L'equilibrio di Tymeria

di Aspis95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Parte 2 ***
Capitolo 3: *** Parte 3 ***



Capitolo 1
*** Parte 1 ***


Le montagne con le loro vie impervie stavano ormai lasciando spazio ai boschi e, più avanti, alle dolci colline ricoperte di frutteti. Avevano superato il Passo ormai da quattro giorni e il profilo di Passofreddo si delineava davanti a loro. Kwalls diede un sorso dalla sua fiaschetta e allungò il liquore ai suoi compagni, sporgendosi oltre le corna della sua Gresk.

Mese di Abadius, giorno 26, anno 1345 dalla Nuova Creazione.

È forse un cliché pensare agli elfi come a creature che vivono in una comunione profonda con la natura, che fondono le radici della loro magia con le radici della vita stessa che cresce e germoglia attorno a loro… eppure è proprio così che dobbiamo immaginarci le comunità di Belobeth, immerse in una natura lussureggiante, che non nega i suoi segreti a coloro che si dimostrano dotati della forza di volontà necessaria per accoglierli. L’arte di piegare la realtà al proprio potere non è concepita come un trucco che può essere appreso tra le pagine di un libro, ma come un dono. Un dono che viene dalla Terra o, talvolta, un dono che discende dal Cielo, dalla mano generosa di una qualche divinità.
Certo, non è così nelle Nazioni più centrali del continente. Non è così a Tymeria, dove le varie razze hanno imparato a sfruttare il proprio ingegno, ponendo le doti magiche a servizio del progresso e della tecnologia. Ma qui, nelle verdi terre di confine, il valore delle antiche tradizioni e il legame col creato rimangono elementi imprescindibili nei cuori e nelle menti di coloro che vi abitano. Siamo a Belobeth e, precisamente, in una delle zone più esterne di Belobeth, nella piccola cittadina di Tinuviel.

La luce scarlatta filtra dalle rosse vetrate. I caldi raggi del sole che si rifrangono sul vetro riempiono la navata, che ogni sera al tramonto si riempie come di fuoco. La statua della dea accoglie con sguardo benevolo tutti coloro che oltrepassano il portone del suo tempio e li aspetta a braccia aperte, come una madre che aspetti il figlio smarrito. In quest’ora crepuscolare, i crisantemi bianchi posti ai suoi piedi si tingono d’arancio. A disporli elegantemente nel vaso sono le dita affusolate di una giovane elfa, che incastra tra loro gli steli con movimenti precisi e studiati; senza fretta, senza lasciare nulla al caso. Il suo è un gesto di preghiera, un omaggio alla divinità.

Quando anche l’ultimo crisantemo è stato sistemato con la giusta angolazione, si sofferma per un istante a contemplare quella piccola composizione floreale, per essere certa che niente sia fuori posto. Chinando appena il capo, sussurra un veloce ringraziamento. 

“Ti dono anche quest’oggi la mia arte, Shelyn. Che la ricerca della bellezza in questo mondo possa riflettere sempre il desiderio di incontrare la Tua Bellezza, che è armonia e perfezione e pace del cuore.”

E anche per oggi, la sua meditazione è finita. Si concede una piccola occhiata intorno a sè. Non si era accorta di non essere sola. Non troppo lontana da lei, un’altra figura esile rivolge le sue preghiere verso l’altare della dea. L'abito scarlatto, la spilletta raffigurante un usignolo appuntata sul petto e i lunghi capelli biondi, intrecciati con fili colorati, sono indizi evidenti della sua affiliazione ai Sacerdoti Guerrieri di Shelyn. Tra consorelle è facile riconoscersi.

“Veduì, Eléison!” saluta la ragazza, rendendosi conto di essere osservata. 

“Veduì, Juna… come è andata la tua giornata?”

“Molto bene, direi!” risponde mostrando i palmi delle mani, colorate di pittura. Sono le mani di una persona che non si è risparmiata, che ha messo tutta se stessa nell’opera che stava realizzando, senza timore alcuno di sporcarsi. Ora che ci fa caso, forse anche le note di colore tra i capelli della ragazza non sono date tutte solo dai fili intrecciati, un bel gocciolotto di tempra blu risalta tra il biondo dei suoi capelli. 

Tuttavia, non ha l’aria di una persona che voglia fare conversazione. 

“È giunto un nuovo incarico, Eléison. La missiva è arrivata direttamente dalla Chiesa Centrale”. Dette queste parole, si ferma a scandagliare il suo sguardo. È un istante di esitazione brevissimo, quasi impercettibile, prima che aggiunga “Ha a che fare con la Mano Rossa”. 

Quel nome colpisce Eléison come una cascata gelida sulle spalle. Juna sa quale effetto quelle due semplici parole facciano su di lei, conosce il suo dolore. Ed Eléison non si sforza di nascondere il proprio turbamento, nonostante gli anni di addestramento le abbiano insegnato a non lasciarsi controllare dalle emozioni. Fa solo un cenno con la testa, sa che se parlasse le tremerebbe la voce. Juna rispetta il suo silenzio e senza aggiungere altro, le porge una missiva.

