Planet ~ Aliens' Oneshot

di Mitsutsuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fratelli ***
Capitolo 2: *** Flagello ***



Capitolo 1
*** Fratelli ***


Fratelli
Posso avere il tuo cognome?



Sarebbe andato all’Accademia.
Dopotutto, non sapeva cos’altro fare della sua vita.
Sì, aveva deciso. Non gli importava di non essere raccomandato come le signorine che si atteggiavano a pomposi galli da pollaio, solo perché un loro parente era chissà quale grado dell’esercito.
Non gli interessava nemmeno dover stare in fila ore ed ore, in piedi, ed attendere il proprio turno ai moduli d’iscrizione.
Era solo un piccolo prezzo da pagare per poi poter picchiare qualcuno e non venire ripreso dal corpo di guardie.
Kisshu si sistemò un lembo della maglia, ripetendosi che l’avrebbe fatto: sarebbe entrato, passato le selezioni e fatto vedere alle signorine raccomandate chi comandava.
Si sporse alla sua destra. Davanti a una ventina di persone, ragazzi mediamente della sua età o poco più grandi, un tavolo. Un banalissimo pezzo di metallo grigio. Immaginò che il tizio smilzo ricurvo su di esso stesse scrivendo il proprio nome da qualche parte, su un registro.
Tornò in fila.
Forse aveva un problema.

Quando giunse il turno del ragazzo davanti a sé, era da poco passato mezzogiorno. Il che non era niente male, considerando il fatto che era in fila dalle dieci.
Era alto. Molto più di lui, che dovette alzarsi sulle punte per sbirciare cosa stesse scrivendo.
Dopo toccò a Kisshu.
Nome. Cognome.
Problema risolto.

