Sherrinford Haycok Holmes

di coopercroft
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Qualcuno mi segue ***
Capitolo 3: *** Un padre complicato ***
Capitolo 4: *** La prima notte a Pall Mall ***
Capitolo 5: *** Il risveglio in casa Holmes ***
Capitolo 6: *** La diagnosi ***
Capitolo 7: *** Un cuore malandato ***
Capitolo 8: *** La cura non è un vantaggio ***
Capitolo 9: *** Go to Baker Street ***
Capitolo 10: *** Lo zio Sherlock ***
Capitolo 11: *** Rosie Watson ***
Capitolo 12: *** Prima di cena ***
Capitolo 13: *** Ritorno a Baker street ***
Capitolo 14: *** Riprendere a vivere ***
Capitolo 15: *** Serata in famiglia ***
Capitolo 16: *** Le solite divergenze ***
Capitolo 17: *** Lady Alicia Smallwood ***
Capitolo 18: *** Essere figlio di Mycroft Holmes ***
Capitolo 19: *** Serpenti e pubbliche relazioni ***
Capitolo 20: *** Prove di rapimento ***
Capitolo 21: *** I ricordi del passato e il dolore. ***
Capitolo 22: *** Diventare un figlio bastardo ***
Capitolo 23: *** Mycroft, Sherlock e Eurus.... ***
Capitolo 24: *** Rosie e Mr. Trevor l'orsetto Zombie ***
Capitolo 25: *** Iniziare la recita. ***
Capitolo 26: *** Il ricevimento all'ambasciata Prima parte ***
Capitolo 27: *** Il ricevimento all'ambasciata. Seconda parte. ***
Capitolo 28: *** Una pausa dopo il ricevimento ***
Capitolo 29: *** in cerca di mia madre ***
Capitolo 30: *** Sherlock, Mycroft e la fratellanza. ***
Capitolo 31: *** Affrontare Serge ***
Capitolo 32: *** Gestire la rabbia ***
Capitolo 33: *** Prima della resa dei conti ***
Capitolo 34: *** La resa dei conti ***
Capitolo 35: *** Tornare per rimanere. ***
Capitolo 36: *** Epilogo: festa a Pall Mall ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




L'uomo, avvolto nel  Crombie nero camminava, con passo elegante lungo il corridoio illuminato dalle deboli luci serali. 

Il ticchettio dell'ombrello ne segnava il passo, come le rughe che gli segnavano il viso maturo ma ben curato. Tutto nella sua persona comunicava eleganza e compostezza.

Arrivò alla stanza numero otto, al quarto piano dell'ospedale San Bart di Londra e si fermò, prese un respiro profondo, la mano che indugiava tremante sulla maniglia della porta. Si schiarì la voce, si preparò con un sorriso in volto, ed entrò.

Virginia giaceva appoggiata ai cuscini, la testa di lato, gli occhi socchiusi. L'odore del disinfettante raggiunse le narici di Mycroft, che strinse le labbra, inghiottì a vuoto, appoggiò l'ombrello, si tolse il cappotto e si sedette sulla sedia.

"L'hai trovato Myc?" Mormorò con un filo di voce la donna pallida ed emaciata. Allungò la mano per prendere quella dell'uomo. Lui la afferrò saldamente e scosse la testa. "No, Virginia non ancora."

Si sentiva in colpa per non essere lì con lui, smorzò la frase dimenticandosi quasi di respirare. "Mi dispiace, Sherrinford sembra sparito. Ma sicuramente è a Londra ed è vivo, ne sono sicuro."

Lei tossì, Mycroft le versò poca acqua nel bicchiere e la aiutò a bere. La flebo era quasi terminata, una delle tante della sua giornata di dolore. La malattia avanzava troppo velocemente.

"Ho fatto troppo male a nostro figlio perché Dio mi permetta di rivederlo." Singhiozzò, mentre le lacrime le scendevano copiose sulle guance pallide.

"Non dire così Virginia, non sentirti in colpa per averlo dato in adozione. Eravamo giovani entrambi, non avrei dovuto credere alla bugia dei tuoi genitori, avrei dovuto cercarti." 

 Sentì un dolore sordo dentro al cuore, mentre le stringeva la mano fredda, lei era la donna bellissima e delicata che avrebbe voluto sposare, con cui avrebbe voluto crescere quel figlio di cui era venuto a conoscenza pochi giorni prima. Una serie di bugie e in comprensioni li aveva inesorabilmente allontanati separandoli per sempre. E ora era troppo tardi.

"Promettimi che lo troverai, che ti prenderai cura di lui. Parlagli di me. Digli che non l'ho mai dimenticato."

I singhiozzi si fecero più rapidi.

"Lo farò Virginia, te lo prometto e lo cercherò ancora."

Lei si tranquillizzò, Mycroft le baciò la fronte e i pochi capelli biondi rimasti dopo le cure. Se li ricordava del colore del sole, quando poco più che maggiorenni, si incontravano nella tenuta di Musgrave vicino al fiume, pieni di progetti per il futuro, felici e innamorati.

Virginia chiuse gli occhi e si abbandonò spossata, lui si chinò e le baciò le labbra screpolate, lei riaprì gli occhi luccicanti.

"Ti amo Myc e ho amato anche Sherrinford, per quel poco che mi hanno concesso di tenerlo."

Cercò aria. "Avresti dovuto vedere la sua faccina buffa e le sue manine paffute, era dolcissimo, il dono più bello che potessimo ricevere." Le mancò il respiro. 

 "Diventa un buon padre.... amore mio." Le ultime frasi si erano fatte fievoli, si assopì senza dolore con un sorriso delicato su quel volto di ragazza che aveva tanto amato. 

Le accarezzò la fronte che si fece sempre più fredda.

Virginia, il suo amore giovanile, la madre del suo unico figlio lo aveva lasciato per sempre.

 

 

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Capitolo 2
*** Qualcuno mi segue ***


"Notte Hayc ci sentiamo domani, cerca di arrivare in orario."

Il vecchio Stuart mi saluta mentre si riprende la bicicletta e la porta al deposito.

Gestisce i rider della zona est di Londra, lavoro per lui.

Mi appoggio con la schiena al muro, non vedevo l'ora di finire, sta diventando sempre più pesante pedalare per portare in giro la cena degli altri.

Sorrido, mi chiamano Hayc ma il mio vero nome è Sherrinford. Un nome altisonante, per uno come me che ha passato la vita in orfanotrofio.

Stringo un altro foro della cintura dei calzoni. Mi rovisto nelle tasche, la stoffa lisa si è bucata e le poche sterline sono finite nella fodera, ma sono sufficienti per pagarmi la cena.

Quando ho compiuto diciotto anni ho dovuto lasciare l'istituto e sono iniziati i problemi.

Mi infilo il cappello di lana, che trattiene i disordinati capelli neri. Ho ripreso fiato e mi avvio camminando per raggiungere la periferia di Londra, dove ho una "casa" che non è altro che una specie di stanza, fredda e anonima, ma costa poco, quindi va più che bene.

Rabbrividisco, la vecchia giacca non fa più il suo dovere. Troppo usata e troppo logora. Il mio prossimo obiettivo sarà acquistarne una più calda. Questo mese sono riuscito a comprarmi un paio di scarpe nuove e sono contento. Una piccola soddisfazione per uno come me che non ha prospettive se non quella di sopravvivere. Non sono un tipo che ha molte pretese, mi basta fare qualche lavoretto di tanto in tanto per avere qualche sterlina in tasca.

"Ti stai lasciando andare Hayc, trova un lavoro serio, così non va bene." Sento dentro la testa la voce petulante dell'assistente sociale.

Mi devo presentare da lei due volte al mese da quando sono uscito dall'istituto. È l'unica che si interessa di come vivo.

In effetti ogni tanto mi perdo, mi lascio prendere dallo sconforto. Non riesco a reagire, così mi faccio, anche se non sono un tossico, oppure mi sbronzo perché costa meno. Mi stordisco, mi fa sentire meglio, so che è sbagliato, ma mi addormento senza pensieri in quella stanza fredda visto che non ho abbastanza soldi per pagare il riscaldamento. Stasera ho la testa che viaggia da sola, sono patetico!

Perché è sempre la solita storia, mi prende una rabbia cattiva che mi distrugge dentro quando penso al perché mi abbiano abbandonato.

Mi massaggio le vecchie cicatrici sul braccio, e maledico la sfortuna di tutte le volte che mi hanno adottato e non ha funzionato.

Come può una madre lasciare un figlio? Me lo chiedo da anni, senza trovare risposta. Forse il freddo mi rallenta il cervello, sono mesi che non ripenso alla mia vita.

Prendo a calci una pigna, caduta dal vecchio albero del parco. Un calcio a tutti quelli che non mi hanno voluto.

Il mio respiro si fa leggero, mi sale un colpo di tosse.

Meglio lasciare stare la droga stasera, tre settimane fa per poco non ci rimanevo, quindi adesso mi sbronzo e basta. Ho già dato in termini di sballo, meglio rallentare con l'autodistruzione.

Non avere alcuna regola, mi porta a infrangerle tutte.

Aumento il passo per arrivare a casa. Un gatto tigrato attraversa coraggiosamente la strada, si ferma a farmi le fusa. Due sere prima gli ho dato delle crocchette e da allora mi aspetta. Gli faccio due coccole, stasera è l'unica cosa che posso regalargli.... Meglio prendermi del cibo, la solita pizza, mi basta e avanza.

Da alcuni giorni ho la maledetta impressione di essere seguito. Non ho conti in sospeso e non ho idea di chi potrebbe essere, mi comporto bene ultimamente.

Sono arrivato a casa e mi fermo al solito locale. Aspetto la mia cena, inganno l'attesa guardando fuori. Eccola, la solita auto scura di quelle che usano al governo, ultimamente la vedo spesso. Cosa ci faccia da queste parti, proprio non lo capisco, forse qualche pezzo grosso che vuole un'avventura fuori standard. Questo posto è pieno di escort disponibili e costose.

Salgo le scale con la pizza in mano. Arrivo alla porta ma la trovo socchiusa. Forse, stanco com'ero, l'ho dimenticata aperta.

Entro e mi prende un colpo. La luce nella camera è accesa. Lascio la pizza su di una sedia, afferro il coltello a serramanico che porto sempre con me e avanzo lentamente.

Quello che vedo mi lascia senza fiato. C'è un uomo che mi dà di spalle, ma come mi sente si gira. Al braccio ha un ombrello che ondeggia verso di me.

Io impugno più forte il coltello. Deglutisco a vuoto.

"Non ci proverei, Sherrinford, non sono una minaccia." La sua voce non ha alcuna inflessione ma sembra voglia rassicurarmi.

Si ferma puntando l'ombrello sul pavimento dove appoggia tutto il suo peso. È elegante, indossa vestiti costosi e un cappotto Crombie che mi pagherebbe l'affitto per due mesi.

"Chi diavolo è lei? E cosa ci fa dentro casa mia?" Quasi urlo, abbasso la mano con il coltello, che trema un po'.

"È impegnativo chiamarla casa." Lui inclina il capo di lato, mi fissa. Fa un sorrisetto sostenuto, mi studia.

"Insomma cosa vuole da me? Devo chiamare la polizia?" Mi rigiro il coltello fra le mani, comincio a indietreggiare.

"Ragazzo, diciamo che non è il caso. Voglio solo chiederti un paio di cose." Si accomoda sulla sedia e si concentra su di me. È calmo e questo allenta anche il mio disagio, le mani sempre strette su quell'assurdo ombrello.

"Per quale motivo dovrei rispondere a un estraneo, che è entrato in casa mia di soppiatto?"

Aumento il respiro e appoggio il coltello davanti a lui sul tavolo. Non mi fa paura, non so per quale ragione. Tolgo la giacca, mi siedo.
Lui ha un che di familiare che mi rimescola.
Abbiamo la stessa altezza, lo stesso corpo asciutto, gli occhi grigio chiaro sono come i miei. Ma i capelli sono troppo corti per giudicare, i miei sono neri e mossi.

"Come sa il mio nome? Non è molto comune, nessuno mi chiama Sherrinford. Devono avermi fatto uno scherzo quando me l'hanno dato. Sono Hayc per tutti, più comodo e più stupido." Faccio una smorfia che è un mezzo sorriso.

"Potrebbe avere un perché. Non trovi?" Ed eccola comparire, quell'espressione sarcastica sul suo volto, che mi risulta un po' antipatica.

"Ma lei chi è?" Stropiccio il fondo liso della giacca. "Sto conversando con un estraneo che mi è entrato in casa. Devo essere ubriaco!" Sbotto seccato.

"Già, bel modo di passare le sere, bevendo e fumando erba. Ottimo per accorciarsi la vita." Il tipo fa un sospiro rassegnato. "Ne conosco un altro che faceva spesso come te. Vi piace rovinarvi la vita e di conseguenza anche la mia."

"Allora, lei chi diavolo è?" Stavolta lo fisso torvo, la voce tagliente, voglio una risposta.

Fa una pausa come se prendesse fiato, poi mi guarda dritto negli occhi. "Mi chiamo Mycroft Holmes, ma non ti dirà un granché." Inghiotte a vuoto. "È molto probabile che io sia tuo padre."

Subito non elaboro, lo guardo e non respiro, il cuore me lo ritrovo in gola. Inizio a tremare come spesso mi succede visto tutte le sbornie e la droga.

"Non può essere! Lei, mio padre? Cos'è, uno scherzo?" Mi alzo e incespico, vado a prendermi dell'acqua.

Eppure lo sento che qualcosa di vero c'è. La sensazione che lo possa essere davvero mi devasta. Torno dalla cucina e lui è sempre lì. Un mezzo incubo.

Bevo, mi fissa immobile, mi vede tremare. "Dovresti smetterla di farti del male, Sherrinford."

Gli offro da bere, molto probabilmente lui è un tipo da costosi scotch di marca.

Gli allungo la bottiglia e un bicchiere pulito, appoggio tutto sul tavolo. Mi siedo scomposto, mentre lui si versa l'acqua e beve. Non tradisce alcun tremore e questo accresce il mio smarrimento per la sua freddezza.

"Cosa vuole sapere? Non se lo aspettava di trovarsi uno come me, vero? Un ragazzo problematico e rozzo." Rido, ma lui non è sorpreso. È impassibile, nemmeno una smorfia, alza solo le sopracciglia.

"Sherrinford è un po' che ti seguo, so quello che fai, il modo disdicevole in cui vivi. Voglio solo che tu sappia che ignoravo la tua esistenza fino a poche settimane fa. Ho dovuto faticare parecchio per trovarti, nonostante disponga di innumerevoli mezzi." Sembra sincero, gli occhi velati, ma si riprende subito.

"Sono stato in orfanotrofio quasi tutta la vita. Ho vissuto per qualche mese con una famiglia adottiva ma le cose non hanno funzionato. Me ne sono andato quando ho avuto diciotto anni. E ora lei, signor Holmes, arriva e improvvisamente si sente pieno d'istinto paterno. Grande! Un po' in ritard, mi sembra."

Mi alzo, più deluso che arrabbiato, mentre lui rimane immobile con le mani strette al suo ombrello. Eppure sento che potrebbe essere la verità.

"Cosa vuole adesso da me signor Holmes? Non posso darle nulla e mi sembra sia tardi per il perdono."

"Non lo pretendo, so che sei arrabbiato per quello che ti è successo. Ma te lo ripeto, non sapevo nulla. Vorrei solo due cose da te." Holmes si alza, abbandona il suo amato ombrello. Sembra titubare, ma è un attimo, mi osserva poi parla.

"Lo so che ti sto chiedendo molto. Dimmi se hai una voglia scura sul braccio destro appena sopra il gomito."

"Che richiesta è questa? Una prova per Dio?" Prendo, tiro su la manica seccato e gliela mostro quella "voglia" che ho sempre odiato. La esamina, muove appena il sopracciglio. Vedo i suoi occhi in tempesta.

"Dimmi ragazzo hai una cicatrice sotto il piede sinistro, una specie di sutura mal riuscita?"

Rimango immobile con il fiato corto. Per Dio! Allora questo potrebbe essere davvero mio padre. Lui aspetta che digerisca il fatto. Prendo e con le dita irrigidite slaccio la scarpa sinistra, mi vergogno dei calzini bucati e gli mostro la ferita.

"Contento signor Holmes?" Mi prende un'amarezza profonda per quell'abbandono subito senza risposte, forse l'arrivo di questo sconosciuto significa che ora potrò averle. Lui annuisce e si risiede. Stavolta sembra rilassarsi, si scioglie quel tanto che mi può concedere.

"Bene ragazzo, direi che siamo sulla strada giusta, ora se me lo permetti vorrei un po' della tua saliva per il tampone del DNA. Voglio la sicurezza che tu sia mio figlio. Spero tu possa capire che io mi sento responsabile. E vorrei porre rimedio a tutto questo." Mette sulla tavola la provetta e lascia che io decida, non mi impone nulla, aspetta paziente.

Mi arruffo i capelli, prendo tempo. Entra a gamba tesa nella mia vita, non so se posso accettarlo.

Lo guardo irritato, indeciso se cacciarlo da casa o cercare un rapporto con lui. È curiosamente tranquillo, io stupidamente agitato. Quest'uomo enigmatico mi attrae molto e vorrei conoscerlo. Se lui fosse mio padre, una parte della mia vita, potrebbe svelarmi chi sono veramente.

Avere una vita normale, sapere da dove vengo. Davvero potrei aspirare a tanto? Avere qualcuno che si prenda cura di me, che mi voglia bene? È lui la persona che voglio al mio fianco? Se mi ha cercato, se è qui di fronte a me, potrebbe essere un inizio.

Non so se posso fidarmi di questo sconosciuto che mi osserva e attende una mia risposta. Ma ho fame di affetto e non voglio rimanere da solo. Accolgo la sua richiesta, abbassando la testa, incapace di guardarlo in volto.

"Bene, d'accordo, cosa devo fare?" Infilo le mani nelle tasche sformate dei calzoni.

Scosta la sedia e l'ombrello, si avvicina e mi prende un po' di saliva con il tampone, mi sfiora la guancia con la mano e quel contatto mi rimescola. Holmes mi vede vacillare.

"Tranquillo, va tutto bene, non voglio disturbarti di più." Sembra sincero, quasi sereno, ma si sente in torto. Si aggiusta la cravatta, riprende l'ombrello e lo punta dove è appoggiata la scatola della pizza.

"Visto che la tua cena è andata, posso portarti a mangiare qualcosa di caldo? Fa piuttosto freddo in questa specie di casa." Si gira senza aspettare che risponda, le mani talmente strette sull'impugnatura del suo prezioso ombrello da apparire scolorite. Ha già il suo cappotto addosso.

Accetto, mi accorgo che si è leggermente scoperto, maschera la paura di un mio rifiuto. Allora forse è umano e pieno di dubbi quanto me. Decido di seguirlo, soprattutto perché sono affamato e infreddolito.

 

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Capitolo 3
*** Un padre complicato ***



L'auto parcheggiata che avevo visto prima è sua. Ha un autista sollecito che l'avvia appena ci avviciniamo, mi fermo e non salgo subito, guardo la berlina incuriosito. È lussuosa e potente, lui sale dietro e lascia la portiera aperta. I sedili di pelle sembrano nuovi, tutto l'interno è pulito e ordinato.

"Sali Sherrinford, non è così inquietante come sembra." Lo sguardo che mi allunga è divertito, sa di essere una persona autorevole.

Entro incerto e mi accomodo, sento il suo profumo di dopobarba e fumo.

Deve fumare anche lui. Non mi sembra un fumatore accanito, forse si concede solo qualche sigaretta quando è teso.

Mi dà l'impressione di essere un salutista, mi domando se ci sarà un punto d'incontro tra noi due.

Io sono l'opposto, lui mi sembra un genitore fin troppo perfetto per uno come me! Lo osservo di nascosto, i suoi vestiti sono di alta sartoria, mi sento improvvisamente uno straccione.

Sembra leggermi dentro, si gira con un sorriso gentile, ma fastidioso.

"Non temere, non sono sempre così formale. È il mio lavoro che me lo impone. Sono un funzionario del Governo, spesso devo trattare con persone importanti. La sciatteria non si addice agli incontri al vertice."

Ora comprendo quell'ostentazione di potere, annuisco disorientato. Fino a quali vertici arriva il suo lavoro? Cosa può fare un uomo come lui?

Evito di guardarlo, però sentirlo vicino mi dà sicurezza, mi trasmette calore e non so se sia un bene.

L'auto si ferma davanti a un pub aperto, scendiamo, l'autista rimane in attesa. Mi volto sorpreso e agito la mano.

"Ma ci aspetterà?" Mi sembra uno spreco, tenere un uomo a disposizione.

"È il suo lavoro, mi conosce da anni ed è fidato." Mycroft, così ha detto di chiamarsi, si infastidisce e mi sollecita a entrare. Il piccolo pub è tutto arredato in legno, i tavoli hanno delle tovaglie a scacchi rossi. È pervaso da un odore di fumo e birra. Lui arriccia il naso.

Vedo che non è propriamente a suo agio in quel posto, però ho fame e quindi mi siedo al tavolo. Si prende un caffè macchiato con del latte, io ordino un Hamburger e una birra.

"Non è un cibo sano, ragazzo ma stasera va bene così." Storce la bocca sottile, si sfila i guanti lentamente e mi inchioda gli occhi addosso. Poi si toglie il cappotto, io faccio lo stesso. È vestito con un completo tre pezzi scuro, giacca a righe più chiare, la cravatta azzurra fermata da una spilla argentata, un gilè abbottonato con cura.

È una persona che tiene molto al suo aspetto, anche nei modi è affettato. Lo studio. Cerco un punto in comune con lui. Forse nel modo in cui muove le mani o come chiude gli occhi quando fissa le persone, spesso lo faccio anch'io. Rimaniamo silenziosi, incapaci di avviare una conversazione, finalmente arriva il cibo a toglierci dall'imbarazzo.

Addento il mio panino deciso a non cambiare abitudini, certamente non per lui.

Mycroft si rigira la tazza fra le mani e improvvisamente dichiara con voce gentile. "Sarà il tuo compleanno tra pochi mesi."

"Sono diciannove, signor Holmes, il prossimo venti Maggio." Mi strozzo sorpreso che lo sappia, mandando giù in fretta il boccone. Lui sorride appena, sorseggia il suo caffè. Capisco che da lui non potrò pretendere grandi slanci di affetto. È così austero, come se dovesse tenere la situazione sempre sotto controllo.

Per ora mi basta, forse il suo atteggiamento cambierà quando ci conosceremo meglio. Sono un adulto ormai, ma dentro mi sento imbarazzato come un ragazzino. Bevo la birra, lui storce un po' il naso, già si intromette su quello che mi piace. Cominciamo bene!

Il pub è caldo e accogliente, Holmes si scioglie un po'. Ci stiamo studiando a vicenda, credo che capisca quello che penso, perché inclina la testa di lato mentre si infila i guanti, mi parla lentamente.

"Vorrei ospitarti a casa mia. Ho una camera con un letto caldo e soprattutto una doccia che ti aspetta."

Increspo le labbra, mi accorgo che lui fa lo stesso, mi sento indeciso, non so se posso fidarmi. Non mi sembra pericoloso.

"Non avrai paura di me?" Sbotta ridacchiando. "Ti offro ospitalità, null'altro. Puoi andartene quando vuoi. Ma se decidi di restare, starai alle mie regole." La voce si è fatta decisa, nessuna inflessione.

"Se lei è mio padre rimarrò, ma per le regole ci accorderemo. Per ora accetto il suo invito." Incrocio le braccia, metto in chiaro che desidero un rapporto alla pari con lui.

"Va bene, ne discuteremo poi. Allora andiamo a casa, a Pall Mall." Non ha capitolato immediatamente ma non ha neanche detto di no.  È un inizio, lo guardo, lui apre le mani appoggiate sulle ginocchia e si rilassa.

"Non ho vestiti con me, mi dispiace." Mi sistemo la maglia allungando il polsino già liso.

"Non è un problema, passiamo da casa tua." La sua voce si è addolcita, non aggiunge altro, si alza e indossa il cappotto.

Mi strofino il mento, le sue rassicurazioni sono convincenti e decido di seguirlo, in un attimo lui è alla porta.

Si fida di me il "British Government", mi ha appena conosciuto e mi porta a casa sua. Un punto a suo favore. Così ne approfitto, ho bisogno di un posto sicuro e caldo, in fondo cosa ho da perdere?

Usciamo dal pub, lui davanti io dietro. L'autista mette in moto non appena ci vede, se vuole impressionarmi ha ottenuto il massimo. Mi riportano in quel buco dove dormo, salgo nella stanza fredda e prendo le mie cose.

"Metti la tua borsa nel baule." Il suo tono suona un po' seccato. Forse l'ho fatto aspettare troppo, non è tipo da rimanere in attesa.

"Mi scuso se ho impiegato del tempo. Non volevo infastidirla." Gli rispondo piccato, chiudo il baule con veemenza.

Holmes mi guarda, arriccia le labbra. "Non è per l'attesa ragazzo, ma la tua borsa non ha un buon odore e temo che anche i tuoi vestiti saranno impregnati di fumo, birra e chissà che altro. Vedrò se riesco a rimediarti qualcosa di decente. Che sappia di bucato fresco."

Rimango impassibile a questa critica, lo fisso beffardo.

"Non dispongo di molto denaro per la lavanderia. Spesso mi capita di dormire fuori, in qualche dormitorio e quasi non riesco a lavarmi. Non tutti hanno la fortuna di avere una famiglia alle spalle, Signore!"

Sono arrabbiato, stanco e infastidito per questo atteggiamento di superiorità. Non mi piace che si muova in un terreno arduo come il nostro futuro rapporto agendo in modo scostante. Quasi mi pento di averlo seguito, eppure sento che non sa confrontarsi, non sa essere né amico, né padre.

"Vedo che sei polemico ragazzo. Ed è comprensibile scusami, volevo essere gentile." Mette il broncio e non parla più.

Mi appoggio al sedile, mi stringo nella giacca più decorosa che possiedo e tremo, stasera l'aria è fredda ed è irrespirabile quanto lui.

"Albert, alza la temperatura." Holmes si è rivolto all'autista, è un gesto di cortesia inaspettato. Il suo comportamento è incomprensibile, passa dal gelido, al premuroso.

Non ho voglia di ringraziarlo, me ne sto zitto come un bambino capriccioso. La sua vita agiata non mi impressiona, ho sempre fatto da solo. Ma chiudendo gli occhi, spero che la sua casa non sia lontana, perché sono stanco e voglio stare al caldo. Lui mi legge dentro ancora una volta.

"Tra poco ci siamo, Sherrinford. Avrai un comodo letto per dormire." Emetto solo un grugnito d'intesa. Sono troppo stanco per rispondere, comincio a sentire il peso della giornata.

L'auto percorre un vialetto alberato e distinguo una vecchia dimora vittoriana.

Per Dio! Sembra un piccolo castello. Sono passato da una camera umida a questo. La vita fa giri tortuosi a volte.

"Scendi e prendi le tue cose." Improvvisamente torna ad essere scorbutico. Eccolo lì: fa un gesto gentile e subito dopo uno contrario.

Holmes saluta Albert, e anch'io lo ringrazio. Stare dietro a Holmes e a tutti i suoi capricci non deve essere facile.

È buio, vedo appena i contorni del maniero, rabbrividisco.

"Abita qui? È sposato o vive da solo?" Lui mi guarda come se avessi bestemmiato.

"Da solo, Sherrinford, non sono sposato. La mia professione non si concilia molto con il matrimonio." Stringe le labbra che diventano bianche.

Sono già contrariato dal suo modo di fare e raddoppia la mia antipatia quando lo sento così attaccato al lavoro.

La casa è una sorpresa. Un ampio ingresso ci porta in un corridoio con alcune porte aperte che fanno intravvedere delle sale con armature, stanze con tavoli enormi e un eccesso di librerie. Tutto decorato con legno pregiato. Un vero museo. Rimango intimorito, lui lo percepisce.

"Tranquillo ci si abitua. È la stessa espressione che avevo quando sono arrivato qui la prima volta. Ora puoi chiudere la bocca." Ridacchia, abbassando la testa.

Mi tolgo la sorpresa dalla faccia, arriviamo in cucina e nella sala adiacente, dove c'è un camino crepitante. Si sente l'odore di legno di pino e resina, il calore che emana è piacevole.

"Il mio custode lo accende prima che torni." Sentenzia orgoglioso.

Appoggio la borsa con tutto quello che possiedo su una sedia e mi avvicino per scaldarmi. Mi guardo intorno stupefatto. Una casa alquanto singolare, dal gusto classico, anzi decisamente antiquata, ma lo tengo per me, ho paura d'irritarlo.

"Posso sedermi, signor Holmes?" Gli indico la poltrona di pelle, non vorrei sembrare scortese, non capisco cosa pensa e non so come comportarmi.

"Fai pure. Ti preparo del tè, ci siamo raffreddati entrambi."

Mi tolgo la giacca e sprofondo letteralmente nella poltrona. Il calore del camino mi avvolge. Sento salire la stanchezza.

Mi sembra di sentire del rumore provenire dalla cucina, cerco di concentrarmi ma non reggo e mi addormento.

Sogno e rivedo il vecchio collegio, mi agito forse mi lamento. Non voglio tornarci sono sprofondato nel sonno, nulla può portarmi indietro, nemmeno la voce paziente del signor Holmes.  

 

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Capitolo 4
*** La prima notte a Pall Mall ***



Sento qualcuno che mi scuote la spalla, mi risveglio cercando di mettere a fuoco. Tutto mi torna in mente limpido e concreto. Non è un sogno. Holmes, il mio presunto padre, è lì di fronte al camino, la sua voce è gentile. Mi fissa dall'alto, sembra preoccupato.

"Forza ragazzo, bevi del tè, poi ti faccio vedere la tua camera, non puoi passare la notte qui."

Brontolo insonnolito, poi mi rendo conto che ho dormito quasi un'ora. È stato premuroso, sono avvolto da una morbida coperta, il camino è ancora acceso.

"Grazie." Mormoro, prendendo il tè che mi porge, lo ha riscaldato. Arrossisco per essermi lasciato andare così. "Mi scusi, sono crollato."

Ha un tono distaccato, ma la voce è dolce. "L'ho visto, ma ora sarebbe meglio che ti facessi una doccia prima di metterti a letto. Ti rilasserai e ti sentirai meglio."

Si gira senza aggiungere altro. Porta in cucina il vassoio e rimette in ordine, maniacalmente. Non si è cambiato, è sempre perfettamente vestito.

Finisco il tè e ripongo la tazza, poi lo seguo. Saliamo una scala di legno levigata dall'uso.

Di sopra c'è un altro corridoio con dei tappeti di pregio, le pareti intervallate da quadri. Lui apre una delle porte dove scorgo la sua camera da letto ordinata e con pochi mobili. La mia camera è di fronte alla sua, è confortevole ed ha un bagno privato, un vero lusso.

Entra nella sua e fruga nei cassetti, mi porta della biancheria intima e qualcosa per la notte. Tutto profuma di bucato fresco.

"L'intimo è nuovo, il pigiama no, ma è pulito e comodo. Gli asciugamani sono in bagno." Prendo tutto in mano e rimango fermo, aspettando un suo segnale, un gesto, una parola.

"Beh, spero dormirai bene." Abbassa il capo e afferra la maniglia della porta.

È incerto, ma riprende il controllo, si gira senza guardarmi, scompare nella stanza. Capisco che non è tipo che si perde in smancerie come quelle banali di augurare la buonanotte.

"Beh, signor Holmes, grazie di tutto." Sbadiglio rassegnato e chiudo la porta. "A domani e grazie ancora."

Avrei voluto un gesto rassicurante, ma ho capito che lui non è quel tipo di persona. Sono perplesso. Che genitore potrebbe diventare un uomo così distaccato, che non si è mai fatto una famiglia? Come si comporterà con un figlio come me, uno che nessuno potrebbe desiderare?

Sorrido mestamente, non voglio farmi illusioni, però nel mio cuore ho già seminato la speranza che lui sia veramente mio padre e prego di riuscire ad amarlo, qualunque persona si dimostri di essere.

Mi spoglio ed entro nell'ampia doccia, un lusso che non vedo da tempo.

Lascio scorrere l'acqua bollente, mi rilasso come ha detto Holmes.

Il mio corpo magro è segnato da diverse cicatrici, le ripasso con dolore, me le hanno lasciate i genitori adottivi, presi dal sacro fuoco dell'educazione giusta, ma severa. Un'esperienza finita prima ancora di cominciare.

Mi ripasso le braccia e vedo quei buchi che saranno difficili da spiegare.

Non mi faccio da un po', ma ci ricado sempre con facilità. Finisco, mi asciugo, mi rivesto e filo sotto le coperte in un letto vero, caldo e accogliente e per ora questo mi basta.  

 

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Capitolo 5
*** Il risveglio in casa Holmes ***



È mattina, lo vedo dalla luce che filtra da sotto la tenda. Guardo il mio vecchio orologio da polso. Sono le otto. Mi alzo dal letto e osservo la camera, è arredata con gusto, deve essere quella destinata agli ospiti. Ha un'ampia scrivania, un armadio vecchio stile. Mi sgranchisco le gambe, guardo dalla finestra che dà sul cortile d'ingresso. Tutto è così lussuoso, veramente troppo per me.

Sento dei rumori provenire dal piano terra. Decido di scendere e indossare i vecchi vestiti che mi sono portato. Li annuso sospettoso, ha ragione Holmes, puzzano di fumo e stantio.

Ma ho solo quelli, quindi scelgo i migliori. La camicia non è proprio da buttare, è azzurra con le righe in tono. Infilo i calzoni blu scuro, anche se sono un po' logori, il maglione di lana un tono più chiaro. Ho i calzini di marca che mi ha passato Holmes. Le scarpe sono nuove, quindi accettabili. Mi osservo allo specchio, sono presentabile. Scendo di sotto per vedere cosa sta combinando.

Lui è in cucina, sembra uscito da una sartoria. Indossa un completo tre pezzi chiaro. Non ha nulla fuori posto, la cravatta sembra gli sia incollata addosso.

L'ho sempre giudicata scomoda, svolazza ovunque, forse è per questo che lui la blocca con il fermaglio. Ne deve avere parecchi di quei gingilli, evidentemente gli piacciono.

Mycroft si volta e mi squadra, abbozza un mezzo sorriso ironico. Lo so che mi sta giudicando. Evidentemente non rientro nei suoi canoni di eleganza.

"Buongiorno Sherrinford, hai riposato bene? Ti avrei chiamato tra poco." Socchiude gli occhi e inclina il capo valutandomi.

"Vedo che stamattina sei presentabile ma dovresti provvedere a portare in lavanderia i tuoi vestiti." Torna ad occuparsi della colazione. Mi mette un dubbio e annuso la manica.

"Lo so, non profumano di bucato ma si dovrà accontentare di questi, non ho altro." Lo fisso irritato, è sempre così insopportabilmente spocchioso.

Si pulisce le mani nello strofinaccio ricamato e non trattiene il suo disappunto. "Sherrinford, non pretendo di esserti simpatico, ma ti invito a trattenere le tue emozioni. Ti si legge tutto in faccia." Solleva appena il capo senza fissarmi.

"Bene, signor Holmes, così non le devo spiegare niente e risparmio fiato." Metto fine alla guerriglia e mi offro di aiutarlo.

"Posso fare qualcosa? " Smette di affaccendarsi e mi indica la cucina. È bianca, con mobili lisci e funzionali, niente spazio per inutili soprammobili. Il forno, il piano cottura perfettamente puliti tanto che mi chiedo se li usa.

"Prendi il caffè e scaldalo, tosta le fette di pane. Non combinare disastri, penso tu abbia capito che odio il disordine." Lo guardo di sbieco, non so se più arrabbiato o divertito. Mette in tavola dei biscotti e del latte. Ha apparecchiato con un ordine ossessivo. Penso che nasconda qualche mania compulsiva.

Faccio attenzione a non scombinargli la cucina, è talmente ordinata che non devo chiedere dove cercare il pane e il caffè. Ho solo problemi a portare la caffettiera colma, perché le mani mi tremano e la devo tenere stretta. Holmes se ne accorge e senza dire niente mi aiuta.

Mi sfiora mentre la prende e quel suo tocco delicato mi scombussola. Non riesco a capirne il motivo. Non sento di provare dell'affetto, lo conosco da poco, eppure il suo contatto mi confonde. Mi siedo, lui si sfila la giacca e si arrotola le maniche, mi invita a mangiare. Prendo del tempo aggiustandomi la camicia, non sono abituato a tutto questo.

"Non faccio colazione tutti i giorni, mi capita spesso di saltare i pasti. Quindi non si preoccupi se non mangio molto."

"Non sono io che mi devo preoccupare ma tu ragazzo, vista la tua magrezza. Ho una richiesta da farti." La voce incespica nelle parole studiate. "Vorrei che tu facessi una visita medica, visto come hai vissuto negli ultimi anni, solo per assicurarmi che tu stia bene. La struttura è del governo e sono molto preparati."

Tossisco, quasi mi soffoco. Non mi sono mai piaciuti i medici e nemmeno gli ospedali. Però capisco il perché me lo chiede.

"Ha visto i buchi sul braccio, vero? Quando le ho fatto vedere la voglia sul gomito. Teme che mi faccia ancora? Avere un figlio drogato non fa piacere, specie a un uomo di potere come lei."

Arrossisco per la vergogna e l'indignazione, mi sento offeso. Mi alzò di scatto senza toccare il cibo nel piatto.

"Mi dispiace di non rientrare nei suoi standard, signor Holmes. Ma io sono quello che vede, mi deve prendere così, oppure mi lasci andare." Alzo troppo la voce e un sottile dispiacere mi percorre.

Si pulisce la bocca con un candido tovagliolo. Non mostra nessuna emozione. Si alza e mi prende per un braccio, il suo tocco è delicato.

"Siediti, finisci di mangiare. Non è come pensi, non mi riguarda se ti droghi, bevi o fumi, voglio solo capire cosa è meglio fare per te. Sei troppo giovane per avere una salute fragile. Ne parliamo con calma ma dopo che hai finito la colazione." Il suo volto è teso, la fronte corrucciata.

La stretta si fa più decisa, non lo credevo così forte, mi divincolo, mi costringe a sedermi e a finire la colazione.

"Bada, Sherrinford, non sono così tollerante come pensi." L'ho decisamente irritato, mi gira le spalle senza guardarmi.

"Bene, decido io, vieni con me questa mattina stessa. Ho già avvertito la clinica, un check up ti farà bene non è niente di spaventoso, te lo assicuro."

Ingoio l'ultimo boccone e bevo il latte ormai tiepido. È abituato a comandare, non accetta rifiuti. Non mi piace, ma lo farò.

"Non mi faccio da tre settimane, e ho bevuto la sera prima d'incontrarci. Ma sembra che lei lo sappia già. Sono pulito stia tranquillo." Lo guardo incollerito, ma lui nemmeno mi calcola.

"Bene, quindi è un sì, mi sembra di capire." Sorride compiaciuto e inizia a riordinare.

"Un sì che ha sentito solo lei. Ma va bene lo stesso, se la fa contento." Lo odio quando si comporta in modo autoritario.