È con un groppo alla gola che legge le parole vergate sulla carta, due volte, prendendosi tutto il tempo necessario per essere sicura di aver assimilato ogni minimo dettaglio impresso in quella grafia sottile e sbilenca.

Figli di Tinuviel,

che l’amore guidi le vostre anime.

Nella vicina Tymeria sembra che la Mano Rossa stia riuscendo a sconvolgere gli equilibri. La natura sembra riflettere l’inquietudine del popolo tymeriano e legami più profondi si svelano adesso ai vostri occhi. La delicata condizione diplomatica ci spinge a rivolgerci a voi, Popolo del Passo, per raccogliere nuove informazioni in merito alla vicina nazione. Siamo stati informati della presenza di un pentito della Mano Rossa a Kanis Kagora, sembra che la sua posizione fosse di rilievo all’interno dell’organizzazione. Ha concesso un incontro con una rappresentanza di Belobeth, a patto che fosse una seguace della Chiesa di Shelyn.
Lo troverete all’Orfanotrofio della Madre sotto il nome di copertura di Rozek. Rispondeva un tempo al nome di Zon-Kozer nell’organizzazione della Mano Rossa. Vi aspetterà nelle ore buie che precedono l’alba del trentesimo giorno del mese di Abadius. Riconoscerete la stanza ove avverrà l’incontro: situata al piano terra, a est, sarà l’unica con la luce accesa.
Qualunque informazione ci sarà utile.
Chiesa di Shelyn, Vescovo Julius

Belobeth, città di Varia, ventesimo giorno di Abadius, anno 1345 N.C.

 

“Andrò da sola in questa missione, immagino.” Lo chiede con tono sbrigativo, senza alzare lo sguardo dal foglio che tiene tra le mani e che sta ripiegando con cura prima di riporlo al sicuro nella tasca interna del proprio mantello. Dovrà tenerlo lontano da sguardi indiscreti, certo, ma il sigillo della Chiesa che vi è apposto potrà, all’occorrenza, aprirle molte porte.

“Non dobbiamo dare nell’occhio. È forse già tanto che siamo riusciti a contattarlo, è forse già tanto…”
“Che lui sia riuscito a contattare noi, sì.”

Tra le due cala un silenzio assenso, prima che a Eléison sfugga un sospiro.

“Non so che cosa dovremmo aspettarci da un incontro simile. Forse non ho meditato abbastanza per questo.” 

Il sorriso sul volto di Juna è carico di comprensione, appoggia una mano sulla spalla della consorella e le parla con tutta la dolcezza che è capace di infondere nella propria voce.

“Hai ancora un altro giorno per rivolgere a Shelyn le tue preghiere. In tre giorni di viaggio dovresti arrivare abbastanza agilmente, si tratta solo di superare la Tenaglia… prenditi un mantello più pesante per il viaggio, ti servirà ora che l’inverno sta arrivando.”

Dopo un ultimo saluto a Juna e un ultimo inchino rivolto alla dea, si dirige subito verso le stalle, dove sono a disposizione le cavalcature per i membri della Chiesa. È una Chiesa piuttosto ricca, fornita di molte risorse, complice il fatto di sorgere in un territorio di passaggio, piuttosto strategico a livello commerciale, ben collegato con varie comunità.

La sua attenzione è subito catturata da un cavallo dal manto di un nero lucido, e pensa scioccamente che insieme formerebbero una bella coppia: hanno lo stesso colore di capelli. E come i suoi capelli sono resi più vivaci da decine di nastri delle tonalità dell’arcobaleno, così il manto dell’animale è impreziosito da una macchiolina bianca a forma di stella sulla fronte. Si avvicina senza timore, allunga una mano ad accarezzargli il muso e gli offre una bella carota da sgranocchiare. La diffidenza dell’animale si azzera immediatamente. 

“Chi sa come ti chiami…” si domanda ad alta voce, cercando con lo sguardo la targa che riporti il nome dell’animale. Brisingr. Significa “fuoco”, in un antico dialetto locale. Beh, almeno mi terrai al caldo lungo il tragitto, pensa ricordando il consiglio di Juna. Un sorriso le sorge spontaneo sul volto e insieme ad esso, giunge la consapevolezza che quello è proprio il tipo di battuta squallida che avrebbe fatto Hwindë. Le dita corrono istintivamente a giocherellare col sottile bracciale che splende attorno al suo polso sinistro. Con una punta di nostalgia, abbassa lo sguardo a leggere le parole che vi sono incise sopra: Yà ni aselyë, umbë nin nànye ve hwindë yà lairë menë. Ogni volta che sono con te ho la sensazione di essere come una betulla quando arriva l'estate.


 

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Capitolo 2
*** Parte 2 ***


Gul’Dan afferrò la fiaschetta dando un sorso. Davanti a lui, Clorice si girò rivolgendosi a Kwalls:
"Ma voi druidi avete un modo particolare per brindare?"
Kwalls sorrise, iniziando una delle sue solite spiegazioni sulla natura e sugli dèi con un trasporto tale che la nana non se la sentì di infierire. Così aspettò che fosse il tuo turno di bere, assaporando il calore delle erbe che le scaldava la gola.