Si abbandonò contro il muro del campo, un polveroso spiazzo circolare dove lasciare allenare le matricole.
Sbuffò contrariato, scostandosi una ciocca di capelli da davanti agli occhi. Si annoiava a morte.
Possibile che in guerra fosse necessario conoscere tanta teoria? Lui voleva combattere, non starsene in piedi a scalciare sabbia, ascoltando distrattamente la voce stridula di un istruttore mezzo femmina.
Si mise le mani in tasca, fissando truce l’uomo al centro di un gruppo di matricole. Muoveva comicamente la bocca, sbrodolando chissà quali “perle” di teoria addosso a ragazzini che gli pendevano dalle labbra come collane d’aglio.
Quando si accorse della sua assenza - cosa che avvenne terribilmente troppo presto, essendo Kisshu il suo preferito - lo richiamò ad avvicinarsi: ad una tale distanza era difficile che riuscisse a sentire.
Il ragazzo schioccò la lingua, scocciato.
Stava per obbedire, quando un’altra voce lo chiamò alla sua destra. Si voltò. Tutte le matricole e l’istruttore fecero come lui e presero a fissare curiosi il nuovo arrivato: ovvero, il signor vice comandante, con quella sua irritante barbetta bianca da capra e il naso schiacciato.
— Sto cercando Kisshu Ikisatashi. — Ripeté con voce nasale, spostando lo sguardo dall’interessato, al gruppo di ragazzi. Si dondolò sui piedi piccoli e tozzi, aspettando una risposta.
I ragazzini si guardarono tra di loro, mentre Kisshu, sotto lo sguardo dell’istruttore, estrasse una mano dalla tasca e la alzò in un gesto svogliato.
— Presente. —
L’uomo arricciò il naso in sua direzione, mettendosi ben dritto con le spalle e alzando il mento, come a voler guadagnare qualche centimetro in più dei suoi centoquaranta scarsi. La punta dei capelli grigiastri gli arrivava al massimo alle spalle.
— Venga con me. — E lo precedette fuori dal campo.
Kisshu aspettò che girasse l’angolo, si strinse nelle spalle guardando l’istruttore con un’espressione che sembrava recitare: “Qualsiasi cosa vogliano, non è colpa mia. Le prove sono costruite, sono stato incastrato, voglio un avvocato”, e seguì il vice comandante.
Camminarono parecchi metri, lungo monotoni corridoi illuminati al neon.
Al passaggio di sua piccolezza il vice si facevano tutti da parte, consci del fatto che una parola dell’uomo al comandante vero e proprio sarebbe bastata per un’espulsione permanente. Piccolo, ma un concentrato di pignoleria unico al mondo. Kisshu smise presto di contare quanti ragazzi ebbe modo di riprendere per la loro presunta condotta indecente, quando parevano semplicemente farsi i fattacci loro. Certo, a quell’ora sarebbero dovuti essere tutti ad allenarsi, ma se stavano saltando dell’inutile teoria, avevano tutta la sua comprensione, approvazione e benedizione. Addirittura.
Finalmente giunsero ai cosiddetti “Piani Alti”, esattamente all’altro capo dell’Accademia rispetto a dove Kisshu era stato prelevato.
Un insieme di studioli più o meno grandi, pieni zeppi di scartoffie e premi al valore. Non che qualcuno ricordasse grandi guerre, ma la consegna dei riconoscimenti era divenuta una sorta di cerimonia da celebrare ogni anno. Molti dicevano che la maggior parte delle battaglie, che le alte cariche andavano raccontando piene d’orgoglio e amor patriottico, erano state inventate di sana pianta. Ed in effetti, a parte due o tre litigi - perché di litigi si parlava, alla fine delle finite - tra città che si erano sempre odiate, e che avrebbero continuato a odiarsi anche dopo centinaia di esodi in pianeti diversi, non c’era davvero qualcosa che meritasse medaglie al valore o altri gingilli dorati.
Il comandante, in piedi davanti a una finestra dietro la propria scrivania, contemplava le tecnologie di un mondo sotterraneo, passandosi pensieroso una mano sulla barba incolta.
All’udire la porta automatica richiudersi dietro i due ospiti, girò sui tacchi degli stivali, lo sguardo serio filtrato da un paio di piccole lenti in vetro.
Portò le mani dietro la schiena, schiarendosi la voce — Lei si crede furbo, non è vero? — Domandò rivolto a Kisshu, con tutta l’intenzione di lasciarlo in piedi davanti alla porta.
Ma Kisshu era il classico tipo di ragazzo che è abituato a prendersi le cose per conto proprio, quindi si sedette senza tante cerimonie, presso una delle seggiole vicino alla scrivania. Incrociò le braccia al petto, ignorando gli sguardi torvi del comandante e del collega.
Sorrise, beffardo — Quando serve. —
Il comandante prese posto alla scrivania, scostando vari registri e prendendo a sfogliarne uno in particolare: quello delle iscrizioni.
Passata in rassegna una lunga lista di nomi, si fermò. Girò il registro e glielo mise sotto il naso.
— Immagino che questa sia la sua calligrafia. —
Annuì senza neanche sprecarsi a guardare.
L’uomo davanti a lui si abbandonò contro lo schienale, sorridendo di sbieco — Ah sì? Allora immagino anche che sia la prima volta che il suo nome compare su un registro pubblico. — Riprese gli stessi registri che aveva scansato poco prima — Niente all’Istituto, niente negli archivi, niente negli ospedali. Nulla di nulla. — Poggiò i gomiti sul tavolo e congiunse le mani, gli occhi blu piantati in quelli innaturalmente giallo oro di Kisshu — Perché? —
Il ragazzo si strinse nelle spalle, inabissandosi sulla sedia fino a stendere le gambe sotto la scrivania — E che ne so? Non li scrivo io questi vostri stupidi registri. Ma, per quanto riguarda gli ospedali, non sono mai stato ricoverato. —
Il comandante assunse un’espressione ostica, serrando la mandibola. Sbuffò.
— Sa qual è la mia teoria? Che Kisshu Ikisatashi non sia il suo nome. —
Kisshu lo fissò impassibile.
— Anche se — proseguì il comandante indisturbato, presto affiancato dal vice — sarei curioso di sapere chi sia la persona che c’è prima di lei. Avete lo stesso cognome. — Osservò, puntando un dito sul registro.
Il ragazzo lo pregiò di uno dei suoi più falsi e strafottenti sorrisi in cui le sue labbra ebbero mai il piacere di piegarsi — Mio fratello. —
— Oh. Certo. — Rispose il comandante annoiato. Certe persone non sapevano proprio perdere.
— Quindi, immagino che non le dispiacerà se scambieremo quattro chiacchiere con lui. No? —
— Assolutamente. —

