 

Ma di Mariani non c’era traccia e all’ansia si sommò la preoccupazione che le fosse successo qualcosa o che avesse cambiato idea.

 

Ma poi sentì un rumore, come un qualcosa che cadeva in acqua e la vide, seduta sul bordo della fontana che luccicava alla fioca luce della luna, in mezzo al giardino appena sotto la balaustra a cui era appoggiato.


Gli sembrò quasi una visione, lì nella penombra: la luna e l’acqua che donavano riflessi ai capelli biondi, alla pelle chiara e a quel velo di seta.

 

Una mano era ancora nell’acqua - doveva essere stata quella a produrre il rumore - e gli occhi di Mariani furono nei suoi. E poi, come uno squarcio nella notte, vide il suo sorriso e l’altra mano che si tendeva verso di lui.

 

E, anche se Mariani non era immersa nella fontana, gli sembrò assurdamente una scena della Dolce Vita, ma lui era mille, anzi un milione di volte più fortunato di Marcello.

 

Le gambe finalmente si decisero a muoversi e, quasi ipnotizzato, scese la scalinata e la raggiunse, gli occhi che riuscivano a metterla sempre più a fuoco, anche se chi stava andando a fuoco era lui.

 

Il cuore ormai impazzito, trovò la forza di sollevare una mano e, mentre gli tremavano non solo le dita ma pure le vene i polsi, come avrebbe detto il Sommo Poeta, riuscì infine ad afferrarle il palmo e il dorso in un contatto per nulla saldo ma che gli diede la scossa.

 

Ma che sei scemo? Sembri un ragazzino alla prima volta, smettila di fare il cretino, calmati!

 

Ma tant’era, erano decenni che non si sentiva più così: nemmeno con Imma era stato così in agitazione, così timoroso di fare qualcosa di sbagliato, di non essere all’altezza e-

 

Uno strattone improvviso, che per poco non le finiva addosso, perché Mariani si era alzata in piedi e, con un altro sorriso, aveva preso a camminare, e lo stava conducendo verso la parte più interna del giardino e, con il cuore in gola, si trovò quasi trascinato dietro a una siepe abbastanza alta da coprire entrambi dalla vista di chi usciva dal salone.

 

La guardò: gli occhi che le brillavano, le guance ancora scure, il sorriso furbo ma con un residuo di timidezza che faceva capolino ogni tanto.

 

Rimasero così, a guardarsi, mano nella mano, il fiato corto, finché di nuovo sentì la seta sotto le dita, ancora intrecciate in quelle di lei, che ora poggiavano sul fianco, proprio come durante il ballo.

 

Ma le circostanze erano molto diverse.

 

Mentre, ancora tremante, allargava le dita, fino ad afferrare la seta, sentì l’altra mano di Mariani prima sulla spalla, poi a sfiorargli il collo ed infine su una guancia.

 

Non ci stava capendo più niente, era una tortura, ma voleva fosse lei a dare il via libera definitivo: era pur sempre una sua sottoposta e-

 

Un sospiro sulle labbra ed un, “non pensavo sarei mai finita a dirigere il traffico!” lo fecero imbarazzare ancora di più - che sì, ci stava facendo proprio la figura dello scemo - e allo stesso tempo gli scappò una risata e-

 

E poi una scossa elettrica, due labbra sulle sue, e non sapeva se stesse tremando più lui o lei. E a quel permesso ogni paura svanì: l’altra mano si mosse da sola verso il fianco ancora libero, mentre la stringeva a sé come avrebbe voluto fare almeno da quel giorno al mare. E la baciò, ancora e ancora, fino che il fiato gli mancò del tutto, le mani che continuavano a vagare, sulla schiena nuda, sotto la seta e sentì le dita di lei, come tante piccole scosse elettriche, sciogliergli il nodo della cravatta - provocandogli un nodo in gola impossibile da levare. Poi i primi bottoni della camicia, mentre si scontravano come ubriachi sulla siepe, sperando che non cedesse. Quei mugolii che erano peggio di una droga, mentre le sue mani salivano sempre più in alto, sopra e sotto la seta - fino ad avere conferma, la testa che gli girava tremendamente, che no, non indossava il reggiseno - e quelle di lei sempre più in basso, sulla cintura e poi….

 

E poi, bloccandole la mano e staccandosi a forza per riprendere un respiro e il controllo, la bloccò.

 

Mentre cercava disperatamente di calmarsi e di recuperare un po’ di ossigeno, trovarsi davanti il viso di lei, il rossetto mezzo sbavato e mezzo scomparso, il viso completamente scurito, così come gli occhi, fu un colpo basso.

 

In tutti i sensi.

 

Così come il mugolio frustrato di lei e il modo in cui si mordeva le labbra.


“Non… non possiamo qui, non così…” riuscì in qualche modo a pronunciare, anche se la voce gli era quasi del tutto sparita.

 

“E… e allora… andiamo da un’altra parte,” ribatté lei, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

 

E lo era, ma…

 

“Non… non posso mollare tutti, anche se… anche se lo vorrei tanto e-”


“E per come sei messo forse ti conviene mollare tutti. Conosco un’uscita direttamente dal giardino,” rise lei, facendogli l’occhiolino.

 

Cercò di guardarsi, anche se non poteva vedersi in viso - di sicuro come minimo aveva il rossetto sbavato pure lui. Il vestito era pieno di segni lasciati dalla siepe e dalla foga di Mariani, oltre che di pieghe.

 

La guardò meglio ed in effetti anche il vestito di lei era in condizioni terribili, anzi, pure peggio, essendo fatto di seta. Sperava di non averglielo rotto definitivamente ma, in caso, glielo avrebbe ricomprato sicuramente. Che sarebbe stato un peccato mortale non vederglielo più indosso, pure se rischiavano di nuovo di fare la stessa fine.

 

“E poi… hai già salutato tutti, no? Anche se hai passato tutta la sera a fissarmi.”

 

Visto quanto era surriscaldato non avrebbe saputo dire come fosse possibile, ma si sentì le guance ancora più calde.


Allora lo aveva notato!

 

Mariani era timida e silenziosa ma… non le sfuggiva niente.

 

E questo lo faceva impazzire.

 

Forse fu quella la goccia che fece traboccare il vaso, ma stavolta fu lui a prenderla per mano e a condurla verso l’uscita del giardino che sì, conosceva bene anche lui, perché della sicurezza dell’evento se ne era occupato in prima persona.

 

Sentì la risata di Mariani sul collo mentre correvano sulla ghiaia, nonostante i tacchi di lei, fino al vecchio e stretto cancello che si apriva solo internamente.

 

Sperando non suonasse qualche allarme, lo fece scattare e non persero tempo ad uscire e a chiuderlo alle loro spalle.

 

Una volta che si furono accertati che non ci fosse nessuno nel parcheggio, corsero fino all’auto, che per fortuna aveva tenuto lui le chiavi e non le aveva date al ragazzo della reception - sempre per motivi di sicurezza. Una volta che ci furono saliti, partì quanto più in fretta possibile senza dare nell’occhio.

 

Ma gli toccò presto fermarsi, ad un semaforo rosso: una multa non se la poteva proprio permettere, visto con chi era, e-

 

E se la corsa e l’adrenalina un poco avevano diminuito lo stato imbarazzante in cui versava, il tocco umido sulla mandibola e sul collo non fecero che farlo tornare al punto di partenza.

 

Quando aveva conosciuto Mariani, mai avrebbe pensato che sotto quell’aria fiabesca si nascondesse tanta passione, tanto fuoco e invece…

 

Si trovò trascinato in un bacio, che non potè non ricambiare, perché non ce la faceva, e quindi si perse in quelle labbra dolci che sapevano ancora leggermente di vino e-

 

Un rumore di clacson e un “ma che te movi??? Certe cose fatele a casa, a zozzoni!!!” lo fecero sobbalzare e strappare via la bocca da quella di lei. Non solo il semaforo era ormai verde ma, nonostante il buio, tra i fari e le luci del semaforo e della strada, evidentemente si riusciva ad intravedere lo stesso cosa stavano facendo.

 

Mariani era bordeaux e doveva esserlo pure lui e gli sussurrò un “mi spiace, dottore…” che lo intenerì tantissimo.

 

“Leviamoci di qui,” le rispose, col fiato corto ed un sorriso che sperò fosse rassicurante, anche se ormai ci capiva poco o niente, tanto che guidò praticamente con pilota automatico, rendendosi conto di essere arrivato al suo condominio solo quando se lo trovò davanti.

 

Improvvisamente, si rese conto anche di non aver chiesto a Mariani il permesso di portarla lì.

 

“Se… cioè… se vuoi salire… se no ti riporto in caserma…” spiegò, il viso che ormai sembrava di avere la febbre a quaranta.

 

“Se ci provi, ti ci faccio entrare con me e poi ti arresto,” scherzò lei, ma l’immagine mentale di lei che lo… arrestava… non faceva che peggiorare le cose.

 

I piedi, di nuovo, si mossero da soli - e pure le mani - e spalancò la portiera, per raggiungerla ed aprire quella di lei. Mariani però era stata ancora più veloce e già era scesa, aveva richiuso quella dal lato del passeggero con un colpo secco e chiuse pure quella del guidatore, prima di sentirsela addosso in un bacio che gli levò ogni traccia di razionalità rimasta.

 

Fece giusto in tempo a chiudere a chiave l’auto e poi barcollò con lei fino all’ingresso e all’ascensore. Per poco non ci rimasero chiusi dentro, a furia di pigiare tasti a caso per arrivare al piano, spingendo anche per sbaglio quello del blocco.

 

“Non qui…” gli toccò ribadire, allo sguardo divertito e malizioso di lei, pure se aveva anche quel rossore che lo faceva impazzire.

 

Perché sapeva benissimo che quell’ascensore era vecchio modello e rischiava di andare in guasto da un secondo all’altro. Ci mancava solo rimanerci bloccati e dover chiamare qualcuno: altro che incognito! E poi si sentiva tutto, ma proprio tutto, come aveva sperimentato una volta con un vicino che aveva avuto la stessa idea che era appena venuta a loro.

 

Quindi, nonostante lo sbuffo di Mariani, sbloccò l’ascensore e, non appena furono arrivati al piano, non perse tempo ad uscirne, trascinandola con sé fino alla porta - le chiavi dov’erano quando servivano?!

 

Purtroppo per lui trovavano in tasca e tentare di ripescarle gli provocò un dolore assurdo. Tanto che lo capì pure lei, a giudicare dalla sua risata, e le toccò bloccarle le mani prima che facessero un disastro completo.

 

Il rumore della porta che girò sui cardini fu il suono più bello che avesse sentito in tutta la sera, o quantomeno il più liberatorio, così come quello della porta blindata che si richiudeva con un tonfo alle loro spalle.

 

E poi la intrappolò al muro, deciso a farle pagare tutti i tormenti che gli aveva inflitto quella sera, e che continuavano, senza sosta, tanto che, nell’ultimo barlume di consapevolezza, prima dell’incoscienza, sperò di arrivarci vivo a fine nottata.

 

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“Ben arrivati, accomodatevi!”

 

“Ciao Imma! Ippazio!”

 

Il saluto educatissimo di Bianca - uguale a Francesco proprio era - la fece sciogliere già dal principio, specie quando poi, prendendole lo spolverino leggero ed elegantissimo che aveva indosso, si trovò con un bacio sulla guancia.

 

Uno per lei e uno per Calogiuri.


“Dov’è Francesco?” chiese la piccola, a cui, come aveva detto loro Irene, doveva essere mancato molto.

 

Un ululato fu meglio di qualsiasi risposta.

 

“Francesco!” esclamò Bianca, contenta, per poi trattenersi e domandare, più tranquilla, “posso…?”

 

“Ma certo, vai! Sta nel suo ovetto.”

 

Con un ultimo sguardo di approvazione rivolto ad Irene, Bianca corse verso la zona del salotto e del divano dove stava il nuovo re della casa, con buona pace di Ottavia.

 

Anche se, purtroppo, probabilmente lo sarebbe stato ancora per poco.

 

Ignorò la fitta al petto e fece accomodare la gattamorta, prendendo anche a lei un trench che doveva costare quanto un suo stipendio.

 

Stava per richiudere la porta quando un “ci siamo pure noi…” la bloccò prima di chiuderla in faccia a Pietro.

 

Puntualissimi, sia lui che Irene. Anche se probabilmente per motivi diversi.

 

“Tataaaaa!”

 

L’ululato ed un peso che le si attaccò alla vita - sempre più alta si stava facendo! - la fecero sorridere e diedero il colpo di grazia alla commozione, mentre si abbassava per abbracciarsela.

 

Prenderla in braccio… non era sicura di farcela ormai, anche se, nonostante lo smodato amore per il cibo, l’altrettanta energia ed argento vivo la mantenevano più che in forma. Ma l’altezza l’aveva presa dal lato Calogiuri della famiglia ed anche Salvo non era certo basso, anzi.

 

“Mi sei mancata tanto tanto tanto! Anche tu zio!”

 

E, mentre lo zio invece la sollevava senza troppi problemi - ottimo segno che si stesse riprendendo per bene e che ormai i muscoli stessero sempre più tornando quelli di una volta - e la bimba rideva, le fece effetto notare come ormai parlasse quasi perfettamente.

 

“Eh… con l’asilo… cresce sempre di più,” commentò Rosa, con un sorriso commosso anche lei, sembrandole leggerle nel pensiero, come solo il fratello sapeva fare.

 

E un po’ Francesco.

 

“Dai, entrate. Ma che avete portato?”

 

“Rifornimento di dolci, pane e formaggi di Matera ed anche qualche mozzarella. Ah, sai chi ti saluta?”

 

Le venne spontaneo pensare stocazzo. Ormai l’effetto della vita romana si faceva sentire.

 

“No, chi?”

 

“Quel maresciallo… quello coi baffi, un poco strano. La… La… La…”

 

“LaMacchia?” domandò, con un sospiro, perché Capozza ancora i baffi grazie al cielo non se li era fatti venire, anche se magari un po’ di barba gli avrebbe pure giovato.

 

“Ecco, sì.”

 

“Bene. Tu non ricambiare, mi raccomando, Piè. O, se proprio devi, digli che spero che si trovi bene, anzi, benissimo a Nova Siri o dove cavolo sta.”

 

“No, veramente mo sta alla caserma di Matera e-”

 

“Pure? E va beh… c’è di buono che qua dubito fortemente che torneremo a breve a Matera in pianta stabile. E, nel frattempo, fa in tempo a trasferirsi di nuovo.”

 

“Eh non lo so, Imma. Mi ha detto che lo ha fatto per riavvicinarsi di più alla famiglia, che ci sta pure un fratello che lavora nell’entertainment, così ha detto.”

 

“Sì, se è entertaining come il fratello mi immagino il successone, Piè. Comunque dai, smettiamola di parlare di LaMacchia, che mi si chiude lo stomaco e con tutto questo ben di dio sarebbe un peccato mortale. Accomodatevi,” li invitò, mentre si avviava verso la cucina per ritirare tutto il pane e il companatico.

 

“Biancaaa!!”

 

L’entusiasmo di Noemi nel rivedere la sua amica fu travolgente, fin troppo, tanto che Francesco, che con le carezze di Bianca - ma quanto era una meraviglia quella bambina? - si era calmato, riprese a strillare più forte.

 

“Che non ti piacevano le voci potenti a te?” gridò a sua volta e Francesco, come da manuale, smise di piangere e si mise a ridere, mentre Irene la guardava ancora incredula come a dire ma come fai?

 

“Che bello!! Come si chiama?” domandò Noemi, che ancora non aveva conosciuto il piccolo ululatore seriale.

 

“Francesco,” spiegò Calogiuri, dolce e paziente come sempre, “però devi essere delicata con lui, che è piccolo e tu-”


“E io sono gande, eh!”

 

Il tono la fece sorridere, così come la r mancante. In fondo ancora doveva crescere, anche se si erano già persi un sacco di tappe.

 

E con Francesco… più che perdersele, bisognava vedere a quale tappa, non troppo lontana, sarebbero arrivati.


Osservò per un attimo Calogiuri che mostrava a Noemi come toccare Francesco, con un nodo in gola: era davvero perfetto con i bimbi.

 

E non solo con loro.

 

Francesco prima rise e sorrise, almeno per un po’, ma poi riprese a brontolare, in quello che, ormai lo sapeva, era il richiamo che indicava che le aveva gentilmente concesso di stargli lontano già per troppo tempo e che mo toccava a lei.

 

E quindi, dopo aver ritirato anche il filone di pane in dispensa, si avvicinò e lo prese in braccio, trovandosi con lui aggrappato al collo - che sempre più un koala le ricordava - stretto stretto. E con una serie di bacini che le fecero il solletico.

 

“Ma quindi Fancecco è mio cucino?” chiese Noemi, che sì, su alcune parole più complesse faticava ancora.

 

“No, Francesco non è tuo cugino: per ora ce lo abbiamo in affido solo temporaneamente.”

 

“Affido? Ma che cos’è?”

 

“Eh… Noè… è quando… una mamma, o un papà, o entrambi non possono occuparsi dei figli per un po’ e allora li lasciano ad altri.”

 

“Ma allora io con Pietto sono in affido?” domandò, facendo esplodere Pietro e Rosa in colpi di tosse, mentre a lei prendeva solo un nodo allo stomaco.

 

Povera piccola, con quel cretino come padre!

 

“No, no, perchè stai con me quindi non hai bisogno dell’affido,” le spiegò Rosa, abbassandosi verso di lei.


“Ma io ho bisogno anche di Pietto…” protestò Noemi, tra il triste e le braccia incrociate e non rimase un solo occhio asciutto nella stanza o quasi. Persino Bianca si commosse. Noemi e Francesco invece erano nel loro mondo.

 

“E io mica me ne vado da nessuna parte, infatti, finché tu e mamma mi volete,” la rassicurò Pietro, prendendola in braccio e stringendola anche lui forte forte.

 

I loro sguardi si incrociarono e, a parte la commozione, era così strano vedersi con una creatura in braccio, che non fosse figlia di entrambi, in quelle circostanze poi.


E sapeva benissimo che, da come la guardava, tra la dolcezza, una punta di amaro e la commozione, anche per lui era lo stesso.

 

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“Posso aiutarti?”

 

Per poco non gli venne un colpo perché stava ammirando i bambini giocare tutti insieme, Imma con in braccio Francesco, per tenerlo tranquillo.

 

Ma aveva uno sguardo malinconico che sovrastava la tenerezza della scena. E gli faceva male, perché ne conosceva bene la ragione.

 

Riprese a tagliare la torta della Regina Vittoria portata da Irene e mise a bollire l’acqua per il tè, sempre gentilmente offerto da Irene, insieme ai caffè per chi non lo gradiva.

 

“No, grazie, che voi avete già portato un sacco di cose, che chi sarà quanto ti saranno costate. Almeno questo lascialo fare a me. Che Imma non può staccarsi da Francesco.”

 

“Eh… ho notato ma…” si interruppe per un attimo, e poi gli si avvicinò in un modo che gli fece temere per un attimo l’ira di Imma, anche se era distratta col piccolotto, e gli sussurrò, “ma perché è così giù? Imma intendo.”

 

Sospirò: a Irene non sfuggiva proprio nulla.

 

Anzi, con il tempo diventava pure peggio, forse perché aveva sempre più esperienza o perché lo conosceva di più.

 

E lo guardava in quel modo che… che era difficilissimo mentire o omettere, anche se mai come con Imma.

 

Lasciò andare il coltello e fece un altro sospiro, chiedendosi il da farsi.

 

Da un lato, forse, era l’ultima persona a cui avrebbe dovuto parlare di quello, dall’altro era pure l’unica confidente donna che avesse a parte Mariani. E Mariani in quel periodo pareva stare in un altro mondo: era praticamente sempre impegnata, tanto che sperava che avesse trovato qualcuno finalmente e che fosse meglio di Santoro, non che ci volesse molto.

 

E poi sì, c’era Rosa ma… Rosa stava con Pietro e, anche se in passato avevano parlato del desiderio suo e di Imma di avere un figlio, ora temeva che, a spiegarle la situazione, non potendo parlarne con il compagno, le avrebbe dato solo problemi.

 

Irene invece… il periodo degli avvicinamenti pericolosi era ormai finito da molto tempo, Imma non sembrava più avercela con lei. E poi… e poi era diretta, forse a volte brutale, ma proprio per quello più utile nei consigli di altri amici che magari si sarebbero fatti scrupoli a parlargli con schiettezza e a dirgli cose che non gli sarebbe piaciuto sentire.

 

“Imma… teme di essere… in menopausa…” gli uscì quindi, in un mormorio basso, più basso che poteva, ma Irene capì e spalancò gli occhi, “e… e Melita sembra che si stia piano piano riprendendo quindi… molto probabilmente Francesco tornerà a stare con lei e… e Imma è preoccupata di non potermi dare un figlio e che… finiremo sempre per avere solamente affidi temporanei e per stare male. Ma a me non importa: mi basta stare con lei e… quello che sarà sarà… ma non so più come farglielo capire.”

 

Irene non rispose ma fece un sorriso strano e poi guardò verso i bambini che giocavano: Bianca che si era avvicinata proprio ad Imma per fare altre due coccole a Francesco e cantargli una filastrocca. E, con sua grande sorpresa - a maggior ragione di Irene - si era seduta su una gamba di Imma, mentre sull’altra ci stava il piccolo uragano, che batteva le mani, felice come forse non l’aveva mai visto.

 

Si voltò verso Irene, commossa come si aspettava, ma c’era anche qualcos’altro nel suo sguardo.

 

E poi si sentì stringere la mano, sotto al bancone, forse perché Irene temeva la reazione di Imma nel fare un gesto più visibile di sostegno. Con un “ci penso io, tranquillo!” che non capì - a meno che Irene avesse amicizie pure tra chi gestiva adozioni ed affidi - si allontanò un attimo da lui e tornò verso i bimbi.

 

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“Gelatooo, gelatoooo!”

 

Si era appena verificato una specie di ammutinamento, per colpa di quell’ingorda di Noemi.

 

La mega torta di Irene non era bastata, no, o meglio, era bastata giusto per un paio d’ore.

 

Poi Noemi aveva visto, nel cartone che stava guardando con Bianca, due che mangiavano il gelato e le era venuta una voglia che neanche ad una donna incinta.

 

E mo aveva improvvisato una specie di sit-in di protesta in salotto, sotto lo sguardo assonnato di Francesco, che però sembrava anche divertito, reclamando a gran voce l’agognato dolce, rivolgendosi direttamente a Pietro per di più.

 

“Eh, Piè, tranquilla proprio te la sei scelta la nuova famiglia, eh!” commentò sottovoce, dandogli una pacca sulla spalla, e lui sospirò.

 

“Va bene, va bene, vado a prendervi il gelato. A che gusti lo volete?”

 

“Sììììì!!!” ululò Noemi, battendo le manine, per poi aggiungere, soddisfattissima, “cioccoato e strazzatella!”

 

Bianca, come la Lady che era sempre, guardò verso Irene per chiedere il permesso. Irene però pareva stare in un altro mondo tutto suo, tanto che manco la notò, finché Bianca non chiese, a voce sufficientemente alta, “Irene, posso?” e lei annuì distrattamente.

 

In quel mentre, Francesco, da che rideva, fece uno sbadiglione.

 

“Mi sa che è l’ora della nanna per lui…” proclamò Calogiuri, premuroso come sempre, prima di sollevare ovetto e bimbo e aggiungere, “lo porto in camera finché non si addormenta del tutto, così sta più tranquillo.”

 

“Vengo anch’io, se no qua non dorme più,” si offrì, perché conosceva il piccolo urlatore abbastanza da sapere che, più del sonno, poteva la sua presenza o assenza.


Cosa che la commuoveva sempre tantissimo, anche se in certi momenti era un po’ scomodo.

 

“Allora io sto qua a giocare con le bimbe,” propose Rosa, con un sorriso, “intanto che arriva il gelato.”

 

“Io… ne approfitto allora per parlare un attimo con Imma e Calogiuri, che ho alcuni aggiornamenti da dare. Vi dispiace?” chiese alle bambine e a Rosa che, a parte Bianca - che un poco dispiaciuta effettivamente lo sembrava - fecero un’espressione per la serie ma ti pare? Vai pure e anche se non torni che ce ne frega a noi!

 

Non le avevano ancora perdonato la vicinanza con cio evidentemente.

 

Ebbrave!

 

Ma poi Irene la fissò con quei suoi occhi imperscrutabili e prese il sopravvento la curiosità, se fosse successo altro sul lavoro…. Certo, era strano che gliene parlasse così, ma magari non voleva discuterne nemmeno sulla linea criptata o le era venuta qualche nuova idea.

 

Quindi, prendendo il piccoletto dall’ovetto - che in braccio si addormentava sempre più facilmente - si avviò con lei e con Calogiuri fino alla loro stanza da letto.

 

Ci fu un attimo di imbarazzo, all’idea di farci entrare la ex gattamorta, ma del resto loro una camera avevano, lì dormiva Francesco ed era stata lei a richiedere quel colloquio privato.

 

Irene entrò ma non fece il mezzo sorrisetto che si sarebbe aspettata da lei, né qualche commento sarcastico, ma rimase a fissare le foto di loro due che scorrevano sulla cornice elettronica.

 

Si sarebbe aspettata qualche commento sarcastico pure su quelle, ma no: Irene fece segno a loro di accomodarsi, manco non fosse casa loro quella, e lei si appoggiò all’armadio.

 

“Allora, che ci dovevi dire di così urgente? Che lo sai come è difficile da addormentare Francé…” andò dritta al punto, perché tutte le solite pantomime della collega mentre doveva appunto addormentare la creatura… non c’aveva né tempo né voglia.

 

“Meglio se prima lo addormentate, poi vi spiego.”

 

“Sì, così si risveglia e-”

 

“Ed è meglio se non lo tenete in braccio, quando vi dirò quello che sto per dirvi.”

 

Ammazza! E che caspita doveva mai dire?

 

“Ma… ma c’entra Melita?” le domandò, preoccupata, perché era l’unico argomento, a parte Calogiuri, al quale potesse essere così sensibile.

 

“Solo in parte, Imma, solo in parte.”

 

Con un sospiro, iniziò a cullare Francesco e ad accarezzargli piano piano il viso e le manine, lanciando uno sguardo a Calogiuri che, come sempre, la fissava neanche fosse la Madonna, finché i respiri del piccolo si fecero sempre più lenti e profondi, gli occhi gli si chiusero e prese a ciucciarsi il ditino, come faceva spesso.

 

Con molta delicatezza glielo tolse dalla bocca - che il pediatra aveva detto che non andava bene per i dentini e, finalmente, si addormentò in quella posa di quando si lasciava andare completamente, con le manine aperte lungo i fianchi.

 

Lo poggiò in mezzo al letto, con le barriere intorno che avevano comprato appositamente, si voltò verso Calogiuri, che annuì, ed infine verso Irene.

 

“Allora, che dovevi dirci di così urgente?” le domandò, incrociando le braccia al petto.

 

Irene aveva uno sguardo strano, stranissimo, che non le aveva mai visto prima. La vide prendere un respiro, dopodiché lo lasciò andare e si schiarì la voce, come se quello che stava per pronunciare proprio non le volesse uscire.


Stava per alzare gli occhi al soffitto per la drammaticità della collega quando, in un fiato, udì le parole, “sto… sto pensando di lasciarvi Bianca. Se ve ne volete occupare, ovviamente.”

 

Per poco non si slogò la mascella, tanto la bocca le si spalancò dalla sorpresa. Si voltò di scatto verso Calogiuri, giustamente sconvolto pure lui, perché si sarebbe aspettata di tutto ma non quello dalla ex gattamorta.

 

“Come lasciarci Bianca?” ripeté, più forte di quanto avrebbe dovuto, tanto che il piccoletto fece come un mugolio e si zittì subito, per non svegliarlo.

 

Ma non… non poteva essere… doveva aver capito male.

 

“Io…. io non ho una situazione sentimentale stabile e… a questo punto non so se l’avrò mai. E Bianca ha molto bisogno di una figura paterna, di una famiglia, mi è sempre più chiaro da… da alcune cose successe negli ultimi mesi. Ed io non gliela posso dare. E… e con voi sta bene, sta bene anche con Francesco e con Noemi… ha fatto più progressi con lei che con tutte le tate, le psicologhe ed i medici che l’hanno vista in questi anni. E… e invece io… sento che la tiro indietro che… che non sono abbastanza per lei, sia perchè sono da sola, sia per… per il mio carattere. E invece voi… potreste prenderla in affido e poi quando vi sposerete chiedere l’adozione, che gli anni di convivenza ormai quasi li avete, no? Anche se magari dovrete dimostrare il tempo… non ufficiale in cui vivevate già insieme.”

 

Sentiva il cuore rimbombarle nelle orecchie, la testa che le girava, e la mano di Calogiuri sulla spalla a farle forza


E poi la vista appannata perché… perché si rese conto solo in quel momento di quanto Irene amasse Bianca: a tal punto di essere pronta a rinunciare a lei pur di vederla felice. A darla proprio a lei, poi, che di sicuro, almeno fino a qualche tempo prima, sarebbe stata la sua ultima scelta.

 

“Ma… ma ne sei sicura?” chiese Calogiuri, per tutti e due, “cioè… poi ormai Bianca ti è molto affezionata e-”

 

“Sì, ma sono Irene, non sono la sua mamma. E… e probabilmente non lo sarò mai. Lei invece ha bisogno di una famiglia vera… non… non di qualcuno che fatica anche a giocare con lei e che… che c’è solo la sera e nei weekend e che…. Forse non sono capace di fare la madre: ho visto anche con Francesco com’è andata,” concluse con un sospiro, un paio di lacrime che le scendevano sul volto.

 

E non poté non pensare che fosse la cosa più bella e più triste che avesse mai visto.

 

“Ma ci hai pensato bene?” chiese Imma, sconvolta, “cioè… non…”

 

“Sono mesi che ci penso… forse… forse anni. Ma… ma una parte di me non voleva, non vuole… ma… mi rendo sempre più conto che… non deve contare ciò che voglio io. E… avete tutto il tempo per pensarci, naturalmente, anche se, in caso vi vogliate trasferire, dovrete decidere prima di allora. Ma l’offerta resta valida,” ribadì, prendendo un fazzoletto da sopra la cassettiera ed asciugandocisi, prima di concludere con un, “torniamo di là?”

 

Prese pure lei non uno ma due fazzoletti, perché aveva gli occhi rossi da far spavento e Calogiuri la imitò, anche se lei, a differenza degli altri due, si soffiò pure il naso. Sperando di non aver svegliato Francé.

 

Ma no, il piccolotto continuava a dormire e pure della grossa.

 

Seguì Irene e Calogiuri fuori dalla stanza e, in un silenzio surreale, raggiunsero il salotto, dove trovò Rosa che giocava con Noemi ed una delle bambole di Frozen che aveva portato Bianca.

 

“Ma dov’è Bianca?” domandò Irene, perché sì, effettivamente non si vedeva da nessuna parte, “è in bagno?”

 

“Veramente… io pensavo fosse con voi… è venuta a chiamarvi per il gelato: Pietro ha avvisato che sta tornando e che dovrebbe essere qua tra poco.”

 

Il respiro strozzato di Irene fu anche il suo e Calogiuri afferrò la ex gattamorta per un braccio, prima che cadesse a terra.

 

Il fatto che non le desse alcun fastidio, neanche il modo in cui Irene si appoggiò a lui, le fece capire quanto fosse preoccupata. E di solito il suo istinto non sbagliava, purtroppo.

 

Il rumore di ciabattate la fece accorgere che i piedi le si erano mossi di loro volontà e, quasi di corsa, raggiunse ed aprì la porta del bagno.

 

Ma niente, non c’era nessuno.

 

Riaprì anche la stanza, l’ultima speranza, ma c’era solo Francesco che, per fortuna, dormiva della grossa, inconsapevole del dramma che stava capitando lì fuori.

 

Si sforzò di richiudere la porta con la delicatezza - che non era esattamente il suo forte - e corse verso il salotto.

 

“Non c’è… non c’è, vero?” esclamò Irene, le lacrime agli occhi ed il viso più pallido dei suoi gusti in fatto di abbigliamento ed arredamento.

 

Si limitò a scuotere il capo, perché la voce non le saliva, ma poi Calogiuri proclamò, “è una bambina, non può essersi allontanata di molto, dobbiamo cercarla, subito. Chiamo… chiamo i colleghi e-”

 

“E non possiamo! L’unico che sa di lei è Mancini, lo sai!”

 

“E allora chiamiamo Mancini!” intervenne lei, decisa, guadagnandosi, straordinariamente, un’occhiata di approvazione da Calogiuri, cosa che sarebbe stata impensabile, a quella frase, fino a qualche mese prima.

 

Il suono del campanello ancora un po’ le fece venire un infarto ma Calogiuri - dopo aver aiutato Irene a sedersi sul divano, accanto a una Rosa prima confusa e poi preoccupata e ad una Noemi che continuava a battere le mani e ad ululare felice ed inconsapevole “GE-LA-TO, GE-LA-TO!” - raggiunse in poche falcate la porta d’ingresso e la aprì.

 

La speranza che fosse Bianca che, matura, educata e ligia com’era, avesse deciso alla fine di ritornare indietro, si infranse di fronte allo sguardo sorridente di Pietro che proclamò, “Noè, t’ho portato il gelato!” in un modo che le ricordò tantissimo com’era con Valentina da piccola.

 

“Sììììì!” gridò Noemi, lanciandosi dal divano e correndo verso Pietro che la prese in braccio.

 

Ma poi si guardò intorno e, confusa, chiese, “ma Bianca dov’è? Che gelato si sioje!”

 

Fu un colpo al cuore, come se la situazione di emergenza fosse, con quelle semplici parole, diventata mille volte ancora più reale.

 

“Chiamo Mancini,” proclamò, decisa, recuperando il telefono dall’isola della cucina, mentre Pietro, con un tono confuso chiedeva, “ma… ma che succede? Perché avete quelle facce? E perché Imma deve chiamare il procuratore capo?”

 

“Bianca… Bianca è scappata…”

 

E in quelle parole, pronunciate a fatica da Irene, c’era tutto il dolore del mondo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Mancini ci darà una mano con le ricerche. Ha detto che avrebbe contattato anche Martino, De Luca e Mariani, che dice che di lei ci si può fidare. E non gli do torto. Ci dividiamo le zone: Mancini ha detto che ci manderà una mappa con le zone da cercare, cominciamo da qua vicino.”

 

Come se lo avesse anticipato, arrivò un messaggio sul suo cellulare, su quello di Calogiuri e anche su quello di Irene, con la mappa della zona divisa da linee colorate che delimitavano dove dovesse guardare ognuno di loro.

 

“Ma noi… noi non possiamo fare proprio niente?” domandò Pietro, che stava abbracciato a Rosa, mentre cercavano di rassicurare Noemi che la sua amichetta mo la cercavano e che sarebbe tornata presto.

 

Promesse che non potevano mantenere.

 

Lo sapeva lei, Irene, Calogiuri, e forse, in fondo in fondo, lo sapeva pure Pietro.

 

“Meglio che state qua, mettete caso che torna, ci deve essere qualcuno in casa. Noi usciamo,” proclamò, infilandosi le uniche scarpe da ginnastica che aveva e lo spolverino rosa, più per coprirci Bianca, che perché temesse realmente il freddo di fine primavera.

 

Stava per uscire quando un istinto la fece fermare.

 

Mancava qualcosa, a parte Bianca, ma cosa?

 

“Ma dov’è Ottavia?”

 

La voce di Calogiuri le diede la risposta che stava cercando. I loro sguardi si incrociarono, capendosi al volo. Ed era stato proprio il portachiavi, con l’uomo, la donna ed una zampa felina a bloccarla.

 

Forse a bloccare anche Calogiuri.

 

“Ottà! Ottà!” provò a chiamarla che, magari, con tutti quei bimbi in giro per casa, si era nascosta da qualche parte, “Ottà, se vieni subito qua ci sta la scatoletta al salmone!”

 

Calogiuri, senza perdere un colpo, andò verso la dispensa, ne estrasse una delle dosi di droga legalizzata di Ottavia e la aprì.

 

Di solito, bastava il rumore, neanche il profumo, perché la micia si fiondasse a raggiungerla in cinque secondi netti - non importava dove si trovasse nella casa o se stesse cascando il mondo.

 

Incrociò di nuovo gli occhi di Calogiuri e le venne un pensiero, assurdo forse, ma possibile, anche se mo, alla preoccupazione per Bianca, si sommava pure quella per Ottavia.

 

Non poteva perderla, non anche lei.

 

“Non possiamo perdere altro tempo: dobbiamo andare!”

 

Se, normalmente, il tono di Irene le avrebbe dato sui nervi, riconosceva che aveva ragione: nella scomparsa di chiunque, a maggior ragione di un bambino, le prime ore, anzi, i primi minuti erano fondamentali, e ne avevano già persi troppi.

 

E quindi aprì la porta e corse fuori, sentendo dietro di sé i passi di Irene e di Calogiuri, che scendevano le scale a due a due, come stava facendo lei.

 

*********************************************************************************************************

 

“Bianca! Bianca!”

 

Ormai a furia di gridare le faceva male la gola - proprio a lei, che sulla resistenza vocale, lo sapeva, era da primato - ma niente.

 

Aveva ispezionato quasi tutta la zona a lei assegnata da Mancini, ma nulla, nessuna risposta, nessun segno della presenza di Bianca.

 

Nessun cenno neanche dagli altri e cominciava a far buio.

 

“Bianca! Bianca!!” provò ancora a urlare, sconfinando dalla sua zona verso quella di Irene, cercando di capire se c’era un posto, a logica, dove una bimba dell’età di Bianca sarebbe potuta andare ad infilarsi.

 

Aprì di nuovo la mappa e poco distante da lì c’era un parco giochi. Ma di sicuro Irene c’era già passata, no?

 

E se Bianca da lei si fosse nascosta ancora di più?

 

Era stata una voce, quella del suo istinto, che non aveva altro timbro se non il suo, a farle venire quel dubbio.

 

Forse la zona di Irene era da ricontrollare, palmo a palmo.

 

Forse poteva chiamare gli altri ed avvisarli della sua intuizione o andare direttamente al parco e-

 

Meoooowww! MEOOOOWWWW!

 

La testa le scattò in alto, così bruscamente che si fece pure un po’ male al collo, perché quel miagolio… magari era solo una suggestione, ma le ricordava tanto…

 

“Ottavia?!” esclamò, sollevata e scioccata al tempo stesso, specie quando la micia le saltò in braccio, che per poco non cascavano tutte e due.

 

Era fredda come non l’aveva mai sentita e sporca, sporca di terra e fango, proprio lei che era sempre così ossessionata dal pulito.


“Ottavia, che c’è? Sai dove sta Bianca?” le domandò, sentendosi per l’ennesima volta scema a parlare con lei, ma Ottavia, per tutta risposta, fece un miagolio ancora più acuto, poi saltò giù e cominciò a correre in una direzione, guardandosi però indietro, dopo poco.

 

Senza farselo ripetere due volte, le corse appresso, perché forse… forse Ottavia, che era più percettiva di tutti loro messi insieme… forse si era accorta di quando Bianca era uscita, forse l’aveva seguita e-

 

Si trovò davanti proprio all’entrata del parco giochi e fu allora che notò, in un angolo, una zona di giochi con la sabbia, che però, con la pioggia di quella mattina e dei giorni precedenti doveva essere più simile a fango.

 

Infatti lei ed Ottavia corsero in contemporanea proprio lì ed in mezzo, sopra ad alcuni scivoli, scale e corde, c’era una casetta di legno, con giusto qualche finestrella e due porte, chiuse.

 

Ottavia, agile come non mai, saltò sopra la scala a pioli e, con pochi balzi, raggiunse la cima e si buttò dentro una delle finestre.

 

Ai miagolii seguì un “shh!” che le sembrò molto poco felino e molto umano, e soprattutto familiare.

 

“Bianca!” chiamò, perché non voleva spaventarla, anche se allo stesso tempo temeva che scappasse, “Bianca, sono Imma, lo so che sei lì!”

 

Ma, a parte i miagolii disperati di Ottavia, non sentì risposta.

 

“Guarda che se non mi rispondi salgo!” esclamò, sperando di potersi evitare l’arrampicata, anche perchè per lei la scala e la casetta erano piccolissime, ma ancora niente.

 

Del resto, se aveva imparato da Irene, una certa cocciutaggine doveva averla.

 

Con un sospiro, infilò il cellulare nella tasca dello spolverino, appese la borsa ad un piolo - che solo quella ci mancava - e cominciò piano piano a salire, le scarpe che a malapena entravano nei pioli.

 

Raggiunta la cima ed una delle due porticine, la aprì, giusto in tempo per beccare Bianca che cercava di scappare dall’altra, giù dallo scivolo, mentre Ottavia provava a trattenerla mordendole la gonna e tirando..

 

D’istinto, allungò un braccio ed abbrancò anche lei un pezzo di stoffa, bloccandola definitivamente, anche la piccola cadde un poco rovinosamente sul sedere. Per fortuna però era seduta e non aveva picchiato la testa. Lei invece, una botta sulla cima della cornice della porticina se l’era pure presa.

 

Ma ignorò il dolore e, con un ultimo sforzo, ci si infilò con il busto, sollevandosi poi a sedere accanto a Bianca, la testa che per poco non picchiava di nuovo sul tetto in legno, mentre tirava dentro le gambe.

 

“Bianca…” sospirò alla fine, guardando la bimba che però teneva gli occhi bassi sul pavimento di legno sbeccato, “Bianca… che dici? Parliamo un po’?”

 

La bimba tirò su col naso in modo profondissimo ma non rispose: le braccia incrociate sul petto e sul vestito candido come il suo nome che ormai era mezzo marrone. Per non parlare dell’espressione offesissima che le ricordò tantissimo Irene quando ce l’aveva a morte con lei, mentre continuava a fissare il pavimento.

 

Se pure l’ermetismo l’aveva preso da Irene, stavano freschi.

 

“Bianca…” provò un’ultima volta, ma niente, sembrava aver perso la lingua del tutto.

 

E quindi fece l’unica cosa che poteva fare. Sempre tenendola con una mano, estrasse il cellulare con l’altra e mandò a Calogiuri un messaggio con la posizione e la parola trovata, sperando che lo inviasse a tutti.

 

Per fortuna, Calogiuri era più solerte di chiunque altro e, nel giro di qualche secondo il messaggio fu letto e al suo avviso io gli altri? le bastò rispondere sì!

 

*********************************************************************************************************

 

“Bianca! Imma!”

 

Riconobbe immediatamente la voce di Irene, che suonava disperata, e dovette trattenere Bianca prima che scappasse di nuovo.

 

Fece capolino dalla porticina e vide la ex gattamorta e Calogiuri che correvano verso di loro, nonostante Irene fosse con tacchi e tutto.

 

“Dai, Bianca, mo però scendiamo. Che credo che tu ed Irene avete tante cose da dirvi,” la esortò, anche perché l’altra PM difficilmente sarebbe entrata in quello spazio angusto, alta e formosa com’era.

 

“Non ci voglio parlare con lei!” gridò Bianca, cosa che la sconvolse, perché di solito era sempre un angelo, per poi aggiungere, rivolta direttamente ad Irene, con un tono ed uno sguardo che furono una mazzata per lei, figuriamoci per la persona a cui erano diretti, “sei cattiva! Non mi vuoi bene! Mi vuoi abbandonare!”

 

Irene scoppiò a piangere, in un modo che non era nemmeno da lei, disperata come non l’aveva mai vista prima di quel giorno e di aver scoperto che Bianca non si trovava.

 

“Non è vero, non ti voglio abbandonare ma-”

 

“Ho sentito tutto! Tu mi vuoi lasciare a loro! Non mi vuoi bene! Sono solo un fastidio per te, come Francesco!”

 

Ammazza se ci andava giù pesante Bianca quando si arrabbiava!

 

Non che non la capisse, per carità, povera creatura, ma era più simile a Irene anche nel caratterino di quanto Irene stessa pensasse.

 

“Posso almeno vederti? Così mi guardi in faccia…” implorò Irene, in un modo che, di nuovo, le fece tenerezza, ma Bianca rimase mezza nascosta dietro la sua spalla con le braccia conserte.


“Eddai, Bianca. Almeno ascolta cos’ha da dire. Guarda che non è come pensi, veramente, lo so che quello che hai sentito ti ha sconvolto, ma se Irene lo ha fatto è perché ti vuole fin troppo bene e si sottovaluta e pensa di non essere abbastanza per te.”

 

Bianca la guardò come per dire perché dovrei crederti? ma poi sentì la voce di Calogiuri confermare, “è come ha detto Imma, veramente. Irene ti vuole un bene grandissimo, ancora più grande di quanto pensavo, anche se… magari a volte ha un modo strano di dimostrarlo.”

 

Irene guardò Calogiuri tra il grato e il e magari se l’ultima parte la omettevi era meglio.

 

Bianca si morse le labbra, poi incrociò di nuovo le braccia, ma alla fine sbuffò e gattonò fino all’entrata dalla scala, proclamando, decisa, “io da qui non mi muovo però. Allora, cos’hai da dire?”

 

Imma si guardò con Calogiuri attraverso la fessura lasciata dal corpicino di Bianca, che occupava quasi tutta la cornice della porta, e sapeva che stavano entrambi pensando che Bianca le frasi da PM le aveva imparate tutte.

 

Assurdamente, a volte, sembrava quasi un’adolescente, probabilmente come conseguenza dell’educazione ricevuta e dell’aver avuto quasi sempre a che fare con persone molto più grandi di lei.

 

“Bianca…” esordì Irene, asciugandosi le lacrime con le mani - proprio lei che probabilmente di solito solo fazzolettini delicatissimi usava - per poi cercare di chiarire, la voce roca e il fiato che ancora sembrava mancarle, “non ti voglio abbandonare, anzi, non vorrei mai separarmi da te. Ma… ho notato che, come Francesco, sei più felice e a tuo agio con Imma e Calogiuri che con me. Con loro sei serena, le tue ansie se ne vanno, hai fatto così tanti progressi in questi mesi che sembravano impensabili, grazie anche a Noemi. E… e lo so che ti manca una figura paterna e… e io non te la posso dare, e non so se te la potrò mai dare. Imma e Calogiuri invece tra qualche mese si sposeranno e potrebbero adottarti definitivamente, altra cosa che io purtroppo non posso fare. Potrebbero garantirti una stabilità che con me è impossibile. Sono sicura che saresti felice con loro, con Noemi come cugina e con Francesco, se rimanesse con loro. E io non ti voglio impedire di essere felice solo perché mi fa male l’idea di lasciarti andare: non voglio essere egoista, proprio perché ti voglio un bene che neanche ti immagini. Voglio che tu abbia una mamma e un papà e-”

 

“E io una mamma già ce l’ho e sei tu, e non ne voglio un’altra! Anche se non vuoi che ti chiamo così e non dici mai a nessuno che sono tua figlia ma-”

 

Un singhiozzo fortissimo squarciò l’aria e rimbombò fin dentro al legno e poi Irene, le guance ormai completamente lavate ed il trucco tutto sbavato, si proiettò in avanti, salì giusto un gradino - che lei era altissima, con quei tacchi poi - e vide le sue mani avvolgere la vita di Bianca, che sparì per un secondo dalla sua visuale, almeno finché le vide entrambe ai piedi della scaletta, Irene che si abbracciava fortissima la bimba, che le si aggrappava alle spalle, e le riempiva le guanciotte di baci.

 

Un’altra occhiata con Calogiuri ed anche lui era un fiume di lacrime, come doveva esserlo lei, che continuava a sfregarsi gli occhi per riuscire a vedere qualcosa.

 

“Amore mio…” sentì sussurrare Irene, in un tono dolce come non mai, “scusami, scusami, scusami. Ma è che… non pensavo che mi vedessi come una mamma ancora e… e per quello non ti ho mai chiesto di chiamarmi così. I primi tempi temevo fosse una cosa temporanea e non volevo che ti affezionassi troppo a me, se poi ci avessero separate, o che… che pensassi che io volevo sostituire la tua mamma.”

 

“La mia prima mamma è la mia prima mamma, ma ora sta in cielo. Ma anche tu sei la mia mamma e sei qui. Perché non si può?”

 

“Certo che si può!” esclamò Irene, sorridendo ed accarezzando il viso di Bianca con una tenerezza di cui non l’avrebbe mai ritenuta capace.

 

Parli proprio tu, Imma! - la schernì la vocetta della Moliterni.

 

“Sarei onorata di essere la tua mamma e ti prometto che farò di tutto per tenerti sempre con me, finché lo vorrai. Va bene?”

 

Un singhiozzo molto più lieve ed era Bianca che piangeva, e la vide stringersi ancora di più al collo di Irene ed abbracciarla forte forte. E Irene faceva lo stesso, come se veramente non volessero lasciarsi più.

 

Una mano che si sporse nella cornice della porta ed era Calogiuri, commosso e sorridente, che l’aiutò a scendere.


“Che dici? Ce ne andiamo, dottoressa?” le sussurrò e lei annuì.

 

Certi momenti andavano vissuti da soli, ma era felice che il disastro e la tragedia sfiorata di quel pomeriggio fossero serviti a qualcosa.

 

E quindi, sciolta in un abbraccio con Calogiuri, camminò con lui fino all’ingresso del parco, Ottavia che, da brava regina, gli era saltata su una spalla per farsi trasportare.

 

“Stasera doppia razione di salmone, Ottà, ma mi sa che ti tocca pure un bagno.”

 

Lo sguardo di terrore di Ottavia fu impagabile e risero insieme, tra le lacrime.

 

Alla fine erano proprio una famiglia, anche così. Ma sperava, nel profondo del suo cuore, che non fosse per sempre solo così.

 

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“Pronto? Dottoressa?”

 

Il forte accento materano le era terribilmente familiare, ma anche la voce del proprietario del Bistrot 2.0 le ricordava sempre qualcuno, anche se non avrebbe saputo dire chi con precisione.

 

Però, sebbene si vergognasse a ripresentarsi con così poco preavviso, alla fine Calogiuri al matrimonio ci teneva tantissimo ed almeno di quello non lo avrebbe privato.


Quindi ci si sarebbe messa d’impegno e, con l’insistenza e l’animo da scassapalle di quando doveva sollecitare i fascicoli dal RE.GE. con la Moliterni, avrebbe ricontattato tutti i fornitori.


Per fortuna la location, come l’avrebbe chiamata Irene - che se ripensava a lei e a Bianca ancora le veniva un magone tremendo - era disponibile.

 

Il catering però…

 

E poi ci stavano le fedi, i vestiti - il suo doveva ancora sceglierlo e le avevano anticipato che poi ci voleva tempo per i ritocchi - le bomboniere - che col cavolo che quelle della cara Maria Luisa sarebbero state le ultime che Calogiuri avrebbe visto! - ed un sacco di altre terribili perdite di tempo che a quanto pare erano indispensabili per un matrimonio, per quanto semplice.

 

Oltre alle pubblicazioni, ovviamente, di cui avrebbe dovuto occuparsi prestissimo.

 

“Buongiorno. Senta, lo so che è da un po’ che non ci sentiamo, visti… gli imprevisti che erano sorti ma la chiamo per dirle che il matrimonio è confermato. Mi chiedo se possiamo ancora contare su di voi per il catering.”

 

Un attimo di silenzio.

 

Ma non preoccupato no, anche perché sentì il suono di una mano che copriva male la cornetta e diceva “La Tataranni!” a qualcuno lì vicino.

 

“Senta, le devo ricordare che deve essere tutto una sorpresa fino all’ultimo o quasi? Quindi se non squilla le trombe, magari!”

 

“No, no, dottoressa, ci mancherebbe altro. Io e la mia famiglia siamo la DI - SCRE - ZIO - NE in persona, anzi persone, e mi auguro che lei lo sappia.”

 

No, non sapeva manco esattamente chi fosse questo tizio ma Diana ne parlava bene e ormai contattare qualcun altro avrebbe comportato molte più difficoltà a far accettare i tempi stretti.

 

“Me ne compiaccio, ma allora questo catering si può fare sì o no?”

 

“Sì, sì, certo dottoressa. Però vede… ci sarà da pagare un po’ di più alcuni ragazzi ai quali avevo già dato la disdetta, quindi spero non le dispiacerà se all’importo originariamente pattuito ci aggiungo la caparra già versata? Sa… per tutti gli extra… anche perché ci dobbiamo organizzare per avere tutto fresco, anzi, freschissimo, e tipico delle nostre zone.”

 

“Senta, capisco per i ragazzi, ai quali posso lasciare personalmente una mancia come bonus, ma neanche se le dovesse coltivare, pescare o cacciare quelle cose avrebbe bisogno di tutto questo preavviso per averle fresche, mi scusi. Anzi, rischia che i fornitori si scordano pure, che stiamo in Italia, mica a Tokyo.”

 

Almeno i soldi li avrebbero visti veramente i lavoranti, che si facevano il proverbiale mazzo, e non questo che le suonava sempre di più come la versione italica del venditore di auto dei film americani.

 

Un sospiro, un altro silenzio - per un attimo dubitò le avrebbe attaccato il telefono in faccia - ma poi la stessa voce di prima, molto meno spavalda ed iper entusiasta, acconsentì con un, “va bene, dottoressa, va bene, ma soltanto perché è lei e per la stima che in famiglia nutriamo nei suoi confronti. Oltre che per quello che è successo negli ultimi mesi. Ma, e lo dico contro il mio interesse, lei è proprio sicura di voler sposare questo… Colugiuri?”

 

“CA - LO - GIU - RI. E ne sono sicura molto di più di quanto sia sicura di volere davvero voi come catering, e di non richiedere pure indietro la caparra, se andiamo avanti così.”

 

“Va bene, dottoressa, ai vostri comandi. Ci sentiamo presto allora per concordare il menù definitivo. Buona giornata.”

 

Sospirò anche lei, ma di sollievo: e quella almeno era fatta e senza farsi spennare.

 

Che, piuttosto, si portava le oche di Ottavia a Matera e ci pensavano loro.

 

Con i suoi soliti poteri inspiegabili, Ottavia le saltò in braccio, per una volta che Francesco dormiva, e cominciò a strusciarsi sulla sua pancia. Dopo qualche minuto di coccole, saltò sul tavolo dove c’era la cartella della ginecologa, che aveva estratto dall’armadio dove l’aveva sepolta durante il periodo di distacco da Calogiuri, e che si era costretta a recuperare.

 

“Sei sempre saggia, Ottà,” sospirò, grattandola dietro le orecchie, ma la verità era che, se su altri responsi il suo motto era sempre stato via il dente via il dolore, l’avere la conferma definitiva della sua sopraggiunta sterilità era un altro paio di maniche.

 

Ma, in prospettiva di affidi o adozioni, prima si preparavano e cominciavano ad informarsi per le pratiche e meglio era.

 

E poi lo aveva promesso a Calogiuri e non voleva mai più disattendere una promessa che gli aveva fatto.

 

Quindi fece scorrere l’elenco fino al nome della dottoressa amica di Irene e fece partire la chiamata.

 

Un po’ di squilli, tanto che stava, con un po’ di sollievo, cedendo alla tentazione di chiudere la chiamata, quando un, “pronto, Imma? Quanto tempo! Come stai?” segnalò che fosse ormai definitivamente incastrata.

 

“A- abbastanza bene, tutto sommato.”

 

Il silenzio dall’altra parte e l’imbarazzato, “mi fa piacere di sentirtelo dire!” le fecero capire che la dottoressa aveva, come tutti, letto giornali, guardato programmi tv, aperto pagine internet eccetera eccetera e che quindi sapeva perfettamente di cos’era successo con Calogiuri.

 

Del resto, non l’aveva mai chiamata per sollecitare visite di controllo, evidentemente per non girare il dito nella piaga.

 

“E allora come mai mi chiami? Come va la cura che ti ho prescritto? Ci sono novità?”

 

“In realtà… in realtà la cura l’ho sospesa qualche mese fa perché… perché le circostanze erano cambiate. Ma ora io e Calogiuri vorremmo adottare. Ci sposiamo tra pochi mesi e… e poi potremmo fare le pratiche.”

 

“Ma quindi l’idea di un figlio biologico l’avete accantonata definitivamente?” domandò la dottoressa, e percepiva, nonostante il tono professionale, un poco di qualcosa che vagava tra dispiacere e sorpresa.

 

“In realtà no ma… ma temo che il mio corpo l’abbia accantonata definitivamente. Credo… credo di essere in menopausa. Non ho il ciclo da un paio di mesi e… e prima sono stati sempre molto irregolari.”
 

“Allora adesso cerco di trovare un buco libero e ti dò appuntamento, va bene? Che sono un po’ piena in queste settimane ma credo che sia meglio inserirti il prima possibile.”

 

Non capiva che fretta avesse la ginecologa: tanto la menopausa sarebbe durata letteralmente per il resto della sua vita. Ma assentì, sperando che non fosse in un orario assurdo e che non le toccasse di nuovo lasciare Francesco alla tata.

 

Perché chissà quando e se le sarebbe mai ricapitato di avere un piccoletto da sopportare, ma anche da spupazzarsi, insieme a Calogiuri, e di ammirare lo spettacolo meraviglioso che era Calogiuri che faceva il papà.

 

Tanto che, nemmeno l’ululato esigente che veniva dall’ovetto - che quello c’aveva un sonno leggerissimo - le provocò altro che un sorriso malinconico ed una voglia matta di coccolarselo per bene.

 

Almeno finché era da sola, che mica poteva perdere la reputazione!

 

E che cavolo!


Nota dell’autrice: Eccoci alla fine di questo luuuungo capitolo che avrebbe dovuto essere ancora più lungo nelle intenzioni, fossi arrivata dove volevo arrivare ma… sarebbe venuta veramente un’epopea infinita e non volevo lasciarvi a bocca asciutta per un’altra settimana, soprattutto visto le anticipazioni uscite oggi che so che sono state una grande batosta per chi è fan di Imma e di Imma e Calogiuri.

La situazione con Francesco ormai è solo temporanea, i preparativi per il matrimonio però paiono procedere e per il resto Imma, oltre ad affrontare diversi eventi tra giallo, processi e il rosa, dovrà anche decidersi a fare questa benedetta visita dalla ginecologa.

Nel prossimo capitolo quindi ci saranno giallo e rosa in abbondanti quantità e anche un momento attesissimo, stavolta è sicuro che ci sia. Come andrà, se nel bene o nel male però… toccherà leggerlo per scoprirlo.

Vi ringrazio tantissimo per tutto il supporto che state dando a questa storia, per i messaggi di incoraggiamento, di sprono (a volte anche quasi “minacciosi” :D).

Grazie tantissimo a chiunque ha lasciato una recensione o un commento e mi ha fatto sapere che ne ha pensato della mia storia. Vi ringrazio di nuovo anticipatamente se vorrete farmelo sapere anche questa volta. Come sempre i vostri pareri sono preziosissimi per capire come prosegue la scrittura.

Grazie mille anche a chi ha inserito la mia storia nelle seguite e nelle preferite.

Il prossimo, ricco capitolo dovrebbe arrivare domenica 10 luglio, visto che a questo punto voglio che sia un capitolo pieno, quindi andremo un po’ oltre dove avevo pensato di giungere in questo.

In caso di ritardi vi avviserò come sempre sul mio profilo autrice.

Grazie ancora e buona settimana!



 

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Capitolo 73
*** Inquilini ***


Nessun Alibi


Capitolo 73 - Inquilini


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Sì, sì, sono sicura, sì, una cosa semplice, anche se a quanto pare la stupisce molto. Ma a questi prezzi, francamente, più che fiori e piante decorative giusto quelle di cannabis poteva vendermi, mi scusi.”

 

Si godette per un attimo la reazione scandalizzata della fioraia: già i prezzi erano una rapina abitualmente, anche se Calogiuri sulle rose rosse ogni tanto non lesinava - nonostante la fine tragica che facevano di solito nelle loro mani - ma per un matrimonio tutto pareva almeno due volte più caro.

 

Che almeno al funerale non vedi quanto spendi, al matrimonio invece ti ci devono fare arrivare con la gastrite.

 

Quasi ad averla invocata, percepì un poco di acidità in gola, ma avere a che fare con i fornitori le faceva quell’effetto, tanto che compatì improvvisamente un poco chiunque avesse un’attività in proprio. Sempre se poi gli scontrini li faceva e teneva tutto in regola, ovviamente.

 

La vibrazione del telefono la riportò alla realtà e si chiese se fosse magari il gioielliere - anzi l’orafo - per le fedi, che quelle doveva sceglierle per forza con Calogiuri ma doveva prima conciliare gli impegni di tutti.

 

Valentina

 

Sono in zona e, se sei a casa, verrei lì. Dimmi se è ok che in cinque minuti ci sono.

 

Più che una richiesta era praticamente un ordine. Una delle cose che Valentina aveva preso da lei e non da suo padre.

 

E che mai avrebbe potuto dirle?

 

Ti aspetto.

 

Sperava vivamente non fosse successo un altro casino, visto che era raro che Valentina la andasse a trovare così spontaneamente, in settimana per di più ed in orario di lezione.

 

Ecco, mo non farle l’interrogatorio su come va l’università, Imma, che ti conosco!

 

Diana, onnipresente nella sua mente insieme alla Moliterni. Ma, se la seconda sperava di riuscire a scansarla il più a lungo possibile almeno in carne ed ossa, Diana era nella assai breve lista di persone che avrebbe dovuto contattare assolutamente per la cerimonia.

 

Soprattutto per l’abito, che quello al mercato in offerta purtroppo ancora non si trovava.

 

E poi Calogiuri per il suo primo e si sperava unico matrimonio, meritava un certo impegno da parte sua. Lo voleva lasciare senza parole.

 

Per come ti conci di solito, Imma, non ne dubito!

 

Eccallà, la Moliterni, puntuale come il mal di denti, anzi di stomaco: doveva proprio prendere un antiacido.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma piange sempre?”

 

“No, ma qualcuno che scampanella delicatamente mentre fa il pisolino chissà perché non aiuta.”

 

“Chissà da chi avrò imparato, che quando arrivi tu alla porta sembra sempre che la vuoi sfondare e che sia arrivata la Digos per fare irruzione.”

 

Sospirò: stava cercando di tranquillizzare Francesco, che Valentina aveva spaventato con la sua scampanellata sobria, come avrebbe detto Vitali.

 

E si era pure addormentato da manco un’ora, mannaggia a lei.

 

“La prossima volta bussa, Valentì, che tanto il cancello di sotto sempre aperto sta.”

 

“E va bene…” sbuffò sua figlia, per poi chiederle, con curiosità, “ho saputo che… che Melita si sta riprendendo, giusto?”

 

La notizia era arrivata ai giornalisti, purtroppo, ma era prevedibile.


“Sì, sì.”

 

“E quindi… come farete con lui?”

 

“Eh… se i servizi sociali e i medici la reputeranno in grado di occuparsene, tornerà da lei, com’è giusto che sia.”

 

“Non so se essere stupita o preoccupata del fatto che, nonostante urli peggio di te-”

 

“E di te-”

 

“Insomma lo vedo che ti spiacerà molto.”

 

“Almeno qualcuna sarà contenta,” ironizzò per deflettere, rivolgendo uno sguardo ad Ottavia che era accoccolata su Valentina, con le orecchie pigiate sulla sua pancia, come a volerle tappare, “forse anche tu, no?”

 

“A me basta che tu e il maresciallo siete sereni, che non fate più casini e possibilmente non finite più sui giornali.”

 

“Dei casini lo spero, dei giornali non te lo posso promettere, lo sai.”

 

Valentina annuì e poi l’occhio le cadde sulla lista di cose da fare per il matrimonio, che avrebbe dovuto nascondere prima del ritorno di Calogiuri.

 

“Ma allora… ma allora è-?”

 

E sì, aveva letto anche la data.

 

“Dobbiamo ancora far partire gli inviti e fino al momento delle pubblicazioni sto facendo una sorpresa a Calogiuri. Non sa niente di niente: gli ho solo detto di procurarsi un abito adatto per l’estate. Quindi, se provi a farti scappare qualcosa-”

 

“Solo se mi prometti che posso accompagnarti a scegliere l’abito, che una scena del genere non me la voglio perdere e… e per il resto… mi farà strano vederti all’altare.”

 

“Nessun altare, Valentì: cerimonia civile, che col divorzio ormai sono una peccatrice irredimibile.”

 

Valentina rise ma poi si fece più seria e aggiunse, “a proposito… ma come pensi di fare con… con gli invitati di Calogiuri, specie alcuni? Sempre se li invitate e… e poi c’è il problema di-”

 

“Lo so, Valentì, lo so,” la interruppe, perché lo sapeva benissimo anche lei che il vestito, le bomboniere, i fiori e le rapine multiple a cui si stava sottoponendo erano solo una piccola parte del problema.

 

Ma non poteva farci nulla e non voleva peggiorare ulteriormente l’acidità di stomaco. Quindi virò rapidamente su un, “ma invece, a proposito di problemi, come mai tutta questa urgenza di vedermi? E non dirmi che all’improvviso sentivi la mancanza di quella scassapalle di tua madre.”

 

Valentina ammutolì, poi guardò verso Francesco, che nel frattempo si era calmato e la stava fissando, studiandosela per bene.

 

“Valentì, guarda che tra un po’ qua rientra Calogiuri e-”

 

“Come hai fatto a perdonare Calogiuri?”

 

Non era la domanda che si aspettava, tanto che rispose, “guarda che, se hai ancora dubbi su Calogiuri e sulla sua fedeltà, non mi ha mai tradita e-”

 

“Sì, ma quando ancora pensavi che lo avesse fatto, come hai fatto a perdonarlo?”

 

Sospirò, perché non era una critica ma proprio una domanda e la verità… la verità era che…

 

“Diciamo che… che quando l’ho perdonato è stato perché ho capito che non mi aveva tradita, gli ho creduto, anche se non c’erano prove ma… ma ho capito che era sincero. E poi era messo malissimo e… e cercare di aiutarlo è venuto prima dell’orgoglio.”
 

“Ma… ma se ti avesse tradita o se… se mentre non eravate insieme fosse stato con qualcuna, tipo che ne so… la Regina Elisabetta dei poveri, lo avresti perdonato lo stesso?”

 

Una fitta al pensiero della gattamorta davanti alla camera dello squallido hotel dove era rimasto praticamente murato vivo Calogiuri.

 

“Non lo so, Valentì. Cioè… se avesse… ceduto mentre non stavamo insieme… considerato anche com’era messo… credo e spero che sarei riuscita a capire, anche se… se mi ci sarei dovuta trovare nella situazione. Se mi avesse tradito veramente, prima che lo lasciassi, con tutti i progetti che avevamo in cantiere, non credo che sarei mai riuscita a passarci sopra.”

 

Valentina annuì ma sembrò ancora più pensierosa, più turbata.

 

“Ma che c’è? Perché ti interessa tanto questo argomento mo?”

 

Un sospiro e Valentina fu occhi negli occhi con lei. La vide esitare per un attimo e poi buttare fuori, tutto insieme, “è che… è che ho fatto un casino, ma anche Penelope ha fatto un casino e non so cosa fare. Però, se te lo racconto, non devi dirlo neanche a Calogiuri, chiaro? E, al primo giudizio, me ne vado.”

 

“Valentì, che ti posso dire… lo avevo notato che qualcosa non andava, che Penelope non c’era a pasqua. Ma chi sono io per giudicare i casini sentimentali degli altri? Finché non avete fatto niente di illegale e, si spera, tu non sia incinta, che ti posso dire all’età che c’hai?”

 

Sua figlia, per tutta risposta, si morse il labbro, le mani che si davano il tormento. E, anche in quello, le ricordava molto se stessa.

 

Proprio per quello, che fosse venuta lì per confidarsi era un evento storico. E doveva essere qualcosa che, per qualche motivo, non si era sentita di dire a Pietro, che di solito era il confidente primario, se non esclusivo, di Valentina.

 

“Allora… qualche mese fa… mi è venuto un dubbio perché… mi sono trovata attratta da un amico. Sì, maschio-”

 

Alzò le mani come per dire non ho detto niente e poi le fece segno di andare avanti.

 

“E niente, lui era bello, gentile, dolce, intelligente… ma anche coraggioso quando serve. Cioè, lo è ancora, mica è morto.”

 

Mi ricorda qualcuno - pensò, perché dalla descrizione pareva proprio Calogiuri.

 

“E insomma… eravamo amici da un po’, però una sera eravamo da soli e ci siamo trovati a ballare e… e ho capito che ne ero anche attratta. E allora non sapevo come fare e-”

 

Ma Imma non stava più udendo nulla perché alla descrizione, più il ballo, più l’amicizia…

 

“Ma il figlio di Vitali?!” domandò, prima di riuscire a trattenersi, mentre una visione orribile di cenoni di natale con Vitali e famiglia - per non parlare di casa di Valentina infestata da Pulcinella e corni portafortuna - le si parò davanti agli occhi.

 

Siamo tutti una grande famiglia, dottoressa!

 

L’acidità peggiorò ulteriormente, una colata proprio, tanto che le girò un attimo la testa e pure Francesco se ne accorse perché fece come un urlettino e la guardò interrogativo.

 

“E menomale che non giudicavi!”

 

“Valentì, non è che è un giudizio. Il figlio di Vitali - Carlo, giusto? - mi sembra pure un bravissimo ragazzo, da come me ne hai parlato, e per carità, se piace a te… Penelope mi sta simpatica ma è la tua vita, mica la mia. Ma… in famiglia ci deve essere sempre il destino di suoceri tremendi? Che poi… altro che le storie sulla pastiera di Salvo, che Vitali quello è fissato proprio!”

 

Valentina rise - almeno una cosa positiva ancora c’era - ma scosse il capo con un “tranquilla, mà: alla fine ho capito che Carlo mi piace, sì, ma sono innamorata di Penelope. Quindi non è successo niente di serio con lui e-”

 

“E non voglio sapere i dettagli, anche se credo che sia io che Vitali ci rallegriamo molto della parentela mancata. Ma… ma in che senso non è successo niente di serio? E Penelope? Cioè… l’hai-?”

 

“No, mà, no, dopo aver visto quello che è successo con te e papà…” esordì, e all’acidità si unì il senso di colpa, “insomma… ho parlato chiaro con Carlo perché non pensavo fosse giusto vederci più, ma ne ho parlato anche con Penelope perché… lei era sempre distante, le cose non andavano bene e… e non sapevo che fare. E Penelope ha detto che… che mi lasciava libera di… di esplorare la cosa con Carlo e che mi avrebbe aspettata fino alla laurea. Io non ero convinta, ma lei ha una mentalità diversa, a volte non la capisco ma… ma alla fine ho accettato anche perché avevo una confusione in testa e volevo chiarirmi le idee.”

 

Dire che fosse senza parole era dir poco. Non sapeva come facesse Penelope ad essere così zen e così matura, probabilmente le era toccata la parte di pacatezza e pazienza di cui lei e Valentina non erano state munite alla nascita.

 

“Ma e quindi tu hai… esplorato?”

 

“Sì, ma appunto non sono riuscita a… insomma… capisci, no?”

 

“Sì, Valentì, sì, capisco e di nuovo non servono i dettagli,” sospirò, e sì, lei e Valentina erano simili anche in quello.

 

“Però… non osavo tornare da Penelope dopo tutto quello che avevo fatto ma… ma ho aspettato troppo e… ho visto delle foto di lei con un’altra. Allora sono andata a Milano e… e le ho viste che si baciavano e… e insomma Penelope mi ha detto che è solo un’avventura, che per lei non significa niente e che per lei il sesso e l’amore sono due cose diverse. Che ormai non pensava più di vedermi ma che lei resta innamorata di me e vuole darmi una possibilità. Ma… ma io non so se riesco a levarmi dalla testa il fatto che lei e questa ragazza… invece le esplorazioni le hanno fatte eccome! E… ed è stupido ma-”

 

Alzò la mano, da sempre l’unico modo per fermare non solo i sottoposti troppo chiacchieroni ma anche Valentina.

 

“Valentì, ho capito, ho capito. Ma io che posso dirti?”

 

“Eh… è che… papà ti avrebbe perdonato mille volte: lui è troppo buono e… e non mi può capire. Tu invece che sei… diciamo parecchio gelosa… volevo capire se… insomma tu che faresti? Come si fa a non pensarci più? Perché io amo Penelope ma l’immagine di loro due…”

 

Sospirò perché, più che con lei, sua figlia probabilmente con Calogiuri avrebbe dovuto parlare. Non poteva rivelarle fatti troppo personali di Calogiuri, ma… ma forse, come Valentina era stata onesta, doveva provare ad esserlo pure lei.

 

“Ascolta, Valentì. Io e Calogiuri negli anni abbiamo avuto delle pause, lo sai bene e… una volta un casino lo ha fatto lui ma io non potevo recriminargli niente perché lo avevo allontanato io, pensavamo entrambi definitivamente. E un’altra volta… un’altra volta. quando ero delusissima da lui, il casino l’ho quasi fatto io, cioè non sono arrivata fino in fondo ma stavo per farlo, e risparmiamoci i dettagli pure mo, che sono sicura che lo preferisci pure tu.”

 

“Ma il tuo capo?” domandò lo stesso Valentina, perché più curiosa di lei era quando ci si metteva, ma Imma non rispose e si limitò a proseguire col discorso che voleva fare.


“E insomma… Calogiuri stava come stai tu mo. Non stavamo insieme e non era stato un tradimento ma… ma c’aveva ste maledette immagini pure lui. E per un po’ ho davvero temuto, abbiamo davvero temuto, che non saremmo riusciti a superarla. Ma alla fine… non è che ci sta una soluzione magica ma… gli ho fatto capire quanto tenessi a lui e a lui soltanto. E credo che quello e un poco di tempo gli abbiano fatto capire che davvero non significava niente, anzi, che a tornare indietro non l’avrei rifatto. Ma Calogiuri è Calogiuri, tu sei tu, io sono io e siamo tutti meno aperti mentalmente di Penelope. Quindi dirti che farei io… non lo so, perché la razionalità in certi casi va a farsi benedire ma… ma se c’è qualcosa che ho imparato in questi anni è che l’orgoglio è utile, è prezioso quando ci permette di allontanarci da situazione che ci fanno solo del male. Ma se è l’orgoglio a farci del male e a impedirci di essere felici e se l’altra persona non ha volutamente tradito la nostra fiducia se… se non si è mancato di rispetto in concreto… gli errori possono succedere. Però devi capire se riusciresti ancora a fidarti di Penelope e, soprattutto, come risolvere il problema della distanza, che se no state di nuovo punto e a capo, se già le cose non andavano bene.”

 

Valentina per una volta non l’aveva interrotta e anzi, sembrava immersa nei pensieri.

 

Ma poi, d’improvviso, fece come uno scatto e si ritrovò con due braccia intorno al collo, Valentina incollata al fianco in un abbraccio di lato, mentre Francesco, tra loro due, iniziava a protestare.

 

“Un po’ per uno, piccoletto,” esclamò Valentina, facendola ridere, ma Francesco, forse perché il tono di Valentina era simile al suo, si limitò a stringerle più forte la maglia e a gorgogliare, mentre si godeva quel momento così raro e prezioso con quella che una volta era la sua bambina ma ormai era veramente una donna.

 

Con tutti i casini che ciò comportava.

 

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“Sei sicura di sentirtela?”

 

“Se non siete sicuri possiamo rimandare, anche se dobbiamo fissare un nuovo appuntamento.”

 

Sospirò, mentre finiva di vestire Francesco con un camicino ed una cuffietta sterili forniti dall’ospedale, lui che si dimenava tutto in quella roba verde orrenda.

 

E come dargli torto?

 

L’assistente sociale, una moretta minuta dall’aria meno truce di quanto si sarebbe aspettata, forse anzi fin troppo sorridente, che da sorridere non ci stava proprio niente, era stata di nuovo gentile ad offrirsi di rimandare.

 

Ma, prima di tutto, non amava far perdere tempo agli altri, specie sul lavoro e, in seconda battuta… prima o poi quel passo andava fatto e, più aspettavano, e peggio era a livello psicologico, lo sapeva.

 

Quindi fece un cenno affermativo col capo, si infilò meglio la mascherina e così fece anche Calogiuri, dopo un ultimo sguardo di quelli che faceva per darle forza, e si prese in braccio il piccolo strillatore.

 

E poi lui la guardò e cominciò a ridere, probabilmente perché tra mascherina e cuffia doveva essere conciata proprio in modo buffo.

 

“Almeno l’abbigliamento ospedaliero non pare traumatizzarlo,” commentò l’assistente sociale, e sì, in effetti era un sollievo, “io rimarrò fuori per vedere cosa succede. Se avete bisogno, chiamate.”

 

In realtà avrebbe preferito evitare la sua presenza a quell’incontro, ma era stata necessaria per avere l’autorizzazione di portare un bimbo così piccolo in terapia intensiva.

 

E poi… e poi lo sapeva bene anche lei che l’affido, anche solo temporaneo, di Francesco dipendeva da quello, e che prima o poi comunque ci sarebbero dovuti passare.

 

“Mi pare evidente che il bambino si sia affezionato tantissimo a lei, dottoressa,”  proseguì poi, prima di lasciarli andare, e almeno per quello le fu grata, “e la madre biologica, oltre ad essere stata assente per gran parte della vita del bambino, presenta ferite ancora visibili. Quindi, anche se ritengo che un bimbo così piccolo non abbia ancora gli strumenti per comprendere cosa significhino quelle ferite, o per averne paura, è invece probabile che non ricordi nulla della madre biologica, e che la sua presenza possa non essergli gradita. In caso fosse, a mio avviso, necessario interrompere l’incontro, vi farò sapere tramite l’interfono.”

 

C’era una parte di lei, una parte egoista ed oscura, di cui si vergognava molto, che quasi un poco ci sperava. Sperava che Francesco continuasse a volere lei e solo lei e di avere la scusa molto comoda del parere dell’assistente sociale per tenerlo con sé.

 

Ma per Melita sarebbe stata la botta definitiva e ne aveva già passate tante. Lei e Calogiuri erano più forti, avevano tante cose per le quali vivere, mentre Melita non aveva nulla, se non quello scricciolo che valeva il mondo intero.

 

Quello che è giusto non è facile, ma ciò non lo rende meno giusto - si ripeté come un mantra, scacciando i pensieri egoistici e facendo segno alla dottoressa Tulli di aprire la porta.

 

Il calore di Calogiuri alle sue spalle ed una mano sulla schiena le diedero la forza necessaria per entrare di nuovo in quella stanza.

 

L’odore di disinfettante, il suono dei macchinari che monitoravano la situazione, il metallo onnipresente.

 

Ma stavolta Melita era già vigile, cosciente, e la vide voltare il capo di scatto verso Francesco e poi scoppiare in un singhiozzo, le lacrime che le rigavano il viso, bagnando quel sorriso ancora tirato dagli ultimi punti.

 

Fu una fitta al cuore, a maggior ragione quando Francesco rispose al singhiozzo con un urletto stupito e poi si strinse più a lei e la guardò, come per cercare conforto.

 

Se lo strinse più che poteva, mentre con un, “shhh, va tutto bene, tranquillo,” molto, ma molto arrochito, cercava di rassicurare lui e forse anche se stessa. La mano di Calogiuri si fece più forte sulla sua spalla e lo vide fare una breve carezza guantata a Francesco ed un paio di facce buffe sopra la mascherina, che scatenarono un sorrisone sdentato che fu il colpo di grazia.

 

Ma dovevano andare avanti, dovevano farcela.


“Ha… ha paura di me? Sono messa… proprio male.”

 

Era stata Melita a parlare: la voce ancora molto roca e debole ma che almeno suonava finalmente più umana. Alcuni punti erano spariti e, in generale, rispetto alla visita precedente, si vedevano i progressi fatti, nonostante i tiranti ancora presenti ed il fatto che fosse quindi immobile a letto.

 

“Ma no… è che… lui come sente un rumore che non sono le sue urla deve commentare, vero Francé?” si sforzò di minimizzare, guadagnandosi anche lei un risolino dal bimbo, che il suo tono lo amava sempre tantissimo.

 

Un altro colpo al cuore.


“Francé…” si sforzò poi di proseguire, girando piano piano il bimbo verso Melita, “questa è Melita, è… è la tua mamma.”

 

Forse solo Calogiuri poteva comprendere lo sforzo che le erano costate quelle ultime parole.

 

Melita, ora un po’ preoccupata oltre che commossa, lo guardò e Francesco ricambiò per un attimo ma poi tornò a voltarsi verso di lei, come confuso, per la serie perché questa mi guarda così?

 

Vide chiaramente la delusione nel volto di Melita e no, anche lei capiva benissimo come si sentisse lei in quel momento, ma al contrario.

 

E quindi, ignorando tutte le proteste egoistiche del suo dannato istinto materno, che proprio mo doveva risbucare fuori, si avvicinò piano piano al letto, continuando a rassicurare Francesco e lo stesso fece Calogiuri, finché furono accanto a Melita, parlando normalmente.

 

“Tu eri piccolo piccolo ma è lei che ti ha allattato, che ti ha fatto nascere, che si è sopportata le tue urla per i primi mesi. Vediamo se così ti ricordi, anche se con tutti sti disinfettanti l’odore sarà un po’ diverso,” spiegò, più per calmarlo con la sua voce che per altro, perché difficilmente Francesco poteva intuire cose diverse dagli stati d’animo ma, come suggerito dalla psicologa, piano piano, delicatamente lo appoggiò in grembo a Melita, nell’unica zona lasciata libera da tiranti e flebo.

 

L’olfatto era forse l’imprinting più potente, insieme al calore, anche se appunto purtroppo quello non era di certo il posto migliore dove sperimentarlo.

 

Francesco parve stupito, poi sollevò gli occhi verso Melita e la studiò ancora un attimo, dopo di che si voltò verso di lei come a dirle ma perché mi molli in braccio a questa? Guarda che io tra poco urlo!

 

“Prova a parlargli,” suggerì, di fretta, perché riconosceva benissimo i segnali di impazienza di Francesco e sapeva bene che, da lì a poco, sarebbero iniziati i mini ruggiti, poi gli urletti e infine ululati e pianto.

 

“Francè… non… non ti ricordi proprio di… di me?” chiese Melita ed il dolore che c’era in ogni sillaba pesava una tonnellata.

 

Francesco, per tutta risposta, la guardò per qualche secondo ma poi si voltò verso Imma e cominciò ad urlare, e poi a piangere.

 

“Francè, calmo, che non succede niente,” provò a rassicurarlo, accarezzandogli il viso e la pancia, anche se la plastica di certo non aiutava.

 

“Forse è meglio che usciate ora.”

 

La voce dell’assistente sociale, che veniva dall’interfono, fu insieme sollievo - più per la parte egoistica - ed una fitta di senso di colpa. Perché Melita, a quelle parole, aveva l’espressione di qualcuno a cui stava crollando il mondo addosso.

 

“Melì, magari ci vuole un po’ di tempo, una cosa graduale, non ti devi abbattere,” la spronò, mentre cercava di prendere in braccio Francesco senza farle male.

 

“Ti prego… aspetta…” la implorò in un modo, con quegli occhi scuri pieni di lacrime, che la fecero sentire una merda, una ladra e la bloccarono prima di sollevarlo del tutto.

 

Si guardarono per qualche istante, mentre l’assistente sociale ripeteva un, “la dottoressa ha ragione, riproveremo più avanti un altro avvicinamento e-”

 

Melita fece un altro singhiozzo disperato ed Imma alzò una mano, nel gesto che da sempre zittiva tutti, pure l’assistente sociale, a quanto pareva.


Del resto, di solito, nella gerarchia del mestiere i PM avevano l’autorità e forse anche quello aiutò l’automatismo insito nella moretta.

 

“Melì, tranquilla, non succede niente e possiamo riprovare quante volte vuoi. Lo prendo solo per calmarlo ma… non hai un qualcosa che possa aiutarlo a ricordare? Qualcosa di vostro, non lo so… magari un soprannome che gli davi, o-”

 

“Jerusalema!”

 

Nonostante fosse ancora roca, la voce di Melita era decisa come non mai, anche se non capiva che caspita c’entrasse la capitale israelo-palestinese in tutto quello.

 

Persino Francesco fu preso in contropiede, tanto che smise di piangere e guardò Melita, come incuriosito.

 

E, senza bene ancora capire che stesse succedendo, Melita cominciò prima a mugugnare una melodia e poi a canticchiare qualcosa di cui capiva solo Jerusalema ripetuto ottocento volte, più parole in presumeva spagnolo che non capiva.

 

Si guardò con Calogiuri, che parve stupito quanto lei, ma le sussurrò, “era un tormentone estivo…” chiarendo solo in parte la sua confusione.

 

Ma, ora che ci pensava, mentre Melita cantava, qualcun altro non ululava, anzi.

 

Riportò gli occhi sul piccoletto e lo vide che spalancava la bocca e gli occhi, come se dallo stupore avesse quasi smesso di funzionare.


Per un attimo si preoccupò che si stesse sentendo male, ma poi un risolino.

 

Quel risolino che segnò insieme una fine ed un nuovo inizio.

 

Perché Francesco rise, rise sempre di più e batté le mani, felicissimo, mentre osservava Melita come ipnotizzato. Melita che, con voce rotta, sia dalla fatica che dalle lacrime - presumibilmente di felicità e sollievo - che le stavano uscendo, continuava a cantare.

 

Solo che, ad un certo punto, scoppiò in un colpo di tosse e sentirono un’altra voce, quella della dottoressa Tulli, che dall’interfono raccomandava a Melita di smetterla per ora di cantare e di non sforzarsi, non da compromettere i punti rimanenti.

 

Ma Francesco si era tranquillizzato ed ancora sorrideva, battendo le mani.

 

“Era… era la sua ninnananna… non so perché… gli piaceva quando la passavano e allora… allora gliela cantavo.”

 

E stavolta fu il suo turno di non riuscire a dire niente: era senza voce. Sentiva anche lei il bruciore delle lacrime e nel petto: c’era un infinito amore ed un’infinita amarezza al tempo stesso.

 

Ma era giusto così.

 

La mano di Calogiuri tornò a stringerla, più forte, in un mezzo abbraccio, e non le fregò niente dell’assistente sociale o della dottoressa, lo ricambiò, perché ne aveva bisogno.

 

Ma poi un gorgoglio riportò l’attenzione su Francesco, che stava di nuovo guardando lei e non Melita ed agitava le braccina per farsi prendere in braccio.

 

“Credo per oggi sia abbastanza. Un primo risultato c’è stato. Dottoressa, dopo i saluti uscite.”

 

Il sorriso di Melita sparì, sostituito da un dolore lancinante quanto il suo, per motivi identici ed opposti al tempo stesso.

 

E quindi le poggiò di nuovo la mano sulla parte libera del braccio, mentre con l’altra accarezzava Francesco e, cercando di far uscire un poco di voce, la rassicurò, “Melì, tranquilla. Francesco ti riconosce, è evidente: è solo questione di tempo.”

 

Melita annuì, anche se a fatica, ed Imma lo prese come un assenso per, piano piano, riprenderlo in braccio.

 

Francesco le strinse il collo in un modo così forte che quasi le mancò il fiato, riempiendole il collo di bacetti.

 

E forse quei baci facevano più male di tutto il resto perché… perché chissà ancora per quanto se li sarebbe potuti godere.

 

Ma lo avrebbe fatto: gli accarezzò la schiena mentre lo cullava un attimo, e anche Calogiuri gli faceva una carezza.

 

“Sta… sta bene con voi. Forse… forse starebbe meglio con voi che con me.”

 

Melita, piena di lacrime, che li guardava in un modo che non si sarebbe mai scordata.

 

“Melì, non ricominciamo con questo discorso. Noi… noi per Francesco ci saremo sempre e quindi anche per te,” pronunciò, anche se le costava tantissimo, “mo devi sbrigarti a stare meglio e ad uscire da qua, perché lui non ti ha dimenticata e quindi… e quindi vi meritate una seconda possibilità, anche se ci vorranno tempo e pazienza, e ti capisco, perché io la pazienza non ce l’ho avuta mai, ma proprio mai.”

 

Melita fece un mezzo sorriso ma poi aggiunse, “però io… non ho più soldi… non ho un lavoro… ho… ho quelli che… e poi chi mai la vorrà una come me a lavorare? O… o pure per altro.”

 

“A quello ci pensiamo, Melì, non c’è problema. Per il lavoro, qualche cosa si trova e… per il resto… sei sempre bellissima e qualsiasi uomo non da niente lo noterà, e noterà pure tutto il resto.”

 

Melita scoppiò in lacrime e singhiozzi, tanto che le venne spontaneo passare un attimo il piccoletto a Calogiuri per cercare di consolarla come poteva, anche se un abbraccio era impossibile, ma la lasciò piangere e sfogarsi con la testa appoggiata alla sua spalla.

 

In quei momenti si rendeva conto di quanto, in fondo, non fosse molto più grande di Valentina.

 

E la cosa le stringeva ancora di più il cuore.

 

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“Irene!”

 

Si bloccò e per poco non le cadde di mano il bicchiere con il tè appena preso al bar.

 

Maledizione! Perché le faceva sempre quell’effetto?

 

Si voltò e sì, non c’erano dubbi: era Ranieri, lì in procura, davanti a lei, in mezzo al corridoio che portava dalla scala agli uffici dei magistrati.

 

Per precisione, era vicino all’ufficio di Giorgio, al lato destro rispetto alla scala. Il suo invece stava al sinistro. Ecco perché non l’aveva notato e gli era passata praticamente accanto, concentrata sul tè e sui tanti pensieri che aveva riguardo a Bianca.

 

Bianca.

 

Una fitta al cuore perché… perché ancora non poteva quasi credere di essere davvero la sua mamma. Forse non agli occhi della legge, ma a quelli che contavano di più sì, ed erano quelli di sua figlia.

 

E perché… perché il soggetto che aveva davanti di problemi con Bianca gliene aveva già causati abbastanza. Eppure il suo cuore batteva ancora a tradimento più veloce, solo a sentire il suo nome pronunciato da lui.

 

Era sempre stato il suo tallone d’Achille e forse non avrebbe mai smesso di esserlo.

 

Ma, proprio per quello, doveva tenerlo lontano.

 

“Sei qua per vedere Giorgio?” domandò, cercando di usare il tono più freddo che aveva.

 

“No, sono qua per vedere te ma… aspettarti davanti al tuo ufficio non mi sembrava il caso e-”

 

“E invece fare l’agguato dall’altra parte del corridoio sì?” gli domandò, a voce bassa, senza perdere un colpo.

 

“Irene… dobbiamo parlare, ci sono tante cose che ti devo spiegare.”

 

“Pensavo ti fosse chiaro dopo il disastro che hai fatto che… che ci devi stare lontano,” sussurrò, guardandosi in giro, perché nessuno poteva sapere di Bianca.

 

Vide la ex cancelliera di Santoro che, in attesa di sostituti, aveva ben poco da fare, guardarli incuriosita.

 

Sospirò: non potevano parlare lì, neanche per cacciarlo via.

 

E quindi fece segno di seguirla, aprì la porta del suo ufficio e lo fece entrare, dicendogli, “e allora, che cosa mi dovresti spiegare? Ti concedo cinque minuti che ho da fare, non uno di più.”

 

“Irene…” sospirò a sua volta lui, pronunciando il suo nome in quel modo che sì, le causava sempre una fitta che non avrebbe dovuto provocarle, “non… non è come pensi. Ma non posso parlartene qua e nemmeno in cinque minuti. Ci eravamo promessi una cena, no?”

 

“Visto quello che è successo con Bianca, la cena al massimo te la potrei tirare in testa!”

 

Non poteva credere che ancora insistesse, che fosse così sfrontato, dopo tutto quello che era successo.

 

“Sono cambiate tantissime cose nella mia vita, e se sono qua è per restarci. Che tu ci creda o meno. Il resto non posso spiegartelo qui.”

 

Quelle parole furono come una coltellata, perché, per un attimo, le diedero una speranza che non doveva avere: non se la poteva permettere.

 

“Non… non dire più cazzate, per favore,” esalò, stanca di tutto, stanca di quella conversazione, “lo sai benissimo anche tu che non è possibile, che… che lei non te lo permetterebbe mai. A meno che vi trasferiate tutti qua, e spero non mi faresti anche questo, visto quanto è successo in passato con lei.”

 

Non voleva nemmeno nominarla la moglie di lui perché… sapeva benissimo che aveva avuto tutte le ragioni per avercela con lei, anche se avrebbe dovuto avercela di più con lui. Ma la piazzata che le aveva fatto un giorno davanti alla procura a Milano le era bastata, per non parlare della volta che si era presentata sotto casa sua quando Lorenzo, per un breve periodo, aveva vissuto con lei. Una sceneggiata che non si sarebbe mai scordata, e manco i vicini di allora, che ancora si vergognava al solo pensarci.

 

Per la signora, mica per se stessa.

 

Ma adesso c’era Bianca e non voleva problemi, né voleva sradicarla da Roma proprio ora che sembrava cominciare a esplorare il mondo.

 

“Non sono cazzate, Irene. E non… non voglio creare problemi né a te, né a Bianca. Piuttosto mi farei ammazzare e-”


“E allora comincia a prenotare il loculo, con tutti quelli che ci hai già dato.”

 

“Sai cosa intendo. Non… non ti devi preoccupare per Nicoletta. Non deve nemmeno provare ad avvicinarsi a voi e non lo permetterei mai, qualsiasi cosa succeda. A costo di andare per vie legali. Però, a proposito di questo, mi devi lasciar spiegare, perchè ci sono tantissime cose che non sai, che sono successe in questi anni. Una cena, ti chiedo solo quello, poi se, dopo averti spiegato tutto quello che c’è da spiegare, non cambierai idea, ti prometto che sparirò dalla tua vita.”

 

“Che è quello che sai fare meglio, quindi non mi pare una gran promessa…” sospirò, dura, perché non voleva mostrare cedimenti anche se… anche se una parte di lei era curiosa di sapere cosa volesse dirle, cosa potesse essere mai successo, o forse a che punto poteva arrivare Lorenzo con le sue storie, prima di cacciarlo definitivamente.

 

O forse, una parte di lei, semplicemente, irrazionalmente, ed in modo un po’ masochista, desiderava quell’ultima cena, prima dell’addio.

 

Devo aver passato troppo tempo con Calogiuri!

 

“Una cena, una sola, presto, orario milanese, una cosa veloce, che Bianca poi si addormenta e non voglio spiegarle dove vado e con chi. E vengo con la mia auto che, in qualsiasi momento, se qualcosa non mi sta bene me ne vado. Dimmi luogo e ora.”

 

Per tutta risposta, Ranieri le fece un sorriso fin troppo bello, neanche gli avesse appena concesso la promozione a generale - ma, del resto, era normale che fosse soddisfatto, visto che alla fine, per l’ennesima volta, aveva ottenuto quello che voleva da lei.

 

E poi lo vide andare verso la sua scrivania, prendere una penna - come si permetteva? - e scrivere qualcosa sul primo post it in cima al blocchetto, rimettere a posto la penna e salutarla con un “grazie, grazie davvero della possibilità. Non te ne pentirai. A presto allora.”

 

“So già che lo farò,” mormorò, mentre lui liberava il suo ufficio dalla sua presenza, lasciando però dietro quel profumo che le faceva sempre male, ancor di più dei ricordi che le portava alla mente.

 

E quindi spalancò le finestre, prese il post it, tentata di stracciarlo in mille pezzi.

 

Ma non lo fece, perché lei di parola ne aveva una ed una soltanto.

 

E, se lui di palle ne aveva raccontate tante, non sarebbe mai scesa allo stesso livello.

 

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“E le altre aggravanti, oltre ai motivi abietti o futili, sono l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, o per garantirsi il prodotto, il profitto, il prezzo o l’immunità da un altro reato. Poi c’è, in caso di fatti colposi, l’aver agito nonostante l’evento fattispecie di reato fosse prevedibile come occorrenza. Poi le sevizie, o la crudeltà, poi-”

 

Un rumore flebile, quasi un ronzio, che non era né il respiro né le fusa di Ottavia, che se ne stava accoccolata ai loro piedi con l’aria di perché guardi me?, né di Francesco che dormiva beatamente in mezzo a loro - una manina aggrappata ai pantaloni del suo pigiama ed una all’orlo della camicia da notte di Imma.

 

Imma…

 

Quella sensazione di calore al petto che gli provocava sempre e solo lei, nel trovarla con il capo ripiegato da un lato, verso di lui, ma penzolante a mezz’aria, la bocca aperta, gli occhi chiusi. Quel lievissimo russare che, come aveva appreso durante i viaggi insieme, le veniva a volte quando dormiva in quella posizione, quando non era appoggiata bene a lui, col collo più dritto, e allora non volava una mosca.

 

Tra tenere tutto il giorno Francesco, sti benedetti preparativi del matrimonio, che nemmeno la CIA avrebbe tenuto così segreti - anche se, da un lato, non aveva alcuna intenzione di rovinarsi la sorpresa, anzi - e poi aiutarlo a studiare la sera, si stava decisamente stancando troppo.

 

Piano piano, quatto quatto, cercò di levarle il tomo di diritto penale dalle mani, ma Imma fece uno scatto improvviso, un profondo respiro, si rimise dritta e lo guardò, confusa.

 

“Calogiuri?”

 

“Ti sei addormentata, dottoressa, mo è meglio che lasciamo stare col ripasso e che ci riposiamo un po’. Tanto le aggravanti me le ricordo, se vuoi te le dico domattina quando ci svegliamo,” ironizzò, anche se da un lato era serissimo, prendendosi il libro, nonostante le proteste di lei.

 

“Ma quanto ho dormito? E comunque possiamo almeno finire questa domanda, dai.”

 

“No, dottoressa. Ora è l’ora di dormire per tutti. E comunque pochi minuti, ma non è da te, quindi è un segnale che devi riposare.”

 

Imma sospirò, in un modo che non capì. Per un attimo gli sembrò come preoccupata.

 

“Che c’è?” le domandò, preoccupato a sua volta, perché quello che impensieriva Imma inevitabilmente faceva lo stesso con lui, “guarda che l’esame, se andiamo avanti così, lo passo eccome, nonostante il ritardo e-”

 

Si interruppe perché Imma aveva fatto un’espressione ancora peggiore.

 

“Che c’è?”

 

“Niente, Calogiù, niente… è che… è un periodo pieno di tante cose e lo sai. Però la tua carriera mo deve stare al primo posto, prima di tutto il resto, quindi, pure se questa piccola vuvuzela vivente mi stanca di più di dodici ore filate in procura, non pensare di sfuggire allo studio serale. Domani recuperiamo questo ed anche il resto.”

 

Sorrise e sospirò insieme: Imma non cambiava mai. E per fortuna.


“Va bene, ma adesso si dorme, è un ordine, dottoressa.”

 

“Che non sono tenuta a rispettare, ma per stavolta te lo concedo, maresciallo. E non pensare che, quando sarai capitano, ne avrai molte di più di queste concessioni!”

 

“Vedremo, dottoressa, vedremo,” la sfidò, perché sapeva che a lei piaceva, guadagnandosi infatti un sorriso soddisfatto ed un bacio sulle labbra, prima di scivolare entrambi sui cuscini  - Francesco che si rigirava leggermente per ritrovare un appiglio - e poi, ancora mano nella mano, in un sonno profondo.

 

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Guardò per l’ennesima volta l’orologio.

 

L’appuntamento era alle 11 ed erano già le 11.02.

 

Si sentiva un fascio di nervi, i piedi che non ne volevano sapere di non battere ritmicamente sul pavimento, nonostante l’occhiataccia di un’altra paziente in attesa.

 

E dire che la sera prima pensava di non chiudere occhio, e invece si era pure addormentata durante il ripasso, una roba a dir poco imbarazzante. Ma forse era stato perché le notti precedenti aveva dormito poco e male, a dispetto della spossatezza. E, alla fine, poté più quella dei nervi.

 

Non aveva detto niente a Calogiuri, perché altrimenti avrebbe insistito per accompagnarla, e non voleva che perdesse altre lezioni, non poteva proprio permetterselo.

 

E poi… e poi voleva avere il tempo di metabolizzare il responso, che già intuiva, da sola, prima di dover dare anche a lui la conferma della definitiva ed infausta fine produzione delle sue ovaie.

 

Solo che erano già le 11.03 mo, la dottoressa ancora non si vedeva e-

 

“Tataranni?”

 

Riconobbe la voce, ancor prima del sorriso familiare dell’amica di Irene, che era comparsa dalla cornice della porta dello studio.

 

Si alzò un po’ a fatica, le gambe molli come di solito solo Calogiuri riusciva a ridurgliele, ma lì per altri motivi, qua era la fifa.

 

Impose loro di fermarsi, però, e camminò al suo solito passo deciso, forse solo un poco meno calcato del solito, fino a raggiungere la ginecologa.


“Imma, che bello rivederti!”


“Eh… per me un po’ meno, niente di personale, eh…” rispose, perché non poteva evitarlo: per lei quello probabilmente sarebbe stato un giorno di lutto, ‘na bellezza proprio stava!

 

“Lo so ma… prima di fasciarci la testa, facciamo un po’ di test, va bene?” proclamò la dottoressa, facendola passare e poi indirizzandola verso la sedia di fronte alla scrivania, dove si accomodò, cominciando a scrivere al pc, “allora, mi hai detto che le mestruazioni hanno già saltato due mesi, giusto?”

 

“Sì e… e sicuramente salterà pure questo, me lo sento, anzi non me le sento.”

 

“Vedremo. Sintomi? Che cosa ti senti, allora?”


“Niente di particolare. A parte… a parte che sono stanca ma… abbiamo un bimbo di pochi mesi in affido. Ma solo temporaneo. Purtroppo per noi, e per fortuna sua, tornerà dalla sua madre biologica, appena sarà in condizioni di occuparsene,” spiegò, perché alla fine la dottoressa aveva il segreto professionale, e lo sguardo di congratulazioni che aveva fatto all’annuncio preferiva spegnerlo sul nascere.


“Capisco…” rispose semplicemente, senza aggiungere altro, e forse era meglio così, “altro?”

 

“No, no… forse un poco di acidità negli ultimi giorni, ma… mi sto anche occupando di organizzare un matrimonio, quindi devo litigare tutti i giorni con i fornitori.”

 

Lì la dottoressa sorrise di nuovo e non aveva niente da contestarle, perché l’idea di sposarsi con Calogiuri riempiva di gioia anche lei, e molto.

 

“Bene! Quando?”

 

“In realtà… è una sorpresa, però diciamo quest’estate.”

 

“Allora ormai manca poco: sarai davvero piena di impegni. Altro? Non so… variazioni dell’umore ad esempio?”

 

“No, no, niente in particolare… a parte… diciamo che, prima che arrivasse il bimbo e che quindi… insomma, mo le occasioni un po’ scarseggiano, ma prima… sarà anche che siamo stati un po’ lontani, ma io e Calogiuri avevamo una voglia di… recuperare quasi instancabile. Soprattutto io, come ai primi tempi, se non peggio. Ma credo sia normale, no?”

 

La dottoressa non disse niente. mentre continuava ad annotare cose, in questo caso cose sulla sua vita sessuale, che sperava vivamente non uscissero mai di lì.

 

“Altro? Come va con il mangiare? Sensazioni di caldo o freddo improvvise?”

 

“No, cioè, se mi capita che mi scaldo c’è un motivo, e pure viceversa,” ironizzò, la sua arma di difesa di elezione, “sul mangiare, a parte quando ho l’acidità, in effetti ho più fame negli ultimi mesi, ma appunto, per vari motivi, ho fatto molto più movimento del solito.”

 

“Capisco… direi che ci facciamo un bel prelievo, per avere un quadro d’insieme.Ma prima, anzi, intanto che lo facciamo, penso sia meglio fare anche un’ecografia e una visita generale, dato che è da un po’ di mesi che non ci vediamo.”

 

Sospirò: sperava di potersi evitare almeno quel fastidio, ma un poco se lo aspettava.

 

E poi, appunto, arrivati lì, fatto trenta era meglio fare pure trentuno e levarsi ogni dubbio - e speranza.

 

Quindi si spogliò, nel rituale ormai consolidato quando la visita dalla ginecologa era stato un appuntamento assai frequente - oltre che purtroppo inutile - e si piazzò sullo scomodissimo lettino.

 

Cercò di stare tranquilla e rilassata, anche se in quelle circostanze era veramente impossibile farlo, il cuore che le batteva all’impazzata, mentre un’immagine apparì sullo schermo e la dottoressa la torturava per vedere meglio.

 

La sentì prendere un profondo respiro e notò che si era fermata in un punto preciso, dove c’era una macchia bianca, come una specie di palla, sulla parete dell’utero, in mezzo al vuoto che la circondava.

 

E la dottoressa indicò col dito proprio quella.

Sapeva che non era normale, per niente, perché ormai il suo utero l’aveva visto in quasi tutte le salse, giusto qualche mese prima.

 

“Che… che cos’è? Mi dica la verità, dottoressa. Una massa? Un… un…”

 

La parola tumore non voleva saperne di uscire, anche perché sapeva benissimo che la dottoressa le avrebbe detto le solite frasi fatte: che bisognava fare altre analisi, prelevare delle cellule e-

 

Qualcosa che le si poggiava sulla pancia, lo scatto secco di un bottone di plastica che veniva premuto e poi un rumore forte, assordante quasi, che correva, galoppava, no, batteva all’impazzata, pure più forte del suo cuore.

 

Le scappò un gemito e si trovò a non vedere più niente, se non le lacrime che cercava di asciugarsi mentre continuava a tremare per i singhiozzi e non riusciva a fermarsi, nonostante il dolore della sonda, nonostante volesse solo rivedere quell’immagine ancora e ancora, nonostante si sentisse scema e incredula e miracolata e cretina e felice come non lo era forse stata mai.

 

Un tocco ruvido sulle mani e distinse un telo di carta - di quelli che di solito servivano per asciugare il gel - che le venne piazzato in mano e, tremante come una foglia, si asciugò gli occhi e ci si soffiò il naso, letteralmente in una valle di lacrime.

 

E poi finalmente tornò a vedere quel punto, che ora aveva tutto un altro significato anche se… ancora non capiva come fosse possibile… e poi la dottoressa, che le sorrideva, aveva pure lei gli occhi un po’ lucidi e che annuiva, davanti alla sua incredulità.

 

“Sì, Imma, sei incinta.”

 

Quattro parole, sei sillabe, che le piovvero addosso con un’altra ondata di lacrime e di risate.

 

Non ci poteva credere… non ci poteva credere! Quanto aveva sognato e sperato di sentirsele dire quelle parole! E proprio mo, mo che non ci sperava più, ma proprio più, eccole lì, ad annunciarle che la sua vita sarebbe cambiata per sempre, da lì a qualche mese.

 

“Di… di quanto?” le sfuggì, e la voce ancora un po’ era peggio di quella di Melita, ma non poteva farci niente.

 

“Circa undici settimane, con altre analisi potrò essere più precisa anche sul giorno esatto. Le ultime mestruazioni ovviamente le hai saltate perché… c’era e c’è un ottimo motivo.”

 

Le venne da ridere, mentre si asciugava le ultime lacrime, ancora mezza incredula, tanto che si pizzicò un braccio temendo di stare sognando - come se non avesse già abbastanza fastidio. Ma tutto passava in secondo piano rispetto a quel rumore, a quel punto che ora si muoveva leggermente e… e la dottoressa spostò la sonda e divenne come una specie di fagiolino, ma con già delle piccole manine, i piedini, un nasino e pure una boccuccia che, forse era solo la sua immaginazione, ma si era aperta e poi richiusa. Ed eccallà la terza ondata di lacrime, mentre pensava che fosse la cosa più bella che avesse mai visto, anche se sapeva che oggettivamente era pochi centimetri - forse neanche lungo come un suo dito - un abbozzo di quello che poi sarebbe stato un bambino vero.

 

Ma la razionalità in quel momento poteva andarsene a quel posto dove a lei ce la mandavano assai spesso.

 

“Ma… ma com’è possibile?” le uscì, come una scema, tanto che, giustamente, la dottoressa rise e la prese bonariamente in giro con un, “cos’è, devo partire dalla storia dell’ape e dei fiori? A quanto capisco l’attività necessaria non è mancata no?”

 

Si sentì le guance un po’ più calde, il riso che le faceva male ma rideva lo stesso, di gusto, di pancia, come solo con Calogiuri riusciva a fare.

 

“Ma… lo sai cosa intendo, no? Dopo tutti quei tentativi, e le cure e-”

 

“E lo stress, e la tensione. Le cure evidentemente hanno fatto effetto e stanno ancora facendo effetto, anche se ora dovrò prescrivertene altre. Tu avevi altro a cui pensare, probabilmente ti sei rilassata, ed ecco qua il risultato. Il corpo è fondamentale, ma la testa fa tantissimo in casi come questo.”

 

Undici settimane… dove stava undici settimane prima?

 

Fece il conto indietro con la mente e col calendario appeso alla parete e gli occhi le si spalancarono, ma non vedeva altro che le stradine di Matera, i Sassi ed una famosa gita a cavallo.

 

Per carità, poteva essere successo anche a casa di sua madre buonanima, ma… ma una parte di lei si sentiva che doveva essere stato lì, perché non si era mai sentita leggera e rilassata come in quel momento. Chissà se le analisi ulteriori lo avrebbero confermato o meno.

 

E brava Sabrina! E pure bravo Calogiuri, che altro che conta, dopo tutti quei mesi di pausa!

 

In ogni caso, era destino che quella piccola creatura fosse materana nel DNA e nell’anima, proprio come lei.

 

“Comunque, da quello che vedo, tutto sta procedendo bene. Ovviamente, per via dell’età, la tua gravidanza è considerata a rischio e da monitorare attentamente. Dovrai evitare sforzi particolari, pesi, salti, poi ti farò un elenco delle attività fisiche che sono sconsigliate in casi come questo e-”

 

“Ma… ma e l’alcol? E il mangiare? Perché io… io in questi mesi… cioè non è che mi sono mai ubriacata ma… ma non pensavo di…” balbettò, mentre le girò la testa, un senso di colpa che le torceva il cuore al pensiero del vinello dei colli, e di quello di Pietro e-

 

“Dobbiamo attendere le analisi per sapere come vanno i valori, la glicemia e tutto il resto. Ma per ora lo sviluppo del feto è normale. Ci vorrà l’amniocentesi, verso la diciottesima settimana, e lì, se vuoi, possiamo scoprire anche il sesso del bambino.”

 

Il sesso… le sembrava tutto così surreale… ma la mente le andò subito a Calogiuri e al fatto che quella, e tante, tante altre cose, avrebbero dovuto deciderle insieme. Le venne un groppo in gola che non andava né su né giù, e di nuovo quel calore al petto, nonostante il freddo di essere mezza nuda e spalmata di gel peggio di un paninaro degli anni ‘80.

 

“Per il resto, ti prescrivo una dieta, degli integratori da prendere e ti scrivo un elenco di cosa puoi assumere e cosa meno, e di quali attività fare o meno. In generale, meglio evitare di stare in piedi in modo prolungato, ma è comunque importante passeggiare e non stare immobili, l’importante è che sia un’attività dolce. Ora ti stampo tutte le indicazioni. E devi evitare tutte le fonti di stress.”

 

“Eh, fosse facile, la mia vita è lo stress!”

 

“Lo so, ma so anche che al momento sei in pausa, no? E quindi ti puoi e ti devi riposare e-”

 

“Sì ma ho un bimbo di pochi mesi a casa, che vuole starmi sempre in braccio, e poi un matrimonio da organizzare e-”

 

“E, in caso, non so cosa avessi in mente, ma consiglio una cerimonia rapida, possibilmente in un locale con aria condizionata, ma non troppo forte, se sarà in estate. Non devi stare troppo in piedi, te l’ho già detto. E con il bambino ti devi fare aiutare: se siete entrambi seduti, in braccio può stare quanto vuole, basta che fate attenzione alla zona dell’addome, specie quando il feto comincerà a crescere di più. Però sollevare pesi non è proprio il caso.”

 

“Ma Calogiuri, pure se è premurosissimo, è impegnato tutto il giorno con un corso e…”

 

“Ed esistono anche le babysitter, Imma, e-”

 

“E questo è un caso molto particolare, ma… ma cercherò di non esagerare e di stare ferma, per quanto posso.”

 

“Mi raccomando e, nel dubbio, finché non arrivano i risultati delle analisi del sangue e dell’amniocentesi, ti consiglio proprio di cogliere ogni momento che puoi per stare a riposo. Anzi, ora facciamo il prelievo.”

 

Mentre osservava il sangue riempire svariate provette - uno dei vantaggi di avere a che fare con i cadaveri quasi tutti i giorni, quello di non aver paura del sangue - la sua mente andava a Calogiuri, a come dargli la notizia e, nell’immaginarselo, la prese una botta di ormoni pazzesca. Ed in testa si formò LA domanda.


“Ma… ma tra le attività da evitare… non c’è anche un certo tipo di attività, vero?” chiese, perché va bene che con Francesco poco potevano fare, ma sarebbe stata una tortura per entrambi.

 

“Fino all’amniocentesi consiglierei di andarci piano, non troppo frequentemente, con modalità tranquille e poi valutiamo.”

 

Tranquille era una parola per lei e Calogiuri ma… ma almeno non ci sarebbe stata la carestia totale.

 

E, prima di preoccuparsi di un certo tipo di evoluzioni, c’era da pensare come annunciare ad un certo maresciallo quello che le stesse evoluzioni avevano prodotto.

 

Mannaggia a lui! - pensò, i muscoli del viso che quasi le dolevano a furia di sorridere come una scema.

 

Ma non riusciva proprio a smettere: non vedeva l’ora che arrivasse quella sera, che qualcuno tornasse a casa e di godersi il suo di sorriso, che era il più bello che avesse mai visto al mondo.

 

Prendi tutto da lui, mi raccomando! - pensò, osservando per un’ultima volta quella boccuccia che si apriva, quasi come se volesse farsi sentire, prima che la dottoressa spegnesse definitivamente il monitor.

 

Ma quel battito, quel battito le rimase nelle orecchie e nel cuore, senza volersene andare, per molto ma molto di più.

 

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“Sono a casa!”

 

Era già tutto buio e la cosa non lo stupì, perché avevano fatto più tardi del previsto per un’esercitazione pratica: aveva anche dovuto mangiare fuori. Mollò le scarpe all’ingresso, come facevano da quando avevano un piccoletto che sul pavimento ci gattonava felicemente, anche se preferiva sempre restare attaccato ad Imma - e mica scemo! - e si avviò verso il corridoio, dove vide una lama di luce da sotto la porta della camera da letto.

 

La aprì e ci trovò Imma circondata da libri e faldoni, con in braccio Francesco che ciucciava avidamente dal biberon per lo spuntino prima di dormire.

 

“Scusami per l’orario, ma-”

 

“Ma almeno hai avvisato, Calogiù, e poi, come vedi, anche qualcun altro ti ha aspettato sveglio.”

 

“Solo perché così ha più tempo per averti tutta per sé, che poi quando ci sono pure io può anche dormire, vero, piccoletto?” scherzò e Francesco smise per un attimo di ciucciare, si staccò dal biberon e fece un risolino furbo che gli ricordava sempre tantissimo Imma.

 

Proprio vero che la genetica valeva ben poco.

 

Guardò Imma, aspettandosi un sorriso, o una risata, o una di quelle espressioni da ma che devo fare con voi? ma invece sembrava sull’orlo del pianto.

 

Tornò quel peso sul petto, perché non sopportava di vederla soffrire, mai, neanche per qualcosa di risolvibile, figuriamoci per una cosa così. Lo sapeva quanto amava Francesco e quanto le era difficile l’idea di separarsi da lui, oltre a quello stupidissimo senso di colpa che aveva nei suoi confronti.

 

Per lui l’unica cosa che contava era stare con lei e vederla felice. Se con un figlio bene, se no… avrebbe avuto comunque lei, che era l’unica persona che gli serviva per stare bene con se stesso e con il mondo.

 

“Vai a farti una doccia, maresciallo, che qua ne avremo ancora per un po’.”

 

Sapeva che non poteva avvicinarsi troppo al bimbo, conciato com’era, che ancora il suo sistema immunitario era fragile, e quindi annuì, prese maglietta e boxer puliti e si avviò rapidamente verso il bagno. Ci trovò Ottavia che si stava probabilmente prendendo un timeout dall’avere a che fare con la loro delizia e la sua croce.

 

Come al solito, neanche il tempo di spogliarsi, ed Ottavia già era fuggita. Ogni tanto era peggio della buoncostume o di sua madre.

 

Fece più in fretta che poteva, tanto che il getto era più freddo che caldo, si vestì rapidamente e tornò in camera, dove Imma stava ancora dando da mangiare a Francesco, che se la prendeva proprio comoda, godendosi il momento.

 

“Posso… posso darti il cambio per un po’?” le chiese, anche per farle riposare le braccia. Imma annuì e gli passò prima Francesco e poi il biberon.

 

Un po’ di proteste ma il latte fece il miracolo e Francesco poppava felice e tranquillo, stringendogli il mignolo e la maglia con le manine, che erano non solo lunghe ma anche belle forti.

 

Sentì come uno squittio e si voltò verso Imma, due lacrime che le scendevano sul viso.

 

Un moto di panico e non sapeva bene come rassicurarla.

 

“Lo so… però… non dobbiamo ridarlo subito a Melita, no?” esordì, e lei fece una faccia strana, che non capì, tanto che si affrettò ad aggiungere, “e poi… e poi alla fine… tra il corso, il matrimonio, il trasferimento, tutto sommato sarà meglio non avere anche l’impegno fisso di un bambino, no? E poi, quando avremo sistemato tutto, possiamo pensarci ed organizzarci con più calma.”

 

Imma spalancò gli occhi e fece un’altra espressione che non comprese perché, invece di essere rassicurata, sembrò sorpresa e poi ancora più disperata.

 

Sta zitto, Calogiuri, zitto! - gli ricordò la voce di lei, in quella che ormai era non una, ma almeno due o tre vite precedenti.

 

Ma aveva ragione: a volte parlava troppo e non c’era niente che potesse dirle per rendere la separazione da Francesco meno dolorosa. E non solo per lei.

 

Tanto che, quando ebbe finito il biberon e Francesco, miracolosamente, per una volta si addormentò sul suo petto, senza dover essere per forza in braccio ad Imma e le chiese, “allora, anche se è tardissimo immagino tu voglia fare il ripasso?” lei fece un’altra espressione strana ed incomprensibile, ma la vide togliere ogni testo dal letto e con un, “meglio di no, sono ancora troppo stanca da ieri!” si mise in posizione per dormire e chiuse gli occhi, senza dire nient’altro.

 

Mannaggia a me e alla mia bocca! - pensò, mentre però si rassegnava a cercare di poggiare piano piano il principe della casa tra di loro, e a trovare una posizione per dormire senza schiacciare né lui né Ottavia, che già stava di nuovo ai loro piedi.

 

Allungò una mano verso la spalla di Imma, per mantenere un contatto, come facevano sempre, ma lei, per tutta risposta, dopo qualche istante si allontanò leggermente con un, “ho bisogno di domire…” e quindi ritirò la mano, chiedendosi dove avesse sbagliato e come potesse rimediare.

 

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Aspettò che la porta si richiudesse alle spalle di Calogiuri, vestito di tutto punto per un altro giorno di esercitazioni pratiche.

 

Guardò la colazione che aveva a malapena toccato, nonostante lui continuasse a chiederle se non stava bene, se poteva fare qualcosa, se poteva cucinarle qualcos’altro, ma lei aveva infilato un no dopo l’altro. E non per ripicca, o per le famose nausee, delle quali, miracolosamente, a parte un poco di acidità, ancora non soffriva. Ma perché lo stomaco si era chiuso e non voleva saperne di aprirsi.

 

Sapeva che doveva mangiare per il piccolo scroccone che cresceva piano piano nella sua pancia, e di cui aveva scoperto l’esistenza soltanto il giorno precedente.

 

Ma… ma se invece di un miracolo fosse stato un peso per Calogiuri?

 

Se, con l’impegno non da poco rappresentato dall’ululatore seriale che, dopo il latte del mattino, dormicchiava nel suo ovetto, avesse capito di non essere ancora pronto a fare il padre? Almeno non come impegno permanente?

 

Calogiuri era giovane, aveva una brillante carriera davanti e… e non voleva incastrarlo in qualcosa che non si sentiva di fare, quando aveva mille priorità davanti a sé, e giustamente.

 

Non ci aveva chiuso occhio e mo… e mo non sapeva proprio come fare.

 

Imma Tataranni che non sa che pesci pigliare? Che novità! E, con il tuo caratteraccio, è chiaro che non hai nessuno con cui parlare.

 

La Moliterni, come al solito, o lei o-

 

Diana.

 

Non era mai stata una che amasse confidarsi, anzi, di solito non ce la faceva proprio, se non con Calogiuri e, rarissimamente, con Diana e Sabrina.

 

Ma mo… mo Calogiuri era parte del problema; Sabrina, beata lei, se ne stava bella bella coi suoi cavalli - che forse avrebbe dovuto anche lei darsi, letteralmente, all’ippica - e su figli e gravidanze, per sua fortuna, non aveva esperienza.

 

Ma Diana sì, anche di sentirsi pressata per un figlio, da quel cretino di Capozza, che però, tutto sommato, con lei sembrava davvero aver messo la testa a posto.

 

Prima di poter cambiare idea, aveva già il telefono in mano e stava selezionando quello che una volta era il contatto più frequente, dopo la famiglia e Calogiuri, e che mo sentiva troppo raramente e lo sapeva.

 

“Imma?”

 

Lo stupore di Diana confermò la rarità dell’occorrenza - e dire che doveva parlarle anche del matrimonio - e i rumori di sottofondo le fecero intuire che fosse, per fortuna, ancora in strada e non già in procura, dove manco i muri ma persino i frammenti degli affreschi tenevano orecchie e occhi.

 

“Diana. So che è presto, almeno per te,” esordì, per cercare di mantenere almeno un po’ quella familiarità tra loro e la posizione di dominanza, “ma ti volevo chiedere… ti volevo chiedere se un giorno di questi puoi venire un salto a Roma, magari questo fine settimana, se tu e Capozza non avete già altri impegni. Ma solo tu, Dià.”

 

“Ma perché? Che è successo mo? Ancora qualche disgrazia? Non dirmi che ci stanno problemi col processo?”

 

“No, Diana, no, per ora, fortunatamente, non più di quelli che tenevamo già prima, anzi, magari pure qualcuno in meno. Non… non si tratta di lavoro.”

 

“Calogiuri?” la sentì sospirare dall’altra parte della cornetta e poi, al suo silenzio, “ma come, Imma? Dopo tutto quello che avete passato? Che altro è successo mo?”

 

“Diana… che… che ti posso dire… è… è complicato e non riesco a parlartene per telefono.”

 

“Imma, ascolta, ma… se è successo qualcosa con Calogiuri, ma perché non vieni tu a Matera questo fine settimana? Così c’hai la scusa buona per startene un po’ per conto tuo e possiamo parlare tranquillamente. Poi magari ce ne andiamo in qualche posto rilassante, che ne so, tipo una SPA, che la Guarini me ne ha consigliata una stupenda, sotterranea, e-”

 

“E al momento non è il caso, Dià, né la SPA, né la Marozzi.”

 

Che, con tutte quelle buche e quelle sospensioni tremende… altro che assoluto riposo!

 

Un rumore sordo, come un tonfo, per poco non le perforò un timpano e, o era cascata Diana, o, si sperava, era cascato soltanto il telefono.

 

“Pronto, Diana, mi senti?!” la chiamò, non ottenendo risposta, “mi senti? Non dirmi che c’hai pure il cellulare rotto mo! Che se è rotto manco puoi dirmelo e-”

 

“Ma sei incinta?!”

 

Le scappò uno strano misto tra un riso ed un singhiozzo, mentre le urla di felicità di Diana l’assordavano definitivamente.

 

“Mannaggia a te! Che non te ne volevo parlare per telefono!” riuscì alla fine ad esclamare, tra una lacrima e l’altra e sì, forse erano i maledetti ormoni che la rendevano così sensibile.

 

“Ma allora… ma allora che cos’è successo con Calogiuri? Che già me lo vedo, che sarà felicissimo, e-”

 

“E menomale che te lo vedi tu, Dià, perché io non ne sono più così sicura.”

 

“Ma di che cosa? Di volere un figlio? Ma che non stai bene?”

 

La preoccupazione di Diana era ancora più commovente della felicità.

 

“Per ora io e… l’inquilino qua stiamo bene, credo: mi devono ancora arrivare i risultati degli esami del sangue, ma dovrebbe essere tutto a posto. Ma diciamo che… che Calogiuri ieri sera mi ha fatto capire che… tra il corso, il matrimonio, il trasferimento, mo già Francesco è un impegno e che… insomma… temo che non sia pronto per tutto questo.”


“Cioè, tu gli hai detto che sei incinta e quel bastardo ti ha detto che-”

 

“Frena, Diana, frena! Non gli ho detto niente,” la bloccò, prima che a bastardo si unissero chissà che sfilza di epiteti, perché che qualcuno insultasse Calogiuri lei comunque non lo poteva sopportare, manco se si trattava di Diana e se era per difendere a lei.

 

“Ma allora come siete venuti in argomento, scusa?”

 

“Lo diceva per via di Francesco, del fatto che non potrà stare con noi, se non presumibilmente per poco, e che forse era meglio così che-”
 

La risata di Diana la fece zittire: che c’aveva da ridere mo?

 

“Imma! Certo che sarai stata la migliore tra le ragazze della A e sarai pure la persona più intelligente che conosco, ma a volte, scusa se te lo dico, ma sei propr’ stùd’ch!”

 

“Diana!” esclamò, offesa, perché sentirsi dare dell’imbecille in dialetto materano, con tutto il bene per le radici, ma…

 

“Ma che Diana e Diana! Ma che non lo capisci che se quel povero ragazzo - che gli ho pure dato del bastardo, che la Madonna della Bruna mi perdoni! - se ti dice quelle cose è perché non ti vuole far sentire in colpa, o come se vi mancasse qualche cosa. Che non vuole che stai male? Ma di Francesco si sta prendendo cura, no?”

 

“E certo! Quando è a casa mi aiuta più che può, anche se ci mancherebbe altro e-”
 

“E appunto! Se è così con un bambino che non è nemmeno il suo, anzi, è di quella che per poco non lo faceva finire in galera, vuoi che non impazzirebbe di gioia a sapere che aspettate un figlio vostro? Già me lo vedo, guarda, proprio come in un quadro, con quel sorriso ebete, restarsene incantato per ore alla notizia e-”

 

“E Calogiuri non è ebete! Calogiuri è… è… tenero,” sbottò, perché sta storia del bello e scemo o ingenuo le aveva pure rotto i cabasisi, come diceva il famoso, anzi famigerato commissario dell’attore che per suo sommo dolore, proprio, si era persa alla cena della procura. Se Diana avesse saputo che aveva avuto occasione di avere il suo autografo e non glielo aveva procurato, ‘na capa tanta le avrebbe fatto.

 

“Ah, l’amore!” la sfottè Diana, prima di aggiungere, con tono cospiratorio, “anche se per carità, eh, tenero è tenero e pure bello, pace all’anima sua, che qua tutte te lo invidiano: sapessi all’ultima cena di classe com’erano tutte curiose. Pure quella che fa l’attrice, quella che è stata con Raoul Bova!”

 

“Ecco, si tenesse quello di sguardo ebete e stesse lontana da quello di Calogiuri, grazie! Che, poi, se mo Bova ha preso i voti, pure solamente per fiction, magari lei ha contribuito, no?”


Diana rise di gusto ma smise improvvisamente - tanto che Imma pensò che fosse arrivata in procura, o che stesse passando qualcuno - fece uno di quegli squittii che preannunciavano disgrazie e aggiunse, “Imma! Mi manchi lo sai?”

 

Mannaggia santissima a lei!

 

Altro che commossa mo: c’aveva la vista appannata e il viso pieno di lacrime, mannaggia a Diana, agli ormoni e a chi aveva deciso che le donne per fare una creatura - spesso poi oltretutto ingrata - dovessero esserne imbottite, che manco i cavalli alle corse clandestine.

 

“Dià, non fare così, dai,” provò a dire, anche se la voce non era proprio messa bene.

 

“Ma è che… è che sei come una sorella per me, lo sai?”

 

“Lo so, Dià, lo so,” rispose, perché non riusciva a dirle che pure per lei, era la cosa più vicina alla sorellanza che avesse mai sperimentato.

 

Ma… ma quel pensiero la portò a Chiara Latronico, al matrimonio e al fatto che, probabilmente, le sarebbe toccato avvertire pure lei. Anzi pure loro.

 

Per non parlare della famiglia di Calogiuri che, anche se la gravidanza fosse andata a buon fine, chissà se l’avrebbero mai conosciuta sta creatura.

 

E poi Pietro, che ne sarebbe stato lo zio acquisito, per non farsi mancare nulla.

 

E infine, ma prima degli altri, a Valentina che… la presenza di Francesco tutto sommato non l’aveva poi presa così male, ma pensava che fosse temporanea, e invece… un fratello o una sorella di sangue, chissà come avrebbe reagito.

 

Che casino! Ma, prima di tutto, doveva dirlo a lui.

 

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Stava ancora cercando di parcheggiare l’auto, quando vide una figura molto familiare spuntare dal condominio dove, apparentemente, si trovava l’indirizzo che le aveva dato.

 

Sospirò: un conto era una cena, un conto era una cena in un appartamento da soli.

 

Scese dall’auto, già molto irritata, e lo fu ancora di più al sorriso di lui, che gli avrebbe levato volentieri con un ceffone, non fosse stato non solo terribilmente infantile ma pure totalmente inutile.

 

“Avevi detto a cena. Le cene si fanno ai ristoranti di solito.”

 

Ma lui non si scompose, né arretrò un millimetro, e rispose, come se stessero facendo una normalissima conversazione, “ti ho detto che dobbiamo parlare e non sono argomenti di cui possiamo discutere in pubblico. E comunque, come dici sempre anche tu, siamo grandi e vaccinati: sono stato tantissime ore a casa tua e non mi pare che sia mai successo niente, no?”

 

“A parte il disastro con Bianca? No, effettivamente non è successo niente, perché tanto con te è sempre la solita storia. Ma va bene, ti ascolterò. Ti concedo un’ora, non di più, che poi devo tornare da lei.”

 

“Almeno il tempo di finire le portate.”


“E che hai fatto? Una cena di nozze?”

 

Ranieri non disse altro e lo seguì, nonostante sapesse benissimo che fosse una pessima idea, fino all’ascensore.

 

Quasi si aspettava un tentativo di approccio, visto che la cena era molto probabilmente soltanto una scusa, e visto che in passato gli ascensori erano stati un luogo molto galeotto per loro. Ma, per fortuna, arrivarono semplicemente al quinto ed ultimo piano e le fece strada fino ad una porta, ad una delle estremità del corridoio, che aprì con una chiave appena estratta dalla tasca.

 

Entrò e si stupì: per essere un appartamento da soggiorni brevi era arredato con gusto, in modo semplice ma elegante. Niente pacchianate di pseudo design o cose fintamente tipiche romane per i turisti.

 

Almeno il gusto estetico a Lorenzo non era mai mancato. Peccato che mancassero altre cose più fondamentali, tipo gli attributi o la coerenza nella vita privata. Sul lavoro niente da dire: era sempre stato impeccabile sotto ogni punto di vista.

 

Si lasciò prendere lo spolverino leggero ed accompagnare fino a una tavola, anche quella apparecchiata semplicemente: due tovagliette eleganti, bei calici, piatti moderni e di gusto. Si chiese se avesse chiamato qualche catering o simili, se no doveva essere uno di quegli affittacamere di lusso, per avere tutta quell’attrezzatura, che non sembrava proprio di quelle che si trovavano nei negozi di mobilia da due soldi.

 

Quantomeno ci si era impegnato, doveva riconoscerglielo, ma non sarebbe cambiato niente, né se le avesse presentato uno chef stellato a domicilio, né se le avesse appioppato hamburger e patatine del fast food. Non era quello il punto della serata.

 

Però si accomodò sulla sedia che lui scostò, con la solita ma ora insopportabile cavalleria, e gli lasciò portare il vino e servire gli antipasti.


“Ma…” esclamò, incredula e completamente presa in contropiede: dall’aroma e dall’aspetto sembravano proprio i-

 

“Mondeghili, come ai vecchi tempi.”

 

Da un lato fu un colpo al cuore che se ne fosse ricordato: erano le tipiche polpette di carne da antipasto milanese povero. Una ricetta nata per sfruttare gli avanzi. Non aveva mai amato molto la cucina tipica meneghina, troppo pesante, ma quelle gliele preparava sua nonna, la mamma di sua mamma, ed era uno di quei gusti che ti porti dietro dall’infanzia e che non ti scordi più.

 

Le avevano mangiate insieme diverse volte, ad un chioschetto vicino alla procura, quando erano ancora soltanto la dottoressa Ferrari ed un ex carabiniere dei reparti speciali, che le era stato assegnato per le delicate inchieste che stava seguendo sulla criminalità organizzata.

 

Sapeva che lui non aveva molto denaro, tra la famiglia numerosa e lo stipendio da carabiniere che, anche per gli ufficiali, non è che fosse così generoso, e quindi erano state le uniche occasioni in cui gli aveva permesso di offrire. E ci era andata pure un po’ più spesso di quanto la dieta consentisse, proprio perché consapevole che i locali che frequentava lei gli avrebbero prosciugato presto il portafogli. E Ranieri era più grande di lei, non voleva farlo sentire un sottoposto, anche perché aveva avuto molta più esperienza di lei all’epoca.

 

E poi, quando erano invece ormai solo Lorenzo ed Irene, ed erano andati a vivere insieme a casa sua… gliele aveva preparate un paio di volte, con la ricetta di sua nonna, non che cucinasse spesso, ma quelle erano abbastanza veloci da fare.

 

“Rischi, lo sai;” disse, essendosi ripresa dallo stupore, “su questo piatto sono molto esigente.”

 

“E assaggia,” la sfidò lui, sedendosi a tavola davanti a lei, con un sorriso che di nuovo, gli avrebbe levato volentieri e non solo a schiaffi, purtroppo.

 

Prese una polpetta, ancora calda, la divise in due, ci soffiò per accertarsi di non ustionarsi le papille gustative, ancor prima di poter dire esattamente cosa ne pensasse, ed assaggiò.

 

Un groppo in gola e non era la polpetta, che era pure morbidissima, proprio come la faceva sua nonna.

 

Ma era quello il problema: era praticamente identica a quel dannato gusto dell’infanzia.


“Ma… ma come?”

 

“Una volta ti ho aiutato a prepararne qualcuna, ti ricordi? E mi ero segnato la ricetta, anche se ad occhio. Avrei voluto preparartele un giorno come sorpresa, ma-”

 

Tossì, perché mo sì che la polpetta per poco non le era andata di traverso.

 

Perché, da un lato, era commossa dal pensiero e dal fatto che lui si ricordasse così bene quella stupida ricetta, dopo tutti quegli anni, dall’altro… dall’altro le ricordava per l’ennesima volta che no, non c’era stata nessunissima sorpresa, anzi, c’era stata. Cioè non trovarlo più a casa una sera, rientrando dal lavoro, al suo posto solo un biglietto in cui annunciava il ritorno dalla moglie e che si sarebbe allontanato per un po’.

 

Un po’ durato giusto qualche annetto, più di un lustro, proprio niente, insomma.

 

“Certo che… che se volevi prendermi con la nostalgia… bel tentativo ma… ma appunto c’è stato un ma. E-”

 

“Lo so, lo so che… Irene,” esordì, in un modo esitante, ma che divenne deciso quando ripetè di nuovo, “Irene, ho… ho tantissima nostalgia dei momenti belli e ce ne sono stati tanti, ma non di quelli brutti, o meglio, di… del male che ti ho fatto, perché tu non me ne hai fatto mai. Anche la rabbia degli ultimi tempi, il fatto che non ti fidi più di me, almeno nel privato, lo capisco e hai tutte le ragioni, visto come mi sono comportato, come ti ho lasciato, come… come un vigliacco. Ma la verità è che… non ci sarei mai riuscito a lasciarti, guardandoti negli occhi e quindi…”

 

“E quindi hai scelto la via più facile, ovviamente.”

 

“No, non è stato facile, per niente, ma-”

 

“Ma se hai fatto tutto tu: lasciare lei, riempirmi di promesse da marinaio - che ti saresti dovuto arruolare in Marina, per quanto eri bravo - e poi mollarmi e tornare da lei!”

 

“So cosa ho fatto e me ne prendo tutte le responsabilità, perché nessuno mi ha puntato una pistola alla tempia ma… ma non è stata una scelta semplice, per niente. Più che una scelta è stata un ricatto a cui stupidamente ho ceduto. E di questo la colpa è solo mia.”

 

“Un ricatto?” gli chiese, sorpresa, perché di tutte le storie che si poteva aspettare quella non l’aveva tenuta in conto.

 

Anche perché Lorenzo non era uno da usare un termine del genere di sproposito.

 

“Ma… ma loro?” gli chiese: quelli che avevano ucciso la madre di Bianca non erano nuovi a cose del genere.


Ma Lorenzo non era neanche tipo da farsi ricattare, a meno che… a meno che gli toccassero i figli. Ma… ma poi aveva comunque proseguito a fare il carabiniere, era di nuovo tornato in prima linea con lei, per lei, com’era possibile se-

 

“No. Diciamo che c’entra una famiglia sì, ma non quel genere di famiglia, per fortuna da un lato, non che avrei mai ceduto ad un loro ricatto. Ma… ma quando io e te già convivevamo, mia moglie, anzi la mia ex moglie-”

 

“Come ex moglie?” lo bloccò subito, perché quell’ex poteva significare tutto o niente, ma le aveva fatto mancare un battito.

 

“Un attimo, ti spiegherò tutto ma lasciami raccontare questa storia dall’inizio, se no ho paura di perdere i pezzi e di non riuscire a spiegarmi.”

 

“Ti ricordo che sono già passati venti minuti e ne hai solo quaranta, spero saranno sufficienti,” ribattè, perché, se sul fare melina anche lei era bravissima, in casi come quello non lo sopportava lo stesso.


“La mia ex moglie è venuta un’altra volta sotto casa nostra, cioè casa tua.”

 

“Un’altra volta?”

 

“Sì, non quando c’eri anche tu. Venne anche un sabato che tu eri via per quel convegno a Pavia, non so se ti ricordi.”

 

“Più o meno, ma che sarebbe successo?”

 

“Ha cominciato a chiamarmi e a suonare all’impazzata, i vicini si sono lamentati, e quindi sono sceso e le ho detto di andarsene, che se no l’avrei denunciata, che non poteva continuare a comportarsi così. Che capivo ce l’avesse con me, ma doveva lasciarci in pace, che non l’amavo più e tu non c’entravi, che il nostro matrimonio era già in crisi da tanto, che era da tanto che ci trascinavamo per abitudine, per i figli e lo sapeva. E lì, lì lei mi ha detto che allora ci saremmo dovuti trascinare ancora per un po’, perché era incinta ed il bimbo era mio.”

 

“Sì, peccato che a me invece avevi detto che ormai tra voi non c’erano più rapporti da mesi, prima che decidessimo di uscire allo scoperto e di andare a convivere. Almeno la storiella che si racconta alle amanti ingenue me la potevi risparmiare, no?”

 

“Ma noi veramente non avevamo avuto rapporti da mesi, ma-”

 

“E cos’è? Il bimbo è frutto dello spirito santo?”

 

“No, no, ma… un paio di settimane prima di lasciarla definitivamente, quando… quando avevo già cominciato piano piano a portar via le mie cose di nascosto, ero andato a bere con i colleghi per festeggiare la risoluzione del caso Guicciardi, quel caso di tangenti che era finito in omicidio, ti ricordi?”

 

“Sì, mi ricordo del caso Guicciardi, ma non dirmi che adesso mi vuoi dire che ti sei ubriacato, che sei tornato a casa e sei stato con tua moglie, o la tua ex moglie, o come la vuoi chiamare, perché veramente è il peggiore dei cliché degli uomini che si stanno separando."
 

“Hai ragione ma… ma ero molto, ma molto ubriaco e… e stavamo dormendo e lei ha cominciato e… ed è successo tutto quasi in automatico. Lo so che è comunque anche colpa mia, ma… ma erano mesi che non succedeva nulla tra di noi e… e l’avevo visto come un suo estremo tentativo di salvare il matrimonio, di riaccendere la passione. Ma, ovviamente, una volta che sono tornato sobrio me ne sono subito pentito. Non te l’ho detto perché… perché per me non aveva significato niente, non volevo farti male inutilmente, e poi mi avevi detto che certi dettagli non li volevi.”

 

Sospirò, perché aveva capito ormai benissimo dove stesse andando a finire quella storia e non sapeva se avrebbe voluto strozzare più lui o lei.

 

“E quindi l’ho lasciata, mi sono trasferito da te e per qualche mese ho davvero sperato che quella sarebbe stata la mia, la nostra nuova vita. Ma poi… ma poi mi è arrivata questa notizia, tra capo e collo, e la mia ex moglie mi ha dato un ultimatum: o ti lasciavo, tornavamo a Bari e non ti vedevo più, oppure se ne sarebbe andata lei a Bari con i nostri figli, e non mi avrebbe mai fatto conoscere il bambino che doveva nascere. Mi ha detto che avrebbe fatto una battaglia legale per avere l’affido esclusivo, oltre che l’addebito, che con il fatto che io già stavo con te avrebbe vinto di sicuro. Voleva fare uno scandalo e ci avrebbe trascinato dentro anche te e tutta la procura. E… e io mio figlio lo volevo conoscere e… e non volevo che nascesse in mezzo ad una guerra, né coinvolgere te e tutti gli altri nei problemi miei e suoi e quindi-”

 

“E quindi avresti potuto pensarci prima se non mi volevi coinvolgere nei vostri problemi! Accettando di vivere con te lo sapevo che avrei dovuto affrontare la tua ex, lo scandalo e tante altre cose, ma lo avrei fatto. E lo capisco che volevi conoscere tuo figlio, lo so che padre sei, ma… ma avresti potuto lottare, avere almeno un affido congiunto. Non sarebbe stato facile, ma non era impossibile, e lo sai anche tu.”

 

“Sì… e per questo dico che è anche colpa mia. Che… che ho ceduto al ricatto, che non ho lottato di più. Ma… ma temevo davvero non solo di non vedere più i miei figli, ma… ma che Nicoletta avrebbe potuto fare qualche gesto estremo. Sembrava molto instabile, ma-”

 

“Ma?”

 

“Ma poi, anche se… anche se veder crescere nostro figlio è stato bello, ed è stata l’unica cosa positiva che è venuta da quella scelta, mi sono resa conto che sì, Nicoletta aveva dei problemi, ma che le piazzate e tutto il resto… erano state anche un po’ una recita, un’esagerazione. Perché, da quando sono tornato con lei in Puglia, col passare delle settimane, mi sono reso conto che non era… insomma, per fortuna, da un lato, non era messa male come credessi, anzi. Insomma… col senno di poi ho iniziato a pensare che forse l’avesse fatto apposta, che avesse intuito che la volevo lasciare e… e mi vergognavo di pensarlo. E me l’ha fatta pagare cara, me le ha fatte scontare tutte. Sono stati anni in cui mi ha fatto malissimo e si è fatta malissimo, ho resistito solo per il piccoletto, ma poi… poi non ce l’ho fatta più, anche perché stavamo tutti male, era evidente, era una lite continua. Non lo dico per farti pietà, o per giustificarmi ma… ho capito che ho fatto solo peggio e che… se avessi lottato, forse alla fine i miei figli sarebbero stati meglio, anche con noi separati. Ma col senno di poi è più facile comprendere queste cose.”

 

Deglutì e sospirò, perché non sapeva cosa dire. Sembrava un racconto quasi da Guerra dei Roses e, a differenza di lui, per il poco che aveva conosciuto la sua signora, non aveva dubbio che magari non proprio la gravidanza, ma che sul resto sì, avesse mangiato la foglia ed avesse fatto apposta a fare le piazzate, per farlo preoccupare e spingerlo ad un riavvicinamento per i figli. O, almeno, sperava che lei non fosse realmente sempre così, anche se, a quanto aveva capito, di urla ne dovevano aver sentite parecchie in quella casa.

 

“E quindi adesso ti saresti separato? Ti vorresti separare? D’accordo che i tuoi figli sono più grandi, ma lei rimane sempre la stessa e-”

 

“No, no, cioè… ho aspettato che il più piccolo fosse almeno dell’età di poter cominciare a capire, anche se… troppo piccolo restava, ma… ma sapevo che avrebbe cercato in ogni modo di mettermeli contro, e volevo almeno che riuscisse ad esprimersi. Un giorno ho radunato le mie cose, sono andato a prenderli a scuola e all’asilo, ho detto a loro che volevo loro bene, ma che ormai io e mamma non andavamo più d’accordo. Ho spiegato che mi sarei trasferito in un’altra casa ma che, se tutto andava bene, li avrei visti più spesso che potevo… e pensa che uno, mentre spiegavo, mi ha chiesto ma perché urlate sempre? E non me lo scorderò mai.”

 

“E tutto questo quando è successo?”

 

“Un… un mese prima di quando mi hai chiamato per la figlia di Imma. Ero già a casa mia, da solo, quindi, come puoi immaginare, non mi è stato così difficile accorrere a Matera. Vedere i miei figli invece è stato molto più complicato, ma per fortuna ormai ero conosciuto a Bari e… gli assistenti sociali, e anche il giudice, hanno capito che le accuse che mi faceva Nicoletta erano esagerate, che i nostri figli, se non pressati da lei, che li faceva sentire in colpa, mi volevano vedere. E così l’hanno costretta all’affido congiunto: io il weekend, lei in settimana, con un assistente sociale mandato dal tribunale, che veniva ad accertarsi che riuscissi a prendere i bambini e a portarli con me.”

 

“Ma… ma perché non mi hai mai detto niente? Con tutte le volte che ci siamo sentiti per il processo, e non solo in questi ultimi mesi? Non… non dico che ti avrei perdonato o che mo ti ho perdonato ma… ma perché tutto questo segreto?”

 

“Perché? Perché la mia vita era un casino e… e non mi sembrava giusto scaricartelo addosso - che già ti eri presa fin troppi problemi ed avevi tutta la storia con Bianca. Quando… quando ho saputo quello che le era successo… non hai idea di come mi sono sentito al pensiero che… se solo ci fossi stato… e invece…”

 

Aveva voglia di piangere e di sbattergli due pugni al petto, perché non contava nemmeno più le volte in cui lei aveva avuto lo stesso pensiero, in cui aveva incolpato prima lui, poi se stessa, per non aver saputo mantenere il loro rapporto in una sfera professionale prima, e per poi essersi lasciata andare all’autocommiserazione. Per non essere stata all’altezza delle promesse che aveva fatto alla madre di Bianca, di proteggerle entrambe.

 

“E poi… e poi sapevo che probabilmente ormai ogni possibilità con te me l’ero giocata. E che avevi ragione. Ma… ma in questi ultimi mesi, ci siamo avvicinati di nuovo, come non speravo ormai più sarebbe mai successo e… e ho capito che… che ti amo ancora, esattamente come a Milano, anzi, di più, perché… perché sono un poco meno scemo di allora. E che forse… che forse anche tu qualcosa per me ancora la provi, oltre al rancore. E… e poi Bianca è meravigliosa e… e stare con lei, con Francesco e con te… è stato come vivere la vita che sognavo qualche anno fa, e mi sono reso conto che la sogno ancora.”

 

“Sì, ma poi dai sogni ci si sveglia e ci resta la realtà. E la tua ex moglie? E i tuoi figli? E l’affidamento congiunto?”

 

“Se sono tornato a Roma è proprio per questo. Ormai i più grandi sono grandi, appunto, e… e pensa che il primo, quando ha saputo che volevo trasferirmi a Roma-”

 

“Come trasferirti a Roma?!”

 

Non poteva credere alle sue orecchie, le sembrava tutto così surreale, come se di un film avesse visto l’inizio, si fosse persa tutta la parte centrale, e fosse arrivata ormai alle battute finali e ai titoli di coda.

 

“Te l’ho detto che sono qua per restare. Se… se tu mi vuoi qua, intendo, e non solo nella tua vita ma… ma anche per lavorarci. Anche perché Calogiuri, presumibilmente, presto se ne andrà e pure Imma, ci sarà da sostituire lui e due PM e quindi-”

 

“Ma tu sei un capitano, eri nei reparti speciali, gestivi una caserma giù, mica puoi stare in PG.”

 

“Magari non in PG che… ci sarebbero pure casini per noi se… insomma se succedesse magari un giorno quello che spero. Però, per intanto, sono in aspettativa per qualche mese. E, se tu mi vuoi qua, ci sono ottime possibilità per un posto in una caserma qua vicino, e poi… e poi vediamo, se magari tra Giorgio, Brian e De Luca posso occuparmi di altro. Sempre se tu non hai niente in contrario.”

 

“Ma a parte me… non mi hai risposto… e i tuoi figli, e la tua… ex moglie? Se devi essere a Bari per l’affidamento congiunto…”

 

“Come ti dicevo, ne ho già parlato con loro, ho detto che stavo valutando di trasferirmi qui se… se ne avevo la possibilità. Il più grande mi ha detto che vorrebbe venire qua a studiare all’università, tra un paio di anni. E gli altri… ho detto a loro che in ogni caso tornerei comunque ogni due weekend - tanto Roma Bari in un’ora di volo si fa - e che se vogliono qua il posto c’è ma… ma voglio lasciarli liberi di decidere come e con chi stare. Con Nicoletta… finalmente è finita la battaglia legale, che tra l’altro per fortuna ho vinto, o meglio, non le hanno concesso l’addebito. E, per l’appunto, continueremo a gestire in questo modo le visite ai figli, con l’aiuto del tribunale, finché saranno maggiorenni. Anche se mi auguro che lei si rifaccia magari una vita nel frattempo, o che almeno trovi un po’ di serenità. E… ed è da una settimana che sono ufficialmente un uomo libero, anzi divorziato.”

 

Ringraziò il cielo di essere seduta, perché un poco le girò la testa a quella parola, e non era il sorso di vino che aveva bevuto.

