Lost stars

di WillofD_04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nota dell'autrice ***
Capitolo 2: *** Analisi ***
Capitolo 3: *** Pane ***
Capitolo 4: *** Tremore ***
Capitolo 5: *** Fisioterapia ***
Capitolo 6: *** Posti speciali ***
Capitolo 7: *** Rimpatriata ***
Capitolo 8: *** Cambiamenti ***
Capitolo 9: *** Enigmi ***
Capitolo 10: *** Disavventure ***
Capitolo 11: *** Scoperte ***
Capitolo 12: *** Resoconti ***
Capitolo 13: *** Allenamento ***
Capitolo 14: *** Matrimonio ***
Capitolo 15: *** Rapporti ***
Capitolo 16: *** Guerra ***
Capitolo 17: *** Segni ***
Capitolo 18: *** Infermeria ***
Capitolo 19: *** Fuga ***
Capitolo 20: *** Esplosione ***



Capitolo 1
*** Nota dell'autrice ***


Nota dell’autrice
 
Buonasera, cari lettori e care lettrici! Sì, sono proprio io, WillofD_04! No, non sono morta, e mi dispiace se qualcuno di voi l’ha pensato. Il motivo per cui non ho pubblicato per tutto questo tempo è che ho attraversato una (lunga) fase di blocco dello scrittore, se così si può chiamare: all’improvviso, tutto ciò che scrivevo mi sembrava scialbo e insensato, e così pian piano ho smesso di scrivere. Se avessi continuato a farlo, senza che la storia mi coinvolgesse o mi piacesse, sarebbe stato come tradirla e tradire tutti voi che con tanta pazienza avete seguito le avventure di Camilla. “Lost boys” e “Lost girl” mi hanno dato tanto, e io ho dato tanto a loro. E so che possiamo ancora donarci molto a vicenda. Si meritano una continuazione e un finale degni di tutto ciò che è stato finora. Per questo ho deciso di tornare a pubblicare, e di farlo con una nuova storia, “Lost stars”, affinché si possa mettere un punto al passato e ricominciare, nella speranza che questo sia di buon auspicio!
Non so neanche se ci sarà qualcuno che seguirà questa storia o se qualcuno ha ancora interesse per essa, ma, per citare Will Turner (Pirati dei Caraibi), “Nessuna causa è persa, finché ci sarà un solo folle a combattere per essa.” Pertanto, eccomi qui. Se ancora siete curiosi di sapere cosa capiterà a Camilla e ai suoi amici, avete la possibilità di scoprirlo.
Non posso promettere che arriverete a leggere la fine delle avventure di Cami, ma posso promettervi che farò di tutto perché questo sia possibile. Perché questa storia merita una conclusione, nel bene o nel male. Per chi ha avuto la voglia e la pazienza di seguirla fino a qui, per me che l’ho scritta e anche per i personaggi, che sono cresciuti e cambiati con me.
Questo è quanto. Grazie a chi ha letto fino a qui e grazie a chi deciderà di dare a “Lost stars” una possibilità.
Grazie di cuore.
A presto,
WillofD_04
 
P.s. Quest’ultimo anno è stato difficile per tutti... Mi auguro davvero che stiate bene e che potremo uscire presto da questa situazione. Facciamoci forza e non perdiamo la speranza. <3

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Capitolo 2
*** Analisi ***


“Sai chi sei? Capisci che cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?”
 
Polar Tang. Tre settimane dopo.
 
«No! No, no e poi no!» esclamai, quasi indignata. «Io. Mi. Rifiuto.»
«Tutte le volte la stessa storia...» commentò un dottore, alzando gli occhi al cielo.
«Su, ché in un paio di minuti passa tutto. Sei sopravvissuta a cose peggiori,» affermò un secondo dottore, cercando di farmi rinsavire.
«Voglio il mio avvocato!» gridai indietreggiando.
«Ma quale avvocato,» mi derise un altro dei medici, seccato da tutta quella situazione.
«Cami, è solo una punturina. Non ti farò male,» tentò di rassicurarmi – invano – Kenji. «Ti fidi di me?» mi chiese poi, tendendomi la mano e sorridendomi dolcemente. Arricciai il naso. Il problema non era che non mi fidavo di Kenji. Il problema era che non mi fidavo dell’ago...
Ogni tre mesi, per mia sfortuna, tutti i Pirati Heart dovevano sottoporsi ad un check up medico completo che comprendeva, fra gli altri esami di routine, anche le analisi del sangue. Tra Doflamingo e la permanenza alla base dei rivoluzionari, in quel periodo mi era andata bene ed ero riuscita a scampare ad un paio di check up. Adesso che ero tornata, però, non c’era modo di evitare il tanto temuto e tragico prelievo. Almeno, secondo loro. Io, negli anni, avevo messo a punto una strategia infallibile.
«Tra un paio d’ore ci sarà il pranzo. Se non siamo puntuali, non mangiamo. Credi di riuscire a farcela a farti prelevare una misera fialetta di sangue per allora?» La voce ironica di uno dei miei compagni mi distrasse dalla messa a punto del mio piano.
«D’accordo, facciamolo,» acconsentii, sollevando la manica della divisa e tendendo il braccio verso Kenji, che mi sorrise e mi condusse ad uno dei lettini dell’infermeria. Sembrarono tutti sollevati di essersela cavati così. Poveri sciocchi.
«Oh, mio Dio!» gridai, fingendomi inorridita, appena prima di sdraiarmi sulla lettiga. Il mio dito indicò un punto imprecisato sul pavimento alle spalle dei medici. «Il Rubeus Candidum si è liberato!».
Tutti i presenti sgranarono gli occhi ed andarono nel panico. Io, ovviamente, approfittai di quel momento di distrazione per saltare giù dal lettino e dirigermi verso la porta. Per fortuna avevamo un capitano a cui piaceva studiare gli insetti. O, più precisamente, i virus che tali insetti erano in grado di trasmettere agli umani. Quando eravamo tornati da Lyborn, il chirurgo si era portato un piccolo souvenir, chiuso in un barattolo trasparente. Un souvenir che mi aveva quasi ucciso, ma che adesso mi stava tornando molto utile. Non che si fosse liberato sul serio, la mia era solo una piccola ed innocente bugia per evitare le analisi. A volte era così facile raggirare i pirati, anche se questi erano abili medici.
Mi girai giusto per un secondo, per osservare quella scena patetica. Sbuffai una risata. Facevano la morale a me perché avevo paura degli aghi, e loro che facevano? Impazzivano per un misero insetto immaginario. Da che pulpito veniva la predica.
Ghignai perfidamente prima di darmela a gambe. Il mio piano diabolico era andato a buon fine. Corsi per tutto il sottomarino e mi fermai solo quando ritenni di aver trovato un posto sicuro dove nascondermi.
Spalancai la grossa porta della sala macchine ed entrai senza fare troppi complimenti. Se per Ryu il proprio posto sacro era la cucina e per Law la sala operatoria, per Jean Bart era la sala macchine. L’omone si girò con fare minaccioso. Nessuno poteva osare disturbarlo mentre era operativo.
La sala macchine era proprio come ci si sarebbe aspettati che fosse una sala macchine: buia e silenziosa. Era una stanza priva di qualsiasi oblò, di conseguenza l’unica fonte di luce proveniva dagli apparecchi in funzione, e l’unico rumore che si sentiva era il “bip” intermittente dei macchinari, che era simile a quello emesso dalle apparecchiature mediche. La presenza del nerboruto e severo Jean Bart contribuiva a renderla ancora più tetra, soprattutto perché odiava la luce artificiale emessa dai lampadari al neon – che quindi teneva spenti – e perché, a parte i muri bianchi, il solo colore presente là dentro era il nero. A parte questo, non era male. Lo spazio non mancava di certo, e nemmeno i nascondigli.
Allargai le braccia in segno di resa.
«Mi serve un posto dove nascondermi,» lo informai, sperando nella sua benevolenza. Lui tornò a concentrarsi sulla consolle che aveva davanti e tirò una leva.
«Di nuovo le analisi del sangue, eh?» mi chiese. Non c’era bisogno che replicassi, sapeva benissimo da solo che la mia risposta sarebbe stata affermativa. Ormai tutti sapevano dell’Odissea che dovevano sopportare i medici ogni volta per farmi fare il check up. «Grande e grossa e ti fanno paura gli aghi,» commentò scuotendo la testa.
Assottigliai gli occhi e digrignai i denti. Eccone un altro che pensava di avere il diritto di farmi la morale.
«Tu non puoi parlare. Sei alto sei metri e hai paura delle falene,» gli feci notare, tagliente, incrociando le braccia ed alzando un sopracciglio. Stavolta toccò a lui digrignare i denti. Sorrisi compiaciuta, appena prima di ricordarmi che non avevo tempo da perdere in chiacchiere.
«Se mi fai rifugiare qui ti do mezzo filone di pane,» gli proposi con un bagliore negli occhi. Quello, per lui, sarebbe stato sicuramente un affare vantaggioso.
Non pensavo che sarebbe mai successo. Mi ero messa a contrabbandare e barattare pane con i miei compagni in cambio di piccoli favori. Non ero esattamente un esempio di integrità morale, ma del resto ero un pirata. Che si aspettavano da me? Era già tanto che non li facessi pagare.
Lo sentii sospirare appena prima di tornare a concentrarsi sulla sua consolle, poi sollevò un braccio e mi indicò un baule alle sue spalle con il pollice. Sogghignai.
«Abbiamo un accordo,» affermai, dirigendomi verso il mobile. Lo aprii e mi ci infilai dentro. Mi sembrava di essere in una bara. L’aria e lo spazio erano ridotti, e regnava il buio più assoluto. C’era anche uno strano odore, che mi fece venire un po’ di nausea. Però mi andava bene così. Avrei atteso lì dentro anche tre giorni, se fosse servito ad evitarmi il prelievo di sangue.
In quegli anni ero cambiata. Ero diventata una persona più forte e più coraggiosa, ma non avevo potuto nulla contro il terrore che avevo degli aghi. Supponevo che mi sarei portata quella paura nella tomba, e più o meno lo stavo facendo. Mi tolsi la cintura e la posai accanto a me in modo che non toccasse il mio corpo, mi sdraiai in quel loculo, cercando di trovare una posizione comoda – per quanto si potesse stare comodi in una nicchia ristretta ed oscura – e richiusi lo sportello, in attesa.
 
Mentre aspettavo in quell’anfratto buio, ebbi modo di riflettere. Se alcune cose erano rimaste le stesse da quando ero tornata sul Polar Tang e avevo espresso i miei desideri, altre erano inevitabilmente cambiate. La Stella era stata di parola e aveva esaudito i miei due desideri. Lo avevo scoperto quasi per caso. Dopo la sera in cui la avevo rivista, per scrupolo, avevo controllato l’ultima pagina del libro Le Avventure di Peter Pan e avevo notato che non era vuota come mi aspettavo. Sopra vi era apparsa un’altra scritta, stavolta però impressa sulla carta con l’inchiostro nero ed indelebile.
 
“Quando vorrai esprimere il tuo ultimo desiderio, ti basterà chiamare il mio nome ed io apparirò in cielo.
 
P.s. Controlla il tuo cellulare.”
 
Così, con le mani tremanti dall’emozione, avevo controllato il telefono. Era da tantissimo tempo che non lo facevo, talmente tanto che non ero sicura di ricordare come si utilizzasse. Alla fine ero riuscita a sbloccarlo e, quando l’avevo fatto, un paio di lacrime ne avevano bagnato lo schermo. Mi ero resa conto che era apparsa, dal nulla, un’applicazione. Un’applicazione che come logo aveva un quadratino blu al cui interno brillavano due stelle bianche; quella a destra, ovviamente, era un po’ più grande. Si chiamava: “2☆R”, che non era altro che l’abbreviazione di “Second Star To The Right”. Funzionava più o meno come Snapchat. Ogni giorno apparivano delle foto delle persone a cui volevo più bene in cui queste si cimentavano nelle loro attività quotidiane. Allo scadere della mezzanotte, sparivano, per lasciare posto ad altre foto del giorno successivo. Se c’era qualche fotografia che volevo conservare, mi bastava cliccare la piccola stella in alto a destra. Quando lo avevo scoperto avevo riso. Almeno la Seconda Stella a Destra era stata coerente con se stessa.
Controllavo la situazione ogni sera, prima di andare a letto. Nel mondo da cui venivo erano passati cinque anni, circa il doppio del tempo che era passato qui. Considerati i tempi di Oda, potevo ritenermi più che fortunata. A parte questo, stavano tutti bene. E nessuno di loro si ricordava della mia esistenza. Erano andati avanti con le loro vite, come io avevo fatto con la mia. Mio padre si era perfino fatto crescere i baffi. La cosa che più mi dispiaceva era che la mia camera da letto non esisteva più. Dalle foto che avevo ricevuto, avevo notato con grande amarezza che era stata trasformata in una specie di studio, più pratico e impersonale di quanto non fosse mai stata la mia stanza. Anche se me ne ero rammaricata, non me l’ero presa. Dopotutto, quel cambiamento era necessario.
Per tre settimane, dopo che ero tornata, ero stata irrequieta. Ma vedere la mia famiglia e i miei amici che ridevano, scherzavano ed erano felici, mi confortava molto. Sapere che i miei cari erano contenti rendeva contenta anche me. Un paio di volte avevo pianto nel pensare a quanto avessero sofferto a causa mia. Adesso, però, erano liberi. Non avevano più il peso della mia improvvisa scomparsa da sopportare. Nell’osservare la foto di mia madre che rideva di gusto mi ero chiesta se tutti loro non stessero meglio così, senza di me. Senza quel fantasma pallido e triste che infestava le loro vite.
Non passò molto prima che i medici venissero a cercarmi lì. Trattenni il respiro, nonostante fossi sicura che senza cintura non potessero sentirmi.
«È qui?» chiese Kenji a Jean Bart. La sua voce mi arrivò ovattata.
Il macchinista non rispose. Potevo solo sperare che avesse scosso la testa. Qualcuno sbuffò, poi udii dei passi e drizzai le orecchie, in ascolto.
Ci vollero tre secondi perché il baule si aprisse. Kenji trattenne una risata, prese la cintura e la poggiò sul mio corpo. Non fu difficile centrare il bersaglio, visto lo spazio ridotto. Mi morsi il labbro e sospirai. Dannato Jean Bart. Non aveva rispettato l’accordo.
Mi finsi morta. Se ero morta non avevo bisogno di fare il prelievo, giusto?
«Non fare l’esagerata. È solo una piccola puntura. Non morirai,» mi rimproverò uno dei medici.
«Questo lo dici tu,» sussurrai a labbra strette. Non sapevo, però, se gli altri mi avessero sentito o meno.
«Cami, ti garantisco che non sentirai niente,» tentò di nuovo di rassicurarmi Kenji.
Alla fine mi arresi e mi tirai su. Non appena uscii dal baule, la squadra di dottori si posizionò attorno a me per impedirmi di scappare. Sembravo un prigioniero condannato a morte che stava andando verso il patibolo scortato dalle guardie. Per come la vedevo io, non era tanto diverso.
Iniziammo a camminare all’unisono verso la porta. Tuttavia io mi fermai proprio sull’uscio e mi voltai a guardare Jean Bart.
«Mi hai tradito! Bastardo!» sputai rabbiosa.
«Io non ho parlato,» si limitò a rispondere. Neanche si degnò di guardarmi.
Digrignai i denti e grugnii. Maledetto. Maledettissimo Jean Bart. Non mi sarei dimenticata del torto subito, questo era poco ma sicuro.
«Non avrai una sola briciola da me!» gli gridai. Non aveva parlato, certo, ma aveva comunque dato ai medici il modo di trovarmi, magari indicando loro il mio nascondiglio con il pollice, proprio come aveva fatto con me pochi minuti prima.
«Ci muoviamo o no? Ho fame, voglio andare a pranzo,» fece il più vecchio dei dottori, spintonandomi appena. Ero davvero finita in prigione, circondata da crudeli secondini.
«Ah, già. Avevo dimenticato che hai bisogno di mangiare presto per poter fare il pisolino pomeridiano,» commentai velenosa. Gli altri medici scoppiarono a ridere.
«Ehi!» mi richiamò stizzito il mio interlocutore. Lo fulminai con lo sguardo e mi strinsi nelle spalle, fingendomi innocente.
«Che c’è? Bisogna essere comprensivi con gli anziani,» affermai, sogghignando crudelmente.
Non sapevo perché all’improvviso fossi diventata così cattiva. Qualunque fosse il motivo, lo avrei scoperto presto. Per il momento, però, avrei dovuto rassegnarmi all’idea di farmi infilare un ago nel braccio e farmi prelevare il sangue.
 
***
 
Avevo passato tutta la mattina e parte del pomeriggio in infermeria, a girarmi i pollici. Mi aspettavo di ritrovarmi più indaffarata una volta tornata sul sottomarino, invece non c’era molto da fare. Per fortuna, perché, nonostante non faticassi, in quei giorni mi sentivo spesso stanca e appesantita. Mi innervosivo anche più facilmente del solito, non sapevo perché. Non poteva essere insofferenza verso il posto in cui stavo, io stessa avevo deciso di tornarvi e rimanervi, ben consapevole di ciò che stavo facendo; né verso i miei compagni: non erano cambiati dal giorno alla notte, erano i soliti e mi trattavano alla stessa maniera. Non ero pentita della mia scelta, stavo bene. Però, in un’orchestra di strumenti ben accordati, nell’aria risuonava una nota stonata, e si ripeteva da giorni. Non avevo ancora capito quale fosse, ma lo avrei scoperto.
Emisi un lungo sospiro. Ero sola e annoiata. Mi chiesi che cosa stesse facendo Sabo. Mi chiesi se si stesse annoiando come me o se stesse vivendo una delle sue avventure. Mi chiesi se stesse bene, che era la cosa più importante. E mi chiesi se e quando ci saremmo rivisti. Non lo avrei mai ammesso, ma mi mancava. Mi mancava la sua voce, giovane ma profonda. Il modo in cui mi raccontava delle sue esperienze. Il modo in cui mi toccava. Il suo sorriso sbarazzino. Le sue cicatrici, i suoi addominali, i suoi capelli spettinati. E sì, più di tutto mi mancavano le attività che svolgevamo insieme. Quelle battevano tutto il resto.
Fui richiamata alla realtà dal brontolio che fece il mio stomaco: mi era venuta fame. Solo allora mi accorsi che mi stavo mordicchiando un’unghia e che avevo fissato imbambolata la parete dell’infermeria per due minuti buoni. Smisi di farlo e mi indirizzai in cucina, tanto lì non c’era niente da fare.
La stanza era un po’ troppo affollata per i miei gusti. Di solito mi piaceva quando ci radunavamo in gruppo per mangiare, bere e stare in compagnia fuori dagli orari dei pasti, era un momento di giubilo e condivisione, però quel giorno avrei preferito essere da sola. Nel mio subconscio doveva essere successo qualcosa che mi aveva innervosito, perché all’improvviso mi sentivo irritata. Ma forse la causa del mio fastidio era solo la fame. Per quello c’era rimedio, per fortuna. Aprii il frigorifero e lo squadrai da cima a fondo. Non c’era niente che mi andasse davvero. Passai agli armadietti e alle mensole: niente neanche lì. Avevo bisogno di qualcosa di ipercalorico, qualcosa che mi riempisse lo stomaco e mi inebriasse il palato. Tornai sui miei passi ed esaminai di nuovo il frigo. La scelta non era ampia, ma alla fine presi le due cose che mi disgustavano di meno, le misi su un piatto e mi sedetti sull’unico posto libero che c’era: accanto a Penguin.
Dedussi che la situazione era grave dal fatto che Ryu smise di cucinare e si girò a guardarmi.
«Carote. Carote bollite intinte nel... ketchup.» Il cuoco espresse tutta la sua perplessità. Aveva una faccia esterrefatta, come se avessi profanato le tombe dei suoi antenati.
«Alle cinque del pomeriggio,» continuò Shachi per lui, altrettanto schifato. Capivo la loro titubanza: normalmente un connubio del genere avrebbe fatto schifo anche a me. Però il mio cervello mi diceva che dovevo mangiare questo e il mio stomaco sembrava concordare.
Mi resi conto che mi stavano fissando tutti, con una vena di preoccupazione. Sbuffai. Era per questo che volevo stare da sola, perché sapevo che nessuno si sarebbe fatto gli affari propri.
«E sono lì da due giorni,» precisò Bepo. Era l’unico tra i miei compagni a non essere preoccupato per la mia salute mentale: a lui importava che non facessi indigestione.
Assaggiai le carote intinte nel ketchup e, se da un lato mi pentii di aver creato quella combinazione letale, dall’altro mi venne voglia di continuare a mangiare. E così feci.
«Perché?» mi chiese l’orca, contrariata.
Feci spallucce. «È stata una giornata molto dura.»
«Ma... non hai fatto niente!» esclamò Penguin.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Allungai la mano e, con una mossa repentina, gli afferrai i capelli sotto il cappello e li tirai con forza.
«Ahia!» si lamentò, sotto lo sguardo atterrito dei presenti.
«Hai detto qualcosa, pinguinello?» Avvicinai l’orecchio alla sua bocca.
«Ho detto che hai lavorato strenuamente!» si corresse, la voce stridula e il sorriso finto di chi cerca di evitarsi ulteriori problemi.
Sorrisi compiaciuta e lo lasciai andare. Tecnicamente non aveva torto, non avevo combinato molto in quella giornata, ma io mi sentivo comunque stanca. Da giorni avevo la sensazione di avere un peso di dieci chili sulle spalle. Ogni mio movimento era lento e faticoso, e anche i pensieri erano annebbiati. Non sapevo se fosse questo a rendermi particolarmente nervosa o se invece lo ero a prescindere, però ero inquieta e suscettibile, e quando era così nessuno doveva permettersi di dirmi nulla.
Mi alzai in fretta, sotto lo sguardo atterrito dei presenti. Supponevo che la maggior parte di loro, per spiegare il mio comportamento assurdo, si appellasse all’antico preconcetto che le donne fossero emotivamente instabili. Nel mio caso era vero, ma questo non voleva dire che valesse per tutte le altre. Maya, ad esempio, non era così. In realtà non lo ero neanche io – non troppo – in circostanze normali. Ma quelle non erano circostanze normali; mi stava succedendo qualcosa di strano.
Recuperai al volo un bicchiere, poi mi diressi a passo svelto verso il frigo e lo aprii. Trovai subito ciò che stavo cercando: vino. Ne versai una generosa quantità nel calice e la bevvi tutta d’un fiato. I miei compagni seguivano le mie mosse in religioso silenzio, nessuno osava fiatare.
«Fossi in te, non lo farei,» fece una voce dietro di me, mentre mi accingevo a versarmi il secondo bicchiere. Forse era per questo che si erano ammutoliti, perché Law era entrato in cucina.
Alzai gli occhi al cielo senza farmi vedere. Non avevo proprio voglia di stare ai suoi stupidi giochetti. Volevo solo finire la bottiglia ed essere lasciata in pace. Ma quando era così, avevo imparato che era meglio assecondarlo, anziché contrastarlo. Sollevai la testa e rimisi il corpo in posizione eretta, poi chiusi l’anta del frigo e mi girai molto lentamente.
«Buon pomeriggio, capitano. In cosa posso aiutarti?» chiesi, cercando di sembrare accondiscendente.
«In niente,» rispose. Mi venne una terribile voglia di dargli un pugno in faccia ma, prima che potessi fare qualcosa, lui proseguì: «Si tratta delle tue analisi del sangue. Sono arrivati i risultati. Vieni nel mio studio.»
Capii subito che non c’era da scherzare: la sua espressione ferma e seria non faceva presagire nulla di buono. Lo seguii, quasi trattenendo il respiro. Avevo il timore che potesse aver scoperto del mio polso “ballerino”. Come avesse fatto a dedurlo da delle semplici analisi del sangue sarebbe rimasto per sempre un mistero per me, ma se c’era qualcuno in grado di farlo, era proprio lui.
 
Feci tamburellare le dita sull’immacolata scrivania di legno dello studio di Law. Si era chiuso la porta alle spalle e ora era seduto davanti a me, a dare un’ultima occhiata ai fogli delle mie analisi. Perché non mi diceva subito cosa c’era che non andava? Il suo tergiversare, come al solito, contribuiva solo a rendermi più nervosa!
«Quale che sia il problema, dillo. Dillo e basta. Sii onesto e rapido, per favore,» lo incitai, sistemandomi meglio sulla sedia e cercando di non far trasparire il mio nervosismo. Il capitano alzò lo sguardo e mi squadrò con aria impassibile. A quel punto, non sapevo cosa aspettarmi: potevo solo prepararmi al peggio.
«Ricordati che me lo hai chiesto tu.»
Feci per replicare, ma non me ne lasciò il tempo.
«L’ormone Beta-hCG è positivo,» affermò in tono piatto, come se ciò che aveva detto non fosse nulla di che. Come se non avesse appena sganciato una bomba atomica sulla mia testa.
Mi parve di sentire un tonfo sordo all’interno del mio cranio. Il criceto che correva come un pazzo per far funzionare il mio cervello era appena caduto dalla ruota.
«Prego?» chiesi con un filo di voce, sperando di aver capito male.
«L’ormone Beta-hCG è positivo,» ripeté, stavolta con più calma e scandendo bene le parole.
No. Non avevo capito male. Avevo capito fin troppo bene.
Sbuffai una risata, incapace di credere che ciò che mi aveva appena detto fosse vero.
«Non fa ridere, Law,» lo redarguii, con espressione seria.
«Lo so,» si limitò a rispondere, con l’aria di chi la sa lunga.
Continuai a fissarlo, nella speranza che lui si smentisse, che mi dicesse che non era vero. Ma lui non lo fece.
«No. No. No, non... non è possibile.» Scossi la testa, lo sguardo perso nel vuoto. «Non è vero, ci deve essere sicuramente un errore.»
«Ho controllato due volte, per scrupolo.»
Mi aggrappai alla sedia per sostenermi mentre la vista si appannava e le orecchie iniziavano a fischiare. Erano bastate ventitré lettere per far crollare tutto il mio mondo.
«Questa... questa è una tragedia,» mi lasciai sfuggire, in un sussurro appena udibile.
Presi un respiro profondo, cercando di non andare nel panico e pensare a se e come fosse possibile una cosa del genere. I miei occhi vagavano per tutta la stanza: per quanto ci provassi, non mi veniva in mente niente. Vuoto totale. Non poteva essere. O meglio, poteva essere, ma era assurdo. Avevo sempre fatto attenzione, proprio per evitarlo. E anche Sabo, per quanto potesse essere sbadato.
Riportai lo sguardo su Law, che mi fissava eloquentemente.
«Il risultato potrebbe essere dato da uno squilibrio ormonale,» suggerii, rimettendomi seduta composta sulla sedia. Il capitano non poteva vedermi sconvolta, o avrebbe capito tutto.
«Spiegherebbe perché sei irritabile, ma non perché hai la nausea.»
Effettivamente, in quelle settimane mi era venuta anche un po’ di nausea. E gli altri sintomi c’erano tutti: mangiavo tanto e cibi strani, ero irrequieta, più emotiva e non dormivo bene. Anche i tempi coincidevano. Mi portai le mani a coprirmi il viso: forse era arrivato il momento di arrendersi di fronte all’evidenza.
«Congratulazioni, Camilla. Sei incinta,» mi annunciò, quasi compiaciuto da quelle parole. Certo, tanto non era la sua vita che sarebbe stata rovinata per sempre. Non erano i suoi sogni che erano andati in frantumi. Sentii la rabbia montare in me. Come poteva mostrarsi tanto insensibile di fronte a una faccenda così delicata?
«Io non sono incinta!» Alzai la voce, quasi come se dovessi persuadere me stessa. Non potevo avere un bambino adesso. Non potevo. Non ora. Avere un bambino significava mandare in malora tutto ciò per cui avevo lavorato così tanto fino a quel momento. Non era la fine del mondo, né la fine della mia vita o della mia carriera, ma fare la mamma, oltre a non essere nei miei piani, avrebbe complicato il mio cammino. Volevo stringere un bisturi tra le mani, non un neonato. Per non parlare del fatto che Sabo, il padre del bambino, non era lì con me. Avrei dovuto dirglielo? Sì, ma non potevo fargli questo. Sapevo che, per quanto fosse uno spirito libero, non si sarebbe tirato indietro di fronte a quella responsabilità. Così, gli avrei tolto tutto: i suoi sogni, la sua indipendenza, la spensieratezza che tanto amavo di lui e la possibilità di scegliere il proprio futuro. Ero sola. Era una decisione che spettava a me.
Scossi debolmente la testa, cercando di scacciare quei pensieri.
«Non sono incinta,» ripetei, stavolta più calma, ma sempre tentando di convincermi.
Law ghignò con strafottenza. Quella situazione sembrava un mero diletto per lui, un passatempo pomeridiano. No, non era possibile che si comportasse in questo modo. Era sadico, ma non fino a questo punto. E non era superficiale, non era tipo da scherzare quando in ballo c’era il destino di più esseri umani: il mio, quello di una creatura indifesa e, in quanto mio capitano, anche il suo e quello dei suoi sottoposti. Con un bambino a bordo sarebbero cambiati i piani di tutti. Per quanto fosse duro, sapevo che non mi avrebbe abbandonata. Non avrebbe lasciato che crescessi mio figlio da sola, su un’isola qualunque del Nuovo Mondo. Per questo c’era qualcosa che non mi tornava. Aveva speso tempo ed energie per farmi arrivare dov’ero, non poteva essere contento di quella notizia, né rimanere indifferente, come se non fosse un problema suo. Avrebbe quantomeno dovuto essere arrabbiato, o deluso. Con me si era infuriato per molto meno, quando avevo commesso un errore. E quello non era un errore, era un cataclisma.
Con una mossa repentina, scattai in avanti e gli strappai i fogli delle analisi dalle mani. Lui mi lasciò fare, come se stesse aspettando da molto questo momento. Quando lessi il referto, ricontrollandolo per tre volte, emanai un forte sospiro. Non ero certa se fosse per il sollievo o per la furia.
Lo fissai, le mani tremanti e lo sguardo fiammeggiante. Non solo l’ormone Beta-hCG non era positivo, ma quelle non erano neanche le mie analisi.
«Tu mi ucciderai, prima o poi!» esclamai furiosa. Il suo sogghigno si allargò.
«Se non bevessi come un cammello, non avresti la nausea.» Un guizzo divertito attraversò le sue iridi. Si era burlato di me e continuava a farlo, e questo mi faceva arrabbiare ancora di più.
«Testa di cazzo!» gli urlai, lanciandogli addosso i suoi stupidi fogli. Poi uscii come una furia dallo studio. Se fossi rimasta, lo avrei accoltellato con il tagliacarte. Percepivo sulla nuca i suoi occhi divertiti che seguivano i miei movimenti.
«Questa me la paghi, stronzo,» sibilai, mentre mi dirigevo a passo svelto verso la cucina. Avevo bisogno di sciogliere tutta la tensione che mi aveva generato quello “scherzo” con un buon bicchiere di vino.
 
Camminavo verso la cucina facendo solchi sul pavimento, tanto mi ero innervosita. Law voleva prendersi gioco di me? Avrebbe potuto nascondere il vino, dirmi che era finito e che non saremmo sbarcati sulla terraferma per almeno due mesi. L’avrei presa comunque male, e lui avrebbe goduto della mia sofferenza, ma non avrei rischiato un infarto. Non avrei lasciato che la mia mente vagasse in lungo e in largo tra tempo e spazio per vagliare ogni ipotesi possibile. La più accreditata, secondo il mio cervello, era che sarei stata da sola per i primi anni di vita della creatura, dopodiché Sabo, compiuta la sua missione come secondo in comando dell’Armata Rivoluzionaria, mi avrebbe raggiunta. Insieme avremmo cresciuto il bambino, io lo avrei odiato per avermi messo incinta e avermi costretto a rinunciare ai miei sogni, lui mi avrebbe odiato perché lo avevo privato della sua libertà, ma saremmo rimasti insieme per ciò che credevamo essere il bene di nostro figlio, bloccati su una squallida isola qualunque, infelici e frustrati. Nel frattempo, Law si sarebbe incaricato dell’educazione del bimbo e lo avrebbe trasformato in una mini copia di se stesso: un vivisezionatore di rane cinico e sadico. E forse, sotto l’influenza di Shachi e Penguin, sarebbe anche diventato alcolizzato. A volte sapevo essere davvero tragica. Magari non sarei stata malinconica come credevo, ma avrei avuto una vita felice, nonostante l’enorme imprevisto. Rimuginare non serviva a niente: non ero incinta e avrei fatto in modo di non esserlo per un lungo tempo. Ciò di cui avevo bisogno adesso era soltanto un bicchiere di vino.
Con la coda dell’occhio, vidi una figura che mi si avvicinava.
«Non ora, Kenji.»
«Si tratta delle tue analisi,» mi fece sapere, con voce gentile. Era sempre carino con me, peccato che scegliesse i momenti sbagliati.
Mi fermai, mi girai verso di lui e lo guardai un po’ intontita. Quando fece per parlare, però, glielo impedii.
«Non ora, Kenji,» ripetei, riprendendo a camminare. Per quel giorno ne avevo avuto abbastanza di analisi cliniche. Non volevo sapere né vedere più niente. Non avrei retto un altro colpo. Lui, però, non demorse, e mi seguì fino in cucina.
Inutile dire che mi fiondai subito sul frigorifero. Presi la bottiglia, il primo bicchiere che mi capitò sottotiro, ci versai il vino e bevvi alla goccia.
Sbuffai, poiché dietro di me percepivo ancora un’ingombrante presenza. Mi voltai, e solo allora notai che aveva in mano delle scartoffie.
«Sono le tue analisi,» confermò il ragazzo mostrandomi i fogli.
Alzai gli occhi al cielo. Non me ne sarei liberata fino a che non avessi controllato gli esami. Diedi una rapida occhiata dopo aver preso un respiro profondo. Volevo solo che Kenji mi lasciasse in pace. Se per farlo avessi dovuto leggere le sue stupide analisi, lo avrei fatto. Quale che fosse il responso, la mia giornata era già stata rovinata e il mio umore compromesso. Mazzata più, mazzata meno...
«Mi sembra tutto a posto. Te l’avevo detto, sono sana come un pesce.» Mi versai un altro po’ di vino nel bicchiere. Nessuno mi sentì, ma tirai un grosso sospiro di sollievo. Almeno questa, l’avevo scampata. Avevo controllato la colonna dell’ormone Beta-hCG con particolare attenzione e più volte, per essere sicura: era negativo, non ero incinta.
«A parte il pannello epatico,» precisò lui, guardandomi con apprensione.
Strinsi la mano libera a pugno e feci roteare gli occhi, senza curarmi di sembrare cordiale, o interessata. Non me ne importava niente del pannello epatico, volevo solo essere lasciata tranquilla.
«I livelli delle transaminasi sono un po’ alti.» Osservò i fogli per un paio di secondi, poi tornò ad squadrarmi con preoccupazione. «Ultimamente stai bevendo un po’ troppo alcol. Forse dovresti andarci più piano,» mi consigliò, fissandomi come si fisserebbe un malato terminale.
Sbuffai rumorosamente. Stava esagerando. Non sarei di certo morta per un po’ di alcol.
Si avvicinò ancora e cercò di togliermi il bicchiere dalle mani. Ovviamente non glielo lasciai fare e ritrassi le braccia di scatto, facendo traboccare un po’ di vino, che con mio grande disappunto andò a finire per terra. Presi più respiri profondi, nel tentativo di calmarmi. Non servì a niente, perché continuai a fissarlo con sguardo omicida.
«Kenji, sei un ragazzo adorabile e non ho nulla contro di te, ma ti garantisco che, se da ora in avanti non terrai le mani a posto, te le taglierò,» tuonai minacciosa.
Il chiacchiericcio che ci aveva fatto da sottofondo fino a quel momento cessò. Sentivo gli sguardi dei miei compagni puntati addosso. Per la seconda volta, nell’arco di un’ora, avevo fatto ammutolire tutti. Le cose erano due: o pensavano che fossi diventata completamente pazza, o iniziavano a temermi.
Kenji mi guardò mortificato, ma io non mi sentivo in colpa per essere stata così aggressiva. Era più forte di me. Alcolista o no, non potevo sopportare che si sprecasse il vino in quel modo. E, peggio ancora, non potevo tollerare che qualcuno cercasse di impedirmi di berlo. Ora che Sabo non c’era più – e che avevo appurato di non essere incinta – era la mia unica forma di sostentamento, l’unica cosa che mi tratteneva dall’impazzire del tutto e fare una sanguinosa strage di Pirati Heart. Chiodo scacciava chiodo. Il sesso mi faceva dimenticare degli incubi, delle voci e del tremore alla mano e il vino mi faceva dimenticare del sesso, che non potevo più avere.
Gli riservai un ultimo sguardo carico di fastidio, poi sollevai il calice e glielo sventolai sotto il naso, come a beffarmi di lui e delle sue raccomandazioni. Recuperai la bottiglia, lo superai e uscii dalla cucina. Me ne tornai in camera senza dire una parola. Almeno lì avrei potuto bere in pace.
 
Controllai l’ora sul telefono: erano quasi le otto; tra qualche minuto ci sarebbe stata la cena. Sospirai rumorosamente. Non avevo voglia di affrontare di nuovo gli sguardi inquisitori dei miei compagni. Capovolsi la bottiglia di vino per versarla nel bicchiere, ma ne venne fuori solo qualche goccia. Avevo finito anche quella, non per niente ero brilla. Avere la testa un po’ più leggera forse mi avrebbe aiutato a sopportare il pasto con i Pirati Heart. Appoggiai la testa al muro e sospirai di nuovo. Era stata una giornata assurda. Emotivamente devastante. Mi sembrava di aver fatto più giri su un roller coaster senza cinture di sicurezza, solo che non c’erano stati alti e bassi, ma solo bassi e più bassi, con qualche anello della morte in mezzo. Le mie emozioni erano state centrifugate, accartocciate e buttate nel cestino. Law mi aveva fatto infuriare. No, mi avevano fatto infuriare tutti, ma lui un po’ – molto – di più. Non ero solo arrabbiata, ero anche offesa e delusa dal suo comportamento. E mi sentivo umiliata. Non ero io ad aver sbagliato, eppure, in qualche modo, era riuscito a farmi sentire colpevole anche quando non lo ero. Mi aveva giudicato prendendosi gioco di me, una doppia coltellata. Solo lui era capace di farlo, ci voleva del talento.
«Che amarezza,» sussurrai a me stessa, scuotendo la testa.
Sospirai, per la terza volta in pochi minuti. Pensai che, se fosse stato qui, Sabo avrebbe saputo come farmi passare il malumore. Ne avrei tanto avuto bisogno. Me lo immaginai accanto a me, in un altro posto, magari su una spiaggia al crepuscolo, in onore dell’ultimo tramonto che avevamo ammirato insieme. L’acqua dell’oceano ci lambiva le caviglie, la sabbia sotto di noi era tiepida. I nostri corpi erano avvinghiati l’uno all’altro. Non c’erano guerre da combattere o governi da far cadere. C’eravamo solo noi, in quel preciso istante, liberi e felici. Non stavamo commettendo atti impuri, non avevamo bisogno di farlo, ci stavamo semplicemente godendo il momento, illuminati dalla luce aranciata. A volte bastava poco per essere appagati: lo stridio dei gabbiani, il profumo del mare, una lieve brezza tra i capelli, una persona che ti capisca e che ti faccia sentire desiderato. Sabo, tra i suoi tanti difetti, era questo. E poi mi figurai una terza persona lì con noi. Aveva i capelli castano chiaro e gli occhi grandi e scuri, come quelli del suo papà. Sorrisi. Nostro figlio. Era ancora piccolo e non avrei saputo dire se fosse un bimbo o una bimba, ma a noi non importava. Volevamo solo che quel piccolo miracolo crescesse con la libertà di essere chi era, chi voleva essere. Che non avesse paura di sognare in grande e che imparasse a lottare per ciò in cui credeva. Nonostante non ne avessimo mai parlato, sapevo che questo era anche quello che desiderava Sabo. Mi chiesi che tipo di padre sarebbe stato. Avevo motivo di credere che sarebbe stato un bravo genitore, tolte le sue dimenticanze e la sua occasionale infantilità. E il fatto che non era pronto ad assumersi una tale responsabilità, come non lo ero io. Poi mi misi a ridere pensando a Rufy come zio. Ci avrebbe stupito tutti, sarebbe stato uno zio ineccepibile, secondo me.
La verità era che, dopo lo scherzetto di Law, mi ero già immaginata a comprare tutine per bambini e biberon. E in fin dei conti l’idea non mi dispiaceva, era il tempismo ad essere sbagliato. Non avevo mai pensato a come fosse essere madre, non ne sentivo il bisogno. Perché avrei dovuto? Nel mio mondo ero una semplice adolescente con tanta confusione in testa. Ma adesso ero cresciuta, sapevo cosa volevo ed ero in grado – più o meno – di prendermi cura di me stessa. Avere un figlio non era un mio desiderio al momento, ma non era più un’utopia. Prima di farlo, però, mi sarei assicurata di raggiungere i miei obiettivi e di fare in modo che potesse crescere in un mondo migliore di questo, un mondo in cui non rischiasse di morire perché non sapeva impugnare una spada. Oltretutto, non era detto che il padre dovesse essere per forza il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria.
La sveglia del cellulare suonò, distraendomi da tutte le mie riflessioni. L’avevo impostata pochi minuti prima dei pasti, così non sarei arrivata in ritardo, poiché era risaputo che chi si presentava tardi non mangiava. Sbuffai. Non avevo nessuna voglia di presentarmi a cena, non avevo voglia di vedere Law, di affrontare Penguin, Kenji e gli altri e non mi andava che mi squadrassero tutti con la solita aria giudicante, ma il mio stomaco reclamava la propria ricompensa. Nonostante lo spuntino di metà pomeriggio, avevo ancora fame. E nonostante il vino, ero ancora nervosa. E stanca. E un po’ nauseata. Ma, se non ero incinta, perché mi stavano succedendo quelle cose strane?

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Capitolo 3
*** Pane ***


Appena misi piede in cucina, come previsto, tutti gli occhi furono puntati su di me. Odiavo quando era così e odiavo la sensazione che mi provocava, ma era inevitabile: quel giorno avevo fatto due sceneggiate isteriche davanti all’intera ciurma senza un apparente motivo, per di più ero strana da quando ero tornata, non potevo aspettarmi che il mio comportamento passasse inosservato. Almeno, però, Law non era lì. Non potevo stare nella sua stessa stanza al momento.
Presi un lungo respiro. Dovevo rimediare alla situazione che avevo creato. «Ci terrei a dire una cosa.»
A quel punto, il lieve chiacchiericcio che c’era sparì.
«Avrete notato che, da quando sono tornata, sono più... strana. Più nevrotica, più irrequieta, più irascibile.»
Qualcuno annuì timidamente, come se avesse paura di risvegliare la “bestia” che c’era in me.
«Mi dispiace. L’ultima cosa che voglio è ferire i vostri sentimenti, o comportarmi da pazza.» Guardai Kenji, addolcendo l’espressione. «Non so cosa mi stia succedendo, e non posso promettervi che non accadrà più. Però posso promettervi che tenterò di contenermi.» Ammorbidii il tono di voce, nella speranza che fossero comprensivi. A parte Maya, erano tutti uomini, e non mi aspettavo che capissero, ma mi avrebbe fatto comodo avere un po’ di solidarietà, anche se solo apparente.
I Pirati Heart mi fissarono in silenzio per un tempo che mi parve eterno.
«Vi chiedo di avere un po’ di pazienza, nei miei confronti.» Mi strinsi nelle spalle. Non sapevo che altro dire. Non potevo assicurare loro che presto sarebbe tornato tutto come prima, perché non sapevo neanche quale fosse il problema, ma me lo auguravo.
«Stai bene? Non sei malata, vero?» mi chiese Omen, con una vena di timore. La sua domanda mi scaldò il cuore.
«Sto bene,» confermai con un timido sorriso. Perlomeno, così dicevano le analisi. Non potevo garantire per la mia salute mentale, né per il mio polso tremolante. Un’altra questione di cui mi sarei dovuta occupare presto.
«Come va lo stomaco?» domandò invece Bepo, ancora preoccupato che potessi avere un’intossicazione alimentare.
«Affamato.» Mi strinsi nelle spalle e mi avvicinai all’orso per accarezzargli la testa. Era il mio modo di dimostrargli che apprezzavo la sua apprensione.
«Io voglio farti solo una domanda,» fece Shachi, le braccia incrociate e lo sguardo inquisitore. Poche volte lo avevo visto così deciso. «Sei contenta di essere tornata da noi?»
«Idiota!» Gli diedi una leggera pacca sulla nuca, per poi addolcire la mia espressione e sorridere. «Certo che sono contenta. Non vedevo l’ora,» affermai, andando da lui e cingendogli la spalla con un braccio. L’Orca mi rivolse un ghigno soddisfatto, poi scostò la sedia accanto alla sua dal tavolo e mi fece cenno di sedermi.
«Dov’è Penguin?» volli sapere. Non l’avevo visto, e mi sembrava strano che non fosse accanto al suo amico.
«Credo proprio che stasera rimarrà senza cena,» si intromise Ryu, che nel frattempo stava passando tra le sedie per distribuire il cibo.
«Si è fatto incastrare dal Capitano. Non so dove sia o cosa stia facendo, ma ne avranno ancora per molto. Dovremo fare a meno della loro presenza, per questa sera,» mi spiegò Shachi, facendomi tirare un sospiro di sollievo. Quella sì che era una buona notizia: niente Law, niente problemi. Potevo stare tranquilla.
Solo in quel momento mi accorsi che il cuoco mi aveva servito una doppia porzione di filetto di merluzzo. Lo guardai e lui mi fece l’occhiolino.
«Ne hai bisogno...» mi sussurrò. Annuii e lo ringraziai.
Quando pensavo che le sorprese della serata fossero finite, però, dovetti ricredermi: con la coda dell’occhio vidi che Kenji, di fronte a me, aveva allungato la bottiglia di vino perché fosse alla mia portata. Spalancai gli occhi, pensando che fosse arrivata l’ora dell’apocalisse. Non avevo mai visto una cosa del genere.
«Se il vino ti serve per stare meglio...» si giustificò il rosso, scrollando le spalle. Le sue labbra erano schiuse in un sorriso imbarazzato e la sua testa era bassa, come se stesse lottando contro ogni fibra del suo corpo per compiere quel gesto. Non lo biasimavo, sapevo che passandomi la bottiglia stava andando contro ogni suo principio morale. Per questo non potei fare a meno di sorridere come un’ebete. Tutto ciò di cui avevo bisogno era lì, davanti a me, attorno a me. I miei compagni, pur non compiendo gesti eclatanti, mi stavano dando tutto il calore e l’affetto che mi era necessario per andare avanti. E fu così che tornammo a essere una grande famiglia complicata e felice.
 
Quando, dopo la cena, entrai in infermeria per recuperare l’elastico per capelli che mi ero dimenticata lì qualche ora prima, non pensavo di trovarci Law. Altrimenti non vi avrei messo piede neanche sotto minaccia. Stava ordinando a Penguin di trasportare degli strumenti nel suo studio. Quest’ultimo, quando mi vide, mi guardò con circospezione, poi si premurò di uscire dalla stanza mantenendo le distanze di sicurezza da me. Sospirai. Mi sarei dovuta scusare per la sfuriata, prima o poi. Quando il chirurgo vide me, invece, ghignò con malizia.
«Sei venuta per fare un’ecografia?» mi chiese mentre prendevo l’elastico. «Dovremmo confezionare una divisa un po’ più larga. Tra qualche mese quella che hai ora non ti entrerà più.»
Sentii un’ondata di rabbia travolgere il mio corpo, ma scossi la testa. Non avrei fatto il suo gioco, non ora che ero furente con lui. Non riuscivo nemmeno a guardarlo in faccia da quanto ero arrabbiata.
«Ho sentito che stai terrorizzando i miei uomini,» tentò di nuovo, in tono compiaciuto. «Proprio come si addice ad una Regina di Cuori
Camminai fino all’uscio della porta, senza mai posare lo sguardo su di lui. Cercava di provocarmi, ma non avrebbe avuto alcuna reazione da me.
Feci per uscire dall’infermeria, però Law parlò ancora: «Sono il tuo Capitano.»
Sapevo già dove voleva andare a parare. Desiderava che io gli tenessi testa. Voleva obbligarmi a farlo, perché era consapevole che non avrei potuto disubbidire a un suo comando.
«Guardami,» mi ordinò. Alzai gli occhi al cielo e mi voltai controvoglia. Non stava più sogghignando. Nel momento in cui le mie iridi incontrarono le sue, sentii l’ira crescere in me.
«Sei spregevole. E ingiusto,» lo accusai con durezza. Se ci teneva tanto a litigare, avremmo litigato.
«E tu sei ridotta uno straccio,» mi apostrofò.
«Questo non è affar tuo.» Non potevo dire altro, perché aveva ragione.
«Sì che lo è. Minacci i miei uomini, li aggredisci senza motivo. Sono tutti preoccupati per il tuo comportamento, e alcuni hanno paura. Mi costringi a intervenire.» Appoggiò la schiena allo schienale della sedia, quasi come se si aspettasse che io perdessi le staffe da un momento all’altro. Non potevo promettere a me stessa che non lo avrei fatto.
«Oh, per amor del cielo, Law! Siamo pirati, è così che fanno i pirati.»
«Tu non sei così,» ribatté, incastonando le sue iridi glaciali alle mie. Il suo sguardo, così imperscrutabile, mi provocò un brivido di freddo. Non sapevo cosa volesse comunicarmi. Non sapevo neanche se volesse effettivamente comunicarmi qualcosa.
«Magari sì. Magari in questi mesi sono cambiata.» Mi strinsi nelle spalle.
«Sicuramente sono cambiate le tue priorità.» Le sue parole e il tono contrariato che utilizzò mi arrivarono come una coltellata al petto.
«Stai alludendo a qualcosa, per caso?» volli sapere, mentre la mia ultima scintilla di sanità mentale si spegneva per lasciare il posto alla furia omicida. Serrai le palpebre, cercando di recuperare quel poco di compostezza che mi era rimasto. Continuavo a ripetermi che non ne valeva la pena, che litigare per dei motivi così futili era da idioti, eppure non potevo lasciar perdere, e neanche Law, a quanto pareva.
«Ciò che hai fatto per consolarti non è affar mio. Ma vedi di rimettere la testa a posto,» disse perentorio. Spalancai la bocca, inorridita dalle sue parole. Era rimasto del tutto calmo e impassibile mentre mi dava della poco di buono. Lui, che era il mio Capitano. Lui, che era la persona che più rispettavo al mondo.
«Ciò che hai fatto per consolarti. Vedi di rimettere la testa a posto,» ripetei, annuendo per metabolizzare quelle parole. Poi mi misi a ridere per il nervosismo.
Il chirurgo fece per parlare, ma io glielo impedii.
«Certo, dimenticavo! Dobbiamo essere tutti come te!» gli gridai, la mente che iniziava ad essere offuscata dalla rabbia. «Se stiamo male, dobbiamo reprimere i sentimenti e le emozioni nell’angolo più remoto della nostra anima, fino a che non c’è rimasto più niente e non diventiamo completamente vuoti e apatici!»
«Fino a prova contraria, sei tu quella che ha un problema, non io. Forse dovresti rivedere le tue scelte di vita,» affermò, una punta di divertimento nella voce. E fu proprio quella punta di divertimento che percepii a gettare benzina sul fuoco. Gli occhi quasi mi uscirono dalle orbite. Ero così infuriata che sentivo il sangue pulsare nelle vene.
«Tu non hai alcun diritto di prenderti gioco di me, né di giudicare le mie scelte! Non sai che cosa ho passato in questi mesi!» Sbattei con forza una mano sul tavolo. «Ho attraversato le pene dell’inferno! E tu dove cazzo eri!? Avevo bisogno di te, e non c’eri! Forse, se fossi stato lì con me, adesso non sarei ridotta uno straccio, come dici tu!»
Mi pentii delle mie parole nel momento in cui le pronunciai. Non per niente, lo vidi vacillare, anche se solo per appena mezzo secondo. Entrambi sapevamo che non era colpa sua se in quei mesi non c’era stato. Non era colpa di nessuno, i nostri destini dovevano compiersi separatamente. Prendersela con Law era ingiusto e meschino, anche perché sapevo che si sentiva in parte responsabile per ciò che mi era capitato. La mia coscienza sosteneva che avrei dovuto scusarmi, ma io non ne avevo intenzione. Ero troppo arrabbiata. Si era preso gioco di me in modo becero, mi aveva sbeffeggiato per giorni e adesso aveva anche avuto il coraggio di darmi della sgualdrina, semplicemente perché mi ero “permessa” di andare a letto con un ragazzo. Avevo fatto solo ciò che mi faceva stare bene, ciò che mi serviva in quel momento. Non era un crimine e non ero io a dovermi vergognare.
«Io cerco di dormire un po’,» annunciai, finalmente calma.
Law non obiettò e non disse altro. Qualcosa mi diceva che le mie parole avevano estinto la voglia che aveva di litigare con me.
Mi girai e me ne tornai in camera. Almeno così nessuno dei due poteva fare altri danni.
 
Mi rigirai per l’ennesima volta nel letto, sbuffando e scalciando via le coperte. Dall’oblò della cabina filtrava una debole luce. Doveva essere l’alba. Anche quella notte l’avevo passata in bianco; in tutti i sensi. Alla fine decisi di alzarmi. Tanto non avevo sonno. Dopo la litigata con Law, avrei sfidato chiunque a dormirsene tranquillo come un bambino. In un colpo solo mi aveva ferita, offesa e innervosita. La cosa che mi aveva fatto scattare era stato il tono che aveva usato. Era stato... duro. Come se fosse deluso dal mio comportamento, persino infastidito. Ancora una volta, non ne aveva il diritto. Non aveva il diritto di essere arrabbiato con me, perché lui non c’era. Non gliene facevo di certo una colpa, ma non poteva sapere cosa avevo passato, così come io non potevo sapere cosa aveva passato lui. Ero convinta che non avesse avuto vita facile neanche lui, e avergli rinfacciato la sua assenza mi faceva stare male, però aveva esagerato. Ogni volta che discutevamo, uno dei due rischiava di non uscire vivo dalla stanza. E la cosa che più mi faceva paura era che entrambi sapevamo perfettamente quali corde toccare per far infuriare, o peggio, ferire l’altro. Quella sera mi aveva dato una coltellata nel petto. Non solo mi aveva fatto uno scherzo di pessimo gusto e dato a intendere che pensava fossi una poco di buono, ma si era anche preso gioco dei miei sentimenti, calpestandoli senza ritegno. La cosa peggiore era che non aveva neanche cercato di comprendere le mie ragioni. Aveva deciso che il mio comportamento era sbagliato e basta. E non era giusto.
Mi diressi verso la cucina, massaggiandomi le tempie con le dita per tutto il tragitto e cercando di non sbandare per il corridoio, immerso nella penombra. L’ultima cosa che volevo era sbattere contro i muri e svegliare i miei compagni. Avevo bisogno di un po’ di tempo da sola, di sorseggiare un caffè in santa pace, senza che nessuno che mi fissasse o mi parlasse.
Allargai le braccia e le lasciai ricadere lungo i fianchi, senza però fare rumore. La luce della cucina era accesa. Possibile che ci fosse qualcuno anche alle sei di mattina? Di certo non era Ryu, perché da fuori non si sentiva alcun suono. Tra pentole, padelle, mestoli e stoviglie, il cuoco produceva sempre un gran chiasso quando era nel suo “regno”. Allora chi poteva essere? Un’idea ce l’avevo, ma decisi di controllare lo stesso.
Mi fermai sull’uscio della porta e osservai, attenta a non farmi vedere, la figura che stava seduta sulla sedia a leggere un enorme tomo di medicina vascolare rilegato in pelle. I miei sospetti erano corretti. Era Law, il pazzo che era sveglio alle sei di mattina. Per di più, stava anche leggendo un manuale sulla medicina vascolare come se fosse un romanzo rosa. Aveva i suoi occhiali rettangolari poggiati delicatamente sul naso, segno che stava leggendo da parecchio tempo, o che aveva intenzione di rimanere sveglio ancora a lungo. Se volevo il caffè, non c’era modo di evitarlo. Sbuffai e feci roteare gli occhi, consapevole che se mi avesse vista non avrei più potuto tornare indietro. Il pensiero di affrontarlo – soprattutto alle sei di mattina, dopo una notte in bianco – non mi faceva impazzire, ma qualcuno doveva pur comportarsi da persona matura. Non avevo intenzione di litigare di nuovo, volevo solo ingurgitare la mia dose di caffeina quotidiana in tranquillità e senza drammi.
Mi feci forza e misi da parte il risentimento che provavo per lui. Quando aprii la porta del tutto, questa cigolò, come a voler annunciare la mia presenza. Il chirurgo alzò gli occhi dal suo libro e mi guardò per appena un paio di secondi, poi ritornò a leggere come se nulla fosse. Ora mi aveva visto. Tra l’altro, se lui era vestito, io ero in pigiama, ma non mi importava, mi aveva vista in condizioni ben peggiori.
Rimasi immobile a torturarmi le dita per qualche secondo, indecisa sul da farsi. Avrei dovuto ignorarlo? O sarebbe stato meglio almeno salutarlo?
Optai per l’indifferenza e mi diressi verso la caraffa del caffè. Mentre versavo la polvere nel filtro, pensai a come potesse sentirsi lui. A vederlo non sembrava scosso, ma ero certa che avesse accusato il colpo. Nessuno dei due meritava di essere trattato in questo modo dall’altro. Noi non eravamo così.
«Non riesci a dormire?» La voce di Law riecheggiò per la cucina.
Mi immobilizzai, colta alla sprovvista dalla sua domanda. Non pensavo che avrebbe fatto lui il primo passo.
«No,» risposi, nella voce una nota di fastidio involontaria. Scossi la testa, cercando di scacciare il rancore che era tornato a galla e comportarmi da persona civile.
Il Capitano non disse altro fino a che non fui di fronte a lui, la tazza di caffè stretta in una mano. Notai che anche lui ne aveva una accanto a sé, ancora fumante. Allungai il collo e ne sbirciai il contenuto: era tornato al caffè amaro e nero come il carbone, così come il nostro rapporto era tornato a un silenzioso e freddo distacco, come ai vecchi tempi. Le sue iridi si concentrarono su di me, mettendomi un po’ a disagio.
«Camilla, sei cresciuta, ormai. Sei una donna adulta. Sei libera di fare quello che vuoi, con chi vuoi, purché non danneggi te stessa o i Pirati Heart. Non hai bisogno della mia approvazione.»
Apprezzai il suo tentativo, anche se dapprima rimasi un po’ interdetta: non me lo aspettavo. Sapevo che gli costava dirlo, non tanto per il contenuto dell’affermazione, quello lo pensava davvero, quanto per il fatto che stesse facendo il primo passo nonostante fosse convinto di avere ragione. Infatti non stava tentando di scusarsi, ma solo di esprimere il suo punto di vista. Era giusto, però, che anche io esponessi il mio. Mi misi a sedere di fronte a lui, per poterlo guardare meglio negli occhi.
«Non ho neanche bisogno che tu mi giudichi o mi prenda in giro in modo offensivo,» gli feci presente, calma ma un po’ risentita. Forse non si era reso conto di aver esagerato. O forse se ne era reso conto e questo era il suo modo di metterci una pietra sopra. In ogni caso, avevamo entrambi capito il pensiero dell’altro, e non dovevamo essere per forza d’accordo.
Mi rivolse uno sguardo, un solo sguardo, che fu abbastanza per farmi capire che non lo avrebbe fatto più. Insieme, annuimmo impercettibilmente, come a sancire la fine della faida. Il rapporto che avevamo io e Law – quando non ci scannavamo – era quasi magico. Ci intendevamo al volo, senza bisogno di parlare. Era assurda, però, anche la sua capacità di mostrarsi totalmente apatico e incredibilmente comunicativo al contempo. Aveva del talento.
Per i successivi minuti, io sorseggiai il mio caffè e lui tornò a leggere il suo libro. Per quanto mi riguardava, consideravo le cose tra noi chiarite. Più o meno. Ero ancora un po’ offesa, ma mi sarebbe passata in un paio di giorni.
 
Nella stanza c’era un silenzio schiacciante. Non ero più abituata a quella quiete, che adesso mi sembrava quasi innaturale. Alla base dei rivoluzionari, in sala mensa c’era sempre un allegro chiacchiericcio, anche alle cinque di notte, anche se la stanza era pressoché deserta.
Mi ricordai dell’episodio piccante che era avvenuto lì in tarda serata tra me e Sabo e sentii il nervosismo crescere in me. Mi umettai le labbra con la punta della lingua più volte, all’improvviso erano diventate secche. Almeno, così mi sembrava. Non mi sarei stupita se quello fosse stato un altro degli stupidi scherzetti che mi aveva giocato il cervello in quei giorni. Iniziai a tamburellare le dita sul tavolo, con così tanta forza che le unghie avrebbero potuto spezzarsi da un momento all’altro. Sentivo caldo, mi sembrava di essere dentro ad una fornace rovente. Un velo di sudore si era formato sulla mia fronte. Scostai il colletto del pigiama dal collo nel tentativo di far entrare un po’ d’aria. Mi infastidiva tutto: il ronzio del lampadario della cucina, l’odore del caffè, il capitano che se ne stava seduto a leggere tranquillo a pochi metri da me. Ero diventata insofferente a qualsiasi cosa. E tutto perché mi era tornato in mente un episodio accaduto mesi prima. Sospettavo che il problema non fosse l’episodio in sé, quanto il fatto che non avrei più potuto vivere una cosa simile. Le sensazioni che avevo provato e che mi avevano fatto sentire tanto bene se n’erano andate. Non c’erano più, e non avrei più potuto provarle. E facevo fatica ad accettarlo. Non volevo rinunciare a qualcosa di tanto bello. Non ancora.
«Stiamo per affrontare una guerra che avrà conseguenze enormi su noi stessi e sul mondo. Se hai un problema, risolvilo. Se non sei in grado di risolverlo da sola, parlane con qualcuno.» La voce di Law mi riportò alla realtà e mi resi conto di avergli offerto uno spettacolo brutto e inopportuno. Aveva di nuovo usato un tono duro, però aveva ragione. E la verità era che avevo più di un problema. E l’avvento di una guerra epocale con un Imperatore non solo non mi aiutava a risolverli, ma li ingigantiva. Dovevo affrettarmi a trovare una soluzione, perché la battaglia non avrebbe di certo aspettato i miei comodi, né mi avrebbe fatto sconti. Ricordandomelo, il Capitano mi aveva fatto una doccia gelata. I mesi che avevo passato con i Rivoluzionari erano stati mesi di pausa dalla vita reale, ora però era giunto il momento di fare i conti con le cose che avevo lasciato in sospeso prima che accadesse tutto quello che era successo.
Pensai a Kaido e rabbrividii. Quasi riuscivo a vederlo mentre ci aspettava sulla sua isola: era seduto sul suo “trono”, la mazza chiodata in una mano e un otre di rum nell’altra. Aveva un cipiglio sul volto, ma ghignava divertito; la tipica espressione di chi sa che vincerà.
«Io devo poter contare su di te. I Pirati Heart devono poter contare su di te. Cappello di Paglia e i suoi devono poter contare su di te.» Il chirurgo parlò di nuovo, lo stesso sguardo serio e fermo di poco prima. «Sei una mia subordinata, e in quanto tale è mio dovere assicurarmi che la tua testa e il tuo corpo siano pronti ad affrontare ciò che stiamo per affrontare.»
«Quando arriverà il momento sarò pronta, Capitano,» dichiarai, cercando di sembrare il più convincente possibile. Avevo pensato un po’ a cosa dire: non volevo mentire, ma neanche impensierirlo. Tralasciando il fatto che l’essere pronta per affrontare l’enorme minaccia di fronte alla quale ci saremmo trovati a breve non stava a significare che volessi farlo, o che non avessi paura. La situazione era quella che era, e volente o nolente prima o poi avrei dovuto affrontarla. Tutti avremmo dovuto farlo, non potevamo scappare dalle nostre responsabilità.
«Voglio fidarmi di te,» disse Law, dopo qualche istante di silenzio. «Non tradire la mia fiducia.»
Aggrottai leggermente la fronte e boccheggiai. Anche se l’aveva pronunciata come una minaccia, era bello sentirsi dire che si fidava di me. Anzi, che aveva deciso di fidarsi di me.
«Proverò a non farlo,» affermai, non sapendo che altro dire e non potendo fare promesse che non ero certa di poter mantenere.
«Ora va’ a dormire. Le occhiaie non ti donano.»
Alzai gli occhi al cielo, ma annuii e obbedii. Dopotutto ero stravolta e il caffè non mi aveva aiutato, avevo bisogno di farmi qualche ora di sonno.
 
***
 
«Sapevate che Big Mom ha un disturbo alimentare?» chiesi, portandomi un biscotto alla bocca e sgranocchiandolo. Avevo detto la prima cosa che mi era venuta in mente. C’era troppo silenzio in cucina, per i miei gusti. Quella mancanza di suoni mi innervosiva. Per una volta che desideravo che ci fosse confusione, quegli idioti se ne stavano zitti. Erano passati un paio di giorni da quando mi ero sfogata e poi scusata con loro, ma la situazione peggiorava a vista d’occhio. Ero sempre più infastidita. Cercavo di contenermi come meglio potevo, però la bomba era destinata a esplodere.
«Sul serio?» domandò a sua volta Shachi, facendo una faccia schifata.
«A quanto pare.»
«Come fai a sapere per certo che quella racchia gigante soffre di un disturbo alimentare?» mi domandò ancora l’Orca, facendomi tornare alla realtà.
«L’ho letto,» ribattei in tono piatto.
«Sì, ok, ma dove l’hai letto?»
«Sul giornale. Hanno pubblicato un articolo l’altro giorno,» replicai vaga. Era una bugia. Dove l’avevo letto? Sul mio cellulare.
Ancora una volta, nell’esprimere il mio secondo desiderio mi ero dimenticata di specificare. Avevo chiesto di ricevere quotidianamente notizie delle persone a cui volevo bene, e la Stella era stata fin troppo di parola. Nell’applicazione che aveva creato per me, in fondo a tutte le foto della mia famiglia, apparivano altre foto, foto che non erano altro che pagine di un capitolo del manga. Mi era concesso leggerne uno al giorno, e pian piano avrei recuperato tutti i capitoli che mi ero persa in quegli anni. Avevo imparato a mie spese che a volte dimenticarsi di specificare era un bene. Certo, era stata una sorpresa enorme scoprire che Sanji era stato promesso in sposa ad una delle figlie di Big Mom e che veniva da una famiglia di spietati assassini che lo trattavano come se fosse un rifiuto, non me lo sarei mai aspettato. Mi ero dimenticata di quanto potesse essere avvincente il manga di One Piece. Forse perché vivevo all’interno di quell’universo e avevo provato sulla mia pelle il brivido del non sapere mai cosa sarebbe accaduto.
Mi sarebbe piaciuto avere notizie anche di Marco, Sabo, Koala e Jasper, ma non avevo trovato nulla su di loro, sebbene avessi controllato meticolosamente più e più volte. Supponevo che avrei dovuto attenermi alle fonti che avevo: manga e quotidiani.
Ovviamente, tutto quello doveva rimanere un segreto per il resto dei miei compagni. Avevo deciso di non dire niente a nessuno, ad eccezione di Law, l’unico che sapeva della mia storia, del mio passato e del fatto che tutti loro facessero parte di un fumetto. Ecco perché avevo mentito a Shachi. Forse un giorno avrei vuotato il sacco sulla mia provenienza, ma non ora che stavamo per affrontare Kaido.
«Che tipo di disturbo è?» volle sapere Maya. Sembrava l’unica davvero interessata a quell’argomento.
«Pare che ogni tanto abbia delle crisi alimentari che la portano a distruggere tutto ciò che ha intorno e ad uccidere i suoi stessi figli, se non le viene dato da mangiare ciò che vuole mangiare,» spiegai, allungando la mano per prendere l’ennesimo biscotto dal piatto al centro del tavolo. Feci attenzione a non sbriciolare. Ryu, altrimenti, mi avrebbe fatto pulire.
«Uccide i suoi stessi figli!?» urlò Bepo, inorridito. Annuii.
«Quando ha una delle sue crisi, a quanto ho capito, non è in sé. Perde completamente coscienza della realtà e la sua ira distruttiva non si placa finché non mangia ciò che desidera.» Appoggiai la schiena allo schienale della sedia. Il pensiero che stessi iniziando a comprendere Big Mom mi raccapricciava. Sì, era una vecchia pazza che ammazzava la sua prole quando non poteva mangiare ciò che desiderava, ma lo faceva perché non poteva avere l’unica cosa che voleva. L’immagine di Sabo mi apparve fugace davanti agli occhi e mi ritrovai ad affondare le unghie nel tavolo.
«Quando si riprende e scopre di aver ucciso i suoi figli come fa a convivere con se stessa?» si interrogò l’orso. Piegai la testa da un lato e lo squadrai con un’espressione impietosita. Certe volte mi chiedevo se non fosse troppo innocente per il mondo in cui vivevamo. Poi, però, mi ricordavo del modo feroce in cui combatteva e i conti tornavano.
«Non credo che se ne accorga. Ne ha così tanti che uno in più o uno in meno non fa molta differenza.»
«Che orrore. E pensare che ci sono state decine di uomini disposti ad andare a letto con lei...» rimarcò Penguin con una faccia più che disgustata.
«È stata furba, ha costruito il suo impero andando a letto con dei tizi a caso e generando figli su figli,» affermò Shachi, assottigliando gli occhi.
«Pensi sul serio che fossero tizi a caso?» gli fece notare Maya. «Sicuramente li ha scelti con cura e poi li ha obbligati a unirsi a lei per procreare. Un impero del genere non si può creare andando a letto con dei tizi a caso.»
Per fortuna esisteva qualcuno di sveglio là in mezzo, capace di capire le cose al volo. Big Mom aveva costruito Totland scegliendo minuziosamente i suoi partner, tra re, uomini di potere e mostri di potenza di tutte le razze.
«Comunque la si metta, quella vecchia cozza si è data da fare,» sostenne Penguin, abbandonandosi ad una risata.
«Beh, qualcuno deve pur farlo, no?» gli diede man forte il suo amico.
Quando si resero conto che una come Big Mom consumava più di loro, i due idioti si disperarono, ma a quel punto io ero già partita di testa.
Scattai in piedi con una tale foga che feci cadere la sedia sulla quale ero seduta. Tutti i presenti si girarono a guardarmi sorpresi.
«Possiamo non parlare di questo argomento?» mi spazientii. All’improvviso, come se un fulmine mi avesse attraversato il cervello, avevo capito. Ecco cos’era che mi dava fastidio. Ecco perché ero stata irrequieta per tutto quel tempo. Ed ecco qual era il mio problema. Avrei dovuto saperlo. Avrei dovuto aspettarmelo.
«Cami, stai bene?» mi chiese qualcuno. Non risposi. Non volevo farlo e non sapevo neanche cosa rispondere, anche perché mi ero ripromessa che non avrei sfogato le mie frustrazioni sui Pirati Heart.
Recuperai al volo un bicchiere, poi mi diressi a passo svelto verso il frigo e lo aprii. Trovai subito ciò che stavo cercando: vino. Ne versai una generosa quantità nel calice e la bevvi tutta d’un fiato, sotto gli sguardi per metà perplessi e per metà preoccupati dei miei compagni. Nessuno osò fiatare, però.
Tornai ad accasciarmi sulla sedia, con la bottiglia appresso. Le mie dita tamburellavano nervosamente sul tavolo della cucina, il piede picchiettava svelto sul pavimento. Avevo il respiro affannoso ed ero leggermente sudata. Lo sguardo torvo ed assente, fisso davanti a me. Il cuore martellava celere nel petto. Mi sembrava di andare a fuoco, tutto dentro ribolliva. Ingollai un altro lungo sorso di vino. Non potevo continuare così, stavo impazzendo lentamente. E di chi era la colpa? Di Sabo. Lui mi aveva portata sulla cattiva strada. Mi aveva fatto provare il piacere più puro e poi me lo aveva negato. No, non me lo aveva proprio negato, se fosse stato qui molto probabilmente ci saremmo dati alla pazza gioia, ma non c’era. Se ne era andato, e aveva portato con sé il “sapore della libertà” che tanto decantava. Bevvi un altro po’ di vino, poi emisi un verso a metà tra uno sbuffo ed un grugnito spazientito.
«Secondo voi che ha?» chiese qualcuno.
«Dite che è grave?» domandò un altro, preoccupato.
«Credo che stia avendo i sintomi di una crisi d’astinenza,» rispose un terzo, sussurrando. Avrei voluto dire ai miei adorati compagni che ero lì, anche se non sembrava, e che potevo sentirli.
«Tipo le crisi di Big Mom?» volle sapere Bepo.
«No, peggio.» Shachi si guadagnò la mia occhiata truce.
«Forse è meglio evacuare la zona...» L’orso, si guardò intorno con circospezione e poi posò lo sguardo su di me. «Solo per precauzione,» aggiunse quando mi vide fissarlo minacciosa con tanto di narici dilatate.
«Crisi d’astinenza? E da cosa?» si interrogò Maya, che a quanto pareva, oltre ad essere la più sveglia, era anche l’unica razionale là in mezzo.
«Non è ovvio?» fece Ryu. Spalancai gli occhi, girando la testa di scatto verso il cuoco, l’espressione marcatamente terrorizzata. Era ovvio? Aveva capito quale fosse il mio problema? All’improvviso mi resi conto che le mie unghie stavano grattando la superficie liscia del tavolo. Le nocche erano diventate bianche. Ero indecisa se alzarmi ed andare a tappargli la bocca o lasciarlo parlare e sentire cosa avesse da dire. Optai per la seconda opzione. Avrei pur sempre potuto uccidere lui e tutti gli altri dopo. Cercai di darmi la parvenza di una che non aveva nulla da nascondere.
«Dal pane!» Lo disse davvero come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Tutti lo fissarono come se fosse pazzo.
«Dal pane,» ripetei io, perplessa e sollevata allo stesso tempo. In fondo non ci era andato troppo lontano. Da “pane” al motivo delle mie crisi di astinenza cambiava una sola lettera. Sorrisi appena nel realizzarlo. Questo poteva giocare a mio vantaggio. Dopotutto, avevo bisogno di sfogarmi, quindi perché non usare un espediente?
«Esatto! Esatto, dal pane!» Mi alzai in piedi e sbattei una mano sul tavolo. Forse ci misi un po’ troppo entusiasmo, perché ero sicura che qualcuno dei miei compagni avesse pensato che fossi posseduta.
«Prima c’era tanto pane. Lo mangiavo almeno una volta al giorno, talvolta anche due o tre. La mattina, il pomeriggio, la sera... Quando ne avevo voglia era lì, pronto per me.» Il mio tono di voce diventava più acuto e alto ad ogni parola. «E adesso non c’è più, il pane. È sparito! Capite il mio dilemma!?»
Mi guardarono tutti con delle facce stralunate, come se fossi impazzita. Ed effettivamente lo ero. Stavo impazzendo. Sapevo che sarebbe andata a finire così. Perché diavolo non avevo ascoltato la vocina dentro di me che mi aveva detto che andare a letto con Sabo era sbagliato!? Ah, già. Era proprio perché sentivo le voci nella testa che avevo cominciato a fare sesso con lui. Bastava un suo semplice tocco per far sparire tutto. Era un circolo vizioso, non c’era fine al mio supplizio.
«Il pane depura,» affermai, sventolando l’indice per aria. «Eccome, se depura. Abbiamo tutti bisogno di più pane nelle nostre vite, datemi retta.»
«Come hai fatto a vivere senza pane per tutti questi anni?» indagò Penguin, perplesso.
«Non lo so! Senza il pane è un’esistenza infelice!» Il fatto che lo avessi urlato con un’espressione da invasata mi fece capire che la situazione era ben più grave di quanto pensassi.
«La cosa che mi preoccupa è che se reagisci così per la mancanza di un po’ di pane, non oso immaginarmi come reagiresti se mancasse il vino,» rifletté ad alta voce Ryu, pensieroso.
Lo ignorai. Era convinto delle sue idee, pensava davvero che avessi bisogno di pane. Non avevo problemi a lasciarglielo credere. Non che la mancanza di vino non fosse un potenziale problema; finché c’era, però, ero a posto. Più o meno.
«Scusa, Cami, sei stata con noi per due anni, e in tutto questo tempo non ti ho mai sentita lamentarti una volta per la mancanza di pane. Com’è che tutt’a un tratto non puoi stare senza?» intervenne Shachi. Quando voleva anche lui sapeva essere sveglio. Ci pensai un attimo.
«Perché il pane che ho assaggiato alla base dei rivoluzionari era molto, molto buono,» risposi esasperata. Mi afflosciai sulla sedia e mi passai le mani su tutta la faccia nel tentativo di ricompormi.
«Quanto buono?» volle sapere Maya, assottigliando gli occhi. Qualcosa mi diceva che aveva intuito tutto. Aveva capito la mia metafora. Aveva sempre avuto dei sospetti, ma io, ora, le stavo implicitamente dando le conferme che le servivano. Non che mi importasse. Ormai non avevo più nulla da perdere. La dignità se ne era andata insieme alla mia sanità mentale.
«Buono del tipo che basta una sola briciola per farti andare in estasi.» Scossi la testa sconsolata.
«Ragazza mia, devi trovarti dell’altro pane al più presto,» mi sollecitò, annuendo più volte ed aggrottando la fronte.
«Ma... ce l’ha!» esclamò Penguin, beccandosi una potente gomitata in pieno stomaco da Shachi: non potevamo parlarne ad alta voce se non volevamo essere scoperti da Law, che non era lì con noi ma aveva occhi e orecchie dappertutto. Per fortuna almeno loro non avevano capito a cosa mi stessi riferendo davvero. Mi avevano preso alla lettera, proprio come Ryu, e il Pinguino era convinto che la soluzione ai miei problemi giacesse in una cassa nascosta dentro al mio armadio. Avrei tanto voluto che avesse ragione. Invece, purtroppo, non era così.
Sospirai, lo sguardo basso e privo di qualsiasi speranza. Il problema era che io non volevo altro pane. Io volevo quel pane. Il pane che aveva da offrire Sabo.
 
«Dannato Sabo,» sibilai. Avevo passeggiato avanti e indietro per la mia cabina così a lungo che iniziavano ad esserci dei solchi sul pavimento. «Lui e la sua stupida libertà. Mi ha avvelenato,» continuai, sbattendo con forza il pugno sinistro sul palmo della mano destra.
«Lo sapevo. Sapevo che sarebbe andata a finire così. Che cretina! Mi sono fatta abbindolare dal suo bel faccino sorridente e dai suoi muscoli scolpiti!»
Nonostante tutto, però, non riuscivo a darmi interamente la colpa, né avevo motivo di farlo. Era successo, mi ero lasciata andare e me l’ero goduta – e avevo goduto – finché avevo potuto. Avevo fatto il necessario per stare bene, niente di più e niente di meno. Il fatto che adesso fossi in crisi era solo un effetto collaterale. Come medico lo sapevo bene. Ogni medicina presenta degli effetti indesiderati. Quella specie di crisi mistica di astinenza che stavo attraversando era il mio prezzo da pagare. Del resto, c’è sempre un prezzo da pagare per guarire. Lo avevo imparato a mie spese in più occasioni. Mi sarebbe passata anche questa, come tutto il resto. Si trattava solo di un piccolo inconveniente.
Qualcuno bussò alla porta. Andai ad aprire senza stare a pensarci troppo. Davanti a me ritrovai Maya.
«Posso entrare?» chiese pacatamente.
Feci di sì con la testa e la lasciai passare. Lei, senza fare troppi complimenti, si mise a sedere sul letto.
«Come stai?» volle sapere, materna. In quel momento mi ricordò Koala. Se ci fosse stata lei, ci saremmo fatte una scorpacciata di caramelle, avremmo bevuto vino e chiacchierato di cose futili fino a che non mi sarebbe passato il malumore.
«Bene.» Mi misi a sedere accanto a lei, che mi rivolse un’occhiata eloquente. «Sul serio, non sto male. Sono solo... inquieta, nervosa e infastidita. Nulla di nuovo, praticamente.» Mi strinsi nelle spalle e picchiettai le dita sulle ginocchia, un po’ a disagio.
«Suppongo che siano queste le conseguenze della mancanza di pane,» constatò lei, accompagnandosi con un blando cenno del capo e trattenendo una risata.
«Tu hai capito cosa intendo davvero per “pane”, vero?»
Se fossimo finite a parlare di quello, dovevo almeno assicurarmi di non aver preso un granchio, per evitare ulteriori figuracce. Annuì e mi rassicurò con un sorriso. Potevo fidarmi di lei, quando voleva sapeva essere una tomba, non sarebbe andata a raccontarlo a nessuno.
Per un po’ rimanemmo in silenzio, un silenzio comunicativo.
«Cami, ragazza mia, io non ti giudico. Anzi, quasi ti invidio,» mi confessò dandomi una pacca affettuosa sulla spalla. Mi voltai verso di lei, stupita dalla sua affermazione.
«Perché mai dovresti invidiarmi?» volli sapere, perplessa. Lei, che poteva fare sesso quando voleva senza che nessuno la giudicasse, invidiava me?
«Perché ogni tanto piacerebbe anche a me consumare del pane senza impegno,» ammise distogliendo lo sguardo. Alzai un sopracciglio, ancora più confusa.
«Ma tu hai Omen. E non dirmi che voi due non consumate, perché i muri di questo sottomarino sono piuttosto sottili,» rimarcai, ridendo e piegando la testa da un lato.
«Sì, ho Omen, ma non è la stessa cosa.»
«Ah...» mi lasciai sfuggire. Cominciavo a sospettare che il suo fidanzato non fosse così bravo a letto come diceva di essere di fronte ai suoi compagni maschi.
«Te ne parlerò in un’altra occasione.» Liquidò il discorso con un gesto secco della mano. Storsi la bocca. Non ero sicura di voler affrontare di nuovo quel tipo di conversazione.
«Comunque, siamo donne. Abbiamo bisogno anche noi di...» Cercò per un po’ le parole giuste, senza trovarle.
«Svagarci,» intervenni io, anche se avrei preferito usare il termine “depurarci”, perché di quello si trattava, almeno per me.
«Esatto, di svagarci. È perfettamente normale. Se quegli idioti vogliono ricamarci sopra, lasciali fare. Tu hai tutto il diritto di fare ciò che vuoi,» mi disse, fissandomi negli occhi per assicurarsi che avessi capito. «E se avrai voglia di discuterne, sappi che io sono qui.»
Sorrisi grata alla mia amica per avermi detto quelle cose. Era molto bello avere il sostegno di un’altra donna.
Fece per alzarsi, ma io la fermai. Forse parlarne con qualcuno mi avrebbe fatto bene, arrivati a questo punto.
«Sai, mi sento stupida, perché questo non è neanche un vero problema.»
«Beh, era una cosa bella che ora non puoi più vivere. Forse non sarà un vero e proprio problema, ma è brutto perdere qualcosa che ci fa stare bene.»
La sua risposta mi fece riflettere. Aveva ragione.
«Già...»
«Quindi, se posso darti un consiglio, cercati altro pane da sgranocchiare.»
La faceva semplice, lei. Cercare altro pane da sgranocchiare era fuori discussione. Per quanto odiassi ammetterlo, nessuno avrebbe mai potuto eguagliare Sabo. Le sensazioni che avevo provato con lui erano semplicemente irripetibili. Non avevo bisogno di provare altre pagnotte per saperlo, lo sapevo e basta.
«Però, qualunque cosa tu decida di fare, ti prego, smetti di bere vino,» mi rimproverò, tuttavia con affetto. «Kenji è davvero preoccupato per te e per la tua salute.»
Mi rammaricai di averlo trattato così male in quei giorni. Dopo che mi ero scusata avevo continuato a evitarlo perché non volevo che mi facesse di nuovo la predica sul vino. Non era giusto, quel poverino cercava solo di preservarmi dal fare una brutta fine, aveva a cuore la mia salute.
«A proposito di Kenji...» iniziò Maya, facendomi roteare gli occhi. Sapevo già dove voleva andare a parare. «Mentre eri via, non c’è stato un giorno in cui non ha parlato di te. È evidente che abbia un debole per te. E lui e Omen sono migliori amici, perciò potremmo...»
«Fare pic-nic tutti insieme in mezzo a un campo di margheritine? No, grazie,» la interruppi, immaginandomi la scena con espressione disgustata. Sabo mi aveva resa molto più cinica di quanto non fossi già con il romanticismo. Forse avrei dovuto ringraziarlo.
Mi alzai, sollecitando – per non dire obbligando – la mia amica a fare lo stesso e la accompagnai alla porta. Quella conversazione era appena diventata inutile e non volevo più continuarla. La spinsi praticamente fuori dalla stanza.
«Andiamo, apri il tuo cuore all’amore, Cami. Non può che farti bene,» mi incitò fiduciosa. Infransi le sue speranze con un’occhiata gelida.
«Io i cuori li apro solo durante le operazioni di cardiochirurgia,» affermai, apatica e glaciale. «Grazie per la chiacchierata. Ci vediamo a cena,» mi congedai, richiudendo la porta della cabina prima che potesse dire altro.
All’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, mi resi conto della situazione. I problemi che dovevo affrontare erano tre, quattro se si considerava Maya che tentava di sistemarmi con Kenji: una guerra imminente con un Imperatore, che metteva a rischio la mia vita; il nervosismo che mi provocava l’astinenza da pane, che metteva a rischio la mia sanità mentale; e un polso che tremava, che metteva a rischio la mia carriera da chirurgo. Affondai il viso nelle mani. Non avrei avuto vita facile.

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Capitolo 4
*** Tremore ***


Mi appoggiai le mani sulla schiena e la piegai all’indietro per sgranchirmi un po’, poi mi guardai intorno. Eravamo sbarcati su una di quelle isole che avrei definito tristi. Mi pareva che si chiamasse Jonquil, o qualcosa del genere. Non era importante che ricordassi il nome, per quello che dovevamo fare. “Staremo il tempo di prendere ciò che ci serve, poi ce ne andremo,” aveva detto Law, e per una volta supponevo che fossimo tutti ben felici di eseguire i suoi ordini. Quell’isola aveva un che di spettrale. La gente e il chiacchiericcio non mancavano, ma gli abitanti sembravano automi che eseguivano movimenti meccanici, come se fossero stati programmati da qualcuno per svolgere le loro attività. Nessuno dava la parvenza di avere voglia di stare lì. A dire la verità, nemmeno noi volevamo stare lì, ma avevamo bisogno di rifornirci di provviste, carburante e medicinali, per cui non avevamo altra scelta.
«Che isola infelice.» Shachi si espresse per me. Anzi, per tutti noi.
Non era una bella visione, quella che avevamo davanti. Pareva di assistere al declino di una civiltà. Non volevo essere tragica, ma la mia impressione era che la voglia di vivere avesse abbandonato quel posto tempo prima.
L’isola aveva la forma di una giunchiglia. Non era grande, riuscivo a vederne le coste ad occhio nudo, ma c’era un’unica, minuscola cittadina al centro di essa, che si estendeva – per modo di dire – per qualche chilometro in pianura, come se fosse la corolla di quel fiore ormai appassito.
In mezzo all’accozzaglia di edifici fatiscenti e pieni di crepe, solo tre o quattro spiccavano per la loro tinta giallo pastello, un po’ più accesa rispetto a quella degli altri edifici, color grigio topo o bianchi, di un bianco sporco e torbido.
Ad una prima occhiata generale, avevo notato che non c’erano chiese. In compenso, però, era pieno di bar. C’era una taverna all’angolo di ogni singola stradina che attraversava la città. Città che, a occhio e croce, ospitava circa cinquecento abitanti. Cinquecento persone che vivevano in un luogo dimenticato da Dio. In più, a quanto avevo sentito, era pieno di brutti ceffi là intorno. Criminali di bassa lega che si divertivano a derubare la gente del posto e a spendere i loro novelli bottini in alcol scadente e gioco d’azzardo. Forse era per questo che gli abitanti apparivano così sconsolati. Tutto quello mi ricordava un po’ Mock Town, a Jaya. C’era solo da augurarsi di non incontrare Teach in uno dei tanti bar dell’isola. L’idea di vederlo ingozzarsi di crostate alla ciliegia non mi faceva impazzire, e mi faceva impazzire ancora meno l’idea di morire per mano sua.
«Dobbiamo nascondere le scialuppe. Altrimenti questi delinquenti ce le rubano,» dichiarò Penguin.
Mi stupii della sua previdenza, per una volta aveva detto una cosa giusta. Non che noi non fossimo delinquenti, ma se ci avessero rubato le scialuppe saremmo diventati dei delinquenti senzatetto, e nessuno di noi voleva essere un delinquente senzatetto in quel posto.
 
Una volta messe al sicuro le scialuppe, ci dividemmo in tre gruppi e ci separammo. Ryu sarebbe andato al mercato con alcuni dei nostri compagni e si sarebbe procurato le scorte di cibo, Jean Bart, Bepo ed altri sarebbero andati a fare rifornimento di carburante, mentre io, Law ed il resto dei medici avremmo preso i medicinali. Poi ci saremmo ritrovati tutti dove ci eravamo lasciati, indicativamente due ore dopo.
«C’è uno studio medico più avanti,» affermò il chirurgo, muovendo appena la testa nella direzione in cui dovevamo andare. Come facesse a sapere che c’era uno studio medico più avanti rimaneva un mistero.
«Suppongo che tu non li abbia avvisati del nostro arrivo,» mi lasciai scappare, sogghignando velatamente. Il Capitano mi ignorò.
«L’inventario,» pretese subito dopo.
«L’ho fatto io, Capitano. Ecco ciò che ci serve,» si fece avanti Kenji, porgendo vari fogli al chirurgo.
Giusto. L’inventario. Sorrisi beata. Per una volta non era toccato farlo a me. Non mi era mancato per niente, così come non mi era mancato il check up trimestrale. A quello, però, non ero scampata.
«Andiamo,» ci sollecitò, iniziando a camminare. Cominciavo a sospettare che non piacesse nemmeno a lui stare su quell’isola.
Mi diedi una mossa e lo raggiunsi, cercando di tenere il suo passo. Era raro che tutta la ciurma si ritrovasse sulla stessa isola solo per fare rifornimento, però dovevo ammettere che mi piaceva, nonostante il tetro contesto in cui eravamo capitati. Mi faceva sentire più vicina ai Pirati Heart, sembravamo quasi una famiglia normale.
Osservai di sottecchi Law, l’espressione impassibile ed imperturbabile. Ogni volta che lo guardavo non potevo fare a meno di pensare che fosse bello. C’era qualcosa nell’oscurità che celava dietro agli occhi di ghiaccio che lo rendeva magnetico. Il mio sguardo si posava su di lui, sulla sua espressione dura, sulla sua mascella perfettamente squadrata, e inspiegabilmente mi calmavo. Poi iniziava a parlare e mi faceva innervosire come non mai. Ancora non riuscivo a darmi una spiegazione logica per il repentino cambio di emozioni che mi provocava. Era l’unica persona al mondo che riusciva a farmi un tale effetto.
Mi guardò scettico e io mi schiarii la voce, affrettandomi a distogliere lo sguardo. Le cose andavano meglio tra noi. Aveva capito che sarebbe stato preferibile non mettere il dito nella piaga e da allora mi aveva lasciato stare. Niente più battutine, niente più allusioni. Mi trattava come trattava tutti gli altri. Non avevo ancora compreso se questo mi piacesse o meno, ma supponevo di dover prendere le cose per come venivano.
Ero sempre nervosa, tuttavia molto meno rispetto a prima, e non bevevo quasi più vino. Mi concedevo giusto un bicchiere alla fine della giornata, per rilassarmi e andare a letto con i nervi distesi. Kenji era felicissimo di questa novità; io lo ero un po’ meno, ma come mi avevano ripetuto tutti, lo stavo facendo per il bene della mia salute. Forse questo era l’unico modo in cui sarei riuscita a dimenticarmi di Sabo e della sua “libertà”. Ad ogni modo, le cose erano quasi tornate alla normalità, e dovevo ammettere che quel tipo di – quasi – normalità non era male.
Un rumore sordo e violento mi distrasse dalle mie riflessioni. Ci arrestammo all’istante e ci guardammo intorno, in allerta.
«Uno sparo,» sibilò uno dei medici.
Qualcuno urlò. Più volte. Sembravano grida di disperazione, di paura. Venivano dal vicolo buio alla nostra destra. A quel punto tirai fuori l’ascia, pronta a combattere. Era da un po’ che non la prendevo in mano come arma. Non era pesante come mi aspettavo, però. Anzi, per la prima volta sentivo di poterla padroneggiare come avrebbe dovuto essere padroneggiata, mi sentivo più connessa che mai alla mia Mr. Smee, quasi come se fosse un’estensione dei miei lembi corporei. Dovevo ringraziare Hack per questo.
«Aiutatemi, vi prego!» implorò una voce proveniente dal vicoletto. Era una voce acuta e femminile.
«Restate qui,» ci ordinò Law. Iniziò a camminare in direzione della voce.
Spalancai gli occhi. Come poteva essere tanto incosciente? Provai a protestare, a dirgli che era una cattiva idea, ma la mano di Kenji si posò sulla mia spalla e mi fermò. Lo guardai male.
«Il capitano sa quello che fa.» Si accompagnò con un sorriso rassicurante. Annuii e mi rilassai quel tanto che bastava per non farmi venire i crampi da tensione ai muscoli. Aveva ragione, dovevo stare tranquilla. Eppure non ci riuscivo. Mi aspettavo che dal buio di quella stradina emergesse Doflamingo con il corpo esanime di Law tra le mani. La sua risata gelida risuonò nella mia mente. No. Il Demone Celeste non c’era più. Non era più un pericolo. Presi un respiro profondo per poi buttare fuori tutta l’aria che avevo in corpo. La mano picchiettava contro l’esterno della coscia, lo sguardo era fisso davanti a me, cercava di superare la coltre oscura e di individuare qualche movimento, così come le orecchie tentavano di captare qualche rumore. Una ruga di preoccupazione spiccava sulla mia fronte.
Pochi secondi dopo cominciai a scorgere qualcosa. Una figura stava uscendo dal vicoletto, tra le braccia ne stringeva un’altra, apparentemente priva di sensi. Una terza sagoma, minuta e piegata su se stessa, si trascinava dietro di loro. Trattenni il fiato e tenni a bada i mille pensieri che mi passarono per la testa.
Tirai un sospiro di sollievo nel momento in cui realizzai che Law era sano e salvo. Reggeva tra le braccia un uomo svenuto, mezzo moribondo, la cui testa ciondolava sotto al gomito del chirurgo. Una copiosa quantità di sangue colava dal suo torace fino a formare una chiazza per terra. Anche i vestiti del capitano ne erano impregnati.
«Gli hanno sparato.» I suoi occhi, nel momento in cui lo disse, quasi avevano guizzato dal divertimento. Rimisi a posto l’ascia.
«Chi è stato?» volle sapere uno dei miei compagni.
«Che importa chi è stato! Aiutiamolo!» lo incitò un altro. Tutta l’equipe medica corse incontro al Capitano e prelevò con cautela l’uomo dalle sue braccia.
Aspettarono che lui desse disposizioni.
«Portiamolo allo studio medico. È a duecento metri da qui,» fece, calmo e composto. Poi si incamminò, seguito dal resto dei medici.
Io non li seguii; non subito, almeno. Prima dovevo prendere un po’ d’aria. Appoggiai le mani sulle ginocchia e mi piegai in avanti. Chiusi gli occhi ed inspirai a fondo, nella speranza che tutta quella tensione uscisse dal mio corpo.
Solo quando sollevai le palpebre mi ricordai che c’era una terza figura: una ragazza. Anche lei era rimasta immobile. Aveva i capelli neri e gli occhi castani, una lunga frangetta impara le copriva la fronte madida di sudore. Era piuttosto giovane, le avrei dato circa venticinque anni, ma l’espressione angosciata che aveva sul viso la invecchiava di almeno una decina d’anni. Ci fissammo negli occhi per qualche secondo. Tremava come una foglia, lo sguardo ancora terrorizzato da ciò a cui aveva assistito poco prima. Mi ricordava me, aveva la stessa espressione che avevo io il giorno in cui io e Law ci eravamo imbattuti in Doflamingo.
«Sono stati...» provò a parlare, senza risultato. La vidi raccogliere tutte le forze che le erano rimaste in corpo per riprovarci e la guardai con un velo di compassione. Doveva essere parecchio sotto shock. «Sono stati due masnadieri. Gli hanno sparato perché... perché non aveva soldi con sé. Poi sono scappati.»
Boccheggiai, non sapendo bene che dire. Mi limitai ad annuire con una faccia dispiaciuta.
«È mio marito,» parlò ancora, con un filo di voce. A quel punto, le lacrime iniziarono a rigarle le guance, e la donna si rannicchiò ulteriormente su se stessa, scossa dai singhiozzi. Sembrava aver perso ogni speranza. Conoscevo bene quella sensazione, la sensazione che in un attimo possa scivolarti tutto dalle mani. Un attimo prima stai vivendo la vita dei tuoi sogni, e l’attimo dopo...
Mi avvicinai e le cinsi timidamente le spalle con il braccio. Pian piano iniziammo a camminare verso l’ambulatorio.
«Posso assicurarti che tuo marito è in buone mani,» tentai di rassicurarla. Per un po’ non rispose, sembrava piombata in uno stato di totale assenza mentale, forse per proteggere se stessa dalla pioggia scrosciante di sensazioni orribili che le stava cadendo addosso.
«Voi siete pirati, giusto?» Mi guardò con uno sguardo che non riuscii a decifrare. Non capivo se fosse impaurita, arrabbiata, o più semplicemente confusa.
«Sì, ma siamo anche medici. E in quanto tali, è nostro dovere aiutare le persone,» le spiegai con il tono più dolce che riuscii a fare. Era entrata in una fase in cui aveva bisogno di quante più rassicurazioni possibile.
Smise di camminare e si voltò a guardarmi.
«Allora... vi prego, salvatelo,» mi supplicò, le mani congiunte e le iridi colme di sofferenza.
«Faremo tutto il possibile, te lo prometto.» Nonostante la mia faccia apparisse decisa, non ero del tutto certa di ciò che le avevo appena promesso. Non dubitavo di Law e dei miei compagni, dubitavo di me stessa.
 
«Tu aspetta qui, io vado ad accertarmi delle condizioni di tuo marito,» le dissi una volta che fummo entrate nell’ambulatorio. Era un miracolo che fossimo – anzi, che fossi, dato che la ragazza non mi era molto d’aiuto in quelle condizioni – riuscite a trovarlo. Per fortuna avevo notato l’insegna ed eravamo entrate senza intoppi. Si faceva per dire, visto che avevo dovuto trascinarla per un centinaio di metri a peso morto. Però era piuttosto reattiva, mi aveva persino detto come si chiamava: Lyra, un nome che avevo trovato molto poetico.
Lei annuì e io la lasciai. Non ero del tutto sicura che riuscisse a reggersi in piedi, ma doveva farlo, se voleva informazioni su suo marito.
«Si chiama Olly. Mio marito. Si chiama Olly,» mi fece sapere mentre mi allontanavo. Mi voltai verso di lei ed annuii frettolosamente. Con la coda dell’occhio vidi che si era accasciata su una delle sedie della sala d’aspetto.
Mi feci largo a gomitate tra i dottori dell’ambulatorio – arrabbiati per essere stati sfrattati all’improvviso dalle loro stanze – intimando loro di dare una coperta a Lyra. Poi entrai nello studio medico che per l’occasione era stato adibito a sala operatoria.
«Camilla. Ti stavamo aspettando,» mi informò Law. Sul suo viso c’era un ghigno, ma nella sua voce avevo percepito una punta di fastidio. Non era colpa mia se ci avevo messo tanto. Avrebbero pure potuto cominciare senza di me, non mi sarei di certo offesa. Mi irrigidii nell’esatto istante in cui realizzai perché non avevano iniziato.
Kenji mi fece segno di infilarmi il camice, i guanti e la mascherina. Il paziente era già stato anestetizzato, lo avevano collegato ai monitor e la ferita era stata disinfettata. Gli strumenti, sterilizzati con cura, giacevano in fila su un carrello accanto al lettino. Gli avevano perfino fatto una radiografia al torace. Era tutto pronto. Tutto, tranne me.
«Non c’è foro d’uscita,» mi comunicò il Capitano, tranquillo. Sembrava persino appagato. Mi morsi un labbro fino a farmi male. Quel suo sorrisetto non prometteva nulla di buono. «Sarai tu ad estrarre il proiettile.»
«No,» mi rifiutai. Era quello che temevo più di ogni altra cosa al mondo. Strinsi i pugni fino a far sbiancare le nocche.
«Oh, andiamo, non c’è tempo per battibeccare,» mi rimproverò uno dei miei compagni, infastidito.
«È da tanto che non fai pratica con un essere umano. Ti farà bene.» Il ghigno del Chirurgo della Morte si allargava sempre di più. Lo guardai inorridita. Per lui tagliuzzare carne umana non era altro che puro divertimento.
“Vi prego. Non posso farlo,” provai a obiettare, ma mi resi conto che dalla mia bocca non era uscito niente.
Prima che potessi accorgermene, mi ritrovai con i guanti e la mascherina, solo che non ero stata io a metterli. Me li aveva infilati Kenji.
Qualcuno mi spinse fino al lettino su cui era posizionato Olly e mi mise l’apposita pinza in mano. Secondo tutti i presenti, io avrei dovuto estrarre il proiettile – infilando delle pinze nel corpo di un uomo – in un ambulatorio medico sporco e poco attrezzato, dopo più di sei mesi che non riprendevo in mano uno strumento chirurgico e con un polso che tremava ogni volta che tentavo di compiere anche la più semplice delle procedure. L’ultima cosa non potevano saperla, e non era necessario che venissero a conoscenza di quell’inconveniente. Ecco perché non potevo farlo, non potevo permettere che lo scoprissero.
«Allora?» mi sollecitò un dottore. «Questo tizio non ha tutto il giorno.»
Aveva ragione, quell’uomo non aveva tutto il giorno. Dovevo darmi una mossa, se volevo salvarlo. La domanda era... potevo salvarlo? Ero in grado di farlo?
Presi un respiro profondo, le mie spalle si alzarono e si abbassarono in sincrono con la mia respirazione. Diedi un’occhiata alla radiografia alla mia destra per capire dove fosse situato il proiettile, poi chiusi gli occhi e mi presi un momento per me. Era tutto a posto. Ce la potevo fare. Il proiettile non era in profondità, Olly era stato fortunato: era appena un paio di centimetri sotto l’epidermide. Nessun organo vitale era stato leso e non c’erano frammenti ossei sparsi per il torace. Non c’era niente di più facile che estrarlo. Avevo operato in condizioni ben peggiori, quella in confronto era una stupidaggine.
Tenni le pinze strette nella mano destra, mentre la sinistra la appoggiai sul suo petto per divaricare la ferita. In mancanza di altro, quello era l’unico modo. Separai i lembi con indice e pollice e mi apprestai ad iniziare la procedura. Nel momento in cui le pinze affondarono nella sua carne, il polso iniziò a formicolare. Un rumore sordo risuonò nelle mie orecchie: il crack che aveva fatto quando mesi prima si era spezzato, seguito dalla gelida risata di Doflamingo. Fissai la mano, terrorizzata. Eccolo. Il tanto temuto tremore.
“Stai calma. Non è successo niente. È tutto a posto,” mi dissi, inutilmente.
Una fitta dolorosa mi impedì di continuare. Mi sembrava che il sangue non circolasse più. Aprii e chiusi il palmo più volte, cercando di stabilizzare la circolazione, che in realtà non aveva bisogno di essere stabilizzata. Era tutto nella mia testa.
Mi guardai intorno. I miei compagni mi stavano fissando con perplessità, chiedendosi perché non continuassi, perché avessi quella faccia spaventata, se ci fosse qualche problema. Law, invece, era impassibile, come se avesse sempre saputo quello che stava succedendo nella mia mente.
Deglutii sonoramente e mi imposi di estrarre quel dannato proiettile. La mano tremava ancora, a ogni respiro che facevo mi sembrava che tremasse sempre più violentemente. Sotto la membrana del guanto di lattice potevo vedere il polso diventare di colore giallastro, poi verdolino ed infine violaceo. Percepivo il peso del gesso che per due mesi mi aveva fasciato il polso. Sentivo l’osso scricchiolare, scomporsi e frantumarsi. Stavo ripercorrendo al contrario tutte le fasi della mia frattura. Sollevai la mano. Non era prudente continuare a tenerla così vicina alla lacerazione di Olly. Tremava visibilmente. Tremava così tanto che tutto l’avambraccio oscillava.
«Cami?» mi richiamò Kenji alle mie spalle, apprensivo. Lo sentii fare un passo verso di me. Lo ignorai.
«No...» sussurrai scuotendo la testa, lo sguardo impaurito e sconsolato. «No, no, non lo posso fare,» piagnucolai con voce rotta.
Guardai il Capitano, in cerca di un po’ di conforto o di una rassicurazione, una di quelle che solo lui poteva darmi. Lui, però, non disse né fece niente. Aveva l’espressione seria, dura, come se fosse arrabbiato. E aveva tutto il diritto di esserlo. Ero stata una stupida a pensare di poterlo fare. Avevo messo a rischio la vita di una persona a causa della mia sconsideratezza.
«Cami...» mormorò Kenji, sempre più preoccupato.
Continuai a scuotere la testa, priva di qualsiasi speranza. Le mie iridi erano vuote, come sarebbe stata la mia vita dopo quel momento, dopo che tutti avevano realizzato che non potevo più essere il chirurgo che ero destinata ad essere. Per settimane, dopo il mio ritorno, i Pirati Heart mi avevano osservato in attesa che facessi un passo falso. Ed eccolo lì, il mio passo falso. Alla fine lo avevo compiuto.
«Io...» provai a dire, senza riuscire a trovare la forza per parlare. Recuperai le pinze dal corpo del paziente e le poggiai sul carrello. «Mi dispiace.»
Fissai mortificata uno ad uno tutti i miei compagni, poi schizzai via dalla stanza, strappandomi di dosso camice, guanti e mascherina e cestinandoli. Dovevo uscire da lì. Dovevo andare via da quello studio medico. Avevo bisogno di aria. Tuttavia, non avevo calcolato che una volta uscita dallo studio la fidanzata di Olly mi sarebbe corsa incontro. Sbuffai, infastidita dall’intera situazione.
Lei mi si avvicinò con lo sguardo speranzoso e affranto allo stesso tempo, io volevo solo fuggire via da quel posto maledetto.
«Come sta?» quasi mi supplicò di darle una buona notizia. Intorno a me si raccolsero anche i tre medici che erano stati scacciati dalla loro stanza.
«Io non...» Scossi la testa più volte e mi strinsi nelle spalle, incapace di trovare le parole giuste. «Non...»
«Non?» mi sollecitò avvicinando il suo viso al mio, l’espressione colma di preoccupazione. «Cosa? Cos’è successo!? Dimmelo! Ti prego, dimmelo!» gridò poi, vedendo che non mi decidevo a parlare.
Una ruga di afflizione mi si formò in mezzo alla fronte. Lyra si aggrappò alle mie spalle con tutta la forza che aveva in corpo, poi cadde in ginocchio, disperata, e per poco non trascinò per terra anche me.
«Io lo devo sapere...» mugolò, scossa dai singhiozzi.
In quel momento fu come se tutta la mia angoscia fosse uscita dal mio corpo e si fosse materializzata davanti a me. Quella ragazza rappresentava la mia angoscia, in tutta la sua potenza e in tutta la sua fragilità. Stava cercando di impossessarsi di me e di trascinarmi a fondo con lei. La mano ricominciò a tremare. Non potevo permettere che accadesse di nuovo.
La spinsi via malamente e la poverina ricadde al suolo di sedere con un tonfo.
«Pirati!» sputò uno dei dottori, mentre gli altri due erano andati a soccorrerla.
Corsi via, più in pena che mai, senza curarmi di niente e nessuno e senza dare spiegazioni. Avevo bisogno di prendere una boccata d’aria fresca.
Quando finalmente percepii i raggi solari sulla pelle, inspirai un’enorme quantità d’ossigeno. Non avevo corso per molto, ma ero senza fiato. Allargai le braccia e reclinai la testa all’indietro, come se la brezza che mi accarezzava il corpo fosse una manna dal cielo. Rimasi in quella posizione finché il respiro non si fu regolarizzato. Poi appoggiai la schiena al primo muro che trovai e crollai in terra. Affondai la faccia nelle mani e restai immobile in quella posizione per un tempo indefinito, che mi sembrò interminabile. Non piansi, però. Sapevo che se avessi iniziato a farlo, se mi fossi lasciata andare all’angoscia e al rimorso, non avrei più smesso.
Mi rialzai con un sospiro. Non potevo rimanere tutto il giorno seduta lì, ad auto-commiserarmi. Per fortuna in tutto quel tempo nessuno era venuto a cercarmi. Cominciai a camminare. I miei piedi sapevano da soli dove condurmi. Milioni di dubbi si erano radunati nella mia mente, avevo bisogno di lavarli via, di affogarli in qualcosa. Li avrei affidati al vino. Ancora una volta, stavo scappando dai miei problemi e dalla realtà. Pensavo di aver superato quella fase, di non essere più la ragazzina impaurita che se la dava a gambe di fronte alla prima difficoltà. Invece, eccomi qui, fuggita di nuovo dalle responsabilità.
 
