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di _Lisbeth_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 7: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 8: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 9: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 10: *** Capitolo nono ***
Capitolo 11: *** Capitolo decimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo tredicesimo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 - Tutto ciò di cui avevo bisogno era sentirmi capita da lei. Era la ragazza della mia vita, capisce? E invece mi sono vista voltare le spalle in quel modo, ed è una cosa che mi ha completamente devastata. Mi ha buttata giù.
Seduta sulla sedia rossa al centro della camera, con il viso per metà illuminato dalla forte luce del tramonto, la ragazza dai lunghi capelli biondi si stava mangiando quasi compulsivamente le unghie. Aveva parlato senza sosta, ma con una calma e una pacatezza che avevano quasi stupito la ragazza piegata sulle proprie ginocchia con una mano a sorreggere il mento. Il nome della ragazza, che era lì dentro con la giovane e con la sua superiore da un'ora scarsa, era Mary.
Durante le sedute a cui Tracy aveva assistito nel corso del suo tirocinio, le era capitato spesso di vedere quella stessa calma negli occhi dei pazienti della dottoressa Warren. Forse era una voglia di capire, una propensione al ragionamento e alla razionalità. Però, nel sentire ciò per cui la ragazza si stava sfogando, le sembrava quasi impossibile poter rimanere così tranquilli nel raccontare e nel ricordare.
Danielle Warren, prima di una seduta, le aveva parlato delle reazioni diverse di ogni persona davanti ad una delusione o una sconfitta o, al contrario, qualcosa di bello. In base al proprio carattere c'era una reazione, un modo di affrontare lo sconforto o il piacere. Per quanto questo le era potuto sembrare inizialmente ovvio, in quel momento si stava impegnando per cercare di immedesimarsi nella calma di quella ragazza, anche se le sembrava qualcosa di quasi impossibile.
Danielle annuì leggermente, facendo oscillare i riccioli biondi sulle spalle e tenendo gli occhi azzurri fissi in quelli color nocciola della giovane paziente. Fece un respiro profondo e incrociò le dita della mano sinistra con quelle della destra. - Hai chiesto spiegazioni a Clare, a riguardo?
- Sì, certo. Ha semplicemente detto di aver capito di non provare nulla per le ragazze. Ma non capisco per quale motivo, allora, la nostra relazione sia andata avanti per quasi tre anni. E mi sarebbe anche andato bene, se lei mi avesse semplicemente lasciata. Mi sono sentita presa in giro... Tradita, in ogni senso della parola. - sospirò Mary.
Tracy percepì la delusione e l'amarezza nel tono della ragazza. Si sistemò la treccia bruna che le cadeva dietro alle spalle e tossicchiò.
- E tu le hai confessato i sentimenti che provavi? - domandò la dottoressa Warren dalla scrivania.
La ragazza dai capelli biondi alzò le spalle. - No. Non ne ho avuto modo.
- Non vi siete più parlate da quel momento?
- No. Non ci siamo più viste.
L'orologio al polso della ragazza squillò per pochi secondi, segno che erano appena scoccate le diciannove. Mary sobbalzò sulla sedia e diede uno sguardo al dispositivo. - Oh, mamma. Non mi ero minimamente accorta del tempo che passava. Devo aver parlato davvero tanto.
Danielle sorrise. - Non c'è problema.
Anche a Tracy scappò un sorriso sincero. Quella ragazza sembrava così diversa da qualunque altra persona che le era capitato di conoscere, con quei modi di fare leggermente goffi e timidi, quel modo di parlare tutto suo. Mary si allungò a stringere la mano alla dottoressa Warren, ringraziandola un paio di volte. Si voltò poi verso il divanetto azzurro sulla destra, quello su cui Tracy era seduta. La tirocinante si alzò in piedi, strinse a sua volta la mano che la ragazza aveva allungato verso di lei.
- In bocca al lupo. - mormorò Mary, mostrando un sorriso sdentato. Tracy la salutò ricambiando il sorriso e subito dopo la vide uscire dallo studio con un'espressione un po' più serena.
- E anche questa giornata di lavoro è giunta al termine. - la frase della dottoressa Warren fece annuire la giovane tirocinante, che raccolse tutte le sue cose dal divanetto e le sistemò nella borsa.
- A che ora dovrei venire, domani?
- Domani... - Danielle Warren si alzò dalla propria sedia e diede uno sguardo al calendario appeso alla parete, mettendosi in punta di piedi per poter vedere meglio. – Domani non abbiamo pazienti. Però ho una buona notizia da darti: da venerdì potrai tenere tu stessa le sedute.
Tracy sussultò. – Come?
- Già. - sorrise la dottoressa.
La ragazza restò per un attimo immobile, senza reagire o proferire parola. Sarebbe stata la sua prima seduta singola in assoluto, e si chiese se sarebbe stata abbastanza brava da poterla gestire al meglio. All'idea era felicissima, nonostante fosse anche parecchio agitata. - Davvero?
- Esatto.
- Qui? A che ora?
- Sì, in questo studio, alle dieci e mezza. Hai ascoltato tante sedute, sei qualificata e hai studiato tanto per raggiungere il tuo obbiettivo.
Tracy sorrise. - É una bella soddisfazione.
 
 
- Vuoi una mano per studiare, stasera? – domandò Maggie da dietro alla sua ciotola d’insalata. Tracy scrollò le spalle alla domanda della coinquilina e bevve un sorso d’acqua dal proprio bicchiere.  – Non preoccuparti. So che tra tre giorni dovrai tenere il tuo, d’esame. Non voglio crearti ulteriori problemi.
Maggie Richards aveva ventidue anni, frequentava la facoltà di biologia di Detroit e condivideva con Tracy quel piccolo appartamento a Frankenmuth che avevano preso in affitto, in cui alloggiava già da tre mesi prima dell’arrivo della studentessa di psicologia. Appena la ragazza era arrivata con tutte le sue valigie, due anni prima, Maggie l’aveva accolta con un calore e una solarità che avevano messo subito a suo agio Tracy.
- Non preoccuparti. Tanto devo restare sveglia comunque. – Maggie fece un rapido gesto con la mano, come a voler scacciare una mosca che le girava intorno.
- Perché?
- Perché oggi c’è la luna piena.
Tracy sorrise scuotendo la testa. Si era sempre chiesta, dato l’amore e l’interesse che Maggie nutriva per le stelle e per l’Universo, per quale motivo la ragazza non avesse deciso di studiare astronomia. Un giorno gliel’aveva chiesto e lei si era limitata ad alzare le spalle e sospirare.
“Ti sembrerà strano, ma ho sempre preferito la biologia. Nonostante ci sia tanta chimica di mezzo.”, le aveva detto subito dopo.
- Allora? – riprese la ragazza, guardando Tracy negli occhi. – Vuoi una mano?
- Sei sicura di ciò che dici?
- Completamente! – esordì Maggie, prendendo i piatti sporchi e appoggiandoli nel lavandino. – E’ un esame importante quanto il mio.
A Tracy scappò una risata sincera. – Appunto, non è che vuoi concentrarti di più sul tuo?
- Il tuo è domani!
La studentessa di psicologia annuì, il sorriso che continuava ad incresparle le labbra. – D’accordo. Ma se t’incanti a guardare la luna mentre ripeto, ti ci spedisco senza casco e tuta.
 
 
Tracy non ci voleva credere. In quel momento, con lo sguardo puntato sulla strada e il piede premuto sull’acceleratore, aveva quasi voglia di tornarsene indietro e tornare ai suoi sonni interrotti. E invece quella cretina della sua migliore amica aveva deciso bene di chiamarla nello stesso esatto momento in cui lei era riuscita a prendere sonno. Si appuntò mentalmente di essere meno magnanima per tutte le volte a seguire.
Tra tutti i locali di Detroit, tra l’altro, l’idiota doveva proprio andarsi a ficcare in quello che era di gran lunga il peggiore, il “Throne”. Che di regale aveva solo il nome. La topaia era in fondo ad un lungo viale buio di March Street, l’insegna cadeva a pezzi e la puzza di alcool e sudore si riusciva a sentire anche a svariati metri di distanza.
Tracy parcheggiò proprio di fronte al locale, sbattendo la portella una volta uscita dalla macchina. Ripetendosi in testa l’infinita ramanzina che avrebbe fatto a Maggie mise piede in quel posto così piccolo e buio da sembrare la tana di una sola formica. La musica alta e improponibile le arrivò alle orecchie immediatamente. Due ragazzi vomitavano sull’uscio, un altro stava cercando di scendere dal tetto basso e inclinato. E, un paio di metri più avanti, Tracy riconobbe la figura minuta della sua coinquilina che, in piedi su un tavolino di legno, cantava (o strillava) una canzone da lei sconosciuta. Non appena Maggie si accorse della sua presenza la indicò e alzò gli occhi al cielo. – Eccola! E’ arrivata quella che mi rovinerà la festa! Cacciate quella pesantona astemia da questo locale strapieno di ubriachi tra cui me, Margareth Richards! 
Tracy respirò profondamente e si impose di restare calma. Le venne in mente Mary, la ragazza che era stata nello studio della dottoressa Wagner quella mattina. Avrebbe voluto avere la sua stessa tranquillità, in quel momento. Strinse i denti e lanciò un’occhiata alla ragazza sul tavolo. – In macchina. Adesso.
- Ecco, io lo sapevo che non avrei dovuto chiamarla. – Maggie si sbatté una mano sulla fronte e scosse la testa, saltando giù dalla sua postazione. Allargò le braccia e si rivolse a qualcuno che Tracy non riuscì ad individuare. – E’ stato bello conoscervi. Ora, però, devo proprio darmela a gambe.
La giovane psicologa afferrò il polso della ragazza, tirandola a sé e ottenendo un’imprecazione ben poco fine in risposta. La trascinò fuori dal locale, fermandosi di fronte all’insegna e guardando l’amica in cagnesco.
Maggie sbuffò, aprì e chiuse la mano un paio di volte. – Ecco, ora mi devo subire la paternale.
- Non ti subirai nessuna paternale. Tanto a che serve? – Tracy scosse la testa. – Ti ho fatto tante di quelle paternali che…
Non riuscì a terminare la frase che vide Maggie piegarsi sulle ginocchia, riversando praticamente tutto il contenuto che aveva nello stomaco. Si impose di stare calma, e quando la vide risollevarsi notò il fatto che avesse alzato un dito, puntandolo in un punto non precisato della strada.
- Mi sa che quel tizio ha bisogno di una mano. – tossicchiò la ragazza. Tracy aggrottò la fronte e strinse gli occhi per riuscire a vedere, nel buio, anche la minima figura. Quando mise a fuoco notò un ragazzo riverso a terra, che sembrava aver perso completamente i sensi.
- Vieni. – disse a Maggie mentre si avvicinava alla figura sul pavimento. Si inginocchiò di fronte al ragazzo e gli scostò i capelli lunghi che gli cadevano sul viso. Aveva gli occhi sigillati, il viso spaventosamente pallido. Gli sollevò un braccio e lo sentì completamente inerte sotto alla sua mano. Schioccò un paio di volte le dita davanti agli occhi chiusi. Cercò di chiamarlo un paio di volte ma il ragazzo non sembrava avere intenzione di reagire ad alcuno stimolo. Gli afferrò il polso e ci appoggiò sopra due dita. Il battito era regolare e il ragazzo respirava, ma non dava il minimo segno di riuscire a svegliarsi. Frugò nelle tasche e ricordò di aver lasciato il telefono a casa, e dopo essersi data dell’idiota mentalmente si voltò verso Maggie. – Hai il cellulare?
Maggie tirò fuori il dispositivo dalla borsa, ma l’amica vide una smorfia delusa sul suo viso. – E’ morto. – scoppiò a ridere subito dopo. Tracy sospirò sonoramente e cercò il cellulare nelle tasche della giacca del ragazzo, quando non trovò niente controllò in quelle dei pantaloni. Sospirò di sollievo quando lo trovò, attivando la chiamata d’emergenza e portandosi il cellulare all’orecchio.
- Jake? – era la voce di una ragazza.
Tracy si schiarì la gola, continuando a tenere sotto controllo le funzioni vitali di Jake. – Pronto? Ciao, mi chiamo Tracy, io… L’ho trovato svenuto di fronte al Throne, pensavo che…
- Oh, Dio! – esclamò la voce dall’altra parte della cornetta. – Sta bene? Cosa succede?
- Va tutto bene, solo… Non si sveglia. Chiamo un’ambulanza.
- Sto arrivando. – la voce, seppur preoccupata ed evidentemente ansiosa, era ferma e decisa. – Datemi cinque minuti.
 

 
Sam, se possibile, sembrava ancora più magro rispetto al giorno prima. Le ossa sporgevano dalle ginocchia coperte dai leggeri pantaloni del pigiama che indossava, le guance erano scavate e i vestiti gli cadevano larghi sul sottile strato di pelle, unica cosa che sembrava coprire le ossa. Seduto a gambe incrociate sul tavolo della sua stanza d’ospedale, aveva gli occhi spalancati e si guardava attorno con un’espressione che Jake aveva visto tante volte, ma che quel giorno sembrava essere ancor peggiore. Anche in quel momento, così fragile, così vulnerabile, non aveva comunque perso quella bellezza quasi angelica, con i grandi occhi castani spalancati e i capelli lunghi che gli cadevano sulle spalle strette.
Dall’anno prima non era più lo stesso, così come non lo era Jake. Il maggiore varcò la soglia della camera, cercando di sorridere a suo fratello che continuava a fissare un punto non precisato della stanza. Jake si avvicinò al tavolo e allungò la mano verso un braccio sottile di Sam, accarezzandolo con delicatezza per non spaventare il ragazzo.
- Ciao, Sammy. Come stai?
Jake non ottenne risposta. Lo vide semplicemente sussultare per poi strisciare leggermente all’indietro ed ebbe per un attimo paura che potesse cadere.
Sospirò, lasciando che la sua mano scivolasse dal braccio verso il dorso di quella di Sam. – Sono Jake, Sam.
- Un anno, un anno. – la voce di Sam era impastata e pregna di inquietudine. – Un anno, è passato un anno. Trecentosessantacinque giorni. Dodici mesi. Josh, Josh è morto e ora non c’è più.
Nel sentire il nome di quello che era stato il suo gemello, Jake sentì per un attimo il cuore fermarsi e la gola diventare secca. Gli sembrò che il respiro gli fosse stato risucchiato dai polmoni e che essi non rispondessero più al suo bisogno di prendere aria. Vide Sam tirare le ginocchia al petto e tremare quasi impercettibilmente.
- Samuel. Samuel sarebbe dovuto morire. E’ colpa di Samuel, è colpa di Samuel. – il ragazzo scansò la mano di Jake con uno scatto del polso.
- Non è colpa tua. Non è colpa di Sam. – cercò di tranquillizzarlo il maggiore, nonostante sapesse quanto difficile sarebbe stato. Impossibile. Sam aveva una malattia, e Jake sapeva quanto potesse essere pericolosa per suo fratello. Vide il ragazzo puntare di scatto gli occhi su di lui, sporgersi dal tavolo per afferrargli le spalle e stringerle, scuoterle forte, facendogli girare la testa.
- Tu non sai niente, niente! Cosa credi di sapere, piccolo Jacob? E’ stato Sam. Sam ha fatto arrabbiare Josh e lo ha fatto sbandare. La macchina ha preso fuoco, e allora perché Sam è vivo? Dovrebbe essere morto, spazzato via insieme a Josh. – Sam spinse via il fratello che finì sulla parete e si tastò le spalle doloranti.
Jake vide i suoi occhi schizzare quasi fuori dalle orbite mentre Sam si portava il braccio sinistro accanto alla bocca, iniziando a morderlo, tirando quasi via la pelle chiara. Seppur dolorante si alzò in piedi, terrorizzato, correndo immediatamente verso il ragazzo cercando di bloccargli le braccia.
 – Fermati, Sammy. Ti prego, fermati. – Jake era sull’orlo delle lacrime. Era spaventato, impaurito e sperduto. Il sangue scorreva dalla pelle martoriata già in precedenza.
- Sammy se lo merita! – strillò il minore, sferrando pugni alla cieca mentre Jake gli teneva fermi gli arti. – Jake deve liberare Sammy. O Sammy gli farà male.
Jake sentì un dolore lancinante colpirgli lo stomaco, si piegò immediatamente senza trovare il fiato per riprendersi. Scivolò colpendo il pavimento con le ginocchia e tossendo notò la gamba sollevata di suo fratello. Proprio in quel momento riuscì a sentire la porta della camera spalancarsi e due braccia afferrargli le spalle, allontanandolo da suo fratello. Il dolore allo stomaco e alla schiena gli annebbiava la vista, ma riuscì a vedere Sam crollare inerte tra le braccia di uno dei medici.
 
 
La testa di Jake pulsava come se venti batteristi impazziti stessero utilizzando la sua corteccia cerebrale come la pelle dei propri tamburi. Si sentiva uno schifo. Totalmente.
In bocca aveva un sapore di vomito che nemmeno dopo essersi spazzolato i denti era andato via, era sudato dalla testa ai piedi ma tremava dal freddo. Adesso anche il suo stesso corpo sembrava non avere senso.     
Mise piede in cucina e si fermò sull’uscio. Si stropicciò gli occhi sbadigliando, notando pochi attimi dopo la presenza di sua sorella davanti ai fornelli da cui fuoriusciva del lieve fumo scuro.
Aggrottò la fronte, accorgendosi solo in quel momento di non trovarsi nemmeno a casa sua, di non essersi svegliato nel suo letto e di non essere nella sua cucina.
- Ronnie? – tossicchiò passandosi una mano sul viso.
- Alla buon’ora, Jacob. – sbuffò sua sorella, mentre cercava di domare il fuoco dei fornelli su cui aveva evidentemente bruciato qualcosa. Fece cadere le mani lungo i fianchi e alzò gli occhi al cielo. – Bene. Anche oggi mi tocca mangiare dei crackers.
Jake strinse gli occhi quando una fitta alla testa particolarmente dolorosa gli fece quasi perdere l’equilibrio. Si sedette su una delle sedie accostate attorno al tavolo e si massaggiò le tempie con entrambe le mani.
Vide un bicchiere essere sbattuto davanti ai suoi occhi. Batté le ciglia un paio di volte e sollevò la testa, tornando a guardare la ragazza.
- E’ succo di frutta. Magari la prossima volta ti bevi venti bicchieri di questo, al posto dello schifo che ti sei scolato ieri.
- Come?
- Oh, alla grande. – sospirò Veronica. – Ti sei pure rincoglionito abbastanza da non ricordarti che ieri sei sera hai fatto pena.
Forse cominciava a capire. Le immagini erano sfocate, ma qualcosa la ricordava. Era uscito dall’ospedale in cui Sam aveva vissuto da un anno a quella parte e un attimo dopo si era ritrovato in quello squallido locale sporco e maltenuto. Non ricordava granché, dopo quel momento. Era certo solo del fatto che il giorno prima era stato l’anniversario della morte di Josh.
- Io davvero non ho le parole. A ventun anni mi tocca fare da mamma chioccia al mio fratello maggiore e rimediare alle sue stronzate. – continuò a brontolare Veronica, mentre con uno straccio puliva le ultime tracce d’impasto bruciato crollate sui fornelli.
- Ti prego, abbassa la voce. Ho mal di testa.
- Lo so, Jake. E ce l’ho anche io. E lo sai perché? – tossicchiò leggermente quando il fumo le entrò nelle narici. – Perché mi hai fatto preoccupare come un’esaurita, stanotte.
Jake prese un sorso dal bicchiere. – Perché sono qui?
- Perché sono il tuo numero di emergenza e ieri sera eri praticamente in coma etilico. – Veronica prese posto di fronte al fratello e lo guardò negli occhi. – Non puoi continuare così, Jake. Non sei l’unico che ha perso Josh e che ha il fratello minore chiuso in un ospedale psichiatrico. Ci sto male anche io, ma noi due dovremmo spalleggiarci a vicenda, esserci l’uno per l’altra. Pensavo stessi meglio, e lo sai perché? Perché è ciò che mi hai detto. E io ti ho creduto, Jake. Quando non avrei…
- Lo sai cosa è successo ieri, Ronnie? – la interruppe Jake, fissando il bicchiere che aveva di fronte. – Sam si è martoriato davanti ai miei occhi. Ho visto il momento in cui lo hanno sedato. L’ho visto crollare come ho visto morire Josh un anno fa. – sentì gli occhi pizzicare. – Non credo che a te avrebbe fatto piacere.
Voltandosi verso Veronica, notò i suoi occhi brillare di lacrime non ancora scivolate al suo controllo. La ragazza trasse un respiro profondo e allungò una mano su quella di suo fratello. – Perché allora non mi hai chiamata? Perché non sei venuto qui per consolarti? Io…
- Non avevo nemmeno le facoltà mentali per riuscire a pensare a qualcosa di diverso da ciò che ho fatto. – allargò le braccia e puntò gli occhi sulla parete. – Ti voglio bene, Ronnie. Ma non puoi aspettarti di avere lo stesso Jake di un anno fa. Senza Josh non sono niente.
 
 
Josh era sempre stato l’opposto di Jake, fin da quando erano nati. Era nato solo cinque minuti prima di lui, ma i loro primi attimi sulla Terra erano stati diversi, completamente diversi l’uno dall’altro. Karen aveva visto Josh strillare, piangere talmente forte da far ridere l’ostetrica.
“Sembra voler prendere il sopravvento su tutte le voci del mondo”, aveva detto la ragazza quando lo aveva posato tra le braccia della madre. Una forza, un uragano.
Jake, invece, aveva fatto spaventare non poco ogni persona nella stanza, prima di tutti la povera Karen. Quando aveva fatto la sua prima entrata nel mondo non aveva pianto, almeno inizialmente. Gli occhi e le labbra immobili, senza nemmeno la minima increspatura. Erano passati secondi che a tutti erano sembrati infinite ore prima che il pianto lieve e quasi senza voce del piccolo facesse tirare un sospiro di sollievo a medici e genitori.
Anni dopo, Josh e Jake impararono insieme a camminare, per Jake fu talmente semplice da venirgli quasi naturale, mentre il gemello cadde diverse volte prima di riuscire a compiere la sua impresa con il broncio sul viso.
A scuola erano entrambi delle schegge, velocissimi ad apprendere e a capire qualunque materia. La differenza stava nel comportamento che aveva quasi fatto sospendere Josh per svariate volte. E le sospensioni se l’era risparmiate sempre per merito di Jake, a cui bastava lanciargli un’occhiataccia nel momento in cui vedeva la situazione diventare ingestibile per fargli mettere la testa a posto.
Jake era silenzioso, responsabile e talmente timido da aver paura di parlare davanti a chi non conosceva. Josh, invece, era la persona che avrebbe saputo far sentire a proprio agio chiunque, anche i più schivi e i più riservati. Erano l’uno la controparte dell’altro nonostante, come diceva sempre Karen, fosse facilissimo confonderli se non li si osservava bene.
Jake era l’autocontrollo che a Josh mancava, e Josh era la vivacità che mancava a Jake.
In comune avevano poche cose, ma c’era una caratteristica per cui entrambi erano certi di essere identici: il loro bisogno di avere l’altro accanto. Era una sicurezza, qualcosa su cui tutti e due sapevano di poter contare. Josh sapeva sempre quando Jake aveva bisogno di lui, così come il suo gemello. Sapevano sempre che se si fossero persi si sarebbero ritrovati. E sarebbero tornati a casa insieme.
 
 
- Sei impazzita? – Jake spalancò gli occhi e li puntò verso la sorella. Il gelato gli cadde quasi dalle mani quando le parole uscirono dalla bocca di Veronica senza che lui se lo aspettasse.
La ragazza scrollò le spalle e diede un morso alla sua cialda. – Affatto.
- Ho ventitré anni, Ronnie! – il maggiore spalancò le braccia incredulo. – Non puoi aver fatto una cosa del genere.
- E invece sì. Non conta nulla il fatto che tu abbia l’età che hai. La seduta è stata prenotata per un motivo.
- Sono maggiorenne, ho il diritto di rinunciarci.
- E io ti dico che ho già prenotato e che tu ci devi andare. – Veronica finì il proprio cono e si pulì le labbra con il tovagliolo che aveva nella mano sinistra.
- Non esiste.  
- Jake. – la ragazza puntò gli occhi in quelli del fratello. – Ti rendi conto che è qualcosa che potrebbe aiutarti?
- No! – si alzò dalla panchina su cui era seduto e sbarrò gli occhi. – Come dovrebbe farmi stare meglio parlare con una persona che non ho mai visto dei cazzi miei? E’ come prostituire i propri neuroni.
Veronica si passò una mano sul viso e sospirò. – Per prima cosa, questo è un paragone che non ha alcun senso. E, in secondo piano, la dottoressa Warren è qualificata. Potrebbe darti una grande mano.
- No, Veronica. E poi non ne hai nessun diritto.
- Certo che ce l’ho. Sono tua sorella.
- E io sono maggiorenne.
- Lo capisci che questo non c’entra assolutamente niente? – sbuffò la ragazza. – Io voglio aiutarti. Voglio che tu stia meglio, Jacob, lo capisci?
- Oh, certo. – Jake indossò un sorriso sbilenco e nervoso. – Perché secondo te parlando con qualcuno Sam guarisce miracolosamente da una malattia mentale cronica e domani mattina mi ritrovo anche Josh in casa.
- Io per prima seguo una terapia da mesi che mi ha fatto stare meglio. Ascoltami, per una volta.
- Una terapia che segui di tua spontanea volontà, Ronnie.
- Jake, ti rendi conto che… - Veronica si rese conto dello sguardo confuso di Jake e delle sue sopracciglia aggrottate. – Jacob, mi stai ascoltando?
- Una ragazza mi sta fissando.
La persona in questione era dall’altro lato della strada, affiancata da una ragazza più bassa di lei. I capelli bruni erano ricci e le cadevano sulle spalle, sul viso l’espressione di chi sembrava aver visto l’apocalisse. Quando anche Veronica si girò a guardarla lei spostò lo sguardo dietro di sé.
- Quella è la ragazza che…
- Sì, è la ragazza che mi stava fissando in modo inquietante.
- No, Jacob. Quella è la ragazza che ti ha salvato il culo prendendo il tuo cellulare e chiamandomi
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Capitolo 2
*** Capitolo primo ***


Anche se non aveva la minima idea dell’argomento di cui stavano discutendo, a Tracy sembrava che i due ragazzi dall’altro lato della strada stessero effettivamente per uccidersi a vicenda ma, guardando bene, ci si poteva accorgere della calma disarmante della ragazza e della furia omicida del ragazzo.
Li aveva riconosciuti subito. Era sollevata del vedere la persona che il giorno prima aveva trovato inerte sul pavimento riuscire a reggersi tranquillamente sulle proprie gambe e avere anche la forza di discutere così animatamente con la sorella.
Ora che lo guardava meglio riusciva quasi a percepire, dal suo aspetto fisico e dai ricordi della sera prima, uno stato d’animo quasi distruttivo. Non era alto, era minuto e magrolino, i capelli castani erano lunghi e raccolti in una mezza coda che gli scopriva le orecchie. La pelle era talmente pallida da sembrare grigiastra e Tracy, dall’altro lato del marciapiede, poteva benissimo notare le profonde occhiaie che gli sottolineavano gli occhi scuri. Non sembrava essere al massimo delle proprie energie, la schiena curva sembrava essere schiacciata da qualcosa di troppo pesante da riuscire a sorreggere.
Jake. Se ricordava bene, era quello il suo nome.
- Lì ci sono i due ragazzi di ieri.
- Li ho visti.
- Visto? – Maggie le tirò un pugno leggero sull’avanbraccio. – E tu che ti preoccupavi che potesse morire da un momento all’altro.
Tracy schiuse le labbra. – Io non mi… 
- Lo stai fissando.
In quel preciso momento lo vide voltarsi, puntare lo sguardo proprio verso di lei e aggrottare la fronte. Si affrettò a voltare la testa con uno scatto quando anche la sorella se ne accorse. Riuscì a vedere, con la coda dell’occhio, Maggie che si alzava sulle punte e agitava la mano sinistra in loro direzione per salutarli. Si appuntò mentalmente di buttarla fuori di casa.
 
 
Per qualche motivo che non riusciva assolutamente a comprendere, Tracy non riusciva a togliersi dalla testa l’avvenimento di tre giorni prima e della sera che lo aveva preceduto. Anche in quel momento, nello studio della dottoressa Warren, a pochi minuti dalla sua prima seduta singola in assoluto, si ritrovava a pensare per l’ennesima volta allo sguardo di quel ragazzo e all’infarto che si era quasi presa nel vederlo in quelle condizioni la prima volta che lo aveva incontrato.  Non riusciva nemmeno ad immaginare ciò che sarebbe potuto succedere se lei e Maggie non lo avessero trovato e chiamato quella che aveva dichiarato di essere sua sorella.
Si diede dell’idiota perché, in quel momento, l’unica cosa che avrebbe dovuto fare era concentrarsi e aspettare il paziente con calma e tranquillità. Appoggiò la testa allo schienale della sedia e cercò di spaziare coi pensieri. Proprio mentre stava riuscendo a recuperare un minimo di concentrazione sentì bussare alla porta. Con un respiro profondo si alzò, fece scivolare le braccia lungo i fianchi e rizzò la schiena.
“Non fare idiozie”, si disse mentre si piazzava davanti alla porta. “Pensa solo a ciò per cui hai messo piede in questo posto.”
Solo che, quando aprì la porta, si rese conto che i suoi problemi erano appena cominciati.
Si sentì sbarrare gli occhi e percepì la gola diventare secca.
La dottoressa Warren non le aveva nemmeno accennato la minima informazione sull’identità del paziente, ma Tracy tutto si era aspettata tranne il fatto di ritrovarsi la stessa persona la cui immagine le invadeva i pensieri da giorni.
Occhi scuri e pelle chiara, statura minuta, capelli lunghi e castani.
Vide il ragazzo davanti a lei alzare appena le sopracciglia. Sembrava sorpreso quanto lei, ma quando lo vide alzare gli occhi capì che non fosse entusiasta di quella coincidenza.
- Alla grande. – lo sentì dire tra i denti. Tracy cercò di non mostrare il proprio fastidio e lo fece entrare, indicandogli la poltroncina davanti alla scrivania che divideva la sua postazione da quella del paziente. – Può… Può accomodarsi lì.
Lo vide seguire ciò che gli aveva detto e a sua volta si sistemò sulla sedia mobile dall’altra parte della scrivania. Tossicchiò e deglutì leggermente, sollevando la testa per puntare lo sguardo su quello del ragazzo, che le sembrò scocciato e leggermente provocatorio. Si schiarì la gola e sorrise. Doveva farlo sentire a proprio agio, non doveva comportarsi in modo immaturo.
- Dottoressa Tracy Ziegler. E lei…
- E’ strano sentirsi dare del lei da una persona che pochi giorni fa mi stava fissando in modo decisamente poco professionale. – si sentì interrompere Tracy. La ragazza non si scompose, si limitò ad alzare le spalle e a continuare a sorridere. – Volendo essere pignoli, non avendoti ancora conosciuto sul posto di lavoro, il mio comportamento non ha avuto niente di poco professionale.
- Questo non significa che sia stato gradevole.
- A questo proposito mi scuso, non era mia intenzione farti sentire a disagio.
Jake assottigliò gli occhi inclinando leggermente la testa in avanti. – Mi sta dando del tu.
Tracy annuì appena. – Esatto. Come preferisci. O preferisce, dipende tutto da te. O da lei.
- Chi se ne frega. – Jake sospirò e si piegò in avanti. – Basta che finiamo al più presto.
- Posso sapere il tuo nome?
Effettivamente, sebbene lei lo conoscesse già, la dottoressa Warren non glielo aveva mai detto.
- Kiszka. Jacob Kiszka. Odio il nome Jacob, perciò mi chiamano tutti Jake. Quindi gradirei che lo facesse anche lei, ma mi chiami come le pare.
La giovane psicologa sorrise dolcemente. – Ma come? Mi rimproveri perché ti ho dato del lei, e poi lo fai tu?
- In questo momento per me è una persona che non conosco, come tutte le altre.
- Bene, dunque. – Tracy afferrò una penna dal contenitore di latta sulla scrivania, girandone il tappo un paio di volte. – Quanti anni hai?
- Ventitré.
- Hai la mia età. Non dirmi che dai del lei alla gente della tua età.
Jake fece un respiro profondo e puntò lo sguardo su quello della ragazza. – Allora? Devi intrattenermi ancora con questi giochetti idioti, o inizi a psicanalizzarmi ed esco da qui come una persona nuova e priva di qualsivoglia problema?
Tracy sorrise compiaciuta. – Mi hai dato del tu.
Lo vide alzare gli occhi al cielo, ma poteva giurare di averlo visto sorridere per una frazione di secondo.
- Come mai non ti piace il tuo nome?
- Non ho detto che non mi piace. Ho detto che lo odio.
- Be’, allora perché lo odi?
Vide il ragazzo puntare lo sguardo sul pavimento. Lo osservò mentre deglutiva e continuava a giocare con un anello di legno che aveva al dito. – Josh non mi ha mai chiamato Jacob.
Tracy batté le palpebre un paio di volte. Incrociò le dita delle mani, smettendo di sorridere e guardando il ragazzo nel modo più rassicurante possibile. – Ti va di dirmi chi è Josh?
Jake sollevò gli occhi, li puntò sulla parete e schiuse le labbra. Tracy vide gli occhi scuri diventare lucidi.
- No. – sussurrò semplicemente. La ragazza annuì, strinse le labbra. Forse non si sentiva sicuro, non si sentiva pronto. Forse era una cosa troppo importante, che faceva troppo male. Forse era il motivo per cui, quella sera, Jake era ridotto in quelle condizioni, il motivo di quel pallore e di quegli aloni neri sotto agli occhi.
- Appena vorrai aprirti con me, potrai farlo senza problemi.
- Non credo succederà mai. – la voce di Jake tremava.
Tracy si affrettò a cambiare argomento. – Da quello che sembra, non sei qui di tua spontanea volontà.
Il ragazzo deglutì e sembrò tornare leggermente in sé. – No, infatti.
- E tu non sei d’accordo con questa scelta che è stata fatta per te?
- Affatto.
La ragazza sorrise. – E’ stata Veronica, vero?
- Già. – sembrò riflettere per un secondo. – Mi aveva parlato di una certa Warren.
- E’ la mia superiore.
- Quindi in questo momento sono nelle mani di una principiante che potrebbe rovinarmi la sanità mentale con una sola frase?
- Posso assicurarti di aver studiato. E posso anche assicurarti che la tua sanità mentale resterà intatta.
Jake restò in silenzio. Osservandolo meglio, la ragazza notò la maglietta di Hendrix che indossava.
- Vedo che hai buon gusto in fatto di musica, Jake. – sorrise. Lo vide sollevare lo sguardo e cambiare posizione. – Sono cresciuto ascoltando i vinili che avevano i miei genitori in casa.
- Suoni qualcosa?
- Avevo una band. Suonavo la chitarra.
- Davvero? – gli occhi di Tracy luccicarono. – Come vi chiamavate?
- Greta Van Fleet. Non avevamo successo, ci limitavamo a suonare in piccoli locali o nel garage.
- Come mai vi siete sciolti?
Jake, per la seconda volta, sembrò assente. Continuava a spostare lo sguardo da una parte all’altra della stanza, come se si sentisse in trappola. – Io… Io non voglio parlarne.
Tracy cominciava a capire qualcosa della situazione. Cominciava a capire quali erano gli argomenti per cui Jake si sarebbe dovuto aprire da solo e che lei non avrebbe dovuto tirare fuori se non per il volere del ragazzo. – Come preferisci, Jake.
 
 
- Tieniti stretta queste parole e falle tue, Tracy. Un paziente ha bisogno di sentirsi a proprio agio, di potersi fidare. Non devi mai farlo sentire in trappola. – la dottoressa Warren parlò dalla poltroncina su cui era seduta, mettendo da parte i propri documenti e dando la sua massima concentrazione all’apprendista. – Quando noti il disagio di qualcuno, quando capisci che stai sfociando in un discorso che lui o lei fanno fatica a portare avanti, non mettere mai pressione al paziente. Molte volte è difficile per chiunque riuscire ad aprirsi subito, quasi impossibile. Si deve prima avere la completa fiducia nei confronti del dottore o della dottoressa. E una volta conquistata questa fiducia, è anche probabile che il paziente abbia voglia, a volte bisogno di parlare del suo disagio.
- Ma se dovessi avere bisogno di sapere un’informazione di questo tipo per comprendere meglio il problema e la persona? Sarebbe difficile portare avanti la seduta. – osservò Tracy. Danielle strinse leggermente gli occhi, come se stesse riflettendo. Annuì impercettibilmente.
- Mi hai fatto una domanda intelligente, Tracy. L’ho sempre detto che hai una bella testa. Sei curiosa, non ti vergogni di farmi domande quando c’è qualcosa che non ti è chiaro. – la dottoressa si grattò un sopracciglio. – Vedi, le prime volte si tratta solo di stabilire un rapporto con il paziente. Parlare di qualcosa che gli fa piacere, conoscerlo, fargli qualche semplice domanda anche solo per farlo sentire a proprio agio. Si tratta di intraprendere una normale conversazione, in modo che il rapporto piano piano vada ad approfondirsi e basarsi sulla fiducia nei confronti dello psicologo.
- E se non dovessi riuscire a conquistare quella fiducia?
Danielle sorrise. – Sono fermamente convinta del contrario.
 
 
- Oltre alla musica, hai altre passioni? Altri interessi?
Tracy non poteva dire di aver visto Jake aprirsi più di tanto. Per la maggior parte del tempo aveva risposto a monosillabi, ma quell’atteggiamento di rifiuto e menefreghista era quasi andato via. Sembrava sentirsi più a suo agio rispetto al momento in cui era entrato, o almeno quella era l’impressione della dottoressa.
- Sono attratto dall’arte in generale. Mi piace la letteratura, il cinema. Anche la cucina.
- Hai un libro o un film preferito?
- No, non direi. Posso dire di apprezzare i libri di Murakami, però.
- Piace anche me. – sorrise Tracy. – Il mio preferito è Dance dance dance.
- Bella scelta. – il ragazzo scrollò le spalle. – Però preferisco Kafka sulla spiaggia.
- Un po’ me lo ricordi, Kafka.
- Chi, il ragazzino?
- Esatto.
- Lo odio. – Jake incrociò le braccia al petto e rizzò il collo. – E’ forse l’unico personaggio del libro che ho detestato.
Tracy rise leggermente. – Non era mia intenzione insultarti.
- Figurati.
- Sai perché me lo ricordi? – la ragazza ripose la penna nel contenitore cilindrico. – E’ questa tua indipendenza, in un certo senso.
Jake aggrottò la fronte. – Indipendenza? Mi stai sentendo parlare da mezz’ora e già mi metti delle etichette?
- Non è un’etichetta, Jake. – rispose semplicemente Tracy. – Solo, l’ho capito l’altro giorno, quando ti ho sentito imprecare contro Veronica rifiutando di venire qui.
- Ah, quindi è sottinteso che stavi anche origliando, oltre che fissarmi.
- No, veramente ho intuito. – Tracy si attorcigliò un ricciolo su un dito. – E tu mi hai dato la conferma che le mie intuizioni erano corrette.
 

