Colonia AA-001

di Marco1989
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


I

 

L'essere non aveva nome. Non c’era nessuno, nel suo mondo, che potesse dargliene uno. In ogni caso, il suo cervello non sarebbe stato capace di comprenderne il significato. Lui era, semplicemente, se stesso. Un cacciatore. Respirava, si muoveva, cacciava, uccideva, mangiava, beveva, espletava i suoi bisogni, dormiva e, quando era la stagione giusta e il Grande Cerchio Azzurro si trovava nella parte appropriata del cielo, cercava una compagna per riprodursi. Questo era tutto ciò che sapeva, e questo gli bastava.

In quel momento la sua necessità più immediata era nutrirsi: l’oscurità era calata tre volte dalla sua ultima preda, perciò tutti i suoi sensi erano concentrati sulla caccia. Avvertiva ogni movimento dell’aria, la vegetazione bassa che schiacciava con le sue otto zampe, l’odore umido del sottobosco. I suoi cinque occhi, uno dei quali era posto dietro la testa, gli fornivano un’ottima vista, ma la sua arma migliore era l’olfatto: poteva individuare qualsiasi essere commestibile a distanze enormi. Quando sentiva qualcosa che la sua rudimentale memoria identificava come un potenziale pasto, si avvicinava a esso come un fantasma, aiutato dal corto e ispido pelame che si confondeva con l’ambiente. Una volta giunto ad una distanza sufficientemente ridotta, sarebbe stato compito dei suoi potenti artigli e dei denti lunghi e affilati procurargli il cibo. Così si comportava da quando era nato, e non concepiva nessun motivo per cambiare.

Quel giorno però sarebbe stato diverso dagli altri.

Dapprima avvertì uno strano movimento nell’aria: i suoi acutissimi sensi percepirono un insolito vento, dapprima leggerissimo, poi sempre più intenso, come se qualcosa di molto grande si stesse muovendo nel cielo. Poi sentì un odore insolito, qualcosa che la sua esperienza non era in grado di riconoscere: era molto intenso, e sembrava venire dall’alto, da sopra gli alberi. La sua limitata capacità di elaborazione gli suggerì, come confronto, un incendio: era come se qualcosa stesse bruciando nell’aria, ma non era in grado in alcun modo di capire cosa. Infine, i suoi involuti padiglioni auricolari captarono un rumore, prima lieve, poi sempre più potente, una sorta di rombo. Gli ricordava una mandria di animali in carica, solo enormemente superiore in potenza. Il suo istinto era in preda alla confusione più totale di fronte a qualcosa di mai accaduto prima, incapace di prendere una decisone sul da farsi. Quando però il terreno iniziò a tremare, la scelta fu immediata: “fuga”. Non poteva lottare contro qualcosa che non aveva zanne, artigli, un corpo. Contro gli strani eventi che coinvolgevano tutto il suo ambiente, la sola soluzione era scappare.

Si lanciò in uno sfrenato galoppo, spezzando le piante ed evitando gli enormi alberi all’ultimo secondo. Le otto zampe e la spina dorsale estremamente snodabile gli permettevano movimenti molto aggraziati. Corse finché la foresta non iniziò a diradarsi, per poi aprirsi in una radura. A quel punto la creatura si bloccò, impietrita. Nel cielo vide qualcosa di troppo assurdo per la sua mente. Un enorme animale fluttuava nell’aria, apparentemente a una grande altezza; nonostante la distanza, però, era talmente immenso da coprire parzialmente il Grande Cerchio, la cui luce azzurra luccicava sulla sua stranissima pelle con riflessi di bizzarri colori. Sia il rombo che lo strano odore provenivano dall'essere gigantesco. La creatura rimase bloccata: nel suo mondo, che aveva imparato a conoscere da quando era nata, non c’era posto per un animale volante di simili dimensioni. Si lasciò comunque guidare dal suo primitivo cervello, che cercò di classificarlo nei modi che conosceva: era evidentemente troppo grande per essere una preda, e lo era più che a sufficienza per essere un pericolo; la reazione, quindi, poteva essere una sola.

La creatura fuggì nella foresta alla massima velocità possibile.

 

 

«Vai pure, amico, e ti auguro una buona giornata! - ghignò il comandante in seconda Brent, vedendo la scena sul monitor - Scusaci per il disturbo!».

«Con chi sta parlando, Erik?» chiese un uomo in piedi alle sue spalle; sembrava più vicino ai cinquanta che ai quaranta, ma il suo corpo non avrebbe sfigurato in un uomo di trenta; i capelli neri, ormai venati di grigio, erano tagliati corti, così come la folta barba. Indossava un’uniforme azzurra, con i gradi di ufficiale. Non c’erano bandiere, ma sul braccio destro era disegnato uno strano simbolo: una stilizzata mappa della Terra incorniciata da ramoscelli di ulivo.

«Con un esemplare della fauna locale, comandante - rispose Brent, che, con il suo metro e novanta, le spalle larghe e i capelli rossi, sembrava un vichingo - Promette bene, direi: pelame scuro, otto zampe e, se ho visto bene, almeno quattro occhi!

«Decisamente non siamo più in Kansas, Erik» borbottò il comandante, citando “Il Mago di Oz”.

Il capitano di vascello William Farris fece scorrere il suo sguardo sugli altri dodici uomini che occupavano la plancia di comando della Columbus, ciascuno intento al proprio compito. Tutti, incluso il comandante in seconda, indossavano la divisa azzurra delle Forze Spaziali dell’ONU.

Rivolgendosi a un giovane orientale seduto dietro un computer, il capitano chiese: «Tenente Nakadawa, mi conferma la mancanza di trasmissioni radio?».

«Signorsì, comandante - rispose l’ufficiale - Tutto lo spettro delle frequenze è vuoto».

Un altro membro del gruppo di comando, un giovane dai lineamenti ispanici, si aggiunse alla conversazione: «I droni da ricognizione confermano le osservazioni precedenti: nessuna città, nessuna strada, nessun segno di civiltà. Flora e fauna sembrano abbondanti, ma nessuna forma di vita intelligente.

«Tenente Motabe, ha effettuato lo scanning dell’atmosfera?».

Un uomo di colore basso e magrissimo si voltò e rispose: «Signornò, ma i rapporti delle sonde automatiche dicono che è perfettamente respirabile».

«Lo so, ma faccia ugualmente una nuova scansione. Non intendo scendere al suolo senza essere sicuro di non soffocare.

