Colonia AA-001 di Marco1989 (/viewuser.php?uid=18039)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 1 *** I ***
I
L'essere
non aveva nome. Non c’era
nessuno, nel suo mondo, che potesse dargliene uno. In ogni caso, il suo
cervello non sarebbe stato capace di comprenderne il significato. Lui
era,
semplicemente, se stesso. Un cacciatore. Respirava, si muoveva,
cacciava,
uccideva, mangiava, beveva, espletava i suoi bisogni, dormiva e, quando
era la
stagione giusta e il Grande Cerchio Azzurro si trovava nella parte
appropriata del
cielo, cercava una compagna per riprodursi. Questo era tutto
ciò che sapeva, e
questo gli bastava.
In
quel momento la sua necessità più
immediata era nutrirsi: l’oscurità era calata tre
volte dalla sua ultima preda,
perciò tutti i suoi sensi erano concentrati sulla caccia.
Avvertiva ogni
movimento dell’aria, la vegetazione bassa che schiacciava con
le sue otto
zampe, l’odore umido del sottobosco. I suoi cinque occhi, uno
dei quali era
posto dietro la testa, gli fornivano un’ottima vista, ma la
sua arma migliore
era l’olfatto: poteva individuare qualsiasi essere
commestibile a distanze
enormi. Quando sentiva qualcosa che la sua rudimentale memoria
identificava
come un potenziale pasto, si avvicinava a esso come un fantasma,
aiutato dal
corto e ispido pelame che si confondeva con l’ambiente. Una
volta giunto ad una
distanza sufficientemente ridotta, sarebbe stato compito dei suoi
potenti
artigli e dei denti lunghi e affilati procurargli il cibo.
Così si comportava
da quando era nato, e non concepiva nessun motivo per cambiare.
Quel
giorno però sarebbe stato diverso
dagli altri.
Dapprima
avvertì uno strano movimento
nell’aria: i suoi acutissimi sensi percepirono un insolito
vento, dapprima
leggerissimo, poi sempre più intenso, come se qualcosa di
molto grande si
stesse muovendo nel cielo. Poi sentì un odore insolito,
qualcosa che la sua
esperienza non era in grado di riconoscere: era molto intenso, e
sembrava
venire dall’alto, da sopra gli alberi. La sua limitata
capacità di elaborazione
gli suggerì, come confronto, un incendio: era come se
qualcosa stesse bruciando
nell’aria, ma non era in grado in alcun modo di capire cosa.
Infine, i suoi
involuti padiglioni auricolari captarono un rumore, prima lieve, poi
sempre più
potente, una sorta di rombo. Gli ricordava una mandria di animali in
carica,
solo enormemente superiore in potenza. Il suo istinto era in preda alla
confusione più totale di fronte a qualcosa di mai accaduto
prima, incapace di
prendere una decisone sul da farsi. Quando però il terreno
iniziò a tremare, la
scelta fu immediata: “fuga”. Non poteva lottare
contro qualcosa che non aveva
zanne, artigli, un corpo. Contro gli strani eventi che coinvolgevano
tutto il
suo ambiente, la sola soluzione era scappare.
Si
lanciò in uno sfrenato galoppo,
spezzando le piante ed evitando gli enormi alberi all’ultimo
secondo. Le otto
zampe e la spina dorsale estremamente snodabile gli permettevano
movimenti
molto aggraziati. Corse finché la foresta non
iniziò a diradarsi, per poi
aprirsi in una radura. A quel punto la creatura si bloccò,
impietrita. Nel
cielo vide qualcosa di troppo assurdo per la sua mente. Un enorme
animale
fluttuava nell’aria, apparentemente a una grande altezza;
nonostante la distanza,
però, era talmente immenso da coprire parzialmente il Grande
Cerchio, la cui
luce azzurra luccicava sulla sua stranissima pelle con riflessi di
bizzarri
colori. Sia il rombo che lo strano odore provenivano dall'essere
gigantesco. La
creatura rimase bloccata: nel suo mondo, che aveva imparato a conoscere
da
quando era nata, non c’era posto per un animale volante di
simili dimensioni.
Si lasciò comunque guidare dal suo primitivo cervello, che
cercò di
classificarlo nei modi che conosceva: era evidentemente troppo grande
per
essere una preda, e lo era più che a sufficienza per essere
un pericolo; la
reazione, quindi, poteva essere una sola.
La
creatura fuggì nella foresta alla
massima velocità possibile.
«Vai
pure, amico, e ti auguro una buona
giornata! - ghignò il comandante in seconda Brent, vedendo
la scena sul monitor
- Scusaci per il disturbo!».
«Con
chi sta parlando, Erik?» chiese un
uomo in piedi alle sue spalle; sembrava più vicino ai
cinquanta che ai
quaranta, ma il suo corpo non avrebbe sfigurato in un uomo di trenta; i
capelli
neri, ormai venati di grigio, erano tagliati corti, così
come la folta barba.
Indossava un’uniforme azzurra, con i gradi di ufficiale. Non
c’erano bandiere,
ma sul braccio destro era disegnato uno strano simbolo: una stilizzata
mappa
della Terra incorniciata da ramoscelli di ulivo.
«Con
un esemplare della fauna locale,
comandante - rispose Brent, che, con il suo metro e novanta, le spalle
larghe e
i capelli rossi, sembrava un vichingo - Promette bene, direi: pelame
scuro,
otto zampe e, se ho visto bene, almeno quattro occhi!
«Decisamente
non siamo più in Kansas,
Erik» borbottò il comandante, citando
“Il Mago di Oz”.
Il
capitano di vascello William Farris
fece scorrere il suo sguardo sugli altri dodici uomini che occupavano
la
plancia di comando della Columbus,
ciascuno intento al proprio compito. Tutti, incluso il comandante in
seconda,
indossavano la divisa azzurra delle Forze Spaziali dell’ONU.
Rivolgendosi
a un giovane orientale
seduto dietro un computer, il capitano chiese: «Tenente
Nakadawa, mi conferma
la mancanza di trasmissioni radio?».
«Signorsì,
comandante - rispose
l’ufficiale - Tutto lo spettro delle frequenze è
vuoto».
Un
altro membro del gruppo di comando,
un giovane dai lineamenti ispanici, si aggiunse alla conversazione:
«I droni da
ricognizione confermano le osservazioni precedenti: nessuna
città, nessuna
strada, nessun segno di civiltà. Flora e fauna sembrano
abbondanti, ma nessuna
forma di vita intelligente.
«Tenente
Motabe, ha effettuato lo
scanning dell’atmosfera?».
Un
uomo di colore basso e magrissimo si
voltò e rispose: «Signornò, ma i
rapporti delle sonde automatiche dicono che è
perfettamente respirabile».
«Lo
so, ma faccia ugualmente una nuova
scansione. Non intendo scendere al suolo senza essere sicuro di non
soffocare.