Sospira. "Lo faccio per te, Sherrinford. Non hai fatto una vita agiata in questi anni." Si oscura, sente il mio risentimento e sembra che, in qualche modo, lo accetti.

Sentiamo il campanello di casa suonare. Si dirige verso la porta e io lo guardo interrogativo.

"È Anthea, la mia segretaria, devo consegnarle il tampone." Holmes fa entrare una giovane donna elegante che continua a guardare il cellulare. Poi solleva lo sguardo verso di me.

"Notevole Mycroft, è decisamente il suo ritratto, praticamente lei da giovane! Piacere Sherrinford, sono Anthea la segretaria di suo padre."

Mi sorride e mi allunga la mano. È piacevole e morbida. Sento una strana sicurezza mentre le restituisco il saluto. Ha un sobrio tailleur chiaro e capelli ondulati folti e ramati che le ricadono sulle spalle. Occhi castani, labbra carnose, un trucco leggero che le rende giustizia.

Non posso non notare il suo corpo sinuoso, insomma rimango colpito, Holmes ha una segretaria perfetta.

Lui mi osserva dal fondo della stanza, solleva le sopracciglia quando arriva con la provetta da consegnare.

"Sherrinford, lasciale la mano ti prego, avrai occasione di vederla ancora." Leva gli occhi al cielo innervosito.

"Notevole potrei dirlo anch'io, Anthea." Mi sono esposto, ma lei è bellissima. Non vedo donne così di classe da parecchio tempo. Lei ride.

"Sei galante Sherrinford. Esci un po' dagli schemi della famiglia Holmes. Ma va bene così."

"Anthea!" Holmes la richiama e le consegna il campione.

"Bada di darmi una risposta. Tu ragazzo fila a prepararti."

La saluto con un cenno della mano salendo le scale. Holmes sembra veramente irritato per il mio comportamento, lei mi sorride complice. Sembra divertita.

Raggiungo svelto la camera, mi lavo, mi sistemo e aspetto che lui venga a chiamarmi. Nel frattempo chiamo il vecchio Stuart lo devo avvisare che non mi vedrà per un po'. Lo rassicuro dicendogli che sto bene, lui mi ha aiutato molto offrendomi il lavoro di rider in quel periodo difficile.

Mi siedo sul letto e mi tormento le mani, la tentazione di ribellarsi è forte ma oggi devo stare alle regole. Ieri giravo per le strade senza una meta, oggi invece sono in una casa calda, immerso nel lusso. E la più importante di tutte è che ho un padre. Cioè, una specie di padre.

"Sherrinford, andiamo." Holmes chiama e io eseguo.

 Prendo la giacca e scendo. È questo il tipo di rapporto che si aspetta di avere con me?

 

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Capitolo 6
*** La diagnosi ***



 

 

L'auto di servizio è già fuori che aspetta. Albert mi saluta, gli rispondo cordialmente, Holmes fa una smorfia, naturalmente non approva certe mie libertà con i suoi sottoposti.

Io però non sono uno snob, non mi piace tenere le distanze. Mi accomodo al fianco di Mycroft, lui si tiene sempre un metro più in là. L'unico contatto è il profumo del suo dopobarba e degli abiti freschi di lavanderia.

Rabbrividisco e mi stringo nella vecchia giacca troppo leggera per quel periodo dell'anno. Sento Holmes muoversi. Apre il suo cappotto costoso e si toglie la sciarpa.

"Prendi questa, mi ero dimenticato del tuo abbigliamento poco adeguato. Almeno questa ti scalderà." La voce si è fatta gentile, mi osserva curioso.

L'afferro senza protestare, lui è ben coperto lo stesso. La metto attorno al collo e la annodo malamente.

Borbotta qualcosa. "Fatti aiutare." Mi guarda terrificato da tanto orrore, mi sistema la sciarpa al millimetro, con un intreccio impeccabile. Ha il suo profumo e mi sorprendo nel sentirmi protetto.

È strano come ci studiamo, come prendiamo le misure del nostro essere. Rimango muto, e guardo fuori dal finestrino. Mi mordo le labbra nervoso, odio gli ospedali. Ci sono stato quando tre ragazzi all'istituto mi fratturarono la tibia. Fui stupido perché scoprii i loro intrallazzi, ed ebbero paura che li tradissi. Fu un avvertimento, nemmeno troppo velato. Rimasi ricoverato per un po' e non mi piacque per niente.

Così tengo le mani in tasca, perché tremo di paura e non voglio apparire ridicolo.

Ma lui gira appena la testa. Ha percepito qualcosa, ha l'aria dispiaciuta. Mi accorgo che forse sa più di quanto io creda, il British Government ha il potere d'intrufolarsi nella vita di tutti, soprattutto nella mia.

La sua voce si fa gentile, abbassa la testa. "So cosa hai passato Sherrinford, so molte cose su di te. Credimi mi sento in colpa, mai avrei voluto abbandonarti. Un giorno ti spiegherò tutto, pazienta ancora un po'." Si aggiusta il bavero e torna a fissare la strada, non mi permette di replicare.

Il viaggio si fa silenzioso, nessuno dei due inizia una conversazione, neppure una breve o insignificante. È come se non ci fosse punto d'incontro. Comincio a temere di aver fatto la scelta sbagliata nel seguirlo.

Guardo fuori dal finestrino, la strada scorre veloce ma io neppure la noto, in breve entriamo in una struttura governativa austera e ben protetta.

"Eccoci arrivati." Mi guarda titubante. "Va tutto bene?" Nascondo le mie paure, mi esce un sì deciso.

Scendiamo e lo seguo con le mani ben strette nelle tasche. Lui mi precede dondolando il suo ombrello. Forse ama solo quello. A me resta la sciarpa con il suo profumo.

Il posto è grande, c'è un immenso parco. Scorgiamo un imponente edificio vittoriano con le colonne e le scalinate di marmo. Si intravede qualche soldato in divisa e alcune infermiere che portano a passeggiare i degenti.

Camminiamo lenti, ma per quanto cerchi di controllarmi, mi sento improvvisamente in trappola e mi incollo sul viale di ghiaia.

Holmes non se ne accorge e continua, ma non sentendo i miei passi si gira di colpo e mi vede cinque metri più indietro.

Pianta l'ombrello per terra, ci appoggia tutto il corpo, mi guarda torvo.

Sbotta seccato. "Sherrinford, per piacere! Non fare il bambino." Non so perché sento l'impulso di andarmene, e lui non mi aiuta granché. Forse capisce, si muove, ritorna indietro e ci ritroviamo vicini.

Ma la voce tradisce una durezza offensiva. "Basta ragazzo. Vedi di sbrigarti! Non ti faranno nulla di male. Pensa che è per il tuo bene."

Quelle poche parole mi fanno male, perdo il controllo e gli urlo tutto il mio disprezzo. "Non è per il mio bene! È per te che lo fai, non lo vuoi un figlio malato!" Ho bisogno disperatamente del suo aiuto, ma lui non sente nulla, non afferra il mio disagio.

Diventa glaciale, mi afferra il braccio e mi stringe da farmi male. Poi mi lascia di botto, amareggiato.

"Non voglio ascoltare quello che dici, non ti permetto di giudicarmi, non sai nulla di me.  Questo è un comportamento stupido e infantile. Andiamo e non dire più nulla. Non una parola." Ci studiamo, non distogliamo i nostri occhi. Cedo per primo e lo lascio fare. Si è arrabbiato più di quanto mi aspettassi.

Ma ha un ripensamento, mi si avvicina e quasi mi scorta. Non accenna a toccarmi, è come bloccato. Ammutolisco a questa mancanza di contatto fisico e penso che manchi di empatia.

Saliamo per entrare nello studio del suo amico medico. Un posto lussuoso, governativo, come tutto il resto della struttura.

"Salve Greg, l'ho letteralmente trascinato qui. Questo è mio figlio Sherrinford, di cui ti ho parlato. Tra poco, spero, anche Holmes. Fanne ciò che vuoi." Gli è sfumato via tutto il risentimento o forse, finge bene.

Greg Foster è il tipico medico da manuale: capelli sale e pepe, faccia cordiale, occhi attenti nascosti dietro occhiali di marca, un camice dal bianco abbagliante. Si conoscono bene loro due, si stringono la mano e sorridono divertiti vedendo il mio imbarazzo.

"Accomodati Sherrinford. Chiamo l'infermiera e andiamo nel mio ambulatorio." Il dottor Greg non sembra arrogante, è più alla mano di quanto mi aspettassi.

Mi siedo sulla poltrona di pelle, ma ci sto poco perché l'infermiera entra quasi subito e mi trascina nella stanza vicina. Mi fa spogliare e sdraiare nel lettino. Poi mi toglie una provetta di sangue. Stringo i denti per non fare la figura del bambino, ma mi ha pizzicato per bene. Chiudo gli occhi quando esce e respiro più forte.

 Perché ho accettato tutto questo? Devo essere stupido! Per un padre difficile, per nulla affettuoso che non riuscirà ad amarmi. Mi si inumidiscono gli occhi, cerco di riprendermi in fretta.

Il dottore entra quasi subito. Mi osserva, io cerco di evitarlo. Mi sento a disagio, non mi piace essere denudato, sono sempre stato pudico.

"Sei magro, mangi abbastanza?" Greg è professionale, prende una cartella e scrive. Il suo modo di fare gentile non mi mette in imbarazzo, così mi apro e gli racconto tutto.

Gli rivelo la quantità di problemi che ho avuto, come ho vissuto le privazioni di quegli ultimi anni, le botte che ho preso dentro all'istituto. Il braccio e le due costole che mi hanno rotto nelle risse. Le cinghiate dei genitori adottivi, troppo severi.

Annuisce in silenzio.  Si ferma per pochi istanti, mi sorride guardando le mie mani bianche strette sul bordo del lettino.

"Va tutto bene, Sherrinford, rilassati, cerco solo di capire come stai." Mi fa stendere e mi scombina i capelli con la mano, un gesto inusuale, che mi lascia sorpreso.

Mi esamina con attenzione, mi guarda la schiena, controlla l'avambraccio dove sente l'osso saldato. Poi percorre tutto il mio corpo, trova qualche livido. Mi sente il torace e mi fa male quando preme dove avevo le ferite delle percosse. Non lascia un centimetro indietro. Vede le braccia e i buchi. Si sofferma con la mano e li sfiora.

"Cosa prendevi, cocaina diluita o altro?" Sospira interdetto, stringe le labbra.

"Quello che trovavo dottore ma cercavo di non eccedere. Il dolore a volte era insopportabile." Mi stringo le braccia e trattengo il respiro.

"Parli del dolore delle fratture che hai subito?"

"Non solo quello, spesso pensavo all'abbandono, al perché mi avessero respinto. La droga mi stordiva e mi faceva stare meglio. Era facile da trovare. A volte bevevo, cioè bevo anche adesso." Scuote la testa, ma non è arrabbiato.

"Quando ti sei iniettato l'ultima?"

"Tre settimane fa." Tremo e arrossisco, lui è rassicurante, mi fa una carezza leggera sulla schiena.

"Hai sopportato molto, ragazzo mio, ma vedremo di alleviarti il tormento."

Lo vedo pensare assorto.

"Sherrinford, vediamo il tuo cuore quanto ha sofferto. Non ti spaventare, l'uso della droga non gli ha fatto bene. Ma possiamo sempre rimediare."

Sento il sangue non arrivare al cervello e impallidisco. Sono in panico totale e non riesco a nasconderlo. Greg, mi prende le mani che non smettono di tremare.

"Tranquillo, ci sono molte cure e in più hai un padre che ti sarà vicino." La sua voce è calda.

“Non lo conosco dottore, non so come reagirà a tutto questo." Continuo a torturarmi le mani. "Forse mi ha abbandonato per molto meno."

"No, Sherrinford, conosco bene Mycroft. Non sapeva di essere padre. Non è da lui lasciare indietro un membro della famiglia, soprattutto un figlio." Mi tocca il braccio con leggerezza. "Ha protetto suo fratello che abusava di queste sostanze persino più di te. Pensi si tirerà indietro? No, ragazzo mio, non te lo toglierai più di torno. Anche se non lo sai, o non lo vedrai." Mi sorride e mi aiuta a stendermi.

l'ECG è indolore e veloce, ma vedo la sua faccia seria. Il tracciato fa schifo da come lo studia.

"Vestiti ragazzo, parliamo con tuo padre nel mio studio."  Mi dà una pacca affettuosa sulla spalla ed esce. 

 

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Capitolo 7
*** Un cuore malandato ***


Mi tremano le gambe mentre cerco di rivestirmi, aggiusto la camicia, infilo la maglia mezza storta. Guardo un'ultima volta quell'ambulatorio freddo e incolore, mi auguro di non tornarci mai più. Alla fine mi faccio forza e rientro nello studio lussuoso di Greg. I miei occhi corrono verso il volto di Holmes, cercando un sostegno, ma lui è impassibile. L'odioso ombrello appoggiato al bordo della scrivania.

Non si gira nemmeno, rassegnato, mi lascio cadere nella fredda poltrona di pelle. Ne ho fatte di cose sbagliate, adesso è troppo tardi per pentirsene e poi, a cosa servirebbe? Le mani nelle tasche iniziano a tremare per la paura di essere ammalato.

Greg entra e mi scruta, mi chiede se sto bene. Forse sono troppo pallido. Mi riempie un bicchiere d'acqua e me lo porge. Solo allora mio padre si gira e mi osserva, lo vedo aggrottare la fronte e stringere la mascella.

"Non voglio nascondervi nulla." Il dottore si rivolge a Holmes.

"Mycroft, tuo figlio non ha avuto una vita facile e lo si vede dalle sue condizioni fisiche, a quanto ho potuto vedere ha diversi lividi e cicatrici, segno di maltrattamenti. Potrei azzardare che il suo stile di vita poco regolare, gli abusi di alcool e droghe, siano frutto di una mancanza di riferimenti e di un affetto stabile. Le sue cattive abitudini hanno minato la sua salute, ma soprattutto hanno compromesso il suo cuore. Il tracciato dell'ECG non è soddisfacente e mi preoccupa."

Vacillo, mi guarda e cerca di essere gentile. "Sherrinford ti ho detto che si può rimediare e te lo confermo, anzi mi impegno ad aiutarti concretamente."

Smetto di respirare, sposto lo sguardo su Mycroft, che non dimostra alcuna emozione, è freddo e distaccato. Mi stringo le ginocchia con le mani gelide. Mi sento sprofondare, se cerco un sostegno da lui, questo è decisamente inesistente.

"Come possiamo aiutarlo, Greg?" Holmes sembra aver riacquistato la parola. Impugna il suo ombrello talmente forte che vedo le sue nocchie diventare bianche. Parla come se io non fossi presente e mi infastidisce parecchio.

"Ho preparato una terapia Mycroft, che spero Sherrinford si impegnerà a seguire scrupolosamente."

Si gira e cerca il mio consenso. Non faccio una piega e lo lascio continuare.

"Bene; dovrà seguire tutte le istruzioni che ho scritto, ma è necessario che sia seguito da un medico e visto che deve stare in famiglia ho pensato a Watson. Lui è il più adatto."

Holmes annuisce, sembra consapevole di un'amara realtà. Non sono il figlio perfetto che cercava e sono anche ammalato. Il dottore gli allunga una lettera. 

 "Qui c'è scritto tutto. Lo devo rivedere tra un mese. Assicurati che tuo figlio segua tutte le mie indicazioni. E niente colpi di testa." Si rivolge a me, ma annaspo come se stessi annegando.

Li guardo entrambi decidere della mia vita. Mi sale la rabbia, il volto in fiamme, barcollo mentre mi alzo di scatto. 

"State parlando di me, Gesù Cristo! Non mi chiedete nemmeno se sono d'accordo?" Poi mi volto verso Holmes. "E tu, nemmeno mi chiedi come sto!"

Inquadro il dottore, il caro amico di mio padre, pieno di livore. E alzo la voce ansimando. "Posso scegliere io quello che voglio fare? O non ho nessuna possibilità?"

"Non sei in grado di decidere!" Holmes scatta tagliente, fissa un punto oltre Greg, come fossi un'entità trasparente.

"Sì, che lo sono! Almeno abbi il buongusto di guardarmi o ti faccio così ribrezzo? Ti ho forse dato il mio consenso?"

La rabbia mi monta dentro, soprattutto per nascondere il fatto che sono pieno di paura. Mi rivolgo al dottore, sapendo benissimo quello che mi risponderà.

"Voglio sapere quanto mi resta se continuo a fare la mia vita di sempre." La mia voce è stretta nella morsa dell'angoscia.

Sposta di nuovo lo sguardo su Holmes. Lui gli fa un cenno.

"Non arriverai a ventitré anni Sherrinford, anche meno se riprendi a utilizzare sostanze stupefacenti)

Poi continua con voce pacata.

"Devi fare una vita tranquilla ragazzo. Pasti regolari, e soprattutto niente droga, alcool o fumo. E' importante che tu cerchi di essere il più possibile sereno. lo so che non è facile ma un atteggiamento positivo può fare veramente la differenza."

Non ci credo nel sentire snocciolare questa serie d'idiozie! Mi metto a camminare per la stanza nervosamente. Basta guardare che padre mi sono ritrovato, privo di emozioni e di affetto. Cristo! Un estraneo spocchioso.

Holmes lo percepisce, ha la testa china, ma è come se sentisse quello che penso di lui e quindi glielo butto in faccia senza tanti complimenti.

"Ho vissuto fino a ora come ho voluto, quindi perché dovrei cambiare? Per chi lo dovrei fare?" Alzo la voce, ma sento mancarmi le forze.

Mio padre si tira in piedi, pieno di collera contenuta. "Perché morirai, imbecille! È questo che vuoi Sherrinford? Allora fa pure!"

"Mycroft!" Il dottore lo riprende severo. "Cerca di avere più testa di tuo figlio! E' solo spaventato, chiunque al suo posto lo sarebbe, vuole essere sicuro di averti vicino. Vuole il tuo sostegno, Holmes!"

Lui accusa il colpo. Rimane immobile, si gira lentamente e si lascia andare nella poltrona. Le mani strette sulle tempie.

"Scusami Greg, e anche tu, ragazzo." La voce è bassa, si distende lentamente, poi mi guarda con un mezzo sorriso, si è rassegnato. "Farò quello che desideri Sherrinford. Anche se non lo approverò."

Sono già abbastanza scosso, e vederlo cedere mi disturba. Non sa fare il padre e io non so essere figlio. Sento l'impulso di parlargli, modulo la voce.

"Voglio del tempo per pensare dottore. Posso restare con mio padre? Solo per poco."

Greg non cerca il permesso da Holmes, annuisce ed esce lasciandoci soli.

Mycroft afferra l'ombrello meccanicamente, inizia a girare l'impugnatura senza sosta, aspetta che io dica qualcosa.

Mi siedo avvilito al suo fianco. "Non so se voglio affrontare tutto questo, non me lo aspettavo proprio ora che ti ho ritrovato." Sono senza difese, lo guardo in volto, cerco qualcosa che stenta ad arrivare. "Potrebbe non funzionare e avrei sprecato il mio tempo. È vero che non ho una grande aspettativa di vita, ma passarla a curarmi e in clinica, non mi sembra una grande prospettiva. Mi dispiace di deluderti e soprattutto di darti tanti problemi."

Tiro le somme, cercando di capire cosa devo e cosa posso fare, ora che ho quasi una famiglia. Mi sembra una beffa del destino.

Lui non risponde, fissa il suo amato ombrello e improvvisamente smette di torturarlo. Fa un lungo sospiro.

"Senti, Sherrinford, vorrei che tu ci provassi. Forse ti costerà, ma possiamo stare insieme e conoscerci per il tempo che ci verrà concesso." Si volta e mi osserva attento. "Non sei solo tu a rischio. Il mio lavoro a volte è complicato... e pericoloso." Non mi lascia il tempo di replicare. Si alza con fatica, china leggermente il capo, poi mi prende per il braccio e mi tira su, ma stavolta è delicato.

"Dammi una possibilità. Non sono un gran padre, non sapevo nemmeno di esserlo. Ma potrei imparare."

Mi sento svuotato, ho paura. Vorrei disperatamente piangere. È tutto così assurdo. Dopo tanto trovo le mie radici e ho così poco tempo per conoscere questo padre che vuole diventarlo a tutti i costi. Con tutti i limiti che si porta appresso.

Le gambe non mi reggono, mi ritrovo stretto a lui.

"Piangi figliolo, ne hai tutto il diritto." Mi prende la testa e la porta sulla sua spalla. Sento il suo calore, il suo odore e cedo come uno stupido bambino. Piango senza ritegno, soffocando i gemiti di anni di dolore e di abbandono. Mi lascia sfogare, mi parla piano con voce gentile.

"Ce la farai Sherrinford, ce la faremo insieme. Avrai tutta la tua famiglia con te. Ci sarò ragazzo, in ogni passo che farai." Mi tiene stretto da soffocarmi, lui che non abbraccia nessuno. Che non lo fa da anni. Lo sento sussultare. "Mi dispiace di essere così anaffettivo, non sono capace di darti di più."

"Impareremo insieme, ma tu non lasciarmi, non voglio restare solo. Non voglio morire da solo." Ho un filo di voce, tutta quella che mi è rimasta.

Si stacca fremendo, mi prende il volto fra le mani, mi fissa adirato.

"Tu non morirai, se farai come ti dicono vivrai la tua vita." Mi allunga il fazzoletto ricamato con le sue iniziali.

"Rimettiti in sesto, forza, abbiamo una battaglia da affrontare. E un bel po' di persone che devi conoscere." Si è ripreso, torna serio e controllato. " Devi entrare in famiglia, ne devi essere parte, concentriamoci su questo." 

Lo sguardo si fa compiaciuto, ha una faccia strana.  "Mentre eri con Greg, Anthea mi ha comunicato l'esito del tampone." Sorride orgoglioso." Sherrinford, sei mio figlio, un Holmes a tutti gli effetti. Nel bene e nel male!

Mi guarda sornione, mentre mi asciugo il volto sconcertato e comincio a piangere di nuovo.

Si passa la mano sulla fronte tremando.

"Andiamo, ragazzo, smettila di piangere non sai nemmeno che padre sarò e che famiglia strampalata ti aspetta. Calmati." Annuisco stordito dalla notizia.

Riempie due bicchieri d'acqua e beviamo insieme, mi tocca la spalla e la stringe per confermare la scelta.

"Faremo come dice Greg. Watson ti seguirà e starai con mio fratello Sherlock per un po' di tempo."

Si rattrista quel tanto che riesco a percepirlo. " Il mio lavoro non mi permette ti starti sempre vicino. Ma anche se non ci sarò, avrai una famiglia. E sai che potrai contarci sempre..."  

 

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Capitolo 8
*** La cura non è un vantaggio ***


 Mio padre ascolta attento tutte le direttive del suo amico medico.  Io invece non riesco a concentrarmi.  Lascio che faccia Holmes. Prima di uscire il dottore mi rassicura ancora. Mi vede agitato,  mi dà la mano stringendola con forza. Non dico una parola, seguo mio padre in silenzio.

Albert ci aspetta, sempre disponibile. Così facciamo il viaggio in silenzio verso Baker Street. Sento Mycrocft parlare con suo fratello, mio zio Sherlock. Ma non ascolto sono frastornato, mi hanno già fatto una iniezione prima di uscire dalla clinica, ne dovrò fare delle  altre. Ci penserà Il dottore che vive con mio zio.

Mi prende il panico. Improvvisamente, senza un minimo di preavviso perchè possa controllarlo. Fatico a respirare. Mio padre smette di parlare al cellulare, ferma Albert e mi fa scendere. Mi sono vicini tutti e due.

"Forza figliolo! Calmati, facciamo due passi." Mi prende sottobraccio, mi fa camminare lentamente, un passo dietro l'altro. Sa che è paura e non centra il mio cuore malandato.

"Non pensare a nulla, sgombra la mente e concentrati su quello che vedi. Qualsiasi cosa.

" Faccio come mi dice, cerco di rilassarmi, mi metto a osservare gli alberi  con le foglie rosse. Le sterpaglie avvolte dal muschio, qualche nido di uccello migratore. Poche case in lontananza avvolte nella foschia. Tutto è così sereno, che mi sento meglio. Le foglie secche scricchiolano sotto i nostri passi, un suono surreale che ci accompagna. Mycroft sorride sornione al mio fianco. Rallenta il passo.  Si mette a roteare il suo amato ombrello. Vedo le sue amate scarpe infangate, penso che non me lo perdonerà mai.

"Il mondo è pieno di cose semplici e belle, ma proprio per questo non le vediamo." Lo dice convinto, io mi sorprendo.

"Padre, ti ho giudicato una persona fredda e adesso ti riscopro poeta."   Rido, mi sento disteso. So che mi aspettano giorni difficili, ma ora  è tutto troppo bello per rovinarlo con pensieri bui.

"Ragazzo, te lo leggevo in faccia il tuo risentimento, ma avevi ampiamente ragione."   Holmes ora mi lascia da solo, così finiamo per camminare affiancati, senza fretta. Improvvisamente mette un piede male e inciampa. L'ombrello non lo regge, ma sono veloce, lo afferro per il braccio, e non lo faccio cadere. Lui si gira, mi guarda divertito.

"Ecco a cosa serve, avere una persona affianco, figliolo. A sorreggerti quando stai per cadere. La cura non è un vantaggio, ma è necessaria." Penso quasi che l'abbia fatto apposta per darmi una lezione. Poi lascio la presa  delicatamente, vedo che non si è fatto nulla.

"Sei troppo scaltro per me padre. Tu mi stai manipolando." Lo dico certo,  con un mezzo sorriso ironico. Holmes annuisce.

"Oh, so farlo figliolo e molto bene, ma sicuramente non con te." Poi vede che mi stringo nella giacca tremando.

"Torniamo ragazzo, meglio che tu non prenda ulteriore freddo."

Albert accende il motore quando ci vede arrivare. L'auto è calda, ci avviamo a vedere il resto della famiglia Holmes.  

 

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Capitolo 9
*** Go to Baker Street ***


Mio padre decide di  pranzare, prima di arrivare da suo fratello.

Così ci fermiamo in un posto carino, dove mangiamo senza parlare. Lui è pensieroso, io agitato.

Partiamo per Baker Street che è praticamente nel centro di Londra, ma l'auto di Holmes non conosce ostacoli, andrebbe direttamente a palazzo reale se volesse. Sono un po' teso, oggi è come se avessi vissuto metà della mia vita, ora mi aspetta l'altra metà.

Non sono mai stato abituato alla gente, nè tanto meno ad avere improvvisamente una schiera di parenti. Sono sempre stato solo, ora in poco meno di 12 ore ho un padre e una famiglia. E sono anche malridotto. Sto dando proprio il massimo, in termini di stress.

Cristo! Mi prende di nuovo il panico. Mi giro verso mio padre che sta maneggiando tranquillo il cellulare, solleva la testa e mi fissa.

"Sherrinford, stai tranquillo! Sono brave persone. Su stai calmo." Sbuffa ironicamente, ma io non mi calmo per niente. Mi metto le mani in tasca per nascondere il tremore che è ricominciato. Vorrei scendere, ma Mycroft mi allunga la mano e mi stringe il polso.

"Smettila Ragazzo, non ti torturare, va tutto bene. Avvicinati, appoggiati a me."

Io non aspetto altro, mi stringo vicino a lui. Holmes, nel suo bel capotto costoso, mi passa il braccio sulle spalle, mi avvolge. E sto bene, mi sento sicuro, appoggio la testa sul sedile, socchiudo gli occhi. Cerco di riprendere forza per affrontare il resto della giornata.

Lui inizia a parlare lentamente. "Ho già chiamato mio fratello, sanno del nostro arrivo e che starai con loro per un po' di tempo. Tuo zio Sherlock è un consulente investigativo. Vive insieme al dottor Watson che lo aiuta nelle indagini. A volte collabora anche con me. Hanno una bambina di nome Rosie che ha 4 anni, figlia di John." Vedo mio padre increspare le labbra preso dai ricordi. "Era sposato con una brava donna, che è morta in un disgraziato incidente. Tuo zio, beh lo devi conoscere. E' scombinato come tutta la famiglia Holmes." Mio padre ridacchia con naturalezza, mi vede sconcertato.

"Se proprio devi farti venire un altro attacco di panico, allora ti avviso che hai anche dei nonni. Mio padre può passare, ma mia madre Violet ecco, sarà più impegnativa."

Lui ritira il braccio dalla mia spalla, con la mano mi dà un colpetto affettuoso sulla guancia, scuote la testa e sorride.

"Andrà tutto bene figliolo, ti farai le ossa. Pensa che i miei genitori cerco di frequentarli poco, ancora adesso."

Albert ferma l'auto davanti alla casa dove presumo abiti mio zio,  così mio padre mi spinge fuori senza tanti complimenti. "Forza ragazzo!"

Saluto Albert di malavoglia e cammino dietro a Holmes, che ondeggia il suo dannato ombrello come se andasse a una festa. Io sembro un condannato a morte.

Pall Mall era una bella casa, ci sarei stato bene da solo con mio padre. Però devo curarmi e stare con il dottor Watson, così sospiro, mi stringo la sciarpa e mi rassegno.  

 

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Capitolo 10
*** Lo zio Sherlock ***


Mio padre conosce bene la strada, mi precede. La porta la apre una donna anziana.

"Buongiorno Miss Hudson. Le ho portato un nuovo inquilino." Si scosta e la signora mi sorride, mi abbraccia piena di entusiasmo. Non me lo aspetto e sono rigido, sembro scortese.

"Così tu sei Sherrinford! Figliolo ti troverai bene qui. Salite vi aspettano."

Salgo una stretta scala interna, mi ritrovo con mio padre in una stanza piena di oggetti. Ingombra, di qualsiasi cosa, che però è pulita. Intravedo un caminetto con due poltrone. Si alza un uomo magro vestito di nero con una candida camicia bianca senza cravatta.  Assomiglia a mio padre,  anche un po' a me.

"Bene, quindi tu sei mio nipote Sherrinford. Sono lieto di conoscerti." Ha il volto  simpatico, un sorriso aperto,  mi tende la mano, mentre  tremo quando la allungo, ma lui fa finta di niente e già mi piace il suo modo di fare.

Mio padre va verso un tipo con i capelli castani, dentro la cucina. Deve essere il dottore che si occuperà di me, perché gli consegna la lettera del suo amico medico, quello della clinica costosa. Lo fissò preoccupato. Spero non sarà il solito tizio saccente e irritante.

"Tranquillo Sherrinford, il dott. Watson è una persona comprensiva, devi avere fiducia." Lo zio sembra leggermi dentro, mi sorride bonario poi mi trascina sulla poltrona e mi ci spinge dentro.

"Lascia che tuo padre parli con John. E tu rilassati figliolo. Capisco che ci vedi per la prima volta, ma andrà tutto bene finchè non arriverà Rosie." Lui ride vedendo la mia faccia incredula.

"Rosie, la figlia del dottore? Ma perché?   E' così vivace? Quanti anni ha?"

"Quattro intensi anni figliolo, e vivace non esiste per definire Rosie. Lo vedrai." Lui ridacchia e io mi preoccupo un pò, perché i bambini mi piacciono, ma molte volte non so come comportarmi. Anche se all'istituto ne avevo visti tanti, abbandonati e soli.

Mi giro e guardo mio padre parlottare con John, vorrei sentire quello che dicono , ma sembrano complici.

"Sherrinford, per Dio stai sereno!" Sherlock mi appoggia una mano sul ginocchio. Ha visto il mio disagio. Tento di nascondere le mani tremanti in tasca.

"Ne hai abusato parecchio di quella roba, vero ragazzo? Dovevi controllarti, non lasciarti andare. L'ho usata anch'io, ma nel modo giusto, ero la disperazione di tuo padre."

"Mycroft ti controllava? E perché?" Sono curioso, Mycroft è un tipo freddo.

"Diciamo che tuo padre ha una certa attitudine a protegge la sua famiglia. Non credo te ne libererai facilmente."  Sorride mentre mi stringe il ginocchio, poi si porta le mani giunte sotto al mento.

Mi sento  in pericolo, in vicolo cieco. Non mi piace parlare di quanto e di come mi "facevo". Il guaio è che ho scoperto di aver compromesso il mio cuore. Un vero colpo di fortuna, adesso che ho una famiglia.

"Comunque zio, non credo che ci sia un modo giusto per usarla. Io stavo male e mi serviva."

Lo zio mi fissa strano. Lui è bravo a capire deduce, a volte lo faccio anch'io

"Starai bene Sherrinford, se ci ascolterai ne uscirai. Ora metti tranquillo. Non voglio sapere altro, me lo dirai tu quando sarai pronto."

Annuisco, tolgo le mani dalle tasche e sorrido debolmente. Intanto osservo la stanza ingombra di carte e piccolo giochi da bambina. Alcune bambole sono finite vicino ad un teschio che fa bella mostra sul camino.

"Sherrinford vieni a conoscere il dott. Watson. E' lui che si prenderà l'incarico di seguirti."

Mycroft mi chiama dalla cucina, stanno ancora guardando la lettera.  Guardo due secondi lo zio, che scuote il capo approvando.

Mi alzo e li raggiungo titubante. Il compagno di mio zio mi allunga la mano, sembra gentile.

"Quindi Sherrinford, sei il figlio di Mycroft e nipote di Sherlock. Ci voleva un altro Holmes in giro per Londra." John ride vedendo la mia faccia scura. Così aggiunge calmo.

"Non ti farò nulla giovane Holmes, non avrai paura di me? Sono un medico, ma soprattutto un amico."

Anche mio padre sorride, poi ripone la lettera su tavolo.  "Fa quello che ti dice Watson, figliolo e presto starai meglio."

Il dottore mi prende per il braccio e mi fa sedere al tavolo della cucina. Mi legge la lettera, mi dice quello che dovrò fare. Ascolto, mentre guardo mio padre allontanarsi e  sedersi dal fratello. John Watson se ne accorge.

"Non ci conosciamo ragazzo, ma devi solo avere fiducia. Tu fa quello che ti dico e andremo d'accordo. Non sgarrare Sherrinford, hai tirato la corda fino al limite." Abbasso la testa, non so cosa dire e cerco con gli occhi mio padre.  Lui mi prede la mano.  "Non pretendere troppo da Mycroft, non è mai stato una persona piena di slanci di affetto. Ma è leale e ti seguirà da oggi e per sempre. Come ha sempre fatto con suo fratello. Ha un modo tutto suo di voler bene. Che non ammetterà mai."

Lo capisco, l'ho già percepito, guardo dritto negli occhi John, non posso chiedere altro per adesso.

"Bene figliolo, per la tua cura ci penserò io. Tu prendi le medicine che devi. Tre volte al giorno delle compresse prima di mangiare. E una iniezione un po' più impegnativa una volta la settimana. Se ti fanno stare male devi dirmelo. Qualsiasi cosa ti succeda devi parlarne."

Io sono già teso,  nascondo le mani che tremano di nuovo.

"Vedo che ti spaventi parecchio Sherrinford, ti fai prendere dall'ansia. Vedremo di mitigare i tuoi attacchi di panico."

"Non vado in panico, sono solo nervoso!" Gli rispondo irritato, non voglio che mi prendano per un debole ragazzino stupido.  Qui

"Bene, allora devi cercare di stare sereno. Vado a prendere mia figlia a scuola. Dovrai convivere con  Rosie non ti risparmierà nulla Sherrinford. Preparati."  Ride e mi dà una pacca sulla spalla. Io lo guardo torvo.

John si alza e mi lascia lì con la testa confusa. Mi alzo e  metto la lettera sopra alla credenza. C'è di tutto in quella casa. Dio, sembra la casa di mio padre a Pall Mall. Dove regna l'ordine assoluto.

Giro un po' per la stanza, con le mani in tasca, ho una gran voglia di andarmene, non riesco a prendere le misure a questa nuova situazione. Ero sempre solo, ora tutta quella confusione mi turba. Ho quasi voglia di "farmi". Ma mi ucciderebbe, devo calmarmi. Così gironzolo senza meta.. Raccolgo dei libri di favole da terra.

 John mi passa davanti ed esce salutando tutti.  Io non so cosa fare. Poi mi avvicino ai due nuovi parenti. Che mi intimano di fare qualcosa.

"Sherrinford libera quella poltrona piena di libri e mettila qua." La vedo è in un angolo, la svuoto e la trascino vicino a loro.

"Fratellino ora sono tre le poltrone, come gli Holmes di questa casa."

"E’ anche di Watson, non scordartelo che fa parte della famiglia." Mio padre abbozza un mezzo sorriso.

Sono sorpreso, si stuzzicano. Non capisco sono fratelli, lo trovo un comportamento bizzarro.

Li osservo, mio padre che tormenta l’ombrello e   Sherlock sprofondato nella poltrona con le mani giunte sotto il mento. Mi stringo le spalle,  temo di essere capitato in una famiglia difficile.

"Sherrinford non farti troppe domande per adesso, non fare quella faccia sconvolta. Capirai col tempo, sappi che ora il nostro rapporto è molto migliorato." Mio padre ha parlato in modo glaciale, ma Sherlock si gira e mi fissa divertito.

Io balbetto.  "Mi immagino come poteva essere prima. " Lo dico serio, ma poi mi rassereno vedendo mio padre ridere.  " Ti deve sembrare tutto così strano figliolo, non stupirei se volessi andartene a gambe levate."  Smette di accanirsi sull’impugnatura.

Sono perplesso,  però accetto la nuova situazione, meglio che essere soli e al freddo.

 

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Capitolo 11
*** Rosie Watson ***


Ed eccola Rosie entra allacciata al padre, indossa un delicato vestitino azzurro e blu. Ha un piccolo cerchiello fra i biondi capelli ricci.

 Sembra entrato in casa un tornado, corre a cercare i suoi libri che avevo messo sul tavolo. Si arrampica sulla sedia e se ne impossessa.  Non riesco a trattenere un sorriso visto l’esuberanza di Rosie e l’inadeguatezza di John che gli arranca dietro.

 Cerca di calmarla per farle fare merenda. Ma è una missione impossibile, deve allungarle dei biscotti e del latte, quasi inseguendola.

 Parla in continuazione e Watson non riesce a farla smettere, così rapida come è entrata, vola verso di noi facendo briciole ovunque. Pianta i piccoli piedi davanti a me e mi fissa seria.

“Sei tu, mio cugino Sherrinford?” Lo dice con la bocca piena, masticando veloce.

“Credo di sì.”   Rido mentre si avvicina e vuole salire in braccio, ha gli occhi chiari vivaci e pronti.

“Rosie, ma lascialo respirare, almeno saluta gli zii.” John cerca di allontanarla da me.

“Ciao, zio Sherlock, ciao zio Myc.”  Ma non si gira nemmeno perché il suo interesse è tutto rivolto a me.

Mi rassegno e faccio cenno al dottor Watson di fermarsi, la aiuto ad arrampicarsi e la trattengo in braccio. Rosie è delicata e leggera, mi fa provare una sensazione di benessere. Ma un colpo di tosse mi tradisce. 

“Stai bene figliolo?”  Mycroft mi osserva preoccupato, conosce bene l’esuberanza della nipote.

“Si, padre va tutto bene.” Non voglio che Rosie si allontani da me, lei si appoggia con l’orecchio sul mio petto, mi prende alla sprovvista e vacillo benché sia seduto.

