Sette lettere a Joan da Sherlock

di asthma
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima lettera ***
Capitolo 2: *** Seconda lettera ***
Capitolo 3: *** Terza lettera ***
Capitolo 4: *** Quarta lettera ***
Capitolo 5: *** Quinta lettera ***



Capitolo 1
*** Prima lettera ***


Madison Square Park
16 settembre 2020
57°F


Trovo davvero sterile e improduttivo il dover riversare tutti i miei pensieri su un foglio di carta. Qui, seduto su una panchina, nel tuo parco preferito, l'odore di fritto e carne alla brace nell'aria, accerchiato da turisti in preda a continui crampi per il mantenimento prolungato della corretta posizione per catturare il perfetto scatto del Flatiron, ignorando forse il fatto che lo ritroveranno domani, ancora lì, immobile, nella medesima posizione.
O forse no. Una mattina potremmo anche alzarci e trovare un buco nel punto esatto dove la sera prima avevamo giurato di veder eretto quell'enorme edificio in tutta la sua magnificenza.
Un po' come è successo a me. La sera ti avevo vista, eri proprio lì, seduta in camera, la schiena contro la testata del letto, le gambe sotto le coperte, gli occhiali sul naso. «Sherlock» mi avevi detto facendomi segno di sedermi accanto a te «sono arrivati i referti dell'anatomopatologo. La ferita inferta alla signora Pochowskji è di una precisione oserei dire chirurgica». Ti eri tolta gli occhiali per guardarmi. «Sherlock. Mi stai ascoltando?». E la mattina non c'eri più. C'eri. Ma non c'eri. Eppure ti avevo vista, mi avevi parlato. La sera prima.
Mi ci sono voluti cinque lunghi mesi, ventidue riunioni con il centro di supporto ex tossico-dipendenti, tredici casi di omicidio risolti, quattro stupratori incarcerati, sei nuove sedie e tre scrivanie date alle fiamme, prima di reputarmi pronto a scriverti.
Alfredo mi ha detto che la scrittura è curativa. Non ci credo. Non lo è per me, almeno. Ho le mani fredde, le dita rigide e spezzerei volentieri la penna che sto usando per scriverti se non fossi certo di macchiarmi il cappotto che ho ritirato ieri pomeriggio dalla lavanderia a gestione familiare sulla ventitreesima.

Come è possibile che io mi ritrovi qui, senza di te. Tu, che sei sopravvissuta a un'intossicazione da tetraidruro di carbonio, dopo che l'intelligence britannica ti aveva sequestrata, in un vano tentativo di nuocere alla mia persona; tu, che sei stata la sola in grado di rimanere al mio fianco per otto estenuanti anni, decidi di abbandonarmi a me stesso per colpa di un gruppo impazzito di cellule che da un giorno all'altro ha deciso di formare noduli qua e là all'interno dei tuoi organi? Mi hai davvero lasciato per questo, Watson? Mi avevi detto di non preoccuparmi. Ci saremmo visti ancora. Ho cercato di adeguarmi alle tue esigenze, al tuo voler celare le apparenze, al tuo indossare sempre un sorriso nonostante il serpente che ti stava divorando dall'interno. Ti ho accudita, ti ho accompagnata a ogni controllo medico, sono persino andato a Chinatown a comprare quelle erbe per quegli infusi nauseabondi che tanto ti piacevano. Mi hai detto che saresti tornata ad essere la mia Watson. Le sedute di chemioterapia erano quasi finite, perché te ne sei andata allora?

Maledetto il giorno in cui ti è stato assegnato il mio caso. Maledetto il giorno in cui sei entrata nella mia vita. Maledetto il giorno in cui mi hai permesso di affezionarmi a te.
Forse dovrei darmi un freno ora.

S.H.