 
In un certo senso, l’atteggiamento della ragazza gli stava dando leggermente sui nervi. Non sapeva spiegarne il motivo. Forse era per il fatto che riusciva a tenergli testa, che riusciva a rispondergli a tono qualsiasi cosa dicesse. Gli succedeva con poche persone. Probabilmente solo Josh ne era in grado, insieme a Veronica. Di Tracy non lo avrebbe mai pensato. Non glielo aveva fatto intuire quell’atteggiamento che aveva avuto giorni prima, quando non appena lui aveva volto lo sguardo in sua direzione lei aveva distolto il suo, evidentemente imbarazzata.
Il problema era che non sapeva se esserne piacevolmente colpito o infastidito. E, soprattutto, quella seduta se la sarebbe aspettata diversa. Aveva passato quei tre giorni a pensare a quanto stressante e noioso sarebbe stato avere una professionista d’età avanzata che gli riempiva la testa di domande. Di Tracy aveva notato un’altra cosa: gli stava lasciando i suoi tempi, i suoi spazi. E, ancora, non sapeva se prenderla come una cosa negativa o positiva. Era un lato della situazione che lo faceva a suo agio ma che gli faceva capire di aver automaticamente torto, perché non era così male come si era immaginato.
Aveva scoperto anche di avere molte cose in comune con la giovane psicologa: ad entrambi piaceva scrivere e leggere, amavano gli stessi artisti musicali e gli stessi film. Ed era una buona forchetta.
- Ho origini italiane. Mia madre è di Palermo, mio padre invece è nato qui a Detroit. Spero ti piaccia la nostra cucina. – gli aveva detto tra una chiacchierata e l’altra. – Un giorno, se ti va, posso portarti un cannolo siciliano.
- Un che?
Tracy aveva strabuzzato gli occhi. – Non sai cosa sia un cannolo?
- No.
La ragazza aveva sorriso e aveva cominciato a gesticolare con le mani. – Sai, è un dolcetto tipico. E’ una cialda fritta con al suo interno della ricotta zuccherata. Puoi aggiungerci qualsiasi cosa per arricchirlo, ovviamente deve starci bene. Gocce di cioccolato, granella di pistacchi o di nocciole. Se ti piace la cucina, dovresti proprio provarlo.
Jake si era limitato ad annuire. La genuinità di Tracy era l’unica cosa che gli aveva fatto cambiare idea sull’opzione di prendere a calci sua sorella una volta tornato a casa.  
Dopo un momento di silenzio, sentì Tracy prendere fiato. – Come stai, Jake?
Il ragazzo alzò lo sguardo che aveva puntato in precedenza sulle proprie scarpe e la guardò. Vide della sincerità negli occhi castani di Tracy, capì che l’unico scopo che aveva quella domanda era esattamente ciò che significava. Alzò le spalle. – Come sta uno che è nello studio di una psicologa.
- Be’, a tal proposito posso dirti che questa tua frase non implica nulla. – disse semplicemente Tracy. – Molti pazienti vengono qui con l’unico scopo di farsi una chiacchierata. A volte sono anche contenti o soddisfatti. Ti dirò, ci sono anche persone che vengono qui dentro per raccontare quanto siano felici dell’andamento della loro carriera o della loro vita in ambito familiare.
Jake aggrottò la fronte. – E che cazzo di senso avrebbe? Non possono parlarne con i parenti?
- Magari c’è un buon rapporto tra psicologo e paziente.
- Io e te ci conosciamo da poco più di quaranta minuti. In secondo piano, ti direi che sto come uno che pochi giorni fa hai trovato svenuto nel suo vomito davanti ad un pub.
- Traendo le mie conclusioni, direi che il tuo stato d’animo non è dei migliori.
- Che intuito acuto.
Tracy si scostò i ricci dal viso. – C’è qualcosa che ti fa stare bene? Che è la tua valvola di sfogo ogni volta che non sai dove andare?
Jake batté le palpebre e respirò profondamente. Pensò a tutti i momenti della sua vita passati con la sua chitarra sulla gamba destra, al modo in cui sfogava tutta la rabbia che provava in quelle corde, alla soddisfazione che provava nel sentirsi suonare. Solo che quella chitarra, quella Gibson rossa che ne aveva passate di tutti i colori insieme a lui e alla sua frustrazione, era chiusa nella sua custodia da un anno, così come tutte le altre. Non aveva più trovato la forza per riprenderla dopo che Josh era andato via, perché senza di lui che cantava sopra alle sue basi, senza il basso di Sam, niente di tutta quella musica sembrava avere più un senso.
 
 
- Jake, ti va di suonare qualcosa? La mia batteria ne sarebbe entusiasta, non vede l’ora. E’ da tanto che io e te non suoniamo e la tua amata Gibson è a prendere polvere. Ti sei completamente dimenticato del più grande amore della tua vita? – Danny afferrò le bacchette dalla sacca che aveva sulle spalle e le puntò verso quell’amico che reputava un fratello. A sua volta, il batterista era a pezzi. Ormai, come tutta la famiglia Kiszka gli aveva sempre detto, lui faceva parte di loro. Era un quinto fratello, quella figura così importante di cui ci si poteva fidare qualsiasi cosa succedesse.
E c’era Sam.
Sam, per cui Danny aveva completamente perso la testa. Per la sua allegria, per quella spontaneità e quella dolcezza che lo aveva fatto irrimediabilmente innamorare fin da quando erano solo dei bambini. Aveva scoperto la sua omosessualità proprio grazie a Sam, ed era stato l’unico che, per ben tredici anni, gli aveva fatto provare quel turbinio di emozioni. E nonostante Danny fosse a conoscenza dell’eterosessualità di Sam, del fatto che amasse una ragazza, non aveva mai smesso di provare quelle sensazioni.
Un giorno lo aveva preso da parte, quando ancora avevano diciott’anni e non immaginavano nemmeno ciò che sarebbe successo poco tempo dopo. Gli aveva detto tutto, aveva buttato fuori qualsiasi cosa, nonostante avesse paura che ogni tipo di legame con il ragazzo sarebbe potuto finire. Lo aveva visto osservarlo per tutto il tempo, con gli occhi scuri puntati su di lui e con quell’espressione seria sul viso. Quando aveva finito, aveva continuato ad osservare Sam con gli occhi incerti e quasi terrorizzati. Per un attimo si era pentito, ma poi lo aveva visto sporgersi verso di lui e stringerlo forte a sé. Quella reazione era stata così da Sam, ed era uno dei motivi per cui Danny lo aveva sempre reputato la persona che amava. Quella gentilezza e quell’empatia.
Che adesso sembravano completamente sbiadite, scomparse. Ora Sam non sembrava essere più se stesso. Quelle barzellette che facevano sempre ridere Danny ora erano frasi sconnesse, quegli occhi sereni e vivaci erano sbiaditi e tristi, come vetri rotti. Nonostante tutto, però, Danny lo amava ancora. E non avrebbe smesso di amarlo.
Però, nonostante capisse Jake e la sua famiglia più di chiunque altro, non sopportava il fatto di vedere il suo migliore amico in quelle condizioni. Ogni giorno vedeva Jake stare sempre peggio, diventare sempre più magro e pallido. Ogni giorno Jake gli sembrava sempre meno Jake.
A sentire quella richiesta, l’amico aveva semplicemente scosso la testa, continuando a guardare lo schermo del suo cellulare con aria distratta e sconnessa. E se il chitarrista poche volte aveva visto Daniel Wagner perdere la pazienza, quella era una delle poche.
Danny aveva fatto un respiro profondo.
- No, non va bene. – aveva detto, inizialmente calmo. – Non va assolutamente bene.
Aveva afferrato il telefono che Jake teneva tra le mani, lo aveva lanciato lontano, in un punto imprecisato della stanza. Jake aveva spalancato gli occhi e lo aveva guardato incredulo, vedendo l’amico fissarlo ansimante.
- Ti rendi conto di quello che cazzo stai diventando, Jake? – aveva gridato, piantando i piedi sul pavimento. – Io non ti riconosco. Non riesco a capire chi tu sia. Tu non sei Jake. Jake non è così. Jake guarda le persone in faccia quando parlano, quando Jake è arrabbiato sfoga la sua rabbia su una benedetta chitarra, non se ne sta tutto il tempo chiuso in casa senza parlare nemmeno con quello che pensava di essere il suo migliore amico.
Jake vide gli occhi di Danny luccicare di lacrime.
- Chi sei, Jake?
 
 
- Tutto bene, Jake?
La voce di Tracy lo fece risvegliare, lo scosse. Ricordò le parole di Danny, ricordò la sua rabbia, la sua espressione.
“Chi sei, Jake?”
- Al momento… - respirò profondamente e cercò di trovare le parole, nonostante gli venisse difficile. – Al momento non c’è nulla che mi faccia stare meglio.
Vide l’espressione di Tracy cambiare, la vide abbassare lo sguardo e increspare le labbra. La ragazza fece un respiro profondo. – Penso già di sapere la risposta alla domanda che sto per farti, ma… Dato che questa è una seduta singola e non ne sono state prenotate altre da Veronica… - la giovane psicologa puntò nuovamente lo sguardo su di lui. – Tornerai, la prossima settimana?
Jake fece viaggiare lo sguardo da una parte all’altra della stanza. Vide gli attestati e i certificati della dottoressa Warren sul muro, osservò le pareti pitturate di un giallo talmente chiaro da sembrare quasi bianco, l’orologio che indicava le otto meno cinque. Spostò gli occhi dal muro alla ragazza che lo stava guardando sorridendo. Gli scappò il primo sorriso di quella sera. Era un sorriso accennato e sdentato, ma non era uno dei soliti sorrisi di circostanza che gli era toccato fare diverse volte nei mesi precedenti. Poteva definirlo un sorriso sincero.
- Ci penserò su.
 
- Allora? E’ stata una cosa così terribile? – gli domandò Veronica una volta tornato a casa, mettendogli davanti al viso un hamburger non ancora ben cotto.
Jake si morse il labbro e la guardò. – La dottoressa Warren è la superiore di una certa Tracy Ziegler.
- E chi sarebbe, Tracy Ziegler?
Il ragazzo accennò un altro sorriso.
-  E’ “la ragazza che mi ha salvato il culo prendendo il mio cellulare e chiamandoti”.

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo ***


- Allora, Ziegler? Chi ti è toccato? – la accolse Maggie, chiudendo la porta una volta fatta entrare la coinquilina.
Tracy ripose le chiavi della sua 500 nell’armadietto che tenevano al lato della porta, affianco al termostato. – Non lo indovinerai mai.
L’amica aggrottò la fronte. – Chi è? Il tuo ex?
- No. Alex avrebbe bisogno del ricovero. – sospirò la giovane psicologa, avviandosi in cucina per prendere un bicchiere d’acqua. – Cosa c’è per cena?
- Ah, perché tu sei convinta del fatto che io abbia preparato la cena?
Tracy alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. Tirò fuori da uno dei cassetti sopra al forno una tovaglia azzurra e la stese sul tavolo. – Dammi una mano ad apparecchiare e cucino il tonno rimasto in freezer.
- Di nuovo? – domandò Maggie, alzandosi sulle punte per raggiungere la dispensa in cui tenevano le posate. La cucina non era molto grande, ma era comoda e agibile. Il tavolo rotondo di legno era posto al centro della stanza, il forno era sulla sinistra come il frullatore e le dispense. I fornelli, invece, erano parallelamente opposti.
- Guarda che mangiare sempre la stessa cosa ogni santo giorno non fa bene all’organismo. – commentò ancora Maggie.
- Lo so che la tua professionalità da nutrizionista ti spinge a tenere alla mia e alla tua alimentazione, ma qui nessuno si è occupato di fare la spesa.
- Va bene, come vuoi. Fammi sentire in colpa.
A Tracy scappò un sorriso mentre lasciava che le due fette di tonno aderissero alla griglia.
- Non mi hai ancora detto chi sia il paziente.
- Il ragazzo dell’altra sera.
- Jake?
- Già.
L’amica si sedette a tavola e si fece sfuggire un verso di scherno. – Allora hai fatto proprio una gran figura di merda. Chissà perché non sono stupita, però.
Tracy servì il tonno nel proprio piatto e in quello di Maggie. Si sedette al suo fianco e mise in bocca un pezzo di pesce. – In teoria, no.
- In pratica sì. Di che avete parlato?
- Segreto professionale.
Maggie annuì. – Giusto. Pardon.
- Tu hai fatto qualcosa, nel frattempo?
- Non proprio io. – la ragazza sorrise. – Qualcuno però mi ha intrattenuta.
- Cioè?
- Brad.
Tracy strabuzzò gli occhi. Brad era la cotta storica di Maggie e per un breve periodo i due avevano anche avuto una relazione, finita pochi mesi prima per un motivo che nemmeno Maggie stessa era riuscita a capire. La ragazza ci era stata malissimo e Tracy aveva fatto del suo meglio per starle vicina e tirarle su il morale. E, nel sentire di nuovo quel nome, qualsiasi cosa il ragazzo avesse fatto, era rimasta leggermente spiazzata.
- Brad? – ripeté, leggermente incredula.
- Sì. E’ venuto qui sotto e mi ha dedicato una canzone scritta da lui.
Se possibile, l’espressione di Tracy si fece ancora più confusa. – Eh?
- Gesù, ma ti ha fatto male ‘sta seduta! Devo ripeterti le cose tre volte prima che tu le capisca?
La giovane psicologa si passò una mano sul volto e finì il proprio piatto di tonno. – E tu che hai fatto?
- Nonostante interiormente stessi per morire, a lui ho detto di doverci pensare su.
Tracy inarcò le sopracciglia. – Almeno per una volta non sei stata una testa di cazzo.
 
 
Tracy fece ritorno a casa verso le nove e mezza. Aveva assistito ad un’altra delle sedute della dottoressa Warren e aveva quasi finito il blocchetto per gli appunti per quanti ne aveva presi. Poteva ritenersi stanca, ma soddisfatta.
Posò la propria borsa sul divano e si sporse verso il corridoio. – Meg, sono a casa.
Quando non sentì risposta aggrottò la fronte. Percorse tutta la casa passando dalla cucina e dal bagno fino ad arrivare in fondo, nella stanza che condivideva con Maggie. La porta era chiusa e Tracy ci bussò un paio di volte. – Maggie?
- Entra. – si sentì rispondere. La voce era rotta e tremante e Tracy iniziò leggermente a preoccuparsi. Aprì la porta, trovando l’amica seduta sul proprio letto mentre stringeva tra le braccia un cuscino, con le lacrime agli occhi. I capelli a caschetto erano scombinati e la punta del naso arrossata.
- Maggie. – mormorò la coinquilina precipitandosi sul letto dell’amica. Passò una mano tra i suoi capelli lisci e scuri, guardandola con apprensione. – Cosa succede?
- Brad. – la ragazza tirò su col naso e Tracy le asciugò una lacrima che le era scivolata su una guancia. – Mi ha lasciata. Senza dirmi nulla. Mi ha solo detto che voleva finirla.
La giovane psicologa non disse nulla, non trovava le parole, nonostante avesse voglia di uscire da quella casa e andare a cercare l’idiota che non aveva avuto il coraggio di parlare per davvero con Maggie. Si allungò verso l’amica e la strinse in un abbraccio, accarezzandole delicatamente la schiena. Maggie ricambiò la stretta lasciando andare il cuscino. Quando Tracy si staccò per sorriderle dolcemente, la ragazza singhiozzò di nuovo. La tirocinante psicologa le prese entrambe le mani, accarezzandole delicatamente le dita.
- Io sono innamorata di lui, Tracy. Lo sono da quando andavo alle scuole superiori, capisci? Mi fa stare malissimo essere lasciata così, senza capirci nulla.
Tracy si fermò a riflettere per un attimo. Si mordicchiò il labbro inferiore. Le dispiaceva vedere l’amica in quelle condizioni, anche perché era consapevole di quanto Maggie fosse presa da quel ragazzo. Batté le ciglia un paio di volte e respirò profondamente.
Si alzò dal letto e afferrò la mano della ragazza, tirandola a sé.
- Che fai? – domandò Maggie, evidentemente perplessa.
- Preparati. Andiamo a sfondarci di gelato.
 
 
Di sabato mattina la dottoressa Warren lavorava all’Henry Ford Kingswood Hospital. Tracy, che ancora svolgeva il suo tirocinio, era in procinto di assistere ad una delle sedute della sua superiore per un caso più grave rispetto a quelli che era abituata ad ascoltare in studio. L’ospedale psichiatrico sulla Mendota Avenue non era grande, e trovandosi nell’area di Ferndale ci voleva anche un po’ di tempo per raggiungerlo da Detroit. Visto dall’esterno sembrava quasi un piccolo hotel, con l’aiuola fiorata all’entrata e i tre portici dal tetto a volta. Una volta entrativisi, le pareti spoglie e bianche facevano cambiare idea e l’odore dei farmaci si sentiva anche a distanza di metri.
Tracy entrò nell’ospedale e guardò l’orologio che aveva al polso: le dodici e mezza. La ragazza ripensò alla prima seduta a cui aveva assistito in quell’ospedale. Il paziente aveva parlato quasi ininterrottamente con la dottoressa Warren, intrecciando parole sconnesse a discorsi poco chiari. Aveva però parlato della sua tossicodipendenza e di quanto l’astinenza lo facesse star male. Aveva parlato di tutto il dolore che era costretto a subire durante le proprie crisi, di quanto volesse scappare da quel mondo che gli stava portando via tutto e di quanto gli fosse difficile, tanto da risultargli impossibile.
La ragazza trasse un respiro profondo e si avviò verso gli ascensori. Non sapeva a quale seduta avrebbe assistito, se avrebbe visto lo stesso ragazzo della volta precedente o qualcun altro. Sapeva di doversi tenere pronta a tutto e a tutti.
Doveva concentrarsi su ciò che avrebbe dovuto fare, come sempre. Tenere occhi e orecchie aperte, ascoltare con attenzione e captare ogni informazione. Arrivò davanti all’ascensore che l’avrebbe portata al secondo piano e premette il pulsante per chiamarlo.
E, come se le sorprese avute in quella settimana non fossero state abbastanza, non appena si voltò vide la stessa persona della sera prima e di quelle precedenti.
Jake la stava guardando, gli occhi spalancati e increduli. L’espressione variò quasi immediatamente, il ragazzo ruotò le iridi scure dietro alle palpebre e sospirò dal naso, irritato. Jake sembrava forse ancora più magro del giorno prima. Le guance erano scavate e non sembrava aver chiuso occhio nemmeno per un minuto, quella notte.
- Oh signore. – disse tra i denti.
- Ciao, Jake. Anche io sono felice di vederti. – sospirò Tracy.
Quando l’ascensore arrivò entrarono entrambi e restarono in silenzio per quelli che, nonostante fossero pochi secondi, sembrarono ore. La testa di Tracy si stava riempiendo di domande. Aveva incontrato il suo primo paziente per tre volte nell’arco di pochi giorni e quella era la quarta. Nell’ospedale psichiatrico in cui lavorava, per di più. Iniziava a non capirci più nulla, in tutte quelle coincidenze e nei loro passi quasi intrecciati. Sembrava fatto apposta.
E Jake, dopo attimi di silenzio, gonfiò i polmoni e disse esattamente ciò che Tracy stava pensando. – Un altro cliché del genere, e la mia vita diventerà una grandissima puttanata.
 

 
A Jake stava iniziando a sembrare tutto un’enorme presa per il culo. Gli sembrava di trovarsi in un film la cui sceneggiatura scritta male era piena zeppa di equivoci e coincidenze e, essendo onesto con se stesso, l’ultima cosa che si sarebbe augurato e in cui avrebbe sperato era quella che era appena successa. La sua psicologa lo aveva visto entrare in un ospedale psichiatrico e sicuramente in quel momento si stava già programmando le domande da fargli durante la seduta a venire.
A pensarci bene, però, Jake nemmeno aveva dato la conferma e, se prima aveva dei dubbi, ora era ancor più riluttante. Se c’era una cosa di cui però era certo, era quella che per nessun motivo avrebbe parlato con quella ragazza della situazione di Sam e di Josh, nonostante Veronica lo spronasse a farlo. Erano affari suoi. Affari suoi di cui non avrebbe proferito parola. Le persone che riuscivano da subito ad aprirsi riguardo ai propri problemi con una sconosciuta che, per altro, da quei discorsi ricavava anche del denaro, non le capiva per niente.
“Vedrai che ti scioglierai. Ha anche la tua età e mi sembra una ragazza così dolce e affidabile”, gli aveva detto Veronica non appena si era resa conto di chi fosse la psicologa. E lui, come suo solito, aveva alzato gli occhi al cielo e aveva sbuffato.
“Ne dubito fortemente”. E con la sua risposta, il discorso si era chiuso.
Quando uscì dall’ascensore tirò dritto verso una camera diversa da quella di Sam, per evitare che la ragazza riuscisse a capire dove stesse andando.
Nonostante non fosse vicino riuscì comunque a sentire distintamente Tracy rivolgergli di nuovo la parola. – Buona giornata, Jake.
La salutò con un cenno del capo e, non appena fu certo che l’ascensore fosse ripartito, virò nella direzione, diretto verso la stanza giusta.
Era già consapevole di dover aspettarsi di tutto. Sam avrebbe potuto avere una crisi come quella di giorni prima, o non gli avrebbe nemmeno rivolto la parola, troppo giù per rispondergli a qualunque domanda gli facesse.
Le reazioni di una persona affetta schizofrenia non erano affatto prevedibili e Jake ricordava perfettamente tutto ciò che i dottori avevano fatto per fare in modo che la malattia venisse a galla. Sam non aveva parlato per due mesi, due mesi in cui il suo sguardo si era spesso fatto vitreo, terrorizzato o perso. Aveva ricominciato a parlare gradualmente, ma i primi discorsi consistevano in frasi sconnesse, parole insensate. Sam non era più lo stesso. Spesso sembrava essere completamente indifferente a tutta la sua famiglia, rifiutava il contatto fisico di chiunque, aggredendo talvolta chi gli si avvicinava troppo. Altre volte, invece, riusciva ad essere lucido, era capace di intrattenere un discorso sensato, di provare affetto per chi gli voleva bene, anche se in modo totalmente diverso rispetto al periodo precedente all’incidente. Raramente era allegro o felice. Poi arrivavano le crisi, le urla, le allucinazioni. I momenti peggiori, però, erano quelli in cui il morale di Sam precipitava senza possibilità di essere risollevato.
Jake aveva provato tante volte a farlo stare meglio, a cercare di tirarlo su con qualche discorso divertente o un semplice sorriso, ma quella di Sam era una malattia. Non era un semplice sbalzo d’umore, un momento no. E ormai, dopo un anno, il fratello maggiore ci aveva fatto l’abitudine.
Jake respirò profondamente e bussò alla porta della camera del ragazzo, con il pugno tremante.
- Sì? – la voce del fratello era tranquilla.
- Sono Jake.
- Entra, entra! – trillò il ragazzo. Il maggiore vide la porta aprirsi e la prima persona ad apparirgli di fronte non fu Sam.
La figura minuta di Joy gli coprì la visuale. Jake vide un paio di occhi castani osservarlo mentre la ragazza si postava per fargli spazio nella stanza. Joy si spostò una ciocca di capelli tinti di azzurro dietro all’orecchio destro, si sedette sul letto accanto a Sam e abbassò gli occhi sul pavimento.
 
 
- C’è una ragazza che fissa Sam da quando siamo arrivati. – la voce di Josh distrasse Jake dall’accordare la propria chitarra. Il gemello alzò la testa dal proprio strumento musicale e puntò lo sguardo verso il ragazzo dai capelli ricci che si stava asciugando il sudore dal viso con un telo di spugna. Quella serata stavano andando abbastanza bene. Avevano fatto un buon lavoro, nonostante fossero ancora a metà esibizione. La gente in quel pub li stava però facendo sentire apprezzati.
- Non ho avuto modo di notare nessuna pretendente. – Jake si accertò che la propria chitarra fosse ben accordata e sorrise.
- Questo perché non ti fai mai i cazzi di tuoi fratello.
- O perché suono e ho gli occhi sulla chitarra.
Josh sembrò pensarci su per un attimo, per poi scrollare le spalle. – Sì, plausibile.
Sam tornò dal bagno con le mani ancora bagnate e un sorriso stampato sul volto. – Ragazzi non sapete cosa…
- Una ragazza che trovi carina ti ha notato. – lo interruppe Josh.
Il minore aggrottò la fronte. – Come fai a…
- Ti stava scopando con gli occhi, Sammy.
 
A mezzanotte e venti i quattro ragazzi smontarono i propri strumenti e, stanchi morti, misero piede fuori dal locale. Danny inciampò un paio di volte per il sonno e Sam continuò a lamentarsi per una buona mezz’ora. Dovevano tornare a casa a piedi e avevano avuto una fortuna sfacciata a sentirsi dire dal proprietario del locale di lasciare, almeno per quella notte, amplificatori e batteria nel pub. L’uomo, per altro amico di famiglia, aveva assicurato loro che avrebbero tenuto d’occhio gli strumenti e le attrezzature per tutto il tempo.
- Io non ce la faccio più. Questo basso pesa più di tutti noi messi insieme. – aveva sospirato il più piccolo, ricevendo in risposta una risata da Danny e da Josh. Jake gli batté un pugno sulla spalla. – Sono sacrifici che si devono fare.
- Per cosa? Non ci pagano nemmeno chissà quanto!
- Lo so, ma li hai visti? – Jake sorrise, i suoi occhi si illuminarono. – Ci incoraggiavano, ci sorridevano, partecipavano. Per la prima volta da quando suoniamo mi sono sentito apprezzato per davvero.
- E io credo che anche quella ragazza abbia apprezzato per davvero il nostro timido Samuel. – commentò Josh.
Danny sorrise, circondando le spalle del suo migliore amico con un braccio. - Io credo che tutti apprezzino Sam.
Sam strinse gli occhi e fece tremare il labbro inferiore. – Daniel, la mia schiena!
Il batterista scostò immediatamente l’arto dal corpo del ragazzo. – Scusami!
Danny si vide letteralmente strappare via l’amico, strattonato da qualcuno che nessuno di loro era riuscito ad identificare. Jake spalancò gli occhi rizzando la schiena, temendo un’aggressione. Invece, non appena riuscì a rendersi meglio conto della situazione, notò una minuta ragazza dai capelli corti e scuri afferrare le spalle di Sam e sporgersi in avanti, protendendosi sulle sue labbra e premendoci le proprie. Sam trasalì, i suoi occhi restarono spalancati anche quando lei si staccò.
La ragazza sorrise e chiuse un foglietto di carta ripiegato in una delle mani di Sam. - Sono Joy Powell, questo è il mio numero. E il tuo modo di suonare il basso è ciò di più sexy che io abbia mai visto. 
 
 
- Come stai oggi, Sam? – domandò Jake guardando Joy accarezzare i capelli di suo fratello. Sam alzò le spalle. – Decisamente meglio. Molto, molto meglio.
Il maggiore sorrise. Si sedette sulla sedia accanto alla scrivania e guardò suo fratello e la ragazza. Jake era grato a Joy per essere rimasta con Sam senza mai vacillare. Gli era stata accanto per anni e aveva continuato a dargli l’amore e la forza di cui aveva bisogno anche vedendolo in quelle condizioni. Erano due caratteri agli antipodi, l’animo ribelle e la schiettezza di Joy si scontravano con la personalità impacciata e timida di suo fratello, ma i due ragazzi si amavano. Ed era quello l’importante.
Joy era lì con lui quando Sam non riusciva a trovare il coraggio per fare qualcosa, e Sam le era accanto ogni volta che lei faceva qualcosa di eccessivamente stupido di cui si pentiva un attimo dopo.
Però le cose erano cambiate, da un anno a quella parte. Sam la amava, sì, ma la malattia talvolta lo prosciugava da ogni tipo di affettività e tenerezza. C’erano giorni in cui preferiva stare da solo, giorni in cui respingeva Joy in modo brusco, e non succedeva solo con la ragazza. Era capitato anche a Jake.
Sam si alzò dal letto e lasciò una carezza sulla guancia di Joy. – Joy, tesoro, ho bisogno di parlare con Jake. Puoi aspettarci fuori?
Jake aggrottò la fronte. Se il fratello voleva parlargli in privato, senza nessuno intorno, con ogni probabilità doveva esserci un motivo abbastanza importante. Vide la ragazza scrollare le spalle e alzarsi, lasciare un bacio sul naso di Sam. Avviandosi verso la porta diede una pacca sulla spalla di Jake per salutarlo, e il ragazzo non ebbe nemmeno il tempo di risponderle che si sentì afferrare per le spalle.
Il fratello minore lo guardava fisso negli occhi, le palpebre completamente spalancate, un sorriso stampato sul viso. - L’ho visto, Jake. L’ho visto ancora. Ho visto Josh.
Jake sentì il cuore fermarsi. Deglutì, temendo un’altra crisi di suo fratello. Aveva però ancora più paura di sentirlo parlare di Josh, raccontando l’incontro e le parole con una persona che nemmeno c’era più. Con il loro fratello, con il suo gemello. Prese le mani di Sam, le strinse forte allontanandole dalle proprie spalle.
Cercò di recuperare il fiato che aveva trattenuto. – Sam, Josh non c’è più. Non è…
- Devi fidarti di me, Jake! Perché non ti fidi di me? L’ho visto con i miei occhi. Mi ha parlato. Mi ha detto che…
- Basta, Sam. Per favore.
Jake vide l’espressione del minore cambiare. Il sorriso si spense, gli occhi si fecero gelidi. Lo guardò allontanarsi e dargli le spalle.
- Sì, giusto. E’ vero, non ci avevo nemmeno pensato. – Sam si voltò di scatto, gli occhi spalancati e le braccia tremanti. – Io sono pazzo. Sono qui dentro perché sono pazzo. Sono pazzo e vedo cose che non ci sono, vero?
Il ragazzo afferrò il vaso di fiori appoggiato sul davanzale della finestra e lo scaraventò per terra, facendo sussultare il maggiore. Si riavvicinò a Jake e allargò le braccia sottili. – Però io credevo che almeno tu mi credessi. E invece non mi credi nemmeno tu.
Jake sentì la gola seccarsi e il cuore battere forte. Gli occhi di Sam erano rossi, lucidi, patinati di rabbia e amarezza. Detestava vederlo in quelle condizioni e pensare di esserne stato la causa lo faceva stare ancora peggio. Afferrò di nuovo le mani di Sam, la voce gli tremava come le dita. – Cosa ti ha detto, Sammy?
Il ragazzo sembrò calmarsi. Le spalle scesero, il corpo si rilassò. Abbassò lo sguardo. – Si sente in colpa.
- In colpa? Per cosa?
- Per starci facendo soffrire.
 
 
Un colpo di tosse scosse il sacco a pelo del diciottenne e Josh, ovviamente, se ne accorse. Era rimasto sveglio per tutta la notte per vegliare sul gemello ammalato, la brutta febbre aveva deciso di farlo star male proprio durante quella settimana che avrebbero dovuto passare in campeggio senza nessun pensiero oltre al passare del tempo in famiglia e divertirsi. Josh era stanco morto, ma non aveva intenzione di addormentarsi. Scivolò fuori dal suo sacco a pelo e si avvicinò a Jake, inginocchiandosi accanto a lui.
Gli scoprì leggermente il viso e ci appoggiò sopra una mano. Era bollente e aveva assunto una tonalità di rosso ancora più forte dell’ultima volta. L’ennesimo colpo di tosse scosse il corpo di Jake, facendo anche un po’ male a Josh.
Il suo gemello dormiva, ma non sembrava per niente sentirsi bene. Respirava con fatica e tremava per il freddo. Josh gli accarezzò i capelli del colore identico ai suoi, gli scosse leggermente una spalla e lo sentì mormorare qualcosa che non riuscì a comprendere. Vide gli occhi scuri schiudersi e il cuore gli si strinse. Erano lucidi e arrossati.
- Jakey. Come ti senti?
Lo vide stringersi di più nel sacco a pelo tirando su col naso. – Ho freddo.
Josh sospirò dal naso e scosse la testa. Ci pensò su per un attimo e un’idea gli balenò presto in testa. Sollevò le coperte del sacco a pelo sentendo dei gemiti di protesta da parte di Jake e si infilò insieme a lui nel bozzolo bollente. Si girò verso il gemello e gli circondò il corpo così simile al suo tra le braccia, stringendolo forte per trasmettergli un po’ di calore.
- Che fai? – sussurrò Jake con voce nasale.
- Ti abbraccio.
- Così ti prenderai la febbre anche tu.
Josh sorrise e lo strinse più forte, facendo però attenzione a non fargli male. – Sono il gemello forte, tra i due.
- Non è vero.
- Chi è che si è ammalato?
Sentì Jake sospirare sul proprio petto. – Stai zitto.
A Josh scappò una risata. Seppellì il naso tra i capelli di Jake, annusando quel profumo così familiare che gli ricordava tanto il fuoco attorno a cui cenavano quando erano in campeggio. - Finché ci sarò io, nessuna febbre potrà farti del male. Te lo prometto. Non soffrirai, se ci sarò io a stringerti.
Jake sorrise appena. Sebbene avesse il naso premuto contro le costole di Josh, avendo ancora più difficoltà a respirare, stava bene. Si sentiva a casa, al caldo, al sicuro. Sentiva il cuore del gemello battergli contro l’orecchio, e gli fu più facile addormentarsi.

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Capitolo 4
*** Capitolo terzo ***


Jake non aveva la forza di muovere un solo muscolo. Tremava senza nemmeno rendersene conto, pietrificato davanti al corpo immobile di suo fratello.
“Josh è ancora vivo”, gli avevano detto i medici. Lui si stava sforzando di crederci. Con tutte le sue forze, con tutta la voglia che aveva di rivedere il suo gemello ridere, di sentirlo parlare. Ma Josh non aveva niente di vivo, in quel momento. Era vivo solo perché delle macchine glielo permettevano, era mortalmente pallido e i suoi occhi erano chiusi da giorni, sigillati.
Guardò la figura di suo fratello ricoperta da tubi, fili e lividi e non poté fare a meno di ripensare a quella scena.
La sera del quattro agosto era stata la peggiore della sua vita, era stata la sera che gli aveva distrutto tutto quanto. Josh e Sam erano usciti abbastanza presto per andare in un negozio di strumenti musicali di Detroit per comprare un nuovo giradischi, dato che quello che avevano si era rovinato pochi giorni prima. Jake ne aveva approfittato per aiutare sua madre in casa insieme a Veronica e tutto stava procedendo con la stessa tranquillità che regnava di solito in casa Kiszka. Ronnie aveva alzato gli occhi al cielo quando Jake aveva rimesso per la terza volta il primo vinile di Muddy Waters sul giradischi malfunzionante. Si era però limitata a fare un sorriso, consapevole di quanto Jake amasse la musica di uno dei suoi artisti preferiti nonostante fosse rovinata dai fastidiosi rumori provenienti dall’apparecchio.
Jake aveva poi ricevuto una chiamata dal gemello. Quando aveva risposto, aveva sentito la voce di Josh scocciata, innervosita, che gli diceva che sarebbero arrivati in pochi minuti.
Dopo due ore dalla chiamata, i membri della famiglia in casa avevano iniziato a preoccuparsi. Né Sam né Josh rispondevano alle chiamate.
“Stanno arrivando, ne sono certo. Forse stanno attraversando una zona in cui non c’è campo”, aveva ipotizzato il padre dei ragazzi, anche se la sua voce sembrava esser tutto fuorché tranquilla. L’ansia era evidente negli occhi di tutti e quattro, e quando il telefono fisso squillò Jake si precipitò a rispondere.
“Famiglia Kiszka?”, sentì dall’altra parte del telefono. Jake diede una risposta affermativa.
“E’ la polizia. Samuel e Joshua Kiszka hanno avuto un incidente.”
Nel ripensare a quelle parole i pugni di Jake si strinsero, il ragazzo continuò a fissare il corpo di suo fratello. Gli faceva male persino guardarlo. Gli faceva male guardare quel viso così simile al suo completamente immobile, ricoperto da tagli e lividi, quei ricci ribelli schiacciati dal cuscino su cui erano posati da giorni. Jake abbassò gli occhi per un secondo, per poi rialzarli, spalancarli quando sentì lo statico fischio dell’elettrocardiogramma risuonare come a voler chiamare aiuto.
Quando i medici arrivarono, Josh non c’era già più.
E con lui, non c’era nemmeno più Jake.
 
