La ragazza dai capelli strani

di margheritanikolaevna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** Ann Leary ***
Capitolo 3: *** Molto forte, incredibilmente vicino ***
Capitolo 4: *** Space Oddity (prima parte) ***
Capitolo 5: *** Space Oddity (seconda parte) ***
Capitolo 6: *** Gamgiar il Collezionista ***
Capitolo 7: *** Una ferita segreta ***
Capitolo 8: *** La pietra della morte ***
Capitolo 9: *** Nel palazzo delle meraviglie ***
Capitolo 10: *** Le ali della notte ***
Capitolo 11: *** Paradise ***
Capitolo 12: *** La ragazza che viaggiava ***
Capitolo 13: *** Furore ***
Capitolo 14: *** Tutto il male dell'universo ***
Capitolo 15: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


Amici di efp, una piccola premessa: chi ha letto qualcosa di mio su questo fandom avrà visto che finora ho scritto racconti buffi, un po’ folli o demenziali. Ecco, stavolta no. Stavolta vorrei proporvi qualcosa di completamente diverso: una storia che, almeno nelle mie intenzioni, rispetterà fedelmente il canon nella caratterizzazione dei personaggi e nell’ambientazione, salva un po’ di necessaria originalità nella trama (altrimenti vi sembrerebbe di guardare la brutta copia di un episodio della serie!), nella struttura del racconto (che sarà a “cornice”) e nello stile, che spero vi piacerà.
 

 

Con le parole e le lacrime lei mi ha amputato qualcosa. Io le avevo donato la mia più intima importanza, e il suo autobus è ripartito, lasciando una qualche parte fondamentale di me dentro di lei come il pungiglione di un’ape. Adesso l’unica cosa che voglio è risalire in macchina e andarmene molto lontano, a sanguinare. (D. Foster Wallace)
 

 
 
CAPITOLO PRIMO
 
Prologo
 
Ritagliarono il cielo di Mandalore a misura delle grandi finestre della sua stanza da letto, aprirono le imposte e tirarono le tende, affinché il vecchio re potesse vedere tutta la città che si estendeva fino alla campagna e la campagna che si estendeva fino ai limiti dell’orizzonte e il fiume che scintillava, e il lago di mattina, e gli uccelli sugli alberi sotto di lui.
Affinché potesse vedere il suo regno e la prosperità che vi aveva portato.
Aveva regnato a lungo e saggiamente.
Le sue mani avevano impugnato la spada, stipulato alleanze, amministrato la giustizia e concesso clemenza.
Si era mosso silenziosamente su e giù attraverso il suo grande palazzo di pietra, così come lungo i confini del suo vasto regno, toccando le persone come se fossero state quadri ai quali raddrizzare la cornice.    
E adesso, dopo innumerevoli anni, era come se un’immensa somma – milioni di cose iniziate, portate avanti e concluse - fosse arrivata alla sua cifra finale. 
Così, nell’ora di un caldo pomeriggio primaverile il vecchio re, senza dire nulla a nessuno né fare alcun annuncio particolare, salì la lunga scalinata che portava alla sua camera, s’infilò tra le lenzuola candide e fresche e cominciò a morire.
“Padre, nonno, nonno!”
Le voci sfarfallavano intorno al suo letto di legno scuro.
“Come faremo senza di te?”
“Il regno andrà in rovina”
“Non puoi andartene adesso: ci sono ancora così tante cose da fare!”
Il vecchio sovrano aprì gli occhi e sorrise debolmente.
“Non sono mai stato una persona umile” disse - e la sua voce era ancora quella di sempre, solida e forte - “e mentirei se dicessi che non sono felice di vedervi tutti qui, intorno a me”.
“Ma non dovete essere tristi o preoccupati, perché nessuno che abbia avuto una famiglia muore davvero”.
Sospirò guardandosi intorno, e poi fece un cenno al suo nipote più grande.
Aykol, gli occhi velati di lacrime, gli si avvicinò.
“Devi fare una cosa per me” sussurrò il vecchio e poi gli disse qualcosa all’orecchio.
Il ragazzo annuì.
Allora il vecchio re chiuse gli occhi, il capo affondato nei cuscini.
“Adesso andate via tutti, per favore” aggiunse, con voce appena udibile.
 
ooOoo
 
 
“E’ qui” disse semplicemente Aykol, aprendo la porta con delicatezza.
Il vecchio re si tirò su a fatica e voltò la testa: erano riusciti a trovarlo o, molto più probabilmente, era lui che aveva voluto essere trovato così presto e apparentemente senza alcuna fatica.
I suoi passi erano silenziosi come sempre ma – considerò – era cresciuto almeno un po’ durante quei lunghi anni di lontananza, dato che adesso arrivava più o meno all’altezza del suo letto.
“Deve essere sconvolgente per te” mormorò “vedermi così…”.
“Non sconvolgente” rispose il suo ospite “direi: naturale”.
Il re non poté non notare che quella era la prima volta che udiva una sua risposta, anche se udire non era l’espressione più giusta, giacchè quelle parole senza suono erano fiorite direttamente nel suo vecchio cervello, come affiorate sulla superficie trasparente di un lago.
Era diventato incredibilmente più potente - pensò - o era lui ad essere diventato infinitamente più vulnerabile.
“In fondo” proseguì, mentre con un balzo saliva sul letto e si metteva accanto al re morente “come disse qualcuno una volta: le specie invecchiano diversamente”.
“G-grazie di essere venuto” la voce del vecchio sovrano era poco più di un sussurro.
“Io ringrazio te, padre, amico, fratello o qualunque altra cosa tu sia stato per me nel momento in cui ne avevo più bisogno”.
“Sono qui”.
La sua mano incredibilmente giovane si posò su quella avvizzita del re, picchiettata di macchie scure.
“Oggi sono io ad avere bisogno del tuo aiuto” disse il vecchio sovrano, gli occhi socchiusi.
“Nessuno che abbia avuto una famiglia muore davvero” ripetè “ma lei non l’aveva, lei era l’ultima della sua stirpe…”.
Lacrime spuntarono sotto le vecchie ciglia ingrigite.
“…e il suo ricordo morirà insieme a me. Per questo voglio ricordare la sua storia per un’ultima volta, ma…ormai sono così debole, così debole”.
Il suo ospite annuì e chiuse i grandi occhi scuri, dolcemente malinconici.
La sua mano si sollevò piano.
Il volto segnato del vecchio re parve distendersi, come risollevato.
Si tirò su a sedere, la schiena appoggiata contro la spalliera.
“Sì” disse, con voce più ferma.
“Lei si chiamava Ann Leary. E questa è la sua storia”.
 
  
 
 
Note&credits:
Alla fine della seconda stagione apprendiamo che Din Djarin, essendo il nuovo possessore della Darksaber, potrebbe rivendicare a buon diritto il trono di Mandalore. Ecco, io sono partita da qui.  
È un capitolo davvero breve, del resto un prologo serve solo a introdurre e, spero, a far venire un po’ di curiosità al lettore: gli altri saranno ben più corposi!
Il titolo è una citazione del racconto omonimo - disturbante e geniale - di David Foster Wallace, che in questa fase della mia vita mi piace particolarmente.
Il nome della protagonista è, invece, un omaggio al racconto “La strega d’aprile” di Ray Bradbury, uno dei più belli e poetici che io abbia mai letto.  Troverete sparse qua e là diverse citazioni del mitico Ray, del quale tanti moderni autori di fantascienza sono debitori!
Come potete notare, volutamente non ho chiamato invece per nome i protagonisti del primo capitolo, ma sono certa che li abbiate riconosciuti…
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Ann Leary ***


Buongiorno amici di efp e buon sabato! Gli avvenimenti raccontati da questo capitolo in poi si collocano alla fine della prima stagione di "The Mandalorian", alcuni decenni prima di quelli descritti nel prologo (e anche nell’epilogo, dato che questa storia ha una struttura “a cornice”). Trenta, quaranta, cinquant’anni, non importa. Decidetelo voi. Ovviamente quelli in corsivo sono i pensieri dei personaggi. Grazie sempre a chi legge e a chi ha voglia di lasciarmi la sua opinione!
 

 
 
 
 
 
CAPITOLO SECONDO
 
Ann Leary
 


“Ancora un fallimento…” mormorò il generale, distogliendo per un attimo lo sguardo dal grande schermo che occupava l’intera parete di fronte a lui.
Passandosi una mano sul volto pallido e teso, si lasciò cadere pesantemente sulla sua poltrona. A Moff Gideon sembrò un’enorme, vecchia marionetta alla quale fossero stati di colpo recisi i fili.
Poi, d’un tratto scattò di nuovo in piedi come spinto da una molla e con un gesto rabbioso gettò a terra tutto ciò che stava sulla scrivania; un bicchiere s’infranse sul pavimento con un suono che aveva qualcosa di spettrale nella semioscurità della grande stanza vuota.
Picchiò il pugno sul tavolo.
“Che vergogna, che umiliazione!” gridò “Ci siamo fatti prendere in giro come dei maledetti imbecilli… ancora una volta!”.
L’ex ufficiale della sicurezza imperiale ascoltava quello sfogo in silenzio, le braccia conserte, sul viso un’espressione indecifrabile.
“Ho perso il conto dei cacciatori di taglie che abbiamo sguinzagliato contro quel dannato Mandaloriano”.
Sollevò verso l’altro uno sguardo carico di furore.
“Si rende conto? Siamo riusciti a tenerlo in vita a prezzo di enormi sforzi, ma non sono bastati: il suo nuovo corpo è troppo debole per contenere l’enorme potere del suo spirito. Sta morendo, nonostante tutta la sua forza e il suo potere…senza la risorsa, senza il suo sangue così ricco di midi-chlorian, i nostri tentativi non basteranno”.
Dopo un istante di silenzio, Gideon si staccò dalla parete e fece qualche passo verso l’alto ufficiale.
“Signore” disse, in tono straordinariamente calmo “forse ho una soluzione che potrebbe fare al caso nostro”.
L’uomo più anziano lo fissò con aperta curiosità: e così, c’era qualcosa di cui lui, il rappresentante maggiormente potente dell’Impero dopo l’Imperatore in persona, era stato tenuto all’oscuro?
Dopo quella che aveva tutta l’aria di una pausa ad effetto, Gideon cominciò a parlare.
“Da quando è finita la guerra, fin dal primo momento in cui abbiamo appreso dell’esistenza della risorsa e dei suoi straordinari poteri, i servizi segreti dell’Impero hanno cominciato a selezionare e addestrare personale in grado di recuperare quella creatura e portarla da noi…”.
“… nel caso in cui non ci fossimo riusciti con sistemi più tradizionali e fossimo stati costretti a rivelare l’esistenza di questo progetto” aggiunse dopo un istante.
“Non ci siamo mai veramente fidati di quei cacciatori di taglie, poco più che delinquenti comuni”.
“Quindi” intervenne il generale “lei mi sta dicendo che abbiamo qualcuno che può portarci il Bambino in tempo?”.
Gideon annuì e appoggiò sulla scrivania un apparecchio dal quale subito si levò un fascio di luce azzurrognola: il volto di una persona, informazioni e dati.
Il generale leggeva avidamente, come se da ciò che vi stava scritto su dipendesse la sua stessa vita.
“Questa è la scheda personale dell’agente che ha riportato i risultati migliori” spiegò il Moff. 
Dopo qualche istante, il generale però levò ancora una volta lo sguardo sul sottoposto: passato l’iniziale entusiasmo, pareva perplesso.
“Lei è proprio sicuro?” domandò.
“Voglio dire: è vero, i risultati tecnici sono eccellenti, ma le note caratteriali lasciano molto a desiderare…”.
Scorse veloce i pannelli luminosi davanti a lui.
“…insubordinazione, condotta inappropriata”.
“Rischiamo di affidarci a una testa calda” concluse.
Gideon serrò le labbra per un istante reprimendo un moto di stizza.
“È così” fece poi, senza abbandonare il suo solito tono controllato “Ma Ann Leary non è un soldato. È una spia. E le garantisco che è la migliore su piazza”.
Fissò il superiore con i suoi occhi magnetici, quasi volesse ipnotizzarlo.
“Per questa missione occorrono qualità eccezionali e lei le possiede; del resto, finora non ci siamo forse affidati a sporchi mercenari senza scrupoli?”.
Serrò le mascelle, consapevole dell’effetto che le sue parole avrebbero prodotto. 
“Ann Leary è dei nostri e lo sarà sempre, questo è poco ma sicuro. Ciò che ci aspettiamo da lei non è che obbedisca ciecamente agli ordini, bensì che faccia ciò che un soldato non avrebbe mai il coraggio di fare”.
Il generale sostenne lo sguardo dell’altro per qualche secondo, senza parlare.
Non capiva esattamente cosa ci fosse dietro le parole del suo ambizioso subordinato - certo molto più di ciò che poteva apparire - però in quel momento sentiva di non avere più la forza di contrastarlo.
D’improvviso si appoggiò allo schienale della poltrona con un sospiro esausto.
In quel momento, Gideon capì che aveva vinto.
“Va bene” esalò l’altro “Del resto, non mi pare ci siano alternative”.
Nella penombra, l’ex agente finalmente sorrise.
 
ooOoo
 
Il trillo insistente del comlink svegliò di colpo Ann Leary; sollevò appena una palpebra e vide l’apparecchio sul pavimento, gettato sull’orrendo tappeto sintetico color marrone accanto al letto.
Era stordita, e non aveva neppure alzato la testa.
La dannata macchinetta esplose di nuovo.
Eppure la serata era cominciata in modo assolutamente normale: un locale con musica dal vivo, qualche drink, un ragazzo carino… lo stesso ragazzo carino che adesso russava accanto a lei, occupando tutto lo spazio.
Sospirò stancamente, senza decidersi ad aprire gli occhi.
Non ricordava con esattezza cosa fosse accaduto.
Era un periodo in cui si svegliava spesso in quelle condizioni: con i postumi di una sbronza e il cuore colmo di una sensazione cupa di disagio e vergogna.
Da quando era successo, da quel maledetto giorno, la sua memoria - la memoria della merda che tutti i giorni vedeva e sentiva - era affogata nell’alcol e nella notte.
E lei riusciva a provare solo una gelida disperazione.
A volte le sembrava che dentro di lei - nel suo cuore, nelle sue viscere - si annidasse un mostro orrendo pronto a inghiottirla, un mostro del quale era consigliabile non vedere il grugno.
Le toccava allora cercare di ricostruire l’accaduto, anche se molto probabilmente erano cose che non sarebbe stata in grado di affrontare: e allora meglio gettarle via, fuggire, tanto non sarebbe importato a nessuno. 
Era così sola, in un modo che nessun altro nell’intera galassia avrebbe potuto comprendere!
E lo sarebbe stata per sempre.
Dietro le veneziane il sole era talmente brillante che le dava fastidio persino con le palpebre chiuse: che ore erano?
Sempre con la testa sul cuscino, continuò a fissare il comunicatore che a sua volta continuava a esplodere.
Forse - pensò - sarebbe stato meglio non rispondere.
No, se non avesse risposto il gorgo torbido della notte alcolica l’avrebbe risucchiata, il mostro dentro di lei avrebbe spalancato le fauci e lei sarebbe sprofondata per sempre.
Ancora un trillo, ancora un trapano nelle sue orecchie.
Il Togruta al suo fianco emise un mugolio e si girò dall’altra parte, mostrandole ancora una volta il tatuaggio sulla schiena muscolosa.
Confusamente, si sentì sollevata all’idea che in quella sordida stanzetta non ci fossero dispositivi in grado di generare ologrammi o uno schermo per video-chiamate, altrimenti chiunque avrebbe potuto vedere dove aveva passato la notte il miglior agente del defunto Impero: uno squallido buco senz’aria, le pareti scrostate color verde melma e per letto una rete metallica del tipo sempre pronto a tagliarti le dita quando tenti di farci stare dentro le lenzuola.
Ann aprì gli occhi e in qualche modo si tirò fuori dal materasso; mise i piedi sul pavimento e all’istante le scoppiò un pauroso mal di testa.
Avrebbe voluto vomitare, ma sapeva che dopo sarebbe stata talmente male che era meglio evitarlo.
I capelli sugli occhi, la bocca impastata, strisciò fino alla trasmittente e si sdraiò sul sudicio tappeto peloso.
Deglutì e premette il pulsante.
“Sì?” disse.
“Ann?”
Grazie a Dio era solo il dottor Pershing.
“Sì?” ripeté, senza riuscire a tenere dritta la testa.
“Che voce…” disse l’uomo “Ti ho svegliata, vero?”.
“No, no, no, no” si rese conto che la sua voce era diventata un viscido sussurro “io… uhm… mi stavo allenando…”.
Potresti anche piantarla di allenarti a far cose in cui sei già una campionessa pensò il dottore.
“Beh” ridacchiò “allora se è così stai facendo un’ottima imitazione di una che si è appena svegliata”.
“Che c’è, non mi credi?”.
“Certo che ti credo. Ma questo mi mette in minoranza qui. Fossi in te cercherei di venire il più presto possibile alla base e di non avere un aspetto troppo disastroso”. 
“Uhmmmmmmm. Sì” replicò Ann, massaggiandosi la fronte.
Le facevano male tutti i muscoli e sapeva cosa avrebbe provato se avesse tentato di rimettersi in piedi.
“Il Grande Bastardo è appena stato da me e mi ha chiesto dov’eri. E non per pura curiosità: mi è parso abbastanza incazzato”.
La ragazza si umettò le labbra aride: Moff Gideon, o Grande Bastardo, come lo chiamavano tutti da quelle parti.
Cazzo. Cazzo. E cazzo.
“E tu cosa gli hai detto?”.
“Gli ho detto che eri al poligono”.
“Ok” annaspò Ann “Non per impicciarmi, ma cosa starei facendo laggiù?”.
Il dottor Pershing rimase in silenzio un istante.
Poi rispose con un tono del tutto diverso, che ebbe su Ann Leary l’effetto di una scarica elettrica.
“Ascoltami” disse “vieni immediatamente qui: è arrivata l’ora di mettere in pratica ciò per cui ti stai allenando da mesi”.
L’agente si alzò, di colpo perfettamente sveglia.
Trattenne il respiro.
“La tua missione sta per cominciare”.
 
ooOoo
 
“… prelevare e portare qui la risorsa nel più breve tempo possibile, eliminando chiunque tenti di impedirtelo”.
Moff Gideon non aveva perso il suo tono glaciale, ma lo sguardo guizzava dal viso alla scollatura dell’agente che, in silenzio, se ne stava di fronte a lui fissandolo con attenzione.   
La guardò un istante negli occhi e sorrise appena. Un sorriso sghembo, che dava i brividi.
Poi le porse un piccolo oggetto.
“Qui dentro ci sono tutte le informazioni che siamo riusciti a trovare sulla risorsa e sul Mandaloriano che lo protegge”. 
“Non c’è bisogno di dirti che sei autorizzata a usare ogni mezzo, legale e illegale, per farlo”.
Lavoro sporco, chiamalo col suo nome pensò Ann, senza distogliere lo sguardo.
Nessun problema. In fondo, non è quello che voi burocrati e falsi soldati del cazzo vi aspettate da me?
“È tutto chiaro?” domandò.
La ragazza annuì lentamente.
“Sì” disse.
Il dottore le rivolse un’occhiataccia.
“Volevo dire…” Ann gli rispose con un sorriso beffardo “Sissignore. Certo, signore. Tutto chiaro, signore”.
Tutto chiaro, Grande Bastardo.
 
 
Note finali: nel film Il ritorno dello Jedi Darth Vader uccide l’Imperatore scagliandolo nel reattore della Morte Nera; nonostante ciò, lo ritroviamo, incarnato in un corpo debole e macilento, sul pianeta Exegol nel finale del film L’ascesa di Skywalker .
Nella serie "The Mandalorian", alla fine della seconda stagione, si scopre una base imperiale segreta dove erano stati svolti esperimenti di clonazione servendosi del sangue prelevato a Grogu all’inizio della prima stagione; il dottor Pershing, nel messaggio inviato a Gideon, parta di un misterioso “fattore M”, che alcuni fans hanno interpretato come un riferimento ai midi-chlorian, di cui il sangue del piccolo sarebbe particolarmente ricco. Mettendo insieme queste cose, ho immaginato un incrocio tra le due trame. Ma non vi dico altro. Alla prossima!
 

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Capitolo 3
*** Molto forte, incredibilmente vicino ***


Buondì ragazzi, immaginate che questo capitolo inizi subito dopo la fine della prima serie dello show (quando Mando saluta Greef e Cara e prende il volo con il piccolo tra le braccia).
 
 
 

