The Way Forward – La Via per andare avanti

di Roanoke_Wilde
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Un cammino di pace ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Resistere ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Trovatello ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Sotto occhi vigili ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: Da solo ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6: Una voce nel buio ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7: Sangue e lealtà ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


A huge, heartfelt thank you to Roanoke_Wilde for allowing me to translate this beautiful story ♥

 

Fan Art: shima_spoon // Graphic: _Lightning_

Prologo



 
«Olarom norac

La Mandaloriana seduta appena dopo la porta accolse Din con un saluto, mentre lui emergeva dall’ombra della sera per scivolare all’interno del Rifugio.

Tentò di rispondere con un cenno del capo, ma nel momento in cui distolse l’attenzione dal tenersi dritto e mettere un piede davanti all’altro, l’oscurità si addensò ai margini della sua visuale. Probabilmente barcollò, perché la Mandaloriana di fronte a lui si alzò esitante in piedi, riassicurando il suo blaster nella fondina.

«Cuyir gar shupur’yc?» gli chiese. Sei ferito?

Din serrò i denti e si arrestò del tutto, reprimendo l’impulso di puntare una mano sul muro a sostenersi. Sì, era ferito. E no, non era dell’umore per occuparsene, al momento. A dispetto dell’iniezione d’adrenalina di poche ore fa, il dolore aveva ripreso a irradiarsi dalle sue numerose ferite, le più degne di nota situate sul retro della coscia e del polpaccio. Non ne era certo, ma forse del sangue stava stillando anche attraverso la spessa stoffa dei pantaloni.

Emettendo un grugnito in ritardo, piuttosto che una vera e propria risposta, fece scivolare la sacca dalla spalla, lottando per qualche istante per districarla dai resti stracciati del mantello. Gli tremarono le dita mentre sganciava la fibbia e rovistava all’interno, e gli ci volle ancora qualche istante silenzioso prima di riuscire a chiuderle su ciò che cercava: una bottiglia di spotchka invecchiata e una sacchetta di frutti jogan miseramente avvizziti.

Ondeggiando ormai in modo vistoso, e imprecando tra sé nel frattempo, piazzò gli oggetti nelle mani della Mandaloriana a guardia dell’ingresso.

«Per stasera. Per i Trovatelli,» disse, scegliendo di evitare il Mando’a in favore del Basico, attorno al quale era più avvezzo a districare la lingua.

La Mandaloriana accettò i doni di rito – offerti volontariamente per celebrare la fondazione di quel particolare Rifugio – ma non distolse l’elmo scuro da lui. Si avvicinò di un passo quando lui barcollò di nuovo, tendendo una mano in un cauto gesto di preoccupazione.

«Ti accompagno dal baar’ur,» disse piano.

Din scosse la testa.

«Sto bene. Rimani qui a difesa del Rifugio.» Din deglutì, obbligando la sua lingua riarsa a collaborare, e si schiarì la voce per sicurezza. «Stanotte avremo bisogno più che mai della tua guardia.»

La sua compagna Mandaloriana esitò, ma finì per annuire e tornare alla sua postazione.

«Molto bene,» disse, con voce molto più neutrale di prima. «Fai rapporto dal baar’ur, Mandaloriano. Ve’ganir pirusti iviin’yc. Questa è la Via.»

Din annuì.

«Questa è la Via,» rispose sottovoce.

Percepì che l’attenzione dell’altra, però, si era già spostata sul cibo che le aveva portato prima ancora che lui finisse di superarla. Non importava, pensò. Doveva tornare a concentrarsi sull’arduo compito di camminare.

Tese l’orecchio, captando il trambusto che arrivò a circondarlo man mano che avanzava. La sala principale, posizionata al centro della rete di tunnel che formava il Rifugio, avrebbe ospitato la maggior parte della Tribù per quella notte. Si sarebbero radunati per rievocare la storia e i racconti di onore e gloria del popolo Mandaloriano e della sua terra natìa. Ci sarebbe stata della musica, forse, se i guerrieri più anziani si fossero sentiti particolarmente ispirati. Di certo ci sarebbero stati uno o due Trovatelli pronti a farsi avanti per prestare giuramento al Credo.

Dopodiché, ovviamente, ogni Mandaloriano si sarebbe ritirato nelle proprie stanze o nei recessi del Rifugio e, se possibile, avrebbe bevuto alla salute e allo spirito della loro piccola comunità. Nel farlo, avrebbe saputo che ogni altro Mandaloriano adulto stava facendo lo stesso, nella riservatezza del proprio isolamento. E alla fine, a seconda di dove si trovasse, ciascuno avrebbe rimesso o meno l’elmo per dormire.

Il giorno dopo sarebbe stato come ogni altro, ma quella notte... quella notte era speciale. Per la maggior parte della Tribù di Din, almeno. Lui non si vedeva a prendere parte ai festeggiamenti, anche se magari si sarebbe potuto fermare ad ascoltare un paio di racconti.

Adesso riusciva a sentire la voce limpida dell’Armaiola, mentre percorreva il condotto principale collegato alla sala centrale, e fu quasi tentato di poggiare contro il muro il suo corpo scosso da tremiti per mettersi in ascolto. L’Armaiola non cessava mai di affascinarlo con la sua abilità nel narrare, con la sua autorevolezza e assoluta fedeltà al Credo. L’aveva sempre ammirata – e forse l’ammirava profondamente anche adesso – anche se aveva di rado avuto l’onore di parlarle elmo a elmo.

Un lampo di dolore particolarmente tagliente lo scosse fino al fondo dello stomaco, spronandolo a proseguire prima che potesse cedere a quell’impulso. No, non avrebbe ascoltato alcuna storia, stanotte. Si fece largo in silenzio verso l’angusta, grezza alcova che gli faceva da alloggio quando poteva permettersi di dormire su Nevarro. Era larga appena quanto era alto.

Dopo che le ondate di dolore più intense si furono quietate, si raddrizzò e assicurò il telo che copriva l’entrata della piccola stanza. Finché non fosse stato di nuovo scostato, avrebbe indicato agli altri che non aveva indosso l’elmo, e quindi di non disturbarlo senza un ragionevole preavviso.

Din esalò un lungo respiro nell’adagiarsi supino sul letto spoglio, che da solo occupava la maggior parte dello spazio. Lasciò passare qualche istante, prima di stringere i polpastrelli tremanti sul bordo dell’elmo per toglierselo.

L’improvviso refolo d’aria fresca che gli sfiorò il volto fu così affilato e pungente che onde di tenebra ruggirono di nuovo ai margini della sua visuale; l’elmo gli sfuggì di mano, impattando per terra con un clangore sordo che fece scattare la sua mano al blaster mancante al suo fianco, un riflesso innescato dalla pura memoria muscolare.

«Haar’chak,» imprecò, usando la mano libera per scostare le ciocche di capelli incollate alla fronte madida di sudore.

Sentì una parte del sangue rappreso sul guanto sbriciolarsi e attaccarsi alla pelle, e fece una smorfia, affrettandosi a strapparsi di dosso l’indumento lurido e a gettarlo per terra.

E poi la sua testa prese a girare, e gli sembrò che lingue di fuoco gli si arrampicassero sulle gambe, e c’era un peso gravoso, asfissiante che gli si piazzò sul petto, spremendogli l’aria dai polmoni e schiacciando il suo cuore rallentato contro gli interstizi delle costole. L’incoscienza arrivò più rapida che mai e, stavolta, Din non si oppose.

Quando riprese i sensi, si ritrovò rattrappito nel letto, con la gamba ferita che sporgeva oltre la sponda e l’elmo di nuovo per terra sotto alle sue dita molli.

Stavolta non tentò di recuperarlo. Rimase sdraiato lì – col dolore che gli pulsava dalle tempie lungo la curva del cranio e poi di nuovo dietro gli occhi – in ascolto. Concentrato sul prendere aria per poi lasciarla scivolare via con un crepitio. Tentò di soffocare l’inquietante impressione di essere in una cella su una qualche roccia dell’Orlo Esterno, e non nel Rifugio nel quale era cresciuto. Le sue condizioni non facilitavano l’impresa.

Ascoltò i passi dei Mandaloriani nel corridoio, il basso brusio delle loro voci mentre facevano ritorno alle loro stanze. Ascoltò l’onnipresente sgocciolio di un qualche tubo che perdeva nelle profondità del sistema fognario ormai in disuso. Ascoltò l’eco metallica della voce dell’Armaiola, ancora intenta ad ammaliare i Mandaloriani che sfidavano le ore più nere della notte e la stanchezza per bearsi delle sue parole.

Si sforzò di concentrarsi su quei suoni; e quando fallì, e la sua mente tornò di nuovo allo sfinimento che pulsava nel suo intero corpo, passò a concentrarsi sugli odori – polvere e il suo stesso sangue e una traccia di peli e capelli bruciati – e poi sul fatto che la stanza fosse quasi completamente buia, stantia di oscurità intrappolata lì dentro da tempo.

Più a lungo giaceva lì, più si concretizzava una certezza: stava male. Non erano soltanto le ferite, lo sapeva, anche se a quel punto c’era la possibilità che si fossero infettate. Non era nemmeno soltanto la spossatezza e la bassa ma tenace febbricola per la quale si era rifiutato di vedere il medico circa una settimana prima, quando era tornato dalla boscosa, umida Felucia.

Era–

Un ruvido raspare contro la parete di roccia lo fece trasalire, poi sussultare di nuovo per il dolore. Cercò a tentoni l’elmo malmesso sul pavimento.

«Ge’talsol? Sei lì dentro?»

Din sospirò e reclinò all’indietro la testa, strizzando gli occhi a schermarsi dagli ondeggiamenti che invasero la sua visuale. Era Paz. Solo Paz.

«Sì,» disse, la voce che uscì molto più roca di quanto si fosse aspettato.

Ci fu una pausa. Un altro paio di colpi a palmo aperto sulla roccia, a indicare che la sua voce era stata abbastanza flebile da perdersi a metà strada tra il suo letto e le orecchie di Paz.

«C’è qualcuno? Ti ricordo che ai Trovatelli non è concessa un’Alcova fino alla maggiore età.»

Din tentò di esalare un sospiro stremato mentre riusciva a rimettersi l’elmo, ma quello si tramutò in una tosse secca e stridula. Si puntellò sui gomiti con sforzo e l’accesso finì, mentre la stanchezza gli mordeva ogni singolo muscolo dal collo ai piedi.

«Sì, Paz. Sono io,» disse, stavolta più forte – a dispetto della gola in fiamme.

Udì l’altro uomo che si muoveva oltre la soglia.

«Ah. Mi sarei sorpreso meno a trovarci un ragazzino, qua dentro... pensavo che stasera fossi a brindare coi tuoi amichetti Imperiali.»

Il disprezzo nella sua voce era netto anche attraverso gli strati di beskar e pietra. Din serrò la mandibola e rimase in silenzio, iniziando a percepire la tensione nel busto per lo sforzo di tenersi su in quelle condizioni. Non poteva permettersi di cedere alla provocazione e sprecare energie.

«Non disturbarti a farti vivo nella sala centrale, Ge’talsol,» continuò Paz dopo una pausa, con voce più bassa, ma non per questo meno intensa. «Di certo ti lasceranno da parte qualcosa da portar via. Assicurati solo di andartene prima dell’alba. C’è uno dei miei che avrebbe bisogno di un alloggio.»

Paz non si preoccupò nemmeno di aspettare qualunque replica Din avesse avuto intenzione di elaborare, e i suoi passi si mossero rapidi e decisi lontano dall’alcova, in direzione della sala comune. Din si lasciò cadere di nuovo sul letto, ora con l’orlo dell’elmo che gli incideva la linea del collo.

Le implicazioni erano fin troppo chiare, anche se Din trovò sorprendentemente semplice ignorare il dolore che avrebbe avvertito di solito alle parole di quello che un tempo era suo amico. Forse, quella era l’unica grazia che le forze dell’universo, qualunque esse fossero, avevano deciso di concedergli per quella notte.

Rimase steso lì per qualche altro secondo, fissando il soffitto segnato da ragnatele di crepe e fratture che trasudavano un’indefinibile sostanza grigio-verdastra.

Sapeva che non sarebbe riuscito a dormire.

Sapeva di non poter pensare al peso che si trascinavano dietro le parole di Paz – le scelte che aveva compiuto per alienarsi dai suoi compagni – amici? – Mandaloriani.

Sapeva anche di non poter pensare a ciò che sarebbe accaduto al mattino, se voleva svegliarsi prima dell’alba – un’altra giornata a caccia di taglie o in fuga o in battaglia, come aveva sottinteso Paz.

Si era già trovato in quella situazione, prima d’ora: ferito, febbricitante senza alcuna ragione precisa – di certo, l’ultima volta aveva anche bevuto troppo, ma non era quello il punto. Sapeva soltanto che pensare a certe cose non avrebbe portato a nulla, se non spingerlo più vicino alle tenebre che alimentavano il suo malessere. La febbre sarebbe stata scacciata attraverso il delirio prima di poterci davvero pensare – se il tutto si fosse davvero concluso con una guarigione. E non poteva rischiare di aggirarsi così vicino all’oblio, perché non c’era alcuna garanzia di un ritorno – né della propria mente, né del proprio corpo.

O magari poteva correre il rischio?

Din risucchiò un respiro che gli punse i polmoni con mille aghi, portando con sé l’odore di decadenza. Intrecciò poi le mani nude sulla sua corazza scrostata, proprio nel punto in cui avrebbe sentito battere il cuore, senza il beskar a schermarlo.

Prima di poterci ripensare, si rifugiò in quei pensieri che sapeva avrebbero riempito fino all’orlo la sua mente e, con un po’ di fortuna, l’avrebbero accompagnato nell’incoscienza bandendo il dolore, almeno finché non si sarebbe sentito in grado di andare a recuperare un po’ di bacta.

Quei pensieri, lo sapeva benissimo, erano l’unica cosa in grado di distrarlo dall’emicrania – ed erano l’unica cosa che si era ripetutamente ripromesso di far sparire, di seppellire, di dimenticare ogni volta che indossava il suo elmo e il suo Credo.

Avrebbe rievocato la sua casa, e chi era stato un tempo, prima della Tribù.

Avrebbe rievocato la notte in cui i suoi genitori erano morti e il suo destino di Mandaloriano era stato suggellato.

Allora, forse, avrebbe ritrovato la via per andare avanti.


 
Glossario Mando’a:
Olarom norac: bentornato
Cuyir gar shupur’yc?: sei ferito?
Baar’ur: medico
Ve’ganir pirusti iviin’yc: guarisci presto o rimettiti presto (traduzione approssimativa)
Haa’chak: insulto
Ge’talsol: il nome che Din ha scelto di usare nel Rifugio: fusione delle parole Mando’a per “rosso” e “uno”.

Note della Traduttrice:
Cari Lettori ♥
Questa è una storia della bravissima autrice Roanoke_Wilde in cui sono incappata per puro caso nei meandri di AO3, e mi sono piaciute così tanto le premesse, le idee e lo stile che, pur non essendo completa, ho deciso di tradurla e di portarla qui su EFP – il permesso di traduzione è in calce sotto al disclaimer. Spero che la mia traduzione le renda giustizia, e che possa piacere a voi quanto è piaciuta e sta piacendo a me :)
Aggiornerò una volta a settimana, sempre di mercoledì o giovedì, finché non sarò in pari con la storia, arrivata attualmente all'ottavo capitolo.
Grazie per aver letto e grazie a chiunque vorrà lasciare un commento: mi impegnerò a riportare le vostre parole all'autrice originale. E, se vi è piaciuta, non dimenticate di andare a lasciarle dei kudos su AO3! Potete farlo anche senza iscrizione e trovate il link a piè di pagina ♥
Alla prossima settimana,

-Light-

 
 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, l'autorizzazione a ripubblicare queste traduzioni altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP.

©Roanoke_Wilde 

©_Lightning_

©Lucasfilm

Autorizzazione a tradurre (link ai commenti originali):

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Un cammino di pace ***


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Capitolo 1

Un cammino di pace



 

Il sole gentile di Aq Vetina scaldava la faccia di Din mentre faceva capolino sulla strada.

L’alba era passata da un pezzo – il sole volgeva ormai al mezzogiorno – ma l’aria era più pulita di quanto non fosse stata per giorni. Una brezza frizzante sollevava di tanto in tanto nuvole polverose dalla strada in una danza frenetica, e ogni volta Din inspirava a fondo, per non perdersi gli odori che aleggiavano fin lì dalla piazza del mercato – o, se aveva sfortuna, l’olezzo pungente della tintoria qualche casa più giù.

Si trovava nel settore più tranquillo e vecchio del villaggio, ma, nonostante ciò, poteva sentire l’abituale trambusto della gente che seguiva i propri ritmi quotidiani. Gli altri bambini, Din lo sapeva, sarebbero stati impegnati a giocare tra una commissione e l’altra per conto dei genitori e i loro altri impegni giornalieri. Binh e Mai non avrebbero fatto eccezione, ovviamente.

Din sospirò dal naso e si appoggiò mollemente contro lo stipite, con un tenue senso di delusione che gli svolazzò nel petto – assieme a una punta di nervosismo.

Binh e Mai erano i suoi migliori amici, e anche se sapeva che l’indomani avrebbe potuto di nuovo giocare con loro, una parte di lui avrebbe voluto farlo ora. Senza contare che c’era sempre la possibilità che le cose non sarebbero più state le stesse, dopo stanotte...

Ma sapeva anche che gli eventi di quel giorno erano un onore, qualcosa che avrebbe dovuto attendere con trepidazione...

Din sobbalzò quando due mani gli calarono sulle spalle e una voce si materializzò accanto al suo orecchio.

«Buh!»

Ruotò su se stesso, senza fiato, e incontrò il volto dolce e sorridente di sua madre. Ricambiò ampiamente il sorriso, poi avvolse le braccia attorno alla sua vita, nascondendo la testa nel suo profumo rassicurante – di fiordalisi1. Il mulinello d’ansia che era stato sul punto di ingigantirsi fino a pochi secondi prima si placò quasi immediatamente, mutando in un semplice ronzio d’anticipazione nello stomaco.

«Buongiorno, Din,» mormorò in risposta sua madre, premendo un bacio sui suoi capelli scuri.

Lui si scostò, alzando lo sguardo verso di lei.

«È ora di prepararsi, amma

Sua madre gli sorrise, con qualche ciocca sciolta di capelli che le scese sul volto sereno, e annuì.

«È ora.»


 

Din non si sentiva del tutto a suo agio a prepararsi per la cerimonia con quella donna e quell’uomo sconosciuti ancora in casa.

Erano seduti al tavolo, chiacchierando a bassa voce mentre Din e sua madre si ritiravano nella camera da letto più grande per fargli indossare la tradizionale tunica rossa col cappuccio e per ripetere ad alta voce i riti. I forestieri erano arrivati circa due settimane prima, nel mezzo di una notte spazzata dal vento.

L’uomo aveva bussato con foga alla loro porta, svegliandoli tutti e tre dal loro sonno profondo, e Din era rimasto a guardare ad occhi sbarrati, col cuore che gli batteva feroce nel petto, mentre suo padre si era fatto strada assonnato verso la porta. Quando l’aveva aperta, e la donna era quasi caduta di schianto dentro casa con un grido di dolore, i suoi genitori si erano riscossi. La donna era chiaramente ferita, con una gamba rigida e insanguinata che si intravedeva oltre la stoffa lacera dei pantaloni.

Sua madre aveva bollito dell’acqua, rimediato delle strisce di tessuto, e convinto l’uomo a sedersi mentre faceva distendere la donna ferita sul letto. Suo padre si era messo al lavoro, usando ciò che aveva preparato sua moglie per medicare la ferita. Non avevano proferito parola, se non quelle strettamente necessarie e utili alla situazione, ma Din aveva capito che i suoi genitori non sapevano nulla dei due forestieri – solo che avevano bisogno d’aiuto.

Era passato un giorno intero, prima che Din avesse osato chiedere a sua madre spiegazioni sulla loro presenza lì che, per quanto aveva potuto dedurre, era un segreto persino per i loro vicini. Suo padre, udendo la domanda, si era avvicinato così in fretta che Din si era quasi spaventato, temendo di aver detto qualcosa di proibito, di aver fatto qualcosa di male.

Ma suo padre si era semplicemente chinato di fronte a lui, si era scostato i capelli fini dal volto e gli aveva parlato con serietà.

«Non possiamo parlare di questi viandanti, Din,» aveva detto, con occhi che lo imploravano di comprendere. «Sono venuti da lontano, dopo un lungo viaggio, per ricevere il nostro aiuto. Sono in cerca di pace, riposo, giustizia, un rifugio. Dobbiamo offrire loro tutto ciò, anche se saremo gli unici a farlo. Ti fidi?»

Din aveva esitato, con gli occhi sfarfallanti verso l’espressione intensa di sua madre, che li fissava dalla cucina. Quando il suo sguardo si era fermato di nuovo in quello di suo padre, però, aveva annuito. Aveva compreso quelle parole – era per questo che avrebbe presenziato alla cerimonia una volta compiuti i nove anni, giusto? Aveva capito che quelli erano gli ideali per cui i suoi genitori, un tempo, avevano combattuto – quelli secondo i quali vivevano adesso e tra i quali lo avevano cresciuto.

Non avrebbe parlato dei forestieri, né avrebbe rivolto loro parola, così decise. E, come scoprì in fretta, nemmeno loro si sarebbero disturbati a interpellarlo più di tanto.

Erano passate due settimane di silenziosa e tesa complicità tra i Djarin e i forestieri. Le notti erano costellate di brevi conversazioni tra loro e i suoi genitori, e a volte da discussioni ancor più a bassa voce tra la donna in via di guarigione e l’uomo al suo fianco. Suo padre lo allontanava, quando lui o sua madre volevano parlare coi loro ospiti, e Din obbediva sempre, ma la curiosità gli bruciava dentro, tenuta a bada solo dal desiderio di dimostrare la propria fiducia nel giudizio dei suoi genitori.

Adesso, mentre scoccava occhiate fugaci all’uomo seduto in cucina – che aveva le mani a coppa attorno a una tazza di tè nevarriano – scoprì che la curiosità stava diventando troppo forte per essere ignorata. Era quasi un membro del Cadre della Pace2. Era quasi pronto a imparare ciò che i suoi genitori già conoscevano.

Din alzò gli occhi su sua madre, mentre lei era intenta a passargli una fascia rossa in vita, assicurandola sulla schiena con un nodo invisibile.

«Potrò sapere qualcosa sui nostri ospiti, stasera?» chiese a bassa voce.

