Quegli Ultimi Cent’anni

di Lucreziaa31
(/viewuser.php?uid=1180038)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ~ un treno, un uomo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ~ “su piccola, vieni a dormire.” ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ~ 13 anni più tardi ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ~ “Daktulorodos, narrami ancora di codesto uomo...” ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ~ Sembrava un giorno noioso... ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ~ ricerche senza fine ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ~ Tra il sogno e la realtà ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ~ la notte della verità ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ~ l’alba dalle dita di rosa che lasciò spazio alle tenebre ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ~ un treno, un uomo. ***


I due giorni più importanti della vita sono il giorno in cui sei nato e il giorno in cui scopri il perché.” (Mark Twain)
 

«Papà ma quando torniamo a casa?» ogniqualvolta gli occhioni azzurri di quella bambina si illuminavano in quel modo, significava una sola cosa: Leah era confusa. E aveva soltanto bisogno che qualcuno le desse certezze.  

«Non lo so tesoro, non lo so.» il padre le accarezzò dolcemente i capelli. Sforzò un sorriso, dopotutto doveva infondere tranquillità a sua figlia, anche se in fondo era estremamente preoccupato. Non sapeva nemmeno lui quando sarebbero tornati. Sulle spalle portava un grosso zaino nero, pieno delle cose essenziali che sarebbero servite ad entrambi, nulla di più.

Quel nanerottolo dai capelli castano scuro non faceva altro che creare scompiglio in ogni singola situazione, ma quella mattina aveva la piccola testolina soltanto piena di domande.

Era talmente confusa che non riusciva a staccare la minuscola manina dall'orlo della manica della giacca del genitore.

Frank odiava vivere di nuovo quella situazione, credeva di essere fuggito per sempre. Non succedeva da anni, da quando aveva smesso. E non era concepibile che sua figlia fosse messa in mezzo a quel disastro che aveva creato lui, ma era inevitabile. Non poteva lasciarla a casa ad aspettare il suo ritorno, che sarebbe potuto anche non arrivare mai. Aveva appena sei anni. Ed era tutta la sua vita.

«Il treno diretto a Worcester che parte da Boston Centrale è in partenza tra cinque minuti al binario tredici.» una voce metallica femminile risuonò nell'intera stazione. La piccola Leah si guardò intorno: mai aveva visto così tanta gente. Perché era così pieno? Cosa ci facevano così tante persone a prendere un "coso"? Era così importante? 

C'erano donne e uomini che correvano, rispondevano a delle chiamate, senza mai  fermarsi. Molti si scontravano a vicenda, e questo provocava una dolce risatina della piccola.

Frank la guardò, e non potè far a meno di accennare un sorriso. Quanto avrebbe voluto riavere indietro quell'innocenza, proprio come ce l'aveva sua figlia.

Continuavano a farsi spazio tra la folla, dovevano sbrigarsi, altrimenti avrebbero perso il treno.

In mezzo a quel baccano la bimba riusciva a sentire il padre borbottare. Stava sicuramente dicendo quelle parolacce che tanto odiava! Avrebbe voluto rimproverarlo come spesso faceva, con quel cantilenante "Noon si diice!", ma lo vedeva strano quel giorno, forse era meglio evitare.

Cercava di coordinare i passi ai suoi, ma era molto complicato. Le sue gambe corte non riuscivano a tenere il passo con quelle del genitore.

Teneva stretto il suo Bobby, l'orsetto di peluche che preferiva. Non doveva lasciarlo andare per nulla al mondo, altrimenti sarebbe rimasto solo, pensava.

Mentre i due stavano camminando, all'improvviso un baccano in lontananza si fece sempre più vicino. Alcune urla. Cosa stava succedendo? Leah non fece nemmeno in tempo a girarsi per guardare, che la gente iniziò a spostarsi improvvisamente in maniera confusionaria. In un secondo le persone di fianco a loro gli andarono addosso, e loro stessi stavano per cadere addosso ad altre persone ancora.

Ma per fortuna, il padre riuscì a tenersi in equilibrio, e di conseguenza a sostenere la figlia.

L'orso di peluche era ancora stretto tra le mani della piccola, ora aveva ancora più paura di perderlo. 

«Ma cosa diavolo...» Frank stava per continuare la frase, ma vide la bambina che lo stava guardando, e si fermò.

«Leah, veloce, andiamo, o perderemo il treno.» pronunziò successivamente, con estrema serietà.

La graziosa bimbetta annuì velocemente, e in men che non si dica, seguì il padre, con sempre maggior difficoltà a passare tra quella confusione. Mai nella sua breve vita aveva visto così tante persone, talmente tanto ammassate.

Quel giorno era iniziato in una maniera strana, e stava procedendo come tale.

Ad un tratto il padre si perse tra la folla. Dov'era finito? Le gote di Leah stavano divenendo rosse, e gli occhi le iniziavano a bruciare. Stava per mettersi a piangere. Doveva essersi accorto che lei mancava. Non era riuscita a tenere il passo con lui, ed ora era rimasta sola. 

Mentre teneva stretto il suo orso di peluche, spostò lo sguardo davanti a lei. Un uomo era appena caduto a terra, probabilmente era inciampato. Questa vista le fece completamente dimenticare il fatto che stesse per piangere. L'uomo Si stava toccando il ginocchio, forse si era fatto male. Era abbastanza giovane, probabilmente sui trent'anni. Aveva i capelli neri, il viso pulito, e non era nemmeno molto alto. La piccola iniziò a guardarsi attorno: nessuno sembrava essersene accorto, e chi se ne accorgeva, iniziava a guardare quel pover'uomo con uno sguardo colmo di disprezzo. Sembrava che stessero guardando l'essere più spregevole del mondo. Mai lei aveva visto qualcuno essere guardato con così tanto odio. Talvolta alcuni ne avevano un leggero timore.
Cosa poteva aver fatto di male perché nessuno si chinasse per aiutarlo ad alzarsi? O semplicemente che qualcuno si degnasse di guardarlo con un'espressione più umana? Quelle occhiate erano spesso accompagnate da commenti non molto cortesi. «Chissà che ti arrestino.»

«Che gente, sempre in mezzo...» questi erano quelli più "gentili". Tutti gli altri non voleva nemmeno ricordarseli.

La vista di Leah si spostò su quell'uomo tanto ignorato.

In un men che non si dica i loro occhi s'incrociarono, e la bimba ne rimase quasi pietrificata. Non aveva paura. Non lo disprezzava. E perché gli altri lo facevano, invece? Continuava imperterrita a fissare quegli occhi blu, e più lo faceva, più non riusciva a staccarsi. Per la prima volta iniziò a sentire qualcosa di particolare, un'emozione che non aveva mai provato prima, e che forse nessun uomo avrebbe mai potuto sentire nella propria vita. Non era facile da descrivere, era come se ci fosse qualche genere di collegamento, il silenzio delle loro anime faceva rumore in mezzo a quella confusione, si sentiva l'unica capace di capirlo, di non ignorarlo, e di provare un minimo di pietà. Ma questo era soltanto una parte di quello che la sua piccola testolina stava elaborando in quei brevi secondi. Tutto ciò andava oltre la semplice pietà, era come se qualcosa di più forte avesse preso possesso di lei. Sembrava che una forza sovrumana la tenesse legata a quell'uomo, e di renderli entrambi incapaci di resistere a questa potenza.  Sebbene non lo conoscesse, in quegli attimi, come magicamente, solamente attraverso uno sguardo, le pareva di aver ritrovato un amico perso... Non era uno sguardo rivolto ad uno sconosciuto qualsiasi, quello era probabilmente lo sguardo rivolto allo Sconosciuto.

Avrebbe voluto tanto aiutarlo, ma si sentiva come bloccata. Chi mai avrebbe prestato attenzione ad una minuscola bambina? Lei era una degli ignorati. Lei si sentiva proprio come quell'uomo, ignorata, a tratti quasi disprezzata dalle persone. Lo capiva perfettamente. Non le balenò in testa neanche per un secondo l'idea che la folla stesse avendo ragione ad ignorarlo, disprezzarlo, screditarlo. Anastasia le diceva spesso che era brutta, mentre i suoi compagni di classe non facevano nulla per difenderla, nessuno apriva bocca, nemmeno Emy, la sua migliore amica, provava soltanto a mettersi contro Anastasia. E quando chiedeva aiuto, si trovava sola. Proprio come quell'uomo quel cinque Marzo del 2005 alla stazione Centrale dei treni di Boston, disteso a terra, che stava sperando che qualcuno lo aiutasse. Lei era come lo Sconosciuto. Sembrava che gli occhi dell'uomo le chiedessero aiuto, ma leggeva anche dell'altro, come se lui avesse capito ciò che lei stava pensando, e viceversa. Si era immobilizzata lì, a quasi due metri da lui. Doveva aiutarlo. Si era perfino quasi dimenticata del fatto che avesse perso suo padre. Ma prima che potesse muovere un muscolo, tutto successe talmente in fretta che non riuscì a capacitarsene. Due poliziotti saltarono addosso all'uomo, e lo ammanettarono. «Andiamo Leah, non devi più prestare attenzione agli sconosciuti.» la voce di suo padre! Ma allora la aveva trovata. Non se ne era andato per sempre! La piccola non potè far a meno di sorridere. Ma allo stesso tempo posò di nuovo gli occhi su quell'uomo che poco prima era a terra, ma che ora stava per essere portato via dai poliziotti. Ricominciarono a camminare. «Scusami babbo. Ho avuto tanta paura.» gli disse mentre quell'immagine era sempre più lontana dalla sua vista. Chissà cosa sarebbe successo a quell'uomo, ora. Perché la polizia lo aveva ammanettato? Forse aveva fatto qualcosa di sbagliato? Ma a lei sembrava un uomo buono... Oh, ma a tutti capita di sbagliare, qualche volta. Frank si fermò per un secondo, e la prese rapidamente in braccio, dovevano accelerare l'andamento, e sua figlia non ne era capace. «Per fortuna mi sono allontanato solo di qualche passo, menomale che tu sei rimasta ferma lì, e che ti ho ripescata subito.» asserì lui in seguito. «Perché nessuno lo ha aiutato? Cosa ci faceva lì?» domandò la bambina, cambiando discorso, preoccupata per la sorte dello Sconosciuto, il quale lei non era stata in grado di aiutare. Il genitore fece finta di nulla, come se la figlia non avesse detto assolutamente nulla, o un'assoluta sciocchezza. Perché non replicava? Lui rispondeva sempre alle sue domande, forse un po' di meno a quelle sciocche, ma certe volte anche a quelle. Mai aveva fatto finta di non aver sentito. Forse aveva parlato a voce troppo bassa? No, non le pareva. Allora perché il babbo aveva spostato lo sguardo su di lei, per posarlo su ciò che era davanti a lui? Anche in questo momento, si sentiva ignorata. Erano arrivati davanti al treno. Frank la fece entrare, per poi fare lo stesso. Avevano fatto giusto in tempo, poiché stava per partire.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ~ “su piccola, vieni a dormire.” ***


Zio Connor era così antipatico. Papà diceva che in realtà quello era il suo carattere e che in fondo non era poi così cattivo. Ma Leah non era per nulla d'accordo. C'era qualcosa di strano in lui, dai capelli quasi assenti fino alla punta delle scarpe rovinate. E poi, a volte non sembrava nemmeno essere suo zio. Non perché non le assomigliasse, che di certo, anche quello sarebbe stato un ottimo punto sul quale discutere visto che non assomigliava nemmeno a sua madre, da quanto deduceva dai racconti del padre, siccome doveva essere suo fratello, ma proprio per quanto riguardava il suo orrendo comportamento.

La appellava molto spesso con epiteti molto poco carini, che a lei non facevano affatto piacere. Ma Frank, per quanto sembrasse infastidito ogniqualvolta quell'uomo chiamava sua figlia "disgraziata", non faceva mai nulla. Si limitava a digrignare i denti ed a chiudere le mani a pugno, fino a far divenire le nocche bianche. Nulla di più. Perché non interveniva? Perché lasciava che la piccola venisse ferita da quelle parole così pesanti da sopportare per lei? Leah non lo sapeva, sapeva solo che avrebbe voluto far scomparire lo zio all'istante. Ma non poteva, doveva solo sopportare...

Chissà cosa avrebbe detto la madre mentre vedeva suo fratello trattarla in tal maniera. Non avrebbe potuto nemmeno immaginarselo, lei, sua madre non la aveva mai vista. Era a conoscenza a malapena del suo nome: Eirene. Significava pace, in Greco antico. 

Era un nome molto particolare, ma la bambina lo trovava molto delicato. Frank non le aveva mai raccontato molto a riguardo, era riuscita a capire da lui soltanto che la genitrice non c'era più, e che scomparve quando Leah nacque. Non provava nemmeno ad affrontare l'argomento con lo zio, loro due non avevano mai avuto un vero dialogo, le faceva paura e lo detestava. Quando però quest'ultima provava a chiedere qualcosa in più al padre, vedeva le sue palpebre sbattere più velocemente, e la sua voce farsi sempre più rotta, per poi vederlo cambiare rapidamente discorso. L'uomo, dal canto suo, riconosceva il fatto che era naturale che la figlia gli chiedesse ciò, e che un giorno avrebbe dovuto raccontarle la verità, ma procrastinava sempre, rimandando la questione. 

Così facendo non sapeva che alimentava la speranza della dolce pargoletta dagli occhi azzurri, di vedere la tanto misteriosa madre. Da quel poco che suo padre aveva lasciato trapelare, egli la riteneva una specie di Dea, dal viso armonioso e dalla voce soave. Chissà se aveva ereditato i suoi stessi occhi azzurri, che di certo non aveva preso dal genitore, i quali erano neri come la pece.

A Questo purtroppo non c'erano risposte, o meglio, c'erano. Ma Frank non voleva rivelare nulla, come se fosse un enorme segreto, o semplicemente un grande dolore insuperabile. Leah lo aveva capito. Egli quando sentiva solamente pronunciare "Eirene", in qualsiasi contesto, in qualsiasi occasione, mutava. Nel peggiore dei casi sembrava che la morte s'impossessasse dei suoi occhi, il ricordo intrappolasse la sua mente, e una morsa sconosciuta lo immobilizzasse, mandandolo come in tilt per un paio di secondi. Faceva quasi paura. Ecco perché anche lei, col passare del tempo cercava di fargli sempre meno domande, anche se la curiosità era tanta, come d'altronde era normale per una bambina di sei anni.

«Disgraziata di una mocciosa! Tieni sempre le tue robacce in giro! Ringrazia il Signore che non te le ho già bruciate tutte!» ed eccola, la solita tiritera che la accompagnava quasi ogni giorno. Ma lei cosa poteva farci, quella, almeno finché le cose non si sarebbero sistemate - a detta di suo padre - era anche casa sua. 

Erano passati solo tre mesi da quella volta che aveva messo piede nella stazione di Boston, per prendere quel treno che la avrebbe portata proprio lì, a Worcester, in casa - se così si poteva definire - dello zio Connor. E chissà quanto altro tempo sarebbe dovuto ancora passare, prima che il padre e la figlia tornassero nella propria abitazione.

Odiava quel monolocale, era piccolo e sporco. 

Tutto era concentrato in un piccolo salotto con dei fornelli. La cucina e il salotto, quindi, erano tutt'uno. 

Le pareti erano tappezzate di grigio, la moquette blu, ormai era sudicia e piena di polvere, briciole di qualche strano cibo e macchiata di chissà che bevanda. Le piccole finestre erano ricoperte di un sottile strato di polvere, e alcune pure crepate. Il divano blu, per due persone, era sfondato, con l'imbottitura che in certi punti usciva attraverso piccoli buchini. Davanti ad esso un tavolino occupato da cartoni di pizza e lattine di varie bevande. C'era anche una piccola tv, all'angolo della stanza.

Per non parlare dell'angolo cottura, dove la moquette s'interrompeva bruscamente per lasciare spazio a un pavimento con delle piastrelle bianche, ovviamente si fa per dire.

 Il piano cottura, meglio non parlarne, i piatti lerci trasbordavano dal lavandino e le mosche avevano trovato lì una comoda sistemazione. Le altre uniche stanze che erano separate e che permettevano un po' di privacy erano il bagno e la stanza da letto. Anch'essi, senza stare qui a dirlo, mantenuti in maniera pietosa.

Non sapeva perché fosse lì, ma ogni minuto di più la sua voglia di scappare aumentava.

Rammendava i momenti trascorsi a Boston, nel suo piccolo appartamento sola, con Frank. Oh, e quanto avrebbe voluto tornare indietro a quei giorni.

Probabilmente, le mancava un po' pure la scuola, che qui frequentava saltuariamente, per vari problemi. Non che non le dispiacesse, ma piuttosto che stare in compagnia di quell'ubriacone di Connor, sarebbe stata volentieri anche a scuola. I suoi compagni non facevano altro che domandargli della sua famiglia, di sua madre, e lei non rispondeva mai. Innanzitutto perché aveva espressamente l'ordine di non farlo, e poi perché non voleva di sua iniziativa.

Di amiche, nessuna. Un po' le mancava Emy, la quale aveva smesso di sentire da quando era partita. Invece Lì Era sempre sola mentre passavano i minuti della ricreazione. Le uniche in grado di farle compagnia erano le coccinelle e le chiocciole che passavano per i muretti del cortile, durante l'autunno e la primavera. In inverno però, rimaneva sola. Veniva ignorata da tutti durante la ricreazione. Cosa aveva di tanto sbagliato? Come facevano a sapere se fosse antipatica o meno, dal momento in cui non le avevano mai rivolto la parola, se non per domandarle della propria famiglia? Non le avevano mai chiesto "come stai?" Ma soltanto "Ma tu un papà o una mamma ce li hai?" "Perché non ti viene mai a prendere tua mamma?" 

