Le Avventure di D’Artagnan

di zorrorosso
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1-Guascogna ***
Capitolo 2: *** 2-Parigi ***
Capitolo 3: *** 3-La Collina del Mulino ***
Capitolo 4: *** 4-A Corte ***
Capitolo 5: *** 5-La Dimora di Planchet ***
Capitolo 6: *** 6-Per le strade della Città ***
Capitolo 7: *** 7-Constance Bonacieux ***
Capitolo 8: *** 8-Acier et Bois ***
Capitolo 9: *** 9-Rive Droite ***
Capitolo 10: *** 10-Rive Gauche ***
Capitolo 11: *** 11-Pessime Compagnie ***
Capitolo 12: *** 12-Château Gaillard ***
Capitolo 13: *** 13-Fécamp ***
Capitolo 14: *** 14-Londra ***
Capitolo 15: *** 15-The Tower ***
Capitolo 16: *** 16-Dindi ***
Capitolo 17: *** 17-Dover ***
Capitolo 18: *** 18-Beaugency ***
Capitolo 19: *** 19-Rue du Change ***
Capitolo 20: *** 20-Dieu et mon Droit ***
Capitolo 21: *** 21-Ex Machina ***
Capitolo 22: *** 22-Harmonices Mundi ***
Capitolo 23: *** 23-Honi soit qui mal y pensè ***
Capitolo 24: *** 24-The World Is your Oyster ***
Capitolo 25: *** 25-Querelle des Femmes ***
Capitolo 26: *** 26-Bellissima, come sempre. ***
Capitolo 27: *** Mostri (Redraft) Ch1 pt 1 ***
Capitolo 28: *** Mostri (redraft) Ch1 pt2 ***



Capitolo 1
*** 1-Guascogna ***


Disclaimer: alcuni nomi sono fanon e non li ho inventati, sono tratti da altre fanfiction (Madame Morand/François de Monsorot); alcuni personaggi sono tratti e direttamente dalle novelle. Alcune scene ed avventure sono revisioni delle mie storie precedenti. La storia si ispira alle innumerevoli versioni e interpretazioni delle novelle originali e film. Alcune caratteristiche della storia sono ispirate ad altri anime ed altre storie.
 

Capitolo 1
Guascogna



Per te sola nacque don Chisciotte, e tu per lui; egli seppe fare e tu scrivere; voi due soli siete d'accordo ad onta e dispetto dello scrittore finto e tordesigliesco, il quale ardì o vorrà ancora ardire di scrivere con mal temperata penna di struzzo le prodezze del valoroso nostro cavaliere, il che non è peso delle sue spalle, né opera del suo agghiacciato ingegno. Lo avvertirai, o penna, se giugi per caso a conoscerlo, che lasci riposare in pace nella tomba le stanche e già guaste ossa di don Chisciotte, e non lo voglia portare a Castiglia la vecchia, facendo escire dalla fossa dove realmente e veridicamente giace disteso quanto egli è lungo, e nell'assoluta impossibilità di fare la terza giornata od altre nuove peregrinazioni. Per pigliarsi giuoco delle tante che fecero tutti i cavalieri erranti, bastano bene le due ch'egli ha eseguite con tanto gusto e diletto delle genti che n'ebbero notizia sì in questi come in altri regni stranieri. Resterà così satisfatta la cristiana tua professione consigliando al bene chi ti vuol male; ed io autore rimarrò assai contento di essere stato il primo che abbia goduto per intero il frutto degli scritti miei, com'era mio desiderio. Non altro volli se non che mettere in abborrimento degli uomini le finte e spropositate istorie dei libri di cavalleria, i quali, la mercé delle venture accadute al mio vero don Chisciotte, vanno a quest'ora inciampando, e senz'alcun dubbio cadranno poi onninamente.

Charles fece correre le dita sulle ultime parole che solcavano la pagina, e guardò in alto, verso un tramonto bianco e coperto di alberi, il cielo terso, in quel pomeriggio ancora troppo freddo per permettersi di tardare il ritiro del pascolo. Ripose il suo libro nella bisaccia e, cominciando il rientro, fischiò veloce verso i cani.
All’orizzonte, le montagne bianche gli ricordavano come la neve non si era ancora sciolta per lasciare spazio al nero della roccia estiva, ma i tetti delle case in pietra d’ardesia brillavano neri e lucidi ad un sole montano, appena caldo soltanto a giorno inoltrato.

Al segnale, il gregge raggiunse presto monsieur André, un pastore al servizio della sua famiglia, che in quel momento si trovava più a valle. Diresse gli animali sulla strada per la sua contea, mentre il ragazzo accarezzò brevemente un puledro color rame e ne slacciò le briglie dal tronco di un albero.
Il docile cavallo si incamminò senza affrettare il passo e Charles chiuse il percorso della lunga schiera di bestiame prima di lui, sulla via di campagna.

Il suono di zoccoli veloci e pesanti lo raggiunse alle spalle, il giovane si voltò verso un equino muscoloso, nero pece, quasi il doppio del suo puledro ed un uomo riccamente vestito tirò la briglia, arrestandosi con prepotenza. 

“Charles de Batz!”- esclamò, senza neanche togliersi il copricapo.

“Marchese di Navarra!”- disse il ragazzo ricambiando il saluto con un breve inchino.

“Tre delle vostre pecore pascolavano tra le mie vacche questa mattina”- continuò il nobile, dalla corporatura robusta, ma il volto vago, indistinguibile da quello di qualunque altro signore della zona.

“Non preoccupatevi, Marchese! Monsieur André le ha recuperate poco fa. Si complimenta per la bellezza vostri animali”- disse Charles, facendo un cenno al pastore alla testa del gregge. Anche monsieur André notò il nobile e chinò il capo in una gentile riverenza prima di proseguire verso la tenuta. 

“Lo so, le mie mucche sono tra le più grandi creature di Francia e di Spagna, ma che dico! Del mondo!”- rise il nobile.

Il giovane chinó la testa e contrasse le labbra in un mezzo sorriso.
“Eh, Marchese, esistono creature più grandi delle vostre bestie...”- il sorriso del ragazzo divenne una risata di risposta.
Tuttavia il nobile si fermó, la sua espressione si spense, aprì gli occhi e lo guardò con sorpresa, come se quelle parole fossero state una completa novità alle sue orecchie.

“Come?”- chiese, facendosi più serio.

“Mi dispiace contraddirvi, mio Signore, ma le vostre mucche non sono le creature più grandi di Francia, né del mondo”- spiegò lui.

“Volete dire che sono un bugiardo e uno sbruffone? Conte de Batz, mi state forse insultando?”- chiese il Marchese di Navarra.

“No, le vostre bestie sono davvero degli esemplari grossi, belli e in salute ma... Vedete, al mondo esistono tante creature più grandi di qualsiasi vacca. Nel bestiario sono contenuti unicorni, elefanti e draghi. Un elefante adulto conta due cavalli per altezza e altrettanti di lunghezza. C’è chi dice di aver visto, e non troppo tempo fa, creature come draghi, forse tre o quattro volte un elefante, varcare il cielo e coprire il sole... Non vedo come una delle vostre vacche possa fare altrettanto”- contemplò il ragazzo, senza timore.

“Il vostro libro contiene creature impossibili da immaginare, ma forse vi trovate a leggere troppo ed osservare troppo poco, Charles. È così che le pecore scappano, quando voi avete il naso puntato al cielo, aspettando un drago o un elefante che mai arriverà. Vi consiglio di abbandonare il vostro bestiario, il vostro erbario e gli altri testi, ma di guardare il mondo attorno a voi, vedrete che creature del genere non esistono e i vostri scritti vi hanno sempre mentito!”- esclamò l’uomo visibilmente irritato dalle sue parole.

“I testi potrebbero anche mentire, Marchese. Tuttavia mettete in dubbio i tomi di gente che è esistita, con veri occhi e orecchie, alcuni di essi ancora vivono e sono pronti a descrivere a parole quello che non sono riusciti a fare con propria la penna”- il Conte ignorò i discorsi del ragazzo e si portò avanti, Charles trovò il gesto estremamente scortese.

“Ma se la loro voce ed i loro occhi e quelli di mille altri testimoni vi sembrano troppo pochi, che ne è per voi di quei testi i cui autori e testimoni sono morti e sepolti da più di mille anni? Che ne fate dei testi sacri dunque?”- chiese il ragazzo.

Il Marchese sbarro’ gli occhi.
“Mettete in dubbio i testi sacri?”- domandò in risposta, la sua attenzione si ravvivò improvvisamente. 

“Siete voi che avete messo in dubbio tutti i testi!”- esclamò Charles.

“Avete appena detto che tomi come quelli dei Vangeli potrebbero mentire. Lasciatevi accompagnare a casa, che ne possa parlare di tutto questo al Signor Conte D’Artagnan...”- disse il Marchese prendendo fiato.

“Il Signor Conte D’Artagnan è morto...”- mormorò il ragazzo, in una voce più incerta.

“Siete voi l’erede del blasone D’Artagnan adesso?”- chiese il Marchese, con impazienza.

Charles distolse lo sguardo, la ferita non rimarginata per quello che l’uomo aveva appena chiesto lo offendeva piú di qualsiasi altro insulto.

“I vostri padrini non saranno affatto contenti. Peccare di eresia è un reato molto grave!”- disse l’uomo, facendosi strada di fronte a lui, tra il bianco delle pecore, il vapore visibile dei loro respiri e il loro distinguibile odore.

“Non ho detto nessuna eresia!”- ribatté il ragazzo.

“Lasciate l’inquisitore giudicare cosa sia eretico e cosa no. É inaudito che vi troviate a rinnegare i testi sacri, voglio parlare con il vostro tutore!”- disse spronando il suo cavallo alla testa del gregge e di fronte a monsieur André, che lo guardò incuriosito da quei modi strani e irritati.

***

Alla tenuta di famiglia, che contava almeno cento anni e di questi quaranta sotto il suo patronato, Signor Conte de Batz sedeva al focolare. Il peso degli anni aveva imbiancato ormai tutti i suoi capelli ed aveva cominciato a trattenerlo più a lungo vicino al fuoco. 
Non fece troppo caso all’entrata del giovane nipote, ma percepì qualcosa quando il ragazzo non salutò, com’era solito fare e non si apprestò alle sue stanze, ma incontrò la sua presenza e quella del Marchese di Navarra.

Quest’ultimo non si inchinò alla sua vecchiaia, non pose i dovuti riguardi, non si tolse il cappello. Si soffermò solamente di fronte all’anziano, porgendo le mani ai fianchi e, riscaldatosi dal freddo del lungo galoppo in direzione della dimora. Al passare di un breve momento, dichiarò:

“Covate un eretico in casa vostra!”.

Il Conte de Batz alzò gli occhi di color turchese. Al contrario dei vecchi arazzi, simboli ormai dimenticati e statue dai volti sfregiati, soltanto quelli erano ciò che negli anni rimaneva l’emblema di un casato ormai ridotto in povertà. Una volta riprese le sue forze al calore del fuoco, l’anziano signore si alzò in piedi. 
A dispetto di avi e i successori, de Batz era un uomo abbastanza alto, tanto da comparare la sua altezza a quella del Marchese di Navarra e ordinare, con una semplice occhiata, il rispetto mancato fino a quel momento.
A quello sguardo deciso, il Machese tolse il copricapo e lo strinse nervosamente tra le mani.

“Charles, cosa vuole quest’uomo?”- disse l’anziano rivolgendosi veloce al nipote.

“Io e monsieur Andrè abbiamo complimentato le vacche del Marchese. Sono delle belle mucche, sono grosse e in salute...”- spiegò il ragazzo.

“Le bestie più grosse del mondo intero!”- lo corresse il nobile. 

Quella correzione scaturì nuovamente la protesta del ragazzo.
“Non è possibile! Ho letto sul bestiario e mio padre diceva di aver visto...”- cercò di spiegare Charles.

“Ascoltate voi stesso, de Batz! Vostro nipote è rovinato! Ha letto troppi libri stupidi e troppo poco il Vangelo! Non distingue tra i due testi, non distingue il vero dal falso, il sacro dal profano! Non merita dunque terreni per il pascolo ed eredità, ha bisogno di una giusta educazione!”- disse il Marchese stringendosi in un sorriso beffardo.

De Batz volse velocemente lo sguardo su entrambi, fermandosi sugli occhi desiderosi del Marchese.

“Nel frattempo potrei comandare io sulle vostre terre...”- aggiunse lui con fiera naturalezza.

Il Conte prese fiato. Si aspettava un’affermazione del genere, ma non temeva i le sue insinuazioni.

“D’Artagnan ha numerosi fratelli, sono uomini esperti. Prenderanno loro i terreni ed il pascolo, se è questa la vostra preoccupazione!”- lo rassicurò il conte de Batz, senza mai distogliere lo sguardo.

“Come volete. Tuttavia non voglio più vedere le vostre bestie tra le mie. I vostri cani abbaiare alle mie vacche e i vostri pastori sulla mia tenuta. La prossima volta che questo eretico siederà sulla mia collina, non sarò più io a fargli domande, ma il Tribunale dell’Inquisizione!”- il Marchese strinse i pugni e digrignò i denti come avrebbe potuto fare uno dei suoi troppi mastini ululanti, che spesso lo circondavano e di cui ancora odorava.

“E sia!”- rispose l’anziano Conte. 

De Batz tirò un lungo sospiro e, stanco di combattere con l’arroganza del Marchese, alzò la voce esclamando: “Mentre sprecate il fiato a raccontarmi delle vostre vacche, i vostri disgustosi stivali posano ancora sul mio pavimento. E come voi proclamate i vostri diritti sulle vostre terre, intendo fare lo stesso. Fuori da casa mia!”.
Il nobile voltò i tacchi ed abbandonò la sala senza proferire parola.

Il fuoco perse intensità e l’abitazione sprofondò nel silenzio e nel buio della sera. L’anziano Conte cercò il giovane con lo sguardo, si rivolse verso il nipote, senza rancore e senza rabbia nei suoi confronti. Notò come fosse scosso da quella esperienza, ma sapeva di non poter difenderlo per sempre dalla dura verità, da quel desiderio che spinge l’essere umano nel volere ciò che non gli appartiene. 
I de Batz non avevano quasi più nulla. 
Preso da una rabbia difficile da esprimere e ferito nel suo orgoglio giovanile, il ragazzo asciugò le lacrime ed inspirò con il naso, ancora in silenzio. 

“Charles, continuo a vedervi bambino, ma ormai gli anni sono passati e mi ritrovo a parlare con un uomo, con il suo pensiero e le sue idee, la volontà di ribattere verso il suo interlocutore, non curante delle minacce. Nonostante i miei occhi non riescano ancora a notarlo, se il Marchese di Navarra può chiamarvi al cospetto di un tribunale, così il Re può chiamarvi al suo cospetto, come combattente”- disse in tono riflessivo e si abbassò verso il focolare, aggiungendo legna.

Con mani ancora tremanti piú dall’emozione che dal freddo, Charles tirò fuori il libro dalla sacca e lo sfogliò, con un breve frusciare del pollice, per poi riporlo con gli altri suoi volumi in un angolo della sala adibito a studiolo.

L’anziano signore ne lesse il titolo, era ancora lo stesso libro che il nipote usava leggere, cavalieri e avventure di un mondo al di lá delle montagne, lontano dal presente.
“Dunque vorreste diventare un cavaliere errante?”- chiese il Conte con sospetto. 

“Quel che abbiamo di meglio nel nostro tempo, un moschettiere!”- lo corresse Charles, impettito dal ritrovato orgoglio.

L’anziano De Batz sorrise, irradiato per un attimo dalle parole del ragazzo, ma l’entusiasmo si spense a breve, affondato da tutti i pensieri di un passato e una famiglia dedicata alle armi.
“Che gli Dèi siano per voi quello che non sono stati per vostro padre”- sospirò il Conte e, dall’angolo del focolare, tirò fuori una vecchia spada annerita dalla fuliggine del camino. Il giovane la osservò, il manico arrugginito e la lama sfilata. Era un’arma pressoché inutilizzabile.


Charles non si perse d’animo: prese una tracolla ed un fodero di cuoio, vecchio ricordo d’infanzia che utilizzava per tenere la sua spada di legno e la indossò come se fosse stata vera.
Una volta lucidato il manico e affilata la lama, si poteva fare di quell’arnese un oggetto con cui almeno difendersi dai briganti.

L’anziano conte disse:
“Partirete per Parigi all’alba e, sotto la mia raccomandazione, chiederete del Capitano de Treville. Che il Marchese di Navarra non possa trovare di voi neppure l’ombra!”.

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Capitolo 2
*** 2-Parigi ***


Capitolo 2

Parigi


Con il sorgere del sole, il ragazzo aveva già abbandonato Batz e la tenuta.

L’orizzonte delle montagne si fece sempre più tenue e bianco, fino a sparire e lasciare spazio alle nubi, talvolta grigie, di un inverno ventoso e piogge tenui o torrenziali, fango che ricopriva il suo povero animale fin sopra la punta delle orecchie.

 

Vi fu una sosta a Tolosa e una dei pressi di Clermont, prima che le montagne cominciassero a farsi più rade ed al loro bianco si sostituì il verde delle vallate e delle colline più lievi di Bourges e Orleans.

 

Altre città e villaggi sconosciuti accolsero D’Artagnan in brevi soste notturne, sempre pronto a ripartire all’alba con il desiderio pulsante di arrivare il più in fretta a Parigi e vedere il suo sogno finalmente avverato.

Il sole tramontò poco distante dalla meta, ma quella notte non c’era tempo per addormentarsi, sarebbe arrivato al cospetto del Re l’indomani mattina.

Cercò di restare sveglio fino al giungere dell’alba, ma arrivato ad una locanda poco distante il Palazzo del Louvre, si sedette su una panca con un bicchiere di vino e cercò di rimanere sveglio senza successo.

 

Poche ore dopo si risvegliò nelle stalle del locale, il proprietario lo aveva buttato fuori. Riscaldato dall’umido della lingua spessa e l’alito erboso del suo puledro, aprì gli occhi ed una strana vista gli si parò davanti. 

Un militare sorrideva alla scena dall’alto del suo cavallo. Sfoggiava emblemi sia reali che ecclesiastici nella sua uniforme: sembrava un moschettiere e sicuramente non poteva essere descritto in altro modo, ma la sua uniforme aveva poco a che vedere con le descrizioni e le voci che giravano in Guascogna.

 

“Che bell’equino cavalcate! É un asino?”- chiese l’uomo in un accento che prima di quel momento non aveva mai udito.

 

“É un ronzino, ma che dico ronzino, è avanti a tutti i suoi ronzini. Dunque è Ronzinante...”- rispose D’Artagnan con fierezza.

 

“Cosa vi porta a Parigi?”- chiese l’uomo, come se non avesse ascoltato le parole del ragazzo. Dimostrava una certa età, forse l’età che avrebbe potuto avere suo padre, se fosse stato ancora in vita, e sembrava dimostrare altrettanta esperienza sul campo: cicatrici rigavano il suo volto, anche se i capelli non erano ancora sbiancati. Aveva un occhio coperto, forse il segno di una sventura più seria di tutte le altre.

 

“Ho una lettera di raccomandazioni da presentare al Capitano de Treville. Voglio diventare un moschettiere della guardia reale!”- esclamò il ragazzo senza paura.

 

Il militare in alta uniforme rise in modo sguaiato, ma si ricompose poco dopo.

 

“Oh, è un gesto molto nobile da parte vostra. Si dá il caso che conosca personalmente il Capitano de Treville. Se volete posso consegnare io stesso la vostra lettera di raccomandazioni”- rispose lui, asciugando una lacrima e ridendo ancora divertito.

 

“Non importa, vi ringrazio immensamente, ma desidererei consegnargliela da solo, di persona. Sapete dove lo posso trovare?”- chiese di nuovo D’Artagnan, stranamente incuriosito dal divertimento del militare.

L’uomo rise ancora, talmente tanto che alcune lacrime continuavano a sgorgare dall’angolo dell’occhio stretto, dovette strofinarsi il naso e riprendere fiato.

 

“Certamente! Recatevi alle caserme reali a palazzo del Louvre”- disse dopo una lunga pausa.

 

“Con molto piacere! Vi ringrazio del vostro aiuto e a buon rendere!”- esclamò il ragazzo, montando in sella a Ronzinante e scambiando con il militare un breve cenno di saluto.

 

Presto il giovane capì la ragione di tanto divertimento: la sola lettera di raccomandazioni non lo avrebbe mai fatto entrare a Corte, il Capitano avrebbe dovuto invitarlo. 

D’Artagnan attese di fronte ai cancelli del palazzo reale quasi un’intera giornata senza che le guardie trovassero il Capitano de Treville e ricevessero da lui l’autorizzazione per farlo entrare. Non trovando risposte, se non quelle di facce impassibili e indifferenti alle sue attese, quando il crepuscolo rapì le ultime luci del tramonto ed il freddo della sera si fece insopportabile, il ragazzo si arrese a quella triste evidenza ed abbandonò i cancelli del palazzo per ritornare alla locanda.

 

Qui un’altra realtà si fece avanti nella successione di cose capitate quel triste giorno: i soldi spesi nel bicchiere di vino bevuto la mattina erano gli ultimi dei suoi risparmi. Il lungo viaggio aveva portato via la maggior parte dei pochi guadagni di quei mesi invernali e forse soltanto in primavera i de Batz avrebbero potuto guadagnare di più. 

Come loro, tuttavia, anche i locandieri erano affamati del denaro e viveri che scarseggiavano alla fine del lungo inverno e così non gli fu concesso dal locandiere né credito, né clemenza.

 

Ritornò sulla strada buia, dalla quale si poteva scorgere una bella luna, non del tutto piena, e gli sembrò immensamente ricca e grande sulla linea di un orizzonte privo delle sue tanto amate montagne. 

Si appoggiò al muro sospirando. 

Avrebbe sempre potuto rinunciare alla sua nobiltà e diventare pastore, oppure provare ad entrare nelle schiere più a Nord, il fronte lontano della Rochelle, dove una guerra annale aveva mietuto già fin troppe vite. Tuttavia non erano quelle le giuste sorti di un moschettiere e non avrebbe voluto arrendersi soltanto al primo giorno.

 

Nel mezzo di quei pensieri, una carrozza si avvicinó al ragazzo stanco.

 

“Che ci fate tutto solo a quest’ora?”- chiese una voce dalla finestrella, si poteva scorgere parte di un volto femminile, labbra rosee e bianco come la luna stessa.

 

“Io... Non posso permettermi una stanza alla locanda, non ho abbastanza denaro”- disse lui, più sincero nel suo rammarico.

 

“Mi spiace. I vostri occhi sono troppo belli, così giovani, non meritano tanta tristezza... Lasciate che paghi io per voi, questa notte!”- dicendo così, la donna allungò nella sua mano un sacchetto abbastanza pesante. D’Artagnan lo aprì: conteneva monete d’oro per pagare un pasto e un letto e forse per alcune successive.

 

“Vi ringrazio! Come potrei mai sdebitare questo vostro favore?”- chiese lui, il suo volto, illuminato di speranza, lasciò sfuggire un sorriso di gratitudine.

 

“Avrei un favore altrettanto importante da chiedervi, dovreste accompagnarmi alla residenza reale, devo consegnare un messaggio urgente alla Regina”- disse la donna, spuntando con la testa e le mani fuori dalla carrozza.

 

“Con molto piacere! Torno appena da lí, non siamo lontani”- rispose lui.

 

Lei annuì soddisfatta e rientrò nell’abitacolo.

 

“Che strano accento che avete! Non siete Francese!”- esclamó D’Artagnan pocoprima di ripartire.

 

“No, vengo dall’altra parte del mare, sono Inglese...”- rispose lei, facendo segno al conduttore di riprendere il viaggio.

 

Il ragazzo seguí la carrozza fino ai pressi del Palazzo Reale. Lì la donna scese dalla sua vettura e salí sul cavallo del giovane. Sotto le indicazioni della dama misteriosa i due si introdussero nel cortile privo di guardie, senza annunciarsi, e continuarono verso un’ala isolata del palazzo. 

Qui la dama misteriosa chiese di aspettarlo e, una volta aiutata a scendere dalla sella, si dileguó nell’ombra di alcune arcate.

Nessuna guardia veglió l’area, nel tempo della sua attesa, ma una voce delicata ruppe la noia del silenzio notturno.

 

“Annunciatevi”- disse un’ombra di fronte a lui. Sembrava essere piuttosto giovane, ma anche spaventata dalla sua presenza. Il giovane raggelo’ e non rispose.

 

“Chi siete? Annunciatevi!”- ripetè la voce. Dal profondo di un mantello scuro, brillava alla luce della luna, la lama di un piccolo pugnale.

 

“Annunciatevi o chiamo le guardie!”- disse la ragazza per la terza volta. 

 

“Il mio nome é D’Artagnan”- rispose lui, senza sentirsi veramente in pericolo.

 

“Siete qui per conto dell’Inglese?”- chiese lei, con voce più sicura.

 

“Sí, ha un messaggio per la Regina...”- rispose lui con sicurezza, cercando di confortare la ragazza.

 

“La Regina?”- disse la ragazza con voce tremante -“credevo che fosse qui per il Cardinale”- sussurrò tra se, lunghi capelli biondi spuntavano dal mantello ed indossava un vestito azzurro.

 

“E voi chi sareste?”- chiese D’Artagnan.

 

“Sono una dama di corte al servizio della Regina Anna. Badate a quello che avete appena detto. Se sventura capiterà al vostro arrivo, vi verrò personalmente a cercare!”- minacciò lei, nascondendo di nuovo l’arnese.

Il ragazzo guardò la sagoma esile della giovane donna sparire nell’ombra e sorrise al suo atteggiamento strano.

 

Dopo qualche momento d’attesa, la nobildonna inglese tornò e montò agilmente in groppa al suo cavallo, i due percorsero lunghi cortili del Louvre all’oscurità notturna, ma presto la luce della lanterna nella carrozza li irradiò di nuovo.

 

Il giovane scese dalla sella e l’aiutò a sua volta, in quegli ultimi minuti di saluto, avrebbe desiderato dilungarsi di più su quella nuova alleanza e le ragioni della signora misteriosa.

D’Artagnan guardó la donna incuriosito. Era minuta, dai capelli chiari e leggermente mossi, indossava vesti che non ricordava aver mai visto prima e che risaltavano parti del corpo femminile che non ricordava aver mai visto prima. 

Arrossí e si inchinó a tanta bellezza.

 

“Alzatevi!”- disse lei prendendo le mani nelle sue. Erano piccole e delicate come quelle di una bambola.

 

“Siete stato di grande aiuto. Spero di incontrare di nuovo i vostri servizi”- continuò nel silenzio del ragazzo.

 

“Perdonate la scortesia, ma non rimarró qui con voi questa notte, una persona mi attende. Addio e buona fortuna a Parigi...”- la donna gli voltò le spalle e la carrozza si dileguò presto dalla sua vista.

 

Quella notte le lenzuola sul letto nella locanda gli sembrarono più profumate, il pasto più sostanzioso ed il sonno arrivò quasi senza volerlo, abbandonandosi alle mondanità di una vita frugale in una città che non dorme mai, neppure dopo il tramonto. 

 

Un tranquillo sorriso si accennò sul suo volto assopito: Parigi era davvero la città dei sogni.

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Capitolo 3
*** 3-La Collina del Mulino ***


Capitolo 3

La collina del Mulino

 

Il mattino seguente, lasciato il solaio della locanda, D’Artagnan scese veloce la scala e salutò gioioso il locandiere. 

 

“Non sapreste dirmi dove trovare il Capitano de Treville?”- chiese il ragazzo, ma l’uomo scosse la testa e si rivolse verso gli altri suoi clienti.

 

Un cavaliere poco distante si tolse il cappello per scoprire lunghi capelli di un nero lucente, un volto chiaro e ben curato, dai modi piú eleganti delle sue vesti, alzó lo sguardo su di lui per un istante ed allungò la mano verso un mazzo di carte, nell’altra teneva una bottiglia di vino, che non sembrava voler offrire ai suoi compari.

 

“Treville, avete detto?”- chiese lo sconosciuto con apparente noncuranza.

 

D’Artagnan si annunciò impettito:

“Capitano de Treville, sono il nipote del Conte de Batz, D’Artagnan, ho una lettera di raccomandazioni per voi, sono qui per diventare un Moschettiere!”- disse tutto d’un fiato.

 

L’uomo alzó di nuovo lo sguardo: dalla tesa infangata del cappello agli speroni arrugginiti, il giovanotto sembrava aver fatto parecchia strada.

Scosse la testa e ritornó sul suo gioco, sorridendo amaramente a quelle presentazioni.

 

“Mi confondete per qualcun altro, non sono il Capitano de Treville!”- l’uomo chiuse gli occhi per un attimo, ma li riaprì subito dopo, bevve dalla bottiglia e cominciò a mischiare le carte.

 

“Sapete dove posso trovarlo?”- chiese di nuovo D’Artagnan, senza lasciarsi scoraggiare.

 

“No, nessuno lo sa”- l’uomo distolse lo sguardo dal giovane ed aprì il gioco senza quasi badare più alle parole del ragazzo.

 

“Cosa? De Treville è il Capitano dei Moschettieri!”- esclamò il ragazzo.

 

“Andate via, non vedete che stiamo giocando a carte? Il conte Rochefort è il capitano che state cercando, ma vi avviso  i suoi moschettieri poco hanno a che fare con il Re o Treville”- i lunghi capelli sciolti dell’uomo scivolarono sulla schiena, mostrando le spalle e braccia allenate non di certo dal solo giocare a carte in taverna.

 

Parte della sua vecchia uniforme di cuoio, sbiadita dal sole e dal troppo uso, spiccava la sagoma di un emblema strappato: un giglio reale. Agli occhi del ragazzo, poteva significare soltanto una cosa.

 

“Traditore!”- esclamó D’Artagnan a quella vista, a suo parere un gesto disonorevole ed orribile.

 

“Traditore è colui che bacia gli anelli di Richelieu ed abbandona la Francia, non chi la difende più della sua stessa vita!”- lo corresse l’uomo alzandosi e incrociando il suo sguardo senza timore, sembrava animato da una strana luce: orgoglio e onore, rabbia e delusione.

 

“Avete strappato l’emblema della vostra uniforme! Infangando il nome dei Moschettieri e quello del Re!”- si giustificò il ragazzo, oltraggiato dalla vista, puntando la sagoma più scura lasciata dal ricamo mancante.

 

“Non c’è più differenza tra Re e Cardinale: entrambi dettano legge sotto l’emblema del giglio. Tuttavia uno di essi si finge doppiamente re e vi posso garantire che è il galero, non la corona, ciò che orna la sua testa!”- il presunto traditore, armato di tracolla e rapière, anche se al principio aveva dimostrato un tono abbastanza paziente, pronunciando quelle frasi cambiò d’umore. Il suo volto si oscurò, gli prese un braccio e puntò gli occhi sui suoi, erano di un blu profondo, sottili baffi curati cingevano le sue labbra, segno di una carriera militare lunga diversi anni.

 

“Tre anni fa non eravate che un lattante ancora tra le gonne della vostra balia! Che ne sapete di quello che è successo, della ragione che mi ha spinto a strappare quel dannato giglio? Beata vi protegge l’ignoranza! Posso dire di essere fedele al Re e alla Francia e la mia parola vi deve bastare! Ora andate prima che decida di punirvi in altra maniera”- disse tra i denti.

 

“Mi state accusando di aver bevuto latte dalla balia fino ai miei quattordici anni?”- chiese il ragazzo, ascoltando quelle parole riecheggiare nella mente.

 

“Quattordici? Scusate... Intendevo dire diciassette!”- esclamò l’uomo senza timore.

 

“Questo è troppo! Siete voi il traditore e mi state insultando! In guardia!”- esclamò D’Artagnan, agguantando la sua spada.

 

Alle ire del giovane, l’uomo mostró soltanto la malinconia di un tempo lontano e l’indifferenza di un presente privo di avvenimenti più importanti di quel mazzo di carte e una bottiglia di vino.

 

“Non combatto lattanti. Se proprio insistete ditemi un luogo e un’ora più appropriata dove incontrarvi e darvi una bella lezione!”- commentó.

 

D’Artagnan esitó.

“Non so. Sono nuovo di Parigi. Ditemi voi...”- disse il ragazzo.

 

“Santi numi! Presentatevi fuori dalle mura, alla terza ora, presso la Collina del Mulino. Si vede un campanile non troppo distante. O non presentatevi affatto. Il vostro onore sarà per sempre rovinato e parleró per sempre di voi come di un lattante sbruffone, vigliacco e codardo, ma almeno avrete salva la vita”- comandò l’uomo.

 

“Cos’è una vita senza onore?”- chiese il ragazzo.

 

“Vita! Siete un idiota! E se vi presentate a questo duello sarete un idiota morto!”- disse l’uomo senza prestargli attenzioni, giocando con violenza le sue carte sul tavolo. D’Artagnan non se ne curò e continuò:

 

“E di chi devo chiedere?”- trattenne i pugni e strinse le mandibole. Sulla sua fronte, comparve una vena, mentre il suo vero animo era trattenuto a stento dentro il giovane corpo. Qualsiasi cortesia che il ragazzo poteva dimostrare, era ormai svanita e la confidenza di quell'uomo senza rispetto non aiutava. 

 

“Di Nessuno! Se non sapete neppure dove andare, arriveró sicuramente prima di voi!”- l’uomo non si voltò affatto, la sua voce rimase monotona e lo sguardo attento solo al gioco. Non notò D’Artagnan andarsene dall’edificio a passo lungo e rosso di rabbia.

 

***

 

Solo pochi passi più avanti, una volta ripreso fiato, abbandonata l’entrata della taverna e sotto un bel cielo cittadino, D’Artagnan notò un giovane piuttosto magro, all’apparenza circa la sua stessa età, ma piú alto di lui, sedeva nei pressi di una fontana e trangugiava veloce da una strana brocca allungata. 

Ancora scosso dall’accaduto di pochi minuti prima, il ragazzo si avvicinò e lui gli fece spazio, in modo che potesse bere e rifocillarsi. 

 

“Potrei chiedervi la cortesia di prestarmi la vostra tazza, padre?”- chiese D’Artagnan, notando la croce che gli pendeva dal petto e le vesti scure, non erano comunque quelle della toga di un prete e neppure le armi che pendevano dalla tracolla sembravano poter accompagnare un religioso, se non in battaglia.

 

Il giovane lo guardò, alzando le sopracciglia bionde ed i capelli legati, arricciando gli angoli degli occhi, chiari come il cielo, in un’espressione strana. Come preso alla sprovvista, D’Artagnan sputò parte del liquido per terra. Qualsiasi bevanda fosse stata, era più scura dell’acqua fangosa, bruna come la terra bruciata.


D’Artagnan annusò la tazza, non era vino, non aveva mai provato niente di simile prima di quel momento. Il sapore era amaro come il veleno. D’istinto sputò la bevanda e buttò il resto per terra, sciacquando la brocca nella fontana.

 

“Mi volete morto!”- disse bevendo acqua fresca che nulla aveva a che fare con quel sapore indicibile.

 

All’espressione disgustata del ragazzo, il giovane combattente sbottò una risata.

 

“Può darsi...”- disse alzandosi e porgendo la mano per riavere la sua terracotta.

 

“Dovreste scusarvi. Pentitevi per la scortesia!”- disse il ragazzo con tono severo.

 

“Scortesia? Quale scortesia? Vi ho appena offerto da bere!”- esclamò il giovane, sorpreso da quella reazione.

 

“Dovreste essere scomunicato! Dovreste essere messo al rogo! Un prete che beve la bevanda del Diavolo!”- esclamò il ragazzo puntando il dito verso di lui.

 

Il giovane sconosciuto si era quasi allontanato e si stava apprestando verso il suo cavallo, ma le parole del ragazzo non furono ignorate: si fece subito serio e si voltò indietro.

 

“Questo è troppo! Chiedete immediatamente scusa per quello che avete appena detto!”- disse mostrandogli la lama affilata del rapière. 

 

“Affatto! Siete voi che dovreste scusarvi per avermi offeso con questa roba!”- D’Artagnan non si fece attendere e rispose alla minaccia sfoderando la sua lama. 

Lo sguardo infuriato del giovane corse verso l’uscio della locanda da cui lui stesso era uscito poco prima, qualche cosa stava succedendo dietro di lui, del baccano, un vociare sempre più intenso e gente pronta ad uscire dalla porta. Con la rapidità con cui aveva sfoderato l’arma, il giovane la ripose nel fodero e si avventò al bavero del povero ragazzo.

 

“Non possiamo combattere qui. Fatevi trovare alla Collina del Mulino, dal lato che guarda il campanile, allo scoccare della terza ora!”- minacciò tra i denti.

 

“Con piacere!”- disse D’Artagnan, con un sorriso di sfida.

 

“Di chi devo chiedere?”- domandò poi al giovane combattente.

 

“Di Nessuno! Arriverò sicuramente prima di voi!”- esclamò, spronando il suo cavallo al galoppo e dileguandosi tra le strade della città.

 

D’Artagnan non diede troppo peso a quelle parole, pensó fosse d’uso comune, o un modo di dire, nel dialetto parigino.

 

***

 

La Collina del Mulino si ergeva al di fuori delle mura della città, solo da lontano si poteva scorgere una piccola chiesa ed il suo campanile pronto a battere l'ora. Due uomini attendevano con noncuranza l’arrivo di D’Artagnan. Erano all’incirca della stessa altezza, mentre uno sembrava più esile, l’altro, più allenato, dimostrava più anni.

 

Ascoltarono chiari i tre rintocchi del campanile e si guardarono attorno, notandosi l’un l’altro.

 

“Voi qui?”- chiese l’uomo più adulto.

 

“Voi, qui!”- esclamò il giovane, con un mezzo sorriso.

 

“Questa mattina ve ne siete andato senza salutare! Non mi avete ancora detto cosa avete fatto ieri sera!”- disse il primo.

 

“Perchè? Che vi importa?”- chiese l’altro.

 

“Mi interessa sapere cosa avete fatto e dove avete messo cosa in cosa... Di Madame de Chevreuse!”- l’uomo sorrise. Anche il giovane rise di risposta, ma scosse la testa.

 

“Volete dirmi che siete tornato a casa a mani vuote? Quella dama era tutta per voi!”- esclamò.

 

“Voi siete tornato a casa a mani vuote e avevate tre dame che vi ronzavano attorno. Perchè per me dovrebbe essere differente?”- sorrise il giovane.

 

“Fatemi vedere le vostre mani... Che mani belle, magre e pulite che avete! Come quelle di una donna! Per queste mani, che si infilano ovunque ed è con queste mani che prendete qualunque cosa!”- l’uomo lo guardò con una strana impertinenza.

 

Il giovane abbassò gli occhi con imbarazzo e le ritrasse immediatamente da quelle dell’amico, infilandole in paio di guanti bianchi.

L’uomo piú adulto gli prese il mento, per incontrare ancora meglio il suo sguardo.

 

“É inutile nasconderle! Profumano ancora della vostra ultima preda!”- l’altro non si fece intimorire e lo costrinse a mollare la presa puntando il gomito al petto.

 

Tra una risata e uno scherzo, i due cominciarono lentamente a controllare le loro armi e le selle dei loro cavalli. Pugnali nascosti nell'orlo piegato dello stivale, rapieri luccicanti, fruste, cartucce e immancabili moschetti pronti per essere caricati e sparare.

 

“Non mi avete ancora detto cosa fate qui”- chiese di nuovo.

 

“Un guascone in cerca di brighe. Voi?”- rispose l’uomo.

 

“Per lo stesso motivo!”- rispose il giovane.

 

“Non siate timido, se volete incontrare una delle vostre donne posso sempre lasciarvi solo... Prometto di non portarvela via per questa volta!”- ribattè l’uomo.

 

“No, un guascone mi ha davvero sfidato a duello”- ripetè il giovane.

 

“D’Artagnan de Batz?”- chiese l’uomo.

 

“Non so chi fosse, mai visto prima. Un ragazzo corto, pocopiù di un lattante, dai capelli castani, e gli occhi color turchese. Vestito pressochè di stracci e una spada arrugginita”- disse il giovane.

 

“Per Giove! Deve combattere prima con voi!”- si sorprese l’uomo.

 

“Se ha sfidato prima voi, combatterà prima con voi!”- disse il giovane.

 

“Ma quando avrò finito con lui non ne rimarrà più niente!”- continuò il primo.

 

“Per Voi non rimarrà nulla se comincio prima io!”- ribattè l’altro.

 

I due si agguantarono per le spalle, combattendo e come fossero stati due arieti, cominciarono a spingere ed incornarsi a suon di testate.

Nulla li fermò per un lungo quarto d’ora, finchè l’unico essere vivente in grado di separarli fu un puledro baio che aveva lasciato la città, sbrigliato e al galoppo, accompagnato di corsa da un uomo alto, robusto e ben vestito. Nonostante la stazza, riusciva tranquillamente a tener testa alla bestia e, dopo qualche tentativo, riprese controllo dell’animale.

 

“Che il carro di Apollo passi senza di voi!”- affannò l’uomo dalle fattezze titaniche, voltandosi indietro, le vesti dai ricami d’oro ed una folta parrucca ordinata di riccioli bruni stava scivolando dalla sua testa, mostrando capelli altrettanto bruni, le grosse basette che incorniciavano il suo volto e le spesse sopracciglia.

I due uomini lo riconobbero e gli vennero in contro.

 

“Figlio di mille padri... E altrettante madri!”- urlò un giovanotto alle sue spalle, in un terribile accento guascone.

 

“Madri?”- esclamarono i tre notando il ragazzo correre dietro di lui.

 

“Nessuno e Nessuno! Già qui? In guardia!”- continuò D’Artagnan, affatto scoraggiato, sfoderando lo spiedo del focolare.

 

“Nessuno?”- chiese l’uomo dalle belle vesti rivolto ai due uomini, aggiustando la parrucca e il farsetto.

 

“Nessuno. Lo avete appena detto!”- disse l’uomo dai lunghi capelli neri.

 

“Avete ben due duelli con Nessuno e per Nessuno siete già in ritardo!”- disse il giovane sorridendo e incrociando le braccia.

 

L’uomo elegante guardò la scena come se qualcos’altro, oltre al puledro, fosse momentaneamente sfuggito dalla sua attenzione. Si voltó lentamente indietro, incrociando la figura del ragazzo.

 

“Avete appena detto che sono figlio di mille padri?”- chiese rivolto a D’Artagnan, inclinando la testa, come per guardarlo meglio.

 

“...E Madri, non dimenticatele!”- aggiunse il giovane, con un mezzo sorriso.

 

“...E... Madri”- ripeté l’uomo, con fare pensieroso, osservando la scena attentamente.

 

“...E-e... M-madri!”- concluse D’Artagnan, livido di rabbia e il pugno tremante. 

 

“In guardia!”- lo incitò, dimenando il suo spiedo annerito.

 

La stazza di quest’ultimo uomo, superava di gran lunga quella dei primi due, tanto da non lasciare quasi speranza al povero ragazzo che, trascurati i primi due duelli, soltanto uno con quel terzo personaggio sembrava già una causa persa o un suicidio.

Gli uomini però persero presto interesse nel ragazzo quando, notando qualcosa all’orizzonte, si affiancarono con un breve segnale e raggiunsero in fretta i loro rapieri affilati, rimanendo in guardia.

 

“Andate via!”- disse l’uomo dai capelli corvini al ragazzo, prestando la sua attenzione ad altro.

 

“Non prima di avervi battuto! Fatevi avanti!”- continuò D’Artagnan senza notare cosa stava succedendo alle sue spalle.

 

Un uomo che il ragazzo aveva già incontrato il giorno prima si fece avanti al galoppo accompagnato da altre guardie.

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Capitolo 4
*** 4-A Corte ***


Capitolo 4

A Corte

 

L’uomo elegante prese D’Artagnan per le spalle, lo sollevò da terra con la forza di una sola mano e, con l’altra, al pari di un soffio di vento, lo girò come una banderuola, gli occhi del ragazzo verso la figura al galoppo in testa ad una schiera composta da pochi uomini.

 

Il ragazzo notò il cavaliere con uno sguardo sollevato.

“Ah! L’amico del Capitano de Treville! Monsieur! Monsieur Chevalier!”- gridò, agitando le braccia nella sua direzione. A quelle parole, le grosse mani mollarono la presa all’improvviso e il ragazzo fu spinto in avanti, accompagnato da un coro di protesta dei tre uomini alle sue spalle.

 

“É una trappola! Presto allontanatevi!”- gridò uno degli altri, apprestandosi alle briglie del proprio cavallo.

 

D’Artagnan non si voltò verso i tre combattenti e corse incontro al militare, ma il moschettiere dalla strana uniforme che aveva incontrato il giorno prima, ancora in sella al suo animale, lo buttò a terra con un calcio. I tre uomini in fuga si fermarono a quella vista, prestando di nuovo attenzione a quello che stava succedendo.

 

“Monsieur le Militaire! Non ricordate di me? Ci siamo incontrati giusto ieri! Avete detto di conoscere Treville...”- una volta ascoltate le parole del ragazzo a terra, i tre battaglieri, colti da un senso di pietà, si scambiarono un breve sguardo e tornarono indietro.

 

 L’uomo in divisa lanciò loro una breve occhiata ed un severo cenno di saluto. 

Infine sfoderò la sua lama e la puntò verso D’Artagnan, ancora incredulo.

 

“Delinquente! State infrangendo il decreto di Richelieu! Questo vi costerà almeno una settimana di prigione!”- disse soddisfatto.

 

D’Artagnan lo guardò tradito:

“Io non...”- cercò di rispondere.

 

“Lasciatelo stare!”- gridò il giovane dai guanti bianchi in sua difesa.

 

“Il ragazzo è un idiota, ma è davvero troppo stupido per essere anche un criminale!”- gridò l’uomo dai capelli corvini, balzando tra i due.

 

Il terzo non parlò, ma buttò i lunghi boccoli bruni della sua parrucca a terra e si affiancò agli altri due, con lo stesso impeto.

 

“Ancora voi tre! In nome del Cardinale Richelieu vi dichiaro tutti quanti in arresto!”- disse il militare in alta uniforme.

 

“Rochefort: ve la state prendendo con un bambino!”- ribattè l’uomo dalle ricche vesti.

 

“Non abbiamo fatto nulla!”- continuò il giovane al suo fianco.

 

“Stavate aprendo un duello armato e violando il decreto cardinalizio. Siete tutti in arresto sotto il crimine dichiarato di rissa cittadina. É vietata qualsiasi forma di duello o incontro senza autorizzazione, lo sapete!”- li ammonì il militare a cavallo.

 

“Infatti siamo fuori dalle mura della città!”- commentò il giovane di risposta.

 

“Non importa. Rimarrete comunque in arresto! Richelieu in persona deciderà cosa fare di voi!”- dichiarò Rochefort, invitando i suoi uomini a procedere con il loro arresto.

 

I quattro furono forzati in una carrozza ed i loro cavalli imbrigliati al seguito, di nuovo tra le mura cittadine, ma solo tornando indietro D’Artagnan notò come i tre, una volta riconosciuti, fossero salutati da numerosi passanti con il termine di moschettieri.

 

“Perchè vi salutano in quel modo? Perchè dicono che siete moschettieri?”- chiese con curiosità.

 

Il giovane dai guanti bianchi sorrise ed abbassò lo sguardo.

“Perchè lo eravamo...”- rispose quasi tra i denti.

 

“Siamo gli ultimi uomini di Treville”- spiegò l’uomo dalle vesti eleganti.

 

“Dopo di noi c’è stato solo Rochefort e le guardie di Richelieu... I nostri compagni rimasti in quelle schiere sono stati spediti quasi tutti al fronte...”- continuò il giovane più esile sporgendosi dalla finestrella con fare distratto.

 

“Anche le guardie del Cardinale sono moschettieri...”- riflettè D’Artagnan.

 

“Il Palazzo Reale aveva la guardia Reale, così come il Palazzo Cardinale aveva la guardia del Cardinale. Anche se l’ordine dei moschettieri è stato dimesso, non sono affatto la stessa cosa!”- disse il terzo uomo.

 

“Li chiamano guardie rosse, per via delle loro uniformi. Ma in realtà con l’arrivo di Rochefort nessuno si cura più della città, nessuno bada più a quello che dice la gente o al nome del Re!”- esclamò il giovane.

 

“Rochefort e le sue guardie pensano solo al benestare dei protetti di Richelieu e a fare giustizia tra di loro, è questo il loro segreto,”- aggiunse l’uomo dai capelli neri.

 

“Per questo le loro schiere erano e sono sempre le più rigorose e ordinate. Non si sporcano le mani cercando la vera giustizia...”- continuò il giovane.

 

L’uomo dai capelli neri, che D’Artagnan considerava ancora un traditore del regno, annuì agli altri tre con confidenza e mosse un braccio al di fuori della carrozza, fermandosi al suo comando.

“Cosa c’è, Conte?”- disse il comandante Rochefort.

“Non siete autorizzato ad arrestare qualcuno del mio rango senza l’autorizzazione del Re o di Richelieu. E, a quanto mi risulta, questa non è la strada per il palazzo del Louvre, Conte de Rochefort”- rispose lui con confidenza, battendo brevemente le mani ordinò alla carrozza di ripartire alla volta del Palazzo Reale.

 

“Siate dannato, Conte!”- replicò il comandate a cavallo.

“Mai senza di voi, Conte!”- rispose quello che fu il moschettiere, senza neppure guardarlo.

Gli altri due compagni sorrisero a quella risposta, ma D’Artagnan non sembrò dello stesso umore.

 

Il ragazzo li osservò nella loro sfrontatezza. Nonostante avessero apparentemente  violato una legge cardinalizia e fossero stati arrestati, per qualche ragione a lui sconosciuta, la loro nobiltà li metteva ancora in condizione di non essere spediti direttamente allo Chatelet o alla Bastiglia, ma di confrontarsi a colloquio con una delle più alte cariche dello Stato.

 

Forse uno di loro era protetto dal Re allo stesso modo di come quello strano comandante era un protetto del Cardinale, ma in realtà durante quella giornata così particolare nessuno di loro aveva ancora fatto i loro veri nomi.

 

***

 

A quei tempi Luigi XIII regnava sulla Francia da ormai diversi anni. 

Ad assisterlo in quel compito così importante, carico di sotterfugi, attentati e complotti che avevano messo più volte in subbuglio il Regno, era l’influente ed altrettanto rigido Cardinale de Richelieu.

 

Il nome di Sua Eminenza compariva ormai nelle politiche di Stato da diverse generazioni. Tuttavia molto era cambiato dalla convocazione degli Stati Generali e dal complotto Condé di tanti anni prima.

 

Innanzi tutto il Cardinale ora sedeva a Corte a fianco del Re ed aveva un’influenza ed autorità praticamente incontrastata.

Il mancato tentativo della Cospirazione Concini,  quello di coronare un discendente spagnolo al regno di Francia, aveva però reso le nozze Reali con Anna D’Austria, solo un intralcio alle nuove politiche internazionali.

 

Richelieu non intendeva affatto mantenere con altrettanta devozione il meticoloso operato della Regina Madre, a quel tempo ormai in esilio a Blois.

Durante quegli anni di politiche precarie, a dispetto di ministri e burocrati, i due giovani sovrani, discendenti da famiglie così in contrasto, erano cresciuti fianco a fianco diventando avvezzi l’uno all’altra, confidandosi problemi e risolvendo insieme le questioni più intime della famiglia reale. 

 

Anna, noncurante delle sue origini o dei complotti iberici, badava più agli interessi del suo Re e del suo regno, che alla famiglia d’origine. 

Nella loro adolescenza travagliata, la principessa spagnola aveva sostenuto tenacemente il suo principe francese durante la condanna di Concini e la definitiva presa di potere del giovane sovrano.

 

La natura cattolica e riservata di Luigi differiva di gran lunga dalla sovranità aperta, tollerante e amorevole del padre Enrico IV, circondato da diverse mogli ed altrettante amanti che negli anni avevano procurato una vasta prole. 

 

Il contrasto cominciava a farsi ancora più visibile una volta superati i vent’anni, quanto, oramai, scusare l’assenza di un erede sulla gioventù dei due coniugi era diventato impossibile. 

Di nuovo, la colpa di questo, ricadde quasi inevitabilmente sulla povera regina straniera, già malvista per le sue origini. Voci di corte non le davano favore, considerando la dedizione per il Re soltanto amore fraterno, mai pienamente realizzato.


Le politiche interne che Richelieu aveva portato avanti fino a quel momento, cercavano di stabilizzare il suo potere e quello del Re sul resto dell’aristocrazia. Temporeggiava invece sulle politiche estere, cercando un’ispezione di regni ed alleanze come quello inglese che, nonostante fosse alleato con regni nemici, aveva dimostrato di recente un vivo interesse negli eventi di Corte ed aveva sostenuto l’incoronazione del nuovo sovrano con una serie di visite ufficiali, tutte organizzate sotto il comando del Marchese di Villiers di recente nominato primo ministro, Duca di Buckingham. 

 

Tuttavia, il rigoroso Cardinale non aveva ancora preso una vera decisione su come agire nei confronti di un regno così potente come quello britannico e così in contrasto con la Francia su molti altri fronti.


Il Duca di Buckingham, uno tra i ministri favoriti alla Corte inglese, di sua spontanea volontà, aveva accettato un nuovo invito alla Corte francese. La sua visita era stata accolta da sfarzi, doni e ricevimenti. Ed anche la delegazione inglese non si era presentata a mani vuote, voci di Corte descrivevano gioielli e rarezze d’altro mondo, spezie, cibi mai assaggiati in precedenza ed una collezione di creature mai viste prima.


***


L’entrata del Duca era stata appena pronunciata e non aveva ancora ricevuto risposta, quando le guardie cardinalizie irruppero nella sala, trascinando i quattro arrestati. 

Gli uomini furono annunciati a Richelieu e fatti chinare al suo cospetto.

 

Fu in quel momento che il ministro straniero, presentandosi al cospetto del Re, incrociò lo sguardo di uno degli arrestati e, quasi allarmato dalla situazione, disse:

 

“Voi? Il vostro volto non mi è nuovo”.

 

Il giovane alzò lo sguardo: l’espressione di noia e noncuranza, fu presto sostituita da una vaga sorpresa.

 

“M-Marchese!”- rispose, quasi strozzato dallo stupore.

 

“Duca, sotto la clemenza di re James!”- lo corresse con vanto.

 

Ci fu una breve commozione di stupore, tra i sovrani, i ministri e gli arrestati. 

 

“Maestà, Eminenza conosco questo giovane, Barone D’Herblay, conosciuto anche con il suo nome di battaglia, Aramis: ha talento ed anni di esperienza alle spalle, un vero rampollo della sua famiglia, lasciatelo crescere ancora qualche anno e sono certo che sarà pronto a diventare capitano lui stesso, è un ottimo moschettiere...”- continuò il Duca, per la sorpresa degli altri tre compagni.


Richelieu non lasciò alcun valletto avanzare per lui:

“Eccellenza. Le vostre alleanze con le famiglie della normandia mi... Mi allietano. Tuttavia il vostro battagliero ha rifiutato le schiere di Rochefort, non appartiene più a nessun ordine”- spiegò il Cardinale con vaga preoccupazione.

 

Il Duca si alzò per osservare meglio il barone inchinato, ma notò in fretta gli altri due uomini in sua compagnia.

 

“E voi dovreste essere Porthos e Athos”- sussurrò in un mezzo sibilo. I due uomini, interpellati alzarono lo sguardo sospettosi, non ricordavano averlo mai incontrato prima eppure sembrava che lui li avesse riconosciuti all’istante.

 

“Barone”- disse il Duca rivolto al giovane -“Non sapevo delle vostre alleanze, non credevo foste ancora vivi...”- commentò tra i denti il nobiluomo inglese. Sembrava proprio rivolto verso l’uomo robusto dalle vesti eleganti e quello dall’uniforme e gli emblemi stracciati.

I tre lo guardarono con sconcerto, come se parte della loro memoria fosse in un certo senso tornata improvvisamente.


Il Duca sembrò avere un ripensamento, ma non badò troppo alla loro espressione incredula e, distolto lo sguardo dagli arrestati, si concentrò su Richelieu.

 

“La bellezza e l’arroganza della vostra gioventù non dovrebbe esservi d’impaccio, Barone D’Herblay, ma dovrebbe darvi la forza per raggiungere mete che noialtri abbiamo abbandonato tanti anni fa. Purtroppo sono ancora debitore ai vostri favori ed il vostro padrino...”- Buckingham temporeggiò. Gli occhi puntati sui sigilli cardinalizi ed episcopali che adornavano le lunghe dita del religioso.

 

Debitore di cosa?”- sussurrò Porthos, ma Aramis gli fece cenno di tacere.

 

“Maestà, Eminenza, vogliate concedere la grazia e lasciare andare questo giovane cavaliere a cui devo un favore più grande della stessa vita: quello l’eterno amore. Le loro scorribande non varranno sicuramente una notte in prigione!”- il nobile inglese pronunciò quelle parole con un sorriso accomodante.

 

I quattro arrestati si guardarono con stupore.

 

Il Re fece loro cenno di alzarsi.

 

“Athos, Porthos ed Aramis, sono i vostri nomi di battaglia, mi ricordo di voi. Eravate tra i moschettieri della guardia reale. Non ricordo tuttavia colui che vi accompagna”- disse con sospetto.

 

I quattro uomini si rialzarono sull’attenti. D’Artagnan fece un passo verso il sovrano e, tolto il cappello, si inchinò nuovamente.

 

“Charles de Batz, D’Artagnan, Maestà. Il Signor Conte de Batz mi ha raccomandato al Capitano de Treville!”- il ragazzo tirò fuori una lettera e la porse nelle mani del sovrano. Lui la lesse senza troppa attenzione e la ripose nelle sue mani, tendendo le labbra in un sorriso assente. Solo dopo qualche momento si alzò e, rivolto a tutti e quattro, pronunciò:

 

“La fortuna oggi vi assiste, miei cari soldati. Il Duca di Buckingham mi porge un dono immenso e prezioso, a cui non so ancora come ricambiare. Concedere questa grazia potrebbe essere un buon inizio!”. Una volta perdonati, il sovrano cercò i consensi del suo ministro e si sedette di nuovo.

 

Una dama che accompagnava la Regina chiese il permesso di avvicinarsi ai quattro uomini ancora al cospetto del Re e dei due ministri. La sovrana annuì e la osservò allontanarsi da lei con vaga curiosità.

L’aspetto della ragazza e le sue vesti erano vagamente familiari agli occhi di D’Artagnan.

Raggiunti i quattro uomini ancora sull’attenti, osservò tutti con attenzione. Era veramente molto giovane ed altrettanto attraente, i suoi occhi brillavano di una bella luce, i capelli d'un biondo chiaro erano ben pettinati e due lunghe ciocche ricadevano in avanti sulle spalle, illuminando il viso coperto diligentemente di bianco e belletto. Fece qualche passo verso D’Artagnan, riconoscendolo, per poi soffermarsi sulla figura esile del giovane al suo fianco, il soldato che il sovrano aveva indirizzato con il nome di Aramis.

“Ho un messaggio da parte di Madame de Chevreuse”- disse con sicurezza e gli diede un leggero schiaffo sulla mano, senza che lui battesse ciglio.

 

Gli altri due cercarono di trattenere una mezza risata, ma furono presto interrotti quando la giovane dama battè le mani nel tentativo di farli smettere.

De la Fère e Du Vallon, non ho mai consegnato i messaggi di Madame de Faucompè e di Madame de Guingànt. A proposito, quest’ultima dice di non avervi piú visto.

“Dice la veritá?”- chiese il moschettiere più alto, che il re aveva chiamato Porthos.

“Eh”- rispose quest’ultimo.

“Sembra che certi problemi siano sempre e solo vostri!”- commentò lui.

 

La giovane dama si rivolse verso D’Artagnan.

“In quanto a Voi, la luce della luna non mi inganna, mi ricordo di voi e voi vi ricordate di me!”- esclamò.

La ragazza puntò un dito verso di lui, in segno di minaccia e di rimando alla notte precedente.

 

“La luce della luna non dà giustizia a così tanta bellezza! Come ricordo del vostro bel viso, mi ricorderò sicuramente il vostro nome!”- esclamò il ragazzo prendendole la mano in un inchino.

“Constance Bonacieux”- rispose lei, senza alcuna meraviglia. 

I tre uomini si prostrarono in un inchino che lei ricambiò brevemente, prima di ritornare al fianco della sovrana.

 

La guardia Cardinale liberò i tre uomini, ma alla loro uscita, Rochefort si avventò all’orecchio di Athos sussurrando -“Non la passerete liscia! Avete la mia parola”.

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Capitolo 5
*** 5-La Dimora di Planchet ***


Capitolo 5

La dimora di Planchet


I quattro cavalieri furono scortati fuori dalle mura di palazzo e lasciati ai loro destini.

 

“Così avete già incontrato Mademoiselle Bonacieux, dama di corte. Un solo giorno a Parigi e cominciate a capire...”- disse Porthos.

 

“Non sono io che ho incontrato lei, è lei che ha incontrato me. Io stavo solo aspettando una... Ma questa conversazione non credo vi interessi”- rispose D’Artagnan, il moschettiere lo interruppe di nuovo.

 

“Quindi significa che già dalla vostra prima notte in questa città avete conosciuto diverse giovani donne? Conosco qualcuno e qualcun altro che desidererebbero tanto sapere il segreto del vostro successo!”- esclamò lui, sistemandosi parrucca e farsetto, pronto per risalire in groppa al suo cavallo.

 

Athos, già in sella al suo, interruppe la loro conversazione, rivolgendosi a Porthos.

 

“Quale segreto?! E’ già tutto di fronte ai vostri occhi: la sua gioventù e ingenuità attrae sicuramente quel certo tipo di dame che vive di espedienti, bicchiere pieno e tasche vuote, un buon letto per la notte. E la mattina dopo, il triste e solitario risveglio”- disse con naturalezza.

 

Aramis si avvicinò a D’Artagnan, gli prese la spalla e lo guardò negli occhi, quasi scusandosi della discussione degli altri due.

 

“Ogni cosa a tempo debito. Avete il diritto di mantenere i vostri affari privati. Dopotutto non siete che uno sconosciuto nei nostri confronti e voi potreste dire lo stesso di noi”- disse con voce calma e lo sguardo rassicurante, abbozzò un sorriso, ma in un certo senso non attese la sua risposta, negando ancora una volta il rispetto preteso dal giovane.

 

D’Artagnan raggiunse le briglie del suo puledro e prese fiato.

 

“Esattamente! Non posso credere di aver perso un giorno intero in balìa di uomini come voi! Il crepuscolo si avvicina e l’aria si fa fredda, eppure nessun letto mi attende per questa sera! Grazie a voi non solo ho perso tempo, ma anche la reputazione!” -esclamò con amara fierezza.

 

Porthos rise.

 

“Quale letto?! La notte è ancora troppo giovane per pensare a dove dormire! Madame Morand mi deve ancora fin troppe spiegazioni! Mi farò ritrovare alla sua taverna per questa notte...”- disse rallegrando lo sguardo.


“Che avventura ardua e coraggiosa! Le cantine della sua taverna sono sempre fin troppo ricolme. Non c’è spazio per tutto quel ben di Dio. E se non c’è abbastanza spazio per imbottigliare altro vino, povera Madame Morand, non può venderlo e dunque offrire da bere a voi, mio caro amico, tantomeno ai vostri fedeli compari. Che tragedia! Aramis, non vi sembra una tragedia?”- chiese Athos all’amico. 

 

Il giovane si schiarì la voce e distolse lo sguardo.

“Vorrei ridere della vostra stessa ironia, ma il pensiero di questa mattina ancora mi affligge: la mia salute risente dei troppi festeggiamenti. Così la vostra. Eppure voi sembrate non curanti della vostra stessa vita, o della vostra salute. Un mistero che ancora mi affligge...”- Aramis prese le redini del suo cavallo e ne accarezzò la criniera.


“E’ il non curarsene che ci rende invincibili. I nostri organi non si curano della loro esistenza, esistono. Una rondine non si cura di volare, semplicemente vola. E’ dal momento in cui si rende conto di essere mortale e priva della sua stessa vita, che cade a terra inerme!”- esclamò Porthos al giovane.

 

“Non importa, mi offro volentieri di accompagnarvi in questa vostra ardua missione”- aggiunse Athos affiancandolo.

 

“Che gli Dèi vi concedano il dono dell’ignoranza eterna. Tuttavia la mia mente è assetata di preghiere ed il mio corpo affamato di riposo. Mi troverete a casa. Delle parole di Madame de Chevreuse ne ho avuto più che a sufficienza. Pregherò per la vostra salute, miei cari amici, ma soprattutto per il silenzio che mi concederete domani, durante il mio ambito riposo. E ciò che non otterrò in preghiere, sarò sicuro di ottenere tra la lama del pugnale, quella del rapière e la polvere da sparo”- l’esile combattente si congedò dagli altri due uomini senza sorridere, ma lanciando un’occhiata d’intesa ricca di tutte le parole non dette. Infine si rivolse verso D’Artagnan.


“In quanto a voi, giovane compare, che la sorte vi assista. Addio”- disse Aramis spronando velocemente il suo cavallo.


D’Artagnan rimase incantato dal discutere degli uomini, tuttavia i tre sembravano aver oltrepassato qualsiasi contrasto, con lui o tra di loro, ed essere proiettati in avventure che non riguardavano più il giovane guascone. Gli altri due presero la direzione opposta ed in breve il risuonare degli zoccoli si confuse tra le vie della città. Al loro posto, si fece avanti la sera ed il manto oscuro della luna, che stranamente quella notte non sembrava così accattivante e generosa come quella della sera prima. 

 

Come l’impavido volatile di cui i tre stavano parlando, così il suo animo si accorse di aver varcato i cieli ed essere ricaduto a terra, preda di bestie più grandi di lui pronte a divorarlo. 

 

In realtà le sue conoscenze parigine non avevano nome o clemenza per un altro giorno. Forse la sua fortuna sarebbe stata quella di ritrovare la dama della sera precedente? Chissà... Magari avrebbe avuto un altro compito per lui, ma nessuna carrozza misteriosa attraversò il suo cammino. Il ragazzo divagò nei suoi pensieri ed il suo viaggio sembrò a quel punto senza meta. Finché il suo povero animale si rifiutò di andare avanti e cercò una fontana e una bottega per poterlo dissetare e nutrire. Quale mercato sarebbe stato ancora aperto a quell’ora di notte?

 

La fortuna avrebbe dovuto essere davvero dalla sua parte in quel momento.

 

Mentre raggiunse l’acqua nera della fontana, una luce di lanterna brillò da una finestra vicina. Minuti dopo, la stessa luce era fuori dalla porta, le dita tozze ed il braccio dell’uomo che la sosteneva. Ascoltò il personaggio ridere tra se, respirare con affanno dal naso e sbarrare l’edificio con attenzione. Porse la lanterna di fronte alla sua vista e, solo dopo pochi passi, la luce flebile era già arrivata al ronzino del giovane, il suo sguardo malinconico e denutrito.

 

“D’Artagnan?”- chiese l’uomo con una strana, nostalgica sorpresa.

La malinconia si trasformò in altrettanta sorpresa, non del tutto lieta, dal momento in cui quel volto gli era apparentemente sconosciuto.


“Oh, siete il giovane Charles! Quanto tempo! Quanto siete cresciuto! Per un attimo ho pensato che foste... Cosa ci fate a Parigi?”- la vita di dell’uomo scorse tra i suoi pensieri, in mezzo ai suoi respiri affannati, quasi come un fedele segugio alla vista del suo amato padrone dopo un lungo viaggio, l’uomo cominciò a raccontare nei minimi dettagli tutto quello che era trascorso negli ultimi anni e celebrare apertamente il loro incontro. 


D'Artagnan cercò di ricordare l’uomo, il cappello di cuoio dalla larga tesa, la giacca dalle tasche ricucite, quelle maniche annerite dal tempo e dalla polvere del bancone. Planchet? Che ne era mai stato di Planchet? L’uomo al servizio della sua famiglia? 

 

Il ragazzo prese fiato e riuscì ad aprire bocca. 