Sua madre lo guardò. Din si aspettava di ricevere in risposta almeno un sorriso, ma lei sembrava distante da lì, col pensiero rivolto altrove. Una lieve piega apparve tra le sue sopracciglia, e Din si incupì.

«Amma? Tutto bene?»

Lei lo scrutò negli occhi per un istante, e quando parlò fu con voce grave.

«Sì, Din. Imparerai molte cose, quando sarai un membro del Cadre.»

Din inclinò di lato il capo, e lei, di rimando, distese le labbra in quello che poteva essere il preludio di un sorriso. Gli posò una mano sulla guancia e lasciò scorrere delicatamente il pollice sotto il suo occhio, emanando calore da quel tocco e dagli occhi. Din la osservò, conscio di non dover turbare i pensieri in cui si era evidentemente persa, incerto sulla loro natura, ma confidando nel fatto che sarebbe tornata da lui quando quel momento fosse passato.

E così fu.

«Oggi, figlio mio,» disse improvvisamente, ritraendo la mano e rialzandosi in piedi, «diventerai un custode della giustizia, della pace, della memoria. Diventerai più di mio figlio. Diventerai il nostro futuro.»

A quelle parole solenni, Din tacque. Sua madre gli spazzò via della polvere invisibile dalle spalle, stirò una grinza impercettibile sulla sua tunica e lo guardò di nuovo, intentamente, per un momento, per poi concludere il discorso in modo definitivo.

«Molto bene...»

Fu interrotta da un basso rombo sopra di loro, lontano, un frastuono che si intensificò fino a diventare un ruggito vibrante. Sua madre indirizzò uno sguardo appuntito ai loro ospiti seduti al tavolo, e Din vide con confusione l’uomo che scuoteva in risposta il capo.

Il ruggito scemò, man mano che la nave fonte del suono si allontanava. Din udì un sospiro soffuso di sua madre, e sentì una domanda proprio sulla punta della lingua, quando lei continuò il pensiero appena interrotto.

«Credo di aver sentito tuo padre alla porta. Aspetta qui ancora un po’... anche lui vuole parlarti.»

Din annuì, inghiottendo di nuovo la curiosità. Non gli piaceva l’idea di rimanere ancora fermo, visto che l’irrequietezza iniziava a condensarsi nelle sue ossa, sospingendo nella sua testa immagini di cieli azzurri e strade ampie e giochi con Binh e Mai. Ma, ancora una volta, si sforzò di pensare a quanto tutto ciò fosse importante per i suoi genitori, e da quanto tempo lui si stesse interrogando su quello in cui credevano; al fatto che, nonostante si sarebbe probabilmente rivelata un lungo e datato procedimento, la cerimonia di quel giorno sarebbe valsa la perdita di qualche ora di gioco coi suoi amici.

Sua madre lasciò la stanza e andò a parlare a bassa voce con gli ospiti; poco dopo, apparve suo padre. Aveva un sorriso sghembo sul volto, e indossava già le sue vesti cerimoniali. Erano di un rosso più stinto delle proprie, ma gli donavano un’aria forte, di comando. Din percepì un ampio, insopprimibile sorriso farsi strada sulle labbra, in sincrono con le vertigini di eccitazione che stavano iniziando a farsi strada in lui.

Suo padre si portò alla sua altezza, inginocchiandosi. Corrugò le sopracciglia, deglutì e gli racchiuse entrambe le mani nelle proprie, rovinate dai calli.

«Sei pronto?» chiese, con voce roca.

Din annuì con vigore.

«Sai... sai perché tua madre ed io abbiamo aspettato tutti questi anni per farti riconoscere, vero?»

Din annuì di nuovo e, quando suo padre sollevò un sopracciglio in un gesto d’incoraggiamento, parlò.

«Volevate essere certi che fossi in grado di diventare un ufficiale del Cadre. Che fossi in grado di capire cosa stessi facendo, come voi.»

Suo padre fece un cenno d’assenso, ma poi aggiunse qualcosa che Din non gli aveva mai sentito pronunciare, e la sua voce tremò.

«Essere un membro del Cadre non sarà facile, Din. Il cammino della pace non è semplice né chiaro, nella maggior parte dei casi, e a volte...» Deglutì, col pomo d’Adamo che sobbalzò mentre abbassava lo sguardo. «A volte, e voglio che tu lo sappia, non esisterà nemmeno.»

Din si accigliò, dubbio e ansia che presero a trasudare dal vuoto nel suo stomaco, dandogli un senso di forte calore e confusione. Dada stava dicendo che, a volte, la pace non poteva essere mantenuta?

«Dada? Che vuol dire? Pensavo... pensavo che tu e amma doveste custodire la pace sempre e comunque.»

Suo padre scosse la testa e gli lasciò andare le mani – Din le sentì fredde e vuote.

«No. Il massimo che possiamo fare è provare sempre a custodirla. Provare a salvare coloro che non possono salvarsi da soli, provare ad essere buoni e coraggiosi anche quando siamo gli unici ad esserlo, cercare di fare la pace quando gli altri bramano fare la guerra. Ma non sempre avremo successo.»

Fece un cenno alla sua tunica rossa, poi gli sollevò il cappuccio sul capo.

«A volte moriremo per la pace, Din. Ricordatelo. È la prima cosa che imparerai quando verrai iniziato.»

Din percepì l’ansia che stringeva le sue spire dentro di lui mentre suo padre si rialzava. Non era ciò che si era aspettato di sentire. Aveva creduto che suo padre sarebbe stato fiero, che gli avrebbe spiegato tutte le cose che gli avrebbero insegnato oggi, dopo essere stato riconosciuto... la diplomazia, l’arte oratoria, il modo di governare e servire. Il modo per diffondere la pace... non il fatto che i riti di oggi avrebbero significato poter morire per la pace.

Di colpo, catturò la mano di suo padre.

«Dada, ho–»

Si interruppe, con le lacrime che gli riempirono gli occhi in un’inesorabile scossa di paura, peggiorata dall’apprensione che già lo attanagliava.

Suo padre districò con dolcezza la sua mano dalla propria e gli sorrise, anche se i suoi occhi erano ancora liquidi e gravi.

«Riuscirai in qualunque cosa farai, e in qualunque modo lo farai, Din. La famiglia – di sangue o di spirito – va tenuta vicina in tempi come questi, e adesso ci sono io con te. Tua madre ed io non ti lasceremo da solo, nell’intraprendere questo compito. Oggi andrà tutto bene... te lo prometto.»

Din tirò su col naso, mentre una singola lacrima traboccò dai suoi occhi e rotolò lungo la guancia. Ma poi annuì, e suo padre si voltò, lasciando la stanza senza un’altra parola.

Quando Din riuscì a quietare la paura e le lacrime, qualche minuto dopo, e ne ebbe ripulito ogni traccia dal viso, uscì a sua volta. Sua madre e suo padre erano in attesa sulla soglia, tenendosi per mano, osservando la strada e il cielo come lui stesso aveva fatto fino a poco prima.

Din si sentì più forte di prima, più audace, dopo quella conversazione e dopo quelle lacrime – a dispetto della tristezza che sembrava permeare suo padre. Si fidava di dada. Lui e gli altri membri del Cadre, lo sapeva, gli avrebbero spiegato cosa significava che alcuni di loro erano morti per la pace. Non sarebbe stato solo.

Mentre oltrepassava i forestieri, diretto alla porta e sforzandosi di non guardarli, la donna sconosciuta parlò senza preavviso.

«Din,» lo chiamò, e in suo incarnato pallido sembrava più vivace rispetto agli ultimi giorni. Din non sapeva nemmeno che conoscesse il suo nome. Si fermò a guardarla.

«Qual è il significato della tua tunica, nella cerimonia di oggi?»

Din rivolse gli occhi ai suoi genitori, i cui volti divennero stranamente tetri nel garantirgli il permesso di rispondere a quella strana domanda. Din si schiarì la voce, sapendo di poter rispondere con sicurezza, anche per diffondere un senso di coscienza verso ciò che avrebbe protetto d’ora in poi.

«Sangue,» rispose con semplicità, osservando con un pizzico di dispettosa soddisfazione il modo in cui le sopracciglia della donna si arcuarono sorprese. «Sangue che è stato versato per la pace. È un memento che la pace e la giustizia e la libertà non possono mai essere conquistate senza sacrificare vite. È un memento a custodire la pace e la giustizia finché siamo in grado di farlo nel corpo e nello spirito.»

Non significa, Din pensò d’un tratto, tornando al confronto con suo padre, che io dovrò morire.

L’uomo e la donna si scambiarono uno sguardo quando ebbe finito di parlare, e Din si stupì nel vedere i loro occhi luccicare di lacrime. Si accostò di un passo ai suoi genitori, lanciando loro occhiate di sottecchi, chiedendosi se, per caso, non avesse sbagliato qualcosa nel recitare quelle parole.

Ma l’uomo e la donna annuirono dopo un istante, e si strinsero le mani a vicenda, stendendole sul tavolo.

«Grazie, bambino,» disse la donna. 

Gli offrì un mezzo sorriso annacquato e strizzò la mano del suo compagno. 

«Ti auguro ogni fortuna nel preservare una libertà priva di sangue,» mormorò dopo un momento, abbassando gli occhi sul tavolo.

Din non ebbe tempo di rimuginare a lungo su quelle strane affermazioni. I suoi genitori lo stavano già guidando oltre la porta, con le mani gentili posate sulla sua schiena. Quel tocco portava con sé un conforto che non riusciva comunque a dissipare la maligna danza d’ansia e disagio che era di nuovo sbocciata nel suo stomaco.

C’era qualcosa che non andava, pensò. Mi sta sfuggendo qualcosa, ma cosa?

Un istante dopo, la prima esplosione frantumò l’aria.

 


 

Tradotto da The Way Forward – Chapter 1: A Path of Peace di Roanoke_Wilde da _Lightning_


Note di traduzione:

-Fiordalisi è una licenza poetica di traduzione. La pianta corretta sarebbe stata "fiordalisi delle scogliere", che nulla hanno a che vedere con la loro controparte più nota.
-Un cadre (pronunciato alla francese /kɑːdrə/) è un gruppo scelto di ufficiali e sottoufficiali che, in un esercito, è incaricato di formare l'unità a loro sottoposta. Il termine rimane invariato anche in inglese, e risulta anche lì molto particolare, per questo ho scelto di mantenerlo così com'era, visto che è comunque in uso anche presso le forze militari italiane.

Note della Traduttrice:
Cari Lettori, rieccoci qua, sebbene un po' in ritardo :')
Spero che la storia (e la sua resa) vi stiano piacendo, e non esitate a lasciare un commento per dire cosa ne pensate. Soprattutto, non dimenticate di lasciare dei kudos all'autrice originale, il link è sempre a piè di pagina!
Alla prossima settimana,

-Light-

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: Resistere ***



Fan Art: shima_spoon // Graphic: _Lightning_

Capitolo 2

Resistere
 


Per un solo attimo, Din e i suoi genitori rimasero congelati sul posto.

E in quell’attimo d’immobilità, una seconda esplosione inviò un’altra onda d’urto devastante attraverso il terreno, sotto i loro piedi, nelle loro ossa. Fu seguita dalle inconfondibili raffiche di fucili blaster. Din sobbalzò violentemente al secondo boom – ancor più rispetto al primo – e si voltò verso sua madre, con occhi e bocca sbarrati.

«Amma–» sussurrò.

Quando lei abbassò lo sguardo nel suo, Din capì che era questo – questo – che non andava quel giorno. C’era qualcosa di terribile, nei suoi occhi, qualcosa di sbagliato, qualcosa che rifletteva ciò che stava provando lui, e allo stesso tempo molto più grande. Sua madre aveva paura. Lui aveva paura.

«Prendilo,» disse suo padre all’improvviso, riportando di colpo tutti e tre alla realtà, e alzando la voce oltre la tempesta di spari che proveniva da qualche parte nel cuore del villaggio. Anche lui aveva gli occhi ingigantiti dalla paura quando guardò sua madre, quando gesticolò di nuovo verso di lui.

«Prendilo!»

Sua madre scattò in azione, allora, proprio quando una terza esplosione spezzò l’aria. Lo prese per mano e lo sospinse in avanti, verso ovest.

«Vieni, Din! Vieni!» sibilò.

Din sentiva i piedi di piombo, e gli batteva così forte il cuore che riusciva a sentirlo rimbalzare contro le costole a ogni pulsazione, ma obbedì. Obbedì e incespicò sulla sua scia mentre lei spiccava in una corsa, lasciando indietro suo padre.

Un’altra esplosione scosse la terra, e stavolta vide un lampo di luce a seguirla, con un pennacchio di fumo grigio e acre che si levò dal luogo della detonazione e fiamme rombanti che svettarono al di sopra della schiera di case alla sua sinistra. E sentì le urla. Din voltò qua e là la testa mentre la gente iniziava a invadere la strada, barcollando o fuggendo dal luogo delle esplosioni, coi vestiti stracciati e sporchi di terra, i volti cinerei e pallidi di terrore.

«Dada!» gridò, in cerca della sua figura familiare, sapendo che anche questo era sbagliato. Non avrebbero dovuto allontanarsi da lui. Era tornato indietro – probabilmente per aiutare i loro ospiti – ma lui e sua madre avevano bisogno di lui, qui. «Dada!»

Sua madre serrò la stretta sulla sua mano e, quando Din alzò lo sguardo su di lei, con l’adrenalina che gli scorreva fino alla punta delle dita, vide una forza così feroce, nei suoi occhi, che non ebbe altra scelta se non fidarsi del fatto che lei sapesse cosa stava facendo.

«Non fermarti! Ci raggiungerà!» la sentì dire, ovattata – proprio quando apparve il primo droide.

Sbucò alla loro destra, seguendo la fiumana in fuga dalle esplosioni. Era alto, scuro e lucente, con una gobba smussata al posto di un collo o delle vere e proprie spalle. Din lo guardò e, mentre tentava disperatamente di tenere il passo con quelli molto più ampi di sua madre, il droide alzò un braccio, prese la mira e...

Din risucchiò un respiro e chinò la testa quando il colpo di blaster eruttò dal suo braccio e si schiantò nella schiena della persona più vicina. L’uomo non ebbe nemmeno il tempo di gridare, prima di accasciarsi a terra e rimanere immobile, i vestiti fumanti. Din inciampò, con gli occhi ineluttabilmente fissi su quell’immagine, e quasi trascinò sua madre con sé.  Mentre loro due recuperavano in qualche modo l’equilibrio, a
ltri colpi si susseguirono – alcuni trovarono i loro bersagli nella carne viva, altri si abbatterono sugli edifici attorno a loro, staccandone dei pezzi e lasciando dietro di sé scie annerite sulla pietra liscia.

Din ansimava ormai in respiri rapidi e pesanti; mosse le gambe più in fretta, con l’adrenalina che s’impennava in ondate pulsanti che gli rubavano aria e autocontrollo e che spronavano i suoi piedi l’uno davanti all’altro ancora e ancora anche se faceva così male.

E poi suo padre fu di nuovo lì, proprio accanto a lui. Anche lui era affannato, ma si muoveva con una precisione che né Din né sua madre sembravano possedere. Lo prese in braccio di peso e scattarono in avanti, e si strinse d’istinto a lui. Nascose il volto nella sua spalla, inghiottendo grandi boccate d’aria che portavano con loro il suo odore, e cercò di ignorare le urla e i boati e lo scoppiettio delle armi.

Tutti e tre avanzarono sbandando a destra e a manca attraverso le vie, una svolta dopo l’altra, schivando persone in fuga da ogni parte. Din realizzò ben presto che erano diretti verso la piazza del mercato più piccola – era uno dei luoghi più lontani dal punto in cui erano partite le esplosioni.

A un certo punto, mentre ondeggiava al ritmo dei movimenti disperati di suo padre, Din osò alzare lo sguardo, ma richiuse gli occhi quasi all’istante. C’era fumo ovunque. Una foschia densa di polvere soffocante, sollevata dalla gente e dai droidi – che vedeva ancora dietro di loro, intenti a sparare nella folla – aleggiava ovunque. C’erano corpi sparsi per le strade, altri che ostruivano gli ingressi delle case.

Corpi di vicini.

Corpi di amici.

Din percepì un groppo solido formarsi in gola, tagliandogli l’aria, a preannunciare le lacrime. Binh e Mai erano là fuori. E sua omma[1]. I suoi maestri. Gli altri membri del Cadre.

Cosa stava succedendo? Perché li stavano attaccando?

Quando suo padre inciampò e quasi cadde per la seconda volta, col fiato spezzato, lo sentì di nuovo stringere la presa su di lui.

«Resisti,» esalò, così piano che Din riuscì a malapena a sentirlo oltre il ruggito di quella devastazione. Resisti.

Din strinse la presa con braccia e gambe – usando tutta la forza che gli riuscì di raccogliere – e sentì sua madre posare una mano sulla sua, come ad assicurarsi che lui fosse ancora lì, ancora sano e salvo. Poi, sbucarono nel passaggio principale che serpeggiava attraverso la piazza del mercato – dove furono accolti da ancor più caos di quanto ne avessero visto finora.

Din non guardò, quando emersero in quello spazio relativamente aperto, dove il cielo un tempo terso era ora assediato da densi agglomerati di fumo nero, dove navi sconosciute stavano riversando fuoco e distruzione dall’alto.

Ma lo percepì.

Lo udì.

C’era gente che urlava – da qualche parte si udivano anche dei pianti, di bambini o forse neonati. Esplosioni cadenzate, più gravi e forti di qualunque tuono avesse mai sentito, facevano tremare la terra sotto i loro piedi. Gli edifici vomitavano ondate di macerie aguzze e fuliggine mentre cedevano sotto i colpi che arrivavano da ogni parte possibile. Tutto puzzava di fuoco e morte e fumo – eccetto suo padre.

Per tutto il tempo di quella corsa, Din si aggrappò a quell’odore conosciuto e al tepore dell’uomo sotto di lui, costringendosi a estraniarsi dalle persone che cadevano attorno a loro, dai droidi che miravano con impassibile precisione, e dalle navi a forma di disco che sfrecciavano sopra di loro. Riuscì a ricacciare le lacrime dentro di sé, dove non minacciavano più di rubargli l’aria.

Quando raggiunsero la botola del magazzino, si sentì rintronato.

Nulla ebbe più senso, quando suo padre lo fece scivolare a terra, con gli occhi enormi, i capelli scarmigliati che gli incorniciavano i lineamenti contratti dal panico. C’era troppa luce, troppo rumore, quando sua madre si inginocchiò davanti a lui, col respiro frenetico che le sfuggiva in folate raschianti. Nulla ebbe più senso, quando si accostò a lui per abbracciarlo, avvolgendolo nel suo profumo delicato e oscurando tutto il frastuono e il dolore e il fuoco per un istante fugace.

«Ti voglio bene,» sussurrò, così vicino al suo orecchio che la udì chiaramente. Poté sentire il suo battito attraversare il suo corpo, quando alzò in automatico le braccia per ricambiare la stretta.

Ma tutto iniziò ad avere orribilmente senso quando i suoi genitori lo aiutarono a scendere nella botola, lasciandolo cadere contro le casse bianche all’interno – e non scesero per raggiungerlo.

Entrambi sembravano ancora così spaventati, con le spalle alla guerra dietro di loro, ma adesso c’era qualcosa di fermo e risoluto nel loro sguardo. Era qualcosa che Din credeva di aver già visto prima, in forma più mite, quelle volte in cui aveva detto una bugia o disobbedito–

Era una domanda.

Quale domanda?

Din agì di nuovo d’istinto, senza capire. Tese una mano verso suo padre, così come aveva fatto in camera, a casa loro, così poco tempo prima. Aveva le parole per richiamare i suoi genitori sulla punta della lingua, perché voleva che fossero lì con lui. Aveva bisogno di averli lì con lui.

Ma le parole non arrivarono.

Perché non si stavano nascondendo con lui?
Perché se ne stavano andando?


Le ante della botola si chiusero, lasciandolo in un’oscurità che sembrò più pesante di qualunque cosa avesse mai percepito prima di allora. Rimase seduto lì, col suo stesso respiro assordante nelle orecchie, per quella che sembrò un’eternità – anche se furono solo pochi secondi.

L’esplosione finale, quella che avrebbe davvero ricordato, arrivò mentre guardava la lama di luce tra le ante della botola, aspettandosi di vedere da un momento all’altro i suoi genitori che la riaprivano e lo aiutavano a uscire. Sobbalzò contro le casse quando l’intero magazzino fu scosso e della polvere si riversò all’interno, dalla fessura di luce fumosa.

Di nuovo, le parole per richiamare i suoi genitori si accavallarono dentro di lui, ma la sua bocca si era fatta completamente asciutta. Era tutto sbagliato. I droidi non avrebbero dovuto attaccare–

Lui e i suoi genitori e Binh e Mai non avevano fatto niente–

Perché stava succedendo?

Gli si congelò il respiro in gola quando un’ombra si stagliò nella fessura di luce. Seppe cos’era prima ancora che le porte si aprissero: quei clangori e cigolii metallici potevano appartenere a una sola cosa. Così, quando vide il droide incombere su di lui, puntandogli contro la sua arma, si ritrasse soltanto contro le casse, chiuse con forza gli occhi, pregò che i suoi genitori tornassero anche se lui non c’era più–

Ma l’acuto colpo di blaster non fu seguito da alcun dolore o buio, e la luce che gli inondava gli occhi serrati cambiò, divenne più intensa. Aprì gli occhi, e quello sopra di lui non era un droide – era un uomo in armatura.

Din alzò lo sguardo e quasi si aspettò che gli sparasse, ma così non fu. Invece, il guerriero si protese verso di lui e allungò una mano – come Din aveva teso una mano verso suo padre quando le porte della botola si stavano chiudendo.

L’uomo in armatura gli fece un gesto impellente con le dita – vieni.

E, senza pensare, col corpo che agiva d’istinto spronandolo a stringere quella mano che doveva essere di suo padre, Din si alzò e avvolse le dita attorno al ruvido guanto del suo salvatore.

L’uomo lo issò fuori dalla botola e Din fu gettato nel mezzo dell’aria sporca di battaglia del suo villaggio. C’erano più corpi riversi attorno a loro, più danni di solo pochi minuti prima per via dell’ultima esplosione, più polvere e fumo e caos...

Dov’erano i suoi genitori?