Mentre
l’altro ufficiale, leggermente
contrito, iniziava a muovere le mani sullo schermo del suo terminale,
Brent si
lasciò andare a un sorriso: il comandante Farris era il
migliore su cui l’ONU
potesse contare, ma alcune volte era veramente pignolo. In quel caso,
però,
poteva capirlo: non potevano permettersi alcun errore, dopo il
lunghissimo
viaggio che avevano fatto e tutto ciò che lo aveva preceduto.
Erano
partiti dalla Terra nel 2177, sei
anni prima, ma dall’inizio dell’operazione era
passato addirittura un quarto di
secolo. Era infatti il 2148 quando una sonda dell’ONU aveva
individuato, a
sessantadue anni luce dal sistema solare, in orbita attorno ad una
stella
azzurra, un pianeta delle dimensioni di Marte, ma con caratteristiche
incredibilmente simili alla Terra: atmosfera perfettamente respirabile,
con una
percentuale di ossigeno di poco superiore a quella terrestre, una
gravità di
pochissimo inferiore, abbondante acqua allo stato liquido, un
sottosuolo dotato
di forze tettoniche attive. Una sorta di fratello minore del pianeta
d’origine
dell’umanità. Era una scoperta incredibile: dal
2124, anno d’inizio del
programma di esplorazione interplanetaria voluto e guidato
dall’ONU in seguito
all’invenzione, dieci anni prima, dei motori spaziali
iperluce, era il primo
pianeta scoperto con caratteristiche tanto adatte a sostenere la vita
umana. La
successiva esplorazione si era rivelata altrettanto esaltante: buona
parte
della superficie del pianeta, illuminato da una intensa luce azzurra,
era
occupata da un immenso oceano, interrotto da tre grandi isole
più o meno delle
dimensioni dell’Australia e da oltre cento più
piccole. C’era abbondanza di
vita, favorita da un clima costantemente tropicale, e non solo
microscopica:
erano moltissime le specie vegetali e animali, abitanti sia nel mare
che sulla
terra ferma. L’esplorazione aveva rivelato, inoltre, che il
pianeta era
estremamente ricco anche dal punto di vista
“economico”: sotto i fondali
oceanici c’erano grandi depositi di idrocarburi, e le
montagne delle isole
maggiori erano ricche di carbone, uranio, ferro, rame, oro, e molti
altri
minerali, inclusi alcuni preziosissimi metalli superconduttori. Il nome
“Elisyan”, il paradiso delle civiltà
classiche, sembrò il più azzeccato. Il
solo problema era la distanza: anche con i migliori motori che la
tecnologia
era in grado di produrre, un’astronave con equipaggio avrebbe
impiegato almeno
sei anni per arrivarvi. Un’accelerazione maggiore sarebbe
stata insostenibile
per un organismo umano. Perciò, solo dopo diversi anni di
esplorazioni con
veloci sonde senza equipaggio e rover automatici era stata organizzata
la
spedizione vera e propria. La Columbus
era una nave enorme, a forma di fuso; pur essendo costruita con molte
delle
caratteristiche di una nave da guerra, era in realtà
disarmata. A bordo
l’equipaggio, proveniente da ogni parte del mondo, era
interamente costituito
da membri della Forza di Interposizione e Pacificazione delle Nazioni
Unite, il
braccio militare dell’ONU; ai suoi quasi cento membri, sia
uomini che donne, si
aggiungevano un'altra cinquantina di militari delle forze di terra e
circa un
centinaio tra tecnici, ingegneri, botanici e scienziati di ogni tipo.
Non erano
però loro il motivo delle immense dimensioni della Columbus: essa, infatti, oltre a
un’enorme quantità di materiali,
portava anche molti passeggeri. Erano oltre novecento, ed erano tutti
civili,
in massima parte famiglie. Considerando i nati e i morti durante il
lungo
viaggio, c’erano quarantotto persone in più
rispetto alla partenza. Erano loro la
vera ragione del viaggio. Quella, infatti, non era una semplice
esplorazione,
non era una spedizione scientifica; Erik lo sapeva bene, il Segretario
Generale
dell’ONU aveva fatto a lui e agli altri membri
dell’equipaggio un lungo
discorso per spiegare l’importanza di quel viaggio. Loro
erano la Colonia AA-001,
o meglio, lo sarebbero diventati non appena fosse stato costruito un
insediamento stabile su Elysian. Sarebbero stati la prima
comunità umana a
vivere sotto un sole diverso da quello natale.
Dopo
un paio di minuti di lavoro, Motabe
si voltò e disse sorridendo: «Scansione
effettuata, comandante. Corrisponde a
quelle effettuate dalle sonde. L’aria è
perfettamente respirabile».
«Guardiamarina
Park, mi conferma che questo
è il posto previsto per l’atterraggio?».
Una
bella donna orientale sui
trent’anni rispose: «Signorsì. Griglia
dodici, quadrante C. Una radura priva di
alberi e dal terreno sufficientemente solido per sostenere il peso
della nave.
Il
volto di Farris si aprì finalmentein
un sorriso: «Bene, allora diamo alla gente la buona notizia.
La aspettano da
tanto, non facciamoli attendere ancora.
Il
capitano prese il microfono del
sistema di comunicazione interno, regolò
l’impianto, poi disse: «Attenzione,
qui è il capitano William Farris che parla a tutti gli
uomini e le donne a
bordo dell’astronave Columbus».
La
voce del comandante risuonò in tutti
i corridoi della nave, dalla mensa al vano motori; tutti i membri
dell’equipaggio cessarono le loro attività per
ascoltarla. Nella stanza
pesantemente blindata adibita a quello scopo, i soldati del corpo di
guardia
interruppero il loro addestramento. Arrivò anche nella parte
più ampia della
nave, attigua alla stiva di carico, che aveva il nome ufficiale di Area
di Permanenza
Prolungata, familiarmente chiamata Esperance Town. Era la zona dove
vivevano,
fin dalla partenza, le famiglie dei civili. Era stata attrezzata come
una vera
città: aveva bar, ristoranti, un cinema, perfino una scuola,
dove alcuni
insegnanti tenevano corsi dall’asilo fino
all’università. Era una vera comunità
in viaggio nello spazio. Tutte le persone presenti alzarono la testa,
sperando
di sentire il messaggio che attendevano da tanto, troppo tempo.
«Siamo
in viaggio ormai da sei anni,
tre mesi, quindici giorni e sette ore - proseguì il capitano
- E’ un tempo
lunghissimo. Quindi mi sembra molto strano essere qui a dirvi che
dovete
radunare le vostre cose il più in fretta possibile. Tra
venti minuti il Columbus si
poserà sul pianeta Elysian.
Siamo arrivati!».
I
microfoni posti in tutte le parti
della nave rischiarono di esplodere, ma riuscirono a trasmettere alla
plancia
di comando il boato di gioia che attraversò tutte le oltre
mille persone a
bordo, militari, membri dell’equipaggio e civili. Alcuni si
misero a ballare e
saltare, altri scoppiarono in lacrime di gioia, altri ancora si
limitarono a
ringraziare il proprio Dio, qualunque esso fosse. L’atmosfera
di festa si
trasmise anche alla plancia, con gli ufficiali che ridevano, si
stringevano le
mani e si davano pacche sulle spalle. Il sottotenente Wosper,
sovrintendente
alla manutenzione, arrivò addirittura ad imitare la famosa
foto del soldato con
l’infermiera, baciando con passione una stupefatta ma
sorridente Park.