 
CAPITOLO TERZO
 
Molto forte, incredibilmente vicino
 
 
Il Mandaloriano spense i motori del jetpack un istante troppo tardi perché l’atterraggio gli riuscisse perfettamente; fece due passi in avanti per non perdere l’equilibrio, mentre il Bambino lo guardava da sotto in su, gli occhioni sgranati, e piegò le gambe riuscendo alla fine a non sbilanciarsi troppo.
Raddrizzò la schiena e, sotto l’elmo, si concesse un rapido sorriso: in fondo non era andata poi così male, considerato che era la seconda volta che usava l’apparecchio che gli aveva donato l’Armaiola solo poche ore prima!   
Sempre tenendo il piccolo tra le braccia, fece qualche passo verso la sua nave e azionò il comando che ne faceva abbassare il portellone; quella, stridendo debolmente, gli obbedì come un vecchio cane fedele.
Un forte boato alla sua sinistra gli ricordò che era pur sempre atterrato su di un campo di lava e che, se quel che Greef Karga gli aveva detto prima di salutarlo era vero, si stava preparando una catastrofica eruzione.
Ragione in più, oltre alla presenza su Nevarro delle truppe imperiali fedeli a Moff Gideon, per andarsene velocemente da lì.
D’un tratto, però, il cacciatore di taglie si bloccò, come congelato.
Si guardò intorno: non riusciva a capire di cosa si trattava, ma c’era qualcosa di strano…sì, all’improvviso i suoi sensi allenati lo avevano avvertito che qualcosa stava per accadere.
Qualcosa che non aveva niente a che fare con le scosse di terremoto e i vulcani attivi sotto la superficie del pianeta.
Come in risposta alla sua domanda silenziosa, all’improvviso qualcuno nascosto dietro delle rocce scure alle sue spalle iniziò a sparare contro di loro e, prima che lui riuscisse a mettersi a riparo, colpì ripetutamente il jetpack.
Il cacciatore di taglie si nascose dietro la fiancata della sua nave, posò a terra il Bambino e si tolse dalla schiena il jetpack, constatando che aveva iniziato a emettere fumo biancastro da due ampi squarci. Imprecò a mezza voce: se l’obiettivo del suo aggressore era stato privarlo di quel facile mezzo di fuga, c’era perfettamente riuscito.
Fece segno al piccolo di non muoversi e si rialzò, cominciando a rispondere al fuoco e contemporaneamente tentando di sporgersi per guardarsi intorno e capire dove potesse trovarsi il nemico.
In questo l’aiutò la visione termica del suo elmo, che gli consentì di distinguere una sagoma in piedi dietro una formazione rocciosa a circa 50 metri di distanza da lui, che non la smetteva di sparargli da due grosse armi da fuoco di un tipo che non aveva mai visto prima.
“Chi sei? Cosa vuoi?” gridò allora, per quanto immaginasse già la risposta.
“Dammi il Bambino” replicò infatti una voce sintetica, da dietro le rocce.
“Consegnamelo e ti lascerò andare”.
Per tutta risposta, lui fece ancora fuoco, stavolta con più foga.
Come se non bastasse, la terra aveva preso a tremare sempre più violentemente e l’aria si era riempita di un aspro sentore di zolfo.
Aveva sperato di essersela cavata dopo aver fatto precipitare il tie fighter di Gideon e invece era ancora lì, bloccato su quel dannato grumo di lava e vapori velenosi!
Sparò ancora e ancora, fino a che non si rese conto che le munizioni del suo blaster stavano per finire.
Sotto l’elmo, fece una smorfia e imprecò di nuovo.
Si sollevò ancora una volta e sparò i suoi ultimi colpi, tentando di calcolare mentalmente se sarebbe riuscito a infilarsi nella nave per prendere altre munizioni prima che quello riuscisse a colpirlo.
Sporgendosi a guardare oltre la fiancata del velivolo, annerita dai colpi, vide però il suo aggressore che stava camminando svelto verso di loro tenendo in ciascuna mano una grossa pistola fumante.
Indossava una tuta nera che mandava bagliori metallici sotto il sole, un casco dello stesso colore gli copriva il viso.
Non riusciva nemmeno a capire se fosse un essere umano o un droide.
Si fermò a pochi metri dalla Razor Crest e rimase lì, immobile, le gambe divaricate.
“Se ho fatto bene i conti” disse, riponendo le armi alla cintura “anche tu hai finito le munizioni”.
“E, dato che certamente non intendi consegnarmi il piccolo che è con te” proseguì, in tono straordinariamente calmo “immagino che dovremo vedercela alla vecchia maniera”.
Fece un altro passo verso la nave.
Ormai era vicinissimo.
“Il che” aggiunse “è anche decisamente più divertente”.
“Sempre che, ovviamente, tu nel frattempo non abbia cambiato idea per la paura” aggiunse beffardo.
Il Mandaloriano considerò rapidamente le alternative, che in fondo non erano molte, soprattutto perché non poteva rischiare di far avvicinare troppo quel tipo al Bambino.
Allora si alzò in piedi e fece qualche passo allo scoperto, verso il suo avversario.
Lo fissò senza dire una parola e portò la mano al coltello che teneva nascosto nello stivale.
“Immagino sia un no” disse freddamente l’altro, avanzando.
Il terreno tremò di nuovo, facendo vacillare i due.
Ormai erano vicinissimi.
Il cacciatore di taglie sentiva il suo avversario respirare forte e in fretta.
Serrò le mascelle, i muscoli pronti a scattare.
Si chinarono impercettibilmente l’uno verso l’altro.
Vi fu un silenzio terribile, come subito prima di un’esplosione.
Poi il guerriero vestito di nero gli si scagliò contro, sferrandogli un pugno così violento che per poco non perse l’equilibrio. Ma fu solo un istante e il Mandaloriano rispose con eguale violenza.
Era certamente il più forte e massiccio dei due e l’armatura faceva alla grande il suo dovere, però il suo avversario si muoveva con eccezionale agilità, spostandosi velocemente da un punto all’altro e disorientandolo.
Non aveva mai visto nessuno combattere in quel modo.
I suoi colpi lo sorprendevano e non riusciva a capire quale sarebbe stata la sua prossima mossa. 
D’un tratto però riuscì a colpirlo alla testa, con tale forza che il casco rotolò con un tonfo secco sul terreno.
Ann Leary, i lunghi capelli viola sul volto, cadde all’indietro con un gemito di dolore.
Il cacciatore di taglie, il braccio ancora levato, ansimante, la fissò stupefatto: il guerriero che stava tentando di ucciderlo era una donna.
E lui l’aveva appena colpita con tutte le sue forze.
Per una frazione di secondo esitò, solo per una frazione di secondo.
Ann si asciugò il sangue che le colava dal naso, mormorò tra i denti qualcosa che l’altro non riuscì a capire e balzò in avanti: fulminea, improvvisa, in un attimo si scagliò su di lui colpendolo con forza.
Fu gettato a terra dall’impatto.
Si rialzò subito, rabbioso: aveva esitato per un istante di troppo e adesso lo capiva perfettamente.
Come una risposta al suo pensiero, quello che lo raggiunse fu un calcio violentissimo che fece vibrare l’elmo tanto da stordirlo per un attimo.
Un momento dopo erano avvinghiati l’uno all’altra e si colpivano selvaggiamente; caddero a terra, rotolando sul suolo caldo e polveroso per cercare di sopraffarsi a vicenda.
Il Mandaloriano la rovesciò sul terreno, bloccandole le mani sopra la testa.
Vicinissimo, il suo elmo coperto di polvere le sfiorava la faccia.
Ann si fermò un istante, il respiro corto, conscia della sua posizione.
In tutti i sensi.
Merda, merda e merda. Sei sempre la solita: perché non riesci a tenere a freno il cervello?
Con tutta la sua forza riuscì a liberarsi; il cacciatore di taglie si ritrovò a sbattere la schiena per terra, gridando di rabbia.
Adesso Ann, sopra di lui, lo fissava stringendo i denti per lo sforzo di tenerlo costretto sul terreno.
Stavano ancora lottando, quando improvvisamente cambiò qualcosa.
Senza quasi accorgersene, rallentarono la lotta prendendo fiato.
E fu allora che negli occhi del Mandaloriano passò qualcosa.
Qualcosa che Ann non potè vedere, ma che conosceva molto bene.
L’agente imperiale socchiuse le palpebre, rimuovendo il pensiero, e spinse a terra il suo avversario con più forza; quello lanciò un grido e, con uno sforzo che lo lasciò senza fiato, la ribaltò di nuovo sotto di lui.
Era a pochi centimetri dalla sua faccia, il bellissimo viso lucido di sudore, gli occhi grigi che mandavano scintille metalliche: improvvisamente gli fu impossibile non notare il calore che emanava dal corpo bloccato sotto di lui.
Quanto fossero vicini e in che modo.
Spinse più forte per immobilizzarla e nel momento in cui fece forza col bacino la sentirono entrambi: eccitazione.
Intorno a loro non esisteva più niente.
Niente che avesse importanza.
Lui si morse le labbra, stupefatto.
Si fissarono per un attimo, gli occhi spalancati e le pupille dilatate.
I pochi centimetri d’aria che li separavano erano densi, come magnetizzati.
All’improvviso, una violenta scossa di terremoto li fece rotolare entrambi a terra, separandoli.
Si rialzarono contemporaneamente.
Si fissarono a distanza per un istante ansimando, incapaci di parlare.
Poi Ann Leary corse verso il suo avversario, fece forza sulle sue spalle per darsi lo slancio e balzò dietro di lui, colpendolo subito con un violento calcio in mezzo alla schiena.
Il guerriero mandò un gemito sordo e cadde nella polvere, dove subito Ann lo bloccò, stringendogli le ginocchia contro il torace e premendo col braccio sinistro sulla sua gola per spezzargli il respiro; lui continuò a colpirla, divincolandosi con tutta la forza che possedeva, fino a che non vide scintillare nella sua mano destra una lama.
Ann lo guardò senza mollare la presa e sollevò il braccio.
Tra un istante - pensò confusamente il Mandaloriano, il cuore che batteva all’impazzata - quella lama si sarebbe immersa nella sua giugulare, nello spazio tra l’elmo e la corazza che il solo mantello non avrebbe protetto abbastanza.
Attese il colpo.
Ma il colpo non arrivò.
Improvvisamente, vide la ragazza dai capelli viola lasciar cadere il pugnale e portarsi entrambe le mani alla gola. La vide cadere a terra con un gemito, ansimando come se stesse per soffocare.
La vide contorcersi per qualche secondo e poi restare immobile, gli occhi chiusi.
Si rialzò in un balzo e, in piedi sulla rampa della Razor Crest scorse il Bambino, la manina sollevata verso di lei e gli occhi socchiusi nello sforzo.
“No!” gli gridò, rabbioso.
Il piccolo gli rivolse uno sguardo interrogativo prima di ricadere seduto all’indietro, esausto.
“No!” ripetè, avvicinandosi alla sua avversaria.
Non avrebbe voluto sopraffarla in quel modo.
Non era stato onorevole.
Una nuova scossa, più forte delle altre, fece tremare la navicella; una spaccatura si aprì nel suolo, facendo fuoriuscire densi vapori sulfurei.
Si chinò sulla ragazza esanime, le scostò i capelli dal viso e, con la punta delle dita, sentì se era ancora viva.
Respirava, anche se debolmente.
La terra tremò di nuovo e l’astronave gemette, inclinandosi su di un lato.
Non c’era tempo da perdere, doveva decidere immediatamente.
Una frazione di secondo dopo, prese tra le braccia la guerriera priva di sensi e salì a bordo.
 
 
Note &credits: il titolo cita il libro omonimo di Jonathan Safran Foer (“Extremely loud and incredibly close”) che, ovviamente, ha un tema del tutto diverso. Ma le parole - intense, emozionanti - mi piacevano molto e così ho provato a usarle per descrivere sensazioni lontane anni luce dal tono del romanzo.
Ho notato che su efp ci sono pochissime storie romantiche con questi personaggi, mentre ad esempio su fanfiction.net ne ho lette tantissime; inoltre, in quasi tutte sono le fanciulle che perdono la testa per il nostro eroe… il che, pensando che sono storie scritte da fans è del tutto comprensibile! Qui invece - una volta tanto - le dinamiche cambieranno e scopriremo che le frecce di Cupido, talora, sono in grado di trapassare anche il beskar più puro.
Infine, per avere un’idea della protagonista, immaginate il personaggio di Psylocke della Marvel ma con uno stile di combattimento tipo Lara Croft: niente di più facile che il nostro eroe si faccia venire strane idee in testa.  
Grazie sempre a chi legge, a sabato prossimo!
 
 

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Capitolo 4
*** Space Oddity (prima parte) ***


CAPITOLO QUARTO
 

Space Oddity (prima parte)

 
 
Din Djarin guardò ancora per un istante il Bambino, profondamente addormentato nella sua amaca, pensando che doveva essere davvero esausto per ciò che aveva fatto non molto tempo prima.
Lo aveva salvato, di nuovo. E ancora una volta senza che gli avesse chiesto nulla.
E lui per tutta risposta l’aveva anche rimproverato, più o meno, perché non tollerava l’idea di aver avuto la meglio su di un avversario - per di più una donna - se non grazie alle sue forze e al suo coraggio.
Spesso gli capitava di provare sentimenti contrastanti nei confronti di quel piccolo, di sentirsi in colpa, di essere in ansia…qualcosa cui non era di certo abituato.
Scosse la testa e tornò verso la plancia, tanto era chiaro che quella notte il sonno era un lusso che non avrebbe potuto concedersi, in viaggio e per di più con una pericolosa nemica che giaceva ancora priva di sensi, i polsi strettamente ammanettati, sul sedile del copilota.
Entrò nella cabina di pilotaggio e le gettò uno sguardo rapido: i capelli a coprirle parzialmente il viso, le lunghe gambe piegate e il respiro regolare.
Avrebbe avuto ancora qualche momento di tranquillità per capire cosa era successo su Nevarro.
Si sedette al posto di comando massaggiandosi la spalla indolenzita e un sorriso leggero aleggiò sulle sue labbra.
Accidenti se quella ragazza non picchiava duro! Se si guardava indietro, non era stata certo la prima volta che aveva lottato contro una donna e tante lo avevano affrontato come avrebbe combattuto un uomo, senza esitazioni e senza scrupoli.
Ma…ecco, era stato diverso: nel bel mezzo del corpo a corpo più furioso che ricordasse, si era sorpreso a provare qualcosa di completamente inaspettato.
Allungò le gambe sul pavimento.
Cosa sarebbe successo se il Bambino non fosse intervenuto in suo soccorso? Sarebbe riuscito a sopraffarla o lei l’avrebbe ucciso alla fine?
Quelle domande gli rimbalzavano nel cervello.
Non riuscire a concentrarsi era qualcosa di decisamente nuovo per lui: era come se avesse nella testa un meccanismo inceppato che continuava a scattare da un punto all’altro senza poterlo fermare.
Dannazione, controllati!
La sorte del tuo trovatello, la tua stessa salvezza dipendono da te e tu non sei sopravvissuto a tutto ciò che hai passato perché, sotto pressione, sei un uomo che crolla.
Niente da fare: il suo cervello si rifiutava di obbedire.
I suoi pensieri si confondevano, si aggrovigliavano, sbandavano per poi tornare verso un unico centro.
Se esaminava la cosa razionalmente non aveva dubbi che mai e poi mai avrebbe dovuto degnare di uno sguardo quella donna, perché non c’era niente in lei - al di là della sua indiscutibile bellezza - che potesse davvero piacergli.
Eppure, non poteva dimenticare e smettere di pensarci era impossibile.
 
ooOoo
 
Il primo pensiero col quale Ann Leary emerse dall’incoscienza fu che era la seconda volta, quella settimana, che si svegliava con un tremendo mal di testa.
Quello successivo fu che la cosa non le piaceva per nulla.
Respirò profondamente, senza aprire gli occhi e senza muovere un muscolo, tentando di raccapezzarsi su dove fosse e cosa fosse accaduto.
Certamente era viva - cosa questa che la sorprese, per come si erano messe le cose col Mandaloriano - aveva le mani legate e, deglutendo, la sua gola contusa le ricordò l’atroce sensazione di soffocamento che era stata l’ultima cosa che era riuscita a percepire prima di perdere i sensi.
Ecco - considerò - quell’incapace di Gideon le aveva fornito tante informazioni inutili sulla sua preda, ma non l’unica veramente importante: il legame che si era creato tra di loro era talmente forte che il piccolo aveva usato i suoi straordinari poteri per aiutare il suo protettore. Non lo sapeva e non ci aveva pensato, commettendo un errore che per poco non le era costato la vita.
Già, era viva. Non trafitta da una lama mandaloriana né carbonizzata dalla lava di Nevarro.
Ma cos’era accaduto?
Ancora immobile, aprì gli occhi il minimo indispensabile per rendersi conto che si trovava all’interno di una navicella; con la coda dell’occhio alla sua sinistra, al posto di pilotaggio, scorse lo scintillio ben noto dell’acciaio più resistente della Galassia.
Bene, ragazza, la prima cosa da fare è liberarti da queste dannate manette 
Sempre cercando di muoversi il meno possibile, fissò lo sguardo sulla loro chiusura: per fortuna, non era troppo difficile da aprire…sarebbe bastato…
Piegò il polso in avanti, le sue dita toccarono delicatamente la parte interna della manica, facendone fuoruscire pian piano - con estenuante lentezza - una piccola lama che terminava con un uncino; dopo un paio di tentativi, riuscì a infilarla nella serratura e iniziò a ruotarla lentamente cercando di forzarla. 
Ma d’un tratto si sentì sollevare di peso, con rudezza, e sbattere contro la parete metallica accanto al sedile. Le sfuggì un gemito soffocato.
Il Mandaloriano le teneva con una mano i polsi bloccati sopra la testa e la guardava con un’aria che certamente, sotto quel maledetto elmo, era più che minacciosa.
Lei invece lo fissò da dietro le palpebre socchiuse e, incredibilmente, sorrise.
“Dobbiamo smetterla di vederci in questo modo” disse, senza cambiare espressione. 
“Tu devi smetterla con questi giochetti da bambini!” replicò il cacciatore di taglie stringendola di più contro la parete e utilizzando l’altra mano per sfilare completamente la lama dal suo guanto e gettarla sul pavimento.
“Se tu fossi un bambino ti saresti già allontanato da me…”
Lui sentì nuovamente il sangue salirgli al cervello.
“E’ stato davvero un errore salvarti su Nevarro” replicò, senza però cambiare posizione.
Lei non oppose alcuna resistenza, limitandosi a fissarlo con quel sorriso irritante sulle labbra dipinte.
Ancora una volta rimasero a fissarsi, il silenzio rotto unicamente dai loro respiri appena affannosi, e il modo in cui lo fecero li lasciò quasi senza fiato.
L’attrazione che improvvisamente leggevano l’uno nell’altra era innegabile, li attirava come una calamita.
Fu un momento strano, dolce e insieme feroce, nulla che entrambi avessero mai sperimentato prima.
La tensione accumulata sembrò infiammarsi di colpo, come accesa da una miccia invisibile: Ann si trovò a premere contro il colpo freddo e metallico lui, sentendosi a sua volta afferrare i fianchi e spingere con forza contro la parete.
Si strusciò contro di lui e il gemito che soffiò contro le sue labbra fu inequivocabile.
Ann serrò le palpebre, ascoltando le sensazioni che il suo corpo esperto le trasmetteva; quando le riaprì e tornò a guardare il suo avversario, fu certa che – se avesse potuto oltrepassare il metallo dell’elmo - oltre la rabbia avrebbe trovato il desiderio nei suoi occhi.
Come la volta precedente, durò pochi secondi. Pochi, intensissimi, secondi.
E finché durò il rotolare delle stelle nel freddo universo, l’inesorabile cammino dei pianeti entro le loro vane orbite, lo stesso folle lavorio degli uomini conobbero una tregua.
Poi il Mandaloriano, sempre bloccandole le braccia, la spinse di nuovo sul sedile del copilota senza tanti complimenti e si lasciò cadere al posto di comando.
Ann sorrise impercettibilmente, guardandolo.
“Già, a proposito” domandò alla fine “perché mi hai salvata su Nevarro?”
Lui non rispose, seguitando a fissare il cielo di velluto nero che occhieggiava dagli ampi finestrini della nave.
“Immagino che sia stato perché stavo prendendo a calci troppo forte il tuo culo foderato di metallo, non è vero? E quindi hai avuto bisogno dell’aiuto del tuo amichetto verde”.
Ann non aveva idea di cosa sarebbe accaduto se avesse continuato a provocarlo in quel modo, né se fosse una buona idea farlo, ma in quel momento le sembrava l’unica occasione per uscire dallo stallo in cui si trovava. 
“Ma certo non sarebbe stato onorevole per un grande guerriero quale tu pensi di essere, lasciar morire un avversario senza averlo sopraffatto con le tue sole forze…”
“Se non la smetti” replicò lui però con un tono che non sembrava tanto infastidito, quanto persino divertito “sarò costretto a farti fare un giro nella carbonite. E mi dicono che non è il massimo”.
“Non lo faresti mai. Una signora come me dentro quello schifo…”
“Non mettermi alla prova”.
Ann fece una smorfia e accavallò le gambe.
Stava perdendo tempo. E il tempo era proprio ciò che le mancava.
Avrebbe dovuto provare in un altro modo.
ooOoo
 
La ragazza sospirò profondamente e guardò fuori dal finestrino: quanto tempo era passato? Ore forse, ma le erano sembrate intere settimane.
Ogni tentativo di far dire qualche parola a quel dannato Mandaloriano si era infranto contro un mutismo assoluto e irritante. Se stava cercando di farle saltare i nervi, era decisamente sulla strada giusta.
“Posso sapere che progetti hai per me?” domandò a un tratto.
“Insomma, pensi di abbandonarmi da qualche parte o preferisci che continuiamo la nostra discussione a mani nude non appena sarai arrivato…dove siamo diretti, in modo da sancire definitivamente che - senza aiuti esterni - tra noi due sono io la più forte?”.
“Per la verità non ci ho ancora pensato” rispose finalmente lui “anche perché in mezzo a tutte queste chiacchiere non mi hai detto chi sei e cosa vuoi dal piccolo”.
“Mi chiamo Ann Leary. E sono una cacciatrice di taglie, come te” replicò lei dopo un istante di silenzio “mi hanno promesso una taglia molto generosa per lui. E francamente non ho chiesto chi sarebbe stato a pagarla”.
“Non ho mai sentito il tuo nome…” fece lui, sospettoso “e dato come combatti la cosa è alquanto strana”.
“Sono nel giro da poco e voi sareste stati la mia prima taglia importante. Qual è invece il tuo nome?”.
“Non ti credo, Ann Leary” ribatté lui, senza rispondere alla sua domanda.
“Come preferisci” sbottò la ragazza, sistemandosi meglio sul sedile “vuoi dirmi come ti chiami o sarò costretta a utilizzare quello stupido nomignolo sempre uguale che usate voi mandaloriani? Personalmente lo trovo irritante”.
L’altro si girò verso di lei e sospirò.
“Quello andrà benissimo, anche perché tra poco saremo a destinazione e non avrai molte occasioni di usarlo”.
“Fantastico…” fece lei “davvero fantastico”.
In quell’istante l’astronave sussultò e vibrò violentemente. Ann lanciò un grido strozzato, mentre il Mandaloriano sibilava un’imprecazione in una lingua che lei non capì.
“Ci stanno attaccando!”  esclamò poi, sporgendosi in avanti per attivare i comandi delle armi.
 
(continua…)
 
Note&credits: Buondì, ovviamente il titolo cita la splendida canzone di David Bowie. Qui la “stranezza spaziale” si riferisce a ciò che sta accadendo tra i due protagonisti, contro ogni aspettativa e ragionevolezza.
Grazie sempre a chi legge e a chi ha voglia di lasciarmi la propria opinione.
Vi auguro una Pasqua dolce, nonostante il momento difficile! Alla prossima
 

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Capitolo 5
*** Space Oddity (seconda parte) ***


CAPITOLO QUINTO
 
Space Oddity (seconda parte)
 

In quell’istante la Razor Crest sussultò e vibrò violentemente.
Ann lanciò un grido strozzato, mentre il Mandaloriano sibilava un’imprecazione in una lingua che lei non capì.
“Ci stanno attaccando!”  esclamò poi, sporgendosi in avanti per attivare i comandi delle armi.
“Quanti sono?” domandò la ragazza, cercando di sorreggersi ai braccioli nonostante le mani legate.
“Almeno quattro astronavi, saranno altri cacciatori di taglie come te!” replicò lui, muovendo la cloche.
“Oppure tuoi amici: col tuo bel carattere non dubito che te ne sarai fatti un sacco…”
“Smettila!” ruggì lui, stavolta davvero furioso perché i colpi continuavano ad andare a segno e non aveva idea di quanto avrebbe retto lo scafo.
Ann si guardò intorno alla ricerca di una soluzione: verso la parte posteriore dello scafo distinse quattro astronavi di fogge e dimensioni diverse…nessuna sembrava in condizioni ottimali, ma tutte avevano un bel po’ di armi e le stavano usando contro di loro senza badare alle munizioni.
Li stavano attaccando alle spalle e ben presto li avrebbero circondati completamente.
Per quanto lui stesse cercando di schivare i colpi e allo stesso tempo di sparare, era evidente che non avrebbero resistito a lungo.
E che certamente non sarebbero riusciti a distruggerle tutte dalla posizione in cui si trovavano.
Dalla posizione in cui si trovavano
Quella era la chiave.
La spia imperiale si morse le labbra e guardò ancora oltre gli ampi finestrini della cabina di pilotaggio; poi spostò lo sguardo sul cacciatore di taglie, che con tutte le sue energie tentava di manovrare la nave lanciando di tanto in tanto un’imprecazione soffocata.
Sorrise appena, ricordando ciò che era successo non molto tempo prima. 
La posizione, la posizione era una cosa fondamentale.
Nella vita e nei combattimenti.
D’improvviso balzò in piedi e gli tese le braccia.
“Liberami! Da solo non puoi riuscire a pilotare e a rispondere al fuoco contemporaneamente”.
La ragazza aveva ragione e lui lo sapeva. Ma come faceva a fidarsi di lei?
“So quello che stai pensando: non ti fidi di me e non posso darti torto. Ma ti propongo un accordo …ti do la mia parola che fin quando non saremo in salvo non cercherò di ucciderti o di far del male al Bambino”.
Lui esitava.
“Liberami, dannazione! Altrimenti tra qualche minuto saremo tutti e tre cenere tra le stelle!”
“La tua parola…” disse lui.
“Sempre che anche tu mi dia la tua che non tenterai di uccidermi” lo interruppe Ann.
“Va bene” si arrese alla fine il Mandaloriano, facendo scattare la chiusura delle manette.
L’agente imperiale sospirò, massaggiandosi i polsi indolenziti.
“Ok, diamoci da fare!” esclamò, afferrando i comandi delle armi laser.
“Non c’è molto da fare, sono in troppi…” replicò Mando, cercando disperatamente di schivare i colpi che arrivavano alle loro spalle.
“Aspetta!” fece lei “Ho un’idea: fammi sedere al tuo posto”.
“Sei pazza se credi che ti lascerò pilotare la Razor Crest
Lei sbuffò.
“Sei veramente impossibile. Ok, allora calcolo io le coordinate”.
“Coordinate per cosa?” domandò il cacciatore di taglie.
Hai mai sentito parlare della manovra di Candan Lale?
L’altro annuì. Sì, l’aveva sentita: una sorta di salto breve nell’iperspazio, una frazione di secondo per percorrere una distanza di poche centinaia di migliaia di chilometri.
Pericolosa e incerta nella riuscita perché richiedeva assoluta precisione nel calcolo delle coordinate, altrimenti si rischiava di ricomparire troppo vicino al nemico o addirittura di finirgli addosso, distruggendo entrambe le navicelle.
D’improvviso capì: in quel modo sarebbero riusciti a balzare esattamente alle spalle dei loro assalitori, cogliendoli di sorpresa, e alla distanza giusta per colpirli prima che potessero rendersi conto di ciò che gli stava capitando. Era un’idea dannatamente buona e gli dispiacque che non fosse venuta a lui.
“Ci hai mai provato?” le domandò.
“In verità no” fece lei “Incrociamo le dita”.  
Il velivolo fece una brusca inversione e si lanciò a tutta velocità contro le navicelle nemiche, che continuavano a bersagliarlo di colpi.
Ann strinse le labbra, mentre calcolava le coordinate il più velocemente possibile.
Si trattava senza dubbio solo della sua immaginazione sovreccitata: non era possibile sentire davvero il sibilo del vento contro la carlinga, l’urlìo spaventoso del vuoto siderale mentre lo squassava con le ali dell’astronave, lanciata ormai velocissima.  
D’improvviso le navi nemiche furono proprio di fronte a lei: apparvero tutte insieme, una nuvola di uccellacci lanciata contro un’unica preda, e subito attaccarono come sincronizzate.
E adesso urlavano.
Urlavano tutte contro di loro.
Ann respirò profondamente e, senza staccare gli occhi dallo schermo, recitò a voce alta le coordinate per il salto.
Il Mandaloriano deglutì silenziosamente.
“Andiamo!” gridò.
Afferrò la leva situata di fronte a lui e la fece scorrere con decisione fino in fondo.
Il piccolo abitacolo iniziò a vibrare.
Strinse le dita sulla cloche, così tanto che le nocche diventarono bianche dentro i guanti di pelle.
Una goccia di sudore gelido gli scivolò lungo la schiena, mentre teneva la barra di comando con tutta la forza e la precisione di cui era capace.
Ann trattenne il fiato, come un pugno chiuso, nel petto; per una frazione di secondo, mentre se ne stava immobile, le parve che non sarebbe accaduto niente.
Poi d’improvviso il cielo davanti a lei cominciò a urlare: fu un suono terribile, lancinante, Ann non aveva mai udito niente del genere.
Si sentì tagliata in due, come se qualcuno le avesse spaccato il petto a colpi d’ascia.
Una nausea prepotente le attanagliò lo stomaco e dovette impiegare tutte le sue energie per tenere a bada un conato di vomito.
Aprì la bocca per lasciar passare il fiato, mentre sentiva che le sue mani si afferravano convulsamente ai braccioli.
“Stai bene?”.
La voce del Mandaloriano la richiamò alla realtà.
L’agente imperiale rispose dopo un istante e la sua voce suonò molto più incerta di quanto lei avrebbe voluto.
“Sì” mentì.
“Non preoccuparti” disse lui “non dirò a nessuno che stavi per vomitare”.
Ann respirò profondamente.
“Idiota” replicò, con un mezzo sorriso.
“Andiamo!” ripetè il guerriero.
Attivò nuovamente il salto dimensionale e una frazione di secondo dopo la Razor Crest  si materializzò esattamente alle spalle delle navicelle nemiche.
“Fuoco!” disse stringendo i denti, il sangue che gli martellava alle tempie.
Senza alcuna esitazione, Ann e il cacciatore di taglie cominciarono a sparare con tutte le armi che il loro velivolo possedeva.
Prima che le astronavi nemiche riuscissero a manovrare per voltarsi, persino prima che si accorgessero di fronte a loro non c’era più che lo spazio vuoto, i laser li investirono in pieno facendo scoppiare le loro ossa metalliche alle giunture mentre l’interno esplodeva in una sola, enorme, fiammata rossa.
Le armi colsero le astronavi al volo con uno sboccio di fuoco, un unico stupendo sboccio che si arricciò in petali gialli, azzurri e arancione intorno ai loro corpi metallici, rivestendoli di una nuova corazza mortale nell’istante in cui si frantumavano nel vuoto dello spazio.
Incredula, il respiro affannoso, Ann Leary si aggrappò ai braccioli del suo sedile.  
Lo spostamento d’aria fu tale che la Razor venne scagliata all’indietro.
Mentre gli stabilizzatori facevano il loro dovere, i due piloti ripresero fiato cominciando finalmente a rilassarsi.
“Yaoh!” urlò allora Ann.
“È meglio di un orgasmo!”.
Mando scosse la testa, trattenendo a stento una risata.
 