“Siete proprio voi? L’uomo a servizio di mio padre?”- lui alzò le sopracciglia e tese le guance, facendo cenno di annuire.

 

“Oh poveri noi! Si è fatto così tardi! Il bottegaio per cui lavoro sarà contento di sapere che la sua merce è stata veduta tutta. E domani mattina sarà un altro giorno, altra verdura!”- Planchet interruppe bocca e naso contemporaneamente. In quella breve pausa controllò la tasca della giacca e fissò gli occhi del giovane.

 

“Charles! Oh Charles! Avrei così tante cose da raccontarvi su Parigi! Avete del tempo? Potreste accompagnarmi per una cena, la mia dimora non è molto grande, ma potreste dormire sul tavolo o il pavimento... Veramente non è neanche la mia dimora, sono al servizio di qualcun altro, ma lavoro di giorno e di notte per permettermi qualche cosa da mangiare e, chissà, un giorno una casa tutta mia, una bottega tutta mia...”- le parole dell’uomo, a suo parere di circa mezza età, i suoi modi energici e affannati, lo travolsero come una valanga di ricordi non suoi. 

 

Dopotutto il servo aveva lasciato i de Batz molto tempo prima e quelle memorie di fanciullo non gli appartenevano più. Al contrario, Planchet ricordava qualsiasi cosa nei minimi dettagli.

 

“Volentieri! Come mai tutta questa gratitudine nei confronti della mia famiglia?”- chiese il ragazzo.

 

“La mia famiglia è sempre stata al vostro servizio, non abbiamo mai conosciuto altro che lavorare le vostre terre, arare i vostri campi, parare le vostre pecore... Non potrò mai compensare al favore di vostro padre nel lasciarmi andare. Certo, la sua causa non era la mia. Però arrivare in città fu la mia migliore fortuna...”- alle parole del servo, il giovane alzò gli occhi verso le stelle e sospirò sonoramente. L’uomo gli prese il braccio, le briglie del suo cavallo e rise, mostrandogli il collo una bottiglia di vino rosso spuntare da una delle tasche della sua giacca.


La dimora dell’uomo non sembrava molto grande, in cima ai gradini di una lunga scala, dietro al portone massiccio, si nascondeva un focolare spento, alcune panche, una sedia, una modesta scrivania e una tavola più lunga. La porta chiusa di una camera sbarrata, nella quale apparentemente non gli era concesso entrare, una scala stretta che portava ad altre due camere, anch’esse destinate a qualcun altro, il brav’uomo dormiva in cucina, in un giaciglio troppo corto anche per le sue gambe tozze.

 

Tutto ciò non sembrava scoraggiare Planchet, che con disinvoltura ripulì la tavolata dalle bottiglie e i bicchieri vuoti, pose la sua bottiglia nuova, un tozzo di pane e del formaggio sul tavolo. Tutto quello che aveva, eppure nessun rimpianto nel dividerlo con lui.

 

“Che importa?! Mi accontento! Ho un tetto sulla testa senza pagare una locanda, quattro monete tutti i giorni! Non è forse questa la felicità?”- si giustificò il servo alzando le spalle e sorseggiando il suo vino.

 

“Cosa volete fare? Avvelenarvi il sangue come i compari che abitano queste stanze? Girano le strade di Parigi in cerca di chissà cosa, troppo orgogliosi per Richelieu, troppo poveri per una moglie!”- continuò, mentre D’Artagnan lo osservava.

 

Qualche cosa si scostò alle parole del servo e la casa in apparenza vuota, prese improvvisamente vita.

“Che gli Dèi vi maledicano, Planchet! Quando mai vi farete gli affari vostri?”- disse una voce grave ed irata, proveniente dalla porta della stanza sbarrata di fronte a loro.

 

“Intanto gli Dèi già vi hanno maledetto donandovi quella brutta faccia da bamboccio!”- rispose lui senza battere ciglio. 

 

La porta della camera chiusa proprio di fronte a loro, si aprì come un soffio di vento e gli occhi di un giovane esile, vestito di nero, erano già puntati su quelli del servo, il bavero della camicia stretto in un pugno soffocante.

 

“Dicevate?”- chiese il giovane. D’Artagnan sgranò gli occhi e spalancò la bocca, quel cavaliere era lo stesso uomo congedato qualche ora prima! Aramis!

 

“Voi qui? Misericordia!”- il giovane lasciò la presa del povero governante e lo osservò con sorpresa.

 

“Questa... Questa è casa vostra?”- chiese D’Artagnan forse ancora più sorpreso.

 

“Planchet sarebbe colui che si prende cura della nostra dimora. In cambio ha un tetto dove andare, accenderebbe il fuoco al mattino e alla sera, cucinerebbe un po’ di zuppa per la cena... Se non fosse così indaffarato con quel diavolo di bottega! A volte mi domando a quale scopo abitate ancora questa casa!”- sospirò Aramis, in cenno di esasperazione.

 

“Semplice! Siete incapace di trovare una moglie disposta a preparare la cena e a scaldare l’acqua per il bagno, Monsieur”- rispose il servo con un ampio sorriso, affatto spazientito dalle parole del giovane.

 

“Ed invece il destino mi ha portato voi, Planchet: ospiti inattesi, niente acqua per il bagno e niente cena. A proposito, che ne è stato del mio catino?”

 

“Speravo rincasaste più tardi. E invece siete già qui a fare richieste...”- l’uomo si alzò dalla tavola, accese il fuoco e cominciò a preparare l’acqua. Planchet aveva in un certo senso scelto i suoi nuovi padroni e non temeva più la sua appartenenza: era al loro servizio, ma non era più il servo di qualcuno.


In uno strano rituale, mai visto prima, D’Artagnan notò come il giovane concedesse a Planchet di entrare nelle sue misere stanze con l’acqua ed il sapone, sotto la sua stretta sorveglianza. Senza chiedere alcun aiuto nello spogliarsi e, una volta riempita la vasca, il giovane ancora vestito di tutto punto sbarrò nuovamente la porta.

 

“Come potete notare voi stesso, la guerra non fa che esacerbare follie e stranezze, Charles”- disse il servo alzando le spalle a quei modi strani, a cui evidentemente era già abituato. D’Artagnan non rispose, l'unica battaglia a cui poteva pensare era la Rochelle, eppure non sembrava che Aramis avesse l'età di un cavaliere esperto, reduce da quella guerra. Volse lo sguardo alla finestra aperta sui rumori della strada sottostante. Non ascoltò con attenzione, ma udì uno strano rumore di passi. Come se una veglia di soldati si stesse avvicinando sempre di più. 

 

“Siete ancora convinto di voler diventare un moschettiere?”- chiese il servo.

 

Il ragazzo lo guardò con aria trasognata. Masticò un po’ del pane avanzato sul tavolo. Era così che viveva un moschettiere? Nella miseria? Nel disinteresse? Nell’inedia? D’Artagnan pensò che lui non si sarebbe mai ridotto in quelle condizioni! Avrebbe trovato de Treville e sarebbe diventato un vero moschettiere! Avrebbe offerto il suo cuore a Marte, non Venere. Sarebbe vissuto nelle caserme, armato fino ai denti, l’acciarino sempre asciutto e la sua arma sempre carica, pronta a difendere il Re di Francia. Nel letto, al suo fianco, prima di qualunque amante, la lama affilata del rapière.

 

“Aprite! In nome del comandante Rochefort!”- Urlò una voce dall’uscio.

 

Planchet sbuffó: stanco, alzò gli occhi al cielo. 

“Chissà che cosa avranno combinato questa volta...”- balbettò, stiracchiandosi e chiamando Aramis dalla porta chiusa delle sue stanze.

 

“Monsieur, il comandante de Rochefort è di nuovo qui”- aggiunse.

Aramis aprì gli occhi, ascoltando attentamente il rumore. Affondò il mento e le spalle sotto il pelo dell’acqua, distendendo le braccia sull’orlo del catino, le ginocchia nude spuntarono dal bordo. Tuttavia non rispose.

“Monsieur, questa volta è il comandante in persona, sembra una cosa seria...”- disse Planchet notando il portone sobbalzare alla forza dei soldati. D’Artagnan si alzò turbato dal rumore. I cardini ricaddero sul pavimento, i soldati si fecero avanti e, di fronte a loro, avanzò a passo fiero il comandante Rochefort.

 

“D’Herblay! Aprite!”- disse bussando alla porta, come se sapesse esattamente dove andare.

“Aspettate! Non sono in condizione di ricevere nessuno!”- rispose la voce dall’altra parte della stanza. Rochefort incaricò due uomini di forzare anche quella porta.

Però i soldati non avanzarono, si ritirarono verso la cucina ed infine uscirono dall'abitazione, in alcune risate d’imbarazzo. Apparentemente il giovane era ancora dentro la vasca, il volto coperto da un tomo, ginocchia ossute e gomiti arrossati dal freddo dell’aria.


“Sono qui per conto delle parole che il Duca di Buckingham ha pronunciato in vostra presenza. Mi hanno turbato nel profondo, destando sospetti che un comandante non dovrebbe avere nei confronti di un nobile combattente del vostro genere. Per quale ragione siete nei favori di Buckingham?”- disse Rochefort affatto imbarazzato da quella scena.

 

“Non lo so. Come potete notare, sono disarmato. La mia tracolla è dietro di voi, Conte. Soltanto un vile si approfitterebbe di me in questo stato. Se foste un vero uomo, un vero comandante, come dite di essere, mi concedereste l’opportunità di alzarmi e rivestirmi. Un confronto ad armi pari. Invece siete ancora qui”- l'acqua del catino tremó.

 

Rochefort afferrò l’elsa della sua striscia affilata e fece un lento passo in avanti. Bastava solo una veloce sferzata alla gola, ma presto notò gli occhi attenti di Aramis spuntare al di sopra del tomo. Una tela di lino copriva i bordi della vasca e l'orlo dell'acqua da parte a parte, il corpo del giovane rimaneva invisibile, ma braccia e spalle lasciavano poco all'immaginazione: magro, glabro e completamente disarmato. Fin troppo giovane per essere già stato al fronte della Rochelle o schierarsi nella Guardia Reale, come dicevano le voci di Corte.

 

“Le vostre spalle sembrano deboli come quelle di una donnetta. Ragione in piú per negarvi le mie schiere!”- sbottó lui.

 

“Donnetta... Caro comandante: tutto ciò, alle mie orecchie risuona come un complimento, se detto da voi”- disse il giovane. In realtà il suo sguardo appariva offeso e pronto a qualsiasi vendetta.

 

“Alzatevi e venite con me!”- ordinó Rochefort.

 

“Santi numi! Non siete qui per un interrogatorio! Siete qui per umiliarmi con una morte infame! Non mi date neppure la possibilità di una difesa! Che cosa vi aspettate? Che i vostri soldati vi celebrino come un eroe una volta che mi avrete trascinato così per le vie della città?”

 

“Alzatevi!”- insitè il comandante.

 

“E che pro? Volete questionare la mia virilità senza che io possa fare lo stesso di voi? Affatto! Passatemi la tracolla e datemi l'opportunità di lasciare questa terra e raggiungere i Cieli con dignità: l’acqua si sta facendo fredda”- ribatté il giovane.

 

“Ragione in più per alzarsi e venire con me”- rispose Rochefort ridendo.

 

“Ragione in più per farvi beffe di me! Vile che non siete altro! Sapete benissimo come il freddo sia ancor meno generoso dell’avarizia dei marmi!”- esclamò il giovane.

 

“Non mi aspettavo tanta vanità da un uomo dedicato allo spirito, come dite di essere. Dopotutto il nostro corpo è solo un vascello dell’anima per la rotta degli Dèi. Cosa vi importa di mostrarlo ad un compagno combattente?”- chiese Rochefort puntando il rapière tra la gola ed il pelo dell’acqua. 

 

Il giovane abbassò lo sguardo per un istante, come per accertarsi di qualcosa, poi riportò gli occhi verso di lui, senza alzare il mento dall’acqua.

 

“Comandante”- disse Aramis in tutta serietà -“un duello ad armi pari, in queste condizioni, si può ottenere soltanto in due maniere: la prima è quella di allontanarvi dalle mie stanze e lasciarmi armare e rivestire in santa pace”.

 

“Non sono un ingenuo! Potreste scappare dalla finestra!”- esclamò il comandante.

 

“Appunto, siete un vile, che al mio posto scapperebbe dalla finestra pur di non confrontarsi con un idiota come voi stesso. Ed al confronto con voi stesso, non vi darei torto. Ma io sono un uomo d’onore: al contrario di voi, so mantenere la parola data!”- spiegò il giovane.

 

“Quale sarebbe la seconda maniera?”- chiese il comandante.

 

Aramis rimase quasi completamente immobile, i suoi occhi fissarono il vuoto per un istante ed i suoi polmoni emanarono un breve sospiro, indicò un angolo vuoto della stanza con un breve movimento del polso.

“Abbassate il rapière e calatevi le braghe. Non sono armato che del mio corpo, e così sareste voi!”- la voce stabile e scandita non poteva presentare indecisioni. Pretendeva un diritto mai concesso, noncurante del rischio che stava correndo.


Quelle parole disorientarono il comandante, che indietreggiò ed abbassò lentamente il rapière. Sbottò una risata istintiva, impallidí, mentre una goccia di gelido sudore colava sulle tempie contratte dalla vergogna.

 

“Se lo facessi, vi volterei le spalle e voi sareste pronto a scappare, armarvi e attaccarmi!”- rispose con voce quasi tremante.

 

Durante tutto quel tempo il giovane moschettiere non aveva scostato il mento dall’acqua e dalla copertura del catino. Prese una pausa ancora più lunga. Forse dimenticandosi della sua posizione indifesa e, dimostrando una diplomazia invidiabile alle orecchie di D’Artagnan, rispose:

 

“Certo. Vi siete introdotto nelle mie stanze senza averne alcun diritto. Avete disturbato il mio riposo con le vostre fantasie, forse infondate. Avete la pretesa di trattarmi al di sotto di qualsiasi prigioniero di guerra! Vile! E lo ripeto! Mi private della dignità che voi stesso non avete mai avuto!”.


Dal momento in cui il comandante aveva varcato l’uscio del portone, D’Artagnan aveva prestato tutte le sue energie ed attenzioni sul suo comportamento. Nell’ascoltare quello scambio tra lui ed il povero Aramis, la sua pazienza era ormai giunta al termine. Come poteva un uomo del suo rango, abusare di tutto quel potere soltanto per una breve nota di gelosia? Forse era il comandante Rochefort che, al posto dei moschettieri, avrebbe voluto ricevere quel tipo di grazie e favori da parte della Corte di Francia?

 

D’Artagnan stesso era stato raccomandato a Treville per conto del suo avo e padrino, De Batz, esattamente come a suo tempo lo fu Aramis per intercessione di qualche altro nobile. Voci di corte potrebbero aver incontrato le attenzioni di Buckingham, niente di più che sentito dire. Se era davvero così brillante come le voci lo descrivevano, ci sarà stato un motivo. Anche solo fosse la fortuna di conoscere la gente giusta e la sfortuna di attrarre su di se le più acide gelosie. A questo punto non era più un combattimento leale: era diventata una questione d’onore e raccomandazioni. 

 

Con gli ordini del comandante Rochefort, così l’impeto del ragazzo divampò. Sfoderò il suo spiedo arrugginito, ma notando la lama di Rochefort alla gola dell’esile cavaliere, indietreggiò verso le cucine, dove si accorse di una pesante piastra di ghisa appesa al soffitto, senza dire nulla a Planchet sferzò lo spiedo in direzione della corda che la sosteneva come un pendolo e questa si proiettò contro il comandante, che perse i sensi.

 

Aramis alzò il mento dall’acqua e volse lo sguardo al ragazzo infuriato che spuntò alle spalle del comandante inerme. D’Artagnan avanzò verso di loro, impugnando lo spiedo con entrambe le mani e per un attimo i due incrociarono lo sguardo. Al di sopra dell’apparente calma del giovane, il ragazzo potè percepire il naturale timore che aveva prevaricato su qualunque cenno di confidenza: lo sguardo di chi, incapace di difendersi, era pronto ad accettare il suo triste destino.

 

L’acqua del catino si mosse sotto le spalle esili del giovane che, prendendo un lungo sospiro, affondò interamente sotto il pelo dell’acqua e gli stracci che lo coprivano. In quel silenzio, prevalse in D’Artagnan un innaturale senso d’imbarazzo raramente provato alla presenza di altri compari, arrossì. Forse un orgoglio tradito, una debolezza trapelata da quel lungo sospiro. Uscì umilmente dalla stanza trascinando con se il militare che già cominciava a riprendere i sensi.

 

Pochi attimi dopo, Aramis era già vestito e  fuori dalle sue stanze. Si inchinò al cospetto di D’Artagnan e Planchet come avrebbe potuto fare nei confronti di una personalità dal rango molto più alto del loro.

 

“Vi devo la vita. Sarete nostro ospite fino a quando lo vorrete! Intercederò personalmente per conto dI Athos e Porthos...”- disse con tono solenne. Lo stomaco del ragazzo ebbe una sorta di subbuglio e tutto quello che potè fare, fu ricambiare l’inchino e sorridere.


Come parlando del diavolo, i due uomini da poco menzionati si presentarono ubriachi e curiosi di fronte all’apertura del loro varco. Athos cercò di bussare e Porthos passò una mano nell’aria che connotava la sua assenza. I loro piedi inciamparono sul corpo dolorante di Rochefort, ma invece di sollevarlo ed assisterlo, decisero di farlo rotolare ai piedi della gradinata e successivamente trascinarlo verso qualche altra abitazione. Le loro azioni, cosí metodiche e veloci, da far sembrare che quella non fosse affatto la prima volta.

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Capitolo 6
*** 6-Per le strade della Città ***


Capitolo 6

Per le strade della città


Il mattino seguente, il battere della pioggia sul tetto, non riuscì completamente a svegliare D’Artagnan dal suo sonno profondo. Per quanto il pavimento poteva essere duro, le coperte erano calde ed il fuoco crepitava allegro e veloce sulla legna invernale. 

 

In giornate come quella era d’uso rigirarsi tra le coperte, accendere una candela, leggere un altro tomo di cavalieri e battaglie. Una giornata del genere in Guascogna sarebbe trascorsa nel riposo e tranquillità, ma Parigi era una città molto grande, dove quel tempo era di solito occupato da altri interessi, la bottega di Planchet apriva comunque e riceveva comunque beni da vendere, mercanti e viandanti scambiavano la loro merce, la guardia circolava in ronde costanti e perfino ladri e borseggiatori erano pronti a compiere furti.

 

Il ribollire dell’acqua non svegliò il ragazzo, che distese le gambe e voltò le spalle al focolare, cambiando il respiro.

Tuttavia l’infuso che ne risultò, spalancò improvvisamente le sue palpebre, mentre le narici non avrebbero voluto percepire quell’odore esotico e infernale che, a suo parere, non differiva troppo da quello di una latrina in fiamme.

 

Attese qualche istante, riconoscendo lentamente i passi di tre uomini avvicinarsi ed allontanarsi, le loro voci bisbigliare nei toni nasali di Planchet, in quelli calmi e accomodanti di Aramis o in quelli più energici di Porthos. Quest’ultimo si avvicinò diverse volte allo scrittoio, senza mai sedersi o scrivere, dando l'impressione di voler fare tutt'altro, mentre l'altro si chinò lentamente sul ragazzo, cercando di capire se fosse sveglio o addormentato. 

Notando i gli occhi spalancati, il giovane incrociò il suo sguardo e poggiò la mano sulla sua spalla. 

 

“Brodo o... Veleno?”- chiese con un mezzo sorriso.

 

“Brodo!”- rispose il ragazzo, senza esitare.

 

 “Veleno!”- ribattè Porthos, rivolto ad Aramis, poggiando la tazza sulla pietra del focolare. 

 

Il giovane si rialzò in fretta, riempì due tazze di brodo e due di quell’infuso oscuro che il giovane portava sempre con se ed alzò lo sguardo verso un'ombra che faticosamente scendeva la scala.

“Nessuna ronda”- disse Athos, non del tutto sveglio né sobrio, affacciandosi alla finestra.

 

“Ditemi, quali nuove da Madame Morand?”- chiese Aramis a Porthos.

 

“No, ditemi voi, cosa ci faceva il Comandante delle guardie cardinalizie in casa nostra?”- ribatté il compagno.

 

“Un uomo vile, pronto soltanto a compiere cose vili e ingiuste...”- mormorò Aramis tra i denti.

 

“Ha sfoderato le sue armi su un uomo disarmato! Non è un uomo che fa onore al comando della guardia e dei moschettieri...”- spiegò D’Artagnan.

 

“Che pure lo sia. Richelieu l'ha messo dove sta. Così come voi non potete rimanere qui!”- esclamò Porthos, come se prima di quel momento non avesse fatto veramente caso alla sua presenza.

 

“Ma...”- il ragazzo cercó di intervenire, senza successo.

 

“Le guardie cardinalizie non hanno ambizione. Cercano solo grane! Un giorno in più in questa dimora, un nuovo nemico, nuove grane!”- continuò Porthos, quasi senza farlo ribattere.

 

“Ma Aramis mi ha promesso...”- D’Artagnan provò ad introdursi in quel monologo, ma Porthos lo interruppe di nuovo.

 

“Santi Numi! Cosa avete promesso al povero ragazzo?”- chiese il moschettiere rivolto al giovane compagno.

 

“Eterna gratitudine ed ospitalità. D’Artagnan mi ha salvato la vita durante l’attacco di Rochefort”- rispose Aramis scambiando il suo sguardo con la coda dell’occhio, mentre il naso affondava nella tazza bollente che copriva quasi interamente il suo volto.

 

“Oh... Tutto ciò vi fa onore”- disse Porthos trattenendo una risata amara -”Potreste recarvi in... Normandia ed intercedere per conto della sua famiglia, non sia mai che riusciate ad ottenere un bel mandato d’arresto!”.

 

D’Artagnan non capì.

“Come?”- disse quasi precipitando in una realtà di cui non si era mai fatto partecipe prima di quel momento.

 

“La Corte di Bloise vi ricorda qualcosa? I cospiratori italiani? Ancora mi chiedo quali favori il vostro casato abbia mai concesso all’Inghilterra... O al Duca... Per essere stato graziato in quel modo...”- borbottò Porthos rivolto ad Aramis, senza incontrare risposta.


D’Artagnan rimase in silenzio. La Corte di Bloise, quella della Regina Madre, era stata esiliata da Parigi dopo il complotto Condè. 

 

Anch’essi traditori del Re. 

 

Il fatto di essere stati perdonati a Corte non era cosa di tutti i giorni. Eppure, nel suo animo, il ragazzo non poteva perdonare la viltà di un combattimento ingiusto come quello di cui era stato testimone la sera prima.

 

“Come essere umano, come persona, vi saremo eternamente grati. Tuttavia, non è nostro desiderio diventare di nuovo moschettieri, non vogliamo stare ai comandi di Rochefort. Voi, invece, dovreste tenervelo stretto, o almeno trovare qualcuno che vi possa raccomandare alle sue schiere e cercare il modo per farvi perdonare dopo quello che è successo ieri sera”- disse Aramis.

 

“Perdonare? Siete voi che eravate in torto... O almeno, non in grado di...”- il ragazzo esitó.

 

“D’Artagnan, se resterete qui non sarete mai un moschettiere!”- esclamò Porthos.

 

“Per quanto non voglia ammetterlo, Porthos ha ragione: se il vostro desiderio è ancora quello di diventare Moschettiere, dovrete lasciare questa dimora e rinnegare il nostro nome. Rochefort vi ha già incontrato parecchie volte in nostra compagnia”- aggiunse l’altro, facendosi più serio.


“La scelta è vostra. Rimanendo non farete che infangare il nome della vostra famiglia. E l’ordine della Guardia Reale non esiste più. L’unico modo per diventare un Moschettiere a questo punto, è quello di avere raccomandazioni da Richelieu o chi per lui. In questo caso, vi consiglierei di chiedere alle vostre conoscenze, come Mademoiselle Bonacieux e, tramite lei, intercedere per la regina”- continuò. 


“Non esiste più l’ordine della Guardia Reale? Il comandante de Rochefort ieri sera ha orchestrato una vera e propria ronda allo scopo di separarvi, umiliarvi e, se possibile, eliminarvi da questa terra. Siete sicuri che è così che si comporta un moschettiere al giorno d’oggi?”- chiese il ragazzo.

 

“I tempi di Treville sono ormai remoti...”- ribatté Aramis in un sospiro.


“Non è la prima volta, non sarà l’ultima. Se rimarrete qui, sarete soggetto alle stesse angherie e con il passare del tempo non troverete nessuno disposto a raccomandarvi a Richelieu... E Dio ve ne scampi, non avrete alcun modo di essere raccomandato a Rochefort!”- disse Porthos ad alta voce.


D’Artagnan rimase in silenzio.

 

Abbassò lo sguardo, vide la sua immagine tremare nel riflesso della tazza. Un brodo misero, poco più che acqua e sale, che non avrebbe mai sfamato un uomo adulto, non avrebbe certo potuto sfamarne tre. Porthos, che non si era mai veramente seduto alla panca, o aveva preso la penna allo scrittoio, finita la sua tazza, si avvicinò alla pentola del brodo. Sollevando il mestolo, anche lui ne notò la consistenza e, senza dire una parola, ringhiò contro Planchet, già nascosto alle cucine e pronto ad allontanarsi dall’abitazione.

 

“Con tutto quel ben di Dio che passa tra le vostre mani tutti i giorni, è questo quello che riuscite a servirci?”- disse con voce severa. Planchet fece finta di non ascoltare elasció la casa in silenzio.


“Non prendetevela con il servo di tre padroni...”- disse Aramis.

“Come potete notare, il diavolo con il dono di questa bevanda offre a noi comuni mortali il dono del tempo, della vitalità e della conoscenza: la possibilità di distinguere tra il bene e il male. Tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Meditate e pregate, Porthos. Ne troverete sicuramente tempo. Magari in una calda tazza piena di... Veleno?”- continuó con voce calma e quasi sussurrata, ma senza esitazioni.

 

“E pretendete di arrivare al tramonto, sfamandovi soltanto di ciò che beve il diavolo, monsieur?”- chiese lui.

 

Le palpebre di D’Artagnan si spalancarono dalla meraviglia e le sue labbra si dischiusero per prendere più aria di quella che le narici potevano concegergli.

 

“Per Giove, se qualcuno udisse quello che avete appena detto, potrebbe davvero bruciarvi vivo!”- esclamò, cercando di ricomporsi dallo stupore.

 

“Non avesse la benedizione del Santo Papa, avreste sicuramente ragione!”- esclamò Porthos, tra un sorso e l'altro.

 

Aramis sorrise ed il suo sguardo oltrepassò il ragazzo, per incontrare l’interesse di qualcun altro.

 

“Pallacorda?”- suggerì Athos che, fino a quel momento non aveva mai lasciato la sua postazione alla finestra. Alla sua parola, gli altri due annuirono ed interruppero qualsiasi battibecco.

 

***

 

Anche per quella giornata, i quattro uomini si separarono di nuovo, due di loro si affrettarono verso una piazzetta cittadina, mentre Porthos accompagnò D’Artagnan per un breve tratto di strada. L’attenzione del moschettiere era da tutt’altra parte. Durante la strada infatti, aveva spiegato al ragazzo come Aramis si fosse già infilato tra le schiere dei battitori e Athos avesse scommesso contro di lui, allo scopo di perdere. E chi avrebbe vinto se Porthos non fosse stato lì? Doveva affrettarsi, prima che qualcun altro prendesse il suo posto tra le scommesse.

 

Gli altri due si apprestarono alla dimora di Madame Faucompé, ma questa, già venuta a conoscenza degli affari della sera prima con Madame Morand, aveva per Porthos soltanto una spessa ciopina, lanciata dalla finestra con una mira degna dei migliori giocatori. L’uomo commentò animatamente: se fosse stata lei al posto dei suoi compari, non avrebbe mai scommesso sulla perdita.

 

Ed in quel momento il moschettiere, o meglio, quello che un tempo fu un moschettiere, dopo aver spiegato al ragazzo un discorso perfettamente inutile alle sue orecchie, abbandonò D’Artagnan a se stesso, sulla strada del palazzo reale, nessuna raccomandazione, se non il consiglio di mentire e dire alla bella Constance di avere un messaggio privato per Madame Faucompè, insieme ad una delle sue ciopine.

 

D’Artagnan attese quasi inerme che la figura dell’uomo elegante sparisse dietro l’angolo. Sperò che l’uomo avesse compassione per lui, che quell’eterna gratitudine dimostrata da Planchet ed Aramis, potesse davvero significare qualche cosa, che lo potesse aiutare in qualche modo e non essergli d’intralcio.

 

Tuttavia, l’uomo non si voltò e nessun servo accorse in suo aiuto. Prese il passo lento e incerto, alla ricerca di quelle parole, di quelle frasi che avrebbero potuto dire, nella speranza di ricevere la tanto ambita raccomandazione che lo avrebbe portato alle armi: nuovamente solo.

 

Ad un tratto, il vento si alzò. 

 

Il brulicare continuo delle strade parigine si attutì, come in un giorno di neve fitta. Le voci si fermarono. Senza alcun testimone o conoscente pronto a dimostrare ciò che i suoi occhi stavano guardando, un’ombra si levò.

 

Fortezze camminanti, munite di strane vele simili ad ali.

Cavalli meccanici nei quali potersi sedere. Un automa, mai visto prima, i cui meccanismi erano così precisi e complicati da sembrare un essere umano, comandava l’armata delle meraviglie. Alla sua chiusura un arnese, o un essere, dalla testa di drago sputava fuoco in sua direzione. 

 

Credette che i suoi occhi e la sua mente fossero completamente impazziti, ma anche i nervi del suo puledro si contrassero nello stesso spavento. L’aria bruciava, ne poteva sentire il calore.

 

D’Artagnan restò incantato da quell’essere, la gente si accalcò ammutolita, lui si fece largo, nel tentativo di avvicinarsi e vederlo meglio, ma sembrava quasi che in un attimo tutta la città fosse accorsa all’arrivo di quella strana creatura, messa in mostra alla vista pubblica. Alcuni uomini, imbroglioni in cerca di fortuna, cominciarono a frustare quell’oggetto o creatura, bloccarono la vista all’orda di gente, chiedendo denaro per poter avvicinarsi. 

 

Il ragazzo non capiva, pensò che lo stessero torturando, ma come poteva notare le bestie del Marchese di Navarra soffrire alle sferzate della frusta, così non succedeva lo stesso alla presenza di quello straordinario mostro. Ed era tutto vero.

 

Quando il corteo si allontanò dalla piazza, tutto era di nuovo sparito. Apparso e scomparso con la velocità con cui si potrebbe voltare pagina di fronte ad un demone raffigurato in un bestiario. Pocopiù di un soffio di vento.

 

Per qualche istante, sue orecchie non udirono alcun rumore, frastornate dal baccano, il vociare ed i rumori indescrivibili di quell'essere.

 

Si guardò attorno, ma nessun volto conosciuto, nessuno a cui rivelare ciò a cui aveva appena assistito.

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Capitolo 7
*** 7-Constance Bonacieux ***


Capitolo 7

Constance Bonacieux

 

Al parere di D’Artagnan, in accordo coi loro brevi incontri, Constance appariva di natura socievole ed estroversa, sembrava conoscere molte persone a corte, possedeva una naturale bellezza che oltrepassava quella classica: la grazia di qualcuno che riesce a comunicare con i gesti e con lo sguardo, non solo a parole. 

 

La giovane età, però, sembrava renderla veloce al giudizio, fin troppo, tanto da compromettere la sua arguta intelligenza con parole pronunciate forse nell’impeto del momento. Parole sferzate con velocità e presenza di spirito, sembravano avere controllo su di lui, più di chiunque altro. Dal primo istante in cui le aveva parlato, in un certo senso, aveva capito che mentirle sarebbe stato del tutto inutile: la verità sarebbe stata estratta con forza e decisione, più velocemente di qualsiasi scusa. Le menzogne di Porthos non avrebbero mai funzionato.

 

Quei pensieri avevano potuto forse divagare nella sua mente distratta un paio di sere prima, sul punto di addormentarsi, ma in quello strano pomeriggio di primavera, dopo tutto ciò che era successo con Rochefort, i moschettieri e quello strano essere che aveva appena lasciato la sua vista, aprire una conversazione con una dama di Corte con educazione ed esperienza, era il pensiero più trascurato.

 

Sul lento tratto di strada che lo aveva portato da lei, qualche breve discorso, qualche saluto cordiale, aveva forse attraversato la sua mente, ma in quel preciso secondo, alla vista della ragazza, le sue memorie decisero di fuggire via.

Qualsiasi cosa che avrebbe potuto tracciare la sua mente in precedenza, non era più lì: il vuoto di una spiaggia deserta, le onde dei suoi pensieri l’avevano portata via con se. 

 

La gola secca e le labbra aride, sembrava proprio non esserci spazio per ricordare qualsiasi discorso. Il ragazzo inspiró tutta l'aria possibile, raddrizzando la schiena, facendosi coraggio.

 

Lei si avvicinó velocemente, le gonne leggermente alzate, per camminare ancora più in fretta, mostravano le caviglie dalle calze bianche. 

Constance passó una mano di fronte al suo sguardo assente, riportando l'attenzione sulla sua voce.

“Cosa vi porta Palazzo?”- chiese la dama di corte, senza aspettare neppure la sua reverenza.

 

Constance si apprestò ad un breve inchino. Questa volta era il sole ad illuminare il viso e i capelli. La luce del giorno sembrava completare la sua bellezza più di quanto potesse fare la notte.

 

“Ho... Ho un messaggio e una scarpa di Madame Faucumpè”- balbettó il ragazzo.

 

“Madame Faucompè non è a Corte. Avete un invito?”- continuó lei.

 

“Eh, sì. Madame Faucompè ha detto che... Ha detto che si sarebbe presentata... Ha detto...”- il ragazzo rigirò la scarpa tra le mani e non riuscì a continuare, la sua mente era completamente pervasa dalla vista di quell’essere mostruoso, dal fuoco, dalla folla, la ragazza che aveva di fronte e da qualsiasi altro soggetto che non fossero stati i suggerimenti di Porthos.

 

“Non siete qui per Madame Faucumpè”- constató lei.

 

D’Artagnan prese un nuovo respiro. Inutile trovare scuse. A questo punto la verità sembrava la sua unica via d'uscita.

 

“No. Sono qui per voi! Mi chiedevo se, come dama di corte, potevate fare qualche cosa per le mie raccomandazioni. Mettere una buona parola con la Regina. La mia lettera era destinata a Treville e senza di lui non so come poter entrare nel corpo di guardia, forse la Regina potrebbe... Magari se riuscisse ad intercedere con il Re...”- il ragazzo non era più del tutto sicuro delle sue parole, neppure quelle che cosí onestamente lo avevano portato a Parigi.

 

“Chiedete alla persona sbagliata! E anche se potessi davvero fare qualche cosa, credete davvero che la Regina abbia qualche diritto su questa Corte?! La Regina non può niente contro il potere che Richelieu ha sul Re!”- disse lei in tono accusatorio.

 

“Dopotutto, v’importa davvero essere tra le guardie del Cardinale?”- continuò.

 

D’Artagnan prese tempo. Lui avrebbe voluto diventare un moschettiere del Re, non di Richelieu.

 

“Non saprei. Non sembra ci sia altro modo per diventare un moschettiere”- disse lui, seguendola con lo sguardo.

 

La ragazza ondeggiò, quasi come se stesse danzando al suono d'una musica che lui non poteva udire. Fermandosi, disse:

 

“Fatemi pensare, se vi fate accompagnare da quelli che una volta furono i moschettieri della guardia reale, significa che avete già la prova di chi avete davanti: ieri, ad esempio, ha cercato di arrestare voi e i vostri compari con la scusa di una ressa cittadina. E dove?”- chiese Constance puntando di nuovo il dito su di lui.

 

“Alla Collina del Mulino...”- rispose lui, quasi senza volerlo.

 

“Proprio fuori dalle mura città. Che ve ne pare?”- chiese Constance.

 

La ragazza continuò quella specie di danza, proprio di fronte ai suoi occhi attenti.  La trovò affascinante, anche se realizzò soltanto dopo come quello fosse un modo per riordinare una serie di pensieri, non di certo la volontà di voler davvero danzare con lui o di volerlo in qualche modo sedurre.

 

“I vostri compari sono al corrente della legge di Richelieu e sembravano averla rispettata, ma Rochefort... Cercava comunque uno stratagemma per incastrarvi e rinchiudervi in prigione! Non credo di dover aggiungere altro”- continuò lei.

 

D’Artagnan rimase in silenzio, provando un misto di stupore e rammarico. Quelle erano le schiere dei moschettieri adesso; così erano conosciute e rinomate anche a Corte: si sarebbe dovuto arruolare a quelle schiere. 

Era forse l’onore un prezzo troppo alto da pagare?

 

Constance si fermò e portò le mani ai fianchi, come se avesse trascinato alla superficie pensieri talmente intensi da avere un peso. Incontrò il suo sguardo e lo riportò velocemente sulle sue parole, alzando leggermente la voce.

 

“Bene: detto questo, vi aiuterò. Non di certo perché dimostrate valore e merito, anzi. Da quel che ne so, siete perfetto per quel genere di persone. Dunque: siate proprio voi stesso a farvi un giudizio sulle guardie di Richelieu, su tutto quello che sta succedendo qui! Se la sorte fosse davvero dalla vostra parte e se tramite la Regina riusciste, per qualche fortunata ragione, ad intercedere per il Re e tramite lui i favori di Richelieu... A quel punto non sarebbe difficile fare parte delle Guardie. Tuttavia non è una cosa semplice. Non è facile come chiedere a Richelieu in persona di concedere i favori reali. Forse qualcuno a Corte, in diretto contatto con Richelieu e la Regina, che ha già offerto favori e grazie... Magari proprio lui potrebbe aiutarvi con Richelieu! Venite con me!”- la giovane dama prese D’Artagnan per un braccio e lo trascinò a piedi fuori dalle mura di Palazzo Reale, verso una dimora misteriosa, non troppo lontana.

 

Tuttavia, una volta all’anticamera, lo lasciò attendere.

 

Quella che sarebbe dovuta essere un’attesa lunga e noiosa, fu presto interrotta da uno strano vociare: come se due galli risiedessero lo stesso pollaio, due personaggi irruppero tra una stanza e l’altra, parlando e inciampando. Un terzo li inseguì, cercando, senza successo, di strappare loro una borsa piena di viveri.

 

Quest’ultimo prese fiato, appoggiando un braccio alla parete. Di nuovo i moschettieri! Planchet li stava inseguendo.

 

“Vi chiamano gli inseparabili, Athos, Porthos ed Aramis. Eppure non vedo il vostro compare, che ne è di Athos?”- chiese Planchet rivolto verso di loro, calmando il suo tono.

 

“Si è attardato per prendere il bottino”- rispose Aramis voltandosi indietro, la sua attenzione alla ricerca di qualche cosa o qualcuno, per poi sbirciare dietro una porta socchiusa.

 

“Bottino?!”- chiese il servo allibito.

 

“Ricompensa, ricompensa. Abbiamo vinto. Aramis ha perso!”- lo corresse Porthos.

 

“Senza l’ombra di dubbio”- aggiunse il giovane con certezza, ma il suo tono non era affatto rassicurante. Fece qualche passo indietro ritornando nella stanza.

 

Il servo riconobbe il ragazzo seduto poco distante.

“Cosa vi porta alla dimora di Madame de Chevreuse?”- chiese Planchet a D’Artagnan.

 

“Madame de Chevreuse? Questa è la sua dimora? Constance non mi ha detto nulla di dove... Piuttosto voi! Cosa fate qui?”- chiese il ragazzo.

 

“Anche Madame è nei favori della Corte di Bloise. L’unico modo per arrivare a Luigi senza l’autorizzazione di Richelieu. Complimenti, vedo che avete capito fin troppo bene come funziona la Corte a Parigi!”- spiegò Aramis.

 

“Sono io che gli ho consigliato di parlare con Constance!”- ribattè Porthos, quasi con orgoglio.

 

“Altri frondeurs?! In questa città siete tutti traditori!”- lamentó il ragazzo.

 

Constance lasciò le stanze della dama e si ritrovò di fronte agli altri uomini.

 

“Mi dispiace, D’Artagnan. Madame de Chevreuse dice che l’uomo che avrebbe potuto aiutarvi con la Regina non è più qui. Vi consiglio di trovare un posto per la notte e chiedere a qualcun altro!”- sospirò lei.

 

“Madame de Chevreuse ha un messaggio anche per voi! Dice che non è questo il momento per un incontro, chiede di ritornare più tardi”- disse rivolta ad Aramis. Il giovane si inchinò profondamente ed emise un lungo sospiro. Una volta rialzato, non ebbe tempo di ribattere.

 

“L’ho sempre detto che tra la mantella e la toga si nasconde un idiota! Non so neanche cosa ci stamo a fare qui! Andiamo!”- Porthos strattonò il giovane verso la porta.

 

“Ma... Avrei dovuto parlare con Madame de Chevreuse di... Eh... Altri affari!”- si giustificò Aramis, cercando di guardare nuovamente oltre la porta, per incontrare, invano, le reverenze della dama rimasta nell’ombra.

 

“Avete perso il lume della ragione! E se non sono cose che non potete confidare a me, non vedo ragione di confidarle ad una donna! Andiamo!”- spronò il compagno, abbandonando D’Artagnan, Constance e Planchet.

 

***

 

I giardini di Palazzo Reale, le violette e i mysotis coloravano l’erba a grandi macchie. Dagli alti cespugli, rifiorivano i primi boccioli di rose. Le siepi, dai colori bruni e oscurati, cominciavano a mostrare i primi cenni dello smeraldo delle nuove foglie. I profumi intensi della primavera erano ancora lontani, ma i gialli germogli erano già pronti a sbocciare e fiorire. Alcuni insetti, ancora confusi dal freddo invernale, cominciavano i loro primi ronzii tra i fiori già sbocciati. 

 

Tra questi, una bianca farfalla battè le ali incerta, alla volta del cielo, per poi ricadere solo poco lontano, tra le fronde che circondavano il viale altrettanto bianco. Attimi dopo, volò via, disturbata dal rumore di passi. Tacchi da cavaliere e gli orli di seta di ampie vesti. Passi veloci mossero la ghiaia del viale, mentre due figure si fermarono ai pressi di un salice.

 

La figura femminile, boccoli castani raggruppati in un’acconciatura di perle, vesti ricchissime, abbassò lo sguardo all’avvicinarsi dell’altra.

 

“Perchè siete qui?”- chiese, quasi sussurrando.

 

La figura di fronte a lei, alzò l’ampia tesa del suo cappello e, sotto l’anonima mantella, i suo occhi ardenti puntarono quelli più fugaci e assenti dell’altra. La Regina era stata chiamata ad un colloquio del tutto particolare.

 

“Ricordi di gioventù. Di quanto eravate bella quando i vostri occhi brillavano sui miei”- disse l’uomo, togliendosi il cappello in una lunga reverenza densa d’emozione.

 

“I miei occhi non hanno mai brillato sui vostri, eccellenza”- rispose lei.

 

“Eppure credevo il nostro amore sarebbe durato in eterno. Eppure siamo qui e rinnegate tutto ciò che fu tra di noi. Per voi avrei fatto di tutto...”- l’uomo si avvicinò, stringendo il copricapo tra le dita con l’intensità e la passione con cui avrebbe forse voluto stringere il suo corpo.

 

“Non rinnego proprio nulla! E’ stata solo una notte d’incertezza, ma il cuore fu ed è sempre stato qui, in questo regno, e mai ho voluto che voi abbandonaste le vostre terre per restare al mio fianco.

 

“Ricordate! Sono ancora disposto a fare questo ed altro per voi, mia cara”- disse lui.

 

La Regina volse lo sguardo verso i cespugli di fronte a lei: germogli di bianche rose che stavano per sbocciare, tra le spine verdi e brune.

 

“No è un rimpianto di gioventù, ma la realtà del presente è un’altra. Andate e presentate un altro ambasciatore, che non abbia per me gli stessi vostri riguardi. O non presentatene affatto. In fondo, i nostri, sono regni in guerra”.

 

“In guerra. E in amore...”- sussurrò il Duca, come incantato.

 

“No. Non sapete quello che state dicendo. Vi trovate bene qui, in Francia, soltanto per sfuggire ai vostri doveri di Ministro. Che direbbe il vostro Re a così tanta paura di attendere al suo parlamento? Non è amore ciò che vi comanda. E’ il timore di essere spodestato! Ma lontano dalla vostra isola e dalle vostre terre, dai vostri stessi sotterfugi, con l’aiuto del mio Re, non avreste nulla da temere! Dico bene?”- chiese lei, lo sguardo tradito di chi riesce a riconoscere anche le più sottili intonazioni della menzogna.

 

Il Duca contrasse il mento ed i suoi occhi si inumidirono alle parole della sovrana. Tuttavia, trattenne le sue lacrime e l’apparente dolore con una maestria degna di un politico esperto.

 

“Almeno datemi pegno di questo eternamente giovane amore che sempre ho provato e proverò per voi”- disse lui, rimanendo altrettanto calmo.

 

“Che cosa volete per farvi andare via?”- chiese lei, inspirando aria ed incendiandosi di insofferenza.

 

“La collana che sempre vi orna il viso, mi ricorderà per sempre di voi”- disse lui, il suo tono non era più triste o disperato come qualche attimo prima. Cominciava lentamente a sfumare, per poi apparire semplicemente vuoto. Privo di qualsiasi sentimento.

 

“Santi numi! Mi chiedete il gioiello donato dallo stesso Re! Non potete chiedermi un dono così importante!”- esclamò lei, mentre le sue emozioni cominciavano ad apparire sempre più intense.

 

“E va bene. Indossatela soltanto per me, un’ultima volta. Aspetterò qui ai vostri giardini. Non dovrete fare altro che entrare nelle vostre stanze, indossarla ed uscire di nuovo sotto questo ultimo sole prima dell’eterno tramonto dei vostri sentimenti. Un ultimo sguardo, anche solo da lontano, ai vostri begli occhi e che brillano più degli stessi diamanti”- disse il Duca, indietreggiò di alcuni passi.

 

Anna si assentó dal ministro senza un inchino. Entrò nelle sue stanze e chiamò la presenza delle dame. Guardó tra le sue ricchezze e proprio la collana che il Duca le stava chiedendo non era lì. Voltò lo sguardo verso il Ministro che la stava aspettando ancora fuori. In silenzio, impugnó penna e calamaio e scrisse velocemente:

 

-Mi chiedete questa collana, ma in realtà il mio dolore è troppo grande e nessun bene potrà mai ripagarlo. Rivedervi anche solo un’ultima volta, anche solo da lontano, non farebbe che ravvivare ciò che provai per voi in gioventù. Riaprire una ferita mai del tutto risanata. Lasciate che il pegno della mia lontana passione sia il mio dono e il ultimo sguardo. Addio.-

 

***

 

Un tramonto dorato illuminò i giardini di Palazzo Reale, come le strade cittadine, il carminio sostituì presto l’oro, per poi oscurarsi nei toni violacei della penombra. Presto il crepuscolo si fece sera, e la sera, notte. 

 

Le stelle brillarono sotto un cielo dalle poche nuvole, il freddo dell’oscuro manto notturno aveva coperto le strade ormai deserte.

 

Al saluto di Mademoiselle Bonacieux, di fronte alla dimora di Madame de Chevreuse, illuminati soltanto dalla luce della lanterna di Planchet, D’Artagnan cercò un suono di passi. 

 

Una ronda cardinalizia passò proprio di fronte a loro. Passo spedito, file ordinate: mantelle nere ed uniformi scarlatte. Prese la direzione di Palazzo Richelieu.

 

“Avanti! Seguitela!”- disse Planchet, puntando il gomito contro D’Artagnan. Il ragazzo guardò le schiere allontanarsi. Per un attimo pensò che il servo si stesse riferendo alla bella Constance e non alla ronda di soldati.

 

Porthos ed Aramis si erano già incamminati da diverso tempo in direzione opposta, stranamente in silenzio, quasi come a non voler catturare l’attenzione delle armi.

 

“Misericordia! Che vi prende? Non volete diventare un moschettiere? Andate!”- incalzò Planchet.

 

Tuttavia D’Artagnan prese la direzione del suo servo e i due seguirono la strada degli altri cavalieri, per l’umile dimora parigina.

 

“Soltanto traditori, che cercano favori da traditori. Me ne rammarico. Tuttavia la Guardia Cardinale gioca un gioco più sporco del loro e non so davvero da che parte stare!”- esclamò il ragazzo. 

“Però nessuno potrà dire nulla se accompagno voi, Planchet! semplicemente un bottegaio, mio fedele e onesto compare!”- continuò in un sorriso sollevato.

 

Il servo rise. 

 

Ci sarebbe stata un'altra alba per decidere come e quando diventare moschettiere.

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Capitolo 8
*** 8-Acier et Bois ***


Capitolo 8

Acier et Bois


Legno. 

In un angolo oscuro della taverna, il calice che aveva raggiunto il suo tavolo era un calice di legno. 

Lo allontanò dal suo sguardo con disgusto, per ritornare sull’orchestra di suonatori che tentava di mantenere la calma tra gli astanti. Invano.

 

L’esperienza gli aveva insegnato che un calice di legno era il simbolo di tante brutte cose, come il pessimo vino, visto che non poteva distinguerne il colore e l’odore. Soprattutto, prima di ogni altra, la pessima gente: boccali di legno, costano poco e sopravvivono a quasi tutte le risse. 

 

Altrettanto poteva dire dei tentativi del musicista nel farsi sentire tra le proteste dei tavoli. Non sapeva se compatirlo per la sua sfortuna, criticare le note stonate, oppure complimentarsi per quello che riusciva ad ascoltare nel mezzo di tutto quel baccano.

 

Sedeva da solo, ma le orecchie di Athos non erano forse pronte al vociare di taverna né al suonare del clavicembalo. In salute o in malattia, non avrebbe ammesso mai l’una o l’altra, come non avrebbe mai ammesso il troppo vino della sera precedente.

 

Nel locale, altri scommettitori avevano lasciato la piazza per brindare alle loro vittorie, o sconfitte, criticare e ribattere le offese, giustificare agli altri. Sedeva da solo, tardava e beveva sempre un bicchiere prima di ritirare la ricompensa. Non fosse, qualcuno avrebbe potuto notare come uno tra i giocatori era uno dei suoi compari, l'altro uno dei vincitori. 

 

Porthos parlava a voce alta, attirava su di se l’attenzione con grandi gesta, faceva finta di avere il gioco sotto controllo e di sapere esattamente la mossa dell’avversario. 

Brindava sicuro alla salute di uno sconosciuto, mentre lui rimaneva in silenzio ed aspettava che le voci di presunte vittorie si spargessero in fretta. 

Una volta che la posta fosse stata sufficientemente alta, bastava soltanto scommettere sull’avversario per pochi spiccioli e sperare nella Dea Fortuna per compiere l’altra metà del loro destino.


Vittorie da celebrare: quando non era il vino, era il gioco. Eppure c’era sempre una scusa pronta, sempre un motivo per festeggiare e brindare alla vittoria, lasciare la sconfitta alle spalle, celebrare la vita, come la morte, un evento importante e qualcosa di futile. 

Tuttavia non erano gioie di cui essere veramente grati. Ci voleva sempre un po’ di più: una vittoria non bastava, un bicchiere non bastava. Il corpo resisteva ai liquori più forti, così la memoria all’oblio. 

Memorie pronte a riaffiorare con più impeto; liquide, serpenti impossibili da affogare. 

 

Il sapore di una futile vittoria si univa all’oblio della dimenticanza: un bicchiere in più con il quale assopire un lontano dolore.

 

Questa volta erano viveri per un giorno, non più di due. 

Per quanto sopravvivere fosse un sollievo, non la considerava una vittoria da festeggiare.

 

L’uomo si distolse dalla scena, dalla musica e riprese il boccale tra le mani, si chinò sul suo calice, per notarne il fondo: l’aceto sarebbe stata una bevanda migliore.

Tese il braccio verso una pipa al tavolo vicino, ne aspirò il fumo, per poi passarla all’uomo di fianco, ne notò le mani, non l’uniforme. 

 

A quel gesto, qualcun altro lo notò. Si alzò dalla tavolata vicina per poi sedersi al suo fianco.

 

“Complimenti! Ci sapete davvero fare con le scommesse! Un brindisi alla vostra vittoria!”- disse l'uomo, accostando il calice con il suo.

Athos alzò lo sguardo, sospetto. Chinó il capo e si voltó subito dopo, non curante della persona che aveva di fianco. 

“Non brindo in vostra compagnia, Conte”- disse, riconoscendo Rochefort.

 

“E Comandante!”- disse lui.

 

“Non mio!”- lo corresse.

 

“Invece dovreste brindare con me...”- Rochefort prese un lungo sospiro:

 

“Molti si ricordano di voi, del vostro casato. Vi siete arruolato lasciando un apparente successo. Il Re di allora vi avrebbe sicuramente preso a corte. A che prezzo! In verità sappiamo come siete stato sempre pronto a pregare Giove anziché Giunone. Di quei tempi, rimanere sarebbe stata una scelta rischiosa per voi: potere sulle vostre terre o la vostra testa. Altri al vostro posto hanno scelto terre e potere. Con saggezza e lungimiranza, sceglieste la testa.”

 

“Non ho mai votato il mio cuore a Giove. Chi lo fece, non è più qui a ricordarcelo.

Certo, conosco la storia di Giunone, sbarcata a Marsiglia e poi salpata sulla barca di Orazio... Sette, otto anni fa? Il tempo passa fretta, anche tra i fitti cumuli dell’Olimpo. Non ho mai votato il mio cuore neppure a Giunone. Perchè mai essere devoti a tutti questi Dèi quando, alla loro caduta, un altro Dio prenderà il loro posto?”

 

Rochefort osservò il fondo del bicchiere e lo allontanò con simile disgusto.

Si voltò di nuovo sull’uomo al suo fianco, riflettendo attentamente alle parole di Athos.

“Rinnegando tutti gli Dèi dell’Olimpo, non sarete mai nei favori di nessuno!”- esclamó.

 

“Infatti. La mia Dea bionda porta l’elmo romano, d’acciaio e di bronzo, il manto reale e gli stivali da guerriero...”- Athos rise.

 

“Bella e delicata come una donna, ma forte come un uomo. Non è forse la Dea che preghiamo tutti noi?”

 

“Non tutti. Che mi dite di voi?”

 

“Treville avrebbe voluto scegliere voi come secondo in comando: Capitano della Guardia Reale, invece...”- il militare esitó.

 

“...Invece Richelieu aveva in mente voi. Non tutti pregano la mia Dea bionda, vi dico.”- continuò Athos alzando lo sguardo su di lui. Reduce da quella realtà, si avventò sul suo calice e lo bevve tutto d’un fiato.

 

“Che ne è dei vostri compagni?”

 

“Perché, io non vi basto?”- chiese Athos di risposta.

 

“Veramente no. Per lo meno, non più. Ultimamente ho ascoltato cose, sentito voci... Per ragioni non del tutto chiare, i vostri compari si intrattengono con il nemico. Voi stesso, di conseguenza.”

 

“Quindi, se parliamo di me, non c’è ragione di fare il nome dei miei compari.”

 

“E perchè no? Parlatemi delle vostre terre, certi Duchi di nostra conoscenza? Certi Lords di cui vi siete dimenticato?”

 

“No. Non frequento le mie terre da parecchi anni. Tre, forse quattro lustri? Non che la cosa vi interessi. Insinuate che mi stia trattenendo alla presenza del nemico, non vedo quando, o come.”

 

“Servi e terre sono comunque lassù. Nessuno che sia mai venuto a parlare con voi? Nessuno vi abbia mai chiesto di tornare? Una donna? Un lontano amore?”

 

Athos esitò. Qualche cosa del suo passato era forse rimasto lassù. 

 

“No.”- disse, ma le parole di Rochefort lo avevano colto di sorpresa, non pensava fosse al corrente di così tanti dettagli.

 

“Sapete per quale ragione siete stato graziato? Sapete qual è questo... Dono dell’eterno amore? Di cui il Duca di Buckingham stava parlando?”

 

“No.”

 

“Le guance rosse di una donna inglese? O le braccia bianche di un giovane francese?”

 

A quelle parole, pronunciate con estrema certezza, Athos alzó lo sguardo verso il comandante senza aprire bocca, si guardò indietro, in direzione dell'uscita, ma era giá troppo tardi: i suoi compagni si erano allontanati. Al loro posto una ronda di soldati e la vendetta di un comandante ficcanaso.

 

***

 

Ore dopo, Athos salì la scala in silenzio. Il suo volto appariva stanco e sbiancato, lividi coprivano guance, collo e fronte. Il taglio alla spalla, sotto le vesti, non era chiaramente distinguibile, ma dal braccio e la mano colavano rivoli di sangue.

 

“Cosa è successo? Dove siete stato?”- chiese Porthos allarmato da quella vista.

 

L’uomo non rispose e chiuse la porta della sua stanza, anche se le macchie di sangue sul pavimento furono presto notate dagli altri.

 

Aramis si alzò subito in piedi e disse: “Ci penso io, avrò visto sicuramente di peggio”.

 

“Non lo metto in dubbio, ma il meglio che voi avreste potuto fare a quella gente, in quei casi, sará stata l’estrema unzione...”- ribatté Porthos seguendolo.

Il giovane non lo ascoltó, balzò sulla scala, evitando i primi gradini ed irruppe subito nella stanza dell’amico sdraiato sul letto. La ferita aveva già provocato una macchia sul materasso, segno di quanto fosse profonda.

 

“Chi vi ha ridotto così? Rochefort?”- chiese Aramis, nel silenzio del compagno.

 

“Datemi qualcosa di forte”- ordinò, guardandosi attorno e senza aspettare risposta.

“Brandy?”- incalzó, quasi nel tentativo di tenerlo cosciente.

 

“Per uno che è stato al fronte, non vi facevo così tanto impressionabile alla vista sangue”- ribatté Athos ad occhi chiusi, senza muoversi.

 

“Non è per me, è per voi.”- disse il giovane recuperando la bottiglia da una delle mensole nella stanza. Ce n’erano altre dello stesso tipo, piene e mezze piene.

L’uomo alzò il capo ed aprì gli occhi arrossati.

 

“Non bevete tutto!”- esclamò aiutandolo a tirare su la testa.

 

Senza troppa fatica, Porthos lo prese per le spalle in modo che, da seduto, poté fissare il giovane negli occhi.

 

“Spogliatevi”- disse con un tono freddo. Notando i due amici nella stanza, l’uomo esitò alla sua richiesta.

 

“Porthos, avete per caso della seta avanzata dalle vostre cravatte?”- chiese Aramis.

L’amico lo guardò turbato, ma notando la situazione, decise di arrendersi alle sue richieste senza ribattere e corse subito a cercare negli armadi della sua stanza.

 

“Mi avete sentito?”- chiese di nuovo Aramis ad Athos, prendendogli il mento.

 

“Al diavolo! Se non lo fate voi, lo farò io!”- continuò l’altro avvicinandosi e cominciando in fretta a slacciare le sue vesti.

Non potendo fare altrimenti, l’amico lo aiutò alzando le braccia deboli e posò nuovamente la testa sul cuscino.

 

“É con queste labbra che baciate le vostre dame?”- disse tra i denti.

 

Aramis non ripose a quelle parole, ma rovesciò all’improvviso il distillato sulla ferita, provocando in lui un gemito di dolore.

 

L’uomo tese il braccio, in cerca di vendetta, ma agguantando solo aria.

 

“Vi consiglio vivamente di non provocare mai chi armeggia col vostro cibo, il vostro letto... E le vostre ferite!”- disse il giovane assicurandosi che il taglio fosse pulito.

 

“Ho una brutta notizia per voi. Porthos! Passatemi olio, bende, acqua e un ago!”- gridò il compagno rivolto verso la porta aperta.

 

“Ma voi non siete un chirurgo...”- sussurrò Athos sbiancando, la fronte madida di sudore e in procinto di svenire.

 

“È questa la brutta notizia!”- rispose il giovane, mentre la vista di Athos si oscurò del tutto, mancando completamente ai suoi sensi.

 

Durante il suo risveglio, Athos si rese conto che del tempo era passato, tuttavia era di nuovo sera, la testa e gli occhi ancora appesantiti dalla febbre. Aveva soltanto sete e la guarigione sembrava lontana. C’era una brocca d'acqua, non molto distante dal letto.

 

Al suo fianco, malamente addormentato, Aramis gli stringeva una mano nelle sue. Athos ritrasse il suo braccio da quella stretta e il giovane dalle labbra dischiuse, lo abbandonò. Nel l'innocenza del sonno, il giovane emise un lieve respiro con il naso.

L’uomo lo osservò rigirarsi, addormentato cosí e, se possibile, arroccarsi in una posa ancora più scomoda. 

 

Ora la stanchezza della notte ed il giorno, le ore passate alle sue cure, avevano preso il sopravvento, lasciandolo completamente inerme tra le braccia di Morfeo. 

 

Athos non ricordava averlo mai visto dormire in precedenza, non ricordava essersi mai soffermato troppo sulle sue fattezze, per un attimo, osservando il suo volto, gli sembrò di essere di fronte ai marmi papali ed osservare la scultura di Policle, coperta da vesti, l’allegoria dello Stato, dipinta com’era, nei ritratti dei sovrani.

 

Si alzò dal suo materasso, in quel vago senso di intimità rivelata e, quasi senza forze, lo prese per le spalle, lo lasciò distendere nel giaciglio che qualcuno aveva pulito e cambiato, al posto suo. 

 

Un modo per ricambiare le cure appena ricevute. 

Provò una strana sensazione, nel timore che un segreto nascosto potesse dischiudersi da un momento all’altro ed essere apertamente rivelato, si allontanò. Chiuse la porta dietro di se, come se nessun altro potesse osservare la scena di cui era appena stato testimone e scese le scale alla volta delle cucine.

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Capitolo 9
*** 9-Rive Droite ***


Capitolo 9

Rive Droite


Con il cambio della guardia, la notte prese il suo posto nella città. Le taverne chiusero lentamente i battenti e le locande si fecero più silenziose. Tuttavia, Parigi non era mai del tutto pronta a fermarsi. Nonostante le tenebre coprivano del loro manto ville e palazzi, c’era sempre qualcuno sveglio, un fornaio indaffarato, un locandiere attento o un soldato di guardia.

 

Il buio non era però entrato tra le colonne del Palazzo Cardinale. Musica e luci dalle finestre, a quell’ora, connotavano la fine di un ricevimento a corte durato molto di più del dovuto.

 

Il prelato passeggiò indifferente tra l’ombra densa delle colonne. Le vesti scarlatte e lo zucchetto rosso, difficili da distinguere nel buio di una notte festiva, balenavano tra le luci riflesse provenienti della sala del ballo.

Si fermò, come interrotto da un rumore sospetto, ma voltandosi indietro, non sembrò spaventato dalla vista di qualcuno nell’ombra.

 

Al contrario, sorrise educatamente, rivolto verso quella figura, portò un braccio dietro la schiena.

“Vedete questo marmo? È un ritratto del nostro Re, alla moda romana. Bello quasi quanto un marmo greco. E qui sotto, la dedica a me stesso. Al mio fedele consigliere e mentore Cardinal de...”- disse, quasi sottovoce. La nocca delle dita corse tra la barba dalle striature bianche, proprio sotto il mento, la sua mano magra e anziana si fermò in una nota riflessiva.

 

 Il sacerdote si interruppe con un sorriso reminescente. Cosí l’interlocutore si avvicinò, come se il suo tono colloquiale potesse essere interpretato come un permesso.

 

“E voi, Buckingham, quanti marmi possedete in vostro onore?”- chiese il prelato alzando le sopracciglia.

 

“Non c’é ragione di descrivere cose che non potete vedere con un solo sguardo, Eminenza. Prego, lasciate che i vostri occhi vedano meglio la bellezza delle arti...”- rispose lui, accendendo una candela.

 

L’uomo porse la luce al prelato, che illuminò prima la scultura e poi il volto attento del suo interlocutore.

“Finalmente soli...”- disse il Duca sottovoce.

 

Dal buio, l’uomo gli mostrò una lettera dal sigillo reale e la firma della Regina, la ripose immediatamente in tasca.

 

Il Cardinale tese la fronte, ma il suo volto non mostrò aperto stupore. Si aspettava quel comportamento da una persona come lui.

“Vogliate informarmi meglio riguardo a questa lettera. Sarebbe terribile se finisse in mani sbagliate.”

 

“Già, ma non posso farci nulla. Ormai è stata ricevuta ed è stata letta. Non ho ragione del piangere su questa mia personale  tragedia, e quella lettera altamente mi lusinga. Forse la terrò come ricordo...”

 

“La lettera cita un dono. Potrebbe essere un gioiello, una collana...”- la voce del Cardinale si interruppe -”Intendete dire che adesso siete in possesso della collana nuziale della Regina Anna?”- chiese poco dopo.

 

“Può darsi”- disse il Duca. 

 

Il prelato osservò un’ultima volta il volto soddisfatto del Duca di Buckingham e spense la fiamma con un breve cenno delle dita. Di nuovo il buio dell’ombra e la vaga luce delle finestre. Voci, musica e canti che risuonavano dalla sala. Non si sarebbero potuti intrattenere ancora a lungo senza che qualcuno li avesse notati.

 

“Non mi curo della Regina e dei suoi affari. Tuttavia è un danno per me che questi si incrocino intimamente con i vostri. Una Regina spagnola e traditrice, può anche essere ripudiata e rispedita alla sua patria natia ai voleri del sovrano. Ne sarei grato. Però un’altra guerra è già in corso e la Francia non potrebbe permettersi attriti con la Spagna in questo momento... Piuttosto voi, Duca, da questa fortunata coincidenza avreste solo da guadagnare”.

 

Il Duca tese le labbra. Il suo sorriso, nascosto dalle tenebre, faceva trapelare il suo vero intento.

 

“Io? Il mio umile desiderio era quello di prostrarmi ambasciatore presso la vostra corte! E invece, povero me... Costretto a ripartire per Londra cosí in fretta...”- l’uomo sospirò.

 

“Il vostro desiderio è di avere un nemico più debole e distratto. Se la Regina fosse ripudiata e la Corte di Spagna decidesse di attaccare la Francia, vi trovereste in una posizione molto più favorevole.”- suggerí il Cardinale.

 

“La povera Regina, così debole e confusa, merita forse un aiuto da voi, Eminenza. Potrei forse consegnarvi questa collana e fare in modo che niente di tutto questo sia mai accaduto. La Regina non verrà ripudiata, nessuno saprà mai cosa è successo, e voi governereste sulla Francia senza pensare ad un nuovo nemico...”

 

“Cosa vorreste in cambio?”

 

“Un armistizio con l’Inghilterra sarebbe il più gradito, Eminenza.”

 

Richelieu sorrise al giovane ed ambizioso diplomatico. Immaginava sarebbe potuto arrivare a tanto. In un certo senso apprezzò la sua arguzia. Tuttavia il Cardinale, governava il suo regno da molto più tempo, non era l’ultimo arrivato di una serie di vassalli: era lui che aveva guidato Maria de’ Medici, com’era lui ai tempi di Luigi XIII. Una minaccia del genere ai suoi piani personali era del tutto irrilevante.

 

“Il buon Dio vede e provvede: tutta questa strana sfortuna non è altro che una fortunata coincidenza anche per me e per le mie politiche. Dunque tenetevi la vostra collana e la vostra lettera: troverò altri modi per avere la mia volontà senza supplicare i vostri favori!”- disse il prelato.

 

“Come volete. Ricordate che non è finita qui, Richelieu: mi rivedrete presto!”- invece di ritornare verso la sala da ballo, il Duca prese la strada verso Pont Neuf e la riva sinistra del fiume, una dimora misteriosa di cui nessuno a Corte era a conoscenza. 

 

Richelieu tornò verso la sala del ricevimento. Le festività continuarono per altro tempo, fino a che il sovrano, interpellato da un misterioso messaggero, prese la Regina per mano e si appartò in una delle stanze del Palazzo.