 

“Insomma… ho cercato di sistemare le cose il più possibile per… per non darti e non darvi problemi e per dimostrarti che… che quando dico che voglio stare con te, se tu mi vorrai, e che vorrei esserci nella vita di Bianca, se lei non ce l’ha troppo con me, dico sul serio. Questa è casa mia: l’ho presa in affitto per un anno, l’ultima volta che sono stato qua a Roma. L’ho arredata come sono riuscito e… e ho cercato di farlo in un modo che spero… insomma… se tu un giorno volessi venirci con Bianca… è un ambiente tranquillo, senza troppi stimoli che la possano spaventare.”

 

Le partì un singhiozzo assolutamente involontario, notando che sì, a parte il caldo del legno, era quasi tutto bianco. Forse era per quello che le era piaciuto l’appartamento, che ci si sentiva a suo agio.

 

“Ma… ma da quanto è che progetti tutta questa cosa?”

 

“Eh… da qualche mese, te l’ho detto, no, che dovevamo parlare?”

 

“Ma… ma questa casa e… e i tuoi figli… e… e, se io adesso io ti dicessi che non ti voglio tra i piedi qua a Roma, tu che fai?”

 

“Immagino che dovrei trovarmi un’altra caserma, magari nel Lazio, finchè c’è il maxi processo, e poi vedrò dove stare. Ma… ma comunque credo che sia meglio per tutti che io e Nicoletta teniamo un po’ di distanza, anche geografica. Credo che ci aiuterà ad andare avanti, o almeno lo spero. Insomma… io comunque dovrò farmi la mia vita, è chiaro, ma… ma mi piacerebbe tantissimo che in questa vita ci foste tu e spero un giorno anche Bianca. M,a se non fosse possibile… lo capisco e, a parte per le cose di lavoro che ti toccherà vedermi fino alla fine del maxiprocesso, come ti ho promesso, in caso, mi farò da parte e non ti disturberò più.”

 

Afferrò il calice di vino e se lo tracannò in un sorso, perché sì, aveva bisogno della mente lucida, ma in quel momento era come un groviglio confuso di pensieri, pure senza alcol, e quindi sperava che magari quello le desse non una risposta, ma almeno un po’ di coraggio per cercarla.

 

“E… e tu vuoi una risposta adesso?” gli chiese, prendendo tempo: fare melina era proprio la cosa che riusciva meglio ad entrambi.

 

“Hai tutto il tempo che vuoi per pensarci… io posso starmene qui. Quando te la senti mi chiami e… e mi dici che cos’hai deciso. Ovviamente, io ci spero, ma-”

 

“E che cosa speri? Di vivere con me e Bianca - che adesso è pure molto ma molto incazzata con te - e fare la famiglia del Mulino Bianco?”

 

“Beh… di bianco ce ne sarà molto,” scherzò, strappandole, nonostante tutto, una risata, “e… e per il resto lo so che Bianca, anche in caso le cose andassero tra noi, avrà bisogno dei suoi tempi e che… mi dovrò riconquistare la sua fiducia ma, se me ne darai la possibilità, farò di tutto per te e per lei. E… lo so che non sarà semplice, ma… ma se siamo sopravvissuti a tutte quelle notti insonni, possiamo farcela, no? In confronto Bianca, sì, ha il suo caratterino ma-”

 

“Ah, non credere! Non hai visto come l’ha tirato fuori nelle ultime settimane. Altro che i pianti di Francesco! Qua c’è di peggio: c’è la preadolescenza che si avvicina.”

 

“E io un po’ di adolescenti li ho già visti, anche se maschi… e poi dopo c’è pure l’età più bella, no? Se non mi cacci via prima.”

 

Aveva quel sorriso, quel maledetto sorriso, perché stava ancora sorridendo anche lei, e lui la conosceva molto bene: sapeva che non era più furiosa con lui, come a inizio serata.

 

Ma poteva davvero fidarsi di quella specie di scenario da fiaba che le prospettava e dargli e darsi seriamente un’altra possibilità? Non solo a loro due ma anche con Bianca, che era la cosa più importante e delicata?

 

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Aprì la porta ed era buio, ancor più della sera precedente, perché aveva fatto ancora più tardi.

 

Aveva mangiato giusto un tramezzino al volo, teneva una fame tremenda, ma voleva accertarsi di come stesse Imma, se fosse ancora arrabbiata con lui.

 

Mollò le scarpe e, quatto quatto, arrivò fino alla stanza da letto, dalla quale però non proveniva nessun rumore, giusto la luce che filtrava dai bordi.


“Imma,” chiamò, per non farla spaventare, prima di aprire la porta: la trovò al centro del letto, circondata dai tomi per il corso.


Stavolta però il piccoletto dormiva già, aggrappato alla camicia da notte di lei.


Era stupenda, una visione, e si sentiva così fortunato a poter tornare a casa ogni sera e trovarla così.

 

Cercò di studiare il suo sguardo, per capire se ce l’avesse ancora con lui, ma non ne comprese molto.

 

“Vatti a fare la doccia, che stasera dobbiamo recuperare lo studio di due giorni. Se hai fame, ci sono vari formaggi e salumi in frigo.”


“Ma tu hai mangiato?” le chiese e lei annuì, “magari mi puoi fare compagnia… che ne so… un calice di vino, due stuzzichini mentre studiamo.”

 

Imma fece un’espressione che, di nuovo, non capì e scosse il capo, “no, grazie, ho già mangiato fin troppo. Se ti sbrighi, che qua già troppo tempo abbiamo perso.”

 

Sospirò: Imma non sarebbe mai cambiata - non che desiderasse che lo facesse, anzi - prese la maglietta ed i boxer per la notte, ed andò a buttarsi sotto la doccia tiepida, facendo più in fretta che poteva.

 

Si fece giusto un panino al volo - con i formaggi ed i salumi tipici materani - e se lo mangiò in fretta in cucina, per evitare di sporcare il letto per niente.

 

Preparò però due camomille: una per sé ed una per Imma, che sì che dovevano studiare, ma magari così si sarebbe tranquillizzata un poco. Lui forse avrebbe avuto bisogno più della caffeina, ma tant’era.

 

Entrò in camera reggendo un vassoio con le tazze ancora fumanti e qualche biscotto, che forse almeno quelli Imma li gradiva e, nonostante il suo sguardo da ma come devo fare con te? poggiò tutto sul comodino, vicino a lei, prima di infilarsi a letto.


“Dai, Calogiuri, intanto che le camomille diventano un poco meno ustionanti, cerchiamo di proseguire. Partiamo dal caso pratico, che ancora lo dobbiamo terminare?”

 

Annuì, che forse era meglio: con lo studio dei casi faticava molto meno, perché era il lavoro a cui era già abituato. E poi non gli costava così tanto sforzo di memoria, essendo anche in gran parte ragionamento e capacità deduttiva, oltre che organizzativa.


Prese il taccuino per gli appunti, lo aprì ed afferrò il faldone di documenti che Imma gli stava passando, con le prove raccolte per il caso, che era un vero caso di cronaca, reso però in forma anonima. Non famoso, ovviamente, se no sarebbe stato troppo facile.

 

Cominciò ad analizzare i reperti e a prendere appunti, mentre Imma si limitava ad osservarlo in modo neutro, perché non poteva aiutarlo nelle deduzioni, dirgli se fossero giuste o meno: sarebbe stato di nuovo troppo semplice poi, oltre che inutile per lui.

 

“Dunque… le impronte sono un quarantuno. O una donna, presumibilmente alta, o un uomo, presumibilmente di altezza inferiore alla media. Scarpa da ginnastica, unisex, quindi questo non ci aiuta a confermare il sesso dell’assassino.”

 

Imma si limitò ad ascoltare, ma la vide concentrarsi di più quando passò alla cartellina successiva, che conteneva dei referti medici, tra i quali l’autopsia della vittima e quella che sembrava un’ecografia, il cui risultato però non veniva citato nell’autopsia.

 

Bisognava capire se fosse pre o post mortem.

 

All’inizio pensò che si potesse trattare del cranio ma no, alzando l’ecografia notò come ci fosse un buco in mezzo ad una specie di membrana, che non era però la scatola cranica. Non se ne intendeva molto ma, dall’assenza di altri organi, pareva forse…


“Ma è un eco addome?” si chiese e le chiese, mentre Imma aveva un’espressione strana, ma fece spallucce.

 

Si chiese se si fosse sbagliato, ma no, quello gli ricordava: le ecografie che aveva fatto Imma per la ginecologa, ad esempio, o sua sorella, quando aspettava Noemi, anche se lì sembrava che lo spazio vuoto fosse più ampio.

 

E poi… e poi c’era come una strana palla appena sotto, come se si fosse incastrata su quella barriera.

 

“Questa… questa massa… potrebbe essere un tumore? Ma nel referto si diceva che la vittima era in buona salute e poi… e poi è strano… con questa forma… ma le hanno sparato? Però non sembra un oggetto di metallo, ed è molto tondo per essere un proiettile, e poi, ecco qua, sempre dall’autopsia, non è scritto da nessuna parte che la vittima sia stata colpita con una pistola.”

 

Vide Imma mordersi il labbro, deglutire e pronunciare con tono strano un, “no, da una pistola no. Magari da una freccia…”

 

Guardò meglio l’ecografia, confuso, perché quello non aveva nemmeno l’aspetto di una punta di una freccia, ma poi improvvisamente capì. Anche perché, guardandolo più da vicino, il proiettile aveva una forma da fagiolo quasi, ma un’estremità più grande e tonda, e dall’altra parte delle piccole protuberanze che forse erano manine e piedini.

 

“Ah, la freccia sì!” esclamò, da un lato divertito, ma dall’altro spiando l’espressione di lei: temeva che per Imma parlare di gravidanze - oltretutto evidentemente finite malissimo, considerando la sorte toccata alla vittima - fosse un nervo scoperto, anche se si trattava di lavoro.

 

“Ma… ma sull’autopsia non c’è scritto nemmeno che la vittima era incinta… né che avesse i segni di un aborto recente. Perché includerla, allora?” si domandò, cercando di leggere meglio i dettagli stampati all’angolo dell’ecografia.

 

C’erano alcune sigle che non capiva, ma c’era la data, ed era… del giorno prima?

 

“Ma questa è di ieri? Ma com’è possibile? Che si sono sbaglia-?”

 

TU-TUM

 

Il cuore, il cuore aveva mancato un battito e mo correva all’impazzata, la testa che iniziava a girargli, gli occhi che scattarono verso Imma e quel sorriso, quel sorriso. Non se lo sarebbe scordato mai quel sorriso. E gli occhi lucidi di Imma, i suoi che gli si appannarono mentre balbettava un, “ma sei… ma sei…?”

 

“Sì.”

 

Una sillaba, una sola, con la voce più roca e più bella del mondo, e gli venne da ridere, da piangere, e caldo, e freddo, tutto insieme e-

 

Buio, tanto buio, la sensazione di cadere.

 

E poi non sentì più niente.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ti rendi conto che non ti meriti niente, che sei fuori tempo massimo e che non avresti alcun diritto di farmi questi discorsi, dopo tutti questi anni, oltretutto? Di pensare che bastino per farti perdonare?”

 

Il sorriso scomparve dal volto di Lorenzo.

 

“Hai… hai ragione, ma… ma ci dovevo almeno provare. Non ti disturberò più, come ti ho promesso, e-”

 

Gli fece segno di fare silenzio e proseguì, con l’espressione più neutra che riusciva a mantenere, “ma… anche se non te lo meriti, per niente, sei… sei l’unica persona che ho amato veramente. Ed è inutile negare che, anche adesso, provo ancora qualcosa per te, un qualcosa che ci lega e che non si spezza, nonostante tutto.”

 

Il sorriso tornò, ancora più bello di prima. Lorenzo divenne tutto rosso e chiese, “ma allora…?”

 

“Ma allora adesso ci andiamo piano, vediamo come va, con calma, con molta calma, soprattutto con Bianca, meglio andare per gradi. E ti avviso: se ci riprovi anche solo una volta a farmi soffrire, o a farla soffrire, non avrai mai più il problema di paternità future indesiderate, perché te lo risolvo io, alla radice.”

 

E, nonostante gli avesse fatto il segno della forbice, Lorenzo rise. Sentì il rumore di una sedia che veniva scostata e si trovò trascinata in piedi, in un bacio che le diede i brividi e che la fece tremare esattamente come tanti anni prima, o forse anche di più.

 

Tanto che si aggrappò a lui, che però non sembrava messo molto meglio di lei, anzi, per poco non cadevano. Un po’ alla cieca, un po’ ad istinto, finirono sul divano, lui sotto di lei, a baciarsi, accarezzarsi, esplorare. Le mani le finirono sotto la camicia di lui, toccando quel corpo che era cambiato un po’ in tutto quel tempo, ma che era anche così familiare, come il suo sapore, nonostante le polpette.

 

Cominciò a sbottonargli la camicia, a partire dal colletto, sentendo le mani di lui che le sollevavano leggermente l’orlo della gonna e poi lui le chiese, tra il serio e il divertito, “ma… ma non dovevamo andare con calma?”

 

“Ah, se vuoi smetto subito. Ma diciamo che, almeno su questo, abbiamo un po’ di arretrati da recuperare e poi, prima anche solo di pensare di prendermi il pacchetto completo, devo capire se ancora riesci a starmi dietro o no. Perchè lo sai che sono molto esigente.”

 

Per tutta risposta, si trovò prima in grembo a lui, che si era messo a sedere, e poi schiacciata sul divano, in un perfetto ribaltamento dei ruoli, la sensazione della pelle nuda sul suo petto che le diede un altro brivido, soprattutto dopo che lui le levò la maglia e le sollevò del tutto la gonna.

 

Era come tornare a casa, dopo tanto tempo, pensò, spingendolo per riprendersi la posizione di dominio, che aveva qualche nuovo trucco da mostrargli. Ma lui… altro che starle dietro, non si arrendeva!

 

E mentre, a furia di lottare, finirono sul tappeto, i vestiti scomparsi, si rese conto di essere di nuovo fregata, completamente.

 

Ma, finalmente, dopo tanti anni, si sentiva di nuovo viva, viva davvero, nuda davvero davanti a qualcuno, senza protezioni, senza barriere.

 

La paura era forte, ma il sollievo lo era ancora di più.

 

*********************************************************************************************************

 

“Calogiù, Calogiù!”

 

Per fortuna era scivolato sul materasso senza picchiare la testa.

 

Gli diede prima un colpetto su una guancia, poi sull’altra, Francesco che piangeva accanto a loro, mentre lei, con la mano libera, cercava di tranquillizzarlo, e Ottavia che, dopo averli osservati per un po’, si era avvicinata, aveva iniziato a dare testatine ed a leccare una guancia di Calogiuri.

 

Quando stava per usare le zampe, nel timore che tirasse fuori un poco di artiglio, le fece da barriera, le sussurrò, “lascia fare a me, Ottà!” e diede un terzo ed ultimo schiaffetto, ripetendo “Calogiuri, Calogiù!”

 

“I- Imma?”

 

Un sospiro di sollievo nel sentire quella voce e nel vedere due iridi azzurre spuntare sotto le palpebre, le pupille che si dilatavano, come gli succedeva spesso quando la guardava. Non che per lei non fosse lo stesso, anzi.

 

“Tutto bene, Calogiù?”

 

“S-sì, sì, tutto bene, ma…” fece una pausa, spalancando ancora di più gli occhi e domandandole, in un modo tremante da denuncia, “ma sei… ma sei…?”

 

“Sì, sono incinta,” proclamò, la voce che le si spezzò sull’ultima parola perché ancora faticava a crederci e… e dirlo a Calogiuri lo rendeva così reale da farle girare la testa, “mo però non mi svenire di nuovo e tiriamoci su, che qua già c’abbiamo una creatura piangente da calmare. Giusto per darti un assaggio di quello in cui ti sei infilato, maresciall-”

 

Le mancò il fiato perché si trovò trascinata sul suo petto, in un abbraccio fortissimo, che però durò poco, perché Calogiuri la lasciò andare e la sollevò leggermente, balbettando un, “scusami, scusami! Non è che fa male al bambino?”

 

“Ma che ti sei già rinscimunito, Calogiù? Manco si vede ancora, manco sporge: è un esserino sepolto sotto ad un sacco di strati protettivi e-”

 

L’unico modo in cui accettava di essere azzittita: un bacio, e poi un altro, e un altro ancora, ognuno più tenero e dolce del precedente. Calogiuri la guardava come se fosse la Madonna con in grembo il bambinello e le sorrideva come soltanto lui sapeva fare, in quel modo che pareva si illuminasse tutta la stanza, mentre un paio di lacrime gli rigavano il viso.

 

E così cominciarono a ridere a piangere insieme, stringendosi forte forte, come due cretini, ma almeno non erano solamente i maledetti ormoni a ridurla così. O non solo a lei.

 

“Ti amo… vi amo… io… io… non ci capisco più niente!” si sentì sussurrare nell’orecchio.

 

“Ho notato, Calogiù, ho notato,” ironizzò, prima di staccarsi, perché qualcuno continuava ad ululare.

 

Fece per prenderlo in braccio ma Calogiuri la precedette, stringendoselo al petto, facendolo saltellare e cullandolo finché non si calmò un poco, per poi rivolgere la sua attenzione a lei, serissimo.

 

“Che c’è, Calogiuri?”

 

“Che cosa ti ha detto la ginecologa? Come sta il bambino - o è una bambina? Il sesso lo sai? Di quanto sei? E-”

 

“E calma! Va bene che gli interrogatori hai imparato da me a farli, ma una domanda alla volta,” sospirò, perché sì, Calogiuri era bello bello che andato, “allora, il bambino o bambina sta bene, almeno dalle prime analisi, se non me lo assordi tu mo. Aspetto il risultato delle analisi del sangue, tra un po’ faremo l’amniocentesi e lì scopriremo anche il sesso di questo piccolo inquilino. E sono di undici settimane. Ti ricorda qualche cosa, per caso? Il giorno preciso ancora non lo so, ma più o meno.”

 

Lo vide farsi due conti mentalmente e poi col cellulare e le sorrise, commossissimo ed incredulo, le labbra ormai lavate di lacrime, mentre chiedeva, “Matera?”

 

Annuì e si trovò trascinata in un altro bacio umido, nonostante le proteste di Francesco, Calogiuri che esclamava, “è proprio destino: Matera ci porta fortuna. Ci dovremmo tornare e- e a proposito, che ti ha detto la ginecologa sul movimento, il riposo, la dieta? Per questo non hai voluto il vino, i salumi ed i formaggi?”

 

“Eh sì, Calogiù. Per un po’ purtroppo mi perderò un bel po’ delle cose migliori della cucina italiana, ma poi recupererò con gli interessi. Ho già una dieta e mi ha detto semplicemente di non fare troppi sforzi e-”

 

“E allora a Francesco da mo ci penso io. Tu meglio che lo prendi in braccio il meno possibile, se non da seduta: niente pesi. E i lavori in casa li faccio tutti io: la spesa, le pulizie, cucino pure io. Tu te ne stai tranquilla e a riposo.”

 

“Calogiù, la dottoressa mi ha detto di non esagerare, non di non muovere un dito, che pure stare sempre fermi non fa bene al bambino.”

 

“Ma il problema è che per te il moto normale è già esagerare. E poi… e poi qualche tempo fa sei stata tu a tenermi tranquilla e a riposo, mo tocca a me con te.”

 

“Insomma, me la vuoi fare pagare,” lo sfotté, guadagnandosi una risata, “e poi tu c’hai il corso e l’esame e-”
 

“Ma non ancora per molto e per studiare… possiamo farlo anche a letto. E poi… e poi a questo punto dobbiamo capire dove vogliamo andare ma… con te incinta e poi con un bimbo piccolo, vorrei non essere troppo lontano sia da Rosa che dalla tua famiglia. Alla fine tua figlia è a Roma e mo pure Pietro, per correre appresso a mia sorella, è quasi più qua che a Matera.”

 

“Vediamo… tanto avrò la maternità, nel frattempo valutiamo e-”

 

“E potremmo tornare a Matera, dottoressa: Vitali ce l’ha già detto tante volte, lì conosciamo tanta gente e-”

 

“Appunto! E di quella tanta gente sai quanti se ne salvano? E poi… e poi non potremmo lavorare insieme e dovresti startene fuori Matera come incarico. E, in ogni caso, con la maternità di mezzo, non voglio assumermi un ruolo mo e poi non farmi vedere per un anno, non è da me. Vediamo dove hai migliori prospettive di carriera tu e mi troverò qualcosa lì vicino. Abbiamo fino alla fine del corso per pensarci.”


“Il matrimonio!”

 

A quella parola, il cuore cominciò ad accelerare, annuì con un sorriso e gli confermò, “sì, quest’estate.”

 

“Eh no!” esclamò lui, in un modo che quasi le fece fare un salto, “non mi pare proprio il caso: non puoi stressarti per i preparativi e se mo sei già di undici settimane, sarai incinta di un po’ di mesi e-”

 

“Ma sarebbe comunque il secondo trimestre, il più tranquillo e-”

 

“E non voglio dovermi preoccupare che ti senti male o altro - con il caldo che farà poi! Possiamo sposarci dopo che nascerà l’inquilino, come lo chiami tu, quando vuoi.”

 

Dire che fosse stupita era dire poco e pure dispiaciuta.

 

“Ma se eri tu che insistevi tanto, che bastava che ci sposassimo, che mo hai cambiato idea?”

 

“No, no, anzi, io ti sposerei pure domani, dottoressa, ma la priorità adesso è non solo la salute dell'inquilino, ma anche e soprattutto la tua. E, se dovesse succedere qualcosa, se ci fosse da decidere tra te e il bambino… non voglio che tu ti senta in colpa o che anche solo pensi di farmi strani scherzi, è chiaro? Per me la tua salute viene prima di tutto!"

 

“Calogiuri…” sospirò, abbracciandolo di lato e dandogli un altro bacio, commossa, mentre Francesco, di nuovo, protestava.

 

“Dai, ci penso io ad addormentarlo. Tu la camomilla la puoi bere?” le chiese, cullando di nuovo Francesco mentre lo baciava sul viso in un modo che fu l’ennesima conferma di quanto sarebbe stato meraviglioso come padre. Era dolce, ma anche deciso, e stava imparando piano piano a farsi rispettare da Francesco, che si stava evidentemente affezionando a lui.

 

“In dosi moderate sì, e poi… dopo tutto quello che ho mangiato e bevuto fino a mo. E comunque, una volta che il piccoletto dorme… potremmo festeggiare… che ne so… in bagno o sul divano…” gli sussurrò, soffiandogli nell’orecchio e godendosi la pelle d’oca sul collo arrossato.

 

“Ma non sarà pericoloso per il bambino? Che ti ha detto la dottoressa?”

 

Le venne da alzare gli occhi al soffitto: Calogiuri le avrebbe fatto una capa tanta per tutti i restanti mesi, sarebbe stata una gravidanza infinita, già lo sapeva.


“Mi ha detto che devo evitare posizioni pericolose, quindi magari la lavatrice ed il risparmio energetico classico dobbiamo accantonarli per un po’, ma per il resto con moderazione si può fare, almeno fino all’amniocentesi, poi potremmo anche essere più liberi e-”

 

“E allora non è meglio non rischiare? Quanto manca all’amniocentesi?”

 

“Sette settimane, Calogiù, sette settimane. Altro che nove settimane e mezzo!”

 

Lo vide prendere un grande respiro e poi sorriderle, “facciamo così: per stasera ci riposiamo, dottoressa, poi… vedo di studiare qualcosa che non provochi niente al bambino, va bene?”

 

“Basta che provochi qualcosa a meEEE” provò a prenderlo in giro, ma si trovò travolta da un assalto di solletico sulle braccia e sulle gambe - niente alla pancia, ovviamente, mannaggia a lui! - mentre Francesco, aggrappato alla schiena di Calogiuri, rideva divertito, quasi quanto lei.

 

La sua, anzi la loro famiglia.

 

Ed erano soltanto all’inizio.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua non solo alla fine di questo capitolo, ma anche al punto che so essere stato tanto atteso da molti di voi. Scriverlo non è stato affatto semplice, perché dopo tutte le aspettative mi è venuta un po’ di ansia da prestazione, quasi peggio di Mancini con Mariani nel capitolo scorso, e spero sia stato almeno in parte all’altezza della lunga, lunga attesa. Ovviamente la storia non è finita qua, non solo perché dobbiamo vedere come andrà questa gravidanza ma perché ci aspettano ancora diversi colpi di scena, la fine della parte gialla oltre che di quella rosa. Voglio inoltre rassicurare chi non amasse molto i bimbi, le storie su pargoli o su gravidanze, che questa fanfiction da qua alla fine non si trasformerà in una succursale di un corso di ostetricia o ginecologia. Insomma, l’argomento verrà trattato, ma ci sarà molto, molto altro e ne sarà solo una componente, per quanto indubbiamente avrà un ruolo nella narrazione e delle conseguenze negli sviluppi di trama.

Detto questo, spero appunto che la storia continui a piacervi e ad appassionarvi, vi ringrazio tantissimo per averla ed avermi seguita fin qui, per i messaggi di supporto, per le vostre domande, sì anche per le famose “minacce” ;), sperando di non fare la fine dell’autore di Misery :D.

Un grazie enorme a chi mi ha lasciato una recensione e vi ringrazio tantissimo fin da ora se vorrete farmi sapere cosa ne pensate di questo capitolo e di come prosegue la narrazione.

Un grazie particolare anche a chi ha messo questa storia nelle preferite o nelle seguite.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 31 luglio, in caso di ritardi vi farò sapere sulla pagina autore.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 74
*** Crescere ***


Nessun Alibi


Capitolo 74 - Crescere


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Sono a casa!”

 

Sorrise, estraendo la torta salata che aveva lasciato tiepida in forno.


Ormai le toccava cucinare quasi tutto, oltre ad evitare i salumi non cotti. Le gioie della gravidanza. Ma almeno, con le sue leggendarie torte salate svuota frigo, risolveva la situazione.

 

Sentì un bacio sulla guancia, seguito da un urlettino di protesta e poi da un risolino del piccolo gelosone, appollaiato nel suo seggiolone, al quale il grande gelosone aveva a sua volta dato un bacetto.

 

“Se ti vuoi dare una rinfrescata, qua quando vuoi è pronto.”

 

Calogiuri annuì e fece per voltarsi ma d’istinto le venne di fermarlo con un, “aspetta!”

 

“Che c’è?” le domandò, stupito.


“No, che c’è lo chiedo io a te, Calogiuri. Tieni uno sguardo strano. Che c’è qualche problema? Qualche cosa che dovrei sapere?” aggiunse, perché riconosceva benissimo quell’espressione, di quando era preoccupato e non sapeva come dirle qualcosa.

 

“Hanno… insomma… visti gli ultimi sviluppi e che le condizioni di Melita le consentono di testimoniare, anche se da remoto, e… tutto quello che è successo… hanno deciso di anticipare l’udienza di Milano. Me lo ha detto Irene e… e non sa se sia un bene o un male ma… devo andarci per forza, per testimoniare.”

 

Mollò la teglia sulla tavola con un po’ troppa poca delicatezza - pure per i suoi standard - e l’idea di averlo lontano, anche se le pesava, c’entrava solo in minima parte. Era tutto il resto che la preoccupava e che sicuramente preoccupava anche lui, a parte il pensiero di lasciarla sola, apprensivo com’era da quando aveva scoperto che lei fosse incinta.

 

“Quando?”

 

“Questo venerdì.”

 

“Tra quattro giorni? Ma da quanto lo sai, Calogiuri?”

 

“Io da oggi, che a te non si può nascondere niente nemmeno per cinque minuti: sei un segugio, dottoressa! Irene, da quanto ho capito, lo sapeva dalla settimana scorsa, ma non era ancora sicura della lista dei testimoni e… mi ha detto che non voleva farci preoccupare o darci disturbo in questo momento. Ma sono stato chiamato dalla difesa, vorranno cercare nuovamente di screditarmi, quindi mi tocca andarci per forza.”

 

“E allora vengo anch’io!” proclamò, col tono di quando non ammetteva risposta contraria.

 

“Imma!” ribatté lui, con lo stesso identico tono.


“Imma niente, Calogiù. Questa cosa l’abbiamo iniziata insieme e la finiremo insieme, a Milano e qua a Roma. Non esiste che ti ci mando da solo: dobbiamo fare squadra e preparati che ti tartasserò fino all’ultimo, non solo con lo studio per il corso, ma anche con la preparazione delle possibili domande per il processo.”

 

“Ma sei incinta e devi stare a riposo e-”

 

“E il frecciarossa è come stare a casa, Calogiù: mica è la Marozzi! E poi dobbiamo solamente stare in tribunale, mica ci dobbiamo fare i chilometri a Milano. Ti prometto che, soltanto ed esclusivamente per questa volta, accetterò pure di prendere i taxi per tutti gli spostamenti lunghi.”

 

“Ma e con Francesco come facciamo? Non… non credo che portarlo a Milano sia una buona idea.”

 

Guardò il piccoletto, che ricambiò con un sorrisone ed un altro urletto, le manine che si agitavano verso di lei e la teglia - sulle cose che gli piacevano era ingordo quasi quanto Noemi.

 

Ma no, non era una buona idea portarlo nella tana del lupo, affatto.


“E se… e se rimanessimo via per una notte soltanto e lo lasciassimo alla babysitter di Irene? Tanto pure lei… dubito si potrà portare dietro Bianca proprio a Milano.”

 

Calogiuri sospirò.

 

“In effetti ci ho pensato ma… ma Francesco ti è così attaccato che…”


“Sì, a quella poveretta probabilmente aspetterà una notte insonne. Ma possiamo fare le videochiamate, no? Come quando stava fisso da Irene e… e poi… e poi saranno soltanto poche ore, ma sono decisive, Calogiù, anche per lui e per… per Melita.”

 

Non le era riuscito di dire sua madre. Era stupido, lo sapeva, come sapeva anche di dovercisi abituare, ma per lei Francesco era più di un pezzo di cuore e non era affatto facile accettare che in un futuro non troppo lontano si sarebbero dovuti separare definitivamente.

 

La mano di Calogiuri sulla spalla, il mezzo abbraccio e il bacio sulla fronte, furono almeno un attimo di pace e di distrazione da quei pensieri.

 

Anche perché c’era qualcosa di molto più grave ed urgente a cui pensare mo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dai, pensa che domani lo rivedi e che lo riempiremo di coccole - e di cibo - per farci perdonare.”

 

Le scappò un sorriso, anche tra le lacrime di commozione e di senso di colpa: erano appena usciti da casa di Irene, lasciandosi alle spalle Francesco che ululava come un ossesso.


Si sentiva uno schifo, come se lo stesse veramente abbandonando, anche se sapeva che era necessario.

 

La mano di Calogiuri sulla spalla, di nuovo, le fece forza e si ripromise che ne avrebbe fatta almeno altrettanta a lui, in quelle ore decisive prima del processo.

 

Beccò Irene a guardarli, ma la ex gattamorta non disse niente e di sicuro non lo avrebbe fatto lei.

 

“Meglio se andiamo ora: non solo per non fare aspettare troppo Mariani, ma perché dobbiamo fare un giro largo per arrivare a Termini.”

 

Si guardò un’ultima volta con Calogiuri, annuì e si avviarono verso l’ascensore.

 

*********************************************************************************************************

 

“Aspetta: ti aiuto a salire.”

 

Con suo estremo imbarazzo, dopo che già le aveva impedito di sollevare qualsiasi cosa - pure la valigetta leopardata degli incartamenti - vide Calogiuri salire prima di lei sul treno, manco fosse uno di quei regionali che ti ci dovevi arrampicare sopra, e non un treno moderno con giusto un paio di gradini, e tenderle una mano.

 

“Calogiù…” sospirò, tra il grato e l’esasperato, accettando però la mano, perché già Irene li guardava un po’ stranita e temeva molto che la collega si stesse facendo due domande e pure dando due risposte.

 

Calogiuri poi, forse per mascherare il gesto, fece lo stesso anche con Irene che la guardò, si morse le labbra con aria divertita e con un “preferisco vivere, grazie, Calogiuri!” salì da sola i due gradini, anche se nel farlo si avvicinò un po’ troppo a lui.

 

Si stupì nel non provare gelosia: ormai si fidava di Calogiuri e pure di Irene, le toccava ammetterlo.

 

Mentre Calogiuri caricava tutti i bagagli, anche quello di Irene, che manco un facchino in un film, Irene le fece strada verso una sala come quella in cui l’aveva portata ai tempi Mancini.

 

“Ma… ma…”

 

“Almeno possiamo parlare del caso lontano da orecchie indiscrete. E poi… e poi, visto com’è apprensivo Calogiuri, credo sia stata la scelta migliore.”

 

Eccallà!

 

Irene la stava guardando in quel modo… in quel modo da Irene, come se sapesse tutto di te prima che lo sapessi tu stesso.

 

Rimasero a fissarsi, come a sfidare l’altra a dire qualcosa, finché la voce preoccupata di Calogiuri che chiedeva, “ma che succede? Tutto bene?” la fece guardare verso l’entrata. Notò un altro sorriso di Irene quando Calogiuri abbassò gli occhi, sicuramente in modo inconscio, verso la sua pancia ancora invisibile.

 

Sospirò: era ovvio che con la gattamorta il segreto sarebbe stato di pulcinella.

 

“Succede che se fai così sempre, Calogiù, tra un po’ che sono incinta lo saprà pure il capotreno,” proclamò, non appena la porta fu richiusa, tra la confusione, lo stupore di Calogiuri e lo sguardo trionfante di Irene, come a dire lo sapevo!

 

E anche Calogiuri, alla fine, capì, diventò rosso come un peperone crusco e balbettò uno “scusa, scusa, scusa!” a dir poco mortificato.

 

Si intenerì e le venne anche da ridere, in fondo, perché la ex gattamorta era l’ultima a cui avrebbe mai pensato di annunciare la gravidanza e invece, a parte la dottoressa amica sua, a Calogiuri e a Diana, era stata la prima a saperlo, manco a farlo apposta.

 

“Possiamo contare sul tuo ermetismo, immagino?” le chiese, in quello che era un ordine manco troppo velato ed Irene, per sua sorpresa, sorrise ancora di più, ma in un modo dolce che… che aveva visto solamente quando era con Bianca.


“Sono molto felice per voi, davvero. E pensare che…”

 

Non proseguì la frase ma era evidente che stava pensando alla fuga di Bianca e quello che ne era seguito.

 

“Eh… si vede che doveva andare così, per schiarire un po’ le idee a tutti, no?” proclamò, come se fosse la cosa più naturale del mondo, perché alla fine, fortunatamente, era andato tutto a posto.

 

E fu allora che accadde.

 

Uno dei segni dell’apocalisse sicuramente.

 

Si trovò stretta da due braccia, che non erano di Calogiuri e neanche il profumo, senza dubbio alcuno costosissimo, e che forse non era nemmeno un profumo ma lo shampoo o il gel doccia, per quanto era accennato.

 

Ma la cosa che la sconvolse più di tutte fu che non si sentì a disagio, anzi, ricambiò pure l’abbraccio, anche se solo per qualche secondo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Tutto bene? Nausea? Affaticamento?”

 

“Calogiù, me lo hai già chiesto mezz’ora fa: sto bene, sto bene, tranquillo!”

 

Irene alzò gli occhi al soffitto e scosse il capo, tra il divertito e l’esasperato, mentre lei sospirava, “capisci con che cosa ho a che fare tutti i giorni?” e Calogiuri di nuovo si imbarazzava.


“Dai, che dobbiamo concentrarci sul ripasso per il processo mo. Irene, vuoi riprendere tu?”

 

“No, vai prima tu, Imma: visto che si tratta di un interrogatorio, preferisco lo tartassi di più tu. Io interverrò con le obiezioni al bisogno.”

 

Le toccava interpretare l’invidiabilissimo ruolo di avvocato dell’Avvocato. Un incubo praticamente, ma almeno così sarebbe stata un’esercitazione sia per Calogiuri che per Irene.

 

Anche se Irene nel contraddittorio era veramente molto brava, non c’era che dire. O forse era lei che a fare l’avvocato per i criminali non ci era proprio tagliata. Ma la cosa più importante era che pure Calogiuri se la stava cavando bene.

 

Mancava ancora un’ora a Milano e quattro al processo. Dovevano farcela.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa Tataranni! Dottoressa Tataranni! Come mai qua al processo?”

 

“Deve testimoniare anche lei?!”

 

“O non sarà che non si fida del maresciallo e della sua testimonianza?!”

 

“Come vi sentite ad essere di nuovo in tribunale dopo quanto successo a Roma?!”

 

Un fuoco di fila di domande da far girare la testa, letteralmente, per non parlare della folla di giornalisti e curiosi nella quale erano stati schiacciati.

 

“No comment!” urlò, perché di sicuro non aveva voglia di perdere tempo ed energie con quei cretini.

 

“Lasciateci passare!” gridò Calogiuri, che la teneva abbracciata per proteggerla, mentre Irene con un, “non abbiamo niente da commentare, fateci passare!” faceva spazio tra i giornalisti, aiutata poi - alla buon’ora! - dagli uomini della sicurezza del tribunale.

 

Finalmente, dopo minuti che sembrarono ore, erano dentro all’iconico edificio del tribunale di Milano, teatro di tanti processi storici per l’onestissimo Bel Paese.


Si diressero verso l’ufficio assegnato a Irene per cambiarsi, accanto all’aula, la tensione che si tagliava con un coltello.

 

La sicurezza li fece passare ed intravidero il PM assegnato al caso, con il quale Irene aveva già avuto rapporti durante la sua famigerata trasferta milanese con Calogiuri, e presumibilmente anche negli ultimi tempi, se aveva accettato la sua collaborazione al banco dell’accusa.

 

“Voi andate pure in aula. Mi raccomando, Calogiuri: non abbassare mai la guardia.”

 

“Ci penso io a tenerlo sugli attenti, non ti preoccupare,” le rispose, guadagnandosi un sorrisetto di Calogiuri che in quel momento non ci voleva proprio, dopo tutta l’astinenza forzata - da lui e dalle sue paranoie.

 

Mannaggia a lui!

 

*********************************************************************************************************

 

“E quindi perché ha ritrattato la sua testimonianza contro l’avvocato Villari, che aveva deposto proprio in udienza in questo tribunale?”

 

Era stata Irene a fare la domanda: un interrogatorio da parte di un PM uomo sarebbe risultato assai peggio agli occhi dell’opinione pubblica, visto lo stato in cui ancora versava Melita.

 

I tiranti ed alcune cicatrici erano ben visibili, nonostante il monitor, tanto che, quando era apparsa sullo schermo del tribunale, molti avevano fatto un’esclamazione di sgomento.

 

Irene le aveva fatto ripetere più o meno la testimonianza resa a loro, omettendo ovviamente i dettagli sulla paternità di Francesco e concentrandosi di più sul ruolo dell’avvocato Villari in tutta quella vicenda.

 

“Perché… perché mi hanno ricattato: lui, Stefano Mancuso, Nicola Giuliani e… e gli amici loro che mi controllavano. Mi avevano portato via mio figlio e mi hanno minacciata che l’avrebbero ucciso se non li aiutavo. Ed era il loro piano dall’inizio: che… che dovevo prima testimoniare e poi dopo dire che non era vero niente, che il maresciallo Calogiuri mi aveva convinta a mentire in tribunale. Così… così non ci avrebbe creduto più nessuno: a me, a quello che dicevo, a lui, a tutto.”

 

“E perché dovremmo crederle ora?” intervenne l’avvocato della difesa, deciso, anche se non era al livello di Villari, ovviamente.

 

“Forse perché è quasi morta e sarebbe pazza a difendere chi l’ha ridotta così? O forse perché abbiamo le prove su chi sia stato a ridurla così, oltre alla testimonianza diretta della vittima?” ribatté Irene, con una decisione invidiabile che, insieme alle condizioni di Melita, suscitò un brusio in aula e ridusse al silenzio l’avvocato.


“Ma la testimonianza su quell’incontro con gli amici milanesi dell’avvocato era vera?” domandò Irene, perché era quello il cuore del processo a Milano: Villari ed i legami con la criminalità organizzata milanese.


“Sì, era tutto vero. Ero con lui perché… perché ci dovevamo far vedere insieme per… per attirare la dottoressa Tataranni e il maresciallo nella trappola. Ma sono arrivati loro-”


“Loro chi? Può specificare dove sono seduti? Li vede dalla telecamera?”

 

Melita indicò con precisione i posti ai quali stavano i gentiluomini che aveva già indicato durante l’udienza milanese precedente, senza esitazioni.

 

“Ed è successo quello che ho detto l’altra volta. Hanno detto che… che l’avvocato Villari doveva far condannare il suo cliente e solo lui. E lo hanno minacciato e hanno minacciato me. E poi… lui e Mancuso, Giuliani e gli altri, mi hanno minacciata anche per questo. Ma… ma poi un giorno l’avvocato mi ha detto che l’avrei dovuto dire a Milano, a processo, quello che era successo. Io pensavo di aver capito male ma… ma poi ho capito. E… e avevo paura per mio figlio e… e ho accettato, ho accusato il maresciallo e ho sbagliato. Non c’è mai stato niente tra me e lui, mai, anzi, è sempre stato corretto con me, fino in fondo. Uno dei pochi uomini che… che mi ha sempre trattata con rispetto, come una persona e non come… come un oggetto. Lui e la dottoressa mi hanno aiutata e… e io li ho riempiti di bugie, li ho traditi ma… ma non avrei voluto farlo e… e non me lo perdonerò mai.”

 

Il battito accelerato di Melita era udibile anche da remoto, così come la voce della dottoressa Tulli che le raccomandava di calmarsi.


“Per me basta così, non voglio far stancare ulteriormente la teste,” intervenne prontamente Irene, anche perché tutto il pubblico in aula, i giornalisti, sembravano tutti molto colpiti.

 

“Avvocato, lei ha altre domande?” chiese il giudice e l’avvocato si guardò con Villari, che in teoria era il suo cliente, ma di fatto ne sapeva più di lui, e poi scosse il capo.

 

Sapevano benissimo che tormentare ulteriormente Melita in quelle condizioni non avrebbe fatto altro che peggiorare la percezione dell’avvocato da parte dell’opinione pubblica.


“No, anche noi non vogliamo stancare ulteriormente la teste, sebbene respingiamo fortemente le sue dichiarazioni, naturalmente. Ma, in considerazione del suo stato di prostrazione, possiamo passare oltre.”

 

“Se volete farmi passare per bugiarda, proprio lui poi che c’ha più facce che soldi, io posso andare avanti!” esclamò Melita, rivolta evidentemente a Villari.

 

Imma si guardò con Calogiuri e anche lui era preoccupato per lei e per quello che avrebbe potuto fare l’avvocato.

 

“Credo che la testimonianza della teste sia stata esauriente. Non si preoccupi, signorina Russo, passiamo al prossimo,” intervenne per fortuna il giudice, mettendo fine a quella parte così spinosa dell’udienza.

 

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“La difesa chiama a testimoniare il maresciallo Ippazio Calogiuri.”

 

Un senso fortissimo di deja vu la colse, insieme ad un’ansia profondissima di riflesso. Ma sentì la mano di Calogiuri nella sua ed udì quelle due parole: “sono pronto.”

 

E Calogiuri quando diceva che era pronto voleva dire che lo era veramente, fino in fondo, pure se era molto meno insicuro di prima.

 

Ricambiò la stretta, gli fece un sorriso il più possibile rassicurante e lo lasciò andare, ammirando il passo deciso e dritto, a testa alta, con il quale raggiunse il banco dei testimoni.

 

Sembrava quasi un’altra persona, rispetto anche solo all’udienza tremenda di qualche mese prima. Pure se, in fondo al cuore e nell’anima, rimaneva sempre il suo Calogiuri di Grottaminarda.

 

Ma si era fatto la scorza, la corazza ed aveva acquisito una sicurezza che non era sfrontatezza, ma consapevolezza dei propri mezzi e dei propri limiti.

 

Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza.”

 

La frase di rito, il mezzo sorriso sprezzante dell’avvocato ed iniziava la battaglia.

 

“Maresciallo, posso ancora chiamarla così, dopo tutto quello che è successo?”

 

“Obiezione! Il maresciallo non è più indagato né dalla giustizia penale né dall’Arma e, anzi, tra poco sarà molto probabilmente promosso a capitano.”


“Ed io questo intendevo, dottoressa, si rilassi,” intervenne l’avvocato, con faccia da schiaffi, e gliene avrebbe dati tanti, due a due fino a diventare dispari, gliene avrebbe dati.

 

“Avvocato, cerchiamo di evitare i preamboli e di procedere con le domande, per favore,” si inserì il giudice, che francamente parve irritato dall’atteggiamento dell’avvocato e forse quello poteva, letteralmente, deporre a loro favore.

 

“Maresciallo, non ho posto questa domanda alla signorina Russo in virtù del suo stato di prostrazione, ma lo chiedo ora a lei. Come possiamo credere ad una sola parola di quello che lei afferma, o di quello che afferma la Russo, quando lei e la dottoressa avete in affido il figlio della Russo stessa? Ditemi: che differenza c’è tra la posizione di potere che avete voi adesso su di lei e quello che la Russo sostiene sia stato il ricatto del mio cliente e delle altre persone da lei nominate? Cosa che, almeno per il mio cliente, non è mai avvenuta.”

 

Merda! Come lo avevano saputo sti stronzi?

 

Si guardò con Irene, visibilmente preoccupata - e non solo per la protezione di Francesco - e poi con Calogiuri che però, più che preoccupato, pareva rabbioso. Lo fissò, pregandolo di non fare scemenze, di stare tranquillo e lui ricambiò in un modo che… che, stranamente, ebbe il potere di frenare per un attimo il panico.

 

Perché Calogiuri non era in panico, anzi. A parte la rabbia non c’era agitazione alcuna e le fece un cenno come a dirle fidati di me!

 

E lei si fidava di Calogiuri, si fidava eccome.

 

“Francamente mi chiedo io come lei abbia la faccia tosta di fare questa domanda, dopo aver visto le condizioni in cui versa Melita - e no, non la chiamo la Russo perché io, Imma e tutti noi della procura ci teniamo veramente a lei, al suo bambino e al loro bene.”

 

“Convenientemente, devo dire, visto che è un’arma molto potente da usare e-”

 

“E quello di cui lei sta parlando come di un’arma è un bambino di pochi mesi che è stato strappato a sua madre, cresciuto da estranei che lo hanno comprato. Poi quasi ucciso: lo abbiamo salvato io e la dottoressa, insieme agli uomini della procura, dopo che stavano per uccidere i suoi compratori - perché chiamarli genitori adottivi sarebbe un insulto a chi con impegno e coraggio percorre la via non facile dell’adozione. Il figlio di Melita non è un’arma o un oggetto. Come non lo è Melita. Non lo è per noi, ma per voi sì. E, se ce l’abbiamo in affido temporaneo, è perché si è legato moltissimo a Imma, la dottoressa Tataranni, che lo ha trovato. E lo abbiamo avuto in affido temporaneo solamente dopo che la mia posizione è stata definitivamente chiarita, perché il bambino voleva e vuole solo Imma e vi sfido ancora oggi a separarlo da lei e a restare con le orecchie intatte. Adesso stiamo cercando di farlo riavvicinare gradualmente alla madre che, non per colpa nostra, non ricordava affatto, visto che le è stato tolto che aveva poche settimane di vita. Madre che, sempre non per colpa nostra, al momento non è fisicamente in grado di occuparsene. In modo che, appena possibile, potranno avere tutto ciò che è stato tolto loro dal suo cliente e materialmente da Mancuso e Giuliani. E potranno stare insieme come si meritano.”

 

“Ma come osa?! Le sue insinuazioni sono passibili di diffamazione e-”

 

“Non c’è alcuna diffamazione, sto solo dicendo, a mia responsabilità e sotto giuramento, la verità provata. Davanti al locale dove è stata trovata in fin di vita Melita - che come appare oggi non è niente in confronto a com’era allora - non ci stavo io. E chi ha portato via e venduto il suo bambino non siamo noi e nemmeno chi l’ha portata in quella clinica a partorire o chi poi l’accompagnava alle visite clandestine. O chi si è fatto passare informazioni dall’ex magistrato Santoro e, appena ha saputo che la donna che aveva riferito a Melita quei miei dettagli intimi aveva parlato, ha avvisato Coraini perché la mettessero a tacere. Quello che ha chiamato Coraini è stato proprio il suo cliente. Per non parlare di chi ora ha evidentemente violato la riservatezza e la sicurezza di un bambino sotto protezione. Quindi non c’è da credere a me, ma alle prove, che sono tantissime, oltre che alla testimonianza di una donna che è quasi morta per suo figlio. E non vedo perché non bisognerebbe credere a questo, ai fatti, invece che a lei e al suo cliente che oltretutto, detta proprio francamente, con il vostro atteggiamento non ispirate esattamente molta fiducia, anzi.”

 

Un boato, un boato in aula ed uno nel suo petto, nel suo cuore.

 

Perché Calogiuri… sarà stato pure di poche parole ma… ma quando ci si metteva… mannaggia a lui, mannaggia!

 

Si guardò con Irene, che sorrideva, incredula e commossa quasi quanto lei, perché manco era dovuta intervenire. L’avvocato, anzi, gli avvocati, sembravano aver mangiato un rospo, mentre i “bravo!” rivolti a Calogiuri e i “vergogna!” indirizzati alla difesa da parte del pubblico si sprecarono, tanto che il giudice dovette intervenire per riportare la calma e il decoro in aula.

 

Ma pure lui sembrava impressionato, anche se mai quanto lei.

 

Era orgogliosa, così orgogliosa di lui, tanto che le veniva da piangere - maledetti ormoni! - e non riusciva a fare altro che guardare quegli occhi azzurri che ricambiavano decisi e luminosi.

 

Non fossero stati in tribunale sarebbe corsa ad abbracciarlo e a riempirlo di baci.

 

L’avvocato era rabbioso, rabbiosissimo, ma sembrava non sapere come controbattere, a parte cercare di dissociare il suo cliente da Coraini, Mancuso e Santoro, cercando di sostenere che quella telefonata non volesse dire niente.

 

“E quindi per pura coincidenza poco dopo quella telefonata Coraini ha chiamato Mancuso e il Mancuso e Giuliani hanno ridotto in fin di vita la Russo? Mi sembra che ce ne siano parecchie di coincidenze in questa storia, avvocato, e che quel messaggio in codice sia chiarissimo, se riletto col senno di poi. O pensa davvero che qua tutti possiamo credere alle coincidenze, soprattutto dopo quanto dichiarato da Santoro? Sa cosa diceva sempre il suo cliente ai processi? Che lui non perdeva quasi mai, perché nella vita aveva imparato a scegliersi i clienti e le battaglie. Aggiungerei anche, visti gli sviluppi, che non perdeva mai perché barava al gioco ma… penso che invece lei, avvocato, i suoi clienti non li sappia proprio scegliere. Perché qua le prove sono talmente tante che la battaglia è persa e sarebbe nell’interesse del suo cliente iniziare a prendersi le sue responsabilità in questa storia, invece di pensare di poter manipolare ancora una volta il sistema a suo favore. Perché ormai il gioco è stato scoperto e il re, anzi, il principe del foro, è nudo.”

 

Irene, evidentemente, non si era voluta far bagnare troppo il naso da Calogiuri.

 

Villari praticamente schiumava e sibilò qualcosa all’avvocato che, anche in mezzo al boato dell’aula, suonò molto simile a “cretino, fai qualcosa!”

 

L’avvocato deglutì un paio di volte, guardando non solo Villari ma anche gli altri gentiluomini a processo - e non lo invidiava, non lo invidiava per niente - ma alla fine, pronunciò, con tono di chi stava andando al patibolo, ma anche di chi sapeva che la resa era ormai inevitabile, “non ho altre domande.”

 

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“Sei sicura di non voler tornare in hotel? Potrebbe andare ancora per le lunghe.”

 

Vide Imma sospirare ed alzare gli occhi al cielo, come faceva sempre più spesso - e sì, lo sapeva che era forse troppo apprensivo, che si era pure fatto beccare da Irene come un ragazzino. Per fortuna però Imma non sembrava averla presa troppo a male, anzi, l’abbraccio tra lei e la da lei tanto amata collega lo aveva sorpreso quasi più di tutto il resto in quella giornata.

 

Compresa la notizia, arrivata a fine udienza, che il giudice riteneva di aver raccolto sufficienti elementi per giungere ad una sentenza.

 

E quindi erano rimasti lì in attesa, circondati dal pubblico, dai giornalisti, dai curiosi, ma erano già passate molte ore.


Erano ormai quasi le ventidue e non riusciva a non preoccuparsi per Imma, per lo stress di quella giornata, per le tante ore passate seduta per carità, non in piedi, ma comunque era dall’alba che non avevano avuto un momento di riposo vero.

 

“Calogiuri, lo sai benissimo che questo momento non me lo perderei per nulla al mondo.”

 

Imma non si sbilanciava, non lo faceva quasi mai, ma erano consapevoli entrambi che, visto com’era andato il procedimento, era molto probabile che sarebbe stato a loro favore. Non potevano sapere di quanto e chi sarebbe stato condannato, ma qualche condanna quasi sicuramente ci sarebbe stata.

 

Ed il modo pieno di orgoglio in cui Imma lo guardava, da quando aveva finito con la deposizione, valeva tutte le ore perse a ripassare domande che poi non c’erano state. Ma stare con lei, imparare da lei, vederla in azione, in tutti quegli anni, gli aveva insegnato molto ma molto di più di quanto avrebbe mai sperato quando l’aveva conosciuta ed Imma era per lui una supereroina, un mito irraggiungibile.

 

Anche se al livello di Imma non ci sarebbe stato mai, gli aveva insegnato a non arrendersi, a tirare fuori la voce ed il carattere quando serviva e mo… ce l’aveva fatta. E quello sguardo, quel sorriso, quella mano stretta nella sua, senza paura del giudizio della gente, valevano più di tutto il resto.

 

Il rumore di una porta che si apriva e videro rientrare il giudice con i suoi cancellieri. Si sistemò allo scranno e cominciò a leggere articoli di legge che, se non ricordava male dagli studi fatti con Imma…

 

“Si condanna l’imputato Villari Claudio per i reati di concorso in tentato omicidio, infedele patrocinio, intimidazione, induzione alla prostituzione, corruzione, concussione, associazione a delinquere di stampo mafioso, ad una pena detentiva complessiva di anni quaranta.”

 

Un altro boato in aula, mentre il giudice richiamava al silenzio per leggere le condanne agli uomini della cupola milanese, da trent’anni ad un paio di ergastoli.

 

Si voltò verso Imma, nonostante lo sguardo un poco appannato, ma poi avvenne un altro miracolo, perché si trovò con le braccia di lei al collo e stretto in quell’abbraccio liberatorio in cui avrebbe voluto stringerla, non solo da quando era tornato dal banco dei testimoni, ma in tutti i processi precedenti, nei quali era stato solamente il fido assistente della Tataranni.

 

Ma ora erano lì, nel luogo più sacro per Imma in assoluto e, sebbene fosse anche parte del rituale in quei momenti, quell’abbraccio lungo e stretto di rituale non aveva proprio niente. E valeva così tanto, tantissimo, più di qualsiasi dichiarazione pubblica d’amore.

 

Tanto che non sentì più nulla, né il brusio, né il rumore dei flash che illuminavano la sala.

 

Alla fine si dovettero staccare ed Imma, a sorpresa, si voltò di nuovo per abbracciare anche Irene, sebbene in modo più rapido e formale. Lui ed Irene si guardarono per un attimo, indecisi, ed Imma li stupì ancora con un, “volete decidervi ad abbracciarvi o stiamo qua a fare notte?”

 

Allo sguardo mezzo sconvolto suo e di Irene aggiunse un “sarebbe più strano se non lo faceste, anche per i giornalisti…” che fu una fitta al cuore perché sapeva benissimo cosa Imma volesse dire realmente, e che quella era un’enorme prova di fiducia.

 

E così, si trovò, con ancora un po’ di imbarazzo, ad abbracciare rapidamente anche Irene, con due pacche sulle spalle, e poi salutarono il collega milanese che non capiva se fosse più sollevato per aver avuto la sentenza servita su un piatto d’argento, senza sporcarsi nemmeno troppo le mani, o deluso per la scena rubata.

 

“Adesso sì che possiamo andare, Calogiù,” proclamò Imma, soddisfatta, e non vedeva l’ora di levarsi da lì e di poter festeggiare come si doveva con lei, da soli.

 

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“Aspettate!”

 

Stavano giusto giusto cercando di sgattaiolare via tra la folla, evitando i giornalisti, quando si era parato loro davanti non un esponente della categoria, per fortuna, ma uno dei cancellieri.

 

“Che succede mo?” domandò, impensierita.

 

“Il procuratore capo vi vorrebbe parlare.”

 

Bene! Giusto quella ci mancava!

 

Si guardò con Calogiuri, ma che potevano fare? Mica potevano rifiutarsi. E poi, in teoria, era andato tutto bene, erano giunti a condanna per tutti gli imputati del maxiprocesso meneghino, avvocato compreso, e che voleva di più mo?

 

Con un cenno di intesa seguirono il cancelliere, scortati da un paio di agenti della PG locale, che guardavano sia lei, ma soprattutto Calogiuri, con un rispetto di cui non sapeva se lui si rendesse conto, ma lei sì. E la inorgogliva il triplo che se fosse stato rivolto soltanto a lei.

 

Dopo quello che aveva detto in quell’aula e come lo aveva detto, doveva essere diventato un mito, un esempio per quei ragazzi. Un appuntato e un brigadiere, dalle divise.

 

Uscirono da una porta laterale, passarono davanti all’ufficio dove stava Irene col collega, salirono le scale ed arrivarono infine davanti all’ultimo ufficio di un lungo corridoio.

 

Segno di potere, ovviamente.

 

Il cancelliere bussò alla porta, facendo poi loro segno di entrare, furono salutati da una cancelliera donna, probabilmente l’assistente principale del procuratore capo e poi fu aperta loro la seconda porta, che dava su un ufficio molto ampio e molto lussuoso. Dietro la scrivania lucida e modernissima si stava alzando in piedi un uomo elegante e distinto, dai capelli bianchi, un po’ stempiati, ed enormi occhiali da intellettuale.

 

“Dottoressa Tataranni, maresciallo Calogiuri, grazie per essere venuti! E grazie a lei, maresciallo, per il suo intervento di oggi: è stato fondamentale.”

 

Calogiuri si fece un poco rosato e si toccò il collo per un attimo, anche se poi cercò di rimettersi più dritto, sull’attenti quasi, e rispose, “grazie, dottor…?”

 

“Avete ragione: non mi sono presentato. Massimo Cattaneo, molto piacere.”

 

La stretta di mano di Cattaneo era decisa, nonostante sembrasse un vecchietto prossimo alla pensione, e la cosa le piacque, ragionò, mentre la stringeva anche a Calogiuri.

 

“Piacere nostro, dottore, ma se ci ha convocato qua solamente per ringraziarci, ci fa molto piacere questo riconoscimento, per carità, ma non era necessario,” abbozzò, più che altro per capire se fosse davvero tutto lì, o dove volesse andare a parare il collega.


“In realtà no, vi ho chiamato qui per un’altra cosa,” ammise ed i campanelli d’allarme ripresero a suonare, almeno finché non aggiunse, “ho saputo che entrambi dovrete trasferirvi da Roma e che il maresciallo sta finendo un corso da ufficiale. Abbiamo delle aperture qua, sia a Milano che a Monza, per evitare il problema del conflitto di interessi. Per me e sicuramente anche per il mio collega di Monza sarebbe un onore avervi nel nostro organico. Sia lei, dottoressa, che lei, maresciallo, come preferite. Se volete pensarci, per qualche mese la proposta è valida.”

 

Si guardò con Calogiuri e gli sussurrò un, “devi accettare assolutamente, Calogiù! Io posso andare a Monza, che tu a Milano hai più possibilità.”

 

“No, no: il posto principale te lo meriti al limite tu, dottoressa,” ribatté lui, testardo come un mulo.

 

Ma Milano era una procura importante, importantissima, e lì avrebbe potuto fare la carriera che si meritava.

 

“Dottore, ci pensiamo, anche perché prima appunto c’è un corso da terminare e diverse cose in sospeso a Roma da chiudere. Le faremo sapere e grazie della fiducia.”

 

“Si figuri, dottoressa. Dopo quanto ho visto oggi sono sicuro che sarà ben riposta e le sue arringhe e le sue indagini, soprattutto, sono leggenda, dottoressa.”

 

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Esitò per un attimo, prima di suonare il campanello.

 

Perché aveva paura di cosa poteva trovare dall’altra parte - anche se ancora al portone in strada stava. Ma temeva di percepire l’imbarazzo, l’esitazione nell’aprire.

 

O forse che non aprisse affatto.


E poi temeva se stessa, le sue reazioni, anche involontarie. Non voleva bloccarsi come l’ultima volta, ma certe cose non si facevano a comando.

 

Però, dopo un viaggio lungo, alla fine di una delle ultime lezioni dell’anno, e dopo aver pure dovuto assistere online alla scena da diabete di sua madre e di Calogiuri che si abbracciavano - per non parlare di quella, quasi da chiedere l’interdizione, di lei che abbracciava la Regina Elisabetta dei poveri - aveva deciso che anche lei le rivoleva le scene da diabete.

 

Magari non così tanto - che per fortuna non erano mai state a quel livello di cringe - ma rivoleva quel lato di lei che non riusciva più a sentire senza Penelope. Quelle emozioni che sono con lei provava.

 

E quindi schiacciò il bottone, temendo che non fosse in casa nemmeno stavolta, essendo venerdì sera. Aveva ovviamente sbirciato sui social, ma non c’era stato niente fino a quel momento.

 

“Chi è?”

 

Due parole che le fecero battere il cuore fortissimo.


“Sono… sono io… posso salire? Ti… ti dovrei parlare.”

 

Un attimo di silenzio carico di tensione, mentre aspettava la sentenza.


E poi il suono metallico della porta automatica che si aprì. Si affrettò a richiuderla alle sue spalle e a salire le scale, che in quel momento neanche l’ascensore poteva sopportare, nonostante il borsone pesante sulle spalle.

 

“Vale…”

 

Vederla lì sulla porta, lo sguardo sorpreso, con una delle magliette disegnate da lei stessa ed i pantaloncini corti, le fece mancare un battito.

 

Cercò di leggere meglio, al di là della sorpresa, che aria tirava, ma Penelope si limitò a voltarsi e a farle segno di entrare.

 

Lo fece, un poco esitante, mentre Penelope con un “sono sola, tranquilla…” chiariva il primo dei tanti dubbi e delle tante domande che non riusciva ad esprimere.

 

Appoggiò il borsone all’ingresso, anche se quello non la liberò affatto del peso che sentiva.

 

“Allora… di che cosa dovevi parlarmi?”

 

Prese un respiro perché lì, davanti a Penelope, occhi negli occhi, i pensieri si azzeravano tutti. Anche quei discorsi che si era preparata mentalmente, cancellati completamente.

 

“Io… io ti amo,” esclamò, decidendo di non trattenersi e di dire tutto quello che poteva, che riusciva, “ti amo ancora e… e nonostante tutto quello che ho fatto e… anche se non sono avanti come te… io ti amo ancora e voglio stare con te. E, se non ci riprovassimo, lo rimpiangerei per sempre. Se tu ancora mi vuoi e-”

 

Due labbra sulle sue ed una scossa elettrica che la passò dalla testa ai piedi la zittirono, trovandosi letteralmente al muro, in un bacio che… era incredibile, sconvolgente, esattamente come se lo ricordava, forse anche meglio.

 

Tanto che tutti gli altri discorsi, su chi c’era stato durante la pausa, sulla distanza, sui problemi da risolvere, passarono in secondo piano perché non ci capiva più nulla: voleva solo sentire, sentire ancora e ancora.

 

Senza quasi capire come si trovò distesa sul divano, Penelope sopra di lei che le levava e si levava i vestiti. Ribaltò la situazione, placcandola al bracciolo opposto, mentre ridevano insieme e si baciavano, si ritrovavano e si perdevano in quelle sensazioni che mai con nessun altro aveva provato.


E seppe, istintivamente, di aver fatto la scelta giusta.

 

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“Sono distrutta!”

 

Calciò via più che volentieri le scarpe - dal tacco basso per i suoi standard, se no Calogiuri chi lo sentiva più?

 

Anzi, non avrebbe più sentito proprio nessuno, che Calogiuri le avrebbe fatto perdere l’udito con le sue preoccupazioni.

 

“Allora adesso ti metti tranquilla e-”

 

“La videochiamata con Francesco! Dobbiamo farla assolutamente: già è tardissimo!”

 

Ne avevano fatta una durante la pausa dell’udienza e Francesco aveva dato loro la schiena quasi tutto il tempo, offesissimo.

 

Avrebbe voluto chiamarlo molto prima, che ormai erano le ventitré passate, ma tanto sapeva benissimo, per esperienza, che molto difficilmente l’ululatore del suo cuore aveva appeso le corde vocali al chiodo per quella sera.

 

Sedendosi ai piedi del letto, raggiunta dopo poco da Calogiuri, fece partire la chiamata ed attese.

 

Giusto qualche secondo, che le sembrò comunque dilatarsi spaventosamente, e poi comparve la faccia di quella santa donna di Maria, la tata di Bianca.

 

“Dottoressa…” pronunciò ed Imma udì immediatamente non solo la stanchezza estrema nella voce ma anche il livello di decibel tremendo di sottofondo.

 

Francesco…

 

“Mi dispiace non aver chiamato prima, ma abbiamo finito molto più tardi del previsto.”

 

“Lo so, dottoressa, lo so: vi ho visti in televisione, a lei, alla dottoressa Ferrari e al maresciallo. Speravo anche che vederla, quando era inquadrata, tranquillizzasse un poco il signorino Francesco, ma più che altro voleva entrare nella televisione.”

 

Le venne da ridere per il signorino Francesco - la vita di Irene sembrava a volte proprio uscita da un film in costume, non fosse per le parti più che contemporanee, contemporaneissime - ma poi anche un groppo in gola.

 

“Ce lo fa vedere?” chiese, impaziente, e la baby sitter appoggiò il telefono da qualche parte e comparve con il piccolotto, che strillava talmente tanto da far gracchiare il telefono.


“Francesco, Francè, calmati!” provò a chiamarlo e vide il corpicino bloccarsi per un attimo e quegli occhi grandi, arrossati e scuri che la guardarono.

 

Ma poi si girò di nuovo di schiena, offeso.

 

Era proprio di famiglia, come Ottavia: altro che legami di sangue!

 

“Francé, ascolta, lo so che stai offeso mo, perché oggi non ci sono stata, ma domani torno e ti prometto che stiamo insieme e che per un po’ non sto più via la notte”, esordì, ma il bimbo ancora le dava le spalle, anche se almeno non strillava più, “e dai Francé, sono poche ore, e poi ti prometto pure, solo per stavolta, che giochiamo insieme a quello che vuoi. Pure a quei giochi scemi che piacciono soltanto a te e-”

 

Francesco si voltò, con uno sguardo ancora mezzo offeso come a dire giochi scemi saranno quelli che piacciono a te! ma poi rimase ad ascoltare.

 

“La vuoi una fiaba della buonanotte? Esclusivamente e soltanto per stasera te la racconto anche io, insieme a Calogiuri, che ne dici?”

 

Era difficile capire quali parole comprendesse Francesco, ma su fiaba e buonanotte, si girò ancora di più verso di loro, con aria interessata.

 

“Che storia vuoi raccontargli, dottoressa?”

 

“E mo ascolti… allora Francé, ascolta bene pure tu. C’era una volta un ragazzo, bello come il sole ma molto povero, che faceva il contadino. Sì, era bello quasi quanto te, Francè," proseguì, e vide Francesco rilassarsi un poco nelle braccia della babysitter, “ma il lavoro tra i campi era difficile, poi erano in cinque con i genitori, non bastava per sfamare tutti. Un giorno, dopo aver fatto mille mestieri, il ragazzo vide passare un banditore, insomma, uno che annunciava le notizie importanti, che diceva che il regno stava cercando nuovi soldati, per mantenere l’ordine nelle città. E lui, anche se era convinto di non esserne capace, decise di provare, per mantenere la sua famiglia ed anche la sua fidanzata che era molto, molto esigente, e sognava i profumi, i trucchi e i balocchi che solo i ricchi si potevano permettere.”

 

Un mezzo suono strozzato e, con la coda dell’occhio, vide che Calogiuri era incredulo e pure commosso.

 

Francesco invece era attento, attentissimo.

 

“Il giovane affrontò l’accademia per diventare soldato e poi gli fu assegnato il primo incarico. Non doveva soltanto tutelare la gente, né proteggere il re, o la regina, o qualche altro nobile. No, gli fu assegnato di lavorare con i giudici di una delle città più antiche e sperdute di quel regno, aiutandoli durante le indagini, ma soprattutto portandoli in giro, come scorta, di protezione. E fu lì che il giovane contadino incontrò il giudice più temuto ed insopportabile di tutta la città, anzi, pure di tutta la regione, anzi, diciamo pure di tutto il regno. Ed era una donna che era riuscita, a furia di tigna, di insistenze e di studio, a diventare l’unica giudice donna di quella città. Si agghindava con vesti di animali esotici, per incutere paura negli astanti, e camminava su scarpe altissime e rumorosissime, in modo che tutti potessero avvertire e temere il suo passaggio.”

 

Prima un sibilo e poi una risata, ed era Calogiuri, ma anche la babysitter, a giudicare da come sobbalzava Francesco, che però era felicissimo e rideva anche lui.

 

“Quando arriva la parte dove però specifichi anche come la giudice era la donna più bella ed affascinante che il povero contadino aveva mai visto?” si inserì lui, con una punta di avvertimento dietro il divertimento, perché, sì, le ricordava sempre di non sottovalutarsi e faceva crescere la sua autostima estetica a mille ogni volta, con i suoi complimenti.

 

“Alla perdita di vista del povero contadino, ormai soldato, causata evidentemente dai troppi studi, arriviamo dopo. Francé, devi sapere che la giudice era molto esigente con i suoi collaboratori, ma perché erano tutti degli scansafatiche. Amici o parenti di nobili, avevano avuto quel lavoro, pensando di non dover lavorare affatto. E poi molti di loro avevano l’intuito acuto come una spada spuntata: insomma, non distinguevano un mulo da un cavallo, ancora un po’. E quindi, quando si trovò davanti il giovane soldato, a parte notare la sua avvenenza e che finalmente non le avevano assegnato uno che pareva un pupo del presepe di un’altra ben più famosa città del regno, non seppe che pensare. Anche perché il giovane non parlava quasi mai. Il che, rispetto a certi altri soldati, era un vantaggio. Osservava e non parlava, non parlava ed osservava. Ma ogni tanto, tra la timidezza e mille non sono sicuro, forse è un’idea sciocca, il giovane tirava fuori dei ragionamenti che le facevano intuire che, caso più unico che raro per un umano di sesso maschile, ragionava, ragionava veramente, non come i suoi colleghi. Gli mancava solamente un po’ di studio e di fiducia in se stesso. E quindi la giudice, per la prima volta nei decenni in cui aveva terrorizzato la cittadina del regno, si intenerì, poco poco, giusto una piccola scorza nella sua armatura, e decise di prendere il giovane sotto le proprie ali. Figurativamente, perché non era di certo un drago sputafuoco, anche se alcuni ce la paragonavano pure. Ed il giovane crebbe e, anche se era un poco lento, imparava, appuntandosi tutto su rotoli di pergamena come il più efficiente degli scribi, e poi…”

 

Andò avanti a raccontare finché il giovane soldato aveva aiutato la temibile giudice a risolvere un caso in riva al mare di Io, la ninfa diventata giumenta per colpa di Giove. Finalmente, notò che Francesco non rideva e non batteva neanche le manine. Non solo, ma non la guardava nemmeno più con quei suoi occhioni scuri come la notte: si era finalmente addormentato.

 

E quindi si zittì e, tra lo sguardo divertito e commosso di Calogiuri e quello sollevato della povera Maria che sussurrò un “grazie!”-  che forse tanta gratitudine in vita sua manco dai parenti delle vittime dopo un caso risolto l’aveva sentita - chiusero la chiamata.

 

Fece appena in tempo a riporre il cellulare che si trovò stritolata in un abbraccio, anche se poi Calogiuri si distanziò di qualche centimetro, preoccupato, e le chiese “ti ho-”

 

“No, non mi hai fatto male, Calogiù, e basta! Se no, alla prossima, il giovane soldato lo faccio finire al confino insieme al di lui collega, Capoccium.”

 

Calogiuri rise ma poi chiese, più serio, “ma perché, quindi la storia del giovane soldato continua?”

 

“Eh certo! Che Francé deve imparare per bene da lui: ancora è molto lunga. E, anche se ogni tanto si è fatto fregare da qualche maliarda fattucchiera, dobbiamo arrivare fino al punto in cui il soldato, ormai diventato comandante, affronta l’azzeccagarbugli più pericoloso del regno, salvando non solo la città delle Nebbie, ma pure la giudice e tutto il regno. Hai idea di quanto sono orgogliosa di te, Calogiuri? Lo sapevo quando ti ho conosciuto che avevi enormi potenzialità - e non pensare subito male, anche se pure di quelle non mi posso lamentare!” precisò, facendolo ridere di nuovo, “ma non pensavo che saresti arrivato a questo punto, e sono sempre più sicura che sarà solo l’inizio. E mi dispiace quasi che non fai il magistrato, perché i sorci verdi agli avvocati li fai vedere meglio della maggior parte dei cari colleghi che conosco.”

 

Una specie di mezzo singhiozzo, e si trovò Calogiuri che piangeva come un vitello tra le sue braccia, mentre la riempiva di baci sulle guance, sul collo, sugli occhi, sui capelli, e continuava a tenerla come se non volesse lasciarla andare più.

 

“Calogiù, guarda che quella con gli ormoni a mille e le lacrime facili dovrei essere io e non tu, e-” provò a sfotterlo amorevolmente, mentre lo accarezzava, ma il rumore di nocche alla porta li fece bloccare.

 

Lo guardò, preoccupata, ma lui si asciugò, tirò su con il naso in un modo che solo lui riusciva a rendere adorabile e chiarì, “probabilmente è la cena: visto l’orario non è il caso che andiamo in giro. E l’extra per il servizio in camera lo pago io, dottoressa, non i contribuenti, non ti preoccupare.”

 

“Calogiuri!” provò a protestare, ma lui, di nuovo a passo deciso e sicuro, si avviò verso la porta, guardando dallo spioncino ed accertandosi di chi fosse, prima di aprirla.

 

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“Beh… per sbloccarti ti sei sbloccata: ancora un po’ e finivo all’ospedale!”

 

“Scema!” esclamò, dando un pizzicotto al fianco di Penelope, seguito da un altro bacio.

 

In effetti era stato tutto folle e bellissimo e sfiancante e incredibile. Ma avevano ancora molto, ma molto da recuperare, giusto il tempo di tirare il fiato.

 

E però, adesso che la razionalità era leggermente tornata, un pensiero si affacciava nella sua mente.

 

“Che c’è, Vale? Non dirmi che te ne sei pentita adesso?”

 

“Talmente pentita che non vedo l’ora di ricominciare da capo,” la rassicurò, bloccandola però con una mano quando stava per prenderla in parola, “ma… ma c’era anche un’altra cosa che ti dovevo dire e di cui dobbiamo parlare, finché sono qua a Milano.”

 

“E cioè? Se è per Jo, io-”

 

“Ma chi ci pensa a quella? Però, magari, se non me la nomini in questi momenti è meglio,” precisò, prima di aggiungere, “è solo che… dobbiamo parlare della distanza. Perché io voglio che le cose tornino come prima sì, ma non gli ultimi tempi, che non ci vedevamo mai.”

 

“Vale, tra un paio di mesi mi laureo, cioè tecnicamente mi diplomo, e poi posso venire a stare a Roma, se mi fai posto nel tuo monolocale finché non trovo un qualche incarico. Roma è piena d’arte e di sbocchi. Certo, fare la pittrice sarà difficile, ma magari qualcosa la trovo, nel frattempo che cerco di farmi conoscere, anche solo come guida in un museo o-”

 

“Tu puoi stare da me tutto il tempo che vuoi, ma devi inseguire i tuoi sogni! Almeno tu che sai quali sono…”

 

“Vale…”

 

La carezza sulla fronte la consolò solo in parte.

 

Perché sì, era felice, felicissima: la sola idea di poter vivere con Penelope, anche se da un lato, dopo l’esperienza con Samuel, un poco la preoccupava, dall’altro era un sogno che si avverava. E poi loro insieme non avevano mai faticato a stare bene ed almeno Penelope non avrebbe lavorato di notte: si sarebbero potute godere insieme tutte le sere o quasi.

 

Solo che… la laurea ormai si avvicinava e lei aveva ancora di meno le idee chiare su cosa volesse fare della sua vita di quando aveva iniziato il primo anno.

 

Sperava in un’illuminazione, che un giorno sarebbe arrivato qualcosa che l’avrebbe appassionata veramente. Ma forse su quello aveva preso più da suo padre, per cui il lavoro era un male necessario, non una vocazione o qualcosa da amare.

 

E però invidiava Penelope, sua madre, il maresciallo, persino la Regina Elisabetta dei Poveri, che avevano tutti quel fuoco che bruciava dentro, che li portava a lottare per quello in cui credevano, per ciò che amavano fare.

 

Ma forse, semplicemente, non era il suo destino.

 

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“Tutto buonissimo e, ovviamente, perfettamente in linea con le indicazioni della ginecologa,” ironizzò, perché Calogiuri aveva ordinato un risotto allo zafferano da leccarsi i baffi ma senza alcun salume o alcolico e poi una bistecca alla milanese da dividere, ben cotta ma per niente unta, che si chiedeva quanta capa tanta avesse fatto a quelli del ristorante, visto che per lei i fritti ed i soffritti era meglio evitarli.

 

Il dolce, una piccola porzione di torta con le mele, fatta in un modo strano ma assai buona, l’aveva saziata definitivamente, nonostante la giornata quasi a stomaco vuoto.

 

Il caffè, rigorosamente decaffeinato, dopo la sola acqua minerale liscia, aveva posto fine alla cena in camera.

 

“Eh va beh… non volevo certo ordinare cose che non potevi mangiare, che poi mi avresti fatto una capa tanta sullo spreco di cibo.”

 

Sorrise e decise di fargliela passare, perché quando controargomentava così gli perdonava quasi tutto.

 

“Va bene, ma allora adesso-”

 

“Adesso, se non sei troppo sazia o nauseata, ti propongo un massaggio, dottoressa, ma nella mia SPA personale.”

 

Un altro sorriso le si stampò in faccia, mannaggia a lui!

 

“Calogiuri, io fossi nel giovane soldato starei molto attento a nominare la SPA nella Città delle Nebbie!”

 

Lo vide deglutire e poi fare un’espressione impanicata, balbettando un, “no, no, ma io, cioè non-” e le venne da ridere di gusto.

 

Almeno sui pali e paletti il sacro terrore gli era ancora rimasto. E molto meglio così.

 

“Imma!” protestò lui, fintamente offeso, e lei gli stampò un bacio.

 

“Dai, che ormai dovresti averlo capito che non sono più gelosa della gattamorta. Ma le SPA vere solo ed esclusivamente con me, non appena ci posso tornare.”

 

“Promesso!” esclamò lui, con una mano sul cuore, prima di sussurrarle, in un tono che le rimescolava lo stomaco - e non c’entrava il soffritto, “perché non vai a farti una doccia, che così preparo tutto per il massaggio e se andiamo in doccia insieme… è troppo pericoloso.”

 

Sospirò: quella gravidanza sarebbe durata veramente troppo - o almeno sperava, perché l’alternativa, manco ci voleva pensare. E quindi si avviò verso il bagno, dove fece una doccia veloce e si infilò altrettanto rapidamente l’accappatoio, dopo essersi fermata per un solo istante ad osservare la sua pancia di profilo.

 

Ma la lieve protuberanza era soltanto frutto della lauta cena: ancora non si vedeva nulla, ovviamente, e non poteva essere altrimenti.

 

Scacciando quei pensieri, con i capelli raccolti in un turbante e l’accappatoio indosso, tornò verso la porta del bagno, l’aprì e-

 

Gli occhi dovettero per un attimo abituarsi alla penombra e misero a fuoco delle lucine - candele per la precisione, anche se finte, probabilmente per motivi di sicurezza - che circondavano il letto. E, ai piedi del materasso, c’era Calogiuri, che le fece segno verso il lenzuolo sopra al quale notò sia un ampio asciugamano, sia una bottiglia d’olio - rigorosamente di mandorle e non profumato, Calogiuri ormai era pure peggio della ginecologa - e petali di rose sparsi ovunque, insieme ad un paio di rose intere.

 

“Calogiù… che ti sei portato avanti con la distruzione di sti poveri fiori?” scherzò, mentre si accomodava sul letto e, di proposito, si sfilava l’accappatoio e lo buttava a terra, restando nuda.

 

Insomma, la carestia doveva pure finire e, se non riusciva a convincerlo così a smetterla di preoccuparsi, doveva iniziare a preoccuparsi lei e molto seriamente.

 

Lo vide deglutire di nuovo, pure nella penombra e pronunciare un “mettiti a pancia in giù” che le provocò uno strano brivido e, per una volta, fu ben felice di obbedire.

 

“Resta ferma così, con gli occhi chiusi, mi raccomando,” ordinò lui, prima di iniziare il massaggio dalle spalle, le dita che spalmavano l’olio e poi-

 

E poi qualcosa di più delicato, di setoso e capì solamente dal profumo, oltre che dalla sensazione di solletico, che la stava massaggiando anche con i petali di rosa.

 

Proseguì, più in basso, sempre più in basso, poi in alto, sempre più in alto, in una tortura che se non fosse finita come pensava lei lo avrebbe denunciato, come minimo!

 

Se alcuni muscoli erano rilassati, per il resto era tesa un fuso, altro che rilassata, la pelle che sfrigolava di elettricità.

 

Osò per un attimo contravvenire all’ordine e lanciò un’occhiata indietro, giusto il tempo per notare che anche Calogiuri non era messo molto meglio, anzi.

 

E quindi decise che il massaggio era già andato avanti pure per troppo: mo era il turno di Calogiuri, da bravo Garibaldi, di dire obbedisco.

 

Si voltò di nuovo, ma stavolta lo afferrò per la nuca e lo trascinò in un mezzo bacio, prima di cercare di tirarsi in ginocchio, a carponi e-

 

Ed un morsetto sull’orecchio, seguito da un “stai ferma così” la bloccò in quella posizione, mentre, col collo quasi torto, cercava lo sguardo di Calogiuri che le sussurrò, “ho sentito che è una posizione ideale anche in gravidanza: ti ho promesso che avrei fatto le mie ricerche, no?”

 

Le venne da ridere, sia per come lo aveva detto, sia per il sollievo che Calogiuri non aveva smesso del tutto di funzionare, almeno fino a quando sentì due mani sulle anche ed un morsetto alla nuca.

 

“Non so se sia ideale per la gravidanza, ma io di sicuro non mi lamen-”

 

Non fece in tempo a finire la frase che le uscì il primo lamento, anche se non di dolore, anzi.

 

Dopo le settimane di astinenza ed il massaggio si sentiva come se stesse andando a fuoco, sensibilissima, in ogni punto che lui toccava, o anche solo sforava.

 

E quell’impunito ne stava approfittando per ridurla a mordere il cuscino per cercare di non farsi udire dagli altri ospiti dell’hotel, mentre malediceva e benediceva insieme il giovane soldato.

 

Che di inesperto non aveva proprio più niente, sempre mannaggia a lui!

 

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“C’ho delle occhiaie da spavento! Tutta colpa tua! E siamo pure in ritardo, però questa chiamata non possiamo non farla!”

 

Si osservò nell’immagine che restituiva la telecamera frontale del cellulare: i capelli talmente mal ridotti da averli dovuti raccogliere con due forcine, giusto per tenerli buoni per il viaggio; la faccia stravolta ma soddisfatta; le occhiaie pesantissime ed un certo maresciallo che sorrideva sornione a lato dell’inquadratura, sempre più bello, nonostante pure lui sembrasse discendere dai panda.

 

Avviò la chiamata e, dopo qualche squillo, ritrovò la povera Maria che però era meno disperata della sera precedente.


“Ha dormito fino a mezz’ora fa, dottoressa, un miracolo!” esclamò la donna con un sorriso. La vide allontanarsi un attimo per riprendere in braccio Francesco al quale sussurrò, con molta tenerezza, “guarda qua chi c’è di nuovo?”

 

E, stavolta, Francesco quando la vide non fece le sceneggiate degne di Ottavia, ma un sorrisone che le pizzicò gli occhi - sempre maledettissimi gli ormoni! - e poi cominciò a farle dei saluti con la manina e mandarle i bacini, come aveva imparato a fare poco tempo prima.

 

“Amore…” le venne spontaneo sussurrare, senza potersi trattenere, noncurante di Maria - con la quale tanto la reputazione era ormai perduta - ricambiando i bacini ed i saluti, promettendo, “tra poche ore siamo lì, torniamo presto, preparati!” a cui seguì un risolino da scioglimento di risposta.

 

Rimase ancora per un po’ così, a dirgli “ciao, ciao!”, muovendo la mano e godendosi il modo in cui la imitava e cercava di pronunciare qualcosa senza riuscirci, finché il “purtroppo dobbiamo andare, dottoressa…” la costrinse a chiudere la chiamata, davanti ad un Calogiuri più sciolto di lei.

 

“Ti amo!”

 

Un sussurro nelle orecchie, prima di un bacio dolcissimo sulla guancia.

 

“Ti amo pure io, Calogiù. Ma mo meglio se non ci baciamo più, se no qua il treno lo perdiamo. E far pagare doppio ai contribuenti non si può.”

 

La risata di lui la seguì fin fuori dalla porta della camera.

 

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“Ma ne sei proprio sicuro? Sei sicuro di riuscire a starmi dietro? Guarda che non è facile, poi la schiena, le giunture…”

 

“Mariani!” intimò, come gli veniva spontaneo fare quando lei lo prendeva in giro, anche se bonariamente.


Perché la differenza d’età… per lei era più facile scherzarci su, per lui un po’ meno.

 

“E dai, che il fisico non ti manca, dottore. L’abilità manuale, almeno su queste invece, cose ho qualche dubbio…”

 

“Guarda che io a montare sono bravissimo!” esclamò, prima di rendersi conto di quello che aveva appena detto, sentirla scoppiare a ridere e darsi dello scemo da solo.

 

“Mariani, Mariani… sei stata troppo in caserma…” sospirò, ancora un poco imbarazzato della gaffe, mentre si metteva in ginocchio davanti a lei e si allungava per afferrare non lei - sebbene se ne fosse stato per un attimo assai tentato - ma il manuale di istruzioni che le stava vicino al fianco destro.

 

“E che sarà mai? Certo che qualche descrizione a parte le immagini potevano metterla. Le viti ci sono tutte? Ma si fa tutto con una chiave a brugola?”

 

“Le descrizioni non ci sono mai, così si va a libera interpretazione. Le viti le ho contate e ci sono e sì, si fa sempre tutto con l’unica chiave del potere. Poi c’è chi usa l’avvitatore automatico, ma io non ce l’ho. Però in due facciamo prima, no? Da cosa vuoi iniziare?”

 

“Dal divano letto,” proclamò, di nuovo senza troppo pensarci e, alla risata divertita di lei, “almeno hai un posto dove dormire. Sì, sei stata decisamente troppo tempo in una caserma.”

 

Quando lo aveva portato in quel monolocale, in zona Nomentana, abbastanza lontano rispetto alla procura da esserlo anche da occhi indiscreti, ma abbastanza vicino a casa sua da essere raggiungibile anche a piedi, volendo, e gli aveva chiesto cosa ne pensasse, era stato a dir poco entusiasta all’idea che lei si fosse decisa ad emanciparsi. Sinceramente aveva temuto che lo avrebbe fatto aspettare molto di più, ma dover centellinare le uscite ed avere le ore contate perché Mariani non poteva passare quasi mai la notte fuori, era stata una tortura per entrambi, anche se per poche settimane.

 

Si sentiva in colpa a farla spendere quei soldi anche per lui, pure se lei gli aveva garantito che era un passo che meditava da tempo, ma che le era sempre mancata la motivazione per farlo.

 

Quindi, onorato di essere parte della motivazione, aveva insistito per darle almeno una mano coi mobili, dato che il monolocale era ad un ottimo prezzo proprio perché non ammobiliato. Ma Mariani si era rifiutata categoricamente, orgogliosissima della sua indipendenza economica.

 

E poi lo aveva rassicurato che tutti i mobili sarebbero stati low cost. Ma, a quel punto, le era venuta quell’espressione furba, che preannunciava guai e che lo faceva impazzire, e gli aveva chiesto una mano per montarli, una volta comprati - che insieme per negozi proprio non ci potevano ancora andare - se ne era capace.

 

Ovviamente aveva risposto di sì: come poteva deluderla sull’unico favore che gli aveva concesso di porgerle?

 

E quindi, nonostante la preoccupazione per il peso dei mobili, aveva giusto giusto potuto aiutarla a scaricare scatole su scatole - quasi tutte uguali e con nomi astrusi - dal furgoncino noleggiato per l’occasione. Dopo essersi fatti svariati piani di scale - che l’ascensore era già tanto se teneva due persone, figuriamoci un carico qualsiasi - Mariani aveva proclamato che era ora di iniziare.

 

Era un monolocale, quindi per fortuna i mobili non erano poi molti, ma dovevano essere calcolati ed incastrati al millimetro o quasi.

 

La cosa più semplice da montare, con meno pezzi, sembrava proprio il divano, anche se aveva pure le doghe oltre ai cuscini. Forse sarebbe stato meno scomodo, quantomeno, il che non era male per la sua schiena.

 

Ma quelle istruzioni, piene di frecce, di omini, di numeri di pezzi e di viti, non è che fossero chiarissime.

 

Nonostante ciò, prese la sua chiave a brugola e cercò di mettere insieme almeno la struttura principale del divano, per poi pensare alle doghe, che avevano un meccanismo per ripiegarle che non capiva.

 

Lo schienale ed i braccioli, tutto sommato, riuscì a montarli abbastanza agevolmente.

 

Ma quando arrivò il momento delle doghe, cominciò a girare le istruzioni da ogni lato, per cercare di capire meglio quale fosse quello giusto. Provò a poggiare dei pezzi nella struttura, e ci entravano pure, ma poi non riusciva ad assemblarli con gli altri e non capiva dove stesse sbagliando. Tra un tentativo e l’altro, le ginocchia cominciarono a protestare, dopo tanto tempo sulle piastrelle e, in effetti, anche la zona lombare tirava un poco, a furia di sporgersi e spostare pesi.

 

Alla fine, quando cercò di alzarsi per prendere altri pezzi, si udì un rumore netto. Erano le sue ginocchia che avevano scricchiolato in un modo assurdo, tanto che Mariani - che nel frattempo aveva quasi finito di montare un armadio, ma come aveva fatto? - lo guardò tra il preoccupato e il divertito.

 

“Se hai bisogno di una mano basta chiedere. Te la do volentieri, come in procura e-”

 

Fu il turno di lei di diventare bordeaux, scoppiando in una serie di colpi di tosse che allentarono la tensione e lo fecero ridere.

 

Era così bella, sia quando lo sfidava ed era sicura di sé, sia quando tornava ad imbarazzarsi come una ragazzina.

 

“In procura purtroppo certe cose non le possiamo proprio fare… ma qua sì…”

 

Ne approfittò per riprendere per un attimo il controllo, gettando a terra la maledetta brugola ed avvicinandosi a lei, afferrandola per la vita, per poi sollevarla e schiacciarla contro il muro.


“Ma le ginocchia? E la schiena? Ed il posto dove dormire?”

 

“A quello ci pensiamo dopo… e poi al limite ci basta il materasso, no?”

 

“Ho capito che finiremo di montare questa casa quando sarà ora per me di trasferirmi,” scherzò lei, ma sentì come un nodo nel petto, che sovrastò perfino le altre sensazioni, inevitabili, con lei così vicina.

 

“Giorgio…”

 

Un sussurro ed una mano sulla guancia. L’aveva capito al volo, come sempre.

 

“Se non finiamo all’ospedale, tra un… montaggio e l’altro… ti prometto che cercherò di far di tutto perché ci scoprano il più tardi possibile, quando saremo pronti. Se il prefetto non ha ancora detto niente… magari siamo salvi, no?”

 

“Ma il fatto che tu viva da sola porterà la gente a porsi delle domande, lo sai.”

 

“Lo so, ma… posso sempre inventarmi un fidanzato di fuori Roma. Magari trovo una foto di un amico che non vedo da un po’ e, se qualcuno chiede-”

 

“Non se ne parla!” la interruppe subito, perché l’idea che lei andasse in giro a dire di essere fidanzata con un bellimbusto non gli piaceva per niente.

 

Tranne se il bellimbusto sei tu! - gli ricordò la voce di Irene.

 

“Va bene, va bene… ma comunque… basta essere discreti, no? Tu puoi venire qua quando vuoi, tanto non ci conosce nessuno. E io pure, se esco la mattina presto ed evito i tuoi vicini.”

 

Sospirò e la strinse più forte, in un abbraccio vero, chiedendosi perché dovesse essere tutto così complicato.

 

Ma poi avvertì dita sotto il colletto della polo, muscoli che si muovevano contro ai suoi e la possibilità di essere scoperto volò via insieme ai vestiti, uno a uno, sul pavimento, insieme alla maledetta brugola.


E, alla fine, del materasso nemmeno ebbero bisogno.

 

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“Eccoci qua!”

 

Fece appena in tempo a dire quelle due parole che venne accolta da una sirena antiaerea e la baby sitter si affrettò ad accompagnarli verso l’ovetto dove era sistemato Francesco.

 

Si abbassò, lo sganciò e lo prese in braccio, d’istinto, senza perdere nemmeno un secondo in più.

 

Si sentì stringere fortissimo, mentre il pianto si calmava, sostituito da dei bacetti sulla guancia e sul collo, le braccina e le gambette che le si attaccavano a mo di koala, tanto che per un attimo fece quasi fatica a respirare.

 

“Ehi, calmo, calmo, siamo qua, non andiamo da nessuna parte, tranquillo.”

 

Era la voce di Calogiuri che, con un paio di carezze e dopo essersi beccato un urletto indignato, riuscì a far staccare leggermente Francesco e poi a riposizionarglielo meglio addosso, tenendone però parte del peso.

 

Ma il piccoletto la presa non la voleva mollare, non del tutto.

 

Dire che fosse commossa era dire poco, lusingata anche, in colpa pure. Ma c’era soprattutto tanta preoccupazione: il trauma dell’abbandono, nonostante le chiamate, nonostante fossero passate poche ore dall’ultima volta che si erano visti, era evidente.

 

E, mentre gli accarezzava i capelli e le guanciotte, si chiese quanto ci sarebbe voluto e se sarebbe mai passato del tutto.

 

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“Jerusalemaaa…”

 

Melita stava cantando, anche se a fatica, e Francesco smise di piangere e la guardò, come la volta precedente, mentre lei continuava a cantare, allungando anche una manina per afferrarle il camice verde.

 

Melita si interruppe un attimo e sorrise con gli occhi lucidi, dicendo, “spesso quando gliela cantavo… o doveva dormire, o stava mangiando e lo allattavo, al seno o col biberon. Dopo… dopo che me l’hanno portato via, il latte ci ha messo qualche giorno ad andarsene e… e ho cercato di mantenerlo, ma… ma sapevo che non l’avrei più rivisto fino alla fine del piano. E poi ho pensato davvero che…”

 

“Melita… cerca di non ripensarci adesso. Goditi questo momento con… con tuo figlio.”
 

Gli veniva difficile dirlo, quasi quanto veniva ad Imma. Perché Francesco era veramente come un figlio per loro, forse non di carne e sangue, ma di cuore sì.

 

Però la carne ed il sangue Melita li aveva versati per lui e… e aiutarli a riavvicinarsi era la cosa giusta da fare.


“Perché non provate a dargli un biberon con un po’ di formula? Magari può aiutare… Che marca usa?”

 

Era stata la voce dell’assistente sociale, che osservava tutto dalla finestra della stanza di terapia intensiva.

 

Melita lo guardò incredula, mentre lui rispondeva alla domanda e, dopo qualche minuto, entrò la dottoressa Tulli, bardata da capo a piedi, con un biberon in mano.

 

Lo porse a Melita che, estremamente tremante, lo avvicinò alla bocca di Francesco.

 

All’inizio lui fece una faccia mezza schifata e spinse via il biberon - anche perché ormai preferiva cibo decisamente più solido e gustoso.

 

Allora, con un cenno e un “posso?” prese il biberon dalle mani di Melita. Anche se non era Imma, che era sempre e per sempre la preferita da Francesco per tutto - e lo capiva benissimo - alla fine anche lui gli dava da mangiare, sia per far riposare Imma che per abituarlo.

 

Per fortuna stavolta il piccoletto, dopo uno sguardo interrogativo ed intelligentissimo, afferrò la cima del biberon e cominciò a poppare.

 

Piano piano, facendo attenzione a non spaventarlo, fece un cenno alla dottoressa e a Melita e con un “prova tu…” lasciò che Melita appoggiasse la mano sulla sua, guantata, e poi piano piano ritrasse le dita, fino a che era lei e solo lei a reggere la bottiglietta.

 

Temette per un attimo un ululato dei suoi, ma Francesco li guardò come a dire per me siete tutti scemi! e continuò a ciucciare. Quando Melita riprese a cantare, commossa, si concentrò solo su di lei, alternando poppate a qualche sorrisone edurlettino.

 

Melita continuò a dargli da mangiare, finché, piano piano, gli occhi del piccoletto si chiusero e si addormentò.

 

“Guarda che è un miracolo che si addormenti…” pronunciò, anche se gli costava, perché doveva dare a Cesare quello che era di Cesare. La dottoressa e l’assistente sociale si guardarono soddisfatte.

 

“Almeno quello… chissà se riuscirà a volermi… senza il cibo o le canzoni… come… come vuole Imma… anche un poco de meno me basterebbe…”

 

“Su quello ti capisco benissimo…” scherzò, perché non sapeva come fare per alleggerire l’atmosfera, ma poi Melita lo guardò dritto negli occhi, serissima, e gli chiese, “ma come mai Imma non ci sta? Non è che… che ce l’ha con me e-”

 

“No, no, Melita, non pensarci neanche! Dopo quello che è successo a Milano, io e Imma - e pure tante altre persone - ti siamo solo che grati. No… è che… Imma è piena di impegni e tocca quasi sempre a lei tenere Francesco. Dorme pure poco e quindi… se posso farla riposare un po’-”

 

“E sei riuscito a convincerla a riposare?” domandò Melita, incredula e sì, era intelligentissima pure lei, come suo figlio.

 

“Diciamo che ci sto provando… ed oggi è uno dei tanti tentativi.”

 

“Mi spiace se… se vi sto dando tanti problemi con Francesco e-”

 

“Ma no, anzi: per noi occuparci di Francesco è soltanto che un piacere, veramente.”

 

“Appunto! E… e proprio per questo… non sarà facile… dovermelo ridare, no? Specie se poi andrete via da Roma e- ma il matrimonio poi? Vi sposate ancora, vero?”

 

“Sì, ma… appunto è un periodo pieno di impegni, stiamo decidendo cosa fare dopo il mio corso e l’esame finale. Ma ovviamente non ti devi preoccupare, Melì: fino a quando non sarai in grado di occuparti di Francesco noi da qua non ci muoviamo e… e se avrai bisogno di un aiuto noi ci saremo sempre, te l’abbiamo già detto.”

 

Melita, per tutta risposta, scoppiò in lacrime, tanto che Francesco si svegliò ed iniziò pure lui a piangere e gli toccò - anche se con molto piacere - prenderselo in braccio per cullarlo, mentre Melita si riprendeva.

 

“Sei… sei davvero troppo buono, Calogiuri. Non so come hai fatto a perdonarmi… io fossi in te mi odierei tantissimo.”

 

“E come ti ha già detto anche Imma, l’unica cosa che ci dispiace è che tu non ti sia fidata prima di noi, Melita. Ma… per un figlio… per un figlio si farebbe di tutto e… e stando con Francesco l’ho capito ancora di più.”

 

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“Mà, ma che stai a dieta?”

 

“Come?”

 

“Prima niente aperitivo, mo solo due tonnarelli cacio e pepe, non è da te.”

 

Sospirò: erano con Valentina a farsi un pranzo da sole, per riuscire un po’ a parlare senza gli ululati di Francesco, di cui Calogiuri si stava occupando.

 

Ma ovviamente lei i fritti e i salumi non li poteva vedere neanche col binocolo, gli alcolici figuriamoci. Già la cacio e pepe non è che fosse esattamente consigliata, ma era la cosa meno peggio sul menù, pure se le toccava ammirare ed invidiare i piatti meravigliosi che i camerieri portavano avanti e indietro.

 

“No, è che… ultimamente ho un po’ di problemi di digestione e-”

 

“Ma non è che hai ripreso le cure per rimanere incinta?”

 

Per poco non le cascò la forchetta di mano, perché Valentina evidentemente si ricordava bene le restrizioni di quel periodo, che erano simili a quelle della gravidanza stessa, effettivamente.

 

Aveva due possibilità: mentire o confessare.

 

Ma, fino all’amniocentesi, il rischio di dover interrompere la gravidanza era ancora alto e… e non voleva far abituare Valentina ad un’idea e poi magari costringerla a vivere un lutto, se poteva risparmiarglielo.

 

“Diciamo che… su un pargolo… ci stiamo lavorando, Valentì”, rispose quindi, anche perché alla fine era la verità, pure se molto parziale, “ti dispiacerebbe?”

 

“No, a patto che, come ti ho già detto per Francesco, non mi fate fare da babysitter. E che tu e Calogiuri non fate più cretinate.”

 

Era proprio uguale a lei quando faceva così.


“Va bene, va bene…”

 

“E per il matrimonio? La data è confermata?”

 

“In realtà… con tutti i casini degli ultimi tempi, ho deciso che rimandiamo, all’estate prossima, credo. Stessa data. Voglio che ce lo possiamo godere per bene.”

 

“Un matrimonio in estate, mà, sai te che godimento!” ironizzò Valentina - e c’aveva ragione, c’aveva, ma doveva essere così, e pace se qualche invitato si sarebbe lamentato.

 

“Comunque basta che non fate più casini e che a questo matrimonio ci arrivate. Anche perché ormai voglio proprio vedere l’abito che sceglierai. Che come minimo sembrerai uscita da uno di quei programmi sugli abiti da sposa più trash d'America."

 

Sapeva che, nel linguaggio di Valentina, quello era tutto sommato un sigillo di approvazione, tra una frecciatina e l’altra.


“E invece tu, signorina? Ci sono novità? Che ti trovo bene, meglio dell’ultima volta che ci siamo viste…”

 

Valentina, per sua somma soddisfazione, arrossì leggermente: un po’ per una non faceva male a nessuna.

 

“Io e Penelope siamo tornate insieme!” proclamò, tutto d’un fiato, con un sorriso che la sollevò immensamente, “e poi… e poi abbiamo parlato di quella cosa della distanza e lei dopo il diploma all’accademia vuole venire ad abitare a Roma.”

 

“Insomma… tutte le strade portano proprio a Roma…” scherzò, perché ormai la capitale era sempre più sovraffollata, anche se almeno lei e Calogiuri se ne sarebbero dovuti andare presto.

 

Ma sua figlia sarebbe stata felice e quella era l’unica cosa che contava. E poi, se davvero fossero andati a Milano, alla fine poche ore di treno e ci si poteva vedere pure sovente, ululatori seriali permettendo.

 

Magari la voce delicata non prenderla da me e da tua sorella. E neanche da Francè! - pensò, dando di nascosto una carezza alla pancia, ringraziando la spessa tovaglia che impediva a Valentina di vedere alcunché.

 

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Sospirò, mentre si infilava la giacca della divisa, chiedendosi se presto avrebbe dovuto cambiarla.

 

Era riuscito ad alzarsi dal letto, a lavarsi e a cambiarsi senza svegliare né Imma, né Francesco. Un miracolo, praticamente.

 

La notte era passata quasi insonne, tra la sua agitazione ed il fatto che Francesco forse l’aveva percepita, ma in ogni caso aveva pianto quasi tutto il tempo.

 

E mo, tra un paio d’ore, lo aspettava l’esame.

 

Era tentato, tentatissimo, di salutare Imma con un bacio, perché era il loro rituale. Ma dormiva così bene, finalmente, aveva bisogno di riposo. Svegliarla sarebbe stato da egoista.

 

Quindi si sporse leggermente, le scostò una ciocca che le era finita sugli occhi e le baciò i capelli, delicatamente, godendosi per un attimo quel profumo, prima di alzarsi e, con quanta più delicatezza poteva, uscire dalla stanza da letto e poi dall’appartamento.

 

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“Giù le penne: è ora della consegna.”

 

Fece come ordinato, riguardando un attimo le risposte che aveva dato, mentre uno degli esaminatori, in divisa, passava a ritirare il foglio.

 

Gli sembrava di aver risposto bene, nonostante la stanchezza. Quantomeno aveva risposto a tutto e già quello non era scontato: aveva visto alcuni colleghi faticare su alcune domande.

 

Ora doveva soltanto tornare a casa, tutto intero possibilmente, visto il sonno che, ora che l’adrenalina stava calando, riemergeva prepotentemente.

 

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La porta che si aprì la fece correre verso l’ingresso - perché va bene la prudenza, ma qualcuno l’avrebbe sentita!

 

Che si spariva così senza salutare, in un giorno così importante poi?

 

Si trovò davanti, per la seconda volta in qualche mese, ad un mazzo di rose gigante su due gambe, che si scostò leggermente per lasciare spazio ad un volto stanco ma soddisfatto.

 

Bastò quello per afferrargli le guance e trascinarlo in un bacio, perché… sapeva benissimo cosa volesse dire.

 

Poi però si staccò, gli puntò un dito al collo, nello spazio lasciato libero dalle rose, e gli intimò, “la prossima volta se provi a non svegliarmi sei morto! E comunque, allora, tra un po’ mi toccherà chiamarti Capitano!”


“Eh… speriamo… ma ho una buona sensazione…”

 

Il che era praticamente una certezza per Calogiuri. Lo trascinò in un altro bacio ma, all’improvviso, un conato. Si dovette staccare bruscamente, correndo di nuovo sì, ma verso il bagno, dove fece appena in tempo a sollevare la tavoletta del wc e a vomitarci tutta la colazione.

 

“Imma, Imma…”

 

Una mano fresca sulla fronte, seguita da una salvietta bagnata, non appena ebbe finito con gli ultimi conati, e la voce preoccupata ed un poco accusatoria di Calogiuri che le chiese, “ma ti succede spesso di vomitare? Non me l’hai mai detto!”

 

“No, no… è la prima volta… non so… forse l’odore di così tante rose, tutte insieme, è stato troppo forte. Però almeno stavolta siamo già al secondo trimestre, quindi non dovrebbero durare troppo a lungo, spero. Anche perché tu non puoi cavartela per troppo tempo e dobbiamo festeggiare, Calogiuri!”

 

“Sei tremenda!” lo sentì pronunciare, sollevato, divertito, ma anche esasperato, prima di essere stretta in un abbraccio dolcissimo.

 

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“Come si può notare dal reddito del mio cliente, tolte le spese vive, riteniamo che abbia molta più possibilità reddituale la controparte, sebbene il mio cliente abbia una situazione abitativa e familiare molto più stabile e-”

 

“E vivere a casa degli ex suoceri non può essere definita una situazione più stabile. Inoltre il suo cliente ha le spese pagate quando è in viaggio, giustamente, così come ha vitto e alloggio gratis quando è a casa degli ex suoceri. E non mi risulta che passi del tempo altrove e che quindi abbia particolari spese, anzi. La mia cliente invece ha una situazione indipendente e si sta sobbarcando tutti i costi di mantenimento suoi e della bambina, facendo anche molti sacrifici. Quindi si merita il supporto di un aiuto per gli alimenti, da ora a quando la figlia sarà indipendente economicamente.”

 

“Peccato che la sua cliente abbia un compagno, che evidentemente contribuisce con le spese e-”

 

“E la mia cliente non accetta alcun contributo economico dall’attuale compagno, proprio perché appunto vuole essere indipendente. Il massimo del contributo, se così lo possiamo chiamare, è qualche pranzo o cena, quando sono insieme, e qualche gioco per la minore. Cose che dovrebbe fare il padre biologico, anzi, dovrebbe fare molto ma molto di più e-”

 

“E lo farà, se gli sarà concesso l’affido della minore. Oltre al fatto che, ritenendo la signora Minichiello-”

 

“Calogiuri!” intervenne Rosa per l’ennesima volta, snervata da quel topo di fogna dell’avvocato che continuava apposta a chiamarla così.

 

“Insomma la signora Calogiuri è colpevole di abbandono del tetto coniugale e di aver voluto e deciso lei questa separazione, molto probabilmente perché già invaghita dell’attuale compagno. E quindi il mio cliente non le deve proprio niente, anzi, dovrebbe chiederle i danni morali e materiali, psicologici ed esistenziali. E poi la signora Calogiuri non può voler essere indipendente quando fa comodo a lei, ma pretendere allo stesso tempo di continuare ad essere mantenuta dal mio cliente e-”

 

“La mia cliente è quasi un anno che non vede un euro dal suo cliente. E non chiede il mantenimento per se stessa, ma un contributo al mantenimento della figlia, responsabilità che il suo cliente in teoria si dovrebbe essere preso quando la minore è nata. Anzi, non dovrebbe essere nemmeno una responsabilità, ma un desiderio, una necessità morale e materiale di provvedere al meglio per la propria figlia minore e per la sua crescita. E non trattare il tutto, sia l’assenza di mantenimento, sia l’assenza fisica del suo cliente - che è da natale scorso che non vede sua figlia - come arma di ricatto in una separazione, mentre la mia cliente non gli ha mai impedito le visite. Non si può voler essere genitori solo quando fa comodo, alle proprie condizioni. Non funziona così: l’amore per una figlia non dovrebbe essere condizionale a nulla, figuriamoci al fatto di poterla o meno avere sotto il suo controllo, o di farla prima pagare alla ex moglie.”

 

Si guardò con Calogiuri che aveva pure lui la faccia da ammazza!

 

Il nipotino se la cavava sempre meglio: era proprio bravissimo, niente da dire, anzi!

 

Pure in quell’udienza, che praticamente era stata uno stillicidio di numeri, redditi, spese. La cosa che tollerava meno in udienze di questo tipo ed uno dei tanti motivi per cui non avrebbe mai voluto fare la matrimonialista - a parte che l’avvocatura in generale le faceva venire l’orticaria.

 

“Va bene. Direi che i punti in oggetto sono stati trattati più che esaustivamente. Per oggi abbiamo concluso: vi invierò comunicazione sulla data della prossima udienza.”

 

Pure il giudice probabilmente non ne poteva più, ma il fatto che avesse concluso dopo l’arringa di Galliano e non quella di Pace poteva essere un buon segno. Ma l’ultima parola era ancora lontana dall’essere scritta.

 

Uscirono dall’aula e quasi si aspettavano un agguato, ma stavolta niente quasi suocere e niente quasi cognati, per fortuna. E nemmeno bimbi ululanti che si stavano finalmente abituando ad essere lasciati per qualche ora con la baby sitter, senza montare tragedie greche. Non che Francesco non gliel’avrebbe fatta un po’ pagare al ritorno a casa.

 

In compenso si trovò davanti una quasi sorella, che era venuta ad assistere all’udienza.

 

“Imma! Ti trovo bene! Stanca ma… ma luminosa. Si vede che siete felici!” commentò Chiara, dopo averle dato, con giusto un paio di secondi di esitazione, un rapido abbraccio, ed aver poi salutato Calogiuri.

 

“Vado un attimo a parlare con Rosa, Pietro e l’avvocato… cioè… Andrea…”

 

Calogiuri, dopo aver balbettato quella scusa poco credibile, si era allontanato alla velocità della luce, lasciandole sole.

 

“Te lo sei scelta proprio bene, Imma! Ma del resto hai sempre avuto un gusto sugli uomini di gran lunga migliore del mio…” sorrise Chiara, prima di chiederle, un poco intimidita, “visto che ci hanno lasciate sole… ti va di fare due passi? Il parco qui dietro mi hanno detto che non è male… anche se tu ci sarai di casa.”

 

“Va bene, avverto solo un attimo la mia scorta personale, che se no chi lo sente se non mi vede più?”

 

Vado un attimo a fare due passi al parco con Chiara. Tranquillo che non faccio sforzi.

 

“Eh, con tutte le minacce che avete… capisco che sia prudente… lo sarei pure io… poi ora che quello stronzo dell’avvocato di Milano ha rivelato che tenete voi… Francesco, giusto?”

 

“Sì,” confermò, non potendo fare a meno di sorridere, perché Francesco era talmente una meraviglia ed era così orgogliosa, di lui e dei progressi che stava facendo, che le veniva spontaneo.

 

“Hai fatto bene a non portarlo oggi. Ma forse vuol dire che è anche un po’ meno disperato?”

 

“Sì, sì. Vivace è vivace e… non so quando gli passerà e se mai gli passerà il trauma dell’abbandono ma… ma è più tranquillo di prima. Credo che stia finalmente cominciando a credere che torneremo, anche se non ci vede sempre.”

 

Chiara sorrise, gli occhi un poco lucidi, in un modo che le ricordava sua figlia, nei rari momenti in cui era più dolce e tenera.

 

Cominciarono a passeggiare con calma, rimanendo però in un silenzio assoluto ed un poco imbarazzato.

 

C’erano talmente tante cose da dirsi, che era difficile trovarne anche solo una da cui avesse senso iniziare.

 

“Hai… anzi… avete già programmi per le vacanze? Ormai agosto si avvicina.”

 

“In realtà… in realtà no, non sappiamo cosa riusciremo a fare, fra tutti gli impegni.”

 

Non era una bugia, perché la loro vita era realmente un delirio. Certo, ci stavano parecchie omissioni.


“No, perché… se volete un posto tranquillo e riparato… volevo invitarvi a cavalcare in Puglia da me, almeno per qualche giorno, che so che ti piacciono tanto i cavalli. E poi c’è pure il mare, che è bellissimo, e-”

 

“E ti ringrazio ma… ma forse per ora è meglio niente cavalcate, poi con un bambino piccolo, in mezzo ai cavalli, e-”

 

“Sei incinta?”

 

Per poco non inciampò in una radice, tanto le prese un colpo.

 

La guardò, con la bocca spalancata, non riuscendo a dire né sì né no, e chiedendosi soprattutto come avesse fatto, e se l’intuito fosse prerogativa di famiglia.

 

Chiara, per tutta risposta, rise di gusto e poi le diede un altro rapido abbraccio.


“Imma… prima di tutto, ti ricordo che sono un medico, anche se oculista, ma quindi la vista la devo mantenere buona per forza. E poi… a parte le occhiaie… appunto sei luminosa, radiosa, e… al di là dell’effetto che può farti il tuo bel maresciallo… riconosco gli effetti degli ormoni… sei anche leggermente più morbida in viso. E poi… lo so che magari era una scusa per non avere a che fare con me, ma… ma per rifiutarti di cavalcare… ce ne vuole. E sono sicura che Francesco in mezzo ai cavalli, anche con un po’ di apprensione, lo porteresti volentieri, come tutti noi che li amiamo tanto.”

 

Sì, l’intuito era di famiglia e pure la faccia tosta.

 

“Chiara… mi raccomando: non lo sa praticamente ancora nessuno. Non l’ho detto nemmeno a mia figlia o a Pietro che… sto aspettando di poter fare l’amniocentesi e di vedere come va. Non-”

 

“Tranquilla, Imma. Diciamo che, anche se tecnicamente sarei fuori servizio, c’è il segreto professionale. E poi c’è quello… tra due sorelle, no?”

 

Prese un fiato lunghissimo perché quella parola ancora faticava a sentirla, figuriamoci a pronunciarla.

 

Però, forse, era ora di cominciare ad abituarcisi.

 

“Ma quindi… ma quindi prendermi così da parte, chiedermi dei cavalli, era tutta una trappola per costringermi a confessare?” le venne poi il dubbio, perché, visto che era di famiglia… le tecniche quelle erano - e ci si metteva pure lei in prima persona.

 

Chiara rise di nuovo, non sembrando offesa.


“No, no. Mi era venuto un poco il dubbio oggi, vedendoti in aula ma… l’invito è vero ed è sempre valido. E poi volevo avere l’occasione per parlare con te, che ci vediamo così raramente. Ma insomma, se la ginecologa te lo consente e… se ti va… un po’ di mare fa bene. Galleggiare in acqua è un toccasana per la schiena. E poi, pure se hai la ginecologa, ricordati che hai anche un medico in famiglia e che se hai bisogno di qualsiasi cosa io ci sono. Anche perché a Roma ci sto venendo più spesso.”

 

Scacciò la visione di un inseminatore seriale e di un vecchietto che diceva una parola è troppa e due sono poche, in una serie tv assai improbabile ma che a Valentina piaceva tantissimo e pure alla sua ex suocera.

 

“Grazie ma… per ora ce la caviamo, non ti preoccupare.”

 

“Va bene… lo so che sei indipendente… altro che Rosa! Che comunque ha un bel carattere!” sospirò Chiara, un poco rassegnata, ma non risentita, “a proposito, ma… ma adesso che pensate di fare? Perché so che non volevate stare più a Roma, ma con la gravidanza, Francesco, il bimbo in arrivo… il sesso già lo sai?”

 

“No, ancora no. La ginecologa sta decidendo se aspettare l’amniocentesi alla diciottesima settimana o se farmi un’ecografia alla sedicesima. Per fortuna le analisi sono abbastanza a posto, ma devo prendere alcune cose per prevenire il diabete gestazionale ed altri problemi, vista la mia età non più… di primo pelo. E pure controllarmi più spesso delle donne più giovani di me. E comunque… su dove finiremo dopo Roma… ancora non lo sappiamo.”

 

“Io tifo per Matera, lo sai. Un po’ per egoismo, perché mi piacerebbe averti più vicina. Anche se… capisco che non sarebbe facile per voi, con tutte le malelingue e… e anche se forse in altre città avreste più possibilità. Anche il piccolo o la piccola. Sia come lavoro sia come… mentalità più aperta. I miei figli, come sai, sono scappati tutti.”

 

“Lo so… e… vedremo… anche se Matera resta nel mio cuore e pure in quello di Calogiuri,” commentò, quasi tra sé e sé, perché l’idea di tornare lì, se da un lato la spaventava, dall’altro…

 

Sarebbe stato così bello vedere un piccolo Calogiuri correre per i Sassi di Matera e crescere nella città dove lei era nata e cresciuta e dove era nato e cresciuto anche il loro amore, a dispetto di tutte le probabilità e le previsioni.

 

“In ogni caso… possiamo vederci lo stesso, indipendentemente da dove finiremo,” si lasciò sfuggire, con enorme sorpresa di Chiara, ma pure sua, “però… te l’ho già detto, io non sono molto brava con la socialità.”

 

“Ah… neanche io… ma va benissimo così… tanto a me il tempo libero per viaggiare non manca. A te invece… mi sa che mancherà eccome!”

 

Si toccò leggermente la pancia, inconsciamente o quasi, ma la verità era che non vedeva l’ora di avere una vita ancora più incasinata di così.

 

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“Ti direi di stare calma, Imma, ma mi sa che è più agitato lui.”

 

Erano nello studio della ginecologa: era giunta finalmente, dopo un’attesa che era parsa infinita, la sedicesima settimana.

 

Mancava ancora ben più di metà gravidanza ma, tra l’apprensione di Calogiuri, che era ancora più un lenzuolo del solito, le - per fortuna rare - nausee mattutine e la stanchezza, dovuta non solo alla gravidanza ma al piccolo terremoto che avevano a casa, quel mese o poco più, da quando aveva scoperto di essere incinta, era sembrato non passare mai.

 

Poi… c’era ancora pure la tensione per i risultati dell’esame di Calogiuri, che tardavano. E certo: era estate e gli esaminatori se la prendevano comoda, mannaggia a loro!

 

Cercò di fare un sorriso rassicurante a Calogiuri, che si era seduto accanto al lettino dove era sdraiata e che le stritolava la mano peggio di lei quando stavano in aereo.

 

Un po’ per uno non fa male a nisciuno! - le ricordò la voce della buonanima di sua madre.

 

Almeno la Moliterni, a quell’ecografia, magari se la sarebbero risparmiata.

 

“Non mi svenire mo, Calogiù,” si raccomandò, visto che teneva le labbra quasi blu, pure se se le mordeva a sangue, il che non prometteva niente di buono.

 

Almeno la battuta ebbe l’effetto sperato: Calogiuri arrossì dall’imbarazzo ed un poco di sangue gli finì pure al cervello.

 

Il freddo del gel sulla pancia, il clic dello schermo che si accendeva ed il fastidio della sonda che vagava sulla pancia.

 

E poi un altro rumore ed eccolo: il suono più bello del mondo, che però forse correva un poco meno rapido dell’ultima volta.

 

“Ma-?”

 

“Tranquilla, Imma, è normale: quando ci siamo visti l’ultima volta eri in una fase della gravidanza in cui, di solito, il feto ha circa 170 battiti al minuto. In questa fase della gravidanza si assesta tra i 140 e i 150 e scenderà ancora prima del termine.”

 

Per un attimo si chiese se la dottoressa sapesse leggere nella mente, ma chissà quante pazienti che le domandavano tutte esattamente la stessa cosa, peggio dei giornalisti alle interviste.

 

Lanciò un’occhiata a Calogiuri, la cui stretta si era leggermente allentata, e lo trovò con gli occhi e la bocca spalancati, a fissare lo schermo, due lacrime che gli scendevano lungo le guance, le pupille dilatatissime e lucidissime.

 

“Ma è… è…”

 

Le venne da ridere e da commuoversi al tempo stesso perché, quando non scassava tutto lo scassabile con l’apprensione, le notizie sulla gravidanza lo rendevano ancora più di poche parole che agli inizi.

 

“Su, su… che ai neopapà la prima ecografia può fare questo effetto, anche se devo dire che uno commosso come lei raramente l’ho visto,” scherzò la dottoressa, mettendogli una mano guantata sulla spalla e dandogli due colpetti.

 

Per un attimo, pure così, le venne un piccolo moto di fastidio: non ci poteva fare niente, anche fidandosi di Calogiuri, quando qualcuna allungava le mani, pure innocentemente, l’istinto ed il ruggito quelli erano.

 

Sentì però qualcosa anche nell’addome, una sensazione indefinibile, quasi impercettibile, si voltò e vide che il bimbo era ben più grande e riconoscibile come tale. Era quasi un venti centimetri, aveva la testa dritta, non più ripiegata del tutto sul corpo, e molto più tonda; le manine ed i piedini molto più ben definiti, così come la boccuccia che si apriva e chiudeva. Riusciva persino a distinguere le palpebre, anche se chiuse.

 

Ma, la cosa più bella di tutte, era che si muoveva: altro che una palla attaccata all’utero!

 

Muoveva le braccine e le gambine e cercava di scalciare, anche se lei ancora non sentiva niente ma, come Calogiuri singhiozzò un’altra volta, si mosse ancora di più.

 

“Mi sa che ti sta dicendo di non fare lo scemo, Calogiù,” ironizzò, anche se la vista le si stava appannando un’altra volta, la mano di lui che tornava tipo boa constrictor e Calogiuri che piangeva e rideva. E poi si sentì sollevare la mano in bacio tenerissimo, prima di tornare allo stritolamento.

 

“In realtà il feto non può ancora sentire i rumori, ma le vibrazioni sì ed anche le emozioni della mamma…”

 

“Insomma, è comunque e sempre colpa tua che mi fai emozionare, Calogiù!”

 

“Ma… ma è tutto a posto, dottoressa?” domandò poi lui, perché era quella la cosa più importante.

 

“Da quello che vedo sì: la gravidanza sta procedendo regolarmente, secondo i parametri. Ovviamente, per avere la certezza definitiva, ci vorrà l’amniocentesi, ma ormai mancano solo due settimane. Il responso però arriverà dopo tre settimane, vi avverto.”

 

“Cioè in totale ancora cinque settimane?!” domandò, alzando involontariamente la voce, perché quella cosa non l’aveva capita la volta precedente, “ma… ma ormai fatico a nasconderlo a mia figlia e poi magari si comincerà a notare di più: già la pancia comincia ad essere più tesa e un po’ più gonfia.”

 

“Lo capisco, e capisco anche i motivi della prudenza verso sua figlia e nel rendere pubblica la notizia ma… già a pochi giorni dall’amniocentesi potremmo avere un primo responso, almeno per escludere le malattie più comuni e gravi. Quindi di solito è già abbastanza rassicurante.”

 

“Eh… abbastanza… è quell’abbastanza che mi preoccupa!”

 

Perché la cosa peggiore sarebbe stata rilassarsi, pensare che andava tutto bene e poi avere la mazzata tre settimane dopo.


“In ogni caso… se volete… posso azzardare il sesso del feto. Con l’amniocentesi avremo la certezza definitiva ma… direi che è già abbastanza chiaro.”

 

Le saltò un battito, il bimbo che fece un altro balletto quasi impercettibile nella pancia - chissà se anche quella era tra le vibrazioni che riusciva a sentire - e staccò gli occhi dallo schermo per incrociare quelli azzurri, acquosissimi ed enormi del… del papà.

 

Un’altra botta di ormoni ed emozione solo a pensarlo.

 

Bastò uno sguardo, uno solo e si capirono.

 

“Sì, già c’ha fatto la sorpresa di arrivare così, all’improvviso, almeno su questo vogliamo essere preparati,” pronunciò e Calogiuri annuì, baciandole di nuovo la mano.

 

La dottoressa sorrise e, dopo l’ultima conferma, mosse ancora per un po’ la sonda, finché la fermò e, indicando la zona tra le gambette scalcianti, proclamò, “a meno che si nasconda molto ma molto bene, e non mi pare proprio, direi che è in arrivo una bambina, tosta come la madre.”

 

Le scappò un singhiozzo, ma pure due o tre - mannaggia alla dottoressa, al piccoletto, anzi, alla piccoletta e a Calogiuri!

 

Calogiuri, che era una valle di lacrime, continuava a guardare lei e lo schermo come se le Madonne mo fossero due, a baciarle la mano e poi il viso e poi… nonostante il gel, lo sentì appoggiare la mano sulla pancia, accarezzarla e piegarsi per proclamare, a pochi centimetri dalla pelle, “amore mio… pure se non mi puoi sentire, io e la mamma ti aspettiamo! Sarai bellissima come lei, ne sono sicuro, e non me ne farai passare neanche mezza!”

 

Le venne un altro singhiozzo, ancor di più con le carezze di Calogiuri. La bimba si muoveva come un’ossessa, che manco Valentì si muoveva così, se non ricordava male. Anche se la tecnologia all’epoca era meno precisa.

 

A posto stavano, proprio!

 

“Eccalà! Un’altra cocca di papà in arrivo, con la quale dovrò litigare per tutta l’adolescenza e che verrà su viziata all’inverosimile!” scherzò, anche se un poco di timore di replicare gli errori fatti con Valentina ce l’aveva veramente.


“Eh no!”

 

Calogiuri aveva smesso con le carezze e le aveva di nuovo stretto la mano, in modo deciso, nonostante il viscidume del gel, “viziata mai. E se dovremo lottare, lotteremo insieme. Anche perché, se viene su con il tuo carattere, dottoressa, basteremo a malapena in due per contenerla.”

 

“Pure se piglia la tua testa dura, maresciallo, che mi pare proprio di sì! A posto stiamo!”

 

Una risata, un bacio sulle labbra - alla faccia della ginecologa e della buoncostume - e di nuovo quelle specie di farfalle nello stomaco che, mo lo sapeva, non erano soltanto di felicità.

 

Anzi, erano della felicità più grande di tutte.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo capitolo che, a dispetto dei miei timori, sono riuscita a terminare prima delle vacanze.

Spero che vi sia piaciuto e voglio rassicurarvi ancora che i capitoli che ci attendono non saranno una succursale del reparto di ostetricia e ginecologia, perché già dal prossimo ci aspettano notevoli casini per Imma e Calogiuri. I problemi ed i pericoli ancora non sono finiti e c’è molta gente che trama, più o meno nell’ombra. Nonostante, anzi, soprattutto ora che sul giallo hanno ottenuto un’importante vittoria in quel di Milano.

Vi ringrazio tantissimo per le vostre recensioni che mi danno sempre una grandissima carica per scrivere.

Un grazie particolare anche per chi ha inserito questa storia tra le preferite o le seguite.

Come preannunciato, salvo miracoli e più tempo per scrivere del previsto, in queste settimane sarò in vacanza, quindi il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 4 settembre. Se riuscirò ad anticipare e a farvi una sorpresa la troverete qua.

Grazie mille ancora e buon mese di agosto!

 

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Capitolo 75
*** Cuccioli ***


Nessun Alibi


Capitolo 75 - Cuccioli


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Sì, per la stessa data ma l’anno prossimo.”

 

“Ma siamo già al secondo rinvio, lei-”

 

“Me ne rendo conto, me ne rendo conto. Infatti stavolta si tenga pure la caparra e pagherò extra quanto necessario e-”

 

“Dottoressa, mi scusi, ma… al di là della caparra, come le ho già detto una volta, lei è davvero sicura di volersi sposare con questo Caligiuri? Che con tutti sti cambi di programma…”

 

“CA LO GIU RI, per l’ennesima volta. E, per l’ennesima volta, ne sono sicura molto di più di quanto lo sia di volermi rivolgere a lei. Anzi, visto che la caparra tanto se la tiene, a questo punto magari-”

 

“No, no, dottoressa, ma ci mancherebbe altro! Io lo dicevo per lei! Che insomma… ma una donna come lei… quello è un ragazzino! Pure se ho visto che a Milano si è difeso abbastanza bene, ma insomma… lei si perde appresso a quello, e indand’ chissà quanti uomini veri, che bacerebbero la terra dove cammina, che si sta perdendo.”

 

“Se gli uomini veri sono come lei, vorrà dire che mi metterò apposta a camminare su un campo concimato di fresco.”

 

Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato.

 

“Non parlavo mica di me, dottoressa: con tutto il rispetto, io tengo una moglie e pure famiglia. E i valori veri, genuini, quelli vengono prima di tutto: non mi permetterei mai di tradirli e-”

 

“E lei si rende conto che sta parlando con una al secondo matrimonio e che ha lasciato il primo coniuge e pure la famiglia, sì? No, perché forse è proprio meglio se mi rivolgo a qualcun altro, che non si permetta di giudicare il valore mio, del mio futuro consorte o della cerimonia e-”

 

“Ma no, dottoressa, non mi permetterei mai: io parlavo per me. Lei, come ho detto, è una gran donna ed il suo valore non è minimamente in discussione, anzi, qua tutti la ammiriamo moltissimo.”

 

“Senta, facciamo che ci penso e se vogliamo tenere sempre voi la ricontatto, va bene?”


“Eh no, dottoressa. Qua è una questione di principio. A questo punto se torna da noi le tengo buona la caparra, va bene? Non posso accettare che ci lasciamo in questo modo, avendola offesa.”


“Veramente, per mia fortuna, non mi pare che ci sia proprio niente da lasciare. E non mi faccio certo comprare con una caparra, per quanto non mi piaccia buttare via il denaro. Ma va bene, vi concederò un’ultima possibilità. Ma alla prima battuta di cattivo gusto che sento, annullo tutto, caparra o non caparra, a costo di prepararlo con le mie mani sto maledetto catering.”

 

“Non se ne pentirà, dottoressa. Se vuole, le mando subito altre proposte di menù e-”

 

“No, no, meglio deciderlo più vicino alla data. Ci risentiamo in primavera.”

 

Anche perché al momento, non aveva proprio voglia di pensare al cibo, né avrebbe poi potuto assaggiare nulla, mentre per allora la piccola inquilina avrebbe smesso di soggiornare comodamente sulle sue viscere.

 

“Va bene, dottoressa, ai comandi vostri! E a presto!”

 

Sospirò, mettendo giù il telefono. Ci mancava solo il ristoratore che si credeva un carabiniere.

 

Fu solo allora che sentì il suono di una leggera risata e notò Calogiuri, tornato a casa dalla piscina dove aveva ripreso ad allenarsi da quando aveva finito il corso, che la studiava dalla soglia.

 

Andò per un attimo in panico: da quanto era in ascolto? Che doveva essere tutta una sorpresa.

 

“Tranquilla, dottoressa: ho capito solamente che avremo un catering e che chi se ne occupa ti sta abbastanza sullo stomaco. Persino per i tuoi standard. Ah e che la cerimonia sarà dopo la primavera ma, visto quando nascerà la piccoletta, era già ovvio così.”

 

“Eh… che se ritarda un po’, qua rischiamo di trovarci la sorpresa sotto l’albero, Calogiuri, che poi è proprio il periodo peggiore per partorire - a parte agosto, ovviamente. Anche se almeno c’avresti un buon motivo per guardarmi come la Madonna.”

 

Lui si toccò la nuca, un poco in imbarazzo, ma poi si avvicinò al divano dove stava seduta, le piantò un bacio dolcissimo sulle labbra, poi uno sulla testolina di Francesco, che stava facendo il pisolino pomeridiano. Infine, come faceva dal giorno dell’ecografia, le sfiorò la pancia da sopra la maglietta. Poi, dopo un miagolio di protesta, si abbassò per prendere in braccio la regina della casa che gli si stava strusciando sulle caviglie, in forma del suo nome.

 

“Mo che hai salutato tutti, vatti a fare una doccia che poi dobbiamo ragionare sulle domande di trasferimento, Calogiuri. La tua, soprattutto. Certo, se quelli dei test si decidessero, che è passato un mese ormai e-”

 

Fu in quel preciso momento che una vibrazione, anzi due, arrivarono sui cellulari di entrambi.

 

Li afferrarono in automatico. Calogiuri dovette mollare un attimo Ottavia che però gli balzò sulla spalla.

 

Sono usciti i risultati

 

Irene… che aveva dato per l’ennesima volta prova del suo ermetismo non spoilerando niente, come avrebbe detto Valentina.

 

Capì subito, dallo sguardo ansioso di Calogiuri, che aveva ricevuto anche lui lo stesso messaggio.

 

“Controllo le mail…” proclamò poi lui, gli occhi gli si spalancarono ancora di più e quasi precipitò sul divano accanto a lei, dal lato opposto di Francesco.

 

“Allora?!” gli domandò, preoccupata.

 

“Allora c’è il link, ma…”


“E apri sto link, Calogiù, non rifacciamo tutta la pantomima che hai fatto per l’esame di ammissione, che già c’ho abbastanza ansia in sto periodo e non dovrei.”

 

Forse fu quello - un colpo basso, lo sapeva, ma sapeva anche che avrebbe funzionato - ma Calogiuri subito pigiò col pollice il maledetto e benedetto link.

 

Non contento dell’attesa, il cellulare scaricò semplicemente un pdf. E quindi dovette toccare pure la notifica, prima che si aprisse qualcosa.

 

Tenne il fiato sospeso mentre Calogiuri, con dita tremantissime, faceva scorrere tutta la parte di intestazione e-

 

Calogiuri Ippazio

 

Era il primo nome, un’altra volta: nonostante i mesi persi aveva ottenuto il punteggio più alto di tutto il suo corso.

 

Fece appena in tempo ad udire un singhiozzo, che non sapeva bene se fosse suo o di lui, e poi gli si trovò in braccio, stretta forte forte, a sussurrargli, “lo sapevo, lo sapevo! Sei… non potrei essere più orgogliosa di te di così. Pure se, dopo quello che hai fatto a Milano, non pensavo che fosse possibile. Non c’è niente che non puoi fare, Calogiuri. Niente. E spero che mo te lo sia messo in testa pure tu e definitivamente.”

 

“Diciamo che… se ogni tanto me lo ricordi, mi è più facile crederci veramente, dottoressa.”

 

Il magone aumentò, si staccò e lo baciò, ignorando le proteste di Ottavia e di Francesco che nel frattempo si era svegliato e che era peggio della censura.

 

“C’è scritto quando sarà la cerimonia? Perché ci voglio venire assolutamente, Calogiuri. Che… che quella precedente stavamo come stavamo e poi… e poi comunque non ci sarei potuta venire, che non ero nessuno per te…”


“Mi sembra impossibile a volte, lo sai, a ripensarci? E dire che… che la paura di non essere più niente per te… ce l’ho avuta pure giusto giusto qualche mese fa, ma… mi sembra tutto così lontano mo.”

 

“Pure a me, Calogiù, pure a me e-”

 

“E comunque la premiazione sarà all’esterno e farà caldissimo e-”


“E non mi interessa, Calogiù: caldissimo o freddissimo che sia, io ci vengo. Non sono mica moribonda.”

 

“Però… prima abbiamo un esame ben più importante a cui pensare. E da lì…”

 

Il groppo in gola mutò perché la cosa che aveva azzittito Calogiuri stava facendo lo stesso effetto su di lei: l’amniocentesi.

 

Mancavano soltanto due giorni ormai. E poi… e poi sarebbero state le tre settimane più lunghe della sua vita. A parte i primi giorni di riposo assoluto.

 

Senza quasi rendersene conto, si trovò a toccarsi la pancia, pregando chiunque potesse ascoltare che andasse tutto bene che… che quel sogno che stavano vivendo non si trasformasse in un incubo. Ci aveva provato a pensare all’inquilina con distacco, come un feto, non come una bambina vera, ma… ma le era sempre più difficile, mano a mano che il tempo passava. E poi l’averla vista muoversi in quel modo….

 

Pensare di dover prendere una decisione, se avesse avuto dei problemi gravi, non… non sapeva in che modo ce l’avrebbe, anzi ce l’avrebbero fatta.

 

Ma non voleva nemmeno condannare una creatura e Calogiuri, che statisticamente le sarebbe quasi sicuramente sopravvissuto, ad una vita di sofferenze ed al pensiero di cosa le sarebbe successo quando anche lui non ci sarebbe stato più.

 

Stai bene… stai bene… mi raccomando, non farmi scherzi! - si ripeté come un mantra, per quanto assolutamente inutile.

 

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L’auto si fermò appena di fronte casa.

 

Spiò l’espressione di lui dal riflesso nel vetro, prima di voltarsi.

 

Sospirò perché sapeva benissimo che in quello sguardo c’era una domanda precisa.

 

“Lo so… ti inviterei anche a salire ma… non so se Bianca è ancora pronta a rivederti e se… insomma, come prenderebbe una nostra frequentazione. In questi anni gliele ho sempre tenute molto distanti.”

 

“Però… potrei anche tornare come un amico di famiglia, no? In modo da dimostrarle che davvero sono tornato e che non me ne andrò via di nuovo così facilmente. E poi… piano piano…”

 

Il primo istinto fu di dire di no, per proteggere Bianca.

 

Ma alla fine più tempo aspettavano e peggio era, perché Bianca sarebbe rimasta ancora più offesa con lui.

 

E poi… e poi a Bianca una figura maschile di riferimento mancava - a parte Calogiuri che aveva altri pensieri ora, giustamente.

 

Se fossero andati con gradualità, magari Bianca lo avrebbe perdonato e poi, dopo un po’, se la loro storia fosse proseguita - e proseguita bene - avrebbero potuto dirle la verità.

 

“Va bene. Ma se ti lasci scappare un solo fiato su noi due…” intimò, puntandogli un dito al petto, “e soprattutto, sappi che non sarà facile farti perdonare. E se provi a mollare-”

 

Si trovò col dito afferrato in una mano calda e premuto sul cuore di lui.

 

“Non mollo più né te, né lei, a meno che non sia tu a chiedermelo. Te lo prometto, Irene. Non… non pensavo avrei mai più provato certe cose e… anche se è da poco che siamo tornati a… a frequentarci, come dici tu, sono sicuro di quello che provo. E che nella mia vita l’ho provato solo con te.”

 

Non rispose, perché lui già lo sapeva: se l’era lasciato scappare, come solo con lui le succedeva, la sera in cui l’aveva perdonato del tutto.

 

Ma adesso doveva rimanere cauta e quindi annuì, liberò la mano ed aprì la portiera, voltandosi per fargli segno di scendere.

 

“Se Bianca chiede ci siamo visti in procura, ok? E comunque non puoi restare fino a tardi, che lei dorme presto.”

 

“Tranquilla, Irene, io-”


“E se dice che non ti vuole vedere, te ne vai e poi torni un’altra volta. Chiaro?”

 

“Irene, lo so com’è Bianca e che… e che è tua figlia. Decidi tu.”

 

“Eh… magari lo fosse anche legalmente…” sospirò, scendendo con lui dall’ascensore all’ultimo piano ed aprendo la porta di casa.

 

“Mamma!”

 

Udire quella parola, quelle due sillabe, era ancora un’emozione incredibile, che la lasciava quasi stordita, ma si abbassò leggermente per abbracciare Bianca, che le era corsa incontro.

 

Un paio di secondi e la sentì diventare quasi di ghiaccio tra le sue braccia, dalle quali si staccò bruscamente, prima di guardare oltre a lei, alle sue spalle, ed esclamare, con un dito puntato peggio del suo ed uno sguardo rabbiosissimo, “cosa ci fai tu qui?”

 

“Bianca, io…”

 

“Bianca niente! Non ti sei più fatto vedere e adesso pensi che puoi tornare così? Non ti voglio più vedere!”

 

Dopo l’urlo degno di lei e forse persino di Imma - la frequentazione con Noemi aveva dato i suoi risultati - Bianca incrociò le braccia e corse verso la sua camera, chiudendosi la porta alle spalle come un’adolescente.

 

Su certe cose stava decisamente crescendo troppo in fretta. Colpa sua.

 

Lorenzo la guardò, mortificato, come a dire e ora che faccio?

 

“Tu hai creato sta situazione e tu la risolvi. Dille qualcosa almeno, anche se attraverso la porta, e poi ci proviamo un’altra volta. Mi raccomando, che se no-”

 

Oltre alla vergogna, lo vedeva che era pure spaventato. Se di perderla o delle altre minacce non lo sapeva, ma la conosceva molto bene.

 

E quindi si avvicinarono alla porta, gli fece segno di aspettare e bussò due volte al legno chiaro, proclamando, quando non rispose nessuno, “Bianca… in realtà è da qualche settimana che Lorenzo è a Roma ma… ma non sapevo se volessi vederlo o no. Ha qualcosa da dirti.”

 

Un cenno come a dire mi sono già presa una parte di colpa, ora parla tu! e lo vide arrivare quasi col viso sull’anta.

 

“Bianca… lo so che sei arrabbiata con me e lo capisco ma… ma sono tornato per restare. Lavorerò qua a Roma e ho preso casa qui. Andrò in Puglia ogni due fine settimana per vedere i miei figli ma… il resto del tempo sarò non troppo lontano da qui. Quindi… se ti va e se mi puoi perdonare… mi piacerebbe tornare a trovare te e… e tua mamma… anche più spesso di prima, se vuoi.”

 

Il modo in cui la voce gli si spezzò su tua mamma per poco non la fece strozzare. Sapeva che lui era perfettamente consapevole di quanto valesse per lei.

 

Anche se legalmente non lo era e forse non lo sarebbe mai stata.

 

“Bianca?” chiese Irene, dopo un altro attimo di silenzio fin troppo prolungato, non che si fosse sentita male - cuffie da tenere a tutto volume non le aveva, perché non le sopportava.

 

“Ci devo pensare. Molto bene.”

 

Un’altra ondata di commozione, anche se le venne da sorridere, soprattutto quando udì in un sussurro, “ha preso proprio tutto da te…”

 

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“Vedrai che andrà tutto bene e-”

 

“E no, Calogiù, mo non farmele tu le promesse che non puoi mantenere. Lo sai pure tu che non lo sappiamo, nessuno lo sa.”

 

Calogiuri le fece gli occhi da cucciolo ferito, abbassò lo sguardo e la stretta sulla sua mano si allentò leggermente. Fu lei ad abbrancarlo ancora più forte.


“Scusa, Calogiù… è che… altro che un fascio di nervi sono! Un intero fienile c’ho in corpo.”

 

Il sorriso di lui però, almeno per un attimo, la calmò.

 

“Vedrai che tra poco sarai fuori. Piuttosto preparati, dottoressa, perché nei prossimi giorni riposo assoluto, lo sai anche tu.”

 

“Insomma… vuoi proprio farmi arrabbiare per non farmi preoccupare, Calogiù?”

 

“Faccio quello che posso, dottoressa…” proclamò lui, nel suo modo da scioglimento totale, prima che li interrompesse l’infermiera che doveva portarla verso la sala dell’esame.

 

“Il padre viene con noi o aspetta? In ogni caso, dovrà fare anche lei un tampone orale ed un prelievo di sangue.”

 

“Vengo con voi. Se mi vuoi…” 

 

“Eh certo che ti voglio!” esclamò, intenerita, perché quando faceva così rivedeva il Calogiuri delle origini, “basta che non mi svieni, però!”

 

Calogiuri divenne rosso come un peperone e sapeva benissimo che il rischio, molto probabilmente, era stato quindi scongiurato.

 

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“Ti fa molto male?”

 

“Calogiù, no, ti ho già detto che non ho sentito quasi niente, tranquillo.”

 

“Eh… ma… secondo me ti hanno trattenuta per troppo poco tempo… mo mica è facile. Se avessi tenuto la carrozzina, almeno.”

 

“Sì, così annunciavo a tutto il condominio la buona novella? Dai, Calogiù, dobbiamo solamente andare in ascensore e poi fino in camera da letto. E se vuoi… mi ci puoi sempre portare in braccio,” gli sussurrò, godendosi il colorito fucsia che gli scese fino al collo.

 

“E poi metti che ti faccio cadere? Sarebbe troppo rischioso per-”

 

“Per la bambina, lo so, lo so!” esclamò, alzando gli occhi fino al soffitto macchiato e vecchio dell’ascensore, nel quale erano finalmente entrati.

 

“Però a casa dal letto non ti muovi. Ho studiato primo soccorso, come sai, e… e so come fare… tutto…”

 

“Senti, Calogiù, certe cose credo sia meglio che rimangano un mistero, non credi?” protestò, perché andava bene tutto, ma non voleva rischiare che lui… perdesse la poesia, per così dire.


“Quando stavo male io, tu mi hai aiutato in tutto e per tutto e ancora qua stiamo, no? E poi ce lo siamo già promesso, Imma, nella buona e nella cattiva sorte.”

 

“Eh… ma se quella cattiva ce la evitiamo, quando si può, mica sarebbe male…”

 

“L’alternativa è che prendiamo una carrozzina da usare in casa, pure se le porte sono strette e-”

 

“E va bene, va bene!” cedette perché, quando Calogiuri faceva così, un mulo in confronto sarebbe stato docile e ragionevole.

 

Si lasciò accompagnare, attaccata a lui, per scaricare meno peso possibile, fino alla stanza da letto e poi-

 

“WEEEEEEEE!”

 

“Pure di questo ti occupi tu, Calogiù?” gli domandò, perché come li aveva visti arrivare, pure se c’era quella santa di Maria, Francesco aveva cominciato a strillare e a proiettarsi verso di lei.

 

“Eh certo. Mo ti distendi, ti aiuto a cambiarti e poi… Maria, può fare uscire un attimo Francesco dalla stanza? Lo vengo a prendere tra poco.”

 

“Certo, signor maresciallo,” rispose la signora, in un modo così militaresco ed ufficiale che si chiese dove l’avesse trovata Irene, a parte in un film tipo quella lagna di Tutti Insieme Appassionatamente.

 

Gli ululati di Francesco si attenuarono solo leggermente quando la porta si chiuse.

 

“Ci faremo odiare da tutti i vicini in questi giorni, lo sai?”

 

“Eh va beh, dottoressa, io da qua non mi muovo, quindi Francesco sarà comunque vicino a te. E poi deve continuare ad abituarsi piano piano a staccarsi da te, almeno per un po’, no?”

 

“Eh piano piano, Calogiù… il problema è quanto piano. Che mi sa che qua il ritmo è peggio del tuo quando ti ho conosciuto.”

 

“Ma poi sono diventato più veloce, no?”

 

“Non su tutto, per fortuna!” rise, strappandogli un bacio mentre lui la aiutava a levarsi i vestiti e a cambiarsi nella camicia da notte.


“Imma… mo per un po’ di giorni…”

 

“Lo so, lo so!” sospirò: quelle settantadue ore non sarebbero passate mai.

 

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“Bianca?”

 

Stavolta alla porta non l’aveva accolta nessuno. Si guardò con Lorenzo, che stava dietro di lei con in mano una vaschetta di gelato.

 

Piano piano arrivarono in salotto e la trovarono che disegnava inginocchiata sul tappeto, appoggiandosi sul tavolino basso vicino ai divani.


“Bianca!”

 

Lei sollevò appena lo sguardo e poi, visto che c’era anche lui, lo riabbassò e continuò a disegnare.

 

“Non ho ancora deciso. Non ci ho pensato abbastanza!” proclamò, mollando il pennarello ed incrociando le braccia.


“Intanto che ci pensi… che ne dici di un gelato? Che Lorenzo è voluto passare dalla tua gelateria preferita, ora che è stagione e non ci congeliamo più.”

 

“Stracciatella, cioccolato e mango, giusto?”

 

“Il gelato lo mangio. Ma solo perché sprecare il cibo non va bene: lo dice sempre anche Imma!”

 

Sì, decisamente la vicinanza con Noemi si stava facendo sentire. Bianca quando si arrabbiava era uno strano misto fra lei stessa ed Imma.

 

Si prospettava un’adolescenza interessante, non c’era che dire, quando ci sarebbero arrivate.

 

Ma meglio così che l’opposto, anzi.

 

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“E basta mo! Dammelo!”

 

“Imma…”


“Imma niente! Sono due giorni ormai… non ce la faccio più. E neanche tu, lo so.”

 

“Non deve starti sulla pancia e tu devi stare distesa. E poi non puoi sollevare pesi.”