ooOoo
 
Il Bambino, appena sveglio, sgattaiolò non senza difficoltà giù dalla sua amaca e avanzò a piccoli passi verso la cabina di pilotaggio; sporse dentro la testa e fissò prima il Mandaloriano seduto al posto di guida e poi la ragazza che - gambe incrociate e un’espressione chiaramente annoiata sulla faccia - occupava quello che a tutti gli effetti era il suo sedile.
Fece ancora qualche passo.
Non appena Ann si accorse di lui lo fissò con intensa curiosità e, lesta come un gatto, gli si avvicinò senza far rumore.  Lo guardò ancora negli occhi, si accovacciò accanto a lui e sollevò una mano.
Grogu
Disse senza parlare.
Il Bambino sgranò gli occhioni e la fissò, interrogativo: quanto tempo era che nessuno lo chiamava per nome, col suo vero nome? E come mai quella strana umana lo conosceva?
Grogu, ascoltami…
Aveva parlato alla sua mente, così, senza alcun suono udibile.
“Non avvicinarti a lui!”.
La voce imperiosa del Mandaloriano li fece sussultare entrambi.
“Fai un passo indietro” disse minaccioso, puntando il suo blaster su Ann.
La ragazza si rialzò con una smorfia e sollevò le mani, allontanandosi dal piccolo.
“Datti una calmata” replicò “Non avevamo un accordo io e te?”.
“Questo non vuol dire che io mi fidi” ribatté a sua volta il cacciatore di taglie seccamente.
Restò in piedi con l’arma spianata contro di lei finchè il Bambino non gli si avvicinò abbastanza perché potesse prenderlo in braccio e, sempre senza staccare gli occhi dalla ragazza, sistemarlo sul sedile del copilota.  
Ann sospirò stancamente: era un maledetto osso duro e stava rendendo le cose tremendamente difficili.
Il suo tempo stava scadendo ed era ancora lontana dalla meta.
Anzi, poteva dirsi fortunata che ancora non gli fosse venuto in mente di rimetterle le manette o di scaraventarla davvero nella carbonite, così disarmata com’era.
Lo fissò, tentando di capire cosa gli passasse nella testa e come fare perché abbassasse un la guardia almeno un po’.
L’uomo rimise il blaster nel fodero e si voltò verso il suo posto, quando a un tratto l’astronave sussultò violentemente e con una specie di sordo gemito metallico s’inclinò su di un fianco.
Grogu lanciò un gridolino di paura e si aggrappò al sedile, mentre i due umani barcollarono cercando di mantenere l’equilibrio.
Una nuova scossa, ancora più violenta della prima, fece incespicare il Mandaloriano. Urtò contro il sedile del copilota e cadde in avanti; nello stretto spazio della cabina di pilotaggio, travolse l’agente imperiale che stava tentando in modo disperato di mantenersi in equilibrio sul pavimento inclinato, cadendo pesantemente su di lei.
Le luci si spensero e i motori cessarono di vibrare.
Ann riaprì gli occhi e sorrise.
“Comincio a pensare che tu lo stia facendo apposta” disse, tentando di divincolarsi mentre il peso dell’armatura e del suo contenuto la schiacciava sul pavimento.
Lui si rialzò all’istante e le tese una mano per aiutarla a tirarsi su a sua volta.
“Credimi” disse, asciutto “se lo stessi facendo apposta te ne saresti accorta”.
Il tono era mortalmente serio, ma le parole tradivano un barlume d’umorismo.
In un balzo, si sedette al suo posto e iniziò a pigiare interruttori.
“Dici?” fece Ann, le mani sui fianchi.
“Io avrei qualche dubbio…”
“Abbiamo un problema” disse il cacciatore di taglie, fissando lo schermo davanti a lui.
“Puoi dirlo forte” replicò lei con un sorrisetto.
“No, sul serio: abbiamo un grosso problema” ripetè e questa volta il suo tono fece passare alla ragazza ogni voglia di scherzare.
Gli si mise accanto, cercando di capire cosa stesse succedendo.
Lui premette alcuni pulsanti e le luci si riaccesero, mentre i motori erano ancora kaputt.
“Qualcosa ci ha agganciati”. 
 “Potrebbe essere un raggio traente?” suggerì Ann.
“Potrebbe. Ma i sensori non lo rilevano”.
“E allora di che si tratta?”.
“L’unica cosa che mi viene in mente è che siamo stati catturati dall’attrazione gravitazionale di quel pianeta di fronte a noi” disse il Mandaloriano, indicando un globo verdastro circondato da un’atmosfera iridescente che si stagliava contro il nero del cosmo.
In effetti, la Razor Crest si stava avvicinando rapidamente al corpo celeste, nonostante i motori spenti, come afferrata da una mano invisibile. 
“Ma non è possibile…” replicò Ann, incredula.
“Lo so anche io che in teoria non sarebbe possibile, ma è l’unica spiegazione”.
Il cuore dell’agente imperiale ebbe un’improvvisa accelerazione, serrò i pugni e si morse le labbra.
Possibile che sia proprio lui? Allora non si trattava solo di una leggenda… 
“C-come si chiama quel pianeta?” domandò, nella voce un tremito impercettibile.
“La mappa stellare lo indica con il nome di Haldol. Qui dice che è un pianeta verdeggiante, che in passato era abitato da una popolazione civilizzata conosciuta come Hoka. Ma si sono sterminati tra loro a causa di una guerra civile oltre cento anni fa”.
Il Mandaloriano fece un altro tentativo per riavviare i motori, ma la nave non gli rispondeva.
I due si fissarono, il respiro appena affannoso.
“Insomma, siamo in trappola”.
“Quanto tempo abbiamo?” domandò la ragazza.
“La nostra velocità sta aumentando man mano che ci avviciniamo, ci trascina giù…”
Non trattenne un’imprecazione.
La nave ebbe un altro sussulto violento, come uno strattone, e s’immerse nell’atmosfera.
Le nuvole grigio-bianche erano sature di scariche elettromagnetiche che sibilavano sulla loro testa e intorno alla carlinga.
“Fantastico: ci mancava solo una tempesta elettromagnetica” gemette Ann.
Quando una scarica colpì la nave la ragazza, ancora in piedi, perse l’equilibrio e cadde all’indietro con piccolo grido.
“Tutto ok?” le chiese il Mandaloriano, senza muoversi dal suo posto.
“Uhm” fece lei, rannicchiandosi contro la parete “Sei un pilota veramente pessimo”.
 “Reggiti forte!” fece lui per tutta risposta, stringendo la cloche con tutta la sua forza per tentare di imprimere una direzione alla nave “Stiamo precipitando e senza stabilizzatori non sarà un atterraggio morbido!”.
“Vedo una radura laggiù, al limitare di una…foresta credo”.
L’astronave vibrava disperatamente, gemendo con voce quasi umana, avvolta nelle nuvole temporalesche.
Il suolo era ormai vicinissimo: da dove si trovava Ann riuscì a distinguere l’ansa scintillante di un fiume e una vasta laguna bluastra. Poi, più lontano, persa nella nebbia una strana costruzione di pietra scura che emergeva dalla vegetazione.
I tre chiusero istintivamente gli occhi e trattennero il respiro mentre la punta della Razor Crest toccava il suolo.
 
 
Note&credits: come certamente ricorda chi ha visto la serie, alla fine della prima stagione (quando è ambientato il racconto) nessuno conosce ancora il nome del Bambino…meditate gente, meditate! 😊
Grazie sempre a chi legge. Alla prossima
 
 

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Capitolo 6
*** Gamgiar il Collezionista ***


CAPITOLO SESTO
 
Gamgiar il Collezionista
 

Avanzava pesantemente con lunghi passi, lenti e cadenzati, nel corridoio del suo palazzo delle meraviglie.
La veste riccamente decorata con disegni raffinatissimi ondeggiava intorno al suo corpo massiccio, ma elegante, mentre camminava senza degnare di uno sguardo la moltitudine di straordinari tesori che aveva accumulato nel corso della sua lunghissima vita, esposti lungo le pareti del corridoio monumentale. 
Stava diventando irrequieto, di nuovo.
Lo sentiva chiaramente, quel fremito di insoddisfazione che lo induceva a vagare senza una meta su e giù per il suo vasto palazzo e che non trovava consolazione nemmeno nella contemplazione dei suoi tesori, oggetti meravigliosi che aveva raccolto viaggiando in lungo e in largo per la Galassia.
Oggetti e creature che un tempo lo avevano emozionato per la loro bellezza e che, invece, ora non suscitavano in lui più alcuna sensazione viva.
Si stava annoiando e la noia era il nemico più terribile per creature come lui, infinitamente vecchie e potenti.

ooOoo
 
Ann Leary saltò giù dalla fiancata sinistra della Razor Crest; in piedi sull’erba della radura, si passò una mano sulla fronte madida di sudore.
“Qui ho finito” disse, mentre il Mandaloriano si affacciava dal portellone principale.
“Allora?” domandò lui, sbrigativo.
“Diciamo che ho fatto il possibile” replicò lei “dovrebbe riuscire a volare senza grossi problemi fino a che non troverai un’officina”.
Poi indicò con un cenno del capo l’interno della nave.
“Invece com’è la situazione lì dentro?” gli chiese, le mani sui fianchi.
Se avesse potuto vedere la sua faccia, avrebbe capito la risposta dalla sua espressione di disappunto.
“Considerato quello che è successo, i danni non sono troppo gravi” rispose il cacciatore di taglie “Ma purtroppo l’iper-guida è andata: dovremo volare a velocità sub-luce finché non troverò qualcuno che la ripari”.
L’agente imperiale fece una smorfia.
“Questa non è una buona notizia” sbottò.
Accidenti, è una pessima notizia!
“Aiutami a sistemare l’altro motore” disse il cacciatore di taglie, col suo solito tono privo di emozioni “dopo di che dovremmo potercene andare da qui”.
Si diresse verso la fiancata destra dell’astronave, che giaceva inclinata su di un lato sull’erba verde dai delicati riflessi celesti.
Ann lo seguì guardandosi intorno: se la situazione fosse stata diversa e a parte la temperatura da sauna, avrebbe trovato quel pianeta davvero affascinante!
Poco distante dalla radura dove erano malamente atterrati si snodava un fiume dalle acque lente, quasi immobili, che si riversava in un’ampia laguna incredibilmente limpida, interrotta qua e là da banchi di sabbia su cui erano cresciuti alberi rigogliosi col tronco grosso quanto il corpo d'un uomo, che immergevano nelle acque le loro radici contorte.
Le rive apparivano coperte da boscaglie che dovevano essere foltissime, a giudicare dall’enorme quantità di tronchi che si slanciavano a grandi altezze, stendendo in tutte le direzioni foglie mostruosamente grandi, di un verde freddo che sfumava nel blu scuro.
Intorno non si vedeva nessuna traccia di presenza umana; volava invece di quando in quando un grosso uccello dal piumaggio vivace, che la ragazza non era in grado di riconoscere, e talora si avvertiva il guizzare di qualche animale – forse un pesce, forse qualche specie sconosciuta - particolarmente grosso tra le rocce del basso fondale.
Nell’aria calda, satura di profumi sconosciuti, ronzavano nugoli di insetti minuscoli che non esitavano a posarsi sui suoi capelli umidi e sul viso lucido di sudore.
Si riscosse con un sospiro.  
Il suo compagno di viaggio si era infilato quasi completamente sotto la nave, lo sentiva armeggiare con gli attrezzi emettendo a tratti qualche respiro affaticato.
Ann si sedette accanto a lui sull’erba, le gambe incrociate.
Aveva già lavorato ben oltre i suoi gusti e non avrebbe mosso ancora un dito per quell’uomo.
“Certo che fa un caldo micidiale!” sbuffò, passandosi le dita tra i capelli e sventolandosi la faccia con una mano.
“Ma come fai a resistere lì dentro?” gli domandò a un tratto “Io penso che mi sarei già liquefatta con tutto quel metallo addosso!”.
Inaspettatamente le rispose una specie di risatina.
Lui emerse, metallico e inespressivo, da sotto il ventre altrettanto metallico e inespressivo della sua astronave e la guardò.
“Immagino quindi che tu non sappia” disse in un tono leggermente derisorio “che le armature mandaloriane posseggono un sistema di regolazione della temperatura interna”
“Oh” fece lei “Davvero?”
“E - giusto per sapere - quanti gradi ci sono adesso lì dentro?”
Lui esitò un istante.
“Circa…tra i 20 e i 22 gradi” rispose. Ann era sicura che si stesse divertendo un mondo.
 “Woah!” la ragazza si lasciò cadere a terra, la schiena sull’erba. Poi si girò su di un fianco e lo guardò, puntellandosi sul gomito.
“Se rinasco giuro che prenderò seriamente in considerazione l’idea di diventare mandaloriana” ridacchiò.
Lui la fissò interdetto, ma non riprese il suo lavoro.
“Non offenderti” replicò “ma non penso proprio che saresti adatta a seguire il mio Credo”.
Ann seguitò a fissarlo nel posto dove presumeva si trovassero i suoi occhi.
“Hai ragione” disse di getto, dopo un istante “Non riuscirei mai a vivere come vivi tu…rinunciando a sentire il calore del sole o la freschezza del vento sulla pelle. Rinunciando alle carezze improvvise e spontanee di chi ti vuole bene, senza che chi ti sta di fronte sappia mai davvero cosa ti passa per la mente”.
Poi tacque per un momento, riflettendo.
“La vostra armatura vi protegge dal mondo, lo chiude fuori da voi…ma in fondo chiude anche voi fuori dal mondo”.
Lui la fissò in silenzio.
“Francamente non l’avevo mai vista in questo modo” disse dopo un secondo.
 
ooOoo
 
Grogu zampettò fino all’ingresso della nave e sporse la testolina fuori. Si guardò intorno e alla fine vide i due umani per terra, accanto alla fiancata della nave.
Stavano parlando e non si sarebbero accorti di niente.
Esitò un istante: il Mandaloriano gli aveva ripetuto più volte, con un tono che non ammetteva repliche, che non avrebbe dovuto allontanarsi dall’astronave per nessuna ragione al mondo.
E lui aveva obbedito, ma adesso si stava annoiando così tanto, tutto solo lì dentro! E poi faceva un caldo terribile e, come se non bastasse, iniziava ad avere fame.
Forse fuori avrebbe trovato qualcosa di interessante, qualcosa di gustoso da assaggiare.
A un tratto vide l’erba ondeggiare, un paio di metri davanti a lui, e subito dopo scorse una testolina blu screziata d’azzurro emergere dall’erba e spostare su di lui un unico occhio spalancato.
La creaturina lo fissò per una frazione di secondo e poi saltò via nell’erba con le sue lunghe zampe palmate.
Curioso, il piccolo scese più velocemente che poteva la rampa della Razor Crest, attraversò la radura e s’inoltrò nella foresta seguendo lo strano animale che aveva appena visto.  
 
ooOoo
 
Era il momento di andare di nuovo a caccia, decise il Collezionista.
Quel solo pensiero gli fece battere più veloce il cuore, mentre il colore della sua pelle traslucida virava dal verde-giallastro a un più acceso arancione.
La sola bellezza, la straordinarietà, non gli bastavano più: la conquista doveva essere accompagnata dal pericolo, altrimenti non sarebbe stata abbastanza gustosa da soddisfare la sua brama.  
La sua mente correva davanti a lui verso la stanza centrale, oscura e rotonda, dalla quale scrutava la Galassia in cerca di prede; sulla parete di fronte all’ingresso di quella che una volta doveva essere la sala del trono del re degli Hoka si apriva adesso uno schermo circolare opaco, mentre il lampeggiare insistente di una piccola luce rossa lo avvisava che
un’altra astronave era stata catturata dal suo dispositivo gravitazionale.
Con un imperioso gesto della mano poderosa, spense il meccanismo.
Una specie di immensa trappola per piccole, meravigliose creature sconosciute: chissà se stavolta la sorte gliene avrebbe portata qualcuna degna della sua attenzione, di solito si trattava di esseri talmente banali!
Invece lui desiderava lo straordinario, il rischio, la bellezza…ciò che faceva ancora battere il suo vecchio cuore.
Mentre si avvicinava alla parete, lo schermo cominciò a risplendere.  
Si udirono suoni confusi e apparvero ombre indistinte.
Poi, d’un tratto, Gamgiar il Collezionista spalancò il suo unico, enorme occhio senza sclera.
La sua pelle lucente, mentre si avvicinava allo schermo per vedere meglio, assunse un intenso riflesso rossastro.
Forse aveva trovato qualcosa di interessante.
Il Collezionista seguitò a fissare lo schermo luminoso di fronte a lui.
Il suo unico occhio era spalancato e luminoso e i suoi riflessi diventavano sempre più accesi mentre lo scrutavano.
Le ombre si mossero più in fretta e qualcosa iniziò a prendere una forma più definita. Poi si dissolsero lasciando il posto a un’immagine chiara, che finalmente placò la sua irrequietezza: era una creatura piccola, minuscola, di una specie che non aveva mai visto prima durante tutti i suoi numerosissimi viaggi.
Doveva essere incredibilmente rara.
Aveva grandi orecchie e profondi occhi scuri che spiccavano sulla pelle di un verde intenso.
Era strano. E… grazioso.
Ma, soprattutto, Gamgiar sentì che era potente. Potente in una maniera che non riusciva bene a comprendere.
Percepì che - nonostante potesse sembrare incredibile dato che era così piccolo - avrebbe resistito e lottato per vivere e questo lo eccitò.
Il suo occhio mandava scintille, la sua pelle si tinse di un intenso rosso scarlatto.
Fece un gesto verso i comandi accanto al monitor e sorrise.
 
ooOoo
 
“Quindi, fammi capire” domandò il Mandaloriano, avvicinandosi di più alla ragazza “pensi che noi siamo tutti individui patetici e tristi?”.
Più volte dalla loro partenza da Nevarro si era trovato a considerare che era una vera fortuna che l’elmo impedisse a chiunque di vedere la sua faccia, giacchè farlo in quei momenti sarebbe stato quasi come leggergli nel pensiero.
Di fronte a lei, solo sfiorandola, si era sentito come se improvvisamente ogni sua cellula si fosse risvegliata scoprendo desideri nuovi, inattesi e del tutto inopportuni.
Com’era possibile che stesse succedendo a uno come lui? Che fosse bastato così poco…
Aveva sperato che se l’avesse ignorata, se non le avesse rivolto la parola e neppure guardata sarebbe riuscito a rimanere lucido e concentrato. A mettere la parola fine a quella cosa, qualunque cosa fosse.
La verità era che quando la guardava i suoi occhi lo trascinavano dentro di lei, in mondi sconosciuti dove lui la seguiva come in sogno, come drogato; la sua carne era accesa, bruciava, e ogni movimento scatenava una fiamma.
Ann sorrise a quella strana domanda e si chinò verso di lui.
Poi scosse la testa, ormai vicinissima.
In silenzio, lentamente, fece scivolare le dita lungo il suo braccio fino a sfiorargli la mano.
“So che il tuo popolo ha sofferto terribilmente” rispose, la voce attraversata da un tremito che lui non poteva comprendere “e che adesso siete dispersi nella Galassia, senza una patria, guardati con ostilità e sospetto”.
Gli si avvicinò ancora un po’.
Socchiuse gli occhi, piegando le labbra in un sorrisetto ironico.
“Quindi non direi patetici…” proseguì, mentre avvicinava tra loro pollice e indice “direi un tantino repressi”.
Con un gesto repentino il cacciatore di taglie la rovesciò sull’erba, bloccandole le mani lungo i fianchi.
“Ah, è così?”.
“Assolutamente” ridacchiò lei “ad esempio non so se in questo momento desideri baciarmi o strangolarmi. O entrambe le cose”.
In quell’istante un suono alto e stridente, simile a un lamento acuto, li fece sobbalzare entrambi.
 
 
 
Cari lettori, stavolta nessuna nota in particolare, solo un grazie a chi continua a seguire questo racconto.
Ah, già, dimenticavo: la questione della termoregolazione dell’armatura l’ho letta in una fic scritta da una ragazza espertissima in cultura e civiltà mandaloriana, quindi ho pensato fosse un dettaglio vero o comunque verosimile. Senza dubbio comodo. 😉
Alla prossima!

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Capitolo 7
*** Una ferita segreta ***




 CAPITOLO SETTIMO


Una ferita segreta
 

In quell’istante un suono alto e stridente, simile a un lamento acuto, li fece sobbalzare entrambi.
Il cacciatore di taglie, che aveva capito fin troppo bene, si alzò di scatto e si mosse nella direzione da cui proveniva il grido.
Ann invece si sollevò più lentamente, ancora sbalordita, ma le bastarono pochi istanti per comprendere. Balzò all’interno della nave, diede un’occhiata veloce e poi uscì.
Scosse la testa.
“Qui dentro non c’è” disse.
Il Mandaloriano imprecò di nuovo nella sua lingua e iniziò a correre, col cuore in gola.
Mentre lo seguiva, cercando di non incespicare nelle rocce affioranti, Ann si sorprese a pensare che forse…sì…probabilmente era stato lui, il padrone silenzioso e nascosto di quel pianeta spopolato.
D’improvviso sentì come una specie di lunga spada fredda che le si conficcava dalla gola fino al fondo dello stomaco e rabbrividì.
Quando raggiunse il suo compagno di viaggio, lui aveva sollevato il blaster e stava sparando all’impazzata contro un nugolo di droidi-uccello dalle piume nere e blu che avevano afferrato il piccolo alieno e lo stavano portando via, in volo. 
“No!” gridò il cacciatore di taglie “Maledetti droidi, maledetti!”.
Ann gli fu accanto in un balzo e abbassò il suo braccio.
“Fermati!” disse “Sono troppo lontani, non vedi? Così rischi di colpire il bambino”.
Sollevò di nuovo gli occhi su di lui.
Non poteva vedere la sua espressione, ma la disperazione che le trasmetteva ogni suo movimento fece sussultare sensibilmente la lama gelata che l’attraversava tutta, causandole una fitta di dolore.
“Dannazione, no!” ripetè lui scuotendo la testa “Ma chi può essere stato? Chi?”.
Poi d’un tratto si voltò verso la ragazza.
“E’ colpa tua? C’entri tu?” le domandò, fremente di rabbia.
Ann lo fissò sbalordita.
“Stai scherzando?” rispose “E come potrei avere a che fare con…” si guardò intorno “…questo? Ti ricordo che non ho certo deciso io di finire su questo pianeta. E nemmeno sulla tua nave per la verità”.
Din tacque un istante e parve fissare il suolo, indeciso sul da farsi.
L’agente imperiale non poteva certo aspettarsi delle scuse da lui e lo sapeva.
Ma soprattutto non doveva perdere di vista la sua priorità che, del resto, coincideva con quella del Mandaloriano: recuperare la risorsa sana e salva e subito dopo andarsene da quel pianeta tanto bello quanto pericoloso.
“Ascoltami” disse allora, avvicinandoglisi “Credo di sapere chi può essere stato a prendere il piccolo”.
L’altro le rivolse uno sguardo che - Ann lo sapeva pur senza poterlo vedere - era di sorpresa e curiosità.
“Quando siamo atterrati qui mi sono tornate in mente delle…storie che ho sentito, riguardo a creature che catturano le loro prede servendosi di una specie di raggio traente”.
“Prede?” la interruppe lui “Quindi noi, il piccolo, saremmo le prede di qualcuno?”
“E perché non lo hai detto subito?” aggiunse, rabbioso.
Ann sbuffò: in certi momenti era insopportabilmente ostile. Ma lei doveva mantenere la calma e non perdere di vista l’obiettivo.
“Perché francamente pensavo fossero solo leggende…si tratta di esseri misteriosi, che nessuno sembra avere visto davvero. Creature antiche e potenti che ingannano la noia della loro lunghissima vita collezionando tesori rubati da ogni parte della Galassia”.
“E il bambino come c’entra con tutto questo?” domandò lui, appena più calmo.
Ann si morse le labbra.
“I loro tesori non sono solo oggetti, ma anche e soprattutto creature. Creature viventi che catturano e uccidono”.
 “Quindi questo…collezionista” riflettè lui, avviandosi verso la Razor Crest “avrebbe rapito il piccolo per farne una specie di strano trofeo”.
“Immagino che abbia percepito i suoi poteri e ne sia rimasto incuriosito” chiosò Ann.
“Dobbiamo trovarlo, prima che gli faccia del male. Ma come e dove?”.
“Questo non sarà un grosso problema” fece lui “ho conservato il localizzatore che mi diedero su Nevarro quando accettai la taglia su di lui. È programmato per seguire il suo codice a catena e ci porterà nel luogo dove si trova. Il problema è il tempo…”
La ragazza annuì.
“Credo che questo essere che chiamano il Collezionista abbia preso possesso di quella strana piramide di pietra grigia che ho visto mentre precipitavamo: è l’unico edificio qui intorno e mi pare adatto alle sue manie di grandezza”.
"La nave è malconcia e poi, anche se riuscissimo a farla volare, non potrebbe atterrare lì: la foresta è troppo fitta" disse il Mandaloriano.
La ragazza si guardò intorno, pensierosa.
“Dovremo andare a piedi” esclamò poi “non sarà un percorso facile né breve, ma sono sicura che riusciremo a trovarlo in tempo”.
“Se qualcuno non avesse reso inservibile il mio jetpack” replicò lui, le mani sui fianchi “ci avrei messo pochi minuti”.
Ann fece una smorfia.
“Mi pare chiaro che in quel momento non potevo immaginare che mi sarei trovata in una situazione del genere insieme a te”.
Din Djarin scosse la testa e poi spostò lo sguardo verso il cielo.
“Muoviamoci” disse poi “abbiamo molta strada da fare”
ooOoo
 