Lei non rispondeva mai, e così, nessuno le domandava più nulla.

Lei una mamma ce l'aveva! Un giorno sarebbe venuta a prenderla a scuola, e le avrebbe dato un bacio sulla guancia, proprio come facevano le altre madri con i propri figli. Eirene non era ancora arrivata, ma lo avrebbe fatto. Frank le diceva sempre che lei era una bimba speciale, e che sicuramente, un giorno, la bella genitrice sarebbe venuta da lei.

Ma per ora avrebbe solamente voluto trovare qualcuno con cui giocare.

Quella paura di essere rifiutata, la sua timidezza, generavano automaticamente in lei la paura di farsi avanti, e di conseguenza le cose non miglioravano. 

Ad un tratto sentì come una bottiglia di vetro cadere a terra. Si precipitò immediatamente in salotto, dove si trovava Connor.

«Ah eccoti piccola rompipalle! Fai sparire subito dalla mia vista questa immondizia! VELOCE!» tuonò il grasso uomo. Guardò a terra, i vetri di una bottiglia di birra. La bimba tremò, e presa dal timore iniziò a raccogliere i suoi due pupazzi, sul divano, i quali lei aveva avuto solo la colpa di lasciare sul divano. 

All'improvviso Frank uscì dal bagno e corse in salotto. Leah gli si precipitò addosso, con gli occhi lucidi, nascondendo la testa contro la sua gamba, con i due pupazzi tra le mani.

«Dai Connor, ti prego, lasciala in pace. È solo una bambina.» intervenne, mentre accarezzava i capelli della figlia. Era l'unica cosa che in quel momento poteva fare. Avrebbe voluto picchiarlo, quando la trattava così, ma non poteva. Cercava di calmare le acque, non voleva e non poteva mettersi contro Connor, anche se Leah era la cosa più importante della sua vita, e non se la sentiva di permettere tutto ciò, prima o poi sarebbe imploso su se stesso, colmo di rabbia repressa verso quel mostro.

«Non mi interessa babbeo. È solo d'intralcio. Tra un po' arriva gente, non posso avere queste robe in giro. Intesi?» esordì grattandosi la pancia.

«Sì.» replicò secco l'altro, ormai rassegnato.

«Su Leah, andiamo in stanza.»

La piccola si staccò dal padre e lo seguì nella stanza da letto. Sarebbe dovuta rimanere lì, con lui, fino alla mattina successiva. Erano solo le otto di sera. Non aveva voglia di dormire!

Ma succedeva spesso...

Lei e suo padre si rinchiudevano, letteralmente, in camera da letto a dormire, lasciando Connor in salotto. La bambina non sapeva perché, ma i motivi erano assai evidenti. 

Connor Miller, teneva abitualmente delle feste mondane a casa sua, le prostitute e gli uomini del giro erano ospiti abituali, insieme a varie sostanze stupefacenti. 

L'arrivo del "babbeo" e di sua figlia non avevano di certo giovato alla situazione. Ma la loro presenza in quella casa era obbligatoria. 

Così, Frank, per proteggere la figlia da tale "spettacolo", decideva di chiudersi insieme a lei dentro quella minuscola stanza, lasciando Connor ai suoi affari.
Il motivo di tutta questa segretezza, della stanza nella quale doveva stare, del misterioso trasferimento repentino, di perché il padre non la proteggesse da quell'orco, di perché Eirene se ne fosse andata, Leah lo avrebbe scoperto solo molti anni dopo.

«Su piccola, vieni a dormire.»  la incitava il padre, seduto sullo scomodo letto singolo.

La bambina Annuì. Ormai aveva imparato a non chiedere più il perché. 

Strinse tra le braccia il suo fidato Bobby, e si rannicchiò tra le braccia del padre. 

Lui le posò un bacio sul capo, prima di darle la buonanotte.

Tuttavia, quella notte Leah non riuscì a dormire, aveva gli occhi aperti, disturbata da urla, bottiglie scaraventate a terra, e strani gemiti.
Non voleva più vivere così. 

Ad un tratto, quando per l'ennesima volta cercò di chiudere le palpebre, un paio di occhi blu comparvero in mezzo al buio. Erano gli occhi dello Sconosciuto.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ~ 13 anni più tardi ***


                                         13 anni più tardi...

 

«Papà ti ho già detto un sacco di volte che se vuoi puoi andare da Cust.» Leah si stava spazientendo, era forse la terza volta che ripeteva a Frank che non si sarebbe dovuto preoccupare di andar via, lei avrebbe badato al negozio per tutto il pomeriggio, non era più una bambina! Era perfettamente capace di gestire tutto da sola, aveva diciannove anni per qualcosa, dopotutto. 

«Sicura... non è che?» nonostante la figlia di dimostrasse così ferma nella sua decisione, lui era ancora titubante, aveva ancora un leggero timore che potesse succedere qualcosa; sì, certo, il piccolo folletto curioso di anni prima aveva lasciato spazio ad una giovane donna matura e sicura di sé, ma per lui sarebbe per sempre rimasta la sua bambina, bisognosa di aiuto. Soprattutto, dopo il terribile periodo passato da Connor.

«Papà. Vai.» le iridi azzurre della figlia fissarono con decisione quelle del padre, che in quell'attimo trasalì improvvisamente. Quello sguardo valeva più di mille parole, quando lei faceva così significava molte cose, tra cui: "togliti dai piedi e fidati di me una volta per tutte". Okay, ora ne era certo, si sarebbe potuto fidare. 

«Va bene, tornerò il prima possibile, mi raccomando stai attenta, se ci sono problemi chiama.» l'uomo, i quali tratti del volto ormai erano invecchiati visibilmente da quelli di tredici anni prima, oltrepassò il bancone.

«Sì.» Leah rimase ferma, con gli occhi puntati sul genitore, mentre lui la salutava prima di andarsene. 

Quando se ne fu andato, sospirò sollevata: non poteva assolutamente perdersi questo incontro di lavoro che sarebbe potuto risultare davvero fruttuoso, solo perché era preoccupato per lei. Insomma, come lasciarsi scappare un cliente che voleva trattare per comprare un'intera fornitura di trentocinquanta pezzi di lampadine led di eccelsa qualità!

 

Per un secondo si fermò a riflettere, pensando da dove erano partiti, per arrivare a quel punto. Dopo essersene andati da Connor, all'improvviso, e del quale motivo lei ne era del tutto allo scuro, tornarono a Boston, dove presero in affitto un locale, nel quale avviarono una piccola attività di ferramenta e oggetti per la casa, e l'appartamento sopra, che poi, avrebbero comprato definitivamente in seguito, quando possedettero una loro stabilità economica. Infatti Frank, prima di andare da Connor, si era licenziato dal suo piccolo lavoretto da impiegato sottopagato, e la casa era stata venduta, anche di questo, la motivazione le era del tutto sconosciuta; per anni le aveva sempre detto che lo aveva fatto per pagare i vari debiti e quello era anche la causa del trasferimento da quel diavolo di Miller, ma a lei questa cosa aveva iniziato a puzzare, soprattutto dopo le varie incongruenze che si erano presentate negli anni. Come mai aveva perso ogni rapporto con suo cognato? E Se era veramente colui che diceva di essere, in qualche modo doveva sapere dove fosse finita Eirene...

Queste erano domande senza risposta, come tutte quelle che si poneva da dodici anni a quella parte. All'inizio le irritava assai questo fatto, alimentava il suo pensiero di essere un'incompresa e sola, alla quale nessuno doveva rendere risposta. La sua piccola testolina non faceva altro che farsi domande, alle quali non riceveva mai risposta. La sua intera esistenza era basata su risposte mai date e misteri irrisolti. Ma in quel momento della sua vita, ci aveva perso le speranze, non le importava più così insistentemente sapere dove fosse sua madre o cosa si celasse dietro la figura terribile di Connor Miller. Ogni tanto i quesiti se li poneva, forse anche un po' più di "ogni tanto", ma rimanevano dentro la sua mente...

La cosa che le faceva più male, anche a distanza di anni, era non sapere dove fosse finita sua madre... Frank, quando era piccola non faceva altro che ripeterle che se ne era andata e che un giorno sarebbe tornata, ma non fu mai così, e quelle affermazioni si dimostrarono pure fandonie. 

 

Una volta, a tredici anni, ormai consapevole del mondo che la ospitava e di come giravano le cose, chiese a suo padre se Eirene fosse morta. Voleva una risposta secca, diretta, non voleva giri di parole. Avrebbe accettato qualsiasi genere di risposta, ma ne voleva una. Non poteva continuare a rimanere zitta e subire.

«No.» era stata la risposta secca del suo genitore, così convincente e veritiera. Una parte di lei voleva chiudere lì il discorso, ma la sua indole da adolescente intraprendente voleva ricevere molto di più di una semplice risposta monosillabica, a costo di arrivare ad una discussione.

Gli chiese dove fosse allora, e lui le rispose che non lo sapeva. Allora iniziarono a discutere, quella sera volarono parole grosse dalla bocca della tredicenne, stanca di ricevere risposte incomplete «Ti odio!» urlò. «Avrei voluto avere mamma con me piuttosto che te!» 

L'uomo si infuriò a dismisura, ed a differenza di chiudersi nel suo guscio di tristezza e dolore, come ogni volta che si tirava fuori l'argomento di Eirene, urlò a sua volta contro la figlia, con la rabbia che gli pompava nelle vene, e la mise in punizione nella sua stanza. Si ricordava quel giorno come se lo stesse vivendo sul momento, mai aveva visto il padre così arrabbiato. Dal canto suo, l'uomo, doveva affrontare prima o poi l'eta dell'adolescenza di sua figlia, ed era così estremamente dura... da bambina era sempre stata un po' vivace, ma in quel periodo era ingestibile. Sapeva che non sarebbe stato facile, e che lei pretendeva risposte da lui, il quale non poteva, e non voleva ancora darle. 

Alla fine lei decise di scappare di casa, dalla finestra di camera sua. Non sapeva dove andare, forse da Margaret, la sua amica delle medie, e poi, chi lo sapeva... voleva soltanto vedere Frank sparire dalla sua vista.

Preparò il suo zainetto con le cose essenziali: succo di frutta, il suo amato "Dracula", il suo cellulare e una barretta di cioccolato.

Così, a mezzanotte, uscì dalla finestra, pronta per andarsene.

Inutile dire, che il giorno dopo il padre la cercò per tutto il tempo, e alla fine, la madre di Margaret, spinta dai sensi di colpa, gli rivelò la verità: Leah era a casa sua, e non aveva intenzione di tornare a vivere con il genitore. 

Così lui decise di irrompere a casa di Margaret, volarono altre parole pesanti, la ragazzina corse fuori dalla porta come un fulmine. L'amica, che stava assistendo alla scena incredula, non riuscì a mettersi in mezzo tra i due, e, quando uscì insieme a Frank, dopo aver fatto circa cento metri di strada, entrambi si trovarono davanti ad una scena agghiacciante. 

«Leah!»

La ragazzina era ai lati della strada, accasciata a terra, stava tremando. Un'auto poco prima che uscissero, la aveva quasi investita, ma per fortuna lei era riuscita a schivarla, anche se il trauma emotivo era più presente che mai. Stava piangendo, e quanto desiderava interrompere quelle maledette lacrime. Doveva farsi vedere forte agli occhi del genitore, fargli vedere che non aveva bisogno del suo aiuto, che in realtà stava benissimo. Ma come nascondere una cosa talmente evidente? Oh, ma chi voleva prendere in giro? La verità è che aveva avuto paura di morire e di non vedere più suo padre, la sua amica...

Per fortuna nulla di tutto ciò era successo, ma il terrore di quei pochi secondi continuava a ripresentarsi nella sua memoria. In realtà non odiava Frank, in realtà lui era la persona più preziosa che ella avesse mai avuto nella vita. Era solo maledettamente furiosa con lui perché le nascondeva sempre delle cose che lei riteneva importanti. Non voleva dirgli di odiarlo, non voleva dirgli che avrebbe voluto Eirene al posto suo. Lui era suo padre, e sua madre. Eirene non c'era, lui aveva scelto di restare, e quella era la scelta migliore che potesse mai fare, la fortuna più autentica di tutte. L'amore che entrambi si professavano era immenso, indescrivibile. Né Eirene, né Margaret, né chiunque altro avrebbe mai potuto sostituirlo. Nonostante i problemi, la situazione economica non certo florida, i loro caratteri così diversi, loro due erano insieme da tutta una vita. L'uomo che l'aveva vista nascere, crescere, non l'aveva mai abbandonata. Non esiste dimostrazione di amore più puro di un padre che ama la propria figlia, proprio come Frank con Leah. Frank era un dono per Leah, e Leah lo era per Frank. Il problema è che ella lo aveva capito solo in quei tre secondi che potevano esserle fatali. Improvvisamente non agognava così insistentemente le risposte alle sue domande, non le interessavano quasi più, lei era viva, lei aveva suo padre, lei non era sola, nonostante tutto.

Al genitore stava per esplodere il cuore, mai aveva visto la sua piccola in quelle condizioni, così minuscola davanti al mondo che lei stessa voleva sfidare, e che quel pomeriggio stava per ucciderla. Mai, aveva provato una sensazione del genere, nemmeno quando la donna della sua vita aveva lasciato vuota la parte del letto affianco alla sua, quella mattina di tredici anni prima. Lui non aveva bisogno di conferme, sapeva che la figlia in realtà era il suo più grande amore, il suo dono più grande, la sua intera vita. Il solo pensiero che lei stesse per morire, faceva spirare anche lui.

«Papà scusa, io ti voglio bene. Non andartene, non odiarmi.»

 

Quelle immagini erano ancora vivide nella sua mente, ogni tanto ci ripensava. Se non avesse mai vissuto quell'orribile esperienza, forse, non avrebbe mai compreso tante cose che dava invece per scontate. Da quel giorno non vi furono più discussioni a riguardo della madre, non voleva più vivere istanti del genere. 

Si dedicò alla scuola, e ora, si era presa un anno sabbatico per capire cosa fare della propria vita, se frequentare un college, o trovarsi un'occupazione, e tendeva alla seconda opzione. Nel frattempo, ovviamente, stava aiutando il genitore con il lavoro, e siccome aveva sempre tempo, fare gli straordinari per lei non era affatto un problema. Di recente avevano assunto un ragazzo, Ernest, che lavorava due giorni a settimana, aiutandoli con il negozio. Era molto efficiente. 

Tutto sommato le cose non potevano essere più tranquille di così.

 

Era talmente assorta nei suoi pensieri che non si accorse che era entrato un nuovo cliente.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ~ “Daktulorodos, narrami ancora di codesto uomo...” ***


 

Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιv (Pari agli dei mi appare lui, quell’uomo) ~Saffo, Ode della gelosia

 


«Dai, Leah, muovi il culo e vieni!» Hester era sempre così insistente, ma anche l'unica amica che le era rimasta dopo il liceo, e quella con la quale aveva instaurato il rapporto più duraturo tra tutte le "amiche" che aveva avuto durante gli anni. Con tutte aveva perso i rapporti, e nessuna era rimasta davvero. Margaret, dopo l'incidente, aveva pian piano incominciato ad allontanarsi da lei, e l'ultimo anno di medie lo aveva passato completamente sola. 

Certe volte si era chiesta se fosse lei il problema. Perché tutti quanti prima o poi se ne andavano? Cosa aveva di sbagliato? Forse il suo carattere a volte troppo irruento? Forse Non era una persona interessante? O forse era proprio il mondo che girava diversamente di come se lo immaginava...?

La sua vita era piena soltanto di persone di passaggio, mai nessuno era rimasto per sempre, ovviamente a differenza del padre. E forse era un po' anche questo che la bloccava nel fare nuove conoscenze: perché sprecare del tempo, se poi tutti se ne sarebbero andati dopo essersi stancati di lei?

«Ok. Arrivo.» si limitò a replicare, rispondendo all'amica tramite una chiamata. 

Scese rapidamente le scale dell'appartamento e passò per il negozio, dove Frank stava sistemando delle chiavi inglesi sugli scaffali. 

Il giorno precedente l'affare con Cust non poteva andare meglio: dopo una breve contrattazione, nella quale entrambi ne erano usciti soddisfatti, l'affare si era concluso. Ora stavano aspettando l'enorme ordine, e poi avrebbero fatto recapitare tutto a casa dell'uomo. 

Questo affare era fruttato non poco, e sia il padre che la figlia non potevano esserne più contenti.

 

«Vado un attimo con Hester da "Webb's" a prendere qualcosa da bere, torno il prima possibile.» enunciò, tirandosi su la tracolla che stava per cadere.

«Sì, non ti preoccupare, vai.» le sorrise lui. Delle ulteriori piccole rughe gli comparvero sulle guance. Non si era resa conto di quanto, negli ultimi anni fosse visibilmente invecchiato. I capelli castani avevano lasciato spazio ad una chioma sempre più grigia, e la sua corta barba non era certo presa tanto meglio. Gli anni erano volati, ed entrambi stavano mutando l'uno sotto gli occhi dell'altra. Ma si sa, quando vivi una vita insieme questi cambiamenti non si notano affatto.

Leah annuì in segno di ringraziamento ed uscì dal locale.

 

Hester la stava aspettando davanti al loro solito bar, le mani dalle lunghe unghie decorate, stringevano il cellulare all'ultimo grido. La sua amica era in ritardo! Come sempre. 

Stava per scriverle, quando la figura medio - alta di una ragazza dai lunghi e lisci capelli castano scuro, sbucò all'inizio della strada. Eccola, quella ritardataria che non era altro!

