Una rosa d'inverno

di acchiappanuvole
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 -Etaples ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Lontananza ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Ai margini della ferrovia ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - L'assenza ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 -Terence gennaio 1915 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 -La decisione di Elroy ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 -il giorno di Annie ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 -“shellshock” ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Ricordi color seppia ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - cuore in trincea ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 Insolita complicità ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 Il viaggio ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 -Figlie della neve ***
Capitolo 14: *** 14 Tela di ragno ***
Capitolo 15: *** 15 La caduta dell'eternità ***
Capitolo 16: *** 16 - Inchiostro sulla carta ***
Capitolo 17: *** A ognuno la sua guerra ***
Capitolo 18: *** Profumo di lavanda ***
Capitolo 19: *** À la claire fontaine ***
Capitolo 20: *** La Commedia degli Errori ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 -Etaples ***


Quando non sarai più parte di me ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole stelle, allora il cielo sarà così bello
che tutto il mondo si innamorerà della notte.
-Romeo & Giulietta-

Erano davanti alla stazione. Il treno che li aveva portati era già ripartito, una folla si accalcava ancora alle barriere: infermiere, soldati francesi e belgi, una vecchia vestita di nero con una stia di polli. Candy si voltò. In lontananza, come le aveva promesso il Dott. Martin, c’era la sua destinazione: Etaples. Un accampamento simile a una piccola città, file e file di baracche, distese di tende color kaki, una piazza d’armi. Candy socchiuse gli occhi, scorgeva le figure degli uomini, minuscoli come formiche, impegnati in un’esercitazione. La vista era bloccata in parte da una donna dalla strana uniforme che includeva un pastrano, e un cappello a bacinella calcato sugli occhi e sui capelli raccolti in una traccia. Doveva averli riconosciuti perché non appena li scorse si fece avanti.
“Candy!” esclamò.
La ragazza trasalì riconoscendo la sua compagna di studi del Santa Johanna, lasciò cadere la valigia e le andò incontro con un gran sorriso.
“Flanny!” l’abbracciò e Flanny arrossì un po’ impacciata non abituata a quegli slanci affettivi, “Flanny sei venuta a prenderci!Come stai? E’ passato così tanto dalla tua ultima lettera. Ti presento il Dottor Martin. Dottor Martin lei è Flanny, ricorda che gliene ho parlato? Flanny è la miglior infermiera che esista.”
“Molto lieta.” Flanny tese la mano magra, “benvenuti a Etaplas. Sono contenta di rivederti Candy e di fare la conoscenza del dottore; attualmente lavoro al campo 15 mentre tu Candy sei stata assegnata al 21, se hai qualche problema con la capoinfermiera vieni pure da me. Ci siamo già scontrate diverse volte. Bene tutto pronto? Allora andiamo. E’ poco più di un chilometro e mezzo, dovrebbero bastare dieci minuti.”
“Devo dire che la tua amica è molto…inglese.”
“Inglese dottore? Flanny è nata a Chicago.”
“No intendevo perentoria.”
Candy si limitò a sorridere con divertita tenerezza. Più avanti Flanny si era fermata su un piccolo dosso.
“Fate attenzione alle spiegazioni, tu in particolare Candy o ti perderai. A destra, dietro di noi, la stazione ferroviaria…”
“L’avevamo notata,” disse il Dottor Martin con un’occhiata affettuosa.
“Quello è il villaggio; pieno di francesi. Sta attenta Andrew, un branco di libertini mangiatori di aglio. Là c’è il campo…quasi tutti inglesi, qualche australiano e neozelandese, forse ci verranno anche gli americani dato che le ultime notizie parlano di un’imminente entrata in guerra. Quello là è l’ospedale, l’edificio grigio fuori dal perimetro, e gli alloggi dei guidatori di ambulanze sono lì vicino.” Girò lo sguardo da Candy al Dottor Martin con un lieve accenno di sorriso, “c’è una tenda sul lato sinistro, è il nostro luogo di deconcentrazione, tovaglie e tazze di porcellana per bere del buon tè, c’è perfino un pianoforte.”
Candy annuì sorridendo a quella notizia.
Il Dottor Marin aveva invece individuato altro, “quello cos’è?”
Guardava in direzione del fiume, Etaples sorgeva tra il corso d’acqua e le colline scoscese.
“Quello?” Flanny sembrava riluttante a seguire lo sguardo del dottore. “E’ il fiume Canche, là dove ci sono quei tetti c’è Le Touquet, sostanzialmente spiagge dove alcune infermiere, con mia disapprovazione, si recano a fare il bagno. E’ la prima fermata del treno.”
“Non alludevo al fiume,” il dottor  Martin non si era mosso, indicò un punto “quello cos’è?”
“Dove scavano quegli uomini?” Flanny sembrava esitare, “è un prolungamento della trincea, in caso di  un attacco aereo. E’ già successo un paio di volte, non ci sono stati danni gravi ma bisogna essere previdenti. Fra una settimana le trincee andranno dal campo alle caverne.”
“Caverne?” Candy si voltò.
“Laggiù dietro il paese, sono enormi e degli ottimi rifugi. Evacuare attraverso le trincee nelle grotte permette anche di poter trasportare i feriti con più facilità. Se notate potete scorgere un’imbarcazione alla foce del fiume,  quella è per l’emergenza estrema nel caso dovesse esserci un’evacuazione inevitabile che ci porti a dover abbandonare la Francia.”
“Perché mai?” domandò Candy.
“Se gli alleati decidessero di abbandonare la parte settentrionale. Tutte sciocchezze alle quali non credo. Vogliamo andare? Purtroppo non posso dedicarvi l’intera giornata c’è costantemente da fare qui.”
Si incamminò e Candy e il Dottor Martin si fissarono per un attimo.
“Crede davvero si tratti solo di precauzione?” chiese Candy riprendendo a camminare. Quell’imbarcazione sembrava grande e maestosa, per la prima volta pensò che gli alleati avrebbero potuto perdere la guerra. Scosse il capo e allungò il passo, il dottor Martin la raggiunse dopo qualche minuto. Flanny si voltava a scrutarli ogni tanto e faceva cenni di approvazione.  Candy si fermò un’ultima volta, avevano quasi raggiunto il campo, un gruppo di australiani stava disponendo le lamiere ondulate sul tratto di trincea appena scavato.
Etaples. Stear era stato lì, forse si era fermato dove lei si trovava ora.
“Quindi se succederà il peggio dove ripareremo?” riprese a camminare.
Il Dottor Martin sorrise bonariamente, “alle caverne mia dolce signorina Andrew, con mille altri. Le imbarcazioni di quella portata servono a portare in salvo solo i pezzi grossi.”
Candy giunse ad Etaples nella primavera del 1917 dopo l’inverno più terribile della prima guerra mondiale, poco dopo il loro arrivo l’America dichiarò guerra alla Germania. Non molto più tardi le truppe canadesi presero la collina di Vimy, seguirono due terribili battaglie, Ypres e Passchendaele.


Ospedale generale 1, 22 marzo 1917

Caro Albert, da sei giorni non perdevo un paziente, ma questa sera è morto un giovane ragazzo canadese. Voglio scrivere il suo nome: James Cunningham, la sua famiglia era del Devonshire, nativo di un paese piccolissimo. Ho scritto a sua madre, sapevo che sarebbe morto, i dottori non avevano lasciato speranze. Mi ha parlato per un’ora prima di morire, mi ha descritto la sua fattoria, era vicino a un lago. Nelle mattine d’inverno quando si alzava a mungere passeggiava lungo il lago e guardava il levar del sole, il ghiaccio era spesso un metro e durava da settembre a marzo, da bambino suo padre gli aveva insegnato a pattinare sul lago, da grande ci andava con la ragazza e li le ha chiesto di sposarlo. Si era arruolato a diciotto anni, ieri ne avrebbe compiuti diciannove. Prima di morire ha nominato sua madre, l’ha chiamata, voleva dirle qualcosa e nel mentre mi stringeva la mano. Vedevo le parole nei suoi occhi ma non riusciva a pronunciarle tanto soffriva. Caro Albert credo di non aver mai provato una rabbia simile, un’impotenza così devastante. Volevo un miracolo, volevo tendere le mani e sentire la vita che tornava in lui; ho pregato ma non è successo niente, non succede mai niente. Non ci sono più miracoli. Non ho mai dubitato nell’esistenza di Dio ma ora…ora forse Dio non esiste e dovevo venire fin qui per scoprirlo. Preferisco non credere nel Dio che vedo ogni giorno, nei reparti dell’ospedale, un Dio che non risparmia nessuno e non interviene mai. Potrebbe dare un segno…è chiedere troppo? Anche questo mi sta esasperando e le lacrime sono inutili, non danno conforto. Scusami se scrivo tutto questo, so quanto tu sia  sempre stato contrario alla mia decisione di venire qui e talvolta per trovare pace penso alle nostre passeggiate nel roseto di Anthony, al tuo sorriso rassicurante e mi sembra incredibile che un posto simile esista realmente e non sia frutto di dolci sogni. Sarò forte, Albert, voglio esserlo e proseguire in questa missione anche quando tutto sembra troppo da sopportare.  Il Dottor Martin mi è vicino e Flanny  sa essere una buona maestra ed una indispensabile amica. Ti supplico di dare mie notizia e Suor Maria e Miss Pony, dì loro che Candy sorride ancora, che tutto sta andando bene, non voglio abbiano pensiero. Ed anche tu non preoccuparti per me, ho tutte le intenzioni di tornare da voi senza nemmeno un graffietto.
Con caro affetto.
Candy.


Nelle immediate vicinanze della spiaggia c’era uno stretto promontorio che si protendeva verso il mare ed era chiamato Pointe Sublime.
Non era affatto sublime per la verità ed il freddo in quel punto era tagliente, le nubi oscuravano la vista del mare, ma Candy non badava a tutto questo. Alzò il colletto del cappotto e chinò la testa, proseguì sul sentiero sopra le dune; aveva intenzione di raggiungere l’estremità del promontorio e di tornare indietro. Era pomeriggio inoltrato e piovigginava, l’aria sapeva di salsedine. Quando arrivò all’estremità del promontorio si voltò, in lontananza si potevano scorgere le luci della stazione, oltre ancora le tende del campo. Più vicino invece, sotto di lei, si stavano accendendo le luci dei cafés di Saint Hilaire, in uno qualcuno stava suonando una fisarmonica. Quella zona era riservata agli ufficiali di rango più elevato, vi erano due ospedali ricavati in quelli che prima erano due graziosi alberghi. Candy aveva fatto il turno di notte in quello più prossimo alla spiaggia; guardò la fila delle finestre che si illuminavano una ad una, il suo reparto un tempo era stato una sala da ballo. C’erano dei reticolati lungo le dune, li seguì con gli occhi, uno zig zag di filo spinato , la spiaggia sottostante era fortificata in modo più  imponente, la ragazza si avviò riparata dalla dune, le dispiaceva di non aver messo il cappello il vento le agitava i capelli e le sferzava il viso; forse aveva cambiato direzione perché non riusciva più ad udire la fisarmonica. Sentiva i cannoni. L’artiglieria pesante a più di trenta chilometri, un riverbero sordo.
Dov’è la guerra? Sempre là dove tutto tuona. E dov’era Candy? Sempre alla periferia, era vicina ma non abbastanza. Se avesse avuto una mappa avrebbe potuto indicare i punti di maggiore battaglia, un serpente lungo chilometri, un serpente sonnolento che a volte mutava posizione per accogliere avanzate e ritirate, ma non si spostava di molto. Era un serpente ben nutrito, dopotutto ogni giorno divorava molti uomini. Quella era la guerra in teoria, e lei poteva indicarla su una cartina e raccogliere e tentare di riaggiustare la carne ferita di tanti, troppo giovani. Si portò le mani al petto per trattenere dei singhiozzi, quel serpente, quella guerra che era ovunque e in nessun luogo le si era insinuata dentro e lei l’aveva lasciata entrare e forse non sarebbe mai più riuscita a sbarazzarsene. Le sembrava una convinzione irrazionale, folle, un modo di pensare così lontano dalla ragazza dai biondi codini della casa di Pony. Anche quelli erano spariti da tempo sostituiti da capelli raccolti in modo più adulto e pratico. “Forse sono solo stanca,” si disse “mangio troppo poco e questo non mi fa pensare lucidamente.” Si diede due veloci colpi sulle guance pallide, doveva concentrarsi su qualcosa di semplice e pratico per continuare.
Quella notte Neal Legan sarebbe passato da Etaples prima di tornare in Inghilterra e poi imbarcarsi per l’America. Era resistito un paio di settimane come guidatore di ambulanze ma la paura e l’orrore, per un ragazzo codardo come Neal, l’avevano avuta facilmente vinta ma Candy non si sentiva certo di biasimarlo per questo. Teneva in tasca una lettera che il ragazzo le aveva fatto pervenire e dove chiedeva di incontrarla, il primo dopo le ire che si erano susseguite quando, nella primavera dell’anno precedente, Albert aveva rifiutato la richiesta di matrimonio di Legan nei confronti di Candy. L’estrasse e la lesse ancora una volta, la pioggia macchiava l’inchiostro ed il vento cercava di strappargliela dalle mani. Non era una lettera espressiva ma opaca come Neal, “Mia carissima Candy, “ iniziava ed in modo altrettanto prevedibile finiva “ mia auguro non vorrai darmi un altro dispiacere rifiutando la mia richiesta di incontrarti. Affettuosamente, Neal.”
Candy la rimise in tasca, non sarebbe andata all’appuntamento, Neal Legan apparteneva ad un capitolo diverso, un passato che poco aveva di che mescolarsi con quello che stava vivendo in quel momento. Si voltò per tornare indietro e mentre si voltava si accorse di non essere sola. A meno di sei metri da lei c’era un giovane. Era seduto in un avvallamento della sabbia, i capelli corti gli stavano ritti sulla testa, sulle spalle portava un assortimento di scarpe, maglioni, giacche gualcite che sotto il pastrano lo facevano sembrare gobbo. Aveva la fronte aggrottata e teneva un grosso quaderno sulle ginocchia; sembrava che non fosse soddisfatto di ciò che scriveva perché faceva continue cancellature, guardava accigliato il quaderno, poi il mare come se lo ritenesse responsabile.
Quando la scorse alzò un amano “Salve!” gridò a voce altissima “vieni a tenermi compagnia. Hai fame? Vuoi un sandwich?”
“Stavo per tornare indietro.”
Candy si avvicinò, lo guardò ma rimase voltata verso il sentiero pronta ad allontanarsi.
“Anch’io” ribatté il ragazzo porgendo poi una mano “Jonathan, Jonathan Harris.”
“Candince Andrew. Ma tutti mi chiamano Candy.”
“Siedi un momento, tornerò indietro con te se permetti, ma prima mangiamo. L’aria di mare mette appetito e anche le poesie. Vuoi del formaggio? Non è male quando ci si abitua.”
“Sei un soldato?”
Jonathan addentò il formaggio scotendo il capo “sono un giornalista, scrivo per un giornale indipendente di New York e sono venuto qui a farmi un’idea di quanto accade, bevi un po’ di caffè” Jonathan stappò una borraccia “io ci metto un po’ di cognac, è scadente ma serve a rianimare un tantino.” Offrì a Candy il tappo a forma di bicchiere e lei ne bevve un sorso.
“Buono?”
“Molto.”
“Caffeina e cognac, combinazione imbattibile. Anche il whisky non è male ma non si trova.”
Quella carenza pareva preoccuparlo, aggrottò la fronte e si voltò a guardare il mare, sembrava che non sentisse più il bisogno di parlare, soffiando e sbuffando scrisse altre parole sul quaderno, guardò l’acqua e le cancellò. Candy aveva sempre pensato che qualsiasi tipo di componimento fosse un procedimento segreto ed eccelso; si sentiva lusingata perché quel ragazzo continuava a scrivere in sua presenza, bevve altri sorsi di caffè e lanciò un’occhiata furtiva al quaderno. Scorse un elenco di parole tutte illeggibili. Cominciò a sentirsi rilassata, quasi serena, il formaggio era gustoso, il caffè buono.
“Di che cosa parla l’articolo?”
Jonathan non si offese, succhiò il mozzicone di matita “della stupidità umana e dell’inutile massacro che sta avvenendo nel vecchio continente” non sembrava molto sicuro “e un po’ forse parla anche di me, del perché ho deciso di venire qui invece che starmene al sicuro in un ufficio americano.” Mordicchiò la matita e guardò Candy.
“Sono venuto in Francia per cercare la guerra. Immagino lo stesso valga anche per te.”
Candy fissò il liquido scuro che rimaneva nel fondo del tappo, “sono un’infermiera sono venuta qui sperando di poter aiutare in qualche modo, ma sempre più spesso mi rendo conto che i buoni propositi si infrangono con la realtà.”
“Potevi rimanere in America e farti una bella famiglia, tutto questo orrore non te lo toglierai facilmente dagli occhi.”
“Un mio caro amico ha perso la vita proprio qui a Etaples, il suo aereo è stato colpito a pochi chilometri da dove ora sorge il campo. Ogni volta che portano un ragazzo ferito penso: è come Stear ed io devo salvarlo. Ed ogni volta che non ci riesco Stear muore davanti a miei occhi ancora e ancora. E tuttavia non posso andarmene, non ne sarei nemmeno in grado. Entro dentro quelle tende e sorrido, cerco parole confortanti anche quando vorrei solo piangere.”
“Sei forte signorina Candy Andrew.”
“Forse, non saprei dire. Ho ancora la speranza che tutto questo finisca presto, che le cose torneranno a posto in qualche modo.”
“E’ quello che ci auguriamo tutti e voglio cercare di portare questa speranza attraverso l’articolo. In verità nasco come poeta e sceneggiatore, ma sono pochi quelli che hanno il fegato di partire per la fine del mondo e riempirci un taccuino di pensieri più o meno sensati.”
“Mi piacerebbe leggere qualche tua poesia.”
“Oh, roba mediocre non ti perdi nulla. Sulle sceneggiature invece me la cavo bene, stavo per proporre un mio scritto ad un produttore di Broadway prima che mi spedissero qui.”
Candy sorrise malinconica “ricordo bene Broadway.”
“Ci sei stata?’”
“Una volta soltanto e a dirla tutta non assistetti nemmeno a tutta la rappresentazione.”
Jonathan rise “doveva essere una vera noia.”
La ragazza scosse il capo “al contrario. Romeo e Giulietta, l’attore che impersonava Romeo era…era davvero un grande artista.” Scacciò una lacrima dal viso per poi fare un lungo sospiro “ ma non amo gli amori così tragici, se capiterà l’occasione un giorno voglio assistere ad un musical.”
Jonathan spezzettò del pane “confesso di non averne mai visto uno, il dramma di Romeo e Giulietta invece credo di ricordarlo, fu messo in scena dalla compagnia Stratford se non erro.”
Candy annuì.
“Era una delle migliori compagnie di New York, si è sciolta lo scorso anno.”
“Si è sciolta?” Candy si voltò di scatto a fissarlo.
“Mi pare di sì, ci furono dei problemi con uno degli attori di punta, un figlio d’arte se vuoi che ce la indentiamo. Non so se conosci Eleonor Baker, era molto popolare un po’ di tempo fa, il figlio faceva parte della Stratford.”
Candy sentì il cuore stringersi in uno spasmo quasi doloroso, possibile che succedesse ancora dopo tutto quel tempo?
“Che ne è stato di lui?”
Jonathan scosse le spalle, “credo abbia cambiato compagnia o si sia sposato, di certo non lavora più a Broadway altrimenti l’avrei saputo.” La scrutò attentamente “eri un’ammiratrice?”
“Mettiamola così. Ora devo proprio rientrare si è fatto tardi e a breve riprenderà il mio turno.”
Jonathan si fece più serio “perché sei a Etaples?”
La ragazza lo fissò sorpresa, “te l’ho detto sono un’infermiera.”
“Non si viene assegnati casualmente in un posto come questo, questa quiete momentanea è solo il preludio di tanti incubi. Pensaci bene e fatti assegnare ad un altro posto. Da quanto sei qui? Un mese?”
“Pressappoco.”
Candy riconobbe l’espressione sul volto di Jonathan, l’aveva già vista sul volto di centro altri ragazzi, sul volto di Flanny e delle infermiere lì da più tempo. Un’espressione chiusa, forse sfumata di disprezzo, “sai che aspetto hanno le vittime di un attacco gas?”
“No, ma…”
“Sai che aspetto ha qualcuno colpito allo stomaco dallo shrapnel? O saltato su una mina? Li hai visti?”
“Ho visto molte ferite Jonathan e ho visto molti giovani morire se è questo che mi stai chiedendo.”
“Ma gli orrori che ti ho appena accennato ancora non li hai visti.”
“No.” Le mani di Candy sussultarono, “ma credi che quel che vedo ogni giorno non sia già terribile Jonathan?”
“Lo credo Candy, ma c’è ancora qualcosa di vivo in te, una luce negli occhi che ancora non ti ha abbandonato, scomparirà tutto se rimarrai qui.”
Candy gli pose una mano sulla spalla e sorrise “grazie per la compagnia e il pasto, Jonathan. Sono stata felice di poter parlare con te.”
“Non dimenticare che siamo tutti in transito, Candy, ne qui ne là fino alla fine della guerra.” Jonathan raccolse la sua roba, si avvolse le scarpe intorno al collo, ormai era buio, accese una piccola torcia elettrica “avevo detto che ti avrei accompagnata,” si avviarono fianco a fianco, il sentiero era stretto e le loro spalle si urtavano “ non lo hai più rivisto il tuo Romeo, non è così?”
“Jonathan Harris sei la peggior pettegola che io abbia mai conosciuto!” commentò esasperata Candy.
“Che vuoi farci è deformazione professionale e sono un buon osservatore ho colto il cambio di sfumatura nella tua voce mentre ne parlavi.”
“Era una persona alla quale ero molto affezionata.” Candy alzò il viso e il vento le colpì gli occhi, glieli fece lacrimare; non piangeva anche se a volte si accorgeva di piangere all’improvviso e senza una ragione apparente. Ma adesso era solo il vento. Giunti davanti al primo ospedale poterono udire di nuovo la fisarmonica.
“Perché?” Jonathan si fermò e scosse la torcia, la batteria era quasi scarica, si spense e si riaccese.
“Perché un rimpianto così grande?”
Candy allungò il passo irritata “ti prego Jonathan devo tornare al lavoro.”
“E’ anche per lui che sei qui? Per essere lontana, per dimenticare?”
“Non l’ho mai detto.”
“No” Jonathan si era fermato “hai parlato di affetto. Non è una gran parola, amore va meglio, se la gente non la usa a sproposito.” Guardò Candy e comprese la sua espressione perché assunse un’aria contrita.
“Scusami Candy, ho varcato il confine della correttezza inglese. I miei amici dicono che lo faccio spesso, che sono un americano volgare. Forse imparerò a non fare più alcune domande, ad avere più tatto. O forse no. Senti la fisarmonica? A me piace. A volte vado in quel caffè pieno di soldati, quando smontano dal servizio. Fanno un’ottima omelette con le patate, magari una volta o l’altra la mangerai insieme a me…”
“Forse…forse chi lo sa.”

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Lontananza ***


La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente.
(Macbeth)


“Credevo non avresti accettato il mio invito signorina Andrew!”
“Ho un’ora prima di riprendere il turno.”
“Giusto il tempo per una omelette. L’omelette della fine del mondo! Non lo trovi tragico e comico insieme, potrebbe essere un buon titolo!?”
Candy alzò le spalle incerta “ trovi?”
Jonathan le prese il braccio e salirono le scale del Café, Candy si muoveva rigida come una marionetta e non guardava Jonathan. Era spaesata e in qualche modo percepiva una strana irritazione che non le era chiara.
“Scusami ancora per ieri” Jonathan le aprì la porta, dentro pochi soldati stavano radunati intorno ad un tavolo intenti ad osservarne altrettanti impegnati in una partita a carte.
“Non sei tu che devi scusarti ma io” lo guardò “perché fingere dopotutto? Non ne sono mai stata capace anche se ultimamente è quasi necessario. Hai ragione tu lo so, affetto è una parola debole e io amavo Terence, l’ho amato per anni.”
“Terence Granchester ecco come si chiamava!” Jonathan scostò una sedia dal tavolino per farla accomodare.
Un brivido percorse la schiena di Candy “non scriverai queste cose, vero Jonathan?! Terence è fidanzato ed io non voglio che nulla intacchi la sua felicità.”
“Sono qui per fare il reporter di guerra Candy non rischierei certo la pelle per scrivere su giornali scandalistici."
“Comunque questo è tutto, l’ho amato ed è finita. Lui sta con Susanna Marlow ora, se conosci la compagnia Stratford sai sicuramente di chi si tratta.”
Jonathan annuì “ebbe un brutto incidente ricordo. Una grande attrice comunque, la vidi nella parte di Ofelia in uno dei suoi primi ruoli, lo ricordo  perché fui io a recensire la serata.”
“Già una donna bellissima, così aggraziata e fine. Davvero poco a che vedere con me.” Candy fece una smorfia, “allora questa omelette?”
Jonathan sorrise e fece segno ad un grosso oste corpulento di portare loro quello che era l’unico piatto disponibile: omelette e patate.
“Perché come sei tu signoria Andrew?”
“Ricordo male o avevi detto che non avresti fatto più domande?” Candy allungò le gambe sotto al tavolo stiracchiando i muscoli “io sono scialba, neppure brutta ma scialba, piuttosto sbadata e…che altro…ah ho un sacco di lentiggini! Immagino le avrai notate, dicono che con l’età diminuiscano ma a me pare il contrario, tuttavia ne sono fiera in qualche modo. E’ un tratto distintivo, no?” Candy emise un singhiozzo soffocato ed il suo viso si contrasse, asciugò le lacrime con il dorso della mano e cercò lo sguardo di Jonathan ridendo e piangendo, il ragazzo le porse un fazzoletto perché si soffiasse il naso.
L’uomo corpulento portò le omelette e per un poco tra i due il silenzio la fece da padrone.
“Avevi ragione è davvero buona. Se solo riuscissi a procurarmi delle uova potrei provare a cucinarle anche per i feriti, la brodaglia che passano al campo non è certo sufficiente per dar loro forza, ho provato a protestare un’infinità di volte con i superiori ma dicono che devo già ringraziare che ci sia quella sbobba scotta ogni santo giorno.” Lanciò un’occhiata verso un vecchio orologio a muro “devo tornare, ho il turno per la notte e…mi spiace di essermi comportata così, credo sia la stanchezza.”
“Hai detto che il turno iniziava tra un’ora e a ben guardare ci resta ancora del tempo, possiamo bere un po’ di tè annacquato,” Jonathan guardò la stufa a carbone accesa nell’angolo e poi si tolse il pastrano e la sciarpa. Ordinò due tazze di tè che Candy rimestò pensosamente.
“Mi ricordi una persona” disse infine “ una persona molto importante per me.”
“Davvero?”
Candy annuì “è il mio benefattore, è sempre stato presente per me, una cara voce amica nei momenti più bui. Confesso che mi manca molto. Era contrario al fatto che venissi qui, si è opposto tenacemente ma io ormai avevo deciso. Gli scrivo costantemente, i momenti in cui metto nero su bianco i miei pensieri e so che lui li leggerà sono quelli che rasserenano queste giornate.”
“è il tuo innamorato?”
Candy sorrise “è il mio principe. Il mio principe della collina.”
“Principe della collina? Questo sì sembra un titolo per una rappresentazione teatrale.”
La ragazza annuì soddisfatta “ sarebbe troppo lunga da raccontare, ma se ci rivedremo alla fine di questa guerra, Jonathan Harris, sarò ben lieta di raccontarti quanto William Albert Andrew ha fatto per una povera orfana delle Casa di Pony.”
“Sei piena di spunti interessanti Candy e fai sembrare più piacevole persino quest’acqua sporca che con coraggio ho voluto chiamare tè.”
“Hai finito il tuo articolo?”
“Alla fine ne è uscita una poesia.”
 Candy sembrò illuminarsi, “una poesia?”
Jonathan parve assorto, disegnò sul vetro appannato della finestra un uccello, una barca, infine un uomo.
“Una poesia sull’amore.” Annunciò all’improvviso, “quando ti ho vista stavo cercando di comporla ma non veniva mai bene. Io tento ma non mi vengono le parole.”
Prese il quaderno dalla tasca l’aprì alla pagina piena di parole e di cancellature, strappò il foglio, l’appallottolò e andò a gettarlo nella stufa. Tornò a sedere cercando di non badare all’espressione allibita della ragazza.
“Perché Jonathan?”
“Perché è quello che ci salva quando siamo in  situazioni come questa. Cosa può esserci di più orribile di una guerra? E cosa può esserci di più rasserenante se non pensare all’amore?”
Jonathan appoggiò i gomiti sul tavolo, il mento sulle mani.
“Amo un ragazzo. Un ragazzo che è partito per questo incubo e del quale non ho più notizie. Ti sconvolge?”
Candy aderì meglio allo schienale della sedia “e tu non sai dove si trova?”
Il ragazzo scosse il capo, “ho pensato di iniziare da Etaples ma fin’ora senza risultato. Chissà magari è morto ed io non lo saprò mai.”
“Non dire così! Come si chiama?”
“ Scott, Scott Wilkers. Abbiamo frequentato insieme l’università ed io…beh me ne sono innamorato all’istante, ci credi? Una cosa inaspettata che mi terrorizzava, avevo sempre la sensazione che tutti sapessero o che capissero. Ma poi, nella più anonima delle notti americane, seppi d’essere ricambiato. Immagina che scandalo ne sarebbe seguito. Talvolta penso che la sua scelta scellerata di arruolarsi per questa guerra sia dipesa da me, sia colpa mia. Cerco di scrivere della guerra e non posso, più guardo e meno capisco.” Jonathan s’interruppe di colpo e batté le palpebre come se l’idea gli fosse venuta solo in quel momento, “ti ho scandalizzata?”
Candy era arrossita, cercò di immaginare un uomo nelle braccia di un altro uomo, un uomo dagli occhi scuri e caldi come quelli di Jonathan. Sorrise.
“Non sono scandalizzata. Non potrei mai scandalizzarmi davanti all’amore. E Scott ti ama…”
Jonathan sembrò riflettere “dice di sì, credo sia vero…a modo suo.”
“Non ti ha mai scritto?”
“Mi scriveva tutti i giorni i primi tempi, ora invece è da parecchio che non ho sue notizie. E vuoi sapere una cosa del tutto irrazionale? Lo amo ancora di più.”
Candy si tese verso Jonathan “vedrai che lo ritroverai.”
Jonathan aveva ripreso a disegnare sul vetro appannato, un’altra figura, un’altra barca. Mise la figura nella barca e aggiunse tre linee ondulate a rappresentare il mare, le parole confortanti della ragazza non sembravano aver sortito effetto. Rimise in ordine le sciarpe, indossò il cappotto, uscirono. Si avviarono verso il campo a braccetto.
“Mezzanotte come cenerentola.”
“Sarò di servizio sull’ambulanza di turno alla stazione.”
“Stai attenta signorina Andrew, e grazie per questo bel pomeriggio, è stato quasi surreale se pensi al luogo in cui ci troviamo.”
La ragazza annuì mesta, Jonathan fece un cenno di saluto con la mano e si avviò in direzione di un vecchio magazzino adibito a dormitorio, fischiettava un motivo stonato ma allegro. Candy lo seguì con lo sguardo, poco più avanti la batteria della torcia elettrica si accese e poté udire Jonathan proruppero in un’esclamazione soddisfatta.

****

“Annie le galosce!”
Archie si ferma davanti alla grande casa guardando i piedi di Annie.
“L’erba è così bagnata se dobbiamo attraversare il giardino ci vogliono le galosce.”
“Non ne ho bisogno, Archie.” Annie risponde con una certa asprezza, da qualche tempo l’eccessiva galanteria del fidanzato la irrita.
Albert li osserva pigramente, sventola la racchetta da tennis, guarda il cielo in lontananza.
“Stanotte ha piovuto e l’erba non è ancora asciutta potresti prenderti un raffreddore.”
La voce di Archie ha assunto il tono ostinato di sempre quando la sua proiettività viene contestata Annie nota quel lieve corrugamento della fronte che tanto l’affascinava durante il periodo della Saint Paul’s School. Tutti sono convinti che prima o poi il giovane Andrew le chiederà la mano, ma il passare del tempo sembra allontanare questa eventualità ed Annie non riesce a darsene ragione.
“Oh santo cielo Archie” Albert ne è stranamente esasperato “vuoi giocare a tennis o no? Abbiamo già sprecato metà del pomeriggio.”
“Stavo solo pensando che…”
Albert lascia cadere a terra la racchetta “se insisti tanto andrò io prendere le galosce.” E il capofamiglia Andrew si allontana senza dare modo ne ad Archie ne ad Annie di replicare.
“Io non capisco è sempre stato una persona pacata ed invece ora è sempre più irritabile,” sbotta Archie sedendosi su di una panchina del giardino a fianco ad Annie.
“Devi comprenderlo è preoccupato come lo siamo tutti. Mi sembra così stupido stare qui a discutere di tennis e galosce quando…” Annie cerca di trattenersi “è più di due settimane che non ricevo una sua lettera e lo stesso forse vale anche per Albert. Sono così furiosa!” Annie si alza stringendo tra i  pugni la stoffa avorio della gonna “ perché ha voluto farci questo? Non è bastato quanto accaduto a Stear?!”
“Calmati Annie, anch’io sono amareggiato e preoccupato quanto te ma sappiamo entrambi che quando Candy si mette in testa qualcosa nemmeno il cielo potrebbe farle cambiare idea.”
Annie si risiede sospirando “credo che Albert non ritornerà” mormora.
“Vado a vedere dov’è e a scusarmi con lui, so di essere insistente su delle sciocchezze ma è il mio modo di non pensare, chiedo scusa anche a te.” Così dicendo Archie si allontana ed ad Annie non resta che fissare la schiena del fidanzato raggiungere il boschetto di betulle e sparire. Quando Archie trova Albert, l’uomo è seduto nel gazebo con una lettera tra le mani. Archie si chiede se è il caso di fare commenti e decide che non sarebbe politico, ad Albert non piace essere spiato. Si avvicina “che giornata sciocca, prima ho perso a croquet con il figlio dei Davon poi zia Elroy mi ha annoiato a morte sulla tenuta contabile delle nostre proprietà. Avevo il viso come una barbabietola non sapevo più che fare, ogni giorno diventa se possibile ancora più acida. Hai notato?”
Albert accenna un sorriso “vagamente.”
“E’ una lettera di Candy?” i buoni propositi di Archie si sono dileguati non appena ha scorto il timbro postale francese sulla carta.
“Sì, ma è vecchia, dopo questa non ne ho più ricevute altre. Sto pensando di andare a prenderla Archie, probabilmente si arrabbierà con me ma non posso tollerare oltre di saperla in quell’inferno. Io l’ho visto e so bene di cosa si tratta.”
Archie annuisce “lascia che venga con te.”
“No, tu devi rimanere qui e sostituirmi fintanto che non farò ritorno, sai bene che quegli avvoltoi dei Legan non aspettano altro che mi allontani per poter influenzare negativamente la zia.”
“Ho sentito che quel codardo di Neal rientrerà questa settimana dalla Francia, non è resistito nemmeno un paio di settimane quel vigliacco.”
“Meglio così, per quanto Neal sia deprecabile non è certo il caso di augurargli di saltare per aria in una inutile guerra.” Albert consulta l’orologio ed estrae dalla tasca un porta sigarette d’oro.
“Un regalo del mio defunto padre,” dice “non l’ho mai utilizzato ma in questo momento credo sia provvidenziale.”
Archie osserva l’astuccio con una certa aspettativa.
“Ne vuoi una?”
“Annie mi ucciderebbe se sapesse che ho accettato,” arrossisce “per la verità sono arrivato ad una al giorno, le ho acquistate in una tabaccheria di Chicago poco dopo la morte di mio fratello.”  Albert porge l’astuccio e Archie ringrazia con un cenno, “riportala a casa sana e salva Albert.”
“Lo farò è una promessa.”

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Ai margini della ferrovia ***


Tutti gli uomini sanno dare consigli e conforto al dolore che non provano.
(Molto rumore per nulla)

“E’ parecchio tempo che non do mie notizie, potrei scrivere solo qualche riga per dire che sto bene, il fatto è che non mi conforta più.” Ammise Candy mentre camminava lungo la strada della stazione assieme a Flanny in un mattino gelato.
“Io invio delle cartoline, sto bene, non preoccupatevi. Non mi riesce certo di essere più prolissa.” Flanny cammina spedita in direzione di una barella dalla tela bagnata, coperta da una sottile incrostazione di ghiaccio. “Una primavera gelida come l’inverno,” afferma guardando i binari da cui doveva arrivare il treno, Candy parla ancora, accenna ad un giornalista americano, ad omelette con patate, Flanny l’ascolta prima di sentire anche qualcos’altro, lontano ma sempre più distinto…il rombo di un motore. Il vento distorceva il suono. Non ne era sicura, forse era la locomotiva del treno-ospedale. Candy le si fece vicina “almeno ad Albert dovrei scrivere, non riesco a togliermi dalla testa l’espressione del suo viso quando gli comunicai che sarei partita.” Cominciò a spiegare a Flanny che quando aveva salutato gli Andrew aveva avuto una premonizione di sventura che l’aveva perseguitata per tutto il viaggio. In quel momento la mano di Flanny le batté con forza sulle reni “buttati giù!” gridò.
Il colpo la lasciò senza fiato, cadde e le pietre le spellarono il viso, Flanny le piombò addosso con tutto il suo peso, l’asta della barella le colpì la testa, l’aria tuonò e lampeggiò, il gomito di Flanny le premeva contro la spina dorsale, Candy riuscì a spostarla ed alzare la testa. Tutto era impazzito, il marciapiede era impazzito, tutto ciò che prima era nero adesso era luce e fumo, le fiamme correvano sulle pensiline e si agitavano come bandiere. Qualcuno urlò, una crocerossina passò correndo con il mantello incendiato e i capelli che bruciavano. Candy sapeva che avrebbe dovuto alzarsi ed aiutarla ma Flanny non glielo permetteva, anzi le riabbassò la testa. Candy si infuriò dimenandosi dalla stretta salda delle collega, ma Flanny si rivelò essere più forte di lei, e fu una fortuna perché in quel momento il pilota dello Zeppelin lanciò la seconda bomba con una precisione rara per quei tempi, colpì non solo la stazione ma anche la locomotiva del treno che stava arrivando.
La locomotiva s’impennò, si buttò di sbieco, eruttò ferro rovente e vapore, carboni ardenti volarono nell’aria. I vagoni continuarono la corsa, si scontrarono, slittarono. Un serpente di ferro tranciato in frammenti, frammenti che schizzarono in alto in un fragore assordante. Venne silenzio, un ronzio, un urlo. Flanny l’aveva salvata, Candy se ne rese conto quando alzò la testa e l’amica, che tremava, l’aiutò a rimettersi in piedi. Ad un metro di distanza, dove stavano pochi istanti prima, c’era un palo metallico, parte del treno o di un binario, o forse della pensilina, con la precisione di un giavellotto aveva trafitto una pietra.
I vagoni bruciavano ed i feriti con essi. In seguito Candy non sarebbe mai stata in grado di descrivere quella scena e quell’odore.
Verso il finire della notte il cielo si rischiarava e l’orizzonte non era più nero ma grigio, Candy e Flanny ritornarono al treno, verso l’ultimo vagone meno danneggiato che era bruciato più lentamente. Tutti gli uomini tranne uno erano stati portati fuori. Quell’uomo, che aveva avuto una gamba fratturata da un affusto di cannone qualche giorno prima, era visibile attraverso lo sportello sfondato. Giaceva sotto uno strato di metallo contorto. Non gemeva e non pareva morto. Il vagone stava cominciando a bruciare quando Candy si avvicinò. In quel momento i vetri ancora intatti dei finestrini esplosero, vi fu un’eruzione di fiamme e di schegge, Candy chinò la testa e corse lungo il binario coperto di grasso bollente, ai aggrappò a una ruota e cominciò ad issarsi. Flanny tentò di raggiungerla per tirarla indietro, ma Candy non lasciò la presa, era come stringere un pezzo di ghiaccio e le spellava il palmo delle mani. Chissà come riuscì a trascinare fuori l’uomo. Accorsero un barellista e un’altra infermiera, il fumo li accecava. Estrassero l’uomo e lo caricarono sulla barella e poi verso l’ambulanza. Là, con la faccia annerita dal fumo e le mani ustionate fasciate alla meglio, Candy cercò di medicarlo. L’uomo riprese i sensi per pochi attimi, a meno di un chilometro dal campo girò la faccia e morì.

Etaples, 29 aprile 1917
Caro Albert, spero tu e zia Elroy siate in salute. Perdonami se negli ultimi tempi i miei messaggi si sono limitati a sporadiche cartoline ma il lavoro al campo è continuo e sempre in aumento, alcuni dicono che i tedeschi sono alle porte, altri invece che gli alleati stanno prendendo terreno. Le notizie giungono frammentarie ed ad essere onesti non è il primo dei nostri pensieri. Da quando sono qui comprendo quanto tu debba aver sofferto  durante il periodo in Italia, all’epoca ero solo una sciocca infermiera che pensava che tutto può sistemarsi con un sorriso e buona volontà... ad oggi comprendo che se le ferite fisiche possono curarsi è molto difficile che lo stesso possa accadere per le lesioni alla mente. Gli uomini dalle menti distrutte sono quelli che ci vengono inviati tra i primi quando i dottori sono certi che non simulino. Non me ne occupo direttamente ma so che vengono rimandati in Inghilterra in ospedali specializzati in località di campagna. Hanno visto l’indicibile e sono sprofondati nella pazzia. Oh Albert non dovrei scriverti questo…no davvero non dovrei…”
Candy blocca il pennino, una macchia d’inchiostro dilaga sul foglio oscurando ogni parola. Strappa la carta gettandola in un cestino di fortuna.
Caro Albert, perdonami se non ti ho più dato mie notizie dettagliate ma voglio rincuorarti e farti sapere che sto bene. Lavoro con costanza ed aiutare chi ha visto gli orrori della guerra a ritrovare il sorriso è una missione che mi riempie di energie ogni giorno. Certo a volte è faticoso ma anche appagante. Ho conosciuto molte persone tenaci ed ammirevoli e sto imparando molto da loro. La sera quando possiamo avere un po’ di pausa, io, Flanny e le altre ci raduniamo intorno alla stufa e ci raccontiamo vari aneddoti sui nostri luoghi d’origine. Pensa che ho parlato loro anche di te, sono tutte affascinate dal mio principe della collina, ho mostrato loro il medaglione, lo conservo sotto il corsetto all’altezza del cuore, so che mi proteggerà e non permetterà che nulla accada. Ad ogni modo i superiori ci hanno rassicurato, è impossibile che i campi dei feriti vengano bombardati, perciò non stare in pena per me. Abbraccia forte Annie e dille che prego per la sua felicità ogni sera. Saluta Archie e ti prego manda mie notizie alla Casa di Pony, di che la loro Candy li abbraccia forte forte.
Con affetto
Candy.