Assolutamente un corno!
Affondò il volto tra le mani.
Doveva inventarsi qualcosa o l’avrebbero espulso. Probabilmente, anche denunciato per dichiarata falsa persona o qualcosa del genere.
Portò i pugni chiusi sotto il mento, assumendo un’espressione imbronciata.
Non è colpa mia”, disse mentalmente alla schiena del comandante, perso negli intricati dedali di roccia fuori dalla finestra.
Si guardò attorno, in cerca d’ispirazione. Solo allora sembrò notare una sorta di torre, o faro, in vetro. Svettava sulla scrivania come di vedetta. Sul piedistallo scuro doveva esserci qualche scritta commemorativa o un’altra baggianata al valore.
Sorrise, cattivo.
Attento a non dar motivo al comandante di voltarsi prima del tempo, allungò una mano poco più in là di una pila di libri sul combattimento e afferrò la statuetta.
— Che roba è questa? — Domandò disinteressato, rigirandosi il vetro tra le mani. Non era molto spesso e neanche estremamente lavorato. Comunque fu certo trattarsi di un faro, o gli scogli sul piedistallo sarebbero stati fuori luogo.
Dapprima, il comandante si limitò a guardarlo da sopra una spalla, come a voler valutare se valesse la pena girarsi completamente, poi decise che fosse meglio tenere d’occhio Kisshu, piuttosto che filosofeggiare sulle gallerie.
Quel ragazzo non gli piaceva. Per niente.
— E’ un regalo di mia moglie. — Gli rispose, squadrandolo diffidente, quasi fosse un animale feroce pronto a saltargli addosso.
— Ah. Carino. — Commentò, mentre negli occhi gli balenava una luce sinistra.
Quando il comandante si piegò a riprendersi la statuetta, Kisshu si era già alzato e aveva fatto qualche passo verso uno scaffale sepolto da suppellettili inutili e altri libri.
— La sto solo guardando. Vedrà che non si sciuperà per un po’ di attenzione. —
L’uomo ritrasse il braccio, altrimenti teso nel vuoto.
— Me lo ridia. — Ordinò, allungando una mano e facendo un altro tentativo, ma Kisshu si scansò di lato.
Il comandante imprecò, muovendosi per riprendersi con la forza la statuetta.
Fece una finta, girò su se stesso e riuscì ad afferrare Kisshu per un polso.
Il ragazzo sorrise — Mi ha preso. — Osservò, lasciando scivolare per terra il faro, che andò in frantumi giusto sul piede del comandante.
Non poté trattenere un ghigno, mentre l’uomo si abbassava dolorante e peggiorava da sé la situazione, tagliandosi con le schegge di vetro sparse sul pavimento.
Certa gente era proprio idiota.
Si accovacciò anche lui, le mani sulle ginocchia e la miglior espressione preoccupata che gli riuscì di fare.
— Dovrebbe andare in infermeria. — Disse — Quella mano sanguina parecchio. —
Figlio del Diavolo... — Mormorò l’uomo a denti stretti, alzandosi malfermo. Da una tasca estrasse un fazzoletto bianco e, con quello, si fasciò alla meno peggio.
Saettò con lo sguardo su Kisshu come a volerlo incenerire e spargerne le ceneri al vento. L’altro, ancora accucciato per terra, non sembrava fare molto caso all’odio traboccante del comandante, che, prese le chiavi con la mano buona, si avviò zoppicante all’uscita dell’ufficio.
— Chiudo a chiave. Quindi, non sperarci nemmeno. —
Non sapeva neanche a cosa si stesse riferendo con esattezza, per questo rimase sul vago. Di gente dalla doppia identità ne aveva conosciuta parecchia: per lo più piccoli truffatori che si guadagnavano da vivere rubando agli abitanti di un mondo marcio.
Una volta scoperti, si dileguavano nel nulla. Ecco, forse era a questo che alludeva. Con la porta chiusa a chiave e la finestra ermetica, non sarebbe potuto andare lontano, a meno che non si fosse smaterializzato. Cosa che una matricola, di norma, non sapeva fare.
Scrollò le spalle, inserì la chiave, un tubicino in metallo rettangolare, e sigillò la porta automatica. Se ne andò zoppicando, guardando torvo chiunque sentisse bisbigliare alle sue spalle.