 


 

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Capitolo 2
*** Seconda lettera ***


Undicesimo distretto: sala interrogatori
Macchinetta del caffè guasta
29 ottobre 2020
53°F

 

Watson,

avevi ragione quando mi dicesti che prendere in affidamento un bambino non era paragonabile ad occuparsi di una tartaruga. Tuo figlio Arthur è molto più chiassoso e frenetico di Clyde, odia la lattuga, necessita di instaurare rapporti con altri piccoli esseri umani caricati a molla e non ha un carapace dentro cui ripararsi ogni notte. O almeno, non l'ha più. Verità lapalissiana: eri tu il suo carapace. La sua corazza protettiva. Due braccia esili ma forti, capaci di infondere tranquillità e sicurezza a un bambino di sei anni con un unico gesto, un abbraccio. Mancano molto i tuoi abbracci ad Arthur. Zio Detective Sherlock non è molto bravo con gli abbracci. In compenso Zio Capitano Marcus e Zio Nullafacente-Ristoratore Mycroft sono molto più abili in questa futile sfera della vita umana che sono le relazioni interpersonali.
I migliori avvocati, amabilmente finanziati da Mycroft, stanno lavorando senza interruzione al caso della custodia di Arthur. Sono stati mesi difficili. Per gli esperti giuridici a tutela dei minori e gli assistenti sociali, Arthur dovrebbe essere affidato a una famiglia ordinaria: madre, padre, numero di prole non meglio specificato, cane di razza a pelo corto, zia invadente ma affettuosa, zio che imbarazza la famiglia alla cena del Ringraziamento, nonni sufficientemente lontani dalla soglia della demenza senile. Non a un ex tossico-dipendente, consulente non stipendiato della Polizia di New York, abitante in un palazzo fatiscente (ndr a questo proposito credo ancora che la dattilografa intendesse scrivere affascinante) non di sua proprietà, con una fedina penale non esattamente pulita e con scarse abilità e propensione al coinvolgimento sociale, ad eccezione di una relazione di sette mesi con una donna che si è poi rivelata essere una criminale internazionale. Nessuno degli aspetti sopracitati ha impedito al commesso del negozio di animali a Lower Manhattan di vedermi Clyde, quando l'ho acquistato con successo. Perciò, no. Posso concludere, con sufficiente sicurezza che no, possedere una tartaruga non è come avere in custodia un bambino. Ciononostante, non permetterò a nessuno di privarmi dell'unica cosa che mi ricorda che la tua esistenza su questa terra non è stata una semplice presenza passeggera. Arthur è una parte di te e, di conseguenza, una parte inespugnabile di me.

Senza troppe smancerie ma con affetto,

S.H.

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Capitolo 3
*** Terza lettera ***


Dumbo, Brooklyn
Inno alla misantropia perduta
11 novembre 2020
37°F


Watson,

sono terribilmente affranto dalla facilità con cui mi sono lasciato plasmare da te. Otto anni fa ero una persona completamente diversa prima di fare la tua conoscenza. Quella misantropia che mi caratterizzava era il mio schermo protettivo al riparo da un mondo crudele e distruttivo. Poche e rare sono state le persone in grado di trapassarlo. Pochissime e rarissime sono state le occasioni in cui ho scelto deliberatamente di abbassarlo per concedermi il lusso di intrattenere relazioni interpersonali. Per l'esattezza sono state tre le volte che rimembro: Alistair Moore, Irene Adler, Joan Watson. Overdose di eroina dopo trent'anni di sobrietà, spietata assassina di fama internazionale, cancro all'utero. Ognuna di queste situazioni mi ha reso sempre più consapevole di quanto fragile sia in effetti l'esistenza umana, di quanto superficiali e passeggere siano i rapporti interpersonali e di quanto necessaria sia invece la misantropia. Mai come in questi mesi ne sono stato più convinto.
Quando venni a conoscenza della morte di Alistair e di tutte le circostanze che l'avevano causata risentii innegabilmente della notizia. Fui ossessionato dal pensiero che una sorte del genere potesse toccare a me. Portai il lutto per diverse settimane, il suo volto accompagnò parecchi dei miei sogni, tuttavia il dolore a mano a mano si dissolse, come sale in un bicchiere d'acqua, lasciando al suo posto solo un sapore amaro. Non posso nascondere, invece, come la tua partenza abbia creato in me una voragine incolmabile. Un peso sullo stomaco che mi accompagna da sette mesi. Giorno e notte.
I tuoi vestiti sono ancora al loro posto, nessuno ha più toccato le grucce nel tuo armadio, il letto è ancora sfatto, la porta chiusa a chiave. A volte la riapro, entro, e mi siedo sulla poltrona all'angolo della stanza. Mi siedo e osservo. Mi sembra di sentire la tua voce: «Sherlock, perché Clyde è vestito da squalo?», «Sherlock, ho tutte le piume di Romolo nel letto. Ho detto che in camera non voglio ucc– no, non dirò quella parola, non ho dodici anni». Poi il telefono squilla, il mio flusso di coscienza si interrompe. È il capitano Bell: «Raggiungimi al distretto». Raggiungimi, dice. Un verbo al singolare che ora uccide.
Eppure mi è impossibile ritornare a quello stato misantropico primordiale. Mi hai plasmato, Watson. Mi hai insegnato che le emozioni, pur negative che siano, fanno parte dell'esperienza di vita, sono l'equivalente delle sinapsi. Non tra cellule nervose e gli organi periferici di reazione, ma tra le persone. Mi hai bisezionato come un cadavere, hai fatto fuoriuscire le mie emozioni, mi hai reso vulnerabile e poi mi hai abbandonato a me stesso.