Ann Leary e il Mandaloriano camminarono per circa tre ore inoltrandosi in mezzo a una foresta densa e umida, ma con una specie di sentiero visibile tra i cespugli; a volte avevano dovuto attraversare, tenendosi per mano quando il percorso si faceva troppo accidentato, dei piccoli ruscelli con il fondo insidioso e l’acqua alle ginocchia.
Erano giunti poi, costeggiando un piccolo corso d’acqua, nei pressi di quello che credettero di riconoscere nel largo fiume che avevano visto dall’alto e che si avvicinava alla piramide misteriosa; del resto, il segnale del localizzatore guidava i loro passi. 
Lo guadarono, con l’acqua alla vita, sostenendosi a vicenda per non cedere alla forza della corrente o scivolare sul greto limaccioso; poi iniziarono a risalire il fiume camminando presso le sue sponde.
Di tanto in tanto si guardavano intorno e indietro, temendo di veder spuntare dal folto degli alberi qualche presenza minacciosa.
A un tratto furono costretti, a causa del fondo sabbioso e fangoso, ad attraversare il fiume per cercare di avanzare su parti più consistenti, in modo da fare meno fatica.
“Guarda il lato positivo” ansimò la ragazza, afferrandosi a una roccia per mantenere l’equilibrio “almeno nessuno ci sta seguendo…”.
“Dovrebbero essere dei pazzi” replicò il cacciatore di taglie, acido “per venirci dietro in questo posto di merda”.
“E comunque il tuo ottimismo comincia a darmi sui nervi” aggiunse, passandosi una mano sulla parte frontale dell’elmo, schizzata di fango e acqua sporca.
“Ok. Allora molto probabilmente moriremo sfracellati sulle rocce o annegati o divorati da un animale feroce, oppure fatti a pezzi dai droidi del Collezionista, o ancora…” replicò lei, senza smettere di avanzare.
“Se non fossi così stanco ti avrei già strangolato” la interruppe lui, con un mezzo sorriso.
 
ooOoo
 
Il sole era quasi scomparso sull’orizzonte quando, dopo aver camminato a lungo, decisero di fermarsi per dormire su una grande spiaggia circondata da alberi alti almeno una trentina di metri.
“Mi sorprendi, sai?” esclamò a un tratto il cacciatore di taglie, guardandosi intorno e poi spostando lo sguardo sulla ragazza accanto a lui.
Lei gli lanciò un’occhiata interrogativa.
“Non hai ancora detto: potrebbe andare peggio, potrebbe piovere!”.
In quell’istante si udì un tuono fragoroso e dopo qualche istante cominciò davvero a cadere una pioggerellina fitta e insistente.
“Fammi un piacere” replicò lei, guardando il cielo con aria afflitta “Lascia l’ottimismo a me”.

 
ooOoo

La giornata era stata soffocante e Ann Leary si era sorpresa a considerare che persino gli strani uccelli del posto parevano far fatica a volare e sembravano trascinarsi stancamente, muovendo piano le piume appesantite e umide.
Anche la pioggia che li aveva sorpresi non molto tempo prima era stata brevissima e non aveva migliorato la situazione, rendendo solo ancora più difficile proseguire sul suolo viscido e scivoloso.
La notte appena calata, al contrario, appariva stupenda e straordinariamente silenziosa: nessun suono s’udiva tra le fronde, quasi che la natura stessa cercasse riposo dopo quelle ore torride. 
Sembrava di muoversi in un sogno - pensò - attraversando un silenzio denso come acqua tiepida, un silenzio irreale nella giungla mormorante, piena di insidie sconosciute.
Si guardò intorno e nonostante tutto rabbrividì: ogni ombra, ogni macchia scura che il fuoco che avevano acceso per la notte appena rivelava, ogni profilo indistinto sembravano significare qualcosa di misterioso che, allo stesso tempo, tacevano.
L’aria ancora tiepida si riempiva delle strida di animali sconosciuti, mentre gli uccelli si erano già ritirati nei loro nidi e soli svolazzavano intorno, con bruschi zig zag, una specie di grossi pipistrelli dal corpo peloso striato di un vivido color porpora.
Dalle acque della laguna poco distante, divenute ora come d’inchiostro, si levava una nebbiolina leggera, odorosa di muschio e di foglie marcite.
La ragazza, esausta per le lunghe ore di cammino, si sollevò faticosamente dal giaciglio d’erba che aveva preparato quando c’era ancora luce a sufficienza; massaggiandosi le schiena indolenzita, s’allungò verso il fuoco che avevano acceso e vi gettò sopra un po’ di arbusti per ravvivarlo.
Aprì e sfilò la parte superiore della tuta liberando le braccia con evidente soddisfazione - la semplice canotta nera aderiva alla sua pelle lucida di sudore - e slacciò le diverse cinghie che la adornavano.
Poi, con un sospiro si lasciò di nuovo cadere pesantemente accanto all’uomo, che nel frattempo aveva seguito i suoi movimenti con lo sguardo.
Fugacemente spostò gli occhi su di lui, seduto di fronte al fuoco con la schiena appoggiata a un albero e le mani sulle ginocchia.
Erano due estranei: anzi, peggio, si erano combattuti all’ultimo sangue e con ogni probabilità sarebbero tornati a farlo non appena quella strana situazione si fosse risolta.
E poi… si erano ritrovati l’uno di fronte all’altra inaspettatamente, senza difese, senza avere avuto il tempo di elaborare nessuna strategia.
Un osservatore esterno non avrebbe notato nulla di strano nel loro comportamento, nella loro espressione; dai loro gesti - i gesti di chi, per lavoro e per carattere, è abituato a dissimulare e a celare le proprie emozioni - quasi nulla trapelava di ciò che entrambi stavano vivendo in quel momento.
“Posso chiederti una cosa o sei ancora troppo arrabbiato con me per ragioni che non conosco?” chiese Ann a un tratto.
“Sì” rispose lui “E no”.
La ragazza lo guardò senza capire.
“Sì, puoi farmi una domanda” disse il Mandaloriano con un sospiro “E no, non sono arrabbiato con te, anche se ne avrei ogni ragione”.
Ann sorrise: stranamente, stava cominciando a trovare gradevole il suo contorto senso dell’umorismo.
“Perché odi così tanto i droidi? Voglio dire: prima mi è sembrato che avessi qualcosa di…personale contro di loro”.
“Non li odio” replicò lui “Almeno, li odio molto di meno di quanto li odiassi in passato…”
Si alzò e andò a sedersi più vicino al fuoco e alla ragazza.
“E’ una vecchia storia” proseguì “vecchia e triste”.
Iniziò a parlare lentamente, mentre le fiamme guizzando disegnavano strani riflessi luminosi sull’elmo e sull’armatura.
In realtà non sapeva nemmeno davvero perché lo stava facendo: raccontare qualcosa di così personale a una perfetta sconosciuta, peggio, a una nemica. Sentiva solo che desiderava farlo, per qualche ragione che non riusciva bene a comprendere.
E poi lei lo ascoltava con un’aria così attenta!
A un tratto gli parve persino che i suoi begli occhi si velassero di lacrime mentre raccontava di come la sua gente - i suoi genitori, i suoi amici, chiunque avesse caro - fosse stata brutalmente sterminata, un assolato mattino di tanti anni prima.
Ann si portò fugacemente una mano agli occhi e poi tacque, la testa china sul petto, respirando piano.
Naturalmente sapeva già tutto - almeno in quello le informazioni di Gideon si erano rivelate corrette - ma sentirlo raccontare così, in quel modo, e avvertire la tristezza che la sua voce tradiva nonostante fosse passato tanto tempo…beh, quello era davvero diverso.
Anche per lei era così: non avrebbe mai dimenticato quel che era successo al suo pianeta. Ci pensava ogni giorno e avrebbe continuato a farlo per il resto della sua vita.
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
L’uomo la fissò per una frazione di secondo e poi distolse lo sguardo.
Quella ragazza lo sconcertava: era diversa da ogni altra donna che avesse mai incrociato il suo cammino, un concentrato assolutamente incomprensibile di contraddizioni.
Ann Leary si gli avvicinò, alla tenue luce del fuoco.
Da principio momento aveva visto il Mandaloriano solo come un avversario temibile o come un ostacolo da rimuovere per portare a compimento la sua missione, negli ultimi giorni aveva imparato ad apprezzarne il coraggio e la compassione, eppure quella sera accanto a lui, nella tiepida oscurità odorosa di foglie, non sentì la sua forza, ma la sua ferita segreta.
Azzardò un gesto di tenerezza, gli prese la mano e la tenne nella propria.
 
Cari amici lettori, vi ringrazio di essere arrivati fin qui e vi auguro un ottimo week-end insieme ai nostri eroi. Alla prossima!

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Capitolo 8
*** La pietra della morte ***


CAPITOLO OTTAVO

La pietra della morte



“Ann!”
Il Mandaloriano la chiamò piano e, non ottenendo risposta, le si accostò strisciando sul tappeto di foglie secche che copriva il terreno.
Si era addormentata.
Giaceva su un fianco, con un braccio ripiegato sotto la testa in una posa graziosa e la pesante massa di capelli sparsa disordinatamente sulle spalle e la schiena.
Alla tremula luce del fuoco che tingeva di bagliori rossastri la chioma della ragazza, indugiò sulla curva sinuosa dei fianchi, che l’aderente tuta nera di solito più che nascondere rivelava, la bocca piena dalle labbra appena dischiuse, le lunghe gambe agili.
Scosse la testa, questa volta con un mezzo sorriso, e mormorò qualcosa nella sua lingua.
Aveva capelli meravigliosamente belli - si sorprese a pensare - splendevano perfino nell’oscurità, come a volte splende l’acqua poco prima che sia giorno.
La guardava e faticava a capire quello che gli stava accadendo, a dargli un nome che fosse per lui accettabile o anche solo riconoscibile.
Eppure, ripensava ai momenti trascorsi insieme a lei e gli sembrava che da essi si sprigionasse il profumo di una qualche sconosciuta felicità.
Quando prima aveva sentito la mano di lei sulla propria era stato un contatto…intimo, nonostante il guanto.
E lui non era abituato a essere toccato, non in quel modo almeno.
Fino ad allora tutto - nella sua vita - era stato piuttosto chiaro, facile da capire: bianco o nero, amico o nemico, con me o contro di me.
Si era aggrappato alla vita semplice che aveva costruito e adesso, guardandosi indietro, non riusciva a trovare niente che l’aiutasse a capire ciò che gli stava accadendo.
Ciò che - lo sentì, ancora prima di averlo chiaramente compreso - gli era già accaduto.
Sorrise di nuovo nell’oscurità e, ascoltando il suo respiro regolare, si dispose ad attendere l’alba. 


ooOoo
 
Aveva appena ravvivato il fuoco gettandovi sopra un paio di rami resinosi, che a un tratto udì un sibilo profondo proveniente da una folta macchia di arbusti alla loro sinistra, che terminò in una specie di sordo schiocco.
Istintivamente scattò in piedi, la mano sul calcio della sua arma, e si guardò intorno, ma l’oscurità – oltre il piccolo cerchio di luce che si riverberava dalle fiamme – era assoluta.
Una volta di più dovette ringraziare la visione termica del suo elmo, che gli permise di distinguere nel folto della vegetazione una grossa sagoma simile a una lucertola, acquattata dietro un cespuglio.
La vide muoversi senza rumore e poi fermarsi, un po’ più vicina.
Poi, a un tratto, dalla tenebrosa foresta si levò un altro basso sibilo, più prolungato del primo.
Il Mandaloriano si accoccolò accanto al fuoco, che mandava bagliori sinistri sulle piante vicine; teneva la mano sul calcio del blaster e spiava ansiosamente il margine della foresta donde proveniva, di quando in quando, il lugubre verso della creatura.
L’alba per fortuna intanto si avvicinava, il cielo cominciava appena a tingersi di un tenero celeste, venato di nubi scure.
Mille rumori cominciavano a diffondersi, sia dagli isolotti e dai banchi della laguna ingombri di alberi sconosciuti, sia fra le folte macchie che proiettavano le loro cupe ombre sulla riva; versi simili a gracidii e stridii che non riusciva a identificare riecheggiavano, amplificati sotto la cupola vegetale che nascondeva in buona parte il cielo. 
Il guerriero, a ogni sibilo del lucertolone, si avvicinava un po’ di più alla ragazza, trattenendo il respiro.
Intanto, quel verso inquietante si faceva udire sempre più vicino.
Afferrò la pistola e tornò a fissare con ansietà il margine della foresta: l'urlo dell’animale risuonò allora così vicino da far credere che si trovasse solo a pochi passi da loro.
E infatti, in mezzo a un folto cespo di arbusti, vide d’improvviso brillare fra le tenebre due punti verdastri, simili a scintille.
“È là che ci spia” mormorò, mentre si sentiva bagnare la fronte di sudore freddo.
Gettò uno sguardo alla ragazza, che non sembrava essersi accorta di nulla, e scattò in piedi.
Con la punta di un bastoncino riattizzò il fuoco più vicino, poi vi gettò sopra un fastello di legna resinosa: la fiamma s'alzò altissima, illuminando tutto il declivio della costa e gettando in aria numerose faville ardenti.
Il lucertolone, senza dubbio spaventato o irritato da quell'improvvisa fiammata, si era slanciato fuori senza emettere alcun suono: era una bestia grande e possente, lunga almeno quattro metri, con la testa triangolare e sei zampe corte e tozze, che terminavano con artigli ricurvi.
La luce proiettata dalle fiamme la illuminava adesso pienamente: la sua pelle squamosa luccicava di bagliori azzurrasti, screziati di nero, e i suoi occhi sottili, dalla pupilla verticale, lo fissavano come se volessero ipnotizzarlo.
Vedendo l’uomo in piedi dinanzi ai due fuochi, in un atteggiamento risoluto, con il blaster in pugno che mandava bagliori metallici alla luce del falò, la creatura si era fermata, corrugando il muso e mostrando così fitte fila di denti appuntiti.
La sua coda affusolata spazzava dolcemente l’erba, sollevando le foglie secche con uno scrosciare ruvido.
Stette un momento immobile, poi fece alcuni passi ancora, sempre fissando il guerriero e accostandosi al fuoco; si muoveva lentamente, con passo elastico, quasi senza rumore e seguitava a fissarlo, come se con i suoi occhi ipnotici fosse certo di riuscire a intrappolarlo.
Lui, sempre immobile accanto al fuoco, con la pistola in pugno, teneva gli occhi fissi sull’animale cercando di mantenere il più possibile la calma, i muscoli irrigiditi nell’attesa dello scontro.
La belva esitò un attimo, poi cercò di girare attorno al fuoco per sorprenderlo alle spalle; Din, comprendendo il pericolo che avrebbe corso se l'animale fosse riuscito a compiere quella manovra, s'abbassò rapidamente deponendo per un momento la pistola, raccolse dal falò un grosso ramo resinoso e glielo gettò contro colpendolo sul muso.
L'animale, sentendosi bruciare la pelle, mandò un basso sibilo stridente e si dileguò a lunghi balzi sul margine della foresta, dove si fermò guardando con i suoi occhi fosforescenti e minacciosi i due esseri umani.
Il cacciatore di taglie tirò un profondo respiro di sollievo, ma quando alzò gli occhi verso il margine della foresta vide ancora il maledetto animale, ritto fra due cespugli, che lo osservava seguendo attentamente tutti i suoi movimenti.
Quel posto non era più sicuro. Dovevano andarsene al più presto.
 
ooOoo
 
“Complimenti, bel modo di montare la guardia!” la voce del Mandaloriano fu per Ann  Leary una sveglia decisamente fastidiosa.
La ragazza grugnì e si tirò su a metà, strofinandosi gli occhi ancora gonfi di sonno; sbuffò e si stirò lentamente.
Poi, con aria disgustata, afferrò con due dita una specie di grossa larva di coleottero che durante la notte le era salita sul braccio e la gettò nell’erba.
“Uff” esalò, la voce un po’ impastata “comincio ad averne abbastanza di questo campeggio fuori programma…”.
Si raddrizzò e si guardò intorno, passandosi una mano tra i capelli per ravviarli un po’.
“Il mio regno per un bagno caldo e una tazza di caf!” aggiunse in un sospiro.
Scosse la chioma come una criniera per liberarla dalle foglie che vi si erano impigliate mentre era sdraiata e iniziò a infilare nuovamente la tuta che le stava addosso come una seconda pelle, celando e lasciando però intuire i contorni morbidi del suo corpo.
Lui notò che aveva un modo tutto suo di stirarsi, come se sciogliesse i muscoli, come un felino prima di spiccare un salto.
A un tratto l’agente imperiale gemette di frustrazione quando una ciocca si impigliò nella lampo: ora il suo corpo teso, mentre se ne stava semivestita a gambe divaricate per mantenere l’equilibrio, lasciava senza fiato con la sensualità di ogni sua curva, con la sua femminilità piena.
Alla fine, non prima di aver lottato qualche secondo ancora, riuscì a liberare i capelli e a chiudere la dannata tuta.
“Ecco, questo non è di certo cavalleresco” sibilò in direzione del cacciatore di taglie, con un sorrisetto ironico stampato sulle labbra “da dietro quell’affare puoi guardare quel che ti pare senza che nessuno se ne accorga…o quasi”.
L’uomo ridacchiò per dissimulare l’imbarazzo di essere stato colto in fallo.
“Beh, se l’alternativa sono enormi lucertole assassine e insetti mollicci...” ribatté prontamente, senza abbassare lo sguardo.
“L-lucertole assassine?” fece lei, sistemando le due pistole che portava alla cintura.
Quelle parole ebbero l’effetto di farle passare all’istante ogni residua sonnolenza.
Si avvicinò al Mandaloriano e gli rivolse uno sguardo interrogativo.
“Ascolta” disse lui “poco fa ho affrontato una grossa bestia con intenzioni molto poco amichevoli, sono riuscito a metterla in fuga accarezzandole il muso con un tizzone, ma potrebbe tornare. E magari non essere da sola”.
La ragazza annuì e si passò una mano sul viso, pensierosa.
“Ok” disse poi “Andiamo!”
ooOoo

Appena dopo l’alba aveva ricominciato a piovere e il fiume era aumentato rapidamente di livello; come se non bastasse, la temperatura era scesa e c’era un vento fastidioso, tanto che ai due non sembrava nemmeno di trovarsi ancora nell’umida giungla soffocante in cui si erano inoltrati il pomeriggio precedente, ma a tutt’altra latitudine.
Ann e il Mandaloriano avevano ripreso il cammino e adesso avanzavano con difficoltà sotto la pioggia, affondando nel fango a volte fino alle ginocchia e stando attenti a non calpestare qualche animale sconosciuto, acquattato sul fondo del fiume o nel terreno limaccioso. 
Nel giro di un paio d’ore per fortuna la pioggia cessò, ma il cielo era ancora coperto da nubi minacciose e in lontananza si scorgeva la piramide di pietra scura sommersa da una sottile nebbiolina verdastra.
Se non avessero avuto il localizzatore, considerò il cacciatore di taglie, per loro sarebbe stato quasi impossibile, in quelle condizioni, orientarsi e capire se stavano seguendo la direzione giusta.
A un tratto Ann gli fece un cenno ed entrambi si avvicinarono a una roccia di forma tondeggiante che si ergeva sulla sponda del fiume; era scura, sembrava di origine vulcanica e comunque molto differente da tutte quelle che la circondavano.
 “Guarda!” gli disse, indicando una serie di figure incise sulla superficie scabra della pietra: c’erano cerchi concentrici e spirali accanto a simboli astronomici, come una specie di sole con raggi triangolari o rettilinei.
E ancora insiemi di punti che ricordavano l’orma di un felino e segni tridigiti, come impronte di uccelli.
“Accidenti” mormorò il cacciatore di taglie “sembra antico: deve appartenere al popolo Hoka”.
Al centro della roccia si stagliavano, rozzamente incisi, alcuni glifi diversi dagli altri: strani disegni cefaliformi che parevano elmi o maschere deformate e in mezzo un segno più grande di tutti, raffigurante una sorta di mostruoso essere dall’enorme testa rotonda e con almeno sei lunghi tentacoli
“Dando per scontato che né tu né i tuoi amici mascherati siate mai passati da queste parti prima” chiese Ann “chissà cosa diavolo rappresentano queste incisioni?”.
L’uomo scosse il capo.
“Non ne ho idea” ribatté, spostando lo sguardo prima sulla pietra e poi sugli alberi circostanti “ma non mi piace affatto”.
ooOoo  
Malgrado il cielo fosse ancora nuvoloso, il caldo umido non aveva tardato a farsi sentire di nuovo rendendo la vita difficile soprattutto all’agente imperiale, che arrancava con fatica stando attenta a non scivolare tra le pietre sdrucciolevoli e aguzze.
Spesso erano costretti a lasciare il corso del fiume perché era troppo profondo e le sue rive nascondevano pantani insidiosi dove sarebbe stato impossibile non affondare; s’inoltrarono così nella selva intricata, faticando per aprirsi la strada lungo il cammino e cercando di non perdere di vista il corso d’acqua.
Nel frattempo la nebbiolina fosforescente aveva iniziato a dissolversi e il Mandaloriano, sperando di trovare un punto un po’ più elevato per riuscire a distinguere meglio la cima della piramide, decise di entrare nella foresta, risalendo una ripida scarpata fangosa; una volta in cima i due avanzarono per un poco nella fitta giungla fino a che, a un certo punto, l’inclinazione del suolo cambiò tramutandosi in una parete piuttosto ripida che li obbligò ad aiutarsi con le mani per andare avanti.
Il suolo era ricoperto da bassi arbusti spinosi e Ann, saggiando col suo coltello il terreno, si accorse che lo strato non era profondo e che la lama toccava quasi subito uno strato roccioso compatto, ma friabile, dello stesso colore scuro della pietra che avevano visto sulla riva del fiume.
“Credi che siamo su un’altra piramide?” domandò allora, dando voce al sospetto che aveva attraversato anche l’uomo.
Lui annuì, guardandosi intorno con un’incomprensibile e improvvisa apprensione.
Continuarono a salire lentamente, ma la visuale era ancora impedita dagli alti alberi che affondavano le radici nella terra più profonda, che avevano da poco lasciato; il percorso era difficile perché gli arbusti erano coperti da spine aguzze e i loro stivali affondavano nell’intricata massa vegetale, insinuandosi pericolosamente in anfratti bui che avrebbero potuto essere covo di animali velenosi.
Dopo circa mezz’ora, raggiunsero quella che sembrava la cima.
Guardandosi intorno, si resero conto che altre tre piramidi si ergevano davanti a loro, mentre sulla destra si stendeva a perdita d’occhio l’incontaminata foresta. 
Anch’esse sembravano ricoperte da bassi arbusti e i loro margini apparivano regolari, come tagliati artificialmente.
A un tratto un enorme uccello dalle piume color ardesia, screziate di blu scuro, si avvicinò planando, come per salutare i due uomini, tanto che quasi riuscirono a distinguerne i contorni del becco di un bianco abbagliante e del collo.
Il cacciatore di taglie seguitò a fissarlo mentre si allontanava, attraversato dalla sensazione che si trattasse dell’anima di una qualche oscura e dimenticata divinità che li stava controllando dall’alto.
In quel momento Ann Leary lanciò un grido e si avviò verso una specie di radura al centro della quale si ergeva una pietra piatta, alta circa un metro e mezzo a larga due.
La ragazza si avvicinò di più e, chinandosi, scorse un foro sul margine della roccia, circondato da incrostazioni nerastre.
Fu scossa da un brivido.
Cos’era quel posto? La sua mente vacillava, travolta da sensazioni sconosciute e violente.
Scosse la testa, ma il silenzio rimbombava nelle sue orecchie come sangue e riempiva tutto lo spazio fuori e dentro di lei.
Sentiva un’insopportabile oppressione al petto, la testa pesante.
L’aria era densa, come liquida.
Provò a respirare profondamente, ma la sensazione non se ne andò.
Sbatté le palpebre, mentre i contorni delle cose si facevano sfocati.
D’un tratto, ebbe la sensazione che centinaia, migliaia di fantasmi si agitassero intorno a lei, contorcendosi in spirali sempre più vicine.
Sacrifici umani: allora era quello che facevano lì gli Hoka, secoli prima.
Pensò che era vero quello che si dice di posti, come quello, in cui centinaia di persone sono morte: non è come un cimitero, dove riposano persone passate a miglior vita in tempi e in luoghi diversi… no, qui tanti innocenti hanno cessato di vivere nella stessa maniera atroce e, più o meno, nello stesso momento.
Perciò – sentì - lo spazio era pieno dei loro spiriti inquieti.
La vibrazione si fece più intensa e la ragazza avvertì una specie di densa corrente d’aria, come di vapore, proveniente dalla roccia di fronte a lei, che l’assaliva. 
In un istante quell’atmosfera tangibile aveva invaso lo spazio intorno a lei, formando una membrana sottile ma visibile. 
Indietreggiò di un passo, si voltò e disperatamente cercò con lo sguardo l’uomo che era a pochi metri di distanza. Lo fissò e le apparve come attraverso il velo d’acqua d’una fontana, attraverso l’aria viva, vibrante e inquieta.
Gemette e barcollò, tanto che il Mandaloriano si slanciò verso di lei temendo che crollasse a terra; la sostenne per un attimo, circondandola con le braccia.
“Andiamocene da qui” esclamò, con un tremito nella voce, come se le avesse letto nel pensiero “questo posto puzza ancora di morte”
 