“Disturbiamo?” Jonathan si era affacciato nel piccolo ufficio, Candy ripose la lettera e tentò di sorridere.
“Jonathan, che bello vederti.” Il ragazzo sorrise spingendo poi all’interno una carrozzella con un giovane con una benda sugli occhi.
“Ti presento Luke. Ma forse te ne ricordi!? Lui di certo si ricorda di te, vero Luke?”
Il giovane sulla sedia sorrise “lei è stata la prima ad accorrere ad aiutarmi signorina quando il mio treno arrivava dalla linea di sud-ovest.”
Candy rammentava quella giornata, il treno trasportava un centinaio di feriti, era accaduto pochi giorni prima del bombardamento alla stazione.
“Un angelo dai capelli biondi mi è venuto incontro ed ha preso subito a medicarmi.”
“Addirittura un angelo? Allora forse non si trattava di Candy.”
La ragazza si finse offesa e poi si alzò a stringere la mano a Luke “come ti senti?”
“Molto meglio ora, la settimana prossima potrò tornare a casa, purtroppo non sono più utile a niente qui.”
“Ci chiedevamo se volevi passeggiare un po’ con noi, il cielo è incredibilmente azzurro oggi.” Jonathan indicò la finestra.
“Si perché no.”
Percorsero la promenade in direzione del mare, le barriere di difesa erano state rafforzate, ma in quel primo mattino di sole tiepido poteva sembrare che il mondo circostanze avesse riacquisito il senno con lo spuntare dei primi fiori. Candy se ne accorse e sorrise, non si voltò a guardare il campo ma tenne lo sguardo puntato sulla strada polverosa che portava al mare. Jonathan e Luke fischiettavano stonati, Candy tolse la cuffietta da infermiera che le imbrigliava i capelli e alzò il viso verso il sole.
“Voglio godere di questo pomeriggio,” raccolse alcuni fiori selvatici e porse il mazzo a Luke “che dici Jonathan facciamo scoprire a Luke la magica omelette delle fine del mondo?!
“Non avrei potuto avere suggerimento migliore.”
La ragazza rise e allungò il passo, scacciò qualche lacrima prepotente, immaginò che al posto del mare quella stradina la conducesse alla collina di Pony, dove Miss Pony l’attendeva con una tazza di tè al bergamotto, Suor Maria la rimproverava per quei capelli sciolti al vento in modo disordinato e i bambini l’accoglievano cantando. Sembrava la miglior favola che potesse colorare per pochi attimi le grigie sfumature di Etaples.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - L'assenza ***


Finché possiamo dire: “quest’è il peggio”, vuol dir che il peggio ancora può venire.
(Re Lear)

A Candy le caverne di Etaples piacevano; gli attacchi aerei, quando ebbero inizio, avvenivano sempre di notte; e sempre di notte loro vi si rifugiavano. Era diventato un esodo di consuetudine , Flanny dimostrò grandi doti d’organizzatrice, ormai la cosa sembrava divertirla. Dopo due o tre notti Candy prese nota delle abitudini dei francesi che stavano già trasformando le caverne in abitazioni. Avevano scelto la grotta più calda e asciutta che permetteva di seguire l’andamento delle operazioni perché era affacciata sopra i cannoni. Vi avevano lasciato una quantità di oggetti in vista delle nuove incursioni.
“Posso fare delle foto?” damandò Jonathan senza aspettare che Flanny desse consenso, “questi sono i tuoi pazienti, Candy?”
Candy annuì mentre finiva di sistemare le coperte di un giovane dal volto pieno di cicatrici. “Se vuoi avere più informazioni è meglio che parli con le sentinelle, io non me ne intendo molto di armamenti e tatticismi.” Lasciò Jonathan a scrivere su di un quaderno e procedette verso la caverna dove stavano gli uomini colpiti da sindrome da fatica, era la più profonda tra le grotte in us, lì il suono degli spari giungeva attutito. Una delle infermiere più giovani che Candy conosceva li stava sorvegliando, dormivano tranquilli mentre lei teneva un libro sulle ginocchia e due candele accanto. Le fiammelle lanciavano riflessi sul viso della donna che, quando vide Candy, sorrise. La ragazza proseguì. Su addentrò nelle viscere della collina, verso la “caverna delle preghiere” come l’avevano battezzata alcune crocerossine. Congiunse le mani ma mentre tentava di rivolgersi a Dio le pareva che le sue preghiere fossero piccole piccole  e si aggrovigliassero. Si inginocchiò, la roccia fredda le feriva le ginocchia, cercò di pregare per i caduti di quella giornata, l’acqua che sgocciolava lungo le rocce sembrava un silenzioso pianto della terra. Il suo pensiero andò a Miss Pony, non aveva più ricevuto sue notizie e temeva che la donna avesse problemi di salute, pregò per lei e per suor Maria, per i bambini dell’orfanotrofio e per tutti i nuovi orfani che la guerra stava causando,pregò per Scott Wilkers affinché tornasse presto da Jonathan, la tenebra soffocava le sue orazioni. Candy sentì le calze strapparsi al ginocchio, pregare per i vivi, pregare per i morti…il confine giorno dopo giorno le sembrava sempre più labile. All’improvviso le parole si dissolsero assorbite dalla roccia; collera e sofferenza, sentimenti così forti che Candy provava per la prima volta nonostante la vita l’avesse messa più volte in difficoltà. Guerra e pietà, fede e ostacoli, nessuna contraddizione. Candy guardava la ragazza che era stata, la vedeva saltare da un ramo all’altro, cadere, piangere, rialzarsi ancora. Ne sarebbe stata ancora in grado?
Si rialzò barcollando, si avviò in una direzione, tornò indietro, guardò impaurita il suolo rimbombante. Corse per qualche passo, un cannone tuonò. La crocerossina posò il libro, sbadigliò e sorrise ancora. Le due candele erano quasi consumate, ne prese altre due le accese e fissò la cera molle. “Che notte lunga” osservò senza particolare inflessione. Candy si ritrovò quasi imbarazzata da quella calma così assurda; guardò i letti, c’erano venticinque uomini, passò il raggio della torcia su ognuno di loro. Uno si era sollevato e seguitava a contare le dita delle mani, emetteva lamenti simili a quelli dei bambini, nessuna parola era comprensibile.
“Sta cercando di dirci qualcosa” Candy fece per avvicinarsi ma l’altra la fermò, “si lamenta sempre,non parla” esitò “non credo che ce la farà.”
“Non parlano mai?” Candy si voltò “voglio dire, non parlano di quello che li ha ridotti così? Di quello che hanno visto?”
“Alcuni sì” disse la crocerossina “talvolta sono fissati su una cosa da poco e continuano a parlarne. So che le altre infermiere minimizzano, voi siete abituate a curare ferite e rammendare carne, qui invece si ha a che fare con la mente, con cose contro le quali non ci sono medicine efficaci. La maggior parte di loro ti guardano come se non ti vedessero, certi non sanno neppure come si chiamano e, quando ce li portano, gli assegnamo un numero. A me non piace così gli do un nome. Gli dico: bene tu sei Bill o Johnny. Sembra che lo apprezzino.”
Candy la fissò smarrita, “perché non hanno nomi?”
“Per cento ragioni. Un’esplosione. Sono rimasti sepolti vivi  o bloccati per giorni in trincea con i morti prima che qualcuno potesse portarli via. Succede sempre. Certuni ricordano chi sono, altri no. Immagino che li identificheranno quando li riporteranno in Inghilterra. Ti va di bere qualcosa di caldo? Mi fa piacere avere un po’ di compagnia.”
“Dovrei tornare dai miei pazienti…” mormorò Candy piena di pena.
“Siete in cinque di là io invece sono qui sola, solo per un po’ ti prego.”
Candy annuì, sedette su di uno sgabellino e lasciò che la ragazza le porgesse del latte caldo corretto con qualcosa di forte.
“Mi chiamo Anne” disse “sono qui da qualche settimana ma ho già avuto esperienza in campi come questo. E tu?”
“Io sono qui da qualche mese, ma è la prima volta che…insomma…”
“Già non è facile parlarne.” Un altro colpo di cannone, Anne sospirò prendendo la torcia per illuminare i volti degli uomini adagiati nei letti, molti di loro avevano gli occhi spalancati, rannicchiati su loro stessi come feti abbandonati. Candy tracciò i contorni di ciascuno di loro, la lampada ne illuminava i tratti scavati, le labbra martoriate…strinse più forte la tazza per poi lasciarla cadere. La sua mano aveva bloccato quella di Anne che ancora puntava la torica.
“Che c’è?”
Candy si alzò muovendosi tra le brande “uno di questi uomini…io credo di aver riconosciuto qualcuno…” disse.
“Quale?” chiese Anne alzandosi a sua volta, ne illuminò uno “questo? Stanotte sembra tranquillo. E’ un altro che non ce la farà credo.”
“No, laggiù sulla sinistra…”
Anne deviò il raggio della torcia, illuminò le coperte grigie, “quello?” il fascio di luce si arrestò. “E’ uno dei numeri, non so nulla di lui. L’hanno portato due giorni fa. O tre. C’è stato uno scambio di prigionieri e lo hanno mandato qui. Vedi come è magro e denutrito? Aveva una ferita terribile, adesso è guarita ma fa ancora spavento, guarda…” parlando scostò la coperta.
“No Anne non svegliarlo.”
“Non si sveglierà, e se si sveglia non parla. E’ catatonico, gli do una settimana al massimo.”
“Anne smettila di parlare così.”
“Guardalo e poi mi dirai. Come fa ad essere vivo con una ferita simile?” l’uomo aveva la giubba e la camicia sbottonate, Anne puntò la torcia, era stato colpito da una baionettata al petto, la lama era scivolata sulle costole prima di penetrare sotto il cuore. La ferita era stata saturata male e aveva lasciato una cicatrice livida a mezzaluna. Al collo portava una placchetta con un numero.
“321?”
“Il suo numero d’ospedale,” Anne rimise a posto la coperta.
“Non gli hai dato un nome?”
“No, non so perché. E’ qui da poco e mi fa paura. Ha un’espressione nello sguardo, come se volesse ucciderti. I suoi occhi sono così freddi e di un colore strano.”
Sembrò che l’uomo sentisse, si girò e aprì gli occhi, restò a fissarle, forse le vedeva ma non lo lasciava capire. Era come fissasse un muro.
“Dai beviamo quel latte prima che si guasti.” Anne tornò verso la sedia ma Candy non si mosse.
“A proposito devi ancora dirmi il tuo di nome. Farsi compagnia è importante soprattutto in luoghi orribili come questo, il tempo non passa mai.”
“Sì, il tempo non passa mai.” Sussurrò Candy inginocchiandosi accanto al letto. Accese la torcia, la puntò in modo da non abbagliare l’uomo. Il viso era magro con una barba scura. Perché nessuno l’aveva rasato? Si chiese con uno scatto di collera. Tese la mano per sfiorarlo, “dobbiamo lavarlo e disinfettare queste ferite sul viso.” Commentò quasi con accusa senza però voltarsi verso Anne.
“Domani provvederemo.”
“Bisogna farlo subito.”
Candy tacque di colpo, l’uomo aveva girato la testa e la guardava freddamente. Le passò lo sguardo sui capelli, il berretto, poi la bocca e il mento, infine gli occhi. Quelli dell’uomo erano assenti.
“Senti lo vuoi questo latte o no?” Anne sembrava spazientita, “lascialo stare non voglio grane.”
“Io lo conosco” disse Candy “lo conosco.”
Si chinò tremante e lo guardò negli occhi, occhi che continuavano a fissare il vuoto. Occhi blu cobalto, gli occhi di un mare invernale. Candy gli prese la mano sinistra e se la portò al cuore.
“Terence.”
Pronunciò il nome sottovoce in modo che soltanto lui sentisse, ma il ragazzo non reagì.
“Terence mi riconosci? Sono Candy. Guardami. Sono un’infermiera, mi sono tagliata i capelli dall’ultima volta che mi hai vista, ma puoi riconoscermi…”
La voce di Candy si spezzò, era confusa. I capelli? Perché parlava di capelli come poteva essere così stupida!?
“Guarda” gli sollevò la mano e se l’accostò al viso “Guarda. Piango Terence, senti le lacrime? Piango perché sono felice, sono felice di vederti, sono felice che tu sia vivo. Ti ho trovato. Terence mi senti? Oh ti prego ti prego dì qualcosa, mi vedi?”
Ma il ragazzo non diede segno di sentirla, la sua mano restò rigida.
“Terence lascia che ti aiuti, ora sei al sicuro. Avrò cura di te, ti porterò a casa, in America. Rivedrai New York, è primavera…” Candy si interruppe, indietreggiò. La mano di Terence restò immobile, il braccio non si abbassò. Una bomba sussurrò in distanza, l’aria si mosse. Candy cercò di riabbassare il braccio di Terence senza riuscirci, era rigido come quello di un cadavere. Si voltò.
“Che cos’ha quest’uomo? Che cos’ha?” chiese disperatamente in direzione di Anne la quale ne fu risentita.
“Cosa credi che abbia! E’ come tutti gli altri. Perdi tempo cercando di parlargli, forse ti sente ma non ti ascolta. E non parla mai. Ora lascialo in pace e vieni qui o dovrò fare rapporto alla tua responsabile,” il tono poi divenne conciliante “dammi retta, vieni qui e lascialo stare.”
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 -Terence gennaio 1915 ***



New York, gennaio 1915

Giù in salotto gli ultimi invitati augurano la buona notte alla padrona di casa; rimasta sola Eleonor si guarda allo specchio, sfiora gli smeraldi che le cingono il collo, un dono di fidanzamento del Duca di Granchester quando lei aveva diciotto anni ed era appena arrivata in Inghilterra con la madre vedova, una delle tante ragazze americane che si affacciavano al vecchio continente con ingenua curiosità. Scuote il capo ai ricordi, un po’ d’aria fresca prima di andare a dormire, un’ultima occhiata alle stelle. Un uomo è appoggiato alla balaustra e guarda i giardini, da lontano Eleonor ha un sussulto e lo scambia per l’ex marito.
L’uomo però si volta verso di lei, è Terence. Eleonor gli sorride andandogli incontro, cinge con un braccio la spalla del figlio dandogli un lieve bacio sulla guancia.
“Hai la giacca bagnata,” nota “dove sei stato? Devi rientrare o prenderai freddo.”
“Fra un momento mamma.”
“E’ stata una bella serata, cari amici che ero ansiosa di presentarti. Mi spiace che Susanna non sia venuta.”
Terence si discosta leggermente “è sempre chiusa in quella stanza e sua madre non mi permette di vederla. E’ così da quando siamo tornati dalla rappresentazione di Sogno di una notte di mezza estate. Non avrei dovuto portarla, tutti quegli ipocriti la guardavano come si guarda un uccello in gabbia, ritrosia, commiserazione, diffidenza…taluni parevano quasi divertiti. Gli avrei presi a pugni uno per uno.”
“Non dire così Terence, sono certa che è stata solo un’impressione. Siete entrambi molto stimati.”
Terence si libera con freddezza dal contatto materno, “ stimati?! Tutti mi trattano come un ubriacone fallito.”
Eleonor riprende il contatto, con gentilezza scosta il viso del figlio in modo che possa guardala negli occhi.
“Tu hai un grande talento Terence e lo sai, perché non mi permetti di farti conoscere altri produttori? Non esiste solo la Stratford lo sai. Io stessa potrei produrre nuove rappresentazioni e renderti partecipe.”
“Non desidero le tue raccomandazioni.”
“Va bene, ma davvero non comprendo perché tu abbia voluto smettere di recitare, fino a che punto vuoi punirti?”
Terence accenna un sorriso “ è solo che non ne ho più voglia mamma, sono stanco e non voglio esibirmi su un palcoscenico conscio del fatto che Susanna non può più fare altrettanto a causa mia.”
Eleonor sospira esasperata, trascina il figlio dentro la stanza sorpresa della totale mancanza di energia con la quale il giovane si lascia condurre. “Quando finirà questa storia!? Sei stato forse tu a far cadere i riflettori? Avresti preferito rimanere ferito al suo posto?”
“Sì” e l’ammissione di Terence esce con rabbia mal trattenuta “ lo avrei preferito, sarebbe stato meno logorante che vivere con questo senso di colpa e impotenza che mi scava lo stomaco.” Il ragazzo si lascia cadere su di una poltrona ed Eleonor istintivamente si inginocchia ai suoi piedi prendendogli le mani tra le sue, “dovresti essere grato invece di poter essere vivo e in salute, smettere di tormentarti e  punirti pensando che questo possa alleviare le tue pene e quelle di Susanna. Perché non la coinvolgi, perché non le permetti di seguirti nella tua carriera, io sono certa che questo la renderebbe felice, le darebbe un nuovo scopo. Rinchiudendovi dentro quella orribile casa pensi che le cose si sistemeranno? No Terence  e lo sai, andranno sempre peggio se ti ostini ad agire in questo modo.”
“E’ che quando la guardo non posso fare a meno di ricordare la leggiadria con la quale si muoveva, al modo in cui riusciva a catalizzare l’attenzione su di sé con un semplice gesto, ora la vedo lì immobile e penso che se fossi stato rapido, se mi fossi accorto che quei maledetti riflettori stavano cadendo…”
“ Ora basta. Sono quasi le una del mattino e tu sei qui, fradicio per non so quale motivo, a commiserarti invece di rientrare a casa e riprendere in mano la tua vita.”
“Proprio tu mi dici questo?” Terence si alza di scatto, è la prima volta da quella lontana estate in Scozia che i suoi occhi riflettono una rabbia antica, una frustrazione infantile.
“Sì proprio io,” sorride Eleonor in quel modo triste e dolce al contempo “ non è facile lo so bene e forse non sono la persona più indicata, ma restare in balia degli eventi ti porterà solo alla deriva figlio mio, ed io ti amo troppo per concepire una cosa simile.”
Le spalle di Terence paiono cedere al significato di quelle parole, “scusami” dice per poi sorridere come l’attore che è “una sera d’inverno e troppo brandy, è facile cedere all’angoscia. Hai ragione tu, ora tornerò a casa e le cose andranno meglio.” Bacia la donna sulla fronte “sei sempre bellissima Eleonor” dice ammiccando ravvivando così il viso della donna.
“La prossima volta porta anche Susanna, intensi?”
Terence annuisce, recupera il cappotto uscendo nella notte di gennaio, alza il viso al cielo senza più stelle, una strana luce ha reso il cielo opaco, il ragazzo può sentire quell’odore inconfondibile, lo stesso odore dell’addio che aveva invaso l’aria la notte della prima di Romeo e Giulietta, l’odore della neve.

 

La mia vita è sepolta in un giardino lontano, sotto una lastra di ghiaccio. I fari vanno nel bianco. Ha quelle dita lunghe intrecciate alle mie che mi stringono... mi parlano, mi giurano tutto. E basta questa mano, adesso.
(Venuto al Mondo)


Il cielo cominciava ad assumere i primi colori dell’alba, Terence aveva camminato per tutta la notte raggiungendo Park Street poco prima delle cinque; oltre le vie alla moda e i locali rispettabili a quell’ora naturalmente chiusi, negli stretti vicoli brulicava la vita dei “non dormienti” come erano soliti definirsi coloro che per lavoro o semplice angoscia non avevano la voglia di un riparo caldo e di un letto onesto nel quale passare la notte. Fu in uno di questi che Terence ritrovò Charlie Sanders, compagno tumultuoso di un’adolescenza che a Terence pareva ormai essere trascorsa da secoli.
“Una scorribanda in macchina come ai vecchi tempi?” chiese Charlie.
“Perché no.”
“Giriamo in città o tentiamo l’avventura?”
“C’è da chiederlo!? Metti in moto avanti. Fuori da questa città e per un paio d’ore fuori da questa vita.”
Un rombo potente, Charlie lanciò un’occhiata al volto chiuso di Terence, non aveva certo l’aria di passarsela bene.
“Dove andiamo Terence?”
“Te l’ho detto, fuori New York per il percorso più rapido”, Charlie diede gas, “dovunque, non ha importanza.”
La macchina accelerò e si diresse a sud, quando fu dall’altra parte dell’Hudson rallentò.
“Herry Grant è morto,” annunciò Charlie, “faceva parte della tua compagnia, no? Eravamo diventati amici dopo che aveva preso a frequentare i sobborghi della città. Era un buon ragazzo.”
Terence annuì lasciando vagare lo sguardo oltre il finestrino “ho avuto la notizia la scorsa settimana.” Disse semplicemente. “Cose che succedono.”
“E’ questo che non va? Perché c’è qualcosa che non va, vero Terence!? Te lo si legge in faccia. Non sei nemmeno l’ombra del ragazzo che ricordo.”
“Le persone cambiano, la vita cambia, le gente muore…funziona così.” Davanti a loro si poteva ormai scorgere l’aperta campagna. “Questo e altre cose. Susanna immagino. La guerra. Tutto. Non sopporto quella casa è come se fosse maledetta.”
Charlie cambiò marcia tentando di seguire i frammenti sconnessi delle parole di Terence, il rombo del motore crebbe, il vento cominciò a fischiare contro il parabrezza.
“Per ora non parliamo. Corriamo e basta.”
Corsero, le poche case lasciarono ormai solo spazio ai campi di  frutteti. Per un po’ Charlie pensò ad Herry Grant, che era simpatico ma che aveva incontrato poche volte, Grant sembrava un tipo tranquillo dalle ambizioni spezzate e di sicuro un amico improbabile per Terence. Si chiese come fosso morto, se fosse stato ucciso da un’arma da fuoco sui confini austriaci o da una baionetta o se fosse saltato in aria su una mina. Cercò di immaginare come fosse la guerra e che cosa sarebbe successo se quel medico del Santa Johanna lo avesse reputato idoneo ad arruolarsi. Gli bruciava ancora il fatto di non aver potuto partire, di essere lì ad ubriacarsi in qualche localaccio cittadino mentre molti suoi amici rischiavano la vita oltre la distesa infinita dell’oceano. Aveva sentito parlare della situazione al fronte, in trincea, ma quelli che tornavano si dimostravano sempre molto reticenti nel parlarne. Leggeva i giornali, le statistiche; ma i giornali si occupavano solo delle vittorie e presentavano come strategici e ordinati persino i ripiegamenti. Adesso i tedeschi usavano i gas, Charlie era informato delle lesioni terribili causate dall’iprite, ma anche così si rendeva conto di avere un’idea imprecisa e nebulosa della guerra.
Aveva fermato la macchina chissà dove sul bordo della strada. Ora lui e Terence camminavano lungo un viottolo in una valle poco profonda. Charlie girava lo sguardo sulla bellezza della tranquilla campagna, piccoli fiocchi bianchi iniziavano a cadere dal cielo. “Un silenzio quasi surreale.” Commentò rivolgendo poi lo sguardo al compagno che gli camminava in parte.
“Come è morto?”
“Mitragliato sul filo spinato in Francia.” Rispose secco Terence calciando una pietra verso il torrente sottostante, “ non lo conoscevo molto bene, fummo entrambi in lizza per il ruolo di Romeo e avemmo qualche scontro. Tutto qui.”
Charlie si addossò al cancelletto di una casa “tutto qui” mormorò “che mi dici di Susanna?”
“Non saprei da dove cominciare.”
“Dal principio.”
“Negli ultimi tempi si sta lasciando andare nuovamente, il dottore non riesce a farla mangiare e quell’arpia della madre non mi lascia un minuto da solo con lei.”
“Ti fai mettere i piedi in testa da una vecchia megera?!”
Terence accenna un sorriso “stavo pensando che nella mia  vita le megere sono sempre state le mie maggiori difficoltà, ripenso alla preside della Saint Paul’s School… ero uno sbruffoncello che alla fine si faceva mettere sotto da una suora. Fossi stato più adulto…”
Il cielo stava diventando dapprima color malva, poi grigio, i campi cominciavano ad essere indistinti sotto una neve che cadeva maggiormente. Terence stava immobile in silenzio anche se Charlie intuiva in lui una tensione crescente.
“Torniamo indietro.” Fece un cenno a Charlie.
“Di già? E’ per la neve? Rimaniamo ancora un po’, ho una fiaschetta nel cruscotto o quantomeno potremmo trovare un posto dove bere qualcosa.”
“No Charlie, torniamo indietro. Vieni.”
Terence si avviò verso la macchina e Charlie lo seguì a fatica  scivolando sull’erba innevata.
“Stai lontano da lei, Charlie. So cosa ti passa per la testa.”
“Da chi?”
“Dalla guerra. So che avevi questa intenzione ma cerca di lasciartela alle spalle.”
“ L’ho già fatto quando il medico mi disse che sarei stato più di peso che di aiuto, non preoccuparti. Ho deciso di rendermi utile qui in altro modo, come faceva quella ragazza che ti conosceva, quella a cui devo molto.”
“Già.” Terence salì in auto e Charlie lo imitò.
“Vuoi che te la dica tutta Terence? Mi sento così inutile, così amareggiato.” La voce del ragazzo si spezzò, soffiò il naso energicamente e Terence gli passò un braccio intorno alle spalle. Charlie lo guardò in faccia, non sembrava severo ma forse in collera.
“Non è necessario che tu combatta, Charlie. Non tutti debbono farlo.”
“E tu? Quell’espressione che hai nello sguardo non mi piace.”
Terence allontanò il braccio e tornò a guardare la neve “ una parte della mia famiglia si trova in Inghilterra.”
“E con questo che vorresti dire? Non puoi andare, lo hai detto tu stesso non tutti dobbiamo combattere. E poi pensa a Susanna.”
Terence sorrise tristemente “hai ragione. Non preoccuparti è solo stanchezza, ora davvero rientriamo.”

 

Attendeva paziente, quasi allegra, senza nessuna ansia, mentre i ricordi cedevano il posto a speranze e progetti. Speranze e progetti talmente complessi che non vedeva nemmeno più i cuscini bianchi su cui fissava lo sguardo, né si ricordava di cosa fosse in attesa
(Gente di Dublino)


“Continua a rifiutarsi di mangiare, in questo modo il deperimento fisico sarà ancora più rapido. Non prendiamoci in giro tutta questa è una diretta concausa dell’ansia e delle tue idee scellerate!” esclamò la signora Marlow andando avanti indietro per il salone.
“A questo punto suggerirei un ricovero,” il dottore finì il brandy che gli era stato offerto, “se continua in questo modo dovrà essere intubata.”
“Idiozie!” Terence che era rimasto in silenzio fino a quel momento lasciò il riparo della finestra “se mi permetteste di parlare con lei sono certo che risolveremmo questa situazione.”
“Non ti permetterò di parlare con mia figlia fino a quando non ti sarei tolto certe idiozie dalla testa.”
“Con tutto il rispetto Susanna è la mia fidanzata ed io ho accettato per troppo tempo questo stupido allontanamento imposto!”
“Dove vai?” si agitò la signora Marlow
“A parlare con lei.”
“Terence te lo proibisco.”
Ma il ragazzo non le diede bado salendo fino al piano di sopra intimando all’infermiera di farsi da parte, e nonostante le proteste di quest’ultima l’’uomo riuscì ad entrare.
Non badò al letto avvolto nella semioscurità, a falcate veloci raggiunse la finestra per aprire  le tende; Susanna voltò stancamente il volto infastidita dalla luce, in una sola settimana aveva perso molto peso ed il suo viso magro e pallido la faceva apparire come un piccolo fantasma sprofondato in un grande letto dai toni porpora.
“…Terence…” mormorò osservando il ragazzo prendere una sedia ed avvicinarla al letto.
“Perché ti rifiuti di mangiare Susanna?” le prese il polso, era così sottile che una lieve pressione avrebbe potuto spezzarlo senza difficoltà.
“Non ho appetito.”
“Siamo tutti molto preoccupati lo sai?”
“Davvero? Eppure in questi giorni non sei venuto a trovarmi nemmeno una volta.”
“Tua madre ha voluto fare il mastino davanti alla tua porta, riconosco che avrei dovuto impormi maggiormente.”
“L’altra mattina l’infermiera ha lasciato la finestra semi aperta dicendo che l’aria mi avrebbe fatto bene. C’era una lieve nebbia, avvolgeva pigra le chiome degli alberi e poi, appena la luce del sole è aumentata si è dissolta. Ho provato un profondo desiderio in quel momento, ho desiderato essere come quella nebbia, svanire nella luce del sole, così semplicemente.”
“Sei in questo stato da quando siamo tornati da quello spettacolo in onore dei combattenti rientrati in patria, credi che non me ne fossi accorto?”
Susanna distolse lo sguardo “Katleen è stata splendida, un’interpretazione magnifica, la sua Ermia era assolutamente impeccabile. Io di certo non ne sarei stata all’altezza.”
“Perché mai dici questo?”
“Perché è quello che dicono tutti, sembra quasi che il mio incidente sia stato provvidenziale per il mondo dello spettacolo.”
Terence sospirò esasperato “ancora con questa storia.”
“E tu? Dimmi che non hai desiderato essere sulla scena, dimmi che non ti ha fatto soffrire essere solo un comune spettatore!?”
“Non mi ha fatto soffrire Susanna, e per l’ennesima volta la mia decisione di abbandonare il teatro non è certo dipesa da  te.”
Susanna si alzò a sedere, lo sforzo fu tale da farla barcollare. Terence se l’attirò  contro dolcemente, “c’erano troppe divergenze con i vari produttori, lo sai. Stare dietro le quinte non mi spiace.”
“ti ho sentito…” sussurra Susanna “ti ho sentito parlare della guerra, dell’eventualità di arruolarti.”
“Susanna era solo una conversazione, gli Stati Uniti non sono entrati in guerra ancora.”
“Ma potrebbe accadere.”
“Ci penseremo se e quando accadrà. E’ per questo che non mangi?”
“Ultimamente sei sempre pensieroso, hai ripreso a bere ed il tuo volto è sempre cupo. A cosa pensi?”
Gli occhi chiari di Susanna sembrano voler scrutare il  fondo all’anima di Terence, il ragazzo sorrise portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Penso alla pazzia di questo mondo e me ne tormento, mi chiedo se sia giusto rimanere qui mentre tanti giovani là fuori stanno perdendo la vita.”
“E’ una guerra che non ci riguarda, Terence.”
“Già,” le bacia la fronte “e poi c’è già la nostra piccola guerra qui dentro no? Cosa devo fare per farti mangiare? Tua madre intende ricoverarti se non ci saranno miglioramenti.”
“ Se rimarrai qui con me mangerò.”
“Solo questo? Credevo fosse ben più complicato,” Terence la provocò recuperando poi un campanellino posto sul comò accanto al letto. Lo fece suonare con vigore e poco dopo accorse l’infermiera con fare trafelato, “è successo qualcosa, la signorina si sente male?”
Terence scosse il capo divertito “la signorina ha fame, vorrebbe portarci una bella colazione abbondante? Mangeremo entrambi qui.”
La donna annuì un po’ stralunata e vagamente risentita per essere stata scambiata per una sorta di cameriera.
“Ci ha guardato un po’ male,” commentò Terence divertito una volta che la donna fu uscita.
“Ha sempre il broncio,” replicò Susanna “e sbuffa come una vecchia locomotiva ogni minuto.”
“Sarà perché la esasperi,” rise Terence mentre Susanna si rannicchiava nelle spalle con fare colpevole.
“Hai l’aria stanca” pose una mano sulla guancia del compagno constatandone il pallore e gli occhi cerchiati.
“Ieri sera sono andato ad una delle solite cene di mia madre, era molto contrariata del fatto che tu non ci fossi. Ho fatto un po’ tardi quindi non ho riposato molto.”
Susanna distolse lo sguardo quasi con impaccio “sta bene?”
“Direi di sì, ho il sospetto che si stia rimettendo sulla piazza ad ogni modo.”
La ragazza arrossì lievemente per quel genere di linguaggio eccessivamente diretto.
“E a te sta bene?”
Terence fece finta di pensarci su “beh non ci sarebbe nulla di male, è ancora attraente e se trovasse una brava persona non avrei nulla di ridire. Mio padre si è risposato poco dopo il loro divorzio facendosi decisamente meno problemi.”
Susanna non pareva convinta, “hai più avuto sue notizie?”
Terence scrollò le spalle “onestamente no, non so se sia a Londra o forse vista la situazione in Europa può darsi che si trovi qui insieme a tutta la famiglia ed è quello che mi auguro.”
L’infermiera fece il suo ingresso con un grosso vassoio che Terence l’aiutò a sistemare facendole un raggiante sorriso provocatore una volta che il tutto fu ben apparecchiato sul tavolino, la donna ne sembrò piacevolmente imbarazzata. Raccomandò a Susanna di mangiare lentamente dopodiché si defilò nuovamente.
“Ora sognerà di te ogni notte,” scherzò la ragazza mentre il giovane le imburrava del pane “ un sogno proibito. So cosa significa sognare qualcosa che non si può avere,” aggiunse Susanna rattristandosi. Terence le pose una fetta di pane con burro e marmellata di ciliegie, “vuoi che ti faccia sedere al tavolo? Ci potremmo mettere accanto alla finestra, fuori è tutto innevato e lo spettacolo merita.” Istintivamente Susanna portò la mano sulla gamba offesa, la neve non era un ricordo piacevole.  Il ragazzo comprese e non aggiunse altro, sistemò le uova e bacon su di un piattino facendo l’atto di imboccarla e Susanna rise.
“Santo cielo Terence non sono certo una bambina, lascia faccio da sola.”
“Vedo che le sta tornando l’energia signorina Marlow. Se tua madre ti vedesse potrebbe svenire per il colpo dato che stava già parlando di intubazioni.”
Susanna lasciò la forchetta sospesa davanti la bocca “mi spiace che sia sempre così brusca con te, le parlerò non preoccuparti.”
“So difendermi non temere. Ora mangia Susanna, più tardi magari potrei portarti un libro o se te la senti scenderemo in salone per il pranzo.”
“Oh Terence vuol dire che passerai con me tutto la giornata?” gli occhi di Susanna si illuminarono, sembrava una bambina alla quale viene promesso qualche esaltate gioco.
“Certo, voglio passare il pomeriggio con te e magari leggere qualcosa insieme, hai preferenze?”
“Vorrei terminare “Gente di Dublino”, vi sono alcuni racconti Terence che, oh tu non hai idea, sarebbero splendidi rappresentati a teatro,  i personaggi sono così…” Susanna si bloccò, l’entusiasmo di poter avere Terence accanto per l’intero giorno, il poter parlare nuovamente delle cose che la interessavano con la persona che più amava le avevano fatto scordare per qualche istante la sua situazione.
“Continua Susanna ti prego,” la voce di Terence era dolce ma alle orecchi di Susanna suonò eccessivamente compassionevole.
“No, stavo dicendo delle sciocchezze.”
“ E invece no. Voglio ascoltare queste tue idee, nel teatro non esiste solo l’attore, cosa sarebbe un attore senza una sceneggiatura, senza una storia? Facciamo così, ora scenderò a prendere il tè che la nostra cara infermiera ha avuto la disattenzione di non portaci e poi voglio che mi parli Susanna, voglio che mi parli di tutto quello che ti passa per la testa, intesi?”
Faticando a trattenere il sorriso Susanna annuì, seguì la figura di Terence mentre usciva dalla stanza, le sembrava che tutta l’aria si fosse riempita di lui, di quella particolare colonia che era solito usare, dei suoi grandi occhi profondi e vivi come il mare che Susanna non aveva mai visto ma solo immaginato. Si adagiò sui cuscini e prese un profondo respiro come fosse stata in apnea fino a quel momento, si strinse le mani al petto e sulle guance comparvero due fossette al seguito di un largo sorriso che non era riuscita a trattenere. Si sporse un poco sul comò per estrarre dal cassetto il libro di Joyce. “Ecco qui un momento di epifania” pensò notando poi i due ferri da maglia che aveva lasciato in un incompleto golfino da neonato color avorio.
“Ti terminerò presto, vedrai.” Mormorò richiudendo il cassetto. Pochi istanti dopo Terence rientro nella stanza con un vassoio e due tazze di tè fumante.

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 -La decisione di Elroy ***




La signora Elroy quasi pianse, insistette, implorò. Albert si mostrò irremovibile e lei dovette arrendersi, non aveva più l’energia per un’insistenza prolungata.
“In Inghilterra con quello che sta accadendo,” commentò amareggiata lasciando che la sua robusta mole si abbandonasse su di una sedia, “non è bastato perdere Anthony, riavere Alistear dentro ad una fredda bara…” trattenne un moto di rabbia “ vuoi andare laggiù a riprendere quella disgrazia, quella…quell’orfana che non ci ha portato altro che angosce da quando ha messo piede nella nostra famiglia.”
“Ti ricordo che quell’orfana come la chiami tu è una Andrew a tutti gli effetti.”
“No non lo è!” proruppe zia Elroy “solo perché hai voluto darle il nostro cognome questo non fa di lei una Andrew! Ho assecondato ogni tuo capriccio William da quando la tua cara sorella ci ha lasciati, ho permesso che tu vivessi come un vagabondo pregando ogni giorno che un disonore simile non venisse scoperto da chi ci vuole male. Ti eri addirittura arruolato senza farmi sapere nulla!”
Albert sorrise “beh temevo ti salisse troppo la pressione zia.”
La donna arrossì agitandosi maggiormente “sfacciato! Non è più possibile tollerare simili colpi di testa, tu sei il capofamiglia e come tale devi prenderti le tue responsabilità, credevo che fossero questi gli accordi. Vuoi venire meno alla tua parola?”
Albert osservò fuori dalle grandi vetrate del salone, dai rami centenari di una quercia la vecchia altalena di Rosemary dondolava  sospinta da un’anomala folata di vento. “E’ proprio perché debbo assumermi le mie responsabilità che devo recarmi in Europa e riportare a casa Candy. Si fosse sentita più amata da questa famiglia sono certo che non avrebbe mai preso la decisione di partire, rischia ogni giorno la vita e tu mi parli di capriccio invece di comprendere i motivi che animano dei giovani, così come accadde anche per Stear, a volersi rendere utili al prossimo.”
Il volto di Elroy si fece cupo, si alzò in piedi e raggiunse il nipote alla finestra “parli come se io non conoscessi altro che questo mondo di confezionata tranquillità. Ero una giovane ragazza quando qui imperversava la guerra di secessione, caro il mio William. Dove tu vedi roseti non c’era che polvere, vivevamo barricati nelle nostre case spogliate di ogni ricordo, curavamo i feriti come potevamo e quanti dei miei amici ho visto morire inutilmente. Quello per me non è eroismo ma scelleratezza. Ad ogni modo quella era la nostra guerra. Quella dove ti stai recando tu invece non ci appartiene e non vedo perché tu debba rischiare la tua vita per la testardaggine di una ragazza che, a ben guardare, ha preferito lasciare il suo paese invece di accettare la tua benevolenza.”  Albert le prese la mano, quella mano grande che era stata dispensatrice di carezze di conforto quando entrambi i genitori erano morti. Elroy Andrew con tutti i suoi difetti era tutto ciò che rimaneva di saldo, come un pennone di prua, sulla nave maestra della loro  famiglia.
“Zia comprendo la tua preoccupazione anche se non sono mai riuscito a capire il tuo livore nei confronti di Candy, temo spesso che i  Legan abbiano alterato la tua capacità di giudizio impedendoti di vedere chi è realmente la ragazza che ho voluto facesse parte di questa famiglia. Spero ancora tu possa comprenderla, lo confesso, e lasciare da parte questa tua ingiustificata intolleranza. Come ti ho già detto non ritornerò sulla mia decisione, partirò per l’Europa e riporterò Candy a casa. Non ho intenzioni di arruolarmi ne di partecipare ad alcuna missione  tutto ciò che voglio è solo riaverla qui.”
“E sia William, so che nemmeno legandoti riuscirei ad impedirti di insistere su questa decisione. Ma ti rivoglio qui sano e salvo o non sarà la guerra a far rischiare la vita di Candice ma queste mie vecchie mani.”


Albert partì l’indomani ed Elroy si mise all’opera per garantirgli la sopravvivenza; non avrebbe commesso lo stesso errore fatto con Alistear, c’erano certe tecniche che aveva appreso da quando il nipote era mancato, le intensificò. Credeva che il destino della sua famiglia dipendesse da lei, poteva proteggere i suoi nipoti come un tempo li aveva protetti dalle malattie. Era necessaria la concentrazione, se si fosse data da fare, non si fosse persa d’animo e avesse pensato di continuo a loro, il suo determinato amore avrebbe avuto l’efficacia di un amuleto. Proiettili, mine e bombe non avrebbero potuto penetrare quello scudo invisibile. Diventò superstiziosa, bandì il verde dalla casa e dal guardaroba, cominciò ad aver orrore del numero tredici, evitava le scale a pioli e gli specchi. Si circondava di piccoli portafortuna e di ricordi appartenuti ai suoi cari. Le ciocche color dell’oro dei capelli di Anthony, disegni che Stear e Archie avevano fatto da bambini, un rosario appartenuto a Rosemary  l’adorata sorella di William, un paio di scarpine di raso azzurro che lei stessa aveva fatto commissionare alla nascita di William. Elroy credeva nel potere di quelle cose inanimate, lo sentiva palpitare quando le toccava. Pregava furtivamente, era diventata sentimentale e soffriva di solitudine. La solitudine era accentuata dal fatto che aveva paura e non poteva parlarne; all’inizio non c’era nessuno cui rivolgersi. La signora Legan, che aveva per la guerra un interesse intermittente da quando il figlio aveva fatto ritorno, era tutta presa da feste e ricevimenti con la buona speranza di poter piazzare la figlia Iriza con qualche membro dell’alta aristocrazia.  Archiebald era perennemente impegnato negli affari cercando di fare le veci di William nella miglior maniera possibile. Tutti sembravano così presi dalle loro vita da aver dimenticato la loro burbera zia, confinata in quella grande villa dalle stanze sempre più silenziose.
L’inaspettato soccorso venne proprio da Iriza Legan, la ragazza prese a frequentare la vecchia villa degli Andrew con maggiore assiduità durante l’assenza di William, corteggiando la benevolenza della donna con doni ben mirati.  Era energica e studiatamente vivace, amava spettegolare. Ascoltava con attenzione le chiacchiere sulla buona società, le piaceva discutere di cappelli, guanti, vestiti, delle sfumature infinite della moda. Elroy scoprì che a differenza della madre, Iriza sembrava divertirsi ad andare in giro con lei, fare acquisti, dapprima spedizioni brevi, poi più prolungate. Quando tornavano con i pacchetti si fermavano in qualche elegante sala da tè, parlando dei rispettivi acquisti. Dopo la morte di Louise, Elroy si era sempre dimostrata distaccata verso i restanti membri femminili della famiglia e forse accettava veramente Iriza per la prima volta, l’ultima diffidenza era finita.
“Iriza” diceva “che cosa farei senza di te?”
“Cosa farei io cara zia. Sono così lieta di poter godere della tua compagnia,” Iriza la incoraggiava a percorrere le vie della nostalgia; sedute accanto al fuoco in quei pomeriggi riposanti mentre la primavera tardava a manifestarsi, Elroy apriva un po’ il suo cuore a Iriza. Le parlava della sua infanzia, dei genitori, i fratelli, le sorelle. Ricordava dettagli di ogni genere dimenticati fino a quel momento. Le passeggiate in carrozza, le visite oltre il fiume ai cugini, gli abiti di sua madre, la lettura della Bibbia che il padre faceva la mattina ad alta voce. Nessuno fino ad allora aveva mai mostrato grande interesse per quelle rievocazioni, ma Iriza sì.
“ Tu si saresti una degna Andrew, non sai quanto avrei voluto che il mio povero Anthony ti avesse avuto come fidanzata. Se quella…quella…” la donna sospirò portandosi una mano chiusa alla fronte in un gesto esasperato.
Iriza faticò a trattenere un’espressione soddisfatta, affiancò la zia rivolgendole un’occhiata di partecipe comprensione “ è così bello sentire da te queste parole cara zia, ma non rattristiamoci con ricordi dolorosi. Anch’io avrei tanto voluto essere parte effettiva di questa vostra splendida famiglia, voglio così bene a tutti voi, ma il destino ha voluto diversamente per me.” Sospirò teatralmente, “mamma sta cercando un uomo che possa essere un degno compagno, una persona di prestigio che possa portare onore anche a voi cara zia. Sono sempre più amareggiata dal constatare che tale ricerca è assai complicata.”
Elroy la osservò per qualche minuto, una strana luce le aveva acceso gli occhi, una nuova aspettativa.
“Archibald.” disse “chi meglio di lui. Sarebbe perfetto.”
Iriza sbatté le palpebre con non poca sorpresa “Ma..zia…Archie è…”
Zia Elroy fece un gesto con la mano come a voler scacciare una mosca “ lo so cosa ti preoccupa, la figlia dei Brighton, un’altra priva di qualsiasi diritto ad essere accettata in questa famiglia.”
“Ed il fidanzamento?”
“Non è mai stato ufficializzato, non vi sono ne promesse ne anelli.”
“Archie non accetterà mai.”
“Glielo imporrò.”
“William non lo permetterà di certo.”
“Beh” Elroy  trasse un profondo respiro, sembrava rinvigorita “William non è qui al momento pertanto non sarà difficile attuare le giuste persuasioni ma tu Iriza dovrai darmi una mano. Ci sono molte cose alle quali pensare, ma per prima cosa approfitterò di un imminente viaggio di Archibald a Chicago per mettere due cose in chiaro con la signorina Brighton.”
Iriza fece qualche passo indietro faticando a nascondere l’effettivo stupore. Non aveva mai contemplato nemmeno la possibilità di un fidanzamento con Archiebald, considerando poi il grande attaccamento che quest’ultimo nutriva per quell’orfana di Candy. Il tutto le sembrava completamente irrealizzabile eppure la certezza sul volto della vecchia matriarca degli Andrew le insinuava una nuova aspettativa.

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** capitolo 7 -il giorno di Annie ***




Annie  era ancora un po’ incerta per l’abito verde, non era certo  il colore che avrebbe preferito  ma la donna che l’aveva allevata e per la quale talvolta ancora si imbarazzava nel chiamare “mamma”, aveva  comprato la stoffa direttamente  a New York  portandogliela  trionfalmente.  Ne era così orgogliosa che Annie non aveva avuto il coraggio di fare obiezioni.
“La commessa mi ha assicurato che è l’ultima moda. Un abito speciale per un incontro speciale.”
Un’occhiata significativa alla quale Annie arrossì un po’ sognante, una tacita allusione a una proposta di matrimonio. Finalmente.
“La mia collana d’agata, cara Annie.” disse la signora Brighton porgendo alla ragazza un astuccio di cuoio “me la regalò tuo padre quando ci fidanzammo, starà benissimo con il tuo abito.”
“Oh no mamma davvero non posso accettare.”
“Sciocchezze! Entrerai nella famiglia Andrew sfoggiando tutta la tua radiosità, te lo meriti bambina mia.”
Annie si sentì intimidire, assestò la gonna, arrossì distogliendo lo sguardo, “è che non pensavo che Archie avrebbe fatto la proposta in modo tanto formale. Mi aveva detto che avrebbe passato un po’ di tempo a Chicago per lavoro senza fare nessun accenno ad un incontro alla villa.”
“Archiebald è un gentiluomo e sono certa abbia voluto mettere in chiaro le cose con sua zia è per questo che sarai accolta anche da lei. Il tutto ufficializzerà definitivamente il vostro fidanzamento.”
Anni e si sentì rincuorata da quelle parole, sorrise di fronte allo specchio, il pomeriggio si prospettava fulgido,  una scala in discesa e alla fine di quella scala si trovava Archie. Da quanto tempo lo amava? Annie non se lo chiede più, sapeva di averlo sempre fatto, probabilmente dal loro primo incontro. Da subito parlare con lui era risultato semplice nonostante la timidezza, amavano le stesse cose, leggevano gli stessi libri. Da anni annotava ogni particolare nei suoi diari, trascriveva i commenti più casuali di Archie in ogni dettaglio; a volte, sebbene li conoscesse a memoria, li rileggeva cercando di trovarvi uno schema, le linee del carattere, il senso dell’uomo che amava. Ha un animo nobile si ripeteva spesso Annie, è leale e rifiuta ogni ipocrisia. Certo è anche molto intelligente quindi c’è da aspettarsi una certa presunzione.
“Cara hai l’aria così sognante” sua madre la ridestò dai pensieri, le sistemò i capelli raccogliendoli con un prezioso fermaglio.
“Il cuore mi batte forte” si premette una mano sul petto “ quando questa giornata sarà finita dovrò assolutamente scrivere a Candy, oh sarà così sorpresa quando lo saprà!” sorrise ancora “spero tanto che la mia lettera le giunga in tempo. Ma dopotutto William è andato a riprenderla, la riporterà qui ed allora potremmo festeggiare tutti insieme.” Rincuorata da quella prospettiva Annie piroettò su se stessa facendo fare un bella ruota all’abito che d’improvviso le sembrò il più bello che si potesse desiderare.