Kisshu attese per un po’, prima di alzarsi. Giusto il tempo che poteva servire ad uno zoppo per girare il primo angolo del corridoio.
Scavalcò i cocci di vetro sul pavimento e prese a frugare senza ritegno nei cassetti della scrivania, attento a non sconvolgerne l’ordine. Ficcanaso sì, ma non così scemo.
Non c’era bravo comandante che non avesse una copia di chiavi di riserva, nascosta da qualche parte.
Sollevò carte, libri, palmari, stilografiche e penne d’uccello (che diavolo se ne faceva delle penne?!), ma non trovò nulla.
Sbatté i piedi, impaziente. Il vice sarebbe potuto tornare da un momento all’altro.
E se avesse avuto lui le famigerate chiavi?
Scrollò il capo, come a voler scacciare la sfiga, che si menava da solo.
Poi gli occhi gli caddero su di una mensola e ai suoi soprammobili. Tra questi c’erano anche un paio di piccole coppe, sicuramente in finto oro. Pensò fosse il posto perfetto per una chiave da tenere nascosta.
Prese la poltrona del grande capo ferito, provando un certo gusto infantile a salirci sopra, e allungò un braccio dentro le coppe.
La prima, la seconda, la terza.
Sorrise, tronfio, estraendo un piccolo bastoncino in metallo. Il cartellino che lo accompagnava recitava inequivocabile: “Riserva”.
Si lasciò cadere seduto sulla poltrona e, datosi una piccola spinta, fece girare le ruote sotto di essa fino all’ostacolo della porta, chiusa.
Stava per aprire, quando venne distratto dalla voce nasale del vice, in corridoio. Brontolò qualcosa che non riuscì ad afferrare in pieno e poi si allontanò. Dieci a uno se ne stava andando a cercare il comandante.
Sorpreso da un così ampio sorriso da parte della Fortuna, girò la chiave nella toppa. La porta si aprì e lui, ancora placidamente accomodato sulla poltrona del comandante, si trovò davanti a quello che doveva aver “adottato” come fratello, qualche giorno prima.
Avrebbe voluto averne la certezza guardandolo di spalle, ma non gli andava ancora di abbandonare il proprio “trono”, che non poteva passare in corridoio.
L’altro ragazzo, dal canto suo, si limitava a fissarlo in silenzio, domandandosi probabilmente cosa potesse avere a che fare con un tipo simile.
— Pai Ikisatashi, suppongo. — Proferì Kisshu, poggiandosi allo schienale della poltrona quasi a volersi ribaltare indietro.
Per tutta risposta, lo vide incrociare le braccia al petto.
Simpatico”, commentò Kisshu mentalmente. Chissà se la sua eccessiva loquacità gli avrebbe mai permesso di esporre le proprie ragioni.
— Devo chiederti un favore. —
Silenzio.
— D’accordo, facciamola breve. Ti ho rubato il cognome. —
Come a dimostrazione del fatto che lo stava effettivamente ascoltando, Pai inarcò un sopracciglio, scettico.
— Sì, detta così sembra una cosa alquanto idiota. — Osservò da sé il più giovane, passandosi una mano tra i capelli — Il fatto è che... ehm... ho scoperto dell’esistenza di queste schifezze chiamate “cognomi” due anni fa. Credo. Avevo dieci anni quindi... sì, due anni fa. — Confermò, facendo ruotare la poltrona su se stessa per prendere tempo.
— Tralasciando come abbia fatto fino ad ora senza cognome, — riprese mentre ancora girava e constatava quanto fosse disordinato il comandante — me ne serviva uno per iscrivermi qua dentro, così ho preso il tuo. —
Cadde il silenzio, presto interrotto dal suono della campana di richiamo alla mensa.
In breve si levò un brusio di chiacchiere come a colonna sonora dell’Accademia. I ragazzi si precipitavano a mangiare l’unico pasto caldo assicurato nel corso della giornata, rumorosi come un branco di Chimera Animal.