«Oddio, scusami davvero Hester. Ho trovato traffico a Bakery Street.» la ragazza sapeva quanto l'amica fosse puntuale e pretendesse lo stesso anche dagli altri, in tutti i modi, ogni volta che doveva uscire con lei si impegnava ad arrivare il più puntuale possibile, ma la ragazza dalla chioma biondo ossigenata, arrivava sempre prima di lei.

«Fa niente, sei sempre migliorata dalle prime volte. Dai, entriamo.» La bionda, dal canto suo, non riusciva a nascondere il fatto di essere un poco infastidita dal ritardo di Leah, ma ormai ci era abituata, e non voleva di certo perderla per queste sciocchezze, per quanto fosse metodica e amasse la puntualità. Nutriva un sincero sentimento di amicizia verso di lei; all'inizio le faceva compassione, quando la conobbe seduta tutta sola al tavolo della mensa in prima superiore. Ma poi la imparò a conoscere, e non riusciva a capacitarsi del fatto che non avesse nessun amico. Una persona dolce e comprensiva come lei! Certo, i suoi scatti d'ira non erano di certo piacevoli, ma non si può sempre e solo giudicare una persona dai suoi aspetti negativi, nessuno è perfetto. 

 

***

 

«Allora come va alla BU?» chiese Leah. Dopo essere andate a prendersi da bere da "Webb's", avevano deciso di andarsi a sedere al parco, di fronte alla zona dove si trovavano le rampe da skate.

«Bene, anche se a volte le cose si fanno davvero difficili. Ma tutto sommato, non avrei potuto fare scelta migliore.» rispose l'amica. 

Entrambe caddero in un silenzio tombale per qualche secondo. Erano assorte a guardare le rampe da skate piene di ragazzi che andavano su e giù con le loro tavole senza mai cadere. Erano davvero bravi. 

All'improvviso, una palla colpi la schiena di Hester. 

«Ahi!» la ragazza si girò di scatto dietro di lei, proprio dove la palla si era scontrata contro la sua schiena. Anche l'amica fece lo stesso, pronta a rimproverare quegli sbadati che avevano colpito così forte la bionda con la loro stupidissima palla da basket. 

Subito corse verso di loro un ragazzo, moro, occhi verdi, dai lineamenti spigolosi. 

Leah fece per aprire la bocca, che la richiuse immediatamente: Malcom Morris, o meglio MM, o meglio ancora il suo ex. Detestarlo era riduttivo, volerlo vedere sparire dalla faccia della terra forse era quello che desiderava di più in quel momento.

«Scusa, non l'abbiamo fatto di proposito.» il ragazzo guardò Hester. Che faccia tosta, continuava ad evitarla, aveva persino paura di guardarla negli occhi! La sua voce si era fatta più profonda da quando la aveva sentita per l'ultima volta due anni e mezzo prima. Inoltre, i suoi lineamenti si erano fatti più spigolosi, e sul mento era cresciuto una specie di pizzetto. 

Hester guardò rapidamente l'amica, e quest'ultima fece lo stesso. Non sapevano cosa fare, come rispondere. Entrambe lo detestavano, Leah, semplicemente perché la aveva ingannata e la seconda per pura solidarietà femminile.

Entrambe non risposero. Lo sguardo del giovane Malcom si spostò sulla sua ex, e quest'ultima gli lanciò un'occhiata cosi seria, impassibile, accusatrice, che era impossibile non essere divorati da dei rimorsi di coscienza anche se non si era colpevoli di nulla. Peccato però, che il diretto interessato di questi sguardi fosse mille volte peggio della vecchia fiamma, e quegli sguardi non gli suscitarono nessun effetto. Nessuno voleva discutere con nessuno, ed era meglio così. Tutti e tre ormai erano persone adulte, e dovevano comportarsi come tali. 

Così, tanto rapidamente come era arrivato, se ne andò, con la sua stupidissima palla in mano.

 

«Che gran deficiente.» sentenziò Hester, una volta che entrambe si erano rigirate dall'altra parte. 

Leah si limitò ad annuire, concorde con l'interlocutrice.

Fece una smorfia di disgusto, immaginando l'ultima volta che i loro corpi si erano uniti in quell'atto che molti chiamano "fare l'amore". Anche se, lei non lo riteneva il termine appropriato.

Come aveva fatto a starci insieme, se lo era domandato pure lei. 

Si erano conosciuti durante il secondo anno di liceo, durante una festa a casa di un suo compagno di classe, e subito avevano iniziato a sentirsi. Lui era uno dei ragazzi amici dei popolari, e lei, era semplicemente lei. Ma, come sempre da cosa nasce cosa, ed entrambi decisero di mettersi insieme. 

Lui era stato la sua prima e ultima storia, ed era assolutamente meglio così, piuttosto che stare tutta la vita con uno come Morris, si sarebbe fatta suora in un lontano paesino della Francia meridionale. 

La storia durò quasi un anno, finché la ragazza non scoprì che lui la stava tradendo con altre due ragazze. Inutile dire che lo lasciò all'istante, l'idea di essere stata usata da una persona così spregevole le metteva disgusto, e tutt'ora lo disprezzava per tutto quello che le aveva fatto passare, anche dopo la loro separazione. Le malelingue sul suo conto, a favore dell'ex, non cessarono, e per l'ennesima volta, come era già successo in passato, si ritrovò ad essere allontana da tutti, tranne che da Hester, che era rimasta sempre con lei. Tutti le andarono contro, anche se non aveva fatto nulla! La sua unica colpa era stata quella di innamorarsi della persona sbagliata. Eppure tutti la etichettavano come una poco di buono...

 

Ecco perché il solo sentir pronunciare il nome di Malcom Morris, le faceva salire il voltastomaco. Grazie a lui, anche le superiori non erano finite nel migliore dei modi. 

Non lo vide più dopo che lui si era trasferito, durante il terzo anno, in un altro quartiere, ed ora eccolo qui. 

Ma oramai era cresciuta, e vederlo, oltre che farle salire il disgusto e il disprezzo per i terribili periodi passati a causa sua, non le suscitava più alcun tipo di emozione. 

 

  ***

 

"Aveva detto la schietta verità, trasformandola in schiettissima bugia. E nondimeno, per la sua stessa conformazione dell'indole, amava la verità e aborriva la menzogna come pochi uomini fecero mai. Quindi, sopra ogni altra cosa, aborriva la propria sciagurata persona!" 

Furono le ultime frasi che Leah lesse prima di decidere di andare a dormire. 

Non amava troppo leggere, ma "La lettera scarlatta" era un libro che l'aveva proprio presa. Forse perché ambientato nel New England, terra che comprende il Massachusetts, e quindi Boston, o perché un po' capiva Hester, quella povera donna colpevole soltanto di essersi innamorata dell'uomo sbagliato che le aveva donato una figlia al di fuori del matrimonio. Additata da un'intera comunità, e condannata a portare la lettera "A" per tutta la sua vita, come un'eterna maledizione che ella stessa si era auto inflitta.

 

Decise di coricarsi, e non appena cadde tra le braccia di Morfeo, delle strane immagini s'impossessarono della sua mente sottoforma di sogno.

 

Una giovane donna semplicemente meravigliosa, la più bella che ella avesse mai visto, la donna più bella di tutta la terra, anzi dell'intero universo. Il più bel dono che Madre Natura potesse fare ai comuni mortali. Tutto era perfetto in quella donna dalla pelle candida, dal volto con i lineamenti armoniosi, alle sue forme, nessun tratto era brusco,  fuori posto. Vide da vicino il suo viso, i suoi occhi erano verdi come se fossero intrappolati due grossi smeraldi al loro interno, e limpidi che ci si poteva specchiare, talmente profondi, che se qualcuno li avesse fissati per troppo tempo, la sua anima sarebbe diventata succube di quello splendido idillio, talmente tanto che si sarebbe fusa con quelle iridi, diventandone una delle sue minuscole sfumature. Il suo naso piccolo, combaciava perfettamente con tutte le parti del suo viso. Le labbra erano rosse, piccole e carnose, ogni uomo avrebbe dato la vita per poggiare, anche solo per un secondo, la propria bocca. 
I suoi lunghissimi capelli castano chiaro, mossi, che in una persona qualunque non avrebbero avuto nulla di speciale, nel corpo di quella donna erano l'ultimo pezzo per la costruzione di un puzzle, i quali pezzi erano più unici che rari. Questi, coprivano la gran parte del suo corpo, il quale non aveva alcuna imperfezione.

Improvvisamente sorrise, spuntarono dei denti bianchissimi, e in quel momento fu come se tutto l'universo, anche quello divino, si fosse inchinato al suo cospetto, elogiandone la bellezza indescrivibile. 

D'un tratto la prospettiva cambiò: quella splendida figura non era sola, ma in compagnia di altre giovani donne, tutte meravigliose, ma mai quanto lei. 

Danzavano, e danzavano, e poi ridevano, le risa da un suono soave, il tutto intorno ad un cerchio immaginario nel bel mezzo di un fitto bosco fatto di querce, robinie, ippocastani, cipressi e tante altre piante a lei sconosciute. 

Le loro teste erano cinte da delle corone di foglie, e i loro vestiti leggeri lasciavano intravedere  le loro parti più intime. Alcune perfino, avevano un seno scoperto, quasi tutte avevano i capelli raccolti in delle elaborate trecce attaccate al capo, tranne Lei. Lei, aveva i capelli sciolti, il bianco vestito di seta che cercava di nascondere le forme impossibili da non guardare. 

Iniziarono a cantare, in una lingua incomprensibile, senza mai smettere però di danzare. D'un tratto si fermarono, forse per riposare, o per chi sa quale motivo. Andarono a sedersi su delle rocce. Ora le vedeva meglio, erano dodici. Il numero  che indica un modello cosmico pienezza ed armonia, ed era vero, loro erano l'Armonia. 

«Daktulorodos, ti prego narrami ancora di codesto uomo magnificente che incontrasti in compagnia di Fiordaliso e Disma.» chiese una delle fanciulle sedute. Questa sua affermazione fu accompagnata da un brusio di approvazione da parte di tutte le ragazze. Nessuno sghignazzo, o commentini fastidiosi. Nulla che uscisse dalla loro bocca poteva essere ritenuto volgare o provocatorio. 

«Avvenente fu quell'uomo che vidi durante l'alba di avantieri mentre danzavo nel bel mezzo di questa stessa selva. Il suo sguardo profondo i miei pensieri occupa da quel dì. Lo scorsi a cacciare a pochi metri da noi, i suoi muscoli scultorei guizzavano sotto l'aderente vestito di pelle, e le sue nerborute braccia tese alzavano un fucile. Mai mi fui innamorata così tanto di un uomo, come ora. Testimoni sono Disma e Fiordaliso, dell'amore puro che quella figura degna figlia della Dea Afrodite, suscitò in me.» colei che rispose fu proprio quella ragazza splendida. Daktulorodos era il suo nome. 

Improvvisamente divenne tutto nero, quella pace provata in compagnia di quelle ragazze scomparve, per dare spazio a delle immagini orribili. 
Urla, pianti, un coltello pieno di sangue cadde a terra. La Morte. E degli occhi blu oceano. Profondi. Penetranti. Che sembravano rassicurarla.

 

Leah si svegliò di scatto, stava emettendo delle urla soffocate nel sonno. Quasi come se volesse svignarsela dalle ultime orrende immagini che avevano attanagliato la sua mente. Si toccò la fronte sudata, ed espirò profondamente. Prese due secondi per orientarsi. Erano le tre di notte. E Per fortuna quello era solo un brutto sogno. Eppure sembrava così tranquillo all'inizio...

Sì, ma era alquanto strano. Certe volte la sua mente le giocava strani scherzi. Perché sognarsi delle ragazze danzanti in un bosco? 

Oh, forse era colpa di quella cotoletta con patatine che aveva mangiato a cena, e poi la cheescake alle fragole che aveva preparato la signora Agatha. Aveva fatto indigestione, mangiando troppo pesantemente. 

"Che questo mi serva da lezione!" Pensò. Mai più abbuffate prima di coricarsi. 

Tuttavia in quel momento aveva una sete terribile, forse era meglio andare a prendere un bicchiere d'acqua per dissetarsi. E poi, subito a dormire. 

 

Povera Leah, credeva veramente che quello fosse un incubo dovuto all'abbuffata di qualche ora prima. Quello che sarebbe seguito nei giorni seguenti avrebbe dato inizio a ciò che le avrebbe cambiato per sempre la vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ~ Sembrava un giorno noioso... ***


Leah non riusciva a smettere di pensare a quello strano sogno che aveva fatto la notte appena trascorsa. 

Era ancora talmente vivido nei suoi pensieri che non pareva neanche un sogno, siccome solitamente lei se li dimenticava dopo poche ore.

Eppure non riusciva a togliersi dalla testa quella visione di quelle dodici bellissime ragazze, che danzavano. La bellissima fanciulla che sembrava essersi innamorata. Soprattutto non riusciva a smettere di soffermarsi a pensare a quella canzone in quella lingua sconosciuta. Ma perché sognarsi un qualcosa che non aveva mai sentito? 

O forse era colpa di quel canale che il giorno prima aveva selezionato per caso, nel quale facevano un programma interamente in arabo?

Probabilmente allora quella lingua incomprensibile era proprio l'arabo, che lei aveva sentito di sfuggita. Di una cosa era certa: nei sogni non si vede mai nulla che non si è già visto o sentito nella realtà. Secondo il suo pensiero, anche i sogni cosiddetti "premonitori", in realtà sono lo specchio di azioni già vissute o immaginate. Nulla accade per caso.

Ogniqualvolta si fermava a riflettere al finale improvviso tanto quanto terrificante, la sua mente si soffermava su quegli occhi blu che le avevano dato tanta serenità, come se gli avesse già visti in passato.

Non le erano nuovi, questo era poco ma sicuro. Così penetranti, intensi.

Immediatamente sobbalzò. Era quasi caduta dalla sedia della cucina. Certo! Ora ricordava, tutto. 

La stazione dei treni, ad un tratto una confusione immensa, la gente ammassata, la paura di perdere il padre, Bobby stretto a sè.

E poi, lo Sconosciuto

Come aveva potuto non averci pensato prima? Quegli occhi che avevano creato una perfetta connessione con i suoi, come se stessero comunicando. Il disprezzo infondato che le persone provavano per lui. E La comprensione provata per egli.

E poi, i poliziotti che lo avevano ammanettato. Suo padre che era tornato a riprenderla, e tutto magicamente era sparito dalla sua vista. Nessuno capace di darle una risposta, e il senso di colpa di non aver fatto nulla per aiutarlo.

Quel magone era durato giorni, a dire il vero. Ma il pensiero di quella scena non se ne era mai definitivamente andato dalla sua memoria, sebbene fosse ancora una bambina e gli anni passati erano ormai tredici.

Da quel momento quella scena la aveva velatamente accompagnata per tutta la vita, nonostante tutte le esperienze negative che ella aveva passato, e che avrebbero potuto facilmente sotterrare quel ricordo.

Tuttavia, c'era qualcosa di inspiegabile che la teneva legata a quella memoria. Ma non sapeva darsi delle risposte. Era più forte di lei. 

Dunque, ecco spiegata almeno una delle tante immagini che si era sognata, le mancavano "solamente" le altre. 

Oh, ma perché si ostinava a cercare sempre una risposta a tutto? Era un vizio che aveva da sempre, e infatti, ecco dove la aveva portata molteplici volte. 

Prese il piatto vuoto e il bicchiere, lo ripose nella lavastoviglie, per poi chiuderla e accenderla. Frank aveva finito prima di lei, ed a quest'ultima spettava quindi il compito di sparecchiare le sue cose. 

Passò per la cucina, e giunse in salotto. Frank era andato a riposare in camera sua, e il negozio sarebbe rimasto chiuso fino alle tre. Aveva ancora un'ora abbondante, siccome la lancetta delle due non era ancora scoccata. 

Decise di accendere la tv, nella speranza di smettere di mettere in pausa i suoi pensieri.

***

Le lancette sembravano non muoversi mai, sempre ferme lì, alle diciotto. Erano così snervanti le giornate che passavano così, nessun cliente, niente di niente. Solo lei e suo padre. Si appoggiò il bancone con le mani sotto il mento, come se la sua testa pesasse.

«Leah, ma cos'è tutto questo sbuffare? Non ti obbliga mica nessuno a stare qua, piuttosto che sentirti sbuffare per l'ennesima volta, vai pure via.» Frank Si rivolse alla figlia, mentre stava mettendo a posto uno scaffale. Si stava leggermente infastidendo dal suo comportamento. Non la aveva mai obbligata ad aiutarlo al negozio, la vita era sua, e non era necessariamente costretta a seguire le sue impronte. Era proprio questo che non capiva... perché aveva deciso di aiutarlo, se poi proprio durante i giorni più "morti", non riusciva a sostenere un turno di quattro ore?

«No. E se entrasse qualcuno? Tu sei impegnato, devo darti una mano. Non sbufferò più, promesso.» sorrise infine. La realtà era che il suo inconscio si era auto convinto di stare aspettando qualcuno. Come se fosse un'azione totalmente incontrollata, un segnale che le era arrivato dall'esterno le diceva "tieniti pronta". Ma lei sapeva che non era così, era solo una sua stupidissima convinzione senza fondamento. A volte le succedeva di avere questi momenti particolari, e quello, a quanto pareva, era il giorno delle stranezze.

Ad un tratto il campanellino della porta suonò. Era entrato qualcuno! La ragazza sobbalzò, il cuore le batteva a mille. Come se fosse entrata una star di Hollywood, le sue dita ticchettavano sul bancone impazientemente. I suoi muscoli erano più tesi che mai. Iniziò ad agitarsi. Aveva quella strana sensazione che i suoi presentimenti si stessero per avverare, che d'ora in poi la sua mente si sarebbe liberata da quella sensazione di "sull'attenti" che la attanagliava.

«Buongiorno.» 