Mi infilai nella prima bettola che trovai. Aveva l’aria squallida e sporca. Tutto, su quell’isola, aveva l’aria squallida e sporca. Era piena di brutti ceffi e gente già ubriaca a metà mattino. Non che li biasimassi, avevo intenzione di fare la loro stessa fine. Guardai in giro per cercare un posto libero, c’era parecchia confusione. Ne individuai uno al bancone e mi affrettai ad occuparlo. Il barista mi guardò male. Sapevo perfettamente cosa stava pensando: si stava chiedendo cosa ci facesse una ragazza tanto graziosa in un posto del genere.
«Ho bisogno di vino. Rosso, preferibilmente,» risposi alla sua domanda implicita, per togliergli lo sfizio. Lui non disse niente, si limitò ad alzare un sopracciglio e a chinarsi per prendere il calice che poco dopo mi posizionò davanti.
Come se tutto quello che era successo non fosse bastato, stavo anche infrangendo la promessa che avevo fatto a Kenji e a tutti gli altri. Sbuffai una risata. Supponevo che non avesse molta importanza, arrivati a quel punto. Al diavolo i buoni propositi. Al diavolo la salute. Al diavolo tutto. Niente contava se non potevo più essere un chirurgo.
«Dammi tutta la bottiglia.»
L’uomo mi squadrò per qualche secondo e si mise a ridere. La rabbia e la frustrazione iniziarono a crescere sempre di più dentro di me e si ingigantirono nel momento in cui fece sapere a tutti i presenti, tra gli sghignazzi generali, che volevo bermi tutta la bottiglia di vino.
Sbattei una mano sul bancone e lo fissai minacciosa.
«Sei sordo, per caso? Ti ho detto di darmi tutta la bottiglia.»
«Ragazzina, tornatene a casa,» mi derise lui, dandomi le spalle e iniziando a pulire un boccale con lo straccio che teneva sulla spalla.
Strinsi i pugni e digrignai i denti, furiosa. Ero stufa di non essere presa sul serio solo perché ero una ragazza giovane e minuta. Era ora di cambiare il modo in cui questi stronzi mi vedevano. Avevo bisogno di vino, e lo avrei avuto, a qualsiasi costo. Avevo chiuso con le buone maniere. Forse non sarei più potuta essere un chirurgo, ma ero sempre un pirata.
Mi tirai su, mi sporsi oltre il bancone e agguantai l’uomo per il grembiule.
«Voglio la mia bottiglia di vino,» affermai con convinzione, lo sguardo deciso e ostile. Il barista rise di nuovo, fomentando la mia ira.
«Avrai il tuo vino quando mi pagherai.» Si accompagnò con un cenno della testa. Era chiaro che mi aveva preso per un’idiota. Sorrisi amabilmente e feci per lasciare la presa, poi però strinsi i lembi del grembiule ancora di più e lo avvicinai a me. Fu un attimo. Con la mano libera sfilai uno dei pugnali dallo stivale e glielo puntai alla gola. L’uomo trasalì e l’intero bar piombò nel silenzio.
«Non farmi perdere tempo. Oggi non sono in vena di mettermi a fare polemiche,» gli feci sapere, con un tono che non ammetteva repliche. «Farai meglio a darmi ciò che ho chiesto. Entro dieci secondi ti assicuro che il mio bicchiere si sarà riempito di un liquido rosso. Ciò che mi chiedo è se tale liquido sarà il vino che desidero... oppure il sangue che sgorgherà dalla tua gola.»
Alzò le braccia in segno di resa, ma non si mosse.
«Allora? Hai intenzione di accontentarmi e darmi quella dannata bottiglia o devo prendermela da sola, insieme alla tua insulsa vita?» Premetti di più il mio pugnale sulla gola del barista per fargli arrivare il messaggio. Una goccia di sangue scivolò sulla lama argentea. L’uomo deglutì sonoramente e si apprestò – finalmente – a consegnarmi la bottiglia di vino.
Annuii compiaciuta, poi presi in prestito il suo straccio e ripulii la lama del pugnale, che subito dopo riposi nella tasca dello stivale. Lo ringraziai e gli sorrisi cordialmente, dopodiché mi rimisi seduta e iniziai a bere senza risparmiarmi, sotto lo sguardo attonito di tutti i presenti, che si chiedevano l’un l’altro chi fossi. Avrei risposto, se lo avessi saputo.
 
Avevo bevuto appena un quarto della bottiglia. Il chiacchiericcio della gente si era placato al mio terzo o quarto sorso, dopo che avevo guardato male chiunque avessi udito fare il anche il più piccolo riferimento a me. Dovevo ammettere che non era male essere temuti. Dava un senso di ebbrezza e in qualche modo mi faceva sentire potente. Ne avevo bisogno, quasi quanto avevo bisogno del vino.
La porta d’ingresso della taverna scricchiolò e una folata di vento invase il locale. Tutti si girarono verso la figura che era appena entrata, sgranando gli occhi ed assumendo un’espressione terrorizzata. Sospirai. Non c’era bisogno che mi girassi per sapere chi fosse la fantomatica sagoma che stava in piedi sull’uscio dell’osteria.
«Q-quello è...» balbettò qualcuno, incapace di finire la frase.
«Il Chirurgo della Morte,» continuò un altro, inorridito.
«Che ci fa qui?» chiese un terzo, ancor più intimorito dalla sua presenza.
Il barista di fronte a me sollevò di nuovo le braccia, mentre io alzai gli occhi al cielo.
«Non voglio problemi,» affermò, fissando un punto imprecisato alle mie spalle.
Non mi girai. Invece, iniziai a tamburellare le dita sulla superficie lignea del bancone, infastidita. Volevo solo stare in pace per un po’ di tempo, mi serviva qualche ora per me stessa, per cercare di ricostruire qualcosa dalle macerie di quello che era rimasto, oppure per demolirlo del tutto. E lui mi aveva negato anche questa possibilità. Ora che mi aveva trovata, di sicuro mi avrebbe riportata sul sottomarino, non prima di avermi fatto una ramanzina con i fiocchi, ovviamente. Figurarsi se me l’avrebbe fatta passare liscia per aver messo in pericolo un paziente ed essere scappata nel bel mezzo della procedura.
C’era così tanto silenzio che riuscivo a sentire i suoi passi. Stava venendo verso di me. Si fermò alle mie spalle, a circa un metro di distanza. Non mi mossi.
«Sei venuto a sgridarmi per la mia mancanza di senno?» gli chiesi, piegando la testa da un lato. «Oppure sei venuto a rinfacciarmi l’errore che ho commesso?»
Contrariamente alle mie aspettative, non rispose. Non emise nemmeno un fiato. In compenso, però, il vociare delle persone ricominciò. Si chiedevano che cosa avessi da spartire con lui. Evidentemente non avevano letto gli articoli che circolavano su di noi. Meglio così, non volevo essere additata come la fidanzata psicopatica di Law, né volevo che lui mi facesse la predica in pubblico.
«Si riprenderà?» gli domandai, sempre senza voltarmi. Preferivo cambiare argomento. Dovevo sapere come era andata a finire, anche se una risposta negativa mi avrebbe dato il colpo di grazia.
Ancora una volta, evitò di replicare. Ripresi in mano la bottiglia e ingollai una modesta quantità di vino. Era morto. Olly era morto. Lo sapevo. Poteva salvarsi, e invece era morto, per colpa mia. Perché non avevo saputo aiutarlo, perché il mio stupido polso aveva iniziato di nuovo a tremare. Dannazione! Feci per sbattere violentemente il pugno sul bancone, quando finalmente il Capitano decise di parlare.
«Sì,» mi rispose, dopo infiniti secondi di angoscia.
Distesi le dita e tirai un sospiro di sollievo. Poi bevvi altro vino, per lavare via la tensione che si era creata.
«Come pensavi di pagarla?» volle sapere, riferendosi alla grossa bottiglia che stringevo tra le dita. Non potevo vederlo, ma dal tono che aveva sembrava piuttosto divertito.
Alzai le spalle, completamente noncurante.
«L’ho già pagata risparmiandogli la vita.» Indicai il barista con un cenno della testa. Quello spalancò gli occhi e deglutì.
«V-vi ho già detto che non voglio problemi,» farfugliò, guardando prima me e poi il mio Capitano. Lo ignorammo entrambi.
«Vieni con me,» mi ordinò. Stavolta nella sua intonazione c’era ben poco di divertito.
«No.» Scossi la testa. Non ero proprio in vena di stare a sentire una delle sue ramanzine. «Non ne ho voglia.»
«Vieni con me,» ripeté con più convinzione. Sbuffai, senza preoccuparmi di nascondere il mio fastidio.
«Ti consiglio di obbedire al mio ordine.»
Lasciò una manciata di Berry sul tavolo e se ne andò. Quando si era capovolta la situazione? Quando era diventato lui quello onesto? La questione doveva essere più grave del previsto.
L’oste era teso come una corda di violino, al punto che non prese nemmeno le monete davanti a sé. Alla fine capitolai e decisi di seguire il chirurgo, abbandonando – con grande fastidio e ancor più disappunto – la bottiglia di vino sul bancone. Non avevo comunque altra scelta.
 
Law mi prese la mano sinistra tra le sue e ne accarezzò il palmo con il pollice. Prima lo fissai sorpresa, poi assunsi l’aria da cane bastonato.
Ci eravamo seduti su uno dei pontili del molo, in un posto isolato sul lato opposto dell’isola rispetto al punto in cui dovevamo ritrovarci con gli altri ed eravamo rimasti in religioso silenzio per vari minuti, con le gambe penzolanti. C’era da dire che non me lo aspettavo. Non mi aspettavo che il moro facesse una cosa del genere. Ero sicura che una volta usciti dal bar avrebbe iniziato ad inveirmi contro e a rimarcare quanto fossi stata stupida e irresponsabile. Invece non lo aveva fatto. Si era limitato a sedersi sul freddo legno della banchina portuale e a contemplare l’orizzonte in silenzio. Nel momento in cui strinse il mio polso tra le dita mi divincolai dalla sua presa e lo guardai stizzita.
«Tu lo sapevi. Te ne eri accorto. Ti accorgi sempre di tutto,» affermai, sbuffando una risata subito dopo e distogliendo lo sguardo.
«Per quanto credevi di poterlo tenere nascosto?» Mi parve seccato, come se gli desse fastidio il fatto che avessi pensato di poterlo ingannare.
«Onestamente? Non lo so. Speravo di riuscire a occultarlo ancora per un po’. Ma suppongo che fosse inevitabile, prima o poi sarebbe dovuto succedere.» Sorrisi amaramente. «È solo che non volevo che qualcuno lo scoprisse. Non volevo che il mio problema diventasse reale. Non volevo che i miei sogni andassero a puttane così.»
Per un altro po’ nessuno parlò. L’unico rumore che si sentiva era lo sciabordio delle onde che si infrangevano contro il molo e le barche ormeggiate lì.
«Doflamingo aveva ragione,» affermai sconsolata. «Ora capisco che cosa voleva dire.»
Il chirurgo mi guardò male, come se la mia frase fosse stata un fulmine a ciel sereno.
«Pensavo che lo sapessi. Ero convinta che Sabo te lo avesse detto, visto che in questi mesi vi siete tenuti in contatto.» Lo osservai stupita. Non aveva l’aria di una persona che fosse a conoscenza degli eventi. A quanto pareva, qualcosa sfuggiva anche a lui. «Sono andata a fargli visita mentre era nelle prigioni sotterranee,» confessai infine, pressata dai suoi sguardi inquisitori.
«E perché avresti fatto una cosa del genere?» La sua espressione era impassibile, ma avevo imparato a conoscerlo, e sapevo che stava iniziando ad arrabbiarsi. Credeva che avessi fatto una stupidaggine scegliendo di vedere il mostro che mi aveva rovinato la vita. Anzi, che ci aveva rovinato la vita. Credeva che avessi sbagliato, che avessi compiuto un gesto avventato. Ma non era così, era lui a sbagliarsi.
«Perché avevo bisogno di farlo. Avevo bisogno di vedere con i miei occhi che stesse soffrendo e di assicurarmi che non potesse più farci del male,» gli spiegai, rimanendo sorprendentemente calma. Avevo fatto la cosa giusta, ne ero ancora convinta. Se non lo avessi fatto me ne sarei pentita, perché avevo bisogno di accertarmi che, per una volta, in quel dannato mondo fosse stata fatta giustizia.
Un gabbiano emise uno stridio, come a confermare che le mie motivazioni fossero valide.
«Non sono come te, Law. Tu ti sei lasciato tutto alle spalle, sei tornato sul sottomarino e hai fatto finta che non fosse successo nulla. Io avevo bisogno di conferme per riuscire a dormire sonni tranquilli la notte, per andare avanti,» ripresi a parlare, con un sapore amaro in bocca. «Però, in una cosa siamo simili.»
Presi un respiro profondo e raccolsi tutto il coraggio necessario per dire quello che stavo per dire. Percepii le sue iridi grigie su di me, forse incuriosite, forse seccate.
«Nessuno di noi due sta bene,» affermai, torturando nervosamente le dita della mano destra. Non mi sembrava saggio aggravare la situazione dell’altra mano, già appesa a un filo. Il Capitano si abbandonò ad una risata pacata.
«No. Non farlo. Non ridere. E non prenderti gioco di me, o di te stesso,» lo rimproverai seria, lanciandogli uno sguardo affilato.
«Cosa te lo fa credere?» mi chiese, ghignando spavaldo. Poteva fingere tutta la sfrontatezza che voleva, io ci non cascavo più. Così come io non potevo ingannare lui, lui non poteva ingannare me con i suoi giochetti.
«Sai, non sei l’unico che nota le cose. Io l’ho visto. L’ho visto mentre Doflamingo ti colpiva e tu reagivi a malapena. L’ho visto nei tuoi occhi. Vuoti. Erano... completamente vuoti. E lo sono ancora, sono ancora un po’ vuoti. Ma suppongo che questo sia il tipo di vacuità che non svanisce mai del tutto, per cui non ti biasimo.» La voce era appena incrinata. Il Demone Celeste mi aveva causato tanta sofferenza, ma le immagini che avevo di Law che si lasciava sopraffare dalla mancanza di speranza e si preparava a morire erano peggio.
Da quando aveva letto la notizia che il fenicottero era riuscito ad evadere di prigione, il Capitano si era rassegnato alla propria morte. Era convinto che quella sarebbe stata la sua fine. E adesso, che invece era libero dai suoi demoni, non sapeva cosa fare. Quasi non riusciva ad accettarlo. Forse si sentiva perso, forse si sentiva in colpa – ingiustamente, perché era stata una mia decisione – per aver trascinato anche me in quella storia, in quell’abisso senza fine. Quello che era certo era che non stava bene. C’era qualcosa di diverso in lui, che prima, quando stavamo alla Base, non avevo notato, ma che ora invece mi sembrava talmente palese che il suo malessere aveva preso la forma di un’immaginaria insegna luminosa sulla sua testa. Il fatto che non avesse detto una parola mi confermò che avevo ragione; anche se non era da escludere che più semplicemente non avesse voglia di addentrarsi in un discorso tanto oscuro.
«Mi dispiace di non esserci stata per te in questi mesi,» mi rammaricai, stavolta sostenendo il suo sguardo.
«Smettila di dispiacerti. Non tutto il mondo ha bisogno di te,» mi riprese, tagliente.
«Lo so,» mi affrettai a replicare. «Ma tu non sei tutto il mondo. Io ho sentito e condiviso parte del tuo dolore. Forse avremmo potuto aiutarci a vicenda.»
Gli sorrisi flebilmente e lui fece una smorfia indefinita.
«Mi pare che tu ti sia aiutata fin troppo in questi mesi.» Mi rivolse un ghigno eloquente. Sbuffai ed alzai gli occhi al cielo. Poi, però, decisi di stare al gioco.
«Continui a ritornare sempre sullo stesso argomento. È chiaro che sei geloso. Del resto, ho sempre saputo che tu avessi un debole per i biondi.» Trattenni a stento una risata e lo osservai. Tornai seria nel momento in cui vidi che gli occhi di Law erano assenti. Sembrava pensieroso.
«Camilla,» mi richiamò. «C’è una via d’uscita, a questa situazione.»
Mi lasciò attonita. Non ero sicura di aver sentito bene. Quelle parole provenivano davvero dalla sua bocca? Le aveva dette lui? A me, poi?
Boccheggiai, incapace di mettere insieme qualsiasi frase che avesse un senso compiuto. Era come se quelle parole avessero acceso un faro di speranza, soprattutto perché era stato Trafalgar D. Water Law – sedicente realista, ma nella realtà pessimista – a dichiararle. E le aveva spese per me. Le parole forse più significative che gli avessi mai sentito pronunciare, le aveva spese per me, per cercare di confortarmi e di donarmi una nuova prospettiva di vita. Quasi mi sentivo in colpa a non credergli. Perché lui era l’esempio lampante che non era così, che una via d’uscita, per quanto la si potesse cercare, non sempre esisteva. Quando lo guardavo, un milione di cose me lo suggerivano. Le sue iridi svuotate e gli incubi notturni che talvolta infestavano il suo sonno, ad esempio. Evitai di farglielo presente, però. Non volevo rovinare quel momento solenne.
Riprese il mio polso tra le sue mani e cominciò a massaggiarlo con vigore, ma senza farmi male. Le sue dita gelide scorrevano sulla mia pelle, solleticandola e provocandomi dei piccoli brividi.
«Sarebbe un peccato sprecare un talento come il tuo,» soffiò, tornando a ghignare fieramente.
Lo osservai sorpresa, poi sorrisi, grata e compiaciuta. Quindi Law credeva che avessi talento, e lo riconosceva. Era già un passo avanti. Non che ciò mi consolasse molto, se il mio polso non fosse tornato a funzionare correttamente avrei dovuto appendere il bisturi al chiodo. Fu con questo pensiero che ritornai malinconica.
«Farai fisioterapia con Kenji,» mi annunciò poi, tornando impassibile. Corrugai la fronte, dubbiosa.
«Non penso che mi serva questo tipo di terapia,» provai a obiettare, consapevole che era tutto inutile. Ormai aveva già preso la sua decisione e decretato il verdetto. «E poi, perché devo farla proprio con Kenji?»
L’idea non mi andava molto a genio. Avrei preferito la fermezza e la durezza di Hack alla dolcezza e premura di Kenji. Mi serviva qualcuno di deciso, qualcuno che mi spronasse come aveva fatto l’uomo-pesce. Tra l’altro, ormai era palese che il ragazzo avesse una cotta per me, quindi non era consigliabile passare troppo tempo insieme. Non volevo illuderlo, né tantomeno ferirlo, non se lo meritava.
Law fece per parlare, ma io lo precedetti.
«Sai che c’è? Non mi importa. Voglio solo riprendere il controllo di me stessa. Perciò farò tutto il necessario perché ciò avvenga.»
Dopotutto, lo dovevo a me stessa. Avessi dovuto attraversare l’Inferno per realizzare il mio sogno, lo avrei fatto. Avrei fatto qualsiasi cosa, e sarei riuscita nella mia impresa. A qualunque costo.
Il chirurgo ghignò, nel suo gesto percepii una lieve fierezza, dopodiché appoggiò le mani dietro di sé e reclinò appena la schiena, lasciandosi scompigliare i capelli dalla brezza leggera che aleggiava sul molo. Rimanemmo in silenzio per qualche altro minuto, lui intento ad osservare il panorama, io persa nei miei pensieri.
Presi un respiro profondo e mi accinsi a parlare. Dovevo saperlo. Dovevo sapere se credeva veramente a quello che mi aveva detto poco prima. Non parlava mai a sproposito, ponderava ogni termine e sceglieva con cura i vocaboli, ma stavolta ero convinta che le sue parole fossero soltanto una mera illusione, creata apposta per me, perché ritrovassi un po’ di fede. Perché... forse per il mio tremore al polso c’era una soluzione, ma per il resto? Per lui?
«Pensi davvero che ci sia una via d’uscita?» gli domandai, contemplando l’oceano davanti a noi, che come me era un po’ irrequieto.
«A volte, c’è.» Aveva atteso alcuni secondi per rispondere, come se fosse riluttante all’idea di pronunciare quelle parole, ma con la consapevolezza di doverlo fare.
«Credi che esista una via d’uscita per te?»
Aspettai un paio di minuti, ma Law non fiatò. Mi dedicò una fugace ed inespressiva occhiata, e null’altro.
«È ora di tornare dagli altri. Ci stanno aspettando,» si limitò a dire, facendo leva su una mano e tirandosi su.
Prima di fare lo stesso, mi abbandonai ad una piccola risata nervosa, poi annuii al vento. Sapevo benissimo che cosa significava quel silenzio. Avrei dovuto immaginarmelo. Il Chirurgo della Morte non era il tipo di persona a cui piaceva raccontare stronzate.

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Capitolo 5
*** Fisioterapia ***


Sbuffai, senza preoccuparmi di apparire infastidita. Lo ero, e anche visibilmente.
«Kenji, nutro una cieca fiducia nei tuoi confronti, ma sono dieci giorni che mi fai stringere una pallina con la mano. Non credo che questo mi sia molto d’aiuto,» protestai, picchiettando un piede sul pavimento. «E poi, io non ho un problema al polso.»
Il rosso mi fissò con sguardo eloquente, sollevando le sopracciglia. Roteai gli occhi e sbuffai di nuovo.
«Ok, ce l’ho, ma non è un problema di natura fisica.» Gli lanciai la pallina con una certa violenza e lui la prese al volo. Non ne potevo più, a furia di stringere quell’affare mi erano venuti i crampi alle dita.
Dieci giorni prima avevo iniziato a fare la fisioterapia – se così si poteva chiamare – con Kenji, nel tentativo di riacquistare la piena funzionalità del polso. Quando eravamo tornati sul Polar Tang, Law si era affrettato a comunicare gli ordini al ragazzo, che si era detto ben felice di iniziare questo percorso con me, soprattutto dopo che il chirurgo lo aveva indottrinato ben bene su quello che era il quadro generale della situazione. Io non ero entusiasta quanto lui, ma cercavo lo stesso di pensare positivo. Solo che erano dieci giorni che mi faceva strizzare una dannata pallina rossa, simile alle palline antistress, tra le dita, per due ore al giorno, e non vedevo uno straccio di miglioramento. Anzi, non vedevo proprio come quello potesse aiutarmi: non c’era nulla che non andasse nella mia mano, il problema era nella mia testa, era lei a scatenare il tremore.
«Lo so. Ho visto le radiografie. L’osso si è risanato alla perfezione. Dal punto di vista medico sei guarita. Devi solo convincertene,» affermò, addolcendo la sua espressione.
Abbassai lo sguardo, per non farmi vedere da lui. Le sue parole mi fecero bruciare gli occhi per un attimo. Aveva ragione, ma aveva anche torto. Ero guarita, fisicamente, dovevo “solo” convincermene. Il problema era che non potevo farlo, perché psicologicamente non ero guarita. Per tutto il tempo in cui ero rimasta dai Rivoluzionari avevo evitato di affrontare il problema. Avevo usato Sabo come diversivo, mi aveva fatto da cerotto. Adesso però il cerotto non c’era più, e non c’era più nulla a coprire la ferita, ancora visibilmente aperta, che mi portavo dietro da mesi. Come facevo a farla richiudere?
«È questo il punto. Non so se riesco a convincere me stessa di essere guarita,» replicai, lo sguardo sempre basso. Non era facile per me aprirmi con Kenji. Dopo due anni eravamo diventati amici e gli volevo un gran bene, come lo volevo a tutti gli altri, ma c’era qualcosa che mi impediva di confidarmi con lui. Forse era perché i suoi occhi erano colmi di innocenza, proprio come quelli di un bambino, e non volevo essere io a rovinare l’espressione dolce che aveva.
Si chinò e mi poggiò delicatamente una mano sul ginocchio. Poi alzò la visiera del suo cappello, in modo che le sue iridi verdi si incastonassero alle mie ambrate. Non ci avevo mai fatto caso, perché erano sempre stati nascosti da quella specie di basco che portava, ma aveva dei begli occhi, di un verde acqua purissimo.
«Sono qui per questo. Ti aiuterò io.» Le sue dita strinsero appena il mio ginocchio. Ci fissammo per qualche attimo, senza dire una parola. Non smise nemmeno per un secondo di avere un’espressione speranzosa.
Piegai un angolo della bocca all’insù e feci un mezzo sorriso.
«Se ci riesci, ti faccio una statua,» scherzai, facendolo ridere.
«Vedrai, ci riuscirò,» dichiarò convinto. Poi mi porse di nuovo la pallina e io la presi con riluttanza. «Stringi la pallina.»
Obbedii. Durante quelle due ore in cui stavamo chiusi in infermeria a fare riabilitazione il capo era lui e dovevo fare come mi diceva, volente o nolente. Se poi era convinto di essere in grado di farmi passare quel disabilitante tremore al polso, non avevo altra scelta.
 
***
 
Vidi Kenji appoggiare i fianchi alla scrivania e incrociare le braccia con aria spavalda.
«Credo che tu sia pronta,» affermò soddisfatto.
«Per cosa?» gli chiesi, perplessa. Forse, dopo dodici giorni di pallina, si era deciso a farmi cambiare esercizio.
Mi stavo già preparando a sbarazzarmi di quella maledetta pallina, quando lui parlò di nuovo, e ciò che disse mi lasciò di sasso.
«Raccontami quello che è successo il giorno in cui tu e il Capitano vi siete scontrati con Doflamingo.»
Spalancai gli occhi. Non me lo aspettavo. Non me lo aspettavo minimamente. Non da lui, almeno.
Ancora con la palla di gommapiuma in mano, mi alzai e mi diressi verso l’uscita della stanza. «Preferirei non parlarne.»
Per quanto mi riguardava, quella “seduta” poteva pure concludersi lì. Il rosso, però, non era della stessa opinione, infatti si frappose tra me e la porta, impedendomi di andarmene.
«Rimettiti seduta, per favore. E continua a strizzare la palla,» mi impose, serio ma non grave. Quando cercava di impartire degli ordini appariva sempre più dolce di quanto non fosse una qualunque altra persona.
Sospirai sconsolata e mi rimisi seduta sulla piccola sedia scricchiolante. Supponevo che avrei dovuto parlargliene. Dopotutto era lui il medico. E poi me lo aveva chiesto con un garbo che nessun altro aveva mai avuto. Solo per questo dovevo almeno starlo a sentire.
Presi un respiro profondo e lasciai che la mente venisse invasa dai ricordi di quel giorno buio, aprendo e chiudendo le dita attorno alla palla. Mi ricordai del momento esatto in cui il Demone Celeste mi aveva spezzato il polso. Ripensai al rumore sordo che aveva fatto l’osso e al dolore lancinante che lo aveva seguito, che mi aveva tormentato per tutto il tempo ed era esploso nel momento in cui Doflamingo lo aveva calpestato senza pietà. E poi rivissi la paura che avevo provato al pensiero di non poter più essere un chirurgo, le speranze che mi avevano abbandonato nel momento in cui avevo abbassato lo sguardo e avevo visto che era diventato violaceo. Era così tumefatto che il sangue non circolava più.
Ritornai alla realtà spalancando gli occhi, terrorizzata. Lo sentii arrivare. Il tremore. La mano iniziò a formicolare e prima che potessi accorgermene la pallina cadde in terra.
«Dannazione!» sibilai a denti stretti, sbattendo il pugno della mano destra sulla scrivania. Tutti gli oggetti che vi si trovavano sopra oscillarono pericolosamente. Kenji si affrettò a raccoglierla e me la porse.
«Va bene, va bene,» fece, annuendo. Nei suoi occhi c’era un luccichio, come se secondo lui stessi facendo progressi. «Se non me ne vuoi parlare non importa. Continua a ricordare e stringi la pallina.» Mi appoggiò una mano sulla spalla. Me la scrollai di dosso, non avevo bisogno della sua pietà.
Tornai a concentrarmi sulla battaglia e tentai di rievocarla quanto più vividamente potevo. Avevo capito la strategia di Kenji: voleva farmi rivivere il trauma mentre il mio polso veniva attivamente stimolato, cosicché potessi superarlo e liberarmi dal tremore – che non era altro che una manifestazione psicosomatica dello shock a cui ero stata sottoposta – una volta per tutte. Era faticoso e doloroso, ma dovevo farlo, o perlomeno tentare.
La mano iniziò anche a farmi male, ma non demorsi e strinsi la pallina con tutta la forza che riuscii a trovare. Chiusi gli occhi, immergendomi appieno in quegli istanti infelici. Ripensai alla paura che mi aveva paralizzato. A tutta la forza e tutto il coraggio che mi ci erano voluti per intervenire. A quanto mi ero sentita impotente nel vedere il Capitano immobile ed esanime, nell’osservarlo esalare l’ultimo respiro senza che potessi fare nulla. A quanto mi ero sentita piccola, debole e fragile di fronte alla potenza del fenicottero. All’umiliazione che avevamo subito su quel viale alberato. A quanto dolore avevo sopportato, per il bene di Law. Agli anni di vita che avevo perso per cercare di guarire. Era stato tutto inutile, per entrambi. Perché nessuno dei due si era ripreso. L’impatto di quello scontro era stato devastante, troppo violento per noi, troppo grande perché potessimo reggere un tale colpo. Io ero stata colta impreparata, e adesso mi ritrovavo a fare i conti con la mia avventatezza, mentre il chirurgo si era dovuto scontrare con i suoi demoni ancora una volta, e alla fine aveva ceduto all’oscurità.
Un velo di lacrime si formò attorno alle mie iridi. Lasciai andare la pallina, che rotolò di nuovo per terra. Era così ingiusto. E la cosa assurda era che mi dispiaceva più per lui che per me stessa, perché io stavo ancora cercando di combattere, dentro di me c’era ancora una piccola scintilla, la scintilla che rappresentava il desiderio di rivalsa; mentre Law, la sua, l’aveva persa. Non c’era più una briciola di speranza in lui. Non lo dava a vedere, ovviamente, ma sia io che lui lo sapevamo bene. Lo avevo visto. Avevo visto la fede abbandonare il suo corpo per lasciare spazio alla resa, alla rassegnazione, alla sfiducia che ormai nutriva nei confronti del mondo e della vita. E mi sentivo di nuovo impotente, perché non sapevo come aiutarlo.
All’improvviso, Kenji si chinò verso di me e mi abbracciò. Rimasi interdetta da quel suo gesto, che per uno come lui mi sembrava fin troppo audace.
«Mi dispiace così tanto...» sussurrò, forse più a se stesso che a me. Poi appoggiò il suo mento sulla mia spalla e mi posò una mano sulla nuca, accarezzandomi i capelli. Fu in quel momento che capii perché Law avesse assegnato quell’incarico proprio a lui: Kenji era l’unico che tenesse tanto a me da avere la determinazione che ci voleva per portare a termine quel compito infausto, e allo stesso tempo era anche l’unico ad avere la sensibilità necessaria per capire quando era meglio fermarsi. Sapeva essere fermo e irremovibile, ma non era mai severo, né mi forzava a fare cose che non ero pronta a fare. Era la persona più adatta per aiutarmi e farmi guarire.
Mi tenne stretta a sé per diversi minuti, senza allentare mai la presa. Il suo corpo sovrastava il mio, ma il suo abbraccio era delicato e confortevole. Mi aveva accolta tra le sua braccia e io glielo avevo lasciato fare. In quel momento, con quell’abbraccio, percepii qualcosa. Percepii che non avrebbe mai permesso che soffrissi di nuovo come avevo sofferto quel giorno. Non voleva che mi accadesse nulla di male, e mi avrebbe protetta a costo della vita, se necessario. Era un abbraccio pieno di rimpianto, per non essere stato con me nel giorno in cui Doflamingo ci aveva attaccato, un abbraccio che suggeriva che non sarebbe mai più accaduto. Mi chiesi se questo fosse l’effetto dell’amore sulle persone, o se invece fosse pura e semplice solidarietà tra compagni. Supponevo che non avesse poi molta importanza, perché quello era il mio dolore e non era giusto che se ne facesse carico lui, né era giusto che si sentisse in colpa per non essere stato presente. Era andata come era andata, e nessuno era da incolpare per quanto successo.
Gli diedi una leggera pacca sulla schiena, per comunicargli implicitamente che l’abbraccio stava durando un po’ troppo e che era arrivato il momento di staccarci.
Mi alzai dalla sedia, sorridendo.
«Che ne dici se ci prendiamo una pausa?» gli proposi. Lui, visto il suo evidente imbarazzo – aveva la faccia rossa come un pomodoro ed evitava il mio sguardo – accettò di buon grado.
 
Aprii il frigo, consapevole che lì dentro si celava la mia unica fonte di sostentamento, l’unica cosa che mi permettesse di sopportare la fisioterapia e gli orribili ricordi che mi scatenava. Dei passi risuonarono dietro di me e mi voltai appena per capire chi fosse entrato in cucina.
«Capitano,» lo salutai, tornando a concentrarmi sul frigorifero.
«Sottoposta,» replicò atono. «Come sta andando la riabilitazione?» chiese poi, recuperando una tazza e versandosi del caffè. Quando erano gli altri a volerlo, stranamente la brocca era sempre piena. Se invece lo volevo io, non c’era mai. Un po’ come il vino, che non riuscivo a trovare da nessuna parte.
«Bene,» mi limitai a dire, intenta a cercare ancora una volta la bottiglia tra i ripiani del frigo.
«Stai facendo progressi?» chiese ancora. L’odore di caffè aveva invaso la stanza. Sentii una delle sedie strisciare appena sul pavimento: si era messo seduto.
«Più o meno.»
Ero troppo impegnata per mettermi a chiacchierare, ma soprattutto non volevo affrontare quella conversazione. Non ci tenevo affatto che Law venisse a sapere tutti i retroscena di ciò che succedeva nell’infermeria. Apprezzavo che si interessasse a me, solo che avrei voluto parlare di altro, magari di argomenti più leggeri, adatti ad una pausa caffè. O vino, nel mio caso, se solo lo avessi trovato.
«Cerchi qualcosa?» Percepii una punta di divertimento nella voce del Capitano, che non mi faceva pensare a nulla di buono.
«Sì. La bottiglia di vi...» Mi interruppi nell’esatto istante in cui realizzai. Assottigliai gli occhi e mi girai verso di lui. «Dov’è?»
In risposta, ghignò.
«Non è divertente,» lo rimproverai, cercando di contenere la mia furia. Il vino era tutto ciò che rimaneva di positivo nella mia vita. Ne avevo bisogno. Se venivo privata anche di quello, potevo pure andare a gettarmi direttamente in mare.
«No, infatti.» Bevve un altro sorso di caffè.
«Che ne hai fatto?» Iniziavo a sentire la rabbia dilagarsi nel mio corpo.
«L’ho affidata al tuo medico curante,» rispose, in tutta tranquillità. Spalancai gli occhi, più indignata che sorpresa.
«A Kenji!? E perché!?» Mi avvicinai pericolosamente a lui.
«Ti ho fatto un favore.» Continuò a bere il suo caffè come se nulla fosse.
«Un favore!? Molto probabilmente Kenji ha buttato tutto il vino in mare! Tu mi hai privato dell’unica cosa in grado di...»
«Calmati,» mi interruppe, categorico. Poi sogghignò. «Prendilo come un incentivo.»
Presi un respiro profondo, cercando di non cedere alla furia omicida di cui ero preda.
«Un incentivo per cosa, esattamente?» Mi portai le mani ai fianchi. Non ne capivo il senso.
«Vuoi ritornare ad essere un chirurgo?» Incastonò i suoi occhi glaciali ai miei. Era tornato serio.
Capii subito dove voleva andare a parare. Maledetto Law. Maledettissimo Law. Feci una smorfia indefinita, l’unica che in quel momento di fastidio riuscii a fare.
«Tu mi vuoi dire che hai deciso di proibirmi di bere vino fino a che il mio polso non avrà smesso di tremare?» indagai, con un filo di voce. Non avevo paura di venire a conoscenza della risposta, perché sapevo bene qual era. Avevo paura di non riuscire a contenere l’ira che stava prendendo possesso di me.
«Prendilo come un incentivo,» ripeté, stringendosi appena nelle spalle.
Dopo un primo momento di sbigottimento, mi misi a ridere. Risi per esasperazione. Un incentivo. Lui riteneva che negarmi il vino fosse un incentivo. Ma cos’era, un complotto contro di me!? Prima avevo dovuto rinunciare al sesso con Sabo, al meraviglioso e rigenerante sesso con Sabo; e ora anche questo!? Dove diavolo ero capitata!? Ad Impel Down!? Nemmeno con i prigionieri della prigione subacquea più famosa al mondo erano tanto crudeli! Law aveva adottato lo stesso metodo per cui aveva optato Mihawk per addestrare Zoro. Io però non ero mica lo spadaccino, accidenti a lui! Oltre al danno, la beffa. Non potevo farcela senza vino.
Il Capitano si alzò e posò la sua tazza vuota nel lavello. Poi si diresse verso l’uscita della cucina senza darmi il tempo di ribattere.
«Io ti odio!» gli gridai. «Ti odio! Ti odio, ti odio, ti odio!»
Ovviamente, non si voltò. Continuò a camminare imperterrito.
«Smettila di comportarti da bambina e torna al lavoro.»
Scoppiai di nuovo a ridere, non sapendo che altro fare.
Alla fine mi ritrovai da sola in quella che, ora che non potevo più usufruire del vino, era appena diventata la mia personale camera degli orrori.
«Mi vendicherò...» sibilai velenosa, fissando la porta con sdegno. «Eccome, se lo farò. Dovesse essere l’ultima cosa che faccio.»
Mi guardai intorno, leggermente spaesata. Senza la preziosa sostanza inebriante di Bacco a mia disposizione, non sapevo che cosa ci facessi in quella dannata cucina. Optai per il caffè, non mi restava che quello.
Recuperai la mia tazza arancione dal mobile e poi presi la caraffa per versarci dentro un po’ del liquido scuro. Sbuffai una risata. C’era da aspettarselo. Vuota. La caraffa era vuota. Abbandonai tutto sul ripiano più vicino, poi allargai le braccia e le feci ricadere flaccidamente lungo i fianchi. Perché mi ostinavo a sperare che il caffè non fosse finito, quando arrivava il mio turno di berlo?
 
Soffiai sul liquido scuro contenuto nella mia tazza. Dopo che avevo dovuto rifarlo, ci mancava solo che mi ustionassi la lingua per berlo. Le mie dita tamburellavano nervosamente sul tavolo. L’idea che non avrei potuto sorseggiare il mio amatissimo vino fino a che non fossi guarita proprio non mi andava giù. In tutti i sensi. Almeno, però, mi rimaneva il pane. Una magra consolazione, ma pur sempre una consolazione. Non lo avrei più condiviso – o meglio, barattato in cambio di favori – con nessuno. Mi sarei tenuta per me ciò che restava del mio piccolo bottino di guerra, volevo avere almeno quella soddisfazione. Tanto non c’era pericolo che me lo rubassero, nessuno sapeva dove avessi nascosto le casse, e di certo non sarebbero venute a cercarle, perché avrei massacrato chiunque avessi sorpreso a farlo, oppure chiunque avessi ritenuto responsabile del furto.
«Niente vino, eh?» Una voce – troppo allegra per i miei gusti – mi distrasse dalle mie riflessioni.
«Se questa è stata una tua idea, sappi che te la farò pagare. E anche molto cara,» risposi, minacciosa ma calma. Non avevo bisogno di guardarlo in faccia per sapere che il mio interlocutore era Kenji.
«È una fortuna che non sia stata una mia idea, allora.» Si mise a sedere accanto a me. Le sue parole non erano una sorpresa. Per quanto il rosso ripudiasse il vino, non era abbastanza perfido per prendere un’iniziativa del genere. Era Law quello a cui si doveva addossare tutta la colpa.
«Come mai tu non bevi?» gli chiesi all’improvviso. «Voglio dire, ci conosciamo da quasi tre anni e in tutto questo tempo ti ho visto sì e no un paio di volte sorseggiare una sostanza alcolica.»
Finalmente lo guardai e lui abbassò lo sguardo, come se si vergognasse.
«Bere alcolici fa male alla salute. E poi, non mi piace,» disse semplicemente. I suoi occhi, però, mi suggerivano che c’era dell’altro. Piegai la testa da un lato per sollecitarlo a parlare, ma lui rimase in silenzio.
Allungai una mano sul tavolo e la posai sulla sua. A quel punto mi guardò con un po’ di sorpresa.
«Kenji...» iniziai, dapprima un po’ titubante. «Non devi parlarmene per forza, non ti obbligherei mai a farlo, ma voglio che tu sappia che io ci sono per te, proprio come tu ci sei per me, e che di me ti puoi fidare.»
Gli sorrisi e strinsi appena le dita attorno alla sua mano. Sorrise anche lui e poggiò la sua mano libera sopra la mia. Mi accarezzò le nocche con il pollice.
«Certo che lo so, e ti ringrazio. È solo che non mi piace parlarne.» Distolse lo sguardo ancora una volta. «Ma... se questo ti aiuterà a fidarti di me, a guarire, allora lo farò.»
«Non devi farlo solo perché ti senti costretto. E di certo non sarà questo a determinare la mia guarigione,» mi affrettai a rassicurarlo. Cominciavo a pensare che il motivo per cui non beveva alcol fosse più grave di quanto immaginassi.
«Hai il diritto di sapere qualcosa di più sul tuo medico curante,» affermò, ritornando a guardarmi e sorridendo. Aveva riacquistato sicurezza.
Feci per ribadirgli che non doveva sentirsi obbligato, poi però mi fermai e trattenni una risata. Sembravamo due ragazzini imbarazzati al primo appuntamento. Fu con quel pensiero che notai che le nostre mani erano ancora una sopra l’altra, e mi affrettai a districarmi da quell’intreccio.
«Lo sanno soltanto il capitano e Omen, ma meriti di saperlo anche tu. Dopotutto, sei una delle persone che sento più vicine a me.» Si strinse nelle spalle e mi guardò con tenerezza e quella che avrebbe potuto essere presa per gratitudine.
Sorridemmo entrambi. Ero contenta che l’avesse detto. La sua dichiarazione mi aveva fatto sentire ancora di più parte di quel qualcosa che stavo cercando da tanto tempo e mi aveva fatto capire che lui credeva in me.
E così me lo raccontò. Mi raccontò la sua storia. Mi raccontò che era nato in un’isola del North Blue, un’isola chiamata Rue, e che suo padre, Alistair, era un pescatore, mentre sua madre, Vera, era una sarta. Mi strappò un sorriso quando mi disse che era stato un bambino felice e che aveva vissuto un’infanzia tranquilla ed era cresciuto circondato dall’amore dei suoi genitori. Poi, però, dopo il suo undicesimo compleanno qualcosa era cambiato. Suo padre aveva iniziato a tornare sempre più tardi la sera. Quando rincasava era violento e talvolta alzava le mani su sua madre, e se Kenji provava a fermarlo veniva picchiato anche lui. Né lui né Vera riuscivano a spiegarsi perché avesse assunto tale comportamento. Mi aveva confessato – con gli occhi lucidi e la voce tremante – che certe volte sentiva sua madre piangere mentre cuciva; ma i suoi non erano singhiozzi di tristezza, né di rabbia: piangeva perché si sentiva in colpa, credeva di essere lei il problema, credeva di aver fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa che avesse suscitato l’ira del marito, anche se non capiva cosa. Avevo riflettuto che nessuno avrebbe mai dovuto sentirsi così, che era orribile ed ingiusto che qualcuno si sentisse in colpa per le atrocità che commetteva un’altra persona, per di più nei propri confronti. Solo mesi dopo avevano scoperto che il motivo del comportamento di suo padre era l’abuso di alcol. Tutte le sere, dopo che aveva finito di lavorare, andava a sbronzarsi in un bar e ci rimaneva per ore e ore. Se non aveva soldi per pagare il barista – e accadeva spesso – barattava i pesci che aveva pescato durante il giorno, lasciando Kenji e Vera senza cena. Per anni lui e sua madre avevano vissuto un incubo, avevano vissuto nel terrore, con la paura di quello stesso uomo che prima di diventare un alcolista era stato un padre attento e un marito premuroso. Per anni avevano sopportato quel peso in silenzio e avevano abbassato la testa quando camminavano per le vie del loro villaggio, accompagnati dal perfido vociferare della gente. E per anni avevano cercato di comprendere il perché Alistair avesse intrapreso quella strada buia e fosse diventato l’ombra di se stesso. Forse era perché era infelice, o forse semplicemente gli piaceva tracannare interi barili di rum. “A volte,” mi aveva detto il rosso, “non c’è una ragione. Le cose accadono e basta”. E io non potevo che essere d’accordo, anche se non immaginavo che avesse sofferto così tanto.
Poi, però, le cose erano di nuovo cambiate. Un giorno, durante una tempesta, suo padre era uscito con la sua barchetta in mare e non aveva più fatto ritorno. Era annegato. Kenji mi aveva rivelato che non gli era dispiaciuto più di tanto per la sua morte, anzi, ne era stato quasi sollevato, perché riteneva che se lo meritasse. Era uscito durante una bufera, ubriaco marcio, e molto probabilmente non era nemmeno in sé quando era stato sbalzato via dalla sua barca. Nessuno aveva pianto la sua morte, nemmeno Vera, che una volta lo aveva tanto amato. Il mio amico mi aveva raccontato che una volta era stato sulla sua tomba e che accanto ad essa aveva lasciato una bottiglia vuota di rum, che rappresentava l’unica cosa che avesse contato davvero per suo padre in quegli anni. Quell’immagine mi aveva intristito molto, perché mi aveva fatto realizzare che ad Alistair, alla fine, non era rimasto più nessuno: l’alcol gli aveva portato via tutto.
Ero rimasta per un’ora ad ascoltarlo in silenzio, facendo solo qualche cenno con il capo o qualche espressione afflitta di tanto in tanto, senza sapere bene che dire. Supponevo di non poter fare molto, a quel punto. E poi, non mi aveva dato la parvenza di una persona che aveva bisogno di conforto, sembrava aver superato tutto. Era più forte di quanto pensassi. Forse mi ero sbagliata sul suo conto.
«Quando è morto, io e mia madre siamo diventati liberi. Liberi da lui, dal suo controllo soffocante e dalla sua presenza tossica nelle nostre vite.» Non lo avevo mai visto con uno sguardo così fermo ed impassibile. «L’alcol distrugge le persone. Sia quelle che lo ingeriscono che quelle che stanno loro attorno.»
Abbassai lo sguardo e appoggiai la tazza di caffè – ormai vuota – sul tavolo. Non mi ero resa conto di quanto fosse serio quel problema. Nel mio piccolo avevo sempre pensato che l’alcol le riparasse, le persone, almeno per quelle poche ore di ebbrezza che donava. Invece quel giorno avevo imparato che era capace di distruggere intere famiglie. Quasi mi sentivo in colpa a sventolare davanti a Kenji ogni sera il mio bicchiere di vino come se fosse un trofeo, quando per lui l’alcol aveva significato solo dolore e amarezza. Non potevo sapere che cosa avesse dovuto affrontare. Adesso che lo sapevo, tuttavia, mi ripromisi che le cose sarebbero state diverse. Non avrei smesso di bere, ma lo avrei fatto con molta più discrezione, e non mi sarei arrabbiata con lui se avesse tentato di frenarmi.
«Io l’ho visto, ho visto cosa fa l’alcol, e non voglio diventare come quell’essere spregevole,» sibilò con rabbia. Strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche.
Mi sporsi verso di lui e gli appoggiai una mano sulla spalla.
«Kenji, tu non potresti mai diventare come lui!» esclamai con decisione. Non mi sembrava vero. Non poteva credere sul serio che sarebbe diventato come suo padre. Non lui, che era così buono e sensibile.
Si divincolò dalla mia presa e per un po’ non disse niente, né mi guardò. Poi riprese a raccontare. Mi disse che qualche tempo dopo, purtroppo, anche sua madre venne a mancare, a causa di una malattia. Non aveva avuto tempo di lasciarsi andare al dolore, però, perché a soli sedici anni aveva dovuto rimboccarsi le maniche e aveva iniziato a lavorare nell’ospedale dell’isola come infermiere. Era così che aveva imparato ciò che sapeva sulla medicina; almeno, le cose basilari. Perché poi qualche mese dopo sull’isola Rue era arrivato Law, un Law ancora giovane e scapestrato, un Law che non aveva nulla da perdere, con al seguito appena una decina di uomini, che come un terremoto aveva sconvolto la sua vita per sempre e lo aveva salvato da un’esistenza monotona e solitaria, accogliendolo nella sua ciurma e facendo di lui il medico che era ora. Come me, il rosso era partito dall’idea che sarebbe diventato infermiere, poi le cose si erano inspiegabilmente evolute ed era diventato un medico.
Quando aveva affermato che il Capitano lo aveva salvato da se stesso ero rimasta molto sorpresa. Ma non avrei dovuto, perché in fondo aveva fatto la stessa cosa con me e con tutti gli altri Pirati Heart. Ci aveva presi con sé e ci aveva salvati. E noi gli eravamo estremamente grati per questo, al punto che avremmo dato la vita per lui.
Che storia incredibile. Mai avrei pensato che Kenji potesse avere un vissuto così movimentato. Eppure, la sua storia, per qualche ragione a me sconosciuta, mi dava speranza. Forse perché quando guardavo il rosso non vedevo un uomo consumato dall’odio o dalla rabbia, ma un ragazzo pieno di bontà, sempre sorridente e pronto ad aiutare chiunque ne avesse bisogno. Un ragazzo che aveva saputo lasciarsi alle spalle le difficoltà e riprendere in mano la sua vita. Lo ammiravo molto per questo, il mondo aveva bisogno di più persone come lui.
«E tu, invece? Qual è la tua storia?» mi chiese dopo qualche minuto di silenzio, riportandomi alla realtà .«Non ce l’hai mai raccontata, non per intero, almeno.»
Boccheggiai. Mi aveva colto impreparata. Non sapevo cosa dire, né avevo molta voglia di espormi. Lui si era aperto con me e io lo apprezzavo molto, ma non potevo fare lo stesso con lui. Perché la mia storia non era una storia “normale”, e per quanto mi fidassi non mi sembrava il caso di caricarlo di un tale peso. Però la mia coscienza mi diceva che non potevo lasciarlo a bocca asciutta.
«La mia storia è che...» cominciai titubante, per poi riprendermi una volta che ebbi capito come raccontargli parte della mia vita senza rivelargli dettagli scomodi. «Una volta avevo tutto. Poi l’ho perso. Ma mi è stata data una seconda occasione, per puro caso, e ora eccomi qui, a tentare di recuperare ciò che ho perduto.»
Era vero, una volta avevo tutto ciò che si potesse desiderare: una famiglia amorevole, degli amici con cui passare il mio tempo in leggerezza, buoni voti a scuola e un bravo ragazzo come fidanzato. Poi, però, quel tutto si era sgretolato e il mio mondo, da colorato e variopinto, era diventato grigio e spento in un battito di ciglia. E io non avevo saputo come farlo ritornare come era prima, né come avesse fatto a cambiare così tanto in poco tempo, o perché. Da protagonista del film, ero diventata una mera spettatrice, che se ne stava immobile, seduta su una poltrona della sala di proiezione, e si limitava a veder passare la propria vita su uno schermo gigante.
La Stella, però, mi aveva dato una seconda occasione. Un’occasione per riscattarmi, per liberarmi dal torpore che mi avvolgeva e vivere la vita che avrei dovuto vivere.
«E che cos’è questo tutto che hai perso?» volle sapere, fissandomi con curiosità.
Mi strinsi nelle spalle e sollevai un angolo della bocca per fare un mezzo sorriso amaro.
«La felicità, suppongo.»
Era la prima persona con cui ne facevo parola. Avevo sempre saputo di potermi fidare di lui. Era una di quelle persone che entravano nella vita degli altri in punta di piedi e in silenzio, senza avere pretese di alcun tipo, e che pian piano si facevano strada verso il loro cuore, dove rimanevano scolpiti per sempre. Ero felice di aver avuto l’opportunità di conoscere Kenji per quello che era davvero.
«Finché sarò in questo mondo, farò di tutto perché tu recuperi la tua felicità perduta,» mi assicurò con un largo sorriso sincero, appoggiando di nuovo la sua mano sopra la mia. I suoi occhi verdi e limpidi erano increspati agli angoli e luccicavano. Aveva la stessa espressione di chi avrebbe mantenuto quella promessa ad ogni costo.
«Ehi, voi,» la voce baritonale di Ryu interruppe quel momento “catartico”. «Via dalla mia cucina.»
Mi schiarii la gola, leggermente a disagio.
«Devo preparare la cena,» ci informò poi, perentorio, sciogliendoci dall’imbarazzo.
«Sì... Allora io vado a farmi una doccia,» annunciai, alzandomi dalla sedia ed andando a riporre la tazza arancione nel lavello. Inutile dire che il cuoco mi guardò male.
«Kenji,» lo richiamai quando fummo sull’uscio della porta. «Un giorno ti racconterò i dettagli della mia storia. Promesso.»
Sembrò felicissimo delle mie parole. Fino a quel momento non aveva indagato oltre perché era una persona discreta ed educata, però sapevamo entrambi che glielo dovevo.
Mentre uscii dalla cucina sorrisi un’ultima volta al rosso, consapevole che durante quella pausa caffè era cambiato qualcosa.
 
***
 
«È inutile. Continuerà a tremare, non importa cosa faccia o quanto ci provi!» esclamai cercando di controllare il tono della mia voce, che stava diventando un po’ troppo alto. La pallina, intanto, era rotolata a qualche metro da me.
«Ti sbagli,» mi riprese il rosso, scuotendo lentamente la testa. Ancora nutriva delle speranze sulla mia guarigione.
«No, non mi sbaglio affatto! Lo hai visto anche tu, no? Sono due settimane che ci proviamo, ed è tutto vano.» Sbuffai frustrata. «Arrenditi, Kenji. È una causa persa.»
Appoggiai la schiena allo schienale della sedia e abbassai gli occhi. Tutti i giorni, da due settimane e per due ore al giorno, si ripeteva lo stesso scenario: Kenji mi diceva di pensare a Doflamingo, io obbedivo, il polso iniziava a tremare e la pallina mi sfuggiva di mano. Era una situazione senza via d’uscita.
«Non lo farò, Camilla,» dichiarò, grave. Rialzai lo sguardo. Quella forse era la prima volta che lo sentivo chiamarmi con il mio nome completo. Dovevo averlo esasperato oltre l’inverosimile. «E non permetterò neanche che ti arrenda tu.»
Mi passai le mani su tutta la faccia e scossi la testa. Apprezzavo i suoi sforzi e la sua determinazione, ma – per quanto fosse brutto da pensare – con quelli non saremmo andati da nessuna parte. Fissai la pallina, ormai abbandonata sul tavolo. Avevo sprecato due settimane a stringerla tra le dita, senza ottenere risultati di alcun tipo. Non ci facevo niente con una dannata palla in gommapiuma. A me serviva un metodo che funzionasse. Kenji non aveva colpe, forse il problema ero solo io. Dopotutto, lui era stato impeccabile in quelle due settimane in cui avevamo fatto fisioterapia insieme. Mi aveva sempre spronato a fare del mio meglio, senza mai forzarmi. Sì, il problema ero decisamente io. Era come se la mia mente fosse una pistola. Doflamingo era il proiettile, la chirurgia il grilletto e il mio polso il bersaglio. E tutte le volte che partiva, quel dannatissimo colpo andava a segno. Le tre parti sembravano essere in perfetta sintonia, come se si fossero messe d’accordo in precedenza. Il problema era che nella mia testa al momento funzionava bene solo ciò che non avrebbe dovuto funzionare bene. Anzi, ciò che non avrebbe dovuto funzionare affatto.
Il braccio del mio compagno, con l’immancabile pallina rossa che pendeva dalla mano, sventolò a qualche centimetro di distanza dal mio viso. Feci roteare gli occhi e sbuffai rumorosamente prima di strappargliela dalle dita. Nonostante non avessi la minima voglia di rimettermi a strizzare la palla, sospettavo di non avere comunque altra scelta. Kenji lo aveva messo in chiaro: non si sarebbe arreso, né avrebbe permesso che lo facessi io.
«Perché lo fai?» gli domandai, ricominciando a stringere la pallina con movimenti ritmici.
«Perché voglio il tuo bene,» mi rispose, con un ampio sorriso. «E perché non si può disubbidire ad un ordine del Capitano,» aggiunse poi, rabbrividendo leggermente al pensiero di ciò che Law avrebbe potuto fargli. Non aveva tutti i torti. Ridemmo insieme. Quella specie di battuta – che tanto battuta non era – mi aiutò a sciogliere un po’ di tensione.
«Adesso, per favore, torna a pensare a Doflamingo.» Ritornò serio. Feci una smorfia che tradiva un certo fastidio, ma gli obbedii.
Nel momento in cui davanti ai miei occhi comparve il Demone Celeste, in tutta la sua imponenza, lo sentii arrivare. Percepii l’osso del polso scaldarsi e scricchiolare. Poi sentii la mano iniziare a formicolare. Chiusi le dita per non far scappare la palla. Il braccio tremava pericolosamente. Tremolava meno rispetto ai giorni precedenti, ma il tremore c’era ed era evidente. Avrei voluto pensare che ero più forte dell’ex Re di Dressrosa, che lui non nutriva alcun controllo su di me e che, a furia di immaginarmelo, prima o poi avrei vinto la mia battaglia interiore, ma non era così. E sospettavo che sia Kenji che il Capitano lo sapessero. Forse non volevano arrendersi all’evidenza.
Vidi il rosso osservare con meticolosa attenzione il mio polso, come se ne stesse studiando i movimenti ed i contorni per decidere quale fosse l’approccio migliore. Tenni la mano chiusa, cercando di non far sfuggire la pallina e aspettando pazientemente il suo responso. Ci rifletté per qualche secondo, poi sembrò giungere ad una conclusione, perché il suo volto si illuminò.
«Chiudi gli occhi,» mi ordinò, con un entusiasmo che mi infastidì un po’. «E pensa ad un posto.»
«Un posto?» chiesi perplessa, alzando un sopracciglio.
«Sì, il tuo posto speciale, un posto in cui ci sei solo tu. Un posto dove ti senti bene, dove niente può scalfirti,» specificò, convinto della soluzione che aveva trovato. «Sai, lo faccio anche io. Quando mi sento perso o giù di morale, chiudo gli occhi e immagino di trovarmi in un posto meraviglioso, che mi fa sentire invincibile.»
Sospirai e chiusi gli occhi. Era l’unica opzione che avevo, del resto. Anche con le palpebre abbassate riuscivo a percepire che stava sorridendo. Almeno uno di noi era contento.
«Non devi esserci stata per forza, l’importante è che per te sia un luogo famigliare,» mi spiegò dopo qualche secondo. Evidentemente aveva captato il mio scetticismo.
Avrei voluto dirgli – sarcasticamente – che stavo pensando ad un posto in cui fiumi e laghi erano fatti di vino, e nessuno mi impediva di berne litri e litri, ma dopo quanto mi aveva raccontato avrei fatto meglio a tenere la bocca chiusa. Invece, imposi a me stessa di prendere quella cosa sul serio. Poteva essere la mia unica occasione per sbarazzarmi del problema.
Raschiai i ricordi nella mia testa alla ricerca di un luogo che potesse andare bene per l’“esperimento” del rosso. Non mi venne in mente altro che il Polar Tang. Da più di due anni era diventato la mia casa, e lì vivevo con le persone che avevano finito per diventare la mia nuova famiglia. Supponevo che fosse quello il mio “posto sicuro”, il posto in cui avevo scelto di rimanere per ben due volte. Eppure il polso continuava a tremare, e io cominciavo davvero a perdere tutte le speranze. Non sapevo a quale altro luogo pensare. Dopotutto, la Stella era lì che mi aveva mandato, pensando che potessi essere felice. Aveva avuto ragione? Solo il tempo avrebbe potuto dircelo. Presi un respiro profondo. Probabilmente avevo solo bisogno di pensarci più intensamente. Un momento. Ma certo, la Stella. Ancora una volta, era lei la chiave di tutto. Dietro di lei si celava un luogo che entrambe conoscevamo alla perfezione. Un luogo che desideravo visitare da sempre. Un luogo che, nonostante per molti fosse solo frutto della fantasia di uno scrittore, per me rappresentava la felicità, e la libertà, e la pace interiore. Per anni aveva spruzzato un po’ di colore nella mia vita grigia e mi aveva fatto sognare. Forse era quella la soluzione: l’Isolachenoncè.
Mi immaginai di essere lì. Non c’era più Doflamingo. Non c’era la paura, la disperazione, il tormento, il dolore. Non c’era niente. C’ero solo io, che volavo leggera sopra l’isola, libera da ogni preoccupazione. Sopra di me c’era una distesa di soffici nuvole color pesca. Forse erano fatte di zucchero filato, perché c’era profumo di dolci. Non era il solito odore stucchevole; solleticava appena le mie narici, come se fosse un lontano ricordo. Sotto di me, invece, regnava incontrastata la natura. Gli alberi e le montagne si estendevano per chilometri e chilometri, creando un verde manto che rivestiva l’intera isola. Solo lungo le coste quel verde speranza lasciava posto al bianco candore della sabbia, che si mescolava con il blu cobalto dell’oceano, fiero e scintillante.
Riuscivo a vedere tutto, da lì. Era un panorama meraviglioso. Un quadro perfetto, impreziosito da alcuni arcobaleni che avvolgevano l’isola e le facevano da cornice. Tutto era esattamente dove doveva essere, e perfino la mia anima frammentata sembrava essersi risanata.
Il vento mi scompigliava i capelli e si insinuava fin dentro le mie ossa, che vibravano. No, non vibravano come vibrava il mio polso, non vibravano di paura. Vibravano di vita.
Gli unici suoni che si potevano udire erano le mie risate cristalline. Mi sentivo viva, proprio come mi ero sentita le notti in cui avevo volato sulla schiena di Marco. Ed ero libera, ero libera da tutto. Dai vincoli, dai timori, dalle incertezze. Da tutto. Niente poteva scalfirmi. Ero... invincibile.
Riaprii gli occhi. Kenji aveva l’aria un po’ sorpresa, ma sorrideva soddisfatto. Guardai in basso e trattenni il fiato. La pallina era ancora tra le mie dita, che erano immobili. Il polso aveva smesso di tremare.




Angolo autrice
Salve! Come state? Sono un po' in ritardo, ma eccomi tornata con il quarto capitolo di questa storia, capitolo in cui viene approfondito il personaggio di Kenji e il rapporto che quest'ultimo ha con Cami. Mi è sembrato giusto dargli una "voce" e raccontare la sua storia, dopotutto è lui che deve occuparsi di aiutare Camilla a stare meglio. E poi era da tanto che volevo che avesse un po' più di spazio.😁
In ogni caso, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che la fanfiction vi sia appassionando almeno un po'. Se ne avete voglia, lasciatemi una recensione e fatemi sapere che ne pensate!😊
Grazie e a presto!❤

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Capitolo 6
*** Posti speciali ***


Alzai appena gli occhi verso il soffitto dell’infermeria. Soffitto che nel suo grigiore non mi era mai sembrato così bello. Sorrisi serafica. La Stella mi aveva aiutata ancora. Tecnicamente era stato Kenji a farlo, ma lei, come al solito, ci aveva messo lo zampino.
Non volevo darlo a vedere, ma il cuore mi scoppiava di felicità. Il polso aveva smesso di tremare. Certo, questo non voleva dire che sarei tornata ad essere il chirurgo che ero prima: ci sarebbe voluto tempo, impegno, fatica e tanta, tanta pazienza. Però era un inizio, adesso sapevo che c’era un metodo funzionante da poter utilizzare, che per me e per la passione che nutrivo per la medicina c’era una speranza.
Il rosso mi guardò, le sue iridi brillavano, colme di gioia. Non era uno sguardo soddisfatto o orgoglioso per il proprio operato, era semplicemente contento per me, ed era questo che apprezzavo di lui. Le sue intenzioni erano pure e sincere, come il suo cuore, e non agiva per gloria personale come molte delle persone che avevo avuto l’occasione di incontrare – in entrambi i mondi in cui ero stata – ma perché voleva davvero aiutare gli altri. Era questo che lo rendeva felice, era questo che desiderava fare. Poco prima ne avevo avuto la conferma: il suo altruismo faceva di lui un ottimo medico.
Non disse niente, però. Per qualche minuto, nessuno dei due parlò. Supponevo che fossimo troppo felici per riuscire a formulare delle frasi di senso compiuto. Avrei voluto ringraziarlo in qualche modo, ma le parole non riuscivano a uscire dalla mia bocca. Nessuno di noi sapeva come esprimersi a proposito di quella piccolissima vittoria.
«Credo che tu sia pronta per il prossimo passo,» affermò dopo qualche altro minuto di quieta gioia.
Aggrottai la fronte, perplessa. “L’ultima volta che lo hai detto non è andata troppo bene,” pensai, ma non pronunciai quelle parole. Avevo deciso che mi sarei fidata di lui. Dopotutto, sotto la sua guida avevo ottenuto dei risultati consistenti. Anche se, forse, una tregua non mi avrebbe fatto male. Avevo bisogno di tempo per metabolizzare il tutto, o almeno così credevo. Probabilmente volevo solo godermi un altro po’ la mia contentezza, avevo paura che compiendo il prossimo passo sarebbe svanita insieme ai miei progressi. No, non dovevo essere così negativa. Con Kenji a guidarmi sarebbe andato tutto bene.
Il rosso, senza aspettare la mia risposta, si diresse verso un armadietto e ne tirò fuori una specie di manichino, che mi era molto famigliare. Poi lo poggiò su uno dei lettini dell’infermeria. C’era da aspettarselo, al mio compagno non piaceva molto usare i cadaveri per fare pratica. E non era l’unico.
«È tornato Chuck,» commentai, nascondendo la mia preoccupazione dietro all’ironia. Lo osservai. Era ancora più malridotto e sporco rispetto all’ultima volta che l’avevo visto. Sospettavo che non lo pulissero mai. Era un manichino specificatamente costruito per scopi medici, e noi dottori lo usavamo per fare pratica. Lo avevo soprannominato “Chuck”, sia perché l’aspetto inquietante che aveva mi ricordava “Chucky”, la marionetta del film “La bambola assassina”, sia perché, nonostante tutte le volte in cui era stato brutalmente sventrato, era sempre rimasto – si faceva per dire – in piedi; un po’ come Chuck Norris. Io stessa in quegli anni lo avevo tagliuzzato ben bene, e mi ero pure divertita a farlo, dopo aver superato il ribrezzo iniziale che mi avevano provocato quei denti sporgenti contornati dalla bocca semiaperta e quelle pupille fisse e spalancate. Ora, però, c’era ben poco da divertirsi. Mi sembrava addirittura che i suoi occhi inespressivi e conturbanti mi stessero fissando con aria di sfida, come se stessero aspettando di vedere se sarei stata sconfitta o meno.
Kenji recuperò uno dei tanti bisturi che avevamo a disposizione e iniziò piano a recidere la “pelle” di Chuck in uno dei pochi punti in cui non era stato sfregiato. Non sapevo se fosse una coincidenza, ma tanto bene quel punto era proprio sul suo avambraccio sinistro. Quando ebbe finito, il mio compagno mi indicò il kit per suture lì accanto. Lo fissai, il cuore iniziò a battere forte e feci un passo indietro.
«Kenji...» Titubai. Non ero sicura di potercela fare. Non subito, almeno. Lui mi venne dietro, sul volto aveva un’espressione rassicurante.
«Va tutto bene, Cami. Sai perfettamente cosa devi fare e come farlo. Devi solo rilassarti ed essere convinta di riuscirci. Se avrai bisogno del mio aiuto, io sarò dietro di te e ti guiderò passo dopo passo.»
Le sue parole mi convinsero. Potevo farcela. Sapevo come fare, dovevo solo credere di riuscire a farlo. Presi un respiro profondo, poi afferrai gli strumenti chirurgici che mi servivano e feci il giro del lettino per posizionarmi accanto al braccio sinistro del manichino. Mi infilai i guanti – per rendere più realistico il tutto – e recuperai filo, forbici e pinze. La lacerazione era lunga circa dieci centimetri. Sarebbero stati i dieci centimetri più difficili della mia vita da suturare. Perché sì, Chuck era solo un manichino, e non sarebbe successo nulla se avessi sbagliato, ma quei dieci centimetri rappresentavano il mio squarcio da ricucire, quello nella mia anima, che era ben più difficile da risanare rispetto alla semplice pelle – o gomma, in questo caso – umana. In gioco c’erano i miei sogni e tutto il lavoro che avevo fatto per farli avverare.
«Possiamo evitare di anestetizzare l’area. Non credo che sentirà dolore,» commentò Kenji, strappandomi un sorriso. Aveva compreso che mi serviva una ventata di leggerezza.
Mi dissi che temporeggiare non mi sarebbe servito a niente, per cui inspirai ed espirai profondamente e mi apprestai a cominciare. La gomma era più difficile da ricucire rispetto alla pelle umana: era più dura, più sfuggevole e scivolosa, anche se di poco. Chuck era una riproduzione piuttosto accurata, come ci si sarebbe aspettato che fosse. Dopotutto, era pur sempre di Law e del suo equipaggiamento medico che si stava parlando.
Nel momento in cui inserii l’ago nella lacerazione, iniziai a sentire un gran caldo. Stavo sudando copiosamente, e anche il mio compagno doveva essersene accorto, perché si affrettò a passarmi un panno sulla fronte.
«Respira,» mi sussurrò, scandendo bene le lettere. Annuii e feci come mi aveva detto. Presi un paio di respiri profondi, poi ricominciai.
“Fuori uno,” pensai sollevata mentre tagliavo la coda del filo dopo aver fatto il primo nodo. Me ne restavano “appena” un’altra decina. Quando però arrivai a fare il secondo, il polso iniziò a tremolare. Era un tremore più leggero rispetto alle altre volte, ma c’era comunque ed era fastidioso quasi allo stesso modo. Distaccai la mano dall’avambraccio del manichino e raccolsi le dita in un pugno. Poi mi umettai le labbra con la punta della lingua e chiusi gli occhi.
«Aggrappati a quel posto con tutte le tue forze,» mi sollecitò Kenji, che aveva capito le mie intenzioni. «Immaginalo tutto intorno a te, è il tuo rifugio sicuro.»
Inspirai e mi immaginai di essere nel cielo dell’Isolachenoncè. Volavo, con il vento tra i capelli e solo le nuvole a farmi compagnia. Sotto di me, il verde dell’isola si mescolava con l’azzurro del mare e il bianco delle spiagge. Non c’era gravità, il mio peso corporeo non esisteva. Esistevano solo i miei sogni, che in quel posto erano quasi tangibili. Li potevo vedere, e avrei potuto toccarli. Erano lì, a pochi metri da me. Dovevo solo allungare la mano.
Riaprii gli occhi e gettai una rapida occhiata al polso. Era fermo. Immobile. Non tremava più. Annuii, come per premiarlo per essere stato così accondiscendente, poi mi azzardai a sollevare un angolo della bocca per fare un mezzo sorriso e mi sfregai i palmi tra loro per togliere il leggero strato di sudore che si era formato sotto i guanti, dopodiché ripresi in mano il filo da sutura e le pinze.
 
Quando finii, soffiai fuori tutta l’aria che avevo in corpo, che fino a quel momento avevo trattenuto a causa della tensione, come se avessi appena fatto la gara della mia vita, quella che mi avrebbe permesso di vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Le mie spalle si incurvarono, rilassate. Poi iniziai a ridere. Il polso non aveva più tremato, né formicolato. Ce l’avevo fatta. Avevo vinto ancora una volta io, quel giorno. A poco a poco stavo iniziando a riprendere il controllo di me stessa.
Kenji si affrettò a rimettere a posto il kit da sutura. Poi passò il dito lungo il taglio che avevo appena ricucito e sorrise soddisfatto.
«Una sutura perfetta,» commentò, dopodiché spostò lo sguardo su di me, gli occhi limpidi. «Ce l’hai fatta, Cami.»
Potevo percepire dal suo tono di voce che era orgoglioso di me. Gli sorrisi anche io e lo abbracciai. Glielo dovevo. C’era ancora tanto lavoro da fare: se Chuck fosse stato un essere umano reale probabilmente sarebbe morto dissanguato con tutto il tempo che ci avevo messo per ricucire il taglio, ma per il momento volevo solo godermi la mia ennesima piccola vittoria.
Aspettai pazientemente che il rosso riponesse l’inquietante manichino nell’armadietto e quando lo ebbe fatto gli cinsi le spalle con un braccio. Lui avvampò e io trattenni una risata. Per un po’ ci fissammo in silenzio.
«Grazie, Kenji.» Lo strinsi di più a me. Trattenni di nuovo una risata quando notai che il suo viso aveva preso il colorito di un pomodoro maturo. «Sei appena diventato il mio medico preferito.»
Non era del tutto vero, il mio medico preferito era e sarebbe per sempre stato Law, nonostante i suoi modi di fare burberi e poco delicati, ma questo non c’era bisogno che Kenji lo sapesse. In fondo, mi faceva piacere appagarlo. Mi aveva dedicato tempo ed energie che avrebbe potuto investire in altri modi, e lo aveva fatto sempre con il sorriso. Stavo semplicemente ricambiando il favore. Una parola gentile ogni tanto rendeva tutti più contenti, e di certo non gli avrebbe fatto male. Almeno, così credevo.
«E tu sei la mia paziente preferita.» Mi cinse a sua volta il fianco con il braccio. Stava iniziando a prendere coraggio. «Nonostante la tua forte predilezione per il vino,» scherzò poi. Sbuffammo entrambi una risata.
«Vino o no, sarò sempre la tua paziente preferita,» dichiarai con una punta d’orgoglio.
«Già...» sussurrò pensieroso, forse nella speranza che non lo sentissi.
Nell’udire quelle parole, ritirai il braccio e mi schiarii la voce. C’era qualcosa nel modo in cui le aveva dette che mi fece capire che forse sarebbe stato meglio retrocedere. Mi liberai dalla sua presa e mi staccai dal suo corpo, piazzandomi di fronte a lui, tuttavia a debita distanza.
«Che ne dici, ci prendiamo un caffè?» gli proposi, per togliere dall’imbarazzo entrambi. L’aria sembrava improvvisamente essere diventata pesante in quella stanza.
Lui fece un’eloquente smorfia contrariata. Roteai gli occhi, capendo subito quale fosse il problema. Mi ero dimenticata di quanto fosse salutista. Secondo lui anche il caffè faceva male. Non aveva tutti i torti, ma una tazza ogni tanto non ci avrebbe di certo ucciso.
«Un tè?» avanzai di nuovo.
Il suo volto si aprì in un sorriso. «Certo.»
Uscimmo dall’infermeria in silenzio, fianco a fianco, e ci dirigemmo in cucina. In fondo, mi faceva piacere prendere una tazza di tè insieme a lui. Cominciavo ad apprezzare la sua compagnia.
 
«C’è una cosa che mi devi spiegare,» iniziai, soffiando sul liquido bollente contenuto nella mia tazza arancione. Era tè. Rigorosamente tè. Avevo sperato che Ryu, nel prepararlo, lo avesse segretamente corretto con un po’ di rum – o qualsiasi altro alcolico – invece non lo aveva fatto. Era semplice tè nero. Non potevo lamentarmi, però, perché era già tanto che il cuoco si fosse offerto di farlo, con tutte le altre cose che aveva da finire. Il poverino era così stressato che ci aveva cacciato dalla sua cucina. Alla fine eravamo ritornati in infermeria, che era stranamente deserta. Tanto perché, giustamente, vi avevo passato poco tempo nelle ultime settimane.
«Chiedi pure, sono qui apposta,» fece Kenji, cordiale e sorridente come al solito. Lui, invece, aveva optato per il tè verde, un efficace antiossidante. La cosa non mi sorprendeva affatto. Temevo che uno di quei giorni mi avrebbe buttata giù dal letto per convincermi a fare una corsetta mattutina sul ponte del Polar Tang. Se fosse arrivato a tanto lo avrei davvero ucciso.
«Perché mi hai detto di pensare ad un posto?» volli sapere, sporgendomi in avanti e posando la testa sul palmo della mano. «Voglio dire, perché proprio un posto? Perché non un ricordo, o una persona?»
Ci pensò intensamente per qualche secondo buono, sembrava davvero assorto.
«Vuoi la risposta onesta o quella fintamente intellettuale?» mi chiese a sua volta dopo essere venuto a capo dell’enigma.
«Voglio la risposta onesta.»
Esitò un altro paio di secondi prima di parlare.
«Non ne ho idea. Per me funziona e ho pensato di provare questo metodo anche con te.» Si strinse nelle spalle, quasi come se si volesse scusare per aver replicato in quel modo. Trattenni l’ennesima risata della giornata. Se non altro era stato onesto. Lui non era freddo e razionale come Law: le sue azioni erano guidate dal suo cuore anziché dalla sua mente. Era istintivo, almeno in questo. E a quanto pareva faceva bene ad esserlo. Anche se non era sicuro di cosa stesse facendo, il suo metodo improvvisato aveva funzionato.
«Credo che un posto, che sia un ricordo o una proiezione immaginaria della tua mente, rimanga sempre con te. Le persone talvolta sono destinate a svanire e i ricordi mutano con il tempo, si distorcono. Mentre i luoghi... li porterai sempre nel cuore. Nessuno può portarteli via, perché sono tuoi, e solo tuoi. Ed è lì che avviene la magia,» affermò, buttando subito dopo giù un lungo sorso di tè per lavare via l’imbarazzo che quei trenta secondi di coraggio gli avevano provocato. «E poi, tutti hanno un posto che portano nel loro cuore. È là, immobile, impresso sotto la pelle come un tatuaggio.»
Annuii con convinzione. Le sue parole mi avevano lasciato molto sorpresa, perché erano vere. Aveva ragione. Fu soltanto in quel momento che lo realizzai appieno: l’Isolachenoncè c’era sempre stata per me, fin da quando ero bambina. Nei momenti più bui, mi bastava chiudere gli occhi ed ero lì, lontano da tutto e da tutti. E non c’era stata una volta in cui mi avesse delusa.
Sbuffai una risata nel pensare che se avessi avuto la mente più lucida avrei potuto arrivare da sola alla soluzione e risparmiarmi così ore ed ore di fisioterapia. Ma in fondo, passare del tempo con Kenji non mi era dispiaciuto. Avevo avuto l’occasione di conoscere una persona bellissima, che spesso in quella ciurma veniva sottovalutata da tutti e lasciata in disparte a causa della sua timidezza. Lui era quello che aveva sempre una penna a disposizione se ne avevi bisogno, o che preparava metodi anti-sbronza dal gusto opinabile per farti stare meglio. Era il ragazzo della cabina accanto, sempre gentile e sorridente con tutti, ma per molti non era niente di più. Invece io stavo iniziando a pensare che fosse un valido amico, oltreché medico.
«Non che le persone non lo siano. Voglio dire, anche loro sono scolpite nei nostri cuori, e spesso e volentieri sono proprio i nostri cari a darci la forza di andare avanti. Però... con i luoghi è diverso. Sono posti in cui vai per dimenticarti di tutto e ricominciare. Non si tratta di trovare la forza per andare avanti, ma solo fare pace con te stesso e con il resto del mondo,» specificò poi, lasciandomi di nuovo stupita. Anche stavolta aveva ragione. E aveva descritto esattamente come mi sentivo. Non avevo bisogno di trovare la forza per andare avanti, avevo bisogno di trovare un punto da cui ripartire. E ripensandoci, non c’era una persona – se non me stessa – che poteva aiutarmi in questo.
Sospirai, poi mi portai la tazza di tè alle labbra, mentre il rosso rigirava la sua tra le dita.
«Come sei arrivato a mettere a punto questo metodo?»
«Vuoi sapere perché ne ho avuto bisogno?» domandò, continuando a concentrarsi sulla sua tazza.
Feci di sì con la testa. Avrei voluto dirgli che non doveva rispondermi per forza, se non se la sentiva, ma non feci in tempo a parlare.
«Ci tengo a premettere che io non sono come te,» iniziò, facendomi corrugare la fronte. Non capivo a cosa si riferisse. «A te viene tutto facile, quando si tratta di medicina. Hai un istinto naturale.»
A quel punto risi di gusto e scossi la testa con convinzione. Non ero d’accordo. Non ero una Dea della Chirurgia, non ero Meredith Grey, o Cristina Yang. Se solo avesse saputo di tutte le insicurezze e i dubbi che avevo avuto in quegli anni...
«No, Cami, davvero. Tu hai un dono. Ed è mio dovere assicurarmi che il tuo talento non vada sprecato,» affermò deciso, sbattendo piano entrambe le mani sul tavolo.
«Ok, fingiamo che sia così. Vai avanti,» lo sollecitai, tradendo un certo fastidio. Non mi andava di parlare di quell’argomento. Non quando la situazione con il polso era ancora in sospeso. Apprezzavo che la pensasse così, lo apprezzavo davvero, solo che non ne potevo più di parlare di quello. Non avevo fatto altro per giorni. Avevo bisogno di un attimo di pausa.
«Hai ragione, scusa,» fece Kenji, quasi mortificato. «Comunque, come ti dicevo, ci ho messo molto tempo per imparare ciò che so adesso. Molte volte ho dubitato di me stesso e ho desiderato mandare tutto all’aria. In parte non sono stato neanche troppo fortunato, non ho avuto un mentore bravo come il Capitano che mi insegnasse le varie procedure. Spesso e volentieri mi sono ritrovato a leggere tomi interi di medicina senza capirci niente. Mi sentivo stupido, incapace ed ero molto frustrato per questo. Anziché fare progressi, regredivo. Ero arrivato al punto che non riuscivo più neanche a centrare la vena con l’ago.»
Fece una pausa, mentre io mi meravigliai di ciò che mi aveva appena detto. Stavamo parlando dello stesso Kenji che settimane prima con tanta maestria mi aveva prelevato il sangue? Lo stesso Kenji che non avevo visto vacillare nemmeno una volta in quegli anni quando si trattava di somministrare medicine e operare?
Forse aveva ragione, come al solito. Ero stata fortunata, sia nell’avere Law come guida sia nell’avere la capacità di comprendere le procedure più o meno in fretta. Non mi ero mai resa conto che potesse non essere così, per qualcun altro. Io avevo dovuto lavorare sodo per arrivare al punto in cui ero, ma c’era chi aveva dovuto farlo ancora più di me e magari non aveva ottenuto i miei stessi risultati.
«Ma avevo un sogno: volevo diventare medico, volevo aiutare le persone a stare meglio, e non potevo mollare. Così mi sono detto che avevo bisogno di un metodo efficace che scacciasse la paura e il senso di inadeguatezza.» Si sistemò meglio la visiera del cappello, già perfettamente in ordine. «Il resto è venuto da sé. Ho creato una dimensione che fosse mia e solo mia, fatta di pace e momenti felici.»
Quando finì di parlare, per parecchio tempo nessuno dei due aggiunse altro. Io mi limitai a fissarlo con l’aria furba ed un sorrisetto beato mentre lui finiva di bere il suo tè. Non sapevo nemmeno cosa dire. Mi sembrava che lo stessi guardando per la prima volta, come se fino ad allora fosse stato solo una fotografia sulla mensola di un parente lontano che non sapevo nemmeno di avere. Era incredibile cosa celasse dentro di sé. C’era un intero universo fatto di storie, ricordi, emozioni. E in quei giorni me ne aveva fatto scoprire una piccola parte. Si era mostrato a me in tutta la sua fragilità e il suo splendore. Riuscivo solo a pensare a quanto fosse una bella persona. E, all’improvviso, qualcosa dentro di me scattò. Sentivo di doverlo proteggere, non volevo che la luce che aveva dentro di lui svanisse. Volevo che i suoi occhi color acquamarina continuassero ad essere limpidi.
«C’è la musica, nel tuo posto speciale?» volle sapere ad un certo punto, interrompendo le mie riflessioni.
«Come?» gli chiesi, non del tutto sicura di aver capito bene.
«C’è la musica, nel tuo posto speciale?» ripeté, sorridendo appena.
«Ehm... No. No, non c’è,» risposi una volta che ci ebbi pensato. Non c’era la musica. Non c’era mai stata la musica, lì, perché stavo così bene che non avevo nemmeno bisogno di essere accompagnata da una melodia di sottofondo. Gli unici rumori che sentivo erano quello del vento che avvolgeva il mio corpo e quello del mio cuore, che batteva rapido, bramoso di vita. Per qualche strano motivo, ripensai a Sabo. Un po’ mi mancava. Lui avrebbe capito. Io e lui, quando si trattava di queste cose, ci capivamo al volo. Perché eravamo due sognatori, cercavamo entrambi la libertà in posti lontani, in posti che non avevamo mai visto ma che in qualche modo portavamo nel nostro cuore. E non ci serviva la musica, tutto ciò di cui avevamo bisogno era la speranza che un giorno avremmo davvero visitato quei luoghi, nascosti al resto del mondo. Il nostro era una sorta di segreto taciuto, che custodivamo gelosamente per noi.
«Nel mio c’è.» Ghignò fiero.
Gli rivolsi un mezzo sorriso, nonostante fossi sicura che non potesse vedermi. Aveva lo sguardo assente, proiettato in un luogo lontano e paradisiaco.
«Sai,» iniziò, riscuotendosi dai suoi ricordi. «Ho sempre visto la medicina come se fosse una danza. Una danza in cui le mie mani si muovono a ritmo di musica per creare l’armonia giusta per ogni paziente, come se seguendo la giusta coreografia e muovendo le mani a ritmo si potesse ripristinare l’equilibrio delle persone.»
La sua espressione tradiva una certa reticenza, quasi avesse paura di essere preso per pazzo. Ma perché mai avrei dovuto prenderlo per pazzo, quando io avevo usato una metafora simile per spiegare a Jasper cosa significasse essere un medico? Le famose meccaniche della chitarra e l’armonia del corpo umano. Nemmeno in questo io e Kenji eravamo tanto diversi, entrambi consideravamo la medicina come un’arte.
«La musica che risuona nella mia testa quando mi immagino nel mio posto speciale mi aiuta molto in questo,» confessò poi, spezzando il silenzio che si era venuto a creare.
Sorrisi per l’ennesima volta, per fargli capire che aveva il mio totale appoggio e che lo capivo, quando con la coda dell’occhio vidi una figura venire con calma verso di noi. Mi voltai. Era Bepo, che a quanto pareva era venuto ad interrompere quella conversazione idilliaca.
Chinò leggermente il capo in segno di rispetto.
«Mi dispiace disturbarvi, ma vorrei ricordarvi che è quasi ora di cena. Se non vi sbrigate, arriverete in ritardo e rimarrete senza mangiare. Vi suggerirei di accomodarvi a tavola, nel frattempo,» ci fece sapere l’orso, ritirandosi ed uscendo subito dopo.
Io e Kenji ci guardammo per un attimo e concordammo silenziosamente che fosse meglio avviarci in cucina: nessuno dei due voleva ritardare e rischiare di rimanere senza cena. Mentre attraversavo il lungo corridoio, dietro a Kenji, pensai che il tempo che avevo passato in sua compagnia era volato. Non mi ero resa conto che fosse così tardi.
 
***
 
Sospirai soddisfatta dopo aver completato la sutura.
«Ecco qui. Adesso sei come nuovo, Chuck,» scherzai, fissando il manichino e dandogli una simbolica pacca sul torace. “Come nuovo” si faceva per dire, ovviamente, dato che di nuovo aveva solo l’ennesima cucitura che gli avevo fatto.
«Stai facendo progressi rapidamente,» commentò Kenji, intento a tagliare il filo della sua terza sutura. Quel giorno aveva deciso di unirsi a me nel tagliuzzare il povero manichino, mi aveva detto di voler fare un po’ di pratica. Non glielo avevo di certo impedito, dopotutto, in quanto medici, entrambi sapevamo che gli avrebbe fatto bene. Solo che questo aveva portato ad un inevitabile paragone tra il mio lavoro ed il suo.
«Non direi. Nel tempo che ci ho messo per finire una sutura tu ne hai fatte tre...» gli feci notare, con una punta di amarezza nella voce. Stavo migliorando, era vero, ma ancora ero ben lontana dal tornare al vecchio splendore.
«Non ti scoraggiare. Tornerai ad essere veloce come un tempo. Anzi, anche di più.» Mi sorrise. «E a quel punto io tornerò a sentirmi nettamente inferiore. Non si può competere con la Dea delle Suture.»
Sbuffai una risata. “Dea delle Suture”. Di certo era un appellativo migliore di quello che mi aveva affibbiato la stampa, sebbene non fosse del tutto veritiero.
«Mi dipingi come se fossi una macchina da guerra,» lo rimproverai, abbassando lo sguardo per controllare ancora una volta di aver svolto un lavoro preciso e pulito sul povero Chuck. Kenji rise.
«È perché lo sei,» fece, scrollando le spalle.
Mi schiarii la voce, leggermente a disagio. Se io ero la Dea delle Suture, lui lo era dei complimenti. Non smetteva un attimo di complimentarsi con me per meriti che spesso e volentieri non avevo, o non pensavo di avere.
«Comunque, tu non sei inferiore, né a me, né agli altri. Non sei inferiore a nessuno,» gli feci sapere, gettandogli un’occhiata di rimprovero. Non poteva e non doveva sminuirsi in quella maniera. Lui era bravo, tanto quanto lo era il resto dei medici dell’equipaggio. Anzi, probabilmente lo era anche di più, perché lui possedeva una qualità che gli altri non avevano: l’empatia. Avevo avuto modo più volte di vedere all’opera i miei compagni in quegli anni, e avevo notato che tutti loro si limitavano a somministrare medicine e richiudere ferite. Certo, era questo ciò che doveva fare un dottore, ma un bravo dottore si prendeva cura del paziente. Lo confortava se aveva paura, ascoltava ciò che aveva da dire e cercava di stabilire un contatto con lui. Kenji, in questo, era un vero e proprio maestro. Avevo imparato molto da lui sul modo in cui andavano trattati i malati.
«Grazie per la considerazione che hai di me.» Sospirò e sorrise contento.
«Te la meriti. Te la sei guadagnata,» affermai convinta. Ormai avevo capito che lui era un ragazzo che aveva bisogno di continue rassicurazioni per “funzionare” bene. Non che io non ne avessi bisogno, solo che il Chirurgo della Morte mi aveva insegnato a farne a meno e andare avanti comunque. Non potevo che ringraziarlo per questo.
«Che dici, continuiamo a fare pratica?» propose il rosso, risistemando il kit da sutura.
«Certo.» Feci un ampio sorriso. Non ero stanca e avevo bisogno di fare quanta più pratica possibile. Volevo tornare ad essere quella di prima, quella capace di ricucire una ferita ad occhi chiusi, al più presto.
Girammo il manichino di schiena. Era l’unica parte del corpo sulla quale si potessero praticare altri tagli. Avrei dovuto notificare a Law che sarebbe stato meglio comprare un altro “fantoccio da macello”, anche se dovevo ammettere che per quanto raccapricciante fosse, un po’ mi ero affezionata a Chuck.
Presi il bisturi e mi apprestai a lacerare il tessuto epidermico del manichino con l’intenzione di ricucirlo, ma prima che potessi farlo, una forza invisibile mi sbalzò in avanti. Lo strumento mi cadde di mano e io grugnii infastidita. Il sottomarino doveva essere stato soggetto ad una turbolenza piuttosto violenta. Capitava, ogni tanto: il mare del Nuovo Mondo era imprevedibile e talvolta finivamo dentro ad una corrente intensa che ci trascinava dove non saremmo dovuti finire. Poi però Bepo e Jean Bart riuscivano a tirarci fuori dai pasticci in pochi minuti. Non era niente di grave e il Polar Tang non riportava quasi mai danni, era più il fastidio che tale turbolenza causava a quelli che vi navigavano dentro, costretti a interrompere momentaneamente le proprie attività. Una volta Ryu si era inferocito perché si erano rotti un paio di piatti, ma gli era passata quando aveva capito di non poter incolpare una corrente oceanica per quanto successo.
Mi aggrappai al lettino e, quando la turbolenza fu finita, mi affrettai a raccogliere il bisturi. Udii un lamento di dolore e mi ritirai su per capire cosa fosse successo. Quando lo vidi, lo strumento cadde di nuovo a terra.
«Oh, merda!» esclamai, sgranando gli occhi. Sulla mano di Kenji si era formato uno squarcio che gli attraversava tutto il palmo per obliquo. Quando c’era stato l’impatto con la corrente, lui aveva già iniziato a incidere. Il bisturi doveva essergli scivolato di mano ed essergli finito nell’altra mano, la sinistra, con la lama dalla parte sbagliata.
Mi alzai in piedi e mi guardai intorno, alla ricerca delle garze. Il sangue zampillava come se fosse uscito direttamente da una fontanella. Molto probabilmente si era reciso una vena. Non c’era tempo da perdere. Recuperai in fretta e furia le garze e gli tamponai la ferita come meglio potevo, per fermare l’emorragia.
Accidenti a me! Perché ogni volta che mi trovavo in un’infermeria con qualcuno, quel qualcuno doveva farsi male!? Non ero preparata a questo, maledizione. Non un’altra volta.
«Vado a chiamare un medico.» Schizzai verso l’ingresso dell’infermeria. «Tu continua a tamponare la ferita.»
«No,» protestò lui, tuttavia calmo. Mi rigirai, fissandolo interrogativa. Si alzò dalla sedia e venne verso di me, continuando a tamponarsi la mano con le garze. «Tu sei un medico. Non hai bisogno di chiamarne altri.»
Sbuffai infastidita, con le dita che stringevano la maniglia della porta.
«Kenji, non abbiamo tempo per metterci a fare questi giochetti,» lo ammonii, mentre la preoccupazione cresceva in me. Non mi sembrava il caso di giocare all’Allegro Chirurgo.
«Non sono giochetti. Si tratta della tua riabilitazione. Vuoi tornare ad operare come facevi prima? Allora hai bisogno di stimoli reali. Di carne umana da ricucire, di vera carne umana da ricucire,» affermò perentorio, corrugando appena la fronte e fissandomi con un’espressione che non gli avevo mai visto prima. Lo fissai a mia volta, gli occhi pieni di confusione.
Girai la maniglia, sopraffatta dalla paura di non riuscire a fare ciò che mi stava chiedendo. A quel punto, Kenji smise di tamponare la ferita ed il sangue ricominciò a zampillare. Spalancai gli occhi, sconcertata, e mi fiondai verso di lui.
«Che stai facendo!?» gli gridai, cercando di recuperare le bende. Sarebbe potuta andare a finire male, accidenti a lui!
Mi piazzò la sua carne lacerata sotto il naso, nelle iridi si intravedeva una fermezza che non era da lui.
«Non tamponerò la ferita finché non ti deciderai a suturarmela.»
C’era da dire che quel ragazzo era pieno di sorprese. Mai mi sarei aspettata che potesse essere così autoritario.
Osservai il taglio. Sembrava piuttosto profondo. Era necessario intervenire in qualche modo. Il sangue continuava a sgorgare copioso, al punto che si stava iniziando a formare una minuscola chiazza magenta sul pavimento immacolato dell’infermeria. Sospirai.
«D’accordo. Ci penso io,» asserii infine, sconsolata. «Però non intendo pulire il macello che hai fatto, che sia chiaro.»
Il rosso si abbandonò ad una piccola risata, poi piazzò di nuovo le garze sopra la ferita. Gli feci cenno di andare a sedersi su una delle sedie e tirai quello che mi sembrava un sospiro di sollievo.
“È l’attimo buono per scappare,” la mia mente tentò di sollecitare la parte razionale che c’era in me mentre andavo a disinfettarmi le mani. Ci provai anche, a fuggire, ma i miei piedi non rispondevano a ciò che comandava loro la testa. Era come se loro sapessero che non potevo continuare a darmela a gambe di fronte al primo ostacolo che incontravo. Avevo scelto io di rimanere lì e questo significava che non potevo più essere la ragazzina impaurita che ero un tempo. Dovevo affrontare le mie paure e vincerle, era questo l’unico modo per sopravvivere, in quell’universo come in qualsiasi altro universo. Perché era questo che era la vita. Era questo che voleva dire avere un sogno e combattere per esso.
Recuperai tutto l’occorrente e mi lasciai cadere sulla sedia di fronte a quella sulla quale era seduto Kenji. Mi infilai i guanti mentre lui allungava il braccio con un sorrisetto idiota stampato sulla faccia. Non capivo proprio cosa ci fosse da sorridere. Aveva uno squarcio che gli attraversava il palmo della mano e pretendeva che fossi io, che mesi prima avevo avuto problemi perfino ad applicare un fottuto cerotto, a suturarglielo. Forse avevo sopravvalutato la sua sanità mentale.
Pulii con cura la ferita con il disinfettante e quando il sangue si fu fermato presi la siringa anestetizzante e spinsi l’ago nella lacerazione. Il rosso fece una smorfia di dolore.
«Mi dispiace,» mi scusai, sebbene fossimo entrambi consapevoli che quella dolorosa procedura fosse necessaria.
«A quanto pare, dopo oggi, la stima che hai di me diminuirà drasticamente,» provò a sdrammatizzare, senza ottenere i risultati sperati.
«Stai zitto e lasciami concentrare,» lo sgridai. Fino a lì non c’erano stati intoppi o problemi. Quella, però, era la parte facile. Adesso che arrivava il difficile avevo bisogno della massima concentrazione e del silenzio più assoluto. Kenji obbedì.
Prima di cominciare a suturare chiusi gli occhi per appena un paio di secondi. Visualizzai me stessa nel mio posto speciale e mi impressi bene nella mente le sensazioni che mi dava quel luogo. Presi un respiro profondo; l’unico che potessi permettermi. Non c’era nulla da temere. A parte un’altra turbolenza. Quella poteva essere fatale.
Mi agitai sulla sedia, fissando con ansia la porta dell’infermeria. Forse sarebbe stato meglio andare a chiedere delucidazioni sulla situazione a Jean Bart, per evitare rischi.
«Ce la puoi fare. Sai cosa devi fare,» affermò il rosso, notando la mia crescente angoscia, che si era manifestata con un lieve tremolio al polso. Annuii distrattamente. Certo che sapevo cosa dovevo fare. Il problema era farlo.
“Smettila di tremare, ti prego,” supplicai la mia mano tra me e me, invano. Continuava a tremare come una foglia, e non sapevo come fare per fermarla.
«Trova il tuo ritmo,» intervenne Kenji, posando la mano sana sulla mia spalla. Puntò le iridi nelle mie e strinse appena le dita sulla mia scapola, per incoraggiarmi.
“Trova il tuo ritmo.” La faceva facile, lui che lo aveva già trovato da tempo. Io neanche sapevo dove iniziare a cercare. La stanza era piombata in un silenzio assordante, tanto che riuscivo a sentire il mio cuore che batteva. Era tanto rapido che sembrava stesse fuggendo da qualcosa. Magari tentava di scappare dal mio corpo. Come biasimarlo, anche io avrei voluto farlo. Mi concentrai sulle pulsazioni, sul mio respiro, sui tremolii che faceva la mano. Fu lì che capii: non avevo bisogno di trovare il mio ritmo, lo avevo già fatto. Il mio corpo era il ritmo. Un ritmo che mi comunicava che ero viva. Dopo tutto quello che avevo passato, ero viva.
Il polso tremava ancora e Kenji stava iniziando a diventare pallido, dovevo sbrigarmi. Ritornai con il pensiero sull’Isolachenoncè e lasciai che quel posto mi calmasse. Mi resi conto che il mio corpo e la mia mente stavano combattendo l’uno contro l’altro, invece di aiutarsi. Mi portai la mano sinistra sul petto, nel punto in cui i battiti cardiaci erano più forti. Pian piano, il cuore rallentò e il polso smise di tremare, come se avessero capito che la soluzione era collaborare. Adesso avevo un luogo immaginario che mi tranquillizzava e una melodia solo mia che mi ricordava con orgoglio che ero viva. Sorrisi e mi apprestai a cominciare. Potevo farcela.
 