Ma c’erano anche molti guerrieri come quello che l’aveva appena salvato dal droide. Scendevano dal cielo, accerchiavano i droidi e li facevano a pezzi, difendendo i pochi gruppi di abitanti che erano riusciti a sopravvivere chissà come fino ad allora. Din li osservò mentre respingevano i droidi e mettevano fine al massacro che era sembrato senza speranza fino a pochi momenti prima. In quel secondo, il mondo gli si riversò in testa in lampi di colore e suoni e odori che non avevano molto significato, se non il sollievo – il sollievo che tutto quel bruciore forse era finito, che i suoi genitori–

Din vide un altro guerriero in armatura di fronte a lui girarsi, guardare quello che l’aveva salvato e fare un gesto della mano verso il cielo.

Din guardò il suo salvatore. Scrutò quell’elmo insondabile e lasciò scorrere lo sguardo sulla sua superficie scalfita, cercò di trovare gli occhi dell’uomo che c’era dietro. E, anche se non li trovò, si accorse che d’un tratto non importava più chi ci fosse sotto l’elmo o perché l’uomo l’avesse salvato.

Perché, davanti a sé, Din vedeva suo padre inginocchiato nella loro camera da letto, a casa. Vedeva la luce del mezzogiorno che filtrava dalla finestra, sentiva la presenza dei loro ospiti misteriosi in cucina. Sentiva la voce di suo padre, pacata e intensa.

Ti fidi?

Annuì – se solo nel ricordo o nel presente, non avrebbe saputo dirlo. Sapeva solo che, , si fidava. Che doveva farlo. Che tutto era sbagliato, tranne quella fiducia. Quella fiducia l’avrebbe tenuto in vita – suo padre l’avrebbe tenuto in vita.

Non ricordava molto, dopo quel momento. Riusciva a richiamare con vaghezza il modo in cui il terreno aveva preso a girare quando l’uomo in armatura era decollato, librandosi più in alto di quanto Din fosse mai stato prima. Ricordava lo strano calore dello spallaccio metallico sotto la sua pelle, e il modo in cui si stringeva sempre più forte, man mano che si allontanavano da terra, con lo stomaco che si accartocciava per molto più della semplice paura.

Ricordava di aver colto solo uno scorcio fugace di vesti rosse per terra, molto più sotto, non lontane dalla botola in cui era nascosto.

E ricordava di aver sentito una parola ripetersi nella sua testa all’infinito. Era diventata un mantra, mentre l’unico mondo che Din avesse mai conosciuto si allontanava rapido, e lui e il suo salvatore facevano breccia oltre il fumo, nel cielo terso:

Resisti.
 

________________

[Il Presente]
ca. 9 ABY
________________


 
Din ebbe quasi un attacco di panico, quando schiuse gli occhi.

Non aveva indosso l’elmo e non aveva idea di dove fosse lui – solo che non era la Razor Crest, praticamente l’unico luogo in cui sarebbe stato libero di stare a capo scoperto senza temere spettatori. Ma dopo pochi secondi nella penombra tetra, secondi in cui riuscì a individuare quella particolare, odiosa crepa umidiccia sul soffitto, si ricordò di essere al Rifugio. Che era al sicuro. Che, anche se non ricordava di essersi tolto di nuovo l’elmo, non era un problema se non lo indossava.

Riusciva a respirare...

... solo che, in realtà, non riusciva affatto a respirare, visto che la sua gola era riarsa e dolente, oltre a sembrare innaturalmente chiusa.

Si obbligò a mettersi in una posizione almeno vagamente seduta e tentò di risucchiare un respiro, con un risultato che suonò come un topo rago asfittico. Lottò per qualche momento – col cuore che pompava sangue nelle vene a un ritmo sempre più vertiginoso – finché, finalmente, l’aria si fece strada a stento nei suoi polmoni, e riuscì a respirare di nuovo.

Certo, gli sembrava ancora di inghiottire sabbia con ogni respiro, ma almeno, là in mezzo, c’era anche un po’ d’aria.

«Kriff.»

Rimase seduto lì per un minuto buono, fissando la superficie irregolare delle pareti attorno a lui, e lasciò che il livello d’ossigeno nel sangue tornasse entro una soglia ragionevole. Quando fu certo che non sarebbe svenuto provando a muoversi, rivolse l’attenzione all’altro problema che – da qualche parte nei recessi del suo cervello – lo stava pungolando.

La sua gamba.

Era incredibilmente rigida, ed era abbastanza sicuro che in parte dipendesse dalla quantità di sangue rappreso e incrostato sui pantaloni e sul lenzuolo sottostante. L’altro motivo era probabilmente l’immobilità prolungata e, tirando a indovinare, una lieve infezione.

«Kriff

Prima di poterci ripensare in luce della sua ultima scoperta, Din afferrò l’elmo e se lo calcò in testa, sussultando con una smorfia nel sentirlo sfregare contro qualche livido piuttosto esteso sulla nuca. Quelli erano un regalino dello zabrak su Utapau, ne era certo. Quel trafficante era un bruto fatto e finito.

Inghiottì un altro respiro stentato e richiamò in sé una buona ventata di forza, che lo spinse a rimettersi in piedi così rapidamente da bloccarsi per la sorpresa. Ondeggiò un poco, strinse i denti, chiuse gli occhi a contrastare il rollio nauseante della roccia sotto ai suoi piedi.

Quando li riaprì, si sentì incoraggiato dal fatto di essere ancora in posizione eretta, anche se la sua gamba ferita irradiava stilettate di dolore a ogni nervo esistente tra le dita dei piedi e l’anca. Poteva farcela. Doveva farcela, se non altro perché aveva urgente bisogno di un sorso d’acqua per ripulirsi la gola, adesso. E, sì, se voleva davvero riprendersi avrebbe anche dovuto costringersi a mandar giù qualche boccone.

Il solo pensiero gli fece venir voglia di collassare di nuovo sul letto, e l’unica cosa che lo tenne diritto furono i ricordi che aveva appena rivissuto: quei ricordi che non aveva alcun diritto di rievocare a quel punto della sua vita – lo sapeva. Non era più un bambino da ormai molto tempo, e di certo non era il bambino di quei ricordi da ancor più tempo. Era stato stupido riaprire cicatrici così spesse.

Fece un passo, gettando il proprio intero peso in avanti per contrastare quell’ammasso di carne poco collaborativo che doveva essere la sua gamba. Chiazze di buio gli punteggiarono la vista, ma le ignorò, con l’immagine di Aq Vetina che appariva all’improvviso ondeggiando sotto di lui, lontana.

Aveva decisamente la febbre.

Non era più su Aq Vetina, ovviamente.

Fece un altro passo, e adesso era proprio di fronte alla tenda che celava l’ingresso della sua alcova. Tese una mano per stringerla sul telo...

E l’istante dopo stava caracollando in avanti, con la gamba ferita che cedeva all’altezza del ginocchio, in sincrono col respiro che si rinchiudeva di nuovo in fondo ai polmoni. Nel cadere strappò il tessuto dagli agganci, e tutto ciò che vide attraverso il visore fu un mondo bizzarro, inclinato. Vide roccia, un trovatello con l’elmo in testa che schizzava via lungo il tunnel, raggi di sole che filtravano da una delle finestre in alto – allora era l’alba passata.

Ma non riuscì a concentrarsi troppo a lungo su quei dettagli.

Ricordò qualcos’altro del giorno in cui l’avevano salvato...

Non aveva pianto, la notte in cui erano morti i suoi genitori.

Solo dopo aver dormito, per poi risvegliarsi in uno strano luogo, circondato da guerrieri in armatura, aveva pianto.

Non era stato nemmeno per via dello spaesamento, della paura, e nemmeno per l’immagine dei corpi dei suoi genitori riversi sul terreno ormai lontano.

Aveva pianto – da bambino, così tanto tempo prima – perché, mentre se ne stava seduto nell’accampamento dei suoi salvatori, si era accorto di avere uno strappo slabbrato sul ginocchio della sua tunica rossa. Non ricordava come si fosse strappata, ma eccolo lì: largo e orribile e probabilmente irreparabile.

Il tessuto si era strappato – ricordò Din mentre l’oscurità si affacciava di nuovo su di lui – ed era bastato quello, per romperlo del tutto.


 


(Giovanni 14:27)


Note di traduzione: 
[1] Omma: in originale, grandamma, col significato di "nonna". Oma è nonna in tedesco, quindi ho fatto una fusione con l’originale amma per mamma.

Note della Traduttrice:
Cari Lettori, rieccoci qui!
Tradurre questo capitolo è stato un po' un colpo al cuore, per motivi che credo possiate facilmente immaginare... spero di aver restituito l'intensità dell'originale ♥
Non siate timidi nel lasciare un commento: ho preso accordi con l'autrice per riportarle i commenti in traduzione, quindi le arriveranno! In alternativa, non dimenticate di lasciarle un kudos, trovate sempre il link a piè di pagina.
Grazie per aver letto, e al prossimo capitolo!

-Light-

PS. D'ora in poi (e nei capitoli precedenti) troverete dei versetti/citazioni bibliche a fine storia, in quanto l'autrice mi ha espressamente chiesto di riportarli. Ci tiene molto e sono collegati alla storia, quindi dateci un'occhiata, se vi va ♥


 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: Trovatello ***



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Capitolo 3

Trovatello


 

Era bizzarro, pensò Din, quanto Aq Vetina sembrasse estranea, così lontano dal suo villaggio, sotto la bocca spalancata di un cielo trapunto di stelle.

Perché erano ancora su Aq Vetina, anche due notti dopo l’attacco, anche dopo tutto quel tempo che a lui era sembrato lunghissimo, da quando i suoi salvatori l’avevano portato via dagli scontri.

Una grande astronave vuota era in loro attesa, pronta ad accoglierli, e il guerriero che lo accompagnava l’aveva depositato accanto a sé prima di entrare per primo nel velivolo – tutto senza proferire parola. Din non si era mosso dal suo posto finché gli altri guerrieri in armatura non avevano raggiunto la nave, poco meno di un’ora più tardi. Alcuni di loro erano sembrati impazienti di occuparsi delle loro ferite superficiali, o di posare le armi e farsi una bevuta, ma altri sembravano essere di buon umore, a dispetto della carneficina da cui facevano ritorno.

In tutto, c’erano forse dieci guerrieri come quello che l’aveva salvato. Nella frescura notturna che era seguita alla distruzione, si erano sparpagliati in uno dei prati brulli di Aq Vetina, approntando un accampamento spartano. Fu lì che Din pianse per la prima volta, la mattina successiva all’attacco, dopo essere precipitato in un sonno inquieto, punteggiato da fuoco e urla e nemici invisibili. Fu lì che dormì anche per quasi tutto il giorno successivo, imbozzolato in una coperta che uno degli altri guerrieri gli aveva dato in silenzio la prima notte.

Questa notte, però, l’umore nell’accampamento era decisamente meno teso. C’erano tre o quattro fuochi vivaci sparsi attorno alla nave immobile che incombeva su di loro, e attorno ad essi si affaccendavano le ombre massicce delle armature. Ogni loro gesto era amplificato attraverso la piatta e spoglia distesa dei campi.

Din si raggomitolò accanto a un fuoco che era rimasto vistosamente disatteso da quando era stato appiccato, se non per lui, col cappuccio e la coperta tirati fino agli occhi, mentre brividi intermittenti gli scuotevano ogni muscolo. Non era sicuro se fossero causati dalle lacrime che gli salivano feroci agli occhi quando non lottava attivamente per tenerle a bada, o se fossero semplicemente conseguenza dell’aria fredda che s’insinuava attraverso la sua tunica rossa. Sapeva solo che lo infastidivano e che voleva dormire, anche se aveva già dormito per tutto il giorno.

Piantò lo sguardo oltre il fuoco, riuscendo a cogliere di tanto in tanto degli scoppi di risa che suonavano terribilmente fuori luogo nel paesaggio solitario che li attorniava dal buio. I guerrieri stessi, raggruppati attorno ai loro piccoli falò, avevano un aspetto spettrale, con la luce fioca delle stelle e delle fiamme guizzanti che si mischiavano e scorrevano sulle loro armature sudice...

«Ehi, ragazzino,» una voce roca si levò alla sua sinistra, provocando un sussulto di sorpresa in Din.

Sapeva chi fosse – aveva già imparato a riconoscere la voce del guerriero che lo aveva salvato sentendolo parlare coi suoi compagni. Ma non si voltò. Non voleva guardarlo, per una ragione che sembrava sbagliata persino ai suoi occhi. Non avrebbe dovuto mostrarsi più riconoscente verso l’uomo che l’aveva salvato dai droidi e dalla morte stessa? Se era così, perché provava qualcosa di completamente diverso – qualcosa che era più forte e più estraneo e più instabile?

«Ti ho portato da mangiare.»

L’uomo si sedette pesantemente accanto a lui, abbastanza vicino da far ripiegare Din su se stesso, artigliando la stoffa della sua tunica nei pugni. Il pizzicore caldo negli occhi si rifece vivo, e distolse la sua attenzione dall’oscurità intermittente che si stendeva oltre il fuoco, spostandola sul fuoco stesso.

Il guerriero sospirò. Una ciotola venne posata accanto al ginocchio di Din, e il guerriero si scansò più lontano da lui, lasciandogli spazio per respirare. Din continuò a non guardarlo. Fissò lo sguardo sulle lingue rosse, arancioni e gialle che agitavano il fuoco, cercando di non pensare a come anche le faville che riuscivano a superare il muro di fiamme si estinguessero rapide una volta lasciato l’alone del loro calore.

«Fai con calma, ragazzino,» disse il guerriero dopo un momento. La sua voce era contratta. «Si può sempre scaldare di nuovo quando ti viene fame.»

Din deglutì. La vista delle fiamme si dissolse in una nube sfocata di colori in corsa, finché non batté di nuovo le palpebre, spingendo le lacrime oltre la rima degli occhi.

«Però forse dovresti sapere qualcosa in più su di noi, visto che... che in un certo senso sei per forza dei nostri, adesso, no? Quindi lascia parlare me, e chiedi se hai domande,» continuò poi.

Din percepì lo sguardo dell’uomo sul suo cappuccio, ma non alzò comunque la testa.

«Noi siamo Mandaloriani, se ti dice qualcosa. Quei droidi che hai visto? Sono droidi Separatisti. Chissà perché hanno attaccato un villaggio innocuo come il tuo... ma in effetti, chissà perché fanno qualunque cosa...»

L’uomo sembrò perdersi nei propri pensieri, e Din quasi credette che sarebbe rimasto fermo e in silenzio, finché non parlo di nuovo pochi istanti dopo.

«Mi chiamo Raanan, comunque, tanto per dirtelo. Raanan Koravellyic. Ma ho la sensazione che, più in là, potresti volermi chiamare in un altro modo. Credo che sia così che vanno queste cose.»

Sembrò esserci qualcosa di vagamente simile a un sorriso nella voce di Raanan, a dispetto delle parole senza senso che aveva appena pronunciato, così Din ruotò la testa quel tanto che bastava per scorgerlo oltre l’orlo del cappuccio. Il Mandaloriano indossava ancora il casco ed era poggiato all’indietro su entrambe le braccia, i piedi tesi verso il fuoco di fronte a lui. C’era uno strappo netto lungo il suo avambraccio, e sembrava perforare l’armatura, arrivando alla carne sottostante. Gli occhi di Din si fissarono su quel dettaglio, e ripensò all’uomo e alla donna ferita che erano arrivati a casa sua non troppo tempo prima...

Ripensò alla prontezza con cui sua madre e suo padre si erano presi cura della donna...

Un qualcosa si accese in lui, pungente come le lacrime, ma molto più familiare e molto più gradito, semplicemente perché non erano davvero lacrime.

«Sei ferito, signore,» disse, sbirciando dal suo bozzolo fino a posare lo sguardo sul più anziano. La sua voce suonò terribilmente flebile, ma Raanan la udì comunque. L’elmo scuro si voltò verso di lui, poi si inclinò in basso, nel punto in cui erano stati attratti gli occhi di Din.

«Già, sembra di sì,» disse Raanan, dopo una pausa, con voce stranamente tesa. L’elmo si spostò di nuovo su di lui.

«Hai– hai bisogno di medicarla?» chiese Din.

Un silenzio rotto solo dagli scoppiettii e crepitii irregolari del fuoco seguì quella frase, prima che Raanan rilasciasse un altro sospiro. Si tirò su e si raccolse in una posizione a gambe incrociate che a Din sembrò scomoda, con tutto l’ingombro dell’armatura che indossava.

«Nah.»

Din si concesse di rilassarsi ancora un poco, stendendo lentamente le gambe di fronte a lui e sentendo la schiena e le ginocchia protestare quando abbandonò la posizione rattrappita in cui era rimasto fino ad allora. Il suo sguardo rimase sullo strappo, mentre cercava di capire se la ferita sanguinasse, scoprendo che più si concentrava su quel dettaglio, più riusciva a tenere le lacrime ben tappate dentro di sé, dove non avrebbero potuto fargli perdere il controllo.

«Mio padre cura la gente,» si trovò a dire. «So qualcosa di come trattare le ferite, signore. Potrei aiutarti.»

Di nuovo, il Mandaloriano lo fissò, come se non riuscisse a comprendere del tutto cosa gli stesse dicendo e stesse facendo del suo meglio per riuscirci. Gettò un’occhiata verso i capannelli di altri Mandaloriani ammassati in lontananza, poi un’altra al suo braccio. Dopo un altro momento di silenzio, che si protrasse abbastanza a lungo da far agitare Din, riportò lo sguardo su di lui, quel bambino che aveva salvato.

«Va bene, ragazzino. Andiamo alla nave, lì ho qualche scorta medica. Lì puoi, uh, mostrarmi come fare.»

Din annuì con vigore e si balzò in piedi, prima di tendere una mano verso il Mandaloriano ancora seduto. Si sentiva in preda alle vertigini e non del tutto saldo sulle gambe – probabilmente era in parte imputabile al fatto che non mangiava nulla dalla mattina dell’attacco al villaggio – ma sapere di poter fare qualcosa e che non avrebbe dovuto starsene seduto ad aspettare ancora per un sonno sfuggente che non arrivava, scacciò ogni dubbio che sentiva di non dover provare, prima ancora che potesse attecchire in lui.

E, di nuovo, fare così riduceva al minimo le lacrime. Era stanco di piangere; i suoi occhi erano già abbastanza gonfi così, e le lacrime non avrebbero di certo migliorato la situazione in cui si trovava.

«Prendi la zuppa, dai. Non va sprecata,» disse Raanan, dopo aver accuratamente evitato di accettare la sua mano per tirarsi su – cosa su cui Din cercò di non rimuginare – e si rialzò del tutto in piedi. Quando Din obbedì, raccogliendo tra le mani la ciotola di zuppa schiumosa e ancora tiepida, Raanan si avviò verso la nave.

«Hai un nome con cui posso chiamarti?» chiese il Mandaloriano, dopo aver compiuto qualche passo e aver superato un gruppetto dei suoi compagni. Gli elmi in ombra si voltarono impercettibilmente al loro passaggio, mentre le voci si ridussero a un mormorio inudibile.

Din si sforzò di guardare ovunque, tranne che verso il Mandaloriano, concentrandosi al massimo per evitare che la ciotola troppo piena strabordasse mentre camminava. Ma non esitò nel rispondere alla domanda, anche se qualcosa sembrò smuoversi dolorosamente sotto al suo sterno quando lo fece.

«Mi chiamo Din Djarin.»

 

L'interno della nave odorava di muffa, e il sistema d'illuminazione intermittente era di un giallo denso

 

L’interno della nave odorava di muffa, e il sistema d’illuminazione intermittente era di un giallo denso.

Anche solo dall’esterno, la nave – che Raanan aveva accennato fosse affettuosamente battezzata la Grinning Gungan – aveva di certo l’aria di aver visto giorni migliori. Il suo scafo ovale era segnato da sporco, profondi graffi e falle nei punti in cui i pannelli sembravano essere saltati, rivelando l’intrico di cavi coibentati al di sotto. Il carrello d’atterraggio era appoggiato di sbieco sul terreno, schiacciato in molti punti e piegato in modo malfermo in altri. L’interno, comunque, era possibilmente ancora peggio.

Il velivolo, qualunque scopo avesse avuto prima, era spazioso e tozzo, ma non sembrava progettato per trasportare dei passeggeri, oltre all’equipaggiamento. Sulle pareti si susseguivano vari scompartimenti di stoccaggio al posto di sedili sui quali accomodarsi, e quasi ogni centimetro del pavimento era occupato da scatoloni sudici, casse di armi inutilizzate o pezzi sparsi di corazze e attrezzature. L’unica eccezione era lo stretto passaggio lasciato libero dalla rampa di carico all’abitacolo, posto sul muso stretto della nave.

Din cercò di stare attento nel farsi cautamente strada in quello spazio stipato, gli occhi spalancati nello scrutare l’attrezzatura disseminata qua e là, ma riuscì comunque a inciampare su una guaina di fili che serpeggiava sul pavimento. Incespicò, e il contenuto della ciotola sciabordò in avanti e poi di nuovo indietro, schizzando sia per terra che sul davanti della sua tunica.

Si immobilizzò.

«Vediamo... potrebbero esserci delle bende in mezzo a questo macello,» disse Raanan, che ancora gli dava la schiena, ignaro del calore che si stava facendo strada sulle guance di Din e alla sensazione d’asfissia che s’impossessò di lui di punto in bianco. Il Mandaloriano si chinò su una cassa e prese a rovistarvi dentro, borbottando tra sé qualcosa riguardo a delle "teste di laser sciatte".

Din cercò di capire cosa fare prima che Raanan si girasse. La zuppa stava ormai filtrando sotto il colletto, lasciandogli chiazze viscide sulla pelle, e fece una smorfia. Alla fine, si voltò per posare la ciotola su una cassa dietro di lui, per poi guardarsi attorno in cerca di qualcosa da usare per ripulire il liquido dai vestiti e dal pavimento. Non che quest’ultimo avrebbe poi subito chissà quale miglioramento, anche raccogliendo quel disastro.

Raanan lanciò un aha! esultante e si voltò proprio mentre Din si allungava verso quello che sembrava uno straccio sporco per pulire le armi.

«Per l’anima di Caraya,» esclamò Raanan, notando le sue condizioni pietose. «Non dirmi che hai vomitato qua dentro, ragazzino!»

In modo del tutto inaspettato sia per lui stesso che, supponeva, per Raanan, Din ridacchiò nel vedere il palese disgusto dell’uomo a quell’idea improbabile. Si represse immediatamente, però, quando si ricordò che non avrebbe nemmeno dovuto sorridere. Non ora. Forse mai più. Non erano nemmeno passati due giorni interi.

Il senso di colpa si addensò nel suo stomaco.