 

Sbuffò, tentata di tapparsi le orecchie dagli strepiti di Francesco che continuava a cercare di gattonare verso di lei, mentre Calogiuri lo riafferrava per l’ennesima volta per provare a calmarlo, facendolo saltellare in braccio.

 

Per fortuna, almeno quello, sembrava tranquillizzarlo un poco o, quantomeno, farlo ridere.

 

Erano meravigliosi insieme, quando non rompevano, si intendeva.

 

“Prima ho provato io quanto è bello non poter far niente, mo provi tu, dottoressa,” le fece l’occhiolino Calogiuri, avendole, tanto per cambiare, letto nel pensiero.

 

Voleva rispondergli a tono ma un mezzo conato la bloccò e le venne istintivo sollevarsi, almeno un poco.

 

“Aspetta!”

 

Calogiuri, più premuroso, solerte e veloce di qualsiasi infermiera professionista, lasciò Francesco nel suo lettino, la aiutò a sollevarsi, ma appoggiata su tre cuscini, e poi le portò il suo rimedio antinausea preferito.


“Benedetto lo zenzero e chi lo ha importato in Italia!” esclamò, mettendosene un pezzetto in bocca - e sì che di solito non amava nemmeno quello che davano nei ristoranti giapponesi, che le aveva sempre ricordato il detergente per i pavimenti che usava Porzia - chissà come stava e se finalmente si era decisa ad andare in pensione!

 

“E chi è stato?”

 

“Si pensa gli Arabi, Calogiù, ben prima della nascita di Cristo. Altri dicono Alessandro Magno, ma è più probabile che siano stati i mercanti arabi.”

 

“Ma come fai a sapere sempre tutto?”

 

“Magari sapessi sempre tutto, Calogiù! Tipo mo, vorrei sapere il primo responso di questa benedetta e maledetta amniocentesi. Avevano detto due giorni, no? E mo sono pure passati.”

 

“Sì ma non tutti sono veloci come te, dottoressa,” provò a scherzare lui ma, forse notando quanto lei fosse preoccupata, al di là della nausea che stava gradualmente passando, si trovò con una mano fresca sulla fronte e lui che sospirava un “Imma…” così pieno d’amore che-

 

“Im - ma! Im - ma!”

 

Per un attimo pensò di stare allucinando e di aver sentito male. Ma la mano di Calogiuri si era bloccata e anche lui, come lei, si era voltato verso il lettino e verso due occhi scuri che la guardavano imploranti e un po’ incazzosi.


“Im - ma! Im - ma!” ripeté, chiaro, deciso e sì, sempre più arrabbiato.

 

Ma lei, se ci sentiva benissimo, ormai non ci vedeva più e le venne un singhiozzo, mannaggia pure a lui.

 

Si asciugò gli occhi e notò che anche Calogiuri era commosso e mezzo incredulo, ma poi, divertito, le sussurrò, “la seconda parola come minimo sarà veloce!

 

“Scemo! Anzi, scemi tutti e due!” riuscì ad esclamare, afferrandolo per dargli un rapido bacio prima che recuperasse il piccolotto per riempirlo di coccole.

 

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“Quasi non ci credo!”

 

“Neanche io e la mia schiena. Però… è venuto proprio bene, no?”


“Sì, se quello che hai montato tu resiste e non crolla al primo colpo.”

 

“Mariani!” gli venne spontaneo esclamare, afferrandola per buttarla sul divano che no, non aveva montato lui, mentre lei rideva.

 

Dopo settimane di lavoro serale e di spedizioni dei mobiletti mancanti, finalmente il monolocale aveva preso forma.

 

Non pensava che dei mobili low cost potessero essere così belli, anche se semplici, proprio come lei. Certo, non c’era più lo spazio nemmeno per uno spillo, avevano sfruttato ogni singolo centimetro e per montare le ultime cose Mariani quasi aveva dovuto fare la contorsionista. Per fortuna era così flessibile e-


“Perché arrossisci?” gli domandò, curiosa come sempre, ma non se la sentiva ancora di ammettere con lei quanto quasi tutti i suoi pensieri su di lei, prima o dopo, finissero.

 

Non voleva sembrare il cliché dell’uomo di mezza età con un solo chiodo fisso in testa.

 

“Niente, io…”


“Se stai pensando a come possiamo farli crollare al primo colpo… ci sto pensando anche io…” gli sussurrò, in un modo che altro che rossore, perché la sua immaginazione era già andata oltre.

 

Almeno lei non si vergognava più, se non in alcuni rari momenti.

 

“Chiara…” sospirò di nuovo, divertito, “un giorno di questi finirò all’ospedale e poi finiremo su tutti i giornali.”

 

“Non dirlo neanche per scherzo! Se resisti al Triathlon puoi resistere anche a me!”

 

“Non ne sarei così sicuro…” provò ad ironizzare, prima le labbra di lei lo ammutolissero, ricominciando a mettere a dura prova il suo povero cuore.

 

Forse un giorno avrebbe ceduto, ma intanto era finalmente tornato a vivere.

 

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La vibrazione del cellulare per poco non fece saltare per aria entrambi.

 

“Guarda tu…” gli disse, pure se era il telefono di lei.


“Imma…” sussurrò, intenerito e preoccupato quanto lei, “sei sicura?”

 

“Lo so che… ti ho fatto una testa così quando eri tu in ansia per i risultati dell’esame, ma… non ce la faccio ad aprirlo io.”

 

Prese il telefono dorato e glitterato dal comodino e alla parola Ginecologa sul mittente del messaggio prese un altro colpo pure a lui.

 

Capì che Imma aveva capito, come sempre.

 

“Apri,” gli intimò, con voce traballante quanto le sue dita nel premere la notifica.

 

E sì, c’era un allegato, ma anche tre parole che gli fecero scappare un singhiozzo:

 

Tutto negativo, tranquilla!

 

Percepì subito, dal respiro di lei, che aveva frainteso e, prima che le prendesse un colpo, si affrettò a mostrarle lo schermo. La vide scoppiare a ridere, gli occhi enormi e pieni di lacrime che sembravano non voler scendere, mentre si lasciava andare mollemente sui cuscini.

 

“Però è solo il primo risultato, Calogiuri. Non… non dobbiamo abbassare la guardia, intesi?”

 

“Lo so, dottoressa, lo so. Ma… è già qualcosa, no?”

 

“Più di qualcosa, Calogiù, più di qualcosa. E… e dobbiamo festeggiare…”

 

Una fitta ed il sangue che gli finì dove non doveva finire, perché il tono di Imma era mutato radicalmente dal commosso e serio al divertito e… e a quel tono che lo faceva sempre morire.

 

“Imma…” sospirò: non è che non lo volesse, anzi, ma era proprio impossibile fino allo scadere almeno delle settantadue ore, e pure oltre, “devi restare a riposo assoluto, lo sai, e-”

 

“Io sì. Ma tu no, maresciallo.”

 

“In… in che se-” fece per domandare, ma la testa di Imma non si vedeva più, era scivolata sotto le lenzuola e percepì chiaramente dove fosse finita, insieme alle sue mani.

 

“Imma, no!” provò a protestare, anche se il suo corpo si stava ammutinando - e da un lato gli veniva pure da ridere - ma lei con un, “starò distesa e quasi ferma, promesso! E poi almeno ti stai zitto per un po’, maresciallo, e non continui a scassarmi tutto lo scassabile con le tue raccomandazioni! Ti sistemo io a te!” lo fece cedere definitivamente, prima ad una risata e poi ad un urlo che trattenne soltanto mettendosi il cuscino di Imma sulla faccia.

 

Ci mancava solo di svegliare Francesco, mo che finalmente dormiva nel suo lettuccio e-

 

E poi, come sempre gli succedeva con lei, gli toccò sventolare bandiera bianca, anzi rossa, rossissima, e non ci capì proprio più niente.

 

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“Senti… lo so che non sei mai stata al cinema ma… è uscito un film di quei personaggi che ti piacciono tanto e… ho trovato un cinema tranquillo che lo proietta, non ci sarà tanta gente. E magari a te e a tua mamma andava di venirci.”

 

Quando le aveva detto che non avrebbe mollato, Lorenzo lo intendeva proprio alla lettera, le toccava riconoscerlo: pure se Bianca non lo aveva ufficialmente perdonato e faceva ancora l’offesa con lui, stava praticamente andando da loro tutti i giorni, con una scusa o con un’altra.

 

Ed adesso le aveva sorprese entrambe con i biglietti per vedere l’ennesimo sequel di quel film con i pupazzoni gialli che piacevano tanto a Bianca. Passione presa da Noemi, ovviamente.

 

A lei, a parte i primissimi, che tutto sommato avevano pure un significato per nulla banale, parevano film molto mediocri, fatti giusto per incassare e spremere ulteriormente il franchise e le tasche dei genitori che avrebbero dovuto comprarne il merchandising.

 

Ma portare Bianca al cinema sarebbe stata davvero un’impresa epocale, tra la sua paura delle folle e quella dei luoghi bui e chiusi.

 

Bianca la guardò, indecisa sul da farsi, e lei la rassicurò con un, “devi vedere tu se te la senti o no. Se non te la senti, non importa: sarà per un’altra volta e ce lo vedremo quando esce su piattaforma.”

 

“Io… io… va bene. Però voglio i pop corn e la bibita, come nei film. E poi dovete starmi vicini, soprattutto tu, mamma. E se ho paura usciamo subito, va bene?”

 

“Va bene, va bene,” le venne da sorridere, perché sì, la genetica proprio contava poco o niente - non che la madre biologica non fosse una donna forte, anzi, negli anni lo era stata, fin troppo, pagandolo con la vita.

 

Sperava solo che Bianca prendesse più da lei e dalla sua diplomazia, magari non agli eccessi, che da Noemi ed Imma perché se no… c’era da mettersi le mani tra i capelli, specie in vista della scuola in presenza.

 

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“Dove pensi di andare, dottoressa?”

 

“Sono passate le settantadue ore, Calogiuri, e vorrei finalmente andarmene in bagno per conto mio e farmi una doccia, che ne ho proprio bisogno.”

 

“Ma… non è che c’è da contare le settantadue ore con il cronometro. Insomma, magari è ancora pericoloso, puoi startene qua tranquilla almeno fino a domani, no? Poi proprio la doccia? Puoi ancora lavarti a pezzi e-”

 

“E non ce la faccio più a stare distesa, Calogiuri, va bene? La mia circolazione qua sta andando a farsi benedire. Non farò grandi sforzi, ma almeno una doccia e cenare al tavolo e non a letto lo potrò fare o no?”

 

“Va bene… va bene… però prima la cena. Così vediamo come va. La doccia la facciamo prima di andare dormire, se non succede niente, va bene?”

 

Imma sollevò gli occhi al soffitto e contò fino a dieci, ma pure fino a cento, perché stava per esplodere davvero.

 

Nemmeno le maniere forti erano bastate a farlo stare un po’ tranquillo.

 

Si avviò, con lui che la seguiva manco fossero in processione e lei fosse la statua della madonna, fino alla cucina e si sedette su uno degli sgabelli, lanciandogli uno sguardo come a sfidarlo a protestare.

 

Lui non disse niente e le servì il piatto di pasta al pomodoro col basilico, rigorosamente cotti entrambi.

 

Mangiarono in silenzio, anche perché doveva farsi passare il nervoso, mentre con gli occhi lo intimava a non azzardarsi a dire nemmeno un’altra parola, una sola.

 

“Im-ma, Im-ma!”

 

Qualcosa alle caviglie e non era Ottavia, no, era Francesco, che aveva gattonato fino a lì e gesticolava per farsi prendere in braccio.

 

Fece per abbassarsi ma Calogiuri con un “aspetta!” la bloccò e si chinò, afferrandolo prima che potesse farlo lei, “non devi sollevare pesi e poi quando mangi lo sai che devi stare tranquilla, che se no le nausee peggiorano e-”

 

Sbatté di proposito il bicchiere sul tavolo e si alzò in piedi, urlando un “basta!” così forte che si zittirono sia Calogiuri, che Francesco, che Ottavia.

 

“Basta! Basta! Basta! Non ne posso più, Calogiuri! Capisco che sei preoccupato, ma il limite è stato abbondantemente superato e pure da mo. Quindi, o mi lasci un poco respirare, o giuro che ti mollo qua e altro che matrimonio! Un ordine restrittivo ti mando, se continui così!”

 

Lo vide chiaramente deglutire una, due, tre volte, bianco come un cencio, e poi diventare dello stesso colore del sugo, mentre annuiva.


“Hai… hai ragione, scusami. Ho esagerato, lo so, ma è che… è che ho così tanta paura che succeda qualcosa, non solo alla piccoletta, ma a te, soprattutto, e-”

 

“E lo so, Calogiuri. Ma che pensi, che pure io non c’abbia paura, eh? Hai visto come stavo messa per i risultati di questo maledetto test. Ma non posso passare cinque mesi a letto, mo, non esiste proprio. E dobbiamo pensare pure ad altro, o diventiamo matti qua, soprattutto nelle prossime due settimane e mezzo. Sia io che te.”

 

“Va bene… va bene… hai ragione, come quasi sempre, dottoressa,” ammise lui, sollevando le mani come a segnalare, anche fisicamente, che si arrendeva, “però Francesco è davvero troppo pesante. Va bene tenerlo in braccio ma sollevarlo no, soprattutto da terra. Me lo prometti?”

 

“Ma come faccio? Che me lo devi sempre passare tu? Che già c’ha i traumi dell’abbandono e-”

 

“No, aspetta, ho un’idea!” esclamò lui, andando verso l’ingresso dove lasciavano la maggior parte delle cose di Francesco quando non le usavano.

 

Ne tornò con un tappeto spesso e morbido, dove lui giocava.


“Puoi stare seduta qua, no?” le disse, mettendolo per terra ed aiutandola ad accomodarcisi, “così giocate e giochiamo tutto il tempo che vuoi.”

 

“Io a giocare non son buona, Calogiuri, non ai giochi per bambini, almeno.”

 

“Eh va beh… c’è sempre la storia del giovane soldato, che voglio proprio sapere come va a finire.”

 

“Che per ora non viene bandito dal regno dalla giudice. Per ora, Calogiuri.”

 

“Messaggio ricevuto, vostro onore.”

 

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“Vieni… vuoi che?”

 

“Tieni pure le luci spente… tanto ormai, dai tempi di Francesco, in questa casa mi so muovere al buio a memoria.”

 

“Non fossi un capitano dei carabinieri, non sarebbe una dichiarazione molto rassicurante, lo sai, vero?”

 

Lo vide sorridere, anche nella penombra.


“Lo so…” sussurrò, vicino al suo orecchio, scatenandole un brivido che avrebbero dovuto contenere, anche se Bianca, nelle braccia di Lorenzo, era profondamente addormentata.

 

Non solo erano riusciti a vedere tutto il film e lei si era mangiata quegli schifosissimi ed untissimi pop corn del cinema, che facevano alzare il colesterolo solo a guardarli.

 

Ma erano anche andati a cena in un fast food. Era la prima volta che ci portava Bianca e sperava vivamente che non diventasse un’abitudine, anzi, ma vederla a suo agio a mangiare hamburger e patatine ed a scartare il suo giocattolino orrendo di plastica - sempre a tema di quei cosi gialli - non aveva prezzo.

 

Alla fine, forse per le tante emozioni, forse per i quintali di sodio e glucosio assunti, si era addormentata sull’auto di Lorenzo, mentre stavano rientrando.

 

E quindi lui si era offerto di portarla in braccio a letto, che per lei era veramente troppo pesante.

 

“Però… spero che… spero che di me ti fidi. Almeno un po’ di più di prima.”

 

Il tono di Lorenzo, quasi timido - rarissimo per lui - la riportò alla realtà.

 

“Diciamo che… te la stai cavando bene, capitano. Ma che tu sia bravo a conquistare lo sapevo già. L’importante qua è mantenere nel tempo.”

 

“E lo farò. Te lo prometto,” ribadì lui, decisissimo, poco prima che lei gli aprisse la porta della stanza di Bianca e lui l’appoggiasse, delicato come sul lavoro non poteva mai essere, sopra al letto.

 

Si guardarono per un attimo, indecisi sul da farsi ma… per certe cose, almeno in quella casa, era troppo troppo presto. Non potevano permettersi di farsi beccare da Bianca: le mancava solo quel trauma.

 

“Allora… allora io vado… così la metti a letto con calma. Ci sentiamo domani, se ti va.”

 

Annuì e lui fece per sollevarsi dal letto ma un “aspetta…” assonnato li bloccò entrambi.

 

Bianca.

 

Aveva afferrato il polso di Lorenzo, vicino all’orologio, e guardava tutti e due con occhi mezzi chiusi.

 

“Ci andiamo di nuovo al cinema… vero? Tutti insieme!”

 

Le venne da sorridere e da commuoversi. Non solo perché era un chiaro segnale di pace e di distensione, ma perché significava così tante cose che le esplodeva il petto al solo pensarle.

 

“Se la mamma è d’accordo… quando vuoi, al prossimo film che vorrai vedere.”

 

“Ma io voglio rivedere questo! Almeno un’altra volta!”

 

Sospirò: piuttosto avrebbe preferito ventiquattro ore in tribunale che un’altra ora e mezza di quella noia. Ma vedere Bianca felice, quello era sempre uno spettacolo bellissimo.

 

“Va bene, se Lorenzo è disposto, va bene.”


“Il prossimo weekend non posso perché devo stare a Bari ma, visto che è estate, se mamma vuole ci andiamo in settimana una sera, allo spettacolo presto.”

 

“Va bene… vedrò che posso fare con la procura.”

 

Il “sì!” felice di Bianca e l’abbraccio che le diede, la ripagarono di tutte le maledizioni che avrebbe invocato contro ai cosi gialli e finanche del mal di stomaco che i conservanti di quella specie di carne, pane e salse le avrebbero indubbiamente provocato quella notte.

 

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“Capitano Calogiuri, Ippazio!”

 

Le girò per un attimo la testa dall’emozione quando vide il suo Calogiuri, tutto bardato in uniforme - gli stava da dio, avrebbe dovuto decisamente convincerlo ad indossarla più spesso e in ben altre occasioni! - staccarsi dalla linea perfetta di ufficiali, appena graduati di fresco, e raggiungere, a passo marziale d’ordinanza, il palco delle autorità presenti, mettendosi sugli attenti, deciso e fiero.

 

Ringraziò di essere seduta, insieme agli altri parenti e consorti invitati alla cerimonia, perché, oltre al capogiro, gli occhi per un attimo le si appannarono di nuovo - maledettissimi ormoni!

 

Si affrettò ad asciugarli: non voleva perdersi neanche un secondo di quella cerimonia, né una singola espressione di lui, per quanto dovessero essere contenute.

 

“Assegnamo una medaglia ed una menzione d’onore al capitano Calogiuri, che ha riportato il punteggio più alto tra tutti i partecipanti a questo corso. Capitano…”

 

Dovette tapparsi la bocca per non produrre un solo suono: da un lato se lo aspettava, dall’altro questo riconoscimento non era stato anticipato ufficialmente.

 

Calogiuri rimase dritto come un fuso di fronte al generale, che gli stava appuntando la medaglia al petto, per poi consegnargli una pergamena arrotolata.


E, se non aveva visto male, era lo stesso generale che, in teoria, avrebbe dovuto condurre l’inchiesta disciplinare su di lui.

 

Come si era ribaltato di nuovo il mondo in pochi mesi!

 

Quando il generale disse “comodo, Calogiuri, comodo!” e poi un altro alto ufficiale proclamò conclusa la cerimonia, incontrò immediatamente due occhi azzurri, che si erano puntati dritti dritti su di lei, ed un sorriso più abbagliante del sole di fine luglio.

 

Mannaggia a lui, mannaggia!

 

Col cuore in gola, si alzò piano piano dalla sedia, rimettendo a posto l’abito estivo leopardato e molto ampio che aveva scelto per l’occasione, per assicurarsi che la pancia, che cominciava decisamente a sporgere, fosse il più mascherata possibile.

 

Fece in tempo soltanto a fare qualche passo, perché lui la raggiunse, veloce come non era mai stato, e si trovò stretta in un abbraccio fortissimo, che però non toccava minimamente l’addome.

 

Calogiuri!

 

Si staccò dopo non molto, conscia del protocollo dell’Arma, ma si trovò con le labbra su quelle di lui, in un bacio breve e dolcissimo: non avrebbe saputo dire se avesse ceduto prima lui o lei.

 

“Ehm… ehm…”

 

Due colpi di tosse misero fine bruscamente a quel contatto e lei si voltò, esasperata, verso il tizio in uniforme che li aveva interrotti, esclamando, “capisco il protocollo, ma è una festa, un bacetto e-”

 

“Tranquilla, dottoressa, tranquilla. Comprendo benissimo che sia un’occasione da festeggiare. Volevo però parlarvi, ma non posso trattenermi a lungo: ho un’altra cerimonia tra un paio d’ore, a Frosinone, e quindi tra poco devo congedarmi.”

 

Era il generale, sempre lui.

 

Scambiò un’occhiata con Calogiuri, stupita ed un poco preoccupata, mentre lui si rimetteva sull’attenti ed il generale lo faceva ritornare in una posizione umana con un altro “riposo, riposo!”

 

Si chiese cosa volesse da loro mo.

 

“Volevo dirle, capitano, che so benissimo che sicuramente sarà già molto richiesto. Ma, tra qualche mese, si libererà un posto nella mia procura, se possiamo definirla così, dato che non ci lavoro direttamente.”

 

“E quale sarebbe la sua procura?” domandò Imma, curiosa.


“Torino. Un bel posto, di prestigio e poi la città è molto bella e vivibile. Spero che vorrà considerarla, capitano, può essere una bella occasione per lei, di crescita. Ci sono parecchie nuove leve promettenti ed il comandante attuale della PG sarebbe sicuramente più tranquillo, sapendo di lasciarle nelle sue mani. Gli ho già parlato di lei prima di venire qui, sia a lui, che al procuratore capo, che al prefetto. E sarebbero molto lieti di averla come nuovo comandante.”

 

Vide il sorriso un poco sbigottito di Calogiuri e fu un doppio tuffo al cuore. A Roma c’erano diversi marescialli ma non un vero e proprio capo tra di loro. Sarebbe stato un ulteriore avanzamento di carriera per lui, in una delle procure più grandi di Italia.

 

“Vi ringrazio molto, signor generale. Ci… ci penseremo: come immaginerà, dobbiamo coordinarci con i trasferimenti io e la dottoressa.”

 

“Ma naturalmente, capitano, c’è ancora qualche mese prima che si apriranno ufficialmente le richieste di trasferimento verso la nostra procura. Ancora congratulazioni, e non solo per il nuovo titolo, ed anche a lei, dottoressa. Siete sulla bocca di tutti con il vostro lavoro.”

 

“Eh… almeno per una volta in positivo e non in negativo, signor generale,” si schernì, perché era l’unica reazione possibile ai complimenti.

 

“In questo paese chi vuole cambiare le cose è spesso ostracizzato. Ma a volte, per fortuna, chi la dura la vince. Capitano, dottoressa, mi auguro di rivedervi presto!”

 

E così, con un cenno al cappello, il generale si congedò da loro.

 

“O lì o a Milano devi accettare, devi, è un ordine, capitano!” gli intimò, non appena il generale si allontanò e non ci furono in giro orecchie indiscrete.

 

“Ma Torino è ancora più lontano di Milano e-”

 

“E sono entrambe città coperte benissimo dalle ferrovie dello stato, Calogiuri: saremmo comunque a poche ore da Roma. Uno di noi potrebbe stare a Milano e l’altro a Torino, soltanto come procura, naturalmente: dovremo decidere in quale delle due città vivere. Potrei farmi fare l’abbonamento all’alta velocità e ci metterei meno tempo a rincasare ed andare al lavoro che a spostarmi su Monza in auto da Milano, col traffico che c’è.”

 

“Vediamo, dottoressa, vediamo.”


“Vediamo, niente, Calogiuri! Sono due tra le procure principali d’Italia: non voglio sentire storie! Ti meriti una carriera brillante e a Matera non la potresti fare, lo sai.”

 

“Imma…” sospirò lui, sorridendole un poco esasperato e scuotendo il capo, prima di pronunciare, in un tono bassissimo, “e comunque… va bene pensare alla carriera, che ci penso pure io, eh, ma in questo momento… vorrei potermi godere anche altro, anzi altre.”

 

“E chi sarebbero queste altre, Calogiuri?” gli domandò, fintamente arrabbiata, incrociando le braccia al petto.


“Le uniche che non solo mi posso godere, ma che soprattutto mi voglio godere, e senza rischiare la vita,” ironizzò lui, non perdendo un colpo, e percepì nettamente le dita di lui sulla pancia, in una carezza dolcissima, prima di essere trascinata in un altro rapidissimo e castissimo bacio.

 

“Sarà meglio!”

 

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“Calogiuri!”

 

Le venne spontaneo chiamarlo, pure se erano appena rientrati dalla cerimonia e lui si stava cambiando - non come avrebbe voluto cambiarlo lei, che l’uniforme almeno per qualche tempo ancora si doveva salvare e non ne avevano una in più - perché sul suo cellulare era di nuovo spuntata quella parola.

 

Ginecologa

 

“Che succede? C’è qualche problema? Non ti senti bene?”

 

Per una volta, la sfilza di domande, fatte con sguardo preoccupato, non la fece arrabbiare, anche perché si trovò riflessa nel cellulare, avvedendosi di avere lei stessa un’espressione che faceva presumere il peggio.

 

“Sto bene… sto bene, tranquillo. Ma…” lasciò morire la frase, passandogli il telefono, perché le parole faticavano ad uscire.

 

“Ma sono passate tre settimane…” capì e si trovò presa a braccetto ed accompagnata sul divano, come faceva lui una volta quando andavano in giro con lei in tacchi vertiginosi - che mo si doveva proprio scordare - per le campagne o le viuzze materane, a grande rischio di caduta.

 

“Pure più di tre settimane, Calogiuri. Ma proprio oggi dovevano uscire sti risultati? Che è un giorno di festa e-”

 

“E magari lo sarà pure di più, no? Che così… ci togliamo pure il pensiero…”

 

Si sforzò di sorridere, perché apprezzava tantissimo l’impegno di lui nel farla pensare positivo, anzi, negativo in questo caso. Ma… ma temeva tantissimo lo scenario in cui sì, si sarebbero levati quel pensiero, per carità, ma sarebbero poi stati travolti da altri, ben peggiori.

 

“Vuoi che apro io?” le domandò di nuovo, stringendole forte la mano, e si obbligò a sollevare gli occhi per incrociare quelli di lui ed annuire.

 

Un’altra stretta e Calogiuri, con la mano libera, smanettò per un attimo sul cellulare e poi-

 

E poi il sorriso, il suo sorriso che da sempre era per lei la cosa più bella del mondo, ma in quel momento… lo era ancora di più.

 

Con la vista che già tremolava, riuscì a leggere lo schermo che le venne rivolto e che riportava semplicemente:

 

Tutto negativo, nessuna anomalia riscontrata. Ci vediamo per il controllo di routine tra una settimana.

 

Prese il cellulare, lo buttò sul divano e si abbarbicò a Calogiuri in un abbraccio, finendogli praticamente in grembo.

 

“Imma…” lo sentì sussurrare, anche mentre, con delicatezza, allontanava leggermente l’addome dal suo, ormai decisamente più tondo.

 

Sbuffò: Calogiuri era Calogiuri e non sarebbe cambiato mai. Ma era bello anche per quelle premure silenziose, quando non esagerava.

 

“Il corso, la medaglia, l’amniocentesi, direi che dobbiamo proprio festeggiare, no? Che Francesco dorme pure…”

 

“Imma…” ripeté lui, sorridendole in quel modo esasperato ma… c’era anche quella lucetta negli occhi che le faceva capire che, forse, finalmente il risultato di sto benedetto esame un poco lo aveva tranquillizzato. Anche su certe cose che a lei stavano mancando moltissimo.

 

Non perse tempo ad afferrargli il viso per travolgerlo con un bacio, poi gli spinse la schiena contro lo schienale del divano e si staccò per levargli la maglietta.


“Dottoressa…” sussurrò lui, chiaramente divertito dalla sua foga, bloccandole per un attimo il viso per darle l’ennesimo bacio e poi scendere con un paio di morsetti sulla mandibola, sul collo e-

 

“Mare-” le venne spontaneo esclamare, ma si bloccò, si guardarono e venne da ridere ad entrambi, finché lui si riprese e riprese pure con le torture.

 

“Calogiù… Calogiù… che mo devo pure ricordarmi di chiamarti capita-”

 

Un’immagine mentale orrenda la travolse e proprio nel momento peggiore - almeno per quel genere di immagini.

 

“Che c’è? Ti ho fatto male?” le domandò, spaventato, staccandosi un poco da lei, abbastanza da rimettere a fuoco il suo sguardo.

 

Sicuramente aveva notato il suo irrigidirsi.


“No, Calogiuri, è che… a pronunciare ad alta voce la parola capitano… mi è venuto in mente un altro pseudo capitano - e non quello dei bastoncini di pesce. E… in certi momenti… è persino peggio che pensare a Lamacchia o a Capozza.”

 

La preoccupazione di Calogiuri si tramutò in sbigottimento e poi scoppiò a ridere.

 

“Ma perché? Tu in certi momenti a loro pensi? Che mi devo preoccupare?” le chiese, continuando a ridere.


“Magari ci avrei dovuto pensare di più quando avevo certe voglie e tu mi lasciavi in carestia, Calogiuri, almeno ogni istinto sarebbe morto sul nascere proprio!"

 

“Sei tremenda!”

 

“Ma io mo devo trovarti un altro soprannome, Calogiù! A parte Calogiù, si intende. Signor ufficiale è un po’ troppo lungo, però, soprattutto in certi momenti. Anche se, in effetti, tu sei sia ufficiale che gentiluomo, mannaggia a te! Altro che Richard Gere!"

 

“Ah, sì. Non ho molto presente quel film, ma ricordo che piaceva molto a mia madre e-”

 

“Ecco, magari puoi evitare di nominare pure a lei, Calogiuri? Che è il contraccettivo migliore del mondo, non so se prima o dopo a Lamacchia, e a Capozza, e a quell’altro? Anche se qua, effettivamente, per la contraccezione è un poco tardi.”

 

“Ma come devo fare con te?” sospirò lui, scuotendo il capo, “e comunque puoi chiamarmi come ti pare a te, dottoressa, ma-"

 

“Ma nel frattempo che ci penso…”

 

“Ma nel frattempo che ci pensi, ti prometto che cercherò di farmi promuovere al grado successivo il più in fretta possibile, va bene?”

 

“Che poi… maggiore sarebbe anche più veritiero come soprannome, tenendo in considerazione le tue... doti,” sibilò, godendosi il colorito paonazzo di Calogiuri e la sequela di colpi di tosse.

 

“Guarda che, se vai avanti così, si sveglia Francesco e addio ai festeggiamenti…”

 

“Fossi matto!”

 

Un fruscio sulle gambe, poi sulla pancia ed il vestito sparì sopra la sua testa, letteralmente in un battito di ciglia.

 

“Mo sì che ti riconosco, Calogiuri, e-”

 

Due labbra la ammutolirono, prima letteralmente e poi con quello che stavano combinando su di lei, il calore che saliva, saliva, insieme all’elettricità ed a una strana… vibrazione?

 

Per un attimo pensò che Calogiuri fosse del tutto impazzito e fosse entrato in uno di quei negozietti che affollavano certe zone della città, riuscendo pure a non morirne di vergogna.

 

Ma, quando la vibrazione continuò, e continuò, e lui si staccò leggermente e sussurrò, “il cellulare, il tuo…” tutto ebbe più senso.

 

“E lascialo vibrare, Calogiuri, tanto… fastidio non ce ne dà, no?”

 

“Insomma… che ci sono praticamente seduto sopra e-”

 

“E te ne lamenti pure?” gli domandò, guadagnandosi quello che era praticamente un rantolio ed il modo in cui l’intero corpo di Calogiuri divenne una fragola.

 

“Imma…” sibilò lui, “non… e poi metti che è la dottoressa!”

 

Sospirò, perché sì, effettivamente era possibile, anzi, pure plausibile - magari aveva qualcosa da aggiungere rispetto al breve messaggio di rassicurazione, e quella era una telefonata che non poteva ignorare.

 

E quindi, anche se a malincuore, scese dalle gambe di lui, in modo da consentirgli di sollevarsi quanto bastava per recuperare il telefono, che continuava a vibrare in modo compulsivo.


Ammazza se era insistente, la dottoressa o chiunque altro fosse!

 

Valentina

 

“E mo che succede?” esclamò, frustrata, mentre Calogiuri le rivolgeva uno sguardo interrogativo e lei rispondeva con un, “Valentina. I De Ruggeri sono esperti in interruzioni. Eccolo qua il migliore contraccettivo! Che, nonostante tutto, non è bastato a farmi desistere dal riprovarci di nuovo, mannaggia a me!”

 

La risata di Calogiuri fu l’ultima cosa che sentì, prima di accettare la chiamata e pronunciare un “Valentì?” si sperava il più possibile neutro, visto quello che stavano facendo fino a pochi minuti addietro.

 

“CHE COS’È STA STORIA CHE SEI INCINTA?”

 

Dovette staccare un poco l’apparecchio dall’orecchio per il dolore al timpano, mentre un altro dolore, assai più profondo, si unì al panico.

 

Come lo sapeva? Come lo sapeva? Porca miseria, come lo sapeva?!

 

Dagli occhi terrorizzati di Calogiuri capì che, per merito della voce sobria di sua figlia, il vivavoce non era necessario.

 

“DIMMI CHE NON SONO L’ULTIMA A SAPERLO!” strillò di nuovo Valentina, facendo gracchiare il cellulare talmente era forte, avendo interpretato - correttamente peraltro - il suo silenzio come assenso.

 

“Ma… ma come…” le riuscì solo di balbettare, nel panico più totale.

 

“Ma allora è vero???!!!”

 

All’ennesimo grido, fu come se qualcosa in lei si scuotesse, forse per salvare i timpani, forse per preservare il cellulare, ma lo riprese in mano e gridò nel microfono, “ma si può sapere chi te lo ha detto?”

 

“Un sito di gossip! Anzi, le mie compagne di università che c’erano oggi all’esame, che lo hanno letto da un sito di gossip! Ma ti rendi conto che-”


“Valentì, Valenti, VALENTÌ!” urlò alla fine, per bloccarla nel suo, comprensibile, sfogo sull’esserne stata informata in quel modo, l’umiliazione, l’imbarazzo e tutto il resto appresso.

 

“Valentì, capisco come ti senti, ma non so come quel sito lo abbia saputo. Stavo aspettando i risultati dell’amniocentesi per dirtelo, per non darti illusioni prima di essere sicura di… di non dover interrompere questa gravidanza,” pronunciò e le vennero i brividi soltanto a dirlo.

 

“E quando sarebbero arrivati questi risultati, eh?! Almeno prima del parto lo avrei saputo?!”

 

“Mi sono arrivati poco fa, in realtà, e-”

 

“MA MI PRENDI PER SCEMA? MA SECONDO TE CI CREDO E-”

 

“VALENTÌ! E basta mo! Ti mando il referto, se non ci credi, e pure il messaggio della ginecologa di poco fa! Mi dispiace che tu lo abbia saputo così, veramente, ma non so come i giornali-”

 

“C’era una foto, mamma! Una foto tua e di Calogiuri alla cerimonia. Con lui che ti tiene la pancia e… o ti sei mangiata il cenone, e il pranzo di natale, e pure quello di capodanno e di pasqua tutti insieme, o si vede che sei incinta! Poi tu, che sei così magra, è chiaro che si nota subito!”

 

Sospirò, perché non poteva credere che fossero arrivati a tanto, e si scambiò un’occhiata preoccupata con Calogiuri.

 

Era evidente che gli scagnozzi di Coraini e compagnia bella li tenevano ancora d’occhio, nonostante tutte le precauzioni per essere poco prevedibili nei movimenti, nonostante fossero stati quasi murati in casa nell’ultimo periodo.

 

“Senti, Valentì, perché non vieni qua che ne parliamo faccia a faccia e ti racconto tutto? E comunque sappi che mi dispiace tantissimo. A parte Calogiuri, avrei voluto che fossi la prima a saperlo e-”

 

“E chi altro lo sapeva? Che mo lo sanno tutti!”


“Oltre alla ginecologa e a Calogiuri? Diana, Chiara Latronico ed Irene.”

 

“Cioè la gattamorta lo ha saputo prima di me?! Ma stai scherzando, spero, e-”

 

“Solo perché lo ha capito da sola, da quanto Calogiuri era ed è apprensivo. E lo stesso per Diana e Chiara, quelle… quelle c’hanno il fiuto: una è pure un medico e l’altra lo sai che è il Gazzettino di Matera o no? E poi mi conosce da una vita. Ma avrei voluto che la prima fossi tu. Mi credi?”

 

“Se provi a muoverti da lì sei morta!” fu l’unica risposta e la comunicazione si interruppe.

 

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“Dov’è?!”

 

“Buon pomeriggio anche a te, Valentì. E direi che la storia delle api e dei fiori la dovresti conoscere di già, no?”

 

Non era riuscita a trattenersi: capiva perché sua figlia fosse così incazzosa ma, quando le piombava in casa con quel tono e quell’atteggiamento, la riportava dritta dritta alla sua terribile adolescenza.

 

E poi, con tutto il bene, ma che domanda era?

 

“Sai cosa voglio dire, mamma! Voglio vedere la pancia!”

 

Espirò profondamente, cercando di mantenere la calma e lanciando uno sguardo a Calogiuri. Lui se ne stava vicino al divano, con l’aria di chi avrebbe voluto essere ovunque tranne che lì. E come dargli torto, visto che pure per lei era la stessa cosa quando Valentina faceva così?

 

Si avvicinò anche lei al divano e ci si sedette.

 

Calogiuri invece rimase in piedi e fece cenno a Valentina di accomodarsi lei per prima, cosa che Imma notò ed apprezzò molto.

 

Valentina sbuffò - e sì, era proprio tornata i tempi dei sedici anni, anche se mo con buone ragioni - e si piazzò sull’altro capo del divano con le braccia incrociate e l’espressione da allora?!

 

Sollevò il vestito che per fortuna aveva avuto il tempo necessario per rimettersi - così come Calogiuri i suoi pantaloncini e la sua maglietta - e sì, la pancia cominciava ad essere sempre più tonda e soprattutto dalla forma inconfondibilmente da gravidanza.

 

“E l’amniocentesi? La voglio vedere!”

 

“Grazie e per favore ovviamente non li contempliamo minimamente, eh?” sospirò, ma prese lo stesso il cellulare e mostrò a Valentina il messaggio della dottoressa, “se vuoi puoi anche leggere il referto, ma è tutta roba tecnica.”

 

Incurante dell’avvertimento e più San Tommaso di lei - e ce ne voleva! - Valentina si impossessò del telefono, cliccò sull’allegato in pdf e cominciò a consultarlo, “ma allora non  era una palla che i risultati sono appena arrivati… però potevi anche dirmelo prima: non sono una bambina e lo so che… che alla tua età le gravidanze sono a rischio.”

 

“Lo so ma…” provò a ribattere, ma Valentina stava continuando a leggere il referto, finché per poco il telefono non le cascò di mano e la guardò, con gli occhi spalancati.


“Ma… ma… ma è una bambina?”

 

“Sì,” confermò, avvertendo la mano di Calogiuri sulla spalla e voltandosi per spiarlo giusto per un secondo.

 

Era orgoglioso, orgogliosissimo, che manco il senso di conservazione nei confronti degli scleri di Valentina poteva nulla al confronto.

 

Però, in realtà, niente più scleri: si era ammutolita e la guardava in un modo strano.

 

“Ti… ti dispiace? Preferivi un maschio, che siamo quasi tutte femmine in famiglia?”

 

Valentina scosse il capo e proclamò, “no… è che.. mi fa un po’ strano ma… basta che non mi fate fare da baby sitter, poi maschio, femmina, due gemelli, va bene tutto, tanto sono problemi vostri.”

 

Le venne da alzare gli occhi al soffitto e per una volta non per i patemi d’animo di Calogiuri, di cui anzi incontrò lo sguardo divertito e che era un ha preso da te, dottoressa! Pensa se viene così anche questa!

 

Il fatto che ne fosse compiaciuto e non spaventato faceva capire esattamente quanto fosse potente la droga chiamata amore e quanto fosse andato del tutto Calogiuri.

 

“Però… mi auguro che, quando sarà adolescente, sarai un poco più elastica che con me. E che soprattutto impari a dirle subito le cose, e non a fargliele scoprire da sola, facendola sentire considerata come una scema!”

 

L’ennesimo sospiro: altro che il ponte di Venezia!

 

“Va bene, va bene, messaggio ricevuto, Valentì. Non lo farò più, almeno con te, che ormai sei adulta. Con lei… prima di pensare all’adolescenza, c’è da sperare intanto che la gravidanza prosegua bene.”
 

“Ma gli esami erano a posto, no?”

 

“Sì, ma possono escludere solamente i problemi genetici principali. E poi… e poi comunque c’è da portare a termine la gravidanza. Sono appena a metà, praticamente.”

 

Valentina deglutì un paio di volte, ma non commentò e poi abbassò lo sguardo a fissarle la pancia, con un’altra espressione strana.

 

“Posso?” fece segno come a toccarla ed Imma ne fu stupita ma annuì, anche perché la voce, se le fosse uscita, sarebbe stata ridotta a un pigolio e mica poteva mostrarsi così, eh no!

 

Subito Calogiuri si raccomandò, sebbene in modo più timido di come facesse con lei, “piano però, la dottoressa ha detto di evitare pressioni forti sulla pancia, oltre che emozioni forti…” e stavolta gli occhi alzati furono di nuovo solo per lui ed esclamò, “Calogiù! Ma lo vedi con chi ho a che fare, Valentì? Secondo te come potevo nascondere questa gravidanza in modo credibile a tutti?”

 

“Se riesce a farti stare a riposo e un po’ calma, ha tutta la mia ammirazione. Ma come fai?” domandò, prima di aggiungere, con il solito tono e sguardo mezzo schifati, “anzi, no, forse non lo voglio sapere.”

 

“In realtà per quello… abbiamo dovuto ridurre drasticamente Valentì, quindi… pensa a te e a Penelope, va!”

 

Valentina arrossì ma poi recuperò la faccia da schiaffi, anche se solo per qualche secondo, perché la vide con le dita tremolanti mentre le allungava verso la sua pelle.

 

Fu strano sentire quei polpastrelli freddi - sicuramente anche per l’emozione - sulla pelle già un po’ tesa. Fino ad allora soltanto Calogiuri le aveva toccato la pancia nuda, a parte la ginecologa, che però era guantata.

 

“Si è mai… insomma… si muove già?”

 

“No… cioè per ora si muove molto, ma io non la sento ancora. Però dovremmo quasi esserci, sperando che non sia una calciatrice provetta come qualcun’altra.”

 

“E va beh, mamma, pensa che mi sono dovuta sopportare la tua voce a due passi dalle orecchie per nove mesi… in qualche modo mi sarò anche dovuta sfogare.”

 

“Sì, e poi io la tua di voce l’ho dovuta sopportare per diciannove anni buoni, almeno, tutti i giorni, e ancora la sopporto.”

 

Valentina le fece la linguaccia ma sorrise, mentre lei mimava un attenta a te!

 

E poi una risata ed un peso alle spalle.

 

Era Calogiuri, che si era seduto appena dietro di lei e sorrideva come se fosse l’uomo più felice al mondo.

 

D’istinto, senza quasi pensarci, prese la sua mano destra e se la piazzò dall’altra parte della pancia rispetto a quella di Valentina: distanti ma non troppo.

 

“Siete sempre da diabete!”

 

“Per carità: con tutto quello che mi tocca prendere per evitare il diabete gestazionale, non me ne parlare, guarda!”

 

“Scusa… ma lo sai cosa intendo: da un lato è rassicurante vedere che certe cose non sono cambiate, dall’altro è molto preoccupante che siano pure peggiorate e-”

 

Un peso caldo sulla pancia ed un meooooowwwww lungo e languido, due occhi felini nei suoi.

 

Ottavia le era balzata sulle gambe, anche se con una delicatezza inusitata persino per lei, che era la maestra del non farsi sentire, quando voleva, e le aveva appoggiato la testa sulla pancia, tra la mano di Valentina e quella di Calogiuri.

 

La commozione maledetta la prese dritta in gola, nonostante forse la regina della casa volesse semplicemente un po’ di attenzioni anche su di sé, ma gracchiò lo stesso nel pronunciare, “mamma mia, che affollamento! Sta bimba appena nascerà vorrà stare su un eremo, ma come minimo!”

 

La risata di Calogiuri nell’orecchio e poi un colpo dritto in pancia.


“Ottà! Piano con le testate!” l’avvertì, perché lo sapeva che per lei era normale esprimersi così ma-

 

Ahia!

 

“Ma veramente… la testata l’ho sentita pure io ma sotto la mano! E un’altra, anche adesso!”

 

Era stata Valentina a parlare e, col cuore in gola, la vide sollevare la mano ed un monticello piccolo, piccolissimo, che sporgeva e poi spariva, e poi sporgeva di nuovo.

 

Il calore di una mano ben più grande ed era Calogiuri, gli occhi pieni di lacrime, che mormorava a fatica un, “mi sa… mi sa che è il piede!”

 

“Avrà riconosciuto la voce soave di famiglia e si è moss-”

 

Ahia!!!

 

Un dolore, molto più forte ma anche più interno dei precedenti, la azzittì.

 

“E questa invece è la testa, mannaggia a lei!”

 

“Ma dove?” chiese Calogiuri, con gli occhi ormai allagati.

 

“Sul mio intestino, Calogiuri, mannaggia pure a te! C’ha la testa dura come te! E pure come a te Valentì! Ottavia, tu non guardarmi con sti occhioni che sei pure peggio di loro! Sto messa proprio bene, sto!”

 

Valentina e Calogiuri scoppiarono a ridere, mentre Ottavia miagolava, spostando la testa un poco più lontano dai calci - e mica scema!

 

WEEEEEEEE

 

“Ci mancava solo l’ululato, ci mancava!” esclamò, mentre Calogiuri, divertito, si alzò, proclamando, “vado io, non ti preoccupare. E gli preparo anche il biberon, che avrà fame.”

 

Lo spiò per un attimo mentre procedeva verso la camera da letto, con l’aria di chi sta camminando sì, ma sulle nuvole.

 

Altro che andato era!

 

Percepì la mano di Valentina muoversi sulla pancia, evitando Ottavia, si voltò a guardarla e le venne improvvisamente in mente una cosa fondamentale, “ma poi, com’è andato l’esame?”

 

Dopo gli ennesimi occhi all’insù ed emissione d’aria che manco il Lupo dei Tre Porcellini, la vide abbassare il viso, fino ad essere quasi attaccata al suo ombelico, ed udì e sentì vibrare sulla pelle il, “coraggio, piccolina! Guarda che se fa così anche con te chiamo il telefono azzurro!”

 

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“Pietto!”

 

Si abbassò appena in tempo per prendere in braccio Noemi che gli era corsa incontro e lo stava riempiendo di baci.

 

Ogni volta era un’emozione indescrivibile: l’amore di quella piccoletta era una delle cose più belle e straordinarie che gli fossero successe negli ultimi anni. L’altra era Rosa, ovviamente, e-

 

“Ma è vero che Tata ha un bimbo nella panza?”

 

Ci mancò poco che la fece cascare, dalla sorpresa, riprendendola appena in tempo, anche se lei rise, non accorgendosi di niente e pensando ad un gioco.

 

Si guardò con Rosa che però era sbigottita quanto lui.

 

“Noè, dove l’hai sentita questa cosa?”

 

“Me l’ha detta Auoa, je lo ha detto mamma.”

 

Neanche l’avesse chiamata, da lì a poco si avvicinò la madre di sta Aurora, abbronzatissima, platinatissima e con l’aria da comare di paese, anzi, in questo caso di città.

 

“Congratulazioni che diventate zii!” esordì, con un sorriso fintissimo, che gli ricordò le amiche di sua madre quando si riunivano, “anzi, tu che cosa diventi? Che sei anche il padre della sorella di questo bimbo?”

 

Ovviamente la domanda era stata fatta apposta per sottolineare la stranezza della loro situazione. Era chiaro che la sua relazione con Rosa dovesse essere oggetto di molti pettegolezzi lì all’asilo e non solo.


“Grazie mille degli auguri, ma prima di pensare a diventare zii o qualsiasi altra cosa, magari bisogna prima esserne sicuri, no? Che se basta un poco di pancia… allora siamo quasi tutte incinte.”

 

Dovette trattenere una risata, sia per il tono sarcastico del ringraziamento, sia per come Rosa aveva indugiato sul basso ventre dell’altra donna, che se ne andò decisamente scornata.

 

“Non per fare body shaming, eh, ma quando una fa così si merita qualsiasi cosa!”

 

“Cos’è il bodi scemo?” saltò su Noemi, facendoli di nuovo scoppiare a ridere, “pecché ridete?”

 

Le diede un altro paio di baci, perché se li meritava tutti e pure di più.

 

Poi si avviarono insieme verso dove Rosa aveva lasciato la macchina, comprata da poco ed usatissima, ma necessaria per alcuni spostamenti con la piccoletta.

 

“Ma allora!”

 

L’urlo di Noemi nell’orecchio per poco non fece rischiare un’altra caduta - tra un po’ non sarebbe più riuscito a prenderla in braccio come si doveva - e li portò a guardarla, confusi.

 

“Allora cosa, Noè?”

 

“Mamma, ma… ma se… ma se Tata ha un bimbo nella panza che è fratello di Vaentina. E se Vaentina diventa mia soellona, allora bimbo di Tata è anche mio fatello?”

 

Gli stava venendo mal di testa solo a pensare a tutta sta concatenazione di cose.

 

“Noè, no, al massimo diventerà il tuo cuginetto, ma comunque non è sicuro. Lo pensano perché Imma ha la pancia un poco più grande del solito, ma magari è solo che si è mangiata qualche bombolone in più. Tipo te quando fai l’ingorda. Quindi, prima di pensare a cuginetti o cuginette, dobbiamo parlarne con lei per essere sicuri, va bene?”

 

“Sìììì, ma io felice lo stesso e vojo cucinetto! Diventa piccolo come Cecco?”

 

“Ancora di più quando nasce, sempre se c’è,” provò a ribadire Rosa, ma ormai Noemi era felice più di una pasqua, ad immaginarsi a giocare col cucinetto.

 

E tanta era la sorpresa e tutto il casino che… che quasi non ebbe il tempo di chiedersi come si sentiva, al pensiero di Imma con una creatura in grembo che non fosse sua.

 

Forse anche perché era tutto talmente surreale da sembrargli ancora impossibile.

 

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“Rosa…”

 

Valentina se ne era andata da poco ed erano finalmente riusciti a mettersi a tavola dopo aver sfamato il piccolo lord della casa, quando Calogiuri aveva ricevuto una chiamata.

 

“E non rispondi?”

 

“No, dottoressa. Per oggi direi che hai già avuto fin troppe emozioni. Le mando un messaggio e… potremmo invitare lei e… e Pietro, se c’è e se ti va bene, a pranzo domani, no? Così parliamo di tutto con calma.”

 

“Mi sembra una buona idea, Calogiuri,” confermò, anche perché almeno via il dente via il dolore e non sarebbe dovuta andare avanti a fare annunci peggio di un ufficio stampa, come era stato per il matrimonio.

 

Qualche secondo di silenzio e poi, “Rosa ha confermato che ci sarà con Pietro e Noemi. Che a quanto pare sta facendo molte, moltissime domande.”

 

Le venne da sorridere: se la immaginava già, immersa nei suoi infiniti pecché?

 

“Potremmo invitare anche Valentina a questo punto… che se sa della riunione di famiglia e che non l’abbiamo coinvolta…. Poi magari non ci vuole venire ma…”

 

“Come vuoi tu, dottoressa.”

 

Domani vengono a pranzo tuo padre, Rosa e Noemi, che hanno sentito la notizia e vogliono conferme. Prepariamo anche per te?

 

Non mi perderei questa scena per niente al mondo!

 

Cinque secondi netti di risposta, quando di solito ci metteva ore a leggere un messaggio. E te pareva!

 

Ma poi un pensiero la colse.


“Senti, Calogiuri, visto che ci saranno sia Noemi che Francesco e visto che tanto ormai sa tutto… potremmo invitare anche Irene e Bianca, se ti va.”

 

Il modo in cui per poco la mascella di Calogiuri non cascò sul piatto fu tragicomico.

 

“Di che ti stupisci? Almeno Bianca ormai è quasi di famiglia. E poi… e poi anche Irene mi è toccato rivalutarla molto nell’ultimo periodo.”

 

“Va… va bene… glielo chiedo… e… grazie, Imma.”

 

“Prego, signor ufficiale e- ahia!”

 

“Che c’è? La piccoletta?”

 

“Altro che inquilina! Questa è una di quei vicini che alle tre di notte si mettono a fare la festa con la musica a tutto volume! Non devi prendere esempio da Valentì, mannaggia a te!”

 

Calogiuri sorrise ma poi percepì una mano sotto la maglietta del pigiama, che aveva già indossato per stare più comoda, e che le sfiorava la pancia, dove c’erano i colpi maggiori.

 

“Piccoletta… lo so che ti vuoi far sentire, ma la mamma deve mangiare tranquilla, poi avremo tantissimo tempo per giocare insieme, dopo che sarai nata. A me il calcio non è mai molto piaciuto, in verità, e poi non ce lo potevamo permettere di fare sport in maniera continuativa ma, se vuoi, quando sarai un poco più grande, ti possiamo iscrivere ad un bel corso. Adesso per fortuna anche il calcio femminile è un poco più diffuso e, in quel caso, ti prometto che verrò a tifare per te a tutte le partite e che, se qualcuno proverà a dirti qualcosa-”

 

“Lo assorderai, come stai assordando a lei, povera creatura! Che qua veramente ci nasce senza udito. Menomale che eri uno di poche parole: manco è nata e qua tu già pensi ad accompagnarla a fare sport e ai genitori esagitati che urlano cornuto all’arbitro?”

 

“Ma senti come si muove, ma non scalcia più così forte, anzi! Secondo me vuol dire che è felice, no?”

 

“Non so se lei sia felice, Calogiuri, il mio intestino però sicuramente lo è molto meno, e pure la vescica. Mi sa che devo andare in bagno.”

 

“Dai, che ti dò una mano,” si offrì subito lui, porgendole letteralmente il palmo per aiutarla a scendere dallo sgabello, manco fosse l’Everest.

 

“Calogiuri…” sibilò, con tono di avvertimento.


“Va bene, dottoressa, va bene. E ti prometto anche che cercherò di contenermi sui… sui dialoghi-”

 

“Diciamo pure monologhi, Calogiuri-”

 

“Sui monologhi, ma… ma è che… è che non vedo l’ora di poterla vedere, di poter sentire la sua voce, di parlarle veramente e-”

 

“E, se prende pure quella da me e da Valentina, ti pentirai amaramente di questo desiderio, Calogiù, molto ma molto amaramente,” lo prese in giro, anche se le veniva pure da commuoversi, mannaggia sempre a lui, perché lo vedeva benissimo quanto fosse perdutamente innamorato della loro piccoletta, oltre che di lei.

 

“Mai! Però-”

 

Lo mise infine a tacere con un bacio.

 

“Però sei bello anche per questo, Calogiù. Ma mi devi promettere che non mi diventerai sempre di troppe parole, se no-”

 

“Se no chiedi il divorzio ancora prima del matrimonio?” ironizzò lui, ma con un tono un poco intimorito che la intenerì ancora di più, a parte farle capire quanto lui la conoscesse bene.

 

“Anche!”

 

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“Tataaaaa!!”

 

Dire che fu travolta dall’abbraccio di Noemi sarebbe stato come dire che Calogiuri era leggermente apprensivo sulla gravidanza.

 

“Posso vedee panza?”


Scoppiarono tutti a ridere: non c’era altra reazione possibile quando Noemi faceva così.

 

“Piano, piano, Noemi, mo te la facciamo vedere ma devi fare piano con la pancia della zia, va bene?”

 

Calogiuri, ovviamente, ma il modo in cui si prese in braccio Noemi le fece passare per un attimo l’istinto di rimirare il soffitto, di cui ormai conosceva ogni anfratto ed ogni ragnatela che non aveva avuto voglia di far levare a Calogiuri - che lei… figuriamoci, a parte tenerci alle orecchie, sapeva che non fosse il caso di fare la funambola oramai.

 

“E allora è proprio vero?”

 

Pietro

 

Cercò il suo sguardo, in apprensione, perché sapeva benissimo che, nonostante tutta l’acqua passata sotto ai ponti e nonostante lui fosse innamoratissimo di Rosa, comunque una cosa del genere gli avrebbe fatto sempre strano. Lo avrebbe fatto anche a lei al posto suo.


Ma Pietro aveva un’espressione enigmatica, indefinibile.

 

“Sì, è vero, ma… se non abbiamo voluto dire niente finora era per aspettare i risultati dell’amniocentesi. Per fortuna va tutto bene, per adesso.”

 

“Ne sono contento per te, anzi per voi, veramente.”

 

Il sorriso ed il tono di Pietro la commossero talmente tanto che non riuscì a resistere dal stringerlo in un abbraccio, per poi staccarsi e guardare i due fratelli che però sorridevano, tranquilli.

 

Per fortuna i Calogiuri erano intelligenti - a parte la matrona, si intendeva, che comunque quello manco era il suo vero cognome.

 

“Si può?”

 

Irene, bella come non mai in un vestito bianco estivo, ma non era solo quello a brillare. Aveva una luce diversa in viso e nello sguardo, che la rendeva quasi ipnotica.

 

Grazie al cielo però sia Calogiuri che Pietro sembravano concentrati solo sulle bimbe, perché nel frattempo era apparsa anche Bianca - pure lei con un sorriso che non ricordava di averle mai visto, non così grande e pieno - che si avvicinò timidamente per salutarla.

 

Ovviamente si abbassò e l’abbracciò, perché i saluti, in certi casi, andavano fatti per bene.

 

“Quindi sei incinta?” le chiese in un modo che le levò la voce, “sono contenta che avrete un bimbo tutto vostro! Ma Francesco, dov’è?”

 

Si chiese per un attimo se Bianca si stesse riferendo anche alla proposta folle di Irene di adottarla loro, ma sembrava veramente serena: era quello il termine giusto.

 

“Il principino sta sul suo trono, vieni con me,” la esortò, prendendole la mano e portandosela fino all’ovetto dove aveva messo Francesco, per evitare che gattonasse ovunque mentre erano distratti.

 

“Francesco!!” esclamò Bianca e, dopo un attimo di esitazione ed una sua rassicurazione non verbale, lo sganciò e lo prese in braccio, dandogli due bacini sulle guance.


“Pesa, però… è cresciuto tanto!”

 

Non aveva manco fatto in tempo a dirlo che Calogiuri aveva già aiutato lei ed il piccoletto a piazzarsi seduti sul divano, Francesco che stava come un pascià in braccio a Bianca, a prendersi le coccole.

 

Tra quello, Noemi e tutto il resto, si stava commuovendo per l’ennesima volta. Carta tra le dita ed era Calogiuri che, di nascosto, le aveva passato un fazzoletto.

 

Stava per approfittare della distrazione di tutti per baciarlo, quando una scampanellata delicata come un pugno sui denti annunciò l’arrivo di Valentina.

 

“Ma che è? La succursale dell’asilo? Un’invasione di marmocchi!” si lagnò, una volta giunta in salotto, ma poi salutò Noemi con un sorriso e si piazzò insieme a loro sul divano.

 

C’era un’atmosfera così assurdamente da spot pubblicitario che si chiese quale tegola sarebbe caduta loro in testa da lì a poco, perché non poteva andare sempre tutto così bene.

 

“Sono proprio belli, vero? Valentina forse avrebbe avuto bisogno prima di un fratellino o di una sorellina.”

 

Pietro.

 

Non c’era risentimento in quelle parole, solo una velatura agrodolce, nostalgia di un tempo ormai lontanissimo.

 

“Eh… ma non avrei avuto né il tempo né la testa per occuparmene, Pietro. Avresti dovuto farlo tu e… non sarebbe stato giusto, né per me, né per te, né per Valentina ed un eventuale nuovo pargolo.”

 

“E mo invece è cambiato qualcosa?”

 

“Tutto, Pietro, tutto. Siamo cambiati molto pure io e te… e in meglio, no? Siamo più equilibrati di una volta, su tante cose.”

 

“Sì… perderti mi è servito a capire tante cose della mia vita che non andavano bene. E lo vedo che sei molto più serena, per quanto ti sia possibile con il tuo carattere, Imma.”

 

Un sorriso, gli appoggiò la mano sulla spalla e strinse forte forte, “avrei voluto dirtelo di persona, dopo averlo detto a Valentì, ma i giornalisti…”

 

“Lo so, non ti preoccupare. E, quando ho detto che sono felice per voi, lo pensavo, anzi lo penso veramente. Certo, mi farà un poco strano pensare che Valentì avrà un fratellino.”

 

“Sorellina in realtà…” precisò, prendendolo in contropiede, “hai visto? Il figlio maschio non era proprio destino per me. Ma mo devo ancora dirlo agli altri, a parte a Calogiuri e a Valentì, quindi muto.”

 

Un altro abbraccio, delicato ed incredibilmente familiare.

 

Quando si staccarono, percepì una sensazione sul collo e si voltò, notando che Calogiuri li stava osservando, ma sempre non con gelosia, anzi, quasi con sollievo.

 

Pietro, a sorpresa, gli fece cenno di avvicinarsi e lui, solerte come sempre, ubbidì.


“E mo sono cavoli tuoi, maresciallo! Anzi, no, capitano! Ti aspettano anni di insonnia e di urla, e non solo della piccoletta, conoscendo Imma!”

 

Stretta di mano e pacca sulla spalla: uomini!

 

“Che cosa state tramando? Possiamo saperlo anche noi?” scherzò Rosa, avvicinandosi un poco e bastò quello per far tornare alla carica Noemi con un “panza, panza, panza!” che come si faceva a stare seri?

 

E quindi, sentendosi poco poco osservata, si sedette sul divano, dove Valentina le aveva fatto posto, e sollevò la maglietta pitonata del completo indossato per l’occasione.

 

“Posso?” chiese Noemi, al confronto dei cui occhioni quelli dello zio erano niente.

 

Le prese la manina e se l’appoggiò sulla pancia.

 

“Ma… ma… ma si move?” chiese, con una meraviglia nella voce e nello sguardo che l’avrebbe riempita di baci.


“Eh… per forza: con tutto il casino che state facendo, certo che si muove!”

 

“Ma… ma è cucinetta o cucinetto?” chiese poi, non schiodando gli occhi dalla pancia, affascinatissima.

 

“Secondo te?”

 

“Per me cucinetta!” le rispose, decisissima, e si chiese se in famiglia veramente leggessero nella mente.

 

“Perché?”

 

“Eh… pecché così ci posso giocare mejo!”

 

E che poteva fare? Se l’abbracciò, in mezzo alle risate generali.

 

Noemi era Noemi e sperava davvero che la cucinetta le somigliasse almeno un po’, in tutto.

 

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“Cusate!!”

 

Erano a metà pranzo, intenti a mangiarsi le orecchiette con le cime di rapa - una delle poche cose tipiche che poteva gustare pure lei - quando Noemi era saltata su all’improvviso, richiamando l’attenzione.

 

Visto che il piatto di lei era già vuoto e che era nota per essere una spazzolatrice seriale, le domandò, con un sorriso, “che c’è? Vuoi ancora un poco di pasta?”

 

“Sì, anche, ma…”


“Ma cosa?”

 

“Ma come ci è finita cucinetta nella panza di Tata?”

 

Un rumore di strozzamento generale che quasi manco coi patty: Pietro e Calogiuri stavano cercando disperatamente di respirare, Rosa era imbarazzatissima mentre Irene, al suo solito, sembrava solamente molto divertita.

 

“Calogiuri…” proclamò, dopo avergli dato un numero sufficiente di pacche sulla schiena da aiutarlo a riprendersi, Rosa che stava facendo lo stesso con Pietro, “perché non glielo spieghi tu a Noè? Visto che è tutto merito tuo!”

 

“Imma…” ruggì lui, rosso che più rosso non si poteva, con l’aria di chi voleva sprofondare.

 

“E questo è solamente l’inizio, capisci cosa ti aspetta?” rantolò Pietro, tra un colpo di tosse e l’altro.

 

“Se vuoi te lo spiego io, che mamma mi ha fatto vedere un video su come si fa!”

 

Bianca, bella bella, innocente innocente, aveva causato un secondo round di soffocamenti, che ancora un po’ e le toccava chiamare Taccardi a Matera.

 

“Non in quel senso, ovviamente…” sospirò Irene anche se, sotto la scorza impassibile, notava come pure lei fosse divertita dagli uomini che si scandalizzavano così facilmente, “le ho fatto vedere un video educativo, fatto apposta, di educazione sessuale per i bambini.”

 

“Cos’è educacione se sale?”

 

Noemi, ovviamente, e ormai tra Calogiuri e Pietro non sapeva a chi sarebbe toccata per primo l’estrema unzione.

 

“Menomale che non c’è il caro Salvo…” esclamò Valentina, a cui evidentemente l’exploit di quel cretino con lei e Penelope era rimasto molto impresso.

 

Motivo ulteriore per farlo finire ancora di più in fondo alla sua lista nera di quanto già fosse.

 

“Però mo voglio proprio vedere come ve la cavate,” aggiunse poi, con l’aria di chi, come l’ex gattamorta, stava preparando i popcorn per godersi la scena.


“Allora? Come ci è finita lì cucinetta? Tata, l’hai dovuta mangiae?”

 

Le faceva male la pancia, sì, ma dal ridere, anche se la piccoletta giustamente si muoveva pure lei: ovvio che il primo pensiero di Noemi sarebbe stato il cibo.

 

“No, anzi!” intervenne di nuovo Valentina, con la sua solita aria di quando doveva parlare di certe cose riferite a loro due.


“Magari… magari un giorno di questi Irene e Bianca possono farti vedere quel video, così capisci tutto.”

 

Il riso le morì in gola, perché era stato Calogiuri a parlare: deciso, con il modo di quando aveva un’intuizione delle sue. E questa, doveva ammetterlo, era stata davvero-


“Geniale!” proclamò Pietro, con aria ammirata, “se continui così, forse riuscirai a sopravvivere tutto intero per i prossimi diciott’anni!”

 

“Certo che voi uomini… sempre cuor di leone siete, eh?” sospirò, tanto che quasi ci godette un poco quando Noemi ribadì, “ok video, ma piegatemi ammeno come ci enta!”

 

Visto il silenzio tombale - e che si era pure divertita abbastanza - prese in mano la situazione, perché che altro poteva fare? Altrimenti ancora un po’ e facevano notte!

 

“Allora, il papà, nella fattispecie, cioè, in questo caso tuo zio, mette un piccolo… diciamo come una specie di piccolo girino nella pancia della mamma che, sempre in questo caso, sarei io. Nella pancia di noi donne, quando cresciamo un po’, si forma una volta al mese una specie di ovetto, che si unisce al girino. Ovetto e girino diventano una cellula sola, cioè, una cosa piccola piccola piccola, ma speciale, diversa da tutte le altre, che si moltiplica, cresce, cresce sempre di più nella pancia della mamma. Finché, piano piano, nel giro di nove mesi, si costruisce un bambino. Hai capito?”

 

Noemi pareva comprensibilmente un poco confusa ma annuì con un, “quindi all’inizio non c’è cucinetta, ma una cosa piccolissima, tipo un mattoncino, e poi si fanno come le costruzioni nella panza della mamma?”

 

“Più o meno…” 

 

“E quindi non si mangia niente? Ma non le dà fastidio quando mangi?”


“No, perché lei resta in una specie di sacca a parte-”

 

“Come i cangui?”

 

“Più o meno,” sorrise per il paragone, tutto sommato azzeccato, “ma qua la sacca è dentro la pancia ed è divisa da tutto il resto, quindi non c’entra niente col mangiare o con l’andare in bagno o altro. E poi sto benedetto video ti spiegherà meglio, ok?”

 

“Sìììì! Bello! Lo vojo vedere!”

 

“Un altro po’ di orecchiette?” approfittò quindi per chiedere, alzandosi in piedi e guardando Calogiuri e Pietro come a dire - e che ci voleva tanto?!

 

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“Ma che devo dire? Io paua!”

 

“Noè, no, non devi avere paura. E basta che dici ciò che ti senti, va bene?”

 

Rosa la stava guardando, come a chiederle un sostegno, a lei e a Calogiuri che di tribunali se ne intendevano molto di più.

 

Erano all’ultima udienza della causa di separazione tra Rosa e Salvatore. Il giudice, alla fine, vista la situazione, aveva chiesto di poter sentire Noemi, anche se naturalmente non era una vera testimonianza e non aveva valore legale. Ma avrebbe indubbiamente potuto incidere di molto sulla decisione finale.

 

E lei, pure se erano appena finiti i titoli sui panterotti che stava aspettando - Zazza era perfino riuscito a fare un collage di lei che sollevava il leoncino al cielo all’inizio del famigerato film Disney, giusto per non farsi mancare nulla - e sul fatto che mo, oltre a Calogiuri, ci sarebbero stati due bimbi in famiglia - anche lì con vari fotomontaggi di Calogiuri con il ciuccio in bocca - aveva insistito tantissimo per esserci.

 

E per fortuna: Calogiuri era veramente preoccupato - almeno stavolta non per lei - e l’atmosfera che si respirava era pesantissima.

 

“Tua mamma ha ragione, Noemi. Basta che quando sei lì dici quello che pensi, quello che vuoi veramente, che senti nel tuo cuore, ed il giudice ne terrà conto, va bene?”

 

“Ma… ma io non so contae bene ancora…” si disperò la piccoletta, facendola rendere cont- anzi, avvedere di come le frasi fatte fossero pericolose con i bambini.


“La zia vuol dire che tu dici quello che desideri ed il giudice ti ascolta, va bene? Basta che sei sincera, non ti devi preoccupare.”

 

Calogiuri… per fortuna che nel momento del bisogno sapeva quando intervenire.

 

“Esattamente, Noemi. Adesso, quando ci chiamano, ti faccio segno di dove ti devi sedere e rispondi alle domande del giudice, ok? E se l’altro signore vestito come me prova a interromperti o a intervenire, tu lasci parlare me o il giudice, che ci pensiamo noi, ok?”

 

Per fortuna il nipotino sembrava saperci fare coi bimbi. Del resto, con quel tipo di lavoro, era auspicabile. Ma non scontato.

 

Noemi annuì, un poco confusa e decisamente nervosa, tanto che si mise in bocca un dito manco fosse un leccalecca, cosa che non le aveva visto fare da secoli.

 

“E dai Noè, andrà tutto bene, vedrai,” la rassicurò anche Pietro con una carezza sui capelli.

 

“Ecco, la state già influenzando!”

 

Salvo, ovviamente, che era appena arrivato tutto spavaldo e che pareva uscito da una parodia di Gomorra, insieme all’avvocato il cui nome era un ossimoro.

 

Noemi si ritirò dietro le gambe di Calogiuri, ancora più spaventata.


“Veramente siete voi che la state spaventando. E nessuno di noi avrebbe voluto arrivare a questo, se solo foste stati più ragionevoli nelle richieste e meno assurdi nel dipingere la situazione della mia cliente. Con la quale peraltro lei ha passato una vita, mentre ora sembra sia la peggiore delle donne!”

 

E bravo Andrea! Così ci voleva! Bello deciso!

 

“Collega, per il dibattimento c’è tempo in aula. Ma è indubbio che il fatto che la sua cliente abbia la minore con sé vi avvantaggia e-”

 

“Causa Minichiello - Calogiuri!”

 

Per fortuna il cancelliere era giunto proprio al momento giusto. Lo seguirono e si accomodarono nella piccola aula.

 

“Allora, siamo all’ultima udienza della causa di separazione Minichiello - Calogiuri. Sebbene avrei voluto risparmiare tutto questo alla minore, ritengo sia necessario sentirla per comprendere le sue volontà. Avvocato, può accompagnare la minore qui, su questa sedia davanti a me?”

 

Andrea annuì, prese per mano Noemi - ancora più che comprensibilmente recalcitrante - e la aiutò ad accomodarsi sulla seggiola posta di fronte allo scranno del presidente.

 

“Allora, piccolina, mi dici innanzitutto come ti chiami?”

 

“Noemi. E tu come ti chiami?”

 

Sorrise e pure Calogiuri stava trattenendo una risata sotto i baffi: Noemi era Noemi, pure di fronte ad uno vestito da giudice, che chissà da quale fiaba pensava fosse uscito.

 

“Io sono Giuseppe, molto piacere,” rispose il presidente, che per fortuna - e purtroppo - di bambini doveva vederne tanti in quel tipo di cause e non si formalizzava particolarmente, “allora, Noemi, io adesso ti devo fare qualche domanda. Tu rispondi sinceramente come senti nel tuo cuore, va bene?”

 

“Sì, sì: è quello che mi ha detto anche Tata!”

 

Le pigliò per un attimo un colpo: le mancava solo l’accusa di imbeccare una minore prima di un’udienza decisiva e stava a posto, stava.

 

"E chi sarebbe Tata?" 

 

“Tata è Tata!” esclamò Noemi, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, ma poi indicò lei.

 

“E che cosa ti ha detto Tata?” domandò il giudice, fissandola per un attimo in un modo che le diede un brivido e non piacevole.

 

“Di die chello che sento nel cuoe e chello che vojo veramente.”

 

Chissà se era per l’emozione o per la scelta di parole, ma Noemi arrancava un poco con le sillabe, e sperò sinceramente che il giudice capisse e che capisse giusto, soprattutto.

 

“E allora la dottoressa Tataranni ti ha detto bene, Noemi,” concluse il giudice, con suo grandissimo sollievo, “quindi comincio a farti le domande, va bene?”

 

“Sì. Posso chiedetti peò una cosa anche io?”

 

“Che cosa?”

 

“Pecché siete tutti vettiti così? Ma è motto qualcuno?”

 

La risata in aula non poté più essere trattenuta ed avrebbe solo voluto correre da lei, prendersela tra le braccia - senza le proteste di suo zio, possibilmente - e riempirla di baci fino allo sfinimento di entrambe.

 

“No, no, è che… è una tradizione… cioè, è da tanti anni che qua in tribunale ci si veste così. Anche la dottoressa Tataranni, Tata per te, si veste così quando lavora.”

 

“Davveo? Tata vettita di nero non l’ho mai vitta!”

 

“Sul lavoro, piccolina, sul lavoro: purtroppo qua l’abbigliamento preferito dalla tua Tata non si può indossare,” scherzò il giudice, lanciandole un’altra occhiata che lo avrebbe ucciso, lo avrebbe.

 

“Comunque, adesso devo farti io le domande, va bene? Tu, se vuoi, me le puoi fare alla fine di tutte le mie domande. Siamo d’accordo?”

 

“Sì.”

 

E bravo il giudice! Forse sarebbero riusciti a concludere qualcosa, per quanto fosse divertente ascoltare Noemi che dissacrava quelli che per lei erano i luoghi sacri per eccellenza - anche se mai quanto per Vitali e il suo tempio della giustizia.

 

“La prima domanda è, come ti trovi a vivere a Roma con la tua mamma?”

 

“Bene! Roma bella! Vecca ma bella! Ah no, anziana, che mamma mi ha detto che vecca non si dice!”

 

“E la tua mamma ha ragione, Noemi, ma vale soltanto per le persone. Degli oggetti o dei posti, anche se dici che sono vecchi non si offende nessuno, tranquilla. Ma, a parte Roma che è bellissima, come ti trovi a vivere con la tua mamma?”


“Bene! La mia mamma è la mia mamma e io ci vojo bene e lei mi vuole bene. All’inizio senza i nonni e zio Modetto mi sentivo un po’ sola, ma mo c’ho zio Ippà e Tata e Bianca e Cecco e Ottà e poi avrò pure una cucinetta e-”

 

“A proposito, congratulazioni, dottoressa,” la interruppe il giudice, sembrando sinceramente molto divertito, anche se al nominare Bianca e Cecco le era preso un po’ un colpo e sperava che il giudice non approfondisse l’argomento.

 

“Quindi non ti senti più sola?”

 

“Noooo!! Anche pecché ci sono tutte le mie amiche dell’asilo: Auoa, Callotta, Pamea e Giuia e-”

 

“Quindi ti piace andare all’asilo, ti trovi bene?”

 

“Sì, asilo bello e anche maesta brava brava, ci voglio bene. E poi c’è Pietto che gioca sempre con me.”

 

Sentì Pietro strozzarsi di nuovo, ma di commozione, e notò subito come Calogiuri gli passò un fazzoletto: le abitudini acquisite durante gli interrogatori non morivano mai e nemmeno la bontà d’animo.

 

“Pietto? Me lo indichi?”

 

“Sì, lui, Pietto!”

 

“E quindi Pietro lo vedi spesso, Noemi?”

 

“Sììì quasi tutti i… i… come si dice… i uiché!”

 

“I weekend? Quando non vai all’asilo?”

 

“Sì! Quando finisce asilo mi viene a prendere con mamma e poi giochiamo o mi potta al parco o alle gioste. E poi mi prepara tante cose buone: lui bavo a cucinare!”

 

“E quindi sei contenta di vedere Pietro così spesso?”

 

“Sììì! Io ci vojo tanto tanto bene a Pietto, anche pecché lui sta sempe con me e se sono tiste mi fa essere felice… o felicia? Come si dice?”

 

“Felice, felice, Noemi. E il tuo papà invece? E i tuoi nonni?”

 

“I miei nonni ci vojo bene tanto tanto, ma nonna ulla sempre quando la vedo, ulla cose butte a Tata e a mamma e a zio e quindi io, se deve ullare, peferisco che non viene.”

 

E come darti torto? Brava Noè! - pensò, anche se un poco le dispiaceva, perché si sentiva dal tono della voce come le mancavano i nonni, perfino quella urlatrice.

 

“E invece mamma, zio, Tata, Pietro e gli altri come si comportano in queste occasioni?” chiese il giudice, che ormai aveva deciso di adottare direttamente i soprannomi di Noemi per fare prima.

 

“Ullano un po’ anche loo, poi Tata ulla sempe e-”

 

Grazie Noè, grazie! Come non detto! Mannaggia a lei mannaggia!

 

“Come urla sempre Tata?”

 

“Sì, Tata palla sempre fotte, ma a me Tata fa ridere tanto, non ulla pecché aabbiata come nonna.”

 

“In effetti i decibel emessi mediamente dalla dottoressa Tataranni sono leggenda qua in tribunale,” ironizzò di nuovo il giudice che sì, si stava decisamente divertendo un po’ troppo per i suoi gusti.

 

“Cosa sono decibel?” domandò Noemi, riuscendo perfino a pronunciarlo giusto.

 

“Ti ricordi cosa ci siamo promessi? Le tue domande alla fine. E tu le mantieni le promesse, vero, Noemi?”

 

“Eh sì eh!!” esclamò, incrociando le braccia e con un’aria corrucciatissima, come se le avessero recato una profondissima offesa, che era assolutamente adorabile.

 

“Bene. E allora, invece, che cosa pensi del tuo papà?”

 

“Io… io a papà ci vojo bene, tanto tanto,” ribadì Noemi, che per quanto voleva bene tanto tanto a così tante persone aveva proprio un cuore enorme, bella lei, “però… però non lo vedo mai. Che lavora tanto tanto e non ha tempo.”

 

“E da quant'è che non lo vedi?”

 

Noemi fece una faccia confusa, poi provò a contare sulle dita ed infine disse, “boh, non lo so… ah sì… da natale: ha litigato con mamma e poi pluff, è spaito!”

 

“Eh, da natale sono passati un bel po’ di mesi…” sospirò il giudice, guardando verso Salvo e Pace in un modo che non deponeva molto a loro favore, per poi rivolgersi di nuovo a Noemi, “ma glielo hai detto alla mamma che ti manca papà?”

 

“Sì.”

 

“E lei cosa dice?”

 

“Che papà ha tanto da lavoae e che presto lo vedo ma… ma l’ho visto solo oggi e ullava anche lui. Io… io ho paua che-”
 

“Hai paura di tuo padre?” domandò il giudice, con tono decisamente più serio.

 

“No! Però ho paua che… che lui non mi vole più bene, che è per chetto che non lo vedo più!”

 

“Signor giudice, qua è chiaro che la madre della minore e chissà chi altro l’hanno imbeccata a dire queste cose e-”

 

“No vero! Nessuno mi imbocca! Io mangio da sola: sono bambina grande!”

 

Non sapeva se ridere o se piangere, di fronte all’indignazione di Noemi che aveva azzittito pure l’avvocato - buon sangue non mente! - e si ricordò perché non le fosse venuto mai in mente, nemmeno per sbaglio, nonostante tutto il bene, di lavorare abitualmente con i minori.

 

“Certo, Noemi è grande, è forte ed è indipendente, proprio per come sta venendo cresciuta dalla mia cliente. Si vede che è una bambina serena, decisa e determinata, nonostante la grande assenza del padre e-”

 

“Avvocati, avvocati!” intervenne il giudice, bloccando Andrea prima che aggiungesse altro, “adesso le domande le faccio io, voi potrete intervenire dopo.”

 

“E dopo di me, però!” intervenne nuovamente Noemi; il giudice sembrava da un lato pensare pure lui ma chi me l’ha fatto fare? dall’altro avere una voglia strabordante di coccolarsela.

 

“Sì, dopo di te. Allora, Noemi, questa è l’ultima domanda, ed è molto importante, quindi pensaci bene. Da ora in poi con chi vuoi vivere? Vuoi vivere con tua mamma, come stai facendo adesso, o vuoi tornare a vivere con i tuoi nonni e con il tuo papà?”

 

“Ma senza mamma da nonni e papà?” chiese Noemi che, nonostante lo tsunami che era, era sveglia, sveglissima.


“Sì, senza mamma.”
 

“No, eh! Allora io voglio stare con mamma e con Pietto, pecché almeno loro ci sono sempre, mentre papà lavora e non lo vedo mai e poi… e poi qua a Roma ho tante amiche e Tata e zio e Bianca e Cecco e Ottà e-”

 

“Sì, sì, va bene, abbiamo capito,” la interruppe il giudice, mentre lei di nuovo sudava freddo, ma tanto Noemi, conoscendola, avrebbe potuto proseguire con un elenco infinito di nomi.

 

“Bene, direi che l’opinione della minore sia chiara e quindi-”

 

“Signor giudice, mi permetta di dirle che però il fatto che la minore sia sempre con la madre dà a quest’ultima un ingiusto vantaggio. E ci tengo a ribadire che sicuramente l’avrà…. l’avrà condizionata su cosa dire,” si inserì Pace, evitando per un soffio di ripetere imbeccata e di beccarsi un’altra strigliata di Noemi.

 

“Se il suo cliente si fosse degnato almeno di farle una visita in tutti questi mesi, forse non sarebbe avvantaggiata, come dice lei. Ma non l’ha fatto. E per me è vergognoso ed inspiegabile che un padre non provi nemmeno il desiderio di vedere sua figlia, o che comunque metta prima il desiderio di rivalsa verso l’ex moglie, rispetto alla voglia di vedere sua figlia e-”

 

“Moderi i termini avvocato!” lo interruppe Pace: in effetti Andrea c’era andato giù un po’ pesante e lo vedeva bello infervorato, anche se concordava con lui al cento percento.

 

Forse il fatto che il caso fosse di famiglia lo rendeva più personale, perché non se lo era mai immaginato come uno che si scaldava così tanto. Su quello aveva preso più da sua madre e dallo zio ed era assai più controllato di lei.

 

“Signor giudice, può chiedere alla minore se la madre le ha mai parlato male del padre o le ha impedito di vederlo?”

 

“Noemi, puoi rispondere,” concesse il giudice ad Andrea.


“No, mamma dice sempre che papà mi vole tanto bene, anche se io no ci credo più e ogni tanto prova a chiamarlo per farmi parlare ma lui non risponde e-”

 

“E papà ti vuole bene, Noemi!”

 

Era stata Rosa a parlare, contravvenendo al protocollo, ma aveva un tono ed uno sguardo che nemmeno il giudice osò dire niente, “ti vuole bene, non ne devi dubitare: è con me che è arrabbiato. Tu non c’entri niente, hai capito?”

 

Noemi annuì ma poi scoppiò a piangere in un modo che le strinse il cuore ed il giudice fece cenno a Rosa che le si avvicinò e la prese in braccio per calmarla.

 

Alzò gli occhi verso Salvatore che, per una volta, non aveva il suo solito sguardo strafottente, ma sembrava commosso ed in imbarazzo, perfino. Anche se altro che imbarazzo avrebbe dovuto sentire!

 

“Ho elementi sufficienti per decidere e non devo nemmeno ritirarmi. Se è necessario fare uscire un attimo la minore dall’aula, perché si possa calmare, posso pronunciarmi subito dopo.”

 

Ma Rosa sussurrò qualcosa a Noemi e lei scosse il capo, tirò su un paio di volte col naso e sembrò tranquillizzarsi, tornando dal loro lato dell’aula e sedendosi in braccio alla madre.

 

“Da quanto emerso oggi mi sembra evidente che, come sostenuto dall’avvocato Galiano, la minore sia serena, assertiva e mi pare anche che stia ricevendo un’ottima educazione emotiva. Non solo, ritengo anche chiaro che abbia trovato un suo equilibrio qua a Roma ed una rete stabile di affetti che è per lei importantissima. Di conseguenza, affido la minore in via prevalente alla madre, Calogiuri Rosaria, con possibilità di visita per il padre per due fine settimana al mese. Rigetto le richieste di addebito, poiché lo scioglimento del vincolo emotivo, affettivo e di sostegno tra i coniugi è avvenuto in data ben anteriore alla data di avvenuta richiesta di separazione da parte della signora Calogiuri. Considerate le spese sostenute da quest’ultima per la minore, stabilisco inoltre che Minichiello Salvatore debba versare a favore della minore un mantenimento in misura di euro cinquecentoventi al mese. Stabilisco inoltre che debba versare anche tutti gli arretrati da gennaio a data odierna, che potranno essere dilazionati in tre rate mensili, a partire dal prossimo mese.”

 

Sentì chiaramente le proteste di Salvo e dell’avvocato, sia sui soldi che per il poco tempo di visita, ma il giudice intervenne con decisione, “silenzio in aula! Signor Minichiello, se mi permette di darle un consiglio, due fine settimana al mese sono già molto di più di quanto lei abbia visto la minore finora. Le consiglio quindi di rispettare questi appuntamenti e di riprendere un legame stabile con la minore. In caso contrario, quando ci saranno le udienze per il divorzio, o quando dovremo rivedere i parametri del mantenimento, se non troverete un accordo, potrei trovarmi a prendere una decisione ancora più netta e, se lei continuerà ad essere così assente, potrei dover attribuire l’affido esclusivo alla madre, per garantire la stabilità emotiva della minore. L’udienza è tolta.”

 

Nonostante le proteste di Salvo, che si riaccesero ulteriormente - e menomale che l’avvocato doveva aver imposto alla matrona di rimanersene a Grottaminarda! - il giudice uscì e così si affrettarono a fare anche loro, scortati da Andrea e da Calogiuri, potendo finalmente tirare un sospiro di sollievo.

 

L’incubo, almeno per un anno buono, era finito.

 

O forse no… - pensò, quando vennero raggiunti da Salvo e dall’avvocato, con facce a dir poco scurissime.

 

“Tu… tu-”

 

“Io cosa?! Tu, invece di litigare con me, che tanto è inutile, potresti anche salutare tua figlia e dirle qualcosa che non sia un urlo, visto che sono quasi otto mesi che non vi parlate. Se ci tieni veramente a lei, smettila di fare cazzate, Salvo!”

 

Rosa, fiera e pungente quanto il suo soprannome, lo aveva bloccato sul nascere lo sfogo di quell’ominicchio.

 

Salvo, preso completamente di sorpresa, arretrò fisicamente di un paio di passi, poi guardò verso Noemi che aveva gli occhioni grandi e pieni di lacrime e con un, “ci vediamo appena posso…” appena sussurrato - indubbiamente parecchio vigliacco e pure un poco terrorizzato - se ne scappò, come il grande uomo che era, verso la porta del tribunale, seguito dal principe del foro che, per una volta, era stato invece sforacchiato.

 

Noemi scoppiò di nuovo a piangere e stavolta fu Pietro a prenderla in braccio e a cercare di rassicurarla che il suo papà non stava tanto bene e doveva starsene un poco da solo, ma che si sperava l’avrebbe vista presto, non appena sarebbe stato meglio.

 

E si chiese se anche Pietro stesse pensando ad un’altra causa di separazione e di divorzo, sebbene lui un padre assente non lo fosse stato proprio mai, anzi.

 

Ma non era per niente facile essere dei bravi genitori quando non si era in pace con se stessi. Aveva capito solo negli ultimi anni quanto fosse fondamentale.

 

Toccandosi la pancia, promise a se stessa e alla piccoletta che, questa volta, sarebbe stato diverso. Non sarebbe mai stata una mamma perfetta, di quelle presenti sempre, amiche delle figlie, iper moderne e iper accessoriate. Ma forse sarebbe stata una madre meno ansiosa, più presente e più serena, oltre che più consapevole. Più affettuosa, anche se a modo suo, naturalmente.

 

Ed avrebbe fatto di tutto per riuscirci.

 

*********************************************************************************************************

 

CRACK

 

Si svegliò di botto, chiedendosi se stesse sognando, anche perché, da quando Imma era incinta e Francesco si svegliava spesso per reclamare cibo ed attenzioni, il sonno era molto leggero e a volte gli capitava di rimanere in una specie di mezzo dormiveglia.

 

CRACK

 

Ma no, quel rumore c’era davvero e non era giustificabile con qualche fenomeno meteorologico: non pioveva ed il vento non era forte.

 

Si alzò, di scatto, quando di nuovo quel rumore come… come di legno che si rompeva gli giunse alle orecchie e poi un altro tipo di suono, come… un trapano?

 

Il sangue gli si gelò nelle vene, realizzando cosa poteva significare. Si avviò rapidamente verso l’armadio, lo aprì ed estrasse dal ripiano più alto la custodia, dove riponeva la pistola da quando avevano un piccoletto che gattonava come un ossesso dentro casa.

 

La aprì con le chiavi che teneva nel portafoglio ed in quel momento un, “che succede? Calogiuri?” spaventato lo portò a girarsi verso Imma, senza rendersi nemmeno conto di avere la pistola in mano ed al suo urlo si bloccò.

 

“Calma, Imma, sono io e-”

 

“E questo sei tu, mannaggia a te, Calogiuri, ma… ma cosa sono questi rumori?”

 

Li aveva sentiti anche lei ed aveva tratto la sua stessa conclusione, era evidente, da come era scattata a sedere e poi in piedi. E, per una volta, non gli venne nemmeno in mente di rimproverarla per come sollevò Francesco dal lettino e se lo prese in braccio, stringendolo forte.

 

“Chiudi la porta a chiave e, se serve, mettetevi nell’armadio. Prima però chiama Mariani e dille di venire qua subito con una, anzi no, due volanti, che è meglio. Se non risponde Mariani, chiama il 112 e dì che è un ordine, va bene?”

 

“E tu che vorresti fare?”

 

“Vado a vedere che succede: ho la pistola e… sono addestrato. Non ti devi preoccupare per me. Chiama Mariani o comunque i soccorsi e poi mettetevi il più al riparo possibile. E tieni anche lei,” proclamò, prendendo Ottavia per la collottola e piazzandogliela in braccio insieme a Francesco, nonostante le proteste di Ottavia e di Imma stessa.


“Calogiuri…”

 

“Sì?”

 

“Stai attento che… insomma… stai attento!”

 

Non servivano parole per capire a cosa si stesse riferendo. Le stampò un bacio sulle labbra e si affrettò a richiudere la porta dietro di sé, udendo con sollievo lo scatto della serratura.

 

E poi, pistola spianata, si avviò lungo il corridoio, fino al salotto, e spiò l’angolo che dava sulla porta di ingresso, che era anche il punto da cui proveniva tutto quel rumore.

 

Fece scintillare giusto per un attimo la torcia del cellulare e notò che l’anta era quasi sfondata in due punti. Scorse anche la punta di un trapano che si ritraeva da uno di tre buchi intorno alla serratura.

 

Avrebbe tanto voluto pensare a dei semplici ladri ma-

 

BANG!

 

Fece appena in tempo a ripararsi dietro l’angolo: al primo colpo di pistola ne seguirono altri tre, che gli rimbombarono nelle orecchie, lenti e cadenzati, l’odore inconfondibile di polvere da sparo che si diffondeva nell’aria, facendogli rizzare ogni singolo pelo.

 

Aveva solo sei proiettili e si chiese in quanti fossero. Non si poteva permettere di sprecarli sparando alla porta che, molto probabilmente, da lì a poco avrebbe ceduto.

 

Il cuore in gola, si preparò al peggio: doveva resistere il più a lungo possibile, per salvare almeno Imma, Francesco e la piccola. Doveva resistere fino a che sarebbero arrivati i rinforzi.

 

Dopo secondi che gli parvero infiniti, o forse erano minuti, non lo avrebbe mai saputo con certezza, in mezzo al battito martellante del suo cuore percepì anche un’altra cosa.

 

Silenzio.

 

Non c’era più nessun rumore metallico, il legno aveva smesso di lamentarsi e non c’era altro che il ronzio dell’impianto di condizionamento - che aveva convinto a forza Imma a far installare - e degli altri elettrodomestici, più le tubature di qualche vicino che doveva aver aperto l’acqua.

 

Si chiese improvvisamente con terrore se qualcuno di loro sarebbe uscito a controllare: su quel pianerottolo ci stavano due appartamenti e forse avrebbe dovuto avvertire gli occupanti di quello di fronte con una telefonata ma… ma non poteva avvertire tutto il condominio e gli spari… gli spari dovevano averli sentiti tutti, no?

 

E pure il silenzio… magari era solo una tecnica per stanarlo, per farlo andare a vedere e prenderlo di sorpresa mentre apriva la porta o-

 

“Mani in alto, Carabinieri!”

 

La voce di Mariani, anche se attutita, fu come una luce in mezzo alle tenebre e poi vide proprio una luce, vera, che fendeva il buio in un triangolo e in una… croce?

 

Temendo di star delirando, osò affacciarsi verso la porta ed udì un “libero!” ed un “Calogiuri, qua non c’è più nessuno, apri!” che furono un sospiro di sollievo.

 

Si avvicinò alla porta e notò, con un brivido, che non era nessuna allucinazione: magari si fosse trattato di quello!

 

A parte i tre buchi intorno alla serratura, infatti, ce n’erano altri quattro, in mezzo alla porta, provocati da fori di proiettile. Ed erano proprio come i quattro estremi di una croce.

 

Un messaggio così chiaro da provocargli un moto di nausea e di rabbia insieme, mentre guardava dallo spioncino e sì, gli occhi azzurri erano proprio quelli di Mariani e dietro di lei riconobbe anche-

 

Mancini?

 

Con mano tremante, ritrovò la chiave, aprì la porta a fatica - che quei bastardi avevano mezzo distrutto la serratura e per poco non li avevano chiusi dentro! - e sì, quelli sul pianerottolo erano proprio Mariani, che sembrava aver visto un fantasma per quanto era pallida, e Mancini, che lo guardò con una rabbia, con odio così intensi, che per un secondo temette che fosse stato lui a sparare e che Mariani ne fosse complice.

 

Ma no, lo sguardo di Mancini si era spostato più in basso, ai suoi piedi, ed era lì che si fissava tutto quel livore, tutto quel-

 

Gli sfuggì una specie di conato, che per poco non vomitava davvero, quando vide per terra una specie di cosa pelosa piena di sangue.

 

Se non avesse saputo che era in camera al sicuro con Imma, avrebbe pensato subito ad Ottavia ma-

 

Ma no, non era Ottavia. Abbassandosi giusto un poco realizzò che era una gatta nera, o quello che ne rimaneva, il sangue che le ricopriva il manto, rendendolo lucente in un modo spettrale e-

 

Un secondo conato lo prese e si sentì sorreggere giusto in tempo da Mariani perché… perché la gatta non era stata soltanto una gatta. La pancia, la pancia era gonfia e non solo per le ferite ma perché lì dentro…


“Era incinta…” gli sfuggì in un singhiozzo ed alla nausea si unì l’odio, “quei bastardi! Era incinta!”

 

“Calogiuri? Che succede? Ho sentito Mariani e-”

 

“Ferma! Fermati!” urlò, disperato, voltandosi verso Imma che stava procedendo verso di lui, per fortuna senza Francesco, che doveva aver lasciato al sicuro in camera.

 

Ma Imma, che gli aveva sorriso per un attimo - forse sollevata al vedere Mariani - tanto per cambiare, non ubbidiva ad un ordine che fosse uno e lo aveva praticamente raggiunto.

 

Provò con tutte le sue forze ad intercettarla e a bloccarla, in un modo che non facesse male alla bambina, ma Imma riuscì a divincolarsi.

 

Fece giusto in tempo a sentire il “Mariani? Dottore?” confuso, l’urlo ed a prenderla tra le braccia, un secondo prima che il suo peso gli cedette addosso, inerme, come si sentiva anche lui, come non si era forse sentito mai, neanche nei momenti peggiori.





 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qui dopo le vacanze estive ed alla fine di questo lungo capitolo. Spero non sia risultato troppo sdolcinato ma, come avrete potuto leggere, ha un finale decisamente amaro. Qualcuno non vuole proprio arrendersi ed Imma e Calogiuri dovranno lottare fino all’ultimo, anche adesso che Imma è in condizioni non proprio ideali per farlo.

Non avrei mai pensato di arrivare fino a 75 capitoli e vi ringrazio di vero cuore per il sostegno e per la passione con la quale continuate a seguire questa storia, quasi tre anni dopo che ho iniziato a scriverla. Presto ci sarà la seconda parte della seconda stagione ma, comunque vadano gli eventi, a parte magari poi fare qualche storia più breve sulla seconda stagione, cercherò di portare primariamente a termine questa, sperando che continui ad essere di vostro interesse fino alla parola fine.

Un grazie in particolare a chi mi ha recensito: i vostri commenti sono un grandissimo incentivo e sprone per me, per fare sempre meglio e cercare di superare i blocchi che inevitabilmente la scrittura prolungata comporta.

Un grazie speciale anche a chi ha inserito questa storia nelle preferite o nelle seguite.

Tempo di scrittura permettendo, il prossimo capitolo dovrebbe arrivare il 25 di settembre, giornata in cui tutti noi avremo ben altro diritto e dovere civico da assolvere, e subito prima delle prime puntate della seconda parte della seconda stagione, che saranno il 27 e il 29 di settembre.

A presto!

 

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Capitolo 76
*** Breccia ***


Nessun Alibi


Capitolo 76 - Breccia


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Imma… Imma… Imma!”

 

Una voce lontana, poi un poco più vicina, sempre più vicina, fino all’urlo che squarciò il buio da cui era avvolta e, tutto d'un colpo, una luce l’accecò.

 

“Imma! Imma, mi senti?”

 

Non lo vedeva, ancora no, la vista che ondeggiava nei colori dell’arcobaleno, come se tra lei ed il resto del mondo ci fosse stato piazzato un caleidoscopio gigante.

 

Percepì però la mano che stringeva la sua e ricambiò, mentre finalmente quelle particelle multicolore si diradarono, lasciando il posto solo all’azzurro di due occhi che la guardavano con un terrore che la riscosse del tutto.


“Imma, mi senti? Riesci a sentirmi?”

 

“E come faccio a non sentirti se urli così, Calogiù!” esclamò, anche se le orecchie le fischiavano ancora un po’.

 

Sollievo negli occhi di Calogiuri, mentre di botto il panico la invase insieme a ricordi sparsi di nero, rosso, di polvere da sparo, che si fecero sempre più nitidi.

 

“Che è successo?! La bambina, io-”

 

“Tranquilla, Imma. Sei svenuta, ma non sei caduta a terra e… non dovresti aver preso colpi sull’addome. Per sicurezza Mariani ha chiamato la ginecologa, mentre cercavo di farti riprendere, e tra qualche minuto dovrebbe essere qui per visitarti, prima di andare.”

 

“In… in che senso, Calogiuri? Andare dove? In ospedale?” chiese, ancora confusa, guardandosi però un attimo intorno e notando i visi preoccupati di Mariani e… Mancini? Che ci faceva lì?

 

Ma, ripensandoci meglio, li aveva visti entrambi prima di notare-

 

Un conato di vomito e si sentì sollevare, un tessuto freddo sulla testa ed una bacinella di plastica tra le mani, mentre vomitava bile ed acqua.

 

Le sembrarono attimi eterni e allo stesso tempo brevissimi, prima che lo stomaco smettesse di contrarsi, quasi al ritmo con alcuni colpi nelle viscere che le fecero male e bene insieme.

 

“Si muove! Si muove, scalcia! E per una volta un po’ di casino te lo becchi pure tu, signorina!” esclamò, la mano sull’addome per tranquillizzarla, la risata di Calogiuri nella sua, gli occhi pieni di lacrime e non solo per lo sforzo.

 

Ed era così grande il sollievo di sentirla, viva dentro di sé, che quasi ignorò l’imbarazzo di essersi mostrata così debole davanti a tutti e-

 

“Francesco!” gridò - e altro che panico - almeno finché un “Im-ma” scandito in quel modo che la faceva sciogliere, un risolino ed un miagolio non raggiunsero le sue orecchie.

 

Vide Mariani abbassarsi e sollevare qualcosa - l’ovetto! - e dentro c’erano Francesco, che la guardava curioso, più bello del sole, ed Ottavia, che gli si era appollaiata addosso, quasi come per proteggerlo, e che alternava leccate alle manine di lui con miagolii rivolti a lei.

 

Altro che nodo in gola, mannaggia pure a lei!

 

“La dottoressa dice che tra cinque minuti dovrebbe esserci,” li informò poi Mariani, dopo aver poggiato l’ovetto sul divano, vicino a lei, con il suo solito sorriso rassicurante, anche se un po’ meno del solito, “poi possiamo prepararci per andare.”

 

“Ma… ma se tanto devo andare in ospedale, perché viene qui mo?”

 

“Non in ospedale, Imma, a meno che non sia necessario. Dobbiamo andare in un’altra casa, questa non è più sicura. Il dottore ne sta cercando una e-”

 

“De Luca la sta cercando in realtà. Lui e Ranieri stanno predisponendo tutto per il vostro trasferimento. Per ora dovrebbe essere un alloggio temporaneo, qua nella capitale. Poi… bisognerà valutare se… se non sia il caso che vi allontaniate di più, almeno per un po’. Ma, viste le sue condizioni, dottoressa, immagino che preferiate, se possibile, avere accesso alla vostra ginecologa di fiducia. Per questo le abbiamo chiesto di raggiungerci, insieme ad Irene. E poi troveremo un modo di organizzare le visite. Sperando, come ha detto il capitano, di poterle evitare il ricovero, visto che dovrebbe essere piantonata.”

 

“Ma come piantonata?! Ma quanto… ma per quanto sono stata incosciente?”

 

“Qualche minuto… cinque al massimo, ma… ma il dottore e Mariani sono stati davvero rapidissimi e si sono attivati subito, mentre ti prestavo soccorso. Non ti devi preoccupare e-”

 

“E lo sai che questa frase mi fa preoccupare almeno tre volte tanto, Calogiuri! Forse pure dieci stavolta. Cioè voi, belli belli, avete già deciso tutto qua, e io che sono? Un pacco postale? Questa è casa nostra e-”

 

“E non è più sicura, Imma. Lo sai anche tu. Come sono già stati qui torneranno. La porta andrà cambiata e dovremmo avere un plotone davanti all’ingresso per poter stare tranquilli, e forse non basterebbe nemmeno quello. Non che non ci toccherà comunque una scorta, ma-”

 

“La scorta?! Ma che stiamo scherzando? A me basti tu e-”

 

“Ma io non basto, Imma. Non questa volta. Ci è andata bene che… che forse voleva essere soltanto un avvertimento, o forse hanno capito che sarebbero arrivati i rinforzi, ma… la porta era a tanto così da cedere. E tu non devi avere stress e preoccupazioni in questi mesi: dobbiamo pensare a te, alla piccoletta, e anche a Francesco. Non possiamo correre altri rischi e traumi, lo sai.”

 

Cerco di deglutire, anche se quella specie di palla in gola non si spostava.

 

Aveva ragione. Razionalmente lo sapeva che Calogiuri aveva ragione. Ma l’idea di abbandonare quella casa, casa loro, il loro nido e rifugio per tanti anni bellissimi - nonostante tutti i problemi - e vivere come dei ladri in fuga… era come dargliela vinta a quei bastardi.


“Lo so a cosa stai pensando, dottoressa. Ma in questo momento, la più grande vittoria per Romaniello, i Mazzocca e gli altri sarebbe quella di… di…”

 

Non riuscì a finire la frase, ma non serviva. Gli aveva letto nel pensiero, così come lui a lei.

 

“Va… va bene…” riuscì solo a dire, la voce che le si spezzò, prima di una carezza sulla guancia e di trovarsi avvolta in un abbraccio che, nonostante tutto, aveva sempre il potere di tranquillizzarla.

 

Ce l’avrebbero fatta, insieme. Dovevano farcela.


Quanto era vero che si chiamava Imma Tataranni.

 

*********************************************************************************************************

 

“Eccoci qua…”

 

Fece passare per prima Imma, subito dopo a Mancini e Ranieri, e la seguì, l’ovetto in una mano e il trasportino di Ottavia nell’altra.

 

Chiudevano la fila Mariani, Irene, Ranieri e De Luca.

 

Si erano divisi su diverse auto ed avevano fatto infiniti giri per la capitale, finché finalmente si erano ritrovati lì, in un appartamento in pieno centro storico.

 

Al suo sguardo sorpreso, De Luca aveva spiegato che era zona di ambasciate e ministeri, quindi piena di agenti in incognito già di suo, e in più di turisti. La presenza di una scorta o di persone nuove non avrebbe dato nell’occhio come in altri quartieri. Certo, non avrebbero praticamente potuto uscire o quasi, ma di quello ne erano già consapevoli anche prima di lasciare la loro casa.

 

Ma sperava di poterci tornare, in un giorno non troppo lontano, quando l’incubo del processo sarebbe finito e tutti loro avrebbero potuto tornare a respirare.

 

L’importante ora erano Imma, Francesco e la bimba che, per fortuna, a sentire la ginecologa, stava benone.

 

Lo shock però era stato tanto ed avevano bisogno di una tranquillità che temeva davvero non avrebbero potuto avere, non prima che i Romaniello ed i Mazzoca fossero stati definitivamente condannati.

 

E forse nemmeno dopo.

 

“Se avete bisogno di qualsiasi cosa, noi siamo a disposizione,” offrì Mariani con un sorriso preoccupato.


“Sì, stiamo individuando una scorta tra i miei uomini più fidati e la predisporremo quanto prima. Fino ad allora io, Mariani e Ranieri faremo a turno e-”

 

“E noi dobbiamo concentrare tutte le energie sul maxiprocesso,” intervenne Imma, interrompendo De Luca, “è l’unico modo per sperare di uscire da questa situazione e-”

 

“Dottoressa, lei ha ragione, ma manca ancora tempo all’udienza, tra poco cominciano le vacanze estive e-”

 

“E chi ha tempo di pensare alle vacanze, dottore?!” esclamò, interrompendo Mancini, “qua altro che vacanze e-”

 

“Intendo dire le vacanze in procura e non solo. La città si svuoterà, inevitabilmente e… e, almeno per le settimane principali di agosto, sarebbe meglio se vi allontanaste da Roma, in un posto dove dare meno nell’occhio. Magari una località di mare, che sarà piena di turisti. Possiamo organizzare la scorta e-”

 

“E potreste venire a Bari o nei dintorni,” si inserì Ranieri, con un tono che voleva essere rassicurante ma risultava comunque teso, “possiamo trovare un alloggio lì. Così sarete vicini sia a Matera, dove avete dei contatti, sia ai miei di contatti e-”

 

“Ma certo!”

 

Era stata Imma a parlare: incrociò il suo sguardo che aveva quella decisione di quando aveva avuto un’intuizione geniale delle sue.

 

“Ho avuto un’idea. Forse folle ma… potrebbe funzionare,” spiegò, con quel sorrisetto che era la sua croce e la sua delizia.

 

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“Secondo te hanno capito?”

 

Sospirò, sollevandosi un attimo gli occhiali, mentre osservava Mariani guidare con la sua solita precisione.

 

“Non lo so. Immagino avessero altri pensieri per la testa. E poi chi conosce meglio Calogiuri sei tu.”

 

“Ma forse tu conosci di più Imma. Anche se è meglio che non ci penso troppo,” ironizzò lei, con un tono ed un’espressione che, se fosse stato lui al volante, avrebbe fermato la macchina per darle un bacio.

 

Forse anche più d’uno.

 

“Non lo so… Imma di solito capisce tutto ma… aveva molto altro a cui pensare. Piuttosto è il capitano che mi preoccupa. Lui era molto stranito quando ci ha visti, ed avrà avuto più tempo per riflettere."

 

“Ma Ippazio era preoccupatissimo per Imma e poi… e poi di solito lui è uno che lo capisci al volo. E, anche adesso che siamo andati via, non mi è sembrato sospettoso. Non per come lo conosco, almeno.”

 

“Speriamo… anche se… per come sono messi al momento… non potrebbero dirlo praticamente a nessuno. Quasi.”

 

“Secondo te quella di Imma è veramente una buona idea?”

 

“Non lo so… è un po’ rischiosa, Chiara, ma… ma effettivamente potrebbe funzionare. E della capacità di Imma di giudicare le persone mi fido molto.”

 

“A parte quando si trattava di Calogiuri,” lo punzecchiò di nuovo, facendogli la linguaccia, tanto che, non appena arrivarono al primo semaforo rosso, le afferrò il viso per restituirle il favore.

 

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“Davvero non ti posso nemmeno vedere?”

 

“Ma che ti sei ciecata o non ti funziona la telecamera, Valentì?”

 

“Mamma! Lo sai cosa voglio dire! Vederci di persona!”

 

Erano in videochiamata. Lei dall’appartamentino minuscolo in cui li avevano piazzati, Valentina dal suo monolocale.

 

“Meglio di no. Almeno per qualche tempo, forse fino all’udienza. Non voglio farti correre rischi inutili, Valentì, né a te, né a tuo padre, né a nessun altro.”

 

“Papà è preoccupato, mamma, e molto, ma-”

 

“Ma lui, Rosa e Noemi saranno ben sorvegliati, almeno per il periodo delle vacanze. Sia qua, sia a Matera. Chi mi preoccupa sei tu, Valentì!”

 

“Lo so, mà, ma… è proprio necessaria la scorta? Chi vuoi che ci vada in Inghilterra, in Scozia ed in Irlanda in questa stagione?”

 

“Dammi retta, Valentì, è meglio così. E poi dovrebbero essere agenti giovani, no? Magari fate pure amicizia.”

 

“Sì, come no!” sospirò di nuovo la figlia, mostrandole dal cellulare i due carabinieri - un ragazzo e una ragazza che sicuramente non avevano più di venticinque anni - impegnati a parlarsi fitto fitto.

 

Ma erano stati selezionati da De Luca e Ranieri, quindi dovevano essere in gamba.

 

“Dai, vi fate una bella vacanza prolungata, così festeggiate il diploma di Penelope e poi, quando le acque si calmano un poco, ci potremo incontrare. Non farmi preoccupare pure tu, va bene?”


“Sì, perché sono io che ti faccio preoccupare mo, mà. Non tu che ogni due minuti te ne succede una, e che mo c’hai pure quei bastardi che ti inseguono! Cerca tu di non farmi preoccupare e non fare di testa tua, come al tuo solito!”


“Senti chi parla! Mannaggia a te, Valentì, la prossima volta che ti becco…!” la minacciò con una mano alzata, seppure il sorriso ed il tono commossi la rendessero ben poco credibile.

 

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“Come?!”

 

“Mi dispiace, Melita, ma… ma non è sicuro, né per te né per lui. Quindi…”

 

“Ma quanti mesi starete via? Per quanto non potrò vederlo?!”

 

Era stato praticamente un grido - Melita aveva recuperato quasi del tutto almeno la voce - e Francesco, che le era in braccio e che stava cullando dopo l’ennesima canzone, si era messo a piangere dallo spavento.

 

O forse una parte di lui capiva e gli sarebbe mancata? Difficile dirlo.

 

Di sicuro però capiva benissimo la rabbia e la paura di Melita, dopo la visita improvvisata e veloce, seguita dall’annuncio che sarebbe stata l’ultima per un tempo indefinibile.

 

“Non lo so, Melì, non lo so e capisco come ti senti, ma-”

 

“Non credo che tu possa capire!” lo interruppe bruscamente, due lacrime che le rigarono le guance, mentre riprendeva a cullare Francesco, che continuava a piangere.

 

“E invece sì. L’idea di non vedere più Francesco… non sai quanto ci abbiamo pensato. O forse lo sai. E capisco che per te, che sei qua bloccata a letto e… con quello che lui significa per te… lo so che è dura. Ma… ma anche la DIA, la procura e l’assistente sociale ritengono che sia la cosa più sicura. Dopo che ci sarà l’udienza potremo stare più tranquilli. Forse anche prima e-”

 

“E, nel frattempo, magari lui si scorda di nuovo di me e perdiamo tutti i progressi fatti!”

 

Era disperata e la capiva, eccome se la capiva, anche se una parte di lui non avrebbe mai voluto lasciar andare Francesco, non dopo tutti i progressi che stava facendo anche con loro.

 

Ma Melita aveva solo lui, era tutto il suo mondo e glielo stavano togliendo un’altra volta.

 

“Possiamo fare delle videochiamate. Possiamo registrare la tua voce e fargliela sentire, fargli sentire te che canti. Ti prometto che non permetteremo che si dimentichi di te, va bene? E… e magari quando saremo più liberi noi, anche tu sarai più in condizioni di… di insomma… di potertene occupare meglio e di fare più cose con lui. Noi ti abbiamo fatto una promessa e non molliamo né te, né lui. Mi credi?”

 

Melita si morse il labbro, in un modo che gli ricordava sua sorella quando erano piccoli, ma poi annuì e scoppiò a piangere.

 

D’istinto, senza pensarci, l’abbracciò, mentre anche Francesco tra loro piangeva.

 

Forse era un’imprudenza, ma era sicuro che Imma, alla quale lo avrebbe ovviamente raccontato subito, avrebbe fatto lo stesso al posto suo.

 

E anche l’assistente sociale, che insieme a Mariani li spiava dalla finestra tra il corridoio e la stanza di terapia semi intensiva, gli fece un cenno di assenso.

 

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“Imma!”

 

Un mare di capelli neri davanti agli occhi ed un abbraccio che quasi la travolse, ma senza nemmeno sfiorarle la pancia.

 

Diana! - fu il primo pensiero, a parte Calogiuri, che era sempre così attento.

 

Ma quel profumo di gardenia, sicuramente costosissimo, non era della sua ex cancelliera e forse unica vera amica. E nemmeno quelle braccia più ossute, nervose quasi, che però la stringevano con dolcezza.

 

Era il sentimento che ci stava dietro ad essere simile, eppur diverso. E tutto stava in quella parola, sorellanza, che la spaventava molto e alla quale non era proprio abituata.

 

E però lì stava e a quel posto e a lei aveva pensato, nel momento del bisogno.

 

“Stai bene? Non sai quanto sono felice che tu abbia deciso di venire qui!”

 

Come se, al solito, le leggesse nel pensiero - quasi come solo Calogiuri riusciva a fare - Chiara si staccò e le sorrise, continuando però a tenerla per le spalle, mentre alternava lo sguardo tra i suoi occhi e la pancia sempre più prominente.

 

“Sta crescendo, eh? Tutto bene? Tu stai bene? Che immagino lo spavento che ti sei presa, che vi siete presi, e con la gravidanza proprio non ci voleva!”

 

“Sto bene. Stiamo bene,” la rassicurò, mettendosi una mano sulla pancia e sentendo, immediatamente, un calcetto di conferma, per fortuna non troppo forte, “la piccola calciatrice qua è tosta!”

 

“Ma… ma è una bambina?”

 

Il modo in cui la voce di Chiara si spezzò e gli occhi scuri si velarono di lacrime, la fecero sentire in colpa per non averla avvisata della scoperta. Non ci aveva pensato.


“Sì, sì, è una bambina. Tutte femmine qua! E pure con un bel caratterino, che te la raccomando!” confermò, percependo una mano sulla schiena e voltandosi per vedere Calogiuri che sorrideva, orgogliosissimo come sempre.

 

E poi lo vide abbassarsi leggermente verso l’ovetto nel quale il principino stava comodamente spaparanzato e pronunciare, “pure tu mica scherzi, vero, Francé?”


Non avrebbe mai saputo dire cosa la commosse di più. Se il tono di Calogiuri, se il risolino di Francesco ed il modo in cui allungò la manina per stringere un dito di lui, se lo sguardo sempre più adorante che gli riservava e che era ovviamente pienamente ricambiato.

 

“Insomma… un maschio e una femmina. Un po’ per uno. Ne avrete di lavoro da fare!”

 

“Eh… in realtà… bisogna vedere per quanto ce l’avremo ancora con noi, il signorino. Anche se… col fatto della protezione… abbiamo dovuto stoppare le sue visite con la madre biologica. Forse fino all’udienza. Quindi…”

 

Deglutì, mentre coglieva nel tono di Calogiuri sia il dispiacere che il senso di colpa. Per via della gravidanza e del fatto che fosse meglio evitare di andare per ospedali, gli aveva dovuto delegare le visite a Melita. E non doveva essere stato facile per lui. Le venne un moto di tenerezza, a ricordare il modo preoccupato con il quale le aveva confessato di aver abbracciato Melita piangente.

 

Lo aveva proprio terrorizzato nei mesi del distacco tra loro e da un lato meglio così… dall’altro… le sembrava così sciocco col senno di poi temere Melita o chiunque altra, quando lui dimostrava ogni giorno non solo a lei, ma anche a Francesco e alla loro piccolina, di chi fosse perdutamente innamorato.

 

E lo sembrava ogni giorno di più, mannaggia a lui, pure se le pareva impossibile. Ma, del resto, anche per lei era lo stesso ed era una cosa inspiegabile, che andava ben oltre quella familiarità che veniva con il tempo, la convivenza e mo il dividere la responsabilità di un bambino e della gravidanza.

 

“Comunque, sono davvero felice che tu abbia accettato l’invito, anche se in circostanze non proprio felici. E che ti sia fidata a venire qui.”

 

Le parole di Chiara la riportarono alla realtà e cercò di ricambiare il sorriso luminoso che le stava rivolgendo, anche se le toccò confessare, toccandosi la fronte, “in realtà… in realtà ammetto che… che è anche perché credo che sia l’ultimo posto nel quale ci verrebbero a cercare. Insomma… come diceva Poe… se vuoi nascondere qualcosa, devi tenerla bene in vista. Però-”

 

“Però sei qua. E questo conta. E che ti fidi di me!” la interruppe Chiara, per nulla offesa, con un altro sorriso, e si sentì afferrare per un braccio e condurre verso il salone principale, “io posso andare e venire da Matera e da Roma, non ti devi preoccupare, non starò sempre qua tra i piedi e-”

 

“Ma no, Chiara, questa è casa tua e mica ti vogliamo cacciare, no! E poi è così grande che, volendo, potremmo pure non vederci mai. Io… lo sai che non sono molto socievole ma… ma credo che possiamo convivere tutti tranquillamente per il tempo necessario. Poi, se invece non ti senti sicura, per via delle mie circostanze, e se non vuoi rimanere qua insieme alla scorta che ci hanno appioppato, lo capisco.”

 

Chiara, come lei, rivolse lo sguardo ai carabinieri che erano stati loro assegnati, che stavano portando i bagagli ed occupandosi di mettere ancora più in sicurezza il casale.


“Ma no, figurati. A me fa solo che piacere avere un poco di compagnia. E poi… e poi non lascerei i cavalli per troppo tempo da soli. Ma magari potete occuparvene anche voi, no?”

 

“I cavalli con la gravidanza forse non sono una buona idea…” intervenne subito Calogiuri, apprensivo come non mai, specie dopo lo scampato pericolo.

 

“Ma mica da cavalcare. Poi ormai sono tranquille, anziane. E sono sensibilissime, come tutti gli animali: sicuramente percepiranno la gravidanza e possono aiutare a rilassare davvero tanto. Sono meglio di una terapia.”

 

Il meooooooowwww un poco offeso ed incazzoso di Ottavia, dal suo trasportino, li fece scoppiare a ridere.


“Che fai la gelosa pure tu, mo, Ottà? Tu rimani la migliore terapia, tranquilla, almeno quando non scassi tutto lo scassabile peggio di papà tuo.”

 

Un altro meeeeowwww indignato e Calogiuri si abbassò del tutto per liberarla ma lei, per tutta risposta, le salto in braccio e ci si rifugiò, peggio di Francesco.


Del resto, era tutto nuovo per lei. E per loro.

 

“Tranquilla, Ottà, dopo ci facciamo un bel giro della casetta qua. E poi cerchiamo di capire come fare coi cavalli, a parte che dubito che vorrai uscire.”

 

“In ogni caso sono abituate coi randagi della zona. Sono docilissime, veramente, sono sicura che andranno d’accordo.”

 

“Eh, ma lei non è docilissima, per niente.”

 

“Da qualcuno avrà pure preso…” scherzò Chiara, sempre più divertita, “e comunque… comunque riguardo alla convivenza… di sicuro dovrò andare almeno qualche giorno a Roma da Andrea. E non solo per lasciarti più tranquilla, ma perché… c’è una novità.”

 

“Una novità? E cioè?” chiese, preoccupata, che di solito le novità dei Latronico non erano buone.

 

Chiara però sorrise in un modo, se possibile, ancora più luminoso, che le ricordava i sorrisoni di Valentina da piccola, estrasse il cellulare da una tasca e, dopo averci armeggiato un poco, le mostrò una foto.


“Ma… ma…”

 

Era Barbara Spaziani ed era chiaramente incinta. Non al mese che era lei, ma non doveva esserci poi così tanta differenza, a giudicare dalla pancia nuda e mostrata con orgoglio sotto ad una maglietta sollevata, probabilmente per la foto da mandare a-

 

“Sì, divento nonna. Mi fa ancora un po’ effetto a pensarlo ma… ne sono molto felice. E quindi sto cercando di andare a Roma il più possibile, per godermi un po’ la gravidanza e dare una mano se serve. Andrea è felicissimo, dovresti vederlo!”

 

“E non mi ha detto niente!” esclamò, non riuscendo però ad essere risentita, perché capiva benissimo la discrezione nei primi mesi.

 

E ora, forse, anche quanto si era infervorato su tutto il discorso su Salvo e sulla paternità.

 

“Sì, però mi ha detto di avvisarti e… volevano venire qua a trovarci, originariamente, ma… viste le tue circostanze, immagino sia meglio di no. Però, quando sarai più libera, mi prometti che facciamo un bel ritrovo di famiglia? Anche dopo che nasceranno e-”

 

“Ma sanno già il sesso?”

 

“No, e non lo vogliono sapere. Dicono che vogliono che sia una sorpresa.”

 

“Contenti loro… comunque ne sono molto felice per te e per loro, davvero. Anche se… se mi fa un po’ strano immaginare che mia figlia e… e un mio pronipote saranno praticamente coetanei.”

 

“E che vuol dire? Che sei ancora giovane tu e in formissima. Te lo puoi permettere eccome! Beata te!”

 

Forse era solo la sua immaginazione ma, dietro al sorriso e all’abbraccio, percepì come una nota malinconica.


E si ripromise di fare ciò che sapeva fare meglio: indagare.

 

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“Tutto bene? Non dirmi che ti annoi. Anche se in effetti Camden Town è più per me come zona.”

 

Sospirò, addentando un altro morso dell’ottimo hamburger che avevano preso e bevendo un sorso di birra, sedute su una panchina, mentre i due della scorta mangiavano in piedi poco distante.

 

In effetti Penelope aveva fatto molto più shopping di lei, ma non era quello il punto. E nemmeno avere i due angeli custodi sempre presenti.

 

Prese il cellulare e lo mostrò a Penelope: l’ennesimo articolo su sua madre, con tanto di foto rubata, per fortuna a Roma e prima che fosse messa sotto scorta, mentre scappava da casa sua.

 

E se i fotografi probabilmente erano stati avvertiti da gente in combutta con quelli dell’agguato, la cosa peggiore erano gli articoli che accompagnavano le foto e che circolavano online, per non parlare dei commenti sotto gli articoli.

 

Gente che si prendeva la briga di criticare sua madre per come fosse sfatta - che voleva vederli loro all’alba dopo una notte insonne e con un risveglio del genere - che sottolineava la differenza d’età con il giovane capitano dell’arma - nella versione migliore - o il giovane toyboy, nella peggiore.

 

Per non parlare di quelli che ipotizzavano su quanto fosse in là con la gravidanza, in base all’ampiezza della pancia, o quanti chili avesse preso o, ancora peggio, se il feto, così lo chiamavano, fosse in salute.

 

E poi c’erano i peggiori, quelli che pontificavano sull’opportunità di una gravidanza a quell’età, su come sua madre fosse un’irresponsabile per aver cercato una gravidanza, mettendo a rischio il bambino, sia con la sua età che con il suo lavoro. Come se fosse colpa sua se qualcuno cercava di attentare alla sua vita.

 

L’articolo in questione era proprio uno di quelli, sparato su un social, con sotto una sfilza di commenti di mammine indignate, a sottolineare quanto loro fossero virtuose e la sua degenere. Più i soliti commenti dei maschi, di solito over quaranta, che scrivevano il peggio su Calogiuri, nemmeno avesse rubato la loro di moglie, e che gli davano dello scemo per essersi fatto incastrare - anche se alcuni poi davano della scema a sua madre che avrebbe dovuto non solo mantenere il bimbo, ma pure il toyboy carabiniere a vita.

 

“Vale, lo capisco che ti dà fastidio. Ma devi ignorarli. Lasciali parlare.”

 

“E che cosa risolvo, eh? Ormai sono settimane che si sa che mamma è incinta e questi continuano. Va bene che in questa estate di notizie sui vip veri ce ne sono state poche e quindi si devono sfogare… che dove stanno un divorzio milionario dove volano stracci e orologi di lusso, o le corna di qualche influencer quando servono? Ma mo basta. Voglio fare qualcosa.”

 

“E che vuoi fare, Vale? Non dobbiamo far sapere dove siamo, lo sai, e inoltre questa roba continuerà a circolare, che tu lo voglia o no.”

 

“Voglio farli vergognare un po’. Se non i frustrati che scrivono a gratis, almeno gli idioti che lo fanno a pagamento. Spero scarso, visto come scrivono, che il cognome di Calogiuri lo avrà azzeccato uno su cinque, forse, che nemmeno le sorpresine negli ovetti. A parte gli strafalcioni di grammatica, che a mia madre piglia un colpo solo per quelli, manco per il contenuto.”

 

Penelope sorrise e sospirò, mangiando l’ultimo boccone dell’hamburger e scuotendo il capo con un “quando fai così sei uguale a tua madre!” che non avrebbe saputo se prendere come un complimento o un insulto.

 

Ma aveva un piano: doveva solo trovare il tempo di realizzarlo, tra un’escursione e l’altra. Cosa non facile visto che, anche quando rientravano presto, Penelope aveva sempre argomenti molto convincenti con cui distrarla.

 

Per fortuna.

 

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“Mi sembra che si sia un poco calmato. Anzi, che si siano un poco calmati.”

 

Sorrise, perché non si riferiva certo alle cavalle - che non solo erano femmine ma davvero sante, per come si lasciavano pulire e spazzolare senza il minimo nitrito di protesta - ma a Calogiuri e Francesco, che avevano smesso da poco il primo di guardarle preoccupato, il secondo di piangere.

 

Una delle cavalle che non stavano pulendo, per fortuna, aveva preso in simpatia Francesco, nonostante i suoi lamenti dovessero essere un tormento per le sue povere orecchie. A dispetto del senso di conservazione, si era avvicinata per annusarlo e farsi dare un po’ di carote da Calogiuri. Francesco, piano piano, aveva osato accarezzarla e mo sembrava felice come una pasqua.

 

Ottavia invece, mica scema, non era ancora mai uscita dal casale, dopo aver passato i primi due giorni praticamente attaccata a lei, non capiva se per proteggere se stessa, lei o entrambe le cose insieme.

 

E manco ci stavano le oche!

 

“Eh… almeno loro…”

 

“Dovresti provare a rilassarti un po’ anche tu, Imma. Possibile che neanche questo faccia effetto?”

 

“Non lo so… è già tanto poterlo fare senza avere Calogiuri col fiato sul collo, che mi implora di restare seduta e non fare sforzi. Per fortuna che sei medico, guarda: a sapere ti chiamavo prima!”

 

Chiara rise ma rispose semplicemente, “quando vuoi!” continuando con la spazzolata.

 

Le avrebbe dovuto fare un monumento perché, ogni volta che Calogiuri esagerava con le preoccupazioni, interveniva lei con la scienza, sottolineando cosa fosse effettivamente rischioso e cosa invece poteva essere addirittura benefico per la tranquillità della madre e della nascitura e per il corretto sviluppo del legame emotivo con la bambina ed il suo benessere psicofisico.

 

E Calogiuri, come sempre rispettoso verso chi ne sapeva più di lui in qualche campo, aveva ceduto di fronte ai dati snocciolati da Chiara.

 

Imma si chiedeva, essendo la… sorella - le faceva sempre strano anche solo pensarlo - oculista e non ginecologa, se alcuni di quei numeri e di quelle scoperte se li fosse inventati di sana pianta o come fosse così aggiornata in materia. Se si era fatta qualche lettura solo per lei e la bambina, magari. In ogni caso, il monumento rimaneva meritato, pure se non se lo poteva permettere.

 

“Comunque sei fortunata, Imma. Anche se è un po’ troppo apprensivo. Ma sarà un papà meraviglioso, anzi, lo è già. E non ho mai visto un uomo innamorato di una donna come lui di te. Ti guarda come se fossi più che una divinità.”

 

Percepì il calore sulle guance, anche se ne era consapevole pure lei di che fortuna sfacciata avesse avuto a vedersi assegnato il giovane appuntato Calogiuri, ormai tanti anni prima. Che di Calogiuri al mondo uno ce ne stava, anzi, pure che ce ne fosse uno già era un miracolo che andava contro ad ogni legge sulle probabilità.

 

“Lo so che sono fortunata, lo so bene. Anche se, con questa gravidanza, ogni tanto mi fa saltare i nervi, Calogiuri è la cosa più bella che mi sia mai capitata. A parte Valentina e la piccoletta qua, si intende, ma-”

 

“Ma è diverso. Lo so. Per quanto amo immensamente i miei figli ma-”

 

“Ma non hai mai pensato di trovarti un altro compagno? Di rifarti una vita? Tu dici di me, ma anche tu sei ancora giovane - per quanto possiamo esserlo io e te - e sei una bellissima donna, elegante, distinta, gentile, non ti manca niente proprio. E, se ha trovato qualcuno che la sopporta una scassambrella come me, figuriamoci tu!”

 

“Il problema non è trovare qualcuno, Imma. Il problema è… è riuscire a fidarsi. E gli uomini forse mi hanno deluso troppo, fin dalla nascita.”

 

Il tono di Chiara era amaro, amarissimo e lo capiva, la capiva. Tra il padre, il fratello e quello che poi era successo con il suo matrimonio… mica era facile.

 

“Senti, come sai, io sulla fiducia sono messa pure peggio di te. Che… che, fino anche solo a qualche mese fa, non avrei mai pensato di poter stare qua a parlare così con te. Ma è successo e… e non sta andando poi così male, no?” le toccò ammettere, perché Chiara con i suoi sorrisi, i suoi silenzi rispettosi e schivi, ma anche il suo umorismo ed il suo essere così affettuosa, era una specie di strano misto tra una Diana senza i decibel di troppo e Calogiuri se non fosse stato innamorato di lei, fosse nato donna ed avesse studiato da ragazzo.

 

Che il solo pensiero le dava i brividi e non piacevoli ma… ma il carattere di Chiara funzionava bene con il suo, le era quasi complementare, pur essendo anche lei una donna forte, su quello non aveva dubbio alcuno.

 

“No, non è così male. E sono molto felice che… che tu abbia deciso di darmi una possibilità, Imma. Anche se lo so che la strada è ancora lunga.”

 

“E anche io… diciamo che non mi sono pentita di avertela data la possibilità. Ma anche tu dovresti dartela, non con me, intendo, che su di me sei stata persistente in un modo che mi fa pensare che la testa dura non l’ho presa solo da parte di madre. Ma anche con gli uomini… finché non fai un passo e non ti lasci un poco andare, non lo sai cosa può succedere. Può andare male, sì, ma magari anche quello può andare meglio di come credi, no?”

 

“Forse…” la vide sospirare, mentre finiva di levare il crine in eccesso dalla spazzola.

 

“Non che tu abbia bisogno di un uomo, è chiaro, anzi, ma… si vede che un po’ ti manca e… e con tutte le occasioni che ci possono essere: mo magari che vai a Roma più spesso… di sicuro qualcuno interessante e alla tua altezza lo puoi trovare, no?”

 

“Eh… magari… tipo il tuo procuratore capo, Mancini, no? Non è mica male!”

 

Per poco non si strozzò con la saliva e le venne da tossire un paio di volte. Per fortuna la cavalla rimase docile e fece segno a Calogiuri con una mano di non preoccuparsi e di restare dov’era.

 

Chiara, che le stava dando un paio di colpetti sulla schiena, rideva.

 

“Sto scherzando, Imma. Figurati se corro appresso a uno che non solo era innamorato di mia sorella, ma forse lo è ancora.”

 

Mannaggia a lei, mannaggia, che la percettività era di famiglia e pure la propensione allo sfottimento e-

 

E fu in quel momento, con quel pensiero, che un qualcosa di indefinito le si fece improvvisamente chiaro in testa.

 

Non sapeva se essere più preoccupata o più sollevata, se quello che pensava era vero. Ma tutto avrebbe avuto improvvisamente molto più senso, gli elementi combaciavano e si incastravano alla perfezione.

 

E quando succedeva, non era quasi mai una coincidenza.

 

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“Che fai? Non vieni a letto?”

 

Penelope le si era appena piazzata davanti, in un pigiamino stile punk che aveva preso a Camden e che era un’enorme tentazione.

 

Ma prima c’era una cosa più importante da fare.

 

“Ancora qualche minuto, sto finendo di scrivere.”

 

“E a chi?” chiese Penelope, e il retrogusto di gelosia in quelle parole, da lei che era sempre così easy, le fece segretamente piacere.

 

“A tutti,” rispose e, allo sguardo interrogativo di Penelope, le mostrò il lungo post che stava rileggendo.

 

Sono disgustata, non solo come figlia ma come donna, di continuare a leggere articoli su mia madre, dove si parla di lei soltanto per il gossip e come se fosse un fenomeno da baraccone o un’irresponsabile.

Io sono orgogliosa di mia madre, orgogliosissima, esattamente per com’è, anche se il suo carattere forte a volte ci ha fatto e ci fa discutere. Ma non la cambierei mai per nulla al mondo: sono felice di avere avuto e di avere un esempio come lei. Di una donna che non ha mai rinunciato ad essere se stessa, alla sua idea di femminilità e alla sua felicità. Una donna che ha avuto il coraggio di fare scelte controcorrente e scomode, per essere onesta con se stessa e con quello che sente. Ma, soprattutto, una donna che lavora instancabilmente da quando era ragazzina e faceva i turni in fabbrica per potersi permettere di studiare. E lavora così bene da far paura a tanta gente che, pur di fermarla, la perseguita e la minaccia anche adesso che è in gravidanza.

E voi giornalisti e leoni da tastiera, invece di parlare di questo, di questa vergogna vera, invece di supportarla e di scrivere degli enormi risultati che ci sono stati nei processi che ha portato avanti, vi preoccupate solo se avrà fatto l’inseminazione o meno, se l’ovulo è il suo o no, se lo crescerà bene, se si mette i tacchi un centimetro troppo alti, o se si veste in modo troppo appariscente, o se si trascura troppo, di quanto è grossa la sua pancia e di quanti mesi sarà.

Perché è a questo che siamo ridotte noi donne: a un ventre. Quando non siamo un oggetto sessuale, ma pur sempre un oggetto, un’incubatrice.

Il peggio è stato leggere tutte le donne che continuano non solo a permetterlo, ma a far parte di questo meccanismo e ad alimentarlo, invece di pretendere di essere viste come persone.
Quando riusciremo a liberarci da questo maschilismo che ci è stato inculcato? Quando potremo parlare di una donna come faremmo per un uomo, per il suo valore e non solo per la sua estetica o la sua morale?

 

“Ammazza, Vale!”

 

“Non ti piace? Pensi che sia troppo?” le domandò, un po’ preoccupata, perché aveva scritto di getto, senza tanto pensarci.

 

“No, no, anzi, è bellissimo. Tu sarai orgogliosa di tua madre ma… ma dovresti esserlo di te stessa. Io lo sono.”

 

Si trovò stretta in abbraccio di quelli che solo Penelope le sapeva dare e che le trasmise la forza necessaria per staccarsi, pigiare l’icona di invio e pubblicare il tutto.

 

“E mo, possiamo pure andarcene a letto,” proclamò, mollando il cellulare sulla poltrona e trascinando Penelope, che rideva, fino all’angolo del materasso, per poi buttarcela sopra e metterla a tacere con un bacio.

 

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“Ecco qua. Mi raccomando, la pancia-”

 

“Ho il costume intero, Calogiù, e non sarai una di quelle sciroccate su internet, che pensano che la bambina possa bollire dentro la pancia se sto al sole.”

 

L’espressione terrorizzata di Calogiuri fece scoppiare a ridere sia lei che Chiara, che scosse il capo e si affrettò a precisare, “non succede niente, Calogiuri. Poi in acqua staremo al fresco e le hai messo così tanta protezione solare che le ci vorranno tre docce per toglierla.”

 

Calogiuri divenne più rosso che se si fosse ustionato, mentre lei lo abbrancò per il braccio con un “vieni qua!” e ricambiò il favore, distribuendogli la crema sulla schiena con enorme accuratezza, volutamente.

 

Che soffrisse un poco pure lui!

 

Calogiuri, più bordeaux dell’uva americana, si allontanò leggermente da lei e Chiara, che ancora sorrideva, per andare ad osservare il piccoletto che riposava sotto l’ombrellone e coperto da un altro ombrellino più piccolo, come un pascià.

 

“Vuoi una mano per la schiena anche tu?” si offrì poi Imma con Chiara, che fece uno sguardo molto sorpreso ma annuì.

 

Era un poco strano quel contatto fisico, effettivamente, ma a parte Calogiuri - che la crema era autorizzato a spalmarla solo a lei e agli infanti - c’erano soltanto gli uomini della scorta, che li avevano accompagnati, nonostante fossero su una spiaggia praticamente privata, vicina alla cascina e poco conosciuta.

 

“Vi ho portato qualcosa da bere e-”

 

Il ragazzo della scorta, con le lattine in mano, si interruppe ed abbassò gli occhi verso la sabbia, imbarazzato, visto che lei aveva slacciato il retro del costume di Chiara per distribuire meglio la crema.

 

Le ricordò un poco Calogiuri la prima volta che la vide in spiaggia. Ma lui era alto e moro, sì, ma con gli occhi scurissimi e, nel giro di qualche giorno al sole, era pure diventato abbronzatissimo. E poi aveva sì un marcato accento ma calabrese, catanzarese per la precisione, se non aveva sentito male.

 

“Tranquillo, puoi pure lasciarle qua. Ma grazie mille, non ti dovevi disturbare,” rispose Chiara con un sorriso, anche se notava che anche lei fosse un poco in imbarazzo, forse vista la sua posizione, in tutti i sensi.


“Figuratevi! Ah, dottoressa, vi ho anche trovato due gonfiabili, che ho sentito che li volevate, e poi un galleggiante per il bambino. Ha anche la protezione dal sole e ho verificato che fosse a norma per i dodici mesi. Ho preso una pompa per gonfiarli e si sta ricaricando. Appena sono pronti ve li porto.”

 

Ammazza, che efficienza! - pensò e notò con la coda dell’occhio che Calogiuri, però, ne parve un poco poco infastidito, il suo gelosone preferito, e lo guardava letteralmente di traverso.

 

Lo riprese per il polso e lo fece sedere accanto a lei sull’asciugamano che copriva la stuoia, piantandogli un bacio sulle labbra e godendosi il suo ancora maggiore imbarazzo, per non parlare di quello dell’altro giovane carabiniere.

 

Che infatti si dileguò, ma tornò dopo poco con un vassoio con su un sacchetto di carta chiuso e dei bicchierini di plastica pieni di un liquido lattiginoso marrone chiaro e ghiaccio che riconobbe come-

 

“I caffè alla leccese, nel suo non ho messo lo zucchero, dottoressa, che mi pare che non lo gradisce,” proclamò, rivolgendosi a Chiara che gli sorrise annuendo, “per la dottoressa Tataranni invece decaffeinato. E poi vi ho preso i pasticciotti. Per la dottoressa Tataranni l’ho chiesto ben cotto. A lei invece l’ho preso con crema e amarena, giusto?”

 

“Che memoria! Ma facevi il cameriere prima di fare il carabiniere?” gli sorrise Chiara, colpita da tutte quelle premure.


“No, no, in realtà no,” si imbarazzò un po’ il ragazzo, in un modo che le ricordò di nuovo Calogiuri, almeno fino a che, dopo essersi allontanato con un “con permesso!”, lo beccò diverse volte a guardare Chiara e soprattutto il costume di Chiara in un modo che il Calogiuri dell’epoca non si sarebbe mai permesso. Non solo, manco gli sarebbe venuto in mente, ingenuo com’era, anche se l’occhio sul famoso costume azzurro gli era caduto. Ma su di lei a quei tempi ancora no.

 

Qua invece… il ragazzo pareva essere più sveglio, anche se, almeno, non era uno sguardo viscido, ma sicuramente interessato.

 

Così, quando il carabiniere tornò con i gonfiabili in braccio - una specie di unicorno gigante per lei, il cui collo e la criniera arcobaleno facevano anche un poco da parasole; una conchiglia che sembrava uscita dalla Venere del Botticelli per Chiara, più il mini gonfiabile per Francesco - lo ringraziò sentitamente con un, “grazie… come hai detto che ti chiami?”

 

“Appuntato Greco Luca, dottoressa,” rispose lui, facendo quasi un mezzo saluto militare, mentre Calogiuri era sempre più infastidito.

 

Avrebbe dovuto fargli un discorsetto, che la gelosia qua lo accecava proprio, se non notava ciò che lei notava.

 

“Allora grazie, appuntato, comodo comodo. Chiara, andiamo a farci un bagno? Calogiuri, Francè lo tieni tu un attimo e poi magari ci raggiungete? Che non può stare troppo al sole e… e poi di te in acqua mi fido poco, lo sai.”

 

“Va bene… anche se… con la bambina non-”

 

“Ho capito: manco i giochi in acqua si possono più fare. Almeno qualche schizzo è consentito dal medico curante?”

 

“Assolutamente sì, basta che non bevi,” rise Chiara, trascinandola con sé verso il mare un poco mosso ma abbastanza trasparente.

 

Arrivarono un po’ più al largo e salirono sui materassini, aggrappandosi con una mano alla maniglia di quello dell’altra, per evitare che si allontanassero con le onde.

 

“Dovremmo procurarci una corda per legarli per la prossima volta,” propose Chiara, mentre si stendeva più comodamente, e sì, sembrava veramente una venere che nasceva dalle acque.

 

Lei invece una scema su un cavallo cornuto arcobaleno, ma sarebbe piaciuto di sicuro anche a Francesco.

 

“Eh… possiamo chiederlo a Greco. Se glielo chiedi tu, te la trova di corsa.”

 

“In che senso?”

 

“E dai, Chiara, non dirmi che non hai notato come ti guarda - anche se lo fa con discrezione - e come è premuroso con te!”

 

Chiara divenne color peperone istantaneamente.

 

“Ma no, ma che dici? Io penso che sia premuroso con te, perché sei incinta e ti deve proteggere. E infatti pure il tuo mare- anzi, capitano era un po’ geloso.”

 

Le venne da sorridere perché sì, manco lei si era ancora abituata al nuovo titolo e, visti i ricordi di un mangiatore di salamelle seriale che le riportava alla mente, probabilmente non ci si sarebbe mai abituata.

 

“Calogiuri è sempre un po’ geloso, anche se si fida molto. Ma fidati pure tu che gli sguardi non erano per me, anzi: ho visto benissimo chi e dove guardava.”

 

Chiara si parò il viso con una mano ed Imma le schizzò un poco d’acqua per farglielo scoprire.

 

“Imma! E secondo me hai visto male.”

 

“Secondo me no. Facci caso, Chiara.”

 

Ma lei sbuffò.

 

“E anche se fosse? Mi sembra giovanissimo, di sicuro più giovane del tuo Calogiuri. Io sono pure più vecchia di te e-”

 

“Non ero giovane? Che siamo giovani e vecchie a comando, quando ti fa comodo a te?”

 

“Lo sai cosa voglio dire, Imma: è un bel ragazzo sì, ma è un tuo sottoposto e-”

 

“Mio. Non tuo.”

 

“Va bene, ma… è giovane e adesso per questi giorni state qua, ma poi probabilmente non lo rivedrò mai e-”

 

“E potrebbe essere appunto un’occasione per rimettersi in gioco senza troppo impegno, no?”

 

“Parlò quella che ha avuto due uomini in vita sua praticamente!”

 

Fu il suo turno di arrossire e di chiederle, “ma come lo sai?”

 

“Sei mia sorella. Anche se volevo e voglio che sia tu a raccontarmi della tua vita, ovviamente ho fatto qualche ricerca. Come le hai fatte tu su di me. Ero troppo grande rispetto a te per ricordarti dagli anni delle scuole ma… nessuno ha mai parlato di fidanzati prima di Pietro. E magari qualcuno sui giornali ci sarebbe pure finito, in caso, no? Che pur di avere un po’ di attenzione, arrivano a raccontare cose pure quelli che è dal battesimo che non vedi.”

 

Fu il suo turno di sospirare: effettivamente aveva ragione.

 

“E che c’entra? A me è andata bene di trovare prima Pietro e poi Calogiuri, anzi benissimo. Ma sei una donna indipendente, adulta, vaccinata, perché non ci fai un pensiero?”

 

“Io con un carabiniere?” quasi mormorò, ma poi scoppiò a ridere.


“Che c’è? Pensi alle barzellette sui carabinieri? Ce ne sono alcuni così, eh, effettivamente, pure più di qualcuno, ma questo mi sembra sveglio e-”

 

“No, no, pensavo solo che… se dopo di te pure io mi mettessi con un carabiniere… nostro padre si rivolterebbe nella tomba. Non che non se lo meriti.”

 

Fu un colpo al cuore quel riferimento, anche se fatto con nonchalance, e Chiara lo notò, perché si affrettò ad aggiungere un, “scusa, forse non sei pronta a scherzare su questo argomento e-”

 

“No, no. Mi fa un poco strano ma… scherzare sulle cose è il modo migliore per esorcizzarle. E allora, che aspetti a far vedere i sorci verdi a… insomma…”

 

Chiamarlo papà non le riusciva proprio, forse le sarebbe stato per sempre impossibile, anche perché non lo era stato mai.

 

Chiara le strinse la mano, al posto del materassino, e fece un altro sorriso un poco malinconico, “diciamo che ci penso, Imma. Ma non prometto niente.”

 

Sì, erano proprio di famiglia.

 

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“Vale! Ma hai visto?!”


“Che cosa?” le domandò, uscendo dal bagno dove si era fatta una doccia, lo stomaco che brontolava.

 

Del resto era ormai più che ora di pranzo ma la sera prima Penelope le aveva fatto fare le ore piccole e poi le era arrivata addosso tutta la stanchezza arretrata dai giorni precedenti, in cui, per la tensione, aveva dormito poco o niente.

 

“Il tuo post, Vale: è andato in tendenza. Guarda qua!”

 

Prese il cellulare di Penelope ed effettivamente il suo post aveva un numero spropositato di like e commenti.

 

“Se sono insulti…”

 

“Ce n’è qualcuno, ma ne ho visti altri molto belli. E poi… ti hanno ricondivisa anche dei giornalisti e alcune riviste online. Pure un paio di account di talk show, anche se adesso dovrebbero essere in vacanza.”

 

Rimase a bocca spalancata mentre Penelope le mostrava le ricondivisioni, una addirittura del talk show più importante della tv di stato, che aveva virgolettato il suo scritto e messo una sua foto sotto, aggiungendoci un commento su quanto, alla sua giovane età, avesse dato una lezione di civiltà, coraggio e apertura mentale.

 

Il viso le si fece di fuoco: non si aspettava di certo un riscontro del genere, non era per quello che aveva scritto quel post, anzi.

 

“Devo avvisare mamma… non pensavo esplodesse così, magari mi farà storie e-”

 

“Mi sa che non hai visto il commento più in alto…” le sorrise Penelope, tornando al suo post ed aprendolo.

 

E lì, in cima, con un’altra valangata di like c’era il commento di Imma_Tataranni, l’account che sua mamma aveva creato per fare quel famoso post contro gli hater e che non usava mai. Non pensava ne avesse nemmeno più i dati d’accesso.

 

Ma invece era lì, con la sua immagine profilo di lei a braccia incrociate, che guardava verso la fotocamera in un modo che doveva sembrare neutro ed invece era un po’ incazzoso - sicuramente scattata da Calogiuri all’epoca.

 

Ma ciò che le fece saltare un battito era il messaggio:

 

Non potrei essere più orgogliosa di te di così. Ti amo. Mamma.

 

Sua madre non era una dal complimento facile, anzi, ed il fatto che glielo avesse scritto addirittura, nero su bianco e in pubblico….

 

Si trovò ad asciugarsi gli occhi senza neanche rendersene conto.

 

“Forse la dovresti chiamare… anche se dobbiamo chiedere la linea criptata agli sbirri.”