Riconobbe subito quella voce così flebile: la signora Agatha. La sua vicina di casa. Era un'anziana signora, la considerava quasi come se fosse sua nonna, e in fondo un po' lo era. Quando era piccola e Frank non riusciva a starle dietro a lavoro, perché troppo impegnato con il negozio, la lasciava per un paio d'ore alla cara vecchia Agatha, che con enorme piacere le faceva compagnia, e la cosa era reciproca.

La signora era rimasta quasi sola, il suo unico figlio non aveva nipoti e si era trasferito poco lontano da Boston, mentre suo marito era venuto a mancare quando entrambi avevano sui cinquant'anni.

Il padre di Leah non poteva esserle più riconoscente, e la donna era dello stesso avviso: finalmente aveva trovato dei cari amici con cui passare il tempo, e una bambina che colorasse le sue noiose giornate. 

Nonostante Leah fosse cresciuta, i rapporti non erano mutati, anzi, la considerava ancora la nonna che non aveva mai avuto, e quando si ritagliava un poco di tempo libero, la andava spesso a trovare. 

Agatha dal canto suo, grata di questo rapporto che si era creato tra di loro, ogni tanto, regalava ai due una delle sue deliziose torte fatte in casa, ed entrambi non potevano proprio rifiutare. 

«Ciao Agatha!» esclamò Leah, cercando di celare la sua leggera delusione. 

E così per la seguente mezz'ora rimasero tutti e tre a parlare del più e del meno, nel frattempo era entrato un solo cliente a comprare un trapano. 

Quando l'anziana signora se ne fu andata, mancavano solamente trenta minuti alla chiusura, per la contentezza della ragazza. Era sfinita, sfinita anche senza aver fatto nulla. Strano vero? Indicibile. Ciononostante, aveva ancora quella strana sensazione che la opprimeva dicendole che sarebbe dovuto succedere qualcosa, da un momento all'altro. Non riusciva proprio a scacciarla dalla testa. 

I seguenti venticinque minuti passarono a fatica, era quasi ora di chiudere.

«Puoi occupartene tu a chiudere? Io devo ricevere la chiamata dall'azienda di lampadine, domani dovrebbero arrivare e andrò personalmente a consegnarle a Cust.» chiese Frank a sua figlia. Anche per lui la giornata non era stata delle migliori, soltanto la  chiamata di quell'azienda avrebbe potuto tirarlo su di morale. Quasi nessuno era entrato a comprare qualcosa, a differenza delle giornate scorse, questa, era davvero infruttuosa.

«Sì papà, non ti preoccupare. Adesso sistemo le ultime cose e chiudo.» replicò lei. 

Il padre sparì magicamente a casa, e lei rimase sola nel locale. 

"Che silenzio" pensò. In quell'istante non era passata nessuna macchina, c'era un silenzio tombale, e una pace incredibile.

Uscì e Decise di andare a chiudere la saracinesca. 

«Ecco vedi stupido cervello, se soltanto iniziassi a non darmi noie... non è successo nulla.» brontolò tra se e se mentre cercava la chiave del lucchetto per chiuderla.

«Scusi... state chiudendo?» una voce profonda, decisa, la scosse dai suoi pensieri fatti ad alta voce. 

Leah trasalì. Mille brividi le percorsero la spina dorsale, e una strana sensazione di tranquillità prese possesso della sua mente, come se fosse stata accontentata in qualche modo, come se quello che stava aspettando fosse finalmente arrivato, anche se quel qualcuno non lo aveva mai visto, anzi mai sentito. La voce non le ricordava nessuno, eppure le era così famigliare...

Aveva quasi il suo respiro sul collo.

Si girò di scatto, e non potè credere a chi aveva davanti. Le gambe le stavano per crollare, come un castello di sabbia, il fiato si era accorciato, per la enorme sorpresa che era apparsa davanti di lei. 

Era, no, non poteva essere, e a quanto pare sì. 

Che brutti scherzi che le giocava l'immaginazione! Scosse leggermente la testa. 

Si concesse due secondi per riprendersi dallo sbigottimento, e i suoi occhi si immersero "per sbaglio" in quelli dell'uomo, in quel blu oceano così particolare, intenso, come se proprio le onde dell'intero Pacifico fossero intrappolate nei suoi occhi. Erano davvero particolari e, doveva ammettere, misteriosi. 

Non poteva essere altri che lui, sì, ne era certa: lo Sconosciuto era proprio davanti ai suoi occhi. 

Ma come faceva ad essere lui?! Era uguale a tredici anni fa!! Neanche mezza ruga, un capello bianco. Lo stesso viso, la stessa corporatura. Gli stessi capelli neri, la barba assente. Su di lui era come se il tempo si fosse fermato per sempre. Il suo aspetto era identico, proprio come se lo ricordava. In un nano secondo tutte quelle sensazioni provate quel lontano cinque marzo del 2005, si ripresentarono: comprensione e poi, quella strana energia che le pareva lo legasse a lui. Eccole davanti a lei, tutte le domande senza risposta che si era posta dopo che si era allontanata da lui quella mattina.

Le venne subito in mente quel sogno che aveva fatto da poco. Erano indubbiamente i suoi occhi. Ora che ce li aveva avanti non aveva più dubbi. Perché li aveva sognati proprio in quel momento? Forse c'era un collegamento? Un segnale?

Baggianate, solo pure casualità.

«Sì, ma se vuole può entrare.» non poteva lasciarselo scappare, doveva assolutamente averlo sotto gli occhi per un po', e magari riuscire a capirne qualcosa sul suo conto.

Chissà che cosa gli era capitato in quei tredici anni, se la polizia lo avesse rilasciato, o peggio, lo avesse arrestato. Il suo reato, e perché tutti lo ignoravano?

«Grazie.» rispose. Anche lui, quando quella ragazza dall'aspetto mediocre, si era girata, aveva riconosciuto in quegli occhi azzurri una certa famigliarità. Certo, Leah, a differenza sua, era cresciuta, e per lui era molto più difficile collegare l'immagine di una bambina a quella di una giovane donna basandosi solo ed esclusivamente sugli occhi, tuttavia in quella figura così ordinaria, era riuscito a riconoscere la sua straordinaria unicità. 

Quel collegamento sovrumano che aveva sentito anni prima, era ricomparso, pareva che le forze dell'universo li unissero, e che entrambi, in realtà si conoscessero oltre a quell'episodio, dove i loro volti, di certo non erano così vicini come in quel momento, e le dinamiche erano differenti. Erano Come due vecchi amici, o un'anima divisa a metà...

Ma proprio tramite a quella particolare sensazione, che mai aveva provato, era riuscito a riconoscere quella bimba che lo guardava così intensamente quella mattina, col suo orsetto stretto stretto, e quegli occhioni azzurri, mentre lui stava per essere preso dagli sbirri. 

Sentiva che lei, era diversa. Come se riuscisse a comprenderlo in qualche modo, e viceversa, a discapito dell'intera umanità che lo disprezzava, anche se le prime parole che si erano scambiati erano avvenute solamente in quell'istante. Come spiegare lo stupore di sentirsi collegati a qualcuno con il quale apparentemente non sembra esserci alcun tipo di giunzione?

Perché mai dopo tutti quei decenni avrebbe dovuto anche solo pensare di comprendere un essere umano che non fosse stato lui?

Era giunto lì per caso in realtà, gli serviva una padella, perché la sua unica gli si era rotta, non si aspettava di certo di trovare quella bimba, o meglio dire, giovane donna.

Entrambi erano assorti nei loro pensieri, cercando di dare una risposta a quella scossa improvvisa. A quella comunicazione che avveniva attraverso le loro menti. Ma non riuscivano a capacitarsene, e quindi cercavano di non darlo a vedere. Nessuno osò affrontare l'argomento, d'altronde che cosa avrebbero potuto dire? 

Leah lo fece entrare, e aspettò che prendesse ciò che gli serviva. E se fosse stato una specie di stalker? Come aveva fatto a trovarla dopo tutti quegli anni? Boston era grande... o forse neanche troppo visto che il giorno prima aveva visto il suo ex. Lui sicuramente la aveva riconosciuta, era come se lo sentisse.

Si fermò a pensare a come era vestito: di certo non era troppo benestante, aveva i vestiti leggermente sgualciti, portava la giacca benché fosse aprile, e pure le scarpe da montagna, che erano forse vecchie di anni. 

«Scusi, ma non avete le padelle in acciaio inox?» chiese improvvisamente.

«No, abbiamo solo quelle in alluminio rivestite in ceramica, ma dobbiamo riordinarle e arriverebbero dopodomani mattina. Gliene metto una da parte.» la ragazza cercò di dimostrarsi il più docile possibile, anche se avrebbe voluto riempirlo di domande, ma non poteva. Doveva cercare di convincerlo a ordinare quelle dannate pentole. In qualche modo però, sentiva che quell'anima fosse assai sfuggevole, e quindi doveva fare con cautela se voleva estorcergli le informazioni necessarie. 

Quella, era certa, non sarebbe di certo stata l'ultima volta che lo avrebbe visto. C'era un motivo se entrambi si erano rivisti, e no. Lui non poteva essere uno stalker, non sembrava affatto il tipo. Anzi, sentiva che anche lui fosse alquanto sorpreso di averla rivista.

«Beh allora non vorrei disturbarla ulteriormente, mi dispiace per il disturbo, ma...» forse era meglio andarsene, soprattutto perché non riusciva a sopportare quell'energia che si era creata tra di loro. Anche perché, come avrebbe mangiato il giorno dopo senza padella? Ma soprattutto, perché quella ragazzina insisteva? Come mai non lo aveva snobbato e subito dopo liquidato, come avrebbe fatto chiunque dopo averlo visto? Tutto ciò era molto strano, ci conviveva da quasi tutta la sua esistenza con quel tormento, tanto da farci l'abitudine. 

E invece, una giovane commessa vista per caso un decennio prima, sembrava davvero interessata alla sua persona. 

«No!» esclamò Leah, forse con troppa irruenza, e se ne accorse, poiché subito dopo si ricompose «Cioè, emh, no... non si preoccupi. Anzi, sarebbe un piacere accontentarla. Venga, così intanto mi segno.» sorrise accomodante.

L'uomo, anche se non voleva, la seguì, come se le gambe camminassero da sole. Gli serviva quella maledetta pentola, e anche subito, dannazione! Ma non riusciva ad uscire da quel negozio.

«Se vuole gliela recapitiamo pure a casa. Mi dica pure l'indirizzo.» doveva tenerselo stretto a tutti i costi, doveva e ardeva dal desiderio di sapere qualcosa in più su di lui. La consegna a casa, in realtà non era contemplata, a meno che non ci fossero ordini importanti, se Frank la avesse sentita l'avrebbe messa alla gogna, ma per lo Sconosciuto questo ed altro. Inoltre la consegna la avrebbe fatta personalmente lei, ovviamente.

L'interlocutore sbiancò improvvisamente. Che diamine stava succedendo? Consegna a casa? Certo! Via della speranza n° duemilaecredici. 

«No, no. Vengo a ritirare tutto io.» rispose, sulla difensiva. Come se qualcuno lo avesse violato.

«Okay. Allora mi serve solo il suo nome.» perché rifiutare la consegna a casa? Certa gente era davvero stramba... 

Peccato però. Ma almeno avrebbe saputo il suo nome, dopo anni.

«David Brown»

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ~ ricerche senza fine ***


David Brown. David Brown. David Brown.

Allora era questo il suo nome? Leah continuava a pronunciarlo internamente da quando lui glielo aveva riferito. Anni per capire come si chiamasse, da dove venisse, e ora, aveva il suo nome.

Non era più lo Sconosciuto, l'appellativo che gli aveva attribuito oramai da tredici a questa parte. Il suo volto aveva un nome. Avrebbe dovuto sentirsi appagata da questa "rivelazione". Eppure non lo era, non lo era affatto. David Brown non gliela contava giusta. Un nome così semplice, che si sarebbe potuto confondere tra milioni...

E che male c'era? Nessuno apparentemente. Proprio perché ce lo avevano in molti, sarebbe potuto essere stato tranquillamente il suo. Tuttavia, il suo istinto sentiva odore di bruciato.

Ma perché tutte queste paranoie su uno stupido nome? Ora avrebbe dovuto farne l'analisi per caso? 

Quando ebbe finito di scrivere, i loro sguardi si incrociano per l'ennesima volta.

«Grazie. Ho finito.» sorrise la ragazza infine.

David, così aveva detto di chiamarsi, accennò un falso sorriso, e si congedò. Non vedeva l'ora di squagliarsela, stare in presenza di quella ragazzina gli metteva inquietudine, soprattutto perché pur vendola incontrata tredici anni prima, il suo ricordo era ancora vivido nella sua mente: ne vedeva a migliaia di bambine! Perché si era ricordato proprio di quella...? Se sentiva ancora quella connessione? Sì, più forte che mai. Ma non doveva dargli importanza, era una sciocca impressione, si ricordava di lei solamente perché aveva preceduto il suo ultimo arresto, tutto qui. 

Uscì dal locale, per sparire tra le trafficate strade della caotica Boston.

 

La diciannovenne, dal canto suo, non riusciva a togliersi dalla testa ciò che era appena accaduto. Avere quell'uomo davanti agli occhi, e provare le stesse emozioni dell'ultima volta, non la aveva di certo lasciata indifferente. Continuava a comprendere la sua solitudine, il suo essere incompreso, sebbene non si fosse ripresentata un'occasione, come alla stazione dei treni, per pensarlo. 

Davvero bizzarro.

«Leah, allora hai fatto? Ti devo scaldare i noodles o no?!» urlò Frank dalle scale che congiungevano il negozio al loro appartamento. 

Era alquanto irritato per il comportamento della figlia, e ciò traspariva dal tono di voce con la quale si era rivolto a lei. 

Solamente la voce di suo padre che la richiamò, riuscì a non farle pensare a quello strano incontro avvenuto pochi secondi prima. Ma una cosa era certa, doveva scoprire qualcosa in più su di lui, la curiosità era troppa.

«Sì ho fatto!» urlò a sua volta la ragazza.

 

***

Leah non riusciva a dormire quella notte. Strane immagini prendevano possesso della sua mente, e la spingevano a svegliarsi di soprassalto, impaurita da quello che il suo cervello elaborava. Erano scene sconnesse, senza senso. Un vicolo pieno di spazzatura, poi una radura dall'erba alta e colma di fiori, ove si trovava un accampamento piuttosto spartano. Urla, sangue, e di nuovo quel maledetto coltello. Una padella. Connor Miller che la rincorreva pronta a dargli una bella lezione, con una di quelle atroci cinture che molte volte aveva visto appese all'attaccapanni, e che l'uomo minacciava di usare contro di lei...

 

E poi, si svegliò di soprassalto. Agitata. Si rese conto che in effetti era un sogno, e cercò di riaddormentarsi, ma si assopì solo per una decina di minuti, prima di aprire di nuovo gli occhi. 

Tutto ciò durò per un paio d'ore, finché non decise di destarsi una volta per tutte. Aveva compreso che quella notte non c'era verso di prender sonno, e che quindi avrebbe dovuto impiegare il suo tempo diversamente. Erano le tre di mattina.

Prese il pc dalla scrivania e lo accese. Magari su Facebook qualcuno aveva postato qualcosa di interessante. 

Ma, improvvisamente, le venne una brillante idea. Al diavolo Facebook, in realtà non le importava nemmeno. 

Digitò sul motore della barra di ricerca "David Brown". Eccola lì, era caduta nella trappola della sua maledetta curiosità.

Dopo aver cliccato il pulsante "cerca", la pagina web si riempì di risultati, che, una volta guardati uno per uno, erano risultati pressoché inutili al suo scopo. 

Sperava di trovare una foto di quell'uomo da qualche parte sulla sezione "immagini", oppure su qualche social. Eppure, il vuoto. C'erano centinaia di uomini, alti, bassi, vecchi, giovani, pelati, foto di molti anni addietro. Sui social assolutamente nulla. Passò le seguenti due ore a cercare qualcosa che lo riportasse a lui, senza alcun risultato. Le persone dal nome "David Brown" erano troppe. Sentiva che non gliela contava giusta, e questa ne era la prova! Come un uomo poteva non avere un social network! Tuttavia, era pur vero che, ripensando  alle condizioni nelle quali si presentava, non era di certo uno che si sarebbe potuto permettere uno smartphone di ultima generazione o un fuoristrada. Forse era un senzatetto... e poi chissà cosa gli era successo subito dopo che quegli agenti lo avevano ammanettato, forse era finito in prigione...

Oh, come aveva potuto non pensarci prima! Ma certo! 

"Arresto stazione dei treni Boston 2005" ciò che era successo quel giorno non poteva di certo essere passato inosservato, nemmeno ai giornali, un tale scompiglio di certo non era ordinario. 

In un primo momento pareva che la sua ricerca la avesse portata in un vicolo cieco, c'erano vari articoli sulla stazione: ristrutturazioni, ampliamenti, treni in ritardo, disguidi, ma non quello che stava cercando. 

 

Ma all'improvviso, eccolo! Quello che stava cercando! Quasi saltò dal letto per l'euforia del momento. 

"Uomo crea scompiglio alla stazione Centrale di Boston, arrestato" articolo datato 6 marzo 2005. Esattamente un giorno dopo quell'evento. La pagina si caricò a fatica, ci mise talmente tanto che la ragazza stava iniziando a perderci le speranze, però alla fine l'articolo comparve davanti ai suoi occhi, e lo divorò in pochi secondi. Era molto breve, e scritto a caratteri minuscoli. Non era presente nessuna foto.

 

"Ieri, scompiglio alla stazione Centrale di Boston. Prima di mezzogiorno un malvivente ha cercato di rubare un biglietto del treno ad una donna, la quale per fortuna, urlando, ha richiamato l'attenzione delle forze dell'ordine, che sono riuscite a rincorrere l'uomo, il quale continuava a scappare. 