«No, signore. Ho rovesciato la zuppa,» rispose a bassa voce.

Raanan si rilassò visibilmente, e sbuffò un altro sospiro prima di avvicinarsi a lui e lasciarsi scivolare su una cassa lì accanto. Nelle mani teneva un rotolo di bende striminzito e una fiala quasi vuota di un liquido trasparente.

«Bene,» disse, mentre Din prendeva ad asciugarsi la zuppa sulla tunica. L’uomo sembrò sollevato, in un modo che non gli riuscì di comprendere – e che non ritenne il caso di approfondire.

Dopo aver strofinato furiosamente la stoffa per circa trenta secondi, Din finalmente si fermò e lasciò ricadere lungo il fianco la mano che stringeva lo straccio, col battito cardiaco che s’impennò e le lacrime che spuntarono di nuovo quando realizzò che quella zuppa – qualunque cosa ci fosse stata dentro – gli avrebbe macchiato la tunica. Non riusciva a toglierla. Non sapeva nemmeno perché ci stesse provando, a quel punto.

Raanan si schiarì la voce, interrompendo i suoi pensieri erratici.

«Posso vedere se ci sono altri vestiti. Non è un problema, dav–»

Din lo troncò bruscamente.

«No!»

Raanan ammutolì e Din si affrettò a correggersi. Non era quello il modo di parlare a un adulto, specie uno in grado di uccidere una dozzina di droidi in cinque minuti, e che lo aveva salvato da suddetti droidi poco prima.

«Volevo dire, no, per favore. Signore. Voglio tenere questi.»

Ancora una volta, Raanan sembrò non sapere cosa fare. Un altro lungo e teso momento fatto di sguardi si stiracchiò tra loro, finché, d’un tratto, il Mandaloriano si rianimò.

«Dank farrik!» imprecò, e Din sbarrò gli occhi a quell’esclamazione così colorita, che aveva sentito proferire a suo padre una sola volta, quel giorno che era caduto dal tetto e si era rotto un polso. «Non penso di potercela fare.»

Con quell’ultima affermazione, Raanan mise da parte bende e fiala e portò una mano all’elmo, togliendoselo con uno scatto rabbioso dalla testa. Posò il pezzo dell’armatura accanto a sé e si passò le dita tra i ricci brizzolati, fissandolo con un paio d’occhi verdi e feroci.

Era più vecchio di quanto Din si fosse immaginato, e trasandato, con i capelli gli si arricciavano mollemente sulle orecchie e un’ombra decisa di barba mal tenuta a scurirgli mento e mandibola. Sembrava essere una buona manciata d’anni più vecchio dei suoi genitori, ma era decisamente più giovane di sua omma

Din rispedì le immagini della sua famiglia nel profondo, nel momento stesso in cui tornarono in superficie.

Anche solo pensare a loro lo portava sul punto di singhiozzare a un passo da Raanan. Fissò di nuovo il guerriero.

C’era una luce del tutto sconosciuta, in agguato nello sguardo del Mandaloriano. Qualcosa di terribilmente diverso da quella calda di sua madre o quella acuta di suo padre. Assomigliava, pensò Din, a quel tipo di ombra selvatica che aveva visto negli occhi dei cani randagi che incontrava di tanto in tanto nel villaggio, intenti a rovistare nei rifiuti. Non gli piaceva quello sguardo. I cani randagi mordevano senza il minimo preavviso.

«Stammi a sentire, Din,» disse Raanan dopo quella pausa, sporgendosi verso di lui in un modo che lo fece indietreggiare di un passo. «Perché non posso continuare a far finta di essere un santo uomo che salva orfani e ne diventa il devoto padre.»

Din si ritrasse immediatamente, con una vampata di calore a incendiargli di nuovo la pelle. Orfano? Raanan come suo devoto padre? Cosa?

Sono davvero un orfano, adesso?

Perché Raanan avrebbe dovuto far finta di essere suo padre? Din aveva già un padre, e non somigliava affatto a quel guerriero. Suo padre era un membro del Cadre della Pace, era buono e affettuoso e lo abbracciava quando aveva bisogno di conforto–

Dada non c’è più–

«È quello che si aspettano che faccia, sai?» continuò Raanan, adesso con lo sguardo fisso dietro di lui. «Ma io ce l’avevo, un figlio. Ed è morto

Il Mandaloriano sputò fuori l’ultima parola con così tanto fiele che Din sobbalzò e fece un altro passo indietro, col cuore al galoppo contro le costole. Che voleva dire Raanan? perché gli stava dicendo tutto questo? E comunque, chi si aspettava che Raanan diventasse suo padre?

Amma e dada non ci sono più–

Stavolta, il suo salvatore sembrò notare il modo in cui Din si era ritratto da lui, perché lasciò ricadere la testa contro il petto, fissando il pavimento della nave. Intrecciò le mani guantate in mezzo alle ginocchia, e Din vide il suo petto che si alzava e si abbassava nello stesso, intenso modo in cui sentiva avvicendarsi i propri respiri.

«Mi dispiace. Davvero, mi dispiace. Senti, quando ho visto i tuoi genitori metterti in quella cantina... quando ho visto quello che hanno fatto i droidi, dopo, e quello che avrebbero fatto... sapevo di doverti salvare. Non ho avuto alcun dubbio. Non ne ho nemmeno ora.»

Din deglutì, coi respiri che diventavano sempre più rapidi, le dita che si serravano di loro volontà attorno allo straccio che teneva in mano. Si sentiva come se stesse correndo di nuovo di strada in strada con sua amma, con le pietre, la polvere e il fumo che piovevano attorno a loro. Ma era stupido crederlo, no?

Gli occhi di Raanan si piantarono nei suoi.

«Ma entrambi dobbiamo imparare come funziona tutto questo, va bene? Tutti e due. E so che non sarà facile, ma faremo del nostro meglio. Capito?»

Il Mandaloriano lo fissò, con le sopracciglia folte inarcate, ma Din aveva sentito tutto ciò che aveva appena detto in modo ovattato. Adesso tremava visibilmente, e sapeva che le lacrime erano strabordate, ma riuscì ad emettere un’unica parola strozzata.

«Cosa?»

«Mi dispiace, ma adesso sei un Mandaloriano, Din. È questo che voglio dire. Sei ciò che noi chiamiamo un trovatello. E io... io mi prenderò cura di te e ti insegnerò a combattere.»

Din continuava a non capire. Lui, Din... un Mandaloriano? Un trovatello? Raanan gli avrebbe insegnato a combattere? Non sapeva nemmeno chi fossero, i Mandaloriani. Non aveva alcun senso. Niente aveva senso.

Non i due forestieri a casa sua–

Né il modo in cui i droidi li avevano attaccati, portando con loro fumo e fuoco e distruzione–

Né il modo in cui sua madre e suo padre se n’erano andati e non erano qui con lui

Né il modo in cui si stava comportando Raanan, che diceva di essere come suo padre–

Nulla di tutto ciò aveva senso, e Din lo detestava. Era arrabbiato e lo detestava. Voleva casa sua. Voleva tornare con sua amma e sorseggiare quel tè caldo e rilassante che lo calmava, facendolo scivolare rapidamente nel sonno, così da essere riposato per giocare con Binh e Mai al mattino. Voleva guardare le falcate ampie di suo padre mentre gli andava dietro nella luce obliqua del tramonto, aiutandolo a raccogliere le erbe che avrebbe essiccato e usato in tinture e medicine per la gente del villaggio.

Non voleva essere qui e non voleva che Raanan lo addestrasse a combattere e non voleva che qualcuno si comportasse come il padre o la madre che aveva già.

«Ragazzino? Stai bene?»

Lo sguardo di Din scattò in alto, verso Raanan che lo fissava rigido, scrutando le lacrime che gli solcavano il viso e il modo in cui i singhiozzi lottavano per farsi strada fuori dal suo corpo.

«Din?»

Din chiuse gli occhi, per poi riaprirli con altrettanta rapidità.

«Io non combatterò,» disse, aspramente.

Non posso combattere. Io dovrei custodire la pace. Dovrei essere con amma e dada.

«E tu non sei il mio dada

Lui è a casa. Dove dovrei essere anch’io.

Raanan compresse strettamente le labbra e si alzò in piedi, raccogliendo l’elmo nel farlo. I suoi occhi erano di nuovo duri e selvatici quando annuì una sola volta, bruscamente, verso di lui.

«Giusto. In ogni caso, partiamo domani all’alba. C’è un posto dove credo di poterti lasciare, almeno per un po’.»

Raanan lo aggirò per superarlo, con gli stivali che si abbattevano sordi contro il metallo nel lasciare la nave. Din fissò la pozza di zuppa rovesciata sul pavimento, notando che una parte di essa si era infiltrata nelle sottili fessure in superficie e stava di certo gocciolando sui cavi sotto ai suoi piedi.

Tirò su col naso, stringendosi nelle braccia, col desiderio di sedersi, ma anche di aspettare finché Raanan non avesse abbandonato del tutto la nave, prima di farlo. E invece, Raanan si fermò prima di tornare nelle fauci nere della notte all’esterno.

Din ascoltò con attenzione: udì l’uomo prendere un grosso respiro, per poi parlare, la voce cupa, ribollente appena sotto la superficie, che portava con sé molto più di quanto Din potesse sperare di comprendere.

«Tanto per essere chiari, io non ho mai voluto essere il tuo dada. Ho già fatto la mia parte, per quello.»

E se ne andò.

Din barcollò verso la cassa più vicina e si lasciò scivolare contro di essa, con la vista completamente inondata dalle lacrime, la pressione che gli esplodeva nel petto, soffocando ogni respiro, tirando ogni muscolo che aveva.

Pianse finché le lacrime smisero di arrivare e il vuoto nel suo petto non si espanse fino a consumare ogni più piccolo briciolo d’energia che avrebbe mai potuto possedere. Pianse finché non gli bruciò la gola e i suoi occhi non si gonfiarono al punto da essere chiusi. Di nuovo.

Pianse fino ad addormentarsi, e poi sognò.

Ma, stranamente, non sognò negli stessi colori tetri della scorsa notte, intervallati da momenti di veglia agitati e pieni di panico. Stavolta, sognò la sua casa.

Sognò il calore...

Sognò la luce...

Sognò le braccia dei suoi genitori che lo avvolgevano, i loro battiti in sincrono, i loro respiri che seguivano il suo...

Il sogno terminò troppo presto, ovviamente, ma il fantasma di quell’abbraccio conosciuto aleggiò dentro una parte di lui quando si svegliò il mattino seguente, scacciando il sonno dagli occhi mentre cercava qualcosa, qualunque cosa di familiare nella nave o negli elmi imperscrutabili dei Mandaloriani che riempivano ora lo spazio ronzante attorno a lui.

Ma quando lo fece, realizzò che stava fronteggiando un mondo che non lo conosceva più come il figlio dei Djarin, ma come un trovatello dei Mandaloriani.

 

 

"Invece tu hai visto; poiché tu tieni conto della malvagità e dei soprusi
per poi ripagare con la tua mano.
A te si abbandona il misero;
tu sei il sostegno dell’orfano."

(Salmi 10:14)


Note della Traduttrice:
Cari Lettori,
scusate il ritardo, ma è stata una settimana densa di impegni e ho trovato tempo solo ora per riprendere in mano la traduzione. Spero di essere più puntuale col prossimo aggiornamento ♥
Spero abbiate apprezzato questo capitolo, che è stato un po’ ostico da tradurre. Se notate un linguaggio un po’ alla buona per Raanan, è voluto nella resa ;)

Alla prossima, e grazie a chi segue e commenta questa storia. Il link all’originale è come sempre nei commenti! ♥

-Light-

P.S. Per chi segue la mia long Vode An sul profilo proncipale: io e l’autrice originale ci siamo fatte grosse risate nel constatare la somiglianza tra i nomi Ruusaan e Raanan, nostri rispettivi OC Mandaloriani, e tra i loro trascorsi... tanto per ribadire l’affinità tra alcuni nostri headcanon :’)

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: Sotto occhi vigili ***



Fan Art: shima_spoon // Graphic: _Lightning_

Capitolo 4

Sotto occhi vigili


 

«Hai una nave tua?»

Raanan si voltò di scatto al suono della sua voce, mentre il velivolo Mandaloriano decollava, sparendo non appena raggiunta l’orbita. Din non aveva parlato per tutte le ore che erano occorse alla nave per trasportarli lontano da Aq Vetina, sfrecciando in linea retta attraverso il cuore di un’oscurità punteggiata di stelle che Din poteva sentire mentre si espandeva dentro di lui, ampliandosi con ogni minuto che trascorreva lontano da casa, facendogli venir voglia di piangere di nuovo, anche se non c’era la minima possibilità che gli fosse rimasta qualche lacrima in corpo.

Forse Raanan notò il modo in cui il suo sguardo precipitò a terra non appena l’elmo entrò nella sua visuale, perché sospirò, per poi gesticolare verso la figura scintillante della sua massiccia nave.

«Eccola là. La Razor Crest: si chiama così. Non è bellissima?»

Din alzò dubbioso il capo mentre continuavano a dirigersi verso la nave. I passi di Raanan tintinnavano e la sua sacca da viaggio pesante sbatteva contro l’armatura; Din camminava a mani vuote, sentendo caldo nell’aria troppo umida del pianeta su cui si trovava quella rupe spazzata dal vento.

La nave di Raanan li attendeva fiera in una distesa oscillante d’erba. Era alta, più alta della nave da cui erano appena sbarcati, ma la cabina di pilotaggio era più piccola, piazzata sulla sommità della prua. Due cannoni laser sporgevano da entrambi i lati della cabina, simili ai baffi di quei pesci che nuotavano sul fondale dei laghetti su Aq Vetina. Le ali erano corte e altrettanto alte, e i grossi motori circolari ad esse agganciati incombevano come due grandi occhi vacui.

In effetti, pensò Din mentre inclinava la testa per fissare direttamente la nave, la Razor Crest sembrava quasi avere una sorta di volto, una personalità. Quello era il naso, i due motori erano gli occhi, e laggiù...

«Non parli molto, eh?» disse stancamente Raanan, e Din distolse l’attenzione dalla nave.

Non disse nulla, però. Come avrebbe dovuto rispondere? Avrebbe dovuto spiegargli che tutte le parole sembravano essersi perse da qualche parte dentro di lui, evaporate assieme alle lacrime – o che la sua voce suonava piatta, quando si faceva strada a fatica attraverso il vuoto nel suo petto? Non riusciva a comprendere quel fatto, così come non riusciva a comprendere più nulla di ciò che stava accadendo. Poi, non voleva parlare con Raanan. E, a giudicare dalle parole che gli aveva rivolto ieri il Mandaloriano, nemmeno Raanan era così incline a parlare con lui.

«Beh, per me è bellissima. E lo è ancor di più perché l’ho costruita io.» Raanan fece una pausa, e Din vide il suo elmo inclinarsi un poco di lato. «Io e mio figlio, in realtà.»

Din non commentò nemmeno quell’affermazione, e i successivi cinquanta passi che li separavano dalla Razor Crest furono completamente silenziosi, se non per il lieve spirare del vento sotto di loro, i richiami ingarbugliati di creature volanti che s’impennavano nella vastità azzurra al di sopra, e il suono dei piedi che strusciavano contro la terra.

Quando raggiunsero il retro della Razor Crest, nell’ombra argentata delle sue ali, Raanan si fermò e picchiettò un dito su qualcosa che aveva al polso. La rampa di atterraggio prese ad abbassarsi immediatamente con un gemito acuto. Din fece un paio di passi esitanti all’interno quando finalmente toccò il suolo.

L’odore era molto diverso da quello dell’altro velivolo Mandaloriano: più pulito, più nuovo, meno intriso dell’inevitabile olezzo di troppe persone costrette a vivere troppo vicine per troppo tempo. Non c’era nulla sparso per terra e non c’erano segni confusi di bruciature a deturpare le pareti o il pavimento, né macchie in luoghi impensabili. Anche se Din scorse il profilo di diversi scomparti incassati nei muri, che contenevano senza dubbio tutte le cianfrusaglie per ora nascoste alla vista, l’interno della nave nel complesso gli sembrava pulito in un modo che lo colse di sorpresa.

«Che tu ci creda o no,» esordì asciutto Raanan, fermandosi all’interno mentre si voltava a squadrarlo, vedendolo ancora esitante, «non ci tengo particolarmente a vivere nella tana di un Hutt. Spero non ti dispiaccia troppo.»

Din lo guardò, ancora incapace di decifrarlo per via dell’elmo, ma con l’impressione che l’uomo stesse cercando di essere spiritoso. Un angolo della sua bocca si sollevò in quello che non era esattamente un vero sorriso, ma forse il preludio di uno che fosse almeno cordiale.

«Cos’è un Hutt?» chiese a bassa voce, facendo infine un cauto passo avanti, in quella nave che era estranea, ma non minacciosa come lo era stata la Grinning Gungan.

Raanan si limitò a fissarlo.

«Certo che bambini dovrebbero vivere un po’ di più, al giorno d’oggi,» disse dopo un momento, scuotendo la testa e avvicinandosi verso una scala a pioli fissata alla parete.

Din immaginò che conducesse a un livello superiore, visto che la nave sembrava abbastanza grande da averne uno – o forse alla cabina di pilotaggio. Non era mai salito su una nave, prima della Grinning Gungan, quindi non era certo di come funzionassero tutte quelle cose.

Non so come funziona niente, a quanto pare.

Raanan non disse altro mentre lasciava cadere a terra la sua sacca, per poi iniziare ad arrampicarsi. Din sobbalzò quando la rampa prese a chiudersi da sola ed esitò di nuovo prima di salire a sua volta la scaletta.

Il Mandaloriano era già nel sedile del pilota, quando lui fece capolino nella cabina. Stava azionando file e file di levette e spingendo tasti lampeggianti, mentre la nave prendeva vita con un ronzio sotto alle sue dita. Din lo osservò, ipnotizzato, finché Raanan non sospirò togliendosi l’elmo. Si voltò a guardarlo, rivelando un’espressione tirata, arcigna, incorniciata dai capelli scomposti.

«Siediti.»

Din eseguì, scivolando in un sedile che sembrava liscio e privo di grinze, come se nessuno vi si fosse seduto da quando era stato costruito. Si mise in ascolto, attento, le mani conserte in grembo, mentre Raanan proseguiva a mettere in moto la nave. Din era così preso da quelle procedure che, finché non si librarono nel cielo con le coordinate inserite nel sistema, non batté ciglio. Riportò poi la sua attenzione su Raanan. L’uomo lo stava osservando, con una ruga scavata dall’abitudine in mezzo alle sopracciglia, gli occhi chiari che scrutavano i suoi in un modo che gli fece venir voglia di raggomitolarsi di nuovo sul sedile.

Per la prima volta, notò anche che Raanan aveva una sottile cicatrice rosata su uno zigomo, che si incurvava dalla punta del naso fino all’orecchio. Ebbe un brivido.

«Dove andiamo?» chiese piattamente, e di nuovo la sua voce risuonò come se la stesse trascinando fuori dallo spazio profondo, come se non fosse mai esistita fino a quel momento, quando era stato costretto ad estrarla dal vuoto. Gli sembrava stridente e sbagliata e rotta.

L’espressione di Raanan non mutò, ma almeno – finalmente – distolse lo sguardo da lui, riportandolo ai comandi su cui aveva appena serrato le mani.

«In un posto per gente come noi, se ti sembra possibile.»

Din ripiegò le ginocchia al petto, avendo cura di posare una mano sullo strappo dei pantaloni, in modo da non doverlo vedere.

Io sono Din Djarin. Non sono un Mandaloriano. Non sono come Raanan – e mai lo sarò. Lui non è mio padre. Non è mio–

«Io devo, uh, assentarmi per un po’, capito? Ma questi altri Mandaloriani si prenderanno cura di te finché non torno. Loro sono una vera e propria famiglia, in pratica,» stava dicendo Raanan, ma la mente di Din si era inchiodata su quella primissima frase.

Raanan mi lascerà da solo?
L’ho fatto arrabbiare così tanto che non vuole più avere a che fare con me?
E se anche gli altri Mandaloriani non vogliono prendersi cura di me?


E attraverso quelle domande oscure e confuse, le lacrime bruciavano dentro di lui. Riempirono il vuoto da dove era uscita la sua voce e subito dopo stava interrompendo Raanan, la voce acquosa, i pensieri che roteavano troppo velocemente rispetto alle parole che stava pronunciando.

«Mi lascerai lì?»

Raanan continuò a fissare i comandi comandi mentre decollavano nell’iperspazio, che – sebbene fosse bellissimo e bizzarro e gli tirasse il petto con quella vastità che lo circondava – non fu comunque sufficiente a fargli distogliere lo sguardo dal Mandaloriano che lo aveva salvato.

Il Mandaloriano che ha detto di dover essere come mio padre...
Anche se io ne avevo uno, e anche una amma...


Raanan si mosse sul sedile, schiarendosi la gola una seconda volta. Gli lanciò un’occhiata, per poi sviare di nuovo gli occhi.

«Senti, non è nulla di personale, ragazzino. Ho solo delle faccende di cui devo occuparmi con quelli del mio gruppo, gli altri Mandaloriani che hanno dato una mano a salvare il tuo villaggio–»

«Non hanno salvato amma e dada,» sussurrò Din, prima di realizzare di averlo detto.

A quel punto Raanan si voltò del tutto verso di lui e Din si ritrasse di scatto di fronte a quell’attenzione improvvisa, facendosi indietro sul sedile. Ma Raanan non sembrava arrabbiato. Sembrava solo... triste?

«Lo so. E vorrei che ci fossimo riusciti, ma non possiamo pensarci adesso... ci sono troppe altre cose che dobbiamo fare. Io tornerò a prenderti. Devi solo...»

Raanan deglutì e Din seppe, con una sensazione di vuoto allo stomaco, cosa stava per dire. E non voleva sentirlo.

«Devi solo fidarti di me, ragazzino. Va bene?»

Din non rispose. La voce l’aveva abbandonato di nuovo, e non riusciva a frenare le lacrime che gli traboccavano dagli occhi. Stavolta non emise alcun singhiozzo – quei singhiozzi che lo spezzavano in due lasciandolo ad annaspare – erano solo lacrime. Chiuse gli occhi e si reclinò sul sedile. Non voleva vedere Raanan, non voleva vedere i colori che sfrecciavano al di là dell’abitacolo, non voleva vedere quanto fossero ormai lontani da casa sua.

Aveva mal di stomaco.

Ed era di nuovo stanco.

Si sentiva solo, forse.