Mentre l’altro ufficiale, leggermente contrito, iniziava a muovere le mani sullo schermo del suo terminale, Brent si lasciò andare a un sorriso: il comandante Farris era il migliore su cui l’ONU potesse contare, ma alcune volte era veramente pignolo. In quel caso, però, poteva capirlo: non potevano permettersi alcun errore, dopo il lunghissimo viaggio che avevano fatto e tutto ciò che lo aveva preceduto.

 

 

Erano partiti dalla Terra nel 2177, sei anni prima, ma dall’inizio dell’operazione era passato addirittura un quarto di secolo. Era infatti il 2148 quando una sonda dell’ONU aveva individuato, a sessantadue anni luce dal sistema solare, in orbita attorno ad una stella azzurra, un pianeta delle dimensioni di Marte, ma con caratteristiche incredibilmente simili alla Terra: atmosfera perfettamente respirabile, con una percentuale di ossigeno di poco superiore a quella terrestre, una gravità di pochissimo inferiore, abbondante acqua allo stato liquido, un sottosuolo dotato di forze tettoniche attive. Una sorta di fratello minore del pianeta d’origine dell’umanità. Era una scoperta incredibile: dal 2124, anno d’inizio del programma di esplorazione interplanetaria voluto e guidato dall’ONU in seguito all’invenzione, dieci anni prima, dei motori spaziali iperluce, era il primo pianeta scoperto con caratteristiche tanto adatte a sostenere la vita umana. La successiva esplorazione si era rivelata altrettanto esaltante: buona parte della superficie del pianeta, illuminato da una intensa luce azzurra, era occupata da un immenso oceano, interrotto da tre grandi isole più o meno delle dimensioni dell’Australia e da oltre cento più piccole. C’era abbondanza di vita, favorita da un clima costantemente tropicale, e non solo microscopica: erano moltissime le specie vegetali e animali, abitanti sia nel mare che sulla terra ferma. L’esplorazione aveva rivelato, inoltre, che il pianeta era estremamente ricco anche dal punto di vista “economico”: sotto i fondali oceanici c’erano grandi depositi di idrocarburi, e le montagne delle isole maggiori erano ricche di carbone, uranio, ferro, rame, oro, e molti altri minerali, inclusi alcuni preziosissimi metalli superconduttori. Il nome “Elisyan”, il paradiso delle civiltà classiche, sembrò il più azzeccato. Il solo problema era la distanza: anche con i migliori motori che la tecnologia era in grado di produrre, un’astronave con equipaggio avrebbe impiegato almeno sei anni per arrivarvi. Un’accelerazione maggiore sarebbe stata insostenibile per un organismo umano. Perciò, solo dopo diversi anni di esplorazioni con veloci sonde senza equipaggio e rover automatici era stata organizzata la spedizione vera e propria. La Columbus era una nave enorme, a forma di fuso; pur essendo costruita con molte delle caratteristiche di una nave da guerra, era in realtà disarmata. A bordo l’equipaggio, proveniente da ogni parte del mondo, era interamente costituito da membri della Forza di Interposizione e Pacificazione delle Nazioni Unite, il braccio militare dell’ONU; ai suoi quasi cento membri, sia uomini che donne, si aggiungevano un'altra cinquantina di militari delle forze di terra e circa un centinaio tra tecnici, ingegneri, botanici e scienziati di ogni tipo. Non erano però loro il motivo delle immense dimensioni della Columbus: essa, infatti, oltre a un’enorme quantità di materiali, portava anche molti passeggeri. Erano oltre novecento, ed erano tutti civili, in massima parte famiglie. Considerando i nati e i morti durante il lungo viaggio, c’erano quarantotto persone in più rispetto alla partenza. Erano loro la vera ragione del viaggio. Quella, infatti, non era una semplice esplorazione, non era una spedizione scientifica; Erik lo sapeva bene, il Segretario Generale dell’ONU aveva fatto a lui e agli altri membri dell’equipaggio un lungo discorso per spiegare l’importanza di quel viaggio. Loro erano la Colonia AA-001, o meglio, lo sarebbero diventati non appena fosse stato costruito un insediamento stabile su Elysian. Sarebbero stati la prima comunità umana a vivere sotto un sole diverso da quello natale.

 

Dopo un paio di minuti di lavoro, Motabe si voltò e disse sorridendo: «Scansione effettuata, comandante. Corrisponde a quelle effettuate dalle sonde. L’aria è perfettamente respirabile».

«Guardiamarina Park, mi conferma che questo è il posto previsto per l’atterraggio?».

Una bella donna orientale sui trent’anni rispose: «Signorsì. Griglia dodici, quadrante C. Una radura priva di alberi e dal terreno sufficientemente solido per sostenere il peso della nave.

Il volto di Farris si aprì finalmentein un sorriso: «Bene, allora diamo alla gente la buona notizia. La aspettano da tanto, non facciamoli attendere ancora.

Il capitano prese il microfono del sistema di comunicazione interno, regolò l’impianto, poi disse: «Attenzione, qui è il capitano William Farris che parla a tutti gli uomini e le donne a bordo dell’astronave Columbus».

La voce del comandante risuonò in tutti i corridoi della nave, dalla mensa al vano motori; tutti i membri dell’equipaggio cessarono le loro attività per ascoltarla. Nella stanza pesantemente blindata adibita a quello scopo, i soldati del corpo di guardia interruppero il loro addestramento. Arrivò anche nella parte più ampia della nave, attigua alla stiva di carico, che aveva il nome ufficiale di Area di Permanenza Prolungata, familiarmente chiamata Esperance Town. Era la zona dove vivevano, fin dalla partenza, le famiglie dei civili. Era stata attrezzata come una vera città: aveva bar, ristoranti, un cinema, perfino una scuola, dove alcuni insegnanti tenevano corsi dall’asilo fino all’università. Era una vera comunità in viaggio nello spazio. Tutte le persone presenti alzarono la testa, sperando di sentire il messaggio che attendevano da tanto, troppo tempo.

«Siamo in viaggio ormai da sei anni, tre mesi, quindici giorni e sette ore - proseguì il capitano - E’ un tempo lunghissimo. Quindi mi sembra molto strano essere qui a dirvi che dovete radunare le vostre cose il più in fretta possibile. Tra venti minuti il Columbus si poserà sul pianeta Elysian. Siamo arrivati!».

I microfoni posti in tutte le parti della nave rischiarono di esplodere, ma riuscirono a trasmettere alla plancia di comando il boato di gioia che attraversò tutte le oltre mille persone a bordo, militari, membri dell’equipaggio e civili. Alcuni si misero a ballare e saltare, altri scoppiarono in lacrime di gioia, altri ancora si limitarono a ringraziare il proprio Dio, qualunque esso fosse. L’atmosfera di festa si trasmise anche alla plancia, con gli ufficiali che ridevano, si stringevano le mani e si davano pacche sulle spalle. Il sottotenente Wosper, sovrintendente alla manutenzione, arrivò addirittura ad imitare la famosa foto del soldato con l’infermiera, baciando con passione una stupefatta ma sorridente Park.