Tutto ciò ha destato un certo scompiglio fra la folla presente, e molta paura tra le persone, tra urla e spintoni. 

Fortunatamente, l'uomo, americano sulla trentina, è stato bloccato e fermato dalle forze dell'ordine, che non hanno tardato a portarlo in caserma. Il titolo di viaggio è stato riconsegnato alla donna, e tutto è poi tornato alla normalità. 

Ora l'uomo è accusato di resistenza a pubblico ufficiale e furto. Il tribunale deciderà mercoledì la sentenza."

 

Quando lo ebbe finito, si prese qualche secondo per metabolizzare. Non c'era alcun nome scritto tra quelle poche righe che effettivamente potesse confermare o smentire la sua identità, nulla di interessante. Ma sapeva che il ""malvivente"" era David. Ne era certa. Ma sapeva pure, che non poteva essere come lo descrivevano. Si ricordava ancora bene quei pochi secondi, dove aveva incrociato i suoi occhi, a poco più di un metro da lui. La sua anima non era cattiva. Certo, non poteva mettere in discussione il fatto che avesse rubato il biglietto, ma non poteva giustificare il fatto che venisse etichettato come un malvivente. Quella bambina di sei anni aveva visto tanta solitudine, e poca fiducia nell'umanità. Ma anche tanto bisogno di aiuto. Nonostante ai tempi fosse solo una bambina, quei pensieri innocenti che lo riguardavano, non la avevano abbandonata.

Non riusciva a capire perché tutto questo accanimento verso di lui, di perché le persone lo disprezzassero...forse era una sua impressione, infatti dopotutto aveva rubato.

La sua mente, nonostante tutto, necessitava di ricevere ancora un paio di risposte, e la principale tra queste era la veridicità del suo nome. Quello stesso pomeriggio le sarebbe aspettato un lungo lavoro di ricerca, e sapeva già da dove iniziare, ma forse, ora era meglio cercare di dormire.

 

***

Quel computer avrebbe contenuto tutte le risposte delle quali necessitava, e doveva fare in fretta se non voleva essere scoperta. 

 

«Leah ma che ti salta in testa? Cosa devi fare con i computer della polizia?» 

Chiese immediatamente Hester, quando la sua amica le aveva chiesto se fosse ancora in contatto col suo "amico" che lavorava in caserma, e alla sua risposta positiva le aveva riferito che le sarebbe servito usare uno di quei computer, e che quindi necessitava dell'aiuto di questo poliziotto. Sbalordita era dire poco. Leah aveva sempre avuto quelle pazze idee, ma questa, questa superava lo strambo.

Perché mai le interessava vedere gli archivi di quel posto? 

«Nulla di cui ti devi preoccupare, devo soltanto sapere una cosa. So che è illegale, e per questo mi serve l'aiuto di qualcuno.» aveva replicato la castana.

Hester era tremendamente curiosa di sapere cosa frullasse per la testa a quella stralunata della sua amica, ma sapeva che in un modo o nell'altro se lo sarebbe fatto dire. E comunque, Non le avrebbe di certo negato il suo aiuto. Le promise di contattare Chad. 

Infatti, in tarda mattinata, a Leah arrivò il messaggio della sua amica dove la informava che l'uomo era disposta ad aiutarla. La ragazza non perse tempo, e nel primo pomeriggio si precipitò nella caserma di polizia, entrando dalla parte dei visitatori, e Chad, dopo averla aspettata, la fece passare attraverso una porta quasi invisibile dietro alla "segreteria", facendola entrare nella stanza degli archivi, dopo aver passato un lungo corridoio. 

 

Ed eccola che ora si trovava lì, ansiosa di ricevere delle risposte. 

Si precipitò immediatamente dal computer, e dopo vari procedimenti, aprì la finestra con coloro che erano stati denunciati alla polizia e registrati negli archivi nel 2005. Nessun David Brown. Questa era la prova che aveva mentito. Lo sapeva. E ora, doveva sapere chi fosse realmente. 

Andò nella sezione di marzo 2005, lì, presumibilmente doveva esserci il nome dello 

Sconosciuto

Ed ecco un nome registrato il 6 marzo 2005 alle 00.01. 

John Denbrough nascita: Pittsburgh 31/4/1971- arrestato il 5 marzo 2005, furto, resistenza a pubblico ufficiale. 

Aggiornamento: 9 marzo 2005, condanna sei anni prigioni di stato. 

Era lui. Non aveva dubbi. David Brown in realtà era John Denbrough. Il cuore le fece un balzo in gola. Arrestato. Era rimasto in prigione per sei anni! Aprì il file. Ed ecco le foto segnaletiche. Era lui, stesso viso, stessa espressione. Non era cambiato di una virgola da tredici anni a quella parte, era identico. Avrebbe dovuto avere quarantasette anni in quel momento, ma continuava a dimostrarne trentaquattro. Anche se lei gliene dava anche di meno. 

Rimase per qualche secondo a fissare quelle foto. Sembrava abbattuto, una di quelle foto, ovvero quella frontale, gli incuteva un certo timore, in realtà. 

Decise di chiudere tutto, ma prima scattò una foto col suo cellulare ad una delle immagini segnaletiche.

Infine raggiunse Chad, che la stava aspettando fuori dalla porta, pronto a fare da sentinella. 

«Fatto?» le domandò.

«Sì. Grazie infinite, davvero.» replicò la giovane. 

«Non ti preoccupare. Deve essere una cosa molto importante.» i due stavano camminando lungo il corridoio che avrebbe dovuto portarli in segreteria. 

«In un certo senso sì. Vedere quello che c'era riguardante questa persona, mi ha schiarito le idee.» 

«Beh, dai, sono contento di esserti stato d'aiuto.» sorrise il giovane uomo dai capelli biondo ramato. 

Rimasero in silenzio. Ora capiva perché Hester era così attratta da lui: il suo fisico, che si intravedeva sotto la divisa, era scultoreo, e il suo viso lasciava trasparire un'innocenza quasi infantile. 

 

Aprirono la porta che dal corridoio dava alla segreteria. Prima uscì Chad, per accertarsi che non ci fosse nessuno, e una volta che tutto era apposto, fece sgattaiolare via Leah.

«Grazie ancora.» pronunciò a bassa voce lei, eternamente grata per quel "favore".

«Di niente» rispose lui «Ah, e di' a Hester che domani la aspetto sotto casa sua.» asserì, successivamente, un po' imbarazzato.

La ragazza annuì sorridendo, ed uscì. 

 

Andò a prendere la sua piccola Ford, parcheggiata di fronte alla biblioteca dove era solita andare. 

Guardò l'orologio: le quindici e quindici. Visto il considerato che era così presto, decise di approfittarne per andare dentro a darci un'occhiata.

La lettura non era di certo una delle sue passioni principali, ma ogni tanto non le dispiaceva ficcare il naso in mezzo a uno di quei meravigliosi romanzi, e stare lì a leggere per ore. 

Quindi, decise di entrare in quel grande edificio chiamato "biblioteca".

Una volta entrata salutò la signora McKenzie, che ormai conosceva da anni, e iniziò a dare un'occhiata in giro.

Non riusciva a smettere di pensare a David Brown, o per meglio dire, John Denbrough. Perché mentire sulla propria identità? Aveva forse paura di essere scoperto? Non poteva essere così: il suo nome non era riportato nell'articolo, nome o non, nessuno sarebbe mai arrivato a lui. Nessuno effettivamente poteva sapere che aveva passato sei anni in prigione, ma allora perché ingannarla? Non aveva senso tutto questo. 

Nonostante tutto, in quel momento sapeva la verità, aveva qualcosa su cui basarsi, o almeno credeva di saperla, finché il suo sguardo non si posò su un libro: "Vita e occupazioni nell'ottocento".

Non era per nulla interessante ai suoi occhi, infatti non sapeva perché ce lo aveva tra le mani. La copertina di finta pelle rossa era rovinata, e l'edizione era datata 1970, quindi non del tutto nuovissimo, anzi, un pezzo di storia anch'esso. 

Lo aprì, e i suoi occhi scivolarono su una grande immagine a fine di pagina 179.

Raffigurava un gruppo di persone con una carrozza su una strada sterrata. Ma ella non vide il carro, nemmeno i due cavalli che erano destinati a trainarlo, bensì, un uomo nello sfondo, quasi invisibile.

Era... era...

 

Impossibile!!! Stava avendo le allucinazioni, il tempo passato in caserma le aveva fuso il cervello. No, non poteva essere. Quell'uomo assomigliava terribilmente a John. Le mani cominciarono a tremarle. Impossibile, era così somigliante, ma non era lui. Eppure...

Tirò fuori il cellulare e comparò la foto di John con quella di quell'uomo che si vedeva appena. Trasalì. Era identico. In quella foto sembrava volesse sgattaiolare via, faceva parte dello sfondo, la sua immagine era leggermente sfocata, e sebbene lo fosse, si intravedeva perfettamente la somiglianza. 

Non era lui, non era umanamente possibile. Strane coincidenze, tutto qui. Si sentiva come nel film di "It", quando a Derry il clown compariva dappertutto, le sembrava di essere in un film. L' insonnia le creava brutti scherzi, e pure tutte quelle ricerche. 

Le gambe iniziarono a cedere, le mani che reggevano il libro tremavano. Era tutto Uno stupidissimo sogno. Si diede un pizzicotto: nulla, non si destò. Era sveglia allora. Doveva agire.

Si precipitò dalla signora McKenzie stringendo il manoscritto tra le mani. Necessitava risposte da quel libro.

 

«Oh ciao tesoro. Vuoi prendere questo libro?» la sua voce lasciava trasparire una dolcezza incredibile, e in effetti era così.

«Buon pomeriggio. No, volevo solo che lei mi desse un'informazione» le mancava quasi la voce, sembrava avesse fatto una maratona lunga ore, invece, era tutte le sue emozioni che scalpitavano, concentrate nel battito accelerato del suo cuore, quasi come se volessero uscire dal suo corpo.

Indicò la foto, con un dito tremante.

«Questa foto, sa dirmi chi l'ha pubblicata su questo libro, e se sa darmi un po' di informazioni a riguardo?» respirava affannosamente, le parole faticavano ad uscire.

«Mh, sì. Questo vecchio libro lo ha scritto un mio vecchio amico che lavorava agli archivi comunali di Brockton. Sì, ne sono certa.» sorrise la signora infine. Non riusciva a capire perché la piccola Leah fosse così agitata. 

«Grazie mille! Anzi, visto che ci sono lo prendo.» disse frettolosamente la giovane. 

Ora era certa di una cosa: doveva andare in quella città, immediatamente.

Sebbene una parte di se negasse la coincidenza con quella foto, l'altra riteneva che di fosse un collegamento, magari era un suo parente, o forse l'altra parte di se aveva ragione, e quei quaranta chilometri sarebbero stati inutili, ma doveva provarci.

 

Dopo aver preso il libro, una volta uscita dall'edificio, entrò nella sua macchina, e sfrecciò, in direzione Brockton. 

***

 

Erano passati quarantacinque minuti da quando era smontata dal suo autoveicolo. Entrò dentro al municipio, e chiese subito di questo amico della McKenzie, Samuel Harper. Per sua fortuna, si trovava lì.

Si trovò davanti ad un uomo sulla settantina, dai capelli bianchi, ma dal fisico arzillo. Era molto in forma in effetti. 

«Buon pomeriggio, mi chiamo Leah Parker, e sono un'amica di Laura McKenzie.» si presentò in tutta fretta «Ecco vede, ho trovato questa foto su questo libro, che lei ha scritto. Questa immagine mi ha molto incuriosito e volevo sapere se lei avesse delle informazioni a riguardo, o foto simili a questa, scattate nello stesso giorno.» quando finì il lungo discorso, respirò profondamente.

«Ciao Leah. Sì, quella foto la ho inserita dentro quel libro molti anni fa, l'ho trovata proprio qui, negli archivi comunali. Vieni seguimi.» sorrise l'uomo.

«Grazie.»

Lei lo seguì, e dopo aver fatto due rampe di scale, giunsero in una stanza zeppa di cassettoni su cassettoni, pieni di fogli. 

L'uomo si infilò dei guanti.

«Dovrebbe essere qui...» bofonchiò tra se e se, dopo aver aperto uno dei tanti cassettoni. 

E immediatamente, ne tirò fuori una foto. Era quella del libro. Ed eccone poi altre due. 

«Ecco qui, queste sono le foto scattate lo stesso giorno, doveva essere durante una fiera o qualcosa del genere, come puoi vedere era pieno zeppo di persone. Che fascino queste foto, non lo pensi anche tu?... come vorrei tornare indietro nel tempo.» asserì infine, assorto nei suoi pensieri.

 

«Sono d'accordo.» rispose l'interlocutrice facendo un sorriso di convenienza.

«Te le lascio qui se vuoi vederle. Non ho quasi nessuna informazione a riguardo. So solo che sono state scattate qui a Brockton durante la seconda metà dell'ottocento, colui che le ha scattate doveva essere un fotografo o qualcosa del genere, visto la loro qualità eccelsa.» il signor Harper aggiunse questo, prima di allontanarsi. 

Leah infilò i guanti che lui le aveva lasciato sopra il tavolo, e prese tra le mani quelle fotografie. Le altre due rappresentavano un uomo e una donna con un bambino, e l'altra una folla di persone sparpagliate lungo una strada. Cercò di avvicinare lo sguardo, ed... eccolo. Era sempre lui, sempre fotografato quasi di sfuggita, quella foto e quella del libro dovevano essere state scattate in un breve lasso di tempo, ma comunque in una zona diversa. 

Non riusciva a crederci. Avvicinò le due foto, e quella che aveva sul cellulare. Era terrificante. Maledettamente spaventoso. Non poteva essere lui. Non aveva letto da qualche parte che nel mondo abbiamo dei sosia? Poi, nella storia erano vissute così tante persone che era inevitabile non trovare qualcuno simile a qualcun altro, anche a distanza di molti anni. Ecco, forse era quello il caso. O probabilmente era un suo parente. Ma non poteva essere lui, come faceva? Con lo stesso aspetto poi? 1800, 2005, e 2018, Sempre uguale? Impossibile. Poteva capire i tredici anni, magari usava una crema miracolosa o qualcosa del genere, ma un secolo e mezzo! Queste cose si vedevano solo nei film fantasy, e quello non era un film, e non esisteva la magia. 

Girò le tre fotografie, e rabbrividì. 

 

"15 aprile 1862"

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ~ Tra il sogno e la realtà ***


E neppure quella notte, Leah riuscì a prendere sonno.

O meglio, si era addormentata, ma a fatica, e il suo corpo si contorceva continuamente nel letto, come se non riuscisse a trovare una posizione giusta per favorire un sonno ristoratore, quindi era in un perenne stato di dormiveglia.

In realtà il problema di questa suo sonno tormentato non era il fatto che non trovasse una posizione comoda, ma era ciò che stava accadendo dentro la sua testa: c'era ancora quel susseguirsi di immagini macabre e apparentemente senza senso.

 

Ma ad un tratto, il tutto s'interruppe, e il corpo teso della ragazza si rilassò, e finalmente uscì da quella fase di dormiveglia, iniziando a dormire sul serio.

Ma successivamente, la sua mente continuò ad elaborare altre immagini, fortunatamente meno disturbanti delle precedenti. 

 

«Oggi rividi l'uomo dagli occhi del colore pari a quello degli oceani che il dio del mare ha sotto la sua immensurabile guida. O Disma, suggeriscimi tu, ciò che devo fare! Il cuore esplode dentro al petto mio, ogniqualvolta le mie pupille si poggiano su quella figura che pare figlia degli déi, ma che in verità è frutto del ventre di una madre mortale. Quanto vorrei che lui stesso fosse un non-mortale, per poter passare il resto dell'eternità in sua compagnia! Non conosco il suono della sua voce e nemmeno il suo nome, ma la mia ψυχή (psychè)* non vede il tempo di unirsi alla sua. Ugualmente, io stessa, vorrei esser nata mortale, anche se la loro vita è così breve... ma cosa significa vivere poco, se al tuo fianco ci sarà la persona che più ami? Quelli saranno anni vissuti, tempo mai sprecato, e una vita completa.»

Era quella splendida ragazza che stava parlando. Ancora lei. Ancora quel bosco. Ma questa volta era in compagnia solamente di una delle dodici fanciulle: Disma. La stessa nominata proprio nel sogno precedente. Quest'ultima a differenza di lei, era più bassa, bionda, ma ugualmente le sue forme muovevano invidia a qualunque ragazza, e ogni casa di moda si sarebbe scannata per avere la sua figura in copertina. 

«Daktulorodos, è da cotanti giorni che dalla tua bocca escono esclusivamente parole d'amore rivolte a quell'uomo dai possenti muscoli, che frequentemente appare in codesta selva a cacciare la fauna che risiede qui in nostra compagnia. 

È passata un'ingente quantità di tempo da quando lo hai intravisto per la prima tra gli alti ippocastani che crescono in questo luogo quasi magico, e i tuoi pensieri da quel giorno sono dedicati solo ad egli. Se non è amore questo! Insegnami, spiegami come fai ad amarlo con così tanto trasporto, senza mai aver sentito la sua voce! Fammi sognare, fa' catapultare i miei pensieri nella dimensione nella quale vivono le tue fantasie; o amica, illustrami attraverso le tue parole quello che la tua anima prova in questo istante!»

Disma sembrava veramente eccitata all'idea di ascoltare l'amica parlarle di questo suo fervente amore a prima vista, non traspariva un minimo di invidia dalla sua bocca, anzi, tanta curiosità. Una vera amicizia quella fra le due, insomma. 