Mese di Abadius, giorno 30, anno 1345 dalla Nuova Creazione.

Nel regno di Tymeria si vive una vita tranquilla. Anche nelle città più grandi e centrali si respira la stessa atmosfera che si può incontrare nei paesini più periferici, per il modo di fare delle persone attorno, per lo stile di vita. Non a Kanis Kagora, però. Già a colpo d’occhio è impressionante: è caotica, è una città viva, che vive di mercati. Una città con un’architettura imponente, che non può passare inosservata: tutto il contrario di quello che avviene in molte città situate dell’altra parte della Tenaglia, città come Belobeth, che quasi spariscono, come inglobate nella natura.  E tutto questo grazie alla sua particolare posizione, proprio sulle rive del lago Kagora, da cui prende il nome e al quale deve tutta la propria ricchezza: al di là di esso, infatti, sorge lo Stato di Xi’an, regolato dalla Lega Mercantile Occidentale. Uno Stato legato a doppio nodo agli scambi mercantili, uno Stato che vive di commercio.
Kanis Kagora è una città in cui è facile scomparire, in cui è facile ricominciare a vivere partendo da zero. Ma è anche una città da cui è facile voler scappare perché, per quanto sia qualcosa di unico e di nuovo per tutti quelli che vi giungono da fuori, per chi vi abita all’interno è un po’ come vivere  a cavallo tra due mondi: non sei completamente parte del Regno di Tymeria; non sei pienamente accettato come snodo mercantile dalle altre Nazioni limitrofe. Hai tante cose che non potresti avere altrimenti, ma non ti senti appartenere pienamente a niente di più “grande”. Non a caso, in questa città, sorge l’orfanotrofio della Madre. È un luogo dove qualcuno lascia il peso del proprio passato, altri invece trovano nuovi inizi.

 

Il sole sta iniziando a calare e la camera, esposta direttamente a ovest, si sta striando di rosso. Hanno organizzato tutto un po’ in sordina, stanno cercando di dissimulare le loro intenzioni, non vogliono che gli altri glielo leggano in faccia. L’ansia, però, sta iniziando a farsi sentire. Da una parte c’è l’eccitazione, l’euforia del momento; dall’altra però l’ombra del dubbio e della preoccupazione inizia a insinuarsi nei loro cuori. È qui che hanno sempre vissuto e domani, all’alba del loro diciottesimo compleanno, nel primo giorno del mese di Calistril, si saranno lasciati alle spalle la vita come l’hanno sempre conosciuta.
Sicuramente si sono fatti riconoscere. Non solo all’interno di quelle mura, ma in tutta la città circostante, dove hanno iniziato a muovere i primi passi, combinato le loro marachelle, fatto qualche lavoretto qua e là per imparare a inserirsi nella società una volta che avrebbero lasciato quel nido sicuro. In queste settimane si sono messi avanti perché niente doveva, niente poteva andare storto. Hanno risparmiato tutte le monete che sono riusciti a mettere da parte, hanno radunato le loro poche cose e ora mancano solo gli ultimi preparativi. Ormai è solo questione di prendere le proprie bisacce, buttarsele in spalla e, col favore della notte, darsela a gambe.

Con la schiena poggiata al muro, Rukeil stringe forte il ciondolino che porta appeso al collo, come se potesse trarne la forza per compiere quel passo, a lungo atteso. Ronden, dal canto suo, non presta al fratello nessuna attenzione. È riuscito a sottrarre una lama al Maestro e sta trafficando tra le sue cose, cercando in tutti i modi di trovare un posto sicuro in cui nasconderla. Riesce finalmente a incastrarla nella propria bisaccia, in mezzo al groviglio di vestiti. Guarda per un attimo la propria opera, fiero del risultato, poi “No, no, no, potrebbe servirci!” e di nuovo svuota la sacca di buona parte del suo contenuto, deciso a trovare un posto più consono in cui riporre la preziosa arma. Mentre per l’ennesima volta cerca di mettere ordine nelle proprie cose, si rivolge all’altro, la tensione che trasuda da ogni suo movimento, dal tono della voce, dalle parole che si riversano come un torrente fuori dalle sue labbra.

“Mi raccomando, ricordati di prendere tutto. Hai preso tutto, vero?” la risposta che tarda a giungere lo innervosisce, se possibile, ancora di più “Rukeil, hai controllato?”. 

Un sospiro esasperato. “Secondo te?”

“Va bene, va bene, va bene...” torna a frugare tra le sue cose giusto qualche secondo prima di bloccarsi di nuovo, pietrificato da un dubbio. “Hai chiuso la porta?”

In quello stesso istante, dal corridoio si sente un rumore di passi e subito una voce profonda annuncia ai ragazzi l’ingresso di una figura a loro ben nota. “ È così, dunque. Nemmeno un saluto!”. 