Il
comandante in seconda, trattenendo a
stento la felicità, si avvicinò a Farris:
«Congratulazioni, comandante. Si è
guadagnato un posto nei libri di storia. Ora dovrà pensare
ad una bella frase
epocale da pronunciare quando scenderemo a terra».
La
risposta del capitano non si fece
attendere: «Quando sbarcò sulla Luna, Neil
Armstrong disse che quello era “Un
piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per
l’umanità”. In confronto a
questo, era minuscolo - il volto dell’ufficiale si
aprì in un sorriso di gioia
- Credo che dirò semplicemente: “Benvenuti a
casa!”».
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Capitolo 2 *** II ***
II
Il
capitano Farris osservava con
evidente soddisfazione il campo base dall’alto di una
piattaforma di legno. Era
stata una delle prime cose che avevano costruito, quando ancora tutti
dormivano
all’interno dell’astronave: era fatta di vero pino
terrestre, rinforzato da
listelli d’acciaio in modo da essere resistente, aveva una
forma quadrata, con
un parapetto di un metro e venti che ne circondava il perimetro;
l’avevano
piazzata sull’albero più alto tra quelli che
crescevano intorno alla radura
dove era atterrata l’astronave, una sorta di gigante simile
ad un ginko,
coperto di enormi liane. A vederla dal basso, inchiodata
com’era sopra una
sorta di culla formata da alcuni rami intrecciati tra loro, poteva
sembrare simile
a una casa sull’albero, se non per un dettaglio: al centro,
su un perno
girevole, era montata una mitragliatrice leggera, dietro alla quale un
giovane
soldato stava fumando una sorta di strano sigaro di colore violaceo.
Un
sorriso si dipinse sul volto di
Farris nel vedere la faccia estremamente soddisfatta del ragazzo. Le
scorte di
tabacco che erano state portate sull’astronave non erano
durate molto, e dopo
anni di astinenza, i fumatori avrebbero quasi letteralmente ucciso per
una
sigaretta. Era stato ovviamente uno di loro, un botanico, a scoprire
una strana
pianta, con le foglie simili a quelle di un carciofo e un odore
penetrante. Ricordando
l'esistenza di un vegetale in qualche modo simile sulla Terra, aveva
fatto un
tentativo, ed aveva appurato che, lasciando essiccare leggermente le
foglie e
arrotolandole, si otteneva qualcosa di più gustoso di un
sigaro. Il capitano
aveva provato a fumarne uno: avevano uno strano retrogusto che
ricordava
lontanamente la cannella, diversissimo da quello del tabacco, ma
tutt'altro che
sgradevole. Nessuno sapeva ancora cosa ci fosse esattamente nelle
foglie, ma
poiché era stato appurato che non erano velenose, per il
momento nessuno se ne
preoccupava.
Era
solo una delle scoperte che avevano
fatto sul pianeta in due mesi: Elysian si era rivelato un mondo
primitivo,
abitato da molti animali pericolosi, ma anche da numerose specie utili
e
affascinanti. Avevano appurato che, se si escludevano creature di
piccole
dimensioni simili ad artropodi, tutte le razze terrestri superiori
sembravano
appartenere ad una stessa classe: una specie di incrocio tra
caratteristiche da
mammifero e da rettile, con peli che crescevano sopra a dure scaglie.
Inoltre,
sembravano avere tutti cinque occhi e otto zampe, predatori e prede. Si
andava
da animali piccoli come topi ad alcuni erbivori delle dimensioni di un
ippopotamo. Facevano eccezione le creature volanti, che, oltre ad avere
sulla
pelle delle scaglie sfrangiate simili a primitive piume, possedevano
solo due
occhi e due zampe. Avrebbero potuto somigliare a primitivi uccelli, se
non
fosse stato per il muso irto di denti e le quattro ali, disposte a
coppie. Per
quanto avevano capito, la carne delle creature di Elysian non era
velenosa, ma
solo poche sembravano avere un sapore accettabile.
Diversa
era la questione per la flora:
la pianta alla base della catena alimentare del pianeta sembrava essere
una
sorta di muschio, che copriva gran parte del terreno come una primitiva
erba;
da lì, le piante andavano a crescere: cespugli spinosi con
rami simili a lunghi
serpenti attorcigliati, enormi arbusti non dissimili dalle felci, fino
ad
alberi di moltissimi tipi, compresi alcuni giganti alti anche ottanta
metri.
C’erano piante con fiori o senza, ed alcuni producevano anche
frutti, di vari
colori. C’era però una caratteristica comune:
tutte le strutture di base, dal
muschio alle foglie di ogni pianta, erano di un uniforme viola pallido.
Molti frutti
erano stati sperimentati sulle cavie, ed erano risultati commestibili,
e alcuni
erano saporiti quanto i migliori frutti terrestri. Insomma, Elysian
prometteva
decisamente bene. Per di più, alcune spedizioni di
esplorazione avevano
raccolto campioni sufficienti a confermare la presenza di minerali
preziosi e
metalli utili.
Mentre
una parte dei coloni si
dedicavano all'esplorazione, altri costruivano, e ormai la Colonia
AA-001 aveva
preso forma. Per il momento si trattava in massima parte di
prefabbricati,
grandi costruzioni in acciaio, plexiglass e vetroresina, ma ogni
famiglia aveva
una propria casa, per quanto piccola. Vi erano vari fabbricati adibiti
a
laboratorio, infermeria, scuola e vari altri servizi essenziali.
Intorno a
tutto, era stata edificata una sorta di palizzata di acciaio e
alluminio per
proteggere gli abitanti dalla fauna del pianeta. Al centro della
neonata
cittadina, su un’asta, sventolava la bandiera azzurra con i
ramoscelli di ulivo
che racchiudevano una rappresentazione del globo terrestre.
Non
c’erano solo i civili: i soldati
avevano un loro capannone che fungeva da caserma, e così
anche gli uomini
dell’equipaggio. Solo un piccolo nucleo era rimasto a bordo
della Columbus, che
occupava interamente lo 'spazioporto' della Colonia, per fare in modo
che gli
impianti essenziali continuassero a funzionare. Farris aveva fatto in
modo di
lasciare a bordo, in massima parte, i pochi membri
dell’equipaggio privi di
famiglia. Non erano molti: anche quelli che erano partiti da soli
avevano quasi
sempre trovato, in oltre sei anni di viaggio, un partner. Considerando
soldati,
marinai, scienziati e coloni, Farris ricordava di aver celebrato almeno
cento
matrimoni.