Il comandante in seconda, trattenendo a stento la felicità, si avvicinò a Farris: «Congratulazioni, comandante. Si è guadagnato un posto nei libri di storia. Ora dovrà pensare ad una bella frase epocale da pronunciare quando scenderemo a terra».

La risposta del capitano non si fece attendere: «Quando sbarcò sulla Luna, Neil Armstrong disse che quello era “Un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per l’umanità”. In confronto a questo, era minuscolo - il volto dell’ufficiale si aprì in un sorriso di gioia - Credo che dirò semplicemente: “Benvenuti a casa!”».

 

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Capitolo 2
*** II ***


II

 

Il capitano Farris osservava con evidente soddisfazione il campo base dall’alto di una piattaforma di legno. Era stata una delle prime cose che avevano costruito, quando ancora tutti dormivano all’interno dell’astronave: era fatta di vero pino terrestre, rinforzato da listelli d’acciaio in modo da essere resistente, aveva una forma quadrata, con un parapetto di un metro e venti che ne circondava il perimetro; l’avevano piazzata sull’albero più alto tra quelli che crescevano intorno alla radura dove era atterrata l’astronave, una sorta di gigante simile ad un ginko, coperto di enormi liane. A vederla dal basso, inchiodata com’era sopra una sorta di culla formata da alcuni rami intrecciati tra loro, poteva sembrare simile a una casa sull’albero, se non per un dettaglio: al centro, su un perno girevole, era montata una mitragliatrice leggera, dietro alla quale un giovane soldato stava fumando una sorta di strano sigaro di colore violaceo.

Un sorriso si dipinse sul volto di Farris nel vedere la faccia estremamente soddisfatta del ragazzo. Le scorte di tabacco che erano state portate sull’astronave non erano durate molto, e dopo anni di astinenza, i fumatori avrebbero quasi letteralmente ucciso per una sigaretta. Era stato ovviamente uno di loro, un botanico, a scoprire una strana pianta, con le foglie simili a quelle di un carciofo e un odore penetrante. Ricordando l'esistenza di un vegetale in qualche modo simile sulla Terra, aveva fatto un tentativo, ed aveva appurato che, lasciando essiccare leggermente le foglie e arrotolandole, si otteneva qualcosa di più gustoso di un sigaro. Il capitano aveva provato a fumarne uno: avevano uno strano retrogusto che ricordava lontanamente la cannella, diversissimo da quello del tabacco, ma tutt'altro che sgradevole. Nessuno sapeva ancora cosa ci fosse esattamente nelle foglie, ma poiché era stato appurato che non erano velenose, per il momento nessuno se ne preoccupava.

Era solo una delle scoperte che avevano fatto sul pianeta in due mesi: Elysian si era rivelato un mondo primitivo, abitato da molti animali pericolosi, ma anche da numerose specie utili e affascinanti. Avevano appurato che, se si escludevano creature di piccole dimensioni simili ad artropodi, tutte le razze terrestri superiori sembravano appartenere ad una stessa classe: una specie di incrocio tra caratteristiche da mammifero e da rettile, con peli che crescevano sopra a dure scaglie. Inoltre, sembravano avere tutti cinque occhi e otto zampe, predatori e prede. Si andava da animali piccoli come topi ad alcuni erbivori delle dimensioni di un ippopotamo. Facevano eccezione le creature volanti, che, oltre ad avere sulla pelle delle scaglie sfrangiate simili a primitive piume, possedevano solo due occhi e due zampe. Avrebbero potuto somigliare a primitivi uccelli, se non fosse stato per il muso irto di denti e le quattro ali, disposte a coppie. Per quanto avevano capito, la carne delle creature di Elysian non era velenosa, ma solo poche sembravano avere un sapore accettabile.

Diversa era la questione per la flora: la pianta alla base della catena alimentare del pianeta sembrava essere una sorta di muschio, che copriva gran parte del terreno come una primitiva erba; da lì, le piante andavano a crescere: cespugli spinosi con rami simili a lunghi serpenti attorcigliati, enormi arbusti non dissimili dalle felci, fino ad alberi di moltissimi tipi, compresi alcuni giganti alti anche ottanta metri. C’erano piante con fiori o senza, ed alcuni producevano anche frutti, di vari colori. C’era però una caratteristica comune: tutte le strutture di base, dal muschio alle foglie di ogni pianta, erano di un uniforme viola pallido. Molti frutti erano stati sperimentati sulle cavie, ed erano risultati commestibili, e alcuni erano saporiti quanto i migliori frutti terrestri. Insomma, Elysian prometteva decisamente bene. Per di più, alcune spedizioni di esplorazione avevano raccolto campioni sufficienti a confermare la presenza di minerali preziosi e metalli utili.

Mentre una parte dei coloni si dedicavano all'esplorazione, altri costruivano, e ormai la Colonia AA-001 aveva preso forma. Per il momento si trattava in massima parte di prefabbricati, grandi costruzioni in acciaio, plexiglass e vetroresina, ma ogni famiglia aveva una propria casa, per quanto piccola. Vi erano vari fabbricati adibiti a laboratorio, infermeria, scuola e vari altri servizi essenziali. Intorno a tutto, era stata edificata una sorta di palizzata di acciaio e alluminio per proteggere gli abitanti dalla fauna del pianeta. Al centro della neonata cittadina, su un’asta, sventolava la bandiera azzurra con i ramoscelli di ulivo che racchiudevano una rappresentazione del globo terrestre.

Non c’erano solo i civili: i soldati avevano un loro capannone che fungeva da caserma, e così anche gli uomini dell’equipaggio. Solo un piccolo nucleo era rimasto a bordo della Columbus, che occupava interamente lo 'spazioporto' della Colonia, per fare in modo che gli impianti essenziali continuassero a funzionare. Farris aveva fatto in modo di lasciare a bordo, in massima parte, i pochi membri dell’equipaggio privi di famiglia. Non erano molti: anche quelli che erano partiti da soli avevano quasi sempre trovato, in oltre sei anni di viaggio, un partner. Considerando soldati, marinai, scienziati e coloni, Farris ricordava di aver celebrato almeno cento matrimoni.