 

Sorrise a Penelope, che continuava a soprannominare così la loro scorta, anche se in realtà, aperta e positiva com’era, c’aveva fatto molto più amicizia di quanto non ci si fosse nemmeno sforzata di fare lei.

 

Annuì e stava per andare in rubrica a selezionare il numero della scorta, quando le apparve la notifica di un messaggio privato.

 

Si stupì un po’ perché, dopo tutti i casini che erano successi con la storia di lei e Penelope, aveva limitato i messaggi privati a chi seguiva lei stessa.

 

E per fortuna, o si sarebbe trovata la casella intasata.

 

Quindi la toccò ed osservò il circolino con la foto di un uomo abbronzato e dalla folta chioma nera, dall’aria familiare.


“Ma questo è quel giornalista, no? Com’è che si chiama F…”


“Frazer!” finì per Penelope, aprendo il messaggio, la cui anteprima restituiva solo un Buongiorno Valentina che le suonava tanto formale.

 

Buongiorno Valentina.

Spero tu stia bene considerato tutto quello che sta succedendo. Sono Paul Frazer, non so se ti ricordi dell’intervista che feci con tua madre. Ho letto il tuo post e l’ho ricondiviso con la testata di news per cui lavoro: mi è piaciuto moltissimo.

Ti andrebbe di fare un’intervista? Anche non ora se sei in vacanza, quando vuoi. Penso che potrebbe interessare a molti spettatori e spettatrici.

A presto spero!

 

“Però! Mi diventi famosa, Vale!” scherzò Penelope, che poi però tornò più seria con un, “che hai intenzione di fare?”

 

“Se adesso mi metto a dare interviste, mia madre altro che essere orgogliosa, mi disconosce. E poi i giornalisti… lui sembra affidabile e credo che lo pensi anche mia madre ma… non vorrei tirare troppo la corda. E poi chissà quanto potremo tornare in Italia.”

 

“Sì… credo tu abbia ragione.”

 

Penelope sembrava da un lato delusa e dall’altro sollevata. Ed era la stessa sensazione sua.

 

Buongiorno Paul,

la ringrazio molto ma non credo che sia il caso che io rilasci interviste e poi ho già detto tutto quello che pensavo.

Grazie per la ricondivisione e per aver pensato a me!

 

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“E comunque l’unicorno è fighissimo, dottoressa!”

 

“Ti ho già detto che devi chiamarmi, Imma, Penelope. E ti ringrazio ma non l’ho scelto io.”

 

“E chi allora?” chiese invece Valentina, dallo schermo della videochiamata.

 

“Uno della scorta, gentile,” rispose e le venne da ridere all’udire il “anche troppo!” brontolato da Calogiuri nell’orecchio.

 

Era seduto alle sue spalle sul galleggiante, cingendole la vita ed il pancino sempre meno ino, mentre reggeva in braccio anche Francesco, che sgambettava felice nel suo mini galleggiante con tanto di paravento, manco fosse veramente un principe.

 

Quando Calogiuri l’aveva raggiunta con Francesco ed il cellulare, avvisandola della chiamata della figlia, Chiara si era eclissata con una scusa per lasciarli soli.

 

Ed ora stava sulla spiaggia, dove il bel Greco, che si era tolto la maglietta ed era rimasto in boxer e sì, il fisico da dio dell’Olimpo ce l’aveva tutto, le aveva portato della frutta fresca e lei sembrava avergliene offerta un po’. Si era seduto vicino a lei a mangiarla e stavano chiacchierando amabilmente.

 

E brava Chiara!

 

“Insomma… il mare- anzi, il capitano è geloso?”

 

“Sempre! Ma tua madre sa che sono geloso di tutto,” rispose Calogiuri a Valentina, con un tono orgoglioso, e poteva percepire il suo sorriso anche non potendolo vedere.

 

La citazione fu un colpo al cuore.

 

“Ma spero che tu sappia che non hai motivo di esserlo. Anche se faccio bene a tenerti un po’ sulle spine…” lo sfotté, girandosi per fargli l’occhiolino e beccandosi un bacio.

 

“Ecco, ora mi passerà l’appetito e manco ho ancora fatto colazione, mamma!”

 

Si voltò per fare il segno di attenta a te! a Valentina, facendola ridere.

 

“Non ho più molta batteria, Valentì, devo andare ma… grazie per la difesa, pure se non serviva. E non serve nemmeno che ti esponi ancora, va bene? Lo sai che c’ho le spalle larghe, anche se tra poco saranno superate dalla pancia.”

 

“Mica posso lasciarti tutto il divertimento, mà. Però tranquilla, scriverò solo se proprio mi fanno incazzare. Un saluto a te, al capitano, al piccoletto e pure alla piccoletta. A proposito, avete deciso il nome?”

 

“No,” risposero all’unisono lei e Calogiuri: con tutto quello che era successo, chi aveva avuto il tempo di pensare ai nomi?

 

“A presto! Fate i bravi!”

 

“Anche voi, mi raccomando a te, Valentì!”

 

Una linguaccia e la comunicazione si interruppe.

 

“Grazie di avermi avvisato, Calogiù. Sia della chiamata mo che del post prima. Che se aspettava me e la mia dimestichezza coi social, Valentì stava fresca.”

 

“E figurati! A questo serve un futuro marito più giovane, no?”

 

“Che fai, il social media manager gratis?”

 

“Anche…” rise, prima di darle un altro bacio, mentre il piccoletto con degli ululati faceva capire di voler essere rimesso in acqua.

 

A quanto pare gli piaceva e non ne aveva paura come aveva temuto.

 

Quindi, facendo attenzione a non ribaltarsi, ce lo riappoggiò e Calogiuri scese dal materassino per sorvegliarlo meglio, una mano sul galleggiante del piccoletto e una sul suo.

 

Lo vide guardare verso la battigia ed il bel Greco, un po’ corrucciato.


“Almeno mo lo hai capito che è interessato a Chiara e non a me? Per quello è gentile.”

 

“Sarà… ma è comunque un po’ troppo gentile. Ma Chiara ricambia? O gli devo fare un discorsetto da superiore?”

 

La cavalleria e l’istinto di protezione di Calogiuri erano proverbiali e gli diede un pizzicotto su una guancia.

 

“Credo che non le dispiaccia, da come gli parla, ma… ha un po’ di dubbi sulla differenza d’età. Io le ho detto di provarci senza troppo impegno, se vuole. Vedremo…”

 

“Diciamo che io e te sul non troppo impegno non siamo molto capaci, dottoressa,” scherzò, e si sentì accarezzare la pancia in un modo da farle tornare il nodo in gola.

 

“No… pure se ci ho provato all’inizio. Chiara mi sa che è ancora peggio di me ma… al massimo, quando saremo più liberi, dovrò provare a presentarle qualcuno più vicino alla nostra età. Non so, tipo Martino o De Luca o un altro degli amici di Mancini.”


“Ci manca solo Mancini cupido, ci manca!”

 

“Non dirmi che sei ancora geloso pure di lui, Calogiù!” lo sfottè, con gli occhi alzati al cielo.

 

“Sono geloso di tutti, dottoressa, l’ho già detto e lo ribadisco. Però, seriamente no, mi fido di te. Ma ci manca solo che, dopo Pietro con mia sorella, ci troviamo Mancini con la tua. E poi sembra una di quelle soap opera che piacciono tanto a mia madre.”

 

“In effetti… ma, fossi in te, starei tranquillo, Calogiuri. Non penso che Mancini sarebbe interessato a mia sorella Chiara.”

 

“In che senso? Pensi che stia ancora appresso a te?”

 

“No, no, penso che… penso che ci possa già essere qualcun’altra che gli interessa.”

 

“E chi?”

 

“Non Chiara Latronico, Calogiuri. E per il resto, se non hai notato niente, mi avvalgo della facoltà di non rispondere fino a quando avrò ottenuto più elementi, prima di fare nomi. A proposito, dovremmo cominciare davvero a pensare al nome per la piccoletta. Ma non ho idee.”

 

“Nemmeno io. Ma sono sicuro che arriverà, al momento giusto arriverà. Come sempre quando si tratta di me e di te.”

 

Si sporse per dargli un bacio, ma finì per cascare rovinosamente in avanti, l’unicorno maledetto che si era ribaltato, trovandosi tra due braccia che la tirarono a galla, impedendole di affondare del tutto.

 

Come sempre succedeva con Calogiuri.

 

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“Che c’è Vale? Guarda che dobbiamo finire la valigia, che domattina partiamo presto per Edimburgo."

 

“Scusa, ma è che mi ha scritto di nuovo Frazer.”

 

“E che vuole? Insiste ancora per l’intervista?”

 

“No, no, però… leggi qua.”

 

Ciao Valentina,

per favore dammi del tu, se no mi sento ancora più vecchio di quanto già sono.

Capisco il tuo desiderio di riservatezza e di tutelare tua madre, quindi non insisto sull’intervista. Però scrivi molto bene, l’avevo notato già nei post che avevi fatto in passato su tua madre.

Hai fatto qualche scuola in particolare? Perché è un talento che credo dovresti coltivare, se ti va e ti può interessare.

Alla prossima!

 

“Qual è il problema? Ha scritto delle cose belle, no?”

 

“Sì, sì, anche troppo.”

 

“In che senso? Non ti fidi e pensi che sia un modo per convincerti a fare l’intervista?”

 

“No… no… non credo sia quello. Non lo so… è che… ho come una sensazione strana. Non spiacevole ma strana.”

 

“Basta che non ti innamori di sto Frazer e scappi con lui!” scherzò Penelope, anche se c’era pure una nota seria in fondo al tono di voce.


“Sì, ci manca solo uno che potrebbe quasi essere mio padre. Pure se a papà gli piacerebbe essere così figo alla sua età. Ma no, non è quello, non ti so spiegare.”

 

“Va beh… facciamo la valigia e intanto ci pensi?”

 

Sospirò: Penelope, nonostante l’animo artistico, a volte era la voce del pragmatismo, che a lei su certe cose mancava.

 

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“Imma!”

 

La vocetta la colse di sorpresa quasi quanto l’abbraccio, che ormai le arrivava in vita.

 

Ricambiò come poteva, incontrando dopo poco il sorriso di Bianca che proclamava, un poco timida ma felice “la pancia sta crescendo! Si può dire, vero?”

 

“Certo che si può dire! E menomale che cresce.”

 

Ricambiò il sorriso e le accarezzò i capelli, ma poi guardò confusa verso Irene e Ranieri che stavano all’ingresso, già richiuso dalla scorta.

 

“Non pensavo che…”

 

“Lo so che ti aspettavi solo me e Ranieri ma… Bianca voleva venire a salutarti e a vedere il mare, che non l’ha mai visto. Quindi l’ho portata con me, se per voi va bene.”

 

“Certo che va bene, ma… non sarà rischioso?” sussurrò piano Calogiuri, esprimendo anche il suo pensiero, ma Irene fece spallucce ed aggiunse un, “non più del solito!” abbastanza amaro.

 

“E poi… abbiamo la scorta personale…” proseguì, rivolgendo lo sguardo a Ranieri, in un modo che le sfuggì un “lo sapevo!” al quale Calogiuri e Bianca la guardarono interrogativi, Ranieri ed Irene imbarazzati.

 

“Che cosa?” le domandò Calogiuri.

 

“Niente… niente… perché non fai gli onori di casa, Calogiù? Che intanto avviso Chiara che ci serve un’altra stanza per stanotte.”

 

Fece un segno a Irene che era un glielo devi dire tu! e si avviò a telefonare a Chiara, uscita per lasciare loro un po’ di privacy per gli aggiornamenti sulle indagini, anche se  ufficialmente per delle commissioni urgenti.

 

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“Ci sono novità?”

 

“Purtroppo no. Le analisi balistiche su proiettili e bossoli non hanno dato alcun riscontro, se non che sono state delle semiautomatiche da 9mm, della marca e modello più diffuso in Italia. Due esemplari diversi, ma che non hanno trovato corrispondenza col database.”


“Erano in due quindi? O forse anche in tre col basista?” domandò Calogiuri, i muscoli della mandibola contratti così tanto che temeva si facesse male ai denti.

 

Indubbiamente anche lui stava rivivendo i momenti orribili di quella notte e la paura che si erano presi. Cercavano entrambi di non pensarci, di andare avanti senza rimanere sempre in tensione, anche per via della gravidanza, ma… le notti erano abbastanza insonni e non solo per Francesco - che per fortuna era abituato ai rumori forti e non si era spaventato più di tanto, il che faceva capire che livello di trauma avesse accumulato in precedenza - ma anche per l’ansia latente che li trovassero.

 

Il mare aveva aiutato, così come i cavalli ed il sole: erano stati veramente una terapia.

 

Ma bastavano fino a un certo punto: Irene e Ranieri li avevano riportati dritti dritti alla realtà e nella capitale, pure a più di quattrocento chilometri di distanza.

 

“Sì, è probabile. Purtroppo il cancello del vostro palazzo era quasi sempre aperto e non abbiamo trovato telecamere funzionanti sulla via. Stiamo analizzando quelle situate nelle vie vicine e stiamo facendo passare vetture e moto, però-”

 

“Però probabilmente saranno auto o moto rubate, o entrambe, e anche se le trovate non ci ricaverete molto. Questi sono professionisti.”

 

“Sì. Purtroppo è lo scenario più plausibile,” le confermò Ranieri con un sospiro.

 

“Materiale genetico nulla, immagino? Impronte?”

 

“Purtroppo materiale genetico niente. Un’impronta parziale su uno dei proiettili, forse un errore nell’aprire la scatola o nel riempire il caricatore. Ma sarebbe utile solo per fare un confronto se troviamo un sospettato. Non è sufficiente per una ricerca su un database, sono usciti troppi risultati possibili e, da uno scorrimento rapido, non abbiamo individuato persone che sappiamo essere affiliate con i Mazzocca o con i Romaniello.”

 

“Del resto sono professionisti. Altro?”

 

“No, purtroppo no. In mano abbiamo pochissimo. La… la gatta era quasi sicuramente una randagia ed il sangue ed altro materiale genetico presente erano soltanto suoi. E non c’è altro, se non che, secondo il medico legale, dall’inclinazione dei proiettili nel colpire la porta, chi ha fatto i quattro fori che disegnano una croce potrebbe essere mancino. Ma non è sicuro, è solo probabile.”

 

“E basta?”

 

“Purtroppo al momento sì e dubito usciranno elementi in più. Forse, se troviamo le vetture, riusciremo a scovare altre impronte o materiale ma…”

 

“Ma se sono professionisti staranno già in qualche sfasciacarrozze.”

 

“Possibile, Calogiuri, possibile,” confermò Irene.

 

“Rimane da capire… rimane da capire quale fosse il loro obiettivo. Se intimidazione o altro…”

 

Un silenzio gelido e pesantissimo riempi il salottino secondario dove si erano ritirati, dopo aver lasciato Bianca a fare un pisolino con Francesco.

 

Imma sapeva di aver appena espresso il dubbio fondamentale, al quale o non c’era risposta, o la risposta non sarebbe stata piacevole.

 

“Ovviamente la certezza non la possiamo avere,” premise Ranieri, in un tono che però non prometteva niente di positivo.

 

“Ma?” lo sollecitò, con un altro sospiro.


“Ma… a parte il tentativo di sfondamento della porta, probabilmente fatto perché la serratura era più complicata da rimuovere del previsto e ci stavano mettendo troppo tempo, gli strumenti usati per smontare la serratura erano di precisione. Il meccanismo poi si è rovinato per i proiettili e lo sfondamento ma… di base sarebbe stato un lavoro pulito. Attrezzatura da veri professionisti. E… a giudicare dai segni sul legno, lo sfondamento è stato compiuto con un percussore simile o uguale a quelli in dotazione alle forze dell’ordine. Con rivestimento in plastica per attutire le scintille ed evitare il rumore metallico. Insomma…”

 

“Insomma hanno cercato di fare un lavoro il più silenzioso possibile e… se non ti fossi svegliato…”

 

Calogiuri deglutì e si sentì la mano stretta a morsa ancora prima che la guardasse. C’erano andati veramente vicini a fare la fine dei topi in trappola.

 

Troppo vicini.

 

E, il peggio, era sapere che un posto veramente sicuro non c’era ed in mano non avevano praticamente nulla.

 

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“E tu, come ti chiami?”

 

Chiara era tornata dalle commissioni nel tardo pomeriggio e li aveva raggiunti in giardino, dove stavano mangiando un gelato procurato da un altro della scorta, visto che il dio Greco aveva accompagnato Chiara - avrebbe dovuto farle un interrogatorio dei suoi.

 

Dopo aver salutato Ranieri ed Irene, si era avvicinata a Bianca, che la guardava con gli occhioni scuri spalancati.

 

Bianca, regale come la madre, aveva posato il cucchiaino nella coppetta, si era alzata in piedi e le aveva esteso la manina con un solenne “io sono Bianca, molto piacere!”

 

“Il piacere è mio, Bianca, io sono Chiara,” rispose, divertita, ricambiando la stretta.


“Ma questa casa è tua? E anche quei cavalli grossi?”

 

Chiara sorrise ed annuì, precisando, “sì, ma sono cavalle. Un po’ anzianotte. Ti fanno paura? Perché sono buone, garantisco, anche se un po’ in sovrappeso.”

 

“Non so… non è che mi fanno paura… è che sono tanto grandi… non so se mi voglio avvicinare.”

 

“E mica devi decidere subito, prima c’è il gelato da finire.”

 

Bianca sorrise e sì, si vedeva che Chiara era mamma e che coi bambini ci sapeva molto fare. Era paziente e dolce come… come coi pazienti.

 

E con te, Imma! - le ricordò la voce della sua coscienza, Diana, per l’occasione.

 

“Ma… ma tu sei una collega di mamma e di Imma?” domandò poi Bianca, prendendo tutti in contropiede.


“No, no. In realtà io… cioè…”

 

“Chiara è mia sorella, Bianca.”

 

Praticamente tutte le mascelle presenti cascarono quasi a terra - forse compresa la sua - Chiara che aveva gli occhi lucidissimi e sembrava sull’orlo di scoppiare a piangere.

 

Non se lo aspettava nemmeno lei di dirlo così, ad alta voce, ma era la verità.

 

“Che bello! Io purtroppo non ho un fratello o una sorella ma mi piacerebbe! Francesco piangeva tanto quando lo tenevamo noi, ma è stato bello,” proclamò Bianca; Irene e Ranieri si strozzarono sul gelato praticamente all’unisono.

 

Temette che la voce dell’innocenza, anche se non sdentata e stentata come quella di Noemi, li avesse fregati, ma Bianca subito spostò di nuovo l’attenzione su di sé con un, “però non vi assomigliate molto. Ma forse… forse somigli un po’ a Valentina, sì, ecco a chi somigli!”

 

Il cuore le si fece caldo caldo e, non fosse che non la voleva spaventare, l’avrebbe stritolata in un abbraccio.

 

Chiara, una lacrima che scendeva sulla guancia destra, invece, annuì, visibilmente felicissima.

 

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“Allora, ti va di provare ad accarezzare i cavalli?”

 

Era stata Irene a porre la domanda, dopo che Calogiuri lo aveva proposto.

 

Bianca rimase per un attimo immobile ma poi fece segno di sì con la testa, aggiungendo, “possiamo portare anche Francesco, però?”

 

“Allora andiamo ad accarezzare quella cavalla lì, che con Francesco ormai sono amici.”

 

“Ma è alta, come faccio?”

 

“Se vuoi vi prendo in braccio, tutti e due, se te la senti,” propose Calogiuri, con un tono timido che la fece squagliare assai di più dei trentasette gradi all’ombra.

 

Di nuovo un attimo di esitazione, ma Bianca annuì e Calogiuri, che ormai le forze le aveva recuperate quasi del tutto, la prese in braccio e poi si fece aiutare da Chiara a prendere in braccio anche Francesco - che lei non lo poteva più sollevare.

 

Temette per un attimo il disastro ma tutti e tre, belli sorridenti, si avviarono verso la matrona delle cavalle e, dopo qualche minuto di assestamento e familiarizzazione, Bianca le stava porgendo le carote ed aiutando Francesco ad accarezzarla, la manina nella sua.

 

A giudicare dai nitriti, la cavalla pareva al settimo cielo e anche Irene, che sembrava aver appena subito un attacco di rinite allergica.

 

Un suono un poco strozzato ma non era Irene, stranamente, no, era Chiara.

 

I loro sguardi si incrociarono e Chiara sorrise.

 

“Che c’è? Se pensi che Calogiuri sarà un buon padre…”

 

“Poco ma sicuro. Ma non è per quello, Imma… è che… è che pensavo che… se solo le cose fossero andate diversamente, in un mondo parallelo magari, avremmo potuto essere io e te da piccole, così.”

 

Altro che la rinite allergica e il nodo nella gola!

 

Prima di prenderne coscienza, si trovò a stringere Chiara in un abbraccio forte, fortissimo e liberatorio che sua sorella - perchè quello era, incontrovertibilmente - dopo un momento di stupore, ricambiò con la stessa intensità.

 

“Noi andiamo a fare due passi intorno alla proprietà…”

 

Le parole di Irene le giunsero a malapena all’orecchio, così come il rumore di passi che si allontanavano.

 

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“Certo che la sorella di Imma si tratta bene: è tutto bellissimo qui!”

 

Stavano facendo due passi intorno al casale, nella vegetazione mediterranea che lo circondava e sì, c’era un qualcosa di estremamente affascinante in quegli ulivi, in quella terra riarsa ma fertile, che sembrava uscita da un film biblico.

 

“Anche tu mi devi trattare bene!” rispose però, perché doveva tenerlo sulla corda anche lei, non solo Bianca, che in quello era davvero molto abile.

 

“Io ce la sto mettendo e ce la metterò tutta, anche con Bianca. Ma… a proposito… quando… quando pensi che potremo dirle di… di noi due?”

 

“Quando potrai dirlo anche a tua moglie.”


“Ex moglie.”

 

“Ex o non ex… voglio capire come reagirà e come reagirai tu, prima di coinvolgere ancora di più Bianca.”


“Se stavo rimandando era solo per non darti casini prima del tempo, ma posso dirglielo quando vuoi. Anzi, visto che siamo già in Puglia posso fare un salto a Bari a dire tutto prima ai ragazzi e poi a lei… e poi quando vuoi te li vorrei presentare, se se la sentono.”

 

“Lo sai che la prenderanno malissimo, sì? E forse non è il caso di rovinare loro le vacanze. Però d’altro canto con la scuola… potrebbe risentirne il rendimento e… che c’è?” si interruppe per domandargli, perché la stava guardando in un modo strano.

 

“No, è che… mi fa strano sentire che ti preoccupi dei miei figli, della loro istruzione. Strano ma bello.”

 

“Sarà bello per te, per loro temo molto meno,” sospirò, anche se un po’ intenerita, “già non sarà facile sapere che loro padre ha un’altra donna che non è la madre. E sicuramente lei gli dirà che siamo stati amanti, per metterteli contro e-”

 

“E la voglio anticipare, infatti. Almeno con quelli più grandi che… che hanno capito e possono capire che io e Nicoletta non stavamo bene insieme e che ricordano la nostra prima separazione, anche se breve. Voglio spiegare loro tutto: che non la amavo più da molti anni ma che sono tornato per senso del dovere verso loro fratello, sbagliando, perché ormai l’amore non c’era più e mi ero innamorato di te. Che non hai fatto nulla per allontanarci, anzi, e che non ci siamo sentiti per tanto tempo ma non potevo più continuare a mentire a me stesso su ciò che provavo. E che non voglio che un giorno loro facciano il mio stesso errore, di rimanere in una relazione senza più amore, perché non si fa il bene di nessuno e si soffre soltanto di più tutti quanti.”

 

Deglutì a fatica: non era sicura che i figli di Lorenzo l’avrebbero presa benissimo la confessione, però… però il suo coraggio era da ammirare ed era consapevole che era pronto ad affrontare tutto quello anche per lei.

 

Si trovò ad afferrarlo per il colletto della polo indossata per l’occasione e a piantargli un bacio sulle labbra.

 

Nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere rapido, casto, ma forse quelle parole, forse l’atmosfera, forse il lungo viaggio insieme, fianco a fianco, ma c’era una strana elettricità nell’aria, che li portava a non riuscire a staccarsi, non del tutto.

 

All’unisono, come in una delle loro operazioni speciali, scorsero con la coda dell’occhio una specie di sgabbiotto per gli attrezzi. Sorridendosi sulle labbra, con un cenno di intesa lo raggiunsero rapidamente, mano nella mano, e ci si infilarono, richiudendovicisi con un sospiro di sollievo, nonostante il buio quasi pesto ed il caldo tremendo.

 

Ripresero a baciarsi, trovandosi spinta nella foga verso una parete, dove però c’era un qualcosa di appuntito che la portò a spingerlo via per un attimo, per poi riprendere sulla parete opposta. Lui che mugugnava, se perché anche lì ci fosse un qualche oggetto contundente o se per il piacere chissà, ma iniziò a slacciargli gli ultimi bottoni del colletto della polo e poi-

 

Luce!

 

Luce, una luce accecante che la abbaglio per più di un attimo, gli occhi che bruciavano, finché una voce che strillava, “mamma??!! Lorenzo??!!” la fece andare nel panico più totale e lo mollò del tutto, cascando indietro ed evitando solo per un soffio gli spuntoni che, mentre cercava di rimettersi dritta, notò fossero di un rastrello.

 

Lorenzo era bordeaux e più terrorizzato di lei. Finalmente Irene riuscì ad adattare abbastanza le pupille da vedere lì, col suo vestitino candido in mezzo a tutta quella luce, Bianca, che li fissava con la bocca spalancata.

 

“Bianca, io-”

 

“Ma… ma vi stavate baciando?!” domandò, in un altro mezzo urlo che altro che panico, le stava venendo da vomitare.

 

“No,” provò a esordire ma, quando sua figlia incrociò le braccia con lo stesso sguardo che aveva lei stessa quando un sospettato provava a mentire, si corresse, “cioè sì, ma… cioè possiamo spiegare.”

 

“Ma… ma sembrava un bacio vero, come quello dei film!”

 

Mica tanto come quelli dei film! - per fortuna, però, Bianca era molto innocente.


“Ma che succede qua?!”

 

Il capanno degli attrezzi si fece bollente come le sue guance all’udire la voce delicata di Imma ed al vederla avvicinarsi, Chiara alle sue spalle. Notò solo in quel momento un’altra chiazza rosa-azzurra che invece era già vicina al capanno ed era Calogiuri, con in braccio Francesco.

 

Bastò uno sguardo per capire che anche lui aveva visto il bacio come quello dei film: probabilmente era venuto lì con Bianca per cercare qualcosa per le cavalle.

 

“Mamma e Lorenzo si stavano baciando!” declamò Bianca, con una chiarezza ed un uso del diaframma degni di un corso di teatro, che probabilmente pure la cara Nicoletta di Bari l’aveva sentita.


Imma non parve tanto sorpresa - del resto aveva già capito - Chiara di più, ma entrambe fissarono prima loro poi Bianca con preoccupazione.

 

“Ti… ti possiamo spiegare…” provò a rilanciare, sperando che non la prendesse troppo male, perché le scuse ormai erano impossibili da trovare.

 

“Ma quindi vi volete bene e siete fidanzati?”

 

Le venne da sorridere ma le venne pure un colpo per la solennità di quella parola che la spaventava moltissimo.


“Diciamo che… ci vogliamo bene, sì e… e stiamo insieme… per i fidanzamenti c’è tempo. Volevamo aspettare di essere sicuri che… che funzionasse tra di noi prima di dirtelo. Se… se non ti sta bene o se sei arrabbiata lo capisco, ma-”

 

Un urlo la interruppe ed era Bianca che si era lanciata addosso a Lorenzo.

 

Per un secondo temette che, oltre che da lei, avesse preso fin troppo esempio da Imma e Noemi e che lo volesse menare, ma invece uno scioccato Lorenzo la afferrò in qualche modo e se la trovò attaccata al collo, che lo abbracciava come un koala.

 

Quello sì, l’aveva imparato da Noemi.

 

Il nodo in gola divenne un ingorgo che nemmeno la tangenziale di Milano all’ora di punta e-

 

“Allora.. allora davvero starai sempre con noi?”

 

“Finché… finché mi volete sì, te l’ho già detto.”

 

“E allora adesso sei il mio papà?”

 

La saliva le finì di traverso che per poco non si strozzava e per fortuna Bianca sapeva reggersi per bene, perché anche Lorenzo traballò pericolosamente.

 

Incrociò per un secondo gli occhi marroni di Imma che brillavano tra il divertito ed il commosso ed un sorrisetto della serie e mo sono cavoli vostri!

 

“Con calma, Bianca, con calma: per fidanzamenti e cose tipo la paternità c’è tempo.”

 

“Per ora posso essere tipo… uno zio, Bianca, e-”

 

“No, no! Papà e basta. O papà o niente!”

 

Un altro colpo - non solo di tosse, ma dritto in petto.

 

Da un lato quella presa di posizione la spaventava, dall’altro era orgogliosa, orgogliosissima di Bianca, che le somigliava sempre di più. Anche nell’alzare la posta per capire l’interesse della controparte.

 

Quasi inconsciamente, incrociò le braccia anche lei, sfidandolo a dare una risposta.

 

“Se… se tu mi vuoi come papà e se anche tua mamma mi vuole, ne sarei onorato, Bianca. Tantissimo.”

 

Bianca fece un urlo felice - che per una volta dimostrava la sua età - gli piantò due baci sulla guancia e lo strinse ancora più forte ed idem lui.

 

Si rese conto solamente quando la mano di Calogiuri le porse delicatamente un fazzoletto, che quello che le pungeva gli occhi e le guance non era il sudore, ma lacrime.

 

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“Imma!”

 

Il trapanamento ai timpani e la stretta ursina, il peso che le causò un’immediata fitta alla schiena - ma pure una al cuore - erano inconfondibili, il suo marchio di fabbrica.


“Diana!” sospirò, commossa, ricambiando l’abbraccio con due pacche sulle spalle e sperando sia che finisse presto - per la colonna vertebrale - e mai - per tutto il resto.

 

In ogni caso, Diana si staccò quasi subito, abbassandosi per guardarle la pancia, con quegli occhioni grandi e azzurri che tanto le erano mancati e che si fissarono poi nei suoi con un, “quanto sta crescendo! Posso?”

 

“Certo, ma-”

 

Non fece nemmeno in tempo a dirle non stiamo nell’ingresso, magari! perché Diana già le aveva sollevato la maglietta e percepì le mani calde, caldissime, sull’addome, che la accarezzavano con una dolcezza che… come faceva a dire alcunché senza suonare come una scema?

 

“Ahia!”

 

Ecco, qualcosa era riuscita a dirla, perché la piccoletta, chissà se attratta come sempre dalle voci soavi e mansuete o dalle carezze, aveva deciso di scalciare come saluto e mo stavano in lacrime entrambe. In parte per lo stesso motivo, in parte per ragioni diverse, tipo la testolina di titanio appoggiata sul colon.


Un altro abbraccio, stavolta però evitando la pancia e delicato quasi quanto quelli di Calogiuri. Se lo godette perché le parole per una volta non servivano, tanto da aver stoppato sul nascere persino la proverbiale logorrea della sua ex cancelliera.

 

Alla fine però si dovettero separare. Un sussulto imbarazzato di Diana, che osservava un punto oltre le sue spalle, la fece voltare e notò Calogiuri e Chiara, che le fissavano con un sorriso tra il toccato e l’imbarazzato.

 

Chiara soprattutto.

 

Alternò lo sguardo tra lei e Diana, che si fissavano, rendendosi conto che era la prima volta che si incontravano ufficialmente.

 

Si schiarì un attimo la voce, che temeva di avere lo stesso tono strozzato di un certo giornalista dalla zucca un po’ fuori posto - come quelle che spaccava nel periodo di Halloween - e si piazzò perpendicolare ad entrambe, facendo segno a Diana di avvicinarsi.

 

“Diana, questa è Chiara Latronico, mia… mia sorella”

 

Pronunciare quella parola davanti a Diana era ancora più difficile, perché suonava quasi come un tradimento.

 

Ma, a sorpresa, a parte lo squittio commosso di Chiara, Diana fece un sorriso amplissimo e quasi… orgoglioso?

 

“Chiara, questa invece è Diana De Santis. La mia ex cancelliera e-” si interruppe, perché Diana la stava fissando indignata, anche se pure un po’ rassegnata, “e aspetta, Dià. E… forse la mia unica amica, che mi sopporta dai tempi della scuola, tranne quando sono stata troppo insopportabile. E… diciamo che le poche nozioni di sorellanza che sono in grado di applicare, me le ha insegnate lei.”

 

Altro pigolio ed eccallà, l’orsa bruna, di nuovo attaccata al suo povero collo, alla sua povera cervicale e mo pure alla zona lombare.

 

Ma un altro sorriso, oltre a quello di Chiara: il sorriso più bello del mondo e quegli occhi azzurri che amava più di tutti, che brillavano di lacrime e, sì, tanto, tantissimo orgoglio, la ripagarono dell’imbarazzo e della paura provati a mettersi a nudo.

 

Perché, glielo aveva insegnato lui, anche se era per lei la cosa più difficile al mondo, e anche se se lo poteva concedere solo con poche, pochissime persone di assoluta fiducia, era pure l’unico modo per essere felice davvero.

 

Viva davvero.

 

E quello, quel calore che provava in quel momento, quel sentirsi così leggera, valeva pure il peso sullo stomaco e l’acidità extra in gola, che stavano già svanendo, lasciando spazio solo a quelle sensazioni che non si sarebbe scordata mai.

 

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“Che c’è, dottoressa? A che pensi?”

 

Chiuse per un attimo gli occhi, lasciando cadere la testa all’indietro sul telo morbido, sopra la sabbia ancora più morbida.

 

La domanda tipica di Calogiuri ma che la beccava sempre nei momenti migliori - o peggiori.

 

Facendosi scudo con le dita dai raggi del sole, li riaprì o lo trovò intento a studiarla, in quel modo da Calogiuri, e gli sorrise per un attimo, prima di rivolgere di nuovo la sua attenzione a Diana e Chiara che stavano in acqua, senza galleggiante stavolta, giocando con Francesco che, inaspettatamente, si divertiva molto a fare schizzi con manine e piedini, pure senza di lei.

 

Le zie - il solo pensarci e altro che magone! - se l’erano conquistato e sembravano andare pure d’accordo tra loro, per come parlavano.

 

E, anche se temeva un po’ di essere l’argomento principe della conversazione, d’altro canto era stranissimo ma bello vederle così.

 

“Se la cavano bene con Francesco, eh?”

 

“Già…”


“Ma…? Perché c’è un ma, dottoressa, lo sento.”

 

“Ma… ma penso che molto probabilmente sarà la prima e ultima vacanza con lui. Anche se… non propriamente del tutto rilassante e… ed è giusto così ma… mi mancherà molto.”

 

Si trovò cinta per le spalle e con la testa sopra al petto di Calogiuri, in un mezzo abbraccio.

 

“Se c’è una cosa che ho imparato stando con te, dottoressa, è che gli amori grandi, quelli veri, non si perdono. Al massimo si trasformano. E, in ogni caso, Francesco farà sempre parte della nostra vita. E poi… e poi mo, con la piccoletta in arrivo, ci serviranno tutte le energie.”

 

“Lo so, ma… ma quando non esageri con le preoccupazioni mi sei molto d’aiuto, Calogiuri, e sento di potermi godere di più la maternità, non solo quella della piccoletta, ma in generale. Conoscendoti, già so che ci penserai anche tu a rimetterla in riga, la piccola calciatrice, capa tosta come sei. Lo vedo anche con Francesco e Ottavia: diventi sempre più autorevole.”

 

Calogiuri, oltre che autorevole, divenne anche più rosso dell’anguria che si erano appena mangiati.

 

“Quella sei tu, dottoressa…”

 

“Io sono più autoritaria ma, certo, anche autorevole. Forse la tua formula funziona di più, però, almeno coi bimbi…”

 

Un rapido bacio e poi lo vide deglutire, un poco preoccupato.


“Che c’è?”

 

“No, è che… a proposito di Francesco, forse… se ci trasferiremo veramente-”

 

“E certo che ci trasferiremo, Calogiuri: a Roma non ci possiamo più stare, lo sai anche tu.”

 

“Ecco, e allora… e allora… non vorrei che pensassi male ma… e se proponessimo a Melita di venire con noi? In un’altra casa, ovviamente, eh. Però… forse sarebbe la cosa migliore, anche per Francesco, che non so quanto tempo di adattamento gli ci vorrà: ti è così affezionato.”

 

Sospirò, perché sì, ci aveva pensato pure lei, più di una volta.

 

“Diciamo che basta che non facciamo tutti insieme appassionatamente sotto lo stesso tetto e… per il resto… se andasse bene a Melita non avrei nulla in contrario: di te mi fido Calogiuri. Ma occhio a non tirare troppo la corda!”

 

“Agli ordini, dottoressa!”

 

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Mmmm…

 

Sospirò soddisfatto, godendosi i grattini che Imma gli stava facendo sul collo e poi sul viso e poi-

 

“Ahia!”

 

Un dolore tra collo e spalla e balzò seduto, gli occhi spalancati, rendendosi conto dal meoooow di dolore, che non solo stava sognando ma che i grattini - e l’artigliata - non erano di Imma ma di Ottavia, che aveva appena involontariamente lanciato giù dal letto.

 

Incontrò due occhi gialli un po’ incazzosi, pronto a beccarsi altri artigli e chissà quale strigliata. Infatti Ottavia gli balzò addosso - le zampe posteriori sulle gambe, quelle anteriori sul petto - e prese a miagolare e poi a soffiare, in un modo che gli fece temere gli volesse staccare la faccia.

 

Ma no, continuava a fischiare e poi a ruotare su se stessa, e poi a fischiare e miagolare come un’ossessa, che nemmeno con Mancini era arrivata a tanto.

 

“Che succede?” le chiese, anche se non poteva rispondergli e lei saltò giù dal letto e corse verso la porta dove iniziò a grattare.

 

Il primo pensiero sarebbe stato Francesco, ma era tranquillo nel suo lettino, vicino a loro, e stranamente manco si era svegliato.


Stava migliorando col sonno ultimamente.

 

“Ma che succede?” gli fece eco Imma, con tono sonnolento e confuso e la vide con la coda dell’occhio sfregarsi le palpebre.

 

Con la gravidanza era sempre più stanca, dormiva sempre di più e faceva sempre più fatica a svegliarsi.

 

Meooooow MEOOOOOOOW

 

Ottavia ormai era una sirena e, dopo poco, un altro rumore ancora più forte.

 

“Le cavalle!”

 

Le cavalle stavano nitrendo fortissimo, si sentiva anche il rumore degli zoccoli che scalciavano.

 

E il casale aveva i serramenti belli robusti, antiproiettile addirittura - che mica Chiara era una Latronico per niente - e quindi di solito i rumori esterni erano molto attutiti.

 

Il casino reale doveva essere di gran lunga peggiore di quello che potevano sentire.

 

“Con tutto il bene, Calogiù, Ottà è così terrorizzata dalle cavalle che dubito si preoccupi per loro, ma-”

 

“Ma forse si preoccupano tutte della stessa cosa?” finì per lei, il gelo che gli si infiltrava nel petto, “chiamo i ragazzi della scorta.”

 

Prese il cellulare dal comodino, alzandosi in piedi, che fermo non ci riusciva a stare con tutta quella tensione, e compose il numero del referente del turno in corso.

 

Niente, squillava a vuoto.

 

Provò con altri numeri ma niente, niente e niente.

 

“La scorta la chiamo io, Calogiù, tu-”

 

Con un cenno di intesa, si infilò i primi pantaloni che trovò, ci infilò il cellulare, mentre Imma con il suo continuava a chiamare, e si affrettò ad estrarre la pistola dalla custodia in cima all’armadio.

 

“Vado a vedere che succede…”


“Calogiuri, stai attento e-”

 

CRASH

 

Un rumore di un qualcosa che andava in frantumi, forse vetro, forse-

 

“Sono i vasi del porticato questi,” intuì Imma, sempre più veloce di lui e-

 

BANG BANG BANG

 

Spari, tanti spari, troppi spari, talmente tanti da fargli male alle orecchie. Armi automatiche o semiautomatiche, pesanti anche.

 

Si guardarono, paralizzati, in un momento di puro e totale panico. Poi una parte di lui, che prima di conoscere Imma manco sapeva che esistesse, si riscosse ed un unico obiettivo gli si fissò in mente.

 

“Dovete nascondervi in cantina, subito!”

 

La cantina aveva una parte blindata: anche se il casale era stato sempre e solo di Chiara, i nemici del padre erano pure nemici suoi e… la passione per i bunker doveva essere di famiglia.

 

Vide Imma scattare e prendere in braccio Francesco che, col brusco risveglio, cominciò a strillare. Lui abbrancò per la collottola Ottavia, passandogliela.

 

A pistola spianata, cercando di essere sia prudente che veloce, confermò che il piano superiore fosse libero - Chiara se ne era andata a Roma per qualche giorno, per fortuna - e le fece cenno di seguirlo fino al pianerottolo.

 

Dopo aver controllato anche la scala, le diede il via libera a scendere, segnalandole di stare radente al muro, perché sì, stavano sparando e le finestre, per quanto blindate, avrebbero presto ceduto.

 

Le fece segno verso la porta che dava alle scale per la cantina e fece appena in tempo a leggere la protesta nei suoi occhi quando squillò il telefono. Il suo.

 

Ranieri


“La scorta dove cazzo sta?! Qua ci stanno sparando addosso da tutte le parti, mitragliatrici e-”

 

Le parole gli erano uscite da sole, incontrollabili

 

“Lo so, hai ragione, lo so. Ma c’è stato un contrattempo nel dare il cambio.”


“UN CONTRATTEMPO?! ME LO CHIAMI UN CONTRATTEMPO?!”

 

Solo il rumore più forte di spari vicino a lui lo portò a calmarsi ed abbassare il tono di voce, mentre prendeva Imma per un braccio e quasi la spingeva verso la porta, facendole da scudo.

 

“Lo so, i ragazzi del turno di notte per qualche motivo non si sono presentati e…”

 

“E quelli di prima non li hanno aspettati?”

 

“Sto cercando di capire cos’è successo. Intanto sto facendo tornare i ragazzi disponibili e stiamo arrivando con i rinforzi.”


“Stiamo chi, che sei a Bari?”

 

“Tutti quelli che trovo. Cerca di resistere più che puoi.”

 

“Muovetevi!” fu la sua ultima parola - e poco importava che pure Ranieri fosse capitano, avrebbe pure potuto essere generale ed il suo tono non sarebbe cambiato di una virgola.

 

“Imma, la cantina. Ora!”

 

“Ma non puoi fare tutto da solo e-!”

 

“E se rimani ho almeno due preoccupazioni in più, se non tre. Vai in cantina. Per favore. O giuro che ti ci rinchiudo a forza.”

 

Non lo avrebbe mai fatto, lo sapevano tutti e due, ma Imma deglutì, annuì, gli piantò un bacio che sapeva di sale e si infilò nella porta che lui aveva aperto.

 

Scese con lei il tempo necessario per aprirle anche la porta blindata e richiuderla su quel viso che sperava disperatamente di poter rivedere.

 

Fece le scale di corsa ed il rumore degli spari era sempre più forte. 

 

Un fischio vicino all’orecchio ed era un proiettile: le finestre stavano cedendo, mentre la porta scricchiolava sotto ai colpi di un altro percussore.

 

Con la forza della disperazione, spinse i mobili più vicini contro la porta, cercando di bloccarla meglio che poteva.

 

E poi, alla cieca, perché non poteva rischiare di sporgersi - i tempi di ricarica erano impossibili da calcolare senza vedere in quanti fossero - sparò un paio di colpi fuori dalla finestra che aveva ceduto, venendo raggiunto da un lamento.

 

Forse lo aveva preso uno di quei bastardi.

 

Raccolse tutte le munizioni che aveva, troppo poche anche se più che a Roma, per fortuna, ma una pistola contro quella potenza di fuoco poteva fare ben poco. Continuò a sparare dove vedeva aprirsi una breccia, cercando di mantenersi il meno prevedibile possibile, almeno finché un dolore caldo e pulsante ad un braccio lo costrinse a stringere i denti per non urlare e lo notò, quel liquido viscoso, caldo e nerastro che gli colava sulla pelle, macchiando la maglietta bianca.

 

Lo avevano preso, proprio al braccio destro, ma non poteva cedere, non poteva fermarsi. Afferrò una delle tovagliette con pizzo cadute per terra mentre spostava i mobili, la arrotolò e la legò vicino alla ferita, cercando di fermare il sangue. Poi, con l’altro braccio, provò a impugnare la pistola - che tanto la mira era inutile, ma la forza serviva e quel braccio ne aveva molta meno, sparando altri due colpi da un’altra finestra ed udendo un altro grido.

 

Doveva resistere! Doveva resistere! Ma vedeva i mobili cadere e spostarsi da vicino alla porta e… e non avrebbe avuto la forza di piazzarcene altri, la testa che gli girava, il braccio che tremava e bruciava così tanto da sembrargli su uno spiedo, la vista che un poco si stava appannando.

 

Non poteva cedere, non poteva: si costrinse a sparare altri due colpi, cercando di rimanere sveglio, vigile, anche mentre il nero continuava ad arrivargli ad ondate, a levargli la vista e a ridargliela a macchie, per un periodo sempre più breve.

 

Imma! Mi dispiace!

 

Quello fu il suo primo pensiero, e poi alla piccoletta, che non avrebbe probabilmente mai conosciuto, ed una preghiera a quel dio in cui non credeva più da molti anni.

 

Che si salvassero, almeno loro, anche stavolta e non solo quella volta.


Che si salvassero, in qualche angolo del mondo, lontane da lì.

 

Loro, il piccoletto, Ottavia…

 

Una specie di sirena gli sembrò come un segno, ma forse la stava solo sognando.

 

Spari, sempre più spari e… e ruote che sgommavano e urla e…

 

Un urlo ed era il suo nome, gridato con forza, la terra che tremava, e poi un altro urlo, acuto, sottile, ma disperato e terribilmente familiare.

 

“Imm-” provò a pronunciare, immerso ormai nel buio.

 

E poi non sentì più niente.

 

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“CALOGIURI!!!”

 

Scrollò via la stretta di Ranieri, che l’aveva aiutata a salire le scale, mentre il dio Greco si era preso Francesco, che strillava come un ossesso, e trasportava pure Ottavia, che gli era balzata in testa.

 

E che ora, con uno scatto felino, la precedette, raggiungendo in pochi balzi e con dei miagolii strazianti - ma mai come quello che sentiva dentro - il corpo riverso a terra ed il viso pallidissimo del suo Calogiuri.

 

Corse in avanti, incurante della pancia e della fatica, spinta dalla pura adrenalina, e si lanciò in ginocchio al suo fianco, facendosi largo tra i due agenti che già stavano al suo capezzale. Gli prese il viso e constatò con sollievo che era caldo e che nel collo, sotto le sue dita, riusciva a percepire un battito, anche se lento.

 

“Calogiuri!” gridò di nuovo, notando la maglietta bianca dipinta di rosso sul fianco destro, il sangue che colava dal braccio, oltre un laccio di fortuna.

 

“Calogiuri, mi senti?!” urlò, vicino alla sua bocca e sì, respirava, anche se era incosciente - e dove stava l’ambulanza e i paramedici e…?

 

Un’altra sirena e, dopo attimi che sembrarono eterni, un gruppo di uomini incamiciati apparvero dall’ingresso, superando i mobili rovesciati e lei urlò “qua! Qua!” con tutta la voce che aveva.

 

Per fortuna la notarono subito - o ce li avrebbe trascinati a forza - e si posizionarono accanto a lei, facendole segno di fare spazio, ma lei indietreggiò di pochissimo e tenne comunque almeno la mano sana di Calogiuri: non poteva mollarlo.

 

“Che gli è successo? Da quanto è incosciente?”

 

“Non lo so: ero in cantina, ci sono stati molti spari, è andata avanti per un bel po’ e-? Cosa avete visto voi? RANIERI?!” urlò rivolta agli altri agenti e anche al capitano.

 

“Era così quando siamo arrivati, non sappiamo da quanto, ma… ma quando vi ha sentito urlare ha mugugnato qualcosa. E prima apriva e chiudeva gli occhi. Non è da molto che sono chiusi del tutto. E c’è il polso e respira.”

 

Lo piazzarono su una barella, attaccandolo a una sfilza di sensori e macchinari portatili. Li avviarono e sì, il battito c’era, e anche regolare.

 

“Metti un altro laccio e togliamo questo, guardiamo la ferita. Qualcuno sa di che gruppo sanguigno è?”

 

“A-” chiarì, ringraziando tutti gli esami fatti di recente, per rimanere incinta prima, e per l’amniocentesi poi.

 

“Dobbiamo fare una lastra ma non c’è un foro di entrata ed uno di uscita, sembra una ferita netta e non mi sembra di sentire corpi estranei. Credo sia stato preso di striscio al braccio, ma ha perso un bel po’ di sangue ed avrà bisogno di una trasfusione. E poi dobbiamo accertarci se magari nella caduta abbia avuto altri traumi. Immobilizziamogli il collo per sicurezza e mettiamolo sulla barella.”

 

Un fischio fortissimo e le toccò prendere Ottavia per la collottola perché, come avevano provato a mettergli il collare, ancora un po’ e sfilettava le mani degli infermieri.

 

“Tranquilla, Ottà, stanno cercando di aiutare papà, tranquilla!” proclamò, con voce roca e tremante, ma almeno non sembravano esserci altre ferite visibili e quella non era grave e-

 

“I- Imm-”

 

Un singhiozzo le scappò dalle labbra, a quell’unica sillaba farfugliata e il “Calogiuri!” le uscì ancora prima di vederlo socchiudere gli occhi.

 

“Imm-?”

 

“Sono qui, Calogiuri, sono qui!” gridò, stringendogli più forte la mano e le dita che si contrassero nelle sue furono un altro sospiro di sollievo.

 

“Mi senti? Mi vedi?”

 

“Sì. Ma… vedo… a macchie…”

 

“Ha perso sangue, capitano, e ha la pressione molto bassa, al limite. Adesso la portiamo in ospedale e le faremo tutti gli esami ed una trasfusione, va bene?”

 

“Imm- come? La bim-ba? Fran-?”

 

“Stiamo tutti bene, Calogiù, tutti bene, non ti preoccupare. Mo pensiamo a te!”

 

“Viene in ambulanza con noi?” le domandò uno dei ragazzotti, al quale rispose con un’occhiataccia della serie provateci solo a non farmici salire e altro che trasfusione!

 

Fece un cenno a Ranieri, gli porse anche Ottavia e diede un rapido bacio all’ululatore che, giustamente, strillava senza fermarsi. Si sentì infinitamente in colpa per quell’ennesimo trauma e per non poterlo portare con loro.

“Vi raggiungiamo appena possibile, dottoressa, non si preoccupi.”

 

“Ranieri, lo sa cosa penso di quelle tre parole, no?!” esclamò, incazzata nera con lui, con la scorta, con tutto quello che non aveva funzionato, con tutti quelli che avrebbero dovuto proteggerli e invece….

 

Lo lasciò lì, mortificato a cullare Francesco ululante, e raggiunse con le ultime forze l’ambulanza.

 

Si lasciò cadere quasi sul sedile che le avevano indicato.

 

“Imm-”

 

“Shh, Calogiuri, non ti preoccupare, lascia che ti curino adesso.”

 

“Ma… il bracc-?”

 

“Un colpo di striscio, capitano. Le è andata bene e-”
 

“E non è solo fortuna,” intervenne, perché aveva visto la quantità di proiettili a terra, sia dentro il casale che sul terrazzo e in giardino, dove scintillavano in modo inquietante alla luce della luna, “sei stato bravissimo, Calogiuri. Non so come hai fatto a resistere. Ora stai tranquillo, ma resta con me.”

 

Lo vide sbattere un paio di volte le palpebre, probabilmente cercando di metterla a fuoco, la mano buona che la stringeva ancora più forte ed un sorriso gli si tirò sul viso.


“Tranqui-lla, Im-ma. Sto be-ne. Non… è nien-te. Non si-amo mi-ca in un film!”

 

“E manco in una fiction, per fortuna, che se no saresti morto già tre volte! Almeno! Mannaggia a te!”

 

Fece per rilassarsi sullo schienale, ma una fitta al bassoventre la fece piegare in due quasi.


“Im- ma?!” esclamò lui, subito: percepiva tutto pure conciato così, mannaggia a lui!

 

“Ha male?”

 

“Una fitta, qua in basso ma- ahia!”

 

“Meglio fare due controlli anche a lei, a che mese è?”

 

“Im-ma!”


“Tranquillo, Calogiù, tranquillo! Sarà solo la piccoletta che si lamenta per tutti gli sballottamenti!” cercò di rassicurarlo, anche se il dolore era assai più forte del solito, diverso.

 

Ma si sforzò di rimanere concentrata, mentre forniva ad uno dei paramedici tutti i dati sulla gestazione e li sentiva chiamare qualche collega in ginecologia e ostetricia.

 

Non mi fare scherzi, piccoletta, almeno tu!


Nota dell’autrice: Ed eccoci qui alla fine di questo capitolo tra il rosa, il giallo e l’azione.

Imma e Calogiuri l’hanno di nuovo scampata per un soffio ma non senza conseguenze, anche fisiche. Nel prossimo capitolo vedremo a cosa porteranno ed il cerchio si stringerà ulteriormente intorno a loro e alle indagini, in attesa dell’udienza finale, per la quale i Mazzocca-Romaniello si stanno giocando il tutto per tutto.

Vi ringrazio tantissimo per avermi seguita fin qui, per l’affetto con il quale leggete questa storia e per tutti i vostri commenti. Spero che anche questo capitolo non abbia deluso le attese e, se vorrete lasciarmi una recensione e farmi sapere che ne pensate, per me sono davvero preziosissime per capire come procede la narrazione.

Un grazie enorme quindi a chi ha recensito e recensirà ed un grazie particolare a chi ha inserito questa storia nelle preferite e nelle seguite.

Ormai siamo alle battute finali anche della seconda stagione di Imma, giovedì scopriremo come finirà e poi attenderemo notizie sulla terza.

Il prossimo capitolo invece dovrebbe giungere domenica 23 ottobre. In caso di ritardi, vi avviserò come sempre sulla pagina autore.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 77
*** Morti e Feriti ***


Nessun Alibi


Capitolo 77 - Morti e Feriti


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Ehi, dove mi state portando? Calogiuri!”

 

Erano arrivati al pronto soccorso e si era trovata piazzata su una barella lei e su un’altra lui, ma il peggio era che mo andavano in direzioni opposte.


“Dobbiamo fare i controlli a lei e ricucire e medicare il capitano. Tra poco vi vedrete e-”

 

“E io posso aspettare. voglio sapere come stanno Imma e la bambina!” protestò anche lui, in un modo che però la fece tornare per un attimo coi piedi per terra - anche se solo figurativamente.

 

“No, Calogiù, tu la trasfusione la devi fare subito. Vedrai che saranno solamente due controlli e che ci vedremo prima ancora che hai finito con la sacca, va bene?” provò a fargli forza, anche se l’idea di non potersi accertare che stesse bene, passo passo, la mandava ai matti.

 

“Che succede qui?!”

 

Una dottoressa dai capelli grigi e l’aria stanca - cosa comprensibile visto l’orario - era uscita da una delle stanze del pronto soccorso.

 

“Una coppia. Lei incinta, lamenta dolori al bassoventre, lui ha una ferita d’arma da fuoco al braccio, di striscio ma ha perso molto sangue, pressione ai limiti e-”

 

“Ma perché gridano?”


“Non si vogliono separare e-”


“E sono stati entrambi nella sparatoria?” domandò la dottoressa, sempre con quel cipiglio, oltre che un accento salentino fortissimo, che contrastava in mezzo a tutto quel barese.

 

“Sì, ma-”

 

“Lei ha paura del sangue?” le domandò la dottoressa, guardandola da sopra un paio di occhialetti bifocali.


“Secondo lei?” le rispose, tra un dolore e l’altro, indicandole la camicia da notte sporca del sangue di Calogiuri, “Imma Tataranni, sostituto procuratore. Al sangue ci sono abituata.”

 

“Portateli nella due e cambiateli per l’intervento. Chiamate la Fiore, che è di turno, ed intanto predisponete la sala operatoria se si è liberata. Faremo tutto lì.”

 

“Ma dottoressa Saponaro…”


“Risparmiamo una sala e recuperiamo tempo. Tanto facciamo in fretta. La trasfusione poi potrà terminarla in stanza. Muoviamoci!”

 

La dottoressa, che sembrava più una generalessa, non aveva lasciato spazio ad obiezioni. Udì il rumore di ruote e vide la barella di Calogiuri venire spinta verso la sua, che aveva ripreso a muoversi.

 

Gli sorrise, cercando di fargli forza, vedendolo spaventato quanto e più di lei.

 

“Sei sicura che vuoi veramente vedere…” lo udì sussurrare, quando furono fianco a fianco in una stanzetta, due infermieri che li aiutavano a cambiarsi nei camici sterili.

 

Nonostante tutto, le venne da sorridere per l’occhiataccia da attento a dove guardi! che Calogiuri rivolse all’infermiere mentre lei si stava spogliando.

 

“Calogiuri, tranquillo, non saranno due punti a spaventarmi oramai… l’importante è che qua ci muoviamo. Quanto ci vuole per la sala operatoria?”

 

“Dobbiamo disinfettarvi per ridurre il rischio di contaminazione. La sala dovrebbe essere pronta tra poco.”

 

Sospirò, sperando che poco fosse davvero poco, mentre cercava di trattenersi dal gridare per l’ennesima fitta, Calogiuri che la guardava pallido come un cencio, con le labbra quasi blu.

 

*********************************************************************************************************

 

“Che succede? Come sta la bambina?”

 

Calogiuri l’aveva preceduta nel porre la domanda - sebbene quello di solito fosse il mestiere suo - pure se avevano appena finito di fargli l’anestesia locale ed erano impegnati a sistemare la ferita prima di ricucirla.

 

Ma lui, disteso sul fianco buono, la guardava e, nonostante il “stia fermo capitano!” della dottoressa Saponaro, non smetteva di chiedere, “come sta?”

 

“Capitano, se va avanti così dobbiamo sedarla, veda un po’ lei!” sbottò a una certa la generalessa, tanto che le toccò intervenire con un, “Calogiuri, o la smetti di agitarti, o mi faccio portare in un’altra sala!” perché le pareva capace di farlo sul serio.

 

E poi non voleva che Calogiuri si facesse altro male, oltre a quello che si era già fatto.

 

Per fortuna gli avevano trovato la sacca di sangue e stavano già armeggiando per sistemargli la trasfusione.

 

Calogiuri, forse per il suo tono, forse per lo sguardo, si calmò per un attimo ma guardò prima lei e poi la ginecologa, che stava proseguendo con l’ecografia.

 

“Dobbiamo aspettare i risultati delle analisi del sangue. Di sicuro lei ha la pressione elevata, dottoressa, anche se in discesa,  ma… la situazione non aiuta. Le contrazioni paiono irregolari e sporadiche, quindi potrebbero essere correlate alla situazione di forte stress. Non c’è dilatazione ed il feto non sembra essersi mosso in posizione per il parto. Fortunatamente non ci sono distacchi nella placenta.”

 

“E quindi?”

 

“E quindi, a parte i farmaci che posso prescriverle per ridurle la pressione, ed il magnesio per cercare di arrestare del tutto le contrazioni, dobbiamo aspettare i risultati delle analisi per vedere se altri valori oltre alla pressione sono fuori posto. Indubbiamente dovrà evitare qualsiasi fonte di ulteriore stress e rimanere in assoluto riposo. Per quanto tempo… dipenderà dall’esito delle analisi e dal decorso delle contrazioni e pressorio.”

 

“Ma… ma c’è rischio di…?”

 

Non riuscì a finire la frase, a pronunciare quella parola, aborto, non ci riusciva.

 

“Dobbiamo-”

 

“Avere i risultati delle analisi, sì, ho capito. Ma al momento?”

 

“Al momento deve stare tranquilla ed evitare di agitarsi come sta ancora facendo. La situazione non appare così grave, ma può diventarlo, se non riesce a tranquillizzarsi e a far rientrare la pressione e le contrazioni. E, in ogni caso, dobbiamo valutare il quadro completo.”

 

“Se… se… quante possibilità ci sarebbero di…?”

 

Si sentiva stupida, a balbettare in quel modo, ma sperava che la dottoressa capisse.

 

“Lei è alla ventitreesima settimana. Sotto le ventiquattro settimane, la probabilità di sopravvivenza del feto ad un parto prematuro è inferiore al 50%. Dalla ventiquattresima alla ventottesima sale gradualmente, fino a raggiungere un 80-90% al termine della ventottesima. Dalla trentaduesima si sale al 95%, con quasi nessun rischio di conseguenze a lungo termine per il feto. Dalla trentaquattresima lo scenario è simile ad un parto a termine, ma con degenza più lunga. Al momento non deve fasciarsi la testa: tutto potrebbe risolversi con qualche giorno di riposo. Ma l’obiettivo è arrivare almeno alle ventotto settimane. In ogni caso, qui a Bari abbiamo un ottimo centro per prematuri, ma le vostre condizioni sono… particolari, da quanto capisco. Per ora però deve cercare di stare il più tranquilla possibile ed attendere. Va bene?”

 

Eh… era una parola… ma incrociò gli occhi preoccupati di Calogiuri e si concentrò sul fargli forza, con un sorriso che non sentiva del tutto, ma che sperava rassicurasse lui e magari, di riflesso, anche un po’ lei.


“Come va Calogiuri? Hai male? La pressione? La vista?”

 

“Un poco meglio, dottoressa. Un poco meglio. Mi gira meno la testa e mi sembra che tutto sia piano piano più nitido.”

 

Sospirò di sollievo, già solo a quel titolo, dottoressa, che stupì tanto gli astanti ma che significava che davvero le cose stavano migliorando. Anche la voce con cui era stato pronunciato era meno impastata.

 

“La pressione sta risalendo. La sua, capitano, e questo, nel suo caso, è un buon segno. La trasfusione comincia a fare effetto. Adesso dobbiamo ricucirle la ferita, quindi deve stare il più fermo possibile, va bene? Anche per evitarle una brutta cicatrice.”


“Imma, sei sicura di voler vedere? Puoi chiudere gli occhi, non ti devi agitare.”

 

“L’unico caso in cui mi agiterò sarà se non verrà un lavoro fatto bene. Quindi attenti a voi!” intimò, rivolta sia alla dottoressa Saponaro che a Calogiuri, prima che il bassoventre si contraesse di nuovo, anche se il dolore pareva diminuito.

 

“Il magnesio. Subito. Prepariamoci per l’endovena.”

 

*********************************************************************************************************

 

“Come stai?”

 

“Un po’ di male al braccio ora che sta finendo l’effetto dell’anestetico ma bene. Tu, piuttosto? No, non ti girare che devi stare immobile, mi avvicino io.”

 

“Calogiuri non-”

 

Le proteste furono inutili perché, con la coda dell’occhio, vide Calogiuri alzarsi dal letto alla sua sinistra, nella stanza a loro riservata - e costantemente piantonata da due agenti - e procedere a passo lento ma non troppo ciondolante fino alla sedia accanto a lei, sulla quale si accomodò con un lieve tonfo che indicava che le gambe erano più stabili sì, ma non così tanto. Del resto, il braccio fasciato stretto al petto non aiutava con l’equilibrio, anzi.

 

“Dovresti stare a letto anche tu e-”


“Ma io sto bene. Devo solamente aspettare che guarisca il braccio: ormai la trasfusione è finita e la pressione non è più così bassa. Sei tu che mo devi stare a riposo e cercare di stare tranquilla, cosa che ti è quasi impossibile.”

 

Sospirò, perché la conosceva benissimo e sì, l’idea di dover stare immobile per chissà quanti giorni era terribile ma… ma mai quanto l’alternativa di… di…

 

Una mano nella sua e poi due labbra poggiate sul palmo, sollevò gli occhi, un poco appannati, fino a quelli di Calogiuri, che ricambiò deciso, stringendole più forte la mano.

 

“La piccoletta è ancora qua: è tosta come te. E, a parte la pressione, le prime analisi sono a posto. Le contrazioni stanno passando, no?”

 

“Sì, ormai sono trascorsi…” esordì guardando l’orologio, “più di quarantacinque minuti dall’ultima volta.”

 

“E magari non ce ne saranno più. Però ti devi rilassare, dottoressa: che cosa posso fare? I massaggi, tra questo braccio e le tue condizioni, ce li dobbiamo scordare, però-”

 

“Però, se non ti fa male, puoi raggiungermi, no?” propose, indicando lo spazio vuoto accanto a sé nel letto, “per fortuna e purtroppo sei ancora magro, mannaggia a te, e-”

 

“Ma non devi muoverti e non devo toccarti la pancia. Sei sicura che sia una buona idea? Per il male non c’è problema, anzi, meglio se sto disteso sul braccio buono ma-”

 

“E allora proviamo. Almeno magari dormiamo un po’, anche se ormai è mattina.”

 

Lo vide deglutire e con lo sguardo da posso? e con una delicatezza e precisione incredibili, considerato quello che aveva appena passato, lo sentì distendersi accanto a lei, il braccio buono che appena appena sfiorava il suo, sopra al coprimaterasso, il calore del suo fiato che le solleticava l’orecchio e il collo.

 

Se solo pensava che aveva rischiato di non sentirlo mai più e-

 

“Imma…”

 

Un sussurro appena ma girò il collo fino a incrociare i loro sguardi, le labbra a pochi millimetri.


Capì che, come sempre, aveva capito tutto - pure più di lei - e lo baciò, dolcemente, sentendolo sospirare di sollievo, che era anche il suo, come se in quel bacio ci fosse la consapevolezza di essere ancora vivi.

 

Insieme.

 

“Purtroppo non ti posso abbracciare…” sospirò lui, quando si staccarono, indicando il braccio fasciato.

 

“Ma posso farlo io… più o meno…” ribatté, prendendogli la mano sinistra nella sua e poggiando quella destra sul suo fianco destro, appena sotto la fine dell’imbragatura.

 

Un paio di calcetti della piccoletta, dei quali non si sarebbe mai più lamentata, trattenne il fiato attendendo una contrazione che per fortuna non arrivò.

 

La stanchezza, in compenso, cullata dal fiato e dal calore di Calogiuri, ci mise poco ad avere il sopravvento.

 

*********************************************************************************************************

 

“Le analisi sono nella norma e la pressione è rientrata nei parametri standard. Per sicurezza è meglio che stia ancora qualche giorno in assoluto riposo, continuando a seguire la terapia.”

 

“Ma poi, se ci dobbiamo trasferire, è possibile? Non credo sia consigliabile per noi rimanere qua a lungo, se non è necessario, ovviamente.”

 

Calogiuri aveva espresso anche il suo pensiero: era ormai quasi sera, ora che si erano svegliati, Calogiuri si stava piano piano riprendendo, nonostante il male al braccio, e lei non aveva più avuto contrazioni, ma le era toccato stare immobile peggio che dopo l’amniocentesi.

 

“Sì, ne stavamo discutendo con il capitano Ranieri e-”


“E, con tutto il rispetto, prima di discuterne con Ranieri, dovreste discuterne con noi. Non siamo pacchi postali,” sbottò, anche perché ce l’aveva ancora con il capitano per il casino della scorta: le avrebbe dovuto molte spiegazioni.

 

“In realtà voleva già venirvi a parlare, ma ho preferito prima accertarmi delle sue condizioni, dottoressa. Se vuole, lo faccio entrare: è nella sala delle infermiere,” chiarì la Saponaro, con un tono che faceva capire come le infermiere non ne disdegnassero la presenza.

 

La ex gattamorta d’altro canto, forse avrebbe dovuto affilare gli artigli.

 

Si guardò con Calogiuri che annuì e, quando la dottoressa uscì, espresse l’altro motivo per il quale voleva vedere Ranieri: “Francesco!”

 

Chissà come stava, chissà quanto era traumatizzato, chissà con chi stava e-

 

La porta si aprì ed apparve Ranieri, con l’aria tra il preoccupato e l’imbarazzato. Ma poi mise su una maschera più calma e si avvicinò loro, piazzandosi nella parte di stanza di fronte ai loro letti.

 

“Dottoressa, capitano, la dottoressa Saponaro mi ha detto che volevate discutere di cosa succederà non appena lei potrà essere mossa, dottoressa. Ma volevo innanzitutto rassicurarvi che ci stiamo occupando di tutto e-”


“E ho visto quanto vi siete occupati bene di tutto!”

 

Calogiuri, incazzoso come raramente lo aveva mai visto - l’ultima volta al telefono la notte prima, proprio con Ranieri, che non lo aveva mai sentito così.


“Capisco che sia arrabbiato, capitano, ma-”

 

“Ma non è solo lui ad essere arrabbiato: ci siamo affidati a voi e… e se non fosse stato per Calogiuri e per Ottavia che ci ha svegliati… a quest’ora potevate giusto occuparvi di noi portandoci i fiori ed organizzando il funerale!”

 

Le venivano da un lato i brividi solo al pensarlo, la bimba che dava altri tre calcetti di avvertimento: sapeva di dover stare tranquilla, pure senza l’occhiata preoccupata di Calogiuri che era un lascia fare a me con l’incazzatura, che se mi aumenta la pressione è meglio! ma era più forte di lei.

 

“Lo so, e credetemi che… che dire che sono mortificato e che lo considero uno dei più grandi fallimenti della mia carriera è dire poco ma… c’è stata un’intossicazione alimentare generalizzata che ha messo ko quasi tutti gli uomini della scorta.”

 

“Eh?!” domandò, strabuzzando gli occhi, convinta di aver capito male.

 

“Sì, secondo quanto siamo riusciti a ricostruire, perché alcuni stanno ancora troppo male per spiegare e quasi tutti sono peraltro ricoverati qua in gastroenterologia, la scorta del turno giornaliero non ha visto arrivare gli uomini del turno di notte per il cambio. Solo che hanno cominciato a sentirsi male… insomma… vomito e non solo…. E nella cena che avevano mangiato c’erano alcuni frutti di mare, anche se cotti. Riso patate e cozze, tipico di qua. E quindi hanno provato ad avvertire quelli del turno di notte che non potevano più aspettare, ma non rispondeva nessuno ed il guidatore è riuscito giusto ad arrivare quasi all’entrata della tangenziale di Bari prima di dover chiamare un’ambulanza perché si è sentito male pure lui.”

 

“Ma l’altra scorta?” domandò, guardandosi con Calogiuri, basita.

 

“L’altra scorta non rispondeva perché pure loro si sono sentiti male. Ed avevano fatto in tempo a chiamare l’ambulanza prima di svenire e… non diciamo in che condizioni li hanno trovati sulla loro di macchina. Ma-”

 

“Pure loro il riso patate e cozze? Magari dello stesso fornitore? Ma che so’ scemi?”

 

“Lo so, dottoressa ma… erano andati tutti a fare la spesa dal solito rosticcere di fiducia della dottoressa Latronico e quello c’era, in abbondanza, il resto era tutto terminato. E non c’erano mai stati problemi: le altre volte anzi era sempre stato tutto buonissimo e la rosticceria è una delle più antiche e rinomate qua in città.”

 

Al solo sentire nominare Chiara, avvertì come un peso sullo stomaco che non era la solita acidità o le capriole della piccoletta.

 

Possibile che…?

 

“Sarà anche una rosticceria di quelle che c’erano anticamente, e pure rinomata, ma che proprio la sera in cui tutti si sono presi un’intossicazione alimentare ci sia stato l’assalto… quelli erano organizzati: non è un’azione che si può far scattare con così poco preavviso. E nelle coincidenze non ci credo!”


E bravo Calogiuri! Sempre più incazzoso.

 

“Ma ci sono stati altri casi di intossicazione? Si sa da dove venivano le cozze e chi le ha cucinate? Chi ha fatto la spesa?” si inserì, cercando di zittire la vocetta del dubbio che le si era insinuata nella mente.

 

“Altre due persone, una coppia. A quanto pare il grosso della partita lo avevano preso i ragazzi. La spesa l’ha fatta Greco, come quasi sempre, accompagnato da Lopietro. Dal negozio dicono che le cozze le hanno prese dal loro pescatore di riserva, che quello principale è andato in vacanza. Sa, ad agosto qua a Bari tanti posti chiudono, la gente se ne va dalla città. E quindi…”

 

Il Dio Greco…


“E quindi se c’è poca gente, come mai era tutto esaurito oggi? A che ora ha fatto la spesa Greco?”

 

“Nel tardo pomeriggio, come al solito, che poi non si trova più niente. E ha portato il tutto ai ragazzi che lo hanno messo nei loro frigoriferi e poi riscaldato, sempre come al solito. Ma, a quanto pare, il proprietario sostiene di avere avuto più ordinazioni del solito, alcune anche grosse e quindi quello gli era rimasto e poco altro.”

 

Sospirò: non sapeva se fosse più sospetto il rosticcere, il pescatore o…

 

No, non poteva farsi prendere dalla paranoia. Non prima di avere tutti gli elementi.

 

“Quindi si sono sentiti male tutti? Chi è che messo peggio?”

 

“Si sono sentiti male tutti, sì. Quelli messi peggio sono Lomaglio, Rizzo e Greco, che hanno avuto conseguenze importanti al fegato, si spera temporanee. Gli altri sono sotto osservazione dopo la lavanda gastrica e sotto cure.”

 

Anche volendo credere al karma, se Greco era coinvolto sarebbe stato scemo a non prendere semplicemente qualche farmaco per simulare i sintomi di un’intossicazione. E scemo non le era sembrato, anzi.

 

Certo… il conquistarsi la fiducia di Chiara ed il compito di fare la spesa, restava sospetto potenzialmente, ma il cibo non lo aveva preparato lui e… possibile che uno così giovane, manco della zona, rischiasse tutto così? Salute e carriera, soprattutto.

 

“A proposito di feriti… sono sicuro di aver colpito qualcuno ieri sera, alla cieca. Siete riusciti a catturare qualcuno?”

 

“Sì, alcuni sono riusciti a fuggire in moto o per le campagne ma siamo riusciti a intercettarne quattro. Due feriti, capitano, e due illesi che non hanno fatto in tempo a risalire in auto, dato che erano appostati sul retro del casale. Sono affiliati del principale clan locale. Uno di loro ci è noto da anni ed era uscito da qualche mese, dopo dieci anni dentro. Gli altri erano più giovani, finora quasi sempre sfuggiti alla cattura, anche se sospettati in diversi casi di regolamenti di conti. Ma senza prove. Nessun pesce realmente grosso, comunque.”

 

“Insomma… magari un favore ad un’altra famiglia ma per il quale non era il caso di rischiare troppo e di sporcare mani che non vanno sporcate.”

 

“Sì, dottoressa. I Mazzocca sono più potenti in Basilicata ma… tra Bari e Matera non c’è poi così tanta distanza. Che abbiano legami ed alleanze con qualche famiglia di qua è più che plausibile. Anche solo per dividersi il territorio ed evitare conflitti.”

 

“Gli uomini catturati immagino non abbiano parlato? In che condizioni sono quelli feriti?”

 

In quella preoccupazione, nonostante tutto, nonostante indubbiamente li odiasse quanto lei, stava esattamente l’animo di Calogiuri. Lui voleva giustizia, non vendetta, e l’idea di aver ucciso qualcuno gli era sempre difficile da digerire, anche se quel qualcuno aveva cercato per primo di ucciderlo. Di ucciderli.

 

“Se la caveranno. Uno è stato preso a un braccio, uno ad una gamba. Nessun’arteria. E, no, ovviamente non parlano. Almeno per ora. Speriamo di individuare l’anello debole e di convincerlo a collaborare ma… non è facile. Questi, a parte l’indottrinamento, hanno paura non solo per se stessi, ma per le famiglie. Alcuni sono affiliati da più generazioni.”

 

“Altro?” si inserì, perché c’era una cosa molto più pressante che voleva sapere, al di là delle indagini.

 

Ma capire la loro situazione era fondamentale per tutto il resto.

 

“No, per ora no.”

 

“Francesco come sta? Immagino il trauma e… con chi è? E Ottavia?”

 

“Ottavia e Francesco sono con Irene, Bianca e la babysitter - alla fine eravamo rimasti in zona… pensavo di parlare ai miei figli e… e voleva supportarmi in questo. Ma… a questo punto ci sono altre priorità. Ottavia con Irene sta bene, anche se quando sono tornato era agitatissima, e anche stamattina quando sono ripartito. Però con Irene c’è un’intesa, mentre con me… credo non mi abbia molto in simpatia, forse anche per quello che è successo ieri. E va d’accordo anche con Bianca. Francesco… Francesco piange e urla, come potrete immaginare. Bianca ogni tanto riesce a tranquillizzarlo ma… insomma… lo conoscete, no?”

 

Sospirò, un’altra fitta di senso di colpa a quell’ennesimo trauma per il piccoletto, che già ne aveva passati più in pochi mesi di quanto il 90% delle persone ne avrebbero passati in una vita intera. Si guardò con Calogiuri che annuì.

 

“Se Ottavia immagino non possa essere portata in ospedale, potreste portarci almeno Francesco? Non vogliamo che sconvolga del tutto le sue routine e perda i progressi fatti o che stia ancora peggio e-”

 

“E ovviamente ne ho già parlato con la dottoressa Saponaro, le ho spiegato la situazione. Però… visto che lei non si può muovere, dottoressa, e Calogiuri al momento non può tenerlo in braccio, ritiene più prudente che per qualche giorno stia con noi, in modo che vi riposiate.”

 

“Quanti giorni?”

 

“Almeno tre, il tempo di dare modo al suo corpo di assestarsi, dottoressa, e alla ferita e ai punti del capitano di cicatrizzare bene. E poi-”

 

“E poi? Non ci lascerete qua a Bari, vero?” domandò, perché, al di là di tutto, era evidente che non fosse più sicuro lì. E, per essere in pericolo lontano da tutti… tanto valeva…

 

“No, ma… ma non potete nemmeno tornare a Roma, dottoressa. Questi hanno ben passato il limite dell’intimidazione e… e stiamo cercando un posto sicuro per voi. Quando è uscita la notizia di quello che vi era successo-”

 

“Come è uscita la notizia? Di già? E mia figlia e-”

 

“Ho contattato personalmente il suo ex marito, dottoressa, non appena abbiamo visto i primi titoli stamattina. Purtroppo le solite soffiate e poi… con una sparatoria del genere… anche se in un posto abbastanza isolato… era difficile non uscisse niente, no?”

 

Sospirò, perché sì, era quasi impossibile.

 

“E che ha detto Pietro?”

 

“Gli ho spiegato che lei era a riposo e credo la chiamerà più tardi ma… a parte la preoccupazione, lui, la sorella e la nipote del capitano stanno bene. Abbiamo rinforzato la loro scorta e li abbiamo fatti spostare, per sicurezza. Il suo ex marito mi ha detto che avrebbe avvertito lui vostra figlia, in modo che non lo venisse a sapere da altri. Che state bene, ma siete a riposo.”

 

Già si immaginava le urla di Valentina, quasi poteva udirle in linea d’aria tra Bari e Edinburgo. O forse era a Glasgow ora? In ogni caso avrebbe dovuto chiamarla. E chiamare anche Pietro.

 

“Vi procureremo un telefono criptato, non vi preoccupate,” cercò di rassicurarla, leggendole nel pensiero per una volta.

 

Ma rassicurata era un parolone.

 

“Prima stava dicendo qualcosa su quando è uscita la notizia e su un posto sicuro. Che cosa voleva dire, capitano?” si inserì Calogiuri, ancora formalissimo, in quel modo per lui freddo.

 

Sì, la rabbia ci sarebbe voluto un po’ per sbollirla, nonostante l’intossicazione alimentare generalizzata.

 

“Quando è uscita la notizia, mi ha chiamato il generale di stanza a Torino. Mi ha detto che… che vi siete incontrati diverse volte, capitano, e che i colleghi di Torino e della DIA locale sarebbero più che felici di accogliervi. Inoltre… a Torino c’è uno dei centri più importanti d’Italia per i prematuri e quindi… in caso di complicazioni… sareste ottimamente assistiti.”

 

Un nodo in gola solo a sentirla quella parola, anche se era sempre meglio dell’alternativa.

 

Un altro sguardo con Calogiuri e si intesero al volo, anche se ormai non serviva quasi nemmeno il contatto visivo: bastava il rumore del respiro e quello strano indefinibile istinto, per aver chiaro cosa pensasse l’altro.


“Torino è distante ma… se è solo fino al processo potrebbe andare bene. E ovviamente se possiamo portarci Francesco e Ottavia.”

 

“A questo proposito… stiamo valutando di… di farvi accompagnare dalla babysitter di Bianca. Sarebbe difficile trovare in tempo un’altra persona di fiducia e… alla fine è una soluzione temporanea, fino al processo, ma… almeno avrete più tempo di riprendervi e…”

 

“E Bianca che fa?”

 

“E Bianca… vorrà dire che Irene ed io le staremo più vicini nelle prossime settimane. Alla fine forse è anche meglio così… per costruire un legame più stabile tra noi. E Bianca ha detto che per lei non c’è problema, che ormai è grande.”

 

Le venne da sorridere e da commuoversi: Bianca aveva davvero fatto dei passi da gigante. Altro che grande e basta!

 

E su quello, le toccava ammetterlo, pure Ranieri aveva i suoi meriti.


“E come ci arriviamo a Torino?” chiese Calogiuri, anticipandole la domanda successiva, “in macchina è un viaggio lunghissimo, nelle condizioni di Imma, ma anche in aereo, con la pressione e poi-”

 

“Stiamo valutando un trasferimento con l’eliambulanza, in realtà. Ne ho già parlato con Mancini e dobbiamo valutare anche con gli ospedali e con la DIA ma… viste le circostanze, crediamo sia la soluzione più sicura.”

 

Ma quante cose avevano fatto mentre dormivano?

 

Ma soprattutto…

 

“Un’eliambulanza?! Chissà quanto costerà! Non posso pensare di sobbarcare un costo del genere sulle spalle dei contribuenti e-”

 

“E se salisse su un aereo di linea, i passeggeri sarebbero a rischio. Noleggiare un aereo ci costerebbe assai di più. E, dottoressa, se posso permettermi, credo che raramente i soldi dei contribuenti siano stati meglio spesi, almeno per la sanità.”

 

“E grazie, non ci vuole molto!”

 

Calogiuri rise e anche Ranieri: se pensava agli sprechi e al malaffare sulla sanità pubblica… no, non doveva agitarsi.

 

Piccoletta, guarda che lo faccio solo per te!

 

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"Mamma!! Finalmente! Come stai? Come state? E la marmocchia? E il marmocchio e-"

 

"Stiamo tutti bene, Valentì," la interruppe, che sembrava essersi trasformata in Diana, anche se la preoccupazione la commuoveva molto.

 

"Solo che devo stare immobile per qualche giorno. E Calogiuri ha un braccio bloccato, quindi dovremo stare in ospedale ancora per un poco. Tu, piuttosto, come stai? Come sta Penelope?"

 

"Noi stiamo bene. Qua è tutto tranquillo, fin troppo, ma sono preoccupata per te, per voi e-"

 

"E dovete preoccuparvi per voi: dovete stare attentissime in vacanza, va bene? Ormai non manca molto all'udienza e poi-"

 

"E se poi non finisse lo stesso? Cosa facciamo? Scappiamo per sempre?"

 

"Quello mai, Valentì. E comunque mo ci stiamo giocando il tutto per tutto ma… alla criminalità organizzata non conviene scatenare polveroni, come ai tempi degli attentati in sequenza. Se certa gente verrà condannata, gli eredi che inevitabilmente rimarranno non credo avranno interesse ad attirare così tanto l'attenzione su di loro. Un passo alla volta. Però non dovete mai perdervi di vista con la scorta, me lo prometti?"

 

"Sì, ma… voi che farete dopo l'ospedale?"

 

"Andremo in un luogo protetto. Non posso dirti dove ma devi stare tranquilla, va bene?"

 

"Se vi proteggono bene come hanno fatto lì, sai che tranquillità!"

 

Le venne da sorridere per quanto fossero simili anche se diverse.

 

"Hanno aumentato la sicurezza e dove andremo a stare c'è almeno una persona che mi ispira fiducia."

 

"Un miracolo, insomma! Sei proprio sicura di sentirti bene?"

 

"Molto spiritosa, Valentì! Tu, piuttosto, è meglio che fino all'udienza non torni in Italia. A costo di perdere qualche esame, ma-"

 

"Ma ora sì che sono preoccupata, mà, anzi terrorizzata!"

 

Era ironica ma sapeva che lo era davvero: in effetti non era da lei incitare chiunque a rimandare impegni di studio o lavoro, salvo casi gravissimi.

 

E quello lo era, inutile prendersi in giro.

 

"Ora devo andare. Ti voglio bene, Valentì."

 

Un mezzo singhiozzo al suo orecchio. Del resto neanche le smancerie erano da loro.

 

Ma il pensiero che un'altra occasione avrebbe potuto non esserci le rimbombava nella testa più di tutto il resto.

 

"Anche io, mamma. Stai attenta, state attenti che… voglio scoprire se la piccoletta supera il record di decibel del marmocchio."

 

"Se supera il tuo, casomai…" pronunciò a fatica, la gola indolenzita a furia di deglutire.

 

Chiuse la chiamata, prima di scoppiare a piangere.

 

Riuscì solo a sentire la mano sinistra di Calogiuri sulla spalla, la testa che le finì in automatico nel suo sterno, senza bisogno di altre parole.

 

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"Chiara…"

 

"Imma!! Finalmente, ho provato tante volte a chiamare ma il telefono dava sempre non raggiungibile."

 

"Ho un nuovo numero criptato e-"

 

"Sono così felice di sentirti! Come stai, come state?"

 

"Siamo vivi che è già qualcosa. Sei stata fortunata a non esserci."

 

Ci fu un attimo di pausa ed un sospiro.

 

"Sospetti di me?"

 

Il tono di Chiara era ferito ma anche rassegnato. Ed aveva colto subito il suo di tono, anche se non lo aveva marcato.

 

"Diciamo che… è chiaro che qualcuno ha parlato, Chiara. Ma avresti messo a rischio non solo la casa ma anche i cavalli e… quello mi sembra improbabile."

 

"Sono felice che sai che non farei male ai cavalli. Meno che non pensi che la tua salute per me sia assai più importante anche della loro."

 

Fu il suo turno di sospirare ma… la voce di Chiara le sembrò sincera. E sperava davvero che il suo istinto non si sbagliasse e non si fosse sbagliato.

 

"Chi lo poteva sapere che stavamo da te?"

 

"Le voci corrono, Imma, e magari i ragazzi della scorta hanno dato nell'occhio ma… ma voi non siete mai venuti in paese, quindi mi pare strano."

 

Notò nel tono di Chiara un grande sollievo, al di là della preoccupazione. Aveva capito che le credeva, anche se fino a prova contraria.

 

"Comunque è una cosa fatta da gente del posto. Un clan locale. Per caso ti viene in mente chi può avere collegamenti con i Romaniello e i Mazzocca o… i Latronico qua?"

 

Un altro sospiro.

 

"So che i Romaniello avevano diversi investimenti in zona, anche qualche locale. E Saverio Romaniello aveva diverse… attività benefiche nel barese, se così le possiamo chiamare. Nostro padre era più presente in Basilicata, con Bari ha sempre avuto pochi legami. Infatti il casale l'ho preso qui proprio per quello ma…"

 

"Bisognerà indagare su queste attività allora, ma ci vorrà del tempo e-"

 

"Aspetta! Ora che mi viene in mente, a parte me, qualcuno che poteva immaginare che ci fosse qualcosa o qualcuno di strano ci sarebbe. La signora che fa le pulizie e il giardiniere. Li ho fatti stare lontani dalla proprietà e forse è la prima volta che succede da quando li ho assunti. Di solito vanno e vengono, anche con me presente. Avevo detto che volevo sistemare alcune cose ma… ma magari…. Però è gente che conosco da tanti anni e mi pare strano pensare che…"

 

"Ma conoscevano anche… nostro padre?"

 

Il nostro faticava sempre ad uscire.

 

"No, no, papà non è mai venuto lì e- no, aspetta!"

 

Il modo in cui aveva alzato di botto la voce per poco non le fece fare un salto e provocò un calcetto di protesta.

 

Peggio di Valentì davvero, se andava avanti così!

 

"Che succede?"

 

"Ora che ci penso… un collegamento potrebbe esserci. Il giardiniere è il nipote del giardiniere di papà nel casale fuori Matera. Ci siamo conosciuti così, da ragazzini, e per quello l'ho scelto quando ho preso casa qui. Ma lo zio è morto anni fa e… e non credo lui avesse legami con nostro padre, ma-"

 

"Ma magari non sei l'unica con legami con nostro padre con cui è rimasto in contatto. È un inizio. Com’è che si chiama?"

 

"Beppe, cioè Giuseppe Amoruso. Se vuoi ti posso far passare i dati più precisi dalla mia commercialista.”

 

“Meglio non destare sospetti fino ad avere cose più concrete in mano. Credo che riusciremo comunque ad identificarlo e ad indagare su di lui e-”

 

“Però Imma… lo conosco da una vita, mi sembra una persona tranquilla. Non credo mi avrebbe mai messa in pericolo e-”

 

“E infatti tu non ci stavi, Chiara. Comunque indagheremo e se c’è qualcosa da trovare la troveremo. In caso contrario, non ha nulla di cui preoccuparsi.”

 

“Ma io sì, a saperti in questa situazione. Che farai ora?”

 

“A breve andremo in un luogo protetto. Non posso dirti altro, vista la situazione, anche per la tua sicurezza.”

 

“Lo capisco ma… ma spero davvero che tu sappia che la tua di sicurezza per me viene prima di tutto e non la metterei mai in pericolo, non volontariamente almeno. Sono stata felice di aver avuto l’opportunità di conoscerti meglio in questo ultimo periodo e… e spero che, quando la situazione migliorerà e tornerà di più alla normalità… insomma… che non ci allontaneremo di nuovo ma che sarai abbastanza a tuo agio da continuare a frequentarci.”

 

Sospirò: percepiva tante di quelle cose nel tono di Chiara, dall’affetto, al rimpianto, alla paura, che le facevano bene e male al cuore.


“Lo spero anch’io ma, mai come in questa situazione, non posso proprio promettere niente a nessuno, Chiara. Nemmeno a me stessa. Lo capisci?”

 

Il suono strozzato dall’altra parte del telefono confermò che sì, aveva capito. E, del resto, con la famiglia che aveva avuto crescendo, forse pochi potevano farlo meglio di Chiara.

 

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“Ma sto coso siamo sicuri che è stabile, sì?”

 

Guardò preoccupata gli infermieri, tutti bardati in uniforme, che l’avevano appena caricata, distesa sulla barella, sull’eliambulanza.

 

Gli esami per fortuna erano andati abbastanza bene, non c’erano state altre contrazioni anomale e quindi le avevano approvato il trasferimento a Torino. Proprio al famoso centro specializzato anche nei prematuri, dove le avrebbero fatto tutti i controlli del caso prima di lasciarla tornare alla vita civile, per quanto sotto scorta e nell’anonimato più assoluto.

 

Solo che già salire sull’elicottero non era stato proprio l’esperienza migliore della sua vita e mo… vibrava tantissimo, scosso dal movimento delle pale, ed ancora a terra stavano, figuriamoci poi!

 

“Stia tranquilla, dottoressa, abbiamo fatto un sacco di viaggi anche in condizioni molto più estreme!”

 

Il che non era una risposta alla sua domanda su quanti di quei baracchini si fossero schiantati nel tempo.

 

Grrrrrrr!!! Meeeoooooooow!

 

Ottavia, che aveva evidentemente preso da lei, soffiava e ruggiva incazzosissima dal trasportino che stava venendo fissato perché non si muovesse.

 

“Ecco, lei sì che è intelligente!” sospirò, cercando di tranquillizzarla con un, “mi dispiace Ottà, e ti capisco, ma non dovremmo metterci molto ad arrivare.”

 

Il se arriviamo se lo tenne per sé-

 

“Tranquilla che arriviamo, dottoressa, e arriveremo prima di quanto pensi, te lo prometto!”

 

Calogiuri, col suo sorriso più rassicurante, pure se un poco di preoccupazione negli occhi c’era, forse non per l’elicottero in sé ma per lei e la piccoletta sì. Si era seduto accanto alla sua barella, porgendole la mano non legata al petto, pronto per lo stritolamento.

 

“Calogiù…” sospirò, prendendogliela comunque ma cercando di imporsi mentalmente di non danneggiargli pure quella.

 

E poi ci furono dei pianti, seguiti da degli urletti, ed apparve quella santa donna di Maria, con il principino tenuto in un marsupio, sulla pancia.

 

Era passato solo qualche giorno da quando lo aveva dovuto lasciare nel casale, ma a vederlo lì, così bello e così incazzoso, si sentì tremendamente in colpa.

 

“Francé!” singhiozzò quasi e lui subito girò la testolina verso di lei.

 

Quando la vide, fece un altro urlo e cercò subito di proiettarsi verso di lei, urlando “Im-ma, Im-ma!” in un modo che avrebbe commosso perfino Erode.

 

“Posso tenerlo con me sulla barella? Cercherò di stare distesa e-”

 

“Adesso vediamo, dottoressa, in base anche a come reagirà all’essere in volo. Signora, se si vuole sedere dall’altra parte della barella, così magari la vicinanza con la dottoressa lo tranquillizzerà.”

 

Tranquillizzarlo? Era ‘na parola!

 

Non appena le fu vicino, usò la mano che non stava arpionata in quella di Calogiuri per accarezzargli la testolina e le manine, ma lui continuava a cercare di avvicinarsi di più, di farsi prendere in braccio.

 

“Per il decollo stiamo così, poi valutiamo!” ribadì però il pilota e, dopo attimi che le parvero infiniti, i portelli furono chiusi, le procedure per la partenza sbrigate, il dottore e gli infermieri si sistemarono con le cinture allacciate ed il pilota segnalò che stavano per partire.

 

Una vibrazione tremenda e, piano piano, peggio quasi che il salire o scendere con l’imbragatura, cominciarono a sollevarsi dal tetto della struttura, vibrando e salendo, salendo e vibrando.

 

Un mezzo fischio di dolore, quasi perso in mezzo a quelli furenti di Ottavia, e rilassò un attimo la stretta che, sì, le era venuta automatica sulle povere dita di Calogiuri, sussurrandogli uno, “scusa ma-”

 

“Stringi quanto vuoi, dottoressa, non ti preoccupare,” la rassicurò lui con quel sorriso e quello sguardo da… da Calogiuri, che amava così tanto.

 

Senza pensarci, gli afferrò di nuovo saldamente la mano, sì, ma per portarla alla bocca e posarci un bacio, le dita che le sfiorarono le guance in una carezza di una dolcezza disarmante.

 

Ma poi le urla di Francesco la fecero voltare verso di lui, certa che fosse messo ancora peggio di Ottà e-

 

E si trovò davanti un viso sì un poco arrossato ma, tra un urlo e l’altro, la bocca si allargò in un sorrisone, mostrando con fierezza i suoi sei piccoli dentini.

 

L’elicottero vibrò di più e ci fu una specie di mezzo vuoto d’aria, lanciò un urlo, inevitabilmente, la mano di Calogiuri ormai in una morsa.

 

Fece appena in tempo a riprendere il fiato e guardò Francesco, che si era ammutolito ed aveva un’espressione strana, preparandosi psicologicamente al pianto e-

 

Una risata.

 

Una risata e poi due, e poi tre, e più l’elicottero vibrava e più Francesco rideva, Ottavia ringhiava, unghiando il trasportino, e la mano di Calogiuri ricambiava la sua stretta.

 

Ma il riso di Francesco, paradossalmente, la tranquillizzò, anche se probabilmente quello per lui era come un grande gioco, meglio di quando Calogiuri gli faceva fare il vola vola.

 

E così, tenendo per mano i due uomini più importanti della sua vita, riuscì a buttare fuori l’aria intrappolata nei polmoni e a rilassarsi davvero per la prima volta dopo tanto, troppo tempo.

 

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“Quasi ci siamo, dottoressa, mancano pochi metri!”

 

“Basta che non li facciamo schiantandoci, Calogiù!”

 

La discesa, così come la salita, era stata la cosa più traballante ed instabile, oltre a sembrarle eterna. Certo, riconoscere da lontano la Mole ed il profilo dei tetti era stato bello ma lei quelli che spendevano miliardi per stare in quello shaker non li avrebbe mai capiti, ma manco se fosse stato gratis!

 

Per fortuna aveva non solo la mano di Calogiuri nella sua, ma anche il risolino di Francesco, che sicuramente non si era mai divertito tanto in vita sua come in quel viaggio.


L’elicotterista avrebbe potuto fare da grande, mannaggia a lui!

 

Ottavia ormai aveva rinunciato a distruggere il trasportino ma indubbiamente l’avrebbe fatta pagare loro per giorni e giorni, se non per settimane, per come ringhiava.

 

Guardò la povera Maria, con la sua solita espressione neutra, e si chiese dove la prendesse tutta quella pazienza e se non si fosse già pentita di essere partita con una gabbia di matti come loro.

 

E poi, così, di colpo, si sentì proiettata leggermente verso l’alto ed un colpo netto e secco, seguito da un altro più lieve: erano atterrati!

 

Tirò un sospiro di sollievo e-

 

Una vibrazione ma stavolta nella pancia, seguita da una specie di spasmo.

 

Diverso da un calcio, ma anche da una contrazione: non sentiva dolore ma-

 

Eccone un altro! Mise una mano all’altezza dell’ombelico e lo sentì sobbalzare.

 

“Che succede? La bambina?” domandò Calogiuri, agitatissimo, appoggiando la mano sulla sua e domandando, rivolto al dottore, “è come una specie di… di contrazione, di scatto e-”

 

“Ma non fa male,” precisò Imma, anche se, con quello che aveva passato, non poteva non preoccuparsi.

 

Il dottore fece per avvicinarsi ma in quel momento il portello si aprì e fecero capolino una serie di uomini in camice, che circondavano una donna anche lei tutta bardata ma di un colore diverso.

 

“Ben arrivati, sono la dottoressa Musso,” si presentò con un sorriso, che però si interruppe quando notò i movimenti del collega, che stava trafficando per controllarle la pancia e domandò, “tutto bene?”

 

“Il viaggio è andato bene, ma la dottoressa dopo l’atterraggio lamenta come degli strani spasmi e-”

 

La dottoressa non se lo fece ripetere due volte, salì sull’elicottero, le pale ormai ferme, con un’agilità invidiabile, estrasse da una tasca lo stetoscopio e con un “posso?” rivolto al collega, lo poggiò sulla sua pancia ormai nuda.

 

Ascoltò per un attimo, toccandole il ventre, e sorrise.

 

“Stia tranquilla, dottoressa, ora faremo un controllo completo, per sicurezza, ma… ma penso proprio che qualcuna abbia semplicemente il singhiozzo. Magari i movimenti dell’atterraggio, un po’ di agitazione sua. Non era mai successo prima?”

 

“No, almeno non con questa gravidanza e… e sono passati talmente tanti anni dalla precedente che… tengo la memoria un poco arrugginita. E la mia prima figlia più che altro scalciava, a tutte le ore,” chiarì, sollevata, mentre Calogiuri di nuovo aveva quello sguardo come se fosse la Madonna e con un “posso?” timidissimo, le accarezzò la pancia per sentire meglio, gli occhi allagati.

 

“Ma è… ma è…”

 

Le venne da ridere e da commuoversi, perché quello era il mantra di Calogiuri quando gli eventi della gravidanza gli levavano le parole.

 

E non avrebbe saputo dire se fosse più una meraviglia la piccoletta o il suo papà.

 

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“Eccoci qua!”

 

Per fortuna, per dare meno nell’occhio, le avevano consentito almeno, dopo il parere positivo della dottoressa Musso, di percorrere a piedi i pochi passi dall’auto all’ascensore e dall’ascensore a quello che sarebbe stato il loro nuovo appartamento, almeno fino all’udienza.

 

Calogiuri l’aveva tenuta a braccetto per tutto il tempo, ovviamente, pure se col braccio sinistro, la povera Maria si era beccata le proteste di Francesco ed uno dei ragazzi della scorta torinese i soffi di Ottavia, che se per sbaglio la porta del trasportino avesse ceduto… gli avrebbe letteralmente rifatto tutti i connotati.

 

“Benvenuti! Dottoressa, capitano!”

 

Per poco non le venne un colpo e pure Calogiuri sobbalzò, ma poi riconobbero la voce e le fattezze del generale che era lì, in mezzo al salotto, con un sorriso, evidentemente parte del comitato di accoglienza.


Non sapeva se esserne onorata o preoccupata.


“Signor generale!” scattò subito Calogiuri, mettendosi dritto come un fuso anche se non poteva fare il saluto militare con il braccio fasciato, rifiutandosi evidentemente di mollare la presa su di lei finché non si fosse seduta.

 

“Comodo, capitano, comodo. Che ci sarà tempo per le formalità, dopo che lei e la dottoressa vi sarete ripresi. Dottoressa, prego, si accomodi pure sul divano. O, se è troppo basso, qua ci sono un paio di seggiole.”

 

“No, no, il divano va più che bene. E… Calogiuri è molto apprensivo ma, nonostante il viaggio, mi hanno confermato che tutto procede bene e tra qualche giorno dovrei poter riprendere a muovermi più normalmente,” chiarì, raggiungendo insieme a Caloguri il divano, bianco come quello della gattamorta - se lo sarebbe rimasto a lungo, tra Ottavia e Francesco, era un altro paio di maniche.

 

“Comunque la ringrazio molto dell’invito, signor generale e… immagino abbia coordinato lei la scorta?”


“Sì, con i ragazzi dei reparti speciali e con quelli della procura. Mi rendo conto che dirvi di stare tranquilli, viste le circostanze, sarebbe un insulto alla vostra intelligenza, ma… vi garantisco che faremo tutto il possibile per tenervi al sicuro.”

 

Beh… le toccava ammettere che le premesse le piacevano: almeno pure lui non faceva promesse che non poteva mantenere e non minimizzava la loro situazione, soprattutto. 

 

“Alcuni dei ragazzi sono ancora in ferie ma abbiamo organizzato i turni, coinvolgendo meno persone possibili e soltanto di fiducia. E… so che non vedrete la città e che questo non è sicuramente il modo migliore di conoscere Torino ma… se la collaborazione con noi, anche se forzata dagli eventi, dovesse andare bene, spero che ci terrete in considerazione per il futuro.”

 

“Signor generale, con tutto il bene, diciamo che stare al sicuro per ora è la nostra priorità assoluta ma… ma, francamente, dopo esservi beccati il pacchetto completo, tra me e Calogiuri che in due ne facciamo uno sano, il piccolo urlatore e la gatta che fa più soffiate di un informatore, temo che sarà lei, anzi che sarete voi a cambiare idea.”

 

Il generale rise, cogliendo la sua ironia, anche se c’era pure del vero in quelle parole.

 

“Comunque se… se magari aveste bisogno di una mano su qualche caso… anche solo di un occhio esterno… avere qualcosa su cui concentrarsi che non sia la nostra situazione attuale credo ci farebbe molto bene. E così valutereste se… se vi possiamo essere utili per il futuro.”

 

“Imma… devi riposare, lo sai e-”

 

“E riposerò, ma i neuroni possono funzionare e pure veloci, anche se sto a letto, no? E lo sai che per riposarmi devo tenere la mente impegnata.”

 

Calogiuri sospirò ma annuì, con quell’espressione dolcemente esasperata che amava tanto e si voltò verso il generale proclamando un solennissimo, “siamo a disposizione!”

 

“In effetti c’è un caso un po’ complicato che abbiamo in ballo. Ci sono due sospettati sui quali siamo molto in dubbio, alcune prove puntano a uno, altre all’altro e-”

 

“E non potrebbero aver commesso l’omicidio insieme? Se di un omicidio si tratta?”

 

“Non credo, no. La vittima era la moglie di uno e l’amante dell’altro, quindi…”

 

Deglutì e si guardò con Calogiuri, che a parlare di matrimoni e amanti…

 

“Sì, comprensibile che sia improbabile una loro collaborazione,” si inserì Calogiuri, che chiaramente aveva in testa gli stessi ricordi suoi.

 

“Vi manderemo tutti gli incartamenti. Ora cercate di riposare e di acclimatarvi. Per qualsiasi cosa vi lascio il mio numero: sono anche io a disposizione, ventiquattr'ore su ventiquattro. E anche il comandante della DIA e quello dei ROS qua a Torino mi hanno confermato la loro disponibilità e si metteranno in contatto con voi nelle prossime ore.”

 

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Un grido, un tonfo.

 

Si voltò verso la porta del bagno e ci trovò Maria, rossa come un peperone, che la stava richiudendo in tutta fretta.

 

Sentì le guance farsi bollenti e seppe dal suono strozzato di Calogiuri, a cui era andata di traverso pure l’anima, di non essere la sola.

 

Si stavano aiutando a lavarsi a vicenda, a pezzi, visto che lei ancora la doccia non la poteva fare e lui aveva tutte le medicazioni ed ovviamente erano nudi, a parte la fasciatura di lui.

 

Solo che, dopo anni a vivere soli o con al massimo Ottavia ed un bimbo che le porte ancora non le poteva aprire - per fortuna - dovevano essersi dimenticati di chiudere a chiave.


“Scusate!” sentirono la povera Maria urlare, dall’altro capo del legno ormai serrato.


“N- no, Maria, ci scusi lei ma… non abbiamo pensato a chiudere a chiave. D’ora in poi…”
 

“No, no, finché siete infortunati è meglio non farlo, se non è necessario. Non dimenticherò più di bussare, vi porgo ancora le mie scuse.”

 

Il tono ufficiale e veramente militaresco le fece domandare per l’ennesima volta se Maria avesse avuto un qualche tipo di addestramento in tal senso. Pareva uno strano incrocio tra Mary Poppins ed un carabiniere.

 

“Se… se necessita del bagno, credo tra dieci minuti al massimo avremo finito.”

 

“Tutto il tempo di cui avete bisogno, dottoressa, capitano: non dovete preoccuparvi per me. Ma… dato che possiamo conferire … volevo rassicurarvi che il signorino Francesco rimarrà con me stanotte, così che possiate riposare.”

 

“Eh no!” le venne spontaneo esclamare, prima di potersi trattenere, anche se poi cercò di ammorbidire il tono, sapendo che Maria lo faceva nel loro interesse, “no, Maria, non si preoccupi. Sicuramente dormiremo tutti meglio se starà con noi e sarò comunque distesa a letto. Quindi, quando avremo finito in bagno, lo porti pure nella nostra stanza, d’accordo?”

 

“Sì, dottoressa, mi scusi, dottoressa, non volevo imporle la mia decisione. Sarà fatto, con permesso!”

 

E, anche se non la potevano vedere, sentirono i suoi passi allontanarsi rapidamente lungo il corridoio.

 

“Imma…” sospirò Calogiuri, ancora rosso fuoco ed imbarazzatissimo, ma pure con un mezzo sguardo di rimprovero.


“Lo so, Calogiuri, lo so, ma… sono abituata a dare ordini in procura e… non ho mai avuto una tata o qualcuno che facesse i lavori in casa al posto mio e… mi devo riabituare a come parlare a… questo genere di… sottoposti, se così li possiamo chiamare, e-”

 

“Non è per quello, dottoressa, e manco per le porte che dovremo riabituarci a chiudere a chiave, prima che sia troppo tardi, che qua i piccoletti crescono,” scherzò, facendole l’occhiolino, “ma potevi almeno riposare anche stanotte, pure se ci sarebbero serviti i tappi, probabilmente, e-”


“E non se ne parla! Francesco starà già con noi per così poco tempo, me lo voglio godere finché possiamo. E, almeno quando dorme, non c’è problema se mi tocca stare distesa.”

 

“Imma…” sussurrò, con uno sguardo da denuncia, prima di posarle un bacio dolcissimo sulla punta del naso.

 

“E comunque, sarà meglio davvero che chiudiamo le porte. Anche perché qua mo… con un’altra donna per casa… mica che ti fai venire strane idee, Calogiù!”

 

“Ma se Maria c’avrà sessant’anni!” rise lui, stando al gioco.

 

“Appunto! Con te è molto più pericolosa lei di una ventenne, visti i tuoi gusti!”

 

“Imma!” sospirò lui, con un mezzo ruggito, prima di travolgerla con un bacio che da giocoso e dolce si fece fin troppo intenso, le mani che vagavano dove non avrebbero dovuto, visto che erano entrambi nudi.

 

“Im-ma,” si staccò infine lui e vedeva bene lo sforzo sovrumano che stava facendo per controllarsi, “io… non possiamo, lo sai.”


“Veramente tu puoi. O meglio, io posso fare con te quello che voglio!” lo provocò volutamente, facendogli l’occhiolino. Calogiuri, ancora rosato per l’imbarazzo di prima ed i baci, diventò color dell’anguria matura.

 

Ma poi balzò in piedi ed arretrò da lei di un paio di passi, cercando di coprirsi in un modo che la fece ancora più ridere.

 

“Non qui!” proclamò, deciso, ed al suo, “beh, possiamo anche farlo a letto, Calogiù!” lui scosse il capo con un “e se poi Maria ci sente?” che le provocò un’altra risata.


“Calogiuri… ma secondo te non ci è abituata? Che pensi, che Irene e Ranieri di notte le margherite sfogliano?”

 

Ormai non c’era un centimetro di pelle di Calogiuri che non fosse fucsia e, al suo “dai, asciughiamoci e rivestiamoci!” adorabilmente nel panico, le toccò deporre le armi.

 

Almeno per quella sera.

 

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“Allora, ci sono novità?”

 

“Effettivamente sì.”

 

Le due parole di Ranieri, in collegamento online - cosa che le ricordava molto il periodo delle indagini clandestine per salvare la reputazione e la libertà di Calogiuri - bastarono già a farla un poco rilassare, la bimba che, puntuale come un orologio, decise di farsi sentire con un paio di calcetti, forse di approvazione.

 

“E allora?” domandò Calogiuri, impaziente forse pure più di lei, ed era tutto dire, considerati i loro caratteri usuali.

 

Ma nella loro situazione non c’era nulla di usuale e sperava non lo diventasse mai, che non fosse quella la loro nuova realtà per un tempo indefinibile.

 

“Il giardiniere ha alcuni collegamenti sospetti con il clan locale, in particolare con uno degli uomini che abbiamo fermato. Suo cognato, acquisito. Un pesce piccolo, intendiamoci, piccolissimo, ma…”

 

“Ma è qualcosa da cui partire. Magari ha convinto il giardiniere a parlare o li hanno minacciati. O magari il giardiniere si è fatto sfuggire qualcosa in famiglia e hanno capito che poteva trattarsi di noi.”

 

“Può essere. Di sicuro il giardiniere è sotto intercettazione ora ma, a parte una telefonata preoccupata con la sorella, alla quale ha fatto in tempo giusto a dire che avevano fatto un casino e se mo mettevano nei casini pure a lui… lei ha tagliato corto dicendo che ne avrebbero parlato di persona.”

 

“Beh… se è la moglie di un affiliato, volente o nolente è nel giro anche lei e sarà stata… istruita, se così si può dire.”

 

“Sì, dottoressa. Molto probabile, del resto in quegli ambienti se sgarri sei fuori, pure se a sgarrare fosse tua moglie, quindi… come dice lei… avrà imparato le regole dell’ingaggio, se così lo possiamo chiamare, da molto tempo.”

 

“Altro?”

 

“Sì, sì. Abbiamo indagato sulla famosa rosticceria. E in effetti c’è stato un picco degli scontrini proprio il giorno della sparatoria, tranne che per le famose tielle con le cozze.”

 

“Ma gli scontrini si possono falsificare, no? E magari volutamente avevano messo di meno sul bancone ed hanno tirato fuori le tielle al momento giusto.”

 

“Diciamo che Greco non è ancora messo un granché, però ricorda che c’era un garzone al bancone, quello più giovane, e che le tielle le ha prese dal retro perché ancora calde. Ma non era la prima volta che lo faceva, quindi per lui non era sospetto.”

 

“In che senso non è messo un granché? Come sta? E gli altri?” interruppe per un attimo Ranieri, perché effettivamente non c’erano solo loro a cui pensare, ma anche la povera Chiara… pure il giovane prestante infortunato mo.

 

“Greco ha il fegato molto compromesso, hanno dovuto toglierne un pezzo e ora… bisognerà aspettare che si riformi. Per un po’ dovrà stare in ospedale ed in convalescenza.”


“Ma quindi… non tornerà in azione?” domandò, ancora più presa dai sensi di colpa.

 

Era così giovane…

 

“Non è detto, bisogna vedere se il fegato riprende in pieno le sue funzionalità in modo stabile. In quel caso dopo la dovuta riabilitazione potrà tornare in servizio in modo attivo. Non si deve preoccupare, dottoressa, la maggior parte dei ragazzi sono già fuori dall’ospedale, a parte Greco ne resta un altro, in condizioni simili. Probabilmente, o avevano già qualche debolezza congenita all’apparato gastrointestinale, o hanno avuto più cozze avariate nelle loro tielle.”

 

“Quindi è confermato che si sia trattato di quello e non di un altro tipo di avvelenamento?”

 

“Sì, è confermato. Ma… come lei ben capirà… con questo caldo… a far andare a male delle cozze non ci vuole molto, purtroppo.”

 

“Ma tornando al caso,” li interruppe Calogiuri, un poco teso, e si chiese se fosse per l’apprensione o ancora la gelosia per il dio Greco, “insomma, la fonte del problema quale sarebbe? Il pescatore? Il garzone?”

 

“Non lo sappiamo con certezza ma… essendo agosto, a quanto pare i proprietari non c’erano e avevano lasciato tutto appunto in mano ai garzoni. Stiamo indagando su di loro e sui loro eventuali legami col clan, ma sono giovani, squattrinati, pagati pure poco e male e-”

 

“E potrebbero aver fatto loro una proposta che non potevano rifiutare. Anche solo per non avere ripercussioni personali o in famiglia. Altri casi di intossicazione?”


“No, capitano, solo l’altra coppia, a parte quelli della scorta. Stiamo indagando anche sul pescatore che… come molti nella zona di Bari Vecchia e del porto ha parecchi legami con le famiglie del posto, se mi capisce, dottoressa. Ma lui sostiene che le cozze le ha fornite anche ad un ristorante e nessuno lì si è intossicato. Vero anche che bastano poche cozze andate a male ma… temo sarà difficile stabilire una responsabilità precisa, salvo qualcuno confessi.”

 

Sospirò: quando c’erano di mezzo tante persone potenzialmente coinvolte era quasi sempre così, salvo miracoli, cioè testimoni.

 

“E ovviamente nessuno sta parlando, neanche quelli del commando, immagino?” si inserì lei, sentendo un po’ di conforto nel solito ping pong di domande ed ipotesi tra lei e Calogiuri, pure se in quelle circostanze a dir poco precarie.

 

“No. E non rivelano i nomi dei complici che sono fuggiti, anche se è chiaro che apparterranno tutti allo stesso clan. Stiamo anche indagando sui collegamenti con i Romaniello e i Mazzocca ed, effettivamente, nelle attività benefiche di Saverio Romaniello lavoravano, probabilmente come copertura, alcuni del clan. Non di quelli che sono stati arrestati ma il collegamento è chiaro. E questo li collega anche ai Mazzocca. Di sicuro i Romaniello non avrebbero collaborato con questo clan di Bari senza che anche loro fossero d’accordo, con il fatto che i territori in cui operano sono confinanti e possono a volte sovrapporsi. Inoltre ci potrebbe essere stato almeno un altro ferito che è fuggito. Sulla scena del crimine abbiamo trovato una traccia di sangue che non appartiene a nessuno degli arrestati, ma con un legame di parentela con il più noto di loro. Quindi…”

 

“Ospedali? Cliniche?”

 

“Per ora niente. Ovviamente, come lei ben saprà, dottoressa, non mancano i medici compiacenti quindi… se la ferita fosse stata superficiale, magari l’ospedale non è stato necessario. Ma è una traccia e continueremo a indagare.”

 

“Va bene. Teneteci aggiornati e… come va con la preparazione dell’udienza?”

 

Si era voltata verso Irene, o meglio verso dove stava Irene sullo schermo. Ma per fortuna la ex gattamorta aveva colto il cambio di tono e si era già schiarita la voce.

 

“Ce la stiamo mettendo tutta e procede bene ma… se ne hai voglia, Imma, magari possiamo ripassare insieme alcune parti: mi aiuterebbe a schiarirmi le idee.”

 

Guardò stupita prima lei, poi Calogiuri, che però aveva uno sguardo innocente. Si chiese se glielo avesse chiesto lui, sapendo quanto lei aveva bisogno di distrarsi, o se Irene ormai la conoscesse bene fino a quel punto. L’udienza era decisiva, certo, ma dopo la sentenza di Milano e con Melita dalla loro parte… era chiaro che erano loro in vantaggio, motivo per il quale i Romaniello e i Mazzocca erano così disperati.

 

Ma, scusa o non scusa, per lei…

 

“Va bene. Può collaborare anche Calogiuri, no?” domandò, guadagnandosi il sorriso pieno di lui, mentre Irene aveva il suo solito sorrisetto, ma annuì.

 

“Siamo alle battute finali, ormai, dottoressa.”

 

Si voltò verso l’altro schermo, perché era stato Mancini a parlare, da quella che sembrava essere casa sua, ed era la prima volta dopo i saluti iniziali che era intervenuto.

 

“Mi raccomando, siate prudenti: non possiamo permetterci altri errori e non voglio morti sulla coscienza. Meno che mai dei bambini o lei.”

 

“Noto che della mia salute si preoccupa tantissimo…” udì il sibilo lieve di Calogiuri, che le fece venire da ridere.

 

Ma gli strinse la mano e, fregandosene degli astanti, si sporse per piantargli un bacio sulla guancia e sussurrargli un “preoccupa a me!” che sperò non suonasse troppo spezzato, oltre che più roco del solito.

 

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“Allora, dottoressa, che ne pensi?”

 

“Perché non me lo dici, tu, Calogiuri?” lo sfotté con tono professionale, facendogli l’occhiolino.

 

“Mi erano mancati i tuoi test, dottoressa,” ammise, in un modo disarmante, quasi quanto ai tempi della loro collaborazione lavorativa.

 

Il gorgoglio e l’urletto di Francesco però, che reclamava per essere tenuto in grembo da lei e lo sguardo di Calogiuri che, rassegnato, lo sollevò e glielo piazzò sulle gambe - a portata di carezze sul pancino - le ricordarono che erano proprio in un altro mondo ormai.

 

“Allora, posso partire dal riassunto del caso?”

 

“Devi!”

 

“Agli ordini, dottoressa!” scherzò, facendole il saluto militare anche se con la sinistra, “allora, la vittima si chiama Laura Furlan, cinquantanove anni, insegnante elementare. Risiede col marito, Antonio Furlan, età sessantasette anni, elettricista in pensione, a Beinasco, cittadina conurbata con Torino. Viene trovata morta nella stanza di un hotel economico, situato proprio alla periferia di Torino, a poca distanza da Beinasco, dal proprietario e dalla cameriera ai piani. Sono entrati a mezzogiorno visto che, dopo il soggiorno di una notte, il checkout era previsto al massimo alle dieci. L’hanno trovata morta nella vasca da bagno, il cranio fracassato contro il bordo della stessa, l’acqua che ancora scorreva. Pensando ad un malore e che fosse scivolata nel farsi la doccia, hanno chiamato il 118 che però non ha potuto fare altro che confermare il decesso. Tuttavia, gli agenti, chiamati d’ufficio in casi come questo, hanno constatato alcuni lividi sul corpo della donna, soprattutto sui polsi, che non sembravano compatibili con la dinamica di un incidente. Quindi è stata aperta un’indagine. L’autopsia ha rivelato che, in realtà, la morte è avvenuta per soffocamento e che il cranio è stato fracassato post mortem. C’era anche un po’ di acqua nei polmoni, non compatibile con la posizione in cui è stata trovata, accasciata in posizione semi eretta sul bordo della vasca, né con il rivolo d’acqua che veniva dal doccino.”

 

“Bravo Calogiuri!” approvò, mentre Francesco rideva per il solletico alla pancia e qualcun’altra dava un calcetto di approvazione, “e poi?”

 

“Dai reperti sulla scena del crimine si è trovata una traccia di DNA - liquido seminale - sul cestino dell’immondizia, che era però vuoto e senza sacchetto. Probabilmente da un preservativo. Si sono fatte le analisi e si è risaliti ad un certo Giovanni Negri, trentadue anni, residente a Torino in zona San Salvario, che è schedato in quanto ha un piccolo precedente per aver partecipato anni fa ad una rissa in discoteca. Proprio in quell’occasione gli prelevarono il DNA. Professione operaio, cassaintegrato da più di un anno, cosa che però cozza con i beni ritrovati nel suo appartamento, con il costo dell’affitto dell’appartamento stesso e con lo stile di vita sbandierato sui social e confermato da vicini ed amici. Il sospettato giustifica la sua disponibilità economica con una rendita di famiglia, ma i genitori sono anziani pensionati che vivono a Fossano, non certo nel lusso. Si sospettano suoi legami con il giro di droga nel vicino parco delle Vallette, cosa che però lui nega fermamente, così come qualsiasi conoscenza con la vittima. Affermazione che però è stata smentita dalla testimonianza del portiere di notte, che sostiene di avere visto un uomo molto simile uscire dalla scala di emergenza in piena notte. Le telecamere hanno confermato la cosa e anche che, dalla stessa scala, il Negri era entrato la sera precedente alle ore ventidue. Ad aprirgli era stata proprio la vittima. La telecamera però era ben nascosta, in seguito ad atti di vandalismo su quelle precedenti, e quindi probabilmente ignoravano di poter essere ripresi.”

 

“Altro?”

 

“Sì, in casa della vittima è stato trovato, anche quello ben nascosto, un telefono secondario, con una sim recente intestata alla vittima. Da questo telefono emergono lunghissime conversazioni di messaggistica istantanea e chiamate video e audio con un profilo che è stato cancellato, ma che è chiaramente riconducibile al Negri. Sono rimasti alcuni audio e corrispondono. I due avevano una vera e propria relazione, ormai da un paio di mesi, e la signora Furlan sembrava molto invaghita di lui.”

 

“E fin qua arriviamo a quello che abbiamo in mano sul Negri. Il problema è quello che manca, cioè-”

 

“Il movente. Non avrebbe avuto nulla da guadagnare dalla morte della signora, anzi, se, come sembra, lei gli faceva regali anche abbastanza costosi, oltre ad offrire cene e quant’altro. Messo alle strette, il Negri ammette la relazione ma sostiene che, quando è andato via, la donna fosse ancora viva. E, secondo i rilievi fatti dal medico legale, effettivamente l’orario di morte è al limite dell’orario registrato dalle telecamere. Insomma, non c’è certezza assoluta che sia stato lui.”

 

“E quindi questo come ci riporta al marito?”

 

“Innanzitutto il movente. I vicini della coppia nel condominio di Beinasco confermano che tra i due ci fossero liti ormai da anni e anni, un paio di volte hanno anche chiamato i carabinieri che però, in assenza di violenze fisiche o di denunce, non hanno mai aperto un’indagine. A quanto pare, secondo le testimonianze di amiche della vittima, che però sostengono di non sapere nulla di questa… nuova relazione dell’amica, la vittima lamentava che il marito era molto assente, che quando c’era non faceva nulla e che perdeva molti soldi in una sala bingo e slot non troppo distante da casa loro. E, proprio tre mesi prima dell’omicidio, è stata stipulata una consistente polizza sulla vita della vittima, con beneficiario il marito. Polizza di cui le amiche, di nuovo, sostengono di non aver mai saputo niente. Inoltre nemmeno lui ha un alibi per quella notte: sostiene di essere rimasto sempre a casa, da solo, ma non c’è modo di verificarlo. Ed il suo cellulare, caso strano, quella notte è rimasto spento, a differenza delle notti precedenti nelle quali era acceso.”

 

“Elementi che possano collegarlo alla scena del crimine?”

 

“Apparentemente no, se non alcune impronte sulla borsa e su alcuni oggetti della vittima ma… potrebbero essere state lasciate a casa o in un altro momento. E insomma… chi ha il movente non ha il collegamento con la scena del crimine, chi ha il collegamento con la scena del crimine non ha un movente.”

 

“Bene. Come procederesti, Calogiuri?”

 

“Secondo me… secondo me c’è da indagare di più sui due uomini per capire se ci possa essere in realtà un legame, magari… magari non tanto con la scena del crimine ma tra di loro e-”

 

“Non dirmi che mo pensi che siano amanti loro, invece!” ironizzò Imma, vedendo Calogiuri diventare fucsia, Francesco che rideva perché, pur non potendo capire, capiva sempre tutto, un poco come Ottavia che si era piazzata al suo fianco per prendere le coccole con la mano libera, la ruffiana.

 

“Non so ma… ma c’è la strana disponibilità economica del Negri e… a quanto pare, a parte le voci di alcuni vicini, al Valentino nessuno degli informatori sostiene di averlo mai notato. Ed è strano che uno spacciatore in casa non tenga nemmeno un grammo di alcuna sostanza. Anzi, a quanto pare il Negri era un fissato della palestra e dell’alimentazione sana e… vero che per vendere non devi usare, e che in certi giri ci sono comunque sostanze strane, ma… se spacciava anabolizzanti, a casa sua non ce n’erano e nemmeno nel suo sangue.”

 

“Sì, effettivamente è molto strano. E quindi che ne pensi?”

 

“Che magari… magari i soldi se li procurava in altro modo, no?”

 

“Tu pensi che chiedesse soldi alla vittima e magari ad altre donne?”

 

“Dai messaggi della vittima, a parte parlare di regali, non sembra che lui sia un… insomma… un escort, però…”

 

“Però stava con una donna più grande di lui di quasi trent’anni, non particolarmente avvenente, e questo è strano, no, Calogiuri?”

 

Calogiuri sbiancò, poi diventò rosso e poi si affrettò a chiarire, balbettando, “no, no, no! Cioè voglio dire… pure io e te… cioè non è che voglio dire che tu non sei avvenente, anzi, e non è che c’abbiamo trent’anni di differenza, non che se ce li avessimo ti amerei di meno, ma insomma lui non-”

 

Scoppiò a ridere, perché adorava quando Calogiuri si incartava così e farlo incartare in quel modo.

 

“Respira, Calogiù, respira!”

 

“Sì, ma… volevo dire che dai messaggi lei sembrava molto presa, lui… pareva uscito dalle frasi dei baci perugina o da uno di quei libri d’amore e… altro che leggeva Rosa da ragazzina e-”

 

“E che a quanto pare hai letto pure tu, capitano!” continuò a sfotterlo e sì, sullo sfottimento il titolo ci stava benissimo.

 

“Perché non c’avevamo molti libri in casa e io ho ereditato i suoi, però… ricordo che, pure da ciuccio quale ero, mi facevano molto ridere per come erano scritti, con quei dialoghi così… così…”

 

“Melensi? Drammatici? E mo ho capito da chi hai imparato a fare le dichiarazioni d’amore!”

 

Calogiuri scoppiò in un attacco di tosse che per poco quasi non si strozzava, anche se in realtà a lei l’ennesima prova della situazione di povertà, non solo culturale, nella quale era cresciuto la inteneriva moltissimo. Tanto che gli interruppe il momento di panico e tosse con un bel bacio sulle labbra.

 

“Tranquillo, Calogiù, ho capito quello che volevi dire. E sì, sembra molto finto, come uscito da un libro o da un copione, scritto pure male, dove non si sono manco sforzati di essere originali.”

 

“Ecco, e… e perché perdere tutte quelle ore ogni giorno in una finzione? La Furlan non era ricca e più di quel tanto non poteva offrirgli economicamente quindi… perchè volerla convincere di amarla, se magari era solo per interesse?”

 

“E quindi?”

 

“E quindi adesso voglio cercare di lui su internet e anche del marito. Capire se magari la Furlan non era l’unica con la quale aveva a che fare. E poi cercare altri collegamenti tra loro e con l’hotel.”

 

“Bravo Calogiuri, mozione approvata!”

 

Quanto le erano mancate le loro indagini!

 

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“Ecco qua la spesa, ci dovrebbe essere tutto, qua invece le cose della farmacia. Non avevano il latte in polvere solito, ma dovrebbe arrivare domani mattina.”

 

Uno dei ragazzi della scorta, solerte anche se mai quanto il dio Greco - che chissà porello come stava e se Chiara aveva avuto sue notizie - aveva messo tutto quanto sulla tavola.

 

Lei era sul divano - doveva cercare ancora per qualche giorno di muoversi il meno possibile - che osservava Francesco giocare con quella santa di Maria. Calogiuri si mise subito a ritirare la spesa, nonostante le proteste dei giovani di, “ma no, signor capitano, non si deve disturbare, facciamo noi!”

 

“Almeno mi muovo un po’, che se perdo la forza anche nell’altro braccio sono finito, in attesa di poter fare la fisioterapia al destro.”

 

E, con la gentilezza che gli era solita, apriva sportelli, portava cose avanti e indietro ed indicava ai ragazzi dove mettere le altre.

 

A un certo punto, ad uno dei ragazzi squillò insistentemente il telefono, tanto che dovette per un attimo mollare la sporta d’acqua che stava trasportando ed estrarlo dalla tasca.

 

Anche da un po’ di metri di distanza notò come, al leggere il display, l’espressione gli crollò.

 

“Tutto bene?” domandò Calogiuri, preoccupato, un poco più sottovoce e, allo scrollare le spalle ben poco convincente del ragazzo, proseguì con un, “dai, andiamo a mettere i detergenti in bagno.”

 

Purtroppo dal bagno a lì con la porta chiusa non si sentiva nulla ma quando, dopo un tempo necessario a ritirare i detergenti di un intero hotel - e pure grosso - finalmente ne uscirono, il ragazzo era di nuovo sorridente e fissava Calogiuri con una gratitudine ed un rispetto che le scaldarono il cuore.


E, alla fine, solo quello contava.

 

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“Ecco!”

 

“Hai scoperto qualcosa, Calogiuri?”

 

“Sì, con la ricerca per immagini, anche se ci è voluto un po’: guarda qua!”

 

Girò lo schermo del portatile verso di lei e vide la foto di un bel ragazzo con la camicia quasi del tutto aperta e poi un’altra in cui era solo in boxer. Il viso, che evidentemente in quel genere di foto contava assai meno, era mezzo in ombra in una delle foto e ripreso di lato nell’altra.

 

Ma somigliava in modo impressionante a-

 

Joe Blacks?”

 

Le venne da ridere solo al pronunciare il nome d’arte di Giovanni Negri.

 

E la pagina dalla quale però si presentava da solo, non era la locandina di un film ma un sito per escort. E, a quanto pareva, la specializzazione di Joe era per le donne, in particolare, per usare parole sue, o meglio, quelle di dementi arrapati anglosassoni, le MILF.

 

Bastò indicare quell’acronimo a Calogiuri perché diventasse color del vino rosso.

 

“Che c’è? Tenete pure i gusti in comune!” lo sfottè, provocando un paio di colpi di tosse ed un’espressione adorabilmente indignata.

 

“No, io…  non amo queste definizioni che riducono le donne ad un oggetto sessuale. Neanche quelle per gli uomini ma… insomma, lo sai cosa voglio dire, no?”

 

“Il mio gentiluomo d’altri tempi!” sospirò, piantandogli un bacio sulla guancia, “tornando a Joe… mo che sappiamo che c’aveva questo account, come pensi di procedere?”

 

“Segnalerò la cosa ai ragazzi. Vediamo se da qualcuno dei dispositivi dei Furlan ci sono state visite a questo profilo negli scorsi mesi.”

 

“Ottima idea, Calogiuri!”

 

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“Si può?”

 

Odiò il tremolio nella voce e si pentì di quell’iniziativa, per la quale aveva pure dovuto insistere. Ma glielo doveva.

 

“Do-dottoressa?”

 

“Tranquillo, anzi, comodo come direbbe… mia sorella. Come va? Anzi… se posso…” proseguì, facendo un cenno verso la cartelletta ai piedi del letto, col referto e le analisi aggiornate.

 

Seppe di averlo colto in contropiede perché annuì, forse per un istinto automatico ma, mentre consultava numeri, grafici e anamnesi, la raggiunse un, “non volevo che… mi vedeste così!” sospirato quanto amaro.

 

Alzò gli occhi verso di lui e domandò, “se intendi che non avresti mai voluto stare così male, concordo con te, altrimenti… sono un medico e-”

 

“Appunto! Non voglio sembrarvi un paziente. E… così debole e… con questa pelle che-”

 

“L’ittero in realtà è quasi sparito, poi con queste luci fredde si nota appena.”

 

Che era talmente bello che persino il sottotono giallo si sposava stranamente bene con i suoi capelli biondi, tanto da farlo sembrare una statua in bronzo, se lo tenne per sé.

 

“Mi spiace non essere potuta venire prima, ma non è stato semplice avere il permesso per visitare te e il tuo collega.”

 

Sul il tuo collega notò benissimo uno sguardo leggermente deluso. Che Imma avesse davvero avuto ragione sul suo interesse per lei?

 

Certo, era andata a fare qualche commissione con lui ed era stato premurosissimo con lei, ma non ci aveva provato esplicitamente. Ed era anche quello il suo bello rispetto ad altri uomini.

 

“Mi dispiace tantissimo per quello che ti è successo e spero che tu sappia che non c’entro niente.”

 

“Non c’era neanche bisogno di dirlo, dottoressa! E mi dispiace per… vostra sorella e la vostra famiglia. E per il vostro casale. Avremmo dovuto essere più prudenti con le provviste, ma-"

 

"Ma conosco il posto da anni, non è colpa vostra. È colpa mia che ti ci ho portato, senza pensare che non si conosce mai abbastanza bene qualcuno."

 

Ci fu una strana pausa, il ragazzo che sembrò esitare, ma poi gli si corrugò la fronte, di solito così liscia - a ricordare inevitabilmente la differenza anagrafica tra loro - lo sentì prendere un respiro e-

 

"Pure se non ci si conosce mai abbastanza… ci si può comunque conoscere meglio, no?"

 

Senti il cuore accelerare nel petto. Come minimo a cento battiti, una lieve tachicardia.

 

"In… in che senso?" balbettò, per essere sicura di non aver capito male e temendo la risposta, sia che fosse stata una conferma, sia nel caso opposto.

 

"Lo sapete in che senso… voi e io… potremmo conoscerci meglio, no?"

 

Si sentì talmente calda in viso che le girava un poco la testa. Per fortuna non arrossiva quasi mai.

 

Rimase per un attimo ammutolita, cercando una risposta.

 

Dì la verità, non è pure per questo che lo sei venuto a trovare? E su! Che non c'abbiamo più l'età per raccontarci le storielle!

 

Imma, chiara e precisa nelle orecchie manco avesse un auricolare.

 

"Quando uscirai da qui… spero tra poco tempo, avrai la riabilitazione e poi chissà dove finirai. Io invece…"

 

"Per un po' sarò a Roma per la riabilitazione e mi avete detto che ci andrete più spesso per vostro figlio, no? E, a proposito della riabilitazione… per l’appunto siete un medico…"

 

Il tono era palesemente scherzoso. Non era affatto timido come il suo futuro cognato, anzi, sebbene fosse comunque rispettoso.

 

"Oculista. Di riabilitazione ne capisco ben poco. E potresti essere mio figlio pure tu, anzi, sei più giovane dei miei figli."

 

"Non è mica colpa mia se li hai avuti da giovanissima.”

 

Il passaggio al tu, per la prima volta in assoluto, fu un’altra vampata di calore. Furbo il ragazzo, oltre che adulatore.

 

“Li ho avuti dopo la laurea in medicina quindi no, non ero giovanissima. E comunque ti chiami pure Luca, proprio come uno dei miei figli.”

 

“Non l’avvocato, no?”

 

“No, no. Luca fa il designer a New York.”

 

“E io a disegnare non son buono, l’inglese lo so pochissimo e i soldi per andare a New York non so tra quanti anni di lavoro li avrò. Quindi non posso proprio essere tuo figlio.”

 

Le venne da ridere, perché che altro poteva fare?

 

“Senti, sono molto lusingata, davvero, e… che sei un bel ragazzo lo sai, è evidente, ma… io con gli uomini ho sempre sofferto ed io e te un futuro non ce l’abbiamo. E non voglio altre sofferenze inutili.”


“E chi ti dice che soffriresti con me?”


“La statistica, il buon senso e-”

 

“E gli uomini che ti hanno fatto soffrire quanti anni avevano? Erano giovani?”

 

“No! La mia età se non di più, ma-”


“E allora, di statistica non ne capirò molto ma mi pare che, viste le tue esperienze, il pregiudizio lo dovresti avere con quelli della tua età, non con me.”

 

Di nuovo le sfuggì un sorriso. La faccia tosta non gli mancava proprio. Ed era sveglio, forse troppo.

 

“Comincia ad uscire da qua e ad arrivare a Roma, poi vediamo. Il mio numero tanto ce l’hai.”

 

Il sorrisetto di lui le causò un brivido che era da una vita che non provava più.

 

Sarebbe finita presto e anche male, ma perché privarsi di un po’ di leggerezza e di quelle sensazioni, finché si poteva?

 

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“Capitano, questa è per lei e per la dottoressa.”


“Grazie, Morelli. Comodo, comodo!”

 

Gli faceva tenerezza vedere che, nonostante le svariate rassicurazioni di poter essere informali e di dargli pure del tu, i ragazzi della scorta proprio non ce la facevano.

 

Gli ricordavano lui qualche anno prima - e pure un poco nel presente - soprattutto Morelli che era il più timido. E poi aveva notato che stava male per qualcosa, ed era riuscito a convincerlo a confidarsi con lui sulla relazione complicata con la fidanzata, lasciata in Toscana, che gli aveva dato per l’ennesima volta buca sul venirlo a trovare a Torino.

 

Se avesse risolto o meno, non era dato sapere per il momento, non voleva sembrare insistente. In compenso, gli aveva consegnato una grossa busta di documenti.

 

Se la portò in camera, dove Imma lo attendeva - ormai alternavano le loro giornate tra il letto ed il divano - e gliela offrì, godendosi il modo in cui la squarciò quasi nell’aprirla, tanta era la curiosità.

 

“Allora?” le chiese, sedendosi accanto a lei mentre, con la sua solita incredibile velocità, faceva scorrere i documenti.

 

“Allora, effettivamente, ci sono stati accessi a quella pagina dal computer di casa Furlan. Guarda!”

 

Si sporse per leggere e sì, c’erano stati un po’ di accessi, quasi tre mesi prima del delitto.

 

“Ma… ma…”


“Che cosa?”

 

Aprì il cellulare per controllare le date e sì, erano giorni feriali.

 

“Tre mesi fa, questi sono giorni feriali, di mattina. La signora Furlan doveva essere a scuola, no?”

 

Per tutta risposta, si trovò le labbra di Imma incollate sulle sue, in un premio che era persino meglio di qualsiasi bravo, Calogiuri! gli avesse rivolto negli anni.

 

“Bisogna verificare con la scuola, Calogiuri, ma… mi sembra improbabile che sia stata la signora a fare quegli accessi.”

 

“E, se la conoscenza tra la Furlan e Joe è di un paio di mesi fa… è pure improbabile che il signor Furlan volesse semplicemente scoprire chi era l’amante della moglie, visto che non lo era ancora, all’epoca.”

 

Imma gli sorrise in quel modo che era la cosa più bella del mondo, ma poi fece una mezza smorfia, toccandosi la pancia.

 

“Che c’è? Hai male?”

 

“La piccoletta sta facendo un po’ di casino, mi sa che anche lei è orgogliosa del suo papà e vuole farcelo sapere.”

 

Fu abbrancato per le dita, sotto le quali percepì presto una serie di calcetti e movimenti che… che…

 

L’emozione, per certe cose, davvero la voce non ce l’aveva.

 

Non per lui, almeno.

 

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“Che fai, Vale?”

 

Fece quasi un salto dalla sorpresa, il cellulare in mano, ma poi lo mostrò a Penelope con un, “so che forse non dovrei ma…”

 

Vide Penelope intenta a leggere il post che aveva scritto di getto, dopo l’ennesimo articolo di un imbecille che chissà come lo aveva avuto il tesserino da giornalista - non solo, era pure diventato direttore di un giornale - che, come al solito, incolpava le vittime, specie se donne, nei suoi illuminatissimi editoriali. Che c’era da sperare fossero scritti da un ghost writer, ma il loro contenuto era sicuramente da lui più che approvato.

Secondo quel genio, sua madre avrebbe messo in pericolo la sua scorta e gli onesti cittadini - perché lei cos’era? - per farsi le vacanze al mare.

 

Non solo, non mancavano le bordate razziste ben poco velate sulla poca opportunità di rifugiarsi in una zona, a suo dire, ancora e storicamente dominata dalla malavita.

 

E poco importava se i partiti a cui faceva lui riferimento avevano avuto un sacco di amministratori locali indagati per corruzione o associazione a delinquere, a sud come al nord, negli ultimi anni.

 

“Leggo di gente che incolpa mia madre ed altre persone che si trovano sotto protezione, per aver osato lottare contro la criminalità organizzata, come se fossero i colpevoli di ciò che sta loro accadendo. Non li voglio però chiamare vittime, perché sono combattenti, tutti, compresa mia madre, ed hanno avuto il coraggio di fare ciò che quasi nessuno fa. Preferire la verità alla comodità, all’interesse e perfino alla loro sicurezza. E si trovano a pagare per questo, non solo temendo per la loro vita, ma dovendosi sradicare, nascondere, mentre chi quei crimini li ha commessi se ne rimane quasi sempre tranquillo a casa propria, ai domiciliari, se va bene, fino alla fine di tutti i gradi di giudizio, che in Italia si sa quanti anni durano.”

 

Le sue parole, lette da Penelope, le facevano uno strano effetto.

 

“Vale…”

 

“Che dici, è troppo?”

 

Per tutta risposta, si trovò stretta in un abbraccio.

 

“Non voglio metterti in pericolo, lo sai, ma-”

 

“Ma, come hai scritto giustamente qualche riga dopo, gli unici che mettono in pericolo gli altri sono quelli che decidono di sparare loro addosso. Ed io sono molto fiera di te.”

 

“Quindi pubblico? O devo avvertire mia madre?”

 

“Che farebbe tua madre al posto tuo?”

 

Sorrise a Penelope, sentendosi anche lei non solo fiera, ma fortunata, fortunatissima, di averla nella sua vita, premette sul tasto di pubblicazione, lasciò il cellulare e se l’abbracciò di nuovo, più forte che poteva.

 

*********************************************************************************************************

 

“Una chiamata per voi.”

 

Stava cercando di scrivere una risposta pubblica a Valentì che, mannaggia a lei, non solo si era esposta un’altra volta, ma l’aveva pure fatta commuovere, quando era comparso uno dei ragazzi della scorta, passando loro un telefono.

 

“Pronto?” domandò, mettendo in vivavoce, in modo che anche Calogiuri potesse sentire.


“Dottoressa!”


“Signor generale!” ricambiò il saluto, riconoscendo la voce, “a cosa dobbiamo questa chiamata?”

 

“Volevo complimentarvi con voi e ringraziarvi, a nome anche del PM incaricato del caso Furlan e di tutta la procura. Con i nuovi elementi che ci avete dato, abbiamo interrogato prima il Negri e poi il Furlan e siamo riusciti ad incriminare entrambi, anche se sulla spartizione di responsabilità ci sono ancora alcuni punti da chiarire.”

 

“Cioè?”

 

“Il Negri ha ceduto e, visto quanto rischiava, ci ha condotto a trovare il suo cellulare… professionale, che era nascosto in un pied-à-terre che non era intestato a lui, ma che usava appunto nel suo… lavoro. E lì c’era una chat con un numero che siamo riusciti, tramite i contenuti ed analizzando le celle agganciate, a ricollegare al Furlan.”

 

“E quindi il Furlan ha confessato?”

 

“In parte… diciamo che si incolpano a vicenda. Dalle chat il Furlan sembrava chiedere aiuto per incastrare una moglie fedifraga, e questo ci ha detto anche il Negri. Ma sono solo chat del primo periodo, poi ci sono state telefonate e di quelle il contenuto non ci è dato saperlo. Il Negri sostiene di essersene andato senza nemmeno vedere il Furlan e che la signora era viva e stava bene. Che era convinto che appunto fosse solo una trappola per favorire una causa di divorzio, nulla di violento. Il Furlan invece sostiene che il Negri sia stato l’esecutore materiale dell’omicidio, sicuramente per scagionarsi, almeno in parte, e ci ha aiutato a ritrovare il compenso - in contanti, a suo dire accumulati nel corso di svariati mesi - dati al Negri. Ventimila euro, non pochi per il lavoro che il Negri sostiene gli sia stato chiesto di fare.”

 

“Ma neanche molti, per il compenso a ore di un escort a pagamento, che ha evidentemente speso molto, molto tempo, tra messaggi, telefonate ed altro con la signora Furlan. C’è modo di collocare il Furlan sulla scena del crimine?”

 

“L’unico visto entrare ed uscire di notte è proprio il Negri quindi…”

 

“E di giorno?” domandò, presa da una folgorazione.

 

“In che senso?”

 

“E se il Furlan fosse già stato nell’hotel prima che ci arrivassero il Negri e magari la stessa signora Furlan?”

 

“Difficile i receptionist non se ne siano accorti.”

 

“Ma in un hotel di giorno la gente va e viene… controllate le telecamere. Ventimila euro non sono pochi e fanno gola, sì, ma… il Negri aveva uno stile di vita molto agiato ed evidentemente guadagnava bene. Perché rischiare la libertà per ventimila euro? Per noi sono molti ma per uno come lui…. E poi uccidere una persona non è facile, per soffocamento poi… richiede tempo, oltre che forza e risolutezza. Di solito è più tipico di un risentimento personale, che dà la spinta di portarlo a termine senza farsi scrupoli.”

 

“Verificheremo, dottoressa. Grazie mille!”

 

“E di che? E ringraziate anche Calogiuri, che le intuizioni sul mestiere di Negri e sugli orari dei collegamenti online sono state sue.”

 

Calogiuri, per tutta risposta, le strinse la mano e le sorrise commosso.

 

“Certo! Grazie anche a lei, capitano: ci siete stati veramente preziosissimi, entrambi. E, comunque andrà a finire quest’inchiesta, a maggior ragione vi vorremmo in squadra. Sicuramente il capitano, almeno, perché per lei, dottoressa, purtroppo non dipende da me e nemmeno dalla procura.”

 

“Non si preoccupi, signor generale, capiamo benissimo e non vogliamo rischiare nemmeno noi ulteriori spostamenti per incompatibilità e conflitto di interessi. Io sto valutando Milano, comunque, così da essere vicini ma non nella stessa procura.”

 

“Però dovete assolutamente venire a vivere a Torino, dottoressa: tra Torino e Milano non c’è proprio paragone, come storia, tranquillità, poi negli ultimi anni la Vecchia Signora si è ringiovanita e modernizzata. Il clima non è dei migliori rispetto alle meraviglie a cui siete abituati ma… sono sicuro che vi trovereste bene con noi.”

 

“Non ne dubito, signor generale, ma… Milano è più comoda per Roma, dove al momento risiede una buona parte delle nostre famiglie. Ma valuteremo, in effetti ho anche un cugino a Torino, ma sono anni che non lo vedo.”

 

“Beh… potreste recuperare… certo magari non ora, vista la vostra condizione, ma-”

 

“Non si preoccupi, signor generale, spero proprio che, in ogni caso, avremo modo di visitare la vostra città veramente, non restandocene qua incarcerati. Vi faremo sapere, va bene? Ma fateci sapere anche voi, se ci sono sviluppi.”

 

“Certo, dottoressa, non mancheremo! Dottoressa, capitano, grazie ancora di tutto!”

 

*********************************************************************************************************

 

Lo squillo del telefono per poco non le fece venire un colpo, svegliandola di botto.

 

Guardò l’ora: erano soltanto le otto del mattino.

 

Sperava che non fosse successo qualcosa di grave ed afferrò il telefono, temendo di trovare il nome di sua madre o di Calogiuri.

 

Ma no, era una chiamata dal suo profilo di messaggistica istantanea ed era… Frazer?

 

Forse non poteva immaginare che loro fossero un’ora indietro ed effettivamente le nove del mattino per un americano, milanese d’adozione, dovevano sembrare un orario più umano di quello che sembravano a lei da quando era in vacanza.

 

Lo mostrò a Penelope, che la guardava interrogativa, ma che le rispose con una scrollata di spalle che era chiaramente un fai come te la senti, Vale!

 

Alla fine, prevalse la curiosità, che l’aveva sempre fregata, e rispose.

 

“Pronto?”

 

“Pronto, Valentina? Ma… ma stavi dormendo?”

 

Doveva ancora avere la voce rauca del risveglio.

 

“In effetti sì. Sa… sono in vacanza e-”

 

“Se vuoi ti chiamo più tardi e, anzi, scusa se mi sono permesso di chiamarti ma non amo i vocali e per messaggio ci sarebbe voluto troppo tempo.”

 

“Non importa. Allora, che mi doveva dire?”

 

“Che ho letto anche il tuo nuovo post e mi è piaciuto come il precedente. Mi piace come scrivi e… mi chiedevo se saresti disposta a collaborare con me ad un articolo-”

 

“Ma non lavora per la televisione?”

 

“Sì, ma… a volte faccio anche dei pezzi scritti, per uno dei principali quotidiani nazionali. E mi piacerebbe fare un articolo - e magari anche un servizio - di inchiesta, sul maxiprocesso, visto anche dal punto di vista di una materana, oltre che di una persona in qualche modo coinvolta. Ovviamente sarebbe da fare uscire dopo l’udienza finale e la sentenza, non ti preoccupare: non voglio creare problemi. Mentre ora sto lavorando su un pezzo su chi siano i Romaniello e i Mazzocca, le origini delle loro… fortune… i legami tra loro e-”

 

“Ed io in realtà di queste cose non ne so molto: mia madre è sempre stata riservatissima sul suo lavoro. Dovrebbe chiederlo a lei, anche se dubito che le dirà qualcosa.”