E triste, così triste.

Percepì Raanan che lo guardava ancora per qualche istante, poi l’uomo si alzò e lo superò.

«Vado un attimo al bagno, okay? Resta seduto. Non toccare nulla e non... non muoverti e basta.»

Din rimase in ascolto finché i passi del Mandaloriano non sfumarono del tutto, poi si tirò il cappuccio sopra gli occhi, si raggomitolò più strettamente sul sedile e cercò di ricordare casa sua.

L’aveva già fatto sulla nave diretta lì: cercare di ricordare ogni volto, ogni edificio, ogni suono, ogni odore che conosceva di Aq Vetina. E anche se farlo gli portava inevitabilmente il pizzicore delle lacrime agli occhi, attutiva anche la sensazione di poterci annegare dentro. Lo faceva sentire come se una parte di sé – anche se solo una piccola parte – fosse davvero laggiù, prima che i droidi arrivassero e il fuoco divampasse nelle case e lui finisse nella cantina e i suoi genitori–

In quel momento, lo fece sentire come se non fosse stato di nuovo lasciato solo – stavolta da qualcuno da cui, finora, non avrebbe mai pensato di non voler essere lasciato solo.

 

 
Faceva molto più freddo in confronto ad Aq Vetina, sul pianeta su cui Raanan aveva intenzione di lasciarlo.

La luce del gigantesco sole bianco nel cielo pallido faceva sembrare tutto spoglio e vasto, come se su quel pianeta non ci fosse nulla che potesse rimanere segreto. Una serpeggiante strada di terra battuta partiva dal punto d’atterraggio dove si era adagiata la Razor Crest, niente più che un’ampia radura segnata dal fuoco su una delle molte colline tondeggianti che sembravano ricoprire quel luogo. Raanan si incamminò sul sentiero non appena mise piede fuori dalla Razor Crest.

Din trasportava la sacca consunta che gli aveva dato Raanan, circa un’ora dopo aver recuperato la Crest. Seguì il Mandaloriano, che aveva indossato nuovamente l’elmo quando erano atterrati, e che rimase fortunatamente in silenzio durante il cammino.

Finché non parlò.

«Hai mai visto fiori come questi, Din?» chiese all’improvviso. 

Fece un verso vibrante a labbra chiuse e si fermò, inclinando il capo verso una chiazza di fiori di un rosa fluorescente che punteggiavano l’erba rada vicino al sentiero. Din gettò loro un’occhiata, ma non rispose.

Sentiva odore di fumo portato dal vento, proveniente dalla loro destinazione, e quel dettaglio catturava la sua attenzione molto più della flora locale. Non sapeva se Raanan riuscisse a sentirlo, e mentre una parte di lui avrebbe voluto assolutamente chiedergli spiegazioni – giusto per essere sicuro che non fosse successo nulla di male alla comunità di Mandaloriani – una parte più consistente voleva solo tornare alla Razor Crest, e fare qualunque altra cosa che non fosse andare nell’ennesimo posto sconosciuto, pieno di persone che non aveva mai visto. Almeno sulla nave faceva più caldo e c’erano molte meno incognite nell’abitacolo che dietro alla collina successiva.

«Lo prendo per un no, allora,» disse Raanan, e stavolta Din colse un brontolio teso nella sua voce. «Ci sono un paio di cose che devi sapere, visto che resterai qui per un po’. Quindi, visto che chiaramente non mi sei stato a sentire prima, drizzerei le orecchie ora.»

Raanan fece un’altra pausa e si gettò un’occhiata alle spalle; Din annuì, comunicandogli che era in ascolto. Il suo salvatore emise un altro basso verso vibrante. Che suonò molto più come un ammonimento, adesso.

«Questi Mandaloriani sono un po’ diversi da me e da quelli che hai incontrato sulla Gungan,» disse. «Hanno idee diverse su cosa dovremmo fare noi Mando delle nostre vite. E della nostra storia.»

Din corrugò le sopracciglia.

Tanto per cominciare, lui non sapeva niente di utile riguardo ai Mandaloriani. Perché Raanan pensava che gli importasse se questo gruppo era diverso dall’ultimo? Nessuno dei due era la sua famiglia – e mai lo sarebbe stato – e non gli importava dove stavano andando. Era comunque da qualche parte lontano da casa sua. Lontano da amma e dada.

Come se fosse riuscito a udire i suoi pensieri, Raanan aggiunse qualcos’altro mentre si avvicinavano al crinale della collina particolarmente ripida che stavano scalando:

«So che probabilmente per te non significa nulla, ma se fossi in te – per il tuo bene, intendo – terrei la bocca chiusa su qualunque dettaglio tu creda di conoscere riguardo a me, capito? In particolare, sulle mie abitudini con l’elmo.»

Il cipiglio di Din divenne più intenso, e fissò guardingo la schiena di Raanan.

quello cosa avrebbe dovuto significare?

Ma non ebbe tempo di rimuginarci sopra a lungo, perché raggiunsero la sommità della collina – ed eccola lì, la comunità Mandaloriana dove Raanan l’avrebbe lasciato. Doveva essere anche la fonte dell’odore di fumo che aveva sentito non appena scesi dalla Razor Crest, perché da quasi ogni casa raggruppata tra i pendii delle colline si levavano densi riccioli scuri. Quel fumo, pensò Din, assomigliava a quello che usciva dall’officina meccanica su Aq Vetina.

Si fermò per osservare meglio quel piccolo appezzamento di terra in pendenza sotto di loro.

Era un centro abitato decisamente più piccolo di quello in cui aveva vissuto su Aq Vetina, con meno case, più piccole, e un’unica strada che si snodava tra esse. Anche da quella distanza, si intuiva che quelle strutture fossero state erette in modo più rozzo, e c’erano ampi spiazzi di terra tutt’intorno alle costruzione, vuoti se non per piccoli puntini e macchie: alcuni erano ovviamente persone in movimento, altri, altrettanto ovviamente, no.

Non riusciva a capire con esattezza cosa fossero. Ma quando Raanan riprese ad avanzare, lasciandolo lì a scrutare il tutto dall’alto, Din concluse che l’avrebbe scoperto molto prima di quanto avrebbe voluto.

 


C’erano dei bambini, in quella comunità. Din se ne rese conto con sorpresa.

Per qualche motivo, la presenza di bambini era stata uno dei pensieri più improbabili, quando si era immaginato un posto costruito unicamente per dei Mandaloriani. E quei bambini indossavano degli elmi, come ogni altro singolo adulto che riuscì a scorgere nelle case, per strada, intenti a pulire armi o a lavorare su macchine vecchie e malmesse – uno di loro aveva persino un droide.

Droidi.

Din distolse di scatto lo sguardo nel vederlo, e si addentrò al riparo dell’ombra di Raanan, rifiutandosi di fissare un secondo di più quelle orbite vuote che si aprivano sulla sua testa, tenuta ferma tra le ginocchia del Mandaloriano che lo riparava.

Ma Raanan si arrestò di colpo, con l’elmo che guizzò a destra e a sinistra, bofonchiando qualcosa che Din non riuscì a cogliere mentre gli andava a sbattere contro. Raanan si voltò di scatto e Din barcollò all’indietro, gli occhi sbarrati.

«Attento, ragazzino,» ringhiò l’uomo, ma non gli badò più di tanto. Era ancora in cerca di qualcosa.

La trovò un istante dopo e rilasciò un sospiro sollevato.

«Eccoci qua. Avevano detto che assomigliava a un falco urlatore,» borbottò tra sé. «Per me somiglia più a una ferita aperta.»

Detto questo, Raanan avanzò con falcate sicure al centro della strada, dritto verso un edificio leggermente discosto dal percorso sterrato – che Din notò proseguire ben oltre le case e i campi che le circondavano, arrivando oltre il pendio della collina successiva. C’era un grande vessillo innalzato accanto alla casa. Era scuro ed esibiva un singolo emblema rosso sul davanti, un emblema che in effetti assomigliava a una ferita sanguinante, considerò Din.

Era un pensiero disturbante, ma suppose che si addicesse a quanto aveva scoperto finora sui Mandaloriani.

Ma alcuni di quei Mandaloriani, a quanto pareva, ritenevano che loro due non si addicessero affatto a quel luogo: Din si rese conto d’un tratto che stavano fissando Raanan, mentre questi si dirigeva a passo di carica verso l’edificio. Erano solo due o tre – tutti adulti, con armi appese alla schiena o al fianco – ma l’imperscrutabilità dei loro elmi e le cicatrici che adornavano le loro armature furono sufficienti a fargli pensare che non era poi così importante quanti Mandaloriani pensassero che loro due fossero degli intrusi.

Probabilmente ne sarebbe bastato uno per far fuori lui in un batter d’occhi, e Raanan – che sembrava così mingherlino in confronto a loro – sarebbe di certo stato il prossimo. Magari era per quello, che tutti i Mandaloriani tenevano l’elmo anche quando erano a casa. Erano pronti a combattere al minimo preavviso.
Di colpo, furono all’ingresso, e Raanan girò sui tacchi.

«Bene. Vado a parlare di te al capo di questo posto, okay? Rimani qui e torno tra un secondo. Non... non allontanarti e non andare in giro. Loro non ti faranno niente.»

Senza preoccuparsi di sapere se per lui andasse bene – non andava affatto bene – si voltò e oltrepassò la semplice porta di legno, che grattò contro il pavimento mentre la spingeva verso l’interno, per poi richiuderla. Lasciandolo lì. Lasciandolo da solo.

Rimase fermo per un momento, col cuore che prendeva a battergli rapido nel petto, riscaldandolo nonostante fino a pochi istanti prima avesse avuto freddo nell’aria rarefatta del pianeta. Quando divenne chiaro che Raanan non sarebbe tornato presto a prenderlo, Din si voltò lentamente, timoroso di vedere altri droidi o altri Mandaloriani che lo fissavano – o qualunque altra cosa che fosse estranea e odorasse di fumo e suggerisse un’aggressività a malapena celata.

Fortunatamente, gli sguardi dei Mandaloriani sembravano essere stati attratti altrove. C’era solo lui, fermo sulla strada polverosa, a fissare le file di case scure e i campi nel mezzo che, adesso che lo vedeva, erano punteggiati di bersagli per fare pratica di tiro, rastrelliere piene di armi e persino armature, impilate ordinatamente di fianco alle case, pronte all’uso.

Curioso a dispetto di tutto, Din fece per avanzare di un passo, per indagare sui campi che sembravano calpestati e utilizzati, a giudicare dai segni anneriti nell’erba e dalle zolle di terra smosse – quando tutto esplose.

Droidi! Raanan!

Qualcosa di duro e appuntito lo colpì alle spalle, inviandogli una scossa di dolore lungo la spina dorsale. Fu sbalzato in avanti, atterrando sulla pancia e sui polsi, con un contraccolpo che gli spazzo via l’aria dai polmoni e spedì ulteriori stilettate lungo le braccia.

Sentì il sapore della terra in bocca–

Il marrone gli invase la vista, col panico che cresceva nei polmoni, le vene che gli tremavano–

«Alzati.»

Era un ordine, pronunciato da una voce bassa ma non necessariamente adulta, che provenne dalla direzione del colpo che aveva appena ricevuto. Din respirò affannato nella polvere che gli solleticava il naso, sentendosi troppo stordito per rialzarsi, e strizzò gli occhi a contrastare il dolore e lo shock.

«Ho detto alzati!»

Due mani lo afferrarono rudemente per le spalle, rigirandolo sulla schiena che continuava a pulsare. Din annaspò e schiuse gli occhi, ritrovandosi a fissare direttamente l’elmo ammaccato di un Mandaloriano – che era almeno il doppio di lui per peso e altezza, ma che era palesemente ancora un bambino. Come lui.

E poi il bambino gli balzò sul petto con un grugnito, mettendoglisi a cavalcioni e strizzando fuori quegli ultimi rimasugli d’aria che gli erano rimasti dopo il primo attacco alle ginocchia. Din sentì gli occhi spalancarsi, col battito che s’impennava di nuovo, la paura che gli artigliava la gola–

Questo prima che il bambino alzasse il robusto bastone di legno che impugnava – quello con cui l’aveva colpito – e glielo puntasse in volto, pronto ad abbattersi di nuovo su di lui.

«Dammi un motivo per non colpirti di nuovo, chakaar,» ringhiò il bambino.

Din sapeva di non voler morire – non voleva morire, non ancora, non adesso, né mai. Non era giusto. Così, non pensò. Non ne ebbe il tempo.

Inarcò la schiena con tutte le forze che aveva e fece scattare in alto le mani, cercando di scostare di lato il bastone.

I suoi palmi impattarono con l’arma – insaccandogli almeno un dito – ma la differenza di stazza tra lui e il suo aggressore era così grande che inarcare la schiena non produsse praticamente alcun risultato, e il bambino Mandaloriano seduto su di lui non fece altro che stringere la presa, rilasciando quello che suonò senz’ombra di dubbio come un risolino.

Il bastone si alzò di nuovo...

Gli occhi di Din furono inondati di lacrime e li serrò mentre il cuore gli esplodeva di paura...

Mi dispiace mi dispiace mi dispiace–

E poi il peso sul petto e sullo stomaco scomparve, permettendo all’aria dolce di tornargli nei polmoni doloranti. Era libero. I suoi occhi si riaprirono di scatto e, con suo sconcerto, il bambino che l’aveva appena attaccato se ne stava in piedi di fianco a lui, una mano tesa come se volesse aiutarlo ad alzarsi.

«Benvenuto nella Tribù, trovatello,» disse il suo aggressore, facendo oscillare appena le dita. Din poté giurare di aver sentito un sorriso nella sua voce. «Sono Paz Vizsla. Piacere di conoscerti.»

Senza parole, ancora intento a fissare il visore a T di Paz, Din accettò la mano che gli stava offrendo. Non sapeva cos’altro fare. Fece una smorfia nel sentire la stretta ferrea di Paz mentre rimetteva in piedi la persona che aveva appena assalito. Din batté di nuovo le palpebre, più forte, la bocca schiusa, mentre Paz si dava pacche sui vestiti per scacciare la polvere, per poi fare un passo indietro.

«Scusa per l’accoglienza movimentata, burc’ya. Dovevo capire di che pasta eri fatto, se ti saresti rivelato un codardo o un piagnone o una mammoletta.» Il sorriso tornò nella voce del Mandaloriano, che suonava più infantile, ora che non aveva più quella rochezza forzata. «A quanto pare non sei nessuna di queste cose, vero? Sei un guerriero.»

E con quello, Paz gli calò una mano pesante sulla spalla, e Din poté intuire dal suo tono e dalla postura che stesse sorridendo giovialmente sotto all’elmo. Lo fissò, sentendosi più tremante che mai, così scosso dai brividi che dovette sedersi, col mondo che roteava attorno a lui, provocandogli piccoli vortici davanti agli occhi.

«Ehi, e adesso che fai, burc’ya!?» esclamò Paz, forse notando la sua espressione vacua.

Lo prese per un braccio e lo guidò verso un ceppo intaccato di tagli all’angolo della casa in cui era sparito Raanan. Din si lasciò cadere seduto su di esso, respirando affannato.

«È solo che tu sei il primo trovatello che abbiamo da tanto tempo. Il mio buir pensava che fosse una buona idea accoglierti come si deve. Come un Mandaloriano,» spiegò Paz dopo un momento, torreggiando con un fare un po’ insicuro su di lui, che ancora trovava difficile concentrarsi su altro che non fosse il proprio respiro, così da non svenire per quell’improvvisa debolezza.

E poi gli sovvenne un’idea, così improvvisa e così inspiegabilmente allettante che si dimenticò per un attimo cosa fosse successo, concludendo che non gli importava poi molto che la sua voce fosse appena più forte di un sussurro.

«Sei... sei un trovatello?»

Paz emise un rumore nasale; che fosse di sdegno o divertimento, Din non seppe dirlo.

«No! Sono nato nel clan,» replicò, e il puro orgoglio nel suo tono era palpabile. «Tu sei un orfano?»

Din percepì quell’improvvisa speranza che era sbocciata in lui – la speranza che forse non era l’unico ad essere in quella situazione, che forse non sarebbe stato l’unico della sua età a non avere idea di cosa stesse accadendo – dissiparsi.

Ed ecco di nuovo quella parola. Orfano.

Le lacrime gli pizzicarono gli occhi e tirò su col naso, scacciandole col dorso della mano.

«I miei... genitori non possono più occuparsi di me,» disse piano, rispondendo anche se sapeva che non era obbligato. Rispose perché doveva assicurarsi che Paz capisse, che–

Scoccò un’occhiata a Paz, sconfiggendo le lacrime incombenti e sfidando il Mandaloriano a negare che quella parola che aveva appena usato – orfano – non si applicasse a lui. Paz ricambiò lo sguardo, le mani piantate sui fianchi.

«Capito. Beh, comunque. Hai più o meno la mia età, a occhio, e non preoccuparti... adesso sei un trovatello, ma diventeremo presto fratelli di Credo. Aspetta e vedrai. Ti insegnerò tutto ciò che c’è da sapere su quello

Din alzò di nuovo lo sguardo, fissando quel ragazzino chiassoso col suo elmo sgangherato e i vestiti rattoppati e lisi. Lo guardò e rifletté su quanto aveva appena detto – su quello che Raanan e, apparentemente, ogni altro Mandaloriano – pensava che lui fosse o dovesse diventare. Ed era arrabbiato. Arrabbiato che nessuno capisse che lui non era un guerriero – era un custode della pace. Che non voleva dei genitori nuovi o una famiglia nuova – voleva la famiglia che aveva già.

«Lasciami in pace,» bofonchiò, abbassando gli occhi a terra, verso l’estremità del bastone con cui Paz smuoveva la polvere. «Per favore, lasciami in pace e basta.»

Ci fu un momento di silenzio e Din quasi pensò che Paz volesse attaccarlo di nuovo, ma non lo fece. Si limitò a rispondere nello stesso tono allegro di prima.

«Va bene. Ci vediamo stasera dopo cena, trovatello. Ti piacerà seguire la Via, come a tutti noi, promesso.»

E con quelle parole, Paz schizzò via, lasciando Din con la schiena ammaccata, la testa che girava e fin troppe parole che non avevano alcun senso. Era così soverchiato da tutto che, quando finalmente Raanan riemerse dalla casa qualche minuto più tardi e si fermò incerto di fronte a lui, trovandolo col capo chino nelle mani, si sentì effettivamente sollevato.

«Dai, ragazzino,» disse, in tono sorprendentemente gentile. «Ci hanno dato un posto dove stare per stanotte.»

E così Din si rimise di nuovo in piedi, ancora tremante, e seguì per l’ennesima volta il suo salvatore.


 


 

"Possa Egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente
per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati,
quale tesoro di gloria racchiude
la Sua eredità fra la Sua gente sacra."

[Efesini 1:18]"

Tradotto da The Way Forward – Chapter 4: Under Watchful Eyes di Roanoke_Wilde da _Lightning_  


Glossario Mandoa:
chakaar: sciacallo, ladro, criminale da quattro soldi; insulto generico.
burc’ya: amico.
buir: padre/madre/genitore. (NdT. oltre alla difficoltà di non avere una differenziazione di genere in Mando’a, l’inglese rende il tutto ancora più ambiguo, ambiguità che l’italiano non può mantenere. "My buir" è neutro in inglese. In italiano, a meno di non usarlo senza articolo (che a parer mio suona male), bisogna necessariamente assegnare un genere: "Il mio/la mia buir". Perciò potrei tornare su questa e altre traduzioni, visto che nella storia non si è ancora specificato se Paz stia parlando di sua madre o di suo padre.)
 

Note della Traduttrice:
Cari Lettori... lo so, lo so, sono in ritardo.
Avrei voluto mantenere un ritmo d’aggiornamento costante almeno con la traduzione, ma purtroppo i capitoli si stanno allungando e il mio tempo riducendo :’) D’altronde, non vorrei nemmeno arrivare troppo a ridosso dei capitoli finora pubblicati (9)!
A proposito, l’Autrice ringrazia tutti voi per i vostri commenti ♥->  (screen da AO3)

Alla prossima settimana, e come sempre non siate timidi nell’esprimere ciò che pensate, come vedete è apprezzato!

-Light-

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5: Da solo ***



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Capitolo 5

Da solo





 

«Un po' di brodo caldo è il massimo in cui puoi sperare quando porti un elmo tutto il giorno, eh?»

Raanan ridacchiò tra sé e, tolto l'elmo una volta chiusa la porta, inclinò la ciotola di zuppa verso la bocca. Din non reagì.

Prima, un Mandaloriano adulto li aveva intercettati fronte alla casa in cui era scomparso Raanan prima che Paz attaccasse Din – quella che adesso sapeva essere la Casa Vizsla, come il cognome di Paz – per poi fare loro strada fino a una casupola vuota ai margini del villaggio. 

Aveva poi preso da parte Raanan, così che Din non potesse sentire, e aveva discusso a lungo con lui, lasciandolo da solo con tutte le sue domande prive di risposta. Quando i due guerrieri avevano finito di parlare, Din era ormai sul punto di appisolarsi, a dispetto di ogni suo sforzo, e il sole stava tramontando. Fortunatamente, almeno, nessun altro Mandaloriano l'aveva attaccato.

Ne aveva a malapena visti altri, a dire il vero.

Poco dopo che Raanan e Din avevano riposto i loro bagagli nella casa, per poi iniziare a pensare in silenzio alla cena, lo stesso Mandaloriano di prima era tornato, offrendo loro una ciotola di zuppa a testa, spiegando poi che Din sarebbe stato presentato in modo ufficiale il mattino seguente, dopo che lui e il suo "buir" – un termine chiaramente riferito a Raanan – si fossero rifocillati e riposati.

Raanan aveva accolto la cena con entusiasmo, prendendo subito a mangiare. Din, d'altro canto, posò la propria ciotola intonsa accanto a sé, ricordando la sua ultima esperienza con la zuppa e constatando che il suo appetito stentava a farsi vivo. Si sentiva debole e fiacco – anche un po' dolorante, dopo il suo incontro con Paz. Niente gli sembrava appetibile, anche se accettò la tazza di coccio piena d'acqua che gli porse Raanan.

La loro piccola baracca era spartana e buia – resa ancor più buia dal tramonto rapido e pallido – con l'unica potenziale fonte di luce situata in un focolare invaso di cenere nell'angolo opposto a quello in cui era seduto. Il pavimento era di legno scuro e scricchiolante, ma così polveroso che avrebbe anche potuto essere di terra battuta. Non c'era alcun mobile, così Raanan si sedette sulla propria sacca per mangiare. Din non sapeva cosa ci fosse nella propria – se fosse fragile o prezioso, o chissà cos'altro – così aveva optato per sedersi a terra a scanso di danni.