Non appena ebbi finito di fasciare la ferita mi accasciai sulla sedia, appoggiando la schiena allo schienale e gettando indietro la testa, sfinita. Tuttavia il mio momento di riposo durò poco, perché mi ricordai che di fronte a me c’era una persona che aveva un taglio sulla mano. Un taglio lungo e profondo, che io ero riuscita per miracolo a suturare. Mi ritirai su controvoglia e guardai Kenji.
«Stai bene?» gli chiesi, leggermente preoccupata. Lui sorrise ed annuì.
«Io sì. Mi hai rimesso a nuovo,» affermò soddisfatto. «E tu?»
Quella domanda mi spiazzo un po’. Mi alzai, allargai le braccia e feci un’espressione sorpresa.
«Sì!» esclamai mettendomi a ridere. Stavo bene! Certo che stavo bene. Avevo appena effettuato una sutura impeccabile e non mi ero dovuta interrompere perché il polso tremava. La paura e l’angoscia se ne erano andate. Ero tornata in pista.
«Ce l’ho fatta.» Mi piegai in avanti per poggiare le mani sulle ginocchia. All’improvviso sentivo sulle spalle tutta la fatica che avevo fatto in quelle settimane. Tuttavia era un peso dolce da sopportare, perché pochi minuti prima tale fatica era stata ripagata.
Io e Kenji ci fissammo. Per qualche minuto, entrambi ridemmo di gusto. Poi, quando avemmo finito di sghignazzare come due bambini, gli corsi incontro d’istinto e lo abbracciai. Gli appoggiai il mento sulla spalla e lo tenni stretto a me per diversi minuti. Le sue braccia avvolgevano il mio corpo, creando un involucro caldo e sicuro. Potevo sentire il battito rapidissimo del suo cuore contro il mio petto. In quel momento, probabilmente, lui era molto più contento – e imbarazzato – di me. Mi staccai da lui, gli rivolsi un sorriso incerto e gli diedi un’amichevole pacca sulle spalle.
«Bentornata,» fece, una volta che ebbe ripreso il controllo di sé.
«Grazie.» La mia espressione era fiera e gli occhi luccicanti. Ovviamente, il mio ringraziamento si estendeva a tutto ciò che il rosso aveva fatto per me in quelle lunghe e dure settimane, e lui ne era più che consapevole. Annuì impercettibilmente, come se volesse farmi capire che avevo il suo rispetto, e io ricambiai il suo cenno.
All’improvviso, la sua faccia si illuminò, come se di colpo si fosse ricordato di qualcosa di importante.
«Aspetta qui.» Uscì dall’infermeria senza darmi il tempo di ribattere. Non sapevo se dovevo preoccuparmi o meno.
Tornò qualche minuto dopo, nella mano – in quella buona – aveva qualcosa. Spalancai la bocca, piacevolmente sorpresa. Era... la mia bottiglia di vino! Cercai di trattenere la mia gioia, anche per rispetto verso di lui e la sua storia travagliata, ma ero più contenta di quanto volessi dare a vedere. Perché il fatto che mi stesse restituendo la bottiglia di vino significava che ero riuscita nel mio intento. Ero guarita. Non del tutto, certo, ma era un enorme passo avanti. E quel successo meritava di essere festeggiato in maniera adeguata.
«È tua. In quanto tuo medico curante, ti do il permesso di celebrare la tua vittoria. Ce l’hai fatta, Cami.»
Sorrisi e mi affrettai a prendere la bottiglia. Avevo paura che potesse cambiare idea da un momento all’altro e decidere di negarmi di nuovo il vino. La fissai con occhi sognanti. Quanto mi era mancata, l’avevo persino sognata un paio di notti.
«Penguin e Shachi stanno aspettando questo momento da più tempo di te,» affermò il mio compagno, ridacchiando. Risi anche io nell’immaginarmi quei due con la bava alla bocca che attendevano di darsi alla pazza gioia in una delle nostre serate all’insegna dell’alcol. Era da tanto che non ce ne concedevamo una.
Guardai ancora una volta la bottiglia, che stavo cullando dolcemente tra le mani come se fosse un bebè. Se fosse stato per me l’avrei aperta subito, ma c’era qualcosa che me lo impediva.
Passai a osservare il rosso, in piedi a un paio di metri da me. Sembrava sinceramente contento per me, eppure... il modo in cui mi guardava quasi mi faceva sentire in colpa. E non era solo per la mia intenzione di tracannare senza ritegno l’intera bottiglia di vino, c’era qualcos’altro. Sentivo di doverlo ripagare in qualche maniera per tutto quello che aveva fatto per me. Non era giusto che dopo tutto il tempo e le energie che mi aveva dedicato io lo lasciassi lì, da solo, per andare a festeggiare la nostra vittoria, la vittoria che avevamo ottenuto insieme, con i miei amichetti, soprattutto se per “festeggiare” si intendeva “sbronzarsi come se non ci fosse un domani”. Sarebbe stato come dargli due delusioni in una volta sola, sarebbe stato un colpo basso, da parte mia.
Sospirai. Avrei pur sempre potuto sbaciucchiare – e bere – la bottiglia di vino più avanti, in pace e lontano da occhi indiscreti.
«Allora immagino che dovranno aspettare un altro po’.» Mi strinsi nelle spalle. «Per questa sera potremmo fare qualcos’altro.»
Le sue iridi si illuminarono.
«Vuoi dire... io e te?» mi chiese speranzoso. Arrossì più del dovuto. Decisamente più del dovuto. Aveva assunto lo stesso colorito del body di Emporio Ivankov.
«Sì, io e te. Che ti piacerebbe fare?»
Se fossimo stati nel mio mondo di provenienza gli avrei proposto di guardare un film, ma lì – e soprattutto su quel sottomarino – non c’erano molte cose da fare per ricrearsi. Non in due, almeno. O meglio, le attività ricreative da fare in coppia non mancavano, il problema era che nessuna di esse comprendeva il rimanere con i vestiti addosso. E mai e poi mai avrei svolto tali attività con Kenji. Io e Sabo, però, ci saremmo divertiti.
«A me piace giocare a scacchi.» Aveva le iridi sempre più colme di gioia e speranza.
«A scacchi, eh?» Cercai di mascherare la mia disapprovazione con un sorriso fintissimo. Non mi andava molto di trascorrere la serata a giocare a scacchi. Se prima li odiavo, dopo aver fatto varie partite con Marco li odiavo ancora di più. Era semplicemente un gioco di una noia mortale, per quanto mi riguardava. Però lo dovevo a Kenji, perciò tutto ciò che potevo fare era ingoiare il rospo e fingermi entusiasta. E poi ero così contenta che niente avrebbe potuto minare il mio buonumore.
«E va bene,» acconsentii infine, più rassegnata che entusiasta.
«Davvero?» Il suo tono di voce uscì più acuto di almeno due ottave. Era felicissimo, sprizzava allegria da tutti i pori, tanto che faceva tenerezza. In quel momento impersonava l’innocenza. Il mondo aveva bisogno di più persone come lui.
Fu un attimo. Non me ne accorsi nemmeno. Mi ritrovai semplicemente la sua mano sana sulla guancia e le sue labbra pressate sulle mie.
Quando si staccò da me eravamo entrambi stralunati, incapaci di articolare una parola o un pensiero. Feci l’unica cosa che riuscii a fare. Aggrottai la fronte, completamente spiazzata. A quanto pareva mi ero sbagliata. Innocenza un corno.
Dopo che ebbe realizzato cosa aveva fatto si fece piccolo piccolo e avvampò. Poi sbiancò e diventò pallido come un cadavere. Iniziò anche a sudare. Io, invece, sbattei più volte le palpebre per assimilare il tutto. Me ne stavo lì, immobile, ancora troppo scossa per poter fare qualcosa. Non ero arrabbiata, né mi sentivo violata, dopotutto era di Kenji che si stava parlando, non aveva cattive intenzioni e non ero nemmeno sicura che sapesse cosa fosse la malizia. Molto probabilmente aveva agito d’impulso, sfruttando quei dieci secondi di coraggio che gli erano stati regalati dall’euforia del momento che aveva offuscato la sua lucidità. No, non ero infastidita, ero solo... sorpresa. Non me lo aspettavo da lui, tutto qui.
Era stato un bacio che era durato un istante, ma supponevo che avesse lasciato l’amaro in bocca – quasi letteralmente – ad entrambi. Perché anche il più piccolo degli istanti può causare un danno irreparabile. Io lo sapevo bene. Certe cose non si potevano più cancellare.
«Oddio, mi... mi dispiace! Io non... non so cosa mi sia preso!» balbettò il rosso. Era in confusione totale. Era così mortificato che temevo che sarebbe corso sul ponte del Polar Tang per buttarsi in mare. Doveva calmarsi, dovevo fare qualcosa.
«Sai che c’è?» iniziai, ritrovando a stento la mia compostezza. «Per stasera va bene così,» lo rassicurai, sorridendogli materna.
Lo pensavo davvero. Per quella sera andava bene così. Avevo raggiunto il mio tanto agognato obiettivo, ero riuscita a completare una sutura senza che il polso tremasse e avevo riavuto il vino. Vino che a quel punto non avrei esitato a tracannare per dimenticarmi di quella piccola disavventura. In ogni caso, ero contenta, e niente, niente avrebbe potuto scalfire il mio buonumore.
Per quella sera, glielo concedevo. Ma ciò non significava che non avremmo dovuto chiarire la questione in seguito.

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Capitolo 7
*** Rimpatriata ***


La porta della mia cabina cigolò per poi richiudersi dolcemente, svegliandomi. Era entrato qualcuno. Sbuffai. Ormai quei maleducati dei miei compagni non si premuravano nemmeno più di bussare. Forse non avevo sentito la sveglia ed erano venuti a richiamarmi. Aprii gli occhi controvoglia, girai la testa e guardai fuori dall’oblò per controllare la situazione. Feci sprofondare la nuca nel cuscino e grugnii. Certo che non l’avevo sentita, la sveglia. Non aveva ancora suonato. Era buio. Buio pesto. Totale. Nero come la pece. Adesso venivano a tormentarmi anche di notte. Che cosa avevo fatto di male per meritarmi questo?
Sollevai appena la testa – che pesava come un macigno – dal cuscino per capire chi fosse il mio disturbatore e lanciargli mentalmente tutte le maledizioni possibili. Davanti ai miei occhi assonnati apparve una figura sfocata, ma perfettamente riconoscibile. Capelli neri, occhi grigi, pizzetto, aria perennemente annoiata. Law. Era Law. E chi altri poteva essere, nel bel mezzo della notte? Senza dubbio non uno sano di mente.
Buttai di nuovo la testa sul guanciale, nella speranza che il materasso mi inghiottisse e mi evitasse qualsiasi conversazione volesse affrontare il capitano. Ero stanca e avevo bisogno di riposare per riprendermi da tutte le emozioni che avevo vissuto nei giorni precedenti. Erano settimane che mi trascinavo dietro la stanchezza, a dire la verità. Volevo solo dormire in santa pace per una notte intera. Era chiedere troppo? Cosa c’era di tanto urgente da non poter aspettare la mattina? Decisi di ignorarlo. Forse, così facendo, avrebbe intuito che volevo riposare e se ne sarebbe andato.
«La colpa è mia ché ho la chiave e non chiudo mai la porta!» piagnucolai, ancora immersa in uno stato di dormiveglia. Aprii un occhio e sbirciai la situazione. Law era ancora lì, non si era mosso di un centimetro. Si stava dimostrando più paziente – o tignoso, dipendeva dai punti di vista – del previsto.
«Almeno regalami una mascherina per gli occhi, così non sono costretta a vedere la tua brutta faccia nel bel mezzo della notte.»
«Sono le sette,» si limitò a dire. Non sembrava infastidito, però. Mi parve addirittura divertito. Non che non fosse scontato, dato il suo sadismo non mi sarei stupita se fosse venuto a darmi fastidio apposta, per puro intrattenimento personale.
«Ah...» mi lasciai scappare, per poi riaprire gli occhi di scatto e drizzare il busto. «Le sette!? Non è possibile, fuori è ancora buio,» constatai confusa. Il mondo doveva essersi capovolto senza che me ne accorgessi.
«Osserva meglio.» Fece un impercettibile cenno del capo verso l’oblò.
Quando lo vidi, capii. Non era il cielo quello che stavo guardando, ma il mare. Ci trovavamo nelle profondità dell’oceano.
«Perché siamo ripartiti così presto? Di solito non facciamo immersione fino alle otto.» Tornai a fissarlo. Anche di prima mattina era bello. Io sembravo una reduce di guerra, mentre lui... Non avrei detto che aveva un aspetto fresco e riposato, ma era bello. Nella sua complicatezza, aveva una bellezza semplice, del tipo che era capace di toglierti il fiato. Ormai, vedendolo tutti i giorni per più di due anni, ci avevo fatto l’abitudine, tuttavia non era sempre stato così. I primi tempi, quando girava indisturbato per casa mia, la mia mente andava in tilt ogni volta che i miei occhi si posavano su di lui. Mi odiavo per questo, però era più forte di me, non potevo farci niente. Proprio come con Sabo.
«Oh, mio Dio!» esclamai sgranando gli occhi, una volta che mi fui ricordata cos’era successo la sera precedente. Pensare al Rivoluzionario mi aveva indirettamente fatto ricordare del bacio che mi aveva dato Kenji. «Non puoi capire cosa è successo ieri sera!»
«Non mi interessa,» fece Law, in tono piatto. A quel punto scostai la coperta da sopra le gambe e mi misi a sedere sul bordo del letto.
«Credimi, dopo che te lo avrò raccontato ti interesserà,» dichiarai con un’espressione eloquente.
Non si trattava di un mero bisogno di fare gossip. Il Capitano aveva il diritto di sapere e il dovere di suggerirmi cosa fare. Conosceva entrambe le parti coinvolte, e avevo motivo di credere che sapesse meglio di noi quali fossero i nostri sentimenti. Perciò speravo che potesse darmi un consiglio, uno di quelli crudi e sinceri che solo lui era capace di dare.
«No. Non mi interessa,» ripeté atono.
Iniziai a infastidirmi. Perché non voleva starmi a sentire? Poteva almeno fingere che gli importasse qualcosa. Era pur sempre il Capitano.
«Fidati, ti interessa, solo che ancora non lo sai. Mi devi ascoltare, Law. Per una volta devi ascoltare quello che ho da dire, perché è importan...»
«Smettila di farmi perdere tempo,» mi interruppe, facendomi digrignare i denti. Quell’uomo metteva a dura prova i miei nervi ogni volta che dovevamo affrontare un discorso di qualsiasi tipo.
«Alzati, lavati e vestiti,» mi impose, categorico.
Lo fulminai con lo sguardo. Era piombato in camera mia di prima mattina, mi aveva svegliato e si era rifiutato di ascoltare ciò che avevo da dire soltanto per venirmi ad impartire degli stupidi ordini? No. Non era così che funzionava. Non con me. Feci per parlare, adirata ogni oltre misura, ma non potei esprimere il mio disappunto, perché lui fu più veloce di me.
«Stiamo per incontrare Cappello di Paglia e la sua ciurma,» disse, come per spiegarmi il perché del suo comportamento.
Mi bloccai, sulla mia faccia c’era dipinta un’espressione da ebete. Tutta la mia ira era scemata in un nanosecondo, per lasciare posto allo sconcerto. Per una decina di secondi rimasi immobile, senza capacitarmi di ciò che avevo appena udito.
«Cosa?» chiesi con un filo di voce. Non ero sicura di aver capito bene. Forse era la mancanza di sonno a farmi confondere.
«Hai capito benissimo. Preparati,» mi impose con durezza, per poi girare i tacchi e iniziare a camminare verso la porta.
Emisi un risolino nervoso. “Preparati”. La faceva facile, lui. Tanto ero io quella a cui aveva lanciato una granata in piena faccia senza avvertire. E se ne stava pure andando, lasciandomi lì, imbambolata come un’idiota. Law aveva tante qualità, ma il tatto non era di certo una di quelle.
Alzai la testa di scatto. «Quando? Quando li incontreremo?»
La risposta era chiara ad entrambi, ma volevo comunque una conferma.
«Tra un paio d’ore.»
Per una frazione di secondo, smisi di respirare. Allora era vero. Ecco perché avevamo fatto immersione così presto. Perché stavamo navigando verso la Thousand Sunny.
«Sei serio? Perché ti giuro che se questo è uno scherzo...»
Mi fissò con uno sguardo che parlava da sé, impedendomi – ancora – di finire la frase. Era serissimo. Un milione di pensieri presero a vorticarmi in testa. Uno in particolare spiccava tra tutti: non ero pronta. O meglio, ero prontissima a rivedere i miei amici, non li vedevo da tanto tempo e desideravo davvero ricontrarli, solo che non ero pronta ad affrontare le conseguenze che avrebbe portato quella rimpatriata. Perché il fatto che ci stessimo ricongiungendo alla ciurma di Cappello di Paglia stava a significare che a breve avremmo combattuto contro Kaido. E io non ero sicura di riuscire ad affrontare una guerra contro un Imperatore e il suo esercito di bestie inumane. Sapevo che prima o poi sarebbe giunto quel momento, lo avevo sempre saputo, ma adesso era diventato tutto reale. All’improvviso. Senza che avessi il tempo di prepararmi.
«Perché diavolo non me lo hai detto prima!?» gridai, facendo fermare il Capitano sull’uscio della stanza. Mi alzai in piedi, troppo nervosa per poter rimanere seduta sul materasso.
«Avevi cose più importanti da fare,» rispose, senza girarsi. Allargai le braccia in segno di resa dinnanzi alla sua tranquillità. Mi aveva tenuto all’oscuro di una cosa che per me era molto importante e nemmeno sembrava importargli. Era snervante. Certo, non potevo dargli torto, ma ciò non stava neanche a significare che avesse ragione, o che pensassi che avesse ragione.
«Me lo hai tenuto segreto!» esclamai, per metà adirata e per metà offesa. Ancora una volta, mi ritrovavo ad essere l’ultima che veniva a sapere le cose. E venivo a saperle senza margine di tempo per prepararmi psicologicamente, sempre che mi venisse concessa la grazia di essere informata. Non credevo e non pretendevo di avere dei diritti speciali all’interno di quella ciurma, però pensavo che tutti loro avessero una considerazione un po’ più alta di me. Oppure, forse, Law non mi aveva detto niente perché pensava che non fossi in grado di gestire il tutto. Quali che fossero le sue motivazioni, era il principio ad essere sbagliato.
«Eppure sei sopravvissuta lo stesso,» affermò, il tono inespressivo e privo di qualsiasi emozione.
Grugnii, incapace di formulare una frase di senso compiuto. Non potevo dargli torto neanche stavolta. La sua calma, la sua dannatissima calma, mi faceva imbestialire. Perché non capiva. Non capiva le ragioni del mio risentimento.
«Ti consiglio di sbrigarti,» fece, per poi uscire indisturbato dalla stanza.
Feci ricadere le mani lungo i fianchi e risi. Rimasi ferma a ridere per un paio di minuti. Mi sembrava di essere all’interno di una barzelletta, una barzelletta complicata, di quelle che ti lasciano l’amaro in bocca e che fanno ridere solo i pochi che la capiscono. Poi, però, mi ridestai. Mi dissi che non era il caso di prendersela troppo per la scelta che aveva fatto Law. Dopotutto, per quanto mi facesse esasperare, le sue decisioni si rivelavano essere sempre per il mio bene. E poi, non era importante il modo in cui ero venuta a sapere che i Pirati Heart stavano per incontrarsi con i Mugiwara. Era importante il fatto che i Pirati Heart stessero per incontrarsi con i Mugiwara.
Mi spogliai rapidamente e mi infilai sotto la doccia. Non c’era tempo da perdere. Dovevo prepararmi. Finalmente stavo per ricongiungermi ai miei amici.
 
Bussai alla porta dello studio di Law, per l’ennesima volta quella mattina. Non aspettai nemmeno che mi desse il permesso per entrare.
«Quanto manca?» chiesi, facendo capolino dalla porta con la testa. Lui non alzò la testa dai documenti che stava leggendo.
«Chiederlo ogni cinque minuti non farà passare il tempo più in fretta.» Non era infastidito dalla mia agitazione, sapeva quanto significasse per me rivedere tutti loro. E poi non poteva irritarsi più di tanto, dato che me lo aveva detto a poche ore dall’incontro. Mi ero lavata, vestita e preparata a tempo record. Per l’occasione avevo scelto un abbigliamento sobrio, più comodo che elegante, che consisteva in una canottiera bianca, una giacca nera e degli shorts dello stesso colore. Ai piedi, ovviamente, avevo sempre i miei fedelissimi stivali con i pugnali incorporati. Dopo un lungo dibattito interiore con me stessa, avevo deciso di lasciare i capelli sciolti: volevo che i Mugiwara notassero il mio cambio di look. Quel giorno niente divisa, per me. Non c’era stato bisogno che io e il Capitano ci mettessimo d’accordo, sapeva che non l’avrebbe mai avuta vinta. Non l’avrei messa neanche se mi avesse minacciato di farmi pulire i bagni da sola per un anno.
«È colpa tua. Evitando di dirmelo, non mi hai permesso di prepararmi psicologicamente. Ergo, sto vivendo tutte in una volta le emozioni che avrei dovuto provare gradualmente,» gli spiegai, con una calma teatrale e un tono da saputella. In un’altra vita avrei potuto fare l’attrice di opere drammatiche.
«Cosa volevi dirmi?» chiese, sempre senza alzare gli occhi dai fogli che stavano sulla sua enorme scrivania.
Ci pensai un attimo, nel trambusto generale di quelle ore mi era passato di mente. Quando mi ricordai, osservai il corridoio con circospezione per accertarmi che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, poi entrai nello studio e mi richiusi la porta alle spalle. Mi compiacqui nel notare che quella stanza non era cambiata di una virgola. Era da parecchio che non entravo lì dentro, eppure era rimasto tutto uguale, ordinato e asettico.
Mi appoggiai alla parete alla sua destra e incrociai le braccia.
«Ieri sera Kenji mi ha baciata,» dissi tutto d’un fiato, come se pronunciare quelle parole rapidamente potesse renderle meno reali.
Law alzò appena gli occhi su di me e mi guardò con uno sguardo per niente sorpreso. Anzi, avrei detto persino che se lo aspettava, quasi avesse saputo fin dall’inizio che sarebbe andata a finire in questo modo tra me e il rosso, al punto che ritornò a concentrarsi sui suoi documenti come se nulla fosse.
«Hai intenzione di dire qualcosa?» mi spazientii, iniziando a picchiettare un piede per terra.
«Non c’è bisogno che io ti dica nulla. Sai già cosa fare.»
Sospirai. Aveva ragione, come al solito. Lo adoravo e lo odiavo allo stesso tempo quando era così, perché con poche parole riusciva a farmi capire ciò che c’era da capire.
Adesso che avevo il quadro completo della situazione, sapevo già quello che dovevo fare, dovevo solo trovare il modo di renderlo il più indolore possibile per il povero Kenji. Accidenti a lui, però. Poteva anche evitare di complicarmi ulteriormente la vita stampandomi un bacio sulle labbra. La sera precedente non avevo dato troppo peso a quel bacio, più che altro a causa dello stato di euforia in cui ero, ma era proprio l’euforia ad avermi messa in quel guaio e adesso mi rendevo conto di doverne affrontare le conseguenze.
Il rumore di un cassetto che si chiudeva mi distrasse dai miei pensieri. Quando tornai alla realtà, notai – non senza una certa sorpresa – che il Capitano aveva rimosso i documenti dal tavolo. Non sapevo se preoccuparmi o meno. Se aveva deciso di interrompere la sua lettura poteva significare solo una cosa, una cosa che mi turbava in particolar modo: la faccenda era più seria del previsto.
Il chirurgo incastonò le iridi alle mie, la sua espressione divenne torbida.
«Non spetta a me dirti come comportarti. Ma qualunque cosa tu decida, non lo ferire.» Quando pronunciò le ultime parole della frase il suo tono di voce si ammorbidì, e dentro di me sorrisi. A modo suo, stava cercando di proteggere uno dei suoi sottoposti.
«Non è mai stata mia intenzione farlo.» Lo pensavo davvero, Kenji era l’ultima persona che avrei mai voluto ferire.
«Lui non è come gli altri,» continuò Law, distogliendo lo sguardo per appena un paio di secondi. Quando faceva così stava a significare che si stava ricordando di qualche episodio particolare. Molto probabilmente aveva ripensato al giorno in cui lui e Kenji si erano incontrati per la prima volta. Il rosso me lo aveva raccontato. Come ci si aspetterebbe dal Chirurgo della Morte, il loro era stato un incontro un po’ particolare, ma alla fine, in qualche modo, si erano trovati. Erano stati entrambi fortunati.
«Lo so. Lui è... buono. E gentile, e premuroso, e altruista,» dissi, in un sospiro. Certe volte mi chiedevo che cosa ci facesse con una banda di pirati come la nostra. Per quanto la sua aria apparisse minacciosa durante una battaglia, l’etichetta da criminale non gli si addiceva per niente. La sua sensibilità era così tangibile che tantissimi avversari lo sottovalutavano e rimanevano fregati dalle loro stesse convinzioni. Proprio come me, non era un asso nei combattimenti, ma quando si trattava di combattere per proteggere quelli a cui voleva bene, non si risparmiava. Era una bella persona, dovevo salvaguardare la sua anima.
«Come si può evitare di spezzare il cuore a qualcuno?»
Pregai che Law potesse darmi ancora una volta la risposta che stavo cercando.
«Non si può,» replicò, totalmente inespressivo. Non fui capace di nascondere la mia delusione. Non erano le parole che avrei voluto sentire. «I deboli non possono...»
«Scegliere come morire,» completai la frase per lui, che subito dopo ghignò, sorpreso dalla mia prontezza. L’avevo sentita così tante volte che ormai ero capace di pronunciare automaticamente le parole prima che il mio cervello le metabolizzasse. Non per niente, feci un po’ di fatica a trovare il nesso tra un cuore spezzato e il fatto che i deboli non potessero scegliere come morire. Quando ci arrivai, mi chiesi se il temibile Chirurgo della Morte si fosse mai innamorato di qualcuno. Se si fosse mai innamorato veramente di qualcuno. Il – tragicomico – fatto che la pensasse come Doflamingo mi portava a credere di no. Law era convinto che provare dei forti sentimenti per un’altra persona rendesse fragili. Come si sbagliava. Avere un cuore infranto non era di certo una cosa piacevole, ma precludersi la gioia che dava l’amore era molto peggio. Maya ed Omen ne erano l’esempio vivente, nonché quello più vicino a noi. Per quanto fastidiosi potessero essere gli sguardi languidi che si scambiavano, finivano sempre per allietarci la giornata, e tutti noi un po’ li invidiavamo per quello che avevano, perché rappresentavano l’incarnazione della felicità. Ogni volta che erano insieme sembrava che avessero entrambi trovato il senso della vita. Perché era questo che faceva l’amore: dava un significato anche alla più insulsa delle vite.
«Quindi... secondo te è colpa di Kenji, perché è caduto nella trappola dell’amore e così facendo si è reso vulnerabile,» considerai, alzando un sopracciglio e fissando Law con aria enigmatica.
«Non ho detto questo,» fece scettico, appoggiando la schiena allo schienale della sedia. Sul mio volto comparve un sorrisetto vittorioso. Pronunciando quelle parole mi aveva dato implicitamente ragione.
«Sì, ma...»
«Parla con lui,» tagliò corto. Non capii se il suo fosse un ordine oppure un consiglio. «Il prima possibile.»
Presi un respiro profondo e mi imposi di chiarire la questione quello stesso giorno. Non potevo aspettare oltre. In tutto quel trambusto, una cosa l’avevo capita: non ero ancora pronta per innamorarmi, che si trattasse di Kenji o di qualsiasi altro essere vivente. Decidere di stare con qualcuno richiedeva impegno, significava prendersi cura dell’altro e giungere a compromessi quando necessario. E io non volevo farlo. Prima di poter pensare di prendermi cura di un altro essere umano avevo bisogno di focalizzarmi sui miei bisogni e su ciò che volevo dalla vita. Dovevo imparare ad amare me stessa. Perciò non potevo continuare a dare al rosso false speranze, non potevo continuare ad illuderlo. Era meglio mettere le cose in chiaro fin da subito e prendere le dovute distanze da lui. Perché conoscevo i suoi sentimenti e conoscevo i miei, e dopo il bacio della sera precedente avevo realizzato che lui si era perdutamente innamorato di me. Dopotutto, non era il tipo di ragazzo che si metteva a baciare persone a caso solo per il gusto di farlo. Quel modo di essere apparteneva a un altro tizio di mia conoscenza, che con Kenji non aveva nulla da spartire.
«Hai intenzione di rimanere qui tutto il giorno?» La voce di Law mi distrasse dai miei pensieri. Tornai a guardarlo, cercando di nascondere l’espressione da cane bastonato che era comparsa sul mio viso.
«Probabile.» Lasciai che la mia schiena aderisse completamente al muro al quale ero appoggiata.
«Non fare la codarda,» mi rimproverò lui, con un ghigno di scherno.
Stavo per rispondergli per le rime, ma qualcosa alla mia destra catturò la mia attenzione.
«Oh, mio Dio. Non ci credo,» mi lasciai sfuggire. Sulla parete opposta a lui c’era appeso un bersaglio nero e rosso, nel quale erano conficcate tre piccole frecce.
«Hai comprato le freccette!» esclamai ridendo. “Non gli sfugge niente,” pensai, ricordandomi della conversazione – o più correttamente dello scambio di vedute – che avevamo avuto durante il banchetto allestito per il mio ritorno. Gli avevo consigliato di provare il tiro al bersaglio. Continuai a ridere di fronte ad un chirurgo noncurante. A quanto pareva aveva seguito il mio consiglio, e lo aveva anche preso alla lettera. Non me lo aspettavo, era una piacevole sorpresa, che un po’ mi scaldava il cuore. Ma questo non c’era bisogno che lo sapesse.
«Spero che tu sappia farne buon uso. Converrai con me che le freccette sono un ottimo metodo per allentare la tensione e sfogare la propria frustrazione,» affermai, con una punta di malizia negli occhi. Era passato abbastanza tempo perché potessimo entrambi scherzare di nuovo su quell’argomento delicato. «Certo, sempre che tu sappia come lanciare i dardi. Se hai problemi, conosco un paio di trucchetti che potrei insegnarti.» Accompagnai le mie parole con una sapiente alzata di sopracciglia.
«Non c’è niente che tu mi possa insegnare,» replicò, ghignando sfrontatamente. Sogghignai anche io, e per qualche secondo rimanemmo così, a fissarci l’un l’altra con due espressioni arroganti e piene di complicità dipinte sul volto. E capii che quelli che mi erano mancati di più durante la mia permanenza dai Rivoluzionari erano i momenti come questo. Momenti tra me e Law che non avevano bisogno di parole, perché bastavano gli sguardi complici a dire tutto quello che c’era da dire. Adoravo quando era così: mi sembrava di aver trovato l’interlocutore perfetto, quello che mi avrebbe capito sempre e comunque, anche senza comprendermi del tutto. Lo avevo pensato anche di Sabo, ma con lui era diverso. Tanto per cominciare, non era Law. E poi, con il Rivoluzionario era tutto più semplice. Io e lui eravamo anime affini, eravamo alla ricerca della stessa cosa e ci capivamo al volo. Con il chirurgo, invece, era più complicato. Ecco perché facevo tesoro di ogni attimo di affiatamento che vivevamo.
Nel ripensare al biondo mi venne in mente una cosa importante e tornai seria.
«A proposito di freccette...» iniziai, schiarendomi la voce e richiamando l’attenzione del Capitano. «Non una parola.»
Fece una finta espressione interrogativa. Sapevo che aveva capito benissimo, eppure, dato il suo sadismo, voleva obbligarmi a dire su cosa desiderassi che tacesse.
Sbuffai esasperata ed alzai gli occhi al cielo. Il momento “magico” era finito. Era buffo come potessi passare in appena un paio di secondi dall’adorarlo al volergli stringere le mani attorno al collo.
«Su Sabo,» specificai infastidita. «Non una parola. Nessuno di loro deve saperlo.»
Il moro mi fissò con il volto inespressivo, poi un guizzò di divertimento attraversò le sue iridi, facendomi intuire che mi avrebbe fatto sudare per avere il suo silenzio e che forse non l’avrei neanche avuto.
«La cosa non deve venire fuori. In alcun modo e in nessuna circostanza. Non devi farne parola con nessuno,» gli imposi, guardandolo con la massima serietà.
Se si fosse saputo sarebbe stata una vera e propria tragedia. Rufy non avrebbe capito, ma Sanji ne sarebbe stato devastato. Tuttavia, a preoccuparmi di più, era la possibile reazione di Nami. La malizia che aveva quella ragazza era pericolosa, e visto il suo amore infinito per i soldi non mi sarei stupita se mi avesse ricattata. A parte questo, i Mugiwara molto probabilmente si aspettavano di incontrare la stessa ragazzina spaventata e innocente che avevano conosciuto tempo prima, e non volevo che il loro modo di vedermi cambiasse repentinamente. Era vero, ero cambiata, ma desideravo che vedessero solo i cambiamenti che riguardavano me stessa. Non volevo che si sapesse in giro ciò che avevo fatto nel mio “tempo libero”. Erano affari miei.
«Io sono il Capitano. Al contrario di te, non sono costretto a seguire i tuoi ordini.» La voce del chirurgo mi riportò alla realtà e mi fece roteare gli occhi. Avrei voluto rispondergli che più che un ordine la mia era una supplica, ma non volevo perdere quel poco di dignità che mi restava. Invece, assottigliai gli occhi, la palpebra di quello destro tremava dal nervoso. Poi, però, mi venne in mente una cosa e mi calmai, sulla mia faccia era comparso un piccolo sorriso.
«D’accordo. Hai ragione. Non posso darti ordini.» Mi finsi accondiscendente. Mi girai e staccai una freccetta dal bersaglio, la rigirai tra le mani e la soppesai per qualche secondo. Era liscia e leggera. «Però, proprio come tu hai fatto amorevolmente con me, posso darti qualche incentivo. Per esempio, potrei dirti che se dalla tua bocca uscisse qualche parola su ciò che è accaduto tra me e Sabo, io rivelerei a tutti il nostro piccolo segreto.»
Alzò un sopracciglio, scettico, contribuendo a far allargare il mio ghigno.
«Come, non ti ricordi? Nei mesi passati abbiamo vissuto dei momenti davvero romantici, intimi e pieni di poesia. Ci siamo praticamente baciati su Tekashi, e poi, un paio di mesi dopo, mi hai tenuto per mano. Hai perfino cantato per me,» rimarcai, sogghignando con arroganza e un pizzico di malizia. «Ovviamente cambierei un po’ la versione dei fatti, tanto non sarei io a perdere la reputazione. Diventeresti lo zimbello di tutti i Mugiwara e, se qualcuno di loro spargesse la voce, anche degli altri pirati.»
Mi strinsi nelle spalle e simulai una certa nonchalance. Il Capitano mi fissò quasi con disgusto. Non poteva prendersela troppo, però, perché avevo imparato dal migliore a rigirare la frittata. Senza rendersene conto aveva creato un piccolo mostriciattolo, e di questo dovevamo essere entrambi fieri.
«Allora, che ne dici? Abbiamo un patto?» chiesi, facendo il giro della scrivania per ritrovarmi accanto a lui. Volevo osservarlo da vicino, speravo di vederlo vacillare almeno per un nanosecondo.
«Io non stringo patti, con nessuno,» affermò, calmo. «Non sei nella posizione di potermi dare incentivi
Mi chinai verso di lui e gli poggiai una mano sulla spalla, avvicinando la bocca al suo orecchio.
«Smettila con le tue vuote minacce, Law. Non mi faresti mai del male,» gli sussurrai, la voce decisa e suadente.
«Lo vedremo,» sibilò infastidito.
Sorrisi, mi rimisi in posizione eretta e sollevai un braccio mirando al bersaglio dall’altra parte della stanza. Mi concentrai e lanciai la freccetta, per poi ghignare soddisfatta. Centro. Era migliorata anche la mia mira.
«Non dire niente e non dovrai preoccupartene,» avvisai il Capitano, dandogli le spalle e aprendo la porta.
Uscii senza lasciargli il tempo di replicare e feci qualche passo in corridoio, compiacendomi di me stessa. Facevo progressi anche nel campo dei ricatti e delle estorsioni. Però mi resi conto che c’era un’ultima cosa che dovevo ribadire al chirurgo, per cui feci inversione e tornai indietro.
«E comunque sappi che non ti perdonerò per non avermi detto che stavamo per incontrare Rufy,» gli dissi una volta che ebbi fatto per l’ennesima volta capolino nello studio.
Law non si curò della mia esclamazione. Era troppo intento a prendere la mira verso il bersaglio appeso al muro. Probabilmente nemmeno si era accorto della mia presenza. Aveva l’aria assorta, il braccio sollevato e una delle freccette in mano. Richiusi la porta in tutta fretta per evitare di scoppiargli a ridere in faccia, poi mi abbandonai ad una lunga e grassa risata. Risi così tanto che dovetti appoggiare le mani alle ginocchia per non collassare sul pavimento. Mi ero scelta un Capitano pieno di sorprese.
 
Mi torturai nervosamente le dita, alla ricerca del coraggio che mi serviva per parlare con Kenji. Quel malinteso andava chiarito, e andava chiarito subito. La sera prima, dopo quel fantomatico bacio, il rosso aveva biascicato una buonanotte imbarazzata ed era corso via, lasciandomi lì come un’ebete. Alla fine, dopo aver passato cinque minuti buoni in totale immobilità e con l’espressione incredula, mi ero decisa a tornarmene in camera. Lì, avevo mandato a quel paese tutti i miei buoni propositi e avevo aperto la bottiglia di vino. Dopo un paio di sorsi, però, mi ero fermata e mi ero addormentata, stremata da tutte le emozioni che avevo vissuto nell’arco della giornata. Almeno ero scampata alla “serata scacchi”, era già qualcosa.
Presi un respiro profondo e alzai il pugno un paio di volte prima di bussare davvero. Per fortuna la porta dell’infermeria era chiusa. Quando la aprii, i miei sospetti vennero confermati: Kenji era chino sulla scrivania, intento a fare l’inventario. Nel momento in cui i suoi occhi incrociarono i miei si spalancarono terrorizzati. Si bloccò e impallidì visibilmente, mentre io trattenevo il fiato. Ero piuttosto sicura che l’impulso di scappare dal sottomarino con la prima scialuppa disponibile avesse attraversato la mente di entrambi. In un certo senso, sarebbe stato molto più comodo fare così. Ma non era quella la soluzione ai nostri problemi, avevamo bisogno di parlarne con calma e risolvere la situazione da persone adulte quali eravamo. Era passato il tempo di giocare a nascondino.
«Ciao,» lo salutai, cercando di sembrare il più naturale possibile.
«Buongiorno,» ricambiò lui, nella voce un po’ di timore.
«Come va la mano?» gli chiesi, ricordandomi della sua ferita nel momento in cui vidi le garze che gli avvolgevano il palmo.
«Oh, ehm...» Fece un mezzo sorriso. «Bene, grazie. Hai fatto un ottimo lavoro.»
«Grazie.» Gli sorrisi imbarazzata. «Se dovessi sentire dolore, fammelo sapere.»
Annuì, poi distolse lo sguardo e si concentrò sui fogli che aveva davanti.
Boccheggiai. Prima o poi avremmo per forza dovuto affrontare la questione, soltanto che non volevo farlo; non solo perché avrebbe causato un grosso imbarazzo a tutti e due, ma anche perché il nostro rapporto avrebbe potuto incrinarsi irreparabilmente e sarebbe stato un peccato. Discuterne significava renderlo reale, significava che non potevamo più fingere che tutto quello non fosse mai successo. E, cosa più importante e terribile di tutte, significava che avrei spezzato il cuore a Kenji. Non avrei mai pensato che saremmo arrivati a questo, né avrei mai voluto che accadesse. Eppure era successo, e qualcuno avrebbe sofferto.
“Non fare la codarda,” ripetei le parole di Law nella mia testa come monito. Magari mi sbagliavo. Magari non si era innamorato di me, magari quel bacio era stata soltanto un’azione impulsiva dettata dall’euforia del momento, un atto di passione che per il rosso non aveva significato niente. Qualsiasi fosse il motivo che aveva guidato le sue azioni, non potevo saperlo se non gli parlavo.
Richiusi la porta dell’infermeria e mi feci seria.
«Kenji...» Abbassai lo sguardo e ricominciai a torturarmi le dita. «Riguardo a quello che è successo ieri sera...»
«Lo so.» Mi interruppe. Le sue iridi verdi, da limpide quali erano sempre state, si fecero torbide e la sua espressione si incupì. Mi si strinse il cuore nel vederlo così. Non mi ero sbagliata, provava sul serio qualcosa per me. Lo stavo facendo soffrire e mi sentivo terribilmente in colpa, sebbene sapessi di non essere responsabile per il suo dolore. Non troppo, almeno. Io avevo avuto il mio ruolo nella vicenda, certo, ma gran parte degli ingranaggi li aveva smossi lui, da solo.
«È stato un errore, non so davvero cosa mi sia preso, e...» Si alzò dalla sedia per venirmi incontro.
«No, Kenji, ti prego, lasciami finire,» lo rimproverai tenuemente, piazzando una mano di fronte a me. Prima di andare lì mi ero preparata un discorso preciso da fare e se avessi perso il filo sarebbe stata la fine. Non potevo permettere che mi interrompesse.
Il rosso si fermò all’istante, la faccia mortificata. Sentii di nuovo una morsa al cuore. Non se lo meritava. Ma cosa potevo farci? Lui provava dei sentimenti verso di me che io non provavo verso di lui, e non volevo illuderlo.
«Io... Forse è colpa mia, forse ti sono arrivati dei segnali sbagliati da parte mia, però è giusto che questa situazione venga chiarita. Io e te... siamo amici. Tu sei una persona fantastica, davvero, ma non credo che...»
La porta dell’infermeria si spalancò, facendo entrare nella stanza una folata di vento.
“Potrà esserci altro tra di noi, almeno per il momento,” completai la frase nella mia mente. Contrariamente alle mie aspettative, non ero affatto infastidita da quell’interruzione imprevista. Anzi, in parte ero grata a chiunque ci avesse interrotto.
Mi voltai: Penguin. Se da un lato mi aveva tolto dall’imbarazzo, dall’altro mi aveva fatto perdere il filo del discorso. Aveva ancora la mano sulla maniglia della porta e sembrava elettrizzato.
«Sì?» lo incitai a parlare.
«Ci siamo,» ci comunicò, in totale estasi.
Trattenni il fiato e sgranai gli occhi.
«Intendi...» provai a dire, senza riuscire a formulare una frase di senso compiuto.
«Sì! Jean Bart dice che riesce a scorgere la nave di Cappello di Paglia.»
Il mio cuore saltò un battito, o forse due. O tre. Non poteva essere vero, era troppo presto. Il tempo era davvero passato così velocemente?
«Il Capitano ha detto di farsi trovare sul ponte. Subito.» Penguin si accompagnò con un’alzata di sopracciglia e un sorrisetto furbo. Sapevo già che la sua mente era proiettata su Nami e Robin.
Mi girai verso il rosso, che fino a quel momento era rimasto immobile e in silenzio. Ci guardammo, le iridi di entrambi erano indecifrabili ma allo stesso tempo colme di significato. Non sapevo che fare. Non sapevo se impormi di restare lì e finire di parlare con lui, oppure se precipitarmi sul ponte del Polar Tang senza perdere nemmeno un secondo.
«Sbrigatevi,» ci incitò il nostro compagno, per poi scomparire nel corridoio.
Sospirai e mossi un passo in avanti, lo sguardo fisso verso la porta. Ero combattuta. Non volevo perdermi per nulla al mondo il momento dell’incontro, ma dovevo anche chiudere la faccenda una volta per tutte. Rimandare la discussione avrebbe significato peggiorare ulteriormente le cose. Però...
«Finalmente vedremo altre donne! Altre bellissime donne!» Le urla del Pinguino risuonarono per tutto il sottomarino, strappandomi una risata. Poverino, non sapeva a cosa stava andando incontro. Non avevo dubbi: gli sarebbe presto arrivato in testa il pugno della temibile Gatta Ladra.
Le mie gambe fremevano, tutto il mio corpo fremeva, pronto a scattare.
«Dobbiamo andare,» dissi a Kenji, lanciandogli un’occhiata eloquente.
«Già.» Fece un piccolo sorriso, più di rassegnazione che di sollievo.
Vacillai. Non volevo che si sentisse ancora una volta messo in secondo piano, e non era così, in realtà. Tuttavia non potevo evitarlo. Era una situazione complicata.
«Ti assicuro che non succederà più,» dichiarò deciso, lo sguardo serio. Aveva capito che ero impaziente di rivedere tutti i miei amici. Aveva compreso le circostanze e mi stava implicitamente dando il permesso che mi serviva per interrompere la conversazione e correre a salutare la ciurma di Cappello di Paglia. Lo guardai un’ultima volta, grata, poi non persi tempo.
«Sì, ne... ne riparleremo,» feci distratta, catapultandomi fuori dalla stanza. Quello sarebbe dovuto sembrare un avvertimento, ma ero troppo presa dall’imminente incontro con Rufy e i suoi compagni per pensare alla giusta intonazione di voce da usare.
Corsi, corsi all’impazzata per il corridoio, che d’un tratto mi sembrava lungo chilometri e chilometri. Stavo per rivederli dopo un’infinità di tempo.
Nell’aria c’era profumo di libertà.
 
Il vento accarezzava dolcemente la mia pelle. C’era il sole e il mare scintillava calmo sotto i suoi raggi, proprio come il giorno in cui li avevo lasciati. Respirai appieno l’aria salmastra e sorrisi, con lo stesso sorriso di una bambina che aveva appena ritrovato il proprio giocattolo preferito dopo averlo perso per tanto tempo. Di fronte a noi si ergeva la magnifica e maestosa Thousand Sunny. Non era cambiata di una virgola, era sempre fiera e splendente, proprio come suggerivano il nome e la polena. Sospettavo che in quegli anni avesse preso parecchie botte, ma i Mugiwara disponevano di un carpentiere formidabile, in grado di rimettere a nuovo la loro preziosa nave. Da dove mi trovavo non riuscivo a vedere nessuno, ma non avevo bisogno di vederli per sapere che erano lì. Il solo immaginarmi che a breve sarei di nuovo stata faccia a faccia con loro mi fece dimenticare di tutto. Mi dimenticai che dietro di me c’era una schiera di persone che si aspettava che in un momento solenne come quello mi comportassi con una certa serietà, una serietà che in realtà quasi nessuno di noi aveva mai avuto o mostrato, e che per questo dovevo almeno cercare di contenere le mie emozioni. Mi dimenticai dei casini con Kenji, della difficile riabilitazione che avevo fatto in quelle settimane, della guerra che avremmo dovuto affrontare a breve. Di tutto. Desideravo solo stare di nuovo in loro compagnia.
Mi asciugai i palmi delle mani – sudati per l’eccitazione – sui pantaloncini. Poi guardai Law, quasi a chiedergli il permesso di poterlo fare, anche se entrambi sapevamo che non ce n’era bisogno, perché l’avrei fatto comunque. Vidi il suo volto aprirsi lentamente in un ghigno e mi sentii avvampare dall’emozione. Il cuore stava facendo le capriole nel petto, sembrava perfino più impaziente di me.
Senza perdere altro tempo prezioso, piegai le gambe per darmi la spinta per saltare sul tetto del sottomarino, ma prima che potessi compiere il balzo che mi separava dai miei amici, fui fermata dalla mano gelida del chirurgo, che si avvinghiò al mio polso. Lo guardai interrogativa e sperai che non avesse deciso tutto a un tratto di precludermi quel momento di giubilo che tanto avevo aspettato.
«Chiamami “Capitano” e rivolgiti a me con rispetto,» mi impose autorevole, per poi ammorbidirsi appena. «E il tuo piccolo segreto sarà al sicuro.»
«Te l’avevo detto che il tiro al bersaglio porta consiglio,» scherzai ridacchiando. Lui sollevò un sopracciglio, scettico.
«E da domani ti metti la divisa. Non è negoziabile.»
«Hai la mia parola. E io ho la tua.» Tornai seria. Annuimmo entrambi e il Capitano lasciò la presa su di me.
Finalmente riuscii a darmi la spinta e balzai sul tetto del sottomarino. Con un’altra spinta arrivai con i piedi sopra alla ringhiera bianca della Thousand Sunny.
Rimasi piacevolmente sorpresa quando notai che tutti i componenti della ciurma avevano smesso di praticare le loro consuete attività e si erano allineati di fronte a me. Ci avevano messo meno di mezzo secondo per accorgersi del mio arrivo. Ci stavano aspettando. Mi stavano aspettando.
Mi guardai intorno. Il ponte della Sunny era rimasto esattamente come me lo ricordavo, come lo avevo lasciato. Era impressionante. L’erba era sempre ben curata, corta e di un verde vivace. Gli alberi di mandarino di Nami crescevano rigogliosi, il legno dei pavimenti era liscio e lucido e la vernice, per quanto fosse consumata, sembrava sempre fresca. Quella nave era pristina e indistruttibile, proprio come i sogni di chi navigava insieme a lei.
Dieci facce mi guardavano allegre e curiose allo stesso tempo. Tuttavia, prima che io o loro potessimo dire o fare qualsiasi cosa, persi l’equilibrio e mi sbilanciai all’indietro. Perché non potevo fare bella figura per una volta, le mie dovevano per forza essere grosse, grasse figure di merda.
Una mano forte e sicura mi afferrò prontamente la caviglia della gamba che ero stata costretta a sollevare, impedendomi di cadere dall’imbarcazione. Alzai la testa per vedere chi fosse e, quando vidi che quello che si era allungato per riprendermi era Zoro, che stava ghignando, ghignai di rimando. Mi lasciò solo quando mi fui rimessa dritta in piedi ed ebbi recuperato il mio equilibrio, e proprio nell’attimo in cui scesi dalla ringhiera scoppiò il finimondo.
«Brutto marimo! Dovevo salvarla io Cami-chan!» Sanji si era messo a gridare.
«Non prendertela con me se oltre ad essere ritardato sei anche incredibilmente lento, cuoco di merda!» urlò a sua volta lo spadaccino.
«Come hai detto, stupida testa di muschio!? Prova ad avvicinarti, e vediamo chi è lento! Ti cambio i connotati a suon di calci!»
«E io ti taglio in strisce così piccole che non si vedranno più neanche le tue stupide sopracciglia a ricciolo!»
Seguirono imprecazioni, ringhi, grugniti e insulti. E i due continuarono per qualche minuto buono. Me lo aspettavo, visti i soggetti in questione, ma a me non importava, perché nel momento in cui i miei piedi si posarono sulla morbida erba del ponte della Thousand Sunny, nel mio corpo si irradiò una sensazione di pace e sicurezza che non provavo da parecchio tempo, tanto che per qualche secondo mi sembrò di fluttuare.
«Fatela finita, idioti!» esclamò la navigatrice in preda ad un attacco di rabbia, appena prima di dare un pugno in testa ben assestato ai due malcapitati.
«Hai ragione, Nami-swan! Scusami, mia stupenda dea!» Il tono del biondo si era alzato di un paio di ottave. Ora era diventato più docile di un agnellino.
«Strega...» sussurrò Zoro, girato dalla parte opposta in modo tale che la ragazza non potesse sentire, mentre si massaggiava la testa. C’era da dire che più passava il tempo più i pugni della cartografa erano potenti. Tanto di cappello – di paglia – a lei.
«Come ti permetti, marimo!? Ti infilo la testa nello spremiagrumi!» Il cuoco aveva ricominciato a gridare. Se la rossa per fortuna non aveva sentito il verde, tutti gli altri lo avevano udito chiaramente; e fu così che i due si misero a litigare un’altra volta, causando un senso di agitazione nel piccolo Chopper.
Usop sospirò, con l’aria da persona vissuta.
«Certe cose non cambieranno mai,» constatò rassegnato, poi indicò me. «E a quanto vedo, nemmeno tu sei cambiata.»
In un’altra occasione mi sarei offesa per la sua affermazione, o perfino alterata: se c’era una cosa sicura in mezzo a tutte quelle incertezze era che ero cambiata, a partire dal mio taglio di capelli. Ma questo avrei avuto tutto il tempo di dimostrarlo alla ciurma di Cappello di Paglia.
Per quella volta, però, mi portai le mani ai fianchi e sorrisi. Ero tornata.
«Vi ho detto di farla finita!» strillò sgraziatamente la rossa. Altri due pugni partirono dalle sue mani e arrivarono in fronte a cuoco e spadaccino, che finirono stesi per terra.
Risi di gusto alla vista di quel siparietto – per Zoro e Sanji non troppo – comico. Sì, supponevo che alcune cose non sarebbero mai cambiate.

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Capitolo 8
*** Cambiamenti ***


Tesi una mano a Zoro con l’intenzione di aiutarlo ad alzarsi da terra, per ricambiare il favore – dato che poco prima mi aveva salvato dal cadere rovinosamente in mare – dopo che era stato “messo al tappeto” da Nami, ma lui rifiutò il mio aiuto e si rimise in piedi da solo. Sanji, invece, si era già rialzato e stava cercando di scusarsi con la cartografa, che tuttavia continuava ad ignorarlo esibendo una faccia piuttosto infastidita.
In quei cinque minuti non avevo detto una parola. Mi sembrava che il tempo si fosse fermato, come se mi trovassi dentro a un quadro. Ero troppo sopraffatta dalle diverse emozioni che stavo provando e non sapevo davvero come esordire. Non mi avevano dimenticata, i loro sguardi me lo confermavano, ma ciò non toglieva che non avevo idea di come rivolgermi a loro. Avrei voluto fingere che non fossimo rimasti separati per più di due anni, avrei voluto trattarli come vecchi amici e scherzare con loro come se non fosse passato nemmeno un giorno, tuttavia non volevo essere presa per pazza, né sembrare irrispettosa. Forse era meglio aspettare che fossero loro a fare la prima mossa: io mi sarei regolata di conseguenza.
«Bentornata, sorella!» esclamò Franky. Percepii dal suo tono di voce e dal suo largo sorriso che era sinceramente contento di rivedermi.
«Camilla-san, è un piacere rivederti,» si accodò Brook, facendo un piccolo inchino. Lui – per cause di forza maggiore – non poteva sorridere, ma sapevo che era lieto che ci fossimo ritrovati.
Sfoggiai un sorriso a trentadue denti. Adesso lo sapevo: non ero mai davvero andata via da quella nave. Ero sempre stata lì, con il cuore, e d’un tratto avvertivo dentro di me un senso di calore, di sicurezza e di benessere che si irradiava in tutto il corpo. Riuscivo a percepire il loro affetto sulla mia pelle. Il quadro aveva iniziato a muoversi e si era trasformato in un piacevole film.
«Ho notato che hai una nuova acconciatura. Se posso permettermi, stai benissimo. Sembri molto più radiosa dell’ultima volta che ci siamo visti!» esclamò poi il musicista della ciurma di Cappello di Paglia. Continuai a sorridere come se mi avesse appena fatto il complimento più bello del mondo. In parte era così, aveva ragione. Ma se sembravo più radiosa era perché lo ero, ed ero contenta che almeno qualcuno lo avesse notato.
«Sai, io sono esperto di acconciature. A parte le ossa, i capelli... sono l’unica cosa che è rimasta del mio corpo! Yohohoho.»
Risi e scossi la testa. Mi resi conto che mi erano mancate anche le battute – tristi e vagamente macabre – di Brook.
Un rumore inconfondibile di passi mi fece abbassare lo sguardo.
«Ciao, Cami. Sono contento di rivederti,» fece Chopper, a bassa voce e con un po’ di titubanza.
«Ciao, Chopper! Anche io sono contenta di rivederti. Non capita tutti i giorni di avere l’occasione di rincontrare uno dei medici più bravi al mondo.» Piegai la testa da un lato e attesi la sua reazione, che non tardò ad arrivare.
«Smettila di farmi questi complimenti, idiota! Sai che non è vero,» negò, mentre le sue guance diventavano rosse e il suo corpo ondeggiava compiaciuto. No, nemmeno lui era cambiato.
«Camilla, mia dolce dea!» Una voce squillante arrivò fin troppo chiaramente alle mie orecchie. Mi voltai verso il biondo che stava venendo verso di me a gran velocità. Quando mi raggiunse, il suo tono tornò quasi normale. «Mi scuso per l’inconveniente di prima. Spero che potrai perdonarmi.»
Non mi diede neanche il tempo di aprire bocca che all’improvviso spalancò gli occhi e mi guardò in modo strano. Lo fissai perplessa e anche un po’ spaventata. Sanji di solito era un uomo affidabile e rispettabile, ma non si poteva mai sapere. Si portò le mani al petto e io aggrottai la fronte per incitarlo a parlare.
«Oh, che splendida visione! Un nuovo, bellissimo fiore è sbocciato davanti ai miei occhi!» La sua voce era tornata ad essere stridula, l’espressione estasiata.
Di nuovo, non feci in tempo a replicare, perché il cuoco, dopo essersi sciolto come un ghiacciolo al sole, iniziò a volteggiare per tutta la nave. Nami, poco più in là, sospirò rassegnata.
«È andato.» Non capivo se fosse esasperata oppure infastidita. Data la situazione, era molto probabile che fosse entrambe le cose. «È il suo modo per dirti che apprezza che tu sia qui,» spiegò poi, rivolgendo a Sanji un’occhiata contrariata e a me un sorrisetto beffardo.
«Comunque, non ha tutti i torti, sai? Sei diventata una donna, ormai,» affermò, squadrandomi dalla testa ai piedi e facendomi sorridere per l’ennesima volta. Cominciavano a farmi male le guance, a furia di fare tutti quei sorrisi, ma era un dolore piacevole.
La rossa mi abbracciò materna, e dopo un primo momento di sorpresa ricambiai l’abbraccio. Fu un abbraccio rapido ma affettuoso. Appoggiai il mento sulla sua spalla e inspirai il suo profumo. Nemmeno quello era cambiato, profumava sempre di mandarino, un odore agrodolce che le si addiceva molto.
Da sopra la sua spalla mi accorsi che una figura ci stava osservando in silenzio e il mio cuore perse un battito. Se non fosse stato per il cappello di paglia ben piantato sulla testa avrei detto che stavo guardando Sabo. Non me ne ero mai resa conto, ma lui e Rufy avevano la stessa espressione, forse perché – sebbene non possedessero lo stesso sangue – condividevano lo stesso desiderio di libertà. Mi staccai dalla cartografa e vidi il moro rivolgermi uno dei suoi stupendi sorrisi sornioni a trentadue denti. Né io né lui dicemmo niente. Non servivano le parole in quel momento, il suo sguardo pacifico parlò per entrambi.
Avrei dovuto immaginarmelo, però: sulla Thousand Sunny i momenti di quiete non duravano mai troppo. Se dapprima i membri della ciurma di Cappello di Paglia mi avevano accolto con ordine e disciplina, ora si erano sparpagliati tutti e avevano ricominciato a fare la loro consueta caciara. Nell’aria risuonavano i mille complimenti che mi stava facendo Sanji, nonostante nessuno gli stesse prestando attenzione.
Salutai Robin, che ricambiò il saluto rivolgendomi un rapido e cortese cenno con il capo e sorridendo. Poi toccò ad Usop, l’unico rimasto ancora fermo nella sua posizione iniziale. Mi piaceva pensare che stesse aspettando il suo turno.
«Ora che sei di nuovo qui, credo che dovremmo giocare ancora a quel gioco, quello con le carte.» Si portò le braccia sui fianchi per fare una posa fiera.
Rimasi interdetta per un attimo. Di certo, con tutte le cose che avrebbe potuto dirmi, non mi aspettavo una proposta del genere.
«Intendi Machiavelli?» Sperai che la risposta fosse affermativa.
«Esatto! Proprio quello, non mi ricordavo il nome.»
«Volentieri,» asserii ghignando. Era da tempo che non facevo una partita a Machiavelli, e mi faceva piacere ritornare a giocare, o più precisamente, a vincere. In realtà mi andava bene tutto, purché non fossero gli scacchi.
«Farai meglio a prepararti, allora,» mi avvisò, sogghignando furbamente. Se stava cercando di intimorirmi, non ci era riuscito.
«Oh, io sono sempre pronta a vincere. Sei tu che dovresti accettare la sconfitta fin da subito.» Sfoggiai un sorriso sardonico e lo canzonai un po’.
«Vedremo...» ribatté vago. Allargai le braccia con aria eloquente per fargli sapere che  avevo accolto la sua sfida e lo osservai mentre se ne andava.
Feci mente locale sui pirati che avevo salutato. All’appello mancava solo una persona, una persona che dovevo sbrigarmi a rintracciare prima che sparisse nei meandri della palestra. Sapevo che una volta cominciato l’addestramento niente e nessuno avrebbe potuto interromperlo, nemmeno la morte stessa.
«Ehi,» lo richiamai, appena prima che iniziasse a salire la scala di corda. Zoro si voltò e ghignò, tuttavia non proferì parola. «Volevo solo salutarti.»
In realtà cercavo implicitamente di rimediare alla figuraccia che avevo fatto prima con lui. Allungai il braccio e gli porsi la mano. Per qualche secondo la fissò perplesso e, proprio quando stavo per ritirarla, me la strinse.
«Dimenticavo che è così che si salutano le persone nel tuo mondo,» constatò, facendo un po’ troppa pressione con le dita, al punto che le mie ossa scricchiolarono sotto la sua presa salda.
Ritrassi la mano e me la massaggiai delicatamente. Per fortuna lo spadaccino non si accorse di nulla. Se lui si era dimenticato come si salutassero le persone dalle mie parti, io mi ero dimenticata di quanto fosse forte. Ero appena guarita, non ci tenevo ad affrontare una nuova sessione di fisioterapia. Non con Kenji, soprattutto. Al pensiero, sulla faccia mi comparve un’espressione riluttante.
Senza dire niente mi voltai e me ne andai. Ritornai sul prato e tirai un sospiro di sollievo. Adesso avevo davvero salutato tutti, ed era andato tutto bene, molto meglio di quanto mi aspettassi. Non c’erano stati sentimentalismi inutili o reazioni esagerate, il nostro primo incontro era stato giusto.
Agitai le dita dei piedi nelle scarpe. Avrei voluto togliermele e sentire l’erba solleticarmi le piante. Anzi, avrei voluto stendermi e mettermi a fare l’angelo. Quel pratino aveva un’aria così soffice e invitante...
«Camilla-san,» mi richiamò una figura – letteralmente – scheletrica.
«Brook!» esclamai, sorpresa di trovarlo di fronte a me. Il musicista assunse quella che mi parve un’espressione seria – non era facile intuire le emozioni di un teschio – e io mi allertai.
«Mi dispiace disturbarti, ma visto che è da tanto che non ci vediamo...» iniziò, educato come al solito. «Potresti farmi vedere le tue mutandine?»
Educato un corno. Mi portai le braccia ai fianchi e alzai un sopracciglio. In quegli anni avevo capito che reagire con la violenza fisica, come faceva Nami, non serviva a niente con individui irrecuperabili e recidivi del genere. Per questo avevo messo a punto una strategia infallibile, che avrebbe fatto desistere persino il più ostinato degli spiriti.
«Ho saputo che tu e Big Mom avete dei trascorsi. Come è stato andare a letto con lei? Hai preso un paio di mutandoni dalla sua collezione personale da tenere come ricordo?» gli chiesi, sollevando gli angoli della bocca in un ghigno maligno.
Lo scheletro si congelò immediatamente. Provò a replicare, ma dalla sua bocca uscì solo aria. Lo avevo lasciato senza parole, al punto che abbassò la testa, umiliato, e se ne andò senza aggiungere altro.
La rossa, che era a qualche metro da noi e aveva ascoltato tutto, scoppiò a ridere, mentre io sorrisi beffarda.
In quelle settimane avevo avuto tutto il tempo di proseguire con la lettura del manga ed ero rimasta molto sorpresa quando avevo scoperto della piccola cotta che Big Mom si era presa per lo scheletro canterino. Se lo era portato perfino a letto.
«È un piacere averti qui con noi, Cami.» La cartografa incrociò le braccia al petto con fierezza. Nessuno mi aveva chiesto come facessi a saperlo, ma supponevo che non gli importasse.
Le rivolsi un cenno d’assenso con il capo, per poi voltarmi e ritrovarmi davanti un viso che non avevo mai visto prima. Non di persona, almeno.
«Garchu!» mi salutò una ragazza dall’aspetto un po’ stravagante. «Io sono Carrot!» si presentò subito dopo, con la voce più squillante che mai e un entusiasmo che un po’ mi spaventò.
Ero stata così presa a salutare tutti i miei vecchi amici che mi ero dimenticata di presentarmi alla nuova arrivata. E dire che nella confusione generale lo avevo messo in conto. Se non altro, Carrot aveva pazientemente aspettato che finissi di porgere i saluti al resto della banda prima di introdursi, e aveva evitato – per la mia gioia – di strusciare la sua guancia contro la mia. Se lo avesse fatto con Law, però, sarebbe stato divertente vedere la sua reazione.
«Ehm... Garchu a te,» la salutai io, un po’ più titubante. Per fortuna sapevo in che modo si salutassero tra loro i Visoni, altrimenti avrei preso quella strana parola per uno starnuto e le avrei risposto “salute”. «Io sono Camilla, ma se ti va puoi chiamarmi Cami.»
«Che bel nome!» esclamò, radiosa. Era sicuramente una coniglietta piena di energia.
La ringraziai cordialmente, dopodiché rivolsi il mio sguardo verso il mare. Dei Pirati Heart non c’era ancora nessuna traccia. Cominciavo a pensare che il Polar Tang fosse stato inghiottito da un mostro marino senza che nessuno se ne fosse accorto; il che sarebbe stata una tragedia, perché, nonostante mi sentissi a mio agio con la ciurma di Cappello di Paglia, avevo bisogno del loro supporto.
 
Per fortuna non passò molto prima che Law ci raggiungesse. Nell’istante in cui i nostri sguardi si incrociarono, compresi che aveva voluto concedermi del tempo per salutare i Mugiwara e lo apprezzai molto. Conosceva i miei bisogni meglio di me, a quanto pareva. Tuttavia, con mia grande sorpresa, mise piede sulla Thousand Sunny solo con Bepo al seguito. Dopo averci riflettuto qualche secondo capii che lo aveva fatto per motivi pratici: aveva deciso di non coinvolgere tutti durante il nostro primo incontro perché in questo modo ci sarebbe stata più calma e avremmo potuto discutere meglio di eventuali strategie di guerra. Molto probabilmente aveva concesso la giornata libera al resto dei suoi sottoposti. Per quanto mi riguardava, speravo solo che il Capitano mi permettesse di rimanere lì con loro, gli altri se la sarebbero cavata in ogni caso. A parte Penguin e Shachi, loro erano così impazienti di incontrare due nuove donne da ammirare che quasi mi dispiaceva che i loro piani fossero andati in fumo. Potevo solo augurarmi che non si deprimessero troppo, dopotutto avrebbero avuto altre occasioni per conquistare Nami e Robin.
«Traffy!» esclamò Rufy, distraendomi dalle mie considerazioni. La sua voce risultò lontana, non per niente quando mi voltai verso di lui vidi che si trovava sul muso del leone che faceva da polena alla nave. «Orso parlante di Traffy,» continuò, sistemandosi meglio il capello sulla testa.
«Non perdiamoci in chiacchiere,» replicò il chirurgo, serio.
Roteai gli occhi senza farmi vedere. Eccolo lì, il guastafeste. Per fortuna, però, ci pensò qualcun altro a interromperlo.
«Sono sicura che abbiamo tutti tante cose da raccontarci e di cui parlare, ma prima... perché non ci concediamo un gustoso pranzetto in amicizia?» propose Nami, catturando l’attenzione di tutti i presenti e richiamandoci all’ordine.
A quel punto Rufy era troppo impegnato a leccarsi i baffi per prestare attenzione a ciò che aveva da dire Law. Non lo si poteva biasimare, però: era da tanto che non ci vedevamo e discutere di strategie di guerra senza neanche avere il tempo di respirare non era un buon modo per cominciare la giornata. O l’alleanza.
Ecco perché, a parte il mio Capitano, accettammo tutti di buon grado la proposta della navigatrice, non prima di assicurare il sottomarino alla Thousand Sunny con una corda.
 
Chiusi gli occhi e mi concentrai. Nonostante fossi impaziente di avventarmi sulle pietanze che aveva preparato Sanji e che non mangiavo da una vita, conoscevo i miei polli e sapevo che durante i pasti era necessario prendere le dovute precauzioni per evitare di rimanere a bocca asciutta. Quando li riaprii, attorno a me era diventato tutto nero, a parte per le aure bianche che si agitavano scompostamente attorno al tavolo della sala da pranzo della Sunny. Percepivo la loro allegria quasi come se fosse mia. Non era facile ascoltare i loro pensieri con tutta quella confusione, ma sapevo per certo che nessuno di loro, a parte me e Law, stava pensando all’imminente guerra contro Kaido. Imposi a me stessa di rilassarmi e godermi il pranzo; qualsiasi questione bellica avrebbe potuto aspettare.
All’improvviso captai un movimento sospetto alla mia destra, seguito da dei pensieri confusi ma inequivocabili. Impugnai la forchetta e la sollevai. Eccola lì, la mano molesta di Rufy che tentava di rubarmi il cibo dal piatto. Nell’esatto momento in cui ce l’ebbi sotto tiro, affondai la posata senza alcuna pietà nella carne del moro, che ritirò l’arto all’istante ed emise un mugugno, non tanto di dolore – aveva incassato colpi ben peggiori – quanto di sorpresa.
Sghignazzai soddisfatta. Sapevo che la cosa migliore da fare era attivare l’Haki. Forse era un’esagerazione, ma almeno avevo salvato il mio pranzo.
«La prossima volta che ci riprovi, non sarò così buona. Sai cosa ti aspetta,» lo avvisai, fissandolo minacciosa. Cappello di Paglia non sembrò dare peso alle mie parole, ma sapevamo entrambi che non ci avrebbe riprovato tanto presto. Mi rilassai e lasciai che tutto ritornasse di nuovo normale e colorato.
«Kenbun-Shoku, eh?» chiese retoricamente Zoro, seduto accanto a me, con un ghigno impertinente sulla faccia. Il fatto che si fosse accorto del mio “trucchetto”, non mi stupiva per niente. Lo guardai con finta innocenza poco prima di sogghignare.
«Ognuno ricorre ai propri mezzi per contrastare l’assalitore,» mi giustificai, indicando Rufy che, nonostante si stesse massaggiando la mano, stava tentando di compiere un altro assalto a sorpresa ai danni di Chopper, questa volta allungando direttamente il collo. C’era da dire che imparava in fretta quando si trattava di combattimenti e cibo, o di entrambi.
Lo spadaccino smise di divorare il suo onigiri e mi osservò attentamente, dalla testa ai piedi.
«Non sei più una mocciosa,» commentò compiaciuto. Il mio ghigno si allargò ancora.
«Lieta di sentirtelo dire.» Ero contenta che quelle parole fossero uscite proprio dalla sua bocca. Mi allungai verso la bottiglia di rum che teneva accanto a sé sul tavolo.
«Ehi, che fai?» domandò, all’erta e allo stesso tempo infastidito.
«L’hai detto tu che non sono più una mocciosa.»
«Giù le mani dal mio liquore!» esclamò, provocando l’ennesima reazione di Sanji.
Mentre quei due si prodigavano in un litigio senza fine, io versai un po’ di liquido alcolico nel bicchiere e ne bevvi un sorso, per fare una faccia disgustata subito dopo.
«No. No. Molto meglio il vino.» Spinsi la bottiglia di nuovo verso il suo proprietario. Non ero più una mocciosa, ma il rum rimaneva sempre troppo amaro per i miei gusti.
 
Il resto del pranzo scorse in tranquillità. Si faceva per dire, ovviamente, dato che i Mugiwara non sapevano neanche che significato avesse la parola “tranquillità”. Ogni tanto avevo gettato un’occhiata a Law e Bepo, dalla parte opposta alla mia, per capire come se la stessero cavando in mezzo a tutto quel caos. Se il chirurgo vi era abituato e aveva imparato a passarci sopra, il Visone non sembrava troppo a suo agio. Per fortuna aveva trovato in Carrot una degna compagna di conversazione. Non avevo udito molto, ma mi era parso che avessero parlato perlopiù della loro isola natale. Ad entrambi brillavano gli occhi quando si perdevano nel ricordare quanto fossero splendidi i paesaggi di Zou e quanto fossero calorosi i membri della loro tribù. Tutti gli altri, invece, mi avevano aggiornato sulle mille avventure che avevano vissuto, a cominciare dal famoso Tea Party di Big Mom, che si era concluso meglio di quanto avevano sperato. Non ero ancora arrivata a leggere alcune cose, però non volevo essere scortese, perciò li lasciai parlare e mi finsi – ma neanche troppo – sorpresa. Se non fossi stata a conoscenza di certe cose, non ci avrei creduto. E come me, Bepo faticava a credere che Rufy e compagnia fossero usciti praticamente indenni da uno scontro a fuoco aperto con Big Mom. Per non parlare degli altri dettagli stravaganti. Insomma, non capitava tutti i giorni di finire in un mondo fatto di specchi e di farsi trasportare da una locomotiva umana, né di essere imprigionati in un libro e di volersi strappare le braccia soltanto per fuggire da suddetto libro. Quando l’orso era venuto a saperlo aveva guardato il moro con un’espressione atterrita. Lui, in risposta, gli aveva rivolto una blanda alzata di spalle, come se quella fosse la cosa più naturale di questo mondo. A Sanji non era andata meglio: stava per sposare una psicopatica bipolare con tre occhi che voleva ucciderlo, aveva picchiato il suo Capitano senza pietà e aveva rischiato la vita per aiutare la sua famiglia. Una famiglia che non era degna di essere chiamata tale. Suo padre e i suoi fratelli lo avevano sempre rinnegato, lo avevano insultato, malmenato e gli avevano fatto credere per tutta la sua vita che fosse un fallimento. Lo avevano persino segregato in una prigione mettendogli una maschera di ferro sul viso per nascondere la sua esistenza al resto del mondo. E non si parlava di persone comuni, ma di gente dotata di corpi di acciaio che vantava una potenza militare senza pari composta da un esercito di soldati-clone e che si spostava su delle lumache giganti assemblabili. Quando era venuto fuori l’argomento, il cuoco si era limitato ad annuire con solennità, per poi accendersi una sigaretta. Non era una cosa di cui aveva piacere parlare, lo avevo capito dal modo in cui aveva nascosto gli occhi tenendo la testa bassa. Ma quello che aveva dovuto pagare il prezzo più alto era Pedro. Evitai accuratamente di fare domande sull’argomento, supponevo che per tutti fosse una ferita ancora fresca, nonché un boccone amaro da mandar giù. In più non volevo ferire Bepo. Il Visone-giaguaro era stato un grande amico di suo fratello Zepo, che aveva perso la vita proprio per mano di Big Mom.
Ad ogni modo, le stravaganze non erano finite qui, perché il tutto era contornato da cibo, mobilio e piante parlanti; un disturbo alimentare di proporzioni epiche; un’improbabile alleanza dell’ultimo minuto con uno pseudo mafioso e uno scienziato pazzo; tappeti volanti; capelli di fuoco; e un tizio con i poteri di un uovo – o di una gallina, o quello che era – e una tazza da tè come cappello. Avrei anche dovuto chiedere delucidazioni sulla trasformazione di Carrot, che a quanto pareva era una discendente della stirpe dei Sayan, e sulla Nuvola Speedy, che faceva merenda con i fulmini di Nami. Bisognava ammettere che tutto quello era surreale. Anzi, no, era assurdo. Davvero assurdo. E poi era Alice, la matta, eh?
«Hai combattuto contro un Imperatore e ne sei uscito indenne?» Bepo, con gli occhioni sgranati, si rivolse a Brook.
«Big Mom lo ha risparmiato soltanto perché è affascinata dalle creature strane,» precisò Nami, con fin troppa calma.
«Lo ha anche tenuto con sé, nel suo letto, per una notte intera! Siamo quasi morti per salvarlo!» dichiarò il piccolo Chopper, ancora scosso dall’accaduto.
«Già! È stato spaventoso!» lo supportò Carrot.
Cercai di trattenere il sorriso che stava spuntando sulle mie labbra nel momento in cui lo scheletro spostò lo sguardo su di me, forse per paura che parlassi ancora. Ma io non avevo nessuna intenzione di farlo. Anche perché non ne avevo motivo, aveva imparato la lezione. Invece appoggiai la schiena allo schienale della panca ed incrociai le braccia, in attesa della sua risposta. Lo vidi tranquillizzarsi.
«È proprio così! Yohohoho! Ho rischiato la pelle!» esclamò, buttandola sullo scherzo. Non serviva l’Haki dell’Osservazione per capire ciò che avrebbe detto dopo. «Anche se io... la pelle... non ce l’ho! Yohohoho!»
Mi afferrai il ponte del naso con due dita, tentando di mantenere la calma e di sopprimere l’irrefrenabile voglia che avevo di gettare quel mucchietto d’ossa giù dalla nave.
Però, bizzarrie a parte, adoravo sentirli raccontare le loro innumerevoli avventure, tanto che sarei potuta rimanere ad ascoltarli per ore ed ore. Dopo tutto il tempo in cui eravamo stati separati, era un modo per sentirmi più vicina a loro, per sentirmi parte della loro famiglia.
Mi affrettai a finire il cibo che avevo ancora nel piatto. In seguito ai contorni sarebbe finalmente arrivato il dessert. Ero già piena, ma avevo cercato di conservare un piccolo posto nello stomaco per il dolce. Non vedevo l’ora di assaggiarlo, ero sicura che Sanji si fosse superato.
«A proposito,» iniziò Nami, grave. «Abbiamo saputo cosa vi è successo... Con Doflamingo, intendo. Ci dispiace molto.»
La mia faccia si contrasse in una smorfia indefinita. Non era esattamente quello il dessert che avrei voluto far arrivare allo stomaco.
«Deve essere stato orribile ritrovarselo lì davanti.» Se fino a poco prima Usop aveva fatto l’idiota insieme a Rufy e Chopper, adesso era tornato serio.
Io e il chirurgo ci scambiammo una rapida occhiata eloquente. Nessuno dei due aveva voglia di parlare di quello.
«Siamo sopravvissuti,» mi limitai a dire, facendo un mezzo sorriso e concentrandomi sul cibo che avevo nel piatto nel tentativo di infilzare una foglia di insalata con la forchetta.
«È stato...» Bepo iniziò a piangere, spostando l’attenzione di tutti su di lui. «È stato un vero miracolo,» disse, tra un singhiozzo e l’altro.
«Beh, è stato più un miracolo chiamato Dragon,» mi lasciai sfuggire, soprappensiero. Stavolta fui io a richiamare l’attenzione di tutti su me stessa. Mi morsi la lingua e stritolai le posate tra le dita. Perché per una volta non potevo starmene zitta? Il chirurgo mi guardò con uno sguardo a metà tra l’infastidito e il compassionevole, che riassumeva appieno la mia stupidità. Era strabiliante, la mia capacità di rovinarmi la vita con le mie stesse mani. Supponevo che anche quello fosse un talento.
«Siete stati salvati dall’Armata Rivoluzionaria?» chiese Franky, stupito.
Boccheggiai per una ventina di secondi, gli occhi di tutti puntati addosso. Non volevo che lo scoprissero così. No, non volevo che lo scoprissero e basta, per non dover rispondere a domande scomode, ma ormai la frittata era fatta: tanto valeva dare loro una storia, non era necessario che fosse vera.
«Dragon passava da quelle parti, ci ha visto in difficoltà e ha deciso di aiutarci.» Cercai di apparire il più naturale possibile. Dalle facce non troppo convinte dei miei interlocutori capii che non avevo recitato molto bene la mia parte.
«Il capo dell’Armata Rivoluzionaria è un uomo caritatevole, al contrario di ciò che può apparire,» intervenne Law, per salvare la situazione. Gli rivolsi uno sguardo grato. Sapevo quanto gli fosse costato ammettere una cosa del genere. Questo confermava quello che avevo sempre creduto: quando collaboravamo, avevamo il mondo in pugno.
«Tutti i membri dell’Armata Rivoluzionaria lo sono,» precisai, sorridendo appena al ricordo delle bellissime persone che avevo conosciuto. Anche Robin sorrise, come a confermare le nostre parole. Lei, del resto, era stata con loro per un lungo periodo e sapeva che tipo di gente si celasse tra le fila dell’Armata.
«Aspettate un momento,» iniziò Rufy, pensieroso, facendomi preoccupare. Quando cominciava così, non era mai un buon segno. «Se siete stati salvati dai Rivoluzionari, significa che avete conosciuto mio fratello!»
«Hai conosciuto Sabo!?» volle sapere la renna, quasi incredula, proprio come la navigatrice e il carpentiere.
Rimasi con la forchetta a mezz’aria, senza sapere bene che dire. Guardai il Capitano in cerca di un aiuto, ma dalla sua espressione divertita capii che stavolta avrei dovuto cavarmela da sola.
«Sì. Sì, l’ho conosciuto,» confessai infine, con un po’ di riluttanza. Mentire, a quel punto, non aveva senso. L’istinto mi diceva che lo avrebbero scoperto comunque, prima o poi.
E così parlai a Cappello di Paglia di suo fratello. Gli parlai di come lo avevo conosciuto, di come mi avesse aiutato a superare i miei momenti più bui – tralasciando i dettagli piccanti – e di quanto fosse bruciante e coinvolgente il suo desiderio di libertà. Gli parlai della minuziosa precisione con cui mi aveva descritto i posti che aveva visitato e gli raccontai di quanto mi avesse fatto sentire bene – di nuovo tralasciando il modo in cui mi aveva fatto sentire bene – e dell’allegria che era in grado di trasmettere a chiunque gli stesse vicino. Per tutto il tempo, Rufy rimase in silenzio ad ascoltarmi con attenzione. Di tanto in tanto annuiva e sorrideva sapientemente, trovandosi d’accordo con le mie parole.
«Quel ragazzo è molto carismatico,» commentò Robin, ridendo appena e portandosi una mano alla guancia. Annuii con decisione, ma in parte sconsolata. Lo sapevo bene. Era anche troppo carismatico.
«Un vulcano in eruzione!» la supportò il cecchino con la bocca piena. Annuii di nuovo, persa nei miei ricordi. Sulle mie labbra era spuntato un sorriso a metà tra il beato e il malizioso, in memoria di ciò che era stato. Di ciò che eravamo stati io e Sabo.
A quel punto Cappello di Paglia cominciò a raccontare un aneddoto di quando lui e suo fratello erano piccoli, ma non riuscii ad ascoltarlo, perché mi ritrovai davanti Law, che si era sporto per riempirmi il bicchiere di vino. Il ghigno che aveva sulle labbra mi confermava che era una facciata. Quando mai avrebbe fatto qualcosa di gentile se non avesse avuto un secondo fine?
«Il cecchino ha sbagliato una lettera,» mi sussurrò, allargando il suo sorriso subdolo. Non capii subito, ma quando lo feci sgranai gli occhi. Non sapevo se dovevo essere arrabbiata per l’insinuazione o se invece dovevo meravigliarmi per il suo gioco di parole. Di certo non avevo niente da temere, non avrebbe detto una parola agli altri, e gliene avrei ricordato il motivo.
Mi guardai intorno, accertandomi che non ci stesse osservando nessuno, e portai la mano sopra la sua, che reggeva la bottiglia di vino. «Ti ricordi di questa mano? L’hai stretta la sera che hai cantato per me.»
Law continuò a ghignare ma non disse più niente, si calò la tesa del cappello sugli occhi e si rimise seduto. Sbuffai una tenue risata e bevvi un sorso di liquido rosso dal bicchiere appena riempito. Il sapore era sempre più dolce dopo una vittoria.
«È stato bello conoscere Sabo,» dissi guardando Rufy quando tutti ebbero finito di ridere per la sua storia, i miei occhi limpidi e sinceri. Lui sorrise con orgoglio, come ci si aspetta da un fratello minore.
«Possiamo immaginare,» intervenne Usop, che aveva finito di spiluccare le ultime foglie di insalata rimaste nel piatto.
«Credetemi, non ve lo immaginate,» sussurrai, trattenendo una risata.
Per fortuna non mi aveva sentito nessuno, la mia ultima affermazione avrebbe potuto destare dei sospetti. Ne avevo già avuto abbastanza con il Capitano e i suoi giochi di parole.
 
Sospirai, accarezzandomi la pancia con entrambe le mani. Avevo mangiato così tanto che temevo di scoppiare.
Fortunatamente il discorso sui Rivoluzionari era caduto lì. I Mugiwara non avevano voluto sapere altro, non mi avevano chiesto per quanto fossi rimasta con loro, né per quale motivo. Io, invece, non avevo fatto domande su come avessero fatto a sconfiggere Jack. Per quanto mi facesse piacere ascoltarli mentre raccontavano delle loro avventure, non avevo bisogno di saperlo: lo avevo letto nel manga.
«Mia dolce Cami, il pranzo è stato di tuo gradimento?» mi chiese Sanji, che si era avvicinato con garbo.
«Moltissimo. Non mangiavo così tanto e bene da secoli,» affermai compiaciuta. «Non dirlo al nostro cuoco, però,» gli sussurrai poi, ridacchiando.
Non c’era pericolo che lo facesse in ogni caso. Stava correndo all’impazzata per tutta la cucina in preda all’estasi a causa dei miei complimenti, e sospettavo che avrebbe continuato a farlo per tutta la giornata. Forse persino per tutta la settimana. Non badai a lui e uscii dalla sala da pranzo. Stare all’aria aperta mi avrebbe fatto bene e mi avrebbe aiutato e digerire meglio.
Appena prima di varcare l’uscio della porta mi persi a osservare il cielo. C’era ancora il sole, per fortuna, e mi sembrava che splendesse ancora di più degli altri giorni. Mi convinsi che era per la felicità che stavo provando in quel particolare giorno. Mesi prima non avrei mai pensato che avrei rivisto i miei amici, ero convinta che sarei morta per mano di Doflamingo. Invece... ero lì. Felice, nonostante tutto.
«Cami,» mi richiamò una voce femminile, che riconobbi subito: apparteneva a Nami. Mi girai a guardarla, era proprio sopra di noi, accanto ai suoi cespugli di mandarino. In mano aveva un drink. Mi fece cenno di raggiungerla, così mi diedi la spinta e con un balzo fui da lei, sebbene non capissi cosa potesse volere da me.
«Sai,» iniziò misteriosa. «Non sappiamo molto di quello che hai combinato in questi anni, ma oltre alla vicenda di Doflamingo siamo venuti a conoscenza di un altro fatto.»
Assottigliai gli occhi per incitarla a parlare mentre prendeva un sorso del suo cocktail. Se lei era calma, io ero un fascio di nervi. Credevo di sapere dove volesse andare a parare, e non mi piaceva affatto la piega che stava prendendo la conversazione.
«Devo ammettere che quando l’ho letto sui giornali, tempo fa, sono rimasta molto sorpresa,» continuò, aumentando esponenzialmente il mio nervosismo. Da un lato volevo che non pronunciasse le parole che stava per pronunciare, dall’altro volevo che la facesse finita quanto prima. «Voglio dire, il Chirurgo della Morte e la Regina di Cuori... chi mai se lo sarebbe aspettato che tra di voi potesse nascere qualcosa?»
La ragazza fece un sorriso furbetto, mentre io mi ritrovai ad ingoiare un boccone più amaro di quanto mi fossi immaginata. Iniziai a sentire caldo, molto caldo, e sperai che la mia faccia non apparisse rossa come un peperone. Se non mi fossi imposta di darmi un certo contegno avrei grondato sudore da tutti i pori. Non ero imbarazzata, ero arrabbiata. Quando pensavo che la questione fosse stata dimenticata e accantonata una volta per tutte, ecco che tornava a bussare alla mia porta.
Boccheggiai per mezzo minuto, intanto che lo sguardo della navigatrice si intensificava ad ogni secondo che rimanevo in silenzio. Non avevo niente da nascondere e in un’altra occasione avrei subito negato che tra me e Law ci fosse stato qualcosa – qualsiasi cosa – ma era di Nami che si stava parlando. La Gatta Ladra avrebbe potuto rigirare a suo vantaggio qualsiasi cosa avessi detto. Avevo bisogno di supporto da una persona che sapeva come usare le parole meglio di me e che c’entrava quanto me nella vicenda.
«Law!» lo chiamai a gran voce. «Volevo dire... Capitano!» mi corressi poi, ricordandomi del nostro patto. La cartografa continuò a ghignare.
«Capitano!» lo sollecitai, vedendo che non ricevevo risposta.
«Che c’è?» Mi rispose dopo qualche altro secondo di silenzio imbarazzante. Per tutto il tempo non avevo tolto gli occhi di dosso dalla rossa. Dovevo monitorare ogni sua mossa, ogni sua reazione, per captare i suoi pensieri. Avrei anche attivato l’Haki per semplificarmi il compito, ma ero troppo deconcentrata per farlo.
«Potresti venire qui un attimo, per favore?» Quasi lo supplicai. Solo allora mi voltai verso di lui: aveva lo sguardo puntato verso l’alto, su di noi, e sembrava piuttosto infastidito. Gli occhi erano appena un po’ più socchiusi del solito a causa del sole, ma le sue iridi grigie risplendevano. «Abbiamo bisogno del tuo parere su una questione... delicata.»
Mi parve di sentirlo sbuffare prima di raggiungerci. Tirai un sospiro di sollievo, sebbene sapessi che era tutt’altro che finita. Nami non avrebbe demorso, ma almeno avere il mio Capitano – nonché il mio presunto fidanzato – accanto mi avrebbe aiutata. Gli lanciai un’occhiata per fargli capire al volo la situazione.
«Pensa che io e te siamo una coppia. Ha letto quel famoso articolo di qualche mese fa sul giornale e crede che stiamo insieme.»
Il moro alzò un sopracciglio, ma non capii se lo fece perché pensasse che lo avevo convocato su quella specie di tetto per un motivo stupido o se pensasse che ad essere stupide fossero le credenze della cartografa.
«Non dovresti credere a tutto ciò che leggi sui giornali, Nami-ya.»
Annuii con convinzione. Forse persino con più convinzione del dovuto.
«Sante parole. Ascolta la voce della ragione,» la sollecitai, indicando il chirurgo.
La navigatrice incrociò le braccia al petto e piegò la testa da un lato, continuando a scrutarci. Avevo l’impressione che fosse convinta che non gliela stessimo raccontando giusta. Ma si sbagliava, noi eravamo stati più che sinceri con lei e con tutti coloro che ci chiedevano se tra me e Law ci fosse qualcosa.
«Lui è il mio Capitano, io sono la sua sottoposta. Non so quale assurda storia vi siate costruiti attorno a quell’articolo, ma ti garantisco che niente di ciò che hai letto corrisponde alla verità.» I miei occhi e il mio tono di voce erano fermi.
«E qual è la verità?» mi chiese con un bagliore nelle iridi.
«Ehi, Nami, quale rotta dobbiamo seguire?» L’intervento di Franky, che si era posizionato al timone ed era pronto a partire, mi salvò dall’ennesimo imbarazzante silenzio che avrebbe seguito quella domanda.
«Continua a navigare verso Nord-Est,» rispose lei, con la decisione che la contraddistingueva quando si trattava di decidere le rotte da tracciare.
Il moro approfittò del momento di distrazione della Gatta Ladra per chinarsi verso di me quel tanto che bastava per arrivare al mio orecchio.
«Io e te sappiamo qual è la verità. E sappiamo che tipo di uomini ti piacciono,» mi derise in un sussurro. Lo fulminai con lo sguardo, poi mi portai un dito sulle labbra e gli feci cenno di chiudere la sua dannata boccaccia. Se la rossa ci avesse sentito, sarebbe stata la fine. Avevamo già sfidato la sorte a pranzo.
Il chirurgo ghignò beffardo prima di ritornare serio, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa.
«Se non c’è altro,» fece tagliente, per poi defilarsi senza che potessi aggiungere niente.
«La verità è che è rimasto tutto come prima, come il giorno in cui le nostre strade si sono divise,» ripresi quando ebbi di nuovo l’attenzione della ragazza, che era rimasta un po’ delusa nel vedere che Law se ne era andato. «Per lui provo una profonda stima e lo rispetto molto, esattamente come voi rispettate il vostro Capitano. Mi dispiace deluderti, ma è tutto qui. Non c’è altro da sapere, o da capire. Il nostro rapporto si limita al normale rapporto che c’è tra Capitano e subordinata.»
Non era del tutto vero, il nostro rapporto era tutto fuorché normale, ma questa era un’altra storia, una storia che non avrei di certo raccontato alla furba Gatta Ladra.
«Però qualcosa tra di voi è cambiato.» Le sue parole mi sorpresero, più per la morbidezza con cui le pronunciò che per il significato dell’affermazione in sé. Notai che stava fissando il Chirurgo della Morte mentre se ne stava mezzo imbronciato con i fianchi appoggiati alla ringhiera della Sunny. Era innegabile che l’espressione da tenebroso gli donasse molto. Sorrisi appena.
«Diciamo che adesso non desideriamo ucciderci a vicenda tutto il tempo,» replicai in un sospiro. Era inevitabile, dopo tutto quello che avevamo vissuto e che avevamo dovuto superare. Alla fine, se si passa tanto tempo con una persona, anche se la si odia con tutto il cuore, si finisce comunque per volerle bene. E il fatto che ogni tanto volessi ancora strangolare Law ne era la prova. Perché ci tenevo a lui, più di quanto avessi mai tenuto a qualsiasi altra persona. Tuttavia tacqui anche su questo.
«E la foto che vi hanno scattato?» tornò alla carica, non ancora del tutto convinta.
«È un chiaro esempio di manipolazione mediatica.» Sbuffai, sapendo che non mi avrebbe lasciato stare fino a che non le avessi raccontato la storia che vi era dietro. Mi attendeva con un sopracciglio alzato mentre pezzi di ricordi si facevano strada nella mia testa. «Era il mio compleanno. I miei compagni erano stati molto carini con me, mi avevano fatto una sorpresa. Abbiamo riso e scherzato e festeggiato per tutta la sera. È stato un momento di giubilo e leggerezza al quale anche Law, strano ma vero, ha partecipato. Tutto qui.»
«Secondo quanto dici, la vera notizia avrebbe dovuto essere che Traffy abbia partecipato volontariamente a una festa e si sia divertito,» scherzò Nami, bevendo un sorso del drink. Ci abbandonammo entrambe a una risata.
«Ehi, Cami!» mi richiamò la voce di Usop. Spostai lo sguardo su di lui e notai che stava sventolando un mazzo di carte. Sogghignai compiaciuta prima di balzare giù dal tetto della sala da pranzo con un salto.
«Hai proprio voglia di subire una sonora sconfitta, eh?» lo canzonai quando fui davanti a lui.
«Non questa volta.» Sollevò un angolo della bocca.
«D’accordo, allora. Che la partita abbia inizio,» dichiarai, con un bagliore nello sguardo.
Erano cambiate molte cose dall’ultima volta in cui io e i Mugiwara ci eravamo visti, ma alla fine era rimasto tutto uguale. O almeno, così mi sembrava. Presto mi sarei accorta che mi ero sbagliata.

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Capitolo 9
*** Enigmi ***


«Ah, ho vinto! Che bello!» esclamò trionfante Usop, gettando le braccia al cielo. «Hai visto che alla fine ti ho battuto, Cami?»
A quanto pareva la partita era terminata. Non dissi niente. Sia Sanji che il mio Capitano aspettavano una mia qualsiasi reazione, che però non arrivò. Per un po’ rimasi immobile nella posizione in cui mi trovavo, seduta a gambe incrociate su un angolo del prato della Sunny.
Avevo obbligato quei due ad interrompere le attività che stavano svolgendo, che nel caso del biondo era cucinare, mentre nel caso del moro era tentare di convincere Rufy ad affrontare un discorso serio sull’imminente guerra contro un Imperatore – quindi lo avevo salvato da se stesso – per rendere il gioco un po’ più divertente: non mi piaceva vincere facile. C’era, però, una cosa che mi piaceva ancora di meno.
«Non dici niente? Del resto qualsiasi cosa tu dica non cambierà il fatto che io sono il Grande Usop, l’appena proclamato Re di Machiavelli!» rimarcò il cecchino, con un sorriso beffardo che gli avrei cancellato entro qualche secondo.
Fu un attimo. Non si accorse nemmeno. Si ritrovò semplicemente con uno dei miei pugnali puntati alla gola. Sgranò gli occhi e deglutì sonoramente.
«C-Cami? Che... che stai facendo?» mi domandò titubante, osservando la mia mano che teneva il coltello a mezzo millimetro dalla sua pelle.
«Cami-chan...» Sanji era attonito.
«Pensavi che non me ne sarei accorta?» Un bagliore omicida apparve nei miei occhi.
Spalancò ancora di più le palpebre, terrorizzato.
«Non fare mai più un giochetto simile con me. So che hai barato. Avanti, tira fuori le carte dai pantaloni.»
Usop si portò le mani ai lati della faccia, in segno di resa. Se con Brook la violenza non serviva a niente, con lui era necessaria, affinché capisse che con me non c’era da scherzare. Se si aspettava di trovarsi davanti la Camilla ingenua e innocua di una volta, si sbagliava di grosso.
Ghignai e infilai le dita nei suoi pantaloni color giallo senape. Non era una cosa tanto elegante da fare, ma avevo fatto di peggio. Ed eccole lì. Non una, non due, ma ben tre carte. Era un trucchetto vecchio quanto mia nonna. Era stata proprio lei ad insegnarmelo, avevo imparato a riconoscere i segnali fin dalla tenera età di dodici anni. Anche lei ogni tanto barava, più che altro perché non aveva mai capito come funzionasse Machiavelli, ma era così orgogliosa e testarda che pur di non perdere avrebbe – letteralmente – fatto carte false. Ancora mi pareva di scorgerla davanti a me, con i suoi boccoli perfettamente definiti, il suo rossetto rosso ciliegia, il suo bicchiere di vino in mano e le carte nella manica della sua blusa. Non avevo bisogno di attivare l’Haki per sapere quando qualcuno barava, soprattutto se si trattava di Machiavelli.
Le recuperai e le rimisi in mano al cecchino come se non fosse successo nulla, per poi rinfoderare il pugnale nello stivale. Volevo continuare la partita, anche se avevo motivo di credere che per gli altri fosse finita lì.
Gettai uno sguardo su tutti i giocatori per cercare di captare le loro intenzioni. Se Usop appariva sconvolto e Law impassibile, Sanji sembrava estasiato.
«Cami-chan! Anche io ho nascosto delle carte nei pantaloni!» esordì, contento come un bambino. Alzai un sopracciglio. Ecco spiegato il perché del suo strano comportamento. «Controlla pure, ti prego!»
Fece per avvicinarsi, ma io tirai di nuovo fuori il coltello e gli premetti la punta della lama contro il petto, senza fargli male. Lo stavo facendo più per fermare la sua folle avanzata verso di me. Tuttavia lui non cedette, né diede il minimo segno di volerlo fare.
«Trafiggimi, mia Regina! Il mio cuore è colmo d’amore per te!» esclamò con voce stridula, facendomi accapponare la pelle. Dopo quella frase ero davvero tentata di piantargli il pugnale nel torace. Dall’espressione che fece, capii che il mio Capitano la pensava alla stessa maniera.
«Sanji-san,» lo richiamò Nami da lontano. «Oggi non ci cucini una delle tue squisite cenette? Avrei una certa fame.»
Le rivolsi un’occhiata grata. Sapevo che era tutta una recita per levarmi di torno lui e le sue velate – ma neanche troppo – molestie. All’improvviso, il cuoco ritornò serio.
«Dolce principessa, spero che non ti dispiaccia, ma il sole sta tramontando e devo andare a preparare la cena,» si congedò guardandomi. Dopodiché si alzò e ritornò verso la sua amata cucina, non prima di rivolgere delle avances – che furono prontamente respinte con un pugno – alla navigatrice. Avevo tentato di convincerlo a lasciare che per una volta fosse Ryu a cucinare, ma non aveva voluto sentire ragioni. Una cosa, però, era certa: quando ero in loro compagnia il tempo passava in fretta. Non mi ero accorta che fosse già arrivato il tramonto, né pensavo che ne avrei rivisto uno così presto. Eppure, eccomi lì, colta in flagrante dall’imprevedibilità della vita.
Il cecchino si schiarì timidamente la voce.
«Io... devo... sì,» balbettò, defilandosi pian piano, con la coda tra le gambe e la paura ancora negli occhi.
Rimanevamo soltanto io e il chirurgo, seduti uno di fronte all’altra.
«È stata una partita emozionante,» commentò una volta che si fu rimesso in piedi. Poi si calò la tesa del cappello sugli occhi. Sulle sue labbra si intravedeva un sorriso compiaciuto. Mi rialzai anche io e lo affiancai.
«Di’ la verità, te ne eri accorto anche tu.» Sollevai gli angoli della bocca in un sogghigno.
«Volevo vedere fino a che punto ti saresti spinta.»
«Ad un punto di non ritorno, a quanto pare.» Ridacchiai nell’osservare il cecchino che si accarezzava la gola, ancora scosso per quanto successo.
Quando riportai lo sguardo sul mio Capitano, notai che stava squadrando Rufy con aria pensierosa.
«Prima o poi si renderà conto che abbiamo bisogno di un piano per agire e allora potrete discuterne,» provai a rassicurarlo, sebbene non ne avesse bisogno. «Non è sempre come parlare a un muro.»
Non che fossi un’esperta o che sapessi come prenderlo, ma un po’ conoscevo il capitano dei Mugiwara ed ero convinta che prima o poi si sarebbe ravveduto. Non si poteva biasimare, però: era un argomento di cui nessuno aveva voglia di parlare. Mettendoci contro Kaido avevamo praticamente firmato la nostra condanna a morte.
Law non mi rispose. Sospettavo che non mi avesse nemmeno sentita. Ne compresi il perché solo dopo che anche io ebbi osservato attentamente il fratello di Sabo per qualche minuto. Stava ridendo e scherzando tranquillo con Chopper e Carrot, quando, ad un tratto, ai miei occhi apparve diverso. Era sempre uguale, era sempre lo stesso Rufy che sembrava essere ignaro di tutto, ma qualcosa era cambiato. Non avrei saputo dire cosa, però era lì, davanti a me. Lo avevo visto e non potevo più ignorarlo.
«C’è qualcosa di strano. Non credi?» chiesi al mio interlocutore, voltandomi a guardarlo. Il mio Capitano annuì flebilmente. Sembrava molto serio, più del solito. C’era qualcosa che non andava.
 
Sapevo che prima o poi quell’idilliaco momento di svago sarebbe finito. Non per niente a cena ci ritrovammo a discutere dell’imminente battaglia contro l’Imperatore delle Cento Bestie. Era venuto fuori quasi per caso, in realtà. Ed era stata colpa mia. Ancora una volta io e Law ci eravamo ritrovati a banchettare in allegria insieme alla ciurma di Cappello di Paglia. Bepo, invece, era rimasto con il resto dei Pirati Heart. A pranzo i Mugiwara mi avevano parlato perlopiù della loro avventura su Whole Cake Island, ma non avevano menzionato niente sulle mille altre peripezie che ero sicura avessero vissuto – e delle quali non avevo avuto ancora l’occasione di leggere – così avevo fatto il madornale errore di chiedere loro cosa avessero combinato in questi due anni dopo aver sconfitto una delle punte di diamante di Kaido e aver salvato il loro cuoco da un matrimonio tragico. La loro risposta era stata tanto inaspettata quanto semplice: avevano cercato quanti più Poignee Griffe fossero riusciti a trovare, tra i quali anche l’ultimo Road Poignee Griffe, dall’ubicazione sconosciuta. A quanto pareva, però, la loro ricerca era stata piuttosto fallimentare: della pietra rossa non vi era alcuna traccia da nessuna parte. Mi avevano spiegato che avevano aspettato così tanto prima di affrontare Kaido perché era stata Robin a chiederlo. Per quanto fossimo tutti riluttanti ad ammetterlo, sapevamo che c’era la possibilità che qualcuno di noi potesse morire a Wa, e l’archeologa sembrava esserne più consapevole di tutti, per questo aveva deciso di cercare prima il Road Poignee Griffe mancante, in modo da poterlo decifrare e ridurre così le possibili rotte da tracciare per Raftel. Non le si poteva dare torto, dopotutto tre erano pur sempre meglio di due.
«Non siamo riusciti a trovare ciò che cercavamo, ma in compenso abbiamo trovato tre Poignee Griffe normali, e crediamo che in uno di essi sia contenuto un indizio circa le informazioni necessarie per trovare la sua corrispondente pietra rossa,» ci informò la navigatrice, ormai divenuta la portavoce ufficiale del gruppo.
«Che tipo di indizio?» chiesi, incuriosita.
«Un indizio alquanto enigmatico,» commentò Brook, prendendo un lungo sorso di tè.
«Una specie di filastrocca.» Usop si grattò il pizzetto.
«Dove il cielo incontra il mare, un rubino inizierà a brillare. La rotta finale verrà tracciata e la sorte del mondo ribaltata,» rivelò Robin, facendomi corrugare la fronte.
«Che diavolo dovrebbe significare?» mi lasciai sfuggire, perplessa.
«È quello che stiamo tentando di capire anche noi.» Nami sospirò.
«Qual è il problema?» chiese Law, che data la sua incredibile perspicacia aveva capito che c’era qualcosa sotto.
«Siamo un po’ stretti con i tempi,» replicò la cartografa. «Tra due settimane dovremmo incontrarci con gli altri membri dell’alleanza. Non possiamo più rimandare, lo abbiamo fatto per troppo a lungo.»
Nel sentire le sue parole, raddrizzai la testa e mi rianimai all’improvviso.
«Gli altri membri dell’alleanza? Intendi anche Nekomamushi e... Marco?» chiesi, gli occhi pieni di speranza. Pronunciai l’ultima parola con molta cautela, come se avessi paura che la persona che portava quel nome potesse di nuovo svanire nel nulla. Non poteva accadere, avevo bisogno di rivederlo.
«Non ne siamo certi. Non abbiamo contatti con loro da parecchio tempo, abbiamo preso questi accordi mesi fa.»
Abbassai lo sguardo, carico di delusione, e sospirai malinconicamente. Forse non era destino che ci rincontrassimo.
«Il punto è che, come ha detto Nami, il tempo per trovare il Road Poignee Griffe scarseggia. E non siamo sicuri di avere i mezzi necessari per riuscire nella nostra impresa prima che si esauriscano queste circostanze favorevoli,» intervenne Usop. «Ci è rimasta una sola zona da perlustrare, tra quelle nelle quali crediamo che si possa nascondere la pietra, e siamo convinti che questa sia la volta buona.»
«Perciò... vi andrebbe di unirvi a noi nella ricerca del Road Poignee Griffe? Ci farebbe comodo una mano,» ci propose la Gatta Ladra, rivolgendo un gran sorriso a me e al chirurgo.
«E dei cervelli in più,» aggiunse Sanji, accendendosi l’ennesima sigaretta della giornata.
«No,» rispose Law, secco. Scossi la testa ed alzai gli occhi al cielo. Era proprio un frigido guastafeste. Però capivo il suo punto di vista: per lui il solo scopo dell’alleanza che aveva stretto con Cappello di Paglia era quello di eliminare Kaido. Si aspettava di parlare di approcci e strategie di guerra, di certo non aveva pensato di doversi mettere a fare una caccia al tesoro, non era nei suoi piani, né nei suoi interessi.
La rossa spostò lo sguardo su di me, speranzosa. Prima di rispondere gettai uno sguardo al chirurgo, non tanto per chiedergli il permesso, quanto per chiedergli un consiglio sul da farsi. Tuttavia non riuscii a decifrare la sua espressione. Non capivo se secondo lui avrei fatto meglio a rifiutare la loro proposta o se invece credeva che avrei dovuto accettare. In fondo me lo aveva sempre ripetuto: non era mio padre, o il mio Angelo Custode, non era sempre lui a dover decidere per me. Quello che mi lasciò intendere, però, era che avevo la sua autorizzazione per unirmi a loro.
«Allora?» mi sollecitò Rufy, impaziente come suo solito.
Mi morsi un labbro. C’erano ancora tante cose che dovevo sistemare sul sottomarino, a cominciare dalla questione di Kenji. E avevo ancora bisogno di lavorare sul mio polso, per riacquistarne una volta per tutte la piena funzionalità. In più non volevo essere io la responsabile della mia stessa morte. Perché, se l’avessimo trovato, niente avrebbe trattenuto Cappello di Paglia dall’andare da Kaido. Aiutarli avrebbe significato affrettare i tempi per l’inizio di una battaglia impossibile contro un uomo – ammesso che si potesse definire tale – praticamente immortale. Però... avevano bisogno di una mano. E lo avevano chiesto a me.
Sospirai, buttando fuori tutta l’aria che avevo trattenuto nel corpo fino a quel momento.
«E va bene,» accettai, non senza una certa riluttanza.
Seguirono urla di giubilo, brindisi e festeggiamenti vari. E continuarono per tutta la serata.
Sapevo che non sarebbe stata una buona idea, ma sentivo di doverlo fare. Li dovevo aiutare, perché loro lo avevano fatto con me, senza pretendere nulla in cambio. E poi, una parte di me credeva che sarebbe stato divertente passare un po’ di tempo con quegli scalmanati, mi avrebbe fatto bene vivere una delle loro avventure.
Tanto avrebbero trovato comunque il Road Poignee Griffe. E noi saremmo comunque andati in guerra, che mi piacesse o meno.
 