Lui, ovviamente, era rimasto: non aveva una famiglia con se. Sua moglie era morta dieci anni prima, e il suo unico figlio, ufficiale della Marina tradizionale degli Stati Uniti, quella che navigava ancora sull’acqua, non aveva avuto l’autorizzazione a seguirlo. Era stata dura partire sapendo che forse non lo avrebbe visto mai più, ma il dovere veniva prima di tutto, per entrambi. Non aveva quindi motivi particolari per voler vivere a terra. Per di più, un comandante non abbandona la sua nave finché la missione non è finita, e per lui non sarebbe terminata finché non fosse arrivata la seconda ondata di coloni, oltre sei anni dopo.

Sapeva che sarebbero arrivati, lo sapeva per certo. Otto giorni prima avevano fatto partire, in direzione della Terra, una radio-sonda, ed erano in attesa di una risposta, che doveva arrivare proprio in quelle ore. Le radio-sonde erano state inventate circa tre decenni prima, ed erano state la risposta al problema delle comunicazioni radio nello spazio aperto. Poiché, nello spazio, le onde radio si propagano alla velocità della luce, le comunicazioni tra una nave dotata di motori iperluce situata nello spazio profondo e la Terra sarebbero state praticamente impossibili: paradossalmente, la nave avrebbe impiegato molto meno tempo a portare il proprio messaggio da sola piuttosto che inviando un messaggio radio.

Le radio-sonde, pur essendo grandi come un grosso cestino delle immondizie, erano dotate di motori FTL potentissimi, ben superiori a quelli delle astronavi; le ridotte dimensioni e la mancanza di equipaggio permettevano loro di viaggiare a velocità che sarebbero state insostenibili per un organismo umano. Le più moderne arrivavano a una velocità di quasi 30 anni luce per giorno terrestre. Erano dotate di un computer, sul quale venivano registrati la rotta e il messaggio, e di un apparato di comunicazione, che, una volta a destinazione, lo ritrasmetteva su una determinata frequenza prestabilita. A quel punto la sonda rimaneva sul posto per un tempo impostato prima del lancio, da 24 ore fino anche ad una settimana, a seconda della quantità di combustibile nucleare che veniva caricato nei piccoli motori stabilizzatori; nel frattempo il destinatario, ricevuto il messaggio, inviava la risposta verso la sonda; questa la incamerava e, una volta scaduta la sua permanenza, tornava alla base e lo ritrasmetteva alla radio di bordo dell’astronave che l’aveva lanciata.

Nel loro messaggio, rivolto al Centro Spaziale delle Nazioni Unite, una base costruita sulla Luna, comprendente spazioporto, telescopio ottico e a infrarossi e radiotelescopio, avevano inviato tutti i dati rilevati in due mesi, aggiungendo che il pianeta si stava rivelando perfino migliore del previsto. Tutti si aspettavano, nella risposta, l’avviso della partenza della seconda nave, la Fernando de Magallanes, grande cinque volte la Columbus e in grado di portare quasi diecimila persone. Era in costruzione quando loro erano partiti, e ne erano previste altre otto. Mentre scendeva dall’albero mediante una scala di alluminio e nylon, Farris pensò con gioia che forse sarebbe riuscito, prima di morire, a vedere Elysian colonizzato. Un nuova Terra.

Fischiettando, si diresse verso l’astronave.

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Quando il capitano arrivò nella sala radio, trovò il tenente Nakadawa ed i suoi assistenti in peda alla concitazione. Gli sembrò di buon auspicio, inizialmente, ma le loro facce abbassarono il suo entusiasmo: sembravano confuse e, almeno in parte, preoccupate.

Quando l’ufficiale orientale lo vide, esclamò: «Comandante, stavo per mandarla a chiamare. La radio-sonda è entrata nell’orbita di Elysian venti minuti fa».

«Perfetto! - Farris tornò a sorridere: tutto stava andando bene – Che cosa dicono dalla cara vecchia Terra? Quando partiranno?».

«Beh… - borbottò titubante il sergente Rickman, uno degli assistenti – Ecco, signore, il problema è proprio questo: dalla Terra non dicono niente».

«Cosa?- chiese sorpreso il comandante – Che vuol dire “non dicono niente”?».

«Che la sonda è vuota, signore- disse Nakadawa, piuttosto cupo – Non ci sono comunicazioni, non ha ricevuto nessun messaggio radio. I banchi di memoria sono immacolati».

«Assurdo… non è possibile!» sbottò Farris.

«Eppure è così, comandante».

L’ufficiale più alto in grado rimase per qualche istante silenzioso, poi disse: «Signor Nakadawa, chiami il comandante Brent e il capo tecnico Wulf. Voglio che mi raggiungiate nell’Hangar 3 il prima possibile. C’è qualcosa che non capisco, ma dobbiamo risolvere questo problema il prima possibile».

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Venti minuti dopo, i tre ufficiali stavano osservando il tedesco Wulf che, mediante un monitor e una sorta di joystick, riportava a terra la radio-sonda. Il comandante del reparto tecnico della nave borbottava sonoramente: «Deve essere stato un errore di quelli della Navigazione. Devono aver inserito le coordinate sbagliate, e la sonda non deve essere arrivata nell’orbita della Terra. Ach so, ho provato attentamente quella maledetta, e funzionava alla perfezione, sarei pronto a giurarlo su una pila di Bibbie!

«Il guardiamarina Park ha detto che potrebbe fare altrettanto - rispose Brent – E’ certa di aver messo le coordinate giuste».

«Può darsi che sia stata sbagliata la frequenza» disse Farris, rivolto a Nakadawa.

«Sono certo di aver messo quella giusta, comandante» rispose l’addetto radio.

«Beh, controlleremo in seguito cos’è che non ha funzionato. Intanto, tenente, lei e il comandante Brent imposterete una seconda sonda. Chiamate anche il guardiamarina Park. State più che attenti, mi raccomando. Dobbiamo avere una risposta il prima possibile».

Brent era sorpreso: la voce del comandante era dura, molto più secca del solito. L’ufficiale scandinavo comprese che non era solo per l’inconveniente: anche lui sentiva qualcosa, una sensazione lontana, indistinta, ed estremamente inquietante.

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Capitolo 3
*** III ***


III

 

Farris si versò l’ennesima tazza di caffè. Su Elysian una giornata durava trenta ore, ed erano più o meno le quattro del mattino, quindi il sole azzurro non sarebbe sorto per altre quattro ore, eppure lui era completamente sveglio, e non era colpa soltanto della troppa caffeina che gli scorreva nel sangue: da quando la radio-sonda era tornata senza nessun messaggio avvertiva una sorta di peso sullo stomaco che gli impediva di riposare. Un rumore di passi lo spinse a voltarsi: il comandante in seconda Brent, la divisa stropicciata e lo sguardo stanco, era appena entrato in sala mensa.

«Anche lei in piedi, Capitano?» chiese con tono strascicato.