Raanan non aveva detto nulla riguardo all'accendere il fuoco, preferendo apparentemente mangiare e muoversi al buio. E Din non aveva intenzione di proporre di accenderlo, anche se faceva molto freddo.

Così, rimasero seduti insieme nella luce morente, mentre Din ascoltava il suo salvatore che ripuliva la ciotola di zuppa fino all'ultima goccia. Prese a osservare le rozze pareti di legno, in cerca di qualunque cosa in grado di distrarlo dai brontolii traditori del suo stomaco e dalle domande che gli affollavano la testa.

«Hai intenzione di mangiare, vero, ragazzino?»

Din non distolse lo sguardo da un brutto bozzo che aveva appena scovato di fianco alla porta.

«Non ho fame.»

Un lieve tramestio seguì quell'affermazione mormorata, e Din deglutì quando si rese conto che Raanan gli si stava avvicinando, di certo per vederlo meglio nella penombra. Il Mandaloriano tacque, le mani sui fianchi, squadrandolo dall'alto. La sua figura era leggermente più scura rispetto all'interno della baracca, con la sagoma irregolare e torreggiante dell'armatura che incombeva su di lui.

Din ripensò ai suoi genitori, al fatto che anche loro lo avevano guardato dall'alto in modo simile, quando era nella cantina, e poi era arrivato il droide–

E poi l'ombra di Raanan, un guerriero senza volto né nome né una ragione per salvarlo.

Alzò lo sguardo verso di lui. Riuscì a distinguere un'espressione neutrale dipinta sul volto dell'uomo, che aveva la bocca tesa in una linea diritta e piatta. Quando incrociò i suoi occhi, lui inarcò un sopracciglio.

«Devi mangiare, Din. Quanto è passato? Qualche giorno? Avrei dovuto costringerti prima, ora che ci penso.»

«Non avevo fame.»

Raanan sospirò.

«Questo lo so, e non ti biasimo. Ma non farai alcun favore ai tuoi genitori se ti lasci deperire, non credi?»

Din strinse i pugni e distolse lo sguardo, con le lacrime che bruciavano agli angoli degli occhi.

Non è giusto. Non mi va di mangiare e basta.

E poi, spuntò un pensiero più nitido...

Non parlare così di amma e dada.

«Mangia. Sono serio.»

Din non rispose, si limitò a voltare la testa verso il muro.

«Bene. Se non mangi, allora ti faccio mangiare io. E penso che nessuno di noi due voglia arrivare a questo, sbaglio?»

Raanan lasciò che quel concetto divenisse chiaro, e sembrò soddisfatto solo quando fu certo che lui avesse sentito e capito che aveva ogni intenzione di mettere in atto quella minaccia, se necessario. Tornò quindi nel proprio angolo della baracca per togliersi il resto dell'armatura.

Din avvicinò con riluttanza la ciotola al volto, osservando Raanan che tentava di stipare la sua armatura rigida nella sacca relativamente piccola. Si concesse un istante per annusare l'aroma di carne che gli arrivava in lievi zaffate dalla superficie, poi prese un piccolo sorso di brodo. E poi un altro, stavolta più grande – e un altro.

Non aveva davvero mangiato per giorni e adesso gli sembrava di non riuscire a tracannare la zuppa abbastanza in fretta. Era buonissima, e lui aveva una fame tremenda – perché si era rifiutato di mangiare fino ad allora?

È quello che vorrebbero i miei genitori?

Arrivato a metà della ciotola adesso troppo piccola, l'aria fu spezzata dal suono potente di qualcuno che bussava con forza alla porta, facendola tremare in modo precario sui suoi cardini fragili. Raanan imprecò e, oltre il bordo della ciotola, Din lo vide afferrare di corsa l'elmo dal pavimento per calcarselo in testa con altrettanta foga.

E lo fece appena in tempo, perché la porta si spalancò nemmeno un intero secondo dopo che il metallo fu scivolato oltre il suo mento. Din batté le palpebre e abbassò la ciotola nel vedere che era Paz – con ancora indosso l'elmo, ma con un aspetto decisamente meno minaccioso in quella penombra, messo di fronte alla sagoma aggressiva di Raanan. Il bambino Mandaloriano, composto e impettito, porse una pila di vestiti e oggetti a Raanan.

«La Ronda della Morte e la Casata dei Vizsla estendono formalmente la loro accoglienza a te e al tuo trovatello, Mandaloriano.»

Raanan guardò dall'alto in basso il nuovo arrivato, lanciando un'occhiata di sottecchi a Din, che invece fissava apertamente Paz. Poi sospirò, accettando i doni.

«Che c'è nella sacca?»

«Sapone,» rispose Paz, con quel tono rigido che fino a un istante prima l'aveva fatto sembrare un messaggero formale adesso del tutto assente. Raanan annuì.

«Bene, uh, quindi... grazie, allora.»

Paz fissò Din, nell'angolo – o almeno, Din pensò che lo stesse fissando – e poi inclinò il capo verso Raanan.

«Questa è la Via,» disse il ragazzino, di nuovo solenne. Raanan si mosse a disagio, poi si schiarì la voce.

«Questa è la Via.»

Paz si voltò e sparì di nuovo nell'oscurità. Raanan si affrettò a richiudere la porta dietro di lui. Din osservò in silenzio l'uomo che bofonchiava qualcosa tra sé mentre spiegava i vestiti – biancheria, una maglia e un paio di pantaloni a testa – esaminandoli al buio. Strizzò gli occhi, faticando a vederli, e poi parlò di nuovo.

«È stato un bel pensiero. Non so come pretendono che ci laviamo al buio, però, quindi passerò la doccia.»

Lanciò i vestiti verso Din.

«Almeno cambiati. Magari puoi ripulirti per bene domattina.» Din lo sentì sbadigliare, anche se adesso l'oscurità era così fitta che era difficile distinguere qualcosa, a parte il vago profilo di ciò che occupava la stanza. «Io sono pronto a dormire. l'iper-lag non scherza... non penso che ci si abitui mai del tutto. Tu lo senti già, ragazzino?»

Ma Din non sapeva né di cosa stesse parlando, né gli interessava particolarmente, e gli sembrava comunque che Raanan stesse parlando tra sé, più che a lui.

Si sentiva spiacevolmente pieno dopo aver trangugiato la zuppa, e adesso che non era occupato a tenere a bada i morsi della fame non poté impedirsi di chiedersi cosa distinguesse Raanan dagli altri Mandaloriani. Gli sembrava ovvio che quelli che vivevano lì – gente come Paz, che facevano forse parte del gruppo che quest'ultimo aveva nominato prima – non si toglievano l'elmo, o almeno non di frequente.

Ma cosa importava?

E perché Raanan non era come gli altri Mandaloriani?

Perché Raanan avrebbe dovuto lasciarlo con quei Mandaloriani se non era come loro – se forse nemmeno si fidava?

Ma, di nuovo, Din non ruppe il proprio silenzio; Raanan l'aveva comunque salvato. Bastava quello. E i suoi genitori, loro...

Din lasciò che una marea nera di qualcosa che assomigliava a senso di colpa – più forte di qualunque altra volta avesse disobbedito ai suoi genitori – lo investisse, facendogli di nuovo rivoltare lo stomaco per la nausea. Mentre Raanan stendeva due coperte per terra a mo' di letto – una su ciascun lato della stanza, adiacenti ai muri – Din respirò piano e osservò e attese.

Aspettò finché le domande non sfumarono nel buco che sembrava aver inghiottito la sua voce e consumato tutti i pensieri, se non per quelli sui suoi genitori e sulla sua casa, poi si preparò per dormire.

Non molte ore più tardi, mentre Din oscillava senza volerlo tra un sonno agitato e un dormiveglia ancor più agitato, Raanan radunò le sue cose e se ne andò.


 


 

"Oh, se non fossi stato certo di vedere
la bontà dell'Eterno nella terra dei viventi!
Spera fermamente nell'Eterno;
sii forte, si rinfranchi il tuo cuore;
spera fermamente nell'Eterno.
"

[Salmi 27:13 - 14]

Tradotto da The Way Forward – Chapter 5: Alone di Roanoke_Wilde da _Lightning_  



Note della Traduttrice:

Cari Lettori,
stavolta il capitolo è molto più breve degli altri, ma non preoccupatevi: gli altri compenseranno egregiamente :')
Grazie a tutti coloro che continuano a seguire, leggere e commentare: sia io che l'autrice siamo felicissime di vedere il vostro entusiasmo ♥

Alla prossima (forse anche prima del solito eheh) :D

-Light-

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Capitolo 7
*** Capitolo 6: Una voce nel buio ***



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Capitolo 6

Una voce nel buio



 
________________

28 BBY ca.
________________
 

Din si accorse di Raanan che si alzava silenziosamente dalle coperte in cui si era avvolto. Era sveglio, intento a fissare la parete verso cui era rivolto, mentre il Mandaloriano sistemava i suoi averi nella sacca, borbottando di nuovo tra sé e sé.

Ed era cosciente, quando Raanan si fermò per un lungo, pesante momento di fronte alla porta che aveva appena schiuso con delicatezza. Poteva percepire il Mandaloriano che fissava la sua forma imbozzolata sul pavimento, magari mettendo in dubbio la sua scelta di andarsene, magari chiedendosi se non rimanere, dopotutto...

E poi se ne andò, la porta si chiuse e Din fu solo, di nuovo. La piccola scintilla di speranza che si era impennata nel suo petto ricadde di schianto. Non pianse dopo che se ne fu andato, però. Si limitò a inspirare rumorosamente dal naso, rilasciando piano ogni respiro dalla bocca. Pensò di nuovo a casa sua, a come amma e dada si premuravano di dargli sempre la buonanotte, non importava quanto fosse tardi o da quanto lui fosse già a dormire quando tornavano da un incontro in città.

E desiderò che adesso fossero di nuovo con lui, per dargli la buonanotte, per spiegargli cosa stesse succedendo e perché non potessero restare lì. Tutto era troppo estraneo e troppo buio, in quel luogo. Non riusciva a dormire, aveva ancora fame e sentiva un bizzarro sfarfallio ansioso nel petto, come a dirgli che quella notte non era ancora finita, che c'era ancora qualcosa che doveva accadere.

A parte che Raanan rimanesse almeno fino al mattino...

Era un senso d'aspettativa che gli accapponava la pelle.

E perciò, con quell'apprensione, non si sorprese più di tanto quando la porta si spalancò di colpo, sbattendo contro il muro con uno schiocco secco nel buio. Din sobbalzò – Raanan?! – e si mise sulla difensiva contro il muro, sforzando gli occhi per vedere cosa o chi avesse deciso di entrare in modo così teatrale. Fuori, un'enorme mezzaluna e una miriade di capocchie di luce siderale – più luminose di quelle su Aq Vetina; ammiccavano della stessa pallida luce del sole di quel pianeta – lo aiutarono a distinguere la figura sulla soglia...

Era ampia, massiccia, non somigliava a una persona...

Era–

Un letto?

«Ehi, trovatello, dammi una mano a far passare questo coso dalla porta,» ordinò una voce chiara da dietro il mobile, che adesso era a metà della soglia. Din trasalì di nuovo quando il letto sussultò in avanti, coi lati che strusciavano con un suono di legno scheggiato contro lo stipite superiore.

Din balzò in piedi prima di poterci davvero pensare, e lui e Paz – la cui voce gli era inconfondibile dopo il loro primo incontro – passarono i successivi dieci minuti a spintonare quel rozzo giaciglio e il suo materasso scricchiolante imbottito di paglia dentro la baracca.

Quando finalmente riuscirono a farlo passare – con schegge di legno dello stipite sparpagliate vicino alla soglia e il letto che finì per occupare uno spazio sorprendentemente ampio anche rovesciato su un lato – Din lanciò un'occhiata a Paz, che indossava solo l'elmo e un paio di pantaloni, e aveva il fiato corto quanto lui.

«Paz?» esalò infine.

«Già. Scioccante, lo so,» replicò asciutto lui, piegandosi in avanti con le mani sulle ginocchia , ansimando nella polvere ai suoi piedi. «Te l'ho detto che ci saremmo visto dopo cena. E visto che il tuo buir,» continuò Paz, sputando fuori quella parola sconosciuta con una punta di disprezzo, «ha deciso di andarsene a notte fonda, ho pensato che potevo anche venirti a fare compagnia.»

Din si accigliò, ritraendosi istintivamente da Paz. Voleva sapere come, di preciso, avesse saputo che Raanan se n'era andato...

Cosa significasse quella parola, buir...

Perché gli importasse che lui fosse lì da solo...

Se Paz sapesse dove fosse andato Raanan e perché fosse diverso dagli altri Mandaloriani che vivevano lì...

Invece disse:

«Hai trascinato qui il letto per tutto il villaggio?»

La sua domanda incontrò un'istante sospeso di silenzio, poi Paz rilasciò un respiro secco. Il ragazzino incrociò le braccia e lo squadrò da capo a piedi con muta sicurezza.

«Certo. Che altro dovevo fare? Dormire per terra? Se devo tenerti compagnia, voglio farlo stando comodo

Din batté le palpebre. Intravedeva una certa logica in quel ragionamento, in effetti.

Paz batté le mani all'improvviso, rumorosamente, e Din sobbalzò di nuovo.

«Bene. Io accendo il fuoco – c'è un buio del kriff qua dentro, sembra di stare a Malachor – e tu rovescia il letto e accostalo al muro.»

Dopo quell'annuncio, Paz si voltò e uscì dalla baracca, lasciando Din a fissarlo quasi intontito. Circa metà del suo cervello era in confusione su quanto stava accadendo – e sul perché quello strambo bambino guerriero stesse facendo tutti quegli sforzi per non farlo stare da solo stanotte – e l'altra metà era completamente sconvolta per il fatto che Paz aveva appena detto "kriff". Quella era una parola che non aveva mai, mai sentito dire al suo dada, figurarsi da qualcuno della sua età. Solo i mercanti che passavano di tanto in tanto dal suo villaggio su Aq Vetina usavano quella parola, e comunque non la dicevano spesso.

Ma Din scosse la testa ed eseguì comunque le direttive di Paz, scegliendo di ignorare entrambe le fazioni del suo cervello per concentrarsi sul fare qualcosa, invece di aspettare stupidamente delle risposte alle sue molte domande. E spingere un letto contro il muro era qualcosa da fare. Prima non stava comunque dormendo, dopotutto.

Visto come stavano andando le cose quella notte, forse Paz avrebbe finito per rispondere a qualche sua domanda.

Paz accese in fretta il fuoco.

In pochi minuti la baracca fu calda e illuminata, con le fiamme che danzavano in mezzo alle ombre che lui e Paz proiettavano, seduti di fronte alla rientranza che fino ad allora conteneva solo ceneri. Adesso c'era un odore di fumo ancor più intenso, ma Din concluse che il tepore e la luce del fuoco compensassero quel fatto. L'aspetto della baracca non migliorò più di tanto – e non sembrava nemmeno così grande, anche riuscendola a vedere – ma almeno assomigliava a una casa, adesso, e non a una tomba.

«Ecco fatto. È venuto bene, se posso vantarmi, eh, Din?» Paz gli diede una gomitata nelle costole a coronare quell'affermazione, voltando il capo per guardarlo in faccia.

Din, sorpreso che Paz ricordasse anche solo il suo nome, annuì stolidamente. Di rimando, Paz si rigirò su se stesso per ispezionare il letto che aveva sistemato.

«Bene. L'hai pure messo nell'angolo, l'avrei fatto anch'io.»

Il Mandaloriano calò una mano sulla sua spalla e si alzò, lasciando lui inginocchiato di fronte alle fiamme.

«Allora? Che è successo al tuo buir?» chiese Paz, dopo essersi lasciato cadere sul letto, incrociando mollemente le mani dietro la testa. «Tornerà, no?»

Din fissò le fiamme con tutta l'intensità che poteva, con quella resistenza ormai familiare che spingeva le parole nel vuoto, ad essiccarsi nel petto. In testa gli frullavano ancora molte domande, però. Stuzzicò l'orlo inferiore dei pantaloni, sperando che Paz lasciasse cadere il discorso. Ma ormai avrebbe dovuto capire che quel Mandaloriano iperattivo non si arrendeva facilmente.

«Sai parlare, vero? Magari lui non è ancora il tuo buir... è solo il tuo cabur

Din non rispose, anche se una parte di lui avrebbe davvero voluto farlo. Paz aveva letteralmente trascinato un letto per mezza città solo per assicurarsi che lui non passasse la prima notte da solo. E, come con Raanan, quell'atto di gentilezza non richiesto doveva pur significare qualcosa.

E allora perché non riesco a parlare?
Perché mi sembra di dormire senza riposare?

«Ehi, ci senti o no?!»

Din colse l'irritazione nella voce dell'altro bambino e si girò, schiudendo la bocca.

«Non... non so cosa sia un buir. O... o l'altra cosa che hai detto.»

Paz lo fissò per un istante, per poi scoppiare a ridere, con la voce stranamente ovattata dall'elmo. Il Mandaloriano si tirò su a sedere e si spostò più vicino all'orlo del letto, lasciando penzolare i piedi e prendendo ad agitarli piuttosto vigorosamente, come se avesse troppa energia per rimanere fermo a lungo.

Ed era probabilmente così, concluse Din.

«Giusto. Ci avrei dovuto pensare. Non sei un trovatello da molto... non hai nemmeno un elmo. Scusa, bur'cya

Din scosse la testa. Non doveva scusarsi di nulla. Non ci capiva niente nemmeno lui, e forse non voleva farlo. Ci fu un silenzio imbarazzante e poi, sorprendendo persino se stesso, Din parlò:

«Ti togli mai l'elmo?»

Paz lo fissò.

«Non di fronte a qualcuno. Il tuo... cabur non te l'ha ancora spiegato? Non ti ha detto della Via di Mandalore?»

Una nota nuova s'insinuò nella sua voce mentre parlava, un sentimento più cauto e maturo di quanto avesse mai sentito nelle voci dei suoi amici su Aq Vetina. Ricordò ciò che gli aveva detto Raanan prima di arrivare lì:

Se fossi in te – per il tuo bene, intendo – terrei la bocca chiusa su qualunque dettaglio tu creda di conoscere riguardo a me, capito? In particolare, ciò che riguarda le mie abitudini con l'elmo.

«Non... non sono con lui da molto. Non mi ha d– davvero parlato di come sono i Mandaloriani.»

Non era una bugia. Raanan non aveva parlato praticamente di nulla, e Din aveva preferito così. Sperava solo che Paz non insistesse: e se questi guerrieri odiavano gli altri Mandaloriani che non seguivano le loro stesse regole? E se si fossero arrabbiati con lui? Aveva visto di cosa erano capaci, la loro violenza, e non voleva assolutamente mettersi nella posizione di riceverla sulla propria pelle – di nuovo.

Per fortuna, però, Paz non disse nient'altro in merito all'argomento. Il suo elmo graffiato s'inclinò lateralmente, verso il fuoco, e anche Din si trovò di nuovo catturato dai suoi movimenti ipnotici.

«Sai perché sono venuto qui, stanotte?»

Din percepì di nuovo quella solennità, quella cupa sicurezza, nella voce di Paz – un tono che Din aveva finora sentito solo negli adulti. Gli faceva strano, lo spingeva a guardare Paz in modo diverso, a considerare la peculiarità dei suoi improvvisi cambi d'atteggiamento, da energico e veemente a solenne e vagamente gentile.

«Il tuo cabur ha sbagliato a lasciarti qui. Non so da quanto sei con lui o da dove ti ha salvato, ma non importa. Dovrebbe essere qui con te... insegnarti la Via. Perché la Via è la cosa più importante di tutte per i veri Mandaloriani.»

Din storse la testa, con le domande che riprendevano a ribollire dentro di lui. Gli sembravano sbagliate, però. Sporche, come se la sua curiosità stesse riemergendo presto, troppo presto dopo ciò che era accaduto.

«Perciò, visto che lui non vuole farlo, ti insegnerò io tutto ciò che so, va bene?»

La voce di Paz riacquistò la sua nota giovane e leggera. Il bambino si lasciò scivolar giù dal letto sbilenco, che traballava e scricchiolava dopo essere stato maltrattato per farlo passare a forza per la porta. Venne a sedersi accanto a lui, rannicchiando le ginocchia al petto come volendo imitare lui, sebbene fosse più piccolo.

Din si limitò a guardare il fuoco, con un groppo in gola, le lacrime che gli pizzicavano gli occhi, incerto se parlare, sempre che fosse riuscito a trovare delle parole. Non guardò l'elmo di Paz, esplicitamente rivolto verso di lui e intento a leggere ogni emozione sul suo volto – tutte quelle che lui non poteva leggere sul suo. Le parole di Paz gli rimbalzavano in testa, assieme a una miriade di altre cose che non riusciva a focalizzare.

Fuoco–
La Via di Mandalore–
Droidi–
Ti insegnerò io tutto ciò che so–
Cabur, buir?
Raanan ha detto–
Casa–
Ti fidi?
Non piangere di nuovo ti prego non voglio–

Lacrime, pensò Din, avvertendo il loro arrivo nel flusso costante di pensieri, con improvvisa forza.

Non erano le lacrime violente, rabbiose che aveva versato nell'ultimo paio di giorni. Erano più simili a quelle che gli uscivano quando si sbucciava le ginocchia nel giocare coi suoi amici, o quando sbatteva il gomito contro la porta d'ingresso perché non faceva attenzione quando entrava di corsa. Si asciugarono in fretta, come allora, e magari grazie a loro si sarebbe anche sentito meglio.

Paz continuò a parlare, e Din scoprì di riuscire a seguirlo con più attenzione, rispetto a prima.

«Ti spiegherò come si vive qui. E ti piacerà... magari all'inizio no, ma alla fine sì,» disse, e poi si fermò, come se stesse scegliendo con cura le parole da pronunciare.

«In realtà è divertente, quando c'è altra gente. E anche se le lezioni di storia sono noiose e infinite, il mio buir dice che mi piacerà raccontarle, un giorno. E sarà così anche per te, forse.»

Ci fu un altro silenzio pesante e Paz annullò la piccola distanza che li separava per dargli un piccolo pugno sulla spalla.

«Mi stai ascoltando, mangiafango? Il mio buir ha detto che forse era una buona idea parlarti, invece di attaccarti, e ci sto provando. Con impegno.»