 
- Non hai toccato cibo, oggi. Per tutto il giorno. Se non ti decidi a chiamare lo studio lo farò di nuovo io.
Jake rivolse lo sguardo verso la sorella e sospirò dal naso, infastidito. – Non ho mangiato perché non c’era nulla che mi piacesse.
- Ma se ti ho cucinato di tutto e a colazione, pranzo e cena non hai fatto altro che giocare con il cibo.
- Erano tutte cose di cui non avevo voglia.
Ronnie sbuffò riponendo un piatto nella credenza. Decise di cambiare argomento, sapendo che con il fratello non si sarebbe andati a finire da nessuna parte. – Come sta Sam?
Jake alzò gli occhi verso la sorella e si morse l’interno di una guancia. – Oh, quindi non ti sei dimenticata di avere un fratello minore.
La ragazza aggrottò la fronte e ricambiò lo sguardo. – Come?
- Da quanto tempo non vai a trovare Sam?
- Io non… - respirò profondamente, si stropicciò un occhio. – Non cambiare argomento.
- Mi hai chiesto tu di Sam.
- Voglio sapere come sta. Non voglio che tu mi faccia la predica.
Jake strinse le labbra e annuì appena a se stesso. – Sta male, Veronica. E io sono l’unico pezzo di merda insieme a quel santo di Daniel che ha il coraggio di andare da lui. Non tu, non mamma, non papà. Perciò non fare l’ipocrita. Non chiedermi come sta, vallo a trovare e basta.
Vide la sorella tirare su col naso, gli occhi le si fecero lucidi. – Sei veramente uno stronzo.
- No, Veronica. Non sono uno stronzo. Sono semplicemente stanco di vedere e sentire gente che dice di star male per Sam ma non fa un bel niente per dargli anche solo un po’ di conforto. E sono stanco di sentire te. – il maggiore si passò una mano sul volto scarno. – Sono esausto di sentirti farmi la predica ogni santo giorno, quando qui sei tu l’unica che evita qualunque problema. Io quella sera stavo soffrendo perché avevo avuto il coraggio di vedere mio fratello, e ciò che i miei occhi hanno visto mi ha fatto del male. Tu continua a viver nel tuo mondo fatto di illusioni, senza avere la forza di affrontare la realtà.
Le parole di Jake fecero male tanto a lui quanto a Veronica. La ragazza vedeva il volto del fratello impassibile ma sentiva il tono di voce arrabbiato, stanco. Si interrogò su se stessa e si rese conto che le parole di Jake non erano sbagliate, non erano dettate dalla rabbia o dal dolore. Non ricordava nemmeno lei da quanto tempo non andasse a trovare Sam. Il suo Sam, il suo fratellino, una delle cose più importanti della sua vita. Magari aveva avuto bisogno di lei, aveva avuto voglia di vederla, e lei per pura codardia non era riuscita nemmeno ad avvicinarsi a quell’ospedale.
L’ultima volta che l’aveva visto lui l’aveva trattata come una perfetta sconosciuta. Aveva respinto i suoi abbracci, l’aveva allontanata, ma la cosa che più le aveva fatto male era stata vederlo in stato di allerta per tutto il tempo, con gli occhi strabuzzati, le braccia magre a circondare il petto come per farsi scudo da qualcosa che non c’era ma di cui lui aveva paura. Non era più Sam.
Quello non era il suo dolce, allegro, imbranato Sam, quello con cui si divertiva a fare giochi improponibili di tutti i tipi anche a vent’anni. Era l’ombra di suo fratello, il riflesso del buio che Sam aveva dentro.
Non si era nemmeno accorta delle lacrime che stavano sfuggendo al suo controllo e della stretta delle braccia di Jake attorno a sé.
Quando se ne rese conto fece scivolare una mano sulla schiena dl maggiore, stringendolo forte a sé.
- Perdonami, Ronnie.
 
 
- Al tre. – sorrise Josh, mostrando a Jake le proprie dita della mano sinistra. – Uno, due…
- Tre. – concluse il gemello, sporgendosi sulla piccola torre di pancake che loro stessi avevano preparato per il proprio compleanno e soffiando insieme a Josh sulle quattro candeline, ognuna rappresentante il numero due. Quello era il primo compleanno che passavano da soli, l’uno insieme all’altro senza nessuno intorno. Certo, amavano festeggiare con la propria famiglia, lo avevano sempre fatto. Però quella notte volevano dedicarsela. La notte del loro ventiduesimo compleanno era diversa da tutte le altre.
Avevano corso su per una bassa collina, rischiando di far cadere il proprio dolce un paio di volte e, esausti, si erano sdraiati ansimanti e ridenti sull’erba.
Dopo aver spento le candeline si erano guardati, si erano mostrati un sorriso che aveva voluto dire infinite, inspiegabili parole, che solo loro avrebbero potuto comprendere. Un sorriso che sapeva di Jake e Josh, di Josh e Jake. In quei pochi istanti, con quel semplice gesto, si promisero tutto. Si giurarono qualsiasi cosa, si affidarono l’uno all’altro completamente.
Presto, però, ci pensò il ragazzo dai capelli ricci a rovinare quel momento, esordendo con: - Avrei dovuto spegnere prima io le mie candeline. Poi avremmo dovuto aspettare cinque minuti e sarebbe toccato a te.
Jake alzò gli occhi al cielo, arrotolando un pancake tra le mani e tirandoci un morso. – Dillo di nuovo e ti butto giù.
- Guarda che è vero!
- Buon Dio.
- Sono il primogenito. Mamma ha guardato prima in faccia me e poi è stato il tuo turno. Ed ero anche più bello.
- Eravamo l’uno la copia sputata dell’altro.
- Ma io ero più bello.
- Infantile.
- Serioso.
- Io non sono serioso.
- No, Jake, no. Per carità, no.
- Non prendermi per il culo.
- Ho le mani in tasca.
- Sei pessimo.
- E tu antipatico.
Jake si allungò per tirare uno scappellotto dietro alla testa di Josh, che rise passandosi una mano sul punto colpito. – Anche manesco. Ah, comunque.
Il gemello lo vide voltarsi, raccogliere lo zaino che aveva posato per terra accanto al suo e aprirlo, estraendone un pacchetto sottile e squadrato, avvolto da carta leggermente strappata e anche un po’ rovinata. – Non hai idea del casino che ho fatto per trovarlo.
Jake sorrise. Prima di prendere tra le mani il proprio regalo fece la medesima cosa che aveva fatto il gemello, mostrandogli una scatola rettangolare, incartata decisamente meglio rispetto all’involucro del regalo di Josh, di dimensioni abbastanza grandi da far inarcare le sopracciglia del gemello. Si scambiarono i rispettivi regali, e il sorrisetto che increspò le labbra di Josh fece sospirare il gemello. – Cosa?
- Lo apro prima io e poi aspettiamo cinque minuti.
- Oh, Dio.
- Posso?
Jake alzò gli occhi al cielo e fece le spallucce, rassegnato. Il fratello sorrise, iniziando a strappare la carta per poi trovare una scatola di cartone. Ne tolse lo scotch e ci sbirciò dentro. Quando intuì cosa potesse contenere quella scatola strabuzzò gli occhi e li puntò verso Jake. – Tu sei pazzo.
- No, Josh. Ho solo tanti soldi.
- Tanti soldi un cazzo, Jake! – il ragazzo tirò fuori con estrema delicatezza la Canon nuova di zecca. Jake era a conoscenza della sua passione per il cinema, della sua aspirazione per diventare un importante regista, quindi appena aveva visto quella videocamera aveva pensato al regalo perfetto. Aveva speso la metà del suoi risparmi, ma vedendo l’espressione sul viso di Josh aveva capito che ne era valsa la pena. Un sorriso a trentadue denti si stampò sul suo volto, gli occhi gli brillarono. Il gemello si sporse verso di lui ma Jake lo bloccò appoggiandogli una mano sul petto, ridendo. – Eh no, Joshua. Prima devo aprire il mio.
- Non so come ringraziarti. Davvero, Jake, io…
Jake simulò un conato di vomito. – Che schifo, Joshua, sei diventato una docile pecorella da un momento all’altro?
- Ti sono solo tanto grato.
- Sì, sì, come vuoi. Ora fammi aprire il mio gioiello. – gli scompigliò i capelli ricci e afferrò la confezione sottile, scartando il regalo con un’espressione sospettosa sul viso. E quando ebbe tolto tutta la carta vide esattamente ciò che si era aspettato. Sulla confezione del vinile c’era una copertina bianca, con la scritta “Electric Mud” in grassetto proprio al centro e il familiare nome “Muddy Waters” scritto in un carattere più sottile proprio sopra al titolo dell’album.
Jake alzò lo sguardo sul fratello e sorridendo allargò le braccia. – Ora puoi abbracciarmi.
 
 
Quando Jake riaprì gli occhi si dimenticò quasi di tutto ciò che era successo l’anno prima. Le uniche immagini impresse nella sua mente erano quelle del suo ventiduesimo compleanno, negli occhi aveva le loro figure stretta l’una contro l’altra sull’erba bagnata. Ci mise un po’ per realizzare. Diede un’occhiata all’orologio a muro e constatò che fossero esattamente le tre del mattino. Sapeva che non avrebbe preso più sonno.
Per qualche motivo gli vennero in mente, l’uno dopo l’altro, tutti gli avvenimenti di quella settimana. Le discussioni con Veronica, la visita che era andato a fare a Sam, gli incontri con Tracy Ziegler. Già da un po’ si era reso conto del fatto che, il giorno della seduta, il suo umore era leggermente migliorato. Solo che affrontare nuovamente la realtà dopo aver messo piede nella stanza di Sam lo aveva fatto crollare di nuovo inesorabilmente.
Come aveva detto, ci aveva pensato a lungo e ancora era incerto sul da farsi. Quando era tentato di chiamare quel numero per prendere appuntamento gli bastava un attimo per rinunciarci. Eppure doveva ammettere che lo avrebbe fatto sentire leggermente meglio. Non del tutto, anzi, quasi per niente, ma valeva la pena tentare. Dopotutto, quel pomeriggio gli era sembrato di intrattenere una semplice conversazione con una ragazza appena conosciuta, escludendo i momenti in cui si erano andati a toccare i suoi punti deboli.
Pensò a Josh. Pensò al sogno che aveva appena fatto. Pensò a come aveva trattato Veronica, pensò a Sam, a Danny, a sua madre, a suo padre.
Pensò al sorriso di Josh, alla risata cristallina che non avrebbe mai più sentito.
Pensò alle lacrime che aveva visto scivolare sulle guance di Ronnie. Pensò a Sam che lo guardava, implorandolo di credergli. Alla forza che Danny mostrava sempre di avere nonostante fosse a pezzi quasi quanto lui.
E quella stessa notte, anche se non ne seppe capire bene il perché, Jake si permise di piangere. Per la prima volta dopo un anno riuscì a mostrarsi fragile a se stesso.
Si decise a comporre il numero dello studio e ad avvicinare il telefono all’orecchio.
 


 

Tracy sbuffò e strinse le palpebre quando la suoneria del suo cellulare la svegliò in piena notte. Sperò che fosse per una giusta causa, schiuse gli occhi e lesse un numero sconosciuto sul display. Allungò la mano destra e afferrò il telefono collegato al carica batterie, se lo portò all’orecchio e si schiarì la gola, parlando a bassa voce. Si alzò dal letto e si spostò in cucina per non svegliare Maggie.
– Pronto? – domandò con la voce roca e impastata. Si appoggiò al tavolo con i gomiti e sentì dall’altra parte del telefono tirare su col naso, udì la voce balbettare, ma nessuna parola, nessuna risposta.
Tracy sospirò e si passò una mano sul viso. - Se è uno stupido scherzo io non ho…
- D-dottoressa Ziegler?
La ragazza trasalì e si stropicciò gli occhi. Era una chiamata di lavoro, doveva svegliarsi. – Sì, posso esserle d’aiuto?
Udì la persona che la stava chiamando trarre un profondo respiro. – Sono… Sono Jake Kiszka.
Si chiese come avesse fatto a non riconoscere la voce del suo primo paziente. E poi, sarebbe potuta andare per logica. Era l’unico ad avere il suo numero che avrebbe potuto chiamarla “dottoressa Ziegler”.
Rizzò le spalle e sistemò meglio il telefono all’orecchio. – Ciao, Jake. Dimmi.
- Ho… Io ho… - la voce era rotta, tremante. Come se il ragazzo stesse trattenendo le lacrime. – Io ho bisogno di… Prenotare un appuntamento.
Tracy non sapeva come sentirsi. Se essere dispiaciuta per sentirlo in quel modo e con quella voce, se essere sollevata dal fatto che Jake volesse aiutarsi. Un comportamento professionale le avrebbe imposto di essere completamente neutra, di fare solo il suo lavoro. Ma lei aveva ventitré anni e quella era una delle prima volte in cui si rapportava con un paziente lei e soltanto lei. Riuscì ad ogni modo a mostrarsi umana, a se stessa e a Jake.
- D’accordo, Jake. Hai bisogno di parlare un po’ anche ora? Va tutto bene?
- Sì. – Jake tirò su col naso e sospirò. – Sì, tutto bene. Ho il raffreddore.
La giovane psicologa non ci credette nemmeno per sbaglio. Tuttavia, non doveva farlo sentire a disagio. Se avesse insistito forse Jake sarebbe stato anche peggio.
- Vuoi propormi tu un giorno? – domandò dolcemente.
Jake singhiozzò. – Domani. Domani va bene?
- Sì, c’è un orario che ti potrebbe essere comodo?
- No. No, qualsiasi orario va bene.
Tracy si appuntò mentalmente tutto quanto. – Alle cinque e mezza ce la fai?
- Credo di sì.
La giovane dottoressa annuì tra sé e sé. – A domani, Jake. Cerca di dormire.
Un altro sospiro. – Buonanotte.
La chiamata si chiuse, e come ogni volta che si ritrovava a svegliarsi in orari notturni quasi improponibili, Tracy si lasciò trascinare dai pensieri.
 
 
Quando la bambina tornò a casa, le lacrime scendevano copiosamente dai suoi occhi. Suonò il campanello un paio di volte, lo zaino che aveva sulle spalle sembrava pesare poco rispetto a tutto il resto. Sua madre le aprì la porta mostrandole un caloroso sorriso, che Tracy nemmeno sembrò notare. Quando Olivia la salutò, sua figlia le rispose con un cenno del capo. Era entrata a testa bassa, ma sua madre aveva capito ogni cosa. Non era la prima volta che tornava a casa da scuola in quelle condizioni, che filava nella sua camera senza degnare nessuno di parola. Ma la donna non poteva lasciare che Tracy continuasse di quel passo.
E in quel momento, la ragazzina si trovava in quello studio proprio perché Olivia e David erano preoccupati per lei, e se non erano riusciti loro ad aiutarla con tutti i provvedimenti possibili, c’era bisogno di qualcosa di più, di un aiuto professionale.
Tracy era rimasta con gli occhi puntati sul pavimento di marmo per tutto il tempo, aveva parlato poco, ma non aveva dimostrato nessun rifiuto nei confronti della psicologa e della seduta.
La dottoressa si chiamava Danielle Warren, e a Tracy piaceva. Le piacevano i suoi riccioli biondi, i suoi occhi azzurri e la bassa statura che la faceva sembrare di svariati anni più piccola di quanti in realtà ne avesse. Aveva un sorriso luminoso, la voce era dolce come lo zucchero e non si era dimostrata per nulla severa o seriosa come gli psicologi che Tracy aveva visto qualche volta nei film.
- Che tipo di cose ti dicono, i tuoi compagni di classe? – le aveva chiesto la dottoressa dopo un paio di sedute. Tracy aveva sollevato le spalle e aveva continuato a tenere lo sguardo fisso sul pavimento come faceva sempre.
- Mi prendono sempre in giro perché non sono magra. Il più delle volte o fanno alle mie spalle, e quando cerco di parlare con loro per chiarire mi ridono sempre in faccia. Mi hanno presa tutti di mira perché ho interessi differenti dai loro. Faccio qualcosa di male?
Danielle sospirò dal naso, l’espressione sul suo viso si stava riempiendo di sconforto nei confronti di quella dodicenne che, sebbene non avesse la colpa di nulla, si stava mettendo in discussione in quel modo. – No, Tracy. Tu non hai fatto niente di male.
- E allora perché sono sempre io che in classe vengo trattata in questo modo?
- Perché sei tanto buona, Tracy. E, purtroppo, talvolta gli altri se ne approfittano per sfogare la stessa rabbia che tu sfoghi nei libri.
 
 
Quando Tracy mise piede nello studio, Jake era già seduto nella sala d’attesa. La giovane psicologa infilò le chiavi nella borsa, si voltò a guardarlo e gli sorrise. – Buonasera, Jake. Un po’ in anticipo? Sei arrivato da molto?
Il ragazzo alzò gli occhi verso di lei e scrollò le spalle. – Non avevo nulla da fare.
- Ti ha fatto entrare la dottoressa Warren?
- Sì.
Tracy annuì, dirigendosi verso la porta del piccolo studio, facendo cenno a Jake di seguirla. Appena entrarono la ragazza aprì le finestre, posò la propria borsa sull’appendiabiti e si sedette dietro alla scrivania, vedendo Jake accomodarsi sulla sedia di fronte a lei. Il ragazzo sembrava completamente diverso dall’ultima volta in cui l’aveva visto. Certo, la statura era la stessa, i capelli anche. L’espressione sul suo viso non aveva nulla a che vedere con il cipiglio scocciato e infastidito che aveva quando lo aveva visto nell’ospedale in cui talvolta lavorava.
Ancora una volta, si domandò il motivo per cui l’aveva visto lì dentro. Non glielo avrebbe chiesto, se Jake avesse voluto gliene avrebbe parlato di sua volontà e lei avrebbe ascoltato.
Il giovane aveva gli occhi stanchi, lo sguardo basso. Gli occhi incavati e il pallore delle sue guance risaltavano l’espressione afflitta ed esausta. Ancora una volta, sembrava non aver chiuso occhio, e Tracy ne aveva anche la prova che era quella chiamata alle tre di notte.
- Come stai, Jake? – chiese lei dopo svariati minuti di silenzio.
- Io… Ieri mi sono reso conto di quanto stronzo possa essere. – alzò la testa e respirò profondamente, incrociando le dita della mano destra con quelle della gemella.
Tracy aggrottò la fronte. – Perché dici così?
- Ho trattato malissimo Ronnie. Ero… Ero arrabbiato, nervoso, triste. E me la sono presa con lei.
La ragazza annuì e strinse le labbra. Aveva bisogno di andare più a fondo alla questione. – Cosa ti faceva star male?
- Tante cose messe insieme. Ma non… - Jake si fermò per un momento, teso. – Non sono importanti. Sta di fatto che mi sono arrabbiato con lei.
- Ti ha detto qualcosa che ti ha fatto innervosire?
- Sì. Ma non dovevo comunque reagire in quel modo.
- Avere una brutta reazione quando si è nervosi o arrabbiati non vuol dire essere stronzi, Jake. – Tracy appoggiò il mento sui dorsi delle mani. Osservò Jake giocare con il bracciale bianco che aveva al polso destro. Non le rispose, restò in silenzio.
Tracy piegò la testa da un lato e continuò ad osservare i suoi gesti. Quel bracciale lo aveva anche alla prima seduta, e in momenti come quelli si era accorta del modo che aveva di sfiorarlo o giocarci. – Vuoi descrivermi cosa è successo?
Jake alzò le spalle. – E’ solo che molte volte Veronica non vuole affrontare ciò che ha di fronte. Questa cosa mi ha fatto innervosire, perché le voglio bene. Non voglio che viva lontana dai problemi, che eviti le complicazioni, perché facendo così non potrà mai superare nulla.
- Sono le stesse cose che fanno star male te?
- Sì.
- Ma tu a differenza sua ti ci interfacci.
- Sì.
La ragazza annuì. Abbassò lo sguardo sulle mani, formulò bene la risposta che avrebbe dovuto dargli. – Forse Veronica non si sente ancora pronta, ha bisogno di un po’ più di tempo per affrontare ciò che la fa star male, ma vedrai che prima o poi avrà la forza giusta per farlo. Quando ti sei reso conto di aver sbagliato, cosa hai fatto?
- Le ho chiesto scusa. L’ho abbracciata, nient’altro.
- E lei ti ha perdonato?
Jake annuì. – Credo di sì.
Tracy sorrise. – A volte, spinti da emozioni che prendono il sopravvento sulle nostre parole o sui nostri gesti, perdiamo il controllo. Non sei stato uno stronzo. Sei stato solo umano, non lo hai fatto per ferirla. E io sono sicura che lei ti voglia bene tanto quanto gliene vuoi tu. Avrebbe capito in ogni caso.
 
 
- Tracy. E dai, Tracy! Non l’ho fatto apposta, volevo solo giocare! Che ne sapevo che sarebbe andata a finire così? – la voce ovattata del fratello fece alzare gli occhi al cielo alla ragazzina. Tracy scosse la testa, si alzò dal letto su cui era seduta continuando a premere il sacchetto ghiacciato contro il proprio occhio sinistro, che aveva sbattuto anche abbastanza violentemente dopo una spinta da parte del fratello per riuscire a prendere la palla con cui stavano giocando. Aprì la porta scorrevole e osservò il fratello maggiore con un’espressione scocciata. Will indossò un sorriso sbilenco.
- Che cosa vuoi? – sbuffò la minore. Il fratello le prese una mano e la sollevò. – Tirami un pugno.
- No!
- Dato che ti ho fatto male, tu adesso devi fare male a me così siamo pari.
La bambina arricciò il naso. – Il pugno te lo tirerei per le idiozie che dici.
- Come va l’occhio?
- Ringrazia che non sono diventata cieca.
Will si passò una mano tra i ricci biondi. – In quante altre lingue devo chiederti scusa?
- Tutte.
- Ma non le conosco!
- Provvedi.
- Ma sono troppe!
- Allora fammi i compiti.
Will fece cadere la mandibola. – Tutti tutti?
In risposta, Tracy lasciò andare per un attimo il ghiaccio e si arrampicò per arrivare a prendere i libri che teneva sulla mensola rossa attaccata al muro. Li sbatté tra le braccia del fratello e sorrise. – Quando hai finito chiamami, vado a guardare i cartoni animati.
Will, vedendo la sorellina allontanarsi, si disse che non sarebbe stata poi un’impresa così ardua. Dopotutto, erano i compiti di una terza elementare e lui frequentava la quinta. Si mise subito a lavoro, ma quando ebbe finito si rese conto del fatto che, sebbene non fossero stati difficili da svolgere, erano passate diverse ore. Non assegnavano nemmeno a lui così tanti compiti a casa. Sospirò e lasciò cadere la testa all’indietro sullo schienale della sedia. – Tracy, ho finito!
La bambina tornò nella propria camera masticando una caramella. – Hai fatto tutto? Ce ne hai messo di tempo.
- Erano tantissimi.
- Sì, infatti. Oltre a quelli per domani, ti ho dato da fare anche quelli per i prossimi tre giorni.
In un primo momento Will si sentì un idiota. Ma si disse di esserselo anche un po’ meritato. Sospirò guardando la sorellina con occhi imploranti. – Mi perdoni?
- Guarda che ti avevo già perdonato da subito, mica è stata colpa tua. Volevo solo una scusa buona per non fare i compiti.

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Capitolo 5
*** Capitolo quarto ***


Potrà sembrare scontato, ma la sera in cui Tracy si sentì dire le parole “ti amo” per la prima volta, pioveva. L’unica differenza stava in un piccolo, minuscolo e futile dettaglio: il ragazzo che glielo aveva detto non aveva un ombrello da metterle sopra la testa, e nei giorni successivi si erano presi entrambi il raffreddore. Tuttavia, a nessuno dei due sembrava interessare più di tanto essere bagnati dalle gocce di pioggia che irrimediabilmente infradiciavano loro i capelli e i vestiti.
- Scusami, avrei dovuto prevederlo – sospirò il ragazzo dagli occhi scuri e i capelli castani che, con la pioggia, sembravano aver raggiunto il doppio della loro normale lunghezza. Tracy rise dolcemente, lasciandogli un bacio a fior di labbra e scuotendo poi la testa. Stava morendo di freddo, nonostante fosse giugno, ma non se ne curò particolarmente. Frequentava Alex da quasi un anno e sentiva una connessione e un affetto che per nessuno aveva provato così forte. E se pensava che si erano conosciuti per puro caso quasi non ci credeva, perché mai avrebbe pensato di innamorarsi dopo un incontro di tennis a cui lei non sarebbe voluta andare per nessun motivo. E per di più del ragazzo che le aveva fatto cadere un hot dog sul jeans.
Hot dog che era inesorabilmente crollato dal carretto giallo che lo trasportava.
Tracy aveva fatto un balzo dopo aver sentito il bruciore del panino ancora caldo sulla sua gamba, scaturendo la risata di quell’idiota del fratello e il dispiacere di Alex. E Tracy non aveva nemmeno avuto il tempo di insultare Will in ogni lingua esistente, che il ragazzo degli hot dog si era immediatamente piegato per darle una mano, scusandosi almeno una decina di volte.
E come lei non si sarebbe mai immaginata di uscire con qualcuno dopo aver quasi ucciso suo fratello con i jeans sporchi di maionese, Alex ugualmente non si sarebbe aspettato di dire “ti amo” alla ragazza che lo aveva visto tra gli spalti con un cappellino ridicolo e un grembiule a righe, brufoloso e con addosso uno spiacevole odore di fritto.  
E se Tracy in un primo momento aveva maledetto ancor di più Will per averla portata lì dentro, ora era grata al fratello e a quella benedetta partita di tennis finita con la vittoria a tavolino di uno dei due atleti.
Quel jeans aveva dovuto buttarlo, ma ne era valsa la pena, perché la sera del sei giugno aveva sentito dire quelle parole dalla persona di cui anche lei si era innamorata.
Alex le aveva preso le mani e aveva cercato di scaldarla come poteva, nonostante stesse a sua volta tremando come una foglia. L’aveva stretta a sé, strofinandole le mani sulla schiena e sulle braccia. Aveva appoggiato il mento sui suoi capelli ricci, aveva sorriso e le aveva lasciato un piccolo bacio sul cuoio capelluto.
E, con la voce tremolante per l’emozione e per il freddo, aveva sussurrato quelle due parole che avevano scaldato il cuore di Tracy nonostante i pochi gradi di quella sera.
- Anche se domani avrò la polmonite, anche io ti amo, Al.
Ma Tracy, ovviamente, nemmeno immaginava cosa sarebbe successo due anni dopo. Tantomeno tre.
 
 
- Quanti caffè hai bevuto oggi, Spremineuroni? Lo sai che se fai così aumenti il rischio di avere un infarto a trent’anni?
Tracy non si voltò nemmeno a guardare Maggie dopo uno dei suoi soliti interventi.
- Dottoressa?
Non una parola.
- Ziegler.
La giovane psicologa prese un altro sorso dalla tazzina.
- Tracy, che cazzo!
- Ma che vuoi?
- Lascia quel caffè e beviti una benedetta spremuta d’arancia!
- Sì, sì, poi, nel pomeriggio.
- Sono le otto di sera.
- Per me è pomeriggio.
- Per me no! – Maggie incrociò le braccia al petto e fece schioccare la lingua sul palato. – Non ho la minima intenzione di sentire alcun rumore proveniente da alcuno spremiagrumi durante la notte.
- Cambia appartamento.
- Sì, poi l’affitto te lo paghi da sola.
- Divento venditrice ambulante come lavoro part-time.
- E che vendi?
- I tuoi vestiti.
- Oh, fai pure, tanto ormai posso dire che il camice sia una seconda pelle.
- Sì, a lavoro. In casa come fai?
- Non ti dispiace vedermi nuda, no?
- E quando devi uscire con Brad?
Gli occhi di Maggie si illuminarono. Sorrise e puntò lo sguardo sul muro. – Nemmeno a lui spiace vedermi nu…
- Cristo, Meg!
- Facendo un discorso serio, a me non dispiacerebbe vivere nella tua stessa casa per tutta la vita. Capisci, tipo quelle vecchie zitelle circondate da gatti. Solo che tu saresti il gatto.
- Se il gatto è libero di spremersi le arance di notte senza rotture di scatole, mi va bene.
- Tres.
- Dimmi.
- Promettimi che non te la prenderai con me.
Tracy aggrottò la fronte, girandosi verso la coinquilina con uno sguardo interrogativo. Maggie si morse il labbro, grattandosi nervosamente un braccio.
- Oh, signore. Che hai fatto, stavolta? A quale stazione ferroviaria hai dato fuoco?
- Peggio.
- Peggio?
- Io… - la ragazza prese un respiro profondo. – Potrei aver minacciato il tuo ex di morte.
La giovane psicologa arricciò il naso e inarcò le sopracciglia. – Non è peggio di dare fuoco a una stazione ferroviaria, e devo dire che hai fatto anche bene, per qualsiasi motivo tu lo abbia fatto. – tirò un respiro profondo e poi puntò lo sguardo nel suo. - Ma perché lo hai fatto?
- Oggi era sotto casa e voleva vederti. Quindi, senza pensarci due volte, gli ho detto che se si fosse avvicinato a te anche solo per chiederti una sigaretta gli avrei ucciso tutta la famiglia, facendolo deprimere e di conseguenza portandolo al suicidio.
- Ma io non fumo.
- Ma non me ne frega niente se fumi o meno! Dovevo pur minacciarlo in qualche modo.
Tracy sorrise appena, grata per ciò che la ragazza faceva per lei ogni giorno, seppur in modo a volte un po’ goffo e altre un po’ esagerato. Abbassò poi gli occhi sul tavolo, respirando profondamente dal naso e facendosi prendere da una leggera malinconia inevitabile. Pensò al rapporto che aveva avuto con Alex per ben tre anni, che si era interrotto dopo essersi vista tradire dal ragazzo che amava e che aveva detto di amarla. Perché Tracy, un po’ innamorata lo era ancora, nonostante non parlasse con Alex da quando si erano lasciati, perché per chi lo aveva preceduto nelle sue relazioni non aveva mai provato emozioni tanto forti. Forse perché prima che lui entrasse a far parte della sua vita era solo una ragazzina, o forse perché aveva pensato di potersi fidare ciecamente. E ora che si era ripresentato, anche se era determinata a non riaprire quel capitolo, aveva bisogno di risposte.
La voce squillante di Maggie le fece sollevare la testa. – Oh, no, non mi dire. Tu non stai seriamente male per quel figlio di puttana. Non ancora.
- Grazie, Meg, davvero. Io ti sono grata, per tutto, ma… Ho bisogno di sapere cosa avesse da dire.
- Tu non hai bisogno di sapere assolutamente un cazzo! Più stai lontana da quel rifiuto umano e meglio starai!
Tracy si alzò dal tavolo, uscendo dalla cucina.
- Ziegler, che cazzo stai facendo? – sbottò la coinquilina.
- Sto andando a prendere il telefono.
 
 
- Cazzo… Cazzo, Tracy! – Alex corse per raggiungere la sua ragazza, prendendole una mano per fermarla e tirarla a sé mentre si lasciava alle spalle la brunetta ignara di qualsiasi cosa, che in quel momento non stava riuscendo a capire assolutamente nulla.
Tracy si voltò di scatto, fulminando il ragazzo con lo sguardo e stampandogli la forma delle cinque dita della mano destra su una guancia, facendolo poi indietreggiare.
- Dammi una cazzo di spiegazione. Dammela. – la ragazza stava tentando di trattenere le lacrime, la voce spezzata come il cuore. – Fammi sentire le tue stronzate, Alex. Vediamo se sono più stupide delle cazzo di frasi romantiche che mi dici ogni giorno a cui io ho creduto per tre anni.
Il ragazzo era nel panico più totale. Non riusciva a spiccicare mezza parola, davanti a lui la sua ragazza e dietro quella con cui la tradiva, a sua volta completamente all’oscuro di tutto. E anche lei, la ragazza dalle iridi color azzurro ghiaccio, che si erano fatte ancor più gelide, gli si avvicinò con un’espressione che faceva trapelare senza alcun filtro la rabbia che stava provando.
Tracy la guardò, con il cuore in gola che le sembrava essersi ridotto ad un cumulo di polvere. Quella ragazza era di una bellezza disarmante. Altissima, con il corpo di un’atleta. I capelli bruni erano raccolti in una coda alta che, tuttavia, le arrivava fin sotto le scapole. Si impose di non guardarla e si accorse che anche lei aveva distolto lo sguardo. Solo che, se l’altra stava fissando Alex, lei non aveva il coraggio di guardare in faccia nessuno dei due.
- Sei proprio una merda. – la voce della ragazza dagli occhi azzurri era quasi adulta, profonda. Dopo averla sentita parlare, Tracy udì il rumore dei suoi tacchi che, pian piano, si faceva sempre più lontano.
Percepì le mani di Alex sfiorare le sue e indietreggiò, non riuscendo ancora a guardarlo. Avrebbe voluto urlare, strillare, piangere, fargli capire quanto arrabbiata e delusa fosse. Tutto quello che riuscì a dire o a fare, con il groppo in gola che si faceva sempre più stretto, fu chiudere gli occhi, girandosi di spalle.
- Non provare più a parlarmi. Perché so che qualsiasi cosa dirai sarà una cazzata.
 

 
Veronica aveva paura. Era spaventata, tremava, non sapeva cosa stesse succedendo e per quale motivo i suoi genitori stessero piangendo così forte. Dopotutto, Josh stava bene. Sua madre le aveva detto così. L’aveva rassicurata, e allora perché ora piangeva, proprio lei? Si portò le ginocchia al petto, con l’ansia che le cresceva nella testa e nel torace.
Sammy, Sammy era vivo e sveglio. Lo aveva visto poche ore prima. E Josh si stava riprendendo, ne era sicura.
Quando Kelly e Karen uscirono dalla stanza dove avevano ricoverato il fratello maggiore, la ragazza puntò immediatamente lo sguardo su di loro. Erano distrutti. Gli occhi rossi, le ginocchia tremanti, la mano di sua madre stretta in quella di suo padre. Vide Karen guardarla e Veronica, incerta, le sorrise.
La donna le posò una mano sulla testa, accarezzandole i capelli. Sua figlia vide le sue labbra tremolare mentre forzava un sorriso.
- Va tutto bene, Ronnie.
Vide i suoi genitori allontanarsi, non aveva idea di dove fossero andati ma iniziò a sentirsi tremendamente sola. Non andava tutto bene. Quello non era uno sguardo felice, sollevato o sereno. Non andava tutto bene, non andava tutto bene.
E capì cosa fosse successo realmente nel momento stesso in cui Jake mise piede fuori da quella camera. Non riconobbe più suo fratello.
Il viso di quel ragazzo così timido e dolce si era trasformato in una maschera di apatia più totale. Non c’erano lacrime, nemmeno tremori. Gli occhi gelidi e immobili, la schiena curva, le spalle pesanti sotto il macigno che gli era appena crollato addosso.
Veronica vide Jake, il suo Jake, il ragazzo che aveva sempre protetto lei e Sam da tutto insieme a Josh prendere aria come se fosse rimasto in apnea per ore. Suo fratello le si avvicinò, deglutendo con difficoltà il nodo che gli stringeva la gola. Veronica lo fissò ancora, finché il ragazzo non le si avvicinò, avvolgendole le braccia esili attorno al corpo scosso dai brividi. Si sentì stringere forte, disperatamente. E a sua volta lo strinse spasmodicamente, scoppiando in un pianto muto, privo di qualsiasi rumore. Solo lacrime che bagnavano la maglia del maggiore e il dolore silenzioso della morte che, in quell’abbraccio, sembrava essere meno spaventoso.
E dopo interminabili minuti, la voce distrutta di Jake interruppe quel silenzio.
- Andiamo a casa, Ronnie.
 
 
La ragazza continuò ad accarezzare dolcemente i capelli di suo fratello, passando le dita tra le ciocche scure mentre lo teneva stretto contro il suo petto, sentendolo respirare lentamente. Quella era una situazione che, da un anno a quella parte, si era ripetuta spesso. Ma a Veronica non dava fastidio. Anche se la preoccupava leggermente, la faceva star bene il pensiero che Jake, dopo essersi svegliato dopo un incubo, le chiedeva di dormire insieme a lei per sentirsi al sicuro. Come fa un bambino che, impaurito dal buio della propria cameretta, sguscia nelle coperte del lettone dei genitori per smettere di avere paura.
Quella sera, il buio aveva spaventato Jake più del solito. Ma appena era scivolato tra le braccia di sua sorella, era riuscito a chiudere gli occhi ed addormentarsi, un po’ più sereno e tranquillo.
Veronica gli aveva cantato una canzone che Karen, quando i quattro fratelli erano piccoli, intonava sempre per farli addormentare. Aveva continuato sottovoce, accarezzandogli i capelli e stringendolo forte fino a che non aveva sentito il suo respiro farsi più lento e più profondo, fino a vederlo addormentarsi tranquillo sul suo petto.
Jake l’aveva protetta per tutta la vita. L’aveva aiutata a rialzarsi dopo le cadute, a reagire quando qualcuno la faceva star male. E se la ragazza era diventata così forte, così sicura e sveglia, era anche per merito di suo fratello e di Josh. Ora che c’era solo Jake, dovevano badare l’uno all’altra. Dovevano sostenersi a vicenda per non crollare.
E, ogni volta che Jake era sul punto di cadere, sentiva sempre la mano di Ronnie afferrare la sua per tirarlo su e viceversa.
Veronica abbassò la testa, sollevando la coperta per tenere Jake al caldo, per proteggerlo dal freddo. Sistemò meglio il cuscino sotto la propria testa per far stare più comodo anche il fratello maggiore, lasciandogli un bacio sulla fronte e restando a guardarlo per accertarsi che dormisse sereno.
Sembrava, effettivamente, tranquillo. Le ciglia scure erano appoggiate sugli zigomi sporgenti, le labbra schiuse da cui, intermittenti, uscivano piccoli sbuffi. Sorrise osservando quella calma che, forse, Jake aveva solo dormendo. Tornò a stringerlo, respirando il suo odore così familiare.
Si accorse delle prime luci del mattino che illuminavano la stanza, e sbadigliando si rese conto di aver dormito poco e niente per vegliare sul fratello. E, tuttavia, le andava bene così.
Rimase in quella pozione per ore finché, finalmente, sentì Jake muoversi tra le sue braccia, e quando abbassò la testa vide due occhi scuri come pozzi guardare la finestra davanti a loro, assonnati e socchiusi. Sorrise, accarezzandogli le ciocche scure per dargli il buongiorno. Aveva dormito tantissimo e questo sollevava la ragazza, la quale non vedeva Jake riposare decentemente da giorni.
Jake batté le palpebre e alzò lo sguardo sulla sorella, sbadigliando.
- Quanto ho dormito? – la voce era flebile, impastata e sottile.
- Quanto dura la primavera?
Jake sorrise appena alla risposta della ragazza, che puntò lo sguardo sull’orologio a muro. - Hai dormito per ben dieci ore, fratellino.
- Addirittura?
- Oh, sì. Pensa che ad un certo punto ho dovuto controllare se respirassi ancora.
Il fratello sbadigliò sonoramente, scivolando via dalle braccia della sorella per stiracchiare gli arti superiori. Poi la guardò, vedendo sbadigliare anche lei. – Sei rimasta sveglia per tutta la notte?
- Diciamo di sì.
Jake spostò lo sguardo sulle coperte. Non avrebbe nemmeno saputo esprimere tutta la gratitudine che stava provando in quel momento e fu fiero della ragazza forte e gentile che stava diventando sua sorella. Si rese conto, in quell’istante, di quanti sforzi facesse Veronica per farlo star bene, per farlo sentire al sicuro. Non era più arrabbiato con lei per aver prenotato la prima seduta al posto suo, le era ancora più grato per non averlo abbandonato dopo tutte le parole avvelenate che le aveva detto. Ma, dopotutto, lo sapeva. Sapeva che non lo avrebbe mai abbandonato e che sarebbe rimasta sempre dalla sua parte, perché era sua sorella come lui era suo fratello. E, come Jake avrebbe fatto qualsiasi cosa per farla sentire al sicuro, sapeva che lo avrebbe fatto anche lei.
- Grazie, Ronnie. – sussurrò. E riconobbe la sua stessa voce, che dall’anno prima gli sembrava non appartenergli più.
La ragazza rise, battendogli un piccolo pugno sulla spalla. – Grazie a te per non aver russato, almeno stanotte.
 