«Purtroppo. E’ quasi una settimana che dormo poco e male, da quando abbiamo lanciato la seconda sonda».

«Non c’è nulla da preoccuparsi, Comandante, e lo sa anche lei. Ben presto la sonda rientrerà con buone notizie dalla Terra».

«Se credi davvero che non ci sia nulla di cui preoccuparsi, perché neanche tu riesci a dormire?».

Il comandante in seconda scosse le spalle, poi si avvicinò al tavolo e si versò a sua volta una tazza di caffè: «Colpito e affondato. Lo devo ammettere, da quando ho visto quei banchi di memoria vuoti provo un certo disagio, e non aver capito cosa sia successo non ha contribuito a conciliarmi il sonno».

Dopo che il capo Wulf aveva fatto rientrare la prima radio-sonda con i comandi in remoto, lui, Brent e Nakadawa avevano passato due giorni e due notti a smontarla, analizzarla e rimontarla, nel tentativo di capire che cosa non avesse funzionato. Senza risultati: se il guasto c’era, non si vedeva.

«Capita, a volte, che la tecnologia crei dei problemi senza motivi apparenti - continuò Brent, per poi bere un sorso dalla tazza - Sono certo che domani la seconda sonda rientrerà con notizie fresche».

Il comandante scosse la testa; sapeva che non c’era alcun motivo logico per preoccuparsi, ma nel profondo del suo cuore si era annidato qualcosa, una sensazione che non lo lasciava in pace un attimo. Sentiva che dietro al viaggio a vuoto della prima sonda c’era qualcosa di più di un semplice guasto meccanico; non era nulla di chiaro, solo un inquietante campanello d’allarme.

«Spero che sia così, Erik. Lo spero veramente» fu tutto ciò che riuscì a dire con voce tombale.

 

Il giorno dopo, non appena Nakadawa annunciò che la radio-sonda era entrata nel sistema, il comandante, Brent, il guardiamarina Liu Li Park e il capo Wulf si riunirono nella sala radio, ansiosi di ricevere le notizie giunte dalla Terra.

«Bene, inizio il download del contenuto dei banchi di memoria della sonda» disse Nakadawa, muovendo rapidamente le mani su un monitor.

«Finalmente avremo una risposta» disse Brent, che mascherava il nervosismo stringendo la mano destra con la sinistra.

«Per fortuna è arrivata - proseguì Park - I civili hanno iniziato a fare domande: sapevano che la risposta sarebbe dovuta arrivare una settimana fa. Qualcuno iniziava a preoccuparsi.

«Non c’è nulla da temere. Solo un piccolo ritardo. Bisogna considerare quanto lontano ci troviamo dalla Terra, e quanti problemi possono crearsi per qualsiasi oggetto che li debba percorrere. Dopo sei anni, pochi giorni non cambiano nulla» dichiarò il capitano  Farris; sembrava, però, che con quelle parole cercasse di convincere se stesso quanto gli altri.

«Download completato - dichiarò Nakadawa, e subito tutti si avvicinarono alla radio - Va bene, sentiamo un po’ cosa ci dicono» e premette con decisione un punto dello schermo.

Dalla radio uscì solo un fruscio indistinto. Il tenente avvicinò il volto al monitor, stupefatto: «No… non può essere… riproviamo!». Mosse di nuovo le mani, attese circa mezzo minuto, premette di nuovo. Ancora fruscii. Alzò lo sguardo cereo verso gli altri ufficiali: «C’è… c’è un problema, signori. La memoria è di nuovo vuota! Niente messaggi, nulla!».

«Verdammt, impossibile!» sbottò il capo Wulf.

«Anche questa sonda era danneggiata?» gridò Liu, esterrefatta.

«Impossibile, ho detto! - sbraitò il capo tecnico, rosso in viso e furioso - Gott im himmel, ho controllato quella hurentochter di una sonda quattro volte prima di lanciarla! Funzionava tutto, sarei pronto a giocarmi la testa su questo!».

«Deve esserti sfuggito qualcosa, per forza!» si intromise Nakadawa, una nota di paura nella voce.

«Nein, non mi è sfuggito nulla! - Wulf si voltò furibondo, verso l’addetto radio - La sonda funzionava alla perfezione! Dovete essere stati voi a impostare le coordinate sbagliate, la frequenza sbagliata!».

«Le coordinate erano giuste, le ho controllate!» – urlò Liu, offesa.

«E lo stesso vale per la frequenza! Ho inserito quella giusta!» proseguì Nakadawa, che iniziava a sua volta a scaldarsi.

«Come fai ad esserne sicuro?» chiese il capo, pungente.

«E tu come fai, mangiacrauti?» urlò l’ufficiale orientale, alzandosi.

Il volto di Wulf divenne una maschera di rabbia, ed il grosso tedesco si avvicinò all’altro ufficiale con fare minaccioso, urlando: «Sentimi bene, schweinhund di un giapponese, non ti permetto di…».

«BASTA!».

L’urlo del capitano risuonò in tutta l’ala della nave, ammutolendo i litiganti. L’ufficiale più anziano si portò in mezzo alla sala radio, attese qualche secondo, poi, con voce autorevole, disse: «Litigare tra noi non serve a nulla! Vediamo di calmarci tutti e di ragionare». Fece una pausa cercando di recuperare il fiato, poi aggiunse, con tono più conciliante: «Mi fido di voi come di me stesso, quindi se il capo Wulf dice di aver controllato a fondo la sonda, io gli credo, e se il guardiamarina Park e il tenente Nakadawa dicono di aver inserito i dati giusti, credo anche a loro - fece un’altra pausa, guardando il piccolo gruppo dei presenti - Partendo da questi presupposti, qualcuno di voi ha una spiegazione plausibile al fatto che non riusciamo a metterci in contatto con la Terra, se tutto funziona a dovere?».

 

Gli sguardi degli ufficiali rimasero bloccati a terra per quasi un minuto, senza che nessuno avesse idea di cosa dire. Poi, finalmente, Nakadawa alzò la testa: «Io forse una spiegazione ce l’ho».

Gli sguardi di tutti si posarono su di lui, che, seppure a fatica, continuò: «Può darsi, semplicemente, che prima della partenza da Base Luna ci abbiano dato un codice sbagliato di frequenza senza neanche accorgersene. Basterebbe un numero errato per invalidare tutto. Forse in questo momento anche loro sono sorpresi quanto noi perché non stanno ricevendo messaggi da parte nostra. Forse, semplicemente, stiamo operando su canali diversi».

Tutti rimasero in silenzio, rimuginando sulla semplicità di quella spiegazione.