La carrozza giunse nel piazzale di villa Brighton poco prima delle 16.00, Annie sarebbe giunta dagli Andrew per l’ora del tè. Sua madre l’accompagnò nel cortile e raccomandò ad un valletto di scortare al meglio la sua adorata bambina. Mentre lo schiocco degli zoccoli dei cavalli sul selciato scandiva il tempo che la separava dalla grande magione degli Andrew, Annie non fece altro che fantasticare, provò ad immaginare che abito avesse indossato Archie, quali fiori avesse scelto per omaggiarla. Scosse il capo, dopotutto il biglietto pervenutole da zia Elroy parlava di importanti decisioni e non accennava ad un party per ufficializzare il fidanzamento in società, ma Annie non riusciva a trattenere il sorriso e la speranza che Archie l’avrebbe sorpresa piacevolmente.
“Oh Candy sono così nervosa vorrei tu fossi qui a tenermi la mano” pensò cristallizzando davanti a sé il viso incoraggiante dell’amica di sempre. Si mordicchiò le labbra quando però  il pensiero della gelosia passata la turbò un istante, proprio mentre si intravedevano i viali alberati che tante volte aveva percorso nell’arco della sua vita. Era stata gelosa di Candy, questo lo aveva ammesso. Lo era stata alla Casa di Pony quando l’esuberanza e la vivacità di Candy la facevano ben volere più facilmente. Non era accaduto forse anche per i Brighton? Se Candy non avesse volutamente sabotato il giorno dell’adozione rendendosi inadeguata davanti a loro, adesso sarebbe stata lei l’erede dei Brighton e Annie, allo stesso modo, non avrebbe mai lasciato la casa di Pony ne conosciuto Archie.  Archiebald  che un tempo aveva amato Candy, era stato geloso di Terence e…Annie scosse il capo, era meschino da parte sua avere simile pensieri, ora Candy si trovava in una situazione molto pericolosa, probabilmente assisteva a cose terribili, e lei invece agghindata nel miglior modo si stava recando a quello che, con ogni probabilità, sarebbe stato il momento più bello della sua vita.
“Perdonami Candy, “mormorò in direzione del cielo sperando che in qualche strano modo quelle scuse potessero giungere al cuore dell’amica.
I cavalli rallentarono man mano che il grande cancello incoronato dallo stemma della famiglia Andrew si faceva più visibile. “Devi essere sicura e coraggiosa Annie”, si disse per farsi coraggio imponendosi una certa compostezza quando invece avrebbe voluto scendere di corsa dalla carrozza, percorrere quei vecchi saloni e gettarsi tra le braccia di Archie. Il cocchiere arrestò gli animali ed il valletto l’aiutò a scendere dalla carrozza, tutt’intorno i magnifici fiori del giardino facevano da contorno perfetto alla maestosità della casa, si  stupì tuttavia di non trovare nessuno ad attenderla. Percorse la scalinata che conduceva all’ingresso, uno dei maggiordomi della signora Elroy le aprì la porta invitandola ad entrare.
“Da questa parte signorina” disse scortandola lungo i corridoi; alle pareti erano posti i quadri di tutti gli antenati ede i membri della famiglia, in ultimo accanto a quello di Anthony era stato posto anche Stear, riempiva  l’ultima parte del grande corridoio. Annie si fermò un momento ad osservarlo, il pittore lo doveva aver copiato da una fotografia, Stear non era mai stato tipo da rimanere in posa tantomeno predisposto a farsi ritrarre. In quel quadro non sorrideva ma aveva un aria troppo solenne, un’aria che Annie non avrebbe mai potuto attribuire al giovane Cornwell . Fece una piccola smorfia immaginando la contrarietà di Stear se solo si fosse visto rappresentato a quel modo.
“Signorina?”
Il maggiordomo la incoraggiò a proseguire; prima il salone dei ricevimenti, lo studio ed infine la porta della sala da tè. Annie avvertì il cuore accelerare nuovamente, sfiorò la collana d’agata che la madre le aveva donato e sfoggiò una compostezza da vera signora, Suor Margareth della Royal Saint Paul’s School sarebbe stata fiera di lei in quel momento.
Il maggiordomo  bussò annunciando la giovane Brighton e dall’interno la voce profonda e distaccata di zia Elroy la invitò ad entrare.  Avanzò di qualche passo e subito si bloccò notando che, al dì fuori della donna, nella sala non c’era nessun altro.
“Prego siedi  Annie, Desmond ci servirà il tè a breve.”
La ragazza annuì incerta prendendo posto di fronte alla donna. Zia Elroy indossava un abito scuro, la sola nota di colore era data da uno scialle di velluto bordeaux che le avvolgeva le spalle, l’espressione era come al solito fredda e dura, in lei non vi era alcuna traccia di benevolenza.
“Come sta zia?” azzardò Annie cortesemente.
“Come una vecchia signora in perenne lutto mia cara. Come ben saprai anche William è partito per l’Europa per riportare a casa quella scellerata di Candice. Il mio cuore non può certo dirsi sereno.”
Annie abbassò lo sguardo non sapendo che rispondere, d’improvviso si sentiva nervosa, quell’abito verde che fino a poco prima l’aveva inorgoglita ore le pesava addosso e sembrava farla sprofondare nell’ampia gonna.  Desmond  puntualmente versò il tè in due pregiate tazze di porcellana italiana, pose poi un’alzata con pasticcini e sandwich. Annie strinse le mani l’una nell’altra come a voler trovare coraggio “zia Elroy dov’è Archie, ci raggiungerà a breve?”
La donna sollevò lo sguardo su di lei con fare sufficiente, “mia cara Archiebald è a Chicago in questo momento, credevo lo sapessi.”
Il pallore improvviso sul volto di Annie era evidente, “io…io pensavo che…”
“Mi spiace deve esserci stato un malinteso nella mia missiva, questo pomeriggio saremo solo io e te cara Annie. Dopotutto credo tu sia perfettamente in grado di sostenere una conversazione tra adulti senza l’appoggio di alcuno, non è vero?!”
Annie riuscì solo ad annuire.
“Bevi mia cara che si fredda. E’ tè al gelsomino, lo faccio mandare dall’India, sai? Da una delle nostre innumerevoli proprietà, Archiebald te ne avrà parlato di certo. La nostra famiglia d’altronde ha diversi possedimenti sparsi in giro per il mondo, certe cose fanno la differenza tra una posizione sociale e l’altra, non trovi?”
Annie sorseggiò il tè scottandosi le labbra, non le era ancora chiaro dove la zia Elroy volesse condurre il discorso, perché l’aveva fatta venire fin lì?
“Archiebald se la sta cavando bene, George sostiene che è nato per trattare magnificamente gli affari della nostra famiglia, un aiuto di certo prezioso per William. Sai avere un certo prestigio richiede grandi responsabilità ed avere accanto una persona che sia all’altezza e comprenda queste responsabilità è fondamentale.” Elroy ripose la tazzina e stavolta il suo sguardo si puntò direttamente in quello di Annie.
“So che tu e mio nipote vi frequentate da un po’ di tempo, avete studiato nella stessa scuola ed i Brighton dopotutto sono sempre stati una piacevole compagnia per la nostra famiglia. E’ naturale che due giovani entrino in contatto e scoprano delle affinità, specie nella prima gioventù,” la donna fece una pausa, “tu sei certo molto educata e composta, hai un fascino pulito, semplice, quasi opaco se mi passi l’aggettivo. Ovviamente non voglio offenderti.”
Annie trasse un respiro e rispose la tazza, forse zia Elroy la stava semplicemente mettendo alla prova.
“Io voglio molto bene ad Archie, zia Elroy.”
La donna annuì “ma certo mia cara, è naturale. Dopotutto è difficile non volere bene ad un giovane come Archiebald, con le possibilità poi che entrare nelle sue grazie può comportare.”
“Credo di non capire cosa mi stiate dicendo.”
“Sto dicendo che il fatto che tu voglia bene a mio nipote renderà certamente più comprensibile al tuo orecchio quanto sto per dire: mi opporrò  in ogni modo ad un vostro fidanzamento.”
La stanza sembrò vorticare ed Annie dovette fare un enorme sforzo, aggrappandosi ai braccioli della sedia, per non mancare e rovinare sul pavimento.
“Perché?” riuscì a chiedere.
“Annie, in primo luogo sebbene i Brighton siano una famiglia altolocata converrai con me che non può essere messa allo stesso livello degli Andrew, e cosa non meno importante, tu sei un’orfana adottata da una casupola dispersa chissà dove. Ad aggravare tutto questo c’è anche il fatto che mi sono sentita profondamente offesa ed imbrogliata dal comportamento della tua famiglia adottiva. Spacciarti per figlia loro mentendo così spudoratamente dopo che è stata solo per mia diretta raccomandazione che hai potuto accedere alla Royal Saint Paul School.
“Zia Elroy…”
“Ti pregherei di non chiamarmi zia, non siamo parenti. Già è difficile per il mio povero cuore accettare che una ragazza come Candy porti il nostro cognome, non permetterò altri scandali.”
“Sìì forte Annie, tu ami Archie, devi essere coraggiosa, devi lottare per questo amore.” Con questo pensiero Annie si fece forza, era certa dell’amore di Archie e questo era qualcosa che tutte le cattiverie dette da Elroy non potevano modificare.
“Se anche non avremo la vostra benedizione sono certa che io ed Archie ci sposeremo ugualmente, ci amiamo e questo non cambierà. Sono convinta che anche William la vedrà allo stesso modo.”
Elroy strinse i denti e si versò dell’altro tè, “sembri un placido stagno ma quando qualcosa non va bene voi ragazze di Pony  trasformate le vostre lingue in piccoli torrenti senza riflettere minimamente su ciò che la vostra cocciutaggine comporta. E’ vero tu ed  Archiebald vi frequentate da tempo, direi  troppo per giustificare il fatto che sul tuo dito non vi sia ancora alcun anello di fidanzamento. Ciò mi fa desumere che mio nipote non ti abbia fatto alcuna proposta e che ad oggi non ne abbia ancora intenzione, altrimenti i membri di questa famiglia ne sarebbero stati informati da lui stesso come sempre è stata consuetudine negli Andrew. Come mai a tuo avviso?”
Annie balbettò qualcosa che però non riuscì a trasformarsi in nessuna frase.
“Questo è crudele.” Riuscì solo a dire senza scomporre l’espressione di Elroy.
“Oh no mia cara sarà molto più crudele il futuro se tu ora non rifletti bene su quanto ti dico. Sono certa che davanti ai tuoi occhi lacrimevoli Archie si scioglierebbe senza remore, marcerebbe fin qui con la stoltezza della sua età ad annunciarmi che sarebbe disposto a rinunciare al suo nome pur di sposarti. Ebbene io non ne sarei mossa a compassione e se mio nipote facesse una simile scelta ci sarebbero delle conseguenze che nemmeno William potrebbe impedire. Alla fine a soffrirne saresti solo tu cara Annie, e se ami Archiebald come dici la cosa più saggia che puoi fare è rinunciare a lui.”
“Mai.” un nuovo coraggio prese vita in Annie, “non rinuncerò mai a lui.”
“Allora il tuo egoismo è maggiore del bene di Archie.”
“Come potete dirmi questo, io non farei mai nulla che lo facesse soffrire.”
“Ma lo stai facendo in questo momento, millantando di non rinunciare a lui lo poni di fronte ad una difficile scelta.Rinunciare al suo nome, alla sua posizione, al suo futuro. Cosa credi che accadrà quando nell’alta società si spargerà la voce che Archibald Cornewell Andrew ha sposato un’orfana? Per quanto ne sappiamo potresti anche essere figlia di qualche galeotto o poco di buono.”
Annie si portò ambo le mano alle orecchie “vi prego smettetela.”
“ Tu puoi imparare tutte le buone maniere che vuoi ma sotto questa maschera resti sempre la figlia di nessuno, e come io stessa faccio certi ragionamenti così li faranno anche gli altri. E a quel punto che ne sarà di Archie, in che modo verrà visto in società? Pensi davvero che potrà mantenere la posizione di privilegio che ha  ora? No e lo sai.  Sarà idilliaco all’inizio, potrete credere di vivere felici ma andando avanti quanto ti ho appena detto lo logorerà ed io non escluderei potrebbe addirittura finire con l’odiarti.”
“Odiarmi?” e forse Elroy si compiacque nel vedere il corpo della giovane Brighton scosso da sempre più mal trattenuti singhiozzi , gli occhi sporcati da lacrime che, pur sforzandosi, Annie non riusciva a trattenere.
“Ti prego mia cara ricomponiti e ragiona, sono sicura che quanto ti sto dicendo ti ferisce ma ritengo anche tu sia una ragazza intelligente che non vuole arrecare danno né ad Archie né alla tua famiglia.”
“Cosa centra la mia famiglia?”
“Beh sai che sono una donna molto influente e disposta a tutto per proteggere gli Andrew, anche ad affossare definitivamente la reputazione di qualcun altro se necessario. So che mi giudichi crudele ma per me gli Andrew vengono prima di ogni cosa. Se sarai ragionevole e porrai fine a questo tuo rapporto con mio nipote anche i Brighton, ai quali devi molto, avranno a che giovarne.”
Annie sentì le gambe cederle, ricadde sulla sedia pallida e tramante, quello che lei si era prospettata come il giorno più radioso della sua vita si era tramutato in un orrendo incubo, strinse la mani l’una nell’altra quasi dolorosamente, come nell’illusione di potersi svegliare e scoprire che quel brutto sogno era stato dettato solo da una forte ansia e che tutto si sarebbe svolto in maniera differente. Ma non accadde, Elroy era ancora lì, la guardava ancora con quel gelo, con quella cattiva aspettativa e la segreta soddisfazione di aver colto nel segno.
Qual’era la reale felicità di Archiebald?
“Credo non ci sia più nulla che dobbiamo dirci, Annie cara. Penso rifletterai con intelligenza su quanto ti ho detto e giungerai alla mia stessa conclusione. Ora perdonami ma mia nipote Iriza dovrebbe arrivare a momenti, abbiamo in programma una passeggiate nei giardini. Ti proporrei di accompagnarci ma ti vedo così pallida che credo sia meglio tu vada a riposare. Desmond di riaccompagnerà alla carrozza.”
La ragazza non disse nulla, lasciò la sedia e in quello che era un chiaro stato di shock ripercorse a ritroso tutte le stanze fino a giungere nuovamente nel piazzale. I fiori ora non sembravano più la cornice sublime di una favola ma colori velenosi e intossicanti che le facevano mancare l’aria. Mentre scendeva le scale un’ombra si rifletté sul marmo bianco, Annie a malapena riuscì ad alzare lo sguardo.
“Annie Brighton è da un po’ che non ci vediamo.” Esclamò Iriza “zia Elroy mi aveva accennato al fatto che c’erano alcune questioni delle quali necessitava parlarti. Cara hai davvero un aspetto terribile,” la voce di Iriza suonò volutamente beffarda, le pose una mano sulla spalla  che ad Annie sembrò pesare come un macigno “sarà meglio che ti riguardi.” La mano l’abbandonò ed  Iriza proseguì lungo la scalinata ossequiata da Desmond.  Annie ridiscese, un altro gradino e le gambe non ce la fecero più, cadde in ginocchio sul ghiaino, non avvertì nemmeno dolore ma solo ogni forza abbandonarla, il suo spirito era muto e a parte le lacrime stavolta non c’era altro che silenzio in lei.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 -“shellshock” ***


Signori, il tempo della vita è breve. | Ma quand'anche la vita, | cavalcando la sfera del quadrante, | giungesse al suo traguardo dopo un'ora, | anche quel breve corso | sarebbe esageratamente lungo, | se trascorso in un'esistenza vile. | Se vivremo, vivremo per calcare | i nostri piedi sui corpi di re; | se morremo, morire sarà bello | trascinando alla morte anche dei principi. | Assicurate le vostre coscienze: | l'armi son belle e giuste | se giusto è il fine per cui son brandite.
(Enrico IV)


L’aria soffiava gelida sul promontorio, Pointe Sublime resisteva al vento e alla salsedine con antica tenacia, un guardiano di rocce erose spoglio di ogni attrattiva, non era che una levatura naturale affacciata su un mare perennemente grigio. Candy sedeva su una delle innumerevoli sporgenze, il vento le schiaffeggiava il viso e si insinuava sotto il cappotto, sfidava la ruvida stoffa dell’uniforme per raggelarle le ossa, ma la ragazza non sembrava dargli bado, teneva lo sguardo fisso sul canale della Manica e nelle mani rimestava tre buste gualcite; l’assenza del sonno le cerchiava gli occhi che parevano essere diventati scuri quanto l’acqua sottostante. Di tanto in tanto scoteva il capo, sembrava non riuscire a capacitarsi di quei giorni che si erano susseguiti, della totale e inascoltata supplica che aveva rivolto ad ogni figura che avesse un qualche diritto decisionale in quel campo. Batté un piede a terra e si portò la testa tra le mani, persino quei minuti di pausa diventavano una tortura poiché non la portavano ad alcuna soluzione nonostante la sua mente aggrovigliasse mille pensieri, mille diverse possibilità.
“Signorina Andrew ti ho trovata finalmente,” la voce di Jonathan, condita di una vivacità stanca, sfidò il vento, le si avvicinò ma Candy non diede segno di averlo udito.
“Candy?” la sfiorò appena e la ragazza sollevò la testa di scatto quasi spaventata.
“Jonathan…”
“Che fai quassù? Si gela, ti ho cercato in lungo in largo.” Ammise affiancandola. Candy si guardò attorno, come se si rendesse conto solo in quell’istante di essere arrivata fin lassù, come se le gambe ce l’avessero portate senza che lei ne avesse avuto coscienza.
“Sono rientrato ieri sera da Amies, un viaggio tremendo metà a piedi metà con mezzi di fortuna, quando ho saputo che le caverne non erano ancora state evacuate ho temuto fosse accaduto qualcosa.”
“Sto bene” si limitò a dire la ragazza con tono assente.
“Hai visto cose tremende vero Candy? Ti avevo detto che certe immagini non ti si sarebbero più levate dagli occhi, avresti dovuto darmi retta ed andartene. A meno di trenta chilometri da qui si sta combattendo ferocemente, ci sono stati diversi attacchi aerei la notte scorsa, persino Londra è stata attaccata da alcuni Zeppelin, fortunatamente sembra che non vi siano state vittime tra i civili, gli allarmi antiaereo paiono efficaci, si rifugiano nei tunnel della metropolitana sai.”
Candy annuì, alzò nuovamente lo sguardo, l’Inghilterra si trovava oltre quel tratto di mare.
“Candy vuoi dirmi che ti succede?”
Candy sembrò trattenere il respiro, alzò prima gli occhi verso il cielo e Jonathan poté chiaramente vedere che dovevano essere stati tormentati a lungo dal pianto.
“Non so che fare Jonathan.” Ammise “ mi impediscono di prendermene cura, riesco a fuggire da lui per poco fintanto che non vengo scoperta e ricacciata nella mia ala. Sono sempre stata brava a scappare, ad intrufolarmi senza che la gente se ne accorgesse, è sempre stata una mia peculiarità. Ma qui non siamo alla Casa di Pony, né dai Legan o alla Saint Paul’s School, qui è diverso, qui ho delle responsabilità, ho  a che fare con dei malati, se mi allontano rischio di metterli in pericolo, di non accorgermi di un eventuale peggioramento, di…”
Jonathan la fermò stringendole con salda gentilezza la mano, “ di cosa parli?”
“Terence,” fu quasi doloroso pronunciare quel nome “Terence è qui.”
“L’attore?” Jonathan ne era di certo sorpreso “è tra i feriti?”
La ragazza annuì mordendosi le labbra “ è sempre stato così dannatamente impulsivo, che diavolo gli è saltato in testa di arruolarsi! Doveva essere a New York, recitare nei migliori teatri, sposato con Susanna. Perché è qui! Quello stupido!” Candy tremò nell’impeto di quelle parole “è tutto così assurdo.”
“Candy calmati. Da quanto è che non dormi?”
Candy scrollò le spalle rassegnata “come posso dormire? Le sue condizioni sono critiche ed io mi sento così impotente, il Dottor Martin dice che dovrebbe essere mandato in Inghilterra ma a causa degli allarmi aerei non vi sono navi in procinto di partire” riprese fiato “ho scritto queste lettere, il servizio di posta è ancora sospeso, la ferrovia inagibile ed io…se solo riuscissi ad avvertire Albert sono certa che lui saprebbe cosa fare,” gli occhi si inumidirono nuovamente “ho bisogno di poter parlare con lui ma anche quando lo scambio postale sarà ripreso i tempi saranno troppo lunghi.”
Jonathan se l’attirò contro e lasciò che la ragazza si sfogasse “Candy cerca di calmarti, ti aiuterò a trovare una soluzione te lo prometto. Ma tu ora devi approfittare di questo tempo e riposare un po’, se collassi non gli sarai utile di certo.”
“Lo sai qual è la cosa strana Jonathan…io e Terence ci siamo sempre mancati, le nostre tempistiche non hanno mai combaciato, potrei farti una miriade di esempi. Quando rientrai dall’Inghilterra per tornare alla Casa di Pony lo mancai di pochi minuti, alla prima di Re Lear fu la stessa cosa, e così per altri episodi fino a Rockstown. Lì lo feci volutamente lo ammetto. Ora sta accedendo di nuovo.”
Jonathan prese un fazzoletto per asciugarle gli occhi, “perché dici così Candy, ora siete nello stesso posto e forse non è un caso.”
La ragazza sorrise amaramente, “siamo nello stesso posto fisicamente ma Terence non è qui, ai suoi occhi sono invisibile, non credo nemmeno mi riconosca Jonathan.”
“E allora devi fare in modo che lo faccia. So che c’è stato uno scambio di prigionieri a Passchendaele, è stata una battaglia terribile Candy. Alcuni sopravvissuti sono stati portati qui e può essere che Terence sia uno di loro. Molti soldati francesi hanno ammutinato lasciando in difficoltà il resto dell’esercito alleato, ho raccolto testimonianze inenarrabili.” Lo sguardo di Jonathan si perse nella foschia che si alzava dal mare, la paura che anche Scott fosse in quella battaglia gli tormentava l’anima. Troppi morti, troppi corpi senza nome per poter sapere. Scacciò il pensiero con uno scongiuro e tornò a stringere a sé la ragazza, l’aiutò a rialzarsi cercando di convincerla a rientrare.
“Da brava Candy ora rientriamo, possiamo bere qualcosa di caldo se ti va. Ho il mio vecchio cognac a portata qui in una fiaschettina. E’ tremendo a dire la verità ma potrebbe tirarti su.”
Candy scosse il capo “ti ringrazio Jonathan ma non mi va proprio di bere.”
“Ascolta perché non dai  a me le tue lettere?”
La ragazza lo fissò senza capire “perché mai?”
“Forse posso trovare il sistema di farle pervenire, certo non tutte  e tre ma almeno il contenuto di una. Hai parlato di  Albert, è il tuo famoso principe?! Le altre a chi sono indirizzate?”
Candy gliele mostrò trattenendole tra le dita in modo che il vento non gliele strappasse di mano, “una è per il Duca di Granchester, è il padre di Terence. L’altra per Eleonor Baker, sua madre. Avevo un vecchio indirizzo mi auguro viva ancora a New York.” D’improvviso fu colta da sorpresa, come se il pensiero le fosse balenato solo in quell’istante “e Susanna! Dovrei scrivere a Susanna ma…non so dove…” sembrava nuovamente agitata e nuovamente Jonathan cercò di calmarla.
“La cosa più saggia credo sia quella di tentare di contattare il tuo Albert, mi sembra la cosa migliore.”
Titubante Candy gli consegnò la lettera e Jonathan le sorrise rassicurante “andrà tutto bene.”
Discesero da Pointe Sublime, in lontananza i cannoni tuonavano ancora ed una delle sirene irradiò il suo suono terribile per tutto il campo, era necessario rientrare nelle caverne.



Flanny era diventata ormai  esperta ad assistere i medici negli interventi chirurgici, tuttavia il cloroformio iniziava a scarseggiare e certe amputazioni si dovevano effettuare ricorrendo a blandi palliativi. Nelle zone delle caverne adibite a stanze operatorie si alzavano grida atroci, il più delle volte i pazienti perdevano coscienza o non superavano la notte. Flanny Hamilton usciva da quei momenti cercando di mantenere un’aria distaccata, per qualcuno che moriva c’era sempre qualcuno che poteva vivere, si diceva. Ma giunta davanti alle catinelle per poter lavare via sangue e sudore, si ritrovava a trattenere a stento conati di angoscia che le attanagliavano lo stomaco. Ormai conosceva gli orrori della guerra da oltre due anni ma a certe cose era impossibile abituarsi. Diede ordini come al solito, riprese le infermiere più lente, alzò le coperte da alcuni letti constatando la morte di alcuni giovani, “liberate il letto” si limitava a dire passando per una figura priva di compassione. “Così va fatto non discutete.” Era troppo complessa e devota al suo lavoro Flanny Hamilton per permettersi il lusso di mostrare la propria debolezza.
“Flanny…”
“Ah sei qui Candy, bene aiutami a medicare quest’uomo, le ferite sulla spalla si stanno infettando dobbiamo pulirle con l’acido borico.”
 “Flanny ascolta,” tentò Candy ma Flanny l’anticipò alzando una mano per zittirla.
“Te l’ho già detto Candy la mia risposta è no!”
“Per l’amor di Dio cosa ti costa fammi fare un altro turno insieme ad Anne?!” esclamò la ragazza con esasperazione.
“ Non metterò a repentaglio la vita di questi giovani per accontentarti.”
“Cosa stai dicendo? Non smetterei certo di occuparmi anche degli altri.”
Flanny la guardò spazientita “ pensi di poter davvero reggere un doppio turno?! E’ follia e lo sai, lo sappiamo entrambe. In quanto ad affiancarti ad Anne ti ripeto nuovamente la differenza tra i pazienti dati a lei e quelli di cui ci occupiamo noi: le volontarie come Anne non sanno suturare ferite, non assistono le operazioni né sanno riconoscere un’infezione da una cancrena! Siamo solo in cinque in questa sezione del campo Candy, fintanto che la ferrovia non sarà riparata non avremo altri aiuti, se io ti facessi trasferire resteremmo in quattro e tu sai bene quanto questo faccia la differenza. Quindi, ripeto, la mia risposta è no.” Flanny si piegò su di un fornelletto che stava facendo bollire un’ampia pentola d’acqua, trafficò con alcune boccette non aggiungendo altro, per lei il discorso era chiuso ma non per Candy.
“Ti supplico Flanny,” Candy si sarebbe prostata anche in ginocchio “proprio perché da sola Anne non è in grado di farcela, ci sono venticinque uomini in quella caverna, alcuni si stanno lasciando morire, non riescono nemmeno a mangiare.”
“Ed immagino che il tuo Terence sia uno di questi!?” sbuffò Flanny immergendo dei panni nell’acqua, “cosa nel discorso che ti ho fatto poc’anzi non ti è chiaro?”
Candy la guardò duramente “ho compreso benissimo e non ho nessuna intenzione di mancare alle mie responsabilità, ti chiedo soltanto di poter aiutare anche Anne, tutto qui.”
Flanny si concesse un risolino nervoso “tutto qui” ripeté tagliente, “ appena la ferrovia sarà riparata molti di quegli uomini verranno trasferiti, probabilmente condotti in Inghilterra. Può anche darsi che a breve riprendano le navigazioni quindi anche il tuo amico sarà mandato in un luogo più consono al suo disagio.” Flanny le dava le spalle e fu certo sorpresa quando Candy la strattonò per un braccio costringendola a guardarla negli occhi. “A breve non significa nulla Flanny e lo sai! Credi non mi sia accorta che la nave allo sfocio della Chance è sparita?! Ufficiali di alto grado se ne sono andati con quella nave per timore di bombardamenti e tu mi parli di una ripresa delle traversate a breve!”
“Era necessario Candy o l’avrebbero affondata. Sarà attraccata in qualche porto più sicuro e non appena possibile vedrai che torneranno qui.”
“ Ma non c’è tempo Flanny! Perché non hanno issato la bandiera ospedale sulla nave? Non avrebbero osato bombardarla se ci fosse stata la bandiera!”
Flanny liberò il braccio e si concesse di ridere amaramente, “sei davvero ingenua Candy Andrew, credi che solo perché una nave sventola un pezzo di stoffa questo sia sufficiente a salvaguardarla da qualche Zeppelin nemico? Credi davvero che in guerra chi è pronto a spararti addosso si faccia certi scrupoli!? Ora smettiamola di ciarlare e mettiamoci al lavoro, prendi questa bacinella e aiutami.”
Candy prese la bacinella ma era ben distante dal voler cedere “morirà se non lo aiuto. E’ denutrito, a malapena si riesce a farlo bere…ti prego Flanny…ti prego…”
Flanny allargò le braccia il suo volto era livido di rabbia “ e loro? Loro forse non rischiano di morire!?” sembrava, in quel gesto disperato, in quelle braccia spalancate, voler avvolgere tutti i feriti che giacevano in quei letti “loro sono forse da meno? Ho già dovuto far liberare sei letti stamattina Candy! Ragazzi morti in silenzio con solo il ricordo dell’orrore davanti agli occhi.”
“E perché ne vuoi condannare altri quando si può fare qualcosa?” la voce di Candy era calma, composta e decisa nonostante le lacrime le rigassero le guance “ userò le mie ore di riposo per occuparmi di lui, ti dimostrerò che posso farcela e cambierai idea.”
“Stramazzerai al suolo ecco quello che accadrà! Bada Candy non te lo starò a ripetere se farei di testa tua ti farò rapporto e allora verrai trasferita in un’altra zona del campo, chiederò che tu venga scambiata con un’altra infermiera e non sto scherzando. Ed ora aiutami!”


Quando la luce nella caverna si fece più fioca e la luce del giorno che illuminava le entrate rocciose lasciò spazio al rosso crepuscolo della sera, Candy si tolse la cuffietta da infermiera, lavò le mani nell’acqua gelida e si passò un panno freddo sul viso. Iniziava il riposo. Cercando di non farsi notare dalle altre infermiere percorse la caverna rimanendo accostata alle zone buie della roccia, andò oltre la caverna delle preghiere e raggiunse l’ala più silenziosa e profonda. Anne si era appena data il cambio con un’altra delle volontarie, controllava i pazienti ed annotava il loro stato su delle cartelle posticce cancellate più volte. Non appena vide Candy impallidì guardandosi attorno guardinga “che fai qui? Sono stata ripresa più volte per averti lasciato venire i giorni scorsi, te ne devi andare!”
Candy non le badò, “sono in pausa” disse solamente “e durante la pausa posso fare quello che credo.”
Anne scosse il capo “sai bene che accade se Flanny lo viene a sapere.”
“E tu non glielo dire” si limitò a rispondere Candy accennando un sorriso. Si muoveva sicura, quasi distaccata tra le brande, lo sguardo diritto davanti a sé pur di non doverlo abbassare, ma man mano che si avvicinava al letto  il cuore le saliva in gola.
“Ho provato a togliergli un po’ di barba” disse Anne raggiungendola “ma d’un tratto si è voltato e la lama gli ha ferito il viso.”
“Lo hai medicato?”
“Certamente.”
Candy si mosse pratica, legò i capelli, predispose su di un vassoio di legno un piatto di brodo, una mela matura, del pane. Ad Anne non sfuggì il fatto che evitasse in tutti i modi di guardare il ragazzo che giaceva nel letto.
“Vuoi che ti aiuti?” chiese la ragazza, “ lui è l’unico che si rifiuta di mangiare, gli altri qualcosina riescono a mandare giù.”
“Non preoccuparti Anne faccio da sola e poi ti do una mano anche con gli altri.” Notò che nell’altro letto un ragazzo dal viso deturpato da alcune ustioni la stava fissando, Candy sorrise “ciao” esclamò guardando poi Anne perché le rivelasse il nome del giovane.
“Mi sembrava che Oliver gli stesse bene” mormorò Anne “ora che lo dico è assurdo, sembra che io stia parlando di animali” e per la prima volta Anne ebbe un tremito, inspirò profondamente cercando di calmarsi “se vado fuori di testa anch’io è un bel problema,” disse ridendo tristemente.
“Oliver è un bel nome” disse dolcemente Candy parlando direttamente con il giovane il quale allargò un po’ la bocca in un sorriso quasi fanciullesco, poi chiuse gli occhi senza mutare espressione. Candy cercò di controllare il proprio respiro, mentre avvicinava il vassoio al letto avvertiva già un lieve tremore tradire i suoi movimenti, perché ogni volta doveva essere così difficile?
“Ciao Terence,” disse cercando di mantenere un tono allegro, sedette accanto alla branda ma ancora non osava guardarlo “qui c’è del buon brodo o almeno nessuno se ne è lamentato quindi non deve essere male” rise “puoi stare tranquillo dato che non l’ho preparato io.”  Rigirò il cucchiaio nel brodo denso, ne rimase ad osservare la bordatura unta ed infine si decise a volgere lo sguardo a Terence. Giaceva sui cuscini scomposto e rigido come una bambola rotta, il viso sbarbato malamente era di un pallore trasparente e sulla guancia risaltava il taglio del rasoio, una striscia nero rossastra appena sotto lo zigomo. La cosa più terribile non era quel volto emaciato che rendeva più duri e spigolosi i tratti del viso, no la cosa più terribile erano gli occhi. Candy deglutì e gli si accostò maggiormente, gli occhi di Terence erano sempre stati lo specchio vivido delle sue emozioni, in passato quegli occhi le avevano fatto provare svariate  emozioni, sapevano essere dolci quanto colmi di rabbia, passionali quanto distaccati, eppure sempre vivi, brillanti, la complessità irruenta e libera del suo animo era sempre emersa da quello sguardo, qualcosa che Candy aveva conosciuto solo in lui e poco aveva a che vedere con il calmo e sereno lago azzurro degli occhi di Anthony o Albert, la placida calma miope di Stear o la composta impulsività di Archie. Gli occhi di Terence non avevano mai avuto paragoni, erano come il mare che aveva attraversato la prima volta che dall’America era giunta in Inghilterra, un mare a tratti tempestoso, profondo e scuro come il suo abisso, e poi vivo e blu quando la luce del sole s’infrangeva contro la  superficie e toglieva il fiato. Tutto questo in quel momento era completamente assente, quegli occhi non trasmettevano nulla, erano smarriti e opachi di una cecità interiore che non ammetteva nessun tipo di riflesso, non vi era più alcuna traccia di vita in quello sguardo. Candy strinse impulsivamente il piatto rischiando di rovesciarne il contenuto, avrebbe voluto scuotere Terence con forza, schiaffeggiarlo e avere in cambio una qualunque tipo di reazione, anche violenta ma pur sempre una reazione. A mala pena si trattenne, riempì il cucchiaio di brodo e lo porse verso il ragazzo “mangia Terence,” disse “se continui a rifiutarti non riuscirai a stare meglio” ma Terence non prestò ascolto. Candy prese un nuovo profondo respiro e chiamò Anne con un cenno, “Anne così sdraiato non riesco a farlo mangiare, dobbiamo metterlo seduto, c’è un altro cuscino?”
Anne le lanciò uno sguardo negativo, “no Candy nessun cuscino, se vuoi ho un sacco dove tengo le pezze appena lavate, possiamo mettergli quello dietro la schiena fintanto che mangia.”
Candy annuì ed aiutò la ragazza a sistemare il sacco ma non fu facile dato che Terence non dava alcuna collaborazione, “è troppo rigido c’è il rischio di fargli male alla schiena” sospirò Anne ma Candy non volle sentire ragioni “ afferralo sotto il braccio sinistro io farò altrettanto dalla parte destra e sosterrò la schiena non ho alcuna intenzione di dargliela vinta!” fecero appena in tempo a sistemarlo che un altro dei pazienti iniziò a lamentarsi, gridava che il suo letto fosse pieno di vermi intenti a mangiarlo; Anne accorse nel tentativo di calmarlo, “non c’è nulla qui Sam, stai tranquillo.” Gli parlò dolcemente come aveva imparato a fare da Candy ma il giovane non la udiva e si agitava maggiormente; Candy le venne in soccorso “Anne sotto quel ripiano ci sono dei barbiturici prendine una boccetta svelta!” la ragazza obbedì, solitamente le crisi di quel genere passavano dopo pochi attimi ma il giovane si dimenava con maggior vigore rischiando di fare del male a se stesso e ad altri; consegnò la boccetta a Candy che con tutta la forza che aveva tentava di tenere fermo il giovane “non posso fare entrambe le cose, ascolta Anne devi somministrarglielo tu ti indicherò come fare” ma Anne scosse il capo “ Candy temo di non esserne in grado, se sbagliassi la dose sarebbe molto pericoloso.”
“Stai calmo Sam, calmo.” Candy fece segno ad Anne di avvicinarsi “ vieni Anne, ascolta lo devi tenere saldamente qui per le spalle e spingere verso il basso con tutta la forza che hai, io farò più in fretta possibile” Anne obbedì “le siringhe sterilizzate dove sono?”
“Laggiù nella vetrinetta” disse Anne cercando di tenere fermo Sam come Candy le aveva detto. Fu tutto molto rapido, Candy fu lesta e pratica nel tenere fermo il braccio del giovane e praticare l’iniezione. “Starai meglio ora Sam” disse man mano che il giovane prendeva  a muoversi con meno vigore fino a calmarsi.
“Grazie al cielo” esclamò Anne sudata come non mai “ non aveva mai avuto crisi così forti.”
Candy gli asciugò il sudore con un panno per poi massaggiargli un poco le braccia “come possono pretendere che tu sola possa occuparti di una situazione simile?! Ora gli ho somministrato i barbiturici ma non sono di certo la soluzione, queste cure non servono a nulla!” Candy era chiaramente arrabbiata.
“Calmati Candy non sono sola e lo sai, io ed altre volontarie ci diamo il cambio e poi ora ho te,” le fece l’occhiolino “tuttavia non possono restare qui ancora per molto, sentivo alcuni medici parlare di eventuali trasferimenti  verso sud, vi sono dei manicomi e non sono vicini alle linee di combattimento.”
“Manicomi!? Vogliono mandarli nei manicomi!?” era allibita.
“Non vi sono altre strutture in grado di occuparsi di loro Candy. Qualcuno migliora e può essere rimandato a casa, ma la maggior parte lo vedi da te che non è possibile gestirli.”
Candy tornò a rivolgere lo sguardo a Terence, si avvicinò nuovamente e con più decisione recuperò il piatto sedendosi sulla sponda del letto “io non sono una che si arrende con facilità” gli disse quasi in tono di sfida, gli avvicinò nuovamente il cucchiaio alla bocca premendo appena sulle labbra “ oggi è una delle prime vere giornate primaverili da quando sono qui, sai? E’ maggio e persino in un posto come questo crescono  fiori piccoli e coraggiosi, sfidano il vento e colorano il paesaggio” fece una pausa “io ho sempre adorato il mese di maggio, in maggio tutto rinasce, non trovi?!” delicatamente porse una mano verso il mento di Terence incitandolo ad aprire un po’ le labbra, non sapeva se il ragazzo fosse in grado di sentire quanto gli stava dicendo ma senza perdersi d’animo proseguì “ quando frequentavo la Royal Saint’s Paul School venne organizzata una splendida festa per celebrare questo mese, ero stata scelta per essere una delle reginette dei fiori. Appena me lo dissero fui al settimo cielo, avrei indossato un magnifico abito, i miei capelli sarebbero stati agghindati con una corona di fiori ed avrei sfilato su di un carro in mezzo alla gente festante. Ma così non fu e rimasi chiusa in una delle stanze della scuola fintanto che un dono inaspettato e gradito si presentò alla mia porta chiusa” il cucchiaio riuscì ad avanzare fra le labbra, Candy si mosse delicatamente per impedire che il liquido potesse andare di traverso “fui Romeo e anche Giulietta, ricordi Terence? Ammetto che preferii maggiormente impersonare quest’ultima; nel mio bel vestito rosso venni presa per mano dal vero Romeo che mi condusse sulla nostra collina e lì danzammo, la musica lontana del grammofono veniva trasportata dal vento e ci avvolgeva. Romeo era bellissimo, così bello da far male. Su di un libro scoprii in seguito che aveva sottolineato frasi tanto dense che pronunciate poi dalle sue labbra sarebbero suonate sublimi.  Me le avresti dedicate quel giorno Terence? Si penso che l’avresti fatto,” sbatté gli occhi, li sentiva pesanti e umidi “come colomba bianca in una lunga fila di cornacchie sembra la fanciulla tra le sue compagne. La voglio vedere dopo questo ballo; come sarei felice se la mia mano rude sfiorasse quella sua. Ha mai amato il mio cuore? Negate, occhi: prima di questa notte non ho mai veduto la bellezza.” Candy recitò solennemente quelle parole, le aveva sentite limpide nella memoria vibrare poi fino alle labbra; sorrise, un sorriso ironico “forse avrei dovuto essere io a dedicarle a te, colombe bianche e bellezza sublime poco si adattano ad una signorina tutte lentiggini.” La mano le tremò un poco ma fu lieta nel constatare che il piatto era ormai vuoto.
Anne che era rimasta in disparte fino a quel momento le si fece vicino “ci sei riuscita Candy” le pose una mano sulla spalla e sentì che il corpo di Candy era teso come una corda di violino.
“Beh Shakespeare pare essere più efficace delle filastrocche di Mamma Oca” commentò cercando di nascondere il proprio stato d’animo “quando ero alla Casa di Pony la mia amica Annie faticava sempre a mangiare e Miss Pony le cantava la canzone di Georgie Porgie o quella del Pudding per distrarla e imboccarla con il minestrone. Il più delle volte la cosa si rivelava fallimentare.” Si alzò per posare il piatto e riempire una tazza con dell’acqua calda e limone “io invece sono sempre stata una mangiona mai avuto problemi d’appetito,” la sua mano sfiorò la nuca di Terence, lo aiutò a bere e un po’ del liquido gli scivolò dalle labbra colando lungo il collo, la giovane si affrettò ad asciugarlo.
“Candy ma tu…” Anne si interruppe e all’occhiata interrogativa della compagna scosse semplicemente il capo con tenerezza,“no niente. Ora dovresti riposare.”
“C’è ancora del tempo, dobbiamo riadagiarlo sul cuscino e togliere il sacco.”
“Posso farlo anche da sola, tu sei molto stanca e devi riposare almeno un poco prima di riprendere il tuo turno.”
Candy fece una smorfia ironica “non sono affatto stanca” e con l’aiuto di Anne sistemò Terence adagiandolo delicatamente sui cuscini, lo coprì concedendosi di scostargli un ciuffo pesante di capelli che gli ricadeva sul viso.
Anne recuperò due caraffe “Candy prendi almeno un po’ d’aria.”
“Vuoi smettere di preoccuparti per me, Anne?! Da quando sei così apprensiva?”
Anne scosse le spalle “non sono apprensiva sto solo pensando ai rischi che mi fai correre ogni volta. Ci vuole un bel po’ di pazienza con te! Ad ogni modo dato che io non posso allontanarmi potresti riempire queste due brocche d’acqua fresca, devo dare da bere ai pazienti.”
A Candy fu chiaro che quello di Anne era un pretesto per farla uscire a prendere una boccata d’aria, annuì con un assenso di gratitudine verso le preoccupazioni di quella giovane volontaria troppo piccola per una guerra così grande.
Raggiunse una delle uscite della caverna, due infermiere stavano accostate all’ingresso concedendosi di fumare delle sigarette prima di rimettersi al lavoro, la osservarono entrambe dubbiose “che fai qui non dovresti essere a riposare?” domandò una di loro sospettosa. Candy alzò le due caraffe “ero nella caverna delle preghiere e ne ho approfittato per fare il favore ad una delle volontarie  di prendere un po’ d’acqua.”
Le due giovani non parvero troppo convinte ma decisero di non indagare oltre “ti conviene scendere verso le taniche, l’acqua dei pozzi è troppo fredda e non salutare, i medici ci hanno proibito di usarla.”
Candy annuì.
Il cielo si era ormai fatto scuro, per giungere alle taniche si percorreva un breve sentiero che conduceva ad una costruzione cubica in cemento dove erano state posti grossi contenitori d’acqua; a pochi passi dalle taniche Candy sentì le gambe cederle, la tensione le era colata addosso d’improvviso lasciandola esausta, si inginocchiò a terra cercando di non far cadere la torcia e le brocche. Poggiò la fonte di luce sull’erba umida e con essa anche le brocche, il respiro era in affanno “stai calma Candy coraggio” si disse ma il cuore non sembrava voler smettere di farle vibrare il petto; aprì il cappotto, si premette la mano all’altezza del cuore, sbottonò alcuno bottoni perlacei dell’uniforme, slacciò appena il corsetto e ne estrasse il suo prezioso tesoro. Tenne stretto il medaglione tra le mani e se lo premette poi contro, immaginò Lakewood ed Albert seduto sulle rive del lago, il sole  gli baciava i capelli ed il volto gentile. Quell’immagine la rincuorò, lasciò che le lacrime le sporcassero ancora un po’ il viso e i sensi smettessero di confonderla.  

 

Cenni storici: Etaples, il luogo che ho scelto come uno dei contesti più significativi di questa fanfiction, si trova nell’Alta Francia, il fiume che lo attraversa, lo Chance, sfocia direttamente nel Canale della Manica. A partire dal 1916 ad Etaples venne posizionato uno dei primi campi adibiti al soccorso e alla cura dei feriti di guerra, la cittadina si trovava infatti sul fronte caldo della guerra di posizione del fronte occidentale, quella che vedeva gli anglo-francesi contrapposti ai tedeschi. La particolarità di Etaples è di essere situata in una zona ricca di grotte che durante il periodo venivano utilizzate dal personale medico per curare i feriti provenienti dalle trincee circostanti. Un gran numero di feriti provenienti dalla  battaglia di  Passchendaele ( battaglia che costò la vita a 300.000 uomini) furono inviati anche ad Etaples.
Un’altra menzione che voglio fare e credo sia necessaria ai fini di migliore comprensione della trama riguarda il così detto “shellshock” il cui equivalente italiano è “vento degli obici” , una malattia nata proprio nei campi di battaglia e nelle trincee della prima guerra mondiale. I soldati colpiti da questa sindrome avevano sintomatologie quali palpitazioni, tremori, paralisi o tremori in tutto il corpo, incubi, insonnia; a volte smettevano di parlare. Alcuni sembravano perdere il senno per sempre, altri recuperavano dopo un periodo di riposo. Ovviamente al tempo la psichiatria non aveva ancora gli strumenti adeguati per fare fronte a questo genere di sindrome, anche perché il personale medico presente nei campi non aveva nessuna esperienza riguardo questi casi ed era molto difficile diagnosticare la causa reale che spesso veniva attribuita a cause organiche come danni fisici al cervello in seguito alle deflagrazioni. Quando fu chiaro che le cause dello “shellshock” non erano da attribuirsi a danni fisici, i medici cominciarono a prendere in considerazione la componente psicologica e furono ben presto costretti ad ammettere che la guerra faceva apparentemente ammalare o impazzire anche persone di cui non si era registrata nessuna particolare predisposizione o tara ereditaria. Vennero istituiti ospedali vicino al fronte per accogliere non solo i feriti nel corpo, ma anche quelli nella mente, che talvolta venivano curati e rispediti al fronte, talvolta andavano a finire in manicomio se i sintomi sembravano troppo strani o gravi per poter essere gestiti negli ospedali. Lo shellshock era una manifestazione di quello che oggi viene chiamato “disturbo post-traumatico da stress”, il cui riconoscimento formale in psichiatria è avvenuto solo nel 1980, proprio in seguito allo studio dei reduci di guerra.