Cari lettori, solo un paio di battute: la nostra Ann cita inconsapevolmente (?) il Riccardo III di Shakespeare (“Un cavallo! Un cavallo! Il mio regno per un cavallo!”); il caf, leggo su wookiepedia, è l’equivalente del caffè nell’universo di Star Wars…poteva mai mancare?
Vi auguro un ottimo weekend di semi-libertà! Alla prossima
 

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Capitolo 9
*** Nel palazzo delle meraviglie ***


CAPITOLO NONO


Nel palazzo delle meraviglie
 
 
Din Djarin e la ragazza si erano inoltrati nella selva intricata, aprendosi il passo in mezzo alla vegetazione e cercando di non perdere di vista il corso d’acqua che rappresentava il loro principale punto di riferimento.  
Come se non bastasse, fragorosi tuoni rimbombavano da lontano e lampi molto luminosi sembrava stessero accerchiando i due; a ogni bagliore, riuscivano a distinguere i minimi dettagli degli alti alberi e dei rami degli arbusti, le cui radici si avviluppavano al suolo tra pietre e sterpi spinosi.
Non avevano mai visto niente di simile.
La volta celeste, percorsa da uno strano fragore e luccicanti balenii, aveva adesso assunto un colore tetro, quasi violaceo.  
Il cacciatore di taglie si appoggiò a un tronco e respirò profondamente il lievissimo sentore sulfureo che il vento portava fin lì.
Guardò in alto, verso mezzogiorno: dopo una mattinata soffocante, un’enorme tempesta color ardesia stava oscurando il cielo, incitata dal vento del sud.
L’aria era elettrica, nel folto della foresta gli alberi già impazzivano e pareva che l’energia trattenuta per lunghe ore finalmente volesse rompere gli argini e scatenarsi.
Gli giunse, da lontano, il grido malinconico di un uccello.
L’unica cosa positiva era che finalmente erano arrivati nei pressi dell’alta piramide di pietra grigia dove il localizzatore indicava la presenza del piccolo: a un tratto infatti, dopo una svolta, si trovarono davanti ad un’ampia radura erbosa in mezzo alla quale si levava il vasto edificio, incrostato di muschio. 
Nascosto in mezzo alla vegetazione, tirò fuori dalla sacca che aveva con sé una specie di sottile cannocchiale e lo puntò verso la piramide, studiandone la forma e tentando di capire da dove sarebbero potuti entrare e quali difese avrebbero dovuto affrontare.
“Dannazione!” imprecò dopo qualche istante, indicando le macchie scure che si muovevano avanti e indietro nei pressi di un’apertura in ombra che sembrava l’ingresso “il perimetro è completamente circondato da droidi di sorveglianza. Probabilmente dovremo aspettare la notte per avere più chances di sorprenderli”.
“Non ci voleva” proseguì “abbiamo già perso fin troppo tempo…”.
Entrambi condividevano lo stesso pensiero: chissà se il Bambino era ancora vivo? Avrebbero fatto in tempo ad aiutarlo o forse era già troppo tardi?
A un tratto Ann, che si era nascosta in mezzo all’erba, si alzò in piedi e sciolse i capelli che aveva legato in una treccia voluminosa, scuotendoli.
“Ho un’idea” disse, avvicinandosi al margine della radura.
“Fermati! I droidi ti individueranno” esclamò il cacciatore di taglie, stupefatto.
“Ascoltami: tenterò di entrare, voglio cercare il Bambino e trattenere il collezionista dal fargli del male, se mi riesce”.
Mando si sollevò a sua volta e la fissò, senza sapere esattamente cosa dire.
Era un’idea rischiosa, anzi quasi folle, perché i droidi si sorveglianza avrebbero potuto ucciderla lì su due piedi, se il loro padrone non avesse mostrato curiosità o gradimento per lei, e lui con ogni probabilità non sarebbe riuscito a intervenire in tempo per aiutarla.  
Però, si rendeva conto che in quel modo avrebbero avuto maggiori possibilità di controllare le azioni di quella creatura misteriosa che chiamavano il Collezionista, magari di trattenerlo e guadagnare tempo.
“Spero solo che quel tipo non abbia già, nella sua collezione, una ragazza con i capelli viola” disse Ann Leary, sorridendo.  
Confusamente, il guerriero pensò che forse era l’ultima volta che la vedeva.
A un tratto lei tese tutte e due le mani e lui, per un istante, le fissò senza sapere cosa significasse quel gesto, cosa significasse davvero.
Poi d’improvviso tutto fu chiaro.
E prese le sue mani.
Ann non disse nulla, lo guardò solo con gli occhi appena lucidi.
Occhi che sembravano dire tante cose, il Mandaloriano ne fu sicuro.
Tante cose più profonde di lei, più ardenti di lui, più grandi di tutti e due insieme.
Poi le si avvicinò, le dita ancora allacciate alle sue.
“Sta’ attenta” sussurrò al suo orecchio.
La ragazza annuì e, lentamente e con le mani alzate, si avvicinò alla porta della piramide.
 
ooOoo
 
Il bagliore dorato di un lampo guizzò nel vuoto per richiamare la sua attenzione; con indifferenza, il collezionista si voltò verso lo schermo e attese che le ombre si diradassero per mostrare un’immagine più nitida.
Quando apparve, il suo respiro si fece d’improvviso più veloce, l’enorme occhio brillò d’entusiasmo mentre la pelle traslucida si tingeva di un intenso rosso scarlatto: quella visione aveva improvvisamente attirato la sua attenzione.
Si fermò a guardare, immobile.
La figura in piedi davanti alla porta del suo palazzo, circondata dai droidi di sorveglianza che la tenevano sotto tiro, aveva un aspetto che non aveva mai visto prima di allora; gli assomigliava vagamente, ma era molto più esile, di proporzioni assai diverse dalle sue.
E tuttavia, nonostante le differenze, era…la fissò con attenzione.
Certo, era bella.
Un’eccitazione sempre più intensa si fece strada dentro di lui.
Quanto più la guardava, tanto più gli appariva evidente la delicata bellezza di quella creatura: niente di troppo vistoso o appariscente come altri oggetti che aveva accumulato durante i millenni, solo la squisita eleganza di curve morbide e un delizioso degradare di colori dal rosa tenue al viola al nero profondo.
Evidentemente il tessuto lucido che l’avvolgeva doveva essere una specie di indumento.
Si piegò sullo schermo col fiato che cominciava ad ingrossarsi, l’occhio splendente in mezzo alla fronte per l’eccitazione.
Certo, era una cosa veramente bella.
E, fatto ancora più allettante, percepiva in lei un potere inconsueto, differente dai suoi ma anche da quello della creaturina verde che aveva catturato il giorno prima.
Questa diversità lo incuriosiva: chissà se era un essere abbastanza intelligente da riuscire a difendersi da lui? Chissà di cosa sarebbe stata capace?
La immaginò sistemata in una nicchia decorata con cristalli che ne richiamassero i colori – bianco, rosa, viola, nero - in un affascinante degradare cromatico.
Tra l’altro, considerò con un pizzico di orgoglio, sarebbe stata perfetta – proprio una vista deliziosa! - accanto al piccolo essere verde, per il quale aveva appena terminato di preparare una graziosa cavità incrostata di gemme color della giada, inframmezzate da cristalli neri e grigi dalle mille sfaccettature.
E, accidenti, se non era stato difficile sistemare un allestimento del genere! Ci aveva messo molto più tempo di quanto avrebbe voluto o immaginato, ma sapeva che quanto maggiore era l’attesa, tanto maggiore sarebbe stato il piacere non appena la sua composizione fosse stata completata e lui avesse potuto contemplare le due creature, l’una accanto all’altra, tanto diverse tra loro da creare un contrasto scenografico e incantevole.
 
ooOoo
 
Din Djarin si guardò un’ultima volta le spalle e poi, a passo veloce, s’inoltrò lungo il corridoio che gli si apriva davanti, snodandosi in arcate di pietra grigia e in rientranze più scure che si confondevano nella prospettiva.
Avanzando non poté fare a meno di notare che tra le rocce era visibile un materiale legante di colore scuro, come cemento o qualche tipo di sostanza vetrificata, come se le pietre fossero state sciolte in quei punti perché si incollassero tra loro.
All’inizio si servì del fascio di luce proveniente dal suo elmo per illuminare la strada, ma ben presto si accorse che questo accorgimento non sarebbe stato necessario, perché dalle rocce circostanti - dal soffitto, dal pavimento, dalle pareti coperte di massi disposti solo apparentemente in modo irregolare - sembrava spandersi una strana luminescenza verdastra, di colore del tutto simile all’inquietante nebbia che avevano notato attraversando la foresta.
Turbato, seguì il corridoio che lo conduceva all’interno delle viscere della misteriosa piramide.
Dalle pareti coperte di muschio stillava una disgustosa umidità e tutt’intorno stagnava un ripugnante odore di chiuso e di corruzione; ogni tanto da qualche fessura tra le pietre spuntavano le lunghe zampe sottili di mostruosi ragni biancastri che parevano fissarlo minacciosi con i loro occhietti rossi.
Man mano che il localizzatore gli segnalava che si stava avvicinando al luogo dove si trovava il piccolo, però, l’ambiente pareva cambiare: le volte s’innalzavano in slanciate crociere incorniciate da costoloni istoriati e le pareti apparivano ricoperte di eleganti tessuti viola e porpora.
C’erano diversi oggetti disposti contro i muri oppure inseriti in ampie nicchie scavate, ma per la maggior parte erano talmente singolari, talmente diversi da qualunque cosa il Mandaloriano avesse mai visto o immaginato, che la sua mente non riusciva nemmeno a “coglierli” e gli lasciava solo un’impressione confusa.
Almeno - considerò, muovendosi velocemente - al di là dei droidi che aveva abbattuto per poter entrare nella piramide, per fortuna sembrava non esserci nessuno a guardia dei lunghi corridoi pieni di bizzarre forme che si dissolvevano nella penombra.
Attorno a lui, il silenzio.
Avanzò con cautela, gli occhi ben aperti per cogliere il minimo segno della presenza di qualcuno, passando accanto a una specie di albero dai cui contorti rami nerastri pendevano gocce fiammeggianti di fuoco liquido, che stillavano lentamente – goccia a goccia – sul pavimento di pietra istoriata.
Vicino a una porta distinse due nicchie vuote: una era alta circa una sessantina di centimetri e larga altrettanto, completamente ricoperta di una ricca decorazione luccicante in degradanti spirali concentriche che andavano dal verde acceso al grigio, al nero profondo, mentre l’altra sembrava abbastanza profonda da contenere il corpo di un uomo disteso, era alta un paio di metri e aveva solo il bordo inferiore tempestato di splendenti cristalli colorati bianchi e neri, tra i quali guizzavano qua e là pagliuzze di un viola intenso. 
Neri: la medesima tinta della tuta di Ann.
Viola: lo stesso colore dei suoi capelli scintillanti.
Sembrava una tomba.  
Comprese immediatamente che cosa significavano e fu attraversato da un brivido: sperava solo di fare in tempo!
Scacciò via i pensieri orribili che gli avevano attraversato il cervello e iniziò a correre, seguendo il segnale che pulsava sempre più rapidamente.  
 
ooOoo
 
D’un tratto, a una svolta il cacciatore di taglie si ritrovò all’imbocco di una vasta sala di forma vagamente circolare, con un alto soffitto a volta; senza oltrepassare la soglia, spinse lo sguardo fin dove poteva.
Tutti i suoi sensi erano scossi e non era certo di potersi fidare nemmeno dei propri occhi, perchè nessuna delle forme insensate che si stagliavano nella penombra verdastra di fronte a lui corrispondeva alla figura umana o a un uso concepibile.
Trattenendo il respiro, restò qualche secondo immobile scrutando l’oscurità; non si sentiva alcun rumore, ma la presenza di quelle cose incomprensibili lo angosciava.
Parevano molti oggetti affastellati l’uno sull’altro, o pochi oggetti confusamente intrecciati.
Nella semioscurità gli parve di scorgere una specie di lungo tavolo operatorio, molto alto, a forma di U, con buchi circolari alle estremità.
Si sorprese a pensare che forse poteva essere…un letto o un blasfemo altare, appartenente allo sconosciuto abitante di quel luogo, la cui mostruosa anatomia si rivelava così - obliquamente, indirettamente - come quella di un animale attraverso la sua ombra.
Come poteva essere quella creatura? Da quali segrete regioni dell’astronomia o del tempo, da quale antico e ormai incalcolabile crepuscolo era arrivato in quell’angolo remoto della Galassia?
Fece qualche passo in avanti, ma subito fu costretto a nascondersi nell’ombra di un’alta colonna, perché d’improvviso la sala si era illuminata, mostrando tutto l’orrore che conteneva: il Collezionista, un gigante alto oltre tre metri e dalle membra poderose, grottescamente sviluppate, avanzava a passi lenti verso il centro facendo tremare il pavimento, le colonne e il soffitto.
 
 
Cari lettori, finalmente ci siamo! I nostri sono arrivati al cospetto dello stravagante Collezionista. Se la caveranno?
Grazie a chi è arrivato fin qui, a sabato prossimo. 😊

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Capitolo 10
*** Le ali della notte ***


CAPITOLO DECIMO
 
Le ali della notte
 
 
Il cacciatore di taglie strinse convulsamente il fucile fissando il suo occhio scarlatto che brillava e la massa enorme, traslucida, della figura ammantata da una specie di peplo decorato con figure incomprensibili che si avvicinava al tavolo.
Accanto ad esso, illuminati dalla luce violenta che pioveva adesso dal soffitto, vide il Bambino prigioniero di un droide che lo circondava con le braccia, impedendogli ogni movimento.
Aveva gli occhi spalancati e lucidi e si guardava intorno, chiaramente terrorizzato.
Ann era in piedi non distante da lui, trattenuta da due droidi di forma vagamente umanoide, alti almeno un paio di metri, che la tenevano ferma con le loro braccia di lucente metallo nero. 
Dietro di loro, altri due mostri meccanici li sorvegliavano con le armi spianate.
La riconobbe anche attraverso il velo violaceo che le copriva il seno e la testa, distinguendo i suoi occhi che brillavano di furore, le sopracciglia arcuate, le pietre preziose che splendevano ai suoi lobi e la sfumatura bluastra che quello strano velo conferiva alla sua pelle.
Il drappo di seta nero lucido che le copriva le spalle era fermato in vita da un’alta cintura d’oro riccamente cesellata; i veli iridescenti che l’avvolgevano ondeggiavano intorno al suo corpo snello mentre i droidi la spingevano, senza troppi riguardi, fin di fronte al loro padrone.
Dai suoi piedi nudi, dai capelli lucenti, dall’orlo della veste trasparente sprizzavano scintille.
A differenza dei due robot, non si inchinò e non abbassò nemmeno la testa; i suoi occhi sostennero con fierezza lo sguardo della mostruosa creatura che l’aveva catturata.
Poi scosse con forza il capo liberandosi del velo, che finì sul pavimento; i lunghi capelli viola, adesso intrecciati in maniera bizzarra, le ricaddero sul petto, le spalle e la schiena nuda.
Il gigante la fissò per un istante come affascinato, ma subito dopo spostò lo sguardo sul piccolo che se ne stava immobile, i polsi ammanettati e lo sguardo basso a fissare il pavimento.
Fece un gesto con la mano destra - quella che al Mandaloriano parve essere una mano, con quattro dita tozze e allungate, prive di unghie – e il Bambino fu avvolto da un raggio che lo sollevò e lo depositò sul tavolo operatorio dalla forma bizzarra che aveva visto poco prima.
Poi parlò.
O, meglio, iniziò a recitare quella che sembrava una formula magica in una lingua dimenticata da millenni, sepolta dalla sabbia del tempo; quelle sillabe solenni, ultraterrene, dapprima salirono verso il cielo in un mormorio quasi inintelligibile e poi rimbombarono echeggiando sulla pietra come una sorta di mantra che rotolava e tuonava senza sosta.
Mando capì che non poteva perdere nemmeno più un altro secondo.
Aprì il fuoco col suo fucile contro i due droidi più vicini, abbattendoli in rapida successione, e fece scivolare sul pavimento la pistola di Ann, che lesta si chinò ad afferrarla. La ragazza sferrò un calcio violento al droide che aveva proprio alle sue spalle, facendolo rotolare a terra, mentre sparava – impugnando l’arma con le due mani ancora legate – al secondo servo meccanico che crollò al suolo in un turbinio di scintille.
Sollevò le braccia in alto, tenendole il più possibile lontano dal viso, in modo che il suo compagno - che subito comprese - con un colpo di blaster potesse far saltare via le manette che le trattenevano i polsi.
Il gigante si voltò verso di loro, incuriosito e sorpreso dalla loro reazione: chi erano quelle creature minuscole che osavano opporsi al suo piacere? Possibile che esseri così fragili osassero affrontarlo a viso aperto?
Bene – pensò - la cosa si stava rivelando ancora più interessante del previsto.
Din con un balzo fu accanto al tavolo operatorio e raccolse il piccolo, che sollevò su di lui i suoi grandi occhi pieni - ancora una volta - di gratitudine.
Mentre gli liberava i polsi sottili, Ann stava continuando a sparare senza sosta contro l’ultimo droide superstite, che dopo qualche istante si accartocciò in una nube di fumo biancastro sotto i suoi colpi.
Ma adesso il collezionista avanzava contro di loro, maestoso e terrificante.
Ann raccolse l’arma del droide che aveva appena abbattuto, gli corse incontro e scivolò agilmente in mezzo alle sue gambe enormi, sempre senza smettere di sparargli addosso con entrambe le armi contemporaneamente.
Anche il cacciatore di taglie seguitava a bersagliarlo con i colpi del suo fucile Ambun, che di solito erano capaci di smaterializzare all’istante chi aveva la sfortuna di fare la loro conoscenza, ma che ora parevano abbattersi sul petto poderoso del gigante senza danni apparenti, scivolando oltre le sue spalle gigantesche come un innocuo getto d’acqua.
Adesso il suo occhio brillava di rabbia e le sue membra viravano verso il rosso cremisi dell’ira più terribile. 
Lampi dorati e guizzanti si abbattevano sul suo corpo enorme davanti e dietro, stridendo e sibilando inutilmente.
Lui pareva ignorarli, continuando ad avanzare verso il Mandaloriano, lo sguardo acceso dalla rabbia e le mostruose mani protese in avanti.
Allora Ann gli saltò addosso, circondandogli il collo poderoso con le gambe mentre faceva scivolare fuori dalla manica sinistra dell’abito una lunga lama aguzza; con un gesto preciso, la conficcò fino all’elsa nel grande occhio rotondo del gigante, che lanciò un urlo che squassò il palazzo dalle fondamenta. Come una tempesta che s’infrange sugli scogli, scuote la foresta e ulula tra le cime dei monti.
Ann estrasse il pugnale e continuò a colpirlo ancora con furore al collo, al viso, alla testa, facendo sprizzare il denso liquido nerastro che doveva essere il suo sangue, mentre le pietre preziose che le ornavano le orecchie, i polsi e le caviglie spendevano di bagliori variopinti.
Nel frattempo, il cacciatore di taglie seguitava a sparargli addosso, facendolo indietreggiare, accecato e furente.
Il colosso andò a sbattere contro le due colonne più vicine, che si riempirono di crepe sotto il suo peso enorme, e agitò le braccia pazzamente colpendo le pareti e il soffitto.
Le pietre ruggirono, sfregando l’una contro l’altra con un sinistro scricchiolio.
Poi toccò al Bambino sollevare entrambe le braccia verso di lui, i grandi occhi lucenti di rabbia: il gigante si portò le enormi mani alla gola e cadde in ginocchio con un rantolo orrendo, mentre un fiotto di sangue gli usciva dalle labbra imbrattando la veste sontuosa e il pavimento.
Ann saltò giù e raggiunse i due, ansimando, gli occhi scintillanti di bagliori fiammeggianti, le sopracciglia nerissime, il sudore che le imperlava la fronte d’alabastro.
Il Bambino strinse gli occhi per lo sforzo, ormai ridotti a una sottile fessura, e il colosso si contorse dolorosamente tossendo e abbattendosi su una vicina colonna: nell’aria ormai satura di fumo e dell’odore disgustoso del suo sangue si udì lo schianto della colonna su cui si era abbattuto, che crollava sotto il suo peso.
Ancora un crepitio sonoro e una nuvola di polvere si alzò mentre i pilastri si piegavano su se stessi. 
La speranza cominciò a balenare nella mente dei due esseri umani, che si scambiarono uno sguardo d’intesa.
Mando si rimise il fucile a tracolla e afferrò tra le braccia il piccolo che, esausto per lo sforzo eccezionale, si era accasciato sul pavimento; Ann, armi ancora in pugno, si slanciò fuori dalla stanza, subito seguita dal cacciatore di taglie.
All’improvviso ci fu un lampo alle loro spalle, come quando lo sportello di un altoforno si spalanca, e un profondo muggito di tuono che incominciò rosso, divenne bianco e infine si dissolse nello spostamento d’aria.
Corsero verso l’esterno più rapidamente che potevano, mentre alle loro spalle un tremendo fragore – sibili di elettricità e schianti di pietra contro metallo - sovrastava il loro respiro affannoso e faceva tremare il pavimento che scorreva veloce sotto i loro piedi. 
 
ooOoo
 
Ann Leary cercava di muoversi più velocemente che poteva, ma non era affatto facile star dietro al Mandaloriano a piedi nudi e per di più conciata come una sorta di bizzarra odalisca spaziale; almeno un paio di volte, incespicando sul pavimento di pietra scabra, reso irregolare dai secoli e dall’incuria, si trovò a rimpiangere i suoi amati stivali e un abbigliamento più comodo. 
A un tratto, davanti a una biforcazione lo vide fermarsi e guardare con attenzione da una parte e dall’altra, sebbene lei non vedesse altro intorno a loro che spesse mura di roccia grigiastra.
Poi comprese che, evidentemente, doveva possedere un qualche sistema di visione termica o a raggi x che gli permetteva di distinguere la sagoma di possibili aggressori anche al buio oppure oltre una spessa parete.
Come in risposta ai suoi pensieri, il cacciatore di taglie le fece segno di avvicinarsi.
Indicò con la testa verso il corridoio sul lato nord del palazzo e le disse: “Andiamo di là, dall’altra parte ho visto una decina di droidi che si stanno avvicinando a noi. Si muovono velocemente, ma ho un’idea su come possiamo andarcene da qui prima che ci trovino”.
La ragazza annuì.
Corsero per una decina di minuti attraverso un corridoio sul quale si aprivano strette feritoie verticali da cui pioveva una povera luce sporca; a giudicare dalla polvere e dalle ragnatele, doveva essere un’ala del palazzo che al Collezionista non interessava granchè.
Forse – considerò l’agente imperiale con un brivido - non era stata più abitata da quando l’ultimo degli Hoka aveva reso l’anima al suo creatore. 
Sbucarono all’improvviso su una vasta terrazza che si apriva sul fianco settentrionale della piramide, ingombra di quelli che parevano relitti o rottami di strani marchingegni, in buona parte ricoperti dalla vegetazione e dal terreno che il vento aveva portato fin lì.
Il cielo era ancora scuro, il pavimento della terrazza appena bagnato di rugiada; Ann poteva sentirla sotto i piedi nudi.
Però, qualche decina di metri davanti a loro, scorsero una specie di alta catapulta ancora in piedi, con alcune grosse rocce assicurate mediante una liana e, dall’altra parte, una sorta di velivolo issato su un’impalcatura di legno, apparentemente ancora intatto.
Ann si avvicinò incuriosita: aveva una forma affusolata, una prua appuntita e lunghe ali sottili e sembrava fatto di…legno. Liscio legno chiaro. Possibile?
Un aggeggio immaginato per volare - a giudicare dalla sua conformazione - ma di legno e senza nulla che assomigliasse a un motore o a dei propulsori; al suo interno, si scorgevano le macchie più scure di due strette postazioni, grandi appena il necessario per contenere un essere umano. 
“Credo sia un mezzo di trasporto” esclamò il Mandaloriano indicandolo “ne ho visto la sagoma mentre risalivo la piramide per cercare un punto da dove entrare”.
“Sembra piuttosto vecchio” replicò la ragazza “doveva appartenere agli Hoka. Speriamo funzioni ancora…”
Spostò lo sguardo sul suo compagno e stava per formulare una domanda quando udì un chiaro fragore metallico che proveniva dal corridoio che avevano appena percorso: evidentemente i droidi li avevano trovati!
“Sali, forza!” le disse il cacciatore di taglie, tendendole una mano per aiutarla a issarsi dentro la nicchia più vicina alla coda del velivolo; un istante dopo, prese posto in quella davanti, il bambino assopito ancora tra le braccia.
“Hai idea di come si piloti questo affare?” gli gridò Ann, perplessa, sistemandosi nello stretto spazio a sua disposizione. 
 “Non ne sono sicuro” replicò lui, allungando il braccio armato di pistola verso la fune che collegava l’aliante alla catapulta “Ma credo che lo scopriremo presto”.
Ann si legò con una specie di corda che trovò all’interno dell’abitacolo e che sperava fosse una sorta di cintura di sicurezza e spinse lo sguardo verso la terrazza sotto di loro, dove avevano iniziato a sbucare le sagome scure dei droidi di sorveglianza.
“Qualunque cosa tu abbia in mente” gli gridò “falla subito!”.
In quell’istante un colpo di blaster tranciò di netto il cavo di sganciamento e l’aria venne squarciata dal sordo dwang-g-g-g-g della catapulta che scagliava in cielo l’aliante.
Con un rumore stridente e un’accelerazione da capogiro il braccio della catapulta proiettò il velivolo e i suoi occupanti in alto nel cielo.
Ann lanciò un piccolo grido e, tenendosi alla fusoliera, si sporse un poco arrivando a vedere sotto di lei il gruppo di soldati metallici che sollevava verso di loro le loro armi e sparava qualche colpo inutile.
Se non altro – considerò – erano liberi!
Ann non aveva mai volato in quel modo, col vento che le scompigliava i capelli e le rinfrescava la faccia e immersa nel più perfetto silenzio, a parte il sibilo costante dell’aria intorno la fusoliera.
Nonostante tutto, era una sensazione bellissima.   
Il Mandaloriano spinse la leva di comando per riprendere quota e guadagnare un’altezza sufficiente per sfruttare le correnti d’aria che consentivano all’aliante di volare; poi lo fece abbassare in una morbida planata verso la riva del fiume.
Sulla loro sinistra c’era una piccola formazione rocciosa, abbastanza grande da inviare loro un’utilissima corrente ascensionale; la raggiunsero facilmente e lui fece volteggiare il velivolo in una lenta spirale ascendente.
Guadagnate alcune centinaia di metri, lo stabilizzò a quella quota e puntò in direzione ovest, verso il punto dove avevano lasciato la Razor Crest
Non andavano molto veloci – osservò il cacciatore di taglie – certo non quanto sarebbe andato lui con il suo jetpack, però almeno si stavano risparmiando un altro viaggio massacrante tra il fango e gli animali feroci della giungla.
Poco a poco, comunque, si lasciarono alle spalle la sinistra piramide e il corso del fiume che avevano seguito fin lì. 
Era una notte splendida e meravigliosamente tranquilla, ma c’era un problema che rendeva la situazione meno piacevole: era stanco. Da parecchio tempo non si concedeva una vera dormita e di certo non avrebbe potuto farlo mentre volavano.
Atterrare e ripartire, poi, era impensabile dato che non disponevano di un’altra catapulta.
Col passare dei chilometri, la sua sonnolenza divenne sempre più pesante; per quanto si ripetesse in continuazione che doveva restare sveglio, il sonno pareva sempre sul punto di prendere il sopravvento.
Ah, se solo avessero potuto atterrare per un momento!
A un tratto, si accorse che Ann stava richiamando la sua attenzione battendogli contro la schiena.
“Ehi, ehi!” stava gridando concitata “Che succede?!”.
Imprecando sottovoce, Mando si rese conto che doveva essersi assopito per qualche minuto e che nel frattempo il velivolo si era abbassato troppo di quota, sfiorando adesso le cime degli alberi ad alta velocità.
Impugnò saldamente i comandi, lottando con ogni briciolo delle sue energie per riconquistare un po’ di quota, ma era dannatamente difficile e il terreno sotto di loro si avvicinava sempre di più.
Una cima verde balzò d’improvviso verso di loro; con un rumore sordo il legno si spezzò, l’aliante sobbalzò e traballò, rallentando impercettibilmente.
“Ti ho già detto di cosa penso di te come pilota, vero?” gridò Ann nel vento.
Lui rispose con un’imprecazione nella sua lingua e si sporse appena per constatare che il sistema – una specie di pattino di legno che sporgeva dalla carlinga – di atterraggio era andato in pezzi.
Mormorò un’altra imprecazione e strinse con forza le mani sulla leva di comando; l’aliante riuscì a guadagnare alcuni preziosi metri di velocità nella bassa picchiata.
Per fortuna, almeno, la radura dove era ferma la Crest era vicina, poteva vederla da lassù.
All’improvviso però il velivolo sbandò, piegandosi da una parte, e puntò direttamente verso il terreno erboso.
Il Mandaloriano strinse entrambe le braccia intorno al corpo del piccolo e si rannicchiò contro di lui per proteggerlo.
Lanciò un grido e, quando il suo elmo sbattè contro la superficie dura e ruvida del legno, ebbe il tempo di vedere con la coda dell’occhio che Ann era ancora al suo posto, anche lei rannicchiata sul sedile, i lunghi capelli come una macchia colorata nel ruggire disperato del vento.