 
- Josh, che cazzo, spostati!
- Nana, dove hai imparato questa parola ignobile?
- E tu dove hai imparato la parola “ignobile”?
- Stai zitto, Jake, tu non c’entri niente.
- Jake, Josh continua a punzecchiarmi con le sue costole!
- Ma sto respirando!
- Mi spiace, io non c’entro niente.
- Sei un gemello davvero pessimo. Te ne lavi le mani come Ponzio Pilato.
- Ha le mani sporche? Jake, mi hai toccato con le mani sporche?
- Sam, sei un cretino.
- Josh, Ronnie mi insulta!
- Che succede, qui? – la voce dolce di Karen attirò gli occhi di tutti e quattro i bambini sulla donna, che era convinta si fossero addormentati da un bel po’.
- Josh mi dà fastidio.
- Non ci credo, sei un’arpia!
- Joshua, non rivolgerti così a tua sorella.
- Ma lei dice bugie!
- Jake non si è lavato le mani, mamma.
- Jake!
- Ma non è vero!
- Oh, beh, se tuo figlio si lamenta perché l’altro tuo figlio non si è lavato le mani ti arrabbi, ma se Josh mi rompe tu non gli dici niente!
- Bene, va bene, formichine. – esordì Karen, facendosi spazio nel grande letto in cui aveva infilato i bambini nella casetta di campagna che avevano affittato per l’estate. Si infilò al centro del letto, con Sam e Jake alla sua sinistra Josh e Veronica sulla destra. I figli la guardarono con aria interrogativa, sospettosi e incuriositi.
- Ve la ricordate la favola dei tre porcellini?
- Sì. – risposero i bimbi, in coro.
- E vi ricordate come fanno, i porcellini, a cacciare il lupo cattivo?
- Voglio dirlo io! – esclamò Sam, ricevendo un’occhiataccia da Jake. – No, lo dico io.
- Io la conosco meglio di voi! – piagnucolò l’unica bimba tra i quattro.
- Bene, visto che Josh non sta litigando, ce lo dirà lui. – s’intromise Karen.
Il più grande sorrise soddisfatto, prendendo un respiro profondo. – I due porcellini che avevano costruito la casa di paglia e la casa di legno si rifugiano nella casa di mattoni del fratello, che il lupo cattivo non può soffiare via.
- Esatto, Josh. E sapete cosa vuol dire?
I bambini guardarono la mamma sempre più confusi. Karen sorrise, abbracciando i quattro fratelli. – Significa che, come ha fatto il terzo porcellino, un fratello non si abbandona mai. Quando gli altri avevano bisogno di lui, il maialino li ha accolti nella sua casa di mattoni e li ha protetti dal lupo. E così dovete fare voi. Non importa se vi fanno arrabbiare, se non si lavano le mani o se vi infastidiscono. Dovete sempre sostenervi, sempre. Perché un fratello è più di un amico, un fratello ci sarà sempre, non vi abbandonerà, se voi non abbandonerete lui.
I piccoli si guardarono, un po’ straniti ma con i visi sereni e pronti a perdonarsi. Karen sorrise, sgusciando via dalle coperte rimboccandole per riscaldare i bambini. Diede a tutti e quattro un piccolo bacio sulla fronte, convinta di lasciarli più tranquilli e più uniti.
Solo che, quando spense la luce, la voce sottile di Jake ruppe il silenzio.
- Comunque, io le mani le avevo lavate.
 

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Capitolo 6
*** Capitolo quinto ***


Jake portò le mani sulla schiena della ragazza accarezzandole la pelle ambrata, il fiato corto gli usciva dalle narici dilatate mentre premeva le proprie labbra su quelle di lei. Con una fretta che quasi non gli apparteneva lasciò che le proprie dita si infilassero sotto al suo maglione, sfiorando ogni pezzo della sua pelle mentre la ragazza gli accarezzava gli zigomi sporgenti. Si staccarono per pochi attimi solo per permettere a Jake di sfilarle l’indumento, facendo incontrare la schiena della sua ragazza con il morbido materasso.
Jake approfittò di quell’istante per guardarla, osservarla in quella frazione di secondo che i loro sguardi riempirono come una mattinata.
Jita. Quella ragazza dolce e bellissima, quella di cui Jake si era innamorato dal primo momento, da quella prima volta in cui, dopo averla vista, si era fatto andare l’insalata di traverso, scaturendo la sua preoccupazione e facendo nascere, subito dopo, un sorriso sulle sue labbra piene.
E ora lei era lì proprio grazie alla pessima figura che il ragazzo aveva fatto due anni prima. Sotto il suo sguardo, con le guance brunite arrossate, gli occhi lucidi d’eccitazione e i capelli scuri e morbidi sparsi sul cuscino. E Jake, nel suo sguardo, vedeva tutto il disagio e la vergogna delle prima volte in cui avevano fatto l’amore sparire, sapendo quanta sicurezza avesse acquistato la ragazza anche grazie a lui e al suo modo di farla sentire.
Lui che, le sue insicurezze, le aveva sempre viste bellissime.
Jita diceva di odiare i suoi fianchi ampi, le sue forme generose, le gambe piene, la pancia non esattamente piatta e il corpo a forma di clessidra. Non le piacevano il colore della sua pelle, i suoi capelli spessi e i suoi piedi piccoli. Ma Jake, senza dire niente, con i suoi modi gentili e le sue carezze, aveva contribuito a farle acquisire molta più sicurezza. Certo, la sua immagine nello specchio non era esattamente ciò che avrebbe voluto vedere, ma quando era con lui si vedeva sempre bellissima.
Circondò le spalle del ragazzo con le braccia accarezzandogli la nuca, beandosi dei suoi baci e delle sue attenzioni.
- Ti amo.

- Come si chiamava la canzone che mi hai suonato ieri?
- Te ne ho suonate tante, amore.
- L’unica che non conoscevo! – Jita alzò lo sguardo su Jake continuando a sfiorargli la pelle chiara con movimenti circolari delle dita, facendo nascere un sorriso sulle labbra del suo ragazzo.
- Oh, quella che ti ha fatta piangere, dici?
- Stupido, stavo cercando di non dirtelo.
- Per questo te l’ho ricordato.
Jita sorrise e alzò gli occhi al cielo, sentendo le labbra di Jake posarsi sulla sua fronte.
- Si chiama “Riverside” ed è degli America. Le loro canzoni non sono molto conosciute, in effetti. – il ragazzo arruffò i capelli dell’indiana e le sorrise. Un sorriso che a Jita parve dolce come il miele, uno di quelli che solo Jake, raramente, sapeva fare. Era un sorriso timido, ma quando glielo rivolgeva le si illuminavano gli occhi proprio come a lui. La ragazza si strinse maggiormente al torace magro del musicista, sentendo il suo cuore battere forte. Il sorriso genuino di Jita si trasformò in un’espressione malinconica, triste. Perché sapeva che momenti come quello sarebbero potuti capitare nuovamente solo poche volte, o forse nessuna, e lei non poteva farci assolutamente nulla. Una lacrima le rigò la guancia e seppellì il viso nel collo del ragazzo, che piegò appena la testa per guardarla.
Come avrebbe potuto non accorgersene, dopotutto? Notava qualsiasi cosa. Ogni piccolo dettaglio. E a volte stava zitto, perché non sapeva cosa dire o per non peggiorare la situazione. Altre, invece, non riusciva a lasciar perdere, soprattutto se si trattava di persone come lei, e Jita l’aveva imparato anni prima.
Sentì le mani di Jake accarezzarle dolcemente i capelli scuri, percependo il suo sguardo su di sé.
- Jita? – lo udì sussurrare dolcemente.
Si affrettò ad asciugarsi le lacrime, traendo un respiro profondo e tirando le labbra in un sorriso. Sollevò la testa per guardarlo e scrollò le spalle.
- Ho ottenuto il posto a Cambridge.
Gli occhi di Jake si illuminarono e un enorme sorriso gli comparì sulle guance. Sapeva quanto Jita tenesse ad entrare in quell’Università, quanto amasse l’idea di poterne essere una studentessa e quanto avesse studiato per raggiungerla. Jita adorava la cultura, il contatto con la gente. E Jake non aveva mai visto una ragazza più sveglia ed intelligente di lei.
Il ragazzo la strinse forte a sé, baciandola con il cuore che gli batteva forte. Sentì Jita ridere contagiosamente e avvicinò le labbra al suo orecchio. – Non ne ho mai avuto il minimo dubbio.
E lei sapeva che l’avrebbe sostenuta. Glielo aveva promesso da subito e lui era stato la prima persona a cui l’aveva detto.
Solo che, in quel momento, Jita riusciva già a sentire la mancanza delle sue carezze, dei suoi baci, dei suoi abbracci e del suo odore. E le lacrime ricominciarono a scendere, copiose, in un pianto silenzioso e singhiozzato.
- Non voglio lasciarti.
Jake sentì il cuore sprofondare. Indubbiamente anche lui sapeva che ci sarebbe stato malissimo, ma sentire quelle parole lo faceva stare ancora peggio. Sospirò, accarezzando i capelli scuri della ragazza. – Guardami. Guardami, Jita.
Vide due occhi castani e lucidi sollevarsi e puntarsi nei suoi. Jake le rivolse un sorriso dolce, tranquillo, incoraggiante e le lasciò un bacio sulle labbra. - Io ti amo. Ti amo talmente tanto da essere pronto a vivere in un continente diverso dal tuo se so che sei felice e che stai bene, e non m’importa se mi mancherai da morire, non mi interessa se non potrò più sfiorarti. Non se questa vita non è quella che desideri. E per nessuna ragione al mondo potrò essere arrabbiato con te o darti la colpa per qualsiasi cosa. – si lasciò andare a una risata leggera. – Quindi, per ora tieni a bada i tuoi pensieri. Sentiti libera di fare ciò che vuoi, qualsiasi cosa. E quando sarai su quell’aereo, pensa che io sarò sempre dalla tua parte.



- Jita.
Jake non ebbe il tempo di dire nient’altro che sentì due braccia familiari avvolgergli il collo. Tanto familiari, troppo, nonostante non le sentisse sulla sua pelle da più di un anno. Appena l’aveva vista, dietro la sua porta, il cuore gli si era fermato per un momento. Bella, bellissima come la ricordava. Con l’unica differenza che l’effetto che gli faceva non era più lo stesso, ma non perché non le volesse bene o perché la sua opinione su di lei fosse cambiata. Forse, semplicemente, era lui a non essere più… Lui. A non essere più Jake.
Ricambiò l’abbraccio, chiedendosi perché fosse lì, perché non fosse in Inghilterra a coltivare il suo sogno. Non la vedeva e non la toccava da così tanto tempo, anche se ricordava tutto di quel giorno, ogni singolo istante che aveva passato con lei per l’ultima volta. Il suo profumo era lo stesso, i suoi capelli morbidi gli sfioravano il naso e le labbra.
E Jita, dal suo punto di vista, lo vedeva così diverso. Quel ragazzo in salute, dal sorriso genuino e gli occhi luminosi che ricordava aveva perso tutta la sua luce. Jake era magrissimo, pallido da far paura. Lo sguardo spento, i vestiti troppo larghi, il sorriso solo accennato che non nascondeva la sua sofferenza, che non privava lo sguardo di Jita del fardello che si portava dentro.
Appena aveva saputo della morte di Josh aveva cercato di essere più vicina possibile sia a lui che al resto della famiglia Kiszka, ma dall’appartamento i cui abitava, col mare che la divideva dalla città in cui aveva vissuto per anni, non aveva potuto fare molto.
Quello era stato l’unico momento di respiro che aveva trovato per prendere un aereo e tornare da Jake, avendo saputo da Veronica le condizioni del ragazzo e tutto ciò che stava passando.
Appena sciolse l’abbraccio gli sorrise. Un sorriso triste, preoccupato, malinconico. Gli aveva passato le dita sulla guancia ossuta e lo aveva visto sospirare, girarsi verso la piccola casa in cui aveva trascorso infanzia e adolescenza.
- Vuoi entrare? – aveva sussurrato il ragazzo con voce roca e flebile e Jita aveva annuito, seguendolo all’interno.

- Come stai, Jake?
Lo sguardo del ragazzo si fermò sul pavimento. Non avrebbe nemmeno potuto mentire, perché Jita lo avrebbe capito in ogni caso. Lo conosceva troppo, sapeva comprenderlo, sapeva capirlo. E averla accolta in casa dopo essere tornato da una seduta non lo aiutava a distrarsi molto.
“Diglielo, tira fuori qualcosa, anche minuscola. Liberati, sfogati”, si era suggerito prima di fare il proprio ingresso nello studio della dottoressa Ziegler. E invece, come sempre, non aveva detto nulla. Non aveva nominato Josh, né Sam. Zitto, muto. Con un nodo in gola che si era portato dietro.
Trasse un respiro e puntò gli occhi in quelli della ragazza, accennando appena un sorriso. – Io… Sono felice di rivederti.
Ed era vero, ne era felice. Lei gli era mancata e averla lì gli permetteva di prendere aria, di distrarsi un po’. Solo che vedere il suo sguardo triste, apprensivo e nervoso gli ricordava il motivo per cui Jita in quel momento non stesse ridendo con lui come succedeva l’anno prima.
La sentì sfiorargli il braccio dolcemente, la vide rilassare il viso tirato. – Sono tanto felice anch’io.
- Come… Come sta andando, a Cambridge? – il musicista si affrettò a cambiare argomento, sentendo la pressione aumentare.
- Bene. Devo dire, molto bene. – annuì la ragazza. – Gli esami procedono e i voti sono buoni. Certo, studio tanto, tantissimo. Però sto bene. Ho una coinquilina che però ti sarebbe stata davvero poco simpatica.
- Oh, davvero?
Jita rise appena, scrollando le spalle. – Non è decisamente il tuo tipo, già.
Gli occhi scuri della ragazza si puntarono nei suoi. Dolci, gentili. E Jake odiò non potersi godere quello sguardo appieno. Odiò il fatto di non riuscire più ad amarla.
Si erano lasciati il giorno in cui lei era andata via, lo avevano deciso insieme ma erano rimasti sempre in contatto, senza privarsi di fare nuove conoscenze. E se un giorno si fossero di nuovo incontrati, avrebbero potuto riscoprirsi.
E ora lei era lì, anche se non sapeva per quanto. Ma Jake non riusciva a provare niente se non un affetto smisurato per quella ragazza così forte e buona che per lui c’era sempre stata, anche a chilometri di distanza, che era tornata lì solo per fargli un po’ di compagnia.
- Tu sei già arrivato a stupire Eric Clapton con il tuo talento?
- I-io… - pensò all’SG rossa chiusa nella custodia. Pensò ai Greta Van Fleet, alle proprie dita sullo strumento che era diventato parte di sé, all’amore per la chitarra che lo aveva accompagnato fin da bambino e che lo aveva fatto suonare fino a farsi sanguinare le dita. Alle prove con Josh, Danny e Sam.
A quante volte aveva suonato per Jita.
Strinse gli occhi e ingoiò il nodo che aveva in gola. – Io non… Non suono più, Jita.
La ragazza aggrottò la fronte. – Che vuoi dire?
- Non prendo la chitarra dal giorno prima che Josh morisse.


Jake sistemò meglio la chitarra che aveva sulle proprie gambe, l’acustica che Josh gli aveva regalato anni prima. Guardò il ragazzo riverso nel letto e gli accarezzò lievemente le dita, sporgendosi oltre il proprio strumento musicale.
“Se potessi fare una cosa per tutta la vita, sarebbe sentirti suonare”, gli aveva detto Josh un giorno, sdraiato con le mani dietro alla testa su un amaca all’ombra di un albero.
E Jake pensava sempre a quella frase, ogni volta che entrava in ospedale con la chitarra sulle spalle. Suonava piano, con delicatezza e dolcezza, come se quasi avesse paura di svegliarlo, nonostante in realtà fosse l’unica cosa che desiderava.
Josh avrebbe aspettato che finisse - magari con una canna in bocca - e poi gli avrebbe sorriso. E in quel sorriso Jake ci avrebbe visto ogni sua emozione. Avrebbe visto l’orgoglio di suo fratello, quello che più lo rendeva fiero di sé.
Jake respirò profondamente, posizionando le dita sottili e lo sguardo stanco sulla tastiera. Fece pressione sulle corde, stringendo gli occhi lucidi,
- Because I’m still in love with you. – intonò con voce tremante, cambiando la posizione delle dita sulla chitarra.
- I want to see you dance again. – un singhiozzo scosse il petto di Jake.
- Because I’m still in love with you, on this harvest moon. – e quando i singhiozzi non gli permisero più di cantare lasciò la chitarra appoggiata al muro, afferrò saldamente la mano del gemello e si lasciò andare sul petto di Josh, bagnandogli il pigiama con le proprie lacrime.
Avevano suonato insieme quella canzone per anni, appena scoccavano le dieci e mezza della sera del ventitré Aprile, l’orario in cui erano nati. Karen la cantava spesso quando erano piccoli per farli addormentare. E non poter sentire la voce di Josh insieme alla sua faceva male ed era così strano.
Era come se lo avesse abbandonato senza volerlo. Ma Jake sapeva che Josh non lo avrebbe mai lasciato da solo.
Quando da bambino piangeva, urlava e strappava le pagine dei libri dopo aver tentato svariate volte di riuscire a battere la propria dislessia Josh lo guardava, lo aiutava a raccogliere i pezzi di carta sparsi sul pavimento e lo tranquillizzava, leggendogli piano le frasi e indicando pazientemente ogni lettera. Non importava quanto tempo ci avrebbe perso. L’importante era che Jake sarebbe stato più sicuro, il giorno dopo a scuola.
Ricordò di quando, a dieci anni, i compagni di classe lo avevano preso in giro per la sua lentezza nella lettura di un brano e Josh aveva fatto finta di cadere dalla propria sedia, attirando l’attenzione su di sé per difenderlo.
E ora lui non poteva fare niente per far stare meglio Josh. Non poteva fare assolutamente niente.
Perché il coma non era un bulletto di una scuola elementare. E, di certo, non lo era nemmeno la morte.
Jake pianse fino a non avere più voce né fiato. Strinse le dita di Josh fino a vedere le proprie nocche diventare bianche.
Ed ebbe paura che sarebbe rimasto senza di lui, solo con la sua dislessia e con i bulli. Con il buio e i mostri che ci si nascondevano.
Però Josh si sarebbe svegliato.
Sarebbe tornato da lui e lo avrebbe protetto da tutto.




- Pronto?
- Piper, Piper ciao. Sono… Tracy – la ragazza respirò profondamente stringendo forte il cellulare. Appena Maggie sentì quel nome aggrottò la fronte e fissò la coinquilina, mimando con le labbra un “chi cazzo è Piper?”
Tracy la liquidò con un gesto della mano e la ragazza sbuffò pesantemente, allargando le braccia e sbattendole poi contro i fianchi.
La giovane psicologa sentì un silenzio tombale dall’altra parte del telefono per circa trenta secondi. Passati i trenta secondi, sentì un sussurro che, però, riuscì ad udire benissimo: - Ma guarda tu ‘sta stronza.
Tracy arricciò le labbra e lasciò cadere le spalle. – Avresti dovuto allontanare un po’ il telefono.
- Ma Tracy chi?
- Tracy Ziegler.
- Ah, sei "nome di merda" .
Altri trenta secondi di silenzio. Questa volta da parte di Tracy.
- Guarda, potrei chiamarti troia tante volte quanto potresti tu.
- Non ho alcuna intenzione di darti della troia. – sospirò Tracy incrociando le braccia al petto.
Vide l’espressione di Maggie farsi ancora più confusa.
- E allora che vuoi?
- Ricordi quando mi hai dato il tuo numero di telefono, dicendomi di chiamarti appena quell’idiota si fosse ripresentato alla mia porta?
- Non credo di essere diventata già così vecchia da non riuscire a ricordarmelo.
- Bene. E’ successo.
- …
- Piper?
- Posso dirti che sei una cretina?
- Be’, non è proprio carino ma se ne hai questo bisogno impellente credo che…
- Se mi dici dove abiti, sarò lì in cinque minuti.


Lo schiaffo le arrivò dritto sulla guancia e sentì un dolore bruciante sulla pelle chiara. Vide due occhi azzurri e quasi feroci fissarla che, anche se ora riusciva a vedere e a capire qualcosa di ciò che la circondava, certamente non la fecero sentire granché meglio.
- Svegliati, Cristo! Reagisci, non sono un fantasma. Non sono Alex. – la voce quasi adulta della ragazza davanti a sé la fece tornare con i piedi per terra e la vide protendere una mano verso di lei.
Si rese conto di essere seduta sul marciapiede dell’università e di avere le braccia strette attorno alle ginocchia.
L’aveva rivista dopo solo una settimana per la seconda volta, quella ragazza di cui fino a pochi giorni prima non conosceva il viso, di cui ancora non conosceva il nome e questo, su di lei, non aveva fatto un effetto particolarmente gradito. Guardò titubante quella mano, decisa a non prenderla.
Vide la ragazza sbuffare. – Muoviti, non ti butterò addosso dell’acido.
Tracy tenne lo sguardo fermo su quel palmo e, dopo interminabili istanti, lo afferrò. Si sentì tirare su da terra e percepì un dolore acuto alle ginocchia mentre si rimetteva in piedi.
La ragazza dagli occhi azzurri le strinse la mano, per poi lasciarla e incrociare le braccia al petto. – Sono Piper.
- Non… Non mi interessa. – Tracy deglutì, allontanando lo sguardo.
“Piper” sollevò le sopracciglia e storse il naso. – Come ti pare. Però mi piacerebbe sapere che la tizia con cui sono stata tradita abbia almeno un bel nome.
- Tracy. Mi chiamo Tracy.
- Che nome di merda.
La studentessa alzò gli occhi sulla ragazza. La analizzò meglio, cosa che non aveva avuto la forza di fare la settimana prima. Non che in quel momento fosse particolarmente allegra.
Indossava un giubbotto di jeans grigio, pantaloni militari e anfibi neri. Gli occhi color azzurro ghiaccio che le erano a primo impatto sembrati gelidi in quel momento le apparivano annoiati e incuranti, ma un attimo prima quasi allarmati. I capelli lunghissimi e neri erano appena mossi e la ragazza era ancor più alta di come Tracy ricordasse. Il corpo era atletico e snello, le sopracciglia folte facevano sembrare ancora più intenso il suo sguardo. Nonostante l’aria aggressiva era di una bellezza disarmante, e nonostante Tracy avesse acquisito negli anni molta sicurezza in se stessa, davanti a Piper si sentiva tremendamente piccola. E non solo per la propria statura.
- Dovresti ringraziarmi, “nome di merda”. Sei scivolata sul pavimento letteralmente terrorizzata. Sembrava avessi visto Stalin.
- Non… Non potevi cercare un paragone più…
- Ascolta, studio statistica, non lettere.
- Cosa c’entra lettere?
- Mio Dio, ma che palle. – sbuffò Piper. – Su, ti accompagno a casa. Avrai le gambe molli come gelatina.
Tracy aggrottò la fronte, convinta di aver capito male. Alzò le mani all’altezza delle spalle. – No, non ho bisogno di essere accompagnata da nessuna parte. E poi sei l’amante del mio ex. Potresti potenzialmente essere una psicopatica e…
Sentì le mani della ragazza posarsi sulle proprie spalle e vide gli occhi chiari puntarsi nei suoi. – Che studi?
- Che…
- Non ho tutto il tempo, smettila di fare domande!
- Ma me l’hai fatta tu!
- Non si risponde con una domanda ad una domanda.
La studentessa batté le ciglia un paio di volte, per poi sospirare. – Psicologia.
- Ecco, bene, lo avevo capito. – Piper arricciò le labbra e si morse quello inferiore. – Dammi il tuo telefono.
- Ma che stai dicendo?
- Allora dammi un cazzo di foglio e una matita!
- Sono nel mio zaino. Ce lo hai tu.
Piper puntò lo sguardo in basso a destra, piegandosi per prendere lo zaino marroncino dal marciapiede. Lo aprì e ne estrasse una penna e un blocco a caso, scribacchiandoci sopra qualcosa che Tracy non riuscì a vedere. Quando rimise tutto al proprio posto la guardò porgendole lo zaino. – Ti ho scritto il mio numero, sulla prima pagina. E appena Alex si ripresenterà alla tua porta, chiamami.
Alla ragazza sembrò la cosa più assurda che le sue orecchie avessero mai sentito. La ragazza con cui il suo ex la tradiva le aveva detto una frase del genere, seriamente?
- E io dovrei fidarmi di te?
- TI ricordo che anche io non ero a conoscenza di nulla. Quindi, dovrei avercela con te quanto tu ce l’hai con me.
- Vorresti farlo per far in modo che lui non si ripresenti alla mia di porta, ma alla tua? Complimenti, davvero un ragionamento che fa onore.
- Ma che cazzo dici? – sbuffò Piper. – Non è niente contro di te. Può essere solo contro quel cretino.
- Non ti conosco, non so chi tu sia.
- Fai quello che ti pare. – la ragazza scrollò le spalle e girò i tacchi. – Se però un giorno sarai curiosa di sapere che cos’ho in testa, il numero è lì dentro.



I capelli di Piper erano molto più corti di come ricordava. Le arrivavano alle spalle, le punte erano ondulate e voluminose. La maglia bianca a maniche corte la slanciava ancora di più, abbinata ai jeans blu a zampa che le avvolgevano le gambe. Guardava il cellulare appoggiata alla propria bicicletta, sbuffando di tanto in tanto.
La giovane psicologa infilò gli occhiali da sole e attraversò la strada che divideva i due marciapiedi, raggiungendo la ragazza. Sorrise, guardandola attraverso la montatura. - Ti ho fatta aspettare?

Una volta arrivata sotto l’edificio di Alex, Tracy vide gli occhi azzurri di Piper guardare i propri e la osservò mentre infilava il telefono nelle tasche. – Io e te siamo lesbiche.
Per la seconda volta, Tracy fu convinta di aver capito male dopo una frase della ragazza. Aggrottò la fronte, inclinando la testa da un lato. – Come?
- Sì, siamo lesbiche. Almeno per oggi.
- Ma che significa? E perché siamo qui?
- Perché questo qua è un mammone e ogni domenica sera la passa da mamma e papà.
La ragazza iniziò a farsi più sempre più domande. E lì capì che, con Piper, farsi domande era abbastanza inutile.
Infilò le dita tra i ricci castani e sospirò, quasi rassegnata. – Perché dovremmo essere…
Sentì la ragazza urlare, gridare talmente forte da spaventare persino un gatto sul marciapiede di fronte. E, ovviamente, tutte le finestre degli edifici si spalancarono, rivelandone i proprietari. Tra cui Alex e i genitori di Alex. E il cane di Alex.
Tracy si sentì afferrare con forza per la giacca, strabuzzò gli occhi sempre più stupita e non ebbe nemmeno il tempo di muoversi e di domandarsene il perché che sentì le labbra fresche di Piper premersi sulle sue, sotto gli occhi di tutto il quartiere.
E, soprattutto, sotto gli occhi di Alex.
 

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Capitolo 7
*** Capitolo sesto ***


- Comunque dovremmo venire a mangiare indiano più spesso.
Jake annuì all’affermazione di Josh, prendendo un sorso d’acqua dopo aver assaggiato la sua insalata. Sentiva il coriandolo sulle papille gustative e l’odore del locale gli inebriava le narici. Era ben tenuto, pulito e ben arredato: le pareti erano color ocra ed erano ornate con motivi morbidi e rilassanti alla vista, sulle tovaglie erano disegnati degli elefanti, le sedie erano di legno pittato di rosso e sopra alla porta della cucina era posto un quadro rappresentante il dio Shiva. Il genere di posto che piaceva soprattutto al suo gemello, che in quel momento si stava gustando il proprio antipasto.
Anche Danny e Sam sembravano gradire, nonostante il più piccolo avesse gli occhi incollati allo schermo del proprio cellulare. Josh colse la prima occasione per sfilarglielo dalle mani e infilarselo nello zaino, facendo strabuzzare gli occhi del fratello minore. – Ma che fai, idiota? Sto…
- Parlerai con la tua promessa quando te ne starai da solo in camera tua, non mentre siamo a tavola tutti insieme.
- Ma senti questo. Hai ventun anni e ti comporti come mia madre.
- Tua madre è anche mia madre, e mi ha insegnato che è irrispettoso fare sexting mentre si mangia.
- Non stavo facendo sexting!
- Sei fortunato, ho già messo il telefono in stand by e non so il tuo pin, quindi non posso controllare.
Lo scambio di battute fece apparire un sorriso sui visi di Jake e Danny, che si stavano godendo la scena. Jake, però, vedeva che effettivamente Danny aveva qualcosa che non andava. Da quando Joy e Sam avevano iniziato a frequentarsi, vedeva il povero batterista sempre un po’ abbattuto e se ne chiedeva il perché. Insomma, si notava che Danny fosse felice per il suo migliore amico, ma era sempre molto giù quando Sam parlava di Joy in quel modo così dolce.
- Gradite il vostro antipasto? – i pensieri di Jake furono interrotti da una voce femminile, e appena alzò la testa per guardare la cameriera davanti a sé il suo respiro si arrestò. Un sorriso luminoso piegava le labbra di una ragazza dai tratti orientali, con la pelle ambrata e lunghi capelli scuri. Le forme del suo corpo erano sinuose e morbide, armoniose. Le ciglia erano lunghe e scure, ma ciò che la fece risultare bellissima agli occhi di Jake era il suo sorriso: era sincero, associato allo sguardo per niente annoiato o scocciato, la lunga fila di denti allineati e bianchi emergeva dalle sue labbra rosate e due fossette le ornavano le guance. Jake si accorse di non riuscire più a respirare.
Letteralmente.
Tossì un paio di volte, sentendo gli occhi lacrimare e la gola bruciare. Riuscì a vedere lo sguardo della ragazza, di Danny e dei suoi fratelli cambiare e sentì Josh sbattergli il palmo della mano sulla schiena. Vide la cameriera arrivargli alle spalle e sentì una forte pressione tra lo sterno e l’ombelico per una, due, tre volte finché, finalmente, riuscì a tossire la foglia d’insalata che gli si era incastrata in gola. Respirò a fondo e recuperò fiato con i polmoni che lo ringraziavano.
- Cristo, Jacob, impara a mangiare. – sospirò Josh sollevato e bianco in viso.
- Oh, Dio, tutto a posto? – gli chiese la ragazza con un tono di voce evidentemente preoccupato. Jake si accorse che chiunque nel locale lo stava fissando e, ancora ansimante, riuscì ad abbozzare un sorriso, facendo tornare lo sguardo della gente sui propri piatti.
Guardò la cameriera che gli aveva appena salvato la pelle – stava per morire in modo decisamente imbarazzante – e iniziò a balbettare, sentendosi ancora più stupido: - Io… Sì, sto bene, sto… Tutto a posto, insomma, grazie, tu… - cacciò un altro colpo di tosse. – Mi hai appena salvato la vita, dio, non so come…
La ragazza, però, sembrava comunque decisamente preoccupata. Certo, vedere un cliente rischiare di morire soffocato nel ristorante in cui lavorava non doveva essere proprio il massimo. – E’ sicuro? Le fa male da qualche parte o… Vuole dell’acqua?
- Sono a posto, davvero. – Jake la rassicurò sorridendole e la vide rilassarsi, ricambiando il sorriso.
- Vi lascio ai vostri piatti. Se avete bisogno di qualcosa, non esitate a chiedere. – sospirò la ragazza, sorridendo ancora per poi allontanarsi, non prima di aver pulito il disastro sul pavimento. E appena andò via, Jake sentì gli occhi degli altri tre puntarsi su di lui come zanzare. Li guardò uno ad uno, aggrottando la fronte. – Ma che cazzo guardate?
- Cazzo, chiedile di uscire! – esordì Josh. E se avesse avuto la bocca piena, probabilmente il chitarrista sarebbe soffocato di nuovo.
- Eh?!
- Abbiamo visto tutti come la guardavi, Jake. – sorrise Danny. E Sam, appoggiando il gomito sulla sua spalla, chiuse gli occhi. – Da togliere il fiato!
- Ma siamo sicuri che in questi piatti non ci siano funghi allucinogeni? – sospirò Jake.
Josh alzò gli occhi al cielo. - Tesoro, ti conosco meglio di quanto io conosca me stesso. E poi lo sappiamo tutti che non sai mentire. Molli adesso o quando arriviamo a casa, quando sarà troppo tardi per chiederle di uscire?
- Non posso semplicemente andare da lei e chiederglielo!
- E perché no?
-E’ inopportuno ed è stupido.
- Io lo farei.
- Appunto!
- Se non glielo chiedi tu, glielo chiedo io. E poi all’appuntamento ti presenti tu.
- Ma è Catfish.
- Stai zitto, Sam.
- Se glielo chiedo, devi darmi dieci dollari.
- Ma col cazzo.
- Cinque.
- E sia.
 
- Hai freddo? – sussurrò Jake, guardando Jita tremolare leggermente. Quella serata stava andando così bene. Erano in perfetto accordo, sentivano di poter parlare di tutto, riuscivano a ridere per qualsiasi cosa dicesse l’altro e le loro dita si erano già sfiorate diverse volte, facendo battere forte i cuori di entrambi. La ragazza annuì appena e gli sorrise, sedendosi sulla panchina e facendo cenno a Jake di raggiungerla. E lui non se lo fece ripetere due volte, prendendo posto e circondandole le spalle con un braccio, stringendola per trasmetterle un po’ di calore.
- Jake.
- Sì?
- In realtà non ho freddo. Volevo solo che mi abbracciassi.
Jake rise e appoggiò la testa sulla sua, chiudendo gli occhi. – Devo dire che l’avevo capito.
Restarono sulla panchina di quel parco in silenzio per minuti interi, a godersi l’uno il calore dell’altra e il silenzio della notte. Tirava un po’ di vento che faceva muovere le foglie degli alberi intorno a loro, ma non era eccessivo.
- Sono stata bene, stasera.
Jake accarezzò una spalla della ragazza e annuì. – Anch’io. E poi guarda che progressi che ho fatto, ho mangiato senza rischiare di morire.
- Dio, che spavento che mi hai fatto prendere.
- Però, se non te l’avessi fatto prendere, ora non saremmo qui.
Jake vide il viso di Jita alzarsi e i suoi occhi puntarsi nei propri. La vide sorridere e drizzarsi sulla panchina. Sentì le dita morbide appoggiarsi sulle sue guance, accarezzandogli gli zigomi. Restò a guardarla posando le proprie mani sulle sue, mentre il cuore sembrava voler scappare via. Jita rise e fece incontrare le loro fronti. – Adesso dovresti baciarmi, Jake.
E, dopo essere scoppiato a ridere, Jake appoggiò le labbra su quelle della ragazza, che infilò le dita tra i suoi capelli, accarezzandoli dolcemente.
 
 
- E com’è stato per te rivederla? – il sorriso di Tracy era divertito e dolce. Quella ragazza aveva il potere di far apparire ogni seduta come una conversazione tra amici di vecchia data, con i suoi modi gentili e un po’ timidi e i suoi sguardi delicati, mai invasivi o giudiziosi. Jake riusciva a sentirsi a proprio agio.
- Be’, ecco… Bello, credo. Mi ha fatto piacere, insomma. Ma non ho… Provato niente. Non sentivo nulla, le mie sensazioni non erano neanche lontanamente vicine a quelle di uno o due anni fa.
Vide la giovane psicologa annuire, la sua espressione cambiò facendosi più riflessiva e pensierosa. – Non ti ha stimolato in alcun modo?
- No. Ero felice di vederla, ovviamente. Era e resta una persona importante, ma… - Jake strinse i denti, sentendo il cuore battere più velocemente. – Ma credo di essere cambiato così tanto, da quel… - non doveva piangere. Non poteva. Non doveva pensare a Josh, a Sam o al fatto che non vedesse né sua madre né suo padre da mesi. Anche se, effettivamente, come Ronnie gli aveva ripetuto tante volte, era proprio quello lo scopo della terapia. Aprirsi su delle cose che lo stavano logorando.
- Jake, tu non devi sentirti in dovere di dirmi nulla. Qui sei tu ad essere qui perché vuoi una mano, un consiglio. E io non sono qui per costringerti a dirmi qualsiasi cosa ti passi per la testa. Sono qui per cercare di darti sollievo o per farti stare un po’ meglio, quindi non sei obbligato a dire o fare nulla. Però ricorda che se tu dovessi aver voglia di tirare fuori anche solo una briciola del peso che ti porti addosso, io sono qui apposta per ascoltarti, per cercare di aiutarti.
- Ricordi quando ci siamo incontrati in clinica? – balbettò Jake con un nodo alla gola.
- Certo.
- C’è mio fratello, lì. Si chiama Sam ed è schizofrenico. – Jake sentiva lo sguardo di Tracy su di sé. Affondò le unghie nei propri jeans col cuore che gli batteva forte e le lacrime che ormai scendevano copiose. – Lui è stato coinvolto in un incidente stradale, l’anno scorso. – strizzò gli occhi. – La macchina in cui era la stava guidando il mio gemello. Stavano tornando a casa e… L’auto è finita fuori strada, si è schiantata contro un tronco e ha preso fuoco. – ormai singhiozzava, quasi non riusciva a parlare. – J-Josh è morto. Non c’è più e… E io non so cosa fare, non… Sento di non essere più me stesso, non riesco a star bene nemmeno più con Jita. E anche se Veronica sta facendo tutto il possibile, mi sento così perso. Così… Diverso, smarrito.
- Gli volevi molto bene, vero?
Un singhiozzo particolarmente forte gli scosse il petto, strinse gli occhi facendo scivolare via le lacrime. – Era tutto quanto. Mi conosceva meglio di chiunque altro, mi faceva stare bene. E’ sempre stato dalla mia parte, mi ha difeso a spada tratta davanti a tutti giorno dopo giorno, non ha mai mollato. – trasse un respiro profondo – Era la mia unica sicurezza. La mia strada verso casa.
 