Lui,
ovviamente, era rimasto: non aveva
una famiglia con se. Sua moglie era morta dieci anni prima, e il suo
unico
figlio, ufficiale della Marina tradizionale degli Stati Uniti, quella
che
navigava ancora sull’acqua, non aveva avuto
l’autorizzazione a seguirlo. Era
stata dura partire sapendo che forse non lo avrebbe visto mai
più, ma il dovere
veniva prima di tutto, per entrambi. Non aveva quindi motivi
particolari per
voler vivere a terra. Per di più, un comandante non
abbandona la sua nave
finché la missione non è finita, e per lui non
sarebbe terminata finché non
fosse arrivata la seconda ondata di coloni, oltre sei anni dopo.
Sapeva
che sarebbero arrivati, lo
sapeva per certo. Otto giorni prima avevano fatto partire, in direzione
della
Terra, una radio-sonda, ed erano in attesa di una risposta, che doveva
arrivare
proprio in quelle ore. Le radio-sonde erano state inventate circa tre
decenni
prima, ed erano state la risposta al problema delle comunicazioni radio
nello
spazio aperto. Poiché, nello spazio, le onde radio si
propagano alla velocità
della luce, le comunicazioni tra una nave dotata di motori iperluce
situata
nello spazio profondo e la Terra sarebbero state praticamente
impossibili:
paradossalmente, la nave avrebbe impiegato molto meno tempo a portare
il
proprio messaggio da sola piuttosto che inviando un messaggio radio.
Le
radio-sonde, pur essendo grandi come
un grosso cestino delle immondizie, erano dotate di motori FTL
potentissimi,
ben superiori a quelli delle astronavi; le ridotte dimensioni e la
mancanza di
equipaggio permettevano loro di viaggiare a velocità che
sarebbero state
insostenibili per un organismo umano. Le più moderne
arrivavano a una velocità
di quasi 30 anni luce per giorno terrestre. Erano dotate di un
computer, sul
quale venivano registrati la rotta e il messaggio, e di un apparato di
comunicazione, che, una volta a destinazione, lo ritrasmetteva su una
determinata frequenza prestabilita. A quel punto la sonda rimaneva sul
posto
per un tempo impostato prima del lancio, da 24 ore fino anche ad una
settimana,
a seconda della quantità di combustibile nucleare che veniva
caricato nei
piccoli motori stabilizzatori; nel frattempo il destinatario, ricevuto
il
messaggio, inviava la risposta verso la sonda; questa la incamerava e,
una
volta scaduta la sua permanenza, tornava alla base e lo ritrasmetteva
alla
radio di bordo dell’astronave che l’aveva lanciata.
Nel
loro messaggio, rivolto al Centro
Spaziale delle Nazioni Unite, una base costruita sulla Luna,
comprendente
spazioporto, telescopio ottico e a infrarossi e radiotelescopio,
avevano
inviato tutti i dati rilevati in due mesi, aggiungendo che il pianeta
si stava
rivelando perfino migliore del previsto. Tutti si aspettavano, nella
risposta,
l’avviso della partenza della seconda nave, la Fernando
de Magallanes, grande cinque volte la Columbus
e in grado di portare quasi diecimila persone. Era in
costruzione quando loro erano partiti, e ne erano previste altre otto.
Mentre
scendeva dall’albero mediante una scala di alluminio e nylon,
Farris pensò con
gioia che forse sarebbe riuscito, prima di morire, a vedere Elysian
colonizzato. Un nuova Terra.
Fischiettando,
si diresse verso
l’astronave.
***************************************************************
Quando
il capitano arrivò nella sala
radio, trovò il tenente Nakadawa ed i suoi assistenti in
peda alla
concitazione. Gli sembrò di buon auspicio, inizialmente, ma
le loro facce
abbassarono il suo entusiasmo: sembravano confuse e, almeno in parte,
preoccupate.
Quando
l’ufficiale orientale lo vide,
esclamò: «Comandante, stavo per mandarla a
chiamare. La radio-sonda è entrata
nell’orbita di Elysian venti minuti fa».
«Perfetto!
- Farris tornò a sorridere:
tutto stava andando bene – Che cosa dicono dalla cara vecchia
Terra? Quando
partiranno?».
«Beh…
- borbottò titubante il sergente
Rickman, uno degli assistenti – Ecco, signore, il problema
è proprio questo:
dalla Terra non dicono niente».
«Cosa?-
chiese sorpreso il comandante –
Che vuol dire “non dicono niente”?».
«Che
la sonda è vuota, signore- disse
Nakadawa, piuttosto cupo – Non ci sono comunicazioni, non ha
ricevuto nessun
messaggio radio. I banchi di memoria sono immacolati».
«Assurdo…
non è possibile!» sbottò
Farris.
«Eppure
è così, comandante».
L’ufficiale
più alto in grado rimase
per qualche istante silenzioso, poi disse: «Signor Nakadawa,
chiami il
comandante Brent e il capo tecnico Wulf. Voglio che mi raggiungiate
nell’Hangar
3 il prima possibile. C’è qualcosa che non
capisco, ma dobbiamo risolvere
questo problema il prima possibile».
***************************************************************
Venti
minuti dopo, i tre ufficiali
stavano osservando il tedesco Wulf che, mediante un monitor e una sorta
di
joystick, riportava a terra la radio-sonda. Il comandante del reparto
tecnico
della nave borbottava sonoramente: «Deve essere stato un
errore di quelli della
Navigazione. Devono aver inserito le coordinate sbagliate, e la sonda
non deve essere
arrivata nell’orbita della Terra. Ach
so,
ho provato attentamente quella maledetta, e funzionava alla perfezione,
sarei
pronto a giurarlo su una pila di Bibbie!
«Il
guardiamarina Park ha detto che
potrebbe fare altrettanto - rispose Brent – E’
certa di aver messo le
coordinate giuste».
«Può
darsi che sia stata sbagliata la
frequenza» disse Farris, rivolto a Nakadawa.
«Sono
certo di aver messo quella
giusta, comandante» rispose l’addetto radio.
«Beh,
controlleremo in seguito cos’è
che non ha funzionato. Intanto, tenente, lei e il comandante Brent
imposterete
una seconda sonda. Chiamate anche il guardiamarina Park. State
più che attenti,
mi raccomando. Dobbiamo avere una risposta il prima
possibile».
Brent
era sorpreso: la voce del
comandante era dura, molto più secca del solito.
L’ufficiale scandinavo
comprese che non era solo per l’inconveniente: anche lui
sentiva qualcosa, una
sensazione lontana, indistinta, ed estremamente inquietante.
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Capitolo 3 *** III ***
III
Farris si versò
l’ennesima tazza di caffè. Su Elysian una
giornata durava trenta ore, ed erano più o meno le quattro
del mattino, quindi
il sole azzurro non sarebbe sorto per altre quattro ore, eppure lui era
completamente sveglio, e non era colpa soltanto della troppa caffeina
che gli
scorreva nel sangue: da quando la radio-sonda era tornata senza nessun
messaggio avvertiva una sorta di peso sullo stomaco che gli impediva di
riposare. Un rumore di passi lo spinse a voltarsi: il comandante in
seconda
Brent, la divisa stropicciata e lo sguardo stanco, era appena entrato
in sala
mensa.