Poggiai il cellulare sul comodino dopo aver augurato virtualmente la buonanotte ai miei genitori. Quel giorno erano stati all’Ikea. Si erano persi un paio di volte e alla fine non avevano comprato niente, però mio padre aveva rubato così tante matite da sistemarsi a vita. Quando avevo visto le foto ridere fino alle lacrime era stato inevitabile. Ero contenta per loro, finalmente stavano vivendo con leggerezza. Anche se il loro sguardo era un po’ vuoto, come se mancasse qualcosa, sembravano sereni. Tante volte mi ero detta che era giusto così, che adesso facevamo delle vite separate e che sia io che loro meritavamo di essere felici. Ero stata io a volere che le cose andassero così, perciò non potevo che essere contenta per tutti. Perché adesso avevo uno scopo. Un sogno per cui combattere e da portare avanti. Ed ero circondata da persone che mi apprezzavano per quella che ero e che addirittura volevano il mio aiuto, per quanto inutile fosse. Mi sentivo viva, come avrei sempre dovuto sentirmi.
Spensi la luce, appoggiai la testa sul cuscino e mi imposi di dormire. Quella sera non avevo voluto sentire ragioni: nel momento in cui avevo rimesso piede sul sottomarino avevo ignorato tutti i coraggiosi che erano rimasti svegli nonostante l’ora tarda, avevo augurato la buonanotte a Law, liquidato Shachi e Penguin con un’occhiataccia quando mi avevano chiesto di descrivergli Nami e Robin, evitato Kenji come la peste ed ero andata dritta a letto. Ero stanca e la notte prima avevo dormito poco. Il problema era che non riuscivo a prendere sonno.
Per tutta la sera avevo osservato Rufy nel tentativo di capire cosa non andasse, e per tutta la sera avevo fatto fiasco. Ma qualcosa c’era, ne ero sicura. Dovevo solo capire quale fosse il problema.
Alla fine, sfinita, caddi tra le braccia di Morfeo, in quello che sarebbe stato un sonno profondo e tormentato.
 
Sognai un’inquietante apocalisse zombie, che mi fece risvegliare con addosso una certa agitazione nel bel mezzo della notte. Maledetti incubi. Con la stanchezza che avevo e le energie che mi servivano per affrontare quelle giornate frenetiche, tutto ciò che mi serviva – oltre al vino e al caffè – era un sonno ristoratore, accompagnato da dolci sogni che mi facessero svegliare riposata e appagata. E invece, a quanto pareva, mi era stato negato anche quello. Una dannata apocalisse zombie. Non era neanche un incubo: nel sogno c’erano “semplici” corpi in decomposizione che vagavano per il Polar Tang, senza meta e senza scopo. Eppure qualche dettaglio a me sconosciuto di quel sogno mi turbava.
Il display del telefono segnava le quattro e trentadue. Sbuffai più volte prima di decidermi a scostare le coperte e alzarmi. Tanto ormai non mi sarei più riaddormentata. Aprii piano la porta della mia cabina e mi diressi a passo svelto ma silenzioso in infermeria. Avevo bisogno di tenere la mente occupata, e sapevo anche quale fosse il rimedio perfetto.
Accesi la luce, chiusi la porta ed andai verso uno degli armadietti. Al suo interno, lercio e pieno di sfregi, c’era Chuck, il manichino. Non persi tempo e lo tirai fuori, cercando di non fare rumore. L’ultima cosa che volevo era che qualcuno si svegliasse.
«Come prendere due piccioni con una fava,» commentai mentre lo mettevo steso su uno dei lettini.
Visto che in quei giorni la mia agenda sarebbe stata piena, quello era l’unico modo che avevo per esercitarmi. Avevo bisogno di tenere il polso allenato.
Passai una mano sul freddo torace di Chuck. Sulla sua “carne” c’erano ancora alcune tracce del sangue di Kenji. Prima di cominciare ad incidere, la mia mente tornò per un secondo all’Isolachenoncè. Davanti ai miei occhi comparvero le distese verdi, lo scintillante oceano blu e il luminoso cielo azzurro, e mi sentii in pace.
Feci un taglio sulla pianta del suo piede sinistro. Dopo l’ultima volta c’erano ancora meno posti disponibili sui quali poter operare. Presi l’ago e il filo da sutura e mi apprestai a ricucire. Non ero in ansia, sapevo di potercela fare. Il mio polso non tremò nemmeno per una volta durante il tempo che impiegai per suturare. Ero diventata anche più veloce. Sollevai un angolo della bocca. Nonostante la confusione che aveva generato con le sue azioni, Kenji aveva fatto un ottimo lavoro con me. Era giusto dargliene atto.
Rimasi in infermeria a fare pratica per più di un’ora. Quando riposi gli strumenti al loro posto ero sfinita e sudata, ma mi sentivo appagata. Il polso non aveva tremolato neanche per mezzo secondo e io non avevo vacillato. Per tutta la durata delle procedure avevo creduto che fosse possibile, e lo avevo fatto.
«Un’apocalisse zombie. Ci crederesti, Chuck?» Diedi al manichino una simbolica pacca sulla spalla. «Un esercito di zombie su questo sottomarino. La loro pelle cadeva a pezzi, la loro carne era putrida e le loro membra erano esposte.»
Mi appoggiai allo schienale della sedia e continuai a fissare Chuck, come se mi aspettassi una risposta. Scossi la testa. Ero impazzita, alla fine: stavo parlando con un manichino.
Tirai su la testa e spalancai gli occhi, colta da un’improvvisa illuminazione. Zombie, manichini... A quanto pareva il mio subconscio aveva capito prima di me. Eppure adesso mi sembrava così ovvio. Quasi mi sentivo una stupida per non averlo realizzato prima.
Sbattei le mani con forza sul lettino, lanciai Chuck dentro all’armadio e corsi via dall’infermeria. Mi fermai nel bel mezzo del corridoio, rendendomi conto che ancora non erano nemmeno le sei del mattino e che stavano tutti dormendo. Lo studio di Law, il posto che conteneva le informazioni che mi servivano, era chiuso a chiave e di certo non sarei stata io a scatenare la sua ira svegliandolo. Si sarebbe comunque svegliato poco dopo, quindi sarebbe stato meglio aspettare. Inoltre, prima di fare qualsiasi altra cosa, dovevo andare a farmi una doccia, perché puzzavo.
 
Bussai, per poi varcare la soglia come un uragano, senza aspettare una risposta.
Il Capitano era seduto compostamente alla sua scrivania e stava leggendo il giornale odierno. Alzò appena gli occhi dalla pagina per scrutarmi con un’espressione indecifrabile.
«Sei mattiniera, oggi. A cosa devo questa visita?»
Ignorai la sua pseudo provocazione e mi diressi verso lo scaffale su cui teneva gran parte dei suoi tomi di medicina. Scorsi tutti i titoli dei volumi con gli occhi. Non ci misi molto a trovare ciò che stavo cercando, dato che il moro conservava ogni libro rigorosamente in ordine alfabetico. Ed eccolo lì, in bella vista. Si intitolava:  La decomposizione del corpo umano. Lo presi e lo aprii sulla pagina dell’indice.
«Posso prenderlo in prestito?» chiesi, voltandomi solo per un istante a fissare il Capitano. In risposta, sollevò di poco un angolo della bocca e ghignò sommessamente, facendomi innervosire. Non mi sembrava quello il momento di mettersi a fare sogghigni provocatori.
«Mi chiedevo quanto ci avresti messo.»
Corrugai la fronte, perplessa. Non sapevo a cosa si riferisse. Ci arrivai solo in un secondo momento, e sbuffai una risata: lo aveva intuito anche lui. Era ovvio che l’avesse capito, era il medico più brillante che conoscessi.
Appoggiai il pesante tomo sulla scrivania, poi andai a chiudere la porta dello studio. Non volevo che qualcuno ci sentisse.
«Credi anche tu che si tratti della Sindrome di Noxyd?» volli sapere, piegando la testa da un lato e umettandomi le labbra – improvvisamente diventate secche – con la punta della lingua. Non solo non mi rispose, ma tornò a leggere il giornale.
Sbuffai con frustrazione e picchiettai le dita contro il tavolo. Odiavo quando faceva così. Odiavo il fatto che volesse per forza apparire enigmatico e misterioso. La questione era seria, se avevo ragione c’era poco da scherzare. Era della vita di Rufy che si stava parlando.
 
Sospirai dopo aver letto le cinque pagine che parlavano della Sindrome di Noxyd, per poi passarmi una mano su tutto il viso. Era come immaginavo: i sintomi che mostrava Cappello di Paglia, seppur molto poco visibili, combaciavano con quelli descritti nel libro. Se pensavo che i miei sospetti erano stati confermati, mi veniva da piangere. Perché era una cosa che andava oltre le mie possibilità e quelle di Law. Non c’era niente che potessimo fare, se non aspettare e sperare che la situazione non andasse a finire nel peggiore dei modi.
Mi agitai sulla sedia. All’improvviso in me montò un senso di rabbia profondo e incontrollabile. No, non poteva essere, non mi sembrava vero. Era così... ingiusto.
«Hai trovato quello che cercavi?» La voce del chirurgo mi distrasse dalle mie riflessioni.
«Sì...» Una ruga d’angoscia comparì in mezzo alla mia fronte. Mi voltai a guardarlo. «Lo pensi anche tu?»
«Purtroppo sì.»
«Quindi... che facciamo?»
«Il fatto che tu me lo chieda indica che dovresti cercare meglio.» Con un cenno del capo indicò il volume aperto davanti a me.
«Smettila, Law. Non è il momento di mettersi a fare del sarcasmo.» Strinsi i pugni. La sua indifferenza mi faceva uscire dai gangheri. Il fatto che non ci fosse nulla da fare non stava a significare che avrei dovuto disinteressarmi totalmente della cosa. Era di un amico che si stava parlando. «Lo so. So che non c’è niente che possiamo fare.»
Abbassai lo sguardo e scossi la testa. Provavo tante emozioni differenti. Ero arrabbiata, ero triste, ero sconfortata.
«Sei un medico. Pensa con razionalità,» mi ammonì. A quel punto mi arresi. Era come parlare con un muro. Però capivo le sue motivazioni: anche a lui dispiaceva per Rufy, la finta indifferenza era il suo meccanismo di difesa, perché non avrebbe mai ammesso che ci teneva a Cappello di Paglia.
«Credi che Chopper se ne sia accorto? Lui è un dottore, dovrebbe saperlo.» Avevo le sopracciglia sollevate e un barlume di speranza negli occhi.
«No. Non può essersene accorto. Vede il suo Capitano tutti i giorni.» Il chirurgo fece svanire ogni mia illusione. Non che si potesse biasimare, aveva ragione: i sintomi responsabili della Sindrome di Noxyd non potevano essere percepiti se si vedeva la persona che ne era affetta tutti i giorni. Chopper non aveva colpe, era semplicemente ignaro di tutto. Era una sindrome beffarda, che si insinuava gradualmente nel corpo di chi ne veniva colpito. Era subdola, silenziosa e lenta, come un serpente che strisciava verso la propria preda. Non era neanche una vera sindrome, il libro stesso lo diceva, era più un modo di reagire dell’organismo ad un certo tipo di “stimoli”.
«Pensi che Rufy lo sappia?» Un’altra ruga di preoccupazione era comparsa sulla mia fronte.
«Mugiwara-ya non è uno sprovveduto,» affermò, girando per l’ennesima volta la pagina del giornale. Su questo aveva ragione. Probabilmente Rufy sapeva in quali condizioni fosse il suo corpo. Il problema era che sembrava non curarsene. Strinsi il ponte del naso tra pollice e indice per qualche secondo, per poi ricompormi e tirare su la testa.
«In teoria dovremmo dirglielo... no?»
«Io ho preso la mia decisione. Ora sta a te stabilire cosa fare.»
Non ebbi il tempo di replicare, perché lo vidi richiudere il giornale e alzarsi con la sua solita calma. Camminò fino alla porta, la aprì e se ne andò.
Sospirai, afflosciandomi sulla sedia. L’argomento di quella conversazione non piaceva nemmeno a lui.
Imposi a me stessa di ricompormi. Avevo davanti una giornata lunga e piuttosto faticosa, e non potevo mostrarmi in questo modo. Come Law, anche io avevo deciso di tacere sulla faccenda. Non volevo farlo, non volevo stare zitta e buona a guardare Rufy che si distruggeva da solo, ma se lui lo sapeva e aveva deciso di non dire nulla, allora dovevo rispettare la sua volontà. Ecco perché non potevo mostrarmi affranta davanti alla sua ciurma. Avrei dovuto ingoiare il boccone amaro e fare finta di niente. Tanto, testardo com’era, Cappello di Paglia avrebbe continuato a fare ciò che voleva, e non c’era malattia, o avversario, o perfino amico che avrebbe potuto impedirglielo.
Mi alzai dalla sedia con riluttanza, rimisi a posto il tomo e uscii anche io dallo studio, sempre più sconfortata. L’unica cosa positiva di quella faccenda era che, avendo accettato la proposta dei Mugiwara, avrei potuto monitorare Rufy da vicino. Se avessi avuto fortuna, per un po’ avrei potuto evitare il peggio.
 
Bevvi un generoso sorso di vino, poi sospirai per l’ennesima volta, buttando fuori con forza tutta l’aria che avevo nei polmoni. Non faceva freddo quella sera, non c’era nemmeno il vento. L’unico suono che riecheggiava nell’aria tiepida – a parte i miei sospiri sconsolati – era quello dello sciabordio delle onde che si infrangevano dolcemente contro il sottomarino. La Sunny, nonostante fosse a qualche decina di metri di distanza, non si vedeva all’orizzonte. Tutto sembrava quieto. Sarebbe stata una serata perfetta per stare sul ponte a sorseggiare vino e ad osservare le stelle, se non fosse stato per l’angoscia che avevo addosso, che a quanto pareva non voleva lasciare il mio corpo, e per la scarsità dei corpi celesti visibili. Quasi tutto il cielo era coperto da uno strato di nuvole. La situazione rispecchiava il mio stato d’animo: ero felice di aver rivisto i miei amici, ma ero anche preoccupata. Quella che stavo provando era un tipo di preoccupazione che non si poteva placare, c’era e basta, e non sapevo come scacciarla. Dovevo fare qualcosa a riguardo, e bere vino mi sembrava l’opzione migliore.
Nonostante i miei buoni propositi, non ce l’avevo fatta. Avevo evitato la ciurma di Cappello di Paglia per tutto il giorno, utilizzando una scusa banale che nemmeno ricordavo, ed ero rimasta chiusa in camera mia, ad arrovellarmi il cervello in cerca di una soluzione inesistente per un problema grosso. Alla fine mi ero arresa. Avevo convinto me stessa ad avere fiducia in Rufy e mi ero imposta di non preoccuparmi. Non che servisse a molto, ma almeno ora riuscivo a non far trasparire troppo la mia inquietudine. Oltretutto, non potevo continuare a nascondermi per sempre da lui e dai suoi compagni. Non potevo essere codarda, non ora che avevano bisogno di me. Dovevo darmi un contegno e fare finta di niente. Lo avevo fatto tante volte, lo facevo fin da quando ero bambina. Bastava stringere i denti e sorridere. Che cosa c’era di difficile?
Un rumore di passi alle mie spalle mi fece rinsavire. Non mi voltai. Invece, presi un altro sorso di vino direttamente dalla bottiglia. Il bicchiere in questi casi serviva a poco. Dopo qualche secondo la figura misteriosa fu accanto a me, i gomiti poggiati sulla ringhiera del ponte del Polar Tang.
«Capitano.» Lo salutai con un cenno della testa.
«Hai deciso di chiuderti nella tua stanza, oggi?»
«No. Avevo semplicemente delle cose importanti da fare.» Non provai neanche a sembrare credibile. Era una battaglia che con Law non potevo vincere.
«Non abbiamo ancora avuto modo di parlarne,» iniziò, criptico come al solito. Alzai un sopracciglio.
«Di cosa?» volli sapere. C’erano un milione di cose di cui non avevamo avuto modo di parlare con tutto quello che era successo in quelle settimane caotiche.
«Della tua riabilitazione.» Mi dedicò un’occhiata indecifrabile.
«Oh,» mi lasciai sfuggire, un po’ sorpresa. «Beh, Kenji mi ha ridato il vino, perciò...»
«Dovresti esserne contenta. Ora puoi usufruire di tutto. Caffè, vino, pane...» Un piccolo ghigno era comparso sulle sue labbra.
«Pane? Non c’è mai stato del pane, su questo sottomarino.» Anche se intendeva il pane che si faceva con acqua e farina, i miei pensieri andarono istintivamente a Sabo e alle nostre attività ricreative. Mi mancavano, ma forse era un bene che non fosse qui, non avevo buone notizie da dargli su suo fratello.
Il Capitano mi guardò con eloquenza.
«Quindi sapevi delle casse di pane?» domandai, per poi mordermi il labbro inferiore.
Mi fissò con lo stesso sguardo di poco prima, che denotava una certa ovvietà. Sì che lo sapeva. Figurarsi se gli sfuggiva qualcosa. E sul suo sottomarino, per di più. Nonostante non sembrasse arrabbiato – quanto piuttosto divertito – sarebbe stato meglio cambiare argomento.
«Comunque, la riabilitazione sta andando bene. Il mio polso è sano e forte e la mia mente è concentrata. Riesco ad eseguire suture quasi perfette senza problemi,» affermai, concentrandomi sull’oceano. «Sta andando bene,» ripetei, più per convincere me stessa che lui. Avevo bisogno di pensare a qualcosa di positivo.
Law sollevò un angolo della bocca ed annuì. Era l’unico in grado di capire, talvolta prima di me, quando ero davvero convinta di una cosa, oppure quando mentivo a me stessa e al resto del mondo. Non avevo idea di come facesse, ci riusciva e basta. Forse era talento, forse era arguzia unita ad un attento spirito d’osservazione, o forse era magia. Supponevo che non importasse molto. Quella volta aveva compreso che ero sincera. E questo bastò a tranquillizzarmi.
Gli porsi la bottiglia di vino e gliene offrii un po’. Lui la prese, bevve un paio di sorsi e me la restituì. Avevamo i nostri alti e bassi, ma mi piaceva quando era così, quando potevamo condividere l’uno con l’altra piccoli momenti di serenità, soprattutto se il vino faceva da contorno. Mi erano mancate le nostre chiacchierate di questo tipo, perché da quando ero tornata non avevo avuto modo di trascorrere del tempo da sola e in tranquillità con il mio Capitano. E in fondo, ne avevo bisogno.
«Questo è un bene. Presto sarai in grado di operare di nuovo,» disse, ammorbidendosi un po’.
Sorrisi, cercando di non mostrarmi troppo contenta per le sue parole, né troppo ottimista. Avevo imparato che bastava un attimo per rovinare tutto.
«Suppongo di sì. Non voglio affrettare le cose, ma devo sbrigarmi, il tempo stringe.» Tornai ad osservarlo .«Voglio dire, ho sacrificato dieci anni della mia vita per guarire e...»
«No, non lo hai fatto,» mi interruppe, atono.
«E mi sono resa conto che è un prezzo troppo alto da pagare per permettere a me stessa di rinunciare al mio sogno a causa di uno stupido tremore al polso. Dopotutto, è proprio perché ho un sogno che ho deciso di sottopormi al trattamento di Ivankov,» continuai, giusto per lo sfizio di finire la frase. «Sì che l’ho fatto. Lo abbiamo fatto entrambi. Ed è stato anche piuttosto doloroso,» gli rammentai, rabbrividendo al pensiero delle unghie del Trans-formato conficcate nella mia carne e dei giorni passati a contorcermi tra le lenzuola. Non mi capacitavo di come Law potesse non ricordarsene. Oppure stava fingendo indifferenza anche questa volta? No, c’era qualcosa sotto. Decisi di ignorare il Capitano. Se avesse voluto comunicarmi qualcosa di importante, lo avrebbe fatto senza enigmi e giri di parole.
Accennai una risata, osservando l’oceano color pece illuminato dai pallidi raggi della luna. «Assurdo, vero? Abbiamo fatto tanti sacrifici e sopportato tanto dolore... e pare che a tutti noi tocchi morire prima del tempo.»
«No.» Il suo tono era sempre piatto. «Non a tutti.»
Spostai il peso del corpo da un piede all’altro. Percepii l’irritazione farsi strada dentro di me. Non avevo né voglia né tempo di mettermi a decifrare i suoi dannati “indizi”. Però era riuscito a mettermi la pulce nell’orecchio: adesso non avrei avuto pace finché non avessi capito.
«Stai cercando di dirmi qualcosa, Law? Perché, se è così, parla chiaro, per una volta nella tua vita.»
Non rispose. Per un po’ non si mosse neanche, sembrava una statua, al punto che mi chiesi se stesse respirando. Poi fece un blando cenno del capo in direzione del cielo, accompagnandosi con uno dei suoi maledetti ghigni. Corrugai le sopracciglia e mi sforzai di capire, ma non ero concentrata, non dopo aver scoperto quello che avevo scoperto quel giorno. Il mio corpo era lì, la mia testa no. Non del tutto, almeno. Per questo volevo che per una volta, una volta soltanto, Law fosse chiaro ed esplicito.
«Continuo a non capire.» Allargai le braccia in segno di resa.
Ampliò il suo ghigno, facendomi venire voglia di dargli un pugno sul naso.
«Buonanotte, Camilla.» Girò i tacchi e cominciò a camminare verso l’interno del Polar Tang.
«Grazie di cuore, sei sempre così cristallino!» gli urlai adirata. Continuò ad avanzare verso la porta – che avevo riparato con una certa fatica qualche settimana prima – senza voltarsi. Non potevo vedere il suo volto, ma il sorriso che immaginavo dipinto sulle sue labbra mi fece digrignare i denti. Il suo comportamento mi dava sui nervi. Mi aveva sempre dato sui nervi e sospettavo che avrebbe continuato a darmi sui nervi. Per sempre. Il portone d’ingresso si richiuse con un piccolo tonfo, facendomi sbuffare con forza. Tesi il braccio davanti a me ed alzai il dito medio, rivolta al ponte del sottomarino ormai deserto. Non che quel gesto servisse a qualcosa, ma almeno mi faceva sentire meglio.
In mano stringevo ancora la bottiglia, l’unica cosa sulla quale potevo contare al momento. La portai alle labbra e bevvi un lungo e generoso sorso di vino. Quando finii, mi accorsi che il cielo era tornato terso, adesso si vedevano le stelle. Rimasi un paio di minuti ad ammirarle prima di tornare dentro e andare a letto. Quella sera la loro luce era fioca e distante, ma ce n’erano un paio che brillavano più delle altre, come se non avessero paura di curiosare tra le questioni degli umani. Quasi come...
«Oh, cazzo...» Mi immobilizzai per qualche secondo. Il mio cuore perse un battito, forse due. Fu lì che mi arrivò – letteralmente – l’illuminazione. Certo. Era chiaro come il sole. Anzi, come la Seconda Stella a Destra.
 
Arrivai di fronte alla camera del Capitano con il fiatone, avevo corso davvero veloce. Bussai con impeto e la porta si aprì pochi secondi dopo. Mi lasciai scappare una risatina quando vidi Law, in piedi davanti a me, con indosso il suo pigiama di seta grigia perfettamente stirato. Persino le sue tenute da notte erano impeccabili ed eleganti. Tuttavia tornai subito seria.
«Lo hai fatto davvero?»
Mi lanciai su di lui senza aspettare una risposta e lo abbracciai. Non fece resistenza: aveva capito che non serviva a nulla.
Rimanemmo immobili e in silenzio per qualche minuto, lui in piedi ed eretto, io avvinghiata al suo corpo, come se avessi bisogno di stare attaccata a lui per respirare. E in un certo senso era così. Per quanto potessi negarlo, era stato lui ad essere la mia ancora di salvataggio in quegli anni, e lo era stato ancora una volta quando aveva deciso di restituirmi i dieci anni di vita che credevo di aver perso.
Inspirai il suo odore a piene narici. Profumava. Profumava di menta e di muschio, e di salvezza. Strofinai la guancia contro la morbida seta del pigiama, e attraverso il tessuto udii il suo cuore battere. Il battito era calmo e sicuro, proprio come il mio Capitano. Ritornai con la mente al giorno in cui avevamo incontrato Doflamingo. Se pensavo che avevo rischiato di perderlo, che c’era stata la possibilità che il suo cuore non battesse più... La sola idea bastava ad annientarmi. Non potevo perderlo. Chiusi gli occhi, per impedire alle lacrime che si erano formate sulle mie iridi di scendere. Non erano lacrime di tristezza, ero solo contenta che fossimo entrambi vivi.
Percepii il suo braccio alzarsi piano, poi sentii il palmo della sua mano che mi sfiorava i capelli. Sollevai la testa e lo guardai, attonita. Avevo il mento leggermente pressato contro il suo sterno e la vista un po’ appannata, ma questo non mi impedì di notarlo. Abbassò il capo e mi guardò anche lui. Non avevo mai visto quello sguardo, così intenso e al tempo stesso delicato. In quel momento, fu come se mi stesse vedendo per la prima volta, come se mi stesse vedendo per quella che ero davvero, oltre le apparenze, oltre il mio corpo fragile, oltre il mio atteggiamento da ragazzina immatura. I suoi occhi entrarono nella mia anima e ne scrutarono ogni angolo. Un piccolo sorriso comparve sulle sue labbra. Nelle sue pupille non c’era scherno, o divertimento, o provocazione. Solo... tenerezza. Per quei brevi attimi Law non era più il mio Capitano, era mio amico. Forse perfino qualcosa di più. Fu come se volesse comunicarmi che potevo contare su di lui, che mi avrebbe tenuta al sicuro. Almeno, così mi piaceva pensare. Magari mi stavo immaginando tutto. Era quello che mi serviva, però. Dopo tutto quello che era successo avevo bisogno di un avvenimento positivo nella mia vita. Ed era quello. Non il fatto che avessi riavuto dieci anni della mia vita, quanto lo sguardo che mi aveva regalato quella sera il chirurgo, così puro e sincero.
La sua mano si staccò dalla mia nuca e ritornò lungo il suo fianco. Tornai ad appoggiare la mia guancia contro il suo torace.
«Non avresti dovuto farlo,» lo ammonii, tuttavia con dolcezza. «Ma grazie. Grazie
Strizzai le palpebre e lo strinsi ancora di più. La mia voce rotta aveva tradito la mia emozione. Non potevo credere che lo avesse fatto. Mi sembrava tutto così assurdo. Perché, poi? Perché aveva deciso di usare il suo desiderio in questo modo? C’erano un milione di altre cose che avrebbe potuto desiderare, e lui aveva deciso di chiedere alla Stella... questo. Quasi mi sentivo un’approfittatrice: io gli avevo ceduto il desiderio affinché chiedesse qualcosa per se stesso, invece lui aveva pensato a me. A noi. Eppure ero così contenta. Il cuore mi scoppiava di gioia e avevo gli occhi lucidi dalla commozione. Perché lui aveva espresso il desiderio di ridarmi i dieci anni di vita che avevo perso e li aveva restituiti ad entrambi. Non mi aveva detto esplicitamente che aveva riavuto i dieci anni di vita, ma era troppo intelligente per non capire che non lo avrei mai perdonato se avesse usato il desiderio che gli avevo ceduto solo per me e non per se stesso.
Mi staccai da lui e mi distanziai di un paio di passi. Avevo bisogno di guardarlo negli occhi e capire a cosa stesse pensando. Stava ghignando. A quanto pareva era ritornato in sé.
«Non avevo altri desideri da esprimere.» Scrollò le spalle con – finta – noncuranza. «Ti ho solo restituito ciò che hai perso per aver ficcato il naso in affari che non ti riguardavano.»
Sbuffai una risata. Sì, era tornato in sé. Ci fissammo per qualche secondo, le iridi di uno incastonate in quelle dell’altra. Era la prima volta che qualcuno faceva una cosa del genere per me, una cosa così eclatante, che andava oltre le leggi dell’universo. E la persona che l’aveva fatta era proprio Trafalgar D. Water Law.
Tentai di resistere, ma non ce la feci. Lo abbracciai di nuovo, questa volta più stretto. Non volevo lasciarlo andare. Mai più. Quello era l’unico modo in cui riuscissi ad esprimere la mia immensa gratitudine. Perché il chirurgo mi aveva ridato la vita, in senso figurato e letteralmente, e non esiste un modo consono per ringraziare una persona per questo.
Ci pensò lui a rovinare quegli attimi significativi, perché stavolta si irrigidì. Avrei dovuto saperlo: due abbracci nella stessa giornata erano troppo per lui.
«Ho ucciso...»
«Per molto meno, lo so.» Risi e lo liberai dalla mia presa ermetica.
La sua espressione era ritornata seria. Sospirai. Il momento catartico si era concluso lì. Con i palmi delle mani gli lisciai il pigiama di seta che avevo inavvertitamente sgualcito durante gli abbracci, come per togliermi di dosso l’imbarazzo.
«Fai buon uso degli anni che ti sono stati restituiti,» si raccomandò, ghignando appena. Sorrisi ed annuii con convinzione. Lo avrei fatto, poteva starne certo.
«Anche tu, Capitano,» replicai con voce vellutata. Il suo ghigno si allargò. Quella era la conferma che lo avrebbe fatto anche lui. «Buonanotte.»
«Buonanotte,» mi salutò, facendo un cenno del capo e chiudendo piano la porta, senza smettere di guardarmi.
Presi un respiro profondo e mi accertai che nessuno mi stesse vedendo, poi appoggiai una mano e la fronte alla porta della sua cabina. Chiusi gli occhi e rimasi lì per un po’, a sorridere come un’ebete.
Adesso sapevo che oltre alla mia buona Stella, a proteggermi, a proteggermi davvero, c’era anche Trafalgar D. Water Law. Lui non avrebbe permesso che mi fosse accaduto qualcosa. O, comunque, dopo avrebbe sempre sistemato la situazione, come solo lui era in grado di fare.
Chi poteva saperlo, forse avremmo passato insieme i dieci anni di vita che avevamo riavuto. Io me lo auguravo. Non riuscivo ad immaginare un modo migliore di trascorrere il mio tempo.



Angolo autrice
Buonasera! Come state? So che è da molto che non mi faccio viva, e mi dispiace. Mi impegnerò ad aggiornare con cadenza più rapida.
Come avete potuto constatare, è stato necessario cambiare il corso della storia e discostarla un po' da quella del manga, ma così Cami avrà l'occasione di vivere un'avventura memorabile. Per quanto riguarda Rufy, la "Sindrome di Noxyd" è una sindrome che ho inventato io e verrà spiegato meglio più avanti in cosa consiste.
Come sempre spero che questo capitolo vi sia piaciuto. :) Ringrazio di cuore chi ha ancora la voglia e la pazienza di seguire questa storia! <3
A presto (promesso)! <3

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Capitolo 10
*** Disavventure ***


Forse non potevo fare niente per Rufy, ma c’era qualcosa che potevo fare per me stessa. Anzi, c’erano più cose che potevo fare per me stessa. Così mi ero messa all’opera. Come prima cosa avevo chiesto ad Usop di rendere il mio zaino impermeabile e di sigillarlo, in previsione delle rovinose avventure che avrei vissuto con i Mugiwara per trovare il Poignee Griffe: avevo intenzione di portare con me il cellulare – dopo che era comparsa l’applicazione che mi consentiva di vedere i miei famigliari non me ne separavo mai – e non potevo permettere che si bagnasse, o peggio. Quel telefono era l’unico contatto che mi rimaneva con il mondo dal quale provenivo, l’unico modo in cui potessi vedere la mia famiglia, e non volevo rischiare di romperlo. Il cecchino era stato felice di potersi rendere utile, così gli avevo affidato la mia sacca e lui aveva iniziato a lavorarci su. Mi aveva assicurato che sarebbe stata pronta in giornata. Poi ero andata da Franky, questa volta in previsione della guerra. Gli avevo chiesto di rendere più potente la mia Mr. Smee, e per farlo avevo portato con me le catene di agalmatolite che avevamo “rubato” a dei sequestratori quella volta che avevano tentato di rapirmi ed ero stata salvata all’ultimo dallo sparo di un Rivoluzionario. Sapevo che ci sarebbero tornate utili in ogni caso, sebbene il cyborg mi avesse detto che non potesse farci nulla. L’agalmatolite, a causa della sua durezza, era un materiale estremamente difficile da plasmare, e lui non aveva né il modo, né il tempo, né gli strumenti per modellarla sulle lame dell’ascia, come gli avevo chiesto. Però si era offerto di potenziare la mia arma usando un metallo più duro e resistente, e io era stata ben felice di affidargliela. Tuttavia per ultimare il lavoro ci sarebbero voluti più giorni, quindi sarei stata disarmata per un po’. Non che pianificassi di mettermi a combattere contro qualcuno, ma con la ciurma di Cappello di Paglia non si poteva mai sapere. E il fatto che stessi per partire con loro senza la mia ascia mi rendeva “appena” un po’ angosciata.
Infine, avevo chiesto – non senza un certo timore – a Zoro di aiutarmi a diventare più forte, anche quello in previsione della guerra. Di fronte alla mia goffa domanda aveva sorriso. Non ero riuscita a decifrare il suo ghigno, perciò non avevo capito se fosse sorpreso, contento o se pensasse che la mia richiesta fosse ridicola. Non avrei potuto biasimarlo in nessun caso, comunque: era assurdo pensare di poter diventare più forti in appena un paio di settimane. Ne ero consapevole, eppure dovevo provarci, perché in ballo c’era la mia vita e la vita di tante persone a me care. Zoro lo sapeva e lo capiva, ecco perché aveva accettato. Sospettavo che per lui quella fosse una sfida, perciò avrebbe fatto di tutto per vincerla e questo non poteva che rendermi contenta.
Mi aveva assicurato che avrebbe provato a insegnarmi come dosare le energie per controllare meglio l’Ambizione dell’Osservazione e poterla tenere attivata più a lungo. Sapevo che sarebbe stata dura, ma ero impaziente di iniziare l’allenamento.
 
«Sii prudente,» si raccomandò Maya, poggiando delicatamente una mano sulla mia spalla.
«Io sono sempre prudente. Sono loro quelli spericolati.» Indicai con il pollice il gruppo di persone dietro di me.
Era arrivato il momento di separarmi dai Pirati Heart. Di nuovo. Stavolta però sarebbe stato solo per qualche giorno, e loro sarebbero stati nei paraggi per tutto il tempo, insieme a Franky, che aveva deciso di rimanere a sorvegliare la Sunny. Io ne ero contenta, perché così poteva continuare a lavorare sulla mia Mr. Smee.
Gli accordi erano chiari: nessuno dei miei compagni avrebbe preso parte alle ricerche del Poignee Griffe, ma per evitare di perdere tempo sarebbero rimasti ormeggiati vicino alla costa dell’isola Stein, l’unica zona che i Mugiwara dovevano ancora perlustrare. Speravo solo che il tutto finisse nella maniera più veloce e indolore possibile.
Per semplificare la missione – ammesso che con loro si potesse usare il termine “semplificare” – la navigatrice aveva proposto di dividerci in due gruppi. Il primo, composto da Brook, Carrot, Chopper, Robin e Rufy, avrebbe esplorato il territorio ad Est dell’isola, mentre il secondo, ovvero io, Nami, Sanji, Usop e Zoro, avrebbe controllato quello ad Ovest. Il motivo della separazione stava nel fatto che, a quanto mi avevano detto, l’isola Stein era un’isola molto grande e dividendoci avremmo avuto più possibilità di trovare ciò che stavamo cercando. Per tutto il tempo ci saremmo tenuti in contatto tramite un lumacofono. Avevamo deciso con lo stesso metodo che la ciurma di Cappello di Paglia aveva usato a Punk Hazard. Non mi sembrava una grande idea affidare il nostro destino a dei bastoncini colorati, ma non avevo comunque voce in capitolo. La cosa che mi dispiaceva di più era di non poter controllare Rufy. Però insieme a me c’era lo spadaccino, così avremmo potuto approfondire meglio il discorso dell’allenamento. E poi con Sanji non sarei di certo morta di fame.
«Sei pronta?» mi chiese Nami, sorridendomi cordialmente. Mi voltai verso di lei e annuii, facendo altrettanto.
Salutai con la mano i miei compagni. Alcuni di loro – Shachi, Penguin, Bepo, Maya e Omen – erano approdati sulla terraferma per salutarmi. I due marpioni si erano perfino offerti di accompagnarmi, ma Law non glielo aveva permesso. Per fortuna. L’ultima cosa che serviva a me, Nami e Robin era ricevere le loro avances inappropriate. Sarebbero stati solo una distrazione per noi.
Fissai un’ultima volta il Polar Tang, lontano qualche decina di metri. Ero un po’ delusa che il mio Capitano non fosse venuto a darmi le ultime raccomandazioni, ma del resto non era uno a cui piaceva perdersi in chiacchiere e non c’era bisogno che spendesse delle parole per me. Ero in mani sicure e sapevo badare a me stessa. Più o meno.
Presi un respiro profondo, mi girai e mi addentrai per la fitta foresta dell’isola senza guardare indietro. Il mio nuovo zaino impermeabile era pronto, e così ero io.
 
***
 
«La mia povera schiena...» si lamentò Usop, massaggiandosi la zona lombare.
Annuii con l’aria di chi la sapeva lunga sull’argomento, tuttavia non dissi niente, per non sembrare lagnosa. Non era il massimo dormire per terra, soprattutto se il terreno era duro, roccioso, scosceso e tremava ogni due per tre a causa dei geyser disseminati per l’isola. Per non parlare degli insetti. Il nasone non aveva di questi problemi, ma per chi ne aveva il terrore – come me, Sanji e Nami – era un grosso problema doversi addormentare con quegli esseri che camminavano su e giù per i nostri corpi. La cosa peggiore, però, erano le continue litigate del cuoco e dello spadaccino. In quei giorni avevano dato il loro peggio ed erano arrivati a gridarsi contro perfino per uno stupido rametto che era stato utilizzato per alimentare il fuoco. Per fortuna i pugni della cartografa erano in grado di rimettere tutti in riga.
Il problema era che erano tre notti che nessuno di noi, a parte Zoro, che si sarebbe potuto addormentare anche nel bel mezzo di un campo di battaglia, riposava bene. Ed erano tre giorni che la mia frustrazione non faceva altro che aumentare, perché dopo aver passato ore ed ore a cercare il Poignee Griffe nessuno di noi l’aveva trovato. All’altro gruppo non stava andando meglio, però. Neanche loro avevano un’idea ben precisa di dove o come cercare la pietra rossa. Continuavamo a fare supposizioni su supposizioni, guidati solo dalla speranza e da un dannato enigma che non portava letteralmente da nessuna parte. L’unico motivo per cui ci trovavamo su quell’isola era che era pieno di geyser. L’indizio che avevano decifrato accennava a un luogo nel quale il cielo incontrava il mare, e secondo l’intuito della navigatrice i geyser c’entravano qualcosa in quella storia. Io, dal canto mio, cominciavo a pensare che avremmo fatto prima a rinunciare.
Dietro di me, udii il cecchino emettere altri versi sofferenti.
«Smettila di piagnucolare e continua a camminare,» lo rimproverò il cuoco, facendo rinsavire anche me. Non era il momento di mettersi a fare i pessimisti. I Mugiwara non lo erano.
Dopo un paio di sbuffi risentiti, Usop si decise a riprendere a camminare e ci raggiunse. Nel momento in cui mi affiancò gli sorrisi. Il mio sorriso si tramutò in una risatina quando lo vidi fissarmi con scetticismo. Nonostante tutto, era bello sapere che in quel gruppo c’era qualcuno di “umano”, che la pensava come me e che non era circondato da un’aura di ottimismo e positività.
Con la coda dell’occhio vidi Zoro passarmi accanto e superarmi, e senza pensarci gli artigliai la spalla con la mano e lo costrinsi a voltarsi verso di me. Mi guardò interrogativo.
«Zoro...» iniziai, pensierosa. «Mi rendo conto che è una cosa un po’ assurda da chiedere,soprattutto perché il tempo a nostra disposizione è poco, però... quando inizieremo gli allenamenti, potresti insegnarmi a scagliare dei fendenti volanti?»
«Dei fendenti volanti?» Incrociò le braccia al petto.
Annuii. In quei tre giorni avevo avuto modo di pensarci bene. Dopo aver visto Zoro che ne scagliava uno, mi ero convinta che quello potesse essere un punto di svolta per me. «Se pensi che non sia possibile, lascerò perdere. Ma vorrei provarci. Ho bisogno di trovare un colpo che mi renda più pericolosa.»
«Io ho accettato di aiutarti a diventare più forte. Ma tu combatti con un’ascia, io sono uno spadaccino. Spada e ascia sono armi diverse,» mi spiegò in tono sapiente. Non ero idiota, non avevo bisogno che qualcuno mi facesse notare la differenza, ma capivo cosa volesse dire.
«Lo so, però sei l’unico che come me utilizza delle armi da taglio per combattere. L’unico abbastanza forte da potermelo insegnare, perlomeno.»
«E il tuo Capitano?» Fece un mezzo sorriso, un sorriso enigmatico che non compresi appieno.
«Tecnicamente Law non è uno spadaccino. Combatte abbinando la nodachi ai poteri del suo Frutto del Diavolo.» Stavolta toccò a me sfoggiare un’espressione sapiente.
Mi rispose qualcosa che io non udii, perché ero troppo impegnata a inorridire. Sentii solo vagamente le parole “mesi di allenamento”, come se fossero un eco lontano.
Guardai in alto, deglutii sonoramente e mi paralizzai. A qualche centimetro dalla sua testa, penzolante da un ramo, c’era un ragno. E non era un ragno qualsiasi. Era marrone, peloso ed era grande almeno il doppio della mia mano. Il doppio della mia mano. Non avevo mai visto una mostruosità simile, né pensavo che potesse esistere.
«Oddio...» mi lasciai scappare, mentre il panico si impossessava di me.
Zoro, non capendo cosa stesse succedendo, alzò lo sguardo. Quando vide quel simpatico animaletto peloso piegò la testa da un lato e, nonostante la sorpresa iniziale, sorrise.
«Che... che stai facendo? U-uccidilo, forza,» lo sollecitai con voce tremante.
«Perché dovrei? Non mi ha fatto nulla di male.» Scrollò le spalle.
Lo fissai attonita. Quel ragno non gli aveva fatto nulla di male!? A lui forse no, ma... esisteva. E questo era un male!
All’improvviso, come se avesse captato i miei pensieri, l’aracnide cominciò a muoversi. Le sue zampe tozze si spostavano sapienti, avvinghiandosi al filo di bava dal quale pendeva, che si allungava sempre di più e riduceva lo spazio tra lui e lo spadaccino. A quel punto, dopo che il mio cuore ebbe perso qualche battito e fu ripartito al triplo della velocità, impazzii completamente.
«No. No, no, no, no, no, no, no, no. No,» farfugliai, iniziando a camminare sempre più velocemente ad occhi sgranati. Continuavo a guardare in basso, cercando di concentrarmi sulla strada da percorrere, perché non volevo provare più orrore di quanto ne stessi già provando. Se avessi visto un altro ragno, non avrei retto. La cosa peggiore era che non potevo nemmeno difendermi in caso di attacco, perché non avevo la mia Mr. Smee.
Nel frattempo, gli altri si erano distanziati di un centinaio di metri da me e Zoro, dato che noi ci eravamo fermati. Li avevo persi di vista e il fatto che stessi vagando da sola e disarmata nel bel mezzo di una foresta infestata da ragni giganti non mi rendeva affatto tranquilla. Dovevo trovarli. E in fretta anche, prima che quegli esseri spregevoli mi mangiassero. Come se fosse un segno del destino, la mia faccia si scontrò contro qualcosa, qualcosa di appiccicoso, e dovetti fermarmi. Riportai lo sguardo dritto davanti a me. Per poco gli occhi non mi uscirono fuori dalle orbite. Ero incappata in una ragnatela gigante. Il pensiero di avere la bava di un ragno sul volto fu abbastanza per provocarmi un conato di vomito. Poi, lo vidi. Appollaiato su un ramo c’era l’artefice di quell’obbrobrio. Un altro ragno. Se possibile era ancora più grosso di quello di prima. Non per niente, la sua tela era abbastanza grande da avvolgermi il corpo. Non appena vide che la sua trappola aveva sortito l’effetto sperato, si mosse ad una velocità che mi sembrò supersonica. La vista si fece appannata e mi sentii mancare per un nanosecondo. La tela era così resistente che non riuscivo a romperne i fili. Maledetto bastardo dalla saliva d’acciaio. Poi mi ripresi. La mia fine non sarebbe di certo avvenuta per mano di uno schifoso aracnide. Mi liberai alla svelta da quella roba appiccicosa, lasciando il ragno a bocca asciutta, e me la diedi a gambe levate, pulendomi il viso velocemente con il braccio. Non sapevo nemmeno se stessi andando nella giusta direzione, ma non mi importava. Volevo solo allontanarmi il più possibile da quella oscenità.
«Che schifo! Che schifo, che schifo, che schifo!» gridai a squarciagola, come se quello bastasse a levarmi di dosso la sensazione di avere sulla faccia la saliva di un animale che non solo aveva cercato di mangiarmi, ma che mi faceva anche ribrezzo da sempre. Una mossa stupida, la mia. Le mie urla potevano aver attirato altri ragni in zona. Scossi la testa con violenza, cercando di scacciare quel pensiero inquietante dalla mente. I miei occhi iniziarono a vagare da tutte le parti alla ricerca di qualche altra possibile “sorpresa”. Se non fossi stata così sconvolta avrei attivato l’Haki.
Inciampai un paio di volte su delle radici che sporgevano dal terreno e dei sassi, ma non arrestai la mia corsa.
«Cami! Mia Dea! Cosa succede!?» La voce di Sanji mi arrivò alle orecchie come una benedizione divina. Tirai un sospiro di sollievo. Riuscivo a sentirlo! Dovevano essere vicini. Non mi fermai, anzi, corsi più velocemente. Se li avessi raggiunti, il cuoco mi avrebbe accolto tra le sue braccia e ci avrebbe pensato lui a proteggermi. Forse. Non era un segreto che anche lui avesse paura di ragni e insetti. Praticamente l’unico sul quale potevo contare era Usop; il che era grave.
Mi voltai un’ultima volta per controllare di non avere qualche creaturina disgustosa alle calcagna, poi spostai lo sguardo verso le chiome degli alberi. All’apparenza sembrava tutto tranquillo.
«Sanji, dobbiamo andarcene subito, qui è pieno di rag...» iniziai, tuttavia non riuscii a finire la frase. All’improvviso, la terra iniziò a mancare sotto ai miei piedi.
Stavo precipitando. Le mie mani cercarono istintivamente un appiglio a cui aggrapparsi, ma non c’era. Non c’era niente attorno a me, solo aria. Planai nel vuoto per una decina di metri. Ero talmente nel panico che non mi ero accorta che la strada sotto di me fosse finita. Come avevo potuto essere così stupida?
“Non di nuovo,” pregai nella mia testa, ricordandomi dell’ultima volta in cui era andata a finire così. Sarei morta se non fosse stato per Marco. Ma stavolta non era lì.
La mia caduta si arrestò qualche secondo dopo, non appena andai a sbattere contro qualcosa. Trattenni un grugnito di dolore e mi augurai che non fosse un dannato ragno. Udii anche le voci soffocate di qualcun altro, senza riuscire a capire che cosa dicessero. L’impatto non fu di certo gradevole, ma neanche terribile come mi aspettavo. Hack mi aveva reso più resistente.
Qualcosa sotto di me si mosse e si lamentò. Fu lì che capii. Ecco perché l’impatto non era stato tremendo: perché ero atterrata sul morbido. Più precisamente, su Sanji e Usop. Sperai che ne fossimo usciti tutti illesi e che non se la prendessero troppo con me. Prima di alzarmi mi accertai di non avere nessun osso rotto. Era tutto a posto. Avevo i muscoli un po’ indolenziti, ma supponevo che facesse parte degli effetti collaterali del precipitare da un’altezza superiore ai dieci metri. L’importante era che fossi viva e più o meno intatta.
Il cecchino, sotto di me, provò a dimenarsi e a liberarsi della mia presenza ingombrante, così io rotolai su me stessa – e sopra al cuoco – fino a che non fui per terra. Stavolta per davvero.
Girai la testa verso Nami, in piedi a qualche metro da noi e incolume. Aveva la fronte aggrottata, molto probabilmente era indecisa se essere divertita dalla situazione o se invece preoccuparsi. Almeno lei stava bene, non era stata – letteralmente – travolta da tutto quel casino. Io, invece, avevo fatto strike.
«Ahia, ho colpito qualcosa con la testa,» si lamentò Usop, che nel frattempo si era rimesso in piedi, massaggiandosi il cuoio capelluto.
«Sì, la mia testa, razza di idiota,» gli comunicò Sanji con sguardo truce, mentre si rialzava e si toglieva la polvere dai vestiti.
No, molto probabilmente ero io quella contro cui avevano sbattuto la testa. Eppure i due ragazzi non sembravano essersi accorti di me. Ancora faticavano a capire cosa fosse accaduto.
«Ma... cosa è successo?» si chiese confuso il nasone, continuando a frizionarsi la testa e guardando in alto alla ricerca di indizi.
Rimasi stesa a terra, immobile. Alla fine non mi ero fatta niente, ma sarebbe stato più prudente fingermi morta. Fu solo quando mi ricordai del covo di ragni che mi rialzai ed iniziai a tremare. Soltanto in quel momento il biondo si accorse di me. Spalancò gli occhi e si avvicinò alla velocità della luce.
«Dolce Cami, stai bene?» mi chiese apprensivo, avvicinando il suo viso al mio. Per un attimo temetti che volesse baciarmi.
Il cecchino si voltò di scatto verso di noi con espressione sconcertata. «Chiedi a lei se sta bene!? È precipitata su di noi a peso morto dal cielo e ci ha quasi fatti ammazzare!»
A quanto pareva aveva capito tutto. Non che ci volesse molto. In mia difesa, non era colpa mia. Non avevo pianificato di cadere da un burrone, né tantomeno di riatterrare sui due ragazzi. Era stata una coincidenza che, nonostante avesse causato dei danni, mi aveva salvato la vita.
Il biondo fulminò il cecchino con lo sguardo e quest’ultimo sembrò rimpicciolire.
«Mi dispiace, ragazzi, davvero. È che c’erano dei ragni enormi e...» provai a scusarmi, mortificata, ma ancora una volta non riuscii a finire la frase.
«Ragni?» m’interruppe Sanji, impallidendo. Se non fossi stata rintronata per tutto ciò che era successo poco prima avrei potuto giurare di aver visto una gocciolina di sudore scivolargli lungo la tempia.
«D-dove?» Nami iniziò a guardarsi intorno con aria circospetta e terrorizzata.
Lo pseudo sorriso che si era formato sulle mie labbra nel constatare che non ero l’unica che aveva di questi problemi svanì nel momento in cui notai il modo in cui mi stavano guardando il cuoco e la navigatrice. Entrambi sembravano aver visto un fantasma alle mie spalle. Oppure non era un fantasma quello che avevano visto...
Un centinaio di brividi mi attraversarono il corpo.
«Vi prego, ditemi che non ce n’è uno dietro di me,» feci, già pronta a scattare.
«Avete davvero paura di un paio di innocui ragni?» si intromise Usop, stranamente spavaldo. Tutti e tre gli regalammo un’occhiataccia carica di odio. Lui, che aveva paura anche della sua stessa ombra, aveva il coraggio di prendere in giro noi per la nostra aracnofobia. Nel vederci così minacciosi, il nasone fece un passo indietro, alzò le mani in segno di resa e simulò un sorriso innocente.
«Se non ci sono obiezioni, proporrei di andarcene da qui e continuare a perlustrare,» suggerì Sanji, accendendosi una sigaretta. Potevo avvertire che non era tranquillo, come non lo ero io.
Annuii con convinzione. Volevo andarmene da quel posto il più in fretta possibile. Avevo paura che potesse sbucare qualche altro animale poco raccomandabile dal nulla.
«Ragazzi...» Nami ci richiamò all’ordine. Guardammo tutti nella sua direzione, curiosi di sapere cosa volesse. «Dov’è Zoro?» chiese poi, lievemente allarmata.
All’improvviso mi ricordai di lui e fui assalita dall’ennesima ondata di angoscia della giornata. Quando avevo visto il ragno ero scappata senza pensare minimamente a lui. Era rimasto indietro. Chiusi gli occhi e gettai indietro la testa. Merda. Ci eravamo persi il marimo.
 
«Non sei stanco?» chiesi ad Usop, mentre camminavamo fianco a fianco – e soli soletti – nella foresta infestata dai ragni.
«Di cosa?» Si voltò a guardarmi. Mi strinsi nelle spalle.
«Di dover sempre fare il lavoro sporco al posto dei tuoi compagni,» replicai, setacciando il sentiero con gli occhi per vedere se ci fosse traccia dello spadaccino. Dal momento che si era perso – e che tecnicamente era colpa mia – era toccato a me andare a cercarlo. Sanji tuttavia si era impuntato, sostenendo che non potessi andare da sola, così aveva costretto Usop a venire con me, mentre lui e Nami avrebbero continuato le ricerche del Poignee Griffe. Il lumacofono l’avevano tenuto loro. Con un po’ di fortuna magari avremmo tutti trovato ciò che cercavamo. Oppure noi avremmo trovato la pietra e loro il loro compagno. Non mi sarei più stupita di nulla, a quel punto. Il cecchino non si era mostrato troppo entusiasta all’idea, ma se non altro, essendo l’unico di noi a non essere aracnofobico, potevo contare sulla sua protezione. Sempre che non avesse fatto il codardo come suo solito e non fosse scappato a gambe levate.
Il cecchino sbuffò una risata, riportandomi alla realtà.
«Considerando che sei stata tu a perderlo di vista...» Si accompagnò con un cenno della testa e un’alzata di sopracciglia.
«Non l’ho perso di vista! È stato lui a perdersi. Io ho fatto soltanto ciò che era giusto fare,» mi giustificai, cercando di rimanere calma.
«Te la sei data a gambe,» rimarcò, osservandomi con eloquenza.
«Ho salvaguardato me stessa,» precisai affilata, fulminandolo con lo sguardo. «E comunque tu non puoi parlare. Te la dai sempre a gambe.»
Ci guardammo per un istante, entrambi risentiti. Poi scoppiammo a ridere. Supponevo che nessuno dei due avesse torto. Avevamo sfortuna, però: cercare quell’idiota di un marimo in un territorio così vasto e ostile era come cercare un ago in un pagliaio. Anzi, era peggio, perché l’ago che cercavamo noi aveva la facoltà di muoversi liberamente per il pagliaio e andare in giro a fare danni.
Continuammo a camminare per ore ed ore. Passammo un giorno intero a tentare di rintracciarlo, talvolta anche chiamandolo a gran voce, ma di Zoro non c’era nessuna traccia. Sembrava sparito nel nulla. Maledetto, maledettissimo spadaccino. Chissà dove diavolo era finito. Perché dovevo avere sempre a che fare con individui problematici? Perché per una volta non poteva filare tutto liscio? La risposta me la fornì Usop quando guardai per l’ennesima volta verso di lui e lo sentii sbuffare rumorosamente. Forse la sfortuna era contagiosa. Era lui che aveva infettato me, o io che avevo infettato lui?
Alla fine, dopo un lungo giorno di ricerche, decidemmo che sarebbe stato meglio fermarci e accamparci per la notte. Eravamo stanchi e affamati, e io ero anche piuttosto frustrata. Mi stavo pentendo di aver accettato di aiutarli. Sarebbe stato mille volte meglio e più sicuro rimanere sul sottomarino a trangugiare vino come se non ci fosse stato un domani con i miei amati compagni di bevute. Così avrei avuto anche il tempo di allenarmi.
Il terreno tremò di nuovo, facendomi sussultare e imprecare mentalmente. Non bastavano insetti enormi e spadaccini idioti, a tormentare le mie giornate c’erano anche i geyser.
«Non abbiamo scelto un posto molto fortunato,» constatò Usop, ravvivando il piccolo fuoco che aveva appena acceso con un bastoncino. Annuii eloquentemente, accompagnandomi con un’alzata di sopracciglia.
«No, infatti. Ma suppongo che questo sia il meglio che l’isola Stein abbia da offrire.»
«Già. Andiamo?»
«Sì.» Mi rimisi lo zaino in spalla e mi rialzai, affiancando il cecchino. Avevamo bisogno di altra legna per alimentare il fuoco. La sua fiamma era troppo debole perché potesse scaldarci durante la notte. Inoltre, nonostante Sanji ci avesse lasciato metà delle provviste che aveva preparato, entrambi sapevamo che non era il massimo mangiare del cibo praticamente congelato. Per fortuna il saggio cuoco della ciurma di Cappello di Paglia aveva optato per cucinare la carne e non il pesce, altrimenti avremmo dovuto fare i conti anche con la puzza che emanava quella pietanza.
La terra tremò di nuovo. Uno dei geyser aveva eruttato all’improvviso, producendo un boato assordante. Ciò che mi spaventava di più era che non era acqua ciò che usciva dagli sfiatatoi, ma aria. Tonnellate di aria compressa che si riversavano fuori dai crateri per poi esplodere come bombe. Mi aggrappai ad Usop, colta alla sprovvista e impaurita. Inutile dire che lui sembrava più terrorizzato di me. Rimanemmo uno appiccicato all’altra per qualche secondo buono, finché la scossa non finì e il rumore si arrestò.
«Questo era vicino...» Il cecchino si guardò intorno con circospezione. «Dobbiamo fare molta attenzione.»
Sospirai, cercando di riprendere il controllo del mio corpo e del mio battito cardiaco. Stavamo rischiando grosso solo per prendere della legna da mettere sul fuoco. Era buio pesto, praticamente non vedevamo più in là del nostro naso – il che per Usop poteva essere una buona cosa – e dovevamo procedere con la massima cautela per non incappare in uno dei geyser sotterranei disseminato per l’isola. Era come attraversare un campo minato: non sapevamo con precisione dove erano collocati i geyser, perché non potevamo vedere i loro sfiatatoi. A guidarci avevamo soltanto delle minuscole torce. Come se tutto questo non fosse stato abbastanza, dovevamo fare i conti anche con la friabilità del terreno che, a causa delle numerose e potenti eruzioni giornaliere, era stato indebolito e rischiava di cedere ad ogni minimo passo che facevamo. Sentivo che stavamo sfidando troppo la sorte, e iniziavo a pensare che sarebbe stato meglio congelarci il sedere per una notte e mangiare cibo freddo piuttosto che morire polverizzati.
Qualcosa si posò sulla mia spalla sinistra. Sgranai gli occhi e mi affrettai a scrollarmela di dosso. “Non un altro ragno,” supplicai tra me e me. Mi girai e mi calmai solo quando notai che si trattava della mano di Usop. Tirai un sospiro di sollievo e lo guardai male.
«Dobbiamo rimanere uniti,» mi ammonì. Realizzai soltanto in quel momento che ero stata così presa dalle mie macabre riflessioni che avevo continuato ad avanzare per conto mio, alla svelta e senza prestare attenzione al sentiero. Gli puntai la torcia in faccia per controllare che fosse tutto a posto. Annuii e potemmo riprendere a camminare fianco a fianco.
Dopo qualche minuto di silenzio assoluto, il cecchino decise di dire la sua. Se avessimo saputo cosa ciò avrebbe comportato, molto probabilmente saremmo stati entrambi zitti.
«Ci conosciamo da parecchio tempo, perciò non ti offendere se te lo dico, ma... sembri un po’ isterica.»
Mi immobilizzai all’istante e raddrizzai la testa. Anche lui si fermò, fissandomi con aria interrogativa. Quella constatazione, per quanto stupida potesse sembrare, mi fece fischiare le orecchie e stringere i pugni fino a far diventare bianche le nocche. In quegli anni pensavo di essere diventata una persona equilibrata, ma a quanto pareva non era così.
«Sembro un po’ isterica!?» gridai, girandomi verso di lui e allargando le braccia. «Certo che sembro un po’ isterica! Lo sono! Sono molto isterica! Sono tre giorni che non dormo, oggi per poco non sono stata mangiata da un cazzo di ragno gigante e per scappare dalle sue grinfie sono precipitata giù da un burrone. Ho perso di vista quell’idiota di Zoro e adesso devo cercarlo, al buio, in un territorio che pullula di insetti schifosi e geyser che esplodono ogni tre secondi facendo tremare tutto. Sono stanca, affamata e non ho neanche un’arma per potermi difendere in caso di pericolo! E qui ce ne sono, di pericoli! E tutto per cercare una dannata pietra antica che forse non è nemmeno su quest’isola! Vorrei vedere come ti comporteresti tu nella mia stessa situazione!»
Bruciavo di rabbia. Ero così furiosa che temevo che avrei preso fuoco da un momento all’altro. Non sapevo nemmeno perché fossi esplosa all’improvviso, dal nulla, eppure non riuscivo a contenere la mia ira. Ero “semplicemente” arrabbiata. Usop aveva inconsapevolmente aperto il Vaso di Pandora.
«Io sono nella tua stessa situazione,» puntualizzò il moro con un certo fastidio, facendomi infuriare ancora di più.
«Sì! Ed è già un miracolo che non abbia tentato di scappare o che non ti sia venuto uno dei tuoi famosi attacchi di mal-di-non-posso-sbarcare-su-questa-isola!» gli urlai, allargando ancora di più le braccia.
«Ehi!» Si finse offeso, guadagnandosi un’occhiata folgorante da parte mia. «Calmati. Troveremo Zoro.»
«Non possiamo esserne sicuri! Sono mesi che cercate il Poignee Griffe, e ancora non lo avete trovato!» gridai a squarciagola, al punto che probabilmente perfino la testa di muschio – ovunque fosse – mi aveva sentito.
«Troviamo sempre quello che cerchiamo, alla fine.» Se era diventato Usop l’ottimista, la situazione era grave, anche se avevo motivo di credere che lo dicesse più per confortare se stesso che me.
Sbuffai e scossi la testa, contrariata. Si era capovolto tutto. Era tutto sbagliato. E non volevo essere lì, in quel momento. Volevo essere con i miei compagni, sul sottomarino, al caldo e al sicuro, a mangiare ciò che ci aveva preparato Ryu, a scherzare con Shachi e Penguin, a parlare di cose da ragazze con Maya, ad allenarmi con Bepo. Persino prendere un dannato tè verde insieme a Kenji mentre discutevamo del nostro bacio mi sembrava un’alternativa migliore a quello. L’aver deciso di essere lì era ciò che mi disturbava di più, perché avevo avuto la possibilità di scegliere. Non che avesse importanza, ormai non c’era nulla che potessi fare per cambiare le cose. Tornare da sola sul Polar Tang era fuori discussione.
«Sai che c’è? Non importa. Finiamo di prendere la legna che ci serve e torniamocene alla nostra confortevole radura.» Rilassai i muscoli tesi e tentai di calmarmi.
Per tutto il tempo il cecchino mi aveva osservato con l’aria di chi comprendeva perfettamente la situazione. Essere capitata proprio con lui era in parte una consolazione, mi era mancato avere al mio fianco qualcuno che potesse capirmi e che fosse pronto a darsela a gambe invece di mettersi a combattere. Non era giusto prendersela con lui.
Vidi Usop guardare oltre la mia spalla e sgranare gli occhi. Prima che potessi rigirarmi o muovere un passo, però, lo sentii afferrarmi il braccio e trascinarmi verso di lui. Non mi resi del tutto conto di quello che successe nei secondi successivi. Percepii solo un rumore che quasi mi lacerò i timpani, seguito da una forza invisibile ma potente che sbalzò entrambi in avanti. O all’indietro. Non ne ero sicura. Ciò di cui ero sicura era che io e il cecchino andammo a sbattere l’uno contro l’altra e volammo per qualche metro, per poi ricadere a terra con un potente tonfo.
Uno dei geyser sotterranei era esploso ad un paio di metri da noi. Ecco cos’era successo. Tanto per cambiare, perché le cose, per una volta, non potevano andare nel verso giusto.
«Porca puttana, Usop!» gridai, rotolandomi per terra in preda al dolore e tenendomi una spalla. «Ma che cazzo hai al posto del naso!? Una sciabola!?»
«Ahi, ahi, ahi, il mio naso!» si lamentò lui, dietro di me. Come prevedibile, la sua voce risultò nasale e strozzata. Ci eravamo scontrati mentre eravamo per aria, e nessuno dei due era uscito indenne dallo scontro. Il naso del cecchino mi aveva colpito – per non dire pressoché trapanato – la spalla sinistra, proprio sotto alla clavicola. Non sapevo come fosse possibile, ma il suo naso era più potente dello Shigan.
Buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo e tirai su il busto. Massaggiai la parte contusa per qualche altro secondo e smisi soltanto quando fui sicura che non avevo niente di rotto. Evidentemente, però, Usop non era stato fortunato quanto me, perché continuava ad emettere mugolii gutturali. Recuperai la torcia di scorta che tenevo nello zaino – quella che avevo prima mi era scappata dalle mani nel momento in cui il geyser aveva eruttato – e la puntai contro il moro. Mi lasciai sfuggire una smorfia compassionevole quando vidi la situazione in cui versava il suo naso. Sì, avevo decisamente avuto più fortuna io, dato che sembrava la copia esatta della cicatrice che aveva Harry Potter sulla fronte. Era spezzato in due punti e formava tre distinti segmenti, che puntavano in tre diverse direzioni. Non era un bello spettacolo.
Cercai le garze nello zaino e le tirai fuori: avrei dovuto sistemarglielo.
Il rumore che fecero le ossa quando le rimisi al loro posto fu raccapricciante persino per me. Per fortuna avevo imposto al cecchino di tapparsi le orecchie, non avrebbe retto, altrimenti. Questo, tuttavia, non gli impedì di strillare come una mandragola. Alla fine, però, andò tutto per il meglio e dopo avergli fasciato il naso potemmo tornare alla radura che avevamo scelto per passare la notte.
 
Non passò molto prima che ci addormentassimo entrambi. Eravamo stanchi, affamati e doloranti, e io ero anche piuttosto inquieta. Non vedevo l’ora che finisse tutto. Le cose non potevano andare peggio di così. Niente pietra, niente Zoro, niente di niente. C’erano solo ragni che volevano cibarsi di me e geyser capaci di polverizzarmi che eruttavano a sorpresa. Non che non mi aspettassi di ricevere qualche sorpresa durante questa gita con i Mugiwara, ma non ero preparata a questo. Era troppo per me. Almeno non pioveva e non faceva troppo freddo. Dopo quanto ci era successo avevamo rinunciato a raccogliere la legna ed eravamo tornati immediatamente alla radura. Dato che non potevamo morire di fame, ci eravamo dovuti mangiare la carne congelata. Era così dura che temevo di rimetterci qualche dente, ma il sapore non era cattivo. Poi, stravolti, ci eravamo addormentati; non prima che Usop si lamentasse per qualche buon minuto per il dolore al naso. Gli era “magicamente” passato dopo che lo avevo minacciato di romperglielo di nuovo.
Ciò che mi svegliò fu un rumore sospetto. Normalmente avevo il sonno pesante e non mi sarei ridestata per un fruscio distante, ma in quelle circostanze era difficile non essere vigili anche nel sonno. Tirai su il busto e sbuffai silenziosamente, pregando che il rumore che avevo sentito non fosse correlato a nulla di pericoloso. Mi resi conto che anche Usop si era svegliato. Ci scrutammo per qualche secondo, indecisi sul da farsi. Poi il cecchino si portò l’indice alla bocca e mi fece cenno di fare silenzio. Rimanemmo in ascolto per qualche altro minuto, allerta. Non avevo le forze di attivare l’Haki, perciò potevo contare solo sul mio udito. Percepii dei passi. Qualcuno stava correndo... verso di noi. Non feci in tempo a realizzare il tutto che mi ritrovai davanti una figura. Il mio cuore smise di battere e non accennò a riprendere fino a che non realizzai a chi appartenesse la sagoma. Usop, a fianco a me, tremava come una foglia.
Assottigliai gli occhi e piegai il busto in avanti per tentare di capire se quello che stavo vedendo fosse un miraggio o meno. La mancanza di sonno giocava brutti scherzi.
«Rufy!?» feci sorpresa, la voce mi uscì roca e impastata. Lo osservai per un attimo, le sopracciglia aggrottate. Lui stava fissando un punto imprecisato davanti a sé con espressione un po’ vacua. Non sembrava in sé.
«Oh, accidenti!» esclamò Usop. Lo guardai interrogativa. «Sta avendo uno dei suoi episodi di sonnambulismo. Gli succede quando sta dormendo, gli viene fame e non trova del cibo nelle vicinanze: continua a vagare in stato di semi-incoscienza finché non trova qualcosa da mettere nello stomaco,» mi spiegò poi, facendo un passo verso il suo Capitano.
La cosa era assurda, soprattutto perché Rufy aveva attraversato correndo un’intera isola mentre dormiva solo per avere qualcosa da sgranocchiare, ma ormai non mi stupivo più di niente quando si trattava dei Mugiwara, perciò non feci domande. In fondo, ciò che gli stava capitando non era poi tanto diverso da quello che succedeva a Big Mom. Finché non avesse tentato di uccidermi, a me stava bene così.
«Cibo...» biascicò Cappello di Paglia, allungando una mano verso i nostri zaini.
«Non abbiamo cibo qui, Rufy.» Parlai lentamente e scandii bene le parole, nella speranza che mi capisse. Io e Usop avevamo finito tutto ciò che Sanji ci aveva dato da mangiare.
«È inutile, non può sentirti.»
In qualche modo, però, Rufy sembrò recepire la mia affermazione, perché rinunciò all’idea di curiosare nei nostri zaini, girò i tacchi e sfrecciò via. Il cecchino si catapultò in avanti e mi tirò per un braccio.
«Non è in sé, dobbiamo seguirlo e assicurarci che non si metta nei guai.»
Gettai la testa all’indietro, sconsolata, ma recuperai lo zaino e cominciai a correre. Non avevo nessuna voglia di mettermi a seguirlo e fargli da balia, volevo tornare nel sacco a pelo e dormire, ma Usop aveva ragione: l’isola Stein era un’isola piena di insidie. Geyser sotterranei, terreno friabile, ragni giganti, spadaccini vaganti... Non potevamo lasciare quell’idiota al suo destino. Non potevamo lasciare che vagasse da solo, di notte, senza che fosse cosciente, né potevamo permettere che si perdesse come aveva fatto Zoro. Se gli fosse successo qualcosa non ce lo saremmo mai perdonato.
Per fortuna lo ritrovammo poco dopo, per puro caso, mentre si arrampicava scompostamente su un albero. Ovviamente non si trattava di un albero normale. Era una pianta che si trovava in bilico su un precipizio a strapiombo sul mare. Da quanto riuscivo a vedere non aveva foglie, ma solo frutti. Tanto per aggiungerlo alla lista di cose strane e potenzialmente pericolose che c’erano sull’isola Stein. Si era adagiato precariamente su un ramo e si stava allungando per prendere uno dei frutti. Con la pochissima luce che c’era non riuscii a vedere di quali frutti si trattasse, ma non era da escludere che fossero tossici per l’organismo. Anche quello sarebbe stato un ipotetico problema. Un problema grosso. Con la coda dell’occhio vidi che il cecchino aveva assunto un’aria preoccupata e mi si scaldò il cuore per il bene che voleva a Rufy. Lui, che era un fifone di prima categoria, non solo aveva rinunciato a preziose ore di sonno, ma stava anche rischiando la sua incolumità per aiutare il suo amico. Per me o per chiunque altro non lo avrebbe fatto.
«Dobbiamo tirarlo giù di lì,» mi disse risoluto, prima di incamminarsi a passo svelto verso l’albero. Lo seguii. Che altro potevo fare?
Ci piazzammo sull’orlo del precipizio, sotto la pianta, e pensammo a un modo per recuperare Cappello di Paglia senza che nessuno di noi cadesse in mare. Prima che potessimo compiere qualsiasi mossa, però, ci fu un boato, e poi la terra tremò per l’ennesima volta. Mi aggrappai all’albero per tentare di recuperare la stabilità perduta. Quando rialzai lo sguardo, Rufy non si trovava più sul ramo. Usop imprecò, io andai nel panico per qualche attimo. Se era come pensavo, ovvero se aveva perso l’equilibrio ed era caduto in mare, rischiava di morire. Mi immobilizzai e guardai il cecchino, indecisa sul da farsi.
Una mano spuntò dal basso e si piantò tra i miei e i suoi piedi, artigliandosi al suolo. Era la mano di Rufy, senza dubbio. Tirammo un sospiro di sollievo. Stava bene, non era caduto in mare: aveva avuto la prontezza di riflessi necessaria per allungare il braccio e aggrapparsi alle rocce della scogliera. Il mio sollievo, tuttavia, durò ben poco, perché udii uno scricchiolio. Io e Usop ci girammo a guardarci, entrambi con l’espressione a metà tra l’afflitto e il preoccupato. Sapevamo cosa stava per succedere.
All’improvviso, il terreno cedette e si sgretolò sotto ai nostri piedi.
Per la seconda volta, quel giorno, precipitai nel vuoto, e con me anche il Capitano dei Mugiwara e il Re dei Cecchini. Non feci in tempo a pensare a niente, non mi resi neanche pienamente conto di cosa stesse succedendo, finché non mi ritrovai sott’acqua. L’impatto fu violento e traumatizzante. Per un istante mi sentii come se un milione di gelidi spilli stessero attraversando il mio corpo e mi mancò il respiro. Solo quando mi fui abituata al freddo mi resi conto della situazione. Dovevo risalire in superficie. Eppure c’era qualcosa che me lo impediva. C’era una forza misteriosa che mi stava trascinando verso il basso. Un mulinello. Un vortice impetuoso che stava tentando di risucchiarmi al suo interno.
I polmoni iniziarono a bruciare. Aria. Avevo bisogno di aria. Più nuotavo, più mi muovevo, e più mi sembrava di essere trascinata verso il fondo dell’oceano.
Lottai con tutte le mie forze per risalire in superficie, ma non ci fu nulla da fare. Stavo per perdere conoscenza. Se non potevo fare niente io, nemmeno Rufy aveva qualche possibilità. Forse, però, Usop era riuscito a mettere in salvo entrambi. Ormai ero troppo distante dalla superficie per poter sperare che lo facesse anche con me.
“Rufy, se muoio per colpa tua e dei tuoi disturbi psico-fisici ti garantisco che te la farò pagare cara, dovessi finire all’Inferno,” pensai rabbiosa, prima di essere completamente inghiottita dal mulinello.

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Capitolo 11
*** Scoperte ***


Ero tramortita, ma non ero morta. Di questo ero quasi certa. Avevo aperto gli occhi, e il senso di bagnato che sentivo addosso era troppo reale perché fossi deceduta. I morti non percepiscono niente, giusto? Inoltre, la mia guancia destra era pressata su una superficie morbida ma allo stesso tempo ruvida. Strizzai le palpebre, d’un tratto infastidita da qualunque materiale stesse graffiando la mia pelle. Avevo dato una bella botta. C’era da capire dove e come.
Prima di compiere qualsiasi movimento, come sempre, mi accertai di non avere nulla di rotto. Tutto sembrava essere al proprio posto e intatto, per fortuna. Quando ripresi pienamente conoscenza, mi resi conto di avere ingoiato una quantità non indifferente di acqua marina e sabbia. Mi issai sulle ginocchia, tenendo le mani appoggiate al suolo, e iniziai a tossire e sputare con poca eleganza tutta l’acqua e la sabbia che avevo ingerito. Rimasi in quella posizione a sputacchiare con la faccia disgustata per un paio di minuti buoni. Quando fui sicura di aver espulso tutte le sostanze che non avrebbero dovuto trovarsi nel mio apparato respiratorio, cercai di rialzarmi. Il fatto che riuscissi a reggermi in piedi era un miracolo. Le gambe mi tremavano, le orecchie mi fischiavano, la bocca era piena di sabbia e sale, la testa mi girava e il cuore per poco non si riversava fuori dal mio petto. Non appena mi fui stabilizzata ed ebbi strizzato i miei vestiti nel tentativo di liberarmi di un po’ dell’acqua che avevano imbarcato, feci una rapida e involontaria alzata di sopracciglia. Supponevo che questi fossero gli effetti collaterali dell’essere quasi morta. Era così che funzionava la mia vita: nella mia sfortuna, avevo comunque fortuna. Riuscivo a cacciarmi in guai più grossi di me e poi, in qualche modo, riuscivo a tirarmene fuori, proprio come Rufy e compagni. Nel ripensare a lui e Usop mi ricordai che probabilmente si trovavano nella mia stessa situazione e mi decisi a cercarli. Mi guardai in giro finché un movimento sospetto alla mia destra mi mise in allerta. Quando capii di cosa si trattava, tirai un enorme sospiro di sollievo. Era il cecchino, steso sulla spiaggia, a una ventina di metri di distanza. Come me, si tirò su sulle ginocchia e si mise a sputacchiare acqua e sabbia. Mi confortava sapere che era finito lì anche lui, almeno c’era qualcuno su cui poter contare.
«Usop!»
«Cami!» Si alzò e venne verso di me. «Dov’è Rufy?»
Scossi la testa in risposta alla sua domanda.
«Dobbiamo cercarlo,» si raccomandò, iniziando a guardarsi in giro.
Lo feci anche io, dalla parte opposta. Un altro movimento sospetto mi mise in allerta. A pochi metri da me, scosso dalle onde che continuavano a riportarlo a riva, c’era il mio zaino. Il mio amatissimo zaino, lo zaino che conteneva buona parte dei miei effetti personali e che credevo di aver perso per sempre mentre ero impegnata a tentare di evitare che il mulinello mi trascinasse sul fondo dell’oceano. Mi affrettai a recuperarlo e ad aprirlo per accertarmi che fosse tutto al proprio posto e che niente si fosse rotto. Fortunatamente c’era tutto, ed era tutto asciutto. Il telefono funzionava ancora alla perfezione. Avevo avuto un’idea brillante nel chiedere ad Usop di rendere la mia borsa impermeabile ed ermetica. Avevo messo in conto che sarebbe potuta succedere una cosa del genere. Non mi aspettavo di certo di essere risucchiata da un dannatissimo vortice, ma comunque avevo fatto bene ad essere stata previdente.
Ricominciai a guardarmi intorno in cerca dell’idiota che mi aveva trascinata in quella situazione scabrosa. Mentre osservavo il posto in cui mi trovavo, in me si fece strada il panico. Non riuscivo a riconoscere nulla dell’ambiente che mi circondava. Mi trovavo su una spiaggia, una spiaggia di un’isola che non avevo mai visto prima. Non mi trovavo più sull’isola Stein e non avevo idea di dove fossi. Il panico aumentò esponenzialmente quando, finalmente, ritrovai Rufy. Qualche metro più in là rispetto alla mia posizione, Cappello di Paglia giaceva immobile, a pancia in giù, sulla riva della spiaggia. Di tanto in tanto il suo corpo veniva trascinato avanti e indietro dalle onde. Sembrava privo di conoscenza.
«Usop!» lo richiamai per la seconda volta. Quando anche lui lo ebbe visto, si mise a correre.
Ci precipitammo verso Rufy e con le poche forze che ci rimanevano gli afferrammo il colletto della camicia e lo trascinammo fuori dall’acqua. Mi inginocchiai accanto a lui e gli girai delicatamente il corpo. Spalancai gli occhi nel notare che aveva le labbra blu. Era cianotico. Cercai di non terrorizzarmi troppo ed accostai l’orecchio alla sua bocca. Non respirava. Gli poggiai indice e medio sul collo, proprio sotto alla mandibola, e restai in attesa. Niente. Niente battito.
«Oddio...» mi lasciai sfuggire, poi, senza temporeggiare oltre, mi tolsi lo zaino, mi posizionai a cavalcioni su di lui e iniziai a fargli il massaggio cardiaco. Se il suo non batteva, il mio batteva al triplo della velocità. Anche Usop era teso come una corda di violino, tanto che sembrava una statua: non si muoveva e non parlava.
Premevo sul suo petto con così tanta forza che se Rufy fosse stato una persona normale le sue costole si sarebbero frantumate in mille pezzi. Per fortuna non lo era, e potei continuare a premere con tutta la forza che avevo in corpo. Il suo cuore doveva ripartire. Contai con minuziosa precisione le compressioni e mi fermai solo un attimo per sentire se ci fosse il battito quando fui arrivata a trenta. Non c’era. Reclinai la sua testa, gli tappai il naso e gli schiusi la bocca. Poi mi chinai e poggiai le labbra sulle sue, cercando di fargli arrivare quanta più aria possibile ai polmoni. Ripetei la procedura di nuovo e sperai con tutta me stessa che tornasse a respirare. Era stato in acqua per troppo tempo. Io e il cecchino ce l’eravamo cavata perché, a differenza sua, non avevamo mangiato un Frutto del Diavolo, ma nel momento in cui eravamo precipitati in mare lui si era indebolito molto, e chissà per quanto tempo era rimasto privo di conoscenza e quanta acqua avevano inalato i suoi polmoni. Dovevo trovare il modo di rianimarlo. Ricominciai con le compressioni, mettendoci ancora più forza, se possibile.
«Andiamo, andiamo!» gridai a denti stretti mentre l’angoscia si impossessava di me. Lo stavo strapazzando così tanto che il corpo di Rufy aveva formato una piccola conca sulla sabbia. Maledissi il luogo nel quale ci trovavamo. Se il terreno sotto di noi fosse stato più duro e più stabile, la rianimazione cardio-polmonare avrebbe avuto più effetto, perché la sua schiena sarebbe rimasta ferma e io avrei potuto comprimere meglio il petto. Maledissi anche il fatto di non avere con me l’equipaggiamento medico. Forse, se avessi avuto gli strumenti adatti, avrei potuto agire propriamente. Nel mio zaino non c’era niente di utile. All’improvviso, senza quasi rendermene conto, colpii il suo sterno con un pugno, con così tanta forza che la mia mano rimbalzò. Niente. Sembrava tutto inutile, era ancora cianotico. Non potevo arrendermi, però. Appoggiai di nuovo le mie labbra sulle sue e soffiai, fino a sfiatarmi. Ripresi fiato per qualche secondo e lo feci di nuovo. Proprio quando stavo iniziando a perdere tutte le speranze, sotto di me percepii un movimento. La sua bocca si mosse, come se volesse chiuderla, come se volesse protestare per quell’“invasione di campo”. Sollevai il viso e per poco non svenni dal sollievo. Rufy aveva gli occhi aperti. Respirava. Per un brevissimo secondo ci fissammo, i miei occhi gioiosi, i suoi confusi. In quel momento, mentre mi guardava interrogativo, mi fece quasi tenerezza; finché non rialzò la schiena da terra bruscamente, mi spinse via con le braccia e cominciò a sputare tutta l’acqua che aveva nei polmoni. L’operazione durò una trentina di secondi buoni. Aggrottai la fronte, perplessa. Praticamente aveva ingerito la stessa quantità d’acqua marina del Titanic. Se al suo posto ci fosse stata un’altra persona – io, ad esempio – sarebbe sicuramente morta. Lui no, però. Dopotutto, era colui che sarebbe diventato Re dei Pirati. Era sopravvissuto a cose ben peggiori, non poteva farsi mettere ko da un po’ d’acqua.
Quando i suoi polmoni furono liberi, si voltò verso di me e mi rivolse un sorriso a trentadue denti, un sorriso che mi fece aggrottare ancora di più la fronte. Non capivo come facesse a sorridere dopo quello che gli era successo.
«Grazie per avermi salvato.»
Non riuscii a trattenermi dallo sbuffare una risata. Sindrome di Noxyd un corno. Era indistruttibile.
«Sì, grazie! Sei fantastica!» A quanto pareva Usop si era ripreso dal suo stato catatonico. Gli rivolsi un sapiente cenno del capo. Entrambi eravamo esausti per la tensione.
Poggiai una mano sulla guancia di Rufy e gli diedi una leggera pacca, poi gli scostai i capelli umidi dal viso e cercai anche di ripulirlo dalla sabbia. Allungai l’altra mano e gli piazzai due dita sul collo. Dopo che mi fui accertata che il suo battito fosse regolare, mi stesi a terra, stremata.
Iniziai a ridere convulsamente, più per la tensione che avevo accumulato in quei tre lunghi giorni – in particolare negli ultimi minuti – che per il divertimento. Non c’era niente di divertente, in quella situazione. Io, Usop e Cappello di Paglia eravamo quasi morti, e non avevo idea di dove diavolo fossimo finiti, né di come avremmo fatto a tornare dagli altri. Ma al momento non mi importava, perché Monkey D. Rufy era vivo e vegeto, e questo bastava a farmi sentire temporaneamente più tranquilla.
«Cami, perché mi hai baciato?» chiese innocentemente Rufy.
Smisi di ridere all’istante e avvampai. Il mio cuore – tanto per cambiare – perse un battito. Se fossimo andati avanti così mi sarebbe servito un cardiologo al più presto.
«Cosa?» Girai la testa in direzione del moro, la fronte aggrottata e gli occhi spalancati. Era seduto a gambe incrociate e mi stava fissando con la testa piegata e l’espressione da ebete, in attesa di una risposta. Ero convinta che non sapesse neanche cosa volesse dire il termine “baciarsi”. Chi diamine gliel’aveva spiegato? E perché, poi? Credevo di poter stare tranquilla, almeno su questo, e invece...
«No, Rufy, non scherzare. Io non ti ho baciato,» puntualizzai, iniziando ad agitarmi. I pugni di Cappello di Paglia erano pericolosi, ma le sue versioni dei fatti, quelle che poi avrebbe riportato ai suoi compagni e a Law, lo erano ancora di più.
«Tecnicamente sì,» fece Usop, con l’aria di chi la sapeva lunga. In realtà mi stava solo prendendo in giro. Lo fulminai con lo sguardo. Stava mettendo altra benzina sul fuoco.
«Non ti ho baciato, ti ho soffiato aria nei polmoni. Ho eseguito una procedura medica per salvarti la vita. Se non lo avessi fatto, saresti morto.» Non mi aspettavo che capisse i meccanismi della rianimazione cardio-polmonare, volevo solo che non andasse in giro a gridare che l’avevo baciato con noncuranza. Non era così.
Se il Capitano scrollò le spalle, il cecchino fece per parlare, ma io lo fermai.
«Se ti azzardi a dire qualcosa di questa faccenda a qualsiasi essere vivente, ti garantisco che ti romperò il naso, questa volta in dieci punti diversi, e poi lo accartoccerò come una fisarmonica.»
«Terrò la bocca serrata.» Mi rivolse il suo solito sorriso sornione.
«Finalmente siete arrivati. Ce ne avete messo di tempo.» Una voce roca e profonda, che conoscevo bene, mi fece scattare in piedi e voltare.
«Zoro!?» gridai, incredula. A quel punto anche gli altri due si rimisero in piedi.
«Zoro!» esclamò Rufy, gioioso.
Lo spadaccino ci stava squadrando con aria perplessa. Qualsiasi cosa gli fosse successa, ne era uscito illeso, al contrario nostro.
«Oh, Zoro!» piagnucolò Usop, correndogli incontro e gettandogli le braccia al collo, come se fosse un’ancora di salvezza.
«Ehi, levati di dosso!» lo richiamò infastidito, tentando invano di liberarsi dalla sua presa.
La scena era piuttosto comica, ma dentro di me stava iniziando a montare la rabbia. Perché, se ci trovavamo in quella situazione, in parte era a causa sua.
«Che cazzo ci fai qui!? Come cazzo ci sei finito in un posto del genere!? Ti abbiamo cercato per mezza isola!» Quando lo raggiunsi cominciai a prenderlo a pugni sul petto. Non reagì, per lui era come se gli stessi facendo il solletico.
«Più che altro...» intervenne Usop, che invece non era adirato per niente. «Dove ci troviamo?»
«Non lo so.» Zoro si rivolse a me. «Dopo che sei sparita, mi sono ricordato che Nami aveva detto di andare a Sud, così sono andato a Sud.»
«A Sud? A Sud di cosa!?» Evitai di puntualizzare che non ero io che ero sparita, era lui che non si era mosso in un contesto di pericolo. Tornare sull’argomento era inutile e non ci avrebbe aiutato a uscire da quella situazione.
«Ti prego, dimmi che non ti sei immerso nelle profondità marine pensando che il Sud fosse sott’acqua...» Usop ormai sapeva bene con chi aveva a che fare.
Lo spadaccino fece spallucce, come se il suo ragionamento fosse scontato e immergersi sott’acqua per andare “a Sud” fosse la cosa più naturale del mondo.
Mi strinsi il ponte del naso con due dita. La verità era che non mi sembrava affatto strano. Anzi, capivo la sua logica. E questo era grave.
«Anche noi siamo finiti sott’acqua,» fece Rufy, tranquillo, come se anche quella fosse una cosa normale.
«Lo so. Altrimenti come avreste fatto ad arrivare qui?» Zoro scrollò di nuovo le spalle.
«In che senso?» Assottigliai gli occhi. C’era qualcosa di strano.
«Oddio...» piagnucolò Usop dopo essersi guardato intorno, d’un tratto terrorizzato. Adesso lo riconoscevo. «Dove diamine siamo capitati!?»
Sentii un’ondata di paura attanagliarmi le viscere. Non ero sicura di volerlo sapere, ma decisi comunque di fare una ricognizione.
«Ma che cazzo...» mi lasciai scappare quando me ne resi conto. Pensavo di averne viste, di cose assurde, ma quella le batteva tutte. Sopra di noi, a un centinaio di metri dalla riva della spiaggia, a farci da volta celeste non c’era il cielo, ma il mare. Era come se ci trovassimo in una bolla d’aria situata tra la superficie e il fondo dell’oceano. L’acqua faceva da cupola a quell’isola e, contro ogni legge della fisica, la sosteneva. A pensarci, però, aveva senso: non eravamo morti annegati perché il mulinello ci aveva portato qui. E non ce ne eravamo accorti subito perché, e questa era la cosa più stravagante, la luce che c’era lì sembrava naturale, come se fosse il sole a illuminare il territorio. Di nuovo, non avevo idea di come ciò fosse possibile. E non mi importava, volevo solo andarmene dall’isola.
Io e il cecchino fissammo Zoro, in cerca di risposte.
«Non si può andare via a nuoto. Ci ho già provato, la corrente è troppo forte, continua a riportarmi a riva.»
Serrai le palpebre. Se la corrente era troppo forte persino per uno forte come il Cacciatore di Pirati, non c’era speranza per me.
«Non puoi, non so, scagliare uno dei tuoi fendenti?» gli chiesi, speranzosa.
Ghignò, contento dell’idea che gli avevo dato. Sfoderò una spada e tentò. Niente. Riprovò, stavolta con più forza. Niente. Tirò fuori la seconda katana e scagliò cinque fendenti. Niente. Sguainò anche la terza spada e se la mise tra i denti. Non riuscì neanche così. Lo strato d’acqua della cupola era troppo spesso perché potesse aprire uno spiraglio. Se in lui aumentava la frustrazione ad ogni tentativo fallito, in me aumentava la preoccupazione, tanto che dovetti pregarlo di smettere.
«Perché non funziona?» chiese il Capitano, la testa piegata da un lato. Anche lui volle provarci. Si mise a scagliare una raffica di pugni contro quel muro liquido che, però, non fecero alcun effetto. Era come tentare di scalfire l’agalmatolite.
«Non usciremo mai di qui! Moriremo in questo posto!» Due mani mi afferrarono le spalle e mi scossero. Me le scrollai di dosso e guardai con fastidio Usop. Non era il momento di farsi prendere dal panico, sebbene anche io iniziassi a cedere. Eravamo bloccati lì.
«Che facciamo?» Stavolta il verde si rivolse al suo Capitano.
«Cerchiamo del cibo.» Rufy fece un sorriso a trentadue denti.
«Cerchiamo del cibo,» ripetei, le orecchie che fischiavano. All’improvviso non ci vidi più dalla rabbia. Era colpa sua se ci trovavamo in questa situazione, io e Usop perlomeno, e lui, invece di cercare una soluzione, pensava a mangiare. Oltretutto era proprio perché aveva fame che ci eravamo cacciati in questo guaio. Gli piantai un gancio destro dritto in fronte e lo stesi. Ancora con la schiena per terra, si portò una mano alla fronte, stupito. Era di gomma, quindi non gli avevo fatto male, ma non se lo aspettava.
«Ehi, Cami, calmati.» Il moro si rimise in piedi e si tolse la sabbia dai vestiti.
Resistetti all’impulso di prenderlo a calci, ma continuai a insultarlo per un paio di minuti buoni, mentre Zoro continuava a ridere. Poi mi tranquillizzai. Mi dissi che non valeva la pena di arrabbiarsi e sprecare le – già poche – energie che avevo per picchiarlo. In fondo, Rufy era fatto così: non si preoccupava di niente, pensava solo a sfamarsi. E, dato che non avrebbe riconosciuto una situazione di pericolo neanche se qualcuno gliel’avesse scritto a caratteri cubitali, non si scusava, neanche quando era colpa sua.
«Sai che c’è?» Le mie iridi si incastonarono alle sue, serie. «Tu hai combinato questo casino, tu sistemerai le cose.»
«Traffy ti ha plasmato bene, in questi anni. Sei diventata la sua copia,» mi disse il verde, un ghigno divertito sulle labbra.
Se dapprima rimasi stupita dalla sua affermazione, dopo sorrisi. Aveva ragione. Anche lui si era comportato così con me quando era finito nel mio mondo: prima aveva attentato alla mia vita e poi aveva ceduto al menefreghismo e aveva lasciato che me la sbrigassi da sola per gran parte del tempo.
Nel pensare a lui, mi ridestai. Volevo tornare sul Polar Tang al più presto.
«Dobbiamo trovare un modo per andare via da qui.»
 
«Non c’è un filo di vento, eppure non fa caldo,» constatai, fissando un punto imprecisato davanti a me. Era tutto statico, anche il tempo sembrava essersi arrestato. Solo le onde si muovevano, dondolando avanti e indietro sulla riva.
Io e Usop avevamo ceduto alla stanchezza e ci eravamo messi a sedere sulla sabbia, le schiene poggiate contro i tronchi degli alberi. Rufy era sparito tra la vegetazione, in cerca di cibo. Sarebbe stato più prudente se lo avessimo seguito e gli avessimo impedito di combinare altri guai, ma non ne avevamo la forza. L’unico che aveva ancora tutte le energie era Zoro, che però non riteneva necessario andare dietro al suo Capitano e se ne stava in piedi a fissare le sue katane, chiedendosi come mai non fosse riuscito a creare un varco nell’acqua. A sentire lui, che era lì da più tempo di noi e aveva già dato un’occhiata generale in giro, l’isola era deserta – sarebbe stato strano il contrario – e priva di pericoli. Era vero che Cappello di Paglia se la sarebbe saputa cavare in ogni caso, ma era anche vero che spesso e volentieri era lui stesso a creare perigli.
«Non mi aspetto niente di meno da un’isola che per quel che ne sappiamo si trova in una bolla d’aria nell’oceano.» Usop emise una flebile risata, e così anche io.
A parte la cupola d’acqua che ci faceva da cielo e la luce naturale che non si sapeva da dove venisse, quell’isola senza nome era una normale isola, di quelle che ci si aspetta di vedere sulla Terra: una spiaggia dorata si estendeva per tutta la costa e faceva da anello alla vegetazione che, mano a mano che ci si avvicinava al centro, diventava più fitta. Erano principalmente palme e alberi esotici. Come avessero fatto a crescere in un posto del genere, rimaneva un mistero.
Fissai il cielo-mare sopra di me, chiedendomi se e come saremmo usciti da lì. Continuai a osservarlo pensando alla stranezza di quel fenomeno e a quanto fosse bizzarra la vita, finché...
«Usop.» Gli artigliai un braccio, facendolo sussultare. «Come... come faceva quell’indovinello?»
«Quale indovinello?» Mi guardò perplesso.
«Quello per trovare il Road Poignee Griffe.»
«Oh.» Sembrò pensarci un attimo. «Dove il cielo incontra il mare, un rubino inizie...»
Si bloccò e mi artigliò il braccio a sua volta.
«Potrebbe essere la volta buona,» disse Usop, gli occhi che gli brillavano. «Sei un genio!»
Annuii compiaciuta e mi alzai insieme a lui per dirigerci da Zoro e comunicargli la nostra intuizione. Prima che potessimo iniziare a parlare, però, Rufy uscì dalla vegetazione e ci venne incontro correndo. Aveva l’espressione estasiata e tra le mani stringeva degli ignoti frutti magenta.
«Ragazzi! Dovete assaggiare questi frutti! Sono buonissimi!» ci gridò, ingurgitandone una manciata.
«Non è prudente mangiare i frutti di un albero che non abbiamo mai visto. Potrebbero essere tossici,» gli gridai di rimando, pur non essendo troppo preoccupata: se c’era qualcuno che aveva uno stomaco di ferro era Cappello di Paglia.
«Sono deliziosi!» Quando ci raggiunse li aveva già mangiati tutti.
«Ti ho già salvato la vita una volta oggi, non lo farò di nuovo,» lo ammonii.
«Perché? Se mi succede qualcosa puoi baciarmi ancora e sarò salvo.»
Mi immobilizzai. Alla mia destra, Usop cercava di non scoppiare a ridere. A sinistra, Zoro mi guardava interrogativo.
«Non l’ho baciato, gli ho fatto la respirazione bocca a bocca. Ho dovuto farlo, stava morendo,» mi affrettai a chiarire al verde.
«No, mi hai baciato,» insistette il moro.
«Rufy, un bacio è un’altra cosa. È quando due persone...» Mi misi a gesticolare, non sapendo bene come spiegarmi.
«So cos’è un bacio, me lo ha spiegato Sabo,» mi interruppe, gli occhi vispi e l’espressione tranquilla.
«Oh. Ora capisco tante cose...» mi lasciai sfuggire, ridacchiando. Per fortuna nessuno mi udì.
Rufy sparì di nuovo tra le palme e ritornò poco dopo con altri frutti magenta. A quanto pareva li producevano le palme; erano grandi la metà del mio palmo e la loro forma ricordava vagamente un cuore. Li offrì a ciascuno di noi, ma rifiutammo tutti. Secondo lui, però, erano così buoni che dovevamo assaggiarli a qualsiasi costo. Infatti ne infilò un paio a forza nella bocca del suo amico.
Il cecchino sbiancò, e così anche io. Se quei frutti fossero stati velenosi, non avrei avuto modo di curarlo, sarebbe potuto morire. Fece un passo indietro, mugolò qualcosa e crollò al suolo. Spalancai gli occhi, mi precipitai verso di lui e mi inginocchiai accanto al suo corpo. Lo sapevo, ci mancava solo questa.
«Usop?» lo richiamai, senza ottenere risposta. Aveva gli occhi chiusi e sembrava aver perso conoscenza. Gli piazzai due dita sul collo e controllai il battito. Era regolare. Non era morto, perlomeno.
«Usop, rispondimi. Dimmi qualcosa!» Ero sempre più preoccupata. «E tu perché te ne stai lì a non fare niente!? Aiutami! Potrebbe morire!»
Rufy era sfrecciato via per l’ennesima volta, ma Zoro era accanto a me. Non solo non aveva mosso un dito, ma appariva anche piuttosto seccato.
Il moro rimase immobile, inerme, facendo crescere la mia angoscia. Poi lo sentii afferrarmi un polso. Aprì piano gli occhi.
«Vedo...» iniziò, sussurrando appena. Era in grado di parlare, per fortuna. Avvicinai l’orecchio alla sua bocca per sentire meglio.
«Cosa vedi!?» lo incitai dopo un po’ che non diceva nulla. Anni di contatto con Law mi avevano insegnato ad odiare chi mi teneva sulle spine.
«Il mare... al posto del cielo...» Alzò teatralmente un braccio e guardò un punto imprecisato sopra di lui.
Sollevai un sopracciglio, sopprimendo la voglia di dargli un pugno sul naso e accartocciarglielo – di nuovo – ben bene.
«Il mare al posto del cielo, eh?» Gli afferrai le bretelle e lo strattonai. «Rialzati, idiota, prima che ti faccia rialzare io a suon di schiaffi.»
Mi tirai su e mi portai le mani ai fianchi, in attesa che anche quel cretino lo facesse. Oltre allo spavento che mi aveva fatto prendere, ci aveva anche fatto perdere tempo. Con la coda dell’occhio vidi che Zoro stava ghignando. Si stava prendendo gioco della mia stupidità, e aveva ragione a farlo, ma lo guardai male lo stesso.
«Quei frutti non sono velenosi, li ho mangiati anche io prima che veniste qua,» mi spiegò, continuando a sogghignare.
«E perché non l’hai detto subito!?» Allargai le braccia, esasperata.
Fece spallucce. Sbuffai infastidita. Se non ce ne fossimo andati presto da quel posto sarei impazzita.
 
Dopo che io e il cecchino avemmo spiegato la situazione agli altri, decidemmo di esplorare l’isola, in cerca del Poignee Griffe ma anche di una via d’uscita. Il territorio non era esteso ed era tutto in pianura, perciò non avremmo dovuto avere difficoltà a perlustrarlo. Scegliemmo di non separarci: se fosse successo qualcosa Rufy e Zoro ci avrebbero protetto, mentre io e Usop ci saremmo assicurati che quei due non combinassero danni. Una squadra vincente, la nostra.
Continuammo a camminare senza fermarci per un paio d’ore. Ci eravamo addentrati nella vegetazione più fitta. Ciascuno di noi, come se fosse un disco rotto, si lamentava di qualcosa: io della stanchezza, il cecchino dei dolori articolari, lo spadaccino di non avere del sake con cui “bagnarsi le labbra” a disposizione e il loro Capitano della fame. I frutti non lo saziavano, lui voleva la carne. Non potevo dargli torto, anche io iniziavo ad avere fame e avrei voluto mettere nello stomaco qualcosa di sostanzioso. Non sapevo quante ore fossero passate da quando eravamo scomparsi, né se qualcuno si fosse accorto che mancavamo all’appello, ma l’ultima cosa che avevo mangiato era stata una bistecca congelata che non mi ero goduta e non mi aveva sfamato. Avevo bisogno di cibo per carburare. Come a confermare i miei pensieri, il mio stomaco emise un brontolio. Si girarono tutti a guardarmi. Rufy mi rivolse un sorriso sornione, poi allungò un braccio verso una palma, recuperò dei frutti magenta e me ne porse uno. Ci pensai un attimo prima di accettare. Non era prudente, ma avevo fame e nessuno di loro era morto nell’ingerire quei frutti.
«Di cosa sanno?»
«È un sapore simile a quello delle ciliegie,» fece Usop.
«Sanno di prugna,» affermò invece Zoro.
«Sono buoni, mangiali,» mi incitò Rufy, sorridendo.
Alla fine li mangiai, e nel momento in cui lo feci percepii le mie pupille dilatarsi.
«È buonissimo.» Probabilmente era la fame a farmelo dire, però avevano davvero un buon sapore. Era un sapore familiare, che non avevo mai provato prima d’ora, ma che mi ricordava qualcosa. Era il giusto compromesso tra dolce e aspro, rinfrescava e saziava allo stesso tempo. «Direi che avete ragione tutti e tre. È un misto tra una prugna e una ciliegia.»
«Te l’avevo detto,» fece Rufy, sogghignando fiero. Poi i suoi occhi si illuminarono. «Abbiamo scoperto un nuovo frutto! La pruliegia!»
Scoppiammo tutti a ridere. Poteva sembrare assurdo mettersi a sghignazzare per della frutta in una situazione del genere, ma i Mugiwara erano fatti così e la loro follia era contagiosa. Inoltre, non avevamo di meglio da fare: non avevamo trovato né il Poignee Griffe né una via d’uscita, sebbene avessimo quasi finito di perlustrare l’isolotto. Era un modo per mascherare la frustrazione che si stava facendo strada in noi.
 