Istintivamente, Ronden, getta il proprio zaino sopra il pugnale e, senza grazia alcuna, si lancia sopra al tutto in un gesto che sembra urlare “Hey, sto nascondendo qualcosa!”. Rukeil, imbarazzato dalla scena, seppellisce il volto nei palmi delle proprie mani.
Appoggiato allo stipite, c’è l’uomo che li ha cresciuti, nutriti ed educati. Nonostante quelle piccole rughe intorno agli occhi, quell’accenno di bianco che si fa strada tra i capelli e la barba, continua a mantenere l’aspetto di un uomo a cui nessuno vorrebbe mettere i bastoni fra le ruote. I due ragazzi sanno decisamente poco di lui. Il Maestro, dall’altra parte, li osserva con lo sguardo divertito di chi conosce non solo la loro storia, ma anche i loro pensieri, le loro intenzioni. Tutto, nella espressione, lascia intendere che no, non sono riusciti a fregarlo neanche questa volta. 

“Maestro Rozek, buonasera!” saluta Ronden, accogliendolo con un gesto teatrale del braccio “Presumo… presumo sia qui per Rukeil!”

Il “Brutto pezzo di merda” sussurrato a denti stretti dal fratello è perfettamente udibile alle sue orecchie, ma Ronden lo ignora. “Fate pure finta che io non ci sia. Anzi, se volete uscire per parlare in privato, prego, non mi offenderò!”

Rukeil si guarda frettolosamente intorno, come se una valida scusa potesse semplicemente piovere per lui dal cielo. “Dovevamo fare quella cosa, Maestro… Quella con… via, su… lo sa,no?”

Maestro Rozek scuote la testa, mostrando ai ragazzi un sorriso tenero. Punta il suo sguardo prima su uno, poi sull’altro gemello e procede con le sue domande.

“Dunque il piano è partire stanotte?”

“Io stanotte dormo!” risponde prontamente Ronden, che nella foga sente la lama del pugnale puntellargli contro la schiena. 

“Stavamo proprio per andare a letto!” aggiunge Rukeil.

Senza neanche fingere di star davvero ascoltando le loro risposte, intanto, Rozek si avvicina. Continuando a sorridere, inizia a girare intorno alla stanza. “Insomma, come nelle favole: sfruttate la mezzanotte dei diciotto anni.” considera tra sè e sè, mentre con lo sguardo si sofferma a studiare quegli spazi vuoti dove sa benissimo che le cose dei gemelli sono state accumulate per anni.  

Rukeil dà una leggera gomitata al fratello e sommessamente “C’ha sgamato in pieno eh?”
“Ti avevo detto di stare attento” risponde l’altro a denti stretti.
“Guarda che l’avevo chiusa la porta!”
“Sì, certo. Lo vedo. Mai stata più chiusa di così.” esasperato, Ronden torna a rivolgere l’attenzione al Maestro e gli parla infondendo nella propria voce tutta la serietà di cui è capace. “Se l’intenzione è quella di impedirci di partire, temo che non sia possibile.”

Lui si appoggia allo stipite da cui è entrato poco prima, le braccia incrociate sul petto.
“Non è quello che ho intenzione di fare. L’età per andare l’avete e in fondo vi ho preparati io a questo momento, sapevo che sarebbe arrivato. Però non voglio neanche lasciarvi partire senza un saluto. Fate un favore a questo povero vecchio… anche se il piano è quello di lasciare l’edificio nella notte, passate prima a dirmi addio. Soprattutto perché ho preparato qualcosa da donarvi, qualcosa…” e qui i suoi occhi si fissano su Ronden “...beh, sicuramente qualcosa di più interessante della vostra nuova lama.”

“Qualcosa per noi… o per lui?” domanda Ronden con fare circospetto, ignorando l’ultima frecciatina dell’uomo.
“Per tutti e due, ovviamente.”

“Allora fare tanto il leccaculo non ti è servito a niente, ciccino” sussurra alla volta del fratello.

Rozek sbuffa, alzando gli occhi al cielo, fin troppo abituato ai battibecchi e alle scaramucce di quei due. Dà un piccolo colpetto con le nocche allo stipite e, voltando le spalle ai ragazzi: “Mi raccomando, mangiate bene stasera. Anche se purtroppo, come forse quasi troppe sere in questa vita… zuppa di legumi”. E così si dilegua nel corridoio. Ronden aspetta che esca, il più finto dei sorrisi stampato sul volto. Non appena il rumore dei passi svanisce, si lancia contro la porta e la chiude a chiave. “Era tanto difficile?”

“Ti dico che era chiusa la porta!”

“Dovevi stare più attento, dovevi controllare.”

“Ho controllato.”

“E allora dovevi controllare di nuovo.”

“Ormai lo sa, Ronden, è inutile fare così. E poi vuole pure aiutarci, è andata meglio del previsto.”

“Perché l’ha presa bene.”

“Meglio così, a quanto pare.” E volgendo le spalle al gemello, torna a riordinare le poche cose che ancora non ha risposto nella bisaccia. Non visto, Ronden tira fuori un diario, lo aggiorna con qualche veloce appunto e lo ricaccia subito in mezzo a tutto il resto. La luce proveniente dalla finestra si è ormai affievolita e si leva in cielo il suono di campana: è l’ora di cenare. 