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Capitolo 11
*** Paradise ***


CAPITOLO UNDICESIMO
 


Paradise


 
“Sei ancora tutta intera?” domandò Mando, voltandosi verso il posto di Ann.
Saltò giù dall’aliante, appoggiato sull’erba e completamente inclinato su di un fianco; un istante dopo posava sul terreno il bambino, ancora profondamente addormentato. In cuor suo, era davvero contento che non si fosse accorto di nulla.
“Uhm…” replicò lei, massaggiandosi il collo “direi di sì, ma certo non grazie a te!”.
“Andiamo” disse il cacciatore di taglie, tendendole entrambe le braccia “ti aiuto…”
La ragazza si tirò su a fatica e si sporse in avanti; quando lui l’afferrò, la tenne stretta un istante di troppo prima che i suoi piedi nudi toccassero l’erba soffice.
E quando aprì le braccia non riuscì a evitare di squadrarla di nuovo, da capo a piedi.
Ann sogghignò, guardandolo dove pensava si trovassero i suoi occhi e pensando che quella faccenda dell’elmo cominciava seriamente a darle sui nervi.
“Immagino che tu e quel brutto mostro abbiate gusti simili in fatto di abbigliamento femminile…” disse, sorridendo.
Anche lui sorrise sotto il beskar e la ragazza lo capì, pure senza poterlo vedere.
“Come sta il piccolo?” domandò poi, avvicinandosi al bambino.
“Apparentemente meglio di me e di te” rispose lui “è solo molto stanco: gli succede sempre, dopo aver usato i suoi…poteri”.
Lei annuì e sorrise di nuovo.
“Bene!” disse, guardandosi intorno “la tua nave non è lontana, se non sbaglio. Raggiungiamola e andiamocene il prima possibile da questo posto”.
 
ooOoo
 
Il cacciatore di taglie emerse da sotto il motore di destra della Razor Crest e si guardò intorno, cercando con lo sguardo la ragazza che – immaginava – doveva essere rimasta lì vicino nella radura. Ma di lei non c’era nessuna traccia.
D’improvviso il suo cuore accelerò i battiti e si slanciò verso il portellone abbassato, in preda a un oscuro terrore: per fortuna, però, il piccolo era ancora dove l’aveva lasciato non molto tempo prima, adagiato nella sua amaca e tra le braccia di Morfeo.
Trasse un sospiro di sollievo e uscì di nuovo all’aperto.
Ma dove si era cacciata quella strana ragazza? Come le era venuto in mente di allontanarsi proprio quando avrebbero potuto ripartire?
La chiamò più volte, seguitando a guardarsi intorno, ma senza ottenere alcuna risposta.
Allora armeggiò per un istante con il suo elmo, attivando il sistema di visione che consentiva di rilevare le impronte, anche quelle non visibili a occhio nudo.
In quel modo, infatti, scorse una fila di impronte di piedi nudi che si inoltravano nel folto della foresta.
Per un momento rimase immobile, indeciso sul da farsi: aveva senso lasciare il piccolo da solo per andare a cercarla? O forse era tutto un piano di lei per attirarlo lontano dalla nave?
Scacciò con forza questi pensieri: niente nel comportamento di Ann, durante gli ultimi giorni, poteva dare fondamento ai suoi timori e anzi più volte gli aveva dimostrato che poteva fidarsi di lei, rischiando in prima persona per proteggere il Bambino.
Non poteva dimenticare il rischio che aveva corso facendosi catturare dal collezionista solo per guadagnare un po’ di tempo e trovarlo il più presto possibile.
E poi… ecco, doveva ammettere che non averla vicino gli dava una sensazione di vuoto, di tristezza, che non gli era capitato spesso di provare; l’idea di andarsene da lì senza di lei gli era insopportabile, dopo l’aiuto che gli aveva dato per sconfiggere l’orrendo gigante che aveva rapito il piccolo praticamente sotto i suoi occhi.
Scosse il capo.
Qualunque cosa le fosse passato per la testa e dovunque fosse andata, doveva trovarla!
Illuminando il percorso davanti a sé e seguendo le orme, s’inoltro così nella foresta.

 
ooOoo
 
 
Ann Leary si calò giù per l'ultimo tratto di roccia e ricominciò a farsi strada attraverso il fitto fogliame alla ricerca del posto che aveva visto, poco distante dalla Crest, mentre volavano a bordo dell’aliante.
Era l’ultima carta da giocare, l’unico modo. Forse.  
I veli scuri le stavano appiccicati addosso e i capelli le si erano come incollati sulla fronte; tutt’intorno a lei dal terreno umido, dai tronchi ricoperti di muschio, dalla spessa copertura verde che quasi nascondeva il cielo stillavano calore e un’insopportabile cappa di umidità, nonostante fosse ancora piena notte.
Procedeva a fatica alla tenue luce della luna, tra le piante rampicanti e i tronchi spezzati quando un uccello, una visione di rosso e di giallo, le saettò davanti con un grido da strega; a un tratto si appoggiò a un albero dalla cui sommità cadde crepitando una pioggia di gocce tiepide.
L’agente imperiale scavalcò un tronco spezzato e si trovò d’improvviso davanti a uno spettacolo straordinario: l’aveva trovato!
In piedi, una mano contro un albero grigio, strizzò gli occhi meravigliata.
Una frangia di mangrovie sorgeva ai margini di una piccola laguna scintillante: dritte o inclinate o per traverso, i tronchi che spiccavano contro il cielo con le loro piume verde-blu alte nell'aria.
Il suolo sotto di esse era ricoperto di erba e muschio, dappertutto c'erano alberi caduti, felci e piccoli fiori che non aveva mai visto prima.
L’aria era piena di profumi e al di là dell’acqua s’apriva il buio della foresta vera e propria.
Contro l’irregolare arco scuro della giungla, la laguna era ferma come un lago di montagna, con tutte le sfumature del blu, del verde, del viola.
Il terreno intorno era una sottile striscia umida e il caldo incombeva su tutto, quasi visibile.
Avanzò di qualche passo, senza fiato.
Era stanca, sudata, piena di fango. Si accorse che gli abiti pesavano e li tolse rapidamente, liberandosene come un serpente da una pelle vecchia e logora e restando con la sola biancheria addosso.
Poi tornò a guardare la laguna; rimase così per un attimo, immobile, a guardare l'acqua abbagliante.
Accarezzò un momento il tronco di una mangrovia e, costretta alla fine a credere alla bellezza che le si spalancava davanti, sorrise di nuovo di gioia.
Si avvicinò di più alla riva e guardò in alto, dove le foglie formavano come un tetto verdeggiante tutto illuminato, di sotto, dai mobili riflessi della laguna; poi volse verso l’acqua gli occhi eccitati, lucenti.
Era chiara fino al fondo, con chiazze vivaci di alghe e rocce.
 “Che meraviglia!” mormorò.
In quell’istante, però, i passi veloci del Mandaloriano alle sue spalle la fecero sussultare.
Prima di voltarsi, sorrise lievemente tra sé e sé.
Il cacciatore di taglie la raggiunse, guardandosi intorno con circospezione e studiando attentamente il perimetro della laguna, lunga una trentina di metri; l’esperienza con il lucertolone a sei zampe l’aveva reso ancor più cauto del solito.
Lei invece gli sorrise e poi fece un cenno col capo, indicando l’acqua.
“Non è bellissimo?” gli domandò.
Din Djarin spostò lo sguardo su di lei, splendente, a pochi passi dall’acqua.
“Perché sei venuta qui?” le domandò, senza smettere di guardarla.
Per tutta risposta, Ann gli afferrò una mano e lo trascinò verso la riva.
“Andiamo” disse “io ne ho assolutamente bisogno!”.
Lo guardò con un sorrisetto.
“Credimi, ne avresti bisogno anche tu…”.
“E’ una sciocchezza” replicò lui, resistendo “Dobbiamo andarcene da qui il più presto possibile: in fondo, non siamo nemmeno certi che quel mostro sia davvero morto… e poi non sappiamo se questo posto è sicuro: se ci fossero animali velenosi?”.
Ann sgranò gli occhi con esagerato timore.
“O magari una misteriosa lucertola gigante invisibile?”
Scosse la testa.
L’uomo la guardò torvo ma, prima che potesse replicare, la ragazza si sfilò anche la biancheria e, lesta come un gatto, percorse i pochi metri che la separavano dalla riva si tuffò.
Sulla sua pelle chiara si disegnarono le ombre verdi della foresta.
Lui si sorprese a notare che il suo corpo agile e forte svelava la sua abilità in combattimento, ma c'era come un contrasto nella piega dolce delle sue labbra.
La vide riemergere, sul viso un’espressione di godimento, e immergersi ancora e ancora nuotando verso il centro della laguna; i capelli lucidi, lussureggianti, le accarezzavano il seno, i fianchi, la schiena leggermente curva.
Rimase incantato a fissare quella visione per qualche minuto, in silenzio, incapace di sottrarsi al suo fascino e distogliere lo sguardo.
A un tratto, però, Ann lanciò un grido e si voltò verso l’uomo annaspando, improvvisamente in difficoltà.
Urlò ancora, mentre qualcosa pareva trascinarla giù nell’acqua.
Si dibatté tra gli spruzzi, fino a che non scomparve come inghiottita dal lago.
Senza riflettere né esitare, il cacciatore di taglie si tuffò a sua volta; nuotando quanto più velocemente gli permetteva la sua pesante armatura, fece appena caso al fatto che la temperatura dell'acqua era più alta di quella del suo corpo e gli pareva di essere immerso in un gran bagno caldo.
Raggiunse, ansimante, il punto dove la ragazza era sparita.
La chiamò una, due volte, guardandosi intorno preoccupato.
All’improvviso però Ann riemerse proprio davanti a lui, a pochi centimetri dalla sua testa: i capelli incollati alla testa, le ciglia grondanti, trasse un respiro profondo e subito iniziò a ridere senza ritegno.
L’uomo sbatté le palpebre un paio di volte prima di rendersi conto che si era presa gioco di lui per costringerlo a raggiungerla.
“Oh mio cavaliere dalla lucente armatura!” lo prese in giro “Sempre pronto a sfidare il pericolo per salvare una damigella indifesa da mostri invisibili”.
“Non vedo damigelle indifese da queste parti” replicò lui, tra l’offeso e il divertito “ma solo una pericolosa spia…”
Le si avvicinò con fare minaccioso, allungando le braccia verso di lei.
“…che ha assolutamente bisogno di vedere da vicino la carbonite!”.
Le balzò addosso d’improvviso, cercando di afferrarla mentre lei si dibatteva e annaspava mezzo soffocata dall’acqua e dalle risate.
Mentre nuotava, sentiva il corpo di lei premere contro il suo; era liscio, snello, eccitante. Ora si aggrappava a lui, respirando liberamente, e si lasciava trasportare abbandonata, senza più opporre resistenza.
Arrivati dove avevano piede, Din lasciò la presa e lei, invece di allontanarsi come lui si sarebbe aspettato, rimase immobile e gli rivolse un sorriso; erano uno di fronte all’altra, adesso, immersi nell’acqua tiepida che li accarezzava e li sosteneva.
“Speravo che almeno ti saresti tolto l’armatura” sussurrò “Non c’è il rischio che arrugginisca, vero?”.
A lui venne da ridere.
“No, non c’è questo rischio” rispose, senza allontanarsi da lei.
Ann fece una smorfia di disappunto.
“Peccato…”
Esitò un istante: la vita gli aveva insegnato a essere pragmatico, a non lasciarsi trascinare dalle situazioni e, in quel momento, proprio la sua parte razionale gli suggeriva di voltare le spalle a quell’allettante visione e di tenere Ann Leary a debita distanza.
Sapeva che quella che adesso si offriva ora ai suoi occhi coperta solo dai suoi capelli lucenti e dall’acqua era praticamente una sconosciuta, una sconosciuta che non esitava a usare armi sofisticate per raggiungere i suoi scopi criminali e che non molto tempo prima aveva tentato di ammazzarlo.
Ecco, questo era un pensiero perfettamente ragionevole, data la situazione, e del tutto degno di lui.
Eppure, non lo tradusse in azione: irresistibili quegli occhi ardenti, quel corpo flessuoso e l’acqua che lo accarezzava, nonostante il doloroso peso dell’armatura, risvegliando in tutte le cellule del suo organismo desideri sopiti.
S’immerse lui stavolta e la sfiorò, come per gioco, lottando scherzosamente con lei.
Scivolò tra le sue gambe, nuotò sott’acqua e riemerse dietro di lei, alle sue spalle.
Qua e là qualche fiato di vento spirava sulle acque lisce, sotto la nebbia del caldo, e faceva frusciare le foglie; pallide chiazze di luce lunare scivolavano su di loro e si muovevano nell’ombra come folletti lucenti.
Ann sollevò lo sguardo su di lui, fissandolo intensamente; nei suoi occhi luccicavano i riflessi della laguna, una striscia di luce pallida scherzava tra i suoi capelli.
Mando pensò che se qualcuno gli avesse detto solo poco prima che si sarebbe trovato in una situazione del genere, l’avrebbe senza esitazioni preso per pazzo.
Si avvicinò di più e l’abbracciò, coprendola interamente col suo corpo; l’acqua era accogliente e li sosteneva quasi con tenerezza. Ogni movimento indeboliva la sua resistenza e lo rendeva più consapevole di lei, del suo corpo, dei suoi movimenti e del suo desiderio.
Per un istante Ann, illanguidita, chiuse gli occhi e si abbandonò completamente a quell’abbraccio caldo nell’acqua tiepida.
Poi, all’improvviso, si staccò da lui e nuotò rapidamente verso la riva.
Lui la seguì, guardandosi intorno: l'orlo di sabbia era diventato una striscia di fosforescenza che avanzava adagio adagio col procedere delle piccole onde provocate dai loro movimenti; l'acqua scura specchiava il cielo scuro con tutte le sue strane, lucenti costellazioni.
La linea fosforescente si gonfiava intorno ai granelli di sabbia e ai ciottoli, li avvolgeva con una curva tesa, poi improvvisamente li assorbiva senza rumore e passava avanti.
Vicino alle rocce, dove l'acqua era più bassa, qua e là un masso più grande emergeva, ricoperto da uno strato di perle.
La luna aveva coperto tutto con una patina argentata.
Ann gli si avvicinò e, senza dire niente, gli sfiorò la mano e lui si volse a guardarla.
Era ancora sdraiata, con le gambe leggermente aperte e le braccia lungo i fianchi; la pallida luce trasformava in argento la sua pelle, i suoi capelli bagnati sembravano alghe marine.
Il cacciatore di taglie pensò che il suo corpo doveva avere il sapore della rugiada, dei fiori bagnati, delle foglie umide, dell’erba nel primo mattino.
Rapido, si sfilò i guanti e li gettò per terra.
Quando la toccò, la pelle era come seta sotto le sue dita.
Era ormai vicinissima, entrambe le mani sull’elmo freddo e liscio.
“N-non posso…” mormorò.
“Non importa” rispose Ann.
La sua voce era come la laguna che si stendeva davanti a loro, pensò lui. Ferma, ma ingannevolmente dolce nei contorni.
 “Non m’importa cosa c’è qui sotto…” sussurrò “m’importa cosa c’è qui dentro” aggiunse, facendo scivolare la mano all’altezza del suo cuore. Lui la tenne tra le sue per un istante.
Poi, senza dire nulla, Ann si chinò verso il mucchio dei vestiti di cui si era liberata e tornò verso di lui stringendo in mano uno dei lunghi veli neri con cui il collezionista se l’era immaginata, stecchita e in bella mostra nel suo personale palazzo delle meraviglie.
Non parlò, ma i suoi occhi dicevano tutto.
Gli diede le spalle, porgendogli i due lembi della striscia di tessuto scuro che aveva sollevato esattamente all’altezza dei suoi occhi.
Cosa avrebbe fatto?
Il cuore le batteva all’impazzata quando lui li prese dalle sue mani e vicinissimo, tanto che lei poteva sentirlo distintamente contro la sua schiena bagnata, le appoggiò il tessuto sugli occhi e annodò strettamente i due capi.
Ecco, adesso Ann non vedeva praticamente più niente e la cosa, anziché spaventarla, era terribilmente eccitante. 
Si lasciò cadere nuovamente sull’umida sabbia della riva, il cuore in gola per l’attesa.
Dopo un tempo che le parve infinito, lui l’abbracciò di nuovo, mentre l’acqua continuava a lambire appena i loro corpi come una muta carezza.
La guardò, immaginando i suoi occhi pieni di desiderio.
Fu trascinato da un impulso segreto, un impulso più forte della ragione, e obbedì a quell’impulso di cui non avrebbe mai saputo dare ragione.
La guardò ancora, la cinse con le braccia e la baciò. La baciò prima timidamente, poi quasi con violenza, schiudendole le labbra.
Seguitò a baciarle la bocca, a baciare l’acqua salata sul suo corpo, sui seni, sui capelli grondanti, fino a che non la sentì gemere.
“Aspetta…” le disse, ansimando.
Si chinò su di lei e, nell’oscurità, le sussurrò all’orecchio il suo nome.
Allora Ann lo attirò verso le sue labbra e lo baciò prepotentemente; lui avvertiva il suo respiro ansante, la sentiva abbandonata e fremente, piena di desiderio.
Chiuse gli occhi e si concentrò sulle sensazioni; sentiva il fresco della notte sulla schiena e il tepore dell’acqua intorno alle gambe. Ma soprattutto sentiva lei fremere contro il suo corpo e le sue unghie lunghe che gli si conficcavano nella schiena, lasciandogli segni quasi dolorosi.
Quante volte si era ripromesso di non oltrepassare alcun limite con lei! E invece adesso era sufficiente sentire il suo corpo bagnato premuto contro il proprio per abbandonare completamente ogni difesa.
Il suo corpo arrendevole, ma mai sottomesso.
I suoi occhi…non ricordava di essere stato mai guardato in quel modo da una donna, così profondamente da toccare i confini della sua anima.
Confusamente, si chiese cosa lo attraesse tanto in lei, dato come era cominciato il loro rapporto e considerato che fino a pochi giorni prima non aveva mai nemmeno pensato a lei come a una donna, ma solo come a una pericolosa nemica.
Certo era molto bella, seducente, e i suoi gesti svelavano che possedeva tutta l’esperienza necessaria - se e quando ne avesse avuto voglia - per far impazzire un uomo.
Sì, era quello ma non solo.
C’era dell’altro.
Ed era che Ann non aveva paura: la sua forza temibile, tutta la sua abilità di guerriero non la intimidivano.
Basta! Non voleva più pensare, non era necessario.
Eppure non ci riusciva: Ann Leary e il suo bizzarro senso dell’umorismo, la sua bocca e i suoi occhi stregati. Le sue mani.
Le sue mani.
Il fuoco sotto la pelle: fuoco che non brucia, ma riscalda.
Che non prende, ma da.
Fuoco non di morte, ma di vita.
I loro corpi erano percorsi da brividi, fremevano e sussultavano, strettamente avvinghiati, del tutto dimentichi del mondo intorno a loro.
Avvinti l’uno all’altra, rapiti dal godimento, i loro movimenti erano ritmici, oscillanti come quelli delle onde lievissime che rotolavano sulla sabbia nel luogo che non è più terra e non è ancora acqua.
Dove non esistono strade, né spiegazioni.
Dove le onde tutto cancellano e tutto nascondono.
Dove era come se non fosse mai passato nessuno, come se nessuna guerra fosse mai esistita.
Come se loro stessi non fossero mai esistiti.
Più tardi, mentre scivolava lentamente nel sonno, d si sorprese a domandarsi come sarebbe stato dormire accanto ad Ann nel fieno fresco in un fienile solitario, lontano dalle città, lontano dalle strade rumorose. Un fienile dietro una vecchia fattoria solitaria, accanto a un antico mulino a vento che vibrasse al suono degli anni che scorrevano via.
Starsene sdraiato tutta la notte così, tendendo l’orecchio ai mille suoni lontani - fremiti, sibili, lievi battiti d’ali - degli animali e degli alberi. Sussurri e fruscii, carezze, sensazioni mai neppure sognate.
Al suono regolare del suo respiro.
Avrebbe dormito così, tutta la notte, le labbra dischiuse in un sorriso leggero.
Al sicuro.
Lontano da tutto tranne che da lei, lontano dalla guerra, lontano dal mortale rombo dei reattori che laceravano il cielo, lasciando cadere sulla terra nuove strane stelle che mettevano in fuga il tenero colore dell’alba. 
 
 
Cari lettori, forse siete troppo giovani per ricordarlo ma nei mitici anni ottanta, quando la sottoscritta era una ragazzina, andavano tanto i film romantici di ambientazione tropicale (tipo “Paradise” o “Laguna blu”), nei quali l’ambientazione esotica di una natura stupenda non faceva solo da cornice alla storia d’amore, ma contribuiva essa stessa ad abbattere le barriere fisiche e mentali dei personaggi. Qui ho immaginato qualcosa del genere e spero che questo intermezzo romantico vi sia piaciuto.
Grazie sempre a chi legge, alla prossima!  