«Anche lei in piedi,
Capitano?» chiese con tono strascicato.
«Purtroppo. E’
quasi una settimana che dormo poco e male, da
quando abbiamo lanciato la seconda sonda».
«Non
c’è nulla da preoccuparsi, Comandante, e lo sa
anche
lei. Ben presto la sonda rientrerà con buone notizie dalla
Terra».
«Se credi davvero che non
ci sia nulla di cui preoccuparsi,
perché neanche tu riesci a dormire?».
Il comandante in seconda scosse le
spalle, poi si avvicinò
al tavolo e si versò a sua volta una tazza di
caffè: «Colpito e affondato. Lo devo
ammettere, da quando ho visto quei banchi di memoria vuoti provo un
certo
disagio, e non aver capito cosa sia successo non ha contribuito a
conciliarmi
il sonno».
Dopo che il capo Wulf aveva fatto
rientrare la prima
radio-sonda con i comandi in remoto, lui, Brent e Nakadawa avevano
passato due
giorni e due notti a smontarla, analizzarla e rimontarla, nel tentativo
di
capire che cosa non avesse funzionato. Senza risultati: se il guasto
c’era, non
si vedeva.
«Capita, a volte, che la
tecnologia crei dei problemi senza
motivi apparenti - continuò Brent, per poi bere un sorso
dalla tazza - Sono
certo che domani la seconda sonda rientrerà con notizie
fresche».
Il comandante scosse la testa; sapeva
che non c’era alcun
motivo logico per preoccuparsi, ma nel profondo del suo cuore si era
annidato
qualcosa, una sensazione che non lo lasciava in pace un attimo. Sentiva
che
dietro al viaggio a vuoto della prima sonda c’era qualcosa di
più di un
semplice guasto meccanico; non era nulla di chiaro, solo un inquietante
campanello d’allarme.
«Spero che sia
così, Erik. Lo spero veramente» fu tutto
ciò
che riuscì a dire con voce tombale.
Il giorno dopo, non appena Nakadawa
annunciò che la
radio-sonda era entrata nel sistema, il comandante, Brent, il
guardiamarina Liu
Li Park e il capo Wulf si riunirono nella sala radio, ansiosi di
ricevere le
notizie giunte dalla Terra.
«Bene, inizio il download
del contenuto dei banchi di
memoria della sonda» disse Nakadawa, muovendo rapidamente le
mani su un
monitor.
«Finalmente avremo una
risposta» disse Brent, che mascherava
il nervosismo stringendo la mano destra con la sinistra.
«Per fortuna è
arrivata - proseguì Park - I civili hanno
iniziato a fare domande: sapevano che la risposta sarebbe dovuta
arrivare una
settimana fa. Qualcuno iniziava a preoccuparsi.
«Non
c’è nulla da temere. Solo un piccolo ritardo.
Bisogna
considerare quanto lontano ci troviamo dalla Terra, e quanti problemi
possono
crearsi per qualsiasi oggetto che li debba percorrere. Dopo sei anni,
pochi
giorni non cambiano nulla» dichiarò il capitano
Farris; sembrava, però, che con quelle parole
cercasse di convincere se
stesso quanto gli altri.
«Download completato -
dichiarò Nakadawa, e subito tutti si
avvicinarono alla radio - Va bene, sentiamo un po’ cosa ci
dicono» e premette
con decisione un punto dello schermo.
Dalla radio uscì solo un
fruscio indistinto. Il tenente
avvicinò il volto al monitor, stupefatto:
«No… non può essere…
riproviamo!». Mosse
di nuovo le mani, attese circa mezzo minuto, premette di nuovo. Ancora
fruscii.
Alzò lo sguardo cereo verso gli altri ufficiali:
«C’è…
c’è un problema,
signori. La memoria è di nuovo vuota! Niente messaggi,
nulla!».
«Verdammt,
impossibile!» sbottò il capo Wulf.
«Anche questa sonda era
danneggiata?» gridò Liu, esterrefatta.
«Impossibile, ho detto! -
sbraitò il capo tecnico, rosso in
viso e furioso - Gott im himmel, ho
controllato quella hurentochter di
una sonda quattro volte prima di lanciarla! Funzionava tutto, sarei
pronto a
giocarmi la testa su questo!».
«Deve esserti sfuggito
qualcosa, per forza!» si intromise
Nakadawa, una nota di paura nella voce.
«Nein,
non mi è
sfuggito nulla! - Wulf si voltò furibondo, verso
l’addetto radio - La sonda
funzionava alla perfezione! Dovete essere stati voi a impostare le
coordinate
sbagliate, la frequenza sbagliata!».
«Le coordinate erano
giuste, le ho controllate!» – urlò Liu,
offesa.
«E lo stesso vale per la
frequenza! Ho inserito quella
giusta!» proseguì Nakadawa, che iniziava a sua
volta a scaldarsi.
«Come fai ad esserne
sicuro?» chiese il capo, pungente.
«E tu come fai,
mangiacrauti?» urlò l’ufficiale
orientale,
alzandosi.
Il volto di Wulf divenne una maschera
di rabbia, ed il grosso
tedesco si avvicinò all’altro ufficiale con fare
minaccioso, urlando: «Sentimi
bene, schweinhund di un giapponese,
non ti permetto di…».
«BASTA!».
L’urlo del capitano
risuonò in tutta l’ala della nave,
ammutolendo i litiganti. L’ufficiale più anziano
si portò in mezzo alla sala
radio, attese qualche secondo, poi, con voce autorevole, disse:
«Litigare tra
noi non serve a nulla! Vediamo di calmarci tutti e di
ragionare». Fece una
pausa cercando di recuperare il fiato, poi aggiunse, con tono
più conciliante:
«Mi fido di voi come di me stesso, quindi se il capo Wulf
dice di aver
controllato a fondo la sonda, io gli credo, e se il guardiamarina Park
e il
tenente Nakadawa dicono di aver inserito i dati giusti, credo anche a
loro -
fece un’altra pausa, guardando il piccolo gruppo dei presenti
- Partendo da
questi presupposti, qualcuno di voi ha una spiegazione plausibile al
fatto che
non riusciamo a metterci in contatto con la Terra, se tutto funziona a
dovere?».
Gli sguardi degli ufficiali rimasero
bloccati a terra per
quasi un minuto, senza che nessuno avesse idea di cosa dire. Poi,
finalmente,
Nakadawa alzò la testa: «Io forse una spiegazione
ce l’ho».
Gli sguardi di tutti si posarono su
di lui, che, seppure a
fatica, continuò: «Può darsi,
semplicemente, che prima della partenza da Base
Luna ci abbiano dato un codice sbagliato di frequenza senza neanche
accorgersene. Basterebbe un numero errato per invalidare tutto. Forse
in questo
momento anche loro sono sorpresi quanto noi perché non
stanno ricevendo
messaggi da parte nostra. Forse, semplicemente, stiamo operando su
canali
diversi».
Tutti rimasero in silenzio,
rimuginando sulla semplicità di
quella spiegazione.