 

“Ma infatti non ti chiederei mai questo, Valentina. Ma di contribuire con le tue esperienze personali al pezzo sul maxiprocesso. Collaborare anche a scriverlo, magari. Credo che sarebbe un punto di vista originale e che verrebbe fuori una cosa più umana e sentita.”


“Ma anonimamente?”


“Se vuoi, ma vorrei darti credito per il tuo lavoro.”


“Dovrei chiedere a mia madre… non posso fare una cosa del genere senza informarla.”

 

“Va bene ma… sarebbe dopo la fine del processo, appunto. Per intanto, se vuoi ti mando quello che sto scrivendo sui Romaniello e i Mazzocca, appena l’avrò finito, così mi dici che ne pensi prima che lo pubblichi?”

 

“Ma che posso pensarne? Non ne so niente dei loro traffici.”

 

“Beh, io te lo mando, poi fai come ti senti.”

 

E che poteva dirgli? Contento lui!

 

*********************************************************************************************************

 

“E allora ci sono novità?”

 

“Sì. Avevate ragione voi. Il PM e la procura stanno per fare una conferenza stampa, ma volevo dirvelo in anteprima. Analizzando meglio i filmati hanno notato un uomo vestito da elettricista entrare in hotel ma… non ne è più uscito, se non il giorno dopo. E-”

 

“Ed il Furlan prima della pensione faceva l’elettricista!” si inserì Calogiuri, osando interrompere perfino il generale.


“Sì. Abbiamo fatto analizzare la stanza con la centralina elettrica e… per fortuna deve esserci rimasto nascosto per molte ore, perché c’erano tracce di cibo a terra e… residui di materiale organico ed un paio di impronte digitali parziali. Probabilmente deve essersi dimenticato di rimettersi subito i guanti e… diciamo che, qualsiasi contenitore si fosse portato dietro per… i bisogni primari…” 

 

“La mira non deve essere stata delle migliori,” concluse lei per il generale, divertita dal suo imbarazzo.

 

“Ecco. Inoltre abbiamo rilevato anche un paio di tracce di sangue, ripulite frettolosamente. Il sangue era della vittima. Probabilmente derivanti dalla ferita alla testa. L’elettricista è poi uscito il giorno dopo. La tuta nel secondo filmato sembrava leggermente diversa. Probabilmente si era anche portato un cambio, nella borsa di lavoro, temendo le macchie di sangue ma-”

 

“Ma non è bastato?”

 

“No. Le impronte parziali ed il resto delle prove raccolte sono state sufficienti a farlo confessare. In realtà dalle urine non è stato possibile estrarre il DNA ma quello che abbiamo e la confessione dovrebbero bastare in giudizio. Inoltre il Negri, dalle telecamere, sembrava invece pulito, se così possiamo dire, e sulla sua auto e in casa sua non sono state ritrovate tracce di DNA della vittima. Non di quel tipo, almeno. Di altro genere di DNA ce n’era fin troppo.”

 

“Indice che però non aveva cercato in alcun modo di ripulire, quindi non pensava di avere nulla da nascondere.”

 

“No, infatti, dottoressa. Quindi…”

 

“Quindi caso risolto. Ne sono felice: almeno questo periodo di pausa forzata è servito a qualcosa.”

 

“Per ovvi motivi i colleghi non potranno citarvi nella conferenza stampa di oggi, ma quando sarete più liberi e durante il processo-”

 

“Non serve, generale. Non lavoriamo per la gloria - ed in questo caso nemmeno per il compenso, anche se, con quanto stiamo gravando sulle spalle dei contribuenti, è il minimo che potevamo fare.”

 

“Non sono d’accordo ma… spero ci sarà occasione di convincervi e di avervi presto qua in procura. La squadra vi accoglierebbe a braccia aperte.”


Sospirò, perché non dubitava che la squadra avrebbe accolto Calogiuri a braccia aperte. Per lei tenere buoni rapporti con i cari colleghi, invece, vista anche la competizione, era più difficile, specie quando non faceva il lavoro al posto loro anonimamente.

 

*********************************************************************************************************

 

Stava per abbassare la maniglia della porta del bagno, quando sentì delle voci.


“Mi ha detto che lei qua a Torino non si vuole trasferire e che, o trovo un modo di tornare in Toscana, o mi lascia. Ma… io qua sono arrivato da poco, ho ancora anni prima di potermi trasferire, poi vicino a casa sarà difficilissimo. E non voglio mollare il lavoro, ma lei dice che non tengo abbastanza al nostro rapporto e-”

 

“E da quanti mesi non vi vedete?”

 

“Ormai quattro. Ogni volta che mi dice che mi raggiungerà qua poi cancella. E l’unica volta che ho avuto un weekend libero era impegnata e-”

 

“Non mi sembra lei ci tenga molto al vostro rapporto. E non solo perché ti evita: se ci tenesse, non ti chiederebbe di rinunciare a tutto così.”

 

“Ma… ma lei non rinuncerebbe a tutto per la dottoressa?”


“Certo che lo farei ma… ma Imma non me lo chiederebbe mai e so che anche lei, nei miei confronti, farebbe lo stesso. Ma, salvo casi di vita o di morte, Imma ha sempre cercato di spronarmi a seguire i miei sogni, a fare ciò che era meglio per me, anche se avesse comportato vederci di meno. Pure mo, ad esempio, sta insistendo tantissimo per i trasferimenti, perché io vada in un posto dove posso far carriera, anche se a lei fa sicuramente meno comodo e potrebbe scegliere altro. Questa è la differenza.”

 

“Quindi secondo lei devo rifiutare?”


“Secondo me, devi pensare al tuo futuro e a chi potrà starti accanto pure nella cattiva sorte. E poi sei giovane, c’è tempo.”

 

Le venne da sorridere perché quella era una frase che gli aveva detto mille volte. Ma in effetti, c’era sempre qualcuno di più giovane su cui usarla, quando serviva.

 

E bravo Calogiuri!

 

Si allontanò dalla porta, aspettandolo in camera, pure se in bagno ci doveva andare con una discreta urgenza, che la piccoletta aveva deciso di usarle la vescica a mo di cuscino.

 

Fortunatamente però dopo pochi minuti la porta si aprì e Calogiuri la raggiunse, con uno sguardo soddisfatto.

 

“Che c’è, Calogiuri?”

 

“Niente… niente…”

 

“Hai instaurato un bel rapporto con i ragazzi...” buttò lì, dopo qualche attimo di silenzio.

 

“Imma! Non ti si può proprio nascondere niente!”

 

“Colpa della piccoletta, che ormai mi fa andare in bagno più spesso di un anziano con problemi di prostata. Ma… devi fare domanda per il trasferimento qui, Calogiuri: è un ordine! Oggi la scriviamo.”

 

“Ma allora devi fare domanda anche tu per Milano.”

 

“Io aspetterei un poco, Calogiuri: sarò ancora bloccata per un po’ di mesi, sia prima che dopo il parto e-”

 

“E intanto tu fai la domanda, che coi tempi tecnici… e poi a stare a casa a fare la mamma per troppo tempo non ti ci vedo. Già sei stata tanto ferma in questi mesi e lo vedo quanto ti manca il tuo lavoro.”


Il modo in cui lo disse fu talmente da scioglimento che ogni dubbio sparì.

 

“Allora… facciamo che vado in bagno e al ritorno facciamo domanda entrambi e vediamo che succede?”

 

“Agli ordini, dottoressa!”

 

*********************************************************************************************************

 

“Sei sicuro di volerlo fare?”

 

“Sì. Tra due ore vado a prendere i ragazzi e spiegherò loro tutto.”

 

Una parte di lei era felice e rassicurata dal fatto che lui intendesse andare fino in fondo su loro due. Un’altra temeva le reazioni della signora e dei ragazzi stessi. Che si sarebbero allontanati da Lorenzo e… e che lui, alla fine, da bravo padre qual era, avrebbe ceduto e si sarebbero dovuti dire di nuovo addio. Cosa che Bianca non avrebbe sopportato.

 

“Tranquilla. Stavolta non mollo. I miei figli non sono stupidi, capiranno, soprattutto i più grandi. Lo sanno anche loro com’è fatta Nicoletta, anche se non ne ho mai parlato male ma… sapevano che inferno era a casa con noi due insieme.”

 

“Lo spero… ma alla fine… siamo stati comunque amanti, anche se per un breve periodo e… e questo non cambia.”

 

“No, ma spero saranno in grado di perdonarmi e se non di capirmi del tutto, almeno di… di riuscire in parte a comprendere perché è successo.”

 

“Gli adolescenti di solito vedono tutto bianco e nero, Lorenzo. Peggio di Imma quando ci si mette. Mi raccomando!”

 

Si trovò stretta in un abbraccio di quelli che, per qualche minuto, riuscivano a farla dimenticare di tutto il resto o quasi, ma poi sentì un telefono vibrare all’altezza della coscia.


“Il mio…” sospirò lui, staccandosi e guardando il display.


“I tuoi figli?”

 

“No…” osò solo mormorare lui e con la coda dell’occhio lesse il nome della famigerata collega di Bari, quella bellissima e con quelle curve che sembrava uscita da un film di Fellini.

 

“Dai, rispondi!” lo incalzò, perché voleva proprio vedere come si sarebbe comportato.

 

Lui lo fece e mise per giunta il vivavoce.

 

E bravo!

 

“Pronto? Ma è successo qualcosa?”


“Sì. Un falegname oggi è tornato al lavoro dopo le ferie e ha trovato un cadavere nel vecchio magazzino che gli fa da laboratorio, un po’ fuori da Cozze. Qualcuno aveva forzato la serranda.”

 

“E… c’entra con l’agguato?”

 

“Penso di sì: aveva una ferita d’arma da fuoco alla gamba, niente di mortale di per sé ma… deve essere morto di sepsi, la ferita era infetta e la gamba compromessa. Anche se le temperature non ci aiutano con la ricostruzione delle tempistiche del decesso ed hanno accelerato la putrefazione, il medico legale è convinto, almeno ad un primo esame, che sia quella la causa primaria della morte, seguiranno accertamenti. E… il proiettile ritrovato è compatibile con l’arma del capitano.”

 

“Calogiuri?” domandò, temendo un poco la risposta, perché sapeva benissimo come il collega non amasse né sparare, né avere morti sulla coscienza, per quanto in quel caso non fosse del tutto colpa sua, anzi.

 

“Sì. Inoltre il ragazzo era effettivamente un pronipote di uno degli affiliati del clan che abbiamo arrestato. Probabilmente era anche lui affiliato da qualche tempo, anche se finora non ci era stato segnalato.”

 

“Quanti anni aveva?”

 

“Diciannove.”

 

Merda!

 

“E secondo te e secondo il medico legale… lì ci è arrivato da solo o-?”

 

“Impossibile con la gamba in quelle condizioni che sia fuggito da solo: non a piedi, non in moto e nemmeno in auto, non guidandola lui, almeno. C’erano alcune tracce di cibo e di giacigli di fortuna: probabilmente qua si è rifugiata più di una persona, finché le acque si sono calmate un poco e…”

 

“E non l’hanno portato in ospedale.”

 

“No, magari gli avranno dato anche degli antibiotici ma… secondo il dottore la gamba era compromessa in un modo tale che ci sarebbe voluta un’amputazione chirurgica per provare a salvarlo. E ovviamente…”

 

“E ovviamente non è il genere di intervento che si possa fare fuori da un ospedale o da una clinica e comunque avrebbe dato nell’occhio e ci sarebbero state domande vedendolo tornare a casa così.”

 

“Esattamente.”

 

E, mentre malediceva quei bastardi, bastò incrociare gli occhi di Irene, per capire che nessuno dei due avrebbe mai voluto trovarsi nella posizione di dirlo al capitano o alla dottoressa.

 

Ma c’erano cose alle quali non ci si poteva sottrarre, pensò, mentre chiudeva la chiamata e si apprestava a chiamare suo figlio per rinviare la loro uscita, sapendo che non ci fosse altro da fare e che anche Irene, con il suo sguardo rassegnato e preoccupato, concordava con lui.




 

Nota dell’autrice: ed eccoci finalmente giunti alla fine di questo capitolo che è stato molto lungo da scrivere. Spero che sia valso l’attesa e vi anticipo che nel prossimo ci saranno eventi decisivi: una certa udienza ormai incombe e… siamo alla resa dei conti.

Vi ringrazio tantissimo per continuare a seguire e leggere la mia storia, dopo tre anni dalla sua prima pubblicazione. Mi sembra impossibile che sia passato così tanto tempo.

Grazie mille per le vostre recensioni che mi danno sempre tanti spunti e l’incentivo a cercare di fare sempre meglio e di arrivare alla fine di questa storia, nonostante gli impegni e i viaggi che riducono il tempo che riesco a dedicare alla scrittura.

Un grazie enorme a chi ha aggiunto la storia tra i preferiti o i seguiti e grazie mille per tutti i messaggi che mi avete mandato in queste settimane. Mi piace sempre moltissimo confrontarmi con voi.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica 4 dicembre. In caso di imprevisti vi avviserò come sempre sulla pagina autore.

Grazie mille ancora!

 

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Capitolo 78
*** Sentenze ***


Nessun Alibi


Capitolo 78 - Sentenze


"Cosa…?"

 

Un sussurro strozzato. Così erano state le parole di Calogiuri.

 

Un peso sul cuore al crollo di quei lineamenti che tanto amava.

 

E, dopo qualche secondo, la vibrazione inconfondibile del singhiozzo, voce muta di quelli che il suo papà doveva trattenere.

 

Accarezzando la pancia con una mano per cercare di tranquillizzarla e tranquillizzarsi, gli pose l'altra sulla spalla, contratta talmente forte da renderle quasi impossibile stringergliela.

 

"Tu non hai colpe, Calogiuri: è morto di setticemia. Lo ha ucciso chi non l'ha portato in ospedale e-"

 

La voce di Irene che provava ad essere rassicurante, ma allo stesso tempo sapeva, come lo sapeva lei, che, sebbene quella non fosse altro che la verità, a lui non sarebbe bastata per soffrirne di meno.

 

"Quanti… quanti anni aveva?"

 

"Ma a che serve saperlo?"

 

"QUANTI?" gridò quasi ed Irene deglutì visibilmente persino dall'altra parte dello schermo.

 

"Diciannove…"

 

Un suono strozzato e stavolta il singulto sfuggì al controllo, all'unisono con uno della piccoletta.

 

"Famiglia?"

 

Un'esitazione di troppo. Troppo anche per immaginare il dolore inaccettabile di una madre al perdere un figlio tanto giovane.

 

"Aveva figli, non è vero?"

 

Calogiuri ormai era più roco di lei.

 

"Uno di un anno e mezzo. Padre assente, la madre ha sempre tirato a campare. La… la compagna non ha ancora finito le superiori e non ha un lavoro. Forse per questo… avrà accettato un'offerta del prozio ma-"

 

"Ma lo zio è stato arrestato e quando è venuto il momento non ha potuto intercedere per il nipote. Sempre se comunque avrebbe potuto o voluto farlo."

 

Aveva parlato alla fine, al posto di Calogiuri che era paralizzato, accanto a lei, tanto da sembrare una statua di marmo sotto le sue dita.

 

Il peggio era quello sguardo pieno di lacrime ma spento, fisso nel vuoto.

 

Era da quando lo aveva ritrovato più morto che vivo in quello squallido hotel che non l'aveva più visto così.

 

E aveva paura, una paura fottuta, che qualcosa in lui si fosse rotto per sempre, dopo tutto quello che gli era piovuto addosso e che aveva sopportato negli ultimi mesi.

 

Che il punto di rottura fosse infine arrivato e di non essere nelle condizioni fisiche e mentali per riuscire a riportarlo indietro.

 

*********************************************************************************************************

 

"Ti spiace se…"

 

"Se rinviamo l'annuncio? Con tutto quello che è successo?"

 

"Irene…"

 

"Dobbiamo avere la massima concentrazione sul caso e sul processo. Non possiamo sbagliare più niente e non è il momento di dover anche affrontare le probabili ritorsioni della tua ex, o la quasi certa crisi dei tuoi figli."

 

Era la cosa giusta da fare e lo sapevano entrambi.

 

"Però ti prometto che…"

 

"Non promettiamoci più niente, anche solo per scaramanzia."

 

"Non ti ricordavo superstiziosa."

 

"Infatti non lo sono mai stata ma… questo processo sembra davvero maledetto, per non parlare di Calogiuri e di Imma che… è da quando li conosco - e forse anche da prima - che succedono tutte a loro."

 

“Sapere di aver causato la morte di qualcuno, anche se indirettamente e per legittima difesa, non è mai facile. Ma, proprio perché ne hanno passate tante, direi che Calogiuri è più forte di quanto sembri e anche Imma-”


“Ma anche la persona più forte ha un limite di carico dopo il quale si spezza. Lo sai anche tu.”

 

Lo vide annuire con sguardo colpevole e si chiese se anche lui stava pensando al crollo che aveva avuto lei dopo che lui se ne era andato da Milano. Anche se, tutto sommato, senza quel crollo, Bianca non sarebbe mai stata sua figlia. Ma quello era solo un pensiero egoista, oltre che un modo per cercare di alleviare quel senso di colpa, che non se ne sarebbe mai andato del tutto.

 

*********************************************************************************************************

 

“A chi stai scrivendo?”

 

“A nessuno, perché?”

 

Per tutta risposta, Penelope incrociò le braccia e sembrò un po’ infastidita.

 

“Ma che è, sei gelosa?”


“Torno dalla doccia e ti trovo a letto a mezzanotte, che scrivi con un sorriso e gli occhi che ti si illuminano in quel modo che… che forse hai solo con me… o neanche. Che devo pensare, Vale?”

 

Si sentì bollente, Penelope che sì, era decisamente gelosa - e la cosa, per quanto era stata zen su Carlo, le faceva molto piacere, ma…

 

Ma si vergognava anche tantissimo perché…

 

“Stavo… stavo facendo delle note sull’articolo sui Mazzocca e i Romaniello, che mi ha mandato Frazer e-”

 

“Ma quindi ti stavi scrivendo con lui?”

 

“No, no. Stavo… stavo scrivendo. E basta.”

 

Ecco, l’aveva detto, anche se le girava un po’ la testa da quanto era in imbarazzo.

 

Penelope spalancò la bocca, sorpresa, ma poi sorrise in un modo che… non sapeva come fosse il suo di sorriso, ma quello di Penelope di sicuro era la cosa più bella che avesse mai visto.

 

“E come sta andando?” le domandò, sedendosi accanto a lei sul letto.

 

“Mi sembra fatto bene ma… sto togliendo le cose che so che sono sbagliate. E sto precisando un paio di punti e segnalando dove so che c’è altro da dire. Solo che… non sono sicura a chi potrebbe chiedere… di sicuro non posso chiedere a mamma, figurati, che chi la sente! E poi… poi ho iniziato a scrivere l’articolo sulla mia esperienza personale.”

 

“Stavi scrivendo quello quando ti ho interrotto?”

 

Annuì, mostrandole le poche righe salvatesi alla cesura.

 

“Lo so che non è un granché come inizio e… prima di finire, in ogni caso, per scaramanzia, voglio aspettare a vedere come va il processo, ma-”

 

“Ma sei proprio appassionata! Non ti ho mai vista così appassionata per qualcosa. Sempre a parte me, ovviamente.”

 

Le venne da ridere, mentre le assestava un colpetto sulla spalla e le faceva la linguaccia, sfottendola con un, “ma come sei modesta!”

 

La verità però era… che era la verità.

 

Penelope aveva ragione, in pieno: la conosceva benissimo e sapeva quanto fosse raro per lei sentirsi così. Era dai tempi dei video di cucina che un hobby non la prendeva così tanto. A tal punto che, quando scriveva, il tempo volava senza rendersene conto.

 

Penelope la fissava in quel modo, quel modo che le leggeva dentro, peggio di sua madre, e cercò di sostenerne lo sguardo ma, alla fine, si trovò a cedere e ad abbassarlo per prima.

 

“Forse ci dovresti pensare, Vale… in fondo un contatto ce l’hai: Frazer è un giornalista conosciuto a livello nazionale e-”

 

“E non voglio raccomandazioni!” esclamò, in un modo che le ricordò, di nuovo, tremendamente, sua madre in una delle sue invettive contro nonna.

 

Dal sorrisetto di Penelope, non era stata l’unica a notarlo. Si sforzò quindi di abbassare il tono di voce e aggiunse, più calma, “non ho studiato per questo: non ne so niente di scrittura. E… e mi devo laureare e… e poi a mamma le prenderebbe un colpo: lei i giornalisti li odia.”

 

“Mi sembra che Frazer tua madre non lo odi: si è fatta intervistare da lui. E per lo studio… hai fatto solo una triennale, Vale, sei giovane, siamo giovani. Potresti fare una magistrale o un master. Conosco diverse persone a Milano che studiano giornalismo e hanno fatto così.”

 

“Sì, ma… ma un conto è scrivere due righe ogni tanto, qui tranquilla in una stanza. Un conto è fare interviste, inchieste, pezzi sul campo. Non so se ne sarei capace e-”

 

“Se hai preso da tua madre anche in questo... a parte che mica tutti i giornalisti devono fare inchieste da Pulitzer. E poi, se facessi un master o altro… ci sono gli stage e da lì puoi renderti conto se ti può interessare, no?”

 

Sospirò, perché la voce di Penelope era più tentatrice del canto delle sirene - anche più del solito.

 

“Vuoi proprio che finiamo sotto un ponte tutte e due? Io a scrivere e tu a disegnare?” ironizzò e sì, le toccava ammettere che pure in quello aveva preso da qualcuna.

 

Le avrebbe dovuto chiedere i danni morali, un giorno.

 

“Non è che a fare l’assistente sociale si diventa ricchi, Vale. E poi… e poi al peggio vorrà dire che faremo anche altro, in qualche modo ce la caveremo. Ma, come mi hai detto tu una volta, se hai un sogno ci devi almeno provare, per non avere rimpianti. E, se pensi a cosa ti renderebbe felice fare nella vita, davvero felice, sarebbe scrivere o l’assistente sociale?”

 

Una domanda retorica, talmente era chiara ad entrambe la risposta.

 

*********************************************************************************************************

 

“Grazie Maria!”

 

Il loro angelo salvatore in quei giorni - dovunque l’avesse trovata Irene, pregava ne avessero fatte altre uguali - richiuse la porta, lasciandoli da soli a letto con un vassoio in mezzo.

 

La parmigiana - non fritta, viste le sue condizioni - sembrava comunque ottima.


Vedendo che Calogiuri non reagiva, gli occhi fissi in grembo, ne mise una porzione su un piatto e glielo porse.

 

“No, non… non ho fame.”

 

“Calogiuri,” sospirò, tenendo il piatto alzato, “già non hai toccato il pranzo, non puoi digiunare. Te lo ricordi, sì, cosa hai promesso al medico e a me?”

 

Lo vide deglutire ed annuire, gli occhi che gli si riempirono di nuovo di lacrime.

 

“Lo so, ma… ma ho la nausea, non… non penso di farcela.”

 

Quelle quattro parole furono una pugnalata, perché, se una volta il non pensare di farcela era praticamente la costante della vita di Calogiuri, negli ultimi anni e soprattutto negli ultimi mesi era diventato non solo più sicuro delle sue possibilità ma anche più combattivo, assertivo.

 

Fin troppo, tipo quando si era messo in testa di metterla in una campana di vetro.

 

E invece mo…

 

“Ti faccio fare qualcosa di più semplice? Una pasta in bianco? O un poco di riso, magari? Anche solo due cracker? Qualcosa la devi mangiare, è un ordine!”

 

“Mi… mi dispiace… non… non devi pensare a me adesso, ma a te, a voi,” pronunciò lui, triste ma deciso, guardandola per un attimo negli occhi, “mangia che si fredda. A me… poi dopo vediamo.”

 

“E no, Calogiuri. Se non mangi tu non mangio neanche io. A te la scelta.”

 

Lo sapeva che era un ricatto emotivo non da poco, che erano le maniere forti, ma Calogiuri non poteva permettersi di perdere di nuovo peso e di ricadere in quel circolo vizioso.

 

“Im-ma…” singhiozzò, in un modo che le strinse il cuore in una morsa, come a pregarla di non fargli quello.

 

Fu uno sforzo quasi sovraumano tagliare con la forchetta un pezzetto di parmigiana e porgerglielo, vicino alle labbra.

 

Ma lui tirò indietro la testa, scuotendola.

 

“No, non così. Dammi il piatto e… qualcosa la mangio, promesso.”

 

Le scappò un sorriso: il guizzo di sdegno ed orgoglio era un buon segno, oltre a ricordarle il periodo quando stava ancora male ma un poco si era ripreso e si era stufato di essere trattato da bimbo.

 

Gli poggiò il piatto sulle ginocchia, ne prese uno anche lei e, in una specie di silenziosa sfida, ad ogni suo boccone ne corrispose uno di Calogiuri, almeno fino a che, con un conato, lui fece ricadere la forchetta sul piatto.

 

“Non…” si strozzò quasi, bevendo un sorso d’acqua col limone, che per lei e le sue nausee era un toccasana, e mo pure per lui.

 

“Va bene così,” lo rassicurò, stringendogli l’avambraccio e sentendosi decisamente in colpa quando lui la implorò, “però tu continui a mangiare, vero?”

 

“E certo. Non guardarmi, se ti dà la nausea, va bene?”

 

“Tu… tu non mi potrai mai dare la nausea, dottoressa. Invece io…”

 

Le lacrime, alla fine gli erano scese sul viso, anche se erano ancora poche, non aveva realmente pianto.

 

Incurante dei piatti, lo strinse in un mezzo abbraccio, asciugandogli le guance con la mano libera.

 

Il suo viso sulla spalla, in cui si stava rifugiando in un modo che le ricordava Ottavia che però mo, insieme al principino, stava con la santa, per lasciarli mangiare in pace.

 

Magari fosse!

 

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“Andate via! Con voi non ci voglio parlare! Me lo avete ammazzato! Maledetti!”

 

Il pianto disperato del bimbo - che le ricordava fin troppo quello di Francesco - non ebbe comunque l’impatto di quegli occhioni cerchiati da occhiaie così aliene su un viso di quell’età, ancora da bambina, come il corpo, nonostante la gravidanza.

 

Le mani che stringevano al petto il piccolino, quasi a fargli e farsi scudo, avrebbero dovuto al massimo stare sui banchi di scuola o a stringersi in discoteca con quelle di un altro ragazzo per la festa dei diciotto anni. Non a firmare le carte per il funerale del compagno, senza aver nemmeno mai fatto in tempo a votare.

 

“Scianel, hai tutte le ragioni per essere incazzata, ma non con noi: se ci fai spiegare-”

 

La felliniana poliziotta barese ci aveva provato, con quel suo tono dolce e tranquillo, quasi materno - sebbene non avesse figli, lo suonava decisamente più di lei - ma Scianel, che già scritto giusto era da denuncia, come lo aveva lei all’anagrafe non ne parliamo, aveva ripreso a urlare invettive contro tutti loro.

 

“Non l’hanno portato in ospedale.”

 

Era stato Ranieri a intervenire, col suo tono più solenne, la voce che rimbombò nel misero monolocale che Scianel divideva col defunto.

 

Sarà stata la voce autorevole e non autoritaria, sarà stato il maledetto e benedetto ascendente che Ranieri aveva sulle donne, sarà stato che agli adolescenti ci era abituato, ma Scianel si bloccò per un attimo e lo fissò, stupita e poi confusa.


“In che senso? Ma se era morto e-”

 

“Non è morto per la sparatoria. La ferita non era grave, si poteva salvare. Ma ha fatto infezione, non l’hanno curata in tempo e… ed è peggiorata fino a ucciderlo. Avrebbero dovuto portarlo in ospedale e…”

 

La poliziotta si era fermata, probabilmente perché parlare di amputazione d’arti… non era il discorso migliore da fare in quel momento.

 

“E cosa? E cosa??!!”

 

Gli occhi scurissimi di Scianel rotearono, pieni di sfida, prima sulla pin-up, poi su Ranieri e infine su di lei.

 

Era una bambina sì, ma era anche una donna, cresciuta troppo in fretta.

 

“L’infezione era ormai così estesa che… avrebbero dovuto amputare.”

 

Era stata lei a parlare, alla fine. Forse non era la cosa giusta da fare e neanche quella diplomatica ma, al posto di Scianel, avrebbe voluto saperla la verità.

 

Un suono strozzato e la ragazza scoppiò in lacrime, il bambino che piangeva sempre di più, i genitori di Scianel più sconvolti di lei, tanto che, alla fine, in qualche modo il povero bimbo si trovò in braccio alla cara collega di Bari e smise pure di piangere - uomini, fin da piccoli!

 

Scianel invece, dopo essersi un attimo ricomposta ed aver riempito di qualsiasi cosa il fazzoletto che Ranieri le aveva offerto, piantò quegli occhi nerissimi nei suoi e, con labbro tremante ma voce decisa, pronunciò, “con te ci parlo. Ma solo con te. Almeno te non racconti stronzate.”

 

Deglutì, perché tra tutti i presenti era quella meno titolata per poterle parlare.

 

“Va bene, ma per legge e per tua tutela ci vuole un testimone. Può rimanere anche… il capitano? Registrerà e basta-”

 

Il lampo nelle iridi e il modo in cui Scianel si ritrasse la portarono ad aggiungere, in fretta, “se te la sentirai di rilasciare dichiarazioni, ovviamente. Per ora possiamo evitare la registrazione e fare due chiacchiere tra noi. Però lui deve restare. Tanto se ne sta in silenzio in un angolo, ci è abituato.”

 

A Scianel sfuggì un mezzo sorriso, anche tra le lacrime - era tosta la ragazzina!

 

Maledisse mentalmente tutti quelli che avrebbero dovuto insegnarle la contraccezione, a lei e al suo fidanzato, e invece al massimo gli avevano insegnato come prendere una pistola e sparare.

 

Fece appena in tempo a dubitare se quel pensiero fosse più da Imma che da lei - e forse pure l’aver abbandonato i guanti di velluto per fare il mastino e basta - ma il cenno d’assenso di Scianel le diede cose più importanti a cui pensare.

 

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“Ga! Ga!”

 

Stava tornando dal bagno e da una meritatissima doccia, quando gli inconfondibili urletti la portarono ad accelerare il passo verso la stanza da letto, ancora in accappatoio e con le ciabatte di spugna leopardate.

 

Faceva talmente caldo che se ne sarebbe rimasta volentieri nuda, non fosse stato per la povera Maria, per il piccoletto e per il fatto che la sua pancia ormai cominciava a farsi un poco pesantiella, oltre che sempre più pronunciata.

 

Arrivò alla porta e si bloccò, incantata.

 

I suoi due uomini del cuore non si erano accorti di lei - per una volta, era stata involontariamente silenziosa - ed il cuore le scoppiò nel petto.

 

C’era Calogiuri che singhiozzava sommessamente, ripiegato su se stesso, la testa appoggiata sulle ginocchia. Quasi in posizione fetale.

 

Con lei probabilmente non riusciva a sfogarsi, per paura di stressare lei e la bambina e quindi… piangeva da solo.

 

Mannaggia a te, Calogiù, mannaggia!

 

I “GA! GA! GA!” sempre più forti invece venivano da Francesco, che però non sembrava intenzionato a piangere o a strillare, come aveva temuto.

 

Anzi, stava gattonando sempre più vicino a Calogiuri, tra i cuscini che gli facevano da barriera. Con la manina gli tirava la t-shirt bianca, continuando a ripetere “GA! GA! GA!” come a scuoterlo.

 

Forse voleva solo un po’ di attenzioni su di sé, come aveva imparato da Ottavia, ma, quando Calogiuri se ne rese conto, sollevò il viso bagnato e gli fece una carezza tremante sulla guancia. Francesco, tra un “GA!” e l’altro gli afferrò le dita e poi gli piantò un bacino sulla mano, come facevano sempre lei e Calogiuri per farsi forza a vicenda.

 

La vista più appannata dello specchio del bagno, sentì un altro singhiozzo, ma di Calogiuri stavolta. Fece appena in tempo a chiudere ed aprire gli occhi per schiarire la visuale e si trovò davanti a una scena ancora più straziante.

 

Calogiuri con Francesco stretto al petto, che si abbracciavano forte forte. Calogiuri lo riempiva di bacini mentre il bimbo, oltre a ricambiare, continuava a ripetere “GA!”, “GA!” e poi un più delicato “Gaooo! Gaooogu!”

 

Le venne da ridere e da piangere insieme quando si rese conto che significavano quelle sillabe.

 

Mannaggia a loro!

 

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“Sai chi è stato a coinvolgerlo nel giro, a parte lo zio?

 

“Io non so niente. Neanche dello zio.”

 

Il panico nella voce di Scianel era evidentissimo.

 

“Scianel… lo so che probabilmente c’era dentro da poco ma… tu sei una ragazza intelligente, sveglia, non ti sfugge niente. Sicuramente qualcosa l’avrai colta… magari anche qualche visita insolita, qualche amicizia nuova. Magari è venuto pure qualcuno qua, dopo che lo zio è stato preso, no? O dopo… dopo che l’hanno ritrovato, per darti la loro versione dei fatti e-”

 

“Non so niente. Io penso a mio figlio e basta.”

 

Sì, era proprio tosta la ragazza, anzi la donna davanti a lei. Nonostante la chiacchierata, dopo essersi un po’ ricomposta dallo shock, non si smuoveva di un millimetro.

 

“Ma proprio perché ci pensi, davvero vuoi coprire chi ha lasciato suo padre a morire, ad agonizzare per ore, forse per giorni, che neanche un cane si tratta così e-”

 

Un singhiozzo, una lacrima spazzata via di fretta, con la mano libera dal bimbo che si lamentava.

 

Scianel lo guardò e poi rialzò il viso, decisa.

 

“Io devo pensare a mio figlio. E basta.”

 

“Lo so. Ma non devi essere sola a farlo. Ci penseremo noi a te e a lui, alla tua famiglia. Possiamo proteggerti,” ribadì, incrociando per un secondo lo sguardo di Ranieri, chiedendosi se entrambi stessero pensando alla madre di Bianca.

 

Ma ce l’avrebbero fatta stavolta.

 

“Sì… a nascondermi, peggio che in prigione, che poi se mi trovano… lo so come finisce.”

 

“E come finisce invece così? Pensi che ti proteggeranno loro, come hanno protetto il tuo compagno? Al minimo sgarro, anche solo percepito, sai che fanno quelli? Davvero vuoi crescerlo così tuo figlio? Altro che la prigione. Invece potresti finire di studiare, avere un aiuto per il bambino. Poi, quando avrai finito con gli studi, ti possiamo trovare un lavoro vero, una vita vera, lontano da qui.”

 

Un altro singhiozzo e poi lacrime, lacrime di quella bimba che non era più.

 

E un cenno del capo, su e giù, che, insieme alle parole pronunciate dopo, a fatica, furono la quadratura del cerchio.

 

Lo sguardo di Ranieri, ammirato ed orgoglioso: ce l’aveva fatta.

 

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“Calogiuri…”

 

Era tornata per un attimo in bagno, per dargli il tempo di godersi il momento con Francesco e di ricomporsi, poi era passata dalla cucina, aveva preso un pacchetto di biscotti tipici torinesi assai buoni e la caraffa di tè deteinato freddo con limone, preparato dalla Mary Poppins militaresca, ed era tornata in stanza.

 

“Im-ma… IMMA?”

 

Il suo tono da basso e triste, si era trasformato in un mezzo urlo di protesta quando aveva alzato il capo e l’aveva vista.


“Non devi portare pesi, lo sai!”

 

Le scappò un sorriso, anche se normalmente ce l’avrebbe mandato: l’apprensione per lei e la bambina poteva anche più della tristezza e per un attimo rivide il vero Calogiuri.

 

“Calogiù, mi definisci pesi due biscotti e una brocca in plastica? E dai su!” rispose quindi, con tono il più normale possibile, non perdendo un colpo.

 

“Quella brocca è almeno un chilo e mezzo. Non la devi portare!”

 

Deciso, netto, si alzò e la prese con la mano buona, appoggiandola sul comodino.

 

Almeno i biscotti li potè portare da sola fino al letto. Li aprì e ne mangiò uno, porgendone un altro a Calogiuri, col solito sguardo di sfida.

 

Lui sospirò e se lo portò alle labbra, tenendolo in equilibrio mentre riempiva il suo bicchiere e quello di Imma.

 

“Si può dire di tutto su Torino, ma i dolci li sanno fare bene,” proclamò, con apparente nonchalance, per testare le acque.

 

Calogiuri si limitò ad annuire, rosicchiando piano il biscotto: sembrava uno scoiattolo triste, di quelli dei cartoni animati.

 

“Im-ma! Im-ma!”

 

Il piccoletto, ingordo quasi come Noemi, stava puntando ai biscotti.

 

Sapeva che una sfilza di educatrici, pediatre e mammine perfette glielo avrebbero rimproverato, che lo zucchero per alcune era peggio della cocaina, ma gliene porse uno, permettendogli di ciucciarlo avidamente.

 

Alla fine Valentina era venuta su sana comunque e non era dipendente neanche dalle mentine.

 

Si concentrò di nuovo su Calogiuri, che continuava a rosicchiare quel biscotto, che probabilmente avrebbe fatto prima Francesco a finire il suo, se continuava così.

 

“Calogiuri…”

 

Niente.


“Calogiuri, guardami, è un ordine. O devo mettermi a sollevare altri tremendi pesi, che ne so, tipo il cuscino per dartelo in testa?”

 

“Imma…”

 

Gli era scappato un sorriso, anche se solo per pochi secondi, e la fissava con quello sguardo esasperato e dolce. Ma c’era ancora tanta tristezza, troppa.

 

“Calogiuri… non puoi ridurti così. Fa parte del mestiere, lo sai anche tu. E… lo so che ti senti in colpa ma… ma non è colpa tua. Sono stati loro a lasciarlo morire e-”

 

“Lo so! LO SO!” sbottò lui, così forte che uno schizzo di tè gli sporco la maglietta bianca e Francesco smise di fare i suoi versetti bavosi.

 

“Scusami…”

 

Poco più di un sussurro, mentre appoggiava il bicchiere sul comodino.

 

“Scusami, non dovrei farti agitare e-”

 

“E l’unica cosa che mi fa agitare, Calogiuri, non è se urli, ma se non dici niente.”

 

Calogiuri annuì con un singhiozzo.

 

“Lo so cosa provi… ti ricordi quando… quando quel ragazzo si era tolto la vita a Matera, dopo l’interrogatorio? Sei stato proprio tu a farmi forza, ad aiutarmi ad andare avanti, a farmi capire che non era colpa mia se si era ucciso e-”

 

“E non lo era, ma… ma non è solo quello il problema.”


“In che senso?”

 

“Non… non mi sento in colpa solo perché è morto, ma perché… perché so che lo rifarei. Per salvare te e i piccoletti, lo rifarei, anche se avessi saputo che… come sarebbe andata a finire.”

 

“Calo-giuri.”

 

La voce le si spezzò, la gola e gli occhi che bruciavano. La mano andò in automatico sulla spalla incurvata di lui, la strinse per un attimo ma lui si scostò.

 

“La verità è che… se fosse servito per salvarti, per salvarvi, avrei anche potuto ucciderlo… avrei potuto ucciderli tutti.”

 

“Calogiù…”

 

Gli prese il mento e lo costrinse quasi ad alzare la testa e oltre alle lacrime c’era una consapevolezza in quegli occhi che andava oltre non solo gli anni di Calogiuri, ma gli anni di entrambi.

 

Colpa o merito di quel maledetto e benedetto lavoro che si erano scelti.

 

“Lo so che… che una vita in teoria non vale più di un’altra ma… per me le vostre vita valgono più di tutte e… mi sento in colpa perché non me ne pento e… una volta non sarebbe stato così.”

 

Gli portò anche l’altra mano al viso, accarezzandogli le guance, senza perdere il contatto visivo.

 

“Quando… quando abbiamo trovato Francesco e tu sei entrato in azione da solo e… mi sono trovata con quel mitra in mano… se fosse stato necessario lo avrei usato, Calogiuri. Avrei premuto il grilletto e non solo per sparare in aria. E forse questo mi rende un’egoista o… più simile a… al mio padre biologico di quello che avrei voluto ma… ma non mi sento in colpa per questo, neanche io.”


“Ma quelli erano dei boss, degli assassini, questo… questo era un ragazzino e-”

 

“E che cambia? Cioè, per carità, indubbiamente se metti tutto su una bilancia, sarebbe stato meglio fosse morto uno come loro, come i Romaniello e i boss dei Mazzocca. Ma pure i boss hanno famiglie, figli pure piccoli, mogli, gente che magari, nonostante tutto, li ama e che magari, nonostante tutto, loro amano, a modo loro.”

 

“Chiara…”

 

Calogiuri aveva avuto il suo stesso pensiero, come sempre.

 

“Sì, ma non solo. La verità è che… quando prendi in mano una pistola e decidi di usarla contro qualcuno, questo rischio te lo prendi. Quando decidi di fare quel mestiere, se così lo vogliamo chiamare, o anche il nostro mestiere, sai che potrebbe succedere prima o poi. Ma tu lo hai fatto per difesa ed è questo che cambia tutto. Lo dice pure la legge, che vuoi contraddirmi la legge?”

 

Si trovò stritolata tra le braccia di Calogiuri, e piangevano e ridevano, ridevano e piangevano, insieme, perché entrambi sentivano esattamente la stessa cosa, lo stesso dolore, lo stesso rimpianto, la stessa determinazione.

 

E, in fondo a tutto, lo stesso sollievo.

 

Perché anche il peso più grande diventa più sopportabile se sai che c’è qualcuno che ti capisce, fino in fondo.

 

“Ti amo…”

 

Due parole roche all’orecchio, gli occhi di Calogiuri, che si era scostato leggermente, che tornavano a fuoco, nei suoi.

 

“Ti amo… sai… sai sempre come dire la parola giusta al momento giusto. Non lo so come fai, dottoressa.”

 

Un’altra botta di commozione ed autoconsapevolezza.

 

“In realtà… in realtà, almeno sui sentimenti, credo di aver imparato da qualcuno che su questo è sempre stato molto più capace di me.”

 

Calogiuri fece l’espressione da ma chi io? - quanto le era mancata anche quella! - e, prima di potergli ribadire l’ovvio, fu travolta da un bacio in cui c’era tutto quello che, pur essendo migliorata negli anni, grazie a lui, non avrebbe mai saputo esprimere a parole.

 

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“Lo capisco che ha paura, che è nel clan da tanto, che c’è la questione dell’onore, ma che onore c’è in questo?”

 

Stava assistendo all’interrogatorio in carcere dello zio del ragazzo defunto. La cara poliziotta - che, le toccava ammetterlo, era più che abile nel suo lavoro - gli aveva appena sbattuto sotto al naso la foto del cadavere del nipote, più quelle dell’infezione.

 

Una roba da rivoltare lo stomaco quasi persino a lei, che con quelle foto in giro per casa ci era cresciuta, figuriamoci a un parente.

 

Lo zio infatti,  nonostante l’esperienza sul campo, se così la si poteva definire, ebbe un conato e gli occhi gli si fecero lucidi, poi rabbiosi, poi sconfitti.

 

“Mi spiace… non… non doveva andare così. Ma io… non posso parlare, onore o non onore. Se parlo sono morto e tutta la mia famiglia appresso a me.”

 

“Senti, Nicò, parliamoci chiaramente: ti sei già fatto dieci anni per non parlare. Esci e alla prima operazione vera tua e di tuo nipote, non solo ti lasciano indietro, a fartene come minimo altri dieci, ma di tuo nipote se ne sono fregati. Fosse stato uno della cerchia stretta, pensi che non glielo avrebbero trovato un medico, o pure una clinica? Pensi che siete al sicuro così? E suo figlio come cresce? E la tua famiglia come campa per i prossimi dieci anni? Con quel poco di elemosina che vi concedono quelli?”

 

Stavolta c’era andata giù dritta anche lei - del resto non si trattava di una ragazzina con un bimbo, ma di un vecchio con zero prospettive.

 

Il vecchio sospirò, un attimo di incertezza e fu in quel momento che le fu chiaro che aveva abboccato.

 

“Se parlo voglio andare in un bel posto e la protezione non solo per me, ma anche per mia moglie e per mio figlio, che tiene bisogno di finire di studiare, di un lavoro. Anche per mia nipote, la ragazzina - come cavolo si chiama che tiene un nome strano? - e per il bambino. Non sono riuscito ad aiutare mio nipote, ma almeno a lui non ce lo voglio sulla coscienza.”

 

“Tranquillo, penseremo a tutto noi. Ma ci devi dire chi c’era nel commando, a parte quelli che abbiamo preso. E da chi arrivavano gli ordini, soprattutto. Tu eri uno dei più esperti lì in mezzo, di sicuro lo sai.”

 

Che la ragazzina dal nome strano ed il bambino fossero già più che protetti, ovviamente non gli era dato saperlo.

 

E Nicola di Bari cantò, eccome se cantò, fino all’ultima strofa. La poliziotta guardò verso Ranieri che le regalò un sorriso ed uno sguardo di approvazione che le diedero un po’ fastidio, anche se non erano paragonabili a quelli che erano solo suoi. Per fortuna.

 

Il fastidio le passò del tutto quando notò che l’altro poliziotto che li aveva accompagnati, un ometto di mezz’età dall’aria da ragioniere, l’assistente della pin-up, la guardava che in confronto Conti con lei era niente. Persino quasi Calogiuri con Imma. Anche se, come per lei con Conti, era palese quanto il sentimento fosse a senso unico.

 

Provò un moto di imbarazzo e di solidarietà femminile: non era facile gestire situazioni del genere, per niente.

 

Certo, se avesse guardato un po’ meno Ranieri e un po’ più l’assistente, non le sarebbe poi dispiaciuto, anzi.

 

Ma, come avrebbe detto Imma, mica scema!

 

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“E quindi sono tornato a Firenze, deciso a mollarla e… e l’ho trovata con un mio amico. O ex amico. Anzi, forse alla fine mi ha fatto un favore.”

 

Stava andando in cucina per prendere un altro po’ di tè, una mano santa per i residui di nausea, e aveva beccato Calogiuri - che piano piano stava sempre più risorgendo dalle ceneri, per l’ennesima volta - a ritirare la spesa insieme al suo giovane protetto.

 

“E che hai fatto poi?”

 

“Niente. Le ho detto che ero lì per lasciarla, perché l’Arma almeno è fedele nei secoli. Lei no.”

 

Non riuscì a trattenersi dal ridere, insieme a Calogiuri, e così entrambi si voltarono e la videro: beccata!

 

“Scusate, volevo solo prendere un po’ di tè. Me ne vado, proseguite pure con le confidenze tra uomini e-”

 

“Il tè lo porto io però, è un ordine, dottoressa!” intimò Calogiuri, sempre più protettivo, pure nello sfottimento.

 

Una volta non si sarebbe mai permesso di farlo davanti a qualcuno, anche a un sottoposto, ma ormai si era abituato che, non essendo più lei il suo capo, come lo faceva lei, poteva farlo pure lui.

 

E menomale, se no che gusto c’era?

 

“Sìgnorsì! Comunque hai fatto bene: vedrai che qua a Torino trovi la fila. Non seguire proprio del tutto l’esempio del capitano però: anche se non ha passato gli anta va bene uguale.”

 

Si godette il rossore del ragazzotto ed il solito “Imma!” imbarazzatissimo di Calogiuri, prima di sparire in corridoio.

 

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“Siete pronti? Al mio tre: uno, due, tre!”

 

Un boato a lei familiare, anche se distorto da microfoni e altoparlanti.

 

Erano entrati.

 

Non sapeva se guardare con più apprensione la telecamera che mostrava i movimenti di Ranieri e di una brunetta che si era offerta di fare squadra con lui con fin troppo entusiasmo - anche se oggettivamente, tra le alternative, in azione era la migliore - o quella con la pin-up ed un agente il cui forte accento sardo rendeva un poco inutile il passamontagna, visto che non stavano a New York ed in procura erano in quattro gatti. Infine, la squadra con l’amico di Calogiuri, che tutto sommato era meno peggio del previsto in azione, ed un’agente molto sveglia - emiliana o romagnola, si confondeva sempre - ma più abile nelle indagini che con la pistola.

 

“Forza, forza!”

 

Per un attimo guardò Vitali, stupita da tanto vigore, lui che era sempre così mite e posapiano, non solo dalle descrizioni di Calogiuri e di Imma.

 

Però, le toccava ammettere che sull’opportunità di quell’azione, vitale prima del maxiprocesso, era stato decisissimo. Anche in quel momento, aveva una luce negli occhi ed una concentrazione che quasi lo trasformavano.

 

“Libero!”


“Libero!”

 

“Libero!”

 

Mentre le tre squadre bonificavano gli ambienti, all’apprensione di cosa poteva accadere, andava pian piano sostituendosi quella che non sarebbe accaduto nulla. Dopo la testimonianza di Nicola di Bari, erano andati dai capiclan baresi, con un semplice patto: ci confermate chi è il mandante originario e non vi riterremo i responsabili diretti dell’agguato. Nicola si sarebbe preso la responsabilità unica della soffiata, oltre alla protezione, per evitare guerre tra i clan, che ci mancavano solo quelle.

 

Non avevano abbastanza prove per incastrarli tutti, ma abbastanza per dar loro fastidio, lo sapevano, e quindi i capiclan, come sempre molto onorevoli solo a parole, avevano accettato di fare quel nome.

 

Solo che il rischio che lo avessero avvertito c’era, anche attivandosi subito, o che gli informatori materani non avessero detto la verità su dove trovarlo.

 

Anche se quell’alloggio nascosto in mezzo alla città vecchia, tra pozzi, tunnel, viuzze e grotte, era un bunker naturale perfetto.

 

Secondo le carte, e le soffiate, avevano coperto tutte le vie di fuga, ma… ma c’era sempre la possibilità che ce ne fosse un’altra a loro sconosciuta. C’erano agenti baresi appostati tutto intorno - troppo rischioso che fossero materani - ma… ad ogni porta aperta e richiusa, l’adrenalina lasciava spazio alla delusione.

 

Ranieri stava per uscire da un’altra porta, quando lo vide bloccarsi e le venne un colpo.

 

Ma non c’erano spari, no: stava indicando alla brunetta un punto nel pavimento su cui era passato poco prima.

 

Li vide picchiarci sopra e capì che sotto era vuoto. 

 

Avrebbe dato qualsiasi cifra per essere lì con lui, in azione insieme, ma non si poteva. E non solo per il bene di Bianca.

 

Una parte del pavimento si sollevò, rivelando una botola stretta tra il pavimento e il muro, nascosta sotto alle piastrelle.

 

Il rumore dei proiettili fu assordante, le orecchie le rimbombarono quasi quanto il cuore.

 

Vide Ranieri cadere indietro ed avrebbe voluto urlare ma la brunetta, non appena i colpi cessarono, ne sparò a sua volta un paio nella botola ed urlò, “arrenditi, sei circondato!”

 

E, mentre Vitali gridava alle altre squadre di correre lì, ci fu il miracolo. Ranieri tornò seduto, a pistola spianata e non le parve ferito: doveva essere riuscito a schivare tutto, buttandosi a terra.

 

“Butta la pistola ed esci! Sei sotto tiro di più di due persone,” bluffò Ranieri, anche se in effetti vedeva gli altri correre verso quella stanza, “getta la pistola! Non costringerci a spararti. Hai una vita davanti, non la buttare via così.”

 

Erano sopraggiunti anche gli altri ed avevano circondato la botola, che doveva essere senza altra uscita, o Ranieri non avrebbe dato quell’ordine.

 

“Butta la pistola ed esci, non costringerci a sparare, non possiamo entrare finché non la butti, lo sai.”

 

Sentiva urla di risposta ma il rimbombo era troppo forte e non capiva cosa dicessero, artigliò la console con le mani gelate, perché Ranieri era comunque il primo sotto tiro e lo sapeva.

 

“Daniel, ascolta. Vuoi davvero morire così, da solo, come un topo in trappola? Tua nonna è agli arresti. Tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli, stanno tutti in galera. Sei rimasto solo tu. Tra pochi giorni saranno processati e condannati. E chi ti sta aiutando o proteggendo? Nessuno. Il clan è finito, almeno la vostra parte del clan. Arrenditi, prima che invece che noi, ti fa fuori un altro clan o qualche altro amico o parente alla lontana. Lo sai che succede quando c’è un ricambio al potere, no? Cos’è successo ai cugini di tua nonna, ad esempio, ai tempi suoi, o ai suoi fratelli putativi, come li chiama lei.”

 

Se l’era proprio studiata bene la storia del clan Mazzocca. Bravo Lorenzo!

 

C’era un che nella sua voce, che gli riportava alla mente il tono che aveva avuto nel parlare con Scianel o quando lo sentiva telefonare ai suoi figli.

 

“Esci. Questa non è la tua guerra, non deve essere la tua guerra. Esci, sei ancora in tempo.”

 

Un altro urlo, un rumore metallico fortissimo, che le prese un altro accidenti, e Ranieri quasi si tuffò nella botola, sparendo alla vista. La pin-up barese subito dietro, senza esitazioni.

 

Finalmente, le loro teste riemersero, prima quella di lei, poi quella di lui, in fila indiana. In mezzo a loro… un ragazzino.

 

Daniel Mazzocca, l’ultimo nipote della matrona dei Mazzocca ancora in libertà. Minorenne quando era iniziato il maxiprocesso e per quello incensurato. Aveva poco più di diciott’anni anche lui, la stessa età di Scianel.

 

Era stato lui il mandante, anche se sicuramente dietro di lui c’erano i parenti in galera, o quelli del clan di Roma, che navigava in acque migliori. O la stessa nonna che, tra un pizzino e l’altro, si dava da fare pure ai domiciliari, anche se non ne avevano le prove.

 

Quante vite finite ancora prima di iniziare. Quanto spreco.

 

Sarebbe mai finita un giorno? O, tra qualche decina di anni, un altro ragazzino, con un altro cognome, o magari pure con lo stesso, anche se parente alla lontana, si sarebbe trovato nella stessa situazione?

 

Di sicuro, Imma aveva tracciato una strada diversa, nella giusta direzione, insieme a Calogiuri, e la stavano pagando carissima.

 

Come l’avevano pagata carissima la madre di Bianca, Bianca stessa e, in parte, lei.

 

E non potevano fare altro che continuare a combattere sperando che un giorno si sperava non troppo lontano, da lì a qualche generazione, l’avversario non sarebbe più stato un gigante dai mille tentacoli ma un polipetto da estirpare, quando si ripresentava.

 

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Un urlo che ancora un po’ tremavano le pareti dell’appartamento.

 

Imma!

 

E poi qualcosa che sbatteva, fortissimo, a terra.

 

Si precipitò verso il bagno, il sangue che gli si gelava in corpo, notando a malapena l’appuntato toscano che lo seguiva, pistola in pugno.

 

Gli fece giusto un cenno distratto di metterla via, prima che si facesse male qualcuno. Il bagno non aveva neanche le finestre e, purtroppo, lo scenario che gli si prospettava davanti era qualcosa che non poteva essere risolto con nessun’arma.

 

Quante volte le aveva detto di fare attenzione, che rischiava di sentirsi male e cadere, ma niente!

 

Imma era di coccio proprio e si era fatta comprare una tinta perché “c’ho una ricrescita che sembro un panda rosso! Mica mi posso presentare così al processo!” ed era da mo che era sparita in bagno.

 

Maledicendo quella testardaggine, che solitamente tanto amava, e la sua incapacità di rassicurarla su quanto fosse stupenda anche così, col cuore ormai a mille e le mani gelide, aprì la porta e-

 

Un altro urlo, un “che ci fa lui qui?” ed un asciugamano che gli si schiantò in faccia, seguito da un, “chiudi! Chiudi!”

 

Un altro urlo spaventato, stavolta alle sue spalle e, neanche il tempo di levarsi l’asciugamano di dosso - che puzzava pure in modo terribile - e si rese conto che l’altro agente era sparito. Imma, in compenso, era in piedi davanti a lui, in canotta, mutande, un asciugamano sulle spalle ed uno sguardo da omicidio più che volontario.

 

“Pensavo… pensavo fossi caduta… ti ho sentito urlare e-”

 

Non finì nemmeno la frase, non solo perché Imma lo fulminò con un’occhiataccia, ma perché per terra notò un pentolino in metallo, pieno di una specie di poltiglia che si stava allargando sul pavimento.

 

“Ti è caduto? Lo raccolgo io e magari la tinta si può ancora salvare e-”

 

“E no! Magari fosse! Ma che sei, cieco?”

 

“In… in che senso?” balbettò, confuso, e ad Imma uscì un ruggito che rimbombò per tutto il bagno, mentre urlava, indicandosi i capelli, “guardami!”

 

Sentendo che, qualsiasi cosa avesse detto o fatto, sarebbe stata quella sbagliata, la osservò meglio e notò che i capelli erano quasi asciutti - il phon col diffusore stava ancora soffiando accanto al lavandino - e non c’era più la famosa ricrescita castano/grigia che, a dire il vero, un poco gli mancava: era un segno tangibile di quei mesi di gravidanza, un simbolo quasi e poi… e poi Imma era sempre bellissima.

 

“Ah, allora la tinta già l’hai fatta!” enunciò, sforzandosi di accantonare lo spavento ed esserle di supporto con un, “bene! Allora ti aiuto a pulire e-”

 

“Bene! Bene?! Ma che sei daltonico, Calogiù? O mi prendi per il culo?”

 

Una doccia gelata. Che aveva fatto mo?

 

“Questo ti sembra bene?!” gridò Imma, sollevando alcune ciocche di capelli e, mo che le guardava meglio, effettivamente qualcosa di strano, di diverso ci stava.

 

Erano rossi sì, anche se di un rosso diverso, come tutta la testa del resto, ma… ma c’erano anche altri colori, come… del verde e del… rosa?

 

“Sì, è rosa, Calogiù! ROSA!”

 

Imma, a parte avergli letto nel pensiero, non solo continuava a urlare, ma sembrava sull’orlo del pianto.

 

“Imma, non-”

 

“Non dirmi che sono bellissima lo stesso, che te lo tiro dietro sto maledetto henné! Anzi vedi di lavartelo via dalla faccia, prima che ti colori pure a te!”

 

Solo in quel momento si voltò verso lo specchio e notò di avere un po’ di poltiglia sulla faccia, probabilmente trasferita dall’asciugamano: ecco che cosa puzzava così tanto.

 

“Se non devo dirtelo non te lo dico, ma non si nota nemmeno, stai benissimo e-”

 

“E io mi devo presentare ad un’udienza, davanti agli occhi di tutti quegli stronzi e di tutto il mondo, con i capelli rosa e verdi e-”

 

“E vorrà dire che saranno abbinati ai tuoi vestiti,” gli uscì, di getto, ed Imma lo guardò come se fosse indecisa tra l’impulso di strozzarlo e quello di abbracciarlo.

 

Alla fine, per fortuna, la stretta fu dietro al collo e non intorno, il pancione che premeva leggermente nel suo e due baci sul collo.

 

“Mannaggia a te, mannaggia!”

 

“Ti amo anch’io, dottoressa!”

 

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“Dottoressa, una dichiarazione per la stampa?”

 

Sollevò lo sguardo verso il giovane giornalista dal sorriso smagliante e gli occhi gentili, ma non abbastanza per giustificare l’agguato fin dentro in procura, a differenza dei colleghi rimasti fuori a cuocersi sotto il sole di Matera a fine estate.

 

Stava per intimargli di uscire, quando un’ombra da dietro le spalle la superò e vide la pin-up avvicinarsi al giovane con un “che ci fai qui?!” divertito ma anche un po’... imbarazzato? Proprio lei, che al massimo metteva gli altri in imbarazzo, specialmente gli uomini.

 

“Stai bene?” fu l’unica cosa che riuscì a cogliere del mezzo sussurro del ragazzo che, a guardarlo meglio, era proprio bello.

E infatti, nel giro di un secondo, la poliziotta se lo abbracciò.

 

Mica scema! - ribadì la voce di Imma nella sua testa.

 

“Il suo fidanzato,” sottolineò la voce di Lorenzo, all’orecchio, fin troppo sornione.

 

“Io mi preoccuperei più della sua fidanzata, capitano, e che resti tale. Anche perché ti ricordo che Bianca ha passato molto ma molto tempo non solo con Calogiuri, ma anche con Imma, quindi… uomo avvisato…”

 

Tra Lorenzo che si stava strozzando e la coppia che si sfotteva mentre tubava di fronte ai suoi occhi, non avrebbe saputo dire cosa le desse più soddisfazione.

 

Missione compiuta!

 

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“Dai che abbiamo solo due giorni! Se ti chiedo del conflitto di interesse, tu che rispondi?”

 

“La dottoressa Tataranni e il capitano Calogiuri si sono allontanati spontaneamente dalle indagini, anche dopo che è stata, come abbiamo già visto, provata la loro estraneità a qualsiasi illecito o tentativo di corruzione e-”

 

“E prima che si allontanassero? Quando hanno collaborato alle indagini, in pieno conflitto di interessi, viste le parentele della dottoressa Tataranni e l’amicizia del capitano con una delle testimoni chiave, del cui figlio tuttora si occupano?”

 

Irene, dall’altro capo dello schermo, deglutì e sembrò per un attimo in difficoltà. Le faceva un poco strano autoaccusarsi così, ma era anche divertente tartassare la ex gattamorta in quel modo.

 

E poi, per l’appunto, mancavano solo due giorni e non potevano permettersi di sbagliare niente.

 

“Allora…”

 

“Allora, io, fossi in te, piuttosto che rischiare di andarmi ad incartare in questi discorsi, citerei Santoro e lo chiamerei a testimoniare. Quella è la vera corruzione ed il vero conflitto di interessi, di cui abbiamo le prove.”

 

Irene sorrise ed annuì, prendendo appunti sul suo tablet. Decisamente più tecnologica di Calogiuri.

 

In tal proposito, sentì la porta aprirsi e lo vide con un vassoio, bilanciato un po’ a fatica sulla mano sinistra.

 

Gli sorrise ed Irene colse la palla al balzo per chiederle, “che dici? Finiamo qui per stasera? Avremo ancora domani sera, se te la senti dopo il lungo viaggio. E comunque abbiamo coperto credo quasi tutte le obiezioni possibili.”

 

“Quel credo è il problema. Ma va bene, si è fatto tardi e domani per l’appunto ci tocca fare settecento chilometri.”

 

Irene le parve sollevata, l’aveva proprio torchiata per bene - che soddisfazione!

 

Solo che, nel tempo che le ci volle a chiudere la chiamata - la stanza in perfetto silenzio, a parte il respiro di Calogiuri - lo stomaco le si contrasse in una morsa d’ansia.

 

Per il viaggio ed i rischi che comportava, sia per la piccoletta che per il tornare a Roma, per la possibilità di agguati, per l’udienza, per tutto.

 

“Imma…”

 

Si voltò verso Calogiuri, che si era seduto accanto a lei e che aveva capito tutto, come sempre. Il suo sguardo e la mano sulla spalla le diedero un po’ di forza. Ricambiò il gesto, sperando di fare lo stesso per lui.

 

“Un po’ di camomilla?”

 

Quelle quattro parole ed il sorriso mentre le offriva la tazza azzerarono l’ansia, ma la sostituirono con un carico di commozione che altro che morsa!

 

“Calogiù…” riuscì solo a sussurrare, prendendo la ceramica calda e stringendocisi forte.

 

“Se… se penso alla prima volta che… che te ne ho potuta offrire una… quella notte non me la scorderò mai.”

 

Gli sorrise e poi se ne bevve un sorsone, per ridurre il nodo in gola, ma inutilmente.

 

Stavano pensando entrambi alla stessa cosa: l’udienza per il processo a Romaniello, in primo grado, la loro prima notte insieme, anche se senza fare l’amore. A ripassare come i disperati che erano. Lui che, di fronte alla sua ansia, le aveva offerto quella camomilla, la prima di tante, ed era riuscito a tranquillizzarla, come sapeva fare solo lui. Per non parlare poi del miracolo che aveva fatto il giorno dopo, portandole la prova che le serviva.

 

“Doveva essere l’udienza finale e invece… è stato solo l’inizio. E mo, dopo tutti questi anni, grazie ai tempi della giustizia italiana, speriamo lo sia veramente, che ancora un po’ vado in pensione,” le riuscì infine di ironizzare, tra una sorsata e l’altra.

 

“Ma è stato l’inizio anche per noi due…. E… e questo per noi è solo un altro inizio, no?”

 

Eccallà! Altro che ironia! Le si era piantato un altro macigno in gola, nuovo nuovo.

 

D’istinto, mollò la tazza sul comodino, gli prese il viso tra le mani e se lo baciò come si meritava, ignorando il calore della camomilla che doveva essersi sparsa ovunque e il rumore della della tazza di lui che sbatteva da qualche parte.

 

Continuò a baciarlo, ancora e ancora, senza dargli e darsi il tempo di riprendere fiato, fino a trovarsi a cavalcioni su di lui, che l’accarezzava e la stringeva e le baciava il collo, mentre lei gli levava l’ennesima t-shirt macchiata e-

 

“Aspetta!”

 

La voce di Calogiuri era poco più di un rantolo, ma quella parola l’aveva capita benissimo lo stesso ed alzò gli occhi al soffitto, soffiando di frustrazione.

 

Gli riprese il viso tra le mani, rifiutandosi di schiodarsi da lì e trovò quegli occhi quasi neri, tanto erano dilatate le pupille.

 

“Non possiamo e…”

 

“E per una volta che Francesco se lo tiene Maria…. Le analisi sono tutte a posto, il pericolo è rientrato e… non vuoi aiutarmi a rilassarmi, Calogiù? A levare la tensione? A dormire bene bene bene?”

 

Il pomo d’adamo di Calogiuri si sollevò e si riabbassò, una, due, tre volte.

 

“Sei… sei…” esclamò lui, scuotendo il capo, ma con quel sorrisetto che prometteva più che bene e che le era mancato tantissimo

 

Non solo per quello che significava per lei, ma perché voleva dire che Calogiuri stava bene, davvero.

 

“Lo sai che mi piace quando sei di poche parole, Calogiù, ma in questo ambito specifico, solo se alle parole seguono i fatti, tanti fatti, altrimenti… altro che promozione, dovremo rivedere i termini di ingaggio e l’idoneità al servi-”

 

Il -zio si soffocò nella bocca di Calogiuri che, con la mano buona, anzi, buonissima, le sollevava sempre di più la camicia da notte, che le levò la vista per un attimo, prima di trovarsi distesa su un fianco, un “te lo faccio vedere io il servizio!” grugnito sullo sterno che la ricoprì di pelle d’oca, nonostante il caldo asfissiante.

 

“Che si dice così mo?” le riuscì ancora di provocarlo, prima che l’impunito, con un altro dei suoi sorrisetti, sparì dalla sua vista e si trovò con la schiena addosso a muscoli che le erano mancati troppo e che stavano tornando sempre più forti, nonostante l’infortunio.

 

Un braccio la avvolse, intrappolandola, un morsetto tra le scapole e le toccò azzannare pure lei il cuscino, per non svegliare chi doveva assolutamente dormire, almeno fino alla fine del servizio completo e con tutti gli optional immaginabili e possibili, altrimenti non avrebbe risposto di sé.

 

E che cavolo!

 

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“Valentina!”

 

I due della scorta subito le si pararono davanti e le toccò separarli con un “tranquilli, lo conosco!”

 

Frazer.

 

“Mi… mi dispiace… me lo sarei dovuto immaginare della scorta.”

 

“Non si preoccupi. Ma è arrivato presto per il posto migliore?”

 

Frazer fece un mezzo colpo di tosse imbarazzato e si chiese se fosse stata troppo diretta. Ma era abituata così.

 

“Volevo evitare la folla e… in realtà… volevo chiederti se ti andava di sederti vicino a me durante l’udienza, così prendiamo nota insieme, anche per l’articolo.”

 

“Non so se sia una buona idea.”

 

“Ho letto le tue correzioni e controllerò tutto quello che mi hai fatto notare. E il tuo articolo sta venendo proprio bene, soprattutto considerato che non sei una professionista.”

 

Sospirò: una parte di lei, quella cresciuta a pane e paranoia da sua madre, non poteva evitare di chiedersi se non fosse così gentile per un secondo fine lavorativo.

 

Ma, finito quel processo, si sperava che della figlia di Imma Tataranni al mondo giornalistico sarebbe importato ben poco, quindi lo avrebbe scoperto presto, in un modo o nell’altro.

 

“Va bene. Ma non stiamo davanti. Non voglio attirare troppo l’attenzione. E poi ci sono anche loro,” ribadì, indicando la scorta.

 

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“Ma porca miseria!”

 

“Aspetta!”

 

Irene si bloccò, tra un improperio e l’altro - sebbene tutto sommato pacati, come si confaceva alla regina della procura - e si lasciò sistemare la toga, che si era mezza arruffata dietro, tra il caldo e l’agitazione.

 

Si guardarono e ad Irene scappò un sorriso.

 

“Che c’è?”

 

“Chi lo avrebbe mai detto che un giorno proprio tu mi avresti aiutata a rendermi presentabile?”

 

Si morse il labbro per non ricambiare il sorriso. Il punzecchiarsi era parte imprescindibile del loro rapporto, ma già che tra lei e l’ex gattamorta esistesse un rapporto e non solo un perenne conflitto era, effettivamente, una delle cose più inattese non solo del periodo romano ma di tutta la sua vita.

 

“Imma…”

 

Il tono e lo sguardo di Irene erano improvvisamente seri, solenni quasi, e temette che fosse in arrivo un pippone di quelli che avrebbero fatto impallidire Vitali.

 

“Senza retorica, che oggi ne avremo già abbastanza, lo so che ho tra le mani anni e anni del lavoro tuo e di Calogiuri e… anche le vostre vite, o almeno, come saranno nei prossimi anni. E non è un carico leggero, poi ora, soprattutto…” pronunciò, abbassando lo sguardo verso la sua pancia, ben visibile nel vestito verde, indossato sotto la sua amatissima giacca rosa.

 

Aveva seguito il consiglio scherzoso di Calogiuri, fino in fondo, trasformando, per l’ennesima volta, un motivo di potenziale vergogna, in un simbolo di orgoglio.

 

“Intanto il carico pesantiello ce l’ho io qua. Tu stai serena, anzi no, che quella frase porta sfiga.”

 

Risero insieme, stemperando un poco l’atmosfera. Almeno fino a che Irene si mise una mano sul cuore e, in un modo che le ricordò assurdamente Bianca, proclamò un solennissimo:

 

“Non ti deluderò, te lo prometto, Imma.”

 

“Non lo hai mai fatto. Anche perché avevo aspettative talmente basse su di te, che sarebbe stato quasi impossibile.”

 

Irene scosse la testa, con un’altra risata, apprezzando palesemente il suo tentativo di sdrammatizzare, anche se, in fondo, era la pura e semplice verità.

 

Ma la verità era anche che Irene non solo non l’aveva delusa, ma aveva fatto un ottimo lavoro, prendendosi responsabilità che, con la sua situazione familiare, pochi altri si sarebbero sobbarcati, prestigio o non prestigio: c’erano tanti altri processi altrettanto famosi ma molto meno rischiosi.

 

E, come le aveva insegnato un certo ufficiale dell’Arma, riconoscere i meriti degli altri è importante, per loro e per se stessi.

 

Avrebbe dovuto cercare di ricordarsene ogni tanto, anche con la piccola calciatrice, senza replicare in toto il severissimo modello materno, come aveva fatto con Valentì.

 

“Senti, ascoltami bene, perché col cavolo che te lo dico un’altra volta. A parte i problemi di fiducia che abbiamo avuto all’inizio, credo assolutamente ricambiati, e tutti i casini… non ci sono molti colleghi, anzi, molti esseri umani che stimo, lo sai.”

 

“Facciamo prima a dire chi stimi, Imma.”

 

“Ecco, appunto. Ma, anche se non me lo sarei mai aspettata e se qualcuno mi avesse detto che sarebbe finita così, lo avrei spedito a farsi un TSO… la verità è che… ti stimo, Irene. Pure se sei l’opposto mio, o forse proprio perché, anche se non c’azzecchiamo niente io te, il tuo lavoro lo sai e soprattutto lo vuoi fare, e pure molto bene. E per colpa tua, mi è toccato persino, per la prima volta in vita mia, ricredermi in meglio su una persona - che in peggio, quello succede tutti i giorni! - e… non mi fare pentire. E non ti ci abituare troppo!”

 

Irene aveva gli occhi spalancati e lucidi in un modo che sembrava uscita da una fiaba, mannaggia a lei, altro che la principessa Disney!

 

“E insomma, tutto questo papiello per dirti che mi fido che farai bene. Ma, se hai bisogno, sto giusto tre file dietro a te, e con sta pancia, dove vuoi che vado? Che mi ci dovranno estrarre dalla poltroncina e-”

 

Due braccia intorno al collo la zittirono e si trovò abbracciata a Irene, anche se sulla pancia il tocco era leggerissimo, quasi più di quello di Calogiuri, cosa che, considerate le curve e le misure di Irene, voleva dire che doveva essersi quasi ripiegata in una parentesi, per non farle male.

 

Un poco commossa le diede un paio di pacche sulle spalle, finché l’abbraccio si sciolse. Irene si asciugò un paio di lacrime e pure lei.

 

La sentì schiarirsi la voce un paio di volte.

 

“Anche… anche io non sono mai stata così felice di dovermi ricredere su una persona. E adesso… andiamo a far ricredere pure tutto il resto del mondo. Su tante cose.”

 

“Eccallà la retorica! Stai già in modalità arringa, stai!”

 

“Naturalmente.”

 

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“Pronta?”

 

Voltò il capo verso Calogiuri, che le aveva appena sussurrato quella frase, e la guardava preoccupato, dall’alto dei centimetri di differenza. Se a casa ormai ci era abituata, l’assenza dei tacchi, soprattutto calcando i pavimenti del tribunale, le faceva ancora strano.

 

Che non si fa per te, piccolé?

 

Sentì la mano di Calogiuri sulla sua e notò solo in quel momento di essersi istintivamente toccata la pancia. Gli sorrise ed annuì, decisa.

 

Continuando a tenergli la mano, si avviò verso la porta, ne uscirono, fianco a fianco, percorsero il corridoio, circondati dagli agenti del tribunale, ed entrarono in aula.

 

Un’esplosione di voci e di flash, la vista piena di macchie colorate, riuscì a fatica a distinguere le facce familiari nel pubblico.

 

Mariani, vicino a Mancini - le scappò un sorriso, anche se, in teoria, era una cosa normale.

 

Un tuffo al cuore quando incrociò gli occhioni azzurri di Diana, orgogliosa e già commossa - mannaggia a lei! - seduta tra Vitali, in gran spolvero, ed un Capozza leggermente meno impolverato del solito.

 

Un secondo tuffo al vedere altri occhi azzurri, quelli di Pietro e Rosa, lui che faticava a nascondere la preoccupazione, come al suo solito, lei con l’aria di chi sembrava pronta a menare chiunque osasse fare qualcosa di male.

 

Infine, proprio in fondo, con uno sguardo ancora più da omicidio, Valentì con la scorta appresso e… Frazer?

 

Tuttavia, tra i giornalisti presenti, era decisamente il meno peggio. Ci stava pure Zazza, sulla stessa fila ma all’estremo opposto, che le fece un mezzo inchino col capo, un chiaro sfottimento a cui rispose con la sua occhiataccia peggiore.

 

Si posizionarono ai loro posti - per fortuna la pancia fu meno di intralcio del previsto - e videro entrare sia Irene, sia l’ennesimo avvocato che la difesa aveva dovuto cambiare per incompatibilità, sia gli imputati - i pochi liberi e i molti nella gabbia, separati tra chi aveva collaborato e chi no.

 

Incrociò lo sguardo tronfio di Saverio Romaniello ed il sorrisetto di lui le diede un brivido. Uno di quei casi in cui il collaboratore di giustizia era tutto tranne che pentito.

 

Sentì la mano di Calogiuri stringersi di più nella sua - come sempre aveva notato tutto - ma scosse il capo e gli sussurrò un, “non diamogli importanza, Calogiù. Quello che ci serviva da lui lo abbiamo avuto e, dopo oggi, si spera che non avremo più il dispiacere di rivederlo.”

 

Il sorrisetto di Calogiuri invece le diede tutt’altro genere di brivido - specie dopo la performance di due sere prima, che contava di ripetere molto presto, per i festeggiamenti che ci dovevano essere.

 

Non avrebbe accettato un esito diverso, punto e basta.

 

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“E quindi conferma quanto già affermato durante il processo a Milano che, ricordiamo, si è concluso con la condanna di tutti gli imputati?”

 

Erano in collegamento con Melita, che piano piano per fortuna stava migliorando, ma prima avevano mostrato la registrazione della testimonianza di Milano.

 

“Sì, confermo tutto. E non solo mi hanno tolto mio figlio una volta ma… ora, con gli attentati alla dottoressa e al capitano, si sono dovuti nascondere e sono settimane che non lo posso vedere.”

 

“Signorina, non pensa che questa sia soltanto colpa della dottoressa Tataranni e del capitano Calogiuri? Se realmente sono in pericolo - e che con questo pericolo c’entrino i miei assistiti è tutto da dimostrare - non sarebbe stato più responsabile da parte loro affidare suo figlio ad un’altra coppia?”

 

Eccallà, l’unica carta giocabile dalla difesa in quella fase. Cercare di mettere in cattiva luce loro e di creare un contrasto con Melita. E Melita che testimoniava a Roma dopo aver testimoniato a Milano… le riportava alla mente ricordi terribili.

 

Vide Irene pronta e intervenire con un “signor giudice!” ma Melita la precedette, proclamando, decisa, “un’altra coppia? Così stanno in pericolo pure loro? Mio figlio non sarà mai al sicuro finché i clienti suoi non se ne staranno tutti al gabbio!”

 

Il pubblico rumoreggiò, fischiando verso l’avvocato e i suoi tentativi di ribattere che “questa è solo la sua opinione, non supportata da prove!” e le venne da tirare un sospiro di sollievo: brava Melì!

 

Al sollievo, si unì un’inevitabile fitta di senso di colpa, al pensiero di quanto sarebbe stato difficile per loro rinunciare al piccoletto e quanto sarebbe stato complicato per Melita ricostruire un rapporto con lui.

 

Ma Melita se lo meritava, se lo meritava tutto e si ripromise di fare il massimo per aiutarla, anche se le avrebbe fatto malissimo.

 

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“Questo processo è stato inficiato fin da subito da notevolissimi conflitti di interesse. Le indagini sono state condotte prevalentemente dalla dottoressa Tataranni e dal capitano Calogiuri che, nonostante siano stati, a livello ufficiale, estromessi dal caso, di fatto hanno continuato ad interferire. Come dimostrato dal recupero, se così lo possiamo chiamare, del figlio della Russo, dove sono entrati in azione senza averne la competenza e, nel caso della dottoressa, nemmeno le competenze necessarie. Rischiando di mettere in pericolo anche i proprietari dell’abitazione, lo stesso figlio della Russo e-”

 

“Avvocato, i proprietari dell’abitazione erano sotto tiro. Il proprietario era già stato colpito e sanguinava, era sotto minaccia di morte. Erano già in pericolo di vita, grave ed urgente, cosa che ha spinto il capitano e la dottoressa ad intervenire eroicamente, a rischio delle loro vite, visto che chi era di competenza sarebbe arrivato troppo tardi. Cosa dovevano fare? Commettere omissione di soccorso? Soprattutto il capitano che aveva le competenze, come le chiama lei, necessarie per intervenire?”

 

“Che non ci fossero alternative era tutto da verificare e questo conferma solo che il capitano e la dottoressa erano a conoscenza dello sviluppo delle indagini, cosa che non sarebbe dovuta avvenire e-”

 

“E se ne erano a conoscenza era semplicemente perché il dottor Mancini ed io, incaricati del caso, avevamo già compreso che c’era una talpa in procura, che aveva contribuito ad incastrare il capitano. Cosa comprovata, viste le fughe di notizie avvenute anche dopo la loro totale estromissione dalle indagini, prima che riprendessimo i contatti in segreto con la dottoressa e il capitano. Questa talpa oltretutto è stata individuata ed ha anche fatto la soffiata che ha messo in pericolo la vita del figlio della Russo e di coloro che lo avevano comprato da alcuni dei suoi assistiti. Chiedo per questo di far testimoniare il dottor Santoro.”

 

Ebbrava Irene!

 

Aveva sudato freddo per un attimo, ma l'ex gattamorta aveva ascoltato il suo consiglio.

 

Ritrovarsi davanti Santoro, con quell’aria fredda, quello sguardo vuoto, impassibile, fu l’ennesimo brivido di quel giorno. La piccoletta, puntuale come un orologio svizzero, le assestò un calcetto, come quelli che lei avrebbe voluto tirare a quel bastardo, dopo tutto quello che aveva fatto passare a lei e a Calogiuri.

 

Si voltò, d’istinto, verso Mariani, che però aveva un’espressione neutra e guardava a testa alta verso il banco dei testimoni, dove Santoro stava elencando, con il tono di chi ripete la lista della spesa, tutte le informazioni che aveva passato agli imputati e cosa ne aveva ottenuto in cambio.

 

Ebbrava anche Mariani!

 

Alla fine, il modo migliore per ferire i soggetti narcisisti come Santoro, era l’indifferenza più totale.

 

Forse Mariani avrebbe dovuto spiegarlo anche a Mancini che, a dispetto degli anni di esperienza, decisamente non faceva nulla per nascondere che a Santoro, altro che calci gli avrebbe dato. Roba che, in confronto, la rissa con Calogiuri era stata un giochetto amichevole.

 

Uomini!

 

Un altro calcetto di protesta, una stretta di mano preoccupata - Calogiuri ormai percepiva la piccola quasi di più di quanto la percepisse lei - e dovette rimangiarsi l’ultimo pensiero.

 

Perché, al di là della preoccupazione per lei e la calciatrice, nello sguardo di lui c’era solo disgusto misto a compatimento per quello che era diventato Santoro. Niente rabbia, niente rancore.

 

Calogiuri era andato avanti, erano andati avanti, insieme.

 

E le priorità su cui concentrare le loro energie erano ben altre di un uomo che, di fatto, si era condannato da solo ad un’esistenza che di umano non aveva più niente.

 

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“Nome e cognome?”

 

“Scianel Loiacono.”

 

Prevedibilmente, molti dei presenti scoppiarono a ridere.

 

Quando però Irene cominciò a fare le domande a Scianel - che balzava al primo posto nei nomi da non dare mai alla piccola calciatrice, per quanto scassambrella fosse - le risate lasciarono posto ad un silenzio carico di tensione.

 

Scianel era tosta, dignitosa, teneva la testa alta mentre guardava Irene con un’ammirazione che le parve pienamente ricambiata.

 

E giustamente, col rischio che si stava prendendo.

 

“Me l’hanno lasciato morire, peggio di un cane. E mio figlio non avrà nemmeno un ricordo con suo padre! Lo hanno preso per disperazione, lo sapevano che soldi non ne tenevamo, e poi lo hanno lasciato lì a soffrire per giorni. Perché lui santi in paradiso non ne teneva e l’unico che ci stava, stava di nuovo in galera.”

 

A un cenno di Irene, una richiesta di permesso, alla quale Scianel annuì, apparve in aula l’immagine delle condizioni dell’infezione e di quel corpo smagrito.

 

Era un colpo basso, lo sapeva, ad effetto, ma con le giurie funzionava, motivo per il quale era stato scelto di far testimoniare anche Scianel oltre allo zio del ragazzo, che aveva indicato senza esitazione Daniel Mazzocca come il mandante.

 

Raramente aveva sentito un’aula così muta, più di una tomba.

 

Tanto che, come prevedibile, l’avvocato della difesa, sempre più in difficoltà, rinunciò a farle qualsiasi domanda.

 

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“E, infine, chiamo a testimoniare la dottoressa Tataranni.”

 

Per poco non le prese un colpo, a lei, alla piccoletta e pure a Calogiuri, che le stringeva compulsivamente la mano mentre entrambi guardavano con stupore verso Irene, che si era girata verso di loro.

 

Non le aveva detto niente a riguardo. Si chiese a che gioco stesse giocando e se si sarebbe dovuta pentire amaramente di quanto le aveva detto solo qualche ora prima.

 

Ma Irene sorrideva e, a quanto la conosceva, era un sorriso vero, non uno di quelli fintissimi che spesso elargiva a destra e a manca.

 

Con un attenta a te! non verbale, cercando di rassicurare con lo sguardo Calogiuri, gli lasciò la mano, si alzò dalla maledetta poltroncina ed aspettò che quelli seduti dopo Calogiuri liberassero i posti - che lei col cavolo che ci poteva passare altrimenti!

 

Fiera, decisa, camminò fino al banco dei testimoni, col suo pancione sporgente, a sottolineare ogni suo passo al posto dei suoi amati e rimpianti tacchi.

 

Si sedette e, dopo il giuramento di rito, incrociò tra loro le mani, le appoggiò sulla balaustra in legno ed attese, fissando Irene come a ricordarle che faceva ancora in tempo a tornare ad essere la gattamorta, e non figurativamente parlando.

 

“Partiamo da Matera. Ci ricorda com’è iniziato questo caso, dottoressa?”

 

La domanda la prese in contropiede, anche perché sembrava passata un’eternità da allora, almeno due o tre vite, mentre ricordava quel cretino di Nunzio Festa, i rifiuti tossici, i collegamenti con Romaniello e la morte della buonanima di Don Mariano.

 

Eppure era anche per lui, oltre che per tutti i materani, che aveva preso a cuore quel caso, che ci aveva dedicato anima e corpo - lacrime e sangue, come avrebbe drammatizzato Diana - per quattro lunghi anni. Cinque, se li calcolava dal caso Festa e dal primo caso Romaniello.

 

Cinque anni in cui la sua vita si era completamente ribaltata, in modi che non si sarebbe mai neanche lontanamente aspettata. In meglio, grazie all’unica costante che le era sempre rimasta accanto, senza mai abbandonarla - almeno lui! - veramente fedele nei secoli, e che la guardava con occhi commossi ed orgogliosi.


Senza di lui, forse, quel processo non sarebbe mai esistito o si sarebbe chiuso ancor prima di cominciare. Lo avevano portato avanti insieme, nonostante tutti gli ostacoli, i colpi bassi, le minacce e persino gli attentati, facendosi forza a vicenda, suggerendosi le risposte che all’altro mancavano, fino ad arrivare alla verità ed al poterla dimostrare, soprattutto.

 

“Ci racconta delle minacce che ha ricevuto in questi anni? E degli ultimi attentati?”

 

“Tutto è cominciato con una scritta sotto la casa che condividevo con il mio ex marito Pietro e nostra figlia, durante il caso Festa.”


“E che diceva la scritta?”

 

“Se non ricordo male, e di solito non ricordo male, Tatarani Troia Sei Morta. Con una enne sola, eh, su Tataranni, che com’era? Più grande è la scritta, più grande sarà l’errore?”

 

Sentì i presenti ridere, persino Zazza le parve divertito. Pure lui sicuramente se la ricordava quella scritta.

 

Pietro invece aveva un’aria seria, serissima, e pure Valentina. Calogiuri aveva una faccia che, come minimo, stava rimpiangendo il non aver potuto fare di più per lei in quel periodo, visto che non erano niente l’uno per l’altra.

 

Assurdo anche solo a ripensarci.

 

“E poi?”

 

“E poi ricordo che il dottor Vitali, il procuratore capo di Matera, mi propose una scorta. Volendo preservare il più possibile la mia indipendenza e non volendo dare a nessuno la soddisfazione di portarmela via, cercai di convincerlo e di convincermi che la mia ex suocera fosse sufficiente come deterrente.”

 

Altre risate, Vitali che scuoteva il capo, stile, ma chi me l’ha fatto fare a me?

 

“E lo fu?”

 

“Non lo sapremo mai e non solo perché poi io e Pietro ci siamo lasciati - visto che alla fine, negli ultimi mesi si è dovuto rassegnare alla scorta pure lui - ma perché ovviamente non sono passati subito alle maniere forti. Hanno cominciato con la macchina del fango, a seguire ogni mia mossa, pubblica e privata, e cercare di usarle per screditarmi. Sono diventata lo sceriffo di Matera, poi la Pantera di Matera, per la mia relazione con il capitano Calogiuri. Ci hanno tenuti sotto controllo, hanno tentato di ridicolizzarci per anni. Sono arrivati persino a seguire mia figlia in vacanza, a cercare di vendere sue foto private. Poi hanno cercato di incastrare Calogiuri, per gettare fango su di lui e su di me, su quest’indagine, per farci desistere, per rovinarci. Sono arrivati quasi ad uccidere una madre ed una creatura di pochi mesi, pur di farlo. Negli ultimi mesi… hanno assaltato il nostro appartamento a Roma, fermandosi per fortuna alla porta. Ma costringendoci, alla fine, ad abbandonare casa nostra, a nasconderci e ad accettare di avere sempre una scorta appresso. E poi sono arrivati fino in Puglia: quella casa come avete visto sembrava un campo di guerra. Nonostante fosse blindata, sono riusciti a sfondare le finestre: erano un vero e proprio commando con un arsenale in mano. Ho creduto davvero che saremmo morti tutti lì dentro. Calogiuri, io, il piccoletto e… e la piccoletta.” 

 

Fece appena in tempo a toccarsi quasi inconsciamente la pancia che l’avvocato della difesa ebbe l’ardire di intervenire, dopo il lungo silenzio, con un, “signor presidente, tutte queste domande sono inutili, ridondanti, oltre ad essere solo le opinioni e le emozioni, personali e non oggettive, della dottoressa Tataranni. Si sta chiaramente cercando di speculare su una donna incinta, per intenerire la giuria e-”


Intenerire? Intenerire di che? Badi a come parli, avvocato, che sono incinta, mica moribonda, anche se questo non certo per merito dei suoi assistiti!”

 

Ci fu un altro boato, di risate ed esclamazioni di approvazione. Partì pure un applauso, tanto che il giudice dovette sbraitare per far tornare l’ordine in aula, con la minaccia di far sgomberare tutti.

 

Tra gli ultimi a smettere di ridere, ci fu Romaniello, che, quando i loro sguardi si incrociarono, le sorrise in un modo tremendamente inquietante, talmente era pieno di doppi sensi.

 

Lo ignorò e si concentrò su Irene, soddisfatta quasi quanto Calogiuri ed era tutto dire.


“Per l’appunto, ci può descrivere le conseguenze di quest’ultimo agguato, dottoressa?”

 

“A parte le ovvie conseguenze psicologiche, il nuovo trauma per il piccoletto e l’essere dovuti scappare di nuovo, Calogiuri è rimasto ferito per proteggerci. E… e gli è andata bene, ci è andata bene, che non gli abbiano preso un’arteria. Ha da pochissimo riacquistato l’uso del braccio destro. E ovviamente nel mio stato… non è stata una passeggiata di salute, anzi. Ma qua stiamo.”

 

“Esatto. E proprio per questo, dottoressa, in considerazione di tutto quello che ci ha raccontato finora, di tutto quello che ha passato in questi anni, rifarebbe tutto quello che ha fatto dal ritrovamento del cadavere di Nunzio Festa in poi?”


Il “E certo!” le uscì deciso, pieno, senza doverci nemmeno pensare, così come il, “anche se, senza Calogiuri, il capitano Calogiuri, non ce l’avrei mai fatta: lui c’è stato dall’inizio e questo lavoro è tanto suo quanto mio.”

 

Tra Calogiuri che la guardava come se fosse la Madonna ed Irene che annunciava che “non ho altre domande!”, partì un altro inizio di applauso che fece desistere l’avvocato da qualsiasi controinterrogatorio.

 

Da un lato le fece quasi pena, col suo colorito sempre più verdognolo e l’aria di chi invece stava rimpiangendo di non aver scelto un mestiere più tranquillo e sicuro. Tipo lo scalatore di grattacieli a mani nude e senza protezioni.

 

Alla fine era arrivato soltanto all’ultimo e, non per colpa sua, sarebbe stato coinvolto nella Caporetto che, sperava vivamente, sarebbe stata la sentenza, a giudicare le reazioni della giuria. Anche se, fino alla pronuncia della sentenza, non si poteva star tranquilli.

 

Stava, col suo passo marziale, avviandosi verso il suo posto a sedere, quando, inaspettatamente, Irene le fece cenno di aspettare e, prendendola per una mano, la trascinò accanto a sé, al banco dell’accusa.

 

La guardò interrogativa ma Irene si limitò a sorriderle e a chiedere al giudice di poter procedere all’arringa finale.

 

“Se la difesa non ha altre obiezioni…” rispose il presidente e, all’alzata di spalle dell’avvocato, assentì con un, “proceda pure, dottoressa.”

 

“So che vi starete tutti chiedendo, la dottoressa Tataranni in primis, perché io l’abbia trattenuta qui, al mio fianco.”

 

Sì, se lo stava decisamente chiedendo, ma Irene aveva quello sguardo insondabile che le aveva sempre dato sui nervi. Anche se, fino a quel momento, non sembrava averle voluto tirare brutti scherzi con quell’interrogatorio improvvisato, anzi.

 

Probabilmente non gliel’aveva detto prima affinché le sue reazioni fossero più spontanee e mannaggia a lei se ci era riuscita! Ma si era presa un enorme rischio.


D’altro canto, però, era stato anche un enorme attestato di fiducia.

 

“Se ho voluto che fosse qui, accanto a me, non è per speculare su una donna incinta, intenerire qualcuno o fare pietismo. Come avete visto e sentito, la dottoressa Tataranni sa benissimo parlare per se stessa. Avrebbe dovuto poterlo fare di più. Avrebbe dovuto esserci lei qui, al mio posto, non solo in quest’udienza, ma in questo processo. Lo avrebbe meritato, per tutti i sacrifici e per tutto il lavoro che ha fatto, per anni ed anni, per ripulire non solo Matera, la sua città, ma anche Roma e non solo. Ha cercato in ogni modo di sradicare e di fare luce su quei legami, su quella rete di collusioni silenziose che soffoca il nostro paese, da nord a sud. Ha osato scoperchiare il vaso di Pandora, prendendosene tutte le conseguenze. Ha resistito e ha continuato a combattere, nonostante tutti gli attacchi ricevuti, anche quando ha dovuto rinunciare a guidare questo processo, perché potesse proseguire ed arrivare a sentenza. La ringrazio per la fiducia che ha dato a me e a tutti i colleghi della procura di Roma, e per tutta la collaborazione ed il supporto che ci ha dato, insieme al capitano Calogiuri, in questi anni, resistendo alle ingiurie, alle minacce ricevute, alle intrusioni nella sua vita privata. Al trovarsi derisa, umiliata, coinvolta in una caccia alle streghe prima e in una caccia all’uomo, anzi all’uomo, alla donna e ai bambini poi. Adesso è qui, e sì, è incinta, perché, nonostante tutto, è andata avanti, a testa alta, a vivere come riteneva più giusto. E perché, evidentemente, continua ancora a credere che questo possa diventare un paese, un mondo migliore, dove far nascere dei figli. E questa fiducia che la dottoressa Tataranni ha riposto nella giustizia, nonostante tutto quello che subito, anche da persone che avrebbero dovuto incarnarla, è la stessa fiducia che io e la dottoressa diamo a questa corte di fare la cosa giusta. Di affermare chiaramente, con fermezza e senza remore che non permetteremo più a persone come Saverio ed Eugenio Romaniello, come il clan dei Mazzocca e tutti i loro affiliati, di tenere sotto scacco le nostre città, le nostre vite, la nostra salute e la nostra libertà. Che la legge è uguale per tutti e che chi sbaglia paga, indipendentemente dal reddito, dalle conoscenze, dalla carica che ricopre, dal cognome. Che non sempre vince chi è più potente, chi sa fare la voce grossa, chi intimidisce. Che per una volta Davide ha sconfitto Golia, anche se Davide è una donna sulla quarantina dai gusti molto discutibili in fatto di abbigliamento, ma con un coraggio da leone e una tenacia infinita.”

 

Alla mezza risata in aula, che interruppe il silenzio nel quale la collega aveva rapito tutti, che neanche il flautista di Hamelin, le risultò difficile capire se fosse più la voglia di abbracciare Irene o quella di ucciderla.

 

Di solito le succedeva solo con Calogiuri, quindi la ex gattamorta avrebbe dovuto sentirsi onorata di tale pensiero. Era brava, al di là dell’immancabile retorica, non c’era che dire, sapeva come raccontare una storia, in quel caso la sua storia, e farla suonare mille volte più epica di quanto fosse in realtà.

 

“Non solo: tutti noi possiamo e dobbiamo essere Davide, perché solo così avremo uno stato più giusto, una giustizia che sa ascoltare, che sa anche ammettere i propri errori e rimediarvi, invece di rendersene complice, anche solo tacitamente, per noncuranza, per sciatteria, per paura, per ignavia. Per tutti i cittadini, non solo per chi è nato con una camicia di lino ben stirata e per questo crede ancora di vivere in una monarchia, anzi, al tempo dei feudatari. Dimostriamo che la Res Pubblica è patrimonio di ognuno di noi, da tutelare e da difendere, con le unghie e con i denti, finché sarà necessario. E che lo faremo, per primi noi che abbiamo l’onore di rappresentarla in questa sede. Grazie.”

 

Il silenzio era tale che si sentivano pure gli scricchiolii nel legno e poi un altro boato, il giudice che ancora un po’ diventava afono per riportare la calma.

 

Si voltò ed incrociò gli occhi di Calogiuri, sorridenti e fieri, ancor più di sempre, e poi cercò quelli di Irene, che però guardava dritto davanti a sé, come se non percepisse nulla.

 

E così fu finché, in un tempo che sembrò dilatarsi all’infinito, l’avvocato della difesa balbettò in qualche modo la sua di arringa finale, che suonava di fatto come una resa. I soliti appelli alla presunzione di innocenza e ad eventuali irregolarità nelle indagini e nelle procedure. Altro non gli era rimasto a cui aggrapparsi.

 

Solo allora, emessa l’ultima sillaba, al suo “concludo” un po’ scorato, Irene finalmente la guardò e le sorrise, sembrando improvvisamente ringiovanita di almeno dieci anni.

 

Tanto che non le parve neppure strano quando la abbracciò in un modo decisamente più adatto a Diana - persino alla Diana del liceo, forse - che all’algida regina della Città delle Nebbie, e che si trovò pure a ricambiare in un modo poco consono alla Giudice della Città dei Sassi.

 

Tutta colpa tua, piccolé, tua e degli ormoni, mannaggia a te!

 

*********************************************************************************************************

 

“Ci siamo!”

 

“La camera di consiglio pochissimo è durata…” sussurrò a Calogiuri che annuì, in apprensione come lei.

 

Ma poteva, anzi, doveva essere un buon segno.

 

Non capendo più chi stringesse a morsa la mano di chi - altro che l’aereo! - lasciarono l’aula privata assegnata a loro e alla scorta e tornarono ai loro posti, in mezzo al mormorio della gente e a tutte quelle facce familiari. La tensione era altissima, elettrica e, all’ingresso del giudice, il silenzio si fece tombale.

 

“In base agli articoli 416- bis, 575, 318, 317, 612, 605…”

 

Ad ogni articolo che si aggiungeva: associazione di stampo mafioso, omicidio, corruzione, concussione, minacce, sequestro di persona, in una specie di litania, il battito accelerava e quella pressione nel petto cresceva sempre di più.

 

“... e all’articolo 610 e 629 del codice penale, si condanna l’imputato Romaniello Eugenio alla pena dell’ergastolo-”

 

Bastò quella parola perché il boato scoppiasse, non solo in aula ma anche nel suo petto.

 

Ormai quasi non sentiva più la mano, né dove finissero le dita di Calogiuri ed iniziassero le sue, mentre il presidente continuava a leggere, confermando l’ergastolo anche per la matrona dei Mazzocca e tutto il clan principale. L’avvocato Villari, Mancuso e Giuliani si erano presi vent’anni. Coraini avrebbe avuto un processo a parte ma da quello si portava a casa dieci anni di galera, così come Santoro. Daniel Mazzocca, in virtù della giovane età e dell’assenza di precedenti, solo 15 anni, che presumibilmente si sarebbero ridotti. Chi aveva collaborato aveva avuto notevoli sconti di pena, tipo Saverio Romaniello che, partendo già da una condanna di trent’anni per l’omicidio di Vaccaro, si era visto infine ridurre la pena complessiva ad anni 20, in virtù della collaborazione e della buona condotta.

 

Che avrebbe passato in qualche località segreta e moderatamente lussuosa in giro per l’Italia, circondato da tutte le comodità.

 

“E infine, si condanna l’imputato Latronico Angelo alla pena di anni dieci.”

 

Un tuffo al cuore e allo stomaco a quel cognome che avrebbe potuto essere il suo.

 

Una testa si mosse in mezzo a tutte le altre, nella gabbia riservata a chi aveva collaborato.

 

E fu solo allora che lo vide, per la prima volta dopo anni. Era quasi sempre mancato alle udienze, adducendo motivi di salute e, avendo già confessato, non gli dovevano essere state mosse obiezioni.

 

Era sempre stata convinta che le motivazioni di salute fossero una scusa per non incontrare i suoi ex assistiti - e forse lei - ma era talmente invecchiato e smagrito che non lo aveva riconosciuto.

 

I loro occhi si incrociarono per un attimo, quegli occhi azzurri, tali quali a quelli di Cenzino che, nella foto sulla tomba, pareva quasi più giovane di lui.

 

Li vide abbassarsi, fino alla pancia che, d’impulso, coprì con una mano, mentre la piccoletta cominciò a scalciare.

 

La mano di Calogiuri sulla sua, e vide benissimo l’occhiataccia che lanciò ad Angelo. Che però si limitò a fare un cenno col capo, come un saluto.

 

Era rimasta talmente scossa da quella brevissima interazione che l’esplosione di urla, grida, pianti e risate la colse completamente di sorpresa.

 

Il giudice aveva finito e si era scatenato il finimondo, tra chi esultava, chi imprecava, chi si disperava, chi si abbracciava, i flash e le urla dei giornalisti che già cercavano di accaparrarsi una dichiarazione.

 

Si guardò con Calogiuri, le mani ancora unite per calmare la loro piccola calciatrice, che però si era fermata, come se avesse percepito anche lei la surrealtà di quel momento.

 

Anni ed anni ad aspettarlo, ad attendere quella sentenza, la parola fine e… e quasi non si era accorta di quando era stata pronunciata.

 

Ma Calogiuri sorrise e al suo “ce l’hai fatta, dottoressa!” fu come se tutto diventasse improvvisamente reale, tangibile, ed un’ondata di commozione la travolse ancora prima dell’abbraccio di Calogiuri. Di quell’abbraccio dove, come sempre, si sentiva in pace con se stessa, con il mondo. Capace di conquistarlo il mondo, insieme a lui.

 

E forse, almeno per quel giorno, c’erano riusciti davvero.

 

“Ce l’abbiamo fatta, Calogiù. Ce l’abbiamo fatta. Quante volte te lo dovrò ripetere, prima che ti entri in testa?” ribadì, proprio come dopo la prima condanna a Romaniello, ormai più di quattro anni prima, “senza di te… probabilmente non sarei neanche arrivata a far condannare Romaniello a Matera, quindi-”

 

“E io senza di te, probabilmente a quest’ora starei a Grottaminarda a raccogliere le olive, quindi non c’è paragone.”

 

“Ah no, effettivamente mo ti ritrovi senza ulivi, con una fidanzata un poco meno tossica ma con molti anni in più, ed una piccola calciatrice che forse ti farà rimpiangere il silenzio delle campagne avellinesi.”

 

Il calcetto di protesta, netto, deciso, tra le loro due pance, li prese di sorpresa e scoppiarono a ridere, stringendosi ancora più forte per un attimo, prima di cercare di calmarla.

 

Più permalosa di lei e di Valentina messe insieme! Andavano proprio bene!

 

In quel momento, sentì una mano sulla spalla ed era Irene, accompagnata dal suo Ranieri, da Mariani e da Mancini.

 

Gli abbracci con i primi tre furono assai facili, con il procuratore capo si limitarono ad un paio di pacche sulle spalle. Quantomeno tra lui e Calogiuri non sembrava esserci più tensione, solo l’imbarazzo residuo dato dai tragicomici eventi passati.

 

“La nostra procura perde due grandi elementi, dottoressa, capitano.”

 

Quelle parole erano sincere - tanto quelle rivolte a lei, quanto quelle verso Calogiuri - e quella era un’altra grandissima vittoria.

 

“Almeno non per morte in servizio, dottore, che c’è stato più di un rischio qua,” ironizzò, per sdrammatizzare, godendosi l’imbarazzo e lo stupore di Mancini e di Mariani.

 

Calogiuri invece, che la conosceva perfettamente, si limitò a quello sguardo da ma come devo fare con te?

 

La marea umana cominciò a muoversi, a spostarsi, come un fiume che scorreva verso l’uscita dall’aula.

 

Riuscì ad intercettare con lo sguardo sia Rosa e Pietro, che Diana - che stava in una valle di lacrime - con Capozza e Vitali. Il procuratore capo le sembrò ringiovanito di dieci anni, ma pure di venti, per quanto era ringalluzzito. Fece loro cenno che si sarebbero incontrati dopo.

 

L’incubo era finito, finalmente, e anche l’isolamento dalle persone care avrebbe potuto allentarsi per poi sparire. Così come la scorta - o almeno ci sperava di non dover crescere la piccoletta con tutti loro appresso.

 

E, in tal proposito, cercò pure Valentina, ma i giornalisti ormai erano tutti ammucchiati e non le riuscì di trovarla. Sperò che quelli della sua di scorta avessero fatto il loro lavoro.

 

Incanalati nel fiume di gente, vide che, per fortuna, i giornalisti si stavano accalcando di più su Irene e su Mancini. Qualcuno però puntava verso di lei. Prima che venissero loro strane idee, approfittando della confusione e della folla, riuscì a sgattaiolare via lateralmente, verso l’uscita secondaria riservata ai togati. I due agenti di guardia la riconobbero e la fecero passare.

 

Prese l’aria a pieni polmoni, dopo l’assalto, e in quel momento realizzò due cose: che la porta si era richiusa alle sue spalle, senza che Calogiuri o quelli della scorta apparissero dalla soglia. Forse erano rimasti bloccati tra la gente.

 

E che la piccola calciatrice aveva ripreso a muoversi, proprio sulla sua vescica, che ormai, tra uno schiacciamento e l’altro, stava per cedere.

 

Prese il cellulare e mandò un messaggio a Calogiuri con scritto:

 

Vado in bagno, ci troviamo nella nostra aula?

 

Guardandosi intorno nel corridoio deserto, cominciò a camminare verso il bagno più vicino.

 

Le parve incredibile essere sola, dopo tutti quei mesi sotto scorta. Mentre camminava e i suoi passi si disperdevano tra il suono di mille altri, il brusio della gente si allontanò sempre di più. Si godette quel momento, quei metri di libertà, neanche stesse percorrendo il corridoio di uno di quei meravigliosi templi del Giappone e non un edificio che aveva decisamente visto tempi migliori.

 

Raggiunse il bagno delle donne, aprì la porta e per fortuna non c’era nessuno. Non solo per il famoso soffitto di cristallo che affligge i tribunali così come molte altre occupazioni prestigiose, ma perché stavano probabilmente ancora tutti bloccati fuori dall’aula.

 

Si infilò in uno dei bugigattoli, riuscendo a compiere la missione pure mentre la piccoletta ancora un poco le capriole faceva da quanto si muoveva - se pure il non riuscire a stare mai ferma lo aveva preso da lei, li aspettavano anni molto interessanti!

 

Tirò lo sciacquone e, finalmente libera, in tutti i sensi, riaprì la porta di quel cubicolo, riuscì in qualche modo ad infilare il suo pancione nel poco spazio lasciato libero per uscire, tirando un sospiro di sollievo nel rivedere il lavabo e-

 

Il respiro le venne mozzato da una mano che le tappava la bocca, mentre un’altra le premeva sul collo, riducendo ancor di più quella poca aria che stava disperatamente prendendo dal naso.

 

Il gelo nel cuore e fin dentro le ossa, mentre l’istinto le diceva di provare a mordere quelle dita sottili, nervose, di scalciare, di cercare di liberarsi. Ma altri calci ed un singhiozzo che non era il suo, dentro alla pancia, la paralizzarono.

 

Giusto il tempo di riconoscere a chi appartenevano quelle mani, quell’odore nauseante.

 

“Buonasera, dottoressa. Che piacere rivederla così da vicino! Spero di esserle mancato quanto lei è mancata a me!”



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo capitolo e del maxiprocesso anche se… non siamo ancora alla fine, anzi. Imma è in pericolo come mai prima d’ora ed il prossimo capitolo sarà pieno di azione, momenti drammatici e tensione. Ovviamente, come sempre, rassicuro tutti che questa storia avrà il lieto fine, alla fine, ma… nel frattempo ci attendono ancora alcuni grossi ostacoli, insieme a diversi momenti belli.

Spero che il capitolo di oggi nella parte processuale non sia risultato noioso e sia valso l’attesa. In ogni caso, vi sarò davvero grata se vorrete farmi sapere che ne pensate. Le vostre recensioni, oltre a darmi un’enorme carica, sono preziosissime per sapere come sta andando la storia.

Un grazie enorme a chi ha messo questa storia nei preferiti e nelle seguite.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 18 febbraio. Purtroppo però questo è un periodo un po’ particolare per me, oltre che pieno di impegni e scadenze, quindi in caso di ritardo ve lo farò sapere sulla pagina autrice.

Grazie di cuore!

 

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Capitolo 79
*** La Resa dei Conti ***


Nessun Alibi


Capitolo 79 - La Resa dei Conti


Nota dell’autrice: Questo capitolo giocoforza tratterà di tematiche e scene un poco più violente, più che altro a livello psicologico, del mio solito. Non sarà nulla di grafico, nulla che non si possa vedere in una fiction RAI un poco più “drammatica” e lo scopo non è mai di indugiare sulla violenza in modo gratuito ma di mostrare come i personaggi la affrontano a livello strategico, fisico e mentale. Ritenevo giusto però avvertire chi fosse particolarmente sensibile a queste tematiche. Sarà l’unico e l’ultimo capitolo di questo tipo. Siamo appunto alla resa dei conti, al climax e alla chiusura di un cerchio.


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

 


“Non abbiamo dichiarazioni! Fateci passare!”

 

Alcuni ragazzi della scorta spingevano tra i giornalisti e la folla, si voltò per riprendere Imma per mano, ma trovò solo altri agenti.

 

Il cuore gli saltò un battito e poi iniziò a martellare furiosamente, mentre la cercava con lo sguardo, tutto intorno, ma niente, lei non c’era: in quel mare nero i colori di Imma sarebbero dovuti spiccare ma… non c’era.

 

“Dov’è Imma?” sussurrò al ragazzo toscano, il più sveglio della scorta, che non doveva spargersi la voce che fosse senza protezione.

 

Per fortuna lui capì e ben presto anche gli altri della scorta si avvidero della cosa - come avessero fatto a farsela sfuggire gli era incomprensibile e non se lo sarebbe mai perdonato, oltre a non perdonarlo a loro.

 

Guardò verso Irene e Mancini, sperando che fosse ancora con loro ma no, erano braccati dai giornalisti, intenti a rilasciare dichiarazioni, ma nessuna traccia di Imma.

 

E poi vide Ranieri e Mariani, poco distanti ma liberi e, per fortuna, Mariani incrociò il suo sguardo e fece loro cenno di avvicinarsi.

 

“Avete visto Imma?” domandò a bassa voce, non appena lo raggiunsero, ma Mariani e Ranieri scossero la testa, spalancando gli occhi, spaventati quanto lui.

 

Estrasse il cellulare, per cercare di chiamarla o di localizzarla almeno, e la scritta Dottoressa sul display lo tranquillizzò un attimo.

 

Vado in bagno, ci troviamo nella nostra aula?

 

Tirò un lieve sospiro di sollievo, mostrando il messaggio agli altri, pure mentre pensava al cazziatone che avrebbe voluto farle, ma che non avrebbe mai osato farle nelle condizioni in cui era - anche perché per primo avrebbe dovuto incolpare se stesso.

 

Si avviò verso la porta laterale, per raggiungere la maledetta e benedetta aula.

 

“Avete visto la dottoressa Tataranni?” chiese agli agenti di guardia.

 

“Sì, sì, è passata di qua qualche minuto fa.”

 

“E voi l’avete lasciata andare?!” esclamò, un poco troppo forte, per fortuna coperto dal fortissimo brusio di sottofondo.

 

“Ci sembrava non stesse bene, per la gravidanza, con tutta questa folla… pensavamo fosse d’accordo con voi. E poi ormai il processo è finito e sono stati presi tutti, no?”

 

“E che siamo, in una fiction? Che finito il processo, finito il pericolo?!” sbottò, incredulo di fronte a tanta ingenuità: sì, erano giovanissimi entrambi ma… quasi lui ai primi tempi era stato più sveglio, ed era tutto dire.

 

Ma stare lì a discutere era inutile: dovevano raggiungere Imma.

 

Fece un cenno a Ranieri, Mariani, alla scorta ed aprì la porta. A passo spedito, si avviarono verso la famosa aula e ci entrò.

 

Niente, era vuota.

 

“Vado a controllare in bagno?” propose Mariani, che effettivamente un assalto di uomini al bagno delle donne non sarebbe stato il massimo.


“Vengo anche io. Ci dividiamo: qualcuno aspetta qui, qualcuno viene con noi.”

 

Alla fine, lasciarono Ranieri e due della scorta in aula, mentre loro, cercando di non dare nell’occhio, si avviarono verso i bagni, che però erano già nell’area comune del tribunale - quelli riservati ai magistrati erano fuori uso da che ne aveva memoria, a causa dei tagli.

 

Mariani fece un cenno di intesa, bussò e poi entrò.

 

Calogiuri si guardò intorno, mentre pregava che fosse ancora lì dentro e che stesse bene, perché l’istinto gli urlava che no, non andava tutto bene, non avendola incrociata nel percorso.

 

Fu allora che notò, poco distante, la folla dei giornalisti, che ormai erano fuoriusciti dall’aula, e Frazer che, con la sua altezza e stazza, torreggiava sui colleghi. Accanto a lui… di nuovo Valentina?

 

La cosa più strana era che Valentina stava prendendo nota sul suo tablet e parlavano fitto fitto.

 

Non sapeva che significava, ma sapeva che ad Imma non sarebbe piaciuto e-

 

“Non c’è…”

 

La voce di Mariani, poco più di un sibilo, lo portò a voltarsi verso di lei e il bagno, aperto e completamente vuoto.

 

Il panico ormai alle stelle, estrasse il cellulare per chiamare Ranieri e chiedere notizie, quando un grido gli gelò il sangue e per poco non gli cascò di mano.

 

“Romaniello! Dov’è Romaniello? Dov’è Moretti?!”

 

*********************************************************************************************************

 

“Cammina, forza!”

 

Cercò di trattenere la voglia di vomitare, inspirando il più possibile dal naso, mentre teneva il mento sollevato e il collo immobile. Non solo per la mano che lo stringeva, ma perché c’era qualcosa di appuntito che le premeva sulla pelle, appena sotto la mandibola.

 

L’odore nauseante della mano sulla bocca non aiutava, mischiato a quello dell’adrenalina, a mille come l’ansia. La piccoletta che continuava a scalciare, ancora più impanicata di lei, e la paura, la paura più grande di tutte.

 

Doveva rimanere lucida, doveva cercare di calmarsi, doveva fare tutto il possibile perché non succedesse niente alla piccoletta.

 

Non capiva come fosse possibile che non ci fosse nessuno nei corridoi: probabilmente tutti erano ancora assiepati fuori da quella maledetta aula.

 

Vide una porta aprirsi e ci si trovò spinta dentro: un’aula, di quelle per i piccoli processi, poco più di un ufficio.

 

Il muro si fece vicino, sempre più vicino e ci si trovò spinta contro. L’urlo per il dolore tremendo alla pancia si perse tra le pieghe di quella mano schifosa.

 

La piccoletta che scalciava sempre di più, così premuta, come lei, contro quella superficie dura, il dolore che un poco diminuiva, la vista che le si colorava, mentre si imponeva di respirare, di non svenire. Sentì un rumore di qualcosa che si strappava, lontanissimo, anche se in realtà era la tenda, lì accanto a loro.

 

Plastica rotta e la mano le lasciò il collo ma solo per afferrarle i polsi e tirarli indietro. Di nuovo l’istinto di urlare, ma un ginocchio nella schiena, che la spingeva ancora di più al muro, mentre il dannato cordino veniva legato stretto sui polsi, la bloccò: sarebbe bastata una spinta più forte per uccidere la piccoletta e non poteva permetterlo.

 

E poi tessuto, tessuto stantio e vecchio, intorno alla bocca a mo di bavaglio.

 

“Romaniello! Dov’è Romaniello? Dov’è Moretti?!”

 

Alla buon’ora! - pensò, maledicendo chiunque fosse Moretti e gli altri agenti che avrebbero dovuto sorvegliarlo.

 

Legata come un salame, quelle mani tornarono sul collo e finalmente un po’ di spazio tra la pancia ed il muro. Ma poi si sentì voltare e trovarsi di fronte a quel viso, a quegli occhi, a quel ghigno che non aveva nulla di umano, ma di cui solo un uomo poteva essere capace, la portarono quasi a rimpiangere il non poterlo vedere.

 

Se fosse sopravvissuta, quello sguardo non se lo sarebbe mai scordata, mai, fino all’ultimo giorno, e lo maledisse anche per quello.

 

Quella dannata cosa appuntita ancora sotto l’orecchio, si sentì spingere all’indietro, finché il retro delle ginocchia toccò qualcosa e le gambe le cedettero su quella che riconobbe come una sedia.

 

Dita conficcate nei polpacci, sopra le calze, un altro conato di vomito da trattenere, e scendevano sempre più giù, fino alle caviglie, allargandole a forza, la plastica del dannato cordino che ci si conficcava, mentre venivano legate alle due gambe anteriori della sedia.

 

E poi… e poi nulla… per un attimo niente lame, niente mani, e il calore e il peso si allontanarono, lasciandola respirare.

 

Romaniello era in piedi, sopra di lei, a un paio di passi da lei e con un “non si preoccupi, dottoressa, torno subito: non si fanno aspettare le signore, figuriamoci una donna come lei!” roco e sardonico, lo vide andare fino alla porta dalla quale erano entrati, chiuderla a chiave, per poi cominciare a trascinarci davanti la scrivania più vicina e alcune sedie.

 

Impotente come non mai, sollevò lo sguardo da quei dannatissimi pantaloni di cotone chiaro, suo marchio di fabbrica, per cercare di notare più particolari possibili che potessero aiutarla a uscire viva da lì.

 

La lama… la lama non era altro che un frammento di specchio rotto ed insanguinato. Come la mano destra di Romaniello, che però aveva una specie di bendaggio di fortuna, insanguinato anch’esso - ecco perché la bocca gliel’aveva tappata sempre con la sinistra!

 

L’istinto che le faceva sapere di avere un’intuizione, ancora prima di esserne cosciente, le strinse lo stomaco, mentre riconosceva il tessuto del quale era fatta la benda.

 

Blu, come le camicie d’ordinanza estive dei carabinieri.

 

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Corse verso quelle grida, più forte che poteva, e si trovò di nuovo nel corridoio dal quale erano venuti, dove un drappello di giovani carabinieri erano palesemente nel panico, mentre il maresciallo, dal quale venivano le urla, li redarguiva di fare silenzio.

 

“Che succede?!” domandò, fermandosi davanti a loro, il cuore in gola, anche se già aveva capito tutto, già sapeva che era quello che non avrebbe mai voluto accadesse.

 

I ragazzetti lo guardarono terrorizzati, scattando sugli attenti, anche il maresciallo si voltò e li imitò, l’aria di chi avrebbe voluto essere ovunque tranne che lì.

 

“Che è successo?! Maresciallo?!” ribadì, cercando di non scoppiare e di non urlare troppo.


“Romaniello non si trova. Romaniello Saverio.”

 

“E questo lo avevo capito!” sbottò, perché era ovvio che si trattasse di lui, era lui quello che si sporcava le mani di persona, “com’è possibile che non si trovi? Chi era con lui?”

 

“Un agente, Moretti. Doveva andare in bagno, ma non sono ancora tornati e-”

 

Alla parola bagno, il sangue gli finì tutto ai piedi e gli girò la testa.

 

Si guardò intorno, cercandone un altro e lo trovò, poco distante da quello dove forse era stata Imma. Fece per raggiungerlo, ma gli si pararono davanti non solo la sua metà della scorta e Mariani, ma pure parte dei giornalisti e della folla, che erano accorsi lì, sentendo le grida.

 

Valentina!

 

Quei due occhi marroni lo guardavano spaventati, come quelli di un cerbiatto, come a chiedergli se avesse capito bene e dove fosse sua madre. In mezzo a tutta quella ressa, per un secondo vide solo lei. Finché il cognome Romaniello, ripetuto come una litania di bocca in bocca, lo portò a schiodarsi di lì, per cercare di raggiungerla ed allontanarla dalla folla e da lì, prima di poter anche solo pensare di aprirlo quel maledetto bagno.

 

Ma la fiumana di gente eruppe verso di lui e riuscì solo ad urlare uno “state indietro! Fateli stare indietro, maledizione!” e ne fu praticamente travolto.

 

Alla cieca, cercò di raggiungere Valentina, finché due mani grandi aprirono un varco e se la trovò gettata tra le braccia.

 

Uno sguardo d’intesa: e bravo Frazer!

 

La tirò a sé e con sé, più indietro possibile, mentre gli agenti spingevano in avanti verso la folla, facendo da scudo, e a loro si univano quelli della sicurezza del tribunale - decisamente fuori tempo massimo! 

 

Vide arrivare anche Ranieri con il resto dei loro agenti. Probabilmente avevano sentito le grida o erano stati avvertiti da qualcuno.

 

Altri passi di corsa alle loro spalle: Irene e Mancini, che dovevano aver fatto il giro largo per l’impossibilità di passare attraverso la folla.

 

Avevano entrambi uno sguardo omicida ed era palesemente rivolto agli agenti assegnati a Romaniello, mentre Irene gli chiedeva, “dov’è Imma?”

 

Non servì nemmeno risponderle, lo capirono immediatamente.

 

“Fateci passare! Fateci passare! Sono un carabiniere!”

 

“E lei? Pure lei carabiniera? Vestita così?”

 

“No, sono cancelliera, ma perché le carabiniere non potrebbero vestirsi eleganti fuori servizio? Questi pregiudizi maschilisti: e se siamo eleganti è perché siamo eleganti, e se una è sportiva allora è un maschio, e se invece si veste un poco più corto o scollata allora è una poco di buono e-”

 

“Signora Diana!” urlò, per fermarla prima che stordisse del tutto uno dei loro agenti di scorta, “Caputo, falli passare: a lei e al brigadiere Capozza!”

 

Sapeva che, in caso contrario, non avrebbero risolto niente. E poi era meglio levarli dalla folla e metterli in una stanza a parte e-

 

“E pure a me, se mi è concessa la grazia!”

 

Vitali, che sbucava a malapena, a causa dell’altezza. Non l’aveva proprio visto.

 

“Dottor Vitali! Fatelo passare!”

 

“Fratellì!”

 

All’inizio non comprese da dove venisse l’acuto inconfondibile di Rosa, ma alla fine la vide saltellare più avanti nella calca, Pietro al suo fianco con uno sguardo che faceva fede al suo nome.

 

“Fate passare anche mia sorella e… e mio cognato, ma metteteli in una stanza a parte, insieme alla signora De Santis e a Valentina e-”

 

“Io non vado da nessuna parte finché non trovate mamma!”

 

Il tono e lo sguardo di Valentina erano quelli che aveva preso da Imma, di quando non avrebbe cambiato idea su una cosa manco a smuovere mari e monti.

 

“Valentina, per favore, dobbiamo lavorare e… e se rimani qua non potremmo farlo in sicurezza. Per favore, fallo per tua madre e per me.”

 

“Ma non-”

 

“Dobbiamo fare in fretta. Per favore, Valentina, se ci saranno aggiornamenti sarai la prima a saperlo, va bene? Fidati di me!”

 

La vide deglutire ma poi fare cenno di sì col capo, due lacrime che le scendevano lungo le guance, mentre seguiva gli agenti che stavano già accompagnando Rosa, Diana e Pietro.

 

E brava Valentì!

 

“Capozza, se vuoi rimanere, dottor Vitali, se vuole darci una mano.”

 

“Se per te non è un problema, Giorgio.”

 

A quelle parole, si voltò verso Mancini, ricordandosi improvvisamente di non essere più lui il più alto in grado. Ma Mancini gli fece un cenno come a dire che non gli importava e pose quella fatidica domanda: “che succede?”

 

“Dobbiamo andare in bagno, subito. Al bagno degli uomini,” spiegò, cercando di non farsi udire da orecchie indiscrete.

 

Mancini annuì con Ranieri e, mo che avevano capito e che il corridoio era stato finalmente liberato, corse verso quella maledettissima porta.

 

Con Ranieri, Mariani e Capozza al suo fianco, più un paio degli agenti della scorta, che estrassero le loro pistole, si piazzarono intorno alla porta.

 

“Aspettate!”

 

Era Mancini e, a un suo cenno, quattro degli agenti di guardia consegnarono a lui, a Ranieri, a Mariani e a Capozza le loro pistole: con le misure di sicurezza del tribunale, non le avevano potute portare con loro.

 

Ranieri bussò, come si doveva fare da protocollo.

 

Silenzio.

 

“Aprite, carabinieri!”

 

Silenzio.

 

Con un cenno d’intesa, uno degli agenti di scorta girò la maniglia e la porta si aprì, ma solo di un pezzetto.

 

“C’è qualcosa che la blocca!”

 

“Dobbiamo sfondare!” ordinò, in automatico, mentre Mancini e Ranieri gli facevano un cenno di assenso.

 

I due agenti della scorta si misero in posizione e, coperti dalle loro pistole puntate, diedero una, due, tre spallate, finché la porta cedette un poco e uno di loro lanciò un urlo, scivolando a terra.

 

Le mattonelle erano quasi nere, nere di quel fluido viscido che aveva imparato a conoscere fin troppo bene in quei mesi.

 

Mariani, la più esile, si infilò nello spazio e, dopo poco, la porta si aprì del tutto.


Riverso in un lago di sangue, c’era quel qualcosa, anzi quel qualcuno che aveva sbarrato la porta con il proprio corpo, la gola tagliata.


“Moretti!” gridò una voce alle sue spalle, mentre all’odore metallico del ferro, si unì il gusto della bile.

 

Recuperò il cellulare dalle mani, ragionando se fosse la cosa giusta da fare o forse la più sbagliata.

 

“Provaci. Magari… magari non è come pensiamo. Magari si è solo nascosta. Ha la vibrazione, vero?”

 

Era stata Irene a parlare ed annuì. Ai processi Imma il cellulare non lo avrebbe mai tenuto con la suoneria - a teatro a volte sì, ai processi no.

 

Selezionò il primo numero di scelta rapida, e quel nome Dottoressa, apparve sul display. Ad ogni squillo a vuoto, sembra gli scoppiasse il cuore.

 

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Il sorriso.

 

Quel sorriso era sempre più ampio, sempre più spaventoso, mentre fissava il pezzo di specchio e poi lei, avvicinandosi, un passo dopo l’altro, sempre di più.

 

Sentiva quell’odore nauseabondo di adrenalina, ormoni, sudore e chissà che altro, Romaniello era come un predatore pronto a giocare con la preda, in uno di quei documentari che Pietro la costringeva a sorbirsi.

 

Quello sguardo che la fissava, la faceva sentire nuda e come se mille vermi le corressero sulla pelle.

 

Lo vide afferrare un’altra sedia e piazzarla di fronte a lei, poi ci si sedette, con tutta la calma del mondo, come se si stesse accomodando su un trono, al posto d’onore, e poi-

 

Quella mano. Sulla coscia, appena sopra al ginocchio.

 

Cercò di divincolarsi, ma le gambe erano mezze immobilizzate e non poteva chiuderle, non del tutto.

 

“Brava, dottoressa! Mi piace quando sei così decisa!” la derise, mordendosi il labbro in un modo che le provocò un altro mezzo conato.

 

Forse Romaniello se ne accorse, o forse lo interpretò come un suo tentativo di rispondere perché di nuovo quel maledetto pezzo di specchio le premette sul collo.

 

“Facciamo così…” le sussurrò all’orecchio, con quel tono serpentino che le veniva ancora più voglia di ucciderlo, “io adesso ti levo il bavaglio. Ma non azzardarti nemmeno a pensare di urlare, o fai una brutta fine e la fa anche lei.”

 

Le dita di Romaniello sulla pancia le gelarono il sangue, mentre i calcetti della piccoletta, se di solito ne sarebbe stata orgogliosa, ora la spaventavano: non voleva che Romaniello puntasse solo a lei, che si concentrasse su di lei.

 

Per fortuna le dita sparirono e, con un mezzo strappo verso il basso, la benda le finì sul collo, dove però tornò anche la lama.

 

“Che…” si schiarì la voce, perché non voleva farsi vedere debole o spaventata, non da lui, “che cosa spera di ottenere, eh, Romaniello? Dove pensa di andare? Da qua non la faranno mai uscire, sta solo peggiorando la sua posizione e-”

 

“Veramente sono MOLTO soddisfatto della mia posizione, dottoressa,” rise, leccandosi le labbra, che gliele avrebbe spaccate insieme al resto della faccia, “ma che pensa? Che sono nato ieri? Eh, no, proprio no. Lo so benissimo che non riavrò la libertà, che scappare da qua è impossibile. Le guardie sono sceme, è vero, ma le uscite… quelle almeno le sorvegliano bene. Solo che… sì, i domiciliari sono meglio della prigione, è vero, ma lo sa cosa c’è di peggio del pericolo della prigione e del suo squallore?”

 

La fissava, come se fossero a un quiz in tv o a una lezione e non con lei legata come un insaccato e con una lama alla gola.

 

“Lo squallore della noia, dottoressa. La noia, le giornate sempre uguali, la mediocrità. Ma che vita è, eh, me lo dice? E lo so che concorda con me, perché se c’è una cosa che non sopporta è la mediocrità, il lasciarsi vivere. Anche a lei piace l’adrenalina, come piace a me, la sfida, il pericolo.”

 

“Questa si chiama proiezione, Romaniello. E forse in questi anni ha fatto in tempo a scordarsi quanto sia brutta la prigione, ma non ne vale la pena per prendersi questa - che lei pensa sia una rivincita, ma che è solo uno scavarsi ancora di più la fossa da solo - di farsene altri quindici almeno in una cella e-”

 

“E invece sì che ne vale la pena, dottoressa. Questa rivincita la vale proprio tutta la pena: posso anche starmene in una cella finché campo, ma un’ultima soddisfazione me la voglio togliere, finché posso godermela fino in fondo. E che soddisfazione!”

 

Di nuovo quelle maledette dita sopra al ginocchio - per fortuna aveva le calze, almeno per il momento - dovette trattenere un altro conato, tra la presa e quel fiato nauseabondo che le si avvicinava sempre di più alle labbra, mentre Romaniello, con quello sguardo folle ed animalesco continuava il suo delirio, “tutti questi anni… a dover ingabbiare la mia vera natura. Senza una donna con cui poterla sfogare. E mo, proprio oggi, che quasi non ci speravo più, me ne vado in bagno, bello tranquillo, e chi mi vedo passare davanti? Il destino mi ha voluto dare un’altra possibilità. Mi ha detto Saverio, carpe diem! E non potevo rifiutare un simile regalo, non le sembra, dottoressa?”

 

“Sa che cosa ho scoperto, signor Romaniello? Che la vita, il destino non ti regalano niente. E che i regali si pagano, carissimi e-”

 

“E sono disposto a pagarli tutto quello che ho, dottoressa, tanto non ho più niente da perdere!”

 

Le dita, quelle dita ossute e schifose, che gliele avrebbe mozzate una per una, cominciarono a muoversi, più in alto, sulla coscia e, a parte il conato di vomito, trattenne l’istinto di divincolarsi, di richiuderle, e cercò di continuare a parlare, anche se, mai come in quel momento, ciò che doveva dire era completamente diverso da ciò che avrebbe voluto potergli urlare in faccia.


“Lei parla di soddisfazione. Ma che soddisfazione può darle avermi in questo modo? Che non posso fare nulla, nemmeno difendermi, e non perché non ne sia capace, ma perché sono qua legata come un salame, dopo avermi presa alle spalle, come un vigliacco.”

 

“Io non sono un vigliacco!”

 

“Ah no? Allora perché non mi ha affrontata faccia faccia, ad armi pari? Altro che maschio alpha, altro che coraggio, la verità è che a una come me lei non sa come tenere testa senza barare e-”

 

“Dottoressa, lei mi sottovaluta: lo so benissimo che lei è una tigre e che tigre! Magari ci penserò poi a slegarla per godermi meglio il momento con lei, ma devo prima prendere le mie precauzioni, per me e per lei.”

 

“Per me?”

 

“Certo, per lei. Suvvia, dottoressa, lo sa benissimo anche lei che sono anni che giochiamo a questo gioco del gatto con il topo. Lo so che la sente anche lei questa scintilla, questa tensione che c’è tra noi, fin dalla prima volta che ci siamo visti. Lei è l’unica che sa tenermi testa e io la testa gliel’ho tenuta, prima metaforicamente, ora letteralmente, per molto tempo.”

 

“Tenermi testa?” scoppiò a ridere, amara, ma non ce la faceva più, tra quella maledetta mano, che almeno si era fermata a metà coscia e il delirio di Romaniello, “veramente è da mo che ho vinto, Romaniello, se non se n'è accorto. E se c’è qualcuno che è capace di tenermi testa non è di certo lei!”

 

Per un attimo fu come se Romaniello avesse ricevuto uno schiaffo, tanto che arretrò leggermente, lasciandole finalmente aria un poco meno marcia da respirare - da quant’era che non vedeva un dentista? - ma poi dallo stupore passò alla rabbia e, di nuovo, a quel dannato sorrisetto.

 

“E chi sarebbe a tenerle testa, sentiamo? Se si riferisce a quel povero coglione di mio fratello… beh, effettivamente bisogna riconoscergli che ci si è messo di grande impegno. Ma sarebbe stato un vero peccato saperla morta in un volgare agguato, senza aver potuto nemmeno vivere un momento insieme. Che spreco terribile sarebbe stato, se questo corpo che tiene nascosto sotto questi vestiti orrendi, fosse finito crivellato senza provare nemmeno una volta nella vita il piacere di essere stata con un vero uomo. Che ha visto anche il suo lato oscuro, dottoressa, lo ha visto, lo ha riconosciuto e che sa di cosa lei ha bisogno.”

 

Dire che fosse sconvolta era dire poco, al di là del panico, al di là di tutto, si chiedeva se Romaniello quelle cose le pensasse veramente, se delirasse fino a quel punto o se fosse solo una presa in giro, un modo per provocarla e inorridirla ancor di più - cosa che, anche se non doveva darglielo a vedere, gli stava riuscendo benissimo.

 

“Se invece… se invece parla di quel cretinetti con cui non solo ha deciso di fidanzarsi ma, per qualche motivo a me inspiegabile, ha pure deciso di perpetuarne il pool genetico, rovinandone uno di razza come il suo, beh… se si riferisce a lui, la risolviamo subito.”

 

A parte inghiottire la rabbia per gli insulti a Calogiuri - che comunque parlava proprio lui, che a furia di sposarsi tra le stesse famiglie si capiva come fosse ridotto così! - fece appena in tempo a chiedersi cosa volesse dire, prima che lui le stringesse fortissimo la coscia.

 

E poi la mano per un momento la lasciò, ma la ritrovò sulla pancia, sulla giacca, sul fianco e…

 

Il cellulare!

 

Romaniello glielo aveva estratto dalla tasca dove lo aveva infilato - niente borse pesanti per lei, ovviamente! - e lo teneva in mano come un trofeo.

 

Un altro ghigno.


“Due chiamate perse! Proprio vero che, quando ci si diverte, al telefono non ci si pensa!”

 

Non aveva sentito la vibrazione ma del resto la giacca, che ormai doveva tenere aperta, era più appoggiata alla sedia che a lei, ed aveva avuto ben altro di cui preoccuparsi.

 

“Il suo cavalier servente le ha anche mandato un messaggio: Imma dove sei? Rispondimi, dimmi che stai bene, ti prego! Quanta eloquenza! Quanta solerte preoccupazione! Sarebbe un vero delitto lasciarlo così in pena, no?”

 

Non capendo dove volesse andare a parare, lo vide armeggiare col cellulare e poi sentì gli squilli, in viva voce, mentre lui le mostrava il display col nome Calogiuri.

 

Ma a che gioco stava giocando e-

 

Di colpo, Romaniello chiuse la chiamata.

 

E certo, probabilmente voleva torturarla e torturare Calogiuri, o forse mandargli quella telefonata per depistarlo e fargli credere che lei stesse bene e-

 

“Perché accontentarci di una chiamata, no, dottoressa? La tecnologia ha fatto così tanti passi in avanti! Meglio una bella videochiamata, anzi, facciamo le cose per bene. Che, come diceva la cattivissima anima di mio padre: le cose o si fanno bene o non si fanno! Lascio a lei immaginare a che genere di cose si riferisse!”

 

Completamente presa in contropiede, lo vide avvicinarsi al proiettore della piccola sala, usato per mostrare prove, video o altro. Ci collegò il suo cellulare, attaccandolo ad uno dei tanti cavetti, e lo accese, con un’abilità che decisamente il cancelliere medio non aveva, che ci perdevano sempre ore a farli funzionare.

 

Un’altra vibrazione, stavolta la sentiva, ed era il telefono che tremava sul metallo del proiettore mentre, sul telo bianco steso sul muro in fondo, appariva un’immagine ingrandita e un po’ sgranata dello schermo del cellulare - i mezzi erano quelli che erano.

 

“Imma? Imma stai bene?!”

 

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“Imma? Imma stai bene?!”

 

Sentì solo un respiro e la chiamata si interruppe.

 

Ormai sempre più in panico, dopo le chiamate perse e quella brusca interruzione, stava per riprovare per l’ennesima volta, quando sul cellulare apparve la richiesta di fare una videochiamata ed era proprio da Imma, con l’icona grigia e anonima che teneva da quando aveva cambiato il numero e ce l’avevano in pochissimi, di fiducia assoluta.

 

Magari era chiusa da qualche parte e non poteva parlare ma solo farsi vedere?

 

Rispose subito e all’inizio non capì, perché venne abbagliato da una luce e poi gli apparve davanti una roba chiara e sfocata.

 

“Imma? Imma?!”

 

“Buonasera capitano, quanto tempo!”

 

Un brivido freddo lungo la spina dorsale nel riconoscere quella voce e, subito dopo, il ghigno di Romaniello, finalmente a fuoco.

 

Ce lo avrebbe messo lui a fuoco, letteralmente!

 

Ma poi la telecamera si spostò, da quella anteriore a quella posteriore e vide un pezzo di qualche aula che roteava vorticosamente e infine, un pugno allo stomaco: Imma, legata ad una sedia.

 

“Calogiuri! Qualsiasi cosa ti dica, non dargli retta, hai capito?!” urlò, con lo sguardo di quando non voleva dare a vedere le emozioni, di quando voleva rassicurarlo, ma lui la conosceva troppo bene ormai.

 

Avrebbe voluto dirle tante cose, ma non sapeva se lei poteva vederlo e sentirlo. E poi di nuovo la telecamera frontale, il baffetto di Romaniello e quegli occhi gelidi che sibilavano un, “e certo! La dottoressa non vuole far sapere al suo cavalier servente quanto ci stavamo divertendo solo io e lei. Ma adesso lo saprà, si dovrà rendere conto che non c’è competizione con me, dottoressa.”

 

“Dove siete? Dove l’avete portata?” domandò, ignorando tutte le provocazioni, anche se il sangue, da gelido, gli ribolliva nelle vene.

 

“E che gusto ci sarebbe a fare tutto il lavoro per voi, capitano?”

 

“Che cosa volete, Romaniello?”

 

“Che cosa voglio? Tante cose, tante cose, tra cui dare una bella lezione a un po’ di gente. Ma dovrebbe capirlo da solo, ora che è pure diventato capitano. Che poi, al massimo capitan Findus, con quella faccia da merluzzo lesso che si ritrova, anzi in pescheria ho visto esemplari assai più svegli di lei!”

 

Doveva stare calmo, non doveva rispondere, non doveva cedere alle provocazioni, anche se era una parola. Non riusciva a capire dove fossero: non lo conosceva così il bene il tribunale, non era stato in tante aule nel corso di quegli anni romani, soprattutto non in posti così piccoli.

 

Alle sue spalle apparve Mancini, finendo nel feed della telecamera, chiedendo, “che succede?”

 

“Ho trovato Romaniello, è… è con Imma.”

 

“Ossequi al dottore e, per essere precisi, sono io che ho trovato voi. Che se stavamo ad aspettare voi, stavamo freschi, non è vero, dottoressa?”

 

La telecamera era sempre quella frontale, ma inquadrò per un attimo i vestiti di Romaniello - e ciò che vide gli fece crescere ancora di più la rabbia - e poi si allontanò e nell’inquadratura c’erano sia lui, sia Imma che un pezzo dell’aula.

 

Mise il microfono sul muto e chiese a Mancini e agli altri, che nel frattempo si erano assiepati alle sue spalle, “riconoscete dove sono?”

 

Mancini fece avanzare le guardie del tribunale, che di sicuro se ne intendevano più di tutti loro messi insieme, ma in quel momento un “e no!” rabbioso lo portò a guardare di nuovo verso lo schermo e Romaniello.

 

“E no, così non va proprio bene! Niente suggerimenti, capitano! Riaccenda quel microfono o la sua bella si troverà con qualche ruga in più sul viso!”

 

E in quel momento, Romaniello sollevò una mano e c’era qualcosa che ci luccicava dentro, come un vetro sporco e appuntito, che abbagliava quando si rifletteva nella telecamera. Lo puntò dritto al collo di Imma.

 

Un gemito, un paio di gocce di sangue ed il terrore più totale, la voglia di spaccare tutto e raggiungerla in ogni modo. Per fortuna, Romaniello si fermò a quel taglietto superficiale.

 

“Ci deve arrivare il capitano, niente suggerimenti o questa ruga si farà sempre più profonda.”

 

“Va bene, va bene, Romaniello, niente suggerimenti, li faccio allontanare.”

 

“Ma no, finché non parlano possono godersi lo spettacolo, anzi devono godersi lo spettacolo. Noi non siamo egoisti, no, dottoressa?”

 

Romaniello si girò di nuovo verso Imma, che aveva un’espressione che non si sarebbe mai scordato, un’espressione da guerriera, impassibile. Con la mano libera, fece segno agli altri di scrivere invece che parlare.

 

Mancini annuì e lo vide armeggiare con il cellulare e passarlo a una delle guardie, che ci scrisse un numero, il numero dell’aula, e glielo mostrò.

 

E poi lo schermo di Ranieri, che si era piazzato dietro la telecamera e scriveva:

 

Chiamo i ROS

 

Gli fece il segno di ok con la mano, cercando di non farsi notare: doveva guardare il più possibile lo schermo e stare calmo, controllato.

 

Romaniello, purtroppo e per fortuna, era più concentrato su Imma, mentre le prometteva delle cose che gli facevano andare tutto il sangue alla testa, tipo che le avrebbe fatto provare com’era stare con un vero uomo, accarezzandola sopra i vestiti in un modo che gliele voleva mozzare quelle mani.

 

Da un lato non avrebbe mai voluto assistere a quella scena, dall’altro, mentre Romaniello era distratto, cercò di fare segno a Imma, per accertarsi se potesse vederlo.

 

Anche se non riusciva nemmeno immaginare cosa stesse provando lei in quel momento - e quello lo terrorizzava e lo faceva sentire impotente e inutile - sperò che lei fosse lucida e pronta come lo era sempre. Quando vide il cenno impercettibile del capo di Imma, le fece il segno di sbattere le palpebre.

 

Uno

 

Due

 

Tre

 

Imma chiuse e riaprì tre volte le palpebre, guardandolo come per rassicurarlo, quando avrebbe dovuto essere lui a rassicurare lei.

 

Stiamo arrivando, Imma, stiamo arrivando! - cercò di farle capire e il lieve accenno di sorriso di lei, mentre chiudeva le palpebre altre tre volte, gli diedero una motivazione e una forza, una rabbia, come mai prima.

 

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Quel tremendo odore di marcio sulle labbra, la lama sul collo, quelle mani che gliele avrebbe staccate con un coltello poco affilato, che facesse più male, cercò come poteva di pensare solo a Calogiuri, alla piccoletta e a come uscire di lì.

 

Per fortuna Calogiuri la capiva come sempre con uno sguardo, ma doveva stare attentissima a non farsi beccare da Romaniello, che d’accordo che UNA cosa in testa c’aveva, da sempre, ma non era scemo.

 

Un grattare al collo, e sentì la lama scendere, fino alla benda di fortuna. Un rumore di stoffa che veniva strappata e la vide volare nella stanza, oltre la sua testa.

 

Per un attimo le mancò il fiato, perché l’altra mano tornò ad afferrarla per il collo - l’unica consolazione era che almeno non vagava più in altri posti - ma la lama scese ancora e udì un altro suono di stoffa tagliata.

 

Il vestito, il vestito stava cedendo e sentì la lama scendere giù, sempre più giù, fino al seno. Pezzi di stoffa verde volavano e cadevano come stelle filanti.

 

Doveva stare ferma, doveva stare immobile, doveva stare calma, non farsi prendere dal panico. Guardò verso Calogiuri, odiando il fatto che lui la vedesse così e di non poterci fare niente. Lo vedeva che era sull’orlo di scoppiare, leggeva la rabbia e il dolore nei suoi occhi e anche il senso di colpa. Cercò di fargli segno di stare calmo, che andava tutto bene, anche se lo sapevano entrambi che non era vero.

 

“Mi voglio proprio godere lo spettacolo, piano piano, lo strip tease…” le sibilò sulle labbra, prima di fare un altro di quei suoi ghigni ed aggiungere, in tono cospiratorio, come se fosse il suo amante, il suo complice in un rapporto consensuale, “ora potremmo continuare dalle calze, che ne dici?”

 

Il nuovo passaggio al tu non era un buon segno e cercò di rimanere ferma anche quando sentì la lama e quella mano viscida sotto la gonna, che si sollevava sempre di più, fino al bordo delle autoreggenti - che con quella pancia i collant erano proprio da escludere.

 

Romaniello fece un’espressione sorpresa e sorrise ancora di più, mentre commentò un “bene bene, hai capito la dottoressa? Queste possono anche rimanere fino alla fine!” che la fece sentire tremendamente sporca.

 

Tornò a concentrarsi su Calogiuri, per non impazzire, e lo vedeva con la mascella contratta talmente forte che si sarebbe potuto spaccare i denti da solo, ma notò anche che lo scenario alle sue spalle cambiò. Stava camminando con la schiena attaccata al muro, probabilmente perché nessun altro la vedesse.

 

Calogiuri!

 

Se usciva viva di lì - e doveva uscire viva di lì - gli avrebbe detto che lo amava fino a sfinirlo.

 

Lo vide fare il segno di una telefonata e poi una R, una O, una S. I Ros. Per fortuna almeno un poco di linguaggio dei segni lo conoscevano.

 

Stavano arrivando i rinforzi, doveva resistere il più possibile senza che la situazione degenerasse e-

 

E Romaniello si voltò verso Calogiuri, che per fortuna ritornò quasi ad una maschera immobile, mentre quel maiale lo provocava con un, “la capisco, capitano, eccome se la capisco. Ha scelto proprio bene! La dottoressa ha un corpo meraviglioso, anche se lo nasconde sotto questi vestiti orrendi. Ma rimediamo subito.”

 

Di nuovo quel tremendo rumore di lama sulla stoffa - non sarebbe forse mai più riuscita a farsi gli stracci in casa, come la buonanima di sua madre le aveva insegnato - e il freddo dello specchio e dell’aria proprio sulla pancia, mentre cercava di trattenere il fiato. Il panico montava sempre di più, al percepire quella lama così vicina alla piccoletta, che aveva ripreso a scalciare come un’ossessa.

 

Stai ferma, piccolé, stai ferma! - provò a pregarla, neanche la potesse sentire, fino a che la lama non si fermò di nuovo, appena sotto al pancione.

 

L’altra mano sulla pancia, che la toccava in un modo quasi riverente che le appariva beffardo e come il peggiore degli schiaffi. La lama rimaneva vicino al fianco e d’istinto, senza pensarci, tirò con tutta la forza che aveva sui legacci ai polsi e alle gambe.

 

Nel giro di un secondo si rese conto che quello ai polsi stava cedendo e che Romaniello non doveva accorgersene.

 

E quindi urlò, per la prima volta urlò, mentre tirava più forte che poteva, benedicendo i maledetti tagli alla manutenzione, quando la plastica vecchia di quelle dannate cordicelle cedette, liberandole i polsi. Avrebbe ceduto anche quella alle caviglie, lo sentiva, ma non era ancora il momento: Romaniello se ne sarebbe accorto. I polsi li poteva, anzi li doveva tenere vicini, dietro la schiena, attendendo la giusta opportunità.

 

Guardò Calogiuri, terrorizzato, disperato e schifato - mentre Romaniello esclamava un, “così ti voglio!” carico di un’eccitazione che altro che nausea - e cercò di fargli capire che fosse tutto ok.

 

Come spiegargli che si poteva liberare?

 

“Certo che è proprio tosta, come la madre!” le sussurrò sulle labbra, toccando dove la bimba stava scalciando, “buon sangue non mente! Almeno ha preso da te e non da quel bambacione del padre. Ma… è una creatura così fragile, così innocente… basta così poco a cambiare una vita per sempre o a distruggerla, no, dottoressa? Basta un momento. Come quando mio padre mi ha spedito al riformatorio.”