 
- Ma che cazzo sta dicendo?! – esclamò Josh, balzando in piedi e sbattendo i pugni sul proprio banco.
- Kiszka, questo comportamento verrà sanzionato severamente. – sbottò il professore in tono gelido.
- Non si capisce nulla nemmeno quando parla, ma si sente? Per lei sarebbe questa l’intelligenza? Vantarsi del proprio vocabolario forbito davanti a dei diciassettenni brufolosi e puzzolenti, facendoli sentire inferiori? Facendoli sentire dei vermi? – riprese fiato per un attimo, puntando il dito verso il proprio gemello. – La persona che ha appena umiliato davanti a tutta una classe e che ha appena minacciato di bocciare, è il ragazzo più intelligente che io conosca. E’ sensibile, è buono, forte, e lei non ha idea di quello che passa ogni volta che a casa deve leggere un cazzo di testo. Si impegna, fa del suo meglio per riuscire ad andare bene in questo posto di merda, per riuscire a prendere almeno una sufficienza. E voi, massa di idioti. – esordì girandosi verso i propri compagni di classe. – Vi credete tanto onesti e fighi perché pensate di poter dominare il mondo e di poter essere liberi di fare quello che cazzo volete, e ve la prendete con una persona che si spacca il culo ogni giorno per riuscire ad essere accettato in questa società. E che è molto meglio di voi. – rise, scuotendo la testa. – Saper suonare ogni canzone di Elmore James senza sbagliare neanche una nota, questo è figo. Questo è talento. Non imparare due stronzate a memoria e dire la lezioncina al professore. – tornò a guardare l’insegnante. – Professore che deve avere proprio un bel coraggio a volersela prendere con un diciassettenne dislessico. Ma dove crede di essere? In “Matilda sei mitica”?
L’uomo alzò le sopracciglia e fissò Josh con la solita espressione gelida. Era di almeno venti centimetri più alto del ragazzo, forse trenta, ma Josh non si lasciò intimorire nemmeno per un secondo. – In presidenza. Adesso, Kiszka.
Josh abbozzò un sorrisetto soddisfatto, prendendo il proprio zaino e avvicinandosi alla porta. – Ho vinto io. -Si sporse per fare un occhiolino al gemello che, all’ultimo banco, lo guardava confuso, ma non sorpreso. E a Josh sembrò anche di vedere un sorriso sotto alle lacrime che gli scendevano sulle guance. Uscì dalla classe, non prima di aver puntato di nuovo lo sguardo sull’insegnante. – E comunque, fisica è una materia di merda.
 

 
Tracy sentì il cuore sprofondare nel vedere il ragazzo in quelle condizioni. Solo ora riusciva a capire tutto il dolore che gli si intravedeva nello sguardo, l’enorme peso che si portava sulle spalle, la morte di una persona per lui fondamentale, una guida, una sicurezza. Il fardello di dover badare non solo a se stesso, ma anche a quel fratello che, in ospedale, aveva bisogno di lui. E molte cose le erano chiare. Era lui Josh, il suo gemello. Quello a cui aveva accennato la prima volta, ciò che aveva scaturito quel dolore così forte nel cuore di un ragazzo che, così giovane, avrebbe dovuto solo divertirsi e costruire il proprio futuro. Lo lasciò sfogarsi, piangere e singhiozzare, tirare fuori un po’ di quel dolore che, però, forse non sarebbe mai andato via. E, una volta che i singhiozzi furono cessati, gli porse un fazzoletto dalla scatola, sorridendogli con dolcezza e malinconia. Tracy non si era mai ritrovata a doversi confrontare con una situazione così pesante, dolorosa e opprimente, davanti a degli occhi così stanchi e una voce così spezzata. Aveva visto crollare una corazza già debole, l’aveva vista rompersi in mille pezzi lasciando Jake così vulnerabile ed esausto. Uno sguardo simile non poteva appartenere a un ragazzo di ventiquattro anni, non doveva.
- Mi fa piacere che tu ti sia aperto e sfogato. Molte volte, abbiamo bisogno di tirare fuori tutto. Di dire cose che dentro ci danneggiano come tossine. – Tracy si allungò ad appoggiare una mano su quella del ragazzo, sperando di non farlo sentire a disagio. – E so che sfogarti non farà tornare Josh, purtroppo lo so. Non guarirà Sam. Però, Jake. – gli sorrise dolcemente, vedendolo tirare su col naso. – Per renderci davvero coscienti di ciò che succede dentro di noi, per riuscire a sbloccare qualcosa che ci impedisce di stare bene, abbiamo bisogno di capirla e buttare fuori tutto. Con il pianto, con le parole, con la rabbia. Come quando hai qualcosa in gola che ti blocca il respiro, e per riprendere fiato hai bisogno di tossirla fuori. – rise al proprio esempio e vide un piccolo sorriso anche sulle labbra del ragazzo. – E so che ora magari stai malissimo, forse hai anche la sensazione di stare peggio di prima, ma vedrai che riuscirai a respirare un po’ meglio.
Jake tenne lo sguardo sulla scrivania. Non era uno sguardo vuoto, vacuo. Era triste, questo sì. Triste ma anche pensieroso, riflessivo. E Tracy riuscì ad intravedere un Jake diverso da quello che aveva conosciuto, quello con la schiena curva e i modi bruschi: lo vide calmo, quasi analitico, in un certo senso. Le sembrava che stesse riflettendo su un quesito matematico. Probabilmente pensava alle parole da dire, scavava in se stesso per trovare delle risposte da dare. Si disse che doveva essere così, il vero Jake. Quello che lui stesso diceva di non riconoscere più, che era smarrito: riflessivo, dotato di un elevato raziocinio. Gli sfiorò appena le dita, con estrema delicatezza. – Sei speciale, Jake, lo so. L’ho capito e lo credo. E anche se sembra l’unica via d’uscita dalla tue emozioni, non vale a pena nasconderle. Ti riconosci, ora? Nel tuo pianto, nella tua rabbia, lo trovi? Trovi quel Jake?
Jake puntò lo sguardo nel suo, traendo un profondo respiro e appoggiando le mani sulla scrivania. Si asciugò nuovamente gli occhi, ancora un po’ umidi. – Io non… Non credo che possa più esserci.
Gli occhi di Tracy lasciavano trasparire un leggero senso di confusione, ma aveva intenzione di capire quel ragazzo, di comprenderlo a fondo per dargli una mano. – Come mai?
- Chi sono, senza Josh? E’ come se mi avessero tolto metà del mio corpo. Era la mia controparte ma allo stesso tempo la mia anima gemella. Mi bastava lui per capire chi ero, per ritrovarmi dopo essermi perso.
La ragazza respirò profondamente, per poi alzare gli occhi al soffitto. – Okay, Jake. Facciamo un gioco, ti va?
Vide il ragazzo annuire, titubante.
- Bene. Sei nella foresta, devi tornare a casa tua. Non c’è un tempo o una data di scadenza, devi solo arrivare. C’è un problema, però: a metà strada perdi la tua bussola, unico mezzo che hai per orientarti. Allora, a questo punto, hai tre opzioni: la prima è quella di tornare a casa, senza la tua bussola. Perché, infondo, se perdi la bussola, la tua casa svanisce?
- No.
- Giusto. Quindi, potresti decidere di tornare fondandoti sulla tua memoria, mettendoci del tuo. La seconda opzione è quella di perdere le speranze e restare nella foresta, perso e al buio, da solo. Oppure, la terza. La bussola non ce l’hai, la strada di casa non la ricordi. Non ti rimane nulla, vero?
- No.
- E invece sì. Potrai cercare un altro rifugio in cui andare, cambiare completamente meta. Camminando, camminando, di luogo in luogo. E potrebbero volerci mesi, forse anni. Alla fine, però, troverai un posto dove stare. Perché avrai lavorato con tutte le tue forze e tutta la tua determinazione per arrivare a stare bene, al sicuro e al caldo, ma non per forza dove sono situate le tue radici. La tua casa sarà completamente cambiata, ma anche se dovrai abituarti sarà comunque il tuo posto. E sarà frutto del tempo e della determinazione che ci hai messo per arrivarci. E capirai che la bussola sì, ti sarebbe servita, ma per non perderti hai bisogno soprattutto di te stesso.
 
 
Il modo in cui Tracy era cambiata, era ormai chiaro un po’ a tutti: restava sempre la ragazza timida e un po’ impacciata che era, ma dimostrava molta più sicurezza. Certo, non si destreggiava nelle relazioni sociali come facevano tutti i suoi coetanei, ma riusciva ad attaccare bottone e a non restare completamente zitta, senza sapere cosa dire, non sentendosi a disagio come quando era più piccola. Teneva le spalle dritte e sorrideva spesso, i suoi occhi sembravano un po’ più vispi. Dopo anni e anni passati all’ombra dell'insicurezza, entrata in università sembrava essere uscita allo scoperto, lasciandosi sfiorare anche solo appena dai raggi del sole. Lo avevano notato suo fratello, i suoi genitori, i suoi amici. E, soprattutto, l’approccio che ora aveva con i ragazzi della sua stessa università, era completamente diverso.
- Ciao, sono Margareth! Ma chiamami Maggie, il mio nome intero sembra quello di un superalcolico scadente. – la ragazza che Tracy aveva davanti era sorridente e raggiante. Era più bassa di lei e aveva una marea di capelli neri e lisci. Degli occhiali rotondi lasciavano intravedere i suoi occhi scuri e allungati, il sorriso a trentadue denti le ornava le guance diafane. La studentessa ricambiò il sorriso e le strinse la mano.
- Ciao, Maggie. Sono Tracy.
- Oh, lo so come ti chiami. Ti ho sentita mentre parlavi da sola per preparare la tua presentazione.
Le guance di Tracy diventarono completamente rosse. Aveva fatto una figura di merda anche il primo giorno. Però Maggie le sorrideva sinceramente: non era l’espressione di qualcuno che aveva intenzione di prenderti in giro, solo, le sembrava divertita.
- Sono iscritta a biologia. Anche tu?
Tracy scosse la testa. – Psicologia.
Maggie la prese per un braccio, trascinandola con lei per il cortile dell’università di Detroit. – Ce l’hai la faccia da psicologa.
- Sì?
- Mhmh. Con quegli occhiali trasparenti con i naselli sei perfetta.
- Di solito non li porto, sono da riposo.
- Anche senza potrebbe andare.
 
 
- Spero che la tua giornata di lavoro sia stata brillante ma dimmi, perché cazzo te ne torni in casa mia alle tre del mattino? Certo che i tuoi orari sono allucinanti. – sbuffò Maggie, seduta alla scrivania della sua stanza con una pila di libri davanti a sé. Tracy scrollò le spalle e si sedette sul letto della ragazza, sospirando esausta. – Devo proprio raccontartelo?
- E’ il minimo, dato che pago l’affitto con te e che questa è anche casa mia.
- Ecco, bene. Hai presente che ieri ho parlato al telefono con una certa “Piper”? L’ex del mio ex?
- Sì.
- Ha organizzato un piano strano e geniale allo stesso tempo per liberarsi (e liberarmi) di Alex.
- Sarebbe?
- Mi ha letteralmente baciata davanti a lui.
Maggie aggrottò la fronte e strabuzzò gli occhi scuri, voltandosi a guardarla. – Eh?
- Già.
- Mi prendi per il culo.
- No, Meg, no. Te lo giuro su Princess Carolyn.
- Ma perché devi giurare sul tuo gatto?
- Perché le voglio bene.
La coinquilina si passò le mani sul viso, espirando dal naso. – Tu sei proprio una cretina.
- Grazie, Meg.
- Come cazzo ti viene in mente di seguire il consiglio della ragazza con cui Alex ti ha tradita? Potrebbe volerti ingannare e soffiartelo di nuovo.
- Be’, prima di tutto di chi si scopa Alex poco me ne importa. E poi, era incazzata tanto quanto me. Se dovesse essere così, peggio per lei.
L’espressione di Maggie si fece ancora più accigliata. – E non ti sei incazzata con lei nemmeno un pochino per averti baciata senza un apparente motivo?
- Questo sì, ma poi è finita lì. Ho altro cui pensare.
Maggie alzò le sopracciglia e incrociò le braccia al petto. – Non ci credo minimamente.
 
 
- Sei completamente impazzita?!
- No, Nome di merda. – Piper rise, scuotendo la testa. – Mi sono anche divertita.
- Cristo, ma… Hai svegliato un quartiere intero! Che hai risolto così? Gesù, mi trovo in una gabbia di matti… - Tracy sospirò e si sedette sulla moto di Piper, massaggiandosi le tempie.
- Tesoro, se ti dà fastidio che una ragazza ti abbia baciata, sei un po’ un pezzo di merda.
- Ma… Non è assolutamente per questo. Anche se tu fossi stata un ragazzo, questa cosa sarebbe stata inopportuna, infondata e… - sentì il dito indice di Piper posarsi sulle proprie labbra e vide la ragazza sorridere di scherno. – Immagina quanto si è sentito bruciare il culo, Tracy.
- Ma non m’importa se si sia sentito bruciare o meno, non potevi usare un metodo meno… Plateale? Senza svegliare un benedetto quartiere in piena notte?
- Plateale è il mio secondo nome, Tracy Ziegler. – la ragazza indossò il casco e salì a bordo della moto, facendo cenno a Tracy di raggiungerla. La giovane psicologa alzò gli occhi al cielo e si passò una mano sulla fronte, imprecando sottovoce dopo essersi arresa raggiungendo Piper sulla moto.
 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo settimo ***


Tracy si sentì sfiorare con delicatezza i fianchi, quasi incollata alle labbra del ragazzo che aveva davanti. Raccolse tra le dita una ciocca di capelli lunghi e scuri, sottili e morbidi, così diversi dai propri: i riccioli sudati le ricadevano sulle spalle appena crespi e disordinati. Sentiva i suoni ovattati e la visuale poco nitida, ma riusciva a sentire i respiri frettolosi del ragazzo, poteva vedere i suoi occhi grandi e scuri come pozzi osservarla.
La ragazza gli agganciò le mani dietro alla nuca mentre si sentiva baciare nuovamente. I baci, dapprima delicati, dolci, casti, si approfondirono man mano sempre più. Spinse il ragazzo fino a fagli toccare il muro afferrandogli le spalle, gli accarezzò i capelli, il collo e le braccia fino a sfilargli la giacca color pistacchio, facendola cadere morbida sul pavimento di legno. Lo percepì sorridere sulle sue labbra, forse preso di sorpresa dalla sua intraprendenza.
Tracy non aveva idea di chi fosse. Il che non era da lei, che trovava difficile aprirsi anche dopo mesi interi di frequentazione.
Finché.
Un particolare le saltò all’occhio e fu sufficiente a rendere l’immagine davanti a sé più chiara, più nitida. Gli occhi enormi erano spenti sotto alle sopracciglia folte, incastonati in un viso così particolare, per niente anonimo, che solo in una persona aveva potuto notare.
 
 
Tracy spalancò gli occhi, mettendosi a sedere immediatamente, con il cuore a mille e il respiro accelerato. Guardò l’orologio sul muro: le tre e mezza del mattino. Ancora ad occhi spalancati si prese la testa tra le mani, incastrando le dita tra i capelli ricci e deglutendo il nodo che aveva in gola.
Jake.
Aveva sognato Jake. E non era un sogno come un altro. Aveva sognato di baciare Jake, di baciare un suo paziente che sì, aveva la sua età, ma che non avrebbe dovuto sognare per nessun motivo al mondo. Non in quel senso, almeno. Appena ebbe il tempo di prendere realmente coscienza dello scherzo che la sua mente aveva deciso di farle sollevò la testa, fissando il soffitto.
- Porca puttana.
 
- Posso sapere che cazzo ti prende, stamattina? – sbuffò Maggie, seduta in cucina a bere la sua tazza di caffè. Tracy sussultò, smise di camminare avanti e indietro per la stanza, sul punto di consumare il pavimento e guardò la coinquilina, cercando di essere più naturale possibile.
- Niente. – peccato che la voce le uscì dalla gola acuta come quella di una cornacchia.
E, ovviamente, l’amica lo notò. - Se devi prendermi per il culo, almeno fallo bene. Che c’è, ti sei innamorata di Piper?
- No.
- E dunque?
Tracy scrollò le spalle, scosse la testa e incrociò le braccia al petto. – E dunque, posso avere il diritto di non dirtelo, o devi sempre farmi il terzo grado?
- Prima di tutto: no, non puoi. E, seconda cosa, se ti rivolgi di nuovo così a Margareth Richards, lei ti farà il culo.
- Oh, ammirate chi abbiamo qui, la principessa d’Inghilterra!
- Io sono meglio della principessa d’Inghilterra. Io sono la regina.
- Mi sento in una sitcom del cazzo.
- Piano con le parole. Le psicologhe devono essere family friendly.
La ragazza, a quel punto, aggrottò la fronte. – E questa cosa dove l’hai sentita?
- L’ho appena inventata per mettere in dubbio la tua professionalità.
- Carino, da parte tua. – Tracy sbuffò, gettando il cartone del latte nel bidone della differenziata.
- Comunque. – Maggie si schiarì la gola, raccolse la propria borsa dalla sedia che aveva posato sulla sedia accanto alla propria e se la mise in spalla, alzandosi. – Io devo andare a lavoro. Ho un appuntamento con un paziente che prenota sempre ma non si presenta mai agli appuntamenti. – lasciò un bacio sulla guancia di Tracy e batté poi le nocche sulla fronte della ragazza, fingendo di bussare. – Nel frattempo, cerca di pensare alle parole che mi dirai quando tornerò.
La giovane psicologa avrebbe avuto voglia di sbatter ripetutamente la testa contro a un muro. Tirò un lungo sospiro e sentì la porta chiudersi dietro le spalle di Maggie rumorosamente.
 
 
- Dovete pensare al setting come una stanza, magari la stanza in cui dovrete tenere un appuntamento con il vostro paziente, in futuro. Arredata come a voi piace ma con qualcosa che non può assolutamente mancare: due sedie, o due poltrone, magari un lettino, ma niente di esagerato. Nella stanza però devono rientrare anche delle componenti astratte, quali gli orari e i giorni della terapia. – quel professore tanto stimato e rispettato in quell’Università era Clayton Bennett, afroamericano e dai folti ricci arrotolati su se stessi come tante piccole spirali. Professore di psicologia, filosofia e sociologia, giovane e alla mano, era anche una vera e propria guida con la sua professionalità, e Tracy faceva parte di quella cerchia di allievi che riuscivano ad apprezzarlo per i suoi modi diretti e chiari nello spiegare le proprie lezioni. Di tanto in tanto faceva anche qualche battuta. – Tuttavia, la cosa più importante è lo spazio mentale, che dipende dall’approccio positivo o negativo che sia alla seduta da parte di entrambe le parti, il paziente e il terapeuta. La predisposizione, però, non deve sfociare in un’eccessiva confidenzialità. Cosa voglio dire, con questo? Volendo fare un esempio concreto, immaginate di dover trattare il paziente solo come, appunto, un paziente: qualcuno a cui dare una mano. Dunque, la soglia verrebbe oltrepassata nel momento in cui voi terapeuti doveste, volontariamente o meno, arrivare a stringere un rapporto confidenziale in cui sfogare i vostri stessi problemi o, in casi estremi… - Clayton Bennett smise di parlare e rizzò la schiena, volgendo uno sguardo pensieroso al soffitto. – La conoscete Sabrina Spielrein?
Seguì un coro di “sì” e di “no”
- Per chi non la conoscesse, Sabrina Spielrein fu una delle prime figure femminili entrate a far parte del campo della psicologia. Questo è certamente notevole, ma non è il motivo per cui ho deciso di parlarvene. Il terapeuta di Sabrina fu Carl Gustav Jung, per giunta allievo di Freud e lei se ne innamorò inesorabilmente, tanto da desiderare di avere un figlio da lui.
Si udì qualche risata e del brusio sorpreso.
- Come potete immaginare, questa storia non andò a finire esattamente come una normale relazione amorosa. Vi ho fatto quest’esempio perché innamorarsi di un paziente, stringerci un rapporto simmetrico o intraprenderci addirittura una relazione amorosa, andrebbe a violare le regole del setting. La psicoterapia deve assumere un aspetto simbolico, prettamente comunicativo: una relazione andrebbe ad annullare completamente lo scopo di essa, e andrebbe a creare un altro trauma nella mente del paziente.
 
 
Tracy si detestò per tutta la durata della terapia. Non era riuscita a tenere la mente lucida neppure per mezzo secondo e più guardava Jake più si rendeva conto del fatto di dover smettere di pensare al sogno di quella notte. Quella mattina, come a voler girare il dito nella piaga, aveva osservato Jake in modo più approfondito, più attento. Aveva notato dei particolari che non le erano mai saltati all’occhio, forse perché ciò che attirava l’attenzione su Jake erano cose non proprio positive: la carnagione praticamente grigia, gli occhi spenti e stanchi, la pelle talmente sottile da poter intravederci le ossa. Ma Tracy notò quanto effettivamente particolare fosse. Le sopracciglia folte ma in armonia con il resto del viso, le labbra quasi femminili e i lineamenti fini e dolci, resi ancor più delicati dalle ciglia lunghe e scure, aveva una narice più piccola dell’altra, cosa dovuta forse a una deviazione del setto nasale. I denti di Jake erano bianchissimi: non lo aveva mai visto sorridere tanto da mostrarli, ma li notava quando il ragazzo parlava o si mordicchiava di tanto in tanto le pellicine delle dita.
Jake, effettivamente, era bello. Di una bellezza rara. Il suo viso era uno di quelli che non si dimenticavano facilmente, particolare e delicato, il corpo così esile da poter essere spazzato via dalla più misera folata di vento. I capelli lunghi che solitamente cadevano morbidi fin sotto le spalle erano ora raccolti in una coda alta e disordinata che metteva in evidenza il collo e la mandibola.
Tracy continuò a odiarsi.
- Josh ed io da piccoli eravamo indistinguibili. E a me questa cosa non faceva particolarmente piacere. – Jake sospirò dal naso, sorridendo appena. – All’asilo ci chiamavano “Josh e l’altro Josh”. Era terribile. Verso i sette anni abbiamo iniziato ad assumere una nostra identità, un nostro modo di vestire e di portare i capelli. Prima di… – deglutì, facendo salire e scendere il pomo d’Adamo. – Prima di morire, aveva i capelli ricci. E questo era il motivo per cui, a vederci a primo impatto, nessuno avrebbe detto che eravamo gemelli. – Tracy notò gli occhi di Jake stringersi.
 

 
“Eravamo”.
Quella parola iniziò a ripetersi nella testa di Jake innumerevoli volte. Troppe. Gli fece perdere la concentrazione, gli fece girare la testa e bruciare gli occhi.
Come se la sua mente volesse prendersi gioco di lui proprio ora che era riuscito ad aprirsi, proprio nel momento in cui pensava di poter realmente fare affidamento in quelle sedute per riuscire a sfogare tutta la sua rabbia e la sua tristezza.
Quando aveva pronunciato quella parola, il cuore gli aveva fatto quasi male. Ripensò al viso di Josh, alla sua voce cristallina e a come il ragazzo stringesse gli occhi durante una delle sue risate, che quando era con Jake diventavano più forti facendo perdere il respiro a entrambi.
 
 
- Do you remember what I’ve said when I got down on my knees? – strillò Josh, stonando anche parecchio e cadendo in ginocchio in modo melodrammatico una volta terminata la frase.
Jake imitò una plettrata con la mano destra, fingendo di stringere il manico di una chitarra con l’altra. – Gonna get your lovin’ babe, lovin’s all I need!
- Don’t make me beg now, babe.
- Don’t let me bleed! – fecero entrambi all’unisono, finché Jake non vide Josh inciampare sui suoi stessi piedi e crollare a terra ridendo sguaiatamente. Il gemello più piccolo lo imitò, cadendo al suo fianco e continuando a canticchiare la canzone che avevano scritto. Erano entrambi ubriachi, quindi non riuscivano nemmeno a scandire decentemente le parole. Ubriachi marci.
- Questo testo fa già meno schifo di quello di Highway Tune.
- Ma sentiti, brutto sciroccato! Non insultare i miei testi, hai capito?
- Gne gne gne testi, hai capito?
Josh scoppiò nuovamente a ridere, toccando il naso di Jake con la punta dell’indice. – Sei sporco di terra.
- Dove? Sul naso?
- No, mica sei caduto di naso.
- Cazzo, hai ragione.
- Cazzo, ho ragione. – il ragazzo spalancò gli occhi. – Di solito sei tu quello che ha ragione!
- Un giorno dobbiamo scrivere un testo sul fatto che ho sempre ragione.
- Sì, tesoro, si chiamerà “Canzone fuorviante”
- No. Si chiamerà “Age of man” e parlerà di come l’umanità si sia evoluta dopo avermi dato ascolto.
- Ma non abbiamo già scritto una canzone con questo nome?
Jake aggrottò la fronte. – Cazzo, hai ragione.
- Cazzo, ho ragione.
- Ma il testo non parla di me.
- Cazzo, hai ragione.
- Cazzo, ho ragione.
- Perché ho la sensazione di aver già vissuto questo momento?
- Perché ripetiamo la stessa frase da venti minuti.
- Cazzo, hai ragione.
- Cazzo, ho ragione.
Le risate esagerate si sparsero per tutto il quartiere, facendo chiudere svariate finestre.
- Jakey.
- Mhmh?
- Tu sei la mia anima gemella, sai?
- Che schifo, come i Lannister.
- Non in quel senso, stupido.
- In che senso?
- Nel senso che – Josh gesticolò cose incomprensibili per aria. – Tu sei l’unico con cui riesco davvero a sentirmi me stesso, che sa capirmi e ascoltarmi e che so capire e ascoltare. Ti comprendo al volo, mi comprendi al volo, sappiamo sempre se l’altro sta bene o male. Sei come una bussola quando mi sento perso.
- E se la bussola ti cade dalle mani?
Josh strinse forte suo fratello, talmente tanto da farlo pigolare. – Potrei cercarla ovunque.
Restarono zitti, immobili in quella posizione per minuti interi che a loro sembrarono frazioni di secondo, e dopo svariati secondi ci pensò la voce di Jake a rompere il silenzio. – Joshua.
- Dimmi, Jacob.
- Anch’io ti voglio bene.
 
 
- Lo amavo. Non come ama un innamorato, in modo diverso. Completamente. C’era qualcosa di talmente forte tra noi da farmelo amare. – Jake respirò a fondo, vedendo poi Tracy fare lo stesso.
- Cosa significa, per te, amare?
- Non… Non lo so. Lo senti, quando ami qualcuno. Lo percepisci. E’ come se qualsiasi cosa Josh facesse non mi permettesse in nessun modo di farmi cambiare idea su di lui. L’avrei sempre amato. C’era ogni giorno, ogni secondo. Eravamo connessi come se fossimo la stessa persona e sapevamo sempre dov’era l’altro, come stava, pronti ad abbandonare qualunque cosa, tutto quanto, al fine di sostenerci. Josh ha abbandonato il suo sogno di diventare un regista per la mia musica, perché mi amava. E se lui non ce l’avesse fatta più, io avrei fatto lo stesso. Avrei accettato la sua decisione e gli sarei stato accanto. Perché lo amavo quanto mi amava lui.
- Ti senti così anche con Sam e Veronica?
Ci pensò un attimo su. Sam e Veronica erano i suoi fratelli, due delle persone più importanti della sua vita che lui avrebbe protetto ad ogni costo. Erano tutti quanti una famiglia, insieme. Senza distinzione. Quando anche solo uno di loro non c’era, l’atmosfera cambiava. Ma di una cosa Jake era certo: sarebbero stati uniti per tutta la vita, legati da un rapporto forte come nessun altro.
 
 
Il bimbo nella culla li osservava con gli occhi scuri spalancati, identici a quelli di tutti e tre. Samuel era nato da pochi mesi, eppure già sorrideva ogni volta che vedeva i suoi fratelli.
Aveva la strana abitudine di stringere tra le labbra le dita dei propri piedi.
- Ora gli metto il dito nel naso.
- Che schifo, lascialo stare, Josh.
Veronica, dal canto suo, era troppo occupata a giocare con il fratellino come se fosse un gatto, sollevando e abbassando un peluche a forma di pesciolino che Sam stava cercando di prendere tra le piccole mani.
- E’ proprio brutto. Era più bella Ronnie.
- ‘Assie, ‘Ake.
- Noi eravamo brutti o belli?
- Tu eri brutto, io ti ho visto.
- Ma tu sei uguale a me.
- Non è vero. Tu sei più brutto.
In risposta, Jake fece un gesto con le mani. Sollevò la mano destra e strinse il pugno due volte: stava a significare “smettila”, “piantala”, ma questo lo sapeva solo Josh: i gemelli avevano un loro modo per comunicare, fin da quando erano nati. Karen, quando si era resa conto del fatto che a due anni ancora non parlassero, si era preoccupata non poco. Solo che, un giorno, mentre i bambini stavano giocando, li aveva visti fare dei gesti incomprensibili con le dita. E lì aveva capito.
E, nonostante ora Josh e Jake sapessero già comunicare a parole, non avevano perso quell’abitudine.
Il peluche cadde sulla testolina del povero Sam, che scoppiò di conseguenza a piangere, scaturendo anche il pianto di Ronnie e la risata dei gemelli. La reazione a catena fece entrare Kelly Kiszka nella cameretta, che sollevò il neonato dalla culla e lo prese tra le braccia, per poi chinarsi a guardare la sua bambina asciugandole le lacrime. – Ronnie, che è successo?
La bimba singhiozzò un paio di volte, indicando il fratellino. – I-io ‘olevo gioca’e!
Papà Kiszka sorrise e cullò appena Sam tra le braccia, accarezzandogli la testa per fargli smettere di piangere.
- Sammy ti odia. – rise Jake, ricevendo un’occhiataccia da Kelly e facendo piangere ancora di più la povera Veronica.
- Sammy non ti odia, piccola. E se Jacob Thomas Kiszka continua così può aspettarsi una bella sberla.
Quella frase bastò a far rabbrividire il più piccolo dei due gemelli.
- Non potrebbe mai odiarti, Ronnie. Siete fratelli, giusto? E i fratelli restano accanto ai fratelli, sempre. Qualsiasi cosa accada. E non si insultano a vicenda come questi due – indicò Josh e Jake con la testa. – Dovete sempre rispettarvi l’un l’altro, perché sono sicuro che, ogni volta che ne avrete bisogno, i vostri fratelli ci saranno.
 
 
Jake respirò profondamente, continuando a tenere la testa appoggiata sulle gambe di Veronica, che con le dita sottili e veloci stava intrecciando i suoi capelli lunghi, permettendogli di rilassarsi ancora di più.
A Jake erano sempre piaciuti quei momenti. Tra tutte le persone al mondo, non ce n’era nessuna più delicata e attenta di sua sorella. Nonostante Ronnie avesse un carattere forte e una testa come poche, non perdeva la sua leggiadria e la sua leggerezza. Soprattutto con lui, che appena veniva toccato con un po’ più di forza rischiava di bruciarsi.
Potevano passare interi pomeriggi così, ad ascoltare dischi a volume bassissimo l’uno sdraiato sull’altra senza stancarsi, magari addormentandosi di tanto in tanto.
Prima, soprattutto d’estate, ma anche durante i temporali invernali, Ronnie amava girare per la casa ascoltando Jake suonare la sua chitarra acustica in modo leggerissimo, senza quasi far rumore. Si sedeva con un ghiacciolo o una cioccolata tra le mani e ascoltava, ascoltava e basta. Zitta, ma non assente. Perché Ronnie era lì con le orecchie e con il cuore, ad ascoltare l’arte che scorreva tra le mani di suo fratello. E, di tanto in tanto, si aggiungevano la voce di Josh e il pianoforte di Sam. E lei non smetteva di ascoltare.
- Cambia canzone.
- Che?
- Non mi piace questa.
- E che m’importa. Un album si sente dall’inizio alla fine.
L’album in questione, che Jake voleva ascoltare fino alla fine, era “Helplessness Blues” dei Fleet Foxes. Avevano scoperto quegli artisti alle superiori e se n’erano innamorati immediatamente e “The Shrine/An argument” era la canzone che più piaceva a Jake e, ironicamente, piaceva meno a Ronnie.
- Ma perché ti piace così tanto?
- Perché è particolare. La chitarra è bellissima e la struttura non è banale.
- Te ne intendi più tu di musica.
Jake sorrise. Era stranamente sereno. Non poteva dirsi felice, ma era… Calmo. Non aveva poi tanti pensieri per la testa, quel tipo di calma. E stare con Veronica lo faceva sentire a casa.
Il campanello, però, lo fece sbuffare. – Vai tu.
- No.
- Dai.
- Per alzarmi io devi alzarti anche tu, comunque.
Jake sospirò e si levò in piedi, alzando gli occhi al cielo. – Già che ci sono vado io.
Attraversò il corridoio e, quando aprì la porta, il cuore gli si fermò. Gli occhi si spalancarono, il respiro gli si bloccò in gola.
Una donna di bassa statura, dai capelli lunghi color biondo cenere e corporatura robusta lo guardava con gli occhi scuri tristi e amari.
Jake riuscì a trovare il fiato per dire una sola parola, corta e stentata.
- Mamma.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo ottavo ***


Quando Jake aprì gli occhi gli sembrò tutto normale, tranquillo. Si accorse di stringere il corpo della sorella tra le braccia e si guardò attorno.
- Josh?
Non ottenne risposta dal letto a castello sopra di lui. Forse Josh ancora dormiva.
Con delicatezza, per non svegliare Veronica, Jake si mise seduto sul letto, sentendo subito girare la testa. Era senza forze, si sentiva stordito, gli faceva male la gola, come se avesse gridato. Gemette, prendendosi la testa tra le mani. Non ricordava nemmeno di aver mangiato la sera prima. Stava cercando di mettere in ordine i pensieri e le idee, a malapena. Era certo di una cosa: si era addormentato stringendo la sorella tra le braccia, ricordava i singhiozzi di Ronnie, le urla della ragazza soffocate sul suo petto, ma non aveva idea del perché stesse piangendo.
E poi, come se un lampo gli avesse spaccato la testa a metà, ricordò tutto. Il fischio assordante dell’elettrocardiogramma e le sue stesse urla, Ronnie rannicchiata sul pavimento, il viso di Josh. Sam non era tornato a casa con loro.
Trovò la forza per alzarsi e scendere di sotto. In casa non c’era nessuno, nella camera dei genitori il letto matrimoniale era vuoto.
Se n’erano andati anche loro.
- M-mamma… - sentiva le proprie mani tremare e la testa martellare. – Mamma. – sollevò il viso, appiattendosi contro il muro. – Papà.
Sentì il petto stringersi, i suoi polmoni sembravano intrappolati in una morsa. Non riusciva più a respirare.
Si accorse di non poter prendere aria in nessun modo. Per quanto ci provasse, gli sembrava solo che ad ogni respiro che cercava di prendere il petto gli si stringesse ancora di più. Sentiva il cuore battere talmente forte da fargli male, gli veniva da piangere ma il suo intero corpo sembrava essersi bloccato.
“Sto morendo”, pensò. Si sentiva annaspare mentre cercava in ogni modo di respirare.
“Sto morendo”.
- Jake.
Ronnie.
"Non respiro."
- Jake, guardami.
Spostò lo sguardo verso sua sorella: i suoi occhi grandi e scuri lo guardavano con dolcezza, morbidi e rassicuranti. Si sentì prendere la mano tremante.
- Respira. Sono qui con te, non vado da nessuna parte, Jake.
Si sporse verso la ragazza, stringendola tra le braccia con il respiro accelerato. Le mani di Ronnie gli accarezzarono le spalle e la schiena e sentì le sue labbra posarglisi sulla parte alta della testa.
- Tranquillo, Jake.
Il ragazzo si sentiva privato di tutte le forze. Era esausto, come se gli fosse stata risucchiata ogni energia. Però gli sembrava di poter respirare meglio. Il battito del cuore rallentò a poco a poco, come se le braccia della sorella avessero avuto il potere di calmarlo.
Veronica lo guardò negli occhi, accarezzandogli uno zigomo. – Andiamo a mangiare qualcosa, fratellino.
 
 
Jake sentì la stretta delle braccia della madre attorno a sé, ma non la riconobbe. Karen era sempre la stessa, fatta eccezione per il viso stanco e l’espressione amara, però Jake era confuso. Perplesso. Sentiva di avere tantissime domande da farle ma non ne aveva la voglia. Non la vedeva da così tanto tempo da non saper cosa fare. Riconosceva il profumo dei suoi capelli, la morbidezza dei suoi abbracci. Quelli di cui avrebbe avuto bisogno per un anno e che non c’erano mai stati.
Si staccò dalle sue braccia nonostante le avesse aspettate così tanto e chiuse la porta, avendo poi il coraggio di guardare la madre negli occhi mentre deglutiva. – Che cosa ci fai qui?
Poté vedere lo sconforto e la tristezza negli occhi lucidi di Karen.
- Jake, che succede? Chi… - Veronica si fermò dietro di lui, i suoi capelli lunghi sfiorarono le spalle del fratello. Jake percepì il corpo della ragazza irrigidirsi, la vide indietreggiare.
- M-mi siete mancati così tanto… Ronnie… Mia dolce Ronnie. – Karen allungò una mano, come a volerle fare una carezza, ma non appena le sfiorò il viso la mano di Ronnie colpì la sua, allontanandola.
- Hai ancora il coraggio di toccarmi?
- Piccola mia…
- Stai zitta. – il tono era freddo ma la voce era spezzata. Jake si accorse delle lacrime che avevano iniziato a scorrerle sulle guance. – Io non sono la tua bambina. Non lo sono da quando ci hai lasciati da soli, distrutti, senza un fratello e senza dei genitori.
- Non vi ho abbandonati, io…
- Non ti sei fatta vedere per un anno intero, forse anche di più. E ti sei ripresentata a casa nostra così, come se non fosse successo niente. Ci hai lasciati da soli. – La voce di Jake era immobile, quasi monocorde, anche se il cuore gli batteva forte e sentiva lo stomaco in subbuglio dalla rabbia che provava.
- Fatemi entrare, per favore. Ho bisogno di voi, voglio parlarvi… Sono la vostra mamma.
- Hai idea di come siamo stati, senza la nostra mamma? Hai idea di com’è stato Jake, di come cazzo è stato Sam, che è chiuso in una clinica senza neppure avere tue notizie? – Ronnie si fermò, serrando le dita intorno a quelle di Jake, che le strinse a sua volta. – Hai idea di come… Di come sono stata io?
- Mi dispiace, mi dispiace. – Gli occhi di Karen erano completamente inondati dalle lacrime, la sua voce era incrinata e le sue gambe piegate quasi a far toccare dalle ginocchia il pavimento.
- Dov’è papà?
La donna si irrigidì, pietrificata. – L-lui non… Kelly è…
Jake aspettò, continuando a tenere la sorella per mano osservando gli occhi e i movimenti della madre. La vide tirare giù le spalle, come sovrastata da un peso doloroso. – Kelly mi ha abbandonata. E’ andato via, come io ho abbandonato voi.
Il ragazzo trasse un respiro profondo.
- Una mattina ho aperto gli occhi e… Semplicemente, lui non era più lì. Si era portato tutto quanto con sé, ogni cosa. Anche le vostre fotografie.
Jake fece un sorriso sprezzante, annuendo a se stesso e incrociando le braccia al petto. – Mi è proprio familiare, questa situazione. Forse perché anche io e Ronnie, una mattina, ci siamo ritrovati da soli. Senza saperne il perché, senza potercelo spiegare. Senza soldi, senza sapere cosa fare.
- E a che cazzo gli servono delle fotografie? – Ronnie stava urlando, tutta la rabbia che aveva tenuto dentro stava venendo a galla in quel momento. – Noi siamo qui. Siamo vivi, lo siamo sempre stati ma non ve ne siete neanche accorti.
Karen appoggiò le spalle sulla porta. - Stavamo così male. Così male per Josh, per il nostro bambino. Non riuscivamo a…
- Pensa che io con Josh ci sono nato. Era tutto quanto, ogni cosa. Avevamo gli stessi occhi e lo stesso sangue, eppure io non sono andato via. Non ho abbandonato mia sorella e mio fratello per pura codardia, e avevo ventidue anni. E Ronnie non ha abbandonato me. – Jake chiuse gli occhi, imponendosi di respirare a fondo e di rimanere in piedi. Gli venne in mente una delle tante frasi che gli aveva detto Tracy Ziegler.
“Per non perderti avrai bisogno soprattutto di te stesso”
Trasse un altro respiro, accarezzando la mano di Ronnie. – Entra dentro, mamma.
 