Nella sala del refettorio, si trovano di fronte a due lunghe tavolate. La prima, la più vicina a loro è circondata di ragazzi; nell’altra, poco più in là, siedono invece  i più piccolini. A far loro segno, sbracciando come un forsennato, di andarsi a sedere vicino a lui è un biondino sorridente, con appena un paio di anni meno di loro. Sono i tre più grandi lì dentro, tutti gli altri orfani hanno meno di undici anni.

Canticchiando allegra, Gilda, la donnona bionda che si occupa di preparare i pasti per tutta la struttura, si para loro davanti stringendo tra le braccia un pentolone fumante. “A voi doppia porzione ragazzi, dovete crescere belli forti!” annuncia, tirando nei loro piatti un’abbondante mestolata di zuppa marrone.
“Mmm, grazie!” la accoglie Ronden, decisamente poco convinto, e fissa la sua cena con aria sconsolata. Ha anche un buon profumo, in realtà. Sanno quanto Gilda si impegni per far sì che quella pietanza risulti il più appetitosa possibile, ma nonostante i suoi sforzi rimane zuppa di legumi. Per la quarta volta, in quella settimana. 

“Insomma, siete pronti? Siete pronti? Domani fate diciott’anni, dobbiamo fare festa!” da quando si sono seduti, il raggetto accanto a loro non gli ha dato tregua, dimostrandosi un vero vulcano di emozioni.
“Calma, Julian...” cerca di ammansirlo Rukeil, ma quello non pare avere nessuna intenzione di ascoltarlo.
“Ma ci porteranno il dolce! Quanta voglia ho di mangiare un dolce, chissà quanto è passato dall’ultima volta!” la sua eccitazione è palpabile, non sarà così facile tenerlo a freno quella sera.
“Se ci tieni così tanto, ti concedo volentieri anche la mia fetta” e gli occhi di Julian scintillano, quasi trattenesse a stento le lacrime

Rukeil vede Ronden guardarsi attorno, lasciando correre il suo sguardo tutti quei ragazzi, tutti quei bambini che hanno visto arrivare, che hanno visto crescere. Hanno dato molto da fare a Rozek e Gilda, questo è certo, ma per quei bambini si sono sempre comportati da fratelli maggiori. Sanno di essere stati per loro “quelli grandi”, quelle figure di riferimento che davano loro consigli, che insegnavano i giochi più divertenti,  che li consolavano per le ginocchia sbucciate o che si mettevano in mezzo a dividerli quando c’era una zuffa.
Rukeil dà una pacca al fratello, riscuotendolo dai suoi pensieri e avvicinandosi appena sussurra “Domani tutto questo non ci sarà più. Un po’ mi mancherà.”

“Forse anche a me, ma non ne potevo più, se devo essere sincero. Le solite ragazzate ogni giorno… è il momento di cambiare” risponde tenendo lo sguardo incollato sulla sua pietanza, che mescola col cucchiaio, giocherellandoci senza mangiare. “Potremmo andare ad aspettare il Maestro nei suoi alloggi, ma non vorrei dare nell’occhio. E poi era tanto che lo volevo fare…” Lascia andare il proprio cucchiaio, prende una manciata di legumi dal piatto e la lancia  verso il tavolo opposto, urlando a pieni polmoni “Guerra di cibo!” e subito si risiede, aspettando la reazione al suo gesto, sperando di approfittare del baccano per svignarsela inosservato. Il proiettile improvvisato però non fa molta strada e la zuppa lanciata finisce a terra, precisa, in mezzo ai due tavoli.
Ora tutti gli sguardi sono fissi di lui.
“Guarda come si fa, sei una pippa” e, raccolto col cucchiaio un po’ del residuo della sua cena, Rukeil mette a segno un lancio a parabola dritto dritto verso uno dei ragazzetti dall’altra parte. A salvarlo dalla doccia di legumi è solo la sua altezza. “Ma sei deficiente?” urla vedendo il proiettile di cibo sfrecciare a pochi centimetri dalla propria testa, raccoglie anche lui una manciata di legumi dal proprio piatto e risponde al fuoco, centrando Rukeil in pieno volto.

Ronden si sporge verso Julian “Ti do tre fette di dolce se continui la battaglia”

“Te ne do quattro se stai dalla mia parte” rincara Rukeil.

La posta in gioco si fa alta, i suoi occhi si illuminano di gioia, ma preso da un moto di razionalità, si gira verso il tavolino dove è seduto il Maestro. I gemelli fanno altrettanto e incrociano il suo sguardo, gli occhi che sembrano solo voler capire fino a dove abbiano intenzione di spingersi. 

“No, no, no… se il Maestro si arrabbia, non me lo fa neanche guardare il dolce, questa volta non ci casco!”

Lo stesso pensiero sembra colpire tutta la sala, in cui cala un silenzio imbarazzante. 

“Emh… credo che andrò a sciacquarmi la faccia!” annuncia Rukeil ad alta voce. 

“E io credo proprio che ti accompagnerò!” gli fa eco Ronden. 