 

Doveva farlo parlare, ma doveva ragionare molto bene su cosa dire e come dirlo.

 

“Suo padre ha sbagliato, Romaniello, ed è stato il padre che è stato, ma la sua vita se l’è rovinata lei, con le sue mani. Come sta facendo adesso, pensando di poter vincere così, tenendomi qui, legata. Ma non vincerà mai. E lo sa il perché? Perché io sono libera da tutte le catene, da ogni singola catena!”

 

Sottolineò le ultime parole guardando Calogiuri, cercando di fargli un cenno con le sopracciglia, pregando che avesse capito, per poi tornare a fissare quegli occhi di ghiaccio, così freddi e allo stesso tempo pieni di una terribile passione.

 

“Sono e sarò libera, sempre, fino in fondo. Mentre lei libero non lo è stato mai, Romaniello, diventando una pedina di suo fratello, come tutti gli altri. Io ce l’ho avuto il coraggio di spezzare i lacci che mi tenevano legata-” altro sguardo a Calogiuri “mentre lei no, le hanno pure fatto comodo, no? Diciamoci la verità!”

 

E mentre Romaniello, preso dalla rabbia, si distraeva, per un secondo fece segno a Calogiuri e poi abbassò lo sguardo verso i piedi - anche non riusciva bene a vederli, tra la pancia e Romaniello - e mosse leggermente le mani.

 

Calogiuri spalancò gli occhi e annuì: per fortuna si erano capiti.

 

“La verità? La verità? La verità è che io ho ripudiato la mia famiglia e i miei legami. Tu invece te ne sei solo creati di altri: con capitan Findus, con questa piccola rompicoglioni. Magari non proprio approvati dalla gente bene, perché lui è un ragazzino e non siete uniti dal sacro vincolo del matrimonio, ma sempre così terribilmente convenzionali. Non è di questo che hai bisogno.”

 

“Ah no? E di che cosa avrei bisogno?” lo provocò, per spingerlo a continuare a parlare, ma si rese conto dell’errore di valutazione commesso, quando la lama finì di nuovo sotto la pancia e sentì quel rumore orribile di stoffa lacerata.

 

“Di che hai bisogno? Di qualcuno che faccia uscire l’animale che c’è in te, e non solo con i vestiti o con questi bei completini, che sono sprecati per quel bamboccione!”

 

Il modo in cui le osservava il reggiseno e gli slip leopardati - mannaggia a lei che manco da incinta si era rassegnata ai mutandoni della nonna! - le diede un altro brivido, anche se si sforzò in ogni modo di non tremare. Romaniello continuava a tagliarle anche la parte della gonna, sempre più giù.

 

Fissò Calogiuri, per estraniarsi e per capire come stesse reagendo e, a parte che aveva uno sguardo omicida che non gli aveva mai visto prima, neanche nelle emergenze peggiori, lo vide farle cenno con la mano di aspettare e poi indicare fuori dalla telecamera. Pronunciò qualcosa che all’inizio non capì, ma per fortuna, alla seconda enunciazione, intuì che fosse un distrailo.

 

“Per fare uscire l’istinto animale le persone bisognerebbe lasciarle libere, non legate. E, se pensa di poterlo scatenare in me in queste condizioni, si sbaglia di grosso. L’unica cosa che scatena in me è la noia più totale.”

 

“Lo vedremo, dottoressa, lo vedremo…” sibilò lui e, con la coda dell’occhio, notò che Calogiuri agitava qualcosa in mano. Un foglio con su scritto…

 

DE LUCA È QUI

SIAMO QUI

 

Erano lì vicino, doveva tenerlo impegnato e-

 

In quel momento Romaniello fece per girarsi verso Calogiuri e allora lo provocò con un, “che cos’è, Romaniello? Ha bisogno dei suggerimenti di un vero uomo su come fare?”

 

Sentì lo scatto della testa di Romaniello, che la fissava a dir poco rabbioso, omicida.

 

Forse aveva esagerato, ma almeno aveva tutta l’attenzione su di sé.

 

“C’hai la lingua lunga, troppo lunga, dottoressa!” sibilò, e la lama le premette più forte sul collo, “sono anni che te la vorrei tagliare, questa maledetta lingua, ma poi penso che potremmo usarla per cose assai più piacevoli, non credi?”

 

Non fece in tempo a rispondere che si trovò due labbra viscide sulle sue, cercò di trattenere un conato di vomito ma non ci riuscì. Romaniello ne approfittò per infilarci la sua di lingua.

 

Fu un secondo, l’istinto, e gliela morse, più forte che poteva.

 

Romaniello si ritrasse, urlando di dolore, la mano con la lama scese per un attimo. Imma cercò di liberare le gambe, per calciarlo via, ma riuscì solo a far cedere il laccio a una delle caviglie, prima che un rumore ed un dolore fortissimo le fecero scattare di netto il collo verso destra.

 

Il cranio che le rimbombava come una campana, la vista che traballava, le orecchie che ronzavano, vide il palmo ancora alzato di Romaniello, che le aveva tirato uno schiaffo così forte che ancora un po’ perdeva i sensi.

 

Le urla, le urla di Calogiuri in lontananza, terrorizzato più di lei, e quegli occhi, quegli occhi stretti, quelle labbra tirate in un ghigno furioso.

 

Era ad un passo dal baratro, lo sentiva, anche prima che la lama ritornasse a premerle sempre più sul collo. E non solo quella.

 

Qualcosa le diceva che Romaniello non era solo nero, ma ancora più eccitato, se possibile.

 

Se voleva prendere tempo ed evitare il peggio, non doveva rispondere con la violenza, non doveva reagire troppo o sarebbe stato peggio.

 

Incrociò per un secondo gli occhi pieni di lacrime di Calogiuri, rabbioso e disperato come non mai, ma poi si sentì afferrare per il viso e dovette tornare a guardare Romaniello. Un rivolo di sangue gli usciva dalla bocca e si stava pulendo sulla camicia.

 

“È inutile che vi guardiate: tanto il tuo bel cavalier servente non può fare niente. Adesso sei mia, soltanto mia, finché mi pare e come mi pare, hai capito?”

 

Non rispose, era l’unica cosa da fare, non rispose.

 

“Non dici niente, eh? Non reagisci più? Dov’è finita tutta quella spocchia che hai sempre, tutto quell’orgoglio? Che cos’è, è bastato uno schiaffo per rimetterti al tuo posto?”

 

Nonostante la rabbia, lo schifo, la bile, il sangue che sentiva in bocca, stette zitta, anche quando fu baciata di nuovo con la forza, ma stavolta tenne le labbra serrate, non mosse un solo muscolo, come se fosse morta.

 

Sentiva che Romaniello era frustrato, sempre più frustrato, e finalmente quelle labbra schifose si levarono di mezzo e si sentì scuotere, con rabbia, e fu solo allora che sibilò un, “se mi vuole avere come un cadavere, se è anche necrofilo, può continuare pure così.”

 

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Era come se avesse un alveare in testa, le orecchie che gli ronzavano, mentre cercava di asciugare gli occhi, la rabbia che gli bruciava nel petto.

 

Doveva rimanere lucido, doveva farlo per lei che aveva una forza, un controllo che lui non sarebbe mai riuscito ad avere. Ma non poteva resistere ancora a molto, dovevano intervenire subito.

 

Guardò Mancini, che aveva uno sguardo omicida forse pari al suo, e poi De Luca, che stava tracciando note su una mappa del tribunale, insieme a Ranieri.

 

Fece segno di dargli una penna e con la mano libera scrisse:

 

Imma può liberare le mani e i piedi

 

De Luca annuì ed indicò il condotto di aerazione, che collegava l’aula dove era intrappolata Imma, di fronte alla quale si trovavano, con quella a fianco.

 

Vado io!


Due parole sulle note del cellulare di Mariani. La guardò con gratitudine.

 

Con mano un poco tremolante, mentre continuava a tenere d’occhio lo schermo, rispose:

 

Posso andare anch’io. Sono ancora molto magro

 

De Luca però fece cenno di no e, prima che potesse protestare, Ranieri gli mostrò il suo di telefono.

 

Solo tu puoi capirti così con Imma e non possiamo interrompere la telefonata

 

Gli faceva male, malissimo, dover restare lì a guardare senza fare niente, ma sapeva che aveva ragione e quindi fece un cenno di ok.

 

De Luca e Ranieri stavano dividendo i presenti in due squadre, a parte Mariani: una per sfondare le finestre, al momento dell’ingresso di Mariani, ed una per sfondare successivamente la porta, quando non sarebbe più stato troppo pericoloso farlo.

 

Possiamo usare i lacrimogeni?

 

De Luca, questa volta.

 

Per un attimo pensò alla bambina: i lacrimogeni non erano certo l’ideale per una donna in gravidanza.

 

Ma l’unica cosa che contava, più di qualsiasi altra, era salvare Imma.

 

E quindi con la sua penna diede la risposta finale:

 

Se serve. Fate di tutto per salvare Imma

 

E proprio in quel momento un urlo.

 

Ma non era Imma, era Romaniello, che urlava e la scuoteva di nuovo.

 

“Se non reagisci sei morta! Dieci, nove, otto…”

 

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“Sette, sei…”

 

La pelle del collo bruciava, probabilmente un altro taglietto, doveva fare qualcosa, doveva.


“Se mi uccide non avrebbe più alcuna soddisfazione, no?”

 

Romaniello digrignò i denti, il pungere della lama e poi finalmente potè respirare, il collo libero.

 

Almeno finché non sentì di nuovo la lama ma sulla pancia, che puntava dritto al suo ombelico.

 

Il gelo, il terrore, ma doveva stare calma, non doveva muoversi, per nessun motivo.

 

La piccoletta scalciava sempre di più, e sentì pure le piccole contrazioni del singhiozzo.

 

Altro che singhiozzo!

 

“Questa piccola bastarda ha proprio preso tutto da te. Ma non basterà a salvarla se non collabori.”

 

“Se uccide mia figlia di sicuro non collaborerò, anzi, non otterrebbe comunque quello che vuole, Romaniello.”

 

Si stupì di come le uscì la voce, con tutta quella calma apparente, quella decisione che non sentiva affatto.

 

“Lo so… ma si può sempre andare per gradi. Ci sono tanti modi di influire negativamente su una gravidanza, no? Ad esempio… una gomitata partita per sbaglio, o un pugno.”

 

Fece appena in tempo a percepire il pugno di Romaniello fendere l’aria e poi un rumore fortissimo, ma non sentì niente, nessun dolore. Si spaventò ancora di più, prima di capire che il pugno era stato indirizzato al bracciolo della sedia, appena accanto a lei.

 

Un chiarissimo avvertimento.

 

“Dottoressa… le conviene collaborare, ne terremo conto, come dici sempre tu.”

 

Erano agli sgoccioli, non poteva ancora tirare di molto la corda, lo sapeva. Un’occhiata a Calogiuri che le fece un segnale che era un… al mio segnale! e di nuovo quel distrailo!.

 

Romaniello, intanto, le aveva aperto del tutto il vestito e aveva ripreso a toccarla. Cercò di rumoreggiare un poco, per prendere più tempo e distrarlo, anche se avrebbe solo voluto vomitare e tirargli una testata.

 

Un altro foglio in mano a Calogiuri:

 

AERAZIONE

FINESTRE

TIENITI PRONTA

 

“Brava, così mi piaci!” si sentì soffiare nell’orecchio da quel maiale, felice che lei si lamentasse.

 

E poi di nuovo quelle labbra sulle sue e le tenne serrate, ma la lama premette di più sulla pancia, con un, “collabora, è l’ultimo avvertimento.”

 

“Se mi vuole far collaborare veramente ci sono altri metodi. O non è capace di usarli e teme il confronto con il bambino?”

 

Capì immediatamente, e non solo dallo sguardo di Romaniello, che a quelle parole si era ancora più ringalluzzito.

 

Viscidume sul collo ed era lui che glielo baciava e lo mordicchiava e cercò di estraniarsi, concentrandosi solo su Calogiuri e sul segnale. L’espressione di Calogiuri la stava uccidendo più di tutto il resto. Malediceva Romaniello e se stessa per essersi allontanata da sola come una scema e-

 

Il pensiero si interruppe bruscamente quando sentì il gelo della lama infilarsi sotto al reggiseno. Lo strappo e l’aria fredda sul seno, un altro conato di vomito, mentre percepiva la lama scendere ma per fortuna e purtroppo di lato, verso l’anca e gli slip.

 

“Tra poco si fa sul serio, dottoressa! Sei pronta?”

 

Guardò Calogiuri, che si mordeva le labbra, rabbioso e disperato quanto lei, lo implorò di distogliere lo sguardo ma lui scosse il capo e le fece il segnale di ci siamo!

 

Un rumore metallico e stavolta non era Romaniello, ma veniva dalla grata, Calogiuri indicò il naso e poi in basso e sapeva cosa intendeva, glielo aveva visto fare mille volte.

 

Sentì il coltello muoversi e, prima che potesse andare oltre, mo che poteva muoversi senza rischi per la bambina, inghiottì la bile e l’acido, si sporse leggermente e scontrò le sue labbra con quelle di Romaniello, che le spalancò per la sorpresa.

 

E lo baciò, violentemente, come sapeva che lui voleva, cercando di concentrarsi solo sulla meccanica, di non pensare, di staccarsi mentalmente da lui ma non da quello che la circondava.

 

Un altro rumore metallico, anche se distante - tutto era distante - sentì la presa di Romaniello allentarsi, la lama che probabilmente era finita sulla sedia, mentre l’altra mano stava scendendo dalla gola.

 

Prese un altro respiro col naso e scese leggermente con le labbra, toccandogli il mento e poi il collo, cercando di non aprire le labbra ma di fingere di volerlo baciare.

 

Il rumore di denti che si scontravano con altri denti, la testa che le girava e l’urlo di dolore di Romaniello, al quale aveva appena tirato una testata dritta sul naso. Sentiva il calore del sangue ma non si fermò: finalmente liberò le mani e lo spinse via con tutta la forza che aveva, giù dalla sedia, per terra, ai suoi piedi.

 

E gli sferrò uno, due, tre, quattro calci , ed ogni urlo di Romaniello era musica per le sue orecchie, anche se distante. Ma poi vide lo specchio caduto e si buttò in ginocchio per prenderlo, prima che ci riuscisse lui e si sentì afferrare per il polso, la stretta di Romaniello così forte che si tagliò alla mano e poi rischiò di mollare la presa.

 

Un boato improvviso, metallo e vetri, tutto intorno a loro. Una macchia di giallo all’angolo, l’urlo “arrenditi sei sotto tiro!”

 

Fu come se le sue orecchie si fossero stappate di botto: il grido di Mariani era potente come mai prima. Approfittò del momento di distrazione di Romaniello, per dargli una ginocchiata di nuovo , all’origine di tutti i suoi mali. Romaniello le mollò il polso e lei, d’istinto, spostò lo specchio e glielo premette alla gola.

 

La mano le tremava, le tremava fottutamente, una voce dentro di lei che urlava di affondare la lama, come un istinto primordiale che le gridava di uccidere, di vendicarsi.

 

“Dottoressa!”

 

La voce di Mariani e poi quel soffio da serpente che la incitava, “sì, dottoressa, uccidimi, liberati, segui la tua natura, il tuo sangue.”

 

Romaniello.

 

Maledetto!

 

Un altro mezzo boato, il rumore di legno sfondato e, non sapeva come, né con quale forza, ma i mobili davanti alla porta furono spinti in avanti. Calogiuri emerse insieme ad altri due uomini da quello che ne restava, quegli occhi ormai neri, serrati a fessura, ed un urlo straziante.

 

Nel giro di un secondo, quasi in automatico, si trovò a gettare la lama lontano, in un angolo, lontano da lui, non che facesse cazzate. E poi un altro grido non suo, di dolore stavolta, vicino allo sterno, e l’aria, l’aria fredda che la colpiva mentre il corpo di Romaniello si staccava finalmente dal suo, proiettato all’indietro.

 

Ossa che crollavano sul pavimento e poi si infrangevano sotto uno, due, tre, quattro pugni ed era Calogiuri, sopra Romaniello, che lo colpiva ancora e ancora, e non l’aveva mai visto così.

 

“Fermati!” urlò, buttandosi su di lui per bloccarlo, stringendolo da dietro per tenergli le braccia, più che poteva, col pancione di mezzo.

 

Un ultimo suono: quello della testa di Romaniello che ricadeva sul pavimento.

 

Calogiuri si era paralizzato del tutto, a mezz’aria.

 

Si tirò leggermente indietro, trascinandolo con sé, e poi lo fece voltare verso di lei, prendendogli il viso, per tranquillizzarlo e tranquillizzarsi.

 

Gli occhi rossi, rossissimi, bagnati come le guance, le labbra che sanguinavano da quanto le aveva morse, c’era un’indicibile sofferenza e senso di colpa, ma anche un orgoglio incredibile in come la guardava, che aumentava sempre di più.

 

Lo vide allungare una mano verso di lei ma poi fermarsi, come se avesse paura di farle altro male, che lei non gradisse. E quella premura così da Calogiuri la fece scoppiare in un singhiozzo, che risuonò con quelli della loro piccola guerriera.

 

Lo abbracciò, senza pensarci nemmeno un’altra volta, tirando un sospiro di sollievo e sentendosi finalmente al sicuro. Anche lui singhiozzava e la stringeva con quella forza e quella delicatezza che solo lui aveva.

 

“Ma che scenetta commovente!”

 

Romaniello!

 

Quella voce che le avrebbe per sempre dato i brividi, anche se era mezza impastata per via dei pugni presi e probabilmente di qualche dente saltato, la portò a lasciar andare Calogiuri, tenendogli però la mano, per poi girarsi verso di lui e quel sorrisetto mezzo sdentato.

 

“L’eroe che doveva salvare la sua bella e invece ha mandato avanti gli altri, come il mezzo uomo che è.”

 

Un ruggito ed Imma mise una mano davanti al petto di Calogiuri, per trattenerlo dal cedere alla provocazione.

 

Sentì i muscoli sotto le dita rilassarsi un poco: stava riprendendo il controllo.

 

“Intanto Calogiuri ha coordinato l’azione insieme a me e ce l’abbiamo fatta anche stavolta. E lei adesso se ne sta lì, ammanettato e bloccato come un salame, anche se non vorrei offendere i maiali, creature intelligentissime, paragonandoli a lei.”

 

Romaniello soffiò e Mariani e Mancini lo tennero fermo, perché lui provava ancora a sporgersi verso di lei, e dire che avessero pure loro uno sguardo omicida era dire poco.

 

In tutto quel muoversi, notò che per fortuna Calogiuri non aveva fatto troppi danni e purtroppo lei non gliene aveva fatti abbastanza: era ancora eccitato, eccitatissimo, forse più di prima.

 

Romaniello ovviamente capì subito dove le era caduto lo sguardo e sibilò un, “dottoressa, è stato bello anche per lei come lo è stato per me?”

 

Si limitò a sospirare e a intercettare Calogiuri, che era di nuovo sull’orlo dell’esplosione, per dargli un’altra pacca sul petto e dirgli, “lo vedi, Calogiuri? Non ne vale pena: più gli dai pugni e più è contento.”

 

“Non è di certo per lui che sono contento.”

 

“E chi può dirlo? Le vorrei dire che dove tornerà ora avrà modo di allargare i suoi orizzonti e sperimentare, non fosse che credo passerà parecchio tempo in isolamento e che non la augurerei nemmeno al mio peggior nemico. Poi con quella fiatella! Spero che il dentista del carcere sia capace di fare il miracolo.”

 

Romaniello ruggì di rabbia ma poi abbassò lo sguardo, puntando dritto al suo petto che era ancora nudo, scoperto.

 

Calogiuri schiumava, furibondo, e per un secondo ebbe la tentazione di coprirsi non solo da Romaniello ma da tutti. Una vocetta però la spinse a fare cenno a Calogiuri che non c’era problema e di aiutarla a tirarsi in piedi.

 

E così, piano piano ma dignitosamente, lo fecero ed affrontò con fierezza Romaniello, le mani sui fianchi, esclamando, al suo sguardo sorpreso, “eh beh? Che c’è? Non ho niente di cui vergognarmi, io. E anzi, sa cosa le dico, Romaniello? Che oggi mi ha fatto un gran favore. Perchè così, non solo si può scordare i domiciliari e il noiosissimo lusso nel quale ha vissuto negli ultimi anni, ma se, tra un po’ di tempo, quando lei sarà ormai vecchierello, a qualche avvocato venisse mai in mente di chiedere la sua scarcerazione, nessun giudice potrà mai credere né che lei sia innocuo, né ad un’eventuale buona condotta. E anche i permessi se li può scordare. Sì, ha fatto proprio un bel servizio alla collettività oggi, me ne congratulo con lei.”

 

Romaniello era sull’orlo di scoppiare e fu allora che, con immensa soddisfazione, proclamò, “portatelo via!”

 

Sapeva che non aveva alcun titolo per dare ordini ma tutti i presenti, Mancini e Mariani in primis, annuirono, tirarono pure lui in piedi, su gambe assai malferme, e lo trascinarono verso la porta.

 

“Tanti cari saluti a lei e famiglia, a mai più rivederci!”

 

Non appena Romaniello, con un’ultima occhiata ferale, sparì oltre l’angolo, si lasciò finalmente andare tra le braccia di Calogiuri. Cercò poi di coprirsi con la giacca che, in tutto quel delirio, era rimasta intatta, a parte qualche schizzo di sangue.

 

“Aspetta, prendi la mia,” si offrì Calogiuri, levandosi la giacca aperta e stropicciata e aiutandola ad infilarla in un modo che le diede la prima botta di commozione, mentre l’adrenalina cominciava a calare e la realtà di quanto era appena successo si faceva concreta e pesante.

 

Un peso tremendo: si sentiva esausta, come se fosse fatta di gelatina e braccia e gambe fossero di piombo, ma non doveva cedere, prima doveva uscire da lì.

 

“Ci sono altri feriti?” chiese, guardandosi intorno e trovando il viso preoccupato di Irene, che era entrata dalla porta ed aveva raggiunto Ranieri e De Luca.

 

“L’agente che sorvegliava Romaniello è morto - giusto per aggiungergli un altro capo di imputazione - ma per il resto stiamo tutti bene. Tu piuttosto? Forse è meglio che chiamiamo un’ambulanza e-”

 

“No, no, niente ambulanza, Irene: qua fuori ci stanno i giornalisti e non voglio altre speculazioni. Voglio uscire da qua sulle mie gambe, poi ci pensiamo.”

 

“No, non è che ci pensiamo: andiamo in ospedale e pure di corsa.”

 

Calogiuri, preoccupatissimo ed impositivo.

 

“Aiutami ad arrivare alla macchina e poi ci pensiamo. Qualcuno ha qualcos’altro con cui posso coprirmi? Che va bene che mo va di moda andare in giro con solo la giacca e quasi niente sotto, ma con questa pancia si apre tutto e vorrei almeno conservare un poco di mistero con la stampa.”

 

“Tieni questa.”

 

Sollevò lo sguardo verso Irene e si stupì nel vederle porgere la toga.

 

“La mia taglia è molto più grande della tua: dovrebbe coprirti del tutto. Aspetta che la appuntiamo con la spilla.”

 

E, come se le stesse porgendo una graffetta, Irene si levò la spilla d’oro che aveva sulla giacca, e che chissà quanto costava, e le richiuse la toga sul davanti, a mo di mantella - o di tendone, vista la sua pancia.

 

“Aiutateci a tenere lontani i giornalisti e usciamo di qua. Andate a preparare la macchina!” ordinò Calogiuri ai ragazzi della loro scorta che, con aria ancora scioccata ma anche impressionata, guardandola come se fosse una dea - la dea Kali per la precisione! - corsero fuori.

 

Sotto braccio a Calogiuri, circondata da Irene, Mancini, Mariani, Ranieri e pure Capozza, che aveva lo sguardo di chi aveva visto la morte in faccia - e non era Romaniello - si avviarono verso il corridoio e verso l’uscita del tribunale. Sentiva e vedeva già i flash e le urla in lontananza.

 

“Mamma! Mamma!”

 

Quel grido la fece arrestare di colpo. Mariani venne quasi buttata addosso a Mancini e al suo posto si trovò due occhi marroni allagati e due braccia che la stritolarono.

 

“Valentì…” sussurrò, con la seconda botta di commozione - mannaggia a lei!

 

“Sto bene, stai tranquilla, sto bene, va tutto bene,” cercò di rassicurarla, mentre Valentina piangeva più forte e mo pure lei singhiozzava allo stesso ritmo della sorellina.

 

Tutte a me!

 

Alla fine le prese il viso tra le mani per calmarla, facendo con lei due respiri profondi e dandole un bacio sulla fronte.

 

“Mo noi dobbiamo uscire, Valentì. Tu dì a tutti che sto bene e tra poco ci ritroviamo, va bene?”

 

Valentina annuì ma poi quasi la assordò con un, “ti voglio bene, mamma! Ti voglio tanto bene e sono tanto orgogliosa di te! Anche se ti sfotto sempre, ma…”

 

“Ma sei di famiglia, Valentì, è normale, mi preoccuperei del contrario.”

 

Un altro bacio sulla fronte e la lasciò andare, avviandosi verso i giornalisti con la sua scorta d’eccezione e a furia di “fateci passare!” “non abbiamo dichiarazioni!” e di spintoni riuscirono a guadagnare l’uscita.

 

L’aria di Roma non le era mai sembrata così fresca e pulita, neanche fossero in cima all’appennino lucano.

 

Arrivarono all’auto, finalmente, e Calogiuri la aiutò a infilarsi dietro, tenendola sempre mezza abbracciata, finché la portiera si richiuse.

 

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“Partiamo, andiamo all’ospedale!”

 

Sapeva che Imma avrebbe protestato, ma non ci potevano essere altre ragioni, anzi avrebbe chiamato la sua vecchia ginecologa.

 

Solo che non aveva più il numero.

 

“Imma, te lo ricordi il numero della ginecologa?” le domandò, che lei mandava a memoria qualsiasi cosa con una facilità impressionante.

 

Un secondo, un secondo di silenzio di troppo, senza proteste, senza risposte e si voltò verso Imma, una morsa a stringergli lo stomaco.

 

La vide lì, gli occhi chiusi, il corpo molle, svenuta, e si affrettò ad afferrarla prima che gli cadesse addosso al primo incrocio, gridando, “Imma, Imma!”, picchiettandole la faccia ed urlando agli agenti, “l’ospedale più vicino, subito!”

 

“Imma! Imma!” continuò a chiamarla, mentre la faceva distendere sul sedile e si abbassava a prenderle le gambe, per sollevarle il più possibile.

 

E fu allora che sentì, ancora prima che vederlo, un liquido caldo e viscido, che scendeva lungo le calze, nero come la disperazione che gli levava il fiato.

 

Sangue.

 

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Il cigolare di ruote sul pavimento.

 

Un rubinetto che perdeva.

 

I motori di qualche macchinario che vibravano dalle sale lì vicino.

 

Passi e parole delle poche persone in attesa e di chi entrava e usciva dalla zona riservata ai medici e alle emergenze.

 

Tutto gli sembrava amplificato a mille e lontanissimo insieme. Percepiva tutto e non percepiva niente.

 

Riusciva solo a pensare ad Imma, pallida ed esanime su quella barella e alle poche parole che aveva sentito dai medici prima che lo mollassero lì, a fare la cosa che più di tutte odiava: aspettare, impotente, senza sapere, senza poter fare nulla.

 

Per fortuna i ragazzi erano stati velocissimi, con la sirena erano arrivati al pronto soccorso in pochissimo tempo, ma gli era sembrato infinito, con quel maledetto sangue che non poteva fermare. Per fortuna non era molto ma aveva letto nei mesi precedenti, si era informato sui rischi principali in gravidanza e sapeva che non era detto che fosse un buon segno, né che l’emorragia fosse facile da bloccare.

 

Ma più di tutto era stato vedere Imma, la sua Imma, la sua dottoressa, sempre così forte, combattiva, fino all’ultimo, così pallida, così indifesa, così piccola nelle sue braccia.

 

E nemmeno il terrore provato quando era in mano a Romaniello, il senso di impotenza e di inutilità, erano paragonabili a quella morsa che stringeva il cuore, lo sterno e la pancia. Mai il rischio della… no non poteva pensare a quella parola! Ma mai il rischio era stato così vicino, così concreto, così impossibile da prevenire e prevedere.

 

La piccoletta… l’aveva sentita scalciare fino all’ultimo e l’idea di non conoscerla mai, quando già sentiva di conoscerla da sempre, con quel suo caratterino uguale a Imma…

 

Imma…

 

L’idea di una vita senza Imma non aveva senso, non era possibile, non era concepibile, semplicemente non era vita quella senza di lei.

 

Quello lo paralizzava più di tutto: perdere la piccoletta sarebbe stato un dolore inimmaginabile, ma perdere lei… non sarebbe mai riuscito ad andare avanti, nonostante le promesse che le aveva fatto, e lo sapeva.

 

Non sarebbe mai riuscito a perdonarsi in ogni caso il non averla saputa proteggere, il non esserci stato, l’averla persa di vista, l’averla lasciata sola, il non poter fare niente mentre lei subiva quello che aveva subito, il non averle potuto evitare quello schifo, quel trauma che forse si sarebbe portata dietro per sempre, anche se fosse andato tutto bene, ma l’alternativa…

 

Il mare gli rimbombava nelle orecchie, la testa gli scoppiava e la vista era sempre più appannata, non ci capiva più niente, nulla aveva senso, ma doveva essere forte per lei e-

 

“Calogiuri!”

 

Quella voce acuta, stridente in mezzo a tutta quell’ovatta, lo portò a girarsi di scatto verso la sua destra e l’inizio del corridoio.


Valentina con la sua scorta.

 

Rimase per un attimo immobile, mentre lei si avvicinava, urlando “dov’è mamma? Come sta?!” in un modo che era un altro pugno al petto.

 

Si alzò, in automatico e, senza sapere come, trovò la forza per enunciare, “è dentro. Ha… ha avuto un’emorragia e… gliela devono fermare e…”

 

Non riusciva ad aggiungere altro, perché tutto quello che poteva dire o ipotizzare era inaccettabile non solo per lui ma anche per Valentina.

 

Un singhiozzo e se la ritrovò tra le braccia, che piangeva come una bambina. Cercò di stringerla più che poteva, di provare a calmarla, ma la verità era che non riusciva nemmeno a calmare se stesso, a fare forza a se stesso, figuriamoci a lei.

 

“Valentì!”

 

Pietro e Rosa, che si tenevano stretti come per sorreggersi a vicenda.

 

Valentina si staccò bruscamente e con un “papà!” disperato gli corse incontro, buttandoglisi addosso.

 

Fu come uno schiaffo, non per Valentina, che era giusto e normale che volesse suo padre in un momento del genere, ma perché… perché forse per lui un amore del genere non ci sarebbe stato mai più. E non solo per la piccoletta, ma per Imma. Qualcuno che lo amasse in modo così incondizionato, che si fidasse così di lui, mentre lui forse non sarebbe più riuscito nemmeno a fidarsi di se stesso, figuriamoci ad amare se…

 

“Fratellì!”

 

Nemmeno gli occhi di Rosa ed il modo in cui lo stritolava riuscirono a farlo sentire meglio, anche se provò a ricambiare.

 

“Fratellì, mo devi lottare fino all’ultimo, non devi lasciarti andare, chiaro? Devi essere forte per Imma, hai capito?”

 

“Lo so… ma…”


“Niente ma! O chiamo ma’ a farti il trattamento completo.”

 

Gli scappò un sorriso, nonostante tutto, e prese per le guance sua sorella, dandole un pizzicotto come quando erano bimbi, pure se erano lavate di lacrime come le sue.

 

Un rumore di passi e vide Pietro, che si stava avvicinando con Valentina, ancora aggrappata a lui.

 

Lo sentì schiarirsi la voce e poi stringergli una spalla e dargli due pacche sulla schiena. Seppure con gli occhi rossi, voleva fargli forza.

 

Lo capì, si capirono all’istante, senza bisogno di parole: del resto Imma era stata la donna più importante della vita di Pietro, a parte Valentina, per moltissimi anni e… l’aveva amata tanto quanto l’amava lui, e probabilmente pure mo, anche se in modo diverso.

 

E quindi lo abbracciò, fregandosene del fatto che fossero tra uomini, cercando solo di non dare fastidio a Valentina e si trovarono a piangere come due scemi, insieme.

 

“Scusate…”

 

Un sussurro un poco timido e familiare, alzò gli occhi e vide Mariani, insieme a Mancini, entrambi in forte imbarazzo. E poi, subito dietro, Irene e Ranieri e-

 

“Valentì, Ippazio”

 

La signora Diana che, con la sua solita energia, si staccò da Capozza e corse avanti a tutti, raggiungendoli ed abbrancandosi prima Valentina e poi lui, in quel modo che non si capiva chi stesse consolando chi.

 

“Come sta? Che ha?”

 

“Un’emorragia, stanno cercando di fermarla e… e non so altro.”

 

Diana annui, gli occhi enormi, ma poi lo guardò con decisione ed esclamò, “Imma è forte! Non si fa fermare da niente! Ne ha passate tante, povera Imma, ma passerà anche questa, vedrai!”

 

Non fare promesse che sai di non potere mantenere, Dià!

 

La voce di Imma, chiarissima, netta, la voce della sua coscienza.

 

Ma ci voleva credere, ci doveva credere, doveva sperare, fino in fondo.

 

*********************************************************************************************************

 

Un aroma di caffè e una mano con un bicchierino davanti al viso.

 

“Grazie,” sussurrò, per non svegliare Rosa che si era assopita sulla sua spalla, visto che quella di Pietro era già occupata da Valentina.

 

Irene si limitò ad annuire con un, “non è granché, ma meglio di niente.”

 

Nonostante avesse provato a convincerli ad andare a riposare, e nonostante le proteste di un’infermiera, erano ancora tutti lì, in attesa.

 

Avrebbe solo voluto avere notizie ma i medici a cui aveva chiesto avevano ribadito che bisognava aspettare.

 

Mancini e Ranieri erano i più imbarazzati, forse si sentivano un po’ fuori posto. Diana e Capozza avevano invece un’aria combattiva, persino lui era andato a dirgli di “non fare lo scemo, capitano!” e la vicinanza di Diana gli faceva bene, si vedeva.

 

Un’altra pugnalata al pensiero di lei e di quanto lei non gli facesse solo bene ma gli avesse trasformato la vita in meglio. Lo avesse trasformato in una persona migliore, anche se non abbastanza, evidentemente, non abbastanza per proteggerla come avrebbe voluto.

 

Irene invece lo aveva ripreso sotto la sua ala, come ai vecchi tempi, ed era stata quella più pragmatica su come organizzare le cose, su chi avvisare, su quali dottori sentire - aveva anche chiamato la sua amica ginecologa, che era arrivata giusto un’ora prima. Era il suo modo di manifestare il bene e di tenersi impegnata, un po’ come faceva con Bianca - e in quello era simile ad Imma.

 

Vitali era sembrato molto colpito, colpitissimo, tanto che si era allontanato un paio di volte per nascondere l’emozione. Il rapporto tra lui ed Imma era molto più profondo e complesso di come poteva sembrare, da sempre.

 

Mariani… era Mariani, dolce ma forte e il suo sguardo positivo e carico di fiducia - che non sapeva se fosse reale o una maschera messa per lui, ma era comunque abbastanza convincente - se non era servito a lui - nulla poteva davvero servire in quel momento, se non la notizia che Imma stesse bene - di sicuro era servito a Valentina, insieme alla presenza di Pietro, e tanto bastava.

 

Per il momento, almeno.

 

Bevve d’un sorso quel caffè schifosissimo, rimpiangendo ogni caffè preso con Imma, da quegli che gli aveva sempre offerto al bar, nonostante le sue proteste, da quando era solo un appuntato, a quelli che le aveva preparato nella casa di Matera prima e in quelle di Roma poi. Ogni caffè portato la mattina, ogni cappuccino, con il suo amato bombolone e…

 

Si ritrovò di nuovo con la vista appannata, senza neanche rendersene conto, e stretto in un altro abbraccio, di Irene stavolta.

 

Solo che, non per colpa di lei, ma gli ricordava quelle settimane orribili in quel residence, senza Imma e quanto fosse inconcepibile per lui la vita senza di lei.

 

Un rumore, una porta che si apriva, e ne uscì la loro ginecologa storica, l’amica di Irene, che si avvicinò a loro, mentre Irene le chiedeva, “hai notizie, vero?”

 

La vide annuire e balzò in piedi, la morsa quasi lo soffocava, cercando di capire qualcosa dall’espressione di lei, ma non riuscendoci.

 

“Siamo riusciti a bloccare l’emorragia, abbiamo dovuto fare una trasfusione ma… non ha perso troppo sangue-”

 

“Ma?” domandò, perché sapeva che c’era un ma e quel ma non lo faceva respirare.

 

“Ha avuto un distacco della placenta abbastanza importante. Per fortuna siamo riusciti a stabilizzarla e a fermare le contrazioni ma… le prossime ore saranno fondamentali per capire se bisognerà indurre il parto o se si può aspettare. Essendo passate le ventotto settimane ed essendo il feto ad un alto percentile di crescita, se necessario ci sono buone possibilità di sopravvivenza ma… ci potrebbero essere conseguenze di lungo termine per la sua salute. Quindi… più riusciamo ad aspettare e meglio è, ma non bisogna fasciarsi la testa già da ora. L’importante è che Imma rimanga tranquilla e a riposo assoluto, evitare altre emorragie o contrazioni. So che ha avuto diversi eventi traumatici nell’ultimo periodo e nelle ultime ore, quindi… il suo supporto è fondamentale, capitano, soprattutto nei prossimi giorni, che sono cruciali.”

 

Il sollievo nel saperla viva, nel saperle vive, fu fortissimo ma… ma si rese conto che rischiava di essere solo temporaneo, e non poteva permetterlo, non poteva permetterselo né permetterglielo.

 

“Ditemi cosa posso fare: tutto quello che posso fare lo farò e pure di più! Imma è la priorità assoluta, chiaro?”

 

La dottoressa annuì, intenerita ma anche un po’ a disagio, soprattutto quando aggiunse, “per me è chiaro ma… quando riprenderà i sensi, dipenderà da lei e solo da lei che cosa fare, non da noi, né da lei, capitano. Le è chiaro questo?”

 

E sì, gli era chiaro, gli era chiarissimo e pregò chiunque potesse ascoltarlo che quella scelta non dovesse arrivare mai, che Imma non dovesse portare anche quel peso, anche quella croce, dopo tutte quelle che già si era caricata sulle spalle.

 

Ma se così non fosse stato… sapeva cosa doveva fare.

 

*********************************************************************************************************

 

Luce, una luce fastidiosa negli occhi che bruciavano.

 

E poi nausea ed un cerchio che le si stringeva intorno alla testa.

 

“Imma? Imma? Imma?”

 

Il suo nome, come un’eco che le rimbombava nel cranio, ma allo stesso tempo così familiare e-


“Ca- Calogiù?” si trovò a pronunciare, con la bocca riarsa e la voce impastata, cercando di aprire gli occhi.

 

Una mano nella sua, che la stringeva fortissimo, un altro “Imma!” che si riecheggiava all’infinito, seguito da un “sono qui, mi senti? Mi vedi?”

 

E, finalmente, la luce lasciò spazio a macchie di colore, poi a un bianco sporco e sfocato, e poi infine, in mezzo a tutto quel bianco, vide, sempre più nitido, l’azzurro.

 

Gli occhi di Calogiuri, finalmente a fuoco nei suoi, occhi pieni di lacrime, e quel sorriso, quel sorriso sollevato e triste come non l’aveva mai visto - ed era tutto dire.


“Calogiù… dove… dove siamo? Che…?” cominciò a chiedere, confusa, ma poi un dolore alla mano, al collo, i muscoli della pancia che neanche quando aveva dato retta a Diana ed era andata con lei a fare una terribile lezione di pilates.

 

E poi quel ghigno, quella faccia.

 

“Romaniello!” esclamò, mentre tutto tornava all’improvviso, come un fiume in piena, “il tribunale… siamo in ospedale? La bambina?!”

 

Le era uscito un urlo e cercò di portarsi la mano non stretta da Calogiuri alla pancia, ma era tutta fasciata - se l’era tagliata con quel maledetto specchio! - e non capiva, e andava in panico, e sentiva un bip aumentare di frequenza e-


“Imma! Stai tranquilla, non ti devi agitare e-”

 

Nostra figlia, Calogiù?! Come sta nostra figlia?!”

 

“Adesso te lo dico, ma devi calmarti e-”
 

“Col cazzo! Dimmi come sta, mo, subito!”

 

“Se mi prometti di restare calma, te lo dico, ma c’è: è qui, nella pancia, come sempre-”

 

Il tocco lievissimo di lui sull’addome, il calore anche sotto gli strati della camicia da notte ospedaliera e del lenzuolo. Fu allora che lo sentì.

 

Un calcetto, uno solo, più debole del solito, ma c’era, c’era davvero, era viva! Era ancora lì con lei, con loro!

 

Senza riuscire a trattenersi, scoppiò in un pianto liberatorio e si trovò a stringersi a Calogiuri che le sussurrava di cercare di stare ferma, che doveva cercare di calmarsi, anche se lo sapeva che non era facile.

 

Il tono e il tocco delicatissimi di Calogiuri, come se avesse paura di farle male o metterla a disagio, le fecero bene e male al cuore insieme, mentre si sforzava di tranquillizzarsi, anche perché doveva saperne di più.

 

“Come sta la bimba?” gli domandò infine, staccandosi per guardarlo bene negli occhi, “c’era un ma, è vero?”

 

“Hai avuto un distacco della placenta e quindi un’emorragia. Sono riusciti a fermarla e a bloccare la situazione, per ora, ma… ma mo devi stare ferma, a riposo assoluto. Se si stacca di più dovranno… indurre il parto.”

 

Fu come se la lama di quel maiale le si fosse conficcata nel cuore. Era presto, troppo presto!

 

“Ma è troppo piccola e-”

 

“Mi hanno detto che anche a sette mesi, al giorno d’oggi, ci sono buone possibilità ma… ovviamente più riesci a portarla avanti e meglio è. Per questo devi stare tranquilla, anche se lo so che è quasi impossibile ma… bisogna evitare altre contrazioni, altre emorragie.”

 

Annuì, occhi negli occhi con lui, che cercava di farle forza, ma sapeva che non era scemo il suo Calogiù e che era preoccupato quanto lei.

 

“Come stai? Hai male?” le chiese poi, con quella premura che era solo sua.

 

“Tengo come un cerchio che mi stringe sulla capa, Calogiù, che altro che l’aureola che non ho, qua! E poi un po’ di nausea e male ai muscoli.”

 

“Hai avuto un lieve trauma cranico, credo per… per la testata…. E hai la pressione un po’ alta, te la stanno riducendo, ma anche per questo devi cercare di-”

 

“Stare calma, sì, Calogiù, ho capito. Ma lo sai che, quando mi dicono di stare calma-”

 

“Ti incazzi tre volte tanto. Lo so, dottoressa ma… sui sinonimi sei tu quella che ne sa di più.”

 

Gli sorrise e lui ricambiò, anche se debolmente. Era incredibile, un vero miracolo poter avere ancora quei momenti insieme, potergli parlare, poterlo sfottere e sentirsi sfottere, nelle piccole cose. Aveva davvero temuto di non poterlo fare mai più.

 

“Quanto… quanto devo stare in ospedale?”

 

“Non lo so… dipende da come andrà nei prossimi giorni ma… se riesci a continuare con la gravidanza dovrai comunque restare bloccata a letto e monitorata, quindi…”

 

“Quindi vuoi dirmi che devo stare in ospedale fino al parto?!” esclamò, preoccupata da quella prospettiva, che già stare ferma per lei era difficile, poi in un ambiente così…

 

Ma per la piccoletta lo avrebbe fatto, avrebbe fatto di tutto, ma ci sarebbe uscita di testa, già lo sapeva!

 

Calogiuri sembrò leggerle nel pensiero, senza bisogno di parole, perché le baciò la mano non fasciata, per farle forza, con quella venerazione che la stupiva sempre, soprattutto dopo tutti quegli anni insieme: forse era ancora maggiore che ai primi tempi.

 

“Ho sbagliato… è stata tutta colpa mia e non me lo perdonerò mai.”

 

“Ma che dici, Calogiù?” gli domandò, stranita, guardandolo meglio per capire se fosse serio, ma lo era.

 

“Ti ho perso di vista e non ti ho trovata per tempo e… e non sono riuscito a intervenire prima e-”


“E non devi dirlo nemmeno per scherzo, Calogiù! Sono io che devo chiedere scusa a te: la colpa è mia che… mi sono allontanata da sola, come una scema. Ma in tribunale mi sentivo al sicuro e poi… avevamo appena vinto e…”

 

“E abbiamo vinto, dottoressa, abbiamo vinto. E la colpa è solo e soltanto di… di quel bastardo e, se proprio per una volta ti devi scusare per qualcosa, tienitelo per quando so che non vorrai stare ferma, che ti conosco! Non per questo che… dovevi andare in bagno, la piccoletta preme, lo so.”

 

“Calogiù!”

 

Un altro abbraccio, fortissimo da parte di lei, leggero come una nuvola da parte di lui.

 

Si era proprio spaventato, Calogiù, anzi, terrorizzato. Gli prese il viso tra le mani, lo baciò sulla fronte e lo guardò dritto negli occhi, per rassicurarlo come poteva, anche se nessuno dei due sapeva del tutto come sarebbe andata e ne erano consapevoli entrambi.


“Comunque vadano le cose con… con la bambina… per me tu sei la priorità assoluta. Senza di te… senza di te la mia vita non avrebbe senso e devi stare in forze, indipendentemente da come andranno le cose. Devi pensare prima a te, non c’è nessuno di più importante. Me lo prometti?”

 

Le venne da singhiozzare, sia per tutto l’amore e il dolore in quelle parole, sia perché…

 

“Ma come faccio a promettertelo?”

 

“Devi promettermelo. Non solo per me, ma per Valentina, che è preoccupatissima, per il piccoletto, per tutti.”

 

Un altro singhiozzo ed annuì, piangendo insieme a lui.


“Te lo prometto.”


Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo capitolo 79 che è stato davvero molto difficile da scrivere, ho cercato di essere il più “delicata” possibile nel farlo e di trasformare anche un momento drammatico e potenzialmente umiliante in un momento di presa di forza, di battaglia e di vittoria. Anche se indubbiamente avrà delle conseguenze non solo fisiche ma psicologiche e saranno affrontate nei prossimi capitoli, che saranno comunque più leggeri nei toni.

Ci stiamo sempre più avviando alla conclusione di questa storia, non mancano molti capitoli, anche se non li saprei quantificare. Ci sono ancora diversi punti di trama da chiudere per arrivare a quel finale che ho pianificato ormai da tanto tempo e spero che continuerà ad essere interessante per voi che leggete e, soprattutto, verosimile.

Ringrazio tantissimo tutti voi che mi avete recensito e mandato messaggi e commenti in questo periodo, le vostre parole mi danno sempre uno stimolo pazzesco a cercare di fare sempre meglio. Quindi aspetto i vostri commenti, positivi o negativi che siano.

Un grazie anche a chi ha messo questa storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 12 marzo, in caso di ritardi vi avviserò come al solito sulla pagina autrice.

A presto e grazie ancora!

 

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Capitolo 80
*** La Vocazione ***


Nessun Alibi


Capitolo 80 - La Vocazione


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Il lieve rumore di russare le ricordò un poco le fusa di Ottavia e le strappò un sorriso intenerito: Calogiuri stava dormendo in una posizione assurda, mezzo seduto, mezzo sdraiato, nella stanza privata che avevano assegnato loro. Uno dei pochi vantaggi di essere sotto scorta.

 

Avrebbe dovuto svegliarlo per spedirlo a letto, invece che stare appollaiato sulla sedia, ma sentire il calore del suo fiato sul lenzuolo, che le soffiava sulla mano, le dava un senso di pace al quale non voleva rinunciare ancora, dopo tutto quello che era successo.

 

Per fortuna Francesco lo stavano tenendo la Santa Maria, Irene e Ranieri, pregando che non li facesse dannare. Ottavia stava con Rosa.

 

Non aveva ancora visto nessuno, a parte Calogiù, ma sperava di poter incontrare presto almeno Valentina. Doveva solo riuscire ad addormentarsi per fare arrivare veloce la mattina, ma ogni volta che provava a chiudere gli occhi aveva la sensazione di cadere e si svegliava di colpo.

 

Rassegnata, recuperò il cellulare e cominciò a scorrere le notizie, per vedere se fosse uscito qualcosa su quanto successo in tribunale.

 

Era pieno di articoli, con titoloni non solo sulla sentenza ma anche sul suo breve sequestro. Per fortuna, però, non sembravano essere usciti dettagli intimi e sensibili. C'erano foto di lei avvolta nella toga, sotto braccio a Calogiuri, e la definivano "La fiera e coraggiosa PM", "Un'eroina contemporanea", "La salvatrice di Matera", "La guerriera di Matera", c'era persino un articolo in cui la paragonavano alla dea della giustizia. E non erano manco prese per il culo, no, erano seri.

 

Lei ed Irene venivano osannate quasi unanimemente: dopo quello che aveva combinato Romaniello, i giornalisti non avevano potuto fare altro che unirsi in una ferma condanna e commentare positivamente la sentenza. Come cambiava veloce il vento in Italia, se pensava a cosa scrivevano di lei fino a ventiquattro ore prima.

 

Eugenio Romaniello doveva star desiderando ardentemente di ammazzare il fratello. E chissà, forse lo avrebbe fatto fare davvero. Si domandò cosa avrebbe provato in tal caso, ma si rispose che non era più un suo problema. Quello che doveva fare l'aveva fatto, era giunto il momento di andare avanti e non permettere più ai Romaniello di condizionarle la vita, anche se non sarebbe stato facile.

 

Scacciando l'immagine mentale del ghigno di Romaniello, aprì l'ennesimo articolo, intenzionata a scorrerlo velocemente, ma si trovò a leggerlo con inaspettata attenzione: era scritto molto bene, con un sacco di dettagli sul processo, sui sospettati ed anche una descrizione accurata ma rispettosa del momento del sequestro.

 

Secondo fonti autorevoli, grazie al sangue freddo della dottoressa Tataranni e del capitano Calogiuri... 

 

Al leggerlo capitano le venne un piccolo colpetto allo stomaco, e non era la piccoletta. Si voltò e gli sfiorò teneramente la guancia: era sempre così bello e innocente quando dormiva.

 

…la situazione si è potuta risolvere rapidamente. Purtroppo la guardia predisposta a sorvegliare Romaniello ha perso la vita. La dottoressa Ferrari ha già garantito un'indagine interna e che ci sarà un nuovo processo a Romaniello, per questi ulteriori capi d'imputazione. Rimane tuttavia improbabile che Saverio Romaniello possa riavere un giorno la libertà e credo di esprimere un sentimento comune nell'augurarmi che episodi come quello di oggi non abbiano a ripetersi.

 

Le sarebbe quasi sicuramente toccato rivederlo al processo e l'idea di ritrovarsi con lui in tribunale le causò un piccolo conato, mentre la piccoletta tirava un calcetto come per dire lasciami dormire.

 

E teneva ragione, teneva.

 

Per distrarsi, controllò per curiosità di chi fosse l'articolo.

 

Frazer.

 

E bravo!

 

Di solito non l'avrebbe fatto, ma voleva dare a Cesare quello che era di Cesare e doveva in qualche modo far passare il tempo.

 

Quindi selezionò il profilo social di Frazer - che il numero era sparito col vecchio telefono - e gli scrisse dal profilo che non usava mai.

 

Bell'articolo, complimenti. Non ci si abitui però!

 

Inviò, convinta che lo avrebbe letto il giorno dopo - forse avrebbe potuto cogliere l'occasione per capire come stesse procedendo la situazione e che notizie fossero circolate - quando le arrivò la notifica di risposta.

 

Come sta? Ho saputo che è in ospedale, spero nulla di grave.

 

Le pigliò un colpo.

 

Quanti lo sanno? Sta già girando la notizia?

 

No, stia tranquilla. L'ho saputo solo io, credo, e sto cercando di tenere la notizia riservata. Capisco perfettamente la delicatezza del momento. Non è una cosa che i lettori sono tenuti a sapere e al massimo verrà fuori con il nuovo processo a Romaniello, o se se la sentirà di parlarne in futuro. Ma sta bene?

 

Insomma… ma si guarda avanti. Ma come l'ha saputo che sono in ospedale?

 

Se leggerà le notizie nei prossimi giorni, potrebbe trovare una sorpresa. Spero che le piacerà e non deve preoccuparsi: nulla di negativo, anzi!

 

Stava per rispondergli che, quando uno le diceva di non preoccuparsi, era perché l'aveva già fregata tre volte, quando il "a chi scrivi a quest'ora?" di Calogiuri la fece sobbalzare, ed eccalà un altro calcetto.

 

"Scusa, non volevo farti agitare…"

 

Trovò i suoi occhi nella penombra e notò che era preoccupato ma anche… un poco geloso?

 

Le sfuggì un sorrisetto.

 

"Con un uomo bello, alto, moro, ben piazzato e con tanti capelli. Quasi come i tuoi…"

 

L'espressione di Calogiuri era tutta un programma e le venne da ridere, pentendosene subito, visto quanto dolevano i muscoli.

 

"Non dirmi che sei geloso pure con me conciata così! E comunque era Frazer. Ha scritto un bell'articolo, molto preciso, gli ho fatto i complimenti e… si vede che soffre di insonnia pure lui."

 

Calogiuri tornò dalla gelosia alla preoccupazione, ma c'era qualcosa di strano.

 

"Che c'è, Calogiù?"

 

"Niente, niente."

 

"Non raccontarmi storie, che mi fai preoccupare e non mi devo agitare. Che c'è?"

 

Lo vide sospirare e fare la faccia di quando non sapeva come darle una notizia che non le sarebbe piaciuta.

 

"Allora?"

 

"Adesso che ci penso… Frazer era seduto accanto a Valentina al processo. E poi l'ha aiutata a raggiungermi, quando si è scatenato il panico."

 

Altro che nausea! Altro che non agitarsi!

 

"Devo sentire Valentì. Mo!" proclamò, sbloccando lo schermo, ma Calogiuri le bloccò il polso.

 

"Se la chiami ora le fai prendere un colpo. Può aspettare fino a domani, no? Tanto verrà a trovarti e ne parlerete di persona."

 

"Ma magari le ha carpito delle informazioni e…"

 

"E finora non è uscito niente. E comunque Valentina non è stupida: di sicuro non va a raccontare cose al primo che passa."

 

"Speriamo…" sospirò, prendendo un respiro per calmarsi e facendo scorrere il polso in modo da afferrargli la mano, "sei sempre più saggio, Calogiuri."

 

"Faccio quello che posso per starti dietro, dottoressa."

 

"Non che mi dispiaccia quando mi stai dietro, ma ora che ne diresti di starmi un poco a fianco?" chiese, facendo segno al pezzetto di letto vuoto.

 

"Lo so che lo abbiamo già fatto ma… e se ti tocco per sbaglio la pancia nel sonno?"

 

"Sei così delicato che in ogni caso non c'è problema, Calogiù. E poi, in quel caso, ci penserà la piccoletta a svegliarti."

 

Calogiuri aveva gli occhioni lucidi ma era ancora un poco esitante.

 

"E dai: non riesco a dormire altrimenti! E poi occupi ancora poco posto, anche se oggi hai tirato fuori una forza incredibile. Pensavo che lo avresti ucciso!"

 

"Se non mi avessi fermato, forse lo avrei fatto davvero," sospirò lui, stringendo i pugni e la sua mano, "come va?"

 

"A parte la pancia, i dolori vanno un po' meglio, non ti preoccupare."

 

"Non intendo solo quelli ma… di testa come va? Lo so che devi riposare ma… con tutto quello che ci è successo, se l'offerta è sempre valida, forse un po' di terapia ci farebbe bene."

 

Si ricordò di quella proposta, fattagli quando era poco più di pelle ed ossa ed aveva toccato il fondo.

 

"Te l'ha suggerito qualcuno?"

 

"Sì, sia la ginecologa che Mancini.  E forse… forse ne abbiamo bisogno, anche perché saranno settimane complicate."

 

"Non sono molto tipo da terapia, Calogiù, ma se ci sei anche tu per me va bene. E in effetti è meglio non rischiare di traumatizzare l'inquilina più di quanto già farei normalmente."

 

Calogiuri le baciò la mano, sollevato, ma un dubbio le provocò un’altra botta d'ansia.

 

"Ma, se poi alla terapia non passiamo i test, non è che ce la portano via?"

 

"Mica è un esame! E, in ogni caso, figuriamoci se tu non passi qualcosa, dottoressa!"

 

Gli diede un pizzicotto in viso e poi se lo tirò a sé per piantargli un bacio.

 

Fece di nuovo segno al lenzuolo e Calogiuri, con la sua solita cura e attenzione, si stese accanto a lei. Gli prese la mano e il calore del fiato che le solleticava il collo finalmente la fece cadere in quel sonno di cui aveva tanto bisogno.

 

*********************************************************************************************************

 

"No! No! No!"

 

Le mani di quello schifoso che la stringevano, si sentiva come in una morsa.

 

“Imma! Imma!”

 

Calogiuri! Ma non lo vedeva, non riusciva a vederlo e voleva che la trovasse, ma non che la vedesse in quel modo e-

 

“Imma!”


“Calogiù!”

 

Con un mezzo urlo ed un sobbalzo gli occhi le si spalancarono, trovando davanti a sé non l’azzurro serpentino di Romaniello, ma gli occhioni buoni e preoccupati di Calogiuri, che la fissavano, pieni di terrore.

 

Era tutta avvolta nel lenzuolo: era quello che la stringeva. Calogiuri le sfiorava solo un braccio, con quella delicatezza che fece evaporare il panico e l’aiutò a tranquillizzarsi.

 

“Scusa, ma… ho fatto un sogno…”

 

“Eh… lo so…” sospirò lui, con l’aria di chi stava deglutendo un rospo in gola, e si chiese quanto e cosa avesse urlato.

 

Sollevò una mano ancora un po’ tremebonda, ad accarezzargli il viso, per tranquillizzarlo e tranquillizzarsi, nonostante le sue dita fossero gelate e la guancia di Calogiuri le sembrasse bollente.

 

C’era così tanta sofferenza in quei occhi, che rifletteva la sua, e si chiese se e come se ne sarebbe mai andata.

 

“Fatemi passare! Devo vederla!”

 

Quell’urlo, così poco consono a un ospedale, la distrasse e sia lei che Calogiuri si voltarono verso la porta.

 

“Fatemi passare! Mi hanno detto che oggi potevo vederla ed è già mattina!”

 

“Valentì…” sospirò, scuotendo il capo: sua figlia non si smentiva mai, “ma che ore sono?”

 

“Le otto, dottoressa, le otto.”

 

“Fosse stata così mattiniera quando doveva andare a scuola! Che a volte ce la dovevo trascinare giù da quel letto, ce la dovevo!” esclamò, anche se una parte di lei era commossa da tutta quella preoccupazione.

 

E Calogiuri lo sapeva, la conosceva troppo bene.

 

“Vado a dire di farla entrare?” propose infatti lui, con un sorriso.

 

Stava per annuire ma non ce ne fu bisogno, perché successero tre cose praticamente in contemporanea.

 

Bussarono alla porta.

 

L’agente di guardia entrò mortificato con un, “scusate, ma c’è una visita, posso farla passare?”

 

E Valentina lo superò agevolmente, la guardò, urlò un “mamma!” da spaccarle i timpani e se la ritrovò a piangere attaccata al suo povero collo.

 

Un moto di tenerezza, pur in mezzo alle fitte alla cervicale, mentre cercava di tranquillizzarla con qualche pacca sulla schiena.

 

Si guardò con Calogiuri che, se da un lato era preoccupato per l’irruenza di Valentina e stava lì a controllare che non la toccasse dove non doveva, dall’altro era commosso pure lui.

 

Infatti fece per alzarsi con un “vi lascio sole…” tremendamente da lui, ma in quel momento dalla porta fece capolino timidamente pure una chioma assai familiare, lo sguardo molto imbarazzato, oltre che intenerito.

 

Penelope.

 

Come se ne avesse percepito l’ingresso in stanza, Valentina si staccò un poco da lei, il viso lavato di lacrime, e si voltò verso la sua ragazza, che le sorrise in modo incoraggiante.

 

Imma ne approfittò per abbrancare la mano di Calogiuri e tornare a farlo sedere vicino a lei: e che cavolo!

 

E poi non voleva staccarsene, non ancora, pure se era felicissima di vedere Valentì e avrebbe dovuto prima o poi parlarle da sola.

 

Valentina tirò su col naso, si asciugò il viso come poteva con le mani, prima che Calogiuri le porgesse la confezione di fazzoletti dal comodino, in quel modo così naturale che aveva solo lui.

 

Mentre Valentina si ricomponeva, Imma fece cenno con la mano a Penelope di avvicinarsi pure.

 

“Tranquilla, non mordo. E tranquilla pure tu, Valentì, sto abbastanza bene: mi toccherà restare bloccata così per non so quanto, ma sto bene, non ti devi preoccupare, hai capito?”

 

Tra uno svuotamento del naso e l’altro, Valentina annuì, ma si intuiva dal modo in cui si mordeva il labbro che aveva davvero avuto tanta paura.


Del resto non era mica scema Valentì.

 

Le diede una carezza al viso umido e Valentina tornò per un attimo ad abbracciarla, per fortuna un poco meno a morsa, prima di staccarsi e dare un’ultima soffiata al naso.

 

“Stai davvero bene? Hai male da qualche parte? La… la piccoletta come sta?”

 

Una fitta ma piacevole: alla fine faceva tanto la dura ma, forse, all’idea della sorellina un poco si stava affezionando pure lei.

 

“Un poco sballottata, diciamo che si è fatta un po’ di giri in lavatrice, ma per ora non molla. Capa tosta, di famiglia,” proclamò, facendole l’occhiolino e lanciando un’occhiata di avvertimento a Calogiuri, come a dirgli e mo saranno cavoli tuoi!

 

Se il tentativo di alleggerire la situazione un poco con Valentina funzionava, con Calogiuri no, ma la capiva e tanto bastava.

 

“E tu? Tu come stai?”

 

“Eh… pure io un poco sballottata, Valentì, ma potevo stare peggio. Tengo solo un poco di male alla capa e le tue urla melodiose non aiutano.”

 

“Parli proprio tu, mà!” la sfotté Valentina, beccandosi volentieri un pizzicotto sul fianco e Imma si trovò con un bacio stampato sulla guancia.

 

“Non sono morta, Valentì, lo sai, sì, vero?” scherzò, perché erano anni che Valentina non era così fisicamente affettuosa, “per l’estrema unzione tocca ancora aspettare.”

 

“Mamma…” sospirò Valentina, per poi guardare Calogiuri e pronunciare un “ma tu come fai a sopportarla?” carico di affetto.

 

Fu il turno di Calogiuri di piantarle un bacio sull’altra guancia e quel momento così sdolcinato da farle pizzicare gli occhi, le impose anche di schiarirsi la voce.


“E tu come va, Penelope? Ti fa tanto disperare Valentì?” domandò, per cambiare argomento.

 

Penelope sorrise, con quel sorriso che la illuminava e illuminava la stanza. Almeno su quello lei e Valentina avevano gusti simili.

 

“No, no, anzi, Vale è forte, non si deve preoccupare. E anche lei-”

 

“Anche tu-” le ricordò Imma: Penelope, per quanto era alternativa, faceva una fatica immane ad essere informale con lei, specie se non si vedevano per un po’.

 

“Anche tu. E poi… fighi i capelli! Molto punk!”

 

Al commento di Penelope, che non era manco di sfottimento ma solo divertito, si ricordò improvvisamente di quelle dannate ciocche verdi e rosa. Con tutto quello che era successo, l’errore di tinta era stato l’ultimo dei suoi pensieri.

 

“Eh… maledetto hennè! Però potrei valutare seriamente di farlo diventare parte permanente del mio look, così da far inghiottire la bile a qualche procuratore capo in più.”

 

“Quello precedente altro che inghiottire la bile…” ironizzò Valentina e il modo in cui Calogiuri tossicchiò ed il suo sguardo, per un attimo torvo, la portarono a dargli un pizzicotto e un altro bacio.

 

“Vi direi di trovarvi una stanza, ma ci state già!”

 

Si staccò subito per assestare un altro pizzicotto, a Valentina stavolta.

 

Mentre, seppur immobile, li vedeva interagire, tra uno sfottimento e l’altro, si rese conto di quanto era fortunata e di quanto aveva rischiato di perdere.

 

E doveva fare di tutto perché non succedesse, perché anche la piccoletta, che contribuiva solo con un debole calcetto ogni tanto, stesse bene e potesse andare a completare quel casino ingarbugliato, ma che non avrebbe mai cambiato per nulla al mondo, che era la sua famiglia.

 

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“C’è qualcosa che devi dirmi?”

 

L’aveva beccata in contropiede, quando Penelope e Calogiuri erano usciti per lasciarle sole, e notò subito l’agitazione nello sguardo di Valentina.

 

“In… in che senso?”

 

“Nel senso che stanotte ho letto un articolo di Frazer e gli ho scritto un messaggio e… mi sembra che sappia un po’ di cose che non dovrebbe sapere. E che pensi? Che non ho notato che eravate seduti vicini al processo?”

 

Era una bugia, ovviamente, non aveva notato nulla, ma i bluff a fin di bene aveva imparato a farli per deformazione professionale.

 

Valentina sbiancò e poi arrossì.

 

Cattivissimo segno. Pessimo, proprio.

 

“Valentì…”

 

“Aspetta! Prima che ti preoccupi, o ti arrabbi, ho qualcosa da farti vedere.”

 

“Eh, quando dici così, finisce che mi preoccupo già tre volte.”

 

Valentina le passò il cellulare con il pdf di quella che era evidentemente la bozza di un articolo.

 

Cominciò a leggerlo e il panico la prese fin dalle prime frasi.

 

Tutto cominciò con una scritta sotto casa, rossa come il sangue. TATARANI TROIA SEI MORTA! Tutto maiuscolo ma con una enne sola perché, come dice sempre mamma, citando Murphy, più grande è la scritta, più grande sarà l’errore. Allora non capivo, non capivo il perché mia madre si ostinasse a fare quel lavoro, a metterci in pericolo, per come la vedevo io, a impedirmi, con le sue preoccupazioni e i suoi problemi, di avere un’adolescenza normale. Mio padre mi disse che noi eravamo normali: chi non lo era, chi doveva vergognarsi era chi quelle scritte le faceva, chi viveva nella criminalità. Allora non lo capivo ma ora lo capisco e, anche se questi anni non sono stati per niente facili, sono fiera di mia madre e grata per tutto quello che mi ha insegnato con il suo esempio.

Dopo quella scritta, per un po’ le cose parvero calmarsi, almeno fino a quando trovarono Don Mariano Licinio, morto in un campo. Da lì la nostra vita sarebbe cambiata per sempre, anche se non mi rendevo ancora conto di quanto.

 

“Valentì, che significa?”

 

“Che… Frazer mi ha chiesto di raccontare la storia dal mio punto di vista, dal punto di vista dei materani. Se non vuoi che lo faccia uscire lo capisco, mà, però… a me è sembrata una buona idea, visto che tu certe cose non le puoi dire, ma io sì”

 

Il mal di testa non aveva fatto altro che aumentare. Pure se, più leggeva, e più le toccava ammettere che l’articolo era abbastanza ben scritto, anche se forse in modo un po’ naif. E poi non diceva nulla di troppo sensibile. Era più un racconto emozionale - come avrebbero detto quelli che creavano quelle installazioni da rapina per i turisti - che un resoconto dei processi. Ma era accurato, per quello che narrava. La firma finale era sia di Frazer che di Valentina stessa.

 

“Ma… pure la firma?”

 

“Sì, me l’ha detto lui che voleva firmassi anch’io. Ci siamo sentiti un po’ di volte, per i miei post che ho fatto su questa storia. E sì, gli ho dato una mano per l’articolo che ha fatto uscire, quello che hai letto stanotte, correggendo alcune cose e-”

 

“E tu gli hai detto che stavo all’ospedale.”

 

“Sì, perché avremmo dovuto vederci per terminare la scrittura di questo ultimo articolo, ma ovviamente ero in ospedale e avevo cose più importanti a cui pensare. Comunque lui mi ha garantito che non avrebbe detto niente e ha mantenuto l’impegno, no?”

 

Imma sospirò, toccandosi le tempie che pulsavano.


“Sì, Valenti, mo ha mantenuto l’impegno. Per poche ore. Chissà se lo manterrà più a lungo. E comunque bisogna stare attenti coi giornalisti: anche i migliori comunque fanno il loro mestiere, non ci si può fidare così e-”

 

“E non ti agitare mà, per favore. Se vuoi, questo articolo lo cestino e non uscirà.”

 

Sospirò di nuovo: e che le poteva dire? Alla fine era un suo diritto dire la sua, soprattutto dopo tutti quegli anni così complicati anche per lei.

 

“Valentì, io non voglio soltanto che ti bruci, in tutti i sensi, che stai attenta a chi dai la tua fiducia.”

 

“Ma Frazer mi è sempre sembrato una persona seria e mi sembra di aver scelto la persona giusta a cui dare fiducia, al di là del giornalista.”

 

Un altro tuffo al cuore e un nodo allo stomaco.

 

“Valentì… ma non è che ti piace sto Frazer?”

 

Valentina spalancò gli occhi e scoppiò a ridere.

 

“Mà, te l’ho già detto, le storie con grande differenza d’età le lascio a te e a Calogiuri. Io sono felice con Penelope e, dopo tutto quello che abbiamo passato, me la voglio tenere stretta.”

 

“Eh ma Frazer magari ha il suo fascino e tu non puoi sapere le intenzioni di lui quali sono.”

 

“A me piace quello che scrive e a lui piace quello che scrivo. Stop. E, se anche avesse certe intenzioni… ho imparato da te su come reagire, no?”

 

Valentina mimò una ginocchiata da manuale e, pure se le fece un male cane ai muscoli,  non poté evitare di ridere.

 

Forse non era stata del tutto un fallimento come madre e sperava davvero di avere una seconda possibilità di fare di meglio con la piccoletta, con tutto quello che aveva imparato, volente o nolente, con e da Valentina.

 

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“Allora?”

 

Erano ormai giorni e giorni che era lì, immobile su quel letto. Per fortuna non avevano dovuto indurle il parto, ma cominciava ad essere stufa. La ginecologa l’aveva appena visitata, dopo averle fatto una miriade di test. Nella stanza c’erano solo loro due e Calogiuri, apprensivo ma di supporto come sempre.

 

“Allora Imma, ho una buona notizia e una cattiva.”

 

“Risparmiamoci la manfrina, che succede?” tagliò corto, perché su quell’argomento non aveva né tempo né voglia per i giochetti.

 

“La situazione pare essersi sufficientemente stabilizzata da non portare a temere un peggioramento della situazione nell’immediato, ma a patto che tu mantenga il riposo assoluto.”

 

“E quindi?”

 

“E quindi non è più necessario il ricovero qui-”

 

A quelle parole si illuminò, come se le avessero dato la migliore notizia del mondo.

 

“MA non puoi tornare a casa. L’ideale è che tu rimanga fino al parto in una struttura di lungodegenza, specializzata in casi come questo. Così potrai essere monitorata ed evitare gli sforzi.”

 

Altro che illuminazione, il buio più totale. Altri mesi bloccata a letto, chissà dove.

 

Si sentì stringere la mano da Calogiuri, che la guardava, deciso.

 

“Quello che serve per il bene tuo e della piccoletta, ricordi?”

 

E certo che si ricordava la promessa che gli aveva fatto, mica era scema!

 

“Ma… ma dove si trovano strutture del genere?”

 

“Ce ne sono diverse, ma personalmente mi sento di consigliarne una, che è la migliore, ecco qua.”

 

La dottoressa aprì la sua valigetta e le mostrò un opuscolo su questa fantomatica struttura. A parte il nome latino, che pareva un canto di chiesa, notò subito una cosa: suore, suore ovunque.

 

“Ma-”

 

“Le strutture di questo tipo sono quasi tutte gestite da religiosi o, come in questo caso, da religiose. Ma è una struttura molto seria e-”

 

“Ma hai presente la situazione mia e di Calogiuri, no? Ci mancano solo le suore che mi giudicano perché viviamo nel peccato fuori dal sacro vincolo del matrimonio!”

 

La ginecologa, per tutta risposta, rise.

 

“Non dico che alcune non siano così, ma conosco personalmente la superiora. Era compagna di corso di mio zio a medicina, una delle prime donne a diventare medico in Italia. Ha una mentalità apertissima, te lo garantisco, e anche la maggior parte delle suore che lavorano lì. Sono professioniste.”

 

Si guardò con Calogiuri, che aveva un’aria tra il preoccupato e l’imbarazzato.

 

“Ma voglio avere Calogiuri con me. E Francesco e Ottavia!”

 

La ginecologa sospirò.

 

“Hanno anche delle specie di mini appartamenti, per chi deve rimanere più a lungo, quindi… credo sia possibile. Ma non devi fare sforzi Imma, né con una micia né con un bimbo piccolo che richiede attenzioni.”

 

“Sì, ma non lo posso abbandonare mo, di punto in bianco. Ho preso un impegno e intendo mantenerlo. E anche Ottavia. Qua non si abbandona nessuno. O tutti o niente!” proclamò, decisa, cercando il supporto di Calogiuri che annuì, commosso.

 

“Vedrò cosa posso fare.”

 

“E la retta astronomica che ci sarà da pagare?”

 

“Per quella non ti devi preoccupare, sei sotto protezione, ricordi?”

 

“Sì, ma non è che mo i contribuenti devono accollarsi tutte le mie spese mediche.”

 

“Tranquilla, che in qualche modo risolviamo.”

 

“Quando mi dicono che devo stare tranquilla-”

 

“Mi preoccupo già tre volte!” pronunciarono all’unisono sia la dottoressa che Calogiuri.

 

Si coalizzavano pure mo, mannaggia a loro!

 

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“Benvenuti.”

 

Asciutto ma non apertamente ostile, così era stato il saluto della superiora, una donna altissima e sottile, la cui postura non sembrava essere stata più di tanto scalfita dagli anni. Non avesse avuto la tonaca e il velo, sarebbe potuta sembrare una ex ballerina di danza classica, tra il fisico e il portamento.

 

Le scocciava dover essere in sedia a rotelle, spinta da un solerte Calogiuri, che però ebbe un mezzo sussulto. Si voltò per guardarlo e pareva in forte imbarazzo, sicuramente frutto dell’educazione ricevuta su religione e figure religiose.

 

“Lei è?” domandò Imma alla superiora, con un tono altrettanto asciutto, di chi non si sarebbe fatta intimidire.

 

“Suor Elisabetta. Le consorelle mi chiamano madre.”

 

“Io una madre già lo avuta, anche se non è più tra noi, grazie. E che la chiami sorella… non so se le conviene, dottoressa.”

 

La superiora sospirò, ma parve sorpresa che sapesse del suo titolo medico. Poi però annuì e fece segno di seguirla.

 

Calogiuri riprese a spingere la carrozzina, con ritmo ancora più lento che agli inizi: probabilmente, oltre al timore reverenziale, neanche lui era così entusiasta di essere lì, anzi.

 

Sentiva i passi dei ragazzi della scorta, che li seguivano a distanza.

 

La superiora infilò la mano in una tasca, nascosta tra le pieghe della veste, e ne estrasse una chiave. Aprì una porta che dava sul cortile interno della struttura e fece segno di passare.

 

Calogiuri, con un paio di manovre, riuscì a farle superare la soglia. Il mini appartamento non era piccolissimo, anzi, intravedeva la stanza da letto e quello che doveva essere il bagno: più o meno, come dimensioni, era paragonabile al loro appartamento di Roma.

 

Ma il paragone lì finiva, perché era tutto impersonale, asettico, austero, assai peggio pure dell’ospedale. Sembrava una cella monacale o una-

 

“Sembra di stare in caserma.”

 

Il sussurro di Calogiuri all’orecchio la fece sorridere. Perché sì non aveva, purtroppo e per fortuna, mai visto la stanza di lui in caserma, ma immaginava non dovesse essere molto dissimile come stile.

 

La suora entrò, non facendo cenno se avesse sentito meno, ma la squadrò, e lei ricambiò sentitamente.

 

Dopo un po’ di tempo passato a studiarsi, si voltò di nuovo verso Calogiuri, ma solo per chiedergli, “ci lasceresti un attimo da sole? Credo che abbiamo alcune cose da dirci.”

 

Calogiuri era sorpreso e anche preoccupato, ma lo incitò con lo sguardo a fidarsi di lei. Calogiuri sospirò, annuì e fece un cenno verso l’esterno, che era un se hai bisogno, sono subito qua! non verbale.

 

Anche la madre superiora sembrò presa in contropiede, ma si limitò ad aspettare che uscissero e chiudessero la porta, per poi farle cenno di parlare.

 

Imma le indicò una sedia, per ridurre il gap di altezza tra loro, ma la superiora rimase dov’era, dritta come un fuso.

 

“Senta, dottoressa. Lo so benissimo che la situazione mia e di Calogiuri non è convenzionale, almeno secondo i dettami della chiesa cattolica. Ma sono qua per portare a termine la gravidanza, mio malgrado, e mi auguro vivamente che non ci saranno problemi, ostilità o pregiudizi e-”

 

Per tutta risposta, la religiosa scoppiò in una risata sarcastica che le diede ancora più sui nervi.

 

“Ecco, tipo questo e-”
 

“Figliola,” esordì, fermandosi alla sua occhiataccia, “dottoressa va meglio?”

 

Imma alzò gli occhi al soffitto e annuì.

 

“Dottoressa, qua mi sembra che i problemi, l’ostilità e i pregiudizi li abbia lei. Per carità, non potrà sposarsi in chiesa o fare la comunione - cosa che dubito la turbi particolarmente - e indubbiamente alcune mie sorelle, o alcuni sacerdoti, o gente più in alto potranno non vederla di buon occhio. Ma a me, di quello che lei fa nella sua vita privata - e con chi - non interessa. Mi interessa che esca di qui in salute, possibilmente con sua figlia. Il resto sono paranoie sue.”
 

A quella parola, paranoie, tutti gli istinti protestarono, ma la suora alzò una mano, per bloccare la sua replica stizzita.

 

“Senta, parliamoci chiaro, da dottoressa a dottoressa, anche se in due campi diversi. Sono nata in una famiglia benestante ma molto tradizionalista, in un’epoca in cui le donne avevano scarsissima indipendenza e potere decisionale. Volevo studiare medicina e volevo decidere io della mia vita, non essere l’appendice di un uomo. E la via religiosa per me è stata la strada migliore in questo senso. Ho potuto laurearmi, esercitare in una qualche forma e guidare una comunità. Siamo due professioniste e tanto basta. A me delle sue credenze, religiose o no, importa assai meno del suo quadro clinico e degli esiti dei suoi esami. Su quelli sì che sarò implacabile, se lo aspetti.”

 

Ammazza!

 

Messa così, forse, poteva funzionare.

 

“E le consorelle? Tutte professioniste come lei?”

 

“Ma certo! Abbiamo altro di cui occuparci che di lei e del giovanotto qua fuori. Basta che non faccia i capricci-”

 

“I capricci?!” urlò, incredula e indignata: non era una bambina!

 

E, di nuovo, la suora rise.

 

“Ho quasi il doppio dei suoi anni, dottoressa. Per me lei potrebbe essere una bambina. E comunque, basta che non ci dia problemi e che collabori con le terapie. Poi può fare quello che vuole. Già le è stato concesso molto, mi pare, no?”

 

Imma sospirò, ma che poteva dire? Effettivamente, le sue richieste di portarsi dietro anche Ottavia e Francesco erano state accolte.

 

“Ora la saluto. A proposito, riguardo al gatto.”

 

“Gatta.”
 

“Ecco riguardo alla gatta, evitate di farla uscire. Ci potrebbero essere pazienti con allergie e ci manca solo questo.”

 

“Ottavia non esce mai. Se potesse, vivrebbe in clausura lei.”
 

“Ma io no, che dio me ne scampi!”

 

Facendosi il segno di croce e con un’ultima raccomandazione non verbale, che le ricordò la buonanima di sua madre, quando le intimava di non fare casini, la superiora aprì la porta ed uscì. Incrociò Calogiuri che per poco non cascò, con il balzo che fece per farla passare, senza starle troppo vicino.

 

Sarebbero stati mesi lunghissimi.

 

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MEEOOOOOOOOWWWWW!

 

La sentì già dal trasportino, che Calogiuri faticava a tenere in mano, tanto ci si agitava dentro.

 

"Ottà, buona, buona!"

 

Si udiva benissimo anche il fischio che era un col cavolo! non verbale.

 

"Non so se va bene farla uscire. Se è offesa e ti salta addosso?"

 

"Di solito quando è offesa, al limite, ci ignora. Dai, liberala, prima che ti si riapre la ferita al braccio."

 

Calogiuri sospirò, posò il trasportino e con una raccomandazione di "piano piano, eh!", lo aprì.

 

Non fece nemmeno in tempo a prenderla per la collottola, perché una pallina tigrata schizzò fuori, precipitandosi verso il letto e verso di lei.

 

MEEOOOOOOOOWWWWW!

 

La sentì prima su una gamba e poi direttamente attaccata al collo, che le faceva solletico con la lingua ruvida. Altro che offesa! Un groppo in gola che non andava giù. Manco con Calogiuri post ritorno dall'esilio era stata così.

 

"Guarda che non sono mica sporca io, non mi devi ripulire!"

 

Ma Ottavia continuò a miagolare, a leccarla, fino a darle un paio di testate tenere sulla guancia, guardandola come a dire ora non mi scappi più! Mi occupo io di te!

 

Poi, all'improvviso, smise con le coccole, inclinò il capo per studiarla - che manco lei coi sospettati - si voltò, la coda ritta ritta che ondeggiava, e miagolò verso la pancia. Stava per fermarla, quando Ottavia ci appoggiò il muso ma delicatamente, come se fosse in ascolto.

 

La piccoletta, che piano piano si stava riprendendo, tirò uno dei suoi calcetti.

 

Per tutta risposta, Ottavia miagolò, si voltò a guardarla e successivamente cominciò a fare le fusa alla pancia, come se volesse calmare sia lei che la piccoletta.

 

"Mannaggia a te, mannaggia!" le uscì con voce un poco strozzata.

 

Calogiuri pure aveva quegli occhioni enormi, di quando era a tanto così dal commuoversi.

 

Allungò la mano per tirarlo a sé in un bacio ed eccallà! le proteste da buoncostume di Ottavia.

 

Altro che le suore!

 

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Qualcuno bussò alla porta, in una maniera talmente debole che quasi non si sentiva.

 

Ma abbastanza per risvegliare Ottavia, che non la mollava un attimo e che era balzata ai piedi del letto, in posizione d’attacco, soffiando come avvertimento.

 

“C’ho pure la gatta da guardia mo, non bastavate tu e la scorta!” ironizzò con Calogiuri che, dopo aver dato una carezza e un’occhiata di avvertimento ad Ottavia, si avvicinò alla porta.


“Chi è?”

 

“Suor Cecilia. Avete visite.”

 

Le venne da sorridere, a sentire la esse particolarissima e il forte accento dell’ecuador con cui la suorina pronunciava l’iniziale del suo nome. Era la meno peggio lì dentro, infatti persino Ottavia si calmò un poco. Forse, come a lei, faceva tenerezza.

 

La porta si aprì ed entrò la giovane suora, gli occhi scurissimi mezzi abbassati. Appena incrociò Calogiuri, li abbassò del tutto ed arrossì, come faceva sempre quando lo vedeva, allontanandosi di un paio di passi. Calogiuri, quasi a specchio, fece esattamente lo stesso, il suo color rosato a rivaleggiare con quello più aranciato delle guance della suorina.

 

Ottavia miagolò e si voltò verso di lei con un’occhiata che era un chiarissimo questi sono tutti scemi! 

 

Ma lei li trovava adorabili: le persone timide, di poche parole, semplici, nel senso migliore del termine, le facevano sempre quell’effetto.

 

“Si può?”

 

Ottavia, a quella voce, iniziò a fare le fusa. Quello invece era assai meno spiegabile, ma tant’era.

 

Dalla porta, regale come sempre, entrò Ia ex gattamorta, seguita da un rumore degno di una sirena.

 

Il cuore le mancò un battito mentre udiva finalmente di nuovo il pianto di Francesco, che fece il suo ingresso in braccio ad un Ranieri che aveva visto giorni migliori.

 

Ottavia smise con le fusa e fece un miagolio stranito. Francesco si voltò: il suo viso tutto arrossato e i suoi occhioni pieni di lacrime mutarono in un momento di stupore, prima di quelle sillabe che per lei erano un regalo.

 

“Im-ma! Im-ma!” ululò, sporgendosi verso di lei, mulinando, che manco un elicottero, con manine e piedini.

 

Calogiuri si affrettò a prenderlo dalle braccia di Ranieri. Francesco non smise di piangere, anzi, protestò con un altro “Im-ma! Im-ma!” ancora più forte.


“Va bene, ma devi stare tranquillo, capito?”

 

“Mettimelo qua vicino, Calogiù, prima che ci facciamo cacciare con sti decibel!”

 

E Calogiuri, piano piano, glielo appoggiò vicino alle gambe. Francesco subito smise di piangere e prese a gattonare verso di lei, facendo segno di prenderlo in braccio.

 

Per tutta risposta, gli diede due carezze e poi si mise a fargli il solletico, per distrarlo per un po’, ma non sarebbe stato facile.

 

Sentì un peso sulla mano ed era Ottavia che, a sorpresa, invece di fuggire come al suo solito, era atterrata sulla pancia di Francesco e gli stava leccando il viso, facendolo ridere ancora di più.

 

Forse le era mancato, in fondo in fondo, o forse voleva tenerlo buono per il bene delle sue orecchie.

 

Ma, nel suo modo strano di farlo giocare con lei, non poteva non vederci anche un tentativo di non farle fare sforzi.

 

A dirlo ad alta voce l’avrebbero presa per pazza, ma Ottavia capiva più di quanto si potesse pensare, da sempre.

 

“Ma stanno tutto il tempo così, o parlano anche?” si sentì sussurrare in un orecchio ed era Irene, che osservava divertita Calogiuri e suor Cecilia, che parevano due statue di sale.

 

“Magari si zittisse pure qualcun altro!” sospirò, riferendosi al piccolo ululatore seriale, mentre Ottavia miagolava con approvazione.

 

Un motivo c’era, se aveva sempre apprezzato i felini.

 

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“E dai, se mi sta appoggiato non è come portare pesi, no?”

 

“Imma, non si può, lo sai… lo tengo io per un po’, va bene?”

 

Imma alzò gli occhi al soffitto, e lo vedeva che era più che nervosa, cosa che peraltro avrebbe dovuto evitare.

 

Ma farle prendere in braccio Francesco sarebbe stato ancora peggio, era proprio da escludere. Solo che Francesco, a parte alcuni momenti in cui si distraeva con lui o con Ottavia, era molto insistente: stare solo vicino a Imma non gli bastava, voleva di più.

 

E come non capirlo il piccoletto? Ma non era il caso mo.

 

Lo prese in braccio, meglio che poteva, e gli fece fare il vola vola. Alla fine Francesco cedette a un risolino, anche se lui non sentiva più i muscoli ed Imma non sembrava affatto sollevata, ma ancora più nervosa.

 

Vedeva che picchiettava con le dita e persino con il piede, sotto al lenzuolo. Era iperattiva, lo sapeva, non era abituata a stare ferma con le mani in mano.

 

“Almeno posso prendere la carrozzina e farmi un giro in giardino? Non ne posso più di stare ferma qua!”

 

“Lo sai che sarebbe meglio muoversi il meno possibile. La carrozzina solo quando è necessario ai fini terapeutici e-”

 

“Ma a me manca l’aria e-”

 

Un altro suono di bussare, molto basso.

 

La porta si aprì e gli venne spontaneo fare un salto indietro, alla vista di suor Cecilia e del suo imbarazzo: non sapeva come comportarsi con lei. Di solito le donne gli si volevano avvicinare, non scappare, e non sapeva come fare. Un po’ come quando piangevano: gli veniva male al cuore a far star male le persone, o a metterle a disagio.

 

“Devo… devo fare l’iniezione…”

 

La dose quotidiana di eparina, per evitare trombosi, non potendo appoggiare le gambe. Imma sbuffò di nuovo, ma poi abbassò il lenzuolo e scoprì la parte superiore delle cosce, ormai piene di lividi, visto che non poteva fare le punture nella pancia.

 

“Manco se mi avessero menato, sarei ridotta così!” sottolineò Imma, chiaramente dolorante e spazientita.

 

Francesco, non più distratto dal movimento, forse percependo il malessere di lei, ricominciò a piangere e a chiamare “Im-ma! Im-ma!”

 

Ottavia, invece, soffiò leggermente verso la suora, come per avvertimento.

 

Suor Cecilia già era un po’ tremante di suo, al soffio di Ottavia lo divenne ancora di più e prelevò a fatica il liquido dalla boccetta.

 

“Se… se volete posso fare io…” provò ad offrirsi, date le circostanze.

 

“Che vuol dire se volete? Certo che lo voglio!”

 

Alle parole di Imma, la suorina tremò ancora di più, mortificata. Si diede dello scemo: non era quella la sua intenzione.


“Non… non posso far somministrare farmaci ad altri, se succede qualcosa la responsabilità è mia!”

 

“Magari succede che non mi riempio di lividi, peggio di un pugile in un incontro!”

 

Il labbro di suor Cecilia prese a tremare come le mani: stava per piangere. Imma non era in sé, anzi era la Imma che faceva tremare tutti in procura. Ma di solito era così con chi se lo meritava, non con persone timide e schive come suor Cecilia.

 

E come te! - gli ricordò la voce di Irene.

 

Nonostante tutto, suor Cecilia prese un respirone ed inserì l’ago in un punto non ancora livido della coscia destra di Imma che, per tutta risposta, cacciò un urlo.

 

“Ahia! Ma dove ha imparato a fare le punture, eh? Al tiro a segno?! Porca miseria, se non è in grado neanche di fare un’iniezione, magari dovrebbe cambiare mestiere, altro che vocazione e-”

 

Un singhiozzo. Poi un altro e un altro ancora.

 

Successero tre cose contemporaneamente: suor Cecilia scappò via piangendo, lasciando la siringa ancora piantata nella gamba di Imma e sbattendo la porta.

 

Francesco smise di urlare e guardò Imma, spaventato.

 

Ottavia, con un balzo, fuggì in cima all’armadio, dandole la coda, come quando disapprovava qualcosa.

 

“Ma che ce l’avete tutti con me mo?!” esclamò Imma, guardandolo negli occhi, ancora nervosa.

 

Prese un paio di respiri per calmarsi, appoggiò Francesco nel lettino - che stranamente continuò a non emettere suono - si avvicinò a lei e, senza guardarla, terminò l’iniezione. Infine, mise via la siringa, come aveva visto fare tante volte a suor Cecilia, per evitare contaminazioni.

 

“Calogiuri…”

 

La voce di Imma alle sue spalle. Si voltò. Imma aveva quello sguardo, di quando una parte di lei si stava rendendo conto di aver esagerato, ma il suo orgoglio non voleva ammetterlo.

 

“Devi scusarti con lei.”

 

Gli era uscito, dritto, asciutto. Lo sapeva che Imma odiava il verbo dovere e l’uso dell’imperativo, tranne se venivano da lei stessa. Ma quando era troppo era troppo.

 

“Calogiuri…”

 

“Calogiuri niente! Lo capisco che sia difficile stare qui ferma. Pensi che io mi diverta a vederti così e a non potere far niente? Ma non è colpa di nessuno di noi e non puoi sfogarti in questo modo. Mi criticavi quando ero in convalescenza, che sembravo un adolescente, ma mo tu sei peggio di una bambina!”

 

E adesso era il labbro di Imma a tremare e fu il suo turno di scoppiare a piangere.

 

Cosa che, nonostante tutto, lo faceva sempre sentire in colpa.

 

“Imma…” sussurrò, toccandole la spalla e sedendosi accanto a lei.

 

“Lo so che hai ragione, lo so. Ma… sono sti maledetti ormoni! A parte il mio brutto carattere!”

 

“Non hai un brutto carattere, hai carattere e basta. Almeno di solito.”

 

Imma doveva aver riconosciuto la citazione, perché scoppiò in una lieve risata, in mezzo al pianto. E poi sentì le sue dita sulla guancia. Un brivido, quasi come una volta, anche perché ormai i momenti di contatto erano pochi.

 

“Sei un angelo, Calogiù! Io chissà quante volte mi ci sarei già mandata! Altro che in Messico sarei scappata al posto tuo, forse manco l’Australia è abbastanza lontana.”

 

“Ma manco per sogno! Però, almeno tra di noi, ci dobbiamo sostenere, per te e per la piccoletta.”

 

Imma annuì e poi si schiarì la voce e domandò, “a proposito, quando è la prima seduta con la psicologa?”

 

“Tra una settimana, in teoria, perché?”

 

“Perché forse è meglio anticipare.”

 

Quest’affermazione lo stupì e lo preoccupò moltissimo, venendo da lei.

 

“E dai, Calogiù! Che mi guardi così? Lo sai che, se prendo un impegno, lo mantengo. E prima è, meglio è. Via il dente e via il dolore.”

 

“Non penso che con la terapia funzioni proprio così, dottoressa. Ma come vuoi tu,” la rassicurò, prendendole la mano.

 

“Mo che dici se ci vediamo un film, finché l’ululatore sta buono? Che qua altro non possiamo fare.”

 

“Ormai li stiamo esaurendo tutti anche se… quando nascerà la piccoletta mi sa che il tempo per vedere i film non ce l’avremo più, almeno per un po’. E nemmeno di riposare.”

 

“E pure di fare altro…”

 

Lo sguardo e il tono di Imma gli diedero un altro brivido, ancor prima di percepire il pizzicotto sul sedere.

 

“Imma!”

 

“Ma che Imma e Imma! Va bene che qua sono tutte suore, Calogiù, ma io il voto di castità non l’ho fatto. E nemmeno tu, spero!”

 

Il modo in cui lo guardava, mordendosi le labbra, avrebbe dovuto essere vietato, vista la condizione in cui erano.

 

“Imma… non possiamo, lo sai.”

 

“Veramente le mani le posso ancora usare…”

 

Sentì tutto il sangue andargli alla testa e meglio non dire dove, mentre Imma rideva divertita.

 

“Mi prendi in giro, eh?”

 

“Diciamo che, tra il piccoletto e la buoncostume in stanza, le sorelle che stanno appostate qua fuori, più la scorta, giusto qualche metro più in là, magari quello te lo risparmio. Ma almeno due coccole te le potrò fare o no? Coccole vere.”

 

Sospirò, ma si avvicinò per darle un bacio, lasciandosi abbracciare. Si sentì prendere la mano libera, che Imma si mise sul fianco.


“Imma…”

 

“Va bene l’assoluto riposo, eccetera eccetera, ma due carezze me le puoi fare, mica mi rompo.”

 

“Lo so ma… non so se…”

 

Imma lo capì, si capirono senza bisogno di parole, come sempre. Tra quello che aveva passato e i lividi che ancora aveva, non voleva farle male o riportarla a brutti ricordi.


“Te l’ho già detto. Le tue mani non mi faranno mai paura, Calogiù. E mo coccolami come si deve, o mi toccherà assumere un massaggiatore professionista, con questi muscoli così tesi, sempre qua ferma, la postura sbagliata e-”

 

Le tappò la bocca con un bacio e la strinse a sé più che si poteva senza farla muovere.

 

Non tanto per la gelosia, che quella c’era per carità, ma ormai la sapeva controllare, ma perché Imma era sempre Imma, quando non esagerava, nonostante tutto quello che aveva passato. E, quando faceva così, gli ricordava ogni volta di più, perché si fosse perdutamente innamorato di lei e perché l’avrebbe sempre amata.

 

Sempre.

 

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Il telefono per poco non le fece prendere un colpo.

 

Erano le nove di sera e a quell’ora non la chiamava nessuno - anzi, non la chiamava nessuno in generale, anche con Penelope le videochiamate cercavano di concordarle in anticipo.

 

Gli unici che ancora usavano il telefono erano sua madre e suo padre. E, in entrambi i casi, viste le circostanze, il pensiero andò subito al peggio.

 

Afferrò il telefono, col cuore in gola, e il nome che ci lesse da un lato diminuì e dall’altro incrementò l’apprensione.


Frazer

 

In effetti anche lui come età era un po’ boomer. Ma che voleva mo?

 

“Pronto?”

 

“Valentina, ciao. Ti disturbo?”

 

E che poteva dirgli? Per disturbare non disturbava, visto che Penelope era tornata a Milano, ma…

 

“Ma è successo qualcosa?”

 

“No, cioè sì, ma solo cose belle, tranquilla.”

 

“Cioè?”

 

“Gli articoli che abbiamo fatto sono piaciuti tantissimo, sia al direttore del giornale, che a quello del canale per cui lavoro. Anche quello che hai scritto tu. Hanno avuto un ottimo riscontro come numeri, che non fa mai male.”

 

“Bene,” rispose, un po’ intimidita, non sapendo come reagire, a parte esserne felice.

 

“E quindi ti chiamavo per due motivi. Il primo è che il direttore del canale vorrebbe un’intervista a tua madre e a Calogiuri ma… non so se sia il caso, viste le sue condizioni. Quindi, prima di contattarla, volevo chiedere a te cosa ne pensavi.”

 

“Mia madre non si può muovere e non è proprio il momento, no.”

 

“Va bene, va bene.”

 

Il tono sembrava leggermente deluso, ma anche rassegnato: per fortuna non aveva insistito.

 

“Per il resto… visto quanto sono piaciuti gli articoli, abbiamo parlato di te col direttore anche.”

 

“Eh?”

 

“Sì. Lo so che stai studiando altro e non so se ti possa interessare ma… ho visto che ti stai per laureare, giusto?”

 

“Sì, mi mancano due esami e sto scrivendo la tesi, ma come fai a saperlo? Che fai le ricerche su di me?”

 

“Diciamo deformazione professionale.”

 

“Ho presente,” sospirò, perché quando faceva così le ricordava sua madre.

 

“Però, ecco, vorremmo offrirti un tirocinio qua al giornale. All’inizio sarebbe solo un rimborso spese, per cominciare, ma potresti avere buone possibilità per una borsa di studio, per un master in giornalismo qua a Milano.”

 

Un misto di eccitazione e panico la scombussolò completamente.

 

“Ma… ma… io non voglio favoritismi e, se è per l’intervista a mia madre-”

 

“Valentina, conosco da un po’ tua madre, ormai, no? Se non si vuole far intervistare non cambierà idea, nemmeno se vieni a lavorare con me. Anzi, probabilmente sarebbe solo un deterrente ulteriore a concedermi qualsiasi possibilità in futuro.”

 

Trattenne una risata perché era vero.

 

“Ma hai talento, davvero, e vorrei offrirti l’opportunità di capire se puoi fare questo a livello professionale, sempre se ti interessa.”

 

“Ma… quale sarebbe il master?”

 

Al nome della facoltà e del corso, il cuore riprese a batterle all’impazzata: dalle ricerche che aveva fatto era il migliore, almeno a Milano, uno dei migliori in Italia, ma anche dei più costosi.

 

“Ma… ma con quello che costa…”

 

“Ma avresti le spese principali rimborsate da noi e, se ottieni la borsa di studio, con quello a Milano ci vivi tranquillamente. Certo, magari potrai avere pochi extra ma… per un paio di anni si può fare, no? Non che poi sia una carriera dove ti riempiano di soldi, preparati, ma se ti piace… io non me ne sono mai pentito.”

 

“Posso pensarci un po’ su?”

 

“Certo. Però c’è solo un mese di tempo per attivarsi per l’iscrizione per il master. Quando pensi di laurearti?”

 

“In primavera.”

 

“Anche il master comincia in primavera. Se ti laurei come da programma, non ci dovrebbero essere problemi ad accedere. Ma appunto devi farmelo sapere per tempo, va bene?”

 

“Va bene. Ci penserò, grazie.”

 

Chiuse la chiamata con due consapevolezze: che una parte di lei ci aveva già pensato e sapeva benissimo la risposta e che l’altra non sapeva proprio come fare a comunicarlo a sua madre.

 

Già non poteva fare sforzi, come minimo le sarebbe preso un colpo!

 

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“Buongiorno dottoressa, capitano. Sono la dottoressa De Angelis. Se volete, potete chiamarmi Livia. Di solito in terapia si usano i nomi propri, per comodità e per creare un ambiente più familiare. Se siete d’accordo, naturalmente.”

 

Notò subito l’apprensione di Calogiuri. Erano loro due da soli, nella loro stanza. Ottavia era in bagno e Francesco se l’era preso suor Cecilia, che però ancora a stento le parlava. Avrebbe dovuto farsi perdonare e tranquillizzarla in qualche modo, ma mica era facile.

 

“Noi ad usare i nomi propri non siamo molto capaci, vero, Calogiù?”

 

“Calogiù è il cognome?” domandò la dottoressa, estraendo un taccuino dalla borsa e consultandolo.

 

“Calogiuri, Ippazio. Ma lo chiamo da sempre Calogiuri, Calogiù per abbreviare."

 

“Ah…” commentò la dottoressa, senza aggiungere altro, ma iniziando a prendere nota.

 

Cominciavano bene, cominciavano!

 

“Quindi come vuole essere chiamato, capitano?”

 

“Non lo so, ma non capitano. Ippazio mi ci chiamano in pochi, ma come preferisce.”

 

“Vada per Calogiuri, allora,” stabilì la dottoressa, prendendo di nuovo nota, “e lei, dottoressa?”

 

“In pochissimi mi chiamano Imma, ma immagino che dottoressa possa confondere in questo caso?”

 

“Se con Imma si sente a disagio, posso chiamarla dottoressa, almeno per ora.”

 

Sospirò: e che le poteva dire?

 

“Basta che non mi chiami Immacolata, cosa che proprio non sono, poi mi chiami come vuole, arriviamo al dunque.”

 

“Al dunque?”

 

“Sì, al sodo. Al motivo per cui siamo qui.”

 

“E perché siete qui?”

 

“Non li ha letti i giornali, dottoressa?” domandò, fregandosene della cosa dei nomi propri, che non le veniva naturale.

 

“Li ho letti, sì, ma non sono qua per intervistarla o per farle un interrogatorio sui fatti. Ciò che mi interessano sono le sue sensazioni a riguardo, cosa ha provato. Anzi, cosa avete provato.”

 

Lanciò uno sguardo a lui, perché era più facile dirsi che farsi: come spiegare cosa aveva provato?

 

“Se preferite, visto che si tratta di argomenti delicati, potremmo prendere dei momenti di terapia individuale, in modo che possiate parlare liberamente e-”

 

“Non ci sono segreti tra me e Calogiuri!” la interruppe, preoccupatissima, perché col cavolo che voleva stare da sola con lei!

 

Se aveva accettato era anche e soprattutto perché c’era pure Calogiuri.

 

La dottoressa alzò un sopracciglio.

 

“Tutti abbiamo segreti, dottoressa, cose più intime e riservate e-”

 

“Ma non su questo argomento. Anche perché… Calogiuri ha… ha visto tutto. Era in collegamento video quando… è successo quello che è successo in tribunale.”

 

La psicologa spalancò gli occhi, presa in contropiede, e segnò due cose di fretta, prima di schiarirsi la voce e proseguire, “non… non mi avevano avvertito di questo ma, a maggior ragione, vivere ed assistere ad eventi simili è un evento molto traumatico, che forse meriterebbe la libertà di essere espresso, senza magari temere di ferire l’altro, o di scaricargli addosso le proprie paure e-”

 

“Non ha capito. Calogiuri e io ci parliamo liberamente da… non dico da quando ci conosciamo ma quasi. E, se una volta magari c’era qualche argomento che evitavamo, per svariate ragioni, ormai non ci sono segreti. Anzi, ci capiamo con uno sguardo: lui sa cosa provo e io so cosa prova, senza bisogno di tante parole.”

 

Calogiuri sorrise e le strinse la mano. La dottoressa, invece di fare battute sul diabete, come avrebbe fatto Valentina, o sembrare rassicurata, cominciò anzi a scrivere ancora di più, tradendo una certa apprensione.

 

Forse l’essere abituata a leggere il linguaggio del corpo altrui per gli interrogatori non aiutava la terapia: i pensieri degli altri li beccava subito, sempre.

 

“Scusi ma che c’è di male?”

 

“Di male?”

 

“Sì, ha fatto uno sguardo preoccupato, manco fossimo… che ne so… la classica coppia killer che è completamente codipendente e ammazza i vicini di casa troppo rumorosi.”

 

“Perché? Vi ritenete codipendenti?”

 

“O madonna mia! Non mi dica che sarà tutta così la terapia! Almeno un poco di sforzo in più.”

 

“Sforzo?”

 

“Sì, per non fare domande banali e scontate, ripetere ciò che dico, estrapolando una singola parola, quando è chiaro che è una voluta esagerazione, e domandare il perché a ogni pié sospinto, come quegli psicologi terribili delle fiction.”

 

La dottoressa aveva l’espressione che avevano certi suoi nuovi sottoposti, quando la incontravano per la prima volta. Quella di non essere pagati abbastanza per avere a che fare con lei. Solo che lei era pagata otto volte tanto loro, come minimo.

 

Calogiuri, invece, aveva la solita aria dolcemente esasperata di quando lei dava il meglio e il peggio di sé.

 

“Dottoressa, la terapia non è un contradditorio da vincere, non ci sono sentenze alla fine e non deve essere interessante. L’importante è che sia utile per portarla a riflettere su se stessa e a ragionare sui motivi per cui è qui. E ripeto, perché è qui? Al di là del trauma, intendo.”

 

Si era un poco ripresa, glielo doveva concedere.

 

“Perché sono incinta, bloccata a letto da settimane, ho per l’appunto avuto un trauma e vorrei, anzi vorremmo evitare di traumatizzare pure la povera creatura che si spera nascerà? Ma che domanda è?”

 

La dottoressa si segnò ancora un paio di cose, che Imma si chiedeva che ci stava da segnare, visto che fino a mo erano state dette solo banalità. In confronto Calogiuri ai tempi in cui si annotava pure chi era Giuseppe Verdi era niente.

 

“Quindi ha un senso di inadeguatezza rispetto alla maternità?”


“E chi non ce l’ha? Quanti tra i suoi pazienti non incolpano la madre e i suoi comportamenti della maggior parte dei traumi che si portano dietro?”

 

“E lei? Anche lei incolpa sua madre?”

 

Si guardò con Calogiuri, che le sorrise, mentre lei mandava accidenti alla se stessa del passato. Cosa c’aveva avuto in testa quando aveva pensato che fare la terapia fosse una buona idea, che l’avrebbe in qualche modo aiutata a sfogarsi un po’?

 

“Mia madre, pace all’anima sua, ha fatto quello che ha potuto.”

 

“Ma ciò non significa che sia stato giusto o che sia bastato.”

 

Era vero, verissimo, ma ciò non le impedì di alzare gli occhi al soffitto.

 

“Sinceramente, più che di mia madre mi preoccuperei di quella di Calogiuri e pure della mia ex suocera volendo, se proprio proprio. O di mio padre, anzi, dei miei padri. Cosa di cui immagino lei sarà al corrente, no?”

 

La psicologa aveva l’aria di chi sì, già sapeva tutto.

 

“Ma… ma un conto è leggerlo sui giornali, un conto è sentirlo raccontato da lei, dottoressa. Come le ho detto, non contano i fatti, sempre se ci sono fatti, ma cosa lei ha provato.”

 

“Cosa ho provato a sapere che mio padre non era il mio padre biologico e che non avevo i geni di un alcolizzato ma di un boss mafioso? Ma che cosa devo aver provato secondo lei?”

 

“Non lo so, non mi è mai successo. Me lo dica lei.”

 

Si guardò di nuovo con Calogiuri, che pareva attendere che lei esplodesse e che intervenne infine con un, “forse non è il caso che ti agiti così. Senta, dottoressa De Angelis, capisco che la terapia debba scavare ma, viste le condizioni di Imma…”

 

“Ma è la dottoressa che si agita, anche se è normale che succeda, soprattutto alle prime sedute. E che continua a guardarla, per distrarsi e per deflettere. Per questo forse sarebbe più utile la terapia da soli, specie quando non si tratta di argomenti di coppia.”


“Senta, deflettere o non deflettere, lei dovrebbe essere in grado di fare il suo lavoro pure così. Come io riesco a far confessare gentiluomini che sparano cazzate dalla mattina alla sera. E Calogiuri da qua non si muove, o non se ne fa niente, chiaro?”

 

“Le ho già detto che non è un interrogatorio, dottoressa. E a me non importa la verità, non più di tanto, ma come aiutarla ad affrontare più serenamente questi mesi, quello che ha passato. A capire come affrontare il futuro.”

 

“Tanti auguri!” le venne spontaneo sbottare, perché, se il buongiorno si vedeva dal mattino, dubitava che le sarebbe servito ad alcunché, se non ad incazzarsi con qualcuno che non fossero Calogiuri o la povera suorina.

 

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Scusa, puoi uscire un attimo?

 

Il messaggio lo preoccupò e lo stupì pure un poco.


“Che succede? Problemi? Chi ti scrive?”

 

Imma, ovviamente, aveva notato subito tutto.

 

“Niente, niente. Scocciature. Esco un attimo a prendere un po’ d’aria, va bene?”

 

“Le scocciature hanno un nome e un cognome?”

 

Prese un respiro, perché Imma non perdeva un colpo. Da quando non poteva sfogarsi muovendosi era un fascio di nervi.  La terapia, invece di migliorare le cose, pareva averle peggiorate, anche se, almeno la sera dopo la seduta, era stata un po’ più stanca e meno vogliosa di litigare. Ma stava recuperando gli arretrati mo.

 

“Imma…” la avvertì, con lo sguardo di quando stava esagerando e poi, senza aspettare risposta, perché non c’era un modo di mentirle senza farsi beccare, abbandonò per un attimo il campo ed uscì nel giardino della clinica.

 

Trovò poco distante Valentina, sorvegliata a vista da una suora di mezza età molto arcigna e torva, di cui non ricordava il nome, perché per fortuna non dovevano averci a che fare molto spesso.

 

Raggiunse Valentina e la salutò con un cenno del capo, trovandosi stretto in un mezzo abbraccio che lo stupì. La suora li guardò ancora peggio.


“Visto che Valentina è con me, lei può anche andare, no?”

 

Era quella che Imma avrebbe definito una domanda retorica.

 

La suora sbuffò per un attimo e si allontanò di qualche metro, rimanendo comunque di vedetta, anche se a distanza.


“Ma sono tutte così?” chiese Valentina, preoccupata.

 

“No, no, per fortuna no.”

 

“Mamma com’è come umore?”

 

“Hai una domanda di riserva?” ironizzò, ma Valentina parve ancora più spaventata.


“Dai, lo sai com’è fatta, no? Ma sono sicura che le farà piacere vederti e poi… can che abbaia non morde…”

 

“Eh… magari! Non lo so… è che… ho una cosa da dirle e… temo che non la prenderà bene…”

 

“Sei incinta?” domandò, senza riuscire a trattenersi, perché dal tono da funerale non riusciva a presumere nient’altro.


“E di chi? Dello spirito santo? Guarda che io sono fedele a Penelope!”

 

“Va bene, va bene, ma è che… hai fatto una faccia come se… come se dovessi darle la notizia peggiore del mondo e-”

 

“E forse lo è.”

 

“Stai male?”

 

Dire che fosse preoccupato era dire poco: ci mancava solo quello.


“No, no, anzi, sto bene e… forse per la prima volta in vita mia sto bene e so cosa voglio fare della mia vita. Ma non so se mamma approverà.”

 

“Vuoi fare un… un reality o come si chiamano?”

 

Valentina rise, mentre cercava di sforzarsi di capire cosa ci fosse di peggio di un reality per Imma e-

 

E poi gli vennero in mente gli articoli e Frazer e Valentina insieme.


“No… non mi vorrai dire che…?”

 

Altro che spaventato, era terrorizzato. Specie quando Valentina spalancò gli occhi e comprese che aveva capito, con uno sguardo simile ad Imma quando succedeva loro di comunicare senza parole. Ed annuì, con una timidezza così poco da Valentina che, proprio per quello, era sintomo di quanto fosse seria la cosa. Quanto ci tenesse.

 

Per un attimo rimasero in silenzio, a guardarsi senza parlare, perché non sapeva che fare.

 

“Ma… ma non puoi aspettare dopo il parto per dirglielo?”

 

Valentina alzò gli occhi al cielo con un “cuor di leone!” che era degno di sua madre.

 

“Speravo mi aiutassi a trovare un modo per comunicarglielo, senza farla agitare.”

 

“Salvo imbottirla di tranquillanti, che non può prendere, non credo ci sia un modo e lo sai anche tu, Valentina. Per questo ti dico, non puoi aspettare a darle la notizia?”

 

“No, perché… perché devo iscrivermi a un master tra meno di un mese. Forse ci riesco anche senza i soldi di mamma e potrei chiedere un anticipo a papà, finché mi arriva, si spera, la borsa di studio. Ma dovrò andare a Milano, se mi prendono, e… e non voglio fare le cose di nascosto e rischiare che lo scopra da altri. Anche perché so come ci si sente. E poi… non dico che voglio avere la sua benedizione ma… non mi voglio nascondere da lei.”

 

Un mal di testa pulsante gli faceva ping pong tra le tempie: cercò di massaggiarle per farselo passare.

“E non cambierai idea. Né sul master, né su dirlo a tua madre,” intuì, perché aveva la stessa espressione di Imma quando si metteva in testa una cosa.

 

“No, quindi… se mi puoi dare una mano…”


“Valentì, tua mamma la mano me la mozza,” scherzò, per alleggerire l’atmosfera, facendola sorridere.

 

“E dai… che come la fai rilassare tu non la fa rilassare nessuno…”

 

Si sentì avvampare, specie dopo tutte le battute di Valentina negli anni sulle attività rilassanti che facevano lui ed Imma.

 

“Non intendo in quel modo, che per una volta che può tornarmi utile non si può fare!”

 

“Valentì!” esclamò, ormai bollente.

 

Ma almeno Valentina rideva, che era già qualcosa.

 

“Non so… se potessi entrare in argomento in qualche modo… preparare il terreno.”

 

Gli venne in mente Capozza e il suo modo terribile di preparare il terreno con la signora Diana sulla possibile paternità di quell’angelo di Assuntina.

 

“Per esperienza personale, a preparare il terreno con tua madre si fa solo peggio, credimi.”

 

“Ma e allora?”

 

“E allora io adesso vi prendo un bel gelato, anzi un sorbetto, che quelli tua madre li può mangiare, una bella camomilla e ve li porto. Quando gli zuccheri e la camomilla avranno fatto effetto, gliene parli, cercando di non essere troppo diretta come al tuo solito. Anzi, al vostro solito. Ma neanche andando troppo per gradi, che poi Imma fiuta la fregatura e si agita già preventivamente. Io sto fuori dalla porta, se serve, e posso entrare con Francesco, per distrarla, se proprio non funziona nient’altro.”

 

“E quando lavoravi con lei e Francesco non ci stava come facevi, fammi capire?”

 

“Facevo che di solito tua madre non si arrabbiava con me, anzi, ma quando succedeva… erano dolori. A quanto dice, però, gli occhioni aiutavano, ma non lo so… a me vengono naturali.”

 

“Mannaggia a me che gli occhi li ho presi da lei e non da papà, che marroni non funzionano evidentemente!”


“Potresti usare quelli di Ottavia come scudo umano, anzi no, felino?”

 

Valentina sospirò ma poi si trovò stretto in un altro mezzo abbraccio, con tanto di pacche sulle spalle.

 

“Grazie… e dovrei proprio imparare da te… ma temo di aver preso il carattere da mamma.”

 

“E che devi imparare da me?”

 

“Tutto. Come essere disarmante, soprattutto.”

 

“Ed è una cosa bella o una cosa brutta?” chiese, un po’ confuso.


“Ecco appunto…” sospirò Valentina, scuotendo il capo ma guardandolo con una specie di affetto che gli scaldò un poco il cuore.

 

Forse un minimo le era stato utile, in fondo.

 

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“Buono il sorbetto, no?”

 

“Anche se è mezzo squagliato, ma del resto qua chissà fin dove è dovuto andare Calogiuri per recuperarlo. Mi tengono a stecchetto, tutto controllatissimo, secondo me in carcere sono meno ligi.”

 

Valentina sorrise ma aveva uno sguardo strano, anzi, era da quando era entrata che era strana. Calogiuri era sparito per poi tornare con sorbetto e camomilla, una combo che di solito la rilassava particolarmente.

 

Ma quello, unito alla sparizione di Calogiuri - prima e dopo l’arrivo di Valentina - e al fatto che si fosse portato dietro Francesco, se da un lato era da lui, discreto come sempre, dall’altro…

 

“Valentì, c’è qualcosa che mi devi dire?”

 

Valentina prese a tossire, che per poco non si strozzava. Le era andato di traverso il sorbetto.

 

Per fortuna riuscì a riprendersi, perché lei neanche poteva muoversi, al limite poteva chiamare le suore e non era il caso.

 

Marcava male, malissimo.

 

“Valentì?”

 

Valentina si asciugò gli occhi, pieni di lacrime da mancato soffocamento, e poi diede un altro paio di colpi di tosse.

 

“Ma… ma come fai?”

 

“Non è che tu e Calogiuri siete proprio discreti, quando vi mettete d’accordo su qualcosa. Allora?”

 

“Come fa a sopportarti quel poveretto non lo so!”

 

“Allora? Ti avviso che in questo periodo sono ancora più suscettibile del solito, quindi non ti conviene, signorina. Sputa il rospo.”

 

“Eh… diciamo che per me non è un rospo ma… ma per te potrebbe esserlo.”

 

“Hai rivisto il figlio di Vitali?” chiese, perché era la prima cosa che le venne in mente.

 

Valentina rise e scosse il capo. Ma poi si fece più seria.

 

“No, è che… è una cosa che so che non ti piacerà ma io sono felice e ne sono convinta, mamma.”

 

“Hai fatto più o meno lo stesso discorso su Penelope e poi non è stato così male. Non è che stavolta sei incinta, vero?”

 

“No, mà, no. Certo che tu e Calogiuri siete uguali.”

 

“Perché?”
 

“Perché mi ha chiesto anche lui la stessa cosa quando gliel’ho detto e…”

 

“Quindi Calogiuri già sa?”

 

“Sì, e mi ha detto di parlarti in modo abbastanza diretto ma non troppo. Ma non è facile. E poi… non ho i maledetti e benedetti occhi dei Calogiuri, io.”

 

“Guarda che, se la cosa è grave, manco gli occhi dei Calogiuri bastano. E dovresti saperlo pure tu.”

 

Valentina sospirò.

 

“Allora? Senti, facciamo così, come ha reagito Calogiuri quando glielo hai detto?”

 

“Mi ha detto che ti sarebbe venuto un colpo e di rimandare a dopo il parto.”

 

“Ah, bene! Andiamo bene, proprio! Che mo manco possiamo aspettare dopo il parto, che già c’ho l’ansia che mi aumenta qua!”

 

“In ogni caso, devo prendere una decisione entro un mese. Anzi, l’ho già presa, ma te la volevo comunicare, prima di farlo ufficialmente.”

 

“E che dovresti decidere entro un mese? Vuoi… vuoi mollare l’università?”

 

Capì dallo sguardo di Valentina che non era proprio quello, ma c’era vicina.

 

“Sei indietro con gli esami? Guarda che anche se ci vuole qualche mese in più non-”

 

“No, anzi, vorrei proprio laurearmi in primavera e farò di tutto per riuscirci. Anche perché voglio iscrivermi a un master.”

 

Dire che fosse perplessa era dire poco.

 

“Scusa, Valentì, ma da quando il fatto che tu voglia studiare è un problema? Se è per i soldi, in qualche modo tra io e tuo padre ce la caveremo e-”

 

“No, no, forse ho una borsa di studio, anche perché il master sarebbe a Milano.”

 

“Come a Milano?” domandò, sbalordita, ma anche un po’ piacevolmente sorpresa.

 

Forse Valentina lo sarebbe stata meno ma… magari avrebbero potuto vedersi più spesso di quanto aveva pensato. Valentina avrebbe potuto vedere la sorellina crescere, sempre se fosse andato tutto bene e-

 

“Perché il master che mi hanno proposto si trova lì ed è uno dei migliori in Italia.”

 

“Proposto? Chi te lo ha proposto? I tuoi insegnanti ti spediscono fino a Milano? E poi… che master si fa dopo assistente sociale? Pensavo che, dopo il tirocinio, ci fosse l’esame di stato e-”

 

“E non voglio fare l’assistente sociale. Non più. Non… non è la mia passione, ecco.”

 

Deglutì, cercando di mordersi la lingua, perché una parte di lei lo sapeva, lo aveva sempre saputo, ma Valentina una passione vera e non passeggera non ce l’aveva mai avuta. E doveva trattenere l’istinto, ereditato da sua madre, di reagire come quando si era messa in testa di abbandonare la scuola per la cucina.

 

“E quale sarebbe la tua passione, Valentì? Almeno per il momento?”

 

“Non è per il momento! Quando scrivo… quando scrivo mi sento in pace con il mondo, come se tutto mi fosse improvvisamente chiaro, mi sembra di essere al posto giusto e al momento giusto, ovunque mi trovi. E poi potrei scrivere per ore e-”

 

“Oddio, non dirmi che vuoi darti ai romanzetti, Valentì! Cioè come pensi di camparci, scusa? Che in Italia la gente che legge più di un libro all’anno è pochissima-”

 

“No, non voglio scrivere romanzi, mà, e-”

 

“E allora cosa? Film? Le fiction? Che mo tutti sono impazziti per ste maledette serie tv, che sembra che non ci sia altro da fare nella vita! Oppure-”

 

“La giornalista, mà. Voglio fare la giornalista.”

 

Il cuore le saltò un battito, la gola era peggio del Sahara, un colpo dritto allo sterno che le levò il fiato, ancor prima che la piccoletta si facesse sentire con due calcetti di protesta, più vigorosi di quanto erano stati ultimamente.

 

Ma lei manco li sentiva, non sentiva più niente. Incredula su come avesse fatto a non capire prima, a non aver capito subito, a non cogliere i segnali di allarme, le bandiere rosse, anzi no, pure nere e-

 

“Ma come ti salta in testa, Valentì?!”

 

L’urlo le uscì prima di riuscire a trattenerlo, tanto che si beccò altri due calci ancora più incazzosi.

 

Ma mo a essere incazzata era lei.

 

Non si era mai chiesta come si dovesse essere sentito Giulio Cesare, dopo la prima pugnalata, ma probabilmente più o meno così. A parte che i colpi lì erano stati posteriori e non anteriori.

 

“Mà! Lo so che non ti va a genio e che probabilmente non approverai ma-”

 

“PROBABILMENTE?! Valentì, ma… ma… piuttosto era meglio se mi dicevi che volevi fare l’avvocato penalista, guarda! Ma ti rendi conto di che covo di serpi-”

 

“Ma non devono essere tutte serpi, non sono tutte serpi!”

 

“Ah no? E chi non lo è? Frazer, ad esempio? Dimmi la verità: è stato lui a metterti in testa sta roba? Eh, beh, certo, lui è di Milano e-”

 

“E allora?”

 

“E allora chissà quello che mire c’ha in testa! Magari vuole solo gli scoop, magari vuole altro e-”

 

“E certo, perché un professionista non può pensare che ho talento a fare qualcosa, senza avere un secondo fine! Perché io per te non sono capace di fare niente, non è vero?”

 

Fu peggio di uno schiaffo, sia le parole che gli occhi pieni di lacrime di Valentina, stavolta non per il soffocamento.

 

Si sentì come quando aveva detto a sua madre che voleva fare legge, fare il magistrato e lei l’aveva guardata come se fosse matta. Poi alla fine aveva ceduto, a patto che lavorasse pure, ma con l’aria di chi sta dando un contentino a una che non avrebbe mai potuto farcela.

 

Ma lei ce l’aveva fatta, ce l’aveva fatta eccome e lo scetticismo di sua madre - oltre ai soldi che portava a casa a fatica per pagarle gli studi, fin da bambina - erano stati per lei una grande motivazione.

 

Ma Valentina non era come lei, era più sensibile, come Pietro, su certe cose.

 

Vide la porta socchiudersi e lo sguardo preoccupato di Calogiuri. Gli fece un cenno che era tutto a posto, anche se non lo era veramente, prima che entrasse con tutta la cavalleria.

 

Prese un respiro e cercò di afferrare la mano di Valentina, ma lei la ritrasse, prima una e poi l’altra.

 

“Valentì… non intendevo questo, lo sai. Ma… è un mondo di lupi là fuori, soprattutto in certi ambienti.”

 

“E che non lo so, mà, però-”

 

“Tu sei proprio sicura che sia quello che vuoi fare? Perché fare il giornalista, se vuoi farlo bene - sempre se c’è un modo per farlo bene - mica è solo scrivere: bisogna fare orari assurdi, andare in posti magari pericolosi, girare come trottole, senza festività, senza comodità, senza-”

 

“Mica devo fare l’inviata di guerra, mà! E comunque lo so, anzi, lo stesso discorso tuo l’ho fatto con Penelope, perché questi dubbi li avevo anche io. Ma… ma Penelope è disposta a supportarmi oltre che a sopportarmi, a seguirmi se sarà necessario. E… ci voglio almeno provare, per non avere rimpianti. Prima mi laureo, naturalmente, così sei contenta e-”

 

“Ma mica devi laurearti per fare contenta me! E perché non mi hai detto prima che non ti trovavi bene ad assistente sociale? Avremmo anche potuto cambiare e-”

 

“Perché… perché non sapevo nemmeno io cosa volevo fare, quindi, anche se avessi cambiato, sarebbe stato inutile. Invece ora so cosa voglio e non sono mai stata così sicura di qualcosa, se non di Penelope, forse.”

 

“Forse?” ripeté, in automatico, perché effettivamente a Valentina brillavano gli occhi e non solo per le lacrime, in un modo che non aveva mai visto, quasi neanche con Penelope.

 

“Non è come con la cucina, te lo prometto. Sono anche cresciuta, mà, non è una fuga.”

 

Si morse le labbra e dovette trattenere le lacrime, mentre deglutiva il groppo in gola: sì, era cresciuta davvero. Tanto.

 

“No, ti prego, mà, non piangere mo: preferivo quando urlavi, piuttosto! E poi, se dopo il master dovesse andare male, ti prometto che mi cercherò un lavoro qualunque, al limite farò anche sto famoso esame di stato per l’assistente sociale, ma-”

 

“E va bene, Valentì. Va bene.”

 

Le era uscito a fatica, con la voce strozzata, ma Valentina spalancò gli occhi in un modo tragicomico, peggio di quando da bambina aveva scoperto che lo zucchero filato non era cotone e si poteva mangiare.

 

“Come?”

 

“Ti ho detto che va bene, Valentì. Che mi sei diventata sorda, mo? Va bene che urlo, ma-”

 

“Ma… ma… ma…”


“Spero che alle interviste sarai più eloquente di così, che se no stiamo freschi, proprio, e-”

 

Si trovò due braccia al collo, il cui incavo divenne un lago nel giro di tre secondi. Valentina piangeva proprio, anzi, singhiozzava.

 

“Valentì!” provò a calmarla con qualche pacca sulle spalle, mentre Calogiuri di nuovo sbucò e lei gli fece segno che poteva cavarsela da sola.

 

Cosa di cui non era in realtà realmente convinta, ma il sorriso commosso di Calogiuri le fece intuire che forse qualcosa di buono lo aveva fatto, che ci aveva azzeccato.

 

“Valentì… mo basta, però… calmati, che qua dobbiamo stare tutti calmi. Un altro po’ di camomilla?”

 

Sentì la vibrazione del riso di Valentina sul collo e poi l’aria fredda colpirle la pelle bagnata, mentre Valentina si ritraeva, asciugandosi gli occhi come poteva, cioè male.

 

Le allungò la scatola di fazzoletti che ormai era sempre sul comodino, a portata di mano per i suoi sbalzi ormonali e di umore.

 

Valentina si soffiò rumorosamente il naso, peggio di lei. La delicatezza era di famiglia, proprio.

 

“Valentì… un bel respiro, dai, su!”

 

“Lo so, ma è che… non mi aspettavo di… insomma mi aspettavo battaglia e-”

 

Le venne da sorridere ma anche una fitta di senso di colpa, perché sì, forse in alcuni momenti della crescita di Valentina aveva esagerato un po’ troppo.

 

“Valentì, capo primo, la battaglia mo non me la posso proprio permettere. Manco una scaramuccia posso fare qua,” sospirò, toccandosi il pancione sempre più one, prima di aggiungere, seria, “e poi… e poi non voglio che tu abbia rimpianti, perché so come ci si sente e… e so anche cosa si prova ad avere la fortuna di fare un lavoro che si ama. Perché forse non sarà come diceva quel cretino che teneva persino più maglioni a collo alto di Calogiuri, che è come non lavorare mai. Col cavolo! La fatica si fa lo stesso, ma poi vedi i risultati e quello ti ripaga di tutto. Però non è facile, non bisogna mollare, andare fino in fondo e-”

 

“E io non mollerò e-”

 

“E invece voglio che tu sappia che puoi pure mollare e che, se tieni dubbi o problemi, puoi venirmene a parlare, senza paura. Lo so che oramai sei grande e che… di tempo insieme ne abbiamo sempre passato poco e… non esattamente di qualità, come direbbe tuo padre, ma… non devi dimostrare niente a nessuno, Valentì, tantomeno a me. Voglio che tu sia felice, hai capito? Non fare come la scema di tua madre, che poi ha dovuto recuperare tutto fuori tempo massimo e-”

 

Un altro abbraccio, ancora più forte del precedente, e stavolta il calcetto della piccoletta fu chiarissimo e sentì dalla risata e da come si staccò subito che lo aveva percepito anche Valentina.


“Tranquilla, piccoletta, che tra poco potrai godertela quasi sempre solo tu, nel bene e nel male…” ironizzò Valentina e sentì le dita di lei sulla pancia, con una delicatezza inusitata e commovente.


“Valentì… e comunque ho da darti due brutte notizie.”

 

“Cioè?” domandò, ritraendo la mano, preoccupata.


“La prima è che ti vieto formalmente di occuparti dei miei casi i futuro. Conflitto di interessi.”

 

“Agli ordini, dottoressa!” la sfottè, con tanto di saluto marziale.

 

“Su quello devi prendere lezioni da Calogiuri, altro che gli occhioni!”

 

“E la seconda brutta notizia?”

 

“Che probabilmente la piccoletta non sarà l’unica a godere della mia presenza nel prossimo futuro, a parte Calogiuri.”

 

“E cioè? Adottate Francesco?”

 

Il tono di Valentina era sorpreso ma non spaventato, o deluso, come lo aveva immaginato, di fronte a quella prospettiva.

 

Sì, era proprio cresciuta, tantissimo.

 

“No, Valentì, magari! Direi che è praticamente impossibile. Intendo che la mia prima figlia, anche se ormai presumibilmente non più unica, se vorrà, potrà godere più frequentemente della mia sgraditissima presenza. Perché è molto probabile che io e Calogiuri saremo a Torino o a Milano. Penso a Milano come abitazione.”

 

“Come?”

 

“Eh abbiamo chiesto i trasferimenti e… sappiamo di avere buone possibilità, mettiamola così.”

 

“Ma che fai, mà, mi segui?”

 

“O sei tu che segui me?”

 

Per un attimo quella domanda le fece tornare in mente il finale di Rosmersholm, ma qua non ci stava nulla di tragico, al massimo di tragicomico.

 

“Mà…”

 

“Insomma, ovviamente avrai tutti i tuoi spazi, per te e Penelope, perché immagino vivrete insieme, no?”


“Beh… così mi eviterei il costo dell’affitto. Certo, contribuirei alle spese, ma non è come con Samuel: io e Penelope ci conosciamo bene e sono più matura e-”

 

“E ti ho detto niente in proposito?”

 

Valentina deglutì le ulteriori proteste, ormai automatiche.


“Non ci sono abituata a te che sei così conciliante, mà!”

 

Alzò gli occhi al soffitto: proprio vero che come fai sbagli!

 

Ma la mano sulla spalla e quella sul pancione, insieme al sorriso di Valentina, le fecero capire che sì, forse qualcosa di buono lo aveva fatto davvero.

 

*********************************************************************************************************

 

“Un altro po’ di sorbetto prima che si ghiacci del tutto?”

 

Calogiuri aveva fatto segno verso il piccolo frigo e freezer, dove tenevano giusto le cose essenziali, al di fuori dei pasti principali, gestiti dalle suore.

 

Un rumore ben poco pacifico di bussare alla porta.

 

No, non era suor Cecilia, decisamente no.

 

“Chi è?”

 

La porta si aprì, senza che avesse nemmeno dato il permesso, cosa che già la irritò, ed entro la più arcigna delle suore, talmente brusca che manco si era mai presentata col suo nome, vero o preso coi voti che fosse.

 

“Devo farle le terapie. E l’orario di visita è finito.”

 

“Veramente qua non ci sarebbe proprio un orario di visita,” specificò, perché era stata una delle garanzie della superiora nella trattativa prima di andare lì - purché non fosse tardissimo o prestissimo, ovviamente, ma non ci teneva manco lei a trovarsi scocciatori all’alba o in piena notte.

 

La suora la fulminò con un’occhiataccia disapprovante e poi guardò verso Calogiuri e Valentina.

 

“Lui in ogni caso deve uscire, che non è decoroso.”

 

“Si rende conto che, se sono qui, non è per un’immacolata concezione e che Calogiuri ha già visto le mie gambe e non solo?”

 

La suora strinse i pugni, ancora più rabbiosa, e poi squadrò Valentina, forse ancora peggio di Calogiuri, che era tutto dire.


“Mia figlia direi che mi ha vista in tutte le salse, dato che la conosco da tutta la sua vita e l’ho partorita.”

 

“Una volta certe cose erano inconcepibili,” sibilò la suora.

 

“Come?”

 

“Nessuna regola, nessun rispetto. Lei qua è ospite!”

 

“Ospite pagante, sottolineerei. E gli ospiti, solitamente, andrebbero trattati con educazione.”

 

Ma la suora squadrò ancora peggio prima lei e poi Calogiuri che, conciliante come al suo solito, abbozzò con un, “va beh… io esco, se hai bisogno basta che chiami e sto qua, appena fuori dalla porta.”

 

Conciliante ma non troppo, era chiaro il messaggio implicito per la simpaticissima sorella.

 

La suora restò con le braccia conserte a fissare Valentina e, di nuovo, c’era qualcosa di strano nel modo in cui lo faceva, che le diede una certa inquietudine, anche se non avrebbe saputo dire il perché.

 

“Che c’ha da guardare?”

 

E brava Valentì!

 

La religiosa però non fece una piega e continuò a fissarla, facendo cenno verso la porta.

 

“Va beh, mà, tanto è tardi, ti lascio qui con sorella Alberta!”

 

“Giuditta, sorella Giuditta.”

 

Imma alzò gli occhi al cielo, mentre sia a lei che a Valentina veniva un poco da ridere, perché chiaramente alla sorella mancavano totalmente i riferimenti televisivi nazionalpopolari. Del resto, magari era stata in convento già da prima che andasse in onda la suora più odiata della fiction italiana.

 

Valentì praticamente non era manco nata, ma era riuscita ad essere traumatizzata lo stesso da una delle mille repliche, viste con la buonanima di sua madre.

 

Valentina si avvicinò, a sorpresa, le diede un bacio e poi uscì. Imma si chiese se lo avesse fatto apposta, per dare ancora più sui nervi alla puritanissima suora, che pareva schifata da qualsiasi manifestazione d’affetto.

 

Di sicuro, in caso, la missione era stata compiuta.

 

*********************************************************************************************************

 

Il suono di una notifica in contemporanea sul cellulare suo e su quello di Calogiuri.

 

“Mancini?” domandò, stupita, cercando gli occhi di lui che annuì.

 

“Se fosse una cosa grave sarebbe venuto di persona, no, dottoressa?”

 

“Eh… speriamo. Anche se magari sa che non è… molto gradito, capitano.”

 

“Gli posso sempre presentare suor Giuditta, così magari si concentra su di lui, per una volta.”

 

Imma rise ma poi tornò seria, perché la lucetta della notifica le ricordava che forse qualcosa era successo.

 

“Apriamo insieme?” domandò Calogiuri e Imma annuì.

 

Dallo sguardo sollevato di Calogiuri, capì che avevano ricevuto lo stesso identico messaggio.

 

Mi hanno scritto dalla procura di Torino per comunicarmi che la richiesta di trasferimento del capitano è stata accettata: prenderà servizio a fine gennaio. Inoltre ho appena avuto conferma dal procuratore di Milano che intende avere la dottoressa nel suo organico, non appena terminerà il periodo di maternità. Seguirà comunicazione ufficiale. La nostra collaborazione non è stata sempre facile ma perdo due dei migliori elementi mai avuti da quando faccio questo lavoro. Spero che tutto proceda al meglio possibile, tenetemi aggiornato, se vi va.

 

Calogiuri era felice e ansioso insieme, proprio come lei.

 

“Imma…”

 

“Qua conviene organizzarci, Calogiuri, che trovare un alloggio in pochi mesi non è facile. E poi… chissà che freddo farà a Torino a gennaio. Altro che i lupetti! Ma almeno dovrai stare ben coperto, che le donne del nord sono pericolose.”

 

Calogiuri scosse il capo e rise.

 

“Mai come te, dottoressa!”

 

“E mai come te, Calogiù!”

 

*********************************************************************************************************

 

Il telefono squillò.


Una telefonata.

 

Era un numero di Roma ma sconosciuto.

 

Non sapeva se rispondere o meno. In più, Calogiuri era andato in procura per smaltire alcune pratiche riguardo ai loro trasferimenti, che dovevano essere completate di persona.

 

Rimase per un attimo incerta, ma alla fine la curiosità ebbe la meglio.

 

“Pronto?” domandò, con una voce il più neutra possibile, per rendersi poco identificabile, se fossero stati malintenzionati.

 

“Dottoressa Tataranni?”

 

“Chi parla?”

 

“Sono l’assistente sociale.”

 

Un tuffo al cuore e lanciò in automatico un’occhiata al lettino, dove Francesco stava facendo il pisolino pomeridiano. Una delle conquiste di quei giorni.

 

“Che succede?”

 

“Sarei voluta venire di persona ma… la sua situazione è particolare, dottoressa, e ho ritenuto che fosse meglio chiamarla prima, per avvertirla.”

 

“Per avvertirmi di cosa?”

 

“Abbiamo terminato i colloqui con la signorina Russo. Sembra stare molto meglio, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. I medici che l’hanno in cura ci hanno confermato che a breve potrà uscire dall’ospedale. Mi rendo conto che forse per voi non sia il periodo più adatto ma… ci sarebbe da ricominciare il percorso di reinserimento per lei e il piccolo Francesco.”

 

Altro che colpo al cuore! Le venne una botta di magone assurda e si rese conto solo dopo un attimo di avere le guance bagnate.

 

“Dottoressa?”

 

“La… la posso richiamare tra un po’? Devo… la richiamo.”

 

Mise giù il telefono, odiando la voce roca e quasi balbettante che le era uscita, odiando le lacrime che non riusciva a fermare, odiando i maledetti ormoni, odiando il non sentirsi pronta e il non riuscire a immaginare un momento in cui lo sarebbe stata.

 

Come se lo avesse percepito, Francesco scelse proprio quel momento per scoppiare a piangere e cominciare a urlare, come lei avrebbe tanto voluto fare.

 

Ma non aveva neanche più la voce per quello.


Nota dell’autrice: Ed eccoci qua, a cifra tonda, al capitolo numero 80, che mai e poi mai avrei pensato di raggiungere quando ho iniziato a scrivere questa storia. So che ultimamente ci sono stati ritardi con le pubblicazioni. Purtroppo la vita reale mi lascia assai meno tempo libero di una volta, ma spero di riuscire a fare di meglio in estate, a parte la pausa di agosto. Ormai non mancano moltissimi capitoli e voglio davvero riuscire a portare a termine quello che ho iniziato ormai quasi quattro anni fa.

Spero che la storia continui a piacervi, nel prossimo capitolo accadrà un evento tanto ma tanto atteso da tutti. Vi ringrazio di cuore per i messaggi che mi mandate e che mi motivano tantissimo a proseguire, per tutte le recensioni, che mi danno una grande carica e sono utilissime per capire cosa funziona e cosa no. Un grazie anche a chi ha messo la mia storia nei preferiti e nei seguiti.

Il prossimo capitolo, visti anche i contenuti, sarà abbastanza lungo ma spero davvero di riuscire a pubblicarlo domenica 25 giugno. In caso di ritardi, vi avviserò sulla pagina autrice.

Grazie ancora e a presto!

 

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Capitolo 81
*** Il Parto ***


Nessun Alibi


Capitolo 81 - Il Parto


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Ca- capitano!”

 

Aveva appena messo piede nella clinica, che suor Cecilia non solo l’aveva chiamato, pur se balbettando, ma si stava perfino avvicinando e sembrava felice e sollevata di vederlo, come non mai.

 

Un sasso nello stomaco: non era un buon segno.

 

“Suor Cecilia? Che succede? Imma-”

 

La suora si bloccò: doveva aver notato la sua preoccupazione.

 

“N-no, no, non è successo niente a lei e alla bimba. Cioè non è successo niente alla bimba e anche la dottoressa fisicamente sta bene ma… ma temo sia successo qualcosa e… e non so cosa fare.”

 

“Cioè? Sta male? Che si sente?”

 

“No… non lo so… è che… è che non parla. Non parla proprio più. Si è pure fatta medicare senza lamentarsi, non dice niente e…”

 

Da un lato gli venne da sorridere, che il silenzio e la tranquillità di Imma impensierissero  così tanto la suora. Dall’altro, però, impensierivano pure lui e molto. Imma silenziosa non lo era quasi mai: pochi eventi le levavano il fiato o la parola e, di solito, o erano meravigliosi o terribili.

 

Mentre si incamminava a passo deciso verso il cortile e poi verso la stanza, sperò che si trattasse della prima opzione ma, visto anche dov’erano e in che condizioni si trovavano, la seconda era molto più probabile.

 

D’istinto, bussò prima di entrare, dandosi poi dello scemo da solo ma, quando aprì la porta, trovò Imma intenta a guardare dritto davanti a sé, una mano sulla panciotta di Francesco, steso accanto alla sua gamba. Stranamente non si lamentava ma la guardava pensieroso, corrucciato, come se fosse anche lui preoccupato e stranito.

 

Francesco percepiva gli stati d’animo di Imma come poche altre persone al mondo, lo sapeva. E poi, il fatto stesso che Imma non gli avesse fatto nessuna battutina delle sue, perché aveva bussato. Che non lo avesse preso in giro, come solo lei sapeva fare, quando per qualche istante riemergeva l’imbranataggine del Calogiuri arrivato da Grottaminarda, era un brutto, bruttissimo segno.

 

“Imma…”

 

Gli era uscito un sussurro un poco rauco, la vide deglutire e poi quegli occhi scuri erano nei suoi e lo guardavano in quel modo, in quel modo che era una coltellata al cuore, fin dal suicidio del giovane architetto nel caso Bruno. Quella vulnerabilità, quella disperazione, quella richiesta d’aiuto silenziosa, di chi il dolore era abituata a tenerselo dentro, anche se la stava schiacciando.

 

E poi quel mezzo sorriso amaro: sapeva che si erano capiti, che aveva capito che la situazione fosse grave ma… ma ciò non rendeva le cose più semplici, anzi.

 

Si avvicinò, cauto, non solo per lei, ma per il piccoletto. Qualsiasi cosa fosse successa, ci mancavano solo le sue urla.

 

Le sfiorò il braccio libero e poi le prese la mano, mentre si sedeva accanto a lei. Il modo in cui gliela stritolò fu da un lato rassicurante e dall’altro spaventoso.

 

“Imma…”

 

Sapeva di sembrare un disco rotto, ma non poteva fare altro che aspettare che lei dicesse qualcosa, o rimanere lì, in silenzio, a farle forza come poteva.

 

“Ha… ha chiamato l’assistente sociale.”

 

La voce di Imma era roca, spezzata, ma aveva anche il tono di quando pronunciava quella che considerava una sentenza definitiva ed inappellabile.

 

Ovviamente erano pessime notizie. Gli venne spontaneo guardare verso Francesco e Imma lo imitò e gli diede una carezza sulla guanciotta con una dolcezza che lo commosse, ancor prima di vedere le lacrime che brillavano negli occhi di lei, senza scendere.

 

“Che ti ha detto?” le chiese, cercando di contenere il tremore nelle corde vocali, perché aveva tanti scenari in testa, uno peggio dell’altro, ma doveva essere sicuro, prima di sbilanciarsi, non da fare peggio.

 

Imma deglutì tre volte e poi espirò un fiato lunghissimo, per provare a tranquillizzarsi.

 

“Me- Melita sta meglio e… e vuole… e vogliono… l’affiancamento e-”

 

Un singhiozzo e non riuscì a dire altro, nonostante continuasse a deglutire furiosamente e a stringere gli occhi per non piangere.

 

Le prese la bottiglietta d’acqua dal comodino e gliela porse, insistendo anche quando lei fece per scostarla, finché non ebbe bevuto due sorsoni pieni.

 

“Im-ma? Im-ma?”

 

Il richiamo preoccupato di Francesco fu il colpo di grazia e fece giusto in tempo ad abbracciarla, prima che scoppiasse in lacrime, tremando come una foglia.

 

Le accarezzò i capelli, per provare a farle forza, anche se non c’era un modo adeguato di farlo, di starle vicino. Si limitò a stringerla più che poteva, tra il pancione, Francesco e tutto il resto, lasciandola sfogare, per quanto poteva.

 

Alla fine i singhiozzi diminuirono e la sentì respirare in modo un poco più regolare, anche se non abbastanza.

 

“Imma, non-”

 

“Lo so che… che non mi devo agitare, lo so, ma-”

 

“Imma,” ripetè, staccandosi leggermente per prenderle il viso e guardarla in quegli occhi sfatti e proprio per quello di una bellezza lancinante, “la richiamo io l’assistente sociale. Adesso non è il momento giusto.”

 

“Ma Melita…”

 

“Melita ha aspettato tanto, può aspettare ancora qualche mese, no? Dopo il parto, almeno. Mo l’importante è che state sereni sia tu che Francesco. Non è il momento e lo devono capire.”

 

Imma si morse le labbra e lo guardò, in quel modo tra l’intenerito e il grato, ma scosse il capo.

 

“Ma-”

 

“Non sarà mai il momento, Calogiù. Lo so… lo sai anche tu.”

 

“E quindi, che vuoi fare? Se… se vuoi che sentiamo un avvocato, magari non Latronico, se non lo vuoi coinvolgere-”

 

Due dita umide e gelide gli tapparono la bocca, come avevano fatto mille altre volte, e la vide scuotere il capo, emozionata ma decisa.

 

“No… grazie, ma… non… Melita si merita una possibilità, è… è giusto così. Lo sapevo che sarebbe successo, l’ho sempre saputo, ma…”

 

“Ma questo non rende le cose più facili?”

 

“No. E non sarà mai facile. Mai. E… e pure se aspettiamo a dopo il parto… me lo dici quando e come c’avrò, c’avremo la testa e il tempo per… se qua la piccoletta ci esce con anche solo un decimo della nostra capa tosta?”

 

Fu il suo turno di deglutire a fatica, mentre le posava l’altra mano sulla pancia e sentiva un lieve calcetto. Almeno era diventata un poco più delicata nelle ultime settimane, per fortuna e purtroppo.

 

“E poi… e poi più il tempo passa e più… e più lo amo e…”

 

Se la abbracciò di nuovo, riempiendole la fronte di baci, mentre Francesco gorgogliava e la chiamava, quasi come se sapesse che stavano parlando di lui.

 

Ma forse il piccoletto non capiva, non poteva capire, quanto quella dichiarazione significasse per Imma.

 

Le prese di nuovo il viso tra le mani e si staccò, giusto il necessario per guardarla negli occhi.

 

“Possiamo… possiamo almeno fare una via di mezzo,  no? Un compromesso, anche se a te non piacciono, dottoressa.”

 

Imma si morse il labbro e lo studiò, confusa e incuriosita.

 

“L’assistente sociale la richiamo io e… e  le spiego la situazione tua, della piccoletta, di Francesco, come stiamo. E poi… e poi se qualcosa si deve decidere ora, deve venire qua e ne parliamo con calma, non al telefono: così si rende conto anche di come siamo messi e-”

 

“E ci manca solo quello! Che se vede in che gabbia di matte stiamo, qua Francesco come minimo ce lo portano via subito!”

 

Gli scappò una risata, perché Imma era ironica, anche se non del tutto, e perché era un ottimo segno, quando riemergeva il suo sarcasmo.

 

“Dottoressa…” sospirò, prima di aggiungere, cospiratorio, “e poi… davanti alle suore… manco l’assistente sociale ci può fare niente. Che siamo pure a due passi dal Vaticano, come dici sempre tu, mica si possono permettere! Per una volta che ci può fare comodo…”

 

Imma si lasciò scappare un sorriso, che divenne una mezza risata, pure se amara.

 

“Ma che fai? Mi diventi come Diana, Calogiù?”

 

“Se serve a farti ridere sì. A patto che non mi devo baciare Capozza.”

 

La risata di Imma, stavolta piena, e l’abbraccio in cui si trovò stritolato, lo riempirono di un sollievo che era impossibile da esprimere a parole.

 

Ma lo sentivano tutti e due, lo sapeva, e tanto bastava.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa… capitano…”

 

L’assistente sociale, appena entrata dalla porta, accompagnata dalla superiora, sembrò in fortissimo imbarazzo.

 

Da un lato era un buon segno, un punto a loro favore, da sfruttare, dall’altro… la faceva avvedere ancora di più di come si fosse ridotta la sua vita.