Alla fine decidemmo di fermarci a riposare in una piccola radura al centro dell’isola. Eravamo incappati in quello che sembrava un sito archeologico antico, con quattro pietre monolitiche disposte a quadrato. L’ennesima stranezza da aggiungere alla lista. Ma ormai ci avevamo fatto l’abitudine.
Non sapevamo quanto tempo fosse passato, lì la luce non cambiava mai, quindi non avevamo un riferimento. Sapevamo, però, che avevamo esplorato tutta l’isola e del Poignee Griffe non c’era traccia. Zoro aveva provato a scagliare di nuovo i suoi fendenti contro la cupola d’acqua, ma non aveva avuto successo. Ci trovavamo in una situazione infausta. Io stavo morendo di preoccupazione, ma non volevo darlo a vedere: non volevo che pensassero che fossi ancora la ragazzina che aveva paura di tutto.
Ci eravamo detti che forse, a mente più fresca, avremmo ragionato meglio e avremmo trovato ciò che stavamo cercando. Non era escluso che la pietra rossa o che la via d’uscita fossero nascoste.
Zoro e Usop erano crollati subito, mentre io, sebbene mi si chiudessero gli occhi per la stanchezza, non riuscivo a prendere sonno: ero troppo inquieta. Anche Rufy era stranamente sveglio.
Tirai fuori dallo zaino la bottiglia d’acqua e ne bevvi un sorso prima di tentare di coricarmi, ma mi accorsi che ne erano rimaste poche gocce.
«Grandioso, adesso abbiamo finito anche l’acqua.» Sbuffai e lasciai ricadere indietro la testa, sulla fredda pietra.
«Non preoccuparti, Cami. Usciremo di qui,» disse Rufy, sorridendomi. Aveva gli occhi chiusi e l’espressione pacifica di chi si sta per addormentare.
Era un po’ difficile non preoccuparsi, ma apprezzai il tentativo di rassicurarmi. Se lo diceva lui – e ci credeva – stava a significare che eravamo un passo più vicini a riuscirci.
«Rufy...» lo richiamai, facendogli riaprire gli occhi. Ero riluttante all’idea di dover affrontare un discorso del genere con lui, ma dovevo farlo, era tutto ciò che potevo fare per lui. E dovevo approfittare di quel momento di quiete. «Non sta a me dirti cosa fare. Però... vacci piano con i combattimenti, per un po’. Non sottoporre il tuo corpo a uno stress maggiore di quello che può sopportare. Se continui così potresti non...»
«Lo so,» mi interruppe. Fu un colpo al cuore sentire quelle parole. Quindi sapeva. Eppure le sue iridi erano limpide, come se tutto quello non lo riguardasse. «Stai tranquilla, Cami,» mi rassicurò, per poi sorridermi. I suoi sorrisi erano così rassicuranti che non si poteva obiettare. Dovevo fidarmi di lui.
Si addormentò dopo due secondi, di punto in bianco. E, poco a poco, cedetti anche io alle avances di Morfeo. Prima di farlo, però, osservai i tre ragazzi e non potei fare a meno di pensare al giorno in cui li avevo incontrati. Nel vederli dormire così pacificamente mi era sembrato di essere tornata ai vecchi tempi. In quel periodo i nostri problemi più grandi erano il caldo e la noia. Adesso invece era cambiato tutto, io per prima ero cambiata. E se da un lato non mi dispiaceva, dall’altro avrei voluto che le cose tornassero a essere semplici come lo erano allora.
 
Mi svegliai soltanto perché dovevo fare la pipì. Altrimenti, stravolta come ero, avrei continuato a dormire per altre trenta ore. Mi allontanai dal gruppo, trovai un posto isolato e feci quello che dovevo fare. Quando tornai alla radura, notai che Usop si era svegliato. Stava fissando il cielo-mare con aria perplessa.
«Guarda,» mi incitò quando si fu accorto della mia presenza. «Lo vedi anche tu?»
Alzai la testa. «Sì...»
«Dove il cielo incontra il mare, un rubino inizierà a brillare. La rotta finale verrà tracciata e la sorte del mondo ribaltata,» recitò pensieroso, come un mantra. Capii subito ciò che voleva dire e mi augurai che stavolta fosse l’intuizione giusta.
Sopra di noi, sul punto più alto della cupola, c’era una luce rossa che risplendeva. Nessuno di noi se ne era accorto prima perché era visibile solo dal centro dell’isola.
«Che facciamo?» chiesi, senza distogliere lo sguardo da quel puntino vermiglio.
«Credo che dovremmo cercare di colpirlo in qualche modo.»
«Sappi che ti stai prendendo la responsabilità di qualsiasi cosa accada,» lo avvisai, per poi fare un salto e recuperare alcune “pruliegie” dalle palme.
Annuì solenne e prese la sua Kabuto. Non lo avevo mai visto così serio e deciso. Aveva la mia fiducia. Gli passai i frutti e sperai che andasse tutto bene. Avevamo bisogno che qualcosa andasse bene.
Usop prese la mira e scagliò una pruliegia nel cielo. Mi scappò un’esclamazione di sorpresa quando ci azzeccò al primo colpo. Avrei dovuto aspettarmelo, dopotutto era uno dei migliori cecchini in circolazione, ma era un piccolo punto distante un centinaio di metri da noi, non era facile centrarlo.
Quattro raggi cremisi si irradiarono nel cielo e finirono ciascuno su un monolite. Nel momento in cui toccarono le pietre, queste emisero un rumore strano, meccanico, e poi iniziarono a ritrarsi. Sotto di loro si aprì un varco. Io e il cecchino facemmo appena in tempo ad afferrare Rufy e Zoro – che avevano continuato a dormire beatamente – e a impedire che cadessero nella voragine che si era creata. Pochi secondi dopo, un blocco rosso cominciò ad emergere dalle profondità dell’isola. Sia io che Usop sorridemmo.
«Il Road Poigne Griffe,» dicemmo all’unisono, gli occhi meravigliati. L’avevamo trovato.
Entrambi ci abbandonammo a una risata che sciolse la nostra tensione, poi il moro mi guardò con aria fiera. «Che ti avevo detto? Troviamo sempre ciò che cerchiamo, alla fine.»
Annuii e sorrisi. Aveva ragione. «Se trovassimo anche un modo per uscire di qui, sarebbe perfetto.»
«Prima dobbiamo trovare un modo per copiare il Poignee Griffe.»
Emisi un mugugno d’assenso. Aveva ragione anche su questo. Non potevamo lasciarcelo sfuggire dalle mani. Robin era l’unica che poteva leggere quei caratteri e, anche se avessimo trovato un modo per andarcene da quel posto, sarebbe stato un rischio farlo senza aver copiato il testo della pietra. Non era un’isola facile a cui accedere, probabilmente non saremmo mai più stati in grado di approdarvi. Forse, però, non era necessario copiarlo. Non con il metodo tradizionale, almeno. Cercai il cellulare nello zaino.
«Possiamo usare questo.»
Usop assunse un’espressione diffidente e fece per parlare, ma io glielo impedii.
«È l’unico metodo che abbiamo a disposizione. Io mi sono fidata di te, tu dovrai fidarti di me.»
Mi rivolse un cenno d’assenso e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Sapevo che avevo la sua fiducia. Cliccai sulla fotocamera e misi a fuoco. Prima di scattare la foto, però, mi persi a contemplare la pietra. Non ne avevo mai vista una dal vivo prima. Era così imponente, così maestosa. Su di lei c’erano scritti i segreti del mondo, di un’intera civiltà. Secoli e secoli di storia. Tutti la bramavano, tutti avrebbero fatto carte false pur di decifrarla o distruggerla, ma l’avevamo trovata noi. Solo noi. E mi resi conto che ora non c’era più una via d’uscita. Avevamo localizzato il Poignee Griffe, perciò non c’era più niente che ci trattenesse dall’andare a Wa e combattere contro Kaido. E il peso di quel pensiero mi schiacciò.
«Usop,» lo richiamai mentre mi accingevo a fare la foto. Mi costava molto dirgli quello che stavo per dirgli, ma sapevo che poteva capirmi. «Ho paura. Della guerra con Kaido, intendo.»
Non sembrò per niente sorpreso dalla mia confessione, ma aspettò prima di parlare, probabilmente doveva trovare le parole giuste.
«Se non la avessi ci sarebbe qualcosa che non va in te,» mi disse, piazzando una mano sulla mia spalla.
«Bene, perché me la sto facendo sotto.»
«Per quelli come noi, quelli che non hanno una forza sovraumana o che non hanno mangiato un frutto del diavolo potente, è normale avere paura. Non è un segno di debolezza, ma di sanità mentale.» Sollevò un angolo della bocca e mi guardò con eloquenza. «Anche io me la sto facendo sotto,» sussurrò poi, facendomi ridere. Non avevo dubbi. Sapeva di poter essere onesto con me, non aveva bisogno di recitare la parte del coraggioso Guerriero dei Mari. Insieme a Nami e Chopper, noi eravamo i più paurosi del gruppo, i più “umani”. Nessuno di noi giudicava gli altri; anzi, ci comprendevamo e ci consolavamo a vicenda. Non per niente, nel momento in cui lo ammise mi sentii sollevata. C’era qualcuno che si sentiva come me, che ammetteva di avere paura, di non voler combattere.
«Se le cose dovessero mettersi male, potrai sempre contare su una compagna di fuga.» Gli misi una mano sulla spalla a mia volta. «Ma sono sicura che la tua ciurma di ottomila uomini ti aiuterà.»
«Ci puoi scommettere.» Annuì, fingendosi serio. Dopodiché scoppiammo entrambi a ridere.
Sarei potuta rimanere per ore a parlare con lui di quanto fossi spaventata, ma non volevo farlo. Non volevo alimentare la mia paura.
 
Dopo che avemmo svegliato Rufy e Zoro e che avemmo spiegato loro la situazione, ci incamminammo verso la spiaggia. Erano stati entrambi contenti che avessimo trovato il Poignee Griffe e un modo per riportarlo a Robin. Non erano riusciti a vederlo perché la pietra era rientrata nella voragine dopo qualche minuto, prima che li svegliassimo, ma avevo mostrato loro le foto. Ci eravamo riusciti. Zoro aveva borbottato qualcosa sul fatto che fosse un metodo alquanto complicato per trovare un Poignee Griffe, e non gli si poteva dare torto. Però, se fosse stato facile, lo avrebbero trovato tutti. E non era questo che volevano coloro che li avevano incisi.
Adesso era tempo di trovare una via d’uscita una volta per tutte. Tornare alla spiaggia significava tornare al punto di partenza. Da lì avremmo ripercorso tutti i nostri passi finché non avessimo scovato una soluzione.
«Sapete, dovremmo dare un nome a quest’isola. Voglio dire, è giusto che chiunque approdi qui sappia che ci siamo stati prima di loro,» disse Usop una volta che fummo arrivati a destinazione. Le sue parole mi fecero realizzare che non eravamo gli unici ad essere finiti lì, che prima di noi, per forza di cose, c’era stato un certo Gol D. Roger: avevo camminato dove aveva camminato il Re dei Pirati, mangiato i frutti che aveva mangiato lui, toccato ciò che aveva toccato lui. E questo, nonostante i mille guai, non aveva prezzo.
«Isola a Sud.» Non il più fantasioso dei nomi, ma almeno Zoro era pratico.
«Isola delle Pruliegie,» propose Rufy dopo averci pensato un attimo.
«Io proporrei di chiamarla “Great Usoland”, dopotutto sono io che ho scoperto il Poignee Griffe,» fece il cecchino, portandosi le mani ai fianchi con orgoglio.
«Io sono approdato qui per primo.»
«E io sono il Capitano!»
Andarono avanti a discutere su chi avesse il diritto di dare il nome all’isola per cinque minuti. Mi fecero venire il mal di testa. Io ero rimasta zitta perché non aveva senso mettersi a discutere con loro, era una battaglia persa. Mi era passato per la testa di chiamarla “Isolachenoncè”, perché era nascosta agli occhi del mondo, non faceva mai buio e il tempo sembrava fermarsi, ma la verità era che chiamarla così sarebbe stato uno spreco: non era abbastanza maestosa da poterle assegnare tale nome.
«Visto che non riusciamo a raggiungere un accordo, facciamo una votazione,» propose Usop, per calmare gli animi. «Nessuno potrà votare per la propria proposta.»
«Io voto per “Isola delle Pruliegie”,» si affrettò a dire Cappello di Paglia.
«Ti ho detto che non si può votare per la propria proposta!»
«Non ne usciremo più,» commentò Zoro, appoggiandosi al tronco di un albero.
Lui non poteva avere ragione e noi non potevamo perdere altro tempo per uno stupido nome. Volevo andarmene da quel posto, sentivo che più rimanevamo lì e più il senso della realtà scivolava via dalle nostre mani.
«Sentite, ho un’idea. Perché non la chiamiamo “Isola CRUZ”?» esordii, guadagnandomi le occhiate perplesse dei tre. «Sono le iniziali di tutti i nostri nomi in ordine alfabetico. Così lasceremo qualcosa di noi, di ognuno di noi, a chi verrà qui. Dopotutto, abbiamo fatto un lavoro di squadra: Zoro ha scoperto l’isola, Usop ha trovato il Poignee Griffe, io ho fornito un metodo per farlo leggere a Robin e Rufy si è assicurato che non morissimo di fame.»
Ci rifletterono un attimo, poi ghignarono.
«Abbiamo trovato un nome,» annunciò Rufy, facendomi tirare un sospiro di sollievo. Adesso potevamo pensare a trovare un modo per andarcene.
 
«Una sola spada?» chiese Usop, titubante. Zoro aveva insistito perché, prima che esplorassimo di nuovo l’isola, lo lasciassimo riprovare a tagliare l’acqua.
«Funzionerà,» rispose deciso lo spadaccino, per poi fare un ghigno malefico. Nei suoi occhi c’era una determinazione che non gli avevo mai visto.
«Funzionerà,» ripeté Rufy, anche lui sembrava convinto.
«Ittoryu: Sanjuroku Pound Ho
E funzionò. Il mare si aprì in due, tanto che si riusciva a vedere il cielo – il vero cielo – sopra di noi. Era assurdo. Perché non era riuscito a farlo prima? Era come se quel posto avesse voluto tenerci lì fino a che non avessimo scoperto il Poignee Griffe. Era possibile che un luogo facesse una cosa del genere?
Prima che potessi fare ulteriori riflessioni, percepii una mano arrotolarsi attorno alla mia vita. Poi la terra venne a mancarmi sotto i piedi. Qualcuno gridò. Forse ero io. Mi sembrava di stare su un Roller Coaster: il mio corpo si capovolse così tante volte che fui contenta di aver mangiato solo qualche frutto nelle ultime ore. Vidi il cielo, poi il mare, poi un pezzo di quella che mi pareva l’isola Stein. Infine udii Cappello di Paglia gridare: “Gomu Gomu no... Fusen!”
Rimbalzammo tutti sullo stomaco gonfio di Rufy, per poi ricadere al suolo. Neanche a dirlo, l’unico che atterrò in piedi fu Zoro. Io e Usop ci ritrovammo sbalzati in direzioni opposte. Non lo vidi, ma udii il tonfo. E se io arrivai per terra di schiena, lui lo fece di faccia, perché lo sentii lamentarsi di aver di nuovo battuto il naso.
Rimasi a osservare il cielo per qualche secondo: a giudicare dalla posizione del sole e dalla tinta cerulea, doveva essere quasi il tramonto. Gli insegnamenti di Bepo tornavano sempre utili.
Quando mi rialzai, mi resi conto di essere stordita. Non solo per la botta, anche per tutto quello che era successo in quei giorni. Ero cresciuta seguendo le avventure di Rufy e compagni. Ma leggerle e viverle sono due cose totalmente differenti. E avevo avuto modo di sperimentarlo sulla mia pelle.
«Abbiamo ciò che ci serve. Ritorniamo alla nave!» esclamò il Capitano dopo che ci fummo accertati di essere sull’isola Stein.
Era fatta. Eravamo salvi. C’era solo da sperare che non venissimo disintegrati da un geyser o mangiati da qualche insetto gigante. Con Rufy e Zoro al mio fianco, però, ero un po’ più tranquilla. Sarebbe andato tutto bene.
Mentre seguivamo il sentiero che ci avrebbe condotto alla Sunny, sulle mie labbra comparve un sorriso. Era stato estenuante, ma anche gratificante. Adesso un pezzo di noi viveva su quell’isola nascosta nelle profondità dell’oceano. Prima di andarcene, avevamo inciso su un albero:
 
Questa isola si chiama ‘Isola C.R.U.Z.’ È stata scoperta da Cami, Rufy, Usop e Zoro.

E poi, sugli alberi vicini:
 
Il Re dei Pirati, lo spadaccino più forte del mondo, il grande Guerriero dei Mari e uno dei migliori chirurghi mai esistiti sono stati qui.

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Capitolo 12
*** Resoconti ***


«Hai un aspetto orribile,» commentò Law, appoggiato allo stipite della porta del Polar Tang. Sulle sue labbra c’era stampato un ghigno divertito. A quanto pareva mi stava aspettando al varco.
«Non dire una parola.» Lo oltrepassai senza guardarlo. Non avevo uno specchio con me, ma ero sicura che avesse ragione. Avevo passato cinque giorni – così mi aveva detto Franky – su due isole ostili, senza dormire, mangiando male e rischiando la vita un’ora sì e l’altra pure. Senza contare che avevo dovuto fare da baby sitter a Rufy, un dispendio di energia non indifferente. Ero stravolta, avevo camminato senza fermarmi per tutta la notte. Volevo solo farmi una doccia e dormire per una settimana. I Mugiwara avevano tentato di trattenermi con loro, ma io non avevo voluto sentire ragioni ed ero tornata al sottomarino.
«Devo ammettere che la tua è una strategia interessante,» disse di nuovo il Capitano, facendomi rigirare verso di lui. «Non puoi prendere parte alla guerra, se muori prima.»
Alzai gli occhi al cielo. Non avevo bisogno del suo macabro senso dell’umorismo e non avevo bisogno che mi ricordasse che su di noi incombeva una guerra.
Lo osservai per qualche secondo. Era sempre bello e impeccabile. Una sicurezza in un mare di incertezze.
«Law...» lo richiamai. Probabilmente si aspettava che lo mandassi a quel paese. «Grazie per non essere un pazzo con un disturbo alimentare che cade nei mulinelli.»
Mi sembrava ancora tutto surreale: ero caduta in un mulinello che mi aveva condotto a un’isola segreta a cui avevo appena dato il nome, e per due giorni il mare mi aveva fatto da cielo. Avrei dovuto aspettarmelo, dopotutto ero nel mondo di One Piece, dove tutto era possibile, ma cose del genere, con il chirurgo, non sarebbero mai capitate. Avevo avuto le mie esperienze, anche strane, tuttavia queste erano su un altro livello. In quei giorni avevo capito per la prima volta a cosa avevo rinunciato scegliendo Law come Capitano. E mi ero resa conto che nella decisione che avevo dovuto prendere anni fa, tra Cappello di Paglia e il Chirurgo della Morte... non c’era una risposta sbagliata: ce n’era una giusta e una più giusta.
Per un attimo lo vidi confuso, poi ritornò impassibile. «Mugiwara-ya ci ha invitati a pranzo. Ricordati di chiamarmi Capitano.»
Storsi la bocca all’idea di dover passare altro tempo con la furia di gomma, ma non obiettai.
«Cami! Sei tornata!» esclamò Penguin, correndomi incontro insieme al suo amico.
«Che ti è successo?» chiese Shachi, squadrandomi con preoccupazione.
Scossi la testa. Ci sarebbe voluto troppo per spiegarlo e io volevo solo andare a riposare. Feci per tornare in camera, ma Shachi mi trattenne per un braccio.
«Che ne diresti se sistemassimo tutto con un po’ di vino? Abbiamo fatto rifornimento proprio oggi,» mi bisbigliò nell’orecchio.
«Direi che è un’idea brillante,» affermai compiaciuta. «Facciamo stasera?»
Ci scambiammo un’occhiata d’intesa, poi ognuno andò per la sua strada. Feci un rapido calcolo: erano le nove di mattina, dovevo resistere altre dodici ore. Potevo farcela.
 
Nella sala da pranzo dei Mugiwara c’era il solito chiacchiericcio. Una volta informati che avevamo trovato il Poignee Griffe erano tornati tutti alla Sunny nel giro di qualche ora. Io ero ancora stanca, ma mi sentivo meglio dopo aver fatto una lunga doccia e aver dormito un paio d’ore. Sanji aveva preparato tante cose buone, e mi era mancato del buon cibo. Law aveva tentato più volte di introdurre l’argomento “strategie di guerra”, ma nessuno gli aveva dato retta, pertanto ci aveva rinunciato. Era meglio così, per quanto mi riguardava: finché avessero parlato delle rispettive avventure che avevano vissuto, avrei potuto mangiare tranquilla. Perlomeno, così pensavo.
Chopper raccontò che aveva scoperto delle nuove erbe curative e che avrebbe passato il pomeriggio a studiarne le proprietà. Franky era l’unico ad aver trascorso delle giornate tranquille, a bordo della Sunny: aveva lavorato alla mia ascia e l’aveva finita. Sanji e Nami avevano raccontato che avevano passato il tempo a scappare dai ragni giganti e ad evitare geyser. Gli altri raccontarono più o meno le stesse cose, ma sentirli parlare era affascinante, perché ognuno di loro apportava qualcosa alla storia: un colore, un odore, un suono, una sensazione. Usop e Zoro, invece, lasciarono che a parlare fosse il loro Capitano. Sapevo che il cecchino avrebbe detto la sua in seguito, aggiungendo dei dettagli a suo piacimento.
Rufy raccontò del mulinello, dell’isola nell’oceano e del nome che le avevamo dato, del mare che faceva da cielo, delle pruliegie – soprattutto delle pruliegie – e di come eravamo usciti da lì. Anche lui aveva avuto la mia stessa impressione, ovvero che quel posto avesse voluto trattenerci con sé. Non disse niente del Poignee Griffe perché non l’aveva visto, ma ci pensò Usop a narrare di come avesse eroicamente trovato la pietra rossa. Lo sapevano già tutti, lo aveva raccontato almeno cinque volte prima del pranzo.
Quando Rufy finì rimanemmo tutti senza parole, anche io che quelle cose le avevo vissute. Era stato un racconto confusionario, non lineare, ma intenso. Con la coda dell’occhio vidi che Law mi stava fissando in maniera indecifrabile, però riconobbi un guizzo di curiosità nelle sue iridi. Feci un cenno d’assenso, a confermare che era successo veramente.
E poi...
«Dovete ringraziare Cami, comunque, se non mi avesse baciato sarei morto!»
Un brivido gelato attraversò la mia spina dorsale. Sapevo che quelle parole avrebbero fatto scoppiare il finimondo.
«Hai baciato Rufy?» chiese incredula Nami.
«No! No, certo che no. È stato necessario che io gli facessi la respirazione bocca a bocca. Gli ho salvato la vita!»
A pensarci bene, forse sarebbe stato meglio non averlo fatto. Perché non poteva tenere la bocca chiusa, per una volta? Se gliel’avessi tenuta chiusa io, invece di salvarlo, a quest’ora non avrei avuto addosso gli sguardi inquisitori di tutti. Quindi forse ero io quella da biasimare.
Bevvi un sorso d’acqua, all’improvviso avevo la gola secca.
«È come dice Cami, non l’ha baciato, ha solo eseguito una procedura medica,» provò a intervenire Usop, inutilmente. Ormai il treno era partito dalla stazione.
«Brutto idiota, come hai osato profanare le labbra sacre di Cami-san!?» Sanji si era infuriato e ora stava scuotendo con violenza il suo Capitano.
«Smettila di fare le tue patetiche scenette, cuoco di merda.»
«Come hai detto, testa d’alga!?»
Scoppiò l’ennesima lite tra cuoco e spadaccino. Abbassai la testa e mi coprii il viso con una mano, esasperata dalla loro immaturità. Mi ricomposi subito quando mi ricordai che al tavolo c’era anche Law. Sembrava molto divertito.
«È evidente che sia una menzogna. Dopotutto preferisci i biondi,» disse, con una tranquillità disarmante.
Lo guardai esterrefatta. Temevo che gli occhi mi sarebbero schizzati fuori dalle orbite, la bocca era talmente spalancata che quasi toccava terra. Sulla mia faccia c’era un’espressione a metà tra il “che cazzo di problemi hai!?” e il “ti giuro che questa me la paghi.”
Nonostante la confusione, avevano sentito tutti quella frase e stavano osservando interrogativi prima lui e poi me. Lo vidi ghignare appena prima di tornare a concentrarsi sul suo piatto. Strinsi i pugni fino a far diventare bianche le nocche. Me l’aveva combinata bella grossa.
«Scusa Cami, ma che vuol dire che preferisci i biondi? Io allora non ti piaccio?» domandò Chopper, con aria triste.
Avrei voluto rispondergli che mi piacevano tutti loro – come persone, si intendeva – ma non ne ebbi il tempo, perché un gridolino stridulo mi interruppe proprio mentre prendevo fiato per parlare.
«Fermi tutti!» Sanji aveva smesso di litigare con Zoro e si era fatto serio. Ci girammo tutti a guardarlo. «Hai detto che Cami-chan preferisce i biondi!?»
«Veramente io...» tentai di dire, ma fui interrotta di nuovo.
«Ma questa è una notizia meravigliosa!» E fu così che il cuoco iniziò a volteggiare per tutta la cucina e a squittire. Potevo vedere la stanza riempirsi di cuoricini immaginari. Scoppiò un altro battibecco tra lui e lo spadaccino, che trovava ridicolo il suo comportamento.
«Che ingiustizia... Anche io avrei voluto baciare le morbide labbra di Camilla-san,» commentò Brook, sospirando.
«Brook, tu non hai le labbra,» gli fece notare Robin.
«Yohohoho, è vero! Io... le labbra non ce le ho!» esclamò, dapprima pimpante. Poi realizzò. «Oh, io non ho le labbra... E non sono neanche biondo!» Abbassò la testa, avvilito.
«Su con la vita, fratello Brook,» cercò di consolarlo Franky, che in realtà era abbastanza divertito da quel siparietto.
«Vita? Franky-san, io sono morto...»
«Ah, già... Ma almeno hai ancora i capelli!»
Scossi la testa e sospirai sconsolata. La situazione era degenerata. Era assurda, rasentava il ridicolo. Ed era partito tutto da delle stupidaggini. Se questi erano i presupposti, non saremmo andati lontano. Del resto non si poteva pretendere troppo da un’alleanza guidata da un idiota e uno stronzo.
«Lo finisci quello?» Una mano mi sfrecciò davanti e, prima che potessi rispondere, mi tolse il cibo dal piatto e lo inghiottì senza nemmeno masticare.
Grugnii e lo guardai in cagnesco. Sì, la prossima volta avrei decisamente lasciato morire Rufy.
 
In sala da pranzo eravamo rimasti soltanto io e Law. Tutti gli altri, che erano abituati a mangiare in fretta, avevano già finito e si erano alzati da tavola. Il discorso del bacio era caduto nel dimenticatoio, così come quello sulle strategie di guerra e il resto del pasto era trascorso in tranquillità, per mia fortuna.
«Ti diverti a infrangere patti e mettere in difficoltà la tua povera sottoposta?»
Il chirurgo fece spallucce. «Avresti dovuto mettere la divisa.»
Sbuffai una risata. Tecnicamente aveva ragione, mi ero scordata di metterla e mi ero presentata con una maglietta bianca e dei pantaloncini color verde oliva, ma non l’avevo fatto apposta, né voleva essere un gesto di sfida nei suoi confronti. A volte mi dimenticavo di quanto potesse essere pignolo Law.
«Due su due. Non male,» fece dopo un po’, riportando la mia attenzione su di lui. «Ti sei superata. Un peccato che tu non abbia potuto conoscere anche il terzo fratello.»
Dapprima spalancai la bocca, incredula, poi mi indispettii e gli tirai un tovagliolo.
«Tu dovresti difendere il mio onore, non infangarlo.» Non c’era risentimento nella mia voce. Eravamo entrambi divertiti.
«Quale onore?» Mi guardò di sottecchi e poi ghignò.
«Capitano, anzi, Traffy... con tutto il dovuto rispetto, vaffanculo.» Mi alzai da tavola facendogli il dito medio e ridacchiando. Era bello poterci scherzare sopra, nessuno che si offendeva, nessuno che si arrabbiava, solo due vecchi amici – se così potevamo essere considerati – che si prendevano in giro.
Misi il mio piatto nel lavello e poi uscii sul ponte. I raggi tiepidi del sole si posarono sul mio corpo e lo scaldarono. Mi era mancata questa sensazione, non capitava spesso che il sottomarino fosse in superficie nel primo pomeriggio. Feci una panoramica generale. Rufy si trovava al suo solito posto, sulla polena della Sunny, Chopper stava facendo essiccare le sue erbe e Carrot gli stava dando una mano e Brook stava suonando una melodia allegra con il violino, accanto all’albero maestro. Dietro di me, Nami e Robin prendevano il sole mentre Sanji serviva loro dei cocktail. Zoro, Franky e Usop non si vedevano in giro. Se il primo era in palestra, era probabile che gli altri due stessero lavorando a qualche invenzione, nel laboratorio. Questo mi fece ricordare che il cyborg aveva detto che la mia ascia era pronta e che dovevo andare a riprenderla. Prima che potessi muovere un passo, però, udii la voce di Nami che mi chiamava. La raggiunsi e aspettai che fosse lei a parlare. Si alzò dalla sdraio e mi abbracciò. Mi irrigidii per un attimo, non me lo aspettavo, poi ricambiai l’abbraccio.
«Non ho ancora avuto modo di ringraziarti per averci aiutato.» Pressò le sue mani sulla mia schiena. «Come immaginavo, sei stata fondamentale!»
Si staccò e mi fece l’occhiolino. Mi strinsi nelle spalle. Non sapevo cosa rispondere. Non mi aspettavo dei ringraziamenti, né mi aspettavo che potessi essere fondamentale per qualcosa legato alla ciurma di Cappello di Paglia. Ma lo ero stata.
«So bene che stare dietro a Rufy non è facile, perciò grazie.»
«L’ho fatto... con cognizione di causa,» risposi, strappando una risata a lei e Robin. Avrei voluto dire che era stato un piacere, ma ero quasi morta a causa sua, per cui... Lo avevo fatto sapendo ciò a cui andavo incontro. Più o meno.
«Anche io voglio ringraziarti come si deve, Cami-chan!» Sanji allungò le braccia verso di me, l’espressione innamorata.
Fu fermato dal pugno della navigatrice, che gli ordinò di andare a prepararmi un drink e poi mi fece cenno di sedermi accanto a lei. Sosteneva che meritassi un po’ di relax, e aveva ragione.
«Cami, Usop ha detto che hai trovato un modo di copiare il Poignee Griffe. Potresti mostrarmelo?» chiese Robin, sorridendo.
Con tutta la confusione che c’era stata a pranzo, mi ero dimenticata di farle vedere le foto. Tirai fuori il cellulare dalla tasca – lo avevo preparato appositamente per l’occasione – e glielo passai.
«Tecnologia di un altro mondo,» mi giustificai quando vidi la navigatrice fissare il piccolo apparecchio rettangolare con aria dubbiosa.
«La vostra tecnologia è strana,» commentò l’archeologa, che però ne sembrò deliziata. Supponevo fossero punti di vista, del resto lei era cresciuta in un mondo che utilizzava le lumache per comunicare.
Quando finì di leggere, mi ridiede il telefono e mi ringraziò. Continuai a fissarla, in attesa che dicesse qualcosa, ma non parlò. Invece si sistemò meglio sulla sdraio e si calò gli occhiali da sole sul naso.
«Fa sempre così, non rivela mai i contenuti delle pietre. Non subito, almeno,» mi spiegò Nami, che aveva notato la mia faccia perplessa.
Proprio in quel momento arrivò Sanji, che mi consegnò il drink che aveva preparato per me “con tanto amore”, poi – su minacce della rossa – ci lasciò in pace.
Rimanemmo in silenzio a prendere il sole per qualche minuto. Cercai di godermi ogni istante di tranquillità e di assorbirne l’essenza: il sole che mi solleticava la pelle, il sapore delicato del cocktail di Sanji, il vociare allegro di Rufy e compagni. Sapevo che presto avrei potuto perdere tutto.
 
«Traffy sta impazzendo nel tentativo di parlare di strategie di guerra con Rufy,» fece divertita Nami, osservando il primo che tentava di approcciarsi al secondo, che invece non voleva saperne niente: era seduto sulla ringhiera con Usop e Chopper, si erano messi a pescare.
Presi un respiro profondo. La quiete era durata una decina di minuti.
«Puoi biasimarlo? Vuole solo avere un piano da seguire. È già difficile così, combattere alla cieca è un suicidio,» lo difesi io. Il fatto che non volessi parlare della guerra che incombeva su di noi non stava a significare che non avremmo dovuto farlo. Era un male necessario, come lo era pulire i bagni del Polar Tang.
«Con Rufy non puoi fare piani,» commentò Robin, portandosi una mano alla guancia e sorridendo.
«Non possiamo farli in ogni caso, fino a che non ci ricongiungeremo con i samurai. Non sappiamo niente di Wa: non conosciamo il territorio, l’entità delle forze nemiche, su quanti alleati possiamo contare. Quando lo sapremo, agiremo di conseguenza.» La navigatrice mi mise una mano sulla spalla. «Stai tranquilla, Cami. Ci faremo trovare pronti per la battaglia.»
Le sue parole non mi tranquillizzarono affatto. Anzi, mi misero addosso ancora più ansia. Non avevamo idea di quello che stavamo facendo. Era un salto nel vuoto. Anzi, nella tana del leone. Non potevamo permetterci di fare passi falsi e tantomeno di presentarci impreparati. Stavamo andando incontro a morte certa, e non dovevo preoccuparmi?
Mi agitai sulla sdraio, finii il drink tutto d’un fiato – ne avevo bisogno – poi mi alzai e mi diressi verso il mio Capitano. Quando gli riferii ciò che mi aveva detto la cartografa passò in rassegna tutti i Mugiwara con aria seccata. Nei suoi occhi, però, c’era una punta di preoccupazione.
«Se non vogliono collaborare, c’è poco da fare,» disse, appena prima di spiccare un salto e tornare sul sottomarino.
Non lo raggiunsi, anche se avrei voluto farlo: c’erano un paio di cose che dovevo fare.
Prima andai da Franky e ripresi la mia ascia. Mi spiegò che aveva utilizzato un metallo più duro e resistente per le lame, infatti mi sembrava leggermente più pesante, e già che c’era le aveva affilate. Mi disse anche, con mia grande sorpresa, che aveva sostituito la catena con quella di agalmatolite che gli avevo dato io. Aveva fatto un lavoro straordinario: in pochi giorni aveva rimesso a nuovo la mia arma ed era anche riuscito a modellare l’agalmatolite!
Lo ringraziai più volte e uscii dal laboratorio. Era il turno di Zoro. Salii la scala di corda e bussai alla porta. Non ottenni risposta, ma ero decisa a entrare, perciò aspettai per qualche secondo prima di varcare l’uscio. Riuscivo a sentire il rumore che facevano i pesi metallici mentre li sollevava anche da fuori.
Quando entrai, un odore mascolino mi invase le narici. Lo spadaccino stava sollevando un peso più grande di Franky. Era a torso nudo, aveva i muscoli tesi e un velo di sudore gli ricopriva il corpo. Non era una brutta immagine.
«Io e te abbiamo una chiacchierata in sospeso.» Cercai di concentrarmi sul suo volto e non sui suoi addominali.
Ci mise una vita prima di rispondere: non poteva permettersi di perdere il conto dei sollevamenti. Mi dispiaceva disturbarlo nel mezzo dei suoi allenamenti, ma avevo fretta.
«Ti ho già detto tutto ciò che c’è da sapere.»
Avrei voluto dirgli che non avevo ascoltato mezza parola a causa del ragno, ma decisi di non inficiare ulteriormente la mia dignità.
«So che una cosa complessa come un fendente volante non si impara in un giorno, ma io devo provarci. Se ho una piccola chance in più di sopravvivere, non me la voglio far scappare.»
Si fermò e mise a posto il peso, poi mi squadrò da capo a piedi. Aveva un’espressione indecifrabile, non riuscii a capire che cosa gli passasse per la mente, se l’avessi convinto o se invece pensasse che fossi una povera illusa.
«Ti prego, Zoro. Sei l’unico che può affrontare questa sfida.» Feci un ultimo tentativo, giocandomi il tutto per tutto: sapevo che sarebbe stato più invitante per lui se gliel’avessi presentata come una prova da superare.
Mi fissò negli occhi, con un’intensità nello sguardo che non gli avevo mai visto. «Perché vuoi imparare a scagliare un fendente volante?»
«Perché stiamo per andare in guerra contro l’uomo più forte del mondo, per di più senza uno straccio di piano,» affermai con la voce più ovvia che potessi fare. Pensavo che l’avesse capito da un pezzo.
«Come immaginavo.» Sollevò un angolo della bocca e si voltò, prendendo un asciugamano e frizionandoselo sul corpo.
Aggrottai la fronte. «Non sono sicura di aver capito.»
«Non funzionerà, se queste sono le tue motivazioni. Smetti di ossessionarti con questa guerra, non serve a niente.» Il suo tono non fu duro, ma non mi piacque lo stesso. Come poteva dire una cosa del genere? C’era la mia vita e quella di chi amavo in gioco! Solo perché lui dormiva sonni tranquilli non stava a significare che dovessero farlo – o meglio, che potessero permetterselo – anche gli altri.
«Tu ti alleni tutti i giorni per venti ore al giorno. Se c’è qualcuno che ha un’ossessione, sei tu,» gli feci notare, un po’ risentita.
«Io lo faccio per me stesso. Per migliorarmi sempre di più e superare i miei limiti.» Poggiò l’asciugamano e ricominciò a fare i suoi esercizi. «Tu lo fai perché non vuoi morire. È una motivazione lecita, ma di diverso peso.»
Se la metteva in questo modo, dovevo dargli ragione. Ma non era così, in realtà, e se aveva capito questo forse era colpa mia ché mi ero spiegata male.
Mi portai le mani ai fianchi. «Io lo faccio perché ho un obiettivo da raggiungere. Perché sono così vicina a riuscirci che l’idea di morire ora mi fa incazzare. Non si tratta di aver paura di perire, ma di proteggere il mio sogno e i miei compagni.»
Le sue labbra si schiusero in un ghigno e annuì, come se avesse finalmente sentito le parole che voleva sentire da me.
«Prendi un peso. Devi rafforzare il corpo prima di pensare ai fendenti volanti.»
«Ah, cominciamo ora? Così?» Mi guardai intorno, un po’ spaesata. Non mi aspettavo di iniziare quello stesso giorno, non avevo nemmeno i vestiti adatti.
Zoro mi dedicò un’occhiata eloquente e capii che se volevo concludere qualcosa dovevo prima di tutto cambiare mentalità.
«Certo. Vado...»
Rimasi per un po’ a fissare il repertorio di pesi di cui disponeva lo spadaccino. Erano tutti enormi e pesavano varie tonnellate. Se pensava che io fossi in grado di sollevarli, si sbagliava di grosso. Adottare l’atteggiamento giusto non mi avrebbe preservato dal rompermi la spina dorsale in mille pezzi.
«Vuoi iniziare con qualcosa di più leggero?» mi chiese, leggendomi il pensiero.
«Se posso scegliere...» Nonostante lo conoscessi, c’era qualcosa in Zoro che mi metteva soggezione, soprattutto quando gli chiedevo di aiutarmi a diventare più forte.
«D’accordo. Duecento flessioni, duecento addominali e duecento affondi.»
Boccheggiai, il fiato mi venne a mancare già da subito. Non era il mio ideale di divertimento. E neanche di addestramento. Vedendo la mia titubanza, lo spadaccino smise solo per un secondo di fare quello che stava facendo per guardarmi. Incastonò le sue iridi serie alle mie e un brivido mi percorse la schiena.
«Non ci sono sconti per chi ha dei sogni. Sei disposta a lottare per il tuo, o no?»
Presi un respiro profondo e annuii. In fondo avevo fatto cose peggiori che non avrei voluto fare, giusto? Però, cominciavo a pensare che Law avesse – di nuovo – ragione, stavo attuando la strategia più furba di tutte: non avrei potuto prendere parte alla guerra, se fossi morta prima.
 
Neanche a dirlo, mi ci volle tutto il pomeriggio per fare flessioni, addominali e affondi. Zoro aveva detto che non c’era fretta, che l’importante era farli tutti e bene, ma anche se li avevo spalmati in quattro ore, mi sentivo comunque morire. Non ero abituata a lavorare così. Hack aveva migliorato di molto la mia resistenza, però ero fuori forma, le settimane passate avevo concentrato tutte le mie energie sul polso. Lo spadaccino aveva anche detto che ero libera di andarmene in qualsiasi momento, ma che non l’avrei fatto, se avessi voluto andare fino in fondo. E non l’avevo fatto. Ero tramortita, ogni muscolo del corpo mi faceva male e tremava e quasi non riuscivo a stare in piedi, però avevo resistito.
Mi guardai al piccolo specchio che c’era nella stanza: il viso era rosso come un peperone, alcune ciocche di capelli, che avevo raccolto in una coda, si erano appiccicate alle tempie, gli occhi chiedevano pietà. Cercai di darmi una sistemata prima di uscire dalla palestra e tornare al mondo reale.
Zoro rise del mio volto congestionato. «Porti i segni dell’onore.»
«Se lo dici tu...» Gli dedicai una perplessa alzata di sopracciglia. «Abbiamo finito o c’è altro?»
«Abbiamo finito, per oggi.»
«Quindi come rimaniamo? Torno domani?» Sperai che mi dicesse di sì. Ero mezza morta, ma ne avevo bisogno. E, anche se alla fine non fossi stata in grado di scagliare un fendente volante, era pur sempre potenziamento fisico.
Annuì mentre riponeva i pesi – quelli più piccoli – sulla mensola. «Vieni appena pranzo.»
«Ci sarò.» Sorrisi, poi mi affrettai verso la porta: era tardi, e se non mi fossi presentata a cena in tempo, sul Polar Tang, non avrei mangiato.
«Camilla,» mi richiamò poi, facendomi rigirare. La sua espressione si era addolcita appena. «Una guerra non è mai facile, può fare paura, ma devi avere fiducia in te stessa. E nel tuo Capitano. E anche nel nostro. Si è guadagnato ogni Berry che c’è sulla sua taglia.»
Feci un mugugno d’assenso. Il problema principale non era la mia mancanza di fiducia, quanto la loro – e pertanto nostra – mancanza di organizzazione. Come potevamo sperare di avere una possibilità se non sapevamo neanche quanti nemici avremmo dovuto affrontare? Tuttavia non contestai le sue parole, in fondo voleva incoraggiarmi.
«Non tutti hanno il privilegio di avere un Capitano che ha mezzo miliardo di Berry come taglia,» dissi, giusto per spezzare il silenzio che si era venuto a creare. C’era una punta d’orgoglio nella mia voce, perché anche io avevo un Capitano con una tale taglia.
Mi guardò male. «Vuoi dire un miliardo e mezzo.»
Mi immobilizzai all’istante. Non solo con il corpo, ma anche con la mente. Se qualcuno in quel momento mi avesse fatto un encefalogramma, avrebbe visto che era completamente piatto.
«Quanto?» chiesi con un filo di voce, non del tutto sicura di aver capito bene. Era probabile che fosse la stanchezza che mi giocava brutti scherzi.
«Un miliardo e mezzo,» ripeté, gettandosi l’asciugamano su una spalla e avviandosi verso la porta.
«Quando è successo? E perché è aumentata così tanto?» Mi ero persa un passaggio. Forse anche più di uno.
«Dopo lo scontro con Big Mom. Hanno aumentato la taglia a tutti quelli che erano a Whole Cake Island,» mi spiegò, per poi fare un ghigno demoniaco. Era inquietante vederlo così, ma riconobbi quell’espressione. «Dovrò rifarmi a Wa. Non posso permettere che il cuoco di merda abbia una taglia più alta della mia.»
Rimasi in silenzio a far girare gli ingranaggi del cervello, tentando di capire perché non mi fossi accorta che le loro taglie erano aumentate. Ero così stanca che non riuscivo neanche a collocare i fatti in una linea temporale. I pezzi di quello che era successo, a me e a loro, mi fluttuavano davanti e io non riuscivo a incastrarli tra loro. Ma non era importante, perché avevamo preso strade separate. Non dovevo per forza sapere tutto ciò che accadeva ai Mugiwara. Non erano loro il centro del mio universo, non più, e non erano dei numeri su un foglio a fare la differenza: Rufy era ancora Rufy, amava la carne, odiava chi si approfittava delle persone, si metteva nei guai e se ne tirava fuori. Lo stesso valeva per Sanji, Nami e gli altri.
«Hai intenzione di rimanere qui tutta la notte?» La voce profonda dello spadaccino mi riportò alla realtà. Mi resi conto che stava tenendo la porta aperta, in attesa che anche io varcassi la soglia.
Scossi la testa e mi avviai. «A domani.» Gli rivolsi un debole sorriso, che racchiudeva sia la mia speranza di risolvere la questione del fendente e diventare più forte, sia il mio timore di morire per la fatica sotto la sua guida.
«A domani,» mi salutò.
Mentre io e Zoro uscivamo dalla palestra, pensai che non era cambiato niente, ma che tutto era diverso.
 
Mi sembrava di correre da due ore. Invece erano solo un paio di minuti. Mancava un minuto esatto alle otto: dovevo sbrigarmi, se non volevo andare a letto senza cena. Non era facile mantenersi in equilibrio quando i muscoli sembravano gelatina, ma la fame prevaleva su tutto. Era stato un miracolo che fossi riuscita a tornare sul sottomarino intatta. Non c’era una scala che collegava le due imbarcazioni, perciò avevo dovuto saltare sul ponte del Polar Tang. Ero riatterrata in piedi, poi però le gambe avevano ceduto e mi ero ritrovata prima in ginocchio e infine prona, una guancia spalmata sul legno del pavimento. Per fortuna non mi ero fatta male e nessuno mi aveva visto. Se fosse stato per me non mi sarei alzata, ma dovevo almeno andare a farmi una doccia.
Ero in ritardo. Se non avessi fatto in tempo avrei sempre avuto il piano B, Sanji mi aveva invitato a cenare con loro, tuttavia l’idea – per quanto prelibati fossero i suoi piatti – non mi faceva impazzire. Avevo passato più di tre giorni a stretto contatto con i Mugiwara, ed era stata una terapia d’urto. Stare con loro richiedeva una certa energia, un’energia che io non avevo, per cui lo avevo ringraziato per l’invito, avevo rifiutato e li avevo salutati in fretta. Ci saremmo comunque visti il giorno dopo e quello dopo e quello dopo ancora. Adesso volevo stare un po’ con i miei compagni e godermi la loro compagnia.
Mentre intimavo alle mie gambe di resistere perché mancava poco, non mi accorsi che davanti a me c’era una persona. Tentai di frenare, però persi l’equilibrio – già precario – e caddi in avanti. Due braccia pronte arrestarono la mia caduta e mi impedirono di sfracellarmi al suolo. Tentai di rimettermi in piedi, ma i muscoli non rispondevano.
«Scusa,» biascicai imbarazzata, incapace di sostenermi da sola. Avevo la faccia rivolta verso il pavimento, per cui non sapevo contro chi fossi andata a sbattere, speravo solo che non fosse uno dei miei compagni più burberi.
«Stai bene?» Le braccia mi girarono e mi ritrovai di fronte due occhi verdi che mi fissavano preoccupati. Kenji.
Trasalii per un momento, poi feci leva sulle gambe con tutta la forza che avevo e mi misi in posizione eretta, staccandomi da lui. Meno contatti ravvicinati avevamo, meglio era per entrambi. I muscoli protestavano un po’ per la mia scelta, ma si dovevano adeguare.
«Sì... sì, sto bene. Giornata faticosa.» Mi strinsi nelle spalle. «Tu?»
Annuì e mi fece un mezzo sorriso imbarazzato. Prima o poi avremmo dovuto chiarire la situazione, non potevamo continuare ad avere il timore di incontrarci per i corridoi del Polar Tang, tuttavia non era quella la sera giusta.
«Facciamo...» Puntai l’indice in direzione della cucina.
«Tardi per la cena, sì,» mi interruppe. Si incamminò verso la stanza lasciandomi con il dito a mezz’aria e la faccia da ebete.
Quando varcai la soglia, tirai un sospiro di sollievo. Ero appena in tempo, i miei compagni stavano prendendo posto. Intercettai il chirurgo prima che si mettesse seduto e andai da lui.
«Law,» cominciai, guadagnandomi un’occhiataccia. Alzai gli occhi al cielo e mi corressi: «Capitano
Sollevò un angolo della bocca. «Dimmi, sottoposta.»
Alzai di nuovo gli occhi al cielo. A volte non era facile resistere all’impulso di dargli un pugno. «Volevo notificarti che mi allenerò con Zoro nei prossimi giorni. Tutti i pomeriggi, probabilmente per tutto il pomeriggio.»
Mi guardò con la sua solita espressione indecifrabile, come se stesse facendo le sue considerazioni a riguardo.
«Non ti sto chiedendo il permesso. C’è una guerra da combattere e io ho bisogno di diventare più forte.» Avevo lo sguardo fermo, le iridi puntate in quelle del Capitano.
«Mi chiedo come mai tu abbia scelto proprio Roronoa...» Mi guardò con malizia e ghignò.
Non capii subito a cosa stesse alludendo, ma quando lo feci una parte di me si indignò. Sapevo che stava scherzando, però non faceva ridere: non per le insinuazioni, quelle erano diventate parte del nostro rapporto, ma perché era di una guerra che si stava parlando. Potevamo morire tutti, non era un gioco.
Scossi la testa e, prima che potessi rispondergli e magari iniziare una lite, Ryu annunciò che la cena era pronta. Girai i tacchi e andai a sedermi al mio posto.
«Non metterti troppo comoda, perché ci devi raccontare delle tue avventure,» mi sussurrò Penguin. Con la coda dell’occhio vidi il suo amico che mi riempiva il bicchiere di vino e mi sfregai le mani. Ora si cominciava a ragionare.
 
«La voleva chiamare “Isola delle pruliegie”?» chiese Shachi, perplesso.
«La voleva chiamare “Isola delle pruliegie”,» confermai io, per poi ridacchiare. «Isola delle fottute pruliegie.»
Anche i miei compagni si misero a ridere. Avevo raccontato loro tutte le mie disavventure e, da sadici quali erano, si erano divertiti. In fin dei conti lo avevo fatto anche io, tolti i ragni giganti, i geyser, il mulinello, le notti insonni e vari altri traumi.
«Perché non ci hai riportato un po’ di quei frutti? Avrei potuto ideare qualche ricetta,» brontolò Ryu.
Alzai un sopracciglio. «Perché è già un miracolo che sia riuscita a tornare io.»
Ridemmo di nuovo tutti. Quella sera ero così stanca che mi erano bastati un paio di bicchieri di vino per andare su di giri. Non ero ubriaca, solo... allegra. Mi meritavo una serata spensierata.
Feci per portarmi il calice alle labbra, ma incrociai gli occhi di Kenji, che mi guardava con un po’ di delusione, e lo rimisi sul tavolo. La situazione stava diventando pesante, dovevamo chiarirci al più presto. I suoi sguardi sofferti mi facevano male. Pensare che una settimana prima avevamo la complicità che hanno i migliori amici e che adesso facevamo fatica a guardarci era triste, per entrambi. Lui si vergognava per come aveva agito, lo percepivo, mentre io non volevo ferirlo più di quanto avessi già fatto. Che potevo fare? Che potevo dirgli per convincerlo che non doveva sentirsi imbarazzato per il bacio? E che parole dovevo usare per non affondare il coltello nella piaga? Non lo sapevo, e la stanchezza e il vino di certo non mi aiutavano. Forse, se ci avessi dormito su, mi sarebbero venute in mente. Non volevo rassegnarmi all’idea che le cose tra noi potessero essere cambiate per sempre.
Sospirai e mi alzai dalla sedia.
«Ehi, dove stai andando?» mi chiese il cuoco.
«Non hai sentito tutto quello che ho dovuto passare negli ultimi giorni? Sono stravolta, me ne vado a letto.»
Salutai tutti e uscii dalla cucina. Mentre camminavo per il corridoio, meravigliandomi di come le mie gambe reggessero ancora il mio peso, mi accorsi che dietro di me c’era qualcuno e mi girai.
«Posso esserti utile, Capitano?» Sperai di no. Sentivo il richiamo del letto da decametri di distanza.
«Come hai trovato Cappello di Paglia in questi giorni?»
«Da quando in qua il Chirurgo della Morte si preoccupa per qualcun altro?» lo canzonai, incrociando le braccia e sogghignando.
Anche nella penombra riuscii a scorgere la sua espressione infastidita.
«Cappello di Paglia-ya è una parte fondamentale dell’alleanza. Dovrà combattere al mio fianco contro Kaido. Lui potrebbe essere la nostra salvezza o la nostra rovina. L’esito della battaglia dipenderà molto dalle sue condizioni.» Lo spiegò come se davanti a lui ci fosse una bambina di otto anni. Non c’era bisogno di usare questo tono, non ero stupida, semplicemente non ci avevo pensato. E non ci avevo pensato perché l’idea che dipendesse tutto da un’imprevedibile malattia mi metteva ancora più angoscia. Non solo non avevamo un piano, non avevamo neanche la certezza che Rufy potesse combattere al massimo delle sue potenzialità.
Il cuore prese a martellarmi nel petto, la testa girava. Appoggiai la schiena al muro e mi passai una mano tra i capelli, inspirando ed espirando profondamente. Law fece un passo verso di me.
«Stai calma.»
«Non dirmi di stare calma.» Lo fissai, lo sguardo affilato. «La situazione è disastrosa, e lo sai anche tu. Non abbiamo dei dati concreti, non abbiamo un piano e Rufy è una bomba a orologeria, in tutti i sensi.»
«Ha avuto spasmi muscolari?»
Scossi la testa. «Ha avuto un attacco di sonnambulismo correlato alla fame. Beh, ha sempre avuto fame... Ed è quasi morto annegato, come già sai ho dovuto fargli la respirazione bocca a bocca, ma niente spasmi.» Non ero stata a controllarlo tutto il tempo, ma se li avesse avuti me ne sarei accorta.
«Non sono sintomi della Sindrome di Noxyd.»
«No, infatti.» Sospirai. Era un appiglio. Piccolo, ma pur sempre un appiglio. Tornai a guardarlo. «Lui lo sa. Sa che il suo corpo ha qualcosa che non va. Gli ho detto di non sforzarsi, di andarci piano con i combattimenti e lui mi ha assicurato che lo avrebbe fatto.»
Conoscendo Monkey D. Rufy, una malattia non lo avrebbe fermato dal compiere il suo destino. Anche per Gol D. Roger era stato così: sapeva di essere malato, sapeva che sarebbe morto, ma aveva resistito. Chissà che non avessero la stessa sindrome. Forse faceva parte della Volontà Ereditata. Forse non era una Volontà, ma una maledizione. O forse non c’era nessuna connessione. Ero così esausta che avevo i pensieri annebbiati. Le gambe, alla fine, cedettero e iniziai a scivolare lungo il muro.
«Suppongo che dovremo fidarci della sua parola.» Law mi afferrò per un braccio e mi tirò su prima che il mio didietro potesse toccare terra.
«Tu non sei preoccupato?» gli chiesi, cercando di captare qualcosa, qualsiasi cosa, nelle sue iridi.
Non lasciò trapelare niente e non replicò. Feci un mugugno d’assenso. Come immaginavo. Anche il silenzio era una risposta.
«Vatti a riposare,» mi disse, lasciando andare il mio braccio. Il suo tono era morbido, ma sapevo che era una specie di ordine. Un ordine a cui, per una volta, avrei obbedito volentieri.
Non me lo feci ripetere due volte. Mi staccai dalla parete e feci per andare in camera. I miei muscoli, però, non erano dello stesso avviso e mi abbandonarono non appena cercai di muovere un passo. Il chirurgo mi acchiappò di nuovo, risparmiando alle mie ginocchia l’impatto con il pavimento. Lo sentii sbuffare quando capì che avrebbe dovuto accompagnarmi fino alla mia cabina e tentai di nascondere il sorriso che stava nascendo sulle mie labbra. La sua premura valeva il doppio.
«Tu sapevi dell’aumento di taglia di Rufy?» gli chiesi dopo qualche secondo di silenzio imbarazzante.
«Sì.»
«E perché non mi hai detto niente?»
«Perché sono il tuo Capitano, non ho alcuna obbligazione verso di te. Se ci avessi tenuto tanto, avresti potuto controllare il giornale,» rispose in tono di scherno. Provava piacere nel ricordarmi quali fossero le gerarchie. Come se non fosse già chiaro a tutti chi comandava la baracca.
«Io credo che tu sia solo invidioso di Rufy e che me l’abbia tenuto nascosto perché non ti andava giù l’idea di essere stato superato,» lo provocai, sogghignando. Spesso pensavo a Law come chirurgo e non come pirata. Ma c’era anche quella parte di lui, quella che amava razziare, depredare e infrangere la legge e che era in competizione con le altre Supernove.
Il moro mi strattonò il braccio e poi lo lasciò, facendomi sbilanciare e ricadere in ginocchio. L’impatto con il suolo non fu gradevole e mi lasciai sfuggire un lamento.
«Ops. Deve essermi scivolata la mano,» fece, un enorme ghigno sulle labbra.
Mi rialzò, in un gesto di carità estrema, e si rimise a camminare con me al seguito. Mi stava supportando e trascinando lui, io non ero più padrona del mio corpo.
«Sai che la tua reazione non fa altro che darmi ragione, vero?» lo sfidai una seconda volta, regalandogli un’occhiata maliziosa.
Il Capitano, al contrario di quanto mi aspettassi, si fermò e mi piazzò davanti a sé, le sue iridi si allacciarono alle mie. Era tornato serio.
«Hai parlato con Kenji?»
«No, ma lo farò,» mi affrettai a dire, assumendo un’espressione solenne. Poi mi feci sfuggire un sospiro. Era una cosa che mi metteva pensiero, però andava fatta.
«Sì, lo farai.» La sua era un’imposizione, non avevo scampo.
Mi lasciai condurre fino alla mia cabina e quando fummo davanti alla porta mi girai a ringraziarlo. Mi rispose con un mezzo bofonchio irritato, si voltò e si incamminò per l’oscuro corridoio. L’idillio era finito.
«Buonanotte, Capitano Law,» gli dissi, facendolo fermare per qualche istante. Stava ponderando quelle parole, stava cercando di capire se gli andasse bene o meno essere chiamato così. Alla fine sollevò blandamente una mano in segno di saluto, senza rigirarsi.
Ghignai vittoriosa. Avevamo trovato un compromesso.

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Capitolo 13
*** Allenamento ***


Mi ero lavata i denti e mi ero infilata il pigiama. Non vedevo l’ora di poggiare la testa sul cuscino e chiudere gli occhi. Prima che potessi mettermi a letto, però, qualcuno bussò alla porta. Andai ad aprire con lieve fastidio.
«Maya...» feci, un po’ sorpresa di trovare lei sull’uscio.
«Posso entrare?» Sembrava tesa. Sperai che non fosse successo niente di grave e soprattutto che non avesse litigato con Omen. Non avevo le forze per affrontare una conversazione del genere.
Mi feci da parte e la lasciai passare.
«Ho bisogno di un parere femminile,» iniziò, anche se un po’ titubante.
«Certo, dimmi,» la incoraggiai, incrociando le braccia. Nonostante avessi sonno, non potevo abbandonare la mia amica nel momento del bisogno. In più ero stata indaffarata nelle ultime settimane e non avevo avuto tempo da dedicarle.
Andò a chiudere la porta, tirò fuori da sotto la divisa un foglio e me lo passò.
«Che ne pensi?» Si mordicchiò un’unghia, nervosa.
Quando lo dispiegai, rimasi a bocca aperta. «È... è...»
«L’ho fatto io.» Fece un mezzo sorriso. La guardai ancora più stupefatta.
«È davvero stupendo.» Lo osservai ancora per un po’. Era il disegno di un vestito da sposa. Era bellissimo: color avorio, a sirena, con uno scollo a cuore davanti e uno profondo dietro, che lasciava scoperta tutta la schiena. In vita aveva aggiunto una specie di cintura sottile, sempre bianca e con la fibbia quadrata e d’argento, che si attaccava direttamente al vestito. Sugli appunti accanto agli schizzi c’era scritto che voleva realizzarlo in seta, con uno strascico non più lungo di un metro.
Mi immaginai Maya con quello indosso. Era perfetto per lei, sarebbe stata la sposa più bella che avessi mai visto. Non che ne avessi viste molte, ma lei sarebbe stata ancora più bella delle modelle nelle riviste, ne ero sicura. E poi realizzai che il matrimonio si avvicinava e io non me ne ero resa conto. Avrei dovuto aiutarla a organizzarlo, ma tra la riabilitazione e i Mugiwara mi era totalmente passato di mente. Eppure i futuri sposi se la stavano cavando bene. Il mondo andava avanti anche senza di me, ciascuno seguiva i propri binari.
«Saresti meravigliosa in questo vestito. È... wow. Hai fatto un lavoro straordinario,» le dissi, ancora strabiliata.
«Ho imparato a conoscermi, so cosa potrebbe starmi bene e cosa no. E questo...» Indicò il foglio con l’aria di chi la sa lunga.
«Ti starebbe benissimo,» finii per lei, sorridendole. Poi mi feci più seria. «Maya, mi dispiace di non averti aiutata a organizzare il matrimonio. Avevo promesso che vi avrei dato una mano e non l’ho fatto. È che...»
«Sei stata molto impegnata, lo so. Anche Omen lo sa. È tutto a posto. Anche solo avere il tuo parere è un aiuto prezioso.» Stavolta fu lei a interrompere me. Mi accarezzò i capelli con fare materno. «Abbiamo scelto un periodo complicato per sposarci,» aggiunse ridendo.
«Sì, è vero, ma prometto che cercherò di fare di più per voi. Ve lo meritate.»
Ci scambiammo un cenno d’assenso, poi la mia amica mi diede un rapido abbraccio. «Buonanotte, ragazza mia.»
«Buonanotte.» Le feci l’occhiolino.
Dopo che si fu richiusa la porta alle spalle rimasi in piedi a fissare il vuoto per un paio di minuti. Maya e Omen si sarebbero sposati a breve. Era strano, per quanto bello. Avevo visto la loro relazione nascere e svilupparsi, avevo visto il loro amore crescere con loro e superare le difficoltà, li avevo visti guardarsi con occhi teneri, litigare e infine diventare imprescindibili l’uno per l’altra. A volte ciò che sanno generare gli essere umani è incredibile.
Dopo essermi infilata sotto le coperte entrai nell’applicazione della Stella per guardare le foto dei miei cari e leggere il capitolo del manga. Mi misi a ridere: era il capitolo che mostrava l’aumento di taglia dei Mugiwara. Rufy si era abbattuto perché credeva che la sua fosse diminuita, quando invece era triplicata. Sanji non aveva più la scritta “only alive” sul manifesto e finalmente avevano messo una foto del suo viso, anche se non gli rendeva giustizia. Purtroppo avevano aggiunto il suo cognome, “Vinsmoke”, ma almeno, con i suoi trecentotrenta milioni di berry, aveva superato Zoro. Una piccola grande consolazione.
Mi addormentai con la consapevolezza che i miei cari stavano bene e che, nonostante i tempi difficili che ci aspettavano, accanto a me c’era una delle ciurme più agguerrite e temute dell’universo di One Piece.
 
Quella notte feci un sogno confuso, ma che mi turbò un po’. Ero nella mia cabina e davanti a me erano apparse tre macchie di colore, una blu, una bianca e una rossa, che mi fluttuavano attorno come fantasmi. Poi avevano preso forma ed erano diventate tre persone: Sabo, Kenji e Rufy. In quest’ordine, si erano avvicinate a me e mi avevano baciato. Il bacio di Sabo, più passionale, si era consumato sulla terrazza della Base dei Rivoluzionari, che poi si era sgretolata per lasciare posto all’infermeria del Polar Tang, dove Kenji mi aveva dato un bacio rapido ma sentito. Infine mi ero ritrovata sulla sabbia dorata dell’isola CRUZ e tra me e Rufy c’era stata una semplice e innocente sovrapposizione di labbra. Tornata nella mia cabina, le tre figure erano state risucchiate da un vortice scuro e potente, che voleva portarsi via anche me, ma io ero riuscita ad aggrapparmi alla maniglia della porta e a salvarmi. Tutti e tre erano scomparsi nell’oscurità. Non li vedevo, ma li sentivo: stavano tentando con tutte le loro forze di risalire, di non lasciarsi inghiottire. E io volevo aiutarli, ma non potevo farlo, perché se avessi lasciato il mio appiglio avrei fatto la loro stessa fine. Dopo qualche minuto la spirale aveva smesso di tentare di risucchiarmi e nella mia stanza era tornata la calma. Quando mi ero avvicinata per capire se potessi fare qualcosa per i miei amici, la pozza di catrame li aveva fatti scomparire nelle sue profondità. Finché, all’improvviso, non era riemersa una mano.
E poi c’era stato un terremoto. No... non era un terremoto: era qualcuno che mi stava scuotendo. Aprii un occhio a fatica. Davanti a me c’era un faccione bianco e peloso.
«Bepo...» biascicai infastidita. «Lasciami in pace, è presto.»
«Veramente sono le tre del pomeriggio.»
«Cosa!?» Strabuzzai gli occhi, all’improvviso sveglissima. Allungai la mano per prendere il cellulare e controllai l’ora: erano le 15:05, per essere precisi.
«Mi dispiace di averti svegliato, ma sono sedici ore che dormi... Ci siamo preoccupati,» si giustificò l’orso, abbassando la testa in segno di scuse.
Lo ignorai, scostai le coperte e saltai giù dal letto. Ero in ritardo per l’allenamento con Zoro, dovevo sbrigarmi. I miei muscoli, però, non erano dello stesso avviso. Non appena mossi un passo, in tutto il corpo si irradiarono crampi dolorosi. Ed era così ogni volta che provavo a muovermi. Mi lasciai scappare diversi mugolii.
«Stai bene?» chiese con apprensione il mio compagno.
«Più o meno,» risposi distratta mentre cercavo la divisa.
«Sei sicura?»
Ignorai sia Bepo sia il dolore e, quando trovai l’indumento, mi precipitai in bagno. Ci rimasi giusto quei cinque minuti che mi servirono per fare pipì e rendermi presentabile, dopodiché recuperai la mia ascia e un asciugamano e raggiunsi il ponte del Polar Tang a tempo record.
Rimasi a fissare per qualche secondo con riluttanza i metri che mi separavano dalla Sunny. Dovevo saltare, e sapevo che i miei muscoli si sarebbero ribellati, ma sapevo anche che dovevo farlo. Dovevo abituarmi a stringere i denti, perché non si poteva mettere in pausa il dolore, durante una battaglia.
Presi un respiro profondo e piegai le gambe per darmi la spinta. Dapprima sussultai, poi mi concentrai e saltai sul tetto del sottomarino. Con un altro – sofferto – balzo fui sulla nave di Cappello di Paglia. Non considerai Sanji che mi stava venendo incontro con gli occhi a cuore, feci un saluto generale a tutti gli altri e salii su per la scala di corda quanto più in fretta i miei muscoli mi concedessero.
Aprii la porta della palestra con foga, tanta che entrò una folata di vento nella stanza. Zoro era lì, con un bilanciere gigante tra le mani, sempre a torso nudo, sempre sudato, sempre piacevole da vedere.
«Sono qui!» annunciai con un po’ di fiatone. «Sono in ritardo, lo so, ma... sono stata trattenuta dal mio Capitano,» mentii, sperando che, oltre al rum, si bevesse anche quello.
Si fermò per un attimo, mi squadrò e sbuffò una risata. Lo guardai interrogativa.
«È strano sentire che lo chiami Capitano,» mi spiegò, riprendendo i suoi esercizi.
Mi lasciai scappare un sorriso. Io ero abituata a chiamarlo così, ma lo spadaccino, che aveva visto il nostro rapporto nascere e sapeva quello che avevamo passato prima di finire in questo universo e quanto ci eravamo odiati, aveva ragione a trovarlo strano. La vita stessa era strana. Se qualcuno, quando avevo sedici anni, mi avesse detto che avrei finito per diventare un pirata e navigare sotto il vessillo di Trafalgar D. Water Law, gli avrei riso in faccia. Ero convinta che mi sarei diplomata, che avrei fatto l’università, probabilmente Scienze Infermieristiche, e che avrei condotto una vita banale e monotona. Non potevo neanche lontanamente immaginare ciò che mi sarebbe capitato negli anni successivi. Eppure, eccomi lì. Contro ogni probabilità, contro ogni legge della fisica e della razionalità. Ero lì, e non avrei voluto essere da nessun’altra parte. Perché la libertà e l’avventura erano come droghe: dopo che le hai assaggiate, non puoi più farne a meno.
«Hai intenzione di stare lì impalata a fissarmi per tutto il pomeriggio?» La voce di Zoro mi riportò alla realtà. Mi resi conto che avevo continuato a guardarlo per un paio di minuti mentre ero immersa nei ricordi e distolsi lo sguardo.
«Che devo fare oggi?» Poggiai l’asciugamano sulla panca che c’era lì e sperai che i miei muscoli reggessero a qualsiasi tortura volesse propormi il verde.
«Prima di tutto devi acquisire consapevolezza delle tue possibilità.»
«Che intendi?»
«Devi imparare ad ascoltare il tuo corpo, a capire come controllarlo. Se saprai farlo, avrai vita più facile.»
Annuii. Aveva senso: non potevo migliorare se non sapevo da dove partire o come far funzionare i meccanismi del mio corpo. Pensavo di saperlo, ma Zoro se ne intendeva di sicuro più di me, pertanto dovevo fidarmi.
«Ma ti avverto, potrebbe essere estenuante,» disse poi, facendomi sbuffare. Perché doveva essere tutto estenuante? Perché qualcosa non poteva essere, per una volta, piacevole, o facile? Feci un rapido calcolo dei pro e dei contro: non potevo distruggere il mio corpo ancora prima che iniziasse la guerra – ed ero già sulla buona strada, considerato lo stato dei miei muscoli – ma il tempo stringeva. Forse non valeva la pena rischiare per qualcosa in cui non ero neanche sicura di riuscire, però dovevo provare.
«Se prometti che non mi lascerai morire, possiamo iniziare.» Il mio sguardo era fermo e deciso.
«Non ti succederà niente, se ascolterai il tuo corpo.»
Mi lasciai sfuggire una risata. Il mio corpo stava gridando pietà. Se lo avessi realmente ascoltato non sarei stata lì, a dare il colpo di grazia ai miei muscoli. Avrei riempito la prima vasca da bagno che fossi riuscita a trovare di ghiaccio, mi ci sarei immersa per tutto il pomeriggio e avrei usato il vino come antidolorifico. Ma la mia testa non voleva sentire ragioni, e non sapevo se questo fosse positivo o negativo.
 
Nella mia vita avevo avuto tre figure che potevano essere considerate simili a quella di un allenatore. Bepo era stato duro con me per necessità, Hack era stato duro perché faceva parte della sua personalità. Ma Zoro non era duro, se non con se stesso, era “solo” una macchina da guerra. Macinava e macinava, finché non raggiungeva l’obiettivo che si era prefissato. Non eravamo tutti così, però. Io non ero così. Per questo avevo avuto bisogno di prendere una pausa dopo appena mezz’ora di allenamento con lui, anche se non avevo fatto altro che un po’ di riscaldamento. Era vero che suddetto riscaldamento consisteva in numerosi addominali e flessioni, ma non pensavo che il mio corpo avrebbe dato forfait così presto.
Mentre bevevo, seduta sulla panca, osservai il verde che si allenava con il bilanciere. Non si fermava mai. Almeno da lì c’era una bella vista. Asciugai il sudore con l’asciugamano e mi rialzai.
«Sono pronta per ricominciare,» gli annunciai, tanto per farglielo sapere.
Si voltò verso di me, continuando a fare i suoi esercizi. «Il riscaldamento è terminato. Ora devi farmi vedere cosa sai fare.»
«Cioè?»
«Combattiamo.»
«Che!?» strillai, presa alla sprovvista. «Intendi... io e te?»
Lo spadaccino mi guardò come se fossi ebete.
“È un suicidio,” pensai, ma ebbi la decenza di non dirlo. Considerata la differenza di forza tra me e lui e i miei muscoli intirizziti, non era una buona idea. Anzi, era una pazzia. Avrei dovuto ascoltare il mio corpo – e il mio buon senso – e rinviare il combattimento, ma dall’altra parte, a premere una pistola sulla mia schiena, c’era la mancanza di tempo. Non potevo permettermi di rimandare niente.
Mi schiarii la gola. «D’accordo, combattiamo.»
«Non qui.» Mi fece cenno di seguirlo.
Non dissi una parola e gli andai dietro, ma non era rassicurante: se lo spazio che aveva in palestra non gli bastava significava che voleva fare sul serio e che io dovevo fare attenzione. Ci fermammo al centro del ponte della Sunny, sul pratino. Era l’unico posto in cui potevamo combattere senza doverci trattenere. Il rischio di distruggere qualcosa c’era sempre, ma contavo sulla responsabilità del Cacciatore di Pirati. Eravamo solo io e lui, non si vedeva nessun altro in giro. Non sapevo perché, ma era meglio così. Era una questione privata.
Sguainò due delle sue katane e si mise in posizione. Presi un respiro profondo – ero tesa come una corda di violino – e attivai l’Ambizione. La sua aura risplendeva fiera nel buio, non ne avevo mai vista una così potente e luminosa fino a quel momento. Era maestosa, traboccava di bramosia. Udii i suoi pensieri risuonare nella mia testa e percepii le sue intenzioni. Non lo facevo così scorretto: voleva andare verso destra e farmi credere che mi avrebbe attaccato con la mano sinistra, per poi fare una torsione del busto all’ultimo secondo e sferrare il colpo dall’alto. Lo schivai. E così feci con quello dopo e quello dopo ancora. Gli altri provai a pararli. Non era facile, Zoro non ci andava giù leggero, per quanto non stesse usando tutta la sua forza. I colpi di Bepo erano una brezza estiva, a confronto. Per fortuna l’adrenalina mi permetteva di non sentire dolore ai muscoli.
«Dove sono tutti?» chiesi, ansimando. In realtà era solo un espediente per poter riprendere più fiato possibile senza chiedergli una pausa. Sapevo di poterlo fare in tranquillità, solo che non mi andava. Era una scommessa con me stessa che volevo vincere.
«Nel laboratorio, credo. Franky e Usop hanno ideato un nuovo marchingegno e lo stanno mostrando agli altri, o qualcosa del genere.»
Sbuffai una risata. Nonostante fosse parte integrante della ciurma, non sapeva mai niente sulle attività degli altri membri e non gli importava di sapere, era come se fosse al di fuori di tutto. Ma agli appuntamenti importanti non mancava mai di esserci e trovarsi al posto giusto al momento giusto. Quando non si perdeva, se non altro.
«Allora, hai ripreso fiato?» mi chiese poi, sollevando un angolo della bocca.
Mi irrigidii. Se ne era accorto. Cominciavano ad esserci troppe persone con gli occhi di lince in quell’universo, per i miei gusti. Annuii e mi rimisi in posizione.
Mi attaccò di nuovo e io utilizzai la Mr. Smee per parare il colpo. Emisi un grugnito sofferto: avevo le braccia pressate al petto, le mani tremavano e stavo facendo una gran fatica per fermare le lame di Zoro. Eravamo così vicini che sentivo il suo alito sul collo. Anche se vedevo solo il candore della sua aura, sapevo che stava ghignando. Lo percepivo. Poi, a sorpresa, si staccò da me e cominciò a squadrarmi, come se gli stesse sfuggendo qualcosa e stesse cercando di comprendere. Non capivo cosa potesse essere, dato che nel nostro combattimento si era dimostrato superiore a me su tutti i fronti.
«La tua Haki è diversa,» disse rinfoderando le katane.
Corrugai la fronte. «In che senso?»
«Non lo so, ma non è come le altre.» Avrei voluto chiedergli come fossero le “altre”, però era chiaro dove volesse andare a parare, e aveva ragione. «Come l’hai sviluppata?»
Sospirai e approfittai di quel momento di pausa per posare l’ascia e mettermi seduta sul prato. Non era pigrizia, era risparmio energetico. Non sapevo se Zoro volesse saperlo per curiosità personale o se pensava che questo potesse aiutarmi, ma tanto valeva raccontarglielo.
«È stato un trauma.»
Sollevò un sopracciglio, perplesso.
«Voglio dire che è scaturita da un trauma. Ad alcune persone succede.»
Un mezzo sorriso comparve sul suo volto, le cose per lui si erano appena fatte interessanti. Per me invece un po’ meno, non mi piaceva ricordare certe vicende.
«Un incubo.» Mi venne da ridere, perché raccontata così sembrava ridicolo. «Dopo la battaglia con Doflamingo ho avuto gli incubi tutte le notti, per mesi. Rivivevo ancora e ancora le stesse scene. Finché, una sera, ho fatto un sogno più vivido e brutto degli altri. Quando mi sono svegliata, potevo sentire le persone nella mia testa. O meglio, i loro pensieri.» Mi strinsi nelle spalle.
«Tu senti i pensieri delle persone?»
Annuii. Sembrò tanto sorpreso da quella rivelazione quanto interessato. Un piccolo ghignò fece capolino sulle sue labbra.
«Che cosa sto pensando in questo momento?» Piegò la testa da un lato, in attesa.
Attivai di nuovo l’Haki. La sua aura irradiava spavalderia. Essere capace di usare l’Ambizione consumava le mie energie in fretta, ma era meraviglioso. Era come avere accesso a un altro universo – nel mio caso, il terzo della mia vita – in cui tutto era cristallino. Mi sentivo connessa con tutto e tutti, percepivo le persone. Sentivo i loro pensieri, avvertivo le loro emozioni, il loro stato d’animo, captavo la loro posizione e le loro intenzioni. Una volta imparato a controllarla meglio, era una benedizione divina in una battaglia. Almeno potevo contare su questo.
Se riesci davvero a sentire i miei pensieri, ti offro una bottiglia di rum delle mie.”
Mi misi a ridere. «Grazie, ma preferisco il vino.»
Allargò il suo sorriso e sguainò le sue spade. «Allora ti offrirò un bicchiere di vino quando avremo finito di combattere.»
Mi tirai su e ripresi in mano l’ascia, trattenendo un grugnito di dolore mentre i miei muscoli gridavano pietà.
«Qualcosa mi dice che avrò bisogno di tutta la bottiglia...» sussurrai, rimettendomi in posizione d’attacco.
 
«Ora basta,» decretò Zoro dopo che ebbi parato qualche colpo – per il suo potenziale – molto blando. «È ora di fare sul serio.»
Un brivido scivolò lungo la mia schiena nel momento in cui sfoggiò uno dei suoi ghigni pericolosi.
«Zoro, con tutto il rispetto, non credo che...»
«Per poter scagliare un fendente volante, devi prima essere in grado di pararne uno,» mi interruppe lo spadaccino, facendo un movimento secco con la Shusui.
Ciò che accadde dopo fu rapido e confuso. Non avevo idea se a salvarmi fosse stata la mia Haki o il mio istinto, ma sapevo che se non mi fossi buttata alla mia destra con tutto il corpo il colpo di Zoro mi avrebbe tagliato in due. Tuttavia non ero stata abbastanza veloce. Emisi un lamento di dolore. Controllai il fianco sinistro e mi resi conto che mi ero tagliata. Sulla divisa c’era una chiazza rossa e uno squarcio di una ventina di centimetri in verticale. La ferita mi bruciava un po’, ma non sembrava nulla di grave a una prima occhiata.
Grugnii infastidita. Quell’attacco mi aveva messo di fronte alla realtà: ero ancora troppo debole per poter imparare a lanciare un fendente volante. Raggiungere il mio obiettivo sarebbe stato difficile. Sapevo che la strada sarebbe stata in salita, ma non pensavo che avrei dovuto scalare una parete verticale. Però non potevo arrendermi.
«Stai bene?» mi chiese il mio avversario, tendendomi una mano per aiutarmi a rialzarmi.
«Sì, sì.» La presi e lasciai che mi tirasse su. Nascosi una smorfia di dolore quando quel movimento brusco fece sfregare la stoffa della divisa contro la lesione. Le gambe mi tremavano leggermente, per lo spavento che mi ero presa. Avevo rischiato grosso.
«Stai sanguinando.»
«Sì, me ne sono accorta,» risposi infastidita. Un po’ ce l’avevo con lui. Come aveva detto? “Non ti succederà niente, se ascolterai il tuo corpo”? Di sicuro il mio corpo non aveva previsto che il verde mi avrebbe tirato addosso un fendente a sorpresa.
«Stai sanguinando parecchio.» Continuava a fissare il mio fianco, quindi lo feci anche io.
«Oh, cazzo,» mi lasciai sfuggire. La macchia rossa sulla divisa si era triplicata, il sangue era colato giù anche per la gamba. All’improvviso sentii la testa girare. Forse era più grave di quanto pensassi. Ma a me non faceva male il fianco. Sì, mi dava fastidio, però era sopportabile. Nulla a che vedere con la prima volta che mi ero affettata con l’ascia. Forse lo scontro con Doflamingo e gli allenamenti con Hack avevano aumentato la mia sopportazione del dolore. O forse erano stati gli ormoni di Emporio Ivankov. In ogni caso, mi andava bene così, in battaglia mi avrebbe fatto molto comodo avere una maggiore resistenza.
Pressai la mano sulla ferita per rallentare l’emorragia.
«Dovresti farti medicare da Chopper,» mi suggerì Zoro, rimettendo le katane nel loro fodero, segno che il combattimento era finito.
«No, faccio da sola. Mi farà bene fare un po’ di pratica su della carne umana,» riflettei ad alta voce, dirigendomi verso l’infermeria. Le gambe erano un po’ molli, ma dovevo resistere.
Con la coda dell’occhio vidi il verde ghignare. Mi piacque pensare che lo fece in segno di apprezzamento per la persona che ero diventata. Del resto, lui aveva conosciuto una Camilla totalmente diversa. Questa era la versione migliorata.
«Cami!? Che è successo?»
Poco più in là, appena fuori dal laboratorio di Usop, c’erano Nami, Robin, Sanji e Brook. Era troppo tardi per sperare che quel piccolo incidente passasse inosservato.
«Oh, mia dolce Cami-chan!» Il cuoco fece qualche passo verso di me. Sembrava turbato. «Sei ferita! Il mio cuore è disperato, non posso sopportare di vederti soffrire!»
«Non sto soffrendo, sto bene. È solo una ferita superficiale,» provai a rassicurarlo. Non era del tutto vero, avrei avuto bisogno di qualche punto, ma non era necessario che l’intero pianeta ne venisse a conoscenza.
Ci volle meno di un secondo perché il biondo capisse la dinamica degli eventi e se la prendesse con Zoro. «Come hai osato farle del male in questo modo, brutto marimo di merda!?»
Mi rifiutai di partecipare all’ennesimo litigio tra quei due e continuai a camminare verso l’infermeria. Nami era andata a sedare la discussione con un paio di pugni e Brook era scomparso. L’unica che ebbe la buona creanza di mostrarmi dove Chopper teneva l’equipaggiamento medico fu l’archeologa, che mi aveva seguito nella stanza. La ringraziai e lasciai che uscisse prima di iniziare. Tirai giù la divisa, mi infilai i guanti e iniziai a pulire e disinfettare la ferita. Senza tutto quel sangue non sembrava tanto minacciosa. Era un taglio abbastanza netto e regolare, che si estendeva per tutto il fianco sinistro fino a un quarto della coscia. Non era né troppo largo né troppo profondo, ma era necessario applicare dei punti per chiudere la lacerazione e fermare l’emorragia. Anche se non mi faceva male, avevo perso parecchio sangue.
Rimasi a fissare la siringa con l’anestesia per qualche secondo e presi un respiro profondo. Da fuori sentivo ancora Zoro e Sanji che litigavano concitatamente. Forse erano persino venuti alle mani. O ai piedi, nel caso del biondo. Perfino la cartografa aveva rinunciato a mettere pace tra quei due.
«Cami!» mi chiamò Chopper, che era apparso sulla soglia della porta. «Brook è venuto a chiamarmi! Cos’è successo? Stai bene?»
«Un piccolo incidente, nulla di cui preoccuparsi. Ho solo bisogno di qualche punto di sutura.» Gli sorrisi per non farlo allarmare.
«Oh. Posso aiutarti in qualche modo?» Si avvicinò a me, che ero seduta sul lettino.
Scossi la testa e continuai a sorridere. «No, grazie. Me la cavo da sola.»
Tornai a concentrarmi sulla ferita e ne divaricai i lembi con le dita.
«Sei sicura che non vuoi che lo faccia io? Ti trema la mano, forse perché hai perso parecchio sangue,» mi fece notare Chopper, tuttavia con gentilezza. Nulla a che vedere con i modi di Law.
Sospirai. Non mi stava tremando il polso sinistro, ma il destro, e non tremava perché avevo perso tanto sangue, né era un regalo di Doflamingo, quanto della mia fobia degli aghi. Non era facile, però dovevo farmi coraggio e procedere.
«Sì, sì. È tutto a posto,» dissi, più rivolta a me stessa che alla renna.
«Se per te va bene, preferirei rimanere per accertarmi che non ci siano complicazioni.»
Annuii e lui si mise a sedere sulla sedia. Era un bravo medico, uno dei pochi empatici e premurosi.
Presi un altro respiro profondo e infilai l’ago nella lacerazione. Trattenni il fiato, un po’ per il fastidio, un po’ per il dolore. La cosa brutta dell’auto-medicarmi era che non potevo chiudere gli occhi o girare la testa dall’altra parte. Stare a guardare era una tortura, e il carnefice ero io.
Quando ebbi anestetizzato la zona, presi ago e filo e prima di procedere tornai con la mente sull’Isolachenoncè.
 
«Wow,» commentò Chopper dopo che ebbi finito applicare i punti. Avevo deciso di utilizzarne otto, distanziandoli l’uno dall’altro. Del resto servivano solo per impedire che mi dissanguassi prima che la ferita potesse rimarginarsi. Mi ero presa il mio tempo, ma non ero stata lenta: ero stata semplicemente accorta. Avevo assaporato la gioia che mi dava la chirurgia. Una gioia che non pensavo di provare di nuovo, invece il mio polso non aveva più tremato. Era bello essere tornata in pista.
Mi allungai per prendere una garza adesiva. La lacerazione era in un punto particolarmente soggetto allo sfregamento con i vestiti, perciò per diminuire il fastidio preferivo coprirla.
Sorrisi, accettando silenziosamente il complimento. «Ho avuto un bravo insegnante. Anzi, il migliore.»
Anche la renna mi sorrise e annuì con eloquenza, per poi aiutarmi a mettere via il kit da sutura e misurarmi la pressione. Era un po’ bassa, com’era normale che fosse, nulla di preoccupante. Mi consigliò di non fare altra attività fisica per quel giorno. Avrei voluto continuare ad allenarmi, ma anche io ero un medico, e sapevo che aveva ragione.
Ringraziai il dottore per le sue premure e uscii dall’infermeria. Ad aspettarmi per sincerarsi delle mie condizioni c’erano Nami, Sanji e Brook.
«Sto bene,» li rassicurai, facendo loro l’occhiolino.
«Non abbiamo avvertito Traffy né nessun altro dell’incidente perché sapevamo che eri in buone mani.» Nami mi fece l’occhiolino a sua volta. Era molto meglio così. Non volevo che i Pirati Heart venissero a sapere cosa era successo. Non avevo paura di dirglielo e non mi vergognavo, pensavo solo che non fosse necessario sollevare un polverone per nulla. E poi, anche se mi ero fatta male, ero tornata alla mia vecchia gloria: quella era una piccola vittoria per me, e se non potevo condividerla con l’unica persona con cui avrei voluto condividerla – Kenji – allora l’avrei tenuta per me e custodita come un tesoro, nella speranza di poter risolvere le cose con il medico dagli occhi verdi e renderlo partecipe del mio trionfo.
«Sì, era in buone mani. Ma io non ho fatto niente, ha fatto tutto da sola,» intervenne Chopper, che nel frattempo era uscito dalla stanza.
Sembrarono tutti sorpresi da quell’affermazione, ma nessuno dubitò neanche per un secondo che non fosse vera.
Mi strinsi nelle spalle, imbarazzata e lusingata allo stesso tempo. «Sono un chirurgo, o perlomeno provo ad esserlo, è il mio lavoro.»
La cartografa mi poggiò una mano sulla spalla e mi guardò divertita. «Sono lontani i giorni in cui ti ho proposto di occuparti del nostro diario di bordo, eh?»
Non potei rispondere, perché intervenne Sanji: «Mia regina, sei così abile e coraggiosa!»
Lo ignorai e decisi di tornarmene sul sottomarino, fare una doccia e riguardarmi. Non potevo allenarmi con Zoro e non ero in cerca di guai, perciò non avevo più niente da fare sulla Sunny. Salutai tutti, rifiutai l’ennesimo invito a rimanere a cena del cuoco, mi feci prestare dei vestiti – la mia divisa era in condizioni disastrose – e andai dallo spadaccino, che nel frattempo era tornato in palestra, per fargli sapere che ero viva e che avremmo ripreso presto il nostro scontro.
Il difficile venne quando dovetti saltare sul ponte del Polar Tang. Era un bel salto. Avevo paura che i punti mi si potessero strappare, ma non avevo scelta. Riatterrai in piedi e mi lasciai andare ad un’esclamazione di dolore quando percepii i due lembi di carne lacerata tirare nelle direzioni opposte.
Due dei miei compagni mi salutarono mentre mi passavano davanti, senza accorgersi di niente: erano intenti a piazzare scommesse su cosa avrebbe cucinato Ryu per cena. Non potevo controllare la ferita lì, dovevo andare a prendere i guanti e il disinfettante in infermeria e poi chiudermi nella mia cabina.
«Non così in fretta,» fece una voce una volta che mi fui incamminata nel corridoio. Law era dietro di me. Ecco. Lo sapevo. Se ne era accorto.
Mi girai con calma, ma cercando di mantenere delle movenze naturali. Se prima non avevo provato molto dolore, adesso iniziavo a sentirlo, forse perché l’adrenalina stava svanendo. Il Capitano mi squadrò dalla testa ai piedi.
«Dov’è la tua divisa?»
Avevo indosso una maglietta fucsia con una grossa margherita disegnata sul davanti e dei calzoncini bianchi, non potevo sperare di passare inosservata. Sapevo che sarebbe potuto succedere, perciò mi ero preparata una scusa. Non doveva pensare che non avessi rispettato il nostro patto.
«Rufy ci ha versato sopra una salsa strana. Un’intera bottiglietta.» Mi finsi infastidita. «Ho dovuto buttarla, purtroppo, e per non restare nuda mi sono fatta prestare dei vestiti da Robin.»
Rimase a fissarmi mentre soppesava la mia risposta, o forse cercava un qualche cenno involontario del mio corpo che potesse confermare o smentire la mia versione. Mi era andata bene, parve crederci, del resto era una giustificazione plausibile.
«Vado subito a mettermi una divisa nuova,» lo rassicurai, rigirandomi e continuando a camminare.
«Dove credi di andare?»
«A mettermi una divisa nuova, come desidera il mio Capitano.»
«Domani sbarcheremo su un’isola. Devi fare l’inventario.»
«No!» esclamai disperata, fermandomi e tornando a guardarlo.
«Fai parte di questa ciurma, non di quella di Cappello di Paglia. Hai delle incombenze da rispettare.»
«Ma perché lo devo fare proprio io!?» protestai, gettando la testa all’indietro. Aveva ragione, ma questo non incrementava la mia voglia di farlo.
«È quasi ora di cena, perciò ti concedo di farlo dopo aver cenato. Dopotutto, non sono un mostro.» Mi ignorò e sfoggiò uno dei suoi ghigni migliori.
«No, sei solo uno stronzo,» sussurrai mentre se ne andava.
Scossi la testa sconsolata. Se dovevo fare l’inventario, oltre al disinfettante avevo bisogno dell’ibuprofene. Decisi di barricarmi in infermeria per controllare la ferita. Era tutto a posto, i punti erano ancora intatti, avevo fatto bene a scegliere quel tipo di sutura. Applicai di nuovo la garza adesiva, cestinai i guanti e andai a fare la doccia. Ormai avevo imparato come fare per non far bagnare le bende.
 
«Stai bene?» Qualcuno mi posò una mano sulla spalla.
Mi ridestai dal mio stato di torpore e mi girai in direzione della voce. Era Shachi.
«Non hai toccato neanche un goccio di vino, stasera,» continuò, quasi preoccupato. Fissai il calice davanti a me, che era ancora pieno, e sospirai.
«Sì, sono solo stanca.» Gli dedicai un sorriso forzato. Non era una bugia, ero davvero stanca, ma ero più che altro assorta nei miei pensieri. Avevo più di una preoccupazione. Tanto per cominciare, la ferita sul fianco sinistro, che sapevo avrebbe rallentato i ritmi del mio allenamento. Poi il sogno che avevo fatto quella notte. Quando ero tornata nella mia cabina per farmi una doccia, me ne ero ricordata. Era stato strano. A tratti inquietante. C’era un vortice sul pavimento della mia stanza che aveva risucchiato tre delle persone a cui volevo più bene e aveva tentato di inghiottire anche me. E poi una mano, una sola mano, era spuntata fuori da quella pozza oscura. E, prima di ciò, avevo rivissuto i momenti in cui le mie labbra avevano toccato quelle degli altri. Che il mio subconscio stesse tentando di dirmi qualcosa? Forse voleva suggerirmi di lasciar perdere tutti quei drammi inutili e concentrarmi sulle battaglie che avrei dovuto combattere a breve. O magari voleva avvertirmi che sarebbe stato meglio non innamorarsi di nessuno e pensare a coronare i miei sogni. In ogni caso, le distrazioni non erano positive. Però poteva anche essere una rielaborazione in chiave onirica di ciò che era successo nell’ultimo periodo. Ma perché la mano?
«Sei sicura di stare bene? Non hai nemmeno finito i calamari,» fece Penguin, piegando la testa da un lato.
Lo guardai con eloquenza e gli allungai il piatto. «Puoi finirli tu.»
«Ti amo.» Mi rivolse un sorriso a trentadue denti, la sua preoccupazione aveva lasciato posto alla gioia.
Ryu aveva fatto gli anelli di calamari fritti per cena, e quando li faceva c’era sempre fermento. Era una vera e propria competizione cercare di assicurarsene quanti più possibile, perché erano buonissimi e nessuno voleva rinunciarvi. Io non riuscivo mai a regolarmi e ne avevo presi più di quanti riuscissi a mangiarne, per questo li avevo ceduti a Penguin. Non era stato un atto di gentilezza, non c’era spazio per la gentilezza quando Ryu faceva gli anelli di calamari fritti.
«Ho sempre saputo che preferisci lui a me...» Shachi si finse offeso.
Alzai gli occhi al cielo e gli passai il bicchiere di vino. «Tu puoi finire questo.»
I suoi occhi si illuminarono. «Ti amo.»
I due idioti poi tentarono di abbracciarmi.
«Limitiamoci all’amore platonico,» li respinsi, stoppandoli prima che potessero avvicinarsi troppo. Ci rimasero male, ma ormai era prassi per loro, lo avrebbero dimenticato in un paio di minuti.
Il resto della cena era scorso tranquillo. Poi ero andata di nuovo in infermeria: mi aspettava l’inventario, per la mia gioia.
 
«Ecco qui, Chuck.» Diedi una pacca sulla spalla al manichino. Avevo deciso di fare un po’ di pratica con Chuck. Non era lo stesso senza Kenji vicino che mi incoraggiava, era un po’ noioso, ma comunque efficace. Stavo migliorando con le suture: ero più veloce, più precisa e il polso non tremava più. La paura che iniziasse a farlo c’era sempre, però per quello avevo l’Isolachenoncè. Se sentivo arrivare il tremore mi bastava chiudere gli occhi, andare lì con la mente, lasciarmi fluttuare in aria e ammirare il panorama; e tornavo a rilassarmi e a credere in me stessa. Quel pomeriggio aveva funzionato.
«Ci vediamo presto.» Salutai il mio amico di gomma con la mano e lo riposi nel suo armadio. Avrei preferito di gran lunga intrattenere una conversazione con un fantoccio inanimato piuttosto che eseguire gli ordini di Law, eppure non avevo altra scelta.
Mi ritrovai a fissare la mensola dei medicinali, indecisa sul da farsi. Alla fine optai per prendere un’altra compressa di ibuprofene. Mi avrebbe aiutato a tenere sotto controllo il fastidio che mi provocava la ferita e anche quello che mi provocava fare l’inventario.
Mentre stavo compilando il foglio degli antipiretici mi misi a ridere. Qualche ora prima ero stata quasi tagliata in due. Se non avessi avuto i riflessi pronti avrebbero dovuto raccogliere il mio cervello con il cucchiaino. Avevo rischiato di morire, quel giorno. In realtà avevo rischiato di morire anche nei giorni precedenti, più volte. E adesso stavo facendo la lista dei medicinali che servivano ai Pirati Heart come se non fosse successo nulla di che. Era assurdo. Era quella la mia nuova normalità? Stare con Cappello di Paglia e la sua ciurma era un azzardo, era vivere sempre sul filo del rasoio. Ti cambiava la prospettiva delle cose e spesso anche la vita. Loro vivevano come se ogni istante fosse l’ultimo. E fu lì che mi venne l’illuminazione.
Mi alzai e mi diressi a passo svelto verso la cabina di Maya e Omen.
«Credo che dovreste sposarvi,» dissi dopo che la mia amica ebbe aperto la porta. I due erano già in pigiama.
«Sì, è quello che vorremmo fare.» Sembrava perplessa.
«Intendo subito.»
«Sei sicura di stare bene?» mi chiese Omen, dietro di lei.
«Sentite, la vita è breve e le insidie sono molte. Domani potreste cadere in un mulinello, o rimanere bloccati su un’isola sott’acqua, oppure essere trafitti da un fendente volante scagliato all’improvviso. Tutti noi potremmo lasciare questo sottomarino in qualsiasi momento e non tornarvi più.»
«Io non credo che...» provò a dire la ragazza, ma io non la lasciai parlare.
«Siamo pirati, le nostre vite sono sempre in bilico. Dobbiamo cercare di vivere senza rimpianti, perché potremmo morire ogni giorno. Non voglio dirvi cosa fare, ma... stiamo per andare in guerra contro Kaido. Sapete che non sarà facile, che c’è una buona probabilità che alcuni di noi non sopravvivano, o che vengano catturati. Voi vi amate! Quindi, perché aspettare a sposarsi? Perché non coronare subito il proprio sogno d’amore?»
«Non si può dire che tu non sappia fare discorsi ispirati,» commentò Omen. Potevo percepire che qualcosa era scattato in lui.
Lo ignorai e continuai: «Le cose non torneranno più come prima, dopo la guerra. Adesso voi siete qui, state bene. Avete la felicità a un palmo dal naso, dovete solo allungare le mani e afferrarla. E se ci tenete a condividerla con i vostri cari, fatelo subito, perché la vita non aspetta.»
Li avevo lasciati senza parole. Non era facile lasciare Maya senza parole, ma quella volta lo feci.
«Non sto cercando di convincervi a sposarvi ora, non dovete farlo se non vi sentite pronti o se volete un matrimonio in grande e organizzato nei minimi dettagli. Non intendevo mettervi pressione, volevo solo condividere il mio pensiero, un pensiero che ho maturato passando del tempo con Cappello di Paglia e i suoi, che vivono ogni giorno come se fosse l’ultimo.» Sorrisi e diedi una pacca sulle spalle a entrambi. Li lasciai che si guardavano perplessi ma complici, come sempre. Si guardavano con complicità anche dopo un litigio pesante. Era una delle cose per cui ammiravo e invidiavo allo stesso tempo ciò che avevano loro due.
«Accidenti a te, ne sai una più del diavolo, ragazzina!» mi gridò Maya mentre me ne tornavo in camera. A quanto pareva avevo centrato il bersaglio. E avrei fatto meglio a darmi da fare: avevo un matrimonio da organizzare.

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Capitolo 14
*** Matrimonio ***


«Spiegami perché dobbiamo indossare qualcosa che non abbiamo deciso di indossare anche in un giorno in cui il Capitano ci ha dato il permesso di non mettere la divisa,» disse Shachi da dietro la tenda del camerino. Ci trovavamo da un sarto, sull’isola Malzen, sulla quale ci eravamo fermati già da due giorni.
«Io oltretutto odio il rosso,» gli fece eco Penguin. «Il blu mi dona molto di più.»
Alzai gli occhi al cielo. Si lamentavano più di Bepo quando approdavamo su un’isola estiva. «Perché Maya ha deciso che voi due idioti la accompagnerete all’altare, e desidera che chi la accompagna sia vestito di rosso, che per lei è il colore dell’amore. E noi non vogliamo contraddirla, vero? Non vogliamo che si stressi e si metta a fare scenate isteriche, no?»
Il giorno seguente Maya e Omen si sarebbero sposati. Li avevo convinti a cogliere l’occasione al volo e suggellare il loro amore. Però non volevano rinunciare ad avere il matrimonio dei loro sogni, e spettava a me organizzarlo. Non credevo che sarei mai arrivata a pensarlo, ma preferivo di gran lunga fare autopsie al pianificare matrimoni. Almeno i cadaveri non avevano pretese: niente vestito perfetto, niente fiori, niente location, niente di niente. Pensavo di aver avuto una buona idea nel convincere i due piccioncini ad anticipare il matrimonio, invece mi sbagliavo. Era estenuante. C’erano un sacco di cose a cui pensare e se queste non venivano fatte come voleva Maya – che di solito era la più calma ed equilibrata della ciurma – diventava isterica. Mia zia diceva che il matrimonio cambiava le persone, ma non avevo capito che intendesse anche il giorno del matrimonio. La cosa positiva era che alla mia amica piaceva quel posto, sosteneva che fosse pittoresco, memorabile e quindi perfetto per sposarsi. Anche a Law e al resto dell’alleanza andava bene. Dopo che Maya e Omen avevano comunicato la notizia, tutti avevano acconsentito a rimanere ancorati al porto. Era comunque nei piani che sbarcassimo per fare rifornimento, un paio di giorni in più di permanenza non avrebbero stravolto la nostra tabella di marcia. Avevamo avuto fortuna.
La tendina si scostò e la testa dell’Orca fece capolino. «Non è lei il nostro Capitano, quindi non capisco perché devo assecondare le sue richieste.»
«Perché domani mi sposerò. Ora, il matrimonio è un evento unico, che ricorderò per il resto dei miei giorni. Per anni sono stata la sola donna sul sottomarino e voi avete reso la mia esistenza un inferno. Ho sopportato in silenzio e non ho detto nulla perché vi voglio bene, ma c’è stato più di un momento in cui ho pensato di uccidervi tutti, alcuni anche in modi dolorosi. Ho pulito i vostri bagni, ho resistito ai vostri odori sgradevoli, non ho replicato ai vostri commenti sessisti, ho cucinato per tutti quando ancora non avevamo un cuoco, ho aiutato i medici a prendermi cura di voi quando stavate male e vi ho salvato il sederino in battaglia innumerevoli volte. Ho sempre saputo che siete un branco di ingrati, ma in questi due giorni non vi è concesso esserlo. Perché domani mi sposo e voglio che voi indossiate un completo rosso. Camicia rossa, pantaloni rossi e giacca rossa. Se non lo farete, mi assicurerò che i vostri indumenti si tingano del rosso del vostro sangue.» Maya era comparsa dietro di noi dal nulla. L’avevo lasciata dal fioraio, per ritirare i fiori, era stata più rapida di quanto pensassi. Anche se non aveva avuto un tono aggressivo e non aveva alzato la voce, era stata comunque minacciosa e il suo messaggio era arrivato forte e chiaro. Persino il sarto si era andato a nascondere.
«Brava!» Applaudii al suo discorso mentre i due mammiferi si rintanavano nei loro camerini. Era ora che qualcuno gliene cantasse quattro. Io volevo bene a tutti, ma a volte la convivenza con loro non era affatto facile, avrebbero messo a dura prova chiunque.
La mia amica, senza dire una parola, venne verso di me. La sua aura era terrificante, tanto che anche io mi sarei voluta rifugiare in un camerino, sigillarlo e rimanere lì fino a che non si fosse sposata. E forse pure dopo.
«Il mio vestito è pronto?» domandò al titolare del negozio.
«Deve chiedere alla mia collega.» Indicò un punto dietro di sé. Era ancora intimorito da Maya, che mi trascinò dall’altra parte della stanza, nel settore femminile.
La donna che il giorno prima ci aveva preso le misure ci riconobbe e ci accolse con un sorriso, poi ci fece cenno di accomodarci nei camerini e andò a prendere i nostri vestiti, senza che ci fosse bisogno di dirle niente. Quando mi consegnò il mio, me lo provai e mi osservai allo specchio. Al contrario di tutto il resto, era sobrio. Era in chiffon – o qualcosa di simile – e mi arrivava fino alle caviglie. Era monospalla, senza maniche e mi fasciava in vita. Poiché aveva optato per un bouquet di rose arancione chiaro e rosa pallido e io avrei dovuto tenerle i fiori durante la cerimonia, Maya aveva deciso che il mio vestito si sarebbe dovuto abbinare al mazzo, perciò l’aveva scelto color pesca. La mia amica aveva sempre avuto gusti esotici e audaci, che io non condividevo tutte le volte, però alla fine era venuta fuori una bella combinazione. Innovativa ma elegante. Mi piaceva, avrei indossato quel vestito con gioia. L’unica pecca era che la cerniera coincideva proprio con il taglio che avevo sul fianco e mi dava un po’ fastidio, ma era sopportabile. Per fortuna almeno la cintura – che tenevo sotto l’abito – non si vedeva.
«Camilla, vieni qui.» mi chiamò Maya dal camerino accanto.
«Oddio...» sussurrai tra me e me, nel panico. Il fatto che avesse usato un tono solenne e che mi avesse chiamato con il mio nome per intero non faceva presagire nulla di buono. Non volevo morire a causa di un dannato matrimonio.
Mi schiarii la voce. «Posso entrare?»
La mia amica non rispose, si limitò a scostare di poco la tendina. Quando le fui di fronte notai che era ancora in abiti normali, non si era nemmeno provata il vestito. Non aveva più un’aria minacciosa, quanto piuttosto spaesata.
Non ci fu nemmeno bisogno che le chiedessi quale fosse il problema, perché fu lei a parlare: «Me la sto facendo sotto.»
Boccheggiai per un attimo. Non ero preparata a questo, né sapevo come arginare il problema, non ero mai stata sul punto di sposarmi! Per un nanosecondo mi passò per il cervello di chiamare il Capitano e far sbrogliare la situazione a lui. Il tatto e la delicatezza non erano sue prerogative, ma sapeva essere convincente. Poi però realizzai che aveva già fatto la sua parte offrendosi di pagare di tasca sua il matrimonio e che non era il caso di infastidirlo ulteriormente. Nel suo cuore c’era spazio per un’opera buona alla volta. Anzi, eravamo rimasti tutti stupiti dal suo gesto. Ma chi lo conosceva davvero sapeva che non era una cosa tanto eclatante come poteva sembrare: era un bravo Capitano, e in fondo – molto in fondo – era anche una brava persona.
«Ok,» dissi infine.
«Ok?» Maya corrugò le sopracciglia.
«Io... credo che sia normale farsela sotto il giorno prima del matrimonio.» Mi strinsi nelle spalle. Dovevo stare molto attenta a ciò che avrei detto. «Non è che stai andando a comprare un cartone di latte. Ti stai legando per la vita a un’altra persona.»
Nel sentire le mie parole la mia amica assunse un’espressione terrorizzata e io maledissi me stessa. Dovevo rimediare.
Presi un respiro profondo. «Se non ti vuoi più sposare, va bene. Di certo io non ti costringerò a farlo. Però devi mettere in conto che, se annullassi il matrimonio perché hai paura, oltre ai problemi, alle liti e ai compromessi che ti aspettano, rinunceresti anche all’amore, alla felicità, alla bellezza dell’amare e dell’essere amata. E conosci bene Omen, sai quanto amore potrebbe darti. Non ti tratterrò se vuoi dartela a gambe, se è questo che vuoi. Anzi, potrei distrarre il tuo fidanzato mentre scappi, in fondo è colpa mia che ti ho sollecitata ad anticipare il matrimonio se ti stanno venendo dei dubbi. Ma, ti prego, accetta il consiglio di una persona che per tanto tempo si è lasciata scivolare dalle mani le cose belle della vita perché aveva paura: non rinunciare a quello che può renderti davvero felice perché sei spaventata da ciò che potrebbe accadere di brutto.»
Non pensai a ciò che dissi, le parole vennero fuori da sole. Furono sincere. E sentite. E anche un po’ romanzate, ma l’importante era che convincessero Maya. A quanto pare fecero effetto, perché si calmò. Aspettò un po’ prima di parlare, però.
«Sei una brava persona e una brava amica, Cami-chan.» Incastonò le sue iridi alle mie. Erano tornate limpide, con mio grande sollievo. «E per la cronaca, tu non hai colpe. Ho solo avuto un momento di sbandamento.»
«Capita a tutte le spose!» gridò la sarta dall’altra parte della tenda. A quanto pareva aveva origliato tutta la nostra conversazione. Non gliene facevo una colpa.
«È che mi sono lasciata trasportare dai brutti pensieri. Ma sono felice di sposarmi e di farlo domani, in realtà. Non avrebbe senso aspettare oltre, Omen è la persona più...» Cercò la parola giusta da usare per elogiarlo, senza riuscirci. Annuii sapientemente, per non perdere altro tempo. Avevo capito cosa intendesse dire, a volte delle semplici parole non potevano spiegarlo.
«Vuoi che ti aiuti a provare il vestito?» Sperai di non aver fatto l’ennesimo passo falso, però mi sembrava che si fosse tranquillizzata.
Scosse la testa e sorrise. «Mi vedrai domani con il vestito addosso, come tutti gli altri.»
«D’accordo.» Le sorrisi anche io. «Ma per qualsiasi cosa...»
«Puoi stare tranquilla. Ora va’.» Mi fece l’occhiolino. Era tornata in sé, non c’era da preoccuparsi.
Quando uscii dal camerino della mia amica mi ritrovai di fronte i due microcefali con il completo rosso. Mi osservarono dalla testa ai piedi e poi fecero un’espressione estasiata. Quasi mi parve di vederli sbavare. Erano peggio di Sanji.
«Oh, Cami...»
«Come stai bene vestita così!»
«Sei divina!»
«No!» esclamai, dirigendomi a passo svelto verso di loro. Piazzai gli indici sotto alle loro narici. «Nessuno avrà un’epistassi con indosso i vestiti del matrimonio. Dovranno rimanere immacolati, sia oggi che domani. Se una sola goccia di sangue o di qualsiasi altra sostanza macchierà questi vestiti, vi garantisco che vi pentirete di avermi conosciuto.»
Prima di andare a cambiarmi, mi assicurai che avessero capito l’antifona facendo cozzare le loro teste l’una con l’altra. Anche se i completi erano rossi, ero sicura che il sangue non avesse la stessa gradazione dei vestiti, e a quel punto Maya sarebbe stata incontenibile. Avevo appena scongiurato una crisi, non ne avrei retta un’altra.
 