 

“Mia adorata Regina, mi domandavo che fine avesse fatto la vostra bella collana.”- chiese il Re in tono nervoso.

 

“Eccola qui! Bella come sempre, Sire.”- rispose lei con un sorriso, cercando di allentare quella stretta e ritornare verso la sala da ballo, ma il sovrano temporeggiò.

 

“Questa di cui parlo di certo è una tra le più belle...”

 

“Bellissima, infatti”- la sovrana, non potendo allontanarsi, si voltò verso la parete ed osservó il suo gioiello dal riflesso di uno degli specchi.

 

“No, intendevo la vostra collana nuziale, quella che di solito indossate, ma che da qualche tempo non vedo più ornarvi.”

 

La Regina sgranó gli occhi, rivolta al suo stesso riflesso e a quello del Re, senza voltarsi, il braccio ancora nella stretta del sovrano. Dischiuse le labbra ma rimase in silenzio.

 

“Non sia mai che ne avete fatto dono al nostro amato ospite.”

 

“Affatto...”- disse lei, il capo tremó, i suoi pendenti oscillarono, mentre il collo di ricami inamidati divenne all’improvviso un intralcio tra l’acconciatura dei capelli.

 

“Perché se ne avreste fatto dono a colui che è appena partito, non sarebbe più tra i vostri gioielli.”- il Re pronunció le sue parole lentamente, mentre l’affanno nei respiri della donna diventó piú intenso.

 

“Infatti è... Ancora al suo posto.”- si affrettó lei.

 

“Significherebbe che vi siete intrattenuta intimamente con quella persona. Un ospite che, anni fa, si presentò a Corte al buio delle tenebre e senza un invito. Proprio come questa notte. Qualcuno arrivato di nascosto e partito dalla Rive Gauche. Qualcuno di nuovo a Corte, pronto ad offrire strani regali nonostante le nostre sfortunate diplomazie... Ne sapete qualcosa?”

 

“Tutte voci di Corte! Quella persona si era allontanata da Parigi, dunque non sarebbe potuta partire di nascosto, se già non era più qui...” 

 

“Questo messaggio che ho letto sembrava intendere il contrario.”- il sovrano mostrò alla Regina la lettera che proprio lei stessa aveva scritto e mandato al Duca di Buckingham non più di un giorno prima.

 

La regina osservó il messaggio per un breve momento: 

“Sciocchezze! Un falso!”- disse mentre il fiato mancò dai suoi polmoni e la vista si distorse, affogata in un rivolo di lacrime. Il risentimento di aver commesso un grave errore nell’aver creduto alle parole dell’affascinante ministro.

 

“Eppure, questi sigilli, è così simile da sembrare vera...”- il Re osservò la lettera, un’altra volta, con sorpresa.

 

“Se fosse una menzogna, tutto ciò che dovreste fare è indossare la collana...”- si giustificò lui.

 

“Certo, chiederò a Constance di portarmela quanto prima! Farò in modo di indossarla al... Al nostro prossimo ricevimento!”- la regina si nascose velocemente dietro ad un ventaglio e corse via, di nuovo tra gli astanti, impossibile da ritrovare.

 

***

 

All’alba, il cielo si coprì di nubi, l’aria si fece di nuovo fredda.

Senza il sole primaverile, gli alberi apparivano ancora aridi, la terra ingiallita dai colori autunnali, ormai remoti eppure ancora così presenti. La memoria di un autunno che non era ancora passato, come il presagio di quell’autunno che di nuovo tornerà. Anche se la neve sciolta aveva lasciato posto al verde dell’erba nuova e dei primi dandelions i giorni precedenti, anch’essi avevano chiuso le loro gialle corolle, nascondendosi tra gli arbusti secchi, all’assenza della luce.

Una carrozza si fermò sulla strada deserta del mattino.

 

Allo stesso modo, qualche momento dopo, un cavallo al galoppo frenò il passo ed un uomo vestito ancora a festa, nero del velluto ed oro nei ricami, si avvicinò.

 

“Di nuovo in Francia... Tuttavia non per molto. Quali nuove?”- chiese rivolto verso la finestrella della carrozza. L’accento londinese era aperto e rotondo, le vocali riecheggiarono dell’abitacolo, richiamando l’attenzione di chi fosse all’interno.

 

A quella voce una donna minuta dai capelli chiari, ma tinti di un altro colore, che ricadevano sulle spalle in onde ordinate, le mani piccole e delicate, la pelle come fatta di fine porcellana, si alzò e scese dalla carrozza.

 

Anche l’uomo scese da cavallo e i due presero insieme il passo, in modo da non essere ascoltati.

 

“Lord Buckingham”- disse la donna, prostrandosi in un leggero inchino.

 

Il Duca si inchinò alla sua bellezza. Le vesti ricchissime dai velluti porpora, ma anch'esse con ricami d’oro, e i lineamenti fin troppo gradevoli: una donna che non sarebbe certo passata inosservata tra le strade di Parigi, ma che avrebbe potuto fermarsi all’alba, ai bordi di una strada deserta, al volere di lui.

 

“Vi ringrazio per i vostri servizi, Lady de Winter. Come stabilito, intercederò con Lord de Winter io stesso. Avrete il mio lasciapassare ed il vostro matrimonio non verrà annullato... Vi dico addio, adesso. Siete libera di andare.”- disse lui.

 

La donna sospirò e sorrise:

“Dunque la libertà si è fatta mia... E’ una nuova alba, un nuovo giorno, una nuova vita per me...”.

 

“Però, mia cara, vorrei tanto dirvi arrivederci...”

 

“Non volete più la collana che mi avete chiesto?”

 

“No, non é piú necessaria”.

 

“Che ne è della mia ricompensa, dunque?”

 

“Quella collana sarà la vostra ricompensa.”

 

“Mh, George... Non posso ringraziarvi. Un gioiello unico e costoso: impossibile da rivendere senza essere accusati di averla rubata, senza chiederne la provenienza. Soltanto il desiderio e la fantasia di un Re...”

 

“My lady...”- a quelle parole, il suo sguardo puntò sugli occhi grigi del Duca, come un cielo talmente denso da non lasciar passare neppure un raggio di sole, i lineamenti affascinanti. Eppure il suo fascino rievocò in lei qualcos’altro, al di sopra dell’attrazione, al di fuori del loro presente: un lontano ricordo, la donna dischiuse le labbra rosee ad una vaga e lontana memoria.

La donna distolse il suo sguardo. I suoi occhi, verdi e intensi come un mare calmo, puntarono verso l'orizzonte ed una carrozza di passaggio, ancora in lontananza.

 

“Siete fortunato, non è certo il denaro ciò che sto cercando. Se fosse, sarei miserabile al vostro servizio”- disse lei, con un sorriso amareggiato.

 

Il Duca la osservó, una bellezza delicata e preziosa, lineamenti dolci in un corpo attraente un altro pensiero trafisse i pensieri dell’uomo e, con essi, il suo stesso cuore.

 

“Potreste tornare a Londra: con me al vostro fianco, avreste potere sul parlamento. Chiedere tutto ciò che desiderate. James potrebbe...”

 

La dama dorata si voltó verso di lui e ricambió quello sguardo intenso. 

 

“George...”- disse con un filo di voce.

 

“Tornerete mai in Inghilterra?”

 

“No. Tornerò a Beaugency...”

 

“Beaugency? La ricordo come se fosse ieri, la stessa campagna dove ci incontrammo la prima volta che... La stessa campagna dove mi chiedeste di incontrarci nuovamente una volta tornata da...”- il Duca non riuscì a pronunciare quel discorso. Si interruppe nel ricordo del loro primo incontro, per un attimo si cullò nell’illusione della sua mente, lusingato dal fatto che lui stesso fosse la ragione di quella scelta, ma fece attenzione a non rivelare nulla.

 

“Qualche cosa vi lega laggiù?”- chiese con apparente indifferenza.

 

“No! Affatto.”- disse lei con sorpresa. Il Duca si ricordava di quel viaggio. Non avrebbe mai potuto dimenticare.

 

“Solo una bella campagna, erba alta, campi freschi. Aria nuova, tempi nuovi, per me... Laggiú avró il tempo di pensare...”- continuó la donna, mentre le sue labbra rosate si dischiusero in un sorriso.

 

“Vi dico addio allora, mia cara Lady de Winter. Che la sorte vi assista!”

 

Il Duca si avvicinò di qualche passo, poggió la mano sul suo fianco, lei non si ritrasse, l’uomo si chinó sul suo volto, le accarezzò la guancia bianca, prendendole delicatamente il mento con le dita. I loro sguardi si incontrarono un’ultima volta, i loro respiri erano così vicini, le loro labbra si sfiorarono leggermente.

La donna si ritrasse delicatamente dal suo volto e distolse lo sguardo, abbassando le ciglia con fare timido. A quel gesto, l’uomo si allontanò da lei, indossò il suo cappello e salì di nuovo a cavallo. 

 

Lei prese tempo, come se, una volta allontanata dal suo interlocutore, non ci fosse più l’urgenza di un incontro o il timore di essere scoperti. 

Da quel momento in poi avrebbe potuto vivere una vita alla luce del sole, seppure le nuvole coprivano ancora il cielo denso, come in un triste presagio. Lo osservò allontanarsi al galoppo, verso l’orizzonte, con la coda dell’occhio.

 

“A rivederci, Buckingham...”- sussurrò lei, salendo sulla sua carrozza.

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Capitolo 10
*** 10-Rive Gauche ***


Capitolo 10

Rive Gauche


Alla dimora di Planchet, seduto alla tavolata e reduce di una lunga cena, D’Artagnan dimenava le braccia e parlava con entusiasmo, gli occhi sgranati al ricordo del giorno prima, mentre il servo e Porthos stavano ascoltando in silenzio.

 

“Dite di aver visto un mostro gigantesco?”- chiese Planchet.

 

“Un drago, un elefante, più veloce di un cavallo, sputava fuoco ed aveva ali come quelle di un pipistrello... Sicuramente era più grosso di qualsiasi animale che abbia mai visto!”- disse il ragazzo.

 

“Con una storia simile dite di aver alimentato le ire delle vostre terre ed aver lasciato la Guascogna per Parigi. Ve lo sarete sognato!”- lo corresse Planchet, ma il giovane non era pronto a sentirsi di nuovo ferito nell’orgoglio.

 

“Non era un sogno, era la verità!”- si lamentò lui, rivolto al servo, fattosi di nuovo silenzioso, mentre Porthos stava ancora ascoltando con attenzione.

 

“Vi credo”- ribatté il moschettiere con certezza.

 

Una porta ai piani superiori si aprí. Alzando lo sguardo, notò Athos scendere la scala. D’Artagnan e Planchet avevano intuito che qualche cosa era successo la sera del giorno prima, ma l’aspetto dell’uomo non sembrava del tutto differente dal solito, il volto leggermente più stanco, i movimenti più lenti. Un braccio completamente immobile lasciava intuire parte di quel conflitto che gli era stato accennato, ma il volto ed il suo sguardo non davano segni di dolore e sofferenze, tantomeno di gioia.

 

“Finalmente in piedi! Venite qui...”- disse Porthos alzandosi dalla panca e facendo un cenno verso il suo compagno. 

L'uomo si accomodò nuovamente, si fece ancora più attento alle parole del ragazzo, quasi non badando alla salute dell'amico. Bastava fosse in piedi, bastava camminasse. 

 

Planchet si voltò sorpreso, un tozzo di pane ancora tra i denti. Anche lui non commentò e non chiese della salute del combattente, di conseguenza neppure D’Artagnan, anche se non fare domande gli sembrava molto difficile.

 

Athos li raggiunse alla tavola e si sedette al suo fianco con estrema cautela. I tre si scambiarono un breve sguardo di cortesia.

 

“Il giovanotto dice di aver visto un animale gigantesco solcare i cieli. Sputava fuoco, aveva ali come quelle di un pipistrello. Un drago...”- spiegò Porthos con serietà.

 

“Un mostro!”- lo corresse D’Artagnan.

 

”Una volta diventato moschettiere, lo catturerò e lo porterò con me in Guascogna, il Marchese avrà poco da contestare questa volta!”- continuò tutto d’un fiato, non lasciando ai compagni la possibilità di replicare.

 

Porthos fece un altro cenno con la testa, rivolto al suo compare, una delle prime persone a non mostrare stupore ed essere increduli di fronte alle sue parole. I due si guardarono, dimostrando un’intesa che non sarebbero riusciti a spiegare e poi si rivolsero di nuovo al ragazzo.

 

“Non preoccupatevi, non è un elefante. È inanimato. Vuoto come una botte. Al suo interno una persona come me, o voi, guida quell’arnese come farebbe con una carrozza. Soldati meccanici che riescono a combattere autonomamente...”- spiegò Porthos senza mostrare sorpresa. Athos annuì alle parole dell’amico.

 

“Dite che possiamo catturarlo?”- chiese il ragazzo con entusiasmo.

I due uomini si scambiarono di nuovo uno sguardo perplesso.

 

“Non credo. Almeno non come si usa cacciare un animale. Ricordatemi ancora, dove e quando avete visto quella cosa?”- chiese Porthos.

 

“Da principio, alcuni servi del Conte, mio avo, originari del Nord, la menzionarono alla mia famiglia, che hanno udito qualcuno, che ha visto il mostro solcare il cielo e oscurare il sole”- spiegò D’Artagnan come se spiegasse un fatto certo.

 

“Una volta interpellati, i servi negarono tutto. I miei sospetti rimasero infondati e fui messo più volte nel ridicolo, fino a quando ieri la folla si è accalcata attorno a quella strana creatura...”

 

“Prima la delegazione inglese a Corte e poi di nuovo i disegni di quell’arnese nei paraggi...”- disse Athos, accennando dolore nel parlare, passando un’altra volta la mano sulle bende che lo fasciavano, per poi raggiungere cautamente la bottiglia sul tavolo. 

 

Anche Porthos lanció un’occhiata alle sue sete pregiate, usate al posto di una fasciatura. Le seguí con l'attenzione di chi le scelse e le pagó salatamente. Forse nella speranza di mostrarsi alla gente giusta ed aumentare, cosí, la sua cerchia di conoscenze. Ahimè invano, la loro funzione era diventata quella di curare le ferite di un amico, che all’apparenza, non badava affatto a questi dettagli. Contrasse le mandibole, deglutí dal dispiacere, ma non disse nulla.

 

“Non era un disegno! Era vero e costruito!”- incalzó D’Artagnan.

 

Athos emise un profondo sospiro e bevve un altro bicchiere.

 

“Come ha fatto Buckingham ad ottenere quei progetti per costruire quell’arnese?”- chiese Porthos.

 

“Qualcuno deve averglieli consegnati”- rispose Athos.

 

“Qualcuno... Una spia inglese...”- ribatté l’altro.

I due uomini si osservarono con stupore.

 

“Aramis?”- continuó Porthos, senza quasi badare più a D’Artagnan.

 

“Credete che Aramis sappia qualche cosa e non ci abbia detto nulla?”- domandò Athos.

 

“Ieri sera tornavamo da Madame de Chevreuse, per alcuni affari di cui non mi ha informato. Tuttavia Chevreuse si intratteneva con qualcun altro. Al nostro arrivo questa persona non era più lí e Madame gli ha negato la visita!”- disse Porthos.

 

“Constance ed io eravamo lí per lo stesso motivo! Qualcuno che forse avrebbe potuto intercedere per la Regina e che non era più lí”- aggiunse D’Artagnan.

 

La porta di una delle stanze superiori si aprì ancora, un rumore di passi lievi scese la scala.

 

“Barone! Compare! Cosa mi dite delle stanze del nostro caro amico Conte?”- chiese Porthos.

 

“Stanze?! Credevo fossero le cantine...”- disse Aramis, strofinando via il sonno dagli occhi. Il giovane saltò la rampa di scale con un balzo e si sedette al fianco di D’Artagnan, lo sguardo ancora assonnato e incuriosito, rivolto verso Porthos.

 

“Stavamo giusto parlando di voi. E di Madame de Chevreuse”- disse lui.

 

“Di me? Vostro umile servo del Signore?”

 

“E della vostra misteriosa Madame”- aggiunse Athos.

 

“Non è mia e non potrá mai esserlo. Il suo cuore non mi appartiene. Né il mio appartiene a lei...”- rispose Aramis deviando lo sguardo.

 

“Se non è il suo, eppure non ancora votato agli Dèi, mi chiedo a chi appartenga...”- implicó Porthos.

 

“Il mio cuore appartiene al mio petto e alle mie ossa! Batte vita per me stesso e la mia anima afflitta dalla retorica delle vostre domande!”- disse il giovane ai due.

 

“Aramis, non ci stavamo di certo riferendo al vostro cuore!”- concluse Athos.

 

“Piuttosto voi, ancora convalescente e giá attaccato alla bottiglia! Gli sforzi miei e di Porthos per riportarvi in salute sprecati al vento... Estrema unzione, dicevate?!”- ribatté il giovane.

 

“Comunque, quale favore la vostra dama non vi ha concesso? Con chi avreste dovuto parlare?”- chiese lui di rimando.

 

Aramis fermó il suo sguardo su quello dell'amico e si fece serio.

 

“L'ospitalità di Madame fa fede alla tradizione della Rive Gauche. Dove di solito alloggiano, come hanno sempre alloggiato, artisti e ambasciatori. Notando certi ospiti a Corte, ho pensato che si fossero fermati proprio lí... Il ricevermi o meno in quel momento non aveva tutta questa importanza...”-.

 

“Dovevate parlarle anche di un’altra cosa! Testimone il ragazzo!”- esclamó Porthos.

 

Il giovane alzò gli occhi al cielo e sospirò profondamente. In modo talmente intenso e teatrale da alzare le spalle, per poi abbassarle, come se un dramma, tanto vero quanto falso, avesse attraversato il suo corpo e lo avesse lasciato con quel respiro.

 

“Bene, visto che questa nostra grazia non é stata altro che la causa dei nostri guai, mi chiedo: Aramis, come mai siete nei favori del Duca di Buckingham?”- domandó Athos.

 

“Eh...?! Chiedo lo stesso per tutti noi! Che cosa intendeva dire quando non credeva fossimo ancora vivi? Sapeva tutti e tre i nostri nomi! Conosce tutti i nostri volti! Non solo il mio! Vuol dire che ci ha incontrato tutti e tre, insieme, da qualche parte... Com’è possibile che non ce ne ricordiamo?”- la voce di Aramis si fece più alta e veloce, quasi a difendere una posizione precaria.

 

“Può... Può... Può voler dire che eravamo privi di sensi?”

 

“Già, Athos. Che ne dite di un altro brindisi?! Alla vostra donna inglese e il suo buon vino!”- esclamó Aramis.

 

I due moschettieri si scambiarono un lungo sguardo, carico di tensione. Lentamente, Athos riappoggió bicchiere e bottiglia sul tavolo, ma il suo sguardo, i suoi occhi blu, non lasciarono mai, quelli del compagno di fronte.

 

In quel silenzio, lo schioccare della lingua sul palato di D’Artagnan, arrivó come un suono inaspettato. Un sasso sulla superficie, a malapena ghiacciata, di un lago al mattino.

 

“A proposito di donne inglesi, ho incontrato una donna proprio al mio arrivo, molto bella e ricca, educata ed esperta nella nostra lingua...”- D’Artagnan sospirò trasognato, non ricordava avere mai visto da vicino una donna tanto nobile e bella prima di quel momento.

 

“Vi consiglierei di non farne menzione in questo momento...”- cercò di spiegare Porthos senza successo.

 

“Menzione di cosa?”- domandò il ragazzo.

 

“Dicevate, di una donna inglese, D’Artagnan?”- chiese Aramis, distogliendo lo sguardo da Athos.

 

“Di nulla, stava blaterando e si è dimenticato quello che stava dicendo. Qui si parlava di voi e Madame Chevreuse!”- ribatté Porthos.

 

“Affatto! Come potrei mai dimenticare di una tanto bella donna!”- continuó D’Artagnan.

 

A quella esclamazione, con lo stesso modo in cui un gatto sonnolente si dilegua alla vista del segugio, così Aramis a quelle parole, si volatilizzò nella sua stanza, Porthos si voltò, in principio, verso il fuoco. Planchet prese un cesto dalla dispensa vuota e, senza chiedere denaro, fece finta di uscire in strada.

 

Il ragazzo guardò il terzo uomo distogliere lo sguardo da Aramis per portarlo su di lui. Gomiti sul tavolo e mento appoggiato sulle mani, i suoi occhi lo serrarono al suo posto. Ogni sua parola divenne immediatamente importante: aveva tutta la sua completa attenzione. 

 

Porthos si avvicinò alla porta chiusa della stanza di Aramis.

“Non scappate!”- disse tra la fessura dei legni.

 

“ ...Sanctum quoque Paraclitum Spiritum. Tu Rex gloriae, Christe...”- la voce di Aramis si fece più alta a quelle poche parole, per poi ritornare immediatamente ad un sussurro.

 

“Siete appena entrato in camera! Non potete essere già così avanti nella vostra preghiera!”- disse Porthos battendo i pugni sulla porta, nel tentativo di evitare l'espressione dell'amico.

 

“Credo di non aver mai visto una donna più bella di una donna inglese. Oh... Milady...”- esclamò D’Artagnan ingenuamente, lo sguardo trasognato, ignaro di quello che stava accadendo attorno a lui. 

 

Rimasti apparentemente soli al tavolo, Athos si alzò dal suo posto, per affiancarlo con rapidità. Sprezzante del suo stesso dolore, si curvò sul ragazzo ancora seduto. Un braccio pronto, sull’orlo del tavolo e la mano sulla sua spalla: faccia a faccia. Non c’era più possibilità di scappare da quella conversazione.

 

Porthos si voltò di nuovo verso la tavolata, abbandonando la porta chiusa delle stanze di Aramis. L'inevitabile attrazione del dramma creato tra il ragazzo ed il suo compagno, D’Artagnan realizzó lentamente qualcosa e si preparò ad accettare le conseguenze di quello che aveva appena detto.

 

Senza che Porthos se ne accorgesse, Aramis riaprì la porta della sua stanza lentamente, anche lui con l’intento e l’interesse di qualcuno che teme quello che potrà accadere, ma ne è tuttavia irrimediabilmente attratto. Planchet rientrò in casa, come se fosse veramente uscito.

 

“Non prendetevela con il ragazzo, non sa di...”- disse Porthos.

 

“Milady.”

 

I muri della dimora scricchiolarono sotto il peso del silenzio.

 

“Come vi abbiamo spiegato, l’arnese misterioso che solca i cieli ed oscura il sole, deve essere costruito... Per essere costruito ha bisogno di un inventore, di un progetto...”- spiegó Porthos.

 

“Nessuno prima di noi vi ha creduto, ne siamo certi, perché nessuno avrebbe mai creduto noi, se non avessimo avuto le prove scritte di quello che state dicendo.”- continuó Aramis.

 

“Avevamo quelle carte tra le mani, le abbiamo lette noi stessi!”- esclamò Porthos.

 

“Le avremmo donate alla Francia e al Re, avremmo avuto onori e ricompense, come quando eravamo moschettieri, e invece...”- spiegò il giovane.

 

Athos continuò a fissarlo senza proferire parola. Inspirò lentamente dal naso. 

 

D’Artagnan deglutì.

 

“E-e invece?”- tentennò il ragazzo, nella speranza che i due uomini continuassero la loro storia, ma da parte loro ci fu solo silenzio.

 

“Amore. Veleno. La peggiore dannazione di un uomo!”- disse Athos, allontanandosi da lui e addossandosi alla finestra.

 

“Siamo stati avvelenati da qualcuno che credevamo ci volesse aiutare nel nostro intento. Invece ci ha soltanto tradito. Una donna inglese...”- disse Aramis voltandosi verso D’Artagnan con rammarico.

 

Il silenzio fu interrotto dal battere di colpi alla porta, il gruppo si voltò a quel suono, come ad un appiglio, una distrazione ad un triste momento che nessuno di loro voleva ricordare.

 

Planchet accorse all’uscio, quasi nel tentativo di allontanarsi dalla tensione nell’aria, ma fu presto sopraffatto da un manto nero, aperto su un vestito azzurro, una chioma di capelli biondi, che senza alcuna riverenza, nessuna cortesia femminile, senza neppure curarsi del servo o dei moschettieri, si avventò con un solo balzo al collo di D’Artagnan.

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Capitolo 11
*** 11-Pessime Compagnie ***


Capitolo 11

Pessime Compagnie


“Sapevo dove venirvi a cercare! Ve l’ho promesso!”.

 

“Mademoiselle?”- chiese Planchet, riconoscendo fattezze e vesti femminili.

 

D’Artagnan non capì. 

 

Gli orli delle gonne della dama frusciarono sul pavimento e il battere di un solo tacco rintoccó sul legno delle assi. L'altro era giá sul suo piede, colto da un dolore lancinante.

 

“Ve l’ho promesso! E non fu una promessa, ma una minaccia!”- disse la ragazza dai toni furiosi e vendicativi.

 

“Infame che non siete altro! E venite a chiedermi favori, e chiamate Chevreuse una frondeur! Infame e traditore, se per voi tutti son traditori, forse significa che il vero traditore siete proprio voi! Infame!”- continuò lei con fervore, senza che nessun altro potesse ribattere.

 

Poteva una persona così bella e delicata essere disposta a tanto? La guardò meglio, Constance aveva il volto irato ed il fiato corto.

 

“Quale onore! Il più bel fiore, più bianco del giglio! Più profumato della rosa...”- celebrò Porthos, inchinandosi profondamente verso la dama di Corte.

 

Constance ignorò entrambi e contrasse la stretta al collo del povero D’Artagnan. 

Prima di quel momento non si era ancora reso conto di quanto la ragazza fosse alta in confronto a lui, di quanto forti potessero essere mani tanto delicate. 

 

Le dita di lei strinsero sul collo di lui con cosí tanto fervore, che il ragazzo poté sentire le sue unghie trafiggerlo. 

 

Anche il delicato profumo che l’accompagnava era improvvisamente svanito, di certo non era quello il momento per annusare le rose e contemplare tramonti. Eppure una strana ombra verde e rossa alimentava gli angoli dei suoi occhi, oscurando lentamente la vista, un volto distorto da sentimenti che non riusciva a comprendere, mentre un sibilo scaturí dai suoi respiri. Le ginocchia del ragazzo si piegarono leggermente, ma non era l’emozione dei suoi sentimenti a trasportarlo più della mancanza d’aria.

 

“Ladro! Infame! Consegnatemi la collana adesso e raccontate ai vostri compari tutte le vostre malefatte, qui di fronte a me: che lo sappiano anche loro, che in casa loro si nasconde un ladro!”- la ragazza lasciò andare la presa e lo gettò a terra con una spinta.

 

Questa volta, non era la luna e quanto meno il sole: ad illuminare il volto della ragazza era il rosso intenso del sangue nelle vene. Un cuore che batteva veloce e violento, incendiato dall’ira, la presunzione del susseguirsi degli eventi, ma che avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente.

 

“Mademoiselle Bonacieux!”- cercò di ribattere lui, riprendendo fiato.

 

“Non voglio le vostre reverenze! Ladro! Impostore! Se il Re sapesse... Ma il Re non sa. Il re non sa... Non sa. Vero?!”

 

“A cosa dobbiamo la vostra visita, Mademoiselle?”- chiese Aramis portando una mano dietro la schiena e, al contrario del compagno, si prostrò in un inchino più attento e rigido. 

 

Athos rimase seduto, mosse i capelli dalla fronte e guardò la scena dall’altra parte del tavolo, annuì con un cenno del capo ai suoi compagni. Ignorò la tragedia svolgersi di fronte al suo sguardo e finì il bicchiere in completo silenzio.

 

La ragazza stringeva i pugni, rossa di rabbia, infuriata dall’emozione. Si voltò in direzione del giovane moschettiere rimasto quasi immobile, ma puntò il dito e lo sguardo verso il ragazzo.

 

“D’Artagnan de Batz è entrato alla corte del Louvre senza essere invitato. Diceva di essere qui per conto dell’inglese. Una volta uscito da palazzo, la collana nuziale della Regina Anna è sparita con lui!”

 

Aramis chiuse gli occhi e chinò la testa da un lato, lentamente, scambiò uno sguardo con gli altri tre compari, in cerca d’intesa.

 

“Se fossi in lui mi diletterei più volentieri nel festeggiare la sua vendita... O il donarla immediatamente a noi. E invece questo presunto ladro presta il suo prezioso tempo in nostra compagnia. Portandoci alla memoria solo tristi ricordi. Senza sganciare neppure una moneta.”- disse Porthos.

 

“Ospite non gradito e pessima compagnia!”- aggiunse Athos.

 

“Gli affari sono questi: pagate noi e poi noi pagheremo Mademoiselle Bonacieux o restituite la collana a Mademoiselle e poi noi ve la faremo pagare.”- concluse Aramis.

 

Il ragazzo ritrasse il mento, forse ancora più stupito dalla loro reazione che dalla presa della ragazza.

 

“Non ho idea di cosa state parlando!”

 

“La collana”- disse Constance tendendo il palmo della mano. 

 

Sembrava si aspettasse che il ragazzo fosse in grado di tirare fuori il gioiello dalle tasche e porgerlo immediatamente nelle sue mani.

D’Artagnan, ancora a terra, scambió il suo sguardo, gli occhi lucidi e le pupille dilatate.

 

“Non ho mai visto quella collana in vita mia!”- disse in un lamento.

 

“Parte di me non vorrebbe credergli e festeggiare le nostre aggiunte ricchezze in vostra assenza, Mademoiselle. Tuttavia il ragazzo ha sempre dimostrato di badare più all’onore delle ricchezze, più alla lealtà che al successo. Se avesse quella collana, per chissà quale ragione, sono certo che ve l'avrebbe già consegnata o vi avrebbe detto a chi l’ha venduta.”- disse Aramis.

 

“Quando sono arrivato a Parigi, ho finito tutti i miei averi. Cosí, ho accettato l'offerta quando una cara signora mi ha chiesto il semplice favore di scortarla a Corte per consegnare un messaggio alla Regina”.

 

“Credevo foste al servizio del Duca di Buckingham!”- disse Constance, rivolta a D’Artagnan.

 

“Buckingham? Affatto!”

 

“Vi chiesi a chiare lettere se eravate al servizio dell’inglese!!”

 

“Certo! Della dama inglese...”

 

“Una dama?”

 

La confusione di Constance dissuase le sue ire, mentre cercava di riassemblare i ricordi della notte di qualche giorno prima. Nessuna donna inglese ritornava alla sua memoria. Nessuna dama inglese era mai arrivata a Corte senza la sua stretta sorveglianza.

 

“Una collana particolare: la sua scomparsa, corrisponde con altri eventi a corte, altri ospiti inattesi, altre compagnie indesiderate con cui, si vocifera, la Regina si sia intrattenuta segretamente.”- aggiunse Constance.

 

“La Regina avrebbe ospitato privatamente qualcuno?”- chiese D’Artagnan.

 

“Tutte voci! La Regina non ha mai incontrato privatamente il Duca di Buckingham! Di sicuro non gli ha mai donato quella collana, perchè quel gioiello era già sparito quando lui...”

 

Tutto riapparve nella memoria di Constance con la stessa velocità con la quale era capitato il giorno prima, senza neanche il tempo per dormire o pensarci su: la Regina in lacrime chiederle la collana, il Duca in attesa ai giardini reali, lo scaffale vuoto, la collana sparita. Le lacrime della Regina sgorgare dai suoi occhi, il suo rimorso, quello di donna distrutta, ridotta a ad una misera scorza del suo potenziale potere, tolta della dignità, dell’umanità, dell’amore. Non solo da un amore defunto, ma da tutto quello che era stato, dalle politiche contro di lei, dalla ripicca di Richelieu e il desiderio di Buckingham.

 

Allo stesso modo in cui la pietra di un giardino, una pietra grigia e pulita, tra l’erba verde, calma e ben curata così, apparentemente pacifica, anch’essa sotto la superficie vedeva invece il brulicare dei vermi, delle formiche e degli altri insetti; così allo stesso modo si rivelavano quelle cospirazioni contorte. Soddisfatti della loro ombra, non erano che disgustosi e deboli intrighi alla luce del sole.

 

A quel nome, l’espressione apparentemente neutrale di Aramis cambiò, prese i toni di una prima sorpresa, si affrettò a catturare l'attenzione di Constance, si alzò dal tavolo le prese la spalla e le fece cenno di fare silenzio.

 

“Chi ci guadagna e chi ci rimette dalla scomparsa di questa collana?”- chiese Porthos.

 

Constance prese del tempo nel quale i suoi nervi si calmarono, le sue spalle presero la postura di chi finalmente può liberarsi del peso di quelle preoccupazioni con qualcun altro.

Le sue gambe cominciarono di nuovo a danzare.

 

“Se il Re fosse portato a credere che la Regina sia un’adultera, potrebbe ripudiarla. Non è quello che Richelieu ha sempre desiderato?”- chiese la ragazza, rivolta ad Aramis. 

 

“Se la Spagna fosse impegnata in una nuova guerra sarebbe solo un vantaggio per l’Inghilterra”- constatò Athos.

 

“Per Richelieu questo non è altro che un favore a se stesso: non ci sarebbe di meglio per lui che spodestare la Regina e dare la colpa all’Inghilterra. Questa non è più una collana qualsiasi: è un affare di Stato.”- disse Aramis.

 

“Se si tratta di affari di Stato, sono quasi certo che la dama in questione è Lady de Winter. Esperta delle nostre terre e della nostra lingua. Sicuramente stiamo parlando di guai.”- disse Athos.

 

Le memorie del ragazzo ritornarono a qualche sera prima, alla ricca donna misteriosa che lo aveva aiutato nel pieno della notte. Tornare al Louvre era stato un compito così facile, lei conosceva così bene le entrate segrete, prive di guardie. La dama lo aveva aiutato per quella notte, certo, gli aveva dato denaro sufficiente per un pasto e una stanza. Eppure grazie a lei adesso aveva su di se le ire di chiunque lo circondasse: accusato di furto, minacciato di morte. 

Guai. Era forse era questo quello che voleva intendere Athos?

 

“Avete appena detto che quella donna vi ha tradito e avvelenato. Mi chiedo, siamo noi nei guai, o siete invece voi che avete bevuto l’amaro calice della sconfitta ed ora tramate vendetta?”- chiese D’Artagnan.

 

Aramis non era più seduto al tavolo. Era di guardia.

Teneva stretto in pugno, difendeva coi suoi stessi denti il più prezioso dei gioielli, diamanti e gemme più importanti di qualsiasi collana: il giovane teneva in stretta sorveglianza tutto quello che scaturiva dalle parole di Constance e ne decideva le sorti.

 

Osservò D’Artagnan e i suoi compagni, non c’era tolleranza, non c’era più pazienza nei suoi occhi sgranati come quelli di un ghepardo pronto ad attaccare per difendersi.

 

“Entrambi.”- disse, quasi senza pensare e con una voce che avrebbe potuto scaturire allo stesso modo dalle labbra del compagno.

 

“E quale modo migliore per vendicarsi delle sue malefatte, se non aiutare questa povera dama innocente?”- chiese Constance.

 

“Innocente...”- ripeté il ragazzo, strofinando il collo ancora arrossato dalla sua presa.

 

“Certo. E che altro?”

 

“Un colloquio con Madame de Chevreuse!”

 

“Chi vi dice che ho ancora intenzione di incontrarla?”

 

“...Intercessione ad un colloquio Reale?”- chiese lei, rivolta a D’Artagnan ed Athos.

 

“Non abbiamo nulla da chiedere al Re.”- rispose Athos.

 

D’Artagnan non era dello stesso parere.

 

“Personale.”

 

“Potreste chiedere tutto quello che volete! La Regina parlava di un ricevimento che si terrà a Corte. Se quella collana comparisse prima di quel giorno, non avrete più bisogno dei miei favori per chiedere un colloquio! Basterà fare il vostro nome, sarà lei stessa a chiamarvi a Corte! Al cospetto del Re non avreste da chiedere favori a nessun altro!”- disse Constance.

 

D’Artagnan vide se stesso in alta uniforme, la mantella sventolare alla brezza di un cielo mattutino, la mano sulla lama del rapière, gli occhi sugli anelli del Re. In groppa al suo ronzino decorato delle migliori armature, schiere di cavalleria al suo comando, il ritorno vittorioso.

 

Porthos ingoiò il boccone. Si pulì i denti con la lingua, controllò le unghie.

 

“Mentite”- disse, privo della minima attenzione.

 

“Come fate a dirlo?”- chiese Constance.

 

“Perchè dame come voi, che chiedono l’aiuto di uomini come noi, di solito mentono. Sappiamo cosa vuol dire essere ai servizi di qualcuno non fidato, abbagliati ed accecati dalla bellezza e dal fascino di una donna.”- disse Athos.

 

“Perchè?! Vi sembra questa una donna affascinante?”- chiese Porthos.

 

Aramis non disse nulla. Apparentemente immobile, fece un gesto troppo veloce per essere notato e Porthos strinse le mani allo stomaco, si protrasse in avanti e piegò le ginocchia dal dolore lancinante.

 

“Che gli Dèi vi maledicano!”- disse, senza aria nei polmoni.

 

Il giovane lo scavalcò con un balzo felino e, rivolto verso Athos e D’Artagnan disse:

 

“Constance porta spesso i messaggi della Regina anche in ambienti come quello di Madame de Chevreuse. Può mentire, certo, ma non cadrebbe a suo favore. Si troverebbe contro troppi nobili. Una lettera sbagliata, un messaggio di troppo e... Non sarebbe più qui con noi a spiegarci come stanno veramente le cose. Per quanto non possa fidarmi di chiunque, viste le mie conoscenze, la trovo di sicuro più affidabile della vostra Milady!”- concluse il giovane.

 

“Non mi fido di lei. Non mi fido del guascone. Non mi interessa affatto cosa capiti alla Regina spagnola. Mi fido a mala pena di voi, delle vostre parole. Di quello che avete appena pronunciato. Vendetta. E vendetta sia.”- Athos prese la spalla del compagno e gli strinse la mano.

 

Il terzo moschettiere si riprese dall’urto. Una volta che D’Artagnan, Aramis ed Athos presero la decisione di aiutare la ragazza, Porthos rivalutò l’offerta di Constance: un ricevimento di corte dove la Regina e il Re avrebbero fatto il suo nome. 

Vestiti giusti e gente giusta: lussi sognati da una vita.

 

“Prendete le vostre cose, partiamo ora!” 

 

Porthos corse subito in camera a preparare le valige.

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Capitolo 12
*** 12-Château Gaillard ***


 

Capitolo 12

Château Gaillard

 

Il cavallo ramato camminava di buon passo. Le porte della città erano ormai lontane, la campagna aperta favoriva un buon galoppo. Al contrario degli altri, il giovane non cambiò il passo e non spronò il suo equino. 

 

In effetti, D’Artagnan non poteva chiedere di più di quanto il suo ronzino avesse già dato. Due persone sulla sella erano già uno sforzo e un carico sufficiente per un cavallo che aveva da poco attraversato tutto il regno, da parte a parte.

 

Apprezzó l'orizzonte cambiare, le case diradarsi, lasciare spazio al verde della campagna, la Senna farsi sia rada che intensa con le sue strette curvature contratte e adornate dalle colline circostanti.  

 

I tre uomini di un tratto più avanti, avevano già preso il galoppo ed erano quasi scomparsi all’orizzonte. Loro tre avevano con se il materiale, esperienza e gli strumenti sufficienti per quel viaggio.

 

D’Artagnan si chiedeva ancora come mai le loro borse e il loro tascapane potevano essere così miseri. A giustificarli, sembrava fosse stata l’esperienza di alcune missioni precedenti e di quegli anni passati tra le schiere dei moschettieri della Guardia Reale. 

 

Oltre tutto, gran parte dello spazio nelle loro sacche era occupata da armamenti, polvere da sparo e ciò che lui riteneva frivolezze, come liquori, olii, una sorta di punte metalliche e strane stoffe lucenti che spuntavano dagli angoli delle loro sacche. 

 

Constance aveva con se sufficiente denaro, documenti e lasciapassare necessari per due persone. Gli altri tre avrebbero trasportato gli strumenti per il viaggio, ogniuno indaffarato con la sua parte, Athos aveva caricato polvere da sparo, armi, munizioni e bottiglie di liquori, Porthos trasportava vesti e viveri, Aramis aveva alcuni libri, testi dai caratteri apparentemente incomprensibili, punte metalliche, bottiglie d’olio, e tutto ciò che riteneva necessario per accendere un fuoco, bollire l’acqua e bere la sua dannata bevanda.

 

La ragazza era stata assegnata a D’Artagnan con un voto di maggioranza. 

 

Non che a lui fosse stata data altra scelta: i tre all’unisono avevano stabilito che sarebbe stato lui ad occuparsi di lei. Neppure Aramis, neanche lui che aveva fatto tanto per difenderla ed imbarcare tutti gli altri in questa particolare missione, voleva veramente avere a che fare con lei. 

 

In effetti, la bellezza, l’eleganza o l’ampia cerchia di conoscenze di mademoiselle Bonacieux, potevano compensare la casualità della follia. 

 

 L’esperienza appena trascorsa non era stata certo apprezzata dal povero ragazzo.

 

 L’aiutò con la cautela e il timore di dire o fare qualche cosa che potesse scatenare di nuovo la sua rabbia, a suo parere, scaturita senza ragione apparente.

 

Un altro passo falso, un’altra idea insensata nella sua bella testa bionda e quell’incantevole creatura si sarebbe forse trasformata di nuovo in una miscela sproporzionata di rouge, capelli, lacrime ed unghie.

 

Avrebbe forse potuto scatenare su di lui tutte le ire di qualche ora prima?

 

Anche durante la notte in cui si erano visti per la prima volta, la bella era pronta ad attaccarlo. Eppure non lo fece. Addirittura si offrì di aiutarlo, in precedenza, seppur non per la giusta causa. 

 

Quella della ragazza non era una promessa, ma una minaccia.

 

Che non fosse la sua follia in realtà dettata dalla parola? La sua rabbia scaturita da una promessa non mantenuta? Era dunque più una ragazza rapita da quegli attimi di follia, oppure una donna di fiducia che mantiene la parola data? 

 

Era passato già diverso tempo e i due non si erano ancora rivolti la parola. Non che D’Artagnan volesse rischiare di nuovo la salute e la vita aprendo bocca e lei non aveva ancora parlato. 

 

Per quieto vivere, il ragazzo decise che quella era la strada giusta e il comportamento giusto, continuò a non aprire bocca. 

 

Scosso dalla furia di Constance, D’Artagnan pensò che, almeno per quel viaggio, fosse la scelta giusta credere le sue azioni, così sconsiderate, un giudizio affrettato e non parte della sua vera natura. 

 

In quel deliberato silenzio, pensò alle belle dei suoi romanzi, a come si facessero complimentare dai poeti cavalieri, a quanto belli fossero i loro sorrisi e solo una bella frase o un bel gesto bastasse a conquistarle. 

 

Per quanto il ragazzo arrivasse da un viaggio ancora più lungo di quello stavano intraprendendo, questo non sembrava altrettanto lento e noioso: c’era una collana da ritrovare, una guerra da sventare e una vendetta da compiere.

 

I tre uomini si diressero verso la costa più vicina, e già questo gli sembrò strano, visto che la costa vicina, era anche quella più lontana alla costa inglese. 

 

Per quel tratto di strada, avrebbero seguito le rive della Senna fino a Caudebec e poi avrebbero raggiunto il porto di Fécamp. 

 

Il primo contrattempo si presentò presto di fronte ai suoi occhi, nella forma dei tre equini che, allo stesso modo in cui qualche ora prima erano scomparsi galoppando all’orizzonte, così la loro immagine stanca e immobile era di nuovo ricomparsa, nei pressi di Château Gaillard, i tre combattenti, i tre impavidi viaggiatori in cerca di vendetta, si erano già fermati.

 

Si potevano notare alcuni edifici nelle vicinanze, tra questi una taverna.

 

Aramis discuteva alcuni dettagli ai cenni pensosi di Athos. Porthos non era con loro, ma non doveva essere troppo distante, visto che il giovane teneva le redini di entrambi gli animali.

 

“Non possiamo fermarci a Rouen. Quindi meglio fermarsi qui”- disse Aramis.

 

“Rouen? Come mai?”- chiese Athos.

 

“Caudebec, Fécamp. Caudebec di notte, Fécamp di giorno”- spiegò il giovane.

 

“Sciocchezze! Conoscete questa zona come il palmo della vostra mano!”

 

“Appunto. Come vi ho detto. Caudebec.”

 

“Voi stesso avete sempre consigliato a tutti i viaggiatori in partenza per la Normandia di fermarsi a Rouen e Harfleur. Avete sempre detto che a Rouen i vostri padrini hanno terra e dimora... D’Herblay? Giusto?”- chiese Athos, ma Aramis scosse la testa.

 

“Chi vi ha mai detto che i miei padrini siano della mia stessa famiglia?”- chiese il giovane con fare preoccupato.

 

Porthos uscì dalla taverna e li raggiunse, aggiustando velocemente le sue vesti.

 

“Appunto. Ci fermeremo qui. Proseguiremo per Caudebec.”- continuò Aramis, rivolto agli altri due.

 

“Non ho obiezioni!”- aggiunse Porthos.

 

Dicendo così, l’uomo prese i suoi compagni per le spalle li invitò ad entrare con lui nella taverna.

 

D’Artagnan e Constance li seguirono a debita distanza.

La ragazza incrociò lo sguardo di lui con la coda dell’occhio e, rimanendo zitta com’era stata durante tutto quel tratto di strada, prese il suo braccio e lo invitò a seguire gli altri. Quando non presa dalla follia, le maniere della ragazza rimanevano ancora affascinanti come quel pomeriggio di qualche giorno prima.

 

Qui, Porthos era atteso ad un tavolo pieno di persone, per la maggioranza uomini, intenti a bere, mangiare e celebrare a modo loro una giornata che volgeva al termine. Aramis si avventò sulla spalla del suo compare, fissandolo negli occhi.

 

“Che vi è venuto in mente? Piantare grane proprio qui?”- disse sussurrando, ad alta voce.

 

“Che dite! Questi sono solo buoni amici! Vedete! Brindano insieme! Brindiamo con loro!”- sorrise il moschettiere, alzando il calice.

 

“A Richelieu!”- pronunciò l’uomo di fronte a lui.

 

I sorrisi dei tre combattenti si avvizzirono in un’espressione mista a disgusto e stupore.

 

“Ri... Cosa?”- chiese Porthos perdendo immediatamente confidenza.

 

“Richelieu.” - disse un altro uomo del gruppo.

 

“Avreste dovuto brindare prima al nostro Re. La testa viene prima della croce.”- spiegò Aramis mostrando una moneta.

 

“Avreste dovuto brindare prima alla Francia! L’elmo prima della spada!”- lo corresse Athos, rigirando la stessa moneta.

 

“Che sia la testa, di Richelieu o la croce che lo adorna poco importa! Sempre di Richelieu parliamo!”

 

“Affatto!”- gridarono i tre uomini alzandosi dal tavolo, mostrando le impugnature delle loro armi in segno di minaccia. 

 

Gli uomini al tavolo erano molti di più. Si alzarono, uno ad uno, affatto intimoriti, mostrarono le impugnature delle loro armi e li accompagnarono silenziosamente al di fuori della locanda.

 

D’Artagnan continuava a seguire quella scena con la meraviglia di qualcuno che di solito è abituato ad annuire e andare avanti. Nonostante i tre non fossero in alcun modo legati alle sorti del loro Re, il loro spirito era nel posto giusto, i loro cuori erano, a suo avviso e in quel momento, esattamente dove dovevano essere. 

 

Impugnò la lama del suo spiedo, i suoi piedi strepitarono, pronti a raggiungere gli altri.

 

Incontrò nuovamente lo sguardo di Constance in cerca di conferme e, anche lei, come lui, era ammaliata dalla stessa irriverente e preoccupata curiosità. Seppure pervasa dal senso di pericolo, la giovane dama prese di nuovo il braccio del ragazzo, ma posò la sua mano su quella di lui ed il suo spiedo, quasi a trattenerlo dal fare azioni avventate.

 

Anche loro uscirono dalla taverna.

 

Questa volta la ragazza strinse il braccio del giovane a se, non era soltanto la cortesia a motivare i suoi gesti.

 

D’Artagnan sapeva come funzionavano certi tipi di duelli. Specialmente quelli sulla parola: i combattenti mostravano le armi che avrebbero usato, i combattenti si sarebbero trovati in un posto sicuro, al di fuori di persone innocenti, avrebbero trovato un combattente da secondo e i loro testimoni. 

 

Tuttavia, una volta all’aperto, già nel pieno della notte, al di fuori di qualsiasi cortesia, Porthos si trovò contro i rapieri di quattro uomini e Aramis, che si era offerto da secondo, altri tre.

 

La forza del primo e l’agilità del secondo tennero testa alla maggior parte degli uomini, con Aramis pronto a balzare in avanti, distraendo gli avversari e Porthos a proteggergli le spalle, attaccando gli offensori in guardia verso un altro combattente.

 

Athos ancora ferito, rimase nell’ombra. Tuttavia, gli uomini coinvolti nella rissa cadevano uno ad uno, distratti e impegnati dagli altri due, come colti in una trappola invisibile.

 

Avvenne tutto in modo così veloce, l'oscurità non aiutava il ragazzo a capire cosa stesse succedendo, Constance si era avvinghiata a lui e non lo avrebbe lasciato andare, ma D’Artagnan non poteva rimanere con le mani in mano. 

 

Provò a farsi avanti, ma Athos glie lo impedì.

 

Ci fu lo scoppio di un unico sparo da parte del gruppo, la presunzione degli uomini di aver a che fare con degli avventati, inesperti compagni di ventura, ma non fu seguito che dalle urla di dolore e sorpresa, lo scoccare e saettare di dardi invisibili nel buio della coltre notturna. 

 

Non ci furono altre esplosioni e uno ad uno, gli uomini batterono in ritirata gridando insulti ad ognuna di quelle strisciate.

 

La risata acuta di Aramis fu presto trovata dalla sua luce di lanterna, il giovane imbracciava una piccola balestra e mirava con abilità ai suoi avversari con l’uso di una sola mano.

 

“Santi numi! Il mio cavallo!”- esclamò Porthos.

 

Quel colpo di proiettile era purtroppo andato a segno.

 

La creatura, massiccia, lucida e muscolosa, giaceva a terra. Respirava ancora, ma faticosamente, stava perdendo sangue e non sarebbe sopravvissuta alla notte. 

 

Porthos si avvicinò e si inchinò al lato della bestia, non pianse, ma l’espressione di tristezza nel suo volto era dettata sia dall’amore speso per le sue cure, che il denaro pagato per gli allenamenti. 

 

Alzò la lanterna e chiese agli altri di aiutarlo. Questi obbedirono in silenzio, lasciando Constance alla veglia delle briglie del cavallo ramato, una lanterna e gli altri due equini.

 

Proprio alzando la luce verso i tre uomini indaffarati alle cure dell’animale e al trasporto dei materiali sulle altre selle, D’Artagnan si accorse che qualcos’altro era successo durante quel combattimento. 

 

“Aramis! Siete ferito!”- esclamò alzando la lanterna e notando meglio il taglio al braccio, non poteva distinguerne il sangue, tra le vesti scure del farsetto e la mantella, ma i tessuti più chiari al di sotto erano divenuti bruni e rossi ai colori della ferita.

 

“Il Cavallo di Porthos!”- gridò il giovane, indicando l’animale.

 

“State sanguinando!”- D’Artagnan si avvicinò istintivamente al giovane e controllò il taglio nella giacca, si poteva notare qualche cosa, ma era tutto troppo buio si sarebbero dovuti fermare ad un’altra locanda. Di certo non la taverna che avevano appena lasciato. 

 

Athos e Porthos contiuarono ad assistere il cavallo, come esperti e abituati al comportamento del giovane.

 

“Non badate a me, ma all’innocente creatura di Dio che... Non toccatemi!”- disse Aramis, allontanandosi dalle mani e dalla lanterna del ragazzo.

 

“Ma, il sangue, la ferita, il taglio...”- disse D’Artagnan preoccupato per le sorti del giovane.

 

“Vi ho detto di non toccarmi, piuttosto pensate al cavallo!”- disse svanendo tra le ombre della notte.

 

“Aramis...”- chiamò il giovane, senza risposta.

 

“Non azzardate ad avvicinarvi! Athos ha il brandy. Porthos la seta. Ho tutto quello di cui ho bisogno per medicarmi da solo. Non ho affatto bisogno del vostro aiuto! Porthos deve rivendere quel dannato cavallo prima che sia troppo tardi!”- alle parole di Aramis, quest'ultimo protestó amaramente negando le sue attenzioni.

 

“Non siate severo con il ragazzo, voi non mi avete dato scelta! Potrei fare la stessa cosa con voi! Spogliatevi! Come reagireste?”- chiese Athos.

 

“Ah! Voi! Due pesi e due misure, amico mio! Adesso siamo pari! Io sono ferito, voi siete ferito... Sfidatemi a duello: chi vince si prende il brandy!”

 

“Affatto! Non posso ancora muovere il braccio!”

 

“Appunto. Vuol dire che non siamo pari. Le mie ferite sono più lievi delle vostre!”- Aramis saltò in groppa al suo cavallo, prese la lanterna dalle mani del compagno e, senza usare il braccio ferito e si allontanò verso le altre abitazioni del villaggio in cerca di un mercante.


 

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Capitolo 13
*** 13-Fécamp ***


Capitolo 13

Fécamp


Il povero animale venne venduto, le sue sorti lasciate ad un mercante di passaggio. 

 

Gli altri due caricarono e divisero i bagagli di Porthos. 

Aramis gli concesse il suo cavallo, mentre lui alternò la camminata insieme ai suoi compari, tra i due animali sopravvissuti, abbandonando alla taverna, sia il cavallo che l’ardore del galoppo della la sera prima.

 

Non erano intimoriti, non erano spaventati da quello che era appena successo, come avrebbero potuto essere stati dopo un attacco di briganti, ma da quel punto in poi rimasero, per la maggior parte, cauti e calcolatori.

 

Fortunatamente, l’unica cosa da fare era seguire le sponde della Senna: finchè seguivano il corso dell’acqua, Caudebec sarebbe arrivata, così Fécamp. 

 

Ora che tutti i cavalli erano carichi del peso di passeggeri e bagagli, ora che due degli uomini erano feriti, fermarsi a Fécamp e procedere in barca non era più la pigra comodità di un gruppo di nobili dai tanti privilegi, ma era diventata una necessità.

 

Raggiungere il porto non fu difficile, bastava soltanto seguirne i marinai, l’odore del legno e del sale e delle alghe, il molo calmo della sera, alcuni pescherecci ritornavano da una lunga giornata, mentre altri, lanterne ancora accese, attraccavano le barche, pronti a ripartire per la pesca notturna.

 

Ai colori purpurei del tramonto, i ciottoli brillavano, bagnati dagli schizzi delle onde, gli uomini e la ragazza presentarono i lasciapassare al proprietario della nave che aveva deciso di intraprendere quel viaggio.

 

Il navigante chiese un pedaggio per ogniuno di loro ed usarono il denaro procurato il giorno prima. 

 

Constance consegnò il resto del dovuto senza neppure contare due volte. 

Avevano certo notato come tutto questo ricordava loro di Caronte e del passaggio nell’oltretomba. Alla sera, era come essere ingoiati tra le assi di quella barca, trattenuti nel suo ventre. 

 

Onde, che D’Artagnan riteneva affatto calme, scossero il pavimento instabile come se fossero sul dorso di un animale gigantesco.

 

L’acqua del mare sotto di loro, fece di poco scivolare tutti quei mobili che non erano fissi al pavimento. Era una sensazione indescrivibile, quella di una superficie apparentemente immobile eppure così viva e comandata dalle onde del mare. Una casa senza fondamenta, eternamente sul dorso di un animale irrequieto.

 

Il vascello viveva nell’acqua di Nettuno, ma da lui fuggiva galleggiando, sempre con il rischio di essere sopravvalso dalle onde. Eppure si nutriva dell’aria che lo spostava, corde e legni si lamentavano al vento e all’acqua. Marinai esperti lo domavano e facevano di lui il trasporto necessario, la loro vita, il loro sostentamento e la loro dimora. Era un essere inanimato eppure così vivo sotto le braccia esperte dell’uomo. 

 

Forse era quello che i moschettieri intendevano, parlando del suo drago?

Poteva un uomo esperto, come un esperto marinaio domare e cavalcare quella strana creatura?

 

D’Artagnan notava l’orizzonte piegarsi, la testa girare e le sue orecchie percepire quei suoni otturati. Il suo stomaco avrebbe sicuramente rifiutato qualsiasi cibo o bevanda, se ci fosse stata l’offerta.

 

Notando i volti sbiancati, gli uomini della nave spedirono i loro passeggeri immediatamente sotto coperta e li convinsero a non risalire per qualche tempo.

 

Cercarono più volte di camminare per tutta la lunghezza della barca, in modo da non notare le onde, i naviganti chiesero loro di farsi gli occhi le gambe, abituarsi in fretta al loro viaggio in mare. 

 

Per quanto il vascello non fosse abbastanza grande, D’Artagnan si annoiò in fretta di quell’esercizio. 

 

La sua camminata veloce arrivava di stiva in stiva con quelle che a lui sembravano solo un paio di falcate. Constance prese uno dei letti che riuscì a trovare e lo guardò passare di fronte ai suoi occhi stanchi per un paio di volte, ma alla terza, colta da noia e stanchezza, era già assopita in un sonno profondo.

 

La fatica era comprensibile, avevano cavalcato per un giorno e due notti, ma la curiosità del ragazzo superava qualsiasi sforzo, lo alimentava costantemente di nuova energia: dormire in quel momento era l’ultimo dei suoi pensieri.

 

Percorse un’altra volta l’intero sottocoperta, fino a che si rese conto che gli altri avevano smesso di camminare già da tempo.

 

Li trovò illuminati alla luce di una delle loro lanterne, mentre giocavano a carte.

Avevano bisogno di un quarto giocatore e, senza neanche chiedere cosa stesse facendo ancora in piedi, gli fecero cenno di sedersi con lui.

 

In un primo momento ci fu solo silenzio. 

 

Tirarono le carte senza parlare, giocarono i loro mazzi, vincendo e perdendo con l’indifferenza di chi non ha una posta in gioco. Alternando le squadre, il ragazzo rese presto conto di come, chiunque fosse il suo compagno, lo trattenesse con uno sguardo veloce, una strizzata d’occhio o un codice segreto nel quale gli rivelava quale carta avrebbe dovuto giocare. Il vincitore, sorrideva, il perdente alzava le spalle.

 

 Dettagli quasi impercettibili, eppure così chiari una volta notati.

 

Terminata e vinta quell’ultima partita, Porthos non mischiò più il mazzo e lo lasciò sul tavolo, alzando e stirando, le braccia, raggiungendo il soffitto con le dita, involontariamente, con fare quasi maestoso.

 

“Per quale ragione vorreste diventare moschettiere?” - chiese dopo un lungo respiro.

 

“Fare onore alle sorti di mio padre! ...E ritrovare quell’arnese...”- rispose D’Artagnan.

 

Porthos fece un cenno ad Aramis, anche lui, come Athos, aveva capito subito di cosa stavano parlando.

 

“E voi? Per quanto tempo siete stati arruolati nei moschettieri?” 

 

“Di noi, io fui il primo, Aramis l’ultimo, da poco meno di un lustro”- disse Porthos.

 

“Quali ragioni vi portarono alle vostre schiere?”- chiese di nuovo D’Artagnan.

 

I tre incrociarono i loro sguardi con il sorriso di coloro che avevano passato insieme altri duelli ed altre battaglie, in un tempo lontano.

 

“La mia famiglia era troppo povera per sfamare un’altra bocca. Quasi non ricordo il volto dei miei fratelli minori. Baroni, certo, ma non avevamo terre. I miei padri conobbero la guerra e così fu per me. Non appena la possibilità si presentò la colsi al volo, sempre al fronte, sempre in battaglia. Quasi figlio della polvere da sparo. Tamburino al principio, per un fronte e un’altro, fino a che non incontrai il Capitano de Treville e mi arruolai nella guardia reale. Tuttavia non mi voltai più indietro.”- disse Porthos.

 

Il silenzio e la calma della nave, cullarono gli uomini nei loro ricordi del passato, quasi senza accorgersene, Athos cominciò a parlare.

 

“Al contrario! La mia famiglia era sufficientemente ricca e potente da poter permettere sia a me che ai miei fratelli dimora e terre in egual misura. Prima di essere educato all’arte della guerra, fui educato alla diplomazia della pace e l’importanza di alleanze potenti e durature. Oltretutto il mio casato era in buone alleanze con il Duca D’Orleans. I miei avi e i miei padri hanno sempre bilanciato con maestria i rapporti tra il sovrano e i suoi presunti eredi. Per lo meno, prima di Richelieu. Governare su quelle terre sembrava, nella mia infanzia, un fatto certo. Come tutti i nobili di quei tempi, come succedeva ai rampolli di successo a Corte, avrei ereditato le tenute, avrei trovato moglie, avrei servito il nostro re. Proprio allo stesso modo di molti altri nobili al servizio della famiglia reale... Fino a che una notte...”- disse, nel completo silenzio e stupore di tutti gli altri.

 

L’uomo prese fiato, le sue parole guadagnarono confidenza. Nessun bicchiere e nessuna bottiglia nei paraggi, niente lo tratteneva.

 

“Ricevemmo notizia di uno di questi nobili, un marchese, il suo erede fu ucciso e rapinato! Un attentato nel pieno della notte! Spodestato, non più difeso, ma mandato in esilio! La sua famiglia perse tutto da un giorno all’altro: la sua futura sposa impazzita e morta di dolore! Era un uomo buono, alleanze che i miei stessi avi ritenevano tra le migliori, eppure tutto rovinato da un giorno all’altro!”

 

Aramis sembrava prestare ancora più attenzione, tirò un lungo e involontario sospiro, lo osservò a bocca aperta, occhi sbarrati dallo stupore, senza parlare.

 

“I vostri padri non devono averla presa bene se eravate nei favori della gente sbagliata...”- commentò Porthos.

 

“Bastava così poco: oggi dalla parte di Giove anzichè Giunone... Domani chissà! Dopo quella rapina fui raccomandato subito a Parigi, come esempio di fedeltà al regno. Allora dalla parte di Giunone: Maria de’Medici.”- Athos continuò il suo discorso e, al nome della Regina Madre, Aramis annuì.

 

Anche se il giovane non aveva ancora detto nulla, Athos guardò Aramis come se in quel momento avesse aperto bocca e parlato in favore della sovrana in esilio. Puntò in alto, come per specificare una cosa più importante.

 

“Badate! Ci volle poco, un attimo, per essere dalla parte sbagliata! Io non sono e né mai voterò a Giove, Giunone, Apollo, Richelieu, la Regina Anna e neppure quella pazza della Regina Margot!”- disse Athos rivolto ad Aramis, rimasto completamente senza parole.

 

D’Artagnan sorrise e Porthos applaudì orgoglioso a quelle parole.

 

“Haha come il monte a cui nessuna donna è concesso di entrare, così nessuna regina prenderà il posto della Dea bionda! La Francia! Giusto! Bravo! Fate fede al vostro nome di battaglia!” 

 

“E voi?”- disse poi, rivolto all’ultimo moschettiere.

 

“Il mio padrino...”- Aramis si interruppe in una lunga pausa dove solo il silenzio, le assi della nave e la fiamma della candela, esprimevano di più di quanto potesse fare la voce del giovane. Tragedie, storie ed avventure riemersero nella sua memoria, corsero di fronte ai suoi occhi per essere catturate finalmente dal suo lungo sospiro, ma nulla scaturì dalle sue labbra.

 

Per quanto sperasse quel discorso concluso con una semplice risposta, l’attenzione di tutti era ora, e ancora, puntata su di lui.

 

“D’Artagnan, voi siete stato folgorato dalle vostre idee in Guascogna, voi Porthos, avete deciso per il vostro destino nella vostra infanzia. Voi Athos, avete fatto una scelta tra gli Dèi. Siete stati fortunati. Che ne fu di colui a cui fu concessa solo un’unica strada?”- chiese lui.

 

Altro silenzio lo costrinse a parlare ancora.

 

“Giunta l'ora e stabilito il giorno...  Non mi presentai. La mia famiglia mi ripudiò, il mio padrino in Normandia aiutò il mio passaggio al seminario: da lì, il fronte fu il mio dovere.”

 

I due moschettieri risero.

 

“Avete lasciato la vostra sposa all’altare per farvi prete?!”- chiese D’Artagnan con meraviglia.

 

“Era un matrimonio senza amore! Con una persona sconosciuta!”- ribatté il giovane, stringendo i pugni, i suoi compagni non avevano affatto preso il suo discorso seriamente.

 

“Avreste almeno potuto prendere la dote prima di scappare!” -gli ricordò Porthos.

 

“Alla vostra età non mi curavo affatto di questi affari! Credete davvero così tanto nell'amore da rinunciare al vostro destino?”- gli chiese Athos.

 

“Prendete me ad esempio! Ingannato e avvelenato dalla donna che amavo! Prendete D’Artagnan! Accusato ingiustamente di un furto che non ha mai commesso!”- spiegò lui, ma Aramis scosse la testa.

 

“Nel dono dell’amore, gli Dèi ci donano il coraggio...”

 

Aramis portò il piede al bordo della sedia, un ginocchio avvolto dalle sue stesse braccia, guardò verso l’alto, quasi come se, al posto delle assi della nave, potesse vedere un cielo coperto di stelle.

 

***

 

Londra appariva oscurata dall’ombra del catrame usato per trattare il legno dei ponti, le fondamenta delle case, i pavimenti delle barche. 

 

Catrame invecchiato, catrame nuovo, lucido e appiccicoso, strati su strati, per impedire alla ruggine e alle intemperie di rovinare qualsiasi cosa ci fosse stato sotto. Tuttavia, quelle mani su mani di pece nera, rendeva tutto quanto spesso, oscuro e irriconoscibile. 

 

La città ne sembrava completamente ricoperta. Le case ne erano verniciate, i ponti, il metallo delle catene tutto si perdeva in quel preparato oleoso.

 

L’aria era pesante ed umida, il calore di un alba incerta era a malapena percettibile.

 

Il Tamigi scorreva piatto e lento ai remi delle barche, alle vele delle navi, che rallentavano e attraccavano ai vari moli della Whair, Cole, Southwark, il capitano del peschereccio conosceva i loro nomi in dettaglio e sapeva dove fermarsi, ma agli occhi di D’Artagnan tutti quanti gli sembravano solo altri arroccamenti di edifici in legno e altrettanta pece.

 

All’orizzonte, oltre il catrame, oltre il legno, oltre le case dei fitti quartieri, le strade strette, forse si apriva di nuovo il verde della campagna, appena visibile. Un orizzonte piatto e bianco, non troppo diverso da quello che ricordava aver lasciato entrando a Parigi, tuttavia ora così lontano. 

 

Da lì una cappa di nubi cariche si rompeva e scrosciava al suono dei tuoni e alla vista dei fulmini.

 

“Residenza del Duca di Buckingham?!”

 

Il capitano dell’imbarcazione rise.

 

“Non vorrete di certo attraccare a Howland!”

 

I tre non avevano abbastanza risorse per fare quella richiesta, Constance li osservò con impazienza. D’Artagnan scrutava all’orizzonte, in cerca di qualche cosa almeno vagamente familiare.

 

“Temple Bar?”- Chiese Athos, come se non fosse stata la prima volta in quella città.

 

“Mai al mondo! Ma se ci tenete ad essere lasciati all’altra sponda del Ponte di Londra, vi accontenterò!”- disse il navigante, stringendogli la mano.

 

Come se il catrame non fosse stato abbastanza, la vista del Temple Bar era uno spettacolo agghiacciante. 

 

Teste dei prigionieri condannati alla Torre di Londra bollite, impalate e ricoperte di pece davano il benvenuto ai vascelli che entravano in città.

 

Un monito per tutti coloro che, in un modo o nell’altro, avevano scatenato le ire del sovrano o i suoi Lords più fidati.