 

Sperava davvero ancora per poco ma, d’altro canto, se significava dire addio a Francesco, una parte di lei avrebbe preferito che quel tempo non scorresse mai.

 

Le fece segno di accomodarsi sulla sedia libera, ai piedi del letto, Calogiuri che ne occupava una al suo fianco. Francesco le stava accanto, come sempre, ma si era voltato e messo a gattoni per guardare l’estranea appena entrata, che probabilmente ricordava a malapena, sempre se la ricordava.

 

Ci fu un lunghissimo silenzio, carico di tensione, e le toccò sospirare e rompere il ghiaccio.

 

“Allora?”

 

“Allora… dopo aver parlato con il capitano, il medico e le infermiere che l’hanno in cura, ho un quadro più completo della situazione.”

 

Le fece cenno di proseguire, che non ne poteva più di tutta sta melina.

 

“Comprendo benissimo la posizione molto delicata in cui siete e… mi pare evidente che Francesco si sia letteralmente attaccato moltissimo a lei.”

 

Come a confermare le sue parole, Francesco si voltò e gattonò verso di lei, cercando le coccole, mentre lei, un pugnale nel cuore, gli accarezzava il viso e lo rimetteva sulla schiena, per fargli solletico alla pancia e poi prendergli le manine.

 

L’assistente sociale deglutì, l’aria di chi avrebbe voluto essere ovunque tranne lì.

 

“Comprendo anche che forse non è il momento più adatto per tentare un riavvicinamento tra Francesco e la madre biologica ma… la Russo soffre molto l’assenza del figlio. I medici che l’hanno in cura mi hanno confermato che la prospettiva del ricongiungersi a lui è stata ciò che l’ha spinta a dare il massimo con la fisioterapia e i trattamenti e… ovviamente il nostro interesse primario è quello del minore, ma… dobbiamo tenere conto anche di questo e di come potrebbe compromettere le possibilità di successo di un avvicinamento futuro. O la salute psicofisica della madre biologica.”

 

Imma annuì, perché che altro poteva fare? Capiva Melita, fin troppo bene, mannaggia a lei.

 

“E quindi?”

 

Era stato Calogiuri a parlare e lo vedeva che per una volta era quasi più impaziente di lei, anche se cercava di apparire calmo.

 

“E quindi, vista la situazione particolare in cui siete, stavamo valutando l’opportunità di assegnare una stanza alla Russo presso questa struttura.”

 

“EH?!”

 

L’avevano pronunciato all’unisono e si erano lanciati uno sguardo a dir poco basito.

 

“Me- Melita qui? Ma… ma avete presente l’ambiente che c’è qua e…”

 

Se lei in quel posto era come un pesce fuor d’acqua, Melita… non c’era nemmeno una metafora adatta per descrivere l’assurdità della situazione.

 

L’assistente sociale sorrise.

 

“Mi rendo conto che… non è esattamente l’ambiente a cui la Russo era abituata. Ma sono mesi che è in terapia intensiva e poi semi intensiva. E qua avrebbe un ambiente protetto, anche da un punto di vista della scorta, e poi almeno potreste cominciare a passare qualche ora insieme. Francesco al momento non credo possa stare senza di lei, dottoressa, e questo sarebbe un modo per affiancarvi gradualmente, dando modo sia a lei che alla Russo di non compromettere la vostra salute fisica e… e vedere come va. Se Francesco può riavvicinarsi alla madre biologica o meno. E prendere le dovute decisioni.”

 

Prese un respiro, perché sapeva che significavano quelle parole: non era certo che le avrebbero tolto Francesco, dipendeva tutto da lui.

 

Ma anche da lei, da loro.

 

Sarebbe stato tanto facile influenzarlo, influenzare negativamente quel processo così delicato ma… ma sarebbe stato anche così difficile, vedere Melita e la sua sofferenza.

 

Avrebbe dovuto essere forte per lei, per tutti e-

 

“Ovviamente la presenza del capitano può aiutare, quando lei non se la sente, dottoressa. Già è stato presente nelle precedenti visite con la Russo e il bambino.”

 

Annuì di nuovo, ma era consapevole che Francesco avrebbe voluto innanzitutto la sua di approvazione: doveva sentirla tranquilla con Melita, o non l’avrebbe mai accettata.

 

Si chiese se potesse farcela, se avrebbe avuto la forza di farcela.

 

Ma lo doveva fare, era la cosa giusta e migliore per tutti, doveva provarci almeno, con onestà, mettendocela tutta anche lei, come ce l’aveva messa Melita.

 

“Va… va bene. Se… se le suore e se Melita sono d’accordo, va bene.”

 

Una mano che stringeva la sua, gli occhi commossi di Calogiuri, che capiva ogni singolo pensiero che le passava per la testa.

 

Menomale che c’era lui!

 

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“Benvenuta.”

 

Il saluto della madre superiora era esattamente identico a quello che aveva riservato a lui e ad Imma: asciutto ma non in un modo necessariamente negativo. Professionale, sempre se si poteva definire professionale una suora.

 

Ma suor Elisabetta era molto più di una suora, lo aveva capito pure lui che cercava di evitare lei e le consorelle il più possibile e che era abituato alle suore che aveva conosciuto da bambino, severe e all’antica, ancor di più di sua madre.

 

Melita entrò, camminando un po’ a fatica, con una stampella come supporto. Era migliorata tantissimo dall’ultima volta che l’aveva vista. Il viso era ancora un poco segnato, ma dovevano averle fatto un ulteriore intervento, perché era decisamente più simile alla Melita di una volta, anche se alcuni tratti erano stati irrimediabilmente modificati.

 

Sembrava una combattente, in tutti i sensi.

 

Ma la decisione vacillò quando Melita incrociò gli occhi della superiora. E poi lo cercò, in panico.

 

“So che vi conoscete già,” proclamò la superiora e, assurdamente, non suonava sarcastico, visto che lui e Melita erano stati sui giornali, dipinti come amanti, “la dottoressa era impossibilitata a muoversi per accoglierla. Poi il capitano l’accompagnerà nella sua stanza. Prima però le mostro dove soggiornerà per le prossime settimane.”

 

Melita era assai intimidita, nonostante l’abbigliamento fosse molto più sobrio e coprente del suo solito, e probabilmente non solo per le cicatrici.

 

Le fece un cenno di incoraggiamento e la seguì fino al chiostro, dove c’erano gli agenti appostati. Se Melita era intimidita dalla superiora, loro lo erano da lei.

 

In effetti, per certi versi, la sua bellezza esotica metteva ancora più in soggezione così.

 

Si avvicinarono alla porta ma un’occhiata della superiora bastò per farlo rimanere un passo indietro, fuori dalla stanza, anche quando Melita gli lanciò un altro sguardo impanicato.

 

E poi lui con Melita in una stanza da letto, con tutto il bene, solo con miriadi di testimoni ci sarebbe entrato. Che già era stato fin troppo scemo in passato.

 

Mai più!

 

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“Eccoci qua…”

 

La voce di Calogiuri e la porta che si aprì. Un tuffo al cuore nell’incrociare per la prima volta quegli occhi scuri, anche se mai come quelli del piccoletto, in quel viso che era ancora così bello, nonostante le cicatrici. Anzi, forse lo era ancora di più, per certi versi, sembrava una dea della guerra, egizia probabilmente.

 

La vide abbassare lo sguardo e sentì un gorgoglio, la pancia di Francesco che vibrava sotto la sua mano.

 

“Im-ma? Im-ma?!”

 

La chiamava, preoccupato, ma lei riusciva solo a notare il dolore nelle labbra e negli occhi di Melita, un po’ di gelosia e tanto rimpianto.

 

“Francé…” lo chiamò Melita e Francesco si guardò un attimo intorno, confuso.

 

Calogiuri le fece segno, se si potevano avvicinare, e lei, impercettibilmente, gli diede il permesso, anche perché non riusciva a parlare.

 

“Francesco…” lo chiamò anche lui, facendo strada a Melita, che zoppicava vistosamente, “guarda chi c’è, ti ricordi di… di Melita?”

 

Francesco però continuava a fissare lei e solo lei, turbato, forse avendo percepito il suo nervosismo. Si sforzò di fargli un sorriso, accarezzargli un’ultima volta la pancia e portarlo a mettersi a gattoni.

 

“Allora, Francè? Hai visto?”

 

Calogiuri, con il suo sorriso e i suoi modi da paciere, stava chiaramente cercando di stemperare la tensione.

 

Melita aveva gli occhi pieni di lacrime, mentre guardava suo… suo figlio, perché quello era, suo figlio, come Calogiuri guardava sempre lei: come un miracolo.

 

“Amore mio…” la sentì sussurrare a fatica, allungando tremante la mano libera dalla stampella verso Francesco, per fargli una carezza.

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

Francesco, a pieni polmoni, peggio di una sirena, cominciò a ululare e si scostò, voltandosi verso di lei e gattonandole sempre più vicino, come a ricercare protezione.

 

“Francè…” sussurrò, cercando di calmarlo, mentre Calogiuri lo prendeva in braccio e se lo metteva in grembo, sedendosi accanto a lei, in modo che non le finisse sulla pancia ma riuscisse lo stesso a consolarlo.

 

Un altro singhiozzo, diverso da quelli del piccolo ululatore seriale, ed era Melita che, sorretta inaspettatamente dalla madre superiora e affiancata dall’assistente sociale, piangeva ma in un modo ben diverso, con la disperazione di chi ha perso tutto.

 

“Su su, figliola, animo, animo!” la esortò la superiora, con una forza inattesa nelle braccia - probabilmente data dagli anni ad avere a che fare coi pazienti, “siamo appena all’inizio, è normale.”

 

Melita, pure nella disperazione, la guardò basita. La superiora la direzionò verso la sedia libera e, insieme con l’assistente sociale, la aiutarono a sedersi.

 

“Le cose importanti della vita vanno conquistate e mantenute, con tempo e pazienza. Non si deve abbattere e-”

 

“E che ne sa?! Che un figlio non ce l’ha mai avuto! E me sta a fa la predica con ste frasi buoniste del cazzo?”

 

Una cosa buona lo sfogo di Melita l’aveva prodotta: Francesco aveva smesso di ululare e la guardava incuriosito, come faceva sempre quando percepiva che c’erano guai in corso.

 

L’assistente sociale sembrava voler sprofondare, anche se mai quanto Calogiuri, rosso come non mai.

 

Lei, invece, da un lato era orgogliosa di Melita, dall’altro temeva che venisse cacciata di lì seduta stante - e forse una parte di lei lo sperava anche, ma sapeva, razionalmente, che sarebbe stato solo peggio.

 

Tutti scrutarono i lineamenti austeri di Suor Elisabetta ma, sorprendentemente, non accadde nulla: la suora si limitò a scuotere il capo, con l’aria di chi aveva a che fare con una bimba capricciosa.

 

“Al di là di questa passione per il turpiloquio che avete voi giovani, che pensate che vi dia un tono, se crede che questo mi scandalizzi, non ha mai avuto a che fare con tutti i pazienti anziani che ho avuto negli anni. Che diventano tutti un po’ bambini. O con il gestire le intemperanze e i caratteri diversi di una comunità di donne, da costruire e tenere insieme, in mezzo a tutte le difficoltà. Non avrò avuto figli biologici, ma so che l’amore, o anche solo il rispetto, si conquistano e si mantengono, giorno dopo giorno. E che i legami di sangue non sono sempre quelli che contano di più. So che ne ha già passate tante, ma il carattere lo deve tirare fuori ora, se vuole essere madre davvero.”

 

Si guardò con l’assistente sociale, ancora stupita quanto lei, ma evidentemente le suore i predicozzi motivatori non li facevano solo nelle fiction. Solo che quello di Suor Elisabetta era atipico, pragmatico. Per certi versi la sentiva simile a sé, nel modo in cui avrebbe approcciato una sospettata, un’indagata, o anche solo una testimone, nella stessa situazione di Melita.

 

Certo, forse persino lei avrebbe avuto più tatto, ed era tutto dire. Ma a volte il tatto era sopravvalutato, da mo che lo pensava, e poi dipendeva tutto dal carattere di chi tenevi di fronte, se era più efficace il bastone o la carota.

 

E, in effetti, Melita parve calmarsi, il silenzio calò nella stanza, mentre fissava suor Elisabetta con un misto di sfida ma anche un maggiore rispetto.

 

“Il periodo di affiancamento serve proprio a questo. In questo momento è normale che il minore riconosca la dottoressa Tataranni come la sua unica figura materna. E ciò che per me e per l’autorità che rappresento è più importante, è il benessere del minore. Dobbiamo collaborare tutti, ma con aspettative realistiche, anche se mi rendo conto che non sia facile per lei.”

 

Era stata l’assistente sociale a parlare, con tono più gentile della superiora, ma con l’aria di chi quel discorso lo aveva fatto molte volte, ma sapeva che tra il dire e il fare c’era di mezzo un mare di sentimenti e attese.

 

Melita prese un respiro e annuì, anche se a fatica. Guardò lei e Calogiuri e poi il piccoletto, che la osservava con una manina in bocca. Francesco a volte gli ricordava Diana, per come veniva ipnotizzato dai drammi che lo circondavano.

 

“Scu- scusate, ma… ma per me non è facile accettare che… insomma… lo so che non può riconoscermi, ma… ma non è facile. Avevamo fatto qualche progresso e ora…”

 

“E mica è detto che non siano serviti. Perché non provi a cantargli la vostra canzone? Magari di quella si ricorda meglio e anche di te, pure se è stato tanto sballottato in questi mesi.”

 

Calogiuri.

 

C’era quella decisione in lui, quella delle emergenze, quando prendeva le redini e cercava di sistemare tutto per tutti.

 

Un attimo di silenzio, Melita prese qualche respiro e poi cominciò a cantare quello che riconosceva come un vecchio tormentone estivo. Non avrebbe mai creduto che una di quelle canzoni per imbecilli da spiaggia potesse suonare così straziante.

 

Francesco continuò a studiarla, con curiosità, poi si levò la manina dalla bocca e iniziò a battere le mani, in un modo che le fece bene e male insieme e le ricordò tantissimo Noemi da piccola.

 

Incoraggiata dal risultato raggiunto, da suor Elisabetta e dall’assistente sociale, Melita si alzò piano piano, continuando a cantare e si avvicinò a lui. Provò a tendergli la mano libera e Francesco, curioso, le afferrò l’indice, facendolo andare su e giù un paio di volte. Ma poi, quando lei provò ad accarezzarlo, lui si voltò nuovamente verso Imma, rifugiandosi nel suo fianco.

 

Un altro colpo per Melita, che però non smise di cantare, con un filo di voce, mentre Francesco ogni tanto si voltava per spiarla. Ma poi, lo sguardo fisso in quello di Imma, tenendole la camicia da notte con le manine a pugno, piano piano, si addormentò tra lei e Calogiuri.

 

“Va bene così,” sussurrò l’assistente sociale, facendo segno a Melita che poteva smettere.

 

Melita era in lacrime, ma seguì l’indicazione.

 

“Ci vorrà sicuramente un lungo periodo di affiancamento. Piano piano, vediamo come va. Deve sfruttare questo tempo al massimo ma con calma e pazienza, anche se lo so che non è facile. Francesco deve stare sereno e sentirsi al sicuro. Per intanto almeno lo potrà vedere tutti i giorni, no?”

 

Le toccò annuire e anche a Calogiuri mentre Melita si asciugò le lacrime con un sospiro.

 

“Ora può sistemarsi nella sua stanza e poi nei prossimi giorni fisseremo degli orari di visita, compatibilmente con le esigenze mediche della dottoressa. Forza!”

 

La superiora, autorevole fino al marziale. Melita non oppose resistenza e, dopo un ultimo sguardo a Francesco, ancora addormentato, la seguì fuori dalla stanza, insieme all’assistente sociale.

 

Lasciò andare il fiato a lungo trattenuto. Calogiuri la guardava preoccupato.

 

“Dottoressa…”

 

“Ce la faccio, Calogiù, non ti preoccupare, ce la faccio. Per il piccoletto questo ed altro…”

 

Si sentì abbracciare di lato, un bacio sulla tempia e ringraziò per l’ennesima volta di averlo, letteralmente, al suo fianco.

 

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“Allora, dottoressa? Come procede… l’affiancamento?”

 

Si guardò con Calogiuri e poi sospirò, trattenendo la rispostaccia alla psicologa.

 

Ma che domanda era?

 

“Eh… insomma… Francesco… vuole comunque stare sempre con me. Melita, la madre biologica, riesce a tenerlo in braccio soltanto per poco.”

 

“E questo per lei è un bene o un male?”

 

Prese un respiro, perché la psicologa, almeno su quello, un minimo perspicace lo era stata.

 

“La verità?”

 

“Le ho già detto che non esiste una verità assoluta in terapia ma sì, se mi dice come si sente, ha più possibilità di essere efficace…”

 

Sì, di zero! - pensò, ma non lo disse, perché Lucia era terrorizzata ogni volta che la vedeva e gli altri suoi colleghi che le avevano proposto, già solo dalla foto, le avevano ispirato ancora meno fiducia.

 

Che parevano quegli psicologi che scrivono libri, con il loro faccione in copertina, per poi andare in televisione a disquisire di crimini, con una perspicacia che, a confronto, l’appuntato Calogiuri era stato un profiler dell'FBI.

 

Almeno Lucia non se la tirava troppo, come avrebbe detto Valentina, era già qualcosa.

 

“Eh… non… non è facile per me l’idea di lasciare andare Francesco. Anche se da un lato sarebbe una responsabilità minore, non averlo sempre appresso, che vuole solo me o quasi… dall’altro…”

 

“Dall’altro?” fu sollecitata, dopo un po’ di silenzio.

 

“Dall’altro… non ho mai avuto nessuno così attaccato a me. A parte Calogiuri, ma lui è adulto e non conta.”

 

“Quindi ha difficoltà coi bambini?”

 

E fu lì che al suo “insomma…” si associò un “no!” decisissimo di Calogiuri, che la sorprese.

 

“Se intendi che tu non hai difficoltà coi bambini, Calogiù…”

 

“Ma  neanche tu ce le hai: i bambini di solito adorano Imma. Perché… è schietta e… e non li tratta da bambini, non so se mi spiego.”

 

La dottoressa spalancò gli occhi e segnò tutto. Imma era lusingata, ma sapeva anche che…


“Tu non sei obiettivo, Calogiù!”

 

“No, no: è vero. I bambini e gli animali si fidano istintivamente di te, dottoressa, da sempre. Con gli adulti hai un po’ più di problemi, invece. E dai, pensa non solo a Francesco ma a mia nipote-”

 

“Ma Noemi vole bene tanto tanto a tutti,” citò, col tono della bimba, facendolo sorridere.

 

“E… e Bianca allora?”


“Chi è Bianca?”

 

Calogiuri si morse la lingua.


“Una… una bambina che, a causa di alcuni traumi, aveva moltissima ansia sociale, la sta superando piano piano.”

 

“Ma con lei non aveva problemi nemmeno quando l’ansia sociale era più forte?”

 

“No… effettivamente no…” le toccò ammettere, mo che ci pensava.

 

“Ma anche i bambini che vediamo nei casi o… gli animali: da Ottavia, che ti si è attaccata subito, come Francé-”

 

“Perché aveva fame e l’ho salvata dalle oche, la ruffiana!”


“Sì, ma anche i cavalli e le cavalle, insomma sei-”

 

“Mi dipingi come san Francesco, Calogiù, ancora un poco!”

 

“No, ma è vero. Con gli adolescenti già è più complicato, ma anche con loro te la cavi, alla fine, è con gli adulti che fai più fatica. Ma di solito se lo meritano.”

 

Le venne da sorridere, mentre la psicologa faceva una faccia da insomma! che… aveva colpito ancora.

 

“Da come la vede Calogiuri, al di là dei possibili bias, direi che ci ha fornito esempi concreti di molti casi in cui i bambini si trovano bene con lei, anzi benissimo. Allora perché tutte queste paure?”

 

“Ma con Francesco… con Francesco ci siamo scelti e… lui mi ha scelto come…”

 

“Come figura genitoriale a cui è più attaccato?”

 

Spiò Calogiuri ma poi annuì, perché era la verità.

 

“Forse a differenza della sua prima figlia biologica?”

 

Le toccò di nuovo annuire, perché era soltanto che vero.

 

“Sì… diciamo che con Valentì… da bambina non avevamo un brutto rapporto, anzi, le mancavo molto quando ero al lavoro, ma appunto non ero spesso a casa. Poi nell’adolescenza… un disastro… cocca di papà proprio. Mo un rapporto lo abbiamo recuperato e… andiamo d’accordo ma… non è un legame così stretto e… e viscerale come quello che ha con suo padre.”

 

“Secondo me invece è altrettanto stretto. Solo diverso,” intervenne Calogiuri, che l’avrebbe baciato e strozzato insieme.

 

“Le ho già detto che non esiste la verità assoluta in terapia, dottoressa. Solo diversi punti di vista. E forse… forse lei ricollega l’amore filiale a quella devozione e a quell’obbedienza assoluti, tipici di un bambino più piccolo?”

 

“Non… non lo so… non sono mai stata molto materna, credo-”

 

“Ma con Francesco se la cava bene, no?”

 

“Sì, sì, ma… non ho mai avuto il desiderio che hanno certe madri di vedere i figli ogni secondo, di stargli addosso. Certo, con Valentina ero molto apprensiva, che non si mettesse in brutti giri ma… mi piace lavorare e… forse sono sempre stata più paterna. Per come si considerano i ruoli qua in Italia.”

 

“E non c’è niente di male. Però… ora con Francesco, anche se lei è qua, allettata e malata, ha comunque voglia di stargli vicino, no? Anzi, le fa piacere, da un lato, che lui voglia solo lei.”

 

“Sì, ma… ma ho anche poche alternative e poi… insomma… non so se… se riprendessi a lavorare come sarei.”

 

“E questo la preoccupa, anche in vista della bimba in arrivo?”

 

Lanciò un’altra occhiata a Calogiuri e gli sorrise, stringendogli la mano, “non sono preoccupata, perché so che c’è lui e sarà un padre fantastico ma…”

 

“Ma teme di non essere una madre fantastica. Come non si è sentita per sua figlia maggiore?”

 

Annuì, perché sì, non ci voleva certo uno psicologo per capirlo, visti i suoi precedenti.

 

“Insomma… è che… da un certo punto in poi con Valentì è stato come se ci fossimo quasi perse. E non solo per l’adolescenza, che bisogna uccidere la madre - sempre metaforicamente, è chiaro!”

 

La psicologa segnava, guardandola come se fosse un esemplare raro.

 

“E insomma… al di là dell’adolescenza, io per un po’ di tempo, per troppo tempo, ho delegato quasi tutto a Pietro, il mio ex marito, per quanto riguardava Valentina. E… ed erano complici, ma nel senso che lui faceva quello buono e conciliante, e io il poliziotto cattivo e-”

 

“E ha paura di ripetere la dinamica con la bimba che sta per nascere?”

 

“Se aspetta un poco a nascere è meglio per lei, meno per me, che sto ferma qua e-”


“Dottoressa… non defletta…”

 

Sì, quella frase era veramente odiosa, le toccava ammetterlo, quando si era dalla parte di chi la riceveva.

 

“Beh… in confronto a Calogiuri… insomma lo ha visto bene? Che è amato da tutto il genere femminile di qualsiasi età, poi con quegli occhioni che tiene… come faccio io ad avere anche solo una speranza di reggere il confronto? E su!”

 

Calogiuri divenne fucsia ma scosse nettamente il capo.

 

“Ma con Francesco lo reggi il confronto, dottoressa, più che bene e-”

 

“Sì, ma lui è-”

 

Si bloccò prima di dire maschio. Ma l’avevano capito benissimo sia Calogiuri che la dottoressa.

 

“Quindi lei, più che paura di essere inadeguata con un figlio in generale, ha paura di essere inadeguata con una figlia femmina, in particolare?”

 

“Non… non sono stata una grande madre, lo ripeto. Rigida, molto attenta alla disciplina e… e forse un poco invidiavo mia figlia in certi momenti, per… per quella spensieratezza che non ho mai avuto, e che lei invece si poteva permettere. E… e non era giusto.”

 

“Ma adesso lo ha capito no? E pure da sola…”

 

“Sì, sì… l’ho capito stando con Calogiuri. Con lui… con lui ho vissuto quelle tappe che mi ero un po’ persa e… riesco a capire meglio Valentina mo.”

 

“E allora… non pensa che sarà più serena anche con la bimba che sta per arrivare?”

 

“Sì… ma… tra il dire e il fare… c’è di mezzo la mia disciplina quasi militare. E… e ho paura che… riprendendo con il lavoro… che non riuscirò a mantenere un equilibrio e… non sono molto brava con le vie di mezzo, io: o tutto o niente.”

 

“Ma sei già molto migliorata sui compromessi, dottoressa, lo hai detto pure tu,” la incoraggiò Calogiuri, con quel sorriso e quel tono pacato ma deciso che le faceva davvero credere, almeno per qualche istante, che dicesse il vero, “e poi… e poi non mi prenderei mai la tua parte di ruolo, salvo emergenze. Cinquanta e cinquanta, dottoressa. E… non ti metterei mai contro nostra figlia, anche solo per levarmi dai guai, come non lo faresti tu. E sul poliziotto buono e cattivo… possiamo fare a turno. Mi impegnerò di essere più credibile che in procura a fare quello cattivo, e magari il corso mi ha aiutato.”

 

Sorrise perché si, Calogiuri era sempre più autorevole, tranne con le suore, che non ce la poteva proprio fare.

 

“Insomma… in psicologia si dice che quando si hanno le stesse premesse e gli stessi comportamenti, se non viene operato un cambiamento ad uno dei fattori, sarebbe folle aspettarsi risultati diversi. Ma qua… dei cambiamenti ci sono stati, mi sembra, no? Per esempio, con Francesco, se le fosse capitato qualche anno fa…”

 

“Sì, con Pietro che avrebbe eretto un altarino al MASCHIO, sua madre che lo avrebbe riempito di vizi e con Valentina che sarebbe stata gelosissima e-”

 

Si accorse, dal sorriso della psicologa, di essersi risposta da sola.

 

E il cuore le si fece un poco più leggero, soprattutto quando la piccoletta tirò un altro calcetto, sempre al momento giusto, mannaggia a lei!

 

Su quello, era proprio tutta il suo papà.

 

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“TATA!!”

 

L’urlo precedette i piedini scalpiccianti e quelli ben più pesanti delle suore che cercavano di trattenerla, così come Rosa, ma invano.

 

La intercettò infine Calogiuri, appena in tempo, prima che le volasse sul letto.

 

E invece fu lui a farla volare e Noemi rise, con dei “zio! Zio!!” da scioglimento. Ma poi si bloccò e la guardò, serissimo.

 

“Devi essere delicata con la zia, va bene? Non bisogna toccarle la pancia e non si deve muovere.”

 

Noemi annuì con un “promesso!” tenerissimo quanto sincero, com’era sempre lei. E poi Calogiuri le levò le scarpine e se la ritrovò dal lato opposto a Francesco, che faceva i suoi risolini. E poi attaccata al braccio.

 

“Il braccio almeno posso abbracciare, vero?”

 

Si commosse, sia per lo sguardo, sia perché faceva sempre meno errori a parlare, mannaggia pure a lei!

 

“Eh certo!” esclamò, smettendo solo per un attimo di coccolare Francesco, per darle una carezza su una guancia.

 

Noemi, di tutta risposta, si alzò in piedi e ricambiò, riempiendole di bacini il viso e stringendole pure il collo, che come faceva a lamentarsi? Sempre mannaggia a lei!

 

Francesco protestò un poco e quindi Imma riprese a coccolarlo. Noemi, con una delicatezza commovente, passandole sui piedi, si spostò dal lato del letto dove c’era anche lui e se lo prese in grembo, come la bimba grande che era.

 

“Non dobbiamo far stancare troppo Tata, eh, Francè, hai capito?”

 

Il bimbo non sembrava proprio molto d’accordo ma annuì, in un modo diverso da come faceva con lei.

 

“Hai tanta bua, Tata?”

 

“Eh… insomma, ma devo stare ferma per la piccoletta qua. Che deve stare ancora un po’ dentro alla pancia prima di nascere.”

 

Noemi ci si avvicinò leggermente, tanto che Calogiuri stava per bloccarla, apprensivo, ma si fermò a poca distanza e cominciò a parlare, con un tono ancora più serio, che pareva pronta a una conferenza, pareva.

 

“Lo so che vuoi ussire e anche io vojo giocare con te, cucinetta. Ma devi fare la brava ancora per un po’, va bene? Poi giochiamo.”

 

Sentì un singhiozzo e per un attimo pensò fosse stata lei a produrlo, o Calogiuri, ma no, era suor Cecilia, che stava in una valle di lacrime.

 

“Suvvia…” provò a minimizzare la superiora, con un paio di nobilissime e austerissime pacche sulle spalle, roba che lei in confronto era la persona più sciolta del mondo, ma che le ricordarono anche un po’ lei e Diana, qualche anno prima.

 

“Ma… ma…” balbettò la suorina, mentre suor Giuditta alzava gli occhi al soffitto, schifata.

 

Sempre lei con Diana qualche anno prima, ma peggio.


“Ma pecché piange?” domandò Noemi, preoccupata, voltandosi verso la suorina, per poi bloccarsi un attimo.

 

“Ma… ma siete colleghe di Tata?”

 

La suorina dal pianto passò allo strozzamento, così come la simpaticona e pure il povero Calogiuri e Rosa. Ci mancava solo Pietro, che chissà dove era finito, la magnum di Mancini, e poi lo scenario sarebbe stato completo.

 

Suor Elisabetta, invece, spalancò gli occhi, sorpresa come non l’aveva mai vista.

 

“Come colleghe di Tata? Perché lo pensi?”

 

“Eh… siete tutte vestite di nero. E anche Tata quando è al lavoro si veste di nero, lungo lungo e-”

 

“Quella è la toga, Noè, questa è la tonaca, è diverso. E poi io mica metto il velo, che mi ci vedi col velo?”

 

“Eh no eh!” esclamò Noemi, decisissima, e almeno su quello, per fortuna, non ci stavano dubbi. Poi si fermò, con aria triste.

 

“Però… però… però allora è motto qualcuno? Per quello piange?”

 

Ci fu un’altra tornata di strozzamenti, tranne lei e suor Elisabetta, che le sembrò molto divertita, nonostante il massimo del sorriso per lei fosse non avere le labbra all’ingiù. Ma gli occhi le brillavano.

 

“Perché siamo vestite tutte di nero e hai visto gente in nero ai funerali?”

 

“Eh sì… e poi le amiche di nonna… quando era motto qualcuno… sempre nero. Sempre sempre.”

 

“No, vedi, Noemi, noi non è che siamo così perché è morto qualcuno. Ma perché siamo delle spose. Siamo sposate con Gesù, con il Signore.”

 

Noemi aveva la faccina corrucciata di quando stava riflettendo molto intensamente su qualcosa. Era curiosa e preoccupata al tempo stesso di cosa sarebbe potuto uscire dalla sua boccuccia di rosa.

 

“Ma… ma se siete sposate non ci si veste di bianco? Pecché di nero? Non siete felicie?”

 

Fu il turno di suor Elisabetta di soffocare.

 

Noemi era una putenza, come avrebbe detto Matarazzo ai vecchi tempi.

 

“Ci vestiamo anche di bianco. Ma d’estate. D’inverno… vedi… una volta, quando non c’erano tanti soldi, il bianco e il nero erano i colori più economici. E il nero tiene meglio il calore e una volta i conventi non è che fossero caldi. E poi… il bianco si sporca più facilmente. Così è più comodo.”

 

Ammazza!

 

Doveva ammettere che l’approccio scientifico di suor Elisabetta non era da sottovalutare. Pure se le parti sulla penitenza, il castigo, l’autoflagellazione spesso tanto amata dagli ordini religiosi, il lutto perenne per il cristo in croce se le era convenientemente evitate. Ma la capiva.

 

“Ah… ok…”

 

Per un attimo tirarono tutti un sospiro di sollievo: sembrava che Noemi avesse esaurito i perché, fino a un “ma!” che prometteva molto poco di buono.

 

“Ma… ma se Gesù sta in cielo, come fate ad esserci sposate? Che mia mamma con il mio papà che lavora sempre, sempre via… si è stuffata. E pue io, eh!”

 

Suor Giuditta era in procinto di un cazziatone, suor Elisabetta presa in contropiede. La suorina, passate le lacrime prima e lo strozzamento poi, si copriva la faccia, per nascondere le risate.

 

“Eh… è un po’ complicato, diciamo che lui da un lato è lontano ma è in ogni luogo, quindi è sempre vicino a noi. Non siamo mai da sole.”

 

“Eh no eh!! Ma poi… ma poi non ci si può sposare con uno e batta? Come fate a essere tutte sposate incieme? Che avvocato di papà ha detto che non si può stare con due persone incieme!”

 

Si ripromise di riempire Noemi di leccalecca - altro che Pietro! - quando fosse finalmente tornata a casa, perché l’espressione delle suore era a dir poco impagabile.

 

Doveva fare la PM, doveva! Altro che i Latronico qua!

 

“Non… è… è più come un’amicizia molto profonda, cioè si possono avere tanti amici, come essere una famiglia e-”

 

“Ma non si sposano tutti gli amici, no? E con famiglia non si sposa, si vole bene e basta!”

 

Suor Elisabetta, spompata come non l’aveva mai vista, si limitò a scuotere il capo, proclamando la resa.

 

“Quando dicevo che i legami di sangue non contano… se mai penserai di fare l’avvocato, signorina, avvisaci che ti assumiamo volentieri. Se vorrai mai fare la suora, però, promettimi che scegli un altro convento, va bene?”

 

“Eh sì eh! Però io no suora! Io vojo marito che mi aiuta, come Pietto e zio!”

 

“Rendiamo grazie a dio!” proclamò la superiora, molto sollevata.

 

Però, prima di andarsene, quando le consorelle erano già uscite, la vide fare una specie di occhiolino a Noemi.

 

In fondo in fondo, non era poi così male.

 

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“Si può?”

 

Melita era sulla soglia, incerta e, subito dietro di lei, c’era Pietro, tremendamente a disagio.

 

“Ah, Piè, ma allora ci sei pure tu?”


“Imma…” annuì, l’aria di chi non avrebbe voluto essere lì.

 

“L’ho trovato con quelli della scorta e gli ho chiesto di accompagnarmi. Ho fatto male?” domandò Melita, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

Rosa prima squadrò Melita, evidentemente non troppo felice che fosse vicina a Pietro, dopo sospirò, chiarendo, “la suora, quella simpaticona, ha fatto un po’ di storie a vederlo, che gli uomini in questa zona secondo lei non possono entrare, se non sono il coniuge o parenti. E allora ha preferito stare fuori.”

 

Un moto di rabbia perché, sebbene non è che avesse piacere che Pietro, come chiunque altro del resto, la vedesse conciata in quel modo, come si permetteva la cara sorella Giuditta di decidere per lei?

 

Altro che sorella Alberta!

 

“No, hai fatto benissimo,” rassicurò quindi Melita che, evidentemente, era l’unica, a parte lei e Valentina, ad avere il coraggio di farsi rispettare lì dentro, “Piè, non stare lì impalato, vieni!”

 

“Sììì, Pietto!” ululò Noemi, che stava sul letto a giocare con Francesco e un paio di peluche.

 

Pietro, la faccia di chi temeva di essere prossimo a cantare nelle voci bianche, richiuse la porta dietro di sé e fece un paio di passi in avanti, seguito da Melita, che però fissava soltanto suo figlio, come ipnotizzata.

 

“E tu chi sei?”

 

Noemi, sempre curiosa più di una biscia, che stava scannerizzando Melita dalla testa ai piedi.

 

“Sono… sono…”

 

“La mamma di Francesco.”

 

Calogiuri la guardò, sorpreso quanto lei stessa da quell’affermazione. Ma era la verità e doveva abituarsi ad accettarla, anche solo vocalizzandola.

 

Noemi spalancò la bocca, guardandola di nuovo per bene.

 

“Ma allora… ma allora sei quella che stava male tanto tanto?”

 

Melita, sorpresa, annuì.

 

“Ma allora… ma allora non era bugia e non sei volata in cielo come la mamma di Bianca!”

 

Di nuovo, prese a tutti un colpo, anche se le venne pure un poco da ridere nel beccare Melita a farsi le corna dietro la schiena.

 

“Una lunga storia. E comunque no, Noè, mica era una bugia. Stava male, ma mo sta meglio.”

 

“Aaaah… ma allora è perché c’avevi la bua che hai quelle righe sulla faccia?”

 

“Noemi!”

 

Rosa, incazzata e bordeaux, mentre Noemi, con occhioni spalancati, pareva chiedersi cosa avesse detto di male.

 

“Ma pecché? Sono belle, sembra dissegno!”

 

Melita, inaspettatamente, sorrise.

 

“Non so’ facili da cancellare come un disegno.”

 

“Pecché le devi cancellare? Sono bee bee!”

 

Melita di nuovo sorrise, l’aria di chi voleva spupazzarsi Noemi di coccole, ed Imma, senza pensarci, le fece segno di sedersi accanto ai bimbi.

 

Melita, commossa, si mise vicino ai suoi piedi e, nel giro di pochi secondi, Noemi gattonò verso di lei, portandosi dietro anche Francesco e aiutandolo a salire in grembo a Melita, seppure il suo amato ululatore fosse un po’ riottoso.

 

Melita era in una valle di lacrime. Imma trattenne il fiato, mentre Noemi redarguiva Francesco con un, “devi fare il bravo con la tua mamma, che ha avuto la bua. Anche se adesso non ha più la bua grande come Tata. Quindi devi fare il bravo sia con mamma tua che con Tata, va bene?”

 

Francesco gorgogliò, con l’aria da se lo dici tu! ma poi, quando Noemi gli passò uno dei peluche, si mise a giocare insieme a lei, usando Melita come supporto.

 

E, anche se non era paragonabile al rapporto che aveva con lei, era la prima volta che il piccoletto stava così buono senza averla al suo fianco, da quando erano lì tutti insieme.

 

Una sensazione dolceamara al petto: altro che gli assistenti sociali!

 

“Noemi è proprio una forza, eh?”

 

Incrociò lo sguardo orgoglioso di Pietro, definibile soltanto come paterno.

 

“Questa ci sotterra a tutti, Piè!” deflettè, anche se a Calogiuri il tono agrodolce non sfuggì e forse neanche a Pietro.


“Ti trovo bene… cioè… per quanto puoi esserlo in queste circostanze. Non… non me l’aspettavo che resistessi tutto questo tempo ferma a letto.”

 

Un cenno a Calogiuri, sapendo benissimo quanto lo avesse fatto penare, ma lui sorrise e sollevò le spalle, come se non fosse l’impresa che era, quella che stava compiendo con lei.

 

“Non ti invidio,” lo punzecchiò Pietro, sembrando un po’ ammirato pure lui, ammollandogli una pacca sulla spalla.

 

“Non fate troppo comunella voi due, mi raccomando!” intervenne Rosa, sempre sul pezzo.

 

E dopo un “non ti invidio manco io!” di Calogiuri a Pietro, il successivo battibecco affettuoso tra fratelli con Rosa, i bimbi che giocavano sereni e Melita che era al settimo cielo, diede una carezza alla piccoletta, stranamente tranquilla quel giorno.

 

Giustamente, in mezzo a quella gabbia di matti, persino il suo utero doveva sembrarle il paradiso.

 

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“Ma è senza vergogna!”

 

Stava tornando dal fare l’ecografia e tutti gli altri esami di rito. Era riuscita a convincere suor Cecilia a lasciarle guidare la carrozzina e tornare in stanza per conto suo, anche se supervisionata a distanza.

 

Del resto, da quando le aveva fatto quella sfuriata, della quale non aveva ancora avuto il coraggio di scusarsi - le parole proprio non le volevano uscire - la suorina era solo che felice di non dover passare troppo tempo sola con lei.

 

Fermò la carrozzina, per una volta grata che facesse meno rumore dei tacchi che tanto rimpiangeva, e spiò, oltre alle colonne del chiostro, quella simpaticona di sorella Giuditta che discuteva con Melita.

 

“In che senso?”

 

“Questo è un luogo di malattia e di preghiera e lei se ne va in giro così?”

 

La suora indicava la maglietta di Melita, molto accollata per i suoi standard ma che, a causa delle sue forme, lasciava scoperti giusto un paio di centimetri di pancia, a dir tanto.

 

“Fa caldo! Mica sono ‘na suora io,” protestò, protesa in avanti sulla stampella, almeno finché le toccò indietreggiare, sotto il piombo di una filippica da manuale.

 

“E menomale! Non c’è più religione qua! Gira di tutto, pure una come te! Senza vergogna! Senza dignità, senza fibra morale! Che quel povero bambino come crescerà? In mezzo alla perversione, senza nessuna regola e-”

 

“E mo basta!”

 

Non ce l’aveva fatta: era stato più forte di lei. Le mani, le ruote e la lingua si erano mosse da sole, aveva svoltato l’angolo ed era intervenuta.

 

Giuditta aveva fatto dietrofront e l’aveva fissata con un odio ed un risentimento che neanche i sospettati. E forse le suocere.

 

“Parla proprio lei! Che è soltanto colpa sua, SUA, se ci troviamo in questa situazione! Che qua girano cani e porci! E mo pure le… le peripatetiche!”

 

“Se non ci pensasse già da sola a mettersi in ridicolo, le direi di moderare i termini. Melita non ha mai fatto altro che ballare ma, pure in caso contrario, ricordo male io, o era un certo Gesù Cristo che si accompagnava a una certa Maria di Magdala?”

 

La suora strinse i pugni, colpita, ma fece un paio di passi verso di lei.

 

“E chi sarebbero gli altri cani e porci? Io e Calogiuri? Mia figlia e Penelope?”

 

“Sì! Ormai non si può dire più niente ma sì! Non è naturale! La superiora concede tutto, concede troppo, ma la bibbia-”

 

“La bibbia dice pure di amare il prossimo. E, di solito, chi si scalda così tanto per due ragazze che stanno insieme, o per qualche centimetro di pancia scoperta di una bella donna, è perché teme di esserne attratta. Non è che è lei ad avere qualcosa da capire, sorella?”

 

Comprese di averla punta nel vivo dall’urlo. La soddisfazione durò il tempo di trovarsela a pochi centimetri, gli occhi fuori dalle orbite.

 

“Basta!”

 

Calogiuri…

 

Protettivo come sempre, si era messo in mezzo tra lei e la religiosa, osando persino afferrarla per le spalle per allontanarla da lei.

 

La suora, ovviamente, non la prese bene e ricominciò la tiritera di proteste, di “come osa? Come si permette? Giù quelle mani!” i decibel che si alzavano sempre di più.

 

“Ma che succede qui?!”

 

La superiora, con quattro parole, aveva zittito tutti, paralizzati nelle rispettive posizioni. Si udivano giusto gli uccellini che ancora cinguettavano, godendosi il caldo autunnale.

 

“Questo… questo mi ha messo le mani addosso!” ululò suor Giuditta, staccandosi da Calogiuri, entrambi peggio dei cruschi.

 

“Stava… stava aggredendo Imma, le urlava addosso! Imma non deve agitarsi-”

 

“Ma se era lei a urlare addosso a me! Delle schifezze, delle vere schifezze, madre! Solo a ripensarci ho i brividi!” proclamò, facendosi il segno di croce con aria compunta quanto disgustata.


“La dottoressa voleva solo difendermi!”

 

“Non è vero, madre! La colpa è tutta loro: da quando sono arrivati qui hanno portato solo guai. Pensi anche a come è stata la povera sorella Cecilia!”

 

La madre superiora strinse le labbra, con l’aria di chi le stava credendo.

 

“Non è vero niente, madre! E proprio tu parli di me, Giuditta?”

 

Suor Cecilia, decisa come non l’aveva mai vista né sentita, le erre e le esse che roteavano col suo meraviglioso accento, li aveva raggiunti, tremante ma con una luce negli occhi che le fece quasi paura.

 

Procedette, senza esitazione, a riferire esattamente quanto era stato detto, parola per parola.

 

A lei manco il taccuino serviva!

 

“Ecco, ha sentito di cosa mi hanno accusata?” si inserì Giuditta, pronta a rigirare la frittata, “di essere contronatura e-”

 

“No, ti hanno accusata di essere una… una bulla, come si dice in italiano, no? Ed è quello che sei! Mi hai fatto passare l’inferno da quando sono arrivata, perché ero quella nuova, perché non sono bianca come te, per come parlo! E fai così con quasi tutte le pazienti. Non… non ho mai avuto il coraggio di dirlo ma… ma-”

 

“Va bene così, suor Cecilia, mi è tutto chiaro.”

 

La superiora aveva alzato una mano, più solenne di un giudice. L’occhiata che stava rivolgendo a Giuditta le fece pensare che quello che aveva fatto passare, a chi era finita sotto le sue grinfie, non sarebbe stato nulla in confronto a ciò che la attendeva dalla superiora.

 

“Vai nel mio ufficio, Giuditta.”

 

La religiosa aprì la bocca ma bastò un’altra stilettata oculare di suor Elisabetta per farla dileguare.

 

“Cecilia, mi dispiace non aver mai notato niente e che non ti sia fidata a riferirmelo prima. Se dovessero esserci altri problemi di questo tipo, me ne devi parlare subito, siamo intese?”

 

La superiora aveva chinato il capo, in segno di penitenza, e la suorina, sorpresa, annuì.

 

“Sì, se Giuditta-”

 

“No, suor Cecilia, di Giuditta non ti devi più preoccupare. Non vi dovete più preoccupare. E mi scuso per questo increscioso incidente. Dottoressa, forse è meglio se rifacciamo le analisi, no?”

 

Non avesse saputo che la madre superiora era pur sempre una madre superiora… il nome di suor Giuditta si sarebbe aspettata di trovarlo nei necrologi. La boss dei Mazzocca era ‘na crema, al confronto.

 

Tanto che non se la sentì nemmeno di protestare oltre quando suor Cecilia, con un iperpremuroso Calogiuri, la riportarono dritto dritto da dov’era venuta.

 

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“Che c’è Calogiuri? Che il solco nella stanza al massimo lo posso fare io, quando mi riprendo, non tu!”

 

Aveva il cellulare in mano e andava avanti e indietro, avanti e indietro, nella stanza illuminata solo dalla lucina notturna. Uno sguardo colpevole.

 

Cattivissimo segno.

 

“Che è successo mo?”

 

“Una mail… dagli assistenti sociali. E…”

 

“E non hai il coraggio di aprirla.”

 

“No.”

 

“Vieni qua…”

 

Calogiuri si avvicinò, sedendosi accanto a lei. Imma chiuse gli occhi e premette lo schermo.


“Se è una cattiva notizia me la devi dare subito, Calogiù, capito? Veloce!”

 

Si sentì stringere la mano, ma nient’altro, tanto che finì per cedere e riaprire gli occhi.

 

E il cuore le saltò un battito.

 

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“Dottoressa, c’è una visita!”

 

Suor Cecilia, la voce squillante di chi era felice come una pasqua, fece entrare una persona che normalmente portava tutto tranne che gioia.

 

L’assistente sociale.

 

“Vai a chiamare Melita?”

 

Ormai si davano del tu. Almeno con lei. Calogiuri rimaneva sempre super rispettoso. Era Calogiuri, del resto.

 

La sorella annuì e quasi volò fuori dalla stanza.

 

Suor Giuditta non si era più vista. L’aver in qualche modo contribuito al suo trasferimento aveva portato ad una totale distensione dei rapporti con la suorina. Ad una confidenza impensabile fino a poco tempo prima.

 

Il che significava che la mano non le tremava più quando le faceva le iniezioni e, pure per quella piccola benedizione, ringraziava chiunque ci potesse essere, forse, in ascolto. Se non c’aveva i timpani rotti dopo tutti quegli anni a sentirla urlare.

 

L’assistente sociale spostò una sedia e si accomodò, salutando con la mano Francesco, bello tranquillo tra le braccia di Calogiuri, seduto accanto a lei.

 

Sopraggiunse Melita, l’aria di chi andava al patibolo. Il clima si stava facendo frizzante, come evidenziato dal suo abbigliamento.

 

Giuditta, ti sarebbe bastato resistere ancora due settimane! Mannaggia a te!

 

“Signorina Russo, si accomodi…”

 

Melita annuì, zoppicando fino alla sedia rimasta libera. Dopo essercisi in qualche modo sistemata, provò ad appoggiarci la stampella, con mano così tremante che ci fu un piccolo boato del metallo che si sfracellava a terra.

 

Uno, due, tre secondi e l’ululato di Francesco, puntuale come un orologio. Per fortuna, oramai, sapevano come calmarlo: Calogiuri lo fece saltellare un po’, lei gli diede due carezze e, su suo invito, Melita partì con un altro tormentone estivo - che del precedente non se ne poteva più! - e Francesco si tranquillizzò del tutto, iniziando a battere le mani.

 

“Mi sembrate una squadra molto affiatata, ormai.”

 

Si voltarono verso l’assistente sociale, riportati bruscamente alla realtà. Melita aveva due occhioni che le ricordarono tantissimo Valentina.

 

“Melita, deve stare tranquilla. L’affiancamento sta procedendo bene-”

 

Melita tirò un sospiro di sollievo, almeno fino a quando l’assistente sociale non ci aggiunse un “ma”.

 

“Ma, come ho già preannunciato alla dottoressa e al capitano, il minore non è ancora pronto a staccarsi da loro. E nemmeno lei, signorina Russo, per quanto abbia fatto notevoli progressi, credo sarebbe in grado fisicamente di occuparsi costantemente del minore. Per questo-”

 

Il singhiozzo di Melita la interruppe e riprese anche la sirena di Francesco. Sempre solidale nelle proteste lui.

 

“Calma, calma!” provò a tranquillizzarla l’assistente sociale, mentre Calogiuri si avvicinava con un fazzoletto, “non c’è nulla di definitivo ancora. La decisione presa insieme al tribunale è stata quella di proseguire con l’affiancamento, per poi passare gradatamente a un affido congiunto, per poi valutare i tempi e i modi per renderlo esclusivo.”

 

Melita sembrò più confusa che sollevata.

 

“In… in che senso?”

 

“Nel senso che per ora, se ti va, potrai continuare a stare con noi e ad affiancarci con Francesco. Anche perché Imma a breve dovrà… assentarsi per un po’, per ovvi motivi-”


“Speriamo non troppo a breve, Calogiù!”

 

“E poi… e poi piano piano farà qualche giorno con te e qualche giorno con noi. E alla fine si presume che potrai tornare ad averlo con te a tempo pieno.”


“Sempre se il minore sarà pronto,” si inserì l’assistente sociale. Lo sguardo di Melita fluttuava tra la speranza e la delusione, peggio di una partita di ping pong.

 

“Ma… ma se voi ve ne andate a Milano, io-”

 

“Se vuoi, puoi venire con noi,” si inserì, perché sapeva che era meglio che quella notizia venisse da lei stessa che da Calogiuri, “possiamo trovarti un appartamento vicino al nostro. Che manco sappiamo dove sarà, ad essere proprio sinceri, ma… hai visto come siamo messi, no? E poi-”

 

“E poi come mi mantengo? Cioè… non voglio fare l’invalida a vita o… o dover stare sotto protezione sempre!”

 

“Quello lo deciderà il giudice, ma la dottoressa e il capitano hanno una soluzione da proporti.”

 

“Il merito in realtà è di Calogiuri, che mi ha dato un buon suggerimento,” ammise, prendendogli la mano e sorridendogli, in un modo che calmò finalmente di nuovo Francesco, “non solo ti spetterà un risarcimento per tutto quello che hai subito, dall’avvocato e dagli amici suoi, ma… per le persone nella tua situazione, soprattutto donne, ci sono aiuti e incentivi. Quando ti riprenderai completamente, magari potrai aprirti un locale tutto tuo. E, nel frattempo, mi sono un po’ guardata intorno e, a quanto pare, il bar della procura di Milano al momento è chiuso. L’ultimo gestore lo teneva ‘na schifezza e ovviamente mo sono molto selettivi su chi lo può gestire. Non sarà un jazz club o un night alla moda ma… finché Francesco è piccolo, potrebbe pure essere un buon compromesso, no? Se tenti il concorso, con i bonus di punteggio che ti spettano, avrai buone possibilità. Se ti va, naturalmente. Se no, qualcosa a Milano si trova, figurati!”

 

Melita spalancò occhi e bocca, senza parole.

 

“Melì?”

 

“Signorina Russo, che ne pensa?”

 

“S-sì, cioè… ma… ma una con il mio passato… davvero mi farebbero lavorare in una procura?”

 

“Beh… lì saresti al sicuro e, proprio per quello che hai passato, è molto improbabile che tu possa avere in futuro legami con la criminalità organizzata,” chiarì Calogiuri, con un sorriso, “e poi, se non ci provi non lo sai. E, come dice Imma, potrai sempre cederlo e aprirti un posto tutto tuo, quando Francesco sarà più grande. O possiamo tenerlo noi di notte e tu di giorno, o dividere il costo di una babysitter. Che, per quanto scalcia questa piccoletta, almeno una ci servirà di sicuro.”

 

Un altro singhiozzo, talmente forte da preoccuparla. Ma il sorriso di Melita, bellissimo, bianchissimo e speculare a quello di suo figlio, le diede per la prima volta la sensazione che, sebbene il loro futuro fosse incerto come non mai, in qualche modo se la sarebbero cavata, senza addii traumatici, né per loro, né per l’ululatore seriale.

 

E magari si sarebbero pure salvati tutti quanti le orecchie, riposandole per qualche ora al giorno.

 

E che cavolo!

 

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MEOOOW MEOOOOW MEEEEEOOOOOWWWW

 

“Ottà, che c’è mo? Per carità, se te lo vuoi puppare un poco pure tu sto semolino, a me fa solo che piacere. Ma, va bene che qua non ci stanno le scatolette al salmone tue, ma non pensavo che stessi messa così male!”

 

Un soffio indignato, Ottavia si voltò, mostrandole con orgoglio il portacoda, ma poi tornò a miagolare e a girare intorno al vassoio che teneva in grembo, con su quella specie di schifosa poltiglia in brodo.

 

Fosse stato almeno nel latte, ma no, troppa grazia!

 

Si guardò con Calogiuri, confusa.

 

“Tu capisci che c’ha, Calogiù?”

 

Calogiuri, che stava sorbendosi - in tutti i sensi - la sua porzione di semolino, in un atto di lodevole solidarietà, si limitò a sollevare le spalle, perplesso quanto lei.

 

“Forse… forse l’ultima volta che l’ho vista così agitata è stato prima-”

 

Si bloccò, deglutendo così forte che per poco non si strozzava. Imma sapeva benissimo cosa stava per dire: prima degli agguati.

 

Ci mancava solo la mezzanotte di fuoco tra le suore!

 

“Mi sa che non ho più fame…” sospirò, guadagnandosi un’occhiata di riprovazione che, se Calogiuri avesse fatto così pure con la calciatrice, sarebbe venuta su mangiando pure le rape fritte, per quanto era efficace.

 

“Calogiù… e dai, un poco l’ho mangiato. E poi, tanto, per quel che mi muovo…”

 

“Devi mangiare, dottoressa, è un ordin-”

 

“AHI!”

 

L’urlo le era venuto spontaneo: un colpo alla base della pancia.

 

“Ottà!” la chiamò, che va bene le zampate e gli agguati, ma…

 

Ma Ottavia, forse spaventata dall’urlo, forse già da prima, stava appollaiata in cima a una sedia, sdegnosa e regale come solo lei sapeva essere.

 

“AHIA!”

 

Un secondo colpo, ancora più forte del precedente.

 

“Piccoletta, va bene che vuoi farti sentire e il semolino farà schifo pure a te, in qualsiasi modo ti arrivi, ma-”

 

Le toccò interrompersi e mordersi le labbra, da tanto aveva male.

 

“Questo è meglio che lo spostiamo!” esclamò Calogiuri, levando di mezzo il vassoio, premurosissimo come al solito.

 

Si toccò la pancia, in quel punto, per calmare la piccoletta, ma c’era un’altra cosa strana mo. Il dolore lì sotto proseguiva, però non erano calci o pugni: quelli erano molto più in alto, vicino al suo ombelico, così forti da intravederli, sotto la camicia da notte.

 

Un’altra fitta, ancora più intensa, e le mani di Calogiuri a tenerla ferma, per le spalle, mentre cercava di sistemarle i cuscini.

 

“Forse è meglio se chiamo qualcuno?”

 

“No, Calogiuri, no- AHIA!”

 

Una fitta tremenda, un dolore pulsante e poi caldo e freddo e-

 

“Acqua?”

 

“Vuoi un po’ d’acqua?” le chiese Calogiuri, cominciando ad alzarsi, ma lo trattenne per la maglia.

 

“Mi… mi si sono rotte le acque, Calogiù…” sussurrò, spaventata quanto mo lo era anche lui.

 

Si voltarono verso il calendario sul comodino, all’unisono, come se fosse un’indagine e non uno dei momenti più terrificanti della sua vita.

 

“Il 20 novembre… è troppo presto, è-”

 

“Ormai la trentaseiesima settimana è praticamente finita. La dottoressa aveva detto che mo dovrebbe essere più o meno come un parto a termine, no?”

 

“Eh… è quel più o meno che mi preoccupa, Calogiùù-AH!”

 

E fu in quel momento, mentre gli stritolava una mano, che qualcosa cambiò in quegli occhi azzurri che tanto amava: era fermo, deciso, lucido.

 

“Vado a chiamare le suore. Tu…”

 

“Se mi dici non ti muovere, t’ammazzo, Calogiù! A te e a sta piccoletta che AH! Questa vuole uscire! Sei troppo veloce, piccolè!”

 

“Ha preso proprio tutto da te, allora!” la sfottè, come solo lui sapeva fare, per disarmarla e tranquillizzarla, prima di attivare il cicalino della chiamata e uscire, chiamando a gran voce, “suor Cecilia!” con un tono che manco la povera suorina fosse stata Capozza.

 

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Ma chi me l’ha fatto fare a me?

 

Il pensiero che si ripeteva come un mantra, mano a mano che i dolori si facevano più forti.

 

C’avevi quasi cinquant’anni, una figlia rompipalle te l’eri già sorbita per un ventennio - numero d’anni che porta sempre malissimo - ma no, tu, cocciuta come al tuo solito, dovevi proprio andare a impelagarti di nuovo? Mannaggia a te, a lui, a tutti!

 

La voce della sua coscienza, che per una volta suonava soltanto come lei stessa medesima, quando demoliva il sospettato di turno.

 

Ma poi vedeva gli occhi enormi e preoccupati di Calogiuri, sentiva le dita tra le sue, che non la mollavano, nonostante lo stesse stritolando peggio di un boa constrictor, percepiva un calcetto o movimento della piccoletta ed il pensiero mutava in un altro mantra, che ormai l’accompagnava da mesi.


Stai bene, piccolè! Non farmi scherzi! Stai bene, stai bene!

 

Una nuova fitta, che le pareva di aver preso una martellata tra basso ventre e zona lombare, e si ricominciava da capo.

 

“Questa è la vostra stanza…”

 

L’infermierina, una biondina slavata alle prime armi, a giudicare da come la guardava terrorizzata - cominciamo bene, proprio! - fece loro strada e, insieme a una collega più anziana, la aiutò a spostarsi dall’immancabile carrozzina all’ormai imprescindibile letto d’ospedale.

 

Manca poco, Imma, manca poco!

 

I soliti controlli di rito, il dolore che andava e veniva, andava e veniva, sempre più intenso e ad intervalli sempre più stretti, e poi l’infermiera senior cominciò a snocciolare dati su dilatazione, tempistiche delle contrazioni e quant’altro.

 

“Il feto parrebbe essere nella posizione corretta. Abbiamo avvisato la sua ginecologa, ma dobbiamo decidere ora per l’epidurale e se volete chiamare l’anestesista.”

 

“Come sarebbe a dire se volete? E che state aspettando? Che mi apra in due?!” urlò, già stufa ed arcistufa di tutte quelle manfrine e della cultura del dolore per cui, se non partorivi tra indicibili sofferenze, non eri veramente madre.

 

Partorirai con dolore stocazzo!

 

“A proposito, la ginecologa valuterà se tentare col parto naturale o se sia meglio un cesareo. Tuttavia parrebbe tutto procedere abbastanza velocemente: potremmo presto arrivare al livello di dilatazione necessario per trasferirla in sala parto,” chiarì l’infermiera, senza perdere un colpo, come se non le avesse appena gridato addosso.

 

C’aveva proprio fretta di uscire la piccoletta, mannaggia a lei!

 

“Veloce come te, te l’ho detto, dottoressa.”

 

A quel sussurro, incrociò lo sguardo di Calogiuri, tra l’adorante e l’apprensivo, e non sapeva se fosse più la voglia di baciarlo o quella di staccargli la testa.

 

Pure quella fluttuava, come il dolore.

 

Le infermiere non persero tempo a dileguarsi, dopo aver fatto le dovute raccomandazioni sul monitoraggio e su quando chiamarle.

 

L’unico suono era il bip ritmico dei macchinari e quello dei loro-

 

Un’altra fitta, ancora più forte, e si piegò: non ce la faceva più ed erano solo all’inizio!

 

“Respira, come ci hanno insegnato al corso preparto, respira…”

 

Si scostò dalla mano che Calogiuri aveva posto sulla sua spalla e gli stritolò l’altra.


Al momento, l’opzione decapitazione era in netto vantaggio.

 

“Il corso preparto delle suore, Calogiù? Che quelle quando mai hanno partorito? Che poi se non respiro ci rimango, grazie tante!”

 

Calogiuri sospirò, un poco ferito, ma anche risoluto, cocciuto.

 

“Imma… non posso nemmeno immaginare il dolore che provi, ma pensa a tutto quello che hai passato in questi mesi. Ormai il più è fatto, manca-”

 

“Manca solo di far uscire un melone da qua sotto, che se la rivedi è un miracolo, Calogiù! Ma tanto è facile: tu il più lo hai fatto in pochi minuti, mannaggia a te! Cioè… un po’ più di pochi minuti, sempre mannaggia a-”

 

La risata di Calogiuri fu coperta da un’altra contrazione che le levò pure la poca voglia residua di scherzare.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma è nata?”

 

“Come sta Imma?”

 

“Non l’abbiamo ancora sentita urlare. L’hanno sedata?”

 

Rosa, Pietro e Valentina.

 

Era uscito due minuti, il tempo che la ginecologa facesse tutti gli accertamenti necessari. Era quasi mezzanotte.


Trovarsi davanti quei visi familiari, soprattutto quello di sua sorella, fu un sollievo, anche se se lo aspettava, avendo provveduto ad avvisarli per messaggio.

 

Non era più solo, solo davanti al dolore di Imma, che avrebbe tanto voluto prendersi lui, se solo avesse potuto. Ma forse non sarebbe stato in grado di reggerlo, non era forte come lei e non lo sarebbe mai stato.

 

Però… c’era anche il senso di responsabilità, soprattutto verso Valentina, che sua madre stesse bene, che non si fosse giocata la salute - o peggio - anche per colpa sua.

 

“La stanno visitando. Tra poco capiremo quanto manca. Non sanno se riusciranno a farle l’epidurale in tempo. Però… il reparto è ben insonorizzato…” ironizzò, perché che altro poteva fare?

 

“Dalla tua faccia si vede proprio che già hai capito tutto!”

 

La pacca sulla spalla di Pietro, preoccupato ma anche divertito, del resto lui ci era passato per primo, “le gioie della paternità, mare- anzi, no capitano!”

 

“Ma come hai fatto tu?”

 

“E come ho fatto? C’ho avuto le mani distrutte per giorni, ecco come ho fatto. Se tieni dei guanti belli spessi… magari dei guantoni da boxe è meglio.”

 

Gli venne da ridere ma Pietro non rideva affatto.

 

E mo era terrorizzato.

 

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“Come va?”

 

“Calogiuri!”

 

Il suo nome Imma lo aveva pronunciato, urlato pure, in mille modi da quando si conoscevano. Ma mai così, come se volesse solo lui da un lato e scuoiarlo dall’altro.

 

“Che succede?”

 

“Questi… questi criminali! Che i criminali sono meglio! Non mi vogliono fare l’epidurale!”

 

“Non è che non vogliamo, è che non si può: dobbiamo portarla in sala parto, è ora. La dottoressa non perde tempo.”

 

“Ve lo do io il tempo! AAAAH!”

 

Le urla di pochi minuti prima non erano nulla in confronto a quelle. L’ansia gli aumentò esponenzialmente.

 

Altro che insonorizzazione!

 

Le strinse la mano e capì l’avvertimento Pietro: se andavano avanti così, avrebbe dovuto fare fisioterapia per i giorni a venire, ma come minimo.

 

“La piccoletta sta bene? Che è così in anticipo!”

 

Imma. Anche tra il dolore, sempre di quello si preoccupava, più che di se stessa.

 

“I valori sembrano nella norma, Imma. Alla fine ormai mancava poco ed è bella grande per le settimane che ha. La posizione c’è e non vede l’ora di uscire. Poi faremo tutti i controlli, ma ora dobbiamo andare.”

 

Senza quasi rendersene conto, si trovò ad accompagnare Imma, distesa sul lettino, per i corridoi del reparto. Si bardò di tutto punto con camice, cappuccio, guanti e copriscarpe. Poi dritto in sala parto, accanto ad Imma che manco davvero coi peggiori criminali o Carminati del mondo l’aveva mai sentita così.

 

“Imma, adesso devi spingere.”

 

“E grazie al cavolo, e che altro dovrei fare? La spaghettata di mezzanottAAAAH?

 

Tornò a stringerle la mano e ad asciugarle la fronte, sudata ancor più della sua, provando a sostenerla, per quanto possibile.

 

“Stai andando benissimo, come sempre!”

 

“Sì, il complimento al ciuccio mo, che pure le asine partoriscono, non ti ci mettere pure tuUUUH!”

 

La tenne stretta più che poteva, le baciò la tempia, contando con lei i respiri e le spinte, preoccupato e allo stesso tempo lucido come non era mai stato.

 

“Si vede la testa, quasi ci siamo!”

 

“La tua testa. DURA. Calogiùùù!”

 

Ogni pezzo di frase era corredato da una spinta e da una stritolata: non sentiva più il male, ormai, ma nemmeno le dita.

 

“Manca poco… forse dobbiamo facilitare l’uscita, passatemi-”

 

“Non v’azzardate a tagliarmi, capito?! Diglielo pure tu!”

 

Il panico negli occhi di Imma e si affrettò a darle manforte, “non si possono evitare tagli invasivi? Se non è necessario, ovviamente.”

 

“Però allora devi concentrarti e spingere bene, Imma. Tre, quattro spinte buone al massimo e ci siamo.”

 

Se le occhiate di Imma avessero potuto uccidere, la ginecologa sarebbe già stata all’obitorio, ma poi il suo sguardo mutò, con quella decisione e concentrazione di cui solo lei era capace.

 

Fosse crollato il mondo, ce l’avrebbe fatta, lo sapeva.

 

Una, due, tre spinte, svariati urli e poi uno strillo acuto, fortissimo, che fu un pugno allo stomaco, liberazione e gioia e… e non ci capiva più niente e… e gli girava la testa, le gambe che cedevano.

 

*********************************************************************************************************

 

Il pianto. Quel pianto.

 

Le faceva eco, il cuore che le batteva fortissimo, la vista appannata e… e un peso accanto a lei, sul cuscino.

 

Incrociò gli occhi di Calogiuri, bianco come un cencio, quello sguardo estatico, incredulo che amava così tanto.

 

“Calogiù?” chiese, preoccupata, toccandogli la mano e avvedendosi che era viola.

 

Forse aveva un poco poco esagerato.

 

“Tranquilla, non svengo, tranquilla.”

 

Giusto un sussurro, un sorriso, un bacio alla mano: tutte le rassicurazioni di cui aveva bisogno.

 

E poi un altro pianto, forte, potente, e la vide, per la prima volta la vide: magrolina ma lunga lunga, assai più di Valentì, pur non essendo a termine. Urlava e si dimenava, si dimenava e urlava, roba che in confronto Francesco era muto, mentre i dottori la ispezionavano e poi cercavano di pulirla.

 

“Ha… ha la tua voce!”

 

Si voltò di scatto verso Calogiuri, tanto che le scrocchiò il collo, mentre la sala parto esplodeva in una risata collettiva.

 

Ma lui non rideva, no: lui era felice. Anzi, entusiasta. Anzi, guardava e ascoltava la loro piccoletta come se quello fosse il suono più melodioso al mondo.

 

“Calogiù…” sospirò, commossa come… non c’era un paragone: lui la amava, le amava, così tanto da sfiorare la sordità.

 

E il TSO.

 

Ma poi un dubbio, visto quanto gridava.

 

“Ma è tutto a posto, vero?”

 

E stavolta fu la mano di Calogiuri a stringere più forte la sua.

 

“Faremo accertamenti più approfonditi per esserne sicuri al cento percento ma… è forte, a un alto percentile di crescita e, almeno dai primi rilievi, è tutto assolutamente nella norma. Deve solo aumentare di massa: è due chili e ottocento, ma anche voi siete di costituzione leggera. Avremo le risposte definitive dopo le analisi ma… sono fiduciosa.”

 

Un peso che le si levò dal cuore e dallo stomaco, infinitamente maggiore di quei due chili e ottocento dai quali si era svuotata.


Si sentiva leggera, come un palloncino.

 

“C’è da tagliare il cordone ombelicale. Se il padre se la sente…”

 

Calogiuri…

 

Era ancora come ipnotizzato a studiare quella scriccioletta che ululava indignata e non pareva intenzionata a smettere.

 

Incrociò i suoi occhi allagati e lo vide fare quel segno di ma chi io?! che la riportò indietro di chissà quante vite e che amava infinitamente, come e più di allora.

 

“Calogiù… che ti sei incantato? Te la senti o no? Decidi, veloce, che qua mica posso stare con sta roba a penzoloni fino a domattina.”

 

La voce rochissima, spezzata e il sorriso ebete con i quali aveva pronunciato quelle parole la tradivano ma… non poteva resistergli quando faceva così.

 

“Ce- ce la faccio! Ce la faccio,” proclamò, deciso come no, una volta non sarebbe proprio stato mai e, dopo un’ultima stretta di mano, si alzò e si rivolse ai medici, “come devo fare?”

 

Li vide trafficare per predisporre tutto il necessario e porgere le forbici a Calogiuri.

 

Si guardarono, si sorrisero e poi…

 

E poi il primo taglio non riuscì, tanto era emozionato, e ce ne volle un secondo, la piccoletta che non smetteva un attimo di strillare.

 

Imma trattenne un singhiozzo, mentre i medici finivano di pulirla e avvolgerla in un telo, Calogiuri che fissava le forbici e il pezzo di cordone che gli era rimasto in mano, le labbra quasi blu.

 

“Menomale che non è un maschio… se no qua, altro che voci bianche!”

 

Sì, era sempre meno credibile, la voce che le andava e veniva, ma il rossore alle guance di Calogiuri, il modo in cui mollò il tutto per concentrarsi su di lei, valsero ben lo sforzo.

 

Estese il braccio fino ad afferrargli la mano e gli sussurrò il “bravo, Calogiuri!” più emozionante della loro vita.

 

“Eccola qua… poi può metterla sul petto della madre: ha bisogno del contatto fisico ora.”

 

Un’infermiera gliela stava porgendo, mezza coperta e mezza no, tanto si dibatteva.

 

Lo sguardo. Quello sguardo di Calogiuri non se lo sarebbe scordata mai. Se lei era la madonna, la piccoletta era il bambinello e il firmamento intero, Calogiuri che si asciugava un paio di lacrime col gomito, prima di provare a prenderla in braccio.

 

Un paio di altri urli incazzosi che degradarono in vagiti, mentre lui, con il sorriso più bello di sempre, iniziò a prendere le misure e a cullarla, con una dolcezza disarmante.

 

E poi di nuovo quegli occhi nei suoi e quel sorriso sempre più abbagliante, man mano che si avvicinava, il tremore che lasciava spazio a quella naturalezza nell’imparare le cose che era solo di Calogiuri.

 

“Un’altra cocca di papà…” lo sfottè, perché la piccoletta rumoreggiava, ma in modo più… curioso che altro.

 

“Vuole farsi sentire, dottoressa.”

 

E poi il peso sul bordo del lettino, delicato come una piuma, ed un altro peso, vivo, pulsante e scalciante - già solo da quei colpetti l’avrebbe riconosciuta tra mille! - spalmato tra la pancia e il petto.

 

La gola prosciugata, le ciglia inondate, improvvisamente percepì tutto e niente.

 

Quel piccolo battito, premuto sul suo cuore, sincronizzato al suo e al polso di Calogiuri, che le accarezzava il dorso della mano. Quella mano che in automatico aveva mosso per toccarla per la prima volta, per sfiorarle la schiena, così minuscola e calda e morbida.

 

Un vagito, un altro e poi… e poi il silenzio: non sentiva più nulla. La boccuccia si era chiusa, quella testolina piena di capelli scuri scuri e riccissimi si era bloccata e-

 

Occhi. Azzurri. Enormi. Tenerissimi. Nei quali si era persa in mille momenti diversi, ma che la scrutavano per la prima volta, senza realmente vedere. Ma il suo stomaco, che aveva preso a contrarsi compulsivamente, non ne voleva sapere della scienza. Pure la piccoletta iniziò a singhiozzare, come nel pancione, in un duetto perfetto, e continuava a fissarla, confusa ma come se aspettasse lei e soltanto lei, da sempre.

 

“Eccallà! E come devo fare io mo?” le uscì, in qualche modo, perché sapeva già, con assoluta certezza, più di qualsiasi intuizione risolutiva dei suoi amati casi, che quello scricciolo l’avrebbe sempre fregata, sempre, e che quegli occhi sarebbero stati la sua rovina.

 

“Amore mio…”

 

Il sussurro di Calogiuri, poco più di un soffio, e poi un “amori miei… non… sei bellissima… è bellissima… è uguale a te!” che le solleticò la guancia.

 

“No, se è bellissima è perché è tutta quel ruffiano di papà suo. Mannaggia a te, Calogiù! Che m’hai fatto fare!”

 

Scoppiarono a ridere, continuando ad accarezzarla, gli occhioni azzurri che piano piano si richiudevano, mentre si sentiva piombare addosso, di colpo, tutta la stanchezza del mondo.

 

“È… è incredibile… tu sei incredibile… io… io non potrò mai… grazie… grazie… gra-”

 

Lo zittì con un bacio, prima che si infilasse in una litania infinita, conoscendolo, e gli sorrise sulle labbra.

 

“L’abbiamo fatta insieme, Calogiù. Insieme. Lavoro di squadra.”

 

Un altro sorriso da squagliarsi e Calogiuri proclamò, la voce rotta, “la nostra vittoria più gran-”

 

Bastò un secondo, uno sguardo, un momento di perfetta consapevolezza e seppe che si erano intesi, come sempre.

 

“Allora… dobbiamo registrare i dati della bambina. Nata il 21 novembre, ore dodici e dodici, precisa come un orologio. Avete già deciso come la volete chiamare?”

 

Eccallà, il destino. Anche in quella frase dell’infermiera.

 

Un altro cenno di intesa, si sorrisero ed annuirono, esclamando all’unisono, “Vittoria!”

 

Quel nome che era sfuggito loro in tutti quei mesi ma che, a ripensarci, era così… inevitabile, ovvio.

 

Non poteva che chiamarsi così.

 

“Vittoria Calogiuri!” ribadì e le venne da ridere e da commuoversi ancora di più al pensiero di come quelle due parole, da quel momento in poi, avrebbero avuto tutto un altro significato.

 

“Tataranni!”

 

“Eh?”

 

Un’occhiata perplessa, perché non l’aveva mai chiamata così, non senza il dottoressa davanti. E di acqua ne era passata sotto ai-

 

“Tataranni. Calogiuri Tataranni. Vittoria Calogiuri Tataranni. Tutti e due i cognomi. O non vuoi?”

 

L’ennesimo colpo al cuore, perché anche quello era talmente da Calogiuri che si dava della scema per non averlo previsto.

 

“E certo che lo voglio! Sarà un poco lungo sui documenti ma…”

 

“E quindi avete deciso?” si inserì la povera infermiera, che probabilmente era a tanto così da mandarceli a tutti e due e forse pure alla piccoletta, pure se mo ronfava della grossa.

 

Almeno lei!

 

“Vittoria Calogiuri Tataranni!”

 

Tre parole pronunciate all’unisono, tre rapidi baci e, pure se la perfezione non esisteva, Imma sapeva, istintivamente, che quel momento era esattamente ciò che avrebbe usato per immaginarsela, per raffigurarla, da allora in poi.


Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo capitolo attesissimo e che è stato letteralmente un parto da scrivere. Ci sono voluti quasi quattro anni per arrivare qua, due da quando avevo questa scena in mente, e sono felicissima, ma allo stesso tempo molto in ansia, di averla finalmente messa nero su bianco. Spero abbia potuto in minima parte ripagare le lunghe aspettative ed attese, io ce l’ho messa tutta. In ogni caso, ogni vostro parere, positivo o negativo, è sempre preziosissimo, soprattutto dopo questi mesi di pausa.

La storia non è ancora conclusa, anche se ormai mancano pochissimi capitoli. Ci sono ancora alcuni punti aperti da chiudere, per arrivare a scrivere la parola fine e poi all’epilogo. Spero vi andrà di seguirmi in questo ultimo pezzetto di strada, nonostante gli impegni dilatino le pubblicazioni, ma cercherò di stringerle un po’.

Un grazie infinite per la pazienza ed il supporto a tutti coloro che mi hanno scritto in questi mesi. Un grazie enorme a chi ha recensito e recensirà, a chi ha messo questa storia tra i preferiti o i seguiti.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare dopo domenica 22 ottobre, spero in tempo per colmare un poco l’astinenza che avremo dopo la fine della terza stagione.

A presto e grazie ancora!

 

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Capitolo 82
*** La Fame ***


Nessun Alibi


Capitolo 82 - La Fame


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Mmmmm…”

 

Le sembrava di galleggiare in un mare di piombo. Pesante ma senza gravità, senza forza, senza fibra. Un dolore pulsante ad ogni singolo muscolo ma anche una strana leggerezza nel petto, che la sollevava tra tutto quel peso.

 

In una specie di dormiveglia, fra sonno e realtà, vedeva se stessa e Calogiuri al suo fianco, come sempre, fedele nei secoli, che le solleticava la mano col fiato, mentre dormiva reclinato in avanti sulla sedia.

 

Poteva essere passato un secondo come potevano essere cent’anni che stavano così, quando un rumore degno della contraerea la fece sobbalzare.


E, di conseguenza, gli occhioni di Calogiuri si spalancarono.

 

L’indolenzimento era rimasto, il piombo era diventato melassa. La porta si aprì ed entrò la ginecologa con la loro piccola, grandissima Vittoria, che piangeva a pieni polmoni.

 

Si erano sviluppati bene sicuro, almeno quelli.

 

“Tu- tutto bene?”

 

Quello che restava delle dita di Calogiuri, gonfie come zampogne, tra le sue - sì, aveva proprio esagerato!

 

“Tranquilli, i valori sono tutti nella norma. Mancano solo le ultime analisi del sangue che ci impiegano un po’ di più ma… sono ancora più fiduciosa. Mi sembra in salute e pure affamata. Molto.”

 

Un sospiro di sollievo incredibile. Una botta d’ansia a quel - e come faccio mo? - al pensiero di riuscire a sfamarla.

 

“Che c’è? Non te la senti? Sei troppo stanca?”

 

Calogiuri e quei maledetti occhioni. Avesse potuto, l’avrebbe allattata lui, lo sapeva.

 

“No, no, ci… ci devo e ci voglio provare. Ma è solo che… con Valentina non è che avessi molto latte…”

 

“Una volta c’erano anche meno conoscenze, Imma, e il latte non è facile da mantenere se la bimba non si attacca spesso. Ma vedremo. Non sono né disfattista né un’integralista del latte materno, vedremo in base a come ti senti e alle esigenze di Vittoria.”

 

Sospirò, un poco rassicurata, perché l’esperta di latte - come cavolo si faceva chiamare - che l’aveva visitata dalle suore, le aveva fatto una capa tanta sul numero spropositato di volte in cui avrebbe dovuto allattare, pena danni incalcolabili alla criatura, che aveva avuto gli incubi di diventare una mucca della centrale del latte per due notti di fila.

 

La dottoressa gliela piazzò in grembo ed il pianto si interruppe per un attimo, quei benedetti e maledetti occhioni  l’abbagliarono come i fanali che erano, la fissarono curiosi, per poi riprendere con la contraerea.

 

“Va bene, va bene, Vittò, abbiamo capito che hai fame!” sospirò, sorridendo alla reazione di Calogiuri al nomignolo per la piccoletta: come se una parte di lui fosse ancora incredula e quelle due sillabe avessero reso tutto più concreto.

 

Calogiuri, senza bisogno di istruzioni, provò ad accarezzare Vittoria, mentre lei cercava di liberare un seno.

 

Difficile dire cosa fosse più un colpo basso: se l’arrossire di Calogiuri o il modo in cui la piccoletta si mise in bocca il suo indice.

 

“Sì… c’ha proprio fame questa, e pure assai!” sospirò, riuscendo finalmente nell’impresa, “e tu che ti imbarazzi mo? Ti ricordi come l’abbiamo fatta, sì? Che va bene che negli ultimi mesi vacche magre - e mo chissà fino a quando - ma…”

 

Calogiuri lanciò un’occhiata impanicata alla dottoressa e prese a tossire. Vittò si staccò dal dito e ripartì con la sirena, finché riuscì ad avvicinarla al seno e, a tastoni, alla cieca, la piccoletta individuò l’obiettivo e ci si attaccò, che manco un cecchino era così preciso.

 

“E il rubinetto l’abbiamo trovato. Mo bisogna vedere se esce qualcosa.”

 

Manco na ventosa succhiava così forte, Calogiuri ormai bordeaux, lo sguardo basso.

 

“Calogiù…”


“Lo so… ma è che… è una cosa così intima… mi sento… di troppo…”

 

“Eh no, eh! Che devi aiutare pure tu mo! Sostegno fisico e psichico. E non mi guardare come se fossimo la madonna col bambinello, che qua di iconica c’è solo la fame della criatura. Tutto da Noemi ha preso!”

 

Almeno era riuscita a farlo ridere e, dopo essersi toccato la nuca, sebbene la venerazione negli occhi non accennasse affatto a diminuire, sembrò piano piano prendere più confidenza, toccandole il braccio e poi la spalla, massaggiandogliela pure un po’, con la mano superstite.

 

“Direi che procede tutto secondo i piani. Vi lascio soli…”

 

La dottoressa, discretissima come non erano i lavoratori delle procure italiane, svanì dietro la porta. Lasciandola con quattro occhioni identici ed innamorati - chi di lei, chi forse più del cibo - e un gran nodo in gola.

 

Le labbra minuscole ma carnose - difficile stabilire se prese da lei o dal padre - si staccarono dal seno sinistro ma ripresero subito ad ululare, cercando a tastoni l’altro.

 

“Eh, esaurita la prima riserva mo. C’hai proprio fame, piccolè! E pure mira! Calogiù, c’avessi avuto tu questa mira, col cavolo che ci finivi a Matera, nei reparti speciali d’assalto ti mandavano!”

 

Un’altra risata, sembrava mezzo ubriaco, tanto era felice ed emozionato, poi con quegli occhi rossi - altro che le cannette di Manolo!

 

Vittoria non perdeva colpi, degna del suo nome, e aveva ripreso a succhiare ancora più intensamente dal lato destro, come se non avesse mangiato avidamente fino a poco prima.

 

Il tempo non esisteva più, la sua nozione dei minuti passati era completamente andata a farsi benedire, ma infine la piccoletta si staccò.

 

Un sospiro di sollievo e-

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

“E perché piangi mo?”

 

Il suo sconforto era riflesso negli occhi di Calogiuri: provò a prenderla per farle fare il ruttino ma niente, non ne voleva sapere. Anzi, non appena intercettava le loro mani si infilava tutto l’infilabile in bocca.

 

“Ma che è? Na sanguisuga? Qua non ci sta più niente piccolè, devi aspettare che la fornitura si rigeneri e-”

 

“Ci sono problemi?”

 

La ginecologa, manco a chiamarla, tanto che si chiese se fosse rimasta fuori dalla stanza.

 

“Ha mangiato da tutte e due le parti, qua non esce più niente ma è ancora così…”

 

La dottoressa la prese per un attimo in braccio e Vittoria provò ad attaccarsi pure a lei - traditrice!

 

La ginecologa rise, Calogiuri un crusco.

 

“Direi che ha fame. Del resto è sottopeso, è una buona cosa che voglia recuperare. Vi porto qualcosa per integrare, non vi preoccupate. Meglio se glielo dai sempre tu Imma, vicino al seno, così…”

 

“Così non sbaglia la fonte?”

 

La dottoressa si limitò a ridere, a passarle quella che pareva la bimba dell’esorcista da quanto urlava - sì, la voce era proprio tutta sua! - e a lasciarli nuovamente soli.

 

Non avrebbe mai pensato di ritrovarsi un giorno a sperare di rivederla e pure presto.

 

Prestissimo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Venite. Però magari non a lungo, che Imma è tanto stanca.”

 

“Stanca a chi?”

 

La voce, troppo flebile, la tradiva, così come gli occhi, che non ne volevano sapere di starsene del tutto aperti.

 

Era passata l’alba, la piccola idrovora si era pappata tutto il pappabile e si era pure fatta un altro pisolino.

 

Almeno lei!

 

Solo che mo si era svegliata per l’ennesima poppata e, dopo averla finita, non era crollata come da un lato avrebbe sperato. Stava lì a fissarla con la lingua di fuori, tanto che Calogiuri l’aveva sfottuta con un dolcissimo ed emozionatissimo c’ha la lingua lunga come te, dottoressa! 

 

Visto che l’infermiera aveva annunciato che c’erano visite e che straordinariamente poteva farli passare, avevano deciso di levarsi dente e dolore, sperando di poter dormire dopo.

 

Incontrò gli occhi stanchi e un po’ intimiditi di Pietro, poi Rosa, altrettanto sfatta ma decisa e infine fece capolino una Valentina stranamente esitante.

 

“Ma che vi siete fatti la notte qui?”

 

“Eh… Valentì non è voluta tornare a casa. E poi… tanto Noemi la tengono la collega tua e il capitano.”

 

“Ah, Ranieri e Irene? Ne avranno di lavoro allora! Pure se c’è quella santa di Maria!”

 

Almeno Francesco lo tenevano Melita e le suore. Altra fonte di preoccupazione pure quella. Ma era giusto provarci.

 

“Ma è bellissima!!”

 

Rosa, commossa come solo i Calogiuri sapevano essere, che ti ci trascinavano pure a te a piangere, mannaggia a loro!

 

“Eh… somiglia un poco a Valentì da piccola…”

 

La voce di Pietro era mezza rotta, capiva che fosse strano e un po’ agrodolce per lui quel momento.

 

E poi Vittoria aveva gli occhietti quasi chiusi che, quando erano aperti, solo a uno assomigliava.

 

Valentina, muta come non mai, sembrava non scollarsi dalla porta. Si chiese se fosse gelosa.

 

“Valentì, che dici? Non lo fai un saluto al nuovo acquisto della famiglia?”

 

La vide deglutire, pure peggio di Calogiuri, e fare giusto un passo, quando Rosa allungò le dita a sfiorare una manina di Vittoria.

 

Nonostante la delicatezza, quella che era sembrata un angioletto tornò a fare più casino del diavolo della tasmania, tanto che Rosa indietreggiò subito.

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

L’ululato era potentissimo - ma dove la trovava tutta quella forza, che fino a poche ore prima stava ancora bella bella come un pesciolino nella placenta? - e sia lei che Calogiuri provarono a calmarla, ma niente.

 

“Non dirmi che vuoi ancora mangiare, piccolè…” sospirò, perché altro che la centrale del latte, manco tutte le malghe di caciocavallo podolico sarebbero state dietro al suo fabbisogno.

 

“Ma come si spegne? Non ce l’ha l’interruttore? Francesco in confronto è chill!”

 

Ci fu un motivo, uno solo, se si morse la lingua sia sul chill che sul parli proprio te che c’hai scassato le orecchie per due decadi! che le stava proprio lì lì sulla punta.

 

Vittoria si era azzittita, di colpo, e si era voltata verso la zona dove stava Valentina. Aveva pure spalancato gli occhi, con la curiosità di famiglia.

 

Valentina, a sua volta, si era paralizzata e si stavano fissando, studiando, in un modo che altro che groppo in gola!

 

“Ha riconosciuto la voce melodiosa di famiglia! Fuori come dentro la pancia!”

 

Valentina sospirò con un, “pure questa con gli occhi da gatto di Shrek? Ma è una congiura!” che però suscitò solo un vagito curioso nella piccoletta.

 

“Vuoi provare a prenderla?” domandò Calogiuri, così, come se fosse la cosa più ovvia del mondo e Valentina, incredibilmente, annuì.

 

Trattennero il fiato mentre Calogiuri se la portava al petto, tra qualche calcetto di protesta, e la sistemava tra le braccia di Valentina, i cui occhi erano sempre più scuri e lucidi.

 

Altri due vagiti, le manine e i piedini che si muovevano ma, come Valentina parlava, la sorellina si fermava incantata ad ascoltarla, roba che manco Diana con gli audiolibri di Alessio Boni.

 

“Ti riconosce proprio…”

 

Pietro, colpito, se in bene o in male, difficile dirlo.

 

Valentina deglutiva fin troppo, ma poi ironizzò, “e se senti le urla di Francesco che fai, allora? Stai zitta o ti unisci alla protesta, picco- ma ce l’ha un nome alla fine?”

 

Le venne da sorridere, così come a Calogiuri. Un cenno d'intesa e annuirono.

 

“Sì… lo abbiamo trovato insieme. Era talmente ovvio… scontato, no, Calogiuri? Non poteva che chiamarsi così.”

 

“Sì… e poi inizia anche lei per la V, come te, ma-”


“Se l’avete chiamata Veloce, chiamo i servizi sociali!”

 

Scoppiarono a ridere.

 

Pure se in effetti…

 

“Veloce Calogiuri… mica male come nome, ma questa mica ha bisogno di incentivi, anzi. Mi pare già fin troppo attiva!”

 

“E allora, com’è che si chiama? V come-?”

 

“Vendetta!” si inserì Pietro, con quel suo umorismo goffo.

 

“Hai letto troppi fumetti, Piè!” sospirò Rosa, affettuosamente esasperata come il fratello con lei.

 

Si guardò con Calogiuri ed esclamarono insieme un “Vittoria!” così potente che si bloccarono tutti.

 

Valentina studiò la sorellina ancora per qualche secondo e poi annuì, “sì, Vittoria ti sta bene. Mi piace. E poi meglio che Brunella o…”

 

“Maria Carmela…” sospirò Calogiuri, con l’aria di chi meno si ricordava di avere una madre e meglio era.

 

“Per la carità di dio!” si fece il segno della croce Rosa, ricordandole di nuovo Diana.

 

“E come-?”

 

Valentina non riuscì mai a terminare la frase perché un “dov’è cucinetta?!” forte e chiaro più di un ordine militare, risuonò fino alle loro orecchie.

 

“Noemi…”

 

Calogiuri sorrideva incredulo, quanto lei, Rosa e Pietro invece le parvero mortificati.

 

Bussarono alla porta.


“Avanti!” urlò, ritrovando il cipiglio da sostituto procuratore, cosa che peggiorò l’imbarazzo di Rosa e Pietro.

 

Poteva ancora divertirsi un poco, no? E che cavolo!

 

La porta si aprì, centimetro dopo centimetro, e spuntarono due occhi scuri e una marea di capelli ricci.

 

“Bianca?”

 

Non si aspettava di vederla lì.

 

Il “vedi cucinetta?” che proveniva da oltre l’uscio invece era non solo prevedibile ma pure adorabile.

 

Bianca si spostò a lato dell’entrata, regale come al solito, e comparvero Irene e Ranieri, intenti a cercare di trattenere un uragano di nome Noemi.

 

“Scusateci ma… non stava più nella pelle…”

 

Irene, l’aria di chi avrebbe voluto sprofondare.

 

Avrebbe potuto tenerli sulle spine, ma le venne da ridere, come a Calogiuri.

 

“Sappiamo che Noè è… difficile da contenere…” sospirò, anche se era proprio per quello che l’amava tanto.

 

“Tata!!”

 

“Lasciatela pure,” confermò Calogiuri e Noemi non perse tempo a correre tra le braccia dello zio, che ormai era esperto nel placcarla e placarla.

 

“Dov’è cucinetta?” domandò, guardando verso il letto, confusa, ma poi Calogiuri la voltò verso Valentina e il viso di Noemi si illuminò più di tutti i led di Times Square.

 

“Cucinetta!!”

 

Valentina aveva l’aria di questa è una gabbia di matti!

 

Vittoria, invece, stranamente, non protestò per le urla, anzi, si voltò verso la cucinetta e, di nuovo, si studiarono, incantate, entrambe con una manina in bocca.

 

“Allora, che dici? Ti piace la cuginetta?”

 

La domanda di Calogiuri non avrebbe potuto essere più retorica di così, perché Noemi pareva aver appena visto un mare di leccalecca e pastiere.

 

“Bea- bella bella! Tanto tanto! Posso?”

 

Calogiuri le concesse di avvicinarsi e prendere la mano libera di Vittoria che, di nuovo, non protestò, anzi, se la strinsero come due gemelline.

 

“Beissima! Ma piccola! Anche io così piccola?” domandò a sua madre, curiosissima.

 

“Tu pesavi un po’ di più, mi sa, ti è sempre piaciuto mangiare…”


“Pure a questa, solo che… è stata troppo veloce a uscire!”

 

“Si vede che voeva giocare! Però sta bene, vero?”

 

E che le doveva dire? Si stava commuovendo.

 

“Sì, sì, sta bene, non ti preoccupare,” la rassicurò Calogiuri.

 

“E… e come si chiama?”

 

“Vittoria.”

 

“E che ha vinto?”

 

Scoppiarono tutti a ridere: Noemi non si smentiva mai.

 

“La fortuna di avere tuo zio come papà,” si lasciò scappare, perché Calogiuri era davvero santo.

 

“E te come mamma, dottoressa!”

 

“Non ricominciamo col diabete, per favore!” sbuffò Valentina, facendo sobbalzare leggermente la piccoletta, “sarà pure leggera ma pesa. Qualcun altro vuole l’onore?”

 

“IO! IO!” ululò Noemi, che si chiese se non li avrebbero buttati fuori dal reparto.

 

“Lei non riesce a reggersi da sola come Francesco, è molto delicata. Quando crescete un poco, va bene?”

 

Sì, Calogiuri era proprio perfetto: dolce ma deciso sulle cose importanti.

 

La faccina delusa di Noemi era adorabile ma annuì.

 

“Allora cressi presto, cucinetta, anzi, Vittò!”

 

Vittoria rispose con un paio di vagiti e agitando i piedini.

 

Con la coda dell’occhio, Imma notò Bianca, ancora in un angoletto, ma super concentrata sulle bimbe. Le fece una tenerezza immane.


“Bianca, che ci fai lì? Non ti vuoi avvicinare?”

 

Bianca fece un mezzo salto ma poi sorrise, con quel sorriso timido e bellissimo e, al suo cenno di farsi più vicina, la raggiunse.

 

“Ti va di tenerla un poco? Che tu hai già l’esperienza con Francesco. Perché non ti siedi qua e proviamo? Se ti va, eh.”

 

Bianca era emozionatissima, Irene ancora di più, che lo vedeva che si tratteneva ma aveva gli occhi lucidi. Noemi sbuffò un poco ma ai “lei è più grande!” di Calogiuri, si rassegnò. Il rispetto delle regole di buon senso era forte da quel lato della famiglia.

 

Bianca si sedette accanto a lei e Calogiuri le mise Vittoria in grembo, in modo che la testa fosse retta dal busto della bimba.

 

Ma manco sarebbe servito, perché Bianca era attentissima al collo della piccola, precisa, e la accarezzava con una delicatezza incredibile.

 

“Sei bellissima, Vittoria!” proclamò, per poi guardare lei da Calogiuri e aggiungere un, “sono proprio felice che abbiate una bimba tutta vostra! Visto che è andato tutto bene?” che era un colpo al cuore, sapendo i precedenti.

 

E sì, Irene si stava strozzando a giudicare da come tossiva.

 

“Ma Francesco?”

 

“Dalle suore, meglio che prenda le misure piano piano con la sorellina. Magari è un poco geloso, no?” chiarì Calogiuri, accarezzandole i ricci.

 

“Ma perché? Che è così bello avere una sorellina o un fratellino! Almeno non sei mai sola.”

 

Tra Irene e Ranieri era difficile dire chi stesse per tirare gli ultimi per primo.

 

“Vi dovete dare da fare mi sa…” li sfotté, perché il suggerimento poco velato di Bianca e il modo in cui li aveva guardati, speranzosa, era da manuale.

 

“Ma il capitano qua tra un po’ ha una squadra di calcio. O di calcetto… non credo che…”

 

“Con te ne farei pure un’altra!”

 

Eccallà: doveva essere una cosa dei carabinieri, quella di fare le dichiarazioni disarmanti. Sia in senso positivo che negativo, bastava pensare a Lamacchia.

 

“Ma io no! Cioè, con calma!” esclamò Irene, l’aria spaventata, per poi cedere a un rapido bacio sulle labbra.

 

“Questo diabete è una forma contagiosa…” sospirò Valentina, che li fissava appoggiata al muro con l’aria di chi avrebbe fatto a tutti un TSO.

 

“Ma che è tutto sto casino?”

 

La caposala, con un’espressione al cui confronto suor Giuditta era una tenerona.

 

“Va bene le visite straordinarie ma pensavo per due o tre persone. Non tutta questa folla! Ma quanti siete in famiglia?”

 

“Pochissimi di sangue. Ma… abbiamo una famiglia molto allargata. Molto.”

 

“Per fortuna, che se aspettavamo quelli di sangue…”

 

Strinse la mano di Calogiuri e ci piazzò un bacio. Non c’era rimpianto nel suo sguardo o nelle sue parole, solo una consapevole amarezza.

 

Ma poi, mentre l’infermiera faceva uscire tutti, gli bastò raccogliere Vittoria dalle braccia di Bianca per tornare ad avere quel sorriso e quello sguardo innamorati, che forse Valentina avrebbe definito ebeti, ma che lei non avrebbe cambiato per niente al mondo.

 

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“Vittò, ma che non ce l’hai un po’ di male alla bocca? Stanchezza alla mascella?”

 

Per tutta risposta, le fu puntato contro uno sguardo talmente adorabile e disarmante, le manine strette a pugno lungo i fianchi, da far svanire ogni traccia di stanchezza o nervosismo.

 

“Mannaggia a te!”

 

La risata di Calogiuri, a cui ripeté un altro “mannaggia pure a te! E pensare che Valentì era così schizzinosa. Questa tutta da Noemi ha preso!”

 

“Beh… pure tu sei una buona forchetta, dottoressa, e le ricette di Valentina ce le dimentichiamo? O quelle di…”

 

“Di?” lo esortò a continuare, anche se aveva già capito benissimo.

 

“Di tua madre…” ammise lui, con lo sguardo di chi temeva di aver appena fatto un’enorme gaffe.

 

Staccò per un attimo una delle mani dal fianco della piccola idrovora - che tanto col cavolo che si muoveva - per stringergli le dita.

 

“Eh… mia madre c’aveva fame, Calogiù, la fame vera, di chi il cibo in tavola era un’incognita se ce l’avevi o no.”


“E anche tu.”

 

“Sì… ma già meno… e pure tu allora.”

 

“Si vede che la fame l’abbiamo trasmessa anche a te. Vero, Vittoria?”

 

Un mugolio nel poppare e basta: nulla poteva distrarla dal suo obiettivo.

 

“Chissà cos’avrebbe pensato… a vedermi qua impicciata così, alla mia età. Credo mi avrebbe detto che mi sono rinscimunita, poi probabilmente si sarebbe convinta che pure lei si chiama Brunella… però… credo che sarebbe stata felice di sapermi con il bello giovane, alto alto e bello come a Garibaldi.”

 

Calogiuri arrossì e si schernì, toccandosi il collo: adorava quando faceva così e si chiese se lo avrebbe fatto anche la piccoletta o se, come lei, sarebbe stata senza vergogna o quasi.

 

“Veramente, le piacevi tantissimo, lo sai.”


“Eh… è che non ha fatto in tempo a conoscermi bene, dottoressa.”

 

“Ma io sì!” esclamò, tirandogli la mano e allungando il collo per centrargli le labbra.

 

Finalmente un bacio, un bacio vero, nonostante stesse lì con la latteria attaccata, ma almeno non ci stava più la buoncostume e-

 

“Ehm ehm…”

 

Chi osava mo?!

 

Calogiuri si staccò subito, ancora più rosso, e il suo campo visivo registrò lo scocciatore.

 

Anzi la scocciatrice.

 

Chiara.

 

Latronico.

 

Per qualche assurdo motivo, sentì anche le sue guance farsi calde, manco fosse stata beccata da sua madre con il ragazzetto in cameretta a fare chissà che.

 

O da tua sorella?

 

La voce della coscienza, quando si parlava di sorellanza, non poteva essere che quella di Diana.

 

“Non chiedo se disturbo: sarebbe una domanda retorica.”

 

Le venne da sorridere.

 

“Ma su quelle siamo specializzati in famiglia, vero, Calogiù?”

 

“Verissimo!” esclamò lui, tirandosi in piedi con un, “allora… vado a prenderci qualcosa al bar. Ordinazioni speciali, dottoressa?”

 

“Tutto quello che non potevo mangiare in gravidanza ma posso mo con l’allattamento. Pure se il bar fa parecchio schifo, quindi non esagerare.”

 

Tanto lo sapeva benissimo che era una scusa, per lasciarla da sola con Chiara.

 

“Volete qualcosa anche voi, dottoressa?” chiese, rivolto alla Latronico.

 

“Che mi dai del tu e mi chiami Chiara. Che ogni volta che non ci vediamo per un po’ regrediamo. Per il resto sono a posto. Anzi, a sapere avrei portato io qualche dolcetto buono. Ma Imma, posso anche tornare quando hai finito di allattare.”

 

“Sì, accomodati, che se no ti posso dare appuntamento direttamente a dopo lo svezzamento, figurati! Questa non molla!”

 

Chiara sorrise, occupando la sedia, e Calogiuri si dileguò, come al suo solito.

 

Vittoria concentrò l’attenzione verso la nuova venuta, anche se non la poteva realmente osservare. Ma almeno non sembrava disapprovare del tutto, se no si sarebbe fatta sentire, pure fra le poppate.

 

“Ma è bellissima, è-”

 

“Tutta Calogiuri?”

 

“No, no. Cioè gli occhi sono i suoi, ma… mi ricorda un po’ te da piccola, quando ti ho visto con tua madre e anche nelle vecchie foto che abbiamo trovato.”


“Vedremo… per intanto di sicuro mangia più di tutti noi messi insieme.”

 

“E come va? Ti danno gli integratori? Riesci a mangiare? E ti fanno le aggiunte?”

 

“Dovrò farti parlare con la mia ginecologa, ma diciamo che si tira avanti, pure se sono stanca. Ma Calogiuri mi sta molto vicino e… non vedo l’ora di potermi alzare, anche se c’ho molta paura di non sapere manco più come si fa a camminare.”

 

“Dai, vedrai che basterà un po’ di fisioterapia e presto tornerai a correre sui tacchi.”

 

“Ma magari, guarda, magari!”

 

Vittoria fece un gorgoglio e si lanciò in qualche calcetto, che non sapeva se fosse di approvazione o di paura che il suo buffet prendesse il volo.

 

“Ha un bel caratterino, eh?”

 

“Puoi dirlo! Capa tosta, di famiglia.”

 

“A proposito di famiglia… non so per quanto ancora dovrai stare qua, ma… mi piacerebbe venirti a trovare, dovunque finirai tra qualche mese.”

 

“A Milano?”

 

“A Milano, sì. Poi è pure comoda da Roma, che cercherò di fare la nonna più spesso che posso.”

 

“E mica devi chiedere il permesso a me. A Milano sei la benvenuta, anzi, magari ti troviamo pure un bel meneghino, possibilmente non troppo bauscia, che se no agli eventi in famiglia chi lo sopporta? A parte che ormai a Milano sono tutto tranne che milanesi e-”

 

Si fermò perché Chiara era diventata più fucsia di Calogiuri nei momenti peggiori. E, va bene che con gli uomini forse praticava poco negli ultimi tempi, ma la reazione da educanda le parve spropositata.

 

A meno che…

 

“C’è qualcosa che devi dirmi?”

 

“Ti ricordi… l’agente della scorta?”

 

“Greco? E certo! Se lo ricorda pure Calogiuri, sicuro,” sorrise, ripensando ai giorni spensierati, prima che tutto precipitasse, “e allora? Ci sono novità?”

 

L’espressione di Chiara era identica a quella di Valentina quando veniva colta in fallo - forse in tutti i sensi, in questo caso - proprio vero che si somigliavano.

 

“Non proprio ma… forse ci saranno.”

 

“Cioè? Che ti devo fare l’interrogatorio? E su, che qua c’ho da conservare le energie per la baby sanguisuga.”

 

“Lo hanno trasferito a Roma per le terapie e… mo che sta un poco meglio e sono a Roma pure io… mi ha invitato a uscire. Domani sera. Ma… non so se sia una buona idea e-”

 

“E perché? Che altro c’hai di così importante da fare domani sera?”

 

“A parte aiutare mio figlio e la mia futura nuora con la gravidanza? Niente ma-”

 

“E allora che aspetti? Che quella starà in gravidanza pure prima e dopo l’appuntamento. Ma hanno deciso di sposarsi quindi?”

 

“Non ancora ma… conosco mio figlio e penso che le farà la proposta, forse a Natale, chissà.”

 

“Col bambinello che ancora deve uscire e tutto il resto appresso, bene!” esclamò, realmente felice per loro, nonostante lo scenario da diabete, come avrebbe detto Valentina, “ma tu allora? Mi prometti che ci vai? Se no, se continui a fare la suora laica, ti scateno contro le suore vere.”

 

“Le suore?”

 

“Ah, già che non hai avuto l’onore di conoscerle. Ma sono peggio dei carabinieri, molto peggio!”

 

“In effetti non sono poi così male i carabinieri…”

 

Scoppiarono a ridere, senza più imbarazzo.

 

“Nostro padre davvero si rivolterà nella tomba…”

 

“Mi fa sempre strano sentirtelo chiamare così, Imma.”

 

“Anche a me. Ma alla fine, almeno qualcosa di buono è venuto fuori da sta parentela. Oltre che gli occhioni azzurri di Vittò che sì, ha preso tutto da papà suo ma… non fosse stato per i geni recessivi del… nonno biologico, fosse stata ad aspettare a Rocchino Tataranni e famiglia… col cavolo che ti venivano sti fanali da denuncia, signorina.”

 

Era la prima volta che ci pensava, che lo realizzava, vocalizzandolo, ma era vero. Vittoria protestò con un’altra serie di calcetti e un gorgoglio, prima di riprendere a concentrarsi sul procacciamento di cibo.

 

“Pure i tuoi non scherzano… specie quando la guardi.”

 

“Non diciamolo troppo forte, però: c’ho una reputazione da mantenere!”

 

“Eh appunto…”

 

“In che senso?”

 

“Che ci faccio in giro con uno che non ha manco trent’anni? Mi vergogno!”


“E che ci fai? Ti diverti!”

 

Chiara rise, tornando rossa.

 

“Chiara, credimi, il bello di Roma è che non gliene frega niente a nessuno di ciò che fai e non fai. Tranne se sei me e Calogiuri, che allora ti sbattono sui giornali, ma Coraini mo sta al gabbio, come dicono qua e-”

 

TOC TOC

 

“Chi è?”

 

Calogiuri. Il fatto che bussasse era adorabile e frustrante insieme. Ma anche strano: di solito avrebbe aspettato che Chiara uscisse. Avrebbe aspettato perfino che uscisse Diana, dopo una di quelle conversazioni delle sue, che erano più monologhi infiniti.

 

“Tutto bene? Hai portato i rifornimenti?”

 

“No, cioè sì, ho preso qualcosa ma… volevo farti vedere questo.”

 

Avanzò nella stanza, un sacchetto in una mano e il cellulare nell’altra, che le porse.

 

Vittoria per la dottoressa Tataranni e il baby capitano

 

Fiocco rosa in casa Tataranni

 

La panterotta è nata, Vittoria!

 

L’ultimo titolo era di Zazza, ovviamente.

 

Eccallà! Come non detto!

 

“Ma chi gliel’ha detto a questi?”

 

“Eh… dottoressa… le notizie corrono, lo sai. Poi l’ospedale è enorme…”

 

“Sì, ma noi saremmo pure sotto protezione. Se becco chi passa le notizie! Ma poi ti pare il caso di farci i fotomontaggi con le nostre facce e le tutine leopardate?”

 

“Come se non stessi aspettando solo di uscire da qua per farne scorta…”

“Eh mo solo una di scorta c’abbiamo, Calogiù, la peggiore!” sospirò, pure se riusciva sempre a strapparle un sorriso, perché sì, anche se i vestitini per i bambini erano lo spreco peggiore, qualche completino leopardato, mo che non aveva una suocera rompiballe a impedirglielo - o meglio, ce l’aveva ma a chilometri di distanza - gliel’avrebbe preso sicuro alla piccoletta.

 

Ma pure zebrato, pitonato, tigrato, perché scegliere?

 

Ecchecavolo!

 

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Un soffio lieve che virava sul russare.

 

Anzi due.

 

Pure con gli occhioni chiusi quei due facevano il dolby surround.

 

Calogiuri, nonostante le insistenze che si trovasse una brandina o si stendesse accanto a lei, si era addormentato nella sua solita posizione, seduto, riverso in avanti, la testa appoggiata sulle braccia, vicino al suo.

 

Si divertiva a farle venire la pelle d’oca col fiato, il disgraziato!

 

La piccola idrovora invece, si era accasciata sul suo petto dopo l’ennesima poppata. Anche lei con le braccine protese in avanti, il viso leggermente girato di lato, proprio come papà suo, ma con un dito in bocca.

 

Parevano due micini sonnacchiosi.

 

Avrebbe dovuto spostarla, lo sapeva, metterla in culla. Non solo, ma avrebbe dovuto essere già crollata dal sonno.

 

Ma un po’ l’adrenalina, un po’ le endorfine che sì, erano veramente la droga più potente al mondo, ma non le riusciva ancora di dormire.

 

Non quando aveva quella specie di quadro davanti agli occhi.

 

E non solo per la piccoletta che tenerla così vicina, cuore a cuore, la faceva sentire viva come mai prima, le ricordava che, nonostante una gravidanza terribile, era lì e non andava da nessuna parte. Non senza ettolitri di latte ad accompagnarla, almeno.

 

Ma anche per Calogiuri. Perché, se l’innocenza purissima di Vittoria era normale, in fondo, quella di Calogiuri no, era un miracolo.

 

Erano mesi che non lo vedeva così rilassato, così aperto, nemmeno nel sonno. Sicuramente dall’annuncio della gravidanza, ma a maggior ragione dopo gli agguati. Dormivano tutti con un occhio aperto e uno chiuso, quasi letteralmente.

 

E mo invece, rieccolo lì, l’appuntato di Grottaminarda, a fare capolino quando le difese erano sguarnite e non doveva essere l’uomo deciso e consapevole che era diventato.

 

Se c’era qualcosa che si augurava in quel momento, era di addormentarsi o svegliarsi sempre con quell’espressione davanti agli occhi, pure quando avrebbero avuto entrambi la dentiera sul comodino ad aspettarli.

 

Lei indubbiamente prima di lui.

 

Stava per cedere alla tentazione di accarezzare il viso a padre e figlia, quando alcune urla dal corridoio le fecero fare un salto.

 

E mo altro che quadretto!

 

Vittò, sensibile come papà suo, si era svegliata e aveva preso a strillare, spaventata, con la delicatezza di casa Tataranni.

 

Calogiuri era balzato sulla sedia, pure prima del pianto della bimba, e la pace era bella che evaporata, per far posto all’adrenalina dell’azione.

 

Gli cercò la mano, per calmarlo, mentre con l’altra provava a rabbonire la piccola sirena e tendeva le orecchie per capirci qualcosa.

 

“Non può stare qui!”

 

Uno dei ragazzi della scorta, il toscano, il più sveglio.

 

“Si allontani subito, questa è un’area riservata.”

 

Altro della scorta.

 

“Ma… ma… non capite… io…”

 

Una voce familiare e che la riportava di nuovo indietro alle origini del rapporto con Calogiuri. L’incertezza, il tremore, il tono.

 

“Modesto?”

 

L’avevano pronunciato insieme, lei e Calogiuri, che si era alzato ed era andato verso la porta, a passo un po’ sbilenco e non solo per le posizioni assurde in cui era rimasto in quei giorni.

 

Lo vide socchiudere la porta e chiedere un “che succede?” dal tono indefinibile.

 

“Ippà! Diglielo pure tu, che sono tuo fratello!”

 

Le spalle di Calogiuri si rilassarono visibilmente, pure se mo era aggrappato all’angolo della porta e si voltò per lanciarle uno sguardo, di chi non sapeva se era appena successo un miracolo o una disgrazia.

 

Gli sorrise per incoraggiarlo, mentre la piccoletta finalmente si quietava e, tanto per cambiare, cercava l’unico suo oggetto del desiderio.

 

Se davvero la produzione di latte era direttamente proporzionale al numero di attacchi al seno, tra un po’ avrebbe potuto produrre intere forme di parmigiano reggiano, per quanto disgustose.

 

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“Ippà?”

 

Distolse l’attenzione dalla visione meravigliosa che erano Imma e Vittoria, voltandosi verso quello che, dalla voce, avrebbe dovuto essere suo fratello.

 

Non fosse stato per quello e per gli occhi, non lo avrebbe riconosciuto.

 

Pareva un cinquantenne, smagrito all’inverosimile, due occhiaie che manco lui quando si era lasciato andare, dopo che era finita con Imma e si era rintanato in quegli squallidi hotel.

 

I vestiti di almeno una taglia troppo larghi, la stempiatura che era al limite della calvizie, pareva un reduce di guerra. Notò lo zaino che portava a spalla e che non poteva contenere più dello stretto necessario.

 

“Che ci fai qua? Come sei arrivato? A quest’ora poi…” gli chiese, facendo cenno ai ragazzi che era tutto a posto.

 

“Ci scusi, ma dobbiamo essere prudenti…” 

 

L’accento toscano e la mortificazione lo fecero sorridere e li rassicurò con un “avete fatto bene!” che era più da Imma che suo.

 

Sempre se ormai fosse possibile una netta separazione tra dove finiva lui e iniziava lei.

 

“Ho saputo dai giornali dove stavate e… e ho preso la macchina. Se ce l’hai con me lo capisco ma-”

 

“Ma che è successo?”

 

“Non so se lo sai ma… ma io questo fine settimana mi dovrei sposare.”

 

“E tanti auguri!”

 

Sì, era sempre più Imma, ma gli era uscito di getto.

 

“Non so come fare, Ippà…”

 

La disperazione di Modesto gli fece malissimo: pareva essere un bimbo e un vecchio al tempo stesso.

 

“Dai, entra,” gli fece cenno e Modesto, più timido e remissivo di lui quando era arrivato a Matera per la prima volta, varcò la soglia.

 

Lo vide fare un mezzo salto e diventare fucsia, lo sguardo buttato sul pavimento: Imma stava allattando di nuovo. La piccoletta era insaziabile.

 

“Eccallà! Siete proprio fratelli! Guarda che mica c’è niente da scandalizzarsi.”

 

“No, no, ma è che… è un momento così intimo…” balbettò Modesto e Imma rise talmente forte che pure la piccoletta si staccò un attimo per lanciare un paio di gorgoglii.

 

Modesto era mortificato e Calogiuri si affrettò a spiegargli, “no, è che ho detto lo stesso. Stai tranquillo, che questa mangia sempre. Accomodati.”

 

“Sì, non fare i complimenti, pure se per voi Calogiuri è andare contro al vostro DNA.”

 

“Tranne la piccoletta, lei complimenti proprio non ne fa, dottoressa,” le ricordò e scorse benissimo la commozione in quegli occhi scuri che amava tanto.

 

“Eh… quello è il lato Tataranni che vuole predominare. Dai, Modesto, rinnega il tuo nome e non ti preoccupare, che siamo in famiglia.”


“Eh… è proprio quello il problema… la famiglia…” sospirò suo fratello, alzando finalmente lo sguardo.

 

E si bloccò. Probabilmente non per il “il contesto con il più alto tasso di omicidi!” di Imma ma perché era fisso, ipnotizzato su lei e la piccoletta.

 

Fosse stato chiunque altro, forse sarebbe stato geloso, ma la venerazione, che per un attimo ringiovaniva il volto scavato del fratello, gli provocò un rimescolamento vicino al cuore, mentre si chiedeva se anche lui le guardasse così.

 

“Ma è bellissima!” si lasciò sfuggire Modesto, diventando poi ancora più fucsia e rivolgendosi ad Imma con un “cioè… non lei!”, ormai il colore era prugna, “cioè non solo lei, anche lei è bella, ma la bimba è bellissima, cioè entrambe e-”

 

Imma rise, intenerita.

 

“Quando vi incartate siete uguali…” proclamò, mentre Vittoria si esibiva in una serie di altri calcetti e mugolii, “anche lei è d’accordo. E guarda che ti puoi avvicinare. Mica mordiamo. Pure se lei c’ha molta fame.”

 

Modesto fece qualche passo verso il letto, come in trance.


“Vittoria, giusto?”

 

“Sì, Vittoria. Se vuoi toccarla fai pure. Ti direi di prenderla in braccio ma mo vuole mangiare e chi la sente.”

 

Modesto allungò una mano un po’ tremante e sfiorò la schiena di Vittoria. Che non si mise a urlare ma lo guardò per un attimo, prima di riprendere a ciucciare, agitando una manina nella sua direzione.

 

“Sei bellissima, Vittoria… e voi… e voi siete fortunati. Io purtroppo una fortuna così non potrà mai avercela, a meno che…”

 

Si zittì, anche perché Imma gli abbrancò una mano, prendendolo in contropiede, come solo lei sapeva fare.

 

“Senti, Modè, esistono pure le adozioni, gli affidi. Magari qui in Italia per ora non è possibile, ma le leggi possono anche cambiare. E intanto, se vuoi, c’hai qua una nipotina di cui occuparti, che noi non vediamo l’ora di appioppare allo zio. Vero, Calogiù?”

 

Annuì, perché che altro poteva fare? Modesto cominciò a singhiozzare.

 

“Modè, se non la vuoi basta dirlo, noi capiamo…” ironizzò Imma e Calogiuri si affrettò a passargli un fazzoletto e mettergli una mano sulla spalla.


“Davvero… veramente mi permettereste di occuparmi di lei qualche volta?”

 

“E certo! Cioè, mo dovremmo anche darti litri di latte o sono guai, ma quando vuoi, pure tutte le notti, noi non ci lamentiamo, anzi, ci sacrifichiamo volentieri per la famiglia. Vero, Calogiù?”

 

Rise, piazzando la mano libera sulla spalla di Imma, in una specie di strano abbraccio a tre, anche se a distanza di sicurezza.


“Che pensi di fare con il matrimonio?”

 

Imma. Tornata seria, serissima e dritta al punto.

 

Menomale che aveva lei… che per lui mica era facile, specie con Modesto, che le parole gliele dovevi cavare di bocca, da sempre.

 

“Non lo so… non so come uscirne… forse ormai è troppo tardi.”


“Eh no! Se sei qua è perché vuoi uscirne e finché non hai firmato i documenti non è troppo tardi. Va beh che pure dopo ci stanno annullamento o divorzio, ma meglio risparmiarsi il pensiero.”

 

“Imma ha ragione… e poi… e poi mica devi fare coming out, se non te la senti. Puoi annullare il matrimonio e rimanertene qua a Roma. Che per ora ci siamo sia noi che Rosa.”

 

“In che senso per ora?”


“Che presto finiremo a Milano. Ma se vuoi puoi venire pure lì. Più opportunità di lavoro e mia figlia mi dice che, se non sei etero, è la città migliore in Italia. Se ti vai a fidare di Valentina, ovviamente!”

 

Modesto fece un accenno di sorriso ma poi sospirò.

 

“Ma è anche la città più cara e… io non so fare niente, se non coltivare la terra.”

 

“E… diciamo che per un po’ abbiamo bisogno di una babysitter fidata. Ma pure un babysitter va benissimo. E poi qualcosa trovi, figurati! No, Calogiù?”

 

L’idea che Modesto si occupasse di Vittoria quando loro non c’erano era talmente bella da lasciarlo senza parole. Sarebbe stato come quando erano piccoli.

 

“Hai cresciuto a me, vuoi non riuscire a crescere a questa? Fino a che non trovi un lavoro tutto tuo e solo se ti va.”

 

“Ma… ma non posso accettare soldi dalla famiglia… e-”


“E se non li spendessimo per te, li spenderemmo con qualcun altro. Pensaci. E mo, il nostro appartamento è libero, credo ormai lo abbiano risistemato. Altrimenti con Rosa una sistemazione per ospitarti qua a Roma la si trova.”

 

“Ma… ma Rosa ha la sua vita… e… e anche voi uscirete da qua, no?”

 

“Sì, ma non è detto ci rimandino lì. E poi… al peggio ci sta il divano letto.”


“Sì, che io sul divano letto non ci voglio più stare,” intervenne, non solo per dare manforte alla sua dottoressa, ma anche per lanciarle un messaggio.


“Vedrai quando questa strillerà tutta la notte quanto lo vorrai usare, Calogiù!”

 

Stava per risponderle, ma l’abbraccio di Modesto, per quanto mingherlino fosse diventato, gli levò il fiato.

 

Braccia da agricoltore, altro che i culturisti!

 

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“Se la cava proprio bene. Ma voi Calogiuri sapete fare tutto.”

 

Sorrise al sussurro di Imma, seduta accanto a lui sul letto ad osservare suo fratello intento a cullare Vittoria che gorgogliava e faceva dei versetti stupendi, anche se si vedeva fosse prossima al sonno.


“Se riesce a tenerla lontana dalla fonte per qualche ora gli faccio un monumento qua a Roma e pure uno a piazza del Sedile.”

 

E che doveva fare con lei? Se non approfittare della venerazione di Modesto per la piccoletta per levarle il fiato con un bacio come si doveva?

 

Il sorriso di lei sulle labbra e un mugugno soddisfatto. Quanto gli era mancato poterla toccare, baciare e abbracciare senza pensieri, senza paura di farle male.

 

“Guarda che manco prima mi rompevo, Calogiù…”

 

Si stupì di non stupirsi ormai più di quanto sapesse leggergli nel pensiero. Stava per cedere al bis - e pure al tris, se Modesto continuava a distrarre la piccolina - quando bussarono alla porta.

 

La caposala che guardò Modesto, un po’ stupita.

 

“Lui è lo zio,” spiegò Imma, con un sorriso.

 

“Mio fratello…”

 

La caposala alternò lo sguardo tra lui e Modesto, ancora più sorpresa, ma poi annuì. Effettivamente la loro somiglianza non era mai stata così flebile.

 

“Devo portare Vittoria a fare alcuni controlli,” chiarì e Modesto le passò la piccoletta con una tenerezza che manco con lui e Rosa era stato così.

 

Vittoria, ovviamente, prese a strillare.

 

“Vittò, e su, fai la brava che poi doppia razione di latte. Un po’ artificiale che sei peggio di un’idrovora.”

 

La piccoletta smise di piangere e sbattè i pugnetti, come a dire sarà meglio! e si lasciò portare via dall’infermiera.

 

Silenzio.

 

Modesto si tormentava le mani, nervosamente, ora che non c’era più Vittoria a distrarlo si vedeva che era in imbarazzo.

 

“E non stare lì impalato, che mi ricordi Calogiuri i primi tempi: i corazzieri dovevate fare voi Calogiuri! Accomodati, dai!”

 

Modesto esitò ma poi si avviò verso la seggiola indicata da Imma. Fece per sedersi quando un urlo li fece saltare tutti.

 

“Disgraziati! Disgraziati site! Tengo che trasire!”

 

Sospirò. Modesto era diventato quasi verdognolo. Imma, dopo la sorpresa iniziale, strinse gli occhi, pronta alla guerra.

 

“Sei sicura?” le chiese, tanto non servivano altre parole.

 

“Prima o poi la dobbiamo affrontare. Modesto, animo, ci pensiamo noi, va bene?”

 

“Non ti devi agitare troppo però, dottoressa, o prima butto fuori nostra madre e poi ti faccio visitare subito.”

 

Per tutta risposta, quegli occhioni castani fissarono il soffitto e poi gli fece segno di muoversi.

 

Giusto in tempo, perché stavano bussando alla porta.

 

“Scusate, ma qua c’è una signora che sostiene di essere vostra madre, capitano.”

 

L’accento toscano, nel panico, era ancora più buffo. Tutto il resto no, purtroppo.

 

Aprì la porta, mettendosi a barriera nello spazio che si era creato, onde evitare una carica che, al confronto, quella degli gnu nel Re Leone era stata delicata.

 

“Disgraziat’! Che scuorn’! Dove sta quell’altro disgraziato di frateto? Sta accà, o vero?”

 

“Siamo in un ospedale. O ti calmi o ti faccio scortare fuori. Ci sono altri pazienti oltre a Imma.”

 

“Carmè… e dai… Ippà tiene ragione: senti che mo strillano tutte le criature?”

 

Guardò verso suo padre, sorpreso: era un miracolo sentirgli la voce.

 

Ma, effettivamente, a Vittoria si era unito un vero e proprio concerto polifonico di pianti.

 

Lo spintone in petto che si beccò lo colse di sorpresa e forse per quello, o per la stanchezza, traballò all’indietro e sua madre ne approfittò per superarlo, prima di riuscire a fermarla.

 

“Mamma!” gridò, provando a prenderla per un braccio, ma Imma alzò la mano, come a dirgli che andava tutto bene.

 

“Signora, che piacere vederla!”

 

Nonostante le circostanze, gli venne da sorridere, ripensando a quel momento nel suo ufficio, quando Matarazzo li aveva interrotti, al ritorno da Roma, prima che riuscisse ad esprimere quello che avrebbe voluto ma non sarebbe mai stato in grado di confessare a Imma.

 

Un milione di vite fa.

 

“Per me no, è ‘na disgrazia! Tutta la famiglia m’hai pigiato e-”

 

“Plagiato, mà, plagiato!”

 

“Statte zitt’ tu, che prima tengo che pensare a quell’altro disgraziato e-”

 

“Carmè… forse è meglio se ce ne stiamo un poco calmi. Che insomma… con una criatura… e poi la dottoressa ha partorito da poco e-”

 

L’intervento di suo padre, il secondo in pochi minuti, poteva essere uno dei segni dell’apocalisse, come avrebbe detto Imma, ma sua madre gli assestò una manata sul coppino.

 

“Qua di criature non ce ne stanno. Ci sta solo ‘na vecchia, per non dire altro! Che poi, mettersi a fare figli all’età sua… chissà che ta-”

 

“Mamma!” la abbrancò per un braccio, una furia e un’indignazione che gli montavano in petto come mai prima, “se sento ancora una sola parola contro Imma quella è la porta, è chiaro, sì? A costo di farti portare fuori dalla scorta!”

 

Sua madre strattonò via la presa e strinse labbra e occhi, ma poi sospirò e si rivolse a Modesto con un “e mo pure tu!”, che non prometteva nulla di buono.

 

Suo fratello si ritrasse nella sedia.

 

“Accà stai? Che tieni altro a cui pensare: ci sta da organizzare la serenata, poi don Vito ve vuliva verè per le prove e…”

 

“E dì a don Vito che le prove non servono. Non mi sposo.”

 

“Ma che vai ricenn’? Ma che sì scem? Sta tutto pronto: le bomboniere, la sala, domani arrivano pure e’ sciure, i confetti…”

 

“E per i fiori sei ancora in tempo a fermarli. Per il resto pagherò fino all’ultimo centesimo, stai tranquilla, ma non ci sarà nessun matrimonio.”

 

“Tu sabato ti devi sposare, sabato. Furniscila con sta pazziata ja!”

 

“L’unica pazziata sarebbe sposare una donna che non amo e che non mi ama. Non me lo merito e non se lo merita neanche Enrica: non potrei mai darle la vita che desidera.”

 

“E se ne vulivi n’ata bastava che dirlo! Ma tu niente, capatosta proprio, nun ti piace mai a nisciuna!”

 

“E non ti sei mai chiesta perché non mi piace mai nisciuna?”

 

Sua madre si bloccò, la bocca spalancata, così come gli occhi. Modesto deglutì, terrorizzato, mentre Calogiuri sentiva il cuore battergli all’impazzata: forse aveva capito finalmente?

 

“Non dirmi che pure te ne tieni a una sposata!”

 

La risata di Modesto, amarissima, fu peggio di un pugno allo stomaco. Si scambiò un’occhiata con Imma e sapeva che stavano pensando la stessa cosa: se per loro era stato difficile… per Modesto…

 

“Ma magari! Sarebbe tutto più semplice e probabilmente persino tu lo preferiresti alla verità.”

 

“Ma sì scem’ proprio, ma non esiste! Figurati se ti preferisco co’ una come a chista che-”

 

La mascella materna si era richiusa con un CLAC udibile, per poi tornare a spalancarsi.

 

La mano le tremava mentre faceva segno di no, prima con le dita, poi con la testa. Un altro sguardo a Imma che, dopo un cenno d’intesa, mise una mano sulla spalla di Modesto, come per fargli forza.

 

“No. No. No.”

 

Sua madre pareva un disco rotto e sì, aveva capito, ancor prima di dire, “non è vero, non… non sarai mica uno di quelli… di quelli…”

 

“Sì, mamma, sono uno di quelli! Sono gay. Sono gay! SONO GAY! E finalmente riesco a dirvelo, dopo quasi quarant’anni che me lo tengo dentro.”

 

Un suono strozzato e sua madre barcollò, sorretta appena in tempo da suo padre, che anche lui alla fine la forza ce l’aveva eccome. Solo fisica, purtroppo.

 

“Ma sei ascit’ pazz’? Non è o ver’, chista è solo un’idea che ti si messo ‘nda capa toja. Tu sei sempre stato normale e-”

 

“E infatti sono normale. Sono gay, mica malato.”

 

“L’omosessualità non è più considerata una malattia dal 1990, signora, forse dovrebbe aggiornarsi.”

 

Sua madre si voltò proprio verso Imma e schiumava di rabbia.

 

“Eccallà! Ecco chi v’ha messo ‘ste idee malate ‘nda capa! Sempre chista, chista, chista zo-”

 

“Mamma!” urlò, afferrandola per il braccio non trattenuto da suo padre, prontissimo a buttarla fuori.

 

“Ma se è da quando ero adolescente che lo so. La dottoressa manco sapevo esistesse, non c’entra nulla!”

 

“L’unico problema qua sei tu mamma: tu e le tue idee arretrate!” intervenne, perché non ne poteva più, “ci hai costretto ad allontanarci, a tutti noi, per poter essere liberi. E stiamo bene. Fatti due domande.”

 

Sua madre si liberò della loro presa e lo fulminò, ormai una maschera di furore, “e infatti da mo io figli non ne tengo più. Siete stati la disgrazia della vita mia, ma mo basta! Iamuninni, Michè!”

 

Tutti voltarono lo sguardo verso suo padre che, nonostante sua madre lo stesse tirando, non solo non si mosse ma anzi, scrollò via le mani di lei. Si rivolse a Imma.

 

“Io mia nipote la vorrei conoscere. Dov’è la bambina? Vittoria, giusto?”

 

Imma, inaspettatamente, sorrise: il tono di papà era deciso come non l’aveva sentito mai, ma proprio mai mai. Al nome della piccola, però, si era fatto dolcissimo, come quando parlava con Noemi.

 

“Sta con l’infermiera mo. E menomale, viste le urla, pure se di famiglia c’è abituata.”

 

Il padre ricambiò il sorriso, toccandosi la nuca, imbarazzato. Proprio come faceva sempre lui.

 

“E vorrei conoscere pure quello adottivo-”

 

“In realtà è in affido ma… se non temete le suore si può fare. E se Calogiuri è d’accordo, naturalmente.”

 

Il voi. Invece che il lei dato a sua madre. Tutta lì stava la differenza.

 

Imma…

 

“Carmè,” esclamò suo padre, di nuovo con quel tono perentorio, “io non voglio più perdermi i miei nipoti, i miei figli. Da qui a poco sarà di nuovo Natale e n’ata vota la casa senz’a nisciun… io voglio festeggiare con la famiglia meja, u’ presepe e voglio vedere a crescer’ i criatur. Mo basta.”

 

“Ma che sei uscito pazz’ pur tu? Non pazziare ja, e jamme ja!”

 

Di nuovo sua madre provò a strattonarlo, di nuovo suo padre rimase fisso coi piedi piantati sul pavimento, come una roccia.

 

“Ma non lo vedi che sono felici? Forse… forse non è na pazziat’. Forse è giusto accussì. Pure se non è alla moda nostra, ma basta che stanno bene. Che ne vulimm’ savè nuje di com’è vivere mo? Ci siamo fatti vecchi, Carmè. Il futuro è o loro.” 

 

“Miché. Jamm’ ja o furnisc’ sul divano quanto è vero iddio!”

 

“E no che non ci finisco. Perché io da qua non mi muovo, Carmè. Se tu vuoi perdere a tutti, padrona e signora, ma per me mo basta. E avanza pure. E da mo.”

 

Sua madre barcollò, manco avesse preso uno schiaffo, e toccò a lui sorreggerla, prima di dover ricoverare pure a lei.

 

Si scansò, manco l’avesse contaminata, e fissò suo padre con una rabbia, anzi uno scuorno, come avrebbe detto lei, infinito. Il tradimento le bruciava. E per lei l’insubordinazione del suo soldatino capo era altissimo tradimento.

 

“La tua ultima parola?”

 

“Nun tengo altro che dicere…”

 

I pugni di sua madre erano stretti talmente forte che temette li volesse menare a tutti. Ma poi lasciò cadere le spalle, riprese la borsa da terra e, come un uragano, sparì oltre la soglia. Sbattendo la porta alle spalle con una forza tale che il concerto polifonico di bimbi riprese, più forte di prima.

 

Imma era a bocca aperta, come lui e Modesto. Suo padre invece guardava la porta, malinconico, ma senza spostarsi di un centimetro.

 

"Papà…"

 

Gli poggiò una mano sulla spalla e Modesto lo imitò. Era la cosa più vicina a un abbraccio a cui fossero mai giunti con loro padre.

 

Gli occhi lucidi paterni si alternarono tra loro, per poi concentrarsi su Imma, che gli sorrideva in quel modo che concedeva a pochissimi.

 

"Mo ho capito da chi lo ha preso il carattere suo figlio, quando serve."

 

"No. So' io che agg' avuto che imparare da Ippà. E da Rosa. E mo pure da te Modè. Pur' se troppo tardi mi so’ scetat'."

 

"Non è mai troppo tardi. Basta iniziare," lo incoraggiò Imma, tendendogli una mano.

 

Suo padre esitò, ma poi si avvicinò e le prese le dita. Un'esclamazione di sorpresa quando lei lo trascinò in un abbraccio, godendosi il suo sconvolgimento.

 

La sua dottoressa non cambiava mai.

 

TOC TOC

 

Il pianto potentissimo, che era tutto Imma, precedette la porta che si aprì e Vittoria, scalmanata in braccio all'infermiera.

 

"Tutto a posto, tranquilli, ma ha-"

 

"Fame?" esclamarono all'unisono lui ed Imma.

 

Suo padre fissò Vittoria, mentre l’infermiera la poggiava in braccio a Imma, con una contemplazione tale da rivaleggiare con quella di Modesto.

 

Un altro sguardo con Imma. Un suo sorriso bellissimo, anche più di quello sdentato della piccoletta.

 

“Vittò…” la chiamò Calogiuri, mo che si era un poco calmata - e come non capirla, che stava in braccio a Imma?

 

Un gorgoglio felice, misto a un singhiozzo di suo padre.

 

Vittoria, che oltre alla voce pure l’udito teneva finissimo, si voltò nella sua direzione.

 

“Vittò, hai visto chi c’è? Che è arrivato il nonno…”

 

Quella parola pronunciata da Imma gli causò un nodo in gola infinito. Forse perché ormai non ci sperava più che la piccoletta ce li avrebbe avuti dei nonni. Seppe che anche per Imma era lo stesso, da come le si era scurita la voce.

 

Suo padre tossì, per coprire un altro mezzo singhiozzo, e Vittoria lo guardò ancora più intensamente, ma senza piangere.

 

“Vuoi andare un poco in braccio a nonno? Che tanto la fonte qua sta e non scappa!”

 

“Ma non so se… è così piccirilla…”

 

“Eh va beh, papà, se sei riuscito a tenere Noemi, riesci pure con lei.”

 

Imma annuì e lo aiutò a prenderla in braccio correttamente. Vittoria lo studiò con occhioni ancora più spalancati, poi aprì la bocca, che Calogiuri temette la contraerea - come la chiamava Imma - ma Vittoria si limitò a un gorgoglio e a stringergli la barba con una manina.

 

Suo padre rise, come non aveva riso mai.

 

“Tiene proprio la cazzimm’. E non l’ha presa da te, Ippà. N’ata che comanda in famiglia!”

 

“Eh beh, è giusto… no, dottoressa?” le fece l’occhiolino.

 

“Diciamo che qua teniamo un nucleo di comando, democratico, pure se mo tengo potere di veto, specie finché c’ho la latteria qua.”

 

Avrebbe così tanto voluto baciarla, ma con suo padre presente non osava.

 

Imma sorrise di nuovo, avendo capito tutto, come sempre.

 

“E mo che pensi di fare, papà?” domandò, sforzandosi di tornare ai problemi seri e concreti, “che davvero vuoi lasciare a mammà a tornarsene da sola a Grottaminarda?”

 

“I mezzi li tiene e voglio starmene qua a Roma almeno doje jurne. Tiene ca pigliare nu poco di strizza. Poi vediamo se si ripiglia e ragiona o se no… io a vuje ve voglio verè. Almeno alle feste comandate. Ma pure di più, si vulite.”

 

“E certo che vogliamo. Magari senza vostra moglie, se non cambia atteggiamento, con tutto il bene eh.”

 

“Mi facc’ nu poco di vacanza pur’ io, dottoressa.”

 

“Imma va benissimo.”

 

“Solo se mi chiamate Michele. O Miché. O pure Lino, va bene uguale.”

 

“Sì, ecco, basta che non vi aspettiate che vi chiami papà, anche perché credetemi, non vi conviene, e non solo per l’età anagrafica.”

 

Scoppiò a ridere, insieme a Modesto, e anche suo padre sembrò più a suo agio.

 

Poi però Modesto tornò serio.

 

“Papà… a me non dici niente?”

 

Loro padre lo guardò in un modo strano, né bello né brutto, ma strano.

 

“E che t’agg a dicere, Modè? All’epoca mia e di vostra madre… non ci si sposava per amore o per pazziare, ma perché toccava farlo per campare. Ma mo i tempi sono cambiati. E, pure se nu sacc’ bene come ti fanno a piacere i quaglioni, con tutte le quaglione belle che ci stanno… se piacciono a te. Meglio ‘nu bravu quaglione c’a vita cu’ mammeta.”

 

Si chiese, non per la prima volta, se fosse stato un matrimonio combinato. Se si fossero mai amati o voluti bene. Se la sopportazione di suo padre fosse sempre stata solo vigliaccheria o una forma d’amore, sia verso di loro che verso loro madre.

 

“Però come facciamo col paese? Coi campi?”

 

“Io al paese non ci torno pà. Calogiuri e la dottoressa-”

 

“Imma!”

 

“Im-ma mi hanno offerto ospitalità. Starò con loro qua e a Milano. Farò il babysitter a Vittoria, finché non trovo un altro lavoro.”

 

L’orgoglio con cui lo diceva, come se stesse annunciando di essere stato eletto presidente del consiglio, amplificava solo il nodo in gola.

 

“Ma io da solo come facc’, Modè? So’ viecchio, o sai.”

 

“E… se tanto io mo avrò il mio stipendio e dovete mangiare solo tu e mamma potete assumere un bracciante, no? Ve ne cerco uno bravo io, se volete, un po’ di gente la conosco in paese.”

 

Loro padre sembrò addolorato ma annuì, mentre Vittoria calciava manine e piedini, in segno di approvazione.

 

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Che ci faccio qui?

 

La domanda non l’abbandonava, seduta ad un tavolo un po’ appartato di un ristorantino a Testaccio. Né troppo economico, né troppo caro, aveva insistito, anche perché era già tanto per lo stipendio di un carabiniere.

 

Solo che era pure in ritardo, di dieci minuti, e cominciava a chiedersi se non si fosse reso conto lui per primo che fosse tutta una follia e le avesse dato buca.

 

Lo avrebbe perfino capito.

 

Un altro sorso d’acqua - forse avrebbe avuto bisogno di un po’ d’alcol entro fine serata, comunque fosse andata - e poi il rumore della porta principale che si apriva ed un accento calabrese che avrebbe distinto tra mille.

 

Come il numero di battiti al minuto. Si levò lo smartwatch, prima che la tradisse, segnalando l’attacco di tachicardia non solo a lui ma pure a tutto il locale.

 

Suole in gomma che strisciavano sul pavimento e lo vide, appena girato l’angolo. Ancora un po’ troppo magro, ma dal colorito normale, una rosa in mano ed i capelli di chi si era preso l’acquazzone.

 

Fece per alzarsi ma lui si avvicinò a passo fortunatamente abbastanza fermo, nonostante non fosse ancora tornato quello che ricordava da quei giorni al mare.

 

“Dottoressa… Chiara… scusa il ritardo,” esordì, mortificato, porgendole la rosa un poco sciupata, “è solo che… non posso ancora portare il motorino e con la pioggia… qua i bus fanno quello che vogliono.”

 

Sorrise, dandosi della scema per non aver proposto da subito di condividere un taxi, anche se non sapeva esattamente dove stesse lui. Accettò la rosa, cercando di darsi un tono e contenere il tremore alle dita.

 

Una scossa quando si sfiorarono e si chiese se lui, fradicio com’era, l’avesse percepita di più o di meno.

 

Ma che domande ti fai? Goditela e basta!

 

La voce di Imma, ovviamente.

 

Per levare la tensione, tra uno sguardo imbarazzato e l’altro, prese il menù e cominciò a consultarlo, mentre Greco faceva lo stesso.

 

“Forse meglio evitare i secondi, per il fegato. Un primo leggero non c’é? E-”

 

Una mano sul suo polso, un’altra scossa.

 

“Non sei il mio medico, no?” le ricordò, con un sorriso, ma anche una punta di avvertimento.

 

Le sembrò di avere un forno al posto delle guance.

 

“Scusa… deformazione professionale.”

 

“E poi il fegato va meglio e la dieta so come gestirla. N’altro poco e potrò mangiare come tutti i cristiani, finalmente.”

 

Ordinarono, lui una cacio e pepe e la cicoria ripassata, lei provò a imitarlo.

 

“Ma non prendi neanche un antipasto? Un fritto? Qua fanno dei carciofi che sono la fine del mondo: me li ricordo ancora da quando ci venivo con un onorevole a cui facevo la scorta.”

 

“Ma… non so… non ti volevo tentare e-”

 

“E quello è impossibile…”

 

Non avrebbe saputo dire se fosse stato più il tono o l’occhiolino, ma si sentì ancora più calda e si affrettò ad ordinare sti benedetti carciofi alla giudia, mentre si beveva un sorso di vino per mascherare il fiato che le mancava.

 

Ci sapeva proprio fare! Altro che ventenne!

 

“Allora, che pensi di fare? Potrai riprendere il servizio attivo?”

 

“Ci vorrà ancora qualche mese, purtroppo ma per fortuna, anche.”

 

“In che senso? Ti piace fare fisioterapia e passar carte?”

 

“No, ma… vuol dire che per qualche mese sarò qua a Roma… quando nasce tuo nipote?”

 

Tossì e le toccò bere un altro po’ di vino.

 

“Sì… magari per allora ti sarai già stufato. E comunque nasce a febbraio.”

 

“Bene… e poi vorrai fare per un po’ la nonna, no? Anche se sei troppo giovane e ti scambieranno tutti per la mamma…”

 

“Non fare l’adulatore, Greco!”

 

Per tutta risposta, si limitò a sorriderle e a farle un altro occhiolino, mentre arrivavano i suoi antipasti e la cicoria di lui.

 

“Com’è? Pure senza peperoncino…”

 

“Il peperoncino stasera sarebbe molto pericoloso per me, quindi va benissimo così!”

 

L’ennesimo colpo di tosse, il disgraziato, come avrebbe detto Imma!

 

E che fai? Ti ci diverti!


Altro che divertirsi! Mannaggia pure a lei. Aveva il cuore in gola, a tal punto che avrebbe bruciato di sicuro tutta la cena e-

 

E chissà come la bruciamo sta cena!

 

SI strozzò col vino, tanto che Greco, preoccupato, le diede una pacca sulla spalla che peggiorò la situazione.

 

Doveva levarsi la voce di Imma dalla testa. Levarci il dio Greco, invece, sarebbe stato molto più difficile.


Sempre se voleva levarselo… pure se prima o poi le sarebbe toccato farlo, lo sapeva.

 

Goditi il momento! Non ci pensare! - sempre Imma.

 

Se non muoio di crepacuore prima, sorellì!

 

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“Grazie, ma non dovevi!”

 

Le aveva aperto la porta del taxi e l’aveva fatta passare. Ogni tanto emergeva il lato galante da uomo del sud, sebbene fosse molto più sveglio del suo futuro cognato e molto moderno per certe cose. Fin troppo.

 

“Figurati… e poi già che dividiamo il taxi…”

 

Aveva insistito per pagare il conto lui, almeno sul taxi avrebbe dato lei.

 

“Tu dove stai? Sempre in caserma?”

 

“Sì, vicino al Colosseo. Non è tanto distante da qua. Però permettimi di accompagnarti che è tardi. Così sono più tranquillo…”

 

“Ma il mio hotel è in zona Spagna, poi devi tornare indietro di un bel pezzo.”

 

“E va beh… che problema c’è? Tanto a quest’ora c’è poco traffico, no?” chiese al tassista che annuì distrattamente, con un “allora, signò, qual è sto hotel che qua er tassametro core e tra un poco stacco il turno?”

 

Imbarazzata, Chiara fornì nome ed indirizzo dell’hotel. Greco spalancò gli occhi, sembrandole altrettanto mortificato: in effetti era un hotel di lusso, ma non voleva certo sventolargli in faccia la sua ricchezza.

 

Gli sventoleresti altro in faccia!

 

Imma. Che sicuramente nella realtà non sarebbe stata così esplicita, ma la sua fantasia lo era. Eccome se lo era. Sempre se si ricordava ancora come si facesse.

 

Ma più percorrevano il lungotevere verso nord, più il battito accelerava e più le sudavano le mani. E pure il resto del corpo non è che stesse molto meglio. Ogni tanto lanciava uno sguardo a Luca che deglutiva fin troppo spesso, un muscolo della mascella che gli si contraeva ritmicamente.

 

Il taxi andava tanto veloce che prese un incrocio bruscamente. Gli finì addosso, braccio contro braccio, ed arrossì ancora di più.

 

Fece per rialzarsi ma lui ne approfittò per cingerle le spalle. E che doveva fare? Ritrarsi?

 

Un po’ suora sì. Scema no.

 

E così, col cuore che le martellava in petto, arrivarono infine davanti all’hotel. Una frenata che brusca era dir poco, il cuore in gola, anche per il modo in cui la teneva incollata al sedile.

 

Se il buongiorno si vedeva dal mattino, anzi dalla sera…

 

“Io… io sono arrivata…”

 

Ma che sei scema che ribadisci l’ovvio? - sempre Imma, implacabile. Chissà lei come era stata più a suo agio con Calogiuri ai tempi, ce la vedeva, decisa e quasi spregiudicata. Anche se era pure timida, a volte.

 

“Sì… l’hotel ce l’ho presente. Quando facevo la scorta sempre al famoso onorevole, veniva spesso qua. Anche se ho visto solo il foyer e mai le stanze…”

 

Un altro colpo di tosse, seguito da un mezzo rantolo: ormai era tutta un rossore. E che doveva fare?

 

E che dovrai mai fare? Invitalo a salire, no? O vuoi continuare con i messaggini tipo gli adolescenti?

 

Ma forse era troppo azzardato, alla fine l’uomo era lui e lei…

 

“Quindi signò, scende?”

 

Il tassista. Lo avrebbe ucciso.

 

“Sì, io scendo e…” 

 

Lo guardò, senza dire nient’altro, ma gli prese la mano, con un coraggio che non sapeva da dove veniva.

 

“Al bar ricordo che facevano dei cocktail buonissimi. Ti va il bicchiere… come si dice?”

 

“Della staffa. Della staffa. Dai, Greco, vieni!”

 

Il sorriso di lui, come quello del gatto che si era appena mangiato il topo, non fece che peggiorare il calore. Passò i soldi al tassista un poco a casaccio, ma che si tenesse la mancia, prima che cambiasse idea.

 

Correndo ancora mano nella mano sotto la pioggia, come due ragazzini, entrarono nel foyer.

 

Il receptionist di notte le lanciò un’occhiata ma non disse nulla. Chiara si avviò verso il bar: doveva esserci stata una convention di qualche tipo, perché era pieno di uomini d’affari con delle signorine in abiti molto succinti e un po’ troppo giovani per-

 

Parli tu, parli?

 

Un’occhiata a Luca, una sola e poi, forse per il casino, forse per il coraggio dato dal vino già bevuto, forse che associarsi a quelli non le pareva il caso, ma le uscì, quasi senza pensarci, “anche il minibar è molto fornito…”

 

Luca serrò la mascella più forte, deglutì, sorrise, soddisfatto, ma pure con l’aria di chi non se lo aspettava del tutto.