***
 
Una delle cose che più odiavo al mondo era il dover indossare i tacchi. L’idea di averli ai piedi non mi dispiaceva, mi sentivo bene quando li mettevo, ma oltrepassati i dieci minuti di tempo diventava una tortura. A questo pensavo mentre stavo in piedi ad aspettare che Maya facesse il suo ingresso. Qualche metro più in là, Omen era un fascio di nervi. Kenji, che era il suo testimone, stava cercando di tranquillizzarlo. Non c’era persona più adatta a farlo. Law invece, che in quanto Capitano aveva l’autorità per congiungerli in matrimonio, era infastidito. Era già riluttante all’idea di dover celebrare la cerimonia, farlo aspettare non era saggio. Ma sapevo che non avrebbe brontolato, due dei suoi sottoposti stavano per sposarsi, era un bel momento.
Mi guardai intorno. Ci trovavamo su un prato in cima a una scogliera, da lì potevamo vedere tutta Malzen. Era una bella isola, molto pittoresca e memorabile, come diceva Maya. Alla nostra sinistra c’era il villaggio, che era moderno e animato. Ogni edificio aveva un colore diverso, le tinte calde primeggiavano. A destra invece spiccavano le montagne, alte, ricoperte di verde e a punta. A dividere la parte montuosa dalla valle c’era un fiume sulle cui rive vi erano ormeggiate tante barchette. Era un paesaggio che a me metteva allegria, un ottimo luogo per sposarsi. Anche il tempo era ottimale, era un’isola dal clima primaverile-estivo: il sole illuminava e scaldava la radura, ma la lieve brezza che soffiava impediva che ci squagliassimo.
«Stai benissimo. Questa pettinatura ti dona molto.» Una voce timida mi riportò alla realtà. Era Kenji. Mi stupì che volesse parlarmi, ma accettai il complimento. Era stata Nami ad acconciarmi i capelli: me li aveva raccolti in uno chignon basso e lasciato due ciocche libere sulle tempie.
«Grazie. Anche tu stai benissimo.» Gli sorrisi, poi distolsi lo sguardo. Non sapevo ancora bene come comportarmi con lui. Se fosse dipeso da me saremmo tornati alla normalità fingendo che quel bacio non ci fosse mai stato, però per il rosso non era lo stesso. Lui sembrava incapace di dimenticare, forse non pensava che saremmo stati in grado di recuperare la nostra amicizia.
Brook, a cui avevo dato l’incarico di pensare alla musica, iniziò a suonare una melodia lenta e armoniosa con il violino. Ci voltammo tutti e rimanemmo senza fiato. A una trentina di metri da noi, tra Shachi e Penguin, c’era Maya, pronta per camminare fino a Omen. Il suo volto, quando la vide, si illuminò, non avevo mai visto un’espressione del genere. Era... puro amore. Mi chiesi se un giorno qualcuno avrebbe guardato così anche me. Il mio sguardo ritornò su Kenji per una frazione di secondo, poi di nuovo sulla sposa. Era bellissima. Il vestito era esattamente come l’aveva disegnato lei, e addosso le stava ancora meglio di quanto avessi immaginato. I sarti avevano fatto un ottimo lavoro ed erano stati anche celerissimi. I suoi ricci erano meno spumosi e più definiti e a tenerli in ordine non c’era la solita bandana gialla, ma un sottile velo bianco calato sul viso. Sotto di esso riuscivo a vedere quanto fosse emozionata. Era strano, lei non era per niente emotiva, né il tipo di persona che avrebbe voluto un matrimonio principesco. Supponevo che lo ritenesse il metodo migliore per celebrare l’immenso sentimento che legava lei e Omen. Oppure era semplicemente andata fuori di testa. A volte l’amore faceva questo effetto.
Nel tempo che ci misi ad ammirarla arrivò fino a noi e con mani tremanti mi consegnò il bouquet. La cerimonia poteva iniziare.
 
La celebrazione durò poco, Law non era uno di troppe parole, per fortuna dei miei piedi doloranti. Perciò, dopo aver detto un classico e riluttante “Oggi siamo qui riuniti per celebrare l’amore tra Omen e Maya”, aveva lasciato che Bepo portasse le fedi. Poi era arrivato il tempo delle promesse.
Entrambi gli sposini erano emozionatissimi. E anche alcuni dei Pirati Heart non erano da meno: Kenji, il Visone e Ryu avevano già gli occhi lucidi. Chi l’avrebbe mai detto che quel burbero del cuoco si sarebbe commosso per un matrimonio.
«Non sono mai stato bravo ad esprimere i miei sentimenti, tu lo sai bene,» iniziò lo sposo dopo aver preso un respiro profondo. Aveva la salivazione a zero e dovette deglutire più volte prima di continuare. Mi piaceva molto di più senza la maschera che gli copriva il volto, lo rendeva più umano. «Ma oggi, per te, mi sono sforzato di farlo. E... beh, non ho trovato le parole per comunicarti ciò che provo per te. Non credo nemmeno che esistano delle parole giuste, in effetti. So solo che ti amo, e che tutto il resto non conta. Tu mi fai sentire una persona migliore, una persona degna di essere amata.»
Nel sentire quelle parole un brivido mi percorse la schiena e mi ritrovai a guardare Law, che stava ascoltando impassibile. Mi chiesi se anche noi due, un giorno, ci saremmo sentiti degni di essere amati da qualcuno. Distolsi lo sguardo quando mi accorsi che mi stava fissando. Realizzai che anche Kenji mi stava osservando e lasciai che i miei occhi vagassero imbarazzati fino a Rufy, che stava sorridendo. Accanto a lui c’era Zoro, che aveva puntato i barili di rum sul tavolo del rinfresco, poco più in là. Non ero l’unica che desiderava che la cerimonia si concludesse presto.
«E io ti prometto che sarò sempre al tuo fianco, nei momenti felici e in quelli infelici, fino a che non ti sarai stancata di me. E prometto che ti supporterò e sopporterò anche quando le cose si faranno difficili,» continuò Omen, riportandomi alla realtà. «Non posso prometterti che ti amerò fino alla fine dei miei giorni, però, perché so già che sarà così.»
Lei gli accarezzò una guancia con il dorso della mano e sorrise con l’espressione più innamorata che avessi mai visto, poi si schiarì la voce.
«Come sai, provengo da un’isola in cui vige l’antico preconcetto che il ruolo delle donne sia quello di essere brave mogli e nient’altro. Fin da piccole ci viene insegnato a cucinare, a cucire, a fare il bucato, a occuparci della casa. Ci dicono che il nostro destino è quello di legarci a un uomo, sposarci presto e fare figli.» Fece una pausa, forse per dare il tempo a tutti i presenti di metabolizzare. Io conoscevo già la sua storia, me l’aveva raccontata. Questo spiegava perché sapeva cucire e lavare così bene – al contrario di me – ma era comunque molto triste che sulla sua isola insegnassero alle donne a vivere in funzione di altre persone e non per se stesse. Conoscevo quella sensazione, ci ero passata, era terribile. «Io non volevo questo. Non ho mai voluto questo. Sapevo fin da bambina che non mi sarei sposata e non avrei avuto figli. Ecco perché quando avevo sedici anni ho preso il mare e non mi sono più voltata indietro.» Diede una rapida occhiata a Law, che era il suo salvatore. Era il salvatore di tutti noi. «Desideravo essere libera e indipendente, fare baldoria, darmi al saccheggio occasionale e vedere il mondo, senza rimpianti e senza legami. Ma tu, Omen, tu... mi fai desiderare di avere tutto quello che non avrei mai pensato di volere: un marito, una casa tutta nostra, una famiglia.»
Mentre Maya prendeva un respiro profondo prima di continuare, assottigliai gli occhi per capire se Omen stesse piangendo o meno. Secondo me stava lottando con tutte le sue forze per non farlo.
«Ti prometto che sarò una brava moglie. E, se decideremo di allargare la famiglia, ti prometto che sarò una brava madre. Non perché è il mio dovere in quanto donna, ma perché voglio esserlo, perché meriti che io sia la migliore versione di me stessa, sempre.»
Qualcuno dei miei compagni era diventato una fontana. Anche Franky. Io mi limitai a sorridere a trentadue denti. Anche se non stavo piangendo, ero molto commossa. I pirati non erano molto romantici, ma la maggior parte di noi desiderava avere quello che avevano Maya e Omen. Le loro parole avrebbero scaldato il cuore a chiunque. Con la coda dell’occhio vidi che anche l’espressione del chirurgo si era ammorbidita. Nemmeno lui era immune alla potenza del vero amore, a quanto pareva. E pensare che non voleva neanche celebrare il matrimonio.
«Per il potere conferitomi dalle leggi del mare, in quanto Capitano dei Pirati Heart, vi dichiaro marito e moglie. Potete baciarvi,» disse sogghignando appena dopo che si furono scambiati le fedi. Aveva evitato di chiedere loro se volessero diventare l’uno il marito dell’altra e viceversa: sapevamo tutti che non c’era bisogno che glielo domandasse. Anzi, gli ero grata per essersi sbrigato, così potevo togliermi le scarpe e darmi all’alcol.
Nel momento in cui gli sposi congiunsero le loro labbra per scambiarsi un bacio appassionato, ci fu un boato. Applaudimmo, fischiammo e gridammo tutti. Quasi tutti, Law si limitò a fare un cenno d’intesa. Almeno stava sorridendo.
 
La cosa che più mi piaceva dell’essere pirati e, in questo caso, dei matrimoni tra pirati, era che non c’erano norme sociali da rispettare. Certo, nessuno si sarebbe spogliato e messo a correre nudo per l’isola, ma non dovevamo morire di fame o di sete mentre aspettavamo gli sposi. Non dovevamo metterci seduti a dei tavoli prestabiliti e attendere che i camerieri ci portassero i piatti. Non dovevamo neanche fingere di socializzare tra noi. Ma soprattutto non dovevamo avere per forza le scarpe ai piedi. Dovevamo solo avventarci sulla montagna di cibo e alcol che Ryu aveva preparato per noi, senza convenevoli e senza complimenti. Questo era il tipo di libertà che mi piaceva.
«Allora? Com’è? Vi piace?» volle sapere il cuoco, impaziente. Aveva preparato tutta quella caterva di pietanze da solo. Sanji si era offerto di aiutarlo, ma lui aveva rifiutato, voleva che quello fosse il suo regalo di nozze per Omen e Maya. Era stato bravo, era riuscito a fare tutto in tre giorni. Ovviamente se l’era presa con me per il poco preavviso che aveva avuto, ma si era calmato quando si era ricordato che gli avevo salvato la vita.
Mi limitai a sollevare un pollice: era maleducazione parlare con la bocca piena.
«È buoniffimo! Ti fei veramente fuperato!» esclamò Shachi, che invece non era educato quanto me.
«E smettila di sputacchiare pezzi di cibo addosso a me!» lo redarguì uno dei medici poco più in là.
Il diverbio, però, iniziò e finì lì. Eravamo tutti troppo impegnati a cercare di accaparrarci i piatti migliori per metterci a litigare. Era vero, avevamo la libertà di scegliere quanto, quando e cosa mangiare, ma questo stava a significare che dovevamo darci una mossa se non volevamo rimanere a bocca asciutta. Soprattutto perché c’era Rufy “l’aspiratutto” in giro. Nemmeno l’alcol era al sicuro con Zoro. Fu con questo pensiero in testa che, dopo aver fatto scorpacciata di antipasti, raggiunsi lo spadaccino al tavolo delle bevande. Jean Bart aveva avuto una buona idea nell’allestire più tavoli.
Presi il primo bicchiere pulito che trovai e ci versai dentro una cospicua quantità di vino.
«Da domani, se per te va bene, possiamo riprendere ad allenarci,» dissi allo spadaccino, accanto a me. Annuì mentre tracannava mezza bottiglia di rum in un solo sorso. Avrei voluto avere la sua tolleranza all’alcol. E anche al dolore. In ogni caso ero contenta di tornare ad allenarmi con lui. In quei giorni, tra la ferita e il matrimonio da organizzare, non l’avevo fatto, ma ero decisa a riprendere senza risparmiarmi.
«Cami-chan! Amore mio! Come sei bella!» una voce stridula mi richiamò alla realtà e mi impedì di bere il mio nettare divino. Sanji stava venendo a gran velocità verso di me con espressione innamorata. Alzai gli occhi al cielo. Non avevo voglia di sorbirmi i suoi complimenti.
«Siete tutte splendide oggi!» squittì poi, continuando a macinare metri.
Guardai verso le altre ragazze. Nami aveva un vestito rosso attillato e provocante, mentre Robin aveva optato per una specie di tailleur azzurro pastello che si abbinava ai suoi occhi. Carrot aveva un vestito più innocente, verde lime. Tutti gli altri Mugiwara erano vestiti in giacca e cravatta. Supponevo che la cartografa ci avesse messo lo zampino, dopotutto non ci si poteva presentare a un matrimonio con una camicia hawaiana e degli slip. Chopper era molto tenero con indosso quegli indumenti. Tutti facevano la loro figura con i completi eleganti, perfino Penguin e Shachi, sebbene nessuno avesse rinunciato ai propri cappelli e altri accessori. Anche Law aveva deviato dai suoi soliti jeans maculati: si era messo una camicia bianca e un completo color antracite con cravatta abbinata. Nemmeno lui aveva abbandonato il suo fedele cappello, e un po’ mi dispiaceva, perché gli nascondeva le iridi ghiacciate, che con quell’abbigliamento risaltavano ancora di più. Ma era comunque bello. Sarebbe stato bello anche se avesse avuto addosso un sacco della spazzatura. La bellezza è soggettiva, ma nel suo caso era oggettiva.
Il tintinnio di un coltello su un calice mi salvò dalle avances del cuoco.
«Sappiamo che voi manigoldi volete solo abbuffarvi di cibo e trangugiare litri di alcol, ma dovrete fare una pausa, perché dobbiamo fare il brindisi.» Maya ci richiamò all’attenzione. A quel punto sapevamo tutti che dovevamo smettere di mangiare e fare come ci diceva la sposa se non volevamo che ci incenerisse.
«Prima di brindare, vorremmo che il Capitano e i nostri testimoni di nozze dicessero due parole,» aggiunse Omen, sorridendo speranzoso e stringendo a sé sua moglie. Fino a quell’istante erano rimasti un po’ in disparte per godersi il loro momento da novelli sposi. Non avevamo convenzioni sociali da rispettare, ma non ci eravamo liberati del brindisi.
Il Chirurgo della Morte non si premurò di nascondere il suo fastidio, ma alla fine, dopo che il resto dei pirati si fu disposto a semicerchio attorno ai consorti, fu il primo a raggiungerli e a parlare.
“Via il dente, via il dolore,” pensai, sghignazzando tra me e me.
«Siete i miei sottoposti, perciò vi auguro serenità e prosperità,» disse semplicemente, sollevando fiaccamente il calice e tornando dove stava prima.
Il resto dei suoi subordinati, dopo aver fatto un debole applauso, lo ringraziò con lo sguardo per essere stato tanto breve e conciso, volevamo tutti tornare a bere, mangiare e fare baldoria. Maya e Omen non sembravano delusi dal suo intervento, quanto piuttosto divertiti. Del resto, era stato coerente con se stesso: chiaro, asettico e restio a qualsiasi manifestazione d’affetto.
«Wow. Un discorso da Premio Nobel,» lo provocai dopo che mi fui avvicinata a lui. Non poteva aver capito il mio riferimento, ma questo non lo fermò dallo sfoggiare un sorrisetto infastidito.
«Non potresti fare di meglio.»                                                  
«Ascolta e impara.» Gli regalai un’occhiata maliziosa, poi raggiunsi il centro e presi un respiro profondo. Sapevo di dover fare un discorso, Maya mi aveva avvisato. Non era stato facile trovare le parole giuste, nei giorni precedenti più ci avevo pensato e meno mi erano venute idee, ma alla fine l’ispirazione mi era venuta mentre prendevo un sorso del liquido alcolico che tanto amavo.
«Io dico che l’amore è come un bicchiere di vino. Può essere rosso, come la passione che lega due persone; o bianco, come la purezza di un sentimento destinato a non estinguersi mai. Ti rende ebbro, felice, ti riempie di quel sentimento speciale che sai di non poter provare in un altro modo. Ti scalda l’anima, e ti lascia anche un po’ di amaro in bocca. A volte ti dà la nausea, a volte ti migliora l’umore. Ma, alla fine della giornata, sai di non poterne fare a meno. E poi, più invecchia e più diventa buono. Perciò, mi auguro che il vostro bicchiere dell’amore sia sempre pieno. Alla salute!» Sollevai energicamente il calice verso gli sposi. Maya sorrise fiera e Omen fece un piccolo inchino scherzoso.
«Sì!»
«Brava!»
I due marpioni mi applaudirono, e poco dopo si unirono tutti gli altri. Era bello avere dei riscontri del genere da parte di quei burberi dei miei compagni. Mi fece sentire ancora di più parte di quella strana famiglia, mi diede un senso di appartenenza e mi rese felice.
«Questo è un discorso come si deve,» canzonai il Capitano quando lo ebbi di nuovo raggiunto. Valutai l’ipotesi di dargli una pacca sulla spalla, ma rinunciai: non volevo perdere un arto. Mi limitai a ghignare vittoriosa.
«Mi chiedo da quale film tu l’abbia preso.» Anche lui si mise a sogghignare.
«È tutta farina del mio sacco!» Mi finsi offesa. Sapevo che mi stava solo provocando, in realtà lui conosceva le mie potenzialità meglio di tutti. «Anzi, vino della mia bottiglia,» scherzai, ridacchiando alla mia stessa battuta triste.
Prima che Law potesse replicare, però, fu il turno di Kenji.
«Non è facile parlare dopo quello che ha detto Cami,» iniziò, nervoso.
«Non farti problemi!» esclamò Ryu, come per incoraggiarlo. «Anzi, sbrigati ché la carne si fredda!» aggiunse poi, facendo scappare una risata a me e – strano ma vero – al chirurgo. Mi piaceva vederlo ridere.
«Io credo che l’amore sia la testimonianza che gli esseri umani sono in grado di produrre magia.» Al rosso tremava la voce, tanto che dovette fermarsi e schiarirsi la gola. La sua emozione faceva tenerezza.
«Sembra che ci sia qualcuno più bravo di te a fare discorsi,» mi sussurrò Law all’orecchio. Quando mi voltai a guardarlo notai che aveva un ghigno. Alzai gli occhi al cielo. Tutto pur di non darmela vinta.
«L’amore stesso è una magia. E voi due insieme producete una magia incredibile. Tanto potente quanto bella. Ma l’amore è anche un miracolo. Perché non tutti sono capaci di provarlo, non tutti lo cercano e non tutti vogliono provarlo.» Si fermò di nuovo e guardò verso di me. Sospirai e distolsi lo sguardo. Smisi anche di ascoltare. L’ultima cosa che volevo era passare quella bella giornata a torturarmi al pensiero che avevo ferito Kenji e rovinarmela.
Non colsi una parola di quello che disse nei successivi cinque minuti, sentii solo Ryu che imprecava sottovoce perché il medico ci stava mettendo troppo. Mi ridestai soltanto quando udii “Auguri agli sposi!” e vidi i miei compagni alzare per la terza volta i calici in direzione di Maya e Omen. Mi aggregai agli applausi che fecero al rosso – ma non agli strilli scimmieschi che emisero in seguito – e ingurgitai l’alcol nel mio bicchiere. Dopodiché tornammo tutti a concentrarci sul banchetto per prendere le pietanze migliori. Era come andare in guerra.
«Fermi,» ci intimò Law.
Ci bloccammo tutti, alcuni con i bocconi di cibo a mezz’aria.
«Maya, Omen.» Rivolse lo sguardo a loro. «Ci conosciamo da parecchio tempo. Vi ho visti crescere, sbagliare, maturare, trasformarvi nelle persone che siete oggi. So bene chi siete. So chi è Omen e so chi è Maya. Due belle persone. Ma ora siete un’unica entità, e quello che siete insieme è...» Fece una piccola pausa, poi sollevò di nuovo il calice, stavolta con più convinzione. «Alla vostra.»
Gli sposi lo abbracciarono. Contemporaneamente. Dapprima lo vidi irrigidirsi, poi però cedette e ricambiò l’abbraccio, sotto gli occhi increduli di tutti i Pirati Heart e dei Mugiwara.
“Ah, i matrimoni...” pensai ridendo nell’assistere alla scena, mentre gli altri esultavano ed applaudivano di nuovo.
«Questo sì che era un brindisi degno della tua fama. Lieta di averti ispirato,» dissi al chirurgo una volta che anche lui si fu avvicinato ai tavoli.
Non prestai attenzione alla sua risposta, perché proprio in quel momento uno dei miei compagni, nel tentativo di arraffare le ultime pizzette, mi diede una forte botta sul fianco sinistro. Emisi un lamento di dolore e poi imprecai a denti stretti.
Quando rialzai lo sguardo vidi le iridi di Law puntate su di me, d’un tratto interessate. Non volevo che scoprisse che avevo uno squarcio sull’anca.
«È che mi ha pestato un piede,» provai a giustificarmi con un sorriso sornione. Non sapevo neanche perché ci provavo. Era inutile, aveva capito tutto.
Si piazzò di fronte a me con un ghigno pericoloso stampato sulle labbra e mi fece scudo con il suo corpo per evitare che qualcun altro mi vedesse. Prima che potesse fare qualcosa, però, gli afferrai un polso e lo fermai.
«L’ultima volta che è successa una cosa simile mi hanno additato come la tua amante e sono finita su tutti i giornali con una taglia sulla testa,» lo redarguii, cercando di allontanarlo da me.
Il suo ghigno si allargò. «Quindi ti ho portato fortuna.»
Non riuscii a replicare in tempo, perché con un gesto rapido ed esperto mi tirò giù la cerniera del vestito.
«Questo deve essere un regalo dello spadaccino,» commentò divertito. Osservò la ferita per un po’, senza tuttavia toccarla: non si era disinfettato le mani.
«Sì. Ma è stato un incidente. Non è una ferita grave, per questo non ti ho detto niente. Non mi fa neanche male. E poi, ero in buone mani,» mi discolpai, ma in lui non c’era neanche una punta di rabbia, c’era solo diletto. Continuava ad osservare la lesione con un guizzo negli occhi.
Sospirai ed evitai il suo sguardo. Ero leggermente imbarazzata. Senza contare che attorno a noi c’erano una trentina di persone che avrebbero potuto accorgersi della situazione e fraintendere. Pensavo in particolare a una certa Gatta Ladra. Per fortuna erano tutti troppo impegnati ad avventarsi sul cibo per prestare attenzione a noi. Sperai che in giro non ci fossero paparazzi o giornalisti di alcun tipo.
«Hai fatto bene ad usare questo tipo di sutura e a distanziare i punti. È stata una buona idea.»
Non riuscii a contenermi e feci un sorriso a trentadue denti. In realtà ero consapevole di aver avuto una buona idea, ma avevo bisogno di quel complimento, soprattutto se proveniva da lui, perché sapevo che era sincero. Non pensavo che sarei mai tornata a praticare la chirurgia, invece eccomi lì, con uno dei migliori chirurghi al mondo che mi aveva appena fatto i complimenti per il mio lavoro.
«Come facevi a sapere che sono stata io ad applicare i punti?» gli chiesi dopo essermi ritirata su la cerniera del vestito.
«Riconoscerei la tua mano anche ad occhi chiusi.» Sollevò un angolo della bocca e si allungò per prendere un oni giri.
Se possibile, sorrisi ancora di più.
 
Sospirai, lasciando che l’erba fresca mi solleticasse i piedi. Viaggiando sul Polar Tang, quella era una sensazione che mi mancava, come mi mancavano i tramonti. Quel giorno, però, potevo godermeli entrambi. I toni pastello del cielo facevano da sfondo ai Pirati Heart e ai Mugiwara mentre ridevano e scherzavano insieme. Brook aveva suonato fino a poco prima, poi si era preso una meritata pausa. Era stato ineccepibile, ci aveva deliziato le orecchie per cinque ore, era giusto che anche lui si godesse quel poco che rimaneva della giornata. Però non potevamo fare a meno della musica, perciò avevo chiesto una mano ad Usop, che ne sapeva una più del diavolo quando si trattava di strani aggeggi.
«Ehi, Cami,» mi richiamò, mentre sistemava il Dial amplificatore accanto al mio cellulare. «Hai fatto un bel discorso, prima. Non ti facevo così poetica. Né così alcolizzata.»
Scrollai le spalle e sorrisi. Ne erano cambiate di cose da quando ci eravamo separati, anche se all’apparenza era rimasto tutto uguale. «Si fa quel che si deve fare per sopravvivere.»
Sbuffò una risata. «Giusto. Il Dial è pronto, comunque. Devi solo mettere la canzone e premere il pulsante.»
Mi illustrò quello che dovevo fare, lo ringraziai e lo lasciai andare. Era stato geniale quando aveva deciso di portare con sé i Dial di Skypiea. Me ne aveva mostrati alcuni, ce n’erano di tutti i tipi ed erano utilissimi, tanto che mi aveva dato un’idea che avrei messo in pratica dopo le nozze. In quel caso la conchiglia avrebbe fatto da altoparlante per il mio telefono, il cui volume massimo era troppo basso perché la musica potesse arrivare a tutti.
Il giorno prima avevo fatto una playlist apposta per il matrimonio, nella quale avevo inserito le mie canzoni d’amore preferite tra quelle che avevo scaricato. Ero una brava wedding planner. Se con la chirurgia non fosse andata bene, avevo un’alternativa. Gli sposi qualche ora prima avevano passato dieci minuti buoni a ringraziarmi per averli aiutati. C’erano stati abbracci stretti, sorrisi e complimenti. L’unica cosa per cui mi dispiaceva era non essere riuscita ad organizzare gli addii al celibato e al nubilato. Non c’era stato né tempo né modo. Ma nessuno si era lamentato, e per il resto avevo fatto un ottimo lavoro.
Decisi di mettere una delle canzoni più significative, “Unconditionally” di Katy Perry. Io ero stanca ed ero rimasta appoggiata al tavolo – ormai privo di cibo – per gran parte del pomeriggio, ma era incredibile vedere come la maggior parte dei pirati avesse ancora le energie per ballare. Certo, i lenti non facevano per loro. Erano sgraziati, scoordinati e totalmente incapaci di tenere il ritmo e il tempo. Omen e Maya erano gli unici che sembravano aver capito come si ballassero.
«Che canzone lagnosa.» Law, riemerso da chissà dove, era venuto a prendere un bicchiere d’acqua. Il cibo era finito, ma le bevande per fortuna c’erano ancora. L’alcol non poteva mai mancare ai matrimoni.
Lo fissai contrariata. «Smettila, è bellissima. Ed è perfetta per noi.»
Spalancai gli occhi, stupita da me stessa e dalla mia affermazione. Mi era uscita così, senza volere e senza che mi rendessi conto di cosa stessi dicendo. Il Capitano mi guardò con leggera circospezione. Anche se non poteva capire l’inglese e quindi il contenuto della canzone, mi sentivo in dovere di correggermi. «Noi Pirati Heart, intendo. Tutti noi.»
Fortunatamente non mi chiese di cosa parlasse e per non fare altri danni mi versai del vino nel calice e lo bevvi lentamente. Mi persi ad osservare i miei compagni e la ciurma di Cappello di Paglia, illuminati dalla luce aranciata, e cercai di cogliere la loro essenza. I due sposini, neanche a dirlo, si stavano godendo la canzone ed erano stretti in un romantico abbraccio. Ryu stava dando disposizioni per riportare stoviglie e padelle sul Polar Tang a Jean Bart, al quale toccava fare da facchino come al solito. Bepo si stava scusando con Kenji per averlo urtato per sbaglio poco prima. Nami aveva appena dato un pugno per uno a Shachi e Penguin, che stavano tentando di farle delle squallide avances. Rufy stava tallonando Sanji perché aveva ancora fame, Usop e Chopper si erano scatenati in una strana danza tribale, guidati da Franky e Carrot, che dettavano il ritmo battendo le mani. Brook e Robin stavano parlando di qualcosa, il primo rideva mentre l’altra sorrideva con una mano sulla guancia. Zoro si trovava un po’ in disparte, seduto a gambe incrociate. Aveva portato con sé un barile di rum e alternava momenti in cui sonnecchiava a momenti in cui beveva. All’appello mancava solo Marco, poi ci saremmo stati tutti.
Mi voltai a guardare Law, anche lui stava osservando i suoi alleati e sottoposti. Sembrava assorto nei suoi pensieri. Sospirai. Chiedergli di ballare era come chiedere a me di farmi fare un prelievo sangue. Proprio in quel momento, la canzone cambiò e partì “A Thousand Years” di Christina Perri.
«Questa non è meglio,» commentò il chirurgo dopo un po’.
«Questa dice: “ti amerò per mille anni”,» lo istruii. Fece una faccia disgustata e io risi. Poi mi avvicinai al suo orecchio. «Non temere, Traffy. Io ti amerò per milledieci anni.»
Fece un’espressione ancora più schifata, non sapevo però se fosse perché lo avevo chiamato “Traffy” o perché l’idea che potessi amarlo lo ripugnava. Decisi di ignorare la sua espressione e continuai: «Devo utilizzare in qualche modo i dieci anni che mi hai ridato.»
«Non intendo passare i miei ad ascoltare le tue canzoni noiose,» mi avvisò sogghignando.
«Potremmo passarli giocando a Machiavelli. Sarebbero dieci anni gloriosi, per me.» Sollevai un sopracciglio in segno di sfida.
«Oppure potrei passarli a sperimentare nuove procedure mediche su di te.» Si avvicinò, fece scivolare un dito sulla mia giugulare e ghignò. Aveva assunto un’espressione da pazzo, gli occhi gli brillavano di malizia.
Rabbrividii all’idea e anche al suo tocco e decisi che sarebbe stato meglio cambiare argomento.
«Hai fatto la scelta giusta decidendo di farti ridare anche tu i dieci anni di vita,» gli dissi, ammorbidendo il tono di voce e guardandolo fiera. Sapevo che nel profondo pensava di non meritarsi di vivere quei dieci anni in più e che non potevo convincerlo che non era così, ma aveva preso la decisione giusta.
Incastonò le sue iridi alle mie e mi guardò serio, tanto che per un attimo mi preoccupai. «Doflamingo ha già avuto tredici anni della mia vita. Non avrà neanche un secondo di più.»
Sorrisi e annuii. Questo era il Trafalgar D. Water Law che mi piaceva.
«Sei libero. Goditi la tua libertà.» Gli appoggiai una mano sulla spalla. Stavolta non avevo paura di perdere l’arto, era la cosa giusta da fare.
Per qualche secondo rimanemmo a fissarci. Io stavo sorridendo, lui aveva un’espressione serena, un’espressione che era da tanto tempo che non gli vedevo sul volto. In quegli istanti fu come se a guardarsi non fossero più Camilla e Trafalgar Law. Eravamo due vecchi amici che avevano dovuto superare insieme tante difficoltà, che nel dolore si erano trovati. Erano caduti, ma aiutandosi l’uno con l’altra si erano rialzati, e ora si apprestavano a percorrere insieme un altro pezzo di vita. Di tutte le persone, ero contenta che fosse lui. Sì, a volte litigavamo e ci odiavamo e ci insultavamo, però quello che era stato in grado di darmi lui non poteva essere eguagliato da nessuno. Sperai che io potessi rappresentare per il chirurgo anche solo un decimo di quello che lui rappresentava per me.
«Ehi, Cami! Vieni a ballare!» mi gridò Maya, facendomi tornare alla realtà.
Misi una canzone più vivace e decisi di ignorare la stanchezza e raggiungerla. Non si poteva non ballare ad un matrimonio!
Continuammo a festeggiare, ridere, bere e danzare fino a notte fonda. Fu meraviglioso. Mi godetti ogni istante e non mi preoccupai di niente. Cantai a squarciagola, tracannai vino e mi feci anche insegnare la danza tribale da Usop e Chopper.
E quelli furono gli ultimi attimi di felicità e spensieratezza che vivemmo per parecchio tempo.
 
 
 
The book of love is long and boring,
No one can lift the damn thing.
It's full of charts and facts and figures
And instructions for dancing.

 
But I...
I love it when you read to me.
And you...
You can read me anything.

 
The book of love has music in it,
In fact that's where music comes from.
Some of it's just transcendental,
Some of it's just really dumb.

 
But I...
I love it when you sing to me.
And you...
You can sing me anything.

 
The book of love is long and boring,
And written very long ago.
It's full of flowers and heart-shaped boxes
And things we're all too young to know.

 
But I...
I love it when you give me things.
And you...
You ought to give me wedding rings.

 
And I...
I love it when you give me things.
And you...
You ought to give me wedding rings.

 
You ought to give me
Wedding rings.





Angolo autrice
Ciao a tutti! Come state? Sono tornata con un capitolo insolito, più leggero e (forse) romantico. Godetevelo, perché non sarò così buona con i prossimi, che saranno una montagna russa di emozioni e di angst... Siete stati avvisati. Intanto vi auguro di passare un Buon Ferragosto e, come sempre, spero che il capitolo vi sia piaciuto! Se vi va, fatemi sapere che ne pensate. :)
Alla prossima!

P.s. La canzone alla fine del capitolo è "The Book of Love" di Peter Gabriel.

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Capitolo 15
*** Rapporti ***


Mi svegliai nel momento in cui una folata di vento investì il mio corpo. Non aprii subito gli occhi però, non ne avevo la forza. Mi resi conto di non essere nel mio letto. La mia guancia poggiava su qualcosa di morbido e fresco, ma non era il mio cuscino. A quel punto sollevai le palpebre e realizzai di essere su un prato. Mi ero addormentata sul pratino della Sunny. Come diavolo ci ero finita lì?
«Nottata movimentata?» fece una voce a qualche metro da me. Girai cautamente la testa e vidi Zoro che mi stava fissando con un ghigno.
Mugugnai qualcosa di incomprensibile perfino per me stessa. All’improvviso mi ricordai dell’ignobile quantità di alcol che avevo ingurgitato la sera prima e tutti i sintomi della sbornia mi colpirono all’unisono. C’era il vento e mi stavo congelando, ma non riuscivo ad alzarmi. La testa mi girava terribilmente, e temevo che se mi fossi mossa anche solo di un millimetro avrei vomitato pure l’anima.
Lo spadaccino, in un atto di pietà, mi tirò su per un braccio. Quando fui in piedi trattenni un conato di vomito. Troppo movimento e troppo in fretta. Poi, come un’illuminazione divina, mi tornò in mente che prima di ubriacarmi avevo messo nel reggiseno – in mancanza delle tasche – un flacone di aspirina e uno di antiemetici, proprio perché mi conoscevo. Li tirai fuori sotto lo sguardo sconcertato di Zoro e feci una scorpacciata di pillole. A volte era utile avere un seno corposo.
«Come sono finita qui? Ti prego, parla a voce molto bassa.»
Scrollò le spalle. «Che diavolo ne so? Mi sono svegliato e ti ho trovato qui.»
«Che ore sono?» Il cielo era plumbeo, perciò non avrei saputo dirlo.
«Le sei.»
«Le sei!?» Alzai troppo la voce, fu come ricevere una martellata dritta in fronte. «Le sei di pomeriggio?» chiesi, stavolta con un tono minimo.
«No, di mattina.» Mi guardò perplesso, come se fosse scontato, ma io avevo un vuoto di memoria enorme che andava dalle undici di sera al momento in cui mi ero risvegliata sul ponte della Sunny, perciò non avevo idea di quante ore fossero passate.
Tirai un sospiro di sollievo. Anche se ero esausta e provata dalla sbornia, la giornata non sarebbe andata sprecata. La guerra si avvicinava sempre di più, dovevo darmi da fare.
«Se per te va bene, come ti ho detto ieri, oggi vorrei riprendere gli allenamenti,» feci sapere al mio interlocutore, che prima mi squadrò da capo a piedi, come se stesse valutando le mie condizioni, poi fece un cenno d’assenso.
«Se vuoi, possiamo riprenderli anche ora.» Sfoggiò un ghigno provocatorio sulle labbra. In quegli anni era diventato ancora più sfrontato.
Alzai gli occhi al cielo. «Ci vediamo dopo pranzo.»
«Cerca di recuperare energie. Non dureresti mezzo secondo nelle condizioni in cui sei adesso,» si raccomandò, sempre sogghignando e con un tono canzonatorio.
Resistetti all’impulso di mandarlo a quel paese e gli voltai le spalle. Mi separai da lui, che andò in palestra, e mi diressi in cucina. Per affrontare al meglio la giornata avevo bisogno di una grossa quantità di caffè. Quando entrai nella stanza le luci al neon mi investirono come un treno in piena corsa, facendomi dolere gli occhi, tanto che dovetti chiuderli e coprirli con una mano. L’antiemetico aveva già fatto effetto, per fortuna, ma l’aspirina no. Mi augurai per la mia sopravvivenza che agisse presto.
Una volta che mi fui abituata alla luce misi la polvere nel filtro della macchinetta. Mentre aspettavo che il liquido scuro uscisse, feci un “controllo danni”. Abbassai la zip del vestito che portavo e diedi una controllata alla ferita sul fianco: tutto a posto, stava guarendo bene. Mi faceva un po’ male, ma era normale, considerato che erano passati solo due giorni e che non vi avevo prestato molta attenzione durante la nottata. Ci avrei messo una pomata più tardi. Poi spostai lo sguardo sulle ginocchia: due grossi lividi bluastri erano stampati sulle rotule. Infine, sul gomito destro c’era un’abrasione rossastra. Che accidenti avevo combinato per ridurmi in quel modo?
Ogni volta era sempre la stessa storia. Promettevo a me stessa che mi sarei contenuta, che non mi sarei ridotta male, che non avrei bevuto senza ritegno, e poi... facevo tutto l’opposto. Però in quell’occasione non potevo biasimarmi più di tanto: era un matrimonio, era d’obbligo ubriacarsi ai matrimoni tra pirati, e infatti avevano bevuto quasi tutti. Ma per quello che rammentavo era stata una bella serata. L’ultimo ricordo chiaro che avevo era di me che chiacchieravo con Nami e Robin. Avevamo riso, scherzato e preso in giro gli uomini delle nostre rispettive ciurme. Anche la cartografa si era data alla pazza gioia, solo che ero pronta a scommettere che lei non stesse male come me.
«Cami-chan! Luce dei miei occhi!» Una voce trapanò i centri nervosi del mio cervello, facendomi sussultare. Mi portai le mani a massaggiare le tempie mentre maledivo mentalmente i versi squittenti del cuoco.
«Cami-chan, qualcosa non va? Hai il mal di testa?» chiese poi, rendendosi conto del mio fastidio.
«Sì, ho il mal di testa, per cui parla piano.»
«Perdonami, principessa. Parlerò pianissimo,» disse in un sussurro, poi andò alla sua postazione e si mise a tagliare le verdure per il pranzo. Anche Ryu iniziava i preparativi per i pasti ore prima.
Il caffè uscì in quel momento e Sanji, da vero cavaliere, prese una tazza, ce lo versò dentro e me lo portò. Gli sorrisi e lo ringraziai. Mentre lo bevevo, qualcosa sul bancone attirò la mia attenzione. «Quello è rafano?»
Smise di affettare verdure e si girò verso di me, sorpreso. «Sì, come fai a saperlo?»
Feci spallucce. Era una storia che non mi andava di raccontare. C’era di mezzo sempre una sbornia. Il rafano era l’ingrediente principale di un rimedio – schifoso –  per il dopo-sbronza che una volta mi aveva preparato Kenji. E quest’ultimo era il tasto dolente. Erano settimane che non ci parlavamo, a parte quelle tre frasi che ci eravamo scambiati al matrimonio. Ero determinata a confrontarmi con lui, ma non sapevo cosa dire. Più ci pensavo e meno mi venivano le parole. Forse perché, in parte, avevo paura di perdere la sua amicizia. Però in questo modo, tra silenzi e occhiatine fugaci, era come se l’avessi già persa, quindi valeva la pena fare un tentativo di salvarla. No?
Finii il caffè e mi alzai, decisa a tornare sul sottomarino.
 
Mi risvegliai, per la seconda volta quel giorno, senza sapere che ore fossero. Alla fine ero tornata sul Polar Tang e mi ero riposata un altro po’, me lo potevo permettere: sarebbe stata una giornata dura e mi servivano tutte le energie che riuscissi a recuperare. L’aspirina aveva fatto effetto, ma avevo ancora qualche postumo della sbronza. Mi sentivo ricaricata ed esausta al tempo stesso.
Appena mi fui fatta la doccia ed ebbi infilato la divisa seppi subito dove andare. Mi diressi in infermeria a passo svelto e quando ebbi avvistato Kenji lo presi per un polso senza dire niente, lo trascinai nella mia cabina e chiusi la porta. Era l’unico luogo dove non ci avrebbe disturbato nessuno. Lui mi stava fissando con confusione e anche un po’ di timore. Aveva ragione, gli dovevo delle spiegazioni.
«Ci siamo entrambi evitati in questo periodo,» esordii con un po’ di imbarazzo. Era arrivata l’ora di chiarire una volta per tutte e chiudere la questione, non potevamo più rimandare. Rivolevo il mio amico e, se non avessi potuto riaverlo, almeno mi sarei messa il cuore in pace.
«Già.» Abbassò la testa e si fissò la punta dei piedi, incapace di guardarmi negli occhi. La tensione si poteva tagliare con il coltello. «Suppongo che tu abbia avuto molto da fare.» Anche se non lo aveva detto con malizia, mi arrivò come una frecciatina e mi sentii in colpa.
«Non è giusto.» Strinsi i pugni e feci un passo verso di lui. «Non voglio che pensi che non sei importante per me. Lo sei. E molto.»
Alzò il capo e fece per parlare, ma io lo stoppai sollevando un indice. Mi ero preparata un discorso da fare e non volevo perdere il filo. «Voglio solo che tu stia bene. E forse sono io che non ti faccio bene.»
Scosse la testa e fece un mezzo sorriso. «Tu illumini le mie giornate, Cami.»
«È proprio questo il problema,» affermai, una ruga di preoccupazione sulla mia fronte. «Io non posso darti quello che vorresti da me, quello che cerchi.»
«Lo so. Va bene così.» Annuì appena, un’espressione amara dipinta sul volto.
«No, non va bene così. Ho finito per ferirti.»
Law mi aveva fatto capire che non dovevo sentirmi in colpa, eppure io mi ci sentivo. Non c’era modo di evitarlo, come non c’era modo di evitare che Kenji soffrisse. Ormai il danno era fatto.
«Direi che ferire ed essere feriti sono cose che fanno parte della vita.» Non mi guardava nemmeno negli occhi, era distrutto. Si girò e fece per andarsene dalla stanza, cupo e a testa bassa.
«Aspetta!» lo richiamai. Non poteva finire così, non potevamo lasciare di nuovo tutto in sospeso. «So che è egoista da parte mia dire una cosa del genere, ma... io non voglio perderti.»
«Cami...» Piegò la testa da un lato, lo sguardo di entrambi affranto.
Lo interruppi per l’ennesima volta: «Non voglio perderti come amico, come compagno, come confidente. Come... Kenji, in tutta la tua interezza. Perché sei la persona più bella e pura che io abbia mai conosciuto. E ti ho conosciuto sul sottomarino di un pirata che sventra cadaveri per hobby e si diverte a cavare cuori dal petto dei nemici, e talvolta anche degli amici. Immagina quanto tu possa essere prezioso, per me e per il resto del mondo.»
«Cami...» ripeté, facendo qualche passo verso di me. Sotto la tesa del cappello lo vidi arrossire e trasalii. Forse avevo appena gettato altra benzina sul fuoco senza volerlo.
«Ma capirò se mi dirai che non vuoi avere più niente a che fare con me. L’importante è che tu sia felice, perciò accetterò qualunque decisione prenderai,» gli feci sapere, per poi mordermi il labbro inferiore, consumata dalla tensione.
Sospirò e stavolta incastonò le sue iridi alle mie. «Tu non mi perderai. Mai.»
Sorrisi sollevata, ma la mia gioia durò poco, perché parlò di nuovo: «Credo solo che entrambi abbiamo bisogno di tempo per metabolizzare le cose.»
Annuii, in parte condiscendente, in parte sconfitta. Sarebbe stata una tortura stargli a distanza e non parlargli, mi rivolgevo a lui per la maggior parte delle cose. Quando avevo un dubbio chiedevo a lui, quando volevo condividere una cosa buffa che mi era successa la raccontavo a lui e ridevamo insieme, se mi serviva un consiglio – che non fosse strettamente “femminile” – andavo da lui. C’era sempre per me e io cercavo di fare lo stesso: lo aiutavo con le procedure mediche, supportavo le sue idee, ascoltavo pazientemente i suoi resoconti sull’inventario. Mi sarebbe mancato. Però capivo le sue motivazioni, gli serviva tempo per accettare la situazione, estinguere i suoi sentimenti per me e andare avanti. E siccome gli volevo molto bene, avrei rispettato la sua richiesta. Era giusto così, era il minimo che potessi fare.
«D’accordo, prenditi tutto il tempo che ti serve. Io, se e quando vorrai, sarò qui ad aspettarti,» gli dissi, cercando di mostrarmi comprensiva. In realtà una parte di me pensava che il rosso avesse ragione: entrambi avevamo bisogno di tempo, non solo lui. A me serviva per lavare via l’imbarazzo che provavo ogni volta che lo guardavo e attenuare il senso di colpa per averlo rifiutato.
«Che ne dici di un ultimo abbraccio? Da amici e solo amici,» mi propose, spiazzandomi.
Neanche a dirlo, accettai di buon grado. Sapevo che non ce ne sarebbe stato un altro tanto presto.
Gli buttai le braccia al collo mentre lui mi cinse la vita. Fu l’abbraccio di due persone che sapevano che prima o poi sarebbero tornate ad abbracciarsi alla stessa maniera, con affetto e senza complicazioni; che lo speravano. Fu un abbraccio stretto e lungo. Semplice ma carico di significato. Incerto e sicuro al tempo stesso. Fu un abbraccio tra due buoni amici.
 
Una gocciolina di sudore cadde sul pavimento, così come la mia Mr. Smee. Grugnii poco elegantemente. Più mi impegnavo e meno mi sembrava di migliorare. Anzi, mi sembrava addirittura di peggiorare. Ero consapevole che ci volessero mesi per ottenere risultati, ma io non avevo mesi, e speravo che in qualche modo si potesse compiere un miracolo. Era inutile prendersi in giro, non avevo possibilità di imparare a padroneggiare un fendente volante in tempo per la guerra. Questo non significava che dovessi smettere di provarci o di allenarmi con lo spadaccino, mi faceva bene e mi serviva per aumentare forza e resistenza, però non era facile. Se io ero sfinita, Zoro non aveva nemmeno il fiato corto. Avevo sempre saputo che tra il suo livello di forza e il mio c’era un abisso, ma dover fare i conti con questo ogni giorno era snervante. Era un promemoria del fatto che se non fossi migliorata non avrei avuto molte speranze. Mi tormentavo da giorni, da mesi, con quella storia. Non ne potevo più. Ero arrivata a desiderare che la guerra iniziasse e finisse presto, così io sarei stata libera dalle mie angosce, sempre che fossi sopravvissuta. Eppure non riuscivo a smettere di perseguitare me stessa. Per di più continuavo a pensare a quello che ci eravamo detti io e Kenji qualche ora prima. Mi vorticavano così tante domande – senza risposta – nella mente che mi era venuta la nausea. Ero proprio masochista.
Un’ondata di rabbia si impossessò di me e mi lasciai andare a un grido di frustrazione.
«Questo atteggiamento non ti aiuterà a vincere le tue battaglie,» affermò con tranquillità lo spadaccino, andando verso i bilancieri.
A quel punto, qualcosa in me scattò. Spalancai gli occhi e lo fissai con iridi infuocate.
«Zoro, ti consiglio di lasciar perdere.»
«Dico solo che pensi troppo a quello che verrà. Dovresti smettere di rimuginare sul futuro e concentrarti sul presente.»
Feci una lunga risata isterica. E poi le parole vennero da sole, come se fossero sempre state lì, incastrate in gola e pronte a uscire, come se avessi bisogno di pronunciarle ad alta voce.
«Sono esausta e terrorizzata. E tu non puoi capire, perché non sei mai esausto, neanche quando sei effettivamente esausto. E figurarsi se hai mai provato paura! Tu non sai cosa sia il terrore. Ma io sì, sono praticamente nata spaventata. E non posso lavare via la stanchezza o il panico che questa guerra mi provoca semplicemente non pensandoci. Sono un essere umano, cazzo! Sono una ragazza di vent’anni che sta per...» Cercai di calmarmi e mi misi a sedere sulla panca. Non me la potevo prendere con Zoro, non ce l’avevo con lui. Non sapevo neanche con chi ce l’avessi. Ero arrabbiata e basta. Presi un respiro profondo. «C’è una concreta possibilità che io possa soccombere. A te non importa niente, perché la morte non ti metterà le grinfie addosso finché non avrai raggiunto il tuo obiettivo, ma per me non funziona così. E non voglio morire, o perdere arti, o che mi succeda... qualsiasi cosa brutta potrebbe succedermi.»
Il verde rimase impassibile dinnanzi alle mie parole. Lo fissai in silenzio per un po’, in attesa di una reazione. Non si mosse, non cambiò espressione, non diede un cenno di vita. Magari lo avevo infastidito con le mie sentenze avventate.
«Mi dispiace. So che nemmeno tu sei immune alla stanchezza o alla paura e che questa guerra non sarà facile neanche per te. È che...»
«Quando ci siamo conosciuti, ho pensato che tu fossi come Usop,» mi interruppe, facendomi corrugare le sopracciglia. Che c’entrava Usop, adesso? Mi ci volle un po’ per capire.
«Lui ha sempre paura, ma alla fine non si tira mai indietro,» riflettei io, annuendo. Poi sorrisi. Per quanto assurdo potesse sembrare, era il più grande complimento che qualcuno potesse farmi in quel momento.
«Però, a differenza tua, lui accetta le sue paure.» Si voltò e andò a mettere a posto il bilanciere. «Tutti abbiamo paura di qualcosa. Non è la paura a renderci deboli, ma la rassegnazione.»
Tornò ad allenarsi come se nulla fosse, come se avesse detto una cosa di poco conto. Non sapevo neanche in che modo replicare, mi aveva lasciato senza parole. Soprattutto perché era di Zoro che si stava parlando. Non era un idiota, tuttavia neanche la persona da cui sarei andata se mi fosse servito un consiglio nell’ambito emotivo. Eppure non solo mi aveva spiazzato, ma mi aveva anche aperto gli occhi.
Ripresi in mano l’ascia. Non dovevo darmi per vinta.
 
«Ciao, Cami.» mi salutò Usop non appena entrai nella “Usop Factory”. Era intento a mettere insieme i pezzi di un congegno strano. Anche lui, come me, stava ultimando i preparativi per la guerra.
Sollevai una mano per ricambiare il saluto e sorrisi. Era una giornata storta, ma le parole di Zoro mi avevano risollevato un po’ il morale.
«Come stai?» mi chiese poi, ridacchiando. Alzai un sopracciglio. Che aveva da ridere? «Hai bevuto parecchio ieri sera! Non ti avevo mai vista in queste condizioni!»
In quel momento avrei voluto essere uno struzzo e andare a nascondere la testa nella sabbia. Non avevo idea di come mi fossi comportata, e non ero sicura di volerlo sapere. Sperai solo di non aver detto o fatto niente che potesse minare la mia già scarsa dignità. Nessuno dei miei compagni mi aveva preso in giro o riportato nulla, perciò era un buon segno.
«Cadevi a terra, ti rialzavi e ricadevi. Sei anche rotolata giù per una collinetta,» mi spiegò il moro, sempre ridendo. Mi ricordai dei lividi e delle escoriazioni sul mio corpo e capii a cosa erano dovuti. «E continuavi a dire: “non ditelo a Kenji, lui diventa triste quando bevo”.»
Ed ecco che la mia giornata era appena tornata buia. Ogni volta che sentivo il suo nome il cuore mi si stringeva. Ci tenevo a lui, tanto da pensarlo anche quando ero ubriaca persa. Eppure, a quanto pareva, non potevo fare a meno di ferirlo. Scossi la testa, come a scacciare quel pensiero. Non era il momento di pensare a lui.
«A proposito, come stanno gli sposini?»
«Felici come non mai.» Evitai di dirgli che in realtà non li avevo visti per tutto il giorno. Si erano chiusi nella loro cabina, e sospettavo che non sarebbero usciti nemmeno se fosse finito il mondo. Erano in modalità “luna di miele” e nessuno di noi osava disturbarli. Ma era giusto così, dovevano avere il loro spazio e il loro tempo.
«Beati loro,» considerò, guadagnandosi un cenno d’assenso da parte mia. «Allora, qual buon vento ti porta qui?»
«Al matrimonio mi hai dato un Dial per amplificare i suoni. So che esistono infiniti tipi di Dial e che possono essere molto utili anche in combattimento, perciò...» Non ci fu bisogno che continuassi, perché capì subito dove volevo andare a parare.
«Vuoi che te ne dia uno da usare in guerra.»
Annuii. L’allenamento che avevo fatto con lo spadaccino dopo la nostra chiacchierata non aveva fatto altro che confermarmi che avrei fatto meglio a puntare su altre strategie di battaglia. Quella mi sembrava la più praticabile. Avevo comunque intenzione di chiedergli una mano; il giorno prima, al matrimonio, mi aveva dato uno spunto.
«Mettiti seduta. Ti farò vedere uno a uno tutti i tipi di cui dispongo, così potrai decidere qual è quello più adatto a te.»
«Grazie per la disponibilità.» Gli sorrisi. «So che ti piace barattare i tuoi possedimenti.»
«Sì, ma in questo caso non ce n’è bisogno. È un favore tra vecchi amici.» Allungò le mani davanti a sé e le agitò.
«Ci tengo a farlo. E credo che ciò con cui voglio barattare i Dial possa farti comodo.»
«Ok, allora se proprio insisti... Con cosa vuoi scambiarli?»
Feci un ghigno sapiente. «Oh, lo vedrai.»
«Questo non è molto rassicurante, sai?» Mi guardò con sospetto, facendomi ridere.
«Lo vedrai,» ripetei.
Non mi rispose. Sapeva che avrebbe dovuto pazientare, perciò si alzò e andò a prendere i Dial.
 
«Sei sicura di non volere un Vision Dial?»
«E che cosa ci faccio con un Vision Dial in guerra? Scatto foto ai nemici e le raccolgo in un album dei ricordi?»
Usop fece spallucce e io scossi la testa. Se fosse dipeso da me, a parte qualcuno che era inutile, avrei preso tutti i Dial: quello accecante, quello che emetteva fuoco, quello che rilasciava gas e perfino quello in grado di registrare suoni. In prospettiva di una battaglia tutti potevano servire, bastava aguzzare l’ingegno e non pensare ai loro utilizzi comuni. Anche ingannare i nemici era una tattica. Ma oltre a non voler sembrare “ingorda” – del resto quelle specie di conchiglie non erano mie, stavo usufruendo di un favore che mi stava facendo il cecchino – sapevo che sarebbe stato inutile fare scorpacciata di Dial. Avrei solo avuto la testa più piena di nozioni da ricordare e, se mi fossi confusa, avrei rischiato di peggiorare la situazione. Avevo bisogno di avere la mente vuota e di concentrarmi sulla battaglia, per cui avevo deciso di prenderne in prestito solo un paio: l’Impact Dial e l’Heat Dial. Il primo mi sarebbe servito più che altro per assorbire i colpi dei nemici fisicamente più forti di me, quelli che non avevo speranza di parare, mentre il secondo, che Usop e Franky mi avrebbero sistemato direttamente nelle lame dell’ascia, avrebbe scaldato la punta della mia Mr. Smee, così da renderla un’arma più offensiva. Se ero fortunata, potevo sperare di riuscire a bruciare ciò che colpivo.
«Vuoi prendere solo questi due? Guarda che non devi fare complimenti.» Piegò la testa da un lato e mi fece un sorriso rassicurante.
«Va bene così, grazie.» Gli sorrisi anche io, per poi tirare fuori due fialette dalla scollatura. Avevo scoperto che era un posto molto comodo dove tenere le cose in mancanza di tasche.
Gliele tirai e lui le prese al volo.
«Cosa sono?» Se le rigirò tra le mani e le osservò con l’aria leggermente sospettosa che lo contraddistingueva.
«La mia merce di scambio,» gli feci sapere, sogghignando fiera. «È un siero che ho creato io. Chiunque lo ingerisca sarà praticamente morto per un lasso di tempo indeterminato, che dipenderà dalla resistenza dell’individuo.»
Quando ero tornata sul Polar Tang avevo proseguito le mie ricerche per migliorare il siero “Giulietta”. Ci ero riuscita, avevo prolungato l’effetto di cinque minuti, ma ne avevo anche scoperto alcuni limiti. Ad esempio che non funzionava su tutti. Per una persona normale l’effetto durava un quarto d’ora, per uno come Zoro – anche se non l’avevo testato direttamente su di lui – si riduceva in maniera drastica. Su uno come Kaido nemmeno avrebbe avuto effetto. Su Law aveva funzionato per tutti i dieci minuti durante la battaglia con Doflamingo perché il suo corpo era gravemente danneggiato, altrimenti sarebbe durato poco anche con lui. Il siero, come la maggior parte delle cose, non era infallibile.
«In che senso “sarà praticamente morto”?» Il cecchino assottigliò gli occhi.
«Ti spiego tutto domani, promesso. Ora devo andare.» Recuperai i due Dial che avevo scelto e mi alzai da terra. Usop aveva passato una ventina di minuti a spiegarmi le funzioni di tutti i Dial di cui disponeva, come riconoscerli dalla forma e dal colore e come attivarli in base alla tipologia. Era un miracolo che i miei neuroni non avessero deciso di scioperare. Il meccanismo di funzionamento era semplice, ma erano troppe informazioni e mi era venuto un mal di testa atroce, complici anche gli strascichi della sbornia.
«Allora aspetto la tua spiegazione.» Si alzò anche lui e mi accompagnò alla porta.
Feci un cenno d’assenso e sorrisi. «La avrai. Grazie per i Dial.»
«Grazie a te per il siero, qualunque cosa sia.» Agitò le boccette tra le dita e ghignò. Anche se non aveva ben chiaro di cosa si trattasse, aveva capito che potevano essere preziose.
Stavolta fui io a fargli l’occhiolino, poi lo salutai con la mano e uscii dalla “Usop Factory”.
 
«Ehi, Cami!» mi richiamò una voce quando poggiai i piedi sul prato della Thousand Sunny. Poiché avevo il mal di testa, ero rimasta sulla nave per farmi un bagno caldo nella loro enorme vasca – niente a che vedere con la misera doccia della mia cabina – nella speranza che mi passasse. Tanto avrei comunque dovuto lavarmi dopo l’allenamento con Zoro.
Sollevai la testa e mi resi conto che Nami mi aveva raggiunta. Qualsiasi cosa volesse dirmi, sperai che fosse breve: avevo un urgente bisogno di un’aspirina, l’ennesima di quel giorno.
«Stai bene?» mi chiese poi, l’espressione appena preoccupata.
«Sì, sì. Ho solo un po’ di mal di testa.»
«Ci credo, con tutto quello che hai bevuto la notte scorsa...»
Cercai di contenere il mio fastidio. Perché si stupivano tutti del fatto che avessi bevuto molto? Eravamo pirati, i pirati bevono, Nami per prima. E poi eravamo ad un matrimonio, l’evento ideale per festeggiare e ubriacarsi.
«Sono stata in pensiero per te per tutto il giorno,» mi disse, facendomi corrugare le sopracciglia.
«Cosa è successo?» volli sapere, spostando il peso del corpo da un piede all’altro. Pregai di nuovo di non aver fatto nulla di imbarazzante o di compromettente. Mi ero già lasciata sfuggire troppo con ciò che avevo detto di Kenji.
«Ad un certo punto eri così ubriaca che non ti reggevi in piedi. Io e Robin abbiamo cercato di riportarti sul sottomarino, a letto, ma tu non hai voluto sentire ragioni: sei salita sulla Sunny, ti sei stesa sul prato e non ti sei più mossa.» Fece una piccola risata nel ricordarsi dell’episodio. «Abbiamo provato a farti ragionare, però hai detto che ti piaceva la sensazione dell’erba a contatto con la pelle e che saresti voluta rimanere lì per sempre, poi ti sei addormentata. Perciò alla fine ci siamo arrese, ti abbiamo portato una coperta e ti abbiamo lasciata qui.»
Annuii più volte con la testa, sorvolando sul fatto che quando mi ero svegliata non avevo nessuna coperta addosso, forse perché il vento l’aveva fatta volare via. Mi sembrava plausibile, era una cosa che sarei stata capace di fare. Tirai un sospiro di sollievo immaginario: stando a quanto raccontava, non avevo fatto nulla di equivoco.
«Quando stamattina mi sono alzata e non ti ho trovata, mi sono spaventata, pensavo ti fosse successo qualcosa. Ma per fortuna sei viva e vegeta.» Rise di nuovo e mi diede una lieve pacca sulla spalla.
Sul “viva e vegeta” avrei avuto qualcosa da ridire, ma non era il caso di mettersi a sindacare.
«Sì, sto bene. Grazie, Nami.» Le rivolsi un sorriso grato. La Gatta Ladra a tratti era scostante, ma sapeva essere molto premurosa.
«Quando vuoi.» Mi fece l’occhiolino, per poi darmi le spalle e incamminarsi verso la cabina delle ragazze. «Ma sappi che la prossima volta dovrai pagarmi per i miei servigi!»
Non stava scherzando. Alzò una mano in segno di saluto mentre io mi portavo le dita alla tempia e me la massaggiavo. Mi sembrava di avere un concerto metal nella testa. All’improvviso ero tornata a sentirmi infastidita. Una delle poche cose positive di quella giornata era che il cielo era tornato terso, solo qualche nuvola bianca sparsa qua e là lo occupava.
Mi girai verso la prua. Rufy si trovava appollaiato sulla polena, il suo posto preferito. Per qualche motivo a me sconosciuto, vederlo lì mi calmò un po’. Anche se non era il pirata più forte – o il più sveglio – in circolazione, sapere che a combattere al mio fianco c’era lui era una garanzia. Sapevo che avrebbe fatto di tutto affinché vincessimo la guerra, affinché sopravvivessimo tutti. Ma non potevo sperare che lui venisse a salvarmi o che impedisse la mia morte. Non potevo fare affidamento sugli altri. Ero responsabile per me stessa. Tutti lo eravamo. In guerra era “ognuno per sé”.
Prima che me ne accorgessi, mi ritrovai dietro di lui. I miei piedi si erano mossi da soli.
«Ciao,» lo salutai, evitando di mettere piede sul muso del leone. Sapevo che era molto geloso del suo posto.
«Ciao,» mi salutò a sua volta, allegro.
«Come stai?»
Si voltò verso di me, sorridendo. «Io bene, e tu?»
«Anche io,» mentii. Non avevo né tempo né voglia di mettermi a spiegare tutti i motivi per cui non mi sentivo bene. «So che questo è il tuo posto, ma posso sedermi accanto a te? Non starò molto, ho solo bisogno di chiederti una cosa.»
Mi fece spazio senza dire una parola. Aveva capito che la questione era seria. Scavalcai la criniera e mi sedetti. Per un po’ rimasi in silenzio, persa ad osservare l’orizzonte. Adesso comprendevo perché gli piacesse tanto stare appollaiato lì. Il mare ceruleo scintillava sotto i raggi del sole, le onde cullavano dolcemente la nave, una lieve brezza soffiava e avvolgeva i nostri corpi. Si percepiva tutto meglio dalla polena, ogni sfumatura dell’oceano, ogni rumore, ogni alito di vento. Era rilassante, e mai come quel giorno avevo bisogno di rilassarmi.
«Tu credi che possiamo vincere la guerra contro Kaido?»
Si voltò verso di me, osservandomi immobile per qualche secondo. Poi fece uno dei suoi tipici sorrisi a trentadue denti. La spensieratezza che emanava quel ragazzo faceva quasi paura. «Certo!»
Annuii, distogliendo lo sguardo. Non sapevo perché glielo avessi chiesto, era ovvio che avrebbe risposto così, e la sua risposta non mi rassicurava affatto, anche se era difficile non credergli quando faceva quel sorriso.
«Cami,» mi richiamò, un tono appena più solenne. «So che a volte fa paura. Basta non pensarci.»
Sbuffai una risata. Mi ricordai di ciò che aveva detto parecchio tempo prima: sapeva di poter morire, e lo accettava, perché sarebbe morto combattendo per i suoi ideali. Se fosse successo a me, era in questo modo che volevo pensare alla mia morte. Era così che volevo che gli altri mi ricordassero. Non sarei morta invano.
«Hai ragione. Grazie.» Gli appoggiai una mano sul ginocchio e sorrisi. Mi alzai e feci per andarmene, poi però ci ripensai. «Mi raccomando, riguardati.»
Non mi guardò, ma fece un cenno d’assenso. Sapeva a cosa mi stessi riferendo. Lo lasciai a contemplare il mare di fronte a sé.
 
***
 
Feci un volo di qualche metro, andai a sbattere contro la parete e ricaddi con un tonfo sul pavimento della palestra.
«Ahi,» mi lamentai. Rimasi a terra per qualche secondo, poi mi rialzai.
«Mi sono fatto prendere la mano.» Zoro si grattò la nuca. Non sembrava dispiaciuto, stava solo esponendo la realtà dei fatti.
«Va bene così, devo aumentare forza e resistenza. Non posso farlo se ci vai giù leggero.»
Sollevò un angolo della bocca. «Questo è lo spirito giusto.»
«Sì, però cerca di farmi arrivare tutta intera alla battaglia. L’obiettivo è aiutarmi a diventare più forte, non menomarmi.» Mi lasciai andare ad una risata. All’inizio avevo soggezione dello spadaccino, ma stava pian piano svanendo. Non c’era nulla da temere, era sempre lo stesso Zoro che faceva le flessioni sul balcone di casa mia e che aveva tentato di usarmi come bilanciere. Non si sarebbe beffato di me perché ero debole. Avevo imparato a non vederlo come un guru della spada che aveva in sé tutta la conoscenza del mondo, ma come uno che stava dando una mano a una sua vecchia amica. Non mi sentivo neanche più un peso per lui. Forse combattere contro di me non era efficace tanto quanto allenarsi con i pesi che usava, ma almeno poteva confrontarsi con un altro essere umano e affinare le sue capacità di captare le reazioni altrui e di elaborare strategie.
Ricominciammo a batterci. Era sempre uno scontro blando, ma ogni tanto, a sorpresa, Zoro aumentava l’intensità e mi costringeva a spingere di più. In pratica riproponeva una simulazione delle battaglie. Ci sapeva fare, sapeva esattamente quanta forza usare, quando accrescerla e come distribuirla. Magari anche l’imparare a dosare la potenza era un modo per allenarsi, per lui. E se all’inizio avevo avuto la sensazione che stesse giocando con me quando combattevamo, dopo che la sua spada mi aveva quasi tagliato in due quell’impressione era svanita. Del resto, non prendeva mai in mano le sue spade per non fare sul serio.
Continuai a sferrare colpi d’ascia e a parare gli attacchi del verde per una decina di minuti. Se lui stava imparando a dosare la potenza, io stavo imparando a dosare le energie: attivavo l’Haki per qualche secondo, la disattivavo e la riattivavo quando mi serviva di nuovo. Potevo farlo, adesso riuscivo ad azionarla più rapidamente, e il dispendio di energia quando la tenevo in funzione era minore rispetto a prima, non sapevo se fosse perché era migliorata la mia resistenza fisica o se invece era perché il mio corpo si stava abituando a quel tipo di sforzo. In ogni caso era una cosa positiva, anche se non ero riuscita a imparare come scagliare un fendente volante. Ed era stato un miracolo che fossi migliorata tanto in così poco tempo. Mi ero perfino abituata ad utilizzare la Mr. Smee con l’Heat Dial che Franky e Usop avevano installato per me. Era un potenziamento interessante. Non era in grado di scalfire uno come Zoro, ma con nemici meno forti avrebbe fatto il suo dovere.
«Sei stanca?» mi chiese, notando che avevo il fiatone e le mani poggiate sulle ginocchia.
Annuii. Almeno ero onesta.
«Non mi stupisce. È quasi ora di cena.»
Spalancai gli occhi. «Davvero?»
Fece un cenno d’assenso. Non pensavo che fosse già passato così tanto tempo. Era positivo, perché voleva dire che ero in grado di reggere i ritmi dell’allenamento di Zoro, e questo aumentava le mie possibilità di sopravvivenza a Wa.
«Sono in ritardo. Ci vediamo domani. Ciao.» Mi girai e corsi verso la porta senza dargli il tempo di replicare.
 
Presi un respiro profondo e mi beai del vento tiepido di quella sera. Avevo bisogno di pace e solitudine. Quando ero tornata sul Polar Tang il sole stava tramontando; la luce aranciata del cielo si fondeva con il blu del mare. Era un bello spettacolo, che non ci capitava di vedere spesso. Nell’ultimo periodo, poiché navigavamo solo in superficie, avevo avuto modo di guardare parecchi tramonti, e durante la cena avevo continuato a chiedermi se avrei potuto vederne altri o se la guerra me lo avrebbe impedito. Era sfiancante. Più passava il tempo, più ci avvicinavamo a Wa. Lo sentivo. Era come se quell’isola fosse in grado di emettere un richiamo animalesco che io riuscivo a percepire. In effetti, vi abitava una bestia che ci aspettava. Forse anche più di una. Ero stufa di ossessionarmi in quel modo. Stava diventando un incubo.
Il tempo era perfetto e l’aria era serena. Alla mia sinistra si sentivano le voci ovattate dei Mugiwara, che al contrario nostro non avevano ancora finito di cenare. Sanji era arrabbiato con Rufy perché stava rubando il cibo a tutti, Usop stava raccontando una delle sue panzane a qualcuno – se avessi dovuto indovinare avrei detto a Chopper e Carrot – e Nami ce l’aveva con Zoro per qualche motivo. Brook invece stava suonando e cantando e presto fu seguito da tutti gli altri. Mi lasciai sfuggire una risata. Con loro finiva sempre per essere una festa. Forse mi sarei dovuta trasferire sulla Thousand Sunny, almeno avrei attutito la crisi esistenziale che stavo vivendo.
Ingollai un lungo sorso di vino dalla bottiglia che stringevo nella mano e osservai il panorama. C’era la luna nuova, perciò solo una striscia del mare era illuminata dalla sua pallida luce, eppure dal ponte del Polar Tang mi sentivo minuscola di fronte all’oceano, così vasto e pieno di possibilità. Anzi, insignificante. Una pedina sacrificabile nella grande guerra che stava per arrivare. Bevvi un altro sorso di liquido rosso e appoggiai i gomiti alla ringhiera. Quando sai che c’è la possibilità che tu muoia a breve, anche una serata tranquilla ti sembra bella, e una vista semplice come quella ti sembra speciale. Non volevo rinunciare a tutto quello. Non volevo rinunciare alla mia vita, ai miei sogni, ai miei compagni, al vino, alla sensazione del vento che mi accarezzava la pelle. C’erano tanti altri tramonti che dovevo vedere, e posti che dovevo esplorare, e avventure che dovevo vivere. Non dovevo morire. Non potevo morire. Non volevo morire.
Una piccola lacrima scivolò lungo la mia guancia. Non ero sicura se fosse per la paura, per l’amarezza o per il bisogno di sciogliere la tensione.
«Non ti è bastato tutto l’alcol che hai ingerito al matrimonio?» fece una voce dietro di me.
Mi asciugai in fretta lo zigomo. Non avevo bisogno di girarmi per sapere chi fosse, ma lo feci ugualmente. Sull’uscio del portone del sottomarino, illuminato dalla fioca luce della luna e dai lampadari del corridoio dietro di sé, c’era Law. Lo guardai con aria truce. Non avevo voglia di subire le sue prese in giro. Feci per andarmene, ma quello che mi disse dopo mi immobilizzò. Non me l’aspettavo.
«Non sei obbligata a combattere.»
Con un solo sguardo aveva capito che c’era qualcosa che non andava e con sole cinque parole aveva centrato il punto. Era incredibile. Era l’unico in grado di farlo, l’unico in grado di irritarmi, spiazzarmi e farmi venire voglia di sorridere nel giro di un paio di secondi. A modo suo, era sempre presente.
Iniziò a venire verso di me e in breve mi fu accanto. Mi ripresi dallo stato catatonico in cui versavo e lo guardai con eloquenza. Sapeva bene che tutti quelli con dei principi morali erano chiamati alle armi.
«Non sei obbligata a combattere,» ripeté, incastonando le sue iridi alle mie. Lo sapevo, in realtà. Era stato chiaro con tutti i Pirati Heart: tempo prima ci aveva detto che la sua priorità era salvaguardare i propri sottoposti e che coloro che non se la sentivano di prendere parte alla guerra non avrebbero dovuto farlo. Ovviamente all’inizio avevano tutti rifiutato quell’ipotesi disonorevole, dichiarando di voler combattere ad ogni costo, ma il Chirurgo della Morte conosceva i suoi subordinati, e aveva ordinato a chi non era in grado di sostenere la battaglia – che fosse per debolezza fisica o eccessiva paura – di rimanere sul sottomarino. Se era lui a comandarlo, nessuno poteva contestare le sue decisioni o essere accusato di codardia. Law aveva i suoi difetti, ma era un bravo Capitano. A me non aveva ordinato niente fino a quel momento, forse perché aveva visto quanto duramente stessi lavorando per farmi trovare pronta, o forse perché voleva che la decisione – quale che fosse – fosse mia. Se non avessi avuto uno spiccato senso dell’onore e un debito morale nei confronti di Rufy e compagni, avrei accolto il suo suggerimento e rinunciato alla battaglia. Ma che razza di amica e sottoposta sarei stata se non avessi aiutato i Mugiwara e supportato il mio Capitano? Tra una possibile morte onorevole e una vita segnata da vigliaccheria e sensi di colpa, la scelta era automatica. C’era perfino una piccola possibilità che il chirurgo mi ritenesse all’altezza di partecipare e sopravvivere alla battaglia. Se la pensava così, c’era solo da augurarsi che avesse ragione.
«Io combatterò, Law,» affermai convinta, portandomi le braccia sui fianchi. Poi assunsi un’espressione meno sicura. «Beh, ci proverò, perlomeno.»
Sollevò un angolo della bocca per fare un piccolo ghigno. Se non altro apprezzava il mio istinto suicida travestito da etica. O forse pregustava il momento in cui si sarebbe finalmente liberato di me.
«Tu invece non vedi l’ora di combattere,» constatai dopo che ebbi osservato attentamente la sua espressione. Anche con il buio vedevo i suoi occhi scintillare al pensiero di dare vita a una guerra epocale.
Sogghignò appena con aria sapiente. «Non di combattere. Di portare caos nel mondo.»
«Per portare caos nel mondo dovremmo sconfiggere Kaido.» Distolsi lo sguardo, pensierosa. «Tu sei certo della vittoria?»
«Dovresti avere più fiducia in Cappello di Paglia.» Alzò un sopracciglio, quasi infastidito per la mia diffidenza. «E nel tuo Capitano.»
«Non ho mai dubitato di te o delle tue capacità, Law. Anzi, ti ho sempre elogiato, ho scelto di navigare sotto il tuo vessillo e così facendo ho messo la mia vita nelle tue mani. Mi fido di te, e lo sai bene, ma perdonami se non faccio i salti di gioia all’idea di combattere con un Imperatore.» Alzai un sopracciglio anche io, per ricordargli che al contrario suo ero un essere umano, un essere umano che aveva le sue debolezze e le sue paure e che ogni tanto vacillava.
«La Volontà della D. scatenerà un’altra tempesta,» affermò deciso, e senza darmi il tempo di replicare si avviò all’interno del sottomarino.
«Per me può scatenare anche un uragano, l’importante è che noi ne usciamo illesi...» sussurrai, ormai sola. Tutto quello che chiedevo era di sopravvivere e di non venire sopraffatta dalla guerra e dalle sue conseguenze.
Controllai quanto vino avessi a disposizione. Circa metà bottiglia. Ne mandai giù un generoso sorso e rimasi a contemplare l’orizzonte.
«Che situazione scabrosa.» Levai lo sguardo al cielo con un sorriso amaro. «Stella, se puoi, ho bisogno del tuo aiuto. Non ho mai pensato di scappare o di non combattere, anche se vorrei tanto farlo. Ma ho bisogno di un segno, di qualsiasi cosa che mi convinca che non sarà un disastro totale, che mi riprenderò se sopravvivrò e che non soffrirò troppo se invece morirò. Accetterò il mio destino, quale che esso sia. Solo...» Nonostante mi venisse da piangere, complice anche l’alcol, mi misi a ridere. Scrollai le spalle, incapace di proseguire con il mio monologo, e rimasi per un po’ a scrutare la volta celeste alla ricerca di un cenno della Stella. Niente. Perfino il vento aveva smesso di soffiare.
«Ah, sono ridotta proprio male...» Risi di nuovo e mi scolai una grande quantità di vino. Per quella notte avevo bisogno di smettere di pensare. Volevo una via d’uscita da tutta l’angoscia che mi causava la guerra.
«Sono d’accordo,» disse una voce distante. Mi guardai intorno, però non vidi nessuno. Forse era quello il mio segno: era arrivata l’ora di smettere di bere e di andare a letto. Con tutto quello che stavo vivendo non potevo permettermi di affrontare anche le allucinazioni.
«Voglio dire, ti lascio per qualche tempo e ti ritrovo a parlare da sola.» La voce era più vicina, e aveva un tono divertito. Ero sicura di conoscerne il proprietario. Non era nessuno dei Pirati Heart o dei Mugiwara. Continuai a osservare i dintorni, ma chiunque fosse era bravo a non farsi notare, a quanto pareva. Forse avrei fatto meglio ad attivare l’Haki.
E poi udii uno sfarfallio, e dietro di me ci fu un lieve spostamento d’aria che portò con sé un familiare profumo di talco. Mi girai di scatto. Il buio da cui ero circondata era stato rischiarato da fiamme azzurre e gialle, che svanirono subito dopo per lasciare posto a una figura esile ma maestosa. Di fronte a me, orgoglioso come sempre, si ergeva Marco la Fenice.
Sorrisi. Aveva un’aria più serena rispetto all’ultima volta che l’avevo visto, ma fisicamente era sempre uguale: stessa capigliatura ad ananas, stesso modo di vestire, stesso sorriso arrogante. L’unica cosa che aveva di diverso era un paio di occhiali dalla montatura rossa poggiati sul naso.
C’erano così tante cose che avrei voluto dirgli che non sapevo nemmeno da dove cominciare. Il mio cervello, già annebbiato a causa del vino, era andato in confusione. Ma il cuore scoppiava di gioia. Ero così contenta di rivederlo, era riapparso proprio quando avevo bisogno di lui. Magari era proprio Marco il segno che la Stella aveva voluto mandarmi. Gli andai incontro lentamente, pronta a riabbracciarlo. Sapevo che sarebbe venuto, non si sarebbe perso quella che si preannunciava essere la guerra del secolo. E poi la realizzazione mi colpì come un fulmine a ciel sereno.
Mi fermai a un paio di passi da lui, colta all’improvviso da un pensiero terrificante: se era lì, significava che l’inizio della battaglia era imminente.

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Capitolo 16
*** Guerra ***


La guerra era appena iniziata e io ero già esausta. Sarebbe stata una lunga nottata. Ammesso che si trattasse di una sola notte. Non ero sicura di riuscire a resistere oltre. Non ero nemmeno sicura che sarei riuscita a resistere un’ora, a dire la verità. Avevamo dovuto combattere ancora prima che iniziasse la battaglia finale. Noi Pirati Heart avevamo passato la giornata nelle prigioni della Capitale dei Fiori. Hawkins e i suoi scagnozzi ci avevano picchiati, imprigionati e utilizzati come esche per catturare Law. Nessuno aveva potuto fare niente in proposito, neanche lo stesso Chirurgo della Morte, perché quella specie di spaventapasseri lo teneva sotto scacco grazie ai suoi poteri: se non si fosse fatto catturare, noi saremmo morti. Dopo esserci spremuti le meningi per trovare un modo per liberarlo, alla fine il moro era tornato da noi, malridotto ma vivo. Come mi immaginavo, non aveva rivelato niente ai nemici, e a noi non aveva voluto dire come avesse fatto a liberarsi. Nessuno aveva insistito e la questione era caduta lì, dopotutto eravamo solo contenti che fosse vivo e – più o meno – vegeto. Mi ero occupata io di soccorrerlo e pulire le sue ferite, ed era stato psicologicamente estenuante avere la consapevolezza che non aveva reagito e si era lasciato colpire a causa nostra.
Come se tutto quello non fosse stato abbastanza, avevamo dovuto fare i conti anche con una tempesta marina e le navi da guerra di Kaido mentre ci spostavamo da Wa a Onigashima. E si erano messi di mezzo il rapimento di Momonosuke, il tradimento di Kanjuro e un piano di Kin’emon fallito, anche se non avevo ben capito di cosa si trattasse. Oltretutto Law si era arrabbiato con i Mugiwara, perché pensavano che fossimo stati noi Pirati Heart ad aver vuotato il sacco sul suddetto piano, accusa che era crollata da sola. Non me l’ero presa con Nami e compagnia per le insinuazioni, al loro posto anche io avrei avuto dei dubbi, il problema era che non potevamo permetterci di scontrarci tra noi e far vacillare l’alleanza.
Eravamo arrivati sani e salvi sull’isola della “battaglia finale”, ma i presupposti non mi erano di conforto.
Era tutto spaventoso, a cominciare dalla forma dell’isola: un enorme teschio con le corna di una creatura sconosciuta – mi auguravo – del passato, che al suo interno ospitava un castello, e una spada gigante conficcati nelle rocce. E i nemici, mostruosi ibridi artificiali tra uomini e animali, non finivano più. Erano ovunque, un esercito di bestie che sbucavano da qualsiasi anfratto di quella dannata fortezza. Più ne sconfiggevamo, più ne saltavano fuori. E, per finire, ci era stato riferito che Kaido e Big Mom, che si trovava a Wa, avevano deciso di stringere un’alleanza pirata per conquistare il mondo, pertanto la mia paura peggiore si era concretizzata: non dovevamo sconfiggere un solo Imperatore, ne dovevamo sconfiggere due. Forse non ero la persona più ottimista del mondo, ma mi sembrava uno scenario catastrofico.
E ora mi ritrovavo ad ansimare mentre tentavo di destreggiarmi tra i corridoi del palazzo dell’uomo più forte del mondo, chiedendomi perché cazzo non avessi accettato di rimanere sul Polar Tang. Non avevo idea di quello che stavo facendo. Non avevo idea di dove stessi andando. Non avevo idea del perché stessi correndo. Sapevo solo che non volevo essere lì. Ero consapevole che sarebbe stata dura, ma non pensavo che lo fosse fino a questo punto. Del resto, si è mai pronti ad una guerra?
Prima di separarci, Law si era raccomandato che ci concentrassimo sui “pesci piccoli” e che non tentassimo di scontrarci con i pezzi grossi della ciurma di Kaido. “Se vi trovate davanti a Kaido, a una delle Tre Calamità o a uno dei Sei Saltatori, scappate. Non tentate di fare gli eroi, andreste contro a morte certa,” ci aveva detto, grave. La sua priorità era salvaguardare i suoi sottoposti. Di certo non avrei avuto difficoltà ad obbedire al suo ordine, anche se speravo di non trovarmi mai di fronte a un Imperatore o a uno dei suoi sottoposti più blasonati. Mai. Poi ci aveva dato precise istruzioni su quello che dovevamo fare e su come organizzarci. Il chirurgo sarebbe andato da Kaido, mentre noi ci saremmo divisi in piccoli gruppi – per non dare troppo nell’occhio – e avremmo dato manforte a chi ne avesse avuto bisogno. In ogni gruppo dovevano esserci un paio di medici, così da poter sempre offrire assistenza ai propri compagni e agli alleati. Io mi ero ritrovata con Penguin, la coppietta felice e... Kenji. Un’altra mezza catastrofe, per quanto mi riguardava. Speravo di potermi limitare ad aiutare e curare i feriti, ma erano passati dieci minuti da quando eravamo usciti allo scoperto e avevo già fatto fuori tre nemici: uno con la testa di un topo sulla spalla e due che continuavano a piangere dal ridere. Una delle poche cose a nostro favore era che molti dei Pirati delle Cento Bestie erano ubriachi. I loro tempi di reazione erano più lenti, i loro attacchi scomposti e alcuni nemmeno si rendevano conto di ciò che stava succedendo. Forse neanche io me ne stavo rendendo conto. Più che altro cercavo di non pensarci. Se mi fossi soffermata a riflettere sarebbe stato devastante. Dovevo solo continuare a correre e cercare di evitare gli attacchi dei nemici.
 
«Dobbiamo fare fuori i nemici tentando di risparmiare le nostre energie,» rifletté Omen ansimando mentre imboccavamo l’ennesimo corridoio.
«Continuano a spuntare come funghi, di questo passo non ce la faremo a resistere,» gli diede manforte Kenji.
Avrei voluto chiedere al novello sposo come si facesse ad uccidere i nemici in modalità risparmio energetico, ma non dissi niente. Se dovevamo conservare le nostre energie era meglio risparmiare fiato. Non stava andando tutto liscio come l’olio, ma per ora ce la stavamo cavando: era passata mezz’ora dall’inizio della guerra e avevo fatto fuori quattro Pirati delle Cento Bestie – ai tre precedenti si era aggiunta una ragazza-scoiattolo – e rimesso in piedi due samurai. Questi ultimi erano dei guerrieri formidabili. Uno di loro aveva una ferita mortale all’addome, eppure quando lo avevo soccorso mi aveva pregato di ricucirlo alla svelta, così sarebbe potuto tornare a combattere. Avevo tentato di dissuaderlo, ma lui non aveva voluto sentire ragioni, perciò lo avevo accontentato. Dopotutto non era il caso di mettersi a discutere tra proiettili vaganti, affondi di spada ed esplosioni. Si era accasciato a terra pochi minuti dopo, non prima di sconfiggere due tizi con i poteri degli Smile. Praticamente era la sua volontà a tenerlo in piedi, non gli era rimasto altro che quella. Tutti loro sembravano non patire la fatica, il dolore, la paura. In loro bruciava solo la fiamma del desiderio di vincere la guerra, di vendicare Oden, di liberare il proprio Paese dai mostri che troppo a lungo lo avevano popolato e di vedere l’alba che Toki aveva promesso loro venti anni prima. Alcuni, l’alba non l’avrebbero mai vista. Lo sapevano e lo accettavano, perché erano consapevoli che per vincere, che era l’unica cosa che contava, era necessario sacrificarsi. Era una mentalità che ammiravo e rispettavo, ma che non condividevo, perché per quanto egoista potesse sembrare, la mia priorità non era vincere, era sopravvivere. Quella era una battaglia che non sentivo “mia”, anche se non lo avrei mai ammesso ad anima viva: se mi trovavo lì era solo perché il mio senso del dovere aveva prevalso sul resto. E non sarei morta con il sorriso sulle labbra. Io quella fottuta alba la volevo vedere. La dovevo vedere.
Le mie speranze di portare a termine il mio obiettivo si affievolirono quando un’esplosione, proveniente dal piano di sopra, fece crollare il soffitto. Le macerie stavano cadendo addosso a me. Non c’era tempo per spostarsi. Pensavo che, se proprio fossi dovuta morire, sarebbe stato in un modo un po’ più glorioso. Ma la vita non va mai come vogliamo noi, altrimenti in quel momento sarei stata in riva al mare a bere vino con Sabo e Marco, o in sala operatoria con Law che mi faceva i complimenti per la mia tecnica impeccabile. Chiusi gli occhi, preparandomi all’impatto. E l’impatto ci fu, solo che non fu come me lo aspettavo. Un dolore al fianco mi fece grugnire. Mi sembrava di essere stata sbalzata di qualche metro, ma non sapevo come fosse possibile.
«Stai bene?» Qualcuno mi piazzò una mano sulla guancia. Aprii gli occhi e mi ritrovai davanti due iridi verdi che mi fissavano preoccupate.
«Kenji?» Mi guardai intorno. Ci trovavamo a un paio di metri dal crollo. «Sei stato tu? Mi hai salvata?»
Annuì e fece un piccolo sorriso. Gli diedi una pacca sulla spalla ed entrambi espirammo sollevati. Poi però ci rendemmo conto che eravamo stati separati dal resto del gruppo e che non c’era modo di ricongiungerci con loro, perché un muro di massi e macerie varie bloccava la strada. In me si fece strada il panico. Senza Penguin, che era uno dei Pirati Heart più forti, non avevamo speranza di farcela. Si era occupato lui della maggior parte dei nemici fino a quel momento.
«State bene?» Anche se Maya aveva gridato, la voce ci arrivò flebile.
«Sì!» le urlò Kenji di rimando. «Ma credo che io e Cami dovremo proseguire per conto nostro, il passaggio è ostruito!»
«D’accordo. Se non riusciamo a ricongiungerci prima, ci rivediamo a qualche minuto dall’alba all’ingresso di Onigashima, come ci ha detto il Capitano.» Stavolta fu Penguin a parlare.
«Ci saremo! Ma ora voi siete rimasti senza medici... Ve la caverete?»
«Non preoccuparti, sappiamo come tirarci fuori dai guai! Abbiate cura di voi!» gridò di nuovo Maya.
«Altrettanto!»
Avevo seguito la conversazione, ma non avevo parlato. Non mi ero mossa, forse non avevo nemmeno respirato. Ero rimasta a fissare il vuoto con occhi spalancati. Non ero preparata per quel tipo di imprevisto. Volevo tornare indietro. Come si faceva a tornare indietro?
Una mano si posò sulla mia spalla e mi scosse, ma fu solo quando vidi un uomo-falena venirmi contro a tutta velocità che mi ridestai. Un samurai si parò davanti a me e respinse l’attacco, ferendo il nemico.
«Ehi, dovete fare attenzione!» ci ammonì l’uomo, per poi tornare ad attaccarlo.
«Ha ragione,» lo supportò Kenji, guardandomi con eloquenza.
«Sì, scusa.» Distolsi lo sguardo. Mi vergognavo di essermi fatta sorprendere in quel modo. Ci tenevo a non morire, ma i miei nervi poco saldi non aiutavano.
«Ehi,» mi richiamò, accarezzandomi il braccio. «Ce la faremo,» mi disse, con dolcezza e al contempo decisione, come se mi avesse letto nel pensiero.
Non ne ero molto convinta, ma lui lo era, perciò non dissi niente. Del resto voleva solo farmi sentire meglio.
«Non possiamo fermarci. Dobbiamo continuare a correre e andare avanti,» affermai sguainando l’ascia. Mentre affrettavo il passo, pensai che quello doveva essere il mio inferno personale.
 
Il castello poteva sembrare piccolo, ma era un vero e proprio labirinto di corridoi e stanze. Erano passate un paio di ore dall’inizio della guerra e non ero ancora riuscita ad orientarmi. Per fortuna avevo Kenji al mio fianco. All’inizio pensavo che rimanere sola con lui fosse un disastro, sia per i nostri trascorsi sia perché non eravamo un’accoppiata di fenomeni in combattimento, però mi aveva stupito. Aveva una fermezza, un’efficienza e una prontezza di spirito che io in quel contesto non avevo. Era stato la mia salvezza. Se non ci fosse stato lui sarei stata letteralmente persa. Mi aveva fatto da guida e aiutato a fare fuori una decina di nemici. Funzionavamo bene insieme, eravamo in simbiosi: quando lui combatteva io curavo gli alleati e viceversa. Potevamo permettercelo perché sapevamo che l’altro ci copriva le spalle. In un raro momento di tranquillità mi ero chiesta se quello poteva essere il punto di svolta per il nostro rapporto, magari la guerra ci avrebbe fatto bene e tutto sarebbe tornato come prima.
Mi girai verso Kenji per sorridergli, ma non lo trovai. Fui assalita dal panico, fino a che non notai che era rimasto indietro di qualche metro per riprendere fiato. Aveva le mani sulle ginocchia e stava ansimando pesantemente.
«Stai bene? Sei ferito?» Scansionai il suo corpo con gli occhi per capire se avesse delle lesioni. Se lo avessero colpito e io non me ne fossi accorta non me lo sarei mai perdonato.
«Sto bene.» Alzò la testa e sorrise. «È solo che corri a ritmi troppo sostenuti per me.»
Mi lasciai sfuggire una risata mentre i nervi del mio corpo si distendevano. «Mi dispiace.»
Supponevo che gli allenamenti di Zoro avessero dato i propri frutti. In effetti era da parecchio tempo che correvamo, e non ci eravamo fermati né avevamo rallentato un attimo, eppure io non mi sentivo stanca. Forse era l’adrenalina a rendermi infaticabile, ma mi piaceva pensare che il mio duro lavoro fosse stato ripagato. Questo mi diede un po’ di conforto: il mio corpo era più resistente di quanto pensassi, le mie chance di sopravvivenza aumentavano. Dovevo “solo” dosare bene le energie.
«Non ti devi scusare.» Kenji si rimise dritto e cominciò a camminare verso di me. «È una cosa positiva. Se succedesse qualcosa almeno uno di noi due sarebbe abbastanza veloce per riuscire a scappare e si salverebbe.»
I muscoli del mio corpo tornarono tesi. Come poteva dire una cosa del genere con tanta leggerezza, con un’espressione così serena?
«Kenji, io non ti lascerei mai indietro,» affermai decisa, il tono più duro di quanto volessi. “Non di proposito, almeno,” avrei voluto aggiungere, visto che lo avevo appena fatto, ma non mi sembrava il caso di mettersi a fare i puntigliosi.
«Cami...»
«Attento! Dietro di te!» gli gridai, interrompendolo.
Una ragazza che aveva una mantide religiosa al posto della coscia sinistra stava venendo a gran velocità verso il mio compagno.
«Un uomo.» La sottoposta di Kaido si leccò le labbra, e con lei anche l’insetto verde, poi sorrise in maniera perversa. «Adoro gli uomini, sono deliziosi! Perfetti per uno spuntino notturno.»
Non pensai a niente e mi lanciai in avanti, allungando l’ascia al massimo. La mantide distese le zampe anteriori verso di me e fece quello che mi parve essere un ghigno compiaciuto. Ignorai il mio ribrezzo per gli insetti e scagliai un colpo contro l’animale. L’impatto fu talmente forte che entrambe fummo costrette a indietreggiare in direzioni opposte. Quei dannati artigli erano più duri di quanto mi aspettassi, ma dovevo trovare un modo per renderli inoffensivi, altrimenti saremmo morti sia io sia Kenji. Sapevo che aveva delle remore quando si trattava di colpire una donna, come Sanji.
«Non torcerai un capello al mio amico, stronza,» sibilai, attivando l’Heat Dial.
«Che guastafeste.» La ragazza sogghignò e si scostò una ciocca di capelli verdi dal viso. «Non è il massimo, ma suppongo che anche una donna possa andare bene per il mio spuntino di mezzanotte.»
Alle mie spalle udii delle lame scontrarsi, ma non vi prestai attenzione. Il mio avversario era davanti a me. Ci sfidammo di nuovo, e stavolta la sottoposta di Kaido tirò fuori una sciabola da dietro la schiena a tradimento. Riuscii ad evitarla grazie all’Haki, ma non fui abbastanza veloce per schivare gli artigli della mantide, che mi graffiarono il braccio sinistro. Grugnii con sprezzo mentre la donna e l’animale ridacchiavano. Gettai un’occhiata alla ferita: sembrava superficiale e per fortuna non mi faceva troppo male. Non avrei avuto bisogno di punti, l’unico punto che dovevo mettere era a quello scontro.
Vieni avanti, cara. Ho una seconda sciabola pronta per te dietro la schiena.
Pensava di ingannarmi. Ottimo. Non mi feci pregare e la assecondai. Fece per attaccarmi con la sua arma, ma con una mossa repentina tirai fuori il pugnale dallo stivale e la fermai. Con l’altro braccio fece per recuperare la scimitarra dalla cinta, così io premetti il pulsante blu e la bloccai incatenandole l’arto. Infine mi protessi dalle zampe della mantide utilizzando il manico dell’ascia. Adesso i due erano in mia balìa. Quando trovai l’equilibrio giusto feci un giro su me stessa, trascinando la sottoposta di Kaido con me, poi ritirai la catena e approfittai della sua instabilità per lanciarla in aria con un calcio – Bepo e Hack erano stati fondamentali per la riuscita di questa mossa – e darle il colpo di grazia. Saltai e mi avventai su di lei come un predatore feroce. Le lame della Mr. Smee colpirono entrambi con un solo fendente, aprendo uno squarcio che andava dalla pancia al ginocchio sinistro della donna. Lei urlò, la mantide emise uno stridio fastidioso. Fumo e sangue uscirono dalla ferita, mentre il corpo ricadeva esanime al suolo.
Dopo che ebbi smesso di ansimare ghignai soddisfatta della mia opera e soprattutto del mio ingegno. Ora avevo la certezza di aver avuto l’intuizione giusta facendomi installare l’Heat Dial nell’ascia. Funzionava alla perfezione e accresceva il mio potenziale offensivo.
«Se vuoi fare uno spuntino, la prossima volta apri il frigo, cannibale di merda,» dissi compiaciuta alla mia avversaria, che ormai giaceva a terra sconfitta. Pulii le mie lame sulla sua maglietta e, non contenta, le diedi un calcio sul costato e sputai sulla mantide. Era una cosa che normalmente non avrei fatto, ma l’adrenalina della battaglia era in grado di trasformare tutti nella peggiore versione di se stessi.
Mi voltai appena in tempo per vedere un energumeno, grande il doppio di Kenji, lanciarsi contro di lui e tirargli un pugno sullo stomaco. Emise un verso sofferto e sputò sangue.
«Kenji!» Feci per andare in suo aiuto, ma lui mi fermò con una mano, indicando poi un samurai dietro di lui che respirava a fatica.
Strinsi il manico della Mr. Smee fino a far sbiancare le nocche, riluttante all’idea di lasciarlo combattere da solo con quella montagna umana, ma alla fine cedetti e andai ad aiutare l’uomo ferito. Mi fidavo del mio compagno.
Il nostro alleato mi ringraziò con un po’ di sofferenza e si rimise in piedi. Gli sorrisi e feci un cenno d’assenso. Se era fortunato, sarebbe riuscito a sopravvivere.
Quando mi rigirai, il rosso era in ginocchio e l’energumeno stava venendo verso di me. Sguainai l’ascia e attivai l’Ambizione.
Le romperò la spina dorsale con un solo pugno.
La situazione non mi sembrava ottimale. A giudicare dalle sue dimensioni avrebbe potuto farlo davvero, e io ero troppo preoccupata per Kenji per poter pensare a un piano.
E quando ti avrò ucciso mostrerò il tuo cadavere a Sasaki-sama, così forse otterrò una promozio…
I suoi pensieri si interruppero nel momento in cui vidi un rivolo rosso colare dalle sue labbra. Il bestione cadde in ginocchio e poi al suolo.
«Mai voltare le spalle a un nemico che è ancora vivo,» disse una voce familiare dietro l’omone.
Emisi una risata sollevata e mi sporsi per trovare un paio di iridi verdi che mi fissavano preoccupate. Si rilassarono non appena vide che stavo bene. Estrasse uno dei suoi tre sai – ne utilizzava due in combattimento e uno lo teneva come riserva – dalla schiena del sottoposto di Kaido e ripulì il sangue dalla lama sul mantello di quest’ultimo. Colpire un avversario alle spalle era una cosa che non avrebbe mai fatto, andava contro ogni suo codice morale. E uccidere qualcuno... non pensavo che avrei mai visto Kenji farlo, e per di più senza esitare. Ma era necessario. Le battaglie riducevano le persone a questo. E in quel momento mi resi conto che io e lui eravamo più simili di quanto pensassi.
«Grazie,» gli sussurrai, sorridendogli dolcemente.
«Tu salvi me, io salvo te.» Mi sorrise anche lui, poi prese delle garze e del disinfettante dal suo zaino. «Ora pensiamo al tuo braccio.»
Non obiettai e gli tesi l’arto. Pulì e mi fasciò la ferita con cura e delicatezza. Una delle cose che adoravo di lui era che aveva un tocco leggero.
«Sto finendo le garze...» constatò dopo aver riposto l’equipaggiamento medico nella borsa.
«Anche io.» Lo guardai con un po’ di preoccupazione negli occhi.
«Questa guerra è un inferno.» Scosse la testa con aria sconsolata.
Gli diedi una pacca sulla spalla. Chi meglio di me poteva capirlo?
 