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Capitolo 14
*** 14-Londra ***


 

Capitolo 14

 

Londra

 

Il vascello attraccò al molo coperto di gabbiani. Per qualche tempo, le loro ali e i loro versi sopravvalsero il vociare della gente, il gridare dei mercanti e il martellare dei fabbri.

 

I naviganti diedero loro le indicazioni per la porta e la dogana, gli uffici che avrebbero dovuto attraversare per avere accesso in città.

 

Una città caotica e brulicante di vita, una sorta di formicaio indaffarato su se stesso, cunicoli, strade, fornaci. Una vampata di odori nuovi e sgradevoli riempirono le narici di D’Artagnan.

 

Un pensiero oltrepassò la mente del ragazzo: come potevano tutti quei mercanti procurarsi i beni venduti così in fretta? Dove tenevano tutte le galline per le uova, le pecore per la lana e le vacche per il formaggio? Così tanta gente, ha bisogno di altrettante cose ed animali, così tanti animali hanno bisogno di cibo, campi: abbondanza che andava processata.

 

Un altro pensiero, ancora più puzzolente e imbarazzante prese la sua mente... Dove andava a finire tutto il resto? Con quel pensiero, la conseguenza che dietro qualche cosa di perfetto e laborioso, dietro la meravigliosa cattedrale ci fosse comunque la naturalezza dell’umanità: il marmo perfetto è comunque costruito da mani e spalle fatte di ossa, carne e sangue.

 

Pensò all’agire di persone perfette, impeccabili, dall’apparenza fin troppo curata, da sembrare quasi inumane, statue, macchine, quando queste fossero lasciate a loro stesse. A come avrebbero potuto nascondere la loro umanità dietro un’apparenza di perfezione.

 

Se ci fosse stato Planchet, forse lui avrebbe saputo rispondergli, senza un attimo di stupore, in tutta la sua pratica esperienza, senza mostrare imbarazzo. Come nel naturale ciclo della vita in cui qualunque cosa possa essere destinata ad un inizio ed una fine, per scoprire come in mezzo possa esistere la natura, la bellezza e la bassezza della vita terrena.

 

Però non se la sentiva di porre quella domanda agli sguardi attenti di Constance o il rapière e gli stivali lucidati di Aramis. 

 

Porthos ed Athos sembravano infatti rispondere ai suoi pensieri con molta più umanità, riconosceva se stesso in loro e le loro necessità: la barba incolta, il sonno o la fame, dimostravano infatti, come cavalieri, nobili e combattenti potessero essere esseri umani come tutti gli altri.

 

“Lasciapassare?”- disse un ufficiale di fronte a loro.

 

I tre uomini mostrarono i loro documenti di viaggio.

 

Anche Constance mostrò un lasciapassare con i sigilli reali. Questo le dava la possibilità di viaggiare al servizio della Regina, accompagnata da un interprete o un difensore. 

 

D’Artagnan non poteva essere il suo interprete, ma si offrì di essere il suo difensore. Nel caso ce ne fosse stato il bisogno.

 

Fino a quel momento Constance, per quanto potesse dimostrarsi forte e determinata, durante quel viaggio si era comportata in modo del tutto differente: al contrario dei tre uomini era stata lei la prima a trattenere il braccio di D’Artagnan perché non partecipasse a quel combattimento. 

 

Durante il viaggio era stata lei la prima a prendere il letto e addormentarsi profondamente. Non faceva domande e non destava incertezze. Ricca e organizzata, osservava attenta la mappa di D’Artagnan, come se fosse stata la sua e, al pari di Athos, i suoi occhi avevano lo stesso tipo di turbamenti per quanto riguardava la guida di Aramis e l’affabilità di Porthos.. 

 

La sera prima non si era attardata ad ascoltare le avventure dei moschettieri, per lo meno, aveva forse provato ad ascoltare in silenzio. Nessuno l’aveva interpellata e lei non aveva parlato. Per quanto avesse avuto l’iniziativa di presentarsi alla dimora dei moschettieri e fare tutto quel folle baccano, D’Artagnan si rese presto conto che aveva comunque chiesto prima il permesso e l’autorizzazione della Regina. 

 

Al suo risveglio, lasciò la stiva cercando di non svegliarli e senza dire parola. 

 

Salì sul ponte, si guardò attorno, assaporò l’aria nebbiosa di quella mattina bagnarle la faccia e, in tutta la sua naturale bellezza, si sistemò leggermente capelli e corsetto, pronta a ripartire di nuovo. Neppure lei o D’Artagnan erano i primi svegli a quell’ora. Qualcun altro, oltre ai naviganti, sedeva sul ponte ed osservava fisso la nebbia diradarsi ai raggi dell’alba... Oppure non si era addormentato affatto.

 

Aramis guardò nella nebbia, in cerca dell’orizzonte in lontananza e successivamente si soffermò su i due ragazzi, stivali lucidati sul parapetto della nave, la brezza nei capelli, barba rasata così corta da non sembrare mai cresciuta. Il giovane era stato ferito in combattimento, e neppure il suo farsetto non sembrava essere stato strappato. Stringendo lo sguardo, il ragazzo notò come il giovane aveva avuto addirittura il tempo di ricucire la lana e di come i suoi occhi mostrassero davvero i segni di una notte insonne.

 

Quel viaggio aveva cominciato a tirar fuori il meglio ed il peggio da tutti quanti.

 

Le guardie controllarono i loro volti e i loro lasciapassare. 

 

Documenti che avevano sempre considerato del tutto utili e validi, fino a quel momento, che avevano richiesto tempo prima per attraversare altri regni, altri ducati, stati e repubbliche d’oltralpe, e che ai tempi non avevano dato adito ad alcuna preoccupazione. Se il documento non era accettato, allora bastava aumentare la posta con i fiorini, i baiocchi o i ducati di quel regno. 

 

Non sembrava che gli ufficiali fossero disposti ad essere corrotti. Questo li faceva apparire onorevoli agli occhi degli altri uomini, ma in quel momento l’onore e la lealtà alla legge e al regno era l’ultimo dei loro pensieri. Desideravano proprio avere a che fare con gente disonesta e disonorevole, capace di essere corrotta con poco, molto meno di quello che potessero offrire.

 

I tre combattenti presero dunque la via onorevole. In un attimo si trasformarono in soldati del fronte, proprietari terrieri e messaggeri di Dio. 

 

Quanto ad onestà, nulla valse l’eleganza di Porthos, il rigore di Aramis o la sorprendente eloquenza della sobrietà di Athos, ancora di più per quella lingua straniera. 

 

Le guardie avevano un mandato contro due uomini. 

De la Fère, Du Vallon: Incarcerazione per vie politiche al semplice sbarco.

 

Non solo non furono lasciati entrare alla porta della città: furono legati, arrestati e trasportati via da due ufficiali.

 

“Non è possibile! Non ho mai messo piede a Londra! Non sappiamo di cosa state parlando! Crimini di Stato? Come, quando e dove?!”- disse Porthos, rivolto alle guardie. 

 

Tuttavia la carta non mentiva: gli ufficiali avevano un mandato per i due uomini, ma non avevano una chiara ragione. Alle domande di Athos, gli ufficiali dichiararono entrambi prigionieri politici. 

 

All’inizio, Constance e D’Artagnan aspettarono annoiati che quelle incomprensioni venissero presto chiarite, ma tutto risultava scritto a chiare lettere.

 

Con l’avanzare del giorno, porto in lontananza si era fatto, se possibile, ancora più rumoroso, il vociare continuo. Quel viaggio in mare era stata una strana novità per il giovane ed il suo corpo, non abituato alle onde e ne stava ancora pagando le conseguenze.

 

Da principio videro arrivare Aramis, che non era stato arrestato con gli altri, però esitava il passo e continuava a correre avanti e indietro tra le guardie, cercando di capire qual’era il problema e di trovare una soluzione per tirare fuori i suoi compagni dal fermo. Cominciò a protestare e discutere come meglio poteva, catturando le ire e l’indifferenza degli ufficiali.

 

Col passare del tempo, D’Artagnan intuì che il giovane non sarebbe mai arrivato: sarebbe rimasto con loro, al costo di essere arrestato lui stesso.

 

Forse, stringendo gli occhi, il ragazzo potè distinguere nell’immensa cattedrale che si ergeva nel mezzo della città, sulle case e i quartieri indaffarati, il ricordo di un ombroso picco montano, circondato da rocce e arbusti. 

 

In quella città così confusa e caotica, non c’era più nulla che non fosse stato costruito dall’uomo. I fuochi dei fornai e dei fabbri illuminavano la coltre di edifici, divenuti indistinguibili gli uni dagli altri. 

 

Lasciò la fantasia divagare in quei ricordi e non pensare di essere davvero in una città carica di persone, sconosciuta e senza nessuno, a parte Constance, con cui potesse comunicare.

 

Constance si rivolse silenziosa verso D’Artagnan. Lo notò cercare di nuovo la sua vista e il suo equilibrio, dopo quel viaggio. Scosse la testa e portò le mani ai fianchi: doveva tirarsi fuori da quella situazione. 

Non aveva il tempo per osservare chiese o cercare avvocati: il suo compito era quello di trovare la collana e riportarla in Francia, chiunque l’avesse presa doveva restituirla.

 

Di certo, trovò onesto e sincero il comportamento di D’Artagnan, trovò interessante ed onorevole il comportamento dei moschettieri. Tuttavia, neppure lei conosceva quella lingua e quel regno del tutto diverso. 

 

Aveva ancora una possibilità sugli altri e, presa dall’ultimo barlume di speranza, si avvicinò nuovamente ad una delle guardie che vegliavano le porte della città e disse:

 

“Abbiamo un messaggio da parte di Madame de Chevreuse!”- mentendo.

 

L‘ufficiale li guardò, la sua espressione si fece più distesa, non più seria come alla lettura dei documenti dei compagni, nessuno parlava un francese comprensibile alle loro orecchie e tantomeno D’Artagnan o Constance conoscevano la lingua.

 

“Chevreuse?”- chiese la guardia.

 

“Chevreuse!”- disse di nuovo Constance. La giovane annuì, battendo le mani in quella breve gioia di aver trovato un punto di comunicazione con gli ufficiali.

 

L’uomo prese un foglio di carta e lo lesse a voce alta, in un francese sommario.

 

“Chi amò Madame de Chevreuse?”

 

Constance esitò, strinse lo sguardo e sembrò come se stesse sfogliando un libro delle sue memorie. 

 

Guardò verso il soffitto, aggrottò le sopracciglia e passò le dita sulla sua bocca, emise un suono che ricordava quello di qualcuno pronto a recitare una frase che non ricordava da tanto tempo. 

 

Chevreuse amò Holland. E Holland amò lei...”- disse con vaga insicurezza.

 

La guardia lesse di nuovo la carta che aveva tra le mani, sempre come se stesse osservando dei caratteri a lui completamente sconosciuti, annuì, si allontanò per qualche minuto e ritornò con un cocchiere, lo presentò a Constance e in pochi minuti erano già fuori dalle mura della fortezza, avevano attraversato le porte della città, in una carrozza alla volta di una meta sconosciuta.

 

Una volta arrivati ad un palazzo ricchissimo, possibile dimora di un Re o un altissimo ministro, i due cocchieri si inchinarono alla giovane e le fecero cenno di entrare.

 

A tutto questo, D’Artagnan rimase a bocca aperta.

Non capì cos’era appena successo, sembrava stesse parlando di una donna misteriosa e potentissima, che ottiene sempre i suoi voleri e che il solo nominarla apriva porte e svarcava i confini dei regni.

 

“Constance... Chi è  questa Madame?”- chiese, cercando di togliersi da quel senso di meraviglia.

 

“Non so! Non l’ho mai vista!”

 

“Come?! Mi avete portato alla sua dimora! Portate i suoi messaggi a Corte! Consegnate i suoi messaggi avanti e indietro e non l’avete mai vista?”

 

“No. E’ in buoni rapporti con la Regina Anna e con Bloise... Rispetta i voleri del Re e non ne vuole sapere di Richelieu. Oltretutto sembra avere dei buoni rapporti con gli ambasciatori stranieri. Non vi basta?”

 

“Ma Aramis...”

 

“Aramis chiede di lei esattamente come tutti gli altri, Chevreuse manda messaggi a lui come a tanti altri personaggi a Parigi. Apparentemente ce ne sono diversi di cavalieri a cui devo schiaffeggiare le mani, invece di portare un vero e proprio messaggio. Aramis è soltanto uno dei tanti. Alle volte mi domando come faccia”- Constance sospirò. 

 

“Chi?! Aramis o Madame de Chevreuse?”

 

“Entrambi.”- la ragazza osservò il panorama con la noncuranza e la sicurezza di qualcuno che aveva ottenuto il suo volere e sapeva già dove quella carrozza sarebbe andata a finire.

 

***

 

La dimora del Duca di Buckingham era immensa e ricchissima, proprio come il palazzo di un sovrano.

Tuttavia il cocchiere non si avvicinò all’edificio, ma si fece spazio tra la tenuta ed un bosco artificiale, dove un gruppo di uomini stavano allenando i loro falchi per la caccia.

 

Fu proprio il Duca a raggiungerlo ed introdursi per primo. Vestiti da caccia e lo spallaccio da falconiere, proprio come il giovane anche lui cercava di rivedere la città sotto un’altra prospettiva: quella della lontananza.

 

“Mi ricordo di voi! Giovane Conte de Batz! Un piacere ritrovarvi qui! Cosa vi porta al mio palazzo?”

 

Il ragazzo si tolse il copricapo e si inchinò profondamente al cospetto ministro. Rialzandosi, si rivolse verso Constance e disse:

 

“Una collana di diamanti, dono del Re alla Regina.”

 

“Oh so bene di cosa state parlando! Una collana divina, per sempre nella mia memoria...”- disse trasognato, preda di un sorriso troppo aperto per essere vero.

 

Una donna inglese si presentò al Louvre e chiese la mia scorta. Proprio durante la notte la collana della Regina sparì. Come ambasciatore d’Inghilterra in Francia, mi aspettavo che voi sapeste dove si possa trovare questa persona. O questa collana.

 

Il Duca sospirò.

 

“La terra di quest’isola non può certo confrontarsi con le ricche e fertili terre di Francia, ma come sapete, abbiamo fatto di necessità virtù e nei quattro mari che ci circondano, le nostre navi non hanno uguali e le nostre genti sono sparse in tutto il vecchio e nuovo mondo. Non potete chiedermi nuove di una donna inglese, allo stesso modo come potreste con una ragazza della Guascogna!”

 

Al suo sorriso, perfino Constance ebbe un sussulto, ma D’Artagnan non si perse d’animo.

 

“Non può essere una donna qualsiasi: è una donna nobile e ricca, una Contessa! Ha una servitú al seguito. E’ una donna che ha girato il mondo e parla tante lingue! È una donna che ha amato colui che non avrebbe potuto amare.”- anche le parole di D’Artagnan colpirono l’attenzione della giovane, ma in tutt’altra maniera.

 

Gli angoli della bocca del Duca si ritrassero in un’espressione più seria.

 

“Ditemi di più.”

 

“Ha i capelli chiari in lunghi boccoli e gli occhi verdi di smeraldo, è minuta, le mani come quelle di una bambola di porcellana, parla bene il francese...”

 

Il Duca rise.

 

“Sono desolato, non so proprio di chi state parlando. Un viaggio così lungo per non ottenere assolutamente nulla. Addio, mio giovane Conte de Batz!”

 

L’uomo voltò le spalle ai due ragazzi e fece cenno alla servitù di riaccompagnarli da dove fossero venuti.

Con un movimento del braccio richiamò il suo falcone, che arrivò in un tormento di penne ed ali, costringendo D’Artagnan ad allontanarsi.

 

Il Duca corse via, ma voltandosi per un momento, li salutò gridò verso la carrozza, dicendo:

 

“Porterò i vostri saluti ai vostri compari!”

 

Quella frase, alle orecchie del ragazzo, aveva il sapore della menzogna, e l’odore di città, ma a quel punto lui e Constance furono allontanati da quel palazzo senza poter ribattere. Destini segnati.

 

Constance affondò nel sedile della carrozza, il suo silenzio fu accompagnato dalla sua assenza. 

 

Quella sicurezza tanto ostentata, sopraffatta dall’umanità dell’errore. 

 

***

 

Il Duca di Buckingham sospirò osservando l’orizzonte.

 

La caccia era finita e i doveri di Corte e Parlamento lo attendevano.

 

Tra tutti i luoghi dove avrebbe voluto essere, la sua ricchissima dimora, il suo studio dalle volute dorate era in assoluto l’ultimo. Presumeva che qualche cosa sarebbe successo, James non brillava più della vitalità di un tempo.

 

Non era più il suo James...

 

Un’altro sospiro e un’altro ricordo oltrepassò le sue memorie come se fosse stato solido, come se avesse davvero oltrepassato la sua vista.

 

Anche il ricordo di Milady era ancora vivo in lui. Pensò a quello che D’Artagnan aveva appena detto: era forse proprio lui stesso quell'uomo che la Contessa non poteva amare? Affatto! Lui era libero come il vento!

 

Ripensò al loro incontro di alcuni anni prima. Udì di nuovo la voce suadente di lei, tra i corridoi della villa a Beaugency.

 

“Ecco, per adesso potete tenerli voi...”- disse la Contessa de Winter al Duca.

 

La donna teneva in mano quei progetti, disegni di altri tempi: Rinascimento Italiano, tecnologie misteriose.

Guardandoli un’ultima volta, prima di consegnarli nelle mani dell’uomo, il petto di lei si innalzò sotto la forza di un respiro, più intenso degli altri. Osservò e lesse quelle pagine con attenzione. Lei ne trattenne una, rappresentava il progetto di un velivolo più piccolo di quello che gli aveva consegnato. Sembrava che fosse una struttura per un singolo passeggero, non un intero carro.

 

George lo lesse e lo osservò comunque, con la scusa di starle ancora più vicino.

 

Un fremito prese la sua schiena e si arrampicò sulla nuca e tra i capelli. Desiderio.

 

I messaggi lanciati da quella donna allora, come in quel momento erano finalmente chiari al suo cuore libero dalle catene di un amore finito: sarebbe tornato a Beaugency! Sarebbe stato suo e l’avrebbe amata!

 

Mentre l’idea scendeva dalla nuca e proseguiva sensuale per lo stomaco, una missiva arrivò dalla Torre di Londra.

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Capitolo 15
*** 15-The Tower ***


Capitolo 15

 

The Tower

 

St.Paul rintoccò l’ora, duomo maestoso e ruggente su tutta la città.

 

Così il mattino giunse sulle grate oscure, sulla pietra grigia della fortezza e le torrette degli edifici più interni. Spie, traditori e mogli ripudiate dentro quelle mura non avevano avuto più speranze.

 

I campanili St. Dunstan e St.Helen, suonarono con più vigore, le loro guglie, altrettanto alte alla loro vista, toccavano un sole coperto da nubi, sotto un cielo torvo. Era tutto ciò che i tre moschettieri potevano notare dalla grata sulla finestra della loro cella.

 

I bagni di Southwark, dall’altra parte del fiume, aprivano ai versi e agli odori di persone ed animali.

 

“Voglio un avvocato!”- esclamò Aramis per l’ennesima volta, nel silenzio e l’indifferenza degli uomini e delle guardie.

 

“E che pensate di fare con un avvocato? Siamo prigionieri politici e non sappiamo neanche il perché...”- Porthos si risvegliò alle parole dell’amico e protestò con la stessa rapidità.

 

Al suono nasale della sua voce, il giovane, già sveglio e sull’attenti, si voltò e abbandonò le mani dalle sbarre. 

 

Si avvicinò alla sua panca, utilizzata come un letto e lo guardò dall’alto, le sopracciglia aggrottate e denti stretti. La capigliatura sempre impeccabile incominciava a mostrare i segni della frustrazione, il farsetto di lana pesante era sparito alla caligine, la camicia inamidata e le belle mani mostravano le macchie di sangue e inchiostro, il percorso che lo aveva portato tra quelle strette mura di pietra, dietro le sbarre di legno e acciaio. 

 

Passeggiò avanti e indietro per la lunghezza della cella e si fermò sulla figura di Athos, addormentata nel suo giaciglio.

Notando che l’uomo non era ancora sveglio, incrociò le braccia ed esitò. Quello che doveva essere un gesto di decisione e comando si trasformò in un vago tentennamento.

 

Aramis si appoggiò con la schiena al muro, incrociò gli occhi sonnolenti di Porthos e sospirò amaramente.

 

Athos aprì gli occhi in silenzio, ma non gli fu data la vera possibilità di svegliarsi.

 

“Ricordate di quel Marchese di cui parlavate?”- chiese Aramis, immediatamente.

 

L’uomo allungò gambe e braccia, stirandosi in un lento sbadiglio.

 

“Certo...”- rispose con insicurezza. 

Gli occhi ancora chiusi.

 

“Ricordate di quell’attentato?”

 

L’uomo prese tempo. 

Mentre il giovane stava lentamente arrivando ad una conclusione, lui non era ancora sveglio.

 

“Certo. Decise il mio destino.” - rispose lui, alzando leggermente la testa.

 

“Non solo il vostro.”- mormorò il giovane, in un sospiro quasi udibile.

 

“Ricordatemi ancora di quella notte... I ladri entrarono nella dimora, uccisero chiunque fosse in grado di ostacolare, donne e combattenti, uccisero...”- incalzò lui, ma si interruppe colto da quei pensieri.

 

Il pugno teso, lo sguardo ravvivato da un ricordo lontano, Aramis stentava a pronunciare le parole. Sembravano dolorose e concitate, sembravano scaturire da un dolore che lui stesso aveva provato.

 

“Uccisero il suo erede.”- concluse Athos con più distacco. 

Quegli eventi erano stati solo un monito per lui, non un’esperienza.

 

Aramis trattenne il respiro, strinse il pugno tremante, quasi come se lui stesso avesse attutito quel colpo, chiuse gli occhi per un attimo, ma dopo un altro, profondo respiro di coraggio, continuò con estrema cautela.

 

“Cosa successe... Dopo. Ricordate?”

 

“Incendiarono quasi tutto, con uno stratagemma antico, in uso proprio qui, tra queste mura. Bottiglie e fiaschi riempiti con... Non saprei. Quasi tutto bruciò.”

 

“Usarono qualcos’altro.”- disse il giovane, i nervi tesi.

 

I due uomini scambiarono con il loro amico uno sguardo vuoto, ignaro delle sue interne discussioni, come se stesse parlando di una rara fantasia. Lui era incendiato di una strana luce, ma loro avevano passato la notte in una cella buia ed umida, provati da un lungo viaggio, rinchiusi senza motivo. 

 

La loro mente non era pronta a ragionare alla stessa velocità del giovane.

Lui però non si perse d’animo, alzò il pugno ancora stretto e con la stessa mano, cominciò a contare.

 

“Usarono olio, brandy, polvere da sparo e stoffa.”- i suoi occhi azzurri furono pervasi dalla stessa intensità e il furore dei più folli condottieri.

 

“Ho con me l’olio per accendere il fuoco, la polvere da sparo, per caricare i moschetti...”- ragionò apertamente, nel silenzio degli altri due.

 

E, al contrario del folle condottiero, le sue schiere non erano altrettanto numerose, attente e neppure sveglie. Athos inspirò con il naso, Porthos sbadigliò nel tentativo di capire.

 

“Voi avete altrettanta polvere da sparo!”- disse Aramis rivolto a Porthos. 

 

Lui annuì e mostrò il carico che aveva avuto modo di trattenere nei pressi della cella, ma ancora a portata di mano. Erano prigionieri politici: anche se privati delle loro armi, alla Torre di Londra era loro concesso di avere un carico di bagagli.

 

“E sono pronto a scommettere la mia camicia che Athos ha il brandy...”- disse Aramis senza guardare il compagno.

 

Alle orecchie di Porthos sembrava quasi che, di tutto quello che aveva appena detto, quella forse fosse stata la più grossa stranezza. Allo stesso modo in cui la sua bocca avesse appena assaporato caffè o brandy, si spalancò. Il suo corpo intorpidito si risvegliò completamente. Certo, Athos aveva sempre avuto con se una bottiglia, quasi sempre già iniziata o mezza vuota. Lo aveva sempre visto bere l’ultimo goccio, ma mai il primo. 

 

L’audacia di pensare che ci fosse davvero ancora qualche cosa in quelle bottiglie: quella per lui era la vera follia di Aramis.

 

“Athos non ha il brandy.”- disse con sicurezza, puntando sull’amico.

 

“Se lo avesse da quando siamo partiti, a quest’ora l’avrebbe già finito. Invece non l’ho visto ancora bere!”- continuò Porthos, scambiando quello sguardo con un amaro sorriso.

 

Aramis ricambiò il gesto, con altrettanta confidenza. Anzi alzò la schiena ed incrociò le braccia con fierezza.

 

“Invece nutro speranza nel nostro compagno. Io ho l’olio, lui ha il brandy. Voi, la camicia.”- disse ricambiando quel sorriso, i suoi occhi illuminati da un’idea che, a quel punto, i suoi compagni avevano imparato a temere.

 

Il respiro di Porthos si fece più pesante: in quei pochi giorni aveva già messo in gioco, e perso, fin troppi dei suoi preziosi averi. Ricami inestimabili e vere perle. Non poteva permettersi altre perdite e colpi di mano.

 

“Per carità! Vi ho già donato la cravatta! Ho perso il mio cavallo! Ora volete anche la camicia? Usate la vostra!”- disse alzando la voce.

 

Il giovane si impettì di un orgoglio ancora più vivo.

 

“La mia camicia contro la vostra! Athos ha la bottiglia piena, la camicia la darò io, Athos ha la bottiglia vuota, la camicia la darete voi!”- disse Aramis senza quasi pensare.

 

Porthos si volse alle sue spalle, verso Athos a gambe incrociate, mento nel palmo della mano. Stava contemplando la scena senza ascoltare veramente il discorso dei suoi compagni.

 

“Athos, mostrate la bottiglia. Non avete ancora bevuto da quando abbiamo lasciato Château  Gaillard!”- disse Aramis.

 

“Athos, non c’è bisogno di mentire. A giudicarvi ci penserà Dio! Per adesso voglio solo la camicia di Aramis!”- esclamò Porthos.

 

“Mi fido di voi! Mostrate la bottiglia!”- disse Aramis.

 

“La vostra brucia meglio!”

 

“La vostra ha più stoffa!”

 

“Neanche per sogno! Non sapete quanto mi è costata!”

 

“Avanti! Vediamo questa bottiglia...”- dissero infine tutti e due all’unisono.

 

Sembrava quasi di assistere ad un torneo, dove la palla che rimbalzava da una sponda all’altra della corda erano i loro continui rimbecchi, mentre Athos si sentiva definitivamente la corda, in mezzo ai due battitori. 

 

Al pari della corda, anche lui seguì la discussione attentamente e con altrettanta inanimata pazienza. Una delle più famigerate e antiche prigioni conosciute, sale di tortura da quasi quattrocento anni. Consiglieri, amanti e politici avevano letteralmente perso la testa tra quelle spesse mura. 

 

Eppure i suoi compagni si stavano litigando la camicia. 

 

Preso dalla stessa soddisfazione e potere che la corda avrebbe potuto avere su di loro e il loro gioco assiduo, Athos agguantò il collo della bottiglia nel tascapane, ma la lasciò nascosta sotto la falda di apertura.

 

Aramis emise un sospiro così profondo da scostare una ciocca di capelli dalla fronte, alzò lo sguardo e affondò le spalle, pocoprima così orgogliose.

 

Allo stesso tempo, di rimando, Porthos sorrise, incrociò le braccia e raddrizzò la schiena, assumendo la posizione dell’amico, in segno di vittoria.

 

“E va bene, si vede che la mia speranza e la mia fiducia sono state tradite. Come volete Porthos, la mia camicia è la vostra!”- disse il giovane slacciando lentamente i primi nastri.

 

Il sospiro di Aramis fece su di Athos lo stesso effetto dei giudici che, durante la partita, erano d’uso tirare la corda, puntarla tesa ed aspettare che la palla rimbalzasse su di essa, facendo perdere uno degli avversari. Sempre al momento meno opportuno, presi dalla noia di battitori troppo abili, un turno troppo lungo o un prezzo appena pagato.

 

“Affatto! Ecco il vostro brandy! Ecco la vostra bottiglia! Mi credete un ubriacone? Forse. Un malfidato? Mai! Con me, vi sbagliate! Vi sbagliate di grosso!”- Athos appoggiò la bottiglia piena sul pavimento, di fronte allo sguardo stupito di Aramis.

 

“Non-Non era mia intenzione insultarvi...”

 

I due si guardarono per un lungo momento, dal quale Athos si ritrasse, più rattristato.

 

“Ho tenuto il brandy per la ferita. Sia la mia che la vostra. Vi ringrazio per quello che avete fatto per me”- i suoi occhi mostrarono tutto il suo orgoglio messo alla prova.

 

“Sono sicuro che, al posto mio, avreste fatto lo stesso”- rispose Aramis.

 

Altro silenzio. I loro sguardi fermi l’uno sull’altro. Athos abbassò lo sguardo verso il torace del giovane, ma lo rialzò immediatamente, dritto negli occhi.

 

Porthos si avvicinò ai due con curiosità. I suoi occhi notarono qualcosa di strano.

 

“Se vi possiamo essere d’aiuto...”- disse poi, con voce più incerta. 

 

Il giovane abbassò lo sguardo nella stessa direzione e notò il collo della camicia slacciato su una sorta di fasciatura, lo riallacciò immediatamente, rosso d’imbarazzo.

 

“Oh... Oh. No, non c’è bisogno, non sono ferito gravemente. Vi ringrazio”- rispose, come distratto.

 

“Non mi riferisco alle ferite del corpo, ma a quelle dell’anima. Chevreuse vi ha rifiutato. Mi dispiace, non volevo deridervi. Voi non avete mai parlato di...”- disse Athos, ma il giovane lo interruppe.

 

“Chevreuse ed io non... Oh. Ooh!”- Aramis si voltò di nuovo su lui e Porthos, le guance se possibile ancora più rosse, la voce tremante, come colto di sorpresa.

 

 “S-Scuse accettate.”- continuò, districandosi in fretta al di fuori di quel discorso spinoso.

 

“Se avete bisogno di confidarvi con qualcuno, sappiate di poter contare su di noi...”- disse Porthos, facendosi serio.

 

“Voi?”- chiese Aramis con stupore.

 

Ricordo quel giorno. Nel monastero della chiesa a Beaugency. Accettammo quella sconfitta, tornammo a Parigi. Insieme. L'errore è stato il mio, ma lo subimmo tutti e tre. Insieme. E voi mi avete ascoltato, avete cercato di curarmi. E non sto parlando delle ferite del corpo...”

 

Lo sguardo del giovane si impietosì, il rossore dell’imbarazzo si dileguò nel roseo delle guance ed accennò un’espressione vagamente trasognata.

 

“Porthos, la camicia.”- disse Athos

 

“Maledizione!”

 

***

 

St. Mary, sul molo, accompagnava i fedeli del quartiere più povero di Southwark. 

 

Per quanto non fosse una zona adatta ad una dama di Corte, D’Artagnan e Constance avevano trovato l’area della città molto più utile in quel momento, l’acqua dei bagni permetteva loro di compensare alla sete di una città per lui fin troppo arida e dava la possibilità alla bellezza di Constance di rifiorire e mantenere la sua immacolata e femminile perfezione senza fare altre imbarazzanti e umane richieste.

 

Soprattutto, da quel punto della città, potevano osservare sia la Torre, che il Ponte, che il Temple Bar.

 

Qualsiasi insorgenza e distrazione, qualsiasi sommossa la Guardia Reale avrebbe dovuto quietare, sarebbe dunque passata facilmente sotto i loro occhi attenti. I cortei ed i processi che accompagnavano le condanne a morte sarebbero passati proprio di lì. 

 

Avrebbero potuto attendere e sperare il rilascio dei tre e pianificare un ritorno ed una nuova strada alla ricerca di quella misteriosa collana. Magari la fortuna lo avrebbe assistito ed avrebbe potuto incontrare il suo mostro alato! 

Se fosse riuscito a catturarlo e guidarlo come una nave, sarebbero potuti ritornare a Parigi in un solo giorno!

 

D’Artagnan sospirò e si soffermò di fronte all’entrata di Temple Bar, notando le teste in mostra dei prigionieri della Torre di Londra impalati: teste bollite e coperte di catrame, esecuzioni che avvenivano regolarmente, per la giustizia e l’ingiustizia dei voleri del Re. 

 

Non riconoscendone chiaramente i tratti, le contò di nuovo. Nessuna nuova testa era stata bollita e impalata nell’ultimo giorno: una vista lugubre, terribile, la prima cosa che un viaggiatore entrando nella città avrebbe visto ed avrebbe trattato come un monito: il sovrano avrebbe cacciato tutti i suoi nemici e non li avrebbe mai perdonati. 

 

Tuttavia il fatto che fossero le stesse teste dei giorni precedenti donava in lui la speranza che i suoi compagni di ventura fossero ancora vivi da qualche parte... 

 

Compagni. 

 

Dopo quel viaggio in barca non li poteva considerare in altro modo.

 

Non sapendo cos’altro fare, D’Artagnan prese il braccio di Constance e i due ragazzi entrarono dentro le silenziose navate di St. Mary. 

 

I due si inginocchiarono e sussurrarono insieme una preghiera alla Santa Vergine. 

D’Artagnan accese un cero e consegnò un pegno di preghiera.

 

Constance ruppe presto quel silenzio mistico.

Si voltò solo leggermente verso il ragazzo.

 

“Dobbiamo cercare di ritornare in Francia”- disse sottovoce.

 

“Cosa?! E lasciare qui i nostri amici?”- chiese lui, in un indignato stupore. 

 

“Per trovare un ambasciatore e un avvocato in grado di tirarli fuori!”- lo corresse lei.

 

D’Artagnan si sciolse da quel sospetto e sospirò serenamente: la giovane aveva un cuore onesto, solo il suo modo di agire differiva così tanto dal suo modo di pensare.

 

La giovane lo guardò e sospirò profondamente, mormorò un’ennesima e noiosa Ave Maria per la sua stessa sorte e pensò che il ragazzo aveva bisogno del lume di molti, molti più ceri.

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Capitolo 16
*** 16-Dindi ***


Capitolo 16

 

Dindi (Thin Lizzy)

 

La notte coprì il molo di Southwark ed i bagni pubblici chiusero i battenti.

Le barche accesero le loro lanterne e la città proseguì il suo eterno brulicare alla luce di carboni ardenti e di fuochi sapientemente domati.

 

In quella parte della città, non era la guardia a fare da veglia alla ronda notturna, ma il corteo dei ragazzi ruggenti pronti a nuove esperienze e tafferugli. Le donne gridarono i loro soprannomi in quella strana lingua, implicando chiaramente le conseguenze peccaminose conseguenze a quelle grida. 

 

Le loro voci riecheggiavano sul soffitto della navata e, per un attimo, D’Artagnan chiuse gli occhi e si sentì di nuovo nelle sue aie in Guascogna: le mani immerse in un secchio di sementi polverose, mangime per le bestie, l’odore del pollame pervadere le narici nell’indifferenza dell’abitudine e quello stesso identico baccano prendere le orecchie, la testa e, se possibile, perfino gli occhi. 

 

Ecco: quella strana pronuncia suonava alle sue orecchie alla stessa maniera di un battibecco tra un branco di Galli d’India. Lasciò i suoni dissiparsi lentamente, andare e tornare come onde nella notte.

 

D’Artagnan continuò le sue lunghe preghiere in silenzio, in ginocchio, fino a che le palpebre si chiusero, il respiro si fece più lento sotto il peso del sonno e la stanchezza.

 

Constance si accostò e provò a dargli una leggera gomitata senza successo. Scosse una spalla, nel tentativo di svegliarlo, il ragazzo aprì gli occhi, colto di sorpresa e sbadigliò. Nel suoi sogni, incubi, erano comparsi altri Galli d’India e ragazzi ruggenti.

 

“Dovremmo trovare una barca disposta a riportarci indietro...”- disse lei.

 

D’Artagnan non rispose, ma qualche cosa nei suoi respiri dimostrò quanto non fosse dello stesso parere. Lei colse quel tono, si corresse poco dopo.

 

“...Oppure una stanza per la notte”- continuò, portando una mano davanti alla bocca, affetta dal suo stesso sbadiglio.

 

Alle parole indifferenti di Constance, il giovane si svegliò completamente.

 

“Cosa?”- chiese lui, nel suo miglior tentativo di interpretare quel discorso come un nobile cavaliere e non un giovane adolescente.

 

“Siete il mio accompagnatore. Non dovreste lasciarmi sola, dovremmo prendere una stanza”

 

Per quanto il ragazzo fosse inesperto in quel genere di cose, i suoni che provenivano dalla strada e da quelli che di giorno erano i bagni, non erano solo rumori dei Galli d’India. 

 

Per lo meno, potevano ancora considerarsi come i versi di Galli d’India intenti a fare qualche cosa di estremamente appassionante.

 

“Ma... Qui...”- balbettò lui.

 

La voce del ragazzo fu interrotta dal riecheggiare, dei rumori della strada: l’ennesimo richiamo delle donne e gli uomini di Southwark.

 

“Temete per caso della mia reputazione? Da quando vi preoccupate della mia reputazione?”- chiese Constance spazientita da quei lunghi silenzi e dai versi di quelle persone.

 

Probabilmente dal primo momento in cui l’aveva incontrata, pensò il ragazzo. Tuttavia non aveva fatto o detto nulla in precedenza per dimostrarlo apertamente.

 

“Cosa succederebbe se non trovassimo più la collana?”- chiese il giovane, nella sua immaginazione, cacciando i dindi dalle sue fantasie con un grosso sospiro.

 

“La regina verrebbe ripudiata, la Spagna potrebbe dichiarare guerra alla Francia...”- ripetè lei in una lenta retorica.

 

“Intendo, Voi, cosa succederebbe a voi, se questa collana non comparisse mai più?”- chiese il ragazzo.

 

Constance esitò. Aveva accettato quell’incarico con la certezza che sarebbe tornata a Corte con la collana: D’Artagnan avrebbe dovuto sapere qualche cosa; Duca avrebbe dovuto sapere per certo qualche cosa, ma adesso che il gioiello era completamente sparito, lei stessa avrebbe potuto essere accusata di quel crimine.

 

La parola data ritorta contro se stessa: avrebbe potuto la Regina fare una cosa simile contro di lei? E anche se la Regina l’avrebbe difesa, Richelieu avrebbe potuto insinuare lo stesso.

 

Non era la reputazione, in quel momento, ad occupare i pensieri di Constance, più della sua stessa vita: un capro espiatorio ad un crimine che aveva cercato di risolvere, non di commettere.

 

“Siete ancora sicura di voler ritornare in Francia senza la collana?”- chiese D’Artagnan.

 

Constance scosse la testa. 

Sarebbe dovuta ritornare a Parigi brandendo la collana o non ritornare affatto.

 

***

 

Dall’altra sponda del Tamigi, dentro la fortezza inespugnabile, che si ergeva dietro il Ponte, i tre moschettieri aspettavano con impazienza il momento per attaccare.

 

Seppure da quella finestra non potesse vedere molto, la porta per la città, ed il Molo erano diventati per Porthos un interessante passatempo per sollevarsi dalle preoccupazioni, confondere le guardie e fare rumore.

 

“Aramis! Guardate! Se piegate la testa si vede addirittura la chiesa di St.Mary e i Bagni di Southwark!”- disse, nel tentativo di di distrarlo. 

 

Il giovane lo ignorò anche questa volta: non aveva mangiato, non aveva dormito. Aveva passato tutto il suo tempo nell’ombra ad architettare quel piano così strategico, senza neppure la possibilità di metterlo in pratica.

 

“Voglio un colloquio con ufficiale, un interprete, un notaio e un avvocato...”- ringhiò a mezza voce, rivolto alle guardie, in diverse lingue, tra cui l’inglese.

 

“E chi dovrei annunciare... Monsieur?”- rise la guardia.

 

Aramis guardò i suoi compagni, le guardie distratte, e di nuovo loro quasi come per chiedere un permesso che i suoi amici, nella loro inconsapevolezza non avrebbero mai potuto dare.

 

Si aggrottó sull'ordigno, portando le dita sul mento con sospetto. Corse velocemente sugli sguardi apprensivi di Porthos, ma si soffermò su quelli altrettanto pensosi e meno concitati dell’amico.

 

Come se lo avesse notato e come se avesse capito cosa stesse succedendo nella sua testa, si voltò verso di lui.

 

“Non possiamo portare avanti questo piano senza un riscatto”- disse, semplicemente.

 

L’attenzione di Porthos passò da Aramis ad Athos. 

Ascoltò ed interpretò con attenzione.

 

“Se davvero volete mettere la prigione in fiamme, dovete farci prima uscire da qui: dobbiamo costringere le guardie ad aprire le grate, altrimenti rimarremo qui per sempre!”- disse lui.

 

Athos confermò le parole dell’amico.

 

“Senza qualcuno di potente attorno, ci lasceranno morire nel fumo delle nostre stesse fiamme”

 

Aramis li ascoltò in silenzio. 

 

Consumato dai suoi stessi pensieri, sopravvalso dalle sue stesse idee. Tuttavia in quel momento capì cosa avrebbe potuto fare!

 

Prese uno dei suoi libri, ne strappò la pagina iniziale e la consegnò alla guardia. 

 

Chevreuse amò Holland. E Holland amò lei.”- disse il giovane rivolto verso l’ufficiale, scandì le sue parole a chiare lettere, con il migliore accento che potesse pronunciare.

 

Alle parole, anche gli sguardi dei suoi compagni cambiarono.

Quel pezzo di carta era provvisto di una specie di timbro e rilievo che l’ufficiale non riconobbe, ma si allontanò comunque con il messaggio.

 

Sembrò un’azione spavalda e azzardata, guidata da un attimo in cui la ragione sembrava davvero aver lasciato la testa del loro amico ed aver donato all’ossessione della mancanza il potere di governare tutto il suo essere. 

 

Una frase ambiziosa da tutti i punti di vista e più disperata di quella dei peggiori amanti rifiutati.

 

Però, quello che ne risultò, dal gesto apparentemente folle sorprese tutti quanti, quando diverse ore dopo, qualcuno si presentò di fronte alle sbarre della loro cella con la stessa pagina in mano, mostrando loro lo stesso identico sigillo.

 

I tre uomini non si distesero alla vista del loro visitatore. 

 

I loro cuori non si sollevarono quando il suo volto, i suoi occhi coperti da un cappello dalla larga tesa, sorrise e chiese di aprire le grate, lasciare aperta quella porta per poter entrare lui stesso. 

 

“Il Salon di Valois, conosciuto adesso anche come il Salon delle Regine. Avete studiato e alloggiato in quelle stanze, Monsieur Barone D’Herblay. Ed è in quelle stanze, nei nostri rispettivi alloggi, che ci siamo conosciuti in un tempo ormai molto lontano. Un albergo in cui io e voi, Barone, amiamo alloggiare spesso...”

 

Aramis non cambiò d’espressione. 

Lo sguardo diretto sulla sua figura, le sopracciglia rimasero aggrottate e i denti stretti sotto le labbra contratte dai nervi.

 

“Le ragioni che motivano le nostre soste, sono alquanto differenti”- sbottò il giovane.

 

“Cultura?! Filosofia?! Chiamatela pure come vi pare!”- l’uomo rise, sventolando la pagina del suo stesso libro.

 

Nel sentirsi nuovamente preso in considerazione dall’uomo, Aramis indietreggiò verso i suoi compagni, ma il volto e lo sguardo sempre rivolto verso di lui.

 

L’uomo abbandonò la vista del giovane e si soffermò su quella dei suoi compagni.

 

“Sapete la ragione per la quale siete stati imprigionati?”

 

“No. La chiediamo noi a voi!”- rispose Porthos.

 

“Bene!”- rispose lui.

 

Anche gli altri due riconobbero l’accento, quell’uomo che li aveva graziati poco tempo prima: il Duca di Buckingham. 

 

Buckingham ritornò di nuovo verso Aramis con un tono spazientito. Come se la sua richiesta avesse disturbato un affare molto più importante, un appuntamento a cui non sarebbe potuto mancare, ma al quale non poteva assistere per essere stato chiamato al loro cospetto, spiegare cose che non aveva affatto intenzione di chiarire.

 

“René D’Herblay, Aramis voi siete già stato graziato una volta. Ho reso il favore che mi offriste un tempo e non vi devo altre spiegazioni su questa faccenda o il perché voi e i vostri compari siete stati rinchiusi al vostro arrivo a Londra. Sapevo che era solo questione di tempo: sono stato io stesso a firmare il vostro mandato! Vi avevo già avvisato: sareste dovuti morire a Beaugency. Per me, la vostra vita è irrilevante, se non addirittura un ostacolo”.

 

La sua voce monotona, non dimostrava alcun tipo di emozione.

 

“Nessuno si rivolge a me in questo modo!”- urlò Porthos, offeso da quelle parole ed avanzò di qualche passa.

 

“Infatti non mi sto rivolgendo a voi. Aramis, Athos: anche voi come questo qui, conoscete un segreto che non terrete mai per voi! Non avreste mai dovuto mettere piede in Inghilterra!”

 

Di quale segreto stava parlando? 

Il giovane rivide il suo passato scorrere di fronte agli occhi, la ragione del suo favore e di quella grazia, l’impressione di dover ora rendere conto al Salon e ai Moschettieri di tutti i favori resi, di tutto quello che stava succedendo ed il fatto stesso di essere stato imprigionato ingiustamente; deglutì dallo sconforto. Che cosa avrebbe potuto spiegare? Come si sarebbe potuto giustificare? Avrebbe forse dovuto rivelare ai suoi amici che...

 

Notò gli sguardi irati di Porthos rivolti verso il Duca, ma sentì la preoccupante responsabilità di dover rendere conto di quegli affari anche a loro, la fredda occhiata sulla nuca di chi si aspettava dettagliate spiegazioni in separata sede.

 

Però Athos gli prese la spalla e si fece avanti contro l’uomo, portandosi di fronte al giovane.

 

Un ricordo molto più vivido e meno caotico dei misteriosi affari di Aramis, prese il sopravvento nella sua mente.

 

Athos prese fiato, il suo sguardo fisso e minaccioso puntato proprio verso il ministro inglese che, nonostante il suo potere, tolse il copricapo lentamente e colse tutta la sua attenzione.

Un ricordo avanzò di fronte ai tre: non si erano mai visti prima di quella visita alla corte parigina, ma in un certo senso realizzarono che quella non era il loro primo confronto con il Duca.

 

L’uomo aveva un seguito: strumenti adeguati, diplomatici pronti a tutto, conoscenze in comune. La persona che li aveva traditi ed avvelenati era sua alleata. Era lui l’amico di cui sempre parlava. Era lei che, una volta tornati da Venezia, in quella taverna di Beaugency, aveva strappato quei progetti dalle loro deboli mani addormentate per consegnarli direttamente a Buckingham! 

 

Non esitò che un solo istante.

 

“Perché sappiamo che quei documenti sono da sempre appartenuti alla Francia?”- chiese Athos.

 

Aveva capito: il Duca sorrise soddisfatto da quella risposta, ma le sue nuove non portavano affatto gioia o sollievo. Il suo ghigno si fece subito serio, il suo sguardo colto da un vago senso di intelligenza, ma lo lasciò immediatamente non appena aprì bocca. 

 

“Fu Melzi a riportarli in Italia, quei documenti non appartenevano alla Francia!”- ribatté lui, quasi preso da un senso di ripicca, un orgoglio tradito o un errore pronunciato di proposito, con l’espressa volontà di farsi correggere. 

 

Troppo tardi, era caduto in quella trappola ed aveva ammesso tutto.

 

Aramis guardò Porthos, colto dal suo stesso stupore.

 

Buckingham sbuffò. Poco importava, sarebbero tutti e tre marciti in quelle mura.

 

“Di sicuro non appartenevano a voi. Non li abbiamo mai consegnati nelle vostre mani!”- aggiunse Porthos.

 

“Siete stato voi a rubarli per mano di Milady e ora donate il prodotto di quelle invenzioni a Luigi XIII come se fosse un regalo, quando invece non fu altro che un furto?”- chiese Athos.

 

Il Duca di Buckingham indossò di nuovo il copricapo, nascose il suo sguardo e tese un nuovo un falso sorriso.

 

“Parigi siete stati uno strumento utile, come la cicogna, ma qui a Londra siete a cena dalla volpe: non c'è nulla qui per voi!”- il Duca strattonò le sbarre della cella, portando l’attenzione su di se.

 

“In quanto a voi, Athos: voi sapete altrettanto, se non di più! Eravate voi al comando di quella missione, siete voi dei tre l’uomo di cui lei parlava, il nobile che ha ricevuto il permesso di entrare ad Amboise! Avreste dovuto essere il primo a morire! Voi portate il dono del dolore...”

 

Le parole dell'uomo, in un primo momento lo ferirono. 

 

Si ricordava di Amboise, certo, ma non era certo lui ad aver portato disperazione: loro erano stati traditi!

 

La tensione tra i due salì in una silenziosa lotta di sguardi e respiri, di ricordi e pensieri concitati.

 

“Athos! Siete un uomo morto!”- disse il Duca.

 

Athos abbassò il pugno stretto verso i fianchi e nascose l'altra mano dietro la schiena. Il momento stava arrivando e i tre erano pronti.

 

Si avvicinarono gli uni agli altri, verso il muro di pietra, gli sguardi e la loro attenzione rivolta verso il ministro sorridente.

 

All’apparenza rimasero per qualche istante, fermi su loro stessi. 

Il Duca si accostò alla grata. Gli sguardi cambiarono nel momento in cui si voltò e chiamò le guardie su di se, per farsi aprire.

 

Porthos incendiò la bottiglia e Athos la gettó dietro le loro spalle, verso la grata e le guardie, in una vampata di fumo e fiamme.

 

Al momento in cui le guardie aprirono, furono colte dalla stessa vampata esplosiva di fuoco e terrore. Il fumo coprì la vista e rapprese il fiato. Tutti cercarono di uscire da quella cella, senza curarsi più del destino dei suoi prigionieri.

 

La prima esplosione fu relativamente breve, ma necessaria.

Poco sapevano di quanto quelle le fiamme allungate e distese sulla superficie sarebbero salite poi verso l’alto, seguite da un fumo nero che rendeva tutto invisibile. 

 

Soltanto sotto il peso dell’ombra densa, si poteva ancora notare l’abbaglio bianco delle esplosioni successive, percepire la pressione dell’aria irrespirabile. Il rosso della vampata di fiamme fu presto accompagnato dal nero di un fumo acre, dall’ombra densa del catrame bruciato.

 

I vetri si spezzarono, alla forza del calore. L'odore del legno divorato dalle fiamme aveva preso gli occhi e i polmoni.

 

L’aria diventó veleno ed il calore di si fece insostenibile. Fumo e fiamme divamparono dalle finestre esplose.

 

La gente cominciò a fuggire dagli edifici e mettere in salvo il possibile.

 

Fuoco Greco.

 

Lingue di fuoco brandivano dalle finestre.

 

Fiammate ruggenti dalle quali cercavano di fuggire.

 

Una ventata calda si sollevò dalle carceri medievali, non troppo lontane. Pietra e pece facevano da fondamenta a quella fortezza inespugnabile, il tutto ricoperto da pesantissime travi, intrise d’olio.

 

Tutto cominció con una bottiglia di brandy e una camicia di seta intrisa d’olio. 

 

Fuoco sulla polvere da sparo.

 

Il catrame si sciolse, il legno divampó ed alimentò quel percorso ormai segnato. 

 

Fiamme avide divamparono sulla legna, crepitante e viva proprio come come quella di un camino d’inverno. Non era più l’inverno bianco era una notte nera e afosa, non era la calma, era una cappa di terrore che avanzava sulla pece e la divorava. Tutto bruciò in una fiammata talmente potente e veloce da superare lo stesso vento: stentò a capirne la provenienza. 

 

Il resto brució più lentamente, ma le fiamme erano talmente tanto distese, il fumo così impenetrabile, il baccano cosí assordante da non riuscirne a capire la provenienza.  

 

L’entrata esplose e crollò in un boato di fiamme, nuvole e scintille che brillavano intense e affascinanti su un’aria irrespirabile. Gente confusa cercava di raggiungere le sponde del fiume ed oltrepassare il ponte e la Porta della città per mettersi in salvo. 

 

Dindi, caotici e urlanti.

 

Nella confusione, tre ombre, tre figure, attraversarono il ponte e corsero nella direzione della chiesa di St.Mary e la porta della città con una velocità inaudita, si fecero largo tra la ressa e la superarono. Non era il corteo dell’insurrezione e neppure quello della giustizia: era un’onda liquida di gente spaventata.

 

Dalla porta della locanda, D’Artagnan notò la coltre di fumo e la gente, per poi venire fermato dai tre nobili scarmigliati e a fiato corto, che ben conosceva, parlargli finalmente in una lingua comprensibile.

 

“Voi due? In una stanza a Southwark?”- Porthos sorrise alla vista dei due giovani.

 

“Non ho mai visto lenzuola più bianche...”- disse Athos sotto voce.

 

“Non temete Constance, i vostri sono gli sguardi di una dama annoiata. La vostra reputazione non risulta in nessun modo compromessa!”- Aramis prese il braccio della ragazza ed in un attimo erano già al galoppo al di fuori delle porte della città.

 

“Presto! Per Dover! Adesso!”- gridarono i tre moschettieri.

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Capitolo 17
*** 17-Dover ***


Capitolo 17

 

Dover

 

Nel caos di una fuga inaspettata, tutte le ore di trepidante attesa, così come la riflessione dell’umanitá fallibile, furono interrotte improvvisamente.

L'umanità era ancora e rimaneva evidentemente erronea e fragile. Fallibile come lo era sempre stata sia prima che dopo le riflessioni di D'Artagnan, soltanto che...

 

Porthos, spazientito dal silenzio e dallo stupore sul suo volto, prese il ragazzo per i fianchi e lo caricó in spalla come se fosse stato un sacco. Lui, attento com'era dallo scambio di reverenze tra Constance ed Aramis, rimase quasi impassibile al gesto e si lasció trasportare dalle braccia dell'uomo fino al suo cavallo.

 

Solo in quel momento riuscí a pronunciare: “Mettetemi giú!”- l'uomo obbedí immediatamente ed il ragazzo ricadde sotto il naso attento e curioso del suo cavallo ramato.

 

Non c'era tempo per pensare o per spiegare, c’era solo il tempo per correre via da quel fuoco, quella città e da quel regno sconosciuto. Comunque D’Artagnan non era ancora convinto da tante cose, della loro incarcerazione ingiusta, come avevano fatto poi a fuggire?

 

Avrebbe voluto subito chiedere loro di cosa Buckingham fosse stato al corrente, come mai fosse stato disposto a riceverli immediatamente per poi farli allontanare con la stessa rapidità, mentre loro erano stati fermati, arrestati. 

 

Sospettava che il Duca avesse a che fare con loro e il loro mandato, presumeva che a questo punto anche loro erano venuti a conoscenza delle stesse informazioni che aveva il Duca, dunque delle sue motivazioni e della messa in scena di fronte a lui e a Constance, ma non riusciva a capire come.

 

Quelli che un tempo erano stati i moschettieri di Luigi XIII, erano ancora nobili di alto rango, ancora protetti dal loro lontano prestigio di Corte. Nobili di antica famiglia, che vantavano gli alti lussi parigini e chiedevano raccomandazioni: eppure azzittiti in un regno ostile, il loro potere dissolto al confronto con un altro ben più potente, al punto che la fierezza dei loro sguardi era sparita, così come la voce ed il loro aspetto era miserabile.

 

A parte le vesti sporche e mal ridotte, i capelli scompigliati o i volti coperti di fumo e polvere erano i gli sguardi ad essere i più segnati dal loro viaggio e la loro residenza dall’altra parte del Tamigi. 

 

Rabbia e stanchezza. Cos’era successo tra quelle mura? Erano forse stati loro la causa dell'incendio che ora prendeva le porte della città? D’Artagnan non lo chiese apertamente, ma lo sospettò sin dalla loro prima occhiata alle porte di quella locanda.

 

Le forze di Porthos non sembravano aver subito un danno, ma mancava di un'altra delle sue preziose camicie e trasportava il resto delle sue vesti dentro una cassa, custodita con una gelosia febbrile.

 

Aramis non aveva dato adito ad alcun tipo di conversazione. Sotto l’attenta vigilanza di D’Artagnan, ma anche le occhiate incuriosite dei suoi compagni, aveva preso Constance per il braccio e l’aveva aiutata in groppa al suo cavallo bianco, con la grazia di un principe e le vesti di un pezzente. Ferito e stanco, come tutti gli altri, si rese presto conto di quanto la ragazza le era tornata utile, scambiare parole appena udibili con lei, evitando cosí di spiegare agli altri, come una leggera distrazione, da un problema che cercava di evitare a tutti i costi.

 

Athos, più di tutti, mostrava i segni di un malessere indecifrabile. Durante la traversata il suo volto impallidì, si asciugò il sudore con la manica della camicia. Il ragazzo, preso com’era dalla conversazione tra Constance ed Aramis, non ne fece troppo caso, la notte era comunque torrida e il fuoco da cui erano appena scappati di certo non aiutava a sollevarsi da quell’affanno.

 

Solo molte ore dopo, una volta a Dover, tutti quanti riuscirono a riprendere fiato, cambiarsi e ritrovare il sonno e le sembianze lasciate alle spalle giorni prima, quando non era la collana o gli affari inglesi ad occupare i loro indolenti pensieri.

 

***

 

Forse per i modi in cui aveva trattato Constance durante quel ritorno, o forse le occhiate attente e dubbiose di Athos e Porthos, Aramis era divenuto ancora oggetto delle attenzioni di D’Artagnan. 

 

Per quanto tenesse la ragazza stretta a se durante il galoppo, con la scusa di proteggerla, il cavaliere non aveva importunato la giovane dama in altro modo e non aveva chiesto o fatto troppe domande, non aveva intrapreso una vera conversazione, se non scambiato qualche parola riguardo ad un Salon parigino.

 

“Un’amante legata al Duca di Buckingham?! Aramis, ci sono così tante donne al mondo! Non potevate trovarvene un’altra?!”- sbottò Porthos.

 

“L’amore è cieco.”- rispose lui immediatamente e senza guardarlo.

 

Il farsetto e la croce erano ritornati al loro posto. I capelli biondi e lunghi, ordinati in un fiocco sulle spalle e quasi poteva percepire il profumo delle strane erbe che usava masticare tra una tazza di veleno e l’altra.

 

“Adesso potete spiegarci cosa sapete riguardo tutta questa faccenda?”- chiese D’Artagnan.

 

“Io non ho nulla da spiegare. Nulla di più di quello che già non sapete o di quello che Porthos non possa spiegarvi”- rispose lui.

 

Braccia conserte e sguardo fisso, il giovane non dava segni di incertezza anche quando tutto attorno a lui stava crollando, anche quando il suo stesso animo era completamente a pezzi, allo stesso modo del cuore ingelosito di D’Artagnan, delle ire di Porthos, della segreta disperazione di Constance o della strana malattia che stava affliggendo Athos.

 

Aramis si soffermò sulle espressioni che marcavano il volto dell’uomo, lo strano modo con cui si asciugava il sudore o prendeva le tempie, nel tentativo di alleviare un dolore inspiegabile.

 

“Piuttosto, Athos, seguitemi nelle mie stanze, sembra che la vostra ferita stia peggiorando.”- disse il giovane, in un tono all’apparenza privo di accento o espressione.

 

Il braccio di Athos passò un’altra volta sulla fronte madida, mentre scosse la testa, visibilmente impallidito, i suoi occhi completamente assenti.

 

“Non è per...”- la sua voce si interruppe.

 

Il giovane non lo lasciò finire di parlare, aveva già una mano sulla fronte pallida e lo sguardo intento a scrutare i suoi occhi ancora arrossati dal fumo e dalla polvere, ma soprattutto dalla sua fredda sudata.

 

“Non mi faccio scrupoli. Il corpo ferito è il vostro, così come vostra è la spalla”- gli occhi chiari di Aramis incontrarono quelli dell’uomo. Il tono indifferente della voce differiva apertamente dallo sguardo, completamente attento su di lui.

 

Athos annuì, anche se presumeva che le cure del giovane questa volta non avrebbero potuto fare nulla. Cure, medicine e fasciature non sarebbero bastate: aveva bisogno soltanto di altro tempo.

 

Tempo che in quel momento nessuno sembrava disposto a concedergli.

 

In un attimo le dita del giovane toccarono delicatamente la ferita procurata da Rochefort, che adesso stava rimarginando. Di fronte a lui tutto scorreva con troppa velocità e senza una vera e propria continuità. Aramis sembrava stranamente troppo vicino alla sua pelle scoperta, le sue stanze troppo strette e il suo letto troppo duro.

 

Athos si ritrasse, nel timore di provare dolore, ma poi si distese alla guida rilassante delle sue dita. 

 

L’odore sotto le bende non era dei migliori, Aramis lavò la ferita con dell’altro brandy e acqua. Acqua pulita, difficile trovare acqua potabile da quelle parti. In città si usava molto più spesso birra o aceto. Chissà se l’aveva davvero risparmiata per bollire i suoi decotti o lavare le sue ferite.

 

Abbassò lo sguardo sulla testa del giovane chino sul suo collo, capelli biondi, rigorosamente legati, ma la cui frangia ricadeva sugli occhi, nascondendo spesso lo sguardo e i lineamenti del volto. Era concentrato a rivestire la fasciatura che gli prendeva la schiena e torace, passando per la spalla, dita calde che accarezzavano la sua pelle, sembravano percorrere il tragitto del suo corpo, arrivando prima del tessuto gelido. 

 

In quelle dita, c’era delicatezza e precisione, erano mani che tante volte lo avevano tirato e spinto, lo tenevano stretto nelle notti più buie, non le mani di uno sconosciuto. 

 

Sentì il calore e la vicinanza di alcuni suoi respiri su di lui, salvia e caffè, non certo gli odori che di solito che accompagnano un uomo vissuto, ma neppure la violetta delle dame di Corte. 

 

Aramis si avvicinò ancora di più, una ciocca di capelli lo accarezzò e per un attimo gli sembrò di sentire persino la fredda punta del naso accarezzargli il collo.

 

D’istinto prese una mano nelle sue e la strinse, come se potesse veramente salvarlo da un precipizio invisibile, il giovane non si ritrasse e le incrociò nella la stessa stretta per un breve e difficile momento.

 

Un’altra fitta prese le sue tempie e crollò involontariamente sulle sue spalle. Sentì la schiena del il giovane sorreggerlo e distenderlo sul letto.

 

“Non badate all’odore, non è un cattivo presagio”- disse senza guardarlo negli occhi, nascosto da una ciocca di capelli, ma cercando di confortarlo involontariamente con un dolce sorriso.

 

“State finalmente guarendo.”- aggiunse subito dopo, allontanandosi e voltandogli le spalle, per lavarsi le mani nella catinella.

 

Athos non rispose e riprese lentamente i sensi. Rivestendosi accarezzò le bende della spalla e piegò il collo, per notare che il dolore non era più lo stesso. Anche la fitta alle tempie si stava lentamente alleviando, dandogli ancora qualche attimo di tregua e coscienza.

 

“Non mi riferisco alle ferite del corpo, ma a quelle dell’anima...”- disse Aramis, potè udirlo chiaramente, ma sotto quel suono chiaro, si alzò quello più cupo di altre voci più lontane.

 

Entrambi si apprestarono verso la porta scostata, da dove una voce più animata delle altre catturò di nuovo la loro attenzione.

 

“Il Duca dice di non conoscere Milady”- disse D’Artagnan rivolto verso Porthos.

 

“Voi gli credete?”- chiese l’altro.

 

“No. I suoi discorsi erano strani, parlava di voi come se vi conoscesse o se avrebbe dovuto vedervi”

 

“Infatti...”- Porthos si voltò ed annuì verso i due sulla porta, le loro orecchie aperte e attente a qualsiasi accento della loro conversazione.

 

“Il Duca ha costruito quell’arnese con gli stessi incartamenti di Amboise. Non è una coincidenza che quelle macchine scompaiono da una parte per poi riapparire in un’altra!”- disse Aramis.

 

“Il Duca di Buckingham e Milady sono in alleanza tra di loro. I documenti di Amboise e Venezia per qualcosa di altrettanto valore...”- aggiunse Athos.

 

“A questo punto, non potreste mai provarlo!”- ribatté D’Artagnan.

 

Il ragazzo aveva ragione. Non avevano ancora trovato il modo per corroborare quei sospetti.

 

“E una volta in Francia, di nuovo le angherie di Rochefort... A volte vorrei lasciare questa terra, tuttavia fare in modo che la mia anima possa assistere a tanta cattiveria svolgersi di fronte ai miei occhi e incendiarsi del suo stesso male. Il destino di antagonisti pronti solo a nuocere, sprezzanti della vita e della salute altrui, come un serpente talmente irato e affamato di desiderio, da mordere e divorare la sua stessa coda, morire del suo stesso veleno.”- disse infine Athos, rievocando i ricordi che aveva lasciato dall’altra parte del mare. 

 

“Non avete abbastanza pazienza. Dovreste portarne molta di più. Ad esempio, mantenendo calma e salute, fareste ai vostri nemici più danno dell’accanirvi in una futile vendetta. Il tempo porta la giustizia e la vendetta che state aspettando: ve la serve su un piatto d’argento.”- disse Aramis in un sospiro trasognato.

 

Il ragazzo si soffermò per un momento sulle parole del giovane.

 

“Vendetta e speranza...”- disse quasi tra i denti, in una lenta constatazione.

 

“Il fuoco che alimenta la mia vendetta brucia più in fretta e più riscalda della lieve fiamma della speranza. Ma la speranza rimane sempre lieve e sempre accesa, perché senza quella lieve fiamma, senza quella piccola luce, nessun fuoco si può accendere, niente può più riscaldare.”

 

Le parole di Aramis avanzarono sinuose nella mente del ragazzo, come le sue gesta avevano preso l’attenzione dei suoi occhi, così le parole in quello strano tono di colui che rievocava un passato lontano avevano rapito le sue orecchie, come incantato da una litania orientale...

 

Tuttavia notò subito come quell’incanto non attraversava i suoi amici.

 

“Parlate come colui che ha già compiuto la sua vendetta e non ha nulla da perdere...”- constatò Athos. 

 

“Può darsi. Un tempo anche il mio, di cuore fu assetato di vendetta. Potrei parlare per esperienza.”- rispose il giovane.

 

“Mentite, eravate anche voi tra quelle mura. I vostri nervi tesi, il vostro animo distrutto, esattamente come il nostro. Indossate la vostra... Pazienza, come la vostra croce ed il vostro farsetto: quando più vi fa comodo!”- disse Porthos.

 

Gli sguardi dei due si incrociarono in una tensione fulminea. Aramis alzó le sopracciglia, espirando profondamente dal naso. Si ricompose brevemente, ritrovando la calma che stava in procinto di perdere.

 

“Comunque sia, parlo di un uomo per certo! Un antico rivale che si fece torto di me. Altri affari.”

 

Il giovane alzò la mano, come se stesse cercando di scacciare via quei ricordi, come avrebbe potuto fare delle falene sulla fiamma di una lanterna.

 

“Piuttosto voi: credete davvero che quella donna inglese fosse innamorata di voi?”- chiese rivolto verso Athos.

 

“Non so. Per un attimo l’ho davvero creduto.”

 

“Credete davvero che la vostra morte possa essere per lei ragione di lutto e dolore?”

 

“No. Tuttavia l’avrei voluto.”

 

“Ci sarebbe un modo per provarlo: siamo partiti per l’Inghilterra senza che nessuno a Corte lo abbia notato. Rochefort e i suoi uomini potrebbero davvero credere di avervi ucciso e aspettare i vostri funerali.”- 

 

“Se foste morto, quale chiesa sarebbe pronta a seppellire le vostre ossa?”- chiese Porthos, imitandolo quasi per istinto.

 

“Beaugency? Probabilmente una parrocchia a Beaugency.”- rispose Athos.