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Capitolo 12
*** La ragazza che viaggiava ***


CAPITOLO DODICESIMO
 
La ragazza che viaggiava
 
 
Era caduta anche la brezza e non si udiva altro rumore che il gocciolio dell’acqua che correva verso la laguna e si riversava da una foglia all’altra fino alla terra bruna.
L’aria era fresca adesso, umida e chiara: l’orlo della laguna era diventato una striscia di fosforescenza appena increspata che si muoveva dolcemente intorno alle rocce sulla riva, avvolgendole in una curva tesa e lucente.
Qua e là un oggetto più grande - un tronco o un masso - emergeva, ricoperto da uno strato di perle, piccole onde lambivano il fango della riva ricoprendo tutto con uno strato d’argento.
L’acqua chiara specchiava il cielo chiaro con tutte le sue strane, scintillanti costellazioni e scherzava sui loro corpi allacciati.
Ma Ann Leary era sveglia, il suo tempo stava arrivando.
“Per l’ultima volta. Sì, l’ultima volta” sussurrò, chiudendo gli occhi.
D’improvviso la sua mente scivolò fuori dal corpo e iniziò a volare: nell’aria, sotto le stelle, sulla laguna, invisibile come il vento, fresca come il respiro della foresta nell’oscurità della notte.
Si fermò tra gli alberi, nei fiori, in una goccia di rugiada.
Volava.
Si rannicchiò in una rana dalla pelle blu e con un occhio solo, immobile sul fondo melmoso del lago. Giacque per un istante così, guardando in su attraverso la fresca oscurità.
Attraverso le lucide antenne di un piccolo insetto sentì l’acqua scorrere intorno al suo corpo ritmicamente, in fresche spirali di luce lunare catturata.
Dagli occhi di un uccello notturno guardò in giù, verso la foresta insonnolita e la piccola nave argentata.
Pensò a se stessa, ai suoi strani poteri, al suo mondo che non esisteva più.
La sua mente che si andava indebolendo volò dentro l’uccello notturno che andò a posarsi accanto al Mandaloriano addormentato, nuovamente avvolto nella sua gelida armatura.
L’odore della terra bagnata aleggiava tutto intorno a loro, mentre sugli alberi verde-azzurri le foglie respiravano l’una sull’altra, tremando e frusciando.
Un’ultima volta pensò Ann Leary.
Entrò nella testa bruna, distinse per la prima volta il colore dei suoi occhi dietro le palpebre chiuse.
Ascoltò attraverso le sue orecchie il suo mondo.
Le labbra semiaperte sui denti bianchi, le sopracciglia che si inarcavano nitide, le ossa affusolate.
La sua memoria, i suoi ricordi.
Il suo cuore, una rosa rossa cucita col fuoco, sospesa nel buio.
Ti stai innamorando vi lesse Ann Leary.
L’uomo addormentato si mosse appena nel sonno.
Era così bello stare lì, stargli accanto così profondamente e intimamente!
Era come immergersi in una vasca d’acqua tiepida, appena increspata sulla superficie. 
Avrebbe voluto restare per sempre, ma non poteva.
Il suo tempo era segnato, il gesto che avrebbe dato un senso alla sua esistenza doveva essere compiuto.
Basta! E’ ora di andare 
D’un tratto Ann sbattè le palpebre, il suo corpo s’irrigidì come un guanto nel quale fosse stata infilata una mano.
Si rialzò silenziosamente, si guardò per l’ultima volta intorno e iniziò a correre verso l’astronave.
Salì in un balzo la rampa e aprì la porta del piccolo locale dove dormiva il Bambino.
Lui era sveglio - probabilmente grazie ai suoi poteri aveva sentito cosa era successo lì fuori, aveva sentito lei – e la guardò di sotto in su con aria interrogativa.
Ann deglutì, il cuore che accelerava i suoi battiti.
Si chinò verso di lui, le mani giunte.
Grogu - disse senza parlare - io so chi sei. Conosco i tuoi poteri e sono qui per chiederti una cosa: ascoltami.
 
ooOoo
 
So che è molto pericoloso e non posso obbligarti…ma lo farai?
Ann palpitava, in attesa della risposta.
Poi il piccolo annuì in silenzio e per poco lei non gridò di gioia.
Ma fu solo un istante.
Come tutto dentro di lei le ricordava, il tempo a sua disposizione stava scadendo.
Si alzò di scatto, prese tra le braccia il Bambino e lo sistemò sul sedile del copilota.
Poi, più rapidamente che potè, attivò i comandi per una partenza immediata. 
Il rumore inconfondibile dei motori della Razor Crest che si avviavano strappò dolorosamente Mando dal sonno più dolce che avesse sperimentato da quando era un bambino.
Ancora intontito si sollevò sulle ginocchia, sperando con tutto il suo cuore di essersi sbagliato.
Una frazione di secondo dopo si rese conto che non era così.
Allora balzò in piedi e iniziò a correre con tutte le sue forze verso la nave, il cuore in gola e la testa affollata di mille pensieri confusi.
Quando arrivò alla radura il velivolo si era appena staccato da terra.
Senza rifletterci, tirò fuori il blaster e cominciò a sparare, gridando.
Ovviamente non sortì alcun risultato e quindi si slanciò verso la rampa che ancora stava chiudendosi; fece un balzo e riuscì ad aggrapparsi al margine inferiore.
Poi, con uno sforzo poderoso si tirò su.
I motori ruggivano alle sue spalle.
In equilibrio precario sulla rampa inclinata sotto il suo peso, il vento che cominciava a mugghiare intorno a lui man mano che la velocità aumentava, vide Ann Leary in piedi di fronte a lui.
Era pallida, i suoi capelli guizzavano al vento come una strana bandiera.
Sul volto aveva un’espressione tremendamente triste, che lui dapprincipio non riuscì a distinguere.
“Mi dispiace” disse solo.
Dio sa se non avrei voluto farti questo
Poi, prima che lui potesse tentare qualsiasi reazione, con entrambe le mani e tutta la forza di cui era capace lo spinse, facendogli perdere l’equilibrio e cadere pesantemente all’indietro, sull’erba della radura.
Rotolò al suolo e vi rimase per qualche istante, confuso e attonito.
La rampa si richiuse con un sibilo e il Mandaloriano, quando rialzò la testa, vide la sua nave allontanarsi velocemente.
La sua nave.
Il Bambino.
E tutto ciò che aveva avuto importanza per lui.  
Non riusciva a respirare.
Era come se una mano enorme gli avesse stretto il cuore così, con cinque dita, come si stringe una spugna.
Mentre guardava la navicella scomparire in alto sulla sua testa fu colto da un furore atroce:
avrebbe voluto gridare fino a perdere la voce, spaccare tutto quel che aveva intorno, ma sapeva che sarebbe stato completamente inutile.
Ingannato, così crudelmente ingannato.
Quanto era stato stupido, se a causa sua fosse accaduto qualcosa al piccolo non sarebbe mai riuscito a perdonarsi!
Rimase perciò immobile, incapace persino di piangere, mentre dentro di sé moriva.
Intorno a lui, l’alba sprofondava nel tempo e nelle stelle e nella calda eternità.
 
ooOOoo
 
Nella penombra dell’abitacolo della Razor Crest Ann Leary, seduta al posto del pilota, si passò una mano sul viso. Era bagnata di lacrime.
Con un sospiro, volse lo sguardo verso l’alieno verde che le sedeva accanto, anche lui con un’espressione profondamente triste nei grandi occhi scuri.
“Lo so che è stato doloroso per te lasciarlo” disse “Lasciarlo...così. Ma ho fatto in modo che torni da te, quando tutto sarà finito”.
“Tornerà a prendersi cura di te” aggiunse, allungando una mano verso di lui.
“Te lo prometto”.
 

Note&credits: il titolo cita l’omonimo racconto di Ray Bradbury alla cui protagonista, Cecy Elliot, è – molto molto liberamente – ispirata la nostra Ann. Il capitolo è breve, mi rendo conto, ma fondamentale per lo sviluppo della storia…spero che, tuttavia, non sia ancora tutto completamente disvelato e che vi resti ancora un po’ di curiosità.  Complimenti a meiousetsuna che, col suo talento di narratrice, ci aveva azzeccato e grazie a chi continua a leggere e seguire questo racconto.
A presto!
 
 

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Capitolo 13
*** Furore ***


 
CAPITOLO TREDICESIMO
 
Furore
 

Da quando erano partiti da Haldol non aveva detto che una manciata di parole, tutte strettamente necessarie.
Non che fosse mai stato un gran chiacchierone - considerò Cara Dune senza smettere di fissarlo - ma stavolta le sembrava davvero turbato, così taciturno e cupo.
La sua reticenza le aveva lasciato nel cervello una quantità di domande senza risposta, che tuttora non smettevano di tormentarla: che cosa era successo davvero su quel remoto pianeta dell’Orlo Esterno? Chi era stato capace di portargli via il piccolo senza prima ucciderlo e, apparentemente, senza nemmeno aver vinto un combattimento furioso? Sapeva che lui non lo avrebbe lasciato andare senza mettere in gioco la sua vita…eppure in quel caso era stato sconfitto.
Ingannato? Forse.
E ancora: se questa persona era riuscita dove decine di cacciatori di taglie e agenti imperiali avevano fallito, perché aveva lasciato a Din un trasmettitore, grazie al quale era riuscito a chiamare in suo soccorso lei e Greef e a farsi portar via da quello sperduto grumo di fango?
Si strinse nelle spalle, certa che - almeno per il momento – non avrebbe avuto le risposta che cercava. O almeno non da lui. 
Lui che andava avanti e indietro come una belva in gabbia, misurando a grandi passi i piccoli spazi della navicella che li stava riportando su Nevarro. Oppure - e questo era anche peggio - se ne stava seduto, in silenzio, senza muovere un muscolo.
Ma la giovane donna sapeva che dentro di sé il Mandaloriano stava bruciando.
Bruciava di una rabbia che non aveva mai conosciuto prima, cocente e dolorosa: pensava davvero che, quando se la si fosse trovata davanti, sarebbe stato capace di ucciderla così, con le sue mani.
Ann era come un insetto velenoso che l’aveva punto, lasciandogli nella carne il suo pungiglione, e ora quel veleno lo stava intossicando.
Con le parole, col suo sorriso, gli aveva strappato via la pelle e poi l’aveva colpito alle spalle, nel momento in cui era più vulnerabile.
Quanto era stato stupido!
Non avrebbe mai immaginato potesse accadergli una cosa simile e adesso una parte di lui avrebbe soltanto voluto sedersi in disparte e sanguinare, ma sapeva che non poteva.
Strinse le labbra in una linea esangue; un peso oscuro, melmoso, gli opprimeva il petto.
 
ooOoo
 

“Quanto ci vorrà per riparare l’iper-guida?” domandò Ann Leary al giovane meccanico gamorreano.
“Ho fretta di ripartire”.
Il viaggio a velocità sub-luce verso quello sperduto pianetino - il primo che avesse uno spazioporto e qualcosa che assomigliasse a un’officina meccanica - le era parso eterno. 
“Uhm…non più di qualche ora, credo” replicò l’altro, passandosi una mano sul viso bonario dalla pelle blu.
“Non è possibile fare più in fretta?” lo incalzò la ragazza.
L’altro scosse la testa.
“Il guasto è piuttosto serio…ma le assicuro che dopo potrà andare dove le pare, in lungo e in largo per l’intera galassia!”.
Ann si morse le labbra: non le interessavano tutti i viaggi dell’universo, ma solo uno. L’unico davvero importante.
Sospirò e si voltò verso l’astronave.
“Va bene” disse, rassegnata “Ma, per favore, faccia il più presto possibile”.
Rientrò nel velivolo e si avvicinò al sedile del co-pilota.
Il bambino, apparentemente tranquillo, giocherellava con la sfera che aveva svitato dalla leva esattamente di fronte a lui.
La ragazza lo guardò con gratitudine e gli accarezzò dolcemente la testa rugosa, ricoperta da una soffice lanugine bianca.
“Ci vorrà un po’ per la riparazione” gli disse “Credo sia il caso di andare a fare un breve giro: io ho assolutamente bisogno di liberarmi di questi vestiti e credo che tu abbia fame…giusto?”.
Il piccolo annuì e tese le braccia verso di lei.  
ooOoo


“Certo che ti aiuteremo” rispose Greef Karga, con espressione risoluta “ma cosa ti fa pensare che riusciremo a rintracciare la Razor Crest? A quest’ora potrebbe essere dovunque!”.
Mando rimase in silenzio un istante.
Poi, avvicinandosi al computer della navicella del suo amico cacciatore di taglie, disse: “Ho ancora il dispositivo di tracciamento che rileva il codice a catena del bambino, potremmo provare a seguire il suo segnale?”.
L’altro scosse la testa.
“Se davvero la persona che te lo ha portato via è furba la metà di quanto penso, disattivare il codice sarà stata la prima cosa che avrà fatto”.
“Prova comunque” insisté l’altro “E’ l’unica cosa che mi viene in mente in questo momento”.
Cara spostò nuovamente lo sguardo su di lui: non poteva vederne il viso, ma era certa - dal suo tono di voce, dai suoi gesti – che fosse autenticamente disperato.
L’ex magistrato deposto fece una smorfia, chiaramente perplesso.
“Va bene” disse però “adesso inserisco i dati nel sistema”.
Mando annuì e fece per uscire dalla plancia della nave.
“Dove stai andando adesso?” gli domandò Cara.
“Devo trovare l’Armaiola: ho bisogno di parlarle” rispose lui, seccamente. 
 
ooOoo
 
Più tardi quel pomeriggio, mentre guardava il bambino dalla pelle verde mangiare con gusto una specie di strana brodaglia tipica del posto, Ann si sorprese a pensare che era una creatura davvero straordinaria, all’apparenza tanto indifesa ma in realtà già con una sua volontà ben precisa.
Sapeva quel che voleva e sapeva come ottenerlo.
E…aveva uno straordinario appetito!
Sorrise leggermente e le sfuggì un sospiro.
Invece, il suo stomaco si era stretto così, come un pugno chiuso.
La verità era che il senso di colpa la torturava: lui non l’avrebbe mai perdonata, probabilmente in quel momento li stava già cercando, consumato dall’odio verso di lei.
Era stato dannatamente triste e difficile da fare, ma necessario.
 
ooOoo
 

“Ha con sé il bambino” disse “Se non ci muoviamo subito, lo consegnerà a Moff Gideon…o forse a qualcuno più in alto di lui!”.
“E’ il mio trovatello, lo sai” aggiunse con dolore “io avrei dovuto proteggerlo a costo della mia vita, e invece ho fallito”.
“Dovete aiutarmi!”.
L’Armaiola si guardò intorno, senza rispondere.
Sapeva di cosa era capace l’uomo che aveva di fronte e sapeva anche che ciò che aveva appena sentito era quanto di più simile a un’implorazione sarebbe mai uscita dalle sue labbra.
“Siamo rimasti in pochi” replicò tristemente “dopo essere usciti allo scoperto per aiutarti…mesi fa. Gli imperiali hanno individuato il nostro nascondiglio e ucciso alcuni di noi” aggiunse, mostrando con un gesto i rottami di armatura accatastati contro la parete.
Mando serrò i pugni.
“Gli imperiali, appunto” esclamò, la voce fremente di rabbia “ti sto parlando di loro e della possibilità di assestargli un duro colpo…cogliendoli di sorpresa, magari scoprendo una base segreta”.
La donna tacque, fissando il pavimento.
“Abbiamo la possibilità di vendicare il nostro popolo, di lavare col loro sangue tutto il sangue mandaloriano che hanno versato!”.
“Io ci sto” disse a quel punto una voce profonda alle loro spalle “da troppo tempo sono qui nascosto in questo buco polveroso…è arrivato il momento di asciugare le mille lacrime che abbiamo versato[1]”.  
Era Paz Viszla[2]
“E sono certo che anche gli altri ti aiuteranno”.
L’Armaiola annuì.
“Questa è la via” disse, tendendo la mano al compagno che aveva di fronte.
“Questa è la via” ripetè Paz.
“Questa è la via” disse a sua volta Din Djarin.
Nessuno nella stanza avvertì l’impercettibile esitazione nella sua voce.
 
ooOoo
  

Seduta al posto di pilotaggio della Razor Crest, Ann Leary infilò il comlink nell’orecchio destro e attivò la linea di comunicazione criptata.
Sapeva bene che non poteva fidarsi di Gideon e questa era la ragione per la quale aveva deciso di avvertirlo soltanto quando era arrivata vicino a Exegol, il pianeta segreto dei Sith; era lì che si trovava il corpo che aveva ospitato lo spirito dell’Imperatore dopo la sua battaglia contro Darth Vader e la distruzione della Morte Nera.
Ma quel corpo si era rivelato troppo debole per contenere tutto il suo potere e così, da anni, una piccola guarnigione di fedelissimi tentava di crearne uno nuovo, più resistente, che l’avrebbe reso davvero immortale.
Erano tutti lì e aspettavano con ansia il piccolo. La risorsa, come lo chiamavano, come se questo potesse far sembrare la cosa meno raccapricciante.
Una muta di cani pronti a sbranarlo.
Rabbrividì per un istante.
Ed era lei a portarcelo.
Però non c’era altro modo, ne era consapevole.
E, poi era certa che Din li avrebbe trovati…con tutto il suo cuore sperava che lui avesse capito, che avesse saputo cogliere i segnali che gli aveva lasciato per raggiungerli.
Dopo qualche istante udì la voce di Gideon.
“Agente Leary” disse, in un tono che voleva sembrare beffardo “cominciavo a preoccuparmi: non ci hai dato notizie per un sacco di tempo …”.
Non poteva guardarlo in faccia, ma avrebbe giurato che sulle sue labbra aleggiava un viscido sorriso senza allegria.
“Qui stavamo cominciando a pensare che stesse iniziando a piacerti avere a che fare con il Mandaloriano”.
Lei fissò le stelle che occhieggiavano dal finestrino, le braccia lungo i fianchi, le mascelle contratte.
Esitò un momento.
Possibile che avesse capito?
Si passò una mano sul viso e scosse piano la testa.
No, non poteva averlo capito, uno come lui non ne sarebbe mai stato in grado.
Grande Bastardo, non ti smentisci mai… è così chiaro che mi stai provocando.
“No” rispose, ferma “non è così: ho con me la risorsa”.
Dall’altra parte si udì un suono stridulo. Evidentemente, quella era la sua risata.
“Molto bene” disse l’altro dopo un istante “Sapevo che non mi avresti deluso: appena arrivi alla base lascia il Bambino in consegna alle guardie che troverai ad spettarti sulla pista di atterraggio”.
“Assolutamente no” replicò lei “è troppo importante…lo consegnerò solo nelle sue mani”.
“Non mi fido di nessuno tranne che di lei” aggiunse, sperando che l’adulazione funzionasse. Di solito funzionava alla grande con tipi come quello. 
Moff Gideon esitò per una frazione di secondo prima di rispondere.
“Va bene” disse poi “ti aspetto”.
 
ooOoo
 

Greef Karga rivolse a Cara uno sguardo stupito.
“Il trasmettitore funziona ancora: incredibile” disse.
“Sto ricevendo il suo segnale. È diretto verso…” si avvicinò di più allo schermo e pigiò alcuni tasti. Poi si voltò verso gli altri uomini, raggruppati alle sue spalle.
“Strano” esclamò “è diretto verso un punto dove non dovrebbe esserci nulla, secondo tutte le mappe stellari che ho consultato”.
“E’ chiaro” replicò Mando “che si tratta di una base segreta”.
“E tanta segretezza” aggiunse Paz “mi fa pensare che davvero lì stiano facendo qualcosa di grosso”.
“Oppure che lì ci sia qualche pezzo grosso…” chiosò L’Armaiola.
Era certamente un’ottima occasione, considerò: lui avrebbe salvato il suo trovatello e loro sarebbero riusciti a fare molto male agli imperiali. Oh sì, molto male.
Probabilmente non sarebbe stato facile tornare indietro, ne era consapevole, ma l’opportunità di vendicare la rovina del loro pianeta era irresistibile; era proprio lì, davanti a loro, grazie a Mando e al suo bambino misterioso.
“Se è così” Cara riflettè ad alta voce “quel posto sarà sorvegliatissimo: come faremo ad avvicinarci senza che le loro difese antiaeree ci facciano saltare in aria prima di toccare terra?”.
“Forse ho io la soluzione” intervenne Greef “Ci sto pensando da quando questa cosa è iniziata: mesi fa, quando abbiamo scacciato le truppe di Gideon da Nevarro siamo riusciti a impadronirci di un loro incrociatore leggero. Probabilmente ci sono ancora i codici di sicurezza memorizzati”.
“O comunque” concluse Mando “anche senza i codici, avremo la possibilità di avvicinarci senza che si insospettiscano”.
Scattò verso la porta.
“Muoviamoci!” disse.
E speriamo di fare in tempo
 
ooOoo
 
Uno dei giovani soldati di guardia davanti alla porta la salutò in modo formale.
“Le sue armi, per favore…” le disse poi, guardando dritto davanti a sé “il Moff ha ordinato che lì dentro nessuno debba entrare armato”.
Ann lo fissò per un istante.
Ecco, questa non ci voleva! Meglio, adeguarsi, però e non destare sospetti.
Senza mutare espressione, afferrò le due grosse pistole che portava alla cintola e le porse al secondo soldato, che le prese in silenzio.
Subito dopo spostò lo sguardo sulla culletta bianca che la seguiva, sospesa a mezz’aria.
L’aveva comprata sul pianetino dove si erano fermati, nella speranza che potesse proteggere il piccolo se si fosse trovato nel bel mezzo di un conflitto a fuoco.  
“E’ lì dentro?” si azzardò a chiedere dopo un istante.
“Già” replicò lei “e francamente non vedo l’ora di consegnarlo e andarmene da qui. Perciò…”
Sorrise, luminosa. Ma era una luminosità fredda, controllata, come quella delle lucciole o di qualche fulgente creatura degli abissi.
“…vi dispiacerebbe lasciarmi passare?”
Un istante dopo era in una sala non molto grande, piena di schermi e macchinari che non conosceva.
In fondo si scorgeva una seconda porta chiusa: evidentemente lui era lì dentro, sorvegliato e protetto dai suoi più fedeli servitori.
Gideon era seduto e, quando la vide entrare, si alzò in piedi senza fretta e la fissò, spostando subito dopo lo sguardo sul marchingegno volante che era accanto a lei. 
Il dottor Pershing le si avvicinò, un sorriso viscido sotto la barbetta ispida.
“Ann, ce l’hai fatta!” disse. La sua voce fremeva d’impazienza.
Si avvicinò alla culletta.
“Mostracelo” disse il Moff, senza tradire alcuna particolare emozione. Era chiaro che non si fidava completamente e voleva una dimostrazione.
La ragazza annuì e toccò i comandi sul suo vambrace, facendo schiudere le due valve metalliche. Il Bambino sporse la testa e guardò i due uomini.
“Ehi!” fece il dottore, tendendo le braccia verso di lui con un’aria apparentemente amichevole “Mi riconosci?”.
 
 
Note&credits: il titolo cita ovviamente il grande romanzo di John Steinbeck (non il mio preferito, in verità, ma mi sembrava ci stesse bene); Exegol, seguendo Jawapedia, è un pianeta deserto delle Regioni Ignote, individuabile secondo le leggende come il mondo segreto dei Sith.
Su questo oscuro pianeta Darth Sidious si nasconde per progettare la sua vendetta, lo vediamo come ambientazione delle scene finali di “Star Wars: l’ascesa di Skywalker”; qui ho provato a mettere insieme la trama dei film e quella di “The Mandalorian”, seguendo gli indizi che erano stato disseminati qui e là durante le prime due stagioni della serie.
Grazie a coloro che leggono e seguono questo racconto, ormai giunto alle battute conclusive. 😊
 
[1] Il riferimento è alla “Notte delle mille lacrime” citata nella serie, tragico evento che vide l’Imperatore ordinare di radere al suolo Mandalore, uccidendo quasi tutti i suoi abitanti e impadronendosi del beskar.   
[2]Paz Vizsla è uno dei guerrieri del clan mandaloriano su Nevarro; appare nell’episodio “Il peccato”, dove inizialmente litiga con Din accusandolo di aver collaborato con l’Impero, ma in seguito lo aiuta a fuggire dal pianeta dopo aver salvato Baby Yoda.
 