Era passata un’altra mezz’ora dall’inizio della guerra e, anche se fisicamente sentivo che avrei potuto resistere per qualche altra ora, avrei voluto che la battaglia finisse in quell’istante. In quei minuti avevo visto una quindicina di cadaveri, più di quanti ne avessi mai visti insieme fino a quel momento. Ma la cosa peggiore era che erano accatastati in un angolo e dimenticati, o perfino calpestati da chi tentava di fuggire, come se non fossero mai esistiti, come se prima di morire non fossero state persone, come se il loro sacrificio non avesse alcuna importanza. Durante il viaggio verso Onigashima, Law ci aveva detto che per chi non aveva mai vissuto una cosa del genere sarebbe stato terribile, e aveva ragione. Ma questo era un altro tipo di “terribile”. Comunque fosse andata a finire, sapevo che le conseguenze su di me sarebbero state pesanti. La mia unica salvezza era che non potevo soffermarmi a pensare a quello che vedevo. Il problema, però, era che stavamo finendo i medicinali. Penguin e gli altri sembravano essersi volatilizzati nel nulla, e io e Kenji non avevamo un piano alternativo.
La situazione peggiorò quando udimmo l’ennesima esplosione. Questa era più forte delle altre, ma non vicina a noi, tanto che il suolo tremò appena e dal soffitto cadde qualche innocuo sassolino. Mi portai una mano sul viso per proteggermi dalla polvere che ci circondava e con l’altro braccio cercai di scacciarla. Dovevo avere la visuale libera per rilevare eventuali nemici.
«A giudicare dal rumore, deve essere scoppiata una granata un paio di piani sotto di noi,» constatò il mio compagno, compiendo i miei stessi movimenti.
«Da quando sei un esperto di esplosivi?» Mi voltai verso di lui con aria perplessa.
Ghignò soddisfatto. «Ho i miei segreti.»
«Non sono sicura di volerli sapere.» Ridacchiai, e lui con me. In realtà mentivo. Ero attratta dal suo lato oscuro più di quanto mi piacesse ammettere. Era come se sotto al Kenji sorridente e gentile ci fosse un altro Kenji, un Kenji freddo e risoluto, un Kenji che stavo scoprendo durante la guerra e che apprezzavo. Soprattutto perché ciò che lo rendeva diverso da tutte le altre persone che avevo conosciuto era che lui riusciva sempre a far prevalere la sua parte buona. Tutti abbiamo un lato oscuro, ma il rosso sembrava esserne in totale controllo. Per questo mi sentivo al sicuro al suo fianco, sapevo che non mi avrebbe mai ferito, ma anzi, avrebbe fatto di tutto per proteggermi.
A distrarmi dai miei pensieri ci pensò quella che mi parve essere una raffica di proiettili. Anche questo suono era distante, per cui non mi preoccupai troppo per la mia incolumità, ma non mi sembrava un rumore incoraggiante. Nel dubbio mi abbassai e mi coprii la testa.
«Anche questi colpi sembrano provenire dal secondo piano. Qui siamo al sicuro,» cercò di tranquillizzarmi Kenji. C’era poco da stare tranquilli però, perché poco dopo il castello tornò a tremare, accompagnato da un tonfo sordo. Non attivai l’Haki: cercavo di risparmiare energie il più possibile e di utilizzarla solo in presenza di nemici da abbattere. Qualunque cosa stesse succedendo là sotto non era buona, ma finché era lontana e non mi coinvolgeva, mi andava bene.
Tirai Kenji per un braccio, incoraggiandolo ad andare nella direzione opposta agli spari. Il mio buon senso – e anche l’istinto – mi diceva che era meglio allontanarsi il più possibile da lì. Mi diedi una pacca simbolica sulle spalle quando, qualche secondo dopo, udii degli urli disperati in lontananza. Il rosso, che finora si era lasciato guidare – in una direzione non ben definita – da me, si liberò dalla mia presa e deviò la sua corsa verso la finestra più vicina. Lo seguii, anche se non avevo idea di cosa stesse facendo. Eravamo lontani dal cortile, troppo in alto per vedere bene, ma lo scenario che ci si presentò davanti fu comunque terribile. Due piani più in basso, come aveva detto il mio compagno, c’era un enorme ciccione con un sigaro in bocca e una grossa arma da fuoco in mano che rideva di gusto. Aveva il braccio sinistro meccanico e indossava una salopette a righe. I pochi ma lunghi capelli che aveva erano raccolti in una treccia dietro la nuca. Non faceva paura a prima vista, ma non avrei mai voluto trovarmi faccia a faccia con lui. Immaginai che fosse una delle tre Superstar. Non era Jack, l’unico di cui conoscevo l’aspetto, quindi la scelta era tra King e Queen. Sotto, nella grande aia, oltre ai corpi di tre giganti di una razza sconosciuta che giacevano al suolo immobili, c’era confusione generale. Qualcuno urlava di dolore, qualcun altro tentava di scappare. Pirati, samurai, alleati, avversari... non faceva differenza, erano tutti terrorizzati. Nel caos riconobbi alcuni dei Mugiwara, X Drake e Scratchmen Apoo. Non vidi nessuno dei miei compagni.
«Ho freddo! Aiutatemi!» gridò qualcuno.
«Oh, no! Sono stato morso!» si disperò qualcun altro.
«Aiuto! Il mio corpo si sta trasformando in ghiaccio!»
«Che freddo! Sto diventando un Oni!»
Cercai di aguzzare la vista e notai che poco a poco alcuni dei presenti si stavano trasformando in... mostri di ghiaccio. Era assurdo, com’era possibile?
«Tu hai capito che cosa sta succedendo?» Mi rivolsi a Kenji senza staccare gli occhi da quello spettacolo raccapricciante.
«Credo... credo di sì.» Era attonito. Era la prima volta dall’inizio della battaglia che lo vedevo sconvolto. Non era positivo: se avesse perso la testa saremmo morti entrambi. «È un’epidemia.»
«Un’epidemia!?» Non mi sembrava possibile. Mi trattenni dal ridere istericamente. Se era scoppiata un’epidemia nel bel mezzo di una guerra epocale eravamo alla frutta.
«Queen-sama, cosa abbiamo fatto per meritarcelo anche noi!?» gridò uno dei suoi sottoposti. Avevo ragione, era una Superstar. Era lui il famigerato Queen.
«Che importa, Pleasures!? Tanto l’unica cosa che sapete fare è ridere! Ora almeno potrete rendervi utili!» Ridacchiò diabolicamente.
«È disposto a sacrificare i suoi stessi compagni!?» sibilò Kenji a denti stretti, incredulo. Per lui una cosa del genere non era concepibile, e non lo sarebbe stato neanche per me, se non avessi già visto quello scenario. Non era quello a sconvolgermi, quanto il fatto che mano a mano si stavano trasformando tutti in mostri con la pelle blu, grandi il doppio di ciò che erano normalmente e con artigli e denti affilati. Non c’era modo di fermarlo. Se avevo capito bene, chi veniva a contatto con gli infetti veniva infettato a sua volta e iniziava ad attaccare chiunque gli capitasse davanti. Non riconoscevano più i propri amici. Era straziante.
«Non toccate coloro che sono stati colpiti, o vi trasformerete anche voi in Oni di ghiaccio! Non fatevi sfiorare la pelle, respingeteli con le armi!» Una voce che veniva dal cortile confermò i miei sospetti. Era un’epidemia a tutti gli effetti. Un’epidemia creata artificialmente, che non esisteva nei libri di medicina. E a giudicare dall’eccitazione di Queen, era lui il creatore di quello scempio.
I superstiti cominciarono ad organizzarsi per respingere i mostri senza toccarli. Avvistai Chopper insieme a Robin, Brook e Zoro. Sapevo che la renna aveva capito tutto e si era già attivato per risolvere la situazione. Il come mi sfuggiva, ma avevo fiducia in lui. Io non potevo fare niente, né come medico, né come combattente. Ero solo grata di non trovarmi in mezzo a quella bolgia infernale.
«Chiunque venga infettato, muore nel giro di un’ora!» annunciò Queen con il megafono.
A quel punto non prestai più attenzione a quello che stava succedendo nel cortile, perché Kenji si era già girato ed era pronto per correre verso il piano di sotto.
«Dobbiamo aiutarli!»
«Aspetta!» Lo trattenni per una spalla e feci in modo che mi guardasse negli occhi. «Se andiamo là in mezzo rischiamo di morire.»
«Non ha importanza. Noi siamo medici, è nostro dovere provare a curarli.»
No. No, no, no, no, no, no. Il mio peggiore timore stava diventando realtà: Kenji voleva andare ad aiutare le persone nell’aia. E voleva che io andassi con lui. Avrei dovuto immaginarmelo, erano gli svantaggi di avere un medico puro di cuore come compagno d’armi. Non potevo lasciarglielo fare. Era una pazzia, un suicidio. Dovevo dissuaderlo.
«Il nostro compito è rimanere qui, respingere i nemici e curare gli alleati che hanno bisogno di essere curati. Vuoi disubbidire agli ordini del Capitano?»
«Le persone laggiù hanno bisogno di cure! Dobbiamo andare da loro!» Mi guardò come se fossi io la pazza.
«D’accordo. Noi siamo al quarto piano, loro al piano terra. Credi che i Pirati delle Cento Bestie ci lasceranno scorrazzare liberamente per il castello? Ci vorrà un’eternità per arrivare lì, sempre che riusciamo a sopravvivere!»
«Dobbiamo tentare.» Improvvisamente il Kenji risoluto non mi piaceva più. Aveva perso la testa.
Sospirai, senza lasciargli la spalla. Se lo avessi fatto sarebbe partito alla riscossa e non avrei più potuto fermarlo.
«Guarda.» Indicai un punto al centro della piazza. «Quello è Chopper. È un ottimo medico, ci penserà lui a curarli. Troverà una soluzione.»
Non sembrava del tutto convinto e io avevo finito le carte da giocare. Mi diede indirettamente una mano Apoo, che nella confusione si era diretto al portone d’ingresso del castello, senza però riuscire ad aprirlo.
«Ehi, fratello Apoo!» lo richiamò Queen, lanciandogli una fialetta di qualcosa. «Quella è l’unica dose di anticorpo esistente. Se te la rubano, ti ucciderò con le mie mani.»
«Hai visto? Esiste una cura!» urlai nelle orecchie del rosso, sperando che questo lo riportasse sulla retta via.
«Sì, ma è in mano al nemico e dobbiamo...»
«Kenji.» Gli posai delicatamente le mani sulle guance e incastonai le mie iridi alle sue. «Non possiamo fare niente per loro. I portoni sono chiusi, nessuno può uscire e nessuno può entrare. Devi fidarti di me. Chopper e i suoi compagni prenderanno quella dannata fialetta e cureranno tutti.»
Dopo interminabili secondi di angoscia – per me – in cui la voce allegra di Queen annunciò l’inizio del suo gioco perverso stile “Hunger Games”, lo sguardo di Kenji ritornò limpido. Fece un flebile sorriso e annuì. «Mi fido di te.»
Tirai il sospiro di sollievo più lungo che avessi mai fatto.
 
«Che facciamo?» mi chiese Kenji, asciugandosi il sudore sulla fronte con la manica della divisa.
«Non lo so,» risposi io, ansimando.
Erano passati altri venti minuti. Avevo sconfitto un nemico – uno di quelli che rideva incessantemente – e ne avevo feriti due. Cominciavo a essere esausta. Il mio compagno nel frattempo si era occupato di curare tre samurai, e aveva finito le garze. Ora voleva sapere se fosse il caso di rimettersi a correre in cerca di feriti, ma non ne avevo idea. Se ci fossimo messi a vagare per i corridoi avremmo potuto essere vittime di brutte sorprese. Continuavano ad esserci esplosioni, e spari, e scontri di lame e urla di dolore e versi animaleschi, e ogni tanto le pareti tremavano. Non che ci fosse modo di ripararsi, era una guerra senza esclusione di colpi, come ci si aspettava che fosse. Ma non era una guerra normale. Perché in giro c’era gente in grado di trasformarsi in dinosauri preistorici, di rubarti l’anima, di creare virus letali, di tagliare il fuoco e non volevo neanche immaginare che altro. Ed era frenetica. Non c’era il tempo di metabolizzare le cose. Non c’era il tempo di riprendere fiato. Non c’era il tempo di pensare.
Ci fu l’ennesima esplosione, e stavolta era così vicina che vidi delle persone venire sbalzate a qualche metro da me. Seguì una risata strana e malefica e poi da dietro l’angolo sbucò un sottoposto di Kaido. Spuntarono prima le zampe, per la precisione, e solo dopo apparve il corpo. Sussultai e indietreggiai con le iridi piene di ribrezzo. Era un giovane uomo grande il triplo di una persona comune, dalla testa al torso era normale, ma appena sotto l’ombelico la sua pelle si colorava di bordeaux e si diramava in sei zampe lunghe e pelose e in un secondo, grosso corpo da insetto. Le braccia invece erano due strane tenaglie curve dello stesso colore. Aveva un caschetto di capelli bianchi, dal quale spuntavano un paio di antenne sottili.
Scossi la testa e continuai a indietreggiare. Potevo gestire una mantide religiosa, ma un ibrido con un coleottero o cervo volante o quello che era, no. Mi ricordava un po’ il Rubeus Candidum, e quello era un trauma che non avevo ancora superato del tutto. Perciò no, non avevo nessuna intenzione di combattere con quel tizio.
«Io sono Clubs, sono una Star e ora vi farò fuori!» annunciò l’uomo ai presenti nel corridoio. Dietro di lui, i suoi compagni lo incitarono.
Io e Kenji ci scambiammo un’occhiata preoccupata. C’erano cinque feriti da curare, lui aveva finito le garze e l’avversario era fuori dalla portata di entrambi. Per non parlare della mia fobia degli insetti. La situazione non era delle migliori. Clubs iniziò a venire verso di noi e notai che portava una piccola borsa a tracolla dalla quale aveva tirato fuori una granata. Se non fossi stata io il bersaglio, avrei riso. Quale persona sana di mente tiene delle granate in una borsa a tracolla? Io non potevo biasimarlo, però, perché quale persona sana di mente decide di prendere parte a una guerra nella quale i nemici tengono delle granate in una borsa a tracolla?
Si portò la linguetta della bomba tra i denti, e a quel punto pensai solo a scappare. Avevo una via di fuga già pronta, dovevo solo attivare le gambe e portare Kenji con me. Ma una folata di vento alle mie spalle mi impedì di muovermi. Fu un attimo, neanche me ne accorsi, né li vidi all’opera. Rimasi ad osservare mentre il tizio-cervo volante si contorceva come se avesse le convulsioni, le sclere totalmente bianche e l’espressione sofferente. Il suo corpo iniziò a fumare prima di cadere a terra inerte. E poi si rivelarono. I Visoni. Mi lasciai scappare una risata. Avevano fulminato Clubs. Finora non ne avevo visti molti in giro, forse perché erano impegnati a combattere con i pezzi grossi. Sembravano abbastanza stanchi e malridotti, ma avevano comunque la forza di combattere. Se questo ci era di aiuto, chi ero io per fermarli?
Li osservai mentre sfrecciavano per il corridoio e facevano fuori altri nemici con fervore e poi aiutai il mio compagno ad occuparmi dei feriti.
Li curammo tutti, ma due di loro non ce la fecero. Uno morì con gli occhi aperti, una visione terribile e inquietante. Kenji gli abbassò le palpebre con una mano, senza battere ciglio, il che mi sorprese.
«Come fai a non essere...» Mi fermai. Conoscendo il mio interlocutore, quello che avevo usato non era il verbo giusto, dovevo correggermi. «A non sembrare turbato da quello che sta succedendo?»
«Vedere questi corpi privi di vita, questi scontri, questa violenza... mi spezza il cuore.» Scrollò le spalle e distolse lo sguardo. «Ma non posso permettermi di lasciarmi distrarre da questo.»
«Devi rimanere concentrato perché vuoi sopravvivere.» Annuii sapientemente. Non era quello che volevamo tutti, in fondo?
Scosse la testa, le sue iridi limpide incontrarono le mie. «Perché al mio fianco ho una persona da proteggere.»
Mi morsi un labbro, cercando di resistere alle lacrime che premevano per uscire. L’effetto che quelle parole avevano avuto su di me era... inaspettato. Mi lasciarono attonita. Forse era la guerra a rendermi emotiva, però mi avevano toccato nel profondo. Erano semplici, eppure non erano scontate. Anche io desideravo proteggere Kenji, non volevo che gli accadesse niente di brutto, ma l’unico motivo per cui non giacevo in un angolo a singhiozzare disperatamente era che volevo sopravvivere, a tutti i costi. Avrei fatto tutto il possibile perché entrambi ne uscissimo vivi e non lo avrei lasciato indietro o abbandonato a se stesso, ma non era Kenji il mio pensiero primario. Le mie azioni erano per lo più in funzione di me stessa e della mia sopravvivenza. Ero egoista? Forse. Ero da biasimare? No, perché ci sono situazioni in cui ognuno deve pensare per sé. Una sola cosa era certa: non avrei potuto avere compagno migliore al mio fianco.
 
«Cazzo, ho finito le garze.» Sbattei un pugno sul pavimento e imprecai più volte mentre il Visone che avevo aiutato si rimetteva in piedi.
L’uomo-ghepardo mi ringraziò chinando il collo e tornò a combattere.
Kenji mi mise una mano sulla spalla per confortarmi. «Troveremo un modo.»
«L’unica soluzione è tornare sul sottomarino e fare scorta di medicinali.»
«D’accordo, andiamo. Cerchiamo di fare in fretta, però.»
Annuii e ci rimettemmo a correre, questa volta tuttavia con molta più cautela. Decidemmo di passare dal retro. Il Polar Tang avrebbe dovuto essere ormeggiato all’ingresso di Onigashima, ma la strada più lunga era anche quella più sicura. E poi avevo bisogno di una pausa dalla battaglia, dai rumori, dagli scontri, da tutto. Avevo bisogno di respirare aria fresca. Mentre scendevamo le scale che ci avrebbero portato al terzo piano, ci fu un terremoto. Persi l’equilibrio e, se non fosse stato per il corpo di Kenji che mi faceva da scudo, sarei rotolata giù per gli scalini, invece mi limitai a sbattere il sedere per terra. Il rosso dovette appoggiarsi al muro con entrambe le mani per non cadere.
«Stai bene?» mi chiese dopo che tutto ebbe smesso di tremare.
Lo liquidai con un gesto della mano, mi rialzai e ricominciai a scendere le scale. Quel terremoto era l’ennesima conferma che dovevo andarmene da lì al più presto. E per quanto meschina fosse, in me si stava facendo strada l’idea di rimanere sul sottomarino. In fondo, io la mia parte l’avevo fatta. Ora ero arrivata al limite. Non tanto fisicamente, quanto mentalmente. Dover stare costantemente all’erta era estenuante. E a ogni persona morta che vedevo mi si formava un nodo alla gola, ogni persona che non avevo potuto salvare o che avevo dovuto uccidere era come una coltellata. E ancora la guerra era ben lontana dal terminare. Non potevo più farlo.
«Kenji,» lo richiamai dopo che avemmo raggiunto il terzo piano. Aspettai che si fermasse e mi guardasse. «Io rimarrò sul Polar Tang. Non posso tornare qui. Non posso.»
Mi fissò per qualche secondo con un’espressione che non riuscii a decifrare, poi sollevò un angolo della bocca e annuì. «Almeno so che sarai al sicuro.»
Mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo, significava molto per me che non mi considerasse una codarda e che rispettasse la mia scelta. Probabilmente era l’unico tra i miei compagni che l’avrebbe fatto. Avrei voluto dargli un abbraccio, ma avevo una certa fretta.
Proprio mentre ricominciavamo a correre, ci fu un altro terremoto, molto più forte e lungo del precedente. Tutti gli scontri cessarono. Le luci tremolarono, pezzi di intonaco caddero dal soffitto e profonde crepe si formarono sul pavimento e sulle pareti. Il rumore che produceva la scossa era terrificante, qualcosa che non avevo mai udito prima e che non avrei mai potuto immaginare di udire. I vetri delle finestre – quelli che avevano resistito finora – andarono in pezzi. Kenji si aggrappò a me e mi ritrovai stretta a lui, come se fossi la sua ancora di salvezza. E, anche se il mondo ci stava – letteralmente – crollando addosso, tra le sue braccia mi sentivo al sicuro. Questo complicava ancora di più il nostro rapporto, ma al momento mi premeva solo tornare sul Polar Tang.
Rimanemmo così per un lasso di tempo indefinito, le teste sepolte nella spalla l’uno dell’altro per evitare che la polvere ci finisse negli occhi e nei polmoni. Ci tenevamo in piedi a vicenda.
«S-scusa,» balbettò il rosso quando i tremori finirono, staccandosi in fretta da me. «È che mi sono spaventato,» ammise, le guance rosse per l’imbarazzo.
Feci una piccola risata. In realtà ne ero quasi sollevata, stava a significare che anche lui era umano e che non ero solo io ad avere debolezze. Non che io non avessi avuto paura.
«Non ti preoccupare, è tutto a posto,» lo rassicurai, un sorriso sincero sulle labbra.
Mi chiesi cosa avesse potuto causare un terremoto tanto potente e mi convinsi che forse era meglio non saperlo. L’importante era esserne usciti illesi.
«Cos’è stato? L’isola non aveva mai tremato in questo modo, prima d’ora!» si sbalordì uno dei Pirati delle Cento Bestie. Se nemmeno lui aveva idea di cosa fosse accaduto, non era positivo.
Diedi una piccola spinta a Kenji per incitarlo a riprendere a correre. La regola era sempre la stessa: se noi non eravamo direttamente coinvolti, non c’era bisogno di capire. Ma il mio compagno non era dello stesso avviso e si avvicinò a una finestra per controllare la situazione.
«Cami...» mi richiamò con voce tremante. A quel punto mi affacciai anche io e... per poco non svenni.
«Porca puttana,» dissi, quasi senza fiato. Tutti i miei muscoli si irrigidirono. Deglutii più volte, sebbene la salivazione si fosse ridotta a zero. «Porca puttana!»
Anche se non eravamo molto in alto, da lì si riusciva a vedere tutta l’isola. Era ancora intera, pezzo più pezzo meno, ma non era più... un’isola. Era un enorme ammasso di rocce fluttuanti per aria, il mare sotto di noi solo un lontano ricordo. Onigashima stava volando. C’era soltanto il cielo attorno a noi. Un’infinita distesa scura e inquietante che ci suggeriva che ogni via di fuga da lì era perduta.
«No. No, questo... questo non è possibile.» La mia mente si rifiutava di credere ai miei occhi. Forse stavo avendo un’allucinazione. Però, se era così, stavamo avendo tutti la stessa allucinazione, perché anche i sottoposti di Kaido erano increduli. Gli scontri alle mie spalle erano cessati di nuovo, nell’aria c’era un mormorio titubante, ed era l’unico motivo per cui potevo permettermi di rimanere alla finestra a fissare il vuoto.
Chiusi gli occhi, sperando che fosse solo un brutto sogno. Quando li riaprii, niente era cambiato. Non era un sogno. Era la realtà. La tragica realtà.
Il panico mi investì come un’onda anomala, mi inghiottì nella sua oscurità e mi tolse il respiro. Avevo la vista sfocata, le orecchie fischiavano e sudavo. Mi sembrava che la terra sotto i piedi fosse venuta a mancare, che stessi fluttuando in aria. Di fatto, era così. Era letteralmente così. Non doveva andare in questo modo. La testa iniziò a girare, un milione di pensieri conversero tutti insieme in un punto ben preciso, causandomi dolore sopra il sopracciglio destro. Strinsi le mani in due pugni tremolanti. Il corpo mi sembrava improvvisamente pesantissimo, ogni movimento era fuori dalla mia portata. Cominciai ad ansimare, incapace di fermare il vortice di emozioni che mi stava trascinando verso il baratro.
«Se... se resto qui morirò...» sussurrai, le iridi che schizzavano da una parte all’altra delle sclere. Persi la lucidità, la razionalità e, soprattutto, la speranza. La speranza di salpare da quell’isola sana e salva. Viva. Perché non si poteva salpare. Non c’era – più – un porto e non c’era più il sottomarino ad aspettarci sulla costa. Non avevo più una via d’uscita. Non si poteva più scappare. O si vinceva o si moriva. E in quel momento, le circostanze propendevano verso la seconda opzione. Al piano terra circolava un virus mortale, sul tetto sopra di noi c’era un Imperatore e da qualche parte sull’isola ce n’era un altro. Sparsi per il castello c’erano mostri di potenza di tutti i tipi. Io e Kenji eravamo a corto di medicinali e non c’era modo di recuperarne altri. Non sapevo dove fossero i miei compagni, non sapevo se stessero bene, non sapevo se i piani fossero cambiati e non avevo modo di contattarli.
C’erano un milione di cose che avrei potuto fare. Trovare un modo per reperire altri medicinali. Cercare un rifugio e nascondermi fino a che la guerra non fosse finita. Farmi forza e continuare a combattere. Invece, feci l’unica che in quel momento mi sembrò avere senso, perché in realtà c’era una via d’uscita, una sola via d’uscita, e io volevo andare via da lì. Rimisi a posto l’ascia in segno di resa, mi sporsi dalla finestra, guardai in alto e gridai: «Stella! Devi portarmi via di qui!»

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Capitolo 17
*** Segni ***


«Stella!» gridai per la terza volta, con tutta la forza che avevo in corpo. «Mi hai sentito!? Ti ho detto che voglio andar...»
Una mano pressata sulle mie labbra fermò le mie urla deliranti. Mi agitai e cercai di scrollarmela di dosso e di raggiungere la Mr. Smee, senza successo. Ma perché ero stata così stupida!?
«Tranquilla, sono io. Sono io,» mi sussurrò dolcemente Kenji. Smisi di divincolarmi dalla sua presa e lasciai che il suo odore mi invadesse le narici. Non ci avevo mai fatto caso, ma profumava di lavanda.
«Cami,» mi richiamò Kenji, il suo corpo caldo pressato contro il mio. Mi abbandonai contro di lui, sapendo di poterlo fare, perché mi avrebbe sorretta. «Capisco che tu sia sconvolta. Credimi, lo capisco. E non so chi sia questa Stella o in che modo possa aiutarti ad andare via da qui, ma se continui ad urlare ti sentiranno tutti, e presto avremo alle calcagna molti nemici. Ora toglierò la mano dalla tua bocca, però ti prego, ti prego, non gridare.»
Annuii e cercai di calmarmi. Quando fece come aveva detto, mi accorsi che stavo ancora ansimando. Mi sentivo come se avessi appena corso la maratona, con la differenza che questa era una maratona più crudele. Era così subdola che non aveva un percorso ben definito da seguire, tutti coloro che erano coinvolti dovevano procedere alla cieca. E c’erano milioni di diramazioni possibili, ma poche conducevano alla salvezza. Chi sbagliava i calcoli, moriva.
Gli scontri alle mie spalle ripresero, lo stupore era ormai scemato. Non capivo come tutti potessero farsi scivolare addosso tanto facilmente il fatto che non avevamo più vie di fuga, ma sapevo che se non avessi fatto lo stesso sarei morta, che fosse per mano di un nemico o per la mia angoscia. Presi un respiro profondo, tentando di capire quale fosse l’opzione migliore, mentre Kenji mi consolava strofinando una mano sulla mia schiena.
«Stella...» Stavolta sussurrai. Mi sporsi di nuovo dalla finestra. «Che cosa devo fare?»
Cercai un suo segno, qualcosa che mi convincesse a rimanere lì e a combattere, a credere fino alla fine. In fondo ero la sua protetta, mi aveva già aiutato, avrebbe potuto guidarmi ancora una volta. Ma quando alzai gli occhi e sbirciai il cielo tramite il cratere sul teschio della creatura gigantesca, vidi solo nuvole. Scossi la testa, sconsolata. Non era quello il segno che mi aspettavo, ammesso che lo fosse. Non sapevo che fare. Volevo davvero utilizzare il mio ultimo desiderio per abbandonare i miei compagni come una codarda e tornare nel mio mondo senza nemmeno salutarli? La vecchia Cami si rifaceva viva. Ma come potevo biasimarla? Questa guerra era una carneficina, qualunque persona sana di mente se la sarebbe voluta dare a gambe. Perché non mi ero lasciata consigliare dalla vecchia Cami anche prima di accettare di partecipare alla battaglia!? Perché mi ero messa in quel casino? Come facevo ad uscirne? Come facevo a sopravvivere?
Mi afferrai il ponte del naso con le dita e abbassai la testa, sull’orlo delle lacrime. «Io non posso morire qui...»
«Cami!»
Mi voltai alla velocità della luce per trovarmi davanti Kenji che tentava di respingere un nemico che aveva le fattezze di un bruco. Non era grande, ma era alto il doppio del mio compagno e combatteva usando le zampe grasse e verdi per tenerlo occupato, mentre in ciascuna mano aveva una pistola, puntata sulla testa del rosso. Sul petto dell’uomo c’era la faccia paffuta del bruco. La lingua penzolava e l’espressione non era delle più sveglie.
«Kenji, schema a piramide,» lo avvisai mentre sguainavo l’ascia.
Il mio compagno curvò leggermente la schiena in avanti, io corsi verso di lui, saltai sulle sue spalle con i piedi e le utilizzai per farmi leva. Feci fuori l’insetto e l’uomo in un solo colpo. Dopo che l’avversario si fu accasciato al suolo pulii il sangue che era rimasto sulle lame della mia arma sulla sua camicia hawaiana.
«Grazie.» Kenji mi sorrise.
«È merito di entrambi, siamo una bella squadra.» Gli sorrisi di rimando e alzai il braccio per battergli il cinque. Nel momento in cui le nostre mani si toccarono, capii quanto fossi stata egoista. Se avessi dato retta alla mia angoscia e me ne fossi andata, avrei lasciato Kenji lì da solo. Non potevo farlo, non potevo permettermi di essere debole, perché con me c’era lui, e dovevo proteggerlo. Io non sarei sopravvissuta senza di lui, ma lui non sarebbe sopravvissuto senza di me. Eravamo imprescindibili l’uno per l’altro, se volevamo conquistare la nostra vittoria dovevamo essere una cosa sola. Soltanto così avevamo una speranza di cavarcela. Se Kenji poteva mettere da parte la sua angoscia per proteggermi, allora potevo farlo anche io. Dovevo restare lucida per entrambi.
«Stai bene, comunque?» Mi poggiò una mano sulla spalla e mi guardò con un po’ di preoccupazione.
Gli accarezzai una guancia. «Ora che so che sei tu il mio segno, sì.»
Fece un’espressione confusa, ma prima che potessi spiegargli un altro nemico tentò di assalirci. Questa volta si trattava di un uomo basso e snello con gli occhiali da sole. Non sembrava molto forte, il problema principale era che i suoi capelli castani erano in realtà un millepiedi. Anch’esso portava gli occhiali da sole e ondeggiava attorno al suo padrone – se così si poteva chiamare – con un’espressione diabolica.
«Avanti, Galley! Uccidiamoli,» il pirata sollecitò l’animale e quello ridacchiò.
Corrugai le sopracciglia. Ne avevo viste di cose strane in quel mondo, ma quella era di un altro livello.
«Me ne occupo io,» affermò Kenji, sfilando i suoi sai dalle cuciture apposite della divisa.
Non obiettai e lo osservai mentre combatteva contro la coppia con gli occhiali da sole. Nell’assurdità della situazione pensai che il lato positivo per quel tizio era che risparmiava sullo shampoo. L’attaccatura dei capelli corrispondeva al didietro del millepiedi, il corpo era appoggiato sulla spalla sinistra dell’uomo. Se fosse stata una chioma normale gli sarebbe arrivata fino alle ginocchia, ma poiché aveva vita propria, si sosteneva da sola e sovrastava in altezza il suo padrone, oscillando sinuosamente in tutte le direzioni e irrigidendosi solo quando era il momento di attaccare. Funzionava come un terzo braccio, si tendeva e al nemico il colpo arrivava come se fosse un pugno. Tuttavia era anche in grado di utilizzare le sue zampette schifose per avvolgere l’arto dell’avversario e bloccarlo, rendendolo inerte. Kenji non riusciva a mettere a segno nessun colpo, perché era impegnato a schivare i suoi attacchi. Volevano sfinirlo e approfittare della sua stanchezza per dargli il colpo di grazia.
Il millepiedi colpì il rosso sul viso e questi indietreggiò di qualche passo tenendosi la faccia. Un rivolo di sangue, che poi si pulì con la manica della divisa, gli colò dal naso e io sussultai. Non mi piaceva vederlo soffrire. Era anche per questo che me ne volevo andare, non sopportavo l’idea che potesse farsi del male. Ma avevo capito che se gli fosse successo qualcosa e io non fossi stata lì per aiutarlo non me lo sarei mai perdonato.
Continuai ad osservare il combattimento in silenzio, stando attenta a non farmi trovare impreparata in caso di attacco da parte di qualche nemico, l’ascia sempre stretta tra le mani. La cosa positiva dell’essere pesci piccoli era che in una battaglia contro una ciurma di gente ambiziosa e senza scrupoli, nessuno era interessato ad affrontarci. Volevano tutti le teste di Rufy, Law, Kidd e altri pezzi grossi lì presenti. Noi passavamo perlopiù inosservati, anche perché non attaccavamo nessuno di nostra spontanea volontà, aspettavamo che fossero gli avversari a venire da noi e rispondevamo a tono quando eravamo chiamati a farlo. Ci provavamo, almeno. Finora non ce la stavamo cavando male, si stava rivelando una strategia vincente.
Strabuzzai gli occhi nel momento in cui vidi il sottoposto di Kaido disarmare Kenji. Il millepiedi avvolse il suo busto e con una mossa rapida lo scaraventò dalla parte opposta del corridoio. Lo vidi volare per qualche metro, schiantarsi con la schiena su un muro e riatterrare flaccido per terra. Sussultai e per un momento non mi mossi. Poi mi decisi, e invece che andare ad aiutarlo, mi preparai per affrontare il nemico. Preferivo prima togliere di mezzo la minaccia.
«Questo combattimento sta andando troppo per le lunghe.»
Mi voltai e vidi che il mio compagno si era rialzato. Ansimava e sanguinava leggermente, ma sembrava stare bene. Sorrisi sollevata. Mi raggiunse in fretta e si parò davanti a me.
«Cami, schema a piramide!» Si inginocchiò e io mi affrettai a saltargli sulla schiena.
Fu più difficile abbattere l’animale questa volta, perché aveva vita propria e sapeva come evitare i colpi, ma dopo un paio di attacchi andati a vuoto, capii qual era il suo punto debole. Saltai sulle spalle di Kenji per la terza volta, ingannai l’animale fingendo di attaccarlo e, quando si scansò, scagliai un colpo contro il suo padrone. Contro la calotta cranica del suo padrone, per essere precisi. L’ascia gli si conficcò circa cinque centimetri in profondità, sangue e materia cerebrale schizzarono da ogni parte. Se non fossi stato un chirurgo e non me lo fossi aspettato, lo avrei trovato uno spettacolo disgustoso. Anche il millepiedi gemette, visto che avevo colpito il suo “posteriore”. L’uomo, ormai privo di sensi – e di vita – cadde in ginocchio, e ne approfittai per tranciare l’animale, che finì a terra qualche metro più in là. Gli occhiali da sole di entrambi erano volati via, un chiaro segnale che quello scontro era stato vinto dai Pirati Heart.
«Lo schema a piramide funziona sempre,» commentò soddisfatto Kenji dietro di me.
Emisi un verso d’assenso, del resto era una mossa che avevamo concordato prima di iniziare a combattere, appena eravamo rimasti soli, ma invece di commentare continuai a fissare il millepiedi con una certa frustrazione.
«Ma perché tutti gli insetti devono venire a importunare noi!?» Diedi un calcio alla creatura e la feci rotolare ancora più in là.
«Tecnicamente il millepiedi è un miriapode,» mi corresse il rosso.
Lo fissai con un sopracciglio alzato e lui sorrise imbarazzato. Solo lui poteva mettersi a puntualizzare su una cosa così stupida in quelle circostanze. Entrambi scoppiammo a ridere. In mezzo a tanta negatività, la cosa positiva era che mi sembrava che io e Kenji fossimo tornati ai vecchi tempi.
 
Era passato un altro quarto d’ora. Io e il mio compagno avevamo sconfitto un altro nemico, uno con una risata strana. Ci aveva dato del filo da torcere, ma alla fine aveva capitolato e si era accasciato al suolo piangendo dal ridere. A parte questo, era successo di tutto. A qualche metro da noi, nel corridoio, erano passati correndo Killer e Kidd, e quest’ultimo per poco non mi aveva portato via l’ascia e i pugnali a causa del suo maledetto potere magnetico. Ero riuscita a recuperarli prima che finissero nelle sue grinfie per miracolo. A quanto avevo notato aveva raccolto un bel gruzzolo di armi, non gli servivano anche le mie. Anche Kenji per fortuna aveva avuto la prontezza di non farsi sottrarre i sai. Non avevo visto né Rufy né Law, ma ero certa che anche loro si stessero dirigendo sul tetto. La testa di Kaido faceva gola a tutti. Sanji, al nostro stesso piano, si era fatto catturare da una donna e aveva mandato una richiesta di aiuto a Nico Robin tramite degli altoparlanti che avevano risuonato per tutto il castello. Doveva esserci qualcosa sotto, proprio per questo – e perché ero una fifona di prima categoria – non ero andata ad aiutarlo. Nel cortile, Zoro aveva rubato la provetta ad Apoo e Chopper stava tentando di moltiplicare gli anticorpi per poi somministrarli a tutti. Avevo visto tutto, perché invece di rimettermi a correre come una pazza per il castello avevo deciso di rimanere vicino a una finestra del terzo piano ad osservare la situazione. Sia io che Kenji avevamo rischiato un infarto quando avevamo intravisto Big Mom schizzare sul tetto sopra il suo fidato Prometheus. Era stato un attimo, ma l’energia che emetteva un Imperatore era paralizzante. Subito dopo di lei era apparso Marco e mi ero rilassata. Il suo arrivo era stato provvidenziale. Aveva utilizzato il suo potere per frenare gli effetti dell’epidemia, poi aveva accompagnato – o meglio, lanciato – Zoro sul tetto ed era rimasto ad occuparsi di King e Queen contemporaneamente in attesa di rinforzi. Mi aveva perfino vista e ci eravamo scambiati un rapido saluto. Ci eravamo detti così tante cose nei giorni prima della guerra, e ce ne dovevamo dire tante altre... Non era quello il momento di pensarci, però. Ci eravamo fatti una promessa: se fossimo sopravvissuti alla battaglia, mi avrebbe portato in un posto speciale e avremmo brindato insieme. Forse quello era il mio secondo segno.
Un gemito di dolore mi distrasse dalle mie riflessioni. Seguii il rumore e posai lo sguardo su un Visone agonizzante. Mi diressi da lui.
«Sono un medico, sono qui per curarti,» dissi all’uomo-cavallo. Era in fin di vita, a una prima occhiata aveva bisogno di un’operazione urgente per riparare dei tessuti gravemente danneggiati. Mi chiesi se fosse il caso di sprecare del prezioso materiale medico su di lui. Non aveva speranze senza chirurgia, e io non potevo aiutarlo, non avevo neanche più delle garze con cui fasciarlo per provare a fermare l’emorragia. Sotto di lui c’era una pozza di sangue che era destinata ad allargarsi sempre di più, il manto bruno ormai si era tinto di rosso. «Cosa posso fare per te?»
«Ho... ho due figli.» La voce gli uscì a malapena, fu un miracolo che fossi riuscita a sentirlo con tutto quel rumore. Mi avvicinai a lui e tesi l’orecchio. «Sono due gemelli, si chiamano Lucky e Luke. Lucky assomiglia a me, Luke invece ha il manto pezzato, ha preso da sua madre.» Sorrise al pensiero, poi si contorse, tossì e sputò sangue.
«Sono qui anche loro?» domandai con un nodo alla gola, avevo il terrore che potesse chiedermi di andare a cercarli.
Scosse la testa. «Hanno otto anni. Sono a Zou. Se li incontri, puoi dire loro che... che il loro papà li ama?»
Increspai le labbra, tentando di non abbandonarmi alle lacrime. C’era così tanta disperazione in quella frase. Quel Visone sapeva che sarebbe morto entro breve. Sapeva che molto probabilmente non avrei mai incontrato i suoi figli, del resto Zou non era un’isola facilmente accessibile e c’era la possibilità che morissi anche io in quella guerra. Eppure quell’uomo... quell’uomo voleva che lo rassicurassi, che gli dicessi che avrei comunicato ai suoi figli che lui li amava. Non avevo idea di come fossero fatti quei bambini e di come trovarli, non avevo idea di come raggiungere la sua isola natale, non avevo nemmeno idea di come avrei fatto ad uscire viva da lì. Ed era atroce che l’ultimo scintillio di speranza negli occhi del Visone fosse dato dall’illusione che una sconosciuta accogliesse la sua richiesta. Era atroce che si affidasse a me per far recapitare il messaggio a Lucky e Luke, anche se solo per finta. Era atroce che i suoi figli non avrebbero mai saputo da lui che il loro papà li amava. Ed era ancora peggio che non lo avrebbero visto tornare a casa insieme ai sopravvissuti. Avrebbero osservato l’orizzonte, cercato disperatamente un uomo-cavallo dal pelo scuro, e non lo avrebbero trovato.
Presi un respiro profondo e ricacciai indietro le lacrime. Non era il momento di piangere. Se avessi iniziato non avrei più finito.
«Come ti chiami?»
«D-Dalton,» mormorò, ormai allo stremo delle forze.
«D’accordo, Dalton.» Gli strinsi il polso irsuto. «Lo farò.»
«Grazie.» Sorrise, i grandi denti ormai tinti di rosso. Poi chiuse gli occhi, per non riaprirli più.
Scossi la testa. Non era giusto. Non era giusto. Non era giusto. Mi portai una mano al petto e me lo massaggiai, come se questo potesse diminuire il dolore che stavo provando. Era come avere un coltello conficcato nel cuore. Ero rimasta a guardarlo morire senza poter fare niente per lui. Non avevo nemmeno potuto alleviare il suo dolore con qualche farmaco, perché ero a corto di tutto. Il mio labbro inferiore tremò e dovetti ricorrere a tutta la mia forza di volontà per non scoppiare in lacrime. A quante scene come questa avrei dovuto assistere ancora? Il pensiero mi terrorizzava.
Un altro rantolo sofferente mi fece tornare alla realtà. Poco più in là c’era un samurai in fin di vita che si stava contorcendo dal dolore. Sospirai, mi alzai e mi diressi verso di lui, le gambe che nonostante il peso da sopportare si muovevano da sole. Kenji però mi precedette e si inginocchiò vicino a lui.
«Sono un alleato e un medico. Sono qui per aiutarti.»
«A-a... acqua...» L’uomo sollevò una mano tremolante verso il rosso, come a supplicarlo. Doveva essere grave, i samurai erano addestrati a non chiedere mai niente. Mi avvicinai e controllai la situazione: sarebbe morto di lì a breve. Aveva una brutta ferita all’addome; pelle, muscoli e tessuti adiposi erano lacerati, e un pezzo di intestino fuoriusciva dallo squarcio. Non avevo mai visto una cosa simile, se non in foto. Ma dal vivo era molto più terribile. Se non fossi stata un medico lo avrei perfino trovato rivoltante. Ad ogni respiro che faceva perdeva sempre più sangue. Non aveva alcuna speranza di farcela senza un accurato intervento medico, un intervento che io e Kenji non potevamo praticargli in quel contesto. Emisi un lamento addolorato che feci passare per un colpo di tosse. Un’altra persona sarebbe morta senza che io potessi fare niente. La cosa peggiore era che alcuni di loro si sarebbero potuti salvare se avessi avuto il giusto equipaggiamento a disposizione. La guerra era in grado di mietere vittime che non avrebbero dovuto essere vittime. Tutti noi avevamo preso coscienza di ciò a cui saremmo andati incontro nel momento in cui avevamo accettato di combattere, ma pensare che saremmo dovuti morire anche quando c’era una possibilità di cavarcela mi demoliva completamente.
La devastazione lasciò spazio alla frustrazione quando vidi che il mio compagno stava dando dell’acqua al samurai, che ne bevve un sorso generoso e spirò poco dopo.
«Kenji, le nostre scorte sono limitate, non possiamo permetterci di sprecare materiale medico con chi non ha speranze!» La frase suonava orribile, in circostanze normali non la avrei mai pronunciata. Mai. Ma la situazione era quella che era, e noi avevamo concordato che avremmo offerto il nostro aiuto solo a chi aveva una speranza di farcela. Non era etico, o corretto, o facile. Non era una cosa che io e Kenji volevamo o eravamo capaci di fare, però dovevamo farlo. Del resto non ci trovavamo al luna park, stavamo combattendo una guerra spietata. L’unico modo per poter aiutare quante più persone possibile era lasciare che chi era destinato a morire morisse.
Il rosso si girò verso di me, e solo allora vidi che stava singhiozzando. Fiumi di lacrime stavano scendendo dai suoi occhi, le iridi verdi piene di tormento, il viso contratto in una smorfia sofferente e il corpo ricurvo su se stesso. Mi bloccai e boccheggiai. Non sapevo che dire. Non sapevo che fare. Anche io volevo piangere, volevo rannicchiarmi in un angolino e lasciarmi andare alla stanchezza e al dolore, senza dovermi preoccupare di chi viveva e chi moriva, senza dovermi preoccupare di sopravvivere o di ciò che succedeva attorno a me. Però non potevo farlo. Non potevo arrendermi alla disperazione. Se fossi entrata in quella voragine, non ne sarei più uscita.
Mi inginocchiai e abbracciai Kenji. Il suo corpo che si agitava tra le mie braccia mi rendeva ancora più arduo non cedere alle lacrime. Ma era proprio per questo che dovevo resistere. Il mio compagno si trovava in difficoltà, io dovevo essere forte per lui, come lui lo era stato per me. Non potevamo permetterci di perdere entrambi la testa, se volevamo salvarci. Ora era il suo turno, stava a me tentare di tranquillizzarlo.
Aprii la bocca per dire qualcosa, eppure le parole non mi uscirono. Invece mi uscì un sospiro tremolante. La faccia di Kenji era sepolta nella mia spalla, la stoffa della mia divisa ormai bagnata per le sue lacrime.
«È terribile. È così ingiusto...» Il suo fu un sussurro, era una miracolo che fosse riuscito a parlare viste le condizioni in cui era, ma la sua voce era così rotta e così piena di tormento e tristezza e rabbia che prima che me ne accorgessi una lacrima scivolò lungo la mia guancia.
“Non piangere. Non piangere. Cami, ti prego, non cedere alle lacrime. Non te lo puoi permettere. Quando tutto sarà finito, se sopravvivrai, potrai singhiozzare per giorni interi, ma ora devi essere coraggiosa e non devi lasciarti andare alle emozioni. Devi restare concentrata. Per favore.”
«Forse... forse nel castello c’è un infermeria, o qualcosa del genere. Insomma, da qualche parte dovranno pur tenere i medicinali, no? Potremmo andare a cercarli e rubarli, e a quel punto saremmo in grado di aiutare tutti. Che ne pensi?» Lo dissi senza riflettere, ma funzionò, perché Kenji si staccò dalla mia spalla, smise di piangere e annuì flebilmente.
Sospirai sollevata e lo aiutai ad alzarsi. Chi poteva dirlo, la mia avrebbe potuto essere un’idea vincente. Nel momento in cui ci rimettemmo in piedi, però, qualcosa ci destabilizzò. Lui ricadde in ginocchio e io fui costretta ad appoggiare una mano per terra. Il mio corpo fu attraversato da una sensazione strana, un formicolio elettrico che mi rendeva debole e incapace di stare dritta. Non era come i terremoti, non era qualcosa di brutto, non era qualcosa di bello. Era... potente.
«Cosa succede?» Kenji tentò di rialzarsi.
Guardai in alto. Tra le crepe del soffitto e i due piani che ci separavano dal tetto, quasi mi parve di vederlo. Cercai di scacciare la paura e sorrisi. «È Rufy. Sono tutti loro. Lo scontro finale è cominciato. Le Supernove della Worst Generation contro due Imperatori.»
Si prospettava uno scontro tra Titani.
 
«Te l’avevo detto che Chopper avrebbe trovato una soluzione,» dissi, ansimando. Avevo le mani appoggiate alle ginocchia, il sudore mi colava dalla fronte e le gambe tremavano.
«E io ti avevo detto che mi fido di te,» rimarcò Kenji, che era nelle mie stesse condizioni.
Mi ero affacciata a una finestra e avevo guardato giù. Niente più Oni di ghiaccio, erano tutti liberi dal virus e alcuni sottoposti di Kaido, grazie allo scherzetto di Queen, erano passati dalla nostra parte. Ora Chopper stava combattendo contro il cyborg in Monster Point. Era sopraggiunto anche Perospero, il figlio di Big Mom, che stava lanciando frecce di caramello a cascata su tutti. Non era una situazione facile, ma avevo fiducia nella renna. Non potevo fare nulla in ogni caso per aiutarlo, non contro due avversari di quel calibro. E poi avevo altro a cui pensare.
«Credi che andrà per le lunghe?» mi chiese il mio compagno, a corto di fiato.
«Non lo so. Spero solo che tutti stiano bene.» Non avevo avuto notizie di nessuno e non avevo idea di dove si trovassero, ero un po’ preoccupata. Però la mia preoccupazione più grande rimaneva reperire del materiale medico.
Erano passate altre tre ore. Tre ore trascorse a combattere, curare i feriti e correre senza direzione in cerca di un’infermeria di cui non vi era traccia. Avevamo deciso di iniziare a perlustrare dal primo piano e risalire fino al quinto. Avevamo perlustrato tutti i piani – nemici permettendo – eppure non avevamo trovato un bel niente. Possibile che in quella ciurma di mostri nessuno si ferisse mai? Kaido era uno tosto, ma tutti gli altri? Forse non avevamo cercato bene. Era probabile che ci fosse sfuggito qualcosa, viste le dimensioni dell’edificio. Adesso ci trovavamo al quarto piano ed eravamo diretti al terzo: avevamo optato per ispezionare di nuovo il castello, stavolta dall’alto verso il basso. Il problema era che il caos aumentava e la pazienza diminuiva. I sottoposti dell’Imperatore iniziavano a tornare sobri, e questo stava incrementando la ferocia dei combattimenti e le vittime tra gli alleati. Avevo affrontato molti nemici e non avevo idea di quanti ne avessi uccisi. Ma ormai nemmeno mi importava più, non mi sentivo in colpa, stavo solo facendo il necessario per non soccombere.
Cominciavo a essere esausta. Ero piena di lividi e tagli. Sanguinavo. I miei piedi non ce la facevano più. Mi facevano male muscoli che non pensavo di avere. Le mie mani erano intrise di sangue, non sapevo più se fosse il mio o quello dei numerosi alleati che avevo soccorso. Avevo perso il conto di quante persone fossero morte mentre tentavo di aiutarle, di quanti occhi si fossero spenti davanti a me, di quanti ultimi respiri ero stata testimone. Era straziante. Non li conoscevo, ma soffrivo ad ogni vita che si spezzava. Era così ingiusto. C’era così tanto dolore. Le pareti di quel castello celavano un’immensa sofferenza, che non ero sicura di riuscire a sopportare. Sentivo il peso di ogni morte su di me. Tutte quelle persone stavano lasciando indietro qualcosa. Molti avevano una famiglia da cui ritornare, figli che non li avrebbero mai più rivisti, mogli con cui non avevano trascorso abbastanza tempo, genitori che avrebbero dovuto seppellirli. Alcuni avevano dei sogni che erano stati calpestati e infranti, tutto perché venti anni prima un maledetto pirata aveva deciso di insidiarsi lì per condurre i suoi sporchi affari, portando il Paese alla rovina con la complicità di uno Shogun che non sarebbe mai dovuto diventare Shogun. Era tutto sbagliato. Nessuno di noi doveva trovarsi lì. Né Kaido, né Orochi, né Rufy e tutti i suoi alleati, né io.
Appoggiai la testa alla parete in un raro momento di pausa e Kenji, che era rimasto sempre al mio fianco, fece lo stesso. Per il castello avevano iniziato a riecheggiare delle voci che ci aggiornavano sull’andamento della battaglia. Non sapevo da dove venissero, o come funzionassero, ma una cosa era certa: avevano il compito di destabilizzare gli avversari, cioè noi. E ci stavano riuscendo, per quanto mi riguardava. I numeri, che già non erano a nostro favore, stavano diminuendo drasticamente, come le mie speranze di vincere quella guerra. Ero spaventata, confusa, stanca e – letteralmente – persa. Continuavano ad esserci esplosioni, e polvere, e tremori, e corridoi che mi sembrava di non aver mai visto o attraversato prima. Mi trovavo in un labirinto, con il corpo e con la mente, e continuavo a girare in tondo. Ero troppo sopraffatta dalle circostanze e dai ritmi forsennati della battaglia per poter trovare una via d’uscita. Non facevo in tempo a rendermi conto di quello che stava succedendo che subito accadeva qualcos’altro e la situazione si capovolgeva per l’ennesima volta, lasciandomi spiazzata. Ogni volta che pensavo di essermi adattata agli avvenimenti, le carte in tavola cambiavano, e dovevo ricominciare da capo. Odiavo sentirmi così, odiavo non avere il controllo. Stavo cadendo in un precipizio alla velocità della luce e non sapevo come fermare la mia discesa verso gli Inferi. Era un peso che non potevo affidare a Kenji, lui si reggeva in piedi per miracolo e stava già facendo di tutto per tenermi al sicuro.
Attivai l’Ambizione della Percezione prima di svoltare l’angolo. Frenai e fermai il mio compagno con un braccio.
«Non possiamo proseguire per questo corridoio, ci sono una ventina di nemici.»
«D’accordo, allora torniamo indietro,» propose lui.
Annuii e lo assecondai, ma nel momento in cui tornai a concentrarmi sulla strada che dovevamo prendere sussultai.
«No, no, non possiamo tornare indietro. Ci sono...» Mi presi un attimo per contarli. «Tredici nemici in quella direzione, e nessun alleato. Siamo circondati.»
«Cosa facciamo?»
«Non lo so... Siamo circondati...» ripetei, la vista che si appannava, non sapevo se per la stanchezza o per la paura. «Siamo bloccati.»
«Possiamo trovare un’altra via,» suggerì Kenji con il suo solito ottimismo. Non capivo come facesse a restare così positivo quando stava andando tutto a rotoli.
Mi portai le mani a massaggiare le tempie. L’Haki mi faceva percepire la presenza delle persone, e questo mi era di grande aiuto, ma mi faceva anche captare le loro emozioni e i loro pensieri. Qualcuno pensava a far fuori quanti più nemici possibile, altri – come me – pensavano a sopravvivere, mentre alcuni pensavano ai loro cari. In ogni caso, avvertivo tanta sofferenza. Troppa. Mi dava la nausea.
«Annuncio a tutta Onigashima!» fece una voce cantilenante che riconobbi essere la stessa che ci avvisava delle perdite. «Rufy Cappello di Paglia, il nemico dalla taglia più alta in assoluto... è stato sconfitto!»
Ci fu scompiglio generale. Gli alleati trasalirono, i nemici fecero festa. A me si gelò il sangue nelle vene. Non era possibile.
«Kaido-sama ha spezzato la sua vita e ora sta affondando nei freddi e bui abissi dell’oceano!»
«No...» Scossi la testa, lo sguardo perso nel vuoto.
«I samurai dei Kozuki e il vostro Capitano sono stati sconfitti! Chi vuole essere il prossimo!? C’è qualcuno capace di vincere?»
No. No, non c’era nessuno capace di vincere, a quel punto. Se nemmeno Rufy ce l’aveva fatta, stava a significare che eravamo spacciati. Tutti.
«Kaido-sama ora discenderà personalmente per ripulire l’isola dagli ultimi ribelli. Tuttavia, è disposto a concedervi di arrendervi. Chiunque alzerà le mani per arrendersi, pronto a giurarci fedeltà, verrà risparmiato, e gli verrà concesso di unirsi a noi!»
Le mie braccia ebbero l’impulso di sollevarsi sopra la testa in segno di resa. Non sapevo quale forza invisibile mi avesse fermato dal farlo, ma qualcosa lo fece. Non la mia dignità, perché non mi importava più niente della dignità, o dell’orgoglio, o della lealtà. Avevamo perso, e l’unica possibilità che ci restava per sopravvivere era capitolare e sottomettersi.
«È tempo di gettare la spugna, Wanokuni! Questa battaglia ormai è perduta! Il vincitore è deciso! Rufy Cappello di Paglia ha perso!» La voce parlò di nuovo, e il mio mondo crollò per lasciare posto al vuoto.
Ero in iper-ventilazione, i pugni stretti in due morse d’acciaio e il cuore che minacciava di catapultarsi fuori dal petto. Crollai in ginocchio, il corpo scosso da potenti singhiozzi e le guance ormai fradice per le lacrime. Mi ero ripromessa di non piangere, ma che senso aveva continuare a resistere quando non c’era più speranza? E io lo sapevo, sapevo che non avrei dovuto darmi per vinta, perché Rufy era Rufy, e i miracoli, lo avevo visto con i miei occhi tante volte, potevano accadere. Se fossi stata lucida mi sarei data una botta in testa per aver dubitato del mio amico, del futuro Re dei Pirati. Ma leggere le sue vicende su un computer era ben diverso dal viverle. E partecipare a quella guerra mi aveva prosciugato. Mi aveva tolto la razionalità, le energie, la fiducia, l’umanità. Era tutto perduto.
Una mano si posò sulla mia spalla. «Facciamoci coraggio, Cami. È chiaro che vogliono destabilizzarci. Non sappiamo se sia vero! Magari Cappello di Paglia è vivo e vegeto e sta ancora combattendo contro Kaido.»
«Quanto cazzo sei stupido, Kenji!? È finita. È tutto finito! Abbiamo perso. Non usciremo mai vivi da qui. Moriremo tutti.» Non lo guardai neanche. Non mi dispiacqui per ciò che avevo detto. Niente aveva più importanza. C’era un ronzio nella mia testa che non voleva lasciarmi in pace. Percepivo tutta la sofferenza che mi circondava, l’incertezza, la crudeltà. Ero distrutta. Non ce la facevo più. Mi sdraiai a terra in posizione fetale, le lacrime che continuavano a sgorgare copiose dai miei occhi. Lo sguardo preoccupato di Kenji e la sua voce che mi urlava di fare attenzione ai nemici furono le ultime cose che vidi e udii prima di precipitare in uno stato catatonico.
 
«Cami, ti prego, rispondimi...» Kenji provò di nuovo a scuotermi per una spalla.
Girai la testa lentamente verso di lui. Osservai le sue iridi attraversate dall’angoscia e distolsi lo sguardo.
«Io non dovrei essere qui,» sussurrai, poi risi.
«Come?» Il mio compagno, che non aveva sentito, si avvicinò a me. Erano le prime parole che pronunciavo dopo essermi accasciata al suolo, perciò percepivo sollievo nella sua voce.
«Io non dovrei essere qui,» ripetei mentre un sapore amaro si diffondeva nella mia bocca. «Dovrei essere seduta su un banco, circondata dai miei coetanei, ad ascoltare la mia amica che si lamenta perché il ragazzo che le interessa non ha messo “mi piace” all’ultima foto che ha postato su Instagram. E a guardare fuori dalla finestra invece che la lavagna, perché è una bella giornata e non è giusto che io sia bloccata in una stanza con degli insegnanti che cercano di convincermi che saper risolvere un’equazione con le lettere o che conoscere tutte le opere di Pirandello in ordine cronologico mi sarà utile nella vita.»
«Che cosa stai...» Kenji tentò di chiedermi, tuttavia lo interruppi.
«Ma no, invece sono qui, a combattere una guerra che...» Scossi la testa, la voce rotta. «È persa in partenza.»
«Camilla, credo che tu sia in stato confusionale.» Mi accarezzò un braccio, la voce un misto tra afflizione e apprensione.
Scattai in piedi, d’un tratto furiosa.
«No! No! Io non sono in stato confusionale!» gridai. Non ero più catatonica, avevo recuperato un po’ della mia lucidità. Mi faceva così arrabbiare che lui non capisse quello che volevo dire. Non era colpa sua, nessuno in quel mondo poteva capirlo. Ero sola con la mia pazzia, sola con il mio dolore.
Il rosso si portò un dito alla bocca, preoccupato che qualcuno potesse sentirci e scoprire il nostro nascondiglio. Mi guardai intorno e solo allora mi resi conto che ci trovavamo in una specie di ripostiglio piccolo e buio, dove tenevano stracci e scope per pulire. Anche se ero sicura che Kenji avesse infilato la prima porta disponibile per salvarci dalla pioggia di sottoposti di Kaido che stava per abbattersi su di noi, era stata una bella trovata. Finché nessuno fosse entrato, saremmo stati al sicuro. A chi mai verrebbe in mente di mettersi a spazzare nel bel mezzo di una battaglia? In un’altra situazione mi sarei preoccupata che mi avesse trascinato in una stanza buia e vuota, ma in quel caso gliene ero grata. Mi aveva salvato la vita e mi aveva salvata da me stessa.
«So che per te non ha senso quello che sto dicendo, ma credimi, lo ha. Ha più senso di tutto questo.» Allargai le braccia per indicare Onigashima e la guerra che stavamo vivendo.
Scosse la testa e mi sorrise flebilmente. «Se dici che per te ha senso, mi fido. Non era mia intenzione offenderti, sono solo contento che tu ti sia ripresa.»
Avrei voluto rispondergli che per riprendermi mi sarebbero serviti ben più di cinque minuti, ma non feci in tempo, perché una voce riecheggiò di nuovo per tutto il castello, solo che questa non era la solita, ma quella di un bambino.
«Io sono Kozuki Momonosuke!»
Indietreggiai di un paio di passi e incespicai sul manico di una scopa. Per non fare altri danni mi rimisi seduta accanto a Kenji.
«Devo comunicarvi un messaggio di Rufy!» La voce era intervallata da dei singhiozzi. Il poverino stava piangendo. Come biasimarlo? «Rufy è ancora vivo! E mi ha detto che tornerà sicuramente in battaglia! Perciò continuate a combattere! Per quanto sia difficile, per quanto sia doloroso... Vi imploro, finché avete vita, continuate a combattere!»
Strinsi il braccio del mio compagno, le guance di nuovo bagnate dalle lacrime, stavolta però erano lacrime più dolci. Il messaggio era vero, lo sapevo. Rufy era ancora vivo. Niente era perduto. E Momonosuke aveva ragione: per quanto arduo e desolante fosse, dovevamo continuare a combattere. Io dovevo continuare a combattere. Avevo lasciato che la disperazione mi avvolgesse e mi facesse perdere la razionalità, ma non potevo arrendermi. Non così, non ora.
«Perché Rufy... vincerà!» esclamò infine il figlio di Oden.
Annuii, appoggiai la nuca alla parete e sospirai sollevata. «Perdonami per aver dubitato di te, Rufy. Non accadrà mai più. Adesso vai e prendi a calci in culo Kaido!»
«Contiamo su di te, Cappello di Paglia,» aggiunse Kenji, facendo un ampio sorriso. Con la coda dell’occhio vidi che anche lui era commosso. Poi notai qualcosa che mi lasciò senza fiato. C’era una piccola fessura sulla parete del ripostiglio, dalla quale proveniva una pallida luce, l’unica che illuminava quel luogo buio e mi permetteva di vedere quel poco che riuscivo a scorgere là dentro. Gattonai fino a lì, scostando secchi e stracci. L’unica cosa che si vedeva da quell’apertura era il buco che portava al tetto sul cranio dell’enorme creatura. Al centro di esso, limpida e fiera, splendeva la luna. Il cielo era terso, perciò si vedeva benissimo: ogni sua sfumatura, ogni suo cratere, ogni sua zona d’ombra. Quella notte era piena e, probabilmente a causa del fatto che Onigashima stava fluttuando a qualche migliaia di metri di altezza, appariva più grande che mai. Sembrava scacciare l’oscurità. Mi dava forza e mi infondeva coraggio. Appoggiai la mano e la fronte sul freddo muro di legno, come se questo potesse farmi sentire più vicina a lei. O meglio, a lui.
«Oh, Manny... Mi sei mancato.» Sorrisi, lasciando che un senso di calore si diffondesse in me e alimentasse la mia speranza. Mi asciugai la guancia con le dita. «Ti prometto che queste sono le ultime lacrime che verserò fino a che la guerra non si sarà conclusa.»
Ne ero certa: quello era il mio terzo segno.
 
Ad occhio e croce era passata un’altra mezz’ora. Io e Kenji eravamo ancora nel ripostiglio. Nel momento in cui saremmo dovuti uscire avevo attivato l’Ambizione e avevo percepito una quindicina di nemici per il corridoio. Mettersi a combattere era fuori discussione, perciò avevamo concordato che sarebbe stato meglio rimanere lì, per il momento. Poi il tempo era passato e, anche se i nemici erano diminuiti, nessuno dei due aveva espresso la volontà di andarsene da quella stanza. Non ci stavamo nascondendo, ci stavamo proteggendo. E non stavamo venendo meno ai nostri doveri da medici: se vi fossero stati dei feriti nelle vicinanze li avrei percepiti con l’Haki e saremmo usciti a curarli, sempre che avessimo potuto fare qualcosa per loro, visto che non avevamo ancora reperito altre garze. Era assurdo che avessimo trovato un minuscolo deposito per stracci e scope e non fossimo riusciti a trovare una dannata infermeria o qualcosa che vi somigliasse. Certo, non potevamo metterci ad aprire ogni porta e controllare stanza per stanza, ma mi aspettavo che ci fosse almeno un’indicazione dell’esistenza di quel luogo. Non era possibile che fosse sfuggita a entrambi.
«Prima hai detto che io sono il tuo segno. Che cosa intendevi?» chiese Kenji all’improvviso, rompendo il lungo silenzio che si era creato. La sua domanda mi spiazzò.
«Oh, ehm...» Temporeggiai per trovare una risposta soddisfacente ma che non mi esponesse troppo. La guerra mi aveva avvicinato molto di più a lui, gli stavo affidando la vita, perciò avevo deciso – in un momento che non sapevo dire se fosse di pazzia o lucidità – che gli avrei raccontato tutta la verità su di me, però solo quando fosse tutto finito. Non potevo fargli una rivelazione tanto grande nel bel mezzo di una feroce battaglia. Dovevamo restare concentrati.
«Se non vuoi dirmelo, non importa.» Mi sorrise, ma non riuscì a nascondere la delusione. Una volta mi aveva detto che ero come un enigma e che era anche questo che gli piaceva di me, perché ogni giorno aveva il privilegio di scoprire qualcosa di nuovo che mi riguardava, ma senza avvicinarsi mai alla verità.
«No, voglio dirtelo. Voglio raccontarti tutto di me, e lo farò, te lo prometto.» Appoggiai una mano sopra la sua e gli sorrisi materna. «Ma per ora dovrai accontentarti di sapere che c’è una stella molto speciale che veglia su di me. Stavo chiamando lei quando l’isola si è sollevata nel cielo, le stavo chiedendo di darmi un segno che rimanere e combattere fosse la cosa giusta.»
Il rosso aggrottò la fronte, sorpreso ma contento. «E io sarei il tuo segno?»
Annuii e scrollai le spalle. L’idea di poter condividere le mie origini, le mie tradizioni e la mia famiglia con qualcuno di quell’universo mi elettrizzava. Sapevo che con Kenji non avevo nulla da temere. Lui avrebbe capito e avrebbe accolto dolcemente la mia storia tra le sue braccia. Magari così avrei avuto modo di festeggiare il Natale, che mi mancava parecchio. Non vedevo l’ora di raccontargli di Peter Pan e della Stella e di come ero finita lì. Se io avevo un debole per Spugna, qualcosa mi diceva che a lui sarebbe piaciuto Michael.
All’improvviso cambiò espressione e si scostò da me.
«Cosa c’è che non va?»
«Cami, più mi dici queste cose, più ti comporti così... più è difficile per me starti lontano...»
Molto probabilmente era la stanchezza a farmi agire così. Gli poggiai una mano appena sopra il ginocchio.
«Forse non dobbiamo stare lontani.»
Ci guardammo, le sue iridi titubanti, le mie languide. Posai il palmo sulla sua guancia e lasciai scivolare il pollice sul suo zigomo. La sua pelle, a contatto con le mie dita, era calda. Mi avvicinai a lui e lasciai che le nostre labbra si toccassero. Inspirai il suo profumo di lavanda e mi rifugiai in esso. Non sapevo se quello fosse l’ultimo profumo che avrei sentito, se quella fosse l’ultima bocca che avrei assaporato. Speravo di no, ma quel bacio mi aiutava a non pensarci. Fu un bacio molto meno casto rispetto al primo che mi aveva dato, ma più delicato rispetto a quelli che ci scambiavamo io e Sabo. C’era amore, ma c’era anche disperazione, l’amore di chi ama senza riserve e la disperazione di chi non sa se arriverà al mattino dopo. C’era la stanchezza della battaglia che ci portavamo dietro e tutto il nostro desiderio di rimanere vivi.
Forse era un errore madornale, forse avevo peggiorato la nostra situazione, forse mi stavo di nuovo comportando da egoista. Però non mi importava. Ne avevo bisogno. Avevo bisogno che qualcuno mi facesse sentire al sicuro. E l’unico modo che Kenji aveva per farmi sentire al sicuro era amarmi.
E così, per quella notte mi lasciai amare.



Angolo autrice
È da parecchio tempo che non aggiorno, lo so, è che è stato un periodo piuttosto impegnativo e non sono stata neanche benissimo. Vi lascio con questo "allegro" capitolo, nella speranza che vi sia piaciuto, per augurarvi un felice Natale e delle buone Feste! <3
Tornerò presto, lo prometto!

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Capitolo 18
*** Infermeria ***


Quando io e Kenji ci staccammo l’uno dall’altra eravamo entrambi imbarazzati, ma lui lo era molto più di me. Come lo sapevo? Nonostante l’illuminazione fosse debole, potevo scorgere chiaramente il colorito vermiglio che aveva assunto la sua pelle, dal collo fino alle orecchie. Sapevo di aver combinato un guaio. Eppure, una parte di me mi diceva che non era stato un errore, che se ero capace di lasciarmi amare, ero anche capace di amare. E se fosse stato proprio Kenji la chiave di tutto?
La mia fu una domanda che non trovò risposta, perché la porta del ripostiglio venne sfondata. Considerato che la stanza era circa tre metri per tre, fu un miracolo che né io né il mio compagno venimmo colpiti. Per terra, tra le scope, vi era un sottoposto di Kaido che stava emettendo del lamenti di dolore, mentre sulla soglia, con un’espressione grave, si ergeva un samurai. Quest’ultimo finì il nemico con un fendente rapido e preciso prima che potesse rialzarsi, poi fissò me e il rosso. Mi resi conto di essere avvinghiata a lui e mi allontanai. Dopo qualche attimo di esitazione ci alzammo in piedi, scavalcammo il corpo esanime del pirata e uscimmo dallo stanzino. L’uomo ci fissava con sguardo enigmatico, come se non fosse certo di cosa fare con noi, se risparmiarci o scatenare la sua furia omicida. Aveva un’aria seria, i capelli biondo cenere raccolti nella tipica pettinatura dei samurai e indossava una tunica, ormai logora, di stoffa gialla e bianca.
«Siamo vostri alleati, facciamo parte della ciurma di Trafalgar Law,» si affrettò a dire Kenji per fugare ogni dubbio. «E non stavamo facendo niente di male qui nel ripostiglio!» Agitò le mani davanti a sé, la voce stridula e... colpevole.
Sospirai e alzai gli occhi al cielo. Perché tutte le persone che baciavo non riuscivano a mantenere il segreto neanche per mezzo minuto? E perché complicarsi la vita quando nessuno glielo aveva chiesto? Ora eravamo costretti a spiegarci.
«Siamo medici. Cercavamo dei medicinali.» Cercai di non scompormi e di rimediare ai danni che stava facendo il mio compagno. Tecnicamente non era neanche una bugia.
A quel punto il samurai sollevò un sopracciglio. «In un ripostiglio?»
«Sì, in un ripostiglio.» Scrollai le spalle. «Non sappiamo dove sia l’infermeria e siamo a corto di equipaggiamento. Ogni tentativo è buono.»
«Voi pirati siete strani.»
«Invece voi samurai con il vostro Bushido e i chonmage in testa siete perfettamente normali, vero?» domandai ironicamente, il tono un po’ infastidito.
Quello mi guardò male.
«Sai per caso dove sia l’infermeria?» intervenne timidamente Kenji per mettere fine al battibecco.
«No.» Girò i tacchi e fece per andarsene, ma io lo fermai.
«La ferita va pulita e coperta.» Indicai una striscia rossa sul suo braccio dalla quale colava parecchio sangue.
«Possiamo metterci un po’ d’acqua.» Kenji aveva già tirato fuori la bottiglia dallo zaino. «Mi dispiace, ma non avendo né garze né disinfettante questo è tutto ciò che abbiamo da offrirti.»
«Sto bene, non mi fa male,» si affrettò a dire il samurai.
«D’accordo, ma questo non le impedirà di infettarsi. Lasciaci fare il nostro mestiere e non dovrai preoccupartene.» Mi avvicinai a lui per osservare meglio la lacerazione. Non era estesa, né profonda, ma andava trattata.
Alla fine acconsentì, seppur malvolentieri. Mentre il rosso si occupava di pulire la lesione, io strappai un pezzo di stoffa dalla sua tunica e, quando Kenji ebbe terminato, glielo annodai attorno al braccio. I muscoli sotto la pelle color caramello si contrassero per il fastidio, ma per tutto il processo fu stoico.
«Grazie.» L’uomo chinò leggermente il capo in segno di riconoscenza. «Mi rincresce di non potervi aiutare a reperire altro materiale medico.»
«Non importa. In qualche modo ce la caveremo.» Kenji fece il solito sorriso ottimista e io mi sforzai di annuire. Osservammo mentre se ne andava e decidemmo di gettarci di nuovo nella mischia. Del resto, il nostro nascondiglio era ormai diventato inagibile.
 
Il secondo piano era più caotico del terzo. Era una sorta di “piano di passaggio”, in cui si fermavano a combattere i nemici più scarsi o quelli che non se la sentivano di salire ai piani superiori. Speravo vivamente che l’infermeria non si trovasse lì, perché con tutta la confusione che c’era avremmo potuto passarci davanti e non rendercene nemmeno conto. Forse la prima volta che vi ci eravamo recati era stato così. Non avevo idea di come avremmo fatto a districarci in quel groviglio di pirati, samurai, Visoni e altre creature strane. Per fortuna passavamo abbastanza inosservati anche lì e potevamo procedere con le nostre ricerche a un buon ritmo.
«Credi che il Capitano stia bene?» chiese Kenji all’improvviso. «È da un po’ che non abbiamo sue notizie.»
Mi voltai verso di lui e sospirai. «Non lo so. Mi auguro di sì.»
Non avevo avuto modo di pensare al chirurgo, perché il mio chiodo fisso nelle ultime ore era stato reperire del materiale medico per poter curare adeguatamente tutti i feriti, ma ora che il rosso me lo aveva ricordato era inevitabile non preoccuparsi. Era vero, non avevamo sue notizie da un po’. In base a ciò che sapevamo non era più sul tetto e non era stato sconfitto da Kaido o Big Mom: se così fosse stato, non avrebbero esitato nell’annunciarlo con l’altoparlante. Quindi, dov’era? Stava combattendo contro un pezzo grosso? No, io conoscevo Law e sapevo che non si sarebbe accontentato delle briciole. Non voleva essere da meno delle altre Supernove, se avesse avuto la possibilità si sarebbe scontrato con un Imperatore. Non avevo idea di dove fosse Charlotte Linlin – e questo un po’ mi spaventava – ma avevo la certezza che il Capitano non stesse combattendo con il padrone di casa, che non era sceso dal tetto per “fare pulizia” nel castello come aveva promesso – grazie al Cielo – ma era da qualche parte ad occuparsi di qualcos’altro. Oppure mi sbagliavo, il medico che era in lui aveva prevalso sul pirata e si era fermato per aiutare Rufy. Un pensiero funesto si fece strada in me e il cuore iniziò a martellarmi nel petto. E se fosse stato lui ad aver bisogno di aiuto? Se fosse stato abbandonato in una stanza obsoleta del castello con ferite gravi che non poteva curarsi da solo? Dovevo trovarlo. Dovevo accertarmi che stesse bene. Cominciai a guardarmi in giro, il panico nelle iridi. Se anche lo avessi trovato, non avrei potuto fare molto senza il giusto equipaggiamento. Cosa avrei dovuto fare? Mi girava la testa.
«Sono sicuro che sta bene. Il Capitano è forte, e sa come cavarsela. Noi dobbiamo pensare a trovare l’infermeria,» mi disse Kenji, probabilmente per provare a calmare la mia angoscia. Non funzionò, ma mi sforzai di reprimerla e archiviarla in un punto remoto del mio cervello. Non potevo permettermi di perdere la testa per l’ennesima volta.
«Sì, Law è un osso duro,» affermai, sollevando un angolo della bocca. Dovevo credere che stesse bene. «Il Capitano. Volevo dire il Capitano,» mi corressi poi, con un po’ di imbarazzo.
Il mio compagno rise. «Credo che tu sia l’unica componente della ciurma che può chiamarlo Law senza essere punita.»
«Non ne sarei così sicura...» Mi ricordai del patto che avevamo stretto prima di incontrare i Mugiwara e di come me l’avesse già fatta pagare per essermi dimenticata di chiamarlo “Capitano”.
Udii un rumore sinistro e frenai bruscamente, un braccio a trattenere Kenji. Una voragine si aprì nel soffitto e due creature piombarono su di noi. Non mi caddero addosso solo perché il mio compagno ebbe la prontezza di afferrarmi per un gomito e trascinarmi via. Atterrarono con un tonfo sordo: erano un Visone di tipo scoiattolo – o qualcosa del genere – e un uomo che aveva mangiato uno Smile. La metà sinistra del suo corpo era umana, ma la metà destra aveva l’aspetto di un bisonte. La creatura recuperò in fretta la sua arma, un mazzafrusto, e si rialzò. Non feci in tempo a suggerire a Kenji di andare via che dovetti assistere alla crudele dipartita dello scoiattolo. Fu velocissimo, scagliò tre colpi alla testa del Visone senza che questi potesse fare nulla, tutti nello stesso punto. Fu raccapricciante vedere il suo cranio sfondato, sangue e materia cerebrale sparsi per il pavimento insieme alla polvere. Gli occhi aperti guardavano nella nostra direzione con l’inespressività di chi non aveva più vita in corpo. Mentre io prendevo un respiro profondo, incapace di distogliere lo sguardo da quell’atrocità, il rosso si portò una mano alla bocca, trattenendo un conato di vomito. Anche se eravamo avvezzi al corpo umano, ai suoi organi e ai suoi fluidi, certe cose non potevano lasciarci indifferenti.
Il bisonte si girò verso di noi, ci osservò per qualche secondo e fece un ghigno maligno. Sentii il sangue gelarsi nelle vene. Prima che potessi fare qualsiasi cosa vidi il sottoposto di Kaido muoversi in avanti. Percepii uno spostamento d’aria alla mia sinistra e udii un gemito di dolore.
Kenji era stato spazzato via.
«Kenji!» gridai, il terrore nella voce. Mi voltai verso di lui. Era volato a circa cinque metri da me e si stava tenendo la coscia destra con entrambe le mani. Corsi da lui, senza curarmi del bisonte.
«Almaz-sama! Meno male che è qui!» lo acclamarono alcuni quando si accorsero della sua presenza. Non era un buon segno per noi, significava che era uno tra i più forti. Se avevo ragione, non potevamo batterlo: l’unica opzione che avevamo era fuggire.
Il mio compagno tremava e ansimava. Mi accovacciai e gli scostai i palmi per verificare l’entità del danno.
«Merda,» sibilai a denti stretti. La ferita non aveva un bell’aspetto. Il mazzafrusto gli aveva perforato la carne in più punti e in profondità. Stava perdendo molto sangue, se non avessi trovato il modo di fermare l’emorragia si sarebbe dissanguato in fretta. Sperai che l’arteria femorale non fosse stata recisa, altrimenti sarebbero stati guai.
«È grave.» La voce di Kenji era flebile e non capii se fosse una domanda o un’affermazione.
«Dobbiamo andarcene da qui. Riesci a camminare?»
Scosse la testa. Stava diventando sempre più pallido e iniziava a sudare. Imprecai più volte.
«D’accordo, ti porto io.» Dopo tutti i colpi che avevo ricevuto non pensavo di avere la forza di farlo, ma dovevo fare di necessità virtù. Tentai di tirarlo su e di issarlo sulla schiena.
«Perché tanta fretta?» fece una voce profonda che mi mise i brividi. Lasciai andare il mio compagno e mi voltai. Di fronte a me si ergeva l’acclamato Almaz con un sogghigno dipinto sul viso. Ebbi modo di osservarlo meglio: per la sua parte umana la pelle candida era in contrasto con l’occhio e i capelli neri come la pece, il corpo tonico gli permetteva di sostenere la sua parte animale, più muscolosa. Il bisonte aveva il pelo scuro, l’iride rossa e un’espressione famelica, un solo corno spuntava dalla metà destra della sua testa. Sul naso, anch’esso per metà umano e per metà animale, aveva un piercing ad anello. Era spaventoso. Avevo davanti due metri e mezzo di una creatura che non avrebbe dovuto esistere e che voleva mettere fine alla mia esistenza.
Deglutii, cercando di capire quale fosse la mia opzione migliore. Combattere non mi sembrava saggio, non sarei durata molto con un avversario del genere. Fuggire era fuori discussione: non potevo lasciare Kenji lì e darmela a gambe, ma con lui in quelle condizioni non saremmo stati abbastanza veloci da evitare Almaz. Gettai un’occhiata al rosso. Aveva bisogno di cure immediate. Presi un respiro profondo e attivai l’Ambizione e l’Heat Dial sull’ascia. Non avevo altra scelta, dovevo scontrarmi con il bisonte. Non avevo speranze di farcela, ma forse, se me la giocavo bene, potevo rallentarlo abbastanza da permettermi di portare Kenji in un posto sicuro. Dovevo almeno provarci, e dovevo sbrigarmi, perché non aveva molto tempo: si stava dissanguando più in fretta del previsto.
«E così vuoi combattere? Una scelta temeraria, ma stupida. Non hai alcuna speranza di vincere contro di me, ragazzina.» La voce della Star mi fece concentrare su quello che stava per accadere.
“Non avere paura, Cami,” cercai di incoraggiarmi. “Il tuo avversario non è altro che un esperimento mal riuscito, uno scherzo della natura.”
«Non chiamarmi “ragazzina”,» sibilai, prima di lanciarmi verso di lui e sferrare un colpo con la mia Mr. Smee. Era una mossa suicida e normalmente non lo avrei mai fatto, però il mio amico non aveva tempo.
L’energumeno parò il mio attacco con facilità con il manico del mazzafrusto. Lessi nei suoi pensieri che voleva rifilarmi una ginocchiata nel ventre e allungai l’ascia al massimo per proteggermi. L’impatto con il suo ginocchio fu più forte di quanto mi aspettassi e venni scaraventata per aria. Feci in modo di riatterrare in piedi ma, nel momento in cui toccai il pavimento, il bisonte scattò in avanti. Era rapido, troppo rapido per me, troppo rapido perché potessi reagire. Grazie all’Haki conoscevo le sue intenzioni, ma non potevo far altro che subire il suo attacco.
La palla chiodata si conficcò nel mio stomaco. Udii un crack, forse due. La vista si sfocò e si oscurò per qualche secondo. Mi sembrava che ogni mia terminazione nervosa stesse gridando per la sofferenza. A causa della potenza del colpo fui sbalzata indietro. Mi sembrò di cadere per ore. Quando la mia schiena toccò terra, altre fitte di dolore si irradiarono nel mio corpo. Non riuscivo più a respirare. Era una sensazione orribile. Sentivo i miei stessi rantoli mentre cercavo di far entrare aria nei polmoni, senza riuscirci.
«Cami!» mi chiamò qualcuno, ma io non ero più in grado di orientarmi, né di pensare.
Mi mossi solo dopo che la vista smise di essere sfocata e che tornai a respirare regolarmente. Mi portai una mano all’addome e mi girai a fatica su un fianco. Battei un pugno sul pavimento, tanto era il dolore. Ogni respiro mi provocava una sofferenza atroce. Scostai il palmo dallo stomaco. Le dita erano insanguinate, come immaginavo. Realizzai che stavo perdendo sangue anche dalla bocca. Non era un buon segno. Provai a rimettermi in piedi, fallendo miseramente. Sbattei di nuovo un pugno al suolo, stavolta per la rabbia di non riuscire a muovermi. L’unica cosa che potevo fare era localizzare il mio avversario. Cercai Almaz con lo sguardo. Quando lo avvistai, notai che continuava a guardare prima me e poi Kenji, e mi resi conto che l’unico motivo per cui ero ancora viva era che il bisonte stava decidendo chi finire per primo tra me e il mio compagno. A giudicare dal sorriso malizioso che aveva, la cosa lo divertiva.
Osservai il rosso, che mi fissava a sua volta con preoccupazione. Continuava a premere le mani sulla ferita e sembrava essersi ridestato dal suo stato catatonico, almeno questo era positivo. Vidi il nostro avversario incamminarsi a passo lento verso di lui. Aveva scelto la sua prima preda. Anche il mio compagno se ne accorse, e recuperò in fretta i suoi sai per provare a difendersi. Non aveva speranze, non riusciva a stare in piedi e la ferita sanguinava copiosamente se non vi faceva pressione.
Non sapevo se fosse per il fatto che Kenji sarebbe potuto morire, per l’adrenalina, l’allenamento di Zoro o altri strani avvenimenti da guerra, ma mi rialzai. Feci un po’ di fatica a mantenermi eretta, l’addome pulsava, per fortuna la cintura metallica aveva attutito il colpo, come aveva fatto anche in passato. Era una certezza in un oceano di incertezze. E fu lì che realizzai quanto fossi stata stupida fino a quel momento. Mi sarei data una botta in testa. Perché c’era un modo per passare inosservati, per sparire senza bruciare l’ultimo desiderio della Stella. E il fatto che non ci avessi pensato prima mi fece infuriare con me stessa, ma mi giustificai dicendomi che era perché ero stata sopraffatta dagli eventi e avevo la mente annebbiata. Richiamai l’ascia – che era volata via nel contrasto – premendo il pulsante nero sul bracciale magnetico. Tirai fuori dalla tasca l’Impact Dial, lo legai alla mano con un elastico, ignorai il dolore e tornai all’attacco, stavolta con una strategia ben precisa.
 
«Ti sei già dimenticato di me?» chiesi ad Almaz, prima che potesse colpire Kenji. «I bisonti hanno la memoria corta, per caso?»
Si girò verso di me e ghignò divertito, riportando le braccia lungo i fianchi. «Hai ragione. Avevo deciso di farti fuori dopo il tuo amichetto, ma bisogna essere galanti. Prima le signore.»
«Non farlo, Cami,» mi supplicò il rosso a un paio di metri da noi. «Lasciami qui e scappa.»
Se io lo guardai male, il sottoposto di Kaido rise.
«Voi pirati sentimentali siete i peggiori. Come può esistere gente tanto stupida da essere disposta a morire per qualcun altro? Se tu fossi scappata anziché venire qui a fare la martire, almeno uno di voi sarebbe sopravvissuto. Invece ora morirete entrambi. Patetico!»
Né io né Kenji rispondemmo alla sua provocazione. Non ce n’era bisogno, sapevamo che quello che legava noi Pirati Heart era molto più di semplice sentimentalismo. E se me la fossi giocata bene, nessuno dei due sarebbe dovuto morire. Ciò che mi disturbava era che quel bisonte parlava esattamente come Doflamingo. Quasi mi sembrava di averlo di nuovo davanti. Però non avevo paura. Se non avesse voluto uccidermi avrei provato pena per lui. Non avrebbe mai saputo cosa fosse la solidarietà, l’amicizia, la fratellanza e non avrebbe mai conosciuto cosa significasse essere compagni. Era una vita arida, la sua.
Mi basterà colpirti di nuovo allo stomaco e sarai morta prima che possa accorgertene,” lo sentii pensare.
Indietreggiai quel tanto che bastava per darmi il tempo di posizionare la mano con l’Impact Dial sull’addome e cercai di attirarlo il più possibile vicino al muro. Ero troppo debole per contrastarlo, l’unica soluzione era riversare la sua stessa forza contro di lui e sperare che questo lo avrebbe rallentato abbastanza da permetterci di fuggire. Dovevo essere rapida e precisa, avevo una sola occasione.
Vidi l’arto animale muoversi e aspettai che la sua arma mi colpisse.
«Cami!» gridò Kenji, disperato. Avrei voluto dirgli di non preoccuparsi, che era tutto sotto controllo, ma non sapevo neanche io se avrebbe funzionato.
Mi concentrai e indirizzai la mano dove avrebbe voluto colpirmi. Fu incredibile. L’attacco venne assorbito totalmente dalla conchiglia che avevo nel palmo, come se non l’avesse mai scagliato. Non percepii nemmeno un po’ della potenza che aveva usato, il braccio non tremò e non sentii alcun dolore. Almaz fece una faccia stranita, e anche il mio compagno poco più in là. Ghignai e, senza dargli il tempo di riprendersi dallo shock, mi tolsi la cintura, lasciandola cadere a terra insieme all’ascia. Mi servivano tutte e due le mani libere. Adottò la stessa espressione e iniziò a guardarsi intorno.
«Ti piace giocare sporco, eh?»
«Pensavi che noi patetici sentimentali non fossimo in grado di giocare sporco? Che ti aspettavi? Siamo pur sempre pirati!» Gli risposi anche se non poteva sentirmi, posizionandomi con la schiena aderente al muro. Tesi entrambe le braccia e le portai a un palmo dal viso di Almaz mentre questi continuava a cercarmi con lo sguardo, il mazzafrusto ben saldo nella sua mano. «Non starò zitta e buona mentre cerchi di eliminare il mio compagno.»
Quello che non avevo calcolato – e che era il motivo per cui non avevo utilizzato l’Impact Dial fino ad adesso – era che la mia strategia rischiava di uccidermi, perché la potenza che veniva incanalata dalla conchiglia andava rilasciata, e il colpo danneggiava entrambe le parti. Se avessi avuto altra scelta non l’avrei messa in atto, ma Kenji era steso per terra e stava per perdere conoscenza. Mi presi gli ultimi istanti per fare un respiro profondo. Quello era il momento giusto, non potevo lasciare che il bisonte si allontanasse. Piantai i piedi ben saldi per terra, feci in modo che tutto il mio corpo aderisse alla parete e premetti i bordi del Dial. Chiusi gli occhi.
L’impatto mi investì in un’onda d’urto. Le spalle si contrassero in un movimento innaturale. Se non fossi stata “furba” e non le avessi fatte poggiare contro il muro, avrei potuto giurare che mi si sarebbero strappate dal resto del corpo. Battei la nuca, la guancia sinistra mi si spalmò contro la parete e il cervello rimbalzò nella sua scatola cranica. Intravidi l’avversario che veniva scagliato via prima di ricadere floscia sul pavimento.
«Almaz-sama!» mi parve di sentir gridare qualcuno, ma i suoni erano ovattati e la vista sfocata.
Non riuscivo a muovere le braccia e avevo appena peggiorato la ferita allo stomaco. Rimasi cosciente solo perché dovevo occuparmi di Kenji. Spostai lo sguardo su di lui. Era sempre steso per terra, le palpebre socchiuse e una pozza di sangue sotto la sua gamba. Una di quelli che aveva acclamato Almaz, un ibrido tra una ragazza e una rana, si avvicinò a lui e fece per colpirlo con un machete, forse per vendicarsi della sconfitta della Star.
«No!» urlai. Tentai di muovermi, però non riuscii a farlo. Era inutile. Dopo tutto quello che avevo fatto per evitarlo, avrei dovuto assistere alla morte di uno dei miei migliori amici. Non potei fare a meno di pensare che se fosse rimasto con gli altri del gruppo invece che salvare me non si sarebbe trovato in questa situazione. Era la sconfitta peggiore della mia vita. E maledissi il mio corpo per essere troppo debole. Avrei potuto fare tutti gli allenamenti speciali che quell’universo aveva da offrire, non sarei comunque stata pronta per quella guerra.
Proprio nel momento in cui sollevò l’arma, un’altra sottoposta di Kaido le si scagliò contro. La disarmò e le due rotolarono per qualche metro.
«Ma che cazzo...» Sbattei più volte le palpebre, confusa. Forse avevo avuto un’allucinazione data dallo stordimento. Decisi di non farmi troppe domande e di non cercare risposte. Dopotutto eravamo nell’universo di One Piece, dove le stranezze erano all’ordine del giorno. L’importante era che Kenji fosse salvo.
Non appena ebbi recuperato le funzionalità motorie mi rimisi la cintura, ripresi l’ascia e andai dal mio amico, che ormai era privo di conoscenza. Pressai due dita sul suo collo: il battito era debole, però c’era. Controllai meglio la ferita e stabilii che l’arteria femorale non era stata recisa.
«Kenji!» gli gridai scuotendolo, come se questo potesse risvegliarlo. «Kenji, resta con me!»
Dovevo fermare l’emorragia, stava perdendo troppo sangue. Mi guardai intorno, alla ricerca di qualcosa che potesse fare da laccio emostatico.
«Bingo!» Gattonai fino a un nemico di Kaido steso a terra e gli tagliai le bretelle di cuoio con uno dei miei pugnali.
Tornai dal mio compagno e gliele strinsi attorno alla coscia. Se solo avessi avuto gli strumenti giusti avrei potuto curarlo in un battito di ciglia. Lì non avevo niente. Mi servivano garze, disinfettanti, kit da sutura, antidolorifici e, in un mondo utopico, anche qualche sacca di sangue. Era diventato imperativo trovare l’infermeria.
Udii il clangore di due armi bianche scontrarsi. Mi voltai di scatto e vidi la donna di prima battersi con un altro suo compagno di ciurma.
«Ma che cazzo...» ripetei, sempre più confusa.
La ragazza, che doveva avere i poteri di un ippopotamo, lo sconfisse facilmente, mi diede un’occhiata e si gettò di nuovo nei combattimenti. Mi resi conto che alcuni dei sottoposti di Kaido che erano sopraggiunti stavano combattendo al fianco di samurai e Visoni. Non capivo. Ma non mi interessava capire, volevo solo portare Kenji in un posto sicuro e curarlo con il giusto equipaggiamento. L’unica opzione che avevo, se volevo tenerlo in vita, era trovare un luogo riparato, lasciarlo lì e andare a cercare l’infermeria: in quelle condizioni era un peso morto che non avevo la forza di portare con me. In più, se mi fossi tolta la cintura sarei passata inosservata e avrei potuto fare più in fretta. Non era sicuro lasciarlo da solo, ma non avevo altra scelta. Era meglio che guardarlo spegnersi pian piano; almeno così avrebbe avuto una possibilità.
Ispezionai la zona. Non vedevo posti in cui rifugiarsi, solo posti in cui avrebbero ucciso il mio compagno. L’occhio mi cadde sulla parete alla quale ero stata schiacciata poco prima e notai che nella pietra era impressa la mia forma. La testa, lo zigomo, le braccia e lo stomaco tornarono a farmi male. Il rinculo era stato peggio di quello che pensavo. Distolsi lo sguardo, e proprio in quel momento mi resi conto che Almaz e il Visone-scoiattolo, cadendo dal soffitto, avevano scheggiato il pavimento. C’era qualcosa di innaturale. Mi alzai e andai ad esaminare la crepa. Schivai i colpi di due tizi che combattevano a qualche metro da me per miracolo. Quando fui abbastanza vicina, realizzai che le tavole di legno facevano da tetto a un piano che non era il primo e che non avevo mai visto. Era... un controsoffitto. Ed era deserto. Era ciò che faceva al caso nostro. Mi diressi verso quello che mi sembrava l’angolo più remoto del corridoio, aspettai che nessuno fosse nelle vicinanze e utilizzai uno dei pugnali per scavare una botola nel pavimento. Quando fu pronta, vi trascinai Kenji dentro e la richiusi, rimettendo le tavole esattamente dove erano collocate, così nessuno si sarebbe accorto del “passaggio segreto” che avevo creato.
Mi ritrovai ad ansimare con le mani sulle ginocchia. Lo stomaco pulsava, facevo di nuovo fatica a rimanere eretta. Ero ridotta peggio di quanto pensassi.
«Cami...»
Feci un piccolo sorriso. Kenji si era ripreso, era un buon segno. Almeno avrei potuto spiegargli la situazione. Si guardò intorno, confuso.
«Siamo nel controsoffitto tra il primo e il secondo piano. Ti ho portato io qui, dovremmo essere al sicuro,» gli spiegai. Annuì. «Come ti senti?»
«Un po’ a corto di sangue.» Rise flebilmente, poi tornò serio e mi sfiorò la tempia sinistra con le dita, provocandomi una fitta dolorosa. «Hai bisogno di cure.»
Quando tolse la mano, capii perché mi faceva male: le sue falangi erano insanguinate.
«Anche tu. È per questo che sto andando a cercare l’infermeria.» Lo vidi spalancare gli occhi e agitarsi. «Sì, andrò da sola, non sei nelle condizioni di venire con me. Ti conosco e so che tenterai di dissuadermi, ma non è negoziabile. Tutto ciò che devi fare è restare qui e rimanere vivo.»
«È una pazzia.»
«Starò bene, vedrai,» lo rassicurai con un sorriso.
«Ti do mezz’ora di tempo. Conterò minuto per minuto, se ci metterai un secondo in più verrò a cercarti.»
Gli diedi un bacio sulla fronte. Speravo che potesse tranquillizzarlo. Entrambi sapevamo che lui una mezz’ora poteva non averla, ma non volevo pensarci.
«Cerca di resistere, ok? Torno presto.» Gli accarezzai una guancia e presi anche il suo zaino: più spazio avevo, più cose potevo prendere.
«Fai attenzione, ti prego,» si raccomandò, le iridi piene di preoccupazione.
Annuii solenne, tolsi la cintura, sollevai il legno e uscii dal nostro nuovo nascondiglio, alla ricerca dell’infermeria.
 
Il primo piano era ancora più caotico del secondo. Se l’infermeria si trovava lì – come sospettavo – sarebbe stato un problema trovarla, come lo era stato la prima volta. Mi sembrava di essere tornata alle elementari, quando all’ora di ginnastica ci facevano giocare a palla avvelenata. Solo che stavolta, se non schivavo quello che mi arrivava addosso, rischiavo di morire. Anche se ero invisibile al resto del mondo, non era facile destreggiarsi tra proiettili, esplosioni e pugni. Solo perché gli attacchi non erano diretti a me non significava che non potessero colpirmi. Tenere attivata l’Ambizione, oltre che costarmi molta fatica in quelle condizioni, era deleterio quando non avevo un avversario fisso che combattesse con me. La mia mente diventava un groviglio di pensieri altrui che non avevano né un inizio né una fine. Era tutto troppo confuso perché potessi carpire qualcosa. Dovevo affidarmi all’istinto e sperare che ciò fosse abbastanza per farmi sopravvivere.
«Cami!?» fece una voce a pochi metri da me.
Mi voltai. Rimasi sorpresa dinnanzi a ciò che vidi: il cecchino, la Gatta Ladra e una bambina in groppa a un’enorme creatura che assomigliava a un cane con il muso schiacciato. Un’altra cosa strana da aggiungere alla lista.
«Usop!» A volte la vita era beffarda. Avevo cercato i miei compagni disperatamente fino a quel momento e non ne avevo incontrato nessuno, e invece da “invisibile” venivo notata da Usop.
«Cami è qui? Come sta?» chiese Nami, guardandosi intorno. Ero contenta di rivedere delle facce familiari ed ero contenta che si preoccupassero per me.
Il cecchino fece un’alzata di sopracciglia non convinta. Se volevamo puntualizzare, nemmeno lui aveva un bell’aspetto. Supponevo che ciò che gli colava dal viso non fosse salsa di pomodoro.
La battaglia non era stata gentile neanche con la Gatta Ladra. Era piena di lividi, tagli e sangue rappreso. Faticavo a capire come facesse a combattere in una minigonna striminzita e con i tacchi, ma non erano affari miei. Io avevo la divisa dei Pirati Heart e i soliti stivali marroni, che erano l’anticristo della haute couture, ma se non altro erano comodi e proteggevano bene. Solo in quel momento notai che il moro stava utilizzando la sua Kabuto per lanciare piccole sfere bianche nelle bocche dei nemici.
«Che stai facendo? Cosa sono quelle palline bianche?» gli chiesi, affrettandomi per stare al passo del “cane”. Sorvolai su quest’ultimo, non avevo tempo da perdere.
«Sono kibi-dango! In breve, chiunque con i poteri degli Smile li mangi, dovrà obbedire a questa bambina, Tama!»
«Così possiamo portare gli avversari dalla nostra parte!» aggiunse Nami, fissando un punto di poco alla mia sinistra.
«Fratellone Usop, sorellona Nami, con chi state parlando?» volle sapere Tama. Non ascoltai la risposta che le venne data, ero troppo impegnata a collegare i puntini. Ora aveva un senso il comportamento dei sottoposti di Kaido al secondo piano. Non erano impazziti, erano solo vittime di un frutto del diavolo.
«Un vero miracolo...» mi lasciai sfuggire, ripensando a quanto il tipo di potere e il tempismo fossero stati provvidenziali.
«Tu che stai facendo quaggiù?»
«Sto cercando l’infermeria. Voi sapete dove sia?»
«Ehi, tu!» Usop richiamò un tizio con le fattezze di un ghepardo che aveva appena ingoiato un kibi-dango. «Dov’è l’infermeria?»
Quello guardò prima la bambina, come a chiederle il permesso di rispondere, e lei annuì.
«Al primo piano sotterraneo, vicino alla dispensa.»
In un’altra situazione avrei riso della stupidità mia e di Kenji. Per forza non la trovavamo, era su un piano che non ci era nemmeno passato per la mente di perlustrare. Però ero contenta di avere finalmente una destinazione precisa, così non avrei sprecato altro tempo prezioso. Il mio compagno aveva una speranza, una speranza concreta.
«Grazie. Grazie mille!» gridai al mio amico con gli occhi lucidi. Usop aveva appena salvato una vita.
«Figurati. Buona fortuna!» mi gridò di rimando, caricando la Kabuto per l’ennesima volta con le palline bianche.
«Anche a voi!»
E così le nostre strade si separarono. Ma quando voltai l’angolo per prendere le scale che mi avrebbero portato al primo piano sotterraneo, le mie ginocchia cedettero. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a rialzarmi.
“Non adesso, ti prego. Non adesso.”
Di fianco a me passò una ragazza che aveva l’aspetto di un dinosauro, gridava così tanto che all’inizio pensai fosse una gallina. Aveva l’aria di essere un pezzo grosso della ciurma di Kaido e ce l’aveva con Nami. Poi passò un ragazzo, o più precisamente uno spinosauro, con lunghi capelli viola sistemati da un lato del viso. Era più silenzioso rispetto alla compagna, ma non meno potente. Supposi che cercasse Usop. Infine, capii il motivo per cui le mie ginocchia avevano ceduto. Non era stanchezza, era... timore. Anzi, più precisamente Haki. Un Haki tanto potente che ero fortunata a non aver perso conoscenza con la schiuma alla bocca. Il mio corpo aveva captato il pericolo prima della mia mente e stava cercando di avvisarmi.
«Oh, merda.»
A una ventina di metri da me, in tutta la sua fierezza e potenza – perché di splendore non si poteva parlare – si ergeva Big Mom. Anche solo averla di fronte era terrificante. Emanava un’energia tale da impedirmi di muovermi. Era schiacciante, facevo fatica perfino a respirare. Era enorme, più grossa di quanto avessi immaginato, e il kimono, il trucco e la pettinatura da geisha contribuivano a renderla più inquietante del solito. Aveva un’espressione da pazza furiosa, e come lei il cappello sulla sua testa e il sole che si portava dietro. In quella forma sembravano innocui, ma io avevo letto la saga di Whole Cake Island e sapevo quello che erano in grado di fare.
A quanto pareva cercava Eustass Kidd. Il pensiero che non ce l’avesse con Law mi confortò. Alcuni samurai suicidi provarono ad attaccarla. Inutile dire che li respinse senza fatica, semplicemente con una manata. Lo spostamento d’aria provocato dal suo colpo quasi mi spazzò via. Non potevo restare lì, in balìa di quella vecchia psicotica. Ero ancora viva solo perché non mi poteva vedere. Mi imposi di rialzarmi e di proseguire la mia avanzata: più lontano fossi stata da lei, meglio sarebbe stato. Stavolta il mio corpo capì e collaborò. Mi rimisi in piedi e feci per muovermi, quando l’Imperatrice vide qualcosa dietro di me che la fece scattare.
«Pirati di Cappello di Paglia!» gridò, la voce acuta ma profonda. Mi voltai anche io e vidi passare di nuovo Usop, Nami e Tama in groppa al cane gigante. Big Mom ce l’aveva con loro. Erano spacciati. E lo ero anche io, se rimanevo lì. C’era solo un piccolo problema: non potevo andarmene. La capostipite dei Charlotte aveva occupato tutto il corridoio. Le era bastato allargare i piedi. In mano stringeva Napoleon, che si era trasformato in una spada, e davanti a lei c’era Prometheus, ora diventato fuoco, il cui calore mi toglieva il respiro. Voleva attaccare a piena potenza. Non potevo scappare e tornare da dove ero venuta, l’attacco era diretto lì. Non c’erano vie di fuga rapide o porte che potessi aprire per mettermi in salvo. Se le fossi passata in mezzo alle gambe sarei rimasta traumatizzata a vita, ma forse mi sarei salvata. Decisi di tentare. Non c’era altro che potessi fare, se volevo arrivare in infermeria dovevo scavalcarla – o passarle sotto – e proseguire in quella direzione. Mi mossi troppo tardi, però. Prometheus si era espanso e il corpo di Big Mom era andato in tensione, il braccio con Napoleon pronto a scagliarsi su qualunque bersaglio vi fosse dinnanzi a lei, cioè io e pochi altri samurai e Visoni. Un nodo si formò nella mia gola e mi ritrovai con le lacrime agli occhi. Tuttavia non piansi. Non perché avevo promesso a Manny che non lo avrei fatto, ma perché mi sembrava surreale. Mi sembrava surreale che la mia morte sarebbe avvenuta perché mi ero trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato e a causa delle persone che mi avevano salvato. Era davvero così che sarebbe finita? Per una stupida coincidenza? Come vittima sacrificale e invisibile al resto del mondo? Non era in questo modo che mi ero immaginata di andarmene. Non che esistesse un modo ideale per morire, ma in queste circostanze era stupido. Sminuiva ciò che ero stata in vita, ciò che avevo lottato per essere.
Big Mom ordinò a Prometheus di disporsi a raggiera. Mi feci il segno della croce. Non ero mai stata una persona religiosa, ma non volevo morire, e se mi avesse aiutato a restare in vita avrei recitato tutto il rosario e avrei anche imparato a memoria la Bibbia. Serrai le palpebre, incapace di guardare la mia fine negli occhi, e mi preparai al peggio.
Aspettai qualche secondo. Non successe niente. Almeno non era stato doloroso.
«Tama!» esclamò sorpresa l’Imperatrice.
Riaprii gli occhi. Big Mom non sembrava più avere l’intenzione di attaccare a pieno arsenale. Prometheus era tornato ad essere un sole e Napoleon ad essere un cappello. Se era come sospettavo, quella bambina mi aveva appena salvato per la seconda volta. Se fossimo sopravvissute, le avrei offerto un gelato o qualsiasi altra cosa avesse voluto mangiare. Sperai solo che Big Mom non ce l’avesse anche con lei.
LinLin avanzò con i due homies al seguito e io potei solo schiacciarmi contro il muro per evitare che mi travolgessero. I suoi passi facevano tremare il pavimento. Poco dopo i tre sparirono per il corridoio perpendicolare al mio, all’inseguimento di Nami e Usop. Tirai il più lungo sospiro di sollievo della mia vita e permisi ai miei muscoli di rilassarsi. Avrei voluto stendermi sul pavimento e rimanere lì per sempre, ma Kenji aveva bisogno di me e il tempo stringeva. Inoltre avevo la sensazione che se mi fossi rilassata non sarei più riuscita a rialzarmi. Mi feci coraggio – di nuovo – e proseguii la mia avanzata verso l’infermeria.
 