 

“Ricordo quelle campagne.”- Aramis strinse lo sguardo, come se la visione della piana del fiume fosse proprio di fronte ai suoi occhi stanchi. 

 

“E come potreste dimenticarle?! E’ proprio tra quelle locande che le nostre vite presero la triste piega di cui siamo vittime oggi. E’ proprio brindando tra quelle taverne, al ritorno del nostro lungo viaggio, che siamo stati avvelenati!- disse Porthos, preso da una serie di ricordi, massaggió il lato della mano, pensando a quello che Aramis aveva appena detto.

 

La sua espressione cambiò lentamente, si corrugò in un lungo pensiero per poi essere colto da un’idea immediata. Puntò il dito sul giovane combattente.

 

“Voi! Voi!”- esclamò, sempre più entusiasmato dalla luce di quella teoria non ancora spiegata.

 

“Aramis! Non siete la sfinge di guardia a qualche segreto nascosto! Siete la lince tra le fronde pronta ad attaccare, che fa finta di fare il bene degli altri: di Athos, di Constance, parlate d’amore, salute, pazienza e speranza, ma in realtà volete solo farvi beffe di Rochefort! Non vi interessa di nessuno al di fuori di voi stesso, del vostro onore e della vostra futile vanità!”

 

Il giovane accolse quell’idea con indifferenza. Senza cambiare tono della voce, rispose:

 

“Bravo. Allora mi avete scoperto. Povero me e le mie vanità... Ah! Niente sfugge alle vostre attenzioni. Un brindisi al nostro amico e alla sua vista eccezionale! Meglio di qualunque lince!”

 

Aramis porse un bicchiere nelle mani di Constance, sotto lo sguardo esterrefatto della dama.

 

Porthos riempì i calici con fierezza e allegria.

 

Athos guardó il contenuto del bicchiere allo stesso modo in cui avrebbe potuto osservare un calice ricolmo di insetti. 

Ne chiuse l'orlo con la mano e lo allontanó dalla sua vista. Aramis lo strappò immediatamente dalle mani dell’amico e lo nascose alla sua vista, avvicinandosi poi a Porthos e ricambiando la sua bocca stupita da quel gesto con sopracciglia corrugate e sospettose.

 

L'uomo si soffermò solo qualche attimo e alzò quasi subito le spalle, scostó via le preoccupazioni, prendendo fiato, si alzò dal tavolo e dichiaró:

 

“E Sia. Andremo a lì, seppelliremo le vostre ossa!”.

 

Aramis sembró cercare di calmarlo o di abbassare i suoi toni orgogliosi con il dubbio della realtà: il tempo e le energie spese dietro ad una nuova missione, forse inutile. 

 

Non riuscendoci, si rivolse di nuovo verso Athos, gli prese la mano e incontró il suo volto, pretendendo la massima attenzione, almeno da lui.

 

“Dovete mantenere una promessa: che sia la vostra ultima volta. Se questa donna si presenterà al vostro funerale, sarà l’ultima volta che la vedrete. L’ultima volta che la nominerete. Nessuno si avvelena per diletto: lo stesso vale per voi.” 

 

“E per noi, di conseguenza.”- aggiunse Porthos.

 

“Avete la mia parola d’onore!”- rispose lui.

 

Dicendo così, l’uomo sfoderò il rapière e chiese ai suoi compagni di fare lo stesso, i tre incrociarono le loro strisce in quella promessa. D’Artagnan li osservó affascinato. Erano i suoi compagni per quella avventura, ma forse un giorno anche lui avrebbe stretto un patto con loro allo stesso modo?

 

Porthos ed Aramis si scambiarono uno sguardo, per poi distoglierlo in un senso di colpa, notando quanto il loro brindisi in quel momento fosse così scomodo e inadeguato, bicchieri ancora in mano, eppure nessuno li aveva toccati.

 

Constance scagliò il suo bicchiere sul pavimento e corse via, precipitandosi al di fuori della porta e sulla spiaggia notturna.

D’Artagnan tentennò tra i due e la dama, mentre loro gli fecero cenno di seguirla.

 

Porthos si rivolse ad Aramis, anche lui finalmente convinto che quello che stava succedendo attorno a loro.

 

“Mi dovete da bere... Ma non oggi.”- disse con un tono più mesto.

 

I due si scambiarono un freddo congedo e si diressero nelle loro rispettive stanze.

 

***

 

Non sapeva quanto quel momento di lucidità sarebbe durato. 

 

Tuttavia a questo punto non gli restava che tentare: lui sapeva certe cose ed aveva la necessità di chiederle. 

 

Athos picchiettò sul materasso duro di quel letto. Aveva scelto le sue stanze con cura e aveva richiesto il materasso più soffice, non c’era ragione di punirsi di più di quanto non lo stesse già facendo la sorte. Eppure si accorse che a dispetto delle ricchezze ed i privilegi di un denaro non ancora guadagnato, il giovane dormiva in un letto così scomodo.

 

Aramis entrò nelle sue stanze notarlo, chiuse la porta dietro di se e si appoggiò ad essa con la schiena e le spalle. L’austerità di qualche momento prima, l’orgoglio e la spavalderia, sciolti via come il fiocco che adornava i suoi capelli. Chinò il capo, massaggiò le tempie e strofinò le chiglia assonnate, incontrando la sagoma dell’uomo seduta sul suo letto.

 

“Queste non sono le vostre stanze. Perchè siete qui?”- disse senza mostrare sorpresa.

 

“È il vostro turno.”

 

“Cosa?”

 

“Siete ferito anche voi, e in questi giorni ho imparato molto... Per quanto riguarda le ferite. Ho delle domande da porvi”- disse lui, cercando di mostrare calma ed equilibrio, anche se sapeva il suo animo e la sua coscienza lo avevano abbandonato di recente molte più volte.

 

“Va bene, fate in fretta.” 

 

Il giovane si tolse il farsetto e arrotolò la manica della camicia fino alla spalla, mostrando il taglio che prendeva il braccio, facendo attenzione a non mostrare nient’altro al di fuori della spalla. 

 

La sua era una ferita più recente, ancora viva, rovente ai margini. 

Per l’ironia della sorte, la lama affilata che lo aveva colpito era stata la sua fortuna. Si piegò su di lui e prese una mano sulla sua spalla, le sue braccia erano davvero delicate, muscoli allenati sotto una pelle soffice, forse troppo per essere quella di un combattente.

 

Uno sguardo veloce si soffermò sul volto di Aramis.

Mani così delicate e labbra così dolci nel corpo di un giovane? Athos non aveva ancora aperto bocca, ma sapeva di essere di nuovo preda di una strana visione. 

Non sapendo distinguere tra realtà e allucinazione, lasciò che quei pensieri corressero liberi nella sua mente e che non fossero soddisfatti dalla realtà, ma da movimenti rallentati e sospiri profondi.

 

Alla sua vicinanza, la schiena del giovane si irrigidì e lui trattenne il respiro.

 

“Smettela! Vi credete di essere tanto meglio di me? Provate davvero così tanto dolore per un taglio così lieve?”

 

“No! È solo che...”- tutto si fermò in un tacito silenzio.

 

Per un attimo non udì neppure i suoi respiri. Il giovane fermò la sua spiegazione voltandosi. Notò l’uomo dietro di lui immobile, se possibile ancora più pallido, gli occhi chiusi e i denti stretti a un’altra fitta di dolore. Le tempie cotratte in una visione surreale.

 

“Athos!”

 

L’uomo scosse la testa e mosse la mano cerea come il volto, gli occhi come coperti da un’ombra, completamente assenti.

 

“Che siano gli Dèi o gli Inferi, qualcuno da qualche parte vi protegge. Lo stesso non posso dire di me...”- disse Athos. 

 

Tremava ancora, raggelato da una incomprensibile malattia.

 

Aramis cercò di sdraiarlo sul suo giaciglio, lo coprì con una coperta ed abbandonò quelle stanze. Consapevole di come il sonno era ormai diventato un lusso che lo aveva abbandonato da parecchio tempo.

 

***

 

Le onde del mare si rompevano pigramente sulla sabbia, mentre lei a piedi nudi, tentava inutilmente di scalciarle. Avrebbe quasi voluto che quell’acqua inanimata, che la marea, fosse viva e potesse ascoltarla.

 

“Festeggiare? Brindare?! Festeggiare a cosa?!”- disse Constance, quasi parlando tra se.

 

“Il fatto di ritornare in Francia senza la collana?!” - continuò, conversando rabbiosamente con le onde d'un mare inerme e in quel momento, di nuovo ostile.

 

“Neanche la marea è a nostro favore!”- gridò volgendosi verso D’Artagnan, intimorito dall’impeto della ragazza.

 

Constance guardò l’orizzonte tempestoso e il mare alto, provando dentro di se lo stesso subbuglio grigio che vedeva spezzare le onde di un mare notturno. 

 

“Non abbiamo nulla da festeggiare e questi bevono e giocano come se niente fosse! Per loro è solo una questione d’onore.” 

 

La ragazza roteò su se stessa nel tentativo di calciare qualche cosa di invisibile.

 

“Sapete cosa vi dico?! Così stupidi e spavaldi! Se lo meritano! I vostri compari! Andate pure a giocare con loro! Lasciatemi qui.”

 

“Constance...”

 

Le emozioni di D’Artagnan corsero più veloci di qualsiasi onda, si spezzarono sul molo di poco visibile, coperto per la maggior parte dall'acqua brulicante.

 

“Ho sopportato tutto questo per fare onore alla Regina... Che dico! Per me stessa e la mia stessa reputazione! Quale reputazione! La mia testa!”



 

“D’Artagnan, per voi tutto questo è solo un vezzo, cosa avete da perdere?! Se vi scusaste con il vostro Marchese o chi per lui, non avrete più nulla da temere! Tornerete in Guascogna, sottomesso e umiliato, ma dimenticherete tutto...”

Il ragazzo ripensò al Marchese di Navarra. Il pensiero di dover ritornare in Guascogna e presentare le sue scuse ufficiali, dover rinunciare per sempre ai suoi sogni.

 

“Constance!”- il ragazzo alzò la voce.

 

“Non potrei mai ritornare in Guascogna senza essere diventato un Moschettiere e senza aver trovato quel drago! Ma soprattutto senza di voi!”

 

Il suono di quelle parole lasciò D’Artagnan stupito di se stesso. Non l’aveva mai neanche pensato, non aveva mai preso in considerazione che... Constance non era quel tipo di... Forse era vero, il cieco amore, il cuore indomabile, non erano menzogne, non erano scuse, era la verità di un cuore vivo e appassionato, che batteva allo stesso modo di come stava battendo il suo in quel momento.

 

Non si ritrasse dalle sue parole, aveva cantato le odi alla sua bella ed avrebbe continuato.

 

“Potremmo scappare insieme. Non abbiamo quasi nulla, ma sempre meglio di qualsiasi cosa ci  aspetti a Parigi o in Guascogna... Potremmo vivere a Beaugency o a Orleans... Potremmo...” 

 

Constance piegò la testa allo stesso modo in cui avrebbe potuto interpretare una figura capovolta, ascoltare un suono incomprensibile. Indietreggiò, come se stesse combattendo contro un nemico, anche se D’Artagnan non fece un passo. Il ragazzo era ancora intimorito da se stesso e dalle sue dichiarazioni.

 

“Non siate ridicolo! Siete così preso dai vostri mostri da dimenticarvi tutto il resto! Andate al Diavolo! Bruciate tutti tra le fiamme dell’inferno!”

 

“Constance siate voi a smetterla per una buona volta! Fidatevi di qualcuno! Non siano i moschettieri, allora fidatevi di me! Volete quella collana? La otterrete ad ogni costo! Vi do la mia parola”- solo allora D’Artagnan si fece coraggio e tese la mano verso la ragazza. 

 

Lei non trasse subito la sua, incontrò il suo sguardo e solo allora, una volta incontrati gli occhi determinati e convinti di qualcuno che voleva veramente aiutarla, qualcuno che forse provava sentimenti in quel momento indescrivibili, credette di essersi fatta un giudizio sbagliato nei confronti del giovane. 

 

Il pensiero che, tramite la sua ardente volontà, i suoi sogni potessero davvero avverarsi. Le sue promesse, fossero qualcosa di veramente importante. 

 

Aveva dato la sua parola e in un modo o nell’altro l’avrebbe comunque mantenuta.

 

“E sia. Partirò per Parigi dopo questi... Funerali. Questa stupida pagliacciata. Con o senza la collana. Con o senza di voi!”

 

Solo allora Constance tese la mano, D’Artagnan atteggiò una sicurezza non dettata dai fatti, si inchinò ne baciò la punta delle dita, mostrando tutta la classe che era riuscito a imparare durante quel tumultuoso viaggio.

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Capitolo 18
*** 18-Beaugency ***


Capitolo 18

 

Beaugency


Le rive della Loira in quel punto si facevano piatte e larghe.

 

Beaugency era una cittadina non troppo grande, di passaggio e, a parere del comandante della Guardia Cardinale, Conte Rochefort, lontana da tutto: lontana da Parigi, lontana da Orleans, lontana da Blois, non aveva alcuna pratica se non quella di ospitare i viandanti verso le loro destinazioni.

 

Un incarico all’apparenza così inutile in una cittadina di passaggio. 

 

Ripensò alle settimane trascorse, la possibilità di aver irritato qualcuno e attirato su di lui le ire di Richelieu, un incarico forse assegnato per ripicca, ma non trovò nulla di grave o compromettente, nulla che potesse attirare le attenzioni di nemici potenti. 

Sempre com'era stato, rimaneva tra i privilegiati del Cardinale. 

 

In quanto ai suoi uomini, anche in quel caso la situazione rimaneva sempre la stessa: pochi fidati e il resto se la sarebbe vista con il giudizio di Richelieu oppure la lama del sua striscia. 

 

Nulla di strano a parte la sera di qualche tempo prima, ancora nelle sue memorie... 

 

...De la Fère erano una famiglia che in passato era stata potente quanto la sua, ma al momento i loro favori erano caduti in disgrazia. Non aveva alcuna vendetta da temere neppure dalla loro parte. La nuvola grigia di quel ricordo passó in fretta su di lui, non poteva essere certo per... Divina provvidenza?

 

No, il comandante non si sentiva in colpa, non provava rimorsi per le sue azioni. Erano giuste: protette ed approvate saldamente da Dio e dagli uomini. Non aveva commesso nulla di sbagliato. Dente per dente. Vendetta.

 

Rochefort ripensó alle sue alleanze, i suoi uomini più fidati, qualcuno aveva forse parlato? Impossibile, i suoi uomini erano i migliori perché era stato proprio lui a sceglierli: tutti alti uguali e dai capelli castani, tutti di buona famiglia, ossia in favore della sua, tutti al di sotto dei vent'anni, quindi senza nessuna fastidiosa associazione. 

 

Freschi di gioventù, in salute, non ancora induriti dal tempo e malleabili proprio come un pane ancora ignaro del fuoco e dei carboni dentro al forno: non aveva nulla da temere da loro, a quei tempi crescevano in abbondanza ed erano pronti a soddisfare ogni suo volere.

 

Rochefort lasció passare la sua schiera di ragazzi castani e rallentó ai pressi della città dall’altra parte del fiume, alla vista del tetto di quella che era chiamata la Torre del Diavolo.

 

Il lungo e vecchio ponte, dalla triste moda cruda e massiccia, attraversava il fiume in tutta la sua piatta larghezza, lento e tedioso come quel noioso incarico.

 

Se città si poteva definire, Beaugency si riduceva in una torre senza finestre, più simile ad un pezzo di pietra appoggiato sulla sua altezza, un’abbazia e un paio di chiese. 

 

La più piccola di queste dava proprio sulle campagne e gli alberi che coprivano il lungofiume. 

 

Al di là del fitto degli arbusti, si trovava una radura verde e illuminata dal sole. 

Accolte tra la valle del fiume e la chiesa, si ergevano, di poco visibili, una serie di croci di legno e lapidi, la maggior parte bastoni incrociati o cumuli di pietre, le fosse comuni dove venivano tumulati gli uomini senza nome, coloro che nessuno voleva o poteva seppellire.

 

Un brivido freddo colse le guance del Comandante.

 

Rochefort non aveva simpatia per quel genere di luoghi o genti, ma nel tentativo di distogliere lo sguardo dal panorama lugubre, qualcosa catturó la sua attenzione: un misero corteo funebre. Tre chiangimorti, completamente coperti e velati a lutto, camminavano in testa alla parata vicino alla bara e due uomini in vestiti civili e a cavallo, la seguivano mesti.

 

Due uomini armati e tre cavalli: il terzo uomo era dunque un cavaliere, come lui?

 

L’idea lo colse con una strana vicinanza. Al contrario dei suoi cadetti eternamente giovani, l’età del militare avanzava sempre e inesorabilmente verso quel punto della vita: memento mori.

 

“Di chi è il funerale, padre?”- chiese Rochefort.

 

Il sacerdote di veglia alla chiesa alzò la testa e si voltò nella sua direzione, per osservare meglio l’alto militare a cavallo, ancora in lontananza. 

 

“Conte Olivier De la Fère, morto in duello, lo conoscete?”- disse il religioso.

Il resto del corteo funebre era ormai troppo lontano per poterlo veramente notare ed ascoltare i loro discorsi.

 

Un sorriso sinistro solcó involontariamente il volto del comandante e per un attimo si impettí di un orgoglio incomprensibile.

 

“Monsieur?”- la voce mesta del sacerdote lo riportò alla realtà.

 

“Chi? No! affatto! Non conosco quest’uomo, povera anima, addio!”- disse affrettandosi a riprendere la strada verso i suoi uomini e la sua destinazione.

 

In un primo momento i denti di Rochefort digrignarono involontariamente senza alcun motivo. In cuor suo si sentí soddisfatto, come se avesse compiuto un dovere che nessuno gli aveva chiesto ed era pronto a trarne tutti i benefici. 

Si sentì causa del risultato delle sue stesse azioni: l’uomo che tanto lo aveva deriso, non poteva ridere più. Così tanta fierezza insidiò le sue braccia e le redini strette, da voler tornare subito a Parigi e celebrare quella che lui considerava una vittoria, insieme ai suoi uomini... 

 

Quando si rese conto di come, per la maggior parte dei suoi compari, i suoi festeggiamenti non avrebbero avuto alcun significato. 

Altri, addirittura, avrebbero potuto trovarli di cattivo gusto.

 

Scosse la testa tra se per ritornare alla realtà di quella serena tenuta di campagna, nei pressi di una villa che faceva capo ad una grande fattoria.

 

Rochefort pensò ai nobili che risiedevano in quella tenuta, la loro alleanza con i ministri inglesi. Al loro ospite di cui si facevano carico e orgoglio, nonostante le ostilità di corte.

 

La servitù lo accolse con educazione, lo trasportò tra ampie stanze assolate, fino agli appartamenti che facevano parte della corte della nobildonna inglese: la destinataria di quello speciale messaggio che il Cardinale aveva affidato esclusivamente a lui.

 

Nessuno si trovava nelle stanze, ma le tende si sollevarono alla brezza delle porte aperte verso un giardino coperto di fiori selvatici. 

 

L’uomo avanzò alla lieve brezza ed il calore di quei raggi per ritornare di nuovo dall’ombra delle spesse pietre medievali e le strette finestre, all’aria aperta e alla luce accecante del sole.

 

“Accomodatevi. Cosa vi porta in questa campagna, Comandante?”- disse una voce femminile, coperta da un leggero vestito bianco, fuori moda e un ampio cappello di paglia alla moda maschile. 

 

La donna dai capelli così chiari e lunghi , lo accompagnò alla vista di una bella fontana e l’ombra di un albero coperto d’edera.

 

“Voi, Milady.”- una volta raggiunta la dama e l’ombra tanto ambita, Rochefort tolse il copricapo e fece un ampio inchino. 

 

“Mi è stato chiesto di portarvi un messaggio dal Cardinale Richelieu in persona”.

 

Il sorriso disteso della donna si dileguò al nome del famigerato ministro. Il suo volto sereno, durato solo per un attimo, era già svanito. 

 

Politica, affari: quei brevi giorni di tregua sembravano già essere conclusi. Una nuova battaglia si avvicinava alle porte della sua dimora. La pace da lei sempre tanto ambita, si era di nuovo fatta più lontana. 

 

Milady si era sempre sentita una donna in battaglia, sempre pronta a combattere e risorgere, per aver salva la vita. Finalmente, sperava di aver concluso la sua lotta, invece si ritrovava nuovamente in un altro intrigo.

 

Strinse i denti sotto le guance serrate, nel ricordo di un passato scomodo, nel rimpianto di un presente pacifico, del bel sogno romantico che aveva accompagnato la sua breve permanenza alla villa. 

 

“Richelieu... Forse non è il caso di parlarne all’aperto, seguitemi”- la nobildonna si affrettò di nuovo al chiuso delle spesse mura, seguita dal militare.

 

Rochefort aveva quel discorso preparato da ore. Gli era stato vietato persino di scriverlo, tanto fosse privato e introvabile.

 

“Siete stata a stretto contatto con diversi ambasciatori inglesi. Vostro marito è un Lord membro del Parlamento Reale Britannico. Per questa ragione, visti i recenti affari di Corte, Richelieu ha chiesto espressamente di voi, Milady de Winter, vorrebbe parlarvi di affari di Stato di cui, lui ritiene, voi sareste a conoscenza. In questo momento siete nei suoi più stretti interessi”.

 

Il comandante non comprendeva del tutto ciò che stava dicendo: il messaggio di Richelieu era ancora vivo nella sua memoria, ma così vago, così privo di scandali, era quasi sicuro che se ne sarebbe presto dimenticato. La costernazione della donna, la privatezza al nome del mistro, lo aveva lasciato vagamente sospettoso.

 

Però le voci su di lei non mentivano: era una donna dalla magnifica dizione, l’aspetto gradevole, occhi verdi e languidi, guance rosse e appassionate.

 

Aprì le labbra suadenti con una calma tradita dallo sguardo sempre più stretto e irritato.

 

“Sono onorata. Tuttavia credo che Richelieu dimentichi la mia neutralità proprio in quegli affari tanto ambiti. Lord de Winter ha già tentato di ripudiarmi una volta. Non posso certo rischiare di essere ripudiata una seconda alla notizia di passare al servizio per lo stesso Richelieu!”.

 

La risposta della donna lasciò Rochefort nel dubbio: chi era veramente questa strana nobildonna? Quali poteri e favori aveva da poter rifiutare un’offerta simile? Nessuno si negava a Richelieu, l’uomo più potente di Francia, invece lei... 

 

“Eppure continuate ad accompagnare il Duca di Buckingham in tutte le sue visite.”

 

L’uomo aggrottò le sopracciglia e cercò nei suoi sguardi e nella sua voce la vera risposta alla sua domanda: la vera motivazione che portava una donna dalle sue facoltà a rinunciare a tutto, persino ai voleri di due politici reggenti, in cambio di un letto in una semplice villa di campagna, alla periferia di tutto.

 

“Eppure cosa? Cosa non capite della mia situazione? Mi sono ritirata in queste campagne proprio per avere pace dagli intrighi politici. Non vedo nessuno, al di fuori della mia servitù, accompagnarmi.”

 

“Avete dunque abbandonato il Duca nelle sue imprese? Il mio ministro sarebbe allietato anche da questa notizia...”

 

“Buckingham è tornato a Londra da diverso tempo. Escludendo il mio amato consorte, non ho affari che mi leghino ancora in Inghilterra.”

 

Il comandante si guardò attorno.

La villa in cui risiedeva era veramente arricchita di tutti i servizi e le arti che avrebbero potuto allietare, seppur modestamente, una nobile inglese e francese allo stesso modo.

 

“Non è il desiderio più grande di una moglie quello di rivedere finalmente suo adorato marito?”- disse con sospetto.

 

Lo sguardo nervoso di lei puntato sul suo, più sospettoso e inquisitivo. Milady accese la pipa e sbuffò un paio di soffiate guardandolo in volto. La porse a lui senza mai rispondere alla domanda. Rochefort l’accettò in un sorriso accomodante.

 

“Non dovreste fumare la pipa. L’odore è quello che di solito la lega agli uomini e, come donna, non vi fa onore...”

 

“Siete l’ultima persona al mondo che dovrebbe venirmi a parlare di onore, Conte”- rispose lei senza distogliere lo sguardo.

 

Rochefort girò la pipa da una mano all’altra e sbottò una risata nervosa. Fu lui a distogliere lo sguardo per controllare ancora meglio quelle stanze.

 

Non c’erano anelli nuziali ad ornare le dita della nobildonna, ritratti a decorare le pareti, non c’erano ricordi di un amato o di un caro. Nessuna ciocca di capelli intrecciati decorava i suoi bottoni e le sue spille. Non c’erano lettere aperte o in vista, messaggi d’amore di un marito devoto alla propria moglie.

 

“Le voci che ho udito erano dunque corrette? Non è vostro marito quello che state aspettando...”- sbottò lui, ritornando con lo sguardo su di lei.

 

“Le ragioni che mi legano a questo posto, non credo siano affari vostri.”- rispose lei, tra i denti.

 

Solo in quel momento la donna abbassò lo sguardo verso una cintura di cuoio appesa casualmente alla spalliera del letto: una cintura da caccia, forse da uomo. La cintura di una vecchia uniforme, che da diversi anni i suoi uomini non usavano più.

 

Beaugency: la città dove si erano amati per l’ultima volta...

 

I toni neutrali del Comandante si accesero di nuovo di quell’intrattenibile eccitazione che aveva lasciato all’entrata della villa.

 

“Ma mi coinvolgono personalmente! Milady! Non sapete quanto!”- disse lui, impettito e soddisfatto.

 

La donna sospirò. Abbassò le palpebre e lo guardò con la coda degli occhi pensosi e semi chiusi.

 

“Buon per voi. Sono senza parole.”

 

“Forse allora sarete interessata alle nuove di questa stessa mattina che vengono direttamente da questa umile e noiosa città. Sono venuto per portare il messaggio di Richelieu, nella speranza che finalmente sareste stata disposta ad accettare la sua offerta e tornare con me. Tuttavia mi costringete a ritornare da solo e a mani vuote. Quindi farò buon uso della mia visita in questo posto a metà strada da tutto, almeno che la notizia vi giunga e il mio viaggio non sia stato del tutto vano!”

 

Rochefort prese fiato e si impettì di quell’aria elettrizzante che non poteva più trattenere:

 

“Olivier de la Fère fu l’uomo che vi accompagnò da Amboise a Venezia. Bene, è morto.”

 

La donna puntò ancora gli occhi su di lui con uno sguardo incredulo, per incontrare il suo sorriso soddisfatto e il suo sguardo orgoglioso.

 

“Mi faccio carico di questo onore! Ho fatto finalmente giustizia ad una triste causa. È morto per mano mia e dei miei uomini!”- aggiunse senza il minimo rimorso.

 

“C-Cosa?”- l’incredulitá di lei si trasformó in terrore.

 

“Ho assistito ai suoi funerali proprio sulla strada verso la vostra dimora!”

 

“Non-Non mi interessa. Non so di chi state parlando, non sono mai stata in Italia e non ho mai conosciuto quell’uomo!”

 

Rochefort puntò lo sguardo sulla vecchia cintura di cuoio che lei stessa stava osservando, che avrebbe voluto stringere saldamente, come un ultimo appiglio ad una realtà lontana, che non le apparteneva più.

 

“Lui ha sempre detto di conoscervi. Ha sempre pianto il vostro nome tutte le volte che qualcuno l’ha incontrato in taverna, parola dei miei uomini che un tempo erano i suoi, sempre ubriaco come una spugna”

 

Il suo volto si distese tranquillamente e si dileguò in una boccata di fumo.

 

“Oh Milady... Milady... Se fosse stato più sobrio non avreste avuto nulla da temere, e invece... In vino veritas?!”

 

Rochefort alzò la pipa e la riabbassò in direzione della donna, come se tra le dita avesse sorretto un calice e stesse brindando al suo ricordo, celebrando la sua vittoria, così la passò alla donna.

 

Lei prese la pipa tra le dita, sedendosi, e sbuffò nervosamente dal boccaglio.

 

“Se quello che avete detto fosse la verità, non avrei proprio nulla da temere! È morto per mano vostra, la sua bocca chiusa per sempre e non più in grado di riferire altre voci. Però adesso avete veramente sorpassato il vostro benvenuto. Andatevene!”

 

Milady non si alzò. 

 

Indicò la porta e gli fece cenno di andarsene.

Lui accennò un breve inchino ed un sorriso, andandosene con un ritmico movimento dei tacchi. 

 

Lei affondò la testa nella poltrona e si nascose dietro una nuvola di fumo.

 

Il destino le aveva insegnato quanto pace e felicità non le fossero state mai del tutto concesse. 

 

Tutti i suoi sforzi per raggiungerle erano anche in quel momento divenuti vani, tanto da considerare quanto in realtà il suo animo, la sua stessa condizione umana, fosse davvero meritevole di pace, fosse meritevole di una felicità tanto desiderata. 

 

Condizioni così ambite e invidiate agli altri, uno dei suoi sogni più segreti, all’apparenza inarrivabile e nuovamente infranto da un fato avverso.

 

Aprì il cassetto con violenza e prese quella maledetta collana tra le dita, la strinse con odio e rabbia: era la sua, nessuno l’avrebbe mai comprata e nessuno l’avrebbe mai voluta. Se l’era guadagnata ed ora doveva tenersela stretta: talismano di una sfortuna che non l’avrebbe mai più abbandonata. 

La indossò con disprezzo, nascondendola sotto i veli e una mantella. 

 

Allo stesso tempo ripose e ripiegò al posto del gioiello la tanto amata cintura, ormai divenuta più preziosa di qualsiasi diamante.

 

Con quell’idea si vestì a lutto, prese il passo per la carrozza e si avviò verso la Chiesa e il cimitero. Un ultimo addio a quel sogno di pace, una felicità mai concessa, che svaniva con quella vita, quella luce, labbra che una volta l’avevano forse amata, occhi che un tempo l’avevano guardata con così tanta passione e che ora rimanevano eternamente chiusi, privi di quella vita che neppure lei stessa aveva mai pensato di spegnere.

 

Era lei, Anna, la misteriosa donna della Tempesta: gitana senza pace, innamorata di colui che non poteva avere più, destinata alle braccia di un altro. Lei, come la donna contesa, ritratta in quel misterioso dipinto veneziano di cui narrava la triste leggenda.

 

***

 

“Addio, fedele compagno d’armi e d’avventura, che possa la terra posare leggera su di te...”- disse Porthos, gettando un pugno di polvere sulla bara in procinto di essere interrata, Aramis rimasto indietro e più lontano, fu raggiunto presto dalla dama dorata, che lo superò senza quasi notarlo.

 

Era arrivata appena in tempo e la scena a cui stava assistendo si era fatta straziante.

 

“Com’è morto?”- chiese Milady, rivolta verso Porthos. 

 

L’uomo strinse il suo cappello abbassato tra le mani e tese le labbra, dimostrando la più profonda delle commozioni, pianse lacrime così sincere da sembrare veramente la sofferenza di una grave perdita.

 

“Rochefort ha inferto su di lui una terribile punizione. Infine dopo lunghi, lunghi giorni di sofferenza...”- aggiunse Aramis raggiungendoli e trattenendosi il più vicino possibile. Il giovane cavaliere abbassò lo sguardo e tirò fuori dal farsetto la collana da cui pendeva la sua croce d’oro, la baciò e la lasciò cadere di nuovo sul petto.

 

Milady osservò Aramis e il suo gesto, nel vano tentativo di rimanere composta a quella scena, fu colta da un terribile brivido, la sua schiena tremò come la fiamma delicata di una candela. 

 

I suoi occhi più verdi di un calmo mare estivo, si colmarono di lacrime. Una breve brezza scosse i suoi boccoli chiari. Strinse i pugni sull’orlo raccolto delle sue vesti nere ed osservò i due uomini addolorati da quella triste perdita.

 

“Un tempo giurammo vendetta contro di voi, Milady, ma non oggi. Oggi è un giorno d’eccezione. La perdita del nostro amico ci pone in armistizio contro di voi e quello che vogliamo da voi è solamente una preghiera caritatevole nei suoi confronti”- spiegò Porthos nella sua completa attenzione.

 

“Lo dovete a noi, al ricordo del povero Athos, che un tempo vi ha amato. Se non potete ricambiare il suo amore, che almeno portiate rispetto alla sua tomba con una preghiera”- aggiunse Aramis.

 

Milady scosse la testa, il mento contratto, la gola inaridita dal dolore, le lacrime che vagliavano inesorabilmente le palpebre e ricadevano numerose sulle guance ed il mento come piccole perle illuminate dalla luce del sole. 

 

La sua espressione, dapprima inarrivabile, cambiò velocemente, prese le braccia di Porthos ed alzando la testa incontró il suo sguardo:

 

“Nonostante tutto quello che è stato tra noi, dovete credere alle mie parole! L’ho amato immensamente! Non potete sapere quanto!”- esclamò abbracciandolo e riversando su di lui un pianto che sembrava davvero sincero e addolorato. 

 

Porthos non cambió d’espressione né rimase sorpreso dal suo gesto, le prese semplicemente una mano e, mesto, la sorresse verso l’amico.

 

Aramis si avvicinò alla dama e, accarezzandole teneramente le spalle, prese l’altra mano, accompagnandola di nuovo verso l’interno della piccola chiesa. Altri fedeli sedevano inginocchiati sui bancali, le spalle rivolte ai due uomini e alla dama, sembravano pregare intensamente sotto i loro manti, indifferenti al loro dolore.

Erano rivolti verso l’altare e, come rapiti dall’estasi religiosa, le loro teste completamente attratte verso un crocefisso dorato e sanguinante.

 

La donna non fece troppo caso agli altri fedeli in silenzio, si curò solo dei suoi due astanti, pregò in silenzio al loro fianco, sorretta fraternamente dalle loro braccia e, trovando conforto in quel momento di disperazione, si ricompose ed asciugò le lacrime.

 

“Addio, Olivier”- sussurrò, rivolta verso il cielo e, ritrovate le forze per ripartire, abbandonò i due combattenti nel silenzio delle loro preghiere, ritornando verso la carrozza che l’aveva accompagnata.

 

Soltanto una volta che il veicolo era di nuovo lontano, Porthos ed Aramis alzarono lo sguardo e aprirono i portoni della cappella per far rientrare la luce.

 

“Avete corso un grosso rischio! Potevate rinchiudervi in una taverna e bere fino all’incoscienza, sarebbe stato mille volte più sicuro!”- esclamò Porthos, rivolto verso le tre figure velate, nel silenzio della navata.

 

“E Perdermi lo spettacolo del mio stesso funerale? Quando mai mi capiterà un’altra occasione del genere?”- disse uno degli uomini seduto verso l’altare.

 

“Dopotutto, Porthos, di solito si muore una volta sola...”- fu la difesa della voce di ragazzo al suo fianco. Tolti veli e la mantella, D’Artagnan, Athos e Constance si avvicinarono verso gli altri due.

 

“Dunque Porthos, avevate ragione?”- chiese il ragazzo rivolto al moschettiere, lui sbuffó senza rispondere, alzò le spalle, segno di quanto fosse ignaro di quello che era appena accaduto e si rivolse verso gli altri.

 

Il vedere Milady distrutta da quella finta tragedia, aveva già procurato nei tre la vendetta che stavano aspettando. Dunque il gioco era forse valso la candela, ma fu Aramis che tirò fuori dalla manica la ricchissima collana tanto ambita e la porse verso gli sguardi stupiti di D’Artagnan e Constance. 

 

Colti da un raggio di sole del tramonto che irradiava gli archi d’uscita, i diamanti della collana brillarono come di luce propria.

 

“Non è un caso che le vostre mani siano oggetto di tanta ammirazione da parte mia!”- esclamò Athos, lasciando trasparire un vago senso di orgoglio per il giovane cavaliere. 

 

“Proprio come quelle di una donna...”- disse Porthos tra i denti.

 

“É forse per caso vostra intenzione provare quanto femminili siano le mie mani attaccate strette al vostro collo?!”- ribatté Aramis.

 

”Piuttosto sbrigatevi, il sacerdote arriverà presto per chiudere i battenti, non ci rimane molto tempo!”- disse D’Artagnan, rivolgendosi in tutta fretta verso l’uscita.

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Capitolo 19
*** 19-Rue du Change ***


Capitolo 19

 

Rue du Change


L’attesa e il sacrificio erano innate nella sua natura, non poteva essere altrimenti.

 

Come giustificare, se no, tutte le storie di damigelle in pericolo, rinchiuse in una torre e minacciate da un mostro, pronte per essere salvate dal principe azzurro?

 

L’attesa era innata nella natura della donna, perché attesa, pazienza, sacrificio e sofferenza erano ciò che da sempre era stato insegnato a tutte le donne.

 

Attendere il padre tornare a casa dal mercato, come attendere il marito dal campo di battaglia. L’attesa di un figlio, una nuova vita. Attendere anche il suo ritorno. Aspettare, per sapere.

Aspettare la fine di una lunga malattia come della vecchiaia, tollerare pazientemente ciò che la vita presentava, la malattia e il tradimento. 

Sopportare e perdonare, senza mai combattere. 

Sacrificarsi per il bene di tutti, aspettare con calma per arrivare alla fine.

 

Come tutte le altre dame, anche Constance aveva ascoltato gli insegnamenti con femminile diligenza. Rassegnazione ad uno stato inalterabile delle cose.

 

Presa e attesa: come alle donne di solito si insegnava la paziente attesa, la lunga sofferenza da uno stato all’altro della situazione, così agli uomini era insegnato prendere e ottenere tutto e subito, a qualunque prezzo.

 

Tuttavia Constance aveva atteso fin troppo, non era più il momento di soffermarsi, era arrivato il momento di prendere ciò che nessuno, nessuno fino ad allora, le aveva ancora assegnato: gli uomini di solito prendono, al diavolo le favole!

 

Di parole accattivanti ne aveva ascoltate fin troppe, da Aramis, da D’Artagnan, ma alla fine del discorso era rimasta sola, nella sua stanza, in compagnia del gioiello dal valore inestimabile, fino a ieri così tanto ambito e che quella mattina, segnava la sua vita come una condanna.

Cavalieri di altri tempi, in verità, non avevano menzionato in alcun modo come si sarebbero giustificati a Corte, cosa avrebbero raccontato al loro ritorno... La collana promessa era stata consegnata, lei aveva promesso una buona parola, ma nessuno aveva mai accennato quali parole loro avrebbero messo per lei!

 

Spavaldi e traditori? Avrebbero brandito le loro avventure come un vanto amoroso? 

 

Casti e onesti? Avrebbero veramente rinunciato alla loro moderna virilità, in difesa della sua reputazione. Proprio per lei, una semplice dama di corte?

Che non passasse nemmeno per l’anticamera dei loro cervelli puerili! 

 

Avessero aperto bocca su quella sera di qualche giorno prima, sulle tenere labbra del giovane guascone accarezzare le sue dita bianche e spaventate, onde infrangersi sulle spiagge di Dover e passeggiate a piedi nudi, le punte affondare sulla sabbia bagnata...

 

...Avessero detto una sola parola sulle sue guance rosse, gli occhi languidi e avrebbe rivelato a tutti quanti dei due uomini soli in una stanza: uno nel letto dell’altro, che la Regina ne avesse piene le orecchie! 

 

Non avevano certo dormito insieme nello stesso letto, ma li aveva ascoltati, uno aveva preso il letto dell’altro e poco importava, voci del genere attecchiscono in fretta a Corte, paglia sul fuoco del rogo!  

 

Avessero provato a comprometterla con un’altra delle loro stupide pagliacciate e non ci sarebbero stati neanche cadaveri da seppellire!

 

I suoi tacchi fremevano nervosamente sul pavimento al pensiero di quello che sarebbe successo una volta a Parigi. E quale Parigi l’attendeva! Una stanza a Beaugency era la tremenda gabbia dorata.

 

Il sole dell’alba aveva accolto le finestre della locanda dove alloggiavano i moschettieri, erano passati ormai diversi giorni dalla traversata di Dover, da quel terribile brindisi traditore. Soltanto ore dalla farsa a cui anche lei era stata costretta a partecipare.

 

Vesti prestate da un sarto del posto, non certo uno dei migliori. 

Anche quel fatto le ricordò di come era stata introdotta alla Corte della Regina, anni prima, tramite la sartoria di famiglia. I nervi tesi della ragazza furono attraversati anche dal pensiero di come anche quel fatto potesse essere usato contro di lei, un giorno. 

Figlia di sarti, abbastanza ricchi da poter comprare i favori della Regina. Non una vera dama di Corte, soltanto una serva donata alla sovrana per semplici favori e vanti. Un dono.

 

Santissima Minerva! Proprio come un animale!

Constance strinse i pugni e digrignò i denti. 

 

Le palpebre strette sul fuoco carico delle sue ire: se doveva essere trattata come un animale comprata, venduta, che fosse una furia, che fosse la tigre indomabile, pronta a divorare il suo padrone alla minima incertezza. Fece ancora qualche passo su se stessa, come in gabbia, verso la luce delle finestre, verso l’ombra della porta, rallentò i movimenti e si guardò indietro.

 

Ancora nessun rumore proveniva dalle stanze vicine.

 

Constance aveva già preparato le sue cose da diverso tempo e aspettava ansiosa il loro arrivo, l’uscita grandiosa, o meno, dalle loro stanze. Osservò un’altra volta il fascino dei diamanti che custodiva con se. 

 

Tutta quella strada, quel baccano, per quei costosi brillanti che nessuno sembrava volere, nessuno poteva comprare e da cui dipendeva il destino di un Regno, la vita e onore di tante persone. 

 

Era ora di partire, ma nessuno si era ancora alzato.

 

Persiane chiuse sui vetri scostati, l’ombra di occhi incapaci di accettare i potenti raggi del sole senza provare dolore e sconforto.

 

***

 

Sono le donne che aspettano, gli uomini prendono.

 

Al loro risveglio, i tre compari notarono Athos ancora a letto, affatto pronto per partire.

 

Tremava, si contraeva sotto la forza di un dolore difficile da comprendere.

 

“Che vi prende?”- chiese Porthos.

 

“Sono morto e sepolto. Probabilmente gli Dèi non hanno preso bene la nostra trovata”- rispose lui, girandosi. L’uomo si accasciò sotto un’altra fitta di dolore. Prese la testa tra le mani ed abbandonò i loro sguardi increduli.

 

Aramis si avvicinò per osservarlo meglio aggrottando le sopracciglia nel dubbio.

 

“Smettetela, sudate freddo! È per caso la ferita?”- disse cercando di tendere una mano sulla sua fronte umida, ma l’uomo glie lo impedì, bloccandogli il polso.

 

“No. E’ migliorata. Ricordate?”- rispose lui, stringendo i denti. Aramis non poteva dargli torto, avevano medicato le ferite poco tempo prima e la sua non sembrava essere in condizioni così brutte da provocare in lui tutta quella febbre.

 

Tuttavia Athos non si era vestito e non era ancora pronto per tornare a Parigi, stringeva i pugni e tremava, mentre la sua pelle sbiancava sotto una nuova contrazione. 

 

“Chiudete questa porta, sbarratela a chiave, tornate tra tre giorni!”

 

“Athos!”- esclamarono gli altri due.

 

“Fate come vi ho detto. Due pesi e due misure. E questa volta è il mio turno di tenere i miei affari per me. Prendete le mie cose, il mio vino, sbarrate la porta come vi ho detto e andatevene!”

 

Era giorno inoltrato e sarebbero dovuti partire proprio in quel momento, ma il messaggio era chiaro: Athos non li avrebbe seguiti.

Interdetti sulle azioni del compagno, i due decisero di rivestirsi e discutere i loro nuovi piani in un altro posto.

 

“Che la sorte vi assista!”- disse Porthos rivestendosi di fronte allo specchio, Aramis si avvicinò verso di lui ed osservò un angolo di esso, come per controllare qualche cosa nel volto o il farsetto mai abbandonato per la notte ed acciaccato dalle pieghe del sonno, una vanità, il suo sguardo invece scrutó nel riflesso come distratto da qualcos’altro: la porta scostata alle loro spalle, D’Artagnan si era già alzato ed aveva lasciato le sue stanze.

 

I due compagni annuirono ai suoi ordini con con rammarico, lo abbracciarono e gli strinsero la mano in segno di saluto.

 

Athos non si ritrasse, ma ritornò a letto e il suo sguardo sofferente fu presto notato dagli altri.

 

“Non è la morte, quanto scoprire da solo se sono davvero vivo...”- sussurrò verso i due.

 

Alle sue parole, loro fecero come richiesto, chiusero la porta a chiave e lo sbarrarono nelle stanze.

 

***

 

D’Artagnan alzò le sopracciglia e aprì leggermente la bocca.

Occhi sbalorditi sulle labbra di un locandiere indifferente.

 

L’udito si fermò e non riuscì ad ascoltare nulla di quello che l’uomo stava dicendo.

Veramente non furono le labbra dell’uomo a muoversi. Così, ferme, cave e protruse in avanti, formavano e suonavano il circolo della lettera O, così come la lingua spessa, apparve e scomparve veloce dietro i denti trascurati e quasi del tutto nascosti, nella volontà di pronunciare un suono dentale, spostando lievemente la pelle della gola in un’ultima contrazione nasale quasi impercettibile.

Gli sembrò di vedere il volto roseo di una persona senza occhi e braccia, affacciarsi alla finestra per un attimo e ritirarsi immediatamente nel buio del palato, sbattendo la porta.

 

L’espressione che seguì il locandiere era quella di colui che attendeva immediatamente una risposta, tuttavia il ragazzo non aveva veramente ascoltato nessuna domanda.

 

Incrociò le braccia con la pazienza e la resilienza di un commerciante esperto di quel genere di sguardi increduli. Gli occhi indifferenti dell’uomo ricaddero sui suoi, fissi e ancora più sgranati.

 

“Oh...”- D’Artagnan imitò parte di quel suono, del verso che avrebbe dovuto ascoltare ed annuì, una grossa lacrima abbandonò le palpebre ed abbassò lo sguardo.

 

“Orleans, Monsieur. Non ha detto altro. Volete pagare adesso o volete pagarla insieme alla vostra?”- ripeté il locandiere.

 

Lui arrossì nervosamente, mentre i tendini del collo si contrassero sotto la forza delle sue stesse meningi, avrebbe voluto piangere e gridare a squarciagola contro qualche cosa di inanimato, proprio come avrebbe fatto lei. Invece strinse i pugni e puntò il tacco al pavimento.

 

Il suono non provocò nel locandiere alcuna reazione, sbuffò e gli voltò le spalle.

 

Si guardò attorno, confuso, verso la ricerca di Constance, come se quello che l’uomo avesse appena detto fosse stata una menzogna. Era ancora lì, aveva appena fatto le valige, ma non era partita ancora, era sulla porta, sulla strada!

 

Certo, se fosse corso sulla strada l’avrebbe sicuramente vista! Bastava soltanto uscire fuori e lei sarebbe stata lì... No, non c’era più: non era lì e non era nelle contrade vicine, non era sul ponte per Meung: Beaugency era per lei una vista lontana e lui in mezzo alle contrade sinuose, verdi collinette, querce ombrose che oscuravano l’orizzonte, altrettanto lontano e abbandonato nella confusione.

 

Accorse di nuovo verso la locanda e i suoi piani superiori, salì le scale a lunghi balzi e fiato corto, sarebbe partito in quel momento, senza neppure prendere le sue cose: avrebbe soltanto dovuto avvisare i suoi compagni di Constance e...

 

Porthos ed Aramis, esclusi dalla stanza vicina, erano già dentro alle quattro strette mura, porte aperte e stanze vuote. Soldi, monete d’oro lasciate sul letto disfatto, Porthos cominciò a contare il denaro con indifferenza.

 

“Sapete cosa lo affligge? Non ricordo averlo mai visto così!”- disse Aramis, indicando la parete che segnava le loro stanze. Porthos prese tempo, sbadigliò, distese entrambe le braccia in un ampio arco per portarle ai fianchi. 

Strinse le palpebre diverse volte prima di rispondere, come se quella domanda fosse scontata e non meritasse veramente una risposta. 

 

“Che importa? Vuole stare da solo, lasciatelo solo!”- disse notando l’espressione incerta dell’amico.

 

“Solo che...” 

 

“Aramis!”- lo riprese.

 

“Veramente non c’entra neanche la sua salute: Buckingham non è l’uomo che credevo. Sono forse l’aiuto di un meschino?”

 

“Non é questo il punto...”

 

“E che mi dite della collana?”

 

“Cosa?!”

 

“Maledetta fin dal primo momento... Non avrei mai dovuto portarla via... L’ho... Rubata! Sono forse un ladro?”

 

Porthos alzò le spalle e sbottò accennando indifferenza alle sue incertezze.

 

“Troppo tardi per tornare indietro... Qualcun altro l’ha rubata alla Regina prima di voi. Con l’intento di riportarla alla Regina vi siete onorato di un pensiero giusto. Quella donna ha fatto lo stesso con noi e i nostri documenti! Vendetta è stata compiuta!”

 

“Ma... Ne stiamo forse pagando il prezzo?”

 

“E questo che c’entra con voi? Per una buona volta siete stato intelligente, proprio come me, ed avete avuto l’arguzia di non lasciarvi incantare da una donna bella e malvagia. Almeno me lo auguro!”

 

“...Però Athos...”

 

“Avanti! Voi non siete così ingenuo da non sapere affatto cosa lo affligge!”

 

“No ma ho fatto del mio meglio e non è contato a nulla... Potrebbe essere davvero per via di un cuore spezzato? Non siete preoccupato per le sue sorti?”

 

“Certo, ma sono anche affamato e, francamente, è stato lui a cercarsela”.

 

In una vita passata al fronte, gente che perdeva la testa per una donna o una bottiglia, non erano una novità. Porthos trovava la cosa fin troppo normale.

 

“Ci sono due modi per uscire dall’eterna sbornia: quella vera e quella dell’anima, uno è il suo. Potrebbe funzionare, ma è il gesto di un folle. Sapete cosa succede a gente come lui? Ricordate quando ha smesso di bere?”

 

Aramis scosse la testa come se il discorso dell’amico fosse qualche cosa di incomprensibile alle sue orecchie. Aveva sicuramente studiato e visto la melencolia coi suoi stessi occhi, ma quando cadeva così vicino non sembrava più la stessa. 

Era davvero pronto a combattere da solo contro un drago invisibile?

 

“E cosa volete fare? Aspettare qui senza fare nulla?”- chiese Porthos al suo silenzio.

 

“Dovremmo aiutarlo in qualche modo. Ma se vuole stare da solo, lasciatelo solo! 

A pancia piena si ragiona meglio! Andiamo! Venite con me e fate come vi ha detto...”

 

“Andate voi, io aspetto qui ancora un po’...”

 

Porthos gli voltò le spalle sgarbatamente, accennò un saluto verso D’Artagnan, annuì con più cortesia ai suoi occhi increduli e pose la sua quota di denaro tra le mani senza lasciarlo ribattere.

 

***

 

Aramis fissò la porta, ma di fronte al giovane non c’era che la visione del vuoto di un precipizio immaginario. Guardò in basso, verso la sua stessa vertigine, sotto il peso di un lungo sospiro carico di incertezze. 

 

Incapace di andare avanti, non potè altro che voltarsi indietro e ricordare tutto ciò che era appena accaduto, caricarsi della colpa di aver commesso errori irreparabili. Lo sconforto di avere in qualche modo provocato quella situazione.

 

L’ombra di Aramis, appoggiata allo stipite della porta, bloccò il passaggio di D’Artagnan. Le loro stanze erano chiuse a chiave e il giovane non gli diede la possibilità di entrare o avvicinarsi.

Chi era veramente? Un amico? Un rivale? Lo stava aiutando o lo voleva ostacolare?

 

Le sue mani poggiate sulla porta chiusa, celavano un’altra realtà.

Il cavaliere sul cavallo bianco era disceso tra i mortali. Era dunque il santo martire e militante? No.

 

Eppure nemmeno lui aveva avuto il coraggio di partire con Constance, non aveva avuto la virtù e non aveva mantenuto la sua parola di riaccompagnarla a Parigi.

 

Il brindisi di qualche tempo prima aveva in un certo senso rovinato la fiducia del giovane sulla ragazza, che era partita senza avvisare neppure lui. Ai suoi occhi, Aramis aveva cercato di celebrare ciò che ancora non era stato veramente ottenuto: la presunzione di colui che è avvezzo alle vittorie facili.

 

No, l’ombra che ostacolava la sua traversata non era nient’altro che quella un ragazzo, solo di qualche anno più grande, quale grande esperienza aveva mai potuto avere? 

Quali segrete conoscenze nascondeva? Sebbene lui era stato al fronte, D’Artagnan, il giovane Conte de Batz aveva visto la morte in faccia, aveva combattuto le intemperie, domato pochi uomini e fin troppi animali, aveva attraversato il regno da parte a parte, viaggiato per giorni, dal tramonto all’alba: aveva avuto a che fare con altrettante durezze. 

 

Il semplice fatto di aver benedetto un paio di soldati feriti al fronte non rendeva Aramis così tanto più sacro ed esperto di lui, non così tanto da poter reclamare su di lui alcun diritto o atteggiamento.

 

I due si scambiarono un lungo e silenzioso sguardo. Un’armatura dell’anima disciolta dalle fiamme di draghi invisibili, eppure vivi e dominanti.

 

Con sorpresa, notò quello sguardo nei suoi stessi occhi, in un tempo lontano e quasi dimenticato, la preoccupazione di qualcuno che ha perso una persona importante ed il timore di perderne un’altra. Di fronte a lui non compariva il nobile arrogante dei suoi gesti, ma un giovane ferito nell’anima e preoccupato per le sorti di qualcuno.

 

Il danno con Constance era irreparabile, era partita con la collana e senza di loro.

D’Artagnan aveva dato la sua parola! L’avrebbe riportata in Francia, a Parigi! Come l’avrebbe mai potuta raggiungere?

 

Aveva dato la sua parola, ma non gli era stato concesso di mantenerla. Doveva trovare il modo di rimediare...

 

Aramis sospirò, arreso dal suo stesso destino. Scosse la testa come se i fatti evidenti, ma mai annunciati a voce alta, l'avessero in qualche modo offeso. Preso da altri pensieri che lo affliggevano molto di più della dama e la sua collana e disse:

 

“Non temete per Constance”.

 

“Come? Non siete anche voi preoccupato per le sue sorti? Le ho fatto una promessa! È una bella da salvare! Pensavo che...”- le parole veloci di D’Artagnan furono presto interrotte.

 

“Sabra da Cirene, intendete”.

 

“Sabra da...”- D’Artagnan esitò, la principessa di tante favole e le leggende, la bella in pericolo, data in pasto al terribile drago. Annuì con incertezza.

 

“È colei che ha legato e tenuto fermo il Drago: è sua Cirene, la città che ha ereditato dal padre, per la quale fu pronta a sacrificarsi. È lei, disposta ad ogni costo a fare il volere del suo popolo, sprezzante della sua stessa vita. Il miracolo è stato compiuto sui suoi sacri cingoli, non dalla spada impugnata dalle mani dell’uomo: è sua la stola al collo del drago ed è con quella stessa cinta che il mostro è stato riportato nella sua città”.

 

La voce dell’amico corse chiara e veloce, triste, ma allo stesso tempo così rassicurante, D’Artagnan non potè fare a meno che ascoltare.

 

Senza Sabra non ci sarebbe mai stata giustizia, il drago non sarebbe mai stato sconfitto. Sabra non aveva mai atteso con pazienza l’arrivo del Santo.

 

Il discorso di Aramis si fermò di colpo.

“Ed ora vi chiedo un’altra volta: qual'è la vera morale della favola? Chi è il vero eroe della storia?”- chiese, riportandolo al presente.

 

Senza la principessa non ci sarebbe mai stato un martire da ricordare.

 

A quel pensiero, D’Artagnan sbuffò in silenzio, senza rispondere all’amico.

 

“Siete voi quel Santo martire? Alle volte mi chiedo... Vorrei essere come voi”- disse arrendendosi all’evidenza di come Aramis fosse davvero migliore di lui anche in quei momenti in cui non cercava di esserlo.

 

A quelle parole, il giovane cavaliere abbassò la fronte, come se guardasse la chiave con cui aveva appena chiuso la porta delle stanze del compagno. Occhi nascosti sotto la frangia dei capelli, un sorriso amaro pronto a tendere una delle guance. Non più il giovane impassibile dalle virtú inarrivabili, pronto a farsi beffe di se stesso e delle sue azioni.

 

“La mia è un’altra storia, è quella dell’ hidalgo sognatore...”- disse Aramis tra le labbra tese, un sussurro nervoso. 

 

Il sangue divampò rovente sulle tempie, caldo e potente come il fuoco stesso, il fiato di un drago vivo e presente tra di loro. Così reale da poter essere visto: nero e rosso come il sangue, verde come la bile.

 

“Non siate come me, non siate il folle cavaliere errante, viaggiatore senza meta, il cuore rapito dall’illusione di un amore o l’inarrestabile sete di vendetta... Languire per una Dulcinea che non esiste piú. Folle, folle hidalgo! Povero me!”- disse con rabbia, la voce quasi spezzata da un pianto sapientemente trattenuto. 

Nessuna lacrima solcò il suo volto, inspirò dal naso e si impettì di un falso orgoglio. La compostezza allenata di un vero uomo, privo di emozioni, un nobile cavaliere abituato al peggio.

 

Aramis si ripiegò sugli stivali dalle punte impolverate per poi notare le gambe raccolte tra le braccia. Come il santo dal volto giusto sotto l’elmo aperto, colui chino ad osservare il drago, l'oggetto spaventoso delle sue paure, un essere incapace di descrizione. 

 

Orribile e orrificante, che non sfida soltanto il Santo e la Principessa: sfida chiunque gli si ponga davanti, con le sue ampie ali tese: faccia a faccia con una terrificante falena dalle ali spalancate. Quando lo sguardo raggiungeva la terribile creatura, frutto dell’immaginazione illogica e delle paure di un povero artista, così il santo diventava semplicemente un altro soldato dallo sguardo vuoto. Anche la principessa perdeva importanza, relegata ai confini della grotta. 

 

“Abbiate il giudizio, siate il santo militante, date a Sabra le sue redini, perché solo in questo modo le mani del Santo saranno libere di imbracciare sia lo scudo che la spada...”

 

Non c’era gioia nel giovane. Rimpianto e dolore, Aramis irreprensibile, irraggiungibile e impeccabile era stato colto e schiacciato da una da una malinconia che non sembrava più derivare dalla partenza di Constance. 

 

Era piegato e immobile, nell’attesa di qualcosa, o qualcuno.

 

“Soltanto un folle si toglierebbe da un guaio per infilarsi in un altro...”- disse, nascondendo la bocca tra le braccia e senza guardarlo.

 

D’Artagnan non la pensava allo stesso modo.

 

“Badate, l’hidalgo è solo un folle per gli abitanti della Mancha, ma in cuor suo è un cavaliere a tutti gli effetti. Draghi e principesse, la sua immaginazione al di sopra della fame e il sonno, suo è un mondo interessante e curioso fatto di mostri, avventure ed amore. Le sue gesta valsero la penna dello scrittore e i suoi racconti vivono nelle stampe, da più di cento anni!”

 

L’orizzonte che si parava di fronte agli occhi di un cavaliere errante non era lo stesso di una porta chiusa.

 

“E chi era il Santo Martire, se non un folle spavaldo per gli abitanti di Cirene, pronto a sfoderare la sua audacia sulla sgargiante armatura, combattere un drago inarrestabile fino a quel momento, per la semplice vita di una donna, che loro stessi avevano deciso di sacrificare?”- chiese il ragazzo, riflettendo sulle stesse storie citate dal giovane.

 

La natura di un cavaliere errante rimaneva la stessa, nonostante le situazioni fossero così diverse. Il ragazzo gli tese la mano e lo fece rialzare

 

“Nel dono dell’amore, gli Dèi ci donano il coraggio!”- disse D’Artagnan ritrovando in se stesso l’entusiasmo che lo aveva spinto così lontano.

 

“Siate sia il Santo, il Martire e il Folle Hidalgo! Combattete in egual misura sia il drago che il mulino, amate Sabra e Dulcinea della stessa passione e andatene fiero!”- continuò. 

 

Gli occhi di color turchese incendiati di quel fuoco che sempre arde e mai si spegne: la speranza.

 

Il giovane lo ascoltò con attenzione. Il mento contratto, le sopracciglia piegate. Ed in quel momento, l’essere umano, in carne ed ossa e sangue, si mostrò con una lacrima furtiva, scappare tra le ciglia. Le guance arrossire di un’emozione nascosta.

 

D’Artagnan lo abbracciò in silenzio e con un impeto improvviso. Aramis non potè che ricambiare quell’abbraccio così animato. Sorpresa e indecisione si trasformarono presto in un dolce sorriso fraterno, la testa del ragazzo accarezzargli il mento.

Attimi dopo, il giovane cavaliere gli prese le braccia ed incrociò il suo sguardo dicendo:

 

“Constance è partita, ma Athos non partirà oggi. La mia scelta è quella di rimanere qui e rimetterlo in piedi. Non vi chiedo di rimanere con me, siamo noi di veglia e non ne avete il motivo. Non vi chiedo di andare, non sono io ad aver dato la mia parola a Constance. Vi chiedo però di fare ciò che ritenete più giusto per voi stesso, seguire la vostra meta, non le mie scelte o quelle di Porthos e neppure quelle di Constance. I vostri sogni prima di chiunque altro”.

 

Il ragazzo strinse i pugni e i denti, annuì con coraggio, sapendo quello che avrebbe fatto. Lo salutò e si allontanò di qualche passo, per poi voltarsi un’ultima volta. 

 

“Quando parlavate di Dulcinea... Non vi stavate riferendo a Constance, vero?”- chiese 

 

Aramis sgranò gli occhi con sorpresa, pensò lentamente alle parole di D’Artagnan ed accennò uno strano sorriso di imbarazzo.

 

“Certo che No!”- disse a voce alta.

 

Il ragazzo annuì e sellò il suo cavallo deciso di partire di corsa all’inseguimento di Constance.

 

Irruppe all’uscita della stalla e galoppò in fretta attraverso il ponte, in direzione di Meung, ma non fece in tempo ad uscire dalle porte della città, quando la visione terrificante lo fermò.

 

***

 

Nel silenzio dei piani alti della taverna, i lunghi passi tranquilli, tacchi duri e speroni tintinnanti sostituirono la corsa veloce di D’Artagnan.

 

“Non Avete atteso abbastanza?”- chiese Porthos.

La sua voce riecheggiò nell’anticamera.

 

Aramis si voltò con insofferenza, voltandogli le spalle di proposito, ma stanco di combattere e allietato dalle parole di D’Artagnan, scosse la testa e non reagì in altri modi.

 

“Credo di aver perso il senso della ragione”- disse tra se, evitando il suo sguardo.

 

Porthos accennò una smorfia di dispetto, come se l’amico avesse detto finalmente qualcosa di soddisfacente per le sue orecchie.

 

“Non temete, non potete perdere ciò che non avete mai ottenuto! Piuttosto, badate a me! Sono io che ho perso davvero tante cose care...”- disse lui. Aramis non gli prestò attenzione.

 

Il moschettiere si interruppe. Pose una mano davanti alla bocca, il tentativo di trattenere lamentele noiose, dette fino all’esasperazione, come se non volesse ricordare all’amico o a se stesso di aver sacrificato tutte le sue cose costose. 

Porthos alzò le spalle e scosse la testa, pose una mano sulla cintura, impettito dall’aria dei polmoni, sazio e in pace con se stesso. Con l’altra mano verso il soffitto, come se stesse citando i versi di un profeta del passato, in un teatro la cui platea era fatta di sospiri e ripensamenti.

 

“Sapete che vi dico? Al diavolo le mie cose! Ne comprerò altre! La pancia è piena, l’albergo pagato! Cosa potrei desiderare di meglio? Forse un arrosto intero! Carni marinate e insaporite dai fumi e dai legni di tiglio... Forse una donna!”- abbandonati i suoi pensieri oscuri, l’uomo abbozzò un sorriso soddisfatto. 

 

Aramis si voltó verso di lui, con uno sguardo incredulo, scosse la testa, come se le parole dell’amico fossero solo sogni ad occhi aperti di qualcuno non pronto ad accettare la realtà.

 

“Se non avete neanche il letto! Ricordate? Athos vi ha chiuso fuori dalle vostre stanze!”- disse Aramis mostrandogli la porta chiusa, come l’evidenza tangibile dei dubbi che ancora non lo lasciavano e che Porthos sembrava voler negare.

 

“Poco importa! Ritornerò prima di cena e ricordate quello che vi ho detto!”- l’uomo corse via senza dargli la possibilità di ribattere, ridendo con soddisfazione e affatto preoccupato per le sorti dell’amico o di quelle di D’Artagnan. Dimenticandosi che forse sarebbe stato suo il turno di veglia. 

 

Aramis rimase solo di fronte alla porta chiusa, il dubbio che lo aveva assalito era ancora presente, ma alleggerito in qualche modo dalle parole dei suoi amici.

 

***

 

Qualcuno bussò alla porta timidamente.

La prima volta, Athos si girò verso la parete e coprì la testa con le lenzuola.

 

Nessuno bussò una seconda, ma non aveva udito i passi della persona dall’altra parte andarsene, o avvicinarsi. Si voltò, il silenzio sembrò pesare su di lui più del solito.

 

Come Athos pensava di non poter mostrare a nessuno quel suo lato debole, così non aveva ancora trovato il modo di poterlo sopportare veramente lui stesso. 

 

L’ombra immobile al di fuori della sua stanza chiusa, divenne come una strana distrazione dalle altre ombre che oscuravano il suo cuore.

Chi si tratteneva al di fuori della porta per tutto quel tempo, senza allontanarsi o senza chiedere di entrare? 

Nella volontà di voler abbandonare dietro di lui un passato di ricordi e dolori che lo tormentavano e nella curiosità di scoprire chi fosse quella persona, aprì la porta con le forze che riuscì a trovare.

 

“Cosa fate ancora qui? Vi avevo detto di tornare tra tre giorni!”- sbottò, incrociando lo sguardo del giovane.

 

Interpellato con quella domanda, Aramis si impettì in un’arroganza amichevole.

 

“Non siete mica Cristo!”- disse alzando la voce ed entrando con apparente fierezza. Il giovane in un primo momento si guardò attorno, ritrovando parte dei suoi bagagli alla ricerca di qualche cosa, fingendo di non prestare attenzione all’amico.

 

“Piuttosto voi, cosa dovevate chiedere?”- continuó senza incontrare il suo sguardo.

 

Una volta che la sua curiosità fu soddisfatta e l’amico sembrò distratto da qualcos’altro, Athos si sdraiò di nuovo nel letto, voltò lo sguardo verso il muro arido ed emise un lungo sospiro, di nuovo incurante delle azioni dell’amico.

 

“Nulla. Soltanto la strana visione di colui che cerca di rimanere sobrio a tutti i costi e rifiuta il richiamo della bottiglia”.

 

Aramis fermò la sua ricerca e si avvicinò di qualche passo.

 

“State dicendo che...”- disse in un tono quasi sussurrato.

 

Athos ritornò con lo sguardo sul giovane.

 

“Sedetevi e guardatemi negli occhi, che vi possa vedere meglio in volto e sfatare così tutti i miei sospetti!”

 

“Quali sospetti?”- chiese l’altro.

 

“Guardatemi negli occhi, prendete la mia mano”.

 

Aramis esitò, con lieve imbarazzo, prese una mano tra le sue con gentilezza.

 

“Avete qualche cosa contro queste dita tristi?”

 

“No...”

 

L’uomo chiuse gli occhi ed annuì.

 

Quando la mano di Athos lasció la stretta, il giovane capí che il suo compagno si era di nuovo addormentato. 

 

Lacrime e sudore, qualsiasi esperienza stesse passando era qualcosa difficile da spiegare a parole. 

Aveva forse chiesto troppo al suo compagno? Era davvero possibile dimenticare il vero amore? Certo che no, un vero amore non si scorda mai. Neppure la parola d’onore può lavare via qualche cosa di così tanto profondo. 