 
Quando Karen aprì la porta si trovò davanti Jake in condizioni pessime. Suo figlio era bagnato come un pulcino, dalla testa ai piedi, e tremava così forte da far muovere tutto lo zaino che era sulle sue spalle. Aveva un occhio pesto e il labbro inferiore gonfio. Karen non voleva nemmeno immaginare cosa fosse nascosto sotto al suo giubbotto che, di tre taglie più grandi, lo faceva sembrare ancora più piccolo.
- Jake, amore, che è successo? Entra, che fai lì sulla porta? – gli sfilò lo zaino dalle spalle e lo accompagnò in casa tenendolo per mano.
-  Bagnerò tutto il pavimento, mamma.
- Ma chi se ne frega del pavimento! – fece per sfilargli il giubbotto ma non appena gli toccò le spalle lo sentì pigolare. Quel suono le spezzò il cuore, inumidendole gli occhi.
- Faccio da solo, non preoccuparti. – la voce del bambino era sottile e flebile, anche un po’ tremolante. Nel toglierlo, il giubbotto gli cadde sul pavimento. – Scusami, non volevo farlo cadere.
- Jake, oggi tu vuoi proprio farmi arrabbiare. Pulirò dopo, che sarà mai un po’ d’acqua. – Karen vide Jake sorridere, e quello le bastò per stare leggermente meglio. La sua espressione cambiò nuovamente quando vide le braccia esili del figlio ricoperte di lividi e di graffi, le venne da piangere. – Piccolo… Chi è stato a ridurti così? Ora mi sono veramente stancata.
 
- Guarda un po’ cos’ho preso! La chitarra di Jakey!
Quando sentì quella voce, Jake alzò la testa e vide Liam, il ragazzino di prima media che l’aveva preso di mira da quando era arrivato in quella scuola, anche se il povero Jake non ne aveva ancora capito il perché. Stava facendo qualcosa di male? Voleva solo suonare un po’ il suo ukulele durante l’intervallo.
- Non è una chitarra. Dammelo, Liam.
Si sentì spintonare e per poco non perse l’equilibrio, rischiando di cadere in una pozzanghera che si era formata dopo la forte pioggia di quella mattina.
- Adesso sai leggere, analfabeta? – la voce dietro di lui era quella di Joe, che per Liam era una specie di cagnolino. Quelle parole lo ferirono più della spinta che aveva ricevuto.
- Lasciatemi stare, non ho fatto niente!
- No, certo. Ci davi solo fastidio con questo coso. – Liam osservò il piccolo ukulele rosso di Jake, facendo una smorfia che si tramutò poi in un sorriso beffardo. – Sarebbe un peccato se lo buttassi a terra.
Jake cercò di prenderglielo dalle mani, ma Joe lo tenne stretto a sé impedendogli di avanzare verso Liam. – Me lo ha regalato mia mamma, per favore! Lo ha pagato tanto!
- Oh, glielo ha pagato la mamma! – rise il maggiore, pizzicando una corda così forte che Jake ebbe paura che potesse spezzarsi. – la mamma ti paga anche le lezioni per imparare l’alfabeto senza confondere la F con la K?
Gli occhi di Jake si riempirono di lacrime. Era molto più piccolo rispetto a entrambi: pesava almeno dieci chili in meno, era di diverse spanne più basso e aveva solo otto anni. Liam lo guardò negli occhi, afferrandogli con la mano libera la mandibola. I suoi occhi azzurri lo fissavano, facendolo sentire così piccolo.  – A quanto pare, quelle lezioni proprio non funzionano. E allora nemmeno questo ti servirà a nulla.
L’ukulele incontrò il ruvido e freddo pavimento del cortile, Liam lo sbatté così forte che le corde produssero un rumore assordante, prima di spezzarsi insieme al legno. Vedendo il regalo di Karen finire in quel modo, Jake scoppiò a piangere e iniziò ad urlare il nome della maestra per chiederle aiuto, ma le risate di tutti i bambini nel cortile sovrastavano la sua voce.
Solo che Liam lo sentiva benissimo.
Iniziarono i pugni, i calci, e nessuno lo aiutava, come ogni volta.
Non lo aiutarono nemmeno quando crollò nella pozzanghera, bagnandosi i vestiti e i capelli.
 
Dopo aver sentito il racconto del bambino, a Karen sembrò di non riuscire più a respirare. Cercò di cacciar via le lacrime solo per non provocare altro dolore nel cuore del suo Jake.
- Mamma… Mi dispiace così tanto per l’ukulele, io…
Karen tirò suo figlio in un abbraccio, stringendolo forte ma facendo attenzione a non fargli male. Gli accarezzò i capelli lunghi, allontanandosi poi per fargli una dolce carezza sulla guancia e guardarlo negli occhi. – Non devi preoccuparti per il tuo ukulele, amore mio. Appena papà e mamma riusciranno a racimolare un po’ di soldini te ne compreranno uno molto più bello.
- Ma me l’avevi regalato tu. Era bello perché me lo avevi regalato tu.
- Lo so, Jake. Ma ti prometto che al più presto te ne regalerò un altro, perché te lo meriti. Perché non potrei essere più fiera di te e non potrei amarti più di così.
Il bambino sorrise, scatenando l’identica reazione della madre che lo abbracciò di nuovo.
- Ti voglio bene, mamma.
 

 
- Che vuol dire che hai sognato Jake?!
- Maggie, ti prego, non…
- Cioè tu… - la ragazza di alzò dalla sedia e sorrise, alzando le sopracciglia. – Tu ti sei presa una cotta per Mercoledì Addams!
Tracy pensò a quella strana comparazione aggrottando la fronte. – Ma sai che effettivamente gli mancano solo le trecce e… Gesù, no, non mi sono presa una cotta per Jake. E’ un mio paziente.
- Un tuo paziente che è il tuo tipo per eccellenza. Voglio dire, pensaci: magrissimo, capelli lunghi, faccia da topo.
La giovane psicologa sospirò e scosse la testa. – Maggie, ti prego. L’ho solo sognato una volta, non vuol dire che mi piaccia.
- Tracy, sei un’idiota. Hai sognato di baciarlo, non di portare a spasso i suoi cani.
- Non ha cani.
- Oh beh, siamo anche arrivati al punto della relazione in cui sai quali siano i suoi animali domestici, dottoressa!
- Sai com’è, la terapia serve a qualcosa chiamata parlare.
- Sì, ma mica di cani. Chi è che dalla psicologa parla di cani?
- Tu sai quali siano gli animali domestici di Brad?
- Certo, ha un cane che si chiama Jesse. E’ un golden retriever. E ha sei ann…
- Va bene, Maggie, va bene.
- Me lo hai chiesto tu.
- Sì, ma non voglio sapere anche il suo codice fiscale.
- I cani ce l’hanno, un codice fiscale?
- Effettivamente non me lo sono mai chiesta. Potrebbero, però.
- Hai sviato il discorso.
- Sì, perché era un discorso senza un senso, dato che non. Mi piace. Jake.
- Certo, e io sono Britney Spears.
- Sotto la doccia un po’ ti ci senti.
- Lo stai evitando di nuovo?
- Ma di cosa dovremmo parlare? – sospirò Tracy, passandosi una mano tra i ricci tinti di rosso. – Lo sapevo che avrei dovuto dirti che mi piaceva Piper.
- Mi sorgono dubbi anche su questo fronte.
- Ma che cosa sono, scusa? Una prostituta?
- Sì, ma della mente.
- Ti odio.
- Mi dispiace da morire.
 
 
Per un lungo periodo della sua vita, Tracy era stata fermamente convinta del fatto che le piacessero solo ed esclusivamente i ragazzi. Ed effettivamente non era del tutto errato, ma solo in parte. Le piacevano le ragazze e i ragazzi, e lo aveva scoperto grazie alla sua nuova compagna di stanza. C’era qualcosa in Maggie che le piaceva a tal punto da non poterla considerare solo e soltanto come un’amica.
Sì, Maggie le piaceva. Se n’era resa conto dal fatto che con lei il tempo scorreva sempre veloce, che mentre la guardava sentiva lo stomaco in subbuglio e la voglia di baciarla crescere sempre di più.
Si era sempre chiesta come fosse, baciare una ragazza. Forse più dolce, più morbido o, al contrario, più aggressivo e passionale. Ma non l’aveva mai provato.
- Ziegler, smettila di balbettare mentre parli con me, sembri un’idiota.
E sapeva che Maggie scherzava, ma la sua timidezza, talvolta, le provocava una lieve e fastidiosa balbuzie mentre le parlava.
E le era passata, col tempo, ma lei non era stata l’unica ragazza a piacerle.
Si era presa una sbandata fortissima per una tirocinante nella sua Università, giovane, bellissima, con una personalità dolce e un modo di fare tutto suo. Si chiamava Lucy.
“Dovremmo uscire insieme, qualche volta”, le aveva detto un giorno, prendendo coraggio. Solo che non aveva mai avuto il coraggio di dirle nient’altro.
Insomma, Tracy aveva appurato di essere bisessuale.
E questo era un altro tassello pronto a rendere la sua vita un bel brodo di complicazioni.
 
 
Tracy uscì dalla clinica in fretta e furia. Sapeva che era il suo turno, quella sera, di fare la spesa e se non fosse scappata al supermercato probabilmente avrebbe trovato tutto chiuso e addio pranzo e cena per tre giorni. Infilò gli occhiali da sole nella borsa, vedendo il cielo scuro. Si accorse della lieve pioggia che aveva iniziato a picchiettarle sulle ciocche dei capelli e sbarrò gli occhi.
“Cazzo, l’ombrello”.
Non lo aveva portato.
Fece un verso frustrato, stringendo i pugni e tirando un calcio a una foglia sul pavimento.
- Serve una mano, dottoressa?
Gli occhi di Tracy si spalancarono ancora di più. Quella voce era proprio… Quella voce. Jake le sorrideva lievemente, con un ombrello a coprire la testa di entrambi.
 
- Sono trentuno e sessantasei.
Tracy allungò i soldi sulla mano della cassiera e sorrise, prendendo le buste e salutandola mentre usciva dal supermercato. Jake la stava aspettando ancora fuori, tremava tutto e, nonostante l’ombrello, sembrava essersi bagnato leggermente.
- Eccomi. Dio, scusami, forse avevi da fare e ti ho trattenuto e… - guardandolo meglio, Tracy si accorse delle lacrime sulle guance del ragazzo. Lo aveva già visto piangere. Ma ora non erano nel suo studio, era una situazione così diversa e lei non sapeva assolutamente cosa fare. Senza pensarci due volte, lasciò le buste per terra e gli si avvicinò, gli occhi ricolmi di apprensione. – Jake, tutto bene?
Senza quasi rendersene conto sentì le braccia del ragazzo avvolgerla, ricominciando a percepire le gocce di pioggia caderle sui capelli. Un abbraccio, quello era un abbraccio.
Sebbene inizialmente titubante, strinse la presa a sua volta attorno al corpo magro di Jake, sentendolo tremare violentemente sotto ai vestiti.
Sentì la stretta di Jake farsi più forte sulla sua schiena e il cuore iniziò a batterle così forte da fermarle il respiro. Il profumo di Jake, misto a quello dell’erba bagnata, le riempirono completamente le narici. Sentendolo singhiozzare gli accarezzò con dolcezza le spalle, allontanandosi poi per allungare una mano sul suo viso per asciugargli le lacrime. Gli sorrise dolcemente e lo sentì deglutire.
In quel momento, le sembrava di essere in una fiaba. Era talmente emozionata da sentire le gambe tremare insieme al cuore, gli occhi di Jake erano puntati nei suoi, e anche se erano lucidi e rossi per il pianto, erano esattamente come nel suo sogno. Erano grandi, così grandi da poter contenere il mondo. Non si curavano della pioggia, ormai con i capelli completamente fradici.
Le loro fronti si toccarono, come i loro nasi.
Tracy sentì il respiro veloce di Jake contro le labbra.
E il contatto tra le sue e quelle del ragazzo fu così delicato e dolce che fece sparire ogni altro pensiero.

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Capitolo 10
*** Capitolo nono ***


Le lacrime di Jake bagnavano le guance della giovane psicologa mentre le labbra dei due ragazzi si sfioravano con dolcezza, delicate e gentili. In quel bacio non c’era nulla di aggressivo o di frettoloso. Era un bacio che univa la generosità di Tracy e la tristezza di Jake, la voglia di curare qualcuno di una e il bisogno di affetto e comprensione dell’altro. Il bacio più tenero che Tracy avesse mai dato.
Le labbra di Jake non erano morbide, erano ruvide e fredde come i suoi sguardi, ma a Tracy quegli sguardi non avevano mai dato fastidio e non le avevano impedito di avvicinarsi piano al ragazzo, non le avevano mai impedito di prendersi cura di lui. Come una bambina che, con tutta la delicatezza del mondo, si avvicina ad un uccellino ferito per portarlo nella sua casa, al caldo e lontano dai mali del mondo.
Ma.
Nonostante si sentisse così bene, era sempre ostacolata da un pensiero, quello che avrebbe compromesso sia il suo lavoro che la guarigione di Jake.
Tracy si allontanò dalle sue labbra, lo guardò negli occhi ancora lucidi. – Scusami.
Jake la guardò a sua volta, sfiorandosi con la punta delle dita il labbro inferiore e Tracy ebbe paura, per un attimo, che potesse nuovamente crollare davanti ai suoi occhi. Invece il ragazzo trasse un respiro profondo e lo buttò fuori lentamente. – Scusami tu, ho cominciato io.
-  Ma io non avrei dovuto continuare.
La ragazza vide le spalle di Jake piegarsi, come se il peso dell’ombrello fosse diventato d’un tratto insostenibile. Sospirò sfiorandogli le dita. – Non voglio che… Non voglio che tu fraintenda, Jake.
- Per favore, non… - il ragazzo si schiarì la voce. – Non dirmi nulla. E’ stata una brutta giornata.
Tracy, anche se non ne capì il perché, sentì un nodo attorcigliarsi attorno alla gola. O forse lo sapeva, ma semplicemente non aveva il coraggio di ammetterlo. – Non possiamo. Non è questo che dovrebbe succedere tra un paziente e…
- Ma è successo, Tracy.
L’aveva chiamata per nome. Non era più “la dottoressa Ziegler” e non era assolutamente una buona cosa.
- E’ successo e non possiamo far finta di niente. La vita non è un manuale.
- Jake, non posso essere la tua terapista se… Se è appena successo questo. Ti farebbe solo male.
- Ma perché? Perché non…
- Perché questo non sarebbe dovuto succedere.
- E io adesso cosa dovrei fare? Dovrei dire a mia sorella che non potrò più fare la terapia perché ho baciato la terapista? Oh, e tra l’altro lei c’è anche stata. Ma fa passare questa cosa come se dipendesse solo da me.
- Conosco tanti terapisti che…
- Hai idea di quanto mi ci sia voluto per aprirmi? – Jake tirò su col naso. – Sono venuto da te, sono riuscito a raccontarti solo una piccola parte di me e della mia vita, perché mi fido. Ricominciare da capo sarebbe come prendermi a pugni da solo.
- Lo faccio per te, Jake. Questo rapporto comprometterebbe la tua guarigione.
- Parli come un cazzo di robot. Sei un essere umano. Hai dei sentimenti, provi delle cose, quanto ti costa ammetterlo? – il ragazzo respirò dal naso, Tracy si vide passare l’ombrello che manteneva con un braccio e lo guardò posarsi il cappuccio della giacca verde ed enorme sulla testa.
Non seppe come descrivere l’ultimo sguardo che Jake le lanciò. Notò solo quegli occhi grandi diventare di nuovo lucidi, la fronte corrucciarsi e le labbra arricciarsi, prima di vedere il musicista voltarsi, allontanarsi senza dire nulla.
E gli occhi di Tracy si riempirono di lacrime, le dita si strinsero spasmodicamente attorno al manico dell’ombrello che Jake le aveva dato.
Per l’ennesima volta nella sua vita, si era innamorata della persona sbagliata.
 
 
Tracy tornò a casa singhiozzando come al solito da una settimana a quella parte. Si era presa una bella sbandata per un ragazzo che le era sembrato perfetto in tutto e per tutto, e nonostante i suoi sentimenti fossero ricambiati, lui le aveva confessato di non riuscire a stare bene in una relazione, di avere bisogno di tempo per se stesso. E Tracy, ovviamente, non lo biasimava e non lo odiava. Ma si era illusa di qualcosa che era subito vaporizzato, sparito, perché per lei quel ragazzo era diventato importante da subito e non la considerava più neanche di un minimo dopo la rottura, nonostante le avesse detto tutt’altro in precedenza.
E la sua prima relazione non era stata granché allo stesso modo. Per un anno aveva vissuto con il peso della distanza sulle spalle, a soli quindici anni, quando sei troppo piccola per capire troppe cose. Ma lei era stata innamorata per la prima volta, e i suoi sentimenti erano stati talmente forti che anche a distanza di chilometri e chilometri era riuscita a non mollare, fino a quando non ce l’aveva fatta più.
E traendo le sue conclusioni, quelle sue due prime esperienze non erano state proprio idilliache. Vedeva i suoi amici passare intere giornate con i propri ragazzi o le proprie ragazze ed era felice per loro, ma si chiedeva, nonostante avesse solo diciassette anni, per quale motivo non potesse stare realmente bene con qualcuno a sua volta, senza che si presentassero problemi di ogni tipo.
Ma quel giorno era particolarmente triste ed esserlo la faceva anche arrabbiare.
“Non puoi ridurti così per un ragazzo. Tanto, ci saresti stata male ugualmente anche se non ti avesse lasciata.”
Doveva andare avanti per la sua strada, superare quello scoglio che, dal nulla, senza che lei lo volesse, le si era presentato davanti.
“Ci riuscirai. Riuscirai a stare bene, troverai qualcuno che ti amerà come tu lo amerai. Succede a tutti, perché non dovrebbe accadere a te?” questo si disse, guardando la sua immagine riflessa nello specchio.
Trasse un respiro profondo e rizzò le spalle. Lei era Tracy Ziegler. In soli diciassette anni aveva dovuto affrontare prove e problemi ben peggiori e sarebbe riuscita a superare anche quello.
“Starò bene”.
E ci credeva sul serio. Solo che, non appena staccò lo sguardo dallo specchio, ricominciò a singhiozzare.
 
 
Quando Maggie aprì la porta, si trovò davanti la sua coinquilina evidentemente a pezzi. Tracy era bagnata dalla testa ai piedi e piangeva come una bambina. La ragazza strabuzzò gli occhi, tirandola dentro l’appartamento, non curandosi del pavimento che rischiava di bagnarsi.
- Tracy, Gesù, che succede? – le domandò accarezzandole una spalla. Notò la coinquilina appoggiare un ombrello che non aveva mai visto in vita sua sull’uscio. Guardandola meglio, capì subito tutto quanto. Non era troppo raro vedere Tracy piangere, ma nemmeno così frequente. L’ultima volta in cui era successo stavano guardando insieme un cartone animato, anche se in quel momento non riusciva nemmeno a ricordare bene quale.
“Il castello errante di Howl”, forse, ma non ne era sicura. Solo che in quel momento non stavano guardando nessun film dello studio Ghibli e lei non aveva ottenuto alcun aumento o riduzione della paga (altri motivi per cui l’aveva vista piangere).
Quindi, da ciò che capiva, doveva essere quel tipo di problema a cui spesso non c’è rimedio oltre all’accettazione.
E quel problema era l’amore.
Tirò la sua coinquilina e migliore amica in un abbraccio, accarezzandole le spalle per darle un minimo di conforto.
- Dai, andiamo in camera. Ho comprato delle ciambelle.
 
Maggie sospirò, appoggiando le mani sulle ginocchia incrociate. Non sapeva seriamente cosa dire, questa volta. Aveva sempre cercato di aiutar Tracy come poteva, ma questa non era una situazione come tutte le altre. Era più grande sia di lei, che di Tracy, che di Jake. E anche se lei non conosceva il ragazzo in questione, poteva immaginare come si stesse sentendo: non aveva idea di quale genere di dolore lo turbasse, ma quando lo aveva visto per la prima volta aveva dedotto che ci fosse qualcosa che lo turbava per davvero, perché quell’espressione e quel viso non erano tipici di un ragazzo di ventiquattro anni in salute.
E sicuramente non era facile nemmeno per Tracy, che in un modo o nell’altro avrebbe dovuto abbandonare qualcosa a cui teneva.
Ma Maggie, per quanto romantica potesse essere, era anche abbastanza analitica. – Davvero, mi trovo davanti a una cosa di cui non so cosa pensare. Da una parte so che tieni a Jake, questo credo lo abbia riconosciuto anche tu, adesso.
Tracy tirò su col naso.
- Però… - la coinquilina prese le mani della giovane psicologa, guardandosi le caviglie. – Non puoi rischiare di perdere il tuo lavoro per questa cosa. Non sai nemmeno come potrebbe finire. So quello che provi per Jake e lo capisco, ma… Non sempre l’amore ti porta alla felicità. Per essere felice hai anche bisogno di stabilità, di una sicurezza. E l’amore, soprattutto per un ragazzo che non è evidentemente nelle condizioni di amare davvero, per quanto possa far star bene, è un rischio. – asciugò le lacrime sulle guance di Tracy e le sorrise. – Tu sei una psicologa fenomenale e io ne sono sicura. Sei riuscita a ottenere un posto di lavoro immediatamente in un ambito in cui non tutti riescono. E ovviamente non posso decidere cosa sia meglio per te, ma sei sicura che valga la pena rischiare per qualcosa di incredibilmente incerto?
- Io credo di essermi innamorata, Maggie.
- Ascolta. – sospirò la ragazza. – Non lo metto in dubbio, solo… Sei sicura che sia amore? E che non sia semplicemente istinto di protezione verso il tuo paziente?
- Sono già stata innamorata, riconosco ciò che provo.
- Resta il fatto che questa situazione è incerta, Tracy. E soprattutto, meriti qualcuno che ti ami come lo ami tu. E non sai cosa ci sia nella testa di Jake, perché come tu potresti vederlo come qualcuno da proteggere, lui potrebbe vedere te come qualcuno disposto a proteggerlo.
 

 
 
Jake, davanti alla camera di suo fratello, ci aveva trovato solo Joy. Joy, accartocciata sulla porta e con le braccia a circondare le gambe esili. E aveva temuto il peggio quando l’aveva vista piangere.
- Ha avuto un’altra crisi. Forte, molto più delle altre. Ha iniziato a sbattere la testa sulle pareti fino a sanguinare. – la voce di Joy era spezzata e tremante, i suoi occhi erano terrorizzati. Jake si era dovuto abbassare per ascoltarla, perché senza avvicinarsi non avrebbe sentito assolutamente nulla.
- Mi dispiace, Jake, è colpa mia.
- No, Joy, no. Non pensarci nemmeno. – cercò di tranquillizzarla come poteva, nonostante avesse così tanta paura da sentirla scalpitare nello stomaco, facendogli venire da vomitare. La guardò avvicinandosi ancora, sentendo la testa girare. Stava succedendo tutto insieme: prima sua madre, poi Tracy, e ora Sam. Gli veniva da piangere, ma non riusciva a tirare fuori le lacrime.
- No, io… Lui ha iniziato ad agitarsi e io ho cercato di fermarlo, ho cercato di calmarlo ma non ci sono riuscita.
Non aveva idea di cosa dirle. Non riusciva più a capire nessuno. - Ma non è stata colpa tua. Non… Non c’è modo di…
- Puoi abbracciarmi, Jake?
Il fiato gli si bloccò nel petto. Non aveva mai abbracciato Joy e non sapeva come fare, non aveva idea di come un abbraccio potesse tirarla su. Deglutì, scrollando le spalle. – Sì.
Non ebbe il tempo di chinarsi che si vide avvolgere due braccia quasi sconosciute al collo e per un attimo non seppe come reagire. Avvolse semplicemente le braccia attorno alla figura sottile di Joy, sentendola singhiozzare sulla sua spalla.
- Non voglio perdere Sam.
Non lo avrebbe voluto nessuno, Jake per primo. Sam era luce, con la sua allegria avrebbe potuto illuminare una stanza, forse anche darle fuoco. Era testardo, sfrontato e a volte anche arrogante, ma i suoi sorrisi erano sempre i più luminosi.
Peccato che, da più di un anno, i sorrisi non c’erano più. Era apatia totale.
E ancora una volta, Jake si ritrovò a non sapere come rispondere. Si limitò ad accarezzare la spalla di Joy, mentre si sentiva stringere più forte.
 
 
Il sonno del povero Danny fu disturbato dal campanello, che trillò per diverse volte facendolo mugolare.  Si chiese chi diavolo stesse suonando così insistentemente a quell’ora, ringraziando di vivere da solo: se ci fosse stato qualcun altro, in quella casa, avrebbe sentito le sue imprecazioni e se ne sarebbe probabilmente spaventato. Sentì per l’ennesima volta il suono del campanello e sbuffò. – Sto arrivando, Gesù!
Strofinò il dorso della mano sul naso, sbattendo le palpebre un paio di volte per snebbiare la vista. Quando aprì la porta, aggrottò la fronte. Quella visita proprio non se l’aspettava.
- Jake?
Il ragazzo aveva una sigaretta tra le labbra, stava cercando di accenderla senza riuscirci. – Cristo!
- Jake, che cazzo gridi? Saranno le quattro del mattino! – sussurrò il più piccolo, afferrando il ragazzo per un braccio e tirandolo dentro casa. – Che ci fai qui?
- Amico mio. – rise Jake, con la voce impastata e la sigaretta che gli pendeva ancora dalle labbra. – Be’, come va?
Danny lo guardò, incredibilmente serio, con le braccia incrociate davanti al petto. – Sei ubriaco. Di nuovo.
- Mi sono solo divertito un pochino. Sai, quando tutto fa schifo… - il maggiore si portò una mano alle labbra, spalancando gli occhi, facendoli strabuzzare anche a Danny.
- No, Jake, ti prego, vai in ba… - Non riuscì a finire la frase che lo vide chinarsi facendo cadere a terra la sigaretta e vedendosi sporcare il pavimento di vomito. Sospirò, strofinandosi gli occhi stanchi con le dita. – Oh signore.
- S-scusa.
- Non è la prima volta che te lo dico. Non è a me che devi chiedere scusa.
Jake puntò lo sguardo sul pavimento, indicandolo. – Devo chiederlo a lui?
Danny afferrò il mento di Jake e gli tirò su la testa, sferrandogli uno schiaffo che risuonò nel silenzio della casa. Il ragazzo davanti a lui rimase a bocca aperta, portandosi una mano sulla guancia colpita che si era tinta di rosso. – Merda, Danny, non ti facevo violento!
Il minore gli tenne stretta la mandibola, guardandolo negli occhi con un’austerità che nemmeno gli apparteneva. Nel loro gruppo lui era sempre stato quello più silenzioso, il più dolce e il più timido di tutti. Educato, equilibrato e mite. Ma anche se quel gesto non gli apparteneva, non se ne pentì minimamente. – Sei una testa di cazzo. Quando la smetterai di fare male a te stesso?
- Ora sei tu a farmi male. Lasciami o mi verrà un livido.
Il batterista lasciò la presa, non smettendo di guardarlo. – Scusami. Ma devi capire che sono arrabbiato. Lo sono perché stai continuando a non fare assolutamente niente per stare meglio.
- Oh, invece sì. Però mi sono innamorato della mia psicologa.
- E pensi che ubriacarti possa migliorare le cose?
- Almeno provo qualcosa.
Danny sentì la sua pazienza vacillare. – Ma ti senti quando parli? Non sei in un film per adolescenti, Jake. Questa è la tua vita e tu la stai buttando all’aria. Una volta suonavi ed eri il più bravo chitarrista che conoscessi. Avrei dato tutto per essere come te, un giorno. E adesso? Vuoi sviluppare una dipendenza a ventiquattro anni?
- Non me ne importa più nulla, Danny. – l’espressione di Jake si fece seria, gli occhi puntati sul pavimento. – Non mi interessa. Non ho più niente, ho perso mio fratello, sto per perderne un altro e ho rovinato l’unica cosa che mi faceva stare bene. Che senso ha continuare?
- Io sono gay, Jake. Sono innamorato di Sam.
Vide il ragazzo fermarsi, fissarlo. E non seppe perché cazzo glielo avesse detto. Quelle parole erano uscite di getto dalle sue labbra quasi senza che lui le potesse controllare. Senza motivo, senza contesto. Erano solo… scappate.
Guardò Jake negli occhi, cercando di capirlo. Il chitarrista aveva lo sguardo corrucciato. Non sembrava arrabbiato, o stranito. Perplesso, quello sì.
- Ti prego, Jake, dimmi qualcosa.
Il ragazzo alzò gli occhi su di lui. – Non… Non me ne ero mai reso conto. Credevo ti piacesse Mackenzie.
- No, non mi è mai piaciuta. E’ una brava ragazza, le voglio bene. Ma non è che un’amica.
Jake tossicchiò.
- Sei arrabbiato con me?
Il maggiore lo guardò come se fosse pazzo. – Sei scemo? No. Non lo ero nemmeno quando mi hai picchiato.
- Non ti ho picchiato.
- Vabbè, quando mi hai tirato una sberla.
Danny sospirò di sollievo, tuttavia ancora in ansia.
- Io sono solo… Deluso. Ma non per il fatto che ti piacciano i ragazzi, non potrei mai. Solo, ci conosciamo da quando io avevo otto anni e tu ne avevi sei. Non capisco perché tu non me lo abbia mai detto.
Il batterista chiuse gli occhi, respirando profondamente. – Io e te adesso ci facciamo una chiacchierata. E tu berrai un litro d’acqua.
 
 
Se c’era una cosa che Danny amava fare e che non lo avrebbe mai stancato, era suonare con i fratelli Kiszka nel loro garage. Certo, ogni volta c’era un bel casino. I gemelli si erano picchiati più di un paio di volte, il tutto mentre Sam li riprendeva con il suo cellulare. E lui stava lì, dietro la sua batteria, vicino al bassista a ridere a crepapelle, con la voglia irrefrenabile di prendere il suo migliore amico per mano e di baciarlo.
Quando guardava Sam si sentiva un coglione. Sentiva l’intestino attorcigliarsi ancora di più su se stesso e il cuore battergli fortissimo. Ciò che amava più del ragazzo era la sua risata. Avrebbe potuto ascoltarla per tutta la vita, spesso si immaginava sdraiato con lui sull’erba, con le dita tra i suoi capelli mentre lo sentiva ridere. E quando incontrava il suo sguardo sentiva un vuoto nello stomaco che non aveva mai provato con nessun altro.
Ma, a parte quello, ciò che più gli piaceva era suonare con i suoi migliori amici. Gli metteva una carica incredibile, la sentiva nel petto e nelle ossa. E a Frankenmuth quei ragazzi erano gli unici ad avere gusti musicali simili ai suoi.
Danny fungeva un po’ da mediatore, era il più pacato e, anche se vedere i tre fratelli litigare lo faceva piegare in due dalle risate, cercava sempre di mantenere un clima pacifico nella stanza. Voleva bene a tutti e tre e anche a Ronnie, che ogni tanto, insieme a sua sorella Josie, restava a guardarli provare mangiando delle patatine o dei biscotti. Per non parlare di Karen e Kelly, che erano sempre pronti a trattarlo come un figlio. Erano una famiglia, tutti insieme, senza distinzioni, e Danny con loro si era sempre sentito a casa.
Tuttavia, pur essendo consapevole della sua sessualità, non ne aveva mai parlato con nessuno di loro. Prima di tutto perché Sam era uno dei Kiszka, e quindi la cosa avrebbe potuto rovinare gli equilibri e i rapporti meravigliosi che si erano creati, e in secondo luogo perché aveva paura della reazione che avrebbero potuto avere tutti. Non perché fossero omofobi o stronzate simili, anzi, la famiglia Kiszka aveva sempre diffuso un ideale di uguaglianza e di pace, ma non aveva idea di come avrebbero potuto prenderla. Forse sarebbe stato difficile mantenere un segreto così grande, o sarebbe stato imbarazzante. E, anche se ancora non lo sapeva, tenersi tutto dentro non lo avrebbe portato da nessuna parte.

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Capitolo 11
*** Capitolo decimo ***


- Non lo avrei detto a nessuno, Danny. Tantomeno a Sam. – sospirò Jake, stropicciandosi un occhio. – E… E nemmeno Josh lo…
Danny fermò Jake prima che potesse finire la frase. Non voleva farlo stare ancora peggio, date le sue condizioni già pessime, sapeva che parlare di Josh gli facesse male. Gli posò una mano sulla spalla, sentendola ancora più spigolosa dell’ultima volta che l’aveva sfiorata. – Lo so.
Il più grande abbassò lo sguardo sul pavimento.
- Ma non è solo questo, Jake. E’ che non volevo rovinare tutto. Magari si sarebbe creato imbarazzo o…
- Non avresti mai potuto rovinare nulla. Sei sempre stato come un fratello e come un figlio per tutta la nostra famiglia, era un rapporto troppo forte per potersi spezzare. Tra l’altro ti ho sempre considerato un fratello maggiore pur essendo più piccolo di me. Anche adesso. – Il ragazzo deglutì. – E non mi ero mai accorto del fatto che potessi star male anche tu. Ero talmente concentrato sul mio dolore da non notare il tuo. Mi sento stupido.
- Ma che stai…
- Fammi finire. – Jake si morse un’unghia. – Mi sento stupido perché tu mi hai sempre aiutato. Mi hai sempre dato dei consigli che sono serviti a farmi stare meglio. E io non mi sono mai accorto che anche tu avessi bisogno di qualcuno.
- Non potevi saperlo, Jake.
- Avrei dovuto rendermene conto.
- Non devi sempre e per forza darti la colpa, non serve a nulla. Serve solo a farti odiare te stesso ancora di più. – strinse più forte la spalla di Jake. – Tu hai perso un gemello. E per quanto possa fare un male tremendo anche a me, per te è una cosa completamente diversa. Non so cosa si provi, non riesco nemmeno a immaginarlo, ma posso solo dirti che l’unica cosa sbagliata che hai fatto è stata non prenderti cura di te stesso.
Danny vide un piccolo sorriso apparire sulle labbra del maggiore. – Tu sei assurdo.
- Come?
- Nel senso, - Jake agitò le mani in aria. – Tu sei la persona più buona che abbia mai conosciuto. In ventun anni sei sempre stato attento agli altri, forse mettendo anche te stesso in secondo piano.
- Anche io sbaglio. Perché sono umano, e da umano cado anch’io. Spesso proprio per il mio mettere gli altri al primo posto faccio degli errori nei confronti di me stesso.
- Ti voglio bene, Danny.
Il più piccolo rise, scrollando le spalle. – Non avevo mai sentito questa frase uscire dalle tue labbra.
- Nah, come la fai lunga, non è vero.
- Anch’io ti voglio bene, comunque. Stai meglio?
Jake annuì appena. – Sì. Mi gira solo un po’ la testa.
- E per quell’altra cosa?
- Di che parli?
- Della psicologa.
 