Guida creata da il blog di Lisa.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Ricordi color seppia ***


 
Lakewood 1916

Candy vuoi passeggiare con me?”
E’ il 1916, è il mese di aprile, un venerdì.  Il tempo è splendido e Candy  ama la primavera a Lakewood, non sa ancora che si sta avvicinando alla fine di un’era, che già in quel momento è in bilico fra due mondi.  Serena come il cielo che la sovrasta volge lo sguardo alle dolci curve delle colline, i boschi sono di querce, frassini e betulle; sulla sponda opposta del lago si intravedono sentieri che conducono a radure e poggi; alcuni lasciati alla natura, altri piacevolmente abbelliti da una statua, una colonna, un gazebo. Proseguendo con lo sguardo il campanile della chiesetta di famiglia svetta tra gli alberi.  Laggiù riposano Anthony e Stear ma è un percorso che Candy evita ancora, distoglie lo sguardo adombrato dalla nostalgia, lo concentra sul roseto in fiore.
“E’ splendido non è vero?”  la voce gentile di Albert la culla teneramente in quel contrasto di dolce amarezza che ha lo stesso profumo delle rose.  Candy annuisce, sfiora con solennità i petali bianchi del fiore che porta il suo stesso nome “sì è splendido, ogni primavera Anthony rinasce in questo giardino attraverso questi fiori meravigliosi” non voleva essere malinconica ne rattristare Albert ma sa che anche lui ha avuto il medesimo pensiero.  Gli prende il braccio e lo incita a proseguire nella loro passeggiata, oltre i muri degli orti e il brillio dei vetri delle serre dove giardinieri, ora meno numerosi, coltivano ancora uva nera, pesche bianche e delicate che poi nessuno ha il coraggio di cogliere.  Candy indica il bagliore del galletto dorato sulla torre delle scuderie, oltre ad esse si giunge ad una terrazza da dove è possibile scorgere la vecchia casa degli Andrew, una casa costruita per un altro mondo, un’altra epoca, un’altra vita.
“La farai sistemare?” chiede Candy con ingenua aspettativa ed Albert per qualche istante rimane in silenzio.
“Tutti si lamentano di quella casa” esordisce “ è stata una sorta di simbolo della mia ribellione ma ammetto che metterci le mani sarebbe un dispendio di denaro notevole. Le stanze sono troppo grandi, il tetto perde, le finestre sono frammenti di vetro e gli impianti sono inutilizzabili.”
Candy è sorpresa di quello strano praticismo che esce dalle labbra dell’uomo, ma basta poco per comprendere che non sono i dettagli tecnici a rammaricare Albert.
“Zia Elroy la vorrebbe vedere demolita, lo so bene.”
“Perché mai Albert!? “
Il ragazzo sospira “ beh perché Rosemary ed il suo innamorato erano soliti incontrarsi qui” accenna ad un sorriso “niente di scabroso, mia sorella aveva una passione smodata non solo per le rose ma anche per la pittura, aveva trasformato l’ala ponente della casa in un atelier di tele e colori, il suo regno lontano dalle lezioni di pianoforte e cucito. Ero un bambino al tempo ma ricordo che sgattaiolavo lontano dal controllo di zia Elroy e raggiungevo mia sorella qui, mi nascondevo tra le tele e la osservavo immergersi nel suo mondo di colori ad olio e immaginazione. Ovviamente fui scoperto e dopo qualche esitazione Rosemary mi permise di imbrattare alcune tele con tutti gli animali che mi venivano in mente. Era il nostro segreto. Poi conobbe quello che sarebbe divenuto il padre di Anthony e questo diventò il luogo simbolo del loro amore. Capisci perché lo scelsi come mio rifugio all’epoca!?”
“Si lo capisco” Candy cerca di immaginare la bellezza originaria della casa, prova anche a definire i tratti di Rosemary, Albert non le ha mai mostrato una sua fotografia ma la ragazza è certa che i due condividessero gli stessi limpidi occhi. “ In un certo senso anche Rosemary era una ribelle” esclama Candy “ha seguito il suo cuore.”
“Già, sotto certi aspetti siete simili, se aveste avuto la possibilità di conoscervi sono certo che sareste andate molto d’accordo.”
“Lo penso anch’io.”
Ripresero a camminare, Candy voleva raggiungere la casa che per lei era stata prima di tutto il caro rifugio dove Albert si prendeva cura dei suoi animali.
“Candy…”
“Sì?” lo sfiorò con lo sguardo per poi allontanarsi di qualche passo “oh Albert guarda lassù sul fumaiolo! E’ un nido, un nido enorme!”
“Una cicogna probabilmente.”
Candy sgranò gli occhi non aveva mai visto una cicogna se non illustrata nei libri per l’infanzia che Miss Pony regalava ogni Natale ai suoi bambini.
“Dici che si mostrerà? Mi piacerebbe tantissimo vederla.”
“E’ probabile dopotutto è il periodo della cova.”
La ragazza saltellò sul posto con eccitazione fanciullesca, era sempre incredibile la voglia di vivere, la curiosità che emanava, la naturalezza del suo entusiasmo aveva sempre attratto Albert  verso di lei. Talvolta si ritrovava a paragonarla ad un magnete, nell’arco della loro vita, seppur in posti lontani, per un motivo o l’altro nei luoghi più disparati erano sempre riusciti a rincontrarsi. Non aveva mai reputato un caso che durante la perdita di memoria l’avessero ricoverato nello stesso ospedale dove Candy lavorava.
“C’è qualcosa che ci fa ricongiungere ogni volta.” Pensò ad alta voce ma la ragazza non riuscì ad udire bene, “hai detto qualcosa Albert?”
“No nulla, piuttosto sto aspettando che sia tu a dire qualcosa in realtà.”
Candy incrociò il suo sguardo senza capire “in che senso?”
“Immagino ci siano diverse domande che vorresti pormi ma la tua reticenza un po’ mi turba. Mi chiedo se tu in realtà non sia arrabbiata con me.”
Candy calciò una piccola pietra con la punta della scarpa, alla fine Albert si era reso conto che in quel cielo apparentemente tanto azzurro alcune nubi offuscavano la luce. “Non potrei mai essere arrabbiata con te, tu sei il mio principe della collina e sei il mio benefattore.”
Albert rise “suona davvero demodé non trovi?”
La ragazza alzò le spalle “ma è la verità. Non nascondo di essere turbata, forse avrei voluto che tu me lo dicessi prima, ho cercato tante volte di dare un volto allo zio William, avrei voluto parlare con lui di tante cose… non sai quanto ero rammaricata quando mi dissero che ero stata espulsa dalla Royal Saint Paul School. Avrei voluto spiegare allo zio William che fu tutto un inganno di Iriza, temevo che credesse fossi un’ingrata e una poco di buono. Al contempo mi resi conto che non sarei mai potuta diventare una Signora come era intesa da tutte le famiglie benestanti che mandavano lì le loro figlie. Sapevo che quel ruolo non mi sarebbe mai appartenuto, non fa parte di me.”
“Io trovo che tu sia una vera signora Candy”  quell’affermazione uscì spontanea e Candy in risposta fece una smorfia divertita “ certo sono una Lady che si arrampica sugli alberi, fa a botte con i ragazzi ed è decisamente troppo chiassosa.”
“Sei molto più di questo.”
La ragazza arrossì “ tu sei sempre stato troppo buono con me.”
“No sono stato egoista, ho tentato di pianificare la tua vita nascondendomi dietro la maschera del vecchio zio e così facendo forse ti ho arrecato più danno che giovamento.”
“Mi hai permesso di capire quel che volevo davvero, se non fossi andata in Inghilterra probabilmente non ci sarei mai arrivata ed inoltre ho passato dei bei momenti laggiù,” sorrise “ho ritrovato Annie e conosciuto Patty, ho imparato molte cose, ho potuto godere della compagnia di Archie e Stear e…” s’interruppe non certa di voler continuare “insomma ho fatto delle esperienze che nessun bambino cresciuto alla Casa di Pony si sognerebbe mai di poter fare. E questo mi ha resa più libera e forte.  Quindi non devi angustiarti Albert perché io ti sarò sempre riconoscente.”
Albert le prese la mano e la strinse nella sua “vorrei che tu rimanessi qui Candy e…” volse di nuovo lo sguardo alla casa “mi aiutassi a riportare a lucido questo vecchio rudere.”
Candy ebbe un impercettibile trasalimento, che cosa le stava chiedendo esattamente?
“Voglio che tu sia sempre parte di questa famiglia Candy.”
Candy sorrise tristemente “ zia Elroy non è della tua stessa opinione ed io non voglio che il rapporto tra voi due si incrini a causa mia.”
“Io e la zia abbiamo da sempre opinioni divergenti ma questo non mi ha mai impedito di fare di testa mia, in fin dei conti sono o non sono il capofamiglia?! Questo titolo dovrà pur portare qualche vantaggio ti pare?” le fece l’occhiolino e Candy si ritrovò nuovamente ad arrossire, provava  una piacevole sensazione di leggerezza, la vicinanza di Albert ed i suoi occhi tersi come il cielo sovrastante la facevano sentire in pace con il mondo, tuttavia sapeva che quella sensazione sarebbe rimasta fissa ancora per poco, poiché Lakewood non era soltanto un dolce sogno e sui suoi prati non crescevano solo fiori ma anche spine, spine che la respingevano, spine che le ricordavano che quella quiete alto borghese non le apparteneva.
“Candy?”
“Perdonami Albert ma in questo momento non so darti una risposta.  Adoro Lakewood ma in qualche modo mi sento respinta da tutto questo.”
“Capisco, “ il ragazzo prese una pausa “che dici se andassimo alla casa di Pony per qualche tempo? Sarei felice di rivedere i bambini, potremmo fare dei picnic sulla collina…”
Il viso della ragazza si illuminò “ sarebbe splendido e i bambini ne sarebbero felici.”
“Allora partiremo domani, un cambiamento d’aria forse renderà le idee più chiare.”
Candy annuì, piroettò su se stessa prendendo la mano di Albert “corriamo fino alla casa? Sempre ammesso che tu riesca a starmi dietro.”
“Non mi sottovalutare” rise Albert iniziando a correre, da quanto non assaporava quel senso di libertà? L’ultima volta che aveva corso verso la vecchia casa accanto a lui c’era Rosemary, il dolce e triste fantasma del quale non riusciva completamente a liberarsi. Al tempo era soltanto un bambino quando la sorella morì, ma per Anthony? Avrebbe potuto in qualche modo proteggere Anthony?
Si fermò di colpo lasciando che Candy lo superasse, ogni tanto quel senso di colpa tornava a galla, era come ricevere un colpo improvviso allo stomaco rimanendo senza respiro.
 

 Etaples 1917


“Fa caldo qui dentro,” Flanny passò un panno umido sul volto di un giovane dalle guance scavate, “non penso abbia nemmeno sedici anni” commentò scrutandolo meglio per poi prendergli la temperatura.
“Gliel’ho misurata pochi minuti fa ed è scesa notevolmente rispetto a questa mattina” Candy lo disse dandole le spalle, era intenta a sistemare l’armadietto delle medicine, i movimenti sembravano più lenti e a Flanny non sfuggì che di tanto in tanto vacillava in malo equilibrio.
“Puoi sistemarlo dopo l’armadietto.”
“Ormai ho quasi fatto.”
“Hai perso molto peso” insistette la giovane Hamilton ma Candy non sembrava propensa a volerle dare soddisfazione. “Trovi?” scrollò le spalle “ a me non pare, ma dopotutto credo sia normale, dubito che qui qualcuno possa dire di essere ingrassato, a parte forse Jonathan, credo divori omelette quotidianamente.”
“E’ quel tuo amico giornalista?”
“Mh mh”
“Sembrate essere molto in sintonia, è curioso che sia ancora qui non ti pare?”
Candy finalmente si decise a guardarla non nascondendo un sorriso divertito “cosa stai cercando di insinuare Flanny Hamilton!? Se pensi che Jonathan sia qui per il mio fascino temo di doverti deludere il suo cuore pare appartenere già a qualcun altro.”
“Non alludevo a questo” fece una pausa, controllò il termometro “è scesa del tutto. Una buona notizia ogni tanto” borbottò disinfettando il termometro “mi riferisco al fatto che recentemente si è recato a Lefaux, credo tu sappia cosa c’è a Lefaux…”
Candy parve pensare “onestamente non ne ho idea.”
“C’è un telegrafo a solo uso militare, un modo di certo molto più rapido per far pervenire a qualcuno dei messaggi.”
“Indubbiamente.”
“Già e…ma vuoi star ferma!”
“Sto solo piegando delle lenzuola Flanny.”
“Ed io ti sto parlando!”
“Sto ascoltando.”
Flanny sospirò sonoramente “ non prendermi per sciocca Candy Andrew tu sai esattamente quel che sto cercando di dire.”
“Mi stai parlando di telegrafi, di Lefaux…”
“Sto cercando di dire che ho sentito alcune infermiere affermare che tu hai consegnato delle lettere a quel giornalista ed è per questo motivo che si è recato a Lefaux, probabilmente avrà qualche amico laggiù che gli ha consentito di usare il telegrafo.”
“E quindi?”
Flanny divenne paonazza “come quindi!? Ti rendi conto cosa accadrebbe se si venisse a sapere?”
“Cosa accadrebbe?! Mi metterebbero in prigione perché ho fatto pervenire una lettera ad un mio parente non contenete alcun riferimento militare?”
Flanny le si avvicinò stringendole un braccio “sono stata paziente Candy ma lo vedo che a mala pena ti reggi in piedi ed entrambe sappiamo  il motivo, ti avevo detto che se mi avessi disubbidito ti avrei fatta trasferire. Questi pazienti sono tutti uguali.”
“No Flanny non lo sono, alcuni di loro devono essere portarti in strutture adeguate e con questo non intendo certo dei manicomi.”
“E questo quindi  che stai cercando di fare, giusto? Stai cercando di farlo trasferire in Inghilterra, stai mettendo i tuoi sentimenti al di sopra dei tuoi doveri!”
Candy si liberò della presa “sto tentando di fare quel che ritengo giusto e lo farei per ognuno di questi ragazzi se ne avessi la possibilità. E’ vero ho chiesto a Jonathan di aiutarmi ma, per amor del cielo Flanny, puoi davvero biasimarmi  per questo!? Fino ad oggi non ho mai mancato un turno e lo sai, non ho fatto errori ne trascurato nessuno dei miei pazienti.”
“Ed infatti guarda come sei ridotta! Passi alle grotte il  tempo che dovresti usare per il risposo e…”
“Flanny” un’infermiera tentò timidamente di frapporsi alle due “Flanny ascolta…”
“Che c’è?”
“Un paziente di Anne sta molto male, la ferita sul petto si è riaperta ed ha fatto infezione.”
A Candy non servì che la ragazza dicesse altro sapeva esattamente di chi stava parlando; entrambe raggiunsero le grotte dove Anne ed un medico stavano al capezzale del paziente.
“Anne!”
“Oh Candy mi spiace tanto, lo stavo cambiando e mi sono accorta che la ferità aveva quel terribile colore,la febbre è davvero alta.”
Candy l’affiancò, il viso di Terence era una smorfia di sofferenza “Dottore mi dica cosa devo fare!” la ragazza si rivolse direttamente al medico.
 “C’è poco da fare bisogna rioperarlo.”
“Sono pronta a farle assistenza dottore.”
“Purtroppo io non sono un chirurgo signorina e l’operazione è delicata, la ferita è appena sotto il cuore un minimo errore sarebbe fatale. Oltretutto il ragazzo è troppo debilitato, metterlo sotto i ferri ora sarebbe una condanna a morte certa.”
“Che significa? Non vorrà lasciarlo in questo stato?!” gridò Candy esasperata e solo l’intervento di Flanny le impedì di aggrapparsi rabbiosamente al camicie del medico.
“Mi perdoni dottore ma la mia collega ha ragione, se lo lasciamo così tamponando la ferita con semplici disinfettanti il paziente andrà certamente in setticemia.”
“Come le dicevo ci vuole un chirurgo ma attualmente sono tutti impegnati .
Candy abbassò nuovamente lo sguardo sul volto diafano di Terence, sapeva non avrebbe resistito a lungo.
“Vado a cercare un chirurgo.”
“Non glielo consiglio” disse il medico “si trovano tutti alle trincee in questo momento, è troppo pericoloso.”
“Farò attenzione.”
Flanny  le fu dietro nel tentativo di fermarla “Candy rischi la vita.”
“La rischiamo tutti ogni giorno Flanny, non ti devi preoccupare farò attenzione.”
“Ammesso che tu riesca a trovare un chirurgo non è detto che possa lasciare la sua postazione per venire qui.”
“Lo convincerò.”
Flanny si dichiarò sconfitta “è impossibile ragionare con te quando c’è di mezzo questo ragazzo” constatò scotendo la testa “ vedi di tornare sana e salva.”
Candy l’abbraccio istintivamente “grazie Flanny e ti prego abbine cura, io farò il prima possibile.”
 
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - cuore in trincea ***


 
“Annie se continui in questo modo il tuo fisico deperirà e ti ammalerai.”
La signora Brighton sedette sulla sponda del letto della figlia, per quanto Annie si sforzasse per sorridere e dirle di non preoccuparsi, i cerchi neri sotto gli occhi e la perpetua inappetenza della ragazza l’allarmavano non poco.
“Archiebald ha telefonato anche questa mattina, sai bene che una volta rientrato da Chicago si precipiterà qui.”
“Non voglio vederlo.” sussultò Annie.
“Vuoi dirmi cosa è successo a casa degli Andrew?”
“Nulla.”
La signora Brighton sospirò non senza enfasi “molto bene, allora andrò io a parlare con la signora Andrew per chiederle il motivo per il quale mia figlia è tornata a casa sconvolta dopo l’ultima visita.”
Annie non riuscì a trattenersi, scoppiò in lacrime e forse per la prima volta da quando era stata adottata si buttò tra le braccia della donna che l’aveva accolta nella sua famiglia.
“Ha detto che non sono all’altezza. Non permetterà che suo nipote sposi un’orfana, ha detto che se amo realmente Archie lo devo lasciare andare.”
“Tu sei una Brighton! Come si è permessa quella vecchia strega di dirti che non sei alla sua altezza?!” la signora Brighton, solitamente mite e remissiva, strinse più forte a sé la figlia, “sicuramente c’è stato un malinteso, parlerò io con Elroy Andrew.”
Annie scosse il capo “no, non voglio che tu venga messa in imbarazzo a causa mia.”
La donna le asciugò le lacrime “Annie tu non potrai mai mettermi in imbarazzo, sei la cosa migliore che sia mai capitata alla mia vita, credi davvero che lascerò correre questa faccenda?”
“Ti prego, non voglio che tu e papà abbiate a soffrirne a causa mia.”
“Vedere te soffrire mi provoca dolore Annie, non certo la cattiveria di quella donna. E poi hai intenzione di rinunciare ad Archibald così facilmente?”
“Verrà diseredato se si fidanzerà con me.”
“William Andrew non lo permetterà mai, è lui ora il capo della famiglia Andrew e non Elroy.”
Le sorrise per incoraggiarla, “ora sciacquati il viso e scendi a prendere il tè, farò preparare un’ottima merenda, vedrai che ti farà stare meglio. Penseremo al da farsi, va bene?” si sporse baciandola sulla fronte ma il modo veloce con cui lasciò la stanza mise ulteriore timore addosso ad Annie.
La signora Brighton infatti non era tranquilla, voleva bene ad Annie ma conosceva bene il peso della famiglia Andrew, era consapevole che se Elroy avesse voluto rovinarli ci sarebbe riuscita. Scese le scale ordinando alla cameriera di preparare la merenda
“Miss Brighton avete visite” le comunicò la cameriera “ho fatto accomodare la vostra ospite nel salone.”
“La mia ospite?”
Fu certo una sorpresa per lei trovarsi di fronte la figlia dei Legan.
“Signorina Legan…”
“Buongiorno Miss Brighton, come state? Scusate se sono venuta a trovarvi senza preavviso.”
“Non mi è di alcun disturbo. Gradite del tè?”
“Oh non mi tratterrò a lungo. Sono a chiedervi come sta la povera Annie, era così pallida l’altro giorno quando ha lasciato la casa della zia Elroy.”
 La signora Brighton s’irrigidì “ha avuto un calo di pressione ma ora sta molto meglio.”

“Davvero? Mi piacerebbe vederla.”
“Sta riposando in questo momento, ma le riferirò che vi siete angustiata per la sua salute.”
Iriza accennò un sorriso beffardo guardandosi poi intorno, “è la prima volta che vedo la vostra casa, è davvero graziosa. Talvolta anch’io vorrei vivere in tale semplicità, diventa faticoso dopo un po’ andare avanti e indietro per ville troppo ampie. Sapete la mia famiglia ha deciso di ingrandire Villa Legan, pensiamo di acquistare la vicina tenuta dei Cunninghan, mamma è fissata con quella casa. Vorrebbe darle un tono più europeo, ha fatto arrivare da Parigi un sacco di mobili d’antiquariato. E’ sempre così precipitosa.”

“In Francia c’è la guerra…” riuscì a dire la signora Brighton faticando a nascondere un certo nervosismo.
“Oh lo sappiamo bene, ma pare che il mercato di lusso non ne abbia ancora risentito. Certo ci spiace per le condizioni in cui versano gli europei, anche mio fratello è stato qualche tempo laggiù.”
La signora Brighton si accomodò davanti la ragazza “si, ho saputo che non ha avuto cuore di rimanere.”
Iriza parve stizzirsi “non è una guerra che ci appartiene, è abbastanza sciocco andare a combattere per qualcosa che non ci riguarda. Ma bando ai pensieri tristi, tutto sommato una tazza di tè l’accetterei volentieri.”
“Certamente” la signora Brighton suonò un campanellino d’argento e pochi istanti dopo comparve la cameriera.
“Madame.”
“Lisbeth manca molto per il tè?”
“Credevo voleste aspettare la signorina Annie…”
“Annie sta riposando, anzi va di sopra e assicurati che non le occorra nulla e che non si affatichi. In caso fosse sveglia portale i saluti della signorina Legan.”
La cameriera parve perplessa, fece un breve inchino e si dileguò.
“Come sta vostra zia?”
“Soffre molto la partenza del nipote. William è partito per l’Europa per una questione molto discutibile” assunse un’aria teatralmente preoccupata “immagino che Annie vi abbia riferito che Candy è andata in Francia senza il permesso della famiglia Andrew. William si è messo in viaggio per andare a riprenderla e a questo punto potrebbe addirittura rischiare la vita per quella sconsiderata. Cerco di stare vicina a zia Elroy, è certamente preoccupata per il futuro della famiglia.”
In quell’istante la cameriera servì il tè, lo pose sul tavolo al centro delle due poltrone sfoggiando un servizio d’argento che aveva lucidato quella stessa mattina. Per qualche motivo Iriza ne parve divertita.
“Anche alla St.Paul’s avevano dei servizi simili” esclamò “ che ricordi nostalgici.”
“Gradite del latte signorina Legan?”
“Grazie.”
La signora Brighton versò il latte e una piccola goccia mancò la tazza andandone a sporcare il bordo. La donna parve rammaricarsene ma Iriza la rassicurò.
“Avete più avuto notizie di Archiebald?”
“Ha chiamato questa mattina per sincerarsi dello stato di salute di Annie.”
Irizia annuì con il capo “è sempre tanto caro Archie. Ricordo che quando ero bambina presi un terribile raffreddore e lui venne a casa nostra a trovarmi ogni giorno, mi portava sempre un fiore. Pensi che mi chiese addirittura di sposarlo. Eravamo bambini certo ma lui sembrava ugualmente così determinato.” Iriza rise. Rigirò il cucchiaino nella tazzina facendolo poi tintinnare sul piattino “la mia famiglia e quella degli Andrew sono legate indissolubilmente, abbiamo un forte senso di preservazione di un simile legame, comprendete?”
“Credo di aver inteso cosa vogliate dirmi signorina Legan.”
“Sul serio?”
La signora Brighton annuì “tuttavia è innegabile che Archiebald ami mia figlia e trovo piuttosto ingenuo credere che desisterà da tale sentimento.”
“Sono d’accordo. La cara Annie l’ha ammagliato. Dopotutto pare essere una prerogativa delle ragazze di Pony essere…come dire…più audaci rispetto a noi.”
“A noi?” le dita della signora Brighton si strinsero forte sulla tazzina.
“L’educazione è completamente differente dopotutto.”
“Siete venuta qui per denigrare mia figlia signorina Legan?”
Iriza assunse un’espressione sorpresa “certo che no Miss Brighton. Annie è deliziosa, ma sapete la gente parla molto e sarebbe certo un peccato se si venissero a sapere alcune cose.”
“Vorrei faceste estrema attenzione al modo in cui intendete proseguire signorina Legan.”
Iriza pose la tazzina, congiunse le mani in grembo, sembrava una finta penitente. “Ma Miss Brighton io vi sono amica, avete partecipato innumerevoli volte agli eventi organizzati dalla mia famiglia. Voglio solo portarvi buoni consigli, anche per me sarebbe tremendo se Annie od Archie soffrissero delle male lingue. Già mi immagino cosa accadrebbe se si sapesse che Annie è adottata, la sua posizione sociale ne risentirebbe terribilmente, per non parlare poi di voi e di vostro marito. Cielo non oso nemmeno immaginarlo.”
La signora Legan si alzò in piedi di scatto “perdonate signorina Legan ma credo sia giunto il tempo che vi avviate.”
“Non intendevo agitarvi” Iriza sorrise alzandosi a sua volta “voi siete una donna intelligente Miss Brighton, e sono più che certa che il nostro colloquio di oggi vi porterà a saggi consigli.” Indossò i guanti ed un cappello dalle piume color malva “salutate tanto Annie. Grazie per la merenda.”
Appena fu uscita la signora Brighton trattenne a stento l’impulso di lanciare qualcosa addosso alla porta; non poteva negare che quella visita l’aveva profondamente turbata, avrebbe dovuto parlarne con il marito?
“Mamma?”
Annie stava ferma sulla scalinata, aveva indossato un vestito pulito ma nonostante avesse bagnato il viso più volte con acqua calda risultava ancora terribilmente pallida e sciupata.
“Annie, perché sei scesa?”
“Me l’avevi detto tu…”
“Sì ma…” la signora Brighton si guardò intorno come smarrita “Lisbeth è salita da te? Le avevo fatto intendere di avvertirti.”
“Avvertirmi?”

La donna raggiunse la figlia sulle scale e l’abbracciò “scusami tesoro. Irizia Legan se n’è appena andata.”
“Iriza è venuta qui? Perché?”
“Voleva solo sapere come stavi.”
Annie si allontanò, d’improvviso la sensazione attanagliante che aveva provato a casa degli Andrew si ripresentò lasciandola senza respiro.

“Annie? Annie tesoro non sconvolgerti. Ecco vieni con me,” la condusse per mano fino al salotto dove la fece distendere sul sofà “vuoi dell’acqua?”
“Perché era qui? Iriza Legan non visita la gente senza un secondo fine, cosa ti ha detto?”
La signora Brighton sforzò un sorriso rassicurante “te l’ho detto tesoro, voleva sapere solamente come stavi. Ora cerchiamo di allontanare i cattivi pensieri, devi sforzarti di mangiare qualcosa non vorrai che Archibald ti veda in questo stato.”
Annie tese le spalle “Archie non verrà qui.”
“Certo che verrà” pose alla figlia una tazza di tè “sono certa che si aggiusterà tutto mia cara.” Ma Annie continuava a pensare all’insolita visita di Iriza e nonostante sua madre facesse del suo meglio per dissimulare, sapeva che la figlia dei Legan aveva profondamente turbato anche lei.
 
Southampton 

La Queen Elisabeth attraccò nel porto di Southampton alle sei del mattino. Il cielo cupo dell’Inghilterra accolse Albert rovesciando di tanto in tanto brevi momenti di pioggia. Aveva un paio d’ore prima che il piroscafo partisse per Calais, ma non gli fu difficile notare che sul molo non vi era una sola imbarcazione che desse parvenza di dirigersi in Francia. Raggiunse la capitaneria, un marinaio dal cappello calato sulla fronte masticava tabacco e sfogliava un giornale dalle pagine ingiallite.
“Mi perdoni…”
Il marinaio alzò svogliatamente lo sguardo “dica”
“Da quale molo partirà la Je réviens?”
Le labbra del vecchio si piegarono in un sorrisetto ironico “voi americani credete che qui si facciano ancora crociere di piacere?! Beh le do una notizia: c’è la guerra e tutti gli attraversamenti della Manica, salvo quelli militari, sono bloccati fino a nuovo ordine.”
“Vuol dire che non c’è modo di raggiungere la Francia!?”
“Precisamente, a meno che lei non sia un militare, ma” gli diede una squadrata “a guardarla direi proprio di no.”
“Dannazione!” Albert picchiò un pugno sul tavolo di legno di fronte al marinaio. Come avrebbe fatto ora a raggiungerla e a portarla in salvo.
Il vecchio parve rabbonirsi “senti ragazzo mi dispiace ma al momento la situazione è critica, Londra è stata bombardata dagli Zeppelin due giorni fa, sul continente ci sono fronti aperti ovunque e le cose non stanno andando per niente bene. Non so perché sei venuto qui ma se vuoi un consiglio risali sul primo transatlantico e tornatene in America.”
Albert cercò di controllare l’angoscia “non conoscete nessuno che…”
“Solo un pazzo, per quanti soldi tu voglia sganciare, ti farebbe attraversare il canale. Mai sentito parlare del Lusitania?! Ci sono sommergibili tedeschi in agguato, onestamente non so con quale coraggio facciano ancora attraccare la Queen Elisabeth qui.”
“Senta è di vitale importanza che io riesca a raggiungere la Francia.”
Il marinaio sospirò “voi giovani non avete ancora capito che inferno è caduto su questa terra. Ad ogni modo il solo modo che avresti è quello di proporti come volontario della Red Cross. Le navi ospedale sono le uniche che possono sperare di attraversare la Manica incolumi.” Abbandonò il giornale strappandone un angolo, lo piegò e vi scrisse un nome.
“Raggiungi la cittadina di Hythe e recati al loro centro volontari, chiedi di questo tizio” gli pose il pezzo di carta “se sei fortunato asseconderà la tua pazzia e ti ritroverai sulla prossima nave soccorsi in partenza.”
“Quando è prevista?”
“Tra un paio di giorni.”
Albert sembrò ritrovare fiducia “la ringrazio davvero signore.”
Il marinaio rise amaramente “mi ringrazi perché ti ho dato un consiglio su come andare a farti massacrare?! Contento tu.”
 
Etaplés

Non si era mai avvicinata così tanto alle trincee, l’improvviso silenzio era surreale. Candy si calò lentamente in uno di quei buchi, la pioggia dei giorni precedenti aveva reso il terreno fangoso e scivoloso, gli uomini stavano addossati a quelle pareti di fango con in mano i loro moschetti. Alcuni avevano gli sguardi vuoti, altri persi nell’orrore che vivevano quotidianamente. Erano sguardi che Candy aveva imparato a riconoscere ma ai quali ancora non riusciva ad abituarsi. Il vigore e la vita avevano abbandonato quei giovani, non sarebbero mai più tornati ad essere quelli che erano prima della guerra. Sarebbe accaduto anche a lei?  Cacciò le lacrime di rabbia muovendosi nel fango, abbassando di tanto in tano la testa nei punti più scoperti.
“Cosa fai qui ragazza?” le chiese un sottotenente “i feriti sono stati tutti portati al lato ovest, non ti conviene star qui.”
“La prego mi indichi dove, vengo dalle grotte ed ho assoluta urgenza di trovare un chirurgo.”
L’uomo le lanciò uno sguardo compassionevole “il personale medico è laggiù. Cammini vicino al muro e per nessun motivo si inventi di uscire dalla trincea, la impallinerebbero in un secondo.”
Candy annuì e ringraziò. Percorse le trincee verso ovest, l’aria era fetida, riusciva a percepire odore di sangue e cancrena mischiarsi alla polvere da sparo. Sapeva che poco oltre il muro c’erano i campi di filo spinato. Flanny le aveva detto che molti uomini morivano sopra quei fili e da qualche tempo le parti contrapposte non consentivano il recupero dei cadaveri. Era stata la prima volta che aveva sentito la voce di Flanny spezzarsi ed i suoi occhi trattenere a stento lacrime di disperazione. La visione di quelle lacrime, lacrime sul volto della ragazza che lei reputava così forte, il suo punto di riferimento, l’avevano destabilizzata tanto quanto il pensiero di tutti quei giovani sacrificati a quella tremenda guerra. Per un attimo si lasciò cadere con le ginocchia a terra, le sembrava di soffocare, come se una mano le stesse schiacciando il petto impendendole di respirare. No, non sarebbe mai più potuta essere quella di prima, la guerra era un veleno che entra sotto pelle, divora lentamente, e, come aveva detto Jonathan, certe immagini non si sarebbero mai più cancellate dalla sua mente. Si aggrappò al pensiero della Casa di Pony, alla consolazione che chi amava fosse lontano da quella guerra e per un attimo si chiese se lasciare l’America fosse stata la scelta giusta. Provava nostalgia per Annie, la immaginava in un bellissimo abito a danzare felice con il suo Archie. Pensava a Patty e alla sua nuova casa di Atlanta, casa che l’amica le aveva descritto con amore, con i balconi in ferro battuto traboccanti di bei fiori. Pensava ad Albert, alle sue braccia forti ed al suo sorriso, quando avrebbe avuto bisogno di lui in quel momento.
“Forza Candy.” Si disse da sola rialzandosi in piedi, doveva trovare un medico per Terence ad ogni costo. Corse raso muro, quel fosso fangoso pareva infinito, il silenzio tombale ed il freddo le facevano rabbrividire la pelle sotto la giacca. Camminò ancora finché scorse la bandiera della red cross ed alcune infermiere attorno a brande improvvisare occupate dai feriti. Corse nella loro direzione.
“Oh grazie al cielo ci hanno mandato aiuto, svelta c’è un sacco da fare.”
“Ma io…”
Una delle infermiere le mise in mano delle bende “puoi iniziare da laggiù.”
Candy cercò di riaversi “perdonatemi ma non posso fermarmi, vengo dalle grotte ed un uomo sta molto male ho assoluto bisogno che lo veda un chirurgo.”
L’infermiera la fissò sbalordita “ma ti sei guardata attorno? E’ impensabile che qualche medico lasci il campo, ci sono un sacco di feriti, siamo costretti ad amputare gambe o braccia ormai senza cloroformio perché sta finendo e non arrivano i rifornimenti.”
“Lo capisco, resterò ad aiutarvi ma vi prego mandate un medico alle grotte di Etaples.”
“Che razza d’infermiera sei! Chiudi la bocca e datti da fare.”
A Candy sfuggì un medico angosciato, c’erano molti giovani su quelle brande, alcuni avevano ferite gravi, come poteva chiedere di abbandonarli. E Terence? Non sarebbe sopravvissuto un altro giorno con quella ferita infetta, aveva visto troppi giovani finire in setticemia e morire in grande sofferenza.
“Vi prego…vi prego…” si sentiva esausta, di nuovo quel tremendo peso la costrinse a terra, la disperazione dalla quale era sempre riuscita a salvarsi ora non le dava via d’uscita.
“Candy…”
Una mano le si tese davanti al viso per aiutarla ad alzarsi “Candy sei tu?”
La ragazza trovò la forza di alzare lo sguardo, un volto diafano dai corti capelli la guardava con preoccupazione, le ci volle qualche istante per riconoscerlo, per riconoscere quegli scuri occhi buoni.
“Michael.”* Riconobbe il giovane soldato francese che aveva conosciuto ad un ricevimento in quella che sembrava ormai un’altra vita.
“Cosa fai qui Candy?”
“So…sono un’infermiera…” strinse i pugni del fango “una persona sta morendo Michael, una persona a cui tengo ed io mi sento impotente. Lo so è egoista dire questo proprio qui, la sua vita non vale di più di quella di tutti questi giovani…io me ne rendo conto ma…”
L’aiutò ad alzarsi “sei alle grotte?”
Candy annuì.
“Che cosa ti occorre?”
“Ha una ferita che sembrava rimarginata ma…sta facendo infezione, ha un colore terribile e se andr° in setticemia morirà di certo. Ha bisogno di un’operazione.”
Michael annuì, era un ufficiale medico “penso di poterti aiutare. Ho operato diversi uomini da quando sono qui.”
Candy ebbe la sensazione di tornare a respirare, a stento trattenne l’impulso di gettargli le braccia al collo.
“Non posso lasciare il campo adesso però, verrò alle grotte quando calerà la luce. Ascolta quel che devi fare: torna alle grotte e assicurati che la ferita venga costantemente pulita, dagli della penicillina e controlla che la temperatura non salga. Io cercherò di fare prima che posso.”
“Grazie! Grazie Michael!” stavolta Candy non si trattenne e l’abbracciò “è il cielo che ha fatto sì che ti contrassi, Dio ti benedica.”
“Ora vai e fa attenzione.”
La ragazza annuì con una flebile piccola speranza nel cuore.
 
 
 
 
 
 
*Per chi non lo ricordasse Michael compare nell’episodio 77 intitolato appunto “Michael”. E’ un giovane medico militare che libererà Candy dalla torre in cui Neal l’aveva chiusa durante un ricevimento a casa Legan.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 Insolita complicità ***


“E’ stata offerta una cifra considerevole per i terreni in Nuova Scozia, signore. Il presidente della Price Co. vorrebbe ampliare i suoi allevamenti e pare disposto ad accettare qualunque vostra richiesta pur di acquistarli. Sarebbe una possibilità allettante per la nostra Società, considerando inoltre che quelle terre non fruttano più nulla agli Andrew, sono una semplice questione affettiva per vostra zia.” George si interruppe notando che il giovane Cornwell non sembrava prestargli attenzione, “Signorino Cornwell?”
Archie distolse lo sguardo dalle grandi vetrate dell’ufficio, aveva passato tutta la mattinata nel tentativo di poter parlare con Annie ma la ragazza si negava ogni volta con quelle che, ormai era evidente, non erano che scuse.
“Scusatemi George che stavate dicendo?”
“Parlavo dei terreni in Nuova Scozia. Qualcosa vi preoccupa signore?”
Archie non riuscì a dissimulare “non riesco a concentrarmi oggi, se questa faccenda della Nuova Scozia non è urgente vorrei prendere l’ultimo treno e tornare a Lakewood.”
“Capisco signore, ma stasera c’è la cena di beneficenza per la raccolta fondi in aiuto delle truppe alleate. Ora che William non è qui siete voi a doverne fare le veci.”
Archie sospirò amaramente “è la terza cena alla quale partecipo George. Non potresti sostituirmi?”
“E’ davvero importante signor Cornwell. Acquisterò un biglietto per domani mattina, prometto che vi metterò sul primo treno per Lakewood.”
“E va bene George hai vinto. Notizie di William?”
“Un telegramma mi ha confermato che è giunto in Inghilterra.”
Archie annuì sommessamente.
“Ho ricevuto notizie anche da vostra zia, voleva sincerarsi che tutto qui procedesse bene.”
“Immagino, teme per gli averi di famiglia sapendo che sono io a doverli gestire.”
“In realtà si è detta molto soddisfatta del vostro operato.”
Archie ne fu sorpreso ma tentò di non darlo a vedere “a che ora è la cena?”
“Tra esattamente un’ora signore. Ho già fatto portare il vostro abito nella stanza ed una macchina vi preleverà dall’albergo alle 18.00 esatte.”
“Sei tremendo George, ora capisco perché William confida così tanto in te.”
“Lo prenderò per un complimento signore.”
“Lo è.”
 