Daktulorodos rise con un lieve imbarazzo. 

«Impossibile! È impossibile descrivere ciò che provo quando lo vedo. Mi sento come se una strana forza sollevasse il mio corpo dal terreno, e la mia anima divenisse leggera. I miei occhi adorano osservare ciò che egli compie, ogni piccolo movimento. Il suo sguardo così seducente non si è mai posato sul mio, sono ben accorta dal farmi vedere! Quell'uomo non sa che qui esiste una donna che lo ama e che lo venererebbe ogni giorno della sua vita! Cosa darei per unire il mio corpo al suo, poter far congiungere le nostre labbra, e dare vita ad un amore condiviso! Ma non è concesso che io mi mostri a lui...» improvvisamente quello sguardo così vivo e pieno di felicità ed amore, si spense. Come se l'oscurità avesse varcato la soglia del suo umore, distruggendo tutte le le emozioni positive che stava provando pochi secondi prima.

«Che cosa succede?» chiese tempestivamente la ragazza bionda. 

«In realtà, il nostro è niente di meno che un amore impossibile. Non potrò mai legarmi a lui. Sono destinata a vederlo da lontano, e a sognare un futuro che mai avverrà. Ma il futuro sarà funesto senza lui al mio fianco...» si sedette tra il prato fiorito, e delle lacrime iniziarono a comparirle sul volto. 

«Non piangere! In realtà esiste una soluzione, ma dovrai abbandonare questi boschi, lasciare noi, e staccarti dal regno degli déi, per legarti a quello terrestre. Dovrai abbandonare la tua intera esistenza, e diventare forse anche mortale, per un uomo che nemmeno conosci.» si vedeva che era preoccupata per lei, la felicità dell'amica era la sua, ma non voleva metterla di pericolo. 

«Sono disposta a farlo! Ti scongiuro rivelami ciò che sai!» esclamò Daktulorodos, la felicità sembrava avere ripreso possesso del suo corpo, facendo risplendere la sua bellezza più di quanto non lo facesse prima.

«Ti riferirò tutto, ma a patto che prometterai di pensarci» quando finì la frase, l'amica annuì con decisione, quindi Disma continuò «Esiste un contratto che suggella l'unione tra due umani ed esiste qui nel pianeta terra, e se tu vorrai prenderne parte, questo ti scinderà per sempre dal mondo degli déi, di conseguenza non potrai più venire a farci visita, sappilo. Non sarai più una Ninfa. Nemmeno tuo padre potrai incontrare, tuttavia, noi potremmo ancora vederti, ma senza interferire nella tua nuova vita. Se proprio il tuo genitore deciderà di acconsentire a questa tua volontà, avrai dieci giorni esatti perché il tuo innamorato si unisca a te in questo loro contratto che dura una vita. Dopodiché diventerai anche tu una mortale, e potrai stare con lui. Se ciò non avverrà, allo scadere dei dieci giorni, il tuo corpo svanirà, e la tua anima con esso. Per sempre. Poiché, nessuno dei due mondi ti vorrà accogliere.»

Le parve quasi di sentire le emozioni della ragazza attraverso quel sogno: era confusa, spaventata, ma ancora convinta della sua decisione, e che quel suo amore sarebbe stato facilmente ricambiato secondo la sua visione. Suo padre avrebbe fatto fatica a lasciarla sola, senza affidamento di nessuno, ma lei lo avrebbe convinto. Era entusiasta del fatto che esistesse questa opzione, e talmente innamorata che avrebbe rischiato tutto per quell'uomo.

«Non ne ero a conoscenza, e sicuramente rifletterò. Ma ora dimmi, come si chiama questo contratto che unisce un uomo ed una donna per tutta la vita, dedito a confermare l'amore?» chiese, poi. 

«Matrimonio. Ma attenzione, nel mondo umano matrimonio non sempre è sinonimo di amore, una coppia si sposa anche perché le famiglie lo desiderano, o per questioni economiche. Non solo per amore.» la ammonì infine l'interlocutrice.

«Matrimonio! Che parola soave che racchiude tutta l'essenza della vita! Il nostro sarà uno stupendo matrimonio, e le nostre anime non potranno più sfuggirsi. Mia cara Disma, nient'altro che amore fiorirà tra noi.» e successivamente il bosco si riempì di risa gioiose.

 

Leah si destò. Il suono fastidioso della sveglia aveva interrotto il suo sonno e il suo sogno. La spense immediatamente, e si concesse qualche minuto per svegliarsi completamente e tornare nel mondo terreno. 

Da quando in qua era possibile sognare il proseguimento di un sogno? Oh, ma forse era solo una stupidissima coincidenza, probabilmente perché la sua mente non faceva altro che pensarci, e di conseguenza si era immaginata ciò. Eppure, non riusciva a non pensare a quelle immagini, così vivide da sembrare quasi reali, come se ella stessa fosse la. Oh, ma i sogni sono sempre così, perché farsi tanti problemi?

Okay, ma ciò non toglieva il fatto che aveva dormito male, e aveva fatto fatica ad addormentarsi tranquillamente. Forse soffriva di insonnia per qualche tipo di ansia che aveva, forse proprio causata da tutte quelle scoperte del giorno prima.

Decise di alzarsi dal letto e di andare in cucina: anche Frank si era appena destato. 

Ricominciò a pensare a quella macabra scoperta finale, e non potè fare a meno di rabbrividire al pensiero. Forse era una mera illusione. 

 

Il giorno precedente, dopo aver osservato attentamente quelle foto, aveva richiamato il signor Harper, per poi congedarsi. Quel libro lo aveva tenuto chiuso in un cassetto, non voleva proprio più vederlo, le metteva inquietudine, la terrorizzava in realtà. Non vedeva l'ora di poterlo restituire.

 

A proposito di foto, quel giorno avrebbe dovuto incontrare David Brown, o John Denbrough, o chi diavolo esso fosse. Non negava che venire di nuovo a contatto con quella figura la metteva piuttosto a disagio, ma questa faccenda la incuriosiva troppo per tirarsi indietro. 

La mattina se la era già prenotata lei, cosicché suo padre avesse tutto il tempo libero, per riordinare casa o fare le solite faccende le quali fare la spesa, e tutto il resto.

 

Si preparò in fretta e furia, per poi scendere in negozio. Alle otto e tre quarti arrivò il furgone con le varie forniture, tra le quali proprio le fantomatiche padelle. Ne mise una da parte in attesa del suo cliente. 

Ed eccolo lì, varcare la soglia del negozio esattamente alle nove e mezza. 

 

«Buongiorno» la salutò avvicinandosi al bancone. La ragazza si prese due secondi per osservarlo meglio: era vestito esattamente come l'ultima volta, l'aspetto era identico, trascurato, ma con il viso che rasentava la perfezione.

"Se si concedesse un poco di tempo per la sua cura personale sarebbe anche un bell'uomo." Pensò, ma subito si scacciò questo pensiero dalla testa, doveva concentrarsi sul loro futuro discorso. 

«Buongiorno signor Brown ecco la sua padella, sono dieci dollari.» marcò volontariamente il suo falso nome, per vedere la sua reazione, che invece non arrivò.

L'uomo non esitò a pagare, e si diresse verso l'uscita, dopo averla ringraziata e salutata. 

Oh no, non doveva lasciarselo sfuggire così! Aveva atteso due giorni solamente per questo? Lei voleva la verità e le risposte che necessitava fin da quando era una bambina. Aveva bisogno di avere un confronto diretto con lui, anche se questo le sarebbe costato fare un'enorme discussione.

«È veramente quello il suo nome?» le parole uscirono inaspettatamente dalla bocca di Leah. 

 

Lei era sempre stata un pochettino insolente ed insistente, con gli anni aveva imparato a trattenersi, ma questa era una di quelle volte dove la parte peggiore del suo carattere sarebbe potuta servire a qualcosa.

L'uomo, che stava quasi varcando la soglia d'uscita, si girò nella direzione della commessa.

David Brown o chi per esso, rabbrividì. Mai nessuno si era permesso di fargli una domanda simile! Era sempre riuscito a passare inosservato, e questa mocciosa aveva il sospetto sulla sua identità costruita? Ma cos'era? Una sottospecie di indovina! Iniziava ad averne seriamente timore, forse quello strano collegamento che sentiva non era del tutto casuale. Forse... sciocchezze! In ogni caso non avrebbe dovuto cedere.

 

«Ma che razza di domande mi pone?! Le sembra il modo? È forse impazzita? Perché dovrei mentire?» si mise sulla difensiva, alzando la voce. Ma per sua sfortuna, la sua interlocutrice era molto più ostinata a sapere la verità di quanto credesse, e nulla la avrebbe intimorita. 

«Oh, scusi allora, la avrò scambiata per John Denbrough, mi sembrava di averlo già visto alla stazione di Boston tredici anni fa.» enunciò con un tono di voce visibilmente falso, intenta a farlo parlare. 

«Si sarà sicuramente sbagliata, non sono un malvivente che è stato inseguito dalla polizia perché aveva rubato.» David cercò di arrampicarsi sugli specchi, ma in realtà gli era uscita qualche parola di troppo, cosa che fece ancor di più convincere Leah.

Era venuto soltanto a prendere una stupida padella e ora si trovava in quella situazione? Sapeva che non sarebbe dovuto tornare lì.

 

«Come fa a saperlo?» la ragazza si sporse leggermente dal bancone, fissandolo negli occhi con aria di sfida.

«Letto sul giornale.» Brown cercò di mantenere un apparente calma, senza successo. 

«Eppure mi sembra così simile.» incalzò ulteriormente lei. 

«Non sono John Denbrough!!! Senta mi sta facendo perdere la pazienza!» ed era vero. Così poche volte qualcuno gli aveva fatto perdere la pazienza in tal maniera, e quella ragazzina ci stava perfettamente riuscendo. In quel mondo era completamente ignorato, perché anche lei non faceva lo stesso?

«Avevo sei anni. E nonostante ora sia un'adulta mi ricordo perfettamente quello sguardo, era il suo!» Leah era convinta, voleva sapere. Riteneva che dovesse sapere.

«La sua memoria non funzionerà bene.» ed ecco che lui minò al suo orgoglio, l'unica cosa che poteva fare, e che sapeva fare bene senza rimpianto alcuno.

 

«La mia memoria funziona benissimo, qui è lei quello che deve farsi un esame di coscienza e ammettere che in realtà è stato in carcere per sei anni!» questa volta era lei ad essersi irritata! Come si era permesso quell'insolente?! Ed ecco che per sbaglio le era uscita questa informazione che solo l'archivio della polizia aveva conservato. E adesso? Era caduta nella sua stessa trappola! Le carte in gioco erano altissime, doveva inventarsi una scusa.

 

«Come fai a saperlo...?» l'uomo era a dir poco sorpreso, le incuteva sul serio un certo timore... come faceva a sapere tutti quei dettagli? Forse lavorava in polizia? Come aveva solamente potuto tirar fuori tale argomento? La prigione... quel posto lo conosceva talmente bene da odiarlo quasi più della sua stessa condanna eterna.

«L'ho intuito.» minimizzò lei. Si accorse che si era rivolto a lei in seconda persona, abbandonando la sua "galanteria", e quindi anche lei decise di fare lo stesso. La faccenda si stava facendo infuocata.

 

«Senti ragazzina, tu sei la prima in questo universo che si accanisce così insistentemente contro il sottoscritto, cosa è successo? Forse ho dei debiti con qualcuno che conosci?» ad un tratto a lui venne in mente che probabilmente doveva essere una qualche amica di qualcuno che aveva incontrato in passato... ma perché interessarsi comunque tanto alla sua vita? Non le bastavano i soldi? 

Leah oltrepassò il bancone, e si diresse di fronte a lui. Il cuore le sembrava quasi uscire dal petto, i battiti aumentavano sempre di più, l'adrenalina causata da quella discussione palpitava nelle sue vene, quasi a farle esplodere. 

«No. Io voglio solo aiutarti e sapere chi sei realmente.» enunciò con estrema calma. Era la verità. Niente meno che la pura ed autentica verità. Dopotutto, le bastava sapere questo, avere delle risposte, sapere se stesse bene. Era stranissimo da pensare... chiedere come si sta ad un autentico sconosciuto. Quella scena la aveva colpita più di quanto credesse. Insieme alle risposte di quell'uomo, voleva aiutarlo, sentiva di poterlo comprendere.

Un silenzio quasi agghiacciante, dopo questa sua affermazione. Aveva forse detto qualcosa di sbagliato?

Improvvisamente lui proruppe in un'autentica risata. Ma non era una di quelle risa serene, divertite, bensì colme di incertezza, falsità, erano quasi macabre. Tristi, malinconiche, tanto da incutere timore.

 

«Aiutarmi!! Ma se neanche sai chi sono!! Cosa sei una crocerossina?! Quel giorno in quella stazione non lo ha fatto nessuno, e neanche prima di allora, e non succederà mai! È il mio conto da pagare. Ancora mi chiedo perché continui ad interessarti a me. E perché io continui a darti corda.» esordì lui, ormai colpito nel profondo. Aiutarlo? Nessuno lo faceva e lo avrebbe mai fatto, e lei non sarebbe di certo stata la prima. Se ne stava così bene solo com'era. Se ne stava davvero bene così...? Per la prima volta le sue certezze vacillarono, colpite da quelle parole sincere fuoriuscite dalla bocca di una diciannovenne che lavorava in un banalissimo negozio, e che aveva visto un decennio prima. In pochi minuti era riuscito a farlo arrabbiare, spaventare, e a fargli dubitare perfino di se stesso. Nessuno lo aveva mai fatto. 

«Se non ti vuoi lasciar aiutare è logico che nessuno lo voglia fare!» incalzò lei, fermamente convinta. Vide attraverso i suoi occhi blu questa sua incertezza che si faceva spazio tra quella falsa sicurezza che ostentava pochi secondi prima.

«Nessuno è disposto a stare a contatto con me! Lo capisci?!?!?» per poco non gli uscì un urlo di disperazione. Era disperato, perché lei era riuscita a far breccia nelle sue insicurezze più remote. Nessuno lo voleva, lo capiva?!

Perché lei sì, perché glielo ribadiva così insistentemente? Perché glielo aveva fatto notare ora più che mai?

Strinse i pugni, ma subito dopo un'apparente calma prese possesso del suo viso.

 

«Va bene ti accontenterò, tanto non cambierà nulla, ma soprattutto ti farai una grossa risata, così io e te ci saluteremo per sempre e ci dimenticheremo di questa discussione. 

Se ti raccontassi di un uomo intrappolato nel corpo di un trentacinquenne da trecento anni ci crederesti? E che qualcuno lassù gli ha scagliato una maledizione destinata a durare in eterno?» tanto, cosa sarebbe cambiato? Nulla. Niente e nessuno sarebbe stato in grado di aiutarlo, e nessuno gli avrebbe creduto, nemmeno lei. Poteva raccontare questa storia a diecimila persone, e tutte gli avrebbero riso dietro, nel migliore dei casi, oppure non lo avrebbero nemmeno ascoltato a dirla tutta. Perché lei avrebbe dovuto credergli? In effetti era tutto frutto dell'immaginazione di un regista, no? No. La sua vita purtroppo no. Era tutto reale, ma nessuno ci avrebbe creduto. E nemmeno lei, che si interessava tanto. Tuttavia, per un secondo lo aveva sperato. 

«No, queste cose accadono solamente nei film, suvvia, ti prego di non prendermi in giro, non sono in vena.» la ragazza si sentiva schernita. Aveva fatto una grossa litigata e ora si era sentita dire la sceneggiatura di un fantasy? Che bifolco! Come osava prendersi gioco di lei con così tanta serietà? Non avrebbe dovuto perdere tutto quel tempo appresso a lui e alle sue sciocchezze. Era un uomo come tutti gli altri, con l'aggiunta della maleducazione. Niente connessione, niente coincidenze. La sua mente di bambina doveva smetterla di prendere il possesso della sua mente di adulta. Enormi fandonie, ecco tutto! Neanche la sua vera identità era riuscita a farsi dire da lui. Quel tale si meritava di starsene solo com'era. Farsi prendere in giro così? Mai più!

 

«Ecco appunto. Io non ho nulla da raccontare se non un film che ho visto di recente. Arrivederci.» non era diversa, quella giovane donna castana che lavorava lì. Era uguale agli altri, solamente che gli aveva fatto perdere tempo, o forse no. Per un attimo gli aveva fatto assaporare la sua vecchia vita che tanto gli mancava, per un attimo gli aveva fatto credere di essere tornato alla normalità, che non fosse più solo. Ma era solamente una sua stupidissima impressione.

 

I loro occhi, rimasti fissi gli uni negli altri per tutto il tempo, si staccarono, l'uomo girò i tacchi e uscì dal negozio. Leah non lo trattenne più, ne aveva tratto le sue conclusioni. Non avrebbe più dovuto perderci altro tempo.

_______

*psychè: anima

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ~ la notte della verità ***


"L’infinita luce non riuscì ad aprire i miei occhi del tutto. L’infinita notte, riuscirà a chiudere i miei occhi del tutto?"

(Antonio Porchia)

 


Non poteva ancora crederci! Tutto quell'impegno, quelle ricerche, inutili! Aveva perso solo tempo, che avrebbe potuto utilizzare in maniera diversa...

Quel tale, era più antipatico e maleducato di quanto pensasse! Forse i modi con i quali lei si era rivolto a lui, non erano di certo dei migliori, ma ciò non giustificava la maleducazione che lui aveva manifestato nei suoi confronti. 

Avrebbe semplicemente potuto dirle che non voleva rivelarle nulla, anzi, avrebbe di certo preferito che se ne fosse andato piuttosto che averle raccontato quella stupidissima storia, inventata solamente per prendersi gioco di lei.