Brent non era del tutto convinto: i
radar disposti intorno
alla Terra dovevano aver rilevato la presenza delle sonde e, con un
po’ di
intuito, gli operatori dovevano anche aver capito da dove provenivano e
che,
evidentemente doveva esserci qualche problema, a causa del quale non
giungevano
messaggi. Se le cose stavano così, però, per
quale motivo non avevano spedito
loro una sonda? Prima che potesse dire qualcosa, però, il
capitano
intervenne: «Non
è un’idea insensata. In
effetti, può anche essere. A causa di un problema stupido,
ci ritroviamo a non
poter comunicare. La domanda fondamentale è: a questo punto,
cosa possiamo fare
per rimediare al problema?»
Questa volta fu proprio Brent a
rispondere, ingoiando le
proprie incertezze: «Una soluzione ci sarebbe: potremmo
riprogrammare la sonda
in modo che trasmetta e riceva, anziché su una frequenza
particolare, su tutto
lo spettro delle onde radio».
Farris fissò il suo vice
per alcuni secondi, stupito della
rapidità di quella idea: «Un po’
rudimentale come sistema, ma potrebbe
funzionare, o almeno credo» e si voltò verso
Nakadawa in cerca di conferma.
Il responsabile tecnico si
portò la mano al mento, con
sguardo pensieroso: «Dovrei riprogrammare completamente il
software della
sonda. La potenza del segnale sarebbe molto più bassa, ed i
banchi di memoria
dovrebbero essere ridotti in modo da poter posizionare delle batterie
ulteriori…
ma sì, posso farcela. Mi ci vorranno sei o sette ore di
lavoro, ma ci dovrei
riuscire».
«Perfetto, tenente. Lo
faccia» ordinò il capitano.
«E la gente della colonia?
- chiese il guardiamarina Park -
Si aspettavano di ricevere notizie già più di una
settimana fa, e molti
cominciano a innervosirsi. Cosa dobbiamo dirgli?».
«Gli diremo che le due
sonde che abbiamo mandato avevano un
problema al dispositivo di navigazione; adesso ce ne siamo accorti e lo
abbiamo
corretto nella terza. Erik, convoca quei rappresentanti che i coloni
hanno
nominato e spiega loro questa versione».
«E pensi che ci
crederanno?» chiese il secondo.
«Non lo so, ma spero che
vorranno crederci. Anche perché non
potremmo raccontargli la verità neanche volendo, visto che
non la sappiamo
neanche noi».
Gli altri ufficiali mantennero un
silenzio di approvazione.
«Bene, signori. Direi che
abbiamo parecchio da fare. Potete
andare».
Gli ufficiali si avviarono per uscire
dalla sala radio.
«Akira, Hans, aspettate un
momento».
Wulf e Nakadawa si bloccarono, poi si
voltarono. Erano
sorpresi: Farris non li chiamava mai per nome.
«Sentite, dovete fare una
cosa prima del lancio - il
comandante prese fiato – Voglio che programmiate alcune
videocamere perché
siano in grado di resistere al viaggio a velocità iperluce,
e che le
installiate sulla sonda, in modo che possano riprendere tutto
l'ambiente
intorno alla Luna e alla Terra».
I due rimasero in silenzio, stupiti.
«Inoltre, Akira, voglio che
tu riduca la permanenza
nell’orbita terrestre a trentasei ore, senza dirlo a nessuno,
così avremo un
po’ di margine prima di avvertire i coloni. Inoltre, quando
arriverà la
risposta, voglio che vengano avvertiti, oltre a noi tre, solo il
comandante in
seconda e la signorina Park. Non deve esserci nessun altro quando
ascolteremo i
messaggi».
Il capo Wulf non riuscì a
trattenere la sua sorpresa per gli
strani ordini: «Mein Gott, comandante, di che cosa ha
paura?».
«Non ne ho idea - rispose
Farris cupo - E' proprio questo a
farmi paura».
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Capitolo 4 *** IV ***
IV
Akira Nakadawa era
stanchissimo. Erano sei giorni che quasi non dormiva: prima per il
lavoro sulla
sonda, poi per il nervosismo dell’attesa. Provava una
stranissima inquietudine:
era certo che questa volta ci sarebbe stata una risposta registrata
sull'oggetto che stava tornando dal loro pianeta natale, ma, per
qualche
motivo, la temeva. Ormai non doveva mancare molto: la sonda era
già arrivata
nel sistema di Elysian e stava completando la fase di stabilizzazione
nell'orbita alta del pianeta. Salvo complicazioni, entro pochi minuti
sarebbe
stata nella posizione ideale per inviare alla nave il contenuto dei
suoi banchi
di memoria.
Una spia lampeggiò
sul monitor, scuotendo l’ufficiale dalla sua assonnata
apatia: bastarono pochi
gesti per capire che era giunto il momento della verità.
Eseguì rapidamente il
download, quasi temendo che si ripetesse quanto era avvenuto in
precedenza, e
questa volta, dopo pochi secondi di analisi, vide che erano giunti due
file.
Uno era la registrazione delle videocamere, ma il secondo era senza
ombra di
dubbio un audio. Questa volta la Terra aveva risposto.
Stava per attivare
l’interfono per chiamare il capitano e gli altri tre
ufficiali autorizzati ad
ascoltare il messaggio, ma si bloccò con il dito a pochi
millimetri dal
pulsante: non poteva aspettare. I suoi brutti presentimenti avevano
bisogno di
essere sfatati il prima possibile. Si guardò in giro,
accertandosi di essere
solo, poi si mise le cuffie ed aprì il file audio.
La trasmissione durò
alcuni minuti. Alla fine Nakadawa era stravolto, gli occhi spalancati e
fissi
nel vuoto. Crollò con la schiena contro lo schienale,
svuotato di ogni forza.
«Capitano!
Comandante Brent!».
I due ufficiali
erano nella plancia di comando, impegnati a leggere alcuni rapporti
giunti dai
coloni civili, quando videro uno degli aiutanti di Nakadawa arrivare di
corsa,
trafelato.
«Cosa succede,
signor Willis?» chiese Farris, cercando di nascondere la
trepidazione. Dal tono
di urgenza del messaggero, poteva intuire facilmente il contenuto del
messaggio.
«Il tenente Nakadawa
chiede che lo raggiungiate in sala radio il prima possibile!».
Il comandante e
Brent si guardarono negli occhi per un paio di secondi, poi,
abbandonati i
rapporti, uscirono dalla plancia di comando a passo veloce.
Giunsero alla sala
radio contemporaneamente al capo Wulf e a Lin. Entrambi sembravano
trafelati e ansiosi,
con i volti entusiasti: era chiaro che l'arrivo del tanto atteso
messaggio
significava la fine di una preoccupazione tanto ignota quanto
sgradevole. Tutta
la loro vivacità, però, si spense non appena
videro il volto di Nakadawa: era
color cenere, disfatto, svuotato di ogni traccia di gioia. Era il volto
di un
uomo che ha subito il più devastante shock della sua vita.
Era accasciato sulla
sua sedia, e fissava il vuoto con occhi spenti.