Brent non era del tutto convinto: i radar disposti intorno alla Terra dovevano aver rilevato la presenza delle sonde e, con un po’ di intuito, gli operatori dovevano anche aver capito da dove provenivano e che, evidentemente doveva esserci qualche problema, a causa del quale non giungevano messaggi. Se le cose stavano così, però, per quale motivo non avevano spedito loro una sonda? Prima che potesse dire qualcosa, però, il capitano intervenne:  «Non è un’idea insensata. In effetti, può anche essere. A causa di un problema stupido, ci ritroviamo a non poter comunicare. La domanda fondamentale è: a questo punto, cosa possiamo fare per rimediare al problema?»

Questa volta fu proprio Brent a rispondere, ingoiando le proprie incertezze: «Una soluzione ci sarebbe: potremmo riprogrammare la sonda in modo che trasmetta e riceva, anziché su una frequenza particolare, su tutto lo spettro delle onde radio».

Farris fissò il suo vice per alcuni secondi, stupito della rapidità di quella idea: «Un po’ rudimentale come sistema, ma potrebbe funzionare, o almeno credo» e si voltò verso Nakadawa in cerca di conferma.

Il responsabile tecnico si portò la mano al mento, con sguardo pensieroso: «Dovrei riprogrammare completamente il software della sonda. La potenza del segnale sarebbe molto più bassa, ed i banchi di memoria dovrebbero essere ridotti in modo da poter posizionare delle batterie ulteriori… ma sì, posso farcela. Mi ci vorranno sei o sette ore di lavoro, ma ci dovrei riuscire».

«Perfetto, tenente. Lo faccia» ordinò il capitano.

«E la gente della colonia? - chiese il guardiamarina Park - Si aspettavano di ricevere notizie già più di una settimana fa, e molti cominciano a innervosirsi. Cosa dobbiamo dirgli?».

«Gli diremo che le due sonde che abbiamo mandato avevano un problema al dispositivo di navigazione; adesso ce ne siamo accorti e lo abbiamo corretto nella terza. Erik, convoca quei rappresentanti che i coloni hanno nominato e spiega loro questa versione».

«E pensi che ci crederanno?» chiese il secondo.

«Non lo so, ma spero che vorranno crederci. Anche perché non potremmo raccontargli la verità neanche volendo, visto che non la sappiamo neanche noi».

Gli altri ufficiali mantennero un silenzio di approvazione.

«Bene, signori. Direi che abbiamo parecchio da fare. Potete andare».

Gli ufficiali si avviarono per uscire dalla sala radio.

«Akira, Hans, aspettate un momento».

Wulf e Nakadawa si bloccarono, poi si voltarono. Erano sorpresi: Farris non li chiamava mai per nome.

«Sentite, dovete fare una cosa prima del lancio - il comandante prese fiato – Voglio che programmiate alcune videocamere perché siano in grado di resistere al viaggio a velocità iperluce, e che le installiate sulla sonda, in modo che possano riprendere tutto l'ambiente intorno alla Luna e alla Terra».

I due rimasero in silenzio, stupiti.

«Inoltre, Akira, voglio che tu riduca la permanenza nell’orbita terrestre a trentasei ore, senza dirlo a nessuno, così avremo un po’ di margine prima di avvertire i coloni. Inoltre, quando arriverà la risposta, voglio che vengano avvertiti, oltre a noi tre, solo il comandante in seconda e la signorina Park. Non deve esserci nessun altro quando ascolteremo i messaggi».

Il capo Wulf non riuscì a trattenere la sua sorpresa per gli strani ordini: «Mein Gott, comandante, di che cosa ha paura?».

«Non ne ho idea - rispose Farris cupo - E' proprio questo a farmi paura». 

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Capitolo 4
*** IV ***


IV

Akira Nakadawa era stanchissimo. Erano sei giorni che quasi non dormiva: prima per il lavoro sulla sonda, poi per il nervosismo dell’attesa. Provava una stranissima inquietudine: era certo che questa volta ci sarebbe stata una risposta registrata sull'oggetto che stava tornando dal loro pianeta natale, ma, per qualche motivo, la temeva. Ormai non doveva mancare molto: la sonda era già arrivata nel sistema di Elysian e stava completando la fase di stabilizzazione nell'orbita alta del pianeta. Salvo complicazioni, entro pochi minuti sarebbe stata nella posizione ideale per inviare alla nave il contenuto dei suoi banchi di memoria.

Una spia lampeggiò sul monitor, scuotendo l’ufficiale dalla sua assonnata apatia: bastarono pochi gesti per capire che era giunto il momento della verità. Eseguì rapidamente il download, quasi temendo che si ripetesse quanto era avvenuto in precedenza, e questa volta, dopo pochi secondi di analisi, vide che erano giunti due file. Uno era la registrazione delle videocamere, ma il secondo era senza ombra di dubbio un audio. Questa volta la Terra aveva risposto.

Stava per attivare l’interfono per chiamare il capitano e gli altri tre ufficiali autorizzati ad ascoltare il messaggio, ma si bloccò con il dito a pochi millimetri dal pulsante: non poteva aspettare. I suoi brutti presentimenti avevano bisogno di essere sfatati il prima possibile. Si guardò in giro, accertandosi di essere solo, poi si mise le cuffie ed aprì il file audio.

La trasmissione durò alcuni minuti. Alla fine Nakadawa era stravolto, gli occhi spalancati e fissi nel vuoto. Crollò con la schiena contro lo schienale, svuotato di ogni forza.

 

«Capitano! Comandante Brent!».

I due ufficiali erano nella plancia di comando, impegnati a leggere alcuni rapporti giunti dai coloni civili, quando videro uno degli aiutanti di Nakadawa arrivare di corsa, trafelato.

«Cosa succede, signor Willis?» chiese Farris, cercando di nascondere la trepidazione. Dal tono di urgenza del messaggero, poteva intuire facilmente il contenuto del messaggio.

«Il tenente Nakadawa chiede che lo raggiungiate in sala radio il prima possibile!».

Il comandante e Brent si guardarono negli occhi per un paio di secondi, poi, abbandonati i rapporti, uscirono dalla plancia di comando a passo veloce.

 

Giunsero alla sala radio contemporaneamente al capo Wulf e a Lin. Entrambi sembravano trafelati e ansiosi, con i volti entusiasti: era chiaro che l'arrivo del tanto atteso messaggio significava la fine di una preoccupazione tanto ignota quanto sgradevole. Tutta la loro vivacità, però, si spense non appena videro il volto di Nakadawa: era color cenere, disfatto, svuotato di ogni traccia di gioia. Era il volto di un uomo che ha subito il più devastante shock della sua vita. Era accasciato sulla sua sedia, e fissava il vuoto con occhi spenti.