— E’ stata una cosa molto stupida. — Commentò Pai lapidale — I registri sono controllati. —
Ehi, allora una lingua ce l’aveva!
Kisshu bloccò la poltrona davanti al ragazzo — Grazie, adesso lo so anch’io. — Replicò scocciato.
Doveva muoversi, o il comandante sarebbe tornato e lui sbattuto fuori. Non doveva succedere.
Per lo meno, non prima di aver mangiato.
— Beh? Cosa vuoi? —
— Ah già. — Fece Kisshu, ormai rapito dal principio del corridoio — Dovresti coprirmi. Fingerti mio fratello, ecco. —
Pai sbuffò divertito — Non ti conosco nemmeno. — Obiettò, come a voler dire: “Non può esserci motivo al mondo che mi spinga ad aiutarti”.
Ma Kisshu non prestava mai molta attenzione alle ragioni degli altri e, se lo faceva, le ignorava.
— Cosa vuoi? — Domandò, ormai desideroso di richiudersi la porta alle spalle e lasciare che se la sbrigasse qualcun altro per lui.
Stava perdendo troppo tempo. Certo, il comandante era zoppo, ma non poteva impiegarci un’eternità per tornare.
Imprecò tra sé e sé, deciso a giocarsi tutte le carte — Qualunque cosa. — Disse, senza pensare davvero alle conseguenze di quelle due parole, pronte a ritorcersi contro il proprio padrone come una lama a doppio taglio.
— Qualunque? — Chiese conferma Pai, con un sorriso poco rassicurante a fior di labbra.
Kisshu lasciò perdere di vista il corridoio, concentrandosi piuttosto sulla condanna da lui appena firmata.
Provò a fare una faccia da “Sì, ma non essere troppo cattivo. Non è colpa mia”, ma non sembrò sortire un grande effetto.
— Io ce l’ho già un fratello. — Lo informò, scandendo lentamente le parole così da essere inteso senza aver bisogno di ripetere — Adesso sta da una signora giù in città. Purtroppo ho sentito che per due giorni alla settimana non potrà occuparsene. —
Kisshu corrucciò la fronte, vedendo delinearsi all’orizzonte la propria fine come una macchia d’inchiostro cupo e denso si allarga su un pavimento. Provò a dire qualcosa in sua difesa, ma venne preceduto.
— Ci alterneremo. — Tagliò corto Pai — Prendere o lasciare. A me, in fondo, non importa. —
— Aspetta un attimo. — Intervenne l’altro, cominciando ad agitarsi. Quella condizione non gli piaceva per niente.
— Questo tuo fratello... —
Pai lo interruppe — Si chiama Taruto e ha sette anni. —
In risposta al silenzio di Kisshu, che si masticava un labbro indeciso sul da farsi, aggiunse, con un tono che non ammetteva repliche — O così, o non se ne fa niente. Ma ti consiglio di decidere in fretta, qualcuno deve aver visto il comandante aggirarsi da queste parti. —
Kisshu valutò attentamente l’ipotesi di rifiutare e cercare di cavarsela lo stesso. Fingendosi un malato mentale, per esempio, o ricorrendo alle sue doti d’attore sprecato per impietosire qualche giudice e lasciarlo vivere senza cognome.
Alla fine, un angolo del suo cervello cominciò a lanciargli segnali d’allarme, scanditi dal ticchettare di un orologio immaginario.
Non avrebbe potuto scegliere un fratello meno stronzo?
Sbuffò — Va bene. D’accordo. Facciamo come dici tu, ma vedi di essere convincente. —
Si spinse dentro lo studio — Ti odio. — Sibilò a denti stretti, mentre la porta automatica si richiudeva e lui la bloccava nuovamente.
Scocciato, lanciò la chiavetta metallica a canestro, dentro la coppa. Riportò la poltrona al suo posto d’onore e decise di aspettare lì, giocando con il palmare del comandante e brontolando tra sé.