Mentre Brent
chiudeva la porta, Farris prese l’orientale per una spalla e
lo scosse dicendo:
«Akira, che ti prende? C'è qualche problema? Il
messaggio è arrivato?».
Vedendo che l’altro
non reagiva, lo afferrò anche con l’altra mano
alzando la voce: «Insomma,
tenente! Riprenditi! Lo hai ascoltato? Cosa dicono?».
Finalmente Nakadawa
sollevò gli occhi, e ciò che Farris vide non gli
piacque per nulla: orrore,
puro orrore.
Il tenente prese
fiato, poi balbettò: «Io…
loro… comandante… non ce la faccio -
portò la mano al
monitor, mentre gli altri si affollavano intorno a loro - E’
meglio che
ascoltiate da soli. Io non riuscirei a spiegarlo» e premette
sullo schermo del
computer il pulsante di riproduzione.
Prima si udì solo un
fruscio, poi il messaggio iniziò. Era una voce strascicata,
come di un uomo giunto
allo stremo delle proprie forze: “Qui
è
Martin Defleché, già Direttore Esecutivo dello
United Nations Human Settlements
Programme, e attuale facente funzione di Segretario Generale delle
Nazioni
Unite. Questo messaggio è destinato all’astronave
Columbus. Prego Dio perché in
qualche modo vi raggiunga e siate in grado di ascoltarlo: la frequenza
stabilita per voi è andata perduta, ma il trasmettitore che
sto usando è
alimentato ad energia eolica, e ripeterà il messaggio per
anni, quindi spero
che, non ricevendo risposta su quella, ne tentiate altre. So che
ciò che vi
dirò sarà per voi orribile da sentire, che
potrebbe distruggere le vostre menti
e oscurare il vostro cuore, ma è necessario che sappiate.
Non potete aspettarvi
una seconda spedizione. Nessuno vi raggiungerà su Elysian,
perché quando
ascolterete questo messaggio, non ci sarà più
nessuno in grado di farlo - Si
udì una sorta di singhiozzo, e per un attimo la voce
s’interruppe - Scusatemi, anche per
me è difficile
accettare tutto questo. Sarebbe inutile spiegarvi come è
iniziata, ma sappiate
che meno di un anno dopo la vostra partenza il mondo era già
piombato nel caos:
contrasti tra nazioni, rivoluzioni, colpi di stato, conflitti locali.
L’ONU ha
fatto il possibile per evitare il disastro, ma entro altri sei mesi la
guerra
era già scoppiata in almeno una dozzina di luoghi
differenti. Il passo verso la
prima esplosione atomica è stato, poi, molto breve - ancora un silenzio - Ora
siamo nell’ottobre 2181… credo, non sono
completamente certo della data, e
neanche della stagione in effetti, fuori è sempre freddo. La
guerra è finita da
un anno e mezzo. Non era rimasto praticamente nessuno per combatterla.
Gli
scienziati che avevano teorizzato l’inverno nucleare hanno
avuto ragione: la
Terra è avvolta da una nera nube di polvere, ed è
iniziata la più oscura delle
ere glaciali. Ciò che restava dell’ONU ha fatto il
possibile per i
sopravvissuti. Inutilmente: non restano che pochi milioni di persone;
la vita
vegetale e quella animale sono quasi estinte; il freddo e il buio
stanno
finendo di uccidere ciò che è sopravvissuto alle
radiazioni. Entro pochi anni,
la Terra sarà solo un cupo deserto radioattivo - l’uomo prese ancora fiato - Voi
siete la sola speranza del genere umano, gli ultimi uomini ancora vivi.
Quando
la situazione è degenerata abbiamo provato a terminare la
Magallanes prima del
previsto, ma è stata colpita da un missile vagante, quindi
siete tutto ciò che
ci resta. Io prego perché almeno la Colonia AA-001 possa
continuare a vivere,
che il genere umano non sia destinato a sparire con noi. Parla Martin
Defleché,
ultimo Segretario delle Nazioni Unite. Fine del messaggio, e che Dio ci
perdoni
per ciò che abbiamo fatto”.
Il silenzio calò
come un macigno sulla sala radio. I cinque presenti non erano in grado
di
parlare per lo shock. Farris si voltò verso Nakadawa, con
occhi imploranti,
quasi a chiedere una qualsiasi smentita, ma l’ufficiale radio
toccò di nuovo il
monitor, attivando il video delle telecamere.
Fu il colpo finale:
vedere Base Luna ridotta in macerie e la Terra avvolta da una compatta
nube
color acciaio fu troppo anche per uomini temprati come gli ufficiali
della Columbus. Liu Li Park,
semplicemente, si
appoggiò alla parete, si portò le mani al volto e
iniziò a piangere a dirotto.
Il capo Wulf colpì la porta con un pugno che la fece
tremare, bestemmiando in
tedesco. Brent crollò su una sedia, gli occhi fissi nel
vuoto, mormorando: «Tutto
finito… tutti quelli che conoscevamo… che
amavamo… tutti morti!».
Wulf si passò il
dorso di una mano sugli occhi: «Avevo un fratello…
il suo figlio più piccolo
era uguale a me da piccolo… amava i motori, voleva capire
come funzionavano… ho
passato ore in officina con lui… - non ce la fece
più, e si abbandonò anche lui
alle lacrime - Partendo avevo accettato di non vederli
più… ma questo…» strinse
i pugni fino a piantarsi le unghie nei palmi.
Farris aveva
appoggiato le mani su uno dei tavoli di metallo, e ne fissava la
superficie a
testa bassa, in silenzio, come svuotato. Solo dopo un paio di minuti si
sollevò, con occhi duri come il ferro: «Dobbiamo
decidere cosa fare adesso».
Vedendo che gli
altri lo fissavano con sguardo sconvolto, l’uomo
continuò: «Non crediate che
non capisca il vostro dolore. Il mio è altrettanto grande -
abbassò lo sguardo,
per nascondere una lacrima - Mio figlio era ufficiale della Marina
degli Stati
Uniti. Quando sono partito, il suo primo figlio aveva quasi due anni, e
sua moglie
era incinta del secondo. Non li hanno lasciati partire con noi, ma il
Segretario Generale Reeves mi aveva promesso che avrebbe fatto in modo
di
metterli sulla seconda nave. E ora lui, mia nuora, i miei
nipotini… sono solo
cenere radioattiva nell’aria di un pianeta morto. E non posso
neanche
permettermi di piangerli, perché adesso sulle nostre spalle
c’è una
responsabilità immensa, perfino più grande di
quella che avevamo prima. Le
persone che si trovano su questo pianeta sono tutto ciò che
resta della razza
umana: se noi crolliamo, se questa colonia non dovesse sopravvivere, la
nostra
specie morirà con noi. Non possiamo lasciarci trasportare
dai nostri
sentimenti, per il bene di tutti!».
Per un paio di
minuti nessuno riuscì a parlare, ognuno troppo oppresso dal
peso della
situazione. Fu la voce rotta del guardiamarina Park a sciogliere quel
silenzio
pesantissimo: «Che cosa diremo a questa gente? Non possiamo
dire loro la
verità, li distruggeremmo!».