Mentre Brent chiudeva la porta, Farris prese l’orientale per una spalla e lo scosse dicendo: «Akira, che ti prende? C'è qualche problema? Il messaggio è arrivato?».

Vedendo che l’altro non reagiva, lo afferrò anche con l’altra mano alzando la voce: «Insomma, tenente! Riprenditi! Lo hai ascoltato? Cosa dicono?».

Finalmente Nakadawa sollevò gli occhi, e ciò che Farris vide non gli piacque per nulla: orrore, puro orrore.

Il tenente prese fiato, poi balbettò: «Io… loro… comandante… non ce la faccio - portò la mano al monitor, mentre gli altri si affollavano intorno a loro - E’ meglio che ascoltiate da soli. Io non riuscirei a spiegarlo» e premette sullo schermo del computer il pulsante di riproduzione.

Prima si udì solo un fruscio, poi il messaggio iniziò. Era una voce strascicata, come di un uomo giunto allo stremo delle proprie forze: “Qui è Martin Defleché, già Direttore Esecutivo dello United Nations Human Settlements Programme, e attuale facente funzione di Segretario Generale delle Nazioni Unite. Questo messaggio è destinato all’astronave Columbus. Prego Dio perché in qualche modo vi raggiunga e siate in grado di ascoltarlo: la frequenza stabilita per voi è andata perduta, ma il trasmettitore che sto usando è alimentato ad energia eolica, e ripeterà il messaggio per anni, quindi spero che, non ricevendo risposta su quella, ne tentiate altre. So che ciò che vi dirò sarà per voi orribile da sentire, che potrebbe distruggere le vostre menti e oscurare il vostro cuore, ma è necessario che sappiate. Non potete aspettarvi una seconda spedizione. Nessuno vi raggiungerà su Elysian, perché quando ascolterete questo messaggio, non ci sarà più nessuno in grado di farlo - Si udì una sorta di singhiozzo, e per un attimo la voce s’interruppe - Scusatemi, anche per me è difficile accettare tutto questo. Sarebbe inutile spiegarvi come è iniziata, ma sappiate che meno di un anno dopo la vostra partenza il mondo era già piombato nel caos: contrasti tra nazioni, rivoluzioni, colpi di stato, conflitti locali. L’ONU ha fatto il possibile per evitare il disastro, ma entro altri sei mesi la guerra era già scoppiata in almeno una dozzina di luoghi differenti. Il passo verso la prima esplosione atomica è stato, poi, molto breve - ancora un silenzio - Ora siamo nell’ottobre 2181… credo, non sono completamente certo della data, e neanche della stagione in effetti, fuori è sempre freddo. La guerra è finita da un anno e mezzo. Non era rimasto praticamente nessuno per combatterla. Gli scienziati che avevano teorizzato l’inverno nucleare hanno avuto ragione: la Terra è avvolta da una nera nube di polvere, ed è iniziata la più oscura delle ere glaciali. Ciò che restava dell’ONU ha fatto il possibile per i sopravvissuti. Inutilmente: non restano che pochi milioni di persone; la vita vegetale e quella animale sono quasi estinte; il freddo e il buio stanno finendo di uccidere ciò che è sopravvissuto alle radiazioni. Entro pochi anni, la Terra sarà solo un cupo deserto radioattivo - l’uomo prese ancora fiato - Voi siete la sola speranza del genere umano, gli ultimi uomini ancora vivi. Quando la situazione è degenerata abbiamo provato a terminare la Magallanes prima del previsto, ma è stata colpita da un missile vagante, quindi siete tutto ciò che ci resta. Io prego perché almeno la Colonia AA-001 possa continuare a vivere, che il genere umano non sia destinato a sparire con noi. Parla Martin Defleché, ultimo Segretario delle Nazioni Unite. Fine del messaggio, e che Dio ci perdoni per ciò che abbiamo fatto”.

Il silenzio calò come un macigno sulla sala radio. I cinque presenti non erano in grado di parlare per lo shock. Farris si voltò verso Nakadawa, con occhi imploranti, quasi a chiedere una qualsiasi smentita, ma l’ufficiale radio toccò di nuovo il monitor, attivando il video delle telecamere.

Fu il colpo finale: vedere Base Luna ridotta in macerie e la Terra avvolta da una compatta nube color acciaio fu troppo anche per uomini temprati come gli ufficiali della Columbus. Liu Li Park, semplicemente, si appoggiò alla parete, si portò le mani al volto e iniziò a piangere a dirotto. Il capo Wulf colpì la porta con un pugno che la fece tremare, bestemmiando in tedesco. Brent crollò su una sedia, gli occhi fissi nel vuoto, mormorando: «Tutto finito… tutti quelli che conoscevamo… che amavamo… tutti morti!».

Wulf si passò il dorso di una mano sugli occhi: «Avevo un fratello… il suo figlio più piccolo era uguale a me da piccolo… amava i motori, voleva capire come funzionavano… ho passato ore in officina con lui… - non ce la fece più, e si abbandonò anche lui alle lacrime - Partendo avevo accettato di non vederli più… ma questo…» strinse i pugni fino a piantarsi le unghie nei palmi.

Farris aveva appoggiato le mani su uno dei tavoli di metallo, e ne fissava la superficie a testa bassa, in silenzio, come svuotato. Solo dopo un paio di minuti si sollevò, con occhi duri come il ferro: «Dobbiamo decidere cosa fare adesso».

Vedendo che gli altri lo fissavano con sguardo sconvolto, l’uomo continuò: «Non crediate che non capisca il vostro dolore. Il mio è altrettanto grande - abbassò lo sguardo, per nascondere una lacrima - Mio figlio era ufficiale della Marina degli Stati Uniti. Quando sono partito, il suo primo figlio aveva quasi due anni, e sua moglie era incinta del secondo. Non li hanno lasciati partire con noi, ma il Segretario Generale Reeves mi aveva promesso che avrebbe fatto in modo di metterli sulla seconda nave. E ora lui, mia nuora, i miei nipotini… sono solo cenere radioattiva nell’aria di un pianeta morto. E non posso neanche permettermi di piangerli, perché adesso sulle nostre spalle c’è una responsabilità immensa, perfino più grande di quella che avevamo prima. Le persone che si trovano su questo pianeta sono tutto ciò che resta della razza umana: se noi crolliamo, se questa colonia non dovesse sopravvivere, la nostra specie morirà con noi. Non possiamo lasciarci trasportare dai nostri sentimenti, per il bene di tutti!».

Per un paio di minuti nessuno riuscì a parlare, ognuno troppo oppresso dal peso della situazione. Fu la voce rotta del guardiamarina Park a sciogliere quel silenzio pesantissimo: «Che cosa diremo a questa gente? Non possiamo dire loro la verità, li distruggeremmo!».