Kisshu odiava i bambini. Tutti.
Ma Taruto, con quei suoi capelli marroncino vomito, faceva eccezione.
La famosa eccezione che conferma la regola. Anche se, a ben vedere, un’eccezione non conferma affatto una regola, ma, al contrario, la smentisce.
Infatti, Kisshu odiava tutti i bambini. Tranne uno.
Non poteva odiare Taruto. Sarebbe stato un eufemismo.
Era giusto dire che Kisshu lo detestasse con quanto avesse in corpo: desiderava ucciderlo tra lente agonie almeno trentasette volte nel corso della giornata e cercava di scoprire da dove un moccioso di sette anni traesse tutte quelle energie, così da potergli recidere il cavo alimentatore a vita, lasciandolo vegetare come le piante che faceva comparire dagli angoli più remoti della casa.
Poggiò una mano su di un mobile della cucina, massaggiandosi con l’altra una tempia. Avrebbe dovuto farsi spiegare dalla signora “mi ha detto come si chiama, ma non me lo ricordo (di nuovo)” come faceva a non farsi sfasciare casa perché lui, il terzo giorno che la sostituiva, era anche il terzo giorno che vedeva l’abitazione di lei invasa da piante rampicanti, insetti in cerca di cibo, muschio e resina.
Respirò a fondo, cercando di sollevare, invano, la mano incollata al mobile. La guardò con la coda nell’occhio affondare sempre di più sotto uno strato di resina alto, sì e no, cinque centimetri buoni.
Nel mentre, la peste figlia del demonio evocava altre adorabili piantine.
Ma che cavolo se ne faceva un moccioso del pollice verde?!
— Taruto! — Chiamò, dilungandosi sulle vocali.
Il bambino comparve saltellante sulla porta che dava sul corridoio.
— Che c’è? — Domandò innocentemente, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
— Fa. Sparire. Questa. Roba. — Scandì, additando la resina gialla che colava sul pavimento — E tutto il resto. — Soggiunse, usando la mano libera per indicare la casa ridotta a un macello ortofrutticolo.
Il bambino si strinse nelle spalle — Te l’ho detto che non so come fare. —
Non so come fare. — Gli fece eco l’altro, alterando la voce — Stai mentendo, mocciosetto irritante che non sei altro. Quando te l’ha chiesto Pai, hai ripulito tutto, manco fosse sceso un dio in terra! —
Taruto sembrò ammutolirsi, colpevole, ma si riprese subito dopo — Già. — Ammise — E’ un peccato, però, che tu sia solo Kisshu. —
E sparì dietro il muro.
Kisshu chiuse la mano pulita a pugno. Fremeva di collera.
Voleva la guerra? E guerra avrebbe avuto.