Forse troverò la forza di perdonarti un giorno. Prima devo perdonare me stesso per averti persa.

S.H.

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Capitolo 4
*** Quarta lettera ***


Chelsea
16 gennaio 2021
24°F

 

Nove mesi senza di te, oggi.
Ogni sedici del mese la casa sembra ancora più vuota. Mi domando se non starei soffocando tra i rimorsi se avessi potuto fermare il tempo quel quindici sera, Watson. Se avessi potuto condividere con te quel male che ti stava divorando, Watson. Se avessi avuto il minimo sentore che quelli sarebbero stati gli ultimi istanti che avrei passato con te, Watson.
Sono passate settimane dalla nostra ultima corrispondenza univoca. Le festività natalizie si sono consumate velocissimamente e in uno sbattito di ciglia abbiamo chiuso un altro calendario per inaugurarne uno nuovo.
I casi al dipartimento proseguono, hanno persino cercato di affidarmi l'addestramento di un altro consulente, ben due in realtà. A quanto pare sembra che ai piani alti abbiano iniziato a rivalutare il contributo di noi civili.
Arthur cresce. Chiede spesso di poter essere accompagnato al cimitero. Anche la mamma di un suo compagno di classe è volata in cielo, mi ha detto, si è rifugiata sulle nuvole quando l'aereo su cui viaggiava è precipitato in mare e Lucas le porta disegni e fiori tutti i fini settimana. Devo confessarti che non ho ancora esaudito il suo desiderio. Ha un mazzo di fiori di carta crespa sulla scrivania per te. Ogni pomeriggio completa un disegno. Li tiene tutti in un cassetto. La signorina Hudson dice che li sta laboriosamente eseguendo per fare ammenda per tutti quelli che non ti ha mai portato.
La vita va avanti incurante del fatto che io sia rimasto indietro. Certi giorni, appena varco la soglia dell'undicesimo, ho ancora in bocca quelle parole: “Watson ci raggiunge più tardi”, quando invece sono mesi che cammino solo sul marciapiede verso il distretto, mesi che uso il fischietto per fermare i taxi senza i tuoi occhi puntati addosso, mesi che ordino l'asporto per due persone e non per tre.
La tua stanza è esattamente come allora. Le coperte sono ancora sfatte, la bottiglia d'acqua è ancora sul comodino. Tutto è rimasto conservato, fermo, immobile come in una scena del crimine che la scientifica deve ancora esaminare. La porta è chiusa a chiave, la signorina Hudson ha il più severo divieto di avvicinarsi e Arthur, alle volte, sale le rampe di scale e si siede sull'ultimo gradino in silenzio, assorto in riflessioni che nemmeno il grande Sherlock Holmes è in grado di dedurre. Quando capitano quei momenti lo raggiungo e gli faccio sempre una sola domanda: “Vuoi che ti racconto come io e la mamma siamo riusciti a scoprire che il signor Tale era l'assassino? Forza, allora, prendiamo la casa delle bambole”. Non sono proprio sicuro che gli assistenti sociali sarebbero d'accordo con le mie strategie volte a orientare l'attenzione di Arthur su un altro oggetto, ma resta tuttavia innegabile che Arthur sia sempre ben felice di partecipare ai processi di deduzione che nel corso degli anni ci hanno portato a incarcerare centinaia di criminali. Le sue piccole dita seguono il perimetro della casa e i suoi occhi colgono tutti i particolari: “Potrebbe essersi nascosto sul tetto e aver aspettato che un elicottero lo venisse a prendere!” concluse un pomeriggio pieno di sé. “Avrebbe potuto, Arthur, ma dimentichi il fatto che l'accesso al tetto era sorvegliato dagli agenti di polizia”. 