“È qui che sei ammalato?” Ha il faccino serio, le labbra socchiuse. E mi punta il ditino al centro del petto.

“Rosie! “La sgridano tutti e tre.

“Solo un poco, Rosie. Ma starò bene.” La guardo fingendo un’allegria che non ho.  Recupero in fretta e le sorrido calmo.

“Papà ti guarirà. Lui è bravo.” Prendo un respiro lento, mentre la stringo, lei è la sincerità in persona, senza fronzoli, qualcosa che accetti o rifiuti.

Mi stampa improvvisamente un bacio pieno di briciole sulla guancia.  Io capitolo, arrossisco come uno scolaretto, so di appartenere a Rosie adesso e per sempre. I miei parenti la lasciano fare vedono che sono tranquillo, forse pensano che sia un bene che mi distragga.

Così come ha cominciato, esuberante e incontrollabile, comincia a sfogliare i suoi libri.

Devo stare attento a tenerla stretta perché si muove così tanto!  

 Tutto quello che c’è intorno a noi scompare, nella stanza ci siamo solo io e lei, mi sento bene come non provavo da tempo, vedo che le mani che non tremano più. Non mi accorgo nemmeno dei fratelli Holmes che si sono portati in cucina, da Watson.

 Rosie vuole che legga, così comincio, lei si accomoda, si appoggia sul mio petto e comincia stropicciare la maglia con le piccole dita mentre ascolta assorta.  Ho le mani sudate non sono mai contato per nessuno ed ora c’è lei.

Sa di buono Rosie di biscotti e latte, di amore e di semplicità.  Non sa quanto è amata, a parte la perdita dolorosa della madre. Così mi lascio andare, Rosie è la prima cosa buona che mi capita da sempre.  Nulla che valga di più.

Intravedo la mia famiglia, i fratelli Holmes che si infastidiscono e Watson con la signora Hudson che si lamenta in cucina del disordine.

Realizzo che ho una famiglia, difficile, complessa, ma c’è.

A lungo andare Rosie si addormenta e quasi cedo anch’io.  Watson ci nota ciondolare assonnati,  si avvicina, la prende.  “Sherrinford riposa. Dormi un po' anche tu.”  Porta Rosie nella sua cameretta, torna e mi mette una coperta addosso.

  Non vorrei, ma sono stanco, mi sistemo borbottando: “Solo pochi minuti.”

 Poi non mi ricordo nulla, solo rumori soffusi.

 

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Capitolo 12
*** Prima di cena ***


Mi scuotono e mi sveglio intontito. C’è John vicino a me.

“Sherrinford è quasi ora di cena. Che dici ti svegli?”  Mi ricordo di Rosie, la vedo seduta che gioca, ma ogni tanto mi sbircia, come se mi aspettasse.

Mi alzo sistemo la poltrona, Sherlock e mio padre non ci sono, guardo interrogativo John.

“Sono usciti, tranquillo ceniamo tutti insieme. Mi dai una mano?”  Lo raggiungo e metto mano alla mia poca esperienza in cucina.  Apparecchio la tavola, stendo  la tovaglia fiorata, metto i posti assegnati ora c’è anche il mio.

John mi guarda premuroso. Vede la figlia che freme, mentre finge di giocare, è seduta sul tappeto piena di giocattoli e con i suoi amati libri.

“Come stai Sherrinford? È stata pesante la giornata.”  Mi si avvicina studiandomi, io lo tranquillizzo.

“Sto bene dottore, anche grazie a Rosie.”

“Che ti aspetta impaziente.”  Aggiunge divertito.   “Vuoi un consiglio giovane Holmes? Cerca di non farti travolgere da mia figlia.”

Lo so che ha ragione, ma lei è troppo impaziente. Finisco di aiutarlo e poi con un gesto di intesa, vado da Rosie.

“Sherrinford, papà ha detto che dovevo lasciarti dormire!”  Rosie increspa le labbra, scuote la testolina imbronciata.

Io mi siedo per terra con lei, cerco di convincerla.

“Rosie, sono un po' malandato e devo guarire. Il tuo papà ha ragione, ma quando ho tempo starò con te. Promesso.”  Rosie si rassicura, mi abbraccia e mi mette in mano i suoi giocattoli, gli occhi le luccicano.

Non mi accorgo nemmeno del tempo che passa, Rosie parla e parla, mi riempie di domande. Tanto che John a volte deve richiamarla.  Io un po' le rispondo e un po' glisso.

Vedo tornare mio padre e Sherlock, che parlottano, che si provocano, ma in modo bonario. Parlano di lavoro per quel poco che capisco. Lo zio si avvicina e cerca di prendere il braccio la piccola.

“Rosie oramai ti ha adottato, Sherrinford.”  Lei sgambetta, vuole scendere, così corre da suo padre e poi da Mycroft. Li afferra per le maniche e li porta vicino a me.

“Papà, zio Myc, quando sarò grande posso sposare Sherrinford?”  Ha il faccino serio, e gli occhi grandi che fissano entrambi.

Io tossisco imbarazzato, trattengo a stento il libro delle fate che vuole cadermi dalle mani.  Sherlock scuote la testa, si gira per nascondere che ride, Mycroft e John sono muti.

“Rosie, sarò troppo vecchio per te.”  Tento di darle una spiegazione, la prendo, la giro verso di me. “Piccola, comunque ci sarò sempre. Rosie sarò il tuo cugino prediletto.”  Rosie mi abbraccia, devo piantare i piedi per reggermi, poi mi guarda seria.

“Non morirai come la mamma vero? Me lo prometti?”  Rosie mi spiazza, trattengo il respiro, comincio a sudare, non so cosa rispondere e dubito, ho paura di deluderla. Poi balbetto innervosito.

“Farò di tutto Rosie, per stare con te. Tu però non mi lasciare.”  Le ultime due parole mi escono flebili.  Mio padre interviene, fa un cenno con il capo a John, vede che sono in affanno. Mentre distraggono Rosie, mi spinge via, finisco in camera cercando aria che non trovo. Ennesima crisi di panico. Dio sono un vero disastro!   

 Mi siedo sul letto ansimando.

 Mycroft è al mio fianco, mi massaggia la schiena, mi dice di calmarmi, mi fa respirare lentamente.

“Forza figliolo, superiamo anche questa, d’accordo?”

 Annuisco senza parlare, mi prendo la testa fra le mani. Ho voglia di piangere, ho voglia di scappare, mi sento un peso, un terribile peso anche per una bambina di pochi anni a cui non posso promettere nulla.

La mia mente si chiude, reagisco malamente, mi alzo di scatto, evito Sherlock sulla porta della stanza.   Scorgo Rosie con il padre, è girata, non mi vede.  Prendo velocemente la giacca appesa, mentre mio zio tenta di fermarmi. La mano mi afferra, ma lo schivo con rabbia e volo giù dalle scale. Sono rapidamente in strada. È buio e c’è traffico. La reazione al freddo mi fa sussultare. Barcollo  e devo riprendermi, ma poi scappo, me ne vado via.

Adesso basta! Non sono portato per fare il bravo ragazzo. Voglio tornare alla mia camera fredda dall’altra parte di Londra. Non mi giro, cammino rapido, e non mi importa se sto male, perché è una mia scelta, l’ho voluto io.

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Capitolo 13
*** Ritorno a Baker street ***


Prendo una via laterale, mi infilo nell’autobus, sto attento a non farmi seguire o forse gli Holmes non ci hanno nemmeno provato.

 Guardo dal finestrino   mezza città addormentata e arrivo a casa. Salgo a fatica le scale, non mi era mai successo prima. Perché adesso è tutto così difficile?

 La porta è sempre aperta, entro e crollo sul letto rimasto sfatto. Sono talmente stanco che non mi spoglio nemmeno, sento un dolore sordo al petto, ma sono tranquillo accetto quello che deve venire.

 Non sento né la fame, né il desiderio di vivere. Forse piango, in realtà non me ne rendo conto. Sapere di essere ammalato mi ha distrutto, mi addormento spossato. 

La mattina che viene, fa filtrare una luce pallida dalle imposte socchiuse, mi risveglio nel mio vecchio letto.  Sono coperto da una spessa coperta, ho addosso un pigiama e sono bagnato di sudore rappreso. Ma sento ugualmente calore. Fatico a mettere a fuoco, gli occhi sono offuscati. Stringo il bordo della coperta e cerco lo spazio per vedere attorno.

 Nella poltrona affianco, c’è una figura abbandonata al sonno.  Mycroft Holmes, mio padre è lì vicino, ne avverto il respiro calmo. Sposto lo sguardo sul   comodino ingombro di medicine. Non mi ha lasciato solo nonostante la stupidaggine che ho fatto.

“Padre… Mycroft.”  Lo chiamo sussurrando. Si tira su rapido. Mi guarda preoccupato e mi appoggia la mano fresca sulla fronte.

“Bentornato figliolo. Hai avuto la febbre. Mi concederai di dirti che sei stato impulsivo.” Aggrotta la fronte ma sembra rilassato.

 È proprio lui: Il suo “amato” completo tre pezzi, sgualcito, il suo “amato” ombrello appoggiato alla parete, dimenticato.

“Padre, mi dispiace. Io non sono così forte come vuoi credere.”  Ho voglia di sentirlo vicino, di stringermi a lui. Com’ è possibile sentire il desiderio di affetto, quando non l’ho mai avuto?

“Come mi hai trovato?” lo guardo curioso, ma forse la risposta è scontata.

“Avanti Sherrinford, dove potevi venire se non qui!”  Ha ragione lui sa tutto di tutti, ha il controllo di Londra.

Mi si annebbia la vista e crollo di nuovo.  Mi solleva piano sento la sua stretta sulle spalle, mi massaggia il torace, mi fa respirare, con un ritmo normale.

 Non è da lui, il British Government è cambiato, fa il padre preoccupato, forse mi illudo di costruire con lui un rapporto amorevole.

“Sherrinford, dobbiamo tornare a Baker Street. Devi stare con noi, e hai bisogno di John.” Me lo sussurra piano, ma deciso.

Scuoto la testa, non ho forze sufficienti per tornare a Baker Street. “Padre, come faccio? Non mi reggo.”

“Ti aiutiamo, basta colpi di testa ragazzo. Lo so che eri sotto pressione e abbiamo sbagliato.  Ora torni con noi.”

Annuisco e mi lascio andare, sono troppo sfinito, che facciano pure.

 Mio padre chiama al cellulare e dopo poco arrivano due uomini che mi vestono con delicatezza, mi rassicurano e mi aiutano ad uscire.

 Mycroft è sempre presente, indossa il suo cappotto scuro afferra l’ombrello ed esce con noi. Mi mettono nell’auto scura di Alfred, ma la mia testa è altrove, mi agito, mi sento un oggetto sbattuto di qua e di là. Sono impaurito, sudo di nuovo.

 Mi metto a protestare, grido, non so nemmeno quello che dico, poi piango,  non riescono a calmarmi. Caccio in malo modo mio padre, che si è avvicinato per rassicurarmi, ma sento che non si arrende, allontana le due persone, mi prende e mi stringe talmente forte che mi lamento angosciato.

Quel poco che riesco a calmarmi, lo sento vicino, si sussurra qualcosa, dolcemente, lento e rassicurante.

“Ti voglio bene Sherrinford, non mollare adesso. Mi spezzeresti il cuore.”  Non so se ho capito bene, Mycroft Holmes che mi dice che mi vuole bene, incredibile!  Sento il mio cuore perdere i battiti, cedere e mi aggrappo a lui.

“Padre, aiutami.”  .. ed è l’ultima frase che pronuncio, poi tutto diventa buio.

 

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Capitolo 14
*** Riprendere a vivere ***


Non so quanto tempo sia passato, se è notte o giorno.

Ma sono a Baker Street, perché sento i rumori di John e la vocina di Rosie. La camera è quella che mi avevano assegnato quando ero arrivato lì. 

Il comodino è ingombro di medicine, c’è un bicchiere di tè, una bottiglia d’acqua e un pupazzo che sicuramente è di Rosie. La finestra è socchiusa la tenda si muove lenta, per uno spiffero di aria che filtra.  Ho un pigiama pulito che sa di biancheria fresca.

Sono stanco, ma non sento il dolore nel petto.  Mi giro avvilito e metto la testa sotto il cuscino. Sento i battiti del mio cuore rimbalzare regolari. Poi mi ricordo di aver aggredito mio padre, so di aver pianto e gridato. Provo un’immensa vergogna, sto fermo con la testa coperta.

“Ha il cuore affaticato, deve stare sereno.”  Lo diceva qualcuno, non so chi fosse. Devo aver delirato, ho la testa vuota come le zucche di Halloween.

Mi sono addormentato così, perché mi tolgono il cuscino dalla testa e mi girano piano.

“Sherrinford, per Dio vuoi soffocarti!”  Mycroft mi guarda accigliato, mi sento in colpa. Ha la faccia stanca di chi non dorme da tempo, non è più perfettamente elegante.  Devo farmi perdonare gli enormi grattacapi che gli causo. Gli rivolgo la parola e mi accorgo di essere rauco, devo aver urlato un bel po'.

“Scusami. Ho perso la testa, hai l’aria stanca, non dovresti preoccuparti per me.”

“Come non potrei figliolo, se ti sei quasi ammazzato, preso dalla paura.”  Lui si avvicina, si siede sul bordo del letto e mi prende la mano, parla con lentezza misurando le parole, esita per una manciata di secondi.

“Sei imprevedibile Sherrinford, ma per quanto ti ribellerai, sarò sempre presente. Devo recuperare anni di abbandono, anche se non ho avuto colpa.”  Si ferma, prende un respiro profondo. “Dovevano contenere Rosie che come tutti i bambini è schietta e dice la verità.”

“Perché?  Potrei morire padre!  È questa la verità, lei lo sente. Non date colpe a Rosie, sa cosa aspettarsi da me.” Mi stringo nella coperta fiorata.

 “Invece di mentire a voi stessi, ammettete che potrei non farcela!”  Sprofondo giù con la testa pesante. Mycroft mi stringe più forte la mano, le sue sbiancano, le dita si irrigidiscono.  Mi abbraccia, quasi mi solleva dal letto.

“Non ci provare Sherrinford, non provare a lasciarmi. Lotta con me figliolo, lotta anche per me.”

 Lo sento rabbrividire come se il freddo entrato dalla finestra lo avesse raggiunto, mi spavento, lo ricambio stringendolo forte per proteggerlo dal dolore che sento scorrere dentro di lui. Lo tengo  vicino, forse non avrò altri abbracci, ma questo vale come tutta la mia breve vita.

“Padre ti prego non angosciarti, farò come dici, ho bisogno di te.”  Mi sbilancio, lo bacio, gli dò un bacio leggero sulla guancia. Che sa di buono, sa di Mycroft Holmes, un uomo di potere che trema per me.

 Lui si stacca imbarazzato, stupito, non alcuna esperienza di emozioni, rimane immobile poco più di un respiro, mi arruffa i capelli, gli occhi grigi, liquidi.

“Sii forte Hyc, predi anche la mia di forza. Sei un Holmes, che diamine.”  Mi guarda rasserenato, sorride come sa fare lui stringendo appena le labbra. Poi mi aiuta ad alzarmi.

“Fatti una bella doccia. Anthea ha portato degli abiti nuovi, ha occhio per le taglie ed anche buon gusto.  Sono sistemati nell’armadio. Tra poco ceniamo tutti insieme.”   Fa per uscire poi si gira.

“Rosie è impaziente di vederti e sa tutto. Non devi mentire, ragazzo mio.”  Inclina la testa di lato ed esce, il British Government ha ripreso il controllo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** Serata in famiglia ***


 

Mi faccio coraggio mi alzo lentamente, prendo fiato apro l’armadio e vedo una fila di vestiti nuovi e tre paia di scarpe da provare.

 Ha decisamente gusto Anthea.  Mi chiedo se mio padre si sia mai accorto del suo fascino, possibile che non siano mai andati oltre?  Le storie d’amore tra segretaria e il capo, sono dei cliché vecchi come il mondo. Scorro con la mano gli abiti, scelgo senza pensarci troppo.

Appoggio tutto sul letto, mi auguro di aver abbinato con gusto, certamente non sono ai livelli di Mycroft.  

Penso al perché con mia madre le cose non abbiano funzionato, forse ora non mi troverei in questa situazione assurda.

 Entro nel bagno, mi faccio una doccia bollente. I capelli sono appiccicati, ho sudato molto e sono dimagrito.

Non ho un aspetto sano, ma spero di migliorare.

 Quando mi rado quella poca barba che mi ritrovo, vedo due occhiaie  per niente piacevoli.

Devo tagliare tutti questi ricci scuri che mi ritrovo!  Assomiglio un po' a zio Sherlock, mio padre invece è castano e tende al rossiccio. Sorrido allo specchio divertito dalla mia bizzarra famiglia! 

Indosso i capi che ho messo sul letto: la camicia bianca con delle righe delicate rosa e un paio di calzoni di fustagno blu. Abbino un maglione sportivo con i bottoni sul collo. Non ho mai avuto un guardaroba così costoso ed elegante. Anche le scarpe mi entrano, Anthea è decisamente accorta.

Alla fine sono pronto, prendo due bei respiri ed esco. 

Ed eccoli lì, tutti riuniti gli Holmes e i Watson.

“Alla buonora nipote!  Ti ci è voluto del tempo per prepararti!”  Sherlock mi fissa incredulo. “Però stai bene, sembri finalmente un Holmes!”

 Si gira verso mio padre.  “Che ne dici Mycroft? Si sta consolidando il tuo orgoglio di padre?”

Lui sospira esasperato, si avvicina prendendomi il braccio, mi sussurra. “Tutto bene Hayc? Non badare a quello che dice, ti vuole bene.”  Mi stringe più forte.    “Mi ha aiutato a ritrovarti e curarti, insieme a John, nessuno di noi ti ha mai abbandonato.”

 Abbasso la testa e annuisco, intanto Rosie si è avvicinata.

 Ha due occhioni grandi, sembra pentita, di cosa non capisco.

Spero non l’abbiano sgridata. Mi chino verso di lei e le metto la mano sui ricci biondi. “Ehi, che c’è piccola? Vuoi dirmelo?” 

Mio padre si allontana lasciandomi spazio, si siede con il fratello vicino al camino.  John dalla cucina osserva con attenzione.

 Rosie dondola il corpicino minuto. “Sei andato via per colpa mia? Papà mi ha detto che non devo parlare di “morire”, che non va bene. Ho detto una cosa che ti ha fatto stare male qui?”  Mi punta il ditino al centro del petto, ma ha gli occhi lucidi.

Faccio uno sforzo calcolato e la prendo in braccio. Vengo immediatamente sgridato.

“Non preoccupatevi, Rosie è leggera, non mi farà mai del male. Vero Rosie?”

Si appoggia sulla spalla, la coccolo un po'.  La porto nella mia stanza tra gli sguardi allibiti della famiglia.

Non intervengono, forse capiscono che voglio parlarle. 

Così la siedo sul letto e le dico cosa ho combinato, perché me ne sono andato.  Divento rosso, mi sudano le mani, ma sto bene.

Le parlo come fosse un’adulta. Rosie è sorprendente, ascolta e si stringe al mio fianco. Le dico che sono ammalato e ho paura, soprattutto adesso che ho una famiglia.

Che potrei non guarire, ma la tranquillizzo dicendole che con lei vicino non accadrà nulla di brutto.

Rimaniamo in silenzio per un lungo minuto, Rosie mi stropiccia la manica della maglia.  Io le accarezzo i capelli.

Poi si scuote.  “Papà è bravo, ti darà le medicine. Ha detto che stavi male, ma che saresti guarito. Se lo dice lui, vuol dire che è vero.”

Rosie è risoluta, come se avesse intravisto il futuro.

Mi afferra per la manica. “Non devi avere paura Hayc, perché tutti ti daremo le medicine, che ti guariranno. Anche quando non potrà papà.” 

Mi trascina fuori, mi porta in cucina. Raggiunge John ai fornelli con un piglio risoluto e lo apostrofa con la vocina ferma.

“Papà, non scordarti di dare le medicine a Sherrinford. Lui deve guarire, ma stai attento perché ha paura.”  John alza la testa e mi fissa imbarazzato, ma sorrido bonariamente, vede che stringo la manina di Rosie arrendevole.

“Sta bene, Rosie sarò gentile con Sherrinford, sempre che non voglia scappare di nuovo! Vero ragazzo?”   Rosie stringe le piccole labbra, arriccia il naso all’insù, allunga un calcio al padre sugli stinchi.  

Scoppio a ridere come non facevo da tempo.

“Papà hai detto che saresti stato gentile!”   John scuote la testa, rassegnato all’irruenza della figlia, si allontana mentre anche dalla sala sento ridacchiare gli Holmes. 

Mi sento bene, sono sereno ora che Rosie sa.  Non posso assicurarle nulla, però lotterò, perché ho bisogno della mia stramba famiglia.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 16
*** Le solite divergenze ***


La prima serata a Baker Street è piacevole.

Mycroft si è rimesso in ordine, ha degli abiti puliti ed è perfetto come sempre, probabilmente se li è fatti portare da Anthea.

 Ceniamo tutti insieme, non so se sia una consuetudine, di certo mio padre e lo zio, non sono proprio a loro agio. 

Io mi trovo seduto tra Rosie e Mycroft, John e Sherlock sono di fronte a noi.

La cena è buona e la serata trascorre tranquilla.  Capisco che a Rosie non piacciono i piselli, perché me li ritrovo tutti sul piatto. Mi guarda complice nel crimine, così le faccio l’occhiolino e li mangio tutti.

Ma John è un padre attento, se ne accorge e la sgrida, a me rivolge uno sguardo torvo.

Mycroft mi guarda severo, dò troppa corda a Rosie, non vogliono che lei ne approfitti.

Ma ci guardiamo divertiti mentre lei sorride felice, appoggiando la testolina sul mio braccio.  

John mi allunga le mie medicine, e Rosie si assicura che le prenda, ma visto che non smette di guardarmi, capisco cosa vuole.

 Le spalanco la bocca e le faccio vedere che sono sparite.  Annuisce e scende dalla sedia contenta per andare dalle sue bambole. 

Sorridiamo tutti   all’impegno che dimostra, ma sono un po' allarmato, perché temo si affezioni troppo.

 Mycroft mette fine alle mie riflessioni, fa per alzarsi, mi fa cenno di seguirlo.  John si occupa della figlia e sparecchia la tavola insieme a Sherlock.

Lo seguo fino al caminetto, ci sediamo uno di fronte all’altro.

C’è qualcosa che deve dirmi e non sembra tranquillo.  Si porta le mani unite sotto al mento, e si fa serio.

“Sherrinford, ora io devo tornare a casa, domani lavoro, tu sai che devi stare con loro.”  Si ferma studiandomi, ha gli occhi fissi su di me.  Devo dimostrarmi responsabile anche se lo stomaco mi si stringe.

“Lo so che non posso venire con te, però quando potrò rivederti? Se potessimo stare insieme di più non mi dispiacerebbe.”

Sono convinto che lui non voglia alla fine, prendersi un peso come il mio, così non riesco a mascherare la delusione.

“Avanti, non fare storie, lo sai che ho un lavoro…difficile. E per ora non puoi rimanere solo.”  Sbuffa un po' risentito, forse logorato da queste continue discussioni.

 Io abbasso la testa, e voglio capire.

“Quanto difficile, padre?  Se devi avere costantemente la scorta!”  Rialzo la testa con lo sguardo duro.

 Lui ha le labbra contratte, sottili come un filo. “Un lavoro che ha richiesto sacrificio, Sherrinford, e uno di questi è stato non avere legami. Ho scelto di essere un uomo solo, ma ciò non vuol dire che non avrò cura di te.” 

Un brivido mi percorre la schiena. Lo vedo distogliere lo sguardo.

“Sei in pericolo, papà?  Dimmelo, non credo ci sia molto da negare.” 

Lo so, lo sento che non è al sicuro, vorrei sparire piuttosto che sentirmelo dire, ma lui annuisce con la testa china. “Posso esserlo, a volte, ma ho preso tutte le precauzioni possibili. E devo tener conto anche della tua sicurezza.”

Mi alzo di scatto rabbioso, gli giro le spalle.

 Ma non ce l’ho con lui, ma con me stesso per la sfortuna che mi porto dietro.

 Ho trovato finalmente mio padre, ma sono ammalato e lui rischia la sua vita per il Governo.

 Proprio il massimo della sfortuna.

Mycroft mi raggiunge, mi prende per le spalle, mi fa girare verso di lui, percepisco che dalla cucina ci osservano silenziosi. Rosie fortunatamente è nella sua cameretta.

“Te lo ripeto, Sherrinford non se più solo. Hai una famiglia adesso. Presto conoscerai anche i nonni, non sarai mai più abbandonato a te stesso.”

 Lo guardo sarcastico, pensavo che fosse “lo smart one” e invece non capisce nulla.

“Padre, non voglio la famiglia. Forse non comprendi che io, voglio te!  Tu sei mio padre non loro.”

 Con la mano indico il resto della strana parentela, che ora non ci bada.  Lui alza le sopracciglia e mi fissa sconcertato, poi sbiascica due parole.

“Non posso fare altro per adesso, figlio, la mia vita era unicamente il mio lavoro. Devi accontentarti di questo per ora.” 

Sono esasperato, alzo la voce.

“Già papà!  Come vederti uscire e non sapere se tornerai? Grande!  Era meglio che fossi rimasto dov’ero.”

 Mycroft si fa serio, credo di averlo ferito.

 Si gira prende il cappotto e il suo amato ombrello.

“Non ho voglia di discutere, sei fonte solo di continue emicranie, Sherrinford!  Fa il tuo dovere e io farò il mio.”  Mi pianta lì ed esce salutando appena.

Io piombo nel caos, ho rovinato tutto, mi porto le mani nei capelli disperato di averlo lasciato uscire così, dopo tutto quello che ha fatto.

Sento la mano dello zio sulla spalla, la stringe forte.

“Non avere paura, sa badare a sé stesso, e adesso deve pensare anche ai rischi che corri per essere suo figlio.  Il lavoro che fa è complicato, ma lo sa fare bene. Di solito è lui che mi toglie dai guai.”

 Mi giro e lo abbraccio, ma lui da buon Holmes non sa come reagire, mi batte la mano sulla spalla, come segno di massimo affetto.

 Poi mi sussurra.  “Ti vuole bene Hayc, non sai quanto, dagli  tempo.” 

Mi stacco imbarazzato.

“Pensa cosa può aver provato quando ha saputo di avere un figlio della tua età. La sua vita deve essere riprogrammata, per lui così rigido non è facile.”

 Lo zio mi solleva il mento con la mano, mi guarda dritto dentro gli occhi. “Ora datti da fare, guarisci in fretta e diventa il figlio premuroso che sei, nonché suo braccio destro.”  Ha ragione, ma sono esausto nel doverlo rincorrere. 

“Scusami zio, sono un imbecille, ma a volte provo un forte rancore, perché non riesco a comprenderlo, perdo il controllo e finisco per allontanarlo.” 

Sherlock sorride sornione, si è fatto tardi, mi spinge  in camera.  “Così finite per soffrire tutti e due, non ti sembra una cosa stupida?”

 

 

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Capitolo 17
*** Lady Alicia Smallwood ***


 

La mattina seguente mi risveglio con Rosie che si butta sul mio letto, si nasconde sotto le coperte.

John la chiama e la cerca rassegnato, sono già in ritardo per la scuola. Lei ride perché lo vuole fare girare a vuoto per tutta la casa.  Si mette il ditino davanti alle labbra e mi fa segno di stare zitto.

Le reggo il gioco, ma John ha già capito tutto, ci sgrida entrambi buttando le coperte all’aria.

“Fila piccola peste.” Grida mezzo divertito brontolando bonariamente. Rosie scappa via felice e John le corre dietro arrancando.   Mi vesto e mi preparo per fare colazione insieme, Sherlock è uscito presto, la signora Hudson sta facendo le pulizie di casa, al piano di sotto. 

Ci sediamo a tavola ed è una bella sensazione. C’è un buon profumo di caffè e biscotti, anche se la cucina è sempre in totale disordine, niente a che vedere con quella di Mycroft a Pall Mall. Ma mi piace lo stesso.   John ci osserva indulgente, mentre versa il latte nelle tazze.

“Come va Sherrinford, hai dormito?  Sai che hai le tue pillole da prendere, altrimenti mi prendo un altro calcio. Vero Rosie?”  Lei annuisce con la bocca piena, i ricci biondi sulla fronte.   

John, mi allunga il latte e le medicine.

La piccola mi guarda fissa non vuole essere ingannata, le inghiotto rapido e lei approva. Non posso fare a meno di darle un bacio sulla fronte. È l’unica piena di affetto in quella casa. Tutti si amano, ma nel loro modo, privo di slanci.  Mi viene un’idea, mentre sorseggio il mio latte.

“Potrei accompagnarla io alla scuola, che ne dici? Così puoi andare al lavoro prima.” Cerco di rendermi utile, Watson ci pensa un po’, poi approva.

“Bada di non allontanarti troppo, e torna a casa subito.”  Lo capisco che non devo tradire la sua fiducia e annuisco.  Rosie non sta più nella pelle, si infila il cappottino rosa e prende la sua cartella colorata. Io indosso la giacca che mi ha acquistato Anthea, funzionale e con quel tocco di eleganza che sa metterci lei. Scendiamo le scale di casa, mano nella mano, la tengo ben stretta la piccola peste, assicurandomi che non scappi dappertutto.

 “Ti sta bene la giacca nuova Hayc, sembri proprio lo zio Myc.” Rosie mi studia attenta. “Ti faccio conoscere le mie amiche, non lo sanno che sei mio cugino.” È in apprensione. “Sei contento se dico che sei mio cugino, vero?” 

Gli sistemo il cappellino con il fiocco di lato. “Certo cugina Rosamund Watson. Al suo servizio.” 

Le faccio un inchino e lei cinguetta come un passerotto. La scuola non è lontana e siamo presto sul portone di ingresso. 

 La accompagno dentro, dove mi presenta a tutti quelli che vede.  Alla fine esco stordito, rosso in faccia, ma decisamente felice.

 Mi abbottono la mia giacca nuova, percorro a piedi la strada che porta a casa. Non voglio attardarmi. Improvvisamente mi passa affianco un’auto come quella che usa Mycroft, drizzo le spalle allarmato. Rallento un pò il passo, perché si è fermata poco più avanti.   Da dietro scende una signora elegante, non più giovane, che si avvia verso di me.

Mi blocco titubante.  “Buongiorno, tu devi essere Sherrinford Holmes. Non credo di sbagliarmi, assomigli tutto a Mycroft.” Sorride educatamente.

 Io indietreggio, so che lavoro fa mio padre e non voglio combinare guai, ma sono indeciso su come comportarmi. Rimango silenzioso, accenno solo un movimento con il capo, mi metto le mani in tasca, aspetto.

“Vedo che hai imparato in fretta Sherrinford, ma di me non devi avere paura. Sono Alicia Smallwood e lavoro con tuo padre.” Rimango in un ostinato mutismo, non mi muovo e la guardo. Non è più giovane, ma è una donna abituata al potere è elegante, ricercata nel modo di porsi. Non ha l’aria minacciosa, sembra più che altro stupita, curiosa.

“Sei così diffidente, giovane Holmes!  Ma ti ripeto, non sono una nemica. Forse avrei dovuto aspettare il permesso di tuo padre, ma la curiosità è tanta!”  Emette un risolino forbito. “Lavoro con lui da sempre, e aver acquisito la tua paternità mi risulta singolare.”   Mantiene le distanze, non vuole intimorirmi, ma non faccio in tempo a risponderle, perché la macchina di mio padre è già arrivata, stridendo.

 Si inchioda sulla strada e non esce lui, ma Anthea, che viene con passo elegante in mio soccorso.

 “Lady Smallwood.”  La saluta inchinando la testa di lato, con freddezza. 

“Vedo che ha incontrato Sherrinford, Alicia, mi perdoni, ma abbiamo un appuntamento con Mycroft.”

Si volta verso di me con un sorriso falso. “Spero saremo puntuali, lo sai che tuo padre è rigoroso.” Sono sconcertato, poi le reggo il gioco, annuisco senza voglia. 

“Lady Smallwood lavora con tuo padre, ma Mycroft ci tiene a presentarti ufficialmente entro la giornata. Ora dobbiamo andare.”  Anthea mi trascina via senza che Alicia abbia sentito la mia voce. Mi volto e inclino il capo in un saluto imbarazzato.  Mi spinge letteralmente nell’auto, borbotto il buongiorno ad Albert che è alla guida.

“Ma cos’è?  Mi rapisci adesso Anthea?” Le sussurro piano, mentre Alicia ci guarda sparire, dietro le portiere nere e lucide.  “Ma insomma, cosa succede? Devo tornare a casa, si preoccuperanno.”  Sono infastidito. Anthea non smette di scrivere al cellulare. Io sbuffo, incrocio le braccia e mi appoggio sul sedile inquieto.

 Si decide a parlarmi dopo che ci siamo avviati.

 “Sherrinford, tuo padre non voleva ancora presentarti ufficialmente, perché non sa quanto questo influisca nel suo lavoro.” La fisso sfacciato, con un sorrisetto ironico.

 “Cos’è si vergogna?  Non sono all’altezza dei suoi collaboratori?  Cristo, che razza di modo è questo?”  La incalzo irritato.   “E quella chi era, che praticamente mi hai portato via di peso!”  Ci penso un po', poi connetto.  “Scusa, ma come sapevi che ero lì?”

 Lei stringe le labbra, appoggia il suo amato cellulare, mi fissa dolcemente.

“Sherrinford, io eseguo gli ordini di Mycroft, il mio compito è di proteggerti, lui non vuole che ti importunino visto che non stai ancora bene.” Il suo sorriso è sincero, mi sciolgo, è bellissima ed essere aiutato da lei mi fa fremere.

“Ci sono telecamere ovunque a Londra, non stupirti più di tanto.” Riprende il cellulare. “Ho avvisato tutti che sei con me, ora ti porto da tuo padre.”

 Alzo il bavero e mi volto a guardare la strada, non mi piace essere preso come un pacco e portato dove vuole lui.  Percepisce il mio disagio, cerca di quietarmi.

 “Comunque Alicia Smallwood collabora con tuo padre, Mycroft non vuole interferenze di questo tipo, la notizia della tua esistenza deve essere trapelata. Sii paziente e ti dirà quello che desideri.”  Inspiro aria e mi stringo nelle spalle. Anthea mi sfiora il polso.  “Sherrinford, tuo padre voleva tenerti fuori da inutili stress, cerca di capire che il suo lavoro non è semplice, sta facendo di tutto per tutelarti.”

 Non posso tenerle il broncio, così decido di cambiare argomento.

“Grazie per i vestiti, hai gusto Anthea.”  Sento salirmi il calore in volto, ho una curiosità e le chiedo di quella dannata sera in cui sono fuggito.

“Cosa è successo nel mio appartamento, quando mi avete ritrovato? Chi mi ha aiutato?” 

Anthea è indecisa, poi mi dice la verità, così vengo a sapere che la sera stessa lei e Mycroft sono saliti di sopra e mi hanno trovato in pessime condizioni, febbricitante.

Ero incosciente, hanno chiamato John, che mi ha curato. Si sono alternati ad assistermi, c’era anche Sherlock.

Mycroft ha fatto accendere il riscaldamento al proprietario ed è stato sempre presente.

 Anthea mi sorride, allunga una carezza che mi dà i brividi.

“Ti siamo stati tutti vicini, sai che ti vogliamo bene, testone.”  Annuisco, mille pensieri mi rotolano addosso.

“Chi mi ha spogliato e messo sotto le coperte?”  Vedo Anthea per la prima volta sorpresa dalla domanda.  

“I primi ad arrivare siamo stati io e tuo padre, abbiamo provveduto a sistemarti.” Probabilmente cambio colore in volto, imbarazzato, lei se ne accorge. “Tranquillo ho due fratelli maschi, poi ad infilarti il pigiama ci ha pensato Mycroft.” 

Ride radiosa, mi dà un colpetto affettuoso sulla gamba. “Devi mangiare di più Hayc.”   Ho capito, mi ha trovato troppo magro, non sono certo un tipo muscoloso e prestante.  Mi zittisco e torno a guardare la strada, sconsolato.

 

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Capitolo 18
*** Essere figlio di Mycroft Holmes ***


 

 

Percorriamo buona parte della città, finalmente arriviamo nel grande palazzo dove si trova la mente occulta del Governo.

 L’auto imbocca una via laterale e attraversiamo un portone di metallo scuro, che si apre al nostro passaggio.  Ci troviamo in un cortile interno, curato e con delle siepi basse, un colonnato di pietra bianca lo delimita.  

Albert,  si ferma, Antea allontana il cellulare, mi sorride e mi spinge giù.

“Forza Sherrinford, tuo padre ci aspetta.”

Mi guardo intorno affascinato, finalmente posso scoprire dove lavora Holmes. Mi aggiusto la giacca, sistemo il bavero, non ci siamo lasciati bene l’ultima volta.

 Percorriamo un breve atrio, ci troviamo a scendere con un ascensore, parecchi metri sotto terra.

 Mi prende un senso di oppressione, ma Antea è rapida mi afferra per un braccio, lo stringe forte.

“Fa a tutti questo effetto la prima volta che si scende.”  Mi rassicura, riprende a digitare sul cellulare.

 Usciamo e percorriamo un corridoio illuminato, ma comunque angoscioso. Come faccia Mycroft a rimanere lì sotto tutta la giornata, mi sembra una tortura spropositata.

 Oltrepassiamo una porta blindata, che sbocca in un lungo corridoio.  Incrociamo persone vestite elegantemente come mio padre, altre con dei vestiti scuri e auricolari gracchianti. Tutti salutano Anthea, io muovo appena la testa in un goffo accenno di buongiorno.  Osservo tutto con attenzione, non mi sembra un posto di rappresentanza, ma più l’ Mi6. 

Anthea mi guarda bonariamente, vede che ho capito dove mi trovo. Alla fine una porta massiccia, di legno intarsiato, chiude il percorso. La mia affascinante guida scorre il pass magnetico ed entriamo.

Chiaramente non ci sono finestre, solo pochi mobili essenziali.  Potrei riconoscere ovunque la mania dell’ordine di Mycroft, una grande organizzata scrivania alla fine della stanza, dove c’è un quadro della regina in età giovanile.  Lui è seduto dietro, che dondola sulla poltrona, rigira una penna costosa fra le mani.

“Ben arrivato Sherrinford.”  Non si alza nemmeno, la cosa mi urta, forse è ancora arrabbiato per la sera prima.  “Purtroppo cause di forza maggiore mi hanno costretto a portarti qui.”  

Accenno un sì, muovendo la testa. Mi pianto con le mani nelle tasche in centro allo studio, lo trovo lugubre, non è molto grande, ma è decisamente molto triste.

Se ne accorge, per lui sono un libro aperto. “Lo so non piace a nessuno questo ufficio, ma è un posto sicuro, come pochi altri.”

 “Ti piace rimanere chiuso sotto terra?”  Lo dico maleducato, mentre mi disegno un sorriso ironico in faccia, lui continua a rigirarsi la penna fra le dita, la schiena appoggiata alla poltrona. “Perché non stare in un ufficio più comodo, dove ci sia la luce del giorno?”