Alle 18.00 spaccate la macchina era ferma di fronte all’albergo. Archie scese svogliatamente, mentre si avvicinava alla vettura notò una sagoma femminile oltre il vetro del finestrino, accelerò il passo con una certa aspettativa. Annie. Doveva trattarsi certamente di Annie.
“Annie sei tu!” esclamò con illusoria certezza mentre apriva la portiera dell’auto.
“Buonasera Archie.”
“Iriza? Che fai qui?”
“Anch’io sono molto contenta di vederti.”
Archie arretrò evidentemente alterato “ti ho chiesto cosa fai qui?”
“La cena è organizzata dagli Andrew e dai Legan, pertanto non ho potuto esimermi dal partecipare. E’ stato un viaggio piuttosto estenuante perciò non fare l’imbronciato e sali in macchina, prima andiamo prima potremo rientrare.”
Archie fu titubante ma sapeva che la sua mancata partecipazione avrebbe gettato certo un’ombra negativa sull’immagine degli Andrew e dato adito a pettegolezzi. Salì mal volentieri sistemandosi ben distanziato da Iriza.
“Zia Elroi dice che te la stai cavando molto bene qui a Chicago.”
“Mh.”
“Non è stato facile tirarla su di morale in questi ultimi giorni, la partenza di William la preoccupa molto. Tuttavia mi auguro possa ritrovare Candy ed entrambi rientrino sani e salvi.”
“Iriza non serve che ti sforzi di essere credibile.”
La ragazza lo guardò seriamente, uno sguardo che Archiebald non le aveva mai visto.
“Per quanto io e Candy abbiamo avuto a che dire in passato e, non posso negarlo, non mi sia piaciuta, non sono certo così meschina da sperare che rimanga in quell’inferno terribile. E’ davvero disgustoso che tu possa ritenermi tanto cattiva.”
“I tuoi precedenti non aiutano certo a pensarla in modo differente.”
“Oh Archie.” Iriza scoppiò in lacrime “so di essermi comportata male in passato, ma ero gelosa, Candy riceveva tutte le vostre attenzioni ed io mi sentivo così esclusa che…” si passò un fazzoletto sugli occhi “riconosco di aver sbagliato ma le persone possono cambiare, non trovi?”
Di certo Archibald fu sconcertato da quel tipo di reazione, stava recitando o era seria?
“Hai avuto molte occasioni per poter cambiare Iriza, e le hai gettate sempre tutte al vento.”
Iriza si premette le mani all’altezza del cuore “te l’ho detto, ero molto immatura, potessi tornare indietro rimedierei ad ogni cosa, ma purtroppo l’orologio non porta indietro le lancette, di conseguenza tutto quel che posso fare è essere migliore da qui in avanti.”
Archie le lanciò un’occhiata molto scettica prima di rivolgere lo sguardo oltre il finestrino “hai notizie di Annie?”
Iriza si finse sorpresa “vuoi dire che in tutti questi giorni non vi siete mai sentiti?”
“Lascia perdere.”
“Zia Elroi l’ha invitata per il tè la scorsa domenica. Ha detto che Annie si comportava in modo strano…”
Archie tornò a darle attenzione “in modo strano?”
“Sì, era distaccata, zia Elroi deve aver accennato qualcosa riguardo al vostro fidanzamento e…”
“E?”
Iriza si rannicchiò nelle spalle “Archie non credo di dover essere io a dire certe cose, probabilmente Annie era solo stanca.”
“Smettila di girarci intorno Iriza.”
“Pare che Annie, insomma, non si sia dimostrata molto entusiasta al pensiero di un vostro fidanzamento ufficiale. Sono stata a trovarla in seguito ma non ha voluto vedermi e, se devo dirla tutta, anche la signora Brighton pare nascondere qualcosa. Ovviamente ci sono molto stupidi pettegolezzi in giro, ma nulla che tu ed Annie non possiate risolvere parlando a tu per tu.”
“Non posso credere che…” Archie faticava a trattenere l’evidente nervosismo “perché mai Annie non dovrebbe approvare un nostro fidanzamento!?”
“Non ne ho proprio idea.” Iriza si sbilanciò verso di lui poggiando delicatamente la mano sul suo braccio “non darti pensiero Archie, sono certa ci sia una valida spiegazione. Annie è una brava ragazza, non devi preoccuparti.”
Il ragazzo parve in qualche modo rasserenarsi. “Forse è stata zia Elroi a dirle qualcosa di spiacevole, la cosa non mi stupirebbe.”
“Non essere così severo con la zia, lei vuole solo felicità per i suoi nipoti. Ha già perso Anthony e Steal, e il cielo non voglia che accada qualcosa anche a William. Pensi davvero potrebbe impedirti di sposare la ragazza che ami!?”
Il ragazzo non rispose. La macchina si fermò in prossimità di un elegante palazzo. Archie aiutò Iriza a scendere e lei gli sorrise ringraziandolo.
All’interno vari membri di spicco dell’alta società si perdevano in convenevoli e reciproci interessi d’affari, Archie stava imparando a conoscere quel mondo sempre più da vicino ed ogni qualvolta se ne sentiva sempre più destabilizzato.
“A questa gente non importa nulla della guerra in Europa.” Disse tra i denti ricambiando poco dopo il saluto del rampollo di una qualche famiglia della quale non rammentava il nome,
“Certo che no, sono qui a sfilare come in una vetrina, in modo che il mondo possa dir loro quanto siano generosi ad appoggiare economicamente i fronti aperti in Europa. Come se non ne ricavassero ulteriormente in immagine e potere. E proprio per questo non dobbiamo farci scrupoli a far sganciar loro più soldi possibili. Persone valorose come Candy, William e tutti i giovani che combattono hanno bisogno di quanto più appoggio possibile e noi daremo a questi tromboni quello che si aspettano.”
Archie rimase sbalordito, quelle parole erano veramente uscite dalla bocca di Iriza?
“Archiebald caro dammi una mano, ho una certa idea.”
La ragazza si portò al centro della sala. Il vestito color curcuma la faceva sfavillare, si muoveva con sicurezza, i lunghi capelli rossi le ricadevano ondulati sulle spalle, non raccolti come si addiceva alle ragazze della sua età. La pelle ambrata del viso le metteva in risalto quel particolare colore degli occhi dalle sfumature viola, di tanto in tanto le iridi, colpite dalla luce dei grandi lampadari, parevano riempirsi di pagliuzze magenta. Archiebald si ritrovò quasi a disagio nell’osservarla, eppure sembrava non poterne fare a meno, qualcosa in Iriza quella sera era straordinariamente bello.
“Signore e Signori, prestatemi attenzione prego,” disse ad alta voce attirando l’attenzione dei presenti “come membro della famiglia Legan sono lieta di vedervi tutti qui riuniti a supportare una così importante causa. I nostri pensieri e le nostre preghiere vanno ai nostri fratelli europei e naturalmente ai molti connazionali che volontariamente sono partiti per prestare il loro aiuto.”
Un applauso si levò nella sala.
“Vi ringrazio. Ma stemperiamo ora i tristi pensieri con un divertente gioco. Voglio presentarvi, anche se non credo ce ne sarà bisogno, uno degli eredi di due delle più importanti famiglie della nostra comunità: Mr Archiebald Cornwell, che è qui per fare le veci di William Andrew.”
L’applauso proseguì e Iriza tese una mano in direzione di Archie per invitarlo a raggiungerla.
“Mi rivolgo alle signore presenti, il primo ballo di questa sera di Mr. Cornweel è messo all’asta ed io immagino che molte delle graziose ospiti presenti non vorranno farsi scappare tale occasione.”
“Iriza ma che fai?” borbottò Archie contrariato.
“Metto in atto il nostro piano. Sorridi e prestati alla causa.”
Diverse mani si alzarono e diverse furono le offerte, finché ne giunse una da 500 dollari da una ricca baronessa piuttosto in là con gli anni.
“500 e uno…500 e due…benissimo baronessa La Croix vi siete aggiudicata l’apertura delle danze con Mr Cornweel.”
La vecchia signora ne parve molto felice, e il primo valzer fu per Archie una tremenda esperienza, dissimulare il continuo pestare di piedi fu cosa ardua. Alla fine però si ritrovò divertito dalla gioia che la vecchia baronessa esprimeva.
“Siete stato davvero galante Mr. Cornewell. Aggiungerò altri 100 dollari, sono lieta che voi e la signorina Legan promuoviate il sostegno di quei poveri ragazzi nel vecchio continente.”
“Grazie baronessa, ma il merito va di certo anche a voi e alla vostra generosa donazione.”
La donna arrossì “oh vostra zia Elroi deve essere davvero orgogliosa di voi.”
Archie fu grato di quel complimento e di quella conferma. Raggiunse Iriza seduta su di una poltroncina di velluto, le offrì un bicchiere di ponche.
“Divertito?”
“Avresti dovuto palesare prima quali erano le tue intenzioni.”
“Se lo avessi fatto ti saresti rifiutato. Hai tuttavia un’espressione soddisfatta, deduco quindi che la mia idea non ti sia poi dispiaciuta. Grazie a te si è rotto il ghiaccio, molti ballano e civettano e, man mano che scorre l’alcol, le donazioni aumentano.”
“Sei sempre una fine stratega.” Archie le sedette accanto.
“Purtroppo non sarei in grado di fare l’infermiera, ed ammetto di essere impacciata nell’offrire aiuto di manovalanza, ma so una cosa: i soldi sono necessari alle buone cause, e questa lo è. Nel mio piccolo questo è il mio contributo.”
Archie osservò nuovamente gli invitati “questo è il tuo ambiente.” E di contro Iriza ridacchiò “come se non fosse anche il tuo, li disprezzi ma ti muovi agevolmente tra di loro e sei lusingato quando ti lodano. L’ho notato sai.”
“E che altro hai notato?”
“Beh che attiri molti sguardi e che…” si fermò per dare solennità al seguito “sei degno di portare avanti il nome dei Cornwell e degli Andrew. William sarà di certo fiero di te.”
“Tutto questo per aver ballato con una vecchia baronessa.” Scherzò Archie effettivamente a suo agio.
“Sai bene quel che intendo. Spero troverai qualcuno che ti supporti in questa importante missione.”
“E se io non volessi portare avanti il nome altisonante delle nostre famiglie!?”
Iriza lo guardò diretta “non lo vuoi?”
Archie se ne sentì spiazzato. Ed il fatto che quegli occhi lo fissassero tanto intensamente lo confuse non poco.
“Non è importante.” Affermò distogliendo lo sguardo, ma Iriza parve incalzarlo trattenendogli un braccio.
“Io credo lo sia, non è una domanda difficile, lo vuoi oppure no?”
“Perché ti interessa saperlo?”
“Perché amo le nostre famiglie, sono la nostra origine, le nostre radici e ci tengo. Soltanto chi ha un passato così importante come il nostro può capire, Archie. E so che la cosa non ti è indifferente. Per tanti “Andrew” è solo un nome, ma per noi rappresenta ciò che siamo.” Allentò la pressione sul braccio “scusami mi sono fatta trasportare, non volevo importunarti.”
“Con tanti cosa intendi?”
Iriza parve rammaricata “non farmi dire ciò che hai ben capito. Ed ora scusami ho bisogno d’aria fresca.”
Si allontanò sorridendo ai presenti ed avvertendo chiaramente gli occhi di Archiebald seguirla fin quando non giunse sul balcone che dava sul parco interno del palazzo. Fu raggiunta a breve di Rose Curtlin, una giovane ereditiera con la quale aveva condiviso lezioni di equitazione.
“Hai un’aria piuttosto soddisfatta” le disse affiancandola, il sorriso furbo di Iriza non si fece attendere.
“Non so a cosa tu ti riferisca.”
Rose rise “ Cornwell ti ha seguito con lo sguardo tutta sera, e conoscendoti credo tu abbia teso una bella rete per catturare un ingenuo pesciolino d’oro.”
“Come sei maliziosa Rose, come potrei?”
“Nessuno crede che Archiebald sposerà la figlia dei Brighton, solo qualche naive potrebbe davvero pensare che tua zia approverebbe.”
“E dunque?”
“Oh devi dirmelo tu qual è il dunque.”
Iriza alzò le spalle con finta innocenza “ con tutto il rispetto Rose ma credo che questi non siano affari tuoi. Tuttavia voglio darti un buono spunto di riflessione.
“Sono tutta orecchi.”
Iriza lasciò vagare lo sguardo per la vastità del parco, fontane di bianco marmo spruzzavano acqua, la musica inebriava l’aria e iriza ebbe la certezza che la sua rete avrebbe intrappolato ben bene la preda.
“Gli uomini non sono astuti come le donne, manipolarli è facile se si ha una certa arte nel saperlo faro. Non so se intendi…”
“Perfettamente.”
Il sorriso fu più eloquente di qualsiasi altra cosa si potesse aggiungere.
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 Il viaggio ***


Giunta in prossimità delle grotte le gambe le cedettero, il fango le ricopriva il cappotto, ogni qualvolta tentava di rialzarsi puntualmente le ginocchia tornavano a terra.
“Non adesso!” lo disse con rabbia non accettando che il fisico la tradisse proprio in quel momento, doveva avanzare solo di pochi metri, solo pochi metri…
Con un enorme sforzo riuscì a rimettersi in equilibrio, poggiò la mano sulla parete umida della grotta e vi si addentrò concentrandosi sui propri passi, un piede davanti all’altro.
Distinse la figura di Flanny, riuscì ad arrivarle accanto tentando di dissimulare la totale mancanza di forze, ma bastò vedere il viso pallido di Terence, le labbra piegate in una smorfia di dolore, affinché la paura le ridesse adrenalina.
“Come sta?”
Flanny sussultò “Candy sei qui. La febbre è aumentata, non hai trovato un chirurgo?”
“Arriverà a breve, dobbiamo continuare a disinfettare la ferita.”
“Ascolta Candy c’è stato un nuovo attacco a meno di dieci chilometri da qui, si parla già di un numero elevato di feriti, a breve ci daranno sicuramente l’ordine di recarci sul posto.”
“Non posso andarmene…”
“Lo so, ti rimpiazzerò con Anne. Non è una professionista ma è qui da sufficiente tempo per sapere il fatto suo. Capsici però che rimarrai qui sola insieme alle volontarie, e questo significa che dovrai occuparti di tutti.”
Candy annuì.
“Adesso riposati” Flanny l’aiutò a liberarsi del cappotto inzuppato di fango.
“Non posso riposare.”
“Devi.”
“Flanny…”
“E’ un ordine! Che razza di aiuto potrai dare se collasserai su questo ragazzo?! Mancherai ai tuoi doveri ed io non posso permetterlo. Usa la brandina di Anne e distenditi ti chiamerò quando il medico sarà qui.”
Candy tentò di protestare ancora ma sapeva che Flanny aveva ragione, la forza di volontà stavolta non l’avrebbe sostenuta senza il riposo del corpo. Traballò fino al piccolo antro dove era posta la brandina sfatta di Anne, vi si adagiò sopra pregando per un oblio che la tramortisse, le impedisse di pensare, sussurrò il nome di Albert e la disperata preghiera di averlo accanto in quel momento, poi finalmente la stanchezza la fece crollare in un sonno privo di sogni.
 
 
“Avete prestato servizio in Italia?”
“Si signore nella zona del Carso, facevo parte della fanteria.”
“Siete rientrato in America a seguito di un incidente. Non ne avete avuto abbastanza? Voi yankee siete tutti uguali, arrivate pensando di fare gli eroi a stelle e strisce.”
“Voglio solo poter essere di aiuto, molte persone che conoscevo hanno perso la vita in questa guerra, e tante altre sono al fronte. Non potevo starmene a guardare.”
“Quindi siete disposto a partire per la Francia?”
“Si Signore.”
“Vi comunico che la situazione sul fronte francese non è delle più rosee, se gli italiani resistono stoicamente sul fronte orientale, per quanto riguarda l’ovest la situazione è critica. Tra un paio di giorni attraverseremo la manica a bordo dell’Olympic.”
Albert ne fu sorpreso, l’Olympic era il più grande transatlantico rimasto dopo l’affondamento del Titanic e del Britannic, una grande nave civile che non sarebbe passata di certo inosservata ai sottomarini tedeschi.
“Volete usare l’Olympic per trasportare le truppe?”
“Precisamente. Ufficialmente sarà adibita a nave ospedale, ma è intenzione della Royal Navy nascondervi un contingente da far sbarcare sulle coste normanne.”
“E’ pericoloso.”
“Certo, ma cosa non lo è? Come nave ospedale ci sono meno probabilità che i tedeschi decidano di spararci missili contro, in secondo luogo salperemo di notte, la nave è già stata sottoposta al camuffamento Dazzle. Potete sempre rinunciare.”
Albert scosse il capo “assolutamente no, voglio salpare.”
“Attraccheremo a Le Havre se Dio lo consentirà.”
“Perdonate capitano, quanto dista da Etaples?”
“Se la ferrovia fosse funzionante non meno di cinque ore.”
Albert comprese, era logico che i nemici avessero fatto saltare quanti più collegamenti possibili.
“Capisco.”
“Mio caro ragazzo non so cosa credete di trovare laggiù oltre alla morte. Avrete di certo i vostri buoni motivi per essere qui ma, santo cielo, questo spreco di gioventù in cambio di una croce piantata nel terreno è desolante oltre che crudele. Per quanto mi sforzi non comprendo per quale motivo abbiate voluto lasciare l’America e la sua calda sicurezza per tuffarvi in quest’orrore. Non è la vostra guerra.!
Albert sorrise tristemente “come buona parte degli americani io discendo dagli europei, mio nonno era irlandese e la famiglia di mia madre ha origine dalle brughiere di Bodmin. Questa guerra è di tutti, è una guerra di libertà, per quanto sia atroce dobbiamo pensare che vale la pena combattere per questo.”
Il capitano annuì, i suoi occhi lasciavano trasparire una scettica commozione, Albert sapeva cosa stava vedendo, l’ennesimo giovane immolato al filo spinato delle trincee.
“Molto bene non ho altro da aggiungere, se serate ancora convinto del vostro proposito ci vedremo al molo tra un paio di giorni al calare del tramonto.”
“Vi ringrazio signore.”
 
 Hythe 1917
 
Cara Candy, scrivo pensieri a caso su questo taccuino come a volermi illudere possano comparire per qualche via miracolosa su un mesto foglio di carta a te vicino. Partirò per Etaples tra un paio di giorni, la mia intenzione è quella di stringerti forte e riportarti, anche a forza se necessario, in America. So che all’inizio sarà difficile, so che i tranquilli paesaggi di Lakewood si macchieranno delle tremende immagini che hai visto in questi mesi, ci vorrà tempo ma sono certo che, con la tua forza, riuscirai a superare anche questo. Mi premurerò di scrivere a Miss Pony, so che trascorrere qualche tempo alla casa insieme a lei e i bambini ti rinvigorirà lo spirito ed apprezzare nuovamente la semplicità della vita. Se queste mie parole ti giungessero so che potresti reputarmi egoista, e forse lo sono, come in passato cerco di indirizzare la tua vita verso quello che credo sia il sentiero migliore. Avevo detto non sarebbe più accaduto, ma saperti in costante pericolo di morte non mi è più tollerabile, per questo ti porterò via Candy.
 
                                                                                                                                                                                                                                                          Tuo Albert
 
 
"Candy, Candy?”
“Mh?”
“Svegliati il dottore è qui.”
Candy sbatte le palpebre, fissa il viso di Flanny e realizza, ricorda…scende dalla piccola branca con una rapidità che quasi le gioca l’equilibrio. Segue l’amica verso un cunicolo e finalmente il viso stanco di Michael la accoglie con l’abbozzo di un sorriso rassicurante.
“Dobbiamo fare presto Candy, non posso trattenermi a lungo lo sai.”
La ragazza annuisce “ti aiuterò Michael, dimmi cosa devo fare.”
“Prima vediamo il ferito.”
Flanny li conduce al tavolo dove Terence è stato sistemato, il colorito verdognolo e lo sguardo vacuo non lasciano dubbi.
“La febbre è molto alta.” Sentenzia Flanny scoprendo il petto del ragazzo dalla blusa. Michael esamina quella cicatrice mezza luna, l’odore non lascia dubbi e bisogna intervenire in fretta.
“Devo riaprirla e sperare che la sepsi non si sia diffusa. Avete già predisposto gli strumenti?”
Flanny annuisce “si signore è tutto pronto,” e Candy la guarda con profonda gratitudine.
“Vieni Candy laviamo bene le mani ed iniziamo.”
                                                                                                                                   ***

New York estate 1917
Nel calamaio era rimasto poco inchiostro, molto denso. La carta era sottile e il pennino si impuntava, la stanza era insopportabilmente calda. Finì la lettera, chiuse la busta e scrisse con cura le lettere che componevano il nome di Terence. Susanna le guardava con ansia, avrebbe preferito aver il coraggio di parlare, di essere coraggiosa e serena. Aveva atteso tre settimane, in quel periodo era stata taciturna e metodica, come mai lo era stata in vita sua. Fece allargare le gonne di altri due centimetri all’insaputa di sua madre. Ogni mattina vomitava alla stessa ora, poi quando le nausee smisero e Susanna comprese che presto la gravidanza si sarebbe notata, scrisse al Dottor Solomons supplicandolo di farle visita.
 
“Non ne avete fatto parola alcuna?” domandò il medico dopo averla visitata. Susanna si limitò a scuotere il capo “io e Terence non siamo ancora sposati, temevo che mia madre avrebbe avuto una reazione terribile.”
“E Terence?”
Susanna si rannicchiò nelle spalle facendosi più piccola “ho provato tante volte a dirglielo ma non ci sono riuscita. E’ così cupo in questo ultimo periodo, pensa a quello che sta accadendo in Europa, a suo padre che non ha più dato notizie. Talvolta tempo voglia partire.”
“Se saprà della vostra condizione non partirà di certo.”
“Lo so ed infatti gli ho scritto una lettera, è più facile mettere su carta tutto quel che ho in testa e nel cuore.”
Il dottore la guardò comprensivo ma non poteva dissimulare la sua preoccupazione.
“Sapete cosa ne penso in proposito Susanna, vi avevo già avvertito in passato che una gravidanza per voi sarebbe stata pericolosa.”
“Lo so ma io sono davvero felice dottore. Talvolta salterei su questo letto se solo non fossi storpia.”
“Susanna…”
“E’ la verità, ma sapete non mi pesa più. Ogni notte sogno questo bambino, lo immagino con gli occhi di Terence, lo stesso intenso colore, magari con boccoli castani…oh sì vorrei proprio fosse uguale a lui.”
Il dottore Solomons le si avvicinò tendendole la mano “ dovete promettermi che vi riguarderete Susanna e farete tutto ciò che vi prescriverò.”
“Certamente dottore, non ho certo intenzione di morire. Ora ho uno scopo meraviglioso, combatterò con tutta me stessa.”
“Vi prego di dirlo quanto prima alla vostra famiglia, avrete bisogno di assistenza, sono certo che, nonostante tutto, vostra madre comprenderà.”
“Non mi importa che approvi o meno, voglio andar via da questa casa. Terence si sente soffocato ed anch’io, voglio una casa tutta nostra, magari in campagna, una bella casa coloniale che potrò arredare a mio gusto. E poi un sacco di spazio, tanto verde, voglio che mio figlio cresca sano all’aria aperta. Mio padre mi ha lasciato una piccola eredità, non molto ma sarà sufficiente per una casa lontano dalla città. Qui i costi sono proibitivi e non sopporto più il grigiore di New York.”
“Mi informerò per voi, ora però lasciate che scriva tutte le regole alle quali dovrete attenervi durante questa gravidanza, non scherzo Susanna è molto importante.”
Susanna sorrise “siete peggio di mia madre dottore, ma non temete sarò obbediente.”
 
 
 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 -Figlie della neve ***


Passeggiavano per i giardini di casa Brighton, di tanto in tanto Archibald si fermava, parlava del lavoro e di nuovi importanti affari. Annie annuiva silenziosamente, fuggiva lo sguardo, cercava di mantenere una parvenza di interesse ma ad ogni nuovo entusiasmo sui successi della famiglia Andrew sentiva il cuore stringerle in petto tanto da toglierle il fiato.
“Mi dispiace molto che tu non sia stata bene, dovevo presenziare ad una sciocca cena di beneficienza altrimenti sarei corso da te subito.”
“Le cene di beneficienza non sono mai sciocche.” commentò Annie senza volerlo, “anche mia madre ne organizza qualcuna, non ai vostri livelli certo, ma sapere di far del bene non può mai essere ritenuto una sciocchezza.”
“Certo,” Archie le si fece più vicino “ad ogni modo mi sei mancata molto, in questo periodo avrò più tempo a disposizione e tu potrai venire con me alle merende organizzate da zia Elroy, qualche pomeriggio passato a Lakewood ti farà di certo bene.”
“E’ troppo umido in questo periodo.”
“Annie si può sapere cosa ti succede?” Archie le prese delicatamente un braccio “sei distratta e nervosa, se non fossi certo del contrario direi che non sei affatto contenta di vedermi.”
“Certo che sono contenta di vederti.”
“E allora cosa succede? E’ forse accaduto qualcosa con zia Elory!?”
Annie sussultò impallidendo.
“E’ così dunque. Iriza mi ha detto che hai iniziato ad essere strana in seguito ad un incontro a Lakewood.”
“Iriza?”

“Sì, era a Chicago per la cena di beneficienza e si è dimostrata molto preoccupata delle tue condizioni, ha detto che è venuta anche a trovarti a casa ma non l’hai voluta ricevere. E in un certo senso non ti biasimo ma…”
“Che altro ti ha detto?”
“Solamente questo. Ammetterai che il tuo comportamento è stato alquanto strano negli ultimi tempi, ma qualunque cosa ti abbia detto zia Elroy non devi darle troppo peso, lo sai com’è fatta.”
“Quel giorno credevo di incontrarmi con te a Villa Andrew ed invece tu eri partito per Chicago senza nemmeno dirmi nulla.”
“Mi dispiace ma affari urgenti richiedevano la mia presenza, ho pregato la zia di avvertirti. Come sai la lontananza di William comporta che io debba assolvere a diversi incarichi durante la sua assenza.”
“Certo.” Mormorò Annie staccando un piccolo filamento di muschio dal tronco di un albero.
“La buona notizia è che William è giunto in Europa e molto probabilmente sarà già in viaggio verso la Francia per riportare Candy a casa.”
A quella notizia finalmente Annie sorrise, l’idea che Candy sarebbe tornata, il pensiero di riaverla vicina le dava forza, forse la sua vicinanza avrebbe reso la decisione che stava per comunicare ad Archibald più facile.
“Archie…”
“Dimmi.”
“Tu sei fiero di appartenere alla famiglia Andrew non è vero?”
Il ragazzo sembrò sorpreso dalla domanda ma sorrise raggiante “beh certo che ne sono fiero, il nostro nome è molto importante e pieno di storia, non posso che essere felice di portare un po’ di quel sangue nelle mie vene. Forse mia nonna e zia Elroy mi hanno inculcato un po’ troppo orgoglio ma…non credo sia negativo essere fieri della propria appartenenza, non credi?”
“No, immagino non lo sia.” Sorrise tristemente la ragazza e Archie comprese l’indelicatezza della sua affermazione.
“Perdonami Annie io…io…”
“Cosa?”
“Non volevo essere…sì insomma non volevo rattristarti.”
Annie finalmente si decise a guardarlo negli occhi “perché dovrei rattristarmi Archibald? E’ perché non so quale sia la mia vera origine, è questo al quale ti riferisci!?”
“Sì…cioè no! Voglio dire…”
Annie gli pose delicatamente una mano sulle labbra “so esattamente quel che volevi dire e come vedi non l’ho frainteso. E’ vero io non so quali siano le mie origini, probabilmente umili, forse sono la figlia illegittima di qualcuno, qualcuno che non poteva fare altro che abbandonarmi. Chissà magari per evitare uno scandalo. Me lo sono chiesta tante volte, guardandomi allo specchio ho provato ad indovinare i tratti di mio padre e di mia madre, chissà a chi dei due somiglio ed in cosa, chissà se sono vivi o meno. In un certo senso posso fantasticare qualunque cosa perché qualunque cosa potrebbe essere plausibile. Ma è più probabile che chi mi ha partorito non avesse di che sfamarmi e così mi ha abbondonato in un’alba invernale sotto un grosso albero. Poetico no? Candy diceva sempre che io e lei siamo figlie della fata della neve.” Annie fece una pausa, gli occhi le si inumidirono “questo è ancora più poetico non trovi? Sono figlia della neve. Ora porto un cognome rispettabile, i miei genitori adottativi mi hanno dato tutto quello che potevo desiderare, una famiglia, amore, istruzione…ma nonostante tutto questo non riesco a sentirmi una Brighton, dentro di me seguito a sentirmi quella piccola figlia della neve dentro una cesta bagnata.”
Archibald cercò qualcosa da dire senza riuscire a trovarlo.
“Archibald Cornwell Andrew” scandì Annie “in un pomeriggio nebbioso sotto questo albero dai rami storti mi piacerebbe chiederti di mettermi un anello al dito” fece un profondo respiro sorprendendosi del fatto che il cuore non le accelerasse, le mani non tremassero, la voce uscisse ferma e chiara “ma tu che sei così fiero del tuo nome accetteresti mai di mischiare quel sangue di cui vai tanto fiero con quello di chi non ha origini? Accetteresti di essere il compagno di una figlia della neve qualunque, l’orfanella adottata dai Brighton che dai tuoi pari verrà sempre additata come tale? Aspetta non rispondere…rifletti bene, non sei più il giovane impetuoso della Royal Saint Paul’s school, adesso fai le veci di William Andrew, e se William ti lasciasse il suo posto tu diverresti il nuovo capo di una delle più importanti famiglie dello Stato. E un capo famiglia di tale importanza non potrebbe mai avere una moglie di rango inferiore al suo, conosci le convenzioni sociali meglio di me Archibald. Perciò è su questo che ti chiedo di riflettere.”
Archibald la fissava con un’espressione talmente smarrita che Annie ebbe un moto di compassione, il giovane Cornewell che tanto si stava rivelando abile negli affari, boccheggiava ora in un angolo di giardino senza riuscire a proferire parola.
“Annie…”
Lei lo guardò, una piccola scossa di speranza le percorse la schiena ma l’illusione durò poco, poteva vedere agitarsi negli occhi di Archie una profonda lotta tra l’istinto dei sentimenti e l’orgoglio per un nome al quale, nonostante tutto, aveva sempre tenuto.
“Io adesso non so rispondere.” Ammise sconcertato da sé stesso, “è improvviso, ed onestamente non capisco perché tu abbia voluto parlarne qui ed ora…io…”
Annie cerco di disciogliere il nodo che le attanagliava la gola e sorprendentemente le parole le vennero in aiuto “in un certo senso credo tu mi abbia già risposto Archiebald. Ora perdonami ma devo rientrare, a breve mia madre avrà degli ospiti ed io ho promesso di aiutarla nell’accoglierli. E se non sbaglio tu accennavi ad una riunione a Boston. Manda i miei saluti a tua zia, credo che non ci saranno più visite da parte mia a Lakewood.”
“Annie aspetta non fare così!”
Ma Annie allungò il passo desiderosa di raggiungere la porta d’ingresso e chiudersela alle spalle, una volta varcato l’androne comunicò alla cameriera di prendere la giacca di Mr Cornewell e portargliela alla carrozza; salì velocemente le scale e raggiunse la propria camera. Finalmente era libera di piangere.
 
*** 
La neve cadeva lentamente sulla collina di Pony, Candy piroettava su sé stessa tenendo la bocca spalancata verso il cielo per accogliere i piccoli fiocchi bianchi. Tutto intorno era pace e silenzio, a breve Miss Pony l’avrebbe chiamata per la merenda, Suor Maria aveva promesso della cioccolata calda e torta di mele. Candy inspirò l’aria, voleva riempirsi i polmoni di quell’odore frizzante e piacevole, si guardò intorno ma pian piano la neve si stava sporcando, un colore rossastro la imbrattava, un odore acre e pungente le invadeva le narici e dal cielo scendeva pioggia pesante. Si voltò verso la casa, sembrava terribilmente distante, tentò di correre ma le gambe si trascinavano faticosamente come se qualcosa le trattenesse, lampi e tuoni squarciavano le nubi, non era un temporale ma il ronzare degli Stuka che gettavano bombe sulla collina. Candy tentò di urlare, gridare a tutti di uscire di correre al riparo, ma la voce l’abbandonava, il petto le faceva male…si trascinò faticosamente, la giacca le si impigliò e quando poté realizzare si accorse d’essere circondata da del filo spinato.
“Miss Pony! Miss Pony! Suor Maria! Uscite! Uscite da lì presto!”
“Candy…”
“Uscite…”
“Candy…Candy svegliati!”
Candy spalancò gli occhi, il viso era imperlato di sudore e ci volle qualche istante prima che riuscisse a mettere a fuoco il viso di Michael.
“…Michael...io…la casa... stavano bombardando la casa e…” si passò una mano sul viso madido “un sogno?”
“Sì Candy devi aver avuto un brutto incubo, ecco bevi un po’ d’acqua.”
Il giovane medico le pose un bicchiere e Candy bevve avidamente aspettando che il battito cardiaco si normalizzasse.
“Terence! Oh cielo devo aiutarti! dimmi cosa vuoi che faccia? Dobbiamo prepararlo per l’operazione e …”
Michael le pose una mano sulla spalla “va tutto bene Candy, ci abbiamo pensato io e Flanny.”
“Cos…” la ragazza parve non capire “cosa vuol dire?”
Michael sorrise “stai dormendo da più di cinque ore, ero venuto per svegliarti ma la tua collega me lo ha proibito categoricamente dicendo che sarebbe stata lei ad aiutarmi.”
“Flanny…ma…e Terence?”
“L’operazione è riuscita, l’infezione non si era ancora insediata in profondità e siamo intervenuti in tempo, certo bisognerà sorvegliarlo per le prossime 24 ore, ma sul suo stato fisico sono fiducioso.”
Le guance di Candy si rigarono di lacrime “Oh Michael mi dispiace, mi dispiace tanto io…”
Lui gliele asciugò “di cosa devi dispiacerti? Per merito tuo una vita è stata salvata e visto dove ci troviamo non è poco.”
“E’ il cielo che ti ha mandato, se tu non fossi stato qui…”
“Ma ci sono, e forse sì il cielo ha avuto un po’ di misericordia. Ora però devo tornare alla trincea.”
“Vengo con te, lascia che ti aiuti.”
Michael scosse il capo “tu devi riposare ancora Candy, sei denutrita ed hai un brutto colorito, se ti amali non sarai più utile a nessuno. Questi ragazzi hanno bisogno di tanta forza e di tanto in tanto di un sorriso, perciò rimettiti, quando avrai ripreso energia verrai ad aiutarmi.”
Candy tento di replicare ma qualcun altro si avvicinò alla brandina.
“Ti sei svegliata.” Flanny pose una ciotola fumante sullo scrittoio “da brava ora mangia, e non costringermi ad imboccarti a forza!”
Candy balzò in piedi abbracciando forte l’amica “grazie Flanny…grazie.” La voce le si strozzava fra le lacrime.
Flanny non cedette all’abbraccio allontanandola leggermente “non ti credere che lo abbia fatto per te, un’infermiera che non può lavorare è un’infermiera che non serve a nulla. Una zavorra. E noi qui non ce lo possiamo permettere. Ricordi cosa ti dissi quando sei arrivata qui? Che ti avrei fatta rigare dritta signorina sbadatella. Quindi ora mangia e poi riposa ancora, quando verrò a chiamarti darai il cambio all’altra infermiera.”
“Flanny…e Terence?”
“Ci penserà Anne per il momento.”
“Dio vi benedica, tu e Michael siete…”
“Sì sì angeli del paradiso e sbrodoli vari, rimettiti a letto!”
Candy l’abbracciò ancora, Flanny le era diventata cara come una sorella, ammirava la sua forza, quel coraggio che Candy sapeva non avrebbe mai potuto eguagliare.
“Vado anch’io ora Candy, riguardati. Quando questa guerra finirà daremo una grande festa e voglio che tu mi conceda il primo ballo.”
“Ne sarò onorata Michael, davvero.”
“Oh prima che mi dimentichi, un uomo ha lasciato per te questa lettera, è entrato nella grotta di gran lena e nonostante le proteste delle infermiere insisteva affinché ti venisse consegnata. Ho pensato di custodirla io fintanto non ti fossi svegliata. Ecco a te.” Porse una semplice busta bianca spiegazzata che non portava alcun nome o riferimento. Candy subito non vi badò, strinse forte la mano di Michael ringraziandolo nuovamente e lui fu costretto ancora ad asciugarle le lacrime che sembravano non voler mai smettere.
 
 
 
 

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Capitolo 14
*** 14 Tela di ragno ***


 
Morte al Kaiser, sentì dire Iriza nello splendido salotto dei Dilmann, vide Daisy sollevare la tazza del tè pomeridiano con aria decisa. “Che stupida” pensò mentre la guardava accogliere un altro gruppo di ospiti; ma la guardò con invidia. Daisy non era stupida, anzi era furba contrariamente a quanto ne potesse pensare Neal, Iriza lo sapeva e si sentiva mal disposta verso di lei e verso il mondo intero. Due questioni assorbivano le sue energie, e lei preferiva concentrarsi con chiarezza su un unico scopo. Quel giorno era venuta con un fine preciso, avrebbe visto Archiebald e si sarebbe comportata in modo da far svanire per sempre dai suoi occhi l’espressione di disprezzo. Ma era passata mezzora ed era costretta ad ascoltare le scemenze di quel damerino di Vickers, amico ormai stretto di suo fratello, e le finte risatine condiscendenti di Daisy. Cominciava a credere che Archie non si sarebbe presentato, alla peggio poteva aver fatto pace con Annie, e allora che ne sarebbe stato del piano di zia Elroy?!  Controllò l’orologio gemmato che portava al polso, erano quasi le cinque e mezza. Il panico si acquietò quando lo vide spuntare nel salone con l’aria contrariata di chi, chiaramente, non avrebbe voluto trovarsi lì. Salutò gli invitati di Daisy, conversò convenevolmente per poi districarsi dalla conversazione e ritirarsi nell’angolo opposto della stanza. Doveva dare atto ad Archie di non lusingare altre ragazze, evidentemente la finta Brighton aveva saputo ammaliarlo bene, poiché il giovane trattava le donne alla stregua di api fastidiose dalle quali preferiva allontanarsi con garbo. Era evidente che con Archie sarebbe stato inutile adottare tattiche civettuole, occorrevano altre strategie. Si portò un bicchiere di succo alle labbra, aveva scelto per l’occasione un abito da pomeriggio color viola di Parma, un nastrino nero intorno alla gola. Un unico anello, un opale che le aveva regalato suo padre e che zia Elroy, superstiziosa com’era diventata, aveva cercato di non farle mettere. Certo anche Iriza credeva nella sorte, ogni tanto, ma aveva più fede nella forza di volontà per raggiungere i propri fini. Si avviò, fissò le spalle di Archiebald prima di coprire i pochi passi che li separavano, “notizie di William?” esordì con voce neutra. Archie la fissò con perplessità, era di pessimo umore, ancora una volta obbligato a partecipare ad un evento mondano privo di scopo mentre la sua mente e il suo cuore non facevano che riproporgli l’immagine di Annie ed il suo sguardo triste di fronte a quella che, ormai Archie poteva ammetterlo, non era che vigliaccheria.
“Da quando è approdato in Inghilterra non ha più scritto” disse fissando tristemente oltre le grandi finestre del salone, fuori il cielo era gonfio d’acqua e inclemenza.  “Sono certa che ora si trovi in Francia ed abbia già trovato Candy” Iriza rigirò l’anello d’opale “torneranno entrambi a casa sani e salvi” fu la strana dolcezza con cui Iriza pronunciò la parola “entrambi a casa” che colpì Archie. A che gioco stava giocando?
“Lo stai rifacendo” sbottò “stai fingendo che ti importi che Candy ritorni, lo hai fatto a Chicago e lo stai facendo anche ora.”
Lei alzò le spalle “pensala come vuoi, se mi credi crudele fino a questo punto. Non ho mai avuto simpatia per Candy, e come ti ho detto forse sono stata gelosa di lei. Si può sbagliare non credi? O dovrete rinfacciarmelo in eterno!”
“Perdonami ma dubito fortemente che tu sia realmente pentita dei tuoi comportamenti.”
Iriza si strinse nelle spalle, l’abito viola emise un lieve fruscio e  fu certa che in quel momento l’attenzione del ragazzo fosse catalogata su di lei e sulla prossima mossa.  “Da ragazzine si può essere delle stupide. Ora sono cresciuta e non posso che riconoscere il valore di Candy” fece una pausa “ed Annie.” Seguitava a non guardarlo, qualche goccia di pioggia iniziò a scivolare sui vetri “ma prova a capire anche me, mio padre porta a casa un’altra ragazzina, ed io penso che forse non gli basto, che forse questa ragazzina prenderà il mio posto. Qualcuno arrivato dal nulla. In me è stata innata la necessità di difendermi.”
Archie l’affiancò “finiscila Iriza, la tua non era certo l’angheria della bambina ferita ma semplice crudeltà verso coloro che reputi di rango inferiore al tuo.”
“Trovi? Può darsi. Pensarla così è più facile per tutti voi.”
“Non fare la vittima ora.”
“Non è mia intenzione ma permettimi qualche considerazione” lo guardò negli occhi, era calma e seria “ero innamorata di Antony, e lui la preferì a me. Quando morì avevo il cuore a pezzi ma nessuno se ne preoccupò. Ero esclusa da tutti voi.”
“Sei ingiusta dato che sai bene ti esserti volutamente esclusa da sola.”
“Già,” abbassò lo sguardo “forse hai ragione tu. Per questo non voglio che accada più, voglio esservi amica, voglio essere vostra alleata, voglio aiutare Candy ed anche te ed Annie.”
Archie fece un gesto stizzito “immagino come tu voglia aiutare Annie…”
“Voglio che si chiarisca qualunque malinteso possa esserci tra lei e zia Elroy. Dopotutto immagino tu le abbia dato l’anello di fidanzamento…” un guizzo vittorioso attraversò gli occhi della ragazza di fronte all’improvvisa espressione smarrita di Archie.
“Non le hai chiesto un fidanzamento ufficiale?”
“Io…” scosse il capo “non voglio parlare di questo con te.”
“Va bene, sospirò “certo non deve essere facile per Annie, alla fine tutti gli Andrew non sono altro che dei campanilisti.del proprio nome.”
“Proprio tu parli!?”
“Almeno io l’ammetto. Sono fiera di essere sia una Legan sia di appartenere alla famiglia Andrew, tengo a questo nome e alla propria preservazione. Trovami demodé ma tutto sommato tu non sei diverso.”
Archie pareva esausto, la pioggia si fece più insistente, il vociare degli altri ospiti creava un fastidioso brusio di sottofondo  “è quello che pensa anche Annie.” mormorò “ ed io non le ho certo dato prova del contrario.”
Iriza sorrise, pareva un sorriso di comprensione e non di scherno “non penso sia esatto, non è cambiato nulla per te il sapere che Annie non fosse realmente una Brighton ma un’orfana. Ti sei comportato magnificamente nei suoi riguardi. Il fatto è che dal punto di vista di Annie non è facile capire.”
Il brusio si fece più rumoroso “usciamo da questa stanza? Se sento ancora Daisy e Vickers parlare di Kaiser e basette ungheresi giuro potrei mettermi ad urlare.”
Archie non riuscì a trattenere un risolino di assenso. Iriza gli fece strada fino alla vicina biblioteca.
“Conosci bene questa casa” commentò una volta che la ragazza chiuse la pesante porta alle loro spalle.
“Per forza vengo a giocare qui da quando ero piccola, Daisy è una buona amica ma talvolta sa essere petulante, e così ogni tanto mi rifugiavo qui dentro. Il mio amore per Shakespeare è nato tra questi scaffali.”
“Vorresti farmi credere che sei un’appassionata di letteratura?”
“Beh magari appassionata non è il termine corretto, ma amo Shakespeare. Credo sia anche per questo che Terence ebbe tanta presa su di me al tempo, adoravo immaginarlo decantare Amleto o impersonare un appassionato Romeo. Patetico lo riconosco.”
“Anch’io fuggivo sempre nella biblioteca di zia Elroy,” sorrise Archie malinconicamente “Stear tirava giù dagli scaffali libri di meccanica, fisica e quant’altro…io invece adoravo la poesia. Forse non virile.”
“Ma romantico. Quindi è per compensare che non disdegnavi prendere a pugni qualcuno.”
“E’ accaduto solo una volta e avevo le mie ragioni.”
“La fanciulla contesa, certo.” Iriza si abbandono su di una grossa poltrona “Candy ha avuto anche questa fortuna, essere contesa come accade a quasi tutte le gentil fanciulle dei libri.”
Archie le sedette di fronte “ora stiamo tergiversando.”
“Dunque ti interessa quello che ho da dire riguardo Annie?”
“Non so se mi interessa, ma hai iniziato a parlarne tanto vale che concludi.”
“Avevo anche amabilmente cambiato argomento.”
“Iriza!”
“D’accordo.” Si rizzò indispettita “stavo semplicemente dicendo che dal canto suo Annie può faticare a comprenderti in quanto lei non ha alcun legame con la propria origine. E’ vero è stata adottata dai Brighton, ma avrebbero potuto chiamarsi Cavendish, Hargreaves o Cunningham e per lei non avrebbe fatto differenza. Per noi invece è diverso.”
Archie piegò le labbra in un sorriso amaro “ora ti riconosco, mi parlerai di differenza di classe ecc.”
La ragazza scosse il capo “forse non t’accorgi che il primo a fare delle differenze sei tu continuando a sottolinearlo” lo vide impallidire “a me nulla cambia che tu sposi Annie o meno, ma so cosa significa per te il nome che porti e cosa non significa per Annie. La storia della nostra famiglia è lunga, sofferta, importante, e che tu lo ammetta o meno ci tieni quanto ci tiene zia Elroy. Persino William ci tiene, altrimenti avrebbe disertato per sempre il suo ruolo di capo famiglia dandolo a te o deponendolo nuovamente a zia Elory, Avrebbe potuto vivere una vita come prima, magari con Candy, dato che nemmeno a lei importa essere una Andrew. Ma William non l’ha fatto, non ha mai rinunciato a questo ruolo, e tu sai perché. Perché è un Andrew, come lo sei tu, come lo era Antony e come vorrete lo saranno i vostri figli. Ecco perché non hai ancora chiesto la mano di Annie.”
“Pensi che anteporrei un nome all’amore per Annie!?”
Iriza si ergeva vittoriosa, ma sapeva che le parole seguenti dovevano essere centellinate, una sola frase stonata e il suo castello avrebbe potuto crollare. “No Archie, so quanto tu ami Annie, mi chiedo solo se lei lo sappia altrettanto e se ritenga ugualmente importanti le cose che ritieni tu. Ma dopotutto sono solo una vipera viziata ed è meglio che torni di là a fingere di divertirmi.” Si alzò sicura, misurando l’incedere dei passi verso la porta.
“Aspetta,”
Iriza si bloccò senza nascondere un fremito di soddisfazione, “sì?”
“rimani, se torni di là dovrò farlo anch’io e non ho voglia di inutili convenevoli.”
“Mi stai dicendo Archiebald  Cornwell che gradisci la mia compagnia?”
“Ora non dipanare troppo la tela, sto solo dicendo che…”
“Va bene,” tornò a sedere “potremmo farci portare qualcosa però, io non ho ancora toccato cibo. Bignè e tè?"
"Sei prevedibile.”
“Trovi? Potrei aver fatto mettere dell’abbondante cicuta nel tuo tè e moriresti come un tragico eroe che ancora non ha portato all’altare la sua amata principessa.”
“Vipera.” Ma non vi era nella voce di Archie nessun tono negativo, anzi pareva piacevolmente divertito.

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Capitolo 15
*** 15 La caduta dell'eternità ***


Flash back 
Solo i morti hanno visto la fine della guerra
-Platone-
 
Per il compleanno di Susanna Eleanor aveva predisposto un piccolo party invitando amici che provenissero da più ambiti professionali. Aveva aperto la sua villa appena fuori New York, un delizioso connubio di stile Liberty e classicismo, fuori i giardini erano stati agghindati con fiori e nastri, il tepore del sole lasciava presagire che sarebbe stata una splendida giornata. Susanna, agghindata con un abito celeste, salutava gli ospiti con grazia e cortesia, ed Eleanor era certa che la nuova luce che illuminava gli occhi della ragazza dovesse avere un’origine più intima, forse l’accettazione della sua condizione, una maggiore complicità con Terence o forse… Istintivamente osservò il grembo della ragazza, ma la gonna era così ampia che un eventuale accenno al sospetto della donna non sarebbe potuto essere verificato.
“Susanna è radiosa” commentò avvicinandosi al figlio intento a riempire un bicchiere da ponce.
Terence annuì distrattamente “sì, ultimamente è più gioviale, ha ripreso a mangiare, sorride, ed è spesso con la testa tra le nuvole ma in un modo trasognato. Sono effettivamente sollevato, temevo volesse lasciarsi morire.”
“Immagino che molto di questo cambiamento dipenda anche da te.”
Terence sorrise “passiamo molto più tempo insieme, ora che anche quell’arpia della madre non mi sta col fiato sul collo tutto il santo giorno.”
“Terence!”
“Non starai per rimproverarmi spero?!” il sorriso si fece più malizioso ed Eleanor si limitò a scuotere il capo e dare una lieve pacca sulla spalla del ragazzo.
“Ti ringrazio di aver tenuto la festa qui.”
“Per me è un piacere, lo sai che potreste trasferivi qui quando volete, questa casa è troppo grande per una persona sola ed io sono sul viale del tramonto, ormai i ruoli diventano sempre più limitati per la mia età.”
“Sei falsamente modesta, ho letto che sarai la protagonista in Antigone”
Eleanor sorrise “ti interessi ancora al teatro dunque”
“Non ho mai detto il contrario”
Eleanor prese coraggio “ascolta Terence la compagnia Stratford ha intenzione di produrre l’Amleto, ho fatto colazione con Richard lo scorso sabato e lui sarebbe più che felice di riaverti nella compagnia. Ci pensi Terence!? Potresti avere il ruolo del protagonista, potresti essere Amleto. Sai di avere talento e sai benissimo di star buttando questo dono in nome di un senso di colpa che non ti sta conducendo in alcun dove. Ero così lieta quando tornasti da Rockstown, sembravi intenzionato a riprendere la tua carriera…e poi cos’è accaduto nuovamente dal farti desistere? “
Terence sorseggiò il ponce, il suo sguardo si fece cupo ed infastidito “ti prego mamma ne abbiamo già discusso e comunque non mi pare ne il momento ne il luogo.”
“Prometti almeno che ci penserai. Parlane con Susanna, sono sicura che ti appoggerebbe senza riserve e anzi sarebbe felice di vederti nuovamente sul palcoscenico. Ti prego Terence promettimi cha almeno ci rifletterai.”
“ci penserò.”
Eleanor ne fu sollevata, “vado ad intrattenere un po’ gli ospiti cosa che forse dovresti fare anche tu”
“Agli ordini mio comandante!” Terence sollevò il bicchiere in direzione della madre, dopodiché il suo sguardo si spostò su Susanna, stava conversando con Karen Claise e questo lo stupì notevolmente, cercò di indovinare se Susanna stesse recitando in quella sua manifesta gentilezza verso chi aveva interpretato il ruolo di Giulietta al suo posto, ma non notò alcun adombramento nello sguardo, anzi Susanna sembrava effettivamente felice.
“Ehi Grandchester  ti unisci a noi?”
Conrad Vickers, un vecchio produttore amico di sua madre, lo invitò sulla terrazza ad aggregarsi ad un gruppetto di uomini che fumavano e giocavano a carte “vieni qui a far compagnia a noi ragazzacci” scherzò l’uomo indicando una sedia vuota al suo fianco. Terence li raggiunse, l’atmosfera era piacevole e per la prima volta dopo diverso tempo poteva avvertire una serenità che gli era stata sconosciuta per troppi mesi.
“Tu e Boy vi siete incontrati?”
Terence sbatté le palpebre sorpreso “è qui?”
Il vecchio signor Vickers si fece più serio, “è tornato la scorsa settimana, era stanziato sul confine franco italiano. Lui dice di stare bene ma…non so. Terence voi siete coetanei e magari potresti parlare un po’ con lui. Da quando è qui tende ad isolarsi, dato che avete frequentato la stessa compagnia mi chiedevo…so che non siete amici ma…”
“Stia tranquillo Mr. Vickers sarò ben lieto di parlare con suo figlio, anche perché qui tra voi non sarei di gran compagnia, vede non so giocare a carte ed ho perso il vizio del fumo.”
“Ah buon per te ragazzo mio!” esordì l’uomo “e grazie. Mio figlio deve essere da qualche parte nei giardini”
Terence annuì, terminò il ponce e si diresse verso l’ampia scalinata che conduceva ai giardini, era in un certo senso lieto di poter parlare con qualcuno della sua età, aveva domande da fare e forse Boy avrebbe potuto informarlo su come stavano andando realmente le cose in Europa. Lo intravide seduto su un tronco caduto ai margini del boschetto di betulle. 
Il giovane Vickers era rigido, gli occhi fissi nel vuoto e la faccia inespressiva, Terence lo vide muovere le labbra in silenzio, come se parlasse a se stesso.
“Ciao Francis” dovette ripetere il saluto un paio di volte per ridestare l’attenzione dell’altro ragazzo.
“Terry…”
“Tuo padre mi ha detto che eri qui così ho pensato di venirti a fare un saluto, è da parecchio che non ci vediamo”
Si limitò ad annuire e Terence comprese che non c’era più nulla del ragazzo che aveva conosciuto quando si era trasferito in America poco dopo aver lasciato la Saint Paul’s school. Si erano incontrati dietro le quinte del teatro in una stanzetta rientrante dove Francis armeggiava con una macchina fotografica.