Durante quegli ultimi giorni nulla stava andando per il verso giusto: prima l'insonnia, e dopo la comparsa di quell'uomo, che le aveva scombinato tutto, i pensieri, i piani...

Era lui la causa della maggior parte dei suoi problemi. Sì, era proprio così. Ed ora doveva chiudere questo stupido capitolo della sua vita. Aveva speso troppo tempo per nulla, doveva tornare quella di sempre, ed eliminare l'immagine di quel John dalla sua testa. Tutte quelle cose che sentiva di provare, erano scempiaggini, la sua mente da bambina prevaleva ancora su quella di adulta, e non sarebbe dovuto essere così.

Che poi, perché affidarsi così tanto ad uno sconosciuto? Perché ci aveva speso così tanto tempo ed energie? Diamine. Si era aggrappata troppo ad un ideale infantile. Lui era ricomparso per caso, e quel giorno lo aveva visto sempre per pura casualità. Punto. Boston era grande, sì, ma non troppo, ed ecco perché lo aveva ritrovato. Tutto qui. 

Non smetteva di domandarsi, perché anche dopo il loro scontro, continuava a interessarsi ancora a lui, sebbene cercasse di volgere i suoi pensieri altrove. Era solo un uomo qualunque, entrambi non avevano nulla in comune, ma soprattutto nulla da dirsi. Quelli sguardi che si erano rivolti alla stazione dei treni, erano stati modificati dalla sua stupida mente da bambina, che, ancora non curante della cattiveria umana, aveva scambiato quello sguardo qualunque, come uno d'aiuto. Tutto qui. Niente di più e niente di meno. E inoltre, chi era lei per impicciarsi degli affari altrui? Vero, la colpa era anche sua, dopotutto. Non avrebbe dovuto essere così insistente. Se lei fosse stata al posto suo, avrebbe sicuramente fatto lo stesso, anzi lo avrebbe mandato sonoramente a quel paese. Quindi, effettivamente, non c'era nulla di strano nel suo comportamento, sebbene non avesse fatto per niente piacere il modo in cui si era rivolto a lei.

«Leah è entrato qualche cliente per caso?!» sentì Frank richiamarla dalle scale. La ragazza si diresse verso la porta che la conduceva a queste, e la aprì, trovandosi il genitore a pochi centimetri da lei.

 

«Sì, ma non ha trovato quello che cercava.» mentì la ragazza. Il padre, che nel frattempo la aveva oltrepassata, per uscire e dirigersi verso il magazzino del negozio, la scrutò con un'espressione indagatoria. Doveva ammettere, che sua figlia non gliela contava giusta.

«Ah, no perché mi sembrava di aver sentito due persone che stavano discutendo. Credevo stesse succedendo qualcosa qui.» asserì, prima di entrare nel magazzino. 

«No, non ti preoccupare. Forse proveniva da fuori.» cercò di inventarsi una scusa plausibile. Non voleva che suo padre stesse in pensiero senza motivo. Quella questione di per se non era assolutamente nulla.

Silenzio.

«Beh, menomale, allora io esco. Ci vediamo tra una mezz'ora.» asserì infine, quando ebbe finito di trafficare con alcuni oggetti. 

La figlia annuì. 

 

***

Forse era meglio prendersi una pausa. Da tutto quello stress, quei pensieri che non le lasciavano tregua. Era da più di dieci minuti che la giovane era davanti allo specchio, e continuava ad osservare il suo volto. Era presa peggio di quanto credesse.

Continuava a toccarsi le guance scarne, le rughe di espressione sulla fronte. Ma la sua vista si concentrava principalmente su quelle occhiaie, così pronunciate e visibili, forse come non mai. 

Negli ultimi giorni non era riuscita a dormire affatto, se non per la notte appena trascorsa anche se si era assopita con tranquillità per solo un'ora. La sua mente era continuamente pervasa da immagini disturbanti, ogniqualvolta le sue palpebre si chiudevano. Doveva esserci una spiegazione a tutti quei terribili sogni, che non le lasciavano tregua.

Improvvisamente, pensò che la sua insonnia era iniziata da quando John era rientrato nella sua vita. Forse c'entravano qualcosa.

Scoppiò in una sonora risata, che riecheggiò per tutto il piccolo bagno. Ma come faceva solamente a pensare a cose del genere? Ora avrebbe pure iniziato a credere alla sua storiella senza senso e alle fatine, agli elfi, agli stregoni...? Anziché crescere, stava tornando indietro. 

Uscì dal bagno, e si diresse verso il salotto. 

Si sarebbe concessa quell'oretta e mezza per cercare di appisolarsi sul divano, magari ci sarebbe riuscita. Era quasi certa che la notte che sarebbe dovuta giungere non sarebbe stata clemente con lei, tanto valeva riposarsi durante il pomeriggio, no? Stava diventando sempre di più simile ad un animale notturno. In realtà a lei bastava dormire quelle sette o otto ore a notte, ma visto la situazione nella quale si trovava quel momento, tre o quattro ore sarebbero state più che sufficienti.

Stava seriamente valutando l'idea di andare in farmacia a farsi prescrivere delle pastiglie per il sonno.

Si stese sul divano, e non tardò a cadere nel mondo dei sogni. 

Si trovava su una grande strada sterrata, che divideva in due una piccola cittadina. Le case erano disposte senza un ordine preciso, a dirla tutta sembravano appartenere ad un'altra epoca. 

Ad un tratto si accorse che le persone presenti erano vestite in abiti d'epoca. Sembrava essersi catapultata in un libro di storia, forse intorno al millesettecento. 

Che buffo. 

Tutti si muovevano freneticamente, donne e bambini, uomini che bevevano in un bar poco distante, una carrozza attraversò la lunga strada.

E poi, eccola ritrovarsi in un altra zona, più periferica, che dava all'immensa prateria al di fuori della cittadina. Ad una staccionata erano legati alcuni cavalli, che si stavano abbeverando sui rispettivi abbeveratoi, e un paio di uomini, poco più distanti, stavano fumando le rispettive pipe appoggiati ad un pozzo in pietra.

Si girò alla sua destra, e sul muro dell'edificio a fianco era presente un'iscrizione: "In onore di Martin Robert Ascott Jr. che fondò questa umile cittadina durante l'A.D. MDCLXXXIX

Lì, 17  Novembre 1710"

Una donna le passò di fianco, ma era... Lei!

Di nuovo? Ma la sua mente era proprio recidiva!

Era vestita diversamente dall'ultimo sogno: indossava un abito popolare, che generalmente portavano le donne di ceto medio-basso, il corpetto del soprabito marrone non era stretto in maniera eccessiva, e di conseguenza non dava quell'effetto succinto delle donne del ceto aristocratico, le quali lo stringevano a più non posso, cercando di mostrarsi più magre. Ma a lei non serviva stringerlo in maniera così drastica, le sue forme aderivano bene a quel vestito all'apparenza scialbo, e ugualmente riusciva a risplendere di una luce quasi accecante. 

Il sottabito bianco s'intravedeva fuoriuscire dalla sottana, e copriva quelle parti, ovvero le braccia e il décolleté, dove il corpetto non riusciva ad arrivare. 

I suoi capelli castani erano raccolti in uno chignon alto, ma alcuni ciuffi le scendevano ugualmente sul viso, ed ai piedi portava delle semplici scarpe basse di colore nero. 

Riusciva a sentire degli strani flussi di coscienza "Deve accorgersi di me... deve accorgersi di me..."

Iniziò a correre all'impazzata, tant'è che, sembrava non riuscire a fermarsi. 

Improvvisamente cadde, non era riuscita a raggiungere il prato, quindi risultava ancora essere sopra la strada sterrata, e di conseguenza, mosse una polvere molto evidente. Infatti la sentì tossire. Era a forse due metri da lei. 

E subito dopo ci si trovò di fianco. Aveva le mani impolverate, e il viso sporco. Sicuramente la caduta non era programmata, i suoi piani erano altri.

 

Dalla sua destra vide sopraggiungere un uomo, sembrava essere anche abbastanza alto, vestito con una giacca marrone in pelle e dei pantaloni scamosciati, che al ginocchio scomparivano, coperti da degli stivaloni neri. Nonostante questo non riusciva a vedere il suo volto. 

«Vi siete fatte male signorina?» sentì il cuore battere all'impazzata, come se fosse lei quella ragazza, e non più una figura esterna. Riusciva a percepirne tutte le emozioni, ed ora si sentiva come infatuata, estasiata.

"È lui"

 

«No, non vi preoccupate.» replicò lei, sorridendo, un sorriso così sincero.

E improvvisamente, vide il volto di quell'uomo. 

Gli occhi di quel blu intenso le perforarono l'anima.

Era John.

 

Si svegliò di soprassalto. Cosa, cosa era appena accaduto? Aveva rifatto di nuovo quel sogno! Con quella donna... e con... John? 

Ma era mai possibile che nonostante cercasse di toglierselo dalla testa, riusciva a sbucare fuori in qualsiasi maniera possibile ed immaginabile?

Era identico a come lo aveva visto l'ultima volta, solamente con abiti diversi.

Uguale. 

Beh, quella era sicuramente la sua coscienza che le ricordava lo spettacolo che avevano inscenato solamente poche ore prima. 

Eppure per la prima volta iniziò a pensare che quello non fosse solamente l'insorgere della sua coscienza, bensì qualcosa di più importante, più serio. Cominciò seriamente a dar importanza alle supposizioni che avrebbe formulato la "lei" bambina, che in realtà quei sogni significavano qualcosa, che erano collegati. Che la magia esisteva. 

Aveva iniziato a vedere in sogno quella donna esattamente la notte prima di incontrare John, e non era stato un sogno separato. C'era una certa continuità, che la lasciava senza parole, che le faceva venire i brividi, e gelare il sangue nelle vene.

Riusciva a provare delle emozioni, in un sogno! Incredibile.

Sembrava che stesse guardando un film, ma è come se ella fosse il fantasma di quel film a puntate, e che quelle puntate volevano in realtà spiegarle qualcosa.

Le risovvene  alla memoria l'iscrizione che aveva visto nel sogno.

1710. 

Non doveva essere molto distante dall'epoca in cui il sogno era ambientato.

Per un momento credette di morire di infarto, quando ripensò alla frase di John, che le aveva riferito prima che lei gli ridesse in faccia.

"Se ti raccontassi di un uomo intrappolato nel corpo di un trentacinquenne da trecento anni ci crederesti?"

2018 meno trecento faceva... 1718

 

Accidenti! Doveva smetterla di credere a quelle buffonate! Aveva sognato tutto ciò in seguito a quella lite, ecco perché i conti tornavano. Non c'era da preoccuparsi oltre. La magia non esisteva, così come le fiabe.

Sperava solamente di non assistere ad un sequel di quella serie di sogni ridicoli, prima di coricarsi a letto, poche ore più tardi.

Ma le cose non andarono esattamente come sperava, a sognare, quella notte, non furono quella ragazza e John, ne le dodici fanciulle. Ma ben altro. 

Qualcosa che non poteva essere un caso, ma una sorta di messaggio ultraterreno, una rivelazione. Il suo cervello non avrebbe potuto inventarsi tutto ciò.

Un uomo incappucciato si manifestò nella sua mente.

«Ciò che tu sognasti durante le ultime tre notti, non è altro che una storia. Nulla è casuale, né  frutto di momenti già vissuti.

Leah Parker, per altre notti i tuoi sogni saranno occupati da questo racconto, dal quale tu dovrai trarre la soluzione per concluderlo una volta per tutte. 

Solamente quando accetterai tutto questo, il sonno sarà per te ristoratore. 

Ma ciò da sola non potrai fare, dovrai solamente saperlo aspettare.»

E poi, il buio.

 

Si svegliò, per l'ennesima volta. Ma questa volta più tranquilla che mai.

Ora ci credeva. John Denbrough non le aveva mentito.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ~ l’alba dalle dita di rosa che lasciò spazio alle tenebre ***


Tecum

Rimase per un po' con gli occhi aperti, le braccia conserte, a fissare il buio della sua stanza, cercando di perdersi in quel vuoto oscuro, prima di decidersi a riaddormentarsi. 
Nella sua mente si accavallarono troppi pensieri, e troppo in fretta.
Era tutto collegato.
Lui aveva ragione, e lei era riuscita, come sempre, a mandare tutto all'aria. 

"Dovrai solamente saperlo aspettare." Le aveva detto l'uomo incappucciato in quel sogno premonitore. Un brivido le percorse tutto il corpo: le sembrava di vivere in un film. Era tutto così, incredibile. Ecco perché non aveva voluto credere a John: perché la sua mente da adulta aveva prevalso su quella da bambina, cercando di cancellare tutte le risposte che in realtà aveva già davanti agli occhi. Una piccola parte di sé aveva già capito che quella connessione aveva un fine, e che l'uomo non la aveva presa del tutto in giro. Ma quella parte era stata oppressa dalla parte razionale, che invece la portava a comportarsi come una persona adulta qualunque: scettica, fredda e con la perenne paura di ricevere una fregatura. 

Ecco, cosa le era mancato nella sua vita da giovane adulta: la speranza. 
Dopo tutto quello che le era accaduto, le incomprensioni, gli abbandoni, gli inganni... aveva iniziato pian piano a non credere più a nulla, dall'amicizia vera, alla "semplice" felicità. Il tutto quasi impercettibilmente, eppure era successo. Non aveva più veri sogni, speranze. Ed ogni cosa che le veniva detta da qualcuno di estraneo, doveva subire un processo di "autenticazione" all'interno del suo cervello. 

Ma John, non era un estraneo qualunque. Come si fa a ritenere "estranea" una persona alla quale ci si sente così potentemente collegati da un'energia immensurabile?
Si malediva, per non avergli creduto sul momento, per non averlo fatto continuare.

Ripensò alle sue parole.
Era così serio, che sembrava impossibile fosse uno scherno. Ma lei, non ci aveva creduto.
"Bisogna solo saperlo aspettare" ripeté tra sé e sé. 
Forse lo avrebbe rincontrato... m
a quando? Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora? Quando lei sarebbe divenuta vecchia e lui ancora un giovane trentacinquenne?

Per un secondo rabbrividì. Un trentacinquenne.
In realtà lui aveva così tanti anni, ma era intrappolato in un corpo che non era più il suo. 
Tutto le tornò: la stazione dei treni, la prigione, la foto ottocentesca...
Era lui. Senza ombra di dubbio.
Aveva visto la storia scorrergli davanti agli occhi. Lui stesso sarebbe potuto essere la storia. 
Chissà, cosa si provava. Le pareva talmente irreale questa cosa, che in realtà ne rimase meno scioccata di quanto pensasse.
Non voleva pensarci al momento.

E tra mille pensieri, suonò la sveglia. Neanche quella notte era riuscita a dormire. 
Una volta alzata dal letto decise che quel pomeriggio sarebbe andata a prendere in farmacia un qualche tipo di rimedio, un sonnifero o qualcosa del genere, per risolvere questo problema enorme. 
Doveva accettare. Ma cosa? Per quanto ancora avrebbe dovuto passare le notti in bianco?
Non sarebbe resistita un giorno di più senza dormire, e la scienza della medicina la avrebbe sicuramente aiutata. 
***

La fila alla farmacia era stata interminabile! Ma era riuscita per fortuna a farsi prescrivere, e prendere una confezione di farmaco per dormire, anche se aveva aspettato ben quaranta minuti. Ma sicuramente, non poteva procrastinare altro.
Stava per imboccare la strada per tornare a casa, quando, vide lui.
Il cuore le esplose nel petto.
Stava camminando dalla parte opposta della strada, sul marciapiede. Doveva fermarlo! Parlarci, e come minimo scusarsi con lui. Forse non lo avrebbe più rivisto, ma non poteva non fare nulla! 

Attraversò la strada di corsa.
Lui le dava le spalle, quindi non la aveva ancora vista. 

«Senti... io devo chiederti scusa.» gli disse, a pochi centimetri da lui. Quest'ultimo si girò, e quando i loro occhi si incontrarono, un'espressione beffarda comparse sul volto dell'interlocutore, che si girò a guardarla negli occhi, dopo un lieve spavento procurato dalla sua improvvisa comparsa.
«Per cosa? Per una bugia che ti ho raccontato?» rise infine, amaramente. Ci mise poco a riconoscerla, lei era la ragazzina che sembrava essersi interessata a lui...
«Mi hai detto la verità, John.» replicò lei seria. 

«Sicura di stare bene?» sdrammatizzò lui. Anche se in realtà un brivido gli percorse la schiena... perché non facevano altro che incontrarsi? Doveva lasciare Boston il prima possibile. Questa situazione lo stava intimorendo non poco.

«Sì.» Leah abbassò gli occhi, le venne in mente dei sogni che aveva fatto. Doveva dirglielo! Solamente così poteva ricevere delle risposte e cercare di chiudere questo capitolo della sua vita «È da un po' di tempo che faccio degli strani sogni.» affermò.

«E a me lo vieni a dire? Non sono Freud! Vai da un esperto e non importunarmi oltre.» l'uomo iniziò ad innervosirsi. Cosa poteva interessare a lui della sua vita? Era una comune ragazzina, peraltro neanche troppo bella, che lavorava in uno stupido negozio! Entrambi non c'entravano nulla l'uno con l'altra. 
Le diede le spalle, intento a proseguire il suo cammino, che era stato interrotto da quell'impertinente. 