Arthur è l'unica ragione che mi tiene dritto sulla mia strada. Non avrei mai pensato di affezionarmi in maniera tale a un'altra persona che non fossi tu. Ora più che mai, proprio come ti dissi allora, darei la mia vita per lui.
Sebbene sia biologicamente impossibile, a volte mi sembra di trovare in lui i tuoi occhi. Questo mi rende folle e disperato insieme.

S.H.

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Capitolo 5
*** Quinta lettera ***


Undicesimo distretto: scrivania Capitano Marcus Bell
Macchinetta del caffè guasta, di nuovo
4 agosto 2021
82°F

 

Watson,

un getto di aria gelata mi picchia inesorabilmente sull'unico lembo di pelle scoperto tra l'attaccatura dei capelli e il lembo di tessuto della giacca. Proprio in questo stesso momento, mentre l'inchiostro nero di questa penna (scadente) segue i movimenti confusi della mia mano su questo foglio di carta intestata, prevedo che il freddo dell'aria condizionata sulla mia nuca appiccicaticcia di sudore rallenterà di gran lunga i normali processi immunitari del mio organismo, provocando, in ultima analisi, una rinofaringite infettiva acuta. Un fastidiosissimo, seppur all'apparenza banale, raffreddore che curerò usufruendo delle tue strane pozioni cinesi, costituite in buona parte da erbe non ancora classificate dai botanici d'Occidente [ndr in nome di Sua Maestà la Regina, mi rifiuto tuttora di associare il termine “tè” a quegli infusi maleodoranti].
Sembra risalire a una vita fa l'ultima lettera che ho indirizzato a tuo nome e che custodisco sotto chiave nel cassetto della scrivania al secondo piano. Molte cose sono cambiate, evolute. Tuttavia, mentre la Terra si appresta a concludere un altro perfetto giro intorno al Sole, alcune costanti permangono nella mia vita: Arthur è una di quelle. La sua dolcezza, il suo affetto, la sua intelligenza, le sue curiosità rimangono delle costanti, mentre gli alberi mutano il loro aspetto e le nuvole si rincorrono sopra le nostre teste.

Hai mai sentito il cuore frantumarsi, Watson? Non hai mai avvertito nella tua esistenza quel dolore fisico al petto, come se ti si aprisse una voragine in mezzo al torace, come se il tuo cuore si fosse davvero rotto come un vaso di terracotta? A volte ho la sensazione di percepire il peso di quell'organo vitale. Una sensazione del tutto irrazionale, ne sono consapevole. Eppure, a volte, quel peso mi costringe a poggiare entrambe le mani al petto, mentre mi piego verso le ginocchia come schiacciato da un macigno, annaspando e costringendomi a inspirare avidamente ossigeno.
Questa, Watson, è la sensazione che provo quotidianamente. Illuso credetti, la prima volta che la sperimentai, che sarebbe stata la prima e unica. Un oggetto già rotto non può rompersi per un lasso di tempo tendente a infinito. Fui persino quasi sollevato, quando riemersi da quello struggimento, nel constatare che avevo toccato il fondo e che un dolore così simile non avrebbe più potuto ripresentarsi. Ingenuo e incosciente.
Quello stesso dolore lancinante mi trafigge alle spalle vigliaccamente ogniqualvolta nella mia mente riaffiora, senza che io ne abbia il minimo controllo, la tua immagine; quando nelle mie orecchie risuona il timbro della tua voce, così reale e vicino; e quando sento, sulla cicatrice del foro di proiettile all'altezza della scapola sinistra, il tocco delle tue abili e delicate mani da chirurgo. Il mio corpo riporta alla luce sensazioni sepolte e con ognuna di esse una piccola crepa si fa largo timidamente al mio interno.
Paradossalmente, questa sofferenza, che sono certo mi seguirà fino al momento in cui la falce della morte taglierà di netto quel sottile filo che mi tiene legato alla mia vuota esistenza, è l'unica cosa che mi ricorda di essere vivo e di essere responsabile del più prezioso bene dell'umanità: tuo figlio.

S.H.

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