“Perché ti chiamano boy?” aveva esordito Terence sentendo che gli altri componenti della compagnia erano soliti rivolgersi così al ragazzo.
Francis aveva alzato gli occhi dalla macchina fotografica, quasi sussultando, non si era accorto dell’arrivo di Terence.  Dato che cedeva facilmente all’imbarazzo era arrossito chinando la testa per nasconderlo.
“Non significa niente, mio padre mi chiama così da quando ero piccolo e mi è rimasto.”
“Capisco, ma lo trovo un po’ ridicolo, dopotutto non sei un bambino. Posso chiamarti con il tuo vero nome?”
Con grande sorpresa quel ragazzo appena arrivato dall’Inghilterra e con l’aria sempre battagliera gli aveva sorriso, un sorriso così luminoso che Francis si era ritrovato ad annuire con un certo sollievo “è Francis”
“Francis. Piacere Francis il mio nome è…”
“Terence, lo so. Ho sentito parlare di te.”
Terence aveva sospirato “immagino che sia a causa della mia parentela”
Francis aveva alzato le spalle “so di chi sei figlio ma più che altro ho sentito parlare di te dal signor Hathaway, è rimasto molto colpito dal tuo provino nonostante tu non sia un professionista.”
“Buon per me allora”
“Già”
“Sei attore anche tu?”
“Ci provo, io invece sono qui davvero per la mia parentela, mio padre è un produttore e quindi ha voluto che intraprendessi questa strada”
“Ma a te non sta bene”
“No a me piace recitare ma preferisco la fotografia, mi piacerebbe girare il mondo e immortalare più cose possibili.”
“Dovresti farlo.”
“Con un padre come il mio non è facile prendere decisioni autonome. Ma un giorno chissà” sorrise timidamente indicando la Videx “se vuoi ti faccio una foto. Non ci metterò molto.”
“Qui dentro?”
“Beh sì…ma la luce è difficile. Potrei fotografarti sul palcoscenico, potresti ritenerlo un regalo di buon augurio per la tua futura carriera”
Terence fu inizialmente perplesso ma finì con l’acconsentire. Uscirono dalle quinte per salire sul palco, Terence si riempì gli occhi della platea nonostante fosse deserta e sentì che un giorno grandi applausi si sarebbero levati per lui, ce l’avrebbe messa tutta per essere non solo all’altezza di sua madre ma di riuscire addirittura a superarla.
“Devi restare immobile, c’è poca luce ed ho bisogno di un’esposizione prolungata. Gira la testa un po’ verso sinistra”
Terence obbedì alzando il mento e voltando il viso alla sua sinistra. Il silenzio fu  interrotto dal ronzio della macchina e dallo scatto.
“Grazie Francis, mi darai un copia della foto vero?”
“Oh certo, se verrà bene. Non sono sicuro della luce e…”
“Sono certo che sarà venuta benissimo”
 
Entrarono nel bosco di betulle, Terence aveva proposto una passeggiata e Francis lo affiancava annuendo di tanto in tanto, fingendo di ascoltare quello che in realtà non sembrava sentire. S’incamminarono verso un laghetto che confinava con una tenuta vicina, Francis prese a fischiettare, aveva acquisito un’improvvisa vivacità, indicò un albero dove tanto tempo addietro insieme a Susanna ed Eleanor avevano fatto un picnic, prima dell’incidente, prima che tutto accadesse. Terence l’aveva sfidato a salire sulla cima di quello stesso albero ma Francis, timoroso dell’altezza aveva rifiutato. “Dalla cima degli alberi vedi l’eternità Francis” così aveva detto Terence quella volta quando era sceso dall’albero, e quel ricordo piegò le labbra di Francis in una smorfia ironica “l’eternità” borbottò senza che l’altro potesse capire.
Continuarono a camminare e Terence accennò alla fotografia, nel momento in cui nominò le macchine fotografiche Francis assunse un’espressione dura.
“Mi sono sbarazzato della Videx”
“Te ne sei sbarazzato? L’hai venduta?”
“L’ho fracassata. Non farò più fotografie, ho bruciato tutte quelle che ho fatto in Francia, ho rotto le lastre.  Odio le fotografie, le fotografie mentono. Sai cos’è l’unica cosa che merita di essere fotografata? Un fuscello al sole, un fuscello e la sua ombra. O forse è una bugia anche quella, dopotutto la luce inganna.”
Terence deglutì ed osservò realmente Francis per la prima volta, la guerra aveva alterato il suo viso, pallido e solcato dai giorni trascorsi nelle trincee, i suoi occhi parevano non essere in grado di fissarsi su nulla, come se tra lui ed il resto del mondo ci fosse un velo divisorio.
“Francis tuo padre è preoccupato per te”
“I genitori si preoccupano in generale”
“Sì ma credo abbia paura tu voglia tornare in Europa e a dire il vero ci sono alcune domande che vorrei farti in merito…”
“Ne ho uccisi molti.”
Terence fermò il passo mentre Francis avanzò di poco dandogli la schiena “diventa naturale, o così ti dicono. Il tempo nelle trincee è alterato, poi d’un tratto ti trovi ad avanzare, guadagnare pochi metri ma devi essere bravo a non rimanere intrappolato nel filo spinato o ad essere trivellato. Una volta volli avanzare di più, alcuni compagni mi dissero che ero folle, mi gridavano che sarei di certo morto. E forse lo volevo davvero. Mi ritrovai faccia a terra di fronte a uno di loro, un austriaco dagli occhi talmente azzurri da sembrare slavati, aveva una gamba impigliata nel filo, come un coniglio preso al lazzo. Credo di averlo fissato per pochi secondi eppure è sembrato un tempo molto più lungo perché ricordo i suoi lineamenti alla perfezione. Li ho fotografati nella testa, non serviva una Videx. Una Videx non avrebbe potuto immortalare quello che ho visto in quegli occhi. E probabilmente lui ha visto la stessa cosa nei miei. Non penso fosse più grande di me, anzi probabilmente era più giovane, aveva la mia stessa paura, forse lo stesso desiderio di morire e lo stesso desiderio di vivere.”
Terence avanzò di un passo “Francis ascolta…”
“Ho spinto la baionetta e gli ho trafitto la trachea, lui è rimasto sorpreso, sì penso si sia sorpreso del fatto che fossi stato più veloce di lui. Ho dovuto aspettare che scendesse il buio per poter tornare indietro verso il buco della trincea. Immobile rigido per ore con il collo di quel ragazzo piantato sulla mia baionetta, con quegli occhi sempre aperti a fissarmi. Hai fatto un bel regalo di compleanno a Susanna? Mi piace la musica di sottofondo che tua madre ha scelto, è un genere che non si sente in Europa”
Terence lo scosse e quando poté finalmente vedere il suo viso si accorse che Francis stava piangendo, un pianto muto e disperato.
“Francis torniamo indietro, non parlarne più. Ora sei qui sei al sicuro.”
“No, non è vero. Sono sempre là, continuamente.”
“E’ la guerra, è la guerra che ti ha fatto questo. Ma starai meglio Francis e tornerai a fare fotografie.”
“La guerra? Quale guerra? Oh sì la guerra.”
La presa di Terence era salda sul braccio di Francis, tentò di apparire sereno, di non mostrare il turbamento che gli attanagliava le viscere .
“Il picnic, ricordi Terence? Lo facemmo pochi giorni prima che venissero assegnate le parti per Romeo e Giulietta. Tua madre aveva invitato anche me sebbene io non avessi ottenuto nessun ruolo. Susanna ti guardava con adorazione e tu, no tu avevi sempre lo sguardo di chi è alla perenne ricerca di qualcosa. Salisti sull’albero e mi dicesti che da lassù si poteva vedere l’eternità”
Terence deglutì “ero solo uno spocchiosetto. Però ci divertimmo, no? Bevemmo lo champagne Rosé e mia madre ci recitò qualcosa”
Francis annuì “un sonetto”
“Già, un sonetto. Potremmo rifarlo non credi Francis?” Terence guardò apprensivo verso la casa “ora rientriamo”
“Sono un po’ stanco Terence, ti spiace se mi siedo un po’ qui?”
“Sta iniziando a fare freddo è meglio se…”
“Solo per un po’, mi piace qui, magari la vedrò pure io l’eternità anche se non salgo sulla cima dell’albero”
“Dicevo un mare di sciocchezze Francis”
“E’ probabile. Ho sete, mi porteresti dell’acqua Terence? Poi torneremo a casa e starò meglio”
Terence era titubante, non voleva lasciarlo solo né allontanarsi. Si voltò verso la casa distinguendo uno dei valletti sistemare qualcosa sui tavoli esterni della terrazza. Troppo lontano perché potesse sentirlo. Spostò nuovamente l’attenzione su Francis, seduto, la schiena addossata ad una statua decorativa.
“Va bene Francis ci farò portare dell’acqua. Mi allontano un secondo”
“Sarò qui, fumo una sigaretta e ti aspetto” e la voce del ragazzo era calma come la superficie muta del lago.
 
Terence si mosse velocemente, quasi corse muovendo le braccia per attirare l’attenzione del valletto.
“Maledizione voltati da questa parte!”
Non se la sentì di proseguire, lasciare Francis solo seppur per poco in quelle condizioni, fece per tornare sui suoi passi quando un suono secco ed inequivocabile fece alzare in volo uno stormo d’uccelli che prese a turbinare sopra il bosco. Terence iniziò a correre, il cuore sembrava volergli balzare dal petto. Raggiunse Francis, ora ritto in direzione del lago, il braccio teso e una pistola puntato verso il nulla.
“Andate via!” gridava
“Francis!”
Il ragazzo si voltò ed ora la pistola era puntata verso Terence
“Via!”
“Guardami Francis mi riconosci?!”
“Sei venuto ad uccidermi!”
“Sono Terence.  Francis metti giù quella pistola”
“Sono ovunque Terence tu non li vedi ma sono nascosti ovunque e i loro visi sono così terribili”
Terence si avvicinò lentamente tenendo ambo le mani in vista “andrà tutto bene Francis ti devi fidare di me”
“No non andrà bene, non se ne andranno mai, continuerò a vederli e sentirli. Voglio vedere l’eternità, un’eternità buia dove potrò riposare.”
Il braccio di Francis si piegò all’indietro, la canna della pistola a premere sotto il mento “non voglio tu veda questo voltati”
“Non mi volterò perché tu non farai nulla mi hai capito! Ora è me che devi ascoltare. Qui ci sono tuo padre, la tua famiglia e i tuoi amici, vuoi davvero far loro questo Francis? E Susanna? So che vuoi bene a Susanna”
“Susanna…”
“E’ stata la prima persona che incontrasti alla compagnia Stratford, ricordi? Me lo hai raccontato tu.”
“Sì, Susanna è sempre stata gentile con me”
“E tu vuoi farti saltare le cervella il giorno del suo compleanno? E’ questo il tuo regalo!”
“Io voglio solo che tutto questo smetta, voglio non sentire più nulla. Non dovevo essere qui, non so perché sono tornato qui”
Ora la distanza che li separava era di pochi centimetri, Terence sorrise “ la fotografia, devi darmi la fotografia”
La mano di Francis tremò sull’impugnatura della pistola “l’ho gettata via, era sfocata, era…”
“allora dovrai farne un’altra Francis, un’altra su un altro palcoscenico”
“Sono stanco Terence”
“Lo so ma devi continuare a guardarmi. Ricordi il sonetto, ricordi qual’era?”
“No, qualcosa sull’estate” il dito si agganciò al grilletto e Francis chiuse gli occhi.
“Boy!”
 
Quando il dottor Haviland lasciò la villa la pendola del salone aveva rintoccato le dieci della sera, Conrad Vickers sedeva su una delle poltroncine in velluto, il volto diafano e le mani serrate a pugno. Eleanor parlò con il medico, annuiva silenziosa mentre all’orecchio di Vickers tutto giungeva ovattato.
“Verranno a prenderlo domani” la donna si era avvicinata posando una mano confortante sulla spalla del vecchio produttore che si limitò ad annuire senza riuscire a dire parola. Eleanor si rivolse alla cameriera “dov’è la signorina Marlowe?”
“L’ho sistemata nella camera degli ospiti era esausta”
“Vedi che abbia tutto quello che le occorre. Mio figlio?”
“ E’ nella veranda signora”
Eleanor raggiunse Terence, il ragazzo dava le spalle alle vetrate, gli occhi fissi sul pavimento a mosaico.
“Terence”
“E’ andato via?”
“Sì, verranno domattina con un’ambulanza per portarlo via”
“Non mi ero accorto avesse una pistola avrei dovuto prestare più attenzione”
“Terence tu gli hai salvato la vita” Eleanor abbracciò il figlio “si sarebbe ucciso se tu non fossi stato con lui”
“Dove lo porteranno?”
“Al Moniz”
Terence la guardò inorridito “è un manicomio!”
“Non potrebbero tenerlo in un normale ospedale”
“Francis non è pazzo!”
“E’ disturbato Terence, ha bisogno di cure”
“In un manicomio? E’ stata la guerra!”
“Calmati ora, Francis è vivo e con l’aiuto di Dio potrà guarire”
“Dio..” Terence scosse il capo con cattiva ironia ma Eleanor non era intenzionata a lasciare che il figlio venisse nuovamente sopraffatto dalle emozioni.
“Io non oso nemmeno immaginare cosa Francis abbia visto in Europa ma ora è qui, la sua vita è ancora salva e potrà curarsi e guarire. Spero che almeno questo ti faccia desistere dal folle pensiero che hai di andare anche tu ad arruolarti”
Terence la scostò in malo modo “chi ti ha detto questo?”
“Ti conosco Terence, so che agisci d’impeto e questo è un bene a volte come è un male in altrettante situazioni, se sei preoccupato per tuo padre faremo in modo di avere sue notizie ma a costo di legarti non ti permetterò di lasciare l’America”
Il ragazzo prese a camminare nervosamente per la stanza “vi preoccupate tutti inutilmente”
“Forse, ma voglio sia chiaro” si alzò a sua volta raggiungendolo “so che sei sconvolto da quanto accaduto oggi anche se tenti di nasconderlo. Ma io ti conosco Terence, sono la donna che ti ha messo al mondo e vedo cosa si agita nei tuoi occhi. La guerra è una follia umana e tu non vi devi prendere parte, il tuo posto è qui con la tua famiglia, con Susanna, ora più che mai ha bisogno di te.”
“Lo so bene e non ho alcuna intenzione di lasciarla”
“Giuramelo Terence”
Si fissarono a lungo e le spalle di Terence da rigide si sciolsero come se tutta la tensione accumulata durante quella terribile giornata gli fosse colata addosso in un istante.
“Te lo giuro”
“Bene, ora vai da Susanna. Credo ci sia una questione importante della quale debba parlarti”
 
 
 
 

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Capitolo 16
*** 16 - Inchiostro sulla carta ***


 “….e già si sentiva in faccia l’odore d’olio e mare che fa Le Havre”
                                                               -Francesco Guccini-

L’Olympic tagliava il mare scuro in un tale silenzio che più di una volta ad Albert parve che la nave lo stesse traghettando verso l’ade. Di fronte a lui si intravedevano bagliori rossastri alzarsi spettrali dalla costa come porte dell’inferno. Era evidente che vi fosse da poco avvenuto un bombardamento come era altrettanto evidente che l’Olympic rischiava di essere silurata all’avvicinarsi sempre più imminente a Le Havre. Ad Albert una sensazione pensante come un macigno attanagliava il petto, immaginava cosa Candy stesse vivendo, cosa ogni giorno passasse sotto i suoi occhi e temette che lo sguardo della ragazza che amava si fosse velato per sempre dall’ombra della crudele realtà umana. Ci sono cose dalle quali non si può guarire.
“Perché sei voluta venire qui Candy” mormorò sfinito “e soprattutto perché te l’ho permesso.”
Poggiato al parapetto Albert fu scostato brutalmente da uno dei marinai “torna in coperta stiamo correndo un serio rischio”
“Quante miglia mancano?”
“non molte ma il capitano sta considerando l’idea di allontanarci dalla costa e scendere verso la Bretagna, è più sicuro”
Albert ne fu sorpreso “ma così ci vorrà più tempo ed inoltre più rimaniamo in mare più rischi ci sono”
“forse non ti rendi conto che è come se ci trovassimo in un campo minato gli Uboot sono ovunque!”
“Alzate la bandiera della nave ospedale”
Il marinaio rise malevolo “oh certo così ci faremo beccare tempo zero”
“E’ l’unico modo per far sì che non ci silurino, non lanceranno missili contro una nave ospedale”
“Sei solo uno sciocco americano ingenuo!”
“Fammi parlare con il comandante”
“torna nei ranghi!”
“Se non mi ci porti con le buone provvederò a persuaderti in altro modo.”
 
Ho guardato davanti a me
In mezzo alla folla ti ho veduta
In mezzo al grano ti ho veduta
Sotto un albero ti ho veduta
Al termine di ogni mio viaggio
Al fondo di tutti i miei tormenti
Alla svolta di ogni risata
Che uscivi dall’acqua e dal fuoco
D’estate e d’inverno ti ho veduta
Nella mia casa ti ho veduta
Tra le mie braccia ti ho veduta
Dentro i miei sogni ti ho veduta
Io non ti lascerò mai più.
                                                                                                                                                                             -Paul Eluard-
 
Quando Jonathan era giunto alle grotte aveva faticato a riconoscerla, così pallida e magra sembrava un piccolo fantasma rinchiuso in un’uniforme sgualcita sorretta solo dalla volontà. Candy gli aveva sorriso, le era andata incontro abbracciandolo genuinamente sollevata di ritrovarlo sano e salvo. Ma a Jonathan bastò poco per capire che la giovane infermiera dai capelli biondi che aveva conosciuto sul Point Sublime stava smarrendo se stessa, lo poteva chiaramente cogliere da quello sguardo ormai slavato, come una stoffa brillante rimasta troppo a lungo esposta alle intemperie.
“Te la senti di camminare un po’?’’ chiese il ragazzo indicando il sentiero verso il mare “staremo via poco, puoi assentarti?”
Candy annuì titubante prima di seguirlo lungo la strada polverosa che conduceva verso la baia, i Caffè che servivano omelette e tè troppo annacquato erano stati chiusi al seguito del bombardamento alla ferrovia, non vi erano più soldati che giocavano a carte, né il suono rasserenante della fisarmonica che si diffondeva nelle serate di quiete, quando l’anima trovava ancora un barlume di speranza. Tutto questo era scomparso, rimaneva solo silenzio. Tuttavia la luce di quel pomeriggio era dolce, Jonathan estrasse da un involucro di carta due biscotti di marzapane “a te signorina Andrew” disse porgendoli a Candy. La ragazza ne fu sorpresa, non ricordava nemmeno quando fosse stata l’ultima volta che qualcosa di dolce aveva sfiorato le sue labbra “grazie Jonathan.”
“Sostiamo sotto quel platano, ti va? Il gioco della luce del sole fra le fronde mi piace, è…” Jonathan si concesse una risatina ironica “terapeutico in un certo senso.”
Candy osservò a sua volta i grossi rami del platano, era passata diverse volte lungo quella strada, sempre di corsa, sempre con il cuore a mille e il rumore degli spari nelle orecchie, si rammaricò di non averlo notato.
“Non avevo mai fatto caso ci fosse un albero così grande qui”
“Beh capita a tutti di lasciarsi sfuggire dei dettagli”
“In passato non sarebbe accaduto” mormorò Candy “non riesco più a riconoscere bellezza in nulla”
“Candy…”
Lei scosse il capo e forzò un sorriso “perdonami sono solo stanca, piuttosto voglio sapere dove sei stato, ero in pensiero, temevo che…”
Lui la fermò “sono qui sano e salvo. Parleremo tra un minuto ho buone notizie, sono riuscito ad inviare messaggi tramite telegrafo e credo di aver trovato un modo per…Candy mi ascolti?”
“E’ arrivata una lettera la scorsa settimana, ho pensato me l’avessi mandata tu. Ero così presa nel tentativo di…” Candy si morse le labbra “ho aspettato ad aprirla, l’ho riposta accanto alla mia branda, desideravo leggerla tanto quanto ne avevo paura. Sono stata sciocca. Ha piovuto così tanto i giorni scorsi, tuonava la terra e tuonava il cielo, abbiamo dovuto spostare molti feriti nella parte più interna delle grotte perché l’acqua scivolava copiosa lungo le pareti, taluni sono talmente debilitati che basta un nulla perché si ammalino. Quando sono tornata per recuperare la lettera era talmente zuppa d’acqua che l’inchiostro ormai ne aveva fatto un’indistinta macchia scura” alcune lacrime le umidirono gli occhi “solo il nome era ancora leggibile.”
“Quale nome?”
“Albert” la ragazza si strinse nelle spalle “sono stata ad osservare quel nome scritto con quella grafia che mi è tanto famigliare ed ho provato un dolore indicibile Jonathan. Avrei avuto bisogno di quelle parole, delle sue parole, ora più che mai. Avrei dovuto aprirla subito, avrei dovuto…”
Il ragazzo le cinse un braccio intorno alla vita “Candy stai tranquilla, la ferrovia sarà riparata presto e anche così non fosse ho intenzione di portarti via da qui. Non è giusto rimanere, non serve.”
Lei si scostò “non posso andarmene, non potrei mai!”
“Sì invece, porteremo Terence con noi. Ho fatto degli accordi, un vecchio furgone ci permetterà di arrivare fino a Calais e da lì troveremo un modo per raggiungere l’Inghilterra.”
Candy lo guardò risoluta “sono un’infermiera ed il mio posto è qui perché è qui che ho scelto di essere.”
“Candy”
“non cambierò idea Jonathan” gli si fece nuovamente vicino “ma c’è comunque una cosa che puoi fare per me ed è salvare Terence. Lui deve tornare in America, ha bisogno della sua famiglia prima che tutto possa essere perduto.”
Una nuova ombra attraversò gli occhi di Candy, un’ombra che fece stringere in petto il cuore di Jonathan “non si è ripreso?”
Candy annuì “la ferita va meglio non è più in pericolo”
“ma?”
La vide serrare i pungi “ma è inutile, lui non è qui, non c’è nulla del ragazzo che ricordo, i suoi occhi non si posano su niente e nessuno, è come se mi passasse attraverso, come…” prese fiato nel tentativo di calmarsi “gli parlo di molte cose, oh cose così schiocche! Gli ho confidato perché mi sono tagliata i capelli e perché una cosa tanto futile mi faccia sentire più coraggiosa, della mia abitudine di muovere le mani mentre parlo e quanto significhi per me essere un’infermiera, del perché ho fatto questa scelta. Gli racconto la mai giornata, gli ripeto di quanto sia fortunato ad essere vivo, di quanti non sono tornati né mai torneranno alle loro case, mi arrabbio…mi arrabbio talmente che vorrei prenderlo a ceffoni. Lo feci una volta sai!? Gli diedi un ceffone così forte e lui me lo restituì con altrettanta foga. Nei suoi occhi si animava sempre qualcosa, non avresti potuto descriverlo, non avresti potuto indovinare cosa quell’animo impetuoso stesse combattendo dentro di se. Eppure…” Candy poggiò la fronte contro il tronco antico del platano “eppure ogni cosa in lui aveva il sapore della vita e dell’audacia. Sembrano passati mille anni. E’ così strano.”
Jonathan la osservò, non erano passate che poche settimane dal loro ultimo incontro eppure la ritrovava molto più adulta, non più una ragazzina ma una donna, una giovane donna adulta consapevole e forse, temette, per la prima volta disillusa.
“Cos’è che è strano?”
 Lei alzò le spalle “ti capita mai di associare le persone a qualcosa Jonathan? Sei un poeta dopotutto…”
Lui annuì “beh poeta è una parola grossa, è più corretto dire che mi piacerebbe esserlo ma sono ben conscio dei miei limiti. Però capisco cosa mi stai chiedendo. Prendiamo Scott, l’ho sempre associato ad un turbine di vento. Chi può catturare il vento? Di certo non il sottoscritto.”
Candy sorrise tristemente, sedettero addossati al tronco e senza pensarci la ragazza poggiò la testa contro la spalla della giacca sdrucita di Jonathan “quando conobbi Albert era estate, ero disperata perché la mia più cara amica veniva adottata ed io avrei dovuto rinunciare a lei e forse alla prospettiva di avere una famiglia. Il mio singhiozzare fu interrotto dal suono della cornamusa, il mio bel principe della collina splendeva come il sole di quel pomeriggio. E quindi da allora ogni mattinata estiva porta con sé il sorriso di Albert.”
Jonathan sorrise “è molto romantico”
“Anthony invece era la primavera, la primavera della mia prima adolescenza, il primo amore. Il profumo delle rose e di un futuro possibile”
“E Terence?”
Si guardarono per un istante prima che il suono della sirena colmasse il silenzio, era l’allarme antiaereo. Entrambi balzarono in piedi scrutando il cielo “stanno arrivando gli Stuka!”
Candy si voltò verso l’accampamento “non…non possono bombardare il campo ospedale!”
“Ma le trincee sì” Jonathan l’afferrò saldamente per un braccio “dobbiamo tornare alle grotte svelta!”
Corsero a perdifiato a ritroso lungo il sentiero, un velivolo dietro di loro si stava pericolosamente abbassando e Jonathan fu costretto a spingerla in una macchia di pruni, rotolarono tra le sterpaglie e quando Candy riuscì ad alzare il capo riconobbe il suono implacabile di un mitragliatore abbattersi sopra la trincea.
“Vigliacchi!” l’istinto la spinse ad uscire da quel nascondiglio di fortuna e Jonathan fu costretto a trattenerla con tutta la forza che aveva “Candy non fare idiozie!”
“Lasciami!”
Lui la strattonò con rabbia “vuoi andare a morire Candy! E’ questo che vuoi!”
“Dobbiamo fare qualcosa Jonathan…dobbiamo…” ma l’espressione del ragazzo era inequivocabile ed anche lei sapeva bene che nulla si poteva fare, sì lasciò cadere a terra schiacciata dal peso dell’impotenza mentre lo Stuka si rialzava in volo dopo aver preteso il suo tributo di sangue.
 
 
Quando poterono ritornare al campo lo spettacolo che si presentò loro era agghiacciante, soldati, infermieri e medici correvano da un capo all’altro delle trincee, sembravano formiche impazzite mentre con barelle o mezzi di fortuna caricavano i pochi superstiti per portarli verso le tende. Candy riconobbe Anne, era pietrificata accanto ad uno degli accessi alla trincea, le mani tremavano visibilmente, la bocca sembrava voler emettere suoni ma la voce non usciva. Candy le fu accanto “Anne” l’attirò a sé “Anne!”
“C…Candy…Candy” scoppiò in lacrime “moriremo Candy, moriremo!”
“No tu non morirai. Ascoltami ora devi ascoltarmi” la scosse ancora “devi tornare alle grotte entrerò io nella trincea, dov’è Flanny?”
Anne scosse il capo “non lo so non lo so”
“Va bene, respira Anne okay, ne abbiamo viste tante non devi mollare ora. Respira e torna alle grotte”
“ E se attaccassero di nuovo? E se colpissero le grotte? Ci cadrebbero addosso Candy moriremmo tutti schiacciati.”
“Quei mitragliatori non possono nulla contro le grotte” intervenne Jonathan “stai tranquilla e fa quel che dice Candy.”
Anne si sforzò di annuire, respirò profondamente un paio di volte riuscendo ad allontanarsi.
“Non credevo avrebbero mai fatto una vigliaccata simile!” Candy era fuori di sé
“Probabilmente era un solitario” commentò Jonathan fissando inorridito corpi mutilati e agonizzanti, le urla strazianti che provenivano dalla trincea.
“Candy!”
“Flanny!” fu sollevata di vederla sana e salva
“Il Dottor Martin ha bisogno di quante più infermiere possibile te la senti di andare alle tende operatorie?”
Candy annuì con convinzione poi si voltò verso Jonathan “anche tu devi andare alle grotte io tornerò presto”
“Potrebbe esserci un altro attacco”
“Non ho intenzione di morire Jonathan ci sono ancora molte cose che devo fare. Ti prego aspettami alle grotte.”
Ma Jonathan fu irremovibile “sarò molto più utile quaggiù, avranno bisogno di braccia forti per trasportare i feriti”
“Ci serve tutto l’aiuto possibile ”asserì Flanny “stanno iniziando a violare le regole, sulla costa si combatte da tre giorni senza sosta e gli Uboot stanno tentando di affondare quante più navi possibili, pare che un piroscafo inglese  sia stato  silurato la scorsa notte.”
Jonathan impallidì “vuoi dire che non è possibile attraversare la Manica?”
“Solo un folle lo farebbe.”

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Capitolo 17
*** A ognuno la sua guerra ***


 
Gli ultimi raggi di sole tagliavano un orizzonte rossastro, in un contesto normale un simile tripudio di rosso e arancione avrebbe incantato la vista di ogni passante, scaldato il cuore di nuovi innamorati giunti a Point Sublime per legare ad un così suggestivo nome la promessa di un futuro radioso. Ma gli occhi che ora fissavano quel cielo cremisi altro non vedevano che morte, come se anche il cielo si fosse tinto della tragedia degli uomini e non vi fosse più pace nemmeno in esso.
Flanny si sciacquò le braccia ed il viso con l'acqua gelida, aveva perso il conto di quanti erano morti quel giorno. Nelle trincee era piombato un silenzio pesante, volti esausti di giovani soldati, taluni contemplavano il filo spinato o fissavano ossessivamente il grilletto del loro revolver, un colpo e tutto sarebbe potuto finire, la morte indotta come fine di un incubo.
"Animo!" esclamava Flanny "non volete tornare alle vostre case e ai vostri cari?! E allora non pensate di buttar via la vita e combattete per loro!"
Così dicendo la più stoica delle infermiere si allontanava celando abile le lacrime che premevano per uscire, sapeva che quelle parole erano vuote, nemmeno lei ci credeva più.
Raggiunse Candy, la ragazza era seduta su di un grosso sasso, l'uniforme macchiata dell'ultima vita di molti, i capelli biondi liberi dalla cuffietta, ondeggiavano pesanti nel vento del crepuscolo, le mani erano congiunte in grembo e lo sguardo smarrito verso ovest. Flanny trasse un profondo respiro, ad ovest oltre l'oceano la guerra non c'era, ad ovest loro avrebbero ritrovato le loro case, ad ovest avevano lasciato l'ingenuità dell'adolescenza, i sorrisi, la fiducia del domani. Flanny sapeva che non avrebbero mai potuto tornare ad essere quelle di prima, nemmeno Candy e questo la logorava maggiormente.
"Candy..."
"Ti ho mai detto che il mio caro amico Steal è morto qui a Etaples" Candy non si era voltata verso Flanny, seguitava a guardare un punto indefinito "non trovarono mai il corpo e la tomba che abbiamo commemorato a Lakewood in realtà è vuota. Steal non ha potuto tornare a casa per riposare in pace. Ogni volta che cammino tra questi campi mi chiedo se per caso io non stia calpestando l'esatto punto dove cadde il suo aereo."
Flanny sedette sulla pietra accanto a lei, era la prima volta che si trovavano così spalla a spalla, stanche e inermi di fronte alla follia umana, una follia troppo grande per loro.
"E' per questo che sei voluta venire a Etaples?"
"Forse sì. Se fossi Dio cospargerei queste colline di fiori, un tripudio ogni primavera, così che in qualunque luogo la terra abbia preso il corpo di Steal io abbia almeno il conforto di sapere che un fiore sboccia ogni anno."
Flanny deglutì e poi un timido sorriso le piegò le labbra "quando arrivai qui due anni fa il campo non era così, ovunque tu volgessi lo sguardo c'erano distesi di papaveri e non ti scordar di me. Era così bello Candy. Vedrai, quando tutto questo sarà finito tutto rifiorirà."
Candy faticò a trattenere un tremito nella voce "ne sei certa Flanny?"
"sì ne sono certa."
Candy si voltò finalmente a guardarla, doveva aver pianto molto, "voglio crederti Flanny. Grazie. Se tu non fossi stata qui non avrei retto ne sono sicura, non sarei sopravvissuta a tutto questo."
"Sei molto più forte di me Candy credimi, nonostante tutto tu vedi ancora il domani molto più di quanto possa vederlo io."
La bionda alzò le spalle "non vedo più nulla Flanny se non quello che mi sta davanti"
"torniamo alle grotte Candy, dobbiamo lavarci e dormire e immagino vorrai accertarti delle condizioni di Terence."
"Terence" ripetè Candy "oggi non ho pensato a lui nemmeno un istante è come se me ne fossi scordata..."
"è normale con tutto quello che è accaduto"
"forse lo è"
"fa freddo Candy..."
Candy annuì "da bambina io e la mia amica Annie ci sedevamo lungo la staccionata che circonda la Casa di Pony, stavamo fin oltre il crepuscolo tenendoci per mano in attesa che il cielo mostrasse le prime stelle e noi potessimo esprimere il desiderio di essere adottate insieme. Ma più che il desiderio quello che a me piaceva era stare là con il naso all'insù e la calda mano di Annie a stringere la mia, non mi sentivo mai sola in quel momento. Chissà come sta Annie..."
Candy avvertì la mano di Flanny porsi sopra la sua, la strinse con forza e con l'altra mano indicò il cielo "guarda Candy è la prima stella della sera"
Candy stavolta non riuscì a trattenere altre lacrime "sì…sì la vedo"
"Stiamo così...stiamo così ancora un po'" disse Flanny e le loro mani si strinsero più forte l'una nell'altra.
                                                                                                              ***
 
Wissant, un fondale roccioso colpito dalle onde, lo scafo dell'Olympic era stato squarciato da un grosso scoglio ma era sopravvissuta all'attacco degli Uboot, fortuna che il piroscafo Liberty non aveva avuto, silurato a poche miglia dalla costa di Le Havre.
Albert era avvolto in una coperta nascosto tra le cavità della roccia a ridosso del mare, con lui il comandante ed altri due marinai scrutavano il passaggio silenzioso degli uboot a non molta distanza, come squali giganti si aggiravano per la manica in attesa delle prede.
"Abbiamo avuto fortuna! E tu che volevi a tutti i costi farci raggiungere Le Havre brutto idiota! A quest'ora i nostri corpi starebbero in fondo al mare. Stupido americano!" sbraitò un marinaio in direzione di Albert.
"La finisca signor Pete, l'importante è che siamo salvi e con noi anche il carico di armi. L'ultima cosa che occorre ora è che vi mettiate a battibeccare come vecchie galline" il capitano scrutò ancora una volta il mare con il binocolo "ci muoveremo alle prime luci dell'alba di domani, dobbiamo proseguire verso Le Griz Nes" scrutò poi Albert “so cosa vuoi sapere americano, la via più breve per raggiungere Etaples è attraverso Boulogne sur Mer, laggiù si trova il corpo di spedizione britannico e la città è ben difesa” lanciò un’occhiata al mare “al momento è il luogo più sicuro che possiamo trovare in quest’inferno ma non sarà facile arrivarci” estrasse una mappa umida dal giubbotto della divisa e indicò un punto sulla costa, Albert si sporse per guardare meglio “noi dovremmo essere all’incirca in questo punto, seguiremo per un po’ la costa finché è buio per poi ripiegare nell’entroterra”
“quanto ci vorrà per giungere a Boulogne?”
Il comandante schioccò la lingua sul palato “non meno di nove ore se ci muoviamo velocemente, ma questo ci avvantaggia poiché potremo muoverci con il favore dell’oscurità” estrasse la bussola “confidando nel senso dell’orientamento”
Albert accennò un sorriso “sono piuttosto bravo a muovermi in territori impervi”
“ma davvero?” lo canzonò l’altro “e allora mettiti su quelle gambe e cammina e anche voi avete sentito mettiamoci in marcia!”
“abbiamo perso oltre 50 uomini e molti sono stanchi e feriti” asserì un giovane ufficiale di bordo “è una follia pensare di giungere indisturbati fino a Boulogne”
“ha altre idee signor Farrel?” lo schernì il comandante “preferisce che aspettiamo qui come tonni spiaggiati l’arrivo di qualche contingente nemico a finire quello che hanno fatto gli Uboot? Siamo in guerra signori e la morte è in preventivo”
“ci state guidando alla cieca, chi ci dice poi che il corpo di spedizione britannico sia ancora a Boulogne?!”
Albert comprese la preoccupazione di quel giovane, preoccupato com’era stato di raggiungere Candy il prima possibile non si era reso conto che la maggior parte di coloro che lo circondavano erano poco più che ragazzi traghettati ad una morte certa in una terra straniera.
“credo che Farrel abbia ragione comandante” asserì con voce ferma “una ricognizione sarebbe forse la soluzione migliore”
“da quando siete stato elevato al grado di comandante signor Andrew?!”
“ho combattuto in Italia in una zona molto difficile e so come muovermi senza dare nell’occhio, potremmo muoverci in un piccolo gruppo e raggiungere il corpo di spedizione alle prime luci dell’alba, a quel punto potremo avere rinforzi per consentirvi di raggiungere la città.”
Il comandante dapprima lo guardò incredulo per poi scoppiare a ridere “americano stolto credi davvero che lascerebbero il loro avamposto per prestarci aiuto? Avrai anche combattuto ma sai davvero poco di tattica militare” sospirò per poi volgere lo sguardo ai sopravvissuti “vi concedo la ricognizione, ciò vi permetterà di accertarvi che lungo la strada non ci siano appostamenti nemici e qualora ci fossero troverete altre vie per arginarli. Se al tramonto di domani nessuno di voi farà ritorno io e gli altri ci muoveremo ugualmente.”
                                                                                                              ***
“Miei cari…” cominciò il vicario.
“Chiedo scusa,” disse una voce “chiedo scusa ma non vedo niente”
Il vicario tossì
“vedo soltanto una spalla e una volpe morta” riprese la voce in tono paziente “sono anni che frequento questa chiesa e sono un membro attivo nelle attività benefiche, pertanto credo sia mio diritto poter vedere in faccia il celebrante”
“Ah Elroy sei tu?” esclamò Maud Brighton, ultimo pilatro della famiglia nonché nonna adottiva di Annie, “non ti avevo notata…ti sei rimpicciolita con l’età. Ecco così va meglio?” e si spostò di qualche centimetro a destra.
“”Grazie Maud”
“Forse la veletta ti disturba, Elroy? Non sarebbe un’idea sollevarla?”
“Vedo benissimo attraverso la veletta, è la sua funzione”
“Sì beh non è il momento di parlare di cappelli” Maud si girò nuovamente verso il vicario, non aveva nessun rispetto per gli ecclesiastici, suo fratello aveva fatto donazioni alla chiesa che era vissuta della sua munificenza, come adesso viveva della generosità degli Andrew. Per Maud il vicario era uno stipendiato. Lo guardò con fermezza.
“Proceda” intimò.
Il vicario sospirò, procedette e completò la preghiera iniziale.
All’uscita della chiesa di Lakewood tra Maud Brighton e Elroy Andrew era ben tangibile l’ostilità, entrambe le donne, contornate dalle rispettive “ancelle”, stavano ferme ai lati opposti della scalinata bianca. A Maud Brighton era rimasta indigesta la deprecabile mossa che la matriarca degli Andrew aveva giocato alla nipote, e sebbene Maud non fosse stata propriamente entusiasta al tempo dell’adozione della piccola Annie, trovava inaccettabile il comportamento della coetanea. I loro dissapori infatti non erano nuovi, fin da ragazza le due donne erano vissute in costante rivalità, e sebbene il nome dei Brighton non fosse altisonante come quello degli Andrew, Maud riteneva Elroy Andrew poco più di una contadina arricchita. Sfoderando la sua miglior faccia tosta si diresse verso Elroy scatenando un brusio eccitato tra tutte le altre donne presenti.
“Elroy cara spero tu non ti sia offesa per la questione della veletta”
“certo che no, sono certa che il tuo fosse solo uno spassionato consiglio e di certo non è colpa tua se non conosci la funzione della veletta, me l’ha fatta pervenire mia nipote Iriza direttamente da Boston, comprendo che vivendo tu isolata nelle campagne non abbia molta dimestichezza con la moda odierna. Forse dovresti chiedere a tua nipote, i giovani sono così sagaci nelle novità.”
Le labbra di Maud si piegarono in un tiratissimo sorriso “Boston deve essere un po’ in ritardo sulle novità evidentemente, la veletta era già in voga a Parigi ben prima della guerra ed era altrettanto superata allo scoppio del conflitto. Devo averne una a casa simile alla tua, di un colore più delicato, chiusa in qualche baule. E’ sempre difficile sbarazzarsi delle cose vecchie non trovi?!”
“Attenta Maud, quella volpe che porti sulle spalle potrebbe non essere morta e morderti a tradimento”
“Oh ci sono ben altre bestie che mordono a tradimento” le si fece più vicina “delle serpi che si nascondono dietro lo stemma di famiglia credendo di essere migliori di altri, proprietari terrieri arricchiti il cui nome ha origine nella polvere e, nonostante il denaro, proprio come le serpi, nella polvere seguitano a strisciare.”
La schiena di Elroy si irrigidì “un vero peccato che tu abbia tanto insofferenza verso i proprietari terrieri, cara Maud. Capisco la frustrazione di essere una nobile decaduta la cui famiglia era già squattrinata quando mise piede in America. Anche tuo marito era un piccolo proprietario terriero mi risulta, e così è anche il tuo povero figlio. Se non ricordo male fu tuo padre a vendere il titolo nobiliare agli yankee visto che non avevate più nulla nel piatto. Posso solo immaginare come tu ti possa sentire. Tuttavia nella solitaria vita che conduci hai una compagnia deliziosa come quella di Annie, che cuore splendido ebbe tuo figlio ad adottare un’orfanella di chissà quali tristi origini.”
Se Maud Brighton ne avesse avuto la possibilità avrebbe volentieri rotto sulla testa di Elroy il suo bastone da passeggio, per trattenersi strinse il pomello d’argento all’apice tanto da rischiare di farsi male.
“Mia nipote è una brava ragazza Elroy, a differenza della tua che ha la tragica fatalità di somigliarti in aspetto e soprattutto in cattiveria e alla quale stai disperatamente tentando di trovare marito e con una certa difficoltà. Motivo in più per sottolineare che le origini in questo caso non sono garanzia di elevazione intellettuale. Ho sentito inoltre dire che il tuo William è partito per la Francia per recuperare la tua di orfanella e voci sempre più insistenti nell’alta società parlano di un probabile connubio a nozze tra i due” Maud stavolta sorrise vittoriosa notando lo sconcerto sul viso di Elory “sarò la prima a godere della loro unione.”
“Non ci sarà nessuna unione!” trasalì la donna iniziando a perdere la proverbiale compostezza “e chiunque metta in giro queste dicerie stai pur certa che avrà di che pentirsene”
Maud non ribatté ma l’espressione vittoriosa con la quale si allontanò da Elroy diede il via ad un pettegolezzo continuo anche nei giorni a seguire.
 
Chiusa nella biblioteca Elroy camminava nervosa da una finestra all’altra, di tanto in tanto lanciava nervose occhiate alla porta in attesa che George o chi per lui si palesasse dopo che con improrogabile urgenza l’aveva fatto convocare. Poco prima dell’ora del tè George fu annunciato nella stanza e Elroy non gli diede nemmeno il tempo di varcare la soglia investendolo con ben poca diplomatica conversazione.
“che notizie?”
“vostro nipote sta conducendo un ottimo lavoro con i nostri investitori, pur avendo appena iniziato trovo che sappia gestire molto bene gli affari della famiglia, ho già scritto al signor William per informarlo della buona capacità del signorino Archibald”
Elroy lo fissò spazientita “e a quale indirizzo avresti scritto a mio nipote?”
“in quello della tenuta in Inghilterra madame”
Elroy sembrò rasserenarsi “vuoi dire che è ancora in Inghilterra? Oh il cielo sia lodato, forse ha desistito in quella follia di raggiungere quell’irresponsabile orfana in Francia”
“a dire la verità pur scrivendogli spesso sono ormai diversi giorni che non ho notizie del signor Andrew”
La ritrovata serenità di Elroy s’infranse come uno specchio “cosa vorresti dire? Non sai dov’è mio nipote!”
“ho motivo di credere che abbia raggiunto la costa francese, se così fosse è spiegabile il motivo per il quale le comunicazioni siano difficili”
“oh il mio povero William” la donna si lasciò cadere sulla poltrona “qual è la situazione in Francia?”
George rimase in silenzio
“me lo dica ho il diritto di sapere!”
“la situazione non è facile, giungono continue cronache di diverse battaglie e gli alleati sono in difficoltà specie sul fronte occidentale”
Elroy si portò una mano al petto, l’angoscia e la rabbia le si rimescolavano in petto come mulinelli “non hai modo di riportarlo a casa?”
George comprese la paura della donna “purtroppo il non sapere dove si trova non aiuta ma state pur certa che mi adopererò affinché il signor Andrew ritorni sano e salvo”
“mi ha sempre dato preoccupazioni” asserì lei spostando lo sguardo verso la finestra, oltre gli alberi era possibile distinguere il tetto della villa abbandonata “da quando sua sorella è mancata lo spirito di William è stato sempre irrequieto, prima quell’incomprensibile vagabondare per il mondo, poi il capriccio di adottare quell’orfana scriteriata, l’arruolarsi in guerra ed ora tornare nuovamente in mezzo all’inferno europeo lasciandomi nella più totale disperazione” prese un profondo respiro “ho già seppellito tre dei miei nipoti e per ciascuno di essi avevo grandi speranze sull’avvenire. Quando Rosemary morì fu terribile ma qualcuno doveva pur occuparsi di Anthony, lo allevai come avrei voluto allevare William. Oh sì Anthony era l’Andrew perfetto, la rosa più fulgida di questa famiglia.”
“sono molto addolorato della vostra sofferenza”
Un sorrisetto nervoso abbozzò sulle labbra dell’anziana “tutti si dichiarano addolorati ma poi lasciano me ad occuparmi di ogni cosa” raddrizzò la schiena e George ebbe l’impressione di trovarsi di fronte ad una sfinge “ bisognerà pensare ad ogni evenienza Geroge”
“evenienza ma’am?”
“nessuno può assicurarci che William farà ritorno, potrebbe perire in Francia o farsi traviare da Candice e finire ingaggiato in un circo…la cosa non mi stupirebbe.”
“capisco che siate arrabbiata ma…”
“sono ben oltre che arrabbiata! Ho vissuto tutta la mia vita per questa famiglia, l’ho protetta e difesa a spada tratta per ogni singolo giorno, dovresti saperlo. Se gli Andrew sono ai vertici lo si deve a me, e tuttavia nessuno dei miei nipoti, troppo avvezzi a distrazioni e sentimentalismi, sembra aver ereditato quel briciolo di amor proprio necessario al proseguimento di questa famiglia. Ci servono barricate più solide George, come un patto indissolubile che possa garantire la stabilità negli anni avvenire.”
“avete già qualcosa in mente?”
“Archibald dovrà prendersi maggiori responsabilità, a differenza di William posso almeno contare sul fatto che Archi abbia a cuore il suo nome e il suo lignaggio dobbiamo solo evitare che si lascia irretire da innamoramenti dannosi”
“vi riferite alla signorina Brighton?”
“hai capito perfettamente a chi mi riferisco, George. Seppur tu ti finga distaccato so bene che nessuno meglio di te conosce le dinamiche di questa famiglia”
George non rispose.
“voglio che mio nipote sposi Iriza, è questo il patto a cui mi riferivo”
George si mostrò perplesso “non credo che il signorino provi alcun interesse per la signorina Legan”
“gli uomini sono facili a corrompersi specie se si creano le condizioni” si alzò in piedi dandogli le spalle “organizzerete un agenda e per ciascun evento vi assicurerete che sia Archibald che Iriza vi partecipino insieme”
“come volete ma’am”
“e non una parola con William, non voglio che tu lo avverta di questa faccenda, spero di essere stata chiara.”
“non volete che lo avvisi?”
Elroy si voltò a fissarlo “ve lo proibisco George, l’unica cosa che dovete fare con William è trovarlo e riportarlo a casa.”
 