Rispetto ai piani superiori, il primo piano sotterraneo era più tranquillo. Non era una passeggiata attraversare i corridoi, c’era qualcuno che combatteva e qualche proiettile vagante, ma non c’era il rischio di incontrare uno come Almaz, o altri pezzi grossi. I più forti non se ne stavano relegati nei sotterranei, erano in prima linea a scontrarsi con gente potente come loro. Questo e il fatto che nessuno potesse vedermi mi rendevano più tranquilla. Quello che mi faceva agitare era che non riuscivo a trovare l’infermeria. Ero arrivata a quel piano perché per una volta in vita mia sapevo esattamente dove andare, ma c’erano tante porte da aprire e il tempo stringeva. Non conoscere le condizioni di Kenji non aiutava a calmare i miei nervi già poco saldi. Avevo controllato varie stanze, e nessuna sembrava essere quella che cercavo.
Mi fermai e ripensai alle parole del tizio-ghepardo. L’infermeria era vicino alla dispensa. Non era molto, ma era pur sempre un indizio in più. Ricominciai a cercare. Cercai e cercai per cinque minuti buoni, finché... Mi misi a ridere. L’avevo trovata. La dispensa, perlomeno. Una grande insegna ne indicava l’ingresso, delimitato da due grosse porte a vento rosse. C’erano tre stanze adiacenti, due ai lati e una di fronte, perciò l’infermeria non poteva che essere una di esse. Non c’era nessun cartello che la indicasse, ma da sotto la porta alla destra della dispensa proveniva una luce. La aprii. Ed eccola lì. Quando la vidi dovetti aggrapparmi alla maniglia per non cadere un ginocchio. Non era niente di speciale, ma mi sembrava di aver trovato il Paradiso. L’oasi in mezzo al deserto. Era più grande dell’infermeria del Polar Tang, ma meno accogliente e, se possibile, ancora più impersonale. Alla mia sinistra vi era una schiera di letti, alcuni occupati da nemici feriti; alla mia destra numerosi scaffali riempiti con un’ampia varietà di medicinali e strumenti medici. C’era tutto ciò che mi serviva. Per un attimo pensai che fosse un miraggio. Avevo passato ore a cercare quella stanza, a desiderarne il contenuto, chi poteva dirmi che non fosse un’illusione creata dalla mia mente disperata? Avanzai di qualche passo. L’odore familiare del disinfettante mi invase le narici. Poi sentii il rumore dei monitor elettronici e mi rilassai. No, non era una miraggio, era tutto reale. Era come se fossi tornata nel mio habitat naturale. Il mio posto non era sul campo di battaglia, era lì, tra garze e antibiotici. Una parte di me avrebbe voluto restare in quel luogo per sempre e curare i feriti, senza fare distinzioni tra fazioni, tra amici e nemici. Ma non potevo. C’era una persona da cui dovevo tornare, che aveva più bisogno di me di tutti quelli che giacevano nei letti.
Mi affrettai a controllare gli scaffali. Tra lo “scherzetto” di Big Mom e le difficoltà che avevo avuto nel localizzare la stanza, ad occhio e croce dovevano già essere passati una ventina di minuti. Non ero sicura che Kenji ne avesse altri venti. Misi negli zaini tutto quello che mi serviva e che avrebbe potuto servirmi. Non entrava tutto quello che avevo in mente di prendere, ma riuscii comunque a sgraffignare parecchie cose: un kit da sutura, tre diversi tipi di antibiotici, garze – tante garze – e degli unguenti per trattare le contusioni. Per raggiungere gli antidolorifici dovevo arrampicarmi, e lo sforzo che compii per farlo mi ricordò che anche io avevo delle ferite da curare, possibilmente in fretta, perché il dolore stava diventando insopportabile.
Stavo per raggiungere i tanti agognati flaconi, quando notai un colibrì con un occhio disegnato su un foglio di carta che gli copriva il viso posato sul bordo di una mensola. Mi chiesi a che cosa servisse, ma lo ignorai.
«A... A tutti gli amici che hanno mangiato i kibi-dango!» Una voce uscì all’improvviso dall’uccellino e riecheggiò per l’infermeria. Il suono mi spaventò e per poco non mi fece cadere dagli scaffali. Capii che quegli animaletti erano gli occhi e le orecchie dei nemici, nonché il loro modo di comunicare. «Vi prego, adesso dovete tutti combattere per fratellone Rufy e Momonosuke-kun! Sconfiggiamo Kaido tutti insieme!»
Era la voce di Tama. Ce l’aveva fatta. Se erano arrivate a tutti, le sue parole avrebbero potuto cambiare le sorti della battaglia. Sorrisi. Le cose si stavano mettendo bene per noi.
Scesi, ingoiai un paio di pasticche e infilai gli antidolorifici nello zaino. Per fortuna la mia sofferenza si affievolì poco dopo.
Sarei stata pronta a tornare dal mio amico se un congelatore non avesse attirato la mia attenzione. Assomigliava ai contenitori che utilizzavano i bar per conservare i gelati. Mi avvicinai e lo aprii, attenta a non farmi scoprire dai medici che si aggiravano per le corsie. Al suo interno vi erano pacchi di ghiaccio e... sacche di sangue. Sbuffai una risata sollevata.
«Porca troia!» Ora capivo come si sentivano quelli che vincevano alla lotteria. Con quelle Kenji era praticamente già salvo. Sarebbe tornato in una forma decente nelle ore successive. Cercai quelle del suo gruppo sanguigno e, quando le trovai, dovetti fare una scelta. Ne presi tre e rinunciai a un rotolo di garza. Potevo solo sperare che la mia decisione non sarebbe costata la vita a qualcun altro.
Uscii dall’infermeria e decisi di fermarmi un’ultima volta prima di tornare dal rosso. Entrai nella dispensa e andai alla ricerca di un paio di bottiglie d’acqua. Gli zaini erano saturi: avrei dovuto tenerle in mano e sperare che non ci fosse stato bisogno di ricorrere alle armi. Il magazzino era enorme ed era pieno di alcolici. Non era una sorpresa. C’erano anche diverse bottiglie di vino, e dovetti resistere alla tentazione di rubarle o di scolarmele sul posto. Non mi sembrava una scelta saggia. Alla fine trovai quello che stavo cercando e mi rimisi a correre verso il terzo piano. Il tempo stringeva.
La risalita fu rapida e andò meglio rispetto all’andata. Ci fu un’esplosione a pochi metri da me che mi fece perdere l’equilibrio e cadere, ma a parte questo, seppur con qualche livido in più, riuscii ad arrivare alla botola che avevo creato. Quando la aprii e mi infilai nel controsoffitto, però, ciò che vidi mi fece perdere un paio di battiti. Kenji era steso a terra, sotto di lui una pozza di sangue, il bianco della sua divisa si era tinto di rosso. Aveva gli occhi chiusi e il torace fermo. Non respirava. Lì vicino, come avvoltoi pronti a nutrirsi della carne del nemico, c’erano due sottoposti di Kaido che osservavano il mio compagno. Uno rise e gli diede un calcio nel costato.
«Non sprecare energie con questo qui. È già morto, non vedi?» lo ammonì l’altro, rinfoderando la sua spada. Poi anche lui si mise a ridere.
«No...» Iniziai ad ansimare, ogni respiro era doloroso. Andai in confusione. Le bottiglie d’acqua mi caddero dalle mani, la testa cominciò a girare. Non riuscivo a pensare a niente. Nelle mie orecchie risuonava un tinnito assordante. I miei occhi andavano a fuoco. La mia gola, il mio petto, andava tutto a fuoco. Bruciavo di rabbia. Non sapevo se verso di me o verso di loro, ma ero furiosa. Lo avevano ucciso. Come era possibile che lo avessero trovato? Lì avrebbe dovuto essere al sicuro. Invece era morto. Perché era morto?
Prima di perdere la ragione notai a pochi passi da loro una specie di biscia con lo stesso disegno del colibrì. E capii tutto. Come avevo fatto a non arrivarci prima? Come avevo potuto essere così negligente?
Percepii il mio ultimo granello di sanità mentale scivolare in un abisso profondo, e persi la testa.

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Capitolo 19
*** Fuga ***


Non provavo dolore. Non ancora, almeno. Dentro di me c’era solo un’immensa rabbia. Gridai. A squarciagola. Fu un grido sinistro, potente, liberatorio. E durò parecchio. Se avessi avuto la cintura addosso mi avrebbe sentito tutta Onigashima. Avevo bisogno di sfogarmi, non solo per la morte di Kenji, ma per tutto ciò che avevo vissuto quella notte. Sfoderai l’ascia e mi scagliai contro la biscia. La tagliai a metà. Non perse sangue come mi aspettavo, quello che avevo reciso erano dei cavi elettronici. Non era neanche un animale vero, era un fottuto cyborg. Poi fu la volta dei sottoposti di Kaido. Loro non vedevano altro che un’ascia che fluttuava per aria, mi compiaceva così tanto guardare la confusione e la paura nei loro occhi. Li avevo in pugno, e avrebbero avuto ciò che meritavano. Fui rapida, ma non per questo gentile. Tagliai la gola ad entrambi e li osservai mentre i loro corpi erano scossi dagli spasmi e il sangue sgorgava copioso dalle ferite. I due avevano mangiato uno Smile, perché prima di morire risero fino alle lacrime. Io ero un medico. Mi ero ripromessa che non avrei ferito o ucciso nessuno a meno che la mia vita non fosse in pericolo. Avrei potuto convincermi che lo avevo fatto perché ero sotto minaccia, ma la verità era che provavo piacere nel guardarli morire. Per quella volta lasciai che l’oscurità dentro di me vincesse. Il mio compagno era stato assassinato, e io volevo vendetta.
Presi un respiro profondo, gettai l’ascia a terra e mi dedicai a Kenji. C’era poco che potessi fare ormai, ma non potevo lasciarlo lì. Anche se non era più vivo era comunque un essere umano, un amico, una brava persona che meritava una degna sepoltura, un ultimo addio da parte dei suoi compagni. La prima cosa da fare era accertarsi che fosse veramente morto. Appoggiai due dita sul suo collo: non c’era battito. Mi passai una mano tra i capelli e inspirai a fondo. Controllai le ferite che gli erano state inferte. Tuttavia, a parte quella sulla gamba, non trovai niente. Non era possibile che il suo corpo perdesse sangue senza avere delle ferite, e l’emorragia causata dall’unica che aveva era stata parzialmente fermata dalle cinghie di cuoio. Com’era possibile?
«Kenji?» Lo scossi per la spalla, come se potesse risvegliarsi magicamente e darmi le risposte che cercavo. Mi resi conto che, se anche si fosse svegliato, senza cintura non poteva né vedermi né sentirmi, e dopo aver controllato che non ci fossero altri animali con “occhi indiscreti” nei dintorni, me la rimisi. Lo scossi di nuovo e stavolta vidi per puro caso una fialetta rotolare dalla mano di Kenji fino al mio ginocchio. La presi in mano.
«Oh.» Mi venne da piangere, per sciogliere tutta la tensione che si era formata dentro di me negli ultimi minuti. Mi sentivo così stupida. Come avevo fatto a non pensarci prima? Non era morto, era sotto l’effetto del siero Giulietta. Prima della guerra ne avevo preparate quante più fiale possibili e le avevo distribuite ai miei compagni. Kenji l’aveva usato, ed era vivo. Come io avevo cercato di fare con Law, anche il rosso l’aveva preso per depistare i nemici. Aveva preferito giocare in difesa e non in attacco, e se le mie ipotesi erano corrette... Feci scorrere un dito nella pozza di liquido rosso e lo assaggiai.
«Salsa di pomodoro. Come pensavo.» Sbuffai una risata. Un’intuizione di Usop. Se la portava sempre dietro e quando gli avevo spiegato a cosa servisse il siero Giulietta – ne era rimasto entusiasta – mi aveva consigliato di tenerne un po’ pronta all’occorrenza, per rendere più credibile la messinscena. “Se  sei immerso in un lago di sangue, nessuno dubiterà della tua morte,” mi aveva detto, e aveva ragione. Perfino io mi ero convinta che il mio amico fosse defunto. Dovevo dargliene atto: il cecchino era un genio. Tuttavia sarebbero stati sforzi vani se non mi fossi sbrigata a curare Kenji. Tirai fuori il necessario dagli zaini e iniziai a darmi da fare.
Mentre suturavo la lacerazione gettai uno sguardo ai cadaveri dei due nemici che giacevano un po’ più in là. Li avevo uccisi per vendetta in un impeto di furia quando non era colpa loro. Eppure non riuscivo a sentirmi dispiaciuta. Non pensavo che se lo meritassero, ma non ero pentita di averlo fatto. Non potevo tornare indietro in ogni caso, ormai erano morti. Era più facile quando si accettava la propria oscurità.
 
Appoggiai la schiena e la testa alla parete e sospirai, esausta. Kenji non si era ancora risvegliato, ma il suo incarnato non era più pallido e smunto. La sua gamba era stata medicata ed era a posto. Si sarebbe rimesso senza problemi se la trasfusione fosse andata bene. Avevo appeso la sacca di sangue a un chiodo che sporgeva dal muro e ora stavo monitorando la situazione. Non ero sicura di riuscire a resistere per molto. Mi faceva male la testa, mi sentivo stordita ed ero estenuata. Il ronzio non se ne andava dalle mie orecchie e la mia vista stava diventando sfocata. Non dovevo cedere alla stanchezza, però non potevo farci niente, non avevo più il controllo del mio corpo. Gli antidolorifici diminuivano il dolore, ma non avevano il potere di rinvigorirmi.
Avevo appena chiuso gli occhi quando un rumore di passi mi mise in allerta e l’adrenalina tornò a circolare nelle mie vene. Mi presi un istante per riflettere su quale fosse la strategia migliore. L’unica opzione che avevo era combattere, dovevo proteggere Kenji. Presi la mia arma, mi rialzai e la puntai contro chiunque fosse di fronte a me.
Pochi secondi dopo, l’ascia cadde a terra con un tonfo metallico.
«Law!?» Forse stavo avendo un’allucinazione.
La figura mi squadrò da capo a piedi, come se stesse valutando la situazione, e io feci altrettanto. A differenza di me era ancora capace di stare eretto, ma il volto e le parti visibili del suo corpo erano un quadro astratto di sangue rappreso. Aveva l’aria stanca e sospettavo stesse nascondendo ferite profonde e dolorose. Ma era davvero il mio Capitano? Non c’era da fidarsi di nessuno, i sensi potevano ingannare. Ripresi in fretta la Mr. Smee e gliela puntai di nuovo contro.
«Tuo zio ha un negozio di materassi ed è molto geloso di te,» si limitò a dire.
Dapprima rimasi sconcertata, poi tornai a rilassarmi. Solo chi era stato nel mio universo poteva saperlo ed era un’informazione troppo specifica perché qualcun altro potesse esserne venuto a conoscenza, per cui non era un nemico. Inoltre quella era la voce di Law, era inconfondibile. Sentirla instillò un certo sollievo in me. Era vivo, aveva ancora tutti gli arti e si reggeva in piedi.
«Cosa ci fai qui?» gli chiesi, avvicinandomi a lui. Gli appoggiai una mano sulla spalla per accertarmi che non fosse una creazione della mia mente. Era reale, c’era davvero il Chirurgo della Morte di fronte a me. Sorrisi, mentre lui spostò lo sguardo su Kenji, nelle iridi una punta di preoccupazione. Lo guardai anche io.
«Sta bene,» lo rassicurai. «Cioè, se la caverà. Il sangue che vedi è in realtà salsa di pomodoro ed è privo di sensi perché ha assunto il siero Giulietta. Dovrebbe riprendersi a breve, ho pulito e suturato le sue ferite e gli sto facendo una trasfusione.»
«Una trasfusione di sangue nel bel mezzo di una guerra?» Sollevò un angolo della bocca, divertito da quell’idea assurda.
Feci spallucce. «Si fa quel che si deve fare per salvare gli amici.»
«Li hai uccisi tu?» Indicò i corpi esanimi dei sottoposti di Kaido.
«Sì...» Abbassai gli occhi. «Non avevo capito che Kenji stesse inscenando la sua morte, pensavo che quei due lo avessero fatto fuori. Mi sono infuriata, ho perso il controllo e...»
«Hai preso la decisione giusta,» affermò, facendomi rialzare lo sguardo. Ero sorpresa da quella dichiarazione, non capitava spesso che gli sentissi pronunciare quelle parole. «E hai fatto un buon lavoro con Kenji.»
Serrai le palpebre per non piangere. Avevo così bisogno di sentirmelo dire da qualcuno. No, di sentirmelo dire da lui.
«Tu però non hai un bell’aspetto.» Non lo disse con apprensione, quanto piuttosto con scherno. Ed ecco che era tornato ad essere il solito Law.
Sbuffai una risata. «Senti chi parla, hai più sangue in faccia che nelle vene.»
Tornò serio, mi posò due dita sul mento e costrinse le mie iridi ad incontrarsi con le sue. Sussultai al suo tocco gelido, anche se mi era quasi mancato, nonostante tutto. «Le tue pupille sono dilatate, hai una commozione cerebrale.»
Feci un mugugno di assenso. Era possibile, questo spiegava il mal di testa, il senso di stordimento e vari altri sintomi.
«In ogni caso, non hai risposto alla mia domanda. Che ci fai qui?»
Sembrava riluttante a rispondere, ma sapeva che non mi sarei arresa fino a che non avessi avuto una risposta. «Ti ho sentito gridare.»
Sbattei le palpebre un paio di volte, confusa. Non aveva senso. Sì, avevo urlato, e sì, senza cintura lui poteva sentirmi comunque, ma come faceva a sapere che il grido proveniva da me? Come faceva ad esserne certo in una battaglia piena di rumori molesti?
«Non è importante,» disse, come se potesse leggermi nel pensiero. Non ero d’accordo, però conoscevo il Capitano: non avrei ottenuto più di così. In fondo aveva implicitamente ammesso che si era preoccupato per me.
Spostò di nuovo lo sguardo verso Kenji e io lo seguii. Sorrisi sollevata quando notai che si era risvegliato.
«Cami, Capitano.» Ci sorrise. Sembrava un po’ smarrito, ma era contento di vederci e – supponevo – di essere vivo.
«Prenditi cura di lei,» si raccomandò il chirurgo, serio. Poi girò i tacchi e si mise a camminare nella direzione opposta alla nostra.
«Aspetta un attimo!» Affrettai il passo per raggiungerlo. Lo osservai attentamente. «Tu vuoi tornare a combattere.»
«Non sono affari tuoi,» fece, tagliente.
Lo ignorai e inorridii dinnanzi all’epifania che avevo avuto. «Oh, mio Dio. Vuoi scontrarti con Big Mom. Sei impazzito, per caso!?»
Lo afferrai per un braccio e lo costrinsi a girarsi verso di me.
«Non sono affari tuoi,» ripeté, il fastidio cominciava a diffondersi in tutto il suo corpo.
«Sì che lo sono! Sei esausto, ferito e hai bisogno di cure. Ti reggi a malapena in piedi, sei sopravvissuto per miracolo allo scontro con Kaido e ora vuoi affrontare un altro Imperatore? È un suicidio!» Il mio tono di voce era più alto di quanto avessi programmato. Non sapevo se fossi più preoccupata o arrabbiata, ma cercai di darmi una calmata. «Non devi dimostrare niente a nessuno. Non sei inferiore a Rufy o a Kidd. Ti sei battuto con onore contro l’uomo più forte del mondo. Hai fatto la tua parte, il tuo nome riecheggerà per tutti i mari come hai sempre voluto, ora puoi riposarti.»
Stavolta fu lui a prendermi per un braccio. Mi avvicinò a sé e portò la sua bocca a pochi centimetri dal mio orecchio. «Sconfiggere quella vecchiaccia potrebbe essere la chiave per scoprire qualcosa di più sulle origini del mio nome e sul mio destino. Non mi farò sfuggire un’occasione del genere.»
Non potei controbattere. Sapevo quanto fosse importante per lui. E non potevo neanche consigliargli di avere fiducia in Rufy, perché io avevo il privilegio di leggere quello che accadeva in quell’universo e lo avrei saputo comunque. Lui non poteva permettersi di affidare il suo destino a qualcun altro, né avrebbe voluto farlo.
Sospirai rassegnata.
«Lasciati almeno curare prima di andare.» Quasi lo supplicai.
«Non c’è tempo.» Si staccò da me. «Cercate un posto sicuro, recuperate le vostre energie e, quando la battaglia si sarà placata, andatevene dal castello.»
«E che ne sarà dei feriti da curare?» chiese Kenji, che fino a quel momento era rimasto in silenzio.
«Pensate a mettervi in salvo. Le cose presto si faranno movimentate.» Law ghignò e un guizzo di malizia attraversò le sue iridi cineree, poi ricominciò a camminare.
«Law...» lo richiamai, trattenendolo per un polso. Tirai fuori dalla tasca un flacone di antidolorifici e glielo passai. Se lo infilò nel cappotto. «Ti prego, fa’ attenzione. Non voglio rimanere orfana di Capitano.»
Mi sorrise, fu un sorriso genuino, ma anche di sfida. «Pensa per te. Sopravvivi. Ci vediamo all’ingresso di Onigashima all’alba.»
Annuii prima di vederlo sparire nella bolla bluastra della sua Room.
Mi passai una mano sul viso, sussultando al mio stesso tocco per il dolore delle ferite. Mi sentivo così stanca, non riuscivo più a stare in piedi. Tornai a sedermi accanto a Kenji e notai con disappunto che stava sorridendo.
«Cos’hai da sorridere? Il Capitano sta andando incontro a morte certa,» lo rimproverai, infastidita dalla leggerezza con cui entrambi affrontavano la cosa.
Scosse la testa, come a scacciare qualunque pensiero stesse avendo. «Non dovresti sottovalutare il Capitano.»
Alzai gli occhi al cielo. «Non lo sottovaluto. Semplicemente, mi preoccupo per lui. È forse un crimine?»
«No, ci mancherebbe.» Tornò a fare lo stesso sorriso sornione di prima.
Sbuffai, poi tornai seria. «Come ti senti?»
«La gamba mi formicola un po’, ma a parte questo come nuovo.» Fece forza sulle braccia e tirò su il busto, appoggiando la schiena al muro.
«Non devi fare sforzi, hai perso molto sangue.» Cercai di aiutarlo a sistemarsi meglio, ma avevo a malapena le forze per tenere gli occhi aperti. La scarica di adrenalina si era esaurita.
«Sto bene, grazie a te. Mi hai rimesso in sesto. Ora dobbiamo pensare a te.» Mi appoggiò una mano sul ginocchio mentre con l’altra tirò fuori dagli zaini le garze. «Dove ti fa male?»
Risi. «Dappertutto.»
«Cami, devi rimanere con me. Non puoi addormentarti.» La voce del mio compagno era angosciata e iniziò a darmi piccoli colpetti sulla guancia per tenermi sveglia. Ma a quel punto nemmeno una scarica da tre milioni di Volt avrebbe potuto impedirmi di perdere conoscenza.
 
Riaprii gli occhi per trovarmi davanti il viso preoccupato di Kenji, che si rilassò quando si accertò che fossi reattiva e non avessi danni cerebrali.
«Per quanto tempo sono rimasta priva di sensi?»
«Il tempo di farti un’iniezione di vitamine.»
«Meno male che sono svenuta allora.» Ridacchiai, ma dovetti fermarmi quando sentii una fitta allo stomaco. Mi portai una mano sull’addome e percepii un liquido bagnare le mie dita. Sospirai. Stavo ancora sanguinando.
«Lascia che ti aiuti,» il rosso quasi mi supplicò, le iridi di nuovo riempite di preoccupazione.
Acconsentii e abbassai la cerniera della divisa fino all’ombelico. Evitai di sghignazzare quando lo vidi arrossire; però da bravo medico tornò serio e valutò la situazione. Emisi un gemito sofferente quando pressò i palmi sulla mia pancia.
«Non ti servono punti, le ferite sono superficiali, ma credo che tu abbia qualche costola rotta e lo stomaco potrebbe aver subìto dei danni.»
Annuii. Non c’era altro che potessi fare. Le costole rotte non potevano essere risanate con farmaci o fasciature e non c’era modo di scoprire se il mio stomaco fosse danneggiato, né di curarlo. I mezzi a nostra disposizione erano scarsi, ma finché ero viva e cosciente mi andava bene così. Con un po’ di fortuna sarei tornata presto sul sottomarino dove avrei fatto gli accertamenti che dovevo fare e mi sarei curata. Law aveva confermato l’appuntamento all’alba, perciò si trattava di resistere qualche altra ora, poi sarebbe tutto finito.
Lasciai che Kenji mi fasciasse l’addome, la testa e applicasse qualche cerotto qua e là, come io avevo fatto con lui. Per il mio zigomo gonfio usò una pomata. Poi entrambi prendemmo un paio di antidolorifici, ci sistemammo con la schiena appoggiata alla parete e per un po’ nessuno dei due parlò. Dovevamo aspettare che la trasfusione fosse completata prima di muoverci da lì, ci sarebbe voluta un’altra ora. Il controsoffitto non era il posto più sicuro, ma era sempre meglio che tornare nel vivo della battaglia. Se ci avessero trovati ci saremmo difesi in qualche modo.
«Grazie,» disse il rosso per rompere il silenzio. «Per avermi salvato, intendo.»
«Ti sei salvato da solo quando hai ingerito il siero Giulietta e ti sei cosparso di salsa di pomodoro,» gli feci notare con un sorriso sulle labbra.
«Ho ingerito il siero da te creato e ho seguito il consiglio che mi hai dato tu. Perciò sì, mi hai salvato la vita.» Mi strinse la mano tra le sue in segno di gratitudine.
Gli sorrisi. «Hai corso un bel rischio, però.»
«È stato un rischio calcolato. Hai presente quando negli scacchi sacrifichi un pezzo per mangiarne un altro all’avversario?»
«Certo,» mentii, un sorriso finto sulle mie labbra. Kenji sarebbe andato d’accordo con Marco. A guerra terminata avrei dovuto presentare i due, così avrebbero finalmente potuto giocare una partita di scacchi con un degno avversario, uno che avesse voglia di farlo.
«Puoi permetterti di farlo solo se un tuo pezzo è protetto da un altro,» mi spiegò, poi sollevò un angolo della bocca. «Io ero protetto dalla Regina.»
«La Regina sarei io?» Percepii l’imbarazzo farsi strada nel mio corpo. Non ero sicura di voler continuare la conversazione.
«Certo. Non sei conosciuta nel mondo come la Regina di Cuori?» Allargò il suo sorriso.
«Oh, già. Pare di sì.» Feci spallucce e sorrisi anche io. Con il tempo avevo imparato a non disprezzare quell’appellativo. Non era un nomignolo datomi da un giornalista idiota a definirmi, l’importante era che non perdessi di vista chi ero io e chi volessi essere. E se il resto del pianeta credeva che io fossi la fidanzata di Law, pazienza.
«Sapevo che saresti tornata a breve e che ci avresti pensato tu,» affermò convinto, poi gettò uno sguardo ai due cadaveri. «E avevo ragione.»
«Pensavo che ti avessero ucciso. Mi sono infuriata, ho perso il controllo e...»
«Lo so,» mi interruppe. «Ero sveglio, ho ascoltato la conversazione che hai avuto con il Capitano.»
Annuii, non sapendo che dire. Non volevo tornare sull’argomento, li avevo uccisi e basta. Kenji capì che avevo bisogno di silenzio, si avvicinò a me e mi cinse le spalle con un braccio, stringendomi a sé. Appoggiai la testa sul suo petto e ascoltai il suo cuore che batteva. Quello cancellava il senso di colpa.
«Sono così felice che tu sia vivo.» La voce mi tremò e tradì tutta la mia emozione.
Posò una mano sulla mia guancia. «Te l’ho detto, è merito tuo.»
Rimanemmo fermi in quella posizione per diverso tempo, e la verità era che non mi dispiaceva.
 
Un rumore sinistro rimbombò per il controsoffitto, le pareti tremarono e una pioggia di polvere si riversò sulle nostre teste. Qualcuno sopra di noi gridò in totale agonia. Sbuffai, mi passai una mano tra i capelli e mi misi a fissare un punto imprecisato di fronte a me. Andavamo avanti così da mezz’ora. Non sopportavo più quei suoni, mi toglievano ogni energia, e come a me anche a Kenji. Non parlavamo, non ci guardavamo neanche, ce ne stavamo in silenzio a contemplare l’atrocità di quella guerra. Di che cosa si poteva chiacchierare quando attorno a noi continuavano a soffrire e a perire? Solo ogni tanto, a causa della commozione cerebrale, il mio compagno controllava che fossi ancora vigile con domande di prassi. Non volevo essere lì. Sapevo che non era colpa mia, ma il peso delle persone che avrei potuto salvare e che invece erano morte cominciava a diventare schiacciante. Negli ultimi minuti avevo messo a punto un metodo per scappare mentalmente da quella brutalità. Non mi trovavo più su Onigashima, ero su un’altra isola, un’isola che mi apparteneva. I rumori angoscianti erano spariti, ero circondata dal cinguettio degli uccellini e dallo sciabordio delle onde che si infrangevano sulla spiaggia. Ero seduta sulla bianca sabbia della costa, di fronte a me l’immenso orizzonte azzurro. Le mie caviglie erano lambite dall’acqua cristallina, la temperatura era perfetta come sempre. Il mio corpo era cullato da una leggera brezza. Ero sola, ma ero in pace. In qualunque momento avessi voluto mi sarei potuta alzare e librare in volo sopra il mare, sopra gli alberi, sopra le montagne.
Mi distrassi da quell’idillio perché percepii lo sguardo del mio amico su di me.
«Che c’è? Ti fa male qualcosa? È la gamba?» Mi agitai, cercando di capire quale fosse il problema.
Scosse la testa. «È da un po’ che sei assorta nei tuoi pensieri. Le persone attorno a noi stanno morendo come mosche, eppure tu hai un’aria così serena. Mi chiedo cosa possa renderti tanto serafica.»
Lo guardai. Avrei voluto sorridere, ma non mi sembrava rispettoso, perciò mantenni un’espressione e un tono neutrale. «Stavo pensando al mio posto speciale, mi immaginavo di trovarmi lì, dove non ci sono guerre in corso e nessuno muore.»
«Qualche ora fa mi hai chiesto come facessi a non farmi turbare da ciò che stavo vedendo. Ti ho risposto che è perché ho una persona da proteggere, ed è vero, ma ho resistito anche perché mi sono aggrappato al mio posto speciale.»
Gli posai una mano sulla spalla e gliela strinsi. Era umano anche lui.
«Il mio posto speciale è il salotto della casa dove sono cresciuto,» confessò con un sorriso amaro sulle labbra. «Non so neanche se esista ancora, ma nella mia mente il ricordo di quella stanza è immacolato.»
Avrei voluto chiedergli di parlarmene, ma non ci fu bisogno che dicessi niente. Iniziò da solo a raccontarmi ogni centimetro di quel salotto, le parole gli uscivano dalla bocca come un fiume in piena, come se avesse bisogno di condividere quel ricordo con qualcuno. Con me.
«Era la mia stanza preferita, quella in cui passavo più tempo, perché era la più vicina alla porta di casa e lì aspettavo con ansia che mio padre tornasse dal lavoro e giocasse con me. Le pareti erano gialle. Era un giallo strano, ma accogliente e allegro. Le tende alle finestre erano della stessa tonalità. Non mi piacevano, erano troppo pompose per me. Al centro del salotto c’era un tappeto ovale rosa. Non si intonava bene con i muri, però è la prima cosa che mia madre ha cucito quando era bambina, perciò lo sfoggiavamo con fierezza. Con gli anni si è scolorito, ma è sempre rimasto intatto. Sopra al tappeto c’era un tavolino che io usavo per giocare. A mia madre sembrava spoglio, perciò ci aveva messo un vaso con dei tulipani dello stesso colore del tappeto. Mi rimproverava sempre, perché io mi dimenticavo lì la scacchiera per giorni e così si formava uno spesso strato di polvere. Avevamo due vecchi divani in pelle marrone disposti ad angolo retto, erano scomodi e scricchiolavano ad ogni movimento che facevo.» Fece una pausa per ridacchiare. I suoi occhi erano distanti, non era più accanto a me, era tornato lì. «E infine il pezzo forte: a sinistra, nell’angolo, c’era un pianoforte. No, non un pianoforte. Il pianoforte più bello che abbia mai visto. Era antico, in legno, dello stesso colore dei divani. Mia madre lo suonava quasi ogni sera. Appena finiva di lavorare, per rilassarsi si sedeva sullo sgabello e iniziava a suonare. Aveva le mani piccole, le sue dita delicate producevano magia. La domenica faceva sempre la crostata di mele. Era buonissima. Mentre aspettavo che si cuocesse mi sedevo sul panchetto del pianoforte accanto a lei, la ascoltavo suonare e guardavo fuori dalla finestra, che dava su un grande prato. Quando il sole tramontava i fili d’erba si tingevano di oro e a volte mi immaginavo di potermi sdraiare su quel prato dorato e rimanere lì per sempre. Ed è così che mi voglio ricordare la mia infanzia, con una stanza colorata, la musica nelle orecchie, il profumo di crostata di mele nell’aria, i fiori non ancora appassiti e la vista su un grande prato dorato. È qui che vado con la mente quando ho bisogno di pace.»
Prese un respiro profondo, come se si fosse appena liberato di un peso enorme. Avevo l’impressione di essere la prima a cui confessava una cosa tanto intima, non lo aveva detto nemmeno ad Omen. Seguì un minuto buono di silenzio. Non sapevo bene che dire. Mi limitai ad osservare le sue mani. Erano piccole e graziose. Doveva averle riprese da sua madre. Le era molto affezionato.
«Quel pianoforte poi è sparito, mio padre ha dovuto venderlo a causa dei debiti accumulati per l’alcol,» riprese a parlare, la sua espressione era diventata dura. Mi venne il magone a pensare che il suo posto speciale era costruito su un ricordo che suo padre era riuscito a distruggere completamente. Ma almeno c’era stata luce prima del buio.
Mi trovavo di nuovo senza sapere che dire. Erano bei ricordi macchiati dalla nostalgia e dai demoni di suo padre. Avrei potuto dirgli che mi sarebbe piaciuto conoscere sua madre, ma rischiavo di rattristarlo ancora di più.
«Il mio posto speciale è un’isola,» confessai infine. Mi uscì senza pensare, non avevo intenzione di dirlo, tanto che anche Kenji si girò a guardarmi sorpreso.
«Un’isola?»
Annuii. La mia mente ritornò sull’Isolachenoncè e sorrisi.
«Ti va di parlarmene?» La sua espressione era tornata serena.
Mi bloccai per qualche istante, non sapendo cosa rispondere. Gettai un’occhiata alla sacca della trasfusione, ci sarebbe voluta un’altra mezz’ora. Sospirai. Mi ero ripromessa di raccontargli tutto di me, la mia vera storia, e il mio posto speciale faceva parte di essa. Da qualcosa si doveva pur cominciare, giusto?
E così gli parlai dell’Isolachenoncè. Gli dissi di quanto fosse meravigliosa, e che in realtà ne esistevano diverse. Ce ne era una per ognuno di noi, e la creavamo a nostra immagine e somiglianza, a seconda di come ce la immaginavamo. La mia era silenziosa e deserta, le uniche creature che vi abitavano erano un gruppo di fatine che di tanto in tanto venivano a danzare attorno a me e spruzzavano sul mio corpo la loro polvere magica. E dopo mi libravo in aria e sorvolavo l’isola fino ad arrivare alla Roccia del Teschio. Gli parlai dell’Accampamento degli Indiani, del Covo dei Cannibali, della Laguna delle Sirene e dell’Albero dell’Impiccato. Tutto attorno al mio nascondiglio c’era una fitta vegetazione, e l’isola profumava di rosmarino e salvia. Più sopra, però, tra le nuvole, c’era odore di zucchero filato, che si intensificava ogni volta che volavo accanto a loro. Ogni tanto si udiva il frinire di qualche grillo dispettoso, che cessava non appena mi stufavo di sentirlo. Ciò che non mancava mai era il cinguettio all’alba degli uccellini appollaiati sugli alberi.
Avrei voluto raccontargli di Peter Pan, Campanellino, i Bimbi Sperduti, Capitan Uncino, Spugna, Giglio Tigrato, del coccodrillo e di tutti coloro che in principio abitavano l’isola, ma non era il tempo e il luogo per farlo. Sapevo che se avessi cominciato non mi sarei più fermata, e la priorità era uscire da lì. Potevamo rimandare la nostra chiacchierata a quando le nostre vite non sarebbero state più in pericolo.
Kenji non mi chiese niente. Mi lasciò fare il mio monologo e continuò a fissarmi con aria beata, come se pendesse dalle mie labbra. Era interessato a quello che avevo da dire, e non aveva bisogno di conoscere quali fossero le origini dell’Isolachenoncè. Non voleva sapere se fosse un luogo reale, o come ne fossi a conoscenza. Voleva solo sentirmi parlare, ascoltarmi. Per tutto il tempo, però, mi sentii un po’ a disagio nel raccontarglielo. Ponderai parola per parola, perché non volevo ancora rivelargli troppo per non destabilizzarlo, né sembrare una pazza fanatica, cosa che probabilmente ero. Però ciò che mi faceva sentire più a disagio non era quello che avrebbe potuto pensare Kenji di me, quanto il fatto che rivelargli i dettagli dell’Isola fosse come mettermi a nudo. Perché quello era il mio posto. Parlarne per me era una cosa molto intima, era come consegnare in mano al mio interlocutore un pezzo della mia anima. Era la prima volta che rivelavo i dettagli di quel luogo, la versione dell’Isolachenoncè creata da me, a qualcuno. E mi ero meravigliata del fatto che lo stessi facendo proprio con lui. Non ne capivo la ragione. Forse era perché il mio compagno si era aperto con me e mi aveva rivelato quale fosse il suo segreto. O forse era per la gratitudine che provavo nei suoi confronti per non essersi mai arreso con me. Oppure era perché rischiavamo di morire in una guerra epocale, e se mi fosse successo qualcosa quello sarebbe stato il mio lascito. No, non era solo questo. C’era qualcos’altro, ma non sapevo cosa.
«Ho scelto questo come il mio posto speciale perché mi fa sentire libera. Non solo libera di fare ciò che mi pare, ma anche libera dai miei demoni. Se esiste un Paradiso, spero che l’Isolachenoncè sia il mio.»
Mi ritrovai la mano di Kenji sul ginocchio e tornai alla realtà. Mi resi conto che si era avvicinato a me, mi guardava in un modo diverso dal solito, non gli avevo mai visto quello sguardo.
«So che hai detto che la tua Isolachenoncè è un luogo silenzioso e deserto, ma... c’è qualche speranza che accetti la visita di un amico?»
Sbuffai una risata. «Vedrò che posso fare.»
La sua mano si spostò sulla mia guancia, le iridi di acquamarina continuavano a scrutarmi con un’aura indecifrabile. Si avvicinò ancora, il cuore iniziò a martellarmi nel petto.
«Scusa,» mi sussurrò, poi mi ritrovai le sue labbra morbide pressate sulle mie. Di nuovo. Stavolta però non mi irrigidii. Me lo aspettavo, e mi andava bene così. Accolsi lui e il suo bacio e lo ricambiai. Non pensai a niente. Non mi chiesi perché lo fece, né perché io non lo avessi fermato. Non ragionai sulle conseguenze che quel gesto avrebbe potuto avere. Lo baciai e basta. E, libera dalle paranoie mentali, non potei evitare di considerare che non mi dispiacque. E per un attimo, per un solo attimo, davanti a me apparve l’Isolachenoncè.
Una cosa era certa: avrei lasciato Onigashima – sempre che vi fossi riuscita – con un nuovo legame. Quella notte tra me e Kenji si era stabilita una connessione profonda e indissolubile. Di che tipo, andava chiarito.
 
Approfittai degli ultimi minuti che rimanevano perché il mio amico finisse la trasfusione e mi appartai in un angolo per fare pipì. Erano passate molte ore dall’ultima volta che ero andata in bagno, e tra l’ansia e l’acqua che avevo bevuto per tenermi idratata, era inevitabile che la mia vescica si fosse riempita. Mi presi qualche istante in più per farmi forza e ricordarmi di respirare. Quando tornai da Kenji lo trovai intento a scribacchiare qualcosa su un foglietto di carta. Non appena si accorse della mia presenza si affrettò a rimetterlo in tasca.
«Che stai facendo?» gli chiesi, sospettosa. Il solo fatto che si fosse portato carta e penna in una guerra era strano.
«No, niente!» Si grattò la nuca e fece un finto sorriso innocente.
«Farò finta di crederci...» Decisi di lasciar perdere. Il mio unico pensiero in quel momento era uscire dal castello. Se fosse stato qualcosa di importante me l’avrebbe detto.
Mi disinfettai le mani, sfilai l’ago dal braccio del mio compagno e buttai via la sacca – ormai vuota – di sangue. Infilare e sfilare aghi era sempre la parte peggiore per me, ma non avevo altra scelta. Come ci aveva detto Law, era arrivata l’ora di metterci in salvo e lasciare che i pezzi grossi si scatenassero. Rufy non era ancora tornato a combattere con Kaido. Non era nemmeno su Onigashima, lo percepivo. Mi chiesi dove fosse e se stesse bene. Sì, era vivo, però in che condizioni era? Forse il Capitano lo sapeva, nella confusione mi ero dimenticata di chiederglielo. Non saperlo mi angosciava, non solo perché era un mio amico, ma anche perché il mio destino dipendeva da lui. Chiunque stesse trattenendo l’Imperatore al momento, non avrebbe retto a lungo. Anzi, era un miracolo che fosse riuscito a resistere così tanto. Era un guerriero valoroso, e gli ero infinitamente grata.
Tesi una mano a Kenji e lo aiutai a rialzarsi. Anche se la salsa di pomodoro era una diventata una macchia asciutta sulla sua divisa era inquietante vederla coperta di rosso. Nessuno dei due era in condizioni ottimali, supponevo che dovessimo contare sul principio del “reggimi ché ti reggo.”
«Ce la fai a camminare?» Pregai che mi rispondesse di sì. Non ce l’avrei fatta a trascinarlo.
Ingerì un antidolorifico, ne offrì uno anche a me e annuì. Presi un respiro profondo prima di tornare nella bolgia infernale del terzo piano. Quello che non avevo previsto era che sarebbe stata letteralmente infernale. Il castello stava andando a fuoco. L’incendio si stava propagando velocemente. Dal controsoffitto avevo sentito qualcuno gridare qualcosa in proposito, ma non pensavo che fosse così grave. Non stava combattendo più quasi nessuno, la maggior parte delle persone stava correndo verso le scale che portavano al secondo piano. Qualcuno stava tentando di spegnere le fiamme con degli idranti. Era spaventoso. Stavano inghiottendo tutto e, se non ci fossimo dati una mossa, avrebbero inghiottito anche noi. Come era potuto accadere? Chi avrebbe mai potuto lasciare che bruciassero tutti? Supponevo che non avesse importanza, adesso dovevamo pensare solo a salvarci.
«Dobbiamo affrettarci.» Mi voltai verso il mio compagno, che fece un cenno d’assenso e prese un altro antidolorifico.
Intrecciai le dita alle sue per fare in modo che non ci perdessimo di vista. Nessuno dei due poteva sopravvivere da solo. Si vedeva che Kenji stava soffrendo, zoppicava; ma per il mio bene stava stringendo i denti. Eravamo quasi arrivati alle scale quando il castello – per l’ennesima volta – prese a tremare. Lo avevo messo in conto, ormai mi aspettavo di tutto. Tranne quello che successe dopo. Ci fu un frastuono incredibile. Il pavimento si spaccò, le tavole di legno volarono in ogni direzione come fossero proiettili, tanto che io e il rosso dovemmo proteggerci la testa con le braccia per non farci colpire. Anche qualche malcapitato venne scaraventato via da quella calamità.
«Porca puttana!» esclamò Kenji, e se perfino lui imprecava doveva essere grave. Io avevo ancora le mani sul capo, da brava codarda non avevo il coraggio di guardare. Anzi, stavo già pensando a una via di fuga.
«Fermati! C’è un altro muro!» gridò una voce familiare. A quel punto non potei non voltarmi in direzione di essa.
«Oh, porca puttana,» ripetei ad occhi spalancati. A una ventina di metri da noi c’era Rufy che cavalcava un enorme drago rosa. Un drago che si stava per schiantare contro un muro. Anche lui aveva un’aria familiare. Possibile che fosse Momonosuke? No, non diventava così grande quando si trasformava.
«Momo, apri gli occhi!» lo rimproverò Cappello di Paglia. E invece era proprio il futuro Shogun di Wa. Assurdo.
Mi misi a ridere, un po’ per la stanchezza, un po’ per il sollievo, sotto lo sguardo perplesso del mio compagno. Non era una minaccia. Non del tutto almeno, visto che il drago stava distruggendo l’intero castello e rischiava di spazzare via anche noi. Ma il peggio era passato, la coppia si stava già dirigendo verso il quarto piano e io e Kenji eravamo salvi.
«Stai tranquillo.» Gli diedi una pacca sulla spalla per rassicurarlo, poi ghignai fiera, fissando il cratere che Momonosuke aveva lasciato nella parete. «Questo è il segnale che Rufy sta bene e che sta andando a prendere a calci in culo Kaido. E stavolta vincerà. E la guerra finirà.»
«Ma... ma... cos’era quel...»
«Drago? Era il futuro Shogun di Wa.»
Alla fine il poveretto rinunciò a tentare di capire, mi riprese per mano e si diresse a passo svelto verso le scale. Nemmeno a me era chiaro come quella mezza calzetta avesse fatto a diventare enorme in una notte, ma non mi interessava saperlo, volevo solo andarmene da lì.
 
«A volte vorrei che tu non fossi una persona così buona d’animo,» dissi a Kenji mentre gli passavo un rotolo di garza.
Se io fremevo per uscire dal castello, lui insisteva che dovevamo aiutare i feriti. In quanto medico non avevo potuto obiettare, giacché mi sentivo in colpa per non aver compiuto il mio dovere nelle ore precedenti.
Il Visone che stavamo curando urlò e si contorse.
«Ecco, ho quasi fatto,» lo tranquillizzò Kenji.
Sospirai. La cauterizzazione delle ferite senza anestesia era terribile, soprattutto se la ferita in questione era il moncone di un polpaccio, ma il tempo e i mezzi che avevamo erano scarsi, perciò avevo attivato l’Heat Dial sulle lame dell’ascia e l’avevo praticata. Solo allora l’uomo-tasso si era reso conto che la sua gamba non c’era più e che non l’avrebbe riavuta. Si era immobilizzato ed era rimasto a fissare l’arto con espressione vuota, e a quel punto era dovuto intervenire Kenji, perché io avevo smesso di funzionare. Continuavo a pensare che la guerra aveva portato via qualcosa a tutti. In una sola notte si era presa così tanto...
«Burrow!»
Mi voltai verso la voce. Era un Visone – forse di tipo Antilope? – che stava fissando il Tasso.
«Oh, amico mio...» Si avvicinò a lui e lo scrutò, sussultando quando notò il moncherino. Poi si rivolse a noi. «Grazie per esservi presi cura di lui. Come sta?»
«Il fuoco è arrivato al secondo piano!» gridò qualcuno in lontananza.
Poco dopo un’orda di persone si riversò nel corridoio, tutti correvano verso le scale. L’incendio ci aveva raggiunti.
Non facemmo in tempo a rispondere al Visone – per fortuna, non avrei saputo che dirgli – perché si caricò l’amico sulla spalla e si mise a correre.
«Dobbiamo andare,» esortai il mio compagno, riprendendomi l’ascia e iniziando a rimettere le garze nello zaino.
«Sì,» concordò, rimettendosi in piedi. Mando giù un altro antidolorifico. Lo conoscevo bene, e sapevo che stava cercando di farsi coraggio e ignorare il dolore. Lo presi per mano e ci mettemmo a correre.
Arrivammo in fondo al corridoio stanchi morti, per ritrovarci di fronte tre sottoposti di Kaido che sembravano avere l’intenzione di battersi con noi.
Deglutii e guardai Kenji. «Tu sei in grado di combattere?»
«No, tu?»
«Neanche io. Cosa facciamo?» Dietro di noi il fuoco era così vicino che ne percepivo il calore sulla schiena.
«Sentite,» iniziò il rosso, con una sicurezza nella voce che non pensavo avesse. «La situazione è questa: siamo in trappola. Tutti noi. Se restiamo qui, moriremo.»
Uno dei pirati delle Cento Bestie sbuffò una risata. «Voi morirete.»
«No, se ci mettiamo a combattere moriremo tutti,» intervenni io.
«Negli scacchi questa sarebbe una partita patta per stallo. Non avete modo di farci Scacco Matto.»
Alzai gli occhi al cielo senza farmi vedere. Già mi immaginavo lui e Marco come migliori amici. Avrebbero potuto passare intere giornate a giocare a scacchi e io li avrei evitati come i broccoli.
«Il succo è che o vinciamo tutti o perdiamo tutti. Se combattessimo noi moriremmo per primi, ma nemmeno voi vi salvereste,» rincarai la dose, voltandomi verso l’incendio, ormai vicinissimo, e sperando che la vista delle fiamme divampanti potesse convincerli.
Alla fine ci diedero ragione, cedettero e ci mettemmo a correre tutti verso l’ingresso del castello. Non c’erano più fazioni, c’era solo un’accozzaglia di persone che tentava disperatamente di salvarsi da una fine infausta. Il problema era che l’uscita era lontana e c’erano troppi ostacoli da superare. Big Mom che stava combattendo con Law e Kidd sul nostro stesso piano, per esempio: la sua Haki mandava in tilt il mio già debole corpo e quello di tutti gli altri. Il panico che dilagava e cominciava a farsi strada anche in me, impedendomi di ragionare in maniera lucida. Il mare di fuoco che ci circondava, che avanzava imperterrito e ci impediva di percorrere la strada che avremmo voluto percorrere. L’unica fortuna era che i Pirati delle Cento Bestie conoscevano tutte le strade alternative, per cui virarono verso l’emisfero destro del cranio e noi li seguimmo.
E poi...
«Cosa diavolo è quello!? Uno Youkai!?» urlò uno dei sottoposti di Kaido.
Frenai con le suole delle scarpe e ripresi Kenji per un braccio. Davanti a noi si ergeva qualcosa di indescrivibile. Non aveva forma, né colore, né anima. Aveva solo due grandi occhi – ammesso che fossero tali – inespressivi che spuntavano tra le fiamme che lo contornavano. Era enorme e terrificante. Uno dei Pirati delle Cento Bestie fu inghiottito da quell’ammasso infuocato e la sua carne prese a bruciare.
«Non toccatelo, o prenderete fuoco!» ci avvisò qualcuno.
Indietreggiai di qualche passo. Attorno a noi c’erano le fiamme, di fronte a noi quel mostro, quindi altre fiamme. Non c’era via di scampo. Proprio mentre iniziavo ad andare nel panico la creatura attraversò un muro e scomparve. Ignorai il fatto che fosse in grado di attraversare i muri e tirai un sospiro di sollievo. Non ce l’aveva con noi. Era come se avesse un obiettivo preciso, che – grazie al cielo – non era su quel piano. Ma era davvero una fortuna? Supponevo che non servisse a niente preoccuparsene, non avevo alcuna speranza contro quel mostro. L’unica soluzione era allontanarsi il più possibile dal castello e lasciare che qualcuno in grado di farlo se ne occupasse. Però non si poteva ignorare la scia di distruzione che aveva lasciato.
L’aria si riempì dell’odore di carne bruciata. Il pirata che prima era stato inghiottito dal mostro stava ancora andando a fuoco, il suo corpo si contorceva e le sue grida di dolore erano atroci. Qualcuno lo spense con un idrante. Accanto a me, Kenji sussultò: era rimasto ben poco di quell’uomo. Era praticamente carbonizzato.
«Dobbiamo aiutarlo!» Il rosso si inginocchiò e aprì lo zaino.
Scossi la testa. Non potevamo farlo, per lui non c’era niente da fare. «Kenji...»
«Dobbiamo aiutarlo!» ripeté, urlando.
Mi guardai intorno. Ogni secondo che passava l’aria diventava meno respirabile. I miei polmoni iniziavano a gridare pietà. «Kenji, non possiamo aiutare tutti. Dobbiamo pensare a salvare noi stessi e non a chi non ha speranza.»
Ci guardammo. Per un momento, il mondo si fermò. Io capii lui e lui capì me. Fece per alzarsi quando l’uomo gli arpionò un polso, pregandolo di aiutarlo con gli occhi, l’unico organo che non era stato consumata dalle fiamme. Il mio cuore si spezzò. La sola cosa che mi trattenne dallo scoppiare a piangere fu che sapevo che sarebbe morto a breve. Non avevo idea se il pirata ne fosse consapevole, forse non voleva morire da solo, dato che gli altri suoi compagni se l’erano svignata. Era terribile, ma non potevamo fermarci e aspettare che spirasse.
«Kenji, ti prego...» lo esortai con gli occhi lucidi.
Kenji sospirò, distolse lo sguardo dall’uomo e si rimise in piedi.
Mi raggiunse e le nostre iridi si incontrarono di nuovo. Il suo sguardo era diverso, non più limpido. Un’altra crepa si formò nel mio cuore. Avevo giurato che avrei protetto quello sguardo, quella luce che aveva dentro, e non ci ero riuscita. Al Visone Tasso quella guerra aveva portato via una gamba. A tanti altri la vita. Ad alcuni la propria famiglia. A me aveva portato via la speranza. A Kenji l’innocenza. Quanto ancora avremmo dovuto soffrire?
Mentre scendevamo le scale che ci avrebbero portati al primo piano, arrivò la risposta alla mia domanda: non molto distante da noi, ci fu un’enorme esplosione.
Le uniche cose che percepii furono un rumore assordante e una forte onda d’urto che fece volare il mio corpo in aria e lo scaraventò lontano. Poi più niente.

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Capitolo 20
*** Esplosione ***


AVVERTIMENTO: Questo capitolo contiene scene crude e tematiche delicate che potrebbero urtare la sensibilità del lettore. Vi invito, pertanto, a procedere con cautela e leggere a vostra discrezione.

Mi sembrava di nuotare nell’oscurità. Nuotavo e nuotavo, per cercare di emergere da quel buio infinito, ma non riuscivo a trovare nemmeno una piccola luce che potesse guidarmi verso una via d’uscita. Annaspavo. I miei polmoni bramavano l’aria più di qualsiasi altra cosa. Era come sguazzare nel petrolio, potevo sentire la sua consistenza densa andare a depositarsi nella mia cavità toracica e togliermi il respiro. Una pozza infinita, nera come la pece e fredda come il ghiaccio. Se quello era il Paradiso, non era molto bello. Poi, all’improvviso, il mio corpo venne risucchiato in un vortice e io fui strappata da quella gelida oscurità. Fu come il giorno in cui ero piombata sulla Thousand Sunny.
Che mi era successo? Che ne era stato di me? Ero morta? La Stella mi aveva riportata a casa? Ero bloccata in un terzo universo buio, vuoto e inospitale? Il panico si impossessò del mio corpo.
Aprii gli occhi di scatto, rantolando ed ansimando. La prima cosa che vidi fu il cielo. O meglio, la fitta coltre di nuvole che lo ricopriva, dalla quale si propagavano fulmini neri e minacciosi. La luna era stata coperta e non si riusciva più a vedere niente. Non sapevo se fosse un bene o un male. Decisi che fosse un bene. Si trattava sicuramente di Rufy e Kaido, riuscivo a percepire le loro Ambizioni da lì, erano tanto potenti da farmi venire i brividi. Quello era lo scontro finale, e qualsiasi cosa stesse succedendo doveva essere spaventosa, perciò meno vedevo meglio era. Ero sicura che Cappello di Paglia se la sarebbe cavata, in qualche modo. Io dovevo pensare a me stessa, non potevo concentrarmi su di loro. Sapevo che oltre le nuvole il cielo si era rischiarato, segno che l’alba stava per arrivare. Era quasi finita. Dovevo essere rimasta priva di sensi per parecchio tempo. Ancora una volta, non sapevo se fosse un male o un bene. Un fastidioso ronzio rimbombava nelle mie orecchie, destabilizzandomi e rendendo ogni suono ovattato. La superficie sotto di me era dura e fredda. Non era legno, era... roccia? Mi guardai intorno e mi resi conto che ero stata sbalzata fuori dal teschio gigante del mostro, che ora aveva un cratere sulla nuca. Avevo attraversato strati di legno, cemento e ossa. Cosa poteva aver scatenato una deflagrazione di quella portata? E, soprattutto, come diavolo avevo fatto a sopravvivere a un’esplosione tanto potente?
Cercai di orientarmi. Ero certa di essere dalla parte dell’emisfero destro del teschio del mostro. Davanti ai miei occhi si ergeva il corno della creatura, io mi trovavo più indietro, il che significava che mi ero allontanata ancora di più dal mio obiettivo. Fissai la sporgenza del cranio perfettamente mutilata. Solo due persone sarebbero state in grado di farlo: Law o Zoro. Mi chiesi se stessero bene e dove si trovassero. E mi chiesi come avrei fatto a raggiungerli all’ingresso di Onigashima ora che la strada “principale” non era più un’opzione percorribile.
Gli ultimi fiocchi di cenere nell’aria si depositavano in terra, a poca distanza da me. Se prima, immersa nel buio, non riuscivo a sentire o percepire niente, adesso rimpiangevo quello stato catatonico e intorpidito in cui ero precipitata. Ogni singolo muscolo, osso e tessuto del mio corpo mi faceva male. Feci un rapido controllo danni: il trauma cranico mi rendeva intontita, la frattura alle costole era peggiorata e lo stomaco sembrava uscito da un incontro di boxe, ma a parte questo non mancava niente e tutto era al proprio posto, tranne la spalla destra, che stava andando a fuoco. Mi voltai verso di essa e mi lasciai scappare un’imprecazione. La testa dell’omero era uscita dalla cavità della scapola. Sembrava una lussazione anteriore. Non prometteva bene, la slogatura andava ridotta. Non potevo farlo da sola.
Mi feci forza e cercai di alzarmi. Fallii miseramente. Mi girava la testa e non sapevo come posizionarmi per evitare di morire dal dolore. La priorità era salvaguardare la spalla, per tutto il resto non avrei potuto fare niente in ogni caso. Mi voltai di nuovo alla mia destra e stavolta notai che non ero sola. A qualche metro da me c’era una ragazza stesa in terra. Aveva un grosso pezzo di legno conficcato nella giugulare, sotto di lei c’era un lago di sangue, gli occhi vitrei e spalancati erano puntati nella mia direzione. Trasalii. Non mi impressionava la vista del cadavere, quanto il fatto che avrei potuto essere io. Quella ragazza aveva la mia stessa corporatura e probabilmente età, un taglio di capelli simile ed era atterrata a pochi passi da me. Eravamo rimaste coinvolte nell’esplosione insieme, eppure lei era morta e io me l’ero cavata con qualche danno collaterale. Perché? Smisi di guardarla. Potevo essere io. Non volevo fare la sua stessa fine, e rimanere lì mi rendeva un bersaglio facile, per cui approfittai della scarica di adrenalina per rimettermi in piedi, trattenendo gemiti di dolore e imprecazioni. In posizione eretta la situazione era perfino peggiore, ma almeno potevo regolarmi e posizionare il corpo in modo da alleviare il dolore. Gli antidolorifici erano provvidenziali. Feci per togliermi lo zaino dalla spalla e mi accorsi che non ce l’avevo. Un’altra cosa che era andata persa nell’esplosione. Sospirai rassegnata. In questo modo non avrei potuto prestare i soccorsi adeguati a chi ne aveva bisogno. Di nuovo. Se non altro avevo un flacone di pasticche in tasca. Ne mandai giù tre e sperai che facessero effetto in fretta. Era una fortuna che avessi deciso di intascarmi gli antidolorifici, almeno così potevo avere un po’ di sollievo. Le tasche di quella divisa erano portentose, trattenevano di tutto. Law era sempre un passo avanti.
Il mio naso registrò l’odore di carne abbrustolita. Era un odore piacevole per le mie narici, mi ricordava i barbecue estivi con gli amici, ma sapevo che si trattava di carne umana. Quello era in realtà l’odore della morte. Una morte a cui non avevo intenzione di darla vinta, non ora che era quasi l’alba, non dopo tutto quello che avevo vissuto.
«Aiuto!» chiamò qualcuno. Navigai quel mare di detriti con gli occhi alla ricerca della voce. Era uno spettacolo terrificante. C’erano pezzi di legno, di cemento, di vetro sparsi al suolo, incastrati tra loro, distrutti. E tra la polvere e la confusione c’erano anche alcuni corpi umani, non avrei saputo dire quanti ancora funzionanti. Muoversi in quelle condizioni sarebbe stato come tentare di attraversare un percorso ad ostacoli.
«Aiuto!» gridò di nuovo la voce, e quando la individuai capii perché sentivo odore di carne bruciata. L’uomo aveva diverse ustioni sul corpo. Braccia, gambe, addome e viso. Tentava di alzarsi, ma non ce la faceva. Probabilmente aveva i nervi danneggiati. «Non riesco a muovermi e non vedo più niente! Aiutatemi...»
Mi avvicinai a lui, lentamente e con cautela, facendo smorfie di dolore ad ogni movimento brusco che facevo. A giudicare dagli abiti era un sottoposto di Kaido. Ma nemico o amico, se aveva bisogno del mio aiuto non potevo negarglielo.
«Ciao,» esordii titubante.
L’uomo si girò in direzione della mia voce. «Chi sei?»
Fu solo allora che vidi meglio le ustioni che aveva sul viso. Mi portai la mano sana sulla bocca. Non vedeva niente perché non poteva vedere niente. Non aveva più gli occhi. Al loro posto c’era un misto di carne maciullata e sangue. A quel punto mi piegai in avanti e vomitai. Non sapevo se per il disgusto, per le mie lesioni o per la situazione, ma espulsi fino all’ultimo succo gastrico. Mi parve di sentire lo stomaco lacerarsi e aprirsi in due. Barcollai e la vista si fece sfocata per qualche secondo. Premetti una mano sull’addome per assicurarmi che i miei organi non uscissero dal corpo.
«Stai bene? Sei ancora lì?» mi chiese il pirata.
«Sì, sono ancora qui,» risposi, ansimando. Mi raddrizzai e pulii la bocca con la manica della divisa. «Mi chiamo Camilla, comunque.»
«Io sono Zelf. Allora, puoi aiutarmi? Perché non riesco a vedere niente?»
Deglutii e presi un respiro profondo. Non era facile dare una notizia del genere. «Perché i tuoi occhi non ci sono più.»
Zelf si agitò. «Che cosa vuol dire che non ci sono più!?»
«Che...» Mi schiarii la voce, nel tentativo di non farla tremare. «Che sono stati letteralmente bruciati.»
Se avesse ancora avuto dei condotti lacrimali ero certa che avrebbe pianto. Non potevo biasimarlo.
«Non è possibile...» sussurrò incredulo. Si portò le mani al viso – l’unico movimento che riusciva a fare – e iniziò a tastarlo con i polpastrelli. Quando realizzò che gli avevo detto la verità, urlò con tutte le forze che aveva in corpo. Fu un grido acuto, che non ci si aspetterebbe da un pirata appartenente alla ciurma di un Imperatore. Ma in quel momento non era un sottoposto della Creatura più temuta di tutti i Mari, era un semplice essere umano che aveva perso qualcosa di incommensurabile. E quella era pura disperazione.
Presi un respiro profondo e cercai di non farmi coinvolgere dal suo dolore. Dovevo rimanere lucida.
«Io sono un medico. Posso aiutarti.» Non sapevo come, visto che non avevo niente con me se non gli antidolorifici, ma in qualche modo avrei fatto.
«No! No, non mi toccare. Lasciami qui, lasciami morire.» La sua voce era piena di tormento.
«Ora lo pensi e lo dici perché sei sotto shock. Con il tempo andrà meglio. Imparerai a...»
«Smettila!» mi interruppe, rabbioso. «Tu non mi conosci. Non sai niente di me, non tentare di convincermi. Fare il pirata è divertente, ma sono anche un pittore. Dipingo quadri per vivere. Non per guadagnarmi da vivere, per quello c’è la pirateria, per vivere
Mi si spezzò il cuore per l’ennesima volta. Conoscevo quel dolore. Il mio sguardo scivolò sul mio polso sinistro. Quanto avevo sofferto quando ero convinta che non sarei più tornata ad essere un chirurgo. Anche Zelf, come me, si era trovato a scontrarsi con le due realtà della sua vita: la pirateria e l’arte. Una aveva preso il sopravvento sull’altra.
«Io...»
«Per favore. Non voglio vivere una vita senza colori. Non voglio vivere se non posso essere un pittore.» Appoggiò la nuca al suolo e smise di muoversi, come se stesse aspettando che la morte venisse a prenderlo.
Boccheggiai. Non sapevo che dire. Non sapevo che fare.
«Non è la fine. Puoi ancora fare il pirata. E ci sono tante altre cose che...»
«Stronzate.» Il suo tono era duro e affilato.
Presi un respiro profondo. Zelf aveva deciso che non voleva più combattere. Non avevo bisogno di attivare l’Haki per sapere che non c’era modo di fargli cambiare idea.
«Permettimi almeno di lenire la tua sofferenza. Ho degli antidolorifici nella tasca.» Feci un passo in avanti.
«Non ti avvicinare.» Si portò una mano alla cintura e ne tirò fuori una pistola. «Se tenti di fermarmi ti sparo.»
Alzai la mano sana in segno di resa anche se non poteva vedermi, non stava nemmeno mirando nella direzione giusta. Mi dispiaceva per lui. Lo guardai puntarsi la pistola alla tempia senza muovermi. Avrei voluto fare qualcosa. Avrei dovuto fare qualcosa. Nelle condizioni in cui era sarebbe stato facile togliergli l’arma dalle mani. Ma arrivati a quel punto, che senso aveva tentare di dissuaderlo o fermarlo? Era una decisione impulsiva, certo, però era la sua decisione. Il mio dovere era curare le persone, non obbligarle a vivere una vita che non volevano vivere. Se quello era ciò che desiderava, non lo avrei ostacolato. A volte scegliere di essere compassionevoli era la cosa migliore che si potesse fare.
«Addio, Zelf.» Gli diedi le spalle per non vedere la scena. Lo sentii prendere un ultimo respiro e poi l’inconfondibile rumore di un colpo che esplodeva mi fece sussultare. Era un bene che Kenji non fosse lì a guardare, non avrebbe mai permesso a Zelf di compiere un tale gesto e non mi avrebbe mai perdonato per averglielo lasciato fare. E all’improvviso, come se un fulmine mi avesse attraversato il cervello, mi ricordai del mio compagno.
«Kenji!» esclamai, iniziando a cercarlo nei dintorni.
 
Non lo trovavo. Il suo corpo non c’era. Non poteva essersi volatilizzato. O forse sì? Forse la bomba lo aveva polverizzato. No, non era possibile: era vicino a me quando era scoppiata, era improbabile che io ne fossi uscita intera e lui no. E se invece l’onda d’urto lo avesse buttato giù da Onigashima? Era un’ipotesi stupida perfino per una persona che aveva un trauma cranico. Maledissi me stessa per non essermi ricordata prima di Kenji, per non essere lucida, per non avere un corpo più resistente al dolore e alla stanchezza. I miei movimenti erano lenti e maldestri, mi reggevo a malapena in piedi e avevo la vista sfocata. Come potevo ritrovare il mio amico in queste condizioni? Per non parlare della feroce battaglia contornata dalle fiamme che si stava consumando nel castello. Era un vero e proprio inferno.
Mi sembrò di vedere una manica bianca con la coda dell’occhio. Mi voltai.
«Kenji...» Non sapevo dove trovai la forza, ma mi misi a correre verso di lui e mi buttai in ginocchio. Era sepolto sotto una montagna di detriti, spuntava solo il braccio sinistro, ma era lui.
Mi feci forza, ignorai il dolore e cominciai a togliere i pezzi di legno e cemento da sopra di lui. Mi sembrava che non finissero mai, e quando terminai la spalla destra formicolava, le dita stavano diventando insensibili. Ansimavo e mi sentivo debole, non svenni solo perché il panico dilagò in me. Kenji non dava cenni di vita. Era incosciente e non aveva battito.
«No. Kenji, no...» Non poteva finire così. Non dopo tutto quello che avevamo passato. Non dopo tutte le promesse e le confidenze e quello che avevamo condiviso. Non potevo permetterlo. Però non avevo idea di cosa stesse succedendo. Scandagliai con gli occhi ogni centimetro del suo corpo in cerca di un indizio, di un appiglio, di un problema da risolvere. Ma non c’era. La mia mente si stava annebbiando sempre di più, e il panico non faceva che peggiorare la mia confusione, tramutatasi in incapacità di agire. Più passavano i secondi più la speranza di rivederlo cosciente affievoliva. Non ero in grado di aiutarlo. Se solo ci fosse stato il Capitano con noi... Lui era un medico migliore di me, avrebbe saputo come agire.
C’era soltanto una cosa logica da fare. Mi misi a cavalcioni sul mio compagno. L’adrenalina guidava i miei movimenti, non sentivo più dolore. Congiunsi le mani e gliele premetti sul torace con tutta la forza che avevo. Continuai a praticargli la rianimazione cardiaca con movimenti ritmici e quando fu il momento gli sollevai il mento, gli tappai il naso e gli feci la respirazione bocca a bocca. Gli controllai di nuovo il battito: niente. Ripetei tutto finché non ebbi più energie.
«Per favore, Kenji...» sussurrai disperata. Mi chinai in avanti e appoggiai la fronte sulla sua. «Ho bisogno che tu stia bene. Ho bisogno di te.»
Qualcosa si posò sulla mia mano, facendomi perdere vari anni di vita. Mi tirai su alla svelta e realizzai che erano le dita del mio compagno. Alzai lo sguardo sul suo viso. Aveva gli occhi aperti e mi stava sorridendo. Si era ripreso.
«Oh, Kenji!» Sospirai sollevata. La tensione svanì e il mio corpo divenne molle.
«Ciao,» mi salutò, quasi con aria sognante, come se non fosse appena tornato dal mondo dei morti ma si fosse svegliato accanto alla sua fidanzata su un morbido letto con lenzuola di seta.
Tornai seria e gli feci cenno di non muoversi. Prima dovevo fargli un check up generale. Le pupille erano reattive, per cui si potevano escludere danni cerebrali. Il respiro era un po’ corto e il battito era debole.
«Come ti senti? Ti fa male qualcosa?»
«Mi fa male la schiena. Devo avere delle vertebre rotte. Almeno tre.»
«Che tipo di vertebre?»
«Toraciche, direi.»
Annuii. Finché erano quelle andava – relativamente – bene. Gli tastai il collo per essere sicura che non avesse una lesione cervicale. Senza raggi X era difficile capirlo, ma Law mi aveva insegnato un trucchetto. Sembrava a posto.
«Riesci a sentire braccia e gambe?»
«Sì, e credo che la ferita sulla coscia si sia riaperta.»
Nella confusione non me ne ero resa conto, come non mi ero resa conto della posizione equivoca in cui mi trovavo. A giudicare dal rossore sulle sue guance lui invece se ne era accorto, ed era imbarazzato. Mi schiarii la voce e mi scostai.
Gli controllai la gamba. Aveva ragione, parte della ferita si era riaperta. Non sanguinava molto, ma sanguinava, e l’emorragia andava fermata. Nemmeno lui aveva più lo zaino con sé. Per fortuna Zelf poteva ancora rendersi utile con le sue cinghie di cuoio.
«Aspettami qui, torno subito.»
Mi alzai e andai dal sottoposto di Kaido. Quella che mi si presentò davanti non era un scena che avrei voluto vedere, per questo mi ero girata quando si era sparato, ma stavolta non avevo scelta. Dovevo ignorare la materia cerebrale e il sangue del pittore sparsi per le rocce circostanti e fare il mio dovere. Era crudele che fosse quella l’ultima tela che aveva dipinto, tragico. Qualcosa mi diceva che non sarei mai riuscita a scacciare dalla mente i traumi e i fantasmi di quella guerra. Cercai di non pensarci, gli tagliai le bretelle con il coltello e tornai dal mio amico, che nel frattempo si era tirato su. Si reggeva il torace con una mano e si guardava intorno in cerca di qualcosa.
«Hai visto il mio cappello?»
«Il tuo cappello? Sì, certo, è la prima cosa a cui ho pensato quando mi sono svegliata dopo essere saltata in aria,» affermai con sarcasmo. Forse troppo, perché Kenji si grattò la nuca con imbarazzo. Non volevo metterlo in difficoltà, solo che non ero tranquilla. Ed ero stanca. E provavo dolore.
«Devo dire che queste bretelle mi sono mancate,» disse, probabilmente per smorzare la tensione. Poi sbuffò una risata.
«Ti ci vedo a indossarle,» scherzai mentre tentavo di annodargliele attorno alla coscia. Mi aiutò, non era facile con una mano sola, e per di più la sinistra. «Quando saremo al sicuro, tutti si saranno ripresi e potremo finalmente festeggiare in grande stile, promettimi che te le metterai.»
Kenji rise, tuttavia la sua risata fu smorzata da un gemito di dolore.
«È il torace, vero? Fammi controllare.»
Fece un cenno d’assenso e io gli tirai giù la cerniera della divisa. Non lo avevo mai visto “senza veli”. Non aveva i muscoli scolpiti nell’acciaio come Rufy, o Law, o Sabo, ma si manteneva bene. Ispezionai il tronco con cautela: aveva un grande livido sul torace, proprio sullo sterno. Lo sfiorai con le dita e sospirai. Non potevo fare niente senza kit medico. Avrebbe dovuto sopportare il dolore. C’era da augurarsi che fosse solo una contusione.
«È solo un livido,» mi rassicurò.
«Sei sicuro di stare bene?» gli chiesi, una punta di preoccupazione ancora nascosta nella voce.
Mi accarezzò una guancia e mi sorrise. Lo presi per un sì.
«Pensavo di averti perso.» Sospirai di nuovo, la mia espressione si fece cupa. «Se fossi morto non me lo sarei mai perdonato.»
«Non sarebbe stata colpa tua. C’è stata un’esplosione enorme, è un miracolo che riusciamo ancora a muoverci. E senza equipaggiamento medico si può fare poco.»
Aveva ragione, ma questo non mi faceva sentire meglio, né avrebbe cancellato i miei sensi di colpa. Kenji capì come mi sentivo, perché mi abbracciò. Percepire il suo calore corporeo mi tranquillizzò.
«Sono qui e sono vivo. Grazie a te.» Mi strinse a sé ancora di più e io mi lasciai inebriare le narici dal suo profumo di lavanda. Era un odore che mi piaceva e che volevo continuare a sentire ancora per molto tempo.
Quel momento speciale fu rovinato da un mio lamento di dolore. Il rosso si staccò da me e mi guardò con apprensione.
«La spalla destra...»
La osservò attentamente. «Sì, è lussata. La slogatura va ridotta.»
Annuii, consapevole di quello che significava. Altra sofferenza.
«Farà male,» mi avvertì il mio compagno.
Annuii di nuovo. «Fallo.»
Si guardò intorno, sospettoso. «Potrebbero esserci dei nemici nelle vicinanze, per cui non puoi...»
«Gridare. Sì, lo so,» lo interruppi sospirando. Ero rassegnata al mio destino infausto. Mi misi seduta e lui si inginocchiò accanto a me. «Fallo e basta.»
«D’accordo.» Mise una mano sulla mia spalla e con l’altra mi prese il polso. «Conterò fino a tre. Uno... due... tre.»
Fu molto, molto difficile non gridare. Ogni fibra del mio corpo si ribellò a quell’intrusione violenta. Fu solo qualche istante, ma il dolore fu acuto. Per non parlare del rumore tremendo che fecero le ossa mentre Kenji le rimetteva a posto.
Quando ebbe finito, il mio corpo tremava. Mi sfuggì quello che successe dopo. Non persi contatto con la realtà soltanto perché mi ritrovai due mani premute sulle guance.
«Cami?» Il rosso mi stava pregando con lo sguardo di dargli qualche segno di vita.
Annuii. «Sto bene.»
«No, non è vero. Dobbiamo portarti via di qui, hai bisogno di cure.» Aveva un’espressione così angosciata che quasi mi sentii in colpa. Si alzò e, con mia grande sorpresa, si strappò una manica della divisa. Mi tirò su per un gomito – quello sano – e sistemò la stoffa in modo che facesse da supporto per la mia spalla, legandomela stretta al collo. Gli rivolsi uno sguardo grato, poi gli passai il flacone degli antidolorifici. Io non ero messa bene, ma lui si reggeva a malapena in piedi. Aveva le gambe molli e non riusciva a trovare una posizione comoda tra il dolore alla schiena e quello al torace. Prese un paio di pasticche e me lo restituì. Ne presi un’altra anche io. Le costole mi stavano uccidendo.
Un rumore forte seguito da diversi tremori mi distrasse e mi fece osservare il cielo. Sembrava essersi rischiarato ancora. Non sapevo per quanto tempo fossi stata incosciente e non sapevo neanche a che punto fossero i vari scontri. L’alba era vicina, per cui supposi che fossero quasi tutti terminati. Non avere un riferimento non aiutava. In ogni caso, meno rimanevamo lì e meglio era.
«Credo che dovremmo dirigerci all’entrata di Onigashima come ha detto il Capitano,» dissi, guardandomi intorno per fare un calcolo approssimativo del tempo che ci avremmo messo. Non avrei saputo dire nemmeno quello. Brancolavo nel buio, per questo non vedevo l’ora di andarmene da quell’isola maledetta.
«Sono assolutamente d’accordo. Anche se non sono tranquillo a passare dall’esterno, qui siamo esposti.» Alzò lo sguardo con circospezione. L’aria era pesante, quasi irrespirabile. Rufy e Kaido erano alle battute finali. Potevamo solo sperare di non venire coinvolti nel loro scontro.
«Non abbiamo molta scelta. Nel castello è un inferno, ammesso che esista ancora.» Gli indicai l’enorme cratere provocato dall’esplosione.
«Wow...» si meravigliò. Fino a quel momento, con la preoccupazione per le nostre condizioni di salute, non aveva avuto modo di notarlo.
«Già. Non so come abbiamo fatto a sopravvivere.» Sbuffai una risata per sdrammatizzare.
«Io penso di saperlo...» confessò, continuando a fissare il buco. Lo incitai a proseguire con un cenno del capo. «Prima di perdere conoscenza ho visto che siamo andati a sbattere contro un gigante.»
Aggrottai la fronte. «Siamo andati a sbattere contro un gigante!?»
«Sì, uno di quelli che chiamano “Numbers”. Quando c’è stata l’onda d’urto, chi era sulle scale come noi si è scontrato con uno di loro. Credo che l’impatto ci abbia scagliati lontani, ed è per questo che ci siamo salvati.»
Mi ci volle un po’ per processare quell’informazione. Il fatto che non fossi finita spappolata o carbonizzata dipendeva dalla fortuita collisione con un gigante. Quante erano le possibilità che ciò accadesse?
«È terribile...» disse Kenji, la voce tremante. Tornai alla realtà e mi voltai verso di lui. Si stava guardando intorno. Mi resi conto che eravamo circondati dalle vittime dell’esplosione. Non erano molte, ma non era uno spettacolo piacevole.
«Possiamo salvarne qualcuno?» domandò con gli occhi lucidi. Se avesse potuto sarebbe tornato nel castello e avrebbe aiutato tutti i feriti che erano stati coinvolti nella deflagrazione. Ma sapeva che non glielo avrei permesso. Era un suicidio.
Presi un respiro profondo. «No, sono tutti morti, me ne sono accertata mentre ti cercavo. Mi dispiace.»
Gli appoggiai la mano sulla spalla e feci un’ulteriore panoramica. C’era poco da salvare, gli unici due interi erano Zelf e la ragazza con un pezzo di legno conficcato nel collo. Me li ritrovai davanti agli occhi e pensai che fossi stata doppiamente fortunata.
«Io alla festa metterò un vestito viola. È corto, ha lo scollo a cuore e la gonna pomposa. L’ho comprato sull’isola dove si sono sposati Omen e Maya. L’ho visto e ho pensato che fosse perfetto per festeggiare la vittoria di una guerra epocale. L’ho già tirato fuori dall’armadio.» Le parole mi uscirono dalla bocca senza che me ne accorgessi, tanto che io stessa me ne stupii.
«Cosa?» Kenji si voltò a guardarmi con un’espressione in parte confusa in parte preoccupata. Poteva stare tranquillo: non ero in stato confusionale, sapevo ciò che dicevo.
Non risposi. Mi limitai a sorridere con espressione distante, pensando al momento in cui avrei fatto la mia entrata trionfale con quello indosso. La verità era che lo avevo tirato fuori dall’armadio in previsione della fine della guerra, non in previsione della vittoria. Speravo che i miei amici avrebbero capito che, nel caso fossi morta, avrei voluto essere seppellita con quel vestito. Arrivati a quel punto era difficile figurarmi in una bara. Era quasi l’alba, la battaglia stava per terminare e per sopravvivere, salvo imprevisti, dovevo solo continuare a camminare. Non avevo intenzione di arrendermi ora.
«Oh, la festa. Quella a cui dovrei partecipare con le bretelle di cuoio.» Il rosso capì da solo e ridacchiò.
«Mi immagino che la festa si tenga sulla Thousand Sunny. Non metterò le scarpe, perché voglio che l’erba solletichi le piante dei miei piedi e anche perché senza tacchi sarò più libera di scatenarmi. Mi immagino di non avere lividi, fratture, fasciature e di non sentire il dolore. Mi immagino il mal di testa che avrò il giorno dopo a causa di tutto l’alcol che avrò ingurgitato. E mi immagino che tu non sarai tanto contento della mia sbornia, ma a me, per quanto suoni egoistico, non importerà. Voglio ubriacarmi, e voglio ridere, e voglio ballare fino a che non mi fanno male i piedi. Perché abbiamo vinto. Contro ogni probabilità. E siamo sopravvissuti. Siamo sopravvissuti, cazzo.»
Kenji non mi ascoltava neanche, non gli importava della mia futura sbronza, aveva un sorriso da ebete stampato sulla faccia. «Non vedo l’ora di vederti con quel vestito addosso. Sarai bellissima.»
Mi lasciai scappare una risata e scossi la testa. Ora capivo perché non mi stava prestando attenzione.
«Sarò felice. È questo l’importante.»
«Giusto.» Il mio compagno tornò a sorridere con la purezza che lo caratterizzava.
«Tu sarai lì, ad aspettarmi, con le bretelle di cuoio?» gli chiesi, sogghignando appena.
«Certo. Sarò in fondo alle scale, pronto a consegnarti il tuo bicchiere di vino.» Il suo sorriso si fece più ampio.
Rimasi a bocca aperta. Lui, l’uomo che disprezzava l’alcol in tutte le sue forme, voleva che avessi il mio bicchiere di vino. Il mio corpo fu invaso da una sensazione sconosciuta e tiepida. Mi vennero le lacrime agli occhi per la commozione. Le sue parole e la sua espressione traboccavano d’amore. Lo percepivo. Mi chiesi se era così che ci si sentisse quando si aveva a che fare con il sentimento che tutti desideravano provare. Io lo stavo ricevendo. Lo avevo respinto per tanto tempo, ma era così accogliente... era come una coperta che avvolgeva il mio corpo infreddolito.
«Stai bene?» Kenji mi strinse appena il braccio e mi fece tornare alla realtà. Aveva l’espressione preoccupata.
Annuii. Mi sentivo in colpa per tutte le volte in cui quella notte la mia mente aveva preso a vagare e lui si era preoccupato perché pensava che non stessi bene.
«Da qui all’entrata di Onigashima è lunga. Faremmo meglio a muoverci,» lo incitai, iniziando a camminare. E fu così che ci avviammo verso la salvezza, nella speranza che i piani non fossero cambiati.
 
Procedevamo lentamente, ma a passo stabile. A fare da sottofondo alla nostra camminata c’erano tremori e rumori forti e inquietanti. A volte sentivamo anche qualche urlo. Da una parte mi sentivo in colpa per non essere all’interno del castello ad aiutare i feriti, dall’altra sentivo che avevo dato alla guerra tutto ciò che potevo dare ed ero felice di non essere più in trincea. Il castello a quest’ora doveva essere stato divorato dalle fiamme. Potevo soltanto sperare che Law, i miei compagni e i Mugiwara stessero bene.
Di tanto in tanto io e Kenji ci guardavamo intorno per accertarci che non ci fossero nemici nei paraggi. Non c’erano. Supponevo che fossero tutti impegnati a tentare di fuggire o a sferrare gli ultimi colpi. Il cielo era diventato ceruleo. Non era detto che la guerra si concludesse con il sorgere del sole, ma era quello che indicavano i segnali. Eravamo alle battute finali. Non vedevo l’ora di andare via da quell’isola maledetta, farmi curare e riprendere le mie normali attività. Avevo bisogno di farmi una doccia calda, mangiare qualcosa di sostanzioso e soprattutto di dormire per un paio di giorni di seguito.
Il rosso si fermò e si appoggiò a una roccia, il busto piegato in avanti e una mano sul torace. Aveva un’espressione sofferente. Gli accarezzai la schiena per confortarlo e sospirai angosciata. Lì non potevo fare niente per lui, se non offrirgli l’ennesimo antidolorifico. Lo mandò giù e provò a rimettersi dritto.
«Cerca di resistere. Sono sicura che manchi poco,» tentai di rassicurarlo. Erano parole che lasciavano il tempo che trovavano, ma cos’altro potevo dirgli?
Annuì e provò a fare un sorriso, stavolta per rassicurare me. Lo aiutai a tornare eretto e insieme, sorreggendoci a vicenda, ci incamminammo per il sentiero di roccia.
Ci furono dei potenti tuoni e tutta l’isola tremò, così tanto che per poco non cademmo entrambi.
Quando tutto tornò tranquillo, il mio compagno sbuffò.
«Non ne posso più di questa guerra, dei tremori, delle stranezze, del senso di impotenza che ho provato stanotte, delle morti a cui ho assistito.»
Alla fine anche Kenji aveva capitolato. Lui, che non si perdeva mai d’animo e riusciva a trovare il lato positivo anche nelle situazioni più buie. Come dargli torto? Quella guerra ci aveva distrutti. Eravamo fisicamente, mentalmente e psicologicamente provati. Ci sarebbe voluto tempo per riprenderci da ciò che avevamo visto e vissuto quella notte. Almeno, però, noi potevamo raccontarlo. Altri non avevano avuto la nostra stessa fortuna.
«Per un momento, stanotte, ho pensato che sarei morto,» disse Kenji all’improvviso, serio in volto. «La gamba stava sanguinando molto, stavo perdendo conoscenza e tu eri impegnata a combattere. Potevo sentire la vita scivolare fuori dal mio corpo, e ho pensato: “ecco, ci siamo, è arrivata la mia ora.” Ma poi ho capito che non potevo morire.»
«Certo che no. Non lo avrei permesso,» dichiarai solenne, fermandomi solo un attimo per osservarlo.
«Non potevo morire,» ripeté. Sembrava perso nei suoi pensieri. Forse nemmeno mi stava ascoltando. «Non dopo che mi hai baciato. Voglio dire... aspettavo questo bacio da tutta la vita.»
Rimasi di sasso. Avvampai e boccheggiai per vari secondi. Non me l’aspettavo. Di tutte le cose che avrebbe potuto dire, non mi aspettavo che avrebbe tirato fuori dal cilindro proprio quella. Era una cosa che la mia mente aveva rimosso completamente. Eppure era successo. Lo avevo baciato. E poi lui aveva baciato me. E non lo avevo respinto.
«Ora non esagerare.» Fu tutto ciò che riuscii a dire. Speravo che quello potesse togliermi dall’imbarazzo.
«D’accordo. Allora diciamo che lo aspettavo da un paio di anni.» Mi sorrise e scrollò le spalle.
«Così va meglio.» Gli sorrisi di rimando.
«Comunque, so che non è questo il momento adatto per parlarne, ma voglio che tu sappia che sono consapevole che ciò che è successo stanotte non significa niente,» affermò, le iridi già rassegnate. «Non per te, almeno.»
Rimasi di nuovo senza parole. Non mi aspettavo neanche che dicesse questo. Ero disorientata, non solo per le circostanze e per il fatto che avevo un trauma cranico, ma anche perché sapevo che avremmo dovuto discutere di quello che era successo quella notte, e non avevo idea di cosa gli avrei detto, dato che non avevo idea di quello che aveva significato per me. Era tutto molto confuso. L’ultima cosa che volevo era ferirlo un’altra volta.
«Kenji...» Presi un respiro profondo e distolsi lo sguardo. Poi tornai ad osservarlo, cercando di assumere un’espressione dolce e rassicurante. «Sai che c’è? Hai ragione, questo non è il momento adatto per parlarne. Ne discuteremo non appena saremo al sicuro, sul sottomarino.»
Lui si limitò ad annuire, del resto per il momento era meglio concentrarsi sugli obiettivi che avevamo: riunirci con il resto dei Pirati Heart e fuggire da Onigashima.
Continuammo a camminare in assoluto silenzio.
 
I rumori si stavano facendo sempre più forti, ci stavamo avvicinando all’entrata dell’isola. Avevo deciso di non dire niente per il resto della camminata per non peggiorare la situazione, ma il silenzio in cui eravamo immersi era pesante, soprattutto se l’alternativa alle nostre voci erano tuoni ed esplosioni.
«Devo capire ciò che voglio. Pensavo di saperlo, ma questa nottata ha sconvolto tutto. Kenji, l’ultima cosa che voglio è ferirti, credimi...»
Kenji interruppe la mia tempesta di parole poggiandomi una mano sulla spalla. Mi voltai a guardarlo. Le sue iridi erano tornate limpide, sembrava in pace con se stesso. Aveva capito che non potevamo metterci a parlarne lì, ma che ne avremmo parlato, un giorno non lontano.
«Sai, è stata una notte così assurda che ho quasi voglia di bermi un bicchiere di vino.»
Risi. Con un’unica affermazione era stato in grado di sciogliere tutta la mia tensione. Gliene fui grata. «Per questo posso farti compagnia. Anche se con tutti gli antidolorifici che abbiamo preso forse è il caso di aspettare un paio di giorni.»
Fece un cenno d’assenso, poi qualcosa lo distrasse. «Senti anche tu questo profumo?»
«No... Dovrei?»
«Sì, è molto buono. C’è profumo... di crostata di mele.»
«Crostata di mele?»
«Sì...» Sorrise e si fermò. Io non lo feci. Ormai avevo un solo obiettivo: raggiungere l’ingresso dell’isola. Eravamo vicinissimi, lo sentivo. Avevamo superato il corno della creatura, dovevamo soltanto seguire la curva che ci avrebbe portati alla bocca ed era fatta.
«Sai che c’è? Mi hai dato un’ottima idea. Chiederemo a Ryu di prepararcela. Ci meritiamo qualcosa di dolce. Sarà perfetta con il vino.»
«Cami...» mi richiamò, facendomi voltare verso di lui, non senza un certo fastidio. Non capivo perché indugiava quando la salvezza era a pochi minuti da noi. «Credo di riuscire a vederla.»
«Cosa? L’entrata di Onigashima?» Tornai a guardare davanti a me, speranzosa.
«No... La tua isola...»
Corrugai le sopracciglia. Ero confusa. «La mia isola?»
Udii il suono prima che riuscissi a girarmi di nuovo verso di lui. Quando lo feci, i miei sospetti si rivelarono reali, e mi colpirono come uno schiaffo in faccia.
«No.» La mia voce era ridotta a un sussurro terrorizzato. «No, no, no, no, no.»
Kenji era steso a terra. Si teneva il torace con una mano e aveva l’espressione sofferente.
«Non puoi cedere proprio ora, per favore.»
Iniziò ad ansimare. Faceva fatica a respirare, era come se l’aria non riuscisse ad entrare nei polmoni. Mi inginocchiai.
«Ok. Ok. Ora cerco di risolvere il problema, va bene?» La mia voce tremava. Forse avevo capito qual era il problema. E non si poteva risolvere. Non lì.
Avvicinai l’orecchio al suo cuore. I toni cardiaci erano attenuati. Gli tirai giù la cerniera della divisa. Fissai il livido che aveva sullo sterno ed emisi un sospiro sofferto. Le mie paure, le paure che avevo accantonato in un angolino di cervello fino a quel momento, diventarono realtà. Si trattava di tamponamento cardiaco.
«Credo che sia un versamento pericardico,» gli spiegai, mentre lui tentava di far entrare aria nel suo apparato respiratorio. «Devi resistere, d’accordo?»
Aveva bisogno di una pericardiocentesi, una delicata procedura che prevedeva che gli rimuovessi con un ago il liquido in eccesso presente nel pericardio. Come diavolo facevo a praticargliela senza avere niente a disposizione?
Mi guardai intorno alla ricerca di qualsiasi cosa che potesse fungere da ago. Possibilmente anche di un disinfettante e di una spalla che funzionasse.
«Tieni duro, ok? Vado a cercare...»
Mi artigliò il polso sinistro con una mano e mi impedì qualsiasi movimento. Lo guardai. Aveva lo sguardo terrorizzato. Aveva capito. Voleva che rimanessi con lui, che non lo lasciassi solo nei suoi ultimi istanti. Mi stava implorando, e quello fece andare in frantumi il mio cuore.
 
Mama, take this badge off of me.
 
«Non fare scherzi. Manca poco. Cinque minuti e sarai al sicuro, sarai salvo. Qui non posso fare niente per te.»
 
I can’t use it anymore.
 
Le vene del collo erano gonfie e le vie aeree serrate. Era pallido e ad ogni secondo che passava lo sguardo diventava più assente. Ormai non riusciva più a respirare. Il rumore che emetteva nel tentare di inspirare era terrificante. Lo avevo già sentito, non era quello a spaventarmi, quanto il fatto che provenisse da una persona a cui tenevo molto. Uno dei miei compagni medici lo aveva soprannominato “il suono della morte”.
 
It’s getting dark, much too dark to see you.
 
Cercava di parlare, di dirmi qualcosa, ma non ce la faceva. E io non capivo. Sapevo solo che aveva paura. Se avessi avuto le forze sufficienti avrei attivato l’Haki e avrei saputo quali erano i suoi ultimi pensieri.
«Che cosa devo fare?» gli chiesi, sapendo che non avrei ricevuto risposta.
 
Feel I’m knocking on Heaven’s door.
 
«Non farmi questo, ti prego,» piagnucolai, ormai conscia di quello che sarebbe successo.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Aveva gli occhi spalancati, fissi su di me. Le sue dita, avvinghiate saldamente al mio polso, iniziarono a scorrere lungo il mio braccio.
«Cazzo.» Mi morsi un labbro, consumandolo fino a che non mi scivolò un rivolo di sangue sul mento. «Cazzo!»
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
«Ti prego,» lo supplicai, una ruga di sofferenza sulla fronte. Forse neanche mi sentiva più.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
«Ti pre...» Mi mancava il respiro. E la voce. E la forza. «Ti prego.»
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
«Non mi lasciare...» Ripresi la sua mano, che era ricaduta lungo il suo fianco, e gliela strinsi più forte che potei, per fargli capire che non era solo. Poi, ignorando il dolore, liberai il braccio destro dalla fasciatura e gli posai il palmo sulla guancia, accarezzandogli la pelle con il pollice.
Era lui che stava morendo, ma io sentivo il suo stesso dolore, la sua stessa paura. Una parte di me si stava spegnendo insieme a lui.
 
Mama, put my guns in the ground.
 
“Va bene così...” sembrava volermi comunicare con il suo ultimo sguardo. No. Non andava bene così. Kenji non doveva morire. Non lui. Non un’anima così pura e buona. Non potevo accettarlo. E non potevo farlo, non potevo stare inerte a guardare mentre moriva davanti a me. Come avrei fatto a convivere con me stessa? Non mi sarei più ripresa.
 
I can’t shoot them anymore.
 
No, non era il momento di essere egoista. Era lui che stava soffrendo. Aveva bisogno di me.
Chiusi gli occhi e girai il viso, per non farmi vedere mentre mi concedevo gli ultimi momenti di debolezza. Strizzai le palpebre per impedire alle lacrime di rigare le mie guance. Avrei tanto voluto avere un interruttore che mi permettesse di spegnere le emozioni negative nei momenti critici come quello. Sarebbe stato tutto più facile. Molto meno doloroso, se non altro. E invece non c’era nessun interruttore.
 
That long, black cloud is coming down.
 
«Kenji...» Appoggiai la mia fronte alla sua. Avrei voluto regalargli i miei respiri, dargli più tempo. Ma non era possibile.
 
I feel I’m knockin’ on Heaven’s door.
 
Quella era l’unica cosa che potevo fare per lui: fargli sentire che io ero lì e che non era solo nei suoi ultimi istanti.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Sperai che non avesse più paura.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Fu questione di un attimo prima che smettesse di respirare e che il suo cuore si arrestasse.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Quando me ne accorsi, espirai pesantemente e sollevai il busto per accertarmi che fosse morto. Gli occhi di Kenji erano spalancati, le iridi non erano più limpide, ma vitree. Aveva la bocca socchiusa e mi fissava con espressione vuota. Il torace era fermo, non si alzava né si abbassava più.
Qualche ora prima avevo pensato che il mio inferno personale fosse la battaglia di Onigashima, ma mi sbagliavo. Il mio inferno personale era quel momento, quel preciso momento. Il momento in cui vidi la vita spegnersi negli occhi del mio compagno. E la cosa peggiore era che io non avevo potuto fare niente per aiutarlo.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Ora ne avevo la certezza: era morto. Era morto, e io mi sentivo devastata. Ogni singolo muscolo del mio corpo faceva male, e non per le ferite. Era come se qualcuno mi avesse masticato gli organi interni e li avesse sputati nella mia cavità toracica, però rimettendoli al posto sbagliato. Tutto era sbagliato. Tutto.
 
Mama, wipe this blood from my face.
 
«Oddio...» Mi passai la mano sana tra i capelli mentre l’angoscia dilagava in me.
Mi ero concentrata così tanto su me stessa, sulla possibilità che io potessi non sopravvivere, che non avevo pensato a come sarebbe stato perdere uno dei miei compagni. Ora me ne rendevo conto: era atroce. E non c’era modo di curare quella ferita. Sarebbe stata lì per sempre. Il dolore non si sarebbe affievolito, potevo solo sperare che il senso di colpa non mi mangiasse viva.
 
I’m sick and tired of the war.
 
Mi resi conto che stavo tremando. Sentivo freddo. Qualcuno aveva aperto la porta della mia anima e si era dimenticato di richiuderla. Kenji. Kenji se ne era andato e non l’aveva richiusa.
Emisi un sospiro sofferto. Mi sarei voluta rannicchiare accanto a lui e singhiozzare fino a non avere più energie e lacrime. Ma poi realizzai che il rumore delle esplosioni e i tremori erano cessati da un po’. Non potevo cedere al tormento. Se mi fossi messa a piangere, sarebbe stata la fine. Dovevo mettermi in salvo. E mi sentii una persona orribile anche solo per averlo concepito, ma non potevo portare Kenji con me. Non ne avevo la forza e anche il tempo a mia disposizione scarseggiava. Potevo sentire pezzi di isola sgretolarsi sotto di me. Onigashima non avrebbe retto a lungo.
Presi un respiro profondo, le labbra tremolanti e un doloroso nodo in gola che mi rendeva difficile far entrare aria nei polmoni. Continuai a fissare il mio amico, e lui continuava a fissare me, con gli occhi spenti e privi di vita, il verde delle sue iridi ora sembrava scolorito.
«Scusa...» gli dissi, accarezzandogli la guancia. Il mio corpo era scosso dai singhiozzi, ma mi ero imposta di non piangere. Gli posai le dita sulle palpebre e gliele chiusi. Così la sua espressione era un po’ più serena. Se avesse potuto ancora parlare mi avrebbe detto di non preoccuparmi per lui, di lasciarlo lì e proseguire. E non era giusto. Perché non ero stata in grado di salvarlo e adesso lo stavo abbandonando. Che razza di medico ero? Che razza di amica ero? Che razza di persona ero?
 
Don’t know if it’s night or if this is sun, rising high.
 
«Ti prometto...» iniziai, la voce spezzata dal dolore. Mi schiarii la gola. «Ti prometto che ti faremo giustizia. Sì, te lo prometto.»
Feci di nuovo scivolare la mia mano nella sua e gliela strinsi. Era ancora calda. Avrei voluto restare con lui fino a che il calore del suo corpo non fosse svanito, come per accompagnarlo nel suo viaggio, quale che fosse la destinazione, ma non potevo.
 
Scared of knockin’ on Heaven’s door.
 
«Ora devo tornare dagli altri. Ti lascio qui solo per un po’, ok?» Accarezzai il suo braccio nudo con le mie dita gelate. Il mio cuore si attorcigliò su se stesso nel realizzare che era lui che stava scaldando me. Anche da morto era una persona più premurosa di quanto potessi mai essere io. Cercai di scacciare quel pensiero. «Scusa, ma non ce la faccio a portarti con me. Non ne ho la forza. Tornerò a prenderti il prima possibile, tu aspettami qui.»
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Feci un risolino che si trasformò in un mezzo singhiozzo.
«Tanto dove potrai mai andare? Sei morto.» Le parole mi soffocarono in gola.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
«Sei morto...» ripetei, con più convinzione e più lucidamente. Era arrivata l’ora di lasciarlo andare. Trattenni un’ondata di dolore. Feci così tanta fatica che per lo sforzo quasi vomitai. Rimisi il braccio destro nella fasciatura e presi l’ennesimo respiro profondo. «Spero che un giorno potrai perdonarmi.»
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Gli diedi un’ultima occhiata, poi mi alzai, mi girai e iniziai a camminare, trascinando i piedi come se stessi portando cento chili sulle spalle.



Angolo autrice
Eccoci qui. Sicuramente è stato un capitolo pesante, carico di angst e di momenti difficili da digerire, ma spero che lo abbiate apprezzato e mi auguro di aver fatto un buon lavoro. Vi aspettavate questo finale tragico? Vi ho sconvolti? Sorpresi? Sono riuscita a farvi arrivare tutte le emozioni contenute nelle mie parole? Mi piacerebbe molto avere la vostra opinione in merito.😊
I versi della canzone che potete leggere tra le righe dell'ultimo paragrafo appartengono ovviamente a "Knockin' On Heaven's Door" di Bob Dylan, ma la versione che ho scelto di utilizzare è (se possibile) ancora più triste dell'originale: è una cover realizzata dal gruppo "Anohni and the Johnsons" (precedentemente conosciuto come "Antony and the Johnsons"). Vi lascio il link e vi consiglio di ascoltarla, magari mentre rileggete il paragrafo, così l'esperienza sarà più completa. Spero che abbiate apprezzato il nuovo approccio che ho tentato, con la canzone inserita all'interno del capitolo e non alla fine, come era sempre stato finora. Fatemi sapere che ne pensate.😊
https://www.youtube.com/watch?v=PFiSHiTyzlA
Spero che possiate perdonarmi per questo colpo basso, ma si sa, la guerra non risparmia nessuno. E nemmeno io.
A presto!❤

P.s. Buon Ferragosto! Spero che il vostro sia migliore di quello di Cami e Kenji!😂😅

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