E ignorando le urla della povera Gilda che chiede “Dove state andando ragazzi? La cena non è ancora finita!” tornano di corsa nella propria camera a ricontrollare, per forse la millesima volta, di aver preparato tutto quello che potrà servirgli. Aspettano di sentire lo scalpicciccio dei ragazzi nel corridoio, che fanno avanti e indietro, parlottando tra di loro, fino a quando non si fa per tutti l’ora di dormire. Quando i rumori si acquietano, si affacciano sul corridoio e, dopo un’ultima occhiata nostalgica a quella stanza ormai vuota, si avviano in punta di piedi verso lo studiolo di Maestro Rozek. La luce che filtra da sotto la porta lascia intendere che l’uomo sia dall’altra parte ad attenderli. Ronden bussa in modo leggero, quasi impercettibile, ma dall’interno proviene chiaro un invito  a entrare. Non serve neanche chiedere chi sia alla porta.

La stanza è esattamente come è sempre stata: piuttosto angusta, con una piccola finestra, un armadio incassato nella parete, una scrivania carica di scartoffie, di fronte alla quale sono già predisposte due sedie. Le volte in cui si sono già seduti su quelle sedie a prendersi ramanzine neanche si contano.

Rozek fa loro cenno di accomodarsi, mentre traffica con un bollitore, posto sopra una stufetta a un lato della stanza, cercando di preparare qualcosa, probabilmente un té o un infuso di qualche tipo. “Arrivate giusto in tempo, l’infuso è quasi pronto. Questo vi scalderà un po’, col freddo che fa fuori”.

Riconoscono subito l’odore che si sprigiona quando le foglie rilasciano il proprio aroma nell’acqua bollente; è l’odore della menta che viene coltivata nelle piccole serre dell’orfanotrofio, anche se si avverte un retrogusto più dolce, più fruttato. Probabilmente anche complice il fatto che, ora che sono maturi, se ne sono intascati un paio come provvista per il viaggio, riconoscono che si tratta dell’odore dei melograni.

Ronden rimane in piedi ad aspettare e con fare sbrigativo domanda “Voleva dirci qualcosa?”

“Così? Forza ragazzo, capisco l’impazienza, ma mettiti a sedere, per cortesia. Già non vi vedrò per chi sa quanto!” sulle note di questo bonario rimprovero, Ronden cerca nello sguardo del fratello un sostegno che non arriva e, di malavoglia, si lascia cadere sbuffando sulla sedia. 

Maestro Rozek versa l’infuso in tre tazze già pronte sul tavolo e porge loro due sacchettini riempiti di quelle stesse foglie e chicchi di melograno. “Se ci fosse bisogno, almeno avrete con voi un pezzo di casa.”
Si siede dall’altra parte della scrivania e si rigira la tazza tra le mani, per scaldarsi le dita. “Quali sono i vostri piani, d’ora in avanti?” lo chiede col tono preoccupato di un padre.

Ronden non risponde, prende la sua tazza e tira giù un sorso di tisana. È Rukeil a farsi avanti.

“Ci siamo stancati di questa vita. Non stiamo male qui e ci mancherete sicuramente. Ma vogliamo scoprire quello che c’è fuori, goderci un po’ la vita.”

“È comprensibile. Avete avuto solo un assaggio di quello che c’è nel mondo, ma è giusto che ora voi ricerchiate voi stessi fuori da queste quattro mura. Avete in mente una meta?”

“Il mondo è la nostra meta!” borbotta Ronden, tra un sorso e l’altro. Il Maestro scuote la testa, sul volto un sorriso esasperato.

“Pensavamo di dirigerci a nord, verso la capitale.” risponde invece Rukeil, allungandosi verso una mappa che fa capolino tra i vari fogli disposti sulla scrivania e indicando col dito la scritta Lauria “E poi da lì cogliere le occasioni che ci capiteranno.”

“D’altronde, quale miglior posto di una capitale per ricominciare da zero. È un bel posto,  sono convinto che vi piacerà.”

E mentre conversano in questo modo, qualcosa sembra andare per il verso storto. D’un tratto, si sentono estremamente appesantiti, presi da un’improvvisa sonnolenza, incapaci di muoversi. Vedono come attraverso una nebbia i contorni vaghi di Rozek che si alza e si fa loro incontro. Rukeil è il primo a crollare, ma prima che possa cadere giù dalla sedia, Rozek lo prende al volo e fa in modo di poggiargli le braccia e la testa sul tavolo. Ronden barcolla, ma resiste appena un po’ di più del fratello, giusto il tempo di rendersi conto, senza poter far nulla per opporsi, che mentre le forze lo abbandonano, il Maestro è accanto a lui e lo accompagna delicatamente a terra in modo che non si scontri rovinosamente contro il pavimento.
“Non volevo che voi foste messi in mezzo” sono le ultime parole che sente pronunciare così vicino al suo orecchio. Riesce a sussurrare tra i denti solo un “Figlio di puttana”, prima che intorno a lui calino le tenebre.







Angolo dell'Autrice 

Veduì il’eren! 

Nell’ultimo anno, il gioco di ruolo è stato forse la cosa che più di ogni altra mi ha aiutato a mantenere saldo il contatto con i miei amici, ci ha concesso di evadere dalle nostre mura domestiche, diventare chiunque volessimo ed esplorare universi sconosciuti. Questa  storia è il frutto di una di quelle evasioni e verrà scritta man mano che la nostra avventura andrà avanti sul tavolo da gioco. 