Ma, prima, avrebbe dovuto capire come fare a staccarsi la resina di dosso.


Fratelli - Posso avere il tuo cognome?
Fanfiction One Shot scritta da Mitsutsuki Chan

Tokyo Mew Mew è © Mia Ikumi e Reiko Yoshida


Mitsu-Mitsu Tea Time~
Il primo racconto che scrivo davvero bene dopo tanto tempo, sebbene all'inizio dovesse essere il classico raccontino di un'ipotetica infanzia aliena. Poi ho pensato che il Fandom ne fosse già pieno, così ho stravolto il tutto e ho scritto di Kisshu & Co. già grandicelli. Perché io amo distinguermi dalla massa *conduce una vita controcorrente*
Perdonate il titolo idiota alla raccolta, inizialmente pensavo di scrivere One Shot distinte e a sé stanti, ma non posso evitare dei collegamenti, così le metto tutte assieme.

Boh, c'è altro? *Gli inquilini nel cervello di Mitsutsuki fanno cenno di "no" col capo*

Sono tornata *O*!

Mitsutsuki Chan

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Capitolo 2
*** Flagello ***


Flagello
Per soggetti irrequieti


Aveva sempre pensato di essere una persona paziente.
A dire il vero, aveva la brutta abitudine di attribuirsi qualità che in realtà non aveva. Ed era per convincere se stesso e gli altri che cercava di comportarsi in funzione di quelle.
Con risultati ovviamente disastrosi.
La pazienza, soprattutto, non era tra le sue virtù. Dubitava lo sarebbe mai stata.
Tre lunghe ed estenuanti ore aveva taciuto, ingoiato in silenzio imprecazioni e minacce, riuscendo persino a tenersi lontano da qualsiasi oggetto contundente.
Kisshu Ikisatashi aveva resistito. Non solo quel giorno, bensì molti altri.
Ma arrivava per tutti il momento di oltrepassare la linea di demarcazione tra la sopportazione e la collera. Era un tratto estremamente volubile, certo, soggetto a stress, umore e a chissà quali altri fattori. Ma esisteva e lui l’aveva appena superato.
Respirò a fondo. Molto, molto a fondo, mettendosi composto su una delle sedie attorno al tavolo, in cucina. Spostò alcune foglie da davanti a sé e respirò ancora.
— Taruto. —
Non gridò. Lo chiamò soltanto, come se l’avesse avuto accanto.
Poco dopo, e non prima di essere inciampato nelle proprie piante, il bambino arrivò di corsa, saltando allegro sulla sedia accanto alla sua.
Kisshu lo squadrò come se lo vedesse per la prima volta.
— Noi due non andremo mai d’accordo. — Sentenziò, trovando subito il consenso dell’altro. — Però, se ti mettessi tranquillo, forse potremmo convivere. Almeno a qualche metro di distanza. — Calcò molto sulla parola “forse”.
Taruto sorrise, furbo, e a Kisshu sembrò che desse un piccolo cenno del capo a qualcosa sopra di lui.
Qualcosa che, comunque, non esitò a cadergli in testa: una mela. O, per lo meno, una mela era quanto di più riconducibile conoscesse. Gli alberi da frutta non gli venivano particolarmente bene e, di solito, ore di duro lavoro venivano ripagate con alberelli smunti o frutti marci.
Quella mattina, invece, si era impegnato talmente tanto da riuscire a evocare un albero degno di tale nome e le cui fronde, piene di frutti duri come pietre e neri come pece, coprivano l’intero soffitto della cucina.
Kisshu respirò a fondo ancora una volta, “ma questa è l’ultima, alla prossima lo uccido”.
— Senti, — riprese, cercando di modulare la voce ad un tono di fredda minaccia — o ti metti tranquillo, o farò in modo di spedirti dritto dritto all’Accademia. Hanno un corso speciale per i tipi irrequieti come te. —
Voleva spaventarlo.
Voleva che la smettesse di agitarsi come un contadino isterico quando i raccolti vanno a farsi fottere per il ghiaccio.
Pensava che le sue parole si sarebbero abbattute su di lui come una condanna capitale, una terribile punizione, un flagello divino, l’apocalisse!
Guardando Taruto, però, ed osservando come si fosse alzato vittorioso sulla sedia, Kisshu pensò che quel bambino funzionasse al contrario. O che gli mancasse qualche rotella. Era la stessa cosa, in fin dei conti.
— Sapevo che prima o poi avresti ceduto! — Esultò Taruto, pieno di sé dalla gioia — Però, ti devo fare i complimenti, hai resistito più di quanto credessi! Bravo davvero! —
Una parte dell’altro cominciò lentamente a scavarsi una fossa per il centro del pianeta. Lì avrebbe fatto sicuramente più caldo.
— Aspetta. Aspetta un attimo. Tu... hai programmato tutto sin dall’inizio?! — Domandò incredulo. Era impossibile che un moccioso di sette anni avesse davvero pensato a un piano tanto diabolico!
Taruto annuì orgoglioso, mentre Kisshu faceva finalmente mente locale.
— Quindi mi hai fatto dannare l’anima solo per andare all’Accademia! —
— Sissignore! — Esclamò il bambino, sull’attenti, sempre in cima alla sedia.
— Scordatelo. —
Come se quella parola avesse smosso il pavimento, Taruto perse l’equilibrio e cadde a terra. Trattenne un gemito di dolore mentre si rialzava, più o meno decentemente.
— Come? — Domandò avvilito con un filo di voce. E dire che c’era quasi riuscito!
Kisshu scosse il capo — Non ti lascerò vincere tanto facilmente. —
Ci fu una pausa di silenzio. Tendendo l’orecchio si sarebbero potute sentire le piante rampicanti estendere i loro domini sulle pareti, ormai crepate dalle radici. Alla prima scossa, per quanto lieve, sarebbe venuto giù tutto.
Taruto assunse un’aria di sfida, incrociando le braccia e piantando bene i piedi in terra — Dammi ancora un’ora e supplicherai Pai di farmi andare all’Accademia. —
— Non contarci. —
Il bambino sbuffò, quindi gli diede le spalle si allontanò di gran carriera. Sullo stipite volle girarsi a dargli un ultimo avvertimento — Sai, una volta ho fatto perdere la pazienza persino a Pai. —
Sorrise, vedendo l’espressione incredula di Kisshu.
— Non ti credo. — Affermò deciso — E’ impossibile. —
Scrollò le spalle — Libero di non farlo. — Disse, cambiando stanza.
Kisshu sbuffò. Era curioso di vedere cosa si sarebbe inventato quel bambino pur di vincerlo.
Ma non ce l’avrebbe mai fatta. Dopotutto, lui sapeva essere una persona molto paziente.