 “È per la mia sicurezza, questo è un posto molto controllato. Comunque non ne parliamo adesso.”

Cambia argomento, soffia, appoggia la penna e si alza.  Mi raggiunge, elegante come sempre, la cravatta perfettamente verticale. 

“Volevo tenerti fuori da tutto questo, farti stare tranquillo per un pò di tempo.”  È molto vicino, mi squadra mentre un’ombra scura gli passa in fronte. 

“Invece hanno scoperto di te, si sono allarmati. Temono che la tua presenza sia una distrazione per il mio lavoro.” Prende tempo, respira profondamente. “Sospettano che tu possa diventare un “pressure point” da cui non riuscirei a svincolarmi.” 

Alzo la mano scuotendola. “Una debolezza?  Quindi potrei essere una tua debolezza? Gesù è questo che pensano di me?” 

Non raccoglie la critica, socchiude di più gli occhi.

 “La signora che hai incontrato stamattina, Alicia ha una curiosità spietata, quindi ho deciso prima di altri incontri a sorpresa, di rendere ufficiale la tua presenza.”

Abbassa il tono, si scosta da me. Temo una sorpresa non gradita.

“Voglio presentarti, se te la senti di accompagnarmi, visto che sanno poco di te. Ma soprattutto eviterei di far conoscere che sei cagionevole di salute.”  Fa una breve smorfia, mi stringo nelle spalle, sembra che si vergogni di avere un figlio come me, malato e drogato. 

Lo guardo sconcertato, solo poche ore prima lo avevo sentito così vicino.  Ma con lui sono solo alti e bassi, ora freddo, ora calore. 

“Quindi devo fare il figlio perfetto, per non essere una distrazione e sottrarti al Government. Gesù, che bella prospettiva essere considerato una distrazione!”  Mi sfilo di fianco, faccio finta di essere interessato a quello strano posto. Lui mi segue con lo sguardo.  “Sto facendo il possibile per proteggerti, ma credi sia facile gestire il posto che ricopro senza purtroppo coinvolgerti?”

  Mi giro gli lancio un’occhiata di sbieco, capisco fin troppo bene fino a dove può essersi spinto in quel maledetto lavoro.

“Hai un sacco di nemici quindi?  Visto che anch’io dovrò convivere con la scorta!  Per Dio!  Ma a chi hai pestato i piedi con le tue lucide scarpe?”  Si irrigidisce, sembra diventare più alto.

“È il mio lavoro, non credere di metterci becco, insolente ragazzino.” 

Alzo le spalle, si sente offeso, mi avvicino alla scrivania per prendere tempo e respirare.

 Osservo il laptop che ha lasciato acceso e porta sempre con sé. Quasi ci metto mano, lui che mi ha seguito da dietro lo spegne subito, sgraziato.

 Vedo brevemente Anthea, che è rimasta appartata, scuotere la testa disapprovando e questo mi fa perdere la residua pazienza.

“Padre non ti fidi di me?”  Lui stringe le labbra, aggrotta la fronte. 

“Sherrinford non toccare questo laptop, non fare il ragazzino maleducato. Sei irritante oggi.”

Mi fissa infastidito, non sembra più l’uomo a cui ieri ho dato un bacio. Mi sento vuoto, intuisce qualcosa e modula la voce con calma.

“Racchiude cose private che è meglio che tu non conosca.”  Infila il laptop dentro la valigetta.  Non dico una parola, ma sbrocco, sono affilato come un coltello.

“Bene allora, se dobbiamo fare questa pagliacciata padre, facciamola.  Presentami come fossi un animale da circo, ubbidiente e ammaestrato.”  Stringe la mascella per contenersi, i suoi occhi diventano fango scuro. Torna dietro alla scrivania e sistema cose già in ordine, gli esce la voce dura.  “Certo se non fossi sicuro che tu sei mio figlio, penserei che hai il DNA di Sherlock!   Siete polemici entrambi, sapendo anche di ferire chi avete di fronte.”

Rido ironico, visto che mi tratta come piace a lui.

“Da che pulpito mister Mycroft… viene la predica!”    Prendo a torturare i bottoni della giacca, ci stiamo allontanando di nuovo, mi accorgo che basta così poco per perdere il contatto con lui.

Anthea mette fine al battibecco e ci sollecita ad andare.   

 Li seguo, il British Government prende la porta per primo, Anthea dietro di me mi dà un pizzico sul braccio, mi sussurra all’orecchio. “Hayc, ma cosa combini?  Ti vuole bene, sii tollerante.” 

Non approvo le sue interferenze e mi giro scocciato. Lei non raccoglie e mi spinge in avanti.

Non mi piace quando mi tratta come un ragazzino immaturo.    

Percorriamo il corridoio ed entriamo nell’ufficio spazioso ed elegante di Alicia Smallwood, la riconosco nella signora che quella mattina si era fermata con l’auto.  

Cerco di essere quel bravo ed educato figliolo che vuole mio padre.

 Mi presenta con fare affettato, io rispondo e mi scuso per la situazione   imbarazzante in cui ci siamo trovati.   Le stringo la mano, calorosamente, lei è cordiale, si scusa per avermi fermato in quel modo.  “Sherrinford, vedo che ti stai ancora ambientando, avere un padre come Mycroft non è facile da gestire.”

 Lo afferma leggera, rivolgendogli uno sguardo vacuo, lui non fiata ma sento che vorrebbe incenerirla.

“Credo di si, ancora non so bene qual è il vero lavoro di mio padre. E  quale importante posto ricopra.”  Faccio un bel sorriso falso guardando il British Government che mi osserva di sottecchi torvo, ma io non cambio, ho la faccia di bronzo, faccio il galante.  “Spero mi perdonerà lady Smallwood sono stato un vero incivile.”  Le ammollo un sorriso pieno, a 32 denti.  Anthea sorride con la testa china sul cellulare, soffocando una risata.  Mentre mio padre imbarazzato, ondeggia interessandosi alle sue scarpe firmate.  Se vuole la guerra l’avrà, ancora non sa chi sono, in realtà non sa nulla di me. La sua collega rimane impressionata, mi prende sottobraccio e mi porta a conoscere gli altri collaboratori.  Lo intravedo roteare gli occhi,  sbuffare,  gli rimando un sorriso ironico, mentre stringo affettuosamente il braccio ad Alicia.      

 

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Capitolo 19
*** Serpenti e pubbliche relazioni ***


  

 

Passo la mattina da un ufficio all’altro regalando convenevoli di ogni sorta, ammicco, sorrido, declino risposte imbarazzanti.

Sono curiosi e mi chiedono del cognome che ho avuto per anni, Mycroft ammette che è quello di mia madre.  Sinclair.

 Sono sollecito a rispondere, perfetto fenomeno da baraccone.

“Haycok mi è stato assegnato all’istituto per non perdere tempo, vista la lunghezza del mio altisonante nome.”  Mando un’occhiata nera verso di lui, che ci mette una pezza.

“Sherrinford è il nome del primo avo Holmes.” Distende la fronte, sembra orgoglioso, mentre io mi sento fuori luogo e vorrei ucciderlo. Il primo Holmes assassinato dal figlio.

“Perché io non lo sapevo, caro padre? Ti costava troppo dirmelo?” Lo sussurro al suo orecchio, quando siamo lontani da occhi indiscreti, trattenendo la collera mentre mi spinge verso altri colleghi.

“Ti spiegherò a tempo debito. Comunque sappi che non è dovuto al caso.”  Non oso guardarlo, ma lo sento sospirare pesantemente, mi placo comprendendo il suo dolore.  

 Mycroft è attento a non darmi troppa corda. Evitiamo accuratamente spiegazioni sulla mia salute malferma.

 Se sgarro interviene, mi sostiene sollecito, dove manco di parola, lui completa il discorso.

Anthea, come sempre rimane appartata, il suo prezioso cellullare in mano, costantemente in allarme.

 Cerco di dimostrare buona   parte della mia educazione.

 Mi rendo conto sempre di più, che il lavoro di Mycroft è di intelligence, con molte responsabilità e tutti i pericoli annessi.

 Ho il colletto della camicia bagnato, mentre dribblo domande di qualsiasi tipo. Lui, L’uomo di ghiaccio è perfettamente a suo agio.

Temo di non assomigliargli per niente.

 I suoi collaboratori sono gentili, ma dentro di me avverto una sottile inquietudine. Giurerei che se mister Mycroft fosse in difficoltà, potrebbe contare solo sull’aiuto della sua famiglia. 

Mi presenta ad alcune persone che mi mettono i brividi, gente con cui non vorrei avere niente a che fare.

Uno in particolare si dimostra troppo attento, calcolatore.

 È elegante in un completo tre pezzi di marca, ma non ha la classe di Mycroft. È in sovrappeso e probabilmente è a dieta, la giacca non aderisce perfettamente al suo corpo che cambia.

Un viscido serpente, quando gli stringo la mano.

“Questo è sir Henry Auberton, degli affari interni, collaboratore di Alicia.”  Smette di respirare quando si avvicina, è contrariato, lo deduco rapido, mentre fa fatica a mascherare una sottile acredine.

“Piacere giovane Holmes, è una sorpresa notevole, sapere che Mycroft ha un erede a tutti gli effetti.”

Si stampa sul volto il sorriso più falso che abbia mai visto, un brivido mi scende lungo la schiena.

Noto mio padre cambiare in volto, ma solo per pochi secondi, la mascella si irrigidisce, mi afferra per il braccio e mi trascina via con una scusa.

 Lo lascio fare, mentre sento le sue dita affondare duramente.

“Un amico sincero papà, da quanto vedo!”

“Non preoccuparti, stanne fuori, sii solo gentile.”  Camminiamo affiancati senza creare attenzione, lo spio chinando la testa.

“Hai visto come ha cambiato espressione? Mycroft, quello è pericoloso, non come gli altri qui dentro, che ti temono, ma non ti affrontano.”

“Cosa ne sai figlio? L’hai visto un paio di minuti.”

“Ed è quanto mi basta. Vedo le cose come te e come Sherlock. Sono un Holmes, o no?”

“Presuntuoso come lo zio, certo.”  Sorride falsamente a tutti i presenti, io faccio lo stesso.

Anthea appoggiata alla parete, nel fondo della stanza, mi getta un’occhiata sospettosa, teme che infastidisca il suo amato capo.

“Stanne fuori, ragazzino, so chi mi gira intorno.” Me lo sibila sottovoce, sento il collo della camicia sempre più bagnato e stretto.

Passo un dito fra la pelle sudata e la stoffa cercando di riprendere fiato.  Un gesto che non gli sfugge.

“Tranquillo tra poco è finita, intrigante, giovane Holmes.”  Lo afferma acido, mentre assume la sua parte più antipatica.  

La parola amicizia là dentro non è contemplata, non mi capacito di come Mycroft possa sacrificare la sua vita per tutelare il governo.

 Stringo mani, ma vorrei lavare via la sensazione di disagio che provo.   Meglio i bulli ignoranti dell’istituto, che questa vita di apparenza e vestiti costosi.

Finalmente la recita finisce e torniamo nel suo ufficio.

 Non riesco a   mascherare   la stanchezza che comincia a salirmi. Per fortuna che dovevo fare una vita tranquilla, come aveva suggerito il dottor Greg.  

Percorriamo nuovamente il corridoio con lui in testa e io dietro.  Anthea al mio fianco, appoggia la mano sulla mia schiena e la accarezza. Questo gesto gentile, mi scombussola, non le è permesso essere affettuosa, non con il British Government vicino.

Appena dentro, al riparo da occhi indiscreti, mi lascio cadere sulla poltrona.

Mycroft manda Anthea a prendere del thè, ma evita gesti premurosi, non si avvicina nemmeno.

 Appoggio la testa sullo   schienale imbottito e cerco di rilassarmi quel poco che basta.

Devo riordinare la mia mente, capire come muovermi nel mondo contorto di Mycroft.

Allungo le gambe per sciogliere la tensione.

“Mi dispiace, Sherrinford, ma è stato necessario lo stress a cui ti sei sottoposto. Ora ti lasceranno stare.”  Si infila dietro la scrivania.

Sollevo il capo. “Ne sei sicuro, papà? Certe facce dicevano il contrario.”

Sono stanco della sua sicurezza fastidiosa.  “Hai sempre una risposta, sempre un dovere che devi compiere. Sei votato unicamente al tuo lavoro.”

 Mi lascio andare giù, smetto di parlare.  Lo sento trafficare sul tavolo, forse apre il laptop, rovescia qualcosa tradendo il malumore.

Lo investo di parole senza alzare la testa, fissando il soffitto.

“Gran bella gente, papà, tutti devoti amici! Ma non rimarrei nemmeno un minuto in una stanza da solo con loro.”

Mugugna, capisce, lo sa perfettamente che è vero.

“È il mio lavoro.” Rimarca guardingo.

 Ho la bocca secca, come lo sguardo che gli butto.

“Sei veramente convinto di quello che dici?”

“Lo faccio da anni, so il prezzo che costa!”  La sua voce è aspra, per nulla intimorita.

“Se eri votato alla solitudine, allora sì!”  Dio, mi sembra improvvisamente piccolo e stupido.

“Non puoi capire, arrogante come ti dimostri!”  È seduto rigidamente sulla poltrona di pelle liscia.

Non mi sforzo a cercare le parole, mi sento sconfitto.

“È un bene che tu non abbia mai cercato una famiglia, sono il tuo unico errore, un caso pietoso a cui non eri preparato.”   Lo sfido rabbioso, convinto che per lui sono una variante impazzita.

Inghiotte un nodo in gola inesistente, ha un attimo di imbarazzo, non è da lui mostrare un nervo scoperto.

“Forse non sono come pensi, come tutti pensano che io sia.”

È titubante, inclina il capo di lato, lo sguardo dilatato, sembra   impercettibilmente tremare.

 

“Non sono sempre stato così!”

 

Ed è uno squarcio, un’amissione, che mi blocca e mi rende ridicolo.

La rabbia che provo è reale, anni di dolore protetti da muri invalicabili.  Non ho chiesto lui come padre, ma c’è, ed è lì, con tutti i difetti, le manie, il controllo.

Sappiamo perfettamente che ci stiamo studiando, che ci avviciniamo e allontaniamo, che è difficile creare un rapporto di fiducia, non in questo modo di vivere.

Le mie paranoie e le sue freddezze, il fuoco e il gelo.

Ci fissiamo a vicenda, lui distoglie lo sguardo, tronca ogni apertura.  Prende la penna e si mette a scrivere, io mi abbandono spossato.  

Non fa quel gesto che vorrei, non quella gentilezza di un padre, che sarebbe la benvenuta dopo una giornata stressante a cui mi ha obbligato.

Così infierisco ancora, lo voglio umiliare, in un contorto desiderio di vederlo reagire, vedere fino a dove posso arrivare.   

“Quanto è prezioso quel portatile da cui non ti stacchi mai?  Lo sai che è un pericolo costante che ti porti appresso, vero padre? La trovo una mossa estremamente stupida.”

 Mi risponde piccato, mentre continua a scrivere. “Ho le mie precauzioni, mi credi un idiota?” 

 Reagisco malamente. “Si padre, a volte si, come racchiudere tutti i tuoi stramaledetti segreti là dentro.”  Punto la mano verso di lui e il suo portatile. 

“Sei strafottente Sherrinford, ma reciti bene la tua parte di fronte alla gente, sei stato un ottimo attore poco fa.”  Mi ringhia contro, vede un lato di me che non conosce.

 Mi raddrizzo sulla poltrona, lo osservo ironico.

“Non sai nulla di me! Cosa pretendi, se fossi in condizioni migliori me ne andrei, ma ho bisogno della famiglia.”  Glielo butto in faccia.  “Non certo di te! Che non ne volevi alcuna.”  

Chiude   con poca grazia il laptop.  Si appoggia alla poltrona, gli occhi sono stretti in due fessure scure, ansima un paio di volte, cerca di controllarsi.

Sono stato troppo duro, mi mordo le labbra, mentre abbasso la testa. 

Perché mi comporto così?

 Non faccio altro che attaccarlo, con   tutto il livore accumulato nella vita di abbandono che ho passato. Gli sputo addosso tutte le colpe.

Entra Anthea, ci trova come due eserciti schierati, pronti a colpirci.   

Appoggia il vassoio, mi lancia uno sguardo frustrato, ci invita a bere il tè.

Avviamo una specie di tregua, sorseggiamo silenziosi la bevanda calda.

Mycroft è al limite, fino a dove l’ho spinto io, non vuole più parlare,

 Io desidero solo tornare a Baker Street, nella mia stanza.

 Fa un cenno con il capo verso di lei.   Finalmente lascio quel posto, ma non ci salutiamo nemmeno, ambedue sconfitti.  Esco, desidero solo   respirare dell’aria fresca, lontano da quel posto.

 

 

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Capitolo 20
*** Prove di rapimento ***


. 

 

Il viaggio di ritorno è silenzioso. Mi stringo nella giacca, appoggiato allo schienale, Albert guida attento ed è l’unico che non mi è ostile. 

Anthea, accovacciata di fianco, sembra seccata e non mi rivolge la parola.  So di aver sbagliato, ma vorrei capire perché non mi approva. Tento un approccio gentile, mi pizzico il labbro con le mani e tento di parlarle.

“Cosa c’è?  Cosa ho sbagliato, che anche tu non mi parli?”

Non ha nemmeno preso in considerazione il suo amato cellulare, si scosta e mi trafigge con lo sguardo, la sua voce non è piacevole, ma bassa e secca.

“Ti comporti in maniera antipatica con tuo padre, gli chiedi il suo affetto, ma quando ti fa capire che la sua vita è piena di pericoli, ti rifiuti di comprenderlo, lo ostacoli con rabbia.”

Si acciglia, ma è più morbida. “Vedi solo quello che hai sofferto tu, non vedi la sua di sofferenza.”

Cerco di trovare le parole, ma so che ha ragione, le mie mani tormentano la cerniera della giacca, che mi ha acquistato lei.  

“Ma perché non dire che sono ammalato?”  Mi freno dall’essere arrogante.  “È questo che mi disturba, Anthea, mi deve accettare per quello che sono.” 

Si fa più vicina, mi ferma le mani.  “Perché lo rende debole agli occhi della dirigenza, non possono permettersi che Mycroft sia una persona qualunque, con un figlio che lo sottrae al suo lavoro. Che lo rende fragile proprio perché stai male.” Ora la fisso, e lei mi ricambia.

“Non è un semplice funzionario, Hayc, non puoi pretendere che sia sempre accanto a te, anche lui lo vorrebbe, ma devi pazientare, non devi dubitare della sua fedeltà e del suo amore per te.”

 Abbasso la testa, ha ragione, non voglio che veda che ho gli occhi lucidi. Anthea però ha capito, mi solleva il mento e mi sorride. “Comunque sei stato grande oggi, una recita da oscar.”

 Ride, i denti candidi, le labbra rosee. Finisco per ridere anch’io, mentre la osservo e mi sciolgo.  Se solo avessi qualche anno in più!

 Prendo coraggio, lei mi lascia le mani, ma le riprendo rapido. Ha un lieve moto di imbarazzo.

“Sherrinford…”  Mi redarguisce, la sento tremare un po'.

“Se avessi avuto la tua età, se fossi più stato più maturo, Anthea, mi avresti preso in considerazione? Cioè voglio dire….” 

Lei ha capito al volo,si scioglie dalle mie mani.

“Tu, giovane Holmes, non mi avresti nemmeno notata. Ora ne sei convinto, perché sei confuso e inesperto. E perché sono la segretaria di tuo padre.” 

Mi irrigidisco, le spalle tese, arrossisco e mi appoggio sul sedile, fissando al di là del finestrino.

Alla fine non si è sbilanciata, continuo il discorso senza girarmi.

“Resterai mia amica, se avrò bisogno di te?”  Non risponde subito, quasi temo che non risponda affatto. 

“Si, Sherrinford, sarò tua amica. Anche oltre le rimostranze di tuo padre.”  Respiro meglio e appoggio la fronte al vetro, meglio così, che non averla per niente.

Sento ronzare il suo cellulare, risponde preoccupata, è Mycroft, da quello che intuisco.  Cosa altro vorrà, adesso? 

Ma qualcosa va storto perché sento il suo respiro aumentare il ritmo.

 Chiude velocemente la chiamata e quasi mi urla. “Svelto. Sherrinford, apri lo sportello sullo schienale davanti a te, c’è un giubbotto antiproiettile. Indossalo. Veloce.”

 Mi giro a guardarla, perplesso, ma è risoluta, percepisco il pericolo, glielo leggo in faccia.

“Codice 77.”  Lo urla ad Albert, sento l’auto aumentare l’andatura, apro il vano davanti a me, indosso il giubbotto come fossi un contorsionista.

“Cosa sta succedendo?” Balbetto afono.   Non risponde,   mi sollecita a gesti a rimettermi in ordine, poi mi spinge giù sotto il sedile.

 “Rimani lì, fino a quando non te lo dico.”  La guardo disperato.

  “Anthea, ma cosa succede?”   Torna a fissarmi autorevole.  “Sei il “pressure point” di Mycroft, lo sanno anche troppo bene, solo che è accaduto tutto troppo in fretta.  È bastato rendere ufficiale la tua esistenza, stamane.”

 Lei cerca di rassicurarmi. “Qualcuno tenta di rapirti e non credo di doverti spiegare perché.”

 Mi contorco nella disperazione di aver trattato male mio padre, di non averlo nemmeno salutato.

Annuisco e faccio come mi dice. La sento parlare al cellulare con lui, poi si rivolge a me dura, scandendo bene le parole.

“Sta giù e non muoverti. Dobbiamo resistere il più allungo possibile. Tuo padre arriverà presto, ti manda a dire di stare sereno.”

 Vedo Anthea prendere un’arma da sotto il sedile, la scarrella e si accosta al finestrino. Albert aumenta l’andatura e alza i vetri anti proiettile, il divisorio fra le due parti viene chiuso.

 Non mi sento sereno per niente! Beato uomo di ghiaccio!

Lei è tesa, ma tranquilla.

“Non sono sempre stata una segretaria, Sherrinford, ho fatto parecchia esperienza sul campo, prima di diventare l’aiuto di Holmes. Ti proteggerò perché è il mio compito.” Mi rivolge uno sguardo gentile.  “Il mio vero nome è Andrea.”

Rimango sorpreso, sono talmente spaventato che non so se ho capito bene.

 Sono steso sul sedile quando arrivano i primi colpi, l’auto sbanda, ma Albert la tiene in strada. 

Riesco a scorgere un’auto di grossa cilindrata che ci affianca, scura come la pece. Ho paura, la fronte bagnata di sudore, se riescono a prendermi non so cosa potrebbe succedermi.  

Ma non voglio stare rannicchiato come un bambino pauroso. Voglio difendermi, se mi vogliono dovranno penare.

Anthea abbassa il finestrino quel tanto che le permette di rispondere, fa partire due colpi secchi verso gli inseguitori.

Sparano anche loro e temo per Albert, sento sbandare pericolosamente l’auto. Mi alzo quel tanto che basta per vederlo sanguinare.  Maledico la mia sorte bastarda, e decido di muovermi.

“Anthea, Dio, fa abbassare il divisorio.”  Lei mi guarda dubbiosa, seccata. “Albert è ferito, Cristo, fammi andare davanti, non reggerà molto.” 

“Dobbiamo prendere tempo tuo padre sta arrivando, solo pochi minuti, Sherrinford!”

“Allora fa aprire il divisorio. Vado davanti” Non le permetto di dubitare, sono in grado di farlo. Ho cominciato rubando auto, quindi che altro devo dimostrare. Lei i miei trascorsi, li avrà sicuramente letti nei rapporti di mio padre.

“Sai reggerla Hayc?”  Ha un dubbio, ma sa che è la scelta giusta.

“Fammi andare davanti, Anthea, lo so fare.” Digrigno i denti e glielo impongo  furioso.

Si convince. “Albert abbassa il divisorio!”  Anthea è risoluta. “È un ordine abbassalo.” Si gira verso di me.

“Mycroft mi ucciderà per questo!” 

“O saremo già morti, Anthea.”

Benedico la mia gracilità, mi infilo davanti con fatica, ma alla fine sono sui sedili anteriori, Albert sanguina copiosamente dalla fronte, il vetro non ha retto ai proiettili corazzati e uno lo deve avere colpito di striscio. Anche la spalla sinistra è fuori uso.

“Albert, prendo il volante, scivola adagio dietro di me.”

“Signorino Holmes, la deve tenere forte, stiamo andando veloci.   Metto la guida assistita.”  Stringe la bocca con una smorfia di dolore, non può reggere il volante con una mano sola.

“Non preoccuparti, stai perdendo troppo sangue, lasciami la guida.” 

Per ora non sparano perché sono leggermente più indietro, è il momento giusto per approfittarne

Albert mi passa dietro mentre io tengo il volante, la bestia sbanda di brutto, ma mi aggrappo con tutte le forze e la tengo in strada. Albert si accascia di lato.

Ora sono alla guida, li vedo affiancarsi, Anthea mi copre sparando da dietro. Mi basta quel tanto per accelerare e portarmi fuori portata.

“Dio, Albert, ma quante marce ha questo bestione?”  È potente la berlina nera di Mycroft, richiede controllo e forza, lui affaticato ha poca voce.

“Sette, una speciale per portare il peso di tutta la macchina, mettila nel rettilineo, vedrai come fila veloce.”

Albert apre il bauletto, prende un kit di pronto soccorso, cerca di pulirsi il sangue dalla fronte e dal collo, ha una ferita alla spalla, che è difficile da tamponare.

Sento altri colpi arrivare nonostante li abbia distanziati, Anthea mi copre, ma due arrivano sul finestrino e lo scheggiano, ne partono diverse come uno sciame impazzito, mi investono sul volto e alle mani che tengo strette sul volante.

Mi sento trafiggere, devo concentrarmi, stacco la mente dal corpo, reggo accanito la berlina nera che vibra un poco sotto la mia guida.

Albert urla atterrito. “Figliolo sei ferito?”

Sento lo spavento che prova dalla sua voce, so che le schegge hanno fatto il loro dovere, mi sento dolorare il volto e le mani.

Albert mi parla con voce strozzata. “Porta l’auto fuori tiro. Svolta alla prima strada che vedi sulla destra, fa sembrare che vai dritto, accelera deciso, poi sullo svincolo gira rapido, l’auto reggerà.”  Annuisco, so che ho poco tempo, il contachilometri sembra impazzito, non posso distrarmi.

 Ho un solo secondo, mi rammarico di non aver salutato mio padre. 

Anthea mi ha visto dallo specchietto e impreca.   “Sherrinford, sei ferito! Stai bene?”   La voce incerta, quasi disperata.   

“Non adesso Anthea, vedi se arrivano i soccorsi!”

“Dobbiamo reggere ancora pochi minuti.”  Sa che se ci salviamo   Mycroft sarà furioso.

Si scuote, mi stringe la spalla e si prepara a intervenire ancora, la sento caricare l’arma.

Accelero, devo evitare che i colpi ci raggiungano, i vetri non reggono più, usano proiettili corazzati.

“Holmes, ora devi fare come ti ho detto.”

Lo so, cosa devo fare,  Albert mi sostiene, le mani sono scivolose per il sangue delle schegge, mi asciuga quello che mi cola sul viso, cercando di non rimuoverle.

 L’auto viaggia sostenuta, manca poco allo svincolo, loro sono quasi di fianco.

 Anthea mi protegge spara alcuni colpi che li rallentano. Ormai ci sono.

Tutta la mia residua forza è concentrata alla guida. Aspetto l’ordine di Albert.

 “Ora, Hayc.” Grida strozzato.  “Tienila forte.”

 Curvo deciso, il bestione nero sbanda, ma regge, è ben piantato per terra. E’ come  un cavallo imbizzarrito da domare,  i rapitori affiancati, sorpresi dal cambio repentino di carreggiata vanno dritti, non riescono a inchiodare e cambiare direzione.

Li abbiamo distanziati, ora siamo soli e recuperiamo tempo.

“Bravo figliolo.”  Albert mi asciuga delicatamente la fronte, fa molta attenzione a non ferirmi di più, ma le mani non posso staccarle, sono piene di schegge.

 Anthea interviene, con voce calma. “Tieni duro Sherrinford solo   pochi minuti ancora.  Lo vedi l’elicottero davanti a te? E lui, è tuo padre”

Incrociamo tre auto nere che ci sfilano affianco e inseguono i nostri assalitori.

“Hayc, rallenta adagio, ce l’hai fatta!”  Albert mi aiuta a tenere il volante con il braccio sano, le mani mi fanno male, mi sale la nausea, ma lui, bravo uomo qual è mi sprona.

“Forza giovane Holmes non mollare adesso” 

Trattengo il dolore e modero la velocità, mi fermo proprio mentre atterra l’elicottero, davanti a noi.

“Sherrinford, stai bene?” Anthea grida dal sedile posteriore. Si affaccia al divisorio, la sento sussultare.

“Sto bene, mi sembra.”

Lo dico poco convinto.  Lascio il volante, appoggio sfinito la nuca sul sedile, mi sento il volto intorpidito e il caldo del sangue che scende.

Anthea è già sopra di me, Albert mi controlla. “Va tutto bene ragazzo, non toccarti né le mani, né il viso,  hai delle schegge da togliere,   ora arriva Mycroft.”

 Scende barcollando,   viene preso in consegna dai soccorsi, quasi portato via a forza,  Anthea mi scuote delicatamente, la voce rotta.

“Sherrinford rispondimi ti prego, mi senti?”

Annuisco, mi sale tutta la stanchezza che ho soffocato. Mi si offusca la vista, riesco appena a intravvedere una figura scura che mi afferra e mi trascina fuori.

“Perché è davanti?  Perché è alla guida?  Per Dio Anthea, dovevi proteggerlo non metterlo in pericolo!”

Lo so di chi è la voce, la riconoscerei fra mille. È la sua, del British Government. 

Eccolo, pieno di rabbia trattenuta, non riesce a mascherarla. Grida feroce ordini ai suoi uomini, controlla Anthea, che è incolume e si rassicura. Vede Albert sanguinante, capisce che ha fatto la scelta giusta.

 Mi prende in braccio, mi stringe, evitando di toccarmi le mani e il volto, mi stende sull’asfalto. Ci siamo lasciati malissimo, provo vergogna per quello che gli ho detto, per come l’ho offeso.

Ma in lui non c’è rancore, nei suoi occhi leggo un misto di rabbia impotente per chi mi ha fatto questo.  Digrigna i denti mentre mi tiene vicino.

“Sto bene.” Riesco a sussurrare. “Papà non è niente.”

Si è tolto il cappotto costoso lo ha messo sotto la mia testa.

“Lo vedo come stai Sherrinford. C’è più sangue che altro.”  Scuote il capo, le sue mani pallide esaminano ogni piccolo taglio.

“Starai bene.” Mi asciuga, con il suo prezioso fazzoletto, un rivolo di sangue che scende agli occhi. 

“Ma che ti dice il cervello, figliolo, vai oltre le mie aspettative. Mi accorcerai la vita.”

L’ambulanza è arrivata. Si scosta e mi lascia ai paramedici.

Dà indicazioni ad Anthea, ma sembra più morbido.

Lei annuisce, mi manda un’occhiata disperata e un sorriso sincero, perché non può avvicinarmi.  

Mycroft le impartisce ordini e la lascia a dirigere tutto.  Sale in ambulanza con me. 

Mi sento orgoglioso, non me lo aspettavo che mi stesse vicino.

Lo cerco con gli occhi e glieli pianto addosso, non smetto di fissarlo.   Si siede vicino e mi prende la mano, delicatamente la appoggia sulla sua incurante del sangue che scende sulle maniche del suo vestito costoso.

Chiudo gli occhi e mi lascio andare, perché ho il premio più ambito, per quanto lo abbia insultato è lì presente come mi ha sempre promesso.

 

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Capitolo 21
*** I ricordi del passato e il dolore. ***


 

Mi risveglio intontito, in un ambulatorio dove mi stanno medicando il volto e le mani. Mi lamento e mi sono subito vicini.

 Non mi ricordo molto del viaggio in ambulanza, avvertivo il brusio delle voci intorno. E il fastidioso rumore delle sirene.

“Bentornato tra noi, Sherrinford, stai tranquillo ci stiamo prendendo cura di te.”

Un medico, probabilmente un chirurgo da come è vestito, mi osserva attento. Mi sorride bonario e ritorna a operare sulle mie mani. Sollevo un po' la testa cercando di inquadrare il posto. Lo riconosco è la clinica governativa dove mi segue Greg.

Mi hanno infilato un camicione verde che mi imbarazza.   

Sono disteso con le mani bloccate, aperte, sembro un cristo in croce. Il dottore mi rassicura, alzando appena il capo.

“Stiamo togliendo le schegge, devi avere pazienza ragazzo, non dobbiamo lasciare nessun frammento. Ci vorrà un po'.”

 Finisco per agitarmi, non vedo Mycroft e questo aumenta il panico.  Non ho dolore, ma essere bloccato in quella posizione anomala mi spaventa.

“Buono, figliolo, sono qui!” Giro la testa e lo vedo dietro di me, mi tiene le mani appoggiate sulle spalle.

Prendo un respiro profondo, socchiudo gli occhi, mi è vicino come ha promesso.

“Come stanno Anthea, e Albert?” Sono impaurito, ma temo per loro.

“Albert sta bene, è in una camera più avanti. Ti ringrazia per quello che hai fatto.” Sento la stretta delle sue mani farsi più netta. “Anthea presto ci raggiungerà.”  

“Non te la prenderai con lei, vero? Sono stato io a insistere per guidare la berlina.”

“Lo so, sono al corrente di tutto. Ora pensa a stare tranquillo, facciamo fare al dottore il suo lavoro.”

Stare in quella posizione mi rende nervoso, le mie gambe non fanno che muoversi, stento a mantenere la calma, mi sposto in continuazione, ho caldo e comincio a sudare.

Lui lo vede e tenta di porvi rimedio. Sento il suo sguardo avvolgermi.

“Andrà tutto bene, Hayc, respira con me e stacca la mente. So che sai farlo, concentrati, entra nel tuo “palazzo mentale”.

“Come lo sai papà, del mio posto segreto?”  Sono stupito, lui si avvicina al mio orecchio. “Lo so, perché sei mio figlio, e sei un Holmes.” Sorride, mi accarezza un unico pezzo di fronte pulita dal sangue.

Il medico lo lascia fare, probabilmente conosce bene Mycroft.

 Le mani nelle spalle, si stringono nuovamente, mi aiuta a respirare, in breve entro nel mio rifugio che lui chiama “palazzo mentale.”  Lo sento parlare in continuazione, come se raccontasse una storia a un bambino.

Non avverto più il tormento di essere legato, mentre mi tolgono faticosamente i vetri dalle mani e dal viso.

Lo vedo seduto nella mia casa immaginaria, che beve del tè sotto un pergolato di glicini.  Parla con gentilezza, dice che si chiama Musgrave, la casa degli avi, dove il miele non manca mai.

È un posto bellissimo, accogliente e calmo, vedo i suoi ricordi, si alza e mi invita ad andare dentro la vecchia magione sepolta dall’edera.

Percorriamo un lungo corridoio, stretto, ma luminoso, poi su per la scala di legno, saliamo al piano superiore

Lo seguo fino alla sua stanza, l’unica ordinata di tutta la casa.

Un letto, perfettamente rifatto, una scrivania con pochi libri, dei puzzle di opere d’arte appesi alle pareti.

Può essere solo la sua. Prende un libro dalla scrivania, con la copertina consunta.

Sfila una foto da dentro, me la allunga. 

Mi tremano le mani mentre la afferro.

Fisso incredulo il suo ricordo, una foto di lui, poco più che ventenne abbracciato ad una ragazza, con lo sguardo dolce che lo guarda rapita. Ha i capelli castani lunghi, gli occhi chiari. Tiene la mano appoggiata al suo petto.

So chi è! So esattamente chi è!

Virginia, mia madre, piena d’amore, bella e serena.  Mio padre mi guarda sorridendo, gli occhi grigi luminosi, confessa che lei mi ha sempre amato.

Si siede sul bordo del letto e mi invita ad avvicinarmi. E rimango al suo fianco, seduto con la foto in mano.

Racconta di quando al liceo si erano innamorati, avevano fatto all’amore, convinti di non perdersi mai. Mycroft si diploma, lei deve finire.

La amava teneramente, tanto che percepisco il suo sentimento.  Era un ragazzino che mi somigliava molto, stupidamente ingenuo, un lontano ricordo del Mycroft che sarebbe diventato.

E invece…ora lo sento teso, malinconico, sento le sue mani stringere più forte.

Lo zio materno, Rudy decide di portarlo con sé a Londra.

 C’è un lavoro prestigioso al palazzo del Governo, dove ricopre un posto importante, è un’occasione unica, gli dicono che sarà per pochi mesi.  I genitori acconsentono e lo mandano ad imparare. Non può che obbedire, angosciato.

Lascia la casa a malincuore e il suo amato fratello Sherlock, che si chiude in sé stesso pensando ad un suo abbandono.

A Virginia promette di tornare presto, ma non sarà così.

Non sanno di avere un figlio in arrivo. Sono semplicemente innamorati, ma deve partire.  

Quando i genitori scoprono che è incinta, lei è travolta dalla paura. Cerca di rintracciarlo, ma le fanno troncare ogni rapporto per evitare lo scandalo. La fanno partire, le fanno credere che Mycroft non tornerà.

Lui le scrive spesso, ma Virginia non riceve nessuna delle sue lettere.  Zio Rudy rimanda sempre il suo ritorno a casa, e lei si convince di averlo perso.

Partorisce lontano da tutti.   I genitori le vietano di rivedere Mycroft, quel poco di buono che l’ha messa incinta. La convincono a darmi in adozione, avrò una famiglia reale che mi vorrà bene. E lei cede, e finisco in istituto, ma prima mi tiene con sé pochi minuti, memorizza la mia voglia sul braccio, la pianta del piede ferita da un ago infilato malamente, che mi lascerà una cicatrice, e mi dà un bacio, l’unico bacio che ho ricevuto da lei.

Una madre troppo giovane, per opporsi al destino.

Sento il racconto smorzarsi, la luce calare. Ma Mycroft continua, deciso a dirmi tutto.

Ricami di dolore danzano dentro la stanza insieme a noi.

Le permettono di darmi un nome. Si ricorda delle lapidi bizzarre che c’erano a Musgrave, su di una la scritta “Sherrinford,” come il primo avo degli Holmes, e decide per quello, un nome importante che deve ricondurmi a lei.

Virginia scompare. Abita in un altro stato, non gli risponde.

Di lei non sa più nulla, gli dicono che si è trovata un lavoro stabile e un uomo che la rende felice, che non vuole più vederlo dopo il suo abbandono.

Mycroft è pressato dallo zio, intento a incatenarlo alla carriera politica.

Si chiude, costruisce un guscio protettivo, decide che non ne vale la pena, si dedicherà alla famiglia proteggerà suo fratello cercando un perdono difficile da ottenere. Sposa il lavoro, serra il suo cuore per sempre.

Passa il tempo e con esso gli anni.