 
- Jake Kiszka! Da quanto tempo, hai deciso di diventare astemio? – la vivace voce di Leo non risollevò Jake neanche per sbaglio.
- Tre birre.
L’espressione del barista cambiò e il ragazzo, di pochi anni più grande di Jake, abbassò la testa asciugando i bicchieri. – Non si salutano gli amici?
Il chitarrista stava perdendo la pazienza. – Sì, okay. Ciao, Leo.
Al ragazzo dietro al bancone bastò quella risposta per sorridere di nuovo. Leo era sempre stato un tipo strano. Era sempre allegro, ogni volta che era Jake andato lì non aveva mai visto un’espressione mogia o triste sul suo viso. Era originario di Santo Domingo, aveva una lunga chioma scura di dreads e ciglia lunghissime.
- Che mi dici? Come stai? Ti vedo molto dimagrito.
- A posto. – rispose Jake scrollando le spalle. Aveva il morale a terra, non voleva parlare con nessuno. In testa aveva solo i riccioli rossi di Tracy e la sua voce morbida mentre gli parlava. Non ricordava nemmeno quando avesse iniziato a provare qualcosa per lei, sapeva solo che era così strano. Non provava nulla per nessuno da quando Jita era andata via, ma si chiedeva se dipendesse solo dal fatto che in quegli anni non fosse uscito con molte ragazze o dalla sua incapacità di sentire qualsiasi cosa. Forse non era così, forse semplicemente non aveva trovato ancora nessuno che riuscisse a farlo sussultare ogni volta che ci pensava o sentiva il suo nome.
E ora che l’aveva trovata, era impossibile.
- Tieni, sono dieci dollari. – Leo allungò i tre bicchieri e Jake allungò la banconota, incastrando poi due bicchieri nelle mani e il terzo nell’incavo del braccio destro.
Uscì dal locale e, tra uno e l’altro, fumò due sigarette. Dopo il terzo se ne mise in bocca un’altra. Tossì un paio di volte.
“Smettila o ti si carbonizzeranno i polmoni”, gli diceva sempre Ronnie. Ormai non poteva farci più di tanto. Ricordava quando, in quarta superiore, sua sorella gli aveva buttato tutto il pacchetto nella spazzatura.
Espirò il fumo dalle labbra schiuse, iniziando a sentire la testa un po’ più leggera. Ma c’era sempre Tracy, e poi c’era sua madre. C’era Sam, sedato in ospedale. Prima di fare tappa in quel pub, aveva accompagnato Joy a casa sua.
“Sei da sola?” le aveva chiesto una volta sotto al suo portone.
“Ci sono Stevie e Ruth, di sopra. Mi terranno compagnia loro” gli aveva risposto Joy, riferendosi alle sue cagnoline. Jake aveva annuito, salutandola con un mezzo sorriso e tornando alla macchina.
Il ragazzo guardò la propria automobile con la mente annebbiata. Di certo non poteva guidare per andare a casa. Ma si ricordò della casa che si trovava a pochi metri dal pub.
Mentre barcollava verso l’edificio, sperò solo che Danny non si sarebbe troppo arrabbiato. Ma quella, d'altronde, non era una cosa possibile.
 
 
Quando Danny tornò nel proprio salotto con due bicchieri d’acqua tra le mani, si sorprese nel vedere Jake addormentato sul proprio divano. Si era allontanato solo per un minuto scarso, eppure nel frattempo il maggiore aveva preso sonno immediatamente. Rise appena e scosse la testa e, visto che si era fatta mattina, non seppe se svegliarlo per riaccompagnarlo da Veronica o lasciarlo dormire in casa sua. Inizialmente optò per la prima.
Gli si inginocchiò di fronte e gli scosse una spalla dolcemente. – Jake.
Lo chiamò un’altra volta, ma quando alla terza non gli rispose scrollò le spalle, decidendo di lasciarlo dormire. Dopotutto, anche lui stava morendo di sonno e voleva tornare immediatamente a letto dopo quel brusco, ma alla fine piacevole risveglio.
E sapendo quanto scomodo fosse il suo divano, non voleva che il maggiore si risvegliasse col torcicollo. Lo prese tra le braccia con tutta la delicatezza possibile, facendo scivolare un braccio sulla schiena e l’altro sotto le ginocchia di Jake. Fece in modo che la sua testa non penzolasse dalle sue braccia e se la posò contro una spalla, sentendolo muoversi appena e facendo ancora più attenzione. Lo sistemò nel proprio letto coprendolo con la trapunta.
Ancora una volta, dimostrava a se stesso di tenere molto di più a qualcun altro piuttosto che a se stesso. Avrebbe permesso a Jake di dormire comodamente sul suo letto a costo di rompersi la schiena su quello scomodo divano, ma gli andava bene così.
Sentì una vibrazione provenire dalla tasca del jeans del maggiore e si affrettò a prenderlo per non svegliarlo, allontanandosi dalla stanza e chiudendo la porta.
Nello schermo del display c’era scritto semplicemente “Ronnie”, il nome seguito solo dall’emoji di uno scoiattolo. Rispose alla chiamata avvicinandosi il cellulare all’orecchio. – Ronnie, sono Danny.
Seguirono dieci secondi di silenzio. Poi sentì distintamente un sospiro. – Il tuo amico mi farà impazzire, Daniel.
Il batterista sorrise. – Tranquilla, è qui con me. Sta dormendo.
- Sta bene?
Danny sentì il cuore sciogliersi. La sorella di Jake – che era anche un po’ la sua, di sorella – era sempre così apprensiva nei suoi confronti e questa cosa faceva sorridere Danny. Sapeva che anche Josie, sua sorella, si sarebbe comportata così se lui fosse stato nella situazione di Jake. Ronnie si occupava di lui, in un senso certo lo accudiva. Era ciò che una sorella avrebbe dovuto fare.
- Sì, sta bene. E’ venuto a suonare un po’ da me. – si sentiva uno schifo per starle mentendo, ma non voleva farla preoccupare ancora di più dicendole che suo fratello era arrivato in casa sua completamente ubriaco.
- Ha suonato? – la voce della ragazza era sorpresa, in modo positivo. E Danny si sentì ancora peggio.
- Diciamo che ha fatto pace con la chitarra.
- Danny, sei un angelo. Grazie, davvero. Non ho assolutamente idea di come dovrei fare se non ci fossi tu. Ha avuto qualche incubo? Si è agitato?
- Dorme come un bambino, tutto sotto controllo.
- Ti ha detto quando tornerà?
- No, ancora no. Ma appena si sveglia te lo riporto a casa, giuro.
- Non ti scomodare. L’importante è che stia bene. E che non sia andato a bere da qualche parte.
Anche dopo quella frase, Danny non disse nulla.
- A dopo, Ronnie.
- Ciao, Dan.
Quando Danny chiuse la chiamata, tirò un sospiro di sollievo, guardando il suo scomodo divano come se fosse un letto a baldacchino. Sorrise e ci si sedette sopra.
Ma non ebbe nemmeno il tempo di sdraiarsi che il cellulare di Jake vibrò di nuovo.
Il contatto prendeva il nome di “Ziegler T”.
 

 
- Pronto?
La voce che Tracy sentì era assonnata e confusa – aveva anche un che di esasperato -, ma non era quella di Jake. No, se fosse stata la sua l’avrebbe riconosciuta. Era una voce maschile, ma era molto più profonda e grave. Non sapeva dire di chi fosse.
- Sì, buongiorno. Mi scuso per l’orario, ma… Per caso c’è Jake?
- Sì, sta dormendo. E’ urgente? - era una voce gentile e soffice, sembrava appartenere a un ragazzo della sua età, o poco più grande.
- No, io… Avevo solo bisogno di parlargli.
- Se permetti alla tua identità di uscire allo scoperto posso fare qualcosa in merito.
Tracy si fermò per un attimo. Non sapeva cosa dirgli, Avrebbe dovuto dire di essere la sua psicologa? Ma non lo era nemmeno più. Deglutì la saliva e sospirò. – Tracy, mi chiamo Tracy.
Il suo interlocutore restò in silenzio per interminabili secondi. – Sei tu.
Il cuore le salì in gola. La conosceva?
- I-Io…
- Sveglio Jake.
- No, no, davvero, non…
- Aspetta in linea.
La chiamata era stata messa in attesa. Il cuore di Tracy batteva fortissimo, si stava sforzando di respirare profondamente per darsi una calmata. Sembrava essere tornata ai suoi diciassette anni, quando perdeva totalmente la testa davanti alla persona che permetteva ai suoi occhi di brillare e alla sua bocca di balbettare facendola diventare una completa cretina.
Si ricordò del bacio che si erano dati il giorno prima e le venne quasi da piangere. Non sapeva cosa fare, non aveva nemmeno idea di ciò che avrebbe detto a Jake. Voleva solo sentirlo parlare.
- Tracy.
Tracy pensò di star avendo un infarto. Il tono di voce di Jake era così diverso dal solito, le parole erano leggermente impastate, forse si era appena svegliato. Però sembrava stupito, c’era una traccia di emozione nella sua voce.
- Jake, ciao. Io… Scusami se ti ho svegliato. – si sorprese della calma che era riuscita ad avere nel rispondergli. Almeno in questo era leggermente migliorata.
- Non fa niente. Volevi dirmi qualcosa?
La giovane psicologa si morse il labbro inferiore. – Sì, solo... Mi dispiace aver lasciato il discorso di ieri in sospeso.
- E come vorresti concluderlo?
La ragazza trasse un respiro tremolante. – Be’, vedi…
- E’ inutile parlarne attraverso un telefono. Dovresti saperlo meglio di me.
- Allora…
- Allora dimmi dove sei che ti raggiungo.
 
 
Tracy passò quella notte tra le braccia della sua migliore amica, che era rimasta affianco a lei fino ad addormentarsi. Ma lei non dormì per niente.
Aveva in testa solo una cosa, e quella cosa la stava crogiolando. Non sapeva assolutamente cosa fare, si trovava davanti a una scelta difficilissima. Si era sudata quel lavoro che aveva ottenuto, e lo stava facendo bene. Ma allora perché aveva dovuto innamorarsi proprio del suo primo paziente? Si girò e rigirò nel letto. Baciare Jake era stato come trovarsi davanti ad una baita dopo aver scalato una montagna. In quel momento aveva sentito un moto di affetto crescerle nel petto e nello stomaco, in quel bacio aveva sentito il bisogno di Jake di essere amato.
Anche se lo desiderava, non poteva essere lei ad amarlo. Farlo avrebbe voluto dire mettere in pericolo il proprio lavoro e peggiorare ancora di più la salute di Jake, perché anche se avesse trovato un altro terapista non si sarebbe fidato di lui.
Si chiese perché per Jake fosse così difficile riuscire a fidarsi di qualcuno. Si chiese perché si fosse fidato di lei, anche se dopo mesi e mesi. Avrebbe voluto capirlo, parlarci, trovare quell’intesa che non c’era solo tra psicologa e paziente, ma anche tra due anime. Due anime che si erano innamorate e che volevano incontrarsi di nuovo.
E come le aveva detto Maggie, non sarebbe stato facile amare quel ragazzo che non riusciva a stare bene nemmeno con se stesso. Non sapeva cosa fare.
Si erano fatte le sei del mattino e lei in tutto quel tempo non era riuscita a raggiungere una soluzione. L’unica cosa che trovò fu l’impeto di sentire di nuovo la sua voce.
 
 
Quando Jake la raggiunse, Tracy si trovava nel cortile di casa sua. La ragazza l’aveva visto sedersi accanto a lei e abbracciare le proprie ginocchia, mentre guardava un punto indistinto in lontananza. Tracy strinse i pungi e trovò il coraggio di guardarlo, vedendolo poi voltarsi per ricambiare lo sguardo.
- Posso sapere come stai?
La domanda di Jake stupì la ragazza. Di solito era lei a chiederglielo, in modo molto più formale. E si disse di essere sincera, perché la sua decisione pensava di averla presa.
- Non… Non lo so. Non ho dormito, non capisco nulla. Ma tanto non dormo quasi mai. – respirò profondamente, ricacciando le lacrime che stava per buttare fuori. – Sento di aver fallito.
- Fallito in che?
- In tutto. Ho fallito con te, ho fallito nel mio lavoro. Ti ho creato solo più problemi.
- Ascolta. – Tracy si sentì prendere per mano. E quella sensazione era così calda, così bella, nonostante le dita di Jake fossero freddissime. – Tu ti rendi conto di essere riuscita a farmi sentire qualcosa? – il ragazzo si appoggiò la sua mano sul cuore e Tracy lo sentì scalpitare sotto il palmo. – Ho sentito il mio cuore battere così forte tante volte in quasi due anni, ma non certo per qualcosa che mi rendesse felice. L’ho sentito così solo per l’ansia e per la rabbia. E adesso è diverso. Perché ora batte così forte per la paura che ho di perderti e per la voglia di restare con te.
- Jake…
- Tu mi hai fatto capire che il mondo non è così brutto come pensavo. Che non è vero che non riesco a innamorarmi, che provo altre emozioni oltre la tristezza e la rabbia. Non so se ti rendi conto di ciò che questo significa per me.
Tracy vide delle lacrime bagnare le guance ossute di Jake. Ma quel pianto era diverso da tutti gli altri che aveva visto cadere dagli occhi del ragazzo. Era un pianto che la implorava di non andarsene.
- Io non voglio che tu rinunci ai tuoi sogni, perché ci sai fare. E credo che se ci fossero più persone come Tracy Ziegler al mondo capaci di fare il proprio lavoro, probabilmente nessuno perderebbe più le speranze. Tu non hai fallito, né con me, né come psicologa. Tu mi hai permesso di fidarmi di qualcuno, di aprirmi, di sfogarmi. E io ne sto passando davvero tante, ora come ora, ma se non ci fossi stata tu forse non avrei avuto nemmeno il coraggio di uscire di casa. – la ragazza si sentì accarezzare una guancia con dolcezza. – Non sono nessuno per dirti di rinunciare al tuo lavoro, ai tuoi sogni e a te stessa. E vorrei solo farti capire che sei umana e che non hai sbagliato, che in quanto persona puoi innamorarti, al di là di tutto. Non capisco come tu abbia fatto a innamorarti di me, ma questo è un altro discorso. – Jake rise appena, facendo sorridere anche Tracy. Lei lo sapeva eccome, sapeva come aveva fatto ad innamorarsi di quel ragazzo. E anche se avrebbe preferito non provare niente, era qualcosa di impossibile.
- Qualsiasi strada deciderai di intraprendere, però, deve farti sentire bene. E non sarò io a impedirti di essere felice, per quanto male io ci possa stare. E sono stato un coglione, ieri, a dirti quelle cose. Solo, volevo…
La ragazza trovò la forza di spingersi in avanti e posare le labbra su quelle di Jake, per la seconda volta. Era un bacio diverso da quello della sera prima. Era sofferto, sì, ma più consapevole. Ed entrambi sapevano che quel bacio non era spensierato come avrebbe dovuto essere. Sapevano che quello non era un inizio, ma una fine. Un addio. Lo avevano capito da subito.
Jake portò una mano tra i ricci della psicologa, accarezzandoli lentamente mentre le loro labbra si scontravano. Le loro mani destre erano ancora intrecciate.
Quando si allontanarono fecero scontrare le loro fronti, ad occhi chiusi, restando solo ad ascoltare i loro respiri uniti come le loro dita.
- Credo di amarti. – sospirò finalmente Tracy. Si sentiva libera, completamente privata di un peso. Vide Jake sorriderle, lasciandole un altro bacio sulle labbra.
- Io ne sono già convinto.
La ragazza scoppiò immediatamente in lacrime. Passò le dita sulla guancia del chitarrista e deglutì. – Mi dispiace così tanto.
Si sentì stringere forte. Per una volta non era lei a dare conforto a Jake, ma era lui ad asciugarle le lacrime. – Non importa. – il ragazzo la guardò e le sorrise. – Suppongo che ci siamo solo conosciuti nella vita sbagliata.
- Voglio solo che tu mi prometta una cosa. Ne ho bisogno. – tremolò Tracy tra un singhiozzo e l’altro. Jake annuì, continuando a sorriderle.
- Cerca di riprendere in mano la tua vita. Cerca di stare bene e di non abbatterti mai, nonostante tu stia soffrendo in un modo che neanche voglio immaginare. Promettimi che ti innamorerai di nuovo, anche se non sarò io a farti provare queste emozioni.
Vide Jake respirare a fondo e guardare in basso. Poi però lo vide puntare di nuovo gli occhi nei suoi. – Solo se tu mi prometti che non ti dimenticherai di me.
La ragazza rise, scuotendo la testa e stringendogli più forte la mano. – Non ci riuscirei nemmeno se lo volessi.
Quello che si diedero dopo fu l’ultimo bacio. L’ultimo prima che Tracy vedesse il ragazzo alzarsi e sorriderle, ancora piangendo mentre si allontanava. - Spero di rivederti, un giorno. Magari, dopo aver ritrovato la strada che mi riporterà a casa.

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Capitolo 12
*** Capitolo undicesimo ***


- Ma tu sei proprio sicura che non ti annoierai a fare il terzo incomodo? – domandò Maggie, le sue dita intrecciate in quelle del suo ragazzo in piedi accanto a lei.
Tracy scrollò le spalle e sorrise, nonostante in cuor suo si sentisse un po’ sola. Ma, d'altronde, lei e Maggie erano scese a un compromesso: Tracy sarebbe stata disposta a essere la ruota di scorta, ma avrebbero passato quella serata di luglio al concerto che Hozier avrebbe tenuto a Detroit.
E anche a Maggie non dispiaceva affatto la musica dal vivo, quindi potevano dire di aver fatto un affare.
Se c’era un posto in cui Tracy si sentiva a suo agio, nonostante fosse circondata da persone che non conosceva, era sotto un palco. Si perdeva completamente nella musica e amava l’atmosfera che si creava, soprattutto quando era in un luogo aperto e al fresco. Ed era proprio quello il bello dei concerti estivi, nonostante le ore di fila sotto il sole ad aspettare per aggiudicarsi un posto da cui si potesse vedere e sentire bene.
In quel momento il cantante non era ancora sul palco, ma in pochi minuti avrebbe fatto il suo ingresso in quella serata calda e luminosa. L’area era allestita perfettamente, grande abbastanza da poter contenere una decina di migliaia di persone, o anche di più. I tre ragazzi erano riusciti a capitare in un buon posto in terza fila, vicini al palco e verso il centro.
Tracy era così concentrata sull’ambiente che la circondava che quasi non si accorse dell’arrivo di Hozier, se ne rese conto solo quando un boato si alzò dal pubblico, accogliendo il cantante, che da quella posizione si riusciva a vedere benissimo (in tutta la sua altezza). La ragazza applaudì con foga, sentendo anche Maggie lanciare un grido mentre Brad, il suo ragazzo, scoppiava a ridere. Dopo un breve, imbarazzato saluto del performer, Tracy sentì un riff familiare, che aveva sentito innumerevoli volte, ma mai dal vivo.
“As it was” era una delle sue canzoni preferite, e sapeva che Hozier fosse solito ad aprire i suoi concerti con essa. Già dal primo momento sentì delle emozioni fortissime artigliarle il petto, mentre cantava anche lei insieme al pubblico e al performer. Maggie si girò verso di lei entusiasta. – Visto che non hai fatto male a venire con noi?
Tracy alzò gli occhi al cielo sorridendo. – Che ti aspettavi? L’ho scelto io il posto.
- Ma fammi il piacere! – dopo averle tirato uno schiaffetto sulla spalla, la sua migliore amica si voltò verso Brad e si mise sulle punte per baciarlo. Il ragazzo rispose abbracciandola e tenendola stretta a sé.
Il cuore della psicologa, ormai ventisettenne, si sciolse. Maggie era una delle persone a cui teneva di più al mondo, e le faceva piacere di vederla così felice accanto alla persona che amava.
Però, allo stesso tempo, si sentiva sola. Lei e lei stessa, come succedeva spesso. E nonostante fosse arrivata a pensare di non aver bisogno di una relazione e di poter essere felice anche da sola, provava quel senso di malinconia nel petto. Il senso di vuoto del non essere riuscita a trovare qualcuno da amare.
- Non pensavo ti piacesse Hozier!
Tracy si bloccò in quell’istante. Il suo cuore prese a battere fortissimo e sentì gli occhi spalancarsi e le mani tremare.
Quella voce la conosceva. E non la sentiva da anni.
 
“And the sights were as stark as my baby
And the cold cut as sharp as my baby
And the nights were as dark as my baby
Half as beautiful too”
 
Dopo un applauso appassionato, le note iniziali di “Dinner & Diatribes” danzarono nelle orecchie di Tracy nello stesso momento in cui si voltava a guardare la persona che le aveva parlato.
Jake.
Jake sorrideva come non l’aveva mai visto sorridere. Gli occhi brillavano, le occhiaie scure si erano affievolite notevolmente e il pallore spettrale aveva fatto posto a una carnagione olivastra sana e abbronzata. Il suo viso era cresciuto, lo sguardo era sereno e molto più spensierato. Tracy aveva voglia di abbracciarlo: vedere il suo viso disteso e tranquillo la rendeva felice, nonostante non si vedessero da tre anni. Era così… Diverso, in positivo.
- Jake... Da quanto tempo.
 
“And that’s the kind of love I’ve been dreaming of”
 
 
Tracy drizzò la schiena, tirando su le braccia sentì un rumoroso schiocco. Quella mattina aveva conosciuto il suo nuovo paziente, questa volta un ragazzino di undici anni, affetto da deficit dell’attenzione e iperattività. Aveva potuto osservare e analizzare dei comportamenti che le avevano permesso di conoscerlo quel tanto che serviva alla prima seduta.
Le era sembrato agitato e nervoso, e spostava di tanto in tanto lo sguardo in diversi angoli della stanza muovendo rapidamente le ginocchia. Ogni tanto era capitato che si distraesse, ma le sembrava un bambino molto intelligente. Era di sicuro una sfida, ma l’avrebbe affrontata con tutto l’amore che provava per quella professione. Aveva fatto tanti progressi da quando era un’adolescente. Anni prima le era difficile portare a termine realmente qualcosa, mollava spesso la spugna per paura di fallire o per la poca voglia di continuare un percorso.
Sentì il cellulare squillare e quando lo prese tra le mani lesse il nome di Piper. Un’espressione corrucciata si formò sul suo viso ma ripose quasi subito. – Ehilà?
- Devo parlarti, sono fuori dallo studio.
Tracy si sentì per un attimo spiazzata e assottigliò lo sguardo. – E… Di cosa dovresti parlarmi?
- Cristo, esci e basta, no? Non posso restare qui per tutta la vita.
- Non dirmi che si tratta di nuovo di Alex, non mi interessa.
- Ma che dici, idiota? Sai che cazzo me ne frega di quello.
- Devi per forza inserire un’imprecazione in ogni frase?
- Vuoi darti una mossa o devo entrare io?
La psicologa sospirò e scrollò le spalle. – Sì, okay. Dammi un secondo e arrivo. – tastò il pulsante rosso e infilò il cellulare nella tasca, indossando il cappotto azzurro e arrotolandosi la sciarpa attorno al collo. Appena superò il lungo corridoio e aprì la porta si trovò Piper a letteralmente due centimetri dal viso.
- Ehm…
- Vieni con me – Piper la tirò per un braccio e la portò sui gradini dell’edificio. Si accese una sigaretta e fece oscillare i capelli lunghi e corvini. – Vuoi fare un tiro?
Tracy inarcò le sopracciglia. – Sì.
- Ah. – Piper arricciò il labbro superiore. – Pensavo mi dicessi di no. Se avessi saputo la risposta non te l’avrei chiesto.
- Ma non ha…
- Tieni, sbrigati.
La psicologa afferrò la sigaretta, aspirando e trattenendo per un po’ il fumo nei polmoni per poi soffiarlo via.
- Pensavo iniziassi a sputare.
- Posso essere sorprendente. – Tracy alzò gli occhi al cielo e passò nuovamente il tubicino di carta alla ragazza. Piper le sorrise, prendendo un’altra boccata. – Scusami, so che a volte ho la delicatezza di un bufalo incazzato.
- Non è tanto quello, è che dovevo tornare a casa e preparare il pranzo.
Vide la ragazza sorridere ancora. Un sorriso vero, non quel solito ghigno che aveva sempre visto sul suo viso.
- Cosa volevi dirmi?
- Non ci girerò troppo intorno, non sono il tipo che si scrive il copione nel tempo libero. Quindi, in pratica, andando dritta al punto: mi piaci un sacco, “nome di merda”.
 
 
Il concerto era stato… Strano, in un certo senso. Hozier era assolutamente stato all’altezza delle aspettative di Tracy, quindi la stranezza della situazione non era dipesa da lui, quanto dal fatto che, per tutto il tempo, affianco a lei ci fosse stata la persona che aveva vissuto nei suoi sogni e nei suoi pensieri per anni. In modo completamente inaspettato.
Non lo vedeva da tre anni e di certo non avrebbe mai immaginato di poterlo incontrare ad un concerto.
Si erano salutati, e poi lui era andato via. Non si erano detti niente, solo un “ciao” e un “devo andare”. Tuttavia, per tutto il concerto, lei non era riuscita a pensare ad altro se non a quel sorriso radioso che non aveva mai visto prima sul viso di Jake. Aveva ventisette anni ma le sembrava di essere una sedicenne.
Si sentì prendere per un braccio.
- Sono io ad avere le traveggole, o quello era Jake? – Maggie si era staccata da Brad per un attimo.
- Grazie a Dio non hai le traveggole.
- Ah, menomale. Cioè, non proprio, in realtà.
Tracy si limitò a scrollare le spalle.
- Non mi sembri entusiasta.
- E perché dovrei? – sospirò la ragazza, incurvando la schiena. – Non abbiamo più nulla a che fare l’uno con l’altra. E lo sai anche tu che non avrei dovuto…
- Tracy.
In quel preciso istante, Tracy sentì il braccio di Maggie abbandonare il suo, mentre la voce del ragazzo dietro di lei le risuonava nelle orecchie come un’eco. Trasse un respiro profondo e si voltò, sorridendo appena.
- Ti è piaciuto il concerto? – era cambiato così tanto, ma Tracy lo trovava comunque dolorosamente bello. Dopo anni non avrebbe dovuto farle alcun effetto, eppure sentiva le farfalle nello stomaco e gli occhi luccicare come fosse una ragazzina.
- Sì, certo. Più di quanto mi aspettassi. – la sua voce era leggermente più alta del solito e si augurò di non essere arrossita. Si schiarì appena la gola. – A te?
- Se te lo spiegassi con un cannolo davanti?
Un cannolo? Tracy aggrottò la fronte e abbozzò un sorriso. – E dove lo trovi un cannolo, a Detroit?
Jake puntò il dito verso un posto poco lontano, e l’occhio della ragazza finì sull’insegna di una pasticceria italiana.
- E se non facessero i cannoli?
- Un’alternativa si trova di sicuro.
 

 
Nell’esatto momento in cui Jake mise piede in casa, si vide sua sorella piombargli addosso. Veronica gli avvolse le braccia intorno al collo, stringendolo forte a sé. Aggrottò la fronte e abbassò lo sguardo sulla ragazza, posandole una mano sulla schiena e massaggiandola leggermente. – E’ il mio compleanno?
- No, idiota, siamo a dicembre.  – Ronnie sciolse l’abbraccio e guardò Jake con un sorriso stampato in volto. Gli prese le mani, stringendole. Il ragazzo non ci stava più capendo nulla.
- Sammy.
- Sammy che?
- Lo dimettono oggi. Hanno detto che sta meglio, che le cure stanno funzionando. Ovviamente deve continuare a prendere le sue medicine… Però può tornare a casa.
Jake sentì il cuore fermarsi per un secondo. Ormai erano passati due anni dal giorno in cui era entrato in quella clinica, due anni tremendi sia per il povero ragazzo che per la sua famiglia. Jake sentì le spalle alleggerirsi da quel peso enorme che gli piegava la schiena: aveva temuto spesso di perdere un altro fratello, avrebbe avuto solo Ronnie al suo fianco, l’unica rimasta, perché non riusciva più a considerare sua madre come tale. Viveva nella loro casa e cercava ogni giorno di rimediare ai suoi errori, che erano troppo grandi da dimenticare e, nonostante Jake l’avesse già perdonata, non riusciva a togliersi il pensiero del suo abbandono dalla testa. Sarebbero stati lui e Ronnie, da soli, sarebbero dovuti essere l’uno la roccia dell’altra ma sarebbero potuti crollare in un battito di ciglia.
E il pensiero che Sam stesse bene…
Il loro piccolo e goffo Sam che anche se, probabilmente, non sarebbe stato più lo stesso, sarebbe stato libero come meritava e desiderava. E l’amore che nutriva Sam per la libertà, Jake non l’aveva visto in nessun altro.
Il maggiore sorrise dolcemente, respirando a fondo e rilassando le spalle.
- Che c’è? Non sembri troppo contento. – mormorò sua sorella. In tutta risposta, Jake la prese nuovamente tra le braccia e le accarezzò i capelli infondendole tutto l’amore che aveva riscoperto in se stesso.
- Sono felice, Ronnie. Sono così felice.
 
 
Mentre parlava con Tracy, Jake si accorse per davvero di quanto gli fosse mancata. Aveva pensato spesso a lei, alle sue espressioni buffe, ai gesti timidi e alla sua gentilezza. Non si era dimenticato della sua risata, ma in quel momento si stava dimostrando anche più divertente e… Tranquilla, forse. Si erano conosciuti in un ambiente completamente diverso e formale, e ora erano in una pasticceria italiana dopo un concerto.
Però non avevano i cannoli.
“Quelli, prendiamo quelli”, gli aveva sussurrato davanti alla vetrina dei dolci, indicando dei biscotti dalla forma allungata con all’interno quelle che sembravano essere delle mandorle.
“Cosa sono?”, aveva sussurrato in risposta, chinando la testa verso di lei.
- Dio, i cantucci. – sorrise la ragazza mordendo nuovamente il suo biscotto. Poi rizzò la testa e indicò quelli che Jake aveva nel suo piattino, accanto al bicchiere di succo d’arancia. – Ti piacciono?
Il chitarrista sorrise e si rimboccò le maniche della camicia larga e fiorata. – Direi di sì. – ne mise in bocca un altro, gustandosi il dolce sapore dello zucchero e delle mandorle. – Nel Michigan il massimo che puoi trovare sono i brownies. Mia madre ne faceva in quantità industriali, quando dovevamo fare merenda.  – sospirò ricordando quei teneri momenti della sua infanzia, quando Josh si sporcava sempre di cioccolato le guance e Ronnie si lamentava per le briciole che le cadevano sui vestiti. Ma ormai quei momenti erano lontani, doveva pensare al presente.
- Mi fa piacere, sai?
- Sì, anche a me, non li avevo mai assaggiati.
- No, io intendevo… - Tracy abbassò appena lo sguardo, e quando lo rialzò gli occhi le brillavano. – Mi fa piacere vederti così. Sorridente, rilassato. Ti si sono anche schiariti i capelli.
Jake prese una ciocca dei propri capelli tra le dita, osservandola. – Oh, sì. D’estate sono sempre più chiari. I tuoi sono molto più lunghi. E non sono più rossi.
- Sai che l’anno scorso li avevo blu?
Il ragazzo rise appena. – Come?
- Credimi. Non mi stavano male, però.
- Ti credo. Solo, non riesco a immaginarti.
- In questo momento ho il cellulare scarico per tutti i video che ho fatto, altrimenti ti farei vedere una foto.
- A proposito. Che canzone ti è piaciuta di più?
- Che domande. Jackboot jump. Però anche Movement. Oh, e ovviamente Dinner & Diatribes.
Jake sorrise, posando la guancia sulla mano aperta. Mentre ne parlava, Tracy sembrava una bambina. Le brillavano gli occhi e avrebbe potuto ascoltarla per ore.
- A te, quindi?
- Sono banale se dico Nina cried power?
- Nah, è una canzone stupenda.
- Anche Wasteland, baby!
- Non farmi piangere, Jake.
In quell’istante sprofondò il silenzio. Tuttavia, non era quel silenzio fastidioso e imbarazzante che, quando cadeva, faceva venire voglia a Jake di darsela a gambe e tornare a casa. Durante quegli istanti di silenzio, gli occhi di entrambi erano puntati su quelli della persona che avevano davanti.
Quegli sguardi dicevano tante cose.
“Come ti senti?”
“Mi sei mancato”
“Sono felice che tu stia bene”.
 
 
- No.
- E dai, Jake! Perché no?
- Perché non mi piace, che senso ha? Perché dovete forzare qualcosa? E’ una questione di chimica. E questa chimica non c’è.
Mackenzie sospirò e allargò le braccia, facendo oscillare i capelli lunghi. – Alice è una brava ragazza, ti farebbe stare bene. E poi cucina dei biscotti buonissimi.
Jake stava perdendo la pazienza - Non…
Danny rise appena, posando una mano sulla spalla della ragazza. – Mac, lascialo stare. Sappiamo com’è fatto il nostro Jake.
- Il nostro Jake dovrebbe aprirsi di più al mondo.
Il chitarrista assunse un’espressione che oscillava tra l’incredulo e lo stizzito. - Da quando in qua “aprirmi al mondo” vuol dire farmi piacere la prima ragazza che incontro solo perché mi farebbe i biscotti?
Sam intervenne con un sorriso, stringendo a sé Joy. – A Jake piacciono le ragazze che gli fanno rischiare la morte per soffocamento, altroché.
- Avvisatemi quando smetterete di tirare in ballo questa storia, eh. – Jake tirò fuori una sigaretta dal pacchetto che aveva in tasca, accendendola dopo essersela infilata tra le labbra. Di per sé, era già raro che potesse piacergli davvero una ragazza. Alice era molto carina, i tratti dolci del viso contrastavano, in un certo senso, con la personalità inusuale ed esuberante che la rendeva unica. Ma, seppur Jake riconoscesse le qualità della ragazza, in testa aveva sempre la stessa persona da tre anni.
Tracy, per lui, era difficile da dimenticare. Era stata lei a fargli rendere conto di poter provare ancora emozioni di quel tipo, di poter innamorarsi e l’intesa che aveva avuto con la ragazza, seppur in un contesto per lei lavorativo, non gli era capitato di averla con nessuno. Soprattutto, era un rapporto diverso da quello che aveva con la sua nuova terapeuta, totalmente formale. Si augurò che la ragazza stesse continuando a lavorare nonostante ciò che era accaduto tra loro.
Soffiò via il fumo e appoggiò il mento sulla propria mano. Stava bene, comunque. Certo, il dolore fantasma che la morte di Josh gli aveva portato non era mai andato via e non sarebbe mai svanito, ma sapere che almeno Sam stesse meglio gli aveva alleggerito di molto il peso che si portava sulle spalle. Lo vedeva sorridere molto di più, nonostante in certi momenti scivolasse in uno stato di isolamento e apatia. E anche se quegli istanti erano difficili, paragonati a quelli in cui vedeva Sam sorridere acquisivano meno importanza. E, sebbene la sua salute dipendesse dai farmaci che prendeva, almeno non era più pericoloso né per stesso né per le persone che gli erano attorno ed era, finalmente, a casa. Indossava dei vestiti colorati e leggeri al posto del pigiama che portava sempre nella clinica in cui era rimasto per due anni.
E ogni mattina, quando si svegliava, riusciva a vedere nel suo specchio qualcuno che stava migliorando giorno per giorno. Riusciva a mangiare qualcosa in più ogni volta che si sedeva a tavola, nonostante si sforzasse per riuscire a finire il piatto che si trovava davanti, raramente passava notti insonni e i suoi occhi e il suo sorriso stavano riprendendo piano piano la loro luce.
Sentì Danny schiarirsi la gola ed esordire con: - Tra una settimana c’è il concerto di Hozier. Ci andiamo?

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Capitolo 13
*** Capitolo dodicesimo ***


Per la prima volta dopo anni, a Jake venne voglia di prendere qualcuno per mano. E quel qualcuno era Tracy, sotto quella camicia bianca dalle maniche larghe e la lunga gonna color blu scuro. Quei colori le stavano bene, non l’aveva mai vista con dei vestiti leggeri e svolazzanti, nonostante si fosse innamorato di lei in giacca e cravatta.
Si ricordava che, durante le sedute, Tracy era tipica a indossare delle cravatte, abbinate a una camicia quasi sempre bianca, delle giacche spesso a tinta unita fredda e i pantaloni dello stesso colore.
In quel momento sembrava quasi un’altra persona: restava la stessa Tracy dall’aspetto leggermente stressato e dai gesti timidi e gentili, ma forse era il contesto informale a renderla un po’ più leggera.
Quella serata di Luglio non lo aiutava: il profumo di dolciumi di quel bar, le canzoni appena ascoltate durante il concerto che venivano riprodotte anche all’interno.
Si sentiva un bambino innamorato di una sua compagna di classe. E aveva ventisette anni.
- Un vero peccato, per il cannolo.
La voce di Tracy lo risvegliò da quel flusso di pensieri. Jake scrollò le spalle, accennando un sorriso. – Non fa niente, quei biscotti erano buonissimi.
- Tu lo sai che pago io, giusto?
Jake strabuzzò gli occhi, una mano già sul portafoglio. – Non esiste! Ti ho invitata io e ti ho anche fatto scaricare il telefono, è il minimo che debba pagare io.
- Da italiana che ti ha fatto mangiare dei cantucci in una pasticceria italiana...
- Sì, e che significa? – rise il ragazzo. – Allora la prossima volta andiamo a mangiare in una tavola calda straripante di carne e pago io?
Vide Tracy cambiare espressione. La ragazza assottigliò lo sguardo e sorrise. - Questo mi fa supporre che ci vedremo di nuovo?
Il cuore di Jake si esibì in una capriola nel suo petto. Non se n’era nemmeno reso conto, ma quello era effettivamente un invito ad un secondo appuntamento. – Be’… Può darsi. Non so, tu…
- Okay, bene. – vide Tracy alzarsi, borsa in spalla e portafoglio in mano e la osservò avviarsi verso la cassa.
- No, ehi! – le corse dietro, allungando un braccio e senza accorgersene le afferrò il polso libero. La ragazza si voltò immediatamente e il suo sguardo si posò dapprima sul suo, per poi cadere sul proprio polso. Dopo un attimo di smarrimento gli sorrise, e a Jake parve di essere da solo, con lei, in un bar completamente vuoto. Il tempo si era praticamente fermato, come in un film, gli bastava solo un gesto del braccio per tirarla a sé e baciarla.
Si chiese cosa provasse Tracy in quel momento: se il suo cuore stesse battendo forte come il suo, se non vedesse l’ora di sentire le proprie labbra a contatto con le sue. E si chiese che faccia avesse lui stesso in quel momento.
Sentì la ragazza ridere, trascinarlo con sé mentre riprendeva la sua strada per la cassa mentre il tempo ripartiva. – Non puoi fermarmi.
 