Continua….
 
 

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Capitolo 18
*** Profumo di lavanda ***


New York marzo 1915
 
Due gocce di olio di lavanda sui polsi, il profumo la calmava. Le piaceva farsi consegnare quelle boccette adornate da nastrini lilla, la parfumeur le consegnava direttamente a casa in piccoli cestini carichi di fiori. Susanna si sentiva come una bambina ogni qualvolta la cameriera gliele portava in camera, quel piccolo regalo profumato la rasserenava. “Se fossi una bambina potrei chiamarti Lavender” sussurrò in direzione del ventre per poi scoppiare a ridere poco dopo “no è davvero terribile mi odieresti per tutta la vita.” Si adagiò meglio contro il cuscino del letto fantasticando sull’aspetto del bambino, forse con i capelli chiari come i suoi e gli occhi di Terence, oh sì Susanna era certa che gli occhi sarebbero stati uguali a quelli del suo amato. “Juliet” disse infine rivolta verso le vetrate della finestra “sì potrebbe essere questo il tuo nome, un riscatto per me per non averla potuta interpretare. Di certo con un destino meno tragico tesoro mio, farò in modo che tu sia la bambina più felice di questo mondo” sbatté le palpebre quasi sorpresa “ma se tu fossi un maschietto? In quel caso forse a Terence piacerebbe scegliere il tuo nome. Dovrò dirglielo prima o poi, cosa ne pensi? Temo che mamma sospetti qualcosa e la cameriera ha di certo notato che sono aumentata, sei un segreto che non posso più mantenere a lungo.”
Qualcuno bussò alla porta facendola sussultare, di lì a poco sua madre entrò nella stanza con il vassoio del tè.
“come ti senti tesoro?”
“sto bene mamma”
“con lo spavento che ti sei presa per colpa di quel Francis ho temuto potessi riammalarti”
“Francis è molto fragile mamma, quello che ha fatto non lo si può certo ritenere una colpa. Terence mi ha raccontato quanto accaduto, è stata la guerra a ridurre Francis in quello stato.”
“tu sei troppo buona figlia mia”
Susanna si incupì “è solo che so bene cosa significa desiderare di morire” si pentì un istante dopo di aver detto quella frase notando il pallore improvviso sul volto di sua madre.
“ma sono contenta di non aver saltato quel giorno, ora sono felice…ho davvero un ottimo motivo per esserlo.”
“il dottore viene più spesso ultimamente ma non mi da grandi informazioni sulla tua salute tirando in ballo il segreto professionale. Il mio povero cuore è già stato messo a dura prova a sufficienza perciò vuoi dirmi che sta accadendo?”
“nulla mamma, il dottore è solo gentile e vuole accertarsi che io mi stia rimettendo”
La donna la scrutò con attenzione “hai preso peso”
“mangio molto di più”
“la domestica mi ha detto che hai rimesso ogni mattina negli ultimi giorni”
“pare che io sia sotto stretta sorveglianza dunque”
“non alterarti ma sono tua madre e pretendo di sapere se c’è qualcosa che non va in mia figlia”
Susanna trasse un respiro “a parte essere storpia e trattata come una povera martire direi che non c’è nulla che non vada”
“Susanna!”
“perché non è forse la verità? Sono stanca di essere guardata con commiserazione specialmente da te, entri in questa stanza e mi carichi addosso la tua ansia, è come se fossi una bambola rotta e pare che tu non veda altro.”
“sono solo preoccupata per te Susanna, sono tua madre e per quanto possa sembrarti strano una madre ha a cuore solo i suoi figli, non lo puoi capire ora ma un giorno…”
Istintivamente Susanna le afferrò la mano stringendola “non ti sto biasimando mamma, capisco che tu soffra della mia condizione quanto e più ne soffra io, ma ho bisogno che tu mi dia forza specie ora, perché saprò molto presto cosa significa essere madre.”
La signora Marlow si ritrasse istintivamente “cosa vuoi dire?”
La ragazza sorrise “aspetto un bambino mamma, è per questo che il dottore viene così spesso”
“ma com…non è possibile…io stessa ho sentito dire al dottore che per te una gravidanza è pericolosa” si premette le mani contro il petto come a voler strozzare un singhiozzo “non dovevi Susanna! Non…quel mascalzone!”
“mamma”
“ogni cosa è colpa sua, la fine della tua carriera, la tua condizione ed ora questo!
“mamma!”
“si è approfittato di te non pensando al rischio al quale ti sta esponendo, oltretutto fuori dal matrimonio!”
“smettila!smettila!smettila!” si sporse oltre il bordo del letto rischiando di cadere “sei ingiusta con Terence, lo sei sempre stata. Io lo amo e provo una gioia immensa per l’arrivo di questo bambino, come fai a non capirlo?! E’ come se potessi rinascere anch’io attraverso di lui e tu invece ne stai parlando come se fosse una sciagura.”
“perché lo è Susanna, lo è per la tua salute e la tua reputazione”
“reputazione? E’ questo che ti affanna tanto? Solo perché non siamo sposati?”
“Non è questione da poco e tu lo sai, come può non averti ancora chiesta in sposa sapendo quanto sta avvenendo!”
“Perché lui non sa nulla mamma!” Susanna quasi lo gridò “Terence non sa nulla del bambino”
“beh allora ci penserò io a farglielo ben presente” così dicendo la donna si avviò verso la porta
“se sarai tu a dirglielo ti odierò per sempre e mai, e giuro mai, ti rivolgerò ancora la parola”
“Susanna…”
“spetta a me, è una cosa che devo fare io nel momento che riterrò opportuno”
La signora Marlow tentennò, combattuta tra la rabbia, la necessità di ribattere e l’impulso di abbracciare forte sua figlia.
“come vuoi Susanna” lacrime scendevano silenziose lungo le guance “come vuoi tu figlia mia.”
 
***
Dalla tenda uscivano come una carezza nell’aria le note della Clair de lune, si espandevano sul silenzio delle trincee, sui volti esausti delle infermiere, sulle croci improvvisate sotto le quali giacevano nuovi morti. Le dita di Jonathan scivolavano sicure e delicate sulla tastiera del piccolo piano al centro di quel luogo che le giovani crocerossine avevano battezzato la tenda di decompressione. Un piccolo riparo di pochi metri dove si tentava di ricordare che al mondo poteva esistere ancora bellezza. Flanny stava in un angolo con le mani chiuse attorno ad una tazza di latta, dentro la parvenza di una bevanda calda allungata con del cognac le scaldava lo stomaco. Le altre infermiere, sedute sul pavimento e con gli occhi di chi non aveva più lacrime seguivano ipnotizzate i movimenti delle dita del ragazzo, non c’era suono di bombardamenti o di mitragliatori, quella notte regalava il suo silenzio ammettendo quella sola melodia che tutte desiderarono continuasse in eterno. Candy stava appena fuori la tenda, aveva cenato insieme alle altre con del pane e qualche patata e poi aveva provato il bisogno impellente di allontanarsi e stare sola. Era grata a Jonathan, a quella sua poeticità insita e a quella sua forza, la stessa forza che Candy sentiva di aver perduto. S’ allontanò in direzione delle grotte, un percorso che le sue gambe percorrevano a memoria senza che lei ne avesse contezza. Svoltare tra gli anfratti scuri, l’odore di sangue e disinfettante, quella notte anche i lamenti dei soldati erano timidi, forse anche loro, seppure si distinguesse sempre più fievolmente, riuscivano ad udire il pianoforte. Anne era ferma davanti ad un fornelletto che già faceva bollire l’acqua, era riuscita a dormire quel pomeriggio ma lo shock dell’attacco aereo l’aveva profondamente traumatizzata. “Anne va a riposare ci penso io ora”
“anche volessi non riuscirei a dormire” nel dirlo Anne si voltò, teneva stretta al petto una boccetta scura, avanzò di un passo verso Candy passandole un dito sul labbro superiore, la ragazza avvertì un intenso profumo “lavanda?”
Anne annuì “la uso ogni tanto per calmarmi ma ormai è quasi terminata, la comprai il primo giorno che venni qui. Immagino sia introvabile ora” disse sconsolata “dammi i polsi” e prima che Candy potesse capire la ragazza le aveva versato qualche goccia su entrambi i polsi “ lo faceva mia madre quando ero bambina ed avevo gli incubi, la chiamava la magia lilla”
Candy l’annusò, il dolce sentore della lavanda per un istante le fece venire alla mente i prati fioriti della collina di Pony.
“Non sprecarla Anne” le pose una mano sulla spalla “ora preparati del latte caldo e cerca di dormire, stanotte mi sembra tutto tranquillo posso cavarmela da sola”
Anne inizialmente riluttante accettò poi di coricarsi per qualche ora “e va bene ma chiamami se dovessi avere bisogno”
Candy annuì per poi voltarsi verso le brande alle sue spalle, taluni soldati stavano dormendo, altri fissavano il nulla, più di una volta Candy si era domandata quali immagini orribili la loro mente dovesse riproporre, sui giovani volti scavati sembravano essersi snodati migliaia di anni, lo spazio per l’innocenza non esisteva più. Prese un profondo respiro passando in rassegna ogni branda, sistemò coperte e cuscini di fortuna, coprì chi rimaneva scoperto, offrì qualche parola di conforto a chi tremava, ed infine si diresse verso l’ultima branda accostata alla parete di roccia.
“Come stai questa sera Terence?” lo chiedeva ogni sera sapendo che non avrebbe ottenuto alcuna risposta “fuori un mio caro amico sta suonando il pianoforte credo ti piacerebbe” Candy dapprima evitò di guardarlo, non sarebbe stata in grado di nascondere il turbamento, gli sistemò le lenzuola sgualcite e la coperta, il volto in penombra del ragazzo non lasciava intendere quale fosse la sua espressione, ma Candy già la conosceva. Sporse il braccio oltre la testa di Terence per sistemargli il cuscino e fu in quell’attimo che si sentì afferrare il polso tanto che sussultò di sorpresa, la mano che l’avvolgeva era gelida.
“Terence”
Il ragazzo avvicinò il viso al polso di Candy, lo stesso polso sul quale Anne aveva versato le gocce di lavanda, alzò poi gli occhi a fissarla e quello che Candy vide la spaventò, gli occhi di Terence erano scuri, il mare più profondo che lascia indovinare l’abisso, c’era un dolore quasi palpabile in quegli occhi, in quell’espressione trasfigurata. Candy si accorse di tremare, un tremito simile a quello che la lasciava sfinita nei giorni di febbre, il silenzio le parve assordante.
“che cosa c’è Terence?” riuscì a dire in un tono neutro sperando che il ragazzo parlasse “cosa ti ha turbato? Me lo puoi dire lo sai, ti puoi fidare di me” la presa intorno al polso si fece meno salda e Candy si sentì vacillare, sapeva che se quel contatto si fosse spezzato Terence sarebbe tornato a rinchiudersi in un limbo dal quale lei non sarebbe stata in grado di tirarlo fuori e quel pensiero di impotenza la riempì di rabbia, non avrebbe permesso che accadesse. Istintivamente lo abbracciò, lo strinse forte come a volercisi aggrappare, fu impossibile non rievocare quel lontano inverno newyorkese, quando lui rincorrendola per le scale l’aveva abbracciata a sé, era stato un contatto così rapido, un addio così doloroso che Candy lo ricordava in ogni minimo particolare. Il corpo forte di Terence che la stringeva, le lacrime che entrambi avevano versato per quel destino beffardo che li divideva definitivamente. Ora quello stesso corpo era magro e pallido e portava un’infinità di ferite, e le più profonde non erano visibili ad occhio nudo e non sarebbero bastate bende e medicine per poterle guarire.
“Terence ti prego parlami, dimmi che ti ricordi chi sono, ti prego ti prego” ma la supplica non venne ascoltata, Terence lasciò il contatto senza dire una parola. In quel momento Candy era certa che Terence la stesse guardando, che la vedesse, sapeva chi era, sapeva che lei era lì e nonostante ciò le sue labbra restavano sigillate. I suoi occhi la fissavano con lo stesso sguardo distante con la quale l’aveva fissata per la prima volta sulla nave per l’Inghilterra, anzi quello sguardo era anche peggio. Se guardi a lungo nell’abisso l’abisso guarderà te. Quella frase imparata sui testi scolastici della Saint Paul’s school le ribalenò alla mente.
“sei crudele Terence” strinse i pugni “così crudele e ingiusto! Credi di soffrire solo tu?! Beh guardati intorno, questi ragazzi non sono da meno di te, nemmeno io lo sono, credi di aver visto cose terribili ma le ho viste anch’io, le vedo ogni giorno e non mi merito questo silenzio! Non merito che tu mi guardi a quel modo!” di nuovo l’impulso di schiaffeggiarlo, di sperare in una sua reazione, se l’avesse colpita sarebbe stato meglio di quell’insopportabile nulla.
“Candy!”
Anne le fu alle spalle cingendola “Candy cosa accade perché sei così scossa?”
“mi spiace” fu tutto ciò che Candy riuscì a dire “mi dispiace Anne dovrò farmi sostituire, ora non me la sento, non me la sento di restare qui dentro, ho bisogno di un po’ di tempo, un po’ di tempo da sola basterà”
“va bene Candy non devi preoccuparti, esci a prendere aria come hai detto tu è tranquillo qui e posso cavarmela, ho già dormito nel pomeriggio e non sono stanca”
“perdonami Anne”
“non c’è nulla di cui io debba perdonarti”
Candy si allontanò velocemente, le sembrava che le pareti della grotta le si stringessero addosso lasciandola senza fiato, quando l’aria esterna la investì fece qualche passo prima di gridare, un grido che le veniva dalle viscere e che aveva trattenuto per troppo tempo. SI ritrovò in ginocchio sul terreno polveroso, non c’era più musica, non c’erano più le luci nelle vicine tende, c’era solo l’insopportabile silenzio dell’attesa, l’attesa della morte.
Qualcuno le adagiò una giacca sulle spalle, riconobbe il tocco gentile di Jonathan ma non ebbe il coraggio di voltarsi per guardarlo.
“Andiamo a passeggiare alla spiaggia signorina Andrew, ci sono le stelle e la luna in cielo se solo avrai il coraggio di alzare lo sguardo”
“non ne ho la forza Jonathan” si strinse nella giacca “ho appena fatto una cosa terribile”
Jonathan le si inginocchiò accanto non aggiungendo nulla ed aspettando fosse lei a proseguire
“sono scappata Jonathan, sono scappata dai miei doveri, non ce l’ho fatta…”
“e dove mai saresti scappata Candy? Qualche metro fuori dalla grotta per prendere aria e buttar fuori quello che ciascuno di noi qui ha dentro?”
“io sono un’infermiera e un’infermiera non deve mai lasciare soli gli ammalati”
Jonathan accese una sigaretta “ti do una notizia Candy, prima di essere un’infermiera sei anche un essere umano e onestamente credo che nessuno ti biasimerà se diserti per qualche minuto”
“non si diserta dalla vita delle persone”
“vero” Jonathan buttò fuori il fumo “ma per non disertare dalla vita del prossimo bisogna prima non disertare dalla propria e il contesto non permette grandi variazioni se non gridare nella notte quanto questo mondo faccia schifo, cosa credi che abbia fatto io stasera suonando quel pianoforte?”
“vorrei essere migliore di quel che sono, vorrei essere come te e Flanny, vorrei non lasciarmi sovrastare da tutto questo.”
La sigaretta finì a terra ancora accesa “tutto questo sta sovrastando chiunque Candy, fingiamo solo che non sia così ma tu non sai quante volte ho meditato di buttarmi dal Point Sublime. Quello che ho visto nella trincea è quello che tu vedi ogni giorno Candy, non credo che avrei mantenuto una gran sanità mentale fossi stato al tuo posto”
“è la prima volta che mi sento così impotente Jonathan, ho già conosciuto la morte di persone che amavo ma tutto questo forse è troppo da sostenere”
“torna in America Candy”
La ragazza scosse il capo “non voglio tornare in America, mi è quasi più insopportabile il pensiero di rientrare che non quello di restare qui. Non posso abbandonare tutto questo. Odierei i verdi prati di Lakewood, faticherei a sorridere con i miei amici e so che non sarei più in grado di vedere la collina di Pony con la stessa gioia di un tempo. Mi consola il fatto di sapere che le persone a me care sono al sicuro, mi consola sapere che c’è un oceano che le separa da questo orrore” finalmente riuscì a guardarlo “detesto il fatto di essere scappata così, di aver avuto l’impellenza di fuggire”
“da chi sei fuggita Candy?”
“dal dolore…”
Jonathan l’abbracciò ponendole un bacio sulla fronte “lascia che ti stringa signorina Andrew dopotutto con me puoi stare tranquilla sono piuttosto innocuo” Candy ricambiò quell’abbraccio, così differente da quello che aveva dato a Terence, la disperazione stava lasciando spazio al calore consolante di Jonathan.
“profumi come un giardino della Provenza” le sussurrò all’orecchio “se chiudo gli occhi potrei essere in un prato di lavanda”
“ci andremo insieme Jonathan, promettimi che quando tutto questo finirà mi porterai in un vero prato di lavanda, che correremo fino a sfinire il respiro e grideremo, grideremo così forte da assordare il mondo”
“te lo prometto Candy” Jonathan l’aiutò a rialzarsi, era stato spontaneo azzardare quella promessa pur sapendo che non sarebbe stato certo facile poterla mantenere. Candy si asciugò gli occhi che tuttavia non sembravano voler obbedire la sua volontà, riuscì a guardare Jonathan e si morse le labbra, si era appoggiata a lui, alla sua forza così come si era appoggiata alla forza di Flanny, improvvisamente il senso di colpa si faceva più intenso, non sapeva nulla dei pensieri di Flanny così nulla conosceva del sentire di Jonathan.
“sei riuscito a trovarlo?” riuscì solamente a chiedere
“no, non ci sono riuscito” mormorò lui faticando a nascondere un tremito nel tono di voce, un tremito appena percettibile ma che Candy era sicura stava vibrando nel cuore del ragazzo con intensa pena.
“hai suonato per lui stasera vero Jonathan?”
Jonathan riuscì a sorridere “non so se sono così altruista Candy, ho suonato per me, ho suonato al me stesso che pensa a lui. Sono un americano egocentrico in fin dei conti”
 ***

New York maggio 1915

Jonathan ripiegò il giornale sul tavolo, le luci del dell’Algonquin erano soffuse, camerieri servivano distillati europei mentre un brusio vivo di intellettuali e giornalisti rimbalzava sulle pareti di mogano scuro.
“modestamente lo reputo un buon articolo ma quella cotica del capo redattore ha avuto a che dire, lo voleva più scandalistico più…com’è che ha detto…” Jonathan si premette teatralmente l’indice in mezzo la fronte “ah sì piccante!”
Scott dall’altro lato del tavolo lo fissava senza capire “non ti seguo”
“sì a lui non gliene frega nulla che io abbia recensito la drammaturgia dello spettacolo, lui vuole sapere cosa accade nella compagnia Stradford, cosa combina quello che doveva essere l’attore di punta, il dramma della Marlow ecc.”
“parli del figlio della Baker?”
Jonathan sorrise divertito “e tu che ne sai della Baker!?”
Scott sembrava imbarazzato “beh so che è un’attrice famosa”
Il sorriso si allargò “oh buon cielo scommetto che tu sei uno di quelli che tiene una foto di Eleonor Baker e Mata Hari nella tasca interna del doppiopetto.
Scott arrossì “non dire idiozie” ma era facile indovinare le sue emozioni, sotto la frangia rossiccia gli occhi color nocciola non sapevano mentire “so solo chi sono tutto qui”
“aha” Jonathan si bagnò le labbra con del brandy, nonostante la ramanzina del capo redattore quella sera si sentiva euforico, era la prima volta che Scott prendeva l’iniziativa di uscire con lui, in un posto così interessante come l’Algoquin per giunta. Ormai si conoscevano da tre anni, un’amicizia inizialmente complicata, fatta di scontri per i loro caratteri così opposti, eppure era stato quell’essere in direzioni contrarie che aveva attratto Jonathan, nel giro di poco si era riscoperto a pensare a Scott costantemente e, pur tentando di negarlo a sé stesso, a nutrire un sentimento che poco o nulla aveva a che fare con l’amicizia disinteressata. Naturalmente si era ben guardato da far capire a Scott quello che provava, sapeva che l’amico sarebbe fuggito a gambe levate probabilmente insultandolo pieno di disgusto. Ingoiò il brandy e accese una sigaretta, diventava sempre più difficile dissimulare quell’interesse.
“hai mai pensato all’amore?” chiese d’un tratto Scott e Jonathan rimase qualche istante a fissarlo tossichiando fumo. Si schiarì la gola “prego?”
“ti ho chiesto se hai mai pensato all’amore”
Jonathan fece finta di riflettere “sì, immagino di sì. E tu?”
“a volte” rispose con tono incerto “ce ne sono tante specie diverse”
“davvero?”
“Beh i figli amano i genitori. I genitori amano i figli. Poi si può amare un amico, un uomo può amare una donna o più di una. Può amarne una dopo l’altra o due nello stesso tempo. Può essere innamorato e può amare veramente. Ci sono moltissime possibilità.”
“non credo che una donna sarebbe poi molto lusingata nel sentirti dire così” rise Jonathan faticando a dissimulare un certo nervosismo poiché per quanto lo riguardava a quelle possibilità non era interessato e le allusioni agli uomini che amavano le donne, dette da Scott, gli davano una pungente sensazione di fastidio. Vuotò altro liquore nel bicchiere per poi tornare a fissare il volto di Scott, un volto che lui reputava straordinario, vissuto, con un’espressione abituale di malinconia dolce e un po’ frastornata. Sembrava molto più vecchio ma aveva poco più di vent’anni. Sentiva che, se avesse confessato l’inconfessabile ( e l’avrebbe fatto perché orami aveva raggiunto il Rubicone) non avrebbe osato guardarlo più in faccia, aveva troppa paura. Spostò la visuale su una donna che sedeva ad un tavolo dietro Scott e fissò il suo ridicolo capellino ornato da una vistosa penna di fagiano.
“E poi” cominciò, con una voce di un tono sopra quella che avrebbe voluto, schiarendola nuovamente “poi immagino che un uomo potrebbe…amare un altro uomo.”
Scott alzò gli occhi su di lui e Jonathan si pentì di aver parlato, gli istanti di silenzio parvero eternità e cercò, senza grandi risultati, di uscirsene con una battuta in merito, come un gioco o una presa in giro.
“Certamente” rispose Scott sorprendentemente, addentando la ciambella che aveva nel piatto con soddisfazione “ottima” sentenziò.
Jonathan si sentiva morire, gli restava al massimo un minuto da vivere perché era certo il cuore avesse smesso di battere, la sua testa sembrava una betoniera, i polmoni si erano gonfiati, le orecchie erano tappate, gli occhi non distinguevano più la piuma di fagiano. Trenta secondi. Venti. Dieci.
“per esempio” commentò Scott “io ti amo”
Jonathan per la prima volta si ritrovò senza parole.
“non avevo intenzione di dirtelo, ma chissà come ho cambiato idea”
“credo mi stia venendo un attacco cardiaco Scott”
“credi sia il fumo?”
“no”
“l’alcol?”
“smettila”
Scott rise “ti stanno tremando le mani”
“credi sia un sintomo di un attacco cardiaco?”
“non lo so”
“neanch’io” riuscì a deglutire e ritrovare aria ai polmoni “forse è felicità, una tremenda devastante felicità, così improvvisa ed estrema che è come una specie di attacco di cuore”
Scott ora lo guardava serio e sollevato come se anche lui avesse ostentato sicurezza per dissimulare la tremenda paura che doveva aver provato nel dirgli quelle cose, e tuttavia era stato molto più coraggioso di lui.
“stai dicendo sul serio?”
“che mi sta venendo un attacco di cuore?”
“no che…sei felice di quello che ti ho detto”
“oh caspita sì!”
Scott parve titubante “perché non me lo hai mai detto?”
Jonathan gli prese istintivamente la mano “evidentemente non ho il tuo coraggio Scott, avevo una paura tremenda che non avresti più voluto vedermi”
“avevo paura anch’io…ne ho tuttora. Ma non sarei più riuscito a tenermelo dentro, non potevo”
“ne sono felice”
“e ora?”
“ora?”
“sì ora che faremo…”
Jonathan sorrise stringendogli più forte la mano “ora vivremo Scott, sfideremo tutto e tutti ma vivremo e ci ameremo”
“la fai sembrare facile”
“no non lo è ma non ho intenzione di lasciarti andare, dovessi anche arrivare a rincorrerti all’altro capo del mondo”
Scott rise più rilassato “la fai sembrare una minaccia”
“chissà magari lo è” e ridendo a sua volta si sporse in avanti rubando un fugace bacio, il brusio intorno si spense per qualche istante per poi riaccendersi con più vivacità di prima.
 

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Capitolo 19
*** À la claire fontaine ***


Je voudrais que la rose
Fût encore au rosier,
Et que ma douce amie
Fût encore à m'aime

Il y a longtemps que je t’aime,
Jamais je ne t’oublierai
 
Il canto proveniva dalle fioche luci del villaggio, le poche case rimaste in piedi avevano audaci lumicini alle finestre, alcune famiglie prese ormai dalla rassegnazione o dall’ultimo moto d’orgoglio erano tornate alle loro case e nel silenzio tombale della notte di Etaples voci anziane e più giovani intonavano le malinconiche parole. Flanny le udiva distintamente, seduta su di una piccola roccia poco distante dalle trincee, picchettava a ritmo le dita su una scodella di latta colma di brodo. “Ho notato che avete la pelle coperta di sfoghi e se mi permettete siete davvero molto magra” a quella considerazione Flanny alzò lo sguardo sull’uomo che le stava di fronte, le sue labbra si piegarono in un amaro sorriso ironico “è così un po’ per tutti dottore” rispose.
“Siete stata di grande aiuto, pronta e meticolosa, una delle migliori infermiere con cui io abbia lavorato, perché non avete studiato da medico?”
Flanny sorseggiò il brodo senza distogliere lo sguardo “perché sono una donna e sapete meglio di me quante porte sbarrate trova una donna che voglia esser medico, ed inoltre non avrei potuto permettermi di pagare gli studi, già frequentare una scuola da infermiera è stato più di quanto osassi sperare. Non vengo da una famiglia abbiente se ve lo state chiedendo.”
“Nessuna delle infermiere che ci sono qui viene da una famiglia abbiente, nessuna proveniente da simili agi resisterebbe a tutto questo” Michel le sedette accanto “perdonatemi se sono stato tanto sfacciato signorina…”
“Hamilton, Flanny Hamilton”
“perdonatemi signorina Hamilton”
Flanny alzò le spalle “di cosa dovrei esattamente perdonarvi dottore?! Posso solo ringraziarvi per essere qui in questo inferno, siete magro e sofferente quanto me eppure vi ho visto calarvi in quelle trincee senza esitazione alcuna. Vi ringrazio anche per essere venuto alle grotte, non avete salvato solo la vita di quell’uomo ma anche quella di Candy, si sarebbe consumata dal senso di colpa se non fosse sopravvissuto” portò la tazza più vicina al petto “pare che anche voi la conosciate bene”.
Michael sospirò perdendo lo sguardo nel buio che li circondava “ho conosciuto Candy in un’altra vita, in un mondo differente da questo. Spero solo che questo orrore non la cambi troppo profondamente.”
“è quel che spero anch’io” mormorò Flanny “che cosa dicono?”
“mh?”
“le parole di questa canzone? La sentite?”
L’uomo annuì “vorrei che le rosa fosse ancora al suo roseto e che il mio dolce amico mi amasse ancora” Michael fece una pausa deglutendo commosso “è da tanto tempo che ti amo e mai ti dimenticherò”
Flanny non disse nulla, batté le palpebre infastidita dal sentire i propri occhi lucidi “sono qui da mesi e ancora capisco poco il francese” esordì rimescolando il brodo nella tazza “molto volte non capisco cosa i ragazzi chiedono, non comprendo appieno le loro necessità, dove hanno dolore, non conosco parole che li possano confortare”
“potrei insegnarvi questa canzone e voi potreste cantarla loro nelle notti come queste”
Flanny parve trasalire “cantare? Ho una voce pessima, la sirena dell’allarme antiaereo è più aggraziata di me”
Michael rise “allora potreste recitargliela, ve la scriverò su un pezzetto di carta”
“non voglio che stiate a perder tempo per me”
“credetemi signorina Hamilton più che un disturbo questo momento per me è un piccolo ritaglio di normalità e di salvezza da tutto ciò che ogni giorno vediamo ed affrontiamo. Sono più che lieto di scrivere qualche riga di bellezza che possa essere di conforto non solo ai malati ma anche a voi.”
“allora vi ringrazio dottor Bertrand”
“Michael vi prego, dottor Bertand mi fa venire in mente un vecchio busto barbuto pieno di polvere”
Flanny parve inizialmente titubante ma poi annuì “e sia, Michael”
L’uomo sorrise di buon cuore “posso azzardare allora di chiamarvi Flanny?” e a quella richiesta anche la ragazza accennò un sorriso “vi concedo l’azzardo.”
“A che ora smonterete il prossimo turno?”
“alle cinque del mattino se tutto va bene”
“vedrò allora di scrivervi la canzone, sarò qui alle cinque per consegnarvela”
“ma…”
“vi prego Flanny”
La più rigida delle infermiere della scuola di Miss Merry Jane si ritrovò senza parole, si strinse un po’ nelle spalle e ringraziò con un cenno del capo.
 
Come questa pietra
È il mio pianto
Che non si vede

La morte
Si sconta
Vivendo.

 -G.Ungaretti

 
Aprì gli occhi lentamente e subito fu costretto a chiuderli per la fitta lancinante che gli prese la testa, si trovava in un luogo dove lame di luce filtravano dalla persiane di legno lasciando intendere che il giorno fosse inoltrato. Cercò di alzarsi da quel giaciglio che odorava di fieno ma le mani erano saldamente legate dietro la schiena e così anche i piedi erano trattenuti da una robusta corda. Spalancò gli occhi chiari per mettere a fuoco la stanza, aveva l’aria d’essere una cucina, alcune cipolle penzolavano sopra una stufa a legna, il fuoco scoppiettava ed una pentola d’acqua bolliva minacciosa. Lo spazio era piccolo, sbatté ancora le palpebre finché non scorse un’ombra rannicchiata sotto la finestra, due schegge verdi e timorose lo fissavano mentre entrambe le mani arano strette intorno ad un moschetto messo in verticale.
Albert cercò di alzare maggiormente la testa “dove mi trovo?” chiese, ma la ragazza che lo fronteggiava non sembrava intenzionata a rispondere “où je suis?” ritentò rispolverando un francese ormai arrugginito. La ragazza si alzò in piedi puntandogli contro il moschetto, capelli ramati le incorniciavano un viso pallido e magro sul quale spiccavano delle efelidi “autrichien? Allemand?” domandò con voce ferma e chiara senza abbassare l’arma.
“No!No!Non sono austriaco o tedesco” ribatté Albert “je suis américain!”
“ich werde dich jetzt toten” la ragazza parlò ancora cercando di scrutare la reazione di Albert ma le fu evidente che il ragazzo non capiva il tedesco. Abbassò il moschetto appoggiandolo al muro “perché qui americano?”
Albert avvertiva la testa pulsare, doveva essere stato colpito con forza “devo raggiungere Boulogne Sur Mer, ricongiungermi con il battaglione inglese”
La ragazza scosse il capo quasi divertita “nulla trovi” 
“vuoi dire che se ne sono andati? E dove? Chi mi ha portato qui?”
Lei scrollò le spalle recuperando una mela dal fondo di un cesto, l’addentò e non disse altro. 
“liberami ti prego, non sono una minaccia, non ti voglio fare del male. Liberé moi s’il te plait”
“no, tu sta lì” perentoria addentò un altro pezzo di frutto “
“devo andare ad Etaples…laggiù c’è una persona molto importante per me che io…io devo vedere”
La ragazza scostò una ciocca ramata che le ricadeva malamente sul viso, si accucciò per poter fissare Albert alla stessa altezza “prima detto Boulogne sur Mer” piegò leggermente di lato la testa quasi in modo beffardo “ora Etaples?”
“credimi…crois moi…”
La ragazza si alzò di scatto “no!non je te ne crois pas! Tout le mond ment et revient ici pour nous tuer”, gettò malamente a terra il torsolo della mela e si diresse verso la porta.
“ascolta ti prego”
“tais toi!” e ordinandogli di tacere uscì dalla stanza senza consentirgli di protestare ancora. Albert fece forza sulla schiena, doveva in qualche modo riuscire a liberarsi ma nello sforzo si rese conto della ferita che gli traversava in diagonale la schiena, la sentiva tirare terribilmente sulla pelle, sotto la giuba lacerata e incrostata di sangue. Quella giovane doveva averlo medicato in qualche modo, era stata comunque lei a procurargli la ferita? Tentò di ricordare quanto era avvenuto dopo che aveva lasciato i suoi compagni per andare in ricognizione, ma c’era solo oblio. Provò la stessa orribile sensazione che aveva provato anni addietro quando in Italia aveva perso la memoria, quel senso si sospensione che talvolta lo aveva portato sull’orlo della pazzia. Cosa avrebbe fatto se non fosse stato per Candy e le sue cure? Con un moto di rabbia e dolore riuscì a sedersi, doveva raggiungere Etaples ad ogni costo; riuscì a strisciare sulle ginocchia, probabilmente accanto alla stufa avrebbe trovato un coltello o un qualunque utensile utile a liberarlo delle corde, il colpo probabilmente ricevuto alla testa e la ferita sulla schiena rendevano i suoi movimenti più difficili, aveva un forte senso di nausea e vertigine, i rumori erano acuiti, riuscì a compiere pochi metri prima che la ragazza ricomparisse nuovamente nella stanza rimanendo per qualche istante interdetta.
“devo andare ad Etaples!” disse sfinito ricadendo su se stesso
La giovane spalancò la porta con un’espressione di ironica commiserazione “bon allez” disse con una sorta di inchino che lo invitava ad uscire, Albert tentò di rialzarsi ma cadde di nuovo rovinosamente emettendo un verso di frustrazione, fu allora che la ragazza si avvicinò inginocchiandosi proprio davanti al suo viso “tu veux etre un héros mais tu va a donner la fin du polet*”
“parla la mia lingua” ringhiò Albert “so che la conosci”
“siamo Francia si parla francese…tu deve conoscere mia lingua”
Al respiro esasperato dell’uomo la giovane lo aiutò a rimettersi di lato “vedere ferita” disse lei sollevandogli la giuba sulla schiena senza tante cerimonie, la sfiorò con le dita mugugnando un senso di approvazione “meglio” disse alzandosi e recuperando una ciotola in legno contenente un unguento dall’odore pungente, ne raccolse un po’ con una benda pulita e lo passò con estrema delicatezza per tutta la lunghezza del taglio, Albert si irrigidì per l’improvviso bruciore ma lei gli intimò di stare fermo. “Questa bene” gli disse seguitando a tamponare, “sei stata tu a farmela?” domandò lui e lei sbuffò canzonatoria “io ti avrei uciso non ferito” e premette più forte facendolo rabbrividire “e allora chi? Ti prego non ricordo niente”
“non ricordare è bene” si alzò in piedi e come si sarebbe fatto con un cane gli prese la testa tra le mani poggiandosela in grembo, gli scostò i capelli biondi appena sopra la tempia, una chiazza violacea e gonfia pulsava sotto le dita, Albert era interdetto. “Male?” chiese lei premendo sul livido e lui si limitò ad annuire, passò un po’ di unguento anche sopra la tempia, l’odore era forte, un misto di erbe e alcol. “Che cos’è?”
“medécine”
“forse sarebbe meglio del ghiaccio”
 “mais bien sûr et du champagne” lo canzonò lei ridendo, una risata limpida che rivelava due fossette sulle guance, nell’assurdità della situazione anche Albert accennò un sorriso, da quando aveva lasciato l’America il suono di una risata era un ricordo lontano.
“fame?”
Albert annuì, il suo ultimo passo risaliva ancora alla traversata sull’Olimpic, riuscì ad allentare la tensione pensando che forse quella ragazza avrebbe a breve imparato a fidarsi comprendendo la premura che Albert aveva di raggiungere Etaples.
“somigli un po’ a una persona” disse “una ragazza che sono venuto a cercare e che si trova a Etaples”
Per tutta risposta la giovane si alzò di scatto ed il viso di Albert finì contro il pavimento, “io somiglio nessuno!”
“già...” bofonchiò lui “colpa mia” risollevò appena il viso e la vide dargli le spalle “posso chiederti di aiutarmi a mettermi seduto o vuoi tenermi tutto il tempo sul pavimento?” lei non rispose ma con la stessa rapidità usata precedentemente lo aiutò a girarsi e a mettersi seduto con la schiena al muro, “come ti ho detto non voglio farti del male, credi sia necessario tenermi legato in questo modo?”
“oui!”
Ad Albert non rimase che sospirare esasperato “posso chiedere almeno il tuo nome?”
“no”
“Io mi chiamo Albert ad ogni modo, William Albert Andrew. Sono nato a Chicago quasi ventotto anni fa, da sempre la mia famiglia vive in una località chiamata Lake Wood, un posto molto bello tipicamente coloniale…”
“ho chiesto storia tua vita!?”
“mi andava di fare conversazione dato che in qualche modo, pare, tu mi abbia salvato la vita e quindi volevo semplicemente presentarmi come si conviene”
“enchanté” ribatté lei con sarcasmo
“perché mi hai salvato?”
La vide irrigidirsi, la seguì con lo sguardo avvicinarsi alla stufa e alzare il coperchio del pentolone, con gesti meccanici e abituali immerse il mestolo di legno nella zuppa densa per poi versarlo in un piatto fondo di ceramica azzurra dal bordo sbeccato. Gli si riavvicinò sedendosi sulle ginocchia, il piatto fumante tra le mani, non lo guardava e rimescolava con un cucchiaio il liquido chiaro. “Mi sleghi per mangiare?” e di tutta risposta si ritrovò il cucchiaio davanti alla bocca, gli scappò un sorriso poiché l’ultima volta che era stato imboccato aveva tre anni con davanti il contrariato faccione di Zia Elroy ad intimargli di mangiare. “Soupe à l’oignon” disse lei stavolta guardandolo dritto negli occhi ed Albert poté notare quanto il colore fosse particolare, simile al vetro scuro di una bottiglia colpita dalla luce “va bene mi piacciono le cipolle, grazie” prese una prima cucchiaiata e sentì lo stomaco aprirsi, la fame era impellente e dovette trattenersi per non ingurgitare ogni cucchiaiata con un’avidità che solitamente non gli apparteneva. “i tuoi occhi sembravano buoni” disse lei d’un tratto, “ma capelli e colore…potevi essere un autrichien…per questo colpito”
“la ferita sulla schiena?”
Lei scosse il capo “quella era già”
“sono stati gli austriaci?”
“…no…”
Albert la guardò senza capire “e allora chi?”
“gente ha fame e paura…se vedono soldato solo pensano sia nemico…magari ha dell’argent o mangiare…o solo sia cattivo…e allora…” pose il cucchiaio sul fondo del piatto ormai vuoto “mangi veloce américan”
“ tu mi hai portato qui?”
“quando loro allontanati tu ancora vivo…io dato colpo e con amico portato qui”
Albert parve riflettere “capisco…purtroppo non ricordo davvero nulla”
“se tu fossi stato autrichien io ucciso, anche se occhi buoni” si alzò in piedi infastidita ponendo il piatto in una tinozza d’acqua calda.
“forse non sono cattivi, tanti di loro sono ragazzi giovani, troppo giovani che combattono in una guerra senza senso e muoiono a loro volta senza senso”
La giovane battè ambo la mani sulla superficie in pietra del lavabo “loro uccidono mia gente, fanno cose che…” scosse la testa come a cacciare un ricordo orribile “non importa cosa tu dici, io odio”
“tutti gli uomini fanno cose orribili pur troppo” mormorò Albert, ricordava quello che aveva visto sul Carso ed era ben conscio di quello che avrebbe visto una volta uscito dalle mura di pietra grezza che ora lo custodivano.
“tu fatto cose orribili?” lei si voltò a guardarlo fulminandolo con quegli occhi incredibili
“no ma…”
“e allora no parlare” gli diede nuovamente le spalle ed Albert poté notare l’alzarsi e abbassarsi delle spalle al ritmo di un respiro affannato e tensivo, stava parlando con una persona di cui non sapeva nulla, non sapeva quali intenzioni avesse, tenerlo prigioniero? Liberarlo? Darlo come scambio per qualche altro prigioniero? Le ipotesi erano innumerevoli e non si sentiva di poterne scartare alcuna.
“dormirò un po’ se non ti dispiace…sono stanco e dolorante come puoi immaginare”
“bien…”
Albert adagiò meglio la nuca contro la pietra fredda, sapeva che non avrebbe dormito, doveva pensare ad un modo per liberarsi, un modo per raggiungere Etaples. Non vedendolo tornare probabilmente il resto del battaglione si era già diretto a Boulogne sur Mer ed era impensabile riuscire a raggiungerli, ci sarebbe voluto troppo tempo e ad ogni ora che passava Albert non faceva che chiedersi come Candy stesse, cercava di allontanare il pensiero che potesse essere in pericolo, ferita o peggio. Lasciò vagare lo sguardo per la stanza, studiandola per poter capire in che modo riuscire a scappare.
La giovane dai capelli ramati finì di rassettare e si diresse alla porta, uno spiraglio di luce viva pomeridiana si intravedeva non appena aperto l’uscio, fuori il chiocciare di qualche gallina, uno scorcio di verde, la ragazza coprì la tasta con un fazzoletto color pervinca, “Eugénie” disse poco prima di uscire, “Je m’appelle Eugénie”
“è il tuo vero nome?”
“Peut-être*”
Albert accennò un sorriso “grazie Eugénie”
Lei annuì distrattamente ed uscì.
 