 Virginia viene a sapere che non sono stato adottato, non ho una bella famiglia come le avevano promesso, sono solo e abbandonato, tenta di rivedermi, ci riesce un paio di volte, ma non può fare nulla.

Mycroft si interrompe aspettando i miei ricordi, ora la vedo.

La donna minuta, solitaria, che stava seduta sulla panchina di fronte all’istituto.

 La mente si è aperta. Ho visto mia madre e non lo sapevo. 

Si era alzata, le era caduta la borsa della spesa, e le arance erano rotolate complici.   L’avevo aiutata, mi guardava sorpresa.  In seguito mi chiesi spesso, perché mi avesse ringraziato con gli occhi lucidi.

Ora lo so.

Mycroft continua lento, addolorato. La testa china.

Si ammala, troppo presto, molto gravemente, prima di poter tentare qualcosa. Allora prende coraggio e rintraccia Mycroft, gli racconta tutto disperata, capisce che lui l’ha sempre amata.

Non ha avuto nessun altro, non dopo di lui.

Ha poco tempo, muore tra le sue braccia, mentre le promette di prendersiche si prenderà cura di lui, delme, di quel  figlio che avrebbe compiuto il miracolo di creare la loro famiglia.

Mycroft si zittisce, sbiadisce, sfuma in lontananza, non percepisco il suo respiro, ma forse sono io che non respiro più.

Il mio cuore sembra impazzito, non reggo il dolore. Cerco mio padre, voglio afferrarlo, ma lui non riesce a tenermi.

Scivolo via.

 Avverto reale la stretta sulle spalle, rumori e voci che chiamano il mio nome. E cado giù da Musgrave sprofondando, non percependo che il nulla.

Non so quanto tempo trascorro in un limbo fatto di ricordi, ma che non riesco a mettere a fuoco.

L’unica cosa che mi riporta indietro, è quel rumore insistente del bip, che si infila costante nelle mie orecchie.

Mi ricordo maledettamente tutto, il dolore di sapere da dove vengo, di Musgrave, di Virginia e di quel amore materno che non avrò mai.

 Devo essere svenuto, da bravo ragazzino insicuro.

Mi sento intorpidito, so che sono in un letto comodo, niente lettini di ambulatorio. Le lenzuola sono profumate, scivolose e morbide.

Apro lentamente un occhio, vado in avanscoperta.  Sono sistemato in una stanza di ospedale, c’è una finestra semi aperta, vedo le tende muoversi. C’è la luce esterna, però non capisco che giorno sia.

Le mie mani sono fasciate, ma ho miracolosamente le dita libere.

Il volto mi tira in alcuni punti, segno che ho solo dei cerotti.

Apro anche l’altro occhio, sono monitorato, ho gli elettrodi attaccati al torace, e intravedo il monitor sulla mia destra che registra.

Perdo la calma, mi muovo troppo.

 Il macchinario va in allarme, comincia un fastidioso cicalino, che fa alzare di scatto la figura seduta al mio fianco.

“Sherrinford, stai bene? Sono Mycroft!”  Lo vedo chi è, il mio freddo padre, che non ha più nulla del glaciale Ice Man.  È in camicia, la cravatta allentata, il suo vestito spiegazzato. Il dolore dei ricordi sul suo volto.

È scomposto, la faccia tirata, la stanchezza negli occhi.

“Papà, cosa mi è successo?” Mi esce un mormorio che spaventa anche me.

“Quando ti stavano medicando, il tuo cuore ha fatto un po' di capricci. Ma ora stai bene.”

Appoggia le mani sul letto vicino al cuscino, mi guarda attento, misura ogni mio respiro.

“Ma sono peggiorato? che ha detto Greg?”  Mi sale l’ansia.

“No, stai bene, ma certo lo stress è stato alto, e ha preferito monitorarti per un po'.”

Si stacca, toglie le mani, si distende allunga le spalle.

“Sono stato già ampiamente sgridato, Sherrinford, per quello che ti ho causato.”  Sospira cambiando espressione, si è portato alla fine del letto, stringe le mani sul freddo metallo della sponda, fino a farle sbiancare...

“Padre, che colpa puoi avere, se un bastardo voleva rapirmi.”

“Dovevo proteggerti, essere presente, non lasciare che tu da solo ne venissi fuori, e guarda a che costo.”

Scuote la testa indicando il mio volto ferito. “Non è così che volevo la tua vita futura. E invece ti ho trascinato nel mio mondo, e hai ragione su di una cosa figlio mio, le persone che mi stanno intorno, non sono certamente amichevoli.”

Un’ombra scura gli offusca gli occhi, sembra sfinito, mi tiro su quel tanto da implorarlo muto di non mollare. Ora che so la verità non posso che capire e sono sereno.

“Come hai fatto a farmi vedere il passato, come hai reso i ricordi vividi?”

“Te li raccontavo, li sussurravo mentre eri dentro al tuo palazzo mentale. Tu li elaboravi, così ora sai la verità.”

Sembra sconfitto, un tacito accordo di distensione passa tra noi,

“Papà, ti prego non angustiarti, sono qui, quindi va bene.”  Fa una smorfia che vorrebbe essere un sorriso, l’ombra sembra diradarsi, inclina la testa come sa fare solo lui.

“Sei stato bravo, ragazzo, veramente coraggioso. Chi aveva mire su di te dovrà ricredersi.”

Ora il sorriso è disteso, piacevole.

“Tipo Auberton? Il tuo collega serpente?”   Si sorprende, ma neanche più di tanto.

“Coraggioso e perspicace!”  Ride sciogliendo la tensione, si aggiusta la cravatta, si rimette in ordine.

“Vado a prendermi del tè, ne vuoi?”

“Si papà, mettici pure due biscotti insieme.”  Lo guardo mentre fa per uscire, cerco di consolarlo, ha le spalle pesanti. 

“Virginia era bellissima.” Lo butto lì, strozzato.   Lui annuisce, la mano aggrappata alla maniglia, non dice nulla.   “Eravate innamorati, e questo mi basta papà.”

“Lo ero, Sherrinford, poi tutto è andato storto. Ora lo sai. Ho deciso di dirtelo così, in un modo poco consueto, ma più vero.”   Gli trema la voce, non è da lui.

“Mi sei rimasto tu, di quell’amore. Cosa posso volere di più?  Quando credevo che la mia vita fosse chiusa.”  Esce e mi lascia senza fiato, il suo cuore di ghiaccio non è mai stato più caldo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 22
*** Diventare un figlio bastardo ***


 

 

Mentre aspetto che torni Mycroft, entra un’infermiera e mi toglie il monitoraggio, posso finalmente muovermi meglio.

“Ordini del dottor Greg. Stai bene ragazzo!”   Mi dà un pizzicotto sulla guancia ed esce.

 Sento bussare, vedo sbirciare Anthea dalla porta e le faccio cenno di entrare.

“Sei solo?” Mi guarda attenta, lo sguardo addolcito. “Come stai, mi hai fatto penare!”

“Mycroft è andato a prendere del tè. Ma sto bene tutto sommato.” È tesa, si porta vicino al letto, senza smettere di esaminarmi. Certo, ho un numero rilevante di tagli in volto, ma non sono profondi, sono solo brutti da vedere. E le mani sono parzialmente fasciate, ma ho le dita libere.

“Via Anthea, sono vivo, non ti cruciare!”  Allungo la mano, lei la afferra dolcemente attenta alla fasciatura.  Un gesto inusuale, incurante che Mycroft possa tornare improvvisamente.

“Abbiamo corso un grande pericolo e devo dire che non me lo aspettavo che fossi così coraggioso.”

Ha la voce incerta, dimostra la sua parte emozionale.  Le sorrido stralunato, lei che si dimostra preoccupata, è incantevole.

Muove la mano, mi arriva una carezza sulla guancia, sentire il suo calore mi rimescola.

“Temevo che tuo padre mi uccidesse, invece è stato comprensivo, non ama essere scavalcato, nemmeno da me.”

Sente dei passi e si scosta, ritorna impassibile, Mycroft ha un vassoio, lei è rapida ad aiutarlo.  E’ sorpreso, non nasconde la sua irritazione, infondo le ha disobbedito.

“Anthea, vedo che stai bene, hai sistemato tutto secondo i miei ordini?”  Annuisce, ma anche se cerca di essere distaccata, lui percepisce la sua inquietudine, sa che si sente in colpa, le rivolge uno sguardo di rimprovero.

“Si è ripreso, stai serena ha la pelle dura il piccolo Holmes!”

“Padre!” Protesto con veemenza, darmi del “piccolo” davanti a lei.  Anthea si scioglie, ride e lui le va dietro complice, la mia faccia si scalda e quindi è sicuramente rossa.

Si è rasserenata, aiuta Mycroft a sollevarmi sistemando i cuscini per farmi bere quel poco di te che riesco a mandare giù.

Papà la lascia fare, ho le mani insicure e tremanti, riesce a imboccarmi un paio di biscotti, mentre perfino le orecchie sfiorano i 40 gradi.

È così vicina da sentire il suo profumo delicato.

Mi aiuta a tenere la tazza, le sue mani sulle mie, sono fresche, mi fa bere lentamente. Indugio, vorrei prolungare quel momento all’infinito.

“Stai bene Hayc? Sei caldo.”

Mi guarda preoccupata. Mio padre, fa un ghigno beffardo, le mani nelle tasche dei pantaloni costosi, ondeggia divertito.

“Tranquilla Anthea, non ha la febbre!  Quelli sono gli ormoni che non riesce a gestire. Vero figliolo?”

 Mi va di traverso l’ultimo sorso di te e lo  fulmino con lo sguardo.  Anthea si schernisce, appoggia la tazzina e si allontana scuotendo la testa.

“Forse è meglio che vada Sir, Hayc sta molto meglio a quanto vedo.”

 Mi strizza l’occhio ed esce, mentre sprofondo sotto le coperte dalla vergogna.

 Mycroft borbotta incurante un saluto e rimette in ordine.  Lo fa sempre, in qualsiasi posto si trovi, lui deve razionalizzare gli spazzi.

 

“Papà, mi metti in imbarazzo. Lei è gentile, che c’è di male?”   The British Government si lascia cadere sulla poltrona. Inspira, si rilassa arrendevole.

“Sherrinford, lasciala stare. È proprio perché è gentile che devi essere educato. Ha l’ordine di proteggerti, non metterla in difficoltà.” 

Vado giù con la testa, so che ha ragione, ma quando mi è vicina stento a comportarmi freddamente.

“Farò come dici, non la forzerei mai perché sono tuo figlio, ma lei è perfetta. Come hai potuto non notarla?”  Mi guarda alzando le sopracciglia, inclina la testa.  “Perché sono un gentiluomo, che altro ragazzo mio.”

Ride, mentre mi batte la mano sottile, sulla gamba mezza scoperta.

“Stasera andiamo a casa. Stiamo insieme a Pall Mall, domani vai da mio fratello.” 

Non me lo aspettavo che mi mandassero a casa così presto, ma le ferite non sono gravi, ci penserà John ad aiutarmi.  È stato il cuore, come al solito, a non essere all’altezza.

Mycroft vede la mia faccia perplessa.   “Hai il benestare di Greg, stai tranquillo. Vuoi rimanere qua dentro?”  

“Nemmeno per sogno papà.”  Ho voglia di rivedere i miei parenti e Rosie.”   Mi prende un dubbio.

“Rosie sa cosa mi è successo? Perché se mi vede così conciato si spaventerà.”    

Annuisce.  “Glielo diranno quando tornerai a Baker Street.”

Non sono gradevole da vedere soprattutto per la piccola cugina, deve essere preparata e spero siano attenti.

Mi accorgo che Mycroft tentenna, deve dirmi qualcosa.

“Che c’è, sei pensieroso, cosa ti preoccupa?”

“Sherrinford, dovrai essere scortato.  La tua libertà sarà limitata. A Baker Street sei protetto, ma non potrai uscire senza dire qual’è la tua meta. E Rosie è meglio tenerla al sicuro.”

“Da me, vero Padre?  Ora divento un pericolo se esco con lei!”  Mi lascio cadere giù avvilito. Rosie ci teneva così tanto che la portassi a scuola.

Si altera, ma subito si ferma.

“Solo fino a quando non metto fine a queste spiacevoli ingerenze, farò il possibile per chiuderle presto.”

“Perché non mi dici la verità? Sospetto che sia Auberton che ti sta col fiato sul collo. È viscido e ti osservava velenoso. Strano che appena mi hai presentato sia finito nelle sue mire.” 

Mycroft si passa due dita dentro il collo della camicia, e tira appena la cravatta. Devo insistere, voglio ottenere la sua attenzione.

“Cosa vuole da te? Non credi, che dopo tutto quello che ho passato, tu possa dirmelo? Perché non vuoi fidarti di me?” La mia voce diventa cattiva, non voglio farlo stare male, non dopo quello che so di lui.

“Sherrinford ritengo che meno sai, meglio è.   Quella gente sa ottenere confessioni con qualsiasi mezzo.” Si alza, cammina nervoso per la stanza, ma è indeciso.

Continuo risoluto. “Basta che sappia il minimo, quello che vuole da te e perché!”  Si ferma, ora le mani strette nelle tasche, sono macigni.

Si addolcisce, la voce sicura.

“E da molto che tenta di prendere il mio posto, ma fino ad ora non aveva avuto successo. Le sue macchinazioni erano stupide, finivo per scoprirle e eliminarle in fretta. Ma ora tu se il mio “pressure point”, sa dove colpirmi, sa che non posso proteggerti sempre.”  

Abbassa il capo la mascella serrata, allunga le spalle.

“Non voleva rapirti, questo era un avvertimento per farmi vedere dove poteva arrivare. Mi ha in pugno, vorrà trattare: la tua vita per il mio tradimento.”  Smette di respirare e anch’io. Ora mi è tutto chiaro, che senso aveva rapirmi? In quel modo poi, sparando come dei pazzi.

“Allora, che farai adesso, ti contatterà, non potrai tenermi costantemente in sicurezza.”

“Più volte ha cercato di impossessarsi del laptop, che contiene le chiavi di accesso alla rete Governativa, ed era un’esca perfetta. Anche tu ti eri scandalizzato per come lo sbandierassi ovunque. Quella trappola è sfumata, ora ha te.”

Mi osserva dal centro della stanza, capisco che non era così stupido da tenere tutta la sicurezza nazionale in quel portatile, sono stato un idiota.

“Non cederai papà, non per colpa mia!”  Mi sollevo dai cuscini, mi tengo dritto e lo guardo disperato.  So la sua fedeltà al Governo, è turbato, vedo il suo volto teso e scuro.

Io sono il suo punto debole, cerco di elaborare rapido, forse potrei trovare una soluzione.

Perché non provare ad essere il figlio cattivo, invece dell’arrendevole debole ragazzino. Non sanno che sono ammalato, quindi… 

Mi siedo sul letto, tenta di avvicinarsi per rimettermi giù, ma lo fermo con la mano, cominciò a sciorinargli il mio piano. Ottengo la sua attenzione anche se sembra fremere di rabbia per quella situazione assurda in cui ci troviamo.

Cerco di essere convincente, mentre gli espongo il mio piano.

Perché non trasformarmi in un piccolo figlio bastardo?  Che mira al suo patrimonio per farmi risarcire degli anni dell’abbandono?  Voglio tutto e subito e certo lo odio come padre e come uomo.   

Deve aiutarmi ad avvicinare Auberton, in modo che possa parlargli,   fargli capire che non voglio diventare un bersaglio per la gloria della nazione e di mio padre.

Dirò che ne sono a conoscenza perché Mycroft sospetta di lui, quindi non voglio correre altri rischi, gli porgerò il laptop su un vassoio d’argento, non dovrà fare altro che pagarmi.

 E rovinare la reputazione di Mycroft che distrutto dal dolore del mio tradimento, non dirà nulla, io otterrò la mia vendetta, i soldi, la casa e ne uscirò pulito.

Se funzionasse non subirei altri attentati e alla fine gli tenderemmo una trappola per incastralo.  Certo correrò qualche rischio, ma è il prezzo da pagare.

Dovrò essere convincente, sono un bravo attore, non mi sarà difficile fare il bastardo fino in fondo. Lo saprà Anthea, lo zio, John e non altri. E nessuno dovrà sapere che sono ammalato.

 Mycroft sussulta, gira a vuoto per la stanza.

“È pericoloso per Dio!  Sei impazzito?”  Si avvicina, appoggia le mani sul letto al mio fianco, quasi a sfiorarmi, mi guarda dritto negli occhi. “Quella è gente che non scherza! Una sola, unica, mossa falsa e sei morto figliolo.”

“Perché papà, che vita farei, adesso che sono nelle sue mire.”  Siamo talmente vicini che sento il suo respiro. Non distolgo lo sguardo, perchè deve capire e dovrà accettare.

 

 

 

 

 

   

 

 

 

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Capitolo 23
*** Mycroft, Sherlock e Eurus.... ***


   

 

Alla sera finalmente mi dimettono e torniamo a Pall Mall.  Sherlock e John li avvisa mio padre, mi concedono un po' di riposo lontano da Baker Street.

Abbiamo un nuovo autista, sempre attento e solerte, però mi dispiace di non rivedere il volto distaccato di Albert.  Anche l’auto è diversa, l’altra è finita in officina.

Il viaggio non è lungo, Mycroft non mi parla, credo stia valutando la mia proposta.

La villa Holmes è quasi immersa nell’oscurità quando arriviamo.

Il silenzio ostinato di papà comincia a rendermi nervoso.

Pochi minuti dopo ci raggiunge Anthea, finalmente respiro meglio, almeno scambierò due parole con lei. Entra portando del cibo da preparare per cena, mette tutto nel frigorifero, mentre si accorge del nostro mutismo. Si defila e comincia a guardare Mycroft.

“Bene, Sir, mi dica perché mi ha chiamato.” Gira leggermente la testa castana e mi sorride appena.

“Sherrinford ha un piano pericoloso per Auberton, che potrebbe funzionare, anche se sono indeciso, visto che si deve cacciare in una situazione pericolosa.”  Soffia forte, quasi per allontanare il disagio, si passa la mano sulla nuca.

“Ne ho già parlato a Sherlock mentre aspettavamo di tornare a casa. Lui è d’accordo, ora voglio sentire cosa ne pensi tu.”  Mi siedo silenzioso vicino al camino, aspettando la reazione di Anthea che diventa seria, picchietta le dita sul tavolo dove si è seduta di fronte a papà.

“È bravo, ce la può fare sir, l’ho visto come si comporta nel pericolo, il mio consiglio è di provarci.”  Torna a guardarmi, stavolta mi sorride.  “Se lo conosco, non starà a guardare, meglio fare come dice. Lo seguiremo costantemente.”   Papà si alza, si ferma davanti a me che sono sprofondato nella poltrona di pelle scura. Le braccia lungo i fianchi, le mani aperte, arrendevoli.  “Va bene figliolo, faremo come dici. Non farmi pentire della mia scelta.”

Annuisco fiero della sua fiducia.  “Sai, che il mio comportamento sarà spiacevole nei tuoi confronti. Ma non dubitare di me.”  Mi sono alzato, sono a pochi passi da lui, i nostri volti troppo vicini.

“Non lo farò, sai che sarò al tuo fianco. Tu cerca di non metterti in pericolo.”

Rilassa le spalle, ma è forzato, vedo il dolore dentro ai suoi occhi, gli allungo una carezza sul braccio.

Si distoglie, è rapido a mascherarsi, lui è Ice Man, ma mi concede una smorfia che assomiglia ad un sorriso.

“Bene, ora passiamo la serata, e domani a Baker Street comincerai la tua recita, ma bada a Rosie. Dentro casa rimani lo Sherrinford amorevole che sei.”

Anthea si ferma con noi, cuciniamo insieme, io aiuto quel tanto che riesco. Lui ai fornelli ci sa fare, Anthea lo aiuta discreta, apparecchio e trascorriamo la serata in compagnia, serenamente.

Mi sento a casa, lei si dimostra essere una perfetta compagnia per entrambi, papà si lascia andare. È in camicia e gilet, con le sue buffe giarrettiere sulle maniche, sorride spesso, anche se i suoi occhi nascondono la preoccupazione.

Siamo in armonia, la recita del figlio bastardo, messa da parte.

Quando Anthea va a preparare il caffè, prendo la mano di mio padre che è seduto al mio fianco.

“Fidati, andrà tutto bene, ti libererai di Auberton e staremo meglio. Però devi stare sereno.”

Mi guarda stupito, incapace di pronunciare una sola parola, però mi stringe più forte la mano.

Anthea ritorna portando il caffè, fa finta di nulla, però approva, capisce e questo mi basta.

Finiamo la cena, lei va a casa e ci diamo appuntamento per il giorno dopo.

 Quando rimaniamo soli, indugiamo seduti di fronte al camino, così chiedo a Mycroft di Virginia.

“I miei nonni materni sono vivi? Era figlia unica?”

La domanda improvvisa lo spiazza, si raddrizza sulla poltrona, accavallando le gambe.

“Che domanda curiosa figliolo!  Si, i  suoi genitori sono ancora vivi ed ha anche una sorella, Vittoria.”  Liscia con le mani la pelle logora della poltrona.  “Perché mi chiedi questo?”

“Voglio vederli, voglio capire cosa c’era di male nel tenermi.”  Alza le sopracciglia e la sua stretta sulla poltrona si fa più forte, scuote la testa, mi guarda con amarezza.

“Sherrinford, certe cose devono rimanere sepolte, non ti vollero allora, come credi di recuperare adesso?”

“Allora concedimi solo di vederli. Hanno il sangue di mamma. Voglio capire, papà.”   Non mi farà desistere, lo sa bene.

“E sia, finita questa storia li conoscerai. Dopotutto hai ragione, fui io che sbagliai con Virginia, io la misi incinta troppo giovane. Io non la cercai.”  È scuro in volto, ma regge il mio sguardo.

“Tu l’amavi, perché angustiarti, e sai perfettamente che non fu colpa tua.”  Lascia la poltrona e si versa del brandy. Si calma, sa che voglio capire, poi mentre si volta, guardando il bicchiere, balbetta.

“Ci sono anche i miei genitori, i tuoi nonni, che dovrai conoscere.”

“E chi altro padre? Temo che tu non mi dica tutto.” Non lo mollo, lo seguo con lo sguardo.  “In casa dello zio Sherlock c’era una vostra foto di quando eravate bambini a Musgrave, ed eravate in tre. Una era una bambina con le treccine. Chi era papà?” Mi sporgo in avanti.

Tace, manda giù in un fiato il liquore.

“Uno fra i più terribili sbagli che ho fatto nella mia vita, quello che i tuoi nonni non mi perdonano.”

Si lascia cadere nella poltrona, gira il bicchiere fra le mani.  

Mi racconta di Eurus, di quella sorella sfortunata troppo intelligente, che si è persa, di come ha ucciso delle persone.

Parla con dolore dell’incendio che provocò a Musgrave e la decisione dello zio Rudy, fratello della madre, di darla per morta.  Eurus era troppo pericolosa, così si adoperò per farla rinchiudere in una prigione segreta, fu obbligato a tacere per proteggere la famiglia.

 Ma la cosa più grave avvenne alla morte dello zio quando continuò a mantenere lo stesso segreto per anni.  Fino a quando Sherlock non scoprì tutto, causando la liberazione di Eurus e tutta la devastazione che ne seguì.  Alla fine ne uscirono vivi, ma lei si perse definitivamente e andò “oltre.”   Un posto dove nessuno può raggiungerla.

Le ultime frasi gli escono deboli.

“Andiamo a trovarla una volta al mese, a Sherrinford, un’isola che ha curiosamente il tuo nome.  I tuoi nonni vogliono vederla. Sherlock   suona   il violino insieme a lei. Unico punto di contatto che le è rimasto.” Si ferma assorto, lo sguardo perso.

“Voglio conoscerla papà.” 

Si alza di scatto, quasi grida. “Nemmeno per sogno, non ti avvicinerai a lei.”

Lo fisso insicuro, non capisco la sua reazione, sento dentro di me che ha paura, mio padre è terrorizzato da  Eurus!

“È rinchiusa, non farà danno, lascia che la veda quando sarà possibile.”  Non accetta, è intransigente si allontana mentre mi dà di spalle scuotendo la mano.

“Ne riparleremo, non ora, non adesso.”  È scosso, so che non si è mai perdonato per quello che ha fatto, forse capisco perché non frequenta spesso i genitori.

 Come abbia potuto vivere con quel peso non riesco a comprenderlo.

 Lo raggiungo mentre è di spalle e si sta versando altro brandy, gli fermo la mano.

“Non serve papà, ora basta bere.” 

Rimane gelato, appoggia la bottiglia, tiene il bicchiere vuoto tra le mani. Lo prendo, lo appoggio mentre si gira a guardarmi, gli occhi liquidi.

“Ci sono papà, ora ci sono anch’io. Non dimenticarlo mai.”

 

 

  

 

 

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Capitolo 24
*** Rosie e Mr. Trevor l'orsetto Zombie ***


  

 

Quando mi risveglio, il sole si è già affacciato alla finestra e riempie la stanza.  Mycroft brontola davanti alla mia porta sostenendo che siamo in ritardo.

Mi alzo in fretta, lui non ha molta pazienza, avrei voluto rimanere sprofondato sotto le coperte, ma i ritmi di papà non lo permettono.

Quando scendo ha preparato la colazione e ci godiamo ancora un po' di compagnia reciproca.

Pane tostato, marmellata, latte, tè e biscotti. Tutti ordinati e in fila come sempre, sorrido pensando al suo maniacale criterio di precisione.

Lui mangia lentamente, oculato, mentre io sono la solita furia. Così finisce per sgridarmi. 

“Dio, ragazzo, ma che fretta hai?  Mangi peggio di Sherlock.”  Finiamo per ridere, mi riempie il cuore vederlo sereno.

“Quando ci vedremo?  E come mi devo comportare? Hai già stabilito un piano?”

Tentenna mentre beve il tè.  “Comincerai la tua recita da subito, ma solo in pubblico. Anthea metterà in giro voci su di te, ti preparerà il terreno.”   Annuisco e mando giù un biscotto in fretta.

“La tua inquietudine è partita dal rapimento, sei diventato impaziente, non vuoi correre pericoli per colpa mia.”  Mi fissa cercando sicurezza e determinazione nei miei occhi. 

“Tranquillo papà so quello che devo fare.”

“Bene, figliolo, è ora di andare.”  Si alza un po' appesantito, riordina come sempre, poi si ferma si volta con le stoviglie in mano.

“Come stai? Non te l’ho ancora chiesto, sono stato mancante.” So quanto è ansioso. “Bene, sto bene papà.”

 Lo raggiungo e lo abbraccio, non ama essere toccato, ma lo forzo e sento che allunga le braccia indeciso. “Concedimelo, non so quando potrò farlo ancora.”  Mi cinge le spalle goffamente, e mi basta.

Si ricompone veloce, due colpi di tosse lo tradiscono, mentre lo aiuto a sistemare la cucina.

Usciamo, getto un ultimo sguardo alla casa, alla pace che la pervade da sempre.

L’auto è già pronta.  Per tutto il viaggio rimaniamo silenziosi, solo alla fine mi dice che mi prenderò del tempo per guarire.

“Tra dieci giorni c’è un ricevimento all’ambasciata, ci sarai anche tu, avvicinerai Auberton.  Anthea  si occuperà di istruirti,  inizierai il tuo gioco.”

Cala nuovamente il silenzio, arriviamo a Baker Street. Scendiamo insieme dalla berlina scura, ma senza avvicinarci. Mantengo un rapporto distaccato, annoiato.

Mycroft ha capito, fa un breve cenno con il capo. Ci sono telecamere ovunque, meglio iniziare la commedia da subito.

 Saliamo le scale, e assorto come sono non penso a Rosie.

Appena dentro mi accorgo dell’errore, lei mi corre incontro, mentre John tenta di trattenerla.

Non l’hanno avvisata.

Si blocca smarrita, mi guarda terrorizzata e scoppia a piangere disperata, senza che sia riuscito ad afferrarla.

“Per Dio! Dovevate dirglielo, mi ero raccomandato su questo.” Sbrocco rabbioso.

Passo in sequenza prima mio padre, poi Sherlock, tutti con il volto contratto.

 Fermo con la mano John e vado velocemente nella stanzetta dove Rosie è scappata.

 So che sono un disastro da vedere e lei non se lo aspettava.

È buttata sopra il suo lettino rosa, che piange, la testolina sotto le coperte, la manina sporge   e stringe il suo orsetto preferito, Mr. Trevor, talmente forte che sembra spezzarlo. Le parlo piano, cercando di non spaventarla.

“Rosie, non guardarmi se ti fa paura, ma sappi che sto bene e non soffro. Te lo giuro.”  Sussulta, smette di piangere, frigna un po'.

“Cosa hai fatto? Perché sei tutto tagliato?”  Parla da sotto la coperta, mi siedo sul bordo del letto e le racconto tutto.

Lei è intelligente, non c’è bisogno di considerarla viziata e stupida.

Ascolta, vedo la manina tremare insieme a Mr. Trevor, mentre scosta la coperta e comincia ad accettare le mie ferite.  

“Sei tutto bucato, e anche sulle mani. Sono stati cattivi con te, ma lo zio Myc li punirà.”

Non posso fare a meno di sorridere, mentre si avvicina e comincia a contare i tagli sulla fronte. 

Come si fa a non amarla? Così dolce e sincera, mi sento un verme a farla soffrire, le accarezzo la testolina bionda e inizio a giocare con lei.

“Che ne dici se curiamo Mr. Trevor? Anche lui ha avuto un incidente.  Il tuo orsetto ha bisogno di cure! Aspettami qua!”   Esco dalla stanza e rubo dei cerotti a John, che mi fissa sconcertato, gli faccio cenno che va tutto bene.

Gli Holmes mi scrutano dubbiosi, seduti nei loro immancabili posti di fronte al camino.

Rosie mi aspetta, si è seduta con le gambe incrociate sul letto, le faccio vedere i cerotti e scoppia a ridere felice.

 Non vede più la mia faccia graffiata.  Iniziamo a curare Mr. Trevor, che si è fatto molto male, lo riempie di cerotti in ogni dove. Alla fine è coperto così tanto che devo fermarla.

“Rosie, lasciane un pezzetto libero!  Mr. Trevor non respira più!” 

“Guarirà prima, Sherrinford, ne hai tanti anche tu!”  Lo ammetto, ha ragione, ora le si sono asciugate le lacrime, la prendo per mano e usciamo.  Corre dal padre e dagli zii mostrando orgogliosa il suo capolavoro:

 Mr. Trevor, l’orsetto zombi.

La famiglia, scoppia a ridere, ed è tutta lì.  Mi avvolge una sensazione di benessere, so che lotterò per tenermela stretta.

Qualsiasi dolore possa attraversarla, io ci sarò. 

    

 

 

 

 

 

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Capitolo 25
*** Iniziare la recita. ***


 

 

Trascorro una settimana in completo relax, John cura le mie ferite e trascorro del tempo con Rosie. Le spiego che non posso accompagnarla alla scuola, perché le persone cattive sono ancora in giro ed è rischioso.

 Papà non è venuto spesso a trovarmi, per non destare sospetti, deve apparire evidente che ci detestiamo. Esco con Anthea una settimana dopo, quando mi sento meglio. Ormai mi sono rimasti pochi segni in faccia, e le mani sono del tutto libere.

 Il prossimo martedì sera c‘è il ricevimento all’ambasciata.  Così usciamo per acquistare uno smoking completo di tutto.

Come al solito saliamo sulla berlina nera, ormai rimessa a nuovo, e trovo con sorpresa Albert alla guida che mi sorride.

“Mi mancavi, finalmente sei ritornato, la “bestia” ti aspettava.”  Gli batto la mano sulla spalla, anche se Anthea non ama che mi prenda troppa libertà con gli uomini di Mycroft.

Mi spinge dentro, mentre io mi diverto a vederla imbronciata.

Albert ci porta in un elegante negozio nella City, mentre lei segue  ogni mio passo. 

“Affascinante, Sherrinford.”  Mi sorride quando esco dal camerino, vestito che sembro la versione giovane di Mycroft. “Notevole, ci sembri nato dentro!” Esclama quando mi vede.

“Anthea, smettila di prenderti gioco di me! Sembro un pinguino ammaestrato.”  Ci scherzo un po', sono un po' impacciato, non ho la classe di papà.

Lei ride, una fila candida di denti, le labbra carnose. “Vedrai che ti muoverai bene.”  Poi mi fissa pensierosa.

“Sai ballare?”  Mi volto mentre mi trovo davanti allo specchio impettito come un navigato lord inglese. Increspo le labbra. “Effettivamente, non molto, ma all’istituto c’è stato uno scambio culturale con una scuola di danza e qualcosa ho appreso.”  Si avvicina mi sistema il papillon.

“Sei una sorpresa costante Sherrinford!” Abbasso la testa, è decisamente troppo vicina, ha un delicato profumo fruttato. Se ne accorge, mentre il rossore mi sale sul viso.

“Holmes dovrai imparare a gestire le tue emozioni o scopriranno le tue menzogne. E’ gente scaltra. E bada che non dovrai bere, ma fingere, mi occuperò io di reggerti il gioco.”  Le spiego che sarò un po' rude con lei, visto che dovrà starmi vicino.

“Anthea, sai che mi comporterò non proprio da gentleman, spero capirai.” Lei annuisce e mi accarezza un braccio mentre mi spinge in camerino a cambiarmi.

“Lo so cosa farai, se allungherai le mani vedrò al momento come reagire. Tu che ti prendi delle libertà con me irriterà molto Mycroft, e renderà la situazione credibile.”   Mi giro di scatto.

“Papà lo deve sapere, non voglio che soffra inutilmente.” 

“Stupido, lo sa! Cosa credi che sia?  Uno sprovveduto?”  Mi chiude dentro allo spogliatoio, sbuffando.

Usciamo mentre l’auto con Albert ci aspetta. Gli mostro la busta del negozio.

“Spero non ti sarai stancato, comunque ho uno smoking nuovo di zecca.”  Anthea mi lancia uno sguardo severo.  Non approva la confidenza che ho con lui.  Le faccio spallucce. “Albert, ci accompagnerai tu all’ambasciata?” 

“Non mancherò giovane Holmes.”  Guardo Anthea chiedendogli con gli occhi se sappia della recita.

Annuisce, è fidato, ha rischiato per noi. “Bene Albert, che ne dici di portarmi da mio padre a litigare un po'?”

Anthea sospira allarmata. “E dai, sarà carino cominciare a fare il bastardo.”

“Lui non lo sa!” Scuote la testa.

“Avanti, sei sempre in contatto, digli che arrivo, e sono molto incazzato.”

“Sherrinford!”  sbotta, però poi ride. “Va bene vediamo come ti comporti.”

 

Il viaggio è breve. Entriamo nel cortile interno, scendo dall’auto sbattendo la porta annoiato, mi ficco le mani nelle tasche, inizio a seguire Anthea, fissandole il fondo schiena con fare strafottente.

Lei si scansa e mi spinge in malo modo. “Smettila. Comportati da uomo.”  

“Lo sto facendo.” Le restituisco un ghigno arrogante. Lei mi ignora e percorriamo il corridoio sotto le telecamere che ci riprendono.

Non c’è che dire, è brava, capisce al volo.

Prendo a smanettare con il cellulare, non salutando nessuno, altezzoso quanto basta.

Purtroppo incontriamo Lady Smallwood, e la recita si fa tesa.

“Sherrinford, che piacere rivederti.” Mi viene incontro, Anthea tenta di portarmi via dicendo che siamo in ritardo. Mi afferra per il braccio, mi scosto con rabbia e la spingo via. Uno sguardo di intesa passa tra noi. Mi lascia fare. “Alicia, che piacere, devo vedere mio padre.”  Una smorfia di disgusto mi passa in volto. Lei la nota.

“Beh, è tuo padre, avrà i suoi motivi.” Mi metto a ridere. La prendo sottobraccio come se dovessi confidarmi.

“Quali motivi può avere quel vecchio pezzo di marmo? Dio Alicia, è solo uno spocchioso irritante. Credo di averlo inquadrato meglio adesso, che mi hanno rapito e quasi ammazzato per colpa sua!”

Si stacca da me sorpresa, mi aveva conosciuto per un giovane a modo, ora vede tutt’altro.

“Sherrinford, lui ha un lavoro difficile, il tuo modo di fare è sconcertante.” Le sorrido torvo.

“Avrei preferito un padre diverso, molto più “ricettivo,” diciamo. Lui è semplicemente un avaro patologico, tiene i suoi soldi lontani dalle mie tasche. Voglio quello che è mio.”  Alicia balbetta stupita.

“Non meriti il padre che è. Lui è un uomo certamente migliore di te. Piccolo impertinente senza cuore.”

“Oh, lo posseggo un cuore, Alicia, ma certamente non per gente come voi. Vecchi ruderi senza sentimenti.”  Si gira offesa e se ne va via senza dire più nulla. Anthea è impietrita, la strattono e la spingo via.

“Ci sei andato giù pesante.” Mormora a testa bassa per non farsi riprendere.

“È quello che voglio, lo dirà in giro senza pietà.” 

“Bene, speriamo funzioni, perché ci costerà parecchio in fatto di stress.”  Entriamo nell’ufficio di papà che sembra turbato, ha visto e sentito tutto dalle telecamere a circuito interno, quindi anche gli altri colleghi.

“Dio figliolo, sei stato sorprendente. Per non dire altro, Alicia mi perseguiterà.” Faccio segno di tacere.

“Siamo al sicuro tranquillo, questo posto è protetto.” Si alza, mi viene vicino. “Ci costerà questa farsa, a tutti e due. Diventerai odioso e crudele, ti eviteranno come la peste.”

“Voglio Auberton papà, voglio uscire e accompagnare Rosie in sicurezza, non vivere blindato! Dopo avrò tempo per spiegare.” Annuisce silenzioso. “Va bene, allora continuiamo.”  Lo afferro per il braccio.

 “Sai che ti voglio bene, qualsiasi cosa farò o dovrò dirti. Dimmi che hai capito.”

Lo fisso intensamente mentre lo tengo fermo.

“Lo so, figliolo, ho capito.”  Ora posso lasciarlo andare, Anthea socchiude gli occhi, mi manda un semplice sorriso tirato, approva anche se è consapevole che ci costerà molto, più di quanto pensiamo.

 

 

 

 

 

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Capitolo 26
*** Il ricevimento all'ambasciata Prima parte ***


 

Martedì, il giorno del ricevimento all’ambasciata, mi preparo mentalmente, mi riposo e prendo accordi telefonici con Anthea. Prima che mi venga a prelevare, John mi scruta con attenzione, mi chiede se sto bene. Sono nervoso, ma sono determinato.

“Sherrinford, metti le medicine in tasca, mi sento più sicuro se le porti con te.”  Annuisco silenzioso.  “Va bene Doc, dà un bacino a Rosie.”  Torno in camera, vado sotto la doccia, mi sbarbo e indosso lo smoking.

Quando ho quasi finito, John mi aggiusta il papillon.

“Sei elegante Sherrinford,  Mycroft sarà orgoglioso di te.” Gli vedo le mani insicure, è preoccupato e un po' mi fa piacere essere nei suoi pensieri.

“John, oggi sarà di tutto, tranne che orgoglioso, visto come mi devo comportare!”