 

“Al contrario...”- sussurrò Aramis in un lungo sospiro, ormai sicuro di non poter essere ascoltato. 

 

Si chinò sul volto dell’amico e ne studiò i lineamenti distesi con particolare attenzione. 

Le guance pallide e le labbra leggermente dischiuse dal sonno. Asciugò una lacrima con un lieve movimento delle dita e strinse più forte la sua mano, non più triste, soltanto inerme dalla stanchezza e, senza volerlo, si avvicinò di più. 

 

Sapone, l’odore intenso e gradevole delle lenzuola cambiate non più di un giorno prima, ostruiva e mascherava ancora tutti gli altri. Non a caso Aramis aveva scelto quel letto al posto di uno più soffice. 

Sospirò al profumo di un cuscino tanto desiderato, ma mai ottenuto... Profumo?

Il giovane si accorse di come il compagno non fosse adornato dai soliti odori sgradevoli, fumo, liquori e la nera bile dello stomaco dopo la solita sbronza. 

 

L’assenza di vini e liquori, gli fece capire come Athos stesse dicendo la verità e Porthos conoscesse per esperienza la causa di quel male. Non erano soltanto le ferite, dunque? C’era forse dell’altro?

Che fine aveva fatto la speranza?

 

Nella percezione del suo respiro caldo e lieve sulle guance, in quel senso di quiete silenziosa, Aramis sembrò come risvegliarsi da uno strano sogno ad occhi aperti. Scosse nuovo gli occhi da quella vista e si allontanò da lui immediatamente, raddrizzando la schiena, prese di nuovo fiato e, con un altro potente sospiro, sembró allo stesso modo allontanarsi da un pensiero non detto, il ricordo di una vita passata e la ragione di tante paure, scosse la testa.

 

Una brezza inaspettata fece tremare i vetri delle finestre, Aramis abbandonò l’attenzione sull’amico e rivolse lo sguardo verso l’esterno per qualche attimo, il tempo sembrava essere cambiato e forse una coltre di nuvole aveva adombrato il sole.

 

“Aramis!”- la voce dalla strada lo chiamò.

Il giovane non rivolse neppure lo sguardo, alzò le spalle con indifferenza e voltò le spalle alla strada e alla finestra. Se voleva veramente parlare, Porthos sarebbe potuto salire ai piani superiori e ritornare nelle loro stanze, invece di sbraitare in mezzo alla strada!

 

“Aramis! Presto!”- questa volta la voce si fece più alta, ancora una volta si rifiutò di rispondere.

 

“Monsieur le Baron, Cavalière René D’Herblay, venite fuori immediatamente. É un ordine!”

 

Erano passati anni dall'ultima volta che Porthos l’aveva chiamato così: la sua voce aveva abbandonato l’indolenza di qualche momento prima, non era più pigro e calmo, neppure insofferente ai sintomi di Athos o alle preoccupazioni sue e di D’Artagnan, ma chiaro e determinato, l’impeccabile pronuncia di colui che vuole farsi ascoltare seriamente da un compagno delle sue truppe. 

 

L'ordine di un superiore e, come un cadetto sotto il suo comando, Aramis ricevette quel comando senza protestare, si precipitó verso l'uscita della locanda verso la strada oramai divenuta completamente ombrosa.

 

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Capitolo 20
*** 20-Dieu et mon Droit ***


Capitolo 20

Dieu et mon Droit


Le campagne della Loira non avevano ancora visto fiorire i papaveri e le lucciole non illuminavano, romantiche, le notti di prima estate. 

 

Venti freddi e nuvole imprevedibili, destavano i sospetti di un inverno non ancora assopito e pronto a sferrare i suoi ultimi calci.

Sugli stessi venti selvaggi, cavalcavano spavalde le nuvole improvvise, rapide, vivaci, dai colori candidi della speranza, accesi del tramonto oppure scuri e grigi della tempesta. 

In una notte estiva e chiara, la luna avrebbe trovato conforto nella brezza, luce nelle stelle e le leggere nuvole dai riflessi argentei e i colori ultramarini, fluttuare delicate e nascondere di tanto in tanto la sua luce bianca. Peró una notte coperta dalla coltre grigia delle nubi pesanti, nascondeva qualsiasi stella e qualsiasi luna, la sua ombra avrebbe potuto nascondere ogni mistero, quando nessuna luce argentea avrebbe mai illuminato l’orizzonte.

 

Così come una celebre figura al galoppo, partita tempo prima da Parigi, trovava allora rifugio proprio tra le sue stesse mura. Il loro primo incontro di tanti anni prima rimaneva nella sua memoria come un semplice sussulto non visto dal grande pubblico di un Parlamento di Lords. Passi di qualcuno, o qualcosa, all’ombra di un bosco notturno.

 

“Non siete affatto curioso di sapere cosa si cela dietro i luoghi lontani e misteriosi descritti da Dekker, da Shakespeare?”- chiese lei, ma l’uomo era troppo intento sulla tavola per notarla. La sua prima risposta fu lo stridere del coltello sull'argento del piatto. Non era abbastanza, la donna sospiró e le sue dita martellarono lo stesso tavolo nervosamente, fino a che il loro rumore incalzante non costrinse il suo astante ad alzare lo sguardo ed incrociarlo con quello di lei, impaziente di risposte. Il giovane Marchese scosse la testa, inconsapevole dei suoi piani.

 

“In verità no. Non so neppure di chi state parlando”- rispose lui, a bocca piena, completamente distratto dalla sua pietanza, riempiendo un altro bicchiere di Cheverny. 

 

Una conversazione dai silenzi troppo lunghi e imbarazzanti per non sembrare soltanto un dovere da compiere e una patriottica cortesia, continuò a masticare e la osservò con vaghezza.

Come una farfalla bruciata in un attimo dalla fiamma della candela, così lo sguardo di Milady, dapprima sognante, ricadde oscurato nella delusione di uno sconosciuto completamente disinteressato ai suoi piani.

 

Tuttavia non si sarebbe arresa a quella risposta, non aveva ancora accettato quella richiesta, ma lo avrebbe fatto. Anche se non era vestito di seta bianca, era allo stesso modo bello come nei ritratti, aveva gli occhi grigi della tempesta, ricordo di qualcun altro, quell’amore perduto. Non poteva negarne una certa attraenza. 

Quello che più la interessava era il suo potere, seppure così volubile, di decidere con le sue alleanze il destino di una nazione. Durante quella notte arrivava dalla sponda sinistra della Senna, in una stretta uniforme francese, ambasciatore alla dimora del Salon delle Regine, un potere segreto che Richelieu non era riuscito ancora a domare. 

 

Eppure sedeva al parlamento inglese, lo conosceva di nome e di fama tramite le lamentele del marito. Il suo sposo da tempo lontano, Lord de Winter, era finalmente tornato utile a qualcosa.

 

Una volta di fronte a Milady, compagno della sua stessa tavola, George appariva tutt’altra persona rispetto alle descrizioni che aveva ricevuto in passato: con lui sarebbe dovuta partire da molto più lontano. 

 

Innanzitutto, la bestia selvaggia andava domata.

 

George, Marchese di Villiers non era che qualcun altro da farsi amico e il loro pasto a Beaugency fu accettato con fin troppo piacere, segno di come davvero non fosse proprio il benvenuto a Corte. Qualsiasi Corte: una posizione di potere, ma scomoda, quello di Lady de Winter non era per lui che un sontuoso invito da accettare senza pensarci troppo, dopo una spiacevole dipartita. 

Coincideva perfettamente con l’abbandono Parigi ed un ambíto ritorno alla destra del suo tanto adorato sovrano. 

 

In qualche modo coincideva anche con i suoi, di piani, ma aveva bisogno di più scuse. Milady era riuscita a raggiungere la Francia ed aveva bisogno di supporto e finanze. In quel momento aveva bisogno di nuovi fondi e materiali per i suoi viaggi. Aveva bisogno di strumenti, non di menti ingegnose. Di conseguenza di uomini di potere, aristocratici, inglesi e francesi, pronti a soddisfare i suoi voleri.

 

Proprio come l’unicorno, essere magico e imprevedibile, anche lui sembrava avere un piano difficile da interpretare. Ambasciatore francese? Eppure di ritorno in Inghilterra? Confidente segreto della Regina e amante di Re James nell’oscurità: passioni e carriera coincidevano in un famigerato percorso. Tratteneva i suoi piedi in troppe staffe per non non esserle d’aiuto in qualche modo!

 

George abbassò gli occhi sulla sua ampia scollatura per un istante, il suo sguardo scomodamente appoggiato sui respiri della donna, ma lo riportò immediatamente in alto, verso il suo, una volta notato.

 

“Certo... Sciocchezze!”- la donna forzò un nuovo sorriso sulle sue labbra, annuí con dispiacere alla sua completa ignoranza.

 

Lo scopo del suo stesso viaggio, la ragione per la quale aveva abbandonato tutto, un’illuminazione improvvisa e l’idea che ritrovare e costruire quella macchina antica sarebbe stata la sua ragione di vita: vendicarsi di qualcuno, un torto commesso in un lontano passato. Sciocchezze. 

 

Come avrebbe mai potuto mantenere quella faccia per un altro secondo? 

Dubitò nel pensiero che, se fosse stata davvero destinata alle fiamme dell’inferno, era in buona e fitta compagnia.

 

“Avete mai sognato di poter volare?”- chiese Milady, facendo scivolare le sue dita sulle labbra, in un atteggiamento pensoso e sensuale.

 

“Proprio come un falco, puntare e catturare la sua preda dall’alto”- continuò.

 

Come per incanto, lo sguardo di George finalmente cambiò. L’uomo deglutì il boccone e annuì con un sorriso insinuante. Dopo tanti tentativi, qualche cosa che risuonava attraente alle sue orecchie.

 

“Dieu et mon Droit!”- George le porse il bicchiere in un brindisi.

“Dieu et mon Droit”- ripose lei con un falso entusiasmo. 

 

Il suo corpo si bloccò in un gesto ferreo. Detestava quel motto allo stesso modo in cui ripudiava la sua patria nativa e traditrice e ne fuggiva alla prima occasione. Dov’era mai stata quella nazione, quel Regno che tanto si considerava giusto, che tanto desiderava protezione, in un tempo in cui lei stessa nella sua innocenza, era stata ingiustamente giudicata e condannata?

Un Regno e un Re, un parlamento, che tanto avevano da lei preteso, strappato, e nulla avevano mai restituito?

 

Una patria come quella, non poteva essere rappresentata da ambasciatore più adatto.

 

Nessun altro regno avrebbe mai potuto cogitare un motto tanto infame: Dio, la mia destra e il mio diritto. Il diritto e l’audacia di beffare il suo nemico per eccellenza, nella sua stessa lingua e così proclamare una vittoria meschina, temporanea. 

Il leone e l’unicorno incatenato, ma mai veramente addomesticato: politiche macchinose che l’avevano temprata alla vendetta, regni ancora in guerra da centinaia di anni. 

 

A quel dramma che tanto la coinvolgeva, Milady aveva una soluzione tutta sua: avrebbe trovato consiglio nelle ingegnerie militari antiche, in scienze politiche dimenticate, combattenti che avrebbero usato macchine, non persone, per affrontare le loro guerre, in mappe e stratagemmi obsoleti, lontani e segreti, che avrebbe preso tra le sue mani e posseduto di persona.

Li avrebbe letti, li avrebbe applicati e adattati per il suo tempo.

Avrebbe vinto la sua guerra personale con armi e stratagemmi sconosciuti e segreti.

 

Sarebbe partita per Amboise ed avrebbe trovato le carte lei stessa, prima di tutti. 

George, ed il suo intelletto, l’avrebbero sicuramente lasciata fare e non sarebbero mai stati d’intralcio. 

 

Alle volte però, si sentiva sola con se stessa. Incapace di spiegare completamente tutte le sue conoscenze e scoperte in dettaglio. Consapevole di non essere veramente capita, oppure il timore di essere di nuovo scoperta, accusata, condannata da un tribunale insensibile. 

Idee che non poteva confidare a nessuno in grado di capirla veramente.

 

All’improvviso, come nuvole bianche trasportate dal vento, così arrivò l’estate al castello di Amboise. Fortunate coincidenze, fiori su cui api laboriose e farfalle variegate potevano finalmente rifocillarsi, terre fertili e acque fresche, donarono i loro primi frutti e calmarono la sete. 

 

Notti illuminate dalla luna argentea e le lucciole dei campi di grano, così la sua mente e la sua voce trovarono orecchie capaci finalmente di ascoltarla, menti curiose e intelligenti, al pari della sua, braccia pronte ad aiutarla nel suo intento.

Aveva finalmente trovato quella musica che suonava solo per lei, il vero amore.

 

Comunque suoi erano altri piani, allora Milady non era il leone sovrano o un selvaggio unicorno incatenato...

_________________________

 

Nessun tramonto proiettava l'orizzonte sul fiume: ad oscurare il sole e portare la penombra, non erano nuvole, ma arbusti intrecciati in una sorta di travi e ceste. 

Simili alle vele di un mulino.

 

Alla vista che si presentava al loro orizzonte, Aramis annuì in una strana soddisfazione. 

 

I suoi occhi brillarono di nuovo, tese le labbra in un mezzo sorriso, tra sconcerto ed euforia, unì le mani in un applauso silenzioso. Un gesto che non provocò alcuna attenzione delle persone vicine, anche loro accorse per osservare quell’oggetto, mentre Porthos gli fece segno di stare indietro. Il giovane rispose a quel gesto con un’alzata di spalle, una leggera spinta del gomito e una risata, lo superò di alcuni passi e continuò a camminare.

Notando che l’amico era rimasto ancora immobile, emise un breve fischio e fece cenno di seguirlo.

 

L’altro moschettiere si impettì e prese fiato dalle narici, come se la sua mente avesse bisogno di più aria per pensare alla prossima mossa. 

 

Gli occhi preoccupati di Porthos non presentavano la stessa soddisfazione dell’amico, erano puntati da tutt’altra parte. La loro attenzione travolta dalla stessa cosa, ma vista con occhi differenti. Per ogni passo verso l’oggetto misterioso, i loro pensieri e i loro ricordi, cominciarono ad assumere un’armonia inspiegabile a chiunque altro.

 

Entrambi sapevano esattamente cosa stavano osservando e mentre parte di loro gioì con ritrovato entusiasmo, il timore di scoprire cosa avevano davvero davanti, si innalzò in un alternarsi di risate, applausi ed esclamazioni di orrore.

 

I due potevano già notare la creatura toccare terra all’orizzonte di un campo dorato, circondato da arbusti e cespugli, senza ancora distinguerne completamente i dettagli, ma poco importava. Sembrava come se quei dettagli mancanti fossero di poco valore o che la loro conoscenza fosse comunque già prevista.

 

“Che ve ne pare?”- chiese Aramis rivolto verso Porthos.

 

“Non me lo aspettavo. Sembrava troppo pesante per poter alzarsi da terra!”- rispose lui.

 

“L’elica si avvale dello stesso concetto dei disegni, ma voltata verso il suo orizzonte o del tutto capovolta fa in modo che il meccanismo possa salire e discendere da terra, all’apparenza proprio come un volatile...”

 

Aramis stinse lo sguardo, studiò ad una delle ali, per notare l’ingranaggio che la sosteneva: rappresentazione perfetta di quei disegni che aveva letto sulla strada del ritorno in Francia, qualche anno prima, e ancora ricordava incredulo.

 

“Aria, acqua e vapore, masse fluide e scroscianti. I venti si comportano proprio come un liquido nel quale navigare. In fondo non siamo come pesci, sommersi da un fluido più leggero dell’acqua e della terra?”- quelle parole provocarono in Aramis un sorriso ancora più ampio e onesto. Annuì con ancora più fervore.

 

“Forse è questo, ciò che più stimo veramente in voi!”- disse rivolto verso Porthos.

 

Seppure non troppo lunga, la camminata tra campi e arbusti sembrava aver preso molte delle energie dei due amici. Aramis fermò il passo e portò una mano sui fianchi, distese la schiena ed entrambi aspettarono in un momento di riposo, ancora troppo lontani per notare chi si celasse alla guida di quello strumento. 

 

“Sapreste guidare un arnese del genere?”- chiese il giovane.

 

“Che domande fate? Certo che sì! E voi sapreste fare lo stesso... Siete un pazzo, non uno stupido!”

 

“Vi... Ringrazio per quello che avete appena detto”- rispose Aramis distogliendo lo sguardo.

 

Al completo passaggio dell’ombra e alla luce ritrovata, il cavallo ramato rallentò il passo, per notare i due uomini a piedi nei campi. 

D’Artagnan non riuscì veramente ad osservare ciò che avanzava dietro di lui, proprio sopra la sua testa, era come un’ombra che copriva tutto, batteva le ali e si muoveva, vivida e barcollante, navigava verso l’orizzonte e gli trasmetteva un senso di precario orrore. Odore dell’olio di lanterna e il calore di un fuoco.

 

L’essere prendeva il vento come un pipistrello, ronzava come un calabrone e grande come un elefante. Girava il suo collo allo stesso modo di una strana proboscide, che terminava con una testa dai grandi occhi e una specie di becco, le sue ali si muovevano e si bloccavano senza un battito o un ritmo tipico di quello di un animale.

  

La creatura sconosciuta lo oltrepassò rapidamente, l’aria che ne veniva emessa era come un vento, la brezza generata, ma che allo stesso tempo lo faceva muovere e solo una volta lontana, D’Artagnan potè percepirne la forma, dal lungo collo, come un cigno o un drago e le grandi ali, fatte di legno e di tela.

 

L’oggetto di fronte a lui era enorme, altissimo, apparentemente inarrivabile. I suoi movimenti e odori innaturali stridevano con quelli descritti dalle creature delle leggende.


Un tempo D’Artagnan credeva che quella cosa fosse viva, ma adesso non ne era più del tutto sicuro.

__________________________

 

Quando l’estate ruggente sarebbe tornata, con i suoi caldi raggi, con i suoi cieli illuminati da un nuovo sole e le sue notti accese dalle luci degli insetti, chi avrebbe mai ascoltato con lei quella musica mundana?

 

Gli occhi verdi di Milady si colmarono nuovamente di lacrime. Aveva perso tanto durante quella lunga e grigia primavera, che ancora non aveva dato frutti. Come un agricoltore esperto, sapeva di aver arato e curato sapientemente il suo terreno, ma sapeva anche di come alcune stagioni possano essere avverse e povere nei loro raccolti. 

 

Allo stesso tempo venti avversi, stormi affamati e tristi destini non le avevano lasciato nulla, neppure la sete di vendetta, l’attesa o la speranza.  

 

Come in una notte di tanti anni prima, così quella notte portava di nuovo una figura nell’ombra.

 

“Sempre insieme, io e voi, proprio come il leone e l’unicorno...”

 

“Il mio leone non accompagna unicorni, mio caro”- sussurró lei, fissando i suoi occhi grigi.

 

Essendo adunque un Principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quella pigliare la volpe e il lione; perchè il lione non si defende da' lacci, la volpe non si defende da' lupi. Bisogna adunque essere volpe a cognoscere i lacci, e lione a sbigottire i lupi.

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Capitolo 21
*** 21-Ex Machina ***


Capitolo 21

Ex Machina

 

Orleans, Aurelia Francese, cittá originaria della civitá romana. 

Proprio lì, il Comandante Rochefort trovava, di solito, quel senso di ordine e rassicurante ritorno dopo un un lungo viaggio. Era passato del tempo, per certo, ma quello non era stato affatto un viaggio dalle lunghe distanze.

 

Il breve tratto di strada, non sarebbe dovuto essere cosí lento, non più di una giornata al passo e ancora meno al galoppo. Se soltanto avesse portato con se meno uomini e meno cavalli.

E invece rimaneva costretto a tardare la sua partenza nella mattinata, per accontentare i suoi uomini più stanchi, che avevano passato la notte in piedi, a festeggiare, per le strade del villaggio.

 

Un villaggio nel quale non avrebbe voluto alloggiare per nulla al mondo, ma era stato costretto obbedire alla maggioranza. Tutto ciò non aveva un senso: era lui il Comandante, come si era ridotto a dover accomodare i voleri dei suoi uomini? Qualcuno avrebbe dovuto pagare per questa umiliazione, ma c’era ancora tempo per questi altri piani, per amministrare le dovute punizioni. Per adesso, era soltanto giunto il momento di fare ritorno.

 

La sua missione era arrivata al termine e non voleva veramente rimpiangere una scelta del passato alla quale era impossibile rimediare, meglio andare avanti e pensare dopo.

 

Soltanto due ore di strada e le truppe si dovevano nuovamente fermare e dovevano essere nuovamente riprese: cavalli già stanchi, armamenti disordinati. Alla gioventú e salute delle sue truppe, coincideva altrettanta inesperienza e confusione: tempo perso a riallineare le schiere, ad aspettare risvegli ed armamenti. Al loro nuovo battibecco e diserzione, ad un’altra delle loro nuove pigrizie, il Comandante arrese la vista e le orecchie, scosse la testa in un senso di disgusto e disonore, distolse lo sguardo sospirando e sognando le stanze pacifiche e accoglienti di Palazzo Richelieu.

 

Un combattente, un soldato, che contava il doppio o il triplo dei loro anni non avrebbe certo perso tempo! Avrebbe avuto sia l’esperienza del combattimento, che la fretta di tornare indietro. Peró non avrebbe avuto la stessa forza o la stessa vista e, soprattutto, avrebbe contrapposto le scelte del Comandante con molto piú vigore e con la logica di una personale esperienza.

 

A lui non piaceva pensare troppo alle filosofie degli altri, essere giustamente contraddetto e rispondere al dibattito. Non aveva voglia di superare in astuzia soldati pronti a contestare le sue decisioni: un comandante andava obbedito, senza troppo pensare, senza critiche. 

 

Un soldato troppo vecchio e troppo testardo, capace di propri pensieri, capace di negare un ordine e questionare la sua parola, andava sostituito con uno più giovane, dalle gambe migliori e il giudizio... 

 

Quale giudizio? Il Comandante era la voce della coscienza e del giudizio, la sua scelta dettata da Richelieu, dalla fortuna e da Dio! 

 

Forse era meglio se quei giovani non avessero mai avuto un giudizio e, se mai fosse arrivato il giorno in cui i loro cervelli avessero davvero cominciato a funzionare, andavano trattati allo stesso modo in cui lui aveva sempre trattato i soldati più esperti: come soldati vecchi, dalle gambe deboli, malati e dunque pronti ad essere subito sostituiti con truppe più giovani e in salute.

 

Pazienza, virtú dei forti, avrebbe dovuta trovarne fin troppa per un solo giorno di viaggio, così breve e allo stesso tempo interminabile. 

 

L’attenzione di Rochefort abbandonò i suoi uomini, in cerca di un ristoro silenzioso, una camera tutta per se dove poter distendere le spalle doloranti, o altre compagnie più gradevoli, e tornò col suo sguardo in avanti, verso l’orizzonte. 

 

Una volta fermi sulla strada cittadina, proprio all’angolo di un incrocio che portava verso una delle prime taverne, notó le vesti azzurre dagli orli impolverati ed un volto familiare, di poco lontano, colsero i suoi interessi. 

 

Santi Numi! Ricordava di aver visto quella ragazza non troppo tempo prima, a Parigi! Era...

 

Il Comandante raddrizzò le spalle, spronò leggermente il suo cavallo e si avvicino a quella vista insolita. Una volta riconosciuta, i loro sguardi si bloccano l’uno sull’altra e lei non sarebbe potuta più scappare alle sue reverenze. Scese da cavallo e si avvicinò. 

Per quanto fosse sorpresa di essere riconosciuta in quella città da un uomo come lui, l’attenzione della ragazza sembrava essere rivolta vagamente altrove.

 

“Mademoiselle?”- chiese lui con inchino di discrezione.

“Comandante?”- disse lei, con lo stesso tono di apparente spavento.

 

“Vi vedo leggermente stanca. Cosa fate per le strade di questa cittá? Cosa vi porta cosí lontano da Palazzo Reale?”- chiese lui, scrutando attentamente i suoi modi nervosi e preoccupati.

 

“Che dite! Non siamo mica poi così lontani! Non più di due giorni di strada a piedi, uno a cavallo. Voi stesso arrivereste a Parigi domattina, ancora prima dell’alba, se vi metteste in viaggio proprio adesso!”- Constance sorrise, ma non lasciò mai il suo sguardo: gli occhi di lei altrettanto attenti su di lui. Qualche cosa tradì l’apparente serenità della ragazza.

 

Rochefort cercò di notare la ragione di quella preoccupazione, lo strano nervosismo negli occhi della giovane dama, ma si distrasse quando le parole appena pronunciate, puntarono direttamente verso le sue stesse preoccupazioni, la causa dei suoi stessi mali. 

Infastidito da quei pensieri, sospirò digrignando i denti, in un rumore che ricordò quello del ringhiare di un animale colpito di nuovo nella piaga aperta dai mali che lo affliggevano e che stentava a guarire.

 

“Nulla mi porta così lontano, è solo una semplice scampagnata”- si giustificò lei.

 

“Da sola, per le strade di Orleans?”- chiese, in un tono di sorpresa.

 

Entrambi sapevano che, incontrarsi in una città del genere, non era come incontrarsi per le strade di Parigi: tutt'altra città e tutt’altro ducato. Eppure non un ducato qualunque, quello del contendente al trono di Francia, fermato alla sua ascesa al trono soltanto qualche anno prima, grazie ai complotti di Richelieu.

 

“Ne siete proprio sicura?”

 

Constance sorrise di nuovo, senza rispondere.

Rochefort voltò lo sguardo dietro di se, verso le porte della città attraversate qualche attimo prima. Come se avesse riconosciuto la strada futura che la dama avrebbe dovuto percorrere per arrivare alla sua destinazione.

 

“Che dico, ci troviamo proprio verso la porta dell’Ovest, quella che dà su Meung e Beaugency! A proposito della Torre del Diavolo...”- il comandante si interruppe.

 

Constance esitò un solo attimo, ma il nome incuteva in lei le stesse ire, la stessa ansia che l’aveva portata ad Orleans, in quel giorno di viaggio tra le piatte banche e pianure della Loira. 

 

“Dai vostri occhi sembra che il villaggio non vi è nuovo. Non dite che siete diretta proprio a Beaugency! Anche voi?”

 

Rochefort alzò le sopracciglia, corrugando la fronte, notando l’espressione sul volto della ragazza. 

 

Constance deglutì.

 

“Certo, Beaugency. Sto andando proprio in quella direzione. Ho...”

 

Le bugie della ragazza si fermarono nella sua gola, così come il respiro. Si interruppe, pensando a quello che avrebbe potuto dire. Se aveva lasciato i moschettieri e D’Artagnan perché avevano perso fin troppo tempo, di certo le guardie di Richelieu e le loro preoccupanti intenzioni, non sarebbero mai arrivate in suo aiuto. 

 

Pensò attentamente al pericolo che stava correndo, all’idea di essere interdetta nella sua missione una volta che la collana fosse stata scoperta. Un’altra serie di domande, un interrogatorio piú accanito, ma se il comandante avesse scoperto la ragione per la quale si trovava ad Orleans ed il suo intento di ritornare a Parigi, in quel momento, se avesse anche solo avuto il sospetto di quello che il Cardinale stava davvero cercando...

 

“Parenti, amici, anche da quelle parti”- disse, tendendo le labbra in un falso sorriso. 

Lo sguardo di Rochefort si strinse, diventando ancora più sottile e tagliente.

 

“Che strana coincidenza”- disse lui, con uno strano sibilo.

 

Il Comandante attese qualche attimo. La situazione, da noiosa e formale, si stava facendo vagamente più interessante, se non per il fatto di capire le vere intenzioni della dama.

 

“Vi accompagnerei volentieri, ma siamo proprio di ritorno da quel villaggio e, sinceramente, non trovo nulla di interessante da ricordare proprio laggiù. Si sta già facendo tardi e non ho ragione di tornare indietro, a meno che...”- il Comandante si interruppe, Constance avrebbe dovuto avere una buona ragione per convincerlo a tornare con lei a Beaugency.

 

“Eh, infatti, comandante, non avete ragione di perdere tempo con me, non siete obbligato ad accompagnarmi da nessuna parte!”- la voce della ragazza tremò, mentre le guance ed il naso si contrassero in una piccola smorfia.

 

“Dovrò sembrarvi così sgarbato, ma ahimè, il tempo passa troppo in fretta! Purtroppo, mentre voi andate avanti per la vostra strada, io devo già tornare indietro, Richelieu aspetta mie notizie”- Rochefort sembrò avanzare, sporgersi in avanti per inchinarsi in un cenno di saluto, abbandonare la ragazza a se stessa e non perdere altro tempo, ma in quel momento si rialzò verso di lei e continuò la sua conversazione.

 

“Si dà il caso che in quel villaggio, alcuni membri dell’aristocrazia ospitino certi particolari nobili e invece altri ne hanno eterno riposo. Ed ora anche voi arriverete laggiù. Non sia mai che il vostro arrivo sia motivo di nuove da riportare a Corte... Per la Regina. Forse potrei esservi d’aiuto?”

 

Constance sbarrò gli occhi e scosse la testa. 

Nascose le mani tra le pieghe delle gonne, dicendo:

 

“No, affatto! La Regina non conosce questi miei parenti! Ho lasciato la Corte del Louvre solo per qualche giorno”- disse poi, chinando il capo. 

 

Rochefort annuì.

 

“Certo per incontrare i vostri parenti. A Beaugency. Che posto strano, l'Orléanais, per una famiglia come la vostra, che ha fatto di tutto per insinuarsi alla corte Parigi. Tuttavia, non vedo nessuno accompagnarvi!”- l'uomo sbirció attorno incuriosito.

 

Constance distolse lo sguardo e accarezzò i diamanti della collana nascosta tra le pieghe e le tasche delle sue gonne.

 

“Vi sbagliate! Sono tutti lá fuori! In quella carrozza, anzi! Li sentite? Mi stanno chiamando! Oh povera me! Sono cosí in ritardo!”- la sua voce si spezzò, il fiato si rapprese, mentre cercò nella sua mente e, tra le tasche delle sue gonne, per altre false verità.

 

Il Comandante guardò nella sua stessa direzione, senza notare nulla.

 

“Quanti siete?”

 

D’istinto, si rivolse a lei come se stesse parlando al capitano di un’altra schiera. La dama reagí in tutta fretta.

 

“Fin troppi! Impossibile accontentare sempre tutti in famiglia, vero?! Meglio sbrigarsi o faremo tardi! Aspettate!”- lei distolse lo sguardo per qualche attimo dalla loro conversazione, come se fosse rivolta a qualcuno e fece segno a loro di aspettare, ma nessuno rispose al suo segnale.

 

I tacchi di Constance fecero un balzo indietro e poi subito in avanti, proprio come se la dama stesse offrendo un passo di danza verso un etereo cavaliere e, con un’agilità incomprensibile ai suoi fiocchi impolverati e a quei tacchi troppo alti, abbandonò la vista di Rochefort verso una carrozza che non aveva nulla a che vedere con le vetture destinate ai sovrani.

 

Beaugency tornava di nuovo tra gli argomenti delle sue discussioni. Una dama al servizio della Regina diretta proprio là a breve dalla sua stessa spedizione. Avrebbe dovuto affrettarsi a Parigi e riferire quello a cui stava assistendo a Richelieu? Avrebbe dovuto tornare indietro oppure aspettare? Tardare la sua missione e seguire la giovane dama e i suoi intenti? 

 

Dubbi affollarono il giudizio del Comandante della Guardia Cardinale, ma nessun altro, neppure la tanto adorata Déa Francia, avrebbe potuto portargli consiglio in quel momento.

Preso dalla sorpresa e dalla rassegnazione dell’incertezza, radunò i suoi uomini e, nella completa inedia dei giovani soldati, decise per un’altro tempo di attesa e un momentaneo assedio pacifico delle taverne di Orleans.

 

___________________

 

Inevitabilmente, come per incanto o eterna maledizione, le azioni di D’Artagnan avevano in quel momento fatto per lui una scelta cruciale: aveva scelto il Mostro a Constance, l’oro dei campi di grano alle rive smeraldo e argento della Loira, al di là del ponte per Orleans. 

 

La macchina si era presentata di fronte ai suoi occhi e, con stupore e sorpresa, la sua mente era stata di nuovo sopraffatta: troppo affascinato da quella vista gigantesca ed il complesso meccanismo, D’Artagnan seguì l’orizzonte e l’ombra misteriosa che gli ricordava proprio quella di una nave. Però l’intreccio delle sue assi di vimini non era accompagnato dall’odore del sale e del mare, ma da quello dell’olio, della pietra e del catrame. 

L’odore di una città dall’altra sponda del mare, fin troppo mordace e ancora familiare.

 

La creatura sconosciuta lo oltrepassò rapidamente, l’aria che ne veniva emessa era come un vento, la brezza generata, ma che allo stesso tempo faceva muovere le pale di un mulino e solo una volta lontana potè percepirne la forma, dal lungo collo, come quella di un cigno o un drago, le grandi ali, fatte di legno e di tela.

 

Preso dallo spavento dell’ombra, Ronzinante stentò il passo, sobbalzò nervosamente senza voler raggiungere la destinazione, fino a che non fu costretto a riportarlo verso stalla e proseguire a piedi.

Tra quei campi alti e dorati, anche Porthos ed Aramis stavano raggiungendo la stessa meta. Riconobbe le loro figure in lontananza, camminare più lentamente, di fronte a lui. Quando lo riconobbero, fecero lui cenno di raggiungerlo, ma di agire con calma.

 

Gli occhi di quell’essere sembrarono puntare su di loro, ma non si voltarono quando Porthos ed Aramis aggirarono il suo fianco. I due non sembravano intimoriti dalla sua vicinanza, più che dalla possibilità che ci fosse qualcuno al suo interno. Tuttavia, D’Artagnan continuava a non capire da dove una persona potesse entrare, non capiva se gli occhi che lo osservavano erano veri o le finestre di un mondo interno, costruito di proposito per accomodare la vista di qualcuno.

 

“Dovrebbe trovarsi qui...”- disse Porthos verso Aramis, aggrappandosi ad una specie di becco e, con un semplice balzo aveva già raggiunto parte di un’ala. Una leva, una maniglia che ricordava quella quella del coperchio di una pentola gigantesca, scaturiva da una specie di cupola.

 

Dopo un’attenta esaminazione, accertandosi che non ci fosse nessun altro nei paraggi, Porthos si arrampicò su quelli che sembravano i pioli di una scala ed in cima potè aprire un portello, del tutto simile a quello di una carrozza molto piccola. Si accovacciò e lentamente si strinse dentro la porta, come ingoiato dalla macchina.

 

“Dunque a questo servirono di documenti che Milady ci portò via!”- esclamò poco dopo guardandosi attorno.

 

Gli altri due lo seguirono dentro quella stretta carrozza.

 

“Bisogna ammettere che il creatore di questa cosa ha fatto comunque un ottimo lavoro”- continuò rivolto verso Aramis.

 

“Credete che Milady sia ancora nei paraggi?”- chiese D’Artagnan.

 

“Probabilmente sì, visto che ha assistito al funerale. Potrebbe essere lei stessa o chi per lei ad aver portato questo oggetto proprio qui, in bella vista, forse per una personale ripicca...”- rispose Aramis senza guardarlo. I due cominciarono a scrutare attentamente tutte le leve e gli ingranaggi con cui la macchina era stata costruita.

 

D’Artagnan cercò di riconoscere qualche strumento ed ebbe l’impressione di vedere un orologio, un compasso, una sorta di strumento navale ed una serie di leve in legno e metallo, una a fianco all’altra, come pali di una staccionata, a cui non riusciva a dare un vero e proprio senso. Dall’alto pendevano altre corde, anch’esse con una loro funzione.

 

“Così si aprono le ali”- disse uno, tirando una leva.

 

“Così si manovra la testa”- rispose l’altro, tirando una delle corde.

 

“Per osservare cosa si vede dagli occhi, potete guardare qui”- Porthos, mostrò una specie di scatola, attaccata al soffitto, dalla quale una serie di specchi rifletteva un lato esterno della macchina. 

 

D’Artagnan sorrise, quell’aggeggio impensabile aveva in se qualcosa di sconosciuto e meraviglioso...

 

“State pensando a ciò che sto pensando io?”- chiese Porthos, rivolto ad Aramis.

 

“La nostra peersonale vendetta! L’occasione di farci finalmente giustizia! Accendete quella Pila! Si parte!”

 

“Siete sicuri di potercela fare?”- chiese D’Artagnan ai due.

 

“Se ce l’ha fatta qualcuno da solo a trasportarla per tutta questa strada, non vedo come non potremmo farcela noi, in tre!”- ribatté Porthos, accendendo una specie di fuoco, dentro quella che sembrava una sorta di stufa e poi alterando la posizione delle leve avanti e indietro.

 

La macchina sobbalzò, le ali trovarono nei loro movimenti una sorta di equilibrio quando si sollevò da terra e cominciò a librare verso l’alto, in un movimento che ricordava quello di un vascello sulle onde.

 

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Capitolo 22
*** 22-Harmonices Mundi ***


 

Capitolo 22

Harmonices Mundi 


D’Artagnan guardò i due armeggiare animatamente sulle leve e le corde di quell’apparecchio, la stufa bruciare, su un complesso di oggetti concentrici che, tramite fumo e vapore, roteavano attorno ad altri ingranaggi.

Solo una volta raggiunta una sorta di equilibrio, notando che le ali dell’arnese continuarono a battere autonomamente e senza l’aiuto di leve, i due sembrarono tornare con la loro mente all’interno del carro e ricordarsi della sua presenza.

La stanza all’interno della macchina era piccola quanto una camera da letto, i suoi soffitti altrettanto bassi, costringevano gli altri a chinare la testa e accovacciare le gambe, conservavano il calore proveniente da quella stufa, rendendo l’aria quasi irrespirabile. Un’immagine ormai familiare agli occhi del ragazzo.

 

Porthos riuscí faticosamente a sedersi e raddrizzare la schiena, mentre Aramis si curvó ancora di piú verso la scatola con gli specchi, successivamente su un’altra leva e un’altra scatola, mentre uno sbuffo di aria fresca provení da quest’ultima, risucchiando con se il fumo della stufa verso l’esterno. 

 

“Un aggeggio del genere ci metterebbe soltanto ore per una traversata che, da terra, si completerebbe in parecchi giorni”- disse 

 

“Ore?”- chiese D’Artagnan 

 

Gli altri due annuirono.

 

“Non vi piacerebbe essere dall'altra parte del mondo?”- chiese Porthos.

 

“Vorrei essere dall'altra parte di questo regno. Vorrei comunque mostrare questa cosa a certa gente... In Guascogna!”- D’Artagnan si rivolse ai due con un tono quasi sognante, ma loro erano già al lavoro per trovare la rotta più veloce.

 

“Detto, fatto...”- commentò, indicando Aramis verso una serie di oggetti e carte, addossate dall’altra parte del fuoco. Cercando di tenersi lontano dal fumo, il giovane lesse una delle mappe e i due arrangiarono gli strumenti in modo che potessero cambiare rotta verso le sue terre d’origine, controllarono altre carte e bussole e la forza dei venti, in modo che l’intera struttura rimanesse abbastanza regolare.

 

“Com’è possibile tutto questo?”- chiese il ragazzo, indicando la schiera di arnesi che stavano manovrando.

 

“Automi, Pile e macchine, create per impressionare i sovrani di regni e imperi. Abbastanza rare, ma nulla di nuovo”.

 

Gli ricordò Porthos.

 

“C’è chi ha costruito macchine così perfette da sembrare troppo vere. Leggende che descrivono animali meccanici ed alcuni trattati antichi che ricordano i movimenti automatici provocati dal vapore, come l'eolipila, il cuore di questo meccanismo”.

 

“I disegni sono per mano di Leonardo da Vinci”- disse Porthos.

 

“Dunque è Leonardo da Vinci il creatore di questa macchina?”- chiese D’Artagnan.

 

“Non è lui il creatore originale dell’elica e della sua struttura. Queste sono nient’altro che la conseguenza di un’antichità mai del tutto perduta o il senso innato, inspiegabile eppure logico e meccanico della natura che porta l’umanità sempre alle stesse conclusioni: come i matematici odierni che ancora descrivono le Harmonices Mundi tramite la geometria, decifrando i testi antichi, la sezione aurea”.

 

Con quelle parole, Aramis sembrò correggere Porthos.

 

“Che ragione avete per credere tutto questo? Cosa dà prova che non sia Leonardo il vero inventore di quest’opera e i suoi disegni? In fondo non è proprio lui che ha creato il leone meccanico e la statua equestre?”- chiese lui, di rimando.

 

Aramis annuì, prese aria dal naso e, con un sorriso compiaciuto rispose:

 

“Dovreste guardare in un tempo molto più lontano, antichi rilievi, come quelli della Colonna Traiana, il movimento elicoidale dei suoi fregi non poteva essere dettato che dall’idea di un’elica, un movimento rotatorio come quello della Pila, un nastro che si avvolge un asse, proprio come l’albero motore, la struttura fondamentale di macchine costruite nella Grecia antica”.

 

Porthos sbuffò e gli mostrò il fuoco della stufa che avrebbe dovuto attendere, invece di parlare.

 

D’Artagnan guardò verso l’esterno, notando il sistema che, roteando, faceva battere le ali. Come un’elica che ruota su se stessa e si avvolge sul suo asse, così i fregi della colonna romana ricordavano lui la corda che legava e avvolgeva stretta un animale attaccato ad un palo. Se il nodo e il palo fossero stati stretti e fissi, senza alcuna possibilità di muoversi, nonostante la corda fosse stata abbastanza lunga, sarebbe arrivato il punto inevitabile in cui si sarebbe avvolta solo su se stessa. 

 

Appiattita, e vista dall’alto, questa avrebbe la forma di una chiocciola o di una conchiglia, i cerchi concentrici di un albero tagliato al suo interno, la proporzione dei cerchi avrebbe seguito una definitiva costante. Così come un alveare, anche quello selvatico, non cambia mai la sua struttura interna, così come un fiore d’altra parte mondo, il girasole e la sezione concentrica dei suoi semi, dei suoi alveoli regolari, siano sempre una costante fissa, la sezione aurea, l’impercettibile e inaudibile ritmo che comanda la natura, la vita e il mondo: la Musica Mundana.

 

“Non avrei mai creduto che qualcuno potesse costruire una macchina simile”- disse il ragazzo.

 

“È assaporando il frutto della conoscenza che Eva si rende conto di essere viva e mortale. È una grande responsabilità poiché priva gli esseri umani della loro innocenza e li rende parte attiva del loro destino: è una lama a doppio taglio che può essere usata per il bene e per il male.

Però la nostra conoscenza, sono le nostre esperienze che creano la nostra identità”.

 

Aramis sospirò, il suo compiacimento lasciò spazio ad un ricordo passeggero, il suo sguardo si soffermò per un attimo sulle sue mani aperte, ancora sporche della fuliggine della stufa, come se avessero realizzato qualcosa di concreto, volse lo sguardo verso Porthos e di nuovo verso D’Artagnan.

 

Come l’ignoranza è a volte causa di tante paure, così a volte, la conoscenza di chi, o cosa, ci si aspetta e si ha di fronte, porta coraggio. La macchina su cui stavano viaggiando ne era un certo senso l’esempio: una volta compreso come avesse funzionato, non era più una creatura fantastica, ma un oggetto in grado di essere guidato.

 

__________________

 

D’Artagnan non aveva mai visto tramontare il sole da quell’altezza, le montagne mostravano i colori della roccia e la notte che tardava ad arrivare, così come i pascoli della prima montagna non erano ancora stati ritirati, i greggi di pecore e le vacche nutrite e di solito a riposo.

 

Per quanto la macchina fosse così veloce e non temesse la difficoltà delle strade scoscese, arrivarono alla tenuta dei D’Artagnan nel pieno della notte, lanterne accese, quello strumento ne possedeva fin troppe e potevano essere appese sia al suo interno che all’esterno. Anche queste richiedevano olio e combustibile, ma come se si trattasse di un eterno miracolo, l'eolipila, il cuore che batteva in quello stomaco di assi, rami intrecciati e tele, sembrava averne sempre a sufficienza.

 

D’Artagnan tirò la leva, proprio come aveva visto fare a Porthos, ma questa volta uno spruzzo di combustibile originò dal collo dello strumento, una sorta di acciarino e una mistura dagli odori sulfurei accese una fiamma, allo stesso modo in cui uno sputafuoco meravigliava il suo pubblico.

Questo, dalle dimensioni molto più grandi, continuò a bruciare e illuminare i campi attorno a se nella luce delle fiamme in calda e primordiale. Erano giunti in Guascogna, nel mezzo di un’anonima tenuta montana.

 

Tra il fuoco, i carboni brucianti e muggiti dolorosi, l’odore invitante di carne arrostita fece notare ai tre che il loro fuoco aveva forse incontrato un pascolo. Una lanterna giunse verso il fuoco ed un volto familiare al ragazzo, sbirciò tra gli specchi della scatola.

 

I tre scesero dalla macchina, per essere riconosciuti da qualcuno.

 

“Charles! Ben tornato!”- gridò André, affatto intimorito dall’arnese dietro di loro e dall’incendio poco distante. Non sembrò neppure preoccupato dai campi danneggiati, dalla sofferenza delle povere bestie, alcune arrostite dalle fiamme.

 

Il volto di D’Artagnan sbiancò: vacche?! Animali di un gregge? Non erano sulla tenuta dei D’Artagnan! Erano sulla tenuta del Marchese di Navarra! Cosa avrebbe potuto spiegare ad André, come avrebbe potuto ripagare il danno di aver bruciato i loro pascoli, dopo tutto quello che era successo?

 

André alzò le spalle.

 

“Non preoccupatevi, parlerò io con il Conte de Batz e i vostri fratelli. Sono sicuro che questo inconveniente non sarà neppure notato, anzi! Che serva di lezione ai Navarra!”- disse con una strana indifferenza.

 

“Conte de Batz? Siamo sulla tenuta di famiglia? Perché allora le vacche del Marchese di Navarra sono sulla nostra tenuta?”- chiese D’Artagnan.

 

André sbuffò ed indicò con la sua lanterna un recinto poco distante. Si poteva chiaramente distinguere come fosse stato danneggiato e come, senza preavviso, le mucche dei Navarra avevano attraversato il confine per raggiungere quella parte del pascolo.

 

“Certe cose sono cambiate, da quando siete partito. I De Batz non hanno più bisogno di questi campi e non si sono mai accorti di quello che stava succedendo qui”.

 

“Come mai?”

 

“Ricordate delle stampe che portaste a casa dalla città? Della fattoria di legno cui parlavate? Ebbene i vostri fratelli hanno trovato quelle carte ed il modo di costruirla, con più di trenta servi e in meno di una settimana! Il Conte vostro avo ha celebrato i loro meriti ed ora le pecore passano gran parte della notte nella nuova stalla. Nutrirle la sera è così facile adesso... Non hanno più bisogno di essere mandate al pascolo tutto il giorno e la notte!”

 

“Ma sono stato io a trovare quelle stampe!”

 

La voce di D’Artagnan si trasformò in lamento.

 

“Voi non eravate più qui quando sono cominciati i lavori. I meriti sono andati tutti ai vostri fratelli”.

 

Alcune vacche carbonizzate si accasciarono da un lato, in un rumore attutito dall’erba e le ceneri. Erba bruciata, terra rovente. Le fiamme divamparono in un falò di fieno, secchi cespugli e splendide vacche.

 

D’Artagnan sbuffò, come se quell’ammissione gli avesse ricordato di nuovo in che razza di ambiente era cresciuto, la vera ragione per cui voleva diventare un cavaliere errante e lasciare finalmente la sua terre. Forse non era proprio la Guascogna, la sua terra nativa, la causa delle sue frustrazioni. Tuttavia André era sempre stato un pastore onesto e rispettoso. 

 

Per quanto il ragazzo fosse stato ferito segretamente nel suo orgoglio, non aveva ragione di protestare apertamente contro di lui se la causa del suo male erano, in realtà, tutti gli altri. Quell’ammissione fu un monito, un messaggio importante, ma tutto l’impeto della sua gioventù ed il suo orgoglio ferito, si fermarono all’odore e irresistibile di carni arrostite e affumicate ai fumi dei legni di tiglio.

 

“Un arrosto delizioso, non trovate?”- disse Porthos cambiando discorso.

 

“Povera creatura... Così buona!”- disse Aramis, a bocca piena.

 

Andrè guardò i due combattenti affamati, continuare ad arrostire le carni dei Navarra. Preso dall’odore invitante, si avvicinò ai due, tirò fuori un coltello e cominciò a tagliare un altro pezzo dell’animale bruciato.

 

Porthos notò la lama brillare tra la luce della lanterna e delle fiamme.

 

“Vi piace?”- chiese Andrè, notando la sua attenzione.

 

“Fin troppo. Quanto volete per questo bel gioiellino?”

 

André guardò il moschettiere con perplessità. Porthos intendeva davvero comprare il suo coltello.

 

“Oh, questo brutto ferro? Per voi? Mi basterebbe un’altra vacca arrostita”.

 

Andrè non fece in tempo a chiudere la bocca, che Porthos aveva già premuto la leva e due altre vacche lasciavano le terre dei pascoli della Guascogna per raggiungere i cieli del Paradiso tra mille sofferenze, ma altrettanta umana delizia, i loro corpi avvolti dalle fiamme. 

Due guardiani dall’altra parte del recinto danneggiato cercarono di attraversare la tenuta, avvicinarsi e ritirare il resto degli animali dal pascolo dei de Batz, ma Porthos lanciò un’ultima fiammata di monito e gli uomini fuggirono via, in preda al terrore. 

Aramis portò entrambe le mani sugli occhi e scosse la testa, forse più preoccupato dalla perdita di altro combustibile, che dall’odore invitante delle carni arrostite delle povere bestie.

 

André annuì e lasciò il coltello nelle mani di Porthos senza dire una parola, lui lucidò la lama con invidia, per notare quanto il riflesso fosse chiaro e brillante. Un acciaio lucidato così bene da sembrare uno specchio. Porthos riflesse il suo volto sulla lama e pulì con grazia un angolo della bocca, come se nulla di tutto ciò che stava accadendo importasse veramente. Non era odore di morte e distruzione, ma quello di cibi deliziosi.

 

“Monsieur, Bucefalo non ha un filo di lama dai tempi in cui lo trovai in mezzo ai campi. È il più inutile pezzo di metallo che abbia mai posseduto”- disse Andrè alzando le spalle, quasi scusandosi di quello scambio così svantaggioso.

 

“Bucefalo?”- chiese lui.

 

“Il suo nome, ma lo potete sempre cambiare se non vi piace”- continuò il pastore in un’espressione incredula.

 

Porthos affondò la lama con confidenza sul lato dell’arrosto che stava assaggiando e ne tagliò un altro pezzo. Non era il miglior coltello che avesse mai posseduto, ma era così lucido... Tagliava decentemente la carne cotta. Questo per lui era più che abbastanza. 

 

Aramis sorrise, mentre guardò Porthos faticare con il suo nuovo coltello. 

 

“Potreste sempre usarlo come uno specchio oppure insieme al vostro rapière... Un ultimo colpo di grazia contro i vostri nemici!”- disse il giovane alzando le spalle.

 

Porthos ricambiò il sorriso ed annuì.

 

“Una lama poco affilata causa la peggiore delle ferite che si possono infliggere! Tuttavia porta così poco onore alla Dea Francia e i suoi ambiti coltelli!”- disse intento alla sua opera.

 

Aramis non lo ascoltò, strappò il suo coltello dalle mani e porse il suo stesso alito sulla lama lucida, per notare come il suo respiro l’aveva appannata. Porthos notò quel gesto con sorpresa e fece lo stesso: i loro respiri appannavano la lama allo stesso modo di come avrebbe fatto uno specchio. Non era il colpo di grazia che avrebbe inferto, quella lama brillante era come lo specchio, così come rifletteva il volto, poteva riflettere un ultimo respiro. 

 

Un attimo dopo e la lama di Bucefalo affondava lo spazio vuoto al fianco di Aramis in un gesto di scherno.

 

Il giovane si ritrasse in un semplice gesto, gli prese il braccio e due altri dei suoi pugnali, definitivamente meno lucidi, ma molto più affilati, comparvero tra le dita dell’altra mano.

 

“L’esperienza di combattere al mio fianco dovrebbe avervi insegnato meglio!”- disse senza guardarlo.

 

Porthos sbottò una mezza risata e ripose immediatamente Bucefalo fuori dalla sua vista, insieme al suo rapière.

 

“Sono belli, molto più belli di Bucefalo... Come si chiamano?”- chiese Andrè rivolto verso Aramis.

 

Il giovane si distrasse da quel mezzo combattimento con Porthos e guardò l’uomo con una strana curiosità. Per quanto fosse un semplice pastore, trovava particolare quel suo modo di dare un nome alle cose. Avevano forse un nome tutte le sue pecore?

 

“Sono cose. Non hanno un nome”- rispose Aramis scuotendo la testa.

 

“Che ne dite di Castore e Polluce?”- chiese Andrè.

 

Aramis lasciò la presa del braccio di Porthos, guardò i suoi pugnali, Porthos e il pastore con una strana curiosità, un lieve senso di imbarazzo. Ripose le sue armi nei foderi nascosti dalla cinta e del farsetto, senza dire una parola.

 

_________________________

 

Con le prime luci dell’alba ad illuminare le montagne che avevano circondato la sua vita prima di quel momento, D’Artagnan provò un nuovo senso di malinconia, il rimpianto di non aver assistito al lavoro compiuto dai suoi fratelli, un progetto di cui si erano presi tutti i meriti, adombrando le sue idee con il loro stupido orgoglio, di cui lui si sentiva ancora far parte.

 

André gli fece cenno di seguirlo verso la villa della tenuta, per incontrare gli altri membri della sua famiglia, ma in cuor suo il ragazzo sentiva che non c’era veramente più nulla ad attenderlo, con la gioia di rivederlo. Nessuno avrebbe voluto ascoltare le sue storie e le sue avventure, tutti erano ancora impegnati nel loro mondo divenuto, in quei soli pochi giorni, così distante da lui... 

 

Come quella nuova costruzione era ora il nuovo orgoglio dei D’Artagnan de Batz, così si rese conto di come, durante il breve momento di assenza, la sua Guascogna non era più sua: era tornato ed aveva pienamente soddisfatto il torto subìto, ma non poteva rimanere lì senza macchina, senza Constance e senza gli onori reali, il suo cuore non era più là, ma alla volta di Parigi. 

 

Il ragazzo salutò il pastore con un cenno della mano e raggiunse gli altri due moschettieri.

 

I tre cominciarono a sollevare l’arnese da terra e prepararsi per il viaggio di ritorno. Sotto il suo sguardo attento, rivolto per un’ultima volta verso le terre in cui era cresciuto, i campi e i tetti si fecero sempre più piccoli, fino a diventare minuzie inesistenti. 

 

Il fuoco divampato notte prima, causa di tante sofferenze e allo stesso tempo di arrosti deliziosi, si trasformò in una piccola bruciatura di candela sul velluto verde dei pascoli montani. A quell’altezza tutto diventava indifferente, come mere formiche agli occhi delle nuvole, del sole e degli Dèi. 

 

Esattamente come la macchina non era il prodotto di un’unica mente ingegnosa, così il progetto di quella costruzione non era veramente il suo, in quel senso. In fondo D’Artagnan non aveva inventato nulla, aveva soltanto piegato un foglio e portato la stampa a casa. 

Non era certo lui ad aver creato quella maniera di costruzione delle fattorie di montagna.

 

Gli altri due, troppo attenti ad armeggiare con il macchinario, non notarono una lacrima di nostalgia brillare della luce dell’alba e percorrere lucida la sua guancia. Il giovane scosse la testa: soltanto il giorno prima sembrava aver preso la sua decisione, sembrava che il destino e la vita fossero comunque andati avanti senza di lui. Così come Constance aveva preso la sua strada, la sua tenuta e la sua famiglia avevano preso la loro, mentre lui era rimasto indietro, nel tentativo di seguire una macchina, un sogno...

 

A bordo di quell’arnese il tempo sembrò fermarsi e per un attimo gli sembrò davvero di poter essere in due posti differenti quasi allo stesso momento.

 

“Non temete, avrete presto i vostri onori, siamo ancora in perfetto orario!”- disse Porthos rivolto verso il ragazzo, ma con gli occhi fissi sul vetro degli specchi e senza mai voltarsi verso di lui.

 

“Prima dobbiamo fermarci a Beaugency”- aggiunse Aramis, anche il suo sguardo puntato verso l’orizzonte, preso dai suoi pensieri.



 

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Capitolo 23
*** 23-Honi soit qui mal y pensè ***


Capitolo 23
Honi soit qui mal y pensé

Era giorno inoltrato, in una mattina di inizio estate, quando infine anche il vento dei campi soffiò in loro favore. Le assi e le tele delle ali, crearono il suono simile a quello di un corno, un flauto di corteccia, richiamo soffiato da misteriose creature in una natura che si faceva di nuovo paese, persone e città.

Quando la macchina scese a terra, una figura in lontananza si avvicinò verso i tre, correndo. 

Athos era armato e vestito di tutto punto, con la solita vecchia uniforme, ma sembrava che ci fosse di più: il cappello appoggiato sul capo era decorato con altre tre piume, il rapière e tutte le cartucce rimaste, sia sue che quelle di altri, elegantemente attaccate alla tracolla, il moschetto imbracciato con una seconda tracolla di scorta, appoggiata sulle spalle, in opposto alla prima. Due colli di pizzo pregiato, uno più vecchi dell’altro e così le maniche di camicie nascoste sotto altre vesti.
Almeno due pezzi di metallo dorato, come medaglie o collane, brillavano appoggiate al petto. Al posto del vecchio giglio strappato, scendevano i ricami delle camicie ed i lunghi capelli pettinati, la barba rasata di fresco ed i baffi leggermente più lunghi erano ordinatamente acconciati con una punta di cera.

Nel ducato dell’Orleanaise, la famiglia de la Fère e la loro contea, erano state spesso onorate di favori e ospitalità. In molti conoscevano i suoi membri più vicini alle amicizie del Duca. Tuttavia questa non sembrava occasione per onori e regali.
Dal loro arrivo a Beaugency, Athos aveva trovato ospitalità e dialogo con diversi personaggi, ma la sua salute ed il presunto funerale, per qualche giorno, lo avevano tenuto lontano da mercati, ville e taverne. 
Dialoghi con la gente del posto o relative onorificenze non sembravano nei suoi piani, neppure il giorno prima.
 
D’Artagnan si stupì della grazia con cui un uomo potesse correre così elegantemente, adornato dal peso di tutte le vesti e le armi, ma Porthos ed Aramis arricciarono il naso a quella strana vista.

“Da dove spuntano tutte quelle vesti? Non ricordo averlo mai visto indossare tanti merletti tutti insieme. E quella cravatta! Da quale cuccia è venuta fuori? Un oltraggio all’eleganza!”- sussurrò Porthos guardando l’orizzonte ad occhi stretti e fronte aggrottata.

“E che dire di tutte quelle cartucce e del rapière? Non avrà per caso deciso di partire per il fronte?”- disse Aramis con altrettanto sospetto.

Il combattente si fermò e prese fiato, sorrise ed aprì le mani in un gesto così sereno da sembrare un sogno. I suoi occhi brillarono della felicità di aver incontrato di nuovo i suoi amici dopo lungo tempo. Eppure un barlume di qualcos'altro dietro ai suoi modi eleganti e aggraziati, dietro quella gentilezza e salute, non sembrava trasmettere la stessa serenità.

“Amici carissimi! Fratelli d’altra madre...”- disse Athos, mentre la sua voce musicale sembrava quasi cantare in un’armonia particolare, mai udita prima.

Il volto di D’Artagnan si sollevò alla vista del compagno, nuovamente nel pieno delle forze.

“Finalmente vi siete ripreso!”- gridò con entusiasmo. 

Il ragazzo gli corse incontro, distendendo le labbra e stringendo occhi brillanti in un ampio sorriso che sembrò prendere tutto il suo corpo di una rassicurante gioia: finalmente qualcosa di cui gioire e festeggiare! Il loro amico in salute e in buon umore! La strada del ritorno sembrava aprirsi verso il palazzo reale e i tanto ambiti onori del sovrano!

Al contrario, l’espressione serena di Athos sembrava non creare lo stesso tipo di emozioni verso gli altri due combattenti. Aramis e Porthos si avviarono lentamente, senza la stessa fretta o lo stesso entusiasmo.

“Fratelli?”

“Qualche cosa non va”- sussurrarono i due.

“Ricordate l’ultima volta che ci ha chiamato così?”

I due si scambiarono uno sguardo di sconforto, l’ansia salì tra i loro respiri, i loro sguardi trasmisero inquietudini e tormenti un tempo dimenticati, mentre le loro spalle crollarono all’evidenza dei ricordi e del presente.

“La disfatta del ‘23! Quella nella quale perse tutto!”- dissero all’unisono.

Athos abbozzò un altro splendido sorriso e strinse le mani in un gesto di armonica preghiera, nella nostalgia dello stesso evento passato, i suoi occhi ricordarono un barlume di gioia e subito dopo una sorta di breve malinconia, scorsero da un lato all’altro delle palpebre, tornando vagamente indifferenti, ma senza mai incontrare gli sguardi increduli e di Porthos e Aramis.

“E se, perse tutto allora... Cosa gli è rimasto?”- chiese Porthos.

Aramis non rispose, senza parole, sgranò gli occhi su Athos, mentre la mente dell’amico fu attraversata da un veloce pensiero, anche lui arricciò il naso per un solo attimo, quasi come per confermare le preoccupazioni, nel ricordo e la conferma degli stessi eventi passati, ma poi mostrare di nuovo il sorriso così bello e sereno.

“È ora di partire”- disse Athos in fretta e con voce calma, facendosi strada dietro di loro e verso la macchina.

“No no no no, dobbiamo ancora fare i bagagli!”- gli ricordò Porthos.

“Dobbiamo prendere i nostri libri, le nostre cose e i nostri cavalli!”- gli ricordò Aramis, voltandosi.

“Quali cose, quali averi! Nulla è più importante dell’amore! Dobbiamo partire subito per ritrovare la bella Constance! Non vedete come il cuore del nostro povero amico piange addolorato il suo ritorno?”- disse lui, nel tentativo di distogliere i tre da quel discorso.

D’Artagnan smise di masticare. L’arrosto era così buono da non trovare motivo di sprecare gli avanzi. I suoi compagni sembravano veramente indaffarati nei loro discorsi, che ascoltarli era quasi un intrattenimento e non trovò di meglio da fare, che sgranocchiare quel pezzo di carne attaccata all’osso.

Constance?! 

Per un attimo, le delizie gli avevano ricordato della sua stessa umanità: i pensieri del suo stomaco lo avevano distratto dal doloroso pensiero del suo cuore e della ragazza fuggita ad Orleans senza di loro. Anche D’Artagnan cominciò a notare che l’atteggiamento dell’uomo si era fatto strano e cominciava a destare in lui un certo dubbio. 
Dei tre, Athos era sempre sembrata l’ultima persona che avrebbe voluto aiutare Constance.

“Cuore?”- anche la speranza di D’Artagnan si spense nel dubbio di troppe parole gentili, una attaccata all’altra, troppo miele, tutto troppo buono per essere vero.

“Constance aveva lasciato anche del denaro, non possiamo certo lasciarlo incustodito!”- aggiunse il ragazzo.

“Eh, D’Artagnan Carissimo...”- la voce musicale di Athos non trasmise più la stessa armonia.

“Carissimo”- ripetè Aramis incrociando le braccia, fattosi all’improvviso più serio. Scambiò su di lui un’occhiata glaciale e voltò il mento in un gesto quasi impercettibile verso Porthos.

“Per tutti i santi del Paradiso, trovatene uno in grado di proteggervi!”- disse lui mostrandogli il pugno.

“Avete di nuovo perso tutto! Ma questa volta non avevate nulla! Diavolo che non siete altro! Avete perso del nostro!”- sibilò Aramis prendendogli di proposito il braccio della spalla ferita e stringendo. Senza approfittarsi dei suoi punti deboli, ma trasmettendo giusto e proporzionato dolore di risposta, senza mai provocarne di più di quanto la lealtà gli concedesse.

“I miei libri!”- continuò lasciandolo andare e voltandogli le spalle.

“I miei vestiti!”- urlò Porthos

“Tutti i soldi di Constance!”- disse D’Artagnan nella disperazione.

“No! Non fatemi così scellerato! Non ho bevuto nulla e, come promesso, ho mantenuto sempre attenzione e salute. Dunque qualche cosa di vostro è rimasto ancora nelle stalle della taverna”.

“Divina provvidenza! Avete risparmiato il mio cavallo bianco? - disse Aramis, sollevato da un sospiro e un sorriso, ma quell’espressione fu presto soffocata di nuovo dallo sconcerto.

“Eh, no. Ronzinante”.

“Ronzinante?”- esclamarono i tre nel più completo stupore.

“Era l’unico cavallo con un nome, mi dispiaceva giocare un animale a cui era stato dato un nome”- spiegò Athos.

“Oh dispiacere? Dispiacere?”- chiese Aramis.

“Ve la do io una ragione per provare dispiacere! Prendete Ronzinante, strigliatelo, nutritelo, baciatelo, trattatelo come se fosse vostro figlio, e mettetevi subito in viaggio per Orleans!”- ordinò Porthos.

“Ma è il mio cavallo!”- ribatté D’Artagnan.

“È meglio se per il momento lo prenda Athos in prestito e stia parecchio alla larga da noi, per la sua stessa salute e la sua stessa vita”- sussurrò Porthos rivolto verso il ragazzo. D'Artagnan notó gli sguardi di Aramis, i pugni di Porthos e annuí con riluttanza.

“Volentieri, con grandissimo piacere, amici miei! Conosco almeno due locande disposte ad ospitare noi, Ronzinante e questo mostro! Tutto a credito!”- disse Athos senza troppe preoccupazioni.

“Porthos! Aiutatemi a recuperare almeno i miei libri e i vostri bottoni! Magari riusciremo a rimediare anche il mio cavallo...”

“Era un bel cavallo”- aggiunse D’Artagnan, ripensando al crine bianco.

“Per favore, non ricordatemelo!”- ribattè Aramis.

“Dimenticavo! Al contrario di Parigi, i De La Fère sono ben visti in questo ducato!”- aggiunse Porthos.

“Capisco dunque il perché di tutti i doni che vi ornano! Dopo quello che avete perso in una sola notte, chiunque in queste terre sarebbe disposto a considerarvi ricco e generoso... A parte noi”- continuó alzando le spalle.

“Siate comunque maledetto”- aggiunse Aramis.

“Cominciate a cavalcare. Vi diamo un’ora di vantaggio!”

“Non temete troverò sicuramente qualcuno disposto ad ospitarci! Aspettatemi ad Orleans per l’ora di pranzo, offro io! Buon viaggio!”- Athos si congedò dagli altri con un ampio inchino.

“E allora sbrigatevi!”- dissero i due tra fischi e imprecazioni.

D’Artagnan ripensò a Ronzinante, ricordò passare una mano tra il suo crine stopposo con un sorriso compiacente. Non era un bel cavallo, ma aveva un nome, era ancora vivo ed ancora suo!
_____________

Il risveglio arrivò all’improvviso.

Sbarrò gli occhi come se, per un attimo, l’incubo in cui si trovava fosse davvero terminato, come se un’immagine spettrale, incisa nella sua mente, avesse preso il sopravvento su quella mattina di tarda primavera e la realtà si presentasse come un sollievo.

Sciacquò il volto con l’acqua del lavatoio e preparò per rivestirsi, ma soltanto in parte. 

Era il momento di agire e proclamare vendetta, imbarcarsi verso quel suo intimo viaggio e ripagare tutti quanti della loro stessa moneta: uccisi con le loro stesse armi, ma aveva bisogno di altro tempo per fare apparire tutto come doveva sembrare agli occhi dei suoi albergatori e degli altri astanti. Dare l’impressione di non aver mai lasciato i suoi appartamenti ed essere soltanto immersa in qualche lettura.
Per questo, avrebbe dovuto attendere ancora e non avrebbe chiamato subito la servitù. Le bastava dare l’impressione di essere sola, rinchiusa nella sua stanza.