 
****
 
Elroy fissava George, stringendosi nervosamente le mani al petto e con occhi che avrebbero potuto incenerire tanto erano contrastanti sentimenti che come mareggiate si agitavano nell’anima della matriarca della famiglia Andrew.
“Non è tollerabile” disse con voce colma di risentimento, i capelli solitamente impeccabili sfuggivano alla salda tenuta dello chignon e i cerchi neri sotto gli occhi stanchi la facevano sembrare una creatura millenaria “vi presentate qui e osate dirmi che da giorni non avete alcuna notizia di William, non sapete nemmeno se sia vivo!”
George chinò il capo, nemmeno lui riusciva a capacitarsi di non riuscire a ritrovare il proprio padrone, per la prima volta si sentiva come un padre in pena per il proprio figlio e impotente davanti agli eventi troppo grandi della Storia. “Come vi dicevo ma’am abbiamo notizia certa che si fosse imbarcato sull’Olimpic per raggiungere il porto di Le Havre, ma poi la nave è stata colpita di striscio da un Uboot e costretta a riparare in una baia di cui ad oggi non sono giunte notizie certe, una parte dell’equipaggio è deceduta mentre altri devono aver raggiunto la terra ferma e…” Elroy alzò di scatto una mano “basta così non andate oltre, il mio William…il mio adorato William…” si alzò di scatto dalla grande poltrona che troneggiava al centro della stanza “ quella sciagurata…quella sciagurata orfana è stata una disgrazia per questa famiglia! Non le è bastato portarmi via Antony e Alistear…no ora anche il sangue di William ha reclamato!”
“Madame Elroy vi prego calmatevi”
“Calmarmi?! Non osate dirmi di calmarmi George! Butterei per aria il mondo in questo momento, non capite…non capite la rabbia ed il dolore che ho dentro”
“Non voglio siate così funesta, William è un ragazzo assennato, conosce il mondo molto bene, ha già affrontato situazioni simili ed io sono certo sia vivo”
“certo che William è vivo!” asserì Elroy “non permetterò ne ai maledetti mangia crauti ne tanto meno a quella sgualdrinella senza origine di portarmelo via, dovessi andarci io in guerra!” il respirò le si affannò e George l’aiutò a risedersi “respirate ma’am, alterarvi a questo modo mina soltanto la vostra salute”
“al diavolo la salute! Sarò ben contenta di lasciare questo mondo non appena il mio William sarà tornato a casa ad occupare il posto che gli spetta” sorseggiò un bicchiere d’acqua e limone che un valletto portò prontamente su di un vassoio decorato “ma dobbiamo trovarlo George, avete uomini fidati in Inghilterra? Non baderò a spese per recuperalo”
“partirò io stesso Ma’am, anche se la situazione in Europa è molto difficile conto su delle amicizia fidate, uomini di sua maestà che sapranno certamente aiutarci.”
Elroy parve riflettere, si portò una mano al petto come a voler tranquillizzare il respiro “se partiste anche voi George temo che Archibald potrebbe sentirsi in difficoltà, la nostra famiglia sta trattando affari troppo importanti e per quanto mio nipote si stia rivelando una mente brillante la sua inesperienza e le insidie di quella falsa figlia dei Brighton potrebbero metterci in seria difficoltà. Posso supportare Archibald ma non posso lasciargli accanto un posto vacante in questo momento…” si premette ambo le mani sulla fronte come se una miglior soluzione potesse uscirne “è un problema…un serio problema. Devo pensare a William e al contempo alla tenuta di questa famiglia, ho combattuto tutta la vita per questo e specie oggi giorno basta un passo falso perché le fondamenta possano vacillare. Non posso ancora fare a meno di te qui George, ecco perché manderai avanti Sam, so che ti fidi di lui come di te stesso ed ha già recuperato William in Italia in passato. Contatterò oggi stesso il sig. Flanagan, ha un debito di riconoscenza nei miei riguardi e auspico che trovi quanto prima uno dei suoi piroscafi per condurre Sam in Inghilterra. Voglio un rapporto giornaliero George, voglio seguire la questione come se io stessa mi trovassi laggiù.”
“Come volete ma’am…ma suggerirei comunque di farmi raggiungere a mia volta l’Inghilterra”
“A tempo debito George, voglio seguiate strettamente Archibald nell’affare silver railway e sulle piantagioni Callagan. Quando il tutto sarà andato in porto partirete immediatamente per l’Inghilterra.”
George tentò di reprimere la propria titubanza, avrebbe voluto seguire la questione personalmente da subito ma conosceva bene le irreprensibili decisioni di Elroy Andrew.
“Quando uscite dite al maggiordomo di mandare a chiamare mia nipote ho urgenza di parlarle”
George annuì e dopo un breve inchino di saluto lasciò la stanza. Quel primo momento di solitudine con i propri pensieri fu terribile per Elroy, si affidò alla preghiera ma troppa era la rabbia che ancora l’animava, “tento di pregarti Vergine Santissima, non so perché tu abbia deciso di punirmi con tanta ferocia, hai già preso tre dei miei adorati nipoti…la mia Rosemary, Antony e Alistear…hai mandato nella nostra vita quel demonio ingrato che così tanto ha compromesso il buon nome di questa famiglia…perché mai? Quale punizione devo espiare? Non merito tutto questo! Fa tornare a casa il mio adorato William ti prego…non puoi…non puoi togliermi anche lui” si portò ambo le mani al viso non riuscendo a trattenere le lacrime, con un singhiozzo mal represso asciugò rabbiosamente gli occhi, non avrebbe permesso a nessuno di vederla piangere, nessuno avrebbe mai saputo che Elroy Andrew poteva cedere e piegarsi al destino, non avrebbe dato la soddisfazione ai tanti che speravano di vederla capitolare. Impartì ad un valletto di portargli una tisana calmante, di aprire tutte le tende della stanza e di far entrare luce, per l’arrivo di sua nipote il tè avrebbe dovuto essere pronto e alla perfetta temperatura, e con esso le tortine di meringa di cui Iriza andava ghiotta.
 
La carrozza dei Legan si fermò sotto l’imponente ingresso di Villa Andrew, Iriza scese velocemente rischiando di inciampare sulla scaletta, non capiva perché la zia avesse richiesto di vederla con tanta urgenza ma temeva che il motivo dovesse essere indubbiamente Archiebald. Rizzò la schiena rallentò il passo, non voleva certo mostrarsi agitata, lisciò con le mani la gonna color crema e ravvivò i capelli che morbidi le ricadevano sulle spalle. Il maggiordomo l’accompagnò in uno dei salotti preferiti di Elroy, quello che dava sul roseto di Antony, le tende erano spalancate e la stanza inondata di sole. Elory aveva il volto rivolto alla finestra, picchiettava nervosamente le dita sui braccioli imbottiti della sua poltrona prediletta, poiché era convinta fosse appartenuta a Martha Washington, anche se con più probabilità era un retaggio di qualche casa coloniale del Sud. Irizia le si avvicinò con passo cadenzato, “è un meraviglioso pomeriggio” esordi andando a baciare la guancia ruvida della matriarca. Elroy annuì ma non ricambiò l’entusiasmo, le lanciò una veloce occhiata prima di scuotere il capo leggermente con una sorta di disapprovazione “Iriza non sei più un’adolescente, alla tua età i capelli vanno raccolti, tua madre non ha ancora ritenuto il caso di ribardirtelo?!” disse pungente lasciando spiazzata la nipote che non era per nulla abituata ai rimproveri della zia. Ingoiò il rospo e sforzò un sorriso “hai ragione zia, ho peccato di vanità lo confesso. Ti prometto che da domani non avrai più di che rimproverarmi.”
“Lo spero bene.”
“Posso sedermi?”
“naturalmente, il tè sarà servito a momenti e noi abbiamo molte cose di cui discutere.”
Iriza sedette di fronte ad Elroy, faticava a nascondere un certo turbamento, la donna infatti sembrava più burbera e scontrosa del solito, un comportamento che solitamente avrebbe di certo riservato a Candice o Annie, ma non a lei e questo la metteva in allarme.
“c’è qualcosa che ti turba zia?”
Elroy sospirò “non ci girerò molto intorno, la situazione è delicata. William risulta disperso, non ho più avuto nemmeno più notizie di quella buona annulla che porta impropriamente il nostro cognome e come se non bastasse ci sono affari importanti che richiedono la massima attenzione.”
Iriza cerò di metabolizzare velocemente il tutto, con la scomparsa di William non rimaneva che Archie in lizza per amministrare tutto l’ingente patrimonio degli Andrew.
“Immagino la tua preoccupazione…povero William catapultato in quell’inferno” simulò una voce di sentita preoccupazione ed Elroy parve rabbonirsi, “perdonami mia cara non volevo rattristare anche te, ma ho piena fiducia che William ritornerà a casa, ha la tempra di un vero Andrew e non ho dubbi che sopravviverà a quella follia che sta accadendo in Europa. Nel frattempo però noi dobbiamo assicurarci che tutti gli affari della famiglia vadano nel migliore dei modi, in tutta onestà speravo di avere da te notizie positive riguardo ad Archie”
Irizia deglutì nervosamente e fu lieta quando il maggiordomo servì il tè, poteva nascondere la propria frustrazioni dietro le bordature dorate della tazza di porcellana “è molto occupato in questo periodo si sta dando un gran da fare” scandì con entusiasmo fittizio, “abbiamo avuto una piacevole conversazione alla festa di beneficenza a Chicago l’ultima volta”
Elroy si rabbuiò “la festa a Chicago è stata più di dieci giorni fa”
“davvero?” Irizia parve sorpresa “pensavo molto meno…cielo il tempo vola” avvertì le guance avvampare
“Iriza mi stai dicendo che da allora tu ed Archie non avete più avuto modo di vedervi!?”
“Come ti ho detto è molto impegnato”
“le vostre tenute sono confinanti mi vuoi far credere di non aver trovato nessuna buona scusa per…” si fermò bruscamente affannata dalla propria disapprovazione.
“ti giuro che mi sto impegnando zia…ma…quella Brighton è come una pianta infestante difficile da sradicare, quando Archie mi parla non fa che tormentarsi come il patetico personaggio di un romanzetto per fanciulle e…” si tappò la bocca di colpo rendendosi conto di quanto appena detto “cioè io…non volevo dire…insomma”
Elroy sembrò non essersela presa a male “non posso rimproverarti per questo commento, pare che quando si tratta di quelle poco di buono della Casa di Pony i miei nipoti perdano ogni barlume di senno. Non perdonerò mai a tuo padre quella folle adozione così come non lo perdonerò a quegli ingrati dei Brighton! La mia generosità ha offuscato la mia capacità di giudizio e ne stiamo pagando serie conseguenze tutti quanti!”
Irizia vide l’occasione per riscattarsi, si avvicinò alla donna prendendole la mano tra le sue “oh zia mi fa così male vederti così, tu non hai nulla di che rimproverarti, sei stata così buona e generosa sia con Candy che con Annie, tutti lo siamo stati nella più totale buona fede, come potevamo immaginare che avrebbero portato tanto tremendo scompiglio nelle nostre vite. Talvolta non sempre le buone azioni vengono ripagate nel giusto modo”
“mia cara nipote sei il solo conforto che mi è rimasto in tutta questa tragica desolazione” Elroy la guardò con improvvisa aspettativa “devi impegnarti il più possibile per far dimenticare ad Archibald quell’orfana! Voglio festeggiare in fidanzamento per la prossima primavera e voglio che sul tuo dito ci sia un anello che sancirà ciò che più desidero, la preservazione della nostra amata famiglia”
“zia Elroy non so se sono degna di…”
“sciocchezze! Sei una Legan e tutti nell’alta società ammirerebbero e temerebbero un così perfetto connubio tra due membri di una famiglia importante quale è la nostra. Non devi fallire Irizia, non ti permetterò di fallire!”
“ma…” Irizia provò un vago senso di timore e vertigine
“niente ma! Tanto per cominciare accompagnerai Archie a Cincinnati per il suo prossimo viaggio di lavoro”
“…è un viaggio piuttosto lungo…”
“appunto”
La giovane Legan non sapeva più come ribattere, fissò lo sguardo sul fondo della tazzina e per la prima volta realizzò che quello di Elroy era diventato un obbiettivo di vitale importanza per lei, si ritrovò tuttavia a domandare a sé stessa se anche per lei aveva la stessa importanza.
 

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Capitolo 20
*** La Commedia degli Errori ***



New York, Maggio 1915
Fin da bambina era sempre stata abile nel ricamo, e con particolare sorpresa di sua madre aveva una certa abilità nel ricamo libero, abilità che si era rivelata utile soprattutto i primi anni in cui aveva intrapreso il percorso della recitazione. Essere in grado di cucire e ricamare i propri costumi di scena adattandoli perfettamente alla sua figura e alla sua personale idea del personaggio si era rilevata una capacità vincente. Ma ora dopo pochi punti gli occhi le si appesantivano, il risultato le appariva sempre mediocre, non all’altezza di ciò che aveva in mente e questo la innervosiva. Il suo bambino avrebbe dovuto essere impeccabile, si diceva, ed invece quei vestitini che con tanta dovizia si era impegnata a terminare e che teneva nascosti nel cassetto del comò come il più prezioso dei tesori, le apparivano ora detestabili, mal rifiniti, sciatti. Li scagliò rabbiosamente in fondo alla stanza, sprofondando poi esausta la nuca nel grande cuscino del letto. La pendola segnava le undici del mattino e Terence non era comparso nemmeno una volta alla sua porta. Suonò il piccolo campanello con l’impugnatura d’avorio, di lì a poco la cameriera entrò nella stanza con un certo affanno, doveva aver corso dal piano di sotto temendo probabilmente un malore della sua irrequieta padrona. “Vi sentite bene signorina Susanna?” la ragazza annuì distrattamente “dov’è Terence?” chiese senza convenevoli.
“E’ uscito questa mattina presto e non è ancora rientrato signorina”
Susanna emise un profondo respiro sconsolato, avrebbe voluto scostare le coperte, alzarsi e uscire a cercarlo, supplicarlo di smettere di inseguire fantasmi ed echi di guerra che provenivano da oltre l’oceano. La cameriera avanzò nella stanza notando qualcosa a terra a pochi passi dal letto, Susanna impallidì e la fermò “lascia stare, raccoglierà più tardi mia madre” disse nella speranza che la giovane non facesse caso a cosa si trattasse, ma dal suo sguardo Susanna poté ben comprendere che la sua era stata una pia illusione. “Non farne parola alcuna Evelyn o sarò costretta a licenziarti!”
“ecco signorina in realtà lo so da tempo…”
Susanna se possibile divenne ancora più pallida “come?”
“come avrei potuto non notarlo, sono la vostra cameriera e mi occupo di voi quotidianamente…sarei stata cieca e superficiale per non rendermene conto”
“e hai…”
“no signorina non ne ho fatto parola alcuna, vorrei che vi fidaste di me”
Susanna sembrò allentare la tensione che le aveva irrigidito le spalle “perdonami Evelyn, mi rendo conto che mi sto comportando da bambina e sono ogni giorno più insopportabile. Mi sento prigioniera, vorrei uscire, respirare un po’ d’aria, vorrei che Terence non mi trascurasse a questo modo…” la voce le si inclinò “gli ho scritto una lettera perché non ho il coraggio di comunicargli a voce l’arrivo di questo bambino, ma sta nel fondo del cassetto ormai da troppo tempo, e più passa più fatico. Inoltre mi chiedo come abbia fatto a non accorgersene da solo…o forse lo ha fatto e non ne vuole parlare…” si stava chiaramente agitando e Evelyn si accostò al letto asciugandole una perla di sudore sulla tempia “gli uomini sono molto più ottusi in queste cose” sorrise la giovane “ma se il signor Terence sapesse sono certa che non vi lascerebbe un secondo. Dovete dirglielo quanto prima e smettere di angustiarvi” le rassettò le coperte “volete che vi porti qualcosa da mangiare?”
Susanna scosse il capo “ho mangiato molto a colazione e le nausee sono poi diventate insopportabili, mamma è stata tutta la mattina a cambiare il secchio…mi sento così misera”
“posso aiutarvi anch’io signorina, sono qui apposta. So bene che le nausee possono esser terribili, mia sorella Idith ne ha sofferto terribilmente durante la gravidanza. Ma voi signorina dovete aver ancor più cura di voi stessa, il vostro fisico è delicato e non dovete farvi riguardo a chiedere tutto l’aiuto di cui necessitate” Susanna non ebbe il tempo di ribattere, al piano di sotto qualcuno aveva suonato ed il cuore le fece un balzo, poteva trattarsi di Terence? “Evelyn ti prego vai a vedere chi è,” la domestica annuì e con la stessa rapidità con la quale era salita, ridiscese al piano di sotto per aprire. Susanna tese l’orecchio ma distinse la voce di una donna, non le riuscì di riconoscerla ma la sua delusione le era perfettamente dipinta in viso. Evelyn risalì poco dopo con le guance arrossate e il fiato corto “Miss Baker è al piano di sotto signorina e chiede di poterla vedere, volete che la faccia salire?”
Susanna si portò ambo le mani al viso “la madre di Terence…oh cielo sono così impresentabile ed in disordine…” Evelyn sorrise incoraggiante “sistemerò in un attimo e servirò il tè sul terrazzino se volete,” Susanna si riebbe e finalmente un sorriso di gratitudine le animò il viso “grazie Evelyn, ti prego di aiutare a sistemarmi e…” indicò la coperta decorata piegata sulla poltrona “se mi adagerai sulla carrozzella mi coprirò con quella in modo che…” Evelyn comprese ed in pochi minuti mantenne fede ai suoi propositi.
Eleanor si accomodò nella stanza, le finestre erano aperte e Susanna l’attendeva sul terrazzino, il sole era piacevole quel mattino e la temperatura invogliava lo stare all’aria aperta. La donna le andò incontro “Susanna tesoro come ti senti?” le baciò le guance pallide e la guardò con sguardo materno e benevole.
“Molto bene Miss Baker, sono lieta che siate venuta a farmi visita” Susanna sorrise con sincera emozione, “credevo che fossimo d’accordo mi avresti chiamata Eleanor”
Susanna arrossì “faccio ancora un po’ fatica…”
“mi farebbe molto piacere”
“va bene, Eleanor”
“così va meglio” si sedette al tavolino di ferro battuto allentando la sciarpa di seta color malva che le adornava il collo.
“Evelyn ci porterà il tè”
“eccellente” Eleanor si guardò intorno, la stanza di Susanna era una piccola bomboniera amorevolmente studiata in ogni dettaglio dal diligente gusto, talvolta un po’ antiquato, della signora Marlowe. La donna non poté fare a meno di paragonarla alla stanza di una casa di bambole che aveva visto nelle vie di Londra decenni prima.
“mi spiace che Terence non sia qui per salutarvi” ammise Susanna spostando lo sguardo azzurro e malinconico verso il viale alberato sottostante che adornava una poco affollata strada newyorkese.
“temo sia effettivamente colpa mia Susanna, gli ho dato un’incombenza che non sarei riuscita a sbrigare da sola e questo temo che lo terrà occupato tutta la mattina”
Susanna sbatté le palpebre sorpresa “oh…”
“come sai mi sto poco a poco ritirando dalle scene ma prima di darmi al completo oblio vorrei poter produrre io stessa uno spettacolo teatrale, ho chiesto a Terence di aiutarmi nell’organizzare quest’impresa. Oh lui era davvero riluttante ma so essere caparbia quando voglio”
Susanna annuì “capisco, ho più volte suggerito a Terence di riprendere a recitare, questo martirio dalle scene per causa mia non è certo quello che auspicavo per lui”
Eleanor sorrise “sono felice di sentirtelo dire, vorrei davvero il tuo aiuto per riuscire a convincerlo a recitare almeno in questo spettacolo, non potrei essere più orgogliosa di rivederlo nuovamente in scena”
“cosa rappresenterete?”
“La Commedia degli errori” e mentre lo disse Evelyn avanzò nel terrazzino posando il vassoio con il tè e un’alzata di tartine, “il vostro tè signore” annunciò orgogliosa della sua composizione facendo un breve inchino.
“grazie Evelyn” sorrise Susanna, una luce diversa le animava gli occhi, tornò a rivolgere attenzione ad Eleanor “adoro quella commedia” esclamò con entusiasmo “una volta la mettemmo in scena nel salotto di casa io ed alcune cugine, interpretavo entrambi i gemelli. Fu così divertente” la voce le divenne malinconica “non ricordo nemmeno quanti anni sono passati”
“E’ proprio il ruolo dei gemelli che vorrei per Terence, sarebbe una sfida così nuova per lui, stimolante di certo”
Susanna si limitò ad annuire “oh certamente, sono sicura sarebbe magnifico…non ho dubbi”
Eleanor si sporse in avanti con aria complice “e tu potresti essere Luciana”
A Susanna ci volle qualche istante prima di realizzare quanto la donna le stava dicendo, “cosa?”
Eleanor versò il tè, un delicato profumo di bergamotto si sprigionò dalle tazzine fumanti, rifinite di deliziose rose magenta “tu sai chi è Sarah Bernhardt?”
A Susanna tramarono leggermente le mani e dovette raccogliere tutte le sue forze per non lasciare che un capogiro prendesse il sopravvento “come potrei non saperlo” esordì “sono sempre stata una sua grandissima ammiratrice”
“Anch’io” ammise Eleanor, “quando ancora non ero nessuno e non avevo idea di che direzione avrei preso, vidi questo meraviglioso cartellone fuori dall’Hudson Theater, un solo nome a caratteri cubitali, Sarah Bernhardt, catturò la mia attenzione immediatamente! Non sapevo chi fosse, ero ancora così ignorante all’epoca. Ma acquistai il biglietto e quando la vidi sul palco ne rimasi folgorata. Interpretava la Signore delle Camelie e per me fu una rivelazione, capii in quell’istante cosa volevo” sospirò ironica “è passato tanto tempo da allora” sorseggiò il tè e tornò a specchiare i proprio occhi in quelli di Susanna “pochi anni fa ha avuto un incidente sul palcoscenico e le è stata amputata la gamba destra.” Susanna deglutì, aveva letto la notizia sui giornali e ne aveva pianto, chi più di lei poteva capire cosa la più grande attrice di tutti i tempi avesse provato in un simile frangente. Sorseggiò il tè a sua volta per sciogliere un nodo alla godo che di lì a poco avrebbe rischiato di farle scendere amare lacrime lungo le guance.
“Susanna tu sai che Sarah non ha mai smesso di recitare non è vero?” sporse la mano sfiorando quella della ragazza “sia che dovesse portare una gamba di legno sia che dovesse rimanere seduta per tutta la durata dello spettacolo non si è mai ritirata dalle scene. Capisci quel che sto dicendo?”
Susanna annuì ma ritrasse la mano “lo capisco sì” disse a voce strozzata “ma capisco anche di non essere Sarah Bernhardt, io ero poco più di un’esordiente e non avrei mai il coraggio di…” tremò più forte ed Eleanor si rese conto di aver osato troppo. “Susanna perdonami ti prego non volevo agitarti, sono stata indelicata,” la ragazza scosse il capo “al contrario voi mi mostrate possibilità che io non avrei mai nemmeno paventato, ma sono certa di non voler tornare sulle scene in nessun caso, ho imparato a convivere con questa decisione” si sforzò di sorridere “ma voglio che Terence torni al teatro, il suo è un talento troppo prezioso per essere sprecato ed io voglio dargli tutto il mio appoggio e fargli capire che sarebbe la mia gioia vederlo nuovamente sul palco” si premette la coperta sul ventre, le sue parole erano sincere e avrebbe voluto aggiungere altro ma la nausea stava riprendendo e mai come in quel momento lei stava dando prova di essere una brava attrice nel riuscire a dissimulare quel malessere. Eleanor si accorse tuttavia della fronte perlata di sudore e di quel pallore latteo “Susanna perdona se seguito ad essere indiscreta ma sono una donna e” fece una pausa “certe intuizioni ci caratterizzano in particolar modo, è qualche tempo che ti osservo e non ho potuto fare a meno di chiedermi se…forse tu…” si guardarono per un lungo istante ed infine Susanna sorrise annuendo “sono al secondo mese, è presto e non si nota anche se ho molto più appetito ed ho preso peso…” respirò profondamente “ammetto che nell’ultimo periodo però le nausee sono peggiorate. E’ strano vero? Mia madre dice che solitamente questo capita nelle prime settimane”
Eleanor si alzò ad abbracciarla commossa, non servivano parole perché quel gesto le fece comprendere quanto la madre di Terence le fosse vicina e di supporto. “Non l’ho ancora detto a vostro figlio, ed ora a maggior ragione non vorrei distrarlo dal proposito di rientrare nel mondo del teatro,” a quelle parole Eleanor le prese il volto tra le mani “non devi esitare bambina, Terence sarà felicissimo vedrai. Avrete un futuro roseo davanti a voi ne sono certa” fece qualche passo indietro per guardare meglio Susanna e poi rise “oh cielo sarò nonna! Sarà meraviglioso e vizierò questo bambino, mi spiace ma sarà così, voglio dargli tutto quello che non ho potuto dare a Terence e ti sarò vicina in ogni evenienza”
Susanna arrossì e sorrise commossa “grazie” riuscì a dire, d’improvviso le nausee sembravano più tollerabili, l’aroma del tè più intenso e piacevole ed il sole l’avvolgeva in un tepore completamente nuovo.
 
 
 
“Mia madre vorrebbe si tenesse all’Hudson Theater, non penso dovrebbero esserci problemi ad affittare il teatro per una stagione” disse Terence sorseggiando del whisky che Robert Hathaway aveva tanto insistito ad offrirgli.
“Di quante repliche parliamo?” domandò Robert sorseggiando in liquido ambrato a sua volta.
“una ventina” il tono di Terence non aveva alcuna inflessione particolare “mia madre vorrebbe solo produrre lo spettacolo.”
Ad Hathaway il whisky andò di traverso “stai dicendo che Eleanor non reciterà?”
Terence alzò le spalle “pare non ne abbia intenzione, per questo mi rivolgo alla tua compagnia, so che saprai mettere insieme il cast ideale per la rappresentazione de La Commedia degli Errori”
Robert Hathaway lo osservò per qualche istante “la compagnia Stratford è onorata di lavorare per una produzione di Eleanor Baker, ma c’è una condizione…” pose il bicchiere tenendo lo sguardo fisso in quello di Terence.
“Sei tremendo Robert, quale sarebbe la condizione? Parliamo di soldi?”
“mi fai davvero tanto venale!?”
Terence rise “è il primo pensiero che sorge in testa a chiunque danne atto”
“voglio che tu faccia parte del cast”
A quella richiesta schietta Terence si fece serio, i suoi occhi si incupirono “ho lasciato il teatro Robert e lo sai bene, credo tu possa rammentare il mio disastroso Amleto di qualche tempo fa…”
“eri in una fase distruttiva Terence, ma il tuo talento è innegabile e ne sei perfettamente consapevole anche tu, inoltre sarebbe un gran regalo per tua madre”
“no” buttò giù il whisky d’un fiato “sarei solo il figlio problematico che viene raccomandato dalla madre celebre”
“se è questo che ti angustia potresti usare uno pseudonimo e con il trucco nessuno ti riconoscerebbe, varrebbe solo il tuo immenso talento” la voce di Robert era paterna, Terence era consapevole di quanto l’uomo tenesse a lui e gli doveva il suo inizio carriera, senza Hathaway e Susanna forse non avrebbe mai avuto il reale coraggio di calcare le scene.
“So che ci tieni Robert e lo apprezzo, davvero. Ma ho preso la mia decisione, preferisco buttarmi su qualcosa di più pratico, ora sto racimolando con lavori saltuari, vivo a scrocco a casa Marlowe e di certo questo non è altro che il quadro patetico di un fallito”
“perché sei così severo con te stesso, stento a riconoscerti! Non sei mai stato tipo da piangersi addosso Terence, il senso di colpa ti ha logorato e non riesco a credere che tu non sia in grado di vedere il meraviglioso riscatto che sia tu che Susanna potreste avere. Torna a brillare a teatro Terence, garantisci una vita sicura alla tua compagna e liberati dall’ingombrante fardello di una suocera onnipresente, lo dico per esperienza diretta.”
“te l’ho detto vorrei qualcosa di più pratico…diventare un impresario ad esempio…non fare quella faccia so che è un mondo di squali ma il mio lato Granchester potrebbe rivelarsi redditizio.”
Robert sbuffò versandosi dell’altro whisky e accendendo un sigaro “sembri proprio uno di quei conta banconote con i quali ho a che fare ogni inizio settimana”
Terence rise e prese un altro goccio a sua volta “vuol dire che sono sulla buona strada” rigirò il liquido nel bicchiere, il profumo pungeva le narici “c’è un pensiero fisso che mi tormenta Robert”
“di cosa si tratta?”
“non dovrei preoccuparmi molto di mio padre dopo il modo in cui ha trattato me e mia madre ma…” bevve un sorso “è come se una parte del mio sangue si sentisse nel torto di non star combattendo in Europa. Dopotutto sono cresciuto in Inghilterra.”
Robert scosse il capo “Terence il tuo sangue non è un tributo che devi dare a questa follia, posso capire ciò che provi, ho sangue irlandese e lo sai. Tuttavia dovremmo ringraziare la buona stella che ci permette di vivere in un luogo in pace, mio padre mi raccontava spesso cosa è stata la guerra di secessione e dei suoi orrori. Ne rimanevo sconvolto. Quella che sta avvenendo in Europa è molto peggio, dar la vita per una croce in cambio. Dammi retta non sei meno uomo a rimanere qui, inoltre non è detto che tuo padre sia ancora in Inghilterra, può darsi si trovi qui già da diverso tempo. Non hai avuto sue notizie?”
Terence scosse il capo “no, ma probabilmente è come dici tu”
“per non parlare del dolore e della preoccupazione che daresti a tua madre e a Susanna, la vita le ha già dato tanti scossoni senza che tu ci aggiunga un ulteriore carico.”
Annuendo Terence scostò una ciocca di capelli dal viso, “hai ragione Susanna non reggerebbe una cosa simile”
Robert gli diede una pacca sulla spalla “animo ragazzo mio e piuttosto pensa a quanto in questo momento ci sia bisogno di distrarsi con buone storie, di portare speranza nel cuore della gente. Non voglio tu mi risponda subito ma pensa a quel che ti ho chiesto, devi far parte di questa rappresentazione!”
Sospirando Terence si alzò lentamente “sei uno che non molla l’osso tu, ma va bene ci penserò senza prometterti nulla. Ora è meglio che torni a casa, bere whisky al mattino e già la mia reputazione tornerà in rovina.”
“spalle alte e sguardo in avanti ragazzo, conferma a tua madre che la compagnia sarà ben lieta di essere prodotta da lei…spero di aver presto ulteriori buone notizie.”
“non ci contare troppo” indossando la giacca Terence fece un rapido segno di saluto, sentiva l’impellenza di uscire e camminare, il viso di Hathaway, le lusinghe e il richiamo del palcoscenico stavano minando la sua granitica convinzione di aver chiuso definitivamente con la recitazione. Uscì nel sole pallido della 34ttresima strada, era affollata e rumorosa, si strinse di più nella giacca camminando a passo rapido, il turbamento non lo abbandonava e sapeva che sua madre doveva averlo in qualche modo previsto. Rallentò il passo davanti ad un negozio di fiori cosa che non sfuggì ad un’esile fioraia dai capelli d’argento “vuole fare un regalo giovanotto?” Terence rimase in silenzio per qualche attimo, era uscito presto quella mattina passando silenzioso davanti alla stanza di Susanna senza nemmeno affacciarsi per chiederle come stesse o avvisarla di dove stesse andando, avvertì il proprio egoismo darle un lieve senso di nausea “sì voglio fare un regalo” disse avvicinandosi di più al tripudio di fiori che si affacciava dalla vetrina “è per una giovane signorina immagino” e senza aspettar risposta la donna gli pose un mazzo di rose antiche “le rose rosse ormai sono desuete, in questo periodo le rose antiche sono di gran lunga le preferite, hanno tonalità più morbide e sfumature affascinanti. Senta qui che profumo! Sono così romantiche e candide!” Terence le fissò sorpreso “candide…” mormorò sfiorando la corolla delicata di una rosa e una risata argentina e uno sguardo verde gli tornarono alla mente così come una voce che non era stato capace di dimenticare “il mio fiore preferito sono le rose. Sai Terence c’è né una che porta il mio nome, si chiama dolce Candy!”
“Allora signore cosa ne dice? Le prende?”
Terence parve tornare alla realtà, accennò un sorriso e scosse il capo “no, no le rose non sono il genere che cercavo…” si guardò intorno senza badare all’aria delusa della donna, illuminandosi indicò oltre le spalle della fioraia “ecco quelli!” esclamò e lei fu di certo sorpresa “ma ne è sicuro?” ed in risposta Terence annuì convinto. Degli splendidi girasoli spiccavano tra tutti gli altri fiori, la loro corolla gli aveva ricordato il colore dei capelli di Susanna, un fiore che segue fiducioso il sole così come Susanna gli aveva affidato la sua vita in un modo così devoto da essere quasi crudele.
“E’ una scelta interessante” commentò la fioraia “lo sa la storia del girasole è piuttosto triste”
Terence annuì fissandoli “è Clizia che continua a seguire Helios, un regalo ed una punizione “a quelle parole la fioraia sorrise malinconica “vedo che vi intendete anche di mitologia” commentò iniziando a preparare i fiori, “mi intendo solo di storie tristi” sussurrò Terence “potreste incartarmeli con della carta color lavanda?”
“santo cielo cos’altro mi chiedete! Girasoli in carta color lavanda!?”
“vedrete che staranno bene”
“parola mia non dite che li avete comprati qui o un simile azzardo mi costa la reputazione”
Il ragazzo rise “come volete.”
 
 
Susanna posò le posate, aveva mangiato il pranzo a fatica ma la visita di Eleonor le aveva comunque dato un nuovo vigore. Attese che Evelyn recuperasse il vassoio e quando fu sola riprese in mano i ricami come una determinazione del tutto nuova, talmente era assorta nel suo impegno non aveva sentito la porta aprirsi, percepì solo quando i passi diventarono abbastanza vicini al letto ma non alzò lo sguardo “Evelyn se vuoi corrompermi con della gelatina di frutta sappi che la mia risposta è no” disse divertita mentre l’ago passava agile sulla stoffa.
“Veramente avevo tutt’altro in mente” a quella voce Susanna trasalì nascondendo di colpo quel che stava facendo sotto il lenzuolo, la fretta era stata tale da farle pungere più volte le dita con l’ago.
“Terence…”
Il ragazzo si sporse baciandola sulla fronte per poi porle il magnifico mazzo di girasoli “per voi lady Marlowe”
Susanna fissò incredula i grandi fiori dal colore inteso “oh Terence sono meravigliosi” prese il mazzo tra le mani, il fruscio della carta, la bellezza del fiocco di decorazione “carta lavanda” Susanna sorrise “te ne sei ricordato”
“mi offende tu ne sia sorpresa” ridendo sedette sul letto “perdonami se non sono venuto a salutarti questa mattina ma sono dovuto uscire presto”
Susanna scosse il capo senza perdere il sorriso “non importa” guardò ancora con gioia i fiori quando Terence le prese delicatamente la mano notando che la carta lavanda era macchiata di piccole goccioline rosse “ti sei fatta male?”
Susanna la ritrasse con impaccio “una sciocchezza! Stavo giocherellando con ago e filo”
“ho visto infatti che hai nascosto qualcosa…un segreto?” e non perdendo il tono dolce e canzonatorio Terence scostò il lenzuolo “no non guardare!” Susanna lo ritirò verso di sé lasciando cadere i fiori e nel vedere lo sguardo smarrito di Terence se ne sentì mortificata “scusami ti prego è che è una sorpresa e non voglio tu la veda prima che…oh i fiori!” rammaricata se li riportò al petto “fortuna non si sono sciupati”
“dalli a me li metto in un vaso, sopra quel comò dovrebbero stare bene”
Susanna annuì, “sì lì sopra staranno bene così potrò vederli ad ogni risveglio”
Terence sistemò i fiori, si sentiva turbato e non riusciva a capirne chiaramente il motivo, osservò la propria immagine nel grande specchio posto sopra il comò, “sono un uomo che non sa ritrovarsi” pensò prendendo respiro come prima di entrare in scena, si voltò nuovamente sorridente verso Susanna “vuoi che andiamo al parco? Il sole è pallido ma la temperatura è gradevole”
Susanna ricambiò il suo sguardo per qualche istante cercando un coraggio che le veniva a mancare, strinse il lenzuolo e raddrizzò la schiena “c’è una cosa di cui vorrei prima parlarti Terence”
“certamente, di che si tratta?” il ragazzo si riavvicinò al letto sedendole di fronte “c’è qualcosa che ti turba?”
“stamattina è venuta tua madre a trovarmi, è stato davvero piacevole poter parlare con lei”
Terence si limitò ad annuire attendendo che proseguisse
“mi ha parlato della sua intenzione di ritirarsi dalle scene ma anche del progetto di una rappresentazione da lei prodotta, so che ti stai occupando dell’organizzazione”
“te ne avrei parlato non volevo certo nasconderlo, in realtà ho affidato il tutto alla compagnia Stratford, mi devo solo interessare dell’affitto del teatro e delle repliche previste”
“sai Terence” Susanna prese fiato “vorrei tanto che tu tornassi a recitare”
Le labbra di Terence si piegarono in una linea sottile, distolse lo sguardo in quel modo che Susanna conosceva bene, sapeva che quanto stava dicendo lo contrariava.
“è stata mia madre immagino a chiedertelo”
“a tua madre farebbe piacere di certo, ma è un pensiero che ho da diverso tempo Terence e te ne avevo già accennato se rammenti”
“ho già preso la mia decisione Susanna”
“ma l’hai presa per un motivo veramente sciocco!” incalzò lei “non recitare per il senso di colpa nei miei riguardi come credi mi faccia sentire!? E’ un tale spreco!”
Terence tornò a guardarla “non si tratta di questo Susanna, il fatto è che il teatro non mi trasmette più la stessa passione di prima, non provo il desiderio di recitare”
“sciocchezze!” Susanna aggrottò le sopracciglia perdendo la sua consueta placidità “sono un’attrice anch’io e so bene cosa significhi il richiamo del palcoscenico, ho dovuto rinunciarvi per cause di forza maggiore ma tu vi rinunci perché ti sei chiuso ad esso come in una punizione. Non sai quanto questo mi faccia soffrire”
Terence era colpito dalla risoluta caparbietà della compagna, era forse la prima volta che la sentiva parlare a quel modo, gli occhi azzurri mai esitanti puntati nei suoi “questo progetto di tua madre potrebbe essere una grande occasione per ritornare sulle scene, ed io sarei lì in prima fila ad applaudirti”
“se tornassi a recitare questo comporterebbe stare fuori casa per diverso tempo, sai bene cosa richiede la preparazione di uno spettacolo”
“potrei accompagnarti e supportarti, aiutarti nelle prove. Ho perso una gamba Terence ma non sono completamente paraplegica e non provo più alcuna vergogna a mostrare la mia condizione”
“perché non c’è alcuna vergogna nella tua condizione, non c’è mai stata!”
“bene ora che siamo d’accordo su questo direi che potremmo essere d’accordo anche su tutto il resto”
Terence scosse il capo alzandosi in piedi “non è così semplice, ricordo quanto sono stato disastroso le ultime volte, sono cose che la gente non dimentica”
“eri ubriaco” non fu semplice per lei dirlo “soffrivi a causa mia e del mio egoismo”
“no!” lui si riavvicinò e le prese le mani “ero solo uno sciocco Susanna, non sei mai stata egoista nei miei riguardi”
“oh lo sono stata” mormorò lei “lo sono stata e non voglio più esserlo, specialmente ora”
“se accettassi di fare parte della compagnia questo ci porterebbe via un sacco di tempo, ore ed ore spese a provare a comprendere personaggi che non so nemmeno se ho la voglia di comprendere”
Susanna sorrise rassicurante “sono limiti che ti poni ma sai benissimo che puoi superarli e poi…poi bisogna iniziare ad essere anche pratici”
Terence le lasciò lentamente le mani sedendole accanto “pratici?”
“non sarebbe meraviglioso trasferirci da qui? Voglio bene a mia madre ma per noi l’ideale sarebbe avere una casa nostra, magari fuori New York e con un bel giardino…mi piacerebbe tanto avere un giardino Terence. Riprendendo a recitare sono certa che il tuo successo esploderebbe e questo ci renderebbe anche più indipendenti”
Terence sbatté le palpebre ed un sorriso ironico e sorpreso gli ravvivò il viso “hai le idee piuttosto chiare…ma potrei ottenere la cosa comunque anche con un altro lavoro”
Susanna scosse il capo “richiederebbe più tempo e lo sai”
“hai fretta?”
“sì” ammise lei “ho una certa fretta” congiunse le mani stringendole tra loro, aveva l’aria di chi dovesse affrontare un grande salto “o meglio necessità più che fretta” trovò il coraggio di guardarlo ancora negli occhi, non capiva perché fosse così difficile, temeva la reazione, non sapeva che tipo di sentimento avrebbe suscitato in lui una simile notizia ma non poteva seguitare a tacere “aspetto un bambino.”
 
 
 
                                                                                              ***
 Etaples, 1917
 
Una linea di luce più chiara tagliava il cielo scuro, un gallo coraggioso in lontananza cantava il giungere del mattino. Flanny ripose la cuffietta da infermiera rattoppata ormai troppe volte, sciacquò il viso con l’acqua gelida rimasta e fissò la propria immagine in uno specchietto rotto che una delle infermiere più giovani aveva avuto l’insensata idea di sistemare sopra i catini per lavarsi, gli occhi erano cerchiati ed il colorito di un pallore quasi trasparente, sembrava molto più grande della sua età. Quella notte aveva perso altri quattro giovani, due inglesi, un canadese ed un francese di appena quindici anni, si era addormentato con un sorriso sghembo quasi trovasse ironico che un destino tanto crudele e beffardo gli fosse andato in sorte ancor prima di finire l’adolescenza. Flanny strinse i denti, la rabbia le consumava ormai l’anima come una marea incessante contro la roccia, sciolse la crocchia che custodiva i capelli scuri lasciandoseli ricadere sulla spalle, lo specchio le restituiva un’immagine ancora più spettrale, non aveva mai avuto alcuna vanità nella propria vita sebbene sua madre andasse orgogliosa di quella sua chioma scura lievemente ondulata che ora le raggiungeva metà schiena; il sorriso sghembo del ragazzino morto le riapparve alle mente come un monito impossibile da ignorare, la rabbia e quel senso di disperazione ed impotenza che da mesi ricacciava indietro le giunsero al petto, alla gola e agli occhi, ricacciò indietro quella debolezza e con gesto impulsivo afferrò le forbici abbandonate su di una mensola di fortuna e fissandosi allo specchio prese a tagliare con rapidità le ciocche corvine che caddero pesanti sul terreno scuro della grotta. Quando ebbe terminato i capelli le solleticavano appena la nuca, l’espressione tornata impassibile sfidò per l’ultima volta l’immagine riflessa, pulì gli occhiali e avvolgendosi in un cappotto consunto si diresse fuori dalla grotta oltre quello che restava del grosso platano, abbattuto per la necessità di legna, attraverso il prato arido fino alla roccia piatta dove era solita consumare vaghi pasti ogni qualvolta il turno terminava. Michael era già lì, una piccola lampada ad olio posata a terra lo illuminava appena facendolo sembrare un fantasma stagliato contro un’alba che tardava a venire. Scorse l’ombra di Flanny avvicinarsi e alzò la mano in segno di saluto, la ragazza si avvicinò rallentando il passo “dottor Bertrand” disse solo e l’uomo la corresse “Michael, eravamo d’accordo di chiamarci per nome, ricordi?”
Flanny non rispose e sedette sulla roccia, aveva con se un canovaccio con all’interno del pane nero, lo porse a Michael che lo rifiutò “mangiate voi Flanny, necessitate di nutrirvi ed io ho già avuto il mio rancio” Flanny non insisté ma sapeva bene in cosa consisteva ormai il rancio, brodo di radici ed una patata se si aveva fortuna. L’uomo le sedette accanto, avvolto nell’uniforme militare medica pareva ancora più dimagrito “come è stata la vostra nottata?” chiese mentre Flanny osservava il pane e lo stomaco le si richiudeva “quattro giovani sono morti a pochi minuti l’uno dall’altro, capita sovente di perdere vite anche in numero maggiore ma così vicine l’una all’altra è stata la prima volta. Credo di essere stanca se questo mi turba più di quanto dovrebbe ormai”
Michael le volse uno sguardo comprensivo “non abbiate paura della vostra umanità Flanny” pose la lampada tra loro per poterla vedere meglio “conservatela anche se fa soffrire” a quelle parole Flanny si morse le labbra “voi ci riuscite?” domandò impulsiva non nascondendo un lieve cedimento nella voce. “Ci provo…come voi” rispose l’uomo “dobbiamo restare umani nonostante tutto” si sforzò di sorridere ed indicò il pane “ne accetterò un pezzo a patto che iniziate a mangiare” Flanny avvertì le proprie spalle meno rigide, spezzò il pane dandone la metà a Michael e lui la ringraziò con lo sguardo “vi donano ad ogni modo” disse prima di mangiare, la ragazza si portò istintivamente la mano ai capelli ora così corti “sono più funzionali, avrei dovuto farlo prima” commentò senza nessuna particolare inflessione. Il cielo si stava a poco a poco schiarendo, un nuovo giorno che si ripeteva uguale all’altro, un logorante stallo di morte; Flanny volse lo sguardo oltre la trincea, non sapeva quanti cadaveri ci fossero impigliati al filo spinato, ogni giorno pregava perché regnasse il silenzio e nessuna delle due parti osasse attaccare. Come se avesse seguito il medesimo pensiero Michael volse lo sguardo a sua volta nella stessa direzione “prima di arrivare ad Etaples ero assegnato nel settore dell’Alta Francia, sessanta chilometri tra due caratteristici paesi, Lassigny ed Hébuterne di cui credo rimanga poco di quel tipico fascino francese” deglutì sentendo gli occhi di Flanny su di sé attenta al proseguo “ci fu una battaglia imponente a ridosso del fiume Somme, gli anglo-francesi tentarono un’offensiva che secondo i loro piani avrebbe dovuto creare le perfette condizioni per far avanzare la cavalleria e avere la vittoria. Fu un massacro, non ricordo nemmeno il numero dei caduti.” Flanny prese un profondo respiro “ricordo,molti feriti furono portati anche qui, ciò che avevano nello sguardo era indescrivibile”
“già…i tedeschi ressero piuttosto bene, con l’autunno il campo di battaglia si trasformò in un immenso pantano che rese impossibile ogni altro tentativo. Era solo fango gonfio del sangue di migliaia di giovani, ogni volta credo di aver visto l’inferno definitivo ed ogni volta c’è qualcosa di ancora peggiore” si pentì di quelle parole e rivolse lo sguardo a Flanny “eppure nonostante questo la fame di vita si fa in me più forte, il valore della vita acquista sempre più un maggior peso”
“siete coraggioso”
“non ho più coraggio di voi Flanny, anzi credo che voi ne abbiate molto più di me”
Flanny alzò le spalle “lo conservo in tasca ma talvolta anche le tasche si forano…” le labbra le si piegarono in un sorriso amaro “lo diceva mia madre, da quando la ferrovia è saltata nessuno di noi ha più notizie dei suoi cari, qualche riga d’inchiostro potrebbe essere di conforto…o forse sarebbe peggio chissà. Non l’ho ancora deciso.”
“a proposito di inchiostro…” Micheal estrasse dalla tasca un pezzetto di carta, era il retro di una busta della posta aerea tagliata e con le bordature scurite “ve lo avevo promesso” disse consegnandogliela, Flanny la tenne tra le dita per qualche istante prima di riporla nella tasca del cappotto, “grazie” e nel dirlo riuscì a sorridere, un sorriso che le era giunto agli occhi.  
“Non arrabbiatevi se vi dico che è bello vedervi sorridere”
“non fateci l’abitudine” se la luce lo avesse permesso Michael avrebbe potuto scorgere un lievissimo rossore animare le guance dell’inflessibile infermiera del Santa Johanna. L’uomo si alzò in piedi, doveva tornare alle trincee a prestare le sue cure “vi ringrazio per questa nostra chiacchierata Flanny,” lei si alzò in piedi a sua volta, il cielo si stava facendo celeste ed il sole s’alzava da est, “sarò qui anche stasera” disse Flanny “ho un breve riposo dopo il tramonto” e non le fu subito chiaro perché tenesse a farglielo sapere.
“Sarei lieto di vedervi anche alla luce del tramonto” e così dicendo si allontanò, il passo rapido di chi è richiamato al proprio dovere, le spalle incurvate di chi non avrebbe voluto andarsene. Anche Flanny poco dopo riprese la via delle grotte, c’era già un brulicare di infermiere e barelle, mise la mano nella tasca e strinse il foglietto con forza.  
 
 
 
 
 
 
 
 

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