«Ho sognato una ragazza in compagnia di altre undici ragazze nel bosco, e poi lei che diceva di essersi innamorata di un uomo che presumibilmente cacciava in quel posto.» iniziò ad esplicargli, nella speranza che non se ne andasse. "John" non potè fare a meno di non ascoltare: sentiva come se quella cosa che stava dicendo riguardasse direttamente lui «E di uno strano contratto che avrebbe dovuto fare per stare con lui. Non era umana, probabilmente. Poi, la ho rivista in una cittadina forse di trecento anni fa, che si è scontrata con un uomo. Eri tu.» all'improvviso, sbiancò. Lei. 
Il modo in cui lui era rimasto folgorato dalla sua immensurabile bellezza, il suo intramontabile sorriso che sembrava illuminare il suo volto pallido. Non poteva essere una coincidenza, quella! O forse lei era... era una di loro! No, no, impossibile. Nessuno lassù aveva pietà di lui, tutti lo disprezzavano per aver fatto morire il fiore più bello dell'intero mondo. Quel fiore che proprio lui aveva visto sbocciare sotto i suoi occhi, e nel contempo aveva fatto pian piano appassire. 

Non rispose, talmente questa storia lo aveva scosso. Era la prima volta dopo tutti quegli anni che sentiva un'emozione così forte... forse era proprio la speranza?

Vedendo che non seguiva una risposta da parte dell'uomo, Leah continuò. Esigeva una replica! Anche solo una parola le sarebbe bastata. 
«Mi sembrava si chiamasse... Dakoturl...» il nome di quella donna non se lo ricordava proprio, lo aveva sentito un paio di volte nei sogni, ma era talmente particolare e complesso che era quasi impossibile citarlo tutto. 
«Daktulorodos.» la corresse tempestivamente lui, ormai certo al cento per cento che stessero parlando proprio della stessa persona. Daktulorodos. Alba dalle dita di rosa. Era da anni che non sentiva più quel nome, e sentirlo pronunciare da una sconosciuta, che evidentemente stava incominciando a sapere il suo segreto, gli fece un certo effetto. 

«Sì, ma c...come...» la ragazza spalancò la bocca. Era proprio lei. Ma allora sapeva chi fosse! La conosceva! Il sogno, l'uomo che le parlava... tutto vero! Quelle erano immagini realmente esistite. Non poteva nascondere di esserne un poco impaurita. Fino a prima sapeva che fosse vero, ma non ne aveva mai avuto la totale conferma.

«Allora è tutto vero...come fai a sapere tutte queste cose?!» dal canto suo, non potè far altro che rimanere scioccato davanti a questa scena che pareva quasi surreale. Continuava ad immergersi nei suoi occhi azzurri, non riusciva a staccarvisi, come se ricercasse delle risposte da lei, le stesse che anche quest'ultima voleva ricevere da lui.

«Io non lo so! Me le sono sognate! Non so come sia possibile una cosa del genere, è così assurdo!! Cioè, non credevo significasse qualcosa, ma poi è arrivato una specie di sogno premonitore che mi ha detto che tutto ciò è vero, e io ho iniziato a crederci, e sembra veramente così...» Leah iniziò a divagare. Faceva così quando era nervosa, si perdeva in chiacchiere inutili, e prontamente John se ne accorse, infatti la interruppe. Assurdo, era come se si conoscessero da una vita, pur senza sapere nulla l'uno dell'altra. 

«Questo deve significare qualcosa...» la sentiva, quella era la speranza. Avrebbe potuto finalmente liberarsi da questa maledizione, dopo decenni. E tutto poteva accadere solamente se decideva di collaborare con qualcuno. Oh ma lui non voleva collaborare con nessuno! Era solo, e solo sarebbe stato! Odiava avere qualcuno che gli desse una mano. «Ma...tu dovresti starmi alla larga ragazzina, non sono una persona di cui fidarsi...» si tirò indietro inventandosi una scusa.

«Innanzitutto mi chiamo Leah, Leah Parker. Piacere.» odiava quell'appellativo detto per scherno, lei non andava presa in giro ne schernita. Poteva sembrare un'innocente diciannovenne, ma sapeva farsi valere. «Io non credo. Sarà pur vero il tuo arresto, Ma non sei cattivo, forse un codardo sì.» sentiva che stava alzando come delle barriere, ma per proteggersi da cosa?

«Co... come ti permetti?» l'uomo si rizzò. Stava riuscendo a fargli perdere la pazienza m un'altra volta. Mai qualcuno era riuscito a fargli provare ciò, sentiva che lei era davvero insistente.

«Sai anche tu che ho ragione, e ora voglio sapere come fanno i miei sogni a corrispondere alla tua presunta storia.» continuò Leah. 

«Perché sei così ostinata?» cercò di sviare il discorso.
«Io sento che tra di noi c'è qualcosa. Ah, e non farti strane idee, sappilo. Ma credo solamente che neanche il nostro primo incontro sia stato del tutto causale. E tu lo sai meglio di me. In me cresce uno strano sentimento, come se fossi in dovere di aiutarti, o come se volessi farlo da sempre, da quando ti ho visto quella mattina, steso a terra.»
Quando ella finì di parlare lui rimase zitto, come ipnotizzato. 

«Il sogno premonitore mi ha detto che ogni notte sognerò la continuazione di questa storia incompleta. È la tua, non è così?» concluse lei. 

Egli Annuì. Doveva per forza essere la sua storia, le situazioni erano collegate. Erano le stesse cose che provava lui. Finalmente si decise, doveva raccontargli la sua storia se voleva essere aiutato, magari lei aveva già delle risposte. Qnche se la sua parte più reticente continuava a rifiutarsi di farlo.

«Anche io sento qualcosa. E forse tu potresti avere la chiave per finire una volta per tutte questo incubo in cui vivo da trecento anni.» non sapeva se fosse vero tutto ciò, se da lassù avevano veramente avuto pietà di lui, e gli avevano mandato un aiuto. Oppure era l'ennesima trappola, e questa volta avevano messo in mezzo una ragazza innocente! Ma dal profondo del suo cuore, sentiva che Leah non era l'ennesimo inganno. E anche se non avesse ricevuto delle risposte, sarebbe stato lo stesso un po' più contento. Per la prima volta qualcuno lo ascoltava seriamente, e quel qualcuno non era la foto di suo fratello Michael, ma una persona in carne ed ossa. Sembrava veramente che lei si interessasse a lui. Almeno era questo che cercava di ripetere a se stesso, e così facendo la sua parte volenterosa sopraffece quella più scontrosa.

«Però prima dovrai dirmi di esserne sicura.» voleva avere un'ulteriore conferma da parte di Leah. Quello che le stava per raccontare le avrebbe stravolto la vita, e lei doveva essere in grado di sopportare tale colpo.

«Certo. Lo sono.» affermò lei decisa.

«Ok, seguimi.» iniziò a camminare a passo veloce, come se avesse paura che qualcuno li inseguisse, anche se non ne aveva motivo. La giovane lo seguì, e in pochi minuti si trovarono davanti ad un parco cittadino. Entrarono dal cancello e si diressero verso una panchina isolata. Entrambi, in una situazione normale non si sarebbero sentiti a loro agio, soprattutto Leah. Ma quel leggero imbarazzo scomparve quasi subito quando lui iniziò a narrare.

 «Innanzitutto, non mi chiamo John Denbrough. Ma Arthur Walker. Ho cambiato vari nomi in questi secoli, ma su questo ci ritorneremo più tardi.
Passiamo al dunque: io Daktulorodos l'ho sempre conosciuta col nome di Catherine.» "deve essere una cosa comune cambiare identità" pensò Leah «Era il giugno del 1712, me lo ricordo ancora. Era così, come hai visto nel tuo sogno, che quel giorno si presentò a me. Cadde a terra, ed io, tornato da un mio giro per il bosco, la vidi, sporca e probabilmente ferita. Accorsi da lei, e non appena incrociai i suoi occhi verdi, e il suo viso angelico, venni ipnotizzato dalla sua meravigliosa bellezza, e dalla radiosità che il suo corpo emanava.» lei, che lo stava ascoltando, non riusciva a togliere lo sguardo dalla sua figura... gli abiti sgualciti, ma il viso, giovane. Sebbene fosse spento, e lasciasse intravedere tutta la malinconia che lo pervadeva. Gli risovvenne quel sogno, e non poteva ancora credere al fatto che fosse davvero lui.

«Non fu l'ultima volta che la vidi però, da quel giorno ci iniziammo a incontrare sempre più spesso, per i dieci giorni successivi. E il decimo ci sposammo. Ero perso di lei, della sua bellezza, della sua voce che pareva angelica. Tutto mi aveva ammaliato di lei. E così non ebbi problemi a chiederle di sposarmi, sapevo che in cuor suo era un sentimento ricambiato. Catherine mi piaceva, tanto. Non sapevo molto sul suo passato, mi disse solo che era figlia di un mugnaio nel paese vicino, e che entrambi i genitori erano morti, infatti non li incontrai mai. Passarono gli anni, io continuavo il mio lavoro di cacciatore, e lei, da donna, rimaneva a casa. Tutto perfetto dirai, e invece no. Dopo quattro, forse cinque anni, il nostro matrimonio iniziò a vacillare. Io volevo un figlio, per trasmettergli il mio lavoro, le nostre tradizioni, avere una discendenza. Quel figlio Catherine, non me lo diede mai. Non riusciva a darmelo. Ed io mi disperavo, mi arrabbiavo con lei.» in quell'istante la mente di Arthur si perse nei suoi ricordi. 

«Sono stanco, stanco di te! Voglio un figlio! È solamente colpa tua! Perché non me lo riesci a dare Catherine? Perché!?»
Cercò di riprendersi rapidamente, da quei ricordi dolorosi. Quanto, quanto gli era costato! Solo perché voleva un figlio, aveva rovinato la sua intera vita!

«E così, la nostra vita coniugale iniziò a diventare pesante. Entrambi non riuscivamo a stare insieme senza litigare. L'amore che ci professavamo sembrava essersi spento, e forse la situazione era irrimediabile. Lei però, ci sperava ancora. Lei mi amava, sul serio. Forse ero io, che non riuscivo a vivere la mia quotidianità con lei, o forse entrambi non siamo mai riusciti a trovare il nostro equilibrio. E così commisi l'errore più grande di tutta la mia esistenza:  iniziai a tradirla. Quasi ogni notte, dopo cena, lasciavo il letto coniugale per entrare in quello di un'altra donna, in un lupanare poco distante dal piccolo centro. In realtà non era solo una donna, ma tante donne. Ero desideroso di consumare il mio impulso sessuale, ma nessuno faceva l'amore come Catherine, con quella passione, quel desiderio...  Eppure io, avevo bisogno di stare con qualcuna, ero innamorato dell'idea dell'amore, ed arrivai a cercarlo in ogni donna, in ogni letto, volevo solo essere felice! E mia moglie mi rendeva sempre più iracondo, triste e impotente. Ricercavo Di provare tutte quelle sensazioni che ormai Catherine non mi dava più. Non potevo farne a meno. Avevo trentatré anni, e forse altri trenta da vivere. Mi sentivo ancora giovane, la vecchiaia mi spaventava, ero vanitoso, orgoglioso del fascino che la mia figura aveva sulle donne.
Ma il sette aprile del 1717, gli anni della mia vita divennero infiniti.
Catherine quel giorno era uscita a fare delle commissioni, era il mio giorno libero, ed io avevo da poco iniziato ad essere l'amante di una delle figlie del calzolaio. Presi dalla forte passione che era esplosa in seguito ad un nostro bacio clandestino dato nel retrobottega qualche giorno prima, decidemmo di proseguire ciò che avevamo iniziato  a casa mia, proprio perché Catherine non c'era. Avrei fatto sesso con una persona, per la prima volta, sul letto mio, e di mia moglie. E la cosa non mi faceva paura. Anzi. Destino, o come direbbe lei, la Moira, volle che ci scoprisse. La più grande mancanza di rispetto di sempre! Nel nostro letto. Con un'altra donna. Quando ci eravamo professati fedeltà eterna davanti a Dio e agli uomini. Iniziò ad urlare, a fare una scenata, e a ragione, aggiungerei. La ragazza se ne andò, e noi iniziammo a litigare, o meglio, io cercai di giustificarmi come un verme, e lei mi urlò di tutto e di più. Non si fidava più di me, era distrutta, devastata. 
Mi cacciò di casa. Ma quando tornai quella stessa sera, la scena che mi si presentò davanti fu agghiacciante: era morta. La sua mano destra reggeva un enorme coltello da cucina insanguinato, e la parte sinistra del suo petto era trafitta, le si vedevano le viscere. Il pavimento era una pozza di sangue. Mi impanicai, non provai mai più delle sensazioni così forti, negative. È impossibile da descrivere. Che orrore! Si era suicidata! Per causa mia! Urlai il suo nome, ma non rispose. Il suo corpo era pallido. 
E all'improvviso, la nostra casa, prima illuminata dalla luce fioca della mia lampada, s'irradiò di una luce, quasi divina.» 

Leah rabbrividì, non poteva credere a quello che le sue orecchie stavano sentendo! Davanti ai suoi occhi aveva davvero un uomo che si era comportato così? Che aveva trecento anni? Che aveva tradito così frequentemente la donna, la ninfa, che diceva di amare? Lei che si era suicidata... 

«Era suo padre. Non era un mugnaio. Ma un dio, un dio. Non lo vidi, ma nella mia mente si fece spazio una voce profonda e intimidatoria. 
"Per causa tua, mia figlia Daktulorodos, ha abbandonato la vita. La tua anima di uomo egoista la ha uccisa! La punizione che ti spetterà non sarà mai in grado di dissipare l'odio che provo nei tuoi confronti, per aver fatto spirare mia figlia, che ha lasciato il mondo degli déi per vivere la sua vita da mortale con quest'anima sporca di presunzione e narcisismo! Hai fatto morire la Ninfa del bosco, colei che accompagnava con la sua soave voce la nascita dell'aurora! La più bella dell'intero mondo divino! Vergognati, neanche le anime che risiedono nel tartaro ti accoglierebbero! 
Tu sei stato tanto spregevole con mia figlia, ed è questo che ti meriti di essere odiato dai tuoi simili per il resto della tua esistenza! E, Intrappolato in questo stesso corpo, che, come lo stolto Narciso, volevi mantenere per sempre! Non è forse questo che vuoi? Ed eccoti accontentato, il tuo più grande desiderio diverrà la tua maledizione!"
Caddi a terra, e svenni.
Quando mi svegliai il corpo di Catherine era scomparso, così, intimorito da tutto e da tutti, presi le mie cose e me ne andai da quel paesino... e da quel giorno, vissi la mia vita, sotto questa sua terribile maledizione, fino ad ora. Ho attraversato l'Asia, l'Africa, parte delle Americhe, per trovare una risposta, una soluzione a questo maleficio. Sono diventato più scontroso, burbero. Odio le persone, e loro odiano me. Mi evitano, mi disprezzano, e questo fa parte del maleficio. Nonostante questo sono ancora qui, a viaggiare da trecento anni. 
Quel giorno a Boston non nego di non aver provato delle strane sensazioni quando ho visto quella piccola bambina stringere il suo orsetto di peluche, come se lei riuscisse a comprendermi, per un attimo non mi sono più sentito solo. E poi mi hanno arrestato, e la bambina se ne è andata. È vero, sono stato in galera per sei anni, per aver rubato un biglietto del treno ad una donna, dovevo andare a Nashua, lì forse avrei ricevuto delle risposte. Ci sono stato, una volta scarcerato, ma ho fatto un buco nell'acqua. È ancora strano per me essere di nuovo qui, nel New England...
Nel corso degli anni ho cambiato sempre il mio nome, da uno stato all'altro, dopo che passavano un po' di anni, siccome non sarei stato per nulla credibile con lo stesso nome da secoli, non che freghi qualcosa a qualcuno. La falsificazione dei dati personali è stato un gioco da ragazzi: siccome nessuno si interessa al sottoscritto, la suddetta è stata molto semplice.
Nel tuo negozio ci sono entrato per caso, ed ora sono qui, a raccontarti questa mia storia, che non si è ancora conclusa.» 
Arthur riprese fiato. Sembrava come se si fosse tolto un peso dall'anima, ora il suo spirito sembrava quasi libero, e una strana sensazione di tranquillità lo pervase. 
Per la prima volta aveva raccontato tutto ciò a una persona... a una persona? Wow.

«Oh... io sono senza parole... sembra davvero un film.» non sapeva cos'altro dire, cos'altro fare. Dèi, Ninfe, maledizioni. Era forse un film? 
Gli dèi esistevano? La sua fede religiosa forse non era mai esistita, ma sentire che invece le storie che leggeva nei libri erano vere, le faceva salire una certa angoscia mista all'emozione. 

Se non fosse stato lui, lei sicuramente lo avrebbe scambiato per un pazzo da rinchiudere in una casa psichiatrica. Ma sapeva che quella era la verità, e in un certo senso si sentiva soddisfatta, e in dovere di aiutarlo. Anche se aveva fatto tutte quegli sbagli, non si meritava di essere condannato per sempre. E lei avrebbe fatto di tutto per dargli una mano. 

«Quindi tu pensi che i miei sogni possano darti una mano?» domandò poi. 

«Sì, almeno lo spero, tu ora stai sognando la vita di Catherine, e forse riesci a sentire anche i suoi pensieri, probabilmente lì c'è la soluzione. Ma ovviamente non ti obbligo ad aiutarmi, io sono un uomo che viaggia sempre, non ho una casa, solo una tenda di fortuna. Inoltre sono abituato a stare solo, non credo ti convenga.» ed eccolo lì, Arthur. Il solito che si ritraeva indietro, che voleva l'aiuto ma non lo voleva. Sentiva di stare bene solo, ma forse lei sarebbe stata d'aiuto...

Peccato per lui che la sua "compagna" fosse una che non demordeva mai. E infatti, non si lasciò intimorire dalle sue parole. Anzi, lui avrebbe dovuto convivere con lo spirito deciso della ragazza, ancora per molto. 
«Voglio aiutarti.»

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3968014