Al contrario, il risveglio di George fu lento e pigro, l’uomo si rigirò tra le lenzuola, come se nulla fosse accaduto, come se non ci fosse ragione di preoccuparsi del futuro. Per un attimo, non le sembrò neppure l’uomo adagiato al suo fianco, la sera prima, ma qualcun altro. 

Un ombra avanzò agli angoli del suo sguardo, come se il fantasma dei suoi sospetti, l’oggetto del suo lutto potesse davvero vederla e testimoniare di persona ciò che era appena trascorso: l’ennesimo tradimento.

Non si sentì in rimorso, non era certo Andromache, non era legata al suo amore segreto da nessun vincolo, così come non era legata alla celebrazione di nessun lutto, se non quello della sua stessa colpa. 
Necessità, pericolo e una sensazione indescrivibile di eterna difficoltà e battaglia, giustificavano brevemente i suoi sentimenti e le sue azioni. 
Non era mai stato amore e il suo cuore non provava sentimenti, o forse soltanto non avrebbe voluto provarne.

Un sospetto corse nella mente di Milady. Tuttavia nessun testimone, nessuno scandalo, nessun cuore tradito da quel gesto di istintiva passione, di piaceri e frustrazioni negate altrove, aveva preso luogo. Niente e nessuno, neppure il suo fantasma era tornato a giudicare i suoi istinti, le sue intime colpe.

Portò una mano sulla bocca, al collo, da dove la pesante collana era stata allacciata tempo prima con dolore e distrazione. Non ricordava essersela mai tolta, eppure non c’era. Non c’era la sera prima, quando George si era misteriosamente presentato alla sua villa, come non era mai stata appoggiata al suo posto, nel cassetto. 

La stanza cominciò a girare, mentre un senso di vaga confusione prese i suoi pensieri. Certo con tutti quei diamanti, la collana era un oggetto pesante, avrebbe sicuramente notato se fosse caduto o scivolato via naturalmente eppure... 

...Eppure quelle ultime ore, nella notte dalle tristi passioni, erano state soltanto una lunga serie di tormenti, un vago incubo affogato tra le lacrime e i ricordi di un tempo lontano.

Quello era il risveglio, quello era il presente, il suono apocalittico di un dramma che stava percorrendo. Un sospetto, un’idea corse tra gli occhi brucianti dal pianto, lacrime che non potevano più sgorgare, tristezza soffocata da intime passioni.

Si preparò per la promenade senza vestirsi a lutto. Come se l’occasione fosse una semplice casualità e come se la passeggiata non fosse stata meticolosamente progettata per confermare un insidioso sospetto coprire di nero la sua mente.

Quando la vera tomba fu scoperchiata, rivide nelle sue memorie il suono d'un altra musica: morti risvegliati dalla tromba dell’apocalisse, neri sepolcri aperti sotto un cielo di angeli, che non sono angeli veri, ma soltanto dipinti. Figure piatte fatte soltanto di legno e gesso, strati di colore nobili e poveri, che mentono agli occhi, rappresentando una dimensione inesistente, portano la mente l'assurda follia dell’illusione. Uno spaccato tra Paradiso e Inferno, tra passato e futuro, nell’interminabile Giudizio Universale della sua vita.

Un dipinto destinato all’ordine del Cavaliere Gaudente, finito comunque nel bel mezzo delle Malebolge e simbolo stesso dell’ipocrisia.

“È questo il mio giudizio? È questo il mio personale inferno? È questo dunque, il demone a cui appartengo?”- chiese involontariamente Milady, Anne, a se stessa.

Il Duca di Buckingham la raggiunse alle spalle, si avvicinò alla tomba aperta, senza nome, ma il sospetto di chi avesse dovuto contenere avanzò nei suoi respiri.

La donna era in lacrime, piangeva, singhiozzava. Anche quando non era vestita a lutto, il suo cuore in realtà ne stava sostenendo uno più pesante degli altri.

“Che cosa vi affligge?”- chiese, cercando di capire.

“Niente, ricordi del passato...”- rispose lei.

“Certo! Del nostro passato! Ma ora sono qui con voi, non avrete più nulla da temere!”

“Voi?! George: ricordatemi, perchè siete tornato qui?”

“Per voi... Mia adorata! La vostra attesa è finalmente terminata ora che sono qui per voi! Non è questo ciò che desideravate?”

“George! Oh George!”- la voce di Milady si spezzò in un pianto che sembrò del tutto commosso.

Però i suoi sospiri evocarono in lui il ricordo di un nemico fin troppo recente.

In una reazione di completa rabbia, strozzata dall’avidità dei suoi stessi falsi sentimenti, George sorrise, strinse gli occhi e scosse la testa: avevano dato la Torre di Londra alle fiamme, preso la collana, la sua donna e la sua macchina: la guerra era soltanto cominciata. 
Athos l’avrebbe pagata cara!

“Vergogna ai malpensanti!”

Honi soit qui mal y pensé.

E Morte a tutti gli altri.

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Capitolo 24
*** 24-The World Is your Oyster ***


 

Capitolo 24 

The World Is Your Oyster


Le campagne de l'Orléanais, così lontane, gialle e grigie, dorate dal grano e alberi verdeggianti, nere e dai tetti di pietra e dalle nuvole di un cielo azzurro, immerse tra i cespugli di un’estate al suo inizio, diedero una momentanea sosta al mostro meccanico.

Il panorama, perlopiù appiattito, ritrovava vita nei piccoli villaggi, nei campi ben coltivati e nella vegetazione sparsa che li divideva, accompagnati soltanto da alcuni dossi ed argini. Una breve distrazione all’ambiente piatto e monotono del lungo fiume.

 

Nella città antica, come altre che partivano con una campagna rada, era altrettanto facile perdersi tra le strade strette del centro, che si arrovellavano verso le ampie piazze medievali. Chiese e porticati, non troppo diverse da quelle di altre zone ed altri villaggi della Loira, di solito coronate da radure piatte e verdeggianti di cespugli ed alberi. Ruderi divenuti, col tempo, dossi d’erba selvatica.

 

Non era però il centro della città, la piazza del duomo, il cuore da dove fiorivano i gigli, dimora della santa eroina di Francia, quello che i tre avventurieri stavano cercando, ma un’area più vasta, dove poter atterrare e nascondere l’arnese, strumento di ingegno e di guerra, più facilmente. Un vasto campo e una stalla sembrarono, per questo, il luogo migliore.

 

Gli avventurieri scorsero, nelle vicinanze, una verde radura vicino la quale si ergeva un edificio abbastanza grande, che prendeva sia il ruolo di taverna, che quello di stalla.

 

Alla maniera nordica, la taverna alloggiava bassi soffitti e lunghe tavole imbandite. Quasi attaccata, si trovava una stalla, costruita secondo le stesse regole particolari di solito in uso tra le montagne e alloggiava animali, sia quelli da pascolo della fattoria, che quelli dei visitatori. Questi ultimi avrebbero potuto addirittura arrampicarsi tra il fienile della stalla e le camere da letto della locanda, senza mai passare tra le tavolate, le cucine e le cantine dei piani inferiori, tramite una serie di scale a pioli. 

Il sistema era utile soprattutto per la notte o le fredde giornate d'inverno e serviva più che altro ad accedere alla cura e la salute dei loro animali senza che questi dovessero lasciare la stalla e la taverna. I padroni della fattoria avevano controllo dei grossi portoni ai piani inferiori e non c’era ragione di temere che i clienti avessero lasciato la locanda senza essere visti e senza pagare.

 

La fattoria aveva le stesse caratteristiche assi di legno, travi esposte, e i bassi soffitti. Ai piani inferiori, tra l’ombra del soffitto dalle grosse travi e le fondamenta di pietra si potevano distinguere occhi, nasi e i respiri intensi di alcuni animali, per lo più i cavalli degli ospiti ai locali vicini. 

 

Ronzinante riconobbe il suo padrone quasi immediatamente, i suoi occhi sembrarono cambiare d’espressione mentre il naso si arricciò in un nitrito simile ad uno sbuffo.

 

A quella vista, D’Artagnan esitò. Lui stesso, in persona, aveva fatto del suo meglio per mettere un edificio simile in funzione sulla tenuta di famiglia: aveva letto alcune stampe e prospetti, mostrato alcune incisioni ai suoi uomini e i suoi fratelli poiché trovava quei sistemi interessanti e a volte pratici.

 

Ciò che più differiva dalle altre locande, fattorie ed edifici, era il modo in cui avesse una rampa per trasportare i carri ed utensili fin sopra il solaio, in un fienile coperto, fatto come un silo, che poteva essere riempito dall’alto del tetto. 

 

Il fieno e gli altri raccolti, ricadevano senza sforzi verso i piani inferiori tramite una balconata dove, al di sotto di essa, alloggiavano le mangiatoie degli animali. 

Il ragazzo aveva anche discusso con André sul come utilizzare un edificio del genere in inverno, quando i pascoli non crescevano abbastanza erba per nutrire gli animali o le piogge non lasciavano asciugare completamente il fieno, non permettendo così la sua conservazione fino alla successiva primavera. 

 

Per quanto inusuale, un sistema del genere richiedeva poco sforzo umano per trasportare anche i carichi più abbondanti. Le rampe che accedevano ai piani superiori, fatte di terra e travi, gli ricordavano una versione più umile di quelle delle ville e dei palazzi, dove i signori potevano accedere con i loro carri e i loro cavalli fin nelle loro stanze.

 

Una fattoria come quella, sarebbe stata facilmente controllata da pochi uomini e non avrebbe necessitato altra servitù... 

Era tutto questo che aveva bisogno di spazio in pianura. Difatti, così costruita, nel mezzo di quella valle, aveva bisogno di una rampa artificiale, cosa che i fratelli di D’Artagnan avevano ampiamente evitato addossando il loro edificio sulle pendici delle colline della tenuta.

 

Così, dopo tante proteste e ripensamenti, anche i suoi fratelli ne avevano riconosciuto l’utilità della fattoria, costruendone una simile sulla tenuta in Guascogna e prendendo per loro tutti i meriti. Il giovane strinse i pugni e deglutì, quando la sua mente ripensò all’ennesimo torto subìto, al fatto che nonostante le sue spiegazioni nessuno gli avesse dato retta. 

 

Eppure la sua tenuta aveva una fattoria così simile a quella che gli si prestava di fronte, che ne avrebbe potuto abilmente riconoscere il suo interno senza neppure averla vista. 

Sopraffatto dalla delusione, il ragazzo emise un lungo sospiro e soltanto in un secondo momento riconobbe Ronzinante e chiese agli altri due di fermarsi e atterrare.

 

“Qualche cosa non va?”- chiese Porthos.

 

“No, soltanto... Soltanto, questa... La fattoria di cui stavo parlando era...”- D’Artagnan faticò a continuare il suo discorso e a riorganizzare le idee.

 

“La fattoria che i miei fratelli hanno costruito era proprio come questa. Si sono presi tutti i meriti!”

 

Più interessato ai comandi della macchina, Aramis non prestò attenzione, mentre Porthos si voltò, quasi spazientito.

 

“Siete per caso un fattore?”

 

“No”- D’Artagnan si distrasse dall’atterraggio, lasciando che i due continuassero a discendere verso terra e a manovrare la macchina verso le porte della costruzione, divenuta in pochi attimi il simbolo di tutti i suoi risentimenti.

 

“Percorrete quella rampa e fermatevi qui”- continuò il ragazzo, scendendo dallo strumento ed aprendo i portoni.

 

Porthos lo raggiunse, mentre Aramis regoló i comandi verso l'entrata. I due tirarono l’arnese in avanti, in un'area che avrebbe contenuto il fieno dopo il raccolto, ma che in quel momento era vuota. Si apprestarono di nuovo ai portoni e li richiusero sommariamente, pronti per essere riaperti alla nuova partenza.

 

“Cosa avete da temere? Il fatto di non avere ricevuto meriti per qualche cosa che non avete inventato, non avete costruito e non vi sarà utile per alcuna ragione?”- chiese Porthos.

 

“Ma se non fosse stato per lui, non ci sarebbe mai stata una fattoria come questa nella sua tenuta. Non avrebbe diritto ad essere almeno ricordato dalla sua famiglia?”- domandò Aramis.

 

Porthos prese una pausa, guardò i due e scosse la testa:

 

“A bordo di questa macchina non avremo nulla da temere! Basta solo un breve brindisi, chiarire le ultime cose con Athos e rimettersi in viaggio per Parigi. Arriveremo in meno di due ore e tutto sarà risolto! Voi i vostri onori, ed io le mie alleanze!”

 

L’uomo si impettì di rinnovata gioia, il suo entusiasmo illuminò gli altri due, che lo presero per le braccia e si apprestarono alla taverna.

 

“Avranno pure preso l’onore della fattoria, sui vostri avi, ma voi porterete gli onori del re!”- aggiunse Aramis.

 

Nei pressi della taverna, D’Artagnan si guardò attorno, quasi in cerca di Constance, ma anche in quel caso, nessuna giovane donna sostava nei pressi della taverna.

Soltanto momenti dopo, portò la sua attenzione verso i suoi compagni.

 

“Ho ancora qualcosa da imparare da voi... Le vostre tristi lacrime!”- disse Aramis rivolto a Porthos, sembrò colto da una strana idea. 

 

“Fate ancora quel trucco!”- disse il giovane al ricordo delle grosse lacrime versate qualche giorno prima al funerale del loro amico.

 

L’uomo tirò fuori dalla tasca una cipolla, la spezzò di fronte ai suoi occhi e i due cominciarono a piangere grosse lacrime, seguite da risate altrettanto sguaiate. Porthos pianse con apparente disperazione, rivolto verso Athos che li stava aspettando.

 

L’uomo non sembrò provare per lui alcuna tristezza. Raccolse l’ultima lacrima dagli occhi irritati e dall’odore sgradevole.

 

“Smettetela e venite qui!”- disse poi, attorniato da boccali pieni di birra e fece loro cenno di farsi avanti. In effetti, il combattente aveva ragione, soltanto nominando il nome della sua famiglia, in quel ducato era possibile alloggiare comodamente ed essere ripagati di favori. 

 

I quattro continuarono a piangere e a ridere, tra un brindisi e l’altro. Però un rumore di passi inaspettato interruppe quei festeggiamenti.

 

Loro sorrisero ed alzarono i loro calici per un brindisi celebratorio, dovevano ancora trovare Constance, ma per lo meno Athos aveva ripreso le sue forze ed avevano ritrovato la strada verso Parigi. In breve tempo avrebbero rivisto le porte della città.

 

Proprio mentre D’Artagnan si aspettava di udire il tintinnio del boccale, quello degli speroni prese il suo posto.

 

“I tre moschettieri di Treville? Siete proprio voi?”- chiese una voce scomodamente familiare.

 

Tutti gli occhi furono subito puntati sul Comandante in alta uniforme: i loro calici non tintinnarono di soddisfazione, ma ricaddero fastidiosamente, ancora pieni, sul tavolo.

 

“Comandante Rochefort?”- chiese D’Artagnan.

 

“No, non siamo moschettieri. Ci state scambiando per qualcun altro, Comandante”- disse Athos, di spalle, il volto coperto e senza voltarsi.

 

“Athos? Conte?”- chiese Rochefort nell’incredulità delle sue orecchie. Agli angoli del suo sguardo crebbe il terrore del morto vivente, l’ascensione del Lazzaro resuscitato dal suo sepolcro, ancora come aura e cattivo auspicio, la puzza di morte e marcio.

 

Il moschettiere nascose il volto sotto la tesa del cappello e D’Artagnan realizzò per un attimo che quella scusa avrebbe potuto ancora funzionare.

 

“Athos è morto per mano vostra”- disse in ragazzo, facendosi avanti tra i due.

 

“È il vostro sguardo a farsi beffe di voi stesso. Il nostro compare non è nient’altro che un incubo della vostra mente, un fantasma della colpa che occupa la vostra coscienza... Il Conte de la Fère è stato sepolto qualche giorno fa a Beaugency. Quest’uomo non ha nulla a che fare con...”- Rochefort non lo lasciò finire di parlare, lo spinse e passò oltre, si avvicinò all’uomo seduto di spalle, lo fece voltare e lo costrinse a togliersi il cappello.

 

“Conte de la Fère? Non eravate morto?”- chiese di nuovo il Comandante. Athos alzò le spalle.

 

“Non abbastanza, apparentemente”- rispose tendendo le labbra in un’espressione evasiva.

 

“Divina Provvidenza!”- disse Aramis facendo finta di benedire gli Dèi e facendo il segno della croce.

 

“Un miracolo!”- esclamò Porthos alzando gli occhi e i palmi verso il soffitto allo stesso modo.

 

Rochefort guardò i quattro avventurieri per un lungo istante. Conosceva quasi tutti, sapeva delle loro debolezze come delle loro abilità. Con destrezza, agguantò il manico della sua striscia violentemente, pronto ad attaccare, un braccio dietro la schiena, pronto a segnalare ai suoi uomini di fare lo stesso.

Tuttavia colse tutti di sorpresa quando non sfoderò la lama della sua spada, non puntó verso di lui. Si fermò, quasi immediatamente bloccato dai suoi stessi intenti. 

 

“Per quanto possa rimediare personalmente alla legge di Richelieu, non posso ancora fare nulla contro di voi! Da queste parti avete la protezione del Duca!”- esclamò realizzando la triste realtà, che ben ricordava.

 

Athos annuì soddisfatto a quella esclamazione e con grazia, mostrò la porta della taverna al Comandante, invitandolo ad uscire e a lasciarli in pace. 

 

Il gesto non fece che irritare il militare ancora di più e chiamò su di se i suoi uomini, si guardò indietro ed alzò parte della lama contro D’Artagnan, mostrando le sue armi verso il ragazzo: un duello sulla parola. Il suo primo duello sulla parola: doveva mostrare le armi per il suo duello, doveva scegliere un secondo, doveva uscire all’aperto al posto di Athos, al di fuori dei commensali sorpresi e incuriositi, sfidato non di meno che dal Comandante della guardia Cardinale!

 

Per qualcun altro, un gesto del genere sarebbe sembrato ingiusto o antiquato. Tuttavia agli occhi e le orecchie di D’Artagnan, era arrivato il suo momento. Avrebbe finalmente dimostrato agli altri e se stesso di cosa era capace. Non temeva la morte in duello: se errore era stato commesso, andava punito. Ma se il coraggio e l’onore, l’esperienza di quel lungo viaggio gli aveva insegnato qualche cosa, forse era divenuto questo il momento per provarlo.

 

I tre combattenti emisero una serie di lamenti, fischi e insulti di protesta contro la scelta di Rochefort. 

 

Anche i gli uomini del comandante trovarono quella scelta inadeguata: un uomo esperto contro un ragazzino. Nessuno si offrì da secondo, ma ciò non preoccupò Rochefort o la sua reputazione, l’uomo non ritrasse la sua proposta e continuò a fissare D’Artagnan, quasi per ripicca verso gli altri tre intoccabili. 

 

Tuttavia D’Artagnan non si perse d’animo: mostrò la lama del suo spiedo con fierezza. Athos gli porse il suo nuovo rapière, Aramis i suoi pugnali e Porthos un’altra cipolla, nel caso rapière e pugnali non fossero stati d’effetto.

Il ragazzo prese un profondo sospiro, a piena aria nei polmoni, si impettì dell’orgoglio di essere stato finalmente chiamato a duello, mani sui fianchi e fece tintinnare gli speroni sui suoi tacchi, uscendo dalla locanda e sprezzante del pericolo.

 

“Gridate se avete bisogno d’aiuto”- gli disse Aramis sottovoce, ma lui scosse la testa, quasi felice di essere stato preso in considerazione e andò avanti senza voltarsi.

 

“Come? Da solo? La vostra inesperienza vi porterà ad una umiliante sconfitta!”- disse Rochefort, con noncuranza.

 

“Quindi per voi sarei inesperto? Come fate a dirlo?”- chiese D’Artagnan.

 

“Non avete detto molto a riguardo, ma avete fatto tanto...”- ribattè il Comandante con un sorriso di sfida.

 

Alle sue parole, D’Artagnan non rispose e si preparò ad aprire le armi, intento a risparmiare il fiato per un prossimo attacco.

 

Ma a dispetto della prodezza o l’onore nelle sue gesta, la prima mossa di rapière fu subito difensiva. Anche quando la miglior difesa possa essere l’attacco, se si è subito attaccati senza alcuna possibilità di osservare gesta e prevedere movimenti, neppure pensare, il corpo ed i muscoli hanno sempre la meglio nel decidere come rimanere in vita.

 

Per un breve momento, D’Artagnan, sperò di essere quell’attaccante. 

In realtà indietreggiò, sorpreso da un’altra sferzata. Non era facile apparire in pieno controllo delle proprie azioni ed il comandante aveva capito che, se il ragazzo avesse avuto tempo, si sarebbe accorto delle sue segrete debolezze. L’ intenzione era quella di stancarlo prima e giustiziarlo poi. Dalla sua parte si trovava di nuovo l’inesperienza del suo avversario, arma di cui farne ampiamente uso. 

 

Nessun colpo andò a tiro, ma l’esperto Comandante era già pronto alla prossima mossa.

Il ragazzo guardò stranamente alle spalle, come se si aspettasse che qualcosa o qualcuno lo stesse ancora osservando. Dietro di lui si trovava soltanto la stalla dalle basse finestre e presto il suo indietreggiare non avrebbe fatto altro che dare un freno al suo lento passo di talloni, costretto verso le porte della stalla.

 

“Dimenticavo!”- Rochefort si fermò un solo momento e alzò la voce.

Alle sue parole, D’Artagnan abbassò il rapière per notare il suo volto apparentemente affannato.

 

“Quella bella dama di corte a cui usate inchinarvi così amorevolmente, mademoiselle Bonacieux. È passata da queste parti”- il Comandante affondò un altro colpo, D’Artagnan indietreggiò, quasi senza notare dove stesse arrivando o il fatto che ci fosse un ostacolo alla fine del percorso.

 

“Che buffe e tristi le sue alleanze! Lasciarla così, da sola, camminare al lato della strada, preda di briganti e malintenzionati, senza nessuna scorta! La sua scorta doveva essere sicuramente fatta di persone a lei poco fidate o addirittura maligne, per non lasciarsi aiutare da loro, invece di farsi accompagnare chi sa dove, dai suoi parenti?”- Rochefort sorrise, la sua presunzione aveva colto nel segno, più di qualunque altro colpo di striscia.

 

Distratto da quelle parole, D’Artagnan si soffermò al pensiero di Constance camminare da sola, la sua rabbia salire nella negligenza della sua cavalleria. Indietreggiò, mentre sentì il terreno sotto di lui rialzarsi sulla rampa del portone e l’ombra della maledetta fattoria avanzare alle sue spalle.

 

Finalmente alle porte, inchiodato da se stesso e senza la possibilità di sfuggire, Rochefort diede un ultimo calcio verso la sua direzione. Il Comandante aveva la certezza di inchiodarlo alle porte con la sua striscia affilata... Giustiziarlo in fretta e con un movimento secco. 

D’Artagnan riuscì facilmente ad evitare l’attacco, mentre le porte quasi aperte si spalancarono sotto la sua spinta quando un balcone aperto, accolse Rochefort verso un silo vuoto.

L’uomo perse l’equilibrio e, come il fieno dei raccolti, ricadde nelle mangiatoie degli animali dei piani inferiori.

 

La presunta avanzata e vittoria del comandante della guardia cardinalizia, fu accolta dalla caduta e miserabile sconfitta. D’Artagnan si avvicinò all’orlo con più cautela, si piegò leggermente per riconoscere la figura dell’uomo ancora sdraiata, muoversi lentamente.

 

“E avete pure insultato il mio cavallo!”- urlò verso di lui, dall’alto della balconata.

 

Gli uomini di Rochefort accorsero verso la scena, guardarono il loro Comandante rialzarsi lentamente e riprendere conoscenza. 

 

Pochi attimi, prima che riaprisse gli occhi e puntasse nuovamente il rapière verso il ragazzo, incitando i suoi uomini ad attaccare. Tuttavia a quel punto, D’Artagnan era voltato di spalle, di ritorno vittorioso verso i suoi tre compagni. 

 

Quei giovani uomini sotto la guida del Comandante, quelle guardie dai capelli castani, tutti alti uguale e della stessa età, avevano trovato in egual misura disonorevole il modo in cui erano stati chiamati a fare da secondo ad un duello che appariva immediatamente vile e sproporzionato. Non solo simili di aspetto, i suoi uomini dimostravano pure una simile mentalità, in quel momento del tutto unanime. 

Ancora più vile trovarono la maniera in cui il militare aveva dato loro il comando di attaccare lo stesso ragazzino alle spalle. Visto il suo aspetto, il suo casato e la sua età, lo sconosciuto sfidante sarebbe potuto essere proprio uno dei loro compari. 

Cosa che li imbarazzò e li fece dubitare più che mai dell’autorità del loro Comandante.

Presi dal disdegno di dover essere guidati di nuovo a Parigi da un militare del genere e, trovandolo finalmente in una posizione di svantaggio, i giovani soldati si ammutinarono contro di lui e lo attaccarono, strappandogli tutte le autorità.

 

***

 

Non ci fu tempo per soffermarsi ancora di più su quello che sarebbe successo in seguito. Il viaggio proseguì velocemente verso Parigi ad un tramonto imminente.

 

Nella città, la dimora dei moschettieri era vuota e abbandonata. Planchet, scomparso misteriosamente, non aveva curato nulla della loro abitazione. Era forse questo il prezzo della libertà? 

 

I quattro si guardarono attorno, appoggiarono i pochi averi rimasti sul tavolo, accesero il focolare per scaldare l’acqua o preparare la cena. Per alcuni minuti tutto ricordò a D’Artagnan la mattina di pioggia di qualche tempo prima e la triste tazza di brodo. Nulla sembrava essere cambiato per gli altri tre avventurieri. 

 

Indifferenti a tutto quello che era appena capitato, senza dire alcuna parola, cercarono soltanto di capire come concludere la lunga giornata. Porthos si appoggiò allo scrittoio, senza leggere o scrivere nulla, Aramis aspettò paziente la fiamma divampare sul paiolo dell’acqua, mentre Athos cominciò a sfogliare alcune carte, lettere, stampatelli ed incartamenti lasciati in disordine sul tavolo.

 

Tuttavia, questa volta, quando riprese la sua tazza tra le mani, non c’era neanche più brodo: in quel catino annerito era rimasta proprio e soltanto fredda acqua, vecchia e puzzolente.

 

“D’Artagnan?”- la voce di Athos, distratto dalle sue letture riecheggiava secca dal fondo della umile tavolata.

 

“La nostra vendetta è stata compiuta. Dovete andare”- il ragazzo piegò la testa sulle lettere che l’uomo stava leggendo. Nulla di apparentemente importante, alcune soltanto stampe con semplici figure e numeri, di sicuro nessun invito a Corte.

 

Aramis lanciò ai due un’occhiata incredula, come se avesse capito quanto quegli sforzi sarebbero stati adesso inutili, ma voltò presto loro le spalle e si accomodò sulla sedia, un libro sulle ginocchia e punta d’argento per prendere note, a dimostrare il suo silenzio e concentrazione.

 

“Voi invece chiedevate di glorie ed onori, e dovreste portare a noi gli stessi onori! Dovete ritrovare Constance a Palazzo Reale e consegnare con lei la collana, adesso!”- incalzò Porthos, prendendolo per le spalle e trascinandolo verso la porta.

 

D’Artagnan si congedò con un veloce sguardo, rivolto verso i tre, che risposero contemporaneamente con un breve cenno della mano, come dettati da una sincronia fatta di gesti umili, ancora intenti e distratti com’erano, dai loro doveri arretrati.


 

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Capitolo 25
*** 25-Querelle des Femmes ***


Capitolo 25

Querelle des femmes


L’arrivo inaspettato del Re, nelle stanze della Regina, sembrò non creare troppo scompiglio. 

Per quanto fosse una cosa inusuale, era altrettanto eccezionale che i due non passassero insieme più tempo. In particolare, senza un erede in vista. 

Da quando le voci di Corte erano sempre pronte a confermare amanti, alleanze e sospetti, sia vere che false, era invece diventato un modo per mettere certi dubbi a tacere.

 

“Mia adorata Regina, mi chiedo ancora della vostra collana. Di nuovo non vi adorna! E solo domani, il ballo comincerà! Non vi siete preparata? Allora le voci erano vere?”

 

“Affatto, Sire!”

 

“Vi darò il beneficio del dubbio per questo breve tempo! Purtroppo, ricordate che c’è chi a Corte crede che quella collana sia nelle mani di qualcuno, come un pegno d’amore segreto”.

 

“Non è vero! Non mi credete? Nel tempo in cui la Dea Francia mi prese per mano, così come la Spagna prese quella di vostra sorella, giurai a voi eterna devozione”. 

 

La Regina prese un lungo sospiro. Ricordò quel suo ritratto nei corridoi di Palais de Luxembourg, a fianco alla sorella del sovrano. Sentì il fiato degli zefiri sospirare con lei. Udì gli spruzzi d’acqua delle ninfe offrire lei un’altra collana, di perle bianche come la bianca e brillante era la purezza del suo giuramento. Lei ed Elisabeth, due bambine che, con quel giuramento avrebbero portato finalmente la Pace. 

 

Pensò al momento nel quale gioia, innocenza, o inconsapevolezza, l’avevano motivata nelle sue scelte future. In quell’immagine di ideale speranza, di armonia, sogno e distacco, cercò di ritrovare se stessa. Ancora un giorno: c’era ancora speranza.

 

“Non temete, diamanti così belli andavano puliti! La mia cara damigella Constance, li ha solo portati a far lucidare”- disse lei, in un calmo sorriso.

 

Re Luigi XIII, lasciò le stanze della sovrana in silenzio e da solo. Rifiutò di essere accompagnato nei suoi appartamenti e prese un’altra strada. 

 

Però erano i gli affari che il Cardinale aveva messo di fronte a lui ad avere avuto la meglio: il fatto che, a dispetto delle giustificazioni di Anna, da quando il Duca aveva fatto visita a Palazzo del Louvre, la collana era davvero sparita.

 

Il sospetto di tradimento strisciò con lentezza dagli angoli della bocca e prese, con la stessa calma, testa e cuore. Le parole di Richelieu risuonarono nelle sue orecchie come un viscido e velenoso presagio: le sue paure erano alimentate e provocate da ogni singola sua parola, dal suo bell’accento, dalla sua voce apparentemente calma e tranquillizzante. 

 

________________________

 

Spronato dagli ordini e l’incitamento dei tre combattenti, D’Artagnan accorse verso il Palazzo del Louvre e le stanze della Regina al disperato inseguimento di Constance.

 

Come si sarebbe aspettato, si trovava già a Corte e, faticosamente, riuscì ad arrivare a lei tramite gli altri membri della servitù, ma fu fermato al momento di incontrarla: qualcos’altro stava succedendo mentre cercò di farsi annunciare. Cercò di inviare un messaggio, tramite gli uomini e le donne di Corte, ma nessuno riuscì a raggiungere la dama, così da dover attendere ancora di più per un loro incontro. 

 

Purtroppo, la corsa contro il tempo, non aveva portato alcun risultato. 

 

Ancora una volta, D’Artagnan rivide scorrere di fronte ai suoi occhi una scena a lui del tutto familiare: Constance in lontananza, porgere segretamente la collana di diamanti tra le dita della Regina, vide quei diamanti brillare alla luce del tardo e mite pomeriggio di sole e, seppur non poteva ascoltare le parole della ragazza rivolte verso la sovrana, si aspettò esattamente cosa avrebbe potuto dire.

 

Il ragazzo, forse proprio ingannato dalla bellezza e la grazia di Constance, dalla sua apparente onestà, era stato soltanto uno strumento per il suo personale arrivismo! Con un solo gesto, tutto il suo sforzo era divenuto completamente inutile. 

 

Il trionfo dei suoi passi affrettati si spense dietro quel gesto, apparentemente così umile. Una semplice serva che obbediva agli ordini di una Regina, a seguito una lunga conversazione, ma in quel preciso secondo, D’Artagnan non vide la Regina Anna, non vide Constance, la serva di Corte. 

 

Ciò che si presentò ai suoi occhi stanchi era soprattutto l’immagine di due giovani donne, vissute nel pericolo e nel tradimento, completamente sospettate e minacciate di morte a qualunque loro gesto. L’affare di stato ed il rischio della vita erano comunque scampati. 

Donne deboli in un certo senso indifese, e così forti nella loro determinazione di salvare l’una dalle disgrazie dell’altra. Così intente nella loro missione da dimenticare che, in quella folle corsa, qualcun altro, lui stesso, era stato travolto, usato e abbandonato...

 

Agli occhi di D’Artagnan, il tradimento era stato compiuto: la Regina prese la collana e la nascose, Constance chinò la testa e le due donne cominciarono a conversare come se nulla fosse accaduto.

 

Neanche in quel momento, alcun onore reale lo attendeva. Proprio come qualche tempo prima, fermo ad aspettare, davanti ai cancelli delle caserme del Palazzo del Louvre. Ancora una volta, qualcun altro si era preso gioco di lui, si era preso i meriti delle sue azioni! 

Come se fosse stato davvero l’oggetto di quel terribile tradimento da parte di Constance, il ragazzo non si avvicinò e ritornò verso i giardini circostanti, da dove era arrivato.

 

Calciò l’erba, passando inosservato tra i vialetti di quella parte dei Giardini Reali, ferito nell’animo, quando la visione surreale, come un riflesso, specchio di se stesso e delle sue angosce si presentò di fronte a lui.

 

L’uomo di fronte, non sembrò dimostrare lo stesso impeto. Le scarpe di velluto e le calze di seta, non riflettevano i suoi vecchi stivali, le vesti ricamate d’oro, nulla avevano a che fare con la sua mantella. La parrucca poco si confrontava con i suoi capelli lunghi, scompigliati, dal vento, dal cappello e dal lungo viaggio. Tuttavia, gli occhi castani, tristi e preoccupati, sembrarono distrarlo brevemente dalle sue stesse inquietudini.

 

Il ragazzo trattenne il respiro e lentamente riconobbe l’uomo di fronte a lui, mentre si fermò ad osservarlo, cinse una mano ai fianchi e, con un fare non sembrò aver niente a che vedere un con capo di stato del suo rango, sbuffò. 

 

“Prego, dopo di voi”- disse con un gesto di insofferenza. 

 

Preso dall’emozione e lo stupore, D’Artagnan non avanzò. Si tolse il cappello e si chinò verso l’uomo con la più sentita reverenza.

 

“Le mie più sentite scuse! Non vi avevo notato. Non vedo nessuno accompagnarvi ed io... Mi scuso immensamente della mia maleducazione!”- disse senza guardarlo.

 

L’uomo alzò le spalle, mostrando una certa indifferenza ai suoi rigori improvvisi.

 

“Charles De Batz? Ancora voi?”

 

“Mi scuso immensamente, Sire”.

 

“Rialzatevi”- disse lui.

 

D’Artagnan seguì gli ordini del sovrano in silenzio e si diresse verso il viale. Il Re lo seguì.

Camminarono fianco a fianco per diverso tempo, senza che nessuno dei due si rivolse all’altro. Il sovrano era solo ed il ragazzo sapeva che non avrebbe mai potuto aprire una conversazione con lui, senza essere prima interpellato.

 

“Posso chiamarvi Charles?”- D’Artagnan sussultò alle parole del Re ed annuì.

 

Il sovrano sembrava voler dire qualche cosa, prese una lunga pausa e D’Artagnan attese, in un primo momento di pazienza, che il sovrano facesse la sua domanda.

 

“Bene, cosa ci fate nei giardini di palazzo reale? Un segreto appuntamento? Una questione di donne?”

 

Le spalle del ragazzo si abbassarono in un gesto di sollievo, mentre ricominciò a respirare. 

 

“Sì, in un certo senso. Tuttavia, con certe donne le cose non sono mai come sembrano...”

 

“Infatti. Potete proprio dirlo! Tutto sembrava così semplice quando... Una semplice firma ed un contratto. Io ero suo e lei era mia, sotto il volere di Dio, del Re straniero e della Regina Madre. Tutto sistemato!”- il sovrano prese una breve pausa, chiuse gli occhi e sorrise, al ricordo di un tempo lontano, innocente, dove tutte le cose erano come sembrano essere e dove nessun complotto o sotterfugio aveva ancora preso atto.

 

“Ma la verità è un’altra! I cuori non firmano contratti. Quando ci si trova di fronte a qualcuno in grado di mentire o dire la verità, scegliere tra verità e menzogna, a volte neppure senza sapere quale sia una o l’altra...”- continuò.

 

“Sire! Anche il mio cuore ferito scelse di credere nell’onestà di lei, ma fu accolto soltanto dal tradimento e dalla menzogna!”- disse D’Artagnan.

 

Il sovrano sospirò, come se quella fosse un’ennesima conferma alle sue paure.

 

“Ebbene, se tornaste indietro, scegliereste ancora di credere nella verità?”

 

D’Artagnan esitò. Si sentiva ancora tradito dalle gesta di Constance, da quello a cui aveva appena assistito. Il gesto che aveva bruciato in pochissimo tempo, gli sforzi degli ultimi giorni. Guardò il Re, anche lui tradito da un gesto o da qualcosa che era da poco capitato. La camminata solitaria ai giardini reali era diventata, per i due, un lungo circolo continuo, l’espressione della rabbia di una serie di tradimenti ed emozioni. C’erano ciottoli, tutto quello che la sua attenzione riuscì a cogliere, ma non poteva apprezzare il profumo delle rose.

Rallentò lentamente il passo. 

 

Constance non aveva affatto ragione di mentire o di tradire la parola che aveva preso con lui e gli altri.

 

Però, in quel breve attimo di calma, ripensò alla collana di diamanti, alla sera in cui lei le strinse la mano nella taverna, la notte passata in barca, in viaggio verso Londra, a Dover, a Beaugency, alla macchina fantastica, al suo duello ed i suoi amici.

 

“Dunque? Ora che sapete la verità, tornereste indietro? Rifareste la stessa cosa?”- incalzò il Re.

 

D’Artagnan strinse i pugni, ma sul suo volto non c’era più tristezza, solo decisione. In breve, quel doloroso tradimento, era passato in secondo piano alla realizzazione di cosa aveva veramente portato.

 

“Certo!”

 

Il ragazzo fece un altro inchino di saluto e si congedò troppo velocemente dal Re, mostrando un ampio sorriso.

 

Il sovrano provò a fermare D’Artagnan, ma la sua corsa alimentata da un nuovo entusiasmo, l’aveva già portato lontano.

 

____________________________

 

La sera arrivò anche alla dimora al centro, tra le strade di Parigi.

 

Aramis alzò le gambe sulla pietra del focolare spento e chiuse gli occhi, la stanchezza prese il sopravvento sulla concentrazione. Planchet non si era fatto ancora vivo, ma in cuor suo, e a voce alta, promise a se stesso e agli altri che un giorno gliel'avrebbe fatta pagare.

Il suo falso impeto si spense in breve tempo. Aveva notato come quell’ultimo atto dei suoi compari di motivare D’Artagnan ad andare a Corte, forse non sarebbe stato utile a nulla. Sapeva di come quella poteva essere una strada per ritornare nei favori di personalità importanti, ma anche di quanto sarebbe stato difficile raggiungere un colloquio del genere, senza poi ricevere onori.

 

Nell’indifferenza degli altri, aprì il suo testo sugli scritti di Archimede, ed al suo interno spuntò, misterioso, un libello: soltanto poche pagine, stampate in una carta di scarsa qualità. 

Il Merito delle donne, Moderata di Pozzo da Fonte, sfogliò le dita sul ritratto di quella donna inusuale e lesse in silenzio alcuni paragrafi.

 

Prendendo note con la punta d’argento in una mano, il sonno arrivò quasi inaspettato e qualsiasi cosa avesse stretto tra le dita dell'altra, cadde per terra in un suono metallico, come quello di una catena, che lo risvegliò subito. Qualunque cosa fosse stata, tornò immediatamente nelle sue tasche senza che gli altri potessero notarla.

 

“Dove eravamo rimasti?”- chiese Athos.

 

“Non ricordo”- rispose lui, chiudendo in fretta tomo e libello.

 

“Chevreuse”.

 

“Chevreuse? La verità è che non vi interessa nulla di Madame de Chevreuse. Sapete benissimo quello che avete fatto! Sapete benissimo come vi ho trattato e come sono stato ripagato da voi! State solo cercando di prendermi per le buone!”

 

“E quello che avete fatto voi allora? Sapete della mia ferita, sapete esattamente delle mie debolezze e ve ne siete approfittato non appena ne avete trovato il momento! Non volete il mio bene, ma solo il vostro vantaggio! Meschino!”

 

“Vi ricordo che un traditore avrebbe fatto di peggio”- ribatté Aramis.

 

“Forse. Ma voi dovreste essere dalla mia parte!”

 

“Come faccio ad essere dalla vostra parte, combattere con voi, quando voi stesso non siete in grado di combattere al vostro stesso fianco? Non potete vincere la continua battaglia di avere voi stesso come vostro nemico!”

 

Aramis prese una pausa, inspirò dal naso e, con un senso di ritrovata decisione disse: 

 

“Che questa sia l’ultima volta! Che sia mio ultimo perdono!”.

 

Athos incrociò le braccia e lo guardò.

 

“Quale perdono? Voi non mi avete perdonato. Esattamente come non avete mai perdonato nessun altro. Neppure voi stesso!”

 

“Cosa?”

 

“Combatterò al vostro fianco il giorno in cui voi troverete la forza di perdonare finalmente qualcuno. Voi per primo”.

 

In quel momento, Aramis sentì il colpo delle sue parole. Comprese quanto il perdono non si possa veramente concedere, ma debba essere in un certo senso accettato. Non poteva veramente perdonare.

 

“Così da poter perdonare me...”- Athos tese la mano verso di lui.

 

I due si guardarono negli occhi in silenzio, in ricordo di un tempo nel quale le loro mani strette avevano alleviato dolore ed avevano sostenuto anime in dubbio.

 

“Rifiutate il suo invito”- disse, quasi subito, mentre lo sguardo di Aramis passò da sicuro a sorpreso e sospettoso delle sue parole.

 

“Quale invito?”- chiese con curiosità.

 

“Questo”- l’uomo porse verso di lui una lettera aperta.

 

“Siete nella mia stessa condizione. E come voi avete tirato fuori me, così farò io! Se non volete farlo per voi stesso, fatelo per me, in onore della nostra alleanza... Nessuno si avvelena per diletto, lo avete detto voi!”

 

Aramis si soffermò sui suoi gesti. In un primo momento avrebbe voluto lasciarsi sopraffare dalla rabbia di un brusco risveglio, dalla sgarbatezza delle sue azioni, dalle sue parole ruvide, ma sincere, esitò. In fondo era solo un modo per ricambiare il favore offerto. Sbuffó con insolenza, per poi allinearsi sulla stessa conversazione.

 

“Oh. E siete nel giusto. Tuttavia mi trovo costretto ad incontrarla, per quell’ultimo addio. Però vi faccio una promessa e ne sarò convinto: le dirò addio e non chiederò più di lei.”

 

“Come fate ad esserne così sicuro? Cosa vi fa credere che incontrarla non vi induca di nuovo nelle tentazioni dell’amore?”

 

“Ho le mie ragioni. Tra le tante, le sue alleanze e il suo potere a Corte. Sembra essere d’aiuto ai peggiori nemici del Regno. Dopo il nostro viaggio a Londra, non è più cosa di cui andare fieri!”

 

___________________________

 

Proprio mentre i due chinarono il capo, l’uno verso l’altro in segno di promessa, la porta si aprì su D’Artagnan.

 

“Un brindisi alle nostre avventure! Dobbiamo festeggiare!”- disse il ragazzo, con un bel sorriso.

 

“Oh! Avete dunque parlato con Constance e la Regina?”- chiese Athos.

 

“No! Dimenticate Constance e la collana! Traditrice che non è altro! Ma ho di meglio!”- lo sguardo del ragazzo si illuminò, sorrise di gioia e abbracciò i due compagni con un entusiasmo brillante.

 

“Avete dunque accettato i favori del Re?”- chiese Aramis.

 

Alla domanda di Aramis, una fredda corrente percorse la schiena di D’Artagnan. 

 

Avrebbe potuto davvero chiedere al Re tutti i favori tanto ambìti, ma preso com’era dal pensiero di Constance o dalla realizzazione di tutto quello che era appena accaduto non aveva fatto caso a nulla. Aveva incontrato il Re, avevano parlato, ed era lui stesso ad essere scappato di corsa per raggiungere la dimora di Parigi e ricordare agli altri di tutte le avventure passate insieme! Era stato al suo cospetto e colloquio per tutto quel tempo e... Se ne era completamente dimenticato!

 

Appena Porthos si rese conto del ritorno di D’Artagnan accorse dai piani superiori, lo prese per le spalle e chiese subito:

 

“Siete dunque stato a colloquio del Re?”

 

La schiena del ragazzo si irrigidì, sgranò gli occhi e annuì. Il bel sorriso aveva lasciato spazio alle labbra tese.

 

“Dunque?”- chiesero i tre all’unisono.

 

“Non-Non ho chiesto niente. Il Re non ha menzionato nulla”.

 

Ci fu un lungo silenzio di comprensione da parte degli altri tre. 

 

Momenti dopo, sbuffarono, alzarono le spalle e portarono le mani al cielo in segno di resa: avrebbero combattuto un altro giorno, trovato un’altra soluzione temporanea... 

 

Proprio mentre gli ultimi attimi di speranza lasciavano la casa nei loro sbuffi e sospiri, la porta, ancora scostata, si aprí lentamente e loro si distrassero verso di essa.

 

“Planchet?”- chiesero tutti e quattro.

 

“No. Constance. Constance Bonacieux...”- rispose la ragazza, timidamente. 

 

“Ah. Non siamo in condizione di ricevere ospiti”- sbottò Athos.

 

“Specialmente voi”- disse Porthos.

 

“Non importa...”- sussurrò lei.

 

“Allora, cosa vi porta forzatamente alla nostra dimora?”- chiese Porthos, ma nessuna cortesia fu espressa al suo arrivo. 

 

“D’Artagnan, come mai non vi siete presentato a palazzo?”- chiese Constance. Il suo volto era dispiaciuto e preoccupato. Con la camminata, così timida e insicura, raggiunse lentamente la tavolata dei quattro senza sedersi. Come un nuovo membro della loro servitù, pronta adesso a lavorare per conto loro.

 

“Beh, non ce n'è stato bisogno”- rispose lui, notando quei modi strani e gentili.

 

“Questo lo credete voi!”- ribatté la ragazza. Abbassò lo sguardo, tese le sue gonne e si inchinò verso i quattro con grazia e movimenti brevi. Loro trovarono quel comportamento curioso.

 

“Quando ho consegnato la collana, mi è stato chiesto da sua Maestà la Regina come abbia fatto ad ottenerla. Così ho fatto vostra menzione. Nella speranza che voi arrivaste”. 

 

“Bene! Che almeno la Regina sappia della nostra esistenza”- sospirò Porthos. 

 

“Bene affatto! Ho menzionato voi, D’Artagnan e i vostri compari, come uomini d'onore e grande prestigio...”

 

D’Artagnan sbottò in un’esclamazione di sorpresa e ripicca. Per quanto fosse sollevato dell’incontro con il Re, era anche certo di come Constance l’aveva tradito.

 

Gli altri tre volsero lo sguardo verso di loro, come se stessero assistendo ad una commedia. Portarono una mano appoggiata al mento, gomiti sul tavolo, quasi in segno di noia e li guardarono emettendo un lungo sospiro.

 

“...Ma nessuno era con me, a dimostrazione di quello che stavo dicendo!”

 

“Perché ve ne siete andata, senza aspettare?”- chiese il ragazzo.

 

“Siete voi che non volevate più partire!”

 

“Sono qui perché la Regina sembra aver trovato una soluzione a questo mio dilemma”.

 

Una vena del suo spirito combattivo si accese in quel breve respiro, ma al ricordo delle parole, della conversazione orribile, la sua furia si spense in terrore. Il volto si fece ancora più atterrito e l’imbarazzo di una proposta, ancora a loro sconosciuta, trapelò dal suo respiro.

 

“Tutto sistemato allora! Perché siete qui?”- disse D’Artagnan cercando conferma negli sguardi degli altri.

 

“La Regina crede di... Vuole chiamare il medico”.

 

“E perché mai? vi trovo in ottima salute!”- disse il ragazzo, cercando di capire quale malattia la affliggesse.

 

“Mai stata meglio!”- Porthos rise sguaiatamente, Athos prese la fronte tra le mani e cercò di nascondere un sorriso sarcastico. Aramis sgranò gli occhi, alzò le sopracciglia nello stupore e portò le mani alla bocca. 

 

Le loro azioni non fecero che aumentare le ansie e le preoccupazioni della ragazza.

 

“Beh vedete: dovete assolutamente presentarvi a questo ballo e dare la vostra parola nei miei confronti!”

 

“Non eravamo noi ad aver bisogno di una buona parola da parte della Regina?”- chiese D’Artagnan, ancora confuso.

 

“Purtroppo non possiamo esservi d’aiuto, visto che avete già consegnato la Collana e i nostri meriti non sono ancora stati celebrati”- aggiunse Porthos.

 

“Sì, ma la Regina ha bisogno di una buona parola per me, da parte vostra... Se vi rifiutaste... È disposta a chiamare veramente il medico!”- rispose la ragazza.

 

“Dunque parlate sul serio?”- chiese Aramis.

 

“Quale medico? Se non abbiamo fatto nulla! Non abbiamo dormito neppure da soli nella stessa stanza!”- D’Artagnan arrivò all’intricata conclusione.

 

“Dite che voi, invece... E quando?”- chiese Porthos verso Aramis. 

 

“C’è sempre tempo per due giovani innamorati...”- disse Athos, cercando di trattenere una risata.

 

“Non abbiamo fatto niente! Constance non avete nulla da nascondere!”- disse D’Artagnan, rosso in volto, gli occhi puntati su Aramis.

 

“Non è questo il punto! Nessuno ha il diritto di decidere per voi! Troveremo il modo di presentarci a Corte! Possiamo... Possiamo presentare la macchina, come un dono per il Re? Che ne dite? È una scusa accettabile?”- chiese Aramis. 

 

“Perché vi affannate così tanto per una serva di Corte?”- chiese Porthos.

 

“Una traditrice!”- brontolò D’Artagnan, nel sottofondo. 

 

“Perché chiedendole certe cose, la Regina viola un suo sacro diritto! Mettetevi nei suoi panni: che diritto avrei nel chiedervi di farmi vedere le vostre... Parti?”- disse Aramis, rivolto agli altri uomini.

 

“Nessuno, ma non avrei assolutamente problemi nel mostrarvele. Niente che non abbiate già visto, che scateni in voi desiderio o che, probabilmente, non possediate voi stesso. Se non in altre, ridotte, proporzioni!”- le parole di Porthos non intimorirono Aramis.

 

“Perché qualcuno dovrebbe venire a guardare le vostre, le mie... Di parti, senza alcun motivo o senza che io lo desideri, se non giustificare ufficialmente qualche cosa di così intimo?”- chiese in un tono quasi esortante.

 

“Nessuno! Siete un uomo, per lo meno, probabilmente lo diventerete un giorno quando... Insieme alla barba e alla voce, altre cose scenderanno a dimostrare la vostra virilità...”- disse Athos, cercando di rimanere serio. Un angolo della bocca si arricciò in un mezzo sorriso.

 

Aramis arrossì.

 

“Perché per una donna non può essere lo stesso, quindi?”- chiese Constance, al silenzio degli altri.

 

“Beh vedetela così: il medico potrebbe mentire e dire che la reputazione di Constance è stata compromessa da uno di noi. Che io, o voi, dobbiamo adesso risarcire per i danni che abbiamo creato alla sua famiglia, caricarsi di oneri che già non ci possiamo permettere, ragion per cui siamo ancora qui, essere padri disonorevoli di figli inesistenti. Vi sembra giusto?”- chiese Aramis.

 

“Avete davvero portato via Constance al povero D’Artagnan?”- gli chiese Porthos, dietro gli sguardi turbati di D’Artagnan.

 

Aramis incroció le braccia spazientito.

 

“Secondo voi?”- chiese in segno di sfida.

 

Porthos alzó spalle e sopracciglia, scosse la testa con indifferenza.

 

“Contate sulla mia parola e su quella di D’Artagnan! Sappiamo di non aver fatto nulla! Saremo con voi al ricevimento!”- disse, inchinandosi ai piedi di Constance.

 

Athos annuí e disse, alla stessa maniera:

 

“Contate sulla mia e sulla parola di Aramis, anche noi sappiamo di non aver fatto nulla”.

 

L'uomo abbassó la testa in una breve reverenza. 

Aramis si soffermó sulla parola che lui stesso aveva dato per suo conto e la grazia dell’amico solo per un breve momento, per poi seguirlo in quel lungo inchino.

______________________

 

Una volta data la sua parola ed annunciati i suoi saluti, Aramis prese l'invito sul tavolo, cappello e mantella, ed in silenzio abbandonò la sua dimora alla volta di Madame de Chevreuse.

 

A notte inoltrata, la luce di lanterna illuminó di poco il riflesso dell’acqua oscura della Senna. Alcuni passanti osservarono la sua schiena dritta ed il passo elegante, ma nessuno osò interromperlo in quella silenziosa veglia notturna. 

 

Una volta all'Auberge de Chevreuse, si assicurò che l'anticamera d'attesa fosse vuota e la porta aperta. Un'altra porta si apriva su un passaggio secondario, un chiostro, dal quale usava entrare spesso da solo ed intrattenere colloqui.

 

Anche quella notte, abbassò la luce della sua lanterna alla vista di una sagoma nera.

 

Una figura femminile si presentò nell'ombra ed alzò la luce sul suo volto pensoso. I loro sguardi si incontrarono, Aramis chinò la testa in un inchino, rivolto verso di lei, le vesti ampie e i capelli striati di grigio, acconciati in una cuffia. La collana e gli orecchini di bianche perle, rievocarono il tempo della sua gioventù lontana, mentre gli occhi color nocciola brillarono di malinconia, sulle le guance segnate dal tempo e i ricordi di un passato glorioso, ma ormai lontano. 

 

“Altezza! Regina Marie!”- sussurrò Aramis.

 

“Mademoiselle, Baronessa Renée D’Herblay. Bentornata al Salone delle Regine”- sotto le mentite spoglie di Madame Chevreuse, si nascondeva in realtà la Regina Madre, Marie de’ Medici. 

 

“Sono qui per denunciare un atto meschino nei confronti dei Sovrani. Qualcuno degli altri vostri ospiti ha minacciato la loro incolumità e chiedo voi consiglio”- disse lei.

 

“Mi dispiace. Sono stata una sciocca, è tutta colpa mia, sono io che ho convinto Buckingham a rientrare in Francia, credevo che in questo modo avrei guadagnato i favori del Re ed avrei messo Richelieu in ridicolo, invece mi sono ritrovata un’altra volta in competizione con le sue bassezze. È arrivato per me, il tempo di lasciare di nuovo Parigi. È difficile vivere in una città così ostile”.

 

La Regina Madre era stata per la giovane un punto di forte alleanza. Grazie al Salon, aveva vissuto i suoi primi anni a Parigi, e tra le schiere, mantenendo la sua riservatezza e indipendenza. Non c’era bisogno di fare domande, quanto tutti davano certe azioni per scontate.

 

“Ostile, per via di Richelieu?”- chiese Aramis.

 

“È tempo di partire”- disse la donna di mezza età.

 

“Come? Non l'avete detto proprio voi? Non avete promesso di portare avanti la filosofia di Marguerite de Valois? Non avete detto che le donne possono fare quanto e più di quello che un uomo, un Re, non riesca a fare?”- chiese la giovane.

 

“Certamente! In fondo, ho governato per tanti anni e voi siete stata Moschettiere per altrettanto tempo. Abbiamo già compiuto il nostro dovere perfettamente. Allo stesso modo di un Re o un Soldato. In fondo, non abbiamo risposto così all'eterna Querelle de Femmes?”

 

Aramis annuì. La Regina Madre aveva già abbandonato la sua reggenza ed aveva soltanto una fievole speranza di ribalta. Forse voleva soltanto prendere tempo e riposo, pianificare con calma la prossima mossa.

 

“Meglio abbandonare questo posto. Se la vostra vendetta è stata compiuta, che ragione avete di rimanere ancora a Parigi? Potreste tornare con me al Salon e, perché no? Ritornare a vivere come una dama di Corte?”

 

La giovane combattente scosse la testa, senza rispondere. 

 

“Tornerete mai a Palais de Luxembourg?”- chiese Aramis.

 

“Non so. In quanto a voi, dove eravate? Cosa ha tardato il vostro ritorno? Cosa vi spinge a non fuggire con me, a non prendere alloggio al mio albergo, sotto il mio Salon, ma a rimanere ancora qui?”- chiese Marie.

 

“Nulla di particolare”- qualche cosa si incrinò nella voce di lei.

 

La Regina Madre si voltò verso la giovane donna nelle vesti di cavaliere. 

 

Rivide in lei lo sguardo di due sposi, due principi, incontrarsi tanti anni prima, rivide in lei lo stesso sguardo di Luigi, pronto a chiedere la mano di Anna. Rivide in lei, se stessa ed il cuore pieno di sogni, in un giovane ritratto di pavoni, alla richiesta di una mano benedetta dagli Dèi dell’Olimpo. Giove e Giunone.

 

“Il vero amore è sempre una situazione difficile, Renée. Forse, questa volta, dovreste chiedere l’aiuto di qualcun altro”.

 

“Addio, Altezza”- disse Aramis, con un ultimo inchino di congedo.

 

______________________________________


Camminando sulle rive della Senna, a lume di lanterna, Aramis aspettò l’alba arrivare, nella speranza che con lei avrebbe portato lume, nella ragione offuscata. 

L’olio bruciò quasi completamente e la lanterna fu più volte sul punto di spegnersi, ma proprio sul roseo riflesso del sole nascente, Aramis non vide sul vetro annerito il riflesso di se stessa, ma quello della Dea dall’elmo d’acciaio, la donna vestita d’oro e d'azzurro che stringe per mano reali e combattenti, li trasporta e li motiva verso il loro destino.

 

Cosa avrebbe fatto, cosa avrebbe detto quella coraggiosa Dea al posto suo?

 

Moderata di Pozzo da Fonte non aveva alcun dubbio, Marguerite de Valois non aveva alcun dubbio e, se fosse stato soltanto per lei, anche la stessa Regina Madre, Marie de’ Medici, avrebbe regnato con pugno di ferro, avrebbe tranquillamente portato avanti il lavoro di un uomo, di un Re, con la stessa volontà dispotica. 

 

Guidate dal suo lume e dalla sua volontà tutte loro avrebbero dominato il mondo, oppure dettato la loro vera filosofia per le future donne, future regine, intellettuali, artiste e combattenti. 

In potere e saggezza, ricordate ai posteri come le donne che aprirono la strada a tutte le altre. Esempio per un nuovo futuro di eguaglianza. 

Sarebbero rimaste simbolo di una storia che si stava svolgendo con lei. 

 

Non a caso, la Dea Francia era in un certo senso la sua stessa guida.

Anche lei, sotto la forte mano, si era allenata, aveva viaggiato per regni ed imperi, pregato ed aveva combattuto battaglie di forza e ingegno, aveva cercato in lei una giustizia forse ancora troppo lontana dalla sua realtà.

 

Un sospiro pesante abbandonó il petto della giovane, per raggiungere quell’orizzonte dal futuro per lei così certo, così ovvio e banale. Era sempre vissuta nella vendetta, schiacciata da un obiettivo più grande di lei. 

 

Fino ad allora, tutto era stato preso in modo così temporaneo, un mattino dopo l’altro, un passo su un altro, un giorno alla volta. Però adesso, si era ritrovata a pensare al futuro, a quell’orizzonte lontano. 

 

Neppure Aramis si aspettava quello che stava succedendo, ma i sentimenti non guardano piani, non contano i giorni: al cuore non si comanda...

 

Fermò il passo, contemplando quel sole nascente e, rivolgendosi al riflesso della lanterna ormai spenta come se fosse una donna, la stessa Dea, in carne ed ossa e pronta ad ascoltarla, disse:

 

“Sono sempre stata al suo fianco come un compare inseparabile, dividendo tutto, combattendo insieme, non sono mai stata attratta da lui in questo modo”.

 

“Eppure ora siete qui, con la vostra questione femminile”- gli occhi brillanti e sognanti di quel riflesso, la guardarono senza davvero parlare.

 

La visione sembró interrogarla in un silenzio che non andava giustificato a nessuno, se non a se stessa. Così, dopo un lungo sospiro, come se fosse stata finalmente liberata dalle sue stesse catene, cominciò a parlare al vento, all’alba di una mattina di sole, memorie di un’altra, ormai passata.

 

“Era l’alba di un nuovo giorno, uno come tanti, proprio come oggi, l’aria cominciava a farsi fredda ed un raggio di luce furtivo contrastò il suo profilo. I suoi occhi brillarono, puntando verso l’orizzonte, i capelli scossi dal vento si aprirono sulla fronte, i bei lineamenti del naso e le sue labbra schiudersi in un sorriso istintivo. Chinò di nuovo il capo e proseguì nella sua cavalcata”. 

 

“Non so neppure per quale ragione alzai lo sguardo, ma come vidi il vapore del suo respiro riflettere la luce di quel raggio di sole, vidi in lui una bellezza mai notata prima. In quella nuova luce non era più il compare con cui usavo condividere tutto: era un uomo per cui provavo un altro tipo di emozioni”. 

 

“Non voglio combattere una tale battaglia!” 

 

Aramis si risvegliò da quel momento di sfogo solitario, pronta a riprendere la sua strada verso casa.

 

Nulla.

 

Il sole tramonterà un altro giorno, il sole sorgerà un altro giorno, nuove albe e nuovi tramonti, la vita proseguirà senza che questo segreto venga mai svelato.

 

Noli obsecro istum disturbare! 

 

Come nelle parole di Archimede da Siracusa, in punto di morte, neppure lei avrebbe mai stravolto tutto ciò che la circondava, la sua vita di combattente, di avventuriera, per dare retta alle sue emergenti emozioni.

 

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Capitolo 26
*** 26-Bellissima, come sempre. ***


Capitolo 26

Bellissima, come sempre.

 

Il Palazzo Reale splendeva alla luce del primo tramonto estivo, in uno dei giorni più lunghi dell’anno.

 

Dalle ampie finestre della sala pressoché deserta, il sole attraversava i vetri in una miriade di colori e decorazioni. Quanto differiva dalla sua umile dimora, quanto differiva dalla vecchia tenuta in cui era cresciuto!

D’Artagnan osservò tutto quell’ambiente senza essere curioso, non provava invidia o rancore, ma più il tempo passava tra le mura di quella sala, tra le stanze del palazzo, più cominciava a capire di quanto tutto ciò necessitasse lavoro e manutenzione.

 

Planchet riusciva a mantenere le stanze dell’abitazione della casa dei moschettieri ed il suo lavoro alla bottega solo grazie alla sua umiltà, ma più le cose aumentavano, più le terre si ampliavano e i campi producevano raccolti gloriosi, così c’era più bisogno di persone disposte a curare quei campi, le bestie o cose ricchissime e coperte d’oro che circondavano i sovrani tutto il santo giorno. 

Una vera servitù non può essere disposta a tutto questo lavoro soltanto per volontà divina: come offre i suoi servizi, così domanda materiali e privilegi.

 

Certo c’erano studioli e biblioteche, uffici dove poter leggere i documenti in pace, c’erano parchi e giardini nei quali perdersi, ma una responsabilità così grande ed esigente come quella di un regno, veniva a cercare i propri mastri, li prendeva per i capelli e, con il fiato sul collo, non li lasciava dormire di notte.

 

“Ferula”- la voce di Porthos lo svegliò da quella realtà.

 

D’Artagnan si voltò verso di lui, come se avesse appena detto qualche cosa di incomprensibile. Il moschettiere stava annusando l’aria calda dell’anticamera, con fin troppo interesse.

 

“Manca la ferula, il finocchio selvatico. Eppure l’ho vista proprio fuori dai giardini, almeno due cespugli”- guardò verso la finestra, quasi con l’intenzione di coglierne un mazzo e di portarla subito in cucina.

 

Per istinto e imitazione, anche D’Artagnan annusò l’aria che proveniva dalle cucine. Se Porthos non glie lo avesse fatto notare, non se ne sarebbe mai accorto. Eppure in quel momento se ne rese conto e non potè più evitare di considerarlo. Nell’odore caldo e salato che proveniva dai forni, sembrava proprio mancare quello delle erbe profumate, il banale condimento della cacciagione.

 

“Tutto questo oro, questo sfarzo, la musica e i doni, questa festa eterna che non sembra essere mai iniziata, così da non poter concludersi mai. Tutto l’oro di questo e del nuovo mondo... Ma manca un rametto di finocchio!”- Porthos si guardò attorno.

 

“La ferula è uno dei fiori più comuni e umili...”- disse D’Artagnan, quasi senza pensare.

 

“Non solo! È l’erba dei campi della Maratona, l’erba del coraggio! Che figura ci fa un banchetto del regno più potente di questo e del nuovo mondo senza l’odore del coraggio? Ci fa sembrare tutti vili e stupidi, al confronto!”- l’uomo scosse la testa e gli angoli della bocca di imbronciarono di delusione, come se quell’assenza rappresentasse molto di più di una semplice erba.

 

“Se è così importante per voi, forse dovremmo andare fuori a coglierla, allora. Se non è mai abbastanza, bisogna trovare ancora più coraggio!”- disse il ragazzo.

 

Porthos non esitò e corse verso l’esterno, alla ricerca di quell’erba divenuta improvvisamente così preziosa. D’Artagnan lo seguì più lentamente, pensando a tutto quell’affanno per un semplice odore di cucina. Non era la ferula, il vero oggetto di quelle ansie, più dello scambio che sarebbe dovuto occorrere in quella speciale occasione: consegnare la macchina ed in cambio ricevere onori e favori. 

 

Dare la sua stessa parola. Trovò quella responsabilità importante ed onerosa, la preoccupazione si potè notare tra i palmi leggermente sudati ed i denti stretti.

 

Si era già distratto una volta e sembrava che quella fosse una delle poche ultime occasioni concesse per incontrare il Re e la Regina.

 

“Siete dunque riuscito a rimediare per quello che non c’era?”- chiese D’Artagnan, cercando di seguire Porthos in quel compito che sembrava all’improvviso così essenziale. L’uomo sorrise soddisfatto della sua impresa e, riprendendo fiato, con le mani ai fianchi, potè finalmente rallentare di nuovo il suo passo.

 

“La camminata tra i giardini e le cucine mi ha fatto pensare a quello che non avevamo. Però anche a quello che già abbiamo ottenuto: il fatto di essere stati invitati e di essere ospiti di questa festa così importante!”- disse aggiustando le sue vesti dopo la corsa.

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Il brusio di un battibecco silenzioso, dall’altra parte della sala deserta, distrasse i due. Rumori di vesti affrettate, inamidate e un parlato familiare, distese i due uomini dall’ansia delle presentazioni ufficiali, che sarebbero avvenute a breve.

 

“Siete sicuro che quello è il posto giusto?”- disse una delle voci.

 

“Sempre meglio di dove volevate sistemarla voi!”- sussurrò l’altra.

 

Passi veloci riecheggiarono sul pavimento e si fermarono alla vista dei due combattenti. Porthos si impettì e guardò le due figure interrompersi nel notare la loro presenza.

 

“Ah! Ecco! Stavamo proprio aspettando voi!”- disse D’Artagnan con un sorriso.

 

Gli occhi chiari di Aramis si illuminarono di una strana luce e lo guardò con un entusiasmo incoraggiante, mentre Athos lo guardò con sospetto e portò una mano davanti alla bocca, come per trattenere altre parole.