«Ha ragione -
mormorò Brent, faticando a riprendere una parvenza di
controllo - Vivrebbero
con la morte nel cuore sapendo di essere gli ultimi uomini
nell’universo. Molti
forse si ucciderebbero al pensiero di chi hanno lasciato indietro e che
magari
speravano di rivedere dopo uno dei prossimi viaggi. Non durerebbero
dieci anni:
la colonia si autodistruggerebbe».
«Qualcosa però
dobbiamo dire - intervenne Nakadawa, che aveva già avuto il
tempo di piangere i
due fratelli che ormai da tempo dovevano essere polvere tra le rovine
di
Yokohama - Si aspettano una risposta dalla Terra. Sono già
preoccupati per il
ritardo, si fanno delle domande. Abbiamo un paio di giorni al massimo,
poi,
però vorranno una spiegazione. Cosa possiamo
inventarci?».
Farris rimase in
silenzio per quasi due minuti, mentre il suo cervello valutava le
possibilità
che avevano di fronte, poi si voltò verso l’ancora
devastato Wulf e disse: «Capo,
comprendo i tuoi sentimenti, ma sono costretto a chiederti di fare
qualcosa che
non ti piacerà per niente».
Quella notte tutti i
coloni furono svegliati da un prolungato e acuto stridio, seguito da
una
terribile esplosione. Accorrendo fuori dalle case prefabbricate, videro
lingue
di fuoco alzarsi dalla fiancata devastata della Columbus.
L’equipaggio e i soldati si precipitarono a tentare di
domare l’incendio; alcuni civili intervennero per aiutarli,
ma la maggior parte
rimase semplicemente pietrificata a guardare le fiamme macchiare il
cielo buio.
Gli ultimi focolai
non vennero spenti fino alla tarda mattinata, e anche allora
dall’enorme
squarcio nelle paratie della parte poppiera della nave continuarono ad
alzarsi
dense colonne di fumo. All’interno, si vedevano i resti
contorti dei motori.
Nel pomeriggio,
radunati tutti i coloni e i militari, il comandante in seconda Brent,
affiancato dal capitano Farris, spiegò quanto era accaduto:
durante un normale
test della funzionalità dei motori, qualcosa doveva essersi
rotto, e la potenza
era salita al massimo, senza che nessuno riuscisse a ridurla. Prima che
fosse possibile
staccare tutto, i motori erano esplosi, ma prima avevano provocato un
disastro:
con la maggior parte dei sistemi spenti, l’energia in eccesso
non aveva potuto
scaricarsi da nessuna parte, e aveva fuso la maggior parte degli
impianti
elettronici della nave, inclusi la radio e il sistema di navigazione.
Non c’era
alcuna speranza di ripararli: perfino in un bacino di carenaggio
sarebbe
perfettamente attrezzato sarebbe stata un'impresa quasi impossibile.
«Questo significa
che non potremo ricevere risposte dalla Terra. Quando la sonda
tornerà, non
avremo niente con cui farla rientrare al suolo, né per
connetterci a essa.
Siamo certi che sulla Terra il messaggio sia arrivato -
deglutì faticosamente,
cercando di nascondere l'orrore che ancora lo attanagliava - ma fino a
quando
non arriverà la seconda nave saremo completamente
soli».
Dalla folla si
levarono voci di protesta e di preoccupazione, il cui volume si
alzò
rapidamente; la voce stentorea di Farris, però,
riportò immediatamente la
calma: «Questo brutto incidente non cambia nulla. Sapevamo
già che saremmo
stati soli per molto tempo, per oltre sei anni. Il fatto che non
possiamo
ricevere messaggi cambia poco. Certo, sarà dura non poter
sentire per tutto
questo tempo le persone care che abbiamo lasciato sulla Terra, ma
supereremo ogni
difficoltà che ci si presenterà davanti, con lo
spirito degli antichi
colonizzatori. Noi resisteremo, continueremo le nostre vite, renderemo
questo
pianeta adatto all’uomo, lo trasformeremo nella nostra casa.
E, quando la seconda
nave arriverà, noi saremo qui per accoglierla!».
La fine del discorso
fu accolta da grida di gioia e applausi scroscianti, che fecero sentire
il
comandante il peggiore dei bugiardi.
Mentre la folla si
disperdeva, Brent si avvicinò al suo superiore:
«Belle parole, veramente. Dopo
averla sentita sarebbero stati pronti a lanciarsi alla carica contro
una
cittadella fortificata».
Il volto di Farris
si aprì in un mesto sorriso: «Non è
finita. Il capo Wulf, mettendo in scena
l’incidente, ci ha fatto guadagnare sei anni, ma il problema
tornerà a proporsi».
Brent scosse la
testa: «Non sarà la stessa cosa. Certo, quando tra
sei anni non vedranno
arrivare nessuno saranno delusi, tristi, si sentiranno abbandonati. Si
faranno
domande, e forse alcuni arriveranno anche a intuire la
verità, a comprendere
che qualcosa di terribile è accaduto sulla Terra. Non
sarà però possibile avere
una conferma o una smentita, e la sola cosa che potranno fare
sarà continuare a
vivere. Con il passare del tempo e delle generazioni, si abitueranno a
considerare questo pianeta la loro casa. Non dimenticheranno mai la
Terra, il
pianeta azzurro dei loro ricordi, che per coloro che saranno nati qui
sarà una
leggenda. La loro realtà però sarà
ciò che avranno. Elysian sarà la loro
patria».
Farris sorrise di
nuovo, questa volta con più allegria, e strinse la spalla
del suo secondo: «Credo
che tu abbia ragione. In fondo il genere umano ha sempre dimostrato una
grande
capacità di ripresa».
Rimase per qualche
secondo in silenzio, pensando alle proprie responsabilità di
comandante, poi
aggiunse: «Ho preso una decisione: lascerò uno
scritto che testimoni quanto è
successo sulla Terra al mio successore come comandante della Colonia,
con il
compito di fare altrettanto con chi lo seguirà, senza
leggerlo per almeno due
secoli. Per allora, la popolazione si sarà legata
profondamente a questo luogo,
e sapere la verità non sarà più
così devastante».
L’uomo infilò le
mani nelle tasche, e lasciò correre il suo sguardo sulla
radura, sulle persone
che tornavano alla loro vita: «Con un po’ di
fortuna, la razza umana continuerà
ad esistere in questo nuovo mondo, e forse, un giorno, se non
commetteremo
nuovamente gli stessi sbagli, qualcuno riuscirà a realizzare
un'astronave in
grado di tornare sulla Terra. Per allora il pianeta si sarà
ripulito, e
l'umanità rivedrà la propria casa».
I due ufficiali,
molto più sereni, tornarono verso il relitto della Columbus, dal quale
l’equipaggio stava scaricando tutto ciò che
c’era di utilizzabile. Non sarebbe mai più
servita: la loro colonia sarebbe
stata per sempre.
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