Din non aveva mai sentito nessuno usare la parola "mangiafango" e – a dispetto di tutto il dolore e la confusione che lo accompagnavano da giorni e nonostante non riuscisse ancora a forzarsi a parlare, Din percepì un minuscolo sorriso farsi strada sul suo volto nell'analizzare quella situazione, e come lo facesse sentire più leggero e un po' più lontano dall'affogare in onde che non riusciva nemmeno a capire o vedere.

Ma non è ancora troppo presto?
Come posso sentirmi meglio già da ora?

Scrutò l'elmo impenetrabile di Paz e pensò che nessuno dei due conosceva davvero l'altro. Pensò al modo violento in cui Paz si era presentato e poi gettò un'occhiata al letto che quel ragazzino si era trascinato appresso fino alla baracca sua e di Raanan – prima che Raanan se ne andasse. Din analizzò tutto ciò che Paz gli aveva detto e tutto ciò che gli avevano detto i suoi genitori qualche giorno prima e tutto ciò che aveva detto Raanan e–

Fu quello, a funzionare.

Il vuoto nel suo petto si ritirò per la prima volta da quando era apparso. Una pressione invadente svanì dal suo petto, invisibile, così pesante che non si rese conto della sua esistenza finché non scomparve. Il dolore e le lacrime erano ancora lì, ma c'era anche qualcos'altro. Il presentimento che forse le cose non sarebbero state così per sempre. Che forse un giorno sarebbe riuscito a respirare senza piangere, dormire senza sognare e sorridere senza sentirsi nero dentro.

Che forse non era – in quel momento – del tutto solo.

«Grazie,» disse a bassa voce, e l'elmo di Paz scattò verso di lui, colto di sorpresa. «Per essere venuto qui. E per il fuoco. Non– non volevo stare qui da solo.»

E quasi senza alcuna esitazione, Paz replicò:

«Questa è la Via.»

Din lo guardò di nuovo, indeciso se ripetere quelle parole – così come aveva fatto Raanan poco prima, titubando – poi decise che non c'era bisogno. Tornò a fissare il fuoco e rimasero seduti lì per un po', in silenzio. Din lasciò che la sua testa si riempisse dello scoppiettio delle fiamme e si accorse che ogni volta che le immagini del suo villaggio che andava a fuoco, dei volti dei suoi genitori che lo fissavano dall'alto, ammantane d'ombra e fumo – cominciavano a fare capolino, non doveva fare altro che concentrarsi sulla baracca, sul fuoco, sul fatto che ci fosse qualcuno seduto accanto a lui.

Farlo rendeva quei ricordi fumosi, ed era tutto ciò in cui poteva sperare, per stanotte.

Era così assorbito in quel tiro alla corda mentale, intento a scansar via i ricordi e ad ancorare i pensieri sul presente, che non notò i segni d'agitazione di Paz – il modo in cui batteva il piede a terra, in cui cincischiava con le mani, in cui spostava ripetutamente lo sguardo da un capo all'altro della baracca – finché una realizzazione improvvisa non colpì il Mandaloriano, facendolo esplodere d'energia repressa.

«Ho scordato le armi!» esclamò ad alta voce.

E così com'era iniziato, quel momento di quiete s'infranse e Paz era già balzato in piedi, aveva spalancato la porta ed era schizzato via nel buio esterno. Din non ebbe nemmeno il tempo di capire che cosa avesse detto che si ritrovò solo nella baracca, con una ventata d'aria fredda che approfittò della porta aperta per insinuarsi dentro, sulla scia di Paz.

Din non sapeva cosa aspettarsi, ma, neanche un minuto dopo, Paz tornò. Inciampò praticamente sulla soglia, con una sacca capiente e piuttosto piatta sulla schiena. Il Mandaloriano grugnì nel calciare chiusa la porta, poi issò la sacca dalla schiena, depositandola sul pavimento, sul quale impattò con un tonfo polveroso, illuminata dal fuoco. Paz rivolse lo sguardo verso Din, con un'aria di trionfo che si irradiava da ogni centimetro del suo corpo.

«Armi,» annunciò fermamente.

Din adocchiò la sacca con sospetto.

«Perché hai portato delle armi? Siamo in pericolo?»

Paz represse una risata a quella domanda e scosse con vigore la testa, come se trovasse ripugnante quell'idea.

«Ma no. Le ho portate per te

Din sentì la bocca secca.

«Per me?»

«Sì. Queste in realtà sono del mio buir, ma ho pensato che se devi diventare un vero Mandaloriano devi abituarti adesso. E se me lo chiede, dirò che sono stato io a dartele. Non preoccuparti.»

Ma Din era preoccupato.

«Io... io non ho mai usato un'arma. Non vo–»

«No, no, Din,» lo interruppe Paz, inginocchiandosi per slacciare le fibbie che tenevano chiusa la parte anteriore della sacca, simile a una bandoliera. «Questo è un regalo. E non si rifiuta un regalo da un amico, no?»

Il modo il cui l'elmo di Paz s'immobilizzò, col visore scuro puntato verso di lui, e quello in cui la sua voce sprofondò di una o due ottave nel pronunciare quelle parole, fecero pensare a Din che magari era proprio quello che voleva Paz: che lui rifiutasse quel regalo. Non sapeva cosa sarebbe successo se avesse davvero deciso di non accettare l'arma, ma d'un tratto non voleva scoprirlo.

Quindi rimase in silenzio, osservando Paz che finiva di aprire la sacca per poi allargarla, dispiegando le due ali laterali e rivelando quello che sembrava un vero e proprio arsenale privato di armi, da piccoli blaster a blaster più grandi e piccoli congegni meccanici – Din non aveva la minima idea di cosa fossero. Paz indicò con entusiasmo un blaster di media stazza:

«Questo è una pistola blaster BlastTech DL-44,» annunciò. «È un modello piuttosto nuovo, ma il mio buir dice che presto inizierà a diffondersi nella Galassia.»

Din fissò l'arma, cercando di non pensare all'entità dei danni che poteva causare – alle cose che avrebbe potuto bruciare e trapassare.

Paz indicò un'altra arma, stavolta una di quelle più grandi tra quelle disposte dinanzi a loro.

«E quellobur'cya, è un blaster WESTAR-35.» Paz fece scorrere un dito lungo la superficie lucida della pistola e riportò lo sguardo su di lui. C'era un innegabile sorriso nella sua voce, quando parlò: «La maggior parte di noi porta sempre con sé almeno uno di questi.»

Din rimase ancora un po' con lo sguardo fisso, mentre Paz sedeva sui talloni, oscillando avanti e indietro con le mani in grembo.

«Allora, quale?»

Din rialzò di scatto gli occhi.

«Cosa?»

«Quale arma vuoi, testa di secchio? Prendi quella che ti piace. Non ti obbligo a scegliere una piuttosto che un'altra, anche se ti consiglierei quel–»

Din deglutì e parlò prima che Paz potesse finire la frase:

«Non voglio un'arma. Dovrei... seguire la pace. Io non combatto.»

Un momento di silenzio denso seguì quelle parole pronunciate in fretta e Din abbassò lo sguardo, distogliendolo dalle armi. Quando Paz parlò di nuovo, la sua voce era meno vivace rispetto a prima, ma non per questo meno veemente. E non per questo scortese.

«Non devi usarla adesso. Prendine una e basta, va bene? È un buon primo passo, trovatello, come dice il mio buir. E non è troppo grande.»

Din guardò di nuovo le armi, con un senso di disagio che gli sbocciava nello stomaco, i palmi imperlati di sudore. Non voleva. Non voleva un'arma – non avrebbe combattuto. Non era un Mandaloriano. Non era pronto per tutto questo.

Mi dispiace, amma e dada. Non la userò. Lo faccio solo per Paz... perché è stato gentile con me.

Prima di poterci ripensare troppo, Din indicò una piccola scatoletta rettangolare, infilata in una stretta tasca all'angolo della bandoliera modificata.

«Quella lì,» mormorò.

Con sua sorpresa, Paz esitò.

«Quella. Davvero?»

Din guardò incerto il visore di Paz.

«Sì?»

Paz spostò lo sguardo sul piccolo pezzo che aveva indicato – forse il meno appariscente tra tutte le varie opzioni – poi scrollò le spalle, allungò una mano e lo tirò fuori dalla tasca. Lo rigirò tra le dita un paio di volte, per poi fissare di nuovo Din.

«Va bene, ma... non premere alcun bottone o cose del genere. Ti serve probabilmente un parabraccio prima di poterlo usare... e magari anche un po' di addestramento.»

Gli porse la scatoletta e Din la accettò titubante, esaminandola senza reale interesse.

«Che cos'è?»

«È, uh... la cartuccia di un lanciafiamme,» rispose Paz, richiudendo le ali del porta-armi.

Din sbarrò gli occhi.

«Cosa?»

«Cioè,» si affrettò a dire Paz. «Non è un vero lanciafiamme. Potrebbe funzionare anche senza il resto del meccanismo e la piastra del parabraccio, ma...»

Paz si alzò in piedi e si mosse incerto sul posto, squadrandolo dall'alto.

«Non so se possono esplodere a caso, quindi starei attento.»

Din deglutì e riportò gli occhi sulla cartuccia apparentemente innocua che stringeva in mano. In effetti era stranamente pesante, per le sue dimensioni, e riusciva a intuire dove si potesse connettere a qualcos'altro, sul fondo. E lì, a un'estremità, c'era un foro da cui suppose dovessero fuoriuscire le fiamme. Scosse delicatamente il congegno e sentì con un pizzico d'allarme lo sciacquio attutito di un liquido all'interno.

Si rialzò in fretta, mentre Paz si voltava. Aveva riposto la bandoliera in un angolo della baracca, con molta più attenzione di quando l'aveva portata dentro, e si stava sfregando pensosamente le mani, quando Din si rivolse a lui.

«Sei sicuro che posso tenerla?» chiese piano, quando gli sembrò che Paz lo stesse di nuovo guardando.

Paz gli fece un cenno con la mano e andò a sedersi sul letto. Il suo tono sembrò scocciato nel rispondere:

«Sì, sì. Mettila via, che dici? Io vado a letto.»

Din obbedì immediatamente, posando con cauta rapidità la cartuccia vicino alla sua borsa quasi vuota di fianco al giaciglio di coperte. Si ritrasse all'indietro, lontano dalla borsa e sul suo letto di fortuna, non appena l'oggetto lasciò le sue mani.

Quando rialzò lo sguardo, conscio che i suoi occhi fossero ancora spalancati e con l'impressione che nulla di ciò che era accaduto quella notte fosse reale, si ritrovò con il visore di Paz puntato addosso. Si accigliò.

«Che c'è?»

In tutta risposta, Paz sospirò – un sospiro lungo e sonoro.

«A quanto pare, bur'cya,» esordì, riversando una quantità enorme d'esasperazione sulla prima parte della frase, «dovrò davvero dormire per terra stanotte.»

Din inclinò di piò le sopracciglia, confuso. Si sentiva disorientato, con tutti quegli strani cambiamenti d'umore e d'argomento. E poi, Paz non aveva trascinato lì un letto per mezza città proprio per non dover dormire per terra? E non stavano parlando di armi, fino a un momento fa?

«Ma–»

«Zitto,» bofonchiò Paz, prima che Din potesse esprimere a parole la frase che gli era passata per la testa.

Paz incrociò le braccia e si puntellò contro il letto con quel tipo di aggressiva energia che, ormai Din l'aveva capito, era praticamente inscindibile da lui.

«Senti, so che mi sono portato dietro il mio letto. Ma tu sei un ospite, e il mio buir mi prenderebbe a schiaffi sull'elmo se sapesse che ti faccio dormire su quel misero mucchio di coperte. Per terra. Nella polvere

Din adocchiò il suo "misero" mucchio di coperte, realizzando ciò che intendeva dire.

«Sto bene così, sul serio,» disse in fretta. Ficcò più a fondo le gambe sotto le coperte a rafforzare quell'affermazione, ma dentro di sé sapeva che sarebbe riuscito a dormire meglio su un vero letto, piuttosto che sul pavimento duro. Eppure...

Paz non doveva rinunciare a stare comodo per far stare comodo lui: aveva già fatto abbastanza assicurandosi che non passasse la notte da solo. E a modo suo, considerò Din, anche lasciandogli scegliere per lui una delle armi del suo buir.

«No, invece.»

«Ma è vero, Paz. Non devi per forza...»

Senza preavviso, Paz si alzò dal letto e marciò verso di lui. Din non ebbe nemmeno il tempo di reagire che il Mandaloriano l'aveva già raggiunto, sollevato rudemente per il colletto e issato in piedi. Il suo elmo era a pochi centimetri dalla sua faccia, quando pronunciò il suo ultimatum:

«Stammi a sentire, bur'cya,» ringhiò, suonando molto più minaccioso di quanto non fosse prima. «Io dormirò per terra come uno schifoso topo rago, e tu dormirai sul letto. Punto e basta. Non voglio sentire storie.»

Paz lo spinse senza tante cerimonie verso il letto e Din vi inciampò sopra. Sentiva affastellarsi in testa ogni sorta di pensiero, e gli tambureggiava il cuore quando si voltò di nuovo a guardare Paz. Gli sembrava che gli occhi gli stessero per schizzar via dalle orbite.

Che sta succedendo?

Ma invece di guardarlo, Paz si stava già sdraiando, gettandosi addosso una delle sottili coperte che Raanan aveva portato. Din rimase a bocca aperta. Dopo qualche istante – durante il quale Paz si rigirò così da essere rivolto verso il muro – Din lo sentì parlare di nuovo:

«Che hai da guardare? So che non hai coperte per quel letto del kriff, ma non morirai di freddo. Servono a me.»

Din richiuse la bocca e deglutì. Guardò il letto e poi il bambino violento e imprevedibile che dormiva dove era rannicchiato lui nemmeno un'ora prima, quando Raanan si era alzato e l'aveva lasciato solo.

«Gr– grazie,» sussurrò, non del tutto sicuro che quella fosse una reazione appropriata per quanto appena accaduto.

Paz bofonchiò qualcosa di inintelligibile – ma senza dubbio scontroso – in risposta, e Din si mise a letto senza un'altra parola. Era molto più comodo del giaciglio per terra, anche senza coperte o un cuscino, e sentì i muscoli rilassarsi quasi subito. Sospirò involontariamente e chiuse gli occhi, accogliendo l'ondata di sfinimento che lo attraversò.

«Beh, buonanotte, bur'cya,» disse Paz, dopo qualche momento. La voce del Mandaloriano era ancora acida, ma non sembrava del tutto arrabbiato.

«B-buonanotte,» rispose a bassa voce Din.

Il fuoco scoppiettava e crepitava nel silenzio che li divideva, e Din ripensò a tutto ciò che era accaduto quel giorno. Si era svegliato con un peso così pesante sul petto... un qualcosa che sembrava dovesse sbriciolare ogni cosa che aveva dentro, come se lo stesse divorando dall'interno.

Ma alla fine della giornata – o meglio, nel bel mezzo della notte, considerò ironico – quel peso si era sollevato. Non del tutto, ovviamente, e quando batteva le palpebre vedeva ancora l'attacco al suo villaggio e sentiva le voci dei suoi genitori sfiorargli l'orecchio, ma non erano più cose che lo paralizzavano. Non gli facevano più sentire il petto che si strappava in due.

Adesso, mentre rimaneva disteso lì nel lucore del fuoco, sentendo il sonno che accarezzava i margini della sua coscienza in un modo che accolse, sentendo il cuore che rallentava e prendeva un ritmo stabile, respirò liberamente.

Non capiva ancora cosa stesse succedendo – le azioni di Paz avevano portato più domande che risposte – ma sapeva di potersi fidare del Mandaloriano. Anche se il suo compagno tendeva a favorire la violenza alla pace anche per le faccende più semplici, quel bambino non aveva dato alcun segno di volergli davvero fare del male.

E lui era rimasto... l'aveva cercato, mentre Raanan non l'aveva fatto.

Era un bene, no?

Mentre il sonno lo conquistava del tutto e Din trovava impossibile opporsi all'incoscienza, anche se la situazione in cui si trovava era lontana dall'essere ideale o anche solo accogliente, i ricordi e le domande che baluginavano dietro le sue palpebre finirono per dissolversi. E si udì pronunciare un'unica domanda, che si era rifiutata di andar via finché non fosse stata pronunciata ad alta voce:

«Che vuol dire bur'cya

Il fuoco s'impennò d'un tratto, lanciando una favilla sul pavimento con un forte scoppiettio, seguito da un fruscio mentre il legno si riassestava. Din combatté la totale incoscienza e tese le orecchie per udire la risposta...

Ma l'ho detto davvero?

E poi una voce si fece largo nel buio, di nuovo calma, traboccante di una sicurezza adulta e non dell'irreprimibile esaltazione del giovane Mandaloriano che aveva avuto modo di conoscere in quella singola ora.

«Amico,» disse semplicemente Paz.

Amico, pensò Din, coi pensieri che si facevano soffici e sfuggenti, come i fili in fuga dei sogni. Le sue palpebre si chiusero del tutto, bloccando fuori il mondo e tutte le sue difficoltà, scivolandolo nel primo, vero riposo dalla tragedia di Aq Vetina.

Bur'cya vuol dire amico.


 

"Di nuovo parlò loro:
«Io sono la luce del mondo;
chi segue me, non camminerà nelle tenebre,
ma avrà la luce della vita».
"
[Giovanni 8:12]

 

Tradotto da The Way Forward – Chapter 6: A Voice Through the Dark di Roanoke_Wilde da _Lightning_  



Note di traduzione&Glossario
Buir: padre, madre (genitore)
Cabur: guardiano, protettore
Mangiafango: mudscuffer, liberamente tradotto
Testa di secchio: buckethead, ripreso da Rebels
BlastTech DL-44: il modello di blaster di Han Solo
WESTAR-35: i tipici blaster Mandaloriani
NB. I congiuntivi mancati, i colloquialismi ed eventuali ripetizioni sono tutte cose volute, così da rendere il modo di parlare e i pensieri di due bambini.

Note della Traduttrice:

Cari Lettori,
rieccoci qui col nuovo capitolo, stavolta un po' più consistente.

Ci stiamo avvicinando all'ultimo capitolo pubblicato dall'autrice originale, per questo sto rallentando il ritmo di pubblicazione, così da non arrivarvi a ridosso e mettere fretta a Roanoke.
Sto considerando se dividere l'ultimo in due parti: su AO3 la media è devastantemente lunga rispetto a EFP e Wattpad, ma mi consulterò con l'autrice per vedere se è d'accordo ♥

Grazie a tutti voi che leggete, commentate e votate questa storia. Non dimenticate, se non l'avete già fatto, di lasciare un kudos a Roanoke_Wilde, trovate sempre il link a piè di pagina!

Alla prossima!

-Light-

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7: Sangue e lealtà ***



Fan Art: shima_spoon // Graphic: _Lightning_

Capitolo 7

Sangue e lealtà



 
________________

[Il Presente]

9 ABY ca.
________________
 




 

La trovatella si aggirava per i cunicoli del Rifugio, muovendosi più piano che poteva.

Si acquattò in punta di piedi, respirando appena attraverso il naso, e scandagliò le ombre su entrambi i lati del corridoio man mano che avanzava. Lei era la cacciatrice. Gli altri trovatelli – sia quelli che avevano già l'elmo, sia quelli che ancora dovevano giurare al Credo, come lei – erano le prede.

Da un momento all'altro, pensava, l'improvviso scalpiccio di una preda che schizzava via o il baluginio di un elmo lucido avrebbe dato il via alla caccia. Doveva essere pronta. Prese un lento respiro per placare il tambureggiare del suo cuore. Aveva già perso più volte a quel gioco contro i trovatelli più forti, grandi e con più esperienza di lei. Ma stavolta avrebbe vinto. Lo sapeva.

Dunque, quando i suoi occhi sfiorarono il luccichio del beskar vicino a una delle alcove dei Mandaloriani adulti, quelle che fungevano loro da alloggi, sogghignò e si acquattò ulteriormente. Fissò lo sguardo in quel punto. Era in vantaggio: la preda doveva ancora vederla, il che le avrebbe permesso di avvicinarsi di soppiatto e acchiapparla quando l'avesse vista arrivare. Cioè da un momento all'altro...

Con un brillio machiavellico a illuminarle gli occhi, la trovatella si avvicinò. Il beskar argenteo, una porzione del quale era illuminata da un raggio obliquo di luce mattutina, non si muoveva ancora.

Mentre avanzava con tenue perplessità – dopotutto, i suoi compagni giocavano meglio di così a nascondino – si raddrizzò un poco e sentì il suo sorriso affievolirsi. Che razza di posto era per nascondersi, quello? Di certo, l'altro trovatello avrebbe già dovuto sentirla. E non c'era gusto, ad acchiappare la preda senza rincorrerla.

Quando fu nel raggio di circa cinque metri, però, e quando la perenne penombra del Rifugio sembrò ritrarsi abbastanza da permetterle di vedere ciò che stava guardando, risucchiò di scatto un respiro. Il suo battito accelerò come se stesse davvero rincorrendo la sua preda in fuga.

Ma non stava rincorrendo nessuno, perché il beskar non apparteneva a un trovatello che giocava a nascondino...

... ma a un vero e proprio Mandaloriano.

Un Mandaloriano adulto, riverso esanime di fronte all'entrata della sua alcova.

E che forse era morto.

Il suo primo istinto, che sorprese persino lei, fu di scattare in avanti e cercargli il polso, come le aveva insegnato la sua buir quando l'aveva presa con sé anni prima. M, arrivata a un passo dal Mandaloriano, la cui armatura scompagnata era scalfita e lacera e così immobile, non riuscì a farlo.

Aveva troppa paura.

Non voleva premere le dita sotto il bordo dell'elmo e non sentire alcun calore, nessuna fonte di vita. Non sapeva nemmeno cosa avrebbe significato, di preciso, perché la sua buir non era entrata nel dettaglio su quell'ultima parte. E non voleva scoprirlo da sola, nemmeno con gli altri trovatelli ad aiutarla.

Invece, si voltò, dimenticando del tutto il gioco in corso, e si precipitò più veloce che poteva verso la sala centrale, dove sapeva che avrebbe trovato altri Mandaloriani. Dove avrebbe trovato aiuto. Dove, magari, avrebbe trovato anche la baar'ur.

Vi fece il suo ingresso poco dopo e il caldo, basso brusio di alcune voci la investì, scemando quando gli occupanti della sala la videro piegarsi sulle ginocchia, intrisa d'adrenalina, ansimando in cerca d'aria mentre tentava di scacciare il tremito che le scuoteva ogni muscolo.