 
 
- Mamma! – Karen sentì la voce di suo figlio (indistinguibile, uguale a quella del gemello) piagnucolare, mentre metteva Sam e Ronnie in macchina allacciando la cintura dei due piccoli. Sospirò, esausta. Eppure li aveva lasciati entrare con la nonna nel negozio di giocattoli per scegliere qualcosa di nuovo con cui svagarsi nel pomeriggio!
I due gemelli non avevano mai preso voti molto alti a scuola, e dopo le ripetizioni che prendevano dalla loro babysitter Karen cercava di premiarli con una paghetta, man mano che i voti aumentavano.
Tralasciando l’aspetto fisico, Josh e Jake erano diversi in tutto, anche il modo di spendere i loro soldi era evidentemente opposto: Josh tendeva a spendere tutto subito, non appena riceveva la propria paghetta correva a comprare qualcosa, mentre Jake era solito a risparmiare tutto fino all’ultimo centesimo. Un giorno, con quei soldi, avrebbe comprato una bellissima chitarra.
Quando si voltò li vide uscire dal negozio, due espressioni completamente differenti in viso.
Josh piangeva, le lacrime scendevano copiose sulle sue guance e la punta del suo naso era tinta di rosso, mentre Jake aveva un’espressione entusiasta e faceva girare il suo nuovo Nerf tra le mani.
La nonna era dietro di loro con le braccia lungo i fianchi, rassegnata.
- Oh, Josh, perché piangi? – si avvicinò al bambino, asciugandogli le lacrime lentamente. Josh iniziò a piangere ancora più di prima. – Sono Jake!
Jake? Eppure ne era sicura, li aveva visti uscire con quei vestiti, altrimenti non li avrebbe riconosciuti, ancora così simili e indistinguibili.
- Jake, come… Ma tu non avevi la giacca verde, prima?
- No, Josh me l’ha rubata e ha preso tutte le mie paghette per comprare quella schifezza!
- Joshua!
- Guarda che bello, mamma! Pew, pew! – Josh rivolse il gioco sul pavimento, facendolo poi cadere per sbaglio.
Karen sospirò, con Kelly che guardava la scena dallo specchietto con un sopracciglio inarcato. Non sapeva più come fare con i due instancabili gemelli. Poi si fece venire un’idea. Si chinò davanti a Jake e lo guardò sorridendo, continuando ad asciugargli le lacrime. – Sai come facciamo? Adesso tuo fratello gioca con quella stupidaggine e non avrà più un quartino per due mesi, e io ti prendo una bella chitarra nuova, eh?
Vide le facce dei gemelli cambiare immediatamente. Jake strabuzzò gli occhi e la bocca, con le iridi scure che brillavano e Josh si ammutolì, smettendo di giocare con quella specie di… Arma di distruzione di massa per bambini. Il suo sorriso si appiattì e i suoi occhi si fecero lucidi. – Ma mamma…
- Non mi interessa, Joshua. Anzi, sai cosa? – fece finta di pensarci su. – Continuerò a darti la paghetta solo se vieni qui e chiedi scusa a tuo fratello.
Josh mise il broncio, sospirando pesantemente. – Scusami, mio fratello.
- Ecco, ora ti sequestro anche il giocattolo nuovo.
- No, no, scusa! – Josh si avvicinò a Jake, lasciò cadere il suo Nerf e avvolse le braccia intorno alle spalle del gemello, baciandolo anche sulla guancia. – Scusa, Jake.
Karen sorrise, intenerita da quella scena.
Jake fece una smorfia, spingendo via il fratello. - Che schifo.
 
 
- Non ti perdonerò mai.
- Ah no? – Tracy continuò a tenere quell’espressione soddisfatta in viso.
- No.
La ragazza sorrise, per poi tirare fuori il cellulare dalla tasca e sospirare. – Dio, e ora come faccio a chiamare Maggie?
Jake tirò fuori il proprio telefono, porgendoglielo dopo averlo sbloccato. – Tieni, usa il mio.
La ragazza si voltò verso di lui e prese il cellulare tra le mani, prestandoci molta attenzione. – Grazie, Jake, davvero.
- E di che, mi hai pagato la cena.
Mentre Tracy componeva il numero continuò a sorridere e Jake percepì il tempo fermarsi per la seconda volta. Si riprese solo quando la sentì parlare.
- Maggie, venite a prendermi? Dove siete?
La vide mordicchiarsi le unghie e poi cambiare espressione. – A casa di chi?! - la ragazza alzò gli occhi al cielo e sospirò. – Oh Cristo, non ho le chiavi! Potevi darmele! – Tracy si passò una mano sul viso. – Sì, e secondo te in casa come ci entro? – sembrò rassegnarsi definitivamente. – Sì, okay. Vorrà dire che dormirò per strada, Margareth. – a Jake parve di udire un sonoro “non è colpa mia!” dall’altra parte del telefono. – Vaffanculo. Ciao.
Tracy si voltò e respirò profondamente, restituendogli il telefono.
- Fammi indovinare: non hai le chiavi?
- E nemmeno la macchina, a quanto pare. – era la prima volta che la vedeva innervosita e la trovava buffa. I ricci le si erano rizzati sulla testa, un po’ per l’umidità, un po’ per i nervi.
E Jake non trovò nessun’altra opzione se non quella che gli balenò in mente in quel momento. – Io ho una casa. E una macchina. Puoi dormire da me e farti venire a prendere domani mattina. Giuro che non sono un serial killer e non ti strangolerò nel sonno.
- Quest’accuratezza nei dettagli mi spaventa. - La ragazza abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore. – Non ho voglia di arrecare disturbo. Ho visto che eri con i tuoi fratelli.
- Oh, loro non abitano con me. Ora ho un appartamento, un po’ stretto ma pur sempre un appartamento.
- Sei sicuro?
- Certo. – più che sicuro. – Dormirò sul divano.
- E no eh.
- Mi hai pagato i cantucci!
- Ma è casa tua!
- E tu me li hai offerti perché eravamo in una pasticceria italiana.
Tracy sospirò, scuotendo la testa. – Non sei cambiato per niente, Kiszka.
 

 
La casa di Jake era… Uno studio di registrazione, in poche parole.
Un pianoforte bianco al centro del salone e diversi strumenti a corde di ogni tipo, due chitarre acustiche, una Gibson SG fiammeggiante (quella di cui, probabilmente, le aveva parlato anni prima), un sitar, un ukulele e un mandolino. Era sicura ci fosse anche un banjo da qualche parte. Nonostante la grande quantità di strumenti musicali sparsi qua e là e le grandezze ridotte delle stanze, l’appartamento non era per niente disordinato. Un grande tappeto dai motivi orientali era al centro della stanza, i muri erano chiari e decorati con arazzi di lana e fotografie scattate ai concerti a cui aveva assistito negli anni.
Lo sguardo di Tracy si soffermò, in particolare, su una foto diversa dalle altre: in quella foto c’era Jake, seduto su quello che sembrava essere il tavolo di una cucina, con una gamba che penzolava fuori da esso e l’altra sistemata sotto al ginocchio opposto. Aveva lo sguardo basso, posato sulla chitarra acustica – praticamente più grande di lui – che teneva sulla gamba destra. Sulla testa aveva un basco, la foto sembrava essere stata scattata pochi anni prima. Quella foto, quegli strumenti, le suggerirono immediatamente che il ragazzo avesse ripreso a suonare.
- Ti faccio vedere la camera da letto. E’ molto piccola, ma ti assicuro che è confortevole. – Jake le mostrò la strada, e in pochi metri raggiunse la stanza in questione. Anche lì vide l’ennesima chitarra e, come si aspettava, il banjo. Era, effettivamente, piccolina. C’era una piccola scrivania sulla destra, con sopra delle piantine grasse e non, portapenne e un quaderno aperto e scarabocchiato con quelle che sembravano essere delle tablature scritte a mano. Accanto al letto a una piazza c’era un comodino, su cui Jake aveva posato una tazzina di caffè, un libro e una cornice di legno che circondava una fotografia. I soggetti erano quattro giovani adulti, e riconobbe immediatamente Jake e Veronica. I ragazzi sorridevano, Jake a bocca aperta e Veronica, dietro di lui, sembrava stesse per morire dalle risate. In basso a destra un ragazzo dai capelli lunghi, molto simile a Jake, portava degli occhiali da sole e faceva pendere una sigaretta dalla bocca mostrando alla fotocamera un sorriso sornione, mentre accanto a Jake, con un braccio sulla sua spalla, ce n’era un altro dai capelli ricci con la lingua che sporgeva dalle labbra arricciate e gli occhi spalancati. Aveva gli stessi lineamenti di Jake, gli stessi occhi e le stesse labbra. Si assomigliavano tutti, ma l’ultimo era esattamente identico al chitarrista, escludendo i capelli ricci.
Quella foto la fece sorridere.
- L’interruttore della luce è lì, vicino alla finestra e lì sotto c’è una presa, se vuoi attaccare il caricabatteria. – Il ragazzo indicò un punto del muro vicino alla scrivania. – Se sei stanca puoi anche dormire già da ora, ma fammi prima prendere il pigiama.
- Oh, be’… Non ho molto sonno, a dire il vero.
Vide Jake annuire, per poi sorriderle. – Potrei offrirti da bere.
- Sono a posto così. – Tracy scrollò le spalle. Poi si voltò, indicando la chitarra appoggiata in un angolo della stanza. – Piuttosto, sono curiosa di vedere cosa sei capace di fare con quella.
Jake incrociò le braccia al petto, dirigendosi verso la porta. – Allora vieni, andiamo dalla mia preferita.
 
 
Tracy prese un tiro dalla sigaretta e strinse le labbra subito dopo aver soffiato via il fumo. – Davvero?
Vide Piper scrollare le spalle e sospirare, grattandosi la nuca. – Sì. Strano, lo so, ma non sto scherzando.
La giovane psicologa si dedicò un attimo per pensare. Non si era mai chiesta se potesse piacerle Piper, soprattutto perché non era riuscita a togliersi Jake dalla testa nemmeno dopo tutti quei mesi. Non le dava fastidio, però. Erano due adulte, l’avrebbero affrontata senza problemi e lei sarebbe stata subito sincera.
Guardò la ragazza e spense la sigaretta sul marciapiede, tenendo in mano il mozzicone quando non vide cestini nei paraggi. – Sono lusingata, ma…
- Non ti piaccio.
- Tu mi piaci tanto, Piper. Intendo dire che ti ammiro, da te ho imparato molto e mi fai sempre ridere, nonostante a volte tu sia un po’… Esuberante. – lasciò cadere le spalle e sospirò dal naso. – Ma non mi piaci in quel modo.
Piper si passò una mano sugli occhi e annuì. – Sì, lo sapevo. Voglio dire, avevo già capito, ecco. – volse poi lo sguardo verso di lei e si sforzò di sorriderle, nonostante sembrasse, com’era ovvio che fosse, ferita. – Tra noi non cambia niente, vero? Posso continuare a insultarti?
- Preferirei di no, in realtà. – scherzò Tracy. Poi si alzò dal gradino su cui era seduta e le si avvicinò, abbracciandole la testa e strofinandoci sopra un pugno chiuso. – Per me continuerai ad essere la tipa strana che mi ha baciata davanti all’ex di entrambe.
- E’ un complimento?
- Per te non dovrebbe essere un problema se fosse un insulto, no?
Piper riuscì a sorridere un po’ di più, abbracciandola dal basso a sua volta.
 
 
Tracy non sapeva nemmeno cosa osservare. Guardava quella bellissima chitarra rossa, spostava lo sguardo sulle dita rapide e sottili di Jake per poi portarlo sul suo viso concentrato. Non aveva mai avuto alcun dubbio sul fatto che Jake fosse un ragazzo dalle risorse infinite, ma qualcosa in quel momento le fece capire che era ancora più speciale di come si era immaginata.
Vederlo solo durante le sedute non era assolutamente la stessa cosa, perché in quel momento Jake era completamente se stesso, era perso nel suo mondo e stava condividendo con lei il suo amore per esso.
Lei quella canzone non l’aveva mai sentita, le sembrava strano perché avevano dei gusti musicali così simili, ma ciò non stava a significare che non stesse catturando tutta la sua attenzione. Quel talento non lo aveva mai visto in nessun altro.
Era una canzone dai toni tristi, costruita su un’intensa chiave minore e quasi senza parole. Sentiva Jake fischiettare ogni tanto sopra la propria chitarra.
Nonostante non ci fossero altri strumenti ad accompagnarlo, sembrava quasi già completa.
- Gold mines, melting men in the sunshine. – lo sentì sussurrare mentre suonava e sorrise. Non aveva mai sentito la sua voce cantare e quella prima volta la colpì non poco. Il registro alto che stava usando quasi non assomigliava alla voce bassa e roca con cui parlava. – Spoiled wine, tastes so sweet we have gone blind.
Non osò interromperlo nemmeno per un secondo, nonostante avesse tante domande da fargli. Era così immerso in quella canzone che sembrava quasi non essere più lì con lei, ma in quel posto così confortevole che chiamava musica. Rimase in silenzio, senza cantare, per tutti i restanti minuti e durante quello che in un concerto sarebbe stato un assolo Tracy si sentì invadere da una malinconia sconosciuta. Certo, tantissime volte aveva provato sensazioni simili ascoltando un brano, ma sentì quasi quella chitarra piangere. E in quel pianto percepì tutta la forza e il dolore delle lacrime del ragazzo che stava suonando. Continuò ad osservarlo fino a vederlo staccare le dita dalla chitarra. Le vide posarsi sulla manopola per la regolazione del volume sull’amplificatore, girandola verso sinistra. Il silenzio che si creò dopo non mise a disagio nessuno dei due. Restarono zitti per minuti interi, fino al lungo sospiro di Jake. – So che non è perfetta, ma…
- E’ bellissima.
Il ragazzo alzò lo sguardo verso di lei, distendendo le labbra in un morbido sorriso. – Sì?
- Non l’avevo mai sentita, io… Non riesco nemmeno ad attribuirla a un artista che conosco.
- L’ho scritta io.
Tracy quasi non ci credette: quello era un pezzo complicato, lungo ma ben costruito. A sua volta era una musicista, quindi riuscì a capire quanto dietro quel brano non ci fosse solo un colpo di fortuna nato dall’esperimento di un ragazzino alle prime armi con una chitarra, ma del talento e delle idee che avevano una forma.
- Come l’avete chiamata?
- Be’… - Jake scrollò le spalle, posando la chitarra sul supporto appoggiato alla parete. – Abbiamo iniziato a suonarla anni fa, con Josh. Non era esattamente identica a ora, le parole erano diverse e non le avevamo nemmeno scritte noi. Era una specie di cover, anche se solo dal punto di vista del testo, poi io ho aggiunto qualche modifica all’assolo. L’avevamo chiamata “Black flag exposition”.
- Qual era, quella canzone?
- Si chiama “Lay down” ed è di Melanie Safka. Non so se…
- Oh, sì! Sì, la conosco. “So raise your candles high”.
A Jake brillarono gli occhi e sorrise, indicandola. – Esatto, proprio quella. In Black flag la parte cantata era ancora più breve di ora.
- E ora? Il nome è cambiato?
- Sì. Ora è “The weight of dreams”.
Tracy restò a guardarlo per un attimo e lo vide spostare a sua volta lo sguardo nel suo. Sentì il cuore battere forte. Erano molto vicini, seduti l’uno difronte all’altra sullo stesso piccolo divano. Vide Jake chiudere gli occhi e respirare a fondo. – Non è cambiato nulla.
La ragazza lo guardò confusa. – Cosa?
Vide Jake sporgersi in avanti e non fece nemmeno in tempo a chiedersi cosa stesse facendo, ritrovandosi le sue labbra sulle proprie. Con un sussulto risucchiò l’aria che stava respirando ad occhi spalancati, mentre sentiva le dita di Jake posarsi sul suo cuoio capelluto.
Si sentì invadere il corpo dall’elettricità e dall’adrenalina e non esitò un secondo. Serrò gli occhi e spinse il ragazzo fino a distenderlo con la schiena sul divano, si posizionò sopra di lui posando le mani sulle sue spalle mentre approfondiva il bacio. Quella foga non apparteneva probabilmente a nessuno dei due, ed era nata dopo tutti quegli anni in cui erano stati distanti. Sentì Jake ridere sotto di lei, probabilmente sorpreso dalla sua reazione e lo guardò, preoccupata di aver fatto qualcosa di sbagliato. – Tutto bene? Ti senti a disagio?
Sentì la mano destra di Jake posarsi sulla sua nuca, riportandola su di sé.

 
 

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Capitolo 14
*** Capitolo tredicesimo ***


Tracy si scompose per un attimo quando, aprendo gli occhi scuri, si vide in un letto non suo. Letto che, per altro, era piccolissimo.
Per meglio dire, non lo sarebbe stato se, in quel letto, ci fosse stata solo lei.
Guardò alla sua destra e sorrise, notando solo una chioma di capelli lunghi a coprire un volto immerso già per metà nel cuscino sotto alle loro teste. Le coperte erano finite ai piedi del letto, sicuramente calciate via durante la notte da uno dei due. Si erano addormentati con ancora addosso i vestiti, Tracy aveva ancora la sua gonna e Jake, quasi complementarmente, la camicia che aveva indossato la sera prima e i pantaloncini del pigiama.
Tracy scostò le ciocche scure dal viso dormiente di Jake, incastrandole dietro al suo orecchio destro. Restò a guardarlo per un po’, ricordando la serata che avevano passato insieme. Era da tempo che non si trovava a letto con qualcuno, durante gli anni passati era successo un paio di volte e due erano le cose: o si svegliava da sola o concludeva subito la relazione ancor prima che iniziasse.
Ma, in quel caso, aveva aperto gli occhi e si era trovata Jake accanto. Si sentì sorridere ancora e posò una mano sulla guancia visibile del chitarrista, accarezzandola dolcemente con il pollice.
Jake aveva sbavato leggermente sul cuscino, dormiva a bocca semiaperta. Una gamba era avvolta intorno alle proprie, il braccio sinistro sotto al cuscino e il destro penzolante all’altezza dello stomaco. Aveva le ciglia più lunghe di quanto pensasse, distese dolcemente sugli zigomi sporgenti. Passò il pollice sulle sopracciglia folte e spettinate, sistemandole.
Ancora una volta, pensò di non aver mai visto un ragazzo più bello di lui. La corporatura minuta, i lineamenti quasi femminili e la bassa statura lo rendevano adorabile, tanto da farlo sembrare più piccolo della sua età. Se non lo avesse conosciuto, non gli avrebbe dato ventisette anni.
Osservò il petto di Jake muoversi lentamente, cullata dai suoi respiri morbidi mentre continuava ad accarezzargli la fronte e le guance. Si sedette cercando di essere più delicata possibile per non svegliare il ragazzo addormentato, allungandosi per afferrare la camicetta bianca che aveva lanciato via la sera prima.
Doveva aver fatto un movimento brusco senza rendersene conto, perché sentì Jake mugolare. Si voltò a guardarlo, allungando un braccio per accarezzargli i capelli quando lo vide aprire gli occhi. Jake le prese la mano, portandosela vicino al petto.
Nonostante sapesse che quello della sera prima non era stato semplicemente del sesso occasionale, che tra lei e Jake ci fosse un legame che nemmeno lei sapeva spiegare, quel gesto la sorprese. Le faceva capire che Jake la volesse accanto a sé. Aveva l’esigenza che qualcuno si prendesse cura di lui, e Tracy amava prendersi cura delle persone. Lo faceva per lavoro. Si sdraiò nuovamente accanto al chitarrista che nel frattempo aveva richiuso gli occhi. Il ragazzo accettò ogni tocco con un sorriso e intrecciò le dita con le sue, rannicchiandosi in posizione fetale. Tracy prese a pettinargli i capelli con le dita e Jake, a quel tocco, si rilassò completamente.
Quando i suoi occhi scuri si schiusero di nuovo, la ragazza sorrise e gli lasciò un’altra morbida carezza sul viso. – Ehi.
Jake sbadigliò e seppellì il viso nella sua spalla. – Ehi.
- Dormito bene?
Il ragazzo abbassò nuovamente le palpebre e annuì. – Mhmh.
Era di poche parole, ancor di più a prima mattina. Tracy rispettò il suo silenzio, capendolo, restando semplicemente lì ad accarezzargli i capelli.
- Grazie per essere rimasta.
- Be’, non ho le chiavi.
- Oh. – Jake riaprì ancora gli occhi grandi. – Vero.
Tracy rise, stringendogli la mano. – Scherzo. Sarei rimasta in ogni caso.
- Possiamo restare così per un po’?
- Sì, a patto che non ci venga fame.
 
 
Tracy aggrottò la fronte quando si ritrovò da sola nel suo letto. Non che le interessasse granché, in realtà. La sera prima era stata forse la più noiosa della sua vita e si chiese cosa le fosse preso per essere effettivamente stata a letto con quel ragazzo. Era stato imbarazzante, lui aveva fatto versi eccessivi e forzati per tutto il tempo, e lei aveva anche cercato di dirgli che non ne aveva bisogno, ma il ragazzo aveva continuato, mettendola evidentemente a disagio. E non aveva provato piacere, nemmeno un po’.
Lui si chiamava Nick ed era un amico di Brad, il ragazzo di Maggie. Inizialmente aveva pensato di essere interessata a lui, ma più la serata era andata avanti meno si era sentita sicura della cosa. Si era comunque detta di provarci, di dargli una possibilità, ma il sesso della sera prima le aveva confermato che Nick non era assolutamente il suo tipo.
Solo che, quando non lo trovò, non poté fare a meno di chiedersi dove fosse andato a finire. Si alzò in piedi e infilò la prima cosa che trovò accanto a sé, una lunga vestaglia azzurra.
- Nick? – domandò a bassa voce, cercandolo. Quando entrò in sala, non riuscì a ignorare il fatto che quel ragazzo fosse sdraiato sul suo divano a mangiarsi tranquillamente una mela, completamente vestito e con le scarpe sul tavolo davanti a sé.
Restò immobile sulla porta, per poi sbottare: - Ma che cazzo?!
Nick sobbalzò, passandosi una mano tra i capelli a spazzola, per poi ricomporsi e guardarla. – Che, vuoi una mela, principessa?
Tracy, se possibile, strabuzzò ancor di più gli occhi. Quell’approccio da ragazzino alle prime armi la innervosì non poco. – Principessa?
- Be’? Non ti piace?
La povera psicologa inclinò la testa, fissandolo con le sopracciglia inarcate. – No?
- Peggio per te.
Tracy stava perdendo la pazienza. E non era da lei, perdere la pazienza. Il suo tipico temperamento mite non le aveva mai permesso di cacciare qualcuno a calci da casa sua. – Tu sei venuto qui ieri sera, hai mangiato in casa mia, hai dormito nel mio letto e adesso ti trovo sul mio divano a mangiare una diamine di mela?
- Non vedo cosa ci sia di sbagliato, dopotutto sei pazza di me.
- No! No, Nick! – sbuffò, strappandogli la mela dalle mani. – Ci conosciamo da tre giorni, Cristo! Hai ventott’anni e non ti rendi conto che sia completamente stupido il fatto che tu sia venuto nella mia cucina e ti sia preso una mia mela, lavandola con l’acqua del mio rubinetto e poi sia venuto a farti i cavoli tuoi sul mio divano? E leva quelle scarpe dal mio tavolino! – alzò il tono della voce ad ogni aggettivo possessivo in prima persona che pronunciava.
- Mio, mio, mio, e dai! Dopo ieri possiamo dire di essere un “noi”.
La ragazza non ci stava più credendo. Non era una cosa possibile, quella che stava accadendo. – E’ casa mia!
- E’ bello condividere!
- Sì, bene, la condivido già con Maggie.
- Ma tre è il numero perfetto.
Tracy respirò profondamente per cercare di calmarsi. Si passò una mano sul viso, sospirando. – Fuori.
- Eh?
- Esci da casa mia! Cosa c’è di incomprensibile nella parola “fuori”, Nick?
- Ieri però ti piaceva la mia presenza, però.
- E’ stato il peggior sesso della mia vita.
- Ma non…
- Fuori!
La ragazza vide Nick alzarsi dal divano con uno sbuffo. Prima di uscire si voltò verso di lei. – Almeno mi ridai la mela?
Tracy gli sbatté quella benedetta mela sul palmo della mano, indicandogli la porta. E, quando finalmente Nick si dileguò, Tracy tirò il sospiro più lungo della sua vita. 
 
 
- Our house, is a very very very fine house. – rise Jake tenendo Tracy tra le braccia, sporgendosi per baciarla mentre si muovevano seguendo la musica. Il ragazzo aveva messo su il vinile di una delle band che ascoltava sin da bambino, che anche la giovane psicologa conosceva. Era “So far” di Crosby, Stills, Nash & Young ed era perfetto per quella dolce mattina di Luglio. Più stavano insieme, più capivano che quei momenti erano perfetti. Si erano aspettati per così tanto tempo, tempo che stava venendo ampiamente ripagato.
Tracy si rese sempre più conto del fatto che quel ragazzo fosse esattamente ciò che cercava, il legame che avevano era speciale. Si erano conosciuti in un contesto particolare, in cui Tracy aveva capito e condiviso il dolore di Jake. L’aveva conosciuto in un momento difficilissimo della sua vita e si era innamorata di lui proprio in quell’occasione. Vederlo così spensierato, sentirlo ridere sinceramente era incredibile. Il viso illuminato dall’espressione allegra e serena, il suono limpido della sua risata.
Lo guardava e sentiva di amarlo. Forse l’aveva sempre amato, non aveva mai smesso, e si sentiva una bambina a pensarlo, ma non poteva farci nulla. Era ciò che sentiva, lo sapeva.
Jake la baciò di nuovo, accarezzandole il viso. – Non te ne andare.
- Tranquillo, Maggie starà dormendo come sempre. – gli strinse più forte la mano. – Ci vorrà un po’ prima che arrivi.
- Ah, quindi potevo dormire un altro po’?
- Guarda che sei stato tu a dire “Oh, che noia! Facciamo qualcosa insieme”. Ti contraddici facilmente.
- Ah sì? E tu, che prima non riuscivi a decidere che biscotti mangiare?
- Non è colpa mia se compri dei biscotti buonissimi tutti diversi. – gli lasciò un piccolo bacio sulle labbra.
- Questo perché i miei fratelli mi vengono a disturbare e a loro non va mai bene niente. I miei fratelli e Danny.
- Danny è quel ragazzo che mi ha risposto al telefono quel giorno?
Vide Jake aggrottare la fronte. – Che giorno?
- Quello in cui ci siamo visti per l’ultima volta.
Vide il ragazzo pensarci un po’ e alzare le sopracciglia subito dopo. – Sì, sì. Te lo ricordi?
- Direi di sì.
- Wow. – Jake rise leggermente. – Mi incuti timore, ora.
- Anche tu mi incutevi timore mentre mi fissavi quando dovevo scegliere i biscotti.
- Oh, sì, ti piace questo disco? – cambiò argomento ridendo, portandola verso il divano.
- Molto. Lo conoscevo, ma non bene come te che sai tutte le canzoni a memoria.
- La tua preferita?
Tracy strinse le labbra, sdraiandosi sul divano seguita da Jake che si sistemò sopra di lei, ribaltando le posizioni della sera prima. – Ohio.
Il chitarrista sorrise e la baciò con particolare entusiasmo. - Anche la mia.
Tracy lo riportò su di sé, intrecciando le dita tra i suoi capelli. Si sentiva avvolta da un calore dolcemente confortante, felice come poche volte era stata in vita sua. Stava bene e poteva dire la stessa cosa anche di Jake.
 

 
- Jake.
Il ragazzo alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, vedendo sua madre sulla porta della propria camera. Sospirò, fermando le pagine con l’indice. – Mamma.
- Posso parlarti?
Jake sollevò le gambe e posò il libro sul comodino, facendo spazio alla donna. Effettivamente, non parlavano quasi mai e, se lo facevano, Ronnie era sempre pronta a lanciare qualche occhiataccia a Karen. Jake aveva sempre assunto il ruolo di mediatore, nella famiglia Kiszka. Certo, quello non era un buon momento per esserlo e Karen lo sapeva benissimo.
Il ragazzo vide sua madre protendersi verso di lui per accarezzargli i capelli scuri. Restò immobile, irrigidendosi.
- Piccolo, io… Io non posso nemmeno immaginare come tu ti senta adesso. Abbiamo condiviso una perdita, io ho visto mio figlio andare via, ma tu… - la donna si fermò e il corpo di Jake si tese come una corda di violino. – Tu hai perso un gemello.
- Sì, mamma, lo so. Non c’è bisogno che…
- Mi dispiace, Jake. Io davvero non ho idea di cosa mi sia passato per la testa quando vi ho lasciati soli in quel momento che era terribile per tutti. E’ stata una cosa che mai mi sarei immaginata di fare.
- L’hai fatta, però.
- Perdonami. Non voglio perdere un altro figlio. Mi manca Josh, mi manca Sam. Mi manca Ronnie. E mi manchi tu.
Karen, nonostante non lo avesse visto per anni, conosceva Jake come conosceva se stessa. Aveva imparato a capire ogni su sguardo fin da quando era bambino e lui non poteva evitarlo. Tuttavia quegli occhi così tristi, rassegnati, non li aveva mai visti e quando si puntarono su di lei sentì il cuore spezzarsi.
- Non potrò mai avercela davvero con te. Sono arrabbiato, molto arrabbiato, questo sì. Mi sono sentito abbandonato e messo in disparte. Capisci come si può sentire un figlio, quando sua madre sembra dimenticarsi completamente di lui? Quando anche suo padre lo lascia in balia del vento. E’ questo che non capisco e che non capirò mai: non ti importava di me, di Ronnie e di Sam? Non hai avuto nemmeno un minimo di riguardo per noi? Josh non c’è più e tu, invece di restare aggrappata al resto della tua famiglia con tutte le forze, la lasci andare?
- Scusami, Jake, io…
- Ronnie si comporta in questo modo con te perché lei, che aveva ventun anni, con me è stata come una madre. Insieme a tutto il dolore che ha provato per Josh e per Sam, Sam che per lei era praticamente un gemello come Josh lo era per me, ha dovuto prendersi cura di uno stronzo che non ha saputo badare a se stesso e che l’ha anche trattata malissimo così tante volte. Ha sopportato tutto quanto da sola.
Karen sorrise e Jake intuì che, quell’espressione spontanea, fosse data dall’orgoglio nei confronti di sua figlia. Lo prese per mano. – Io non mi sono mai dimenticata di voi. Sono stata divorata dal senso di colpa e anche vostro padre. – la donna sospirò, gli occhi si fecero lucidi. – Lui in particolare.
- Non mi sembra, almeno tu sei tornata.
- Vi ho mentito, Jake.
SI chiese cosa sua madre intendesse, aggrottando la fronte. – Su cosa?
- Papà non c’è più. Non sopportava più il dolore, il senso di colpa. – A quel punto, la donna era già in lacrime. – Ha preferito mettere fine a tutto quanto.
 
 
Jake continuò a baciare la ragazza, sentendosi completamente a casa. L’aveva aspettata per così tanto tempo, non gli sembrava vero avercela tra le braccia. Era un po’ assonnato, la sera prima era letteralmente crollato dopo… Tutto quanto. Il concerto, il bacio e quello stupendo fine serata. Non aveva assolutamente idea che una notte con Tracy potesse essere così intensa. E non si aspettava che la ragazza ci tenesse così tanto ad avere il controllo durante l’intero atto. Non gli dispiaceva, comunque. Per niente. La guardò, e ripensandoci scoppiò a ridere mentre giocava coi suoi capelli ricci. Tracy aggrottò la fronte, puntellandogli il dito sul petto. – Ti sembro per caso una barzelletta divertente?
- Da quando le barzellette sono divertenti?
- Dipende da quali barzellette conosci.
- Le barzellette italiane fanno ridere?
Tracy si morse il labbro inferiore e scosse subito la testa. – No.
- Fammi un esempio.
- No, fidati di me.
- Allora vedi che avevo ragione io?
- Che ne so, magari sei un tipo a cui fanno ridere le barzellette.
- Ho la faccia di uno che ride con le barzellette?
- Hai la faccia di uno che soffre a morte il solletico.
Jake cercò di nascondere l’inesorabile verità sul suo viso e gonfiò le guance. – No, non lo soffro.
- Mh, certo. – la ragazza si rizzò puntellandosi con i gomiti sul divano. – E secondo me il punto più sensibile è questo qui. – Tracy sollevò una mano per posare le dita sul collo di Jake, sostenendosi con il braccio opposto. Il povero ragazzo sentì immediatamente una sensazione di fastidio mista a prurito e iniziò a piegare la testa nella direzione che le dita di Tracy prendevano, prima di cominciare a ridere e a contorcersi. La ragazza lo riportò sulla schiena, con le proprie ginocchia ai lati dei fianchi di Jake, continuando a solleticargli velocemente il collo. Jake la sentì ridere e, già senza fiato, sentì il cuore mancare un battito.  
- Basta, ti prego!
- Dì che avevo ragione io!
- Va be… - una risata più forte delle altre gli scosse il petto prima che terminasse. – Va bene! Hai ragione!
Le dita di Tracy si arrestarono, ma Jake continuò a ridere, cercando di recuperare fiato. I suoi occhi si fermarono poi sulla ragazza, che gli sorrideva dall’alto. Respirò profondamente, scostandole i capelli ricci che gli sfioravano il viso dietro alle orecchie. La ragazza gli accarezzò una guancia e si spostò poi sotto il suo mento, prendendo a baciargli lentamente il collo. Jake risucchiò l’aria che stava respirando, facendo sollevare lo sguardo a Tracy. – Solletico?
Il ragazzo sorrise, scuotendo la testa. Vide la giovane psicologa tornare a baciargli la pelle del collo e le posò una mano sui capelli, accarezzandoli. Quando la sentì passargli la lingua giù per la gola chiuse gli occhi, inarcando appena la schiena e le strinse leggermente i capelli, senza farle male, quando percepì dei piccoli e delicati morsi sulla pelle.
Tracy tornò a baciarlo, le labbra più gonfie e umide. Il chitarrista fece scivolare una mano sotto alla blusa della ragazza e si sentì sbottonare la camicia da quelle dita rapide e inaspettatamente esperte.
Entrambi sobbalzarono quando il campanello di casa sua suonò. Tracy si ricompose e Jake si tirò su con la schiena. – Merda… Aspetta. – le lasciò un rapido bacio sulle labbra. Erano sicuramente quegli idioti. Infatti, quando guardò dallo spioncino, li vide, tutti e cinque lì in piedi davanti alla sua porta. La tentazione di lasciarli fuori casa era tanta, ma cercò di trattenerla.
Sospirò e si schiarì la gola mentre vide Tracy, dietro di lui, sistemarsi i ricci scombinati, per poi aprire.
Il primo a entrare, ovviamente, fu Sam, seguito a ruota da Joy, Ronnie e Mackenzie e, per ultimo, Danny, che si chiuse la porta alle spalle.
- Jacob tu non hai idea! Siamo stati fuori tutta la notte, Non hai idea di quante canne ti sei pers… - Ronnie fece appena in tempo a tappare la bocca a suo fratello con le mani non appena notò Tracy. Jake si passò una mano sul viso, sospirando.
- Dunque, la… La conoscete Tracy, sì.
- No. – risposero in coro Mackenzie e Joy.
La ragazza si protese in avanti e sorrise, salutando i nuovi arrivati. – Sono Tracy. Scusatemi, stavo proprio per andare a casa.
- No, no! – esclamò Mackenzie posando subito le mani sulle spalle della giovane psicologa. – Resta, scusaci. E’ usanza invadere casa di Jake. Sai, quando eravamo piccoli lui è stato il primo a prendere la patente, quindi usiamo tutto ciò che è suo da quel giorno.
Jake vide Ronnie e Sam fissargli il collo e si rese conto di quanto stupido fosse stato a non prevedere quella situazione. Posò la mano sopra ai segni scuri che Tracy gli aveva lasciato e vide Ronnie sorridere, tirando una gomitata a Sam. – Sento già il fruscio di quei venti dollari sotto le dita.
 
 
Jake si sentì invadere dalla nausea. La testa iniziò a vorticare rapidamente e percepì una fitta alla bocca dello stomaco, il corpo percorso da un tremore improvviso. Il dolore e il disagio fisico che in quel momento stava provando soffocarono per un momento quello emotivo, dovette alzarsi dal letto con le gambe tremanti per raggiungere, con le tempie pulsanti, il bagno. Ebbe appena il tempo di inginocchiarsi davanti al gabinetto di Ronnie prima di iniziare a vomitare il poco cibo che aveva mangiato. Si sentiva morire, il cuore gli batteva così forte da fargli male.
Immaginò Kelly, suo padre, immobile accanto a Karen. Immaginò Karen urlare, piangere mentre cercava di fare qualcosa per riportarlo con lei. Proprio come lui aveva fatto con Josh.
Un tremore gli scosse di nuovo la gola e lo stomaco, facendogli chinare nuovamente la testa sulla superficie bianca.
Non si era nemmeno reso conto di aver iniziato a piangere e di Karen che, alle sue spalle, gli accarezzava i capelli.
Tremava così forte da non sentirsi più le gambe, non riusciva a respirare. Suo padre, insieme a Josh anche lui. Si mise le mani tra i capelli, stringendoli con la poca forza che aveva, cercando quasi di strapparseli via mentre, con gli occhi spalancati, iniziava a urlare talmente forte da sentire la gola bruciare. Non riusciva a smettere di piangere, di tremare e gridare.
Karen lo strinse a sé, in lacrime a sua volta, spaventata e preoccupata. E se non glielo avesse detto? Era colpa sua? Ma era la verità. Sentì Jake dimenarsi tra le due braccia.
- Lasciami. Lasciami.
- Calmati, Jake. Per favore, calmati.
- No! – suo figlio cercò ancora di scappare via, ma lei strinse la presa attorno al suo corpo sottile e tremante.
- Calmati.
- Tutti, tutti voi! – urlò, la voce graffiata e roca. – Morirete tutti quanti, mi lascerete tutti. Sam, Ronnie, tu. – Karen riuscì a sentire il cuore di Jake battere con forza contro al proprio petto. – E’ finita. E’ finita, è finita!
- Basta, Jake. – prese ad accarezzargli la testa, cullandolo nonostante la forte resistenza che Jake stava ponendo. – Basta.
Le urla del ragazzo cessarono. Tremava ancora, i singhiozzi gli rendevano difficile respirare e il cuore sembrava voler esplodere. – E’ finita.
Karen continuò a oscillare su se stessa dolcemente, cullando Jake come faceva quando era piccolo e non riusciva a dormire. – Va tutto bene. – le dita della donna pettinarono con delicatezza i capelli lunghi del suo bambino. – Sono viva, Sam è vivo, Ronnie è viva. Tu sei vivo.
Lasciò che il ragazzo singhiozzasse sul suo petto, il tremore che si affievoliva secondo dopo secondo. Non si curò delle lacrime che le bagnavano il maglione, continuò semplicemente a sfiorare con delicatezza suo figlio, la cosa più importante della sua vita. Non si sarebbe mai perdonata l’assenza a cui aveva sottoposto lui, Ronnie e Sam. – Ti voglio tanto bene, Jake.
Non voleva una risposta, voleva solo che lo sapesse. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca, ripulendo le labbra di Jake dal vomito e, con le dita, gli asciugò le lacrime. Più lo guardava, più si rendeva conto di quanto bisogno di aiuto avesse.
- Non ti lascerò più solo, mai più. Te lo giuro.
 
 

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