Mi sento parte della famiglia, e ne sono fiero.

Anche lo zio Sherlock mi guarda severo.

“Sii prudente Hayc, Auberton è un serpente.  Sai cosa devi fare.”  Lo rassicuro al meglio che posso.  “Starò attento, è ora che dia una mano a papà.” Sorride compiaciuto si gira per prendere il violino.

Suona un pezzo allegro e mi sento sollevato. Mi aggiusto il cappotto costoso come quello di Mycroft.

Anthea arriva puntuale e dopo un breve saluto alla mia stravagante famiglia, partiamo per la recita del secolo.

La berlina nera ci aspetta, dentro alla guida c’è Albert, mi saluta con un cenno del capo.

Lei non ha aperto bocca, ma sento la tensione tra noi.  Ci sprofondiamo sul sedile, allunga la mano e   mi stringe il polso, ci osserviamo, fa un cenno di intesa col capo.

“Va bene, sono pronto.” Ritorno a guardare la strada, mentre l’auto scivola via lenta.

L’ambasciata ci compare davanti in tutta la sua maestosità, illuminata a giorno.

 Scendiamo, Anthea mi aspetta, io indugio con l’aria insofferente. Poi l’avvicino, la seguo annoiato. Dentro mantengo la calma, ma è solo apparente.

Nella Hall, consegniamo i cappotti al guardaroba, mi aggiusto la manica e tiro il polsino mentre osservo con finta indifferenza il lusso che trasuda da ogni dove.

Anthea è bellissima, fasciata in un abito nero con una scollatura generosa sulla schiena, non mi sforzo a fingere mentre la ammiro strafottente, allungo una mano che evita decisa.

Lo smoking mi rende giustizia, sono elegante e bastardo al punto giusto. Ho accorciato i capelli, con un taglio sobrio. Magro e alto come mio padre, di cui ho acquisito un alone di potere essendo suo figlio, imito il suo portamento e mi riesce bene. 

 Entriamo nella sala, mentre altezzoso vado subito al banchetto a riempirmi il bicchiere.  Anthea è come un’ombra, sempre attenta e abile attrice.

Mi scosta il bicchiere, me lo fa posare, le mando un grugnito mentre tento di liberarmi di lei.

Entra Mycroft, mantiene le giuste distanze, lo saluto con un sorriso beffardo.

Prima che lei possa fermarmi lo raggiungo e mi pianto davanti.

“Padre!” Lo apostrofo ghignando. “Che fai prepari una guerra? O l’ennesimo accordo economico tra Stati?  Hai una vita intensa, tutta lavoro e niente affetti.” Rido toppo forte, troppo sguaiato.

Anthea si para di fianco cercando di proteggerlo. Mycroft è visibilmente imbarazzato, sorpreso dalla mia piazzata.  Auberton entrato poco prima, assiste alla scena.  Un piccolo cenno di intesa passa tra noi tre. Papà si scosta, lo ostacolo ridendo, Anthea mi trascina via, per mettere fine alla sceneggiata.

Le lancio un’occhiata velenosa, allungo un pò troppo la mano sul retro della scollatura scivolando in basso. Tutto tra gli sguardi allibiti degli ospiti.

Lei è brava a dribblare, mi pianta seccata. Inizio a girare annoiato, mi fermo tra un gruppo di gente che chiacchiera e infastidisco chi mi capita sotto.

Intanto seguo Auberton, Anthea è vicino a mio padre che parla fitta mentre tento il primo approccio con lui.

Con il bicchiere in mano lo urto. “Mi scusi.”  Lo guardo fisso. “Forse la conosco, è un collega di mio padre?”

Cerco di pulirlo e faccio di peggio. È seccato e non lo nasconde.  “Ragazzo dovresti tornare tra le braccia di tuo padre o si preoccuperà.” È viscido, e questo mi spinge a continuare. “Chi?   Il pezzo di marmo che ha in mano la Governance?”   Ammicco.   “Non ci tengo. Preferisco stare da solo come ho sempre fatto.”  Appoggio il bicchiere mentre non guarda e ne prendo un altro, non ho bevuto nemmeno un goccio, ma sono l’ubriaco perfetto.

“Sir Auberton, lo sa che per colpa del vecchio Holmes, qualcuno ha tentato di rapirmi? Guardi che bei ricordi mi hanno lasciato in faccia.” Fingo un passo falso e lo urto. “Mi scusi ancora.”  Mi guarda perplesso, incapace di reagire, si chiede dove voglio arrivare.

“Forse abbiamo in comune più di quanto sembri.”  Gli pianto il viso troppo vicino, si scosta.  “Per esempio, so chi è stato a farmi questo. Diciamo non voglio succeda più. Non voglio entrare nelle beghe di potere del mio amato padre.”

 Rimane muto e mi studia. Allora semino il dubbio, gli sibilo secco.

“È stato lei, Sir Auberton, per quel maledetto portatile che tanto desidera.” Ora il gioco è partito, Auberton mi scruta, la mascella talmente stretta che posso sentire i denti stridere. Fa segno di seguirlo.

Andiamo in un posto appartato, mentre mi dà di spalle, metto giù il bicchiere e rapido ne prendo uno vuoto. Siamo sulla porta della terrazza, ha il volto tirato nero di rabbia.

“Non sei chiaro, ragazzo! Come sai queste cose?” Ha la voce incolore come se trattasse con un bambino viziato.

“Perché le ho sentite dal vecchio.” Ora ho la sua attenzione, lo osservo arrogante.

“Via, Sir Auberton non faccia torto alla sua intelligenza!  Chi, se non lei, aspira al posto di Holmes?  E ai codici di accesso di quel portatile, che si porta sempre dietro?” 

Assumo l’aria sfrontata e lo prendo sottobraccio, con una confidenza che mi concede nonostante tutto l’odio che non riesce a nascondere.

“Holmes sa che è stato lei, la vuole incastrare e io voglio entrare nel gioco.  Se ne starà tranquillo e io le porterò il laptop, ma voglio tutte le chiavi di accesso ai conti Holmes.  Il resto se lo può tenere.” Mi avvicino al suo orecchio.”  Sarà travolto dallo scandalo, ma starà zitto, si sente stupidamente in colpa per avermi abbandonato.  Non tradirà il sangue del suo sangue.” 

Vedo Anthea arrivare con il giusto tempismo.

“Eccolo il cane da guardia di papà!  Ci sentiamo più tardi appena me ne libero.”

 Mi fa un gesto di intesa. Auberton si scosta mentre Anthea mi afferra per la manica e mi trascina via. “Sir Auberton spero Sherrinford non L’abbia infastidito, è bravo a perdere tempo in cose inutili.” Fa credere di essere preoccupata per qualcosa che posso avergli detto.

Le metto la mano nel fianco e scivolo dietro.

“Che dice della solerzia di Anthea? Lei è così brava a obbedire a papino. Vero cara?”    Si toglie la mano dalla schiena, mentre ridacchio e lei finge imbarazzo.

 “Come sono devoti i servitori di mio padre? Farebbero di tutto per lui!  Vero Anthea?”  Lei arretra e mi spinge via. Strizzo l’occhio al serpente e me ne vado.

Sono un pò in difficoltà, lei lo sente, mi porta in un posto appartato vicino ai bagni e mi spinge in un ripostiglio.

Mi scruta mentre riprendo fiato. “Stai bene?” 

“Si, tranquilla.” Metto le mani in tasca e stropiccio il blister delle medicine. Non ne ho bisogno, non ora, così le racconto come è andata.  “È parecchio sospettoso, ma sembra che stia abboccando,  ora devo vedere se ci accordiamo.”

“Vorrà qualcosa in cambio, una prova che dici il vero, devi essere bravo a fingere. E a prendere tempo.”

Mi sorride e mi fa una carezza leggera sul viso. “Hai messo tutti in allarme, sono andati da Mycroft a lamentarsi del tuo comportamento oltraggioso.”  

“Povero papà, starà soffrendo, ma spero di consegnargli Auberton come rimborso.”

“Già.” Sospira increspando le labbra. “Ora vediamo di portare a casa la partita.” 

Usciamo guardinghi, ma appena vedo Auberton alla fine del corridoio, la stringo e cerco di baciarla. Anthea è scaltra, dapprima si divincola, poi cede, la tengo con forza e avvicina le sue labbra alle mie.  Peccato, ho promesso a papà di essere un gentleman. Lei così vicina non mi capiterà mai più.

Auberton controlla, sghignazza, alza il bicchiere verso di me approvando la violenza che sto facendo ad una donna.

Maledetto serpente, Anthea sente che mi irrigidisco, mi sussurra all’orecchio. “Non farti prendere dalla rabbia, tienila fuori. Avrai tempo per vendicarti.” Ci stacchiamo mentre lei torna da Mycroft.  Io seguo Auberton. Entra nella stanza degli Arazzi e lo trovo con un tipo al seguito. La sua guardia del corpo.

“Lui è Serge, è fidato.” Lo sguardo cade sul vestito costoso che indossa ma non è armato, non certo stasera.

“Caro Holmes se riesci a portarmi quel laptop, avrai quello che ti spetta. E intanto starai al sicuro da brutti inconvenienti.”  Alzo lo sguardo al cielo.

 “Finalmente qualcuno di intelligente in mezzo a questo parco di mummie! Sta bene, Sir Auberton, quando lo avrò mi farò sentire, ma non credo mi ci vorrà molto, mio padre è piuttosto stupido quando si rapporta con me.”  Ridiamo con voce piena, ma improvvisamente si ferma.

“Però c’è una condizione Holmes, devi dimostrarmi che sei serio, che non stai facendo un triste giochetto a favore di tuo padre.” Ecco quello che Anthea aveva preannunciato, vuole una prova.

“Nella biblioteca c’è una telecamera di sicurezza, trascinaci tuo padre e dagli il benvenuto piazzandogli un bel pugno in faccia. Puoi rompergli le labbra o il naso, vedi tu, ma deve sanguinare e bene.” Mantengo la calma, la cerco nel profondo di me stesso, non deve trasparire l’angoscia che sento. So che devo farlo anche se mi costa.  Così gli rido in faccia.

 “Dovrò farmi perdonare, questo allungherà i tempi per sottrargli il laptop.  Però si può fare e lo faccio volentieri. Quello spocchioso taccagno se lo merita.”

“Ti contatterà Serge, e vedremo di essere tutti contenti.” 

Raggiungo la porta.  Mi volto, mentre stringo la maniglia.  La faccia scura di rabbia per quello che devo fare, per come lo devo fare.  La voce aspra.  “Sir Auberton, non sono così stupido come sembro, ho vissuto la mia vita in un istituto. Non provi a fare il doppio gioco con me. Non sono tollerante come Mycroft, e si rammenti bene il mio nome: Sherrinford Haycok Holmes.”

  

 

 

 

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Capitolo 27
*** Il ricevimento all'ambasciata. Seconda parte. ***


 

Esco dalla porta imprecando, colpire papà non mi piace, ma dobbiamo continuare la farsa. È importante prenderlo con le mani sul portatile e nel frattempo tenerlo lontano da me. Anche se rivelassi i nostri colloqui sarebbe la mia parola contro la sua e ne uscirebbe pulito.

No! Scuoto la testa, continuare è necessario, costi anche dolore. Potrebbe arrivare anche a colpire Rosie e tutta la mia famiglia, va fermato e in modo definitivo.

 Anthea mi raggiunge, cerco di appartarmi spingendola lungo il muro con un approccio un po' spinto e le rivelo all’ orecchio quello che devo fare.

“Tranquillo, organizzo tutto io con tuo padre. Tu vedi di colpirlo da destra a sinistra e ti prometto che sanguinerà dal naso, come da copione. Tu fa solo quello, la lite gestiscila tu.”

 Acconsento mentre le appoggio la guancia sul suo volto.  “Mi raccomando Anthea non voglio fargli male per colpa di quel bastardo.” Le stringo i fianchi.  “Hai visto Serge lo scagnozzo? Sta girando per la sala e ci osserva.”  Mi dà un bacio sul collo. “Visto e segnalato.

Me ne allunga un altro sull’orecchio. “Anthea, quanto tempo vuoi.” Mi passa le mani sotto la giacca. “Venti… dammi venti minuti. Vai in bagno, fingiti imbarazzato.” 

Mi stacco, mentre mi spinge via ridendo, mi guardo il cavallo dei pantaloni, scivolo in bagno brontolando, devo prendere tempo. Darle quei venti maledetti minuti!  Poi ripasso mentalmente: destra sinistra. Destra, sinistra all’infinito.

Entro in un bagno e mi siedo sul water con la testa fra le mani, una sottile paura mi prende e mi scivola lungo la schiena. Non sono così forte come sembro, però non lascerò nulla a metà. Lo faccio per dimostrare a papà che sono un Holmes. Che sarò al suo fianco sempre.

Quando esco fatico a rientrare nella parte del figlio irrequieto, ma è solo un attimo. Mi dirigo verso la biblioteca.  Anthea guarda caso chiacchiera con papà lì vicino. Cammino fingendomi mezzo ubriaco.  Lo trascino dentro con una scusa, ma vuole che Anthea rimanga, e io acconsento annoiato.

“Padre, questa serata è qualcosa di devastante, potevo rimanere a casa.”

 Lui mi fissa adirato, Mycroft è bravo a recitare, Sherlock mi ha detto che è stato un’ottima lady Bracknell, “Nell’importanza di chiamarsi Ernesto.”

“Non hai fatto altro che importunare Anthea.” Ghigna irritato.

“Era l’unica persona viva qui dentro. Ma mi sembra sia d’accordo.” Le strizzo l’occhio, Anthea è imbarazzata ma regge il gioco.

“Devi portarle rispetto, sembri un animale in calore.” Sbuffa camminando avanti e indietro. Le mani nervose stringono la stoffa della giacca. Non capisco se finge o invece è realmente teso.

“Non ti ho chiesto di venire, mi hai trascinato in mezzo alle tue lotte di potere. Guarda come mi hanno ridotto. Non voglio il tuo posto, voglio quello che mi spetta per gli anni di abbandono.!”

“Per sprecare il tuo tempo a non fare nulla? È questo che vuoi? Sei solo un arrogante…senza cuore, degno figlio di tua madre.”  Mettere in mezzo mia madre è un colpo di genio, mi rende tutto più facile, anche l’eventuale perdono che verrà dopo.

Lo avvicino con i pugni serrati, lui si è fermato giusto davanti alla piccola telecamera nascosta, ma visibile ad un occhio esperto.  È attento, ora sa che devo colpirlo.

Destra, sinistra. 

Destra, sinistra.

È pronto lo vedo dal guizzo degli occhi.

Parte il pugno, non devo titubare, lo tocco, ma lo sfioro perché è stato pronto a voltare il capo. Barcolla più del necessario girando il corpo di spalle alla telecamera.  Anthea è veloce lo sorregge e lo copre con un fazzoletto già intriso di sangue finto.  Quando si gira inveendomi contro, lo stringe tamponando il naso, così rosso che sussulto.

La recita è accettabile. Mycroft mi scosta con rabbia quando esce. Anthea lo sorregge, lo porta via, mi strizza appena gli occhi.

Devo smettere di tremare, ma è giustificabile perché potrebbe essere dovuto alla rabbia.

Esco inviando uno sguardo compiaciuto alla telecamera di sicurezza, se ha funzionato lo saprò tra poco.  

Mi aggiusto, riprendendo la calma. Esco dalla biblioteca, con quell’aria seccata di superiorità, massaggiandomi la mano che ha colpito Mycroft, probabilmente lo avranno visto uscire ferito, insieme ad Anthea, perché mi fissano tutti. Devo essere risoluto, niente rimorsi arrivati a questo punto.

Auberton è nella terrazza, Serge è vicino a lui con un sorriso fastidioso, avrei voglia di cancellarglielo dal volto.

Non hanno dubbi, perché hanno visto Mycroft passare imbarazzato coperto di sangue. Lui non si presterebbe mai ad una tale recita, perché la sua reputazione è al primo posto. È il British Government, l’affidabilità in persona.

Quando lo raggiungo Auberton è appagato.

“Bene Holmes, vedo che sei deciso. Allora vedi di portarmi il laptop, avrai quello che vuoi, ti darò le password del patrimonio Holmes. E starai tranquillo fino ad allora. Il tuo bel faccino sarà salvo.”

“Sir Auberton, stia sereno. Ma se vuole giocare sporco le scatenerò dietro l’ira di mio padre. Ne stia certo.”  Perde per un attimo il sorriso, mi sono sbilanciato, ma non ho resistito.

“Bello, sfrontato…. e cazzuto Sherrinford, la parte nera degli Holmes!”

“Già. La parte peggiore.”  Gli sibilo all’orecchio, mentre me ne vado.

 Serge freme, ma si ferma mentre mi giro a fissarlo sfacciato, Anthea mi raggiunge furente per quello che ho fatto al suo capo. E principalmente per togliermi dagli impicci.

Arrabbiata e furiosa si sta preparando a schiaffeggiarmi, la mano si muove, parte con un sonoro ceffone, che trattengo prontamente. Rido mentre le stringo il polso, noncurante della vicinanza di Auberton le appoggio la mano sul fondoschiena e la spingo via mentre si dimena per assumere un’aria distaccata.

Usciamo tra gli sguardi dei presenti mentre mi rilasso pensando che è finita, almeno per ora.

Ho infangato per bene papà, ora tutti sanno che sono un mascalzone della peggior specie.   

   

 

 

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Capitolo 28
*** Una pausa dopo il ricevimento ***


 

Passiamo dal retro,  Anthea mi vede in difficoltà. Il lungo corridoio non finisce mai, non vedo l’ora di uscire dalla sorveglianza delle telecamere.  Mi affianca, mi prende per la via e finge un abbraccio. “Forza Hayc ci siamo quasi, Albert ci aspetta.” Non rispondo mi limito ad annuire, mi sento stremato.

Alla fine dopo essere scesi per l’ennesima scala di marmo bianco, siamo nel giardino interno. Vedo Albert in piedi di lato alla “Bestia,” la berlina nera e mi ci butto dentro.

Albert oscura i vetri, Anthea è salita parte rapido. “Come sta papà?” È la cosa che mi preme di più. Ho cercato di non fargli del male, ora ne voglio la conferma.

“Sta bene, l’hai appena toccato, mi ha detto che devi stare tranquillo, appena è possibile si farà sentire, non vuole destare sospetti non dopo tutto il lavoro che hai fatto.” Cerco di respirare a ritmo, ma mi è quasi impossibile. Annaspò aria.
“Sherrinford respira, è finita sei stato bravo.” Mi allunga una carezza poi mi prende il polso, ascolta il mio cuore. “Sto bene,” ma mi esce un fiato soltanto. Armeggia con il portaoggetti sul sedile e prende un saturimetro, lo infila nel dito della mia mano. Le rivolgo uno sguardo truce. “Anthea, per pietà sto bene!”

“Non essere stupido, tuo padre mi ha dato degli ordini e io li eseguo. Se è per questo,” incida quel coso in filato nel mio dito, che lampeggia impietoso, “abbiamo anche un defibrillatore, e sia Albert che io abbiamo fatto un breve corso.”

Sbuffò risentito girandomi verso il finestrino, ma la lascio fare perché   stanco lo sono davvero.

“Mycroft non lascerebbe nulla al caso lo sai, tantomeno la tua salute.”  Ha la voce calda, vede che è più lo stress che ho subito, che il mio cuore malandato.

“Non dirlo a papà.”  Le mormoro tornando a guardarla con il capo abbandonato su sedile.

Ammicca.  “Lo sai che non posso. Ora rilassati,  so che stai bene.”  Chiudo gli occhi e rimango silenzioso per il resto del viaggio.

A Baker Street scendo fingendomi ubriaco, lei mi accompagna. Saluto Albert  per la pazienza che dimostra.

“Si riprenda giovane Holmes, è stato un ottimo attore.” Sorrido e scendo,  la voce di quanto sia un figlio bastardo e ingrato circola nell’ambiente.

A casa Anthea mi lascia alle cure di John che mi ha aspettato alzato, nonostante sia tardi.

“Eccolo di ritorno, dottor Watson lo metta a letto.” Non ho il tempo di replicare perché Anthea esce rapida e John mi trascina in camera.

“Stai bene?” Mi scruta attento.

“Avanti John, vi state preoccupando troppo, così mi rendete le cose difficili.” Agita la mano allontanando un pensiero cattivo e fa per uscire.

“Va bene, mi fido prendi le tue medicine e fila a letto. Fallo, perché sennò domani ti lasciò Rosie per tutto il tempo a sgridarti.”  Ridiamo entrambi,  già immaginando il faccino imbronciato della piccola peste.

“Va bene, farò tutto alla perfezione.” Gli chiedo di Sherlock. “È da Mycroft per chiarire questa situazione. Ora dormi e basta pensieri.”

La giornata è finita,  Auberton  è nella nostra ragnatela,  vedremo cosa succederà nei prossimi giorni.

Mi addormento senza nessun sogno.

La mattina si apre con il profumo di caffè che invade la camera. E naturalmente Rosie che si avvicina quatta al  letto.

Non serve a niente ficcare la testa sotto al cuscino, perché lo scosta e me la ritrovo che mi fissa felice.

“Quando mi accompagni a scuola? Lo zio Myc ha trovato i cattivi che ti hanno fatto del male?”

Brontolo mezzo addormentato.  “Non ancora cugina, ma vedrai che presto potrò accompagnarti.”

“Sei un pigrone! Alzati vieni a fare colazione.” Mi tira le coperte, che finiscono a terra.

“Rosie, vattene su lasciami dormire.”  Faccio finta di girarmi, mentre delusa abbassa la testolina bionda. E si volta per andarsene. Salutò giù dal letto rapido, la afferro e le faccio il solletico.  Ride così forte, si ribella ed è così felice che mi riempie il cuore di gioia.

Inneschiamo una rapida lotta nel mio letto disfatto, mentre John la richiama arrabbiato, perché è  di nuovo tutta in disordine.

Trovo bellissimo avere una famiglia, per tanto tempo sono stato solo, ora la vita mi sembra più bella. Auberton a parte.

“Sherrinford, sei peggio di mia figlia! Guarda com’è ridotta. Ora la rivesti tu.”  John si è affacciato alla porta della camera mentre si asciuga le mani e brontola.

Trascino via Rosie prima che perda la pazienza e la porto in cucina a prendere il suo latte e a mangiare i suoi biscotti.

Io in pigiama e scalzo, vengo prontamente redarguito.

Guardo John e mi sorprendo a valutare che sembra più apprensivo di papà.  È premuroso e mi segue con attenzione,   sento affetto per quest’uomo che ha perso la moglie in un modo brutale, ma  cresce la figlia con tutto  l’amore che può darle. E sopporta   discreto i due Holmes.

Per lui non sono nulla, eppure ho un piccolo posto nel suo cuore.

Mi rivesto e seguo i suoi consigli. Come promesso rimetto in ordine la piccola peste, le metto il cappellino rosa con un fiocco blu. E le stampo un bacio in fronte. Mi abbraccia stretto e mi ricambia, mentre mi abbasso per ricevere il suo bacio umido.

Escono e nello stesso momento ricevo la chiamata di Mycroft.

SH    “Papà?” Sono sorpreso ci possono intercettare.

MH   “Tranquillo la linea è sicura.”

SH      “Problemi? Come stai?”  Temo di avergli fatto del male e la cosa mi rode.

MH   “Dimmelo tu Sherrinford, visto che ieri sera in auto sei crollato.” La voce gli trema un po'.

SH      “Possibile che siate tutti così apprensivi? Sto bene cavolo!”

MH    “Volevo sentirtelo dire.  Comunque anch’io sto bene, stai sereno. Mi hai appena sfiorato.” Respiro   meglio ora che lo so.

SH      “Auberton come si muove?”

MH     “Credo che si farà sentire tramite Serge. Dobbiamo riallacciare i rapporti per giustificare il fatto che ti avvicinerai al laptop. Ti darò una memoria usb contenente alcuni dati ben costruiti che lo convinceranno ulteriormente. Gliela consegnerai come invito ad abboccare a tutto il resto.”

SH       “Bene, riprenderò la recita. Voglio vederlo con le mani fuori dalla famiglia, voglio accompagnare Rosie a scuola senza morire di paura per lei.”

MH      “Presto sarà innocuo te lo prometto.” Fa una pausa poi  lo sento ridere.

SH      “Che c’è Papa, sembri allegro.”

MH      “Non sai cosa ho dovuto sopportare per il tuo comportamento sopra le righe,  Alicia è letteralmente  scandalizzata. Spero di riabilitarti presto perché è difficile rimanere serio.” Ride ancora. “Figlio sei un ottimo attore.”

SH       “Mai come la tua Lady Bracknell.”  Stravolta rido io.

MH     “Te ne ha parlato Sherlock? Non me lo aspettavo.”

SH       “Ti vuole bene più  di quanto tu possa pensare.”  Soffia dentro al cellulare e prende una pausa. “Ci sei

            Papà?”

MH      “Si, Sherrinford ci sono.”  Altra pausa. “Sei un bravo ragazzo, Virginia sarebbe fiera di te.”

Rimango muto mentre chiude la conversazione. E per Dio!    Mi sento bene come non lo sono mai stato.

Auberton pagherà, siamo gli Holmes che diamine!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 29
*** in cerca di mia madre ***


    

 

Sono rimasto da solo a Baker Street, John ha accompagnato la piccola peste, papà mi ha già chiamato, Sherlock rincorre l’ennesimo caso.  La commedia con Auberton è in stallo.

Mi sento nervoso, passeggio un po' per casa, cercando una calma che non trovo. Raccolgo pensieroso un giocattolo di Rosie, lo metto in ordine, sopra al tavolo. Di fronte, nella mensola di legno, vedo la foto degli Holmes, forse l’unica che hanno.

Mycroft, Eurus e Sherlock che sorridono inconsapevoli di quello che li avrebbe travolti. Mio padre è un bambino sovrappeso, i suoi fratelli due esili mocciosi.

Cerco di trovare dentro di me, un motivo per rimanere in casa, perché ho una gran voglia di uscire, di vedere la strada da cui sono venuto.

L’istituto è stato il mio tetto per anni, provo un desiderio malato di rivederlo.  Mi sento senza un passato e nonostante la maturità acquisita, gli insegnamenti di Sherlock, le paternali di John e l’amore di papà, esco.

So quello che faccio, mi sento in difetto, ma ho bisogno della strada. Si arrabbieranno, mi daranno dell’immaturo, ma lo devo fare. Ho bisogno di uno spazio che sia mio, che mi dia indietro una parte di quello che ero.

Prendo un foglietto, scrivo a John che tornerò presto, che non si preoccupino.  Lo lascio sul tavolo in cucina, sotto al pupazzo di Mr. Trevor.

Scendo con una felpa scura anonima, spengo il cellulare.  Sono in strada, in mezzo alla gente distratta, so che sto commettendo un errore e che li sto deludendo, ma ormai è fatta.

Tiro su il cappuccio, prendo le vie laterali, evito le telecamere visibili, cercando di scansarle come posso. Prendo la metro, pago in contanti poi mi defilo.

 Mi fermo spesso saggiando il percorso, non posso accendere il cellulare. Ma vado per gradi, so che prima o poi papà mi troverà.  Torno in quella parte di Londra dove ho vissuto per anni. 

Eccolo quell’edificio bianco con le colonne sporche di smog, anonimo e triste, tanto odiato, ma che mi ha visto bambino e praticamente è stata la mia casa.

Mi siedo sulla stessa panchina dove ho visto mia madre, non sapendo che era lei.

Voglio capire cosa vide.

Immagino il suo sguardo su di me, che seguivo i miei compagni, e senza un motivo, mi precipito a raccogliere la borsa della spesa, che aveva maldestramente rovesciato a terra.

Dio! Quanto sarebbe cambiata la mia vita e la sua, se solo avesse detto che ero suo figlio!

 Mamma, perché non l’hai fatto?  Mi sento stringere il cuore, sarebbe stupido avere una crisi davanti all’orfanotrofio. Non ora, maledizione, che ho trovato una famiglia e un padre.  Respiro contratto, le mani in grembo chiuse a pugno. Eppure nonostante l’angoscia sono incapace di staccarmi da lì.

Rimango immobile, fissando la porta e il cancello di ferro battuto, che ha racchiuso la mia vita per tutti quegli anni.

Mamma, se solo potessi vedermi adesso, in questo momento, saresti fiera di me?

La testa mi pesa, ma non ho nessuna risposta, non lo saprò mai.

Eppure papà mi ha detto che mi hai amato! Anche lui, a modo suo, mi tiene vicino al suo cuore. 

Saremmo stati una famiglia: Virginia, Mycroft e io e forse chissà, sarebbe arrivato un fratello o una sorella.

Ne avrei avuto cura, come ha fatto papà con Sherlock, e con la pazzia di Eurus.

Fanculo Auberton!

Io sono Sherrinford,  non mi porterai   via la mia strampalata famiglia.

Sento nel cuore la voglia di continuare questo assurdo pellegrinaggio.

So dove abitavi, ho fatto ricerche sul computer di zio Sherlock, voglio vedere, sapere dove hai vissuto.

Questa è una cosa mia, non è nemmeno di papà. Nè degli Holmes.

Prendo di nuovo la metro raggiungo i sobborghi di Londra. Il nome della via mi rimbomba dentro al cervello.

Scendo, cammino rapido, sono un po' affaticato, ma voglio vedere la tua casa.

Virginia, dammi la forza, conducimi da te, non sai quante volte ho immaginato il tuo volto.

La tua foto con papà era dolcissima, ora voglio vedere dove hai passato la tua vita. La piccola villetta, mi   appare in lontananza, lungo un viale alberato, tra case e negozi.

Bianca, con la staccionata in legno, il prato e le siepi di rose.

Il giardino è ben curato, il numero civico corrisponde, anche il cognome. Spencer.

 Un uomo anziano magro e un pò curvo sta tagliando il prato.  Una donna della stessa età, con i capelli canuti, raccoglie delle rose bianche. Lo stesso colore delle rose che Mycroft aveva messo in un vaso di vetro in casa.

Profumate e delicate come le mani di mio padre, che avevo sorpreso mentre le accarezzava.  L’unico giorno che sono stato a Pall Mall.

Mi fermo e li studio, forse sono i tuoi genitori, i miei nonni.

 Ma non mi hanno voluto, di certo non posso avvicinarmi, so che sarebbe sbagliato, soprattutto per te mamma.

 Mi allontano e siedo su di una panchina poco più in là, accanto ad un negozio di souvenir.  Mi immagino come poteva essere vederti uscire da casa a fare la spesa, vestita leggera o che raccoglievi la posta, ridendo.  Forse quel cane che corre senza sosta è il tuo, lui ti ha senz’altro avuto più di me.

Non mi stupisco della berlina nera che si ferma lenta vicino al negozio. Non mi volto nemmeno. Per quanto sono stato accorto, lo so che papà sarebbe arrivato.

Spero di non aver compromesso niente con Auberton.  Ma lui non ha i mezzi di Mycroft.

Eccolo, mio padre!  Lo sguardo severo, scende respirando un paio di volte in più.   Dietro, ora ferma e impassibile c’è Anthea.  Albert come al solito, è alla guida.

La mia famiglia, mamma, sono loro.  Sempre attenti che non perda mai più la strada di casa.

“Ciao, Sherrinford. Immaginavo che fossi qui. Lo sentivo che ne avresti avuto bisogno.” i siede vicino, i guanti, l’ombrello che girano fra le sue mani.”

“Papà lo so, non dire niente. Ho sbagliato, ma dovevo venire. Cerca di capire.” Ho appena un filo di voce, che vibra un po'.  

Non alzo la testa e mi tormento le mani. “Spero di non aver compromesso la storia con Auberton, sono stato attento.  Certo, tu hai altri mezzi, sei un’altra cosa, lo sapevo che mi avresti trovato.”

“E’ tutto a posto, tranquillo, nulla è compromesso.”  Alzo lo sguardo e gli vedo in faccia un piccolo ematoma sulla guancia.

“Papà! Per Dio!  Mi avevi detto che non ti avevo fatto niente.”  Mi sento spezzato, gli tocco piano il volto ferito, e tremo mentre lo sfioro.

“Non è niente, Sherrinford, non darti una pena così grande.”

C’è un silenzio pesante che ci percorre, mentre guardiamo entrambi la villetta bianca.  Ho la voce rotta, mentre gli dico una verità nascosta da tanto.

“Papà, hai idea di cosa voglia dire sentirsi soli e tormentati?   Cercando di capire il perché sei stato abbandonato?  Non riuscendo a spiegarti come l’amore di cui avevi bisogno non c’è mai stato?” Mi fermo e riprendo fiato. “Mi sono sentito  sbagliato dentro, come se la colpa fosse stata mia.”

Ho un  nodo nel petto che non si scioglie, tremo così forte che spavento anche lui, che non è il massimo a dimostrare affetto. 

Allora papà non fa più resistenza, perde il suo controllo, quello acquisito per anni. Mi abbraccia e mi stringe così forte da farmi sussultare per il dolore, le mani conficcate nei capelli che mi strattonano insaziabili,   più che accarezzarmi.

Lo sento ansimare, lui l’uomo di ghiaccio vacilla. Si impossessa di quella emotività che ha bandito dalla sua vita, che ora lo travolge e non conosce, ma accetta mentre pianta il volto sulla mia spalla e mi bagna.  Perché piange, Mycroft piange per me.

Non ha vergogna di Anthea e di Albert, che gentili si allontanano e si girano alla nostra compassione reciproca.

Decido, di rendergli tutto me stesso, tutto il perdono che posso accordargli, lo tengo stretto in quell’abbraccio, mentre con le mani nei capelli gli muovo una carezza sincera...  come se il mondo mi fosse testimone che non lo lascerò mai, per il tempo che ci sarà dato, io sarò con lui.

Lì davanti alla casa di Virginia, con le siepi di rose candide, in un certo modo lei ci unisce.

Abbiamo la sua benedizione. 

Potevamo essere una famiglia, ora lo siamo in parte, spezzati, con il cuore in frantumi, mentre cerco di capire mio padre e lui cerca di capire me.

Dio ci ha dato, Dio ci ha tolto…. ma ora non mi porterà via più nulla. Lo giuro, mentre piango insieme a lui.

 

 

 

 

 

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Capitolo 30
*** Sherlock, Mycroft e la fratellanza. ***



Mycroft, per non destare sospetti torna a casa con Albert. Un'altra auto mi preleverà più tardi e tornerò insieme con Anthea.

Rimango seduto sulla panchina, stretto nella giacca, mentre aspettiamo.

Per ora ho deciso con papà, di non incontrare i Sinclair. Ci siamo accordati che quando avremo chiuso la storia con Auberton, mi interesserò di loro. È mio diritto capire perché la mia vita è tutta in salita, rovinata da una decisione terribile, per quell' abbandono che non digerisco.

Anthea mi lascia da solo, a smaltire un insieme di rabbia e amore. Ho riacceso il cellulare ed ecco arrivare con perfetto tempismo il messaggio di Serge.

Naturalmente vuole incontrarmi e vuole qualcosa di solido in cambio. Un acconto di password buone e compromettenti. Anthea intuisce, si avvicina, le mostro il cellulare, senza dire una parola.

"Sherrinford, devi buttarti alle spalle i tuoi nonni materni. Ora devi essere lucido."

La berlina nera è arrivata, meno vistosa, meno elegante di quella di Mycroft. Saliamo e stabiliamo d'incontrare Serge nel pomeriggio, in una via lungo il Tamigi non troppo lontano da casa, dove potrò essere ben sorvegliato. Consegnerò una memoria usb, poco funzionale, ma che dimostra che non sono così esperto.

"Hayc, Mycroft vuole che tu faccia una cosa per lui." Già avermi chiamato con il mio soprannome mi mette in allarme. Grugnisco e la guardo. "Vuole che tu metta un chip sottocutaneo che ti possa sempre localizzare."

Aspetta la mia reazione con un mezzo sorriso canzonatorio. "Anthea, per Dio! Spero non avrai appoggiato papà su questa idiozia." La fisso furente. "Non sono un animale, da trovare se si perde."

Ride, scuotendo i capelli ramati. "Me la immaginavo la tua reazione, ma è necessario Hayc, con Auberton che ti minaccia è indispensabile, te lo assicuro. E Mycroft...ha paura, quindi non fare il ragazzino impertinente." Continua a stuzzicarmi, sa di provocarmi.

"Anthea, non chiamarmi ragazzino." Le grido offeso. Poi la guardo e vedo che si burla di me. "Bada, che potrei vendicarmi, allungare le mani quando faccio la farsa, e approfittarmi di te."

"Non lo farai perché ti conosco bene, sei come Mycroft, gentleman fino al midollo." Si ferma e inclina la testa e mi osserva. "Ti riempirei di schiaffi, perderesti la lotta. Sono stata un agente, non scordartelo."

Ha ragione, senza dubbio perderei, il suo fare mi ha calmato, accetto d'inserire il chip anche se non sono contento.

"Bene, lo farà John è già tutto fissato." Sa come manovrarmi, la fisso astioso, hanno già deciso anche per me.

"Non fare quella faccia, nessuno ti avrebbe lasciato allo sbando senza sapere la tua posizione, imparerai una formuletta in base alla distanza che hai percorso, saprai quanto tempo ci vorrà per il nostro arrivo perché tu sia al sicuro. Una semplice moltiplicazione. Ma una sicurezza in più." Annuisco, il suo discorso non fa una piega.

Intanto siamo arrivati a Baker Street. Mi accompagna di sopra, mi consegna la memoria usb. Intanto mando un messaggio a Serge per il nostro incontro, alla fine accetta la via lungo il Tamigi, dove c'è un piccolo porticciolo.

"Bene, ti sarò vicino con discrezione, ora aspettiamo John, facciamo introdurre il chip." Vede la mia faccia preoccupata. "Non è nulla, Sherrinford, un taglietto sottocute." Poi ride. "Però dolorosissimo."

"Smettila Anthea!" Mi metto a ridere anch'io mentre mi guardo allo specchio con la faccia pallida. Mi fanno paura le siringhe, figuriamoci i tagli, soprattutto quelli programmati.

John arriva più tardi, Anthea gli consegna una piccola scatola sterile, mi guardano ironici, lui si avvicina, con la faccia seria.

"Ora mi diverto a vederti stramazzare al suolo. Ti farò malissimo." E scoppia a ridere anche lui. Si stanno facendo beffe di me, ma so perfettamente che cercano di farmi rilassare. Ci sta che sono pauroso, con tutto quello che ho passato! Però sono tranquillo, perché hanno cura di me.

Mi fanno sedere sulla poltrona, a torso nudo girato di fianco, John armeggia sotto la scapola.

"Come sei magro, Hayc dovresti mangiare di più." Sbotta John, mentre mi osserva.

"Direi più palestra dottore, non ha muscoli, non è atletico come lo zio. Non è nei miei standard, decisamente troppo magro." Spettegola lei, con aria saputa.

"Hai ragione Anthea, dovrebbe mettere su muscolatura. Chi se lo prenderebbe questo ragazzino ossuto."

"Smettetela vuoi due, sto bene così." E intanto mi taglia e mi infila veloce il chip, mentre fa male, ma sono troppo arrabbiato per sentirlo.