«Ha ragione - mormorò Brent, faticando a riprendere una parvenza di controllo - Vivrebbero con la morte nel cuore sapendo di essere gli ultimi uomini nell’universo. Molti forse si ucciderebbero al pensiero di chi hanno lasciato indietro e che magari speravano di rivedere dopo uno dei prossimi viaggi. Non durerebbero dieci anni: la colonia si autodistruggerebbe».

«Qualcosa però dobbiamo dire - intervenne Nakadawa, che aveva già avuto il tempo di piangere i due fratelli che ormai da tempo dovevano essere polvere tra le rovine di Yokohama - Si aspettano una risposta dalla Terra. Sono già preoccupati per il ritardo, si fanno delle domande. Abbiamo un paio di giorni al massimo, poi, però vorranno una spiegazione. Cosa possiamo inventarci?».

Farris rimase in silenzio per quasi due minuti, mentre il suo cervello valutava le possibilità che avevano di fronte, poi si voltò verso l’ancora devastato Wulf e disse: «Capo, comprendo i tuoi sentimenti, ma sono costretto a chiederti di fare qualcosa che non ti piacerà per niente».

 

Quella notte tutti i coloni furono svegliati da un prolungato e acuto stridio, seguito da una terribile esplosione. Accorrendo fuori dalle case prefabbricate, videro lingue di fuoco alzarsi dalla fiancata devastata della Columbus. L’equipaggio e i soldati si precipitarono a tentare di domare l’incendio; alcuni civili intervennero per aiutarli, ma la maggior parte rimase semplicemente pietrificata a guardare le fiamme macchiare il cielo buio.

Gli ultimi focolai non vennero spenti fino alla tarda mattinata, e anche allora dall’enorme squarcio nelle paratie della parte poppiera della nave continuarono ad alzarsi dense colonne di fumo. All’interno, si vedevano i resti contorti dei motori.

Nel pomeriggio, radunati tutti i coloni e i militari, il comandante in seconda Brent, affiancato dal capitano Farris, spiegò quanto era accaduto: durante un normale test della funzionalità dei motori, qualcosa doveva essersi rotto, e la potenza era salita al massimo, senza che nessuno riuscisse a ridurla. Prima che fosse possibile staccare tutto, i motori erano esplosi, ma prima avevano provocato un disastro: con la maggior parte dei sistemi spenti, l’energia in eccesso non aveva potuto scaricarsi da nessuna parte, e aveva fuso la maggior parte degli impianti elettronici della nave, inclusi la radio e il sistema di navigazione. Non c’era alcuna speranza di ripararli: perfino in un bacino di carenaggio sarebbe perfettamente attrezzato sarebbe stata un'impresa quasi impossibile.

«Questo significa che non potremo ricevere risposte dalla Terra. Quando la sonda tornerà, non avremo niente con cui farla rientrare al suolo, né per connetterci a essa. Siamo certi che sulla Terra il messaggio sia arrivato - deglutì faticosamente, cercando di nascondere l'orrore che ancora lo attanagliava - ma fino a quando non arriverà la seconda nave saremo completamente soli».

Dalla folla si levarono voci di protesta e di preoccupazione, il cui volume si alzò rapidamente; la voce stentorea di Farris, però, riportò immediatamente la calma: «Questo brutto incidente non cambia nulla. Sapevamo già che saremmo stati soli per molto tempo, per oltre sei anni. Il fatto che non possiamo ricevere messaggi cambia poco. Certo, sarà dura non poter sentire per tutto questo tempo le persone care che abbiamo lasciato sulla Terra, ma supereremo ogni difficoltà che ci si presenterà davanti, con lo spirito degli antichi colonizzatori. Noi resisteremo, continueremo le nostre vite, renderemo questo pianeta adatto all’uomo, lo trasformeremo nella nostra casa. E, quando la seconda nave arriverà, noi saremo qui per accoglierla!».

La fine del discorso fu accolta da grida di gioia e applausi scroscianti, che fecero sentire il comandante il peggiore dei bugiardi.

 

Mentre la folla si disperdeva, Brent si avvicinò al suo superiore: «Belle parole, veramente. Dopo averla sentita sarebbero stati pronti a lanciarsi alla carica contro una cittadella fortificata».

Il volto di Farris si aprì in un mesto sorriso: «Non è finita. Il capo Wulf, mettendo in scena l’incidente, ci ha fatto guadagnare sei anni, ma il problema tornerà a proporsi».

Brent scosse la testa: «Non sarà la stessa cosa. Certo, quando tra sei anni non vedranno arrivare nessuno saranno delusi, tristi, si sentiranno abbandonati. Si faranno domande, e forse alcuni arriveranno anche a intuire la verità, a comprendere che qualcosa di terribile è accaduto sulla Terra. Non sarà però possibile avere una conferma o una smentita, e la sola cosa che potranno fare sarà continuare a vivere. Con il passare del tempo e delle generazioni, si abitueranno a considerare questo pianeta la loro casa. Non dimenticheranno mai la Terra, il pianeta azzurro dei loro ricordi, che per coloro che saranno nati qui sarà una leggenda. La loro realtà però sarà ciò che avranno. Elysian sarà la loro patria».

Farris sorrise di nuovo, questa volta con più allegria, e strinse la spalla del suo secondo: «Credo che tu abbia ragione. In fondo il genere umano ha sempre dimostrato una grande capacità di ripresa».

Rimase per qualche secondo in silenzio, pensando alle proprie responsabilità di comandante, poi aggiunse: «Ho preso una decisione: lascerò uno scritto che testimoni quanto è successo sulla Terra al mio successore come comandante della Colonia, con il compito di fare altrettanto con chi lo seguirà, senza leggerlo per almeno due secoli. Per allora, la popolazione si sarà legata profondamente a questo luogo, e sapere la verità non sarà più così devastante».

L’uomo infilò le mani nelle tasche, e lasciò correre il suo sguardo sulla radura, sulle persone che tornavano alla loro vita: «Con un po’ di fortuna, la razza umana continuerà ad esistere in questo nuovo mondo, e forse, un giorno, se non commetteremo nuovamente gli stessi sbagli, qualcuno riuscirà a realizzare un'astronave in grado di tornare sulla Terra. Per allora il pianeta si sarà ripulito, e l'umanità rivedrà la propria casa».

I due ufficiali, molto più sereni, tornarono verso il relitto della Columbus, dal quale l’equipaggio stava scaricando tutto ciò che c’era di utilizzabile. Non sarebbe mai più servita: la loro colonia sarebbe stata per sempre.

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