Si rialzò, le mani premute sulle ginocchia, inghiottendo boccate d'aria e cercando un Mandaloriano del clan della sua buir, d'istinto. Per fortuna, ne trovò uno quasi subito. Quello enorme. Paz Vizsla.

«Baar'ur,» annaspò, guardando dritto verso Paz e poi verso gli altri Mandaloriano che si erano voltati a guardarla. «C'è un Mandaloriano a terra nel corridoio. Gli serve un baar'ur

 


 




Paz alzò a malapena lo sguardo, quando la trovatella senza elmo irruppe nella sala centrale.

I trovatelli giocavano spesso nel Rifugio, saltando dentro e fuori le molte nicchie del sistema fognario nei momenti più impensati. Anche lui aveva fatto lo stesso, in un posto diverso – e, volendo essere onesto, non avrebbe esitato a farlo di nuovo, avendone la possibilità. Di certo sarebbe stato più eccitante che starsene seduto lì a marcire, pensò, arricciando le dita attorno al fucile affusolato che aveva già pulito più volte nel corso delle ultime ore.

Quella mattina si stava perdendo a tal punto nella propria testa – ronzava di pensieri tetri e ribolliva di parole taciute – che, anche se avesse notato che la trovatella ansimante era del clan Vizsla, non gli sarebbe importato più di tanto.

Ovviamente, finché lei non annunciò che da qualche parte c'era un Mandaloriano a cui serviva un baar'ur. Si alzò all'istante in piedi, così come l'altro paio di compagni seduti al tavolo dietro il proprio. Il suo sguardo balzò nell'angolo della sala dove sapeva di trovare la baar'ur, impegnata in una partita a carte con un membro del suo clan. Era una donna sottile, con una voce aguzza e dita fredde, e stava già avanzando verso la trovatella non appena aveva annunciato la notizia del loro compagno caduto. Del loro fratello o della loro sorella.

Paz sollevò una mano, a fermare due Mandaloriani che si stavano avvicinando alla bambina.

«La aiuto io,» disse a bassa voce. «La trovatella è del mio clan.»

Gli altri due esitarono, prima di annuire. Era comunque il Mandaloriano più robusto e forte tra quelli attualmente raccolti nella sala e la trovatella era di fatto una responsabilità del clan Vizsla. Doveva essere lui ad assistere il Mandaloriano che aveva trovato. E alla baar'ur sarebbe servita una mano a spostare il paziente: avere troppa gente attorno mentre lavorava avrebbe solo reso le cose più difficili; sia per lei, sia per chi avrebbe dovuto assistere.

La trovatella fece strada dopo che il medico ebbe recuperato la sua borsa. Paz tenne senza difficoltà il passo col suo trotterellare, con un senso di freddo disagio nello stomaco.

In teoria, non c'erano stati Mandaloriani fuori dal Rifugio, quella notte e, per quanto ne sapeva, nessuno di loro l'aveva lasciato quella mattina. Questo significava che il Mandaloriano doveva essere stato ferito prima dei festeggiamenti della sera precedente. Ma non ricordava nessuno dei suoi fratelli o delle sue sorelle d'armi con delle ferite, anche minime. 

Chi era il Mandaloriano ferito? Come era successo – e quanto erano gravi le sue ferite, se era addirittura incosciente? O magari era la trovatella, ad aver esagerato? E non era da escludere, mettendosi nei panni di una bambina annoiata e dispettosa, a zonzo per gioco nell'oscurità polverosa dei corridoi del Rifugio.

I numeri dei Mandaloriani – anche coi trovatelli che accoglievano a intervalli di tempo sempre più imprevedibili – si assottigliavano ogni giorno di più. E sembrava che anche la segretezza e la dedizione del Rifugio non potessero arrestare quel processo, non quando il loro spirito si stava deteriorando ancor più rapidamente del loro corpo. Paz arricciò le dita e accelerò, coi passi che risuonavano secchi lungo l'ampio tunnel, l'impazienza che si faceva strada di fianco a quella brutta sensazione mentre realizzava quanto fosse lenta la trovatella.

«Dov'è?» ringhiò infine rivolto a lei, prima di potersi trattenere.

La trovatella, che aveva il fiatone, si arrestò di colpo in tutta risposta e poi puntò il dito verso la diramazione del tunnel di fronte alla quale si erano fermati. Li guardò muta, lui e la baar'ur, con gli occhi scuri dilatati e le guance arrossate. Paz annuì, distogliendo lo sguardo dal suo volto scoperto, e assieme alla baar'ur ripresero ad avanzare più rapidi, gli occhi già attratti dal baluginio argenteo che si intravedeva appena oltre l'ingresso di un'alcova.

Nemmeno a metà strada, Paz capì chi fosse.

Avrebbe dovuto capirlo prima, si disse. In qualche modo. Quale altro Mandaloriano nel Rifugio aveva scelto di– a chi era stato vietato di partecipare ai festeggiamenti della sera prima, e sarebbe stato in grado di nascondere le sue ferite a quel modo?

Ge'talsol, forse uno dei più illustri cacciatori di taglie che fossero mai passati per quel Rifugio.

E quale Mandaloriano avrebbe mai compiuto una bravata simile – lasciarsi ferire, nasconderlo come un idiota del kriff e poi aumentare la teatralità della cosa svenendo in un corridoio, giusto per farsi vedere dallo sfortunato passante che avrebbe dovuto portarselo sul groppone?

Il Mandaloriano che un tempo aveva chiamato amico, ovviamente.

La baar'ur lo raggiunse per prima. Si era già inginocchiata accanto alla sua testa, facendo scivolare le dita oltre il bordo dell'elmo e sull'arteria che passava nel collo, quando Paz fu abbastanza vicino da vedere chiaramente la situazione. Il drappo che copriva l'entrata alla sua alcova era lì per terra, parzialmente stretto nella mano che si allungava oltre il suo elmo, e c'era una chiazza scura di sangue rappreso sotto le dita nude e piegate dell'altra mano, che sfioravano appena il terreno.

Paz non riuscì a capire se respirasse o meno: era troppo buio e la sua armatura troppo spessa.

«Aiutami a portarlo alla sua branda,» ordinò d'un tratto la baar'ur. «Il polso è debole, ma c'è ancora.»

Qualcosa di caldo e stringente balenò nel suo petto.

Irritazione, comprese Paz. RabbiaMagari anche preoccupazione, sebbene non sapesse perché mai avrebbe dovuto essere preoccupato.

Ciononostante, si accovacciò comunque, senza emettere nemmeno un lamento nel caricarsi in spalla il peso relativamente leggero dell'altro Mandaloriano. Non fu particolarmente delicato quando lo lasciò cadere sulla branda. La baar'ur dovette notarlo, perché il suo elmo si inclinò di scatto verso l'alto mentre apriva le fibbie della sua borsa.

«Fa' più piano, Vizsla. Lo conosci?»

Paz lanciò un'occhiata a Ge'talsol, all'elmo familiare, all'armatura consunta che era stata raffazzonata da quella di molti altri Mandaloriani – inclusa la sua, a un certo punto – e non rispose alla domanda. Scrutò la sagoma incosciente del Mandaloriano.

«Che ha che non va?»

La baar'ur abbassò di nuovo lo sguardo, esaminando lei stessa il paziente e prendendo nota di ogni potenziale danno. Inclinò la testa e si spostò sull'altro lato della branda, facendosi largo con uno spintone oltre Paz, come se lui non fosse nemmeno lì. Frugò nella sua borsa e ne estrasse un coltello, così da tagliar via il tessuto stracciato attorno alla coscia del Mandaloriano – esattamente nel punto in cui ci sarebbe dovuta essere una protezione che non c'era, e dove c'era invece molto sangue.

Paz non era sicuro di come avesse fatto a dimenticarla. Non gli importava molto, in verità. Se un Mandaloriano perdeva o trattava con negligenza la propria armatura, si meritava ogni ferita.

Mentre lei lavorava, scoprendo l'area della coscia così da poter trattare la ferita sottostante, Paz analizzò la stanza, in cerca di qualche indizio su cosa fosse accaduto. Aveva parlato a Ge'talsol la sera prima, no? E stava bene, almeno così gli era sembrato. Irritante come sempre anche solo per il fatto di parlare, forse, ma stava comunque bene.

Di certo non gli era sembrato che stesse morendo, cosa che chiunque avrebbe pensato entrando lì dentro in quell'istante e vedendolo riverso sulla brandina chiazzata di sangue.

La brandina chiazzata di molto sangue.

Paz riportò lo sguardo sulla baar'ur, che aveva smesso di tagliare e tastava ora la ferita con due dita guantate, chinata sulle ginocchia così da vedere lo squarcio in ogni suo più truce dettaglio. Aveva acceso la torcia dell'elmo, illuminando l'area di un bianco sterile. Paz non si preoccupò di guardare lui stesso la ferita. Non gli importava. La baar'ur avrebbe fatto ciò che doveva. Anche se era abbastanza sicuro che tutto quel sangue non provenisse solo dalla ferita sulla gamba.

Il paziente non aveva ancora emesso alcun suono, però, e Paz intrecciò le mani davanti a sé con un sospiro tagliente, spostando gli occhi sulla corazza ammaccata di Ge'talsol, in cerca di un segno che fosse davvero ancora vivo.

«Senza dubbio un'infezione,» annunciò la baar'ur dopo un istante, abbastanza piano da dare l'idea che stesse parlando tra sé, più che con Paz. «Febbre, lacerazioni multiple sul torso e sugli arti...»

Fece una pausa, inclinò di nuovo di lato la testa, come se stesse ascoltando qualcosa, e poi la scosse.

Rovistò di nuovo nella sua borsa e ne estrasse quello che sembrava uno stetoscopio. Fece un gesto impaziente dell'elmo verso di lui.

«Puoi togliergli la corazza?»

Paz si mosse in silenzio, con quella stessa irritazione di poco prima che cresceva dentro di lui, anche se non sapeva dire da dove scaturisse. A prescindere dai loro trascorsi personali, prima come amici e poi come avversari, Ge'talsol era ancora un Mandaloriano. Ed era ferito, il che significava che era suo compito e onore aiutarlo a riprendersi il prima possibile.

Anche se è praticamente un traditore?
Anche se è un debole e un vigliacco e un bugiardo?

Paz grugnì mentre sganciava le fibbie che assicuravano la corazza al petto del Mandaloriano. Non capì immediatamente cosa significasse l'improvviso respiro spezzato sotto di lui, però – e quello fu il suo errore, perché in un batter d'occhio Ge'talsol era di nuovo vivo, vegeto e pronto a combattere.

Il primo colpo, seppur assestato a mani nude e sbilenco, impattò alla cieca contro lo zigomo in rilievo dell'elmo di Paz. Gli fece scattare di lato la testa, inviandogli un tenue lampo di dolore lungo il collo. Ge'talsol mosse al contempo l'altra mano verso la sua corazza e vi assestò uno spintone, violento, ma non abbastanza da scostarsi di dosso quello che aveva identificato come un aggressore.

Ma, per quanto quella non fosse una situazione convenzionale, gli anni d'addestramento di Paz entrarono in azione non appena il primo, inaspettato colpo raggiunse il bersaglio. Non provò nemmeno a reprimere i suoi istinti; non era certo di poterci riuscire nenche volendo, non dopo la giornata appena trascorsa.

In un fiotto di sangue bollente e senza il tempo di considerare chi fosse l'"avversario", il suo pugno scattò verso il basso, impattando con un rintocco contro l'elmo del Mandaloriano ferito. Inchiodò l'uomo con un ginocchio nel ventre – suscitando un rantolo stentato e un sibilo di dolore a malapena udibile – e completò il contrattacco agguantando il polso esteso di Ge'talsol in una presa ferrea.

Accadde tutto nell'arco di tre secondi, a malapena, e non rifletté neanche – o forse non voleva – sul fatto che il Mandaloriano sotto di lui si era fatto esanime subito dopo il primo momento di reattività, con l'elmo che sbatacchiava mollemente qua e là.

E poi, Paz venne colpito di nuovo in faccia, con più forza – stavolta dal calcio del bastone impugnato dalla baar'ur. Che non aveva nemmeno notato, in effetti.

«Mandaloriano! Controllati!» gridò lei.

Paz rilasciò all'istante la presa, realizzando cos'era accaduto. Si spinse via da Ge'talsol, che ansimava pesantemente sollevando e abbassando vistosamente la corazza. Paz era stato a un passo dal perdere il controllo. Il respiro dell'uomo ferito sfumò in un rantolo sibilante. Un rantolo che non era causato solamente dalla quasi-ripassata che gli aveva appena dato.

Un qualcosa di simile al senso di colpa – ma non del tutto, non ancora – lo investì, lasciando dietro di sé un rosso ronzio per poi scivolare via. Mugugnò a denti stretti e si allontanò più che poté in quella stupida stanza troppo piccola. La baar'ur abbassò il bastone, forse capendo che Paz non avesse davvero avuto cattive intenzioni.

«Che– che state facendo?»

La voce di Ge'talsol si levò, impastata e senza preavviso, risuonando al di fuori dell'elmo mentre tentava di tirarsi su a sedere, a dispetto della piccola rissa che era quasi scoppiata. Ottenne solo un grido di dolore alto e strozzato, e la baar'ur gli pose gentilmente una mano sul petto, riportandolo disteso e inducendolo a rilassarsi e  combattere l'adrenalina che, Paz lo sapeva, già gli scorreva nelle vene.

«Ti salviamo la vita,» ringhiò basso Paz, un mero secondo prima di ripensarci, considerato ciò che era appena accaduto.

L'elmo di Ge'talsol seguì la sua voce.

«Paz?»

Paz sbuffò ironico dal naso nell'udire la sorpresa nella voce dell'altro, anche se la vulnerabilità che trapelò assieme a essa gli fu familiare, in un modo che non avrebbe dovuto affatto farlo ridere.

«Già. Scioccante, vero?»

La baar'ur osservò in silenzio quello scambio di battute, ma, quando il suo paziente proruppe in una fitta di tosse – una tosse che, anche attraverso l'elmo, suonò umida e dolorosa – si allungò verso la sua borsa, estraendone quello che sembrava un qualche tipo di sensore.

«Dov'è la ferita più grave, Mandaloriano?» chiese, con fermezza e ignorando del tutto Paz.

Lui quasi sbuffò di nuovo a quella domanda, con il ronzio tiepido delle sue emozioni in subbuglio che si faceva sempre più stringente, nonostante tentasse di arrestarlo stringendo con forza i pugni. Persino lui era in grado di dire che la ferita più grave fosse quella alla gamba. Anche se non ne era del tutto certo, visto che la maggior parte dei Mandaloriani che conosceva erano sopravvissuti a molto peggio senza collassare teatralmente nella loro alcova.

Debole.

«Gamba,» grugnì Ge'talsol, con una mano che si allungò istintivamente verso di essa, come se così facendo potesse strizzar via il dolore con le dita.

La baar'ur bloccò la sua mano e la premette di nuovo contro la branda.

«C'è qualcos'altro che necessita di cure immediate?» chiese ancora, passando lentamente il sensore sopra la ferita. Lanciò un bip subito dopo, e lei si chinò a leggere il risultato.

«N–no.»

La sua voce si fece più bassa, come se stesse scivolando via, e la baar'ur mugugnò tra sé, come se non credesse del tutto a ciò che le aveva appena detto. Portò una mano alla sua gabbia toracica, gesto che Paz ritenne futile, almeno finché il suo paziente non riprese di colpo conoscenza, con un sobbalzo di dolore.

Costole incrinate, dunque. Magari rotte. O peggio.

«Hai febbre e un'infezione. Ricordi come ti sei ferito?»

«Felucia, credo,» mormorò lui in risposta, la voce più impastata che mai.

Paz espirò piano dalla bocca, distogliendo lo sguardo da lui.

«La febbre, dico. La– la gamba è stata dopo,» finì Ge'talsol, dopo qualche istante.

La baar'ur scosse la testa, come se quelle parole non avessero significato. Di certo non ne avevano per Paz. Chi teneva traccia di ogni singolo Mandaloriano che entrava e usciva dal rifugio, se non il suo clan? E Ge'talsol non ce l'aveva, no?

«Hai delle scorte mediche, qui con te?»

Attesero in silenzio per qualche istante, prima di vedere l'elmo di Ge'talsol girare qua e là, come se stesse cercando qualcosa. Strinse i pugni, per poi rilassarsi di nuovo, e il suo elmo si fermò infine su un lato, guardando il muro opposto a Paz.

«Aq Vetina,» bofonchiò, le parole flebili, pronunciate indubbiamente oltre un velo di sofferto delirio. «Ha detto che sarebbero stati lì... Raanaan... ha detto...»

Paz guardò di nuovo quello che un tempo aveva chiamato amico – vod – senza poterlo evitare. Ge'talsol era di certo febbricitante, malato, esausto. Paz lo sapeva, così come sapeva il significato dei nomi che aveva appena mormorato il Mandaloriano. Perché lui e quel mangiafango disteso sulla brandina erano davvero stati amici, un tempo. Avevano giocato insieme da bambini, combattuto insieme come fratelli di Credo, si erano aiutati in più di una situazione difficile, prima di arrivare al loro scontro definitivo.

E Paz sapeva che per Ge'talsol – no, per Din, il nome che nessuno di loro aveva più pronunciato per anni – Aq Vetina era casa. Sapeva chi fosse Raanaan e che tipo di spettri evocasse quel nome, per l'uomo di fronte a sé. E, kriff, tutto quello contava qualcosa, anche se non avrebbe mai, mai – cascasse Malachor – chiamato di nuovo Din un amico. Il ronzio rosso nel suo petto s'infiammò di nuovo, ma stavolta gli sembrò più sopportabile.

«Mandaloriano? Sei ancora con noi?» chiese la baar'ur dopo un momento, sollevando da sola la corazza e controllando ciò che aveva avuto intenzione di controllare – il cuore, o forse i polmoni. Paz non aveva prestato molta attenzione, nel mentre.

Quando Din non replicò, gli controllò il polso. Poi si voltò verso Paz.

«Vai,» gli disse. «Finirò la mia visita e ti dirò cosa fare.»

Paz raddrizzò le spalle.

«Sarò io il suo guardiano?»

La baar'ur si alzò, e Paz capì dalla tensione nel suo profilo che era irritata – forse anche arrabbiata – per ciò che era accaduto nemmeno un minuto prima, quando Paz aveva quasi malmenato un paziente infermo, spedendolo in un oblio febbricitante per nessun valido motivo se non il suo elmo vuoto e irascibile.

Anche se, in effetti, un motivo valido ce l'avrebbe anche avuto. In un qualche modo contorto.

«Non sei del suo clan?»

«Non ha un clan. Non più.»

La baar'ur lo osservò, poi si voltò di nuovo verso la sua borsa.

«Allora trova qualcuno che lo assista finché non sarà guarito.»

Paz chinò il capo in segno d'assenso e rispetto, per poi sgusciar via cautamente dall'alcova che, se ne accorse solo allora, era terribilmente calda e soffocante con tre persone dentro, di cui una febbricitante.

Si accigliò nel notare un capannello di trovatelli curiosi raccolti in corridoio.

«Fuori di qui!» tuonò, e il gruppo si divise in due, affrettandosi a sparire nel buio in un coro di sussurri e qualche sporadica risatina.

Paz li guardò allontanarsi, poi si voltò, guardando il punto in cui la baar'ur si era accostata di nuovo alla ferita infetta, applicando una benda intrisa di unguenti sulla pelle. Sì, la rabbia non era scomparsa, e rimestava dentro di lui a ogni respiro; ma c'era anche qualcos'altro.

Un vecchio dovere, forse.

Una vecchia lealtà che un tempo aveva considerato indistruttibile.

Paz si incupì, ma rimase in attesa finché la baar'ur non uscì dalla stanza, togliendosi i guanti e fissandolo con una tensione esplicita nelle spalle. Fece un cenno del capo verso Ge'talsol – o Din, come la sua memoria gli rammentò di nuovo, in modo irritante – e prese a spiegargli la situazione:

«Tornerò stasera per occuparmi delle costole e per somministrargli altre cure. Se la febbre non passa o l'infezione non rientra, avrà bisogno di medicine più potenti e di stretta supervisione. Se questo sarà il caso, lo sposteremo nei miei alloggi per monitorarlo costantemente.»

Paz annuì.

«Non tenterai di nuovo di ucciderlo?» chiese lei, e stavolta un pizzico di divertimento – sporcato dal tono fondamentalmente serio della domanda – emerse chiaramente nella sua voce.

Paz cercò di ricacciare indietro l'impulso di stringere le dita attorno a un'arma.

«No.»

«Bene,» disse lei. «Aliit ori'shya tal'din

La famiglia conta più del sangue.

Nonostante quel detto familiare sembrasse urticante e polveroso, quando si fece largo nel flusso dei suoi pensieri, Paz annuì. Infondo, era quello il fulcro di tutto. Non si trattava di accudire quello che un tempo era stato un amico – non si trattava nemmeno di aver cura di qualcuno in quanto tale, per lui stesso o per il suo clan.

Si trattava di prendersi cura di un fratello Mandaloriano – un altro membro del Credo, dell'unica famiglia che ognuno di loro aveva – ed era quello, il modo in cui scelse di vedere la cosa. I Mandaloriani erano una famiglia, dunque Ge'talsol era famiglia. Hut'uun o meno.

«Questa è la Via,» disse Paz.

«Questa è la Via,» fece eco la baar'ur, mentre già ripercorreva i suoi passi, portando con sé la propria borsa.

Dentro l'alcova, il Mandaloriano fremette. Paz contrasse la mandibola.

Aveva un brutto presentimento.


 




 


Glossario Mando'a:
- baar'ur: medico
- vod: fratello
- Ge'talsol: il nome che Din ha scelto di usare nel Rifugio. Fusione della parola "rosso" e "uno" in Mando'a, lett. "Il Rosso/Colui che è rosso"
- hu'tuun: codardo (particolarmente offensivo)

Note della Traduttrice:

Cari Lettori,
no, non ho dimenticato questa traduzione. Semplicemente, questo è il penultimo capitolo disponibile e speravo che l'autrice agigornasse nel mentre, cosa che non è accaduta. Proverò a contattarla prossimamente, visto che anch'io sono più o meno sparita a causa di imegni accademici/lavorativi, e spero di darvi presto buone nuove ♥

Nel frattempo, mi dedicherò alla traduzione del prossimo capitolo, un mostro di 16 pagine che credo dividerò in due – col benestare di Roanoke :')
Alla prossima, e grazie per chi ha letto, commentato e votato sin qui! ♥

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