"Fatto, adesso puoi svenire, stai morendo dissanguato." Comprendo la farsa che hanno imbastito. John mi batte sulla spalla. "Rivestiti, sei stato bravo, avrai un premio per il coraggio dimostrato. Adesso ti ritroveremo ovunque tu vada."

E ridono ancora, ma mi sciolgo, sono pieni di attenzioni. Infondo ho passato di peggio eppure oggi mi sono perso. Sento un bruciore, ma nulla più. Mi ha messo un cerotto a protezione, che toglierò prima di uscire.

Anthea mi lascia con un'ultima raccomandazione: di non cambiare in fretta direzione e calcolare i tempi del loro intervento in caso di pericolo. Ora sarò solo, agirò come credo.

Lei esce e torna Sherlock.

Quello che non mi aspetto succede in un attimo. È già arrabbiato quando arriva, non mi lascia nemmeno salutare e mi chiede del perché di quello stupido colpo di testa.

È brutale quando mi dice di non cercare chi non mi ha mai voluto. John lo placa, mentre io non riesco a rispondere.

Balbetto indignato. "Zio, voglio sapere. Che c'è di male?"

"Questa è solo vendetta che vuoi! Tua madre non c'è più. Vuoi far vedere ai Sinclair cosa ti hanno fatto lasciandoti andare, per il puro piacere di tormentarli." Si interrompe, non riesco a capire perché si accanisca così. "Non fai del male solo a loro, Sherrinford, ma soprattutto a mio fratello."

Ora capisco! Non è più mio padre, ma rivendica il diritto che Mycroft sia suo, il suo amato fratello.

Quello che ha sempre infastidito e molte volte offeso, reso dipendente da lui, che non si è fatto una famiglia per corrergli dietro.

John vede la mia rabbia salire e tenta di smorzare i toni, ma la furia mi ha preso e parto senza freni.

"Bada zio! Parli tu che hai manipolato tutta la sua vita! Non sei stato sempre così amorevole come vuoi far credere. Lo hai allontanato così spesso da farlo soffrire. E ora lo vuoi proteggere da me? Che sono suo figlio? L'unica cosa che ha?" Mi fermo tentando di prendere aria. "Sono imperfetto lo so, sono malato, ma mi vuole bene e io ne voglio a lui. Sto imparando ad amarlo e lui lo fa con me."

Sherlock tace è in piedi vicino al camino, anche John è muto. Due statue immobili. Sento un fastidio crescente, continuo deciso a dirgli quello che penso.

"Non riesce nemmeno a portarmi dai suoi genitori, perché si sente in colpa per le bugie che ha detto su Eurus. Nonostante tutto quello che ha passato all'isola, lo hanno massacrato e permettimi, anche tu e John lo avete lasciato da parte. Se non fosse stato così forte non sarebbe sopravvissuto al vostro ignorarlo."

Ho le mani nelle tasche strette così forte da far male. Sono fermo al centro della stanza, mi sembra che tutto sia precipitato in un attimo. Un castello di carte volato a terra.

La famiglia ora non c'è, io volevo solo proteggerla, e mi sento improvvisamente escluso.

Non mi rendo conto in quel momento, che Sherlock soffre la mia presenza, perché è unicamente geloso della sua fratellanza con Mycroft.

 

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Capitolo 31
*** Affrontare Serge ***


Passano pochi minuti e finiamo per fronteggiarci. Lo zio che mi dà di spalle rivolto al camino, io nero di rabbia in centro alla stanza. Due pianeti simili che vanno alla deriva e John nel mezzo che non sa dove stare.

Nessuno di noi tre accenna a una parola, mentre mi sento il cuore in tumulto. Oggi devo affrontare Serge e mi sento abbandonato come se avessi un buco dentro lo stomaco, e la testa in fiamme.

Allora John, mi guarda e mi raggiunge, sa che sono agitato, perché mi conosce più di Sherlock e si rivolge a entrambi.

"Adesso, basta. Mettete da parte ogni risentimento. Ora Sherrinford ha bisogno di sostegno, e tu che sei suo zio lo aiuterai." Si è schierato, e mi sento sollevato, se non mi sono vicini, non posso farcela.

Sherlock si volta, lui non concede niente a nessuno, lui non ama nessuno tranne John e Rosie.

Mycroft è oltre. È nella sfera degli affetti familiari quelli acquisiti per nascita. Io non sono niente.

Niente d'importante se disturbo i suoi equilibri.

John lo fissa, si aspetta qualcosa, sa del perché lo ama, sa come lui è interiormente. E non sbaglia, perché il corpo sinuoso di Sherlock si avvicina a me. Sotto una cascata di riccioli neri, che fremono vinti nell'ammettere che io sia vitale e che sono una parte di suo fratello. "Mi dispiace, non sono un buon esempio per te come zio, ma tu resta quello che sei."

Lo sento vicino mentre tenta una scusa approssimativa.

"Zio, perdonami, ma non mi piace essere un motivo d'intralcio tra voi, non voglio fare del male né a papà, né a te. So quanto vi amate. Scusa le mie parole avventate." Non è tipo che si commuove, ma va via rapido mentre John mi fa segno di lasciarlo andare.

"Pranziamo ragazzo, prendi la forza di cui hai bisogno e andiamo avanti." Watson è una brava persona, lo seguo silenzioso e mangiamo tutti insieme, senza tornare sulle parole che ci siamo detti solo per amore di una persona in comune, che nemmeno lo sa: Mycroft.

Mangiamo silenziosi, poi lo zio riceve una chiamata e deve uscire, ma prima mi fissa. "Sherrinford oggi non fare di testa tua, e non reagire alle provocazioni. Scordati quello che ci siamo detti." Annuisco con la testa bassa. Mentre esce preoccupato.

Ma non riesco a togliermi di testa le sue frasi.

Mi arriva un altro messaggio di Serge, vuole vedermi tra un'ora al porticciolo.

"Devo uscire, mi dispiace." Mi alzo frettoloso, mentre John è in allarme.

"Ricordati di togliere il cerotto. E calcola i tempi d'intervento." Ma sono distratto. Mi si para davanti arrabbiato. "Hai ascoltato quello che ho detto? Non pensare alla discussione con Sherlock."

Alzo le spalle, e lui tenta di fermarmi, vado in camera a togliermi i vestiti comodi che uso per casa. Quando esco lo evito, mentre cerca di richiamarmi. Sono arrabbiato con tutti, ho dato il mio appoggio alla famiglia e proprio ora mi volta le spalle.

Sono o no, un Holmes anch'io? Possibile che ancora non mi abbiano accettato? Questo dubbio mi fa perdere la testa, se mai ne possiedo una, perché adesso non vedo che rabbia e rancore.

Credevo di contare qualcosa, di fare la cosa giusta. Se voglio sapere chi era mia madre, a loro cosa può importare? Visto che sono stato abbandonato per anni, quale può essere la mia colpa in tutto questo?

Sento il cellulare vibrare, immagino sia Anthea, lo vedo dallo schermo, ma sono così adirato che non rispondo. So esattamente di sbagliare, ma nessuno mi farà desistere dall'autodistruzione.

Urto un passante, nella fretta di arrivare da Serge. Infilo le mani in tasca mentre mi rigiro la memoria usb nella tasca.

Eccolo Serge, tozzo e palestrato, vestito di lusso, anche lui con un cappotto Crombie come quello di papà.

"Ciao, ragazzino!" Già come inizio mi fa irritare. "Serge, che piacere vederti, si nota la tua eleganza."

Ride, ma a metà. "Sei arrogante come sempre, mi piacerebbe sculacciarti, ragazzino."

Lo fisso torvo. "Tu provaci e il tuo padrone non vedrà più nulla." Sento tremare la mano infilata in tasca.

Ride di nuovo agitando la testa calva. "Avanti non tirare la corda, ragazzino dammi quello che mi serve."

"La vuoi, Serge?" Agito la memoria per aria di fronte al suo naso. Mi fissa con gli occhi scuri e non si trattiene. "Imbecille, vuoi mettere un annuncio, che tutti lo sappiano?" Mi prende per il braccio e lo stringe, perdo la calma, gli piazzo un calcio e lascia la presa. Ma la reazione è rapida, forte, mi allunga uno schiaffone che fa decisamente male. "La mia pazienza è finita, piccolo cialtrone, non assomigli per niente a tuo padre, magari non sei nemmeno suo figlio." È vicino, decisamente troppo, sento il suo alito impregnato di fumo di sigaretta.

"Vattene affanculo, Serge questa la tengo io. Fa il cane da guardie ad Auberton, digli che questa gliela do di persona. Anche ora, se vuole." Serge vibra di rabbia, so che sto rischiando, ma l'auto nera di Albert arriva improvvisa e scende Anthea.

"Stavolta te la cavi, idiota, la prossima volta non arriverà papino a salvarti il culo." Si allontana con un sorriso falso, aggiustandosi il vestito.

"Serge, sarò un idiota, ma questa oggi non la porti al tuo padrone. Ora va a sbavare dal lui."

Anthea mi ha ritrovato tramite il chip, si avvicina con fare sinuoso, la conosco è preoccupata e anche furiosa, ma lo maschera bene. "Sherrinford ti ho cercato dappertutto, possibile che finisci per fare quello che vuoi? Dovevamo fare acquisti, te lo sei scordato?" La voce è calma, lo sguardo che mi restituisce potrebbe incenerirmi.

Parto con la recita, mi calmo e sono soave come un bambino distratto. "Ho incontrato un amico, facevamo due chiacchiere. Ti ricordi di Serge? Una persona squisita." Lui mi guarda trattenendo l'ira, e finisce per abbozzare, sa che possiedo la memoria con le password, fa un falso inchino ad Anthea.

"Bene signorino Holmes. Alla prossima volta, mi saluti suo padre." Ghigna mentre si gira e se ne va altezzoso.

Anthea sorride nella sua direzione, mentre mi pianta le unghie sul braccio. "Sei impazzito?" Mormora a denti stretti. "Stavi mandando tutto a puttane." Mi trascina via, fingendo di prendermi sotto braccio.

"Ti ha colpito?" Le rispondo sempre sorridendo, come se parlassimo del panorama o della giornata soleggiata.

"Si, un robusto ceffone, ma io gli ho dato un bel calcio." Lei stringe il mio braccio più forte. "L'ho visto, veramente una mossa da imbecille. Ma che cosa ti è preso oggi? Ti ho lasciato sereno e ti ritrovo arrabbiato con tutti."

Mi guarda mentre saliamo in auto. Quando è dentro alza subito la voce. "Idiota, vuoi farti ammazzare? Sono dovuta intervenire. Serge è un assassino, se non lo sai. Uccide le persone per molto meno." Non so cosa dire, mi volto dalla parte del finestrino cercando d'ignorarla. "Guardami Hayc, non fare il bambino. Hai fatto una cazzata, ma non c'è da stupirsi visto che spesso fai di testa tua. Se inaffidabile, quale Holmes si comporterebbe così?" Si zittisce, poi diventa acida. "Tuo padre non sarà fiero di questo."

Mi giro lentamente, la rabbia dentro è tanta, improvvisamente sono consapevole di non essere all'altezza. "Non sono un Holmes, è vero, non mi accetteranno mai in famiglia, certamente non Sherlock. Nessuno nemmeno io posso scalfire il loro amore fraterno." Ritorno a guardare dal finestrino, ma la voce mi ha tradito. Anthea rimane muta di colpo, forse intuisce qualcosa. "Hai discusso con Sherlock e John, dopo che sono uscita?" Si è leggermente calmata, adesso è più dolce.

Non ho voglia di dire più nulla, scusa Anthea." Le mormoro senza girarmi, guardando la strada che scorre veloce, come tutta la mia vita. "Su di una cosa hai ragione. Sono un Sinclair, non un Holmes." Mi chiudo in un mutismo feroce, so che sbaglio in continuazione e il fatto di non maturare mi rende infelice. 

 

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Capitolo 32
*** Gestire la rabbia ***


 

 

Rientriamo a Baker Street. Scendo dall’auto, mormoro ad Albert un saluto tirato, sono troppo abbattuto per come mi sono comportato. Mi aggiusto la giacca mentre aspetto Anthea, mi sento la guancia in fiamme, lei insiste per accompagnarmi fino di sopra.

Quando apro la porta John ci scruta entrambi severo, mi dirigo verso la cucina per bere un po' di acqua e mi rivolgo a Watson. “Rosie dov’è?” Sono preoccupato che mi veda così.

“E’ da una sua amichetta e per fortuna visto la faccia che avete entrambi.” Mi viene vicino. “E quello come te lo sei fatto?” Mi prende il volto fra le mani e mi guarda l’ematoma che mi ha lasciato Serge. Si volta verso Anthea. “Ma cosa e successo? Per Dio. Non doveva andare tutto liscio?” Appoggio il bicchiere consapevole che si arrabbieranno tutti.

 Lei, appoggiata allo stipite della cucina con le braccia conserte, è seccata. “Si, se non avesse perso la testa e avesse attaccato Serge, rimediando un bel manrovescio.”  John prende del ghiaccio secco e me lo porta. “Mettilo sulla guancia, razza di stupido.”

Sbuffo, non fanno altro che insultarmi. “Finitela di offendermi, me l’avete detto diverse volte che sono stupido.”  Hanno ragione, prendo il ghiaccio e lo tengo sul viso. Serge ha le mani pesanti e mi ha lasciato il segno. Li supero e vado a sedermi sulla poltrona.

Anthea guarda John e parte con una domanda secca. “Com’è che l’ho lasciato sereno e ha perso le staffe? Watson è successo qualcosa? Perché lui non vuole dire niente.”  Mi indica con la mano mentre cerco di stare tranquillo, ma serve a poco.

John tentenna, perché è coinvolto Sherlock, lo scongiuro avvilito.  “Sta zitto Watson, se lo viene a sapere papà le cose peggioreranno. Non voglio mettermi tra loro.”  Ci pensa un po', poi capisce che non ho preso bene la discussione con Sherlock e le dice la verità, mentre io lo guardo feroce.

Anthea ascolta attenta e annuisce, si fa un’idea del perché ho perso la testa.  “John, lasciamo stare, meglio che per adesso  Mycroft non sappia nulla.  So come guidare l’irruenza di Sherrinford che ha preso una brutta piega.”  Mi si avvicina, ma è addolcita, forse ha compreso la mia stupidaggine. “Sta arrivando tuo padre, non gli diremo nulla, e non sarà piacevole, ma sopporterai per il suo bene.”

Sollevo la testa, che adesso ha preso a farmi male, so che devo stare zitto per il bene di tutti. “Va bene, ho sbagliato e adesso pago.”  Anthea si rivolge a John. “Watson, per ora lascia perdere. Mi occupo io di lui.”

John non riesce a zittirsi, finisce per redarguirmi. “Sherlock ti ha chiesto scusa Sherrinford, e anche tu ci sei andato giù pesante.”

“Lo so, non ho scuse.”  Non dico null’altro, me ne resto imbronciato sulla poltrona con il ghiaccio e la testa che mi scoppia. C’è una specie di tregua, Anthea si perde a fissare il cellulare e John traffica in cucina. Mycroft arriva improvvisamente, quasi butta giù la porta, sembra sul punto di scoppiare, fatica a trattenere la rabbia.

Fissa Anthea, poi John e per ultimo io, si avvicina irritato e preoccupato, due stati d’animo che non riesce a gestire. 

“Dio, ma cosa ti passa per quella testa? Cerchi di farti ammazzare da Serge? Ho visto le telecamere, Sherrinford sei stato un idiota completamente inaffidabile. Nessuno lavorerebbe con una persona immatura come te.”

 Le parole di papà sono come frustate, non alzo nemmeno lo sguardo. Rimango impassibile mentre sfoga tutta la sua rabbia e anche la sua paura, mi vede avvilito e si rivolge ad Anthea.

“Tu non hai niente da dirmi? Lo dovevi sorvegliare e se non era pronto si poteva aspettare.”  È arrabbiato così tanto che ha lasciato il suo ombrello in auto, il cappotto è slacciato, la cravatta sciolta.

“Mycroft, è stato un colpo di testa imprevedibile, penso che dobbiamo adattarci che lui sia così.” Anthea lo sibila dolce, perché sa quello che nascondo. Si volta di nuovo verso di me, ma la voce ora sembra più distesa.

“E tu non dici nulla?   Sherrinford, almeno avessi la compiacenza di rispondere.”

“Papà, ho sbagliato.  Non ho scuse.”  Mi esce una frase smorzata.

Tanto basta perché la rabbia sfumi via, rotea gli occhi al soffitto, soffia, mette le mani in tasca e si avvicina. Decide di sedersi di fronte.

 “A parte il calcio che gli hai affibbiato senza motivo, la sua reazione ora la senti tutta sul tuo viso. Ne valeva la pena figliolo?”

Si ferma a guardarmi, mi scosta la mano che regge il ghiaccio e vede il ricordo che mi ha lasciato Serge. “Per Dio, Sherrinford. La prossima volta pensaci prima di fare una cosa avventata.”

 Non gli rispondo, sono talmente abbattuto che non so cosa dire, e non voglio che sappia della discussione con lo zio.  E forse preso dalla comprensione del momento difficile che sto passando, si fa più dolce. “Come stai? Hai bisogno di qualcosa?”

La mano si posa sulla mia gamba. E mi fa piacere sentire il suo calore. “Papà, sono confuso, e la testa mi fa male. Vorrei riposarmi un po'.”  Mi guarda attento e chiama John preoccupato. “Che cos’ha Watson, ma sta bene? ”

“Voglio solo riposarmi', non ho niente.”  Ma la scusa non regge perché John e già lì.

Mi sento trattato come un bambino, alzo la voce e agito il ghiaccio secco che stringo nella mano. “Sentite voglio solo una aspirina e stare al buio per un po'. Non cominciate con la solita storia.”  John fa un cenno a Mycroft , che va tutto bene, capisce che voglio rimanere da solo. Mi porta del tè e una compressa.

Mando giù tutto in fretta, e sbircio Anthea che appoggiata allo stipite della porta approva con un cenno del capo. Se devo mentire lo so fare bene, devo cercare di proteggere quel poco affetto che ora lega i due fratelli. Non sarò io a demolirlo di nuovo, Sherlock col tempo imparerà che ci sono anch’io, so perfettamente che il mio arrivo ha sconvolto degli equilibri precari.

Mycroft capirà, ma non ora, non con Auberton che preme.

“Papà, contatterò Serge e sistemerò la cosa, non preoccuparti farò del mio meglio.” Mi alzo, mi scuso con tutti, senza aspettare la sua risposta vado in camera dove crollo nel letto.

Per me la giornata avrebbe potuto terminare lì, ma ho un dovere da compiere, più tardi chiamerò quel bastardo di Serge.

 

 

 

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Capitolo 33
*** Prima della resa dei conti ***


 Non so quanto ho dormito, ma sento aprire la porta della stanza e malamente distinguo John con Rosie in braccio, che si affacciano.

“La piccola peste insiste per stare un po' con te. Che ne dici? Ti senti di farla restare?”  Mi affaccio da sotto la coperta e vedo il visino di Rosie imbronciato, già mi sento meglio mentre la guardo sorridendo. “Va bene cugina, vieni ti faccio posto.”  John è più felice della figlia, mentre la mette giù e lei trotterella verso di me.

“Tra un’ora ceniamo e ci siamo tutti.”  Annuisco, mentre faccio salire Rosie sul letto. “Ci sarò.” Non aggiungo altro, credo di aver già sprecato ogni scusa.

John se ne va con l’aria distesa, mentre sua figlia si infila nel letto agitando un libro di fiabe. Appena il padre scompare mi guarda seria. “Che hai fatto? Sembrano tutti tristi. Papà ha sgridato Sherlock, ha detto che sei fragile, che puoi romperti come il vetro.”

 Mi prende il volto con le manine. “Non mi sembra che sei di vetro. Cosa vuol dire? Che se cadi, ti rompi?”  Non riesco a risponderle subito, però le accarezzo la testolina bionda. “Vuol dire che sono pieno di paure e faccio delle cose stupide. Mi arrabbio per ogni cosa che mi fa sentire triste.”

Rosie stringe la piccola bocca. “Ma io ti voglio bene, perché devi avere paura? Io non ti lascerò mai.” Mi abbraccia così forte che mi soffoca. “Nemmeno tu mi lascerai vero? Me lo hai promesso.” Lo sussurra all’orecchio, mentre la stringo anch’io. “Lo farò, ma ora leggiamo la tua favola, presto John ci chiamerà per la cena.”  Si calma e si stende vicino, mentre inizio la sua storia.  Non so per quale motivo stare con lei mi calma, mi rende sereno e riduce la mia tensione.

John lo sa, è per quello che l’ha portata da me. 

La favola della piccola cugina si sparge per la stanza, il mondo brutale di Auberton  se ne esce dalla finestra come fosse assorbito da un enorme imbuto. Tutto il resto rimane dentro, pieno di posti fantastici, di castelli, di draghi, di principi azzurri e principesse adorabili.

Io, sono un principe coraggioso dall’armatura lucente, che combatte un drago cattivo, che sputa fiamme e che brucia i poveri contadini. Alla fine ne esco vittorioso, e sposo la mia principessa di nome Rosamund, bionda e con le trecce lunghe. Dio, come sarebbe bello che fosse vero!

Che fosse tutto così semplice. Ma non lo è.

Non lo è mai, sir Auberton il drago, di solito ingoia tutto quello che gli sta intorno e brucia ogni speranza, lasciando cenere e rimpianti. Io non sono coraggioso come il principe e non vincerò.

Rosie percepisce qualcosa, si gira a guardarmi. “Ci devi credere Sherrinford, altrimenti non vale, il drago ti mangerà.” Gli occhi le si fanno umidi, la avvicino cercando di tranquillizzarla, inizio a farle il solletico. Ride e si dimentica tutto. Giochiamo a fare la lotta fino a quando non ci chiamano per la cena.

Le dico di uscire che devo vestirmi.  Chiamo Serge, devo mettere fine a tutta questa storia, nel bene o nel male.

Sono veloce. Lo incalzo che ho bisogno di vederlo, perché temo che mio padre si insospettisca, dopo quello che ha visto Anthea. Ho fatto una cazzata che devo rimediare in fretta. Gli ho sottratto tutte le password a sua insaputa, ma aveva delle contro misure e dobbiamo sbrigarci, perché sono a tempo, diciotto ore al massimo.

 Lo devo incontrare entro domani. Ci accordiamo per le dieci, mi preleva lui.  Chiudo la chiamata e mi sento tremare. La paura è una brutta bestia, inizio a sudare e mi passa la fame. Penso malinconico che potrebbe essere la mia ultima sera. Non so perché ho questo maledetto presentimento.

John entra nella stanza e vede la mia faccia contratta. “Hai chiamato Serge?”

“Sì, e ho una fottuta paura, ma non dire nulla agli Holmes. Non voglio che lo sappiano, so che poi capirmi.”

“Posso capire che sei un Holmes anche tu, stupido.” Si punta con le braccia conserte sulla porta, e sorride ironico.

“Finisci sempre per offendermi, dottore.” Non posso che ridere, ormai hanno finito il repertorio degli insulti.

“Stai tranquillo, vieni a mangiare. C’è anche tuo padre, cerchiamo di rimanere sereni, ok?”

Mi prende per le spalle, e mi abbraccia. “Avanti Sherrinford, andrà bene.” Gli tremo addosso, lui mi accarezza le spalle. Poi si stacca e mi allunga un buffetto sulla guancia.  

Quando esco sono tutti presenti, Rosie è presa dalle sue bambole. Papà e Sherlock al solito posto di fronte al camino, lo zio pizzica il violino mentre parla con lui. John è in cucina, ormai è il cuoco di casa, ma sembra non dispiacergli. Mi avvicino ai due Holmes.

“Domani alle dieci Serge mi viene a prendere due strade più in là.”

Mi fissano entrambi, Sherlock vede la mia guancia segnata e stringe le labbra, appoggiando il violino.

“Sei sicuro di farcela?”  Mycroft mi guarda severo, dopo quello che ho fatto non si sente tranquillo. Lo rassicuro perché è ora di sistemare quel viscido di Auberton.

“Papà, voglio finire questa storia. Domani devo chiudere tutto.” Sherlock approva, annuisce lentamente con le mani incrociate sotto al mento, mentre Myc lo osserva intuendo una leggera tensione.

“C’è qualcosa che devo sapere?”  Sogghigna fissandoci entrambi.  “Da come vi guardate!”

“No, niente.” Scuoto la testa. “Nessun problema papà.”  Sherlock annuisce, non vuole distrarre il fratello con inutili discussioni su quello che è successo.

“Bene, allora se non c’è nulla, chiaritevi. Vado ad aiutare John.” Mugugnando sarcastico si alza velocemente. È   lo “smart one,” legge dentro al fratello come fosse un libro aperto. Infatti sorride e mi fa segno di sedermi.

“Impossibile nascondergli qualcosa, Hayc, quindi smettila di angustiarti e andiamo avanti, dimentica quello che è successo. Dammi del tempo.” Mi appoggia la mano sul ginocchio. “Vedi di non farti del male domani. Pensa anche a te.”

“Siete la mia famiglia zio, non ho altro. Darei la vita adesso per tenervi vicini. E soprattutto per papà.”

Abbasso la testa, e porto la mia mano sulla sua. “Se mi succede qualcosa, stagli vicino ora che vi siete riconciliati, conto su di te.” Apre la bocca per dire qualcosa, ma mi alzo di scatto e vado verso la cucina.

Per tutta la sera evito qualsiasi discorso su quello che mi aspetta domani.

Prima che papà vada a casa, lo aiuto a indossare il crombie nero. Gli porgo l’ombrello.

“Notte papà. Sai che ti voglio bene.” Non ho quasi voce, lo abbraccio stretto, senza dargli il tempo di sorprendersi. Poi volo rapido a chiudermi in camera.

 

 

 

 

 

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Capitolo 34
*** La resa dei conti ***


 

La notte passa lenta e affannosa, quando mi sveglio so di aver dormito solo un paio d’ore.

Sento le voci che invadono la casa, il risveglio della famiglia che tanto ho cercato: Sherlock che sgrida bonariamente Rosie, John che parla con la signor Hudson. Le auto lungo Baker Street che sfrecciano veloci, tutto normale, tutto così calmo.

Invece dentro di me c’è un'ansia crescente.  Mi vesto, mi preparo meticolosamente, indosso il giubbetto leggero antiproiettile. Non deve essere troppo visibile, non mi protegge al cento per cento, ma piuttosto che niente va bene così.

Quando esco dalla camera, Rosie mi corre incontro. “Ciao Sherrinford, vado a scuola nel pomeriggio. Oggi sto con papà rimani anche tu?”  La prendo in braccio. “Solo per un poco, poi devo uscire, se vuoi leggiamo le tue fiabe.” Sorride felice e corre a dirlo a John.

Lo zio mi osserva dalla sua poltrona preferita. “Tutto bene, Hayc?  Ci sono anch’io oggi. Hai il cellulare con te, chiama se ti trovi in pericolo. Siamo lì in pochi minuti.” 

“Sì zio, è la formuletta della distanza e del tempo di intervento.” Rido, ma non troppo convinto.  “Speriamo funzioni, non so dove mi porterà Serge.”  Sospiro mentre Sherlock afferra il violino e lo pizzica pensieroso. “Credo a casa di Auberton,” sentenzia “è così stupido che non sospetta nulla.”

“Stupido, sì, è proprio per questo pericoloso.”   Lui scuote la testa riccia. “È imprevedibile nelle sue scelte irragionevoli.”  Rosie corre verso di noi ci tira le maniche per portarci a fare colazione.

Non parliamo più della mattinata impegnativa che mi aspetta, per amore di Rosie, scherziamo e ridiamo.

Ma le dieci arrivano in fretta. Mando un messaggio in codice a papà, bacio la piccola peste, saluto John.

“Bada a te giovane Holmes. Non fare lo stupido.”  Accenno un sì con la testa. Ma non lo guardo in volto, perché non voglio che veda che ho gli occhi lucidi.

Lo zio Sherlock mi ha preceduto dopo avermi dato una botta affettuosa sulla spalla, che è il massimo che può concedermi. Con lui ora tutto è chiarito.

Scendo le scale lentamente. Ho avuto tanto in poco tempo, ora sta a me fare la mia parte.

Raggiungo Serge due strade dopo, ho in tasca le password fasulle copiate dentro una usb, se la mettono in un computer ho poco tempo prima che scoprano che non valgono nulla, al massimo quindici minuti. Il tempo di reazione lo calcolo in base alla distanza percorsa, devo solo dargli il tempo di trovarmi con il chip che mi hanno inserito.

Serge è già arrivato, indossa un cappotto costoso che però non porta con l’eleganza di papà.  Sembra un cane da guardia, al solo vederlo mi prende la nausea.

“Eccoti mastino, vedo che sei arrivato presto.” Mi guarda con disprezzo, le mani nelle tasche, ma zoppica un po' e questo mi rende felice.

“Ciao, piccolo farabutto. Spero che ti abbia fatto bene lo schiaffone che ti ho rifilato. Tuo padre dovrebbe dartene a raffica visto quello che stai per fargli.”

Gli restituisco uno sguardo gelido, ma devo recitare bene senza nessun tentennamento. Faccio l’annoiato, il viziato arrogante.

 “Tu non sai quanto è pesante quell’uomo!  Ama solo il potere. Non si gode la vita!  Con tutti i soldi che ha accumulato, mi tratta come un pezzente.”  Grugnisco arrabbiato. “Voglio tutto, mi ha abbandonato! Ora cerco la mia vendetta.”

Aumento il passo, siamo affiancati, mentre penso a quanto bastardo e senza pietà sia, se potesse mi avrebbe già ucciso.

Arrivati al parcheggio, un'auto scura ci aspetta. È simile a quella di Mycroft, quindi è probabile che mi porti a casa di Auberton.

Fortunatamente abita appena fuori Londra, così i tempi di intervento si accorciano ed è un vantaggio per me.

Non scambiamo una sola parola durante il tragitto, ma la villa dove entriamo ha un parco enorme ed è delimitato da mura e siepi. Un punto a sfavore, difficile scappare da lì.

“Forza Holmes, scendi, sir Auberton ci aspetta.” Serge mi precede e io lo seguo con la mano destra stretta alla memoria usb.

 Ostenta ricchezza Auberton, una villa vittoriana tenuta con un’emorragia di soldi infinita. Curata e restaurata con dedizione.  Saliamo delle scale di marmo lisce e sbiancate, un’apoteosi di spreco di denaro.  Lui è nell’atrio, la persona più infida che abbia mai conosciuto. Mi viene incontro con fare strafottente. Sorrido abbassando la testa, non avrà mai l’eleganza austera di papà.

“Allora ci rivediamo, giovane Holmes, vediamo se sei stato di parola.”  Ride sgarbato, avvicinandosi troppo.  “Altrimenti al tuo vecchio gli restituirò le tue ossa con la carne attaccata.” Mi sento fremere dalla rabbia.

“Divertente Sir! Speriamo che non sia mio padre a fare la festa a lei e a me il culo, se ci scopre durante l’intrusione nel database.”  Ammicca enigmatico.

“Sei simpatico piccolo ladro di polli! O forse dovrei chiamarti serpente?” Lo avvicino e gli punto il dito al centro del petto. “Attento Sir, potrei averti già avvelenato, mai fidarsi di un serpente...”

Mi guarda dubbioso, Serge mi allontana. “Ora basta, dacci quello che ci hai promesso e avrai tuoi soldi e il tuo potere.” 

Mi distacco da lui rapido, meglio non averlo vicino. “Bene, andiamo, ora vi mostro come fare, mio padre ha inserito delle scadenze a tempo. Quindi muoviamoci.”

Auberton sorride ghignando. “Tranquillo, non avrà tempo per guardare il suo computer, non durante la sorpresa che gli abbiamo preparato.”

Sento un brivido percorrermi la schiena.  Il maledetto si è coperto le spalle e ha tramato qualcosa di pericoloso.  Mi stampo in faccia la maschera più bastarda che posso gestire e lo fisso divertito.

 “E perché mai? E sempre in ufficio e non si muove da lì.”  Lui guarda Serge a cui rivolge uno sguardo d’intesa. L’altro gli mostra un sorriso maligno.

“Non quando dovrà correre a raccogliere i resti di suo fratello a Baker Street.”

Ridono entrambi, mentre tremo devastato.  Hanno sistemato dell’esplosivo! Uno stramaledetto ordigno letale.

Il cuore va a mille, non devo cedere, non adesso! Perché mi si squarcia la mente e mi sento soffocare…  A casa c’è Rosie e John, loro che sono le persone più innocenti di tutti.

Fingo indifferenza e cerco di mantenere la voce senza nessuna inflessione.

“Una bella sorpresa per il vecchio Holmes! Dove l’avete piazzato il fuoco d’artificio?” Sghignazzo, Auberton non riesce a trattenere il suo orgoglio malato.

“Una anonima city car parcheggiata lì sotto, piccola, ma letale. Tra circa un quarto d’ora, mentre noi ci occupiamo delle password.” Mi guarda studiandomi attento, ma non tradisco nessuna emozione.  “Il tuo caro padre correrà trafelato e pentito, a soccorrere i parenti ridotti a brandelli e noi avremo tutto il tempo necessario.”

Mi sforzo di ridere, ma intanto penso rapidamente che devo informarli, e per farlo devo chiamare Sherlock al cellulare.

Va tutto a puttane, ma devo salvare la mia piccola Rosie, la mia principessa e il suo papà.

Siamo arrivati nella biblioteca, Serge è alle mie spalle, Auberton va al portatile. Devo prendere tempo, bisogna disinnescare la bomba.

Mentre Auberton si adopera al computer devo colpire Serge, scappare e avere il tempo per chiamare lo zio. Lui è già in attesa, in caso di bisogno.

 Non ho scelta, devo uscire dalla copertura, devo restituire a Rosie a tutti loro il mio amore. Loro che sono la mia unica famiglia.

So che papà è in buone mani.  Sherlock penserà a lui. Non devo distrarmi, forse se sono rapido posso cavarmela. È ora di farlo.

Serge è al mio fianco, è occupato a guardare il portatile, mi chino annoiato ad allacciarmi la scarpa, mentre Auberton maneggia il computer, sfilo il serramanico che porto sempre con me infilato nell’elastico del calzino.

Devo essere rapido e avere fortuna.

 Serge non sospetta nulla, prendo velocità e gli pianto il coltello sulla gamba, vicino all’arteria.  Urla impazzito dal dolore e tenta di afferrarmi, ma cade a terra. Allungo un fendente sulla spalla di  Auberton, con poco successo, ma prende a bestemmiare furioso. Devo scappare rapidamente, questione di secondi e Serge avrà l’arma in mano e sparerà.  Spero solo non mi faccia troppo male. 

Corro verso la porta con il cellulare in mano, chiamando trafelato lo zio, sento partire lo sparo e un urto sulla schiena mi fa barcollare e sbattere sulla porta, ma resto in piedi.  Stringo i denti, fa male, ma il giubbotto sembra aver limitato il danno.

Urlo dentro al cellulare.

“Zio c’è una bomba a Baker, una city car, fa presto!  Salvali. Non pensare a me.”

“Sei ferito? Ho sentito uno sparo?” Sento la sua voce tremare.

“Sì, zio, credo di sì. Quanto tempo mi rimane?” Sono in affanno e lui lo sente.

“Sette minuti, ora cerca di nasconderti.  Pensiamo noi a tutto.” Non lo sento, poi riprende. “Sherrinford stai tranquillo. Sai che ti vogliamo bene.”

“Anch’ io.” Mi esce fiacco, ma la sua voce mi fa bene e mi dà la forza.

 Metto in tasca il cellulare, mi sono allontanato un bel po', la casa è grande. Mi infilo in una stanza cercando di evitare le telecamere interne.  Sento Serge che bestemmia e urla.

Devo nascondermi, almeno fino all’arrivo dei soccorsi. Rompo la finestra che dà sul giardino, devo fargli credere di essere uscito. Rimango nascosto dietro una porta, senza respirare e ora mi accorgo di un calore umido che mi bagna i calzoni dietro la schiena. Allungo la mano e la trovo insanguinata. Sono ferito, la pallottola deve essere passata attraverso il giubbotto, ma spero abbia limitato i danni. Sento la debolezza salire e questo non è un bene.

Serge arriva imprecando e zoppicando, vede la finestra rotta ed esce fuori. Io sospiro di sollievo.

 Sanguino, sono passati solo due minuti. Se Serge  mi ritrova sono morto.  Se continuo a perdere sangue sono morto lo stesso. Spero solo che Rosie sia salva, la mia principessa innocente.

Auberton grida a Serge di andare via.  Questo non va bene, se torna dentro sente l’odore del sangue, mi fiuta e mi trova.

Così decido di scivolare fuori lentamente, mi trascino verso la biblioteca, non mi cercheranno di certo da dove sono scappato.  E con tutto quel sangue per terra, Serge si confonderà.

Manca poco, forse un paio di minuti e sento la stanchezza più densa.  Scivolo sotto alla scrivania, lì non mi cercheranno, solo i bambini nei peggiori film thriller si nascondono lì sotto.  Il laptop non c’è più, in compenso c’è il sangue di Auberton sulla sedia e me ne compiaccio.

Guardo fuori dall’ ampia vetrata che dà sul giardino e finalmente vedo l’elicottero arrivare.

 Dio è quasi finita, non mi resta che restare vivo.  Mi lascio andare, chiudo gli occhi e mi sale tutto il dolore alla spalla e alla schiena.

C’è un gran movimento di persone, urla, fumo, spari.

Il mio nome viene urlato più e più volte, finché vedo le scarpe degli agenti da una fessura sotto alla scrivania e decido di scivolare fuori.  Mi prendono con delicatezza e mi stendono sul pavimento sopra al tappeto costoso di Auberton. 

 Mi esaminano, mi parlano, mi fanno girare sul fianco e gridano ordini secchi. “Va tutto bene Holmes. Rimanga immobile. È stato bravo, suo padre è qui.” Si allontanano e vedo arrivare papà, seguito da Anthea.  Ora respiro meglio, guardarlo mi fa sentire al sicuro, allungo le mani verso di lui. Ma non riesco a parlare.

 “Sherrinford, ragazzo mio, stanno arrivando i soccorsi.” Si inginocchia vicino, ha il volto contratto ed è spaventato come non l’ho mai visto, cerca di afferrarmi, ma Anthea al suo fianco lo ferma.

“Mycroft, non muoverlo.” È più ricettiva, si mette dietro e mi spoglia delicatamente, mentre mi lamento e mi agito, mi toglie il giubbotto e trova la ferita sotto alla scapola. Il volto di papà si fa teso, ma solo per pochi secondi. Mi accarezza la testa, e mi tiene.

 Anthea cerca di essere rassicurante, ma lo sento che non sarà così. “Sherrinford ti farò male, ma devo tamponare.”

“Papà…”  mormoro impaurito, e lo guardo sconvolto.  Il dolore non l’ho mai sopportato.

“Tranquillo, figlio, aggrappati a me.” Mi prende la testa e la tiene stretta sul suo petto, sento il suo cuore battere impazzito.

Anthea tampona decisa e il dolore improvviso mi fa urlare senza ritegno. Mycroft  mi accarezza la testa, e mi tiene con forza.  “Cerca di stare fermo, tra poco starai meglio.”  Riprendo fiato e penso a Baker Street.