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Capitolo 14
*** Tutto il male dell'universo ***


 
 
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
 

Tutto il male delll'universo 
 
 
Grogu socchiuse gli occhi, sollevando appena una mano.
Certo che lo aveva riconosciuto…ma stavolta le cose sarebbero andate in modo diverso.
D’un tratto, il giovane medico crollò a terra con un gemito, si portò le mani alla gola e iniziò a contorcersi e a tossire.
Nello stesso istante, Ann sferrò un violento calcio al petto di Gideon, che fu colto di sorpresa e perse l’equilibrio vacillando all’indietro.
Prima che potesse afferrare la spada che portava alla cintura, la ragazza continuò a colpirlo con tutta la sua forza. Uno, due, tre pugni al volto, che lo fecero cadere a terra con un gemito sordo, mentre il sangue cominciava a colargli dal naso e dalla bocca.
In un balzo gli fu accanto, si chinò su di lui per controllare che fosse fuori combattimento e gli prese il blaster.
La spada oscura no, quella non sarebbe servita per ciò che aveva in mente.
Si rialzò e, seguita dalla culletta che oscillava dietro di lei, aprì la porta.
La richiuse dietro di sé e sparò un paio di colpi contro la serratura: ecco, così sarebbero stati tranquilli almeno per un po’.
Strinse saldamente l’arma e avanzò con estrema cautela tra i macchinari sconosciuti le cui sagome emergevano dalla penombra della grande sala. Attorno a loro, il silenzio.
Spazi vuoti e privi di eco che la facevano rabbrividire per la loro assoluta mancanza di suono; camminò lentamente, gli occhi ben aperti per cogliere il minimo segno di vita, con i sensi in allerta nell’attesa di vederlo.
Di vedere lui.
All’improvviso, se lo trovò di fronte: ne distinse i contorni sfocati - una macchia di bianco e nero dietro gli spessi vetri della capsula dove riposava, in attesa di ridestarsi più potente di prima.
E lì, in quel pozzo di oscurità simile a un baratro, all’improvviso c’era tutto il male che aveva mai conosciuto.
Un male che non avrebbe mai capito davvero.
C’erano tutte le cose senza nome, c’era il nulla in agguato.
Lì, nell’ombra raccolta, dietro cristallo, metallo e cavi contorti, viveva l’odore del decadimento.
Lì, in quel punto esatto, finiva il suo mondo, sostituito dal male universale.
In quell’istate si rese conto di essere da sola. Sola con il bambino di fronte al male assoluto.
Le sue mani tremarono impercettibilmente.
Era così vicina all’orrore, in quel momento, che tutto poteva accadere.
L’oscurità alla quale lui apparteneva avrebbe potuto avanzare in fretta, afferrarla, inghiottirla e …in un solo istante tutto sarebbe finito.
Guardò ancora davanti a sé, nel buio appena attraversato da fioche lucine rosse.
Sapeva che non poteva essere così - probabilmente lui non poteva ancora sentirla - ma le sembrava che il baratro oscuro in cui lui si trovava si stesse tendendo, facendo vibrare le sue fibre nere verso di lei, contro di lei, attingendo potenza dall’universo circostante.
Scosse la testa e strinse le labbra, riprendendo il controllo di sé. 
In silenzio, cercò a tentoni il pulsante giusto.
La stanza venne invasa la una luce fredda e la capsula si aprì lentamente con un sibilo sottile, riversando nella stanza spire di denso vapore biancastro.
Al centro di quella c’era lui, come una solida nube di fumo grigionero che le fosse stata alitata contro.
Dopo qualche secondo aprì gli occhi e si guardò intorno, appena sorpreso.
“Imperatore!” disse Ann a voce alta “O dovrei chiamarti Darth Sidious? Hai capito chi sono?”.
Lui la guardò per un lunghissimo momento e poi i suoi lineamenti si contorsero in una smorfia beffarda.
“S-sei una psylocke” rispose - la sua voce aveva un che di liquido, di melmoso, come se provenisse dalle profondità di un pozzo oscuro “pensavo che non ce ne fossero più…”
“Esatto!” Ann fremeva di rabbia “Sono l’ultima. L’ultima del mio popolo, che tu hai sterminato…un intero pianeta distrutto, miliardi di persone innocenti…tutto perduto per sempre”.
“Il mio era un popolo pacifico, dedito allo studio e alle arti, non rappresentavamo una minaccia per te…perché lo hai fatto?”.
L’Imperatore sorrise, dato che la domanda gli pareva davvero strana.
Perché? E da quando in qua il male ha bisogno di una motivazione o di una spiegazione?
“Il caso ha deciso per voi” replicò “Per me era del tutto indifferente colpire voi o altri. Dovevo solo dare l’esempio e poi il terrore avrebbe impedito ogni tentativo di ribellione”.
Ann deglutì, ricacciando indietro le lacrime.
Senza una ragione, senza una spiegazione, il suo mondo era stato distrutto
Il signore oscuro fece un passo vacillante verso di lei.
“Vi conosco, siete una razza patetica, con poteri deboli e inutili: nemmeno telepatia…”
Il suo volto rugoso, terribilmente bianco, si contrasse in un ghigno beffardo.
“Soltanto su per una razza e giù per un’altra” disse lentamente, guardandola “Separazione completa da una struttura corporea a un’altra”.
Ann scagliò per terra il blaster e face un passo in avanti verso di lui.
“Da quando hai distrutto il mio pianeta non ho fatto altro che cercare di capire come vendicarmi e quando ho scoperto che eri ancora vivo mi sono persino arruolata nei servizi segreti dell’Impero per trovarti. Anni e anni a fingere…e adesso sei qui, di fronte a me. Finalmente”.
“Dunque sei venuta fin qui per uccidermi?” domandò, la voce crepitante per il sarcasmo “E come pensi di fare? Questo corpo è debole, è vero, ma il mio potere è ancora troppo forte per te”.
Ann lo fissò, i suoi occhi mandavano lampi di rabbia.
 “Per me sola forse sì” rispose “Ma non per noi due insieme”.
Fece avanzare la culletta, che si aprì di nuovo.
Grogu per la prima volta levò i suoi grandi occhi scuri sull’Imperatore della galassia che, a sua volta, lo fissò.
Stavolta la sua espressione era di pura meraviglia.
E così era lui, la creatura di cui aveva sentito parlare…sì, avvertiva tutto il suo potere.
Sospirò pesantemente e chiuse gli occhi per un istante.
“E’ vero, è potente nella Forza” mormorò “ma non ancora abbastanza…”
Si girò pesantemente verso di lui, come un grosso masso rivoltato con una leva, e sollevò le mani - due orrendi moncherini deformi - come per afferrare qualcosa.
Ma Ann era pronta.
La sua mente scivolò fuori. Una frazione di secondo dopo, era dentro di lui: si sistemò, diramando i suoi pensieri come le lunghe zampe di un ragno.
Combattendo contro il disgusto, era lì: nel suo cervello rigonfio come un fungo velenoso, nel suo cuore, nel suo corpo putrescente non morto né vivo.
Sorrise nell’oscurità.
All’improvviso, l’imperatore era cieco. Cercò di muovere la testa, ma i muscoli non gli obbedivano.
Sbattè le palpebre senza ciglia, ma niente. Non vedeva più niente.
Era chiuso nel suo buio.
E dal buio facce bianche, torturate, scivolavano attraverso la sua visione interiore: puntavano le loro dita scheletriche contro di lui, lo accusavano, lo maledicevano! Quanti erano!
Lanciò un grido, chiamando a raccolta tutte le sue forze.
La cecità passò. Il suo vecchio corpo malandato era viscido di un sudore freddo che non cessava.
Scosse violentemente la testa.
Davanti agli occhi ora gli balenavano migliaia di bollicine lucenti, ognuna munita di microscopici occhi che gli frugavano nel cervello.
Stava impazzendo? Lui che aveva dominato l’intera galassia?
No, era la ragazza che toccava la sua mente - ora l’aveva capito - trattenendo e rigirando i coriandoli dei suoi pensieri.
Era una cosa inconsueta, perché di solito era lui a insinuarsi tra i pensieri delle persone, a dominare la mente dei più deboli. E invece adesso si sentiva lui stesso troppo vulnerabile per difendersi da quell’attacco.  
Ora il Signore Oscuro si ritrovò sulla riva di un fiume fangoso e livido. Il cielo sulla sua testa era scosso e attraversato da lampi violenti.
Inciampò e cadde lungo disteso nell’acqua torbida.
Gemiti, lamenti orribili, grida di dolore rimbombavano forti nelle sue orecchie.
E ora, a uno a uno, una processione di corpi deformi, gonfi, decomposti, galleggiava sull’acqua: corpi dal biancore di vermi, girati a faccia in su, che galleggiavano come molli marionette. Mentre passavano accanto a lui, uno a uno si voltavano, lo guardavano con i loro occhi morti e lo maledicevano.
Per la prima volta nella sua lunga vita, l’Imperatore tremò.
Era quello che lo aspettava? Tutto il suo potere, dunque, non l’avrebbe salvato dalla dannazione eterna?
Non era possibile, lui era il più forte, lo era sempre stato. Doveva reagire.
D’un tratto sentì la morsa allentarsi e respirò meglio, come liberato da una prigione.
Sollevò le braccia contro il piccolo verde che lo guardava con gli occhi sbarrati.
Ann scattò di nuovo sull’attenti: era stato un errore perdere il controllo per un istante e lasciare il corpo dell’Imperatore!
Ma aveva sentito dei rumori dall’altra parte della porta, aveva sentito la sua voce.  
Per un istante aveva pensato: vado a vedere, forse sono loro. Forse lui è arrivato, è qui.
La sua mente era balzata veloce oltre la porta che stava cedendo sotto i colpi delle armi da fuoco; solo per un istante li aveva visti: erano lì, lui e altri come lui.  
Ma era stato solo un momento.
Adesso, come un uccello in gabbia, agitò le ali e sbattè contro le pareti della testa di quello che era stato il senatore Palpatine.
Lui resisteva.
Ann prese un respiro profondo e ancora una volta diramò i suoi pensieri.
Non avrebbe dovuto lasciare la presa nemmeno per un attimo. Non con lui.
Ma era uno sforzo terribile controllarlo, il suo potere rischiava a ogni istante di prendere il sopravvento.
Mentre le sue energie si affievolivano… il suo tempo era alla fine.
Con un ultimo sforzo supremo, Ann trasfuse la sua mente nelle mani del Signore oscuro, nel suo cuore, nella sua testa.
Lui cercò di sollevare le mani.
“Sta’ fermo” disse lei, a denti stretti.
“No!” gridò lui, respirando rocamente.
“Sta’ fermo, ho detto” ripetè Ann, implacabile.
Lui si bloccò, le braccia rigidamente inchiodate lungo i fianchi.
Grogu invece sollevò entrambe le mani verso di lui ed emise un suono che era una sorta di sibilo.
Socchiuse gli occhi per il tremendo sforzo e il collo dell’Imperatore scricchiolò, mentre un rantolo gli sfuggiva dalle labbra avvizzite.
La sua mente si dibatteva come un animale impazzito per il terrore, ma il suo corpo era immobile, imprigionato in una morsa ferrea che non lo lasciava.
Ansimò, la vista offuscata, e aprì la bocca in cerca d’aria.
Ma non riusciva a respirare.
 
ooOoo
 

Ann sentì che la mente dell’Imperatore si agitava pazzamente, cercando di sfuggirle con le sue zampe da aracnide; ma aveva braccia e gambe come paralizzate, inchiodate nella morsa ferrea della guerriera.
Confusamente, percepì che la porta si apriva. Voci, grida, il rumore degli spari.
Con la coda dell’occhio vide Din in piedi che le puntava contro la sua arma.
Aprì la bocca per gridare, ma non ne uscì alcun suono.
Poi, all’improvviso, annaspò, tentando di respirare, e in quell’istante una scarica elettrica la trafisse, rubandole l’aria dai polmoni e facendola gridare per il dolore.
Serrò le mascelle, disperata e furiosa: no, non adesso!
Con un grido la sua mente esausta lasciò la presa e scivolò di nuovo nel suo corpo.
Il suo corpo che ora giaceva a terra, piegato su un fianco; accanto a lei, una macchia cremisi s’allargava velocemente sul pavimento. 
Cara Dune si era chiesta fino all’ultimo chi ci fosse lì, cosa nascondesse quell’orrendo pianeta di scabra roccia nera, polvere e continue tempeste di fulmini che squassavano l’atmosfera.
Chi si celava in quel posto infernale?
Come in risposta alla sua muta domanda, all’improvviso ebbe la sensazione che la fredda luce che pioveva dal soffitto si oscurasse, per una frazione di secondo.
Subito dopo lo vide, piccolo e curvo, avvolto in un mantello scuro: eccola, la terribile belva morta e vivente insieme!
Un essere che era insieme uomo e mostro, pallido, rugoso, infinitamente vecchio e infinitamente crudele.
Un abominio partorito dalla mente di un pazzo.
Fece un passo verso di lei, silenzioso e orribile, le mani intorno alla gola.
Poteva sentirlo respirare affannosamente: un incubo arido, freddo come vento che non agitava l’erba.
Non toccava il mondo, ma portava con sé il suo silenzio e la morte.
Afferrò per un braccio il Mandaloriano che le stava accanto, il blaster ancora fumante in pugno.
Immobile, come paralizzato da ciò che aveva appena fatto.
Lo scosse con violenza.
“No!” gridò “Non è lei il nostro nemico, è lui! Non lo riconosci? E’ lui, l’Imperatore…è lui che ha distrutto Alderaan!”.
Senza pensarci un istante, aprì il fuoco contro il vecchio sovrano, ancora ansimante.
Mando fece due passi indietro e spostò lo sguardo sul Bambino, che se ne stava immobile nella culletta volante e lo fissava di sotto in su, i grandi occhi velati e pieni di tristezza.
Un brivido lo attraversò, perché aveva capito.
L’arma gli cadde di mano.
La stanza si era riempita, nel frattempo gli altri mandaloriani erano riusciti a sopraffare i soldati di guardia e avevano circondato il vecchio imperatore morente.
Adesso erano tutti intorno a lui, le armi spianate.
Tutti tranne uno.
Din Djarin fece ancora un passo indietro e si guardò le mani. Tremavano.
 
ooOoo
 
Per Ann Leary ci furono il silenzio e il rapido pulsare del sangue nelle vene.
Poi, un lampo accecante.
Cercò di respirare, ma il respiro non volle venire.
Si sentì scagliare lontano e indietro; tentò di muoversi, ma era come incatenata.
E di nuovo ci fu il silenzio, con l’odore acre del fumo e la durezza del pavimento sotto di lei.
Il rosso e l’arancio dietro gli occhi chiusi. E il dolore.
Respirò profondamente e sbatté le palpebre più volte; fece scivolare la mano verso il fianco, dal quale s’irradiavano fitte spirali di dolore, e la ritrasse bagnata di sangue.
Si morse le labbra e voltò la testa, ansimando: lui era lì, accanto a lei.
Non poteva vederlo, ma era sicura che sulla sua faccia ci fossero terrore e disgusto. 
Il cacciatore di taglie si inginocchiò accanto a lei che giaceva immobile, gli occhi socchiusi, il viso pallidissimo.
Un filo di sangue a malapena le bagnava il labbro inferiore.
La sua mano tremava quando, con tutta la delicatezza che poté, le scostò dal volto una ciocca di capelli umidi di sudore gelato.
Che cosa aveva fatto?
“Mi dispiace…” mormorò però Ann, tentando un debole sorriso “Mi dispiace di averti ingannato, ma non c’era altro modo: lui ha distrutto il mio pianeta, ha sterminato il mio popolo e io dovevo vendicarlo”.
Un colpo di tosse la fece gemere e tremare.
“T-ti prego” ansimò “dimmi che lo capisci”.
Lui annuì perché sì, era vero, lo capiva.
Se avesse potuto, se non fosse stato soltanto un bambino allora, l’avrebbe fatto anche lui.
Lo capiva perfettamente, ma troppo tardi. 
“Maledizione!” scattò l’uomo, assestando un pugno al pavimento.
La sensazione di essere, d’improvviso, del tutto impotente lo rendeva furioso.
Ann con sforzo si voltò verso il centro della stanza, ma riuscì a vedere solo i mantelli dei mandaloriani.
Spostò lo sguardo sull’uomo accanto a lei, rivolgendogli una muta domanda.
“Sì” rispose lui “è finita. L’Imperatore è morto”.
Adesso giaceva sul pavimento, immobile. Il sangue che gli usciva dalla bocca, le pieghe della veste insensate, un occhio chiuso, l’altro bianco e spalancato.
Ann sorrise con dolore.
“Ascoltami” sussurrò.
Sentiva che non c’era molto tempo e il dolore avanzava, e c’erano delle cose che doveva ancora dirgli.
Ma era maledettamente difficile farlo.
“Ora dovete andarvene” riuscì solo a mormorare.
Lui non rispose.
 “V-voglio che tu te ne vada” ripeté “porta via il Bambino da questo posto”.
“No, io rimango qui con te”.
Ann scosse il capo. Si sentiva esausta e aveva in bocca un sapore di bile.
“…sempre così testardo…”
“Non avere paura” rispose il Mandaloriano “qui non morirà nessuno: io non morirò, tu non morirai, ce ne andremo da qui, troveremo un dottore e…”.
troveremo un dottore, andrà tutto bene”.
“Non lo capisci che per me è troppo tardi?” riuscì ad articolare con sforzo.
Ogni respiro era doloroso come una pugnalata, l’agonia si stava chiudendo su di lei come una morsa
Ma io sarò con te ovunque tu vada.
Sempre.
“Perdonami” disse lui a un tratto, cercando di controllare il tremito che gli attraversava la voce. Avrebbe voluto dirle tante altre cose, ma non ne era capace.
“N-non è colpa tua” lo interruppe lei, con voce appena udibile “il mio ciclo vitale era alla fine…la mia specie invecchia velocemente…”.
Lo fissò, pensando che se solo fosse riuscita a guardarlo negli occhi per una volta non le sarebbe dispiaciuto andarsene così presto.
Cosa gli passava per la mente? Stava soffrendo? Non l’avrebbe saputo mai, perché di fronte a lei c’era solo il riflesso freddo e metallico del beskar.
A quel punto, senza dire niente, lui premette la testa contro la sua guancia e l’abbracciò; Ann tremò, il freddo del metallo contro la sua pelle acuì il dolore.
Faceva dannatamente male e lei sentiva le lacrime inumidirle le palpebre.
Non ti metterai a frignare ora, vero? Non sei mai stata una così e vuoi cominciare proprio adesso che il tuo tempo sta per scadere?
Perché lo sai che è finita.
Non prendertela: in fondo non ti è andata male, ci sono cose peggiori di questa.
Prima o poi tocca a tutti e adesso è toccata a te. Del resto, lo sapevi da tempo.
Non dirmi che ora che ci sei vicina hai paura?
Sei stata molto fortunata: fino a un certo punto hai avuto una bella vita, hai fatto quel che volevi con chi volevi, infischiandotene delle regole e delle convenzioni… oh, sì, hai avuto una vita molto bella e questi ultimi giorni con lui l’hanno resa migliore di quanto potesse mai essere.
E allora perché è così duro andarsene proprio adesso? Perché?

Riuscì ancora una volta a trattenere le lacrime e giacque completamente immobile, cercando di nascondere a se stessa che le pareva di stare scivolando piano piano fuori di sé, in un’oscurità senza nome.
Poi, d’un tratto, accadde una cosa.
Senza dire niente, lui aveva afferrato il bordo inferiore del casco e lo stava sollevando lentamente.
Un istante dopo, lo lasciò cadere sul pavimento e si voltò verso di lei. Per la prima volta Ann lo guardò in viso e la sofferenza che vi lesse la rese per un istante incomprensibilmente, follemente felice.
Sollevò una mano e gli toccò la guancia ispida.
Poi chiuse gli occhi.
Il Mandaloriano guardò dentro di lei, nel profondo, e trattenne la mano nella sua. 
Non disse niente, ma il suo volto cominciò a rilassarsi lentamente e le rughe sparirono, la bocca perse durezza e divenne morbida.
Guardò ancora nel viso che aveva davanti a sé.
 
Sei una stupida, smettila!
La maggior parte delle persone non ha mai avuto la fortuna di amare qualcuno; tu invece l’hai avuta a dispetto di tutto, anche se forse non la meritavi.
E questa, che duri tutta la vita o solo pochi giorni, è la cosa più importante che possa capitare; è vero, tu la possiedi e sei fortunata, anche se tra poco morirai.
Questo è ciò che accadrà, che sta già accadendo.
Devi riconoscerlo e capire che non avrai nemmeno più un giorno accanto a lui: non un lungo percorso, non vivere insieme, non tutto ciò che la gente si sente in diritto di desiderare.
Non tempo, non felicità, non vecchiaia.
Niente svegliarsi insieme, né addormentarsi l’uno accanto all’altra.
Per te non esiste più “il resto della vita”, è un’espressione che non ha più senso: c’è solo oggi, non c’è più domani.
Basta, stai diventando melensa!
Ragiona: non è forse meglio così? Una cosa del genere tra voi due non ha alcun senso, è pura fantasia.
Anzi, follia.
E allora perché d’improvviso desideri cose che avevi sempre considerato puerili? Perché le desideri proprio quando sai che non potrai mai averle?
Oddio, vorrei ridere… se solo non facesse così male…
No, rifletti, è meglio che sia andata in questo modo.
Meglio, sì.
Meglio.  
No, io non voglio!
Non adesso.
Non ancora. 
Non così.
 
Finalmente il volto le si rigò di lacrime, come acqua pura sulla ghiaia pulita e levigata.
Per un attimo cercò di dimenticare tutto, cercò di sentirsi felice per ciò che le era stato concesso, cercò di volare oltre la sua vita, oltre l’indifferenza, il male, i sogni, l’attesa.
Oltre la sua fottuta, stupenda, albachiara che non sarebbe mai arrivata.
Ann trasse un respiro profondo, riaprì gli occhi e guardò in alto.
Proprio sopra di lei, dove prima c’era il soffitto di metallo grigio adesso s’apriva un vasto cielo in cui, tra le nubi color inchiostro, balenava come un piccolo foro turchino, immensamente profondo.
Lo fissò e all’improvviso si accorse - e fu per lei come se ciò avvenisse per la prima volta - dell’incredibile altezza del cielo.



 
Note&credits: Alderaan è il pianeta natale di Cara Dune, distrutto anch’esso dalla Morte Nera in “Una nuova speranza”;  chi ha guardato la serie sa che alla fine della seconda stagione il gesto di Din di rivelare il suo volto è dedicato al piccolo…qui ho immaginato una conclusione differente, con analogo valore simbolico ma una chiave di lettura decisamente più romantica! Il “monologo interiore” di Ann richiama a tratti i pensieri di Robert Jordan nella parte finale di “Per chi suona la campana”, un altro dei miei romanzi preferiti.
Grazie sempre a chi legge, siamo alla fine…o magari no? 😊

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Capitolo 15
*** EPILOGO ***


EPILOGO
 

Il vecchio re sistemò la testa canuta sul cuscino.
“Così va meglio” bisbigliò.
Distese braccia e gambe sotto la coltre di lenzuola candide e coperte raffinate, come un’impronta fossile nel bianco.
Il suo corpo cedeva, ma i suoi pensieri erano incredibilmente chiari. 
Ed era grazie a lui, che gli stava accanto e capiva tutto, senza bisogno di parole.
Del resto, tra loro due le parole non erano mai state davvero necessarie.
 
Allora ero un uomo giovane e arrogante e non sapevo quanto l’amavo. Lo capii solo alla fine, quando la tenevo tra le mie braccia per l’ultima volta.
Non conoscevo tutta la sua storia, ma l’amavo.
Di quel tipo di amore che arriva prima di qualunque senso morale, di qualunque comprensione. Come il vento e il mare e la sabbia sdraiati vicini per sempre.
Poi, quando ho scoperto tutto ho capito che il mio istinto su di lei non si era sbagliato.
 
Si voltò appena verso il piccolo viso dalla pelle verde, chino su di lui.
 
La gente cresce, invecchia.
Noi siamo cresciuti, invecchiati.
Ma lei non è cambiata, ha ancora i suoi strani capelli, è ancora giovane e bellissima.
La morte non permette di crescere o di cambiare.
Lei sarà giovane per sempre e io l’amerò per sempre.
 
Ricordò ancora quei momenti: da quelle dita che perdevano calore contro la sua guancia aveva sentito un fuoco gelido entrargli sotto la pelle, scendere lungo il braccio e il corpo, srotolando il filo del suo essere in modo incredibilmente doloroso.
Alla fine aveva trovato il suo cuore, morbida rosa rossa sospesa nel buio, e ne aveva bruciato i petali delicati, lentamente, uno ad uno. 
Ansimò, il respiro sempre più difficile.
Il momento era vicino.
Grogu non riusciva a staccare gli occhi dal suo volto, così familiare eppure tanto diverso da come lo ricordava.
Doveva andare così: gli umani sono deboli, la loro vita non dura che il battito d’ali di una farfalla. Lo sapeva, lo sapeva bene.
Una delle prime cose che il suo Maestro gli aveva spiegato era che la morte è una parte naturale della vita e che bisognava gioire per coloro che, morendo, si trasformano nella Forza.
E allora perché era così doloroso lasciarlo andare?
Guardò il suo vecchio volto avvizzito contorcersi in una smorfia di dolore.
Se era così che doveva finire, almeno avrebbe potuto aiutarlo un’ultima volta.
Proiettò le loro menti all’indietro.
“Molto tempo fa” sussurrò allora il vecchio re “feci un sogno”.
Era così bello e me lo stavo godendo così tanto, quando qualcuno mi svegliò bruscamente
Dov’ero? Cosa stavo facendo?
Era difficile riprendere il filo della sua lunga vita, in quel momento in cui tutto si confondeva fuori e dentro di lui.
Alungò la mano affilata verso la macchia verde indistinta al suo capezzale.
Ecco, sì, eccolo
Sorrise debolmente.
L’aveva trovato.
Lo vide formarsi quietamente nella sua testa: un sogno sognato infiniti anni prima sulla riva di una laguna sconosciuta, al margine di una giungla sconosciuta, su un pianeta sconosciuto.
Ora lasciò che quel vecchio sogno lo toccasse e lo sollevasse e lo facesse scivolare al di sopra del letto che riusciva a malapena a distinguere sotto di lui.
Nel corridoio, oltre la porta chiusa, si udiva l'eco di passi frettolosi, di voci lontane.
Non importava.
“Va tutto bene” bisbigliò a un tratto una voce accanto a lui.
Si voltò e Ann Leary fece un passo verso di lui, splendente.
Il suo sguardo lo accarezzava.
Gli tese le mani, come quella lontana volta - un milione di anni fa, in un mondo diverso - ma con un gesto mille volte più intenso, che gli fece battere forte il cuore.
Pensava le stesse cose che pensava lui, le stesse cose che avevano pensato insieme tante altre volte senza dirsele mai.
In fondo, era veramente assurdo - e nessuno l’avrebbe capito mai - che conoscendosi così poco ci si potesse amare così tanto.
Quando si erano incontrati erano entrambi diversi e molte cose da allora erano cambiate. Eppure gli sembrò che fossero giorni - anzi, ore - tutti quegli innumerevoli anni passati, quegli anni di lontananza, la solitudine e tutto il dolore.
Ore.
Anzi, minuti.
Nessuno dei due parlava.
Non ce n’era bisogno: lui era lì e lei l’aveva aspettato.
Nessun altro uomo per lei, nessun’altra donna per lui erano mai esistiti.
Quella era la verità, adesso lo capiva.  
Dinnanzi ai suoi occhi il paesaggio cominciò a vibrare, avvolto in una nebbia sempre più fitta.
Si guardò intorno disorientato.
La sua mente vacillava, confusa.
“D-dove devo andare?” chiese il vecchio re.  
Ann si chinò su di lui, sorridendo.
“Con me” rispose.
 
FINE
 


Note&credits: i pensieri di Grogu sulla morte riecheggiano le frasi pronunciate da Yoda in “La vendetta dei Sith”. Ci sono tracce dei miei racconti preferiti di Bradbury ("Il lago", "Il commiato") e di qualche bel racconto del misconosciuto Giorgio Scerbanenco. 
E così, cari lettori, siamo arrivati alla fine di questo racconto: è una storia a me molto cara, scriverla mi ha tenuto compagnia durante i mesi del secondo lockdown e mi ha aiutato a combattere la tristezza e l’isolamento. Spero di essere riuscita a trasmettere a chi l’ha letta anche solo parte delle emozioni che ho provato io a scriverla.
Grazie a tutti coloro che l’hanno letta e la leggeranno, a chi ha commentato ogni capitolo e a chi si limita a dare un’occhiata.
Grazie in particolare agli amici MaxT, meiousetsuna ed evolawho che l’hanno seguita fin dall’inizio.
Vi auguro un’estate serena e follemente divertente. Alla prossima 😊
 
 

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