 

Gli fece strada, senza bisogno di altre parole.

 

I secondi in ascensore le sembrarono interminabili, finché arrivarono al piano. Gli riprese la mano, anche un po’ per farsi forza, e a passo di marcia arrivarono davanti alla sua stanza. Aprì la pochette, cercando la tessera magnetica, che non ne voleva sapere di uscire, finché lui con un “posso?” gliela estrasse dalla borsa con un sorrisetto che sì, altro che sornione!

 

La passò sulla serratura magnetica, le fece cenno di entrare per prima. Chiara sentì la carta infilarsi nella fessura, la porta richiudersi alle spalle e poi-

 

E poi mani sulle sue di spalle, fisicamente, altro che figurativamente, che la fecero girare. Due occhi furbi e due labbra sulle sue a toglierle il fiato.

 

Dio mio!

 

Non c’era più abituata, proprio più, tanto che le sembrò di andare a fuoco, tra le labbra, le mani, sue e di lui, che levavano i vestiti. Sentì qualche bottone cadere a terra, tanta era la foga, e si trovò buttata sul letto, più nuda che vestita, un corpo forte e giovane sopra al suo, tutto tranne che deperito.

 

Non ci capiva più niente, l’ultimo pensiero razionale fu: altro che ti ci diverti, Imma! Mannaggia a te!

 

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“Perché sorridi?”

 

Un sussurro nell’orecchio, flebilissimo, ma che le causò un piccolo brivido, nonostante tutto quello che avevano passato.

 

O forse proprio per quello.

 

Calogiuri si era infine convinto ad infilarsi a letto con lei, fianco a fianco, mo che non doveva più stare ferma immobile di schiena.

 

Le era toccato tirare più latte della mucca di una nota pubblicità - quello della Imma! avrebbero potuto dire mo - ma Modesto aveva fatto loro un regalo meraviglioso: si era preso la piccoletta, crollata dopo l’ultima poppata, e se n’era andato in un’altra stanza, coccolato dalla caposala, che con lui era tutta una gentilezza.

 

Illusa! Di Calogiuri etero uno ne esisteva e già era un miracolo così!

 

“Prima di tutto, perché finalmente mi abbracci davvero e non come se fossi fatta di swarovski. Secondo, perché è la prima volta che siamo da soli da… non so più manco io quando…”

 

“E manco io, dottoressa…”

 

Un bacio sulla guancia ed una stretta ancora più salda.

 

“E terzo… perché Chiara non mi ha chiamata.”

 

“In che senso? Temevi che ci interrompesse? Che qua… purtroppo almeno per ora… si può fare ben poco.”

 

“Almeno per ora, Calogiù, almeno per ora. Che non mi hanno dato i punti e… conto di tornare al servizio attivo il prima possibile, capitano!”

 

Calogiuri arrossì, arrossì sul serio. Gli piantò un bacio sulle labbra perché era l’unica risposta possibile. Che si trasformò ben presto in un vero e proprio limone, come avrebbe detto Valentina, anzi in una spremuta di agrumi.

 

“Ma perché doveva chiamarti Chiara? Ma è successo qualcosa?” le chiese Calogiuri, senza fiato, staccandosi nel chiaro tentativo di recuperare il controllo.

 

Ma gli faceva ancora effetto! Altroché. E, finché erano da soli, che poteva non approfittarne?

 

E che cavolo!
 

“Diciamo che… se non mi ha chiamata forse qualcosa è successa davvero. Beata lei! Anzi, beati loro!”

 

“Cioè?”

 

“Doveva vedersi con Greco a cena. Io ero la scusa pronta, in caso l’appuntamento fosse un fiasco e si volesse liberare prima… ma qua mi sa che… altro che volersi liberare!”

 

Calogiuri spalancò la bocca, tossì, poi sospirò con un “vuoi proprio farmi impazzire, dottoressa?”

 

“Sempre!”

 

“E comunque… se Greco si comporta male… gli posso fare un bel discorsetto. Che se non ha intenzioni serie…”

 

“Sei troppo gentiluomo, Calogiuri! E poi Chiara ha proprio bisogno di divertirsi un po’. E non farmi quella faccia scandalizzata!”

 

“Va bene… ma… ha pure sofferto tanto e non merita di essere presa in giro… quindi, se serve, io resto a disposizione…”

 

“Sì, capitano, agli ordini! Mo però devi restare solo ed esclusivamente a disposizione mia, tutta la notte.”

 

“Ma dovresti riposare, Imma…” le ricordò, con la faccia di chi manco ci credeva più alle sue stesse parole.

 

La conosceva troppo.

 

“E va beh… ci riposeremo dopo… c’è tempo. Per intanto, che dici se ci facciamo un bel ripasso dell’udienza preliminare, in attesa di poter arrivare al corpo del reato, non appena qua sotto non sembrerà che mi abbiano aperta in due come un tacchino?”

 

Calogiuri rabbrividì, terrorizzato, ma poi scoppiò a ridere: sentiva la sua risata tra i capelli, dove le piantò un altro bacio.

 

“Forse non ci siamo capiti, capitano?”

 

“Ci siamo capiti eccome, dottoressa!”

 

E sì, il bacio con cui la travolse, prima che le riuscì di piazzarsi sopra di lui, come erano mesi che non poteva fare, e poi sotto di lui, com’era ancora più tempo che Calogiuri non osava nemmeno pensarlo, le confermò che era capitano mica per niente.

 

Pure se maggiore sarebbe stato più adatto, lo sottoscriveva dopo ulteriore perizia.

 

Lo avrebbe messo pure su carta bollata.

 

E che cavolo!


Nota dell’autrice: Ed eccoci qua, al termine del capitolo 82, dopo una stagione dal finale al cardiopalma. Spero che questo capitolo ed i prossimi che mancano aiutino ad alleviare l’attesa e quel pizzico di nostalgia tipiche di questo periodo.

Vi ringrazio tantissimo per tutto il supporto che mi avete dato e continuate a darmi. Per i vostri messaggi e le vostre parole. Un grazie enorme a chi impiega un po’ del suo tempo per farmi avere una recensione: per me sono davvero preziosissime per capire come procede.

Per il resto, il prossimo capitolo avrà ancora qualche evento clou, mentre ci avviciniamo sempre di più al finale.

Mi auguro che la lettura si mantenga piacevole e non noiosa, in ogni caso ogni commento è utile, sia positivo che negativo.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 12 novembre, impegni permettendo.

Grazie ancora!

 

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Capitolo 83
*** Fratelli e Sorelle ***


Nessun Alibi


Capitolo 83 - Fratelli e Sorelle


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Non potete stare qui!”

 

Si svegliò di colpo: il battito di Calogiuri sotto l’orecchio, mezza abbracciata a lui, come si erano addormentati dopo averlo sistemato per bene, finalmente. Che le ci sarebbe voluto un po’ per potergli fare il trattamento completo ma, per quanto avrebbe rivissuto tutto mille volte per quella piccola meravigliosa idrovora, le era mancato troppo sentirsi una donna e non solo un’incubatrice - peraltro precaria. E mo una mucca da latte.

 

E ci mancava solo che Calogiuri ci si abituasse e la angelicasse. Ma col cavolo! Altro che angelicata! Il tocco ancora ce l’aveva e pure il resto.

 

Solo che mo si era svegliata di colpo ed il battito era accelerato e non solo per la vicinanza di un certo capitano.

 

Le voci della scorta le facevano temere un bis della signora Maria Carmela. E sarebbe stato un po’ troppo per i suoi gusti.

 

“Ma no, aspettate, la riconosco a lei!”

 

Il toscano, come sempre il più sveglio. E si augurò che, in quanto tale, non avrebbe incitato al lasciar passare quella scassatutto di sua suocera.

 

“Ma che succede?”

 

Calogiuri, sveglio e pronto all’azione, la strinse più forte.

 

“Scusate ma ci hanno detto che l’orario di visita cominciava mo e, sapete, siamo venuti apposta da Matera, ma non vogliamo disturbare, è solo che Imma poverina ne ha passate tante e volevamo vederla, che lei anche se sta male non dice mai niente, e capire se la bimba sta bene come dicevano i giornali e-”

 

Diana.

 

Le stava già salendo il mal di testa, mentre Calogiuri le rideva nell’orecchio. Lo guardò, con un ma che ho fatto di male? e lui le rispose con un “dai che lo so che non vedevi l’ora di rivederla!” che sì, la conosceva alla perfezione ormai.

 

E il bussare era di Diana, lo avrebbe riconosciuto tra mille, ancor prima di quel “Imma?”

 

Guardò un attimo l’orologio: erano le nove passate, avevano dormito fin troppo dopo la performance e li avevano lasciati dormire. Chissà se Modesto era ancora vivo e se aveva ancora scorte per Vittoria. Se non l’avevano sentita ululare probabilmente sì.

 

“Avanti!” urlò di proposito, proprio come faceva a Matera.

 

La porta si aprì e incontrò quei due occhi azzurri che la sopportavano da una vita e che… forse solo Calogiuri la conosceva meglio. Era già commossa, mannaggia a lei, e sorrideva in un modo che le rendeva difficile mantenere il tono.

 

“Imma!”

 

Senza quasi capire come, se la trovò abbracciata addosso, dall’altro lato rispetto a Calogiuri che, con uno sguardo imbarazzato a lei e uno a Capozza, si stava alzando al letto per lasciare loro spazio.

 

“Su, su, su!” provò a consolarla, come sempre le toccava fare con Diana, con qualche pacca sulla spalla, “ho partorito, mica sono morta!”

 

“Ma prima del previsto, guarda, mi è preso un colpo quando l’ho saputo! Ma non potevo chiedere ferie prima, scusami, ma c’avevamo un’udienza e poi la D’Antonio chi la sente, anzi tanti saluti da Vitali e-”

 

“Diana, Diana, va bene. Non ti preoccupare, anzi, almeno mi trovi più riposata e con un poco più di pazienza che negli ultimi giorni. Ma non troppa, intesi? E c’ho mal di testa, quindi puoi abbassare i decibel?”

 

Per tutta risposta, Diana annuì e la stritolò di nuovo. Sospirò, sì, ormai sapeva tradurla fin troppo bene.

 

“Ma dov’è Vittoria?” chiese poi, staccandosi ma solo per prenderle le spalle, alternando lo sguardo tra lei e Calogiuri.

 

“Sta con lo zio… il fratello di Calogiuri,” chiarì, allo sguardo perplesso di Diana, “non certo Angelo Latronico, per carità di dio!”

 

“Vado a chiamarlo,” proclamò Calogiuri ma proprio in quel momento si sentì un’altra bussata. Questa invece, quasi identica a quella di Calogiuri.

 

Modesto, con Vittoria in braccio che, come la vide, cominciò a fare vagiti e ad agitarsi.

 

“Ma sei stata buona fino a mo, Vittò!” sospirò lui, con un sorriso, “ma ho sentito che avevate visite e allora…”

 

“Vittoria!”

 

Diana, che non perdeva tempo come sempre, l’aveva chiamata e se la ammirava come fosse un nuovo cappottino di Anna Cecere.

 

Modesto la mise in grembo ad Imma e Vittoria subito cominciò a cercare il seno, tra un gorgoglio e l’altro.

 

“Avevi finito il latte, piccolè?”

 

“No, no, ma mangia sempre…”

 

“Eccallà, questa è Vittoria, la nostra piccola idrovora, anzi lattivora. Vittò, hai visto chi c’è? Sentito di sicuro che per come parla Diana… se ti troverai un’amica quando andrai a scuola, cercala più silenziosa, va bene?”

 

“Imma…” sospirò Diana, mettendole lo stesso una mano sulla spalla per sporgersi in avanti, “ciao Vittoria…”

 

Vittoria smise per un attimo di cercare la fonte e spalancò gli occhioni verso Diana. Amava proprio le voci… penetranti.

 

“Posso?” chiese Diana, prima di allungare una mano per accarezzare la schiena di Vittoria, che fece un paio di risolini e provò a mettersi di schiena, quindi Imma ce la piazzò e Vittoria scalciava mentre Diana le faceva solletico alla pancia, felice come una pasqua.

 

“Ma è stupenda! Sei proprio bella tu, eh? C’hai qualcosa della tua mamma, tra il viso e i ricci, ma sei buona come il papà tuo!”

 

“Grazie Dià…” sospirò Imma, dopo l’ennesimo scambio di sguardi con Calogiuri, che le osservava orgogliosissimo.

 

Modesto e Capozza stavano in un angolo, imbarazzati.

 

“E dai, Imma, lo sai che voglio dire. Che anche tu sei tanto buona, ma prima ti devi aprire e ce ne metti di tempo ad aprirti, figlia mia, che in confronto a te il muro di Berlino era un guard rail. Di quelli bassi”

 

E che poteva dire? C’aveva ragione.

 

“Comunque lei è bellissima proprio, una meraviglia, guarda!” proseguì, mentre ballicchiava con le manine di Vittoria che si stava divertendo un mondo, “quasi quasi… mi stai facendo venire una voglia signorina… se non ci fosse già Assuntina, mannaggia a me!”

 

Un attacco di tosse: Capozza. A cui Modesto diede un paio di pacche sulle spalle, goffe come quelle di Calogiuri degli inizi.

 

Come si faceva a non volergli bene?

 

“Comunque tutto bene Vittoria? Anche se è arrivata in anticipo, che quello lo ha preso da te, Imma. Non hai pazienza neanche tu, vero?”

 

Vittoria gorgogliò più forte.

 

“Tranquilla, come vedi è sana come un pesciolino e-”


“Scorpione!”

 

“Eh?”

 

“Vittoria è uno scorpione, come te. All’ultimo giorno utile proprio. C’avrà un bel caratterino, pure se mo non sembra. Ma forse perché doveva nascere del capricorno, come te, invece, giusto, Ippazio? Che i capricorno hanno la testa dura ma sono più prudenti e pazienti, introversi. E quindi magari ha preso più da lui, che qua è buonissima, altro che te che urli sempre e-”

 

“Capozza!” la interruppe, perché un poco le veniva da ridere, con la sua passione per quelle scemenze dei segni zodiacali, un po’ si stava scocciando e un poco si voleva divertire.

 

“Sì, dottoressa.”


“Le andrebbe di prenderla in braccio?”


Capozza la guardò come se le avesse detto che gli concedeva un mese di ferie, ai tempi andati.

 

“A me? Ma è sicura? Cioè, a me fa piacere, ma non me l’aspettavo, ecco…”

 

“Mo un po’ di esperienza ce l’ha, no, Capozza? Non stia lì impalato, la prenda, la prenda.”

 

Diana era basita quanto Capozza, Modesto confuso, mentre Calogiuri stava trattenendosi dal ridere, come lei, e la guardava con quel suo sei tremenda! non verbale.

 

Capozza, con una delicatezza estrema, gli andava riconosciuto, provò a prenderle Vittoria dal grembo e-

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

“Lo sapevo! C’hai ottimi gusti, c’hai! Brava Vittò!” rise, mentre Capozza ritrasse subito le mani e Diana si tappò le orecchie, guardandola tra lo sconvolto e il divertito.

 

“Scorpione! Decisamente scorpione! Madonna della Bruna, aiutaci tu!”

 

*********************************************************************************************************

 

“Vittoria… allora sei contenta che forse oggi si esce? Eh? Eh sì, eh!”

 

“Diana, non serve che fai la vocetta, quella che è appena nata è lei, non te!”

 

“E dai, Imma, ma come fai a non intenerirti? Sei così bella, Vittò… poi con questi occhioni… conquisti tutti…”

 

Vittoria agitò i pugnetti, con aria soddisfatta.

 

“Ruffiana come papà suo ma solo con chi vuole lei.”

 

“Non me lo dire, povero Capozza! Che poi è tanto buono, ma perché voi di famiglia Tataranni ce l’avete tutte con lui?”

 

Vittoria gorgogliò, imperturbabile.

 

“E dai, che Vittò con chi le sta proprio sul gozzo fa pure di peggio. Alla fine ormai non strilla quasi più quando Capozza le si avvicina troppo. Comunque ti ringrazio, Dià: almeno Modesto è riuscito a riposarsi qualche ora, che gli ho fatto fare gli straordinari in questi giorni.”

 

“Ma figurati! A me fa piacere! E poi Vittoria apprezza i miei abbracci a differenza di te. Tranne quando vuole il latte.”

 

Sospirò ma le sorrise. E poi lo sapeva anche Diana che non era vero. Tranne quando le scaricava tutto il peso addosso, tipo orso bruno.

 

“Ma a proposito… Calogiù quanto ci mette a comprarsi da mangiare? Che va bene tutto ma mo è da un po’ che è via…”

 

“E dai, Imma, quel povero ragazzo sono giorni che non si ferma un minuto e altro che straordinari! Magari si è fatto un pisolino e avrebbe fatto bene, che è importante che stia in forze per darti il giusto sostegno e-”

 

Bussarono.

 

Calogiuri.

 

“Ma che bussi? E che fai, origli?”

 

La porta si aprì e apparvero gli occhioni originali, confusi.

 

“Eh? In che senso?”

 

“Che lupus in fabula, Calogiuri, ma dove sei stato?”

 

Calogiuri arrossì in un modo che, non fosse stato Calogiuri, avrebbe come minimo pensato che si fosse infrattato con una delle infermiere che, quando lo vedevano, solo o con Vittoria, se lo guardavano come Noemi i leccalecca.

 

Ma Calogiuri richiuse la porta e notò in quel momento che aveva in mano un sacchetto di carta.

 

“Hai fatto spesa, Calogiù?” domandò, anche se il sacchetto non era da cibo, anzi, pareva quasi da boutique.

 

“Più o meno… in previsione della buona uscita, se ce la concedono…” ironizzò, porgendole il sacchetto.

 

Lo guardò, perplessa, e pure Vittoria e Diana, curiose come due scimmie, si voltarono a guardare, anche se una non poteva vedere.

 

Calogiuri le fece cenno di aprire e Imma staccò l’adesivo che teneva chiuso il sacchettino bianco, trovandoci dentro della carta velina. La scostò e…

 

Un nodo in gola alla vista di tessuto leopardato e, appena sotto, zebrato.

 

Due tutine, stupende, con tanto di cappucci, quello leopardato pure con le orecchie. Le ricordavano un poco una tutona peluchosa a forma di orsetto che indossava ironicamente d’inverno, quando era nei giorni di riposo dal poter praticare con Calogiuri. Anche se lui piaceva pure conciata in quel modo, mannaggia a lui.

 

“Deve essere pronta, no? Poi le altre gliele comprerai tu, a tuo gusto e-”

 

Lo interruppe con un bacio, perché altro non avrebbe potuto fare, toccata com’era da quel gesto.

 

Sentì una porta chiudersi e si avvide che Diana era uscita con Vittoria. Quando voleva sapeva essere discreta pure lei.

 

“Mo la richiamiamo che gliele voglio far provare, ma prima…”

 

“Ma prima c’è ancora una cosa.”

 

“E cioè?”

 

“Guarda meglio.”

 

Svuotò il sacchetto e trovò una scatolina e una busta.


“Calogiù…” sospirò, perché già sapeva che sarebbe stato costoso.

 

“E dai, apri. Che in questi mesi di spese nostre ne abbiamo avute poche.”

 

Levò il coperchio e trovò un braccialetto, sottile e bellissimo, che si adattava a tutti i gioielli che le aveva regalato Calogiuri in precedenza. Ma dentro c’erano incisi il nome Vittoria e la data di nascita.

 

“Calogiù…”

 

“Se non ti piace e se per te è troppo semplice possiamo farlo cambiare. O lasciarlo poi a Vittoria, ma almeno ho pensato che non ti è di impiccio e puoi metterlo più spesso e-”

 

Altro bacio.

 

“E che devo fare con te? Va benissimo, Calogiù, mannaggia a te. Ma pure il bigliettino? Mi vuoi proprio viziare?”

 

“Sempre! Che mo c’è la piccoletta ma… prima ci sei sempre tu.”

 

Stava per fare una battuta su quanto fosse ruffiano quando, aprendo il biglietto, trovò un buono per un parrucchiere e uno per una spa.

 

“Mi stai suggerendo che sto messa uno straccio, Calogiù?”

 

Si godette come lui iniziò a tossire e impanicò, finché non capì che lo stava prendendo in giro.

 

“Voglio solo che ti rilassi, in tutta sicurezza, con la scorta e-”

 

“E sai te che rilassamento!”

 

“Va beh, mica entrano in spa con te. Almeno spero!”


“E manco tu ci puoi entrare come mia guardia del corpo personalissima?”

 

Calogiuri deglutì.

 

“Ma dovrebbe essere per rilassarti, dottoressa, e poi la SPA volendo tra due settimane la puoi fare ma il resto…”

 

“E il resto poi con comodo a casa… ma anche se Diana sarà tornata a Matera, Modesto può tenere la piccoletta qualche ora, no? E pure tu vieni prima, Calogiù, e mi servi in forze. In tutti i sensi.”

 

Un colpo di tosse. Approfittò della distrazione per piantargli un altro bacio e chiamare Diana, che sicuro aveva sentito tutto - da come era rossa in viso - per preparare la piccoletta alle prove generali di libertà.

 

*********************************************************************************************************

 

“Non ci posso credere… non ci speravo più…”

 

La porta era più che blindata, antisfondamento e antitutto, le finestre pure, anche se stavano ai piani alti, il cancello dell’ingresso non era più perennemente aperto ma ben sorvegliato ed era stato rinforzato. Si chiese se i vicini non ce li avrebbero mandati e per più di una ragione, perché mai come in quel momento non avrebbe voluto avere se stessa come condomina.

 

Ma rivedere quell’ingresso, quei mobili, scelti con tanta cura, amore ed entusiasmo della scoperta reciproca, quella statua a forma di leopardo, sopravvissuta ai lavori e alla sparatoria, era un miracolo.


Un primo ma fondamentale ritorno alla normalità.

 

Strinse la mano a Calogiuri, per reggersi meglio. Nonostante le scarpe da ginnastica multicolor delle baleari, le ci sarebbe voluta ancora un po’ di fisioterapia per camminare bene, dopo tanto tempo ferma, a parte le continue punture di eparina che stava gradualmente sospendendo.

 

Calogiuri ricambiò, raggiante, pure con indosso il marsupio leopardato che le avevano regalato Diana e Capozza, sicuramente su suggerimento di lui stesso.

 

Vittoria ci stava come una pasqua, godendosi il calore di papà suo e Calogiuri non ne sembrava affatto turbato, manco quando all’ospedale, uscendo, qualche altro neopapà lo aveva guardato strano.

 

Lui era orgoglioso, orgogliosissimo. E proprio per quello, per quel suo essere uomo senza dover essere macho, lo amava così tanto.

 

Per fortuna come ovetto e carrozzina avrebbero avuto quelli di Francesco, in caso di bisogno, che ormai a lui stavano stretti. E almeno quelli sarebbero stati sobri.

 

“Sorpresa!”

 

Fece un salto, che manco sulle buche a Roma in motorino, e quando vide Diana, Capozza, Valentina, Pietro e Rosa li avrebbe uccisi.

 

“Ma vi pare il caso di farci le sorprese con tutto quello che è successo? E su!”

 

Le parvero mortificati, poi Valentina corse ad abbracciarla, che per poco non cascavano entrambe, e Calogiuri le sorresse con un, “tua madre fa ancora fatica a camminare…” degno quasi della superiora.

 

Che non avevano ancora potuto salutare, perché sarebbero venute lì le suore - se la montagna non andava da Maometto - con Melita e l’assistente sociale, per l’inserimento. Melita avrebbe soggiornato da loro ancora per un po’, forse addirittura fino al trasferimento a Milano.

 

Sentì la porta chiudersi alle loro spalle: non era la scorta ma Modesto, che era meglio di un corazziere per davvero.

 

“Scusaci, Imma, ma volevamo darvi il bentornato a casa. Vi abbiamo anche fatto un poco di spesa, preso tutte le prime necessità. Poi se vuoi andare a fare shopping io sono disponibile,” chiarì Diana, verbosa come al suo solito.

 

“Sì, per la cucina se volete io e Rosa possiamo dare una mano. Cioè io tra un paio di giorni torno a Matera ma… se surgeliamo ce la facciamo.”

 

Pietro, in imbarazzo ma sempre gentile.


“Noemi?”

 

“Da Bianca. Che c’era già abbastanza casino così. Però abbiamo una sorpresa per voi…”

 

“Cioè?”

 

“Le suore non ce la facevano più e neanche Melita…”

 

Per un attimo pensò e sperò a Francesco ma poi un miagolio inconfondibile, seguito da un soffio.

 

“Ottà…” sospirò, che porella con tutti i posti che aveva cambiato negli ultimi mesi l’avrebbero dovuta fare santa.

 

Apparve un trasportino e la sentì graffiare ferocemente, per liberarsi.


“Abbiamo dovuta tenerla qui perché se no distruggeva tutto, magari se la liberate voi…”

 

“Sì, che questa come minimo fa l’offesa, mo. Fai l’offesa, Ottà?” chiese, facendosi aiutare da Calogiuri a scendere a terra e a sedercisi, per provare ad aprire la gabbietta.

 

“Ottà, io ti libero mo, ma puoi non fare casino che siamo già abbastanza stremati così?”


Un miagolio. Niente fischi.

 

Il che la fece preoccupare ancora di più.

 

“Tieni al sicuro Vittò, che non si sa mai con la gelosona qua,” raccomandò a Calogiuri, prima di sganciare la porticina.

 

Una palla di pelo le si lanciò addosso, al petto, salendole sulle spalle per leccarla tutta, come solo Ottavia sapeva fare, facendola ridere dal solletico e poi-

 

E poi Ottavia abbassò la testolina e le guardò la pancia, che era sì più sporgente del solito ma decisamente vuota. La fissò con occhi interrogativi, un altro paio di miagolii tenerissimi e poi il musetto scattò verso Calogiuri.

 

Imma cercò di afferrarla, perché temeva saltasse sul marsupio, o facesse casino, ma Ottavia lo studiò incuriosita, come fosse un esemplare strano.


“Guarda che è sempre Calogiuri, non è diventato un canguro…”

 

Calogiuri rise ed allungò una mano, per accarezzarla sotto al mento. Ottavia prese a fare delle fusa schifosamente affettuose.

 

Poi, piano piano, si abbassò pure lui, con marsupio e tutto, portando la testolina di Vittò a livello di quella di Ottà, mentre lei la tratteneva per evitare zampate.

 

Ottavia prese ad annusare compulsivamente l’aria e si sporse leggermente, mentre Calogiuri levava Vittoria dal marsupio, tutta bardata nel suo completino leopardato e curiosissima, e la girava verso la micia.

 

Ottavia miagolò, una, due volte. Vittò gorgogliò e agitò le manine. Si aspettò una fuga per la libertà ma Ottavia era tranquilla e, quando Vittoria piantò gli occhi azzurri nei suoi, prese ad allungare il capo per strusciarsi su una sua gambetta. Poi si girò verso Imma e le si strusciò sopra la pancia, miagolando felice.

 

“L’hai riconosciuta?”

 

Ottavia le leccò una mano e poi si avvicinò di più a Vittoria, leccando le sue di ditina. Vittoria cominciò a ridere.

 

“Mi sa che pulisce pure a lei, dottoressa. Forse puoi lasciarla andare un poco?”

 

Ottavia saltò in grembo a Calogiuri con una grande delicatezza, atterrando esattamente nello spazio lasciato libero dalla piccoletta. La raggiunse e le diede una testatina lieve in petto. Vittoria si mosse, tanto che le cascò il cappuccetto. Ottavia ne approfittò per leccarle la testa, vicino all’orecchio, come si faceva coi micetti, poi una linguata alla guancia e fu lì che Vittoria, presa di sorpresa, spalancò gli occhioni e iniziò a strillare.

 

WEEEEEEEEEEEEEEEE

 

MEEEEEEOOOOWWWW

 

Ottavia balzò indietro e se la diede a zampe levate, fin sul tavolo. Ma, a differenza che con Francesco, sembrò guardare verso Imma in modo quasi colpevole, con le orecchie basse.

 

“Eh devi essere delicata con questa Ottà, è piccina. Vieni qua…” la esortò, dandole la sua razione di coccole quando Ottavia le si buttò in braccio, mentre Vittoria si calmava un poco.

 

Da come la guardava, sapeva per certo che Ottavia aveva capito tutto. Anche da come guardava la sorellina e da quanto fosse paziente, nonostante le sue orecchie sensibilissime.

 

L’avrà scambiata per sua sorella, signò, con tutto sto leopardo!

 

La voce del cameriere al loro ristorante al Portico d’Ottavia.


Chissà… magari anche quello aiuta - pensò, mentre Diana si prendeva Vittoria e Calogiuri la aiutava a tirarsi in piedi, le giunture che protestavano manco avesse ottant’anni.

 

Ma sarebbe tornata a sfrecciare sui tacchi, quanto era vero che si chiamava Imma Tataranni.

 

*********************************************************************************************************

 

“Prego, accomodatevi…”

 

Due parole che tradivano la tensione latente.

 

L’attesa su quel divano, di vederlo comparire, le sembrò eterna, anche se a percorrere l’ingresso bastavano pochi secondi.


E poi eccolo, in braccio a Calogiuri. Suor Elisabetta, l’assistente sociale e Melita dietro di loro, in una specie di strana processione. 

 

Fece appena in tempo a registrare i loro sguardi basiti, soprattutto quello della superiora, al notare la statua del leopardo ed il resto dell’arredamento, quando un urlo potentissimo riportò l’attenzione sul motivo di questa visita, tutt’altro che di cortesia.


Francesco.

 

Come l’aveva vista, aveva preso a gridare e a scalmanarsi, per cercare di raggiungerla, nonostante i metri di distanza. Calogiuri lo teneva a fatica, diventava sempre più forte e pesante il loro ululatore seriale.

 

“Francè…” le venne da sorridere, notando poi le occhiaie di Melita e pure della superiora: chissà quanto le aveva fatte dannare!

 

Stava per alzarsi in piedi lei stessa, per coprire la distanza - al diavolo le precauzioni! - quando un altro pianto, ancora più potente, si era unito in perfetto unisono.

 

Mannaggia a lei!

 

Uno sguardo con Calogiuri, un sorriso, pur in mezzo alla preoccupazione. Modesto era nella loro stanza con Vittoria, per dare loro il modo di riunirsi con Francesco prima da soli, almeno per qualche minuto, ma la piccoletta non lesinava in solidarietà nelle proteste.

 

E fu allora che Francesco si zittì, confuso, cercando l’origine del pianto, per poi concentrarsi di nuovo su di lei.

 

“A te le voci spaccatimpani piacciono proprio, eh, Francè? Almeno una cosa ce l’avete in comune.”

 

Francesco era sempre più spaesato, ma Imma fece segno a Calogiuri di porgerglielo, anche se avrebbero dovuto fare in fretta.

 

Un sorriso.

 

Il sorrisone di Francesco non appena le fu in braccio fu una mazzata di commozione che non si sarebbe mai scordata.

 

Un’altra mazzata, l’espressione di Melita, pure se cercava di nasconderla.

 

La capiva, eccome se la capiva, perché se Vittoria avesse fatto così con qualcuno che non fossero lei o Calogiuri…

 

“Im-ma! Im-ma?”

 

Non potè evitare di sciogliersi, accarezzandogli i capelli foltissimi e dandogli un bacio sulla fronte. Il piccoletto ne approfittò per attaccarsi al suo collo, in un abbraccio che annullò ogni tensione e la portò, un po’ egoisticamente forse, a concentrarsi solo su di lui.

 

Su quel profumo che le era tanto mancato. Sul fatto che, nonostante da lei non si volesse proprio staccare, non sembrava risentito per l’assenza, solo sollevato di essere di nuovo lì, che lei non se ne fosse andata.

 

Sì, avrebbero dovuto lavorarci e tanto, ma i bacini di Francesco sul collo e sulla guancia valevano tutto e non avrebbe voluto che finissero mai.

 

Almeno fino a che un altro pianto, che non si era mai interrotto, non si fece più forte e comparve dal corridoio Modesto, con l’aria mortificata dei Calogiuri.

 

“Scusate ma… non riesco più a trattener-”

 

Vittoria, nel vederla, strillò ancora più forte, calmandosi un poco solo quando papà suo se la prese in braccio.

 

Ma poi, quando si avvicinarono, si bloccò, probabilmente avendo notato, per quel poco che poteva vederlo, il koala che era Francesco.

 

“Eh… Vittò… qua c’è Francesco, chissà quante volte lo hai sentito in questi mesi! Francesco, questa è Vittoria, l’inquilina che stava nella mia pancia, hai presente?”

 

“Im-ma? Im-ma?”

 

Forse c’aveva pure presente ma la confusione prevaleva per entrambi, intenti a studiarsi, prima che Vittoria si sbilanciasse in avanti, mirando a una cosa sola.


La fonte, ovviamente!

 

“Vittò, un pozzo senza fondo sei!” sospirò, liberando però un braccio per portarsela al seno, mentre Calogiuri provava a prendere Francesco, che non ne voleva sapere di mollare la presa.

 

“Francé, devo darle da mangiare mo, ti metti un attimo sul divano?” gli chiese, facendo segno a uno dei cuscini, ma lui non si levava di lì.

 

Vittoria, così vicina eppure così lontana dall’agognato obiettivo, emise i vagiti incazzosi che precedevano il pianto e quindi, contando sulla presa di Francesco e sul fatto che al peggio le sarebbe finito in grembo, Imma usò l’altra mano per liberare il seno e farla attaccare.

 

La piccola idrovora non se lo fece ripetere due volte e si mise a ciucciare, bella tranquilla ora che poteva soddisfare il suo bisogno primario, limitandosi a lanciare qualche occhiata curiosa a Francesco.

 

Un “Im-ma!” perentorio più di lei, fece appena in tempo ad intercettare l’espressione di Francesco, che pareva avere la proverbiale lampadina illuminata in testa, che le braccia intorno al collo sparirono e lo sentì scivolare, e sia lei che Calogiuri si precipitarono a riacchiapparlo.

 

Ma due manine ed una bocca al seno ormai non più libero arrivarono ben prima di loro. A parte le fitte ed il peso di gran lunga superiore a quello di una neonata, Francesco stava provando ad attaccarsi da sopra i vestiti, imitando la sorellina - sapeva che non doveva pensarli fratelli, che Francesco era figlio di Melita, ma quello erano per lei - che si staccò giusto per protestare veemente con un paio di vagiti dei suoi.

 

Pretendeva l’esclusiva, di famiglia proprio!

 

Francesco si fermò. Sì, le voci incazzose erano proprio l’arma segreta per conquistarlo o placarlo.

 

Ma ciò non gli impedì di rimanere ben attaccato alla fonte e fare un secondo tentativo. Un altro vagito di protesta di Vittoria a cui fece eco uno di Francesco, frustrato perché il suo maglione - chissà come mai - non produceva latte, fatto sta che cominciarono a piangere a decibel improponibili, in dolby surround.

 

“Francè! Vittò!” esclamò, lanciando uno sguardo appanicato a Calogiuri: chiunque riuscisse a partorire e poi a crescere dei gemelli aveva tutta la sua stima e il suo compatimento.

 

Il suo capitano, solerte più di sempre, provò a prendere prima Francesco e poi Vittoria, ma nessuno dei due mollava.


“Francesco…”

 

Melita aveva provato a intervenire, turbata, ma lui si rifiutava di lasciarle la maglia.

 

“E se provassimo a dare un po’ di latte a Francesco? Cioè col biberon? Anche se gli fa schifo ma…”

 

“Ma non è una questione di gusti, capitano. La regressione è un fenomeno abbastanza normale quando c’è un nuovo arrivo in famiglia. Francesco imita la- Vittoria.”

 

Persino l’assistente sociale si era quasi fatta sfuggire la parola sorella, ne era certa.

 

Melita pareva Cesare dopo la pugnalata.

 

“Allora preparo un biberon con il latte artificiale?”

 

Modesto, a cui avrebbe dovuto fare un monumento in ogni città italiana.

 

“Forse meglio due? Par condicio, no, dottoressa? Poi glieli scambiamo, così si rendono conto che stanno bevendo la stessa cosa. E poi, quando Francesco starà mangiando o se non vuole il latte, riattacchiamo Vittoria? E a lui diamo un po’ di cibo vero o gli facciamo le coccole e basta.”

 

Calogiuri. Rimase per un attimo a bocca spalancata, nonostante il dolore, perché quando faceva così lo avrebbe sposato non una ma mille volte.

 

“Ma hai fatto pure un corso di pedagogia o le strategie apprese al corso di capitano includono questo tipo di emergenze?”

 

“Diciamo che la condivisione delle risorse fa parte del lavoro di squadra, dottoressa…” si schernì lui ma vedeva benissimo il sorriso dell’assistente sociale e lo sguardo non disapprovante di suor Elisabetta.

 

Melita, invece, era come paralizzata.

 

Per sopravvivenza, in attesa del ritorno di Modesto, si mise distesa - almeno il peso dei due contendenti era meglio distribuito - e prese a fare solletico alla schiena di entrambi. Parve funzionare, almeno con Francesco, che cominciò a ridere. Vittoria invece si rifiutava di staccarsi dall’obiettivo: tra la testa dura sua e quella di Calogiuri stavano a posto stavano.

 

Finalmente la fonte doveva essersi esaurita perché Vittoria si staccò, agitandosi verso Francesco ed il lato ancora buono. Ma fu proprio in quel momento che Calogiuri la prese e cercò di tranquillizzarla come sapeva fare lui. Francesco, senza più concorrenza, smise di cercare il seno e si accontentò delle coccole, lasciandole tirare giù del tutto la maglia, per sicurezza.

 

“Ecco qua!”

 

Raramente era stata felice di vedere qualcuno come Modesto coi due biberon. Vittoria si attaccò subito alla tettarella di plastica, felicissima in braccio a papà suo. Francesco prese qualche sorso ma poi lo mollò lì, come da previsione. Voleva giocare e basta.

 

E quindi Imma riprese in braccio Vittoria, ignorando le proteste dell’ululatore e scambiando loro i biberon. Giusto qualche altro assaggio e Francesco, con aria schifata, levò la tettarella dalla bocca. Guardò Vittoria, che stava ciucciando avidamente ed allungò le braccina come per dirle tiè, tieni anche questo!

 

Scoppiarono tutti a ridere. Tutti tranne Melita, mogia mogia in un angolo. A maggior ragione quando Francesco le gattonò verso il collo per riempirla di bacini. L’idrovora non mollava un colpo e lo studiava con gli occhioni azzurri, stupiti ma non ostili. Finché Francesco stava lontano dalla fonte una convivenza era forse possibile. Lato Calogiuri quello: lei non era mai stata brava a condividere nulla, tantomeno gli affetti.

 

“Se proviamo a riattaccarla dall’altra parte? O è troppo presto?” domandò: anche se era solo che felice di demandare un po’ di fabbisogno al biberon, non voleva avere problemi ogni volta che la piccoletta voleva mangiare - cioè quasi sempre.

 

“Va bene. Gli diamo i suoi biscotti preferiti intanto?” propose Calogiuri e l’assistente sociale annuì, “Melita, perché non mi dai una mano a dargli da mangiare? Lo lasciamo in braccio ad Imma, ma almeno magari si distrae.”

 

Di nuovo, l’assistente sociale sorrise. Suor Elisabetta parve quasi impressionata.

 

“Ci sa fare coi bambini il carabiniere… e pure il fratello…” le sussurrò, quando Melita, Modesto e Calogiuri erano impegnati nell’area cucina.

 

Un’esclamazione quasi giovanile, che suonava così strana su quel volto austero: Vittoria aveva approfittato della vicinanza della superiora per infilare le braccia nella parte finale del velo e, quando la suora si era rialzata, per poco non le cascava, mezzo impigliato com’era nella piccoletta.

 

Rise. Vittoria tornò a ciucciare il suo biberon e suor Elisabetta riuscì infine a riappropriarsi del tutto del copricapo.

 

Ma non sembrava arrabbiata, anzi, specie quando commentò, “somiglia a vostra nipote, Noemi, giusto?”


“Lasciano il segno sì,” sorrise, una carezza a Vittoria mentre con l’altra mano continuava col solletico a Francesco, “vuole tenerla lei un po’?”

 

La superiora la guardò come se le avesse annunciato di voler entrare in clausura ma poi, inaspettatamente - o forse no - non solo afferrò Vittoria con un’abilità rara, di chi di bambini se ne era sorbiti a centinaia, per anni ed anni, ma Vittoria non protestò, anzi. E non era solo perché aveva il biberon e mo una fonte valeva l’altra.

 

A pelle le piaceva, o si sarebbe esibita in ululati degni dell’ultimo dei Mohicani. Come lei. Solo che a Vittoria a pelle piacevano molte più persone che a lei. Come a papà suo.

 

Il trio tornò coi biscotti. Melita ne porse uno a Francesco che lo afferrò, per mangiarselo da solo, come il piccolo lord che era.

 

Forse il tempo passato con Irene, Bianca e quella santa di Maria?

 

In ogni caso, Melita era sempre più provata.

 

A chi troppo e a chi niente.

 

Francesco era infilato sotto al suo braccio, a rivendicare la posizione. Con un cenno di intesa Calogiuri prese Vittoria dalla superiora e gliela piazzò sul seno ancora pieno e subito lei si attivò, meglio di un cane da tartufo.

 

Come riuscì ad attaccarsi, Francesco protestò e provò a raggiungerla. Calogiuri lo intercettò con un altro biscotto, mentre lei lo teneva nell’incavo del braccio e gli accarezzava il pancino.

 

Alla fine, forse furono i biscotti, forse le coccole ma si tranquillizzò e Vittò potè avere il suo agognato pasto.

 

Melita provò a dargli da mangiare ma Francesco accettava i biscotti, sì, ma da lei non si voleva proprio staccare.

 

“Melì…” sospirò, vedendola disperata.

 

“Lo… lo so che è tanto legato a te ma… dopo tutti questi giorni insieme, speravo che…”

 

“Ma proprio perché è qualche giorno che non la vede è ancora più attaccato a lei. Come ho già detto ci vorrà molto tempo e pazienza, al momento la dottoressa resta la sua figura materna principale. E ora c’è anche la gelosia di dover dividere le sue attenzioni. Piano piano.”

 

L’assistente sociale.

 

Melita si morse il labbro e dagli occhioni scuri le scesero due lacrime.

 

“Tenete…”

 

Modesto. Le aveva portato un fazzoletto. Era proprio un Calogiuri, sia in quello che nel voi.

 

Melita scoppiò a piangere, mettendolo ancora più in crisi, peggio che il fratellino nelle stesse circostanze.

 

Stavano messi proprio bene, stavano.

 

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“Ah, eccola qua, la nostra regina della fuga. Beata te, guarda!”

 

Ottavia, sparita durante la visita, come al suo solito, ricomparsa ora che erano rimasti solo lei, Calogiuri, Modesto, l’idrovora ed il piccolo koala incazzoso.

 

Si produsse un lungo miagolio, come a dire non sono mica scema! e i due piccoletti, ancora spalmati su di lei, mezza reclinata sul famoso divano, si voltarono verso la micia, producendo un duetto di richiami.

 

Ottavia saltò sulla spalla di Calogiuri, facendogli le fusa, come per sottolineare che ai marmocchi ed alle loro manine col cavolo che si sarebbe avvicinata.

 

Ma poi Vittoria riprovò ad attaccarsi - era giusto passata un’ora dall’ultimo pasto - e, quando la accontentò, Francesco ricominciò a protestare, avvicinandosi al seno scoperto - doveva aver capito come funzionava la fornitura.

 

MEEOOOW!

 

Un colpo al cuore, letteralmente, perché Ottavia si era buttata in mezzo, facendo da scudo a Vittoria, soffiando ed alzando la coda per avvertimento a Francesco.

 

“Buona Ottà, buona,” la fermò con le dita della mano destra visto che le braccia e la sinistra erano impegnate.

 

Francesco riprotestò ma si beccò un altro soffio e alla fine si fermò, battendo in ritirata verso il suo collo.

 

Ottavia, soddisfatta, si piazzò accanto a Vittoria, dandole una leccatina alla nuca ed accertandosi che mangiasse in pace.

 

“Pure la guardia del corpo c’hai mo, signorina!” sorrise, cercando di gestire il piccoletto ed i suoi bacini, mentre Calogiuri venne a darle manforte per accertarsi che Ottavia non avesse scatti di nessun tipo.

 

“Ne prenderei almeno uno ma… vogliono solo te mi sa…”

 

“Non c’ho abbastanza braccia qua, Calogiù!”

 

“Eh… Mancini non avrebbe avuto problemi, ma la figlia l’hai fatta con me, quindi…”

 

“In che senso?”

 

“Che poteva reggerne anche otto, con tutti quei tentacoli…”

 

Le venne da ridere: certe cose non cambiavano mai.


“Eppure io preferisco il mio umanissimo capitano e le sue due belle braccia forti. Pure se magari Vittò sarebbe uscita schizzinosa, che beveva solo il latte selezionatissimo millesimato, ed avrei avuto meno problemi. Ma non sarebbe stata né così bella né così ruffiana, vero Vittò?”

 

Due occhioni giganti e sì, non l’avrebbe cambiata, anzi, non li avrebbe cambiati per niente al mondo.

 

Allungò il collo per un bacio e Calogiuri obbedì, aggiungendo anche un paio di bacini a Francesco, già che c’era.

 

Era proprio un padre meraviglioso.

 

Sentirono una porta chiudersi, forse il bagno. Modesto, fedele al suo nome, spariva come loro si avvicinavano ed era l’anima della discrezione e dell’imbarazzo.


Stava per reclamare un altro bacio, quando squillò un telefono.

 

“Il mio?”

 

Calogiuri era giustamente sorpreso: il loro numero ce l’avevano in pochissimi.

 

“Un numero sconosciuto ma di Roma. Che faccio?”


“Rispondi, al peggio butti giù. Se non lo fanno prima loro, se questi ricominciano con il concerto.”

 

Lo vide premere lo schermo, portarsi il telefono all’orecchio, scambiare qualche parola e spalancare gli occhi più di Vittò, se possibile.

 

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“Il capitano Calogiuri?”


“Chi parla?”

 

“La segreteria del generale…”

 

Un cognome che non capì ma non gli suonò familiare. Il battito che accelerò immediatamente, temendo guai.

 

“Calogiuri?”

 

Una voce femminile, diversa dalla precedente, più autoritaria di Imma, Irene e suor Elisabetta messe insieme.

 

“Sì, chi parla?”

 

“Il generale De Angelis.”


“Ai comandi!”

 

Un attimo di silenzio e si preoccupò ancora di più.

 

“Generale? Pronto?”

 

“Ci sono, Calogiuri. Mi stupivo del suo mancato stupore.”


“Per la telefonata?”

 

Una risata piena, il panico che montò pensando che stava facendo la figura dell’imbecille.

 

“No. Che sono generale e sono una donna. Non mi ha nemmeno chiesto quando le passo il generale o, peggio, se chiamarmi signor generale o signora generale o generalessa o generala.”

 

“Scusate, non pensavo fosse un problema e-”


“E infatti non lo è, Calogiuri. Ma dovevo immaginarlo, vista la fama della dottoressa Tataranni. Se è sopravvissuto finora, vuol dire che è molto più sveglio della media dei suoi colleghi.”

 

“Si scrivono tante cose sui giornali ma la dottoressa non è come la dipingono e-”

 

“Va bene, va bene, Calogiuri. Voleva essere un complimento a lei, non un demerito alla dottoressa. Le voci sul suo di conto, invece, almeno interne all’Arma, sono più che fondate, mi pare.”

 

“Non so cosa vi abbiano detto ma sto attendendo un trasferimento a Torino. Mi avevano garantito che la procedura disciplinare nei miei confronti si fosse chiusa, che-”

 

“Calogiuri. Mi fa parlare?”


“Scusatemi. Ai comandi,” si affrettò ad abbozzare, dandosi di nuovo del cretino.

 

“Se l’ho chiamata è per farle le congratulazioni di persona. Non solo perché ho saputo che da poco si è aggiunta una piccola componente alla grande famiglia dell’Arma-”

 

Neanche avesse sentito che si parlava di lei, Vittoria si staccò in quel momento dal seno di Imma, lanciando un paio di vagiti presumibilmente in direzione di Ottavia, che le faceva le fusa.

 

“Scusatemi, la piccola componente, appunto.”

 

“Vi mette sull’attenti. A riposo forse meno?”

 

“Molto meno,” confermò: il generale o la generalessa, o quello che era, aveva il senso dell’umorismo.

 

Rarissimo tra i carabinieri, se non in quanto obiettivi delle barzellette altrui.

 

“Dicevo che chiamo non solo per farvi le congratulazioni per la nuova nata ma perché, in seguito a svariate segnalazioni a noi pervenute, le comunico ufficialmente che l’Arma ha deciso di farle avere una promozione per meriti speciali. Per il suo contributo ai maxiprocessi di Roma e di Milano e per la sua brillante gestione del sequestro della dottoressa.”

 

Tanto era lo stupore che quasi non notò la punta di imbarazzo nel ricordargli quanto era successo ad Imma.

 

“Vi ringrazio ma… ho appena ricevuto la promozione, ora sono capitano-”

 

“Maggiore.”

 

“Come?”

 

“La promozione a capitano l’ha avuta superando brillantemente il corso. Ora è stato promosso a maggiore, per meriti speciali. In questi casi non è necessario attendere gli anni canonici per l’avanzamento di grado. Già a breve potrà fregiarsi del nuovo titolo. Le arriverà una comunicazione ufficiale per iscritto ma volevo anticiparglielo di persona, considerato anche la vostra particolare situazione logistica. Ci sarà una cerimonia di premiazione entro la data prevista per il suo trasferimento. Presumibilmente a gennaio, sa, coi tempi tecnici…”

 

Non ci poteva credere, non ci poteva credere. Guardò Imma, preoccupata quanto oberata, e non riusciva a pensare ad altro che a quanta fortuna gli avesse portato. Non vedeva l’ora di chiudere la chiamata per godersi la sua espressione alla notizia.

 

“Non… non so che dire… non me lo sarei mai aspettato. Anzi, posso fare ancora una domanda?”

 

“Dipende dalla domanda, Calogiuri.”

“Si può sapere chi ha fatto queste segnalazioni?”

 

“Sono arrivate da diverse procure e da un buon numero di persone a vari gradi dell’Arma. Anche da alcuni generali ed operativi dei reparti speciali. Gode della stima di molti colleghi e sono certa sarà un ottimo leader anche a Torino e nei suoi futuri incarichi.”

 

“Vi… vi ringrazio…”


Fece mente locale di chi poteva essere stato.

 

Avrebbe voluto ringraziarli, ma prima doveva ringraziare colei a cui doveva tutto, ma proprio tutto.

 

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“Calogiù, ci sono problemi? Che hai visto un fantasma?”

 

La telefonata era finita ma stava lì col cellulare in mano, imbambolato peggio di Modesto con Vittoria.

 

Intenta a succhiare come se ci fosse la carestia dietro l’angolo, sorvegliata da Ottavia. Il piccoletto si era assestato tra i suoi ricci, manco fossero un cespuglio.

 

Forse lo erano: avrebbe proprio avuto bisogno di utilizzare quel buono dal parrucchiere!

 

“Allora, Calogiù? Ti sei incantato?”

 

“No, no…”

 

“Calogiù? Era l’Arma, giusto? Che succede?”

 

“Sarò… sarò maggiore!” proclamò, con una fiducia nelle sue possibilità che la commosse.

 

“E certo! Prima o poi, anzi, non vedo l’ora!”

 

“E non ci vorrà molto a vederla l’ora perché… cioè non so se posso dire di essere già maggiore proprio mo, ma sono stato promosso per meriti speciali. Ci sarà pure una premiazione, ma mi ci vedi?”

 

Non avesse avuto tre carichi da novanta spiaccicati addosso, gli sarebbe saltata in braccio, nonostante le gambe malferme.

 

“E me lo chiedi?! Vieni qua! Mo! Subito!”

 

Calogiuri rise ma si abbassò e lei gli si buttò sulle labbra, ignorando le proteste di Francesco, che infine riuscirono a mettere sul divano, per darsi un bacio come si doveva.

 

“Maggiore Calogiuri! Era destino… mo però devi tenere alto il titolo, pure quando sarò in condizioni di-”

 

Non fece in tempo a finire perché fu zittita con un altro bacio.

 

“Sapevo che lo avresti detto…” le sospirò sulle labbra, quando si staccarono, dopo troppo poco.

 

Ma non potevano fare altro, con l’albero di natale di pupi e animali che aveva addosso.

 

Manco l’avesse richiamata, il vagito scassatimpani di Vittoria.

 

“E invece tu, minore Calogiuri? Che c’è mo? Non vuoi festeggiare a papà?”

 

Vittoria fece un sorrisone e si lasciò sollevare dal maggiore, che se la spupazzò come si doveva.

 

Francesco, forse per imitazione, forse perché qualcosa aveva capito, fece segno a Calogiuri di prenderlo in braccio.

 

E lui, fedele nei secoli e buono come il pane, non si negò, giostrando il peso dei due piccoletti molto meglio di lei.

 

Fu in quel momento che Ottavia decise di saltargli in testa, completando il quadro.

 

“Mi sa che vi lascio a festeggiare e me ne vado un attimo in bagno, finché posso…”

 

Tirarsi giù la maglia fu la seconda grande soddisfazione della giornata, dopo la promozione, insieme al sorriso più che comprensivo del festeggiato. Il modo in cui Modesto si affrettò a ricomparire per aiutarla un po’ meno, ma altrimenti non sarebbe stato un Calogiuri.

 

Testa dura tutti quanti, maggiori, minori o cognati che fossero, mannaggia a loro!

 

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“Ma sei sicuro?”

 

“Abbiamo già rinviato tante volte. La situazione con Imma, il capitano e Francesco sembra essersi assestata. Già che vengono per l’immacolata… almeno magari il natale lo passiamo tranquilli.”


“O magari glielo rovini invece. Mancano solo due settimane. E se tua moglie si mette di traverso?”

 

“Ex moglie. Quando ti entrerà in testa?”


“Sarà pure ex nel titolo ma il problema è cosa potrà combinare all’atto pratico. E non voglio che Bianca ci finisca in mezzo, lo sai.”

 

“Una cosa alla volta… prima dico a loro di noi e poi… e poi se Nicoletta prova a fare sceneggiate… comunque dove abiti non lo sa e non sa neanche di Bianca. E ai ragazzi di lei voglio dirlo solo quando saranno pronti a conoscersi. Stai tranquilla.”

 

“Se citassi Imma, dicendo che quando mi dicono di stare tranquilla mi hanno fregato già tre volte, ti preoccuperesti?”

 

Ranieri rise. Un punto per lui. Le donne forti non gli avevano mai fatto paura.

 

Il problema erano quelle che rasentavano il patologico, tipo la sua ex consorte.

 

“Va bene… ma Bianca rimane fuori fino a che non è tutto più tranquillo. E se ce l’avessero con me… non mi aspetto di conoscerli subito, lo sai. Non sono nemmeno contraria ma… non devi pensare che dobbiamo fare la famigliola allargata già per natale, se non sono pronti. Lo so che ci vorrà tempo e non so se temere di più il piccoletto o i due più grandi. Specie il maggiore: a quell’età si vede tutto bianco o nero.”

 

“Beh… qua più che bianco non potrà vedere, quindi-”

 

Lo colpì sul braccio anche se le scappò da ridere.

 

Touché.

 

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“Perché non mi hai detto niente?”

 

Aveva appena fatto in tempo ad aprire la porta con le chiavi che gli aveva lasciato e che conservava gelosamente, insieme a quelle della casa al mare, quando era stato letteralmente assalito da una delle domande più temute dagli uomini in coppia.

 

Insieme a mi trovi ingrassata? e quanti anni mi dai?

 

Ma Mariani non lo avrebbe mai fatto, anche perché la sua età la sapeva fin troppo bene - per fortuna e purtroppo - e non si preoccupava particolarmente del suo aspetto, pur essendo bellissima. Forse proprio perché era stata fortunata di genetica e si allenava per lavoro.

 

Cercò di fare mente locale su cosa potesse aver combinato ed il monolocale non aiutava a prendere spazio per rifletterci.

 

Temeva di offenderla, sia se non avesse capito a cosa si riferiva, sia se avesse pensato male.

 

Non sapeva che pesci prendere - stavolta il sushi non basta!

 

Irene. Il suo grillo parlante.

 

“A cosa ti riferisci?” chiese, decidendo che sarebbe stato peggio fare ipotesi errate.

 

“Ah. Quindi c’è più di una cosa che mi nascondi?”

 

“Eh? No, no,” andò in panico, “ma non mi viene in mente niente. Lo sai che ti dico tutto. Salvo alcune cose di lavoro, ma perché è lavoro e-”

 

“E anche Calogiuri è lavoro?”

 

“Come?”

 

“La promozione di Calogiuri. Davvero diventa maggiore?”

 

La certezza non ce l’aveva, ma nemmeno era sorpreso della notizia. Mariani ovviamente lo notò subito.

 

“Ecco! Perché non me lo hai detto? L’ho dovuto sapere da Carminati che faceva battute su come in realtà non fosse maggiore, anzi, capisci in che senso. Che poi manco è vero, ma non potevo rispondergli, se no non finivamo pi-”

 

“E tu come fai a saperlo?”

 

“Me l’ha detto Carminati. Ma mi ascolti?”


“No, cioè sì ma… come fai a sapere che… non è vero che non è maggiore in quel senso.”

 

Mariani, per tutta risposta, scoppiò a ridere.

 

“Ma sei geloso?”

 

“Del fatto che conosci questo particolare del futuro maggiore? Va bene che siete amici, ma-”

 

“Ma abbiamo fatto il corso insieme e siamo stati anche in piscina, ti ricordo. E negli spogliatoi a volte.”

 

Gli prese una tosse che per poco non soffocava, alla sola immagine.

 

“Perché, tu non sei mai stato in uno spogliatoio misto con tutto il triathlon che fai?”


“Ma che c’entra e poi… e poi…”

 

“Non mi chiedere chi è il più… maggiore… o ti rispedisco a casa tua.”

 

La tosse peggiorò ed avvampò come un ragazzino. Gli ci volle un po’ per rendersi conto che Mariani si stava semplicemente divertendo a sfotterlo. Lui ed il suo imbarazzo vecchio stampo a parlare di certi argomenti.

 

Forse sarebbe sopravvissuto.

 

“Allora, perché non mi hai detto niente della promozione?”

 

O forse no. Su quello Mariani non scherzava, anzi, era veramente offesa.

 

“Perché non ne ero sicuro. E non lo sono ancora. Non so da chi l’abbia saputo Carminati, ma-”

 

Un peso addosso che per poco non cascò di schiena ed un bacio che gli levò tutto il fiato.

 

Mariani aveva le gambe allacciate alla sua vita e non sembrava intenzionata a scendere - non se ne lamentava, anzi, ma non ci capiva più niente.

 

“Lo hai segnalato tu per la promozione, vero?”

 

Un sorriso talmente bello che avrebbe segnalato Calogiuri pure per fare il papa, se bastava a renderla così felice.

 

A Mariani non sfuggiva proprio niente.

 

“Sì, non credo di essere stato l’unico, ma sì.”

 

“Ranieri? De Luca?”


“Può essere…”

 

“Vitali?”


“Può essere…”

 

“Il generale che era venuto in procura?”

 

“Può essere…”

 

“Sei peggio di un avvocato!” sbuffò Mariani, facendo per scendere ma ne approfittò per buttarla sul divano.

 

Per certe cose le piccole dimensioni del monolocale potevano essere molto utili.


“Te lo faccio vedere io l’avvocato!”

 

“Lo chiami così adesso?”

 

Gli andò di nuovo la saliva di traverso, giusto in tempo per trovarsi sbilanciato e letteralmente al tappeto, Mariani sopra di lui che rideva in quel modo che lo avrebbe sempre fatto impazzire.

 

La sopravvivenza non era garantita. La felicità sì.

 

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Aprì gli occhi, il cuore in gola, la sensazione di cadere, senza fermarsi mai.

 

Forse avrebbe dovuto parlarne con la psicologa perché le succedeva sempre più spesso dopo-

 

No, non voleva pensare a lui, non se lo sarebbe permesso e non glielo avrebbe permesso.

 

Un peso al petto, sopra al battito a mille, ma non era il panico, no.

 

Francesco…

 

Si era attaccato a lei durante il sonno, i pugnetti stretti stretti nella sua camicia da notte.

 

Non si era svegliato, almeno lui.

 

Lanciò un’occhiata verso Calogiuri, sperando di non averlo disturbato, con tutto il sonno arretrato che aveva. Inghiottì un’esclamazione di meraviglia, in tutti i sensi.

 

Era sdraiato a pancia in su ma non da solo: Vittoria dormiva spalmata sul cuscino, accanto a lui, guancia a guancia, i piedini vicino al collo, le manine tra i capelli di papà.

 

Erano bellissimi, un quadro e rimase a fissarli incantata, ringraziando chiunque fosse in ascolto di avergli potuto dare quella piccoletta: nessuno si meritava di fare il padre più di lui e glielo dimostrava ogni giorno, non solo con Vittoria ma anche con Francesco. Era ancora meglio di ogni fantasia.

 

Ed erano solo all’inizio.

 

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“Allora, vi piace Roma?”

 

“Ci vuole poco a esser meglio di Bari.”

 

Angelo, il più grande. L’adolescenza proseguiva e con essa il rifiuto delle radici.

 

“Dai che Bari è bella!”


“Se è tanto bella perché sei venuto a vivere qui?”

 

I terribili diciassette anni.

 

“A me piacciono le luci e il babbo natale. L’albero è un po’ brutto però.”

 

Per fortuna c’era il piccoletto a salvarlo. Nicolino. Avendo esaurito i nomi dei nonni, Nicoletta aveva insistito per chiamarlo come lei e come il santo patrono.

 

“Ma quando ci torni a Bari?”

 

Giovanni, il mediano.

 

“Natale lo fate con mamma, Santo Stefano con me, no?”

 

“No, voglio dire, quando ci torni davvero?”

 

Le previsioni di Irene erano state errate. Giò era quello più sensibile e che aveva patito di più il tira e molla con la madre. E poi i tredici anni e le scuole medie erano forse ancora peggio delle superiori: non essere più bambini ma nemmeno grandi abbastanza.

 

“Per un po’ di anni sono in servizio qua, ve l’ho detto, no? Ma ci vediamo i fine settimana e, se volete, scendo più spesso.”

 

“Lo so, ma è che… se ti voglio venire a trovare non posso più.”

 

“In realtà non si poteva neanche prima, lo sai che-”

 

“Che mamma si preoccupava, sì, ma… mamma si preoccupa sempre di tutto.”

 

Il modo in cui lo aveva detto non gli piacque.

 

“Giò… vostra madre vi ha detto ancora cose su di me?”

 

“Dice… dice che sei andato via perché di noi non ti importa.”

 

Sospirò, tra la rabbia e un nodo in gola.

 

“Ma voi lo sapete che non è vero, che mamma ce l’ha con me. Il problema è tra me e vostra madre, non con voi.”

 

“Almeno ora c’è una persona che urla a casa invece di due…”

 

Lo riportò dritto dritto a quando aveva annunciato la separazione. Sì, Giovanni era proprio il più sensibile, da sempre.

 

“Però dovete dirmele le cose. Speravo che l’atteggiamento di vostra madre piano piano migliorasse.”


“Con me non lo fa mica, che lo sa che le rispondo, ma con Giò e Nick… e poi ci gode a fare la vittima per mezza Bari.”

 

“Ma io lo so che tu mi vuoi bene, papà!” esclamò Nicolino, che per certi versi era il più forte di tutti, forse anche grazie alla psicologa che lo seguiva dalla separazione, “ma… ma è vero che… che…”


“Che?”

 

“Che hai fatto le corna a mamma?”

 

Per poco non si sentì male: aveva fatto tanto di gesto con la mano. Ma chi-?

 

“Mamma. Già tanto che non lo ha postato sui social ma lo dice a tutti,” chiarì Angelo, “che sono anni che le metti le corna e ti aveva perdonato per il bene nostro ma alla fine l’hai lasciata per metterti con quest’altra.”

 

Sospirò: era stato stupido a non prevederlo.

 

“Noi le diciamo che non è vero, ma mamma dice che sta qua a Roma. Ci ha fatto pure vedere chi è, su un giornale,” si inserì Giovanni, l’aria di chi non ci credeva del tutto ma il dubbio l’aveva.

 

“Le ho detto che, se davvero te l’eri fatta, era tanta roba come upgrade, ma figurati se una così sta dietro a uno col tuo stipendio!”

 

“Angelo!”

 

“Che c’è? Lo dici sempre pure tu che guadagni poco e di non fare il carabiniere.”

 

“Ma chi ti ha insegnato a parlare così delle donne? Perché io no di sicuro!”

 

“Va beh, papà… ha un sacco di soldi, è pure bona, chi glielo fa fare? A parte che pure a te, se sta sempre incazzata come nelle foto. Dopo mamma una un po’ scialla.”

 

“Le foto saranno state dei processi ed Irene non giudica le persone in base ai soldi o a quanto sono… boni e speravo nemmeno voi.”

 

“Irene?”

 

Giovanni. Oltre che il più sensibile anche il più sveglio.

 

“Giò…”

 

“Ma che è vero?”

 

Angelo, che da un lato avrebbe strozzato, dall’altro aveva una fitta di senso di colpa che non finiva più.


“Papà?” il colpo di grazia degli occhioni confusi di Nicò.

 

“Non… non è come ve l’ha raccontata vostra madre ma sì, stiamo insieme da qualche mese. Ho aspettato a dirvelo perché… forse perché temevo la reazione di vostra madre e… non volevo creare casini ad Irene che ha una situazione complicata. E poi volevo starmene un po’ in pace.”

 

“Senza di noi?”

 

“Ma no, Giovanni, ma che dici? Non in quel senso. Volevo evitarmi altre guerre con vostra madre, almeno i primi tempi.”

 

“Auguri!”

 

Angelo. Doveva approfondire le sue amicizie perché non andava bene. Era diventato troppo strafottente, anche se aveva ragione.

 

“Ma scusa, ma se state insieme da pochi mesi… mamma mi ha fatto vedere una foto di quando ero piccolo e c’eri pure tu. A Milano.”

 

Sì, Giovanni era decisamente il più sveglio.

 

“Perché ci siamo conosciuti ai tempi di Milano e… con vostra madre eravamo già in crisi, non so se Angelo se lo ricorda.”

 

“E come no! Che te ne sei pure andato di casa per un po’! Poi non so perché sei stato così scemo da tornare. Anzi, sì, per Nick, vero?”

 

Angelo i conti se li era fatti bene.

 

“Sì. In quel periodo… le cose con vostra madre non andavano e… mi sono innamorato di Irene. Lo dissi a vostra madre e… siamo stati insieme per un po’.”

 

“Ma allora è vero che hai fatto le corna a mamma?!”

 

Gli sguardi di tradimento di Angelo e Giò lo fecero sentire uno schifo.

 

“A Milano, sì, ma dopo poco l’avevo lasciata, proprio perché non era giusto né per me, né per vostra madre, né per Irene. Avevo anche chiesto la separazione ma-”

 

“Ma mamma era incinta…”


“Sì.”

 

“E quindi sei stato con lei di nascosto per tutti questi anni, mentre-”

 

“Ma no, Angelo, no. L’ho lasciata, sono tornato con vostra madre e siamo tornati giù come voleva. Lo so che forse non mi potete credere ma…  eravamo così lontani ed ero praticamente sempre a Bari, lo sapete pure voi. E poi Irene non mi voleva più vedere né sentire ed è stato così per molti anni.”

 

“E te credo!”

 

Angelo, di nuovo. Ma da che parte stava?

 

“Solo che… ci siamo rivisti per lavoro, con vostra madre ormai eravamo separati, quasi al divorzio e… e che vi devo dire… dopo il divorzio mi sono rifatto avanti, perché… perché…”

 

“Sì, perché una così quando ti ricapita!”

 

“Angelo!”

 

“Sarà pure bona e ricca ma è proprio scema se non t’ha sfanculato!”

 

“Angelo!”

 

“Guarda che lo so da solo come mi chiamo! E mo capisco perché mamma sta ancora più fuori del solito. Che ti aspettavi? Che me le ricordo ancora le sue sclerate ai tempi di Milano… ma allora era la casa di sta Irene che mamma stalkerava?”

 

“Come?”

 

“M’ha portato un paio di volte sotto casa di una, urlava. Una volta per poco non si scannavano. Cioè più mamma, che lo sai com’è fatta, però-”

 

“Ma perché non me lo hai detto?”

 

“Perché non le volevo prendere! Mica so’ scemo io!”

 

“No, mi sa che qua l’unico scemo sono io…”

 

L’unica amara, possibile conclusione. Ma come aveva fatto a non rendersi conto di quanto assorbivano pure da bambini?

 

“Non ho capito. Mi spiegate? Papà sta con la signora bella ma che fa paura?”

 

“Avrà lei paura di mamma. E col cavolo che ci torni a Bari. Non finché stai con lei.”

 

“Ma quindi la signora non vuole vederci?”

 

“Ma certo che vi vuole vedere! Ma voleva che vi parlassi prima io e che… insomma mi ha detto che dovevate essere voi a decidere se volevate conoscerla o no. Non sa proprio tutto tutto ma… sa che la situazione con vostra madre è complicata e… temeva che ce l’aveste con lei.”

 

“Allora è comunque meno scema di te.”

 

“Angelo!”

 

“Va beh, che c’è? Almeno non è una di quelle che vogliono fare le mammine a tutti i costi, come quella che sta col papà di Giulio. Ma per me non ha tutta sta voglia di averci tra i piedi.”

 

“No, non è vero, anzi.”


“E allora faccela conoscere! Voglio vedere!”

 

Angelo, le braccia incrociate in gesto di sfida. Pure Giovanni lo imitò, come faceva spesso.

 

“Anche io!”

 

“Qualcuno mi spiega? Siete cattivi che non mi fate mai capire!”

 

“La signora bella ma che ti fa paura? Sta con papà e quindi la vogliamo conoscere. Se tu non vuoi-”

 

“Se la conoscete voi la voglio conoscere anche io! Però se mi fa paura andiamo via?”

 

“Se ti fa paura sarà peggio per lei!”

 

“Angelo!”

 

“Un’altra pazza sgravata come mamma non la vogliamo!”

 

Sì, era stato proprio scemo. E non avrebbe mai potuto farsi perdonare o rimediare ai danni che aveva provocato.

 

Solo che mo… a fare l’agguato a Irene… rischiava di farne altri.

 

*********************************************************************************************************

 

Una scampanellata come da codice.

 

La scorta.

 

“Sì?” domandò, aspettando ad aprire la porta, sia per sicurezza, sia perché aveva in braccio Vittoria. Imma stava cercando di aiutare Francesco a socializzare con Melita. Modesto era in cucina.

 

“C’è la dottoressa Ferrari.”

 

Appoggiò meglio la testa di Vittoria alla spalla ed aprì la porta.

 

“Irene?”

 

Era spaventata come l’aveva vista solo quando era sparita Bianca. Pensò agli scenari peggiori.

 

Un agguato, Bianca che stava male, un-

 

“Mi fai entrare?”

 

Il tempo di farla passare e di chiudere la porta e Irene annunciò, come se fosse la fine del mondo, “i figli di Ranieri mi vogliono conoscere!”

 

“Eh?”

 

Gli scappò da ridere, perché si aspettava di tutto ma non quello.

 

“C’è poco da ridere, non so come fare e-”

 

“Devi essere proprio disperata per chiedere a noi.”

 

Imma che era riuscita ad alzarsi dal tappeto da sola e si stava avvicinando, con Francesco che le gattonava appresso, non mollando un colpo, seguito da Melita.

 

“E a chi devo chiedere? A Giorgio?”

 

“Dubito che sushi e champagne siano adatti a dei bambini…”

 

“Calogiuri!”

 

Ma anche Imma era scoppiata a ridere.

 

“Che poi bambini… uno c’ha diciassette anni.”

 

“Magari con quello il sushi e lo champagne potrebbero pure funzionare. Anzi, no, che poi pensa che ci stai a provare!”

 

“Ah! E allora lo ammetti che si capiva che Mancini ci stava provando!”

 

“C’avevo il dubbio, Calogiuri, mica ero scema, per-”

 

“OOOOO!”

 

Si bloccarono, voltandosi verso Irene, che urlava in un modo che non era proprio da lei.

 

“Mi ascoltate o no?!”

 

Di sicuro Francesco e Vittò sì. Stavano muti, rapiti. Cominciarono lui a ridere e ad avvicinarsi ancora di più, lei ad agitare le braccia verso Irene.

 

“Come vedi qua basta usare i decibel ma dubito funzioni coi figli di Ranieri.”

 

“No, anzi: già c’è il più piccolo che dice che gli faccio paura perché sembro sempre arrabbiata.”

 

La risata di Imma e lo scoramento di Irene.

 

“Mica scemo il piccoletto! Allora prova a sorridere!”

 

“Che detto da te…”

 

“Appunto! Non è meglio che chiedi consiglio a Maria? Se cerchi il metodo Montessori, qua non lo trovi.”

 

“No, ma… ma tu piaci ai bambini.”

 

Lo stupore di Imma all’ammissione di Irene, e le lanciò un te l’avevo detto! non verbale. Perché si sottovalutava sempre?

 

“Poi quelli grandi dicono che non vogliono una che fa la mamma o troppo amichevole, ma neanche una che non li vuole tra i piedi. Ranieri mi dice che ci vorrà poco ad essere meglio di loro madre, ma quella è loro madre, appunto, e ogni madre è bella a scarrafone suo, anche se è da TSO, e-”


“Respira, respira, che mi pari Diana o- Valentì!” esclamò Imma, come quando aveva un’intuizione delle sue, “puoi parlare con Valentì. Soprattutto per i due adolescenti. Noi qua avevamo altri problemi in famiglia da ragazzi, per carità, ma non questo.”

 

“Ma se non mi sopporta e avrà di meglio da fare!”

 

“E proprio per questo, conoscendola, non si perderebbe questo momento per niente al mondo. Fammela chiamare… Calogiù, riesci a dare tu una mano a Melita?”

 

“Posso aiutarlo anch’io, ho quasi finito qui!”

 

Modesto, che comparve dall’angolo cucina, con addosso il grembiule leopardato di Imma.

 

“Dai, vieni!”

 

Imma per poco non trascinò Irene verso la loro stanza da letto.

 

Sì, doveva proprio aver bisogno di un pit stop dai piccoletti per essere così entusiasta di aiutarla.

 

Non mi perderei questo momento per niente al mondo manco io, che non lo sai, Calogiù?

 

Lo sapeva, lo sapeva.

 

*********************************************************************************************************

 

“Non mi sembra una buona idea…”

 

“Hai bisogno di rilassarti, è un ordine.”

 

“Eh, rilassarmi, Calogiù, mica è facile, sapendo di quei due a casa da soli.”

 

“Ma infatti non sono soli, dottoressa. Ci sono Modesto e Melita, mezza scorta e, se serve, Rosa mi ha detto che va a dare una mano.”

 

“Sì, con Noemi appresso. Tre tornadi invece di due. Quattro, se contiamo Ottavia.”


“E dai, dottoressa. Se la caveranno per qualche ora, no? E mo tu non ci devi pensare, devi concentrarti solo su di te, che in questi mesi non lo hai potuto fare mai e non è giusto.”

 

“Calogiù…”

 

Quando si era immaginata la vita genitoriale con Calogiuri, non si sarebbe mai aspettata di trovarsi ad essere più apprensiva di lui o ad essere quella che si sarebbe sentita più in colpa a smollare i pargoli.

 

Sì, erano passate poche settimane dal parto. Ma non era quello.

 

Non era Vittoria a preoccuparla: la piccoletta aveva preso da papà suo, piaceva alla gente e la gente le piaceva. Le bastava avere il latte e con Modesto o Melita stava felice come un pascià, almeno per un po’.

 

Era tosta la loro piccoletta.

 

Francesco invece… non aveva mai avuto qualcuno così legato a lei. Ogni volta che si staccavano per lui era un po’ un trauma. Lo sapeva che le cose dovevano migliorare, specie in vista del ritorno al lavoro, ma si sentiva lo stesso una traditrice. Già si sforzava di dividere equamente le attenzioni con Vittò, perché l’essere più forte non significava non avere bisogno di affetto e di presenza, anzi, c’era il rischio a lungo andare di arrivare a sentirsi da meno, lo sapeva.

 

“Se la caveranno benissimo, vedrai. Mo tu stacchi la testa-”

 

“Te la stacco io la testa, Calogiù,” ironizzò, trovandosi trascinata in un mezzo abbraccio e dovendo cedere le armi, “e va bene, e va bene, mi arrendo. Ma solo per questa volta!”

 

“Naturalmente…”

 

Entrarono del tutto nel centro benessere dove delle signorine fin troppo sorridenti - specie con il futuro maggiore - li accolsero manco fossero dei vip.

 

Quanto aveva speso Calogiuri?

 

“Venite, prego…”

 

Li portarono in uno spogliatoio e ad Imma venne un altro moto d’ansia, pensando alla storia dei nei di Calogiuri e a quando erano finiti a indagare nelle spa. Ma ormai la mappatura dei nei era pubblica e non c’era il rischio del bis.

 

Provò comunque un poco di disagio a spogliarsi per mettersi il costume. Calogiuri l’aveva vista in tutte le salse, per carità, ma si sentiva ancora gonfia e fuori forma dopo il parto.

 

“Sei bellissima…”

 

Le leggeva sempre nella mente il disgraziato! Difficile scegliere cosa fosse più convincente tra lo sguardo ed il modo in cui lo aveva detto, ma il riuscire a farla sentire la donna più bella e desiderata del mondo non era cambiato di una virgola.

 

E per fortuna, anche se l’aveva temuto, dopo la carestia imposta da lui ancora più che dai medici.

 

Si infilò accappatoio e ciabattine, chiudendo poi meglio quello di Calogiuri - un po’ troppo corto per i suoi gusti!

 

All’uscita ritrovarono la stessa addetta che fece loro strada.

 

“Questa è la vasca che mi aveva chiesto. La temperatura non è troppo alta e non c’è l’idromassaggio. Nessuna controindicazione per una puerpera.”

 

Si passò una mano sulla fronte, alzando gli occhi al soffitto pieno di lucine soffuse, anche se l’utilizzo del termine puerpera la stupì di più delle cautele di Calogiuri. Come minimo si era fatto tutto uno studio prima, conoscendolo.

 

Ecco, lui non era tanto apprensivo sui piccoletti ma quando si trattava di lei sì, moltissimo. Questo da un lato la commuoveva, dall’altro la esasperava.

 

“Calogiù…”

 

“Tu di te stessa non ti preoccupi mai, quindi lo faccio io. Degli altri ci preoccupiamo già almeno in due.”

 

Mannaggia a lui! E che poteva dirgli?

 

Niente, se non sentirsi fortunata e seguirlo in acqua, dopo essere rimasta in costume, una volta soli.

 

No, non c’era proprio più abituata.

 

La pace ed il silenzio le sembrarono quasi surreali. Quando si lasciò affondare, galleggiando a pancia in su, si sentì in paradiso, anzi, di rinascere come Venere dalle acque.

 

Una venere quasi cinquantenne, coi capelli di colori improbabili ed il cloro nelle narici al posto del sale, ma dettagli.

 

Fece per mettersi seduta, per cercare Calogiuri, ma lui sussurrò, “ma no, rimani così, rilassati, non pensare a niente.”

 

Dalla voce era un paio di bracciate avanti a lei. Sempre ad occhi chiusi, scivolò sull’acqua verso quella direzione, sorridendo quando con la cima del capo toccò il suo petto.

 

“Im-”


Non gli diede il tempo di dire altro perché sollevò le braccia, gli afferrò la nuca, alla cieca, e gli abbassò il viso fino a incastrare le labbra nelle sue.

 

Se lo baciò con calma, in quella posizione assurda, finché le bastò l’aria. Poi si trovò stretta a lui, che l’abbracciava da dietro e le baciava il collo in un modo che avrebbe dovuto essere illegale, specie in pubblico. Non per la buoncostume, ma perché il non poter fare altro per settimane era una tortura.

 

“Calogiù… altro che rilassamento, mannaggia a te!”

 

“Hai cominciato tu, dottoressa.”

 

La voce sorniona nell’orecchio. Altro che maggiore! Oltre a darle il tormento, le stava regalando uno dei momenti più sensuali della sua vita.

 

“Eh, e mo non possiamo nemmeno finire!”

 

“Imma!”

 

Rise, perché il tentativo di riprendere il controllo - e la ragione - aveva funzionato.

 

Almeno fino a quando fu schiacciata al bordo della vasca, l’impunito che passò presto dal solletico ad altre carezze e baci da ergastolo.

 

Ci provò a voltarsi, ad allacciargli le gambe alla vita ma il “quaranta giorni, dottoressa, quaranta giorni…” la riportò alla realtà.

 

“Quanti ne mancano ancora?” sospirò, poggiandogli la fronte sul collo per cercare di calmarsi.

 

“Ventidue. Non prima del nuovo anno.”

 

Nonostante tutto, si fece scappare un sorriso, tanto mica poteva vederla.

 

Altro che i fuochi d’artificio avrebbero fatto! Degni di quelli di Napoli, tipo la bomba di Maradona.

 

Solo perché non avevano ancora sentito parlare di Imma Tataranni o la prossima avrebbe portato il suo nome, ma come minimo!


Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo capitolo. Voglio rassicurarvi che i prossimi avranno un tasso di pargoli, bimbi, figli in genere di gran lunga minore ma ci sono alcune cose da affrontare e chiudere. Insomma, questi ultimi capitoli non saranno una succursale del nido. Sta arrivando il natale, nella storia come nella realtà, il trasferimento, la nuova vita, un po’ di giallo e per concludere qualcosa di attesissimo. E poi l’epilogo. Non saprei quantificare il numero di capitoli ma ci stiamo avvicinando alle battute finali. Spero che la narrazione si mantenga piacevole e interessante da leggere. In ogni caso ogni vostro parere, positivo o negativo, mi è preziosissimo per tarare la scrittura e non annoiare.

Vi ringrazio fin da ora per le vostre recensioni e ringrazio chi ha messo questa storia nei preferiti e nei seguiti.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 17 dicembre, in tempo per le feste. In caso di ritardi, vi avviserò come sempre sulla pagina autore.

Grazie! 

 

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Capitolo 84
*** Rinascita ***


Nessun Alibi


Capitolo 84 - Rinascita


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“E quindi che colore vorrebbe?”

 

La parrucchiera le stava indicando le ciocche multicolor, anche se slavate ormai.

 

“Rosso. Un rosso normale, facile da gestire e non tossico per l’allattamento..”

 

“Abbiamo diverse colorazioni senza ammoniaca, più o meno naturali.”


“Sì, basta non fare la stessa fine che con l’hennè.”

 

“Innanzitutto non tutti gli henné sono uguali, dipende dalla composizione. E poi chimico e naturale spesso non vanno d’accordo e i suoi capelli erano già trattati e molto stressati.”


“Fossero solo quelli!”

 

La parrucchiera sbuffò. Ecco perché le piaceva farsi il colore a casa. Ma mo sarebbe stato impossibile e poi non poteva sprecare il dono di Calogiuri.

 

“Almeno un’idea sulla tonalità di rosso?”

 

“Il più facile da mantenere e che non sembri troppo finto.”

 

Un altro sospiro ma la parrucchiera si mise al lavoro. Non aveva tempo né voglia di stare lì a scegliere tra tremila colori. Voleva raggiungere Calogiuri e poi tornare a casa. La pausa era bella, per carità, ma l’apprensione restava.

 

Eppure, tra il lavaggio, le applicazioni e tutto il procedimento cominciò, vuoi o non vuoi, a sbadigliare.

 

Si rese conto di essersi addormentata solo quando si svegliò di colpo per un getto d’acqua in testa.

 

Non solo tutte le ciocche erano state fatte, ma il tempo di posa era pure finito e manco se ne era resa conto.

 

Il collo un po’ dolorante, le toccò ammettere che avrebbe avuto bisogno di riposo e, forse forse, Calogiuri tutti i torti non ce li aveva a costringerla a prendersi una pausa.

 

Non che lo avrebbe mai ammesso con lui, ovviamente. Ma tanto lo sapeva il disgraziato, visto come la guardava dalla sala d’attesa, mannaggia a lui!

 

*********************************************************************************************************

 

MEOOOOOOOOOW

 

Neanche il tempo di aprire la porta che la palla di pelo ruffiana l’aveva scalata, manco fosse un tiragraffi, e le si stava strusciando vicino al collo. Poi la percepì annusare e due occhi felini azzurrissimi la guardarono incuriositi.

 

“Senti l’odore dei prodotti del parrucchiere?”

 

Un altro miagolio, l’aria di chi non sapeva se la novità fosse gradita o meno.

 

“Non ho profanato il tuo regno con la tinta e con altro…”

 

Un miagolio lunghissimo e qualche fusa che le vibrarono nel petto e poi Ottavia saltò a fare i saluti e i ringraziamenti anche a Calogiuri.

 

A volte le sembrava davvero che capisse tutto, più di tutti loro messi insieme.

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

Eccallà!

 

Francesco, che gattonando a una velocità sempre maggiore li stava raggiungendo, a un ritmo che manco lo squalo.

 

Peggio di lei!

 

“Francesco, vieni qua, piano!”

 

“Bianca?”

 

E sì, era stata proprio la piccola principessa ad apparire dall’angolo con la zona salotto e a farle un sorrisone. Francesco si era fermato, guardando entrambe. Bianca lo aveva preso per una manina ed Imma stava per cedere e spupazzarseli entrambi, quando un “Tataaaaaaa!” e l’uragano Noemi la placcarono in un abbraccione dei suoi.

 

“Noè…” sospirò, accarezzandole i capelli e chiedendosi se la casa fosse sopravvissuta.

 

Ma poi notò qualcosa di strano: macchie rosse e gialle e verdi sul muro - non di pappa per fortuna!

 

Bianco. Irene regale quanto ansiosa.

 

E poi, passo dopo passo, Noemi attaccata come un koala, a cui si erano uniti anche Bianca e Francesco, tutti aggrappati alle sue gambe - Calogiuri che l’aiutava, tra le proteste di Vittoria che pure lei evidentemente voleva passare dal marsupio a in braccio - arrivò a vedere la fonte di tutto quel colore.

 

Rosa, Valentina, Penelope, Pietro e pure-

 

“Mariani, Conti?”

 

I due marescialli sorrisero, imbarazzati, Conti soprattutto, per ovvi motivi, e si alzarono da dov’erano seduti a terra.

 

Dietro a tutti loro l’albero di natale, il loro albero di natale, con su tutte quelle improbabili decorazioni, la cui caoticità era stata riprodotta con una precisione commovente.

 

“Visto che è pure il tuo onomastico…” esordì Pietro.

 

“E il tempo per decorare mo quando ce l’avete mà!”

 

“E poi è tradizione!”

 

Rosa.

 

“Sì ma possiamo mangiare??”

 

Noemi, ingorda più della cucinetta. In quel momento si avvide del ben di dio sulla penisola della cucina: dolci, una teglia di pasta al forno e quant’altro.

 

Le venne da ridere, da commuoversi e un principio di mal di testa, tutto insieme.

 

“Prima dobbiamo mettere il puntale sull’albero!”

 

Rosa, che cercava di contenere la figlia.

 

“Se, qua sono io l’albero…” sospirò, perché tra Noemi, Bianca e Francesco, tutti appesi c’aveva. Ci mancava solo Vittoria, che Calogiuri stava facendo rimbalzare nel marsupio per risparmiargliela e-

 

Un peso sulla testa: Ottavia. Addio messa in piega!

 

“Ecco e mo c’ho pure il puntale!”

 

Scoppiarono tutti a ridere, tutti tranne lei. Calogiuri cercò di riprendersi almeno Ottavia e Modesto e Melita accorsero per distrarre Francesco e Vittoria. In quello Bianca fu provvidenziale: il piccoletto da lei si lasciava prendere eccome per giocare.

 

“Sei meno variopinta del solito però…”

 

Irene. Ovviamente.

 

Ma non l’aveva detto con cattiveria, anzi, ormai quello era il loro modo di sfottersi.

 

“Ma la parrucchiera è la tua?”

 

Un dubbio improvviso, atroce.


“Ovviamente…”

 

Guardò Calogiuri, terrorizzata da quello che ciò avrebbe potuto significare per il loro portafogli.

 

“Tranquilla, non è cara. Brava e discreta, quindi non certo una parrucchiera da vip o da signore bene, che sono più pettegole delle comari di paese.”

 

“La tua idea di non caro mi spaventa, Irene…”

 

“No, davvero, dottoressa, non era fuori mercato. Promesso.”

 

“Ma che ne sai tu del mercato delle parrucchiere a Roma?”

 

“Di sicuro più di quanto ne sai tu…”

 

Touché! Era sempre più svergognato lo svergognato!

 

“Peccato! Erano belli i capelli punk!”

 

“Sì, Penelope, quando avrò i capelli bianchi e starò in pensione ci farò un pensiero.”

 

“Quindi mai.”

 

Sì, Calogiuri la conosceva troppo bene, pure mentre era impegnato a liberare la piccoletta dal marsupio.

 

“Stai benissimo, sei proprio bella!”

 

Bianca.

 

Se la abbracciò e le diede un bacino in fronte, chiedendosi perché non era toccata a lei una bimba così tranquilla e buona.

 

Ma la genetica era quello che era e lo stile educativo di Maria e di Irene era irraggiungibile.

 

“Sìììì, Tata sei bella bella!”

 

Noemi… altro abbraccio e bacino.

 

“Im-ma! Im-ma! Be-a!”

 

Per poco non le prese un colpo e trattenne un singhiozzo, gli occhi che pungevano.

 

“Poche parole ma buone,” le sussurrò Calogiuri, baciandole la guancia, mentre lei si riprendeva dallo shock, “e ha ragione, sei stupenda!”

 

“Sì, dopo facciamo i conti, in tutti i sensi,” rispose e fu allora che si beccò un bacio sulle labbra e, senza sapere bene come, si trovò sul divano, circondata da pupi, mentre il famoso puntale veniva piazzato e le vivande distribuite che manco a una mensa erano così efficienti.

 

Stava per ricevere l’agognatissima pasta al forno - avrebbe riconosciuto la ricetta di Pietro ovunque - quando sentì qualcosa sul petto, anzi qualcuno.

 

Vittò, che cercava la fonte.

 

“La prendo io. Biberon,” ordinò Calogiuri, che si era calato un po’ troppo nel ruolo da ufficiale.

 

“No faccio io, Ippà, tranquillo.”

 

Modesto che veramente, se avesse potuto, avrebbe portato loro l’acqua - o il latte in quel caso - con le orecchie. Era peggio di Calogiuri i primi tempi.

 

“Datela qua!”

 

Prima di poter dire altro, Vittoria le fu presa dal grembo. Non fu quello lo shock, quanto il non essersi sbagliata su voce e mani.


“Valentina?”

 

“Beh, che c’è? Ti ricordo che ho fatto il tirocinio da assistente sociale, quindi i biberon li so usare…”

 

Già… a volte si dimenticava quanto fosse grande.

 

A Melita alla parola assistente sociale quasi prese una sincope.

 

“E poi la pasta al forno di papà ormai mi esce dalle ‘recchie, che quando sale mi riempie sempre di provviste.”

 

“Ah, è così, eh?! Allora la prossima volta per vendetta manco i lampascioni ti porto!”

 

Pietro. Non cambiava mai.

 

Un bacio a papà suo e Valentina si ritirò con la sorellina oltre la cucina, mentre spiegava a Penelope come scaldare il latte.

 

Una stretta al cuore al vederle così: certo erano giovanissime ma… chissà se un giorno anche loro avrebbero avuto la stessa voglia di genitorialità di Modesto e cosa sarebbe accaduto.


Anche se per le donne, soldi permettendo, era meno impossibile, ma comunque complicatissimo, specie sul riconoscimento.

 

“Imma… che mi diventi come la signora Diana?”

 

“Eh?”

 

Calogiuri aveva uno sguardo intenerito, mentre le rimetteva in mano la pasta al forno, l’aria da mangia, è un ordine! che si univa a uno sguardo molto più consapevole.


“Preoccuparsi di cose che chissà tra quanti anni succedono, se succedono. Adesso ti devi rilassare.”

 

“Sì, e per questo mi hai riempito la casa peggio di piazza Vittorio Veneto alla festa della Bruna?”

 

“Prima il cibo e poi… penso che nessuno si offenderà se te ne vai a dormire. Tanto, come hai visto, qua è pieno di babysitter. E ci sono i tappi.”

 

Manco se le avesse regalato davvero il famoso bracciale a forma di leopardo che andava con la famigerata spilla - che stava in qualche cassetta di sicurezza, in attesa del dissequestro - le avrebbe potuto fare un dono più grande di quello.

 

Gli strappò un altro bacio e il morso di pasta al forno, unito ai capelli che sapevano di fresco, al corpo rigenerato e molle dopo tutte le immersioni, la riportarono definitivamente al mondo.

 

Altro che immacolata concezione!

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma non so se Bianca-”

 

“Bianca è tranquillissima e poi va a dormire da Rosa e Pietro.”

 

“E ci prendiamo anche Francesco per stanotte, così riposi. Che con Bianca sta buono. Purtroppo Melita ha ancora il coprifuoco…”

 

Rosa sembrava quasi sincera nel dispiace, o forse lo era davvero. Per lei Melita era stata a lungo persona non grata, dopo quello che aveva fatto al fratello. Forse però, vedendola così impacciata e sofferente col figlio e con un corpo che ancora non funzionava al cento percento, si era intenerita. Se c’era una cosa che non mancava nella famiglia Calogiuri - a parte la matrona - era l’empatia.

 

“Ma tre bambini, non so se-”

 

“Tranquilla, mamma, puoi andare. Finalmente riusciamo a fare il pigiama party, che Noemi dice che i pigiama party quando c’è Pietro sono bellissimi.”

 

Per poco non si soffocava dalla tosse e non era sola: Pietro, Rosa e Calogiuri ancora un po’ ci restavano e Valentina aveva un’espressione inequivocabile.

 

Mariani li guardò interrogativa, tra una coccola a Francesco e l’altra - il piccoletto da lei non solo si faceva prendere in braccio, ma pure spupazzare, il traditore.

 

Ma mica scemo: c’aveva ottimi gusti fin da piccolo.

 

Noemi stava attaccata a cucinetta ma non troppo - altrimenti Ottavia soffiava - fissandola con un incanto che solo a quell’età si poteva avere.

 

Bianca invece, tra una coccola a Francesco e l’altra, aveva coinvolto Conti in un gioco - probabilmente aveva notato che se ne stava un po’ in disparte.

 

Solo che Conti, con la figlia di Irene, era ancora più imbarazzato che con Calogiuri e gli altri. Quindi Bianca con lui era ancora più gentile e lui ancora più in imbarazzo, in un circolo infinito.

 

“Mamma?”

 

Bianca, appunto, che non capiva il motivo di tutti quei soffocamenti, ma Irene scosse il capo, guardando un po’ dubitativamente sia la figlia che Conti.

 

“Forse è il caso che vada anche io…”

 

Il maresciallo si incolpava dell’esitazione di Irene, pensando che non fosse a suo agio a lasciarlo lì con la figlia.

 

Ma no, i motivi dell’esitazione erano tre e l’aspettavano a casa di Ranieri per cena. Nonostante l’avesse vista parlottare con Valentina e Penelope, sembrava ancora più incerta di quando era arrivata.

 

“Ma no Conti, se non ha da fare resti pure con Mariani. E-”

 

“E tu devi andare,” ribadì Calogiuri, in un modo che la rese orgogliosissima.

 

“Mi state cacciando?” ironizzò Irene, incrociando le braccia.

 

“Sì,” ribadì Imma, imitando il gesto, trattenendo un sorriso.

 

“Mamma, non ti devi preoccupare per me. Se ho bisogno ti chiamo. E poi me lo hai sempre detto anche tu che gli impegni presi si mantengono.”

 

Irene sospirò.

 

“Su cos’è il discorso che devi fare?”

 

Pietro. Del resto la scusa ufficiale era quella.

 

“Bari…” svicolò Irene, dopo un secondo di esitazione. Poi però diede un bacio a Bianca, recuperò il candidissimo cappotto e si avviò rapidamente verso la porta, richiudendola alle spalle.

 

Alla fine la quasi gaffe di Pietro era stata provvidenziale a darle la spinta, pure se mo lui aveva la faccia confusa da ma che ho detto di male?

 

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Forza, forza, ne hai passate di peggio, forza!

 

Per quanto cercasse di convincersi e di fare training autogeno come aveva imparato a yoga, il malessere tale restava.

 

Non essere un malessere!

 

Le parole della figlia di Imma, nel suo slang che faticava un po’ a comprendere - ma avrebbe dovuto imparare, visto che l’adolescenza si avvicinava anche per Bianca - la prendevano in giro.

 

Guardò ancora una volta la porta di quello che era a metà tra un fast food e un ristorante vero. C’era anche un’area giochi ma non era nemmeno troppo infantile, scelto su suggerimento di Valentina stessa e dopo consultazione con Ranieri.

 

Lorenzo non solo aveva una squadra di calcio, ma di tutte le età, e quindi era così difficile trovare un posto neutrale, dove possono andarsene per conto loro se non hanno voglia, ma senza sentirsi trattati da bambini, e poi niente di snob per carità, e cerca di vestirti come una persona normale!

 

Sempre Valentina, non ci era andata giù leggera, infatti era passata da casa a cambiarsi prima di andare al ristorante.

 

Il cappotto bianco restava - quello aveva - ma sotto aveva messo dei jeans neri - eleganti ma pur sempre jeans - e un maglione tra quelli più tranquilli. Sì, era bianco anche quello ma che ci doveva fare se il total white a Bianca piaceva e anche a lei?

 

“Tutto a posto? Cerca qualcosa?”

 

Il ragazzo che stava all’accoglienza aveva aperto la porta.

 

Che figura!

 

“Sì… sono con altre persone, un tavolo prenotato Ranieri, per cinque.”

 

“Ah, sì, sì, sono già arrivati, prego faccio strada.”

 

Il fatto che il ragazzo se li ricordasse così bene, nonostante il ristorante pieno per la festività, le fece temere il peggio.

 

Il tavolo era d’angolo e un po’ riparato, ma non troppo, come aveva chiesto nella prenotazione. Nemmeno si erano avvicinati del tutto che quattro paia di occhi furono su di lei.

 

Il mediano li aveva identici a Ranieri, gli altri due presumeva alla madre - quando aveva avuto il dispiacere di incontrarla li aveva o a fessura o fuori dalle orbite, quindi difficile fare paragoni. Per il resto però, il grande era uguale a Ranieri, il mediano si presumeva alla madre e il piccolo era uno strano mix di entrambi.

 

Ranieri la guardava come per farle forza, gli altri la studiavano incuriosita, a parte il piccoletto, che sembrava effettivamente un po’ spaventato.

 

Sorridi!

 

Valentina e Imma, all’unisono. Provò a tirar fuori il suo sorriso migliore, quello dei grandi eventi.

 

Troppo finto, mica so’ scemi!

 

Imma. Ridusse il sorriso e si avvicinò, cercando di essere neutra ma non truce come il piccolino la riteneva.

 

“Irene!”

 

Ranieri con un sorriso vero, verissimo, nonostante l’apprensione. Si vedeva che ci teneva tantissimo a farglieli conoscere. Il che le faceva piacere ma aumentava anche la pressione.

 

“Ragazzi, questa è Irene, loro sono-”

 

“Angelo.”

 

Asciutto, neutro, peggio di lei sul lavoro. Però aveva fegato il ragazzo, voleva presentarsi da solo, del resto era quasi maggiorenne.

 

Allungò la mano, sperando non fosse sudata e Angelo quasi la stritolò. Si vedeva che sentiva il suo ruolo di fratello maggiore e di guardia del corpo coi più piccoli.

 

“Giovanni…”

 

Il mediano era incerto e rispose alla stretta di mano in modo un po’ tremolante, ma le mani erano asciutte. La studiava più di tutti, come se le leggesse dentro con quegli occhi uguali a quelli del padre.

 

Il piccolo pareva ammutolito e allora, cercando di essere il più gentile possibile gli chiese, “e tu sei Nicola, vero?”

 

Il bimbo annuì e lei sorrise, evitando però di toccarlo. Su quello il training con Bianca da piccola era stato fondamentale.

 

Si sedettero, ancora un po’ in imbarazzo, e ordinarono dei piatti improbabili. Si sforzò di non prendere l’insalata ma un panino, come raccomandato sempre da Valentina.

 

A volte si chiedeva se non ci avesse preso gusto a buttarla totalmente fuori dalla sua comfort zone.

 

Il silenzio paradossalmente si percepiva di più in mezzo al fortissimo brusio di sottofondo.

 

“Allora ragazzi? Eravate così curiosi di conoscerla e ora non dite niente?”

 

“Potrebbe dire qualcosa pure lei.”

 

Per poco non si strozzava con la birra. Angelo aveva proprio un caratterino.

 

“Potrei, ma magari poi vi annoiate. Avrete domande, immagino?”

 

“Ha voglia!” esclamò Angelo, facendo roteare le mani, “ti ricordi di me?”

 

“Solo da alcune foto che aveva Ran- Lorenzo in ufficio. Ma tanti anni fa.”

 

“Ora non ha più nostre foto?”

 

Giovanni con una delusione che le mise addosso tenerezza e panico insieme.

 

“Immagino le abbia ma non lavoriamo insieme. Io sono in procura lui è in un’altra caserma.”


“E a casa niente.”

 

“Volevo la scegliessimo insieme una bella foto da mettere. E poi non ne abbiamo di recenti tutti insieme, Angelo.”

 

“E chissà perché!” ribatté il ragazzo, senza perdere un colpo, “e quindi nient’altro?”

 

“Se intendi quando vostra madre mi ha fatto le poste sotto casa, no, non ti avevo notato, ero nel panico e… mi spiace per quello e per tutto il resto. Capisco che ce l’abbiate con me, soprattutto tu.”

 

Era stata diretta, come le aveva consigliato Valentina, ma sperava di non esserlo stata troppo. Angelo era in contropiede, lo vedeva, ma chissà se era un buon segno.

 

“Almeno non neghi di aver parlato con papà.”

 

“No, noi ci parliamo, ovviamente. Cioè, non è che mi dice tutto di voi - anche se è molto orgoglioso quindi mi parla spesso di voi tre - però… se è qualcosa che riguarda anche me, cerchiamo di non nasconderci le cose.”

 

“Almeno voi!”

 

L’amarezza di Angelo era comprensibile ma per nulla semplice da affrontare.

 

“Ma quindi… ma quindi è vero che avete fatto le corna a mamma? Non ho ancora capito!”

 

Per fortuna non stava bevendo di nuovo. Il piccolino era la bocca della verità, le ricordava un po’ la nipote di Imma.

 

“Io al limite ho fatto le corna, non Irene e-”

 

“A Milano, quando tu non eri nato, lavoravamo tanto insieme e… eravamo amici all’inizio, ma poi ci siamo innamorati. E sì, non abbiamo avuto subito il coraggio di dirlo a tua mamma, ma poi si sono lasciati. Dopo però si sono rimessi insieme e ci siamo allontanati. Anche perché, se vostro padre non fosse stato divorziato, non mi sarei mai infilata di nuovo in una situazione così: una volta mi è bastato e avanzato per tutta la vita. Abbiamo sbagliato ma vostro padre ha sofferto molto e… mi spiace ci siate andati di mezzo anche voi che non avete colpa di niente.”

 

“Sei brava con le parole…”

 

“Ci lavoro con le parole. Ma, come ho detto a vostro padre quando si è rifatto avanti, quello che conta sono i fatti. Non vi chiedo di credermi, o di darmi fiducia, ma di lasciarmi dimostrare con i fatti che magari sono meno peggio di come pensate.”

 

Angelo e Giovanni incrociarono le braccia senza dire altro. Nicolino pareva confusissimo e perso nei suoi pensieri.

 

In quel momento arrivarono i panini e le venne un colpo solo a guardarli: erano enormi. E come si mangiava una cosa così grossa?

 

I ragazzi, persino il piccoletto con il menù bambini, addentarono i loro hamburger prendendoli con le mani, come non avessero fatto altro nella vita. Idem Ranieri. Lei ci provò ma, dopo pochi morsi, un pomodoro si schiantò sul piatto, schizzandole sul maglione non più bianco. Ne seguì uno smottamento dal panino al piatto che non sapeva come ricomporre.

 

I ragazzi risero.

 

“Mi pareva strano che una come te mangiava in un posto così.”

 

“Guarda che ho fatto l’accademia da carabinieri e lì altro che panini! Ma non erano così pieni di tutto, anzi, magari.”

 

Non sapeva come le fosse uscito ma Angelo spalancò gli occhi.

 

“Hai fatto l’accademia?”

 

“Sì, mio padre è un colonnello in pensione. Voleva facessi il carabiniere. Ma quando ho finito giurisprudenza ho deciso di mollare e fare il magistrato.”

 

“Mica scema! Papà dice sempre che non si guadagna niente a fare il carabiniere!”

 

“Si guadagna troppo poco per il valore del lavoro che si fa. Ma anche noi magistrati non è che navighiamo nell’oro. Ma non è questo… è che appunto… sono brava con le parole. E l’ambiente da caserma non mi faceva impazzire, poi erano i primi tempi delle donne carabiniere… e non volevo essere solo la figlia di. Però l’addestramento l’avevo fatto quasi tutto.”

 

“Irene è modesta, ma è più abile in azione di molti carabinieri.”

 

“Ma quindi sai sparare?”

 

“Cerco di evitare di farlo ma sì, ho il porto d’armi.”

 

“E il corpo a corpo?”

 

“Ho fatto arti marziali.”

 

“Allora forse sopravvive a mamma!”

 

Giovanni. Le venne di nuovo da ridere. Angelo scrollò le spalle ma poi annuì. Guardò verso Nicolino, che le stava facendo i raggi x peggio di Imma, quando l’aveva vista per la prima volta.

 

“Ma allora ridi.”

 

“Certo! In tribunale c’è poco da ridere ma… per fortuna nella vita a volte sì.”

 

“Mi… mi fai ancora un po’ paura però… però non mi sembri cattiva.”

 

Le strappò un altro sorriso: Bianca era innocente ma non più così. Come le mancava quella fase in cui si diceva tutto quello che passava per la testa, senza preoccuparsi delle conseguenze!

 

“Ti svelo un segreto: di solito i cattivi veri non sembrano mai cattivi. Se no, se fosse così facile, io e tuo papà saremmo senza lavoro.”

 

“Ma quindi tu sei buona o cattiva?”

 

“Buona con chi se lo merita. Con gli altri… faccio quel che posso.”

 

“E noi ce lo meritiamo?”

 

“Se non mi prendete troppo in giro, se non riesco a mangiare il panino, sì,” le uscì, con tanto di occhiolino, sarà che le sembrava di parlare con Bianca.

 

Il piccoletto finalmente sorrise e gli altri due fecero un mezzo cenno d’assenso tra un morso e l’altro.

 

Non era molto ma era un inizio. Il sorriso di Ranieri e la stretta che le diede al ginocchio sotto al tavolo la rassicurarono che almeno il primo round non era stato un totale disastro.

 

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“Ultimamente sogno spesso di cadere e, quando mi sveglio, mi sento ancora come stessi cadendo, di colpo.”

 

La psicologa aveva messo giù la penna e l’aveva guardata con stupore. Se perché era una delle prime ammissioni che le faceva spontaneamente, o se per il contenuto, difficile dirlo. Ma si era fatta convincere ad andare alla seduta senza Calogiuri - rimasto a casa coi bimbi, sarebbe andato all’orario successivo - e la sua assenza le rendeva più difficile deflettere.

 

O forse le serviva meno?

 

“Ultimamente da quando?”

 

“Da… da dopo l’aggressione.”

 

“Di più o di meno dopo il parto?”

 

“Non lo so… mi sembra di più in generale, più vado in là con i mesi.”

 

“Sognare di cadere significa temere di perdere il controllo. Più che comprensibile, dopo quello che è successo e i mesi ferma a letto. E ora ha molte componenti nella sua vita che non può controllare. Probabilmente col tempo che passa e, a maggior ragione, ora che è uscita dalla modalità di emergenza in cui era entrata durante la gravidanza, l’inconscio si sta facendo sentire di più.”

 

“E che mi vuole dire?”

 

“Che quello che le è successo va affrontato e non ignorato.”

 

“E come dovrei affrontarlo, scusi? In che modo si affronta una cosa così?”

 

“Parlandone, ad esempio, o anche solo permettendosi di pensarci, di capire come ci ha fatto sentire.”

 

“E come vuole che mi abbia fatto sentire, eh?”

 

“Me lo dica lei…”

 

“E che le devo dire? Com’erano le mani di quel maiale? O il coltello? O la paura di… la paura di…”

 

Balzò in piedi, perché il lettino le sembrò scottare, il panico in gola, il battito a mille, le mani sudate. La dottoressa la raggiunse, dandole alcune indicazioni pratiche, secche, su come affrontare quello che era un attacco a tutti gli effetti. Finché il mondo ritornò con i suoni, i colori e gli odori e riuscì di nuovo a respirare.

 

“Devo andare e-”

 

“Aspetti!”

 

La dottoressa l’aveva appena sfiorata ma Imma aveva fatto un salto: si sentiva sensibilissima, nuda.

 

“Il panico è un modo che abbiamo di esprimere un qualcosa che ci teniamo dentro nel profondo, che ci fa star male e che non ci permettiamo di fare uscire. Come i sogni. Che le sia venuto parlandone è normale-”

 

“Ah, che consolazione!”

 

“Non è una consolazione. Ma è un segnale che non va sottovalutato. Di cosa aveva paura?”

 

“Di cosa avevo paura?!” alzò la voce, perché era una domanda talmente e maledettamente idiota, “di cosa avevo paura?! Di tutto!”

 

“Ma in quel tutto qualcosa di sicuro la spaventava più di tutto il resto.”

 

Un’immagine mentale orribile e si sentì ondeggiare, questa volta la dottoressa la prese per le spalle, rimettendola sul lettino ed aiutandola a stendersi, prima di cadere.

 

“Deve dirlo, solo parlandone può liberarsene. Le cose diventano infinitamente più grandi se ce le teniamo dentro. Magari per… per non ferire gli altri.”

 

“Di… di perdere… di perdere…”

 

Non riusciva a dirlo ma sapeva che la dottoressa aveva capito.


“E che lui… che lui vedesse…”

 

“Calogiuri?”

 

“Sì. Che… che lui vedesse me e lei e… e che… che quella fosse l’ultima cosa che… io non…”

 

Si accorse di stare piangendo solo quando la dottoressa le piazzò in mano i fazzoletti, peggio di Calogiuri quando ci si metteva.

 

“E questo era fuori dal suo controllo.”


“E direi! Però… però ho deciso io di andare in bagno da sola, se non l’avessi fatto… non sa quante volte mi sono detta: se non l’avessi fatto! E menomale che non ho… che Vittoria non è… perché se no…”

 

Soffiò il naso, cercando di ritrovare la voce.

 

“Ci sono delle cose che… la morte è meglio.”

 

“Ma non sono successe. E la colpa è solo di chi l’ha aggredita, non di essere andata in bagno, come qualunque donna incinta e-”

 

“E lo so! Ma non è razionale!”

 

La psicologa sorrise.

 

“Appunto. E per questo deve poterne parlare, sfogarsi, senza sensi di colpa verso il capitano.”


“Maggiore.”

 

“Come?”

 

“Sarà maggiore. Tra poco ci sarà la cerimonia in procura.”

 

“E lei pensa di andarci?”

 

Ci ragionò un attimo, poi annuì.

 

“Sì. Non ho paura della procura. Ho paura di… dovrei avere paura di ogni posto allora, anche di casa.”

 

“Ma non ce l’ha.”

 

“No. Sono le persone che mi fanno paura.”

 

“E se rivedesse Romaniello?”

 

Voleva dire una frase d’effetto, di quelle solite, un “sarà peggio per lui!” o un “lo ammazzerei con le mie mani!” ma la verità era un altra.

 

“Non… non lo so. Spero di non doverlo mai rivedere.”

 

“Ma sa che è improbabile, no?”

 

Annuì. E stava proprio lì il problema. Sicuramente ci sarebbe stato un processo e prima o poi…

 

Le veniva da vomitare al solo pensarci.

 

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“Non riesci proprio a stare ferma, eh, dottoressa?”

 

“Ma che non mi conosci?”

 

“Troppo ma mai abbastanza!”

 

“Ottima risposta, maggiore!”

 

Si godette l’esclamazione di sorpresa al pizzicotto sul posteriore - controllo qualità, signor giudice! - e afferrò uno dei vassoi per portarlo a tavola, incurante delle proteste.

 

Già avevano cucinato praticamente tutti tranne lei, figuriamoci se almeno quello non lo poteva fare. E poi aveva messo giusto giusto qualche centimetro di tacco, un inizio, largo per carità e basso, ma un primo ritorno alla normalità.

 

Guardò la tavola, anzi i tavoli, che quello normale non bastava e ne avevano dovuto aggiungere uno da campeggio.

 

Pietro, Rosa, Noemi, Valentina, Penelope. Irene, Bianca e Ranieri. Diana, salita apposta per passare il natale con loro, visto che Cleo sarebbe rimasta a Londra e Capozza era dalla madre di Assuntina. Francesco e Vittoria, in braccio rispettivamente a Melita e a Modesto. E poi, soprattutto, Michele Calogiuri. Il suocero.

 

La signora Maria Carmela, secondo fonti accreditate, si stava passando il natale da sola, a casa, per sua scelta. La parola separazione era stata pronunciata ma solo all’interrogativo. Non era detto avvenisse, anzi, ne dubitava, ma almeno su alcune cose il padre di Calogiuri stava tenendo il punto.

 

La tavola era talmente piena che non ci stava più neanche un cucchiaino da tè, altro che pigiata!

 

Ognuno aveva fatto qualcosa e tra tradizione campana, materana, barese, romana e milanese ci sarebbe stato l’imbarazzo della scelta.

 

Nonostante il casino di Francesco che spesso le voleva stare in braccio, di Vittoria che reclamava il biberon e di Noemi che reclamava tutto il resto del cibo, per una volta si prospettava un natale normale, tranquillo, senza suocere scassambrella, senza drammi, senza ann-

 

“Ehm ehm!”

 

Un tintinnio su un bicchiere. Pietro, le guance paonazze e Imma temeva non fosse solo per il vino.

 

Rosa gli stava dando una gomitata.

 

Andiamo bene…

 

“Ho… ho un annuncio da fare, anzi abbiamo un annuncio da fare!”

 

Eccallà!

 

Ma che problema avevano tutti col natale? Che erano tutti eredi di De FIlippo, che dovevano farci su un melodramma ogni volta?

 

Valentina era sbiancata, peggio del vestito di Irene.

 

“Sei incinta pure tu?”

 

Calogiuri. Che aveva espresso il pensiero di tutti.

 

Pietro per poco non si soffocò dalla tosse, Rosa divenne fucsia.

 

“Ma quindi anche mamma ha cucinetta???”

 

Nonostante tutto, scoppiarono a ridere. Tutti tranne Valentina e i diretti interessati.

 

“Ma no che non sono incinta! E poi sarebbe un fratellino o una sorellina al massimo, Noé. Poi ti spiego a casa, va bene?”

 

Noemi sembrava sull’orlo di protestare ma Valentina fu più veloce, “ma allora cos’è sto annuncio?”

 

“No, è che… visto che tu, Valentì, e pure voi, mo ve ne andate al nord e qua a Roma non ci resta nessuno di famiglia… e io tengo il mio posto in regione - che un altro lavoro così quando mi ricapita! - insomma… ho chiesto a Rosa se vuole venire a vivere con me a Matera. E con Noemi ovviamente. Anzi, Noemi, ti va di tornare a Matera?”

 

Noemi strabuzzò gli occhioni, in modo degno del resto della famiglia.

 

“Al presepe? Bello bello ma…. ma e Giulia e Ludovica e Pamela e?”

 

“Eh sì, dovrai cambiare asilo ma… ma conoscerai tante altre amichette nuove. E poi c’è Assuntina, no?”

 

Diana sorrise.

 

“E io?”

 

Bianca.

 

Se avesse potuto, l’avrebbe strozzato a Pietro.

 

Anche Irene era nera. L’avrebbe dovuta preparare prima, almeno.

 

“Ma puoi venire a trovarci quando vuoi. Casa nostra è sempre aperta.”

 

“E poi ti farai altre amicizie qua, adesso che andrai a scuola,” provò ad abbozzare Irene, mentre Ranieri toccava una spalla alla piccoletta.

 

“E anche a Milano un posto c’è sempre, che ti credi? Che come curi tu Francesco, nessuna!”

 

Il suo intervento era servito, perché Bianca sorrise, per poi aggiungere, non perdendo un colpo, “e magari ora che ci saranno meno bambini a cui fare da babysitter… potete pensarci per il fratellino?”

 

Se Irene e Ranieri non finirono sui necrologi fu solo per il pronto intervento di Modesto e di Calogiuri. Pure se si erano scambiati uno strano cenno d’intesa.

 

Rispetto agli altri natali, tutto sommato, quello era stata una pasqua, proprio.

 

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“Spero non lo consideri corruzione!”

 

E che le doveva dire? Accettò il pacchettino dalle mani di Chiara e salutò anche Andrea e una Barbara molto incinta.

 

“Non dovevate!”


“Giusto un saluto, ma qualcosa ve la dovevamo portare.”

 

Fu lì che l’occhio le cadde sulla mano sinistra di Barbara e su un anello enorme.


“Ma è quello che penso?”

 

“Sì!”


Andrea era orgogliosissimo, quasi ai livelli di Calogiuri con lei.

 

“Congratulazioni!”

 

Altro giro di baci e abbracci e poi si unirono tutti alla combriccola nella zona giorno. I bambini stavano giocando con i regali appena ricevuti.

 

“Ma anche lei ha cucinetta?”

 

Noemi come aveva visto il pancione si era illuminata.

 

“In un certo senso… sarà o cuginetto o cuginetta di Valentì e di Vittò, pure se di grado un poco più distante,” provò a spiegare, ma mica era facile.

 

“Ah… ma allora non è mia cucinetta?”

 

“Può essere quello che vuoi, tanto qua siamo tutti imparentati ormai!”


Andrea e sì, coi bambini era proprio bravo e si vedeva da come Noemi gli sorrideva, nonostante lo avesse conosciuto durante alcuni dei momenti più traumatici della sua breve esistenza.

 

Approfittò della tornata di congratulazioni e saluti per ritirarsi un attimo verso la cucina. Passi inconfondibili.

 

Calogiuri.

 

“Sono stupito della tua resistenza dottoressa. Non fisica per carità, ma che non stai già cacciando via tutti.”

 

Sì, la conosceva alla perfezione.

 

“Presto saremo a Milano e dubito ci sarà così tanta gente alle prossime ricorrenze. E poi è il primo natale di Vittoria e direi che se lo sta proprio godendo.”

 

Vittoria adorava le attenzioni, tranne quando voleva solo lei e il latte, e poi i bambini le piacevano, si vedeva.


Lato Calogiuri quello.

 

“Però a pasqua stiamo tranquilli e soprattutto… e soprattutto abbiamo capodanno, signor maggiore.”

 

La tosse compulsiva di Calogiuri attirò l’attenzione di Noemi. che corse a riprenderselo, per coinvolgerlo in uno dei loro mille giochi.

 

Ma il maggiore aveva capito eccome e continuò a lanciarle sguardi che promettevano non bene ma benissimo.

 

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“Imma, che fai?”

 

“Shhhh, che se si svegliano le creature stiamo freschi!”

 

Erano le 21.30 del 31 dicembre. Vittoria e Francesco avevano ceduto al sonno dopo poppate, coccole e quant’altro e si era ritrovato trascinato in camera.

 

Una parte di lui non voleva fare altro che prendere Imma e buttarla sul letto. Un’altra si vergognava di Modesto che stava a pochi passi da loro, seppure oltre una porta e un corridoio.

 

Ma altro che buttarsi: sul letto c’era steso un completo giacca, pantaloni e camicia che non aveva mai visto prima.

 

“Ma?”

 

“Spero di averci azzeccato con le misure… che, con il periodo di carestia, ti ho visto fin troppo vestito e non va bene.”

 

“Ma?”

 

Imma, per tutta risposta, iniziò a levarsi la tutona a forma di orsacchiotto che aveva messo per la serata - era stato convinto l’avesse fatto per aiutarlo a resistere fino a mezzanotte.

 

Ma sotto… sotto…

 

Deglutì così forte che gli sembrò rimbombare nella stanza.

 

La camicia da notte fucsia, quella cortissima e con quegli spacchi… che il minimo di pancia residua rendeva ancora più corta e il seno gonfio di latte ancora più scollata.

 

Le guance si scaldarono subito - e non solo quelle - ma la vide aprire l’armadio ed iniziare ad infilarsi dei vestiti.

 

Quando li riconobbe, non riuscì a trattenere un sussulto.

 

“Ma… ma…”

 

“Francesco sa pronunciare più sillabe di te, Calogiuri…”

 

E sì, mo era arrossito del tutto, la saliva che gli era andata di traverso e non solo per il paragone ma perché…

 

“Ma è… è come eri vestita…”

 

“La sera della nostra prima cena a Roma, sì.”

 

Quel maglione rosso, quella gonna, li avrebbe riconosciuti ovunque. Il cappotto stava all’ingresso.

 

Fece per avvicinarsi ma la mano di Imma allo sterno lo bloccò.


“Ti devi vestire, Calogiù, dobbiamo andare o facciamo tardi.”

 

“Tardi per cosa?”

 

“Lo vedrai. Ma è capodanno… un poco di immaginazione, maggiore, eh su! Se no mi tocca chiamarti ancora capitano.”

 

“Cioè tu… tu vuoi che ora usciamo?”

 

“Sì, Calogiuri, sì. Va bene che le criature strillano, ma i timpani una controllatina…”

 

“Cioè tu vuoi che usciamo mo che so che sotto…”

 

Si bloccò, perché un pensiero assurdo si fece strada e il calore divenne il Sahara.

 

“Ma… ma sotto… sotto eri così pure quella sera?”

 

“E chi lo sa, Calogiù? Se fossi stato meno imbranato, forse l’avresti scoperto, in tutti i sensi, ma ormai-”

 

Non le fece finire la frase, intrappolandola tra il suo corpo e l’armadio, sussurrando, “mi sembra che non ero l’unico imbranato. Eri così imbarazzata, eravamo così imbarazzati… Quanti litri di vino hai bevuto quella sera?”


“Non abbastanza. Ma mo l’imbarazzo è passato quindi…”

 

Imma gli svicolò letteralmente tra le mani, avvicinandosi alla porta, per poi ordinare, con tono marziale, “vestiti, Calogiuri, è un ordine!”


Sospirò: sapeva di non avere alternative e poi, nonostante l’istinto gli urlasse di non uscire da quella stanza, anzi, era curioso di sapere dove voleva andare a parare.

 

E allora si spogliò, lentamente, cercando di tentarla, ma Imma col cavolo che cedeva, testarda come al suo solito, o forse pure di più.

 

Fece appena in tempo ad allacciare l’ultimo bottone della camicia e a sistemare meglio il colletto della giacca, quando venne trascinato fuori a forza.

 

Chissà se ci sarebbe arrivato all’anno nuovo.

 

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La fuga d’amore ai tempi della scorta era una fuga sì, ma pur sempre prudente.

 

Il toscano ed altri due agenti li avevano accompagnati. Lo imbarazzava quello a cui stavano probabilmente pensando - oltre al fatto che dovevano lavorare anche all’ultimo dell’anno.

 

Ma Imma, che il cuore l’aveva grande quanto proletario, nonostante fossero in un hotel che per i loro standard era di lusso, aveva preso una junior suite - che di junior aveva solo il nome - anche per gli agenti, promettendo che avrebbero avuto il cenone in stanza.

 

Poi l’aveva trascinato nella loro di suite con un “non ti ci abituare, Calogiù, che Chiara qua mi ci ha messo una buona parola e spero non c’avremo sempre la processione appresso!”

 

Fosse stato per lui, sarebbe anche bastata una stanzetta - e nemmeno necessariamente un letto, se non per il fatto che l’equilibrio di Imma non era ancora tornato al cento percento.

 

Ma c’era un salone bellissimo con un tavolo apparecchiato. E, dopo poco, arrivarono dei camerieri con un carrello pieno di vivande, coperte da quelle specie di campane di metallo.

 

Era dai tempi del disastro a Milano con Irene che non vedeva niente di simile.

 

Imma buttò il cappotto su una delle poltrone e prese posto al tavolo, facendogli segno di fare lo stesso.

 

“Vuoi davvero mangiare?”

 

“Se voglio mangiare, Calogiù? Senza bimbi e animali che mi si arrampicano ovunque? Ma secondo te? E poi vorrò anche dormire, ma otto ore tutte filate, guarda!”

 

La capiva eccome, perché anche lui era stanco e non era a un decimo del carico che aveva lei. E pure lui c’aveva fame, che per la maggioranza del tempo dovevano trangugiare qualcosa di corsa.

 

Però… una parte di lui… una cosa aveva in mente e non se ne voleva andare via.

 

Che fai il maniaco?

 

La voce di Irene che lo sfotteva. Ma cambiava poco.

 

Il cenone non fece altro che peggiorare la situazione. Frutti di mare, crudi e cotti, che Imma ripuliva con le mani in un modo che… doveva essere fatto apposta: non poteva credere non lo stesse facendo apposta.

 

“E dai, Calogiù, mangia! Per una volta che ho tirato il latte e posso mangiare quasi tutto quello che voglio, mica mi vorrai lasciar fare tutto da sola, no?”

 

Era un doppio senso? Doveva essere un doppio senso!

 

O era lui che era veramente diventato peggio di Carminati?

 

Ma quella camicia da notte… quella benedetta e maledetta camicia da notte!

 

E poi quei vestiti: quante volte aveva sognato, soprattutto prima della loro storia - ma a volte anche durante - di aver preso coraggio davanti a quell’hotel, averla raggiunta e aver fatto l’amore con lei, fino a scordarsi di tutto.

 

Rivederla così, come quella prima cena, ma senza alcun imbarazzo, anzi, sicura come era e sarebbe sempre stata, che lo guardava in quel modo, come se si volesse mangiare pure lui, era un regalo e una tortura.

 

“Imma…”

 

“Imma che? Ci hanno dato pure il caviale. Vuoi buttare il caviale? E apriamo sto champagne, che almeno un paio di bicchieri stasera me li bevo, tanto la piccoletta domani c’ha la fonte alternativa. E con le ostriche e il caviale ci va a nozze. Non ti ci abituare, eh, mi raccomando, che dall’anno prossimo al massimo uova di lompo e cozze gratinate! Anzi, devo chiedere la ricetta a Chiara.”

 

Gli venne da ridere, nonostante tutto, ed aprì la bottiglia e ne bevvero. Era buonissimo davvero, nulla che si sarebbero mai permessi normalmente, ma ad ogni sorso i freni inibitori calavano ed Imma non faceva nulla per aiutarlo, anzi. Il maglione, di solito abbondante, a causa dell’allattamento era attillato ed Imma continuava ad aggiustarlo. Per il caldo, diceva lei, ma il caldo ce l’aveva lui mo.

 

La cena finì con uno zabaione - caldissimo pure quello - che i camerieri portarono dopo aver rimosso il carrello e i piatti del pesce.

 

“Imma!”

 

Più che un urlo un ruggito, quando vide il dessert, e lei rise, mangiandoselo in un modo che era da istigazione a delinquere, come avrebbe detto lei.

 

“Imma…”


“E che non lo mangi lo zabaione? Dai che ti fa bene, tutta salute!”

 

“Te la do io la salute!”

 

Si alzò e provò a baciarla, da oltre al tavolo, ma si trovò spinto all’indietro e, tra il vino e qualsiasi alcolico ci fosse nello zabaione, ricascò sulla sedia come un cretino.

 

“Calogiuri… i quaranta giorni non sono ancora finiti. Che vuoi farmi correre rischi anzitempo? Anzi, forse è meglio essere prudenti e abbondare anche dopo la mezzanotte. Almeno fino ai minuti precisi del parto, ma pure dopo!”

 

Sapeva che lo stava sfottendo, che gliela stava facendo pagare per tutte le sue paranoie durante e dopo la gravidanza, per i suoi due di picche, sofferti ma volontari.

 

“Imma…”

 

“Beh, che c’è? Mica vorrai mettermi in pericolo! La salute prima di tutto, Calogiuri!”

 

“E la mia è molto, ma molto a rischio, dottoressa. Vuoi farmi pigliare un colpo?”

 

“Sempre!” proclamò, pulendosi le labbra con una cura che era come gettare benzina sul fuoco, per poi balzare in piedi e proclamare, “che possiamo fare mo fino a mezzanotte?”

 

“Io un’idea ce l’avrei, dottoressa…”

 

Ma Imma lo ignorò, si avvicinò a un impianto stereo e video - che costava probabilmente come casa loro - e lo collegò al cellulare.

 

Fece partire la musica e le note di L’emozione non ha voce riempirono la stanza.

 

E la voce era andata, sparita, muta. Non sapeva se fosse più la voglia di abbracciarla, la commozione, o altro. Quando si trovò in un lento, le braccia di Imma intorno al collo come da troppo non succedeva, se la strinse più forte che poteva senza farle male.

 

Continuarono a ballare, Imma sulle punte per compensare le scarpe più basse, aggrappata al suo petto in un modo che non faceva altro che sottolineare le curve molto pericolose che aveva acquisito.

 

Il cuore in gola, partì la seconda canzone e riconobbe anche quella. Si bloccò per un attimo, staccandosi leggermente per incrociare gli occhi di Imma, che brillavano tra il commosso e il soddisfatto.

 

“Ma è… ma è la playlist che…”

 

“Che mi preparasti per il mio primo viaggio senza di te, dopo il trasferimento a Roma. Ogni tanto la ascolto, quando tu sei impegnato… la piccoletta se n’è fatta una scorpacciata quando stava nella pancia e tu eri al corso, o in giro, e dovevo stare rilassata.”

 

Le guance gli pizzicarono e pure gli occhi, almeno finché due labbra salate sulle sue non gli levarono fiato e pensieri.

 

Un bacio dolcissimo, come i loro primi baci - tranne il primissimo - quando rubavano qualche minuto in più alla pausa pranzo, per stare insieme in qualche angolo sperduto tra la murgia e le campagne lucane.

 

E non serviva loro altro, anche se non bastava mai.

 

La sensazione era esattamente quella, mentre continuavano a ballare e a baciarsi, ridendo come ragazzini e fermandosi ogni tanto solo per recuperare ancora un po’ di champagne, rigorosamente a canna, alla faccia di chi se lo beveva di solito.

 

Loro non erano nati per quello. Nel loro mondo lo champagne, il caviale, le ostriche e tutto quello che avevano mangiato quella sera manco li potevano cominciare a concepire.

 

Forse per quello avevano la stessa fame, la stessa voglia di prendere a morsi la vita e, nonostante a loro nessuno regalasse mai niente, avevano imparato insieme a godersela ogni tanto.

 

Luci colorate negli occhi, dietro le palpebre mezze chiuse, e gli ci volle un po’ per rendersi conto che non era un’allucinazione - per il pochissimo sangue in circolo - ma che, insieme ai botti, era arrivata la mezzanotte, l’anno nuovo.

 

“Auguri, Calogiuri!”

 

Un soffio che suonava più che altro come una minaccia. Alla sua incolumità.

 

“Imma…”


“C’hai proprio poche sillabe stasera, Calogiù!”

 

Gli uscì un ruggito ma la risata di lei lo coprì e si sentì spingere indietro, sempre più indietro, sempre più indietro. Imma avanzava implacabile e lui non ci capiva più niente, finché si trovò a cascare sul morbido, Imma spalmata addosso, ovunque.

 

Il divano.

 

Altro che tenerezza! Mo i baci lo mandavano a fuoco e le mani di Imma sulla pelle, come era da una vita che non succedeva, e le sue che cercavano disperatamente di levarle il maglione troppo stretto. E quella morbidezza che gli era mancata più dell’aria, e la pelle d’oca sotto i polpastrelli, e poi la sua, il mondo che si ribaltava e finalmente gli riusciva di intrappolarla tra sé ed i cuscini, e tutto a fuoco e sfocato, i polmoni che bruciavano ed un urlo che non era il suo, ma poi lo era, o forse no.

 

Silenzio.

 

Respiri affannosi, la testa che girava, la vista a macchie, caldo, freddo, un bacio umido.

 

Le orecchie gli si stapparono di colpo, il volto di Imma che ondeggiava ancora, gli occhi chiusi, le labbra serrate tra i denti.

 

“Im- Imma!”

 

Gli si gelò il sangue, un brivido lungo la schiena, rendendosi conto solo in quel momento di tutto quello che aveva combinato, di-

 

“Ti ho fatto male?!”

 

Un rombo e poi una risata, fortissima, il petto che continuava a vibrare, mentre Imma si contorceva sotto di lui ma dalle risate, coprendosi gli occhi ed asciugandosi le lacrime che infine gli riusciva di vedere.


“Imma?”

 

“È proprio come la prima volta, Calogiù!”

 

Al gelo subentrò il caldo, l’imbarazzo, sia per il ricordo, sia per la figura appena fatta e-

 

Un bacio, poi un altro e due dita a zittirlo, pure quando le labbra furono libere.

 

“Sta zitto, Calogiuri, zitto. E non t’azzardare mai a cambiare, capito?”

 

Riuscì appena a sussurrare un rochissimo “agli ordini, dottoressa!”, che un’altra ondata di freddo e… bagnato? gli investì il petto.

 

Si sollevò leggermente ed abbassò lo sguardo, notando che la fonte del problema era proprio… la fonte.

 

Avevano tutti e due il petto allagato di latte.

 

La pelle gli diventò rossa come quella di un peperone, mentre si guardava intorno, cercando qualcosa per rimediare, ma la risata di Imma, di nuovo, lo bloccò.

 

“Se Vittò sapesse di tutto questo spreco, t’ucciderebbe, Calogiù. Ma noi non glielo diciamo, anche perché, se no, altro che traumi e servizi sociali!”

 

Gli andò di traverso la saliva, Imma che si divertiva un mondo, imperturbabile come solo lei sapeva essere, “per non parlare di Ottavia, se vedesse tutto sto casino. A casa dobbiamo stare attenti! Anzi, visto che qua il bagno lo possiamo… profanare… risparmio energetico? Che dobbiamo recuperare gli arretrati con molta, ma molta più calma. E qua ci sta pure la vasca…”

 

Sospirò: sì, voleva proprio fargli scoppiare le coronarie.


“Non cambi mai nemmeno tu, dottoressa!” proclamò, prima di alzarsi e prenderla in braccio, godendosi il suo urlo di sorpresa.

 

“Almeno stavolta i pantaloni li hai levati!”

 

Risero, ricordando quando per poco ci era inciampato con lei in braccio, tra la prima e la seconda volta. Cercò insieme a lei il bagno, non riuscendo a smettere di ridere, tentando di capire come funzionava quella vasca, che in confronto i comandi di un caccia militare probabilmente erano più semplici.

 

La vita con Imma non lo era mai stata.

 

Ma era proprio per quello bellissima. Anzi, bellissime.

 

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“Mmmmm…”

 

Si sentiva molle, sciolta nell’acqua e tra le braccia di Calogiuri, che la stringeva con quella dolcezza solo sua, mentre le solleticava la fronte, gli occhi e il viso di baci.

 

Ne era valsa proprio la pena di aspettare e di prendersi la rivincita sulle paranoie di Calogiuri!

 

Ecchecavolo!

 

Solo che mo la stanchezza ed il sonno arretrato cominciavano a farsi sentire. Sbadigliò, contagiando anche lui.

 

Il suo micino sonnacchioso. L’originale.

 

“Andiamo a letto, dottoressa? Prima che ci prendiamo un accidenti…”

 

“Mmmm…”

 

Non ne aveva voglia, per niente: avrebbe voluto fare il tris e pure il quater, fino alle postille più minime, ma le forze non c’erano.

 

“E va bene! Ma solo perché siamo fuori allenamento. Non ti ci abituare, signor maggiore, che non solo dovrai tenere alto il titolo, ma chi fa l’amore a capodanno…”

 

“Avrà bisogno dei ricostituenti?”


“Anche!”

 

Uscirono insieme dalla vasca, si infilarono in due accappatoi morbidissimi e si lasciò sollevare, fluttuando in una nuvola soffice, atterrando su un letto che lo era ancora di più.

 

Tra uno sbadiglio e l’altro, gli occhi che le si chiudevano, si abbracciò a lui sotto le coperte e gli piantò un bacio sul cuore, prima di dover cedere le armi.

 

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WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

MEEEEEOOOOOOOOOWWWWWWWWWWW

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

Due piccoli umani e una gatta che superavano ogni decibel proponibile.

 

I vicini sicuramente sarebbero stati ben felici del loro trasloco.

 

Mollò il cappotto all’ingresso, facendo segno a Modesto che era tutto ok e di non preoccuparsi, godendosi l’abbraccio di Calogiuri da dietro, per non parlare del rapido bacio sul collo che le diede quando il fratello si girò.

 

Melita, che stava intrattenendo Francesco, mentre Modesto tornava da Ottavia e Vittoria, aveva due occhiaie da far spavento. Modesto di più.

 

Avrebbe dovuto sentirsi in colpa, lo sapeva, ma dopo otto ore di sonno, il profumo del costosissimo bagnoschiuma dell’hotel ancora nelle narici e i muscoli piacevolmente indolenziti, sarebbe potuto crollarle in testa il soffitto e non le sarebbe importato.


Con un sorriso che non voleva saperne di levarsi dal viso - e che si guadagnò l’imbarazzo di Modesto e un’occhiata da ah però! di Melita - si avvicinò ai pargoli, non protestando nemmeno quando cominciarono la loro scalata, chi verso il suo collo, chi verso la fonte. Ottavia li separava per proteggere la sorellina e il suo pasto.

 

Ormai il latte doveva essere senza alcol - ci mancava solo il cocktail alla piccoletta e poi chi la fermava più?

 

Nel frattempo che si stendeva e la attaccava, lanciò un’altra occhiata di intesa a Calogiuri, anche lui con quel sorriso bellissimo che Diana definiva ebete ma che la rimetteva sempre in pace col mondo.

 

Era una promessa: certo le serate sarebbero state piene e non potevano allontanarsi troppo spesso. Ma rimanevano le giornate e mentre Vittoria dormiva, Francesco recuperava con Melita e Ottavia… faceva Ottavia, magari qualche altra libera uscita ce la potevano avere. O fare più… pisolini… sempre se non traumatizzavano Modesto.

 

Si fece una nota mentale di comprargli delle cuffie con cancellazione del rumore, con la scusa che fossero per i pargoli, poi le usasse come e quando voleva.

 

Lei e il maggiore dovevano fare lavoro di squadra, rimettersi in forma adeguatamente e niente e nessuno glielo avrebbe impedito.

 

Ecchecavolo!

 

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“Calogiuri, Ippazio.”

 

Per quanto fosse assurdo chiamarlo sul palco, visto che la premiazione era solo sua, fu lo stesso una grandissima emozione vedere Calogiuri in uniforme raggiungere i due generali - quello già conosciuto in precedenza e la generalessa che gli aveva annunciato la promozione - e assistere mentre consegnavano a Calogiuri le mostrine da maggiore.

 

“Per l’eccellente lavoro investigativo ed il contributo dato ai recenti maxiprocessi a Milano e a Roma. Per la brillante gestione del sequestro del sostituto procuratore Immacolata Tataranni. Per le doti di leadership, anche in situazioni di crisi, mostrate non solo durante il corso, ma sul campo, la nomino maggiore, con incarichi di comando.”

 

Calogiuri si mise ancora di più sugli attenti e al “riposo” ordinato dalla generalessa strinse la mano ad entrambi. Poi si voltò, tra gli applausi dei presenti - praticamente tutta la procura tranne Carminati - Mariani che era commossa e Conti ammirato, Irene quasi più emozionata di lei e Mancini sorridente.

 

Proprio in quel momento, quando gli occhi di Calogiuri incontrarono i suoi, si sentì un grido, uno solo, acuto ma gioioso, come un festeggiamento.

 

Vittoria, dal suo marsupio leopardato, che agitava braccina e gambine e gorgogliava felice, mentre la sala scoppiava a ridere, nonostante la solennità del momento.

 

“Credo voglia farle le congratulazioni, maggiore!” esclamò il generale e Calogiuri aveva gli occhi più lucidi che mai, mentre guardava entrambe con un amore che a volte le sembrava ancora impossibile, “vada pure a raggiungere le sue donne.”

 

“In realtà sono io che sono di loro proprietà, signor generale,” ribatté in un modo che sì, al ritorno a casa avrebbe mandato Modesto a farsi una passeggiatina con pargoli e scorta e lo avrebbe sistemato per bene.

 

“La fama della sua intelligenza è proprio ben meritata!” commentò la generalessa.

 

Calogiuri si congedò e le si avvicinò, con una sicurezza che una volta non avrebbe mai avuto, ma quel residuo di timidezza negli occhi che la fregava sempre.

 

Se lo abbracciò, incurante delle proteste della piccoletta, e gli piantò un bacio. Calogiuri ricambiò e poi prese Vittoria, facendola saltellare in braccio, bellissima e felicissima nel completo blu e rosso che le aveva preso per l’occasione e che ricordava un po’ una tuta dell’Arma.

 

Per un giorno, in fondo, poteva accantonare l’animalier. Lei no, ovviamente, al leopardato non ci avrebbe mai rinunciato.

 

Gli prese le mostrine, mentre lui si godeva loro figlia e la presentava a tutti quelli che ancora non l’avevano vista, con un orgoglio infinito.

 

Ad un certo punto fu il turno di Mancini e ci fu uno sguardo imbarazzato, ma poi Calogiuri disse alla bimba, “e questo è il dottor Mancini. Uno di quelli che ha aiutato papà ad avere la promozione. Però se si avvicina troppo a mamma puoi strillare.”

 

Mancini si toccò la nuca, a lei venne da ridere, Vittoria gorgogliò ma si guardò Mancini con un sorrisone e agitò braccina e gambette verso di lui.

 

“Mi sa che Vittoria vuole andare in braccio al dottore…” commentò, perché era vero e poi non poteva resistere.

 

Calogiuri le guardò con un tu quoque?

 

“Ne sarei onorato ma… non so se il padre è d’accordo e… non è che ha preso dalla vostra micia, vero?”

 

“Chissà… per scoprirlo deve rischiare, dottore.”

 

Un ultimo sguardo tra Calogiuri e Mancini che era un attento a te! e un non mi uccida! e Calogiuri gli porse Vittoria. La piccoletta, che scema non era per niente, gli si aggrappò al costosissimo completo e lanciò altri urletti, mentre si faceva cullare e coccolare.

 

“Le piace proprio, dottore.”

 

Calogiuri non sembrava per niente entusiasta all’idea, almeno finché non intervenne Irene con un “non sarai geloso pure di lei adesso!” e gli fece l’occhiolino.

 

Fu il turno di Mariani e Conti. Mariani e Mancini si scambiarono un’occhiata che… non ci covava solo una gatta ma un’intera colonia felina. Ma Calogiuri non parve accorgersene, né dell’imbarazzo di Mancini, né del sorriso sognante di Mariani, mentre Irene, ovviamente…

 

Si erano capite. Del resto alla ex gattamorta nulla sfuggiva, da sempre.

 

“Avremmo… avremmo pensato a una piccola festa per te con i colleghi… una di queste sere, quando puoi, finiamo presto…” esordì Conti, che con Calogiuri ancora andava coi piedi di piombo.

 

“Ma avete visto anche voi com’è la situazione a casa e-”

 

“E a casa ce la caviamo benissimo per stasera. Andate pure a festeggiare, che te lo meriti e, pure se mo sei padre, mica c’hai ottant’anni. Vittò, vero che gliela diamo la libera uscita a papà?”

 

Vittoria, felice come una pasqua nell’incavo del braccio di Mancini, si esibì in un gridolino di approvazione.

 

Calogiuri esitò, ma Imma gli sussurrò un, “dai, che rimani sempre il suo preferito e pure il mio. Ma mo vai a festeggiare o a casa non ci torni!” che lo fece sorridere e sospirare un “agli ordini, dottoressa!” affettuoso quanto rassegnato.

 

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“Che c’è?”

 

Irene l’aveva accompagnata fino all’ingresso della procura, seguite dalla scorta che le sorvegliava a distanza di sicurezza. Ma aveva una faccia che non prometteva niente di buono.

 

“Senti… forse sarebbe stato meglio dirtelo con anche Calogiuri presente ma… ma forse no. Hanno fissato la prima udienza per il nuovo processo a Romaniello.”

 

Un macigno nello stomaco e nel cuore. Vittoria, sensibilissima come sempre ai suoi sbalzi d’umore, aveva iniziato a piangere.

 

“Shhh… shhhh…” provò a consolarla, mentre in realtà cercava di far forza a se stessa, ma non era facile.

 

“Niente rito abbreviato?”


“No… Romaniello vuole tutto il processo…”


“Sì, così ha la scusa delle udienze per uscire dal carcere almeno qualche ora e divertirsi un po’, secondo la sua idea di divertimento.”

 

“Ovviamente sarà sorvegliato a vista, blindato, e anche tu se…”

 

“Figurati se non mi chiameranno a testimoniare!”

 

“Se l’avvocato non è scemo non lo farà ma-”

 

“Ma il pubblico ministero potrebbe volerlo fare. E, in ogni caso, Romaniello di ciò che gli conviene se n’è sempre fregato, da un certo punto in poi. Ormai non pensa di avere nulla da perdere.”

 

“Comunque faremo di tutto per evitarlo, Imma. Il PM… il PM sono io e non ti chiamerò al banco, se tu non lo vuoi.”

 

Sapeva che era sincera. Ma sapeva anche che non era così facile.


“Hai fatto bene a parlarmene senza Calogiuri, ci devo riflettere…”

 

“So che vai in terapia e… insomma… l’udienza è a marzo, sarete già a Milano. Conoscendoti, magari sarai pure già rientrata al lavoro ma… volevo darti il tempo di metabolizzare.”

 

Non era da Irene essere così incerta e incespicante, proprio per niente.

 

La sola idea di rivedere quel maiale… Vittoria strillò ancora più forte, esprimendo tutto quello che non le sarebbe forse mai riuscito di far uscire.

 

Altro che terapia!

 

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“Cominciate ad andare in macchina? Modesto, la prendi tu?”

 

“C-certo!”

 

Modesto si mise il marsupio leopardato con una velocità da primato, ci infilò Vittoria e seguì Melita, Francesco e la scorta oltre la porta di ingresso. Ottavia, nella sua gabbietta, soffiava in lontananza.

 

Silenzio.

 

Quell’appartamento non era mai stato silenzioso, ma proprio mai e, soprattutto dopo gli ultimi mesi, le sembrava così surreale.

 

Le suppellettili quasi tutte inscatolate, buchi qua e là per le cose che si sarebbero portati a Milano, tra quelle che invece non si adattavano alla casa nuova e avrebbero quindi lasciato ai padroni di casa, in cambio di una riduzione sui mesi di uscita.

 

“Imma…”

 

Si sentì abbracciare, forte forte, il mento di Calogiuri sulla spalla, il respiro sulla nuca, mentre si concedeva un attimo di commozione.

 

“Sembra ieri… che abbiamo scelto insieme questi mobili, che li abbiamo montati, che… eravamo così… folli… così felici, così spensierati… non ci posso credere che non ci torneremo mai più qui.”

 

“Dai, che la statua del leopardo viene con noi,” ironizzò, facendole solletico all’orecchio, e le venne da ridere e da piangere insieme.

 

“Almeno quella! Ma… ma sono successe così tante cose in queste stanze e… ce le avrò sempre nel cuore.”

 

“Anche io, ma tutte quelle cose sono successe con te e mo con Vittoria e… e so che sarete sempre con me, dovunque andremo a finire.”

 

Eccallà! Le dichiarazioni di Calogiuri non si erano esaurite mo che era padre, anzi.

 

Si voltò nell’abbraccio e poggiò la fronte su quella di lui, perché sì, era uno di quei momenti in cui ce n’era bisogno.

 

“Vedremo… se ti comporti bene, maggiore, mannaggia a te!”

 

Un bacio e poi un altro, si avviarono insieme verso la porta.

 

Un ultimo sguardo a tutta quella felicità che lasciavano indietro, per costruirne una si sperava ancora più grande.


“Ciao Roma, sei proprio la città più bella del mondo, mannaggia pure a te!”

 

E la Città Eterna rispose, come nel suo stile, con una strombazzata di clacson da manuale e qualcuno che ce se mannava per strada.

 

Pure quello le sarebbe mancato!


Nota dell’autrice: Ed eccoci qua alla fine di questo ottantaquattresimo capitolo e della vita romana di Imma, Calogiuri e della loro famiglia. Un capitolo in parte natalizio ma che getta le basi per quello che succederà nei prossimi, tra una nuova vita, traumi da risolvere, un bel po’ di giallo e alcuni accadimenti che ci porteranno verso la fine di questa storia. Ormai mancano pochi capitoli e spero continuino a mantenersi interessanti, nonostante tutte le cose che ci sono da chiudere. Ma ci saranno anche diverse novità, tra una battuta finale e l’altra.

Ringrazio tutti voi che mi avete letta fin qui: grazie per le vostre recensioni, i vostri commenti e messaggi che mi danno sempre lo stimolo a proseguire e cercare di fare il massimo. Sia i vecchi lettori che ormai da anni mi accompagnano, sia quelli nuovi che si sono fatti una scorpacciata per recuperare tutto. Grazie di cuore!

Grazie anche a chi ha messo questa storia nei preferiti o nei seguiti.

Approfitto della data per augurarvi un buon natale e di passare buone feste con le persone che amate.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 14, in caso di ritardi vi avviserò come sempre sulla pagina autrice.

Grazie ancora!

 

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