Alcuni ringraziamenti sono quindi d’obbligo! Innanzitutto alla nostra meravigliosa (vediamo se mi riesce arruffianarmela un po') Master @JustEileen95, che ha tessuto per noi questo mondo magico di cui stiamo cercando, un po' alla volta, di scoprire tutti i misteri. Un pat-pat di incoraggiamento a Ronden e Rukeil, i gemelli nel segno del destino, che prima di lasciare il luogo che hanno sempre chiamato casa si sono fatti drogato malissimo,  ma almeno hanno imparato come si chiudono a chiave le porte. E un facepalm per me, che nei panni di Elėison ho scelto di dare al mio cavallo il più infausto dei nomi, rischiando di fargli prendere fuoco ogni volta che lo chiamo. 

Quanto potrà durare questo gruppo così assortito prima di soccombere di fronte a qualcuno che, al contrario di loro, possiede anche armi adatte a scontri ravvicinati? Lo scopriremo insieme, nelle prossime sessioni!

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Capitolo 3
*** Parte 3 ***


Le mura di Passofreddo non erano l’opera architettonica più imponente del regno di Tymeria, ma così infuocate dalla luce del tramonto scaldavano il cuore dei viaggiatori. Dopo giorni tra il freddo delle montagne non aspettavano che un luogo che ricordasse loro casa. Varcati i cancelli si diressero verso la locanda della Mela Verde, dove sapevano che Khandra avrebbe riservato loro una calorosa accoglienza. 

 

A est della struttura una luce accesa, come annunciato nella lettera. Le finestre sono piuttosto piccole e alte però, non riuscirebbe in alcun modo a intravedere ciò che si cela dall’altra parte. Segue il profilo delle mura, muovendosi il più silenziosamente possibile, fino a trovarsi di fronte a quella che parrebbe una piccola porta di servizio. Sapeva di essere attesa, certo. Ma sicuramente non si aspettava che la porta venisse lasciata aperta per lei. Allungando la mano, bussa leggermente sullo stipite, a risponderle è il silenzio più totale. Non saprebbe dire cosa, ma qualcosa di tutta quella storia inizia a puzzarle; la tentazione di lasciar perdere e tornare indietro si fa sempre più forte. Ma gli ordini della Chiesa non sono quelli. Si fa forza inspirando a pieni polmoni una boccata di quella gelida notte invernale ed entra dentro.
All’interno, una piccola stanza, arredata con tutto l’essenziale per una persona. C’è una branda, un armadio, una libreria, una sedia con qualche indumento ripiegato sopra. Il corridoio su cui la camera si affaccia gira a sinistra, supera un piccolo bagno sulla destra. Oltre, una porta chiusa, da cui filtra la luce. Dev’essere la stanza in cui ha appuntamento. Di nuovo bussa e, di nuovo, nessun suono le giunge in risposta. La mano corre velocemente ad accarezzare l’elsa della scimitarra appesa al fianco, quasi a volersi assicurare che sia ancora lì, prima di posarsi sulla maniglia.
La stanza non è propriamente caotica. Certo, è più confusionaria di quanto dovrebbe essere, più confusionaria di quanto si sarebbe aspettata, ma in fondo si tratta di una persona che non ha mai incontrato prima, cosa potrebbe saperne lei del suo senso dell’ordine? Si dà una rapida occhiata intorno, nota subito la tazza sopra la scrivania e appoggiandoci appena sopra il dorso della mano la sente ancora tiepida. Altre due tazze identiche sono invece riverse sul pavimento. Chinandosi a studiarle più da vicino avverte il leggero odore di menta che si sprigiona dall’infuso rovesciato in terra.

*** 

Cos’è questa cosa che sta sentendo? Fa troppo caldo, è troppo stretto. Ma dove è finito? È troppo buio, non si vede un accidente. Prova a girarsi a destra e a sinistra, strizza un po’ gli occhi, tenta di mettere a fuoco. Aspetta, aspetta. Vede… niente, no, non vede niente. No, forse un filo di luce entra, in effetti. Prova ad allungare gambe e braccia, non gli sembra di essere legato, ma sente di essere in uno spazio stretto, che gli impedisce di muoversi liberamente. Addosso, ha un peso enorme.

“La vuoi smettere di muoverti? Mi stai dando un fastidio cane”. Il rimprovero suona troppo vicino al suo orecchio e, per un attimo, smette di divincolarsi. Non è sicuro che servirà a qualcosa, ma giusto per non lasciare niente di intentato, prova a chiedere un poco convinto “Aiuto!”.

***

L’armadio ha chiesto aiuto? Si alza lentamente dal pavimento, le dita di nuovo scattate verso l’impugnatura dell’arma. Fissa il mobile incassato nella parete. “Rozek?” azzarda con un filo di voce.

“Figlio di puttana a chi?” la voce si è fatta più forte. “Aiuto, ho detto!”

“Smettila di urlarmi nell’orecchio, idiota!”