“Papà?” Biascico incerto.” Rosie e John?”  Mi scosta la testa e mi tiene il volto. Mi guarda orgoglioso.   “Rosie è salva, sono tutti salvi ragazzo mio, sono salvi grazie a te.”

Piango sollevato, felice di avercela fatta, anche se le fitte alla spalla aumentano.

Li ho salvati, la mia vita è servita a qualcosa. Ma la tregua è breve, il dolore è insopportabile.

 Anthea continua a spingere sulla ferita, cercando di fermare il sangue.

Urlo.  “Fa male, basta!”  Piagnucolo, grido di nuovo, quando sento il dolore salire, mentre premo il volto sul petto di Mycroft e lui mi stringe più forte. 

Anthea mi parla dolcemente, ma decisa.

“Forza Sherrinford, lo so che fa male, ha intaccato l’osso, ma non ti ha trapassato. Hai perso molto sangue.”  Sento la sua voce tremare. “Sono orgogliosa di te, Holmes.”

 Cerco conforto nell’abbraccio di papà, distolgo la mente dal dolore pensando che Rosie è salva.  “Serge? e Auberton?”  Mormoro incuriosito appena riesco a rifiatare.

“Non faranno più del male a nessuno, Serge è morto e Auberton, beh, si è fatto sparare ed è grave.”

La voce di papà si fa improvvisamente lontana, le forze mi mancano, il cuore rallenta, mi aggrappo a lui disperatamente. Non so cosa mi sta succedendo, mi sembra di vedere una luce intensa sulla porta della biblioteca, come se fosse una forma umana e ne fosse avvolta. Si avvicina e la riconosco, mentre non avverto più nulla….

“Mamma…”  Mormoro stupito.  

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 35
*** Tornare per rimanere. ***


Eccoci alla fine…. ora  è rimasto soltanto  l’epilogo  che uscirà tra pochi giorni.

 Non nego che mi dispiace lasciare il mio giovane Sherrinford, ma potrebbe tornare per nuove avventure. Vedremo.

Saluto e ringrazio chi mi ha seguito, discreto o sollecito ad avvisarmi degli errori.

Grazie, anche a chi invece non ha apprezzato. Va bene lo stesso, perché mi ha aiutato a crescere.

Se volete, lasciatemi un commento, lo apprezzerò.

See you soon…

 

 Mi sveglio intontito, non so dove sono, l’ultima cosa che mi ricordo e aver visto l’immagine di mamma, è lei che mi ha tenuto in vita.

Sono in una stanza ingombra di macchinari, che emettono cicalii fastidiosi. Non posso muovermi molto, il braccio destro è attaccato alle flebo. E la parte sinistra è bloccata dalla spalla ferita.  

Mi sorprendo di essere ancora vivo, ma sono stanco e fatico a respirare anche attaccato all’ossigeno.

Vedo la mia famiglia sulla porta della stanza e sento la voce di mio padre che parlotta con Greg, il dottore che mi ha in cura. Il camice sgualcito parla di una notte insonne. Ha la voce bassa, ma sento lo stesso, mormora che ho perso troppo sangue e il cuore ha sofferto.  Parla di una ablazione cardiaca a causa di un difetto congenito che hanno riscontrato facendo la tac, per controllare le lesioni della spalla.

Non è una cattiva notizia, papà si rasserena, si tira dritto in tutta la sua altezza, perché se la supero potrei avere una vita normale. John, annuisce scuote la testa castana e anche lui mi sembra sollevato.  Sherlock, è concorde con John, e rivolge uno sguardo solidale e gentile al fratello, e questo mi rassicura.

Ma un problema c’è. Greg ora sembra più teso, le mani sprofondate nelle tasche. Non hanno molto tempo, il cuore potrebbe cedere e ho bisogno di sangue per affrontare l’operazione. Lo sento titubare mentre dice che il mio gruppo è raro e devono trovare un donatore, perché ho ereditato il sangue di mia madre. Papà borbotta, si gira a guardarmi con gli occhi scuri.

Greg continua, la sua voce è calma e decisa. Guarda Mycroft che ha le mani strette lungo i fianchi. L’unica soluzione è contattare i familiari di Virginia. Forse la sorella gemella ha il mio stesso gruppo. L’ablazione cardiaca non può essere fatta senza sangue di scorta e il tempo è poco.

Di per sé la ferita non è grave. Greg prende tempo, riesco a scorgere papà che si appoggia a Sherlock, lo tocca sul braccio, come a chiedergli qualcosa. Ora sono uniti, ora sono fratelli solidali. Sherlock lo consola a suo modo e lo scuote. John prende l’iniziativa e parlotta veloce con loro. Lì vedo annuire tutti insieme, poi si avvicinano al mio letto, mentre il dottor Greg esce e ci lascia soli. Mi regalano uno sguardo rassicurante e mi sorridono.

“Ci vediamo presto, Hayc, vedi di non fare scherzi. Lo sai che Rosie ti sta aspettando.” È John che mi incoraggia, è sempre lui, pieno di voglia di fare.  

Non riesco a dire nulla, ma faccio segno di aver capito, la maschera dell’ossigeno mi impedisce di parlare. Watson si mette davanti agli altri e mi sgrida con dolcezza.

“Non pensare a niente, Sherrinford, stai tranquillo. Ora troviamo il sangue che ti serve. Lo so che hai sentito tutto.” Sorride, come sa fare solo lui, lo stesso sorriso che dona alla figlia. Mi allunga un bacio sulla fronte e mentre si china mormora trepidante.

“Ti dobbiamo la vita, Rosie e io. Farò di tutto per riportarti a casa.” Se ne va seguito da Sherlock che tentenna e prima di andarsene mi scompiglia i capelli.

“Sta attento a Mycroft, giovane Holmes.”.  Myc mi è subito vicino, si siede sulla vecchia poltrona, prende la mia mano libera e la tiene. La sua è calda e delicata, mi riempie di serenità.

“Andrà tutto bene, figlio mio.” Stringo la mano, perché non posso fare altro, mentre una lacrima mi scende lenta. Temo di essere al capolinea. 

Non riesco a sorridergli, anche se ci provo, se mi muovo troppo la spalla fa male e quindi devo rimanere immobile. Ma mi aggrappo alla sua mano più forte e lui lo avverte e mi ricambia.

Si fa serio, come se pensasse a qualcosa, poi si decide.

“Ci sono due persone che vogliono vederti. Ma se non te la senti sarà per un’altra volta.”

Il mio sguardo è interrogativo. Lui sospira profondamente, quasi non avesse potuto evitarmelo, ma faccio di sì col capo.

“Sono i tuoi nonni, Violet e Sieger Holmes.” Si alza faticosamente e li chiama.

Entrano, e finalmente quando sono già al limite, riesco a conoscerli.

 La nonna ha i capelli bianchi raccolti, assomiglia in alcuni gesti a papà.  Il nonno ha l’aria gentile, preoccupata e sorpresa, quasi non sembra nemmeno il padre dei fratelli Holmes.

 Certo non ho conosciuto la loro figlia Eurus, ma se torno a casa voglio vederla e andare con loro alla prigione che porta il mio nome.

Violet Holmes ha gli occhi lucidi, so che non sono un grande spettacolo in queste condizioni, papà ha il volto tirato, gli occhi grigi pieni di dispiacere.

 Lei allunga la mano magra, e mi accarezza lenta e dolce, prima le guance e poi i capelli. E mi piace, mi sciolgo un po', finalmente una donna nella mia vita.

“Sherrinford, sono orgogliosa di essere tua nonna, presto ti voglio vedere a casa nostra.” Guarda suo figlio rimproverandolo con gli occhi, di non averglielo detto subito.

“Se almeno quello stupido di Myc, mi avesse detto quanto di bello aveva. Che ero nonna di uno splendido ragazzo.” Brontola, ma sorride e mi dà un buffetto sulla fronte.

 Papà non regge e si volta di spalle. Tento di trattenergli la mano, ma si scosta.

“Mycroft girati, ha bisogno di te.”

Violet è decisa, perentoria, ma allo stesso tempo benevola. Il nonno avvicina papà, lo prende per il braccio e lo fa girare con gentilezza.

Mycroft, ha il viso solcato da due lacrime che gli scendono sulle guance ispide, e non si nasconde, stavolta mostra tutto il suo dolore, tutto il suo sentimento. Mio padre mi ama, lo so.

Ci riprendiamo la mano e lo tengo, ma è solo per poco perché la stanchezza mi sale improvvisa e tremo disperato, mentre sprofondo nel buio lamentandomi del troppo rumore che è solo nella mia testa.

 

 

Chissà dove sta il confine quello che ti fa tornare indietro o passare e andare oltre.

 Ma il posto dove mi trovo è bellissimo, sereno e luminoso da sconvolgere tutte le regole umane.

 Un prato verde sconfinato, il più bello che abbia mai visto, pieno di fiori, alberi e costeggiato da un ruscello quasi impetuoso come è stata la mia vita. 

In lontananza il drago della favola di Rosie, vola felice, senza le sue fiamme pericolose. E nell’ immensa prateria un cavallo bianco galoppa veloce con la sua principessa gioiosa. Assomiglia a Rosie quando sarà grande. E si dirige verso un castello, sulle alture, che assomiglia all’istituto dove sono cresciuto, ma molto, molto più accogliente.

 Sento il calore di qualcuno che si avvicina, ma la luce che la circonda mi abbaglia. Scorgo dei capelli castani, lunghi, che ricadono sulle spalle, sento che è parte di me. Mi invade di dolcezza. Fino a quando la scorgo in volto ed è quello che ho sempre voluto vedere. Mia madre Virginia.

“Ciao, figlio mio. Sei un uomo ormai. Non devi disperarti per me.”

“Mamma…sei tornata.” Forse il cuore non mi batte più, mentre lei è così vicina da sentirne l’amore.

Mi prende per mano, ed è come se tutta la tristezza degli anni passati lontano da lei non fossero mai esistiti.

“Non è qui che devi stare figlio. Non è ancora la tua ora.”  Mi porta vicino al ruscello e mi indica l’acqua, ora è ferma, e rispecchia il cielo azzurro.  “Guarda quanto ti amano. Quanto amore hai seminato.”

Si scosta e li vedo, riflessi nell’acqua, come se stessi sopra di loro. 

 È la clinica governativa, sento che siamo tutti riuniti lì. In una stanza vuota, di un bianco abbagliante, c’è papà disperato, percepisco il suo dolore, gli anni della sua solitudine, del peso portato per proteggere la sua famiglia, ma Sherlock gli è vicino e lo abbraccia muto, ora sa cosa vuol dire emozione e sentimento, sento l’amore che passa tra loro.

 Violet e Sieger Holmes si tengono per mano teneramente, seduti sulle rigide sedie della sala di aspetto. La nonna ha dentro una dolcezza di donna, mai avvertita prima, che mi passa attraverso, e mi prende il cuore.  

John nella stanza più appartata, gioca con Rosie, la mia principessa, che non ne vuol sapere di leggere le favole con lui. Vuole me, ha capito che sono tutti in attesa del mio ritorno.

“Dorme Rosie, ora non può.” Le dice premuroso. Ma lei lo fissa triste. “Ma l’ha promesso papà! Deve tornare!” John la coccola, stringendola a sé. Sento il suo smarrimento.  “Lo farà piccola, lo farà perché è forte, ma ora lasciamolo riposare.”

Non sento dolore, ma il loro amore mi avvolge così tanto che mi dà forza. “Mamma, soffrono per me.”

Lei si scosta dal lato opposto e vedo Anthea appoggiata alla porta della stanza, sembra smarrita. Il cellulare nella mano, ma non lo guarda, fissa il vuoto, e le lacrime le scendono fino a coprirle il volto. Dio, mi sembra tutto così strano.

“Mamma, soffrono.” La afferro e la stringo.  “Non voglio…” 

“E per questo che devi tornare, guarda dove ti trovi ora...” Indica l’acqua stagnante, con un sorriso caldo e mi tiene per mano.

Sono lì, pallido e immobile, steso nel lettino in chirurgia mentre mi operano al cuore. Ci sono molti macchinari collegati al mio esile corpo, ma c’è Greg con me che lavora senza fermarsi, con attorno altri medici che non smettono di adoperarsi. Il mio stupore è forte, mi guardo il petto che sembra trasparente e vedo il mio cuore battere appena. Ma non sento nulla, solo una serenità totale.

Mamma mi porta con sé, la sua stretta si fa più forte, mi mostra   un’altra stanza.

“Guarda, figlio mio, quelli sono i miei genitori e tua zia, mia sorella Vittoria.” Quell’unica volta che li ho avvicinati, non li ho visti bene. “Perché sono qui?”

“Perché ti hanno dato il sangue di cui avevi bisogno. Ti hanno salvato, ti stanno ripagando del male che ti hanno fatto, quando anch’ io, ti ho abbandonato.” Sento il suo rimorso sulla mia pelle, e le concedo il perdono, la bacio sul volto e le restituisco tutto l’amore che posso.

Lei mi sorride appagata. “Vittoria sarà una zia premurosa, i miei genitori ora hanno capito l’errore che hanno fatto.  Perdonali, solo così vivrai sereno.”

“Mamma, ero molto arrabbiato, ma ora mi accorgo che era tutto così stupido. Non sento più il rancore, non sento tristezza, perché ora mi sento avvolgere del loro amore.” Mi abbraccia.

“Sono orgogliosi di quello che sei.  Mycroft è un padre attento, ma ha bisogno di te Sherrinford, non pensava che avresti dato la tua vita per salvare quella di Rosie e John.”

“Mamma... io non so…. vorrei stare con te, se torno ti perderò ancora…”

“No, figlio, li hai visti!  Devi tornare!  Io ci sarò sempre dentro al tuo cuore guarito, nel sangue che scorre dentro le tue vene. . sarai coraggioso e diventerai la loro roccia.”

“Mamma…” sono incerto, ma lei è serena e decisa.

“Vai!   Vivi figlio mio! Abbi cura di Myc e digli che l’ho amato moltissimo… baciali tutti per me.”

 

 

Il risveglio è più duro di tutti gli altri. Il dolore, la nausea, l’agitazione mi devastano. Mentre con mamma ero così sereno, così in pace con me stesso.. Vorrei tornare da lei, ma vedo papà affranto ai piedi del letto, sorretto da zio Sherlock, non me la sento proprio di lasciarlo solo, non se lo merita.

Mi muovo appena e subito va in allarme tutto il monitoraggio, papà sussulta e mi è immediatamente vicino.

“Sherrinford…”  mi prende la mano e sento il suo calore, il suo amore che mi prende. “Figlio sei qui, sei tornato con noi…io pensavo di averti perso. Virginia ti ha riportato indietro.”

Cerco di parlare, ma mi esce un rantolo. “Non sforzarti, ora arriva Greg.” Sono solleciti, mi tolgono il respiratore, mi controllano, mi osservano. “Bravo giovane Holmes, ce l’hai fatta a farci preoccupare tutti.  Sei un mascalzone.”  Ride Greg e mi accarezza i capelli. “C’è una processione lì fuori.”  Vede i miei occhi dubbiosi. “Sono tutti in attesa di sapere come stai. Hai seminato amore Sherrinford, e ora ne raccogli i frutti.”

Si scosta e fa un cenno a Mycroft e allo zio, che ora hanno il volto sereno e sembrano ringiovaniti.

Sherlock esce ad avvisare gli altri. Greg allunga una botta benevola sulla spalla di papà.

 “Forza Holmes, penso dovrai dire qualcosa a tuo figlio.”  Esce mentre papà si fa vicino si siede accanto. “Mi hai fatto penare, figlio, temevo volassi da tua madre, non hai fatto altro che chiamarla.”

Deve fermarsi per respirare, ha gli occhi lucidi, scuri, addolorati. Cerco di prendere tutta l’aria che posso, mi esce una voce sottile e bassa. “Papà, la mamma, l’ho vista, ma ha voluto che tornassi, mi fa fatto capire quanto siete importanti, mi ha detto di baciarvi tutti.”

Lui abbassa la testa, piange in modo discreto, senza sussulti. Gli accarezzo la guancia ruvida, la barba gli è cresciuta, il vestito sciupato, la cravatta slacciata, lui che odia così tanto essere trasandato, si è perso senza di me. “Ti ha amato, papà, e devo darti il suo bacio... Avvicinati...”

Lo vedo tremare, le spalle un po' curve che ondeggiano, l’uomo di potere, il cuore di ghiaccio, si lascia alla mia cura. Mi porge il suo viso, lo afferro con le mani e gli regalo il dono di mamma, su quella guancia che nessuno bacia da tempo. Sento che siamo vicini, come uno scambio di amore che passa da l’uno all’altro.

“Sherrinford sei la cosa più bella che Virginia potesse regalarmi. Imparerò a diventare il padre che meriti.”

Mi restituisce il bacio, in fronte e sulle guance. È in difficoltà, perché trema e fatica a trattenere l’emozione che prova, ma lo fa e mi sento felice. “Papà, ora rimani con me, voglio starti vicino, recuperare tutto il tempo perso.”

So che guarirò, che il mio cuore starà bene, che avrò una famiglia, dei nonni e degli zii.

Una piccola schiera di amici e una piccola cugina pestifera.

Avrò tempo adesso, tutto il tempo che voglio. Per crescere e per portare con orgoglio il cognome degli Holmes.

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Capitolo 36
*** Epilogo: festa a Pall Mall ***


Ultimo capitolo,  mi sono dilungata un po' troppo, ma ero alla fine del viaggio di Sherrinford.

Ho voluto chiudere con una festa che sciogliesse la tensione di tutti i personaggi.

Ma non dico addio al giovane Holmes, per ora è solo un arrivederci.

Grazie a tutti.

 

 

È una giornata splendente, l'aria è frizzante. Papà ha voluto festeggiare il mio ritorno. Si sono adoperati a turno per farmi stare meglio. E sì, perché ho sofferto un po', ma mi sono stati tutti vicini.

Mycroft non ha badato a spese. Si è sentito sollevato dopo la fine di Auberton, andato dritto in galera. E la mia riabilitazione morale è stata totale. Oggi verranno a farci visita anche i suoi colleghi.

Sono tornato a Pall Mall da un paio di giorni, vivrò qui, nella grande casa Holmes. Non ho più bisogno del buon dottor Watson, il mio cuore va che è una meraviglia. Farò qualche controllo per accontentare mio padre che è diventato apprensivo.

Mi dispiace per la piccola Rosie, ma le ho promesso che andrò a trovarla spesso e qualche volta mi fermerò a dormire con lei, oppure verrà da noi.

Tra poco arriveranno gli invitati. Devo vestirmi con cura, papà ci tiene che sia elegante. Ha incaricato Anthea di procurarmi un vestito tre pezzi sartoriale, adatto alla mia figura snella, dovuta alla forzata degenza in ospedale.

Una camicia azzurra e una cravatta in tono, che arrivano addirittura da Firenze, sono appoggiate sul letto. Quando alla fine mi specchio sembro la copia di papà. Sono orgoglioso di assomigliargli tanto.

Devo portare ancora il tutore per non affaticare la spalla. Mi sistemo meglio: sembro un reduce di guerra, ma la battaglia l'ho vinta.

Beh, sono soddisfatto di quello che ho fatto.

Oggi ci saranno anche i nonni. Gli Holmes e i Sinclair.

Conoscerò la famiglia dalla parte di mia madre. Non sarà un incontro facile. Mycroft si è assicurato che fossi deciso, e lo sono. La mamma me li ha indicati in quello strano sogno dove l'ho incontrata. L'ho raccontato solo a papà e a nessun altro. Lui è rimasto sorpreso, ma alla fine mi ha creduto, visto che frequenta quel suo palazzo mentale, dove si rifugia di tanto in tanto e trova i ricordi di mamma.

Sono pronto. Sento le prime voci che arrivano dal piano di sotto.

Scendo come una star, sussulto leggermente, finisco per aggrapparmi al corrimano della scala. Sono al centro dell'attenzione, Mycroft mi viene incontro e mi aiuta a tenere a bada l'emozione.

"Quanti siete, Gesù. Non credevo in così poco tempo di avere tanti amici." Sbotto divertito, mentre Rosie galoppa verso di me, ma viene prontamente trattenuta dallo zio, prima che mi piombi addosso.

"Piano Rosie, stagli vicino, ma non in braccio. Ancora non può, vedi la spalla?" Lei guarda il tutore e ripiega sulle mie gambe, le abbraccia strette.

Mi chino, e la accarezzo con la mano libera. "Ciao, principessa. Come ti sembro come principe ammazza draghi?"

"Rattoppato." Afferma con veemenza, mentre tutti ridono. "Ma lo hai sconfitto e mi hai salvato. Perciò ti sposo."

"Rosie, ancora con questa storia!" Suo padre la sgrida. E lei brontola. "Uffa, papà ho capito! Aspetto di diventare grande. Però dopo lo sposo." Punta i piedini per terra. Faccio un gesto di intesa verso Watson. "Va bene, tranquilla, se non ci danno il consenso, ti rapirò e ti porterò nel mio castello."

È felice, mi dà un bacio con lo schiocco, la prendo per mano e ci avviamo in giardino. Corre sull'altalena, che un sollecito zio Myc le ha regalato per quando viene a giocare da noi. Mio padre è molto cambiato, non è più infastidito dalle persone, è più tollerante, più aperto alle relazioni umane.

Anthea mi aspetta in giardino, mi guarda felice di vedermi guarito, si avvicina fasciata in un abito azzurro delicato ed elegante. I capelli mossi che le incorniciano il volto. La redarguisco bonariamente agitando la mano. "Mi hai fatto urlare quel giorno da Auberton. Ti ho odiato." Le sorrido placato dopo tutto quel dolore fisico, che però ho quasi scordato.

"So quanto soffrivi, ma eravamo così in pena, io e Mycroft, che ci importava solo di salvarti."

"Ti ho odiato lo stesso." Rido pieno di orgoglio. "Però se sono qui è anche per merito tuo. Mi sei sempre rimasta vicina anche quando combinavo delle cazzate." Scuote il capo castano in un moto di diniego.

"Eri tormentato, insicuro, pieno di paure. Lo capivo e ho fatto il possibile per aiutarti. Ma sei coraggioso e onesto." Indica John che spinge Rosie sull'altalena. "Se sono vivi è per merito tuo."

La guardo dritta negli occhi chiari. So quello che amo e che voglio.

"Glielo dovevo. Mi hanno accolto con tenerezza soprattutto John, non avrei tollerato di vederli soffrire."

Tocco il tutore, aggiustandolo un pò. Lei è molto protettiva. "Stai bene Sherrinford?"

"Si, tranquilla, sono solo un po' nervoso."

La prendo sottobraccio e la porto a prendere un aperitivo. È festa stasera e mi è concesso di bere qualcosa in più.

Scorgo Albert e un paio di uomini della scorta. "Vado a salutarli, Anthea." Lei annuisce e rimane in compagnia di Mycroft.

Mi sorride appena mi vede. "Albert, ti devo ringraziare per tutta la pazienza che hai avuto con me." Si schernisce aggiustandosi la cravatta blu.

È stato un piacere lavorare per lei." Mi tende la mano.

"O avanti, sono Sherrinford! Basta con questo lei. Ti sembro così vecchio?" Mi sorprendo per tanto rispetto, io che non ne ho mai avuto. Che ero, fino a poco tempo prima, allo sbando.

"Ma le devo la stima che merita, signor Holmes."

"C'è un solo signor Holmes, ti prego! E quello è papà. Chiamami Hayc." Rido mentre mi stringe più forte la mano. "Molto bene Hayc. Sarò fiero di lavorare per te."

Avverto la sua dedizione per tutte le volte che ha guidato per me, e mi ha scortato gentile e silenzioso. I suoi colleghi, mi concedono un gesto di intesa abbassando il capo, poi riprendono a fare il loro lavoro. Garantiscono la nostra sicurezza e la nostra protezione. So di doverglielo ribadire. "Grazie anche a voi per avermi soccorso e salvato."

"È stato un onore Hayc." Fanno un cenno col capo.

Mi avvio verso il gruppo che chiacchiera con mio padre, riconosco Lady Smallwood. Mi viene incontro. "Sono felice di sapere che stai bene Sherrinford, ora sappiamo cosa hai fatto per tuo padre. Spero che un giorno deciderai di lavorare per noi."

Sorrido, muovendo la testa, i capelli mi finiscono sulla fronte. Lei li scosta con gentilezza. "Alicia, preferirei un lavoro meno pericoloso, ma certamente vicino a papà."

"Sei troppo importante per rischiare ancora, ora che sei guarito. Mycroft non sarebbe d'accordo."

Mi indica il petto. "Le persone come te sono essenziali per noi." Mi fissa divertita. "A meno che tu non voglia intraprendere la carriera da attore, perché sei stato da oscar."

Ridacchiamo insieme, mi ricordo ancora la faccia allibita che aveva al ricevimento. La ringrazio e mi prendo un po' di pausa. Mi siedo sulla panchina sotto al roseto, lo ha piantato papà. Sono le rose bianche che amava mamma, mi sembra quasi di sentirla vicina. Mi apparto e osservo tutti da distante.

Nonna Violet, mi è subito vicina. "Che fai nipote? Non prenderai l'abitudine di Mickey che finisce per isolarsi alle feste." Non ha tutti i torti conoscendo mio padre. Mi appoggio alla sua spalla con la testa.

"No, nonna, ma siete tanti, non mi capacito ancora di avere tutta questa gente intorno." Lei mi accarezza i capelli.

"Hai gli stessi ricci di tuo padre da giovane, poi prese a tagliarli corti. Un peccato, non lo farai vero?" Le prendo la mano, è leggera e calda. "No, nonna, se non vuoi no. Diventerò il capellone di famiglia."

Lei ride. "C'è già Sherlock che ha il primato." Mi guarda e sentenzia. "Però hai la classe di Mickey. Lo stesso portamento." Mi accarezza la guancia. "Meno rigido si intende." Ridiamo insieme, perché lo scorgiamo che ci guarda innervosito, mentre sorseggia del brandy vicino al fratello.

Sherlock intuisce e gli dà una bottarella, sbuffa annoiato, e distoglie lo sguardo. Divento serio, perché so che mi attende una visita difficile.

"Nonna, tra poco arriveranno i Sinclair. Spero che papà la prenda bene." Mi sistemo i capelli, che continuano a coprirmi la fronte.

Mi appoggia la mano sul ginocchio. "Stai tranquillo, sarà ragionevole. Sa che lo vuoi fare, e ti sarà vicino, comunque."

"Mi hanno salvato la vita, senza il loro sangue non sarei qui."

"Lo sa, è per questo che ha accettato. Non li ha contattati Mycroft, è stato Sherlock a trovarli e a convincerli. A volte è più maturo di tuo padre." Non approvo la sua conclusione, perché so quello che ha sofferto. Ma va bene così.

Si interrompe, cambia voce, ora è più dolce quasi affettuosa. "Si sono offerti subito, non ha dovuto nemmeno insistere."

Vedo muoversi Anthea e Sherlock. "Sono arrivati Violet. Vado a recuperare papà."

Sono loro che hanno l'incarico di accoglierli, mentre gli altri, amici e conoscenti sono in giardino. Purtroppo papà si è defilato, si è versato da bere già due volte. E la cosa non mi piace.

È vicino al camino, con un altro bicchiere in mano, rigido, fermo, accartocciato su sé stesso. In pochi passi sono da lui.

"Basta adesso. Lo so che è difficile per te, ma pensa che se sono vivo è anche per loro." Appoggia il bicchiere sul tavolo con poca attenzione e quasi lo rovescia, ma non dice una parola.

Il volto è contratto, la fronte corrugata, tutta la sua vita è stata stravolta per una decisione che hanno preso al suo posto. Per il figlio che gli hanno sottratto.

Gli prendo la mano. È fredda come il marmo, ma so che ribolle dentro, ho imparato a leggere nella sua freddezza: negli occhi grigi passa l'odio covato per anni.

Non va bene così. Non va per niente bene. Lo porto in libreria, quasi lo spingo dentro, chiudo la porta e lo sgrido subito.

"Guardami papà! Non sei obbligato a venire! Ma cerca di accettare che questo è il presente. Lascia andare il dolore del passato, ora non puoi farci più nulla."

Gli tremano le mani e le mette velocemente in tasca. Abbassa la testa e mormora quasi senza voce.

"Lo faccio per te, ma il mio cuore è arido per colpa loro. Non è facile per me accettare la vita che non mi hanno concesso e l'amore che avevo per Virginia." Lo scuoto per le spalle, gentilmente.

"Pensa che mi hanno salvato, concentrati su questo. Lascia fare a me, lo sanno quello che provi."

Lui si volta, gli occhi sono scuri e tormentati.

"Quando Virginia mi ha contattato e mi ha detto che ero padre, ti ho subito cercato. Lei voleva così tanto abbracciarti!"

Si ferma cercando di respirare meglio. "Non ho fatto in tempo ad accontentarla. Non ti ho trovato, perché la legge sulle adozioni era troppo rigida anche per me, e sai bene qual è il mio lavoro." Riprende fiato di nuovo, gli accarezzo la schiena cercando di farlo sciogliere.

"All'ospedale ci siamo incrociati con i Sinclair e li ho volutamente evitati." Il mio gesto ottiene l'effetto desiderato, rilassa le spalle. "È una tua scelta e la rispetto, ma non riesco... a superare la sofferenza che mi hanno inflitto."

La mia mano è appoggiata sulla sua spalla che sembra portare un macigno. "Va bene papà, lo farai se te la senti, ma ti voglio vicino. Non parlare se non vuoi, ma stai con me."

È convinto e mi segue con un passo pesante, lo zio Sherlock è in ingresso con i Sinclair.

Il nonno è un uomo di statura media, con i capelli grigi folti, porta i baffi. Ha l'aspetto autoritario del militare, so che lo è stato per anni: maggiore dell'esercito di sua maestà. Il suo sguardo si scontra subito con quello di papà. C'è tensione fra loro, sono due persone arroccate nelle loro posizioni.

La nonna invece è una donna minuta, si capisce subito che lei non decide nulla in famiglia. Mi sorride sbalordita, mentre mi studia e cerca un po' di sua figlia Virginia in me. Le ricambio il sorriso, sento il passo incerto della sorella gemella di mamma, che si avvicina e mi abbraccia. Il suo calore è confortante, intuisco che entrambi lottiamo per avvicinare le due famiglie.

"Non ti ha mai dimenticato Sherrinford, eri sempre nei suoi sogni." Me lo sussurra all'orecchio mentre mi stringe con forza. So che mi ha dato il suo sangue, lei mi ha salvato la vita.

Sherlock è affiancato a mio padre, ma non prende posizione. Lo sostiene moralmente, faccio un cenno con il capo verso di lui, e inizio a parlare.

"Ho chiesto di vedervi perché volevo conoscervi e non accusarvi. Lo faccio perché una sola volta incontrai Virginia all'istituto, lei mi aveva cercato è questo mi basta. Era mia madre e mi sento di doverglielo." Lo dico con la mano di Vittoria nella mia.

"Non sono arrabbiato, non voglio vendetta." Respiro profondamente. La mano di papà si appoggia sulla mia spalla ferita, delicata e rassicurante.

"Quando stavo male lei è venuta da me." Prendo un respiro profondo, abbasso la testa. "Potete crederci o no, mi ha fatto capire che la rabbia che mi portavo dentro per essere stato abbandonato, non era più necessaria." Mi interrompo ancora, inghiotto a vuoto. "Lei era felice, e quella stessa felicità me l'ha donata. Ora credetemi, non voglio nient' altro che essere sereno." La zia mi accarezza i capelli, ha gli occhi lucidi. "Sei quanto di più bello Virginia abbia mai avuto." Mormora lenta.

Indica con la mano un enorme scatolone appoggiato in ingresso. "Quelli sono i suoi diari, ti ha scritto ogni giorno della sua vita. Ora sono tuoi. Quando vorrai li leggerai e lei sarà con te." Vittoria mi bacia la fronte. Papà al mio fianco rallenta il respiro.

Mi volto a guardarlo, un moto di intesa passa fra noi, e approva muto.

Si rivolge al vecchio James Sinclair. Si schiarisce la voce, inizia incespicando, poi si fa più sicuro. I miei occhi sono nei suoi.

"Quando Virginia, mi ha contattato e mi ha raccontato tutto, mi ha chiesto di portarglielo in tempo per abbracciarlo, ma..." Si ferma e prende tempo. "Ma non ci sono riuscito, e mi rammarico per questo."

Le sue parole sono appesantite dall'angoscia di avere fallito, fatica a mascherarla.

"Ho avuto pochi giorni con lei, la sua malattia era troppo veloce." Sento la sua voce incrinarsi. Lo guardo preoccupato, sembra nascondere qualcosa. Sherlock gli è vicino, il fratello ribelle condivide con lui un segreto di cui non sono al corrente.

Ci guarda entrambi, poi si sofferma sul vecchio James. Si raddrizza in tutta la sua altezza. Le mani lungo i fianchi.

"Signor Sinclair, io, Mycroft Holmes, ho sposato Virginia tre giorni prima che lei morisse."

Respira profondamente, ha gli occhi lucidi, ma nasconde bene il dolore, è rapido a riprendersi. Sposta lo sguardo su di me orgoglioso.

"Ho riparato al danno fatto in gioventù, lei sarebbe stata comunque mia moglie... Perché l'amavo."

James Sinclair è come una statua di pietra, forse non respira nemmeno, la nonna Evelyn abbassa la testa bianca e piange silenziosa sorretta dalla figlia Vittoria, che invece sorride felice.

James fa un passo deciso verso mio padre e gli tende la mano.

"Mycroft, nessuno potrà mai ripagarti del male che ti ho fatto. A te, a Virginia, a Sherrinford. Dei pregiudizi che avevo nei tuoi confronti. Di non aver capito che l'amavi veramente. Mi hai dato una lezione e un rimpianto che mi porterò dentro per sempre." La mano è ferma, allungata verso papà.

Lui tentenna, ha gli occhi incatenati ai miei, capitola e accetta. Il suo volto si distende, le rughe si annullano. Adesso riuscirà a elaborare il passato.

James continua, la voce calda, la mano stretta in quella di papà. "Non me lo merito, ma sono contento che Virginia sia stata felice i suoi ultimi giorni. Perdonami Mycroft... se puoi."

Si volta verso di me. "Nipote, sei un uomo adesso, le mie colpe sono gravi, ti ho separato da mia figlia. Ma sappi che lei ti amava. Sarebbe stata una madre attenta se io non fossi stato così maledettamente egoista."

Prende una pausa, arranca un po', mentre mi guarda attento. "Non pretendo il tuo perdono, anzi non lo voglio, ho causato così tanti danni che non lo merito. Ma se vuoi la mia casa è aperta, per conoscerti meglio. E parlare di lei e riparare al male che ho fatto a tutti." China la testa, perde il controllo, singhiozza. Vittoria gli è vicina e lo sostiene, è rassegnato a vivere nel rimpianto.

"Bene, nonno James, perché è così che ti chiamerò da oggi. Verrò da voi e mi parlerete di mamma, mi renderete quello che ho perso." Si dà un contegno, ma tiene la testa bassa. "Grazie per avermi salvato, non era così scontato farlo. Ora guardami, sono qui."

Alza la testa, gli occhi arrossati. "Farò tutto il possibile per aiutarti." Ci abbracciamo e non c'è bisogno di dire altro.

Ci raggiungono gli altri nonni e si presentano senza alcun rancore. Passano strette di mano, in una tregua univoca. Non c'è più tensione, ora sembriamo una famiglia. Una unica grande famiglia.

Nella confusione che si crea, prendo papà per il braccio e lo trascino da parte. "Perché non mi hai detto che l'hai sposata?" Gli sussurro sconvolto.

"Non ne ho avuto l'occasione, né il coraggio. Con tutti i pericoli in cui ti ho trascinato, mi sono sentito in colpa, le avevo promesso di proteggerti e non l'ho fatto." Le sue mani sono rigide, mentre tormenta la catena dorata.

"Dio papà, hai fatto una cosa dolcissima, perché sentirti in colpa? I pericoli li ho scelti io. Rammentalo bene." Cerco di guardarlo dentro i suoi occhi grigi che traballano un po'.

"All'inizio eri molto arrabbiato e io non sapevo come fare... non ero pronto ad avere un figlio...non ti ho detto subito di Virginia...ho commesso degli errori anch'io."

Le mani sono strette così forte attorno alla catena, che sono bianche. So cosa prova, era un uomo solo, impreparato a diventare padre, chiuso nel dolore di quell'amore che aveva perso, senza capire il perché. Non voglio vederlo soffrire.

"Ora basta. Ti voglio bene più di quanto tu creda. Sarò con te sempre, in qualsiasi momento, nessun altro conta più di te, papà." Lo abbraccio così forte con un braccio solo, che si lamenta.

"Fermati, ti farai male Hayc." Mormora nel mio orecchio.

Gli altri invitati, ci hanno osservati discreti ci sono tutti vicini. Mycroft quando se ne avvede appare confuso, non è abituato al sentimento, tanto meno ad esternarli, ma gli sono a fianco e lo sorreggo. Ho forza adesso, per tutti e due.

I nonni, gli amici, Sherlock, il fratello che tanto ha protetto, sono tutti lì, in un abbraccio virtuale che ci scalda il cuore.

"Mycroft faresti bene a tenertelo stretto un figlio che ti ama così." John è sollecito, sa quanto ho lottato per avvicinarmi a papà.

Lui si schernisce, lo sento tremare sotto i suoi vestiti costosi. So che devo proteggerlo, non ha uno scudo per le emozioni.

"Bene, allora che facciamo? "Li guardo tutti, passandoli uno ad uno. "Non volete festeggiare il mio ritorno?"

Rosie si aggrappa alle mie gambe. "Allora piccola principessa, diamo il via al pranzo?" Lei annuisce scuotendo i capelli biondi. Le prendo la manina e imposto la voce.

"Allora si apra la cucina, e si buttino i pensieri cattivi. Io Sherrinford Holmes, principe ammazza- draghi e Rosamunda dai riccioli d'oro, inizio i festeggiamenti." Volano sorrisi e risate, e pacche sulle spalle ed è così che voglio che sia.

Mycroft mi guarda interdetto, scuote la testa, ha riacquistato il suo British aplomb. "Sei proprio imprevedibile figlio, non so come farò a sopravvivere con te." Ci sciogliamo in una risata complice, la sua mano si posa sul mio petto al centro del cuore. Vedo la fede nunziale sulle sue dita sottili. Pensavo fosse un vezzo, ma ora so perché la porta, la sfioro con le dita, tremando.

Mi lascia fare senza ritrarsi. È bello l'amore che aveva per Virginia.

Ora so perfettamente, che ho avuto una famiglia che mi ha voluto bene. Il destino ci ha separati, ma ora siamo insieme. Anche oltre la vita. Mamma è lì presente. lo sento.

"Le voglio bene papà, grazie per averla resa tua moglie e mia madre." Annuisce sereno, gli occhi limpidi e la gioia mi riempie il cuore, quello malandato che ora batte sicuro.

Raggiungiamo fianco a fianco gli ospiti.

Sono Sherrinford Haycok, ho un nome eccentrico come tutti i membri della famiglia, ma sono orgoglioso di essere un Holmes. 

 

 

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