 

“Anche io vi stavo cercando! D’Artagnan, fate esattamente come vi dico! Presentatevi al Re, convincetelo a camminare da questa parte dei giardini, in modo che io gli sia di spalle e voi possiate vedermi mentre io e Porthos guideremo la macchina!”- disse il giovane, tutto d’un fiato.

 

“Io mi sistemerò qui, voi arriverete da questa parte. Dovrete seguire esattamente tutto quello che vi dirò; passo dopo passo... Potete leggere le mie labbra da questa distanza?”- continuò Aramis allontanandosi dal gruppo in lunghi passi e ritornando su di loro con lo sguardo, facendo cenni con la mano.

 

I tre si scambiarono uno sguardo perplesso e lo lasciarono fare. Porthos allungò il collo ed annuì con indifferenza. D’Artagnan lo guardò dimostrare le sue migliori doti di stratega. Athos aggrottò le sopracciglia e lo richiamò verso il gruppo.

 

“Aramis?”- disse stringendo lo sguardo.

 

Il giovane stava contando i passi che lo separavano dal gruppo con una pianificazione sospettosa, si fermò e si avvicinò.

 

“Cosa?”- chiese inarcando le spalle e mascherando il volto con una mano, quasi sottovoce.

 

Porthos scambiò uno sguardo veloce con gli altri tre ed annuì verso Athos.

“Vi state dimenticando della ragione per cui siamo veramente qui. La ragione per cui abbiamo dato la nostra parola”- disse poi, rivolto verso Aramis. 

 

Il giovane alzò le mani, come per sostenere la valanga di idee che stava per travolgerlo.

“Giusto! Voi andrete da Constance mentre io...”- disse, ma non riuscì a continuare.

 

“No, No!”- disse Athos.

 

“Volevate liberare la serva dai suoi doveri? Venite pure con noi allora! Neanche D’Artagnan era disposto a tanto! Eppure voi non vi siete tirato affatto indietro, Cavaliere! Venite pure con noi!”- Porthos prese il giovane per le spalle e lo costrinse a fare da testa di quella piccola missione.

 

“Per quanto avete sempre dimostrato la migliore strategia e conoscenza, sembrate mancare completamente di saggezza...”- continuò, verso il giovane in silenzio.  

 

“Cos’è la saggezza, dunque?”- chiese D’Artagnan.

 

“La saggezza sta nel margine di errore commesso in cerca della conoscenza, ma nel mio caso tutto questo è stato condizionato dall’amore”- disse Athos.

 

“Amore? Come? Voi lo definireste amore?”- chiese Aramis.

 

“Che cos’è l’amore, dunque?”- chiese D’Artagnan, incuriosito da quella discussione.

 

“Un tempo ormai lontano vi avrei potuto rispondere. Però oggi... Non saprei. Per questo vi dico, mettiamoci dietro a quel cespuglio, diamoci alle fronde e aspettiamo che arrivi il Re: tendiamogli una trappola, un’offerta che lo lasci senza parole e che non possa rifiutare, non diamogli scampo!”- pugni stretti ed occhi infiammati da un’altra idea divorante.

 

“E tutto questo cosa c’entra con l’amore, o la saggezza?”- chiese Porthos, sorpreso da quella risposta.

 

“Nulla. Quello che vi propongo è un capro espiatorio alla vostra e alla mia malinconia. Ci sarà un altro giorno per piangere all’amore perduto. Un’altro giorno per pensare all’amore futuro. Per oggi la conoscenza e la strategia sono, a volte, armi più importanti dell’amore e della saggezza!”- l’attenzione del giovane abbandonò per un attimo le sale della regina per poi ritornare al gruppo di combattenti.

_____________________________________

 

“Altezza!”- Porthos alzò la voce, in modo che gli altri abbandonassero quella discussione per accorgersi della breve parata che la Regina stava organizzando nelle vicinanze.

 

La sovrana e le dame di corte li notarono e lei si avvicinò

 

“Questi sarebbero gli uomini di cui avete parlato?”- la Regina si rivolse verso Constance, lei di rimando guardò i quattro. Gli occhi accennavano al risentimento, mentre si inchinava con grazia.

 

“Sì, sono loro”

 

“Dunque, Cavalieri: potreste garantire per l’onestà della mia serva?”- chiese la Regina.

 

“Possiamo garantire per la sua onestà e la sua reputazione. Non ha mai lasciato la nostra... Vista...”- D’Artagnan esitò nel pronunciare quelle parole. Gli altri tre annuirono, dando l’assenza di altri testimoni per scontato.

 

“È tutto... Vero?”- chiese la sovrana, con distrazione.

 

“Certo!”- rispose Athos.

 

“Avete visto Rochefort nei paraggi?”- sussurrò Constance, rivolta verso i moschettieri con fare dubbioso.

 

“No”- rispose D’Artagnan, guardandosi attorno e ricordandosi della conversazione avuta con il Comandante. Tuttavia non c’era veramente traccia di quell’uomo da nessuna parte.

 

La regina sospirò, chiuse gli occhi e sorrise con fare sufficiente.

“Vi crederò. Almeno per il momento”- disse mentre fece un gesto di dimissione, come distratta da qualcos’altro. La corte di dame e la regina li oltrepassarono, avanzando verso le sale da ballo.

 

“A proposito, D’Artagnan, che fine ha fatto Rochefort?”- chiesero gli altri uomini.

 

I quattro si guardarono attorno un’altra volta e alzarono le spalle. Nessuno lo aveva visto tra la guardia Cardinale.

 

“È proprio vero che Rochefort ha insultato la vostra bestia?”- chiese Porthos sottovoce, rivolto a D’Artagnan.

 

“Fatico a dargli torto...”- commentò Athos.

 

Aramis portò l’attenzione sul corteo reale che di lì a poco li avrebbe raggiunti. Un altro battaglione in una guerra fatta di passeggiate, colli ricamati e tacchi alti.

 

“Charles!”- il Re affrettò il passo, costringendo la servitù a fare lo stesso.

 

“Sire!”- D’Artagnan accorse immediatamente verso il sovrano e si prostrò in un breve inchino.

 

Con un comando netto, Porthos ed Aramis accorsero verso la macchina, mentre Athos li aspettò di soppiatto, controllando che D’Artagnan avesse distratto il Re da tutti i loro piani.

 

“Mi avete lasciato così bruscamente ieri! Un piacere ritrovarvi a questo ballo!”- disse il sovrano, lo sguardo più sereno alla vista del ragazzo, rallentò il passo fino a fermarsi.

 

“Il nostro colloquio mi ha aperto gli occhi verso i beni più importanti. Ero triste, ma la nostra conversazione mi ha sollevato! Per questo ho un dono per voi. Mi correggo! Non è da parte mia! Ma da parte del generosissimo e gentilissimo George De Villiers, Duca di Buckingham!”

 

D’Artagnan mostrò la macchina verso il sovrano. Lo strumento aveva il collo ripiegato e la testa sotto le ali chiuse, proprio come un cigno dormiente. Il Re sollevò un piede da terra e si sbilanciò da un lato nel tentativo di guardare meglio l’arnese esotico ed elaborato.

 

“Buckingham? Questo sarebbe un dono per me?”- chiese il sovrano con stupore.

 

“Sì. Un uomo dall’allegria invidiabile! Si scusa immensamente per aver creato qualsiasi...”- D’Artagnan si interruppe, voltò la testa verso un punto lontano.

 

“Equivoco? Equivoco...”- continuò, stringendo lo sguardo, come per guardare meglio qualcosa in lontananza, alle spalle del sovrano.

 

“Equivoco? Per cosa?”- chiese il Re, cercando di capire le espressioni sul suo volto incerto.

 

“Baciamano? Dizione...”- l’attenzione del ragazzo lasciò sgarbatamente la presenza del Re, mentre allungò ancora di più il collo e le spalle, per vedere meglio qualcosa.

 

“Ottima dizione?”- disse D’Artagnan, la sua sembrava proprio una domanda, ma allo stupore del Re non continuò a guardare l’orizzonte e a parlare con incertezza. Si prostrò semplicemente in un altro, profondo, inchino.

 

Questa volta fu il re a stringere lo sguardo, aggrottare le sopracciglia e piegare la testa sul giovane. Non aveva la necessità di vedere o sentire meglio: si ricordava bene di quelle taglienti voci di corte che complimentavano la dizione di Buckingham, il suo grossolano accento straniero, contro i suoi difetti di pronuncia. 

Un argomento da non trattare, proprio di fronte a lui.

 

“No... Intendevo, Buckingham manda i suoi calorosi complimenti per la vostra... Ottima dizione!”- si corresse D’Artagnan, nel più completo imbarazzo, ancora prostrato ai suoi piedi. Lo sguardo del sovrano si distese, ma si voltò in quel punto dell’orizzonte su cui lo sguardo del ragazzo si stava stringendo pochi attimi prima. La sua attenzione fissò sui movimenti dei tre uomini alle spalle del Re.

 

Luigi XIII guardò i tre combattenti fermarsi in strane posizioni, intenti com’erano a gesticolare in direzione di D’Artagnan. Strinse lo sguardo verso di loro, poi verso il giovane, poi verso di loro ed infine verso al giovane indicando i tre uomini con entrambe i palmi delle mani.

“Cos’è questa farsa? Volete dirmi che non ne sapete nulla?”- chiese il Re.

 

D’Artagnan alzò le sopracciglia in segno di stupore, ed indicò ammutolito verso i tre.

 

“Noi! Affatto! Chi? De Batz? La macchina? Mai visti prima... Tutta farina del suo sacco... Del sacco di Buckingham... Di qualche altro sacco. Non saprei...”- disse Athos, con fare pensieroso.

 

“Aramis?”- continuò, puntando il gomito contro il giovane.

 

“Chi? Io!? Vostro umile servo del Signore? Sarà stata sicuramente una svista... Un’altro Cavalier D’Herblay... Un lontano cugino...”

 

“Ce ne sono fin troppi a Parigi! Facile confondersi!”- rise Porthos, notando l’assurdità delle loro menzogne.

 

“Bene!”

 

Il Sovrano annuì, si distrasse dai tre uomini e strinse le mani con soddisfazione. 

Si rivolse nuovamente verso il ragazzo.

 

“Allora bisogna veramente badarsi da gente come Voi, D’Artagnan de Batz!”- disse, ritornando con lo sguardo su di lui, cominciò ad allungare il passo, dirigendosi di nuovo verso le stanze della regina.

 

“Come potrei mai ripagare la vostra cortesia?”- chiese il sovrano, con fare disteso e sereno.

 

D’Artagnan rivide lo sguardo di Porthos elencare accuratamente il lontano desiderio di tutte quelle proprietà e i possedimenti, il sarto, l’argenteria ed un bel cavallo addestrato. Riascoltò le lente parole di Aramis e le sue richieste di umili favori e libri di lusso, cose impossibili da elencare tutte in un momento. Pensò ad Athos ed al fatto che non aveva ancora chiesto veramente nulla, ma come sarebbe stato pronto ad aprire bocca nel silenzio meno opportuno... Raddrizzò la schiena, unì le mani proprio come aveva visto fare al Re e mostrò una vaga eleganza.

 

“Non saprei...”- disse lui, sospirando. Non era quello che avrebbe dovuto dire, ma la verità forse risiedeva in quella risposta onesta: non voleva più nulla di quello che aveva già ottenuto. Il buon odore di un rametto di coraggio.

 

“La Tenuta dei Navarra ha subito una strana disgrazia. Non può pagare più per il suo feudo. I Marchesi sono stati costretti a deporre il loro titolo. Ne sapete qualcosa?”- chiese il sovrano. D’Artagnan ricordò i loro pascoli in fiamme illuminare il buio della notte.

 

“Affatto”- disse sgranando gli occhi. Il sovrano non si accorse della sua reazione stupita.

 

“Beh, D’Artagnan, voi che siete di quelle parti potreste davvero essermi d’aiuto qui...”

 

“Eh?”- il ragazzo guardò il sovrano con ancora più stupore. Lui pose una mano sulla tracolla da parata ed alzò le spalle, dimostrando una completa indifferenza.

 

“La loro tenuta è vostra. Per editto Reale!”

 

“C-Come?”

 

“Ricordatevi che la vostra famiglia dovrà ripagare anche i loro diritti feudali...”- spiegò il sovrano.

 

“Maestà!”

 

“Non ne siete grato?”- chiese il sovrano, interpretando quel dono come generoso e clemente.

 

D’Artagnan sospirò. Più lavoro per la sua famiglia ed i suoi fratelli. Forse anche per lui.

Un buon lieto fine, dopotutto. 

 

Sembrava, però non appartenere a lui, più che al suo casato e la sua famiglia.

_____________________________

 

In compagnia di un sovrano di uno dei regni più potenti di quel tempo, non c’era veramente tregua. Passarono solo pochi attimi, prima che un altro ministro o un altro nobile interrompessero quella discussione così incerta.

 

Come avrebbe gestito quei raccolti? Quant’era la tassa per quel feudo? Quante domande avrebbe voluto ancora chiedere in relazione ad un dono così importante!

 

Però non ne trovò il tempo, mentre cercò pazientemente di ritrovare il modo di aprire bocca tra le interruzioni di qualcun altro, arrivò il punto in cui perfino lo stesso Re cercò di zittire il gruppo di nobili. Infine la calca si aprì sulla tunica scarlatta di Richelieu che si fece avanti nella comunella.

 

“Eminenza!”- esclamò Luigi XIII, sollevato da quella visione.

 

“Manca qualcuno in queste vostre schiere, Eminenza?”- chiese il sovrano, non notando le sue guardie presenti.

 

Il Cardinale si guardò attorno, vagamente perplesso.

 

“Noto questo fatto, chiederò ai suoi commilitoni. D’Artagnan, ne sapete qualcosa?”- chiese il sovrano. Lui scosse la testa ammutolito, le voci della calca risuonare ancora nelle sue orecchie.

 

Richelieu fece un cenno con la mano, come per non destare sospetti su cosa stesse accadendo nelle caserme della guardia Cardinale.

 

“A proposito di mancanze, Maestà, manca ancora quel gioiello così prezioso?”- chiese, cambiando abilmente discorso. 

 

Il Re e Richelieu annuirono l’uno con l’altro ed inviarono l’invito alla Regina di entrare e prostrare i suoi stessi saluti.

 

"Altezza, la bellezza vi chiama ..."- disse Richelieu sorridendo soddisfatto all’entrata della Regina, accompagnata da diverse dame di corte.

 

La sovrana si inchinò con grazia di fronte al gruppo di persone che la stavano osservando. Constance l’aiutò a spostare lo strascico delle ampie gonne dell’abito reale, aggiustò il collo ricamato e i pendenti, rivelando la scollatura coperta con i tanto ambiti diamanti nuziali legati con un bel nastro di raso blu.

 

"Mia amata regina, mi chiedevo che fine avesse fatto la vostra bellissima collana" - chiese di nuovo il Re.

 

"Eccola! Più bella che mai, Sire" - rispose lei con un sorriso, un lungo e profondo sospiro di sollievo.

 

Stupore e bellezza inondarono gli occhi del Re, ma anche la confusione di non capire bene quello che era successo durante quelle settimane di dubbi, sospetti e voci che il suo più fidato ministro non aveva esitato a spargere con così tanta certezza. 

 

"Questa è sicuramente la più bella..."- disse in un lungo pensiero, prendendo il mento tra le dita, con fare sospettoso.

 

"Bellissima, infatti"- aggiunse la Regina, i suoi occhi voltarono verso D’Artagnan.

 

"Bellissima, come sempre!"- D’Artagnan si chinò con grazia verso la regina, ma il suo sguardo volgeva oltre le sue ricche vesti e i suoi ampi colli, verso Constance, ancora accomodata in quel lungo inchino.

 

Aramis raddrizzò la schiena soddisfatto, si voltò verso Porthos ed Athos, portò le mani sull’elsa del rapière e lo sfoderò, lucente ed affilato. I tre incrociarono le lame dei rapieri e atteggiarono il piccolo defilè con confidenza, di fronte ad un gruppo di dame adoranti.

 

I tre moschettieri accennarono un breve inchino ed abbandonarono in fretta le stanze della Regina, alla volta dei banchetti e delle più sontuose sale da ballo.

 

Epilogo de “Le Avventure di D’Artagnan”

 

Al momento in cui l'orchestra si fermò, Athos sedeva solo. Portò una mano sull’altra e guardò la particolare coppa di vetro dipinto di fronte a lui. 

La raffinatezza e l'arte del vetro soffiato lo lasciò pensare allo sfarzo del ricevimento, alla sala dove i quattro amici erano andati a finire. 

L’ironia delle loro sorti. 

 

Sedeva solo, tuttavia non si sentì affatto solo, si alzò in piedi ed accennò un sorriso veloce in lontananza.

  

La luce di così tante candele rendeva tutto diverso, oggetti e persone immerse in colori caldi e dorati. Athos alzò il mento di direzione di Porthos, sollevó e mostrò la coppa particolare di fronte a lui, l’amico alzò semplicemente spalle e sopracciglia, sorrise e si apprestò a riempire lo stesso tipo di bicchiere prima di avvicinarsi. 

 

Per quella serata, l’amico aveva tirato fuori le sue migliori vesti ricamate, i suoi sorrisi migliori e portamenti più eleganti. Considerati tutti gli sforzi fatti da parte sua, sperò per un attimo che qualcuno lo avesse notato ed avesse ascoltato le sue richieste. Aveva fatto tanto per ottenere i lussi di quel ricevimento e pensò a come tutto questo fosse valso il sacrificio. Di certo non era passato inosservato alla vista di molte dame non ed aveva intrattenuto i suoi astanti in discorsi lunghissimi e articolati. 

Aramis era stato d'aiuto e gli aveva suggerito parole troppo difficili per le orecchie di chiunque. 

 

Il giovane, che per qualche tempo non aveva lasciato il suo fianco, in quel momento era ritornato a discutere con un’altra di quelle personalità apparentemente insignificanti, ma aveva tutte le certezze che, se si intratteneva con lui, avrebbe sicuramente dovuto avere conoscenze ed interessi al di fuori di quelli che erano semplicemente affari della famiglia reale.

Lo guardò con la stessa curiosità. I suoi capelli ricadevano sulle spalle in lunghe ciocche, che terminavano in quel laccio che aveva sempre indossato, questa volta era un fiocco azzurro, i suoi occhi chiari, grandi, il volto leggermente arrotondato, le labbra e i lineamenti morbidi. 

Un vago sospetto oltrepassò i pensieri di Athos, le luci del candelabro rendevano tutto più romantico.

 

Presto, il vetro delle loro coppe tintinnò in un brindisi, accompagnato da una lunga risata.

 

“Birra al posto del vino?”- chiese Porthos.

 

“Un ricordo a questo lungo viaggio...”- rispose lui.

 

“Dov’è D’Artagnan?”- chiese Aramis, i tre si guardarono attorno, notando come il ragazzo si fosse dileguato da quell'ultimo brindisi.

 

Il ragazzo prese una lunga pausa dallo sfarzo. Passeggiò verso le arcate più buie del palazzo, arrivando lentamente verso le scuderie. Ancora incerto sul da farsi con le proprietà che aveva appena ricevuto e quelle che una volta erano della sua famiglia. 

D’Artagnan si sedette su uno dei fienili ed osservò la luna che lo aveva guidato nel suo destino. Notò come in un certo senso fosse cambiata, non era più la bella luna di qualche tempo prima, sembrava nascondere qualcosa di indescrivibile. Come poteva essere la stessa luna?

 

Passi lenti lo seguirono alle spalle.

 

Constance camminò con confidenza verso gli stessi viali, si sedette al suo fianco, non curante del bell’abito e di dove si trovassero in quel momento. L’astro argentato brillava nel cielo proprio come la prima notte in cui si erano incontrati la prima volta.

 

“Non credo di essere fatto per questi palazzi. Non credo di essere fatto per città come Londra o Parigi edifici orribili, gente ed animali senza l’aria per respirare...”- disse, rivolto verso di lei.

 

La ragazza accennò una smorfia e un’alzata di spalle.

 

“Tuttavia potrei essere fatto per queste scuderie, queste caserme, sono fatto per queste armi...”- la voce di D’Artagnan si spezzò in un sentimento di rabbia e delusione. Alla fine di quel lungo viaggio, non c’erano ronde e uniformi ad attenderlo: soltanto altre campagne e terre da custodire.

 

Constance scosse la testa.

“Non badate a queste cose”- disse lei.

 

“Come? Non dovrei preoccuparmi del mio destino? Della mia moralità?”- chiese lui, con fare sorpreso.

 

“Non so cosa passa per la vostra testa o chi vi credete di essere. Però sarò sincera con voi: volevate trovare quell’arnese strano e lo avete trovato, vi ho chiesto la collana e l’avete ottenuta, volevate diventare moschettiere senza passare per Rochefort ed ora siete diventato l’inseparabile compare dei tre favoriti di Treville. Qui al ricevimento del Re...”- la ragazza prese una breve pausa e lo guardò. 

 

La luce argentea rifletteva sul suo sguardo, intento ad osservarla.

 

“Che sia la Dea Fortuna, che sia la Dea Francia o un Olimpo sconosciuto, o la testardaggine di un giovane della Guascogna, avete ottenuto tutto quello che avete chiesto... Siatene grato!”- Constance si rivolse a lui facendo un breve cenno con la testa e si sedette ancora più vicino.

 

“Così credete”- disse, rivolto per un attimo verso la bella luna ed il riflesso delle finestre del palazzo illuminato dai candelabri. 

 

“Ci sarebbe qualche cosa che non ho ancora ottenuto...”- disse lui sotto voce.

 

Nel buio e nel silenzio di quel cortile lontano da tutto, il cuore di Charles palpitò e le sue guance divamparono al momento in cui le morbide mani della giovane presero le sue, mentre le labbra di Constance, come petali di rosa, sfiorarono quelle del ragazzo in un lieve bacio.



 

...È previsto che, nonostante il loro nome finisca in OS e IS, gli eroi della storia che stiamo per avere l'onore di raccontare ai nostri lettori, non hanno in loro nulla di mitologico...



 

________________FINE _______________

 

N/A

 

Linkografia? 
 

  Pepe Silva

 

Miguel de Cervantes, Don Quixote

https://www.gutenberg.org/files/996/996-h/996-h.htm

Ed il suo riassunto (perchè ogni tanto -sempre- perdevo il filo e guardavo solo le figure).

https://www.youtube.com/watch?v=a2C--8o3MVE

 

Terry Pratchett rilevanti: 

https://wiki.lspace.org/mediawiki/Watch_Series

https://en.wikipedia.org/wiki/The_Fifth_Elephant

https://en.wikipedia.org/wiki/Guards!_Guards!

 

Una mappa stampata male, non accurata e non aggiornata della Francia e di Parigi centro.

https://www.charmedcardsandcrafts.co.uk/acatalog/Cartographer-stamps-map.jpg

 

Random Gianni Togni:

https://www.youtube.com/watch?v=xo75gy9E3nE

 

(Sotto suggerimento di Sarasa) Questo dipinto:

https://en.wikipedia.org/wiki/The_Death_of_Marat

E relativo podcast:

https://www.artcuriouspodcast.com/artcuriouspodcast/49

Se Marat non sembra abbastanza morto con David, questa è la versione di Baudry.

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/ce/Charlotte_Corday.jpg

 

E altre citazioni che prendono in riferimento Marat (da vivo):

https://www.gutenberg.org/files/35117/35117-h/35117-h.htm (primi capitoli).

 

Questa serie in generale, ma questo episodio in particolare:

https://www.youtube.com/watch?v=wtFoYua2dQw&list=PL72jhKwankOitGyCaryJdWVTeeKpbxnMe&index=2

 

Quest’altra serie in generale, ma questo episodio in particolare:

https://www.youtube.com/watch?v=yaYabkFSsms&list=PLdyDjddEYSCXAjm2JNHI3J8b1N5YLIb9P&index=19

 

Questo ritratto:

https://en.wikipedia.org/wiki/Louis_XIII#/media/File:Louis_XIII.jpg

(e relativo elmo).

 

Random Nina Simone:

https://www.youtube.com/watch?v=D5Y11hwjMNs

 

Questo film supertrash, ma che si attiene alle novelle (e ha tutta la parte di John Fenton): 

https://www.youtube.com/watch?v=ssLVKLJ8ojU 

 

Questa serie dipinta, di estrema propaganda barocca:

https://en.wikipedia.org/wiki/Marie_de%27_Medici_cycle#:~:text=The%20Marie%20de'%20Medici%20Cycle,in%20the%20autumn%20of%201621.&text=Twenty%2Done%20of%20the%20paintings,struggles%20and%20triumphs%20in%20life.

 

Londra pre-1666

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/ad/London_panorama%2C_1616b.jpg

 

Il canale “Reading the Past” su yt:

https://www.youtube.com/watch?v=mD7KO9L7sIs

https://www.youtube.com/watch?v=nW4WZbydxZA

(Seguo il canale, quindi ho guardato anche gli altri video, questi mi sembravano i più diretti)

 

Thin Lizzy di proposito:

https://www.youtube.com/watch?v=kFFHSRLl3mY

 

Il Tetramorfo in generale:

https://it.wikipedia.org/wiki/Tetramorfo

 

Ma anche la relazione tra I Quattro santi e i Quattro angeli in particolare.

Sarasa utilizza spesso le analogie coi quattro angeli, quindi mi rimando ad una delle sue ff per questi dettagli:

https://www.fanfiction.net/s/13469174/1/Et-moi-et-moi-%C3%A9moi

Ma io mi sono buttata sui Santi Martiri (che più o meno svolgono lo stesso ruolo Salute, Prosperità, Conoscenza e Coraggio) in particolare la storia di San Giorgio e di Sabra.

https://en.wikipedia.org/wiki/Saint_George

 

Questo tipo:

https://en.wikipedia.org/wiki/Hero_of_Alexandria

 

Random Keplero:

https://en.wikipedia.org/wiki/Johannes_Kepler

 

Un documentario sugli automata:

https://www.youtube.com/watch?v=YAg66jrvpHA

E se proprio volete leggere un altra storia con automata trattati molto meglio e in un altro contesto:

http://www.gutenberg.org/files/2785/2785-h/2785-h.htm

 

Questa colonna famosa:

https://en.wikipedia.org/wiki/Trajan%27s_Column

 

Questo podcast (tutto il concetto dell’ “unsound” spiegato secondo i pitagorici -?- bella storia di fantasia, scritta e raccontata abbastanza bene):

https://en.wikipedia.org/wiki/The_Black_Tapes 

 

Questo motto:

https://en.wikipedia.org/wiki/Honi_soit_qui_mal_y_pense#/media/File:Royal_Coat_of_Arms_of_the_United_Kingdom.svg

 

Che -causa giarrettiera- ritroviamo anche in questo ritratto:

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/a3/George_Villiers%2C_1st_Duke_of_Buckingham.jpg

 

I “Giudizi Universali” in questione:

(Beato Angelico) https://it.wikipedia.org/wiki/Giudizio_universale_(Angelico)

(Giovanni da Modena) https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Cappella_Bolognini,_%E2%80%9CIl_giudizio_universale%E2%80%9D,_Giovanni_da_Modena.jpg

...Non era per caso il titolo di una canzone? Sì. Questa:

https://www.youtube.com/watch?v=JJd05xURxTQ

 

Random Lady Gaga:

https://www.youtube.com/watch?v=wagn8Wrmzuc

 

Questo (altro) Cavaliere sorridente (che non ha niente a che fare con il primo):

https://en.wikipedia.org/wiki/Laughing_Cavalier#/media/File:Cavalier_soldier_Hals-1624x.jpg

Ma anche questo (che ha tutto a che fare con quello precedente):

http://www.gutenberg.org/files/33208/33208-h/33208-h.htm 

(e relativa fanfiction dei tre moschettieri *ehm* filosofi fatta dalla Orczy, il nome di “Bucefalo” è lo stesso del rapière di Diogene)

 

La Fattoria in questione (iaiao):

https://media.snl.no/media/71419/standard_compressed_Johan_Christian_Dahl_-_Hellefossen_near_Hokksund_-_Google_Art_Project.jpg

E il relativo duello

http://www.gutenberg.org/files/1896/1896-h/1896-h.htm (ispirazione dai primi capitoli)

 

Questo “scambio” di principesse (sempre dalla serie di Marie de’ Medici di Rubens)

https://en.wikipedia.org/wiki/Marie_de%27_Medici_cycle#/media/File:Peter_Paul_Rubens_037.jpg

 

Questa tipa e quest’altra tipa e i loro libri:

https://en.wikipedia.org/wiki/Moderata_Fonte

https://www.gutenberg.org/cache/epub/3420/pg3420.html

 

Quest’altra copertina di quest’altro libro:

https://en.m.wikipedia.org/wiki/Archimedes#/media/File%3AArchimedes_–_Opere%2C_1615_–_BEIC_9741168.jpg

 

Quest’opera di Meyerbeer

https://www.youtube.com/watch?v=sK0xbDR3ckU

 

Non ho citato i video amatoriali e droni, gmaps e satelliti, strettamente riferiti alle strade o piazze delle varie città trattate, ma questo è un esempio dei vari passi che ho seguito per le città che non conosco e non ho visitato personalmente:

 

https://en.wikipedia.org/wiki/Beaugency

https://www.youtube.com/watch?v=F-lSz22kbmY

https://www.youtube.com/watch?v=Uhah2zgW1D8

 

E giusto per mantenere il livello di Hard Bass, Funk e tempi di editing/battitura parte della mia playlist:

 

https://www.youtube.com/watch?v=4xei2-cW9eo

https://www.youtube.com/watch?v=APdS0-UUwXo

https://www.youtube.com/watch?v=YgGzAKP_HuM

https://www.youtube.com/watch?v=Mn4xQdrczao

https://www.youtube.com/watch?v=JURtuwD9TsU

https://www.youtube.com/watch?v=hBP9txbREWI

https://www.youtube.com/watch?v=V1Pl8CzNzCw


 

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Capitolo 27
*** Mostri (Redraft) Ch1 pt 1 ***


 

Mostri (redraft)

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Prologo

 

Venezia

 

“Narra la leggenda di tre menti ingegnose, di due cuori innamorati, una casa e una tempesta. 

 

Non di una casa qualunque, ma di un palazzo, con torri e gradinate. E la tempesta, non è una tempesta con pioggia e vento: é un cielo dipinto sullo sfondo di un corpo nudo di donna.

Gli occhi bruni sono sempre fissi su quelli di chi li osserva. Al suo fianco, di guardia, un soldato.

 

È un ritratto senza nome, il ritratto della donna contesa tra due uomini incendiati di passione. L'altro, consumato dalle fiamme dell'amore, perí. La sua anima per sempre rinchiusa tra le mura di quella casa che tanti artisti e geni del suo tempo ospitó. 

 

Tra questi, lo spettro di un uomo che un tempo perse l’amore proprio tra quelle mura. 

 

L'anima di un uomo in pena che, privandosi della vita, non poté mai raggiungere i cieli.” 

 

La voce di lei era quasi un sussurro.

 

Era notte, lei lo guardò con occhi verdi e lucenti, labbra rosee e sensuali. Fuochi d’artificio brillavano all’orizzonte dell’acqua del canale. La torretta del palazzo appariva ormai lontana, proprio come un sogno, un ricordo lontano, una bella storia da raccontare. 

 

Una luce bianca apparve e tra le colonne leggere, la gabbia per grilli che avevano cercato per tutto quel tempo e che ora stavano abbandonando. Forse il fantasma del 

Morto da Feltre o il riflesso del fuoco sull’acqua.

 

La gondola oscillò ai remi del gondoliere, distratto dal baccano che proveniva proprio dall’edificio e i due caddero allegri uno nelle braccia dell’altra. 

 

Sarebbe presto arrivata l’alba e avrebbero dovuto fare ritorno.

 

“Non state sicuramente parlando di noi!”- sorrise l’uomo, stringendola a se.

 

Lei accennò un sorriso e lo baciò all'ombra di un bel ventaglio.

 

Era estate. 

 

Allora, era felice.

 

***

 

La cattedrale era quasi del tutto buia, talmente grande da poter sentire una lieve brezza quando i portoni venivano aperti. Di giorno i ceri venivano spenti, ma in quella mattina buia, priva di un sole nascente il cielo rimase coperto dalle tristi nuvole. 

 

Solo qualche raggio di luce grigia traspariva dalle feritoie strette ed allungate. 

 

Alcuni passi riecheggiarono dalle navate più in ombra, verso il sacerdote immerso nelle sue letture. L'uomo alzò lo sguardo verso l’ombra, fece il segno della croce, cominciando a pregare.

 

«Deus meus,

ex toto corde poenitet me omnium meorum peccatorum, eaque detestor,

quia peccando, non solum poenas a Te iuste statutas promeritus sum,

sed praesertim quia offendi Te,

summum bonum, ac dignum qui super omnia diligaris.

Ideo firmiter propono, adiuvante gratia Tua,

de cetero me non peccaturum peccandique occasiones proximas fugiturum.

Amen.»


“Amen?”- chiese il sacerdote a quelle parole, che sembravano essere pronunciate da una donna.

 

“Amen” - rispose la voce nell’ombra. 

 

Questa volta, invece, la voce sembrò quella di un uomo.

 

Il sole sorgerà un altro giorno, il sole tramonterà un altro giorno, la vita proseguirà senza che questo segreto venga mai svelato...



 

Capitolo 1

 

Noli obsecro istum disturbare!

 

 

La taverna riluceva di raggi offuscati: quell’estate non era delle più calde, ma il fuoco acceso nelle cucine e gli ampi candelabri, riscaldava l’aria rada, tanto da far bruciare gli occhi, affannare leggermente il respiro ed asciugare le bocche, dissetate con grossi calici e rinfrescate dall’acqua di un pozzo.

 

Alcuni musicisti aprirono le danze e molti degli astanti cominciarono pigramente a ballare.

 

D’Artagnan alzò un’altra volta la sua coppa in onore dei compagni e delle loro rare imprese, un guizzo di luce brillò negli occhi pieni di entusiasmo giovanile, questa volta cominciando ad argomentare:

 

“Avete sentito le voci che girano a Corte? Sua Maestà vorrebbe organizzare una grande festa in onore dei moschettieri!”. 

 

Gli altri si interruppero sorpresi: l’ordine dei moschettieri era stato disciolto un paio d’anni prima e i tre combattenti allora vivevano nell’imprevedibile oscurità di quell’area di Corte dove i nobili usavano arrivare e partire. Non ufficialmente spie o mercenari, messaggeri di altri nobili, nella speranza di non essere chiamati al fronte e vivere di favore in favore. 

 

Qualche mese prima erano stati raggiunti e avevano fatto conoscenza del ragazzo, che coltivava ancora il sogno di diventare un moschettiere, ma aveva lentamente scoperto che le schiere di Richelieu non erano ciò che lui pensava.

 

I tre uomini si voltarono verso di lui come se avesse detto una nuova mai udita prima di quel momento.   

 

“State scherzando? E perché mai?”- si sorprese Porthos.

 

“Da quel che sembra, è nelle sue intenzioni ricostituire un nuovo ordine, seppur modesto, di guardie reali: non sembra affatto contento della condotta attuale delle guardie cardinalizie...”- cercò di spiegare D’Artagnan.

 

“Non è solo il Re a decidere le sorti della Francia, D’Artagnan! Sicuramente ci saranno ragioni che continuiamo ad ignorare...”- lo ammonì severo Aramis.

 

“Allo stesso tempo il Cardinale sta contando i giorni che lo separano dallo spedirci al fronte! Potrebbe essere tutta una trappola che lui stesso sta cercando di tramare”– constatò Athos sorseggiando un altro bicchiere di vino.

 

“In quale fronte vorreste combattere? Asburgo o La Rochelle?”- chiese Porthos.

 

“Asburgo! Che possa almeno decidere se scappare o morire...”- esclamò Aramis.

 

“La Rochelle! Che possa almeno decidere se morire o scappare...”- rise Porthos.

 

“Però prima che sorga l’alba di quel giorno, voglio aver svuotato le botti e le cucine di questa taverna! Ed amato almeno cento donne!”- continuò lui.

 

“Amico mio di tante battaglie! Lasciate che vi aiuti nel vostro intento!”- sorrise Athos riempiendo nuovamente i bicchieri dei suoi commensali.

 

D’Artagnan notò il terzo combattente in silenzio guardare il suo boccale con sospetto ed evitando, così sapientemente, i rimandi dei suoi amici.

 

“Non ci seguireste alla Rochelle, Aramis?”- chiese Porthos.

 

“Piuttosto la morte”- rispose lui.

 

“D’Artagnan! Adesso vi siete fatto un nome a Corte! È una fortuna per voi essere tra le amicizie reali. Tutto questo potrebbe un giorno tornarvi davvero utile!”- continuò.

 

“Il giorno in cui Sua Maestà vi chiamerà a corte chiedendo chi di noi verrà spedito contro gli Asburgo o alla Rochelle, mi auguro che vi ricorderete di noi: di me e dei miei sontuosi aiuti, di Athos, della sua arguzia, degli insegnamenti che vi ha offerto... Non di Aramis! Lui potrebbe sempre fingersi un prete e sopravvivere comodamente!”- ribadì Porthos.

 

“Credete davvero che sia mia abitudine sfruttare la fede per i miei comodi? Come vi permettete di insinuare una cosa del genere! Non sono mica come voi!”- esclamò immediatamente Aramis, battendo la mano sul tavolo.

 

"È la verità! È con le vostre scuse che vi insinuate ovunque!”- ribadì Porthos alzando il tono della voce ed avvicinandosi aggressivamente all’altro moschettiere, affatto intimorito.

 

"Se mai i vostri sospetti si dimostrassero fondati, non mi dimenticherò di voi!”- li interruppe D’Artagnan.

 

"Se di danze si tratta, dovreste praticare di più i vostri passi, Porthos!”- incalzó nuovamente Aramis.

 

“Badate alle vostre, di gambe!”- ribatté nuovamente lui prendendo il braccio della donna che stava servendo le vivande e convincendola ad una veloce giravolta.

 

“Sta a voi, D’Artagnan, giudicare con quali modi conquistare le vostre dame. Se i vostri interessi sono ancora per quella dama di Corte, Constance, vi consiglio, tuttavia, un approccio diverso dalle cortesie del nostro amico!”- suggerì Athos, indebolito sia dall’aria chiusa che dalla bevanda.  

 

“Aramis! Aiutatemi voi qui, dimostrate al nostro D’Artagnan come aprire le danze con una dama di corte!”- il moschettiere più magro del suo compagno, ma all’incirca della stessa altezza si guardò attorno.  

"Non vedo dame di corte con le quali aprire sontuose danze, amico mio!”- rispose.

 

“Non siate puntiglioso: ci sarà una donna in tutta la locanda che attira le vostre attenzioni?!”- chiese nuovamente Athos, puntando i suoi occhi di un blu profondo su di una dama dai folti riccioli biondi, accompagnata però da un altro cavaliere.

 

“Va bene, seguite allora attentamente”– pronunciò nuovamente Athos dopo essersi guardato attorno un’ultima volta.  

 

L’uomo prese in mano un piatto, lo pulì con la manica della giacca ed incominciò a volteggiarlo come fosse un ventaglio:  

“Vedete, una vera dama non vi inviterà mai a danzare con lei, ma si farà notare!”- disse guardando Aramis e sbattendo vistosamente le ciglia, lui incrociò i suoi sguardi con imbarazzo.

 

 “Athos, avete bevuto un po' troppo stasera, forse è arrivato il momento di rincasare”- continuó distratto.

 

“Voi non siete come me, sapete come ammaliare una donna! Mostrate a D’Artagnan come avvicinarvi!”- continuò Athos  muovendo le spalle ed allungando la mano libera.

 

Aramis trasse un lungo sospiro rassegnato, indossò il suo cappello e si allontanò dal tavolo di qualche passo, si tolse di nuovo il cappello per ritornare inchinato ai piedi nell’amico e prendergli la mano.

 

“Mi concede questo ballo, damigella?!”- disse incrociando velocemente i suoi occhi, d'un azzurro chiaro, verso quelli più intensi dell’amico. Athos sorrise divertito, si alzó facendo finta di scostare delle ampie gonne, pronto per aprire le danze.

 

I due cominciarono a ballare assieme, tra le risate degli altri due commilitoni ed una grazia dubbia.

 

“Siete rosso in viso, siete per caso affannato?”- chiese Aramis rallentando il passo di danza.

 

“Sarà il vino...”

 

“Non dovreste essere la mia dama, Athos, dovreste trovarne una tutta vostra... E lasciare che io trovi la mia per stanotte!”

 

“Ah! Aramis... Una donna diversa ogni sera e mai un rimorso la mattina dopo! Alle volte vi invidio!”

 

“In un certo senso, la vostra devozione fu ammirabile, Athos. L’amore è un sentimento nobile che va rispettato nella gioia e nel dolore. Non dovreste invidiarmi, sono io che dovrei invidiare voi!”- commentó il giovane.

 

Gli occhi del moschettiere esile si inumidirono leggermente, senza che l’altro lo notasse, però senza lasciare la presa della danza. La mano che poggiava sulla sua spalla si contrasse leggermente, Athos potè percepire la sua stretta, che interpretò come una distrazione o mancanza di equilibrio.

 

“Mi dispiace Aramis, in questo periodo sono stato miserabile e patetico...”- mormorò lui fermandosi.

 

“Sarà l’estate...”- sussurrò l’altro di risposta.

 

Il giovane fermò le danze, lo strinse più forte.

 

“Come tutti quelli che hanno visto il loro amore svanire, anche voi siete stato miserabile e patetico, Athos. Porthos ve lo confermerà. Ma a che servono gli amici, se no?”- Aramis interruppe le sue parole, la sua stretta sulle spalle dell’uomo non si allentò. 

 

Di poco più basso di lui, il giovane alzò le punte dei piedi, i loro sguardi si incrociarono ancora, i loro respiri più irregolari, in quella strana vicinanza. 

 

“Badate bene: avete dato la vostra parola!”

 

Athos, affatto intimorito da quella stretta, lo strinse con la stessa forza verso di lui ed annuì.

 

A quel cenno, il volto serio del giovane si distese, tranquillizzato da quella risposta, Aramis si allontanò, gli fece fare un’ultima giravolta e, sorridendo, lo lasciò andare con una spinta.

 

***

 

Bastò poco.

 

Un acquazzone estivo. Una fontana.

 

Quando ricadde in avanti, nell’acqua, non ebbe altra scelta che rimanere lì, immobile, senza respiro.

 

Non potevano vederla in quello stato.

 

Di sicuro non gridò eureka

 

Quella non era una scoperta, certo come l’oro che da quel tuffo non ne avrebbe mai ricavato un teorema, ma una constatazione, affatto interessante, di una realtà che quasi nessuno sapeva e lei non voleva cambiare. 

 

Eppure, da quando si era arruolata nei moschettieri, da quando si era dimessa, da quando viveva a Parigi sotto falso nome, qualche cosa, in lei, era cambiato. 

 

Divina provvidenza

 

Dapprima le rondini cominciarono a volare basso, poi il cielo d’improvviso grigio e pesante, l’aria faticava ad entrare nei polmoni, i primi tuoni, qualche lampo ed infine una lunga serie di fitte gocce pesanti che si infrangevano a terra a tutta velocità creando immediatamente grandi pozzanghere. 

 

Anche la Regina Madre lo sapeva. E, con lei, chi altro? 

Forse avrebbe dovuto prendere del tempo, come le nuvole, lasciare i pensieri fare il loro corso, battere la loro pioggia, per ritornare ad essere poi il cielo terso prima del temporale, essere chiunque fosse stata prima, la persona pratica, conseguente e razionale che fu prima di quella caduta.

 

Constance si affrettava ad aiutare la Regina Anna verso la carrozza reale quando, dall’alto di un cornicione, qualche cosa si tuffò in una fontana non molto distante. Subito rinvenne una figura coperta da cappuccio e mantello, completamente fradicia.

 

"Nom de Dieu!"- gridó, tremante.

 

"Non scappate così! Non ho ancora finito con voi!"- esclamó qualcun altro di risposta, la sua voce profonda riecheggió per la contrada.

 

La figura, si guardó goffamente indietro e, uscendo il più velocemente possibile dall’acqua, cominció a correre verso la carrozza inseguito da altri tre personaggi. 

 

Le due donne erano già entrate e pronte a dare ordine di partire quando, osservando la scena, riconobbero facilmente le figure di Athos, Porthos e D’Artagnan ridacchiare ed avvicinarsi. 

 

I tre si inchinarono velocemente di fronte alla carrozza in simbolo di reverenza, ma altrettanto di corsa si rialzarono e cercarono con lo sguardo quella figura che adesso sembrava essersi dileguata nel nulla.

 

“Cosa vi spinge con tanta fretta a catturare quell’uomo? É forse un criminale? Ha una taglia sulla sua testa?”-  chiese la Regina suggerita dalla curiosità di Constance.

 

“No, Vostra Maestà. Si tratta semplicemente di Aramis! Ci stavamo allenando ed é caduto in acqua...”- si giustificó velocemente Porthos.

 

“Se con l’allenarvi, intendete dire pagare il conto all’oste...”- suggerí Athos.

 

"Non preoccupatevi! Questa volta offro io! I suoi conti con me li sta già ben pagando... E profumatamente"- rise Porthos ricordando un lontano episodio dei tempi passati.

 

“Non credevo che anche dei validi moschettieri come voi avrebbero avuto bisogno di allenamento... Anche sotto questa pioggia battente!”- si stupí la Regina sorridendo.

 

“Essere pronti in un momento come questo è un dovere! Mai essere colti impreparati!”-  rispose Athos con un ritrovato spirito combattivo e una punta d’ironia.

 

“Ne terró conto”- la Regina annuí e sorrise, facendo cenno al cocchiere.

 

La carrozza lasció i tre e partí velocemente verso il palazzo del Louvre, fu solo una volta uscite, mentre stavano scendendo aiutate da un paggio, che le due donne videro quello spettacolo a prima vista particolare: al posto del precedente, cocchiere, vi era quello che sembrava un uomo ricoperto da un mantello ed un cappuccio nero, completamente fradicio. 

 

Constance si spaventò e provò a gridare, ma l’essere riuscí ad interromperla prima che l’attenzione fosse portata su di loro. 

 

“Constance!”- disse il giovane con una chiara voce mascolina che lei riconobbe facilmente. 

 

Poi, come una sorta di magia, lo ripeté una seconda volta.

 

“Constance!”- e questa volta suonava chiaramente femminile, lasciando le due donne a bocca aperta.

 

“Aramis?!”- chiese la ragazza in modo incerto.

 

“Si, sono io”- rispose Aramis inchinandosi alle due donne.

 

Nuovamente con la voce che suonó a loro più familiare, continuó:

 

“Come moschettiere che fui e servo reale, chiedo l’aiuto di Sua Maestà, consiglio e protezione”- la sovrana si voltò verso Constance e di nuovo verso Aramis.

 

“Devo rendere a voi moschettieri un favore, chiedete e vi sarà dato”- rispose.

 

“Grazie a voi la reputazione della Regina è salva, di conseguenza la mia, lo stesso vale per me!”- aggiunse Constance.

 

Le due donne allontanarono la servitù e mantennero stretto riserbo sulla sua identità: lo accompagnarono velocemente in un salone privato, lontano da occhi indiscreti.

 

Aramis si tolse il mantello, i pesanti vestiti di lana e le camicie di lino, anch’essi intrisi, grondavano d'acqua. Si tolse il cappello, la piuma un tempo morbida e leggera all'aria del vento, ora appariva sottile e pesante.

 

Sotto il copricapo, nascondeva dei lunghissimi capelli biondi e presto si asciugó il volto, sotto lo stupore e la meraviglia delle due donne: quello che avevano da sempre creduto un moschettiere, un combattente, un nobile Cavaliere era in realtà una donna.

 

Per quanto alcuni tratti del volto potessero risultare più mascolini, altri erano definitivamente femminili, ma senza mai essere accentuati dal belletto o dal rouge. Come la voce riusciva a camuffare perfettamente il genere o la sua altezza avesse potuto mettere un osservatore in dubbio, una volta tolte le vesti, ciò che rimaneva mostrava forme chiaramente distinguibili.

 

“Beh Aramis, per lo meno non vi manca la salute!”-  disse la Regina con aria distaccata.

 

“Il vostro travestimento è impeccabile! Se non foste caduta in quella fontana, poco fa, probabilmente nessuno lo avrebbe mai scoperto!”

 

“Cosa vi ha spinto a mascherarvi da uomo per tutto questo tempo?”- chiese Constance.

 

“Vendetta. Giustizia.”- disse la giovane con un tono secco e senza trapelare sentimenti.

 

Tuttavia, nell’aria di Corte, la Regina era sempre stata considerata come uno strumento: da principio, avrebbe dovuto portare pace e giustizia nel regno, avrebbe dovuto portare con se un erede al trono. 

Mentre la pace della sua unione veniva a meno, tutto ciò a lei richiesto ancora mancava e questo non faceva che creare impazienza e abusi nei suoi confronti. Così, trattata come uno strumento, aveva imparato a trattare chiunque allo stesso modo. 

 

Le parole di Aramis non passarono indifferenti alle orecchie della Regina Anna, abituate alla cattiveria e ai sotterfugi degli altri ministri. Lei accettò l’offerta di Aramis ad occhi stretti e sguardo dubbio, in un senso di compassione per quella vendetta non ancora spiegata. 

Mentre cercò di capire il significato dietro alle parole della combattente, la sua educazione le aveva però insegnato a trattare i suoi sudditi come tali. 

 

Oggetti, strumenti: aveva imparato a trattare le persone attorno a lei allo stesso modo in cui la Corte continuava a trattarla.

 

Una mano lava l’altra: così pensò al modo in cui quella dama e cavaliere, in qualche modo le sarebbe tornata utile.

 

Incrociò le braccia e la sua espressione cambiò, si voltò verso Constance e le chiese di lasciare le due donne sole.

 

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Capitolo 28
*** Mostri (redraft) Ch1 pt2 ***


 

Capitolo 1

 

Parte 2

 

Al ricevimento di Richelieu


“Un tempo ormai lontano, persi l’amore per mano di un assassino. Una volta vendicato il mio amore decisi di difendere i valori della giustizia e diventare moschettiere. Fui ripudiata dai D’Herblay, raccomandata dai miei padrini che però ora hanno perso i favori di Corte. Non ho mai trovato il bisogno di tornare indietro, tuttavia adesso...”- Aramis si interruppe.

 

“...Ho bisogno di tempo per pensare...”- continuò in un sospiro.

 

La Regina la osservò con avida attenzione.

 

“Potreste rimanere a Corte per molto più tempo...”- disse sottovoce.

 

“Dopotutto il vostro amore adesso è defunto e siete sola al mondo, non trovo nulla di sbagliato nel desiderio del vostro cuore di amare ancora e tornare a vivere... Che cosa saremmo senza i nostri sentimenti?”- continuò lei, senza mai togliere gli occhi dal suo corpo quasi nudo. 

In fondo non era nient’altro che un altro suddito, un asso nella manica in quel gioco di politiche e ripicche: la sovrana aveva un piano.

 

“Siete mai stata con un uomo?”- chiese sorridendo.

 

Aramis arrossì. L’aria si fece più fredda.

 

“Non credo siano affari che devo riportare a Sua Altezza!” - disse stringendo le gambe e riportando la camicia bagnata sul suo petto.

 

“Siete mai stata con una donna?” - la Regina si accomodò di fronte a lei.

 

“Beh c’è chi crede che Madame de Chevreuse...”

 

La Regina abbozzò una smorfia.

 

“Madame de Chevreuse era il nome usato da Marguerite de Valois prima, e da Marie de Medici poi, per descrivere il Salon delle Regine e trattare in segreto della Querelle des Femmes. Ed altri affari. Non sapevo ne facevate parte, ma ora ne presumo forse il perchè...”

 

“Anche voi avete mandato parecchie volte Constance al Salon con lettere e messaggi... Io stessa sono stata a colloquio diverse volte con la Regina Madre...”- balbettò Aramis nell’imbarazzo di quel momento.

 

La Regina poggiò la mano sulle ginocchia di Aramis e avanzò verso di lei ma, con una rapidità felina, lei le prese il braccio e lo portò indietro sulle sue gonne. Per quanto oramai si capisse cosa ci fosse sopra, alla Regina non ancora fu concesso di sapere cosa ci fosse sotto.

 

“Non sapevo, davvero. Mi avete colto di sorpresa e vi devo comunque un favore. Se le cose stanno così, lasciatevi adornare da Constance, troveremo il modo di farvi ritornare una donna!”- la donna prese una pausa.

 

“Ho bisogno di una guardia personale addestrata come voi a corte. Potreste vivere qui come dama di compagnia tutto il tempo che volete, esattamente come lo eravate un tempo come moschettiere!” - continuò come se nulla fosse successo.

 

In quel momento, Aramis pensò di aver commesso un errore nel chiedere il suo aiuto.

 

“Non credo di voler tornare ad essere per sempre una donna... Vi prego, lasciatemi riposare e sostare solo per qualche giorno a Corte, da sola, in modo da purificare i miei pensieri e ritornare ad essere me stessa... Certi desideri mi affliggono, ma spariranno. Non trovo nulla di male in quello che sono stata questi ultimi anni. Un amore, una passione, non farebbe che creare ulteriori problemi...”

 

“Una donna dovrebbe vivere il privilegio dell’amore e delle ricche vesti! Dovreste dimenticarvi di questo episodio vissuto come un rimorso, ed invece, trarre da ciò solo un piacevole rimpianto!”- ribadì la Regina alla giovane donna.

 

 “Una parte di me vorrebbe solo che lui fosse attratto da me, allo stesso modo in cui io lo sono io di lui...”- trapelò lei, involontariamente.

 

A quelle parole, la Regina capì che i suoi interessi sentimentali non erano per il genere femminile. Raddrizzó la schiena, aggiustò il corsetto e riorganizzò le sue intenzioni.

 

Nelle azioni della Regina, non c’era vero e proprio desiderio nelle sue azioni, più di un accattivante curiosità: aveva visto certe statue, sentito voci, di persone con il suo stesso bel volto, le sue stesse ampie curve, ma sotto...

 

“Innanzi tutto dovreste cercare di avvicinarlo, allora...”- ribattè la sovrana, guardando in basso. 

 

Tuttavia, nulla si mosse.

 

“Però ricordatevi che siete voi la donna! Non potete permettervi di corteggiarlo! Né di fare il primo passo! Sono gli uomini che devono prendere sempre l’iniziativa! E poi, quando arrivano...”- continuò la Regina, fissando sempre lo stesso punto. 

 

Nuovamente, nulla si mosse.

 

“...Seppure non è proibito aiutarli! Potrebbe cadervi qualcosa, essere costretta ad abbassarvi... Certe cose potrebbero... Scivolare.”- disse lei, in uno sguardo che provocò in Aramis soltanto ulteriore imbarazzo.

 

“No! Non ne ho la più pallida idea! Non capisco di cosa state parlando!”- esclamò preoccupata la giovane donna, guardando verso la porta e sfregandosi le mani sulle gambe pronta a scappare via, ma la Regina si alzò e le bloccò la strada.

 

A quel tentativo di fuga, la Regina ottenne la vista che stava aspettando. Notò la presenza di cose, l’assenza di altre, ed agì di conseguenza.

 

“Mi spiace per voi, Aramis, voi rimarrete qui e vi insegnerò a comportarvi come una vera dama: dopotutto siete voi che avete chiesto il nostro aiuto e consiglio! Avrete il permesso di alloggiare qui, a patto che riuscirete ad essere e comportarvi come la nobildonna che siete! Non potete tirarvi indietro proprio ora!”- disse lei allontanandosi e chiedendo a Constance di occuparsi del resto.

 

***

 

L’alba arrivò di soppiatto e, con l'uniforme bagnata, portò via gli sforzi di tanti anni. 

Le fasciature usate per sostenere e modificare il suo corpo non c’erano più: al loro posto, con un vento caldo e l’odore delle rose, emersero le chiare e sfarzose vesti da donna, così tanto odiate in gioventù. 

 

Durante la giornata, Aramis, che per tanti anni si era comportata e vestita sempre da uomo, cercava di respirare, a suo malgrado, in un rigidissimo corsetto. Fece di tutto pur di non inciampare, in un ampio vestito azzurro e turchese, una delle tante costosissime proprietà concesse dalla Regina. 

 

Tuttavia, una volta che le stecche cominciarono ad adattarsi al suo corpo, la giovane donna cominciò a prendere sospiri meno affannati, mentre la rabbia e l’irritazione della sorpresa cominciarono a dissiparsi lentamente nei suoi occhi. In fondo, Constance aveva fatto del suo meglio, almeno nella ricerca curata di vesti e gioielli. 

 

Specialmente quella mattina, Constance aveva ricevuto ordine dalla Regina di vestire la giovane donna con ricchi abiti e decorarla, se possibile, ancora di più di quanto non avesse fatto il giorno prima: bianco, belletto e i capelli acconciati nelle perle migliori. Aramis non sembrava affatto il combattente del giorno prima.

 

Tutto ciò avrebbe richiesto tempo, forse ancora più tempo. 

 

In precedenza, Aramis aveva accennato del suo passato e di essere stata dimenticata dalla sua famiglia quando, fatta richiesta per il suo ritorno nel casato dei D’Herblay, scappò in veste di sacerdote, aiutata dal suo padrino. Constance cercò di assemblare i pezzi di quella lontana conversazione. baronessa

 

“Dunque, Baronessa D’Herblay... Renée, giusto?”-  chiese Constance.

 

“Giusto...”- disse la giovane con la voce strozzata, non sentiva pronunciare quel nome da quasi due lustri.

 

“Renée...”- Aramis non rispose.

 

“René!”- la giovane non si voltò, distratta com’era dal riflesso della sua stessa irriconoscibile immagine.

 

“Aramis!”- solo in quel momento la dama si voltò e la ragazza capì subito che c’era ancora molta strada da fare.

 

“Non posso chiamarvi con il vostro nome di battaglia a Corte! Renée!” 

 

“Vediamo cosa possiamo fare con le vostre maniere...” - disse Constance dispiegando le gonne in un ampio inchino, per poi porle delicatamente la mano.

 

Aramis, automaticamente, si inchinò e le prese la mano, alla stessa maniera di come avrebbe fatto con un cavaliere.

 

“Haha! No no! Dovete solo dispiegare le gonne e chinare la testa, altrimenti le altre dame e gli altri cavalieri vi prenderanno in giro!”- ridacchiò la Regina assistendo divertita dalla scena.

 

 “Devo ammettere, Baronessa D’Herblay siete un’allieva ammirabile!”- continuò la sovrana battendo le mani con un sorriso soddisfatto. 

 

“Vorrei proprio vedere i nostri insegnamenti messi in pratica il più in fretta possibile!”.

 

 Aramis sgranò gli occhi con imbarazzo e si inchinò dicendo: “Maestà, mentite!”.

 

Anche se gli sguardi delle due donne davano conferma ai pensieri della giovane, la Regina non rispose. 

 

Piuttosto sorrise di nuovo. In un sorriso bene allenato e altrettanto forzato.

 

“Baronessa: è arrivato il mio turno di rivelarvi una confidenza”- disse la Regina Anna.

 

“Già sapete, Renée, i trascorsi del Cardinale Richelieu nei miei confronti. Sua eminenza sta ancora cercando di spodestarmi in modo da porre la Francia in condizione di ricercare nuove alleanze internazionali più potenti o convenienti di quella spagnola. Tuttavia non è suo desiderio creare attriti con la Spagna e questo lo fa temporeggiare, cercare alleanze favorevoli, interne ed esterne al Regno. Il Cardinale de Richelieu ha organizzato un ricevimento privato per questo pomeriggio, un ricevimento di controllo sui suoi fidati.”- disse cambiando improvvisamente espressione in volto.

 

“Non ha invitato neppure Sua Maestà il Re!”- la sovrana congiunse le mani nervosamente.

 

“Che cosa posso fare per voi?”- chiese Aramis.

 

“È giunto il momento mettere in pratica le maniere che Constance ha cercato di ricordarvi. Vorrei che risarciste immediatamente questa vostra permanenza mettendo in pratica gli insegnamenti di Constance e le vostre abilità di spionaggio ed esperto combattente, per cercare di capire quali nuovi complotti stia tramando e verso quali alleanze Richelieu si sia orientato al momento. Nessuno a Corte vi conosce, potrete passare tranquillamente come una delle dame di Corte, nessuno si curerà veramente della vostra presenza”.

 

Anche non sentendosi a proprio agio in quelle scomode vesti, Aramis non contestò gli ordini reali appena ricevuti:  annuì trattenendo l’inchino ed aspettò la carrozza che di lì a poco l’avrebbe portata alla residenza del Cardinale. 

 

Per quanto i modi e i comandi della Regina Anna non fossero del tutto pertinenti con le sue stesse idee, al pari di Athos e Porthos, non aveva mai trovato in Richelieu un governatore affidabile. 

 

Il loro odio comune contro quella personalità era una delle tante cose che li aveva portati a vivere nella stessa dimora, a combattere insieme ed essere amici. Il disprezzo per Richelieu era più potente della stretta di qualsiasi corsetto, più alto di qualunque tacco e più velenoso di qualsiasi ceruse.  

 

Per quanto fosse indipendente dai vezzi di Corte, ora non avrebbe voluto altro che obbedire, anche solo per trovare uno dei suoi punti deboli ed avere una posizione di vantaggio su Richelieu.

 

Lo strano ricevimento nel quale si era appena infiltrata era alquanto modesto, ed i rispettivi invitati, per la maggioranza nobili stranieri, erano appartati in piccoli gruppetti di non più di tre o quattro persone, che conversavano tra di loro a bassa voce. 

 

Lo stesso Cardinale, chiamava uno ad uno gli invitati ufficiali, distogliendo amichevolmente lo sguardo da quelli ufficiosi, non più di uno o due alla volta.

Come altre dame nobili presenti nella sala, anche Aramis, coprendosi con un leggero ventaglio e girovagando nell’ampia sala, tra un gruppetto e l’altro, era riuscita a passare inosservata, ma i vari invitati non sembravano lasciar trapelare nessun tipo di complotto: la quasi totalità desiderava un colloquio personale. 

 

Con quegli invitati, il Cardinale Richelieu sembrava alla ricerca di un articolato sistema di alleanze con alcuni dei piccoli regni e ducati di confine, nulla che facesse però pensare di abbandonare l’attuale, però critica, alleanza Spagnola.

 

Cercò presto, come molti degli invitati francesi, di distendere gli imbarazzi allontanandosi dalla sala principale per raggiungere i giardini, annoiata e quasi delusa nel fatto di ritornare a corte senza le informazioni che la Regina le aveva espressamente richiesto.

 

“Oh Richelieu, Richelieu... Questi ricevimenti così noiosi... Questi vini imbevibili...”- sospirò ironicamente un uomo mascherato al suo fianco, che la sorprese assorta nelle sue preoccupazioni.

 Alto, i capelli leggermente più lunghi, di un castano dorato, bello ed arrogante: il Duca di Buckingham era nuovamente tornato in Francia! I suoi occhi grigi di un cielo in tempesta, proiettavano un ardore che lei ben ricordava.

 

“Voi?!”- si lasciò sfuggire Aramis, ricordandosi dei fin troppi eventi, più o meno pubblici, legati a quel personaggio così ambivalente e promiscuo sia in campo politico che in quello sentimentale.

 

“Davvero? Continuate pure, mia cara...”

 

“Avete proprio ragione. Questa riserva di vini è veramente terribile... “- disse lei, facendo finta di pulirsi una manica con il fazzoletto in modo che questo scivolasse a terra.

 

“È possibile che il vostro volto mi sia familiare, mademoiselle?”- disse lui portandolo delicatamente e baciandole la mano. 

 

Lei pensò che di solito era quello che usavano fare le dame per ottenere vicinanza ed era una strategia ammirabile. Sicuramente meglio di sfoderare il rapière o il pugnale, prendere qualcuno per il collo della camicia e minacciare qualcun altro di morte.

 

Non c’era dubbio: l’uomo che sperava fosse morto tra le fiamme della Torre di Londra, era in realtà vivo e vegeto e probabilmente pronto ad una vendetta contro di lei e gli altri moschettieri.

 

“No, sicuramente mi state confondendo per qualcun’altra!”- si affrettò a smentire lei, che ben si ricordava di chi era e di chi fosse stato in precedenza il Duca di Buckingham.

 

Rabbrividì alla visione di tanti anni prima, quando i moschettieri erano un ordine governato direttamente dal Re, Aramis aiutò il Duca a fuggire da Parigi in veste non ufficiale, ospitandolo nella sua dimora.

 

Allora la situazione era molto diversa: l’uomo sembrava sinceramente ammaliato dalla Regina, preso dalla follia di quell’amore impossibile, che avrebbe potuto compromettere anche le politiche reali. 

 

Oltretutto aveva ottenuto in passato la raccomandazione da molte persone di loro conoscenza. 

 

Ammirando quel forte sentimento che svarcava qualsiasi confine politico e sociale, pensò che aiutarlo fosse non solo dovere nei confronti del suo padrino, ma anche una delle più nobili conclusioni di quella storia d’amore così travagliata.

 

Ingenuamente, non avrebbe mai potuto prevedere l’ordine di eventi capitati proprio come conseguenza a quel semplice favore di tanti anni prima: l’uomo sarebbe tornato, complicando questa volta la posizione della Regina Anna con i fatti della collana e compromettendo una delicata situazione politica. 

 

Dopo quel discorso alla Torre di Londra, la fuga e i fatti di Beaugency, nel profondo del suo cuore si aspettava che quell’uomo fosse finalmente morto, per lo meno drammaticamente declassato, privato del potere con il quale aveva tentato di privare la sua stessa libertà e quella dei suoi amici.

 

“Noto che il vostro francese é molto esperto, monsieur, posso sapere il motivo del vostro colloquio presso il Cardinale?”

 

“Sono venuto in cerca di un... Amico. Speravo che Richelieu potesse aiutarmi a trovarlo. Parliamo di voi piuttosto, quale motivo vi spinge ad un ricevimento tanto noioso?”

 

“Il vostro fascino straniero! Vi prego di non riferirmi se una dama già vi accompagna”- rispose la giovane dama abbassando lo sguardo, non dimostrando comunque imbarazzo.

 

“La vostra bellezza è così abbagliante, che se mai ce ne fosse stata una in passato, ora non sarei più in grado di guardarla...”- disse lui quasi annusando l’aria che le fluttuava attorno.

 

“Richelieu dovrebbe organizzare un grande ballo reale, con danze e lunghi festeggiamenti e voi dovreste essere tra gli invitati di quel ricevimento, non di questo! Una lunga festività che duri sia di giorno, che di notte...”- concluse lui sospirando e cercando attentamente il suo sguardo, mentre sorseggiava il vino chiaro in un bicchiere di cristallo.

 

La giovane avrebbe voluto saperne di più e fermarlo, con lo scopo di rimediare a quell’errore commesso in passato, ma al momento lavorava in incognito e questo non le era possibile. Come riferire ai suoi compagni moschettieri che il Duca era ancora vivo? 

 

E se quell’uomo non ardeva ancora tra le fiamme dell’inferno, avrebbe potuto anche Milady essere ancora al suo servizio? Non erano certo informazioni che sarebbe stata in grado di riferire così tanto facilmente alla Regina.

 

Il mattino seguente, ancora in vesti da notte, Aramis si affrettò nelle stanze della Regina Anna: “Mi dispiace. Non sono riuscita a recuperare nessun tipo di informazione certa dal ricevimento di ieri sera. Tuttavia, alcune delle voci che girano a palazzo, sembrerebbero fondate!”- disse immediatamente.

 

“Che tipo di voci?”- chiese la sovrana.

 

“Le flotte Inglesi potrebbero davvero essere alle porte del regno, pronte ad attaccare”.

 

“Allora è il caso di avvertire immediatamente Sua Maestà il Re!”- si allarmò lei.

 

“No! Potrebbe esserci ancora la possibilità di sventare attacco del genere internamente! Quello che vi ho appena riferito, rimanga tra di noi. Il Cardinale sarà sicuramente al corrente di tutti quei dettagli che noi stesse ignoriamo!”- Si affrettò a rispondere Aramis.

 

“Se solo riuscissi a contattare i miei compagni...”- continuò alzandosi e congedandosi velocemente.

 

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