“Ma non sto urlando!”

Sembra che qualcosa, che qualcuno si stia muovendo contro le ante nel tentativo di aprirle. 

“C’è qualcuno là dentro?” Chiede titubante, avvicinandosi. Di missioni ne ha svolte tante, ma che un informatore la aspettasse rinchiuso in un armadio non le era mai capitato.

“Muoviti, ti prego, tiraci fuori di qui.”

Solleva il gancio che era stato messo a sicura e subito si sposta di lato per evitare che qualsiasi cosa si trovi lì dentro le cada addosso. 

Improvvisamente privi di un sostegno che li sorregga ammassati l’uno sull’altro, i due ragazzi rotolano sul pavimento. Si portano le mani a stropicciarsi gli occhi, la luce sembra accecante, i contorni sono ancora indefiniti, sentono la testa pulsare. Ronden si tasta il busto, si tasta le gambe, controlla che ogni cosa sia al suo posto. Non sembra che manchi niente. In una tasca, le sue dita incontrano il sacchettino con le foglie dell’infuso lasciatogli da Rozek.

“Dov’è quel figlio di puttana?” urla saltando in piedi, realizzando tutto d’un tratto ciò che è successo e guardandosi intorno freneticamente. “E tu chi sei?”

Di fronte a lui, una stangona in abito scarlatto. Non si tratta di una veste volgare, ma comunque piuttosto attillata, che dà l’idea di una persona molto sicura di sé e molto a suo agio nel proprio corpo. Al di sopra, un mantello di lana, fermato sul davanti da una spilla di ferro recante un simbolo religioso. I lunghi capelli corvini, acconciati in una treccia che le ricade su una spalla, sono intrecciati con dei sottili fili colorati. Gli occhi, di un viola intenso, fissano prima lui, poi il fratello, ancora intontito sul pavimento.

“Chi sei?” chiede di nuovo, infondendo nella voce un tono più sicuro, e nel farlo mette mano a un coltello. Eléison china il capo da un lato, studiando questi due ragazzi quasi completamente identici, con lo stesso taglio di capelli e gli stessi occhi verdi. L’unica, leggerissima, differenza che potrebbe notare è una piccola voglia sul sopracciglio destro del giovane di fronte a lei. È incuriosita dalla goffaggine con cui sembra volerla minacciare con quell’arma.

“Quanti anni avete?” chiede con un sorriso.

“Diciotto” rispondono all’unisono e si scambiano un’occhiata. Ormai è quasi l’alba, le prime luci del sole fanno capolino dalla finestra. Ronden torna a guardarsi intorno, perplesso e ancora un po’ intontito da quanto accaduto quella notte. “C’era Maestro Rozek per caso, lo hai visto passare?”

Quel nome riporta subito Eléison alla sua missione, al vero motivo per cui si trova lì. Per quanto ben lieta di salvare bambini umani finiti chissà come rinchiusi dentro un armadio, non è quella la ragione della sua visita. E l’assenza dell’uomo con cui avrebbe dovuto incontrarsi, unita al disordine generale di quella stanza, alla comparsa inaspettata di quei due ragazzi... il presentimento che qualcosa non sia andato per il verso giusto, che qualcuno, forse, sia arrivato prima di lei, si fa strada tra i suoi pensieri. 

“Voi lo conoscete?” lo chiede con urgenza, forse non tutto è perduto.

“è il nostro…” Inizia Rukeil, rimasto qualche passo più indietro rispetto al fratello.

“è il suo” si intromette Ronden bofonchiando. 

“...maestro.” Conclude l’altro, senza scomporsi. “Ci ha cresciuti lui.”

“Molto bene, ragazzi. Io avrei bisogno di disquisire col vostro Maestro. Faccende da adulti, capite”

“Siamo adulti, non siamo bambini.” La voce stizzita di Ronden sale di tono nell’affermare quelle parole, che però non sortiscono l’effetto sperato, suscitando nell’altra una risata soffocata.

“Come se tu potessi avere tanti più anni di noi” 

Solo in quel momento, nello sbuffare quel commento, il ragazzo sembra rendersi conto delle orecchie a punta della donna, che pure non si sforza di nascondere, come molti altri membri della sua razza, ma che anzi sono messe ancora più in evidenza da quella acconciatura, sono ostentate con orgoglio. 

Eléison inizia a fare un veloce calcolo mentale considerando l’età umana e tra sè e sè mormora con un sorriso “Credo in effetti che potrei essere la vostra bis bis bis… bis nonna”.

Ora anche Rukeil la sta osservando incuriosito. Se c’è una cosa che gli salta subito all’occhio è quell’abito che indossa; non è un classico abito da viandante. Gli elfi che a volte hanno visto per le strade della città erano sempre vestiti con abiti molto semplici, ma allo stesso tempo raffinati; con tuniche comode e larghe. Non certo con vestiti così attillati. Di un colore del genere, poi. Sono abituati a vedere gli elfi portare dei colori abbastanza naturali, sulle tonalità del bianco, del verde e del marrone. Sicuramente, pensa tra sé e sé, come lei non ne hanno mai viste.

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