Sospirò, abbandonando definitivamente la revisione del proprio progetto. Andava consegnato nel tardo pomeriggio, ma sicuramente al signor “Non ho un cognome” non importava granché.
Si girò, portando una mano su un fianco — Cosa non ti è chiaro del monosillabo “no”? La “n”? O forse la “o”? — Domandò ironico, ignorando l’occhiataccia carica di odio che gli rifilò l’altro.
— Senti, io amo i bambini. —
Mentiva. Oh se mentiva. Era come se ogni fibra del suo essere gridasse onore alla menzogna.
— Ma...? — Gli suggerì, visto che si era ammutolito di colpo.
— Non volevo dire “ma”. — Lo contraddisse secco Kisshu, ostentando un atteggiamento offeso.
Si domandò cosa mai gli facesse presupporre che fosse tanto stupido.
Era ovvio che volesse dire “ma”!
— Però... —
Appunto.
— Taruto è un bambino molto, molto, molto disturbato. —
Pai sospirò. Probabilmente per la quinta volta da quando Kisshu era entrato in una delle tante sale dell’ala scientifica dell’Accademia.
Guardò ancora una volta lo sguardo del ragazzo contrarsi in una falsissima smorfia di dispiacere e contrizione. Che attore sprecato.
— Quindi — continuò Kisshu, ormai arrivato al nocciolo del discorso — lasciarlo alle amorevoli cure degli istruttori accademici è la cosa migliore da farsi. —
Prese fiato. Era una sua impressione, o andava ripetendo le stesse frasi da quasi un’ora? Aveva la gola secca.
— No. —
Strinse i pugni, trattenendo - non seppe mai spiegarsi come - il fiume di insulti che tanto avrebbe voluto sbrodolargli addosso.
Tra le innumerevoli cose che a Kisshu proprio non andavano a genio c’erano le persone ostinate. E il signorino Pai svettava al primo posto nella sua personalissima classifica.
— Perché? — Domandò con un tono involontariamente lamentoso.
Pai scrollò le spalle — E’ un giorno alla settimana. Per quanto possa essere disturbato, confido che sopravviverai. —
Stava valutando l’allettante ipotesi di ucciderlo sul posto, quando gli occhietti piccoli e indagatori del comandante bussarono alle porte del suo cervello.
Scosse il capo. Finché non sapeva come farlo passare per un incidente, l’omicidio andava dimenticato.
— No che non sopravviverò! — Ribatté.
Era stato attento. Aveva ceduto alle pretese di Taruto, ma non si era ancora masticato l’orgoglio supplicando Pai. Doveva rimanere come ultima ancora di salvezza.
Pai, dal canto suo, alzò gli occhi al soffitto e tornò a dargli le spalle, trovando decisamente più interessante la superficie sferica di un computer, tra i tanti presenti nella sala.
— Sono praticamente cresciuto insieme a lui. Sopravviverai. Non è cattivo. —
Kisshu sbuffò, portandosi dall’altra parte del computer — Non ho detto che sia cattivo, ho detto che è disturbato. — Puntualizzò — E io non sono te, quindi potrei anche morire. —
Lo sentì sospirare, di nuovo, non ancora del tutto preso da quella miriade di dati che gli passava davanti agli occhi.
— Ti prego, Pai. —
Corrucciò la fronte perplesso: o la sua voce era completamente andata, o era stato qualcun altro a parlare per lui. Propense per la seconda ipotesi, non essendo ancora giunto il momento di calpestare il proprio orgoglio il quel modo indecente.
Pai gli indicò l’armadio incavato nel muro alla sua sinistra, senza per questo staccare gli occhi dal computer.
Se possibile, assunse un’espressione ancora più scettica, avvicinandosi al punto indicato. Avrebbe dovuto contenere noiosi file e dati, raccolti in dischetti o “chiavi”. Qualche computer di riserva e altri complicati gingilli da scienziato che a Kisshu non sarebbero ma interessati davvero.
Fece scorrere un’anta lungo la parete. Poi l’altra.
Guardò in basso, dove, rannicchiato sotto il primo ripiano accanto ad alcuni scatoloni, Taruto aveva origliato tutto.
Già prima aveva notato che fosse piccolo anche per la sua età, ma non avrebbe mai pensato potesse infilarsi in così poco spazio!
— E tu come diavolo hai fatto ad arrivare qui? —
Taruto gattonò fuori dal suo nascondiglio. Dovette constatare amaramente che non gli faceva male praticamente nulla. Il che voleva dire che era davvero, ma davvero, piccolo: qualsiasi altro bambino della sua età avrebbe fatto fatica a stare lì sotto.
Sospirò, sconsolato — Beh, ti ho seguito, no? — Rispose poi con un’alzata di spalle.
Dall’altra parte, Pai aveva smesso di guardare il computer.
— Se avete intenzione di coalizzarvi, lasciate perdere. — Disse — Taruto aspetterà di avere l’età minima. Non si discute. — E tornò al proprio lavoro di revisione.
Kisshu guardò Taruto con la coda dell’occhio — C’è un età minima? —
— Dieci anni. — Gli rispose l’altro, ormai demoralizzato. Aveva visto il suo infallibile piano crollargli davanti agli occhi sotto poche, semplici, parole.
Che tristezza.
— Cioè... — Kisshu fece un rapido conto, prima di sbarrare gli occhi, inorridito — Mancano ancora tre lunghi anni! —
— Già. —
Troppo tempo per entrambi.
Per Taruto perché non vedeva l’ora di entrare all’Accademia da quando aveva sei anni, e si sentiva pronto per sostenere le selezioni, per quanto dure fossero.
Per Kisshu perché, pur non sapendo quante settimane ci fossero in un anno, moltiplicate per tre sarebbero state sicuramente troppe ed insostenibili. Soprattutto se Taruto intendeva sfogare la sua frustrazione dandosi alla coltivazione intensiva.

Si guardarono, scambiandosi un’occhiata d’intesa.
L’uno che diceva all’